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storia e memoria .

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Yurii Colombo

Urss, un’ambigua
utopia
Cause e conseguenze
del crollo dell’impero sovietico

massari
editore
Yurii Colombo (2021)
Urss, un’ambigua utopia
Cause e conseguenze del crollo dell’impero sovietico

© copyright 2021 - Massari editore


Casella Postale 89 - 01023 Bolsena (VT)
E-mail: erre.emme@enjoy.it
Http://www.massarieditore.it
Stampa: Ceccarelli - Acquapendente (VT)
Prima edizione: novembre 2021
ISBN 978-88-457-0355-3
INDICE

Introduzione 7
Cronologia 1917-1953 11
Capitolo 1 31
Cronologia 1954-1984 75
Capitolo 2 81
Cronologia 1985-1991 145
Capitolo 3 152
Conclusioni 219

Bibliografia 224
Archivio fotografico 231
A mio nonno Pavel Dunaev,
combattente sovietico (1916-1941)
____________________________

«Tutto ciò che ci faceva paura del comunismo - che avremmo


perso le nostre case e i nostri risparmi, che ci avrebbero costretto
a lavorare tutto il tempo per un salario scarso e che non avrem-
mo avuto alcuna voce contro il sistema - è diventato realtà grazie
al capitalismo».
JEFF SPARROW

Ringraziamenti. Voglio qui ringraziare Luciano Beolchi


con cui per anni ho discusso ogni aspetto di questo libro. La sua
struttura (anche se non ogni aspetto del suo contenuto) è in
buona parte il prodotto delle nostre interminabili chiacchierate.
Anche il mio intenso dialogo con Toni Negri, non solo e non
sempre sull’Urss e la Russia, che mi ha aiutato a mettere a
fuoco alcuni aspetti del processo storico e di come metodologi-
camente va inteso dal punto di vista materialistico, è stato
molto importante.
Ci sono poi degli amici come Fabrizio Portaluri e
Piergiorgio Oddone che pur non avendo avuto un ruolo parti-
colare nell’elaborazione di questo lavoro, mi hanno aiutato
negli ultimi mesi in alcuni aspetti pratici importanti.
Un sentito grazie va anche a Roberto Massari, che accet-
tandone a scatola chiusa la pubblicazione, ha dimostrato anco-
ra una volta il grado di stima in cui tiene il mio lavoro.
Un grazie infinito va poi a mia moglie, Darja Ozerova,
senza il cui sostegno, amore, dedizione, questo libro non avreb-
be mai potuto vedere la luce. (y.c.)
INTRODUZIONE

L’Unione Sovietica finì nel 1991. Di bilanci se ne ini-


ziarono a fare subito e se ne continueranno a fare ancora a
lungo. La storia, del resto, non è diversa da un buon
romanzo: può essere letta e riletta in diverse fasi della vita
(e periodi storici) e ogni volta se ne possono cogliere sem-
pre nuovi aspetti. Della Rivoluzione russa, classista e uma-
nista al contempo, almeno nei suoi propositi, si iniziarono
a trarre bilanci già subito dopo la sua ascesa: pensiamo ai
bellissimi volumi dell’anarchica Emma Goldman con cui
si portava alla luce il lato oscuro della Rivoluzione bolsce-
vica o, all’opposto, le corrispondenze di Arthur Ransome
segnate da un entusiasmo, ingenuo ma onesto, per il
nascente esperimento.
Al ricercatore attento che si accosti all’Urss, vengono
subito in mente due connotati: enigmaticità e ambiguità. In
una trasmissione della BBC andata in onda il 1° ottobre
1939, Winston Churchill definì la Russia «un indovinello
avvolto da un mistero dentro un enigma». L’anno dopo
Ante Ciliga, un ex dirigente del Partito comunista jugosla-
vo che aveva soggiornato a lungo in Urss (e anche nel suo
GULag), intitolò l’edizione inglese del proprio libro di
memorie The Russian enigma. Non è un caso: tutti coloro
che tentano di comprendere le dinamiche fondamentali
dell’Urss - perfino in Russia e non solo all’estero - si trova-
no di fronte a un’entità sfuggevole, multiforme e incerta.

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La storia dell’Urss è sicuramente anche ambigua. Fu
l’Urss una distopia totalitaria? il risultato più o meno desi-
derato delle teorie di Marx? un regime socialista che si
stava avviando al comunismo, ma tradito da Chruščëv e poi
dagli altri suoi leader? una formazione vagamente postca-
pitalistica come sosteneva Paul M. Sweezy? uno Stato ope-
raio degenerato come riteneva Lev Trotsky? oppure un
capitalismo di Stato come sostennero in tanti, perfino gli
ideologici jugoslavi e i seguaci di C.L.R. James?
Il dibattito sulla «natura dell’Urss» fu per lo più ideo-
logico e interno alle diverse correnti marxiste, ma ha perso
buona parte di significato e interesse proprio dopo il crollo
dell’«Impero». Oggi per provare a spiegare come quel
sistema funzionasse, e non solo economicamente, bisogna
avvicinarsi alla «cosa Urss» con curiosità e apertura men-
tale, lasciando da parte schemi preconfezionati perché si
tratta di un campo d’indagine, come direbbero gli zapati-
sti, che impone di «camminare domandando». Lo stesso
Marx del resto, quando già anziano iniziò a confrontarsi
con la Russia, con l’obiettivo di capire se in quella realtà
si potesse evitare la dolorosa transizione al capitalismo, si
pose due modesti compiti preliminari: studiarne la lingua
e confrontarsi con i rivoluzionari di quel paese.
Quando ho iniziato a pensare di scrivere questo libro
volevo anche esimermi dal discutere nuovamente i motivi
che avevano condotto al crollo dell’Urss, per concentrarmi
maggiormente sulle conseguenze storiche e politiche della
sua fine. L’oggetto della ricerca doveva essere solo inci-
dentalmente il passato: volevo tornare a gettare uno sguar-
do sull’Urss per preparare il terreno a capire cos’è la Russia

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putiniana attuale e cosa diventerà domani. In questo senso
la mia non è un’opera storica, ma eminentemente politica.
Sono stato anche testimone oculare degli avvenimenti
della Perestrojka avendo vissuto a Leningrado tra il 1989 e
il 1991. Ma benché la mia valutazione di quegli avveni-
menti risenta inevitabilmente di ciò che vissi e intuii duran-
te quel soggiorno, ho preferito non «inquinare» un tentati-
vo di riflessione con aspetti memorialistici. Se il futuro lo
consente, ci saranno altre occasioni per scriverne.
Provare a fare un bilancio dell’Urss, a trent’anni di
distanza dal suo crollo, presenta vantaggi e svantaggi.
Possiamo infatti leggere i suoi 74 anni di vita come un capi-
tolo della sua storia millenaria e imperiale (cosa del tutto
legittima e per certi versi ineludibile), ma anche come l’e-
poca definitivamente conclusa di un esperimento politico-
sociale: uno studio della «civilizzazione sovietica», come
l’ha definita con nostalgia lo storiсo Sergej Kara-Murza. In
tal caso si avrà il vantaggio di poterne studiare, per certi
aspetti agevolmente, la nascita, lo sviluppo, la crisi e l’ago-
nia come un capitolo della storia contemporanea, di poter
fare l’autopsia non tanto di un socialismo che in Urss mai
ci fu, ma del suo confuso tentativo di realizzarlo. In questo
senso l’Unione Sovietica non fu come cercarono malde-
stramente di sintetizzare i dirigenti del Pci un «socialismo
storicamente realizzato», e neppure un «socialismo di
Stato» (vacua categoria largamente usata nel mondo acca-
demico attuale), ma piuttosto un «socialismo storicamente
irrealizzato», l’agitar di ali del sarto brechtiano.
Resta il fatto che le diverse correnti socialiste (in cui
includo un’ampia gamma di tradizioni che vanno da quel-

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le del movimento comunista - eresie comprese - fino a
quello anarchiche) non potranno nel futuro ricostituire,
ridefinire, riconfermare la loro identità senza misurarsi
costantemente con quella vicenda, perché si troveranno
sempre e inevitabilmente tra i piedi un ingenuo o malizio-
so quesito: «ma volete fare come in Russia»?
I russi stessi, oggetto e soggetto di quell’esperimento di
ingegneria sociale, con la semplicità e la saggezza delle
loro barzellette (durante l’epoca brezneviana ci fu un gran
fiorire di storielle e aneddoti sul regime, spesso caustiche
ma anche sagaci e delle quali faccio un certo uso in questo
libro) lo intuirono per tempo. In una di queste si narra del
tentativo del Politbjuro del Partito comunista dell’Unione
Sovietica (Pcus) di far risorgere Lenin nel 1970, in occa-
sione del centenario della sua nascita, utilizzando le avan-
zatissime tecnologie ormai a disposizione degli scienziati
sovietici. I quali alla fine riescono nell’impresa. Dopo una
bella festa per il suo ritorno in vita, l’intero Politbjuro a
partire da Brežnev si raccoglie intorno a Il’ič e gli chiede:
«Compagno Lenin, dicci, cosa ne pensi del socialismo che
abbiamo realizzato». Lenin chiede allora auto e aeroplani
per poter visitare il paese, prima di formulare un giudizio.
Tornato a Mosca dopo un mese di peregrinazioni, doman-
da però di potersi chiudere in ufficio al Cremlino a riflette-
re. Passato qualche giorno, dopo aver a lungo bussato,
Brežnev entra cautamente nell’ufficio e trova sulla scriva-
nia solo un biglietto firmato da Lenin che dice: «Compagni
sono tornato a Zurigo a ricominciare tutto da capo».
Ecco, forse per chi aspira a una società senza classi e
gerarchie, il tempo di tornare a Zurigo è venuto.

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Cronologia 1917-1953

1917
7 novembre - Ore 10 - Aleksandr Kerenskij, lascia il Palazzo
d’Inverno e va a chiedere aiuto al quartier generale del Fronte Nord.
Solo il generale Pëtr Krasnov accetta di difendere il Governo prov-
visorio, ma riesce a raccogliere non più di 700 cavalleggeri. A nome
del Comitato militare rivoluzionario di Pietrogrado, Vladimir Lenin
sostiene che «il Governo provvisorio è stato deposto».
Ore 14:35 - Allo Smolnij si apre la sessione straordinaria del
Soviet. Lev Trotsky annuncia che il Governo provvisorio non esi-
ste più, il Preparlamento è stato sciolto e i prigionieri politici sono
stati rilasciati. Dalla tribuna Lenin afferma che «la rivoluzione
operaia e contadina, di cui hanno sempre parlato i bolscevichi, ha
avuto luogo... Le masse oppresse creeranno il loro potere. Il vec-
chio apparato statale sarà completamente distrutto e verrà creato un
nuovo apparato amministrativo, rappresentato dalle organizzazioni
sovietiche». L’intervento si conclude con le parole: «In Russia
dobbiamo ora iniziare a costruire uno Stato socialista proletario.
Lunga vita alla rivoluzione socialista mondiale!». Durante l’insur-
rezione perdono la vita 6 persone. Ore 21:40 - Il cannone dell’in-
crociatore Aurora, spara un colpo a salve, il segnale dell’inizio del-
l’assalto al Palazzo d’Inverno. Le unità che difendevano il governo
provvisorio iniziarono a lasciare il Palazzo d’Inverno e l’area cir-
costante. Alle ore 22:45 si apre il Secondo Congresso dei Soviet, i
socialisti-rivoluzionari di destra e i menscevichi si rifiutano di
entrare nel presidium del congresso. Il leader dei menscevichi
internazionalisti, Julij Martov, presenta una bozza di risoluzione
che prevede la sospensione dei lavori del Congresso fino a quando
non sarà raggiunto un accordo tra la «parte insorgente della demo-
crazia» e il resto delle organizzazioni democratiche. Trotsky pre-
senta invece un progetto di risoluzione che condanna l’attività dei

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partiti conciliatori. Entrambi i progetti sono respinti dai delegati
del Congresso. Martov e i suoi sostenitori abbandonano la sala.
Attraverso i soviet locali i bolscevichi assumono il potere a Rjazan,
Kazan’, Ekaterinburg, Ufa, Reval (Tallinn).
8 novembre - Riprendono i lavori del II Congresso panrusso dei
Soviet. Alla riunione vengono adottati, su proposta di Lenin, i
decreti «Sulla pace» e «Sulla terra». Nel decreto «Sulla pace», la
guerra imperialista viene definita «il più grande crimine contro l’u-
manità». Il decreto invita i popoli e i governi dei paesi belligeranti
a porre fine alla Guerra mondiale e ad avviare immediatamente i
negoziati per la conclusione di una pace democratica, giusta,
«senza annessioni e senza indennità». Il decreto sulla terra abolisce
la proprietà dei proprietari terrieri, immediatamente e senza alcun
riscatto. La proprietà privata della terra viene anch’essa abolita,
così come la vendita dei terreni e la loro locazione.
9 novembre - Viene formato il primo governo sovietico (Consiglio
dei commissari del popolo). Ne fanno parte V. Lenin (Presidente), A.
Rykov (Interni), V. Miljutin (Agricoltura), A. Šljapnikov (Lavoro),
V. Ovseenko (Difesa), V. Nogin (Commercio e industria), A.
Lunačarskij (Cultura), L. Trotsky (Esteri), I. Skortsov (Finanze), G.
Oppokov (Grazia e giustizia), V. Tedororovič (Vettovagliamento),
N. Avilov (Poste e telegrafo), I. Stalin (Nazionalità).
12 novembre - Nel governo viene creato il Commissariato del popo-
lo per l’assistenza sociale: a dirigerlo viene chiamata Aleksandra
Kollontaj, che diventa la prima donna ministro al mondo.
22 novembre - Per ordine di Trotsky inizia la pubblicazione su la
Pravda e sulle Izvestija dei documenti diplomatici segreti sotto-
scritti dal governo russo con altri paesi.
25 novembre - Iniziano le votazioni per la formazione
dell’Assemblea costituente. Partecipano al voto circa 44 milioni di
elettori a fronte di una platea di oltre 90. I socialrivoluzionari russi
assieme a quelli ucraini otterranno il 48,1% dei voti (380 seggi), i
bolscevichi il 24% (168 seggi) i cadetti il 4,7% (17 seggi), i men-
scevichi il 2,6% (18 seggi). Dopo la prima seduta a Palazzo di
Tauride del 5 gennaio 1918, i bolscevichi metteranno fine defini-

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tivamente ai lavori dell’Assemblea («la guardia è stanca»).
All’esterno della sala, si svolgono violenti incidenti tra Guardia
rossa e 60mila dimostranti socialrivoluzionari e menscevichi in cui
periscono 20 persone.
6 dicembre - La Finlandia che faceva parte dell’Impero russo dal
1809 dichiara la propria indipendenza.
1918
21 gennaio - In una riunione del Comitato centrale bolscevico con
i delegati al III Congresso panrusso dei Soviet, Lenin insiste sulla
conclusione immediata di una pace separata con la Germania. La
sua posizione viene sostenuta solo da circa un quarto dei parteci-
panti alla riunione. Un gruppo di «comunisti di sinistra» guidato da
Nikolaj Bucharin sostiene attivamente l’idea della «guerra rivolu-
zionaria». Si schiera invece per il «né pace né guerra» Trotsky.
14 febbraio - La Russia passa al calendario gregoriano.
18 febbraio - Le truppe austro-tedesche lanciano un’offensiva lungo
il fronte orientale. Il Comitato centrale bolscevico discute nuova-
mente la questione della guerra. La proposta di pace è approvata con
7 voti favorevoli, 6 contrari, 1 astenuto.
Il 3 marzo la Russia sovietica conclude il Trattato di pace di Brest-
Litovsk. La Russia perde un territorio delle dimensioni di 1 milione
di chilometri quadrati (Polonia, Stati baltici, parte della Bielorussia
e del Transcaucasia); Ucraina e Finlandia vengono riconosciute indi-
pendenti.
17 aprile - Il generale Krasnov inizia a formare l’Esercito del Don
nella regione di Novočerkassk. A metà luglio conterà 45mila mem-
bri. Si tratta di uno dei primi episodi significativi della Guerra civi-
le russa che insanguinerà il paese fino al 1921.
1 giugno - Il regista Dziga Vertov pubblica il primo cinegiornale
sovietico.
29 giugno - In Siberia viene creato il Governo provvisorio della
Siberia autonoma al comando dell’ammiraglio Aleksandr Kolčak.
6 luglio - I socialrivoluzionari di sinistra Jakov Bljumkin e Nikolaj
Andreev, presso l’ambasciata tedesca a Mosca uccidono l’amba-
sciatore Wilhelm von Mirbach. Subito dopo i socialrivoluzionari

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danno vita a una rivolta in diverse città della Russia che viene rapi-
damente sedata dal potere bolscevico.
17 luglio - A Ekaterinburg vengono uccisi da un commando bol-
scevico Nicolaj II, sua moglie Aleksandra Feodorovna, le grandu-
chesse Olga, Tatjana, Marija e Anastasja, lo tsarevič Aleksej e
quattro stretti collaboratori della famiglia Romanov.
3 agosto - Un reggimento inglese sbarca a Vladivostok. Il 9 agosto
vi giunge anche un battaglione francese.
Il 12 agosto è la volta di una divisione giapponese (16mila soldati).
Nella prima fase della guerra civile 14 contingenti militari di diver-
se nazionalità sostennero il tentativo dei bianchi di rovesciare il
potere sovietico.
30 agosto - Secondo la versione ufficiale, Fanni Kaplan, una mili-
tante del partito socialrivoluzionario, spara a ripetizione contro
Lenin. Inizia il «Terrore rosso»: vengono arrestate 14.829 persone;
gli imprigionati e gli esiliati sono 6.407, 6.188 i fucilati.
16 settembre - Viene adottato il primo Codice civile sovietico
che introduce l’uguaglianza dei diritti politici e civili per donne
e uomini, la parità di retribuzione, la giornata lavorativa di 8 ore,
il congedo di maternità di 8 settimane. Viene decriminalizzata
l’omosessualità, ma misure draconiane contro gay e lesbiche ver-
ranno reintrodotte nel 1933.
10 ottobre - Adottata la riforma dell’ortografia della lingua russa,
già pianificata dal Governo provvisorio. In conformità al decreto,
le lettere і (assorbita nella и), ѣ e ѳ vengono cancellate, e viene for-
temente limitato l’uso del segno duro ъ in fine di parola.
1919
26 gennaio - Il governo bolscevico ucraino adotta una dichiarazio-
ne sulla necessità di unificare la Repubblica sovietica ucraina con
la Russia sovietica su base federale. Il comando del fronte ucraino
conclude un accordo militare con l’anarchico Nestor Machno per
sviluppare una lotta congiunta contro le Guardie Bianche. A segui-
to di ciò il 12 febbraio a Guljajpole, il II Congresso regionale dei
contadini e dei ribelli viene aperto al canto della Marsigliese. Vi
partecipano 245 delegati di 35 provincie. La rivoluzione libertaria

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«verde» verrà poi repressa dall’Armata rossa e Machno prenderà la
via dell’esilio in Francia.
2 marzo - Si riunisce a Mosca il I Congresso della Terza interna-
zionale (Comintern). La presidenza verrà assegnata a Grigorij
Zinov’ev.
10 marzo - I lavoratori dello stabilimento Putilov - punta di dia-
mante dell’avanguardia rivoluzionaria durante la rivoluzione
d’Ottobre - si ribellano per fame al potere bolscevico. Il 16 marzo,
le truppe della Čeka di Pietrogrado danno l’assalto alla fabbrica e
circa 200 scioperanti vengono fucilati.
13 marzo - Le truppe di Aleksandr Kolčak occupano Ufa.
19 marzo - Il libro di John Reed Ten days that shook the World
viene pubblicato negli Usa e Lenin ne scrive l’introduzione. In
epoca staliniana il libro verrà bandito.
12 aprile - I lavoratori del deposito di Mosca-Sortirovočnaja tengo-
no il primo subbotnik [sabato di lavoro «comunista» (n.d.r.)] ripa-
rando gratuitamente tre locomotive a vapore. Tale tradizione di
lavoro gratuito sociale resterà in uso anche in periodo postsovietico.
21 giugno - L’Armata rossa inizia una controffensiva vicino a
Pietrogrado contro le truppe di Nikolaj Judenič e un’offensiva con-
tro le truppe di Kolčak: Ural’sk, Perm’ ed Ekaterinburg vengono
riconquistate dall’esercito sovietico.
16 dicembre - L’Armata rossa conquista Kiev.
1920
7 febbraio - Kolčak viene arrestato e fucilato dall’Armata rossa a
Irkusk.
19 luglio - A Pietrogrado, si apre il II Congresso del Comintern.
Prende il via anche il primo campionato di calcio della Repubblica
sovietica russa, che verrà vinto dalla squadra di Mosca.
19 agosto - Fallisce il tentativo di Semën Budënnyj di prendere
Varsavia. Le truppe polacche conquistano Brest-Litovsk.
L’Armata rossa viene respinta sulla linea Curzon.
1921
11 gennaio - Fondato a Mosca l’Istituto Marx-Engels, la cui dire-
zione viene affidata a David Rjazanov.

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25 febbraio - L’Armata rossa e i bolscevichi georgiani conquista-
no Tbilisi.
28 febbraio-17 marzo - Inizia la rivolta di Kronštadt, nel corso
della quale i marinai e gli operai della flotta baltica, che si oppon-
gono alla dittatura bolscevica chiedono il ritorno delle libertà civili
e nuove elezioni. Dopo duri combattimenti, il generale dell’Armata
rossa Michail Tuchačevskij, conquista Kronštadt. Durante l’assalto
perdono la vita oltre 1.000 «ribelli» e 527 soldati dell’Armata
rossa, oltre 5mila sono i feriti. Oltre 8mila cittadini di Kronštadt
fuggono in Finlandia.
10 marzo - Si conclude il X Congresso del Partito comunista russo
(b) in cui si decide la transizione alla Nep (Nuova politica econo-
mica) e il divieto all’interno del partito di attività di tendenza o di
frazione.
19 agosto - Inizia la rivolta antibolscevica a Tambov dell’esercito
contadino guidato dal socialrivoluzionario Aleksandr Antonov.
L’insurrezione verrà sedata dall’Armata rossa solo quasi un anno
dopo: 20mila saranno le perdite complessive su entrambi i fronti.
1922
15 marzo - Il Politbjuro del Comitato centrale del Partito comuni-
sta Russo (b) approva il bilancio del Comintern per il 1922: l’im-
porto per sostenere la sua attività è di 2,5 milioni di rubli-oro. Il 20
aprile questo importo verrà aumentato a 3.150.600 rubli-oro.
3 aprile - Iosif Stalin viene eletto Segretario del Partito. La funzio-
ne inizialmente è puramente tecnica e di coordinamento.
16 aprile - A Rapallo viene firmato un accordo tra Germania e
Russia sovietica sul ripristino delle relazioni diplomatiche e com-
merciali. È un primo passo per la ripresa delle relazioni internazio-
nali con la comunità internazionale.
7 agosto - Si conclude il processo contro i socialisti rivoluzionari.
Il tribunale condanna a morte 12 imputati. Sotto la pressione dei
partiti socialdemocratici di tutto il mondo, il tribunale sarà poi
costretto a commutare in reclusione le condanne a morte.
30 dicembre - Il I Congresso panrussso dei Soviet adotta la dichia-
razione sulla formazione dell’Urss di cui entrano a far parte inizial-

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mente Ucraina, Bielorussia, Federazione delle Repubbliche
Transcaucasiche e Russia, pur conservando ognuna di esse il dirit-
to di libera secessione dall’Unione.
1923
4 gennaio - Lenin fa un’ultima aggiunta a una delle lettere al XII
Congresso del Partito bolscevico («Testamento di Lenin»), in cui
denuncia il carattere grossolano e rozzo di Stalin, e chiede di
rimuoverlo dalla carica di Segretario. Successivamente incaricherà
Trotsky di attaccare la posizione russocentrica di Stalin sulla que-
stione delle nazionalità.
5 luglio - Viene fondata la Aeroflot.
21 ottobre - Trotsky invia una lettera al Comitato centrale chie-
dendo il ripristino della democrazia interna al partito, in cui segna-
la il pericolo di degenerazione burocratica e il potere crescente del
segretario Stalin. Inizia la lotta per la successione a Lenin fra
Trotsky, da una parte, e Stalin, Lev Kamenev, Zinov’ev e
Bucharin, dall’altra.
1924
21 gennaio - Lenin muore a Gor’kij.
24 gennaio - Viene fondata la Mosfilm.
25 gennaio - Il Comitato esecutivo centrale dell’Urss adotta la
risoluzione per l’imbalsamazione di Lenin fortemente voluta da
Stalin. Vi si oppongono Trotsky, Bucharin, Kamenev e Nadežda
Krupskaja. Inizia il culto di Lenin: durante gli anni del potere
sovietico, più di 40 città e altri insediamenti urbani saranno intito-
lati al nome di Lenin. Saranno costruiti e attrezzati 51.553 musei,
monumenti, busti e targhe commemorative dedicati al leader
comunista in 2.176 città, in più di 4mila insediamenti urbani e in
oltre 42mila paesi.
31 gennaio - Il II Congresso dei Soviet approva la prima
Costituzione dell’Urss su base federalistica e paritaria ma gli «ele-
menti alieni» - kulaki, mercanti, ministri dei culti religiosi, ex uffi-
ciali di polizia e gendarmeria - sono privati del diritto di voto.
26 aprile - Stalin inizia a tenere lezioni all’Università di
Sverdlovsk sulle «Questioni del leninismo», sostenendo di essere

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in prima persona il legittimo interprete di Lenin e opponendo il
leninismo al trotskismo.
1925
21 dicembre - Al Teatro Bol’šoj, si tiene la prima proiezione del
film di Sergej Ėjzenštejn La corazzata Potëmkin, che verrà poi
inserito nella lista dei dodici migliori film di tutti i tempi.
28 dicembre - Il poeta Sergej Esenin si suicida nell’hotel
«Angleterre» di Leningrado.
1926
6 ottobre - Trotsky, Zinov’ev, Kamenev e altri dirigenti del Partito
pubblicano una dichiarazione sulla Pravda in cui si impegnano a
sottomettersi nuovamente alla disciplina del partito.
23 ottobre - Zinov’ev viene rimosso dalla carica di presidente del
Comintern.
1927
27 settembre - In una riunione congiunta del Presidium del
Comitato esecutivo del Comintern, Trotsky viene espulso dalle
strutture dirigenti dall’Internazionale Comunista. Finirà al confino
ad Alma-Ata all’inizio del 1928. Espulso dall’Urss nel 1929, dopo
alcune vane richieste di asilo politico, arriverà in Messico. Di lì,
nel 1938, tenterà di formare una Quarta internazionale marxista.
Sarà poi assassinato da un sicario di Stalin nell’agosto del 1940.
1928
28 marzo - Il governo sovietico adotta una risoluzione per la crea-
zione della regione nazionale del Birobidžan, che segna l’inizio del
reinsediamento degli ebrei sovietici in Estremo oriente.
10 luglio - Con la risoluzione del Comitato centrale del Partito
comunista su «Politica di approvvigionamento di grano in connes-
sione con la situazione economica generale», viene lanciata la poli-
tica della collettivizzazione integrale dell’economia agricola, la
«distruzione dei kulak in quanto classe», la chiusura della Nep. Le
principali conseguenze saranno due: la deportazione di circa 10
milioni di contadini in Siberia e la carestia di massa del 1932-1933
che condurrà alla morte di milioni di contadini (le stime dei morti
sono molto diverse: da 2 a 8,7 milioni).

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7 luglio - Il VI Congresso del Comintern lancia la politica del
«socialfascismo»: il nemico principale dei comunisti diventa la
socialdemocrazia europea. Tale approccio verrà mutato solo dopo
l’ascesa del nazismo in Germania.
19 settembre - Valerian Kujbyšev presenta una relazione sull’ac-
celerazione dell’industrializzazione e sulla necessità dello sviluppo
prioritario dell’industria pesante.
1929
2 gennaio - Il governo sovietico adotta un decreto sulla giornata
lavorativa di 7 ore (con una settimana lavorativa di 6 giorni). Allo
stesso tempo, il decreto contiene una disposizione sulla possibilità
d’imporre a ogni persona abile il lavoro gratuito obbligatorio. La
giornata lavorativa di 7 ore verrà presto abolita.
31 maggio - La Ford firma un accordo con l’Urss per la costruzio-
ne di uno stabilimento automobilistico a Nižnij Novgorod.
5 novembre - Nasce Inturist, la principale organizzazione turistica
dell’Urss.
1930
4 aprile - A Mosca, all’età di 36 anni, si suicida Vladimir
Majakovskij.
21 maggio - Introdotta la tessera annonaria a Mosca e Leningrado.
Gli operai ogni giorno hanno diritto a 800 grammi di pane, 200
grammi di carne, e mensilmente, a 3 chilogrammi di cereali, 600
grammi di burro, 1,5 chilogrammi di zucchero, 10 uova, 800 gram-
mi di aringhe (i bambini non hanno diritto a pane, carne, aringhe e
cereali) e su base mensile a 400 grammi di burro e 500 di zucchero.
1931
11 ottobre - Si adotta la decisione governativa sulla completa
liquidazione del commercio privato.
1932
31 gennaio - Viene inaugurato il primo altoforno presso lo stabili-
mento siderurgico di Magnitogorsk. Rappresenta uno dei moltepli-
ci successi dell’industrializzazione sovietica nei primi anni ’30.
5 aprile - Si pubblica il più classico dei romanzi di realismo socia-
lista sulla Rivoluzione d’Ottobre, scritto da Nikolaj Ostrovskij:

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Come fu temprato l’acciaio. Fino al 1991 il romanzo verrà pubbli-
cato in 75 lingue dei popoli dell’Urss, ristampato in varie edizioni
773 volte, con una tiratura complessiva di 53 milioni e 854mila
copie.
9 novembre - Si suicida a 31 anni la seconda moglie di Stalin,
Nadežda Allilujeva.
10 novembre 1932 - Grazie ai lavoratori del lager «Bamlag» viene
completata la linea ferroviaria Bajkal-Amur.
1933
1 gennaio - Viene annunciato che il primo Piano quinquennale è
stato realizzato prima del previsto, in 4 anni e 3 mesi.
10 dicembre - Lo scrittore Ivan Bunin, emigrato dopo la rivoluzio-
ne in Occidente, è il primo scrittore russo a ricevere il Premio
Nobel.
26 gennaio - Si apre il XVII Congresso del Partito comunista(b)
[di tutta l’Unione] detto anche «Congresso dei vincitori». Inizia il
culto di Stalin: il suo nome durante l’assise viene ripetuto 1.580
volte. Durante il congresso si svolge la famosa votazione dei can-
didati al Comitato centrale in cui su 1.225 delegati, solo 3 votano
contro Sergej Kirov, ma circa 300 contro Stalin. I «vincitori» ben
presto presero la strada del GULag e dei plotoni d’esecuzione: dei
1.961 partecipanti al congresso, 1.188 saranno eliminati.
17 agosto - A Mosca, nella Sala delle colonne della Casa dei sin-
dacati, viene aperto il I Congresso pansovietico degli scrittori
sovietici in cui si celebra la trasformazione del «realismo sociali-
sta» in ideologia di Stato.
18 settembre - L’Urss viene ammessa nella Società delle Nazioni.
1 dicembre - A Leningrado viene ucciso Kirov. A seguito di que-
sto omicidio, prendono il via massicce repressioni tra i comunisti:
viene adottato un decreto sull’introduzione di una procedura giudi-
ziaria accelerata e sull’esecuzione immediata delle condanne a
morte nei casi di atti terroristici, Per diversi giorni senza processo
o indagine - a Mosca, Leningrado e Kiev - vengono fucilati un gran
numero di prigionieri politici. Il 16 dicembre sono arrestati
Zinov’ev e Kamenev.

20
1935
15 maggio - Si inaugura la prima linea della Metropolitana di
Mosca che va da Park Kul’tury a Ochotnyj Rjad, per una lunghezza
totale di 11,6 chilometri, con 13 stazioni lussuosamente arredate.
1-31 agosto - Nel Donbass, il minatore 29enne Aleksej Stachanov
porta alla luce 102 tonnellate di carbone superando di 14 volte la
norma. Si sviluppa il movimento produttivistico che porterà il suo
nome.
28 febbraio - Muore a Mosca il fisiologo russo Ivan Pavlov,
Premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1904.
18 giugno - Muore lo scrittore Maksim Gor’kij.
19 agosto - Inizia il primo dei Processi di Mosca contro il «Centro
antisovietico unitario Trotsky-Zinov’ev», accusato di aver assassi-
nato Kirov e progettato l’eliminazione di Stalin.
21 agosto - Karl Radek in una articolo sulla Izvestija accusa i «trot-
skisti-zinovievisti» di essere una «banda fascista». Il 22 agosto,
sulla Pravda, il procuratore Vyšinskij accusa lo stesso Radek, oltre
che Michail Tomskij, Aleksej Rykov, Nicholaj Bucharin, Georgij
Pjatakov di essere parte integrante della «cospirazione trotskista-
zinovievista».
25 novembre-5 dicembre - Durante l’VIII Congresso straordina-
rio dei Soviet, viene adottata all’unanimità la nuova Costituzione
sovietica che Stalin definirà la «più democratica del mondo».
1937
11 giugno - In un’udienza a porte chiuse, la Corte suprema
dell’Urss emette il verdetto sul caso dell’«organizzazione militare
trotskista antisovietica nell’Armata rossa». Vengono condannati a
morte il generale Tuchačevskij e altri importanti ufficiali dell’eser-
cito.
2 luglio - Il Politbjuro del Comitato centrale del Partito adotta una
risoluzione sull’impiego di repressioni di massa contro i «nemici del
popolo». Questa data è considerata l’inizio del «Grande terrore».
27 novembre - Viene arrestato e poi eliminato Jan Berzin (Peteris
Kuzis), uno dei più importati uomini dell’intelligence sovietica che
aveva reclutato all’organizzazione Richard Sorge e Leopold Trepper.

21
1938
2 marzo - A Mosca, nell’Aula «Ottobre» della Casa dei sindacati,
si apre il terzo processo contro il «blocco di destra e dei trotskisti».
Ci sono 21 persone sul banco degli imputati tra le quali 3 membri
del Politbjuro (Bucharin, Rykov e Pavel Krestinskij). Le accuse
sono: sabotaggio, piani di smembramento dell’Urss, organizzazio-
ne di insurrezioni di kulak, partecipazione alla «cospirazione mili-
tare-fascista» di Tuchačevskij, collegamenti con Trotsky e l’intel-
ligence tedesca.
Il processo si conclude con la pena capitale per tutti, tranne
Valerian Pletnëv che riceve 25 anni di carcere, Christian
Rakovskij, 20 anni (entrambi saranno fucilati nel settembre 1941)
e Samojla Bessonov, 15 anni.
9 settembre - La Pravda inizia a pubblicare il libro di testo Storia
del Partito comunista dell’Urss (bolscevico). Breve corso. Per 15
anni resterà l’unico libro di testo per lo studio della storia nei partiti
stalinisti in tutto il mondo. Nel corso degli anni il Breve corso verrà
stampato in Urss 301 volte, in 67 lingue, per un totale di 42 milioni
816mila copie.
5 novembre - Lavrentij Berija diventa capo del Commissario del
popolo per gli affari interni dell’Urss. Una seconda epurazione di
massa inizia nella Nkvd. Su istruzioni di Stalin vengono rilasciati
dai campi una parte dei «condannati senza fondamento» sotto la
precedente amministrazione di Nikolaj Ežov: (223mila dai lager e
103mila dalle colonie). Nello stesso periodo vengono arrestate
altre 200mila persone.
1939
1 aprile - Muore Anton Makarenko il padre della pedagogia sovie-
tica.
10 aprile - Viene arrestato Ežov, con l’accusa di aver preparato
attacchi terroristici contro i leader del partito e del governo, e di
l’omosessualità. Verrà fucilato il 4 febbraio 1940.
17 agosto - Fëdor Raskol’nikov, diplomatico in Svizzera e attivo
partecipante alla Guerra civile, scrive l’atto di accusa «Lettera
aperta a Stalin». Verrà assassinato il successivo 12 settembre.

22
19 agosto - Viene firmato un accordo commerciale sovietico-tede-
sco. Nei successivi 17 mesi, la Germania riceverà dall’Urss
865mila tonnellate di petrolio, 140mila tonnellate di manganese,
14mila tonnellate di rame, 101mila tonnellate di cotone grezzo,
2.736 chilogrammi di platino, 1.462mila tonnellate di grano. Al
momento dell’invasione nazista dell’Urss, la Germania le deve 229
milioni di marchi.
23 agosto - Firmato il Patto di non aggressione sovietico-tedesco.
Si sottoscrive dalle due parti anche un Protocollo aggiuntivo segre-
to. Le sfere d’influenza della Germania e dell’Urss sono definite
dal confine settentrionale della Lituania, la Finlandia finisce nella
«sfera degli interessi» sovietici e la Polonia viene spartita.
31 agosto - In Urss, i film antifascisti o antitedeschi vengono tolti
dalla programmazione nei cinema, compreso Aleksander Nevskij
di Ejženstejn. I romanzi e le opere antifasciste nelle biblioteche,
sono ritirati e distrutti. La parola «fascismo» è proibita sui giornali:
i nazisti vengono definiti dalla stampa sovietica semplicemente
«nazionalsocialisti».
1 settembre - Inizia la Seconda guerra mondiale con l’invasione
nazista della Polonia.
17 settembre - L’Armata rossa invade la parte di Polonia assegna-
tale dal Patto con Hitler.
28-29 settembre - Firma del Trattato di amicizia e di frontiera
russo-tedesco
30 novembre - L’Urss attacca la Finlandia. I soldati finlandesi uti-
lizzano le celebri bottiglie esplosive, chiamate poi «cocktail
Molotov» in tutto il mondo (in Italia «bottiglie Molotov»). Il 12
marzo 1940 verrà firmato il Trattato di pace tra i due paesi. Il con-
fine sull’istmo careliano viene spostato di 150 chilometri nell’in-
terno della Finlandia,
19 dicembre - Inizia la produzione del carro armato sovietico T-34.
1940
5 marzo - Le fosse di Katyń. Il Cc del Partito decide di eliminare
25.700 cittadini polacchi che si trovavano nei campi sovietici, così
come nelle carceri nelle regioni occidentali di Ucraina e

23
Bielorussia, tra cui circa 16mila ufficiali dell’esercito e della gen-
darmeria. Le fosse saranno scoperte nel 1943 dai tedeschi al
momento dell’occupazione della regione di Smolensk. Il governo
sovietico dichiarò immediatamente che questa atrocità era opera
dei nazisti. Nel 2010 una commissione della Duma di Stato ricono-
scerà definitivamente la paternità sovietica dei massacri.
10 marzo - Muore lo scrittore Michail Bulgakov.
Tra il 28 giugno e il 2 settembre, l’Urss invade e annette la
Bessarabia e la Bucovina.
2 agosto - Viene formata la Repubblica sovietica moldava a segui-
to dell’annessione della maggior parte della Bessarabia.
3 agosto-6 agosto - Lituania, Lettonia, Estonia (i Paesi baltici)
vengono annesse all’Urss.
1941
31 maggio - Richard Sorge, l’informatore tedesco dei sovietici in
Giappone, invia un rapporto in codice a Mosca in cui informa che
i tedeschi inizieranno la guerra contro l’Urss il 22 giugno.
22 giugno - Hitler lancia l’Operazione Barbarossa, cioè l’invasio-
ne militare all’Urss. Questa si rivela totalmente impreparata al
momento dell’aggressione e Stalin scompare dalla circolazione per
alcuni giorni. Alla fine del conflitto le vittime sovietiche tra civili
e militari ammonteranno complessivamente a seconda delle stime,
tra i 20 e 27 milioni di persone.
24 giugno - Entro la fine del terzo giorno di guerra, l’esercito tede-
sco occupa la maggior parte della Lettonia, della Lituania, della
Bielorussia occidentale e dell’Ucraina occidentale.
5 agosto - I nazisti raggiungono la costa del Mar Nero. Inizia la
difesa di Odessa.
4 settembre - I tedeschi iniziano un sistematico bombardamento di
artiglieria su Leningrado. L’assedio della città durerà 2 anni e 5
mesi, fino al 27 gennaio del 1944. Durante l’assedio saranno
distrutti 840 edifici industriali, 5 milioni di metri quadrati di abita-
zioni, 500 scuole. Secondo i dati ufficiali, oltre 640mila leningra-
desi morirono di fame in città e decine di migliaia di durante l’e-
vacuazione. Si tratta dell’assedio più lungo di tutta la Seconda
guerra mondiale e il secondo più lungo della storia moderna dopo

24
quello di Sarajevo negli anni ’90 del XX secolo.
Rispondendo a un messaggio di Stalin del giorno prima, Churchill
afferma: «Un’invasione della Francia è impossibile, la creazione di
un secondo fronte nei Balcani irrealistica. Non abbiamo aviazione
e carri armati. Fino all’inverno, non saremo in grado di fornirvi
alcuna assistenza seria, né allestendo un secondo fronte, né fornen-
do ampiamente i tipi di armi di cui avete bisogno».
2 ottobre - Il Comitato per la Difesa dello Stato adotta un decreto
sull’organizzazione della difesa di Mosca. Viene presa la decisione
di evacuare con urgenza 500 fabbriche dalla capitale. La battaglia
di Mosca durerà fino all’inverno del 1942. L’offensiva tedesca sarà
dapprima bloccata a 20 chilometri dal Cremlino e successivamente
le truppe naziste vennero costrette a indietreggiare.
16 ottobre - Si è conclude dopo 73 giorni la difesa di Odessa, le
truppe rumene entrano in città. Su 4,5 milioni di abitanti della capi-
tale, 2 milioni sono stati evacuati.
7 novembre - Sulla Piazza Rossa, si svolge la storica parata mili-
tare, durante la quale Stalin dal podio del Mausoleo di Lenin saluta
i soldati che partono a combattere per difendere la capitale.
30 novembre - Inizia il reclutamento forzato di cittadini sovietici
per lavorare in Germania nei territori occupati. Alla fine del 1942,
circa 2 milioni di persone risultano già state trasferite nelle fabbri-
che e nei campi tedeschi.
1942
1 gennaio - A Washington viene firmata la Dichiarazione dei 26
Stati (Usa, Gran Bretagna, Urss ecc.), che formalizza la loro
alleanza militare nella lotta contro i paesi del blocco nazifascista
(Dichiarazione delle Nazioni Unite). Essa include anche l’impegno
a non concludere una tregua o una pace separata con i nemici.
18 febbraio - La prima proiezione del film documentario sulle
prime vittorie dell’Armata Rossa La sconfitta delle truppe tedesche
vicino a Mosca si tiene nella capitale. Il film verrà poi proiettato in
tutto il mondo e riceverà il primo Premio Oscar nella storia del
cinema sovietico.
26 giugno - Il patriarca di Mosca, Sergij, si rivolge ai credenti con

25
un messaggio a sostegno della guerra partigiana: «Forse non tutti
possono unirsi ai distaccamenti partigiani e condividere i loro
dolori, pericoli e imprese, ma tutti dovrebbero considerare gli affa-
ri dei partigiani come affari propri, personali, proteggerli, fornire
loro armi e cibo».
17 agosto - Le truppe sovietiche interrompono l’offensiva nemica
contro Stalingrado proprio alle porte della città e mantengono un
punto d’appoggio sulla riva destra del Don. Inizia la battaglia di
Stalingrado che durerà dall’estate del 1942 al febbraio del 1943 per
il controllo della regione strategica tra il Don e il Volga. La batta-
glia, definita dagli storici come «la più importante di tutta la
Seconda guerra mondiale», è seguita con il fiato sospeso in tutto il
mondo. Essa rappresenta la prima grande sconfitta politico-milita-
re della Germania nazista e l’inizio della controffensiva sovietica.
La battaglia, iniziata con l’avanzata delle truppe dell’Asse fino al
Don e al Volga, si conclude con l’annientamento della 6ª Armata
tedesca e la resa dell’esercito di Von Paulus. I sovietici avranno
328.856 morti, i tedeschi 154.885; i soldati tedeschi presi prigio-
nieri saranno circa 110 mila.
1943
14 febbraio - Le truppe del Fronte meridionale liberano Rostov sul
Don.
14 aprile - Nel campo di concentramento di Sachsenhausen, il
figlio di Stalin, il tenente Jakov Iosifovič Džugašvili, viene ucciso
dalle guardie tedesche. In precedenza i nazisti avevano proposto
uno scambio di prigionieri che coinvolgesse Jakov, ma era stato
rifiutato da Stalin.
26 settembre - Inizia la liberazione della Bielorussia.
6 novembre - Le truppe del Primo fronte ucraino liberano Kiev.
28 novembre - Si apre la conferenza di Teheran tra Stalin,
Roosevelt e Churchill. Gli alleati adottano un accordo di coopera-
zione militare e discutono di un piano preliminare per la divisione
della Germania. L’Esercito popolare di liberazione della
Jugoslavia, guidato dal maresciallo Iosif Tito, viene riconosciuto
come parte dell’alleanza tra i paesi della coalizione antihitleriana.

26
Il 30 novembre, Roosevelt e Churchill informano Stalin di essere
pronti ad aprire un Secondo fronte in Europa nel maggio 1944.
1944
28 luglio - Le truppe del Primo fronte bielorusso, al comando del
maresciallo Kostantin Rokossovskij, liberano Brest, raggiungono
la Vistola e proseguono la loro offensiva in direzione di Varsavia.
20 ottobre - Le truppe del Terzo fronte ucraino, insieme alle trup-
pe dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, comple-
tarono la distruzione della guarnigione tedesca di Belgrado.
1945
17 gennaio - I soldati dell’Armata rossa liberano Varsavia dove,
tra l’aprile e il giugno 1943, sotto la direzione del Partito socialista
polacco, si era sviluppata nel ghetto ebraico un’insurrezione contro
l’occupante nazista.
27 gennaio - Le truppe sovietiche della 60ª Armata del Primo fron-
te ucraino raggiungono il campo di sterminio di Auschwitz.
4-11 febbraio - Presso Jalta si tiene la Conferenza di Usa, Gran
Bretagna e Urss in cui vengono prese alcune decisioni importanti
sul proseguimento del conflitto e sull’assetto futuro della Polonia.
Si stabilisce la suddivisione della futura Europa in zone d’influen-
za occidentale e sovietica.
16 aprile - Inizia l’attacco a Berlino dell’Armata rossa comandata
da Georgij Žukov, Konstantin e Ivan Konev. L’assalto viene por-
tato da 2,5 milioni di fanti, 6.250 carri armati e cannoni semoventi,
7.500 aerei da combattimento.
8 maggio - Viene firmata alle ore 22.43 la capitolazione della
Germania nazista.
17 luglio - A Potsdam si apre la conferenza dei capi di governo
dell’Urss, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Si decide la
distruzione dei monopolî tedeschi, la smilitarizzazione della
Germania, la punizione dei criminali di guerra, l’amministrazione
quadripartita di Berlino e della Germania; si definiscono il confine
occidentale della Polonia e l’entità delle riparazioni di guerra.
Königsberg (Kaliningrad) diventa sovietica.
20 agosto - Dopo il lancio di due bombe nucleari statunitensi sul

27
Giappone, Stalin crea una commissione speciale, guidata da Berija,
per giungere alla costruzione di una bomba atomica sovietica.
23 febbraio - Viene mutata la denominazione dell’esercito da
«Armata rossa» in «Esercito sovietico». Durante la guerra Stalin
aveva deciso di sciogliere l’Internazionale comunista e anche di
creare un Inno sovietico ad hoc da sostituire all’Internazionale.
1946
5 marzo - A Fulton, alla presenza del presidente degli Stati Uniti
Truman, Churchill pronuncia il celebre discorso che introduce nel
lessico politico l’espressione «cortina di ferro» per caratterizzare la
barriera con cui l’Urss si è separata dal «mondo libero».
8 febbraio - Il governo sovietico decide di avviare la produzione
in serie del fucile d’assalto progettato da Michail Kalašnikov, l’o-
monimo AK-47.
17 febbraio - Voice of America inizia a trasmettere in modo da
essere ascoltata in Urss.
22 settembre - Al Congresso dei partiti comunisti, nella località
polacca di Szklarska Poręba, viene istituito il Cominform, l’Ufficio
informazioni dei partiti comunisti e operai.
1947
12 gennaio - Perquisito l’appartamento del maresciallo Žukov
ormai emarginato da Stalin a causa della sua popolarità. Tornerà in
auge al momento dell’arresto di Berija e poi brevemente come
Ministro della difesa.
1948
28 gennaio - La Pravda pubblica un articolo «sulla fallacia dell’i-
dea di unire i Paesi balcanici delle democrazie popolari in un’unica
Federazione balcanica» promossa da Tito: è il primo passo per la
rottura verticale tra i partiti comunisti legati a Stalin e il marescial-
lo jugoslavo, che di lì in poi sarà definito «trotskista» e «nazista».
7 luglio - Il giornale Meditsinskij Rabotnik pubblica l’articolo «Su
un concetto non scientifico» (detta anche «Lettera 13») con cui
Stalin decide di aderire alle teorie miciuriniane (dal genetista Ivan
Vladimirovič Mičurin) di Trofim Lysenko.
1949

28
1 ottobre - Mao Zedong proclama la nascita della Repubblica
Popolare Cinese. Il paese più popoloso del mondo diventa il prin-
cipale alleato dell’Urss. Dopo la morte di Stalin i cinesi tenteranno
- in buona parte senza successo - di costituire un polo alternativo
al Cominform nel movimento comunista mondiale. Il 25 agosto
1960 il Pcus dichiarerà dogmatico e avventurista il maoismo.
1950
17 giugno - A New York, i coniugi comunisti Julius ed Ethel
Rosenberg sono arrestati con l’accusa di «spionaggio atomico» a
favore dell’Urss. Dopo il processo, e malgrado le proteste interna-
zionali, verranno giustiziati sulla sedia elettrica.
20 giugno - Sulla Pravda appare l’articolo di Stalin «Marxismo e
questioni di linguistica» in cui si attacca il linguista Nikolai Marr.
5 ottobre - Si apre il XIX Congresso del Partito comunista russo,
il primo convocato dopo il 1939 e l’ultimo al quale partecipa
Stalin. La relazione non è tenuta dal Segretario, ma da Georgij
Malenkov: alla sua ultima apparizione pubblica, Stalin interviene
solo per le conclusioni.
4 novembre - Viene arrestato l’accademico e medico personale di
Stalin Vladimir Vinogradov. Il suo arresto s’inquadra nella campa-
gna «contro il complotto cosmopolita». Poco prima del suo arresto,
Vinogradov aveva scoperto un’arteriosclerosi in rapida progressio-
ne nel leader e lo aveva raccomandato vivamente di abbandonare
l’attività politica attiva. Un mese dopo la morte di Stalin,
Vinogradov, insieme ad altri «medici assassini», sarà rilasciato.
1952
Dal 5 al 14 ottobre, si svolge a Mosca il XIX Congressso del
Partito comunista che ora assume il nome di Pcus: Partito comuni-
sta dell’Unione Sovietica.
1953
5 marzo - Dopo alcuni giorni di agonia è annunciata la morte di
Stalin. Il potere in Urss viene assunto inizialmente dalla troika
Malenkov-Berja-Chruščëv e in seguito, fino al 1964, in prima per-
sona da quest’ultimo.
6-9 marzo - La bara con il corpo di Stalin viene esposta nella Casa

29
dei sindacati; allo stesso tempo, nel paese vengono dichiarati 4
giorni di lutto nazionale. Nella calca della gente che vuole rendere
l’estremo saluto al «Maresciallo» muoiono centinaia di persone.
Dopo il funerale, il cadavere di Stalin viene spostato nel mausoleo
sulla Piazza Rossa, che ha già una doppia iscrizione: Lenin-Stalin.
Nel 1961 i suoi resti verranno spostati ai piedi del Cremlino e il suo
mausoleo sarà smantellato.
10 marzo - Alla riunione del Politbjuro del Partito, Malenkov,
afferma che nell’epoca staliniana ci sono state «gravi anomalie,
molto ha seguìto la via del culto della personalità... Riteniamo
imperativo fermare la politica del culto della personalità». Alla
fine di marzo, il nome di Stalin già cessa praticamente di essere
menzionato sulla stampa.
28 aprile - Vasilij Stalin, figlio di Iosif, già pilota dell’Armata
rossa e alcolista, viene arrestato dopo aver sostenuto che suo padre
è stato ucciso. Si tratta di una leggenda rimasta popolare anche
nella Russia postsovietica.
27 maggio - In una riunione del Presidium del Consiglio dei mini-
stri dell’Urss, Berija propone di non iniziare a costruire il sociali-
smo nella Germania dell’Est. Nello stesso periodo propone lo
smantellamento del sistema del GULag (che inizierà effettivamente
nel giro di pochi mesi per concludersi nel 1956) e l’introduzione di
elementi di economia di mercato.
17-18 giugno - Rivolta operaia a Berlino Est a seguito della ridu-
zione dei salari. Per impedire la diffusione degli scioperi, l’Armata
rossa interviene a reprimere l’insurrezione. I morti saranno uffi-
cialmente 51, gli arrestati oltre 5.000.
26 giugno - Durante la riunione del Politbjuro, Berija è arrestato.
Accusato di cospirazione, viene giustiziato il 23 dicembre.
14 luglio - 12mila prigionieri del campo di Vorkuta entrano in
sciopero. In tutti i campi del GULag si susseguono insurrezioni e
proteste che portano alla morte di molte decine di detenuti.

30
CAPITOLO 1

Nella sua brillante storia dell’Urss, Gregor Suny ha


sottolineato che la prima rivoluzione socialista moderna
non sarebbe potuta avvenire in condizioni più disgraziate,
in un luogo più inospitale climaticamente, con così tanta
eccedenza di frontiere e nazionalità, e arretratezza socio-
economica quale aveva la Russia all’inizio del XX seco-
lo1. Per giustificare la rivoluzione socialista in un paese
che aveva realizzato solo i primi, seppur decisi passi nello
sviluppo capitalistico, i marxisti Lenin e Trotsky erano
dovuti ricorrere a profonde ricognizioni teoriche e strate-
giche ma senza saperlo (l’epistolario tra Vera Zasulič e
Marx venne pubblicata da Rjazanov nel 1924, mentre il
resto del resto del dibattito «russo» verrà reso disponibile
solo nel secondo dopoguerra) si erano ricollegati alla
punta più avanzata della discussione tra Marx ed Engels e
i rivoluzionari russi della seconda metà del XIX secolo.
Nella celebre lettera di risposta a Vera Zasulič, Marx
aveva prefigurato la possibilità che sulla Moscova si
potesse raggiungere il socialismo senza passare per «l’in-
ferno capitalistico». Da allora in poi con la serietà che era
1 Ronald Grigor Suny, The Soviet experiment. Russia, the USSR,
and the successor States, Oxford Univesity Press, Oxford 2010. A
nostro avviso è a migliore e più equilibrata storia dell’Urss attualmente
in circolazione.

31
suo costume, il Moro iniziò a studiare la lingua russa,
lavorò su un’enorme massa di fonti primarie e secondarie
dell’Impero zarista e si confrontò, in un fitto epistolario,
con attivisti e studiosi di quel paese.
Tuttavia al dipanamento dell’intera matassa, a contatto
col movimento operaio europeo, lavorò soprattutto
Engels dal 1883 in poi, dopo la morte dell’amico e sodale.
In un ampio saggio pubblicato nella raccolta Internatio-
nales aus dem Volksstaat, a complemento del saggio del
1875 in polemica con Tkačëv, Engels sintetizzava così la
questione della rivoluzione russa:
«Ogni formazione economica data ha i suoi problemi da
risolvere, i problemi che scaturiscono dai suoi rapporti spe-
cifici: voler risolvere quelli di un’altra formazione comple-
tamente diversa sarebbe un controsenso. Ciò vale tanto per
l’obščina quanto per la zádruga slavo-meridionale, per la
comunità di villaggio indiana e per ogni altra forma sociale
primitiva o barbara caratterizzata dal possesso comune dei
mezzi di produzione.
È invece non soltanto possibile, ma certo che, dopo la vit-
toria del proletariato e il passaggio in possesso comune dei
mezzi di produzione nei popoli dell’Europa occidentale, i
paesi in cui il regime capitalistico ha appena cominciato a
imporsi, e che hanno salvato dalla sua offensiva istituzioni
gentilizie o loro sopravvivenze, trovino in queste vestigia
di possesso collettivo e nelle abitudini popolari che vi cor-
rispondono un mezzo poderoso per abbreviare di gran
lunga il processo di evoluzione verso la società socialistica,
e risparmiare a se stessi la maggior parte delle sofferenze e
delle lotte attraverso le quali noi dell’Occidente europeo
dobbiamo aprirci faticosamente una via» (corsivo nostro)2.
2 Karl Marx-Friedrich Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore,
Milano 2008, p. 291.

32
Secondo i fondatori del «socialismo scientifico», quin-
di, la via al socialismo in Russia sarebbe stata direttamen-
te aperta grazie alle sue peculiari caratteristiche interne, a
condizione però che nell’Occidente una vittoriosa rivolu-
zione proletaria le fosse andata in aiuto3. Riveduta e cor-
retta e aggiornata alle condizioni della Guerra mondiale,
si tratterà dell’ipotesi messa in campo dal bolscevismo
nel 1917. Un’ipotesi, che non prevedeva, neppure in via
subordinata, l’autarchia del «socialismo in un paese
solo», impostasi dalla seconda metà degli anni Venti in
poi. Ipotesi vieppiù contrastata dalla corrente menscevica
della socialdemocrazia russa, ma invece ben presente tra
le pieghe della tradizione del socialismo agrario populi-
sta. Quest’ultimo era stato il prodotto di quella «andata al
popolo», anelata dall’intellighenzia dopo la sconfitta
decabrista e l’ascesa rivoluzionaria europea del 1848-49,
che si nutriva e trovava linfa proprio nel magico utopismo
della comune agricola russa.
In questo orizzonte sarebbe veramente difficile capire
tutte le sfumature della Rivoluzione d’ottobre senza aver
ben presente che questa portava in grembo un forte carica
utopistica e quindi inevitabilmente volontaristica.
Venivano così ad alimentarsi tra loro due culture diverse:
3 Una puntuale ricostruzione dell’elaborazione di Marx ed Engels su
questo tema si trova in Pier Paolo Poggio, Marx, Engels e la rivoluzio-
ne russa (Quaderno n.1 di Movimento operaio e socialista, Genova
1974) mentre per il dibattito complessivo da Černyševskij fino alla
rivoluzione in permanenza è utilissimo James D. White, Marx and
Russia. The fate of a doctrine, The Bloomsbury Publishing PLC,
London 2018.

33
la pulsione palingenetica e internazionalistica del sociali-
smo occidentale e il messianismo nazionalisico del movi-
mento rivoluzionario russo del XIX secolo. Nikolaj
Berdjaev sostenne che Lenin, russificando e orientaliz-
zando il marxismo,
«giunse a partire dal marxismo a delle conclusioni comple-
tamente originali rispetto alla Russia, che con poca proba-
bilità avrebbero potuto essere accettate da Marx ed
Engels»4.
Una tesi simile è stata riproposta con colorazioni nazio-
nalbosceviche più recentemente da Michail Agurskij. Per
Berdajev gli interpreti più «ortodossi» di Marx erano stati
i menscevichi e questo, nella catastrofe politica russa del
1917, era stato «il loro tallone d’Achille». Il marxismo di
Plechanov, sempre secondo Berdjaev, era solo «una forma
estrema di occidentalismo russo»5.
Come abbiamo visto, Marx ed Engels ponevano la
questione in maniera più complessa, collegandola al qua-
dro internazionale, mentre Plechanov esprimeva lo spirito
e la lettera della Seconda internazionale (non a caso sarà
difensivista durante la Prima guerra mondiale). Il suo
marxismo non si adattava alla tradizione della politica e
cultura russa, non corrispondeva a quel tipo di coscienza
caratteristica della Russia profonda (messianismo, man-
canza di comprensione del significato profondo della
democrazia fino al suo rigetto, atteggiamento ascetico nei
confronti della cultura, spirito di sacrificio, inclinazione
4 Nikolaj Berdjaev, Istoki i smisl’ russkogo kommunizma, Azbuka,
Moskva 2016, p. 76.
5 Ibidem, p. 78.

34
al cinismo, nichilismo ecc.). L’ambiguità di fondo del
leninismo fu di voler giocare su due tavoli separati: da
una parte, sostenne formalmente di volere «arrampicarsi
sulle spalle» dello sviluppo economico, politico e sociale
del capitalismo, com’era nelle corde della socialdemocra-
zia secondointernazionalistica, anche nella versione
luxemburghiana; dall’altra, si agganciò allo spirito anti-
borghese delle masse russe rurali che aspiravano a una
riforma agraria che mettesse insieme proprietà privata
della terra e spirito comunitario. Nel giro di pochi anni,
con l’incedere della Nep, queste contraddizioni vennero
in superficie in modo esplosivo.
Per capire la Rivoluzione russa, in questo senso, non
basta leggere Stato e rivoluzione di Lenin, ma occorre
aver ben presente anche Čevengur [nome del villaggio
nell’omonimo romanzo distopico (n.d.r.)] di Andrej
Platonov e Le dodici sedie di Il’ja Il’f ed Evgenij Petrov.
Questo cocktail fece della Rivoluzione una missione al
contempo nazionale e internazionale, anche dal punto di
vista delle tradizioni politiche e organizzative. Per realiz-
zare tale connubio, ha fatto notare Andrea Graziosi,
«Lenin costruì, servendosi delle tradizioni e del modello di
partito della Narodnaja volja, del blanquismo e delle cor-
renti soggettivistiche allora in voga, che pure contestava
nei suoi scritti, una teoria dell’avanguardia rivoluzionaria
e del suo ruolo nella storia, formalizzata nel Che fare?,
destinato a diventare la bibbia dei giovani rivoluzionari di
tutto il mondo»6.

6 Andrea Graziosi, Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Il


Mulino, Bologna 2007, p. 124.

35
La tesi centrale del Che fare?7 (rielaborata da un testo
di Karl Kautsky) - la necessità di un’organizzazione centra-
lizzata di «intellettuali» che portasse la coscienza rivolu-
zionaria dall’esterno del proletariato e delle sue lotte quoti-
diane - presentava più di un problema per la teoria marxista
perché faceva passare di soppiatto una variante delle teorie
di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto sulle élite, seppur con-
dita in chiave avanguardistica e provocando l’ira di buona
parte del movimento socialdemocratico russo dell’epoca.
Trotsky8 e Martov, tra gli altri, non risparmiarono a Lenin,
l’accusa di «giacobinismo». E sebbene in seguito il rivolu-
zionario di Simbirsk abbandonò la formula, la frazione
bolscevica restò pur sempre un’organizzazione ultracen-
tralizzata, raccolta intorno al capo carismatico. Sotto tale
profilo il leninismo fu anche occidentale e machiavellico,
un dispositivo tattico geniale dispiegato tra aprile e
novembre 1917, di cui la strategia ne fu ancella.

7 Si veda a questo proposito Hal Draper, «The myth of Lenin’s


“Concept of the Party” or What they did to What is to be done?», in
Historical Materialism n. 4/1999, pp. 187-214.
8 Aleksandr Pantsov ha riportato un’inquietante testimonianza della
figlia di Adolph Ioffe, Nadežda, che fu presente ai colloqui del padre
nell’estate del 1917 con Trotsky a proposito della questione della
fusione del loro piccolo gruppo dei Mežrajontsy (L’«Organizzazione
interdistrettuale» dei socialdemocratici uniti) con i bolscevichi:
«Secondo Nadežda Adol’fovna, suo padre aveva delle obiezioni di
fronte a un Trotsky, che insisteva per l’unificazione. La discussione si
trascinava. “Lev Davidovič! Ma sono banditi politici!”, non potè resi-
stere infine, Ioffe. “Sì, lo so - rispose Trotsky. - Ma i bolscevichi sono
ora l’unica vera forza politica”». Cit. da Aleksandr Pantsov, in Tajnaja
istorija sovetsko-kitajskich otnošenij. Bol’ševiki i kitajskaja revoljut-
sija (1919-1927) Izdatel’skij Dom Muravej-Gajd, Moskva 2001, p. 23.

36
La corrente leninista fu tutto il male e tutto il bene
della Rivoluzione del 1917; rappresentò al contempo la
grandezza e la miseria dell’ascesa delle classi oppresse in
Russia. Lenin morì intravedendo appena il pericolo dello
stalinismo, ma un’intera generazione dovette passare poi
attraverso le sue forche caudine. Michael Burawoy ha
segnalato come
«l’ironia della storia colloca Trotsky nel ruolo di esecutore
e poi vittima delle peggiori previsioni da lui fatte tra il 1904
e il 1906. Per il giovane Trotsky, il marxismo e il giacobi-
nismo erano diametralmente opposti, ma come leader
postrivoluzionario fu poi un ardente difensore del bolscevi-
smo come del giacobinismo. Avrebbe organizzato la mili-
tarizzazione del lavoro, sostenitore della distruzione dei
sindacati e della rivolta di Kronštadt, e il tutto in nome della
rivoluzione. Rimase intrappolato nelle stesse forze che pre-
vedeva sarebbero state dispiegate se la rivoluzione russa
non fosse stata seguita dalla rivoluzione in Occidente. La
sua pratica divenne una violazione vivente del marxismo
della sua giovinezza»9.
Per altri versi proprio Engels, parlando della
Germania, aveva intuito cosa sarebbe potuto accadere in
Russia a fronte di un’azione rivoluzionaria «prematura».
Scrisse infatti a Joseph Weydemeyer nel 1853:
«Io ho quasi il presentimento che un bel giorno il nostro
Partito, grazie alla incertezza e alla fiacchezza di tutti gli
altri partiti, dovrà assumere per forza il governo, per attuare

9 Michael Burawoy, The extended case method. Four countries,


four decades, four great transformations, and one theoretical tradi-
tion, University of California Press, Berkeley/Los Angeles/London
2009, p. 192.

37
finalmente le cose che non sono direttamente nel nostro
interesse, bensì nell’interesse genericamente rivoluzionario
e specificamente piccolo-borghese; e in questa occasione
allora, spinti dal popolo proletario, obbligati dalle proprie
enunciazioni e dai propri piani stampati (interpretati in
modo più o meno errato, e sorti in modo più o meno pas-
sionale nello incalzare della lotta di partito), si sarà costret-
ti a fare esperimenti e salti comunistici, sapendo benissimo
che essi sono prematuri. E allora si perderà la testa - spe-
riamo solo physiquement parlant - subentrerà una reazione
e, fino al momento in cui il mondo sarà in grado di formu-
lare su tutto quanto un giudizio storico, non solo si passerà
per belve, cosa che sarebbe del tutto indifferente, ma anche
per bêtes, e questo è molto peggio» (corsivo nostro)10.
Come vedremo, più avanti, Engels tornerà più volte -
quasi un’ossessione la sua - sulla questione dell’azione
rivoluzionaria precoce di cui presagiva le conseguenze.
Trotsky, nel 1937, quando era ormai il profeta sconfitto
nell’esilio messicano, propose un bilancio dell’Ottobre a
vent’anni dal suo trionfo che evitasse tuttavia qualsiasi tipo
di «soggettivismo» riallacciandosi a diversi piani dell’azio-
ne rivoluzionaria e della storia russa:
«Lo Stato costruito dai bolscevichi riflette non solo il pen-
siero e le volontà del bolscevismo, ma anche il livello cul-
turale del paese, la composizione sociale della popolazione,
le pressioni di un passato barbaro e di un non meno barbaro
imperialismo mondiale. Presentare il processo di degenera-
zione dello Stato sovietico come evoluzione del bolscevi-
smo vuol dire ignorare la realtà sociale nel nome di uno

10 Lettera a Weydemeyer del 12 aprile 1853, in K. Marx-F. Engels


Opere (Lettere 1852-1855), XXXIX, Ed. Riuniti, Roma 1972, p. 616.

38
solo dei suoi elementi, isolato per mezzo della logica pura.
È sufficiente chiamare quest’errore elementare col suo
nome per sbarazzarsene.
Il bolscevismo, in ogni caso, non si è mai identificato con
la Rivoluzione d’Ottobre o con lo Stato sovietico da questa
generato. Il bolscevismo si considera uno dei fattori della
storia, il suo fattore “cosciente” - molto importante ma non
decisivo. Non abbiamo mai peccato di soggettivismo stori-
co. Vedevamo il fattore decisivo - sulle basi reali delle
forze produttive - nella lotta di classe, non solo su scala
nazionale ma anche internazionale»11.
Un azzardo storico
La rivoluzione d’Ottobre, mutatis mutandis, fu un
azzardo. L’azzardo è una variabile che i politici in gene-
rale, e quelli rivoluzionari in particolare, tengono forte-
mente in considerazione proprio perché sanno che la con-
dizione per l’azione politica è essenzialmente una que-
stione di tempi e quella in particolare del rovesciamento,
è rara e difficilmente riproducibile: seize the time è la loro
stella polare. A tale determinazione non sfuggirono i bol-
scevichi e in particolare Lenin che nel formulare le «Tesi
d’aprile» al suo ritorno in Russia nel 1917 dichiarò la
ferma volontà di non fermarsi alla tappa democratica
della rivoluzione (come volevano le altre formazioni
socialiste e come del resto aveva lui stesso sostenuto sep-
pure in chiave più radicale fino ad allora con la formula
della «rivoluzione democratica degli operai e dei contadi-
ni») e di voler proseguire verso quella socialista. Una for-

11 Lev Trotsky, «Stalinizm i bol’ševizm» in Bjulleten’ Oppozitsij


(bol’ševikov-lenintsev), sett.-ott. 1937, n. 58/59, pp. 4-20.

39
zatura del processo storico della cui necessità era convin-
to del resto lo stesso Engels, proprio a bilancio della sua
riflessione pluridecennale sulla rivoluzione in Russia. In
una lettera a Vera Zasulič del 23 aprile 1885, il rivoluzio-
nario tedesco scrisse:
«Per me l’importante è che in Russia la spinta sia stata for-
nita; che la rivoluzione scoppi. Che sia una fazione piuttosto
che l’altra a darne il segnale, che essa avvenga sotto questa
o quell’altra bandiera, poco mi curo. Se si trattasse di una
congiura di palazzo, l’indomani verrebbe spazzata via. Ma
dove la situazione è così tesa, dove i fattori rivoluzionari si
sono accumulati a un tale grado, dove le condizioni econo-
miche delle gigantesche masse popolari divengono ogni
giorno meno sicure, dove tutte le fasi dell’evoluzione socia-
le sono presenti - dalla comune primitiva fino alla grande
industria e all’alta finanza - e dove questi contrasti son tenu-
ti compressi da un dispotismo senza esempio, un dispotismo
sempre più intollerabile per i giovani che rappresentano
l’intelligenza e la dignità della nazione - ivi, se è cominciato
il 1789, il 1793 non può farsi attendere a lungo»12.
Il richiamo alla contiguità delle due rivoluzioni richia-
mate nell’analogia francese mostra quanto la teoria della
rivoluzione permanente sviluppata da Trotsky (inizial-
mente con il supporto di Parvus), a partire dal 1903, si
attagliasse perfettamente alla necessità di dare un involu-
cro teorico-politico per giustificare la scelta insurreziona-
le. Secondo l’elaborazione del rivoluzionario di origine
ucraina, la rivoluzione russa sarebbe stata - vista l’incapa-
cità della borghesia nazionale a sviluppare e modernizza-
12 K. Marx-F. Engels, op. cit., p. 262.

40
re il paese - un amalgama della rivoluzione borghese e di
quella proletaria che tenesse conto delle peculiarità dello
sviluppo dello Stato russo sin dalle sue origini. Aveva
chiosato lo stesso Trotsky, a bilancio della Prima rivolu-
zione russa:
«La storia dell’economia statale russa rappresenta una cate-
na ininterrotta di sforzi eroici nel loro genere tutti intesi a
garantire i mezzi di sussistenza indispensabile all’organiz-
zazione militare. L’intero apparato governativo venne
strutturato, e di quando in quando ristrutturato nell’interes-
se dell’erario. Il compito dei governanti si riduceva nell’ap-
propriarsi di ogni minima parte del lavoro accumulato dal
popolo, e utilizzarla per i propri scopi»13.
Lenin sottolineò invece l’aspetto del carattere interna-
zionale della rivoluzione in Russia che avrebbe consenti-
to al paese rompendo «l’anello debole della catena impe-
rialistica», di non rimanere isolato e poter utilizzare il
maggiore sviluppo tecnologico e culturale dell’Europa
occidentale.

L’inevitabile rivoluzione
Era dunque possibile, grazie a una crisi internazionale
senza precedenti come quella determinata dalla Prima
guerra mondiale, iniziare un processo di transizione
socialista della Russia verso il socialismo? Si tratta di un
dibattito e una polemica che, lungo un secolo, ha riempito
scaffali di biblioteche, ed è destinato inevitabilmente a
proseguire ancora per un bel pezzo. Roy Medvedev,
13 Lev Trotsky, 1905, La Nuova Italia, Firenze 1970, pp. 16-17.

41
quando era ancora un dissidente marxista nell’Urss brez-
neviana prima di diventare in tarda età un cantore del
putinismo, scrisse un libro in cui si chiedeva se la
Rivoluzione d’Ottobre fosse stata in realtà davvero «ine-
vitabile». Ricostruendo i dilemmi del Governo provviso-
rio nelle ultime ore di potere, lo storico sovietico aveva
inquadrato la questione mettendo ben in luce come l’azio-
ne bolscevica non potesse essere definita un «golpe»:
«Il sovietologo occidentale B. Wolfe, parlando con
Kerenskij, l’ex primo ministro ormai vegliardo (visse negli
Stati Uniti fino alla morte, avvenuta sul finire degli anni
sessanta), gli rivolse questa domanda: “Perché i bolscevichi
non furono liquidati una volta che ebbero dichiarato pubbli-
camente il loro proposito di muover guerra al governo?”. E
Kerenskij rispose: “E con quali forze avrei potuto farlo?”
Secondo alcuni storici sovietici, nella sola Pietrogrado i
bolscevichi disponevano alla vigilia dell’insurrezione di
ottobre di almeno trecentomila uomini armati - operai, sol-
dati, marinai - mentre il Governo provvisorio contava su
non più di trentamila uomini. La sera del 25 ottobre, quasi
venticinquemila tra guardie rosse, soldati e marinai erano
concentrati intorno al Palazzo d’inverno, l’ultimo rifugio
del Governo provvisorio»14.
Risulta evidente, in questa sintetica ricostruzione, tra
l’altro, come nel novembre 1917 non esistesse già più a
Pietrogrado quel dualismo di poteri tra Soviet e Governo
provvisorio che aveva caratterizzato tutta la fase succes-
siva alla Rivoluzione di febbraio; ma ormai, come rara-
mente capita nella storia quando necessità e caso s’ incon-
14 Roy Medvedev, La rivoluzione russa era inevitabile?, Ed. Riuniti,
Roma 1976, pp. 53-4.

42
trano, si fosse creato un vuoto di potere, colmato dal pote-
re costituente sovietico.
La Rivoluzione d’Ottobre quindi, in tutta evidenza,
non fu un colpo di stato come si pretenderebbe da parte
liberale, ma una rivoluzione sociale vera e propria che
spodestò un governo provvisorio ancora più arbitrario, se
si vuole, di quello che gli sarebbe succeduto, cioè il
Consiglio dei commissari del popolo di Lenin. Vadim
Dam’e, un importante storico russo di formazione liberta-
ria, respinge la tesi del «putsch» e fornisce un’interpreta-
zione originale della dinamica di quella fase. Per Dam’e
nel giro di pochi mesi dall’Ottobre in poi si sarebbe rea-
lizzata una «usurpazione degli obiettivi del movimento
rivoluzionario» e un «secondo dualismo di poteri», tra il
novembre 1917 e parte del 1918, risolto poi dalla contro-
rivoluzione bolscevica15. Tuttavia ciò non spiega ancora,
se non in termini organizzativistici, l’adesione massiccia
del proletariato russo al bolscevismo e neppure perché gli
altri partiti socialisti, che erano alla testa del Governo
provvisorio, non erano stati in grado in 8 lunghi mesi né
a dare la terra ai contadini né a mettere fine alla guerra.
Colpo di stato, se si vuole usare questo termine, ci fu
invece con lo scioglimento d’imperio da parte bolscevica
dell’Assemblea costituente nel gennaio 1918: la scelta di
non dare una seconda gamba, oltre a quella sovietica, al
potere rivoluzionario accrebbe i caratteri autoritari-giaco-
bini del governo di Lenin e fu gravida di conseguenze
15 Cfr. Vadim Dam’e, Stal’noj vek. Sotsial’naja istorija sovetskogo
obščestva, Librokom, Moskva 2013.

43
allontanando definitivamente - assieme alla pace di Brest-
Litovsk, contrastata anche dai socialrivoluzionari di sini-
stra che erano entrati nel governo di Lenin, e all’esplosio-
ne della guerra civile - la possibilità di creare un governo
di coalizione che tenesse insieme tutte le forze socialiste
russe. La democrazia sovietica così restò una promessa e
sotto le sue vestigia si consolidò rapidamente la dittatura
del Partito comunista che concentrava su di sé le funzioni
di direzione politica, amministrativa ed economica del-
l’intera società. Rosa Luxemburg, che pur aveva seppur
criticamente sostenuto la rivoluzione, inutilmente mise in
guardia i bolscevichi dal mettersi sulla strada del puro
volontarismo rivoluzionario. In un articolo non destinato
alla pubblicazione, la socialista polacca annotò:
«L’unica via della rinascita: la scuola della vita pubblica
stessa, della più illimitata e larga democrazia, opinione
pubblica. È per l’appunto il regno del terrore a demoraliz-
zare. Se tutto questo cade, che rimane in effetti? Al posto
dei corpi rappresentativi usciti da elezioni popolari gene-
rali, Lenin e Trotsky hanno installato i soviet in qualità di
unica autentica rappresentanza delle masse lavoratrici.
Ma col soffocamento della vita politica in tutto il paese,
anche la vita dei soviet non potrà sfuggire a una paralisi
sempre più estesa. Senza elezioni generali, libertà di
stampa e di riunione illimitata, libera lotta d’opinione in
ogni pubblica istituzione, la vita si spegne, diventa appa-
rente e in essa l’unico elemento attivo rimane la burocra-
zia. La vita pubblica s’addormenta poco per volta, alcune
dozzine di capipartito d’inesauribile energia e animati da
un idealismo sconfinato dirigono e governano; tra questi
la guida effettiva è poi in mano a una dozzina di teste
superiori; e un’élite di operai viene di tempo in tempo

44
convocata per battere le mani ai discorsi dei capi, votare
unanimemente risoluzioni prefabbricate: in fondo dunque
un predominio di cricche, una dittatura, certo; non la dit-
tatura del proletariato, tuttavia, ma la dittatura di un
pugno di politici, vale a dire dittatura nel senso borghese,
nel senso del dominio giacobino (il rinvio dei congressi
dei soviet da tre a sei mesi!). E poi ancora: una tale situa-
zione è fatale che maturi un imbarbarimento della vita
pubblica, attentati, fucilazioni di ostaggi ecc.»16.
Una critica puntuale che non a caso nella RDT si dovrà
attendere i primi anni ’70 per vederla pubblicata mentre in
Urss la sua traduzione arriverà solo all’epoca della
Perestrojka17. Rosa Luxemburg, essendo nata nella
Polonia ancora dominata dallo zarismo e parlando quindi
russo fluentemente era colei che nel movimento operaio
occidentale meglio poteva comprendere le dinamiche della
rivoluzione in quel paese. Allo stesso tempo però non intuì
alcuni suoi caratteri intimamente nazionali e in primo
luogo il carattere direttamente politico della lotta in Russia.
La Russia in quanto entità nazionale è esistita ed è in certo
senso concepibile solo in quanto Stato, fu da un impulso
centralistico che si diffuse la Rus’. Le stesse rivolte egua-
litarie come quelle di Sten’ka Razin o di Ėmel’jan Pugacëv
non prevedevano nessuna mediazione politica: partivano
da una qualche periferia dell’Impero ponendosi il compito
di andare a conquistare il centro. I cosiddetti corpi interme-

16 Rosa Luxemburg, La Rivoluzione russa (e «La tragedia russa»), a


cura di Roberto Massari, Massari ed., Bolsena 2004, pp. 83-4.
17 A tale proposito si veda il nostro «L’utopia socialista di Rosa “La
Rossa”», in Left, n.1, 19 gennaio 2019.

45
di in Russia nascono tardi e come ricaduta delle dinamiche
occidentali. E ciò spiega, almeno in parte, la svolta terrori-
stica del movimento giovanile populista dopo la fallimen-
tare «andata al popolo» degli anni Sessanta del XIX (che
avrà delle sorprendenti analogie con i movimenti giovanili
occidentali del ‘68). Questa nostra affermazione è avvalo-
rata dal fatto che all’interno dello sviluppo del movimento
operaio russo, le organizzazioni tradeunionistiche giocaro-
no un ruolo assolutamente marginale. Basti pensare che tra
i primi sindacati creati in Russia ci furono quelli organiz-
zati da Sergej Zubatov e dal Pope Gapon, due agenti
dell’Ochrana, mentre successivamente in Urss le trade-
unions avranno sin da subito un ruolo di organizzatori
sociali e della produzione, ma non rivendicativo. Che si
prenda a modello la battaglia politica per mezzo del partito
leninista o quella consiliarista del Trotsky del 1905, anche
la lotta socialista rivoluzionaria in Russia fu sempre imme-
diatamente politica, fu lotta immediata per il potere centra-
le. Ed è solo grazie al punto d’appoggio del proletariato di
fabbrica (che rappresentava il 2-3% del complesso della
società russa di allora) che si presenterà subito come
metropolitana e quindi immediatamente insurrezionale:
una caratteristica, la lotta immediatamente politica tutta
russa, che si è protratta fino ai giorni nostri18.
Con lo svolgimento della guerra civile imposta dalle
bande bianche e dall’aggressione di 14 Stati capitalistici,
18 Caratteristiche simili si possono cogliere nella lotta delle opposi-
zioni a Stalin, nella dinamica del 1991 che porta al crollo dell’Urss,
nella crisi del 1993 alla Casa Bianca e più recentemente nelle manife-
stazioni pro-Naval’nij.

46
il Partito comunista finì col permeare ogni aspetto della
vita politica e sociale del paese.
«A tutti è noto - disse Grigorij Zinov’ev nel 1919 - e non è
un segreto per nessuno, che la direzione di fatto del potere
sovietico è del Comitato centrale del Partito».
Il mancato appuntamento con la democrazia dei
soviet, allo stesso tempo, non può essere rimandato solo
alla disintegrazione della classe operaia rivoluzionaria
durante la guerra civile del 1918-1921, al sostituzionismo
come è stato spesso invocato da molta letteratura del
marxismo antistalinista19.
Le strutture sovietiche di base si dimostrarono incapa-
ci di svolgere quei compiti di gestione e organizzazione
economica che le erano stati affidati e la tendenza all’au-
togestione operaia, seppur ben presente nelle aspirazioni
dei lavoratori, si dimostrò troppo debole per impedire che
la tendenza alla burocratizzazione avesse la meglio.
Come è stato ben messo in luce dallo studio di Simon
Pirani, The Russian Revolution in retreat20, sull’onda del-
l’amministrativismo e della prima «vertigine del succes-
so» di cui fu proprio Trotsky la vittima più in vista, il
Partito comunista operò sistematicamente sulla realtà di
Mosca, tra il 1920 e il 1924, per soffocare, limitare, con-
trollare qualsivoglia dialettica interna ai soviet. Così alla
metà degli anni Venti gli operai avevano ormai perso defi-
19 Come per esempio in Tony Cliff, Lenin. Building the party, Pluto
Press, London 1975.
20 Simon Pirani, The Russian Revolution in retreat, 1920-24: Soviet
workers and the new Communist elite, Routledge, London 2008.

47
nitivamente il diritto di scioperare e la possibilità di svol-
gere un qualsivoglia ruolo politico autonomo in Russia21.
Al tramonto poi di ogni ipotesi di rivoluzione mondia-
le, dopo l’aborto della rivoluzione in Germania e la scon-
fitta del tentativo di esportazione della rivoluzione sulla
punta delle baionette dell’Armata rossa alle porte di
Varsavia, i bolscevichi poterono consolarsi dando vita, il
30 dicembre del 1922, all’Unione Sovietica.
L’Unione nacque in modo confuso. Le Repubbliche che
l’andavano a fondare erano la bielorussa, l’ucraina, la russa
e la transcaucasica (formata da Armenia, Azerbaigian,
Georgia e nazionalità minori come il Dagestan ecc.).
L’omogeneizzazione era avvenuta sulla base della neces-
sità del governo sovietico di definire dei propri «confini
naturali» che riproducessero per quanto possibile, dopo la
pace di Brest-Litovsk, quelli dell’Impero zarista. Per far ciò
i bolscevichi dovettero mettere a tacere tutte le realtà che si
non conformavano, conducendo una guerra spietata non
solo contro la machnovščina, ma anche contro il movimen-
to menscevico - da sempre egemone nel movimento ope-
raio nelle regioni meridionali - rovesciandone i governi che
questi cercarono di agglutinare in Azerbaigian, Bielorussia
e Ucraina. Malgrado ciò, la formazione dell’Urss dava per
la prima volta nella storia la possibilità all’Ucraina di strut-
turarsi come repubblica autonoma (nell’Impero zarista era
considerata un semplice Territorio) e la possibilità formale
- malgrado le spinte russocentriche già ben presenti sin
21 I caratteri giacobini e autoritari del leninismo sono ben sintetizzati
in Roberto Massari, Lenin e l’Antirivoluzione russa, Massari Ed.,
Bolsena 2018.

48
dagli esordi di Stalin - di secessione. Successivamente con
l’integrazione delle realtà del Centro Asia si andò a com-
porre, almeno fino al Patto Ribbentrop-Molotov, una realtà
composita in cui il ruolo mediatore della cultura e della lin-
gua russa svolse un ruolo relativamente progressivo, spin-
gendo nella contemporaneità delle realtà che spesso si tro-
vavano ancora completamente immerse nell’universo della
pastorizia e del nomadismo.
La fine della Guerra civile segnò anche la fine del pre-
cario sostegno dell’enorme massa contadina al potere bol-
scevico. Mentre la classe operaia russa anelava all’egua-
litarismo, tra la massa contadina emerse un’insopprimibi-
le spinta all’individualismo. Paradossalmente, come ha
scritto Isaac Deutscher, il carattere duplice e permanente
della rivoluzione russa divenne allora fonte della sua
debolezza, «perché esso causò una lunga serie di crisi che
non potevano essere risolte con i normali metodi dell’arte
di governo, compromessi o manovre politiche»22. Proprio
perché mancavano i presupposti interni della trasforma-
zione socialista, sottolineò lo storico polacco:
«Marx parla dell’embrione del socialismo che cresce e matu-
ra nel grembo della società borghese. Si può dire che in
Russia la rivoluzione socialista avvenne a uno stadio molto
precoce della gestazione, molto prima che l’embrione avesse
avuto il tempo di svilupparsi. Non venne alla luce un nato
morto, ma nemmeno il corpo vitale del socialismo»23.

22 Isaac Deutscher, La rivoluzione incompiuta (1917-1967), Rizzoli,


Milano 1980, p. 70.
23 Ibidem, p. 72.

49
Per usare la metafora di Deutscher, attraverso il forci-
pe bolscevico venne portato al mondo un bimbo prematu-
ro che si dimostrò incapace di crescere vigoroso, un
Frankenstein destinato sin da subito ad avere vita incerta.
La frattura del Partito comunista con il mondo rurale già
emersa in Ucraina con il movimento «verde» delle comuni
libertarie di Nestor Machno durante la Guerra civile, esplo-
se nella rivolta di Kronštadt24 dove gli insorti reclamavano
«soviet senza bolscevichi» e in maniera ancora più flagran-
te per certi versi, nell’insurrezione contadina di Tambov.
Qui all’Armata rossa guidata dal generale Michail
Tuchačevskij, giunta a schiacciare il tumulto, nell’aprile
del 1921 si contrapposero le formazioni partigiane dirette
dal socialrivoluzionario Aleksandr Antonov. Fu uno scon-
tro campale che vide di fronte due eserciti, composti com-
plessivamente da oltre 100mila uomini. Per comprendere le
difficoltà dei bolscevichi a sconfiggere la rivolta basti pen-
sare che malgrado la netta preponderanza nel campo del-
l’artiglieria e il dominio assoluto nei cieli, Tuchačevskij
non fu in grado di adempiere all’ordine giunto dal centro di
stroncarla entro un mese: i combattimenti proseguirono
sino alla fine dell’estate provocando oltre 20mila vittime,
tra cui molti civili. Forme sparse di guerriglia nella regione
proseguirono poi sino alla fine del 192225. Dopo di allora,
lo Stato sovietico non riuscì più a rinsaldare i rapporti con

24 Per una ricostruzione dettagliata degli avvenimenti della rivolta si


veda Paul Avrich Kronštadt, 1921, Mondadori Milano, 1971 che sim-
patizza apertamente per i rivoltosi, ma tiene conto delle motivazioni
dei repressori.
25 Su questa vicenda si veda Erik C. Landis, Bandits and partisans:

50
il mondo rurale: dopo l’avventuristica «dekulalizzazione»
(che in realtà coinvolse anche i contadini «medi») e le care-
stie degli anni Trenta, e dopo il semifallimentare dissoda-
mento delle terre vergini negli anni ‘50, le gigantesche
importazioni di grano degli anni ’70, all’imbrunire della
Perestrojka, nell’inverno del 1990 - testimonianza della
definitiva bancarotta della politica agraria sovietica - repar-
ti di soldati dell’Armata rossa verranno spediti nelle cam-
pagne fuori Mosca a raccogliere le patate per sfamare una
popolazione urbana nuovamente allo stremo delle forze.

Una dittatura di partito


La repressione di tutte le tendenze politiche, comprese
quelle che si erano battute contro le armate bianche,
decretò il passaggio del bolscevismo da una dittatura giu-
stificata con la necessità di stroncare la controrivoluzione,
all’aperto dominio su tutta la società civile. La decisione
di vietare le tendenze e le frazioni all’interno del Partito
stesso, approvata durante il X Congresso del marzo 1921
- in cui erano emerse le opposizioni consiliariste di
Aleksandra Kollontaj e di Timofej Sapronov26 - sanzionò

The Antonov movement in the Russian Civil War; University of


Pittsburgh Press, Series in Russian and East European studies,
Pittsburgh 2008, e soprattutto Aa.Vv. Krest’janskoe vosstanie v
Tambovskoj gubernii v 1919-1921 gg., «Antonovščina»: dokumenty i
materialy, Redaktsonno-izdaltel’skij Otdel, Tambov, 1994.
26 Per una panoramica delle opposizioni comuniste nei primi anni
del potere sovietico resta imprescindibile, ma da aggiornare all’apertu-
ra degli archivi russi dopo il 1989, Robert V. Daniels, La coscienza
della rivoluzione, Sansoni, Firenz, 1970, oltre a L’opposizione operaia

51
GRAFICO 1. Illustra la cosiddetta «crisi delle forbici» del 1923,
mostrando la curva degli indici dei prezzi all’ingrosso tra il 1922 e il
1925, facendo 100 l’anno 1913.

definitivamente
la fine di ogni
dialettica anche
nei soviet: da
allora, questi di-
verranno un’ap-
pendice inerte
della dittatura di
partito.
Come aveva
previsto Engels,
la Russia aveva
avuto il suo
1789 e il suo
1793, ma queste
vittorie erano
state pagate a un
prezzo salatissi-
mo che rimette-
va in discussione
gli stessi presup-
posti della rivoluzione. Ancora ha sottolineato Deutscher:
«C’era dunque un elemento di tragedia nelle fortune dei
bolscevichi: tutta la loro profonda e acuta consapevolezza
in Russia (Rabočaja Oppositsija), Azione Comune, Milano 1962, e il
nostro «Sapronov and the Russian Revolution», in International
Socialist Review, n. 103, 2019.

52
del pericolo non li salvò da esso; e tutto il loro odio per la
corruzione non impedì che essi stessi ne fossero vittime»27.
La soluzione contingente della Nuova politica economi-
ca (Nep) ideata da Lenin (il quale candidamente riconobbe
almeno per quella fase le qualità del mercato), per acquie-
tare la rabbia delle campagne e ridare fiato all’economia,
aiuta a superare la «crisi delle forbici» (vedi il Grafico n.1)
ma rimanda solo per poco il problema del rapporto con i
contadini e più in generale con il commercio privato.
Il «capitalismo sorvegliato» ipotizzato da Lenin si
dimostra di difficile realizzazione per suo stesso ricono-
scimento:
«Dobbiamo ormai confessarlo se non vogliamo passare per
gente che non sa riconoscere le proprie sconfitte, se non
abbiamo paura di guardare in faccia il pericolo. Dobbiamo
confessare che la nostra ritirata non è bastata, che è indi-
spensabile ritirarci ancora, fare un ulteriore passo indietro,
passando dal capitalismo di stato alla regolamentazione sta-
tale della compravendita e della circolazione monetaria. Lo
scambio di merci non ha funzionato; il mercato privato si è
mostrato più forte di noi; anziché sviluppare lo scambio
delle merci, abbiamo ricreato i normali processi di compra-
vendita, il commercio normale»28.
Con la morte di Lenin nel gennaio del 1924 divenne
acuto lo scontro all’interno del partito per la sua succes-
sione che già era emerso l’anno precedente. Il carattere
carismatico della leadership bolscevica, l’affievolimento
27 Isaac Deutscher, op. cit., p. 86.
28 Vladimir Lenin, «Mysli nasčet “plana” gosudarstvennogo
chozjajstva», in Polnoe sobranie sočinenij, 5ª ed., XLIV, Politizdat,
Moskva 1974, pp. 63-5.

53
della dialettica interna, resero lo scontro particolarmente
cruento. Così mentre Trotsky, che si considerava l’erede
naturale di Lenin ma che era rimasto comunque un corpo
estraneo al partito, si muoveva in modo confuso agitando
la questione della democrazia interna (ma non di quella
dei soviet), Stalin riuscì attraverso il controllo dell’appa-
rato burocratico, e grazie a un abile divide et impera, ad
avere agevolmente la meglio prima su Kamenev e
Zinov’ev, poi su lo stesso Trotsky e infine su Bucharin.
Sarebbe sbagliato però intendere la battaglia per la suc-
cessione semplicemente come una lotta per il potere.
Alcuni aspetti della questione (le spinte al nazionalismo
grande-russo e alla burocratizzazione di Stalin) sono stati
ben messi in luce da Moshe Lewin ne L’Ultima battaglia
di Lenin29, ma era l’intera prospettiva internazionalistica
in cui si era mossa la Rivoluzione russa ad essere messa in
discussione. All’interno del gruppo dirigente comunista
era cresciuta sempre di più l’inquietudine dopo che il ten-
tativo di dare fuoco alla prateria del capitalismo occiden-
tale (ma anche alla variante orientale agitata a Baku nel
1920)30 era sostanzialmente fallito. Si trattò inizialmente
della polemica su «socialismo in un paese solo o rivoluzio-
29 Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari/Roma
1969.
30 Gli atti della Congresso dell’Internazionale comunista dei popoli
d’oriente è contenuta integralmente in John Riddell (a cura di), To see
the dawn. Baku 1920: First Congress of the Peoples of the East,
Pathfinder, New York 1993; il complesso del dibattito sulla rivoluzio-
ne in Oriente è riassunto e antologizzato in John Riddell-Nazeef
Mollah-Vijay Prashad, Liberate the colonies! Communism and colo-
nial freedom 1917-1924, Leftword Books, New Delhi 2019.

54
ne permanente», tra Stalin e Trotsky, ma che ben presto
tracimò nella discussione sui tempi e i metodi dell’indu-
strializzazione del paese. Il leader georgiano, con l’aiuto di
Bucharin che in precedenza era stato all’estrema sinistra
del partito, sostenne l’idea di un socialismo nazionale che
potesse far leva sulle dimensioni e le risorse del paese.
Trotsky sostenne in seguito che l’ascesa di Stalin era il
prodotto della crescita di uno strato di una burocrazia pri-
vilegiata dentro un quadro di penuria. In realtà tutto ciò si
era iniziato a costituire già nell’«epoca aurea» leniniana
quando anche Trotsky era al potere.

Piano più mercato


In realtà Trotsky non rimase rigidamente legato alle
sue ipotesi originarie come una certa vulgata degli epigo-
ni ha cercato di sostenere e non fu esente da quegli zig-
zag di cui accusava il suo principale avversario.
Nel suo rapporto sulla Nep al IV Congresso dell’Inter-
nazionale comunista, nel novembre 1922, dimostrando di
aver aderito con convinzione al nuovo corso economico,
Trotsky sostenne che
«sconfiggendo la borghesia nel campo della politica e della
guerra, abbiamo ottenuto la possibilità di fare i conti con la
vita economica e ci siamo trovati vincolati a reintrodurre
forme di mercato tra città e campagna, tra i diversi rami
dell’industria e tra singole imprese»31.

31 Vedi Lev Trotsky, Novaja ėkonomičeskaja politika sovetskoj ros-


sii i perspektivy mirovoj revoljutsii, Moskovskij Rabočij, Moskva
1923, p. 31.

55
Non si trattava forse di un’adesione alle tesi sul «ruolo
taumaturgico» del mercato, ma perlomeno a quella di
«regolatore». Questa politica di ripristino delle relazioni
di mercato, tuttavia, non era dettata semplicemente dalla
necessità di soddisfare i bisogni dei contadini.
«La Nuova politica economica non deriva esclusivamente
dalle interrelazioni tra la città e il villaggio. Questa politica
è una tappa necessaria nella crescita dell’industria statale…
Prima che ogni impresa possa funzionare pienamente come
cellula componente dell’organismo socialista, dovremo
impegnarci in attività di transizione su larga scala per far
funzionare l’economia attraverso il mercato per un periodo
di molti anni… Solo in questo modo l’industria nazionaliz-
zata imparerà a funzionare correttamente. Non c’è altro
modo per raggiungere questo obiettivo. Né i piani economi-
ci a priori ordinati all’interno delle quattro mura ermetica-
mente chiuse degli uffici, né i sermoni comunisti astratti ce
la assicureranno»32 (corsivo nostro).
Trotsky aggiungeva che i bolscevichi non hanno
«rinunciato all’economia pianificata in toto, cioè a intro-
durre correzioni deliberate e imperative nelle operazioni
di mercato»33.
«Ma così facendo - sottolineava sempre il capo dell’Armata
rossa - il nostro Stato non prende come punto di partenza
un calcolo a priori, o un’ipotesi di piano astratta ed estre-
mamente inesatta, come era il caso del comunismo di guer-
ra. Il suo punto di partenza è l’effettivo funzionamento di
questo stesso mercato»34.

32 Ibidem, p. 34.
33 Ibid., p. 35.
34 Ibid., p. 36.

56
Un’impostazione dinamica e pragmatica che negava,
al contrario, l’idea del ruolo taumaturgico del piano, rias-
sunta del resto già da Lenin quando aveva affermato che
un piano completo e integrato fosse per la Russia «un’u-
topia burocratica»35.
A partire dal 1925, però, l’ex capo dell’Armata rossa
rimise in discussione queste tesi e iniziò a sostenere l’idea
di una rapida industrializzazione e contemporanea collet-
tivizzazione delle campagne che inevitabilmente conduce-
va alla chiusura della Nep, del capitalismo mercantilistico
urbano e alla statalizzazione integrale dell’economia.
Rifiutando formalmente l’ipotesi di una Unione Sovietica
arroccata e senza legami economici verso Occidente e
autarchica, Trotsky giungeva a sostenere in quella fase che
sviluppando il commercio estero con l’Occidente,
l’Unione Sovietica sarebbe avanzata tecnologicamente,
sarebbe stata in grado di industrializzarsi più rapidamente
e diventare forte militarmente, anche prima della rivolu-
zione socialista internazionale. Per avere successo il socia-
lismo doveva raggiungere una maggiore produttività del
lavoro rispetto al capitalismo, ma ciò era impossibile se
fosse rimasta isolata. «Conosciamo la legge fondamentale
della storia - aggiungeva ancora Trotsky - alla fine vincerà
quel regime che assicura alla società umana uno standard
economico più elevato»: una tesi, per ironia della storia,
per certi versi simile a quella del «disgelo» e della «com-
petizione pacifica» sostenuta da Chruščëv trent’anni dopo!

35 Per una disamina del dibattito sull’economia sovietica della Nep,


seguita alla morte di Lenin, restano imprescindibili i volumi di Edward

57
Benché lo scontro politico (e personale) abbia finito
con l’enfatizzare le differenze fra Trotsky e Bucharin, le
distanze reali tra i due rivoluzionari non erano così grandi
come per un certo periodo di tempo si è stati usi pensare.
Lo ha notato Francesco Benvenuti molti anni fa introdu-
cendo una raccolta di scritti proprio di Bucharin:
«È stata gettata una luce nuova sul dibattito economico tra
destra e sinistra [del Partito bolscevico], confermando che
verso la fine della Nep molti dei dissensi di principio tra le
due “scuole” erano di fatto venuti meno. La lotta politica, nel
senso più deteriore del termine, giocò certamente un terribile
tiro ai contendenti, che non furono in grado di accorgersi
della graduale crescita del vero avversario di entrambe»36.
A partire dal 1926 Bucharin, del resto, aveva iniziato
un lento spostamento verso «sinistra», dando una sempre
maggiore importanza allo sviluppo dell’industria.
Sebbene rimanesse un appassionato sostenitore del siste-
ma della Nep, Bucharin iniziò a chiedere maggiori inve-
stimenti nelle industrie dei beni di consumo.
«È assolutamente chiaro che la nostra industria socialista
dovrebbe crescere non solo a scapito di ciò che è prodotto
dalla classe operaia all’interno dell’industria statale stessa,

H. Carr, La morte di Lenin. L’interregno (1922-1923), Einaudi, Torino


1965 e Il socialismo in un paese solo II. La politica estera (1924-
1926), Einaudi Torino 1969. Per la posizione di Trotsky su Nep e indu-
strializzazione è utilissimo Richard B. Day, Leon Trotsky and the poli-
tics of economic isolation, Cambridge University Press, Cambridge
1973.
36 Francesco Benvenuti, Introduzione a Nikolaj Ivanovič Bucharin,
Le vie della rivoluzione 1925-1936, Ed. Riuniti, Roma 1980, p. 25.

58
ma anche che dobbiamo pompare risorse dal serbatoio non
industriale nell’industria, inclusi alcuni mezzi che devono
essere presi dall’economia contadina»37.
Che la pianificazione dovesse essere accompagnata
dal mercato agli esordi del potere sovietico del resto non
ne dubitava nessuno.
Ecco cosa disse, ad esempio, alla riunione del
Presidium del Piano di Stato il 21 novembre 1923
Vladimir Bazarov uno dei principali dirigenti del Gosplan:
«I prerequisiti di base per la Nep, cioè l’esistenza di un
mercato e la contabilità dei costi, sono i presupposti per
ogni possibile pianificazione... Solo il mercato consente
nelle condizioni attuali di creare un controllo automatico
sulla correttezza di tutte le azioni»38.
Ed ecco cosa affermò Nikolaj Kondratev, il celebre
ideatore della teoria delle «onde lunghe del capitalismo»,
sempre nello stesso periodo:
«Il mercato e i prezzi sono senza dubbio un prerequisito
per la costruzione di un piano, se non altro perché altri-
menti si perde ogni possibilità di confrontare i fenomeni
economici»39.
Sarebbe un grave errore però pensare che l’ascesa di
Stalin e la sconfitta di Trotsky e dell’Opposizione unificata
vada spiegata solo con le indubbie capacità d’intrigo del
leader georgiano: la sua vittoria nella battaglia interna fu

37 N. Bucharin, ibid., p. 52.


38 Citato in Andrej Kolganov, Put’k sotsializmu: projdennyj i
neprojdennyj. Ot Oktjabr’skoj revoljutsii k tupiku «perestrojki»,
Lenand, Moskva 2018, p. 71.
39 Ibidem, p. 71.

59
garantita anche dal suo fiuto nel cogliere sentimenti e
aspettative di stabilizzazione, dopo molti anni di tumulti,
che covavano in profondità nella società sovietica. Fino
all’inizio della collettivizzazione delle campagne si assi-
stette all’ombra dello sviluppo di un fiorente capitalismo
commerciale urbano e a una tregua armata tra contadini e
classe operaia supervisionata politicamente dalla direzione
del partito rappresentata da Stalin-Bucharin. Questa dire-
zione si sosteneva su un semplice dilemma cui nessuna
opposizione poté dare una seria risposta: se non è possibile
costruire il socialismo qui ed ora, su quale base si giustifi-
ca il monopolio del potere politico del Partito comunista?
Non a caso l’emarginazione della corrente bucharinia-
na e la svolta da parte di Stalin verso un’industrializzazio-
ne e la collettivizzazione delle campagne a tappe forzate,
fu centrata sul timore che l’approfondimento della Nep
avrebbe messo in discussione il ruolo del partito nella
società e posto in allarme un proletariato urbano che ini-
ziava a dar segni di insofferenza verso i nepmen.
La burocrazia amministrativa e di partito divenne il
motore della creazione di uno Stato di tipo inedito e insta-
bile in cui via via, assieme al richiamo della tradizione
socialista si aggiunse quello nazionalista grande-russo, con
la riproposizione di tutte le espressioni più conservatrici
della gerarchia sociale di classe: da quelle nell’esercito fino
a quelle nei rapporti di genere che la rivoluzione aveva
rimesso inizialmente e fragorosamente in discussione.
Recentemente, in una intervista concessa a chi scrive,
Tariq Ali ha sostenuto che un compromesso tra le tesi di
Trotsky e quelle di Bucharin avrebbe permesso all’Urss di

60
evitare il dispotismo staliniano40. Si tratta di un’ipotesi
che non decollò mai, anche a causa delle idiosincrasie
caratteriali dei due leader comunisti, ma che a distanza di
tempo non può non avere un certo fascino.
Boris Nikolaevskij, un vecchio menscevico in esilio, nel
1936 a Copenhagen, a margine di una trattativa per l’acqui-
sto di manoscritti di Marx, poté discutere con Bucharin
quando la situazione del «pupillo del partito» - come lo
definì Lenin - era già precaria al Cremlino. Bucharin allora
ebbe quasi parole commosse nei confronti dell’ex capo
dell’Armata rossa, secondo quanto riferì Nikolaevskij.
«Quando eravamo a Copenhagen, Bucharin segnalò che
Trotsky viveva relativamente vicino, a Oslo. Facendo l’oc-
chiolino, disse: “Supponiamo che prendessimo questo
baule [contenente i manoscritti di Marx] e andassimo a tro-
vare Trotsky per un giorno”. E continuò: “Inutile dire che
io e lui abbiamo litigato molto, ma questo non m’impedisce
di considerarlo con grande rispetto»41.
Naturalmente non se ne fece nulla, e pochi mesi dopo
Bucharin finirà in prima fila sul banco degli imputati nei
processi di Mosca. Tuttavia, già dal 1932 c’era chi come
Martem’jan Rjutin, un suo stretto collaboratore fino all’e-
marginazione seguita alla svolta superindustrialistica sta-
liniana, che lavorava al rovesciamento di Stalin su una
piattaforma che unisse tutti gli antistalinisti del partito
sulla base di una sintesi delle posizioni dei due capi bol-

40 Vedi la nostra intervista a Tariq Ali, «Certezze e dilemmi», in


Alias n. 16, 18 aprile 2020.
41 Boris Nikolaevsky, Power and the Soviet elite. The letter of an old
Bolshevik, and other essays, Praeger Publications, Wetport 1965.

61
scevichi caduti in disgrazia. Si trattava essenzialmente
dell’ipotesi, affascinante, di coniugare il ritorno al pro-
gramma economico buchariniano del «socialismo a passo
di lumaca» con la ripresa della tradizione democratica nel
partito della «piattaforma dei 46» fatta baluginare da
Trotsky nel 192342.

Lo stalinismo: un’alleanza spuria e instabile


Il socialista rivoluzionario di destra Fëdor Stepun,
scrisse nel 1929 «che la strada percorsa dal bolscevismo
è terribile, ma chissà se la storia avrebbe potuto dare una
strada diversa alla vittoria rivoluzionaria sulla vecchia
Russia». Ma quali strade avrebbe battuto l’Urss negli anni
Trenta non lo potevano immaginare ancora né Stepun e
neppure lo stesso Stalin. Molti dei sostenitori di Trotsky
della prima ora, come Preobraženskij e Radek, furono
conquistati al programma economico di Stalin. Jurij
Pjatakov, presidente della Banca di Stato e, in precedenza,
stretto collaboratore del fondatore dell’Armata rossa,
dichiarò in un veemente discorso al Consiglio dei
Commissari del Popolo tenuto nell’ottobre del 1929 che
era «giunto il momento eroico della costruzione sociali-
sta», mentre altri come Zinov’ev, Kamenev, Radek,
Bucharin, si limitarono a subire la svolta mestamente.
Stalin impresse un’accelerazione definitiva nell’unico
modo in cui si poteva tenere in piedi il progetto di «socia-
lismo in un paese solo». Come ha sintetizzato Kolganov:
42 Un’ampia biografia e un’antologia di scritti di questo dirigente
bolscevico si possono trovare in Martem’jan Rjutin, Na koleni ne vsta-
nu, Politizdat, Moskva 1992.

62
«Poiché la modernizzazione puramente borghese in Urss
non era più possibile e l’iniziativa socialista della classe
operaia, con un occhio alla rivoluzione socialista interna-
zionale, era, per usare un eufemismo, un ideale sfuggente,
tra l’altro categoricamente rifiutata dal pragmatismo buro-
cratico, Stalin fece quella che per lui era l’unica scelta pos-
sibile. La scelta fu questa: industrializzazione sulla base
dell’accentramento burocratico dell’economia, allontanan-
do la classe operaia dalle leve reali del potere politico ed
economico, ma garantendole però alcuni privilegi sociali,
ed espropriando non solo la classe capitalistica, ma anche
la piccola borghesia e i contadini pre-borghesi»43.
Sarà in questo quadro che si forgerà un’alleanza spu-
ria, instabile, armata e assolutamente imprevedibile tra
lavoratori dell’industria e burocrazia sovietica che durerà
fino alla morte di Stalin. L’esistenza di tale alleanza, al di
là delle contingenze e fasi diverse che si susseguirono
nella storia del paese, è anche in grado di spiegare perché
in Urss l’alternativa della rivoluzione antiburocratica non
decollò mai, neppure nell’era della Perestrojka, quando
teoricamente le condizioni «obbiettive» - l’esistenza di
una classe di lavoratori estesa e altamente scolarizzata -
avrebbero a quel punto potuto essere ideali.
Nel giro di pochi anni il paese fu trascinato nella
modernità con un’industrializzazione a tappe forzate che
forgiò l’homo sovieticus. Un’intera nuova generazione di
operai, tecnici e ingegneri si avviarono, con ingenuo entu-
siasmo, verso gli angoli più sperduti del paese per portare
a compimento l’esperimento socialista, costruendo dal

43 Andrej Kolganov, op. cit., p. 380.

63
nulla centinaia di nuovi impianti industriali e di infrastrut-
ture. L’intima contraddittorietà del processo è stata anche
sottolineata da un autore non certo accusabile di simpatie
per l’Urss:
«La modernizzazione sovietica fu quindi un processo sui
generis, che non è semplice inquadrare nelle categorie tra-
dizionali. La sua specificità fu presentata dalla propaganda
del regime come conseguenza del tentativo di costruire un
sistema diverso, il socialismo, e in ciò vi era del vero. Resta
però il problema della contraddizione, profonda, tra quel
socialismo e la carica umana e ideale assunta dal termine
nell’Ottocento: tenendone conto, si potrebbe dire che in
Urss fu costruito allora un “socialismo antisocialista”»44.
I sentimenti e le idee di quell’epoca sono stati raccon-
tati dal generale Pëtr Grigorenko (poi divenuto uno degli
esponenti più in vista del dissenso del secondo dopoguer-
ra) nelle sue memorie in pagine indimenticabili:
«Il pane scarseggiava, si faceva la coda, carestia e raziona-
mento erano appena dietro l’angolo, eppure ci lasciavamo
trascinare da Stalin [dal suo messaggio] e ci rallegravamo:
“Sì, davvero un grande cambiamento, l’eliminazione delle
piccole proprietà contadine, la distruzione del suolo stesso
da cui potrebbe risorgere il capitalismo. Provino ad attac-
carci adesso, gli squali imperialisti! Noi siamo sulla giusta
via che porta al trionfo del socialismo”»45.
Un entusiasmo ingenuo ma genuino, che rappresenta
per molti versi qualcosa di unico nella storia dei processi di
accumulazione moderni. La crescita economica del Pil tra
44 A. Graziosi, op. cit., p. 364.
45 Pëtr Grigorenko, Memoirs, Harviss Press, London 1983, p. 28.

64
il 1929 e il 1940 che ne derivò secondo le stime di Angus
Maddison fu rapida ma non straordinaria (+5,8%), anche se
le infrastrutture e l’apparato industriale costruite negli anni
’30 saranno la piattaforma su cui si costituirà l’ulteriore
«balzo in avanti» degli anni ’50 e ’60 (v. Tabella n. 1). Una
complessa dinamica spiegata dal già citato Kalgonov:
«L’apparato del potere sovietico - sia politico, economico e
militare - funzionava con il sostegno dell’attività di massa
dei normali lavoratori e impiegati. Inoltre, senza un suppor-
to così massiccio, questo apparato non sarebbe stato in
grado di far fronte ai compiti assegnatigli.
Senza l’iniziativa sociale delle classi subalterne, non
sarebbero stati possibili né la vittoria nella guerra civile né
il funzionamento dell’economia nelle condizioni di guerra.
Malgrado le violente rotture delle campagne repressive la
struttura di partito e amministrativa di Stato non poteva muta-
re l’ideologia su cui si era costituita come si cambia un abito
e quindi, da un lato, cercò di emanciparsi dal controllo dal
basso e, dall’altro, fu costretta ad ammettere e persino a svi-
luppare alcune forme di tale controllo come mezzo per
aumentare l’efficienza della gestione del sistema stesso.
Infine, anche se posso affermare il graduale venir meno del
ruolo dell’iniziativa operaia e dell’autogoverno operaio, la
creatività sociale delle masse è rimasta a lungo il fattore più
!
"#$%&'&! ()*+,()-.! ()-.,()/.! ()/.,()0.! ()0.,()1.! ()1.,()1/! ()1/,()+.! ()+.,()+/!
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786%9#!
"&6&28:%&;#! *3(4! ,.3+4! (3+4! (354! .3)4! .3+4! .3)4!
= 22
TABELLA 1. Tassi di crescita economica e della popolazione in Urss tra
il 1928 e il 1985. Tratto da Angus Maddison, The world economy:
historical statistics (OECD Development Centre, Paris 2004)

65
importante nello sviluppo della società sovietica, che si mani-
festò chiaramente nel Primo piano quinquennale e durante la
Grande guerra patriottica, e non scomparvero del tutto negli
ultimi tempi, anche nell’era della “stagnazione”»46.
Tale contraddizione poté essere risolta solo con un
trauma politico determinato dal mutamento completo nella
rete delle relazioni economico-sociali mondiali, alla fine
XX secolo, con la crisi definitiva del modello fordista e la
nuova fase della globalizzazione capitalistica.
Mentre adempiva ai compiti dell’industrializzazione del
paese, con la collettivizzazione forzata dell’agricoltura il
regime sovietico privò milioni di contadini della terra e dei
frutti che una dozzina di anni prima gli aveva esso stesso
riconosciuto, imponendo il passaggio attraverso una babele
di requisizioni forzate, repressioni e carestie, particolar-
mente tragiche in Ucraina dove la resistenza fu più tenace.
L’instaurazione di decine di campi di lavoro forzato per
detenuti politici e comuni in tutto il paese - divenuto poi
tristemente celebre con il suo acronimo GULag - rese pos-
sibile la costruzione di infrastrutture portentose (in alcuni
casi dimostratesi però inutili come quella del canale del
mar Bianco) e lo sfruttamento delle risorse naturali in
alcune delle zone più inospitali del pianeta. Solo per fare
un esempio, in uno dei lager più famosi - quello di
Vorkuta, alla latitudine più a nord di tutta l’Europa dove le
temperature d’inverno raggiungono i -50 gradi e non ci
sono più di 2 ore di luce al giorno - grazie al lavoro schia-
vistico, a partire dal 1930 venne resa possibile l’estrazione
46 A. Kolganov, op. cit., p. 40.

66
di carbone di altissima qualità utilizzabile nella metallur-
gia. Laddove persino l’autocrazia zarista, che per prima
aveva colto le potenzialità estrattive della regione, si era
ritratta spaventata di fronte alle proibitive condizioni cli-
matiche, il regime stalinista avanzò sicuro triturando nelle
viscere della terra in nome del sol dell’avvenire, centinaia
di migliaia di lavoratori detenuti. L’economia del GULag
basata sul lavoro costrittivo e su rapporti di produzione
antiquati si dimostrò alla lunga inefficiente come del resto
lo stesso Stalin avrebbe dovuto sapere Marx alla mano: a
Vorkuta, dopo la chiusura dei GULag a partire dal 1953, lo
Stato sovietico dovette concedere ai minatori come incen-
tivo a incunearsi nelle miniere salari e benefit migliori di
quelli dei più famosi cattedratici di Mosca.

Geografia del GULag in Urss 1929-1953.

67
Nel contempo, i grotteschi processi di Mosca dove i
capi dell’Ottobre, come nell’Inquisizione, vennero chia-
mati a confessare i più turpi dei sabotaggi e dei tradimen-
ti, aprirono la strada allo sterminio, in seguito denominato
periodo del «Grande Terrore», sia di ciò che rimaneva
della parte della generazione che aveva fatto la rivoluzio-
ne sia di quella dei suoi oppositori che non aveva avuto
l’accortezza o la possibilità di emigrare.

Un brindisi russo
Tale barbara accumulazione primitiva spezzò e spazzò
via non solo i residui feudali ma anche tutti i germogli
della rivoluzione democratico-borghese e di quella socia-
lista. Ciò che ne emerse fu una poltiglia in cui discernere
il grano dal loglio era ormai diventato impossibile; dove
a elementi di sviluppo capitalistico si mischiavano senza
soluzione di continuità relazioni reazionarie premoderne
e aspetti progressivi protosocialisti. Questo cocktail avrà
il suo apice nello straordinario sforzo bellico della
«Grande guerra patriottica» per sconfiggere il mostro
nazista, dove attorno a una prodigiosa pianificazione
industriale conversero spirito nazionalistico, ortodossia
grande-russa e un (sempre più lieve) anelito umanistico.
Come ha sintetizzato Michael Elmann nel suo importante
lavoro sulla pianificazione nei paesi dell’Est,
«la produttività del lavoro (per persona e non per ora) nel-
l’industria militare sovietica nel 1943 superava ampiamente
quella in Germania e del Regno Unito ed era il 90% di quel-
la degli Stati Uniti. Anche tenendo conto dei soliti problemi
dei confronti internazionali e delle possibili differenze nelle
ore lavorate pro capite, queste cifre sono veramente impres-

68
sionanti. Testimoniano l’importanza di una combinazione di
fattori. Che erano: l’efficienza della produzione di massa
organizzata dallo Stato; l’efficacia della pianificazione della
mobilitazione; lo sforzo compiuto dai lavoratori - spesso
donne o adolescenti - per produrre le armi necessarie a
difendere le loro famiglie e la loro terra dai barbari; e la dura
disciplina del lavoro applicata durante la guerra»47.
Un altro fattore chiave per il trionfo sovietico su Hitler
fu la logistica. I sovietici riuscirono a far evacuare - dopo
le disastrose perdite nei primi mesi del conflitto - 2.592
impianti industriali e oltre al 30-40% della forza-lavoro
nella regione del Volga, negli Urali, in Siberia, e in Asia
centrale. Nel 1942 in queste regioni dell’Unione Sovietica
si produceva il 90% della ghisa, oltre l’80% dell’acciaio e
quasi l’80% del carbone.
Le disastrose sconfitte della prima fase del conflitto
ridussero la base produttiva di quasi due volte e furono sor-
montate solo nella seconda metà del 1942, quando l’Urss
superò la Germania nazista nella produzione di carri armati
e cannoni semoventi di 3,9 volte, e di 1,9 volte nella produ-
zione di aerei da combattimento. Non fu possibile superare
il nemico solo nella produzione di artiglieria antiaerea.
Lo sforzo bellico fece leva anche su una straordinaria
pressione sui consumi della popolazione, come evidenzia
la Tabella n. 2, pagata dai popoli sovietici con una vera e
propria ecatombe: secondo le stime più recenti, furono 26-
27 milioni, tra militari e civili, i morti durante il conflitto,
cui andrebbero aggiunti altri 11-12 milioni di non-nati.

47 Michael Elmann, Socialist planning, Cambridge University Press,


Cambridge 2014, p. 254.

69
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TABELLA 2. L’economia sovietica nel periodo bellico fatto 100 il 1940.


Fonte: Narodnoe chozjajstvo SSSR za 70 let. Jubilejnij statističeskij
ežegodnik, Finansy i statistika, 1987.

Poche settimane dopo la conclusione della guerra, il


24 maggio 1945, durante un ricevimento in onore dei
comandanti dell’Armata rossa tenutosi non a caso nella
Sala San Giorgio del Gran Palazzo del Cremlino, Stalin
fece un brindisi (dopo aver riconosciuto i propri errori
durante la prima fase del conflitto) dedicato in particolare
al popolo russo, sottolineando il ruolo preminente di que-
sta etnia rispetto alle altre formanti l’Unione Sovietica48.
Simbolicamente, con questo brindisi,
«Stalin faceva definitivamente pace con il passato zarista e
riconosceva implicitamente la continuità statuale russa. La
crescente tendenza di Stalin a identificarsi con il passato
imperiale e ad attingere alle sue tradizioni più antiche,
potrebbe sembrare sconcertante alla luce del fatto che lo
zarismo aveva smesso di avere un significativo appeal tra i
popoli sovietici dopo la Guerra civile.

48 Secondo lo storico russo Grigorij Burdej, questo discorso non


contribuì a «rafforzare lo Stato multietnico. Al contrario, divenne la
piattaforma ideologica iniziale per la transizione a una nuova repres-
sione politica sotto lo slogan della lotta contro il “cosmopolitismo” e
in cui si decideva di rilanciare l’“idea nazionalista russa”». Secondo la
testimonianza apocrifa del maresciallo delle forze corazzate Pavel
Rybalko, alla sua richiesta di spiegazione sul perché lui, georgiano
avesse dedicato il brindisi ai russi, Stalin avrebbe risposto così: «Non
sono georgiano, sono un russo di origine georgiana!».

70
Ma sarebbe sbagliato ridurre il fenomeno a un dispositivo
dettato dalla mobilitazione in tempo di guerra contro l’in-
vasore tedesco, o dal refrain sui russi che “non possono far-
cela senza uno zar”»49.
Tutto ciò in realtà corrispondeva a una profonda esi-
genza politica volta a ridefinire sia l’identità ideologica
sia personale del regime che incarnava: l’orientalizzazio-
ne e russificazione del comunismo portate alle loro estre-
me conseguenze.

Cifre raggelanti
Sull’estensione delle repressioni staliniane la storio-
grafia internazionale ha un quadro ormai sufficientemente
chiaro. E se da una parte è stata tentata un’operazione
tutta ideologica volta a gonfiare i dati e ad attribuire allo
stalinismo tutti i decessi dovuti alle più diverse cause
intercorsi lungo un trentennio - come ne Il libro nero del
comunismo et similia - dall’altra, chi ancora riesce ad
avere un sguardo benevolo sul regime di Stalin ha cerca-
to, senza un gran seguito a dire il vero soprattutto in
campo storiografico, di edulcorare la tragedia che si
abbatté su un intero popolo: i dati e le stime più accredi-
tate nella loro crudezza sono un de profundis per lo stali-
nismo. Ma anche le operazioni propagandistiche sui 100
milioni di vittime del comunismo non possono rappresen-
tare un viatico onesto per interpretare quanto avvenne.
Gli arresti per motivi politici tra il 1921 e il 1953 - di cui
la stragrande maggioranza si concentrano tra il 1932 e il
49 Moshe Lewin, The Soviet Century, Verso, London 2016, p. 145.

71
1953 - furono 4.060.306 e 799.455 furono le condanne a
morte, concentrate soprattutto tra il 1937 e il 1938. Alla
morte di Stalin, i detenuti politici erano ancora oltre
600mila. Per i campi di lavoro passarono quasi venti milio-
ni di persone di decine di nazionalità diverse. I morti nei
campi dovuti alle sofferenze e alle miserabili condizioni di
esistenza, furono circa 1.600.000. Secondo Moshe Lewin
«il calcolo dettagliato delle altre vittime di Stalin è più dif-
ficile, ma ci sono comunque dati affidabili. Nel 1930-32,
circa 1.800.000 contadini considerati kulaki furono esiliati
nelle cosiddette “aree di reinsediamento per kulaki” (kulak-
skaia ssylka) sotto la supervisione della polizia segreta.
All’inizio del 1932 ne erano rimasti solo 1.300.000: il
restante mezzo milione era morto, era fuggito o era stato
rilasciato dopo la revisione delle condanne.
Tra il 1932 e il 1940, questi “insediamenti kulak” avevano
registrato 230.000 nascite e 389.521 morti; 629.042 persone
erano fuggite, di cui 235.120 furono catturate e riportate al
loro insediamento. Dal 1935 in poi, i tassi di natalità hanno
superato i tassi di mortalità: tra il 1932 e il 1934 ci sono stati
49.168 nascite e 271.367 morti, ma tra il 1935 e il 1940 sono
state registrate 181.090 nascite contro 108.154 morti»50.
L’industrializzazione staliniana portò anche a un
eccesso di morti in tempo di pace dell’ordine di 10 milio-
ni o forse più, molti dei quali durante la carestia del 1933.
Nei confronti dei contadini privati fu realizzato un vero e
proprio tentativo di «liquidazione in quanto classe» e
complessivamente la forza-lavoro fu sottoposta a una
pressione e a un ipersfruttamento non giustificati neppure
50 Ibidem, p. 125.

72
dalle necessità di preparare il paese al conflitto mondiale.
Anzi, la demoralizzazione sociale determinata dalle
repressioni - come ha sottolineato Robert Davies51 - ebbe
un ruolo fondamentale nelle sconfitte subìte dall’Armata
rossa nella prima fase della «Grande guerra patriottica».
Anche questi sviluppi (comprese le eventuali alterna-
tive) erano stati in linea di massima preconizzati da
Engels con stupefacente precisione nel suo studio sulla
rivoluzione dei contadini in Germania:
«Il peggio che possa accadere al capo di un partito estremo
è di essere costretto a prendere il potere in un momento in
cui il movimento non è ancora maturo per il dominio della
classe che egli rappresenta e per l’attuazione di quelle
misure che il dominio di questa classe esige. In questo caso,
ciò che egli può fare dipende non dalla sua volontà, ma dal
grado raggiunto dai contrasti tra le singole classi e dal
grado di sviluppo delle condizioni materiali di esistenza e
dei rapporti di produzione e di scambio, su cui poggia lo
sviluppo dei contrasti delle classi. Ciò che egli deve fare,
ciò che il suo partito esige da lui, a sua volta, non dipende
da lui, e neppure dal grado di sviluppo raggiunto dalla lotta
delle classi e dalle condizioni su cui è basata questa lotta:
egli è legato alle dottrine che ha professato e alle esigenze
che ha posto sino a quel momento, le quali, a loro volta,
non derivano dalla posizione reciproca in cui le classi
sociali si trovano in quel momento, né dal temporaneo e più
o meno accidentale stato dei rapporti di produzione e di
scambio, ma dall’esame più o meno penetrante che egli
compie sui risultati generali del movimento sociale e poli-
tico. Egli si trova quindi necessariamente di fronte a un

51 Vedi Robert W. Davies, Soviet economic development from Lenin


to Khrushchev, University Cambridge Press, Cambridge 1998.

73
dilemma insolubile: ciò che egli può fare contraddice a
tutto ciò che ha fatto sino ad ora, ai suoi princìpi e agli inte-
ressi immediati del suo partito. E ciò che deve fare è inat-
tuabile. In breve, egli è costretto a rappresentare, non il suo
partito, la sua classe, ma la classe per il cui dominio il
movimento è maturo. Nell’interesse del movimento egli
deve fare gli interessi di una classe che gli è estranea, e
sbrigarsela con la propria classe con frasi, con promesse,
con l’affermazione che gli interessi di quella classe ad essa
estranea sono i suoi interessi. Chi incorre in questa falsa
posizione è irrimediabilmente perduto»52.
L’imprevedibile struttura sociale che era emersa dopo
la Rivoluzione russa andava oltre anche rispetto all’imma-
ginazione di Engels. L’Urss si presentava, dopo l’inizio
dell’industrializzazione degli anni ’30 come un paese in
cui l’unica classe realmente esistente era quella dei lavora-
tori salariati, dominata da una casta burocratica altamente
centralizzata. Era in tale contesto che si era data l’accumu-
lazione primitiva del capitale, in un quadro internazionale
che restava segnato dai rapporti capitalistici di produzione.
Stalin riuscì miracolosamente, grazie allo straordina-
rio coraggio e sacrificio del popolo sovietico, a evitare al
paese il dominio nazista, ma il prezzo fu assai salato e
neppure i pur importanti successi economici riuscirono a
edulcorare quanto era avvenuto: il più grande paese del
mondo che aveva annunciato la realizzazione del sociali-
smo nella Costituzione del 1936, era sprofondato in un
incubo totalitario. Lo tirerà fuori per i capelli Chruščëv,
ma non sarà sufficiente a salvarlo e a rigenerarlo.
52 Friedrich Engels, La guerra dei contadini, a cura di Luigi
Mongini (1904), Feltrinelli reprint, Milano 1970, p. 74.

74
Cronologia 1954-1984

1954
23 febbraio - Si apre il Plenum del Comitato centrale del Pcus in
cui si decide di aumentare la produzione di grano e iniziare la col-
tivazione delle terre vergini in Kazakistan e Siberia occidentale.
Nel 1954 saranno raccolte 27 milioni di tonnellate di grano; nel
1955, 37,5 milioni; nel 1959, 58,5 milioni. I risultati saranno
comunque controversi poiché queste terre servivano da pascoli per
pecore, cavalli, cammelli: la produzione di carne in Kazakistan, ad
esempio diminuirà drasticamente.
31 maggio - Nel numero di maggio della rivista Znamja inizia la
pubblicazione del racconto di Il’ja Ehrenburg Il disgelo un termine
che diverrà la parola chiave di tutta l’epoca kruscioviana.
1955
23 novembre - L’aborto è nuovamente legale in Urss.
1956
25 febbraio - In una sessione a porte chiuse del XX Congresso del
Pcus, Nikita Chruščëv legge il famoso rapporto sul «culto della per-
sonalità di Stalin». I delegati scioccati ascoltano in silenzio la rela-
zione, interrompendola solo occasionalmente con esclamazioni di
stupore e indignazione. All’inizio di marzo, il rapporto viene spedi-
to alle organizzazioni di partito sotto forma di opuscolo con il tim-
bro «non per la stampa». Il 16 marzo, viene pubblicato dal New
York Times, e solo allora i partiti comunisti di tutto il mondo ven-
gono autorizzati dal Pcus a parlarne pubblicamente. 25 aprile -
Chruščëv abolisce i decreti del 1940 che avevano imposto la giorna-
ta lavorativa di 8 ore con settimana lavorativa di 7 giorni, le sanzioni
penali per ritardo e assenteismo. Ai lavoratori e ai dipendenti sovie-
tici è restituito il diritto di cambiare lavoro a propria discrezione.
1 novembre - All’alba, il primo ministro ungherese Imre Nagy
viene informato che le unità dell’esercito sovietico hanno attraversa-
to il confine ungherese. Il governo annuncia il ritiro dell’Ungheria

75
dal Patto di Varsavia, dichiara la neutralità e chiede all’Onu di inse-
rire la questione ungherese all’ordine del giorno. Il 4 novembre le
truppe sovietiche circondano Budapest e iniziano a reprimere la
rivolta popolare diretta dai consigli operai. Nagy e diversi suoi mini-
stri si rifugiano nell’ambasciata jugoslava. Pesanti combattimenti
continuano fino alla sera del 6 novembre. Vari centri di difesa,
soprattutto nelle periferie operaie, resisteranno fino al 14 novembre.
31 dicembre - La Pravda pubblica la prima parte del racconto di
Šolokov Il destino di un uomo, in cui per la prima volta dopo la
guerra si solleva nella letteratura sovietica la questione di un atteg-
giamento ponderato e umano nei confronti dei sovietici prigionieri.
Nel 1965 per la sua epopea sulla rivoluzione russa, Il placido Don,
lo scrittore sovietico riceverà il Premio Nobel per la letteratura.
1957
8 luglio-11 agosto - Si tiene a Mosca il VI Festival mondiale della
Gioventù democratica e degli studenti. Al festival partecipano
34mila persone provenienti da 131 paesi del mondo. Durante il festi-
val, le autorità sovietiche garantiscono una libertà di espressione e di
movimento senza precedenti. Una mostra di arte astratta è aperta a
Gor’kij Park, il jazz viene suonato dappertutto liberamente. Per la
prima volta merci d’importazione compaiono nei negozi sovietici.
4 ottobre - Va in orbita lo Sputnik, il primo satellite al mondo.
1958
23 ottobre - A Stoccolma viene conferito a Boris Pasternak il
Premio Nobel «per gli eccezionali servizi nella poesia lirica con-
temporanea e nel campo tradizionale della grande prosa russa». Il
Presidium del Comitato centrale del Pcus adotta una risoluzione
segreta che qualifica l’assegnazione del Premio Nobel a Pasternak
come una provocazione politica con cui l’Occidente «intendeva
riaccendere la Guerra Fredda». Il capolavoro dello scrittore sovie-
tico dissidente, Il dottor Živago, era uscito in anteprima, qualche
tempo prima, in russo e in italiano in Italia, presso l’editore di
orientamento comunista Giangiacomo Feltrinelli.
1959
29 giugno - A New York viene aperta la mostra «Achievements of

76
the USSR in Science, Technology and Culture». 11 agosto - A
Mosca si inaugura lo «Šeremet’evo», primo aeroporto internazio-
nale del paese. 15 settembre - Visita di Chruščëv negli Usa. È il
più importante capitolo della stagione della cosiddetta Distensione.
1960
10 febbraio - L’Urss versa 1,1 miliardi di dollari agli Usa per for-
niture Lend-Lease ricevute durante la Seconda guerra mondiale. Il
resto delle armi o delle attrezzature, per oltre 12 miliardi, erano
state restituite e distrutte dai sovietici precedentemente.
10 luglio - Parigi ospita la finale della prima Coppa europea di cal-
cio dove l’Urss batte la Jugoslavia per 2 a 1 e diventa la prima
detentrice del trofeo. Per questo motivo Lev Jašin sarà il primo
portiere a vincere successivamente il Pallone d’oro.
1961
12 aprile - Poechali! (Si va!) Con questa breve frase al momento
del decollo Jurij Gagarin, 27 anni, si annuncia come primo cosmo-
nauta della storia. Il suo giro intorno alla Terra dura 108 minuti. Al
ritorno, in una Mosca orgogliosa e in festa, viene accompagnato da
Chruščëv a salutare il pubblico sul palco del mausoleo di Lenin.
17-31 ottobre - Si tiene il XXII Congresso del Pcus. Viene appro-
vato il nuovo programma del Partito in cui si afferma la volontà di
raggiungere il comunismo in Urss «entro il 1980».
1962
1-3 giugno - Rivolta operaia di Novočerkassk. Dopo che il giorno
precedente era stata data notizia dell’aumento del 30% del prezzo
della carne e degli insaccati e del 25% del burro, nella fabbrica di
impianti di locomotive elettriche gli operai entrano in sciopero. Il
mattino seguente un corteo di alcune migliaia di persone si scontra
con la polizia. Su ordine del governo, i reparti speciali aprono il
fuoco sui lavoratori: 24 morti e 87 feriti. In seguito, 7 dimostranti
saranno condannati a morte e 105 a detenzioni fra i 10 e i 15 anni.
16-28 ottobre - Crisi dei missili a Cuba. Dopo che il governo sta-
tunitense scopre l’intenzione sovietica di installare delle testate
nucleari a Cuba, si apre un duro contenzioso tra le due superpotenze
che farà temere al mondo lo scoppio della Terza guerra mondiale.

77
1963
1 settembre - Va in onda per la prima volta la trasmissione televi-
siva serale di cartoni animati «Buonanotte piccolini!».
1964
14 ottobre - Durante il Plenum del Comitato centrale del Pcus
Chruščëv viene dimesso da tutti gli incarichi e mandato in pensione.
Leonid Brežnev viene eletto segretario del Partito, mentre il presi-
dente del Consiglio dei ministri dell’Urss diventa Aleksej Kosygin.
6 novembre - Gli scienziati sovietici danno notizia di aver costrui-
to il primo computer al mondo (modello БЭСМ-4 - BESM4).
1967
25 gennaio - Studenti e dipendenti dell’ambasciata cinese a Mosca
tentano di tenere una manifestazione «antirevisionista» sulla
Piazza Rossa, che si conclude in rissa con ufficiali delle autorità
sovietiche in abiti civili. 10 novembre - Inizia la costruzione di
uno stabilimento automobilistico AvtoVaz a Togliatti, che pro-
durrà a partire dal 1970 una variante sovietica della 124 Fiat.
1968
20 agosto - Le truppe dei paesi del Patto di Varsavia (Urss, Polonia,
Ungheria, Germania dell’Est e Bulgaria) invadono la Cecoslovac-
chia. Si oppongono la Jugoslavia e la Cina, ma non Cuba.
1969
21 dicembre - In occasione del 90° anniversario della nascita di
Stalin vengono pubblicati vari articoli commemorativi sulla stam-
pa sovietica. L’Istituto del marxismo-leninismo decide di prepara-
re una raccolta in 4 volumi di opere scelte del leader georgiano.
1970
1 gennaio - Mao Zedong accusa la leadership sovietica di «neoco-
lonialismo radicato» e di aver instaurato un «regime dittatoriale
fascista» nel paese. 16-22 marzo - Scontri tra truppe sovietiche e
cinesi sull’Ussuri.
12 agosto - Nell’ambito dell’Ostpolitik il cancelliere Willy Brandt,
firma a Mosca il primo trattato su vasta scala sovietico-tedesco
occidentale, che normalizza le relazioni tra i due paesi.
27 novembre - Il Politbjuro del Pcus approva le istruzioni per

78
l’ambasciatore sovietico in Svezia dopo il conferimento ad
Aleksandr Solženitsyn del Premio Nobel: «La decisione
dell’Accademia svedese ha suscitato indignazione sia nei circoli
letterari sovietici sia nei circoli più ampi del pubblico sovietico,
che considera questa decisione un atto ostile nei confronti
dell’Unione Sovietica... Si spera che il governo svedese... adotterà
le misure possibili per evitare che questa campagna venga utilizza-
ta per deteriorare le relazioni tra la Svezia e l’Unione Sovietica».
30 marzo - Si apre il XXIV Congresso del Pcus. Brežnev chiede
la trasformazione di Mosca in una «città comunista modello».
22 maggio - Nixon è il primo presidente Usa a visitare ufficial-
mente l’Urss.
1972
3 dicembre - Muore il progettista di aerei e tre volte Eroe del lavo-
ro socialista Andrej Tupolev.
1974
12 febbraio - Solženicyn viene arrestato nel suo appartamento. Il
giorno successivo, dopo essere stato privato cittadinanza sovietica,
viene spedito in Repubblica federale tedesca.
1975
3 aprile - Anatolij Karpov è dichiarato Campione del mondo di
Scacchi avendo Bobby Fischer interrotto le trattative per un incon-
tro con lo scacchista sovietico, rifiuandosi di difendere il titolo.
9 agosto - Muore il compositore e pianista, Dmitrij Šostakovič.
1976
1 gennaio - In Urss si sono registrati nell’anno precedente 107,4
aborti ogni mille donne a causa della mancanza di una politica anti-
concenzionale. In Germania, nello stesso anno, gli aborti sono stati
5,9, in Gran Bretagna 11,4, negli Stati Uniti 27,5.
1977
8 novembre - A seguito di un’esplosione nella metropolitana di
Mosca, 7 persone restano uccise e 44 ferite. Lo stesso giorno, altre
due bombe esplodono a Mosca (vicino ai magazzini GUM e al
negozio di alimentari n. 15), ma senza conseguenze. Due anni
dopo, tre nazionalisti armeni saranno fucilati per aver organizzato

79
gli attacchi terroristici. Alcuni storici contemporanei credono che
in tribunale la loro colpevolezza non fu provata.
1979
18 giugno - Brežnev e il presidente statunitense Jimmy Carter fir-
mano a Vienna il Trattato per la limitazione delle armi strategiche
SALT II. 16 settembre - Hafizullah Amin prende il potere in
Afghanistan. Mosca si congratula ufficialmente per la sua «elezio-
ne», ma muterà ben presto atteggiamento. Il 24 dicembre l’esercito
sovietico entra in Afghanistan con l’obbiettivo di deporlo.
1980
19 luglio - A Mosca vengono aperti i XXII Giochi olimpici. Gli
Usa e alcuni Paesi occidentali li boicottano per protestare contro
l’intervento in Afghanistan. Alla vigilia delle Olimpiadi, Mosca
viene ripulita da elementi indesiderati, prostitute e dissidenti.
25 luglio - Il cantautore e attore Vladimir Visotskij muore a Mosca
all’età di 42 anni. I suoi funerali diventano l’occasione per una
silenziosa manifestazione di opposizione al regime.
1981
13 dicembre - In connessione con la crescita dei disordini e degli
scioperi promossi dal sindacato Solidarność, il generale Jaruzelski,
annuncia l’introduzione della legge marziale in Polonia e chiede aiuti
economici urgenti all’Urss. Dopo l’introduzione della legge marzia-
le, l’Occidente commina dure sanzioni contro l’Urss ma Jaruzelski
conferma che continuerà a pagare il debito contratto con il FMI.
1982
25 gennaio - Muore l’ideologo e «guardiano dell’ortodossia» del
partito Michail Suslov. 10 novembre - Muore Brežnev. Due giorni
dopo al Plenum straordinario del Comitato centrale del Pcus viene
eletto segretario, Jurij Andropov, già capo del Kgb. Morirà poco
più di un anno dopo il 9 febbraio 1984. Sarà sostituito il giorno
dopo dal settantunenne, Kostantin Černenko.
1983
8 marzo - Il presidente Reagan definisce l’Urss «il centro del male
nel mondo moderno». I giornalisti sintetizzano l’espressione in
«impero del male» che presto farà il giro del mondo.

80
CAPITOLO 2

Nel 1969 in Urss iniziò a circolare il tamizdat del dis-


sidente Andrej Amal’rik intitolato Sopravviverà l’Unione
Sovietica fino al 1984? Il titolo del saggio era sufficiente-
mente bizzarro da provocare un certo interesse anche del-
l’editoria occidentale visto che faceva coincidere il 1984
- simbolo dell’apogeo del dominio totalitario orwelliano -
con la profezia di un crollo dell’Urss. In quel momento il
moloch sovietico però sembrava ai più assai stabile. Nel
1980, alle Olimpiadi nel 1980 malgrado il boicottaggio di
molti paesi occidentali per protestare contro l’invasione
dell’Afghanistan, l’Urss riuscì a dare ancora al mondo la
sensazione di un paese solido. Due anni dopo, commen-
tando i risultati dei rapporti della Cia sullo stato dell’eco-
nomia sovietica, il senatore americano William Proxmire
confermò che c’era stato «un divario tra le prestazioni e i
piani sovietici, ma un crollo economico in Urss non viene
considerata da noi nemmeno come una remota possibi-
lità». Non era un caso e si trattava di valutazioni condivi-
se da molti autorevoli studiosi: Paul Samuelson, Premio
Nobel americano per l’economia, aveva sostenuto nei
primi anni ’60 che l’Urss avrebbe superato gli Usa in ter-
mini di Pil, proprio nel 1984.
Se si assume come punto di riferimento la crescita del
Prodotto interno lordo, questa previsione non era così

81
assurda come oggi potrebbe apparire: neppure negli anni
della zastoj («stagnazione») l’economia sovietica era in
fin dei conti entrata in recessione e crebbe, nei primi anni
’80 seppur più lentamente che nei primi decenni del
dopoguerra, a una media annuale dell’1,9%.
La profezia di Amal’rik però, riletta a mezzo secolo di
distanza, dimostra che il vero accidente della storia non fu
il crollo di un regime causato da un complesso di fattori
contingenti e casuali, ma la sua sopravvivenza per oltre
70 anni malgrado le profondissime contraddizioni interne
mai risolte, malgrado il suo carattere ibrido dal punto di
vista dei rapporti di produzione. È vero, Amal’rik aveva
previsto erroneamente come fattore d’innesco della cadu-
ta dell’Urss una guerra con la Cina, ma la sua tesi per cui
il regime burocratico sarebbe imploso a causa dell’emer-
gere di una contraddizione esterna che avrebbe messo in
moto forze sociali interne, accelerando la crescita delle
frizioni, si dimostrò nell’essenza corretta.
«Ponendo l’interrogativo della durata possibile del regime -
scriveva Amal’rik - è interessante tracciare alcuni paralleli
storici. Alcune delle condizioni che hanno provocato la
Prima e la Seconda rivoluzione russa esistono forse anche
oggi: gruppi di caste inamovibili; sclerosi di un sistema sta-
tale entrato nettamente in conflitto con le esigenze dello svi-
luppo economico; burocratizzazione del sistema e, quindi,
creazione di una classe privilegiata; contraddizioni naziona-
li in seno ad uno Stato plurinazionale e situazione privilegia-
ta di alcune nazioni. Eppure, se il regime zarista si fosse pro-
tratto più a lungo, avrebbe forse resistito a una pacifica
modernizzazione, a patto che il gruppo dirigente non avesse
valutato fantasiosamente la situazione generale e le proprie

82
forze e non avesse iniziato all’esterno la politica espansioni-
sta che ha provocato un eccesso di tensione. In effetti, se il
governo di Nicola II non avesse iniziato la guerra contro il
Giappone, non avremmo avuto la Rivoluzione del 1905-
1907 e, se non fosse stata dichiarata la guerra alla Germania,
la Rivoluzione del 1917 non sarebbe scoppiata»1.
In questo passaggio, il dissidente russo, non solo elen-
cava i motivi del possibile crollo, tutti come vedemmo in
seguito fondamentali, ma soprattutto affermava che il fat-
tore scatenante della crisi sarebbe stato esogeno. Metteva
in luce inoltre quel senso di eccessiva sicurezza della
nomenklatura del Cremlino che divenne di lì a poco persino
senso di onnipotenza dopo le disastrose sconfitte statuniten-
si in Vietnam e Cambogia, la dissoluzione delle dittature
fasciste in Spagna e in Portogallo, la vittoria dei movimenti
di liberazione nazionale in Angola e Mozambico. «Vedete,
anche nelle giungle vogliono seguire Lenin!», affermò bal-
danzosamente a un certo punto un entusiasta Brežnev.
Inoltre nella seconda metà degli anni ’70 i fenomeni di stag-
flazione nelle economie occidentali convinsero ancor di più
gli uomini del Cremlino - e con essi buona parte della sini-
stra internazionale - che la crisi del capitalismo stesse
diventando un fenomeno strutturale, associato, tra l’altro, a
ondate di conflittualità sociale persistenti che avrebbero
lasciato ampia possibilità di manovra al «campo socialista».
Tuttavia il fattore esterno decisivo che condusse l’im-
pero sovietico a implodere non fu né l’invasione

1 Andrej Amal’rik, Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?,


Coines Edizioni, Roma 1970, pp. 56-7.

83
dell’Afghanistan, né la débâcle in Polonia dopo l’ascesa
di Solidarność, né la caduta dei prezzi del petrolio, o la
«crisi dei missili» dei primi anni ’80, ma piuttosto l’ince-
dere dei processi di globalizzazione, della nuova fase
d’internazionalizzazione in chiave neoliberale dell’eco-
nomia capitalistica che rappresentò la risposta politica,
ancor prima che economica, alle sfide delle lotte politiche
e sociali che si erano aperte su scala mondiale a partire
dalla fine degli anni ’60. In un certo senso la grande tra-
sformazione del capitale mondiale a partire dalla fine del
decennio successivo produsse prima di tutto la rottura
dello stesso «anello debole della catena imperialistica» di
leniniana memoria, e il «Secolo breve» si chiuse laddove
era iniziato e per gli stessi fattori per cui era sorto, ma
questa volta con sbocchi ancor più ambigui e contraddit-
tori: l’instaurazione in Russia non di un capitalismo matu-
ro ma di un sistema neofeudale e semicoloniale costruito
sui presupposti del disfacimento morale e politico, assai
più che economico, della nomenklatura poststaliniana.

Reload sulla Moscova


L’Urss emersa dalla Seconda guerra mondiale e dal-
l’incubo staliniano era un paese a pezzi, con un apparato
industriale da ristrutturare, un saldo demografico disa-
stroso, con profonde ferite delle repressioni difficili da
rimarginare. Tuttavia la vittoria nella guerra contro il
nazismo era grande motivo di orgoglio e di rinnovata
autostima tra i popoli sovietici. La nuova direzione chru-
sceviana, in questo quadro, con la destalinizzazione pro-
pose di fatto un reload, un nuovo patto sociale, ai popoli

84
dell’Urss. I primi 30 anni di potere sovietico erano stati
per molti versi una tragedia, ma ora si sarebbe aperta una
nuova fase in cui le parole chiave sarebbero state Ottepel’
(Disgelo) e Rastjaženie (Distensione).
Rinnovamento culturale, apertura verso la ricerca scien-
tifica, nuovi immaginifici progetti tecnologici e industriali
erano il biglietto da visita di una direzione dello Stato che
si autorappresentava come riformista e innovativa. Fu una
sfida sostanzialmente accettata dai popoli sovietici che per
almeno un quindicennio si gettarono a capofitto nell’im-
presa di ricostruire il paese materialmente e moralmente. I
simboli di un’epoca, di una generazione ingenuamente
entusiasta, furono la campagna per dissodare le terre vergi-
ni in Kazakistan, il Festival moscovita internazionale della
gioventù del 1957, la pubblicazione di romanzi che narra-
vano in modo veritiero le tragedie del recente passato come
per esempio Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr
Solženitsyn, mentre venivano alla ribalta uomini-simbolo
del nuovo corso come il portiere Lev Jašin che conduceva
la selezione nazionale alla vittoria agli Europei di calcio
del 1960 e ovviamente Jurij Gagarin, primo uomo nello
spazio. Divenne allora evidente che la categoria del «tota-
litarismo» era inapplicabile all’Urss del Secondo dopo-
guerra come appuntò anche Hannah Arendt nella prefazio-
ne del 1966 al suo studio sull’argomento:
«Il più chiaro segno che non si può piú definire l’Urss totali-
taria nel senso stretto del termine è la ripresa sorprendente-
mente rapida e feconda delle arti nel corso dell’ultimo decen-
nio. Certo, si manifestano di quando in quando tentativi di
riabilitare Stalin e di soffocare le richieste sempre più aperte

85
di libertà di parola e di pensiero fra gli studenti, gli scrittori
e gli artisti, ma essi non hanno avuto finora molto successo,
e non è probabile che lo abbiano in futuro senza una piena
restaurazione del terrore e del regime poliziesco. Senza dub-
bio, al popolo sovietico viene negata qualsiasi forma di
libertà politica, non soltanto la libertà di associazione, ma
anche la libertà di pensiero, di opinione e di manifestazione
pubblica. Sembra che nulla sia cambiato, mentre in realtà
tutto è cambiato. Quando Stalin morí, i cassetti degli scrittori
e degli artisti erano vuoti; oggi esiste tutta una letteratura che
circola in manoscritti, e ogni via della pittura moderna viene
tentata negli ateliers dei pittori e le loro opere vengono cono-
sciute anche quando non sono esposte a una mostra. Ciò non
per minimizzare la differenza fra la censura tirannica e la
libertà artistica, ma soltanto per sottolineare il fatto che la
differenza tra una letteratura clandestina e l’assenza di qual-
siasi letteratura è eguale alla differenza tra uno e zero»2.
In Urss si assisteva, al contrario, seppur carsicamente,
al riemergere di una società civile e di un’opinione pub-
blica mai completamente detronizzate, come anche all’e-
mersione di un ricchissimo dibattito scientifico. Tuttavia,
l’idea che l’Urss fosse un «impero del male» è riuscita a
superare indenne perfino la guerra fredda (e giungere fino
a noi nel giudizio attuale sul regime putiniano).
Alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo, Frank
Ellis ha sostenuto, ad esempio, a proposito del sistema
sovietico che
«quando ragione, buon senso e decenza vengono attaccati
abbastanza spesso, la personalità viene paralizzata e l’intel-

2 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004,


p. LXXIII.

86
ligenza umana si disintegra o viene deformata. La barriera
tra verità e menzogna viene effettivamente distrutta.
Educato in un tale clima di paura e privato di ogni iniziativa
intellettuale, l’Homo Sovieticus non poteva essere altro che
un portavoce delle idee e degli slogan del partito, non tanto
un essere umano allora, quanto un ricettacolo da svuotare
e riempire secondo la politica del partito» (corsivo nostro)3.
La realtà sociale sovietica come ha chiarito Andrej
Yurčak, in realtà, si muoveva al di fuori dalla dimensione
del «socialismo binario» in cui il sistema viene ridotto a
una dicotomica opposizione tra cultura ufficiale e cultura
non ufficiale, tra Stato e popolo, tra dimensione personale
pubblica e privata. Per la maggioranza dei cittadini sovie-
tici i valori fondamentali, gli ideali e le realtà del sociali-
smo erano veramente importanti, sebbene regolarmente
ne trasgredissero e reinterpretassero le norme e le regole
a loro uso e consumo. L’adesione ai valori e ai progetti del
sistema, è davvero difficile negarlo oggi, non furono mai
da parte dell’opinione pubblica russa acquiescenti e
soprattutto nella stagione dei baby-boomers sovietici
furono sempre critiche, vigili, interattive4.

C’è un’altra storia dell’Urss


Per altri versi, il giovane studioso russo Ivan
Ovsjannikov ha fatto fatto giustamente rilevare che chi

3 Frank Ellis, The media as social engineer, Oxford University


Press, Oxford 1998, p. 208.
4 Di particolare rilevanza da questo punto di vista il volume di
Andrej Yurčak, Ėto bylo navsegda, poka ne končilos’. Poslednee
sovetskoe pokalenie, Novoe literaturnoe obozrenie, Moskva 2014.

87
intende avere un approccio critico alla vicenda sovietica
deve indispensabilmente
«spostare il focus dell’attenzione dalla storia dello Stato
alla storia del popolo [nel senso che dà a quel termine
Howard Zinn che racconta la storia Usa dal punto di vista
della classe lavoratrice e dei gruppi sociali oppressi] e quei
lati della quotidianità sovietica che la fanno somigliare
all’attuale concezione del socialismo: ad esempio il pro-
gresso nella sfera della legislazione sociale e dell’ugua-
glianza di genere, l’internazionalismo, il progressismo, un
relativo egualitarismo. La sinistra democratica deve cercare
ispirazioni non nelle figure mitiche dei capi, ma nelle storie
della gente sovietica, per esempio di chi in modi diversi si
opponeva alla forza micidiale della burocrazia mantenen-
dosi tuttavia fedele ai valori socialisti. Si deve parlare non
solo delle vittime comuniste della repressione, dei mensce-
vichi, dei socialisti rivoluzionari o dei dissidenti di sinistra,
ma anche di quelli che, pur rimanendo all’interno del siste-
ma, contribuirono alla sua umanizzazione: gli anni ’20, il
disgelo e, in parte, la Perestrojka, devono molto a questi
esempi. Se si fa propria l’idea dell’Urss come una società
complessa e contraddittoria, la cui realtà non consisteva né
in una repressione totalitaria né nelle geniali realizzazioni
di un partito, ci liberiamo dall’incubo di rievocazione e
contraddizione storica che incombe sulla sinistra»5.
I risultati del «Disgelo» furono assai contraddittori.
L’idea di poter raggiungere il socialismo in un paese
arretrato e senza la collaborazione di paesi più avanzati,
dopo il mancato show-down della rivoluzione mondiale
del 1917-1920, condusse a delle distorsioni strutturali

5 Ivan Ovsjannikov, «La sinistra dovrebbe difendere l’Urss?»,


disponibile on-line.

88
dal punto di vista economico che il sistema, ancor prima
che gli stessi dirigenti, non solo non furono in grado di
correggere, ma per certi versi persino aggravarono. La
principale di tali distorsioni, promossa dalla leadership
staliniana negli anni Trenta, era stata la presunzione di
poter forzare all’infinito lo sviluppo economico, princi-
palmente in direzione della crescita dell’industria pesan-
te e in generale verso il gigantismo, in un progetto di
ingegneria sociale la cui traduzione politica è riassumi-
bile nella celebre parola d’ordine di Stalin: «i quadri
possono tutto».
L’economia di piano senza contrappesi di mercato e
soprattutto democratici, si impose come potenza burocra-
tica che si irradiava dall’alto verso il basso, cristallizzan-
do un sistema che venne in seguito definito «economia
pianificata di comando». Malgrado la denuncia del «culto
della personalità» al XX Congresso, i successi in alcune
branche dell’economia come nell’aeronautica o nell’edi-
lizia abitativa popolare (chruščëvki), la priorità in econo-
mia fu continuata a dare alla produzione dei mezzi di pro-
duzione che ebbe sempre la precedenza sulla produzione
di beni di consumo (vedi Tabella 3). Una condizione che
sarebbe poi stata sintetizzata dai marxisti ungheresi dissi-
denti raccolti attorno ad Ágnes Heller, come burocratica
«dittatura sui bisogni»6.
La qualità di questi ultimi, inoltre, proprio a causa del
dominio burocratico, della mancanza di partecipazione

6 Vedi Ferenc Fehér-Agnes Heller-György Márkus, Dictatorship


over needs, Basil Blackwell, Oxford 1983.

89
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TABELLA 3. Mezzi di produzione e beni di consumo in % nella produ-
zione industriale in Russia e Urss.
Fonte: Narodnoe chozjastvo sssr za 70 let jubilyenij statističeskij eže-
godnik, Finansy i statistika, Moskva 1991.

democratica della popolazione alla gestione e attuazione


del piano, degli eccessi dell’economia di comando, restò
sempre ben al di sotto degli standard internazionali, ali-
mentando, una crescente economia parallela e illegale
(tenevaja ėkonomika). Il «miracolo sovietico» con cui si
fondò il mito dell’Urss come seconda potenza mondiale
fu basato sui bassi salari e sulla compressione dei consu-
mi più che sulla produttività, la cui crescita si basò fonda-
mentalmente sul trasferimento di forza-lavoro dalle città
alle campagne dopo la Seconda guerra mondiale.

Come funzionava l’economia sovietica?


Sulla base di queste contraddizioni anche Emanuel
Todd, sette anni dopo Amal’rik, diede per inevitabile il
crollo dell’Urss. L’arretratezza sempre più accentuata del-

90
l’industria rivolta alla produzione di beni di consumo
nell’Unione Sovietica, per il sociologo d’Oltralpe, era
dovuta essenzialmente a due cause7. La prima era la pro-
grammazione centralizzata in un sistema troppo vasto
perché tale tipo di gestione dell’economia fosse efficace.
Ma se la centralizzazione sovietica divenne un limite
assoluto con il decentramento produttivo degli anni ’80,
va anche sottolineato che l’economia di scala e la divisio-
ne internazionale del lavoro è continuata anche successi-
vamente nell’era postfordista e digitale, dando dei risulta-
ti eccellenti, almeno sotto il profilo della produttività.
La seconda causa dell’arretratezza dell’industria
sovietica, secondo Todd, era dovuta alla mancanza di un
mercato della forza-lavoro e quindi della contrattazione
sindacale che rendeva la mano d’opera poco costosa e
non faceva sentire ai direttori delle aziende sovietiche la
necessità d’introdurre tecnologie labour-saving. Parados-
salmente, come già aveva appuntato la critica operaistica
italiana negli anni ’60, la soppressione del conflitto di
classe e sociale tendeva in Urss non a sollecitare riformi-
smo e innovazione produttiva, ma ad atrofizzare qualsiasi
impulso alla modernizzazione.
Al netto di ciò, tuttavia, anche questa argomentazione
di Todd ha mostrato dei limiti quanto più si è venuti a
conoscere nel dettaglio, a partire dalle ricerche dagli ’90,
su come funzionava concretamente l’economia sovietica
e su quali equilibri si reggeva. La mancanza di un mercato

7 Emmanuel Todd, La chute finale. Essai sur la décomposition de la


sphère Soviétique, Robert Laffont, Paris 1990.

91
del lavoro ufficiale e legale non impedì infatti che la legge
del valore cacciata dalla porta rientrasse dalla finestra. Se
formalmente la forza-lavoro era allocata dall’alto ed era
scarsamente mobile (vista anche la diffusione di città
«chiuse» nelle quali si concentrava la produzione militare
e atomica), data l’imposizione del sistema della propi-
ska8, con l’andare del tempo ci fu un allentamento signi-
ficativo di tali norme che vennero in seguito liquidate,
dando la possibilità ai lavoratori di acquisire un certo
grado di forza contrattuale nelle aziende. In realtà il siste-
ma sovietico, come ha messo in luce János Kornai nella
sua classica opera, era assolutamente peculiare poiché
teneva miracolosamente insieme strutturalmente la piena
occupazione e la carenza cronica di manodopera.
«Sebbene il controllo e la pressione burocratica svolgessero
un ruolo importante, il costante eccesso di domanda di
lavoro finì per influenzare il comportamento dei lavoratori
dal momento in cui poterono cambiare agevolmente occu-
pazione»9.
Nel 1956 quando venne data, per la prima volta dopo
la Nep, la possibilità di cambiare attività, nel giro di un
8 Nel 1932 in Urss erano stati reintrodotti il passaporto interno e un
sistema di registrazione e di controllo dei movimenti della popolazione
a fini repressivi e di gestione delle migrazioni interne della forza-lavo-
ro. Nel 1974 il sistema venne allentato dando la possibilità di una rela-
tiva libertà di circolazione anche se la residenza restò rigidamente
legata al luogo di lavoro fino al 1977, quando la circolazione della
forza-lavoro venne completamente liberalizzata.
9 János Kornai, The Socialist system. The political economy of
Communism, Clarendon Press, Oxford 1992, p. 335.

92
anno il 50% della forza lavoro cambiò occupazione o
sede di lavoro (negli anni ’70 la situazione si stabilizzò in
alcuni settori intorno al 30%). Per Kornai,
«dato che la posizione dei direttori delle fabbriche era diret-
tamente condizionata dal raggiungimento del piano, questi
cercavano di garantirsi i lavoratori più capaci garantendogli
salari più alti e benefit rispetto ad altre aziende. L’enfasi
che era stata posta alla realizzazione degli obiettivi del
piano in epoca staliniana come unico criterio di successo
faceva sì che i manager delle imprese avessero tutto l’inte-
resse ad accumulare manodopera ma nessun incentivo a
usarla in modo efficiente. I fondi salariali erano impostati
in proporzione alla forza lavoro di un’impresa, quindi
aveva senso per i manager aziendali assumere centinaia di
lavoratori altrimenti superflui da utilizzare nei periodi di
“tempesta” per realizzare il piano. Le tipiche imprese indu-
striali erano quindi assurdamente sovraccariche di persona-
le rispetto ai loro concorrenti occidentali. I sussidi agricoli
di Brežnev, nel frattempo, perpetuavano un sistema di fat-
torie collettive inefficienti a sostegno di milioni di agricol-
tori improduttivi»10.
Il sistema di pianificazione sovietico si basava comun-
que su priorità chiaramente definite in cui la parte del
leone la facevano le risorse garantite all’industria pesante
e in particolare quelle destinate al complesso militare-
industriale, il quale assorbiva quote sempre crescenti di
ricchezza nazionale.
La ricaduta furono - per i comparti dell’industria bel-
lica - livelli di investimento elevati, migliori strutture di
formazione, salari più alti per chi vi lavorava, mentre
10 Ibidem, p. 305.

93
all’opposto, le imprese dell’industria leggera generalmen-
te erano costrette a reclutare i «rimasugli» della forza-
lavoro e delle risorse (ed è questa dinamica che, in parte,
è in grado di spiegare anche la cattiva qualità dei suoi pro-
dotti).
Si assistette anche al tentativo di replicare l’economia
mondiale all’interno dei confini dei Paesi del «campo
socialista» con lo sviluppo del Comecon, con il rifiuto
ostinato di partecipare alla divisione internazionale del
lavoro. Questa chiusura autarchica, resa più netta dalla
mancata partecipazione al Piano Marshall, rimandò sine
die l’emergere delle contraddizioni interne al sistema e fu
approfondita dalla guerra fredda scatenata di fatto unila-
teralmente a partire dalla guerra di Corea, dagli Stati Uniti
e dai loro alleati.
Dal punto di vista della «soggettività», venne promos-
so il proletarismo, cioè una particolare distorsione del
marxismo, determinata in parte dai fini e dalle necessità
dello sviluppo industriale: in Urss la mobilità sociale fu
sempre in primo luogo appannaggio di chi aveva origini
operaie e comunque umili, di chi era iscritto al partito e
dei dirigenti dei vari settori produttivi.
Il potere sovietico finì così per alienarsi le simpatie di
quegli strati definibili sommariamente «classe media»
amministrativa, dei servizi e intellettuale - circa il 15-20%
della popolazione complessiva - che invece in Occidente
venivano coccolati, sia perché i loro salari restarono
indietro rispetto a quelli operai in termini assoluti (gli sti-
pendi degli insegnanti e dei medici per esempio erano
mediamente del 25% inferiori a quelli dell’operaio non

94
specializzato)11, sia per la frustrazione di non poter acce-
dere alla cultura e al dibattito scientifico internazionale.

Il comunismo entro il 1980:


a ciascuno il proprio aereo
Nel 1961, al XXII Congresso del Partito, venne presen-
tato un nuovo programma in cui si proclamava con enfasi
il raggiungimento definitivo del socialismo nel paese e il
passaggio al comunismo entro il 1980. Per quella data,
accanto a tutta una serie di obiettivi di crescita economica,
si prevedeva la riduzione della giornata lavorativa a non
più di 20 ore la settimana, la gratuità oltre che della casa
anche delle utenze, delle vacanze in luoghi di villeggiatura
attrezzati, delle consumazioni nei ristoranti e nei bar. Un
programma al quale alcuni, e non solo all’interno del par-
tito, nel clima di entusiasmo che segnò quell’epoca, perfi-
no credettero ma a cui già nel decennio successivo anche i
vertici del partito smisero di fare riferimento. A tale propo-
sito, negli anni ’70, quando il deficit dei beni di prima
necessità tornò a farsi sentire più con maggior forza, iniziò
a circolare nel paese una gustosa barzelletta.
Due amici s’incontrano e uno chiede: «ma è vero che
nel comunismo ognuno di noi avrà un aereo personale?»

11 Un ampia tabella comparata dei salari in Unione Sovietica è


disponibile alla pagina web http://istmat.info/node/9304. Va comun-
que segnalato che in termini di status sociale, ma anche in termini di
«benefit», la condizione del lavoro intellettuale restava migliore di
quella operaia. Secondo una ricerca realizzata nel 1974 a Kostroma, le
famiglie degli «impiegati» avevano a disposizione alloggi di 25,2
metri quadrati contro i 15,5 degli operai.

95
E l’altro: «Ma che, ti serve un aereo tutto tuo?» «Sai,
metti che a Kaluga annunciano la distribuzione della fari-
na, con un ora e mezza di volo sarei già lì per potermene
approvvigionare!»
Il 7 ottobre 1977, quando venne approvata la nuova
costituzione del paese che introduceva nel preambolo una
bizzarria quale l’organizzazione «centralistico democrati-
ca», non più solo nel partito ma perfino nello Stato, ogni
riferimento all’obbiettivo comunista fu però rimandato a
un futuro indefinito da raggiungere con «la lotta e il
rafforzamento del socialismo».
Malgrado ciò l’ipotesi di poter riformare l’economia
pianificata rovesciando la proporzione tra produzione dei
mezzi di produzione e dei mezzi di consumo, razionaliz-
zando al contempo l’allocazione delle risorse e la produ-
zione in funzione delle esigenze dei cittadini, erano obiet-
tivi alla portata dell’Unione Sovietica che furono bloccati
in primo luogo dalle paure della burocrazia di perdere il
controllo e il dominio sulla società. L’idea invece di poter
competere sul terreno del consumismo, della produttività,
sul continuo allargamento dell’accumulazione con le
società capitalistiche occidentali, che aveva in questi ele-
menti due totem imprescindibili, rappresentò una sconfit-
ta teorica e ideologica ancor prima che materiale per un
sistema che si proclamava seguace delle idee di Marx.
Volersi misurare sul terreno della produttività, della
crescita del Pil e dei consumi (in ultima analisi del life
style) con l’Occidente laddove avrebbe dovuto essere evi-
dente che un sistema che tende al socialismo e garantisce
la piena occupazione non può calcolare allo stesso modo

96
l’efficienza economica di paesi dove sussiste un mercato
estremamente flessibile della forza-lavoro, condusse
l’Urss nel baratro: quando divenne evidente che l’Urss
non poteva, come aveva promesso Chruščëv, «seppellire
gli americani» sul terreno dei consumi, la demoralizzazio-
ne a livello di massa divenne inevitabile.

Dentro il dissenso
In una nota del Kgb degli anni ’70, all’epoca in cui alla
sua direzione vi era Jurij Andropov, si segnalava che il
fenomeno del dissenso sarebbe stato limitato a un circuito
complessivo di 8,5 milioni di cittadini sovietici ovvero
circa il 5% della popolazione adulta. Si trattava però della
parte più attiva e dinamica della società sovietica e in par-
ticolare di quella metropolitana che giocherà poi un ruolo
fondamentale all’emergere della Perestrojka. Quella del
Kgb era una valutazione contemporaneamente abbastanza
corretta e abbastanza superficiale.
Lo sviluppo di una vasta circolazione di letteratura e
musica giovanile illegale divenne parte integrante della
dimensione delle relazioni sociali nel paese in cui sempre
di più gli organi repressivi tendevano a tollerare. Mentre la
saggistica politica vietata rimase appannaggio e d’interes-
se solo di piccoli segmenti della società sovietica, i samiz-
dat di fiction come le picaresche Avventure del soldato
Ivan Čonkin di Vladimir Vojnovič - duplicati su macchine
da scrivere con la carta carbone - raggiunsero un sempre
più vasto pubblico e una più ampia circolazione.
Il malessere sociale era tale che s’incuneò persino nel
mondo della «cultura ufficiale». Nel film Mosca non

97
crede alle lacrime del regista Vladimir Men’šov, datato
1979 - che ricostruiva la complicata vita di una donna nel
secondo dopoguerra sovietico - si fotografava con acutez-
za la stanchezza di una società che appariva ripiegata su
se stessa dopo i grandi avanzamenti socioeconomici del
trentennio precedente. L’eroina del film, Katja, è il proto-
tipo della donna russa delle realtà metropolitane sovieti-
che. Nel plot Katja, abbandonata dal suo grande amore,
cresce da sola una figlia e nel contempo riesce ad avere
successo professionalmente, giungendo ad avere una casa
con tutti i comfort e una bella automobile. Malgrado ciò
però qualcosa ancora le manca e lo troverà, alla fine della
storia, in un uomo semplice ma ricco di umanità, una vera
e propria metafora della mancanza di afflato umanistico
della società tardosovietica.
Tra l’altro, in filigrana, nel film non si può non coglie-
re la sottolineatura dello straordinario ruolo giocato dalle
donne sovietiche dopo la Seconda guerra mondiale.
Caricatesi in buona parte sulle spalle lo sforzo bellico
nelle retrovie (ma in parte anche al fronte), affrontata la
tragedia dell’eclissi di intere classi d’età di maschi e della
loro fragilità psicofisica, entrate di prepotenza nel mondo
del lavoro (nel 1980 il tasso di occupazione femminile
raggiungerà il 96,9% del totale), le donne sovietiche rap-
presentarono l’architrave senza cui il sistema sarebbe
crollato inesorabilmente. Malgrado ciò vennero tenute
lontane dalle posizioni più alte della nomenklatura statale
e del partito: in epoca brezneviana solo il 3,9% delle
donne faceva parte dell’élite dominante. Il paradosso di
un universo femminile da un lato altamente emancipato e

98
dall’altro, legato a ideologie e stereotipi patriarcali - sia
detto per inciso - rappresenta un elemento chiave non
ancora sufficientemente studiato.
Se il fenomeno del dissenso propriamente politico restò
confinato al livello dei piccoli cenacoli divisi al loro inter-
no tra neomarxisti, cristiano-sociali e conservatori slavofi-
li, l’inquietudine e il disincanto crebbero in tutta la società
per tutti gli anni ’70: l’esplosione del fenomeno delle bar-
zellette antiregime da raccontare sottovoce, na-kuchnju, in
cucina, e la popolarità delle canzoni di Vladimir Visotskij
che raccontavano di una Russia dolente e delusa, punteg-
giarono un’intera epoca. Il metadiscorso del marxismo-
leninismo passò, come ha sottolineato Claude Lefort, dalla
«creazione» del diamat staliniano - vera e propria neolin-
gua ad uso della narrazione dell’accumulazione primitiva
«socialista» - alla statica ripetizione di formule marxiste-
leniniste roboanti ma vuote, da parte di una «gerontocra-
zia» di cui Michail Suslov, il «guardiano dell’ortodossia»,
fu il più celebre rappresentante.
La peculiarità del blocco sociale sovietico formato
essenzialmente dalla burocrazia e dalla classe operaia
industriale fece sì che la vicenda della tradizione rivolu-
zionaria, pur ormai espunta di qualsiasi radicalità, persi-
stesse comunque fino al crollo finale del sistema. Lo notò
Deutscher con acutezza poco prima di morire, nel 1967:
«Tutti loro, Stalin compreso, Chruščev e i successori di
Chruščev, hanno dovuto coltivare nella mente del loro
popolo il senso della continuità della rivoluzione. Hanno
dovuto riconfermare gl’impegni del 1917, perfino mentre
loro stessi li stavano tradendo; hanno dovuto confermare

99
mille volte la fedeltà dell’Unione Sovietica al socialismo.
Questi impegni e queste dichiarazioni di fede sono stati
inculcati in ciascuna delle nuove generazioni, in ogni grup-
po d’età, nelle scuole e nelle fabbriche. La tradizione della
rivoluzione ha dominato il sistema dell’educazione sovieti-
ca. Questo è di per se stesso un potente fattore di continuità.
È ben vero che questo modello di educazione è stato ideato
per nascondere la rottura nella continuità, per falsificare la
storia e per giustificare contraddizioni e irrazionalità.
Eppure, a dispetto di tutto questo, il sistema educativo ha
costantemente risvegliato nella massa del popolo una
coscienza della sua eredità rivoluzionaria»12.
Tuttavia pensare che sulla base di un tale richiamo for-
male si potesse costruire l’ipotesi di un mitico «ritorno
all’età dell’oro», alla purezza originaria del leninismo
come sognavano alcuni dissidenti anche in Urss, si dimo-
strò un’illusione. Il marxismo, imbalsamato e trasformato
in materia scolastica a cui nessun studente poteva sottrar-
si, divenne oggetto di sarcasmo come nella fulminante
sintesi di un’altra storiella sovietica:
«Che differenza c’è tra uno studente del 1870 e uno del
1970? Il primo, se gli bussavano alla porta della stanza,
nascondeva in fretta il Capitale di Marx e metteva sul tavo-
lo una bottiglia di vodka. Quello del 1970 nasconde la
vodka e mette sul tavolo il libro di Marx!».
Il sogno del «Disgelo» e del rinnovamento della
società sovietica appassì definitivamente con lo schiac-
ciamento della Primavera di Praga quando i cittadini
sovietici si resero definitivamente conto che il sistema era
12 Isaac Deutscher, op.cit., pp. 71-2.

100
irriformabile, perlomeno in chiave socialista. Dopo l’a-
scesa di Brežnev nel 1964 venne condotto persino - a par-
tire dal discorso del Segretario generale in occasione del
20° anniversario della vittoria nella Seconda guerra mon-
diale - un goffo tentativo di recuperare la figura di Stalin,
mentre con la caccia alle streghe contro due letterati in
vista come, Sinjavskij e Daniel’, una plumbea cappa cen-
soria scese sul mondo della cultura sovietica.
In Impero, Toni Negri e Michael Hardt hanno colto in
nuce questa dinamica quando affermano che
«dopo la drammatica conclusione dello stalinismo e le
innovazioni abortite di Chruščëv, il regime di Brežnev con-
gelò completamente la produttività della società civile, la
quale aveva raggiunto una notevole maturità e chiedeva un
riconoscimento sociale e politico, soprattutto dopo aver
sostenuto l’immane mobilitazione della guerra e per la pro-
duttività industriale»13.
Il già citato Amal’rik aveva sintetizzato così questo
aspetto trent’anni prima:
«La società sovietica di oggi può essere paragonata ad una
torta a tre strati: lo strato superiore formato dalla burocrazia
dirigente; lo strato intermedio da quella che abbiamo chia-
mato classe media o classe degli specialisti; e lo strato infe-
riore, più numeroso, formato da operai, kolchoziani, piccoli
impiegati, personale di servizio ecc. Dalla rapidità con la
quale avverrà la crescita della classe media e la sua autor-
ganizzazione - se più lentamente o più rapidamente della
decomposizione del sistema - dalla rapidità con la quale lo
strato intermedio della torta crescerà a spese degli altri due,

13 Michael Hardt-Antonio Negri, Impero, Rizzoli, Milano 1993, p. 260.

101
dipenderà la capacità della società sovietica di ristrutturarsi
in modo pacifico e indolore e di sopravvivere con un mini-
mo di perdite ai cataclismi incombenti»14.
Il seppur rozzo sociologismo dell’autore rivelava un
aspetto evidente: il motore del mutamento sociale in Urss
durante la Perestrojka sarebbe stata la forza-lavoro intellet-
tuale e non la classe operaia industriale, come si attendeva-
no classicamente i marxisti rivoluzionari, perché quest’ul-
tima manteneva una posizione relativamente privilegiata
all’interno del sistema con buone possibilità - seppur decli-
nanti con il cristallizzarsi della nomenklatura a partire dagli
anni ’60 - di poter accedere all’ascensore sociale nelle filie-
re della gestione amministrativa, militare e di partito. I
segretari generali del partito della storia sovietica furono
praticamente tutti di umili origini: una tradizione che si è
trascinata fino all’ultimo, se perfino Vladimir Putin è potu-
to diventare presidente della Federazione russa malgrado
fosse figlio di un operaio e di una portinaia.

Un incerto paradiso brezneviano


Se durante il periodo cruscioviano si assistette ai feno-
meni tipici della rivolta operaia con le insurrezioni di
Noril’sk e di Novočerkassk, del teppismo di massa, del
«lavorare con lentezza», negli anni della stagnazione brez-
neviana si vennero oliando dei meccanismi di compromes-
so sociale che limitarono anche la necessità del potere di
dover ricorrere sistematicamente all’aperta repressione.
Malgrado in Occidente il caso Sacharov e quelli dei dissi-
14 A. Amal’rik, op. cit., p. 55.

102
denti o delle personalità «non conformi» spediti negli
ospedali psichiatrici riempissero le prime pagine dei gior-
nali,
«il periodo in cui Brežnev fu al potere fu caratterizzato dal-
l’uso più limitato della polizia segreta. Così, se sotto il
“destalinizzatore” Chruščev nel 1956-1966 per propaganda
e attività e antisovietica annualmente erano stati giudicate
575 persone, nel periodo brezneviano questo dato scese a
123 persone processate»15.
Queste «liberalità» non furono dovute al carattere par-
ticolarmente magnanimo del Segretario generale - come
si vedrà a Praga - ma principalmente al fatto che il suo
governo coincise solo nella fase finale con la Zastoj, la
«Stagnazione», mentre per tutto un primo periodo fu in
grado di produrre una crescita economica e del welfare
sostenuta.
Come ha dimostrato Thomas Piketty, per tutta una
serie di fattori concomitanti, in quella fase della storia
sovietica ci fu il più basso tasso di diseguaglianza mai
raggiunto nel paese e totalmente sconosciuto nei paesi
capitalistici, come documentato dal Grafico n. 2, anche se
come vedremo questi dati non tengono conto dei patrimo-
ni sommersi che la burocrazia e la criminalità organizzata
iniziarono ad accumulare negli anni ’70. Tali dati, inoltre,
non devono indurre a rappresentazioni mitologiche della
società sovietica, che fu comunque segnata, soprattutto
fuori dalle grandi città, da povertà e miseria diffusa: nel
1980, in Urss, il 25,8% della popolazione riceveva, senza
15 Andrej Savič «“Malen’kaja sdelka” meždu vlastuju i narodom»,
in Rodina, n.1 (120) 2015.

103
GRAFICO 2. Redditi in Russia 1905-2015 (top 10%, medi 40%, bassi
50%). Elaborazione grafica sulla base dello studio di Filip Novokmet-
Thomas Piketty-Gabriel Zucman, «From Soviets to Oligarchs:
Inequality and property in Russia 1905-2016», aprile 2018, disponibile
in https://imib.dreamwidth.org/24810.html

tener conto dei benefit, gli l’goti, un salario o un reddito


inferiore a 75 rubli e il 18,3%, inferiore a 150 rubli.
Il welfare soviet-style di marca brezneviana alludeva
quindi vagamente a un socialismo sviluppato che garanti-
va la gratuità della casa, della sanità e dell’istruzione, i
prezzi politici e sussidiati dei beni di primissima necessità
ecc. ma aveva come contraltare il cosiddetto defizit, le
lunghe file davanti ai negozi dei cittadini sovietici per
acquistare spesso persino i beni di prima necessità e una
standardizzazione della vita sociale che produceva aliena-
zione e disincanto.
Non è un caso che nel 1975 il campione d’incassi ai
botteghini sovietici sia stato Ironija sudby (Ironia del

104
destino) di El’dar Rjazanov, una commedia che affronta
con levità e malinconia lo straniamento dei cittadini sovie-
tici di fronte alla massificazione e la standardizzazione di
una società dei consumi che stentava a decollare. Il perso-
naggio principale della pellicola, Ženja, si ubriaca con i
suoi amici in una sauna di Mosca la notte di Capodanno e
per caso finisce su un aereo per Leningrado. Arrivato nella
città, pensando di essere ancora a Mosca, dà al tassista il
suo indirizzo. Una strada con lo stesso nome esiste anche
a Leningrado in un quartiere dormitorio costruito negli
anni ’70. I grandi condominî del quartiere sembrano iden-
tici a quelli di Mosca, così come i negozi e le fermate degli
autobus. Anche le scale, i numeri degli appartamenti e le
chiavi delle porte sono gli stessi. L’eroe arriva al «suo»
indirizzo ed entra in un appartamento di Leningrado e qui
anche la disposizione dell’appartamento, i mobili e gli
elettrodomestici sono abbastanza simili perché il protago-
nista li confonda con i suoi. Dopo una spassosa serie di
equivoci che proseguono per una notte intera con la vera
intestataria dell’appartamento, i due si innamoreranno per-
dutamente a ricompensa per un destino e un’esistenza dav-
vero troppo uniforme e dove l’abuso di alcol è evidente-
mente una piaga ingestibile (nel 1984 venne calcolato che
ogni sovietico maschio beveva in media dalle 90 alle 110
bottiglie di vodka all’anno).
Il contratto sociale di Brežnev si basava su elementi
come la sicurezza del posto lavoro, sul congelamento dei
prezzi di prodotti come il salame e il pane, su una forma
limitata di mobilità sociale e di meritocrazia (a certi livelli
per progredire nella carriera era comunque obbligatorio far

105
parte del partito), conditi però con la tolleranza di una fio-
rente «seconda economia». Come per la forza-lavoro infat-
ti, forme di mercato tornarono ad emergere prepotentemen-
te nel settore dei beni di consumo, visto che il potere buro-
cratico si rifiutava ostinatamente di renderne disponibili
alcuni o non era in grado semplicemente di garantirli.
La dirigenza Brežnev strinse così un tacito accordo
principalmente con la popolazione delle grandi realtà
metropolitane chiudendo entrambi gli occhi di fronte all’e-
spansione di una vasta gamma di piccole attività economi-
che private, alcune legali o semilegali, altre illegali, con
l’obiettivo primario di riallocare con mezzi privati una fra-
zione significativa del reddito nazionale sovietico secondo
le preferenze private. Questo little deal fu la punta di lan-
cia su cui si sviluppò un’improvvisata economia semiclan-
destina di mercato che in alcuni casi, più ci si allontanava
dai grandi centri metropolitani, più non si dimostrava altro
che semplice baratto o scambio di prestazioni. Nelle pro-
vincie, in particolare della Russia Bianca e dell’Ucraina,
nelle dacie di campagna, crebbe una fiorente economia
naturale con la coltivazione di cetrioli, patate e pomodori
e anche la produzione del samagon (la potente vodka casa-
linga). Si giunse al punto di chiudere un occhio anche sul
furto nelle aziende di macchinari, di pezzi di ricambio, di
prodotti tessili o alimentari da parte dei lavoratori. Si assi-
stette in sintesi al proliferare accanto all’economia pianifi-
cata di comando, alla crescita dal basso di un sistema di
relazioni sociali orizzontali, spesso basato sullo scambio
di prestazioni, sul baratto e perfino sul dono come nel caso
della letteratura proibita.

106
L’espansione del piccolo commercio semilegale e ille-
gale rappresentò un mezzo per compensare anche l’inef-
ficiente e mastodontico sistema di distribuzione al detta-
glio sovietico. Dentro questa dinamica crebbe, nelle città
dove si sviluppò il turismo internazionale, lo strato dei
farzovšiki. Erano questi dei giovani che sostavano nei
pressi degli hotel frequentati dagli stranieri o dei magaz-
zini «Berëzka»16, e si dedicavano alla compravendita di
souvenir in cambio di beni anelati dai giovani sovietici
(quali jeans e calze di nylon), al mercato nero di valuta,
alla compravendita di dischi di musica occidentale,
offrendo al contempo ai turisti stranieri le prestazioni di
prostitute locali. Il racket della prostituzione crebbe a tal
punto che negli anni ’80 una singola prostituta attiva nella
catena degli hotel Inturist (alberghi per stranieri) produce-
va un giro d’affari di 120mila rubli l’anno (100 salari
medi annui) di cui un quarto finiva in tasca alla professio-
nista e il resto veniva redistribuito tra una rete di poliziot-
ti, portieri, camerieri che ruotavano intorno al suo busi-
ness: insomma tutta la società era ormai coinvolta, in un
modo o nell’altro nella seconda economia.
Nel 1990, il risparmio in tutte le forme che era nelle
mani della popolazione aveva raggiunto la cifra astrono-
mica di 513 miliardi di rubli, che equivaleva allora al
50% del prodotto nazionale lordo. La domanda insoddi-
16 Rete di negozi con pagamento in valuta straniera o con assegni di
serie D emessi dalla Vneštorgbank, creati nel 1964 per l’approvvigio-
namento di liquori e souvenir. Ai cittadini sovietici (ad eccezione degli
ufficiali e degli alti membri del partito) non era permesso di acquistare
in questi negozi.

107
sfatta che si era formata negli anni fu il principale stimo-
lo per lo sviluppo del «mercato nero». Secondo i calcoli
del Comitato statale di statistica, l’economia sommersa
nel 1989 era pari a 59 miliardi di rubli. Ma un anno dopo,
era già cresciuta fino a 99,8 miliardi di rubli, che equiva-
leva al 10% del Pil del 199017.
Con le sue promesse e i suoi consumi artificialmente
imposti ai consumatori, l’Occidente era piombato in Urss
e la stava disintegrando: nel 1950, solo il 2% dei cittadini
sovietici aveva radio a onde corte, ma trent’anni dopo
metà della popolazione che vi aveva accesso, poteva
informarsi su quanto succedeva nel mondo capitalistico e
sui suoi stili di vita. La leadership sovietica aveva adotta-
to misure tecniche per disturbare l’ascolto delle radio di
produzione nazionale delle stazioni occidentali, ma i cit-
tadini russi erano ormai, a questo punto, in grado di modi-
ficarle allo scopo. Va però aggiunto, che le trasmissioni di
Voice of America più ascoltate in Europa orientale resta-
rono sempre quelle notturne del jazz di Willis Conover e
non i bollettini propagandistici antisovietici18.
Come già detto, assistenza sanitaria, trasporti pubblici,
istruzione e una varietà di strutture ricreative e di vacanza
erano disponibili in Urss a un costo nominale per la mag-
gior parte dei cittadini. Anche l’affitto e le utenze dome-
stiche erano forniti in pratica gratuitamente, ma prezzi
17 Per una ricostruzione in «presa diretta» di quanto avveniva in Urss
in quella fase si legga «25 let nazad: Tenevaja ėkonomika v SSSR» in
www.interfax.ru/business/398704.
18 A tale proposito si veda il mio «Note di Jazz sovietico», in
www.matrioska.info/cultura/note-di-jazz-sovietico/.

108
così artificialmente bassi portavano, data la sproporzione
tra le risorse investite per le spese militari e i mezzi di
produzione e quelle per i consumi, a enormi carenze e
code per un’ampia gamma di prodotti. Beni di uso comu-
ne come la biancheria intima o la carta igienica a volte
scomparivano dai negozi per mesi.
Il graduale aumento della prosperità avrebbe dovuto
rimuovere le possibili tensioni tra l’élite e il resto della
popolazione. Il salario mensile medio del periodo 1980-
1985 fu di 190,1 rubli al mese e quello operaio di 208,5
rubli e se si aggiungono altri sussidi e benefit raggiungeva
i 269 rubli, un reddito non del tutto insignificante dal
punto di vista del fabbisogno alimentare se si considera
per esempio che il pollame costava nello stesso periodo
1,6 rubli al chilo e il pesce 4,6.
Anche altri beni consumo durevole erano relativamen-
te abbordabili (ci volevano 1,7 rubli per un metro di tes-
suto, 1,1 rubli per un paio di scarpe di cuoio, 316 rubli per
un televisore a colori) anche se poi la qualità non soddi-
sfaceva spesso i consumatori che comunque dovevano
restare in attesa per lunghi periodi per poterli acquistare:
risolto il problema della quantità, l’economia sovietica
perse la battaglia della qualità.
Crebbe così l’abitudine dei sovietici - tanto più si veni-
va a conoscere il livello dei consumi occidentali - di con-
frontare in modo acritico i propri stili di vita con quelli
capitalistici.
Il sistema sovietico, in definitiva, alluse al consumi-
smo senza poterlo veramente realizzare. I miti che accom-
pagnarono il boom economico occidentale come quelli

109
legati l’acquisto dell’automobile privata rimasero una
chimera non solo per i prezzi ma per la limitatezza del-
l’offerta. Per poter acquistare la celebre Žigulì, la variante
sovietica della 124 Fiat prodotta a Togliattigrad a partire
dal 1970, bisognava attendere almeno tre anni.
Tuttavia, per una popolazione sovietica i cui genitori e
nonni erano stati dei contadini poveri solo un paio di gene-
razione prima, il welfare dell’era Brežnev rappresentò un
importante traguardo, soprattutto perché la crescita fu dav-
vero impressionante nel campo culturale, dell’educazione
e della formazione.
I dati al riguardo sono significativi. Tra il 1965 e il
1985 il numero di teatri nel paese passò da 501 a 747, i
musei da 954 a 2.741, le colonie estive per i bambini da
24.200 a 81.800, i sanatori per la cura e il riposo da 8.080
a 16.020. Dal 1959 al 1989 il numero di laureati per ogni
1.000 abitanti passò da 23 a 108 e 504 su 1.000 sovietici
raggiungevano il livello dell’istruzione media. Ogni
bimbo, nel doposcuola, accedeva facilmente a corsi di
strumenti musicali o di disegno, gratuitamente. L’altro lato
della medaglia fu però una censura preventiva sull’offerta
culturale, un’educazione conformista e un’informazione
controllata dall’alto e sorvegliata.
Malgrado ciò, e non per caso, quando i russi di oggi
affermano di avere nostalgia per l’Urss, la loro mente non
corre all’era staliniana (in cui del resto non hanno vissuto
e non conoscono), ma a quella brezneviana. In un recente
sondaggio proprio Leonid Il’ič è stato votato come il
miglior segretario del Partito della storia sovietica.

110
Riforme e cibernetica
In realtà l’economia sovietica già nella seconda metà
degli anni ’50 aveva iniziato a mostrare segni di diffi-
coltà. Il modello di crescita del Pil era estensivo ed esige-
va crescenti quantità di investimenti e di forza-lavoro e
perciò alla lunga si dimostrò sempre meno remunerativo.
Per crescere, l’Unione Sovietica doveva impiegare una
quantità molto maggiore di fattori produttivi (lavoro,
materie prime, investimenti) che in Occidente. In Urss,
negli anni ’60, il 65% della crescita produttiva era deter-
minato dall’accrescimento dell’input, il doppio di quello
degli Usa. Essendoci un’offerta di forza-lavoro limitata
malgrado i buoni risultati demografici, i costi per estrarre
le materie prime inevitabilmente iniziarono a crescere.
Tra il 1950 e il 1960, per esempio, l’Urss investì nel-
l’economia, complessivamente intesa, un +9,4% di capi-
tale fisso e variabile all’anno, ricavandone soltanto un
+5,8% in termini di produzione. In tal modo il carattere
estensivo dell’economia sovietica faceva sì che la quan-
tità richiesta di lavoro per produrre un qualsiasi bene di
consumo fosse nettamente più alta che in Occidente.
Secondo i dati elaborati da Korgai sulla base delle stime
dell’Onu per produrre un chilo di carne di maiale in Urss
nel 1990 c’era bisogno di 2,7 unità produttive più che in
Germania Ovest, per un chilogrammo di burro 4, per un
litro di vino 13,4, per una televisione a colori, 4,619.
Allo stesso tempo la diversificazione della produzione
esigeva di definire più correttamente, in mancanza degli

19 J. Kornai, op.cit., pp. 308-9.

111
aggiustamenti semiautomatici prodotti dal mercato, le
metodologie della pianificazione. Si trattava di problema-
tiche che la burocrazia - non così ottusa come la si volle
poi dipingere - aveva ben presente e che pensò di poter
risolvere seguendo due diverse strade per certi versi alter-
native tra loro: quella cibernetica o «integralmente comu-
nista» o quella tecnocratica «semicapitalistica» basata
sulle idee dell’economista Esvej Liberman.
La prospettiva cibernetica aveva le sue origini nell’o-
pera del matematico Leonid Kantorovič (Premio Nobel
per l’economia nel 1975 per «i contributi alla teoria del-
l’allocazione ottimale delle risorse») che aveva elaborato
già a partire dagli anni ’30 l’idea dello sviluppo della pro-
grammazione lineare. La sua impostazione, osteggiata
durante il periodo staliniano perché «negatrice della teo-
ria del valore-lavoro», prevedeva di rendere più efficiente
il flusso economico sovietico con la creazione di un siste-
ma di «prezzi-ombra» che mimassero le funzioni regola-
trici del mercato nella società capitalistica. La sua ipotesi
di lavoro pur non negando formalmente la possibilità di
introdurre dei miglioramenti produttivistici al sistema, si
orientava sul perfezionamento dell’organizzazione della
pianificazione e della produzione20.
Per far ciò era necessario avere un quadro realistico e
sempre aggiornato della situazione non solo di ogni sin-
golo settore economico o di ogni azienda, ma anche di

20 Per l’opera del grande economista sovietico, si veda Leonid


Vital’evič Kantorovič, Izbrannye sočinenija. Matematiko-ėkonimiče-
skie raboty, Nauka, Moskva 2011, e in inglese Id., Selected Works, V,
t. 1-2. Gordon & Breach Publishers, London 1996.

112
ogni singolo reparto di stabilimento. Questo tipo di pro-
spettiva finì per intrecciarsi con la ricerca cibernetica
sovietica che a partire dalla metà degli anni ’50 era stata
sviluppata da Anatolij Kitov e da Victor Gluškov.
Gluškov, in particolare, un geniale matematico di
Kiev, sognava di poter organizzare la pianificazione
dell’economia dell’Urss attorno a un grande «supercom-
puter» che fosse in grado di razionalizzare tutte le varia-
bili economiche. Gluškov fu l’ideologo principale dello
sviluppo e della creazione del sistema nazionale di conta-
bilità ed elaborazione automatizzata delle informazioni
(Ogas), destinato alla gestione computerizzata dell’intera
economia dell’Urss nel suo complesso. A tal fine, aveva
sviluppato un sistema algebrico algoritmico e una teoria
per la gestione di database. «Lo zar della cibernetica
sovietica, l’accademico V.M. Gluškov propone di sosti-
tuire i leader del Cremlino con i computer», scrisse il dis-
sidente Victor Zorza sul Washington Post negli anni ’60,
un’affermazione che suonava ironica ma era anche una
sorprendente allusione a un progetto di comunismo ano-
nimo e visionario come quello accarezzato nello stesso
periodo da Amadeo Bordiga nei suoi articoli su Il
Programma Comunista21. Nel suo progetto Gluškov pre-
vedeva persino l’eliminazione del danaro e la libera
distribuzione dei beni, entro quattro piani quinquennali.
Il sogno cybercomunista di Gluškov è divenuto, a par-
tire dagli anni ’90, una variante della nostalgia e della
21 Valga come riferimento l’ottima antologia di testi, pubblicati ano-
nimi in accordo alla tradizione bordighista: Scienza economica marxi-
sta come programma rivoluzionario, Quaderni di N+1, Torino 2018.

113
rivalutazione della stagione sovietica che circola tra i
russi di oggi: il cybersovietismo sarebbe stato l’ultimo
treno che avrebbe potuto evitare il crollo dell’Urss, per-
messo di sviluppare una rete tutta sovietica sul genere di
internet prima degli americani e perfino sarebbe stato in
grado di realizzare il comunismo. In realtà in Urss man-
cavano alcuni presupposti e tasselli fondamentali per rag-
giungere tali obiettivi.
Al «socialismo» di Lenin e poi di Stalin infatti non era
mancata «l’elettrificazione», cioè la tecnica, ma erano
mancati i soviet, vale a dire l’intreccio della crescita eco-
nomica con una democrazia diretta dei lavoratori. E ciò
era stato dovuto a un motivo di fondo. In Urss, e in tutto il
mondo, non esistevano a quell’epoca i presupposti, non
esisteva la maturità sociale per una democrazia radicale
dispiegata, per la partecipazione attiva e cosciente all’or-
ganizzazione economico-sociale dei cittadini. Non a caso
la burocrazia dominante, pur cogliendo le potenzialità
delle idee «cybercomuniste», se ne ritrasse impaurita.
Detto ciò non può lasciare indifferenti il fatto che Gluškov
e il gruppo di ricercatori che lo coadiuvavano fossero degli
esploratori del domani in grado di accarezzare l’affasci-
nante sogno del comunismo dispiegato sulle ali della tec-
nologia e del lavoro vivo, creativo e non subordinato22.
L’idea della pianificazione economica è stata nei
decenni del liberismo sbeffeggiata e messa alla berlina
come una reliquia del «passato di un’illusione», come ha
22 Sull’opera del matematico si veda Victor Gluškov, Kibernetika.
Voprosy teorii i praktiki, Nauka, Moskva 1986.

114
definito François Furet il comunismo, ma resta evidente
che pur non essendo la panacea di ogni male, essa gio-
cherà un ruolo non marginale nella definizione di una
società egualitaria e prospera anche nel futuro. Oggi di
fronte alla crescita del villaggio digitale globale, nei
movimenti sociali che costantemente emergono, inequi-
vocabilmente l’alternativa comunista si dispiega e si
immagina, con buona pace di Stalin e anche delle vie
nazionali, immediatamente su scala mondiale e al più alto
livello dello sviluppo tecnologico: Gluškov e Trotsky da
lassù sorridono soddisfatti.

Le riforme di Kosygin
La soluzione «tecnocratica» di Liberman era assai
meno immaginifica e puntava a imporre più prosaicamente
dei criteri produttivistici e di profittabilità alle singole
imprese e al sistema Urss nel suo complesso. Ed è alla fine
su questa riforma a più breve raggio rispetto alla «soluzio-
ne Gluškov» che cadde pragmaticamente e cautamente la
scelta di Kosygin nel 1965. Il tentativo di introdurre dei cri-
teri capitalistici nella configurazione aziendale sovietica
però non decollò mai veramente. Tra i vari esperimenti che
vennero condotti tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli
anni ’70 quello a cui si appuntarono maggiormente le spe-
ranze del Cremlino, fu il «metodo Ščekino».
Nello stabilimento chimico della città di Ščekino dal
1970 fu istituito un fondo con salario fisso predeterminato
e il denaro risparmiato a seguito della riduzione del per-
sonale e dell’aumento della produttività del lavoro, iniziò
ad essere utilizzato dall’impresa a propria discrezione,

115
anche per incentivare i lavoratori a produrre di più e
meglio. Inizialmente il sistema sembrò funzionare e con-
dusse alla riduzione di 870 addetti (spostati in nuovi set-
tori produttivi dell’azienda), all’aumento della produzio-
ne e della produttività e garantì salari più alti. Tuttavia l’e-
sperimento esportato in altre aziende diede risultati con-
trastanti e alla lunga mostrò la corda.
Il metodo Ščekino produsse infatti dei buoni risultati
solo in quelle imprese dove c’era la possibilità di svilup-
pare la produzione, ovvero accrescere i processi di accu-
mulazione. Nelle altre realtà in cui fu sperimentato l’ec-
cesso di forza-lavoro apriva inevitabilmente la strada,
come nel caso jugoslavo, alla crescita della disoccupazio-
ne. Si trattava di una strada pericolosissima per gli equili-
bri interni al paese perché avrebbe fatto saltare la base
materiale e ideologica del compromesso sociale tra buro-
crazia e lavoratori e così l’esperimento fu di fatto accan-
tonato.
Nella stessa fabbrica di Ščekino a partire dal 1975 i
benefici della svolta produttivistica vennero via via ridu-
cendosi quanto più non era possibile riallocare la forza-
lavoro in eccesso: la cassa salariale finì per stagnare e gli
aumenti salariali alla fine vennero cancellati23.
A far fallire questa ipotesi ci pensò anche la conflittua-
lità verticale tra vertici dello Stato da una parte e del
management delle singole aziende e dei lavoratori dall’al-
tra. Già nel 1971 in un incontro con il primo ministro

23 Mnenie, «Ščekinskij ėksperiment. “Ėto sčitalos’ by rvačest-


vom”», in //ryb.ru/2021/05/16/1770299.

116
cecoslovacco Lubomír Štrougal lo stesso Kosygin confes-
serà il fallimento del suo progetto:
«Non è rimasto niente. Tutto è crollato. Tutti i progetti sono
stati interrotti e le riforme sono finite nelle mani di persone
che non le vogliono affatto... La riforma è stata silurata. Le
persone con cui ho elaborato i materiali del Congresso sono
già state licenziate e sono state assunte persone completa-
mente diverse. Ormai non mi aspetto niente»24.
In quella fase la dialettica tra produttività e welfare si
configurò come resistenza al Gosplan: si confrontavano
da una parte i ministri dei diversi settori economici che
volevano implementare il piano e dall’altra i «direttori
rossi» delle imprese e i lavoratori loro alleati che punta-
vano alla massimizzazione dei costi di produzione e delle
risorse disponibili nelle aziende. Tale dinamica, favorita
dalle riforme economiche del 1965-66, finiva per indebo-
lire l’élite burocratica del partito e soprattutto creava una
saldatura tra management e operai. Come ha brillante-
mente sintetizzato Simon Clarke,
«Da un punto di vista puramente economico, gli agenti [eco-
nomici] di tutto il sistema cercavano di massimizzare i costi
di produzione, ma ognuno dal proprio punto di vista cercava
di massimizzare le risorse a sua disposizione per assicurarsi
la propria riproduzione. Più risorse può attrarre l’impresa,
più può produrre non solo per il piano ma anche per le pro-
prie esigenze. Può produrre nuovi impianti e macchinari per
uso proprio, beni di consumo locale, migliori strutture abita-
tive, sociali, assistenziali e culturali per la comunità locale e

24 Cit. da Viktor I. Andrijanov, Kosygin, Molodaja Gvardija, Moskva


2003, p. 131.

117
per mantenere l’infrastruttura produttiva e sociale. Può quin-
di accrescere il prestigio dell’impresa e della propria comu-
nità e attrarre lavoratori qualificati e specialisti»25.
Di fatto la resistenza al trasferimento di plusvalore
verso il centro vedeva cristallizzarsi un «patto dei produt-
tori» caratterizzato dal fatto che
«mentre i singoli lavoratori e i manager d’azienda avevano
interessi opposti nella lotta quotidiana per soddisfare il
piano, avevano però un interesse comune a massimizzare le
forniture, ridurre al minimo gli obiettivi del piano e mante-
nere il superamento del piano entro limiti che consentissero
di ottenere bonus»26.
Tale equilibrio - ben noto anche ai vertici dell’appara-
to statale - era di fatto la terza gamba del welfare sovieti-
co, laddove le prime due erano la gratuità dei servizi
sociali e la piena occupazione. A ulteriore dimostrazione
del fatto, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che lungi
dall’essere totalitario il sistema sovietico poststaliniano
era piuttosto caratterizzabile un «paternalismo autorita-
rio» in cui si alimentava una dialettica tra centro e perife-
ria, tra vertici ministeriali e realtà produttive assai vivace.

L’ibrido trotskiano, l’inedito neofeudale


Il dibattito sulla «natura sociale dell’Urss» che per
lunghi decenni divise aspramente la sinistra marxista e
non solo, ha perso buona parte di senso e significato
25 S. Clarke-P. Fairbrother-V. Borisov, The workers’ movement in
Russia, Edward Elgar Publishing, Aldershot/Brookfield 1995, p. 27.
26 Ibidem, p. 28.

118
dopo il 199127. Oggi non si tratta più di applicare un
marchio al regime sovietico, ma di capirne i meccanismi
di funzionamento in grado, in ultima analisi, di spiegare,
almeno in parte, le origini e i caratteri della società russa
contemporanea.
Tuttavia è possibile oggi riconoscere che nell’essenza
l’analisi di Trotsky della società sovietica sviluppati ne La
rivoluzione tradita ne coglieva i suoi caratteri ibridi e non
capitalistici. Come ha scritto Jean-Marie Vincent,
«Il regime derivante dalla controrivoluzione stalinista non
era un regime per la restaurazione del capitalismo, ma una
formazione sociale ibrida basata su specifici rapporti di pro-
duzione, né capitalistici né socialisti. A rigor di termini, si
può persino sostenere che la società sovietica avesse alcune
caratteristiche postcapitalistiche (indebolimento del ruolo del
valore e dei processi nell’economia, limitazione dei mecca-
nismi di mercato nella sfera della produzione)»28.
Allo stesso tempo l’Urss non si poteva neppure consi-
derare una società in transizione dal capitalismo al socia-
lismo come si era illuso lo stesso Trotsky, ma piuttosto un
regime che si avviava verso una deriva neofeudale. La
rivoluzione antiburocratica, si rivelò un’ipotesi irrealizza-
bile durante la Perestrojka perché la classe operaia già
alleata strategica della burocrazia, disorientata e spoliticiz-
27 Per una puntale ricognizione del dibattito sulla natura sociale
dell’Urss si può consultare Marcel van der Linden, Western Marxism
and the Soviet Union. A survey of critical theories and debates since
1917, Brill, Leiden/Boston 2007.
28 Jean-Marie Vincent, «Ernest Mandel et le marxisme-révolution-
naire», in Critique Communiste, n. 144/1995-1996.

119
zata, non opporrà altro che una resistenza passiva alla
distruzione degli elementi di welfare e socialisti esistenti
nella società sovietica. Trotsky aveva previsto in linea
generale come sarebbe evoluta la burocrazia sovietica, una
volta persa qualsiasi illusione di restare al potere sulla base
di un regime in cui non esisteva la proprietà dei mezzi di
produzione, già nel Programma di transizione del 1938:
«Questi candidati al ruolo di compradores ritengono, non a
torto, che la nuova casta dominante possa garantire le proprie
posizioni di privilegio solo rinunciando alla nazionalizzazio-
ne, alla collettivizzazione e al monopolio del commercio
estero, nel nome della “civiltà occidentale”, cioè del capita-
lismo.»29.
Allo stesso tempo la società sovietica emersa dal
Secondo dopoguerra quanto più si stabilizzava, tanto più
non si poteva più definire uno «Stato operaio», un regime
in transizione verso il socialismo seppur degenerato, ma
sempre più un ancien régime votato a riciclarsi.
Questa dinamica, nella sua complessità, non fu colta
neppure da uno studioso come Ernest Mandel quando
escluse per la burocrazia «l’ipotesi della sua trasforma-
zione in una classe dominante». Lo ha messo chiaramente
in luce proprio uno dei suoi più lucidi seguaci, come
Daniel Bensaïd:
«La disintegrazione dell’Unione Sovietica e le “rivoluzioni
di velluto” nell’Europa dell’Est hanno dimostrato invece
che una frazione considerevole della burocrazia potrebbe,

29 Lev Trotsky, Programma di transizione, trad. di Fabiana


Stefanoni, Massari ed., Bolsena 2008, p. 119.

120
sulla base di un’“accumulazione primitiva burocratica”,
trasformarsi in borghesia mafiosa. Dall’altra parte la conce-
zione poco dialettica della burocrazia come “un’escrescen-
za parassitaria del proletariato” fonda un’alternativa dop-
piamente discutibile tra controrivoluzione sociale e rivolu-
zione politica. L’ipotesi di una restaurazione del capitali-
smo come “controrivoluzione sociale” evoca in effetti una
simmetria di eventi tra la Rivoluzione d’Ottobre e questa
controrivoluzione. Tuttavia, e questo è l’interesse del con-
cetto analogico di Termidoro, una controrivoluzione non è
una rivoluzione in senso contrario (una rivoluzione all’in-
verso), ma il contrario di una rivoluzione, non un evento
simmetrico all’evento rivoluzionario, ma un processo. In
questo senso, la controrivoluzione burocratica in Unione
Sovietica è iniziata negli anni ’20 e il crollo dell’Unione
Sovietica ne è stato solo l’ultimo episodio»30.
Il carattere non socialistico della società sovietica era
stato riconosciuto del resto, seppure in privato, anche dai
massimi leader del partito sovietico: «Ma quale diavolo di
socialismo dispiegato. Dobbiamo ancora lavorare e lavora-
re per arrivare al più semplice socialismo», confessò in una
chiacchierata con un suo collaboratore, Jurij Andropov.
La burocrazia che come strato sociale aveva avuto
sorti incerte in epoca staliniana, sempre in bilico tra car-
riera e GULag, andò prima stabilizzandosi in epoca cru-
scioviana e poi si trasformò in una casta feudale corrotta
che accumulava non solo privilegi ma anche grandi quan-
tità di mezzi finanziari. La nomenklatura si preparò nei
decenni del breznevismo attraverso una lunga gestazione

30 Daniel Bensaïd, «Introduzione critica all’Introduzione al marxi-


smo di Ernest Mandel», disponibile on-line.

121
psicologica ancora prima che organizzativa, a passare
armi e bagagli nell’odiato campo, ormai solo a parole, del
capitalismo in qualità di casta compradora corrotta troppo
estesa e potente per non essere riottosa alla catena gerar-
chica imperialista mondiale. Come ha sintetizzato Boris
Kagarlitskij,
«In Urss c’era una strana combinazione di arcaismo e pro-
gresso, di relazioni precapitalistiche e postcapitalistiche, di
elementi di socialismo, di capitalismo di Stato e modo di pro-
duzione asiatico. Queste contraddizioni sono state generate
all’origine del sistema sovietico, che è sorto dalla rivoluzione
proletaria, ma in condizioni in cui il proletariato stesso aveva
perso il potere e il suo partito era degenerato»31.
Il riconoscimento teorico e analitico che nel regime
burocratico ci fossero non solo degli elementi collettivi-
stici ma anche socialistici - benché sempre più sfigurati e
distorti - rende ancora più impellente la rilettura critica di
quell’esperienza. Il fatto che da una rivoluzione socialista
si fosse realizzato un regime gerarchico e oppressivo
rende ancor più necessario, paradossalmente, un bilancio
serio e approfondito, frettolosamente e superficialmente
messo da parte con fastidio dopo il 1989, dalla sinistra
internazionale.

Una controrivoluzione oligarchica


La burocrazia non stabilizzò quindi nessun tipo di
nuovo modo di produzione, ma andò via via preparandosi
31 Boris Kagarlitskij, Periferijnnaja imperija. Tsikly russkoj istorii,
Ėskmo, Moskva 2009, p. 198.

122
a trasformarsi in quell’oligarchia neofeudale che oggi
domina la Russia contemporanea. Negli anni ’70 e primi
anni ’80, quando i salari medi non raggiungevano i 200
rubli al mese, i dirigenti di imprese, i ministri e gli alti
papaveri del partito iniziarono ad accumulare ricchezze
pronte a trasformarsi in capitale. Secondo alcune inchie-
ste della stampa russa degli anni ’90, la burocrazia iniziò
ad appropriarsi a mani basse delle ricchezze del paese già
negli anni ’60:
«Tarada, viceministro dell’Urss e ex secondo segretario del
Comitato regionale di Krasnodar aveva a quell’epoca un
patrimonio di 450mila rubli; Todua, direttore di una scuola
tecnica farmacologica in Georgia, 765mila rubli; Kantor,
direttore del grande magazzino Sokol’niki circa 1 milione;
Suškov, viceministro del commercio estero dell’Urss, 1,5
milioni di rubli; il ministro dell’industria della pesca A.A.
Iškov e il suo vice Vladimir Ryto rispettivamente 6 milioni
di rubli e un milione di dollari»32.
Già negli anni ’70 e nei primi anni ’80 c’erano ormai
individui in Unione Sovietica che avevano fortune di
milioni di rubli. Per avere almeno un’idea approssimativa
di quali fondi si stavano accumulando nelle loro mani,
basta dare un’occhiata alle statistiche dei risparmi dell’e-
poca. A metà degli anni’ 80 vivevano in Urss 280 milioni
di persone - ovvero circa 80 milioni di famiglie - e c’erano
198 milioni di depositi nelle banche per un totale di circa
300 miliardi di rubli. Una parte del capitale pubblico, len-

32 Aleksandr Ostrovskij, Kto postavil Gorbačëva?, Alisorus,


Moskva 2010, p. 66.

123
tamente ma inesorabilmente iniziò a fluire nei conti cor-
renti della burocrazia, mentre la scoperta dei lussi promuo-
veva nelle famiglie della nomenklatura una tendenza
all’accumulazione parassitaria che era giusto l’opposto
dello «spirito del protestantesimo» weberiano. La classe
dei rentier russi, volgare e tronfia, che ci siamo abituati a
conoscere dagli anni ’90 dello scorso secolo, i cosiddetti
«nuovi russi», rappresentavano in questo orizzonte un
mostro sociale prodotto dalla disgregazione e al contempo
rigenerazione della burocrazia poststaliniana, della sua
evoluzione.
In questo senso il «paradosso» del modello dell’involu-
zione neofeudale (sulla scorta del Karl Polnayj de La
grande trasformazione) proposto da Michael Burawoy,
andrebbe letto non tanto dal punto di vista del proletariato
sovietico, ma della casta dominante33.
Si tratta di un aspetto, quello del parassitismo rentier
dei vertici dello Stato sovietico, sottolineato anche da
Michail Voslenskij nel suo fortunato Nomenklatura.
L’autore respingeva anche la tesi del capitalismo di Stato
con nettezza: il regime sovietico era un’economia di scar-
sità e non di sovrabbondanza e in cui esistevano costanti
problemi di sottoproduzione. Un sistema in cui la legge
del valore, tra l’altro, era inoperante o funzionava in
modo distorto. Il paradosso dell’ibrido sovietico negli
anni ’60 e ’70 era però che non si trattava già più di una
società di transizione tra capitalismo e socialismo:
33 Michael Burawoy, The great involution. Russia’s response to the
market, New York 1999 [burawoy.berkeley.edu/Russia/involution.pdf].

124
«Il socialismo reale nella sua essenza - scriveva Voslenskij
- non ha nulla a che fare né con la società comunista predetta
da Marx, né con il capitalismo. Segue invece il feudalesimo.
Un’altra possibilità resta da verificare: il socialismo reale
non è forse una continuazione del feudalesimo in qualche
forma specifica? Un simile presupposto spiegherebbe il
fatto che si verifica solo nei paesi che hanno raggiunto la
fase del tardo feudalesimo. Questa posizione è supportata
anche dal fatto che nel socialismo reale regna un metodo di
coercizione non economica delle persone al lavoro, tipico
del feudalesimo. Questa versione è supportata anche dalla
struttura strettamente gerarchica della società, dall’apartheid
sociale e dalla presenza di una nobiltà dominante privilegia-
ta nella società: “di una nuova aristocrazia”»34.
Se questa tesi è corretta, la scansione storica che va
dall’Urss alla Russia di oggi quindi non sarebbe «ibrido
staliniano-società postcapitalistica-capitalismo in salsa
russa» come molti tendono a rappresentare, ma una
sequenza di questo tipo: «ibrido staliniano-neofeudalesi-
mo burocratico-neofeudalesimo putiniano». In tal caso
negli anni ’90 non avremmo assistito a una «controrivo-
luzione» tradizionalmente intesa, ma alla riconfigurazio-
ne e stabilizzazione di un regime inedito che la burocrazia
brezneviana aveva cercato confusamente di realizzare.
Per far ciò era necessario operare una privatizzazione for-
male della proprietà statale e lasciare al proprio destino la
zavorra delle «democrazie popolari» che si concretizzò,
come vedremo più avanti, nell’avventuroso tentativo di
Gorbačëv di transitare verso un «capitalismo dal volto
34 Michail Voslenskij, Nomenklatura, Overseas Publications Inter-
change, London 1990, p. 612 [Nomenklatura, Longanesi, Milano 1980].

125
umano», paradossalmente nel momento in cui nel resto
del mondo stava trionfando il neoliberalismo.
Aleksandr Buzgalin e Aleksej Kolganov hanno
descritto questa dinamica in modo convincente:
«Alla fine del XX e inizio del XXI secolo nel paese hanno
iniziato spontaneamente a dispiegarsi processi per molti versi
simili a quelli realizzatisi nell’era dell’accumulazione primi-
tiva del capitale dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti
due o tre secoli fa, ma con una specificità significativa»35.
Queste dinamiche però si sono andate svolgendosi
nell’Urss in modo originale, ovvero si sono venuti determi-
nandosi in un paese dove parte significativa dell’economia
si era posizionata all’esterno del mercato mondiale e dove
l’accumulazione primitiva era ormai già definitivamente
alle spalle. Invece di un tardocapitalismo di marca occi-
dentale, in seguito al crollo del regime burocratico è sorto
in Russia un mostro bicefalo, in cui la prima testa è una
variante del capitalismo semiperiferico «alla Wallerstein»
e l’altra è un insieme di relazioni neofeudali basate sul
capitalismo di Stato, sulla corruzione, sul clientelismo, sul
parassitismo del capitale privato. Un sistema di relazioni di
potere che trova il suo punto di equilibrio nel monarca.
Come hanno sottolineato Buzgalin e Kolaganov:
«Ciò si è rivelato molto più facile perché tali processi si sta-
vano svolgendo in modo latente nell’Urss dove le mutazio-
ni della produzione socialista (burocrazia, clientelismo,
dipartimentalismo, localismo) ravvivarono relazioni pre-
borghesi. Di conseguenza oggi nell’economia russa ci sono

35 Aleksandr Buzgalin-Andrej Kolganov, Global’nij Kapital, II,


Urss, Moskva 2015, p. 694.

126
anche relazioni di dipendenza personale (in particolare, cla-
nismo e “vassallaggio” nei rapporti tra imprese e Stato,
coercizione non economica nei rapporti tra “business” e
lavoratori, principalmente immigrati ecc.), caratteristiche
abbastanza tipiche di un processo storico inverso, una sorta
di “rifeudalizzazione”»36.
La dissoluzione dell’Urss può essere anche colta come
un’involuzione politica e sociale che si pone al di fuori
delle ristrette antinomie di «rivoluzione democratica-con-
trorivoluzione capitalistica» con cui si sono voluti inter-
pretare spesso gli avvenimenti legati alla Perestrojka. La
dinamica che condusse alla distruzione del welfare russo e
della proprietà statale, fece sì che El’tsin e Putin potessero
introdurre dagli anni Novanta in poi «per decreto» i rap-
porti capitalistici di produzione, stabilizzando al potere al
contempo un’aristocrazia compradora, statalista e dipen-
dente dal mercato mondiale. Tutto il processo di industria-
lizzazione russo era stato promosso dalla burocrazia stata-
le: prima da quella zarista (e il processo era entrato in crisi
dopo 30 anni di forte crescita sotto la pressione delle cre-
scenti contraddizioni internazionali) e poi da quella sovie-
tica, visto che non esistevano e non potevano esistere nel
paese le forze sociali in grado d’imporre molecolarmente,
per dirla con Lenin, il capitalismo dal basso.
Questa è, in definitiva, la genesi e l’essenza socioeco-
nomica di quello che oggi si definisce comunemente puti-
nismo. Si tratta di un regime che sarà in grado di riprodur-
si nel tempo? L’oligarchia russa può essere considerata
36 Ibidem, pp. 695-6.

127
una classe distinta dalla borghesia capitalistica? Oppure si
tratta ancora di un altro ibrido sociale, proprio come lo fu
la burocrazia sovietica, che entrerà in crisi al momento in
cui si porrà il problema della successione a Putin? Si tratta
di questioni che decideranno il destino non solo della
Russia ma anche dell’Europa nei prossimi decenni, alle
quali non si può dare ancora una risposta.

L’accumulazione indebita
La sociologia russa del resto ha dimostrato che il 75%
dell’oligarchia dominante dell’era El’tsin proveniva, dai
piani alti del regime brezneviano.
Ciò che avvenne è stato ampiamente raccontato nella
letteratura degli anni ’90 sui processi dell’«accumulazio-
ne indebita» di capitale condotta dalla burocrazia sovieti-
ca nei decenni precedenti.
«Subito dopo essermi trasferito in Georgia - ha ricordato
l’ex secondo segretario del Comitato centrale del Partito
comunista della Georgia, H.A. Rodionov - la coppia
Mzhavanadze invitò me e mia moglie a visitarli. Vivevano
modestamente (...). Tuttavia, il tempo passò e tutto cambiò:
abiti e gioielli costosi iniziarono ad apparire sulle spalle
della moglie e delle figlie del primo segretario. La splendi-
da celebrazione del compleanno della moglie di [Vasil
Pavlovič (n.d.r.)] Mzhavanadze, “Queen Victoria”, come
veniva chiamata, iniziò a diventare di moda, con l’invito di
un gran numero di ospiti e la presentazione di regali costo-
si. E la coppia Mzhavanadze ora abitava... in una villa”, l’e-
norme appartamento di Mzhavanadze sembrava più un
negozio di antiquariato di alta classe che un alloggio»37.

37 A. Ostrovskij, op.cit., p. 70.

128
È ovvio che parlare solo di «privilegi», di fronte a una
tale dinamica, era ormai del tutto riduttivo: la nomenkla-
tura si preparava a far ereditare ai propri famigliari le ric-
chezze accumulate e stava mutando pelle, trasformandosi
definitivamente in una classe dominante.
Gestendo le crescenti relazioni commerciali con il
mondo occidentale, i dirigenti del partito e dello Stato
costituirono una vera e propria struttura mafiosa che trat-
teneva per sé una parte dei ricavi del commercio del
grano, del petrolio, del gas e dei diamanti.
Questo depredamento si alimentava anche legalmente.
L’8 gennaio 1973 Anatolij Černjaev, allora vicecapo delle
relazioni internazionali del Pcus e successivamente uno
dei bracci destri di Gorbačëv, appuntò nel suo diario a
proposito dell’allora direttore del settimanale Ogon’ok,
Anatolij Sofronov:
«Safronov ha pubblicato il primo volume delle sue opere e
ha ricevuto a tale proposito 75.000 rubli. Cosa sta succe-
dendo!!!»38.
Le opere di Sofronov erano state progettate in cinque
volumi e così il giornalista alla fine si mise in tasca
375mila rubli di royalties in un paese in cui un operaio o
un insegnante arrivavano a stento a 200 rubli al mese.
Il 28 dicembre 1975 ancora Černjaev annotava che
«il segretario dell’ufficio del partito del Comitato centra-
le… ha fornito dati sulla corruzione a tutti i livelli - dai
comitati esecutivi regionali e ministeri ai giornalisti e diri-

38 Anatolij Černjaev, Sovmestnij ischod. Dnevnik dvuch ėpoch.


1972-1981 gody, Rosspen, Moskva 2008, p. 39.

129
genti d’azienda. Nasriddinova, che per molti anni è stata
presidente del Consiglio delle nazionalità dell’Urss, è stata
fatta dimettere, anche dal Comitato centrale, per incredibili
appropriazioni e truffe su dacie, case, pellicce e automobili.
Il matrimonio di sua figlia è costato allo Stato quasi un
milione di rubli»39.
Si trattava insomma della punta dell’iceberg di uno
strato che ormai aveva rotto gli argini e si vedeva e si rap-
presentava come un’aristocrazia parassitaria inamovibile.
In tale contesto fu del tutto normale che una parte signifi-
cativa della società sovietica cercasse ancor di più che in
precedenza di trovare impiego laddove si andavano con-
centrando le ricchezze e c’erano più possibilità di ascesa
sociale: nell’apparato amministrativo e di partito. Lo rico-
nobbero i membri dell’élite stessa. In una riunione del
Politbjuro del settembre 1981 Brežnev affermò che:
«nel decimo quinquennio si è assistito ad una crescita ingiu-
stificata, sostanzialmente incontrollabile, del numero dei
dipendenti dell’apparato amministrativo. Di conseguenza,
l’apparato è cresciuto di due milioni e duecentomila perso-
ne, ovvero del 14,2%. Allo stesso tempo, il numero totale di
dipendenti è aumentato solo del 9,8%. Pertanto, il tasso di
aumento del numero del personale dirigente è stato quasi
una volta e mezza superiore al tasso di aumento del numero
totale di lavoratori e dipendenti. Di conseguenza, la percen-
tuale di questo personale è passata dal 14,5% nel 1975 al
15% nel 1980, raggiungendo i 17 milioni di addetti»40.

39 Ibidem, p. 109.
40 Leonid Brežnev, Leninskim kursom. Reči i stat’i, IX, Politizdat,
Moskva 1982, p. 364.

130
Ovviamente non tutto questo esercito di 17 milioni di
burocrati si poteva considerare parte dell’élite dominante in
termini di potere politico, economico e privilegi. L’ipertro-
fia dell’apparato dimostrava, se ce ne fosse stato ancora
bisogno, che l’Urss ha seguìto la strada opposta all’estinzio-
ne dello Stato prefigurata da Marx ed Engels, e ribadita da
Lenin ancora nell’estate del 1917. Un apparato gigantesco
che aveva sulla plancia di comando un gruppo dirigente
decrepito come si dimostrerà nelle penose successioni tra
Brežnev, Andropov e Černenko nei primi anni ’80. La curva
storica dell’invecchiamento della direzione del partito è ben
rappresentata dall’aumento progressivo dell’età media dei
membri del Politbjuro dall’Ottobre in poi: 42 anni nel 1921,
52 nel 1961, 62 nel 1970 e infine 70 nel 1981!
Si è voluto da più parti segnalare come l’apparato di
partito fosse assai ridotto numericamente, al punto di non
avere un’incidenza reale sul grado delle diseguaglianze
sociali e quindi non poter neppure essere definito una casta
privilegiata. I nudi dati sembrerebbero confermare tale tesi.
Secondo uno studio del 1993, i «boiardi di Stato» e i capi
di partito rappresentavano solo lo 0,7% della popolazione
attiva complessiva41. Secondo altre valutazioni nel 1980
avrebbero fatto parte della nomenklatura (famigliari com-
presi) circa 3,5 milioni di persone ovvero l’1,3% della
popolazione dell’Urss dell’epoca42. In un paese in cui il

41 Viktor Zaslavskij, Ot neostalinskogo gosudarstva do postsovet-


skoj Rossii 1970-2000, Evropejskij Universitet Sankt-Peterburge,
Sankt-Peterburg 2019, p. 384.
42 David Epstejn, Sotsializm XXI veka. Voprosy teorii i ozenki opyta
SSSR, Urss, Moskva 2016, pp. 200 sgg.

131
reddito medio, come abbiamo già sottolineato, era di circa
200 rubli mensili i membri del Politbjuro ne guadagnava-
no 1200 rubli al mese, formalmente solo sei volte più di
un operaio a cui si dovevano però aggiungere la qualità e
le dimensioni degli alloggi, dell’accesso a beni e servizi
attraverso canali privilegiati, la possibilità di accedere alla
valuta straniera ecc.43 Tuttavia, evidentemente, non erano
i redditi o i privilegi a far di essa una classe in fieri, quan-
to la possibilità di controllare le leve dell’organizzazione
del potere politico, economico e sociale. Da questo punto
di vista la burocrazia svolgeva anche quelle funzioni di
«capitalista collettivo» già previste da Marx.

Il paradosso petrolifero
Uno dei motivi scatenanti del crollo sovietico viene
fatto rimandare, da molti osservatori e analisti, al crollo
del prezzo del petrolio negli anni ’80. Egor Gaidar, che
guidò la spietata privatizzazione eltsiniana in Russia negli
anni ’90, ma che aveva alle spalle una solida formazione
marxista, fece notare come non si trattasse del primo caso
storico in cui paradossalmente una risorsa economica si
trasforma in un boomerang per il paese che la possiede. Si
tratta di un fenomeno da tempo noto agli economisti che
hanno definito questa dinamica «la maledizione delle
risorse»44.

43 Cfr. Michael Dauderstädt-Arne Schildberg (a cura di), Dead ends


of transition. Rentier economies and protectorates, Campus Verlag,
Frankfurt 2008.
44 Yegor Gaidar, Collapse of Empire. A lesson for modern Russia,
Brookings Institution Press, Washington D.C. 2006, pp. 40-2.

132
Secondo Gaidar,
«La Spagna nel XVI e XVII secolo, dopo la scoperta
dell’America, fornisce il classico esempio di come entrate
inaspettate dalle risorse naturali possano influenzare l’e-
conomia di una nazione. Le scoperte di depositi di oro e
argento e l’introduzione della tecnologia per estrarli in
modo efficiente secondo gli standard contemporanei por-
tarono a un afflusso senza precedenti di metalli preziosi in
Europa.
La crescita dell’offerta di oro e argento nell’economia
europea, ancora a crescita lenta, condusse a forti aumenti
dei prezzi in una società abituata alla stabilità dei prezzi.
In Spagna, dove i metalli preziosi arrivarono per primi, i
prezzi aumentarono più rapidamente che altrove in
Europa. Ciò ridusse la competitività dell’agricoltura spa-
gnola e per molti decenni la Castiglia dovette importare
prodotti alimentari.
La crisi dell’industria tessile spagnola fu anch’essa il
risultato di prezzi anormalmente alti in Spagna, causati
dall’afflusso di metalli preziosi dall’America. La Spagna
del XVI e XVII secolo è un esempio di uno Stato che non
subì sconfitte in tempo di guerra, ma la cui economia crol-
lò sotto il peso delle proprie ambizioni sproporzionate,
basate sulle entrate inaffidabili dall’oro e dall’argento
americani»45.
Qualcosa di simile accadde in Urss in seguito alla sco-
perta del petrolio in Siberia occidentale nei primi anni ’60
quando, con il crescente export verso l’Occidente di oro
nero, la Russia iniziò a costituire delle relazioni economi-
che che la integravano inestricabilmente al mercato mon-
diale, facendola diventare sempre più dipendente da esso.
45 Ibidem, p. 39.

133
La zavorra delle democrazie popolari
Dal 1972 al 1981, la produzione di petrolio nella
Siberia occidentale crebbe da 62,7 milioni di tonnellate a
334,3 milioni di tonnellate, di oltre il 500%. Grazie all’e-
sportazione massiccia di petrolio e l’importazione di tec-
nologia, di grano e di prodotti finiti l’Urss poté per qual-
che tempo pensare di aver risolto il problema della pro-
pria inefficienza economica e del defizit. La struttura delle
esportazioni sovietiche rispecchiava fedelmente il ruolo
vassallo che il paese stava via via assumendo nella divi-
sione internazionale del lavoro. Secondo i dati ufficiali
pubblicati nel 1987 dall’ufficio statistico dell’Urss, nel
1970 macchinari e attrezzature rappresentavano il 21,5%
delle esportazioni, ma nel 1987 questa percentuale era
scesa al 15,5%. Le importazioni di macchinari e attrezza-
ture erano invece aumentate dal 35,6% al 41,4%. Le
esportazioni di energia, nel frattempo, erano anch’esse
aumentate nello stesso periodo dal 15,6% del totale delle
esportazioni sovietiche al 46,5%46.
Essendo lo scambio con i paesi europei realizzato su
base compensatoria per molti anni la burocrazia russa non
si avvide di quale pericolo mortale stava correndo.
Analogamente, il commercio con l’Occidente, che rap-
presentava nel 1970 il 21,3% del fatturato del commercio
estero sovietico, già nel 1976 aveva raggiunto la ragguar-
devole percentuale del 32,9%.
Come ha sottolineato Boris Kagarlitskij,

46 «SSSR v tsifrach v 1987 godu» (Kratkij statističeskij sbornik),


Finansy i statistika, Moskva 1988.

134
«La collaborazione con l’Occidente diede modo di mante-
nere il vecchio sistema di comando e di amministrazione,
agendo così da sostituto delle riforme economiche che
erano state frustrate dalla burocrazia. In queste circostanze,
l’effetto della cooperazione internazionale non fu tanto
quello di stimolare l’economia e la società sovietiche,
quanto di accelerarne la disintegrazione»47.
La stessa dinamica si affermò nelle democrazie popo-
lari, collegate alla casa madre moscovita a partire dal
1949 attraverso il Comecon. Queste ultime però mancan-
do in buona parte di materie prime, si arrangiarono con
partite giro verso i paesi occidentali degli idrocarburi
sovietici, ma soprattutto sottoscrivendo programmi di
finanziamento-capestro con le istituzioni finanziarie del-
l’imperialismo internazionale. Ungheria, Polonia,
Romania e Germania dell’Est si ritrovarono ben presto
indebitate fino al collo. Tra il 1975 e il 1980, il passivo
della Germania orientale verso Fmi e Banca mondiale
passò da 3,5 a 11,7 miliardi di dollari mentre quello della
Polonia balzò da 7,7 a 23,4 miliardi di dollari.
Il governo di Varsavia, incapace di immaginare una
qualsiasi alternativa a tale caduta negli inferi, finì per tor-
nare alle vecchie mene dello schiacciamento dei consumi
oltre che dei salari, aprendo così le condizioni sociali per
l’esplosione degli scioperi del 1980 che porteranno alla
formazione di Solidarność. Intuendo l’uragano che si
avvicinava, gli altri paesi del blocco orientale adottarono
misure disperate volte a ridurre il loro indebitamento
senza comprimere salari, consumi e welfare che avrebbe-
47 B. Kagarlitskij, op. cit., p. 164.

135
ro rischiato di innescare altre esplosioni sociali. Ogni
paese dovette attuare duri programmi di austerità e ripro-
grammare i pagamenti del debito per sistemare i propri
conti. A farne le spese furono gli investimenti per ricerca,
innovazione e infrastrutture.
Alla fine del 1986, Ungheria, Romania, Polonia, oltre
che la Jugoslavia erano già diventate tutte membri del
Fmi e della Banca mondiale, passo ulteriore verso il totale
disfacimento della Cortina di ferro e della piena integra-
zione dei cosiddetti «paesi socialisti» nel mercato mon-
diale. L’Urss ormai da tempo incapace di sovvenzionare
adeguatamente le economie dei paesi satelliti si preparò a
ritirarsi dal Centroeuropa.
A dimostrazione del fatto che il regime burocratico
non avesse una natura capitalistica, la politica dell’Urss
nei confronti delle democrazie popolari - dove il consenso
ai regimi, con l’eccezione di Jugoslavia e in parte della
Cecoslovacchia, era sempre stato ridottissimo - non fu di
tipo imperialistico.
Mentre controllava politicamente e militarmente i
paesi dell’Europa orientale, mantenendo al loro interno le
proprie truppe e intervenendo sanguinosamente alla biso-
gna per impedire qualsiasi tipo di riforma come nel caso
delle insurrezioni operaie a Berlino nel 1953 e a Budapest
del 1956, per tutto il dopoguerra l’Urss favorì uno scam-
bio ineguale a proprio sfavore fatto di sovvenzioni e prez-
zi low-cost per le materie prime con le economie di questi
Stati, pur di garantirsi degli «Stati cuscinetto» tra sé e il
blocco della Nato. Per il 70-80% le esportazioni sovieti-
che verso i paesi del Comecon venivano fissate a prezzi

136
inferiori a quelli del mercato mondiale e ciò condusse a
svalutarne il loro valore: il carburante e le materie prime
che venivano consumate per unità di produzione nei paesi
«socialisti» era per il 20-30% superiore rispetto ai paesi
capitalistici industrializzati. Le risorse naturali, anche da
questo punto di vista, con la crescita dell’integrazione tra
i paesi del Comecon ostacolò la transizione verso tecno-
logie che favorissero il risparmio delle risorse e dell’ener-
gia.
In cambio della cessione di proprie risorse, l’Urss
acquistava dai paesi dell’Est, salvo qualche eccezione,
prodotti industriali di qualità inferiore agli standard mon-
diali. Coordinando le consegne reciproche delle merci, i
paesi «socialisti» si proteggevano dalla concorrenza inter-
nazionale e ciò determinava un ulteriore rallentamento
della corsa alla rivoluzione scientifica e tecnologica48.
Negli altri continenti il «sostegno internazionalistico»
dell’Unione Sovietica fu addirittura solo a perdere. A
Cuba, l’Urss tenne letteralmente in piedi la rivoluzione
dei barbudos. Negli anni ’70-’80 l’Unione Sovietica fornì
2 miliardi di dollari di aiuti economici all’anno a Cuba
oltre a donarle di fatto circa 13 milioni di tonnellate di
petrolio: a tanto ammontava il costo di tenere un pungolo
nel giardino di casa degli Usa. Nel 1991, il debito di Cuba
nei confronti dell’Urss aveva raggiunto la cifra astrono-
mica di 35 miliardi di dollari.

48 Per una trattazione complessiva dei rapporti Urss e paesi del


Comecon, si consulti M.V. Konotopov, Ėkonomičeskaja istorija s
drevnejšich vremen do našich dnej, Studio, Moskva 2014.

137
Aiuti generosi furono garantiti in diverse fasi storiche
ad altri paesi alleati o presunti tali, come l’Algeria,
l’Angola e la Siria. Non solo. L’Urss aiutò direttamente o
indirettamente movimenti di liberazione nazionale come
il Fln vietnamita, l’Olp palestinese, l’Ira nordirlandese e
anche diverse organizzazioni guerrigliere in America lati-
na e in Europa.
L’Urss invece di sottrarre ricchezze ai suoi alleati li
sostenne e li aiutò, a dimostrazione del fatto che la buro-
crazia sovietica fu parassitaria, ma non fu mai ristretta-
mente nazionalistica. Essa s’immaginava a capo di un
presunto processo rivoluzionario internazionale perché
aveva necessità di continuare a vendere l’immagine di
seconda potenza mondiale.
Quando alla metà degli anni ’80 il prezzo del greggio
iniziò a scendere, per poi crollare a poco più di 10 dollari
al barile nel 1986, venne messa completamente a nudo la
dipendenza, seppure a gradi diversi, di tutti i paesi buro-
cratici dall’Occidente.

L’Urss come economia semicoloniale


González de Cellorigo, uno studioso spagnolo che
visse a cavallo del XVI e del XVII secolo, aveva sostenu-
to che l’afflusso di oro e argento non era stato solo fonte
di inflazione ma aveva paralizzato nel XVII secolo gli
investimenti in Spagna, nonché lo sviluppo dell’industria,
dell’agricoltura e del commercio, ma aveva anestetizzato
la sua classe dirigente. Anche se le analogie vanno sempre
maneggiate con cautela, la stessa «disgrazia» toccò
all’Urss con la rendita petrolifera che trasformò una

138
nomenklatura già pigra e indolente, in una classe dirigen-
te inetta e corrotta. La burocrazia che controllava le risor-
se e i capitali dell’Urss, allora si accorse di voler diventa-
re anche proprietaria. Come ne La fattoria degli animali,
quattro gambe sono meglio di due*.
La dipendenza dell’Urss dalle esportazioni di petrolio
dimostrò che una volta rotto l’involucro dell’autarchia, e
una volta a contatto con il mercato mondiale,la sua strut-
tura economica era di tipo semicoloniale49. Si trattò di
una vittoria postuma e ben magra per l’Opposizione di
sinistra russa degli anni ’20 che aveva preconizzato l’im-
possibilità di realizzare il socialismo in un paese solo. Al
contempo, però, ciò rese evidente l’impossibilità di rea-
lizzare una riforma radicale o una rivoluzione politica in
Urss facendo perno sulla classe operaia industriale, come
vedremo nel capitolo successivo. All’appassire del «seco-
lo breve», l’Unione Sovietica si accomodò nei posti rima-
sti liberi nella gerarchia imperiale del capitale.
Una volta fatto saltare in aria il sistema autarchico,
divenne evidente come l’Urss fosse in grado esportare
solo le sue materie prime visto che la sua industria, se si
eccettuava il settore degli armamenti, una quota dell’in-
dustria pesante, il nucleare civile e alcuni comparti della
chimica o della cosmonautica, era sostanzialmente desue-
ta o arretrata. Tale integrazione subalterna nel mercato

* Il motto ripetuto ossessivamente nella celebre «fiaba» era «Quattro


zampe buono, due zampe cattivo». Cfr. George Orwell, La fattoria
degli animali, Massari ed., Bolsena 2016, pp. 34, 47 e passim [n.d.r.].
49 A questo proposito si veda il mio La sfida di Putin,
ManifestoLibri, Roma 2017.

139
mondiale si produsse nel momento cui avveniva una vera
e propria rivoluzione nel capitalismo postfordista, caratte-
rizzata dalle nuove tecnologie e dal just in time, che mise-
ro ancora più a nudo i limiti del gigantismo e dell’integra-
zionismo sovietico.
Negri e Hardt hanno sostenuto che
«il collasso dell’Unione Sovietica e dell’Europa dell’Est,
ad esempio, e l’apertura dell’economia cinese nell’era post-
maoista hanno permesso al capitale globale di accedere a
immensi territori non capitalistici predisposti, per la sus-
sunzione capitalistica da decenni di modernizzazione socia-
lista»50.
Ma in realtà questa dinamica si è realizzata in misura
assai limitata nella Russia putiniana per le ragioni esposte
qui sopra: il sistema neofeudale attuale fa buona guardia
all’accesso delle risorse del paese, mentre viene impedita
la penetrazione estera al suo mercato interno.
Il crescente ritardo nello sviluppo tecnologico
dell’Urss brezneviana fu reso plasticamente evidente dal
fatto che alla fine del 1987 c’erano solo 200.000 personal
computers nell’Unione Sovietica contro i 25 milioni degli
Stati Uniti. Tale ritardo non era dovuto solo all’incapacità
di commercializzare e popolarizzare l’uso dei computers,
ma era soprattutto una conseguenza della plumbea cappa
di autoritarismo che si stendeva sulla Moscova e impedi-
va lo sviluppo del lavoro cognitivo e creativo: basti pen-
sare che fino alla metà degli anni ’80 era stato necessario
avere una speciale autorizzazione della polizia per posse-
50 M. Hardt-A. Negri, op.cit., p. 298.

140
dere privatamente una macchina da scrivere perché il
potere temeva la diffusione dei samizdat...
Lo stesso appuntamento mancato con la scoperta di
Internet - una corsa contro il tempo in cui l’Urss sarebbe
potuta arrivare prima degli Stati Uniti - fu dovuto essen-
zialmente alla mancata socializzazione e coordinamento
della ricerca: un evidente segno non di troppo, ma di trop-
po poco socialismo51.
Nel momento in cui i paesi occidentali iniziarono a
ristrutturare e a informatizzare tutti i processi economici,
avviandosi a sviluppare le cosiddette «società postindu-
striali», l’Unione Sovietica restava orientata verso l’indu-
stria tradizionale e continuava a espandere in modo
incontrollato il complesso militar-industriale, accumulan-
do ritardi che divennero presto evidenti. Un aspetto che fu
rilevato giustamente da molti autori, ma che non va esa-
gerato.

Il lavoro cognitivo alla riscossa


L’Urss infatti aveva basi tecniche e scientifiche solide,
e stava sviluppando un proprio sistema computeristico e
di robotizzazione. L’appuntamento mancato dell’econo-
mia sovietica fu con la trasformazione delle tecnologie
informatiche e digitali in strumenti home-and-office,
come avvenne rapidamente in Occidente a partire dai
primi anni ’80, proprio perché l’economia sovietica non
51 La ricostruzione della vicenda dell’Internet sovietico è narrata in
Benjamin Peters, How not to network a Nation, Mit Press, Cambridge
(MA) 2016.

141
era orientata, come si è visto, verso la produzione di beni
di consumo in generale. Fino agli anni ’70, l’Urss era
stata un paese leader nel campo della tecnologia informa-
tica. Ma l’enfasi era posta sui grandi computer usati dalle
istituzioni scientifiche e governative (principalmente
militari e geofisiche), e non sui personal computers.
Stalin aveva perseguitato la cibernetica come «borghese»,
ma una volta sdoganata da Chruščëv, come abbiamo
visto, essa decollò. Rustev Vachitov ha messo in luce che
«nel 1967 fu sviluppato il primo supercomputer sovietico
BESM-6, che poteva eseguire 1 milione di operazioni al
secondo, e già nell’anno successivo, fu messo in produzio-
ne. All’inizio degli anni ’80, l’Urss costruì il supercompu-
ter Elbrus-1 con una velocità di 15 milioni di operazioni al
secondo. Elbrus-1 non era una copia delle macchine ame-
ricane, ma era il prodotto di una ricerca assolutamente ori-
ginale»52.
Anche il software per il loro funzionamento era pro-
dotto in un linguaggio originale chiamato El-76. L’Urss
perse la battaglia con l’Occidente sul terreno della com-
mercializzazione di massa anche se, paradossalmente, il
primo personal computer al mondo, il Mir-1 fu creato
proprio in Unione Sovietica.
Alla fine degli anni ’80, in Rdt, in Bulgaria e anche in
Urss, venne dato il via, seppur con ritardo, alla produzio-
ne di personal computer simili a quelli Ibm. L’Urss era
rimasta indietro in questo settore ma lo iato si sarebbe
52 Rustem Vachitov, «Buduščee kotoroe my poterjali», disponibile
on-line.

142
potuto colmare se il Partito e il Komsomol (l’organizza-
zione giovanile comunista), come vedremo più avanti,
non avessero deciso di iniziare ad acquistare pc stranieri
con i petrodollari, posizionandosi volontariamente nel
campo semicoloniale. (Negli anni ’90 si procederà poi a
smantellare l’industria computeristica sovietica in modo
sistematico per imporre sul mercato interno le macchine
americane e asiatiche.) In realtà, come in Germania Est
con l’azienda Robotron, nel settore informatico erano
stati conseguiti dei risultati in chiave di sviluppo di perso-
nal computer da casa e ufficio di ottimo livello, benché
incapaci di competere nel momento dell’integrazione nel
mercato mondiale con i produttori occidentali, a causa
dell’insufficienza degli investimenti.
In un film di Geral’d Bežanov del 1985, intitolato
Samaja obajat’elnaja i privlekatetel’naja (La più affasci-
nante e la più attraente), i protagonisti moscoviti della
commedia melodrammatica sono degli ingegneri e tecnici
informatici, cioè dal punto di vista «produttivo, ma anche
dei «bisogni», personaggi assolutamente «moderni».
Tuttavia la loro condizione dal punto di vista dell’accesso
ai beni di consumo è minorata. Le protagoniste del film,
Nadia e Susanna, non riescono a trovare nei negozi di
Mosca degli abiti carini e devono ricorrere al mercato
nero, mentre la sola di idea di potersi gustare un ananas
resta un sogno irrealizzabile. Nella pellicola il lieto fine
amoroso, come abbiamo già visto per Ironja Sudby, risol-
verà ogni cosa, ma nella realtà, una volta usciti dai cinema
e smaltito l’happy end, l’insoddisfazione dei sovietici
restava intatta. Calze di nylon, jeans, dischi di musica

143
rock, erano considerati dalla burocrazia beni «borghesi» e
restavano delle chimere per molti lavoratori che erano
costretti a rivolgersi al mercato nero (un paio di jeans
americani poteva costare l’equivalente di uno stipendio).
Gran parte dei capitali venivano invece orientati in
Unione Sovietica verso il complesso militar-industriale al
fine di raggiungere la parità militare con la Nato. L’Urss
giunse a spendere nel 1975 circa il 13% del proprio Pil
per la difesa, e Michail Gorbačëv confessò nel 1989 che
la spesa militare era a quel punto giunta ad assorbire
annualmente il 40% del budget e il 20% della ricchezza
annuale prodotta nel paese. Malgrado ciò l’Urss non riu-
scì a sconfiggere la guerriglia afgana, a dimostrazione di
quanto sosteneva Talleyand: con le baionette si può fare
tutto, tranne che sedercisi sopra.
L’ipotesi di Gorbačëv di dare una svecchiata all’Urss e
trasformarla in un sistema capitalistico a trazione social-
democratica at large, si basava su gambe fragili perché la
pressione del mercato mondiale, l’inesistenza di un movi-
mento socialista degno di questo nome in Occidente e la
passività sociale della classe operaia industriale (allora
ancora largamente maggioritaria numericamente in Urss),
impedì di perseguire non solo la variante socialdemocra-
tica, ma una qualsiasi fuoriuscita «progressiva» dall’Urss.

144
Cronologia 1985-1991

1985
10-11 marzo - Muore a 74 anni il segretario del Pcus Kostantin
Černenko e il giorno dopo viene eletto in sua sostituzione Michail
Gorbačëv, 54 anni.
16 maggio - Viene pubblicato il documento con cui il Pcus e il
governo russo decidono di condurre un’aperta lotta contro l’alcoli-
smo. Tra le limitazioni ci sarà la vendita al dettaglio di alcolici fino
alle 14 pomeridiane. Nei primi due anni seguenti all’adozione della
legge, la produzione di vodka a Mosca diminuirà del 11%, il nume-
ro di negozi che vendono alcolici, di quasi 6 volte.
3-9 settembre - Si tiene il Campionato mondiale di scacchi a
Mosca tra Anatolij Karpov e Gerri Kasparov. Vincerà quest’ultimo
dopo il 24° decisivo incontro.
19-21 novembre - Primo incontro a Ginevra tra Reagan e
Gorbačëv, ma le trattative sulla riduzione delle armi atomiche fal-
liscono. Il 21 viene solo firmato un accordo per scambi nelle sfere
scientifiche, della formazione e della cultura.
24 dicembre - Boris El’tsin viene eletto segretario del Pcus di
Mosca e va a sostituire Victor Grišin.
1986
1 gennaio - Per la prima volta nella storia delle relazioni tra l’Urss
e gli Usa, alla vigilia di capodanno, Gorbačëv e Reagan rivolgono
gli auguri ai rispettivi popoli.
15 gennaio - In un discorso pubblico Gorbačëv propone la liquida-
zione graduale degli arsenali atomici entro il 31 dicembre 1999.
3 febbraio - Il Kgb arresta il genero di Leonid Brežnev, Jurij
Čurbanov, primo viceministro degli affari interni dell’Urss. Nel
1988 verrà processato con l’accusa di corruzione e condannato a
12 anni di carcere.

145
4 febbraio - Vengono liberati 43 dissidenti.
20 febbraio - Viene assemblata la stazione spaziale «Mir», l’ulti-
mo dei grandi successi della cosmonautica sovietica.
25 febbraio - Nel Palazzo dei Congressi del Cremlino, Gorbačëv
apre il XXVII Congresso del Pcus con un discorso che dura cinque
ore e mezza. Promette entro il 2000 di raddoppiare il potenziale
economico dell’Urss, aumentare la produttività del lavoro di 2,5
volte e fornire a ciascuna famiglia un proprio appartamento.
26 aprile - A 130 chilometri da Kiev, alle 01.23, nella Quarta
unità della centrale nucleare di Černobyl, si registra un guasto
seguìto da un incendio. Si tratta del più grande disastro nucleare
della storia. I vigili del fuoco accorsi sul luogo compiono un
miracolo non permettendo al fuoco di avvicinarsi al reattore. In
totale, 200mila persone in seguito prenderanno parte ai soccorsi
e all’opera per eliminare le conseguenze dell’esplosione.
L’inquinamento radioattivo sul territorio dell’Urss si estende a
150mila chilometri quadrati, abitati da 6 milioni e 845mila perso-
ne. Secondo gli specialisti del Ministero dell’energia atomica,
150 persone muoiono immediatamente a causa delle radiazioni
dovute all’incidente. Successivamente verranno registrati circa
4000 casi di tumore alla tiroide tra gli abitanti della zona. Secondo
i Verdi europei sarebbero nel tempo decedute tra le 30.000 e le
60.000 persone a causa dell’incidente radioattivo.
11-12 ottobre - A Reykjavik, in Islanda, si svolgono le trattative
tra i leader sovietici e statunitensi per il controllo degli armamenti
atomici. Il vertice si conclude con un nulla di fatto, ma comunque
all’insegna dell’ottimismo: le due superpotenze hanno deciso di
intraprendere la strada del dialogo.
9 novembre - Approvata la legge sull’attività lavorativa individua-
le, che legalizza i commerci privati e permette la creazione di coo-
perative in diversi tipi di produzione e servizi.
1 dicembre - Su suggerimento di Gorbačëv, il Politbjuro del Pcus
decide di liberare l’accademico Andrej Sacharov attivista per i
diritti umani e vincitore del Premio Nobel per la pace, da anni al
confino a Gor’kij a causa della sua attività di dissidente.

146
1987
13 gennaio - Il Consiglio dei Ministri dell’Urss adotta un decreto
che prevede ampi vantaggi fiscali e doganali per le joint ventures.
5 febbraio - Il Consiglio dei Ministri approva una risoluzione che
consente la creazione di cooperative nel campo della ristorazione
pubblica, della produzione di beni di consumo e dei servizi ai con-
sumatori.
23 maggio - Cessano le trasmissioni di Voice of America sul terri-
torio sovietico.
28 maggio - Il pilota tedesco dilettante Matthias Rust riesce ad
atterrare sulla Piazza Rossa.
28 settembre - Il Politbjuro del Pcus adotta una risoluzione per
procedere a una nuova ondata di riabilitazione dei cittadini repressi
durante le Grandi purghe staliniane, a distanza di un quarto di seco-
lo dalle riabilitazioni seguite al XX Congresso. Dal 1987 al 1991
verranno riabilitate in totale più di 1 milione di persone.
1 novembre - Sono più di 500 le cooperative a Mosca: circa 200
per i servizi ai consumatori, più di 150 nella ristorazione pubblica.
Nell’aprile 1989 saranno già 99 mila.
9-12 novembre - Boris El’tsin, dopo essere stato duramente critica-
to al Plenum del Politbjuro dell’ottobre, tenta il suicidio. In seguito
viene rimosso dalla carica di primo segretario del Comitato del par-
tito di Mosca per «gravi carenze nella leadership dell’organizzazio-
ne del partito» e poi dimissionato da candidato al Politbjuro.
1988
8 febbraio - Gorbačëv dichiara che il ritiro delle truppe sovietiche
dall’Afghanistan inizierà il 15 maggio. Nel 1994 verranno forniti i
dati delle conseguenze della guerra: durante il conflitto complessi-
vamente sono morte 14.453 persone e 49.983 sono rimaste ferite.
11 febbraio - Iniziano le manifestazioni in Armenia che chiedono
l’annessione alla repubblica del Nagorno-Karabakh, popolata per il
75% da armeni, ma facente parte dell’Azerbaigian dal 1923. Il 28
febbraio iniziano i pogron antiarmeni a Sungait in Azerbaigian.
12 giugno - Si tiene a Mosca il primo concorso sovietico di bellez-
za, «Moscow Beauty-88», la cui vincitrice è Maša Kalinina.

147
23 settembre - Violenta repressione poliziesca di una manifesta-
zione che durava da più giorni a Tbilisi: restano uccise 16 persone,
per lo più donne.
1989
31 gennaio - Si apre a Mosca Il primo ristorante McDonald’s
dell’Urss che, con i suoi 700 posti a sedere, diventa il più grande
del mondo.
2 marzo - I minatori della miniera di Severnaja a Vorkuta entrano
in sciopero. Chiedono l’aumento dei salari, la riduzione del perso-
nale dirigente e una retribuzione aggiuntiva per i turni notturni.
10 marzo - Ondata di scioperi in tutta l’Urss. Incrociano le braccia i
minatori della miniera Magnetitovaja, seguiti il 23 marzo dagli auti-
sti di bus della provincia di Mosca. Il 29 marzo entrano in sciopero
i lavoratori delle fabbriche minerarie e metallurgiche di Noril’sk.
26 marzo - Si tengono le elezioni dei deputati al Congresso dei
popoli dell’Urss, in cui per la prima volta agli elettori viene garan-
tito il diritto di scegliere tra diverse candidature. Sconfitta dei can-
didati comunisti nelle grandi città europee del paese.
30 aprile - Appare per la prima volta sugli schermi televisivi l’i-
pnotizzatore e guaritore Anatolij Kašpirovskij: per anni avrà milio-
ni di seguaci in tutta l’Urss.
9 novembre - Crolla il muro di Berlino: viene aperto il confine di
Stato tra la Repubblica democratica tedesca e la Repubblica federale
di Germania. Nelle due settimane successive 10 milioni di cittadini
della Rdt richiedono il visto turistico per la Germania Ovest.
14 dicembre - Muore a Mosca il padre della «bomba all’idrogeno»
Andrej Sacharov.
1990
15 gennaio - Vengono dispiegate truppe sovietiche nel Nagorno-
Karabakh per porre fine agli scontri interetnici tra armeni e azeri.
11 marzo - Le forze armate lituane proclamano l’indipendenza
della Repubblica e la secessione dall’Urss.
12 marzo - Si apre il III Congresso dei deputati dell’Urss e
Gorbačëv ne viene eletto presidente. Viene assunta la decisione di
abolire il sesto articolo della Costituzione sul ruolo guida del Pcus.

148
10 luglio - Al XXVIII Congresso del Pcus, l’ultimo della sua sto-
ria, Gorbačëv viene rieletto segretario, per la prima volta sulla base
di candidature alternative.
11 luglio - Scendono in sciopero politico i lavoratori di oltre 100
miniere di tutta l’Unione chiedendo il miglioramento della loro
condizioni economiche, le dimissioni del governo guidato da
Nikolaj Ryžkov, la nazionalizzazione dei beni del partito e la chiu-
sura dei comitati di partito nelle imprese.
12 luglio - El’tsin annuncia le dimissioni dal Partito comunista.
12 settembre - Viene firmato a Mosca il Trattato sullo Stato finale
della Germania che spiana la strada alla riunificazione del 3 otto-
bre. Lo storico accordo prevede che le quattro potenze vincitrici
della Seconda guerra mondiale rinuncino ai diritti già posseduti
sulla Germania, e che le truppe sovietiche lascino dal 1994. La
Germania da parte sua conferma il riconoscimento internazionale
dei confini con la Polonia.
8 dicembre - Entra in vigore la legge della Repubblica russa
«Sulla libertà di religione».
1991
13 gennaio - Nella notte, durante l’assalto alla sede della Tv e della
radio a Vilnius, unità dell’esercito sovietico e del Kgb fanno uso di
armi da fuoco e di carri armati. 14 civili e un militare restano uccisi
negli scontri, 108 sono i feriti. Boris El’tsin, in disaccordo con la
repressione ordinata dal governo sovietico, vola negli Stati baltici,
e firma a Tallinn un accordo politico-militare tra la Russia e
l’Estonia.
22 gennaio - Caos davanti alle banche di tutta l’Urss dopo la firma
di Gorbačëv del decreto «Sulla cessazione dell’accettazione per il
pagamento di banconote della Banca di Stato dell’Urss in tagli da
50 e 100 rubli». Il primo ministro Valentin Pavlov accusa le ban-
che occidentali di tentare d’imporre l’iperinflazione in Urss.
9 febbraio - In Lituania, il 90% degli elettori vota per l’indipen-
denza della Repubblica. Il 3 marzo si svolgono referendum simili
in Lettonia ed Estonia. In Lettonia, il 73,6% e in Estonia il 79%
degli elettori, si dichiara a favore della secessione dall’Urss.

149
10 marzo - A Mosca si tiene un raduno di 300mila persone a soste-
gno della posizione di El’tsin e delle richieste dei minatori in scio-
pero.
17 marzo - Si tiene un referendum di tutta l’Unione sulla questione
della conservazione dell’Urss su basi «rinnovate», fortemente
voluto da Gorbačëv. Al referendum, boicottato da sei repubbliche,
le tre baltiche, la Georgia, l’Armenia e la Moldavia, prendono parte
147 milioni di elettori, di cui il 76% votano sì. Nella stessa giornata
elettorale il 70% dei russi si dichiara favorevole all’introduzione
dell’istituzione della presidenza in Russia, mentre moscoviti e
leningradesi si esprimono favorevolmente all’introduzione della
carica di sindaco nelle loro città.
12 giugno - El’tsin viene eletto primo presidente della Russia. Il
generale Aleksandr Rutskoj è eletto vicepresidente. Il presidente
del consiglio comunale di Mosca Gavriil Popov e il presidente del
consiglio comunale di Leningrado Anatolij Sobčak vengono eletti
sindaci di Mosca e Leningrado.
18 agosto - Alla vigilia della firma del nuovo trattato dell’Unione
sancita dal referendum di marzo, un gruppo di ministri e dirigenti
sovietici - tra i quali il capo del Kgb Vladimir Krjučkov, il ministro
degli Interni Boris Pugo, il ministro della difesa Dmitrij Jazov, il
vicepresidente dell’Urss Gennadij Janaev, il primo ministro
Valentin Pavlov - volano in Crimea, a Foros, per chiedere a
Gorbačëv di annullare la firma del Trattato e imporre lo stato di
emergenza. In seguito al rifiuto del Segretario generale, i congiu-
rati rientrano a Mosca e decidono di procedere al colpo di Stato.
19-21 agosto - Si forma il cosiddetto Comitato statale per lo stato
di emergenza che introduce il coprifuoco. Vengono posti sotto il
controllo del Comitato le sedi della Radio e della Tv, mentre alcuni
reparti dell’esercito vengono chiamati a controllare con autoblindo
e carri armati il centro della capitale. El’tsin, che non viene arresta-
to, guida la resistenza al colpo di Stato: si formano barricate e
durante gli scontri tra forze armate e dimostranti moriranno 3 per-
sone. Il 21 agosto le truppe si rifiutano di assaltare la sede del
governo dove si è installato El’tsin. Dopo una moltiplicazione di

150
diserzioni, gran parte dello Stato maggiore si schiera contro il
Comitato di salute pubblica. Nel giro di poche ore il «Comitato
d’agosto» si scioglie e il golpe fallisce.
20 agosto-22 settembre - Estonia, Lettonia, Ucraina, Bielorussia,
Moldavia, Georgia, Azerbaigian, Kirghizia, Uzbekistan,
Tagikistan e Armenia si dichiarano indipendenti; l’indipendenza
dei Paesi baltici viene riconosciuta dalla comunità internazionale.
22 agosto - Gorbačëv torna a Mosca con la famiglia; Krjučkov,
Jazov e Janaev vengono arrestati.
23 agosto - In una riunione del Presidium delle forze armate russe,
El’tsin firma il decreto «Sulla sospensione delle attività del Partito
comunista della Repubblica russa». Il 24 Gorbačëv annuncia le sue
dimissioni da segretario del Comitato centrale del Pcus. Il 6
novembre El’tsin firmerà il decreto di scioglimento del Pcus su
base federale e l’incameramento dei suoi possedimenti da parte del
suo governo.
8 dicembre - In un’atmosfera di estrema segretezza e riuniti nella
residenza di Belaveža, i leader di Russia, Ucraina e Bielorussia fir-
mano l’omonimo Accordo - di dubbia legalità - con cui sanciscono
la creazione della Comunità degli stati indipendenti (Csi) e lo scio-
glimento dell’Urss.
13 dicembre - Le cinque repubbliche dell’Asia centrale annuncia-
no la loro decisione di aderire alla Csi. Iniziano gli scontri armati
tra Moldavia e Transnistria.
25 dicembre - Gorbačëv firma il decreto con cui rassegna i suoi
poteri da presidente dell’Urss, consegna al Presidente russo la
«valigetta nucleare» e gli archivi segreti del Pcus. Poche ore dopo
gli Stati Uniti annunciano ufficialmente il riconoscimento dell’in-
dipendenza di Russia, Ucraina, Bielorussia, Armenia, Kazakistan e
Kirghizistan.
Alle 19.30 la bandiera dell’Urss, rossa con la falce e martello,
viene ammainata al Cremlino, dove viene issato il tricolore russo.

151
CAPITOLO 3

L’11 marzo 1985 Michail Gorbačëv, immediatamente


dopo la morte di Kostantin Černenko, venne eletto alla
segreteria del Pcus sconfiggendo facilmente la concorren-
za di Grigorij Romanov, boss del partito di Leningrado e
uomo di fiducia del «complesso militar-industriale». La
scelta del Politbjuro (Andreij Gromyko in testa) fu all’in-
segna del rinnovamento nella continuità. A livello locale
e di comparti economici l’Urss era stata divisa fino ad
allora in potentati che Brežnev aveva saputo, per lungo
tempo, gestire con equilibrio e furbizia, pur mantenendo
una catena del comando fortemente accentrata nelle stan-
ze del Cremlino. La «crisi dei quadri» come la definì Roj
Medvedev era però chiara: dopo la morte di Brežnev, in
poco più di un biennio erano deceduti due segretari già
avanti nell’età e Gorbačëv con i suoi 54 anni, veniva chia-
mato, senza alcuna ironia, «il giovane». La scelta del rin-
novamento era quindi inevitabile anche se implicava dei
rischi perché l’esperienza del nuovo segretario ai più alti
livelli era stata brevissima (al contrario di quella di
Brežnev che, come presidente del Soviet supremo per ben
quattro anni tra il 1960 e il 1964, aveva sviluppato anche
in campo internazionale un curriculum di tutto rispetto).
Gorbačëv, originario di Stavropol, una cittadina meri-
dionale della Russia bianca, era conosciuto soprattutto per

152
efficienza e riservatezza, ed era l’unico del gruppo diri-
gente che sapesse parlare a braccio. La stampa internazio-
nale non si sbilanciò. Su l’Unità Giuseppe Boffa, il giorno
dopo la fumata bianca, non escluse cambi di passo e
provò a tener conto delle spinte in diverse direzioni del
gruppo dirigente del Pcus. Nessun analista o cremlinolo-
go, comunque, poteva immaginare che all’inizio del suc-
cessivo decennio la bandiera rossa sarebbe stata ammai-
nata dal pennone più alto del Cremlino.

Tra Margareth ed Enrico


Il giudizio sul ruolo storico di Gorbačëv rimane aper-
to. Per l’opinione pubblica occidentale resta ancora colui
che liberò l’Urss dalla dittatura, lavorò per ridurre gli
armamenti e costruire nuove relazioni con l’Occidente,
permise i primi passi della liberalizzazione economica. In
Russia invece non è mai stato molto amato né allora né
tanto meno successivamente. Durante i suoi sei anni di
potere, scontentò gli ultraliberali come i conservatori,
frantumò il sistema sovietico dal punto di vista economi-
co e amministrativo, ma non fu in grado neppure vaga-
mente di costituire il suo progetto socialdemocratico.
Anzi, dopo il suo governo la Russia si trovò più povera,
impaurita, incerta. Quando nel 1996 provò a rientrare sul-
l’agone politico presentandosi alle presidenziali, fu umi-
liato dall’elettorato che gli concesse solo lo 0,51% delle
preferenze. Per comprendere l’approccio dei russi nei
suoi confronti basterà citare una barzelletta che circolava
tra i sovietici negli anni della Perestrojka (e dallo stesso
Gorbačëv citata nella sua autobiografia). C’è una lunga

153
fila per acquistare generi alimentari. A un certo punto un
cittadino sbotta: «Basta! Non se ne può più! Adesso vado
e ammazzo il Segretario generale!». Dopo un quarto d’ora
l’uomo è di ritorno. « E allora?» chiede la gente in fila.
«Per ammazzarlo c’è una fila ancora più lunga di que-
sta!», replica ancora più infuriato l’uomo.
La scelta dei più stretti collaboratori fu la prima carti-
na tornasole della sua incerta politica. Come numero due
del partito, il nuovo leader sovietico scelse Egor Ligacëv
della città siberiana di Tomsk che ben presto finirà per
diventare il leader dei «conservatori». L’incarico di
responsabile per l’agitazione e la propaganda (sempre
importante, era stato di Suslov), lo affidò ad Aleksandr
Jakovlev l’unico del gruppo dirigente che conoscesse
l’inglese e l’avesse studiato in America. Uomo già in
odore di eresia (sarà lui l’ideologo della Perestrojka)
Jakovlev si legherà negli anni successivi a doppio filo
all’amministrazione Usa al punto che lo stesso Gorbačëv
sarà costretto a togliergli alcuni degli incarichi più deli-
cati di politica estera. Agli esteri promosse il neofita
Ėduard Ševarnadze che andò a sostituire, dopo oltre
vent’anni, Gromyko.
Al momento di assumere i poteri, «Gorby», come pre-
stò verrà chiamato dalla stampa internazionale, confessò
alla moglie Raisa, parlando dello stato dell’Unione, «così
non si può più andare avanti»: una postura di fronte ai
problemi del paese che appare più psicologica che politi-
ca. Nei suoi 6 anni e mezzo di regno si dimostrerà non a
caso spesso titubante, incapace di immaginare una strate-
gia per realizzare i suoi obiettivi di abbattere la dittatura

154
burocratica, riportare l’Urss dentro il mercato mondiale e
premere per la sua definitiva occidentalizzazione.
Su scala internazionale però ci si era già accorti di lui
prima che diventasse Segretario generale, quando gli fu
affidato il compito nel Politbjuro di sviluppare le relazioni
internazionali per conto del partito. Sono due, da questo
punto di vista, gli episodi significativi che lo posero sotto
i riflettori: il viaggio in Italia e quello in Gran Bretagna.
A Roma si recò per i funerali di Enrico Berlinguer.
Qui, di propria iniziativa, decise di giocare a carte sco-
perte e discutere francamente con alcuni dirigenti del
Pci. Il 13 giugno 1984 incontrò Paolo Bufalini, Gerardo
Chiaromonte, Armando Cossutta, Adalberto Minucci,
Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli, Antonio Rubbi e Gianni
Cervetti (gli ultimi due per ragioni biografiche erano
coloro che potevano avere meglio il polso della situazione
in Urss). Gorbačëv nella sua autobiografia ricorda che
«la conversazione andò avanti per tutta la notte e, alle
prime ore del mattino, quando ci separammo, sembravano
esserci segnali di intesa reciproca»1.
Cosa si dissero «con franchezza» per un’intera notte i
convenuti non si è mai saputo (non lo ha svelato neppure
Antonio Rubbi che scrisse a proposito dei suoi incontri
con il Segretario generale un intero libro)2, ma dato che
della delegazione italiana faceva parte anche il «filosovie-

1 Michail Gorbačëv, Ogni cosa a suo tempo. Storia della mia vita,
Marsilio, Venezia 2013, p. 197.
2 Antonio Rubbi, Vstreči s Gorbačëvom, Izdatel’stvo političeskoj
literatury, Moskva 1991.

155
tico» Cossutta, è difficile che si sia usciti da certi perime-
tri diplomatici. Tuttavia Gorbačëv ha sostenuto che al
mattino infine si trovò un’intesa per stringere più strette
relazioni con il Partito comunista più moderato d’Europa
e già fautore dell’appartenenza strategica alla Nato.
Nel dicembre dello stesso anno, il futuro Segretario
generale si recò in visita a Londra al cospetto della «Lady
di ferro» Margareth Thatcher. La sua visita fu seguita con
la lente d’ingrandimento dalla stampa internazionale.
«Gorby» parlò ai Comuni, incontrò Thatcher e i grandi
dell’industria e della finanza di sua Maestà, e poi, raccon-
tarono i tabloid di Londra, andò a farsi prendere le misure
per alcuni abiti dal sarto della Regina, trovando anche il
tempo per fare una scappata ai magazzini «Harrods». Qui
acquistò con American Express un brillante per la consor-
te Raisa che costava l’equivalente di un decennio di lavo-
ro di un operaio sovietico. Non trovò tempo invece, mal-
grado la delegazione fosse non di Stato ma di partito, per
visitare la tomba di Karl Marx, appuntamento che venne
frettolosamente cancellato, e neppure per incontrare qual-
che sindacato britannico, proprio nel momento in cui l’in-
quilina di Downing Street stava conducendo un pesante
attacco contro i miners3.
La premier britannica fu così entusiasta della visita
tanto da confessare a Reagan qualche tempo dopo che con

3 Nel 2014 il National Security Archive e l’archivio di Margareth


Thatcher hanno pubblicato le minute dell’incontro londinese tra
Thatcher e Gorbačëv in cui quest’ultimo nega che il Pcus avesse in
qualsiasi modo finanziato lo sciopero dei minatori.

156
Gorbačëv «ci si può avere a che fare». Secondo alcune
fonti memorialistiche di funzionari dei servizi Usa, nel
1984 la Cia aveva a sua disposizione delle informazioni su
Gorbačëv tali da permetterle di presagire il futuro corso
della sua politica estera da segretario. Non a caso l’ammi-
nistrazione americana, dopo la morte di Andropov, iniziò a
cercare un’opportunità per stabilire contatti diretti con lui4.
Esiste oggi un’ampia letteratura complottistica in
Russia che accusa Gorbačëv, El’tsin, gli ebrei, il Papa
piuttosto che la tentacolare finanza mondiale di aver ordi-
to, proprio in quella fase, una congiura per far crollare
l’Urss. In realtà le cose sono più semplici e complesse
allo stesso tempo: è evidente che la parte «riformista»
della burocrazia neofeudale sovietica, quella di cui si pose
alla testa Gorbačëv, aveva già interiorizzato da tempo l’i-
dea che il sistema capitalistico fosse «oggettivamente
superiore» e cercasse di trovare una via che permettesse
di fuoriuscire dall’impasse. Orientandosi verso la transi-
zione al «regime socialdemocratico», questa tendenza
pensava di potersi salvare l’anima «di sinistra» e al con-
tempo proteggere i propri interessi di casta, illudendosi di
poter introdurre in Urss un «capitalismo dal volto
umano». Se inizialmente Gorbačëv sostenne di aver avuto
solo «un’idea generale» del cambiamento da realizzare,
ma non un vero e proprio piano, dopo la sconfitta e l’ab-
bandono del potere ammise che in tali condizioni era pos-
sibile attuare le riforme da lui concepite solo «erodendo le
4 Per i dettagli dell’atteggiamento della Cia nei confronti di
Gorbačëv, si veda Aleksandr Ostrovskij, op.cit., pp. 278 sgg.

157
fondamenta del totalitarismo dall’interno»5. Si tratta di
una confessione significativa: Gorbačëv aveva assunto
con una superficialità disarmante la vulgata ideologica
della guerra fredda sui caratteri interni della società sovie-
tica come regime totalitario, ma malgrado ciò non ebbe il
coraggio di destrutturare il partito-Stato che aveva gestito
la società sovietica dopo il 1917. «Dovemmo fare un’ope-
razione di camuffamento», sostenne nell’intervista con-
cessa a Giulietto Chiesa e a Enrico Singer il giorno suc-
cessivo alle sue dimissioni nel 19916. Forse la sua traiet-
toria politica può essere proprio sintetizzata così: un’ope-
razione di camuffamento politico, in parte cosciente e in
parte no.

I primi passi della Perestrojka


Le prime mosse di Gorbačëv sul fronte interno, una
volta giunto al potere, destarono interesse ma non scalpo-
re. Nel primo anno di attività sostituì il 70% dei ministri
e il 50% degli uomini dell’apparato (l’ultimo giorno del
1985 dimissionò il segretario del partito Victor Grišin e lo
sostituì con Boris El’tsin, e subito dopo fece dimettere da
ministro il figlio di Brežnev) e ordinò molti arresti ai ver-
tici. Questa iniziativa in realtà aveva anche come obietti-
vo di sbarazzarsi di parte dell’apparato che resisteva al
rinnovamento. E spesso vennero utilizzati a tal fine dei
metodi poco ortodossi, sul genere di quanto avvenne con
5 Michail Gorbačëv-Daisaku Ikeda, Moral’nye uroki XX veka,
Dialogi, Moskva 2000, p. 52.
6 «Abbiamo distrutto senza costruire». Intervista di Gorbačëv a Giu-
lietto Chiesa ed Enrico Sieger, in La Stampa, 27 dicembre 1991, p. 3.

158
Tangentopoli in Italia qualche anno dopo. L’8 settembre
1988, in una riunione del Politbjuro, Gorbačëv su propo-
sta di Ligačëv, giunse a sostenere la necessità di procede-
re a rapido snellimento dell’apparato di partito:
«Dobbiamo tagliare da qualche parte tra le 700-800mila
persone. Solo nella regioni, nelle repubbliche, nei distretti
delle città, 550 mila». Si trattava di annunci che se da una
parte scontentavano chi non si accontentava di un qualche
«snellimento» dell’apparato del Pcus e voleva vedere la
fine del monopolio del suo potere politico, dall’altro crea-
rono un clima da «si salvi chi può» nella gerarchia. Il far
parte del «partito di Lenin» che era stato per molti decen-
ni l’ascensore sociale per eccellenza per molti, divenne un
marchio d’infamia da cui liberarsi appena possibile, un
liberi tutti che spingeva l’apparato ad abbandonare a se
stessa l’economia del paese e la sua amministrazione, per
occuparsi dei propri piccoli e grandi business privati.
Il nuovo segretario decise inoltre di lanciare la famosa
campagna «antialcolismo» che fece storcere il naso ai
russi: lo stesso Gorbačëv la definirà in seguito «rozza» e
fu presto abbandonata. I suoi effetti non furono negativi
solo in termini di bilancio, per le mancate entrate di 25
miliardi di rubli, ma anche per la riduzione delle aree adi-
bite alla viticultura che vennero ridotte del 30% in quel
periodo. Tuttavia, benché l’aumento della produzione
illegale di vodka casalinga avesse condotto all’esplosione
delle vendite di zucchero, il proibizionismo made in
Russia ebbe anche effetti positivi dal punto di vista del-
l’ordine pubblico: i crimini compiuti in stato di ubria-
chezza si ridussero da 535.555 del 1985 ai 415.385 del

159
1987, mentre il numero di decessi per incidenti automobi-
listici scese da 46.726 a 39.212.

Appuntamento a Černobyl e a Togliattigrad


Alcol a parte, bisognerà comunque attendere il 1986 e
ancora di più il 1987 per accorgersi di una netta sterzata
nella leadership sovietica. Sotto la pressione del disastro-
so guasto alla centrale nucleare di Černobyl, che dimo-
strava il grado di deterioramento di parte delle infrastrut-
ture che divorava il paese, l’accelerazione delle riforme
gorbacioviane diventò irrimandabile7.
La logica produttivistica e industrialistica con cui la
burocrazia aveva sviluppato il paese era giunta al capoli-
nea dal punto di vista ambientale. Gorbačëv stesso ha
sostenuto che alla metà degli anni ’80 in
«novanta città - praticamente tutti i maggiori centri indu-
striali dell’Unione Sovietica - erano presenti sostanze noci-
ve oltre i livelli consentiti. Nel paese suscitò molta indigna-
zione e preoccupazione la notizia che la situazione ambien-
tale metteva a repentaglio il nostro patrimonio genetico»8.
Proprio a partire da quella tragedia e dalla coscienza
7 Sulla tragedia di Černobyl è stato scritto troppo e male. Fu infatti
soprattutto grazie alla centralizzazione del sistema sovietico e allo
straordinario coraggio di migliaia di operai, ingegneri, tecnici e comu-
ni cittadini che gli effetti del disastro poterono essere contenuti, senza
pregiudicare oltremodo il destino di intere generazioni di ucraini, russi
e bielorussi. In pochi giorni fu garantita l’assistenza a un milione di
cittadini e furono evacuate 135mila persone dalla zona (malgrado
molte non volessero abbandonare comunque le proprie case)
8 M. Gorbačëv, Ogni cosa a suo tempo..., cit., p. 211.

160
del livello di deterioramento dell’equilibrio ecologico
ormai raggiunto, iniziarono a svilupparsi i primi germo-
gli, i più veraci, del movimento democratico in Urss.
«Gruppi ambientalisti emersero nelle realtà urbane, nei
paesi, nei quartieri e spesso presero l’iniziativa di movi-
menti di autogoverno locale. Si riunivano le assemblee
generali degli abitanti in cui venivano eletti comitati di
autogestione, a partire dal livello di caseggiato, strada,
quartiere ecc. L’anelito principale era di risolvere in modo
autonomo i problemi della vita e dello sviluppo del territo-
rio, indipendentemente dalla burocrazia statale e dai suoi
interessi. Molti attivisti, ha osservato il ricercatore sovieti-
co e poi russo Oleg Janickij, intendevano “il decentramento
dell’economia e del potere politico come autosufficienza e
persino autarchia”. Alcuni di loro suggerirono addirittura
città o aree urbane separate che avrebbero costituito una
piena indipendenza economica con la propria valuta, i pro-
pri sistemi di produzione, di distribuzione ecc.»9.
Iniziano anche ad essere liberati i dissidenti in galera,
e nel dicembre del 1985 Gorbačëv fece liberare Andrej
Sacharov, che tornò a vivere Mosca dopo gli anni del con-
fino a Gor’kij.
In una delle sue prime uscite pubbliche, l’8 aprile 1985
il capo del Cremlino si recò a Togliattigrad, all’Avtovaz,
la fabbrica costruita dalla Fiat negli anni ’60, e usò per la
prima volta la parola Perestrojka, «ristrutturazione».
«La Perestrojka - affermò Gorbačëv nel suo discorso agli
operai - deve procedere in ogni posto di lavoro, in ogni col-
lettivo di lavoro, negli organi della gestione, negli organi di

9 V. Dam’e, op.cit., pp. 270-1.

161
partito incluso il Politbjuro e il governo. In ogni caso essa
presuppone che ognuno debba fare la propria parte con
onestà, volontariamente, nel pieno delle proprie forze e
delle proprie competenze»10.
Parole ancora timide, ma che rappresentavano una rot-
tura con i discorsi mummificati dei vecchi leader e prelu-
devano a profondi mutamenti di rotta politica.
Nel 1997 Gorbačëv comunque provò a chiarire quali
erano in nuce gli obiettivi che la sua «ristrutturazione»
intendeva realizzare:
«a) liquidazione del monopolio della proprietà statale, b)
emancipazione dell’iniziativa economica e riconoscimento
della proprietà privata, c) rifiuto del monopolio del Partito
comunista politico e ideologico, d) pluralismo e) libertà
politiche reali, f) creazione delle basi del parlamentari-
smo»11.
Se per la liberalizzazione politica, gli anni decisivi
saranno il 1988 e il 1989, la riforma economica per l’in-
troduzione del mercato capitalistico prese forma nel 1987.
In termini generali, il governo sovietico prevedeva
l’ampliamento dell’indipendenza delle imprese con
princìpi di autofinanziamento e un significativo amplia-
mento dei diritti delle stesse. In particolare, i manager
della fabbriche venivano autorizzati a condurre attività
economiche indipendenti, mentre l’unica misura che
avrebbe portato a una qualche democrazia nelle aziende,
10 Michail Gorbačëv, Izbrannye reči i stat’i, II, Izdatel’stvo političe-
skoj literatury, Moskva 1987, p. 148.
11 «From Stagnation to Perestroika to Chaos». Intervista a Gorbačëv
di D. Jahnson, in Minneapolis Star Tribune, 14 dicembre 1997.

162
con l’elezione diretta dei direttori da parte dei collettivi di
lavoro, fu presto messa da parte. Ma soprattutto il pac-
chetto di misure che iniziò a prendere forma quell’anno
prevedeva un graduale ampliamento della sfera dell’eco-
nomia privata con l’approvazione di una legge sulla
libertà di lavoro autonomo, e soprattutto la legalizzazione
delle cooperative nella sfera dei servizi e nella produzione
di beni di consumo, oltre che la legalizzazione delle
società joint-venture (che portò con sé l’abbandono del
monopolio del commercio con l’estero).
Lo sviluppo delle cooperative che formalmente avreb-
bero dovuto essere lo strumento per far emergere la
gigantesca bolla dell’economia illegale e sommersa, in
realtà non fece che liberalizzare prima di tutto la possibi-
lità di acquistare forza-lavoro da parte di cittadini privati,
uno strumento perfetto per l’accumulazione e il riciclag-
gio di gigantesche somme di denaro (che in seguito venne
calcolato in circa 90 miliardi di rubli l’anno). Tutto ciò
condusse alla legalizzazione dell’«economia sommersa»,
in cui operavano già anche i rappresentanti della nomenk-
latura, da tempo pronti a mettere in gioco gli ingenti fondi
accumulati con la corruzione e l’appropriazione indebita
dei beni dello Stato negli anni ’60 e ’70 .
Jurij Afanas’ev, deputato russo dell’epoca e uno dei
sostenitori più in vista della Perestrojka, pur ritenendo che
le intenzioni del Segretario generale fossero vòlte a pre-
servare il socialismo, ha sostenuto in un‘intervista di
qualche anno fa che Gorbačëv
«trascurò la completa decomposizione dell’ordine di vita
socialista sovietico. Attraverso la corporativizzazione, la

163
revisione del ruolo dei collettivi di lavoro e con il pretesto
della cooperazione, si realizzò un’appropriazione di ciò che
veniva chiamato proprietà dello Stato. Tra l’altro in una
forma selvaggia e arcaica… la ricchezza nazionale divenne
proprietà privata dei capi delle imprese sovietiche come i
direttori di stabilimento e i presidenti dei kolchoz»12.
Si vede quindi che, se all’epoca la dinamica di queste
riforme economiche in chiave capitalistica poteva non
essere del tutto chiara, lo divenne in seguito anche per chi
nella Perestrojka aveva creduto. Si assistette in quella fase
a un primo gigantesco trasferimento di ricchezza sociale
poi completata dalla privatizzazione del complesso della
proprietà statale tra il 1993 e il 1995.

Borghesia del Komsomol


Olga Krishtanovskaia e Stephen White hanno pubblica-
to a suo tempo uno studio13, che resta ancor oggi insupera-
to, sulle dinamiche di trasformazione dell’élite dominante
da nomenklatura sovietica a oligarchia. Questo processo
seguì varie vie di cui la più nota fu l’economia parallela
creata dal Komsomol (l’organizzazione giovanile comuni-
sta sovietica) di Mosca che, per ironia della storia, iniziò a
svilupparsi sotto la supervisione di Egor Ligačëv, il leader
dei conservatori all’interno del Politbjuro.
12 «Jurij Afanas’ev: oligarchičeskij kapitalizm načalsja pri
Gorbačëve», disponibile on-line.
13 Olga Krishtanovskaia-Stephen White, «From Nomenklatura to
New elite», in Vladimir Shlapentokh-Christopher Vanderpool-Boris
Doktorov (a cura di), The new elite in post-communist Eastern Europe,
Texas A&M University Press, College Station 1999.

164
Fu dall’ambiente della «Gioventù comunista» che
emersero molti rappresentanti dell’oligarchia della Russia
postsovietica, come ad esempio il futuro fondatore della
Yukos e poi dissidente, Michail Chodorkovskij o
Vladislav Surkov, in seguito creatore dell’ideologia del
putinismo, della cosiddetta «democrazia sovrana». I lea-
derini del Komsomol misero in piedi inizialmente disco-
teche e video club dove venivano proiettati spesso i film
della propaganda occidentale anticomunista come la serie
Rambo di Sylvester Stallone e pellicole soft-porn, allora
sconosciuti e vietati in Urss.
Ma questo fu solo l’inizio e la punta dell’iceberg
dell’«economia del Komsomol». In un inchiesta pubblicata
qualche anno fa dal giornalista Rustem Vachitov viene
spiegato nel dettaglio come «i centri di creatività scientifica
e tecnica della gioventù» (TsNTTM) divennero presto una
vera e propria miniera d’oro. Racconta Vachitov:
«Il 28 gennaio 1987, il Comitato centrale del Pcus adottò
un regolamento sulla loro istituzione, e così, alla fine dello
stesso 1987, c’erano già 60 di tali centri urbani e regionali
in tutto il paese, e all’inizio del 1990 erano cresciuti fino a
diventare 600. Gli esordi sembravano positivi: giovani
intraprendenti e talentuosi dovevano produrre nuovi pro-
gressi scientifici, creare tecnologie e venderle alle imprese
senza passare per il fisco».
In realtà, queste furono «startup sovietiche», una ver-
sione russa della Silicon Valley, diffusa però in tutto il
paese»14.
14 Rustem Vachitov, «Rossijskij Oligarchat», in Sovietskaja Rossija,
31 gennaio 2019.

165
In che modo, dal punto di vista tecnico ciò poté realiz-
zarsi? Lo spiega ancora Vachitov:
«L’economia pianificata socialista funzionava secondo
leggi diverse da quelle di mercato. In Urss esisteva un siste-
ma di circolazione monetaria a due circuiti. Il primo consi-
steva in denaro contante ordinario, che i cittadini riceveva-
no sotto forma di stipendio e con i quali venivano pagati i
beni nei negozi e nei mercati. Il secondo circuito era strut-
turato attorno alla cosiddetta moneta non contante, con la
quale si stabilivano le relazioni tra le imprese e le organiz-
zazioni di proprietà statale. Questo sistema era stato creato
nell’era dei primi piani quinquennali e, secondo gli econo-
misti, era stato questo sistema che aveva permesso
all’Unione Sovietica di creare la propria industria senza
investimenti di capitale occidentale»15.
Questo sistema permetteva, al netto degli abusi finan-
ziari (i soldi stanziati per l’acquisto di attrezzature non
potevano essere stanziati e sprecati, non si trattava di vere
e proprie banconote erano solo unità contabili), di mante-
nere bassi i prezzi dei beni di consumo in contanti. Ma
affinché il sistema funzionasse, una condizione doveva
essere soddisfatta: i due circuiti dovevano restare separati.
I centri della gioventù creati dalla futura oligarchia russa
si inserirono in questo interstizio: le TsNTTM stipulavano
contratti di servizio con aziende fittizie, l’impresa pagava
questi servizi con denaro non contante e il TsNTTM pren-
deva la propria percentuale (che poteva raggiungere un
terzo dell’importo), pagando in contanti il lavoro del
«team creativo». Poiché i «team creativi» erano stati crea-
15 Ibidem.

166
ti sotto la direzione dello stesso comitato distrettuale e
includevano persone vicine alla leadership del TsNTTM,
gli stessi giovani membri del Komsomol divennero pro-
prietari di ingenti somme. Spesso questi servizi esisteva-
no solo sulla carta, e il «team creativo» era composto da
amici e parenti del leader del centro. Chodorkovskij e i
suoi amici si accorsero cioè di poter sfruttare questo cir-
cuito detto beznalichnye o dei «rubli di legno» che in pre-
cedenza veniva utilizzato in forme limitate per il finanzia-
mento delle imprese.
Questa rete divenne rapidamente nazionale e poteva
fissare i propri prezzi per le merci che importava dall’e-
stero senza dover pagare neppure i dazi doganali. Ben
presto il governo venne informato che le organizzazioni
giovanili avevano acquistato all’estero e rivenduto video-
registratori, computer e altre tecnologie a prezzi gonfiati
e con grossolane violazioni della legge. Ci fu qualche
rimbrotto da parte dello stesso Gorbačëv, ma la macchina
dell’accumulazione era ormai partita.
Vennero subito dopo create dai «komsomolisti» una
banca commerciale, un’azienda di import-export e una
rete di negozi di abbigliamento: nel 1990 più di diciasset-
temila cooperative giovanili erano attive sotto il rigido
controllo dei giovani comunisti e impiegavano a vario
titolo circa un milione di soci come personale. Ma per
raggiungere questi obiettivi non sarebbe bastato che
«l’occhio del partito» fosse stato «accondiscendente»: era
necessario che il partito chiudesse entrambi gli occhi
davanti a una truffa di dimensioni stratosferiche.

167
Alla nomenklatura il gioco piace...
In quel periodo vennero istituzionalizzate altre prati-
che di «accumulazione primitiva del capitale» che diede-
ro la stura a una serie di operazioni in grande stile di spe-
culazione in cui settori della burocrazia sfruttavano la
propria rendita di posizione. La dinamica verso la piena
integrazione nel mercato mondiale capitalistico fu insom-
ma diretta e gestita direttamente dal Pcus. Già dai tempi
di Brežnev, il personale e i membri del Ministero del
commercio estero avevano accumulato esperienza nel-
l’acquisto e vendita di materie prime nella borsa valori
statunitense, soprattutto nel settore agricolo dove l’Urss
aveva una grande esperienza come importatore di grano.
La prima impresa joint-venture sovietico-americana, la
«Dialog», venne fondata nel 1987 e finanziata diretta-
mente dal partito che vi investì sin dalla sua fondazione,
12 milioni di rubli. Negli anni della Perestrojka, i vari
gruppi della nomenklatura iniziarono a farsi concedere
anche crediti in valuta estera per fini puramente specula-
tivi. Una volta ottenuti al cambio ufficiale, fisso per le
transazioni economiche con l’estero, ingenti quantità di
dollari al cambio «commerciale» di 65 copechi, i capi del
partito li ricambiavano al mercato nero dove per ogni dol-
laro era necessario sborsare 10-20 rubli a seconda dei
periodi, producendo il più facile degli arricchimenti.
I sistemi per accumulare senza rischi erano comunque
molteplici. Per esempio attraverso l’acquisto a prezzi
stracciati delle migliori proprietà demaniali da parte di
aziende che erano state costituite a tale scopo, con la par-
tecipazione della nomenklatura. Il gruppo «Most», ad

168
esempio, che diverrà un potente gruppo finanziario-edito-
riale negli anni ’90 e alla cui testa si installerà l’oligarca
Vladimir Gusinskij, decollò grazie all’acquisto di diversi
edifici nel centro di Mosca per qualche decina di migliaia
di rubli, che all’epoca era meno di un decimo del loro
valore di mercato. Come hanno messo in luce ancora
Krishtanovskaia e White,
«Nel periodo sovietico, il Pcus era stato proprietario di un
gran numero di edifici in cui trovavano sede le case editrici,
le istituzioni educative, le case di riposo e gli hotel. Questi
edifici del partito erano il “pozzo d’oro” del paese; si trat-
tava dei migliori edifici, situati nelle posizioni più comode
e prestigiose, ed erano in buono stato»16.
Le più belle case di riposo, le cliniche, le basi turisti-
che e gli hotel vennero quindi messe a disposizione di
ditte straniere con le quali venivano create società miste e
i lauti profitti equamente divisi tra nomenklatura e
imprenditori privati.
Il sistema commerciale sovietico era stato costituito su
due gambe. La prima era il Gossnab, che era responsabile
dell’allocazione dei «mezzi di produzione» e dei vari uffi-
ci responsabili per i beni di consumo. L’altra gamba era il
ministero del Commercio estero dell’Urss (Eksportkhleb,
Eksportles). Ebbene Gossnab sarà la struttura attraverso
la quale nel giro di qualche anno sorgerà la Wall Street
russa al cui vertice troveremo proprio i funzionari della ex
Gioventù comunista. Anche alcune delle imprese statali
più redditizie furono privatizzate, divenendo normali
16 O. Krishtanovskaia-S. White, op. cit., pp. 37-8.

169
società per azioni molto prima ancora che esistesse un
programma di privatizzazione su vasta scala.
«Mikrokhirurgiia Glaza» divenne proprietà del celeberri-
mo chirurgo pioniere della correzione della miopia
Svjatoslav Fëdorov già allora e la «KamAZ» e
l’«AvtoVAZ», i due giganti automobilistici sovietici, fini-
rono sotto il controllo diretto di Nikolaj Bech e Vladimir
Kadannikov. Venne quindi formandosi una vera e propria
classe capitalistica, all’ombra però dello Stato come era
del resto già avvenuto in epoca zarista. Una classe paras-
sitaria e inetta che assunse i tratti rapaci dei capitalisti pri-
vati occidentali, senza però averne le virtù innovative.
Dentro questa dinamica venne infine formandosi una
rete di banche commerciali che faranno da apripista per
creare un sistema finanziario privato pienamente struttu-
rato: il primo gennaio 1989 le banche commerciali erano
ancora solo 41, ma alla metà di marzo erano già diventate
1.500 e tutte più o meno erano controllate direttamente o
indirettamente da membri e dirigenti del Pcus. Un sistema
che sotto El’tsin diventerà la base degli imperi oligarchici
finanziari che dominano la Russia ancora oggi.

Glasnost’: dall’alto o dal basso?


Assieme a Perestrojka, la parola chiave dell’epoca
gorbacioviana che resterà nella storia è Glasnost’ («tra-
sparenza»). L’Urss, dopo la morte di Stalin, era riuscita a
evitare una stabilizzazione totalitaria, ma restava un’aper-
ta dittatura in cui non esisteva libertà di opinione, di asso-
ciazione o sindacale, in cui parte degli intellettuali più in
vista avevano preso la strada dell’esilio per evitare ospe-

170
dali psichiatrici, confino o oblio, in cui a scuola s’impara-
va una storia del paese completamente mistificata. Nel
breve periodo della reggenza Gorbačëv, vennero aperte le
frontiere dando finalmente la possibilità ai sovietici di
viaggiare (fino ad allora era di fatto preclusa la possibilità
di recarsi all’estero se non, limitatamente, nei paesi del
blocco orientale), venne garantito lo sviluppo del plurali-
smo e dell’associazionismo politico e culturale. Uno degli
suoi ultimi atti di Gorbačëv in qualità di presidente
dell’Urss, di cui gli va riconosciuto merito, fu il trasferi-
mento alla Repubblica russa dei documenti rinvenuti da
alcuni storici sovietici sulle obbrobriose fosse di Katyń
nelle quali erano stati seppelliti oltre 22mila polacchi,
fucilati sommariamente dalla polizia segreta staliniana.
Il grande ruolo storico di Gorbačëv fu questo: fare da
battistrada e garantire quelle misure di apertura che ren-
deranno possibile, fino al 1993, la più grande stagione di
democrazia di tutta la plurisecolare storia russa. In questo
senso Gorbačëv operò dei mutamenti epocali che lo rese-
ro popolare e amato in ogni ogni angolo del globo, molto
al di là della campagna stampa internazionale per accre-
ditarlo come il «grande riformatore».
La riforma dall’alto di parte della nomenklatura si
incontrò in quella fase con un nuovo protagonismo socia-
le, con la Perestrojka dal «basso» quella degli intellettuali
e di una vasta opinione pubblica urbana che chiedeva di
aprire gli armadi degli archivi storici tenuti per decenni
chiusi, e di poter discutere liberamente del destino paese.
Anche se il termine Glasnost’ iniziò a circolare come
sinonimo di «liberalizzazione» già nel 1986, si dovrà

171
attendere il 1987 e soprattutto il 1988 per vedere pubbli-
cati a puntate sulle principali riviste letterarie sovietiche i
grandi classici della letteratura messi all’indice in prece-
denza o semplicemente mai pubblicati. Nella sua impre-
scindibile storia politica dell’Urss, Rudol’f Pichoja ha
sottolineato come in quella fase
«l’indebolimento del controllo ideologico, la riabilitazione
politica del poeta Nikolaj Gumilëv e il permesso di pubbli-
care le opere di scrittori emigrati portarono al ritorno della
letteratura degli anni ’20 e ’30 nel paese»17.
Le opere di Michail Bulgakov, Andrej Platonov, Boris
Pil’njak, Nina Berberova, Vladislav Chodasevič, Evgenij
Zamyatin, Anna Achmatova, Boris Pasternak, che non
erano mai state pubblicate in Urss, raccontavano un pas-
sato del paese diverso da quello che era stato narrato dagli
storici ufficiali di regime. Allo stesso tempo, iniziarono ad
apparire un gran numero di opere inedite che rivelavano,
a loro modo, la storia complicata e tragica del paese.
I più popolari furono i libri di Anatolij Rybakov sulla
Mosca degli anni ’30, dove i protagonisti non erano solo i
«figli dell’Arbat», ma anche Stalin, Kirov, Ežov e altri per-
sonaggi politici del passato i cui nomi il lettore sovietico
poteva intuire nelle pagine del libro. Inoltre, venne final-
mente dato alle stampe l’epico romanzo di Vasilij
Grossman, Vita e destino, che non solo proponeva un reso-
conto veritiero degli anni della Seconda guerra mondiale
sul suolo sovietico, ma che costringeva a confrontarsi e a

17 Rudol’f Germanovič Pichoja, Sovetskij Sojuz. Istorija vlasti 1945-


1991, Sibirskij Chronograf, Novosibirsk 2000, p. 445.

172
cogliere le affinità nel funzionamento dei meccanismi
amministrativi della repressione nell’Unione Sovietica e
nella Germania nazista.
Le riviste letterarie, fino ad allora snobbate dal grande
pubblico, iniziarono a tradurre in fretta e furia centinaia di
opere occidentali sconosciute che conobbero subitanea-
mente un vero e proprio boom di vendita (Novij Mir passò
dalle 150mila copie di tiratura dei primi anni ’80 ai 2
milioni 700.000 esemplari della fine del decennio). Lo
stesso dicasi per tutta la narrativa che fino ad allora era
stato vietata o letta solo di nascosto nei samizdat.
Malgrado ciò la struttura del Pcus restò timida e conser-
vatrice di fronte a tali dinamiche. Quando l’Unione degli
scrittori, già nel 1989, decise di pubblicare Arcipelago
Gulag di Aleksandr Solženitsyn, fu convocata una speciale
riunione del Politbjuro che non riuscì neppure a prendere
una decisione al riguardo e lo stesso Gorbačëv si dimostrò
perplesso a dare semaforo verde per la pubblicazione del
capolavoro del dissidente sovietico «perché nell’opera si
attacca direttamente Lenin»18. A dimostrazione di quanto il
partito non fosse più in grado di controllare alcunché, il
libro dopo qualche mese giunse comunque nelle librerie e
la prima tiratura di 1 milione e 600.000 esemplari andò
velocemente esaurita.

I fantasmi della rivoluzione


Sul piano storico-politico le cose si mossero più lenta-
mente. Nel discorso di apertura per le celebrazioni del 70º

18 Ibidem, pp. 388-9.

173
anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, Gorbačëv
riprodusse nella sua relazione il vecchio cliché tardostali-
niano sullo scontro interno al partito degli anni ’20:
«Lev Davidovič Trotsky - affermò il Segretario dalla tribu-
na - dopo la morte di Lenin, mostrò pretese esorbitanti di
leadership nel partito, confermando pienamente la valuta-
zione di Lenin come di un politico eccessivamente sicuro di
sé, sempre oscillante e imbroglione. Trotsky e i trotskisti
negarono la possibilità di costruire il socialismo in un
accerchiamento capitalistico. In politica estera, puntarono
sull’esportazione della rivoluzione, e in politica interna, sul
“stringere le viti” nei confronti dei contadini, sullo sfrutta-
mento delle campagne da parte della città, sul trasferimento
dei metodi amministrativi e militari alla gestione dei
società. Il trotskismo è una tendenza politica, i cui ideologi,
nascondendosi dietro la fraseologia di sinistra, pseudorivo-
luzionaria, hanno sostanzialmente assunto una posizione
capitolarda. In pratica, questo è stato un attacco al lenini-
smo su tutto il fronte»19.
Gorbačëv, rappresentante di uno strato a cui mancava
nel suo codice genetico ogni spirito rivoluzionario o sin-
ceramente internazionalistico non poteva che difendere
l’essenza del lascito staliniano, pur denunciandone le
repressioni e recuperando Bucharin per ovvie ragioni.
«Così - confermò in quell’occasione il Segretario generale -
il nucleo dirigente del partito, guidato da Josif Stalin, difese
il leninismo nella lotta ideologica, formulò strategie e tatti-
che nella fase iniziale della costruzione socialista e ricevette
l’approvazione del corso politico dalla maggioranza dei

19 Michail Gorbačëv, Oktjabr’ i perestrojka: revoljutsija prodolžaet-


sja, Izdatel’stvo političeskoj literatury, Moskva 1987, p. 32.

174
membri del partito e dei lavoratori. Un ruolo importante nella
sconfitta ideologica del trotskismo è stato svolto da Nikolaj
Bucharin, Feliks Dzeržinskij, Sergej Kirov, Grigorij
Ordžonikidze, Jānis Rudzutak e altri (applausi)»20.
Le reticenze del capo del Cremlino a rileggere la storia
del partito in modo più equilibrato e senza omissioni non
erano solo il «riflesso pavloniano» di una nomenklatura
incerta, ma anche il tentativo d’impedire che le resistenze
dei settori del partito più conservatori si agglutinassero in
una battaglia per rimettere in discussione il riformismo
gorbacioviano, cosa che del resto poi avvenne comunque.
A partire dal 1988, purtuttavia, sotto la spinta di un’o-
pinione pubblica che chiedeva verità e giustizia per le
troppe pagine nere della storia dell’Urss, fu istituita una
commissione speciale del Partito che iniziò una gigante-
sca operazione di riabilitazione - ben più ampia di quella
seguita al 1956 - di militanti del partito repressi durante il
Grande Terrore del 1937-38. Non vennero riabilitati solo
Bucharin, Zinov’ev e Kamenev, ma perfino i leader delle
tendenze di «estrema sinistra» come Timofej Sapronov e
Aleksandr Šljaplinkov. L’ultimo dei tabù restò l’ex capo
dell’Armata rossa (Trotsky) che verrà riabilitato su richie-
sta dell’Associazione «Memorial» solo nel 1992, già in
epoca postsovietica.
Le resistenze e i malumori delle tendenze conservatrici
all’interno del Pcus assunsero le dimensioni di vera e pro-
pria fronda politica con la celebre lettera aperta di Nina
Andreeva pubblicata su Sovetskaja Rossija il 13 marzo del

20 Ibidem, p. 33.

175
1988, un «siluro contro la Perestrojka» come ebbero a
definirla i principali sostenitori di Gorbačëv. La lunga mis-
siva, scritta con un linguaggio d’altri tempi ma dal tono
discorsivo (la Andreeva si era presentata come una sempli-
ce insegnante leningradese di chimica) era ben comprensi-
bile all’universo conservatore del partito. La lettera si
dilungava in una difesa d’ufficio dei meriti storici di Stalin
(usando come pezza d’appoggio una lunga citazione di
Chruchill) a tinte talmente forti da rimettere in causa per-
sino i risultati del XX Congresso. Naturalmente nel pezzo
non poteva mancare un attacco a Trotsky, ma ciò che
impressionò allora l’opinione pubblica russa fu il chiaro
rimando antisemitico in esso contenuto:
«Un’altra caratteristica delle opinioni dei “liberali di sini-
stra” - scrisse Andreeva - è una tendenza cosmopolita pale-
se o mascherata, una sorta di “internazionalismo” non
nazionale. Ho letto da qualche parte che quando, dopo la
rivoluzione, una delegazione di commercianti e fabbricanti
si rivolse a Trotsky “in quanto ebreo” lamentandosi delle
persecuzioni delle Guardie Rosse, egli dichiarò di non esse-
re “ebreo ma internazionalista”, cosa che lasciò perplessi i
firmatari».
Nella lettera inoltre si attaccavano tutti i mali della
società sovietica contemporanea che andavano dalle
«emittenti radio occidentali» al «sistema pluripartitico»
fino al «diritto a discutere ampiamente dei problemi ses-
suali».
Egor Ligačëv, che era comunque il numero due del
partito, colse in quella lettera che aveva destato così tanto
scalpore, la possibilità di costruire una rivalsa e una ria-

176
pertura dei giochi nei rapporti di forza all’interno del par-
tito e diede l’ordine di ristampare in opuscoli a grande
tiratura lo scritto della Andreeva. Tali ristampe trovarono
orecchie attente in quella parte del mondo sovietico rilut-
tante e rancoroso che si raggrupperà poi, dopo il crollo
dell’Urss, nel Partito comunista della Federazione russa
di Gennadij Zjuganov e in altre formazioni minori.
La dialettica all’interno del partito da quel momento in
poi divenne sempre più intensa e pubblica, anche perché
venne a formarsi intorno a Boris El’tsin una corrente
«ultrariformista» interna-esterna al partito. Originario di
Sverdlovsk, città industriale sugli Urali, El’tsin si dimo-
strò un abile funzionario capace di passare dall’ammini-
strazione locale alla grande politica della capitale.
Appoggiandosi a un movimento variegato e sempre più
vasto di opposizione e di malcontento, usando la demago-
gia e il populismo, egli riuscì rapidamente a rendersi
amato, una volta arrivato alla direzione del partito di
Mosca, non solo tra chi iniziava ad aspirare a un rapido
passaggio al libero mercato. Se ne invaghì, per tutta una
prima fase, anche qualcuno in Occidente come K.S. Karol
che nei suoi reportage dell’epoca su il Manifesto, lo fece
assurgere a nuovo leader della sinistra europea21.
Il Pcus, non avendo avuto Gorbačëv il coraggio di
smobilitarlo e di creare un partito d’ispirazione socialde-
mocratica, giunse dilaniato al suo XVIII e ultimo congres-
so nel luglio 1990. Era ancora formalmente il partito-Stato

21 Vedi K.S. Karol, Due anni di terremoto politico. Urss 1989-1990,


Feltrinelli, Milano 1990.

177
con 19 milioni tra membri e candidati, ma ormai spaccato
in varie «piattaforme» e con un’influenza, soprattutto nelle
grandi realtà urbane, sempre più ridotta. E se in quella
assise le «tendenze ortodosse» riuscirono a dividersi in
ben quattro tendenze («Bolscevica», «Ortodossa», «Fronte
unito dei lavoratori di Leningrado» e «Movimento di ini-
ziativa comunista»), ebbero breve esistenza tormentata
anche la «Piattaforma democratica» - la grande pancia
centrista che si raccoglieva attorno al Segretario generale
- i liberali del «Movimento democratico nel Pcus» e, in
posizione intermedia, la «Piattaforma marxista», un cartel-
lo composito «eurocomunista» sui generis.
Nell’ultima mesta e confusa chiamata a raccolta
Gorbačëv riuscì a farsi rieleggere con il voto di 3.400
delegati contro i soli 500 raccolti da Telmuraz Avaliani,
candidato di bandiera dei «conservatori» e uno dei leader
delle proteste dei minatori dell’estate precedente, ma non
fece emergere nessuna chiara linea politica, tanto meno
strategica. El’tsin, con fiuto politico, abbandonò in quella
occasione all’ultimo minuto utile il partito, per diventare
il leader della variegata opposizione democratica che
andava crescendo nel paese, uscendo platealmente dalla
sala del Cremlino dove si teneva il congresso.

Trotskisti, anarchici e neosocialrivoluzionari


Le cose iniziarono a muoversi nella sinistra anche al di
fuori del partito. A partire dal 1986-87 si costituì a Mosca
il Gruppo di Iniziativa sociale (un raggruppamento che si
rifaceva vagamente alla Nuova sinistra europea) intorno a
Grigorij Pelman (divenuto poi un matematico di fama

178
mondiale per aver risolto la congettura di Poincaré), Boris
Kagarlitskij (valente teorico già dissidente marxista nei
primissimi anni ’80 e passato per le galere sovietiche),
Michail Maljutin e Gleb Pavlovskij che si erano cono-
sciuti frequentando gli emissari francesi e svizzeri del
Segretariato della Quarta internazionale trotskista a
Mosca nei primissimi anni ’80.
Su posizioni di sostegno critico a Gorbačëv si venne
organizzando il club «Perestrojka» animato da Jurij
Afanas’ev, mentre con orientamenti neosocialrivoluzio-
nari si raccolsero intorno alla Associazione «Obščina» i
gruppi di Aleksandr Šubin e Andrej Isaev (in seguito
diventato putiniano). Tutte queste realtà, a partire dal
1988, confluirono nel Fronte popolare di Mosca, una
sorta di assemblea aperta dei movimenti della Glasnost’.
Benché inizialmente, e per tutta una prima fase, il Fronte
popolare avesse una certa influenza (ma al suo apice rag-
giunse solo i mille aderenti) e si proclamasse «socialista»,
ben presto si scisse tra i sostenitori di un’area «liberal»
(che s’impegnerà ad eleggere El’tsin al Soviet Supremo
nel 1989) e una frangia più propriamente di sinistra (che
però non riuscirà a costituire solidi legami con i movi-
menti di sciopero che si stavano sviluppando nel paese).
Assunsero invece un segno quasi immediatamente
nazionalista e secessionista gli altri «Fronti popolari» nei
Paesi baltici e nel Caucaso, diretti e controllati dai cosid-
detti «comunisti riformisti» che avevano fiutato in quale
direzione tirasse il vento. Queste strutture diverranno la
punta di lancia del progetto di disintegrazione dell’Urss
nel 1990-1991.

179
Anche all’estrema sinistra le cose si mossero con la
creazione nel 1988 della Confederazione anarco-sindaca-
lista (il suo slogan era «potere al popolo e non ai partiti»),
che ebbe un certo sviluppo insediandosi in circa 30 città,
e con l’effimero successo del Partito della dittatura del
proletariato già attivo durante il brežnevismo e che agita-
va posizioni a cavallo tra quelle del bordighismo e
dell’Opposizione operaia degli anni ’20.
Anche a «destra» le cose si mossero, per certi versi
anche più velocemente con lo sviluppo di Pamjat che rac-
coglieva tutte le istanze dell’universo bianco e neozarista
presenti nel paese22 e la costituzione dello xenofobo
Partito liberaldemocratico di Vladimir Žirinovskij, ancor
oggi presente alla Duma. Che in quella situzione si stes-
sero creando le condizioni per uno strappo rivoluzionario,
è confermato dalle valutazioni seppur sprezzanti dell’al-
lora capo del Kgb Vladimir Krjučkov:
«Si determinò una diffusa politicizzazione delle masse. La
loro partecipazione ai cambiamenti sociopolitici fu molto
evidente al centro e a livello locale, benché nelle regioni il
grado di attivismo inizialmente fosse molto più limitato.
Forze diverse che avevano obiettivi e modi diversi per rag-
giungerli. Ma le cosiddette forze democratiche - sia pure in
misura diversa per le loro singole componenti - erano
caratterizzate da estremismo, massimalismo e persino tor-
bidezza»23.

22 Una ricostruzione attenta e qualificata dello sviluppo delle forma-


zioni «extraparlamentari» russe si può trovare in Aleksandr Šubin,
Paradoksy Perestrojki, Veče, Moskva 2006, pp. 101-21.
23 Vladimir Krjučkov, Ličnoe delo. Tri dnja i vsja žizn’,
Tsentrpoligraf, Moskva 2000, p. 229.

180
Le elezioni del Congresso dei deputati del popolo
dell’Urss (il parlamento sovietico) nella primavera del 1989
misero in luce quanto stava ribollendo e si avvicinava a
esplodere nel pentolone sovietico. Dei 1.500 deputati eletti
popolarmente (750 erano riservati di diritto alle «organizza-
zioni sociali» controllate dal Pcus) la maggioranza assoluta
era ancora formalmente iscritta al partito (e Gorbačëv illu-
soriamente la considerò una propria vittoria), ma in realtà
per il partito fu una vera e propria débâcle. Infatti solo nella
grande provincia russa, grazie all’apparato amministrativo,
il Pcus incanalò in qualche modo il consenso.
Nelle grandi città europee le cose andarono altrimenti:
32 primi segretari di Comitati regionali del partito, su 160,
non riuscirono ad essere eletti e a Leningrado risultarono
addirittura tutti «trombati». Nelle Repubbliche in odore di
scissione i risultati del Pcus furono anch’essi disastrosi. Per
la prima volta la stragrande maggioranza dei deputati
risultò non composta da operai e contadini ma da intellet-
tuali, a ulteriore riprova che la linea di faglia della
Perestrojka era sociale, ancor prima che politica: saltata
l’alleanza tra nomenklatura neofeudale e una passiva classe
operaia, il «lavoro cognitivo» - come lo potremmo definire
ora - si trovò in mano il pallino del gioco, ma non seppe
esercitare alcuna egemonia nella società sovietica.
Il simbolo per eccellenza di questo mondo e di questa
epoca fu l’ ex dissidente Andrej Sacharov. Uomo di gran-
de statura morale, fisico di levatura mondiale, dopo il
confino a Gor’kij per le sue posizioni pacifiste e umani-
ste, si impegnò nell’Urss della Perestrojka in primo luogo
per la verità sulle repressioni (fondando l’Associazione

181
«Memorial» assieme a Lev Ponomarëv) e venne eletto
come indipendente al Congresso. Il suo programma poli-
tico però in linea di massima non differiva da quello del
segretario del Pcus, se non per i tempi di attuazione che
egli intendeva più rapidi: l’instaurazione in Urss di un
sistema capitalistico a impronta socialdemocratica, e sulla
scorta della «strategia della convergenza tra sistema
socialista e capitalistico», la creazione di una «Casa
comune europea».
La Costituzione da lui proposta prima di morire, alla
fine del 1989, aveva alcuni elementi progressivi come l’i-
dea di costituire un «sistema di forze dell’ordine, indipen-
dente dal governo centrale» o la proposta di un sistema
elettorale proporzionale puro. Sacharov inoltre ragione-
volmente prevedeva nel suo progetto di Carta anche il
mantenimento dell’Unione Sovietica (Paesi baltici com-
presi) sulla base del diritto di secessione via referendum
(solo formalmente esistente anche in epoca leninista) e
persino il mantenimento della lingua russa come perno
delle relazioni interrepubblicane. Tuttavia la sua
Costituzione prevedeva, allo stesso modo, l’instaurazione
di un sistema in definitiva capitalistico laddove introduce-
va non solo la libertà di proprietà azionaria (e la sua eredi-
tarietà), ma anche la libertà illimitata di acquistare forza-
lavoro seppur mitigata dai richiami al diritto a «non vivere
in povertà» e all’universalità dei diritti sociali. In fondo
egli era prigioniero dell’illusione che non possano esistere
libertà politiche e diritti inalienabili senza libertà economi-
ca generalizzata. Si trattava di una convinzione diffusa a
livello di massa allora in Urss e che finiva per mettere

182
d’accordo, seppur con sfumature e accenti diversi, i libe-
rali fino ai più «denghisti» tra i nostalgici tardostalinani.
La rappresentazione plastica di quella convulsa fase
politica fu quanto si vide in occasione del Primo maggio
del 1990 a Mosca, sulla Piazza Rossa. Invece delle ordina-
te fila di pionieri e giovani comunisti con i ritratti di Marx-
Engels-Lenin a cui ci si era stati abituati per decenni, sfilò
una massa disordinata e cenciosa che portava in strada tutta
la propria rabbia e le più diverse rivendicazioni. Dagli
spezzoni che sventolavano le bandiere indipendentiste dei
Paesi baltici fino a gruppi di lavoratori che chiedevano «il
potere ai soviet», andò in scena l’atto finale di un mondo
che stava cadendo a pezzi: sommerso da fischi impietosi, a
un certo punto Gorbačëv dovette persino abbandonare fret-
tolosamente il palco sopra il Mausoleo del Cremlino24.

La calda estate del 1989


Con il disfacimento del sistema economico in Urss,
saltò anche il «patto sociale» che aveva legato il potere
politico e amministrativo ai lavoratori salariati dell’indu-
stria per sessant’anni, facendo riemergere nell’agone del
paese la classe operaia industriale che, salvo rare eccezio-
ni, non aveva dato segni di partecipazione politica attiva
in tutta la storia sovietica dopo il 1917. Questa mobilita-
zione si andò intrecciando col peggioramento verticale
delle condizioni di vita a partire dall’inverno del 1989-90,

24 Quanto accadde sulla Piazza Rossa è documentato dal video della


Tv sovietica dell’epoca, vedibile in www.youtube.com/watch?v=
gEOMIKkdTZM&t=3166s.

183
quando iniziarono a mancare nei negozi anche i beni di
prima necessità. Il sistema di economia pianificata di
comando aveva cessato fattualmente di funzionare, ma
non era stato sostituito da alcunché. Così, mentre le azien-
de statali che producevano beni di una certa qualità inizia-
rono a proporre alla grande distribuzione la loro produ-
zione a «prezzi di mercato» e gli speculatori delle coope-
rative si arricchivano rapidamente vendendo merci occi-
dentali spesso di basso livello a prezzi da mercato nero, si
venne a creare un cortocircuito micidiale, per cui lo Stato
era solo in grado di fornire i principali prodotti a prezzi
calmierati contingentatoli attraverso le tessere annonarie.
L’inflazione iniziò a divorarsi stipendi e salari, e il
caos e il «si salvi chi può» divenne l’unico orizzonte della
quotidianità. Nel gelido parco di Izmailovo, a Mosca, le
famiglie iniziarono a mettere in vendita uova di Fabergé
e argento antico che avevano conservato nelle proprie
case per generazioni, a poche decine di dollari mentre gli
sciacalli depredavano sistematicamente le chiese
dell’Anello d’Oro delle icone antiche per svenderle ai
commercianti americani piombati da New York.
Probabilmente ci furono, in tale confusione, anche sabo-
taggi e inefficienze di parte dell’élite dirigente (sia di
quella che propendeva verso il «mercato puro» sia da
parte dei conservatori che iniziavano ad accarezzare l’i-
dea della «svolta d’ordine») destinate a radicalizzare la
situazione e a condurre alla catastrofe economica.
Per un quadro approssimativo della riduzione del pote-
re d’acquisto della popolazione sovietica in quella fase, si
veda la Tabella 4 che mostra una sorta di «indice vodka».

184
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@5433$ H$$

TABELLA 4. Tratta da Aleksandr Ostrovskij Glupost’ ili izmena?


Rassledovanie gibeli SSSR. Forum, Moskva 2011.

In tale contesto, l’emergere del movimento operaio


sembrò per un attimo poter scardinare gli equilibri di uno
scontro tutto interno agli apparati ed essere una stella
polare per chi credeva ancora alla possibilità di una fuo-
riuscita progressiva dal caos.
A dare la carica della «Perestrojka operaia» furono i
minatori. I motivi dell’ascesa di questi settori della classe
operaia erano la risultante dalla loro particolare posizione
socioeconomica nel paese. Nelle miniere sovietiche, infatti,
esistevano degli standard di protezione del lavoro oltre che
di impianti ben al al di sotto di quelli dei paesi capitalistica-
mente avanzati e i lavoratori con lo sviluppo della Glasnost’
ne divennero sempre più consapevoli. Mentre in Europa e
negli Usa i minatori scendevano nei pozzi e nelle miniere
per un massimo di 20 anni, in Urss si lavorava sottoterra
fino a 60 anni e una volta in pensione gli operai spesso
sopravvivevano solo qualche anno, sopraffatti dalle malat-

185
tie professionali. D’altro canto, però, i minatori in Urss
erano dal punto di vista salariale e dei benefit uno strato
«privilegiato», con salari minimi di 450 rubli che potevano
anche raggiungere i 1.000 (poco meno dello stipendio di un
ministro dell’Urss), una condizione che li spingeva ad esse-
re cauti di fronte a qualsiasi mutamento politico generale
che mettesse in discussione il loro «status».
Il via alle agitazioni fu dato dai lavoratori della minie-
ra «Sevjakova» di Mezduretsensk nel Kuzbass, che al
cambio di turno notturno tra l’8 e il 9 luglio del 1990
entrarono in agitazione dopo che in mensa erano state ser-
vite porzioni di carne avariata. Fu la classica scintilla che
diede fuoco alla prateria. Già l’11 luglio erano entrate in
sciopero anche le miniere «Tomskaja», «Raspadskaja»,
«Lenin», per un totale di 17mila minatori. E il 17 luglio
erano già in 181mila gli operai a essersi decisi a incrocia-
re le braccia. Entro qualche giorno tutto il settore minera-
rio, dall’Ucraina fino alla Siberia, passando per Vorkuta,
era entrato in lotta.
I telegiornali di tutto il mondo portarono nelle case di
un’opinione pubblica che aveva già allora assorbito l’i-
deologia del postindustriale e della scomparsa della classe
operaia, le immagini di decine di migliaia di lavoratori a
petto nudo e i caschetti gialli in testa che discutevano per
ore in enormi piazzali assolati, i metodi di lotta e le piat-
taforme rivendicative. L’illusione che potesse nascere un
movimento operaio senza egemonia cattolica come era
avvenuto in Polonia o sotto le ali di una qualche fazione
della burocrazia però durò poco: decenni di passività e
atomizzazione sociale non erano sormontabili in pochi

186
giorni, e gli apparati amministrativi e politici ebbero rapi-
damente la meglio.
L’agitazione inizialmente si organizzò nella forma clas-
sica del comitato di sciopero, completamente indipendente
e autonoma dal sindacato ufficiale sovietico. Le rivendica-
zioni erano quelle classiche legate ai salari, alle condizioni
di lavoro. Inoltre i lavoratori, in stragrande maggioranza,
si dichiaravano per una «democrazia senza mercato», per
la costituzione di sindacati indipendenti, per la fine dei pri-
vilegi per la burocrazia di partito, per l’elezione diretta di
parte della dirigenza delle aziende. Le amministrazioni
delle miniere e il governo, terrorizzati dalla mobilitazione
operaia e dalle ricadute su un’economia già dissestata, si
dichiararono immediatamente disponibili a una trattativa
lampo e in pochi giorni tutte le rivendicazioni vennero
approvate dal governo di Gorbačëv.
Fu firmato un protocollo che conteneva la promessa
d’introdurre la contabilità dei costi regionali sul campo, di
fornire alle imprese indipendenza legale con il diritto di
stabilire in modo indipendente tassi e prezzi di produzio-
ne e anche di aumentare i salari dei minatori, oltre che
migliorare l’approvvigionamento alimentare.
Entrarono al contempo in agitazione anche altri settori
di lavoratori (ferrovie, industria metalmeccanica ecc.) e
nel novembre del 1989 ci fu persino il tentativo di costi-
tuire un sindacato confederale regionale. Nel suo atto fon-
dativo, l’Unione dei lavoratori del Kuzbass adottò una
piattaforma apertamente socialista in cui sosteneva tra
l’altro che

187
«l’Unione dei Lavoratori del Kuzbass non pensa sia possi-
bile usare la proprietà privata, basata sullo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, ma intende garantire la proprietà pri-
vata basata sul lavoro individuale o famigliare»25.
Le cose però non si dimostrarono né semplici né linea-
ri, e la vittoria operaia si dimostrò presto la classica vitto-
ria di Pirro. Nel giro di qualche mese gli umori dei lavo-
ratori mutarono profondamente: la maggioranza di essi si
trasformarono in sostenitori dell’economia di mercato e si
dichiaravano favorevoli a radicali forme di decentramen-
to del potere politico compresa la completa autonomizza-
zione economica e fiscale della Repubblica russa
dall’Unione Sovietica, uno degli obiettivi principali di
El’tsin. Cosa era successo per far mutare repentinamente
idea a migliaia di lavoratori?
In primo luogo si era messa in moto una dinamica di cor-
ruzione e cooptazione fin troppo nota nella storia del movi-
mento operaio internazionale, ma che gli ingenui minatori
sovietici non potevano conoscere. Fin da subito, va detto,
nel comitato di gestione furono presenti rappresentanti della
direzione dell’azienda (i «direttori rossi») che avevano
obiettivi diversi dagli operai e puntavano al controllo priva-
tistico delle miniere. Inoltre, l’adempimento degli accordi si
dimostrò complicato dato il degrado complessivo degli
organi centrali governativi e i condizionamenti inevitabili
del mercato del carbone in un paese che stava pienamente
integrandosi nell’economia mondiale. I lavoratori si resero
conto che il problema era soprattutto politico, ma dopo
25 A. Šubin, op. cit., p. 260.

188
decenni di paternalismo sovietico che aveva atrofizzato la
loro coscienza di classe, si dimostrarono incapaci di formu-
lare una loro proposta complessiva, alternativa non solo a
quella del governo ma anche a quella dei «democratici di
El’tsin». La massa dei lavoratori aveva un’idea di «merca-
to» in chiave autogestionaria, era contraria alle privatizza-
zioni e sicuramente non anelava alla distruzione del-
l’Unione Sovietica. Alla fine, però, i risultati dello sciopero
avvantaggiarono solo i «direttori del carbone». Le miniere
ottennero subito l’indipendenza economica dall’ammini-
strazione centrale moscovita e anche le amministrazioni
locali ebbero il permesso di gestire in modo praticamente
incontrollabile le risorse finanziarie, i fondi di bilancio che
le erano stati assegnati, così come le sovvenzioni.
Inoltre i capi delle miniere crearono ad hoc delle
società di intermediazione per la vendita del carbone che
preparò loro il terreno per poi successivamente diventare
proprietari delle imprese. Infine, una volta che gli operai
furono tornati al lavoro, il controllo delle ulteriori trattati-
ve con il potere centrale caddero sotto il controllo del
comitati di sciopero che per l’80% per composti da giova-
ni con alto di livello di istruzione. Questi ultimi, col pas-
sare del tempo e col riflusso della mobilitazione, videro in
quella vicenda la possibilità di costruire una propria carrie-
ra come politici e manager (cosa che poi spesso avvenne)
all’ombra dell’eltsinismo rampante. Come osservò in
seguito uno studio sul movimento dei minatori,
«non appena gli scioperi superarono i confini delle singole
miniere, le autorità locali immediatamente aggiunsero le
loro richieste a quelle dei lavoratori. Di conseguenza, le

189
numerose rivendicazioni dei minatori del carbone furono
rapidamente ricondotte alla richiesta dei dirigenti delle
miniere di potersi autofinanziare attraverso l’aumento dei
prezzi del carbone, sebbene questo non fosse parte inte-
grante delle richieste originali dei minatori»26.
Gli operai in lotta finirono così alla coda della parte
nomenklatura che si stava raccogliendo attorno a El’tsin, il
cui obiettivo era diventare con le spicce proprietari di quei
mezzi di produzione e di quelle risorse che fino ad allora
avevano solo «gestito e controllato» L’11 luglio 1991, per
decisione del Primo congresso dei minatori dell’Urss, si
svolse persino uno sciopero politico «generale» dei mina-
tori a sostegno dei politici riformisti che nel frattempo ave-
vano posto sotto il loro controllo i comuni di Mosca e San
Pietroburgo e spinto l’elezione di El’tsin a Presidente della
Repubblica russa nel giugno dello stesso anno.
El’tsin promise che l’introduzione del mercato capita-
listico non avrebbe implicato nessuna politica di «lacrime
e sangue» e le privatizzazione non avrebbe portato alla
distruzione dello Stato sociale sovietico. Purtroppo i lavo-
ratori, seppur solo per qualche tempo, vi credettero o
fecero finta di crederci, e quando si resero conto della
trappola era ormai troppo tardi.

Casa europea, ma della Nato


In questo libro abbiamo scelto di non parlare della
politica estera sovietica se con per brevi cenni per poterci
meglio concentrare sulle dinamiche interne, meno cono-

26 Vadim Borisov, Zabastovki v ugol’noj promyšlennosti (analiz


šachtėskogo dviženija za 1989-99 gg.), ISITO, Moskva 2001, p. 99.

190
sciute in Occidente. Tuttavia, giungere a una valutazione
del corso gorbacioviano risulterebbe impossibile senza
una valutazione di due aspetti fondamentali legati alla
dinamica internazionale di quel periodo: le conseguenze
della riunificazione della Germania e il corso della Cina
dopo Tienanmen.
Quanto più all’interno il già labile consenso verso la
sua politica si riduceva a causa della catastrofica crisi del-
l’economia e delle spinte secessionistiche, tanto più
Gorbačëv cercò di fare perno sul capitale di simpatie che
aveva accumulato nell’opinione pubblica mondiale che
seguiva con apprensione - al di là dei diversi orientamenti
politici - il suo tentativo di ricongiungere l’Urss con il
resto del «mondo avanzato». Soprattutto però il
Presidente dell’Urss cercò di rendere ancora più fluidi e
stabili i suoi rapporti con le cancellerie capitalistiche.
«Man mano che la situazione politica interna diventava più
complicata - ha rilevato correttamente Rudol’f Pichoja -
Gorbačëv e il suo entourage (Jakovlev, Ševardnadze,
Medvedev) iniziarono a cercare il sostegno del loro recente
“nemico di classe” in Occidente. Una politica estera attiva,
il raggiungimento di accordi sul disarmo e, soprattutto, il
riconoscimento dei risultati della “Perestrojka” da parte
dell’Occidente sarebbero dovuti diventare un fattore d’in-
fluenza sull’opinione pubblica all’interno del paese»27.
Sin dal 1986, come ha ricordato Ševarnadze nelle pro-
prie memorie, il gruppo dirigente sovietico era giunto a
conclusioni radicali. Mentre era in vacanza a Pitsunda in

27 R. Pichoja, op.cit., p. 484.

191
Abcasia, nell’estate di quell’anno, nelle proprie memorie
Ševarnadze sostiene che dopo lunghe conversazioni con
Gorbačëv erano giunti alla comune conclusione che
«tutto era marcio e il sistema sovietico non poteva essere
riformato, ma andasse smantellato»28.
Si trattava di una convinzione a lungo covata visto che
già nel 1981, quando uno storico georgiano gli aveva
offerto di acquistare dagli Stati Uniti l’archivio del gover-
no menscevico georgiano i cui diritti di prelazione scade-
vano nel 2000, il futuro ministro degli esteri della
Perestrojka gli aveva risposto che non c’era ragione di
preoccuparsi perché per quella data non ci sarebbe più
stato potere sovietico in Georgia. Non è un caso quindi che
benché le trattative con gli Usa per la riduzione delle armi
atomiche non approdassero a nulla, i responsabili della
politica estera sovietica avevano già deciso, a prescindere
e da lungo tempo, di consegnare le chiavi dell’Europa alla
Nato, favorendo il disfacimento già in corso dei regimi a
«democrazia popolare» dell’Europa centrale.
A partire dal 1987, Gorbačëv cercò effettivamente di
trovare un accordo con gli Usa per giungere a una ridu-
zione degli armamenti: un disarmo accelerato sarebbe
stato vitale per l’Urss in quanto le avrebbe permesso di
spostare risorse del bilancio verso gli investimenti produt-
tivi e i consumi. I suoi molteplici incontri con Ronald
Reagan, George Bush sr., George Shultz e James Baker ne
furono la sanzione. Ma con una scusa o con l’altra gli sta-
28 Ėduard Ševarnadze, Moj vybor v zaščitu demokratii i svobody,
Novosti, Moskva 1991, p. 79.

192
tunitensi evitarono sempre d’impegnarsi in questo senso.
Lo stesso vale per i possibili prestiti: perché fossero elar-
giti, gli Usa alla fine chiesero all’Urss condizioni politi-
che sempre più draconiane mettendo la dirigenza sovieti-
ca nelle condizioni di dover traccheggiare.
Allo stesso tempo il leader sovietico cercò di convince-
re in tutti i modi i dirigenti comunisti dell’Europa orientale
a promuovere a loro volta delle riforme strutturali nei loro
rispettivi paesi, ma con modesti risultati. Il leader sovietico
trovò una lingua comune in primo luogo con il generale
Wojciech Jaruzelski, colui che aveva schiacciato con i carri
armati nel 1981 la stagione di democratizzazione della
Polonia, inaugurata dai movimenti operai di Solidarność.
Questa vicinanza del leader sovietico al generale polac-
co può risultare paradossale solo per chi ha un’idea unila-
terale di Gorbačëv come «icona democratica» e non come
dirigente di un partito comunista allevato non alla lotta di
classe, ma al suo controllo e repressione.
In realtà, il golpe organizzato dai vertici dello Stato
maggiore polacco era stato il punto di caduta che teneva
conto delle esigenze occidentali (al di là della formale
campagna antisovietica che ne era seguita), il punto di
equilibrio tra la «Dottrina Brežnev» e la conferma del-
l’impegno da parte di Varsavia con il Fondo monetario
internazionale e la Banca mondiale a pagare i debiti con-
tratti negli anni ’70 dall’amministrazione Gierek.
Come molti della generazione della nomenklatura degli
anni ’60 il segretario del Pcus da una parte era un democra-
tico riformatore sulla linea aperta dal «disgelo» e poi inter-
rotta da Brežnev nella seconda metà degli anni ’60, ma dal-

193
l’altra era un burocrate realista: non è un caso che nel libro
scritto nel 2018 sulla politica estera tra il 1985 e il 1991
giunse a scrivere che con Jaruzelski ebbe sempre «rapporti
amichevoli» e giustificò la repressione del 13 dicembre in
quanto «il movimento di sciopero in Polonia aveva portato
il paese sull’orlo del completo caos economico»29. Del
resto, la sua valutazione dell’arma dello sciopero come
«caos e disordine», che suonerebbe strana sulla bocca di
chiunque si professi «socialista» in Occidente, egli la con-
fermò spesso anche in occasione degli scioperi in Urss di
quel periodo a riprova che la nomenklatura dominante
durante tutta l’epoca sovietica usò i lavoratori come ostag-
gi, pronta a denunciarli e reprimerli di fronte a qualsivoglia
loro espressione di autonomia politica.
L’altro leader con cui Gorbačëv trovò modo di trovare
di un’intesa fu l’ungherese János Kádár, il prediletto di
Berlinguer tra i leader internazionali. Kádár aveva gestito
con accortezza tutta la fase che era andata dalla repressio-
ne del 1956 alle liberalizzazioni dell’economia magiara
degli anni ’70, e si riteneva ormai completamente affran-
cato dall’Urss. Quindi non fu certo difficile per lui dare
un appoggio, ma più che altro «di bandiera», al nuovo
corso sovietico. L’ormai completa presa di distanza del
leader ungherese dal mondo del Comecon e del Patto di
Varsavia divenne poi evidente il 23 agosto 1991 quando il
suo paese unilateralmente rimosse le restrizioni al confine
con l’Austria provocando la fuga immediata verso la
29 Michail Gorbačëv, V menjajuščemsja mire, Izdadel’stvo AST,
Moskva 2018, p. 63.

194
Germania ovest di decine di migliaia di tedeschi orientali.
Si trattava soprattutto di lavoratori specializzati e ciò
ancor di più che la simbolica apertura dei checkpoint a
Berlino, fu il segnale della fine per il regime di Honecker
che aveva fieramente contrasto il disegno gorbačëviano.
La sera del 9 novembre, quando i berlinesi orientali
(come Gorbačëv ha ricordato in un’intervista in occasione
del 30° anniversario di quegli avvenimenti)30 con atto di
responsabilità fu lo stesso Presidente sovietico a evitare
scenari drammatici, dando l’ordine alle truppe sovietiche
di stanza nella capitale tedesco-orientale di non uscire
dalle caserme e di permettere la «Caduta del Muro» . Il
resto dei regimi delle «democrazie popolari», con ecce-
zione di quello rumeno, crollarono come un castello di
carte in pochi giorni, a dimostrazione che ormai la buro-
crazia di quei paesi aveva deciso di prendere la strada del-
l’integrazione nell’Europa capitalistica. E per come si
erano messe le cose si trattò di un evento inevitabile.
Ciò che lasciò molti dubbi e di cui continuano a discu-
tere gli storici, fu invece la capacità di gestire, da parte del
gruppo dirigente raccolto intorno a Gorbačëv, le trattative
per la riunificazione tedesca e la sistemazione del
Centroeuropa che ne seguì e che portò a consegnare di
fatto nelle mani della Nato quasi tutto il Vecchio
Continente senza alcun reale contrappeso: tra il 1999 e il
2008 sono entrati nell’Alleanza atlantica tutti i paesi ex
socialisti europei salvo rarissime eccezioni.
30 Yurii Colombo, intervista a Michail Gorbačëv. «In quel novembre
’89 vinse la pace», in il Manifesto, 9 novembre 2019, p. 9.

195
Secondo il leader sovietico, durante le trattative per
definire la questione della riunificazione tedesca, sia da
parte statunitense sia da parte tedesca, dopo una prima fase
d’incertezza si pretese da parte sovietica il pieno ricono-
scimento del diritto della Germania unita di entrare a far
parte dell’Alleanza atlantica. Su questo non ci sono dubbi:
l’Urss avrebbe naturalmente preferito la neutralità tedesca
e avrebbe potuto anche fare leva e trovare un certo soste-
gno di Francia, Italia e Gran Bretagna su questo punto, ma
gli Usa, prima ancora della Germania di Bonn, si dimo-
strarono inflessibili. L’aspetto più controverso, dal punto
di vista storiografico, resta invece ad oggi l’allargamento
della Nato agli altri paesi ex socialisti.
In tutti gli accordi che vennero sottoscritti, il tema
della definizione di che fine dal punto di vista delle
alleanze avrebbero fatto la Polonia e le altre «democrazie
popolari», non venne mai menzionato. Più tardi, quando
negli anni 2000 soprattutto Putin ha denunciato «l’inge-
nuità» del presidente sovietico in quel frangente,
Gorbačëv ha sentito la necessità di chiarire che erano
state fatte da parte statunitense delle promesse verbali che
poi non vennero mantenute. In particolare «Gorby» si è
rifatto ad alcuni colloqui con Baker (oltre che ad alcune
interviste da lui concesse nel febbraio del 1990) in cui gli
avrebbe garantito che non ci sarebbe stato alcun allarga-
mento dell’Alleanza atlantica e i paesi del blocco sovieti-
co avrebbero potuto tranquillamente assumere una posi-
zione di neutralità.
In realtà il presidente russo pensava che l’ipotesi di
un’Europa da Lisbona a Vladivostok pacifica e solidale

196
si potesse veramente realizzare e la «fine della storia»
prospettata da Fukuyama fosse in quel momento a porta-
ta di mano.
La sua difesa riguardo a quel passaggio decisivo resta
però debole su tutta la linea, soprattutto quando egli
sostiene che se si fosse preservata l’Urss «l’espansione
della Nato non avrebbe avuto luogo ed entrambe le parti
avrebbero affrontato la creazione di un sistema di sicurez-
za europeo in modo diverso»31.
A distanza di decenni ci si può anche chiedere se si
sarebbero potuti definire degli accordi che nel tempo non
trasformassero il gruppo dei «Paesi di Visengrad» in un
avamposto di pressione costante contro la Russia.
Difficile dirlo. I trattati sono sottoscritti anche per
essere violati e l’Urss si trovava in una posizione assai
scomoda, ma forse ancor più della Germania e degli Usa
fu allora il Cremlino a voler fare in fretta, e la fretta è
sempre cattiva consigliera. Allo stesso tempo il gruppo
dirigente raccolto intorno a Gorbačëv, che avrebbe voluto
imprimere una politica di disarmo, non ebbe mai il corag-
gio di mettersi in rotta di collisione al suo interno con le
seppur indebolite lobby del complesso militar-industriale,
con il Kgb e con l’esercito (malgrado l’incapacità atavica
di questa struttura, dai decabristi in poi, di giocare un
ruolo politico autonomo).
La stessa speranza del Cremlino che le principali isti-
tuzioni finanziarie internazionali potessero intraprendere
un nuovo Piano Marshall per l’Urss si dimostrò un’illu-
31 M. Gorbačëv, V menjajuščemsja..., cit., p. 64.

197
sione e i 12 miliardi di marchi che la Germania versò per
far ritirare l’enorme contingente sovietico in Germania
orientale, non bastarono neppure per coprire le perdite
economiche dovute alla crisi economica del 1990-1991.

Era possibile una «via cinese»?


In molti si chiedono, non solo in Russia, se una rifor-
ma quale si stava realizzando nello stesso periodo in Cina
fosse realizzabile in Urss, se la ricetta del grande successo
del Partito comunista cinese nel passaggio autoritario
all’integrazione nel mercato capitalistico mondiale, fosse
una carta spendibile da parte di Gorbačëv.
In un’intervista di qualche anno fa, Nikolaj Bajbakov,
uno dei tecnocrati sovietici più autorevoli, a suo tempo
capo dell’industria petrolifera sotto Stalin e direttore del
Gosplan sovietico, ha espresso con molta chiarezza l’idea
che un mix di statalismo ed economia di mercato con dit-
tatura alla cinese sarebbe stata la soluzione ottimale per il
mondo postsovietico. Si tratta di un’ipotesi di scuola ma
interessante da discutere, che però necessita di fare un
passo indietro, fino all’epoca brezneviana.
Dopo lo scisma del movimento comunista internazio-
nale negli anni ’60, cinesi e sovietici continuarono a stu-
diarsi seppure a distanza e in cagnesco, cercando di capire
le prospettive non solo di politica estera degli ex compa-
gni. Fëdor Burlatskij per lungo tempo era stato uno dei
funzionari più in vista dell’apparato ideologico del Pcus e
aveva scritto negli anni ’60 e ’70 una serie di saggi sulla
Cina del tutto in linea con la vulgata dell’epoca sovietica,
che riduceva l’esperimento maoista a «volontarismo» e

198
«settarismo». Tuttavia l’apparatnik, nei suoi viaggi a
Pechino a partire dagli anni ’80, si accorse che dietro la
patina dell’apparente continuità formale, con Deng qual-
cosa di significativo stava cambiando in Cina, e lo
segnalò con prontezza ai massimi vertici del partito,
Gorbačëv compreso32. Deng avrebbe usato il suo nuovo
potere, sosteneva Burlatskij, per migliorare l’economia
cinese, concentrandosi sull’obiettivo, allora un vero e
proprio sogno, che «ogni famiglia cinese dovesse avere
una bicicletta, una macchina da cucire e una Tv». Alle
esortazioni ideologiche della Rivoluzione culturale -
aveva notato Burlatskij - erano state sostituite le promesse
di miglioramento materiale.
Quindi, a differenza di quanto molti hanno detto in
seguito, il gruppo dirigente del Pcus sapeva e osservava con
attenzione cosa accadeva dietro la Grande Muraglia anche
se prevedere la magnitudo dei successivi mutamenti in Cina
era allora impossibile, e non solo a Mosca. In primo luogo
perché se era chiaro negli anni ’80 che l’economia mondia-
le stava spostando il suo baricentro in Asia, non solo la
stampa internazionale ma anche studiosi attenti come
Giovanni Arrighi prevedevano il decollo del Giappone
come potenza mondiale di quell’area e non della Cina.
Inoltre il paese di Mao di quell’epoca era troppo diver-
sa dal punto dello sviluppo sociale ed economico per poter
essere un punto di riferimento per l’Urss. Alla fine degli
anni ’70 quando la Cina iniziò il suo processo di accumu-

32 Fedor Burlatskij, Russkie gosudar. Ėpocha reformatsij, Šark,


Moskva 1996.

199
lazione primitiva (nel 1978, secondo Maddison, il 71,9%
della sua popolazione lavorava ancora nelle campagne e
solo il 15,8% nell’industria e nelle costruzioni) l’Urss era
già una società industriale matura e largamente urbanizza-
ta. Come ha correttamente segnalato Aleksandr Šubin quei
150-200 milioni di forza-lavoro cinese, potenzialmente
disposta a muoversi dalle campagne verso le città,
«erano una risorsa estensiva a disposizione di Mao e di
Stalin, di Deng e di Chruščëv, ma non di Gorbačëv. Questa
risorsa non permette di passare dalla società industrale for-
dista all’organizzazione flessibile del lavoro postfordista,
per la quale occorrono dei lavoratori creativi ad alto livello
di formazione»33.
La Cina ebbe in quel frangente la fortuna d’incrociare
il suo tentativo di decollo industriale di mercato con il pro-
cesso di globalizzazione capitalistica a cavallo degli anni
’80, che la fece diventare la «fabbrica del mondo» che
conosciamo oggi. Per l’Urss il problema invece era come
integrare nel mercato mondiale la propria struttura indu-
striale semiautarchica e dipendente dalle esportazioni di
materie prime. Archie Brown nel suo libro sul crollo del
comunismo ha anche sottolineato altri due aspetti struttu-
rali che favorirono il decollo delle riforme cinesi a diffe-
renza di quelle sovietiche: la sovrabbondanza di forza-
lavoro e i limiti della collettivizzazione delle campagne34.
Gli specialisti sovietici osservarono da vicino anche il
tentativo del Dragone di aumentare la produttività del
33 A. Šubin, op. cit., p. 64.
34 Archie Brown, The rise and fall of Communism, Penguin, London
2010, p. 442.

200
lavoro che in Urss, come abbiamo visto nel capitolo pre-
cedente, con le riforme Liberman negli anni ’60 era falli-
to. La Ščukhino cinese fu l’esperimento nella provincia di
Sichuan alla fine degli anni ’70 guidato da Zhao Ziyang
allora governatore della zona e che in seguito diventerà
anche primo ministro (e infine sarà silurato da Deng dopo
le repressioni del 1989).
Nel 1980 l’Istituto dell’Estremo Oriente dell’Urss pre-
parò un rapporto sull’esperimento del Sichuan in cui si
sottolineava che il suo obiettivo era «creare un sistema di
gestione più flessibile per le imprese, rafforzare la disci-
plina dei contratti, fornire stimoli materiali ai lavoratori,
ridurre i costi, aumentare i profitti». Si trattava di un espe-
rimento pilota che Pechino si preparava a replicare su
scala nazionale: già in quell’anno, il 7% di tutte le impre-
se in Cina ottenne l’indipendenza economica. Un’altra
differenza significativa delle riforma cinese con la sovie-
tica fu la sua estensione geografica: la cinese non fu limi-
tata a un’impresa o a un settore, ma fu allargata a tutta una
provincia. Per ultimo, ma non meno importante, l’esperi-
mento cinese non si concentrò tanto sulla tecnologia
quanto sull’efficienza, una linea di sviluppo impossibile
in Urss visto il peso della grande industria e il livello d’in-
tegrazione interrepubblicana sconosciuto in Cina. Gli
analisti sovietici fecero anche notare che Pechino stava
cercando di potenziare la piccola impresa industriale per-
ché permetteva di controllare l’eccesso di forza-lavoro
prodotta dalla disgregazione del mondo rurale.
La formazione in Cina di una vasta rete di piccole e
medie imprese in agricoltura permise il nuovo «grande

201
balzo in avanti», questa volta davvero grande, mettendo
così anche in condizione la sua struttura produttiva ad
essere pronta per la flessibilità del just in time e per l’e-
splosione dell’economia dell’indotto che si stava impo-
nendo nell’industria occidentale proprio in quella fase. Nel
1982, osservava un altro rapporto sovietico, le imprese pri-
vate o strutturate con criteri privatistici in Cina «davano
lavoro a 31,1 milioni di persone, oltre il 10% della popo-
lazione rurale abile del paese… [e] generava oltre la metà
del reddito totale della produzione agricola»35.
Come ha messo in luce Chris Miller,
«A queste aziende de facto private si aggiunsero sempre
più aziende che erano de jure, private. Il numero di impren-
ditori privati ai quali furono concesse aumentò di 340.000
nel solo 1982, fino a raggiungere 1,47 milioni. Erano 33
volte di più di quelle che esistevano nel 1979. I riformatori
del mercato cinese sostenevano che la rapida crescita del
numero di imprese significava che la pianificazione centra-
lizzata non era più possibile»36.
Insomma, le riforme in chiave capitalistica e lo sman-
tellamento della pianificazione economica, che Gorbačëv
si era apprestato a realizzare in Urss nel 1986, erano già
attive in Cina da oltre un quinquennio.
Gli studiosi sovietici osservarono anche che la Cina
stava introducendo una legislazione che sosteneva for-
malmente il diritto all’imprenditoria privata, prevedendo

35 Chris Miller, The struggle to save the Soviet economy. Mikhail


Gorbachev and the Ccollapse of the USSR, The University of North
Carolina Press, Chapel Hill 2016, p. 86.
36 Ibidem, pp. 86-7.

202
«la protezione dei diritti e degli interessi legittimi delle
unità economiche di proprietà individuale».
In un articolo di Ivan Naumov pubblicato su
International Affairs nel 1984 veniva esposto il dibattito
in corso in Cina sulle forme di proprietà. Naumov soste-
neva che la ridefinizione della proprietà era una delle que-
stioni più importanti nella Cina contemporanea. Con l’ec-
cezione dei maoisti old style, la maggior parte dei dirigen-
ti cinesi e in primis Deng Xiaoping a quel punto avevano
riconosciuto che il Grande balzo in avanti e la
Rivoluzione culturale avevano avuto un epilogo disastro-
so. Ora secondo Naumov la Cina stava facendo i conti
con i limiti del passato sintetizzabili nella
«eccessiva centralizzazione e mancanza di indipendenza
economica delle imprese, disprezzo delle leggi economi-
che, comando verticale, separazione della produzione dal
consumo, crescita della burocrazia»37.
Tutto questo, aggiungeva lo studioso russo, aveva
spinto i politici cinesi verso una conclusione radicale: il
sistema cinese dei rapporti di proprietà doveva cambiare.
I leader cinesi, concludeva Naumov, si erano resi conto
che la proprietà collettiva non «crea stimoli per lo svilup-
po della produzione»38.
Si trattava di un processo di trasformazione pienamen-
te capitalistica della Cina che raggiungerà il suo zenit nel
2004 quando verrà introdotto nella Costituzione il diritto
alla proprietà privata dei mezzi di produzione e all’acqui-

37 Ibid., p. 72.
38 Ibid., p. 73.

203
sto della forza-lavoro, ma che, come risultava evidente,
già alla metà degli anni ’80 si reggeva sulle gambe di due
milioni di imprese rurali private o che agivano privatisti-
camente, e che impiegavano oltre 70 milioni di persone.
L’interesse sovietico per ciò che si muoveva in Cina e
in generale in Asia fu confermato dall’importante discorso
che Gorbačëv tenne a Vladivostok il 28 luglio 1986 e che
suscitò un ampio interesse tra i cremlinologi. In quell’oc-
casione il leader sovietico sottolineò non a caso la natura
bicontinentale del suo paese e la necessità di accelerare lo
sviluppo economico in Siberia e in Estremo Oriente.

La Cina è vicinissima?
Nel contesto descritto, le difficoltà dell’Urss a promuo-
vere una «variante cinese» erano ancora maggiori. Nel
dicembre 1990, quando il primo ministro Valentin Pavlov
annunciò l’intenzione di realizzare la transizione verso
un’economia di mercato, attuando una riforma monetaria
che limitava temporaneamente il cambio di banconote da
50 e 100 rubli e liberalizzò relativamente i prezzi dei beni
di consumo di base, si trovò di fronte una doppia opposi-
zione incrociata: quella demagogica di El’tsin, secondo cui
si potevano realizzare le riforme senza l’esplosione dell’in-
flazione, e quella dell’ala ligacioviana del partito che aveva
già mal digerito l’introduzione delle cooperative e dell’au-
tonomizzazione delle imprese. Oltre al malcontento di una
popolazione fiaccata dal disastroso approvvigionamento
anche di prodotti alimentari di prima necessità. Eppure in
quei mesi era proprio la strada cinese che Gorbačëv stava
cercando di battere, seppure con alcuni inevitabili accorgi-

204
menti e tempi strettissimi. Come in Cina, la sua ammini-
strazione stava tentando di sottoporre le imprese statali a
incentivi di mercato, dando la possibilità allo Stato di
tagliare i sussidi. Lo stesso valeva per il dolente settore del-
l’agricoltura. Gorbačëv sapeva benissimo, come abbiamo
visto, che in Cina la liberalizzazione era iniziata nel settore
agrario e che i contadini cinesi erano diventati più produt-
tivi, mentre l’agricoltura sovietica era una palude d’ineffi-
cienza originata dall’avventuristica collettivizzazione stali-
niana a cui né Chruščëv né Brežnev erano riusciti a mettere
riparo e che richiedeva iniziative di lungo respiro.
Con lo sviluppo delle joint-ventures e la fine del mono-
polio del commercio estero statale, il governo russo aveva
anch’esso favorito gli investimenti esteri nei limiti delle
possibilità di fase, come stava facendo la Cina; aveva pro-
vato ad attirare capitali e incoraggiato le imprese sovietiche
a introdurre nuove tecnologie e pratiche di gestione.
In conclusione la Cina ebbe il vantaggio rispetto all’Urss
di non dover realizzare un passaggio al mercato di una
società già industrialmente avanzata, ma di poterlo introdur-
re ex novo attraverso una rapida accumulazione originaria.
In tal modo la Cina, avendo anche iniziato il percorso verso
il mercato qualche anno prima dei sovietici, poté guidare il
processo con un certo gradualismo, senza dove imporre una
shock therapy come sembrava inevitabile dover fare in
Urss. Gli elementi chiave del gradualismo della riforma
economica cinese furono la decollettivizzazione dell’agri-
coltura, le riforme dei prezzi, l’istituzione di imprese urbane
di proprietà privata, la creazione di zone economiche spe-
ciali, mentre l’Urss aveva il problema urgente di ristruttura-

205
re un gigantesco apparato industriale e procedere alla priva-
tizzazione non solo delle imprese produttive, ma anche del
sistema finanziario e del patrimonio immobiliare.
In questo quadro avvenne la visita di Gorbačëv in Cina
tra il 15-18 giugno 1989: destino volle, proprio mentre si
tenevano le manifestazioni in piazza Tienanmen. Benché
la sua visita alla piazza centrale di Pechino fosse stata
accuratamente cancellata dal programma, il capo del Pcus
sapeva benissimo che i manifestanti cinesi in quei giorni
gridavano il suo nome e si appellavano alla Glasnost’. Fu
anche per questo probabilmente che in uno dei discorsi
tenuti di fronte a un pubblico selezionato, affermò che «le
riforme economiche non funzioneranno se non saranno
sostenute da una radicale trasformazione del sistema poli-
tico»39. Fuor di diplomazia si trattava della traduzione in
chiave socialdemocratica dell’adagio occidentale secondo
cui «lo sviluppo del mercato non può funzionare se non è
accompagnato dalla democrazia politica». Nei successivi
decenni proprio i dirigenti cinesi si sarebbero incaricati di
dimostrargli che una via autoritaria al capitalismo, oltre
che alla modernizzazione, è non solo realizzabile, ma in
qualche misura perfino invidiata dagli stessi cantori del
liberalismo occidentale.
La pretesa dunque che l’Urss potesse essere una secon-
da Cina - ripetuta come un mantra tra i residui di ciò che fu
il movimento comunista mondiale e in Russia tra chi ha in
qualche misura nostalgia per l’Urss - non ha alcuna seria
base analitica. Anche perché se la Cina di oggi è certamente
un paese più ricco e progredito è anche, allo stesso tempo,
39 M. Gorbačëv, V menjajuščemsja..., cit., p. 87.

206
caratterizzato da un altissimo livello di diseguaglianze e da
uno sfruttamento dei lavoratori senza pari.
Ma per l’Urss non erano solo differenze strutturali a ren-
dere impraticabile una via cinese al mercato. Come vedre-
mo, gli organizzatori del «Putsch di agosto» avrebbero
voluto battere proprio quella strada risultata impercorribile
in primo luogo perché in Russia all’epoca esisteva, a diffe-
renza che in Cina, un’ampia e vivace società civile, con un
dualismo di poteri de facto che impediva la realizzazione di
un bagno di sangue come preludio alla svolta capitalistica,
se non prospettando al paese una guerra civile più o meno
aperta. In realtà ciò che tenteranno di realizzare El’tsin con-
fusamente e Putin in modo più graduale e razionale, sarà
proprio un modello di modernizzazione autoritario e centra-
lizzato simile a quello cinese, dimostratosi irrealizzabile
nell’era di Gorbačëv, per mancanza di condizioni obiettive
e per la discesa in campo della mobilitazione democratica.

Urss, ultima chiamata


All’inizio del 1991 Gorbačëv ebbe un ultimo colpo di
coda, mettendo a segno uno dei suoi pochi successi poli-
tici: la realizzazione del referendum sul mantenimento
dell’Urss seppure in versione riformata. Il 17 marzo 1991,
una maggioranza significativa di sovietici votò per il
mantenimento dell’Urss сhe neppure il suo acerrimo
avversario El’tsin poté in quel momento contrastare.
La manifestazione a Mosca del 4 febbraio 1991 per il
mantenimento dell’Unione era stata gigantesca e trasver-
sale, e il voto dimostrò che i cittadini dell’Urss, al di là
delle preferenze politiche e malgrado le gigantesche diffi-

207
coltà economiche di quel periodo, volevano compiere una
scelta razionale: rivitalizzare una positiva convivenza tra
decine di popoli diversi prolungatasi seppur con pochi alti
e tanti bassi per 70 anni, e tenere insieme un’economia
fortemente integrata. Il quesito fu così formulato:
«Ritiene necessario preservare l’Unione delle Repubbliche
socialiste sovietiche come una rinnovata federazione di repub-
bliche sovrane e uguali, in cui saranno pienamente garantiti i
diritti e le libertà delle persone di qualsiasi nazionalità?»
Nelle elezioni più libere che si siano mai tenute in
Urss e forse in tutta la storia russa, esso ottenne più del
70% di sì con l’80% di partecipazione al voto. I risultati
furono particolarmente significativi in Russia (laddove si
concentrava la maggior parte della popolazione sovietica)
dove i sì furono il 75,4%, e in Ucraina dove a favore vota-
rono il 70,2% degli elettori. Sopra il 90% furono i voti
favorevoli nelle Repubbliche centroasiatiche che dall’esi-
stenza dall’Urss avevano avuto enormi dividendi in chia-
ve di sviluppo economico, culturale e sociale.
Alcune delle repubbliche non parteciparono al voto per-
ché i loro governi avevano già deciso di mettersi sulla stra-
da della secessione. Tuttavia, se nei Paesi baltici era asso-
lutamente evidente la volontà dei cittadini di voler separare
le proprie strade da quella dell’Unione dopo quasi mezzo
secolo di convivenza forzata seguita ai protocolli segreti
del Patto Ribentropp-Molotov, non era poi così scontato
quale sarebbe stata la volontà dei cittadini di Armenia,
Georgia e Moldavia se il referendum si fosse tenuto rego-
larmente. Il plebiscito fortemente voluto da Gorbačëv però
fu solo una mezza vittoria perché El’tsin si stava preparan-

208
do a vincere le elezioni della presidenza della Federazione
russa che si sarebbero tenute nella tarda primavera e a
svuotare dall’interno il potere centrale, avocando a sé il
potere della banca centrale di Mosca e avviando lo smem-
bramento del sistema fiscale federale.
A rendere inutili comunque gli sforzi di Gorbačëv pensò
il disastroso e per certi versi ridicolo «Golpe d’agosto».
L’idea d’introdurre lo stato d’eccezione non fu un’idea
improvvisa sorta nelle teste di parte dell’apparato gorba-
cioviano a ferragosto del 1991. Già a partire dalla prima-
vera di quell’anno lo stesso Segretario generale aveva
deciso di affrontare la questione con i suoi più stretti col-
laboratori, al punto di dare l’ordine che una speciale com-
missione ne valutasse gli aspetti tecnici, nell’eventualità si
dovesse giungere a tale scelta. Vladimir Krjučkov, allora
presidente del Kgb e uno dei principali «congiurati» dei
torbidi estivi, ha dichiarato in seguito che Gorbačëv giunse
a dirgli qualche mese prima e senza mezzi termini:
«Prepara i documenti per l’introduzione dello stato di
emergenza. Lo introdurremo, perché tutto questo non è più
sopportabile!»40.
Che questi fossero gli umori al Cremlino è stato con-
fermato anche dall’allora premier Pavlov:
«Nel 1991 dopo gli scioperi dei minatori... misure di emer-
genza divennero un’urgente necessità. Le loro introduzione
fu studiata da tre gruppi di specialisti sotto la supervisione
generale e la direzione di Gorbačëv»41.
40 Vladimir Krjučkov «Ja, yl tol’ko presedatel’ KGB!», in Gazeta, 19
ottobre 2003.
41 Valentin Pavlov, Avgust iz vnutri, Delovoj Mir’, Moskva 1993, p. 83.

209
Infatti se gli scioperi rappresentavano la principale
spina nel fianco dell’arrancante governo, la situazione
finanziaria era tragica: in soli due anni, dal 1989 al 1991,
la maggior parte delle riserve auree del paese (circa 1.000
tonnellate) era stata venduta. Allo stesso tempo, le riserve
valutarie dell’Unione Sovietica erano scese da 15 miliardi
di dollari all’inizio del governo di Gorbačëv a 1 miliardo
del 1991. Fonti ufficiali contabilizzarono che «nel 1990-
1991, l’Unione Sovietica aveva perso circa 20 miliardi di
dollari a causa della fuga di capitali»42.
In realtà anche in quel frangente, l’ultimo segretario
del Pcus, come spesso durante tutta la sua dirigenza, era
incerto sul da farsi. La vittoria nel referendum sulla
«Nuova Urss» era già a quel punto una pistola scarica nel
momento in cui buona parte delle istituzioni russe aveva-
no iniziato a sostenere l’autonomia economica e fiscale
pretesa da El’tsin una volta eletto presidente della Russia.
Di ciò se ne rendeva conto anche Gorbačëv quando nella
sua autobiografia scrive che
«la legge della Repubblica socialista russa sulla formazione
del bilancio per l’anno 1991 minava i cardini dei criteri di
elaborazione del bilancio dell’Unione e quindi dell’Unione
stessa. La leadership russa, con una decisione unilaterale,
tagliò i fondi all’Unione di cento miliardi di rubli. Il risul-
tato fu che venne ridotto il sostegno alle altre repubbliche
che, a loro volta, private dei finanziamenti necessari, taglia-
rono le forniture dei loro prodotti all’Unione»43.

42 Aleksandr Ostrovskij, Glupost’ ili izmena? Rassledovanie gibeli


SSSR, Forum, Moskva 2011, p. 532.
43 M. Gorbačëv, V menjajuščemsja..., cit., p. 201.

210
Fu in questo quadro che nella prima settimana di
luglio 1991 Krjučkov ricevette nella sua dacia fuori
Mosca l’ex capo dei servizi segreti militari italiani, l’am-
miraglio Fulvio Martini, e in una conversazione riservata
disse che l’istituzione di un governo forte in Urss, non
importa se guidato da Gorbačëv o meno, stava diventando
inevitabile. Martini informò subito il proprio governo di
quanto bolliva in pentola a Mosca e quindi ciò che poi
avvenne non fu un fulmine a ciel sereno per i governi
occidentali e per la Nato.
Quell’estate divennero chiari i contorni del Trattato
sull’Unione che si sarebbe dovuto firmare il 20 agosto 1991
e ancor più divenne evidente che si trattava di uno strappo
con la piattaforma istituzionale sovietica sorta nel 1922. Di
fatto l’Unione si sarebbe trasformata in una mera cornice
dentro la quale gli Stati aderenti avrebbero sviluppato una
propria politica indipendente. Gorbačëv si rendeva bene
conto che i suoi poteri sarebbero stati ulteriormente limitati,
ma sperava di poter almeno assurgere al ruolo il mediatore
fra la potente Russia da una parte e il resto delle repubbliche
dall’altra. Gran parte del suo entourage già allora era giunto
alla conclusione - probabilmente a ragione - che l’idea del
Segretario generale di poter diventare l’ago della bilancia
tra le Repubbliche nella nuova «Urss riformata» fosse
un’illusione e si mise decisamente sulla strada del golpe,
una strada che si rivelò però ancora più disastrosa della resi-
stenza passiva del loro capo e facilitò il compito di El’tsin.
Il «Comitato statale per lo stato di emergenza», così si
definì ufficialmente il gruppo che si mise alla testa di
quello che nella storia verrà ricordato come il «Putsch

211
d’agosto», era riuscito ad agglutinare attorno a sè tutta
una serie di dirigenti di altissimo livello e in linea di prin-
cipio ciò avrebbe dovuto garantirgli il successo dell’ope-
razione. Dalla sua parte c’erano tutti i dirigenti chiave
della «forza», come il ministro degli Interni Boris Pugo e
quello della Difesa, il maresciallo Dmitrij Jazov, oltre che
il capo del Kgb. Erano poi coinvolti nei preparativi di
colpo di stato anche potenti rappresentanti del complesso
militar-industriale come Oleg Baklanov, il presidente
dell’Associazione delle imprese di Stato, Aleksandr
Tizjakov, e perfino Vasilij Starodubcev, il boss del com-
plesso industrial-alimentare. Ma la fragilità e confusione
di prospettiva politica del loro progetto condannarono tale
compagine alla sconfitta. L’obbiettivo del «Comitato»
non era evidentemente di rivitalizzare il regime brezne-
viano e ancor meno di far tornare le lancette della storia
allo stalinismo, come un certo giornalismo occidentale
superficiale sostenne allora; ma piuttosto di realizzare una
«Tienanmen russa», per poter poi rilanciare le riforme di
mercato sotto la direzione del Partito e dello Stato centra-
le. Era in primo luogo un tentativo di formare un «blocco
d’ordine»: non a caso Krjučkov nelle sue memorie ha
ricordato che egli stesso e vari membri del Comitato cen-
trale del Pcus avevano stretto relazioni già qualche mese
prima del tentato colpo di Stato con il leader dell’ascen-
dente partito nazionalista e di estrema destra, Vladimir
Žirinovskij, dimostratosi interessato all’operazione44.
E non è un caso che nella conferenza stampa in cui
venne annunciato la rimozione del Segretario generale, il
44 V. Krjučkov, op.cit., p. 232.

212
comitato golpista promise di sostenere anche nel futuro l’i-
niziativa economica privata e chiese perfino un atteggia-
mento comprensivo da parte dell’Onu. I golpisti non aveva-
no un piano coerente: semplicemente dichiararono lo stato
di emergenza per un periodo di sei mesi e si misero in attesa
per capire cosa sarebbe successo dopo. Il grado di dilettan-
tismo che dimostrarono non arrestando El’tsin appena rien-
trato da Alma Ata la sera del 18 agosto, fu un’ulteriore con-
ferma di quanto il loro non fosse un progetto razionale, ma
una confusa avventura destinata al fallimento.
Il «Comitato di salute pubblica» non era pronto neppu-
re al bagno di sangue di chi tra il 19 e il 21 agosto andò
sulle barricate a Mosca, tanto è vero che i pochi morti
degli scontri di piazza furono più frutto del caso che della
volontà repressiva dei reparti dell’esercito mobilitati nella
capitale. Un funzionario del Kgb di allora, cui era stato
assegnato il compito d’intraprendere una qualche azione
di forza nel caso fosse stato necessario, ha testimoniato:
«Il gruppo “Alpha” era pronto per l’operazione d’interna-
mento di El’tsin. Mio Dio, però non si sarebbe trattato di
ucciderlo, come per esempio Salvador Allende in Cile. Ma
Krjučkov non diede neppure l’ordine al comandante del
gruppo “Alpha” di Karpuchin di agire e i soldati delle forze
speciali restarono sedute lì al loro posto, senza far nulla»45.
Il Kgb e il «Comitato» si sciolsero come neve al sole
e già il 21 agosto tornarono da Gorbačëv per arrendersi. Il

45 Dal sito della Tv1 russa, «V Rossii vspominajut pogibšich vo


vremja putča 1991 goda», in www.1tv.ru/news/2016-08-21/308426-
v_rossii_vspominayut_pogibshih_vo_vremya_putcha_1991_goda.

213
vice di Gorbačëv, Gennadij Janaev, anch’egli coinvolto
nel colpo di mano, al momento di essere arrestato nel suo
ufficio al termine della congiura, fu trovato in stato di afa-
sia e completamente ubriaco.
I putschisti desideravano difendere più di ogni altra cosa
la posizione economica dei gruppi d’interesse che essi rap-
presentavano, i servizi di sicurezza, le industrie e l’agricol-
tura pubblica. Ma in quel blocco di interessi non potevano
che essere sconfitti perché buona parte della nomenklatura
aveva da tempo smesso di sostenere le strutture di partito e
dello Stato: essa pretendeva a questo punto di diventare
proprietaria delle ricchezze del paese osservando con neu-
tralità come sarebbe finita la contesa politica interna. Ci
vorrà un decennio e l’ascesa di Putin perché quel grumo di
interessi rappresentato dai golpisti tornasse in auge e riu-
scisse a cementare un nuovo blocco sociale di potere46.

Gli ultimi mesi dell’amministrazione Gorbačëv dopo il


fallimento del golpe furono penosi. Tradito dagli stessi
uomini che aveva contribuito a portare al vertice, senza più
la possibilità di usare la macchina di un partito-Stato che
era stato messo al bando, il Segretario generale, apparve in
46 Non è un caso che proprio il capo del Kgb, Vladimir Krjučkov,
abbia scritto dei peana a Putin nella sua autobiografia: «...tra la fine del
1999 e l’inizio del 2000, una nuova figura politica è apparsa
nell’Olimpo dello Stato russo: Vladimir Vladimirovič Putin.
L’elezione di Putin a Presidente della Federazione Russa è stata accol-
ta positivamente non solo da coloro che hanno votato per lui, ma in
generale dalla stragrande maggioranza della popolazione del paese. La
gente, compreso l’elettorato di destra e di sinistra, riponeva grandi spe-
ranze sulla sua ascesa al potere».

214
balìa degli eventi. Il colpo di grazia alle sue speranze di
poter giocare un qualche ruolo politico, giunse alla fine del-
l’ottobre 1991, quando El’tsin dichiarò la propria intenzio-
ne di annettere alla Russia la Gosbank, fino ad allora banca
centrale sovietica, e di ridurre del 90% il numero dei dipen-
denti del ministero degli Esteri dell’Urss.
Anche negli ultimi giorni il leader sovietico si dimo-
strò incerto come lo era stato nel corso dei sei anni prece-
denti. «Michail Seergevič alla fine dovrà prendere una
decisione», scrisse Černyaev nel suo diario l’8 dicembre
1991, sottolineando che egli «ancora una volta si era
dimostrato inadeguato». Ma il giorno dopo dovette
aggiungere sconsolato: «Michail Sergeevič s’infuria,
dichiara che se ne andrà, li manderà tutti ecc., gliela farà
vedere», ma non faceva niente perché l’epilogo non fosse,
quello scritto. In realtà stava seduto sulla poltrona di un’a-
tlantide ormai quasi del tutto sommersa. I suoi consiglieri
lo convinsero inoltre «a non entrare in conflitto», a prova-
re ad avviare trattative con i leader delle Repubbliche, ma
senza risultati apprezzabili. Gorbačëv annunciò anche la
sua intenzione di convocare il Congresso dei deputati del
popolo e perfino di voler indire un ulteriore referendum;
ma alla fine, senza combattere, ordinò ai suoi collabora-
tori di scrivere il testo della sua dichiarazione di addio e
attese qualche giorno sperando che accadesse qualcosa,
che ovviamente non accadde.

Il putinismo: una strada sbagliata


La sera di Natale mentre le famiglie del mondo occi-
dentale erano impegnate a digerire le libagioni del tradi-

215
zionale pranzo festivo, distrattamente vennero a sapere
dalla Tv che l’Urss aveva cessato di esistere e sul
Cremlino la bandiera rossa era stata ammainata.
Gorbačëv, si accomiatò con un breve discorso in cui
difendeva le proprie ragioni.
«Il destino ha voluto che quando mi sono trovato a capo
dello Stato - dichiarò l’ormai ex “Gorby” - fosse già chiaro
che non andava tutto bene nel paese. C’è abbondanza di
tutto: di terra, di petrolio e gas, di altre risorse naturali, e
Dio ci ha dato intelligenza e talento. Non potevamo conti-
nuare così. Eppure vivevamo molto peggio delle nazioni
sviluppate e continuavamo a rimanere sempre più indietro.
La ragione di tutto questo era già evidente: la società stava
soffocando nella morsa del sistema dominato dalla burocra-
zia, destinato a servire l’ideologia e a portare il terribile
peso della corsa agli armamenti. Aveva raggiunto il limite
delle sue possibilità. Tutti i tentativi di riforma parziale, e
ce n’erano stati molti, erano risultati vani, uno dopo l’altro.
Il paese stava perdendo qualsiasi prospettiva».
Si dichiarava inoltre deluso da come aveva reagito l’opi-
nione pubblica russa alle riforme:
«Questa società ha acquisito la libertà, si è liberata politica-
mente e spiritualmente e questa è la maggiore conquista,
che non abbiamo ancora compreso appieno, perché non
abbiamo imparato a utilizzare la libertà»,
e confermava il suo sostegno all’economia capitalistica
anche dal punto di vista ideologico:
«La libertà economica dei produttori è stata legalizzata e
l’impresa, l’azionariato e la privatizzazione vanno diffon-
dendosi. Nel trasformare l’economia verso il mercato è

216
importante ricordare che tutto questo viene fatto per il bene
dell’individuo».
Concludendo con un auspicio:
«Alcuni errori si sarebbero certamente potuti evitare, molte
cose avrebbero potuto esser fatte in modo migliore, ma
sono convinto che prima o poi i nostri sforzi congiunti
daranno dei frutti, le nostre nazioni vivranno in una società
prospera e democratica»47.
I suoi sostenitori in Occidente, più o meno interessati,
che lo avevano adulato per anni, lo osservarono semplice-
mente affondare senza alzare un dito. Le speranze di una
trasformazione rivoluzionaria o perlomeno di un profon-
do rinnovamento dell’esperienza sovietica degli anni
della Perestrojka andarono alla fine deluse e aprirono la
strada alla campagna propagandistica, tuttora in corso,
sulla «morte del comunismo».

Nel 2006, in un’intervista, una delle figure più lucide


della Perestrojka, sostenitrice dell’idea di una rivoluzione
socialista antiburocratica, la sociologia Tat’jana
Zaslevskaja, dovette mestamente riconoscere che le sue
speranze per un nuovo inizio del socialismo in Urss non
si erano dimostrate fondate. Tornando a quell’epoca che
aveva destato così tante speranze e illusioni, Zaslevskaja
fece un bilancio severo ma condivisibile:
«Non ci fu semplicemente abbastanza forza politica, con-
vinzione... Allora l’Unione Sovietica, o, diciamo, la società

47 Le citazioni dal discorso di commiato sono tratte da M. Gorbačëv,


«Non sono uno zar, vi ho resi liberi», in l’Unità, 27 dicembre 1991.

217
sovietica, quando si arrivò alla Perestrojka, in sostanza era
ancora inginocchiata di fronte al potere... E quando ottenne
la libertà, e in primo luogo ottenne la Glasnost’, non la
libertà, cominciò a rialzarsi lentamente. E naturalmente i
più forti lo fecero velocemente, si animarono, si resero
conto che il loro momento era arrivato. E allora iniziarono
le grandi manifestazioni. Ma dove? Prima di tutto a Mosca
e in alcune grandi città. Allo stesso tempo però la Russia
continuava a dormire, la maggior parte della popolazione,
le grandi masse non erano coinvolte dalla Perestrojka.
Quindi, alla fine, la lotta si svolse tra due ali, per così dire,
dell’élite, o comunque, del potere, e queste forze [della
Perestrojka (n.d.a.)] si dimostrarono, di fatto, del tutto
insufficienti per cambiare il sistema.
C’era abbastanza energia per distruggere, per far collassa-
re il vecchio sistema, e ciò fu fatto. Ma l’intellighenzia
rivoluzionaria, di mentalità radicale in primo luogo, non fu
sufficiente per riorganizzare la società su basi completa-
mente nuove. E quindi, il paese ha poi seguìto la strada di
quelle riforme economiche che sono state attuate nel nostro
paese, ha seguito la strada delle privatizzazioni. Oggi,
ovviamente, possiamo già dire con sicurezza che viviamo
in una società diversa, che ovviamente ci siamo allontanati
molto dalla società sovietica, ma anche che siamo andati
nella direzione sbagliata»48.

48 Vladimir Baburin, «Intervista a Tat’jana Zaslavskaja», 8 marzo


2006, Radio Svoboda (in www.svoboda.org/a/133956.html). Di note-
vole interesse anche la biografia della sociologa sovietica: Tatyana
Zaslavskaya, The Second Socialist Revolution. An alternative Soviet
Strategy, Indiana University Press, Bloomington 1990.

218
CONCLUSIONI

Il crollo dei regimi burocratici nei paesi dell’ex Urss


non ha avuto come sbocco la formazione di democrazie
«avanzate» e ancor meno «socialdemocratiche». Le pri-
vatizzazioni e il libero mercato introdotti negli anni ’90
dal regime eltsiniano, e stabilizzatisi durante quello puti-
niano, in Russia hanno prodotto una catastrofe sociale.
Basteranno alcuni dati per dimostrare le dimensioni
della tragedia che si è consumata nell’ex Urss dopo il
1991.
Tra il 1989 e il 1997 il Pil russo si ridusse del 60%
mentre la produzione industriale del paese calò del 40%.
La disintegrazione delle vecchie relazioni sociali sovieti-
che fu un vero e proprio disastro per milioni di persone.
Incapaci o impossibilitate a riciclarsi nel nuovo sistema,
quote significative di popolazione scivolarono dentro il
buco nero dell’alcolismo e della depressione cronica. Nel
1986-87 l’aspettativa di vita alla nascita nella Repubblica
russa era di 70,13 anni, ma nel 2000 era sprofondata a
65,3. Il crollo del sistema sanitario pubblico riportò in
auge persino la tubercolosi: nel 1990 c’erano 34,2 casi di
tubercolosi attiva per 100mila cittadini russi; nel 2000 i
casi erano diventati 90,4. Intere città finirono sotto il con-
trollo della criminalità organizzata e durante gli anni ’90
si consumarono oltre 150mila omicidi.

219
I regimi che si sono alternati da allora al potere nelle
ex Repubbliche sovietiche sono tutto meno che modelli di
democrazia e sono caratterizzati da autoritarismo, nepoti-
smo, corruzione e disprezzo per i diritti umani.
Anders Åslund, consigliere per i paesi dell’Est euro-
peo prima nel Fondo monetario internazionale e ora nella
Nato, aveva pronosticato in alcuni best sellers internazio-
nali che il passaggio all’economia di mercato avrebbe
regalato un futuro radioso non solo alla Russia, ma anche
che a tutte le Repubbliche ex sovietiche e in primo luogo
all’Ucraina. Passato però più di un quarto di secolo, ora è
costretto a balbettare che a «Kiev qualcosa è andato stor-
to». Per quanto riguarda direttamente la Russia, secondo
Åslund «il modello di Vladimir Putin di “crony capitali-
sm” sembra essere un deliberato sforzo per emulare i suc-
cessi del vecchio sistema feudale».
La mancata transizione Poland style sarebbe stata la
conseguenza, secondo l’analista, della comparsa sulla
Moscova di un orribile despota, di un «nuovo zar». Che
però, guarda caso, era stato innalzato al potere da Boris
El’tsin, il dirigente politico tanto osannato (e lautamente
finanziato) dalle cancellerie occidentali. È ormai acclara-
to che con il crollo sovietico il socialismo è stato sconfit-
to, non tanto come sistema sociale (che del resto non si
era mai realizzato in Urss), ma come idea stessa di una
trasformazione sociale radicale.
Tuttavia, per ammissione dei suoi stessi cantori, il
capitalismo presuntamente democratico e umanitario,
negli Stati dell’ex Urss stenta ad arrivare ormai da troppo
tempo.

220
Per chi crede ancora a una prospettiva di superamento
del capitalismo da qui deve ripartire e per questo non si
può evitare un serio bilancio di quanto avvenuto nel
«campo socialista». Senza passare per tali forche caudine,
sarà impossibile gettare le basi per la ricostruzione di una
teoria e una pratica che facciano tesoro delle sconfitte e
dei fallimenti. L’esperienza sovietica, nutritasi dal basso
nelle aspirazioni e nei sacrifici di milioni di persone, resta
territorio ancora in larga parte inesplorato per una ricerca
che non si ponga dei compiti meramente accademici.
Il passato è passato e ciò che è andato in frantumi è
meglio evitare di aggiustarlo. Il socialismo non batterà
più la strada del bolscevismo, dello stalinismo e neppure
quella delle «vie nazionali». Tali esperienze, del resto,
furono profondamente legate a un’epoca storica e, a quel
grado dello sviluppo delle forze produttive e della
coscienza dei lavoratori su scala internazionale, la loro
sconfitta fu inevitabile. Non è un caso che anche laddove
non hanno preso il potere, i «partiti operai» occidentali
del Novecento hanno finito per riprodurre meccanismi
gerarchici e lavorato per integrare le classi oppresse nel
sistema che inizialmente avevano sostenuto di voler com-
battere.
Il socialismo di oggi parla già un’altra lingua: non
intende scimmiottare il capitalismo; mette insieme i temi
della demercificazione delle relazioni umane, della decre-
scita e del disinvestimento; si confronta in modo inedito
con la questione del rapporto creativo tra pianificazione e
mercato; riflette sugli itinerari di una democrazia radicale
e autogestita; si batte per la definitiva scomparsa dell’op-

221
pressione della donna e degli individui Lgbt; pensa a un
nuovo patto tra uomo e natura; è costituzionalmente inter-
nazionalista e pone come condizione preliminare e indif-
feribile, l’abolizione del lavoro salariato.
Nei movimenti che attraversano il globo si parla il lin-
guaggio della comunicazione orizzontale, senza leader in
cui credere ciecamente o miti da idolatrare.
Albert Einstein scrisse nel 1949 un saggio per la
Monthly Review sui motivi per cui egli riteneva che il
socialismo fosse la cura ai limiti del capitalismo.
«Sono convinto - scriveva il fisico - che vi sia un solo modo
per eliminare questi gravi mali: la creazione di un’econo-
mia socialista, accompagnata da un sistema educativo volto
a fini sociali. In una tale economia, i mezzi di produzione
sono di proprietà della società e vengono utilizzati secondo
un piano. Un’economia pianificata che adatti la produzione
alle necessità della comunità, distribuirebbe il lavoro fra
tutti gli abili al lavoro e garantirebbe i mezzi di sussistenza
a ogni uomo, donna e bambino. L’educazione dell’indivi-
duo, oltre che incoraggiare le sue innate qualità, dovrebbe
proporsi di sviluppare il senso di responsabilità verso i suoi
simili, invece dell’esaltazione del potere e del successo che
è praticata dalla nostra attuale società».
Osservando, però, cosa stava sviluppandosi in Urss,
Einstein ammoniva anche che
«un’economia pianificata non è ancora socialismo.
Un’economia pianificata come questa può essere accompa-
gnata dal completo asservimento dell’individuo. Il raggiun-
gimento del socialismo richiede la soluzione di alcuni pro-
blemi politico-sociali estremamente difficili: come è possi-
bile in vista di una centralizzazione di vasta portata del

222
potere politico ed economico, impedire che la burocrazia
divenga potente e prepotente? Come possono essere protet-
ti i diritti dell’individuo ed essere con ciò assicurato un
contrappeso democratico alla potenza della burocrazia?».
Oggi in Russia molti giovani - e anche meno giovani -
si ribellano a un sistema oppressivo, conformistico, con
scarsa mobilità sociale, mentre cercano la strada per una
società più giusta. Con la Perestrojka, in primo luogo
quella «dal basso», si è compiuto nel loro paese un tenta-
tivo generoso ma fallimentare di trovare la via per una
società equa e al contempo democratica.
Come un immaginario partecipante al gioco dell’oca,
la società russa è finita sulla casella sbagliata e sembra ora
tornata al punto di partenza: nel 2021, come già nel 1917,
appare impossibile avanzare verso la democrazia senza
porre immediatamente la questione dell’emancipazione
sociale. Spero che questo libro possa essere utile proprio
a chi cerca, oggi come ieri, la via di una rinnovata lotta
per la libertà e l’emancipazione.

223
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230
Archivio fotografico

La guardia rossa marcia per le vie di Pietrogrado


nella primavera del 1917.

231
Comizio di Lenin (autunno 1917).
Lev Trotsky sulla Piazza Rossa, 7 novembre 1922.

232
Andrej Stachanov: negli ’30 sarà l’uomo-immagine
del movimento produttivistico stalianiano.

233
Firma a Mosca del Patto Ribentropp-Molotov (23 agosto 1939).
Avrà come conseguenze immediate la spartizione della Polonia tra
l’Urss staliniana e la Germania nazista e lo scoppio della Seconda
guerra mondiale. Mentre le truppe hitleriane avanzeranno verso
occidente, l’Urss, dopo un tentativo fallito di conquista della
Finlandia, si annetterà la Carelia, la Bessarabia, la Bucovina e i
Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania).

234
La battaglia di Stalingrado. Terrà il mondo per mesi con il fiato
sospeso e il suo esito (sconfitta dell’esercito tedesco) sarà una svol-
ta decisiva della Seconda guerra mondiale.

235
Mosca 1957. Il Festival mondiale della gioventù segna l’apertura
dell’Urss al mondo dopo decenni di totalitarismo staliniano.

236
Il celebre romanzo di Boris Pasternak, Il dottor Živago, fu pubbli-
cato in anteprima mondiale in Italia da Giangiacomo Feltrinelli, in
russo e in italiano. All’epoca fu enorme lo scalpore.

237
Lev Jašin conduce alla vittoria la squadra di calcio sovietica negli
europei del 1960. È l’unico portiere al mondo ad aver vinto il
Pallone d’Oro.

238
Jurij Gagarin (1934-1968) sul podio della Piazza Rossa,
con Chruščëv e Brežnev, dopo il volo nello spazio
iniziato il 12 aprile 1961.

239
Viktor Michajlovič Gluškov (1923-1982),
il padre della cibernetica sovietica.

240
Forza-lavoro femminile in fabbrica negli anni ’60.
Le donne sovietiche avranno un ruolo decisivo
nello sviluppo economico e sociale del paese.

241
Vladimir Semënovič Vysotskij (1938-1980) al teatro
Taganka nel 1979. I sovietici si immedesimarono e
amarono le sue dolenti ballate.

242
Giovani sovietici negli anni ’70. La produzione di jeans era vietata
in Urss, così come la diffusione della musica rock.

243
Mosca non crede alle lacrime, uno dei più grandi successi cinema-
tografici sovietici, uscì nelle sale di molti paesi, Italia compresa.

244
Cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Mosca nel 1980. L’Urss
darà al mondo per l’ultima volta l’immagine di un paese stabile e
ordinato.

245
Margareth Thatcher e Michail Gorbačëv (n. 1931). La
«Lady di Ferro» fu una sostenitrice della Perestrojka.

La prima pagina de l’Unità dopo il fallimento del «Putsch di ago-


sto», che per «Gorby» segnò l’inizio della fine

246
Boris Nikolaevič El’tsin (1931-2007) su un carro armato il giorno
del tentato putsch (19-21 agosto 1991). Occuperà la presidenza
della RFSR fino al 31 dicembre 1999.

247
Piero Bernocchi-Roberto Massari Dante Corneli
Roberto Massari

Lenin Ritorno
e l’Antirivoluzione dal Gulag
russa Memorie del Redivivo tiburtino

C’era una volta


il Pci...
storia e memoria .45

70 anni di controstoria introduzione e cura

storia e memoria .38


in compendio
cmiraggi .26

di Andrea Furlan

introduzione di Michele Nobile


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