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Nicolai Lilin
UCRAINA
La vera storia
Introduzione
OLES BUSINA (scrittore, storico e antropologo, patriota e antifascista ucraino, ucciso nel
2015 dai sostenitori del regime di Kiev)
Ho incontrato per la prima volta Oles Busina durante uno dei miei viaggi in
Ucraina, quando feci tappa a Odessa, a casa di un mio amico, professore
universitario, attualmente fuggito a Miami. Oles da subito mi apparve una
persona autentica, positiva, intelligente e ricca d’animo. Abbiamo cenato
parlando di storia e geopolitica, letteratura e poesia, argomenti che
appassionavano entrambi. Dopo aver aiutato il padrone di casa a lavare i
piatti, siamo rimasti per quasi tutta la notte in cucina a parlare della storia
dell’Impero russo e dell’Ucraina. Ricordo come Oles, asciugando i piatti
con l’asciugamano sul quale era disegnato uno dei simboli di Odessa,
ovvero la Scalinata Potemkin, mi disse con l’aria un po’ triste: «Sai, la
storia reale di questo paese non interessa ormai a nessuno. Noi qui viviamo
in una specie di dimensione parallela, in un mondo totalmente fantasticato,
inventato ad hoc dalla propaganda che fa di tutto pur di giustificare le
sciagurate decisioni dei politici che rubano al popolo senza pietà. Tra non
molto questa gente inizierà di nuovo a glorificare i nazisti».
Oggi in Ucraina viene diffusa la teoria che i russi che abitavano nella
Rus’ di Kiev in realtà non erano russi, ma ucraini, che più tardi si sarebbero
definiti tali per distinguersi dai russi che abitano in Russia, i quali non
sarebbero veri russi, ma un miscuglio tra i tartari e gli ugro-finnici.
In nessun documento storico, quindi, si trova conferma dell’esistenza
dell’Ucraina come uno stato. Nei documenti russi antichi il concetto
“ucràina” con l’accento sulla prima “a” rappresentava le terre di frontiera,
specie se dall’altra parte si trovavano vicini poco “amichevoli”. Così il
principato di Kiev considerava “Ucràina” quei territori che lo separavano
dai cumani, una popolazione nomade guerriera parlante una lingua turca.
Per il principato Galizia-Volinia, “Ucràina” era il territorio che li separava
dagli “lyahi” – così chiamavano prima le tribù slave che abitavano
nell’Ovest, dai quali discendono i polacchi.
Anche la Russia di Mosca aveva le sue “Ucràine”: nelle mappe e nei
trattati antichi erano così definiti i territori che si trovavano a ridosso della
steppa del Don e della parte bassa del fiume Volga, occupati all’epoca per
molto tempo dai tartari. Nel tempo questa frontiera si allargò, grazie agli
interventi militari dei russi contro i tartari, cambiando in questo modo le
porzioni di territorio delle varie “Ucràine”. Nella cronaca di Novgorod del
1517 si legge: «Su consiglio del re Sigismondo arrivarono i tartari di
Crimea contro il gran principe in Ucràina vicino alla città di Tula». Il
cronista ricorda quindi quale strategia di attacco Sigismondo I Jagellone
detto “il Vecchio”, re di Polonia e granduca di Lituania, consigliava ai
tartari di usare contro i russi, assediando la città di Tula, che si trova ancora
oggi in Russia a circa 190 chilometri a sud di Mosca.
Nel 1580 lo zar russo, Ivan IV, emise una disposizione in cui spiegava
«come devono fare i condottieri e gli uomini sulla riva [ovvero lungo il
fiume Oka, il maggiore affluente di destra del Volga] nelle città ucràine per
difendersi dai tartari di Crimea e dai lituani». Nel 1625, alcuni cronisti di
Valuek (oggi Valujki, una cittadina a sud di Voronež) scrivevano che
attendevano «l’arrivo dei tartari sulle nostre ucràine».
Nella cultura della rzeczpospolita – così i polacchi chiamavano la
Corona del Regno di Polonia e Granducato di Lituania, poi più tardi nella
storia trasformata nella Confederazione polacco-lituana –, il concetto
“Ucràina” era applicato con il significato di “frontiera” per indicare le
regioni di Kiev, Bratslav e Podol’sk che dividevano i territori d’interesse
polacco dalla regione chiamata Dikoe Pole, ovvero “Il Campo Selvaggio”,
che occupava la parte dell’attuale Est ucraino e il Sudest della Russia, che
all’epoca si presentava come una steppa poco abitata tra il fiume Dnestr e la
metà del Volga, più avanti colonizzata dai cosacchi in gran parte fedeli al
potere dell’Impero russo.
Proprio grazie ai polacchi, il nome “Ucraina” è stato applicato a quei
territori anche da altri europei, apparendo persino su alcune mappe storiche
– prima della metà del XVIII secolo anche le mappe in uso in Russia erano
prevalentemente di produzione occidentale, in particolare tedesche, francesi
e britanniche, in quanto i cartografi russi sono apparsi soltanto verso la fine
del periodo dello zar Pietro il Grande, che obbligava i russi a studiare
presso le strutture occidentali per imparare le scienze e le tecnologie diffuse
nell’Europa occidentale.
Per concludere, la storia medievale e quella delle epoche successive non
conoscono un paese chiamato “Ucraina”; solo grazie alla precisa volontà di
Lenin prima e di Stalin dopo diventò un’entità geopolitica integrata
nell’URSS sotto forma di repubblica socialista sovietica.
L’odio generale nei confronti dei russi espresso da quei polacchi sfuggiti
alle repressioni zariste ha contaminato i gruppi degli “ucrainofili”, ovvero
dei movimenti culturali che si formavano all’epoca in Galizia in chiave
antirussa. All’inizio questi movimenti erano considerati in società come
separatisti letterario-politici, che attraverso la creazione di una vera e
propria entità linguistica, ispirata al dialetto malorosso amalgamato con le
forme linguistiche che esistevano nei territori dell’estremo Sudovest
dell’Impero russo, cercavano di esternare la propria diversità dai russi e con
questo affermare la propria unicità etnica, fornendo così le prove
dell’esistenza del gruppo etnico definito “ucraino”.
Presto, alle motivazioni di carattere puramente culturale, si aggiunsero
degli obiettivi prettamente politici, tra i quali il principale era il distacco dei
territori dall’Impero russo in favore dell’Impero austro-ungarico. In poche
parole, i romantici sognatori nazionalisti della Galizia, radicalizzati
dall’odio nei confronti della Russia e dei russi trasmesso dai polacchi
rifiutarono per motivi politici la loro definizione etnica di “russini”,
dichiarando di essere “ucraini”, trasformati nello strumento geostrategico
con il quale l’Impero austro-ungarico contava di destabilizzare la posizione
dell’Impero russo ai propri confini. Fu così che in Galizia ebbe inizio il
Razbudova Ucraini, ovvero il “risveglio dell’Ucraina”, una specie di
operazione di propaganda dei nuovi valori identitari rivolta alla popolazione
di Prikarpatie (Subcarpazia).
Verso la fine degli anni Novanta del XIX secolo, un gruppo di entusiasti
ucrainofili sotto la guida del professore Michail Hruševs’kyj, nella cornice
della società scientifica di T. Ševčenko, durante alcuni anni di duro lavoro
crearono il prototipo letterario dell’attuale lingua ucraina, finalmente
confermando l’esistenza della scienza e della letteratura ucraina. La cosa
venne ampiamente discussa e criticata dai rappresentanti dell’intelligencija
russa (o per essere corretti “russina”) galiziana, che descrissero in maniera
abbastanza dettagliata il processo di nascita dell’etnia ucraina, spiegando
chi li aveva creati e per quali motivi. A grandi linee, i russi attribuiscono la
responsabilità della comparsa di questo fenomeno a due cause principali: la
situazione politica internazionale creatasi in Europa in quegli anni e gli
interessi strategici di Polonia, Austria e Germania in particolare.
Con l’intensificarsi della tensione alle porte della Prima guerra mondiale,
nelle regioni di Galizia e Bucovina esisteva già un movimento di patrioti
ucraini abbastanza radicato nella società che, sostenuto dalle autorità
austriache, tedesche e polacche svolgeva un lavoro importante di
propaganda dei nuovi valori nazionali tra la popolazione, convincendo
sempre più persone a cambiare la propria identità nazionale, il proprio
senso di appartenenza. Non c’è dubbio che molti lo facevano soprattutto per
motivi di stabilità e sicurezza, temendo ritorsioni da parte delle autorità
austriache che erano più vicine e più presenti di quanto non lo fossero
quelle legate al potere di Mosca.
Con lo scoppiare della guerra, le modalità di fare pressione sulla
popolazione che si identificava come “russa” ed era fedele all’impero degli
zar cambiarono radicalmente. Sul territorio dell’Impero austro-ungarico
vennero creati campi di concentramento e di sterminio destinati tra l’altro al
genocidio delle popolazioni russe delle regioni di Galizia e Bucovina. Quei
russi che gli austriaci non ammazzavano sul posto, presso le loro abitazioni,
venivano mandati in quei luoghi terribili. In quel periodo, proprio quegli
ucraini che da poco avevano scoperto la loro nuova identità nazionale
divennero la forza principale del terrore di massa progettato e imposto dagli
austriaci. A quei tempi, chiunque poteva essere semplicemente impiccato
sull’albero più vicino, picchiato a morte oppure fucilato solo perché
dichiarava di essere russo. In quel modo furono massacrati circa
duecentomila civili russi che abitavano in quei luoghi. Altri
quattrocentomila fuggirono in Russia insieme all’esercito russo in ritirata.
Questa terribile tragedia all’origine della nascita dell’identità nazionale
ucraina non viene raccontata nei moderni libri di storia ucraini.
Già col finire della Prima guerra mondiale, nella città di Leopoli, i russi
provenienti da Galizia e Bucovina che ebbero l’enorme fortuna di
sopravvivere ai campi di concentramento austriaci fondarono il “comitato di
Thalerhof”, dal nome del campo di concentramento dove gli austriaci
rinchiudevano, torturavano e massacravano i sospettati filorussi della
popolazione della Galizia orientale e della Bucovina. Nel 1924 questa
organizzazione iniziò a pubblicare nella città di Leopoli l’«Almanacco di
Thalerhof», di cui furono pubblicati quattro numeri in cui furono raccolte
diverse documentazioni, comprese alcune foto e numerose testimonianze
dei sopravvissuti al genocidio della popolazione russa nella zona della
Subcarpazia. Tralasciando le storie terribili, a grandi linee quello che
emerge dalle esperienze dei sopravvissuti è il meccanismo feroce di
allargamento della base sociale e politica degli ucraini ai danni dei russi. Le
pulizie etniche, il terrore, le intimidazioni erano all’ordine del giorno e di
fatto si può affermare che gran parte dell’attuale popolazione della Galizia e
della Bucovina discende da quei russi divenuti ucraini che più volte
giurarono fedeltà all’imperatore austriaco, promettendo di lottare contro la
Russia. Per questo motivo, la sindrome di Caino si è fusa nell’idea
nazionale ucraina e spesso emerge, anche in casi meno estremi, attraverso
l’odio viscerale nei confronti della Russia.
Quell’odio ha origini precise e ben chiare, e ne rimane traccia nei vari
documenti storici. Il 15 ottobre 1912, l’ambasciatore presso il parlamento
austriaco (Reichstag), professore e attivista politico ucrainofilo Stepan
Smal-Stotskiy dichiarò dalla tribuna del parlamento, parlando a nome del
club ucraino parlamentare e del popolo ucraino, che «tutte le speranze degli
ucraini sono legate allo splendore della dinastia asburgica, che loro, gli
ucraini, considerano l’unica vera erede della corona dei Romanovich di
Galizia [antico ramo reale e principesco russo che discendeva dai
Monomahovichi e che governava nelle regioni di Galizia e Volinia, in russo
Volin’, tristemente famosa per il genocidio dei polacchi massacrati tra il
1943 e il 1944 dai nazionalisti ucraini che sterminarono circa sessantamila
persone]. La minaccia seria che rischia di compromettere quello
“splendore”, a parte la Russia, è rappresentata soprattutto dai “moscofili”
presenti in abbondanza tra la popolazione russa della Carpazia». La stessa
linea inquisitoria nei confronti dei russi presenti sul territorio dei Carpazi,
considerato dagli ucraini il loro campo d’azione, venne adottata dai deputati
ucrainofili Vasilko, Olesnitskyi, Okunevskyi, Kost’ Levizkyi e altri.
L’esito di questa propaganda d’odio nei confronti dei russi si percepisce
chiaramente leggendo l’apertura della prima edizione dell’«Almanacco di
Thalerhof»: «Così, con i primi avvertimenti della tempesta in arrivo [Prima
guerra mondiale], anticipatamente condannata a morte ma fedele ai propri
valori nazionali, la parte cosciente della popolazione russa è stata dichiarata
fuori da ogni legge umana, indifesa, e in seguito sottoposta a persecuzioni e
massacri spietati… Tutte le strutture di forza dello stato [austriaco] e del
potere locale, tutta la polizia, sia esterna che segreta, tutto il branco dei
gendarmi e persino alcune unità militari si sono mobilitati, in sintonia,
contro queste odiate e “pericolose bestie”. Dietro le loro spaventose e
massicce schiene e baionette agiva liberamente, inebriata dalla cattiveria
trionfante, dall’inimicizia e dalla diffamazione la marmaglia austrofila, con
a capo il maledetto fratello-traditore, Caino del popolo sfortunato […]. Il
nostro fratello di sangue, alimentato e scatenato dall’Austria, il degenerato
fratello ucraino, prendendo in considerazione il momento più comodo per i
propri luridi interessi e le sue malefatte, ha eretto menzogne e offese contro
il proprio popolo toccando livelli assurdi e mostruosi, trasformandolo in un
sistema e dogma, inserendo in questa faccenda la propria viscidità,
determinazione e forza, tutto il suo cattivo veleno da traditore. E nonostante
quel fatto, di essersi liberamente saziato con l’infamia, le persecuzioni e le
rapine, costringendo i propri fratelli alle sofferenze e derubandoli di tutto
quello che avevano, con l’impudenza e il cinismo si è dichiarato vittima
[…] Dopo questi avvenimenti è iniziato il vero e proprio massacro. Senza
alcuna norma civile, senza processo né indagine, senza pudore. Bastava una
semplice accusa verbale alle autorità austriache, fatta per semplice
capriccio, per avidità, per inimicizia. Ci prendevano tutti senza fare
differenza tra uomini e donne, vecchi o giovani, bastava che in casa
trovassero un giornale oppure un libro russo, un’icona ortodossa o
semplicemente una cartolina dalla Russia. Spesso solo perché alcune
persone erano semplicemente segnalate dal vicinato come “russofile”. Le
esecuzioni tramite impiccagione e fucilazione non si contavano, erano
applicate ovunque, infinitamente. Decine di migliaia di vittime innocenti, il
mare di sangue dei martiri e delle lacrime degli orfani. A volte per colpa
dell’impulso selvaggio dei singoli boia, a volte a seguito delle messinscene
che gli assassini chiamavano “i processi sul campo”. Quelli che non sono
stati ammazzati nelle loro case sono stati costretti a sofferenze ben peggiori.
Gettati nelle carceri e nei lager, torturati con la fame e con il freddo,
destinati a una morte lenta e agonizzante. E, come nella migliore delle
conclusioni infernali, hanno raccolto quei poveri dolenti rimasti ancora in
vita nel lager delle torture e della morte – tristemente noto come Thalerhof.
Cosa si può dire sulla giustizia, se interi villaggi a volte venivano
massacrati fino all’ultimo essere umano, perché un miserabile traditore
ucrainofilo li accusava di essere russofili?
Una parte del popolo russo-carpazio, andato incontro ad atroci
sofferenze, ha messo la propria vita sull’altare della Patria comune – la cara
Russia –, mentre l’altra parte commetteva scientemente un vergognoso e
viscido affare: un fratricidio simile a quello di Caino.
Il ruolo di questi traditori del popolo, i cosiddetti “ucraini”, in questa
guerra è noto a tutti. Figli del traditore del popolo russo di Poltava [Ivan
Mazepa, atamano, a capo dello Stato Cosacco, inizialmente alleato di Pietro
il Grande, che poi tradì durante la campagna di Poltava schierandosi con il
re svedese Carlo XII. Nonostante questo voltafaccia, i russi vinsero quella
guerra e Mazepa passò alla storia come un traditore punito dal destino per la
propria pochezza d’animo], cresciuti sotto l’ala protettiva dell’Austria e
della Germania, con la cura dell’amministrazione polacca della regione,
durante la guerra tra l’Austria e la Russia giocarono un ruolo perfido non
solo nei confronti della Russia e dell’idea unificatrice degli slavi,
schierandosi dalla parte dell’Impero austro-ungarico, ma specialmente nei
confronti dei russo-carpazi, vittime delle violenze e del terrore austriaco.
Le memorie di quel periodo duro per il nostro popolo sono dolorose,
perché il fratello di sangue, nato con pari condizioni civili ed etnografiche,
senza un minimo tremore d’animo non solo si schierava dalla parte dei
torturatori del proprio popolo, ma addirittura pretendeva, insistendo, che
queste torture venissero inflitte. Gli “ucraini” della Subcarpazia erano tra i
maggiori responsabili del nostro martirio durante la guerra. Per via del loro
atteggiamento vile e basso, il nostro popolo russo-carpazio già dai primi
momenti della guerra è stato dichiarato fuori legge, subendo così una vera e
propria condanna a morte».
Bohdan, Bohdan,
Nostro glorioso condottiero!
[Bohdan Chmel’nyc’kyj, condottiero malorosso che nel 1648 guidò la
rivolta contro la nobiltà polacca a favore dell’Impero russo, con l’appoggio
dello zar Alessio I]
Verso la fine del XIX secolo le fantasticherie polacche sui due diversi
popoli furono rispolverate e riattualizzate, trovando terreno fertile nella città
di Leopoli, grazie all’impegno di Michail Hruševs’kyj, storico politico e
rivoluzionario ucraino, e dei suoi collaboratori. Finanziato dagli austriaci, il
professore decise di dimostrare che la “nazione russo-ucraina”, non ancora
formata per sua stessa dichiarazione, in ogni caso rappresentava un soggetto
indipendente dal punto di vista della sostanza etnica, e che aveva sviluppato
la propria cultura di governo a partire dai tempi della Rus’ di Kiev, vale a
dire dal IX secolo d.C. Nell’ambiente accademico, i suoi lavori suscitavano
sorrisetti d’irritazione. Però dopo che il Comitato Straordinario sovietico
(tra l’altro presieduto da Feliks Dzeržinskij, rivoluzionario comunista di
nazionalità polacca) fucilò tutti i suoi oppositori, e visto che Hruševs’kyj
era coccolato dal potere sovietico, la teoria dei “tre popoli fraterni” venne
ufficializzata nella storia come fosse una verità incontestabile.
Come si è detto prima, l’idea fuorviante che velicorossi e malorossi non
facciano parte di un unico popolo, ma siano riconducibili a etnie ben
distinte, era stata concepita dagli intellettuali polacchi condizionati dalle
visioni russofobe e poi metodicamente inculcata nelle coscienze di una
parte dell’intelligencija malorossa di campagna, da loro stessi creata. In
poche parole, alle origini del movimento ucrainofilo ci sono i polacchi.
Come scriveva all’epoca il noto attivista civile, storico, giornalista e
pubblicista russo Ksenofont Govorskij nella lettera al suo amico, scienziato,
poeta e scrittore galiziano Jakow Fedorowitsch Golowazkij: «Da noi a Kiev
ci sono solo cinque ucrainofili tra i malorossi locali, mentre per il resto sono
tutti polacchi, che più di ogni altra cosa si preoccupano di diffondere i loro
libri. Loro stessi, travestendosi da contadini locali, giravano per le
campagne e facevano circolare questi libri; probabilmente, lo smaliziato
polacco ha sentito in questa faccenda il profitto per sé, e quindi ha deciso di
affrontare simili imprese “eroiche”».
Nella nota leggenda ebraica, il rabbino Löw di Praga dà la vita a una
creatura mostruosa. All’inizio Golem – così si chiama la creatura – svolge
obbedientemente tutti i compiti che il rabbino gli dà, però poi
improvvisamente sfugge al controllo del suo padrone e si trasforma in un
fulgido esempio di caparbietà e ribellione, spesso andando contro gli
interessi del suo creatore e persino minacciandone l’esistenza. La Storia ha
dimostrato che i polacchi hanno commesso lo stesso errore che ha portato
alla rovina il progetto ambizioso del rabbino Löw. Hanno creato un mostro
accecato dall’odio, giustificato dalla propaganda della propria unicità e
singolarità, e persino proiettato nella traiettoria evoluzionistica con la forza
propulsiva della fantomatica missione divina, che avrebbe visto la nazione
ucraina investita di un ruolo dalle dimensioni bibliche.
Per l’ennesima volta l’esperienza umana ha dimostrato che il rapporto tra
creatore e la sua creazione è imprevedibile e spesso tende a diventare
pericoloso, invertendo i ruoli e le polarità, così che alla fine la creatura
distrugge il proprio creatore. Proprio così il Golem ucraino, creato dai
polacchi in chiave antirussa, ha sfogato i propri istinti distruttivi sui
polacchi stessi.
I boia delle organizzazioni nazionaliste ucraine OUN-UPA (abbreviazioni
che stanno per Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini ed Esercito
Insurrezionale Ucraino) hanno massacrato centinaia di migliaia di polacchi
durante la Seconda guerra mondiale, quando gli ucrainofili di ieri si
schierarono con i nazisti di Hitler senza battere ciglio, trovando maggiori
affinità nelle torbide idee del nazismo, che dava libero sfogo alla carica
d’odio e di senso della propria supremazia razziale sugli altri abitanti
dell’Ucraina, per così tanto tempo diffusa dalla propaganda polacca. Gli
übermenschen ucraini non risparmiavano nemmeno i neonati, sterminando
interi villaggi di polacchi utilizzando soltanto le armi bianche, torture e
metodi di uccisione degli esseri umani talmente crudeli che persino i
militari tedeschi delle SS rimasero impressionati negativamente, ricordando
questi episodi con orrore nelle loro memorie.
Lo sterminio dei civili per mano dei nazisti ucraini è il prezzo terribile
che il popolo polacco ha pagato per gli errori della propria intelligencija, la
quale, accecata dall’odio viscerale nei confronti dei russi, si è avventurata
nella creazione dell’identità nazionale ucraina. È sempre pericoloso
fomentare le idee estremiste. Lo possono confermare gli statunitensi che,
grazie alla CIA e ai fondi neri, crearono il movimento dei Taliban e di quei
“simpatici” rivoluzionari che lottavano contro l’URSS e che alla fine hanno
colpito i loro stessi creatori nel cuore della loro civiltà. «Chi scalda la serpe
in seno muore d’odio e di veleno» dicevano i vecchi.
Nei primi due decenni che seguirono l’ascesa dei bolscevichi al potere, il
monolito etnico russo è stato diviso ufficialmente in tre parti, definite “tre
popoli fraterni”. Ovviamente in questa azione si intravvede anche l’antica
dottrina romana del divide et impera. La Russia, strappata a pezzi e gettata
nel fuoco della guerra fratricida, era più facilmente manovrabile, il popolo
indottrinato dalle nuove visioni politiche dei nuovi leader prendeva meno
iniziative, segregato com’era nelle proprie regioni, obbligato a seguire gli
ordini che impartiva il comitato centrale del Partito comunista.
In questa fase storica, sul territorio dell’attuale Ucraina è stata
largamente applicata la propaganda dei “due popoli separati”, attraverso
l’insegnamento è stata diffusa la lingua ucraina, concentrata in un unico
sistema linguistico, e la cultura ucraina è stata presentata come indipendente
da quella russa. E se l’idea dello spirito nazionale ucraino era senz’altro
dovuta al genio creativo di polacchi, austriaci e tedeschi, ad applicarla nella
realtà come un sistema politico-sociale sono stati i comunisti, prima sotto
Lenin e poi sotto l’attenta guida del “padre dei popoli”, come la propaganda
sovietica definiva Iosif Stalin.
Nel 1921, durante il suo discorso presso il decimo congresso del Partito
comunista sovietico, Stalin sottolineò che, «se nelle città e nelle campagne
dell’Ucraina ancora prevalgono gli elementi russi, allora nel tempo questi
luoghi verranno inevitabilmente ucrainizzati». E questa non è stata una
dichiarazione di poco conto. I comunisti hanno dovuto costruire la nazione
ucraina da zero in base alle complicate eredità zariste, compromesse dalle
ferite inguaribili dovute alle guerre, alle rivolte e allo spietato sfruttamento
classista sul quale era fondata la società dell’epoca e ulteriormente
compromesse dalla sua ricostruzione eccessivamente veloce, accompagnata
spesso da violenza nei confronti di chi si opponeva alle nuove riforme. In
effetti, l’evento storico sul quale così tanto si discute oggi nell’ambito della
Storia, chiamato da alcuni storici holodomor e da altri invece presentato
come uno degli episodi terrificanti della grande carestia che colpì gli
ambienti contadini su tutto il territorio della giovane Unione Sovietica,
provocando milioni di morti, è avvenuto, a grande linee, per colpa della
realizzazione forzata dei nuovi programmi politici che i bolscevichi
applicavano con la forza nelle campagne di tutto l’ex Impero russo.
Per questo motivo Stalin ha continuato la politica ucrainofila di Lenin,
dividendo la Russia una volta unita in blocchi, le cosiddette “repubbliche”
sovietiche, di fatto usando questa strategia per governare meglio una realtà
divisa e poco coesa, nella quale i popoli non potevano interagire a livello
nazionale, rimanendo confinati a livello locale. La politica di Stalin nella
difesa dell’“ucrainofilia” era contraddistinta da una rigidità inaudita.
Chiunque fosse sospettato di avere atteggiamenti, idee o anche solo un
sentimento negativo nei confronti della propaganda “ucrainofila” veniva
perseguitato dal sistema sovietico come nemico del proletariato, veniva
licenziato immediatamente dal luogo di lavoro, poi arrestato e nella gran
parte dei casi spedito ai lavori forzati. In quel periodo l’apparato
governativo sovietico è stato oggetto di una serie di purghe, sul territorio
dell’Ucraina venivano perseguitati i rappresentanti di stato sovietico che
non condividevano l’idea della ucrainizzazione della lingua, e i ruoli di
potere nel Partito comunista ucraino venivano assegnati ai “compagni” che
fedelmente seguivano la linea ucrainofila. Questo processo era oggetto di
un continuo controllo da parte del governo di Mosca mediante numerose
commissioni, che stendevano folti rapporti à la Tolstoj 6 dedicati a tutti gli
aspetti della vita sociale, culturale, economica e politica in cui veniva
applicato il processo di ucrainizzazione della Malorossia. Tutto il potere
dell’apparato partitico e della macchina governativa precipitò sulla
popolazione, specie su quella sua parte che era meno tentata da qualsiasi
visione politica, che sguazzava nella beata ignoranza e più di tutto aveva
timore della guerra e dell’instabilità, ragionando più secondo una logica di
sopravvivenza che con gli ideali. Proprio questa massa di ex cittadini
dell’Impero russo che abitavano in Malorossia, terrorizzati dagli orrori
bellici, dall’ingiustizia delle classi dominanti, dall’anarchia del periodo
post-rivoluzionario, dalle continue incertezze sul domani ha formato la base
per la nuova società che doveva in tempi rapidissimi diventare la nazione
ucraina. Con la tenacia e la spudoratezza che contraddistingueva i
bolscevichi, sono stati eliminati fisicamente o costretti all’esilio gli strati
sociali che rappresentavano i cittadini pensanti, informati, capaci di
formulare un pensiero autonomo sulla vita e sul futuro del loro paese in
base alla loro cultura e alle loro esperienze. Seguendo la nota e ambigua
citazione di Lenin, secondo la quale «la classe degli intellettuali rappresenta
l’escremento della società», i “compagni” la estirpavano con invidiabile
dedizione, finche la loro propaganda di ucrainofilia non è stata ampiamente
assorbita sul territorio dalla maggioranza dei sudditi del nuovo impero
sovietico.
Non a caso Michail Hruševs’kyj, quando tornò dal suo lungo esilio
passato in Galizia sotto l’ala protettiva austro-ungarica, scrisse: «Io qui mi
sento, nonostante tutte le mancanze, nella repubblica ucraina, che noi
abbiamo cominciato a costruire nel 1917 [l’anno della Rivoluzione
d’ottobre]».
Il popolo semplice, però, al primo soffio di questi “venti rivoluzionari”
non appoggiò l’ucrainofilia. Nel 1918, uno dei più attivi bolscevichi
impegnati nell’ucrainizzazione del Sudovest dell’ex Impero russo, il
commissario del popolo incaricato dal partito comunista ucraino di
coordinare il lavoro di istruzione, Volodymyr Zatonskij, descriveva il
proprio lavoro così: «Un’ampia fetta della popolazione mostrava il suo
disprezzo verso l’idea della fondazione dell’Ucraina. Perché lo facevano?
Perché all’epoca gli ucraini [si intende i propagandisti ucrainofili] stavano
dalla parte dei tedeschi, perché l’Ucraina strisciava da Kiev fino
all’imperialistica Berlino. Non solo i lavoratori, ma anche i contadini, quelli
che oggi si chiamano contadini ucraini, all’epoca non sopportavano gli
ucraini (noi abbiamo ricevuto a Kiev numerosi protocolli delle riunioni dei
contadini, in gran parte siglati dai capi dei villaggi con le firme di tutti i
partecipanti). In questi protocolli i contadini ci scrivevano: “Siamo tutti
russi e odiamo i tedeschi e gli ucraini e chiediamo di essere annessi alla
Repubblica Socialista Federativa Sovietica della Russia”».
I bolscevichi negli anni Venti del XX secolo costringevano i malorossi a
diventare ucraini. Il popolo inizialmente si opponeva, anche se non aveva
grandi strumenti per farlo. Capitava che in alcuni casi la popolazione
sabotasse apertamente le decisioni del Partito comunista e del governo
sovietico. Ovviamente questo indisponeva i leader dei bolscevichi.
«Miserabile e subdola tipologia di malorosso, che si vanta della sua
indifferenza a ogni argomento ucraino ed è pronto sempre a sputare su di
esso» si lamentava, rabbioso, in quegli anni durante una delle riunioni del
comitato centrale del Partito comunista sovietico Aleksandr Shumskij,
rivoluzionario ucraino di origini russe, uno dei più attivi promotori
dell’ucrainizzazione della Malorossia nel partito comunista. Non meno
estremo si esprime nei suoi diari il bolscevico e l’attivista ucrainofilo
Efremov: «Sarebbe necessario che venga sterminata l’intera generazione di
quegli schiavi obbedienti, abituati soltanto a scimmiottare gli hohol [il
termine leggermente dispregiativo con il quale storicamente venivano
definiti gli abitanti della Malorossia], invece di sentirsi ucraini in modo
organico». Nonostante questi feroci desideri del tipico bolscevico-leninista
di vecchia guardia, i malorossi non hanno smesso di esistere e non si sono
sentiti per niente «ucraini in modo organico», anche se quella definizione di
carattere etnico è stata attaccata a loro come un’etichetta durante l’epoca
stalinista. I “compagni” del Partito comunista sovietico hanno presto
compreso che lo spirito russo non si sarebbe arreso facilmente. Per questo
non bastava il terrore di massa applicato tramite le fucilazioni dei dissidenti
o il confinamento di questi ultimi nei campi di concentramento creati alla
maniera austriaca. Servivano strumenti più incisivi, non tanto atti a
reprimere quanto a modulare il tessuto sociale. Per questo motivo, a partire
dal 1925, i bolscevichi sul territorio dell’attuale Ucraina hanno formato una
classe dirigente composta da decine di migliaia di ucrainofili galiziani,
trasferiti per l’occasione e preposti a ruoli strategici di comando. Tra l’altro,
saranno proprio loro i maggiori responsabili dell’attuazione della politica
della collettivizzazione, in quanto esecutori fisici dei piani di consegna di
grano decisi da Mosca, che per ben due volte in un decennio ridussero alla
fame i contadini ucraini.
Nel processo di ucrainizzazione degli anni 1927-1933, si distingueva
Mykola Skrypnyk, il capo del Narkompros, ovvero il “Commissariato
popolare di istruzione”, una sorta di ministero d’Istruzione dell’epoca. Sotto
la sua attenta guida, il processo di ucrainizzazione della Malorossia
raggiunse dei risultati inimmaginabili, specie nell’ambito dell’istruzione.
Insieme ai suoi sottoposti faceva arrestare gli oppositori dai servizi di
sicurezza sovietici e spediva ai lavori forzati i professori universitari, gli
insegnanti e i dirigenti scolastici che non volevano accettare la politica
ucrainofila, difendendo la propria impronta russa. Lo stesso trattamento era
riservato agli scienziati malorossi che non seguivano la linea ucrainofila
stabilita dal Partito comunista.
In una delle sue lettere, Michail Hruševs’kyj, politico, attivista e primo
presidente ufficiale dell’Ucraina, in carica proprio grazie ai bolscevichi,
raccontava di quell’episodio con un certo entusiasmo, vantandosi che i
compagni sovietici avevano trasferito dalla Galizia cinquantamila persone
di spicco del movimento ucrainofilo, con le loro famiglie, per affidargli la
gestione di diverse strutture di primaria importanza nella nuova repubblica
sovietica ucraina. Oggi agli storici è chiaro che senza l’utilizzo di quegli
ucrainofili di Galizia, nati grazie alla propaganda polacca sostenuta dagli
austro-ungarici e dai tedeschi, e sviluppata ai livelli di uno stato con
l’impegno dei comunisti, la trasformazione della Malorossia nell’Ucraina
attuale sarebbe stata semplicemente impossibile.
Il “popolo ucraino” era già stato creato, almeno nei rapporti redatti dai
leader del Partito comunista ucraino, quindi non c’era bisogno di continuare
con la politica di ucrainizzazione, che peraltro infastidiva il popolo. Del
resto Stalin, irritato dal comportamento “borghese” di alcuni leader del
Partito comunista ucraino, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso e
fino all’inizio della Seconda guerra mondiale, cercò di ripulire il partito
comunista ucraino da elementi che considerava deboli e nocivi per la lotta
proletaria. Il popolo malorosso ricominciò a respirare, soddisfatto, anche se
l’Ucraina, gli ucraini e la lingua ucraina sono rimasti, anche se ormai era
una propaganda blanda, specie nei territori storicamente abitati dai
russofoni, come ad esempio la parte sudorientale dell’Ucraina attuale.
Solo nel 1991, i politici ex comunisti che cambiando abilmente bandiera
diventarono i leader dell’Ucraina “indipendente”, appena staccata
dall’URSS , diedero il via al folle baccanale del nazionalismo ucraino
proponendolo nella sua forma più becera e ignorante, con gli elementi
caricaturali che tanto piacevano alle masse poco istruite, mentre i loro nuovi
leader da una parte disconoscevano i beni comuni, che erano stati creati nel
periodo socialista e che fino a prova contraria appartenevano al popolo
ucraino, dall’altra ambivano a impadronirsene.
Purtroppo in quel periodo per l’Ucraina non esisteva alcuna alternativa
politica. Quando la dirigenza partitica e amministrativa all’improvviso
scoprì di essere indipendente dal controllo dell’apparato statale e del
comitato centrale del Partito comunista di Mosca, di poter gestire enormi
risorse e ricchezze costruite con i soldi di tutto il popolo dell’URSS , capì che
la tenuta della sua “indipendenza” non solo di fatto, ma anche nella
situazione reale, aveva bisogno di fondamenta ideologicamente opposte a
quelle che prima vedevano i valori del socialismo sovietico come regole
universalmente condivisibili da tutti i livelli della società. Non si
formularono nuove idee, si rispolverarono soltanto le vecchie forme
separatiste polacco-austro-ungarico-tedesche, lucidate alla perfezione dal
potere sovietico negli anni Venti del Novecento e dagli ideologi del
nazionalismo ucraino di OUN-UPA negli anni Trenta-Quaranta e dai
dissidenti sovietici simpatizzanti per gli ucrainofili negli anni Sessanta-
Settanta. La classe dirigente, così come il popolo ucraino, a livello culturale
non era pronta per l’indipendenza, capitata sulle loro teste come neve
d’estate. Nessuno sapeva esattamente cosa fare di questa “conquista”
democratica. Le grandi idee sull’indipendenza si inventavano strada
facendo, mentre si masticavano gli hamburger di Mac Donald’s e
assaporando la Coca-Cola, all’epoca i simboli principali dei valori
occidentali.
Trovo esilarante che anche durante gli anni della pioggia di crediti
multimiliardari (versati dall’Occidente dopo la “rivoluzione arancione”) e
dei superprofitti a lungo termine dell’industria (dal 2002 al 2008), le
acciaierie non abbiano ricevuto gli investimenti necessari per
l’ammodernamento, accontentandosi delle briciole finanziarie che cadevano
dalla ricca tavola dei loro proprietari. Ad esempio, nella stessa Russia, nel
periodo suddetto, l’industria è stata in grado di ridurre dal 25 al 10% la
quota di forni a suola aperta ad alta intensità energetica. Durante questo
periodo, in Ucraina non è stata chiusa una sola fabbrica che utilizzasse
questo tipo di forni per la produzione.
E qui veniamo a un altro dei grandi problemi: i porti ucraini (quelli che
attualmente sono ancora controllati dal governo di Kiev) non si trovano in
acque profonde e non possono ricevere navi con un peso morto superiore
alle 100.000 tonnellate, ovvero l’infrastruttura portuale semplicemente non
è in grado di ricevere il volume richiesto di carbon coke d’oltremare. Prima
della guerra, i metallurgisti ucraini importavano il carbone nei porti stranieri
in acque profonde (il più delle volte il porto rumeno di Costanza), e poi da
lì il carbone veniva consegnato all’Ucraina su navi adatte per le acque poco
profonde. È chiaro che una tale filiera aumenta notevolmente il costo di
produzione. Pertanto, non sembra essere neanche questa una buona
soluzione. L’unica via d’uscita è la costruzione di porti in acque profonde e
nessuno li costruirà finché esisterà il progetto Ucraina, perché potranno
essere costruiti solo con finanziamenti russi e grazie alle autorizzazioni
anche dei russi, essendo sul Mar nero.
Vale la pena ricordare che l’Ucraina negli anni che hanno preceduto
l’inizio del conflitto con la Russia esportava metallo prodotto con crescente
bassa qualità. La quota di semilavorati sul totale delle esportazioni ucraine
di prodotti in metallo ha raggiunto il 55,1% nel 2009 (45,7% nel 2008). Il
costo di tali prodotti sul mercato mondiale è da 1,5 a 3 volte inferiore a
quello dei prodotti ad alto valore aggiunto. Questa tendenza è una
conseguenza della bassa qualità dei prodotti ucraini con un valore aggiunto
più elevato, nonché del loro costo relativamente alto. Poiché ogni unità di
elaborazione della metallurgia ucraina è più costosa di quella dei suoi
concorrenti, anche il prodotto finale è più costoso.
In parte i proprietari delle imprese metallurgiche compensano questi
problemi con i bassi salari dei loro lavoratori. Come ha affermato Julija
Tymošenko: «Lo stipendio di un metallurgista ucraino è quasi tre volte
inferiore allo stipendio di un metallurgista russo e polacco e quasi nove
volte inferiore allo stipendio di un metallurgista tedesco». Tuttavia, è
improbabile che ciò abbia un impatto positivo significativo sulla redditività
dell’industria metallurgica in Ucraina, di cui ormai il fallimentare governo
di Kiev ha quasi perso il controllo. Secondo i dati ufficiali, nel 2005, grazie
al gas russo a buon mercato, la redditività dell’industria metallurgica in
Ucraina era del 18-20% (secondo dati non ufficiali ammontava al 35-40%!),
mentre prima dell’inizio della guerra con la Russia era drasticamente scesa
al 3-5%. Alcune imprese erano già da tempo in perdita finanziaria.
È necessario aggiungere che oltre al mancato rinnovamento materiale e
tecnico dell’industria metallurgica ucraina, per quasi trent’anni, sia a livello
di singole imprese che a livello di settore nel suo complesso, c’è stato un
intenso depauperamento delle risorse umane. Già nel 2020, la metallurgia
ucraina mostrava una carenza di lavoratori e ingegneri altamente qualificati.
Il personale altamente qualificato, preparato ai tempi dell’URSS , sta
diventando vecchio, ma non ci sono nuove leve pronte a sostituirlo perché
sia l’istruzione nel suo complesso, sia i corsi di formazione e di
specializzazione non sono più all’altezza. La metallurgia dell’Ucraina sta
perdendo colpi non solo quanto a risorse umane e competenze, ma anche in
termini di qualità.
Cosa accadrà alla metallurgia ucraina alla fine della guerra? Ovviamente
tutto dipende dall’esito del conflitto ancora in atto, però è chiaro che la
metallurgia, che si era ridotta fino ad assumere dimensioni davvero
insignificanti già prima del conflitto per colpa della gestione predatoria,
“rimpicciolirà” in modo ancor più significativo sia nella scala della
produzione che in termini di profitto. Le imprese del settore che hanno
definitivamente perso redditività hanno chiuso per sempre i battenti. Le
acciaierie deboli, a basso margine e non integrate (non facenti parte di cicli
di produzione chiusi) verranno acquistate a prezzi stracciati oppure
semplicemente demolite. È facile capire che l’industria metallurgica ucraina
sia di grande interesse per il business metallurgico russo. Considerando
l’attuale situazione di guerra, per le società russe le possibilità di rilevare le
imprese ucraine per una serie di motivi sono molto più elevate rispetto ai
concorrenti occidentali.
In precedenza, il processo di assorbimento delle società ucraine da parte
di quelle russe avveniva secondo lo schema elaborato dal gruppo EVRAZ e
Privat: alla fine del 2007 gli imprenditori russi Roman Abramovich e
Alexander Abramov hanno acquistato le attività minerarie e metallurgiche
del gruppo finanziario e industriale dell’oligarca ucraino Ihor
Kolomojs’kyj, finanziatore tra l’altro della campagna elettorale del
presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj. Quindi la procedura di vendita
era già stata testata, i meccanismi di transizione erano più che funzionanti,
anche se è chiaro che nello scenario di guerra attuale tutti questi schemi
perdono la loro valenza.
L’assorbimento dell’industria da parte della Russia prima dello scoppio
della guerra avrebbe significato una nuova fase nell’ottimizzazione
finanziaria ed economica delle imprese ucraine, consentendo senz’altro di
salvarle dall’inevitabile fallimento. È chiaro però che queste imprese quasi
sicuramente avrebbero operato non più negli interessi del governo ucraino,
in quanto inglobate nel sistema economico russo. Tuttavia il fallimento
economico attuale delle imprese metallurgiche ucraine, in parte dovuto alla
cattiva gestione delle imprese e in parte al colpo di grazia ricevuto dalla
guerra, ha causato la chiusura di moltissime fabbriche in difficoltà, e le
poche imprese che continuano a lavorare dovranno ridurre
significativamente il personale. Anche la recente esperienza di diversi paesi
dell’Est Europa segnala che questo è inevitabile. Da un punto di vista
commerciale, l’ottimizzazione è giustificata. In molti stabilimenti
metallurgici ucraini, prima dell’inizio della guerra, fino al 30% dei
lavoratori erano già stati licenziati, soprattutto nel settore non produttivo. Se
non fosse per la guerra, con un serio ammodernamento della produzione
sarebbe stato possibile aumentare le capacità produttive mantenendo il
numero del personale significativamente ridotto. Però una simile riforma
dell’impianto industriale richiede investimenti che nessuno era interessato a
fare prima e a maggior ragione una volta scoppiato il conflitto.
L’operazione di ammodernamento degli impianti potrebbe essere attuata
unicamente da un investitore privato oppure da uno stato estero.
Avendo tutto il necessario per diventare uno dei leader mondiali nella
produzione metallurgica, l’Ucraina non ha potuto farlo a causa della
mancanza di lungimiranza dei propri leader politici, della corruzione che
dilaga negli organi dell’amministrazione a tutti i livelli e soprattutto della
mancanza di fiducia nel futuro del paese da parte degli oligarchi, che
anziché investire nello sviluppo dell’Ucraina si sono impegnati in tutti gli
anni a partire dalla sua indipendenza dall’URSS a sfruttare al massimo
l’eredità sovietica senza investire niente nel suo sviluppo. Purtroppo la fine
del compendio minerario e metallurgico nell’ambito dell’attuale progetto
Ucraina è un processo irreversibile.
Già alla fine del primo decennio del nuovo millennio l’industria chimica
ucraina era sull’orlo della catastrofe. In una situazione del genere era
diventata come un cappio al collo dello stato ucraino, che non poteva
investire niente nel salvataggio dell’industria, in parte per la corruzione già
ricordata, in parte per via delle scelte economiche e politiche
dell’amministrazione ucraina che emulavano il modello occidentale, senza
però considerare che poteva essere applicato solo a una società strutturata
anche dal punto di vista normativo. Applicare i modelli occidentali a una
società che ha assorbito l’eredità culturale e morale post sovietica, e in cui il
conflitto “politico-sociale” è ancora molto aspro, è come assumere veleno.
Proprio per questo, il governo ucraino non ha atteso molto tempo per
sbarazzarsi dei suoi onerosi beni, vendendoli immediatamente ai privati, e
contribuendo così al crollo dell’economia del paese.
È facile intuire che una situazione tale avrebbe suscitato l’immediato
interesse di chi controllava l’approvvigionamento delle materie prime per
gli impianti chimici ucraini e, soprattutto, del gas naturale. Questo è logico
quando chi possiede la materie prime coincide con chi le lavora
industrialmente. Ecco perché i principali presunti contendenti per l’acquisto
di imprese chimiche ucraine sono state da sempre le società russe, una su
tutte la “Gazprom”. Il governo ucraino prima del 2014 aveva sviluppato un
meccanismo per ottenere il controllo sulle imprese chimiche ucraine da
parte delle strutture della “Gazprom”, ma gli oligarchi ucraini che presero il
potere politico e militare dopo il 2014, con in testa l’oligarca Porošenko,
diventato il presidente dell’Ucraina, hanno preferito farle morire. Dopo
essersi spartiti le spoglie e aver messo al sicuro i capitali all’estero, hanno
rifiutato un passaggio di consegne ai russi che avrebbero rilevato e salvato
gli impianti, investendo nella loro modernizzazione, e avrebbero contribuito
a rimpolpare l’economia ucraina. Senza parlare dei posti di lavoro per i
cittadini ucraini, trasformati attualmente dal governo degli oligarchi in
carne da macello, che viene sacrificata in guerra per gli interessi
dell’oligarchia finanziaria statunitense e britannica.
Dal 1991 a oggi, durante gli anni di governo dello Svidomogo panstwa,
che starebbe per “signoria sapiente”, come amano chiamare se stessi, senza
un minimo di modestia, i nuovi “patrioti” dell’Ucraina, i prodotti
dell’industria meccanica del loro paese sparirono dal mercato, lasciando il
posto all’estrazione di materie prime e alla fabbricazione di semilavorati. In
buona sostanza, un paese che durante l’epoca dell’URSS era in grado di dare
vita a una tecnologia complessa è stato riportato indietro.
Il morbo che in Ucraina affligge il settore meccanico è lo stesso che
colpisce quello metallurgico e quello chimico.
In primo luogo si tratta dell’invecchiamento e del logoramento di tutti gli
impianti del settore. Già nell’ormai lontano 2009 la base materiale e tecnica
dell’industria meccanica nel suo insieme era esaurita del 70%. Nel maggio
2006 il ministro della Politica industriale dell’Ucraina Viktor Baranchuk ha
dichiarato ai giornalisti che l’82% del parco macchine utensili delle imprese
di ingegneria doveva essere aggiornato. A causa della grave arretratezza
tecnologica del settore, i prodotti dei costruttori di macchine ucraini, nel
loro insieme, a eccezione di alcuni tipi di merci, non sono competitivi né sul
mercato estero né su quello interno.
Ecco perché, al culmine della crisi finanziaria globale nel primo
trimestre del 2009, la produzione di macchine è diminuita del 54,6%
rispetto allo stesso periodo del 2008, anche se un anno prima gli esperti
ucraini avevano coralmente elogiato la costruzione di macchine,
prevedendo che, in termini di tassi di crescita, questa industria avrebbe
superato il settore metallurgico.
Tuttavia, con lo scoppiare della crisi del 2009, la Russia ha ridotto
drasticamente le importazioni dall’Ucraina e l’industria metalmeccanica
ucraina è precipitata sull’orlo del baratro. In effetti, senza l’accesso al
mercato della Russia, il complesso ucraino di costruzione di macchine è
destinato alla rovina. In questo modo, l’industria meccanica ucraina è nelle
stesse condizioni del settore metallurgico e dell’industria chimica, i cui
prodotti sono quasi completamente orientati all’esportazione, in quanto sul
mercato interno non c’è domanda. E questo è comprensibile: dopotutto,
l’industria che soddisfa le esigenze dell’Ucraina al momento non esiste.
Quasi tutti i beni necessari per i cittadini (circa il 90%) vengono importati.
Pertanto, sono rimaste solo le imprese in grado di vendere i propri prodotti
all’estero. Di norma, si tratta di materie prime e semilavorati. Il prodotto
finale della produzione ucraina, salvo rarissime eccezioni, non è utile a
nessuno a causa della sua scarsa qualità e della sua bassa funzionalità. I
prodotti dell’industria meccanica non vengono acquistati nemmeno dagli
stessi ucraini, che preferiscono le produzioni straniere.
L’unico paese che era ancora interessato all’esistenza di alcuni rami
dell’industria meccanica ucraina era la Russia, perché dai tempi dell’URSS
le due industrie si compensavano, mentre l’Occidente vuole le materie
prime e le fabbriche capaci di assemblare a costi bassi i prodotti creati
altrove. L’aumento precrisi del volume delle vendite di prodotti
dell’industria meccanica ucraina sul mercato estero era dovuto unicamente
alle esportazioni nella Federazione Russa, dove, nell’ambito dei programmi
statali, è stata attivamente svolta ed è in corso la modernizzazione degli
impianti industriali. In ogni caso, con l’inizio delle ostilità nel Donbass, e di
conseguenza con l’intervento militare russo in Ucraina, l’importazione dei
prodotti in Russia è cessata praticamente del tutto.
1. Helmut Koll e Bush padre hanno promesso a Gorbačëv sostegno alle sue politiche di riforma del
Partito comunista e dell’intera URSS ; in realtà, però, hanno investito nella propaganda anti-
Gorbačëv, puntando tutto sulla figura di Él’cin che di fatto ha distrutto il paese, creando i
presupposti per le tensioni e le guerre che stiamo vivendo ancora oggi.
TERZA PARTE
IL MITO DELLA DEMOCRAZIA UCRAINA
Penso di non sbagliare troppo quando affermo che l’Ucraina era apparsa nel
raggio visivo dell’italiano medio, attirandone l’attenzione, quando nel 1995
su diversi canali in tv girò la pubblicità del «Corriere della Sera» per
vendere l’atlante allegato con il giornale. In questo spot un cosmonauta
russo atterrando in una campagna dell’Est Europa salutava con felicità la
propria patria urlando a squarciagola «Madre Russia!», mentre una
contadina impegnata nel proprio orto rispondeva a lui con una certa aria
d’insolenza: «Ma quale Russia?! Questa è l’Ucraina!».
Tolti quelli che coltivavano un interesse personale per il paese,
l’opinione pubblica occidentale fino all’invasione da parte della Russia di
Putin avvenuta il 24 febbraio 2022 non si preoccupava affatto dell’Ucraina.
Prima la gran parte degli occidentali avrebbe fatto fatica a indicare persino
la collocazione geografica dell’Ucraina, senza parlare delle conoscenze più
approfondite legate agli aspetti storici oppure politici di questo paese.
Questo è uno dei grossi problemi di molti cittadini occidentali, la costante
rivendicazione del diritto all’ignoranza come viatico per la conquista del
benessere economico: un elemento che denota una inconscia mentalità
colonialista di stampo anglosassone.
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Ucraina
di Nicolai Lilin
© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788858530191
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Introduzione
Prima parte. Come nasce una nazione
Seconda parte. L’industria ucraina era già fallita prima della guerra
Terza parte. Il mito della democrazia ucraina
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