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Il libro

S econdo Nicolai Lilin, l’Ucraina ha un’identità politica e culturale molto più


complessa di come viene raccontata, soprattutto dai media italiani. La
propaganda di guerra non ha ammesso sfumature e distinguo, non ha
considerato molte ambiguità e contraddizioni: ha reso eroico un intero paese e ha
glorificato una storia nazionale che unita non è e non lo è mai stata.
Attraverso ricostruzioni storiche, analisi economiche e riflessioni pungenti sul
presente Lilin ci racconta come nasce l’idea di nazione ucraina nell’Ottocento e
durante il Novecento e come si configura prima, durante e dopo il crollo dell’Unione
Sovietica. Dalle mattanze austroungariche ai danni delle popolazioni russe in quei
territori agli errori politici di Lenin, dagli orrori della Seconda guerra mondiale alle
decisioni discriminatorie di Zelensky.
Un paese, l’Ucraina, oggi egemonizzato da un’intellighenzia e da un potere
politico che odia i russi e rinnega e disconosce le origini comuni. Un paese in mano
agli oligarchi, un paese economicamente fallito che non ha mai investito sulla sua
industria e sui suoi settori produttivi, da venti anni in perdita. Un paese che fatica a
gestire i gruppi militari di estrema destra e che si lascia strumentalizzare
dall’Occidente e dalla Nato.
Ucraina, la vera storia, è un libro potente e provocatorio che non lascerà
indifferenti i suoi lettori.
L’autore

Nicolai Lilin

È uno scrittore russo, di origini siberiane, nato nel 1980 a


Bender, in Transnistra (oggi Repubblica Moldava, ma
all’epoca facente parte dell’Unione Sovietica). Dal 2010
vive e lavora a Milano.
Con Einaudi ha pubblicato tutti i suoi romanzi. Con
Piemme ha pubblicato Putin, L’ultimo zar, che è diventato
un bestseller.
Nicolai Lilin

UCRAINA
La vera storia
Introduzione

Piangi, Ucraina, piangi!


Tu sei il traditore e il boia di te stessa.
Con la tua stessa mano
Hai schiacciato la ragione e la pace!
Stai ammazzando i tuoi figli migliori,
Lamentandoti dei “cattivi russi”!
E mordendo te stessa, come il serpente la propria coda,
Hai creato l’olocausto nelle tue terre.
Con chi rimarrai alla fine?
Quando distruggerai tutto, a bordo di quale nave salirai?
Forse riuscirai a ricostruire casa tua,
Però non riuscirai a risuscitare coloro che sono stati uccisi al suo interno.

OLES BUSINA (scrittore, storico e antropologo, patriota e antifascista ucraino, ucciso nel
2015 dai sostenitori del regime di Kiev)

Ho incontrato per la prima volta Oles Busina durante uno dei miei viaggi in
Ucraina, quando feci tappa a Odessa, a casa di un mio amico, professore
universitario, attualmente fuggito a Miami. Oles da subito mi apparve una
persona autentica, positiva, intelligente e ricca d’animo. Abbiamo cenato
parlando di storia e geopolitica, letteratura e poesia, argomenti che
appassionavano entrambi. Dopo aver aiutato il padrone di casa a lavare i
piatti, siamo rimasti per quasi tutta la notte in cucina a parlare della storia
dell’Impero russo e dell’Ucraina. Ricordo come Oles, asciugando i piatti
con l’asciugamano sul quale era disegnato uno dei simboli di Odessa,
ovvero la Scalinata Potemkin, mi disse con l’aria un po’ triste: «Sai, la
storia reale di questo paese non interessa ormai a nessuno. Noi qui viviamo
in una specie di dimensione parallela, in un mondo totalmente fantasticato,
inventato ad hoc dalla propaganda che fa di tutto pur di giustificare le
sciagurate decisioni dei politici che rubano al popolo senza pietà. Tra non
molto questa gente inizierà di nuovo a glorificare i nazisti».

Io non comprendevo il senso delle parole di Oles, che mi sono sembrate,


all’epoca – devo ammettere – molto provocatorie. Ho cercato di ribattere
qualcosa sulla necessità di un popolo di trovare la propria identità, al che
Oles mi ha interrotto bruscamente: «Non serve cercare un’identità che
esiste da secoli. Il problema dell’Ucraina di oggi non sta nel fatto che si sta
cercando un’identità che per qualche strano motivo è stata perduta strada
facendo. Il problema è che questi folli nazionalisti stanno portando il paese
intero ad abbracciare l’idea di un’identità mai esistita, storicamente
parlando. Andando avanti così, noi perderemo la nostra vera storia, i nostri
eroi verranno macchiati dal marchio dell’infamia, mentre gli infami e i
carnefici diventeranno gli eroi».

Dopo quell’incontro siamo rimasti in contatto, Oles mi ha spedito


qualche suo libro, che ho apprezzato moltissimo, specialmente quelli
incentrati sulla storia dell’Ucraina. Ci siamo rivisti diverse volte, occasioni
di confronto sui temi della storia e della geopolitica. Dopo il colpo di stato
del 2014 che ha portato al potere in Ucraina il governo dell’oligarca
Porošenko, che mise a ferro e fuoco le regioni del Donbass e massacrò gli
oppositori con l’aiuto dei nazisti che lui e altri oligarchi ucraini
finanziavano abbondantemente, Oles ha assunto una posizione ferma e
categorica contro la deriva nazista nel paese e prendendo parte a numerose
trasmissioni televisive contro la glorificazione di personaggi storici come
Stepan Bandera, collaboratore dei nazisti di Hitler nonché leader e ideologo
dei nazionalisti ucraini, mandante dei massacri degli ebrei, polacchi, russi,
moldavi e altre etnie che abitavano sul territorio dell’Ucraina all’epoca.
Oles ha condannato la decisione del governo ucraino di erigere un
monumento a Bandera, si è dichiarato contrario alle cerimonie di
commemorazione ufficiale con i rappresentanti del governo ucraino dei
militari ucraini della divisione SS “Galizien”, che si macchiarono di crimini
terribili durante la Seconda guerra mondiale. In quei giorni lui era uno dei
tanti oppositori ucraini che si schierarono contro una pericolosa deriva
estremista.

La notizia del suo vile omicidio mi ha colpito soprattutto perché questo


terribile atto non ha avuto la risonanza mediatica che avrebbe meritato.
Quasi nessuno dei nostri giornalisti e intellettuali ha pronunciato il suo
nome, nessuno ha denunciato il regime ucraino per aver stroncato la sua
vita. Con la propria morte Oles mi ha dato la sua ultima lezione, mi ha
dimostrato quanto siano ipocriti e meschini alcuni, la maggioranza degli
intellettuali occidentali, quelli che si riempiono la bocca delle parole sui
grandi valori solo quando gli conviene, quelli che condannano i crimini solo
quando questo rientra nei loro interessi.
PRIMA PARTE
COME NASCE UNA NAZIONE
La situazione disastrosa creatasi in Ucraina è molto più complessa di quanto
possa sembrare e non può certo essere ricondotta a semplici, per non dire
primitivi, schemi di propaganda politica, che di solito vengono spacciati per
analisi politologica approfondita. Per capire meglio le problematiche che
hanno portato l’Ucraina moderna al collasso non basta additare i politici
corrotti o l’oligarchia locale, sebbene di colpe ne abbiano in abbondanza, se
non altro perché durante la storia recente dell’indipendenza dell’Ucraina
post-sovietica hanno avuto un atteggiamento predatorio, arricchendosi
sproporzionatamente senza investire niente nelle infrastrutture del paese,
nel benessere dei suoi cittadini, nelle industrie, costruite dai “cattivi”
sovietici e mai rinnovate dai tempi dell’URSS .
Ovviamente non si può liquidare la situazione drammatica verificatasi in
Ucraina di recente attribuendo tutte le colpe soltanto alla politica
imperialista di Mosca, che per quanto criticabile non ha la totale
responsabilità del fallimento di quel sistema politico, economico, culturale,
geografico ed etnico chiamato “Ucraina”.
Il motivo dell’attuale disintegrazione dell’Ucraina è molto più profondo
e articolato e poggia sulla storia travagliata della formazione stessa
dell’Ucraina come idea nazionale, sul conflitto di opinioni che
accompagnarono la sua evoluzione nella Storia. Si può affermare che, a
grandi linee, la causa principale del collasso dell’Ucraina che il mondo
intero, ma in particolare la sua più attenta, colta, curiosa e obiettiva parte,
ha potuto constatare, è la mai risolta crisi identitaria, nel tempo acutizzatasi.
In parole povere, sul territorio geografico conosciuto come Ucraina
convivono realtà culturali molto diverse, per le quali il concetto di
nazionalità ha significati differenti se non, come dimostrano i tragici
avvenimenti del presente, opposti.
Molti analisti e stimati politologi (tra cui Giulietto Chiesa, Sergej
Markov, Georgij Bovt, Sergej Miheev) oggi affermano che la crisi ucraina
che portò il paese al collasso ebbe inizio durante la rivoluzione arancione
del 2004, quando il delfino dell’uscente presidente ucraino Leonid Kucma –
ex funzionario sovietico che sfruttò le sue relazioni per arricchirsi
smisuratamente, trasformando la corruzione dell’apparato sovietico in una
specie di “brand”, distintivo di tutti i rappresentanti del potere ucraino,
nessuno escluso –, Victor Janukovyč, è stato accusato di broglio elettorale
dal proprio rivale, Victor Juščenko – uno dei tanti rappresentanti degli
oligarchi che cercavano di porre fine al potere di Kucma per poter insediare
in Ucraina un governo fantoccio. Era la prima volta che in Ucraina la parte
più corrotta del potere economico, con la diretta partecipazione dei
“filantropi” occidentali, investiva finanziariamente, con indubbio successo,
nel processo di sollevamento delle masse, all’epoca non violento,
inducendole a credere che avessero il potere di cambiare le sorti del proprio
paese. In realtà, le hanno palesemente sfruttate per far vincere il proprio
candidato, Juščenko.
Quest’episodio, per quanto importante, in ogni caso non rappresenta la
causa dell’attuale processo di disintegrazione dell’Ucraina come entità
geopolitica, ma ne è solo una delle conseguenze, una delle tante nella
dolorosa agonia di uno stato che non ha mai saputo raggiungere una vera
indipendenza.
L’ultima pericolosa virata nella storia che portò l’Ucraina al fallimento
totale – trasformandola nel campo di battaglia attuale – iniziò proprio con
l’annuncio dell’indipendenza dell’Ucraina, il 24 agosto del 1991. La Storia
è spesso ironica, per non dire cinica. Così la fine dell’Ucraina cominciò
proprio con la chimerica realizzazione del grande sogno di una parte degli
ucraini di rendersi indipendenti dall’influenza russa, sogno che in altre
circostanze avrebbe potuto essere anche giustificato e compreso, se non
fosse stato sfruttato abilmente e manipolato da chi voleva semplicemente
approfittarne per trarne profitto e per l’ennesima volta saziare i propri
appetiti facendo pagare il conto ad altri.

Prima di addentrarci nelle questioni storiche, riportando a galla i


momenti che di solito la propaganda filoatlantista cerca di nascondere, è
necessario partire da un presupposto importantissimo, grazie al quale è
possibile comprendere il senso dell’esistenza dell’Ucraina e di conseguenza
dei suoi problemi. L’Ucraina, quell’entità geografica, politica, etnica e
culturale così come la conosciamo oggi, è un progetto totalmente sovietico.
Se non fosse stato per la ferrea volontà dei bolscevichi, che sognavano un
mondo nuovo composto soltanto da una classe sociale, il proletariato, di
quei visionari della politica, rivoluzionari che affogarono nel sangue
l’Impero russo per poi annegarvi loro stessi, e del Partito comunista
sovietico, noto per la “politica nazionale” che aiutava a far emergere quelle
realtà etniche, che durante l’impero zarista venivano considerate irrilevanti
per rappresentare il potere, oggi non sarebbe esistita nessuna “Ucraina” e
nessun “ucraino”. Se la Rivoluzione d’ottobre non avesse interrotto la
naturale evoluzione della Russia, al posto dell’Ucraina attuale sarebbero
esistite le regioni “malorosse”, dal nome storico della popolazione slava che
abitava sui territori attualmente conosciuti come Ucraina, all’interno della
Russia, il suo Sudovest, in cui qualsiasi tentativo di creare realtà identitarie
diverse da quelle accettate dall’impero sarebbe morto sul nascere.

Lasciando da parte le varie mitologie storiche e politiche diffuse negli


ultimi decenni in Ucraina e altrove per sostenere l’idea nazionale fondativa
dello stato ucraino, e basandosi soltanto su argomentazioni confermate
storicamente, possiamo affermare che l’Ucraina è il “quasi stato” creato da
bolscevichi che, contraddistinti da una grande determinazione e da uno
spirito d’azzardo, unirono in un’unica entità geopolitica le regioni del
Sudovest dell’ex Impero russo e le provincie di Galizia e Bucovina
strappate all’Impero austro-ungarico.
Per sostenere quell’azione, i bolscevichi sposarono l’ideologia polacco-
austriaco-tedesca che sosteneva l’esistenza del popolo “ucraino” come
realtà a sé stante. Questa ideologia era diffusa dai propagandisti del governo
ucraino nei territori contesi con l’Impero russo, ampiamente sostenuta dai
relativi protagonisti dello scontro geopolitico, ovvero austro-ungheresi,
polacchi e tedeschi, e destinata a destabilizzare l’influenza della monarchia
zarista in quelle aree.
Ciò che osserviamo oggi sono proprio quei “pezzi”, “Ucraine” diverse,
artificialmente unite in passato in un’unica struttura ormai incapace di
reggere il peso della loro diversità, che sono esplosi, tornando a essere
frammenti.
Proprio perché l’Ucraina è stata creata dai bolscevichi e ideata da loro
come realtà locale, non autonoma, ma al contrario, funzionale e funzionante
solo se inserita nella cornice del più complesso progetto sovietico, il paese
non può esistere come una realtà geopolitica indipendente. Per consentirle
di vivere e funzionare è necessario chiudere il vecchio progetto, risolvere le
questioni problematiche annesse e avviarne uno nuovo, che corrisponda alle
necessità reali e attuali, nel rispetto degli equilibri esistenti.
Purtroppo, non c’è mai stata alcuna forza politica interessata a ideare e
avviare un simile progetto. L’Ucraina contemporanea è la continuazione
storpia e goffa del progetto sovietico al di fuori dell’URSS , che si aggrappa
al suo feticcio ideologico e politico, usandolo anche a scopi propagandistici
per addossargli le colpe del presente.
Durante gli anni della sua instabile e recente indipendenza, l’Ucraina è
esistita consumando le risorse materiali ereditate dall’URSS e in virtù di quel
che è rimasto dei rapporti con la Federazione Russa, paese dal quale
otteneva numerosi vantaggi economici e strategici, ma nei confronti del
quale portava avanti una propaganda d’odio senza precedenti.

Lo stesso concetto di “Ucraina”, dal punto di vista storico, è


un’invenzione recentissima. La propaganda ucraina diffonde teorie storiche
secondo le quali gli ucraini esistevano già nel IX secolo d.C. Di fatto, però,
a parte le articolate fantasie di molti e improbabili avventurieri della Storia,
tale narrazione non regge alcun confronto con la realtà. Non esiste nessun
documento storico reale risalente a quell’epoca in cui si parla degli
“ucraini”. In tutti i documenti storici legati all’area geografica che
corrisponde all’attuale Ucraina si parla solo di russkie, rusici, rusi, rusini e
altri sinonimi della parola “russi”.
Nel 1075, nella sua missiva, papa Gregorio VII chiama Izyaslav (figlio
di Yaroslav I “il Saggio”, sovrano della Rus’ di Kiev dal 1019 al 1054) “rex
ruscorum”, senza quindi fare alcun riferimento alla popolazione ucraina.
Nel XIII secolo, l’arcivescovo cattolico e missionario francescano italiano
Giovanni da Pian del Carpine scrive di «Kiovia quae est metropolis
Russiae». Nel 1246, papa Innocenzo IV con un documento apposito prende
sotto la sua protezione Danilo di Galizia, che chiama «regem Russiae». In
nessun documento storico, in nessuna letteratura dell’epoca si trovano le
tracce di “ucraini”.
Nemmeno un personaggio venerato come fosse un santo dagli attuali
sostenitori del mito ucraino, il poeta e pittore Taras Ševčenko (1814-1861),
ha mai usato il termine “ucraini” nelle sue opere. Ševčenko non accettava
questo etnonimo, perché si considerava “russino”, come all’epoca si
chiamavano tutti gli abitanti della Russia del Sud, e il territorio che oggi, in
parte, corrisponde all’attuale Ucraina. Nelle sue opere letterarie, Ševčenko
fa riferimento soltanto al termine “Ucràina”, con l’accento sulla prima “a”,
che corrispondeva al nome geografico della zona nella quale era nato. Nelle
sue opere, il nome “Ucràina” viene utilizzato al pari di altre zone interne del
paese, come Volinia, Galizia o Polesia.

Oggi in Ucraina viene diffusa la teoria che i russi che abitavano nella
Rus’ di Kiev in realtà non erano russi, ma ucraini, che più tardi si sarebbero
definiti tali per distinguersi dai russi che abitano in Russia, i quali non
sarebbero veri russi, ma un miscuglio tra i tartari e gli ugro-finnici.
In nessun documento storico, quindi, si trova conferma dell’esistenza
dell’Ucraina come uno stato. Nei documenti russi antichi il concetto
“ucràina” con l’accento sulla prima “a” rappresentava le terre di frontiera,
specie se dall’altra parte si trovavano vicini poco “amichevoli”. Così il
principato di Kiev considerava “Ucràina” quei territori che lo separavano
dai cumani, una popolazione nomade guerriera parlante una lingua turca.
Per il principato Galizia-Volinia, “Ucràina” era il territorio che li separava
dagli “lyahi” – così chiamavano prima le tribù slave che abitavano
nell’Ovest, dai quali discendono i polacchi.
Anche la Russia di Mosca aveva le sue “Ucràine”: nelle mappe e nei
trattati antichi erano così definiti i territori che si trovavano a ridosso della
steppa del Don e della parte bassa del fiume Volga, occupati all’epoca per
molto tempo dai tartari. Nel tempo questa frontiera si allargò, grazie agli
interventi militari dei russi contro i tartari, cambiando in questo modo le
porzioni di territorio delle varie “Ucràine”. Nella cronaca di Novgorod del
1517 si legge: «Su consiglio del re Sigismondo arrivarono i tartari di
Crimea contro il gran principe in Ucràina vicino alla città di Tula». Il
cronista ricorda quindi quale strategia di attacco Sigismondo I Jagellone
detto “il Vecchio”, re di Polonia e granduca di Lituania, consigliava ai
tartari di usare contro i russi, assediando la città di Tula, che si trova ancora
oggi in Russia a circa 190 chilometri a sud di Mosca.
Nel 1580 lo zar russo, Ivan IV, emise una disposizione in cui spiegava
«come devono fare i condottieri e gli uomini sulla riva [ovvero lungo il
fiume Oka, il maggiore affluente di destra del Volga] nelle città ucràine per
difendersi dai tartari di Crimea e dai lituani». Nel 1625, alcuni cronisti di
Valuek (oggi Valujki, una cittadina a sud di Voronež) scrivevano che
attendevano «l’arrivo dei tartari sulle nostre ucràine».
Nella cultura della rzeczpospolita – così i polacchi chiamavano la
Corona del Regno di Polonia e Granducato di Lituania, poi più tardi nella
storia trasformata nella Confederazione polacco-lituana –, il concetto
“Ucràina” era applicato con il significato di “frontiera” per indicare le
regioni di Kiev, Bratslav e Podol’sk che dividevano i territori d’interesse
polacco dalla regione chiamata Dikoe Pole, ovvero “Il Campo Selvaggio”,
che occupava la parte dell’attuale Est ucraino e il Sudest della Russia, che
all’epoca si presentava come una steppa poco abitata tra il fiume Dnestr e la
metà del Volga, più avanti colonizzata dai cosacchi in gran parte fedeli al
potere dell’Impero russo.
Proprio grazie ai polacchi, il nome “Ucraina” è stato applicato a quei
territori anche da altri europei, apparendo persino su alcune mappe storiche
– prima della metà del XVIII secolo anche le mappe in uso in Russia erano
prevalentemente di produzione occidentale, in particolare tedesche, francesi
e britanniche, in quanto i cartografi russi sono apparsi soltanto verso la fine
del periodo dello zar Pietro il Grande, che obbligava i russi a studiare
presso le strutture occidentali per imparare le scienze e le tecnologie diffuse
nell’Europa occidentale.
Per concludere, la storia medievale e quella delle epoche successive non
conoscono un paese chiamato “Ucraina”; solo grazie alla precisa volontà di
Lenin prima e di Stalin dopo diventò un’entità geopolitica integrata
nell’URSS sotto forma di repubblica socialista sovietica.

Mentre la formazione dello stato ucraino avveniva unendo diverse realtà


di frontiera, strappando i territori all’Impero austro-ungarico e all’ex
Impero russo, fallito a causa della rivoluzione bolscevica, nasceva anche il
sentimento nazionale ucraino, che si porta dentro un insano odio nei
confronti dei russi, che ricorda alla lontana la storia biblica del primo
fratricidio commesso dall’essere umano.
L’apparizione dei primi ucraini, ovvero delle persone che si definivano
tali, è avvenuta alla fine del XIX secolo nella Galizia austro-ungarica.
Proprio in quei territori, dopo la pesante sconfitta della rivolta polacca
contro l’Impero russo nel 1863, la maggioranza dell’intelligencija polacca
fuggì dalle regioni sudorientali della Polonia. L’ennesima rivolta dei
polacchi era stata annegata brutalmente nel sangue. Queste persone erano
profondamente addolorate, offese, devastate, frustrate e arrabbiate per via
dell’estrema durezza con la quale l’Impero russo era solito reprimere i
disobbedienti polacchi. Questi dissidenti sognavano un impero tutto loro,
che si traduceva nel concetto di “Polonia da mare a mare”, od morza do
morza, inteso dal mar Nero al mar Baltico. L’obiettivo era quello di
rientrare in possesso dei territori che storicamente consideravano loro
proprietà di diritto, ovvero la Bielorussia, le repubbliche baltiche e anche il
Sudovest della Russia, vale a dire la metà dell’Ucraina attuale, la sua parte
occidentale.

L’odio generale nei confronti dei russi espresso da quei polacchi sfuggiti
alle repressioni zariste ha contaminato i gruppi degli “ucrainofili”, ovvero
dei movimenti culturali che si formavano all’epoca in Galizia in chiave
antirussa. All’inizio questi movimenti erano considerati in società come
separatisti letterario-politici, che attraverso la creazione di una vera e
propria entità linguistica, ispirata al dialetto malorosso amalgamato con le
forme linguistiche che esistevano nei territori dell’estremo Sudovest
dell’Impero russo, cercavano di esternare la propria diversità dai russi e con
questo affermare la propria unicità etnica, fornendo così le prove
dell’esistenza del gruppo etnico definito “ucraino”.
Presto, alle motivazioni di carattere puramente culturale, si aggiunsero
degli obiettivi prettamente politici, tra i quali il principale era il distacco dei
territori dall’Impero russo in favore dell’Impero austro-ungarico. In poche
parole, i romantici sognatori nazionalisti della Galizia, radicalizzati
dall’odio nei confronti della Russia e dei russi trasmesso dai polacchi
rifiutarono per motivi politici la loro definizione etnica di “russini”,
dichiarando di essere “ucraini”, trasformati nello strumento geostrategico
con il quale l’Impero austro-ungarico contava di destabilizzare la posizione
dell’Impero russo ai propri confini. Fu così che in Galizia ebbe inizio il
Razbudova Ucraini, ovvero il “risveglio dell’Ucraina”, una specie di
operazione di propaganda dei nuovi valori identitari rivolta alla popolazione
di Prikarpatie (Subcarpazia).

Osservando questo processo, il pubblicista e storico galiziano Osip


Monchalovskij nel 1898 diede alle stampe un libro nella città di Lvov
(attualmente chiamata Lviv alla maniera ucraina). La sua opera si intitolava
Ucrainofilia letteraria e politica. Nel testo Monchalovskij spiegava come
fosse nata l’idea dell’etnia ucraina, ne descriveva le circostanze e faceva
parecchie riflessioni riguardo alla pericolosità di questo movimento
reazionario che lui stesso definiva una «setta». L’autore descriveva in questi
termini l’invenzione dell’identità ucraina: «Sotto l’influenza astuta e nociva
dei nemici del popolo russo, l’ucrainofilia, all’inizio di carattere puramente
letterario, si è trasformata in una setta nazionalistico-politica, che potrà
causare parecchi danni al popolo russo se sarà favorita da cause maggiori. Il
male dell’ucrainofilia attuale sta nel fatto che, sotto la maschera di un
narodničestvo [ovvero il movimento per il popolo che all’epoca era diffuso
in tutto il territorio dell’Impero russo, quando gli intellettuali si univano con
il popolo, illuminando le masse con la luce della cultura] perverso e
caricaturale, goccia dopo goccia sta avvelenando con la menzogna le menti
più deboli…».
In quegli anni i polacchi pensavano in grande. Volevano una Galizia non
semplicemente sgombra dai russi, ma addirittura antirussa, cioè un vero e
proprio spazio dal quale poter attaccare l’Impero russo. Trasformati negli
ucraini, i russi della Russia Rubra (così veniva chiamata la regione russa
che si trovava nell’Ovest dell’attuale Ucraina e nel Sudest dell’attuale
Polonia) dovevano portare il veleno distruttivo della propaganda separatista
all’interno della Russia e nel tempo sottrarre il territorio della Malorossia
dall’influenza dell’impero.
Nel 1892, il giornale «Przeglad», che apparteneva alla società polacca di
Lvov, nel numero editoriale 168 pubblicò sulle proprie pagine la seguente
dichiarazione: «Se nei sentimenti del popolo della Malorossia esiste un
forte odio nei confronti della Russia, allora cresce la speranza che nel
futuro, investendo nella diffusione di questi sentimenti, sarà possibile
giocare contro la Russia la carta vincente della Malorossia […]. Noi
polacchi possiamo permetterci di non temere questa evoluzione, al
contrario, commetteremo un grande errore se la bloccassimo, privandoci
così con la nostra scelta dell’alleato nella lotta contro la Russia». A quei
tempi i polacchi non sapevano ancora che stavano creando un mostro che a
pochi decenni dalla sua apparizione, come spesso accade nella storia dei
mostri creati ad arte, colpirà duramente il proprio creatore.
Il genocidio ai danni della popolazione civile polacca durante la Seconda
guerra mondiale per mano dei nazionalisti ucraini è una delle pagine più
buie dell’Ucraina moderna e non ha alcuna giustificazione, va soltanto
condannata. Lo hanno compreso i polacchi, addolorati dalle sofferenze dei
propri connazionali, ma non l’hanno ancora compreso tanti ucraini, che in
massa continuano a sfruttare e usare gruppi neonazisti, mescolando
confusamente elementi storici in una atroce e folle narrazione qualunquista
moderna, che glorifica il nazismo e i suoi crimini.
L’apogeo di questo fenomeno tutto ucraino si riassume nella
dichiarazione del presidente ucraino Volodimir Zelens’kyj, di origini
ebraiche, che in una delle sue apparizioni televisive con un sorriso da beato
ebete ha pronunciato le seguenti parole come se stesse regalando al mondo
una verità ecumenica: «In Ucraina ci sono persone che amano Stepan
Bandera, questo è figo 1». Stepan Bandera era il leader dei nazionalisti
ucraini, alleato dei nazisti di Hitler e responsabile di aver perpetrato
numerosi genocidi ai danni di ebrei, russi, polacchi, rom e altre etnie
considerate “inferiori” dall’aberrante propaganda nazista ucraina.
I polacchi hanno quindi pagato un prezzo elevato per aver contribuito
alla creazione e alla liberazione del mostro nazionalista ucraino, anche se a
quanto pare, osservando le politiche che la Polonia sta attuando in questo
momento storico in Ucraina 2, si può affermare che le mire e le ambizioni
geopolitiche delle autorità polacche abbiano avuto la meglio sulle lezioni
che la Storia più di una volta ha dato alla Polonia.
Dopo un anno dalla pubblicazione dell’articolo sopracitato, nel 1893, i
giovani ucraini della Galizia esposero il loro programma politico d’azione,
pubblicato sulle pagine del giornale «Pravda» di Leopoli. È bene notare il
relativo pluralismo che esisteva nell’Impero russo, imparagonabile
all’Ucraina di oggi, nella quale non solo non esiste la libertà di parola, ma
anche l’opposizione al potere, quando emerge, viene brutalmente repressa
dai servizi di stato e dalle formazioni estremiste di destra, neonazisti leali
allo stato ucraino, che bruciano persino gli oppositori vivi in massa, come è
accaduto nella mattanza dei rappresentanti della sinistra ucraina,
trasformata in un rogo all’interno della casa dei sindacati di Odessa, il 2
maggio del 2014. Nel documento si dichiarava: «La scienza e la vita del
popolo ucraino ci dimostrano che l’Ucraina era, è e sarà una nazione a sé e
come qualsiasi altra nazione anch’essa ha bisogno di libertà nazionale per
poter realizzare il proprio lavoro, per progredire». Poco oltre si leggeva:
«Anche se molte persone intrapresero la strada ucrainofila, non molti
restarono all’altezza di questa idea. Tanto dipendeva dalle circostanze nelle
quali era costretto a svilupparsi il nostro movimento nazionale. Anche se il
popolo ucraino aveva le motivazioni che gli consentivano di fondare su un
terreno solido e reale l’idea della rinascita culturale e nazionale
dell’Ucraina, non erano sufficientemente esperti e non possedevano la
padronanza utile a superare le circostanze e diventare nell’immediato
l’intelligencija ucraina, creando all’istante sia la letteratura che la scienza e
altre conquiste della vita culturale, per poter confermare con i fatti e con
tutto il proprio essere l’esistenza degli ucraini come una nazione ben
distinta e indipendente».

Verso la fine degli anni Novanta del XIX secolo, un gruppo di entusiasti
ucrainofili sotto la guida del professore Michail Hruševs’kyj, nella cornice
della società scientifica di T. Ševčenko, durante alcuni anni di duro lavoro
crearono il prototipo letterario dell’attuale lingua ucraina, finalmente
confermando l’esistenza della scienza e della letteratura ucraina. La cosa
venne ampiamente discussa e criticata dai rappresentanti dell’intelligencija
russa (o per essere corretti “russina”) galiziana, che descrissero in maniera
abbastanza dettagliata il processo di nascita dell’etnia ucraina, spiegando
chi li aveva creati e per quali motivi. A grandi linee, i russi attribuiscono la
responsabilità della comparsa di questo fenomeno a due cause principali: la
situazione politica internazionale creatasi in Europa in quegli anni e gli
interessi strategici di Polonia, Austria e Germania in particolare.
Con l’intensificarsi della tensione alle porte della Prima guerra mondiale,
nelle regioni di Galizia e Bucovina esisteva già un movimento di patrioti
ucraini abbastanza radicato nella società che, sostenuto dalle autorità
austriache, tedesche e polacche svolgeva un lavoro importante di
propaganda dei nuovi valori nazionali tra la popolazione, convincendo
sempre più persone a cambiare la propria identità nazionale, il proprio
senso di appartenenza. Non c’è dubbio che molti lo facevano soprattutto per
motivi di stabilità e sicurezza, temendo ritorsioni da parte delle autorità
austriache che erano più vicine e più presenti di quanto non lo fossero
quelle legate al potere di Mosca.
Con lo scoppiare della guerra, le modalità di fare pressione sulla
popolazione che si identificava come “russa” ed era fedele all’impero degli
zar cambiarono radicalmente. Sul territorio dell’Impero austro-ungarico
vennero creati campi di concentramento e di sterminio destinati tra l’altro al
genocidio delle popolazioni russe delle regioni di Galizia e Bucovina. Quei
russi che gli austriaci non ammazzavano sul posto, presso le loro abitazioni,
venivano mandati in quei luoghi terribili. In quel periodo, proprio quegli
ucraini che da poco avevano scoperto la loro nuova identità nazionale
divennero la forza principale del terrore di massa progettato e imposto dagli
austriaci. A quei tempi, chiunque poteva essere semplicemente impiccato
sull’albero più vicino, picchiato a morte oppure fucilato solo perché
dichiarava di essere russo. In quel modo furono massacrati circa
duecentomila civili russi che abitavano in quei luoghi. Altri
quattrocentomila fuggirono in Russia insieme all’esercito russo in ritirata.
Questa terribile tragedia all’origine della nascita dell’identità nazionale
ucraina non viene raccontata nei moderni libri di storia ucraini.
Già col finire della Prima guerra mondiale, nella città di Leopoli, i russi
provenienti da Galizia e Bucovina che ebbero l’enorme fortuna di
sopravvivere ai campi di concentramento austriaci fondarono il “comitato di
Thalerhof”, dal nome del campo di concentramento dove gli austriaci
rinchiudevano, torturavano e massacravano i sospettati filorussi della
popolazione della Galizia orientale e della Bucovina. Nel 1924 questa
organizzazione iniziò a pubblicare nella città di Leopoli l’«Almanacco di
Thalerhof», di cui furono pubblicati quattro numeri in cui furono raccolte
diverse documentazioni, comprese alcune foto e numerose testimonianze
dei sopravvissuti al genocidio della popolazione russa nella zona della
Subcarpazia. Tralasciando le storie terribili, a grandi linee quello che
emerge dalle esperienze dei sopravvissuti è il meccanismo feroce di
allargamento della base sociale e politica degli ucraini ai danni dei russi. Le
pulizie etniche, il terrore, le intimidazioni erano all’ordine del giorno e di
fatto si può affermare che gran parte dell’attuale popolazione della Galizia e
della Bucovina discende da quei russi divenuti ucraini che più volte
giurarono fedeltà all’imperatore austriaco, promettendo di lottare contro la
Russia. Per questo motivo, la sindrome di Caino si è fusa nell’idea
nazionale ucraina e spesso emerge, anche in casi meno estremi, attraverso
l’odio viscerale nei confronti della Russia.
Quell’odio ha origini precise e ben chiare, e ne rimane traccia nei vari
documenti storici. Il 15 ottobre 1912, l’ambasciatore presso il parlamento
austriaco (Reichstag), professore e attivista politico ucrainofilo Stepan
Smal-Stotskiy dichiarò dalla tribuna del parlamento, parlando a nome del
club ucraino parlamentare e del popolo ucraino, che «tutte le speranze degli
ucraini sono legate allo splendore della dinastia asburgica, che loro, gli
ucraini, considerano l’unica vera erede della corona dei Romanovich di
Galizia [antico ramo reale e principesco russo che discendeva dai
Monomahovichi e che governava nelle regioni di Galizia e Volinia, in russo
Volin’, tristemente famosa per il genocidio dei polacchi massacrati tra il
1943 e il 1944 dai nazionalisti ucraini che sterminarono circa sessantamila
persone]. La minaccia seria che rischia di compromettere quello
“splendore”, a parte la Russia, è rappresentata soprattutto dai “moscofili”
presenti in abbondanza tra la popolazione russa della Carpazia». La stessa
linea inquisitoria nei confronti dei russi presenti sul territorio dei Carpazi,
considerato dagli ucraini il loro campo d’azione, venne adottata dai deputati
ucrainofili Vasilko, Olesnitskyi, Okunevskyi, Kost’ Levizkyi e altri.
L’esito di questa propaganda d’odio nei confronti dei russi si percepisce
chiaramente leggendo l’apertura della prima edizione dell’«Almanacco di
Thalerhof»: «Così, con i primi avvertimenti della tempesta in arrivo [Prima
guerra mondiale], anticipatamente condannata a morte ma fedele ai propri
valori nazionali, la parte cosciente della popolazione russa è stata dichiarata
fuori da ogni legge umana, indifesa, e in seguito sottoposta a persecuzioni e
massacri spietati… Tutte le strutture di forza dello stato [austriaco] e del
potere locale, tutta la polizia, sia esterna che segreta, tutto il branco dei
gendarmi e persino alcune unità militari si sono mobilitati, in sintonia,
contro queste odiate e “pericolose bestie”. Dietro le loro spaventose e
massicce schiene e baionette agiva liberamente, inebriata dalla cattiveria
trionfante, dall’inimicizia e dalla diffamazione la marmaglia austrofila, con
a capo il maledetto fratello-traditore, Caino del popolo sfortunato […]. Il
nostro fratello di sangue, alimentato e scatenato dall’Austria, il degenerato
fratello ucraino, prendendo in considerazione il momento più comodo per i
propri luridi interessi e le sue malefatte, ha eretto menzogne e offese contro
il proprio popolo toccando livelli assurdi e mostruosi, trasformandolo in un
sistema e dogma, inserendo in questa faccenda la propria viscidità,
determinazione e forza, tutto il suo cattivo veleno da traditore. E nonostante
quel fatto, di essersi liberamente saziato con l’infamia, le persecuzioni e le
rapine, costringendo i propri fratelli alle sofferenze e derubandoli di tutto
quello che avevano, con l’impudenza e il cinismo si è dichiarato vittima
[…] Dopo questi avvenimenti è iniziato il vero e proprio massacro. Senza
alcuna norma civile, senza processo né indagine, senza pudore. Bastava una
semplice accusa verbale alle autorità austriache, fatta per semplice
capriccio, per avidità, per inimicizia. Ci prendevano tutti senza fare
differenza tra uomini e donne, vecchi o giovani, bastava che in casa
trovassero un giornale oppure un libro russo, un’icona ortodossa o
semplicemente una cartolina dalla Russia. Spesso solo perché alcune
persone erano semplicemente segnalate dal vicinato come “russofile”. Le
esecuzioni tramite impiccagione e fucilazione non si contavano, erano
applicate ovunque, infinitamente. Decine di migliaia di vittime innocenti, il
mare di sangue dei martiri e delle lacrime degli orfani. A volte per colpa
dell’impulso selvaggio dei singoli boia, a volte a seguito delle messinscene
che gli assassini chiamavano “i processi sul campo”. Quelli che non sono
stati ammazzati nelle loro case sono stati costretti a sofferenze ben peggiori.
Gettati nelle carceri e nei lager, torturati con la fame e con il freddo,
destinati a una morte lenta e agonizzante. E, come nella migliore delle
conclusioni infernali, hanno raccolto quei poveri dolenti rimasti ancora in
vita nel lager delle torture e della morte – tristemente noto come Thalerhof.
Cosa si può dire sulla giustizia, se interi villaggi a volte venivano
massacrati fino all’ultimo essere umano, perché un miserabile traditore
ucrainofilo li accusava di essere russofili?
Una parte del popolo russo-carpazio, andato incontro ad atroci
sofferenze, ha messo la propria vita sull’altare della Patria comune – la cara
Russia –, mentre l’altra parte commetteva scientemente un vergognoso e
viscido affare: un fratricidio simile a quello di Caino.
Il ruolo di questi traditori del popolo, i cosiddetti “ucraini”, in questa
guerra è noto a tutti. Figli del traditore del popolo russo di Poltava [Ivan
Mazepa, atamano, a capo dello Stato Cosacco, inizialmente alleato di Pietro
il Grande, che poi tradì durante la campagna di Poltava schierandosi con il
re svedese Carlo XII. Nonostante questo voltafaccia, i russi vinsero quella
guerra e Mazepa passò alla storia come un traditore punito dal destino per la
propria pochezza d’animo], cresciuti sotto l’ala protettiva dell’Austria e
della Germania, con la cura dell’amministrazione polacca della regione,
durante la guerra tra l’Austria e la Russia giocarono un ruolo perfido non
solo nei confronti della Russia e dell’idea unificatrice degli slavi,
schierandosi dalla parte dell’Impero austro-ungarico, ma specialmente nei
confronti dei russo-carpazi, vittime delle violenze e del terrore austriaco.
Le memorie di quel periodo duro per il nostro popolo sono dolorose,
perché il fratello di sangue, nato con pari condizioni civili ed etnografiche,
senza un minimo tremore d’animo non solo si schierava dalla parte dei
torturatori del proprio popolo, ma addirittura pretendeva, insistendo, che
queste torture venissero inflitte. Gli “ucraini” della Subcarpazia erano tra i
maggiori responsabili del nostro martirio durante la guerra. Per via del loro
atteggiamento vile e basso, il nostro popolo russo-carpazio già dai primi
momenti della guerra è stato dichiarato fuori legge, subendo così una vera e
propria condanna a morte».

Insomma, seguendo la Storia, si può con totale sicurezza affermare che,


rifacendosi allo stesso inquadramento culturale che viene applicato a questa
artificiale forma etnica anche oggi, i primi “ucraini” considerati tali
coincidevano con un esiguo strato dell’intelligencija polacca e più tardi
anche malorossa, inizialmente apparso nelle regioni sudoccidentali
dell’Impero russo.
È necessario ricordare che molti polacchi ricchi e nobili che si erano
integrati nel sistema statale e amministrativo novorosso avevano accesso ai
gangli che controllavano la finanza, l’economia, la cultura, persino
l’ideologia. Se da un lato lavoravano presso le strutture dell’Impero russo,
dall’altro lato odiavano tutto quello che faceva parte della Russia, perché
vedevano in essa l’aggressore e il nemico, e sognavano la rinascita
dell’impero polacco.
Oltre a questo fatto, è importante ricordare la totale supremazia dei
polacchi nelle logge massoniche, all’epoca attive nella regione
sudoccidentale, che costituivano un’importante leva di controllo sociale,
economico, culturale e politico. Così, ad esempio, sullo stemma della loggia
“Gli slavi uniti”, fondata nel 1818 a Kiev e che aveva succursali in molte
città di Novorossia come Ekaterinoslav (attuale Dnepropetrovsk), Yuzovka
(attuale Donetsk), Nikolayev (attuale Mikolaiv alla maniera ucraina), il
motto “L’unione slava” era scritto in lingua polacca. Curioso in questo
senso che negli anni Novanta del secolo scorso una delle più pericolose
organizzazioni estremiste di carattere neonazista che apparvero nella
Federazione Russa e che dopo una serie di gravi crimini fu sciolta e messa
fuori legge, mentre i suoi membri furono condannati duramente e
incarcerati, si sia ispirata proprio alla loggia massonica di Kiev,
prendendone persino il nome “L’unione slava”.
In realtà il movimento ucrainofilo ha iniziato a formarsi ancor prima
della rivolta polacca del 1831. Dei numerosi esempi, ricordo i più
importanti: l’amico personale dell’imperatore russo Alessandro I Pavlovič,
il principe polacco Adam Czartoryski, era russofobo e odiava
profondamente tutto quello che poteva essere definito come “russo”, ma
nonostante questa peculiarità “personale” serviva la Russia prima come
aiutante del cancelliere del governo russo e più avanti come ministro degli
Esteri russo. Un altro polacco russofobo, Tadeusz Czacki, dal 1803
svolgeva l’incarico di supervisore delle strutture scolastiche nelle regioni di
Kiev, Podol’sk e Volinia. Grazie al suo incarico, organizzava attivamente le
strutture scolastiche polacche sul territorio di tutta la Novorossia, nonché il
programma scolastico, instillando e coltivando negli alunni l’odio nei
confronti dei russi. Nel 1805 Czacki inaugurò il ginnasio che nel 1819
ottenne lo statuto di liceo, l’“Altissimo Ginnasio di Volin” a Kremenec’. Lì,
insieme ai polacchi, studiavano anche i “russini” locali. Il livello degli
“insegnamenti” era ottimo, perché quando nel 1831 scoppiò la rivolta, tutti
gli alunni si unirono ai polacchi rivoltosi, alcuni in netto contrasto con la
linea politica mantenuta dai propri famigliari.
Nella città di Uman’, i polacchi presero la direzione del noto istituto
cattolico gestito dall’ordine brasiliano. Tra i suoi alunni vi furono brillanti
rappresentanti della cultura polacca come Seweryn Goszczyński – scrittore
e poeta, attivista, combattente per la libertà del popolo polacco –, Bohdan
Zaleski – poeta e attivista per la libertà del popolo polacco – Michal
Grabowski, scrittore e attivista polacco. Tutte queste eccellenze culturali
polacche non consideravano la Malorossia come un territorio russo, così
come non consideravano i malorossi una delle popolazioni russe. Nella loro
visione, quei territori appartenevano storicamente alla Polonia e i loro
abitanti erano una ramificazione del popolo polacco. Più tardi, uno degli ex
studenti di quell’istituto, lo storico ed etnografo polacco-francese François
Duchinski formulò una tesi secondo cui i “moscali” (il termine
dispregiativo con il quale in Ucraina vengono denominati i russi) sono in
realtà i mongoli, mentre malorossi, bielorussi e polacchi sono veri slavi, gli
eredi della razza ariana (non solo i nazisti di Hitler erano fissati con le
radici ariane), che devono unirsi nella coalizione comandata dai polacchi
per combattere contro i nemici del mondo civilizzato, i maledetti “moscali”
asiatici. Come possiamo osservare, a grandi linee questa tesi è
sopravvissuta nei secoli e ancora oggi la possiamo notare, applicata da certi
estremisti di destra ucraini, così come polacchi, bielorussi e russi. In alcuni
paesi, come ad esempio in Ucraina, l’ombra di questa tesi si intravvede
persino nel disegno dell’obiettivo politico che la propaganda del potere
diffonde nelle masse 3.
Dopo il fallimento della rivolta polacca del 1831, diverse strutture
d’istruzione gestite da polacchi in Malorossia rimasero chiuse, ma il seme
della propaganda era già stato piantato e l’intera generazione
dell’intelligencija dei malorossi preferiva essere integrata nel regno
polacco, piuttosto che rimanere sotto l’impero zarista. Una delle
organizzazioni che condividevano la visione politico-strategica polacca in
Malorossia venne fondata a Kiev nel 1845 e si chiamava “La confraternita
dei santi Cirillo e Metodio”. Tra i suoi attivisti principali c’erano lo storico
Nikolaj Kostomarov, il pedagogo Pyotr Gulak, il drammaturgo Mykola
Kulish, il poeta e artista Taras Ševčenko e altri studenti dell’università di
Kiev.
Negli anni Cinquanta del XIX secolo, nell’ambiente della gioventù
studentesca polacca, che abbondava di intellettuali di rilievo, nacque il
gruppo dei cosiddetti “chlopomani” (dalla parola polacca chlop,
“contadino”). A capo di questa curiosa formazione giovanile c’era il
polacco Vladimir Antonovich, brillante storico e futuro docente
dell’università di Kiev, noto per aver promosso lo studio della formazione
delle città attraverso l’utilizzo degli Annali della Russia sudoccidentale. Tra
i suoi membri si ricordano l’etnografo e scrittore Boris Poznanskij,
l’etnografo ed economista Tadeusz Rylski, lo storico Paulin Święcicki e
molti altri. Proprio in quell’ambiente, nella cornice di questo movimento
culturale etnografico, lentamente germogliava il separatismo politico
ucrainofilo.
Sempre in quegli anni, la comunità dei migranti polacchi si dedicò
attivamente all’organizzazione della nuova rivolta contro l’Impero russo,
considerato tirannico e antiliberale (la rivolta scoppiò nel 1863, ma senza
risultati). Ovviamente, tutta l’intelligencija polacca comprendeva benissimo
che la ricostruzione del tanto desiderato impero polacco non sarebbe stata
possibile senza la Piccola Russia (Malorossia) che i polacchi consideravano
storicamente parte della loro sfera d’influenza, mentre i malorossi, ovvero
gli abitanti di quel territorio conteso, erano da sempre considerati dai
polacchi i loro schiavi preferiti, creature che per la loro natura dovevano
essere sottomesse al potere polacco per servire gli interessi della grande
Polonia, a differenza degli altri popoli che facevano parte del progetto
imperiale polacco, ad esempio i baltici, che i polacchi consideravano amici
alla pari e alleati politici.
Dal punto di vista storico non poteva essere altrimenti. La
Rzeczpospolita era un sistema politico tipico per l’epoca nella quale è
esistito, costruito apparentemente sulla società classista, ovvero sul
distinguo tra signori e plebe, vista dal ceto benestante come una classe
inferiore, dedita soprattutto alla servitù. Nella Polonia dell’epoca, la
separazione tra le classi aveva anche una sfumatura etnica, ovvero ai russi
era predestinato il ruolo degli “schiavi degli schiavi”: dovevano stare sul
gradino più basso della società per via della loro appartenenza etnica.
Secondo la cultura dei pan, ovvero dei signori polacchi, i russi non solo
erano di loro proprietà, ma dovevano essere trattati similmente agli animali;
come fossero bestie parlanti, e potevano essere comprati, venduti, torturati
oppure uccisi. Per essere obiettivi, va sottolineato che i signori russi
avevano lo stesso atteggiamento nei confronti dei loro schiavi, ma con una
differenza: l’etnia non aveva alcun peso, si trattava di una rigida, per non
dire atroce, realtà puramente classista.
A queste radici storiche può essere ricondotto il sentimento sprezzante
diffuso anche ai nostri giorni tra molti rappresentanti della società polacca
nei confronti degli ucraini, un sentimento che emerge soprattutto nella vita
quotidiana.

All’epoca della formazione dell’idea nazionale ucraina, i polacchi,


sfruttando la loro posizione dominante nei territori di Malorossia,
prevalendo sia culturalmente che intellettualmente, iniziarono a influenzare
i poco istruiti malorossi inculcando loro idee separatiste, fondate sulle
convinzioni create artificialmente dell’unicità etnica di questi ultimi. I
malorossi sarebbero stati non solo totalmente diversi dal resto dei russi, ma
addirittura vittime della prepotenza – qui attenzione il momento è
importante – non tanto dell’Impero russo, quanto del popolo russo in
generale. In questo elemento cruciale è racchiusa l’idea nazionale ucraina,
cioè l’“essere degli ucraini buoni diversi dai cattivi russi” e di conseguenza
la necessità di “essere liberi dai cattivi russi”.
Purtroppo, molti ucraini non comprendono che anche rinnegando
integralmente le loro radici russe, non hanno altre fondamenta per la
creazione della propria idea nazionale, quindi se costruiscono tutta la
retorica della loro unicità etnica sulla differenza dai russi, non fanno altro
che confermare di essere legati saldamente al popolo russo. Come ha detto
una volta l’antropologo ucraino Oles Busina: «Se un domani il popolo russo
sparirà totalmente dalla faccia della Terra, l’idea nazionale ucraina entrerà
in una crisi esistenziale completamente distruttiva, perché sarà privata della
sua unica base storica».
Tutte le teorie storiche diffuse negli ultimi anni dai vari pseudo-storici
sull’esistenza delle civiltà antiche che diedero vita al popolo ucraino, come
i miti sull’esistenza degli antichi “ucri”, sono fantasticherie che vengono
accolte con entusiasmo soltanto tra le masse ignoranti e appiattite
mentalmente da una becera propaganda politica, che però non reggono
alcun confronto con la realtà storica.
All’epoca, l’idea dei polacchi di sfruttare i malorossi contro l’Impero
russo era semplicemente un azzardo strategico che non prevedeva alcuna
proiezione nel futuro. Anche per questo, per la totale assenza di un
programma politico a lungo termine che avrebbe potuto trasformare il
movimento culturale ucrainofilo in una seria realtà politica gestibile e
manovrabile a livello geopolitico, gli sforzi dei polacchi di sollevare le
masse dei malorossi nella lotta contro l’Impero russo durante la rivolta
polacca del 1863 sono risultati vani. Sul territorio di Malorossia, la rivolta
fu sedata dagli stessi contadini che da anni erano soggetti all’insistente
propaganda ucrainofila. Armati con gli attrezzi di lavoro da campagna, i
contadini malorossi si riunirono in grandi formazioni, che agivano senza
seguire una strategia precisa e, sterminando spietatamente i rivoltosi
polacchi, aiutavano l’esercito zarista, tanto che i militari russi spesso non
riuscivano a tenere il loro ritmo. Evidentemente, all’epoca, agli occhi dei
contadini, il padrone polacco era ancora visto come una figura più nociva
del padrone russo.
Nel 1863 venne pubblicato e diffuso il programma politico firmato dal
leader indiscusso della rivolta polacca, Ludwik Mieroslawski, scrittore e
militare polacco, una delle menti polacche più brillanti dell’epoca. In questo
programma, tra le altre cose Mieroslawski afferma: «Ai nostri demagoghi
incurabili è necessario aprire la gabbia per il volo libero verso il Dnipro; lì
troveranno un campo rivoluzionario vasto in rapporto al numero dei
rivoltosi. In questo consiste la nostra scuola panslavista e comunista. Qui si
concentra tutto l’herzenismo 4 polacco! Lasciate che sostituiscano con
l’anarchia il sistema zarista russo, che si convincano che questa forma di
radicalismo servirà per “la nostra e la vostra libertà”».
Dopo la totale sconfitta della loro rivolta, i polacchi si mossero nella
direzione della Galizia austriaca per far nascere la nazione ucraina. Questa
creazione era frutto di un incesto tra l’odio dei polacchi nei confronti della
Russia, gli interessi e le ambizioni geopolitiche dell’Impero austro-
ungarico, le influenze tedesche e lo scontento nei confronti del governo
centrale, diffuso tra i molti abitanti di periferia dell’Impero russo e delle
zone confinanti.
I polacchi decisero di far combattere i russi tra loro, senza comprendere
che più avanti loro stessi sarebbero potuti diventare vittime della situazione
che stavano per creare. Lo capiranno, purtroppo solo in parte, quando i
nazionalisti ucraini stermineranno in massa i civili polacchi durante la
Seconda guerra mondiale. Del resto, all’epoca dell’inizio della diffusione
del progetto dell’identità nazionale ucraina, nel giornale polacco «Meta»
(che si può tradurre con “obiettivo”) che veniva pubblicato a Leopoli (Lvov
all’epoca), apparve per la prima volta, nel 1863, il testo della canzone Non è
ancora morta l’Ucraina, che non era altro che la variante “ucrainizzata”
dell’opera patriottica polacca nota come La Marcia di Dombrovski -
“Jeszcze Polska nie zginela”, ovvero “Non è ancora morta la Polonia”. Lì,
tra l’atro, si leggevano le strofe seguenti:

Bohdan, Bohdan,
Nostro glorioso condottiero!
[Bohdan Chmel’nyc’kyj, condottiero malorosso che nel 1648 guidò la
rivolta contro la nobiltà polacca a favore dell’Impero russo, con l’appoggio
dello zar Alessio I]

Perché hai consegnato l’Ucraina


[che all’epoca di Chmel’nic’kyj non esisteva né come entità geopolitica,
né come un concetto etnico-culturale]

Agli schifosi moskali?!


[Moscali – il termine dispregiativo con il quale nelle zone degli attuali
paesi baltici, in Bielorussia e nell’attuale Ucraina venivano chiamati i russi]

Per riportare l’onore


Ci metteremo le teste,
Chiamiamoci dell’Ucraina
Fedeli figli!
I nostri fratelli slavi

[da intendere i polacchi, perché i russi, secondo la propaganda dell’epoca


diffusa tra ucrainofili non erano slavi, ma un miscuglio tra i mongoli e i
tartari]

Già si sono armati,


Non è giusto che noi
Rimaniamo indietro.
Alzatevi subito tutti,
Fratelli – slavi:
Che muoiano i nemici,
Che arrivi la libertà.
Uno dei motti dell’ultimo colpo di stato avvenuto in Ucraina nel 2014,
spacciato in Occidente per una rivoluzione popolare, e diffuso ampiamente
dalla propaganda golpista, si rifà alle ultime strofe di questa canzone.
“Morte ai nemici – gloria agli eroi” è il concetto di base dell’impegno
culturale e politico ucraino che sin dall’inizio della propria esistenza si è
posizionato non come una realtà costruttiva, ma come un movimento
distruttivo, un’ideologia “anti”, rivolta contro una realtà e incapace di
dedicarsi alla formazione e allo sviluppo evoluzionistico della propria.
In questo testo, si nota chiaramente l’intenzione dei “fratelli slavi”
polacchi, che hanno già imbracciato le armi(anche se per ora senza ottenere
risultati): quella di aizzare le masse contro i maledetti “moscali”. Oltretutto,
questa canzone oggi è ufficialmente considerata l’inno nazionale ucraino.
Quindi abbiamo una nazione che già nel proprio inno definisce la linea
della politica estera nei confronti di uno dei suoi più importanti vicini.
L’unica cosa che una persona, anche con approssimative conoscenze
storiche, non riesce a spiegarsi ascoltando l’inno ucraino, è quando sia
scattato quel momento storico nel quale gli schiavi malorossi sono diventati
“fratelli” per i padroni polacchi. Sicuramente non quando, come abbiamo
visto prima, i malorossi che storicamente abitavano sul territorio di
Rzeczpospolita, stanchi dei maltrattamenti secolari e delle ingiustizie dei
polacchi, hanno selvaggiamente massacrato migliaia di polacchi sul
territorio di Malorossia.
Tralasciando le teorie mitologiche e le revisioni fantasmagoriche della
storia proposte da vari ucrainofili, come ad esempio quella di Franciszek
(François alla francese, dato che ha trascorso buona parte della vita in
Francia) Duchiński, secondo la quale i russi non sono altro che la variazione
della razza mongola, si può affermare che etnicamente il popolo russo è
costituito da tre realtà etniche unite tra loro: malorossi, bielorussi e
velicorussi. I Malorossi abitavano in Malorossia, nel Sudovest dell’Impero
russo, l’attuale Ucraina, i bielorussi sul territorio dell’attuale Bielorussia e i
velicorussi sul territorio dell’attuale Federazione Russa. Su questo concetto
si è speculato a non finire, rappresentando queste tre grandi ramificazioni
del popolo russo come entità etniche diverse, separate e persino prive di
radici comuni. Ovviamente non tutti, specie nell’ambiente accademico,
sostenevano queste tesi a mio parere folli.
Nella stessa Malorossia una delle icone del movimento ucrainofilo,
Nicolaj Kostomarov, di etnia russa, professore dell’Accademia imperiale di
San Pietroburgo, nel 1861 criticò duramente la teoria di Duchiński, mentre
uno dei massimi esponenti della cultura polacca, il linguista Baudouin de
Courtenay nel 1886 pubblicò a Cracovia un opuscolo che intitolò In
occasione dell’anniversario di professor Duchiński, dove definì i
festeggiamenti che si tennero in Polonia in occasione del compleanno di
quello studioso «anniversario dell’illusione cronica patriottica».
Nonostante le opinioni di alcuni storici seri, la teoria scandalosa e
primitiva, drasticamente semplicistica, della differenza tra due popoli, i
“moscali” e gli “ucraini”, era accolta favorevolmente e con grande
entusiasmo dalla propaganda polacca e ancora oggi vi si rifanno vari
propagandisti russofobi polacchi e ucraini. La trasformazione di questa
teoria in un vero e proprio programma d’azione politica è stata descritta
esplicitamente da padre Valerian Kalinka, gesuita polacco e attivista della
rivolta polacca contro l’impero zarista: «Come possiamo difendere noi
stessi? Con quali mezzi? Di forze non ne abbiamo, della giustizia non si
ricorda nessuno, mente l’osannata civiltà cristiana occidentale si sta
arrendendo e ci rifiuta. Come fermare quest’alluvione che avanza,
distruggendo ogni barriera, spianando tutto quello che trova sul proprio
cammino? Dove trovare la soluzione? Forse proprio nel particolare distacco
di questa popolazione russa [si intende qui il popolo malorosso]. Questo
popolo non diventerà mai polacco, però non deve neppure rimanere
moscal’. La consapevolezza dell’identità nazionale che si diffonde tra i
russini non basta per evitare che essi vengano inghiottiti dalla Russia. Il
punto di forza polacco si trova nella sua anima, in mezzo all’anima di
russino e all’anima di moscal’, ma una frontiera precisa tra loro non esiste.
Se fosse esistita, se ognuno di loro fosse appartenuto a una confessione
religiosa diversa,questa unione [intesa come unione polacco-lituana]
sarebbe stata un’iniziativa politica saggia. Solo Dio conosce il futuro, ma
grazie alla naturale consapevolezza della propria differenza tribale con il
tempo potrebbe emergere la tendenza verso una civiltà diversa, che infine
porterebbe al distacco totale dell’anima. Se questo popolo si è risvegliato
non con i sentimenti e con la coscienza polacca, allora che resti legato nella
sua anima con l’Occidente, mentre solo la sua forma fisica lo può legare
all’Est. Di fronte a questo triste fatto [inteso con l’origine non polacca dei
malorossi], noi non siamo in grado di fare niente al giorno d’oggi, però
dobbiamo sforzarci di mantenere la stessa direzione per poter compiere una
svolta importante nel futuro, perché solo in questo modo possiamo
mantenere le acquisizioni degli Jagelloni 5, solo in questo modo possiamo
rimanere fedeli al destino della Polonia, conservando quei confini della
civiltà che ha delineato. Se la Russia rimane se stessa, diventando però
cattolica, allora in realtà smetterà di essere la Russia e si unirà alla Polonia.
A quel punto, la Russia tornerà alle proprie frontiere storiche, mentre sul
Don, il Dnipro e sul Mar Nero ci sarà qualcos’altro. Però se questo non
dovesse accadere, allora meglio la Russia Piccola (Malorossia)
indipendente, piuttosto che appartenere alla Russia di Mosca. Se questa
terra non può essere mia, allora che non sia né mia né tua! Ecco, a grandi
linee, lo sguardo politico e storico su tutta la Russia!».

Verso la fine del XIX secolo le fantasticherie polacche sui due diversi
popoli furono rispolverate e riattualizzate, trovando terreno fertile nella città
di Leopoli, grazie all’impegno di Michail Hruševs’kyj, storico politico e
rivoluzionario ucraino, e dei suoi collaboratori. Finanziato dagli austriaci, il
professore decise di dimostrare che la “nazione russo-ucraina”, non ancora
formata per sua stessa dichiarazione, in ogni caso rappresentava un soggetto
indipendente dal punto di vista della sostanza etnica, e che aveva sviluppato
la propria cultura di governo a partire dai tempi della Rus’ di Kiev, vale a
dire dal IX secolo d.C. Nell’ambiente accademico, i suoi lavori suscitavano
sorrisetti d’irritazione. Però dopo che il Comitato Straordinario sovietico
(tra l’altro presieduto da Feliks Dzeržinskij, rivoluzionario comunista di
nazionalità polacca) fucilò tutti i suoi oppositori, e visto che Hruševs’kyj
era coccolato dal potere sovietico, la teoria dei “tre popoli fraterni” venne
ufficializzata nella storia come fosse una verità incontestabile.
Come si è detto prima, l’idea fuorviante che velicorossi e malorossi non
facciano parte di un unico popolo, ma siano riconducibili a etnie ben
distinte, era stata concepita dagli intellettuali polacchi condizionati dalle
visioni russofobe e poi metodicamente inculcata nelle coscienze di una
parte dell’intelligencija malorossa di campagna, da loro stessi creata. In
poche parole, alle origini del movimento ucrainofilo ci sono i polacchi.
Come scriveva all’epoca il noto attivista civile, storico, giornalista e
pubblicista russo Ksenofont Govorskij nella lettera al suo amico, scienziato,
poeta e scrittore galiziano Jakow Fedorowitsch Golowazkij: «Da noi a Kiev
ci sono solo cinque ucrainofili tra i malorossi locali, mentre per il resto sono
tutti polacchi, che più di ogni altra cosa si preoccupano di diffondere i loro
libri. Loro stessi, travestendosi da contadini locali, giravano per le
campagne e facevano circolare questi libri; probabilmente, lo smaliziato
polacco ha sentito in questa faccenda il profitto per sé, e quindi ha deciso di
affrontare simili imprese “eroiche”».
Nella nota leggenda ebraica, il rabbino Löw di Praga dà la vita a una
creatura mostruosa. All’inizio Golem – così si chiama la creatura – svolge
obbedientemente tutti i compiti che il rabbino gli dà, però poi
improvvisamente sfugge al controllo del suo padrone e si trasforma in un
fulgido esempio di caparbietà e ribellione, spesso andando contro gli
interessi del suo creatore e persino minacciandone l’esistenza. La Storia ha
dimostrato che i polacchi hanno commesso lo stesso errore che ha portato
alla rovina il progetto ambizioso del rabbino Löw. Hanno creato un mostro
accecato dall’odio, giustificato dalla propaganda della propria unicità e
singolarità, e persino proiettato nella traiettoria evoluzionistica con la forza
propulsiva della fantomatica missione divina, che avrebbe visto la nazione
ucraina investita di un ruolo dalle dimensioni bibliche.
Per l’ennesima volta l’esperienza umana ha dimostrato che il rapporto tra
creatore e la sua creazione è imprevedibile e spesso tende a diventare
pericoloso, invertendo i ruoli e le polarità, così che alla fine la creatura
distrugge il proprio creatore. Proprio così il Golem ucraino, creato dai
polacchi in chiave antirussa, ha sfogato i propri istinti distruttivi sui
polacchi stessi.
I boia delle organizzazioni nazionaliste ucraine OUN-UPA (abbreviazioni
che stanno per Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini ed Esercito
Insurrezionale Ucraino) hanno massacrato centinaia di migliaia di polacchi
durante la Seconda guerra mondiale, quando gli ucrainofili di ieri si
schierarono con i nazisti di Hitler senza battere ciglio, trovando maggiori
affinità nelle torbide idee del nazismo, che dava libero sfogo alla carica
d’odio e di senso della propria supremazia razziale sugli altri abitanti
dell’Ucraina, per così tanto tempo diffusa dalla propaganda polacca. Gli
übermenschen ucraini non risparmiavano nemmeno i neonati, sterminando
interi villaggi di polacchi utilizzando soltanto le armi bianche, torture e
metodi di uccisione degli esseri umani talmente crudeli che persino i
militari tedeschi delle SS rimasero impressionati negativamente, ricordando
questi episodi con orrore nelle loro memorie.
Lo sterminio dei civili per mano dei nazisti ucraini è il prezzo terribile
che il popolo polacco ha pagato per gli errori della propria intelligencija, la
quale, accecata dall’odio viscerale nei confronti dei russi, si è avventurata
nella creazione dell’identità nazionale ucraina. È sempre pericoloso
fomentare le idee estremiste. Lo possono confermare gli statunitensi che,
grazie alla CIA e ai fondi neri, crearono il movimento dei Taliban e di quei
“simpatici” rivoluzionari che lottavano contro l’URSS e che alla fine hanno
colpito i loro stessi creatori nel cuore della loro civiltà. «Chi scalda la serpe
in seno muore d’odio e di veleno» dicevano i vecchi.

In ogni caso, la nascita dell’identità nazionale ucraina era avvenuta su


iniziativa dei polacchi, con l’ausilio delle autorità austriache e di quelle
tedesche, ed è stato solo il primo mattone nella costruzione dell’Ucraina
come vero e proprio sistema sociale. L’ucrainofilia è stata sviluppata da
quei sovietici, ideologicamente opposti alle forme e alle idee che tenevano
unito l’Impero russo zarista, che agivano in base alle idee di
internazionalismo, rispettando la sacralità del diritto di autodeterminazione
dei popoli. Osservando la questione ucraina dal punto di vista prettamente
pratico, si può affermare senza alcun dubbio che per i comunisti sovietici
sarebbe stato molto più facile integrare i territori dell’attuale Ucraina
all’interno della Repubblica Federativa Socialista Sovietica di Russia,
eliminando così una lunga serie di complicanze burocratiche legate alla
necessità di formare una struttura governativa e politica parallela, di fatto
investendo nella creazione di una nuova entità geopolitica. Il primo a voler
un’Ucraina relativamente indipendente e autogestita è stato Vladimir Lenin,
leader indiscusso dei bolscevichi e noto teorico e pratico della rivoluzione
del proletariato. Lenin ha sostenuto fin dall’inizio l’indipendenza del
sistema ucraino (ovviamente integrato nella sfera degli interessi del Partito
comunista), e negli anni in cui era al potere ha incontrato diversi
rappresentanti della realtà ucrainofila e ha sostenuto alcuni di loro,
contribuendo attivamente alla formazione del primo governo ucraino, nel
1917. Però il “padre della rivoluzione”, come lo chiamavano spesso le
masse, decise di fare quel passo verso gli ucrainofili non solo per via della
fedeltà alla politica dell’autodeterminazione dei popoli. Nell’intenzione di
Lenin e di alcuni dei suoi fedelissimi di mantenere a tutti i costi
l’indipendenza dell’Ucraina c’erano motivazioni più profonde, personali,
legate ai sentimenti più che ai ragionamenti logici. Di fatto, Lenin fu
duramente criticato all’epoca da molti dei suoi compagni comunisti
autorevoli e soprattutto più pratici di lui nelle questioni politiche per aver
dato eccessivo peso a un gruppo di intellettuali ucrainofili che
appartenevano alla ramificazione etnica russa sudoccidentale, e che non
godevano di un largo appoggio sul territorio di quel paese che Lenin e
compagni stavano creando a tavolino, unendo realtà storicamente
abbastanza differenti. Non si può spiegare tutto con l’errore strategico
commesso da Lenin e dal suo entourage, perché erano persone molto
informate e soprattutto determinate nella realizzazione dei loro ambiziosi
piani di demolizione del vecchio mondo, sulle rovine del quale sognavano
di costruirne uno nuovo, mai visto prima, il mondo utopico del socialismo
reale. Conoscevano la situazione in Malorossia, compresi i numerosi
elementi politico-sociali che a lungo andare potevano giocare contro l’idea
dei bolscevichi. Ad esempio, così suonavano le parole di Rosa Luxemburg,
filosofa, economista, politica e rivoluzionaria polacca naturalizzata tedesca,
una delle figure di spicco tra gli ideologi del comunismo, quando ha
incolpato Lenin di aver intenzionalmente distrutto la struttura geopolitica
della Russia, che secondo lei andava preservata e utilizzata negli interessi
della rivoluzione: «Il nazionalismo ucraino in Russia era totalmente diverso
da, diciamo, quello ceco, polacco oppure finlandese, era niente di più di una
stravagante moda, una capricciosa smanceria delle poche decine degli
“intellettualetti” piccolo borghesi, totalmente priva di alcune radici nelle
aree di economia, della politica oppure nella spiritualità del paese, senza
alcuna tradizione storica, dato che Ucraina non è mai stata né una nazione,
né uno Stato, priva della cultura nazionale, se non si contano le poesie
reazionario-romantiche di Ševčenko […]. E un tale scherzo ridicolo di
alcuni professori universitari e dei loro studenti, Lenin e i suoi compagni
hanno gonfiato artificialmente fino a farlo diventare un fattore politico della
loro propaganda indottrinante per “il diritto dell’autodeterminazione” ecc.».
Rosa Luxemburg era soprattutto una politica realista, con profonde
conoscenze storiche e delle situazioni politiche, economiche, sociali e
culturali che all’epoca determinavano lo schieramento delle forze sullo
scacchiere geopolitico in Europa e nel mondo. Sapeva dunque benissimo
che cosa significava “Ucraina” in quel periodo storico, anche se nella
purezza dei propri ideali del socialismo comunista non sospettava che molti
bolscevichi russi avessero due particolarità che li accomunavano agli eredi
polacchi delle rivolte antirusse e agli ucrainofili da questi ultimi creati, fino
a far coincidere i loro obiettivi riguardo alla questione ucraina: innanzitutto
tutti loro allo stesso modo temevano e odiavano la Russia e ciò che era
considerato russo; in secondo luogo erano mossi da un forte sentimento
irrazionale.

Tra i leader principali della POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico


Russo), quelli etnicamente russi erano ben pochi, mentre prevalevano ebrei
e polacchi. Costoro non potevano permettere che il nucleo etnico che
formava lo stato della Russia imperiale venisse trascinato nella
realizzazione della nuova realtà che stavano costruendo i bolscevichi. Nella
loro visione del paradiso comunista, l’etnia russa non doveva essere
dominante. La cultura russa per loro non era altro che l’espressione dello
sciovinismo, applicato ai danni delle minoranze etniche presenti sul
territorio dell’Impero russo. Proprio per questo motivo, nei primi due
decenni del potere sovietico i comunisti avevano sterminato fisicamente
tutti i maggiori rappresentanti della cultura russa, iniziando dal poeta e
scrittore Nikolaj Gumilëv e finendo con fior di filosofi, storici e letterati
uccisi in varie circostanze oppure costretti all’esilio.
È opportuno ricordare che questa tendenza a sterminare i russi è stata
invertita a discapito proprio degli ebrei e dei polacchi con l’arrivo al potere
di Iosif Stalin, che conoscendo bene le tendenze antirusse di molti
comunisti della “vecchia guardia” – interessante che Stalin definisse se
stesso “russo”, anche se etnicamente apparteneva al popolo georgiano –,
con i quali spesso era in totale contrasto, battezzò la propria carriera con
purghe violente e mai viste prima nell’apparato statale sovietico, nei servizi,
nell’esercito e nel partito. Dopo questo periodo, in URSS cominciò a girare
persino una barzelletta abbastanza cinica: «Il popolo ebraico ha due esodi
nella propria storia. Il primo lo ha condotto Mosè quando gli ebrei andarono
via dall’Egitto. Il secondo lo ha condotto Stalin, quando cacciò via gli ebrei
dal Partito comunista». Questo però non fa di Stalin un difensore dell’etnia
russa: semplicemente, a differenza di molti dei suoi compagni, aveva una
visione diversa del futuro socialista sovietico, fondato non sull’esportazione
della rivoluzione bolscevica nel mondo, ma soprattutto sulla ricostruzione
delle aree d’influenza dell’impero zarista, unite sotto una nuova forma
statale, legate da una nuova ideologia, secondo cui si dava particolare
attenzione proprio alla “questione nazionale”, concetto sul quale lo stesso
Stalin ha pubblicato un’opera teorica, Il marxismo e la questione nazionale
e coloniale, e secondo cui la moltitudine etnica dei popoli rappresenta il
motore principale per il sentimento internazionalista.

Nei primi due decenni che seguirono l’ascesa dei bolscevichi al potere, il
monolito etnico russo è stato diviso ufficialmente in tre parti, definite “tre
popoli fraterni”. Ovviamente in questa azione si intravvede anche l’antica
dottrina romana del divide et impera. La Russia, strappata a pezzi e gettata
nel fuoco della guerra fratricida, era più facilmente manovrabile, il popolo
indottrinato dalle nuove visioni politiche dei nuovi leader prendeva meno
iniziative, segregato com’era nelle proprie regioni, obbligato a seguire gli
ordini che impartiva il comitato centrale del Partito comunista.
In questa fase storica, sul territorio dell’attuale Ucraina è stata
largamente applicata la propaganda dei “due popoli separati”, attraverso
l’insegnamento è stata diffusa la lingua ucraina, concentrata in un unico
sistema linguistico, e la cultura ucraina è stata presentata come indipendente
da quella russa. E se l’idea dello spirito nazionale ucraino era senz’altro
dovuta al genio creativo di polacchi, austriaci e tedeschi, ad applicarla nella
realtà come un sistema politico-sociale sono stati i comunisti, prima sotto
Lenin e poi sotto l’attenta guida del “padre dei popoli”, come la propaganda
sovietica definiva Iosif Stalin.
Nel 1921, durante il suo discorso presso il decimo congresso del Partito
comunista sovietico, Stalin sottolineò che, «se nelle città e nelle campagne
dell’Ucraina ancora prevalgono gli elementi russi, allora nel tempo questi
luoghi verranno inevitabilmente ucrainizzati». E questa non è stata una
dichiarazione di poco conto. I comunisti hanno dovuto costruire la nazione
ucraina da zero in base alle complicate eredità zariste, compromesse dalle
ferite inguaribili dovute alle guerre, alle rivolte e allo spietato sfruttamento
classista sul quale era fondata la società dell’epoca e ulteriormente
compromesse dalla sua ricostruzione eccessivamente veloce, accompagnata
spesso da violenza nei confronti di chi si opponeva alle nuove riforme. In
effetti, l’evento storico sul quale così tanto si discute oggi nell’ambito della
Storia, chiamato da alcuni storici holodomor e da altri invece presentato
come uno degli episodi terrificanti della grande carestia che colpì gli
ambienti contadini su tutto il territorio della giovane Unione Sovietica,
provocando milioni di morti, è avvenuto, a grande linee, per colpa della
realizzazione forzata dei nuovi programmi politici che i bolscevichi
applicavano con la forza nelle campagne di tutto l’ex Impero russo.
Per questo motivo Stalin ha continuato la politica ucrainofila di Lenin,
dividendo la Russia una volta unita in blocchi, le cosiddette “repubbliche”
sovietiche, di fatto usando questa strategia per governare meglio una realtà
divisa e poco coesa, nella quale i popoli non potevano interagire a livello
nazionale, rimanendo confinati a livello locale. La politica di Stalin nella
difesa dell’“ucrainofilia” era contraddistinta da una rigidità inaudita.
Chiunque fosse sospettato di avere atteggiamenti, idee o anche solo un
sentimento negativo nei confronti della propaganda “ucrainofila” veniva
perseguitato dal sistema sovietico come nemico del proletariato, veniva
licenziato immediatamente dal luogo di lavoro, poi arrestato e nella gran
parte dei casi spedito ai lavori forzati. In quel periodo l’apparato
governativo sovietico è stato oggetto di una serie di purghe, sul territorio
dell’Ucraina venivano perseguitati i rappresentanti di stato sovietico che
non condividevano l’idea della ucrainizzazione della lingua, e i ruoli di
potere nel Partito comunista ucraino venivano assegnati ai “compagni” che
fedelmente seguivano la linea ucrainofila. Questo processo era oggetto di
un continuo controllo da parte del governo di Mosca mediante numerose
commissioni, che stendevano folti rapporti à la Tolstoj 6 dedicati a tutti gli
aspetti della vita sociale, culturale, economica e politica in cui veniva
applicato il processo di ucrainizzazione della Malorossia. Tutto il potere
dell’apparato partitico e della macchina governativa precipitò sulla
popolazione, specie su quella sua parte che era meno tentata da qualsiasi
visione politica, che sguazzava nella beata ignoranza e più di tutto aveva
timore della guerra e dell’instabilità, ragionando più secondo una logica di
sopravvivenza che con gli ideali. Proprio questa massa di ex cittadini
dell’Impero russo che abitavano in Malorossia, terrorizzati dagli orrori
bellici, dall’ingiustizia delle classi dominanti, dall’anarchia del periodo
post-rivoluzionario, dalle continue incertezze sul domani ha formato la base
per la nuova società che doveva in tempi rapidissimi diventare la nazione
ucraina. Con la tenacia e la spudoratezza che contraddistingueva i
bolscevichi, sono stati eliminati fisicamente o costretti all’esilio gli strati
sociali che rappresentavano i cittadini pensanti, informati, capaci di
formulare un pensiero autonomo sulla vita e sul futuro del loro paese in
base alla loro cultura e alle loro esperienze. Seguendo la nota e ambigua
citazione di Lenin, secondo la quale «la classe degli intellettuali rappresenta
l’escremento della società», i “compagni” la estirpavano con invidiabile
dedizione, finche la loro propaganda di ucrainofilia non è stata ampiamente
assorbita sul territorio dalla maggioranza dei sudditi del nuovo impero
sovietico.
Non a caso Michail Hruševs’kyj, quando tornò dal suo lungo esilio
passato in Galizia sotto l’ala protettiva austro-ungarica, scrisse: «Io qui mi
sento, nonostante tutte le mancanze, nella repubblica ucraina, che noi
abbiamo cominciato a costruire nel 1917 [l’anno della Rivoluzione
d’ottobre]».
Il popolo semplice, però, al primo soffio di questi “venti rivoluzionari”
non appoggiò l’ucrainofilia. Nel 1918, uno dei più attivi bolscevichi
impegnati nell’ucrainizzazione del Sudovest dell’ex Impero russo, il
commissario del popolo incaricato dal partito comunista ucraino di
coordinare il lavoro di istruzione, Volodymyr Zatonskij, descriveva il
proprio lavoro così: «Un’ampia fetta della popolazione mostrava il suo
disprezzo verso l’idea della fondazione dell’Ucraina. Perché lo facevano?
Perché all’epoca gli ucraini [si intende i propagandisti ucrainofili] stavano
dalla parte dei tedeschi, perché l’Ucraina strisciava da Kiev fino
all’imperialistica Berlino. Non solo i lavoratori, ma anche i contadini, quelli
che oggi si chiamano contadini ucraini, all’epoca non sopportavano gli
ucraini (noi abbiamo ricevuto a Kiev numerosi protocolli delle riunioni dei
contadini, in gran parte siglati dai capi dei villaggi con le firme di tutti i
partecipanti). In questi protocolli i contadini ci scrivevano: “Siamo tutti
russi e odiamo i tedeschi e gli ucraini e chiediamo di essere annessi alla
Repubblica Socialista Federativa Sovietica della Russia”».
I bolscevichi negli anni Venti del XX secolo costringevano i malorossi a
diventare ucraini. Il popolo inizialmente si opponeva, anche se non aveva
grandi strumenti per farlo. Capitava che in alcuni casi la popolazione
sabotasse apertamente le decisioni del Partito comunista e del governo
sovietico. Ovviamente questo indisponeva i leader dei bolscevichi.
«Miserabile e subdola tipologia di malorosso, che si vanta della sua
indifferenza a ogni argomento ucraino ed è pronto sempre a sputare su di
esso» si lamentava, rabbioso, in quegli anni durante una delle riunioni del
comitato centrale del Partito comunista sovietico Aleksandr Shumskij,
rivoluzionario ucraino di origini russe, uno dei più attivi promotori
dell’ucrainizzazione della Malorossia nel partito comunista. Non meno
estremo si esprime nei suoi diari il bolscevico e l’attivista ucrainofilo
Efremov: «Sarebbe necessario che venga sterminata l’intera generazione di
quegli schiavi obbedienti, abituati soltanto a scimmiottare gli hohol [il
termine leggermente dispregiativo con il quale storicamente venivano
definiti gli abitanti della Malorossia], invece di sentirsi ucraini in modo
organico». Nonostante questi feroci desideri del tipico bolscevico-leninista
di vecchia guardia, i malorossi non hanno smesso di esistere e non si sono
sentiti per niente «ucraini in modo organico», anche se quella definizione di
carattere etnico è stata attaccata a loro come un’etichetta durante l’epoca
stalinista. I “compagni” del Partito comunista sovietico hanno presto
compreso che lo spirito russo non si sarebbe arreso facilmente. Per questo
non bastava il terrore di massa applicato tramite le fucilazioni dei dissidenti
o il confinamento di questi ultimi nei campi di concentramento creati alla
maniera austriaca. Servivano strumenti più incisivi, non tanto atti a
reprimere quanto a modulare il tessuto sociale. Per questo motivo, a partire
dal 1925, i bolscevichi sul territorio dell’attuale Ucraina hanno formato una
classe dirigente composta da decine di migliaia di ucrainofili galiziani,
trasferiti per l’occasione e preposti a ruoli strategici di comando. Tra l’altro,
saranno proprio loro i maggiori responsabili dell’attuazione della politica
della collettivizzazione, in quanto esecutori fisici dei piani di consegna di
grano decisi da Mosca, che per ben due volte in un decennio ridussero alla
fame i contadini ucraini.
Nel processo di ucrainizzazione degli anni 1927-1933, si distingueva
Mykola Skrypnyk, il capo del Narkompros, ovvero il “Commissariato
popolare di istruzione”, una sorta di ministero d’Istruzione dell’epoca. Sotto
la sua attenta guida, il processo di ucrainizzazione della Malorossia
raggiunse dei risultati inimmaginabili, specie nell’ambito dell’istruzione.
Insieme ai suoi sottoposti faceva arrestare gli oppositori dai servizi di
sicurezza sovietici e spediva ai lavori forzati i professori universitari, gli
insegnanti e i dirigenti scolastici che non volevano accettare la politica
ucrainofila, difendendo la propria impronta russa. Lo stesso trattamento era
riservato agli scienziati malorossi che non seguivano la linea ucrainofila
stabilita dal Partito comunista.
In una delle sue lettere, Michail Hruševs’kyj, politico, attivista e primo
presidente ufficiale dell’Ucraina, in carica proprio grazie ai bolscevichi,
raccontava di quell’episodio con un certo entusiasmo, vantandosi che i
compagni sovietici avevano trasferito dalla Galizia cinquantamila persone
di spicco del movimento ucrainofilo, con le loro famiglie, per affidargli la
gestione di diverse strutture di primaria importanza nella nuova repubblica
sovietica ucraina. Oggi agli storici è chiaro che senza l’utilizzo di quegli
ucrainofili di Galizia, nati grazie alla propaganda polacca sostenuta dagli
austro-ungarici e dai tedeschi, e sviluppata ai livelli di uno stato con
l’impegno dei comunisti, la trasformazione della Malorossia nell’Ucraina
attuale sarebbe stata semplicemente impossibile.

Nell’Ucraina moderna, trasformata dalla becera e assurda propaganda


pro-atlantista in un territorio imperniato sui conflitti di carattere economico
ed etnico, è molto di moda dedicarsi con totale abnegazione a riti che
ricordano quelli tribali di esternazione dell’odio nei confronti di Stalin,
senza comprendere che, se non fosse per la sua ferrea volontà, oggi non
esisterebbe alcuna Ucraina, così come non esisterebbe il senso di
appartenenza al fantomatico “popolo ucraino”.
Tra l’altro, se si prendono in considerazione le inclinazioni
nazionalistiche sulle quali si fonda in gran parte l’identità ucraina, anche
dopo un’analisi poco approfondita si scopre che sono del tutto confuse,
contraddittorie e imperdonabilmente ambigue. Considerando il risentimento
storico degli abitanti di Kiev nei confronti dei “moscali” moscoviti, fondato
sulla profonda ferita d’orgoglio dovuta al fatto che dopo esser stata capitale
della Russia, la città di Kiev ha perso lustro, diventando la succursale di
Mosca, una zona di frontiera dell’impero di poca rilevanza, si può anche in
parte comprendere e accettare il senso di tale risentimento. Al contrario,
l’odio diffuso in Ucraina nei confronti dei polacchi e degli ebrei è
totalmente inspiegabile e non può essere fondato su nessuna base storica
legata alla formazione dello stato ucraino. Se non fosse per i polacchi, lo
stesso concetto di identità nazionale ucraina non esisterebbe, mentre se non
fosse per i rivoluzionari bolscevichi ebrei, l’Ucraina oggi esisterebbe come
una parte della Russia, chiamata Malorossia, divisa in regioni storiche che
portano i vecchi nomi imperiali, come è avvenuto per il territorio della
Federazione Russa.
Inoltre, proprio gli studiosi e intellettuali ebrei che abitavano in
Malorossia, che durante la Seconda guerra mondiale insieme a centinaia di
migliaia di rappresentanti del proprio popolo furono sterminati in massa in
Ucraina dai collaborazionisti dei nazisti di Hitler, ovvero dai nazionalisti
ucraini di Stepan Bandera, hanno dato il più grande contributo alla
creazione degli elementi costituitivi dell’identità ucraina come la lingua e la
letteratura. Se gli ucraini di oggi avessero avuto una memoria storica non
compromessa dalla propaganda, sulla famigerata piazza centrale di Kiev
che oggi, sfiorando il ridicolo, è chiamata “europea”, avrebbero dovuto
erigere un monumento dedicato a Lazar’ Moiseevič Kaganovič, ebreo e
primo vicepresidente del Consiglio dei commissari del popolo dell’URSS ,
che dedicò la vita a trasformare la Malorossia in Ucraina, di fatto
contribuendo alla diffusione di quel becero e ignorante nazionalismo e
suprematismo ucraino che di seguito portò al massacro degli ebrei.

Il periodo più complesso, radicale e intensivo dell’ucrainizzazione


sovietica degli anni Venti del secolo passato si svolse sotto l’attenta e
instancabile sorveglianza di Kaganovič. Storicamente parlando, era
senz’altro una personalità straordinaria, un uomo di mente acuta e tenacia
inflessibile. Rispetto alla dimensione del suo contributo all’ucrainizzazione,
tutti gli altri leader sovietici e personaggi del folclore storico-politico
ucraino perdono in partenza. I nazionalisti ucraini che oggi organizzano
parate con i ritratti di nazisti come Bandera o Choukhevytch, insieme al
poeta Ševčenko, dovrebbero mettere da parte quei personaggi e sfilare con i
ritratti dell’ebreo comunista Kaganovič, che di fatto ha reso reale il mito
etnico creato dai polacchi in base alle differenze regionali tra malorossi e i
loro fratelli russi.
Osservando quello che sta accadendo in Ucraina, però, si può affermare
che nemmeno i giganti della politica come Stalin e Kaganovič sono riusciti
a cancellare lo spirito di appartenenza, o spaccare le ossa alla cultura dei
malorossi. Diffuso per una decina di anni sulle punte delle baionette
dell’Armata Rossa e inculcato nelle teste dei contadini e lavoratori tramite
la repressione sovietica, questo fenomeno più politico che culturale ha
dovuto fare i conti con l’opposizione passiva delle masse popolari. Le
uniche basi dell’ucrainizzazione rimaste sono le definizioni “ucraino” sui
passaporti di alcuni cittadini sovietici e la lingua artificiale diffusa nelle
scuole in maniera obbligatoria.
Dopo gli anni Trenta del secolo scorso, quando Stalin rifiutò
definitivamente l’idea di Lenin sulla rivoluzione comunista mondiale, il
processo di ucrainizzazione della Malorossia si fermò. Il “condottiero del
proletariato mondiale” – come chiamavano Lenin i suoi contemporanei –
aveva iniziato questo pericoloso gioco dell’autodeterminazione nazionale di
tutti i popoli sfruttati dal sistema imperiale russo semplicemente perché
sperava che anche negli altri paesi, negli altri imperi capitalisti, le masse
nazionali si unissero a questo movimento di autodeterminazione per
aggregarsi all’Unione Sovietica, che doveva diventare, nella utopica visione
di Lenin, un’unione delle nazioni trasformate per via delle rivoluzioni
proletarie locali nelle repubbliche socialiste, guidate dal governo comunista
di Mosca.
Stalin era un politico realista e di talento e abbastanza presto capì che la
rivoluzione mondiale così come l’aveva ideata Lenin e i suoi vicini non
sarebbe mai avvenuta, perché non c’erano i presupposti geopolitici che
avrebbero favorito una simile azione su scala planetaria. Decise quindi di
trasformare l’Unione Sovietica nel potente impero dove governava il
proletariato, per difenderlo di fronte alla minaccia dei predatori capitalisti e
imperialisti che governavano nei paesi occidentali. Stalin decise di costruire
una fortezza comunista, mentre Lenin sognava un mondo unito in base al
sentimento proletario. Stalin sapeva di dover creare un paese
industrialmente forte e indipendente, capace di difendersi per decenni,
perché non ha mai avuto illusioni sulle relazioni con l’Occidente. Aveva
bisogno di uno stato forte, monolitico, con una ferrea disciplina e
un’ideologia totale e totalizzante come strumento di manipolazione delle
masse, aveva bisogno di un potere centralizzato e assoluto concentrato nelle
mani di una sola persona.

Il “popolo ucraino” era già stato creato, almeno nei rapporti redatti dai
leader del Partito comunista ucraino, quindi non c’era bisogno di continuare
con la politica di ucrainizzazione, che peraltro infastidiva il popolo. Del
resto Stalin, irritato dal comportamento “borghese” di alcuni leader del
Partito comunista ucraino, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso e
fino all’inizio della Seconda guerra mondiale, cercò di ripulire il partito
comunista ucraino da elementi che considerava deboli e nocivi per la lotta
proletaria. Il popolo malorosso ricominciò a respirare, soddisfatto, anche se
l’Ucraina, gli ucraini e la lingua ucraina sono rimasti, anche se ormai era
una propaganda blanda, specie nei territori storicamente abitati dai
russofoni, come ad esempio la parte sudorientale dell’Ucraina attuale.
Solo nel 1991, i politici ex comunisti che cambiando abilmente bandiera
diventarono i leader dell’Ucraina “indipendente”, appena staccata
dall’URSS , diedero il via al folle baccanale del nazionalismo ucraino
proponendolo nella sua forma più becera e ignorante, con gli elementi
caricaturali che tanto piacevano alle masse poco istruite, mentre i loro nuovi
leader da una parte disconoscevano i beni comuni, che erano stati creati nel
periodo socialista e che fino a prova contraria appartenevano al popolo
ucraino, dall’altra ambivano a impadronirsene.
Purtroppo in quel periodo per l’Ucraina non esisteva alcuna alternativa
politica. Quando la dirigenza partitica e amministrativa all’improvviso
scoprì di essere indipendente dal controllo dell’apparato statale e del
comitato centrale del Partito comunista di Mosca, di poter gestire enormi
risorse e ricchezze costruite con i soldi di tutto il popolo dell’URSS , capì che
la tenuta della sua “indipendenza” non solo di fatto, ma anche nella
situazione reale, aveva bisogno di fondamenta ideologicamente opposte a
quelle che prima vedevano i valori del socialismo sovietico come regole
universalmente condivisibili da tutti i livelli della società. Non si
formularono nuove idee, si rispolverarono soltanto le vecchie forme
separatiste polacco-austro-ungarico-tedesche, lucidate alla perfezione dal
potere sovietico negli anni Venti del Novecento e dagli ideologi del
nazionalismo ucraino di OUN-UPA negli anni Trenta-Quaranta e dai
dissidenti sovietici simpatizzanti per gli ucrainofili negli anni Sessanta-
Settanta. La classe dirigente, così come il popolo ucraino, a livello culturale
non era pronta per l’indipendenza, capitata sulle loro teste come neve
d’estate. Nessuno sapeva esattamente cosa fare di questa “conquista”
democratica. Le grandi idee sull’indipendenza si inventavano strada
facendo, mentre si masticavano gli hamburger di Mac Donald’s e
assaporando la Coca-Cola, all’epoca i simboli principali dei valori
occidentali.

Dopo la dichiarazione d’indipendenza del 1991, sull’onda della


propaganda di massa, c’è stato un nuovo e forte rigurgito di ucrainofilia,
con la conseguente forzata ucrainizzazione della popolazione. Verso la fine
degli anni Novanta, però, i nazionalisti ucraini sono tornati alla loro
condizione abitudinaria, ovvero ai raggruppamenti marginali di carattere
estremista, inquadrati come una delle tante realtà di un paese libero e
democratico, all’interno del quale hanno assunto il ruolo di partiti urlanti-
aggressivi che si guadagnavano il consenso di una vasta categoria di
cittadini inclini alla politica da divano. Nonostante tutto, l’ambiente
culturale e mentale malorosso ha dissolto in maniera naturale nella propria
società il corpo estraneo della cosiddetta “ucrainofilia” per poi esportarlo
fuori dal proprio organismo come un escremento, rifiutando tramite il
sabotaggio di massa l’ennesimo programma di ucrainizzazione. I russi in
Ucraina sono rimasti russi, nonostante l’esaltazione dei nazionalisti,
nonostante i massacri dei battaglioni neonazisti, nonostante le minacce dei
paesi occidentali. La loro naturale e comprensibile volontà di essere se
stessi si è rivelata nella capacità di difendere i valori del proprio mondo
persino imbracciando le armi. I malorossi continuano a essere se stessi,
nonostante la propaganda del “movimento nazionale” ucraino, nonostante i
tentativi del governo di Kiev di “uccidere nei cittadini i moscali”.
Infatti, il 23 febbraio 2014, subito dopo il colpo di stato in Ucraina
conosciuto come Euromaidan, il parlamento ucraino Verhovnaya Rada ha
votato per sospendere la legge Sulle basi della politica statale linguistica
che riconosceva alla lingua russa lo statuto di lingua regionale. Proprio il
divieto del nuovo governo ucraino di usare la lingua russa alla pari di quella
ucraina ha suscitato nelle regioni dell’Est l’indignazione dei cittadini
ucraini russofoni.

1. “Klassno” in russo, espressione gergale equivalente al “figo” in italiano.


2. La Polonia sta riconoscendo a molti ucraini delle zone dell’Ovest la cittadinanza polacca, per poter
più avanti usare la presenza dei cittadini polacchi sul territorio ucraino come una delle motivazioni
di annessione delle regioni dell’Ovest.
3. Uno degli obiettivi politici dei nazionalisti ucraini è occupare militarmente la Russia e annientare
fisicamente quei russi che loro considerano “meticci”, ovvero mischiati con gli asiatici.
4. Aleksandr Herzen era un uomo politico e letterato russo che aveva simpatizzato per la rivoluzione
polacca.
5. Intesi come i territori passati sotto l’influenza della Polonia durante il regno della dinastia reale
degli Jagelloni, che avevano ideato il concetto conosciuto nella Storia come “l’idea jagellona”, in
polacco idea jagiellonska, secondo la quale sostanzialmente l’influenza politica, culturale e
militare polacca doveva diventare il motore della realizzazione del concetto della fondazione dello
stato-impero federale, che doveva inglobare i territori nei quali attualmente si trovano Lettonia,
Bielorussia e Ucraina. La creazione di un impero multiculturale e multiconfessionale secondo la
dottrina dell’idea jagellona trovava il suo nemico naturale nella vicina Russia dell’epoca, che a sua
volta aveva le proprie ambizioni imperiali.
6. In Russia, quando si vuole ironizzare sul fatto che qualcuno scriva molto, lo si paragona a Tolstoj.
SECONDA PARTE
L’INDUSTRIA UCRAINA ERA GIÀ FALLITA PRIMA DELLA
GUERRA
Per comprendere le dimensioni della tragedia in Ucraina è necessario
risalire alle cause che determinarono il crollo economico, politico, culturale
e sociale che ha visto il paese dividersi in due parti, che dal 2014 sono
effettivamente in guerra. Il problema più grande della lacerazione
dell’Ucraina non è riconducibile solo a ragioni etniche, esageratamente
gonfiate e che in altre circostanze si ridurrebbero a una classica differenza
regionale, diluita ulteriormente da una buona dose di ignoranza e di becero
campanilismo.
La spaccatura del sistema in Ucraina è dovuta soprattutto alle differenze
che ci sono tra diverse culture del lavoro e organizzazione dell’impianto
industriale. Mentre nelle regioni del Sudest, storicamente luoghi
industrializzati, i sindacati sono forti – fattore sociale che non va
assolutamente sottovalutato e che fa parte del quadro evoluzionistico della
società del Donbass, dove la gente è abituata a legare il proprio destino alla
realizzazione professionale presso le strutture industriali, e dove esiste una
forma di aggregazione sindacale creata durante l’epoca sovietica – nelle
regioni dell’Ovest questa mentalità è quasi assente, e prevale invece una
visione più strettamente legata agli affari e alla speculazione, più vicina ai
valori del capitalismo occidentale. Il confronto tra questi due mondi ha
portato dai primi anni dell’indipendenza dell’Ucraina dall’URSS la società
verso una spaccatura.
Gli oligarchi che privatizzarono le fabbriche e gli impianti industriali
d’importanza strategica non erano veri e propri imprenditori, che di solito
hanno la cultura e le capacità di gestire simili strutture, ma degli
amministratori. Gli oligarchi ucraini sono in gran parte speculatori usciti
dalla spartizione del paese tra bande criminali avvenuta negli anni Novanta.
E se in Russia lo stesso fenomeno è stato fermato dalla politica autoritaria e
dittatoriale di Putin, che riportò le strutture di importanza strategica sotto il
controllo dello stato, eliminando, in pratica, gli oligarchi (spesso anche
fisicamente), in Ucraina è avvenuto il contrario, ovvero l’oligarchia ha
preso il controllo sullo Stato e di conseguenza ha iniziato a gestire gli
impianti industriali in base ai propri interessi personali.
Questo sistema, come ovvio, è risultato fallimentare perché, occupandosi
soltanto del profitto e non avendo reali competenze per gestire al meglio
un’industria, non ha investito nell’ammodernamento degli impianti, di fatto
condannando il paese alla recessione. I prodotti ucraini non sono più
concorrenziali rispetto ai prodotti di altri paesi. Ne consegue che nel
tentativo di rimanere sul mercato, visti gli alti costi di produzione, i salari
dei lavoratori sono stati ridotti, insieme ai loro diritti, fino a che la
produzione è diventata insostenibile e l’intero impianto industriale è andato
verso la totale rovina. Questa è una delle principali cause della mancanza di
fiducia nel governo centrale da parte dei cittadini che vivono nelle zone
industrializzate.

Ai tempi dell’Unione Sovietica, la base mineraria e metallurgica


dell’Ucraina produceva più del 40% di tutti i prodotti in ghisa, acciaio e
laminati sovietici. In termini di produzione del metallo, nonché di
estrazione di ferro e manganese, la produzione sul territorio della
Repubblica Sovietica Ucraina era al primo posto in Europa. Fino a 2014, in
termini di produzione, la metallurgia era al primo posto tra i settori
industriali dell’economia ucraina, e contava 365 imprese.
Inoltre, secondo le statistiche, le imprese minerarie e metallurgiche
ucraine contribuivano in termini di produzione al 27% circa del PIL del
paese e assicuravano più di 500.000 posti di lavoro.
Nel 2004, anno relativamente prospero e stabile, quando il prezzo del
metallo era in costante aumento sui mercati mondiali, il metallo e i suoi
derivati rappresentavano quasi il 43% dell’ammontare delle materie prime
delle esportazioni ucraine.
Nel 2007, l’Ucraina si è classificata all’ottavo posto nel mondo tra i
maggiori paesi produttori di acciaio.
E non a caso. Sul territorio ucraino ci sono giganteschi giacimenti
minerari di ferro. Secondo la United States Geological Survey, l’Ucraina è
al primo posto al mondo in termini di riserve esplorate, al terzo dopo Russia
e Australia in termini di riserve di ferro puro e al settimo in termini di
riserve accertate di carbone.
Da vent’anni a questa parte, il complesso minerario e metallurgico
dell’Ucraina sta andando gradualmente e inesorabilmente verso la sua fine.
La crisi globale ha solo accelerato questo andamento.
Tale inesorabilità è dovuta a svariate ragioni. La prima e più importante è
il deterioramento da usura degli impianti minerari e metallurgici
dell’Ucraina. Secondo il ministero delle Politiche industriali, è del 65%
(esperti indipendenti affermano che questa cifra sia vicina all’80%). In
particolare, il tasso di usura delle batterie di coke è del 54%, degli altiforni
dell’89%, dei forni a suola aperta dell’87%, dei convertitori del 26% e dei
laminatoi del 90%. Questa situazione è la conseguenza naturale di un fatto:
fino al 2014 in Ucraina, in media, solo lo 0,5% dei profitti è stato stanziato
annualmente per l’ammodernamento degli impianti industriali, contro il 6-
7% richiesto. Cioè, nella migliore delle ipotesi, il denaro è stato utilizzato
solo per le riparazioni urgenti e non per l’ammodernamento.

In cosa si traduce tutto questo? Ad esempio, nel fatto che il consumo di


coke nella produzione di una tonnellata di ghisa in Ucraina sia di 554,3 kg
contro i 250-350 kg dei paesi occidentali. L’utilizzo del minerale negli
stabilimenti ucraini è in media del 10% superiore rispetto alla produzione
metallurgica in altri paesi. La quota del consumo di gas naturale è di 88,6
metri cubi per tonnellata di ghisa fusa. E questo nonostante il fatto che in
Occidente il gas non sia affatto utilizzato nella metallurgia. Secondo gli
esperti, a causa del basso livello tecnologico della produzione ucraina nelle
imprese metallurgiche, per produrre una tonnellata di acciaio servono 52,8
ore di lavoro, mentre in Russia ce ne vogliono 38,1 e in Germania ne
bastano 16,8.

L’ultima modernizzazione su larga scala delle principali imprese


metallurgiche dell’Ucraina risale al triennio 1986-1989. L’importo totale
degli investimenti sovietici nell’industria (a prezzi correnti) equivale a 15
miliardi di dollari USA (!). Inoltre, questo denaro non è stato utilizzato per
aumentare i volumi di produzione, ma per modernizzare le apparecchiature
e introdurre tecnologie per il risparmio di risorse ed energia. Da quel
momento, gli impianti non sono stati più adeguati agli standard tecnologici
e molti gruppi finanziari e industriali ucraini li hanno acquisiti per ottenere
un profitto immediato. Spremendo tutto il possibile dai macchinari e dalle
persone, caricando di debiti le imprese, rendendole non concorrenziali, i
proprietari privati ucraini non hanno fatto altro che abbandonare le
fabbriche al loro destino. Con tale svalutazione degli impianti, non stupisce
che la produzione si interrompa.

Trovo esilarante che anche durante gli anni della pioggia di crediti
multimiliardari (versati dall’Occidente dopo la “rivoluzione arancione”) e
dei superprofitti a lungo termine dell’industria (dal 2002 al 2008), le
acciaierie non abbiano ricevuto gli investimenti necessari per
l’ammodernamento, accontentandosi delle briciole finanziarie che cadevano
dalla ricca tavola dei loro proprietari. Ad esempio, nella stessa Russia, nel
periodo suddetto, l’industria è stata in grado di ridurre dal 25 al 10% la
quota di forni a suola aperta ad alta intensità energetica. Durante questo
periodo, in Ucraina non è stata chiusa una sola fabbrica che utilizzasse
questo tipo di forni per la produzione.

I 15 miliardi di dollari di investimenti sovietici (“coloniali” per usare il


termine della propaganda di Kiev) investiti nella metallurgia ucraina alla
vigilia del crollo dell’URSS sembrano mirabolanti e ingenti se confrontati
agli investimenti nazionali ucraini. L’intero volume di questi magri
investimenti è andato all’ottimizzazione dei processi tecnologici e
all’aumento dei volumi di produzione. E questo è tutto.

Dove sono finiti i superprofitti della metallurgia ucraina durante il


periodo di maggiore domanda dei suoi prodotti sul mercato mondiale, se
non è stata effettuata la modernizzazione della produzione? La risposta è
semplice e inequivocabile: sono andati offshore, sui conti dei “baroni
metallurgici” ucraini. Così, la famiglia di Rinat Akhmetov, secondo le stime
della “TOP-50 miliardari ucraini” della rivista «Forbes», ha raddoppiato la
sua fortuna dal 2007 al 2008, raggiungendo 31 miliardi di dollari nel giugno
2008. Victor Pinčuk possiede un patrimonio da 8,8 miliardi di dollari (nel
2007 ammontava a 7 miliardi). Ihor Kolomojs’kyj arriva a 6,55 miliardi (un
anno prima aveva tre miliardi in meno). È facile comprendere che la rapida
crescita di capitali degli oligarchi ucraini è inversamente proporzionale alla
svalutazione della strumentazione materiale e tecnica dei loro impianti.
Il denaro veniva investito allora solo in ciò che poteva salvare la
produzione da un completo arresto e fallimento. Ad esempio, nei progetti
per il lancio di impianti per il soffiaggio di carbone polverizzato negli
altiforni. Con l’inasprimento dei rapporti con la Russia a cavallo tra la
prima (2004) e la seconda (2014) rivoluzione di piazza Maidan, è diventato
chiaro anche ai più avidi e stolti che il gas russo non sarebbe più stato a
buon mercato, e ciò significava che il suo ulteriore utilizzo negli altiforni
avrebbe danneggiato la produzione di ghisa.
Fino alla primavera del 2009 (quando le tecnologie di iniezione di
carbone polverizzato sono state introdotte negli altiforni n. 1 e 5
dell’impianto metallurgico di Alčevs’k), solo un altoforno, il n. 2 di
Donetskstal, funzionava con un combustibile di carbone polverizzato in
Ucraina. Ma è interessante notare che lo stabilimento di Donetsk è stato
anch’esso costruito prima del crollo dell’Unione, nel 1980, e rientra perciò
in una delle tante “pesanti eredità del regime coloniale sovietico”. E se
all’epoca del comunismo il sistema socialista garantiva che dei proventi di
tali impianti beneficiassero tutti i cittadini, nell’epoca post-sovietica ad
arricchirsi sono soltanto gli oligarchi ucraini.

Nel 2009 i proprietari dell’impianto metallurgico di Zaporizhstal e dello


stabilimento metallurgico di Mariupol, per molti anni rimasto intitolato alla
memoria di Vladimir Lenin, hanno dichiarato di voler seguire anche loro il
passaggio dal gas al carbone. Le intenzioni dei singoli, però, sembrano non
contare più… L’unica cosa che conta è che nel 2009 su 43 altiforni solo 3
lavoravano a carbone polverizzato (!). Dopotutto, ciò avrebbe richiesto –
come ha affermato una volta il ministro della Politica industriale ucraino –
l’investimento di 6-8 miliardi di dollari americani. Nel 2010, l’Ucraina
doveva restituire agli Stati Uniti in totale più di 20 miliardi di dollari.
La produzione della maggior parte degli altiforni in Ucraina, quindi, è
stata interrotta non a a causa della recente invasione russa, ma molto prima,
addirittura prima della seconda rivolta di piazza Maidan del 2014, per colpa
di un’avida gestione dell’impianto metallurgico da parte degli oligarchi che
agiscono contro gli interessi nazionali, tenendo conto soltanto del proprio
profitto e in questo modo condannando il paese alla miseria.

Anche la situazione delle acciaierie ucraine si è deteriorata ben prima


dell’inizio delle attività belliche, perché il 50% di tutto l’acciaio prodotto
nel paese viene lavorato in forni a focolare aperto ad alta intensità
energetica. All’estero questo tipo di forni sono stati abbandonati da tempo,
e si è passati a forme di fusione dell’acciaio ad alta efficienza energetica.
Da quando il prezzo del gas russo è aumentato, la chiusura dei forni a
focolare aperto ucraini è diventata semplicemente inevitabile. Nel 2008, la
produzione di acciaio a focolare aperto nella produzione complessiva di
acciaio in Ucraina è diminuita dal 50% al 41% e nella prima metà del 2009
si è ridotta al 30% (quasi la metà dei forni è stata dismessa).
Tuttavia, l’inevitabile riduzione su larga scala della produzione di acciaio
non è più di grande importanza per l’industria. Con il forte calo della
produzione di ferro, dovuto al fatto che la maggior parte dei forni non sono
più in attività, una parte significativa dei forni per la produzione di acciaio
non sarà più necessaria.
In questa situazione, parlare di uno scarso impiego del metodo per
raffinare la fusione mediante fusione in acciaio attraverso un convertitore di
ossigeno puro, in generale, è già privo di senso. Per qualche tempo, sullo
sfondo dello spegnimento dei forni a focolare aperto, l’uso dei forni elettrici
ad arco sarà vantaggioso. Ma i costi sono destinati ad aumentare per la
domanda dei rottami metallici necessari al loro funzionamento. Le
significative perdite finanziarie dovute all’intensità energetica
inaccettabilmente elevata della produzione metallurgica ucraina sono
attualmente compensate dalle materie prime presenti sul territorio,
abbastanza economiche.

Tuttavia, questa situazione sta gradualmente cambiando in peggio per il


produttore ucraino. I prezzi dei contratti mondiali per il minerale di ferro
sono oggi inferiori rispetto agli anni precedenti. Se all’inizio dell’agosto
2009 il prezzo del minerale di ferro sui mercati mondiali era in media di 90
dollari USA per tonnellata, nelle prime due settimane di settembre è sceso a
60. E a quanto pare questo non è il limite. Il «Wall Street Journal Europe»,
citando i partecipanti ai colloqui multilaterali tenutisi tra i produttori
mondiali di acciaio e le società minerarie, prevedeva che il prezzo medio
mondiale del minerale di ferro nel 2009 sarebbe stato di $ 40-45 per
tonnellata, ovvero la metà del prezzo del 2008.
Questo è un punto molto importante, dal momento che in Ucraina a
settembre il prezzo del concentrato di minerale di ferro è salito a $ 40-45
sul mercato interno. Allo stesso tempo, va tenuto conto che la qualità del
minerale ucraino è significativamente inferiore agli analoghi stranieri e per
il produttore ciò significa un consumo aggiuntivo di carbon coke. Una
diminuzione dell’1% del contenuto di ferro nel minerale porta a un aumento
dei costi energetici dell’1,1%. Il contenuto di ferro nelle materie prime del
minerale di ferro ucraino è del 53-63%. Per i produttori brasiliani e
australiani è invece del 67%. Al momento, è già più redditizio per le
imprese metallurgiche ucraine acquistare minerale di ferro in Russia che sul
mercato interno. I metallurgisti ucraini nel maggio 2009 hanno aumentato le
loro importazioni dalla Russia di quasi il 60%.

Anche con il coke si è creata una situazione difficile, senza la quale la


produzione di metallo è impossibile. In Ucraina non c’è abbastanza carbon
coke per la produzione metallurgica. I metallurgisti ucraini hanno bisogno
di circa 30-32 milioni di tonnellate di concentrato di carbon coke all’anno,
di cui l’Ucraina non può fornire più di 17-18 milioni di tonnellate, quindi i
produttori di coke ucraini generalmente lo acquistano in Russia. In rapporto
al consumo interno di carbon coke, la quota di carbone russo si sta
rapidamente avvicinando al 30%, ovvero il livello massimo consentito. Il
punto è che il costo del coke è di circa il 20% rispetto al costo generale dei
prodotti siderurgici.
Del resto, il problema non è nemmeno questo, piuttosto il fatto che la
Russia stessa, a causa dello sviluppo intensivo della metallurgia, è carente
di coke. I russi si vedono così costretti a ridurne l’esportazione. I maggiori
produttori di metallo russi hanno chiesto al vice primo ministro russo di
limitarne l’esportazione. Per far fronte al problema, sono poi stati introdotti
costi aggiuntivi o dazi all’esportazione (75-85%). Anche il carbon coke
russo è quindi diventato inaccessibile per le imprese ucraine.
Naturalmente l’Ucraina avrebbe potuto diversificare le forniture.
Importanti esportatori globali di carbon coke sono gli Stati Uniti, il Canada
e l’Australia. Dai primi due l’Ucraina importa materie prime, ma molti
esperti ritengono che l’Australia sia il fornitore più promettente. Questo
paese ha le maggiori riserve di carbon coke di alta qualità, che viene
estratto in condizioni minerarie e geologiche relativamente favorevoli.
Inoltre, le imprese impegnate nella sua estrazione si trovano vicino alla
costa orientale del paese, dove ci sono anche i maggiori terminal di carico
del carbone.

E qui veniamo a un altro dei grandi problemi: i porti ucraini (quelli che
attualmente sono ancora controllati dal governo di Kiev) non si trovano in
acque profonde e non possono ricevere navi con un peso morto superiore
alle 100.000 tonnellate, ovvero l’infrastruttura portuale semplicemente non
è in grado di ricevere il volume richiesto di carbon coke d’oltremare. Prima
della guerra, i metallurgisti ucraini importavano il carbone nei porti stranieri
in acque profonde (il più delle volte il porto rumeno di Costanza), e poi da
lì il carbone veniva consegnato all’Ucraina su navi adatte per le acque poco
profonde. È chiaro che una tale filiera aumenta notevolmente il costo di
produzione. Pertanto, non sembra essere neanche questa una buona
soluzione. L’unica via d’uscita è la costruzione di porti in acque profonde e
nessuno li costruirà finché esisterà il progetto Ucraina, perché potranno
essere costruiti solo con finanziamenti russi e grazie alle autorizzazioni
anche dei russi, essendo sul Mar nero.
Vale la pena ricordare che l’Ucraina negli anni che hanno preceduto
l’inizio del conflitto con la Russia esportava metallo prodotto con crescente
bassa qualità. La quota di semilavorati sul totale delle esportazioni ucraine
di prodotti in metallo ha raggiunto il 55,1% nel 2009 (45,7% nel 2008). Il
costo di tali prodotti sul mercato mondiale è da 1,5 a 3 volte inferiore a
quello dei prodotti ad alto valore aggiunto. Questa tendenza è una
conseguenza della bassa qualità dei prodotti ucraini con un valore aggiunto
più elevato, nonché del loro costo relativamente alto. Poiché ogni unità di
elaborazione della metallurgia ucraina è più costosa di quella dei suoi
concorrenti, anche il prodotto finale è più costoso.
In parte i proprietari delle imprese metallurgiche compensano questi
problemi con i bassi salari dei loro lavoratori. Come ha affermato Julija
Tymošenko: «Lo stipendio di un metallurgista ucraino è quasi tre volte
inferiore allo stipendio di un metallurgista russo e polacco e quasi nove
volte inferiore allo stipendio di un metallurgista tedesco». Tuttavia, è
improbabile che ciò abbia un impatto positivo significativo sulla redditività
dell’industria metallurgica in Ucraina, di cui ormai il fallimentare governo
di Kiev ha quasi perso il controllo. Secondo i dati ufficiali, nel 2005, grazie
al gas russo a buon mercato, la redditività dell’industria metallurgica in
Ucraina era del 18-20% (secondo dati non ufficiali ammontava al 35-40%!),
mentre prima dell’inizio della guerra con la Russia era drasticamente scesa
al 3-5%. Alcune imprese erano già da tempo in perdita finanziaria.
È necessario aggiungere che oltre al mancato rinnovamento materiale e
tecnico dell’industria metallurgica ucraina, per quasi trent’anni, sia a livello
di singole imprese che a livello di settore nel suo complesso, c’è stato un
intenso depauperamento delle risorse umane. Già nel 2020, la metallurgia
ucraina mostrava una carenza di lavoratori e ingegneri altamente qualificati.
Il personale altamente qualificato, preparato ai tempi dell’URSS , sta
diventando vecchio, ma non ci sono nuove leve pronte a sostituirlo perché
sia l’istruzione nel suo complesso, sia i corsi di formazione e di
specializzazione non sono più all’altezza. La metallurgia dell’Ucraina sta
perdendo colpi non solo quanto a risorse umane e competenze, ma anche in
termini di qualità.

Quindi riassumendo per sommi capi, prima della guerra russo-ucraina


l’industria mineraria e metallurgica ucraina presentava:

– usura avanzatissima del materiale, al 65-80%;


– un livello tecnologico arretrato di sessant’anni rispetto agli standard
mondiali esistenti;
– estrema dipendenza dai vettori energetici esteri;
– prodotti a bassa tecnologia e di bassa qualità;
– consumo di energia che supera di dieci volte gli indicatori occidentali;
– una grave carenza di risorse finanziarie e di personale qualificato.

È facile capire che la metallurgia ucraina poteva respirare solo durante i


periodi di domanda speculativa per i suoi prodotti (come è successo dal
2002 al 2008), che arrivavano a “gonfiare” i prezzi dei metalli due volte più
del loro effettivo costo. Secondo Tüpras Capital, il costo di produzione di
una tonnellata di preparativi o lastre nell’ottobre 2015 in vari stabilimenti
siderurgici ucraini variava circa tra i 620 e i 690 dollari USA . Mentre quando
nel giugno 2008 le lastre sono state vendute all’estero a $ 1.300 per
tonnellata e il tondo per armatura a $ 1.550, tutto andava bene. Non appena
il costo dei pezzi grezzi sul mercato mondiale è sceso al livello di 340-365
dollari per tonnellata, gli stabilimenti ucraini hanno cominciato ad andare in
perdita e ridotto di tre volte la produzione, ritardando il momento di
chiudere le imprese nella speranza che i prezzi mondiali dei metalli
crescessero nuovamente.
Così, se i prezzi sul mercato mondiale vanno fuori scala, gli oligarchi
Akhmetov, Pinčuk, Kolomois’kyi, Hajduk e altri si godono gli strabilianti
profitti delle sedi offshore. Non appena la situazione sul mercato mondiale
torna al suo corso naturale, la leadership delle imprese metallurgiche
ucraine inizia a lamentarsi della difficile situazione, chiedendo aiuti al
governo e salvando le imprese a spese dei contribuenti.
Al momento, il costo del metallo russo e turco è già inferiore a quello
ucraino. Ovvio quindi che l’Ucraina stia miseramente perdendo non solo la
guerra per il territorio sul campo di battaglia, ma abbia già perso la gara di
concorrenza sul mercato globale delle materie metallurgiche, nonostante le
condizioni favorevoli che avrebbe potuto sfruttare per la loro produzione.
Inoltre, c’è un ulteriore un lato “oscuro”. A causa della corruzione
diffusa nei sistemi di controllo finanziario ucraino, nessuno sa davvero
quanto guadagni in realtà questo settore. Si può solo immaginare il suo
ammontare e dove vadano a finire i soldi guadagnati. In questo caso, si
tratta di ingenti somme di denaro ricavate dalla vendita di metallo e portate
illegalmente all’estero. Per quanto riguarda gli affari degli oligarchi
Akhmetov, Pinčuk, Kolomojs’kyi, Hajduk e degli altri, lo stato ucraino è
cieco, sordo e muto. Strategie per l’esportazione illegale di denaro ce ne
sono moltissime.
Un esempio lampante è rappresentato dallo stabilimento metallurgico di
Dnipro. Per molti anni ha dichiarato la sua non redditività, sebbene il
volume della sua produzione, paradossalmente, fosse in continua crescita.
Questa strana “non redditività” non ha impedito a Kolomojs’kyj nel
dicembre 2007 di vendere con profitto l’impianto alla società russa EVRAZ .
Pertanto, si può affermare che sia l’Ucraina che la sua industria
metallurgica perdono miliardi di dollari ogni anno, miliardi che in realtà
entrano illegalmente grazie alle società offshore nelle “tasche” di coloro che
effettivamente possiedono la società chiusa per azioni “Ucraina”.

Con tutti i loro “proclami” d’amore verso la patria, i rappresentanti del


grande business ucraino, una volta privatizzato il paese, stanno
metodicamente esportando capitali all’estero, senza legare il loro futuro allo
stato. Di fatto, sono trent’anni che drenano risorse materiali ed energie
umane.
Così, Akhmetov si comprò fabbriche in Italia e Gran Bretagna. Taruta e
Hajduk lo fecero in Polonia e Ungheria. Kolomojs’kyj in Bulgaria, Polonia,
Romania e Australia. E Pinčuk ha portato la quota delle sue attività ucraine
al 50% nel 2012, diversificando il resto all’estero.
Se nei primi anni dell’indipendenza ucraina il denaro veniva esportato
illegalmente, ora lo è ufficialmente, attraverso l’acquisto dei beni. Negli
ultimi anni gli investimenti diretti e ufficialmente dichiarati dall’Ucraina a
Cipro sono aumentati fino a 580 volte (!). Solo Akhmetov ha portato
all’estero in un anno 5 miliardi e 300 milioni di dollari. E questo nonostante
il fatto che le sue imprese in Ucraina richiedano enormi investimenti nella
modernizzazione degli impianti, peraltro a oggi inutili dato che questi
stabilimenti si trovano nei territori occupati dai russi. Nelle condizioni
attuali non è quindi redditizio per le imprese ucraine investire nel settore
metallurgico.
Coloro che consideravano, prima della guerra tra Ucraina e Russia, la
nazionalizzazione della metallurgia una via d’uscita dalla situazione
disastrosa nella quale ha iniziato a precipitare l’industria ucraina dopo il suo
distacco dal’URSS , purtroppo sono rimasti delusi. Prima della
privatizzazione, quando le fabbriche erano gestite da direttori nominati dal
governo, le cose andavano anche peggio. La mentalità di un amministratore
delegato del governo ucraino non è diversa dalla mentalità di un capitalista
ucraino. La psicologia e le motivazioni sono identiche, solo i metodi per
depredare le imprese sono leggermente diversi. Gli incaricati del governo,
chi gestiva gli impianti industriali ucraini, vendevano sottobanco i prodotti
ai commercianti di metalli a prezzi ridotti. Una sete di profitto che hanno
attribuito alla crisi del settore. Dopo la privatizzazione, la situazione è
leggermente migliorata, qualcosa ha cominciato a tornare nelle casse dello
stato, ma il problema non è stato risolto in via definitiva, perché i funzionari
statali ucraini continuano ad attingere a piene mani dall’industria, rifocillati
dagli oligarchi, che si assicurano in questo modo l’omertà rispetto alle loro
azioni illegali. Sembrano a loro agio nella situazione in cui si trova il paese,
perché tutti seguono la linea del profitto e nessuno pensa agli investimenti a
lungo termine.

Cosa accadrà alla metallurgia ucraina alla fine della guerra? Ovviamente
tutto dipende dall’esito del conflitto ancora in atto, però è chiaro che la
metallurgia, che si era ridotta fino ad assumere dimensioni davvero
insignificanti già prima del conflitto per colpa della gestione predatoria,
“rimpicciolirà” in modo ancor più significativo sia nella scala della
produzione che in termini di profitto. Le imprese del settore che hanno
definitivamente perso redditività hanno chiuso per sempre i battenti. Le
acciaierie deboli, a basso margine e non integrate (non facenti parte di cicli
di produzione chiusi) verranno acquistate a prezzi stracciati oppure
semplicemente demolite. È facile capire che l’industria metallurgica ucraina
sia di grande interesse per il business metallurgico russo. Considerando
l’attuale situazione di guerra, per le società russe le possibilità di rilevare le
imprese ucraine per una serie di motivi sono molto più elevate rispetto ai
concorrenti occidentali.
In precedenza, il processo di assorbimento delle società ucraine da parte
di quelle russe avveniva secondo lo schema elaborato dal gruppo EVRAZ e
Privat: alla fine del 2007 gli imprenditori russi Roman Abramovich e
Alexander Abramov hanno acquistato le attività minerarie e metallurgiche
del gruppo finanziario e industriale dell’oligarca ucraino Ihor
Kolomojs’kyj, finanziatore tra l’altro della campagna elettorale del
presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj. Quindi la procedura di vendita
era già stata testata, i meccanismi di transizione erano più che funzionanti,
anche se è chiaro che nello scenario di guerra attuale tutti questi schemi
perdono la loro valenza.
L’assorbimento dell’industria da parte della Russia prima dello scoppio
della guerra avrebbe significato una nuova fase nell’ottimizzazione
finanziaria ed economica delle imprese ucraine, consentendo senz’altro di
salvarle dall’inevitabile fallimento. È chiaro però che queste imprese quasi
sicuramente avrebbero operato non più negli interessi del governo ucraino,
in quanto inglobate nel sistema economico russo. Tuttavia il fallimento
economico attuale delle imprese metallurgiche ucraine, in parte dovuto alla
cattiva gestione delle imprese e in parte al colpo di grazia ricevuto dalla
guerra, ha causato la chiusura di moltissime fabbriche in difficoltà, e le
poche imprese che continuano a lavorare dovranno ridurre
significativamente il personale. Anche la recente esperienza di diversi paesi
dell’Est Europa segnala che questo è inevitabile. Da un punto di vista
commerciale, l’ottimizzazione è giustificata. In molti stabilimenti
metallurgici ucraini, prima dell’inizio della guerra, fino al 30% dei
lavoratori erano già stati licenziati, soprattutto nel settore non produttivo. Se
non fosse per la guerra, con un serio ammodernamento della produzione
sarebbe stato possibile aumentare le capacità produttive mantenendo il
numero del personale significativamente ridotto. Però una simile riforma
dell’impianto industriale richiede investimenti che nessuno era interessato a
fare prima e a maggior ragione una volta scoppiato il conflitto.
L’operazione di ammodernamento degli impianti potrebbe essere attuata
unicamente da un investitore privato oppure da uno stato estero.
Avendo tutto il necessario per diventare uno dei leader mondiali nella
produzione metallurgica, l’Ucraina non ha potuto farlo a causa della
mancanza di lungimiranza dei propri leader politici, della corruzione che
dilaga negli organi dell’amministrazione a tutti i livelli e soprattutto della
mancanza di fiducia nel futuro del paese da parte degli oligarchi, che
anziché investire nello sviluppo dell’Ucraina si sono impegnati in tutti gli
anni a partire dalla sua indipendenza dall’URSS a sfruttare al massimo
l’eredità sovietica senza investire niente nel suo sviluppo. Purtroppo la fine
del compendio minerario e metallurgico nell’ambito dell’attuale progetto
Ucraina è un processo irreversibile.

Per l’Ucraina l’industria chimica è la seconda per importanza


economica, dopo la metallurgica. Proprio come quest’ultima, è un’eredità
“coloniale comunista” (per usare ancora una volta il lessico della
propaganda ufficiale ucraina), costruita sul territorio della Repubblica
sovietica ucraina con gli sforzi di tutti i popoli dell’Unione Sovietica,
pensata come un sistema di produzione integrato nel complesso sistema
sovietico. Nell’era dell’URSS , l’industria chimica ucraina era al secondo
posto in termini di produzione dopo quella russa, assicurando fino al 18% di
tutti i prodotti chimici dell’Unione.
Già con la proclamazione dell’indipendenza nel 1991, il volume della
produzione chimica in Ucraina è diminuito quasi del 60%. Tuttavia, dopo
che le imprese più redditizie sono cadute in mani private, a partire dal 2000,
l’industria ha iniziato ad aumentare la produzione annuale. Gli introiti, però,
come nel caso dell’industria metallurgica, erano gestiti dai privati, in
maggioranza oligarchi locali che non erano interessati a fare gli
investimenti necessari per aumentare il volume delle produzioni. Mettevano
invece a disposizione le aziende alle industrie straniere che producevano nei
loro impianti i prodotti sfruttando la manodopera a basso costo, per poter
guadagnare di più sulla differenza tra il prezzo finale dei prodotti sul
mercato e il costo della sua produzione.
Prima che scoppiasse la guerra nel Donbass nel 2014, il complesso
chimico dell’Ucraina contava più di 200 imprese, che impiegavano circa
350.000 persone. Nella produzione complessiva industriale del paese,
l’industria chimica occupava dal 6 all’8%. La quota di prodotti chimici
nella struttura delle esportazioni era dell’8-9%.
L’attività principale dell’industria chimica ucraina è la produzione di
fertilizzanti minerali di azoto, fosforo, potassio e fertilizzanti composti
granulari.
La capacità di produzione dell’industria chimica ucraina consentiva di
produrre 8 milioni di tonnellate di prodotti all’anno in dieci imprese
chimiche. La produzione di fertilizzanti azotati era svolta dallo stabilimento
portuale di Odessa, l’azienda “Stirol”, “Azot” (Cherkasy), l’associazione di
Severodonetsk “Azot”, “Dniproazot” e “Rovnoazot”. I fertilizzanti fosfatici
erano prodotti da: “Crimean Titan” (azienda passata sotto la giurisdizione
dei russi dopo l’annessione della Crimea e finita anche al centro di uno
scandalo dovuto all’avvelenamento della popolazione delle città di
Armjans’k e Perekop nell’agosto del 2018, causato dal malfunzionamento
degli impianti industriali, a sua volta dovuto all’interruzione della fornitura
di acqua potabile alla Crimea da parte dell’Ucraina), “Sumykhimprom” e
“Kostyantynivsʹkyy Khimichnyy Zavod”, fabbrica statale di produzione
chimica.
Della produzione di potassio si occupava la fabbrica di Dnipro di
fertilizzanti minerali. In generale, queste imprese producevano prima della
guerra il 60% di tutti i prodotti chimici ucraini.
In effetti, la situazione in cui si trovavano le imprese chimiche ucraine
prima della guerra era simile a quella degli impianti metallurgici. Secondo i
risultati della prima metà del 2009, la produzione di ammoniaca, che
costituisce la base dei fertilizzanti azotati, in Ucraina era diminuita del
43,8%. In particolare, la società “Stirol” ha ridotto la produzione di
ammoniaca del 66%, l’associazione di Severodonetsk “Azot” del 54,1%,
l’impianto portuale di Odessa del 53,2%, “Rovnoazot” del 37,7%. Per tutta
la prima metà del 2009, gli impianti chimici domestici hanno operato con
redditività negativa, e con il cambio di governo del 2014 la situazione è
solo peggiorata.
Di norma, il calo della produzione è associato alla crisi finanziaria
globale, ma questo è vero solo in parte. L’industria chimica ucraina, proprio
come la metallurgica, costantemente, anno dopo anno, è andata incontro
ostinatamente verso la sua fine. E le ragioni di questo triste destino cha ha
toccato entrambi i settori sono le stesse: l’aumento dell’ammortamento
degli impianti e l’invecchiamento delle apparecchiature, che rendono i
prodotti degli impianti chimici non competitivi sul mercato mondiale.
Nel 2014, circa il 70% degli impianti delle imprese chimiche ucraine
risultava pericolosamente obsoleto, e ogni anno che passava il grado del
loro deterioramento aumentava. Invano e ipocrita suonava nel marzo 2009
il monito della premier ucraina Julija Tymošenko nei confronti degli
imprenditori del settore chimico. Essendo lei stessa una delle più importanti
imprenditrici ucraine, una vera e propria oligarca entrata in politica,
Tymošenko ha rinfacciato ai propri colleghi che dai tempi
dell’indipendenza dell’Ucraina l’industria chimica non aveva mai dato il via
alla ricostruzione e all’ammodernamento nemmeno sulla scala locale delle
singole imprese. Bisogna dire che l’ammonimento della Tymošenko non
aveva avuto alcun effetto, perché gli oligarchi proprietari dell’industria
chimica trasferivano denaro fuori dall’Ucraina usando il suo stesso metodo.
Al di fuori delle sterili polemiche verbalizzate per creare nel popolo ucraino
l’impressione di un’attività politica, la retorica di Tymošenko nei confronti
dell’oligarchia ucraina non era affatto utile: i proprietari privati non si sono
mai presi cura delle loro imprese dal punto di vista ambientale, senza
peraltro distinguersi dalle poche aziende che erano ancora di proprietà dello
stato.

Tra le conseguenze dell’inasprimento delle relazioni con la Russia (che


alla fine hanno portato al conflitto in atto), c’è stato l’aumento del prezzo
del gas, che i russi non volevano più vendere agli ucraini a un costo
agevolato, visto che in cambio non solo non ottenevano alcun vantaggio
economico o politico, ma ricevevano persino un trattamento ostile. In
quell’occasione i padroni dell’industria chimica ucraina hanno lanciato una
protesta unitaria, lamentandosi del costoso gas russo, che impedisce ai loro
prodotti di essere competitivi. Ne deriva che l’industria chimica ucraina è in
grado di offrire prodotti competitivi sul mercato libero solo grazie al
dumping dei prezzi. L’acquisto del gas a un prezzo maggiore non significa
però automaticamente una perdita di fatturato. Quando, per esempio, la
Germania ha acquistato gas naturale a un prezzo quasi due volte più alto
dell’Ucraina, i prodotti delle sue società BASF e Bayer sono rimasti
assolutamente competitivi e sono stati venduti con successo sui mercati
mondiali a un prezzo più alto di quelli ucraini.
Questa chiara divergenza tra le imprese chimiche della Germania e
dell’Ucraina non è una semplice coincidenza. Dopotutto, i tedeschi non
hanno ottenuto le loro imprese gratuitamente dall’Unione Sovietica o da
qualche altro stato in fase già avviata e con rapporti già solidi con il
mercato, ma hanno dovuto costruire le proprie industrie partendo da zero,
da subito catapultati nel complicato mondo del mercato libero nel quale
dovevano essere competitivi. Gli imprenditori ucraini, a differenza di quelli
tedeschi, si sono trovati avvantaggiati sin dall’inizio, perché, come già
detto, si sono ritrovati impianti costruiti coi i soldi pubblici durante l’epoca
sovietica.
I tedeschi stanno utilizzando attivamente le ultime tecnologie del settore,
capaci di ridurre i costi di produzione e di migliorarne la qualità. E questo
processo virtuoso prevede un investimento costante, una politica di gestione
delle finanze diversa da quella che noi abbiamo visto applicare in Ucraina.
Anche i guadagni eccezionali che si registravano ai primi tempi, soprattutto
grazie agli alti prezzi mondiali applicati ai fertilizzanti, non hanno indotto a
investire nella modernizzazione.
Negli ultimi anni un totale di circa 5 miliardi di grivna (valuta nazionale
ucraina) sono stati investiti nell’industria chimica dell’Ucraina. Nella
migliore delle ipotesi, per aggiornare i sistemi e rivedere gli impianti. Dato
il grado catastrofico di svalutazione degli impianti del settore, questa cifra
sembra ridicola. Solo la chimica di base (produzione di fertilizzanti
minerali) oggi richiederebbe almeno circa 5 miliardi di dollari di
investimenti nella ricostruzione di officine per la fabbricazione di prodotti
di qualità, un aumento della capacità progettuale e la creazione di nuovi
impianti di produzione chimica.
Prima dello scoppio la guerra nel Donbass, la maggior parte degli
stabilimenti chimici ucraini produceva materie prime e semilavorati. Le
loro esportazioni, in termini monetari, erano costituite per il 43% da materie
prime e per il 31% da prodotti finiti a basso grado di lavorazione (in
particolare fertilizzanti minerali). In questo senso, l’industria metallurgica e
quella chimica versano nelle stesse condizioni.

Un’altra caratteristica molto importante dell’industria chimica ucraina è


la sua dipendenza quasi totale dalle materie prime straniere. Oltre il 70%
delle materie prime viene importato dalla Russia. Con l’inizio
dell’invasione dell’Ucraina questo scambio commerciale è stato quasi
completamente interrotto, quindi l’industria ha subito un colpo
pesantissimo.
Le fabbriche ucraine che producevano fertilizzanti fosfatici lavoravano
principalmente l’apatite proveniente dalla penisola di Kola, importata dalla
Federazione Russa. Nella produzione di fertilizzanti azotati ucraini il gas
naturale russo veniva utilizzato come materia prima.
Pertanto, il prezzo dei prodotti dell’industria chimica ucraina dipendeva
direttamente dal prezzo del gas russo, che occupava il 65-85% nella
struttura dei costi della produzione di fertilizzanti azotati. Allo stesso
tempo, va tenuto conto del fatto che le imprese ucraine che producono
fertilizzanti azotati sono i principali esportatori dell’industria chimica. Dopo
l’invasione militare russa, il costo del gas è aumentato e la sua fornitura
drasticamente diminuita, quindi il comparto dell’industria chimica ucraina
che dipende dal gas russo può dirsi spacciato.
Da quanto precede, emerge che la parte più grande e redditizia
dell’industria chimica ucraina dipendeva quasi interamente dalle materie
prime russe.
Una volta, il ministro dell’Economia ucraino Anatolij Kinach ha
affermato che se il prezzo del gas per l’Ucraina avesse superato i 180
dollari USA per 1000 metri cubi, la sua industria chimica sarebbe andata in
perdita. Nel 2007, il viceministro della Politica industriale dell’Ucraina,
Kucher, ha ammesso in un’intervista che, secondo le previsioni del governo,
un aumento del costo del gas a 130 dollari per 1000 metri cubi avrebbe
portato alla chiusura totale o parziale delle imprese chimiche. Solo la
crescita dei prezzi mondiali dei fertilizzanti minerali ha permesso di
mantenere all’epoca la redditività lorda dell’industria chimica ucraina. Allo
stesso tempo, lo stesso Kucher ha aggiunto che secondo i calcoli del
ministero dell’Industria, con il prezzo dei prodotti a 330-350 dollari per
tonnellata e il costo del gas a 230 dollari, le imprese chimiche ucraine non
sarebbero riuscite a mantenere i bilanci all’attivo. Attualmente il prezzo del
gas in Ucraina per le industrie è salito a 1353,30 dollari.

Prima dell’invasione russa, i produttori russi, bielorussi e uzbeki stavano


metodicamente conquistando il mercato interno dei prodotti chimici in
Ucraina. Allo stesso tempo, i chimici ucraini non sono stati in grado di
compensare la perdita del mercato interno esportando prodotti. A oggi,
l’Ucraina non è in grado di realizzare prodotti che possano fare concorrenza
ai prodotti di altri paesi sul mercato internazionale.
La situazione con la produzione di fertilizzanti fosfatici già negli anni
che precedevano la guerra in Donbas non era certo meglio. Non solo questa
tipologia di prodotti ha smesso di essere competitiva, ma la sua
importazione era in aumento da Russia, Bielorussia, Uzbekistan, Kazakistan
e Cina. Secondo l’ex vice primo ministro ucraino Andriy Klyuyev, già nella
prima metà del 2009 la produzione di fertilizzanti fosfatici in Ucraina era
diminuita dell’88%.
A questo proposito c’era da aspettarsi che il governo ucraino si limitasse
a bloccare le importazioni con dazi speciali, consentendo ai produttori di
fornire fertilizzanti sul mercato interno a prezzi gonfiati, per salvare in
questo modo l’industria chimica. Anche perché i prodotti già importati (ad
esempio il salnitro russo) sono quasi due volte più economici di quelli
ucraini. E questo significa che gli agricoltori ucraini, a proprie spese e
contro i propri interessi per più di dieci anni hanno contribuito a evitare il
fallimento totale degli stabilimenti chimici ucraini. Gli sforzi sono stati però
vani, perché i soldi degli agricoltori sono finiti ancora una volta nelle tasche
degli oligarchi, senza essere investiti a dovere nell’ammodernamento del
complesso dell’industria chimica.
Negli ultimi vent’anni circa, nella maggior parte delle imprese chimiche
ucraine la metà dei dipendenti lavorava part-time o è stata messa in
congedo forzato per mesi. Ci sono stati già massicci tagli del personale
negli stabilimenti che producevano azoto, a partire dal 2009. Verso il 2014,
anno del cambio anticostituzionale del governo in Ucraina, decine di
migliaia di lavoratori sono stati minacciati di perdere il lavoro, e la maggior
parte di questi, invece di essere impiegata nella produzione, era impegnata
in riparazioni preventive e nella pulizia dei territori circostanti le fabbriche.
Verso il 2016 gran parte delle imprese chimiche ucraine ha cessato di
esistere, e i lavoratori sono rimasti a casa, senza alcun tipo di contribuzione.

Riassumendo, possiamo affermare che l’industria chimica ucraina è in


gran parte fallita definitivamente e può essere rilevata solo grazie
all’investimento di un’enorme quantità di denaro. Tra le cause di questa
disfatta, avvenuta diversi anni prima dell’aggressione militare russa,
possiamo citare:

– l’ammortamento del 70% dei principali fondi strutturali;


– la profonda arretratezza tecnologica;
– l’orientamento forzato alla produzione di materie prime e semilavorati;
– la quasi totale dipendenza dalle materie prime russe;
– la mancanza di redditività a parità di prezzo di mercato del gas naturale e
di prezzi mondiali moderati dei fertilizzanti.

Già alla fine del primo decennio del nuovo millennio l’industria chimica
ucraina era sull’orlo della catastrofe. In una situazione del genere era
diventata come un cappio al collo dello stato ucraino, che non poteva
investire niente nel salvataggio dell’industria, in parte per la corruzione già
ricordata, in parte per via delle scelte economiche e politiche
dell’amministrazione ucraina che emulavano il modello occidentale, senza
però considerare che poteva essere applicato solo a una società strutturata
anche dal punto di vista normativo. Applicare i modelli occidentali a una
società che ha assorbito l’eredità culturale e morale post sovietica, e in cui il
conflitto “politico-sociale” è ancora molto aspro, è come assumere veleno.
Proprio per questo, il governo ucraino non ha atteso molto tempo per
sbarazzarsi dei suoi onerosi beni, vendendoli immediatamente ai privati, e
contribuendo così al crollo dell’economia del paese.
È facile intuire che una situazione tale avrebbe suscitato l’immediato
interesse di chi controllava l’approvvigionamento delle materie prime per
gli impianti chimici ucraini e, soprattutto, del gas naturale. Questo è logico
quando chi possiede la materie prime coincide con chi le lavora
industrialmente. Ecco perché i principali presunti contendenti per l’acquisto
di imprese chimiche ucraine sono state da sempre le società russe, una su
tutte la “Gazprom”. Il governo ucraino prima del 2014 aveva sviluppato un
meccanismo per ottenere il controllo sulle imprese chimiche ucraine da
parte delle strutture della “Gazprom”, ma gli oligarchi ucraini che presero il
potere politico e militare dopo il 2014, con in testa l’oligarca Porošenko,
diventato il presidente dell’Ucraina, hanno preferito farle morire. Dopo
essersi spartiti le spoglie e aver messo al sicuro i capitali all’estero, hanno
rifiutato un passaggio di consegne ai russi che avrebbero rilevato e salvato
gli impianti, investendo nella loro modernizzazione, e avrebbero contribuito
a rimpolpare l’economia ucraina. Senza parlare dei posti di lavoro per i
cittadini ucraini, trasformati attualmente dal governo degli oligarchi in
carne da macello, che viene sacrificata in guerra per gli interessi
dell’oligarchia finanziaria statunitense e britannica.

Proprio come nel caso della metallurgia e dell’industria chimica, la


nascita dell’industria meccanica ucraina non ha nulla a che vedere con
l’Ucraina indipendente. È invece figlia dell’economia pianificata sovietica e
degli eroici piani quinquennali del lavoro, che prevedevano che tutti i
popoli sovietici sacrificassero i loro interessi privati e si unissero in un
enorme sforzo nel tentativo di creare nuovi impianti industriali nel paese.
Questo progetto però non è stato portato a termine, e negli ultimi
vent’anni l’industria meccanica ucraina è andata incontro al degrado e al
declino. Il vecchio programma è stato sostituito da uno nuovo, questa volta
gestito dai poteri occidentali:un’Ucraina impoverita, economicamente
depressa, era il terreno perfetto per far accrescere l’odio e l’estremismo in
funzione antirussa.
Il modo più semplice per comprendere come l’establishment della nuova
Ucraina postsovietica abbia gettato il proprio paese nel più profondo
degrado è quello di consultare, anche in maniera più approssimativa, le
statistiche relative all’industria meccanica. Nel 1990, durante l’ultimo anno
dell’esistenza dell’URSS , quando l’Ucraina ancora faceva parte del sistema
sovietico, l’industria meccanica rappresentava il 31% della produzione
industriale totale della Repubblica sovietica ucraina. Dopo lo scioglimento
incostituzionale dell’URSS – dovuto al tradimento del presidente sovietico
Gorbačëv da parte dei suoi colleghi occidentali, che l’hanno rimpiazzato
con il loro fantoccio, Boris Él’cin 1 – la produzione dell’industria meccanica
in Ucraina è precipitata al 12%. Quello che viene considerato l’indicatore
principale dello sviluppo tecnico e industriale di un paese è diminuito di
due terzi. Per comprendere il significato di ciò che è accaduto, bisogna
tener conto del fatto che nei paesi economicamente sviluppati la quota
dell’industria meccanica rappresenta dal 30 al 50% della produzione
industriale totale. In Germania, per esempio, questa cifra è del 53,6%, in
Giappone del 51,5%, in Inghilterra del 39,6%, in Italia del 36,4% e in Cina
del 35,2%. Solo questi numeri garantiscono l’aggiornamento tecnico
dell’intero settore ogni otto-dieci anni.
La rapida diminuzione del peso dell’industria meccanica ucraina è stata
accompagnata dal suo non meno rapido degrado scientifico e tecnico. In
Ucraina, i macchinari di questo settore assomigliano di più ad antiche rarità
tecniche piuttosto che a qualcosa di moderno ed efficiente. E questo non è
un caso, ma è dovuto al fatto che la ricerca scientifica nell’industria
meccanica in realtà non esiste più. Negli Stati Uniti, per esempio, il 2-2,5%
del PIL viene speso in media ogni anno per la ricerca nel campo
dell’industria meccanica, e nei paesi dell’UE è di circa il 3%. In Ucraina,
invece, prima del 2014 era al massimo dello 0,1% del PIL , e dopo l’arrivo al
potere degli oligarchi con il colpo di stato architettato dagli Stati Uniti il
finanziamento da parte dello stato in Ucraina è stato sospeso, e gli scienziati
sono stati costretti a emigrare in altri paesi.
Inoltre in Ucraina, a partire dal 1991, è stato invertito il modus operandi
dell’industria meccanica. Se durante l’epoca sovietica gli impianti
industriali ucraini ideavano, progettavano e producevano in serie i prodotti
meccanici, con l’inizio dell’indipendenza si è innescato un processo per
modificare la struttura della produzione industriale, aumentando la quota
delle industrie ad alta intensità di capitale, energia e materiali. L’industria
meccanica ucraina in pochi anni ha ridotto la lavorazione finale ad alta
tecnologia, mettendo al primo posto i prodotti semilavorati. In altre parole,
perdendo il suo potenziale scientifico e tecnologico, l’industria meccanica è
scivolata in basso, limitandosi a svolgere il ruolo secondario di fornitrice di
materia prima all’interno del sistema economico mondiale.

Dal 1991 a oggi, durante gli anni di governo dello Svidomogo panstwa,
che starebbe per “signoria sapiente”, come amano chiamare se stessi, senza
un minimo di modestia, i nuovi “patrioti” dell’Ucraina, i prodotti
dell’industria meccanica del loro paese sparirono dal mercato, lasciando il
posto all’estrazione di materie prime e alla fabbricazione di semilavorati. In
buona sostanza, un paese che durante l’epoca dell’URSS era in grado di dare
vita a una tecnologia complessa è stato riportato indietro.
Il morbo che in Ucraina affligge il settore meccanico è lo stesso che
colpisce quello metallurgico e quello chimico.
In primo luogo si tratta dell’invecchiamento e del logoramento di tutti gli
impianti del settore. Già nell’ormai lontano 2009 la base materiale e tecnica
dell’industria meccanica nel suo insieme era esaurita del 70%. Nel maggio
2006 il ministro della Politica industriale dell’Ucraina Viktor Baranchuk ha
dichiarato ai giornalisti che l’82% del parco macchine utensili delle imprese
di ingegneria doveva essere aggiornato. A causa della grave arretratezza
tecnologica del settore, i prodotti dei costruttori di macchine ucraini, nel
loro insieme, a eccezione di alcuni tipi di merci, non sono competitivi né sul
mercato estero né su quello interno.
Ecco perché, al culmine della crisi finanziaria globale nel primo
trimestre del 2009, la produzione di macchine è diminuita del 54,6%
rispetto allo stesso periodo del 2008, anche se un anno prima gli esperti
ucraini avevano coralmente elogiato la costruzione di macchine,
prevedendo che, in termini di tassi di crescita, questa industria avrebbe
superato il settore metallurgico.
Tuttavia, con lo scoppiare della crisi del 2009, la Russia ha ridotto
drasticamente le importazioni dall’Ucraina e l’industria metalmeccanica
ucraina è precipitata sull’orlo del baratro. In effetti, senza l’accesso al
mercato della Russia, il complesso ucraino di costruzione di macchine è
destinato alla rovina. In questo modo, l’industria meccanica ucraina è nelle
stesse condizioni del settore metallurgico e dell’industria chimica, i cui
prodotti sono quasi completamente orientati all’esportazione, in quanto sul
mercato interno non c’è domanda. E questo è comprensibile: dopotutto,
l’industria che soddisfa le esigenze dell’Ucraina al momento non esiste.
Quasi tutti i beni necessari per i cittadini (circa il 90%) vengono importati.
Pertanto, sono rimaste solo le imprese in grado di vendere i propri prodotti
all’estero. Di norma, si tratta di materie prime e semilavorati. Il prodotto
finale della produzione ucraina, salvo rarissime eccezioni, non è utile a
nessuno a causa della sua scarsa qualità e della sua bassa funzionalità. I
prodotti dell’industria meccanica non vengono acquistati nemmeno dagli
stessi ucraini, che preferiscono le produzioni straniere.
L’unico paese che era ancora interessato all’esistenza di alcuni rami
dell’industria meccanica ucraina era la Russia, perché dai tempi dell’URSS
le due industrie si compensavano, mentre l’Occidente vuole le materie
prime e le fabbriche capaci di assemblare a costi bassi i prodotti creati
altrove. L’aumento precrisi del volume delle vendite di prodotti
dell’industria meccanica ucraina sul mercato estero era dovuto unicamente
alle esportazioni nella Federazione Russa, dove, nell’ambito dei programmi
statali, è stata attivamente svolta ed è in corso la modernizzazione degli
impianti industriali. In ogni caso, con l’inizio delle ostilità nel Donbass, e di
conseguenza con l’intervento militare russo in Ucraina, l’importazione dei
prodotti in Russia è cessata praticamente del tutto.

Un tempo in Ucraina venivano costruiti impianti di industria pesante per


la produzione di attrezzature per la forgiatura, pressatura e metallurgia. Si
producevano laminatoi, macchine speciali per il taglio dei metalli,
attrezzature per altiforni e acciaierie, pezzi di ricambio per attrezzature per
la produzione di carbon coke, rulli di laminazione, taglierine, compressori,
pompe, caricatori di roccia per carbone, scudi per i tunnel, mietitrebbiatrici
e argani, impianti di perforazione e potenti macchine di sollevamento,
locomotive e carrelli elettrici da miniera, apparecchiature per la lavorazione
ad alta intensità di metalli, apparecchiature per l’estrazione del minerale di
ferro e piattaforme di perforazione.
Questa gamma dei prodotti durante l’epoca sovietica era impressionante,
però, dopo il distacco dall’URSS , con il passare del tempo, le imprese
ucraine del complesso minerario e metallurgico hanno preferito acquistare
nuove attrezzature all’estero, dai leader mondiali dell’ingegneria,
snobbando del tutto il mercato interno. Negli ultimi vent’anni la maggior
parte degli ordini degli stabilimenti ucraini proviene da Siemens-VAI e
Danieli, nonché dalla società tedesca SMS Demag.
L’industria meccanica pesante ucraina non è più concorrenziale per tre
ragioni principali.
In primo luogo, le macchine e le unità delle aziende occidentali sono
superiori a quelle ucraine in termini di qualità, affidabilità, durata ed
efficienza. Il livello tecnologico dei concorrenti occidentali è quindi
praticamente irraggiungibile per le imprese ucraine.
In secondo luogo, le aziende occidentali hanno l’esperienza e le capacità
finanziarie e tecniche per implementare progetti dall’inizio alla fine, il che
riduce significativamente i costi per il cliente. I costruttori di macchine
ucraini non sono più in grado di realizzare grandi progetti integralmente,
dall’inizio alla fine.
In terzo luogo, i costruttori di macchine occidentali possono lavorare a
credito, a bassi tassi di interesse, con un pagamento dilazionato di diversi
anni. Le casse delle imprese ucraine non consentono di scegliere questa
strategia.
L’industria meccanica pesante dell’Ucraina non è in grado di superare i
tre fattori di cui sopra e diventare competitiva. Non lo poteva fare nel
passato e non sarà in grado di farlo nell’attuale scenario di guerra, con il
paese in pratica fallito sotto ogni aspetto. Il massimo di cui è stata capace
l’Ucraina negli ultimi anni è la produzione dei pezzi di ricambio, di alcune
attrezzature sostituibili e di unità che necessitano di sostituzioni periodiche.
Poi ci sono i subappalti per le aziende estere: ad alcuni produttori europei
conviene effettuare ordini per la produzione di determinate apparecchiature
alle imprese ucraine piuttosto che produrli loro stessi.
Solo grazie a questa strategia di sfruttamento degli impianti da parte
delle aziende straniere, l’industria meccanica pesante dell’Ucraina in parte è
riuscita a sopravvivere negli ultimi anni.
È chiaro che alcune imprese possono essere rilevate dalle società
straniere e quindi si può riuscire a far quadrare i conti per un periodo
piuttosto lungo, ma non possono certo offrire prodotti hi-tech ed essere
competitive. L’industria meccanica pesante dell’Ucraina ultimamente è sul
crinale tra la vita e la morte, nel tunnel della precarietà e senza alcuna
speranza per un futuro indipendente.

1. Helmut Koll e Bush padre hanno promesso a Gorbačëv sostegno alle sue politiche di riforma del
Partito comunista e dell’intera URSS ; in realtà, però, hanno investito nella propaganda anti-
Gorbačëv, puntando tutto sulla figura di Él’cin che di fatto ha distrutto il paese, creando i
presupposti per le tensioni e le guerre che stiamo vivendo ancora oggi.
TERZA PARTE
IL MITO DELLA DEMOCRAZIA UCRAINA
Penso di non sbagliare troppo quando affermo che l’Ucraina era apparsa nel
raggio visivo dell’italiano medio, attirandone l’attenzione, quando nel 1995
su diversi canali in tv girò la pubblicità del «Corriere della Sera» per
vendere l’atlante allegato con il giornale. In questo spot un cosmonauta
russo atterrando in una campagna dell’Est Europa salutava con felicità la
propria patria urlando a squarciagola «Madre Russia!», mentre una
contadina impegnata nel proprio orto rispondeva a lui con una certa aria
d’insolenza: «Ma quale Russia?! Questa è l’Ucraina!».
Tolti quelli che coltivavano un interesse personale per il paese,
l’opinione pubblica occidentale fino all’invasione da parte della Russia di
Putin avvenuta il 24 febbraio 2022 non si preoccupava affatto dell’Ucraina.
Prima la gran parte degli occidentali avrebbe fatto fatica a indicare persino
la collocazione geografica dell’Ucraina, senza parlare delle conoscenze più
approfondite legate agli aspetti storici oppure politici di questo paese.
Questo è uno dei grossi problemi di molti cittadini occidentali, la costante
rivendicazione del diritto all’ignoranza come viatico per la conquista del
benessere economico: un elemento che denota una inconscia mentalità
colonialista di stampo anglosassone.

La maggioranza degli italiani, così come la gran parte degli occidentali,


disconoscevano i processi politici, economici, culturali e sociali che si
susseguivano in Ucraina, e che avevano trasformato quel paese giorno dopo
giorno in un territorio cuscinetto votato allo scontro tra la Russia di
Vladimir Putin, con le proprie mire geopolitiche, revanscista e desiderosa di
prendere il proprio posto tra i paesi leader del pianeta, e i paesi facenti parte
del blocco NATO , tra i quali, in primis, la grande egemonia militare
statunitense e poi quella britannica. Gli osservatori più attenti avevano
previsto già nel 2014, subito dopo il colpo di stato avvenuto in Ucraina,
finanziato dagli USA e curato dai loro servizi segreti e dai loro collaboratori
esterni, l’inizio di una spirale di violenza tra la Russia e l’Occidente.
Io stesso avevo fatto luce su quel possibile scenario, insieme al
compianto amico Giulietto Chiesa, durante una serie di interventi pubblici,
nel lontano 2015. Già all’epoca parlavamo apertamente degli interessi
statunitensi di interrompere la fornitura del gas russo ai paesi dell’UE . Su
YouTube si trovano i filmati delle nostre conferenze. Ora nel 2022, dopo
otto anni dalla loro pubblicazione sul canale, vengono ripresi e ripubblicati
da una moltitudine di gente che si meraviglia delle nostre capacità
profetiche. Curioso che molti di quelli che attualmente ci trattano come una
sorta di profeti (di sventura) sono gli stessi che neanche un anno fa ci
davano dei complottisti solo perché affermavamo che ci sarebbe stata una
guerra tra la NATO e la Russia sul suolo ucraino. Tutto questo ai più suonava
come fantapolitica.
Molti cittadini non si informano a dovere quando prendono posizione.
Ne consegue, in assenza di un’informazione corretta, esaustiva e obiettiva,
che l’opinione pubblica perda la capacità di analizzare con logica gli
avvenimenti. Esiste, purtroppo, una dinamica da tifoseria calcistica, che
prende posto nelle trincee ideologiche, pilotata dai diretti interessati per
manipolare opinioni, riflessioni e posizioni, promuovendo così i propri
obiettivi politici ed economici.
Per questo motivo sulla questione ucraina qui in Occidente è stato creato
un mito propagandistico mai visto prima, che rinnega la storia dell’Ucraina,
rappresentando gli eventi in modo palesemente univoco, addirittura
negando l’esistenza dell’ideologia nazista integrata nel sistema statale
ucraino, cancellando dalla storiografia i brutali crimini compiuti dai nazisti
ucraini ai danni degli oppositori di sinistra.

Nella guerra di propaganda e informazioni ripetute ce n’è una che


riguarda la presunta “natura democratica” dell’Ucraina, che viene dipinta
come una sorta di baluardo della civiltà, in contrapposizione
all’autoritarismo dittatoriale della Russia putiniana che minaccia ogni
libertà civile, culturale e politica. Per la stragrande maggioranza degli
occidentali le elezioni apparentemente libere, vale a dire pilotate dagli
oligarchi schierati con la politica statunitense, nelle quali risulta vincitore
un personaggio come Volodymyr Zelens’kyj, che fino a ieri si esibiva in
svariati show e serie televisive, anche in qualità di attore comico, mentre
oggi pretende con arroganza i soldi dagli occidentali per la guerra
sanguinosa che ha già distrutto il paese da lui governato, bastano (a torto)
per definire l’Ucraina un paese democratico.
Le elezioni svoltesi nel paese dal 2014 sono accompagnate da una guerra
fratricida, nella quale il governo centrale, contestato da una parte delle
regioni (guarda caso quelle più ricche e industriali), massacra queste ultime
utilizzando le milizie neonaziste, armate, addestrate e sostenute dalla NATO ,
e ultimamente persino integrate ufficialmente all’interno dell’esercito
regolare, sotto il vessillo dei simboli risalenti al Terzo Reich, come ad
esempio il simbolo del famigerato battaglione Azov, un covo di nazisti della
peggior specie, che si sono macchiati dei crimini più atroci contro la
popolazione civile ucraina, e che come simbolo di riconoscimento usano la
runa nordica wolfsangel, la stessa che usarono i militari della seconda
divisione panzer delle SS, “Das Reich”.
Lo stesso presidente ucraino Zelens’kyj, nonostante sia di origini
ebraiche, si è fatto più volte riprendere dai giornalisti, mentre orgoglioso
indossava la maglietta che rappresentava questo simbolo infame, risalente a
quei nazisti che in Ucraina durante la Seconda guerra mondiale hanno fatto
strage del popolo ebraico e di altri popoli. Oltre a glorificare i simboli
nazisti, ha partecipato a una diretta televisiva nel tentativo di riabilitare
moralmente e storicamente il leader dei nazisti ucraini Stepan Bandera,
collaboratore di Hitler che amava fotografarsi con addosso l’uniforme delle
SS e che ha guidato le frange più violente del nazismo ucraino durante la
Seconda guerra mondiale.
Quando mi parlano della democrazia in Ucraina, io rispondo che il
regime autoritario di Putin al confronto è mille volte più democratico, e la
mia non è una provocazione, ma un’opinione formata e fondata su fatti
concreti. A differenza dell’Ucraina, in Russia non sono proibiti i partiti di
sinistra. Mentre il “democratico” Zelens’kyj, con una legge ad hoc ha
bandito tutti i partiti d’opposizione, come farebbe un perfetto dittatore. In
Russia non viene glorificato e legittimato il nazismo a livello statale, mentre
l’Ucraina sguazza nella propaganda nazista della peggior specie, a partire
dai bambini ai quali nelle scuole e nei campeggi estivi insegnano fare il
saluto romano e l’esercito, pieno zeppo di nazisti convinti, che portano sulle
loro uniformi simboli nazisti ufficializzati dal governo.
Così, quando di recente durante una delle mie apparizioni televisive in
diretta su Canale 5, nel programma dello stimato scrittore, giornalista e
conduttore televisivo Francesco Vecchi è stato messo in onda il video
ufficiale girato dalla propaganda ucraina per chiedere il sostegno finanziario
occidentale all’esercito ucraino, ero l’unico in studio che ha notato che
sull’uniforme dell’attore che interpretava il militare ucraino, un pilota che
chiedeva a noi occidentali di comprare a lui un nuovo aereo per combattere
gli invasori russi, era messa in bella mostra il distintivo con il simbolo
nazista tedesco Schwarze Sonne, ovvero il “sole nero”, appartenente alla
runologia esoterica nordica e molto amato dai nazisti hitleriani, tanto che il
capo delle SS Heinrich Himmler volle decorare con questo simbolo la sala
principale del castello di Wewelsburg, il centro ideologico e mistico delle
SS.
Cosa si deve pensare se persino nelle pubblicità dell’esercito ucraino
rivolte al pubblico occidentale le autorità non si vergognano di esibire i
simboli nazisti? Si tratta forse della chiara volontà di dimostrare ai
nostalgici nazisti occidentali, che loro, vale a dire gli ucraini fedeli al
regime di Kiev, sono collusi con il nazismo, e lo considerano il pilastro di
una “democrazia”? A mio avviso, questo è un segnale della crisi identitaria
in cui l’Occidente versa da parecchio tempo, sbattuto com’è da un estremo
(e da un estremismo) all’altro come la pallina impazzita di un flipper.

La Russia putiniana, con tutta la sua corruzione, con tutte le sue


mancanze e nefandezze non è certo peggio di quell’abisso morale e
disumano nel quale è precipitata l’Ucraina dopo il colpo di stato del 2014.
Noi qui in Occidente giustamente ci scandalizziamo per la morte dei
giornalisti in Russia, ma bisogna dire che spesso lo facciamo anche senza
approfondire le cause, a prescindere, e prontamente dando la colpa al
regime di Putin. Non dissento, perché se in un paese muore un giornalista
che cerca di portare la verità alla luce, il sistema che governa questo paese
in ogni caso ha delle responsabilità, dirette o indirette.
Non capisco però perché gli stessi difensori dei diritti umani che qui in
Occidente da quasi vent’anni ripetono come un mantra il nome di Anna
Politkovskaja, giustamente lamentando la mancanza di giustizia, non si
esprimono ugualmente in sostegno e in memoria di tutti quei giornalisti,
scrittori, scienziati, politici, attivisti e semplicemente cittadini che sono stati
massacrati dal regime di Kiev solo perché si opponevano alla dittatura dei
golpisti. Sono consapevole del fatto che non è corretto dal punto di vista
etico fare a gara tra il numero dei morti causati dai vari regimi, in quanto
tutti i regimi, compreso quello statunitense (che con la sua macchina
militare ha massacrato milioni di esseri umani nel mondo con la scusa di
esportare la democrazia, rimanendo in ogni caso l’unico sistema politico-
economico nella storia che ha usato le armi nucleari contro i civili), vanno
condannati ugualmente, ma se oggi mettessimo a confronto il sistema
repressivo russo e quello ucraino, quest’ultimo vincerebbe senza alcuna
fatica.
Basti pensare che solo tra il 2014 e il 2015 sono stati ufficialmente
accertati gli omicidi di settantacinque oppositori del regime di Kiev, tanto
che i loro nomi e le storie delle loro uccisioni sono stati condivisi persino su
Wikipedia. Ma a parte questi numeri accertati e documentati, dobbiamo
domandarci: quanti oppositori sono spariti in Ucraina? Quanta gente è stata
massacrata da gruppi neonazisti durante le manifestazioni pacifiche, come
quella di Odessa a maggio del 2014, oppure come quella di Mariupol, nello
stesso anno, dove sparavano con le armi da fuoco contro la folla dei
manifestanti di sinistra? Quanti cittadini del Donbass durante gli ultimi otto
anni sono stati uccisi per via dei bombardamenti dell’esercito ucraino,
oppure sequestrati dai servizi ucraini che agiscono come la Gestapo,
torturando e massacrando le persone? I nostri benpensanti occidentali per
qualche insondabile ragione non danno spazio a questi morti, forse perché
si tratta di persone di sinistra che si opponevano al nazismo.
In Ucraina i nazisti, che sono parte dell’apparato statale, ammazzavano
tutti quelli che erano contrari alle loro idee, principalmente persone di
sinistra. Alcuni forse potevano essere d’accordo con la politica di Putin,
però chiamarli “putiniani” è un insulto alla loro memoria, perché molti di
loro non erano d’accordo con la Russia; volevano un’Ucraina indipendente,
comunista oppure liberale, ma senza il nazismo e gli oligarchi. Per questo
uso il termine “di sinistra”. Anche il mio amico Oles Busina era di sinistra,
ma non sopportava Putin, lo criticava sempre e voleva un’Ucraina
indipendente sia dai russi sia dagli occidentali, e soprattutto era antifascista
e denunciava la deriva nazista in Ucraina.

Proprio in nome dei nostri amati diritti civili non è ammissibile


l’uccisione del mio amico Oles Busina, grande patriota ucraino,
antropologo e storico, scrittore e poeta. Colpevole di essersi schierato
contro la glorificazione del nazismo da parte del governo golpista di Kiev e
per questo freddato a colpi di pistola davanti a casa propria. Nessuno dei
nostri difensori dei diritti umani che spesso accusano la Russia di Putin di
mancanza della libertà si è mai esposto contro il regime golpista
attualmente al potere in Ucraina, colpevole dell’uccisione di Olga Moroz,
caporedattore di «Neteshinskij Vestnik», giornale dalle cui pagine lei e i
suoi colleghi si esprimevano contro il regime. Nessuno si scandalizza per
l’uccisione del deputato del parlamento ucraino Oleg Kalashnikov,
organizzatore delle manifestazioni in sostegno del governo legittimo
ucraino, oppositore del golpe. Nessuno qui in Occidente chiede al governo
ucraino perché sono stati impunemente massacrati come oppositori del
regime il procuratore Oleg Melnichuk, Oleksandr Peklushenko, già
governatore dell’oblast di Zaporizhya, il capo del consiglio regionale di
Kharkiv Aleksei Kolesnik, il segretario del Partito comunista della
provincia di Starobeševe Vyacheslav Kovshun, il vicedirettore delle ferrovie
ucraine Nicolai Sergienko e molte, moltissime altre persone colpevoli
soltanto di aver espresso idee contrarie al governo. L’Occidente preferisce
ripetere a sfinimento il mantra sulla presunta “democraticità” dell’Ucraina,
anche se si tratta del paese più corrotto tra le repubbliche ex sovietiche, e
per comprendere questo non serve prestare ascolto a nessuna propaganda
russa, basta leggere i rapporti delle organizzazioni internazionali che
monitorano la situazione in Ucraina, dai quali emergono denunce
pesantissime, da far gelare il sangue anche al più insensibile tra gli esseri
umani.
I politici occidentali, però, preferiscono buttare miliardi di euro strappati
ai propri contribuenti in quel contenitore contaminato irrimediabilmente
dall’illegalità, dalla propaganda e dall’odio che è l’Ucraina di oggi, pur di
sfruttarla come un campo di battaglia contro la Russia di Putin.
L’Occidente, ovvero gli USA , non vuole perdere la sua egemonia militare ed
economica nel mondo, che da unipolare di una volta ormai è diventato
multipolare. In tutto questo, le vere vittime sono gli ucraini, che indottrinati
dalla propaganda trentennale, che gli ha raccontato di tutto pur di
cementificare nelle loro coscienze tre elementi: l’odio per la Russia, la
fiducia negli oligarchi pro occidentali e soprattutto un nazionalismo radicale
ed estremo che si basa non sull’amore verso la propria nazione, ma
sull’odio nei confronti degli altri. Un nazionalismo macchiato dagli episodi
più drammatici e più bui della storia ucraina.
Questa lobotomia collettiva è iniziata subito dopo la separazione
dell’Ucraina dall’URSS . All’epoca i “nuovi vecchi” padroni del paese, quasi
tutti gli ex funzionari sovietici che avevano lottato per la separazione
dell’Ucraina perché erano consapevoli che diventando i padroni di quel
paese lo avrebbero spogliato di tutte le ricchezze accumulate durante il
periodo sovietico, avevano bisogno di un’ideologia da sostituire a quella
sovietica, ormai marchiata come nemica. Il popolo doveva essere
ammaliato da una nuova narrazione potente, inebriante e apparentemente
rivelatrice, che li distraesse dai furbetti che lo derubavano delle ultime
proprietà e di quei diritti sociali di base acquisiti durante il periodo
sovietico. Inventarsi una nuova propaganda creata da zero era troppo
complicato e non c’era tempo per una simile operazione, negli anni
Novanta il paese stava già precipitando nell’abisso della criminalità,
illegalità e speculazione, quindi alle masse bisognava lanciare una nuova
visione di se stessi e del loro paese, come si lancia l’osso al cane stremato e
imbestialito dalla fame, per placare la sua rabbia.
È così che, da quel buio epocale, sono stati tirati fuori dal cilindro vari
miti legati all’identità ucraina, trasformati nei grotteschi ritornelli della
propaganda che tuonava su tutto il paese. I politici dell’Ucraina appena
diventata indipendente affabulavano le masse affamate e inebriate dai venti
del cambiamento che soffiavano dall’Occidente con storie che sembravano
scene tratte dai Pirati dei Caraibi. A mio avviso, il simbolo di quell’epoca
rimane la storia dell’oro di Polubotok, che sarebbe potuta diventare
tranquillamente il tema di qualche romanzo ironico alla Zweig oppure
Zoshenko. Il mito del colonnello dei cosacchi ucraini Pavlo Polubotok, che
ha tradito il proprio capo Ivan Mazepa per servire lo zar Pietro, è una delle
storie più stupide che si potessero inventare. Polubotok è una specie di
prototipo dell’eroe nazionale ucraino, uno che grazie alla propria furbizia è
diventato ricco, servendo due padroni, tradendoli entrambi in preda a una
smisurata sete di potere e di ricchezza. Prima ha ottenuto numerosi beni dal
capo dello Stato Cosacco Mazepa, che nella guerra tra la Russia e la Svezia
preferì stare dalla parte di quest’ultima, con questo commettendo il più
grande errore della propria esistenza. La guerra fu infatti vinta dallo zar
russo Pietro I detto “il Grande”, e di conseguenza Mazepa morì con
l’infame e indelebile marchio di traditore. Polubotok, però, che era un po’
più furbo del proprio padrone lo tradì, passando dalla parte di chi stava
vincendo la guerra, e per questo ottenne anche dallo zar russo grandi
ricchezze, compreso molto oro. Lo zar, però, che non andava certo per il
sottile, scoprì il suo tradimento e lo condannò a una brutta fine, lo fece
torturare, lasciandolo morire nella prigione di San Pietroburgo.
Le generazioni di giovani ucraini probabilmente non conoscono
nemmeno quel “glorioso” passaggio della storia del loro paese, però i miei
coetanei o le persone più grandi di me si ricordano bene di quei tempi,
quando l’intero popolo ucraino, pieno di sincera fiducia, attendeva che il
governo britannico pagasse a ciascuno di loro i lingotti d’oro dovuti, così
come le percentuali stratosferiche derivate dall’oro che un personaggio
della storia ucraina chiamato Polubotok aveva depositato nella banca
inglese.

Secondo i propagandisti del nuovo regime, prima di morire per volere


dello zar russo, l’astuto Polubotok si stava preparando alla fuga e avrebbe
nascosto in qualche banca inglese tutto il suo oro, accordandosi per
riceverne le percentuali spettanti ogni anno. Da buon e irreprensibile
patriota del proprio paese, Polubotok avrebbe poi destinato i suoi soldi ai
suoi concittadini ucraini (è curioso che nessuno tra quelli che parlavano a
destra e a manca di questa storia si sia mai preoccupato del fatto che un tale
contratto non sarebbe possibile, semplicemente perché all’epoca nella quale
viveva Polubotok non esisteva nemmeno il concetto di Ucraina, senza
parlare di un’entità geopolitica con tale nome). Gli ucraini si sono
infiammati all’idea di arricchirsi grazie all’oro del loro antenato, qualcuno
aveva persino calcolato che si trattasse davvero di una somma ingente
accumulatasi dal lontano XVII secolo. Il governo ucraino non solo non ha
mai smentito, ma ha diffuso la notizia che si stava accordando con
l’Inghilterra per recuperare l’oro di Polubotok con tutti gli interessi, da
dividere, come ovvio, tra tutti i cittadini ucraini.
Per anni le masse, abituate nell’epoca sovietica a credere ciecamente a
quello che si diceva sulla radio e in televisione, aspettavano obbedienti
l’arrivo dei soldi dall’Inghilterra, fantasticando su come li avrebbero spesi.
Mentre il popolo rimaneva aggrappato a questa chimera, il governo guidato
dagli oligarchi privatizzava tutto il possibile. La storia di Polubotok finì
quando anche le ultime speranze di ricevere le ricchezze promesse
crollarono, mentre il popolo ucraino affondava stordito dalla vodka prodotta
da uno dei nuovi oligarchi, chiamata proprio “L’oro di Polubotok”. Per me,
ragazzo della generazione degli anni Ottanta, l’inizio dell’indipendenza
ucraina era legata soprattutto a questa folle storia, a questo delirio collettivo
che aveva colpito in forma acuta l’intero paese.
Per farvi capire meglio come questa storia non fosse semplicemente una
delle tante leggende metropolitane, faccio presente che la Verchovna Rada,
vale a dire il parlamento ucraino, ha formato una commissione straordinaria
composta da illustri rappresentanti della politica e dell’accademia ucraina
che è stata inviata a Londra per concordare con il governo inglese il ritiro
dei tesori di Polubotok. Ovviamente questa iniziativa è finita in un nulla di
fatto.
Non oso immaginare quanto abbiano riso gli inglesi quando hanno
scoperto che l’intero paese si sia lasciato abbindolare così facilmente da
narrazioni così assurde e favolistiche. Chissà, forse proprio quell’esperienza
ha suggerito agli inglesi di intraprendere la loro avventura geopolitica
contro la Russia, convinti che l’Ucraina sia un ottimo terreno per la
propaganda più becera.
Nel corso degli anni la coscienza degli ucraini, abbondantemente
fertilizzata da una forma malata di nazionalismo, partoriva sempre nuove
illusioni sul futuro del loro ormai devastato e compromesso paese.
L’Ucraina ha veramente creduto che l’Europa l’avrebbe fatta entrare
nell’area comunitaria solo perché gli europei per qualche strano motivo
amano gli ucraini e non vedono l’ora di condividere con loro il proprio
benessere. I nuovi politici, totalmente guidati dagli oligarchi proatlantisti,
hanno convinto il popolo ucraino che voltando la schiena alla Russia e
aprendo le braccia all’UE avrebbero avuto immediato accesso al benessere.
Basta solo prospettare riforme di stampo liberale e ripulire la società dai
residui del comunismo, vale a dire organizzando i Gay Pride da un lato, e
dall’altro di nascosto massacrare gli attivisti oppositori del nuovo regime.
Purtroppo, questa cieca fiducia alle storielle dei politicanti ha fatto versare
al popolo ucraino parecchio sangue.

Il termine “Oligarchi” è stato inserito nel vocabolario politico ucraino


all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, subito dopo la scissione del
paese dall’URSS , quando l’Ucraina diventò finalmente indipendente – a
detta di molti, con questo storico passaggio il paese avrebbe dovuto iniziare
la sua nuova vita felice e prospera. Inizialmente, questo termine aveva un
significato negativo e vi ricorrevano con certa furbizia i nuovi propagandisti
della politica ucraina che lo applicavano per distinguere gli “onesti uomini
d’affari occidentali” dai “corrotti mafiosi ucraini”. In quell’epoca, le mire
rapaci della finanza occidentale si precipitarono sul pezzo appetitoso
staccato dalla carcassa dell’URSS e ancora tiepido, ma in realtà già bello che
morto. Erano diversi dai criminali locali, che in buona sostanza si
prodigavano a compiere la stessa operazione: smembrare le ricchezze
lasciate in eredità dall’Unione Sovietica. Una differenza però c’era: i
criminali locali usavano maniere rozze, spesso utilizzando i metodi tipici
della guerriglia, mentre gli investitori e speculatori occidentali esercitavano
il loro potere sfruttando la corruzione governativa, aprendosi le porte con la
forza del loro denaro.
I politici ucraini di quei tempi preferivano, come ovvio, avere a che fare
con gli occidentali, che pagavano bene e promettevano ai nuovi e ambiziosi
“imprenditori” ucraini di toglierli dalle grinfie della giustizia, riservando
loro bei posticini nei vari paradisi fiscali qualora i loro movimenti illegali
fossero venuti alla luce del sole. Con il passare degli anni, la politica
ucraina si è trasformata in una vera e propria società per azioni corrotta, e i
politici che si sono susseguiti sulla scena nazionale hanno cambiato soltanto
le preferenze per i partner, ma non il modus operandi.

Negli ultimi anni, in Ucraina, la parola “oligarca” è stata pronunciata con


particolare odio e disprezzo dai cittadini di tutte le regioni. Anche durante il
colpo di stato del 2014. Nonostante le differenze politiche, questa parola
stava simbolicamente a indicare la mancanza di fiducia della società civile
nei confronti delle classi dirigenti che hanno governato l’Ucraina e che
hanno portato il paese alla catastrofe attuale. Molte delle persone che
continuano a ripetere questa parola durante i comizi o le adunanze (ormai
non pubblici, perché il regime di Zelens’kyj ha proibito agli ucraini di
organizzare manifestazioni e in pratica ha ridotto al silenzio e distrutto
l’opposizione), confrontandosi sui mezzi pubblici, nelle cucine,
nascondendosi dalle orecchie delle spie, come nell’epoca sovietica, non
sanno che ὀλιγαρχία deriva dal greco e si traduce con “il potere dei pochi”.
La maggioranza delle persone, però, ne comprende intuitivamente il
senso, e ne riscontra il significato nei fatti. Ancora Aristotele, nella sua
Politica, sostiene che l’oligarchia cura gli interessi delle classi benestanti,
specificando che nelle oligarchie si celano gli embrioni di due mali: i
conflitti tra gli oligarchi e le tensioni con il popolo. Le proteste popolari a
Kharkiv, Mariupol e Odessa hanno confermato questa teoria, sempre
attuale, così come lo hanno confermato quelle nelle regioni occidentali
dell’Ucraina organizzate a partire dal 2014 contro la guerra nel Donbass,
voluta prima dal presidente-oligarca golpista Porošenko e poi continuata dal
suo successore, l’ex comico Zelens’kyj. A quell’epoca molti ucraini
manifestavano non perché sostenessero la politica del Donbass, o perché
simpatizzassero per Putin, ma semplicemente perché non volevano
soccombere in nome degli interessi degli oligarchi, dei pochi ricchi al
governo del paese.

Ci sono molte persone semplici che pur non avendo competenze in


ambito geopolitico, pur non conoscendo le scienze sociali, sono comunque
in grado di comprendere che il loro paese da sempre è stato governato da
politici che difendevano gli interessi della minoranza benestante, che
diventava tale derubando e sfruttando impunemente la popolazione, che
sprofondava sempre più nella povertà, ben oltre la sua soglia minima.
Succede in molti paesi, ma in Ucraina di più. Molti cittadini ucraini
capivano anche che l’ultimo Euromaidan, il golpe ordito dai poteri
statunitensi è stata l’occasione per i rappresentanti del potere politico e
finanziario ucraino di spartirsi i cessi d’oro con i quali di solito amano
decorare le proprie residenze, ottenendo il potere senza sporcarsi le mani
ma abbindolando cittadini comuni e di condizione disagiata con la loro
propaganda, cittadini che per assicurare il potere a quegli sciacalli hanno
versato il loro sangue e perso la vita.
«L’oligarchia si mantiene non grazie alla continua preservazione del
potere nelle stesse mani, bensì passando il potere da una mano all’altra» ci
avvertiva Karl Marx, in qualche modo profetizzando quello che è successo
in Ucraina dopo il colpo di stato del 2014. I miliardari attualmente hanno
raggiunto il massimo del potere politico. Non si può negare che il risultato
più importante del colpo di stato avvenuto in Ucraina nel 2014, e
conosciuto come Euromaidan, in sintesi consiste nel fatto che i
rappresentanti più corrotti del capitale finanziario e industriale, che prima
governavano il paese tramite i loro politici di riferimento, abbiano preso il
controllo direttamente del potere politico, dividendosi le poltrone dei
governatori delle regioni più ricche del paese e scegliendo per la carica
presidenziale uno di loro, il superricco. Lo sregolato processo del
monopolio del capitale in atto nel paese da vent’anni si è concluso,
logicamente, con il monopolio del potere politico concentrato nelle mani di
questo strato sociale minoritario e parassitario.
«I progetti di legge antipopolari proposti dal nuovo governo ci fanno
capire chi ha vinto in Ucraina grazie alla rivoluzione recente. Se il governo
precedente era del tipo “famigliare”, quello nuovo merita di essere chiamato
“oligarchico”» ha constatato il giornale «Ukraïns’ka Pravda» qualche mese
dopo l’Euromaidan.
“Il tallone di ferro” dell’oligarchia, la cui pericolosità era ben segnalata
da Jack London nell’omonimo romanzo antiutopia, ha schiacciato l’intero
paese, servendosi dell’apparato repressivo statale e delle formazioni
paramilitari dei mercenari nazisti, con il tempo persino integrate nelle forze
armate ucraine ufficialmente. Questo è chiaro anche a quelli che non si sono
ancora liberati totalmente dalle illusioni di Euromaidan.

Chi è al potere in Ucraina sa benissimo quanto sia pericoloso scatenare il


malcontento e la rabbia nel popolo e perciò vi pone rimedio attraverso la
propaganda, cercando di coltivare nel popolo l’amore per gli oligarchi
“giusti”, i “patrioti”. Questi beceri capitalisti, però, non sono soltanto i
primi responsabili dello scoppio della guerra, la sfruttano per arricchirsi,
accumulando un forte debito di sangue nei confronti della popolazione. Per
questo basti ricordare l’episodio del rifornimento gratuito del carburante ai
carri armati dell’esercito ucraino da parte di Ihor Kolomojs’kyj (uno dei
principali sponsor dell’attuale presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj).
Questa azione, esemplare e tremendamente cinica, divulgata dalla
propaganda statale su tutti i giornali e tv, in realtà era una frode: come si è
scoperto poco dopo, quel carburante è stato acquistato dal ministero della
Difesa ucraino dalla ditta di Dnipro di proprietà dell’oligarca, tra l’altro
effettuando il pagamento in un modo per niente trasparente tramite un
tender. I soldi che Kolomojs’kyj ha speso per formare l’esercito privato,
attingendo a piene mani dal bacino dell’organizzazione nazionalista ucraina
“Pravyj Sektor”, rappresentano solo una piccola parte delle entrate che
l’oligarca ha ricevuto grazie al finanziamento statale concesso alla sua
banca.
Oggi è chiaro che proprio loro, i più grandi capitalisti del paese, sono i
veri responsabili del conflitto armato che sta devastando l’Ucraina dal 2014
a oggi, come sono responsabili dell’impoverimento dei cittadini, della
catastrofe economica e sociale che si è abbattuta sul paese, del degrado
morale della società, dello sgretolamento dell’Ucraina a livello geopolitico.
La crisi che ha impoverito milioni di persone ha reso gli oligarchi ancora
più ricchi. La guerra ha portato ricchi guadagni a coloro che dal 2014
applaudivano i bombardamenti e il massacro di loro concittadini chiamando
queste povere vittime “separatisti” o “terroristi”. Grazie a questa
propaganda patriottica e nazionalista, ancora adesso cercano di convincere
gli ucraini che i responsabili di tutti i loro mali siano le forze esterne, gli
agenti del Cremlino, distogliendo l’attenzione delle masse dal loro vero
nemico, rappresentato dalla classe dei superricchi.

È importante capire che questo meccanismo di corruzione e propaganda


è fomentato sopratutto da chi in Occidente ha interesse a mantenere
l’oligarchia al potere. Come non ricordare la vecchia tesi espressa da Lenin
«[…] l’imperialismo cerca di sostituire la democrazia con l’oligarchia». Il
paese povero e distrutto, governato da una banda di personaggi corrotti e
immorali che rappresentano gli interessi dell’élite capitalista, dipende
completamente dai creditori occidentali e non ha niente di lontanamente
paragonabile alla democrazia e all’indipendenza.
Oligarchia significa guerra, povertà e nazismo. Come insegna la storia,
prendendo come esempio la Germania del primo dopoguerra, il nazismo
arriva al potere nei momenti più bui, quando le oligarchie corrotte
capitaliste temono le masse e le azioni sindacali degli operai, e quindi
investono nella formazione di esaltati estremisti pronti a calpestare ogni
diritto, a fare mattanze, pur di tenere a bada per conto del padronato
oligarchico le classi dei lavoratori e i cittadini non allineati, disobbedienti.
Per liberarsi da questo male universale, l’Ucraina ha bisogno di
innescare il processo di liberazione dagli oligarchi. Attualmente, però, con
la guerra in corso e la propaganda che egemonizza l’informazione,
trascinando l’opinione pubblica nelle profondità delle trincee mediatiche e
anche in quelle reali, quelle della prima linea, questo processo non è
possibile. L’Ucraina è sulla strada del proprio fallimento e,
indipendentemente dall’esito di questa terribile e ingiusta guerra, passerà
alla Storia come il paese che si è prestato a essere il terreno di scontro tra le
superpotenze. Gli oligarchi continueranno a lottare per il loro potere, per
aumentare i loro capitali e le loro influenze politiche. Cercheranno di
prolungare questo conflitto il più possibile, incuranti delle conseguenze,
delle ferite che impiegheranno secoli a rimarginarsi del tutto.
Come diceva il protagonista del sopracitato romanzo di Jack London:
«Avendo imparato dall’esperienza amara noi sappiamo che
nessun’acclamazione di giustizia, umanità, legalità faranno effetto su di voi.
I vostri cuori sono insensibili, come il tallone, con il quale voi schiacciate i
poveri. Per questo motivo noi lottiamo per il potere».
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www.edizpiemme.it

Ucraina
di Nicolai Lilin
© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788858530191

COPERTINA || © SHUTTERSTOCK | ART DIRECTOR: CECILIA FLEGENHEIMER


«L’AUTORE» || © SPERANZA CASILLO
Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Introduzione
Prima parte. Come nasce una nazione
Seconda parte. L’industria ucraina era già fallita prima della guerra
Terza parte. Il mito della democrazia ucraina
Copyright

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