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Masha Gessen

PUTIN, L’UOMO
SENZA VOLTO

Traduzione di Lorenzo Matteoli


Gessen, Masha, The Man without a Face
Copyright © 2012 by Masha Gessen
© 2012 Bompiani/ RCS Libri
Presentazione
L’uomo senza volto racconta l’ascesa al potere di
Vladimir Putin, da agente di basso profilo del KGB
a presidente della Russia, e di come, in poco tempo,
quest’uomo sia riuscito a distruggere anni di
progresso del paese, trasformandolo in una vera e
propria minaccia per il suo stesso popolo.
Scelto come successore dalla “famiglia” che
circondava un ormai scomodo e sempre più
impopolare Boris Yeltsin, Vladimir Putin sembrava
la scelta migliore per l’oligarchia che lo voleva
plasmare a suo piacimento. Così all’improvviso il
ragazzo che era stato nell’ombra sognando di
governare il mondo diventa un personaggio
pubblico, e la sua popolarità cresce a dismisura. La
Russia e l’Occidente erano determinati a vedere in
lui il leader progressista dei loro sogni, anche
mentre prendeva il controllo dei mezzi di
comunicazione, mandava gli oppositori politici in
esilio se non nella tomba, e distruggeva il fragile
sistema elettorale del paese, concentrando il potere
nelle mani di pochi fedeli. Come inviata a Mosca,
Masha Gessen ha vissuto tutti gli eventi in prima
persona e per questa biografia, in corso di
traduzione in diciotto paesi, ha raccolto informazioni
e raggiunto fonti più di chiunque altro prima di lei,
per narrare come un uomo del tutto sconosciuto sia
riuscito a farsi strada fino a raggiungere un potere
assoluto - e assolutamente corrotto - su uno dei paesi
protagonisti della scena politico-economica di oggi.

Masha Gessen è nata in Russia il 13 gennaio 1967


da una famiglia ebrea ashkenazita. Emigrata negli
Stati Uniti nel 1981, è ritornata in Russia nel 1991
dove attualmente vive.
L’agente letterario che ha venduto la sua biografia
non autorizzata di Putin, molto preoccupata per
Masha, la sta convincendo a ritornare negli Usa,
avendo lei subìto minacce a Mosca. È perfettamente
bilingue, parla e scrive in inglese e russo. Scrive
regolarmente per “New Republic”, “New
Statesman”, “Granta” e “Slate”. È corrispondente in
Russia per “US News & World Report”. Ha alle
spalle tre opere di non fiction.
PROLOGO
Qualcuno mi scuote, mi sveglio. Il viso
terrorizzato di Kate. “La radio, stanno dicendo
qualcosa di Galina,” dice con voce soffocata. “Una
pistola. Credo... non capisco cosa dicono.”
Scendo dal letto e vado in cucina, dove Kate stava
preparando la colazione e ascoltando Echo Moskvy,
la radio di informazione e attualità migliore del
paese. Era un sabato mattina luminoso e chiaro,
insolito per Mosca a novembre. Non ero
preoccupata: per qualche ragione la paura di Kate
non mi toccava. Qualunque cosa avesse sentito o
creduto di sentire - con quel poco di russo che
conosceva - magari era solo l’inizio di una nuova
storia interessante. Come inviato capo del più
importante settimanale russo, Itogi, ritenevo che tutte
le storie interessanti fossero di mia specifica
competenza. E di storie interessanti ce ne erano un
sacco. In un paese che inventava se stesso a un ritmo
vertiginoso, ogni città, ogni famiglia, ogni istituzione
era in qualche modo un territorio vergine. Era l’anno
1998. In sostanza, fin dal 1990 ogni pezzo che avevo
scritto raccontava una storia che nessuno aveva mai
scritto prima: metà del mio tempo l’avevo passato
fuori Mosca, viaggiando e scrivendo dai teatri di
guerra, dalle miniere d’oro, dagli orfanotrofi o dalle
università, dai villaggi abbandonati o dai centri
petroliferi in crescita travolgente. La rivista, che era
di proprietà dello stesso magnate di Echo Moskvy,
mi ripagava approvando ogni volta il calendario
stravagante dei miei viaggi e piazzando spesso le
mie storie in copertina.
In altre parole, ero una di quelle persone che dagli
anni novanta avevano avuto tutto. Molti altri più
giovani o più vecchi di me l’avevano pagata cara la
transizione. La vecchia generazione aveva perso i
risparmi nell’iperinflazione e l’identità nel crollo
apparente di tutte le istituzioni sovietiche. La
generazione più giovane era cresciuta all’ombra
delle paure dei genitori e, in molti casi, del loro
fallimento. Io invece avevo ventiquattro anni quando
l’Unione Sovietica si sfasciò e insieme ai miei
coetanei avevo passato gli anni novanta a inventarmi
una carriera in quella che pensavo sarebbe stata la
vita nelle istituzioni della nuova società. Anche
quando la criminalità violenta divenne ormai prassi
comune in Russia, ci sentivamo stranamente sicuri:
osservavamo e qualche volta descrivevamo il
sottobosco criminale senza nemmeno pensare che
avrebbe potuto avere ripercussioni sulla nostra
esistenza. Inoltre ero sicura che le cose sarebbero
migliorate, avevo da poco comperato un
appartamento semidistrutto in un ex edificio delle
case popolari nel centro di Mosca e avevo deciso di
ristrutturarlo prima di lasciare l’appartamento che
affittavo con Kate, redattrice inglese di una rivista
commerciale. L’idea era di mettere su famiglia nel
nuovo appartamento. Quel sabato dovevo incontrare
il geometra per comprare gli arredi del bagno.
Kate indica la radio come se sputasse veleno, e mi
guarda per chiedermi cosa sta succedendo. Galina
Starovojtova, il nome che l’annunciatore della radio
andava ripetendo, era un deputato del parlamento e
uno dei più noti politici russi oltre che un’amica.
Alla fine degli anni ottanta, quando l’impero era
sull’orlo del collasso, Starovojtova, all’epoca
etnologa, divenne un’attivista per la democrazia e la
più autorevole rappresentante del popolo del
Nagorno-Karabakh, un’enclave di origine armena
nell’Azerbaigian. Il paese a sud dell Russia era stato
travolto dal primo dei numerosi conflitti etnici che
avrebbero poi segnato il crollo del blocco orientale.
Come molti altri accademici che si impegnarono in
politica era diventata immediatamente molto
popolare. Anche se fin dalla sua infanzia aveva
vissuto a Leningrado, gli armeni l’avevano nominata
loro rappresentante nel primo Soviet Supremo eletto
quasi democraticamente nel 1989, per il quale aveva
conquistato i voti con una maggioranza travolgente.
Nel Soviet Supremo era diventata il capo del
Gruppo interregionale, una corrente di minoranza
pro democrazia presieduta anche da altri nomi
illustri della politica russa come Andrej Sacharov e
Boris Eltsin. Quando Eltsin fu eletto presidente della
Russia nel 1990 - una carica che a quel tempo era di
rappresentanza cerimoniale - Galina diventò il suo
più diretto consigliere, ufficialmente per i problemi
etnici ma ufficiosamente per tutto, compresi gli
incarichi di governo. Nel 1992 Eltsin voleva offrire
a Galina il ministero della difesa; affidare un
incarico così importante a un civile e per di più a
una donna notoriamente vicina ai pacifisti avrebbe
rappresentato un gesto politico in classico stile
Eltsin di inizio anni novanta ed espresso il
messaggio che in Russia, e forse nel mondo, nulla
sarebbe mai stato come prima.
Che nulla dovesse essere mai più come prima era
il nodo centrale dell’agenda di Galina, radicale
anche rispetto al pensiero degli attivisti suoi
contemporanei. Insieme a un piccolo gruppo di
avvocati e politici aveva tentato, senza successo, di
mettere sotto processo il Partito comunista
dell’URSS. Era stata promotrice di una proposta di
legge per l’epurazione (illjustracija),1 dal greco
antico “purificazione”, un nuovo concetto che
cominciava a prendere piede nei paesi dell’ex
blocco sovietico e indicava il processo di
allontanamento dagli uffici pubblici di tutti i membri
del Partito e della polizia segreta. Nel 1992 aveva
saputo che il KGB2 aveva riorganizzato una sezione
interna del partito, in diretta violazione con il
decreto emesso da Eltsin dopo il fallito colpo del
19913 e con il quale il Partito comunista dell’Unione
Sovietica (PCUS) era stato messo al bando. Durante
una riunione pubblica nel 1992, Galina aveva sfidato
Eltsin sull’argomento ma per tutta risposta era stata
seccamente zittita. L’episodio aveva segnato la fine
della sua carriera nell’amministrazione Eltsin e il
graduale riavvicinamento di quest’ultimo ai servizi
di sicurezza e ai vecchi gerarchi comunisti che erano
rimasti al potere o vicini al potere. Buttata fuori
dall’amministrazione, Galina continuò a proporre la
legge per l’epurazione che però non passò, così a
quel punto abbandonò la politica e si trasferì negli
Stati Uniti, prima all’Istituto per la Pace a
Washington e poi, per dedicarsi all’insegnamento,
alla Brown University.

La prima volta che avevo incontrato Galina, non


ero riuscita nemmeno a vederla, nascosta da
centinaia di migliaia di persone che si erano riunite
nella piazza Majakovskij il 28 marzo 1991 per
partecipare a una manifestazione in favore di Eltsin.
Il presidente Michail Gorbacëv lo aveva infatti da
poco dimesso, e aveva anche vietato attraverso un
decreto il diritto di riunirsi nella pubblica piazza.4
Quella mattina i carri armati entrarono in città e
presero posizione in modo tale da rendere difficile
l’accesso alla manifestazione pro democrazia. Gli
organizzatori avevano risposto dislocando
l’appuntamento in due diversi luoghi della città per
facilitare la partecipazione della popolazione in
almeno uno dei due punti. Era la mia prima visita a
Mosca dopo dieci anni vissuti da emigrata; abitavo
nell’appartamento di mia nonna vicino a piazza
Majakovskij. Avendo trovato via Tverskaja
bloccata, gironzolai tra androni e cortili e superando
un passaggio a volta mi ritrovai in mezzo alla folla.
Distinguevo solo le schiene e le teste delle persone e
una serie di cappotti grigi e neri tutti uguali. Sentivo
però la voce di una donna che rimbombava dagli
altoparlanti sopra la folla, parlava del diritto di
riunirsi, un diritto inviolabile sancito dalla
costituzione. Mi rivolsi a un uomo vicino a me,
aveva in una mano un sacco di plastica giallo e
nell’altra teneva un bambino. “Chi è che parla?”
chiesi. “Starovojtova,” rispose. In quel momento la
donna cominciò a scandire all’unisono con la folla
uno slogan di cinque sillabe che sembrava
rimbombare su tutta la città: “Ros-si-ja! El’-cin!”
Meno di sei mesi dopo infatti l’Unione Sovietica
crollava e Eltsin diventava il capo di una nuova
Russia democratica. Che questo fosse inevitabile per
me e per molti altri fu chiaro quel giorno di marzo
quando la gente di Mosca sfidando il regime e i suoi
carri armati difese il diritto di riunirsi nella pubblica
piazza.
Non ricordo esattamente quando incontrai Galina
di persona, ma la nostra diventò una amicizia vera e
propria nell’anno del suo incarico alla Brown
University: veniva spesso ospite nella casa di mio
padre vicino a Boston; io pendolavo tra Mosca e gli
Stati Uniti e Galina diventò la mia guida nel mondo
della politica russa, anche se di tanto in tanto
ribadiva la sua totale appartenenza al mondo
universitario. Tutto cambiò improvvisamente nel
dicembre del 1994, quando Eltsin lanciò
un’operazione militare contro la repubblica
separatista della Cecenia: i suoi consiglieri a quanto
pare gli avevano assicurato che il governo federale
avrebbe potuto stroncare l’insurrezione in poco
tempo. Galina aveva ragione di credere che la guerra
sarebbe stata invece un disastro sicuro nonché una
seria minaccia per la democrazia russa. In primavera
andò negli Urali per presiedere a un congresso per la
risurrezione del suo partito politico, Russia
Democratica, un tempo la più importante forza
politica del paese. Io mi occupai del congresso per
conto del più importante quotidiano russo del
momento, ma sulla strada per Celjabinsk - un viaggio
di tre ore in aereo seguito da altre tre ore di autobus
- riuscii a farmi derubare. Verso mezzanotte arrivai a
destinazione, sconvolta e senza soldi, e nella lobby
dell’albergo incontrai Galina: era appena uscita da
una giornata di difficili riunioni. Prima che avessi
modo di dire una parola mi portò nella sua stanza,
dove mi mise in mano un bicchiere di vodka e si
sedette a un piccolo tavolino per prepararmi dei
panini al salame. Mi prestò i soldi per tornare a
Mosca.
Galina aveva nei miei confronti sentimenti materni
- avevo la stessa età di suo figlio, che si era
trasferito con il padre in Inghilterra quando lei aveva
scelto la carriera politica - ma l’episodio dei panini
rientrava anche in un altro contesto: in un paese in
cui gli archetipi della politica andavano dai
commissari con i giubbotti di cuoio ai decrepiti
funzionari di partito, Galina cercava di essere una
figura completamente nuova, il volto umano della
politica. A un congresso di femministe russe,
scandalizzò il pubblico alzando la gonna per
dimostrare che un collega maschio aveva torto ad
accusarla di avere le gambe storte. In una intervista a
una delle prime riviste russe in carta patinata aveva
parlato della difficoltà di trovare vestiti adatti per
una donna di taglia decisamente forte, come lei.
Questo non le impediva di lavorare ferocemente per
il suo progetto politico legislativo. Nel 1997, per
esempio, si impegnò di nuovo per far passare la
legge sull’epurazione - che venne di nuovo bocciata.
Nel 1998 si lanciò in un’inchiesta sui finanziamenti
elettorali di alcuni dei suoi più potenti avversari
politici, fra questi il rappresentante comunista della
Duma, la camera bassa del parlamento russo. Il
Partito comunista era di nuovo legale e popolare.5
Le chiesi come mai avesse deciso di ritornare alla
politica quando sapeva benissimo che non avrebbe
mai più avuto la stessa influenza che in passato. Per
diverse volte aveva provato a rispondermi e
ricadeva sempre sui suoi motivi personali. Un giorno
mi chiamò dall’ospedale dove avrebbe dovuto
essere operata; prima di essere sottoposta ad
anestesia, aveva cercato di chiarire la sua visione
esistenziale e finalmente aveva trovato un’immagine
che le piaceva. “C’è una antica leggenda greca sulle
Arpie,” mi disse. “Sono ombre che possono vivere
solo se bevono sangue umano. La vita di uno
studioso è come la vita di un’ombra, che vive
quando lavora perché il futuro si realizzi - la
politica, insomma - anche se solo in piccola parte.
Ma per farlo è necessario bere sangue, compreso il
proprio.”
Osservo la radio insieme a Kate, è disturbata
come se le parole dello speaker siano cariche di
tensione. L’annunciatore dice che Galina è stata
uccisa poche ore prima, le hanno sparato nelle scale
di casa sua a San Pietroburgo. Era rientrata in aereo
da Mosca la sera. Insieme al segretario Ruslan
Linkov erano passati per una breve visita dai
genitori di lei prima di proseguire per
l’appartamento in un edificio sul canale di
Griboedov, una delle più belle zone della città.
Entrati nell’edificio le scale erano al buio: i killer
che l’aspettavano avevano tolto le lampadine.
Continuarono lo stesso a salire parlando di una
causa recente che era stata intentata contro Galina da
un partito politico nazionalista. Poi c’era stato uno
rumore secco e un lampo di luce; Galina si era
fermata di colpo. Ruslan le aveva gridato, “Che cosa
fai?” lanciandosi in direzione della luce e del
rumore. Si prese le due pallottole successive.
Ruslan aveva dapprima perso conoscenza, poi si
era ripreso ed era riuscito a chiamare un giornalista
sul cellulare. Era stato quest’ultimo a chiamare la
polizia. La voce alla radio mi diceva che Galina era
morta e Ruslan, che io conoscevo bene e che
stimavo, era in condizioni critiche all’ospedale.
Se questo libro fosse un romanzo, il mio
personaggio, alla notizia della morte dell’amica e
consapevole ormai del cambiamento inevitabile che
avrebbe investito la sua vita, avrebbe lasciato
perdere tutto quello che stava facendo e sarebbe
corsa a fare qualcosa di coerente con la
drammaticità del momento. Nella realtà è difficile
sapere quando la nostra esistenza viene cambiata in
modo irrevocabile, è difficile sapere che cosa fare
quando ci colpisce una tragedia. Io andai a
comperare gli accessori per il bagno del mio nuovo
appartamento. Mi bloccai come fulminata quando il
geometra che era con me disse: “Ha sentito della
Starovojtova?” Ricordo di essermi guardata gli
stivali nella neve grigia e schiacciata dai piedi di
migliaia di futuri proprietari di case. “Dovevamo
costruirle un garage,” disse. Fu in quel momento, al
pensiero che la mia amica non avrebbe mai avuto
bisogno di quel garage, che mi resi conto della mia
inutilità, della mia paura e della mia rabbia. Saltai in
macchina, mi diressi in stazione e presi il primo
treno per San Pietroburgo; dovevo almeno provare a
scrivere quello che era successo a Galina
Starovojtova.
Nei due anni successivi passai settimane e
settimane a San Pietroburgo. Laggiù c’era un’altra
storia che nessuno aveva mai raccontato, ma molto
più grossa di tutte quelle che avevo scritto prima,
una storia ancora più importante dell’assassinio a
sangue freddo di uno dei politici più conosciuti del
paese. Quello che trovai a San Pietroburgo, seconda
città più grande della Russia, fu uno stato dentro lo
stato. Un posto dove il KGB - l’organizzazione
contro la quale Starovojtova aveva combattuto e
perso la più importante delle sue battaglie -
dominava in modo assoluto. I politici e i giornalisti
locali ritenevano che i loro telefoni fossero sotto
controllo, e pareva che avessero ragione. Un posto
dove gli assassini di personaggi della politica e
degli affari erano avvenimenti correnti. Dove affari
finiti male potevano facilmente lasciare qualcuno in
prigione. In altre parole era molto simile a quello
che sarebbe diventato l’intero paese nel giro di
pochi anni, quando la Russia sarebbe stata governata
dalla gente che governava San Pietroburgo negli anni
novanta.
Non ho mai scoperto chi avesse ordinato
l’assassinio di Galina Starovojtova (i due uomini
che vennero condannati qualche anno dopo per
l’omicidio erano solo killer a pagamento). Né il
perché. Quello che però scoprii fu che per tutti gli
anni novanta, mentre giovani come me si davano da
fare per costruirsi delle nuove vite in un nuovo
paese, esisteva un mondo parallelo proprio accanto
al nostro. San Pietroburgo aveva perfezionato e
mantenuto molte delle fondamentali caratteristiche
dello stato sovietico: un sistema di governo che
lavorava per eliminare i suoi nemici; un sistema
paranoico, chiuso che teneva ogni cosa sotto
controllo ed eliminava qualsiasi cosa non riuscisse a
controllare. Era impossibile sapere con precisione
chi avesse ucciso Starovojtova perché la sua
posizione di nemica del sistema ne aveva fatto una
donna bersaglio, un condannato a morte. Nella mia
vita sono stata in molti teatri di guerra, ho lavorato
sotto i bombardamenti, sotto il fuoco di sbarramento,
ma quella era la storia più terrificante che avessi
mai dovuto scrivere: mai mi era capitato di dover
spiegare una realtà così fredda e crudele, così chiara
e senza pietà, così corrotta e totalmente priva di
rimorso.
In pochi anni tutta la Russia avrebbe vissuto
quella realtà. Come ciò sia potuto accadere è la
storia narrata in queste pagine.
1
PRESIDENTE PER CASO
Immaginate di vivere in un paese senza nessuno al
governo. Era quella la situazione che Boris Eltsin e
la sua ristretta cerchia di politici pensavano di dover
affrontare nel 1999.
Eltsin era stato a lungo malato. Aveva sofferto di
diversi attacchi cardiaci e nel 1996, poco dopo la
sua elezione al secondo mandato presidenziale, era
stato sottoposto a un’operazione a cuore aperto.
Molti pensavano che bevesse molto - un problema
comune e molto evidente in Russia, ma coloro che
gli erano vicini sostenevano che gli occasionali
momenti di disorientamento e di confusione mentale
erano provocati dalla sofferenza fisica cronica e non
dall’alcol. Qualunque fosse la ragione Eltsin aveva
dato segni di incoerenza e di confusione mentale in
molte visite ufficiali, causando molta
preoccupazione tra le file dei suoi sostenitori e forte
delusione ai suoi elettori.
Nel 1999 Eltsin, il cui indice di popolarità era
caduto a numeri di una sola cifra, non era che
l’ombra dell’uomo politico di una volta. Usava
ancora molti degli strumenti che lo avevano reso
grande: assegnava incarichi politici sorprendenti,
alternava periodi di governo partecipativo a
politiche di non interferenza, cercava infine di
adottare in modo strategico la sua forte personalità -
ma oramai il più delle volte sembrava un pugile
suonato, barcollava nel ring, colpendo avversari
immaginari e mancando quelli reali.
Verso la fine del suo secondo mandato, Eltsin
aveva fatto nervosamente diversi rimpasti nella sua
amministrazione. Aveva licenziato il primo ministro
che era stato in carica per sei anni, rimpiazzandolo
con uno sconosciuto di trentasei, per poi rimettere in
carica il vecchio ministro sei mesi più tardi e di
nuovo sostituirlo a distanza di tre settimane. Eltsin
nominava un successore dopo l’altro solo per
rimanerne deluso in un modo drammaticamente
pubblico che imbarazzava sia l’oggetto del
malcontento del presidente sia tutti coloro che
assistevano alla manifestazione di sfiducia.
Più aumentava la sua stranezza e più cresceva il
numero di nemici - e più questi nemici si
coalizzavano fra loro. Un anno prima che il suo
secondo mandato arrivasse alla fine, Eltsin si trovò
in cima a una piramide molto fragile. I molti rimpasti
avevano fatto fuori diverse generazioni di
professionisti della politica; molti responsabili di
ministeri e di agenzie federali erano giovani
mediocri che erano stati risucchiati dalla base al
vertice. La cerchia di fedeli alleati ne contava
talmente pochi ed era così isolata che i giornalisti si
riferivano ad essa come alla “Famiglia”: vi
appartenevano la figlia Tatjana, il capo del gabinetto
Aleksandr Vološin, il precedente capo del gabinetto
Valentin Jumašev, che in seguito avrebbe sposato
Tatjana, un altro ex capo del gabinetto, l’economista
e architetto della privatizzazione russa Anatolij
Cubajs, e l’imprenditore Boris Berezovskij. Della
mezza dozzina dei cosiddetti oligarchi, gli uomini
d’affari che erano diventati straricchi grazie a Eltsin
e che lo avevano ripagato orchestrando la sua
campagna elettorale, Berezovskij era l’unico rimasto
fedelmente al suo fianco.
Il presidente non aveva diritto a un terzo mandato,
non era nelle condizioni di salute per provarci e
aveva molti motivi per temere un successore ostile.
Inoltre, Eltsin non era solo un leader impopolare: era
il primo uomo politico del quale i russi avevano
avuto fiducia - e la delusione che la gente provava
era feroce come il favore del quale era stato una
volta oggetto.
Il paese era massacrato, traumatizzato e deluso.
Negli ultimi anni del 1980 aveva sperato ed era
rimasto unito fino all’agosto 1991, fino a quando il
popolo sconfisse la giunta militare che aveva
minacciato il governo di Gorbacëv. Aveva avuto
fiducia in Boris Eltsin. L’unico capo nella storia
della Russia che era stato eletto in libere elezioni. In
cambio la popolazione aveva dovuto subire una
iperinflazione che in pochi mesi si era mangiata i
suoi risparmi di una vita; burocrati e imprenditori
che rubavano allo stato e si derubavano fra di loro
senza pudore; un’ingiustizia economica e sociale
macroscopica mai vista prima. Peggio ancora, la
maggior parte dei russi aveva perso qualunque
certezza sul loro futuro - e con questo anche il senso
di unità che li aveva sostenuti negli anni ottanta e
novanta.
Il governo di Eltsin aveva commesso il grave
errore di ignorare il dolore e la paura del paese. In
quei dieci anni Eltsin, che era stato un sincero
populista, uno che andava in autobus o che saliva sui
carri armati se la situazione lo richiedeva, si era a
poco a poco ritirato in un mondo impenetrabile e
rigorosamente protetto di limousine nere e di
riunioni private. Il suo primo ministro, il giovane e
brillante economista Egor Gajdar, che fu il simbolo
della riforma economica postsovietica, non aveva
riserve nel dire francamente e pubblicamente che
considerava la gente troppo stupida per discutere
della riforma. Il popolo russo abbandonato dai suoi
capi nel momento di massima difficoltà cercò di
consolarsi nella nostalgia, non tanto nell’ideologia
comunista che da decine di anni aveva perso la
capacità di entusiasmare, quanto nel desiderio di
riconquistare il ruolo della Russia come
superpotenza. Nel 1999 i sentimenti di ostilità erano
diventati palpabili, e costituirono in gran parte il
legittimo fondamento di paura e terrore per Eltsin e
la Famiglia.
Il dolore e l’aggressività accecano la gente. Il
popolo russo non si rendeva conto delle effettive
conquiste nei dieci anni di Eltsin. Nonostante le
molte contorte vicende, la Russia era riuscita a
privatizzare gran parte delle imprese pubbliche. Le
più grosse strutture di impresa erano state
riorganizzate completamente ed erano diventate
competitive. Nonostante l’aumento delle
diseguaglianze sociali, la grande maggioranza dei
russi aveva goduto di un generale miglioramento
delle condizioni di vita:1 il numero di famiglie
dotate di televisione, lavabiancheria e frigoriferi era
aumentato; il numero di auto private era raddoppiato;
il numero di quelli che potevano fare viaggi
all’estero come turisti era quasi triplicato tra il 1993
e il 2000. Nell’agosto del 1998 la Russia era andata
in default sul suo debito pubblico e questo aveva
provocato un rapido ma forte aumento
dell’inflazione; dopo quella crisi però l’economia
aveva ripreso a crescere.
La stampa e i media erano rinati: in pochissimo
tempo i russi avevano imparato a produrre una
splendida e sofisticata televisione, avevano anche
dato vita a un incredibile numero di iniziative
editoriali e nuove pubblicazioni elettroniche
promettenti. Molti problemi di infrastuttura, anche se
non tutti, erano stati risolti: i treni intercity erano di
nuovo in orario, il servizio postale funzionava, e
aumentava il numero di utenze telefoniche familiari.
Una società russa di telefonia mobile fondata nel
1992 aveva piazzato le sue azioni sulla borsa di
New York e andava molto bene.
Nonostante tutto, il governo sembrava
assolutamente incapace di convincere la gente che le
cose andavano indubbiamente meglio rispetto a due
anni prima e certamente molto meglio di dieci anni
prima. L’incertezza che i russi provarono al crollo
dell’Unione Sovietica fu così epidemica che da quel
momento ogni sconfitta avrebbe confermato il loro
presentimento di un tragico destino e ogni vittoria si
sarebbe tramutata nella paura di una nuova rovina.
Tutto quello che sapeva fare Eltsin era riscoprire i
suoi modi populisti: non era capace di nuove sfide o
di far rinascere le aspettative; non riusciva a
proporre al paese nuovi ideali o una nuova visione.
Poteva solo provare a dare alla gente quello che la
gente voleva.
E quello che la gente voleva non era di certo
Eltsin. Dieci milioni di russi lo ritenevano
responsabile di tutte le disgrazie che avevano subito
nei dieci anni precedenti, colpevole di aver distrutto
i loro sogni e le loro speranze - magari anche la loro
giovinezza - e lo odiavano spassionatamente.
Chiunque fosse arrivato alla guida del paese dopo
Eltsin sarebbe facilmente diventato popolare se lo
avesse processato. La paura più grande del
presidente era rappresentata da un partito politico
chiamato Otecestvo-Vsja Rossija (il nome, l’unione
di due titoli politici - “patria” e “tutta la Russia” -,
suona male in russo come in italiano), capeggiato
dall’ex primo ministro e da numerosi sindaci e
governatori provinciali. Egli temeva che questo
partito potesse vincere, andare al potere e infine
vendicarsi di Eltsin e della Famiglia, o peggio
temeva di passare i suoi ultimi anni di vita in
prigione.
È a questo punto che entra in scena Vladimir
Putin.
Secondo il racconto di Berezovskij la Famiglia
stava cercando un successore. In questa storia ci
sono però incongruenze gigantesche. Un piccolo
gruppo di persone, assediato e isolato, stava
cercando qualcuno che subentrasse nella guida del
più grande paese del mondo, che acquisisse sia le
sue testate nucleari sia la complessa eredità di un
tragico passato. Ma se la lista dei possibili candidati
sembrava corta, ancora di più lo era quella delle
qualifiche richieste. Tutti coloro che avevano
dimostrato di avere un vero capitale politico,
ambizioni governative e una personalità all’altezza
dell’incarico avevano già abbandonato Eltsin. I
candidati erano tutti uomini banali vestiti di grigio.
Berezovskij sostiene che Putin era il suo protetto.
Come ebbe a dirmi nella sua villa fuori Londra - ho
mantenuto la promessa di dimenticare l’esatto
indirizzo nel momento stesso in cui rientravo in città
- Berezovskij aveva conosciuto Putin nel 1990,
quando stava cercando di aprire una concessionaria
a Leningrado. Berezovskij era un accademico
diventato concessionario di auto. Vendeva Lada, il
nome che i russi avevano appioppato a una auto
prodotta in modo improbabile sulla base di un
modello superato della Fiat 124. Importava anche
auto usate di marche europee2 e organizzava officine
meccaniche per aggiustare quello che vendeva.
Putin, che allora era un consigliere del consiglio
comunale di Anatolij Sobcak, aveva aiutato
Berezovskij ad aprire e a far funzionare una officina
di servizio a Leningrado, e aveva rifiutato una
mazzetta, ragione per cui Berezovskij si ricordava di
lui. “Era stato il primo burocrate che non aveva
accettato tangenti,” mi assicurò Berezovskij. “Ne
rimasi molto impressionato.”3
Berezovskij prese l’abitudine di passare sempre
dall’ufficio di Putin ogni volta che era a Leningrado
- in considerazione del carattere nevrotico di
Berezovskij, queste visite dovevano essere più che
altro delle incursioni durante le quali l’oligarca
piombava nell’ufficio, chiacchierava eccitato e se ne
andava, probabilmente senza nemmeno far caso alle
reazioni del suo ospite. Quando intervistai
Berezovskij ebbi l’impressione che si sforzasse di
ricordare qualunque cosa gli avesse detto Putin. “Ma
lo sentivo più come una specie di alleato,” mi disse.
Rimase ancor più colpito dal fatto che Putin,
promosso vicesindaco di San Pietroburgo quando
Sobcak fu eletto sindaco, rinunciò a un nuovo
incarico in seguito alla sconfitta alle elezioni di
Sobcak.
Quando Putin si trasferì a Mosca nel 1996 per
occupare un posto nell’amministrazione del
Cremlino, i due si frequentarono più spesso al club
esclusivo di Berezovskij nel centro della città.
Berezovskij si era avvalso delle sue conoscenze per
piazzare dei segnali di divieto di transito ai due
ingressi di un isolato, sostanzialmente per marcare
un tratto di strada residenziale come di sua
proprietà. (I residenti degli appartamenti dei palazzi
dall’altra parte della strada non potevano più
parcheggiare le auto davanti alle loro abitazioni.)
All’inizio del 1999 Berezovskij era un uomo sotto
assedio, ancora di più del resto della Famiglia
perché era l’unico che teneva molto al suo status
nella società di Mosca. Impegnato in una disperata
lotta al potere, apparentemente senza speranza, con
l’ex primo ministro Evgenij Primakov, capo della
coalizione contro Eltsin, Berezovskij era diventato
un paria della politica. Durante la mia visita,
continuò a raccontare:

Era il compleanno di mia moglie Lena. Avevamo


deciso di non invitare molta gente perché non
volevamo che qualcuno si trovasse in imbarazzo con
Primakov. Quindi c’erano solo amici. A un certo
punto il capo della vigilanza mi dice: “Boris
Abramovic, fra dieci minuti arriva Vladimir
Vladimirovic Putin.” Allora gli chiedo: “Per quale
motivo?” E lui mi risponde: “Vuole fare gli auguri di
compleanno a Lena.” Infatti Putin sarebbe arrivato
dopo dieci minuti, con un mazzo di fiori. Gli vado
incontro e gli domando: “Volodja* perché lo fai? Hai
già abbastanza problemi. Vuoi proprio rendere
pubblica la cosa?” A questo punto lui mi risponde:
“Sì, voglio proprio renderla pubblica.” Fu così che
la nostra amicizia si consolidò. Prima perché non
accettò la tangente, poi perché non abbandonò
Sobcak e infine questo episodio mi confermò che era
un uomo sincero e buono - un uomo del KGB, certo,
ma un uomo.

Quell’incontro gli diede proprio alla testa.


Berezovskij era della stessa pasta dei primi
imprenditori russi. Come tutti era molto intelligente,
colto e amante del rischio. Come molti di loro era
ebreo, e quindi era stato un emarginato fin da
bambino. Come tutti loro aveva una enorme
ambizione e una energia senza limiti. Con un Ph.D. in
matematica aveva cominciato la sua società di
import-export di auto e servizi. Usando a proprio
vantaggio il credito e l’iperinflazione aveva in
pratica portato via milioni di dollari al più grande
produttore di auto della Russia4. All’inizio e nella
prima metà degli anni novanta entrò in finanza,
continuò a tenere d’occhio il commercio delle auto,
comprò una forte quota di una compagnia petrolifera
e, la mossa in assoluto più importante, si mise a
capo della televisione pubblica russa, Canale Uno, il
canale più seguito nel paese - questo gli consentì di
entrare indisturbato nel 98% delle famiglie russe.5
Come altri oligarchi Berezovskij aveva investito
nella campagna per la rielezione di Eltsin nel 1996.
A differenza di loro però aveva poi sfruttato la
situazione per accedere a una serie di incarichi
politici. Aveva girato tutto il paese per organizzare
alleanze politiche, aveva negoziato la pace in
Cecenia ed era stato sempre sotto i riflettori.
Coltivava l’immagine del kingmaker, sicuramente
ingigantendo la propria reputazione e altrettanto
certamente credendo alla metà di quello che diceva
o faceva nel momento stesso in cui lo diceva e lo
faceva. Due generazioni di corrispondenti stranieri
in Russia hanno pensato che Berezovskij fosse il
vero capo della Russia.
Non esiste persona più facile da manipolare di
uno che gonfia la propria immagine. Mentre la
Famiglia stava cercando il futuro leader, si svolsero
una serie di incontri tra Putin e Berezovskij. Putin
nel frattempo era diventato il capo della polizia
segreta russa. Eltsin aveva sistematicamente
eliminato più volte tutti i piani alti e l’FSB - il
Servizio di sicurezza federale, l’agenzia che aveva
sostituito il KGB - non era stata risparmiata. Se
dobbiamo credere a Berezovskij, fu lui a fare il
nome di Putin a Valentin Jumašev, il capo del
gabinetto di Eltsin:

Gli ho detto: “Abbiamo Putin che era nei servizi


segreti, no?” e Valja mi ha detto: “Sì, era nei servizi
segreti.” Così ho continuato: “Senti credo che sia
una opzione possibile. Pensaci: in fondo è un
amico.” E Valja mi ha risposto: “Ma ha un rango
molto basso.” Allora io ho insistito: “Guarda siamo
in mezzo a una rivoluzione, tutto è per aria, quindi...”

Come immagine del processo decisionale per la


scelta della più alta carica della principale agenzia
di sicurezza di una potenza nucleare, questa
conversazione sembra piuttosto assurda e
inverosimile, ma io sono propensa a crederci. Il
rango di Putin era certo basso: aveva lasciato il
servizio attivo come tenente colonnello ed era stato
promosso colonnello d’ufficio quando era nella
riserva. Lui sosteneva che gli avessero offerto le
stellette da generale quando divenne capo dell’FSB,
ma aveva declinato l’onore: “Non ci vuole un
generale per comandare colonnelli.” Questa la
spiegazione della sua decisione secondo la moglie,
“Ci vuole qualcuno che sia capace di farlo.”6
Capace o no, di certo Putin non si sentiva sicuro
nel suo ruolo all’FSB. Cominciò subito a piazzare
gente che conosceva dai tempi del KGB a
Leningrado al vertice della struttura federale. Non si
sentiva sicuro nemmeno nel suo ufficio: ogni volta
che Berezovskij andava a trovarlo si spostavano a
parlare in un vano ascensore in disuso dietro
l’ufficio, perché era l’unico posto in tutto l’edificio
che Putin considerava immune alle registrazioni. In
questo contesto di abiezione funzionale i due si
incontravano quasi ogni giorno per parlare della
battaglia di Berezovskij contro l’ex primo ministro
Primakov e alla fine della possibilità di Putin di
diventare presidente della Russia. Il potenziale
candidato agli inizi era scettico, ma disposto ad
ascoltare. Una volta chiuse per sbaglio la porta tra il
vano ascensore e il corridoio di fronte al suo ufficio
e così si trovarono bloccati nell’ascensore. Putin
dovette prendere a calci la parete perché qualcuno li
facesse uscire.
Alla fine Berezovskij, che era convinto di
rappresentare la Russia, iniziò con determinazione a
fare la corte a Putin. Nel luglio del 1999 Berezovskij
andò a Biarritz, nel sudovest della Francia, dove
Putin era in vacanza.

L’ho chiamato prima, dicendogli che volevo


incontrarlo per parlare con lui di una cosa seria.
Sono andato; lui era in vacanza con la moglie e con
le due figlie, allora ancora molto giovani, in un
condominio davvero modesto. Era una specie di
residence. La cucina, una stanza da letto o qualche
stanza da letto in più. Veramente molto modesto.

A quel tempo i milionari russi, e Putin era uno di


loro, avevano l’abitudine di andare in vacanza in
gigantesche ville sulla Costa Azzurra: per questo
Berezovskij era rimasto colpito dalla sistemazione
senza troppe pretese delle vacanze di Putin.
“Parlammo per una giornata intera. Alla fine, lui
disse: ‘Va bene, proviamo. Ma tu capisci che deve
essere Boris Nikolaevic [Eltsin] a chiedermelo.’”
Tutta questa storia ricorda una vecchia barzelletta
tramandata negli shtetl, i tipici villaggi ebraici
dell’Est Europa. Un combinatore di matrimoni va a
trovare un vecchio sarto per discutere con lui della
possibilità di far sposare la sua figlia mediana
all’erede dell’impero dei Rothschild. Il vecchio
sarto fa una serie di obiezioni: non vuole che la
seconda figlia si sposi prima che la figlia maggiore
si sia sistemata, non vuole che la figlia vada via di
casa, non è sicuro che il giovane Rothschild sia un
uomo pio come si conviene a un bravo marito per
sua figlia. Il combinatore di matrimoni ribatte a tutte
le riserve con il suo argomento fondamentale: questo
alla fine è l’erede dei Rothschild. Alla fine il
vecchio sarto acconsente. “Bene,” dice il
combinatore di matrimoni, “ora non mi resta che
parlare con i Rothschild.”
Berezovskij lo rassicura,

Volodja cosa dici? È lui che mi ha mandato per


essere sicuro che non ci fossero equivoci, per
evitare che quando te lo avesse chiesto tu non gli
dicessi di no. Volodja era finalmente d’accordo e io
sono tornato a Mosca e ho raccontato a Jumašev
della conversazione. Un po’ di tempo dopo - non
ricordo esattamente quanti giorni - Putin rientrò a
Mosca e incontrò Boris Nikolaevic. La reazione di
Boris Nikolaevic fu complicata. Ricordo solo che mi
disse una cosa: ‘Potrebbe andare, ma mi sembra un
po’ piccolino.’

La figlia di Eltsin, Tatjana Jumaševa ricorda la


vicenda in modo diverso. Lei dice di aver sentito il
capo del gabinetto di Eltsin di quel tempo, Vološin,
discutere con il precedente capo di gabinetto Cubajs:
tutti e due erano d’accordo che Putin fosse la scelta
giusta, ma Cubajs aveva dei dubbi che il parlamento
russo avrebbe confermato Putin come primo
ministro. Mentre i due esponevano i loro punti di
vista a Eltsin, Berezovskij andò a Biarritz con la sua
proposta - perché voleva che Putin e il resto del
paese credessero che fosse lui il kingmaker.
Tatjana Jumaševa, come gli altri che prendevano
parte alla selezione del presidente, ricorda il panico
con il quale vedevano la situazione del paese e del
suo futuro.

Cubajs credeva che la Duma non avrebbe


confermato Putin. Dopo tre votazioni ci sarebbe stato
lo scioglimento del parlamento.* I comunisti insieme
all’ex primo ministro Primakov e al sindaco di
Mosca Jurij Lužkov avrebbero messo insieme una
forte maggioranza per le prossime elezioni, forse
anche una maggioranza in grado di modificare la
costituzione. Dopo di che il paese sarebbe scivolato
verso la catastrofe, o peggio alla guerra civile. Lo
scenario migliore possibile era quello di un regime
neocomunista, relativamente adattato a condizioni
più moderne, anche se ci sarebbe stata una nuova
nazionalizzazione delle imprese, la chiusura dei
confini, e i media sarebbero stati soffocati.7

Anche Berezovskij condivide lo stesso timore:

La situazione era sull’orlo della catastrofe.


Avevamo perso tempo e avevamo perso il vantaggio
della posizione. Primakov e Lužkov si stavano
organizzando in tutto il paese. Già cinquanta
governatori (su ottantanove) avevano firmato per il
loro movimento politico. Primakov era il mostro che
voleva rovesciare tutto quello che era stato
conquistato in questi anni.

Come mai, se la Famiglia riteneva la situazione


così disperata, vedevano in Putin il loro salvatore?
Cubajs diceva che era il candidato ideale.
Berezovskij lo considerava una scelta brillante. Chi
credevano che fosse Putin e come mai lo reputavano
in grado di governare il paese?
Probabilmente l’aspetto più strampalato
dell’ascesa al potere di Putin è che chi l’ha messo
sul trono lo conosceva poco più di quanto lo
conoscevate voi. Berezovskij mi disse che non
aveva mai considerato Putin come un amico e non lo
aveva mai trovato interessante come persona -
pesante come affermazione da parte di un uomo così
vitale che aveva sempre cercato di attrarre nella sua
orbita soggetti intellettualmente ambiziosi e di
calamitarli a sé grazie al suo personale carisma. Il
fatto che Berezovskij non trovasse Putin abbastanza
interessante per cercare di avvicinarlo fa pensare
che non abbia mai avuto una scintilla di curiosità
verso l’uomo. Quando iniziò a prenderlo in
considerazione come successore di Eltsin,
evidentemente ritenne che erano proprio le
caratteristiche che lo avevano tenuto a distanza a
fare di Putin il candidato ideale: una persona
apparentemente senza personalità e poco
interessante, si sarebbe dimostrato malleabile e
disciplinato. Berezovskij si sbagliava di grosso.
Cubajs l’aveva conosciuto brevemente quando era
consigliere economico del sindaco di San
Pietroburgo Sobcak e Putin era appena stato
nominato suo vice. Ricordava Putin durante il suo
primo anno di lavoro per il sindaco Sobcak: era
stato un anno particolarmente intenso e Putin era
vivace e curioso in modo inusuale, faceva sempre
domande. Cubajs aveva lasciato San Pietroburgo nel
novembre del 1991 per entrare nel governo a Mosca
e le sue impressioni iniziali non erano cambiate.
E lo stesso Eltsin cosa sapeva di colui che presto
sarebbe stato consacrato come suo futuro
successore? Sapeva che era uno dei pochi che gli era
rimasto fedele. Sapeva che era di un’altra
generazione: a differenza di Eltsin, di Primakov e
del suo esercito di governatori, Putin non aveva fatto
carriera attraverso i ranghi del Partito comunista e
quindi non aveva dovuto dichiarare pubblicamente
un nuova fede al crollo dell’Unione Sovietica.
Anche il suo aspetto era diverso: tutti quegli uomini
erano di corporatura pesante e sembravano
invecchiati da sempre; Putin, un individuo magro e
di bassa statura, che adesso indossava abiti di buon
taglio europeo, aveva più l’aspetto della nuova
Russia promessa da Eltsin al suo popolo dieci anni
prima. Il presidente sapeva anche, o credeva di
sapere, che Putin non avrebbe permesso di
processarlo né di perseguitarlo una volta che fosse
andato in pensione. Se Eltsin aveva ancora un
briciolo dell’eccezionale fiuto politico di una volta,
immaginava che ai russi sarebbe piaciuto
quest’uomo che avrebbero ricevuto in eredità, e che
sarebbe diventato loro erede.
Qualsiasi persona avrebbe visto in lui - in quel
grigiore, in quell’essere ordinario - ciò che più
desideravano vedere.
Il 9 agosto 1999, Eltsin nominò Vladimir Putin
primo ministro di Russia. Una settimana dopo una
grande maggioranza della Duma lo confermava
nell’incarico: aveva dimostrato di piacere o
quantomeno di non dispiacere, esattamente come
Eltsin aveva intuito.

* “Volodja”, “Volodja”, “Vova”, “Volod’ka”,


“Vovka” sono tutti diminutivi di “Vladimir”, in
ordine di familiarità.
* Secondo la costituzione russa Eltsin poteva
imporre tre votazioni sulla candidatura del primo
ministro e poi avrebbe dovuto sciogliere il
parlamento.
2
LA GUERRA DELLE ELEZIONI
“Lo sai? Qualcuno dice che dietro gli attentati ci
sia l’FSB,” mi disse il mio direttore, una delle
persone più intelligenti che io conosca, un
pomeriggio di settembre nel 1999. “Tu ci credi?”
Per tre settimane Mosca e altre città della Russia
erano state terrorizzate da una serie di esplosioni. La
prima il 31 agosto in un supermercato affollato nel
centro di Mosca. Un morto e più di trenta feriti. Ma
non fu subito chiaro che questa esplosione doveva
essere qualcosa di più spaventoso di un grosso
scherzo, o di una lite commerciale fra concorrenti.
Cinque giorni dopo una nuova esplosione fece
crollare la grande ala di un edificio di appartamenti
a Bujnaksk, una città nel sud del paese, non lontana
dalla Cecenia. Sessantaquattro morti e
centoquarantasei feriti. Tutti gli abitanti dell’edificio
erano ufficiali russi con le loro famiglie - quindi
anche se fra i morti c’erano ventitré bambini,
l’attentato non sensibilizzò molto i civili
specialmente quelli che vivevano a Mosca, i quali
non si sentirono particolarmente spaventati o
indifesi.
Quattro giorni dopo, due secondi prima dello
scoccare della mezzanotte dell’8 settembre, una
spaventosa esplosione fece tremare un quartiere
dormitorio appena fuori dal centro di Mosca. Un
intero isolato, densamente popolato, venne
squarciato: due colonne di scale, settantadue
appartamenti polverizzati. Cento morti esatti e quasi
settecento feriti.1 Cinque giorni dopo una nuova
esplosione distrusse un altro edificio nella periferia
di Mosca. L’edificio di otto piani cadde su se stesso
come un castello di carte; i giornalisti tra la folla che
accorse sul luogo dell’attentato quella mattina
facevano notare come gli edifici in cemento
esplodevano verso l’esterno mentre quelli in mattoni
si piegavano verso l’interno. L’esplosione avvenne
alle cinque del mattino quando la maggior parte
degli abitanti era in casa: vennero uccisi quasi tutti,
centoventiquattro morti e sette feriti.
Tre giorni dopo il 16 settembre, un camion saltò in
aria in una strada di Volgodonsk, una città a sud della
Russia. Diciannove morti e più di mille feriti.
Il paese era in preda al panico. Gli abitanti di
Mosca e di altre città organizzarono pattuglie di
vigilanza; molti dormivano nelle strade solo perché
ritenevano che fossero più sicure delle case. I
volontari fermavano tutti quelli che avevano l’aria
sospetta, e spesso significava tutti quelli che non
facevano parte della pattuglia di vigilanza. Un
gruppo di volontari a Mosca fermò uno che portava a
spasso il cane - per controllare il cane. La polizia in
tutto il paese venne sommersa da chiamate di gente
che aveva visto attività sospette od oggetti sospetti.
Il 22 settembre la polizia, che in seguito a una
chiamata era accorsa a una chiamata a Rjazan’, una
città a circa 160 chilometri da Mosca, trovò tre
sacchi di esplosivo piazzati sotto le scale di un
condominio.
In un paese attanagliato dalla paura e dal dolore,
erano tutti sicuri che questa fosse opera dei ceceni,
io compresa. Avevo passato due giorni andando in
giro per Mosca a intervistare famiglie di ceceni:
profughi, professionisti insediati da molti anni,
lavoratori temporanei che abitavano in dormitori.
Erano tutti terrorizzati a morte. A Mosca la polizia
rastrellava giovani ceceni e li tratteneva come
sospettati degli attentati. Molti di quelli che
intervistavo non uscivano più di casa e addirittura si
rifiutavano di aprire la porta delle loro abitazioni o
dei dormitori. Un bambino era tornato da scuola
dicendo che il maestro aveva scritto sulla lavagna le
parole russe ceceno e esplosione.
Sapevo che la polizia stava trattenendo centinaia
di innocenti, ma pensavo altrettanto facilmente che
chiunque fosse colpevole era un ceceno o un gruppo
di persone provenienti dalla Cecenia. Avevo coperto
la guerra del 1994-96 dall’inizio alla fine. La prima
volta che avevo sentito una esplosione a pochi metri
di distanza da me, mi trovavo nelle scale di una
residenza per ciechi nella periferia di Groznyj, la
capitale della Cecenia. Era il gennaio del 1995 - il
primo mese della guerra - e abitavo in quella parte
della città perché l’esercito russo aveva assicurato
che non avrebbe bombardato i civili. Chi meglio di
loro incarnava la definizione esatta di civile? Chi
meglio degli abitanti di quell’edificio, dei ciechi
inermi e impossibilitati a lasciare la città? Quando
uscii dall’edificio vidi corpi e corpi smembrati
sparsi dappertutto.
I molti bambini che incontrai quel giorno e i giorni
seguenti nelle strade di Groznyj avevano visto lo
stesso spettacolo. Erano i bambini che per settimane
sarebbero stati a guardare le loro madri preparare il
cibo su fuochi accesi nei marciapiedi della capitale.
Erano gli stessi bambini che avrebbero passato gli
anni di guerra ammucchiati in piccoli appartamenti,
sei per stanza, perché tanti edifici erano rasi al
suolo. Gli stessi bambini che non si sarebbero potuti
avventurare fuori dalla città per paura di inciampare
su una mina o in un soldato russo, che avrebbe
violentato una ragazza o trattenuto un ragazzo.
Eppure andavano lo stesso in giro e così furono
violentati, arrestati, torturati, oppure sparivano - o
vedevano le loro sorelle, i loro fratelli e amici
subire gli stessi trattamenti. Questi bambini
sarebbero diventati giovani adulti e non avevo
difficoltà a pensare che alcuni di loro si sarebbero
dimostrati capaci di orribili vendette.
Molti russi non avevano visto quello che avevo
visto io, alla televisione passavano solo i servizi
sugli attentati, uno più orrendo dell’altro. La guerra
in Cecenia non avrebbe mai avuto una fine:
l’accordo raggiunto tre anni prima con la
intermediazione fra gli altri di Berezovskij era solo
un cessate il fuoco. La Russia era una nazione in
guerra e come tutte le nazioni in guerra riteneva che
il nemico fosse disumano e capace di qualunque
inimmaginabile orrore.
Il 23 settembre un gruppo di ventiquattro
governatori - più di un quarto del totale nella
federazione - scrisse una lettera a Eltsin chiedendo
che lasciasse il potere a Putin, primo ministro da
appena un mese. Lo stesso giorno Eltsin firmò un
decreto segreto con il quale autorizzava l’esercito a
riprendere i combattimenti in Cecenia; il decreto era
però illegale2 perché la costituzione russa vieta
l’impiego di truppe regolari dentro i confini del
paese. Quello stesso giorno l’aviazione russa
ricominciò a bombardare Groznyj, l’aeroporto, le
raffinerie di petrolio e i quartieri residenziali. Il
giorno seguente Putin firmò il suo decreto con il
quale autorizzava le truppe russe a combattere in
Cecenia; questa volta il decreto non venne registrato
perché secondo la legge russa il primo ministro non
può disporre dell’esercito.
Lo stesso giorno Putin fece il suo primo intervento
alla televisione. “Gli daremo la caccia,” disse
riferendosi ai terroristi. “Ovunque essi siano, li
distruggeremo. Anche se fossero al gabinetto, li
butteremo nel cesso.”3
La retorica di Putin era molto diversa da quella di
Eltsin. Non prometteva di sottoporre i terroristi alla
giustizia dello stato. Non una parola che esprimesse
pietà per le centinaia di vittime delle esplosioni.
Era il linguaggio di un capo che aveva in mente di
governare con un pugno di ferro. Le dichiarazioni
volgari, spesso colorite di un umorismo di bassa
lega, sarebbero diventate la caratteristica della
tecnica oratoria di Putin. La sua popolarità cominciò
a crescere rapidamente.
Il dottore in filosofia Berezovskij e il suo piccolo
esercito di attivisti formato da uomini di raffinata
educazione sembrò non notare alcuna contraddizione
tra l’affermazione che garantiva un futuro
democratico alla Russia e l’uomo sul quale avevano
riposto le loro speranze per l’attuazione di questo
futuro. Lavoravano senza sosta alla loro campagna,
utilizzando la forza del Canale Uno di Berezovskij
per infangare l’ex primo ministro Primakov e i suoi
alleati. In un programma memorabile venne illustrata
la recente operazione all’anca di Primakov con
dettaglio anatomico repellente. Un’altro programma
era incentrato sulla ovvia somiglianza tra il sindaco
di Mosca Jurij Lužkov e Mussolini.4 Ma oltre alla
campagna di diffamazione degli avversari, gli alleati
di Putin - che si vedevano più come i suoi creatori
che come i suoi sostenitori - dovevano costruire e
promuovere una immagine del loro candidato.
In poche parole, Putin non era in campagna
elettorale - le elezioni presidenziali si sarebbero
tenute dopo un anno, e in Russia non c’era la
tradizione politica di lunghe campagne - ma quelli
che lo volevano vedere diventare presidente erano
già in campagna. Una importante società di
consulenza politica, la Fond Effektivnoj Politiki
(FEP - Fondazione per una politica efficace), che
aveva sede in uno splendido edificio storico
dall’altra parte del fiume davanti al Cremlino, venne
incaricata di creare l’immagine di Putin come
giovane ed energico politico in grado di attuare le
tanto necessarie riforme. “Tutti erano così stanchi di
Eltsin che il compito fu veramente facile,” così mi
disse una donna che era stata responsabile della
campagna.5
Si chiamava Marina Litvinovic, e come molti di
quelli che lavoravano alla Fondazione per una
politica efficace era giovane e intelligente, laureata
nelle migliori università, inesperta di politica e
anche un po’ ingenua. All’inizio, quando era ancora
una studentessa, cominciò nella Fondazione con un
lavoro part-time, e dopo solo tre anni diventò
responsabile della squadra per la campagna
presidenziale. Si riteneva assolutamente devota agli
ideali di democrazia, ma non riusciva a vedere nulla
di sbagliato nel modo in cui stavano inventando e
vendendo al pubblico il futuro presidente: aveva
completa fiducia nelle persone che le avevano
commissionato il lavoro. “C’erano articoli che ogni
tanto uscivano e dicevano che era stato nel KGB,”
mi disse anni dopo, “ma tutto lo staff del quartier
generale era liberale e noi eravamo convinti che
questi fossero quelli che avrebbero formato la sua
cerchia interna.”
Non era necessario essere giovani né ingenui per
crederci. Alla fine dell’estate del 1999, mi incontrai
per una cena memorabile con Aleksandr Gol’dfarb,
una vecchia conoscenza che era stato un dissidente
negli anni settanta. Aveva fatto il traduttore di Andrej
Sacharov, poi era emigrato negli Stati Uniti, aveva
vissuto negli anni ottanta a New York ed era
diventato un brillante attivista sociale negli anni
novanta. Era stato consulente del miliardario Georgij
Soros per i suoi affari in Russia; aveva lanciato una
campagna per pubblicizzare e combattere l’epidemia
di tubercolosi resistente agli antibiotici, scoppiata in
Russia, e l’aveva portata all’attenzione del mondo
praticamente da solo. Alex e io eravamo a cena e
parlavamo di Putin. “È carne e sangue del KGB,” gli
dissi, ancora cercando di elaborare una ipotesi più
che per sostenere una tesi. “Ma ho sentito da Cubajs
che è intelligente, efficiente e conosce il mondo,”
rispose Alex. Anche un vecchio dissidente era quasi
convinto che Putin fosse un giovane moderno
politico secondo l’immagine che la Fondazione per
una politica efficace stava costruendo.
Più la campagna in Cecenia si intensificava, più
l’intero paese si eccitava. Berezovskij intanto aveva
avuto l’idea di un nuovo partito politico, un partito
assolutamente privo di ideologia. “Nessuno avrebbe
ascoltato quello che avevamo da dire,” mi disse
nove anni dopo, forse ancora convinto che la sua
fosse stata una geniale invenzione. “Io decisi che
avremmo sostituito i volti all’ideologia.” Il team di
Berezovskij cominciò a cercare nuovi volti: avevano
trovato un paio di celebrità e un ministro del
governo. Ma il più importante era quello dell’uomo
che era rimasto senza volto fino alla settimana
prima: la popolarità di Putin cresceva a ritmo
esplosivo insieme a quella del nuovo partito
politico. Nelle elezioni del 19 dicembre 1999, quasi
un quarto degli elettori scelse il blocco che aveva
solo due mesi di vita chiamato Edinstvo (Unità)
oppure Medved (L’orso) che risultò il gruppo più
numeroso nella camera bassa del parlamento.
Per consolidare il vantaggio di Putin qualcuno
nella Famiglia - nessuno sembra capace di ricordare
esattamente chi - propose una mossa brillante: Eltsin
doveva anticipare le dimissioni. Come primo
ministro Putin sarebbe diventato per legge il
presidente facente funzione e questo lo avrebbe
automaticamente messo nella posizione di presidente
in carica prima della corsa ai voti. Questo avrebbe
sorpreso l’opposizione e anticipato la data delle
elezioni. Eltsin avrebbe dovuto dimettersi il 31
dicembre. Una mossa classica da Eltsin: avrebbe
messo in seconda linea il millennio, l’Y2K bug (il
baco del duemila che si temeva avrebbe messo in
crisi i computer in tutto il mondo) e qualunque altra
storia che poteva scoppiare ovunque nel mondo.
Inoltre, tutto questo sarebbe successo alla vigilia
delle due settimane di sospensione natalizia e di
capodanno, riducendo ancora di più il tempo
disponibile all’opposizione per prepararsi alle
elezioni.
La ricorrenza civile del Capodanno era diventata
da molto tempo la più importante occasione di festa
per le famiglie in Russia. La notte di Capodanno in
tutta la Russia gli amici e le famiglie si riunivano per
festeggiare; prima della fine dell’anno erano tutti
davanti alla televisione per guardare l’orologio su
una delle torri del Cremlino, allo scoccare della
mezzanotte brindavano al nuovo anno e solo dopo si
sedevano a tavola per la cena tradizionale. Nei
minuti che precedevano la mezzanotte il capo della
nazione parlava ai cittadini, da sempre una
tradizione dell’Unione Sovietica che fu ripresa il 31
dicembre 1992 dal presidente Eltsin (il 31 dicembre
del 1991 il discorso alla nazione venne fatto da un
attore, in seguito al decreto ufficiale del crollo
dell’Unione Sovietica).
Eltsin apparve sugli schermi dodici ore prima
della mezzanotte per il discorso del presidente:

Amici, miei cari. Oggi è l’ultima volta che vi


parlo a Capodanno, e non solo. Oggi è l’ultima volta
che vi parlo come presidente della Russia. Ho preso
una decisione. Ci ho pensato molto e non è stato
facile. Oggi nell’ultimo giorno del secolo mi
dimetto... lascio... la Russia dovrebbe entrare nel
nuovo millennio con politici nuovi, facce nuove,
gente nuova, giovane, intelligente, forte, energica...
Perché dovrei restare attaccato alla mia sedia per
altri sei mesi quando il paese ha una persona forte
che merita di diventare presidente e alla quale
praticamente ogni cittadino della Russia ha già
affidato le sue speranze per il futuro?

Poi Eltsin porse le sue scuse all’intero paese:


Mi dispiace che molti dei nostri sogni non siano
diventati realtà. Le cose che pensavamo essere facili
si sono invece rivelate dolorosamente difficili. Mi
dispiace di non essere stato all’altezza delle
speranze della gente che pensava che con un unico
sforzo, con una sola forte spinta saremmo stati
capaci di uscire dalla melma grigia del nostro
passato totalitario e di entrare in un futuro luminoso,
ricco e civile. Anch’io lo credevo... Non l’ho mai
detto prima, ma voglio che lo sappiate. Ho sentito
nel mio cuore la sofferenza di ognuno di voi. Ho
passato notti insonni e lunghi periodi dolorosi
pensando cosa avrei potuto fare per migliorare anche
di poco la vita... ora me ne vado. Ho fatto tutto
quello che ho potuto... arriva una nuova generazione;
loro possono fare di più e meglio.6

Il discorso di Eltsin durò dieci minuti. Il volto


gonfio, l’aspetto pesante, quasi immobile. L’aria
disfatta, disperata come un uomo che stava
seppellendosi vivo di fronte a più di cento milioni di
spettatori. L’espressione del viso fissa durante tutto
il discorso, la voce rotta dall’emozione in chiusura.
A mezzanotte alla televisione apparve Vladimir
Putin. Visibilmente nervoso all’inizio, qualche
incertezza nelle prime parole del discorso, ma
sempre più sicuro man mano che procedeva. Parlò
per tre minuti e mezzo. Particolare notevole: non
utilizzò l’occasione per fare il suo primo discorso
elettorale. Non fece promesse e non disse nulla che
potesse suscitare entusiasmo. Disse invece che
niente sarebbe cambiato in Russia e assicurò gli
spettatori che i loro diritti sarebbero stati ben
tutelati. In chiusura propose ai russi di alzare i
bicchieri per un brindisi “al nuovo secolo della
Russia”,7 ma lui non aveva nessun bicchiere da
alzare.
Putin era adesso il presidente facente funzione e la
campagna elettorale era iniziata. Berezovskij ricorda
che Putin era disciplinato e perfino docile: faceva
quello che gli veniva detto di fare e non gli si diceva
di fare molto. Era già così popolare che questa in
pratica era una campagna non-campagna che si
sarebbe conclusa in una elezione non-elezione. Putin
doveva limitarsi a non apparire molto diverso
dall’immagine che i suoi elettori volevano avere di
lui.
Il 26 gennaio 2000, esattamente due mesi prima
delle elezioni, il moderatore di una tavola rotonda
sulla Russia al Forum economico mondiale di Davos
in Svizzera chiese: “Chi è il signor Putin?” Quando
venne fatta la domanda il microfono era in mano a
Cubajs - la persona che sette mesi prima aveva
indicato Putin come il successore ideale.
Imbarazzato lanciò uno sguardo interrogativo a un ex
primo ministro russo che sedeva al suo fianco.
Anche l’ex ministro sembrava non avere voglia di
rispondere. I quattro membri della tavola rotonda si
scambiarono ansiosamente occhiate imbarazzati.
Dopo trenta secondi la stanza scoppiò a ridere. La
più vasta entità geografica mondiale, un paese ricco
di petrolio, gas naturale e armi nucleari, aveva un
nuovo leader, e l’elite politica e imprenditoriale non
aveva idea di chi fosse. Davvero divertente.
Una settimana dopo, Berezovskij commissionò la
biografia di Putin a tre giornalisti di una sua testata
giornalistica. Il primo membro della squadra era una
giovane bionda che aveva passato un paio di anni
nello staff del Cremlino, ma era riuscita a restare
all’ombra di colleghi più brillanti. Il secondo era un
giovane reporter noto per i suoi articoli umoristici
che non aveva mai scritto nulla di politica. Il terzo
invece era una star del giornalismo, veterana della
cronaca politica, che aveva passato la prima metà
degli anni ottanta come corrispondente di guerra in
tutto il mondo e la seconda metà come
commentatrice politica specializzata sul KGB per il
Moscow News, pubblicazione ammiraglia della
perestrojka. Natalja Gevorkjan era una reporter di
classe superiore, il capo indiscusso della squadra e
la giornalista che Berezovskij conosceva meglio.
Anni dopo mi raccontò che Berezovskij
continuava a chiamarla dicendo: “‘Non è
incredibilmente affascinante?’ Io gli dicevo: ‘Borja
il tuo problema è che non hai mai conosciuto un
colonnello del KGB, non è maledettamente
affascinante. È assolutamente ordinario’.”
E poi una volta mi disse:

Ero curiosa di sapere chi era l’uomo che adesso


avrebbe governato il paese, ebbi l’impressione che
gli piaceva parlare e che gli piaceva parlare di se
stesso. Di sicuro ho intervistato un sacco di gente
più interessante di lui. Per cinque anni ho scritto
storie sul KGB: lui non era né migliore né peggiore
degli altri; era solo più intelligente di alcuni e più
furbo di altri.8

Oltre al compito non facile di mettere insieme un


libro in pochi giorni, Natalja Gevorkjan voleva
sfruttare il contatto con il presidente per aiutare un
amico, Andrej Babickij, un giornalista della Radio
Free Europe/Radio Liberty, finanziata dagli Stati
Uniti, che nel mese di gennaio era scomparso in
Cecenia. Si diceva che fosse stato arrestato da
militari russi perché aveva violato le rigide regole
imposte dal governo: durante la prima guerra in
Cecenia la stampa aveva condotto una critica
tagliente e costante contro le operazioni militari di
Mosca, così durante la seconda guerra cecena i
militari avevano vietato ai giornalisti di spostarsi
nella zona di guerra senza essere accompagnati da
personale in uniforme. Questa direttiva non solo
rendeva difficile il contatto con i combattenti delle
due parti, ma esponeva i giornalisti a notevoli rischi:
infatti in una zona di guerra è sempre più sicuro non
indossare una uniforme né averne una vicino. I
giornalisti più intraprendenti cercavano di raggirare
la direttiva - e in questo pochi superavano la bravura
Babickij, lui che per anni aveva coperto come
corrispondente il Nord del Caucaso.
Per due lunghe settimane dopo l’arresto, la
famiglia di Babickij e gli amici non ebbero notizie di
lui. Negli ambienti giornalistici di Mosca peraltro
girava la voce che Babickij fosse stato visto nella
prigione russa tristemente nota di Cernokozovo in
Cecenia. Il 3 febbraio, il giorno dopo l’inizio della
intervista a Putin da parte di Gevorkjan e della sua
squadra, funzionari russi annunciarono che Babickij
era stato scambiato per tre soldati russi prigionieri
dei combattenti ceceni. I funzionari russi
dichiararono che Babickij aveva consentito allo
scambio, ma questo non poteva esimere i militari
russi dalla responsabilità di aver trattato un
giornalista - un giornalista russo - come se fosse un
combattente nemico.
Quando Gevorkjan chiese a Putin di Babickij, la
domanda provocò quello che lei in seguito descrisse
come “aperto odio”. Il tono pacato del presidente
facente funzione cessò di colpo e Putin si lanciò in
una violenta diatriba:

Lavorava direttamente per il nemico. Non era una


fonte di informazione neutrale lavorava per i
criminali lavorava per i criminali. Così quando i
ribelli si sono dichiarati disponibili a liberare alcuni
soldati in cambio di questo corrispondente, i nostri
gli hanno chiesto: “Vuoi essere scambiato?” E lui
rispose: “Certo.” Voleva essere scambiato Questi
sono i nostri soldati che combattono per la Russia.
Se non li avessimo liberati sarebbero stati
giustiziati. A Babickij non faranno nulla perché è uno
di loro Quello che ha fatto Babickij è molto più
pericoloso che sparare con un mitra Aveva una
mappa dei nostri posti di controllo. Per quale
ragione ci ficcava il naso senza essere autorizzato
dal personale ufficiale?... È stato arrestato ed è stata
fatta una indagine su di lui. Ha rivelato: “Non mi
fido di voi, mi fido dei ceceni, se mi vogliono
dovreste lasciarmi andare da loro” Gli è stato
risposto: “Allora va’, fuori di qua!” Così dici che
questo sarebbe un cittadino russo. Avrebbe dovuto
rispettare le leggi del suo paese se voleva essere
protetto da queste leggi.9

Ascoltando il monologo Gevorkjan si convinse


che il presidente facente funzione aveva conoscenza
diretta del caso Babickij. Decise di essere altrettanto
diretta. “Ha una famiglia, ha dei figli,” disse a Putin.
“Deve bloccare questa operazione.”
Il capo dello stato accettò la sfida. “Fra poco
arriverà un auto,” disse. “Porterà una videocassetta e
potrete vedere che Babickij è vivo e sta bene.”
Gevorkjan, che aveva mantenuto un atteggiamento
professionale per tutte le riunioni con Putin, per un
attimo diventò aggressiva. “Cosa?” gridò. “L’avete
consegnato ai criminali? È questo quello che le
hanno detto?”
Si scusò per uscire dalla stanza e chiamò
un’amica all’ufficio di Mosca di Radio Liberty.
“Dite alla moglie che è vivo,” disse.
“Come lo sai?” chiese l’amica.
“Dalla bocca stessa della verità,” rispose
Gevorkjan.
“Ti fidi di lui?” chiese l’amica.
“Non proprio,” ammise Gevorkjan.
Poche ore dopo l’amica la richiamò. “Non ci
crederai,” disse. “È arrivata una macchina, la targa
così sporca che non siamo riusciti a leggerla. Ci
hanno proposto di comperare una videocassetta e
l’abbiamo pagata duecento dollari.”
Il video, che Radio Liberty diffuse
immediatamente a tutti i media, era una brutta
registrazione di Babickij, pallido, esausto, come uno
che era stato privato del sonno.

Oggi è il 6 febbraio 2000. Sto relativamente bene.


Il mio unico problema è il tempo, dal momento che
le circostanze sono tali da non permettermi,
sfortunatamente, di tornare subito a casa. La mia vita
qui è normale come lo può essere in uno stato di
guerra. La gente a me vicino cerca di aiutarmi come
può. L’unico problema è che vorrei davvero tornare
a casa, vorrei davvero che tutto questo finisse. Per
favore non preoccupatevi per me. Spero di tornare a
casa presto.10
In effetti Babickij era tenuto prigioniero in una
casa di un villaggio ceceno. Era privato del sonno,
esausto e terrorizzato. Non sapeva chi lo teneva
prigioniero. Sapeva solo che erano uomini ceceni
armati che avevano tutte le ragioni per odiare i russi
e che non avevano motivo di credergli. Non poteva
dormire per paura di venire prelevato durante la
notte per essere giustiziato, tutte le mattine si
svegliava odiandosi per non avere ancora trovato il
modo di fuggire o trovato il coraggio di evadere.11
Finalmente il 23 febbraio, fu messo nel portabagagli
di un’auto e portato nella vicina repubblica del
Dagestan. Lì gli consegnarono dei documenti
grossolanamente falsificati e lo rilasciarono - ma fu
di nuovo arrestato solo dopo poche ore dalla polizia
russa che lo portò a Mosca. Nella capitale venne
accusato di falsificazione dei documenti che gli
erano stati ritrovati addosso.12
Si appurò rapidamente che non c’era stato nessuno
scambio: nessuna traccia documentata, e nemmeno
nessuna traccia dei soldati che i ceceni avevano
rilasciato.13 L’arresto di Babickij, la sua consegna
al nemico ripresa alla televisione, la seguente
scomparsa sembravano essere un tentativo di
mandare un chiaro messaggio ai giornalisti. Il
ministro della difesa Igor’ Sergeev così disse alla
stampa: “Babickij era stato scelto perché le
informazioni che trasmetteva non erano obiettive, per
usare un termine blando.” E infine aggiunse: “Avrei
volentieri scambiato dieci Babickij per un singolo
soldato.”14 Putin era al potere da un solo mese e già
i ministri parlavano come lui - sembrava non
aspettassero altro. Di certo Putin non poteva
immaginare che quella punizione, a suo parere
perfettamente giustificabile, riuscisse a sollevare
l’indignazione internazionale. Durante il suo primo
mese di facente funzione, i capi dei governi
occidentali ebbero una reazione simile a quella dei
cittadini russi: erano così sollevati dalla uscita di
scena dell’imprevedibile e imbarazzante Eltsin da
vedere in Putin la realizzazione delle loro più rosee
aspettative. Gli americani e gli inglesi si
comportarono come se le elezioni di marzo fossero
scontate. Ma adesso gli americani non potevano non
reagire: Babickij non era un semplice giornalista
russo - era un giornalista russo impiegato da un
organo di informazione fondato da una legge del
Congresso.15 Il segretario di stato Madeleine
Albright sollevò la questione in una riunione con il
ministro degli esteri russo Igor’ Ivanov il 4 febbraio
e cinque giorni dopo il Dipartimento di stato rilasciò
una dichiarazione che condannava “il trattamento di
un non combattente come se fosse stato un ostaggio o
un prigioniero di guerra.”16
L’attenzione e l’indignazione inaspettata
probabilmente salvò la vita di Babickij. Ma fecero
irritare e infuriare Putin. Secondo lui quello che
faceva era giusto e un personaggio come Babickij -
uno che dimostrava totale disinteresse per lo sforzo
bellico della Russia e che sentiva compassione per
il nemico - non meritava di vivere, quantomeno di
vivere insieme a cittadini russi. Un complotto di
democratici dai cuori teneri lo aveva costretto al
compromesso. A suo tempo Leningrado aveva
eliminato con successo questi individui, e presto lo
avrebbe fatto ancora.
“La storia di Babickij mi semplificò la vita,” mi
disse in seguito Gevorkjan.

Mi resi conto che questa sarebbe stata la sua linea


di governo. Perché è così che funziona il suo
cervello del cazzo. Non mi facevo illusioni. Sapevo
che era il suo modo di concepire la parola
patriottismo - così come gli era stato insegnato nelle
scuole del KGB: la grandezza del paese è
proporzionale alla paura che ispira, e la stampa deve
dimostrare lealtà.17

Poco dopo questa scoperta Gevorkjan lasciò


Mosca e si trasferì a Parigi, dove vive ancora oggi.
Anche Andrej Babickij, non appena gli fu possibile,
se ne andò a Praga da dove continuò a lavorare per
Radio Liberty. Ma nei giorni che precedettero le
elezioni del 2000, Gevorkjan non fece dichiarazioni
pubbliche. La biografia di Putin venne pubblicata
come lui la voleva; il pezzo su Babickij cinico e
rivelatore venne tagliato, anche se era passato in una
anticipazione giornalistica. Con poche eccezioni, i
russi furono indotti a riporre la loro fiducia in Putin.
Il 24 marzo, due giorni prima delle elezioni
presidenziali, la NTV, la rete televisiva di proprietà
di Vladimir Gusinskij - lo stesso oligarca che
possedeva la rivista per cui lavoravo - mandò in
onda un programma di un’ora, in formato talk-show
davanti a un pubblico in diretta, dedicato
all’incidente nella città di Rjazan’ nel settembre
1999, quando la polizia, avvisata da una telefonata,
aveva trovato tre sacchi di esplosivo piazzati sotto il
vano scale di un edificio residenziale. I vigili
residenti della palazzo avevano pensato di aver
sventato un attentato terroristico.
Appena dopo le nove di sera del 22 settembre,
Aleksej Kartofelnikov, autista di un autobus di una
squadra di calcio locale, stava rientrando a casa, un
edificio di dodici piani al numero 14 di via
Novosëlova. Vide una auto di fabbricazione russa
fermarsi davanti all’edificio. Ne uscirono un uomo e
una donna che entrarono in una porta che conduceva
alla cantina, mentre il guidatore - un altro uomo - era
rimasto in macchina. Kartofelnikov vide l’uomo e la
donna uscire dopo pochi minuti. L’auto si avvicinò
all’entrata della cantina e i tre scaricarono dei
pesanti sacchi che portarono giù. Una volta scaricati,
ritornarono all’auto e se ne andarono.18
A quel tempo già quattro edifici erano stati fatti
saltare a Mosca e due in altre città; in almeno un
caso testimoni oculari dissero che avevano visto
portare sacchi nel vano scale. Non c’è quindi da
sorprendersi se Kartofelnikov cercò di prendere nota
del numero della targa dell’auto. Ma la parte della
targa con il numero della regione di registrazione
dell’auto era coperta da un pezzo di carta con il
numero di Rjazan’. Kartofelnikov chiamò la polizia.
La polizia arrivò quasi quarantacinque minuti
dopo. Due poliziotti entrarono nella cantina dove
trovarono tre sacchi da 50 chilogrammi ammucchiati
uno sull’altro sui quali c’era scritto “zucchero”.
Attraverso un taglio nel sacco più in alto videro un
orologio e fili elettrici. Uscirono di corsa dalla
cantina, chiamarono i rinforzi e cominciarono a fare
evacuare i settantasette appartamenti dell’edificio
mentre la squadra artificieri stava arrivando.
Bussarono a ogni porta e ordinarono alla gente di
evacuare immediatamente. Gli abitanti uscirono in
pigiama, camicie da notte e vestaglie senza nemmeno
fermarsi a chiudere a chiave: avevano visto per
settimane i servizi sulle esplosioni negli edifici
residenziali e quindi la minaccia veniva presa molto
seriamente. Quasi tutti i disabili furono trasportati
fuori dall’edificio sulle loro sedie a rotelle, ma
quelli che non si potevano muovere rimasero nei
loro appartamenti, terrorizzati. Il resto degli abitanti
passò la notte in piedi al freddo davanti all’edificio.
Dopo un po’ di tempo il gestore di una sala
cinematografica vicina invitò gli abitanti ad entrare e
organizzò anche la distribuzione di tè caldo. Il
mattino dopo molti degli abitanti andarono a
lavorare anche se la polizia non gli aveva permesso
di rientrare nell’edificio per vestirsi e lavarsi. Molti
appartamenti vennero saccheggiati durante l’allarme.
Ancora prima dell’evacuazione completa dei
residenti, la squadra esplosivi aveva già
disinnescato il timer e analizzato il contenuto dei
sacchi. Si trattava di esogeno, detto anche T4, un
potente esplosivo in uso fin dalla seconda guerra
mondiale (nei paesi anglofoni è noto correntemente
come RDX). Era lo stesso esplosivo impiegato in
uno degli attentati a Mosca19 per cui tutto il paese
aveva imparato il termine esogeno da una
dichiarazione fatta dal sindaco di Mosca. Il rozzo
sistema di detonazione era settato sulle 5.30 del
mattino. Il piano dei terroristi era esattamente uguale
a quello delle precedenti esplosioni di Mosca: la
quantità di esplosivo avrebbe raso al suolo l’intero
edificio, probabilmente avrebbe danneggiato anche
le strutture adiacenti e ucciso tutti gli abitanti nel
sonno.
Una volta individuato l’esplosivo da parte della
squadra anti bombe tutti gli alti gradi dell’esercito e
le autorità corsero a via Novosëlova. Il capo
dell’ufficio locale dell’FSB si congratulò con gli
abitanti per essere scampati a una morte sicura.
Aleksej Kartofelnikov, l’autista che aveva
denunciato i personaggi sospetti con i loro sacchi,
divenne subito un eroe. I funzionari locali lodarono
lui e in generale la vigilanza della gente comune.
“Più saremo attenti e meglio saremo in grado di
sconfiggere il male che si è insediato nel nostro
paese,” dichiarò il vicegovernatore alle agenzie di
stampa.20
Il giorno dopo tutta la Russia parlava di Rjazan’.
Dopo il terrore nel quale il paese aveva vissuto per
quasi un mese questa sembrava una prima notizia
relativamente positiva. Se la gente si mobilitava - se
si sapevano proteggere, sembrava volesse dire - si
potevano salvare. Non solo, ma forse si potevano
anche catturare i terroristi: la polizia conosceva la
marca dell’automobile, Kartofelnikov aveva visto le
persone che scaricavano i sacchi. Il 24 settembre il
ministro degli interni Vladimir Rušajlo parlò con
aria seria e minacciosa a una riunione delle diverse
agenzie dedicata alle esplosioni. “Ci sono stati
sviluppi positivi,” disse Rušajlo. “Come per
esempio il fatto che una esplosione sia stata sventata
ieri a Rjazan’.”
Ma solo dopo mezz’ora avvenne qualcosa di
assolutamente sorprendente e davvero inspiegabile.
Il capo dell’FSB, Nikolaj Patrušev, un vecchio
collega di Leningrado che Putin aveva scelto prima
come vice alla polizia segreta e poi come suo
successore quando diventò primo ministro, parlò ai
giornalisti nello stesso edificio nel quale si svolgeva
la riunione delle varie agenzie e disse che Rušajlo si
sbagliava. “Primo non c’è stata nessuna esplosione,”
affermò. “Secondo, non è stato sventato nulla. E non
penso che si sia operato in modo corretto. Si è
trattato di un esercizio di addestramento e i sacchi
contenevano zucchero. Non c’erano esplosivi.”21

Nei giorni seguenti i funzionari dell’FSB


spiegarono che i due uomini e la donna erano agenti
del Servizio di sicurezza di Mosca, che i sacchi
contenevano innocuo zucchero, che tutto l’esercizio
era stato pensato per mettere alla prova la vigilanza
della gente di Rjazan’ e la preparazione
all’emergenza nell’attuazione delle norme in vigore.
I funzionari di Rjazan’ in un primo momento non
collaborarono ma poi confermarono la versione
dell’FSB, spiegando che la squadra artificieri aveva
scambiato lo zucchero per esplosivo perché la loro
attrezzatura di controllo era stata contaminata
dall’impiego costante su veri esplosivi in Cecenia.
Le spiegazioni non servirono a molto per
tranquillizzare o convincere chiunque avesse una
minima idea di come funzionava l’FSB. Sembrava
inconcepibile ma non inimmaginabile che duecento
persone fossero state trattenute per una intera notte,
spaventate e al freddo, solo per un esercizio di
addestramento: in fondo la polizia russa non era nota
per i suoi modi rispettosi. Restavano però ancora
alcuni nodi da sciogliere: perché non informarono
della operazione l’ufficio locale dell’FSB, perché a
un giorno e mezzo di distanza esposero al pubbico
imbarazzo il ministro degli interni e perché decisero
di mobilitare comunque milleduecento dei suoi
uomini per prendere i sospetti fuggiti da Rjazan’.
In sei mesi i giornalisti della NTV avevano
raccolto e messo insieme i pezzi di questa storia,
comprese tutte le contraddizioni, e adesso la
presentavano agli spettatori. Cercarono di muoversi
con molta prudenza. Nikolaj Nikolaev il conduttore
della trasmissione iniziò la puntata premettendo che
quello che era successo a Rjazan’ era certamente una
esercitazione di addestramento. Quando uno
spettatore disse che era ormai tempo di mettere
insieme tutta la catena di eventi e chiedersi se l’FSB
fosse implicata nelle esplosioni di agosto e
settembre, Nikolaev praticamente gridando disse:
“No, non lo faremo assolutamente, non andremo su
quel terreno. Stiamo parlando solo di Rjazan’.” In
ogni modo il quadro che usciva dalla trasmissione
era agghiacciante.
Nikolaev aveva invitato molti degli abitanti del
civico 14 di via Novosëlova. Nessuno di loro
pensava che si fosse trattato di una esercitazione di
addestramento. Ma uno spettatore che si qualificò
come abitante di via Novosëlova disse che credeva
alla esercitazione di addestramento. Gli altri
residenti increduli si voltarono verso di lui e
insieme cominciarono a gridare che non lo
conoscevano e che sicuramente non viveva
nell’edificio. Tutta l’operazione non convinceva ed
era stata eseguita in modo trasandato come l’idea di
mandare un finto abitante nel pubblico. I
rappresentanti del Servizio di sicurezza non seppero
spiegare come mai le prime analisi avevano
identificato l’esogeno, né per quale ragione l’ufficio
locale dell’FSB non fosse stato avvertito.
Guardando il programma mi venne in mente la
conversazione che avevo avuto con il mio direttore
un anno prima. In solo sei mesi i confini del
possibile erano cambiati nella mia mente. Adesso
potevo credere che molto probabilmente l’FSB fosse
dietro agli attentati che scossero la Russia e che
contribuirono a portare Putin al potere. Quando
l’agenzia improvvisamente si trovò sul punto di
essere scoperta - quando milleduecento poliziotti di
Rjazan’ avevano iniziato la caccia all’uomo armati
di una descrizione dettagliata degli agenti FSB che
avevano piazzato l’esplosivo - il Servizio di
sicurezza tirò fuori la storia della esercitazione di
addestramento, per nulla convincente, ma sufficiente
a sventare l’arresto di agenti segreti da parte della
polizia ordinaria. Nello stesso tempo cessò la
sequenza di esplosioni mortali.
Ci volle molto più tempo a Berezovskij per
riconoscere che l’impensabile era possibile e anche
probabile. Glielo chiesi quasi dieci anni dopo. A
quel punto aveva finanziato indagini, libri e anche un
film basato sulla inchiesta di Nokolaev che ne
estendeva l’analisi ed era arrivato alla conclusione
che era stata l’FSB a terrorizzare la Russia nel
settembre del 1999. Per lui era comunque ancora
difficile conciliare quello che pensava stesse
accadendo nel 1999 con la sua successiva visione
degli eventi.

Ti posso dire con assoluta sincerità che allora ero


sicuro che fossero i ceceni. È stato quando sono
venuto qui [a Londra] e ho cominciato a ripensare al
passato che sono finalmente arrivato alla
conclusione che le esplosioni erano state organizzate
dall’FSB. Questa conclusione non era solo basata
sulla logica, o meglio non tanto sulla logica quanto
sui fatti. A quel tempo non vedevo questi fatti, e poi
non mi fidavo di NTC, la televisione di Gusinskij,
che era un sostenitore di Primakov. Per cui non ci
feci proprio attenzione. E allora non mi ero
nemmeno accorto che c’era un gioco parallelo al
nostro: qualcun altro stava facendo quello che
pensava giusto fare per fare eleggere Putin. Adesso
sono convinto che questo era proprio quello che
stava succedendo.

Il “qualcun altro” era l’FSB, e il “gioco


parallelo” erano le esplosioni che dovevano unire i
russi nella paura e nel disperato desiderio di un
nuovo leader, deciso e anche aggressivo, che
avrebbe sbaragliato tutti i nemici.
“Ma sono sicuro che l’idea non era di Putin,”
disse poi di getto.
A mio parere questo ragionamento non stava in
piedi. Le esplosioni erano cominciate tre settimane
dopo la nomina di Putin a primo ministro, il che
farebbe pensare che la loro preparazione fosse
cominciata quando lui era ancora capo dell’FSB.
Secondo Berezovskij questo non era
necessariamente vero: “Tutto era stato organizzato in
pochissimo tempo, è per questo che vennero fatti
tanti banali errori.” Ammesso che Berezovskij
avesse ragione, al posto di Putin all’FSB andò il suo
braccio destro Patrušev, il quale non avrebbe
certamente nascosto il piano a Putin. Se era al
corrente di operazioni relativamente minori come
l’arresto di Andrej Babickij, è assurdo pensare che
non fosse al corrente della campagna di attentati
dinamitardi.
Berezovskij era d’accordo anche se resisteva
all’idea di accollare tutta la responsabilità della
faccenda a Putin. Alla fine era giunto alla
conclusione che l’idea del piano fosse nata nella
cerchia ristretta dei suoi collaboratori, ma lo scopo
non era quello di promuovere specificamente la
candidatura di Putin quanto piuttosto quello di
spingere alla successione qualunque candidato Eltsin
avesse scelto. Pensai che Berezovskij avesse
costruito questa teoria perché voleva continuare a
credere di essere stato lui il kingmaker nel 1999 e
non soltanto una pedina. D’altra parte devo
ammettere che probabilmente aveva ragione sul fatto
che le esplosioni erano state organizzate per
promuovere qualunque candidato: con adeguato
spargimento di sangue qualunque sconosciuto,
anonimo e squalificato candidato avrebbe potuto
diventare presidente. Anche se fosse stato scelto a
caso.
La posizione ufficiale di Mosca affida la
responsabilità di tutte le esplosioni a un gruppo
terroristico islamico con base nel Caucaso.
3
L’AUTOBIOGRAFIA DI UN TEPPISTA
La squadra che Berezovskij aveva messo insieme
per scrivere la biografia di Putin aveva solo tre
settimane per produrre il libro. L’elenco delle fonti a
loro disposizione era limitato: lo stesso Putin - una
intervista che richiese sei lunghe sessioni - la
moglie, il suo migliore amico, un vecchio insegnante,
la segretaria dell’amministrazione della città di San
Pietroburgo. Non potevano fare un’indagine
profonda sul soggetto; il loro compito era di scrivere
una leggenda. Il risultato fu il mito di un teppista di
Leningrado nel dopoguerra.1
San Pietroburgo è una città russa con una storia
gloriosa e una splendida architettura. Ma la città
sovietica di Leningrado in cui nacque Putin nel 1952
era, secondo l’esperienza di chi ci ha vissuto, una
città distrutta dove dominavano fame, miseria,
violenza e morte. Erano passati solo otto anni dalla
fine dell’assedio di Leningrado.
L’assedio era cominciato l’8 settembre 1941,
quando l’esercito nazista aveva completato
l’accerchiamento della città tagliando tutte le linee
di comunicazione con l’esterno, ed era finito 872
giorni dopo. Morirono più di un milione di civili,
uccisi dalla fame e dal fuoco dell’artiglieria che fu
incessante per tutta la durata del blocco. Quasi la
metà delle vittime cadde mentre stava fuggendo dalla
città. L’unica tratta non controllata dai tedeschi era
stata chiamata “Strada della vita”, centinaia di
migliaia di civili morirono su questa strada per la
fame o colpiti dalle bombe. Nessuna città nella
storia moderna ha sofferto miseria e distruzione
quanto Leningrado - eppure molti sopravvissuti sono
convinti che le autorità abbiano intenzionalmente
sottovalutato il numero delle vittime.
Nessuno può sapere quanto tempo sia necessario
perché una città risorga dopo una violenza di questa
portata e un dolore così profondo. “Immaginate un
soldato che viva in tempo di pace circondato dalle
stesse mura e dagli stessi oggetti che aveva intorno
quando era in trincea,”2 hanno scritto qualche anno
dopo la guerra gli autori delle testimonianze
dell’Assedio di Leningrado, cercando di esprimere
fino a che punto la città stesse ancora vivendo
l’assedio.

Le antiche decorazioni in gesso del soffitto


portano ancora i segni delle schegge di granata. La
superficie lucida del pianoforte è ancora segnata dai
graffi del vetro rotto. Il pavimento di parquet ha
ancora la macchia di bruciato dove una volta era
situata la stufa a legna.

Le burzhuikas3 - stufe a legna mobili in ghisa -


servivano per riscaldare gli appartamenti degli
abitanti di Leningrado durante l’assedio. Vennero
alimentate con i mobili e con i libri. Le stufe nere e
panciute erano un simbolo della disperazione e
dell’abbandono: prima le autorità dissero ai cittadini
sovietici che sarebbero stati protetti nei confronti di
qualunque nemico - e che i tedeschi erano amici e
non nemici - poi abbandonarono gli abitanti della
seconda città del paese condannandoli a morire di
fame e di freddo. Finito l’assedio, le stesse autorità
investirono tutte le risorse nel restauro delle gloriose
architetture dei palazzi suburbani saccheggiati dai
tedeschi, trascurando così la ricostruzione degli
edifici residenziali della città. Vladimir Putin era
cresciuto in un appartamento che aveva ancora le
stufe a legna in ogni stanza.4
I suoi genitori, Maria e Vladimir Putin, erano
sopravvissuti all’assedio di Leningrado.5 Putin
padre aveva combattuto con l’esercito all’inizio
della guerra fra Russia e Germania ed era stato
gravemente ferito in battaglia non lontano dalla città.
Venne portato in un ospedale all’interno della linea
di assedio dove Maria lo ritrovò. Dopo molti mesi
di degenza rimase tuttavia invalido: le gambe
deformate gli provocarono grande sofferenza fisica
per il resto della vita. Putin padre venne congedato
dall’esercito e tornò a casa con Maria. Il loro unico
figlio, che allora doveva avere tra gli otto e i dieci
anni, viveva in una delle molte case per l’infanzia
organizzate dalla città, forse nella speranza che
l’istituto potesse assisterlo meglio dei genitori
disperati e affamati. Il ragazzo però morì
nell’istituto. Anche Maria sfiorò la morte: alla fine
dell’assedio non era in grado di camminare da sola.
Questi erano i genitori del futuro presidente: un
ferito di guerra e una donna che era quasi morta di
fame e che aveva perso entrambi i figli (l’altro era
morto molti anni prima della guerra in età infantile).
Ma nel quadro della Unione Sovietica postbellica i
Putin si potevano considerare fortunati: erano ancora
insieme. Dopo la guerra il numero delle donne in
grado di proliferare era due volte quello degli
uomini.6 Statistiche a parte, la guerra aveva portato
la tragedia in quasi tutte le famiglie, separando i
mariti dalle mogli, distruggendo le case e
disperdendo milioni di persone. Essere
sopravvissuti alla guerra e all’assedio, avere ancora
il coniuge - e la casa - era praticamente un miracolo.
E la nascita del giovane Vladimir Putin fu un altro
miracolo, così improbabile che si sparse la voce
insistente che i Putin lo avessero adottato. Alla
vigilia della prima elezione presidenziale, si fece
avanti una donna dalla Georgia nel Caucaso che
sostenne di averlo dato in adozione quando aveva
nove anni.7 In seguito, su questa storia furono scritti
molti articoli e un libro, probabilmente anche
Natalja Gevorkjan era incline a crederci:8 i suoi
sospetti erano dovuti all’affetto apprensivo dei
genitori e al fatto che la squadra incaricata della
biografia non aveva trovato nessuno che si
ricordasse di aver conosciuto il ragazzo prima della
sua età scolare. Peraltro non è possibile né
verificare né falsificare la teoria dell’adozione ed è
anche inutile: il dato di fatto indiscutibile è che
Vladimir Putin, nel quadro del suo tempo, è stato un
bambino miracolato.
Essere stato catapultato al potere dall’oscurità e
aver passato tutta la vita adulta all’interno dei
confini di una istituzione segreta e molto chiusa ha
permesso a Vladimir Putin di esercitare un controllo
mirato sulle sue informazioni personali più di ogni
altro uomo politico moderno e ancor più di ogni
altro uomo politico moderno occidentale. Putin è
riuscito a creare il suo mito. Questo è un aspetto
positivo perché, meglio di chiunque altro, ha saputo
comunicare esattamente cosa voleva che il mondo
sapesse di lui e come voleva che il mondo lo
vedesse. Il risultato è in pratica il mito di un giovane
nato nella Leningrado postassedio, un luogo
malvagio, affamato e povero che ha fatto crescere
giovani malvagi, affamati e feroci. Così almeno
erano quelli che sono sopravvissuti.
Nell’edificio che vide crescere Putin si entrava
dal cortile. Gli abitanti di San Pietroburgo hanno
chiamato quella struttura urbana “cortili a pozzo”:
chiusi su ogni lato da alti condomini danno
l’impressione di stare in fondo a un gigantesco pozzo
di pietra. Come tutti questi cortili anche quello di
Putin era ingombro di spazzatura, pieno di buche e
soprattutto buio. Così era anche l’edificio: le scale
del XIX secolo erano fatiscenti e il vano scale
raramente era illuminato da una lampadina
funzionante. Mancavano pezzi del corrimano e il
resto dello stabile era traballante. I Putin abitavano
al quinto e ultimo piano dell’edificio e il viaggio per
salire le scale poteva comportare dei rischi.
Come molti appartamenti nel centro di
Leningrado, questo era la parte di un alloggio
costruito per ricchi affittuari, suddiviso poi in due o
tre appartamenti, che a loro volta erano condivisi da
svariate famiglie. L’appartamento dei Putin9 non
aveva una vera e propria cucina: una stufa a gas e un
lavandino erano piazzati nello stretto corridoio al
quale si accedeva dal vano scale. In totale erano tre
le famiglie che utilizzavano le quattro piastre della
stessa stufa per preparare i loro pasti. Una stanza da
bagno non riscaldata era stata ricavata ritagliando un
pezzo del vano scale. Per lavarsi gli abitanti
riscaldavano l’acqua sulla stufa a gas e poi
appoggiavano il catino sopra il gabinetto nella stanza
gelida e minuscola.
Il giovane Vladimir Putin era naturalmente l’unico
ragazzino nell’appartamento. Una vecchia coppia
viveva in una stanza senza finestre, più tardi
dichiarata inabitabile. Una vecchia coppia di ebrei
osservanti e la loro figlia occupavano una stanza
dall’altra parte del corridoio-cucina di fronte ai
Putin. La cucina in comune era motivo di continui
scontri, ma sembra che gli adulti riuscissero a non
coinvolgere il ragazzo nelle dispute quotidiane. Putin
passava molto tempo a giocare nel soggiorno della
famiglia ebrea, e durante un’incontro con i suoi
biografi rilasciò una interessante affermazione
sostenendo che per lui non c’era alcuna differenza
tra i suoi genitori e la coppia di anziani ebrei.10
I Putin avevano la stanza più grande
dell’appartamento: circa venti metri quadrati.
Secondo gli standard di quel tempo per una famiglia
di tre persone questo era quasi un palazzo. Ancora
più incredibile il fatto che possedessero una
televisione, un telefono, una dacia, tipica abitazione
russa fuori città. Il vecchio Putin lavorava come
operaio specializzato in una fabbrica di vagoni
ferroviari, Maria faceva lavori saltuari che le
rompevano la schiena ma le consentivano di passare
del tempo con il figlio: lavorava come guardia
notturna, donna delle pulizie, scaricatrice. Nelle
ombre della povertà postbellica sovietica, i Putin in
pratica potevano essere considerati ricchi.11 Il loro
affetto incondizionato per il figlio talvolta aveva
risultati notevoli, come per esempio l’orologio da
polso che il giovane Vladimir possedeva già in
prima classe: un accessorio raro, costoso e di
prestigio a ogni età per quel tempo e quel luogo.
La scuola era a pochi passi dall’edificio dove
vivevano i Putin. L’istruzione all’epoca non era
eccezionale. L’insegnante delle prime quattro classi
elementari era una donna molto giovane che stava
finendo l’università grazie ai corsi serali.
L’istruzione non era comunque una priorità nel 1960,
quando Vladimir Putin cominciò la prima elementare
all’età di quasi otto anni. La preoccupazione
principale di suo padre, stando ai ricordi, era la
disciplina e non la qualità dell’educazione scolastica
che il figlio riceveva. Nemmeno per il giovane Putin
l’istruzione era parte fondamentale della sua idea di
successo: nel descriversi aveva parlato con enfasi
della reputazione che aveva da teppista, e in questo
godeva della completa collaborazione dei suoi amici
di infanzia. La maggior parte delle informazioni
disponibili su di lui - cioè quelle fornite ai suoi
biografi - riguarda le scazzottate della adolescenza e
giovinezza.
Il cortile è il luogo attorno al quale ruota la vita
del dopoguerra sovietico, e il mito personale di
Putin trova le sue radici in questo spazio. Con gli
adulti che lavoravano sei giorni alla settimana e
l’assistenza all’infanzia praticamente inesistente, in
generale i bambini sovietici crescevano negli spazi
comuni fuori dagli appartamenti sovraffollati. Nel
caso di Putin questo significava vivere in fondo al
“pozzo”, in fondo a un cortile invaso dalla
spazzatura e popolato da duri. Il compagno di scuola
e amico di lunga data Viktor Borišenko racconta a
uno dei biografi:

Così erano i cortili. Tutti teppisti. Sporchi, brutti


ceffi con la barba non rasata, le sigarette e le
bottiglie di vino da poco prezzo. Sempre a bere, fare
a cazzotti, bestemmiare. E in mezzo a tutto questo
c’era anche Putin Quando siamo cresciuti,
incontravamo i teppisti del suo cortile, rovinati dal
bere, avevano raggiunto il fondo. Molti erano finiti
in galera. In altre parole non erano riusciti a farsi
una vita decente.12

Putin, più giovane e magro di corporatura,


cercava di tenere testa a tutti loro. “Se qualcuno lo
insultava in qualsiasi modo,” ricorda Victor,
“Volodja gli saltava subito addosso, lo graffiava, gli
strappava i capelli a ciocche, lo mordeva - faceva di
tutto per non permettere che nessuno lo insultasse in
nessun modo.”13
Putin portò il suo carattere aggressivo alla scuola
elementare. Le scazzottature sono un riferimento
corrente nei ricordi dei suoi compagni di scuola, e
un aneddoto in particolare rende bene l’idea del
temperamento del futuro presidente:

L’insegnante di laboratorio tecnico trascinava


Putin per il colletto dalla sua classe alla nostra.
Stavamo facendo palette per la spazzatura nella
nostra classe e Putin aveva fatto qualcosa di
sbagliato Gli ci volle molto tempo per calmarsi.
Dopo successe qualcosa di interessante. Sembrava
infatti che finalmente si sentisse meglio, che tutto
fosse di nuovo a posto. E invece a un certo punto
esplodeva ancora e ricominciava così a esprimere la
sua rabbia. Questo a più riprese.14

La scuola punì Putin escludendolo dalla


organizzazione dei Giovani pionieri: una forma rara
e quasi esotica di punizione, in genere riservata ai
ragazzi ripresi di frequente e considerati
irrecuperabili. Putin era ormai segnato: per tre anni
fu l’unico scolaro a non portare il fazzoletto rosso al
collo, distintivo questo di appartenenza
all’organizzazione comunista dei ragazzi dai dieci ai
quattordici anni. Lo status di emarginato di Putin era
anche più strano in considerazione del fatto che
rispetto agli altri veniva da una famiglia benestante.
Statisticamente molti dei ragazzi non vivevano
nemmeno con entrambi i genitori.
Ma per Putin le credenziali del teppista
corrispondevano al suo vero “status”, del quale si
vantava nelle interviste con i biografi nell’anno
2000:

“Come mai non è stato iscritto ai Giovani pionieri


fino alla sesta classe? La situazione era veramente
così grave?”
“Certo, non ero affatto un pioniere, ero un
farabutto.”
“Se ne sta vantando?”
“Vuole insultarmi? Ero un vero teppista.”15

Lo status sociale, politico e accademico di Putin


cambiò quando raggiunse i tredici anni di età: in
sesta classe cominciò ad applicarsi agli studi e
venne premiato non solo con l’accesso, finora
negato, ai Giovani pionieri ma, subito dopo, con
l’elezione a presidente della classe.16 Le scazzottate
comunque continuarono con la stessa frequenza: gli
amici di Putin raccontarono ai biografi molte storie
in cui la dinamica delle vicende si ripeteva in modo
costante, anno dopo anno.
“Giocavamo a rincorrerci per strada,” ricorda un
compagno delle elementari. “Volodja stava passando
da quelle parti e notò che un ragazzo molto più
grande e grosso di me mi stava inseguendo, io
scappavo come potevo. Così è intervenuto cercando
di proteggermi. Naturalmente ne seguì uno scontro.
Alla fine abbiamo risolto tutto, ovviamente.”17
Un altro ex compagno di classe racconta ancora un
episodio esemplare:

Eravamo nella ottava classe, stavamo aspettando


alla fermata del tram. Arrivò un tram, ma non era
quello giusto per noi. Scesero due grossi uomini
ubriachi e cercarono di attaccare briga con qualcuno.
Dicevano parolacce e davano spintoni alla gente.
Vovka mi passò la sua cartella con molta calma, poi
ho visto che ne ha fatto volare uno su un mucchio di
neve a faccia in giù. Il secondo uomo si voltò verso
Volodja e gli gridò: “Che diavolo era?” Pochi
secondi dopo sapeva esattamente che diavolo era
perché giaceva a terra vicino al suo compare. In quel
momento arrivò il nostro tram. Una cosa che posso
dire di Vovka è che non ha mai permesso a
mascalzoni e bastardi che insultavano o
importunavano la gente di andarsene impuniti.18

Anche nei panni del funzionario del KGB, Putin


ricorreva alle scazzottate giovanili.

Una volta mi invitò a vedere la processione della


Croce a Pasqua. Era di servizio e aiutava a
contenere la folla. Mi chiese se volevo vedere
l’altare nella chiesa. Dissi di sì, naturalmente: era
proprio una ragazzata - nessuno poteva entrare, ma
noi sì. Così dopo la processione ci siamo
incamminati verso casa e ci siamo messi ad
aspettare l’autobus alla fermata. Alcune persone si
avvicinarono. Non avevano l’aria di criminali,
piuttosto sembravano universitari che avevano
bevuto un po’. Ci chiesero: “Avete una sigaretta?”
Vovka rispose: “No.” E a questo punto continuarono:
“Cosa ti prende da rispondere in questo modo?” E
lui ancora: “Niente.” Non ho avuto il tempo di
vedere cosa è successo dopo. Uno di loro deve
averlo colpito o spintonato. Quello che ho visto fu un
piede con calzino ma senza scarpa che mi passava
davanti agli occhi. Il tipo venne lanciato da qualche
parte. E Volod’ka mi disse calmo: “Andiamocene da
qui.” E ce ne siamo andati. Mi è proprio piaciuto il
modo in cui ha fatto volare quel tipo che voleva
provocarlo: in meno di un secondo i suoi piedi erano
per aria.”

Lo stesso amico ricorda che qualche anno dopo,


quando Putin stava frequentando la scuola di
spionaggio a Mosca, tornò a casa a Leningrado per
pochi giorni solo per finire in una rissa nella
metropolitana. “Qualcuno l’aveva provocato e lui gli
diede una bella lezione,” racconta l’amico ai
biografi. “Volodja era molto seccato: ‘A Mosca non
piacerà questa cosa. Ci saranno conseguenze,’ disse.
Immagino che abbia avuto qualche guaio. Ma non mi
ha mai raccontato i dettagli. Alla fine si è risolto
tutto.”19
Sembra che Putin reagisse alla minima
provocazione cacciandosi ogni volta in una rissa,
mettendo perciò a rischio la sua carriera nel KGB,
che sarebbe stata stroncata se fosse stato arrestato
per una lite o anche solo segnalato dalla polizia. Non
entriamo in merito alla fondatezza o infondatezza di
queste storie, quello che importa qui è l’immagine
che Putin vuole dare di sé - e vuole che gli altri
diano di lui - quella di un uomo impetuoso,
decisamente violento e dal carattere poco
controllabile. È ancora più interessante notare come
questa immagine sia in contraddizione con il rigore e
la disciplina alle quali Putin ha dedicato la sua
adolescenza.
All’età di dieci o undici anni, iniziò a cercare un
luogo dove potesse esprimere la sua predisposizione
al combattimento. Il pugilato si dimostrò troppo
doloroso: gli spaccarono il naso in uno dei primi
allenamenti. Poi scoprì il sambo. “Sambo” è
l’acronimo di una frase russa che sta per “autodifesa
senza armi”, un’arte marziale sovietica caratterizzata
dalla combinazione di judo, karate e movimenti della
lotta popolare russa. I suoi genitori non erano
d’accordo sul nuovo hobby del figlio. Maria lo
definiva una “sciocchezza” e aveva paura per
l’incolumità del suo bambino, così il padre proibì le
lezioni. L’allenatore dovette recarsi molte volte nella
abitazione dei Putin prima che questi permettessero
al ragazzo di frequentare gli allenamenti quotidiani.
Il sambo e la sua disciplina ebbero però un ruolo
fondamentale nella crescita di Putin da giovane
teppista della scuola media in adolescente motivato
e impegnato. Questo sport era anche finalizzato al
raggiungimento di quella che stava diventando
un’ambizione dominante: Putin aveva sentito che il
KGB voleva che le nuove reclute avessero una
preparazione nel combattimento corpo a corpo.20
“Immaginatevi un ragazzo che sogna di essere un
funzionario del KGB quando tutti gli altri sognano di
diventare astronauti.” Mi disse Natalja Gevorkjan
cercando di spiegarmi quanto fosse strana per lei
questa passione di Putin. A me non sembrava tanto
strampalata: negli anni sessanta i responsabili della
cultura sovietica avevano investito molto nella
creazione di una immagine romantica, anche
affascinante, della polizia segreta. Quando Putin
aveva dodici anni, il libro Lo scudo e la spada
divenne un grande successo editoriale. Il suo
protagonista era un agente dei servizi segreti
sovietici che lavorava in Germania. Quando Putin
aveva quindici anni il libro diventò il soggetto di una
serie televisiva che ebbe un successo travolgente.
Quarantatre anni dopo, il primo ministro Putin
incontrò le undici spie russe che erano state espulse
dagli Stati Uniti e insieme, in una dimostrazione di
cameratismo e nostalgia, cantarono la sigla della
serie televisiva.21
“Quando ero in nona classe libri e film mi
influenzarono molto tanto da far nascere in me il
desiderio di entrare nel KGB.” Raccontò Putin al
suo biografo. “Non c’è niente di strano.”22
L’affermazione impone una altra domanda: cosa,
oltre ai libri e ai film, formò quella che diventò la
passione ostinata di Putin? Sembra ci sia stato altro,
ma Putin lo nasconde da sguardi indiscreti come
fanno le migliori spie.
Tutti noi vogliamo che i nostri figli crescano per
essere una versione migliore e di maggiore successo
di noi. Vladimir Putin, il figlio-miracolo di due
genitori mutilati e stroncati dalla seconda guerra
mondiale era nato per essere una spia sovietica in
Germania. Durante la guerra il padre era stato
assegnato alle truppe cosiddette “guastatori”,23
piccoli commando che operavano all’interno delle
linee nemiche. Le truppe di guastatori dipendevano
dalla NKVD, all’epoca il nome della polizia segreta
sovietica, ed erano formate in genere da quadri
operativi della NKVD. Erano impegnate in missioni
suicide e non più del 15% sopravviveva dopo i
primi sei mesi di guerra. Il commando di Putin padre
era un caso tipico: ventotto soldati vennero
paracadutati oltre le linee nemiche a circa 170
chilometri da Leningrado. Avevano avuto a malapena
il tempo per orientarsi e per far saltare un treno
quando esaurirono le scorte alimentari. Chiesero
cibo agli abitanti della zona che li sfamarono e li
consegnarono ai tedeschi. Molti riuscirono a
evadere. I tedeschi cercarono di riprenderli,
Vladimir si nascose in uno stagno respirando
attraverso una canna fino a quando la squadra che lo
stava cercando non se ne andò. Fu uno degli unici
quattro superstiti della missione.24
Le guerre fanno nascere molte storie straordinarie,
e la leggenda con la quale era cresciuto il giovane
Putin potrebbe essere vera come molti altri racconti
di miracolosa sopravvivenza e di spontaneo
eroismo. Inoltre, potrebbe spiegare perché decise di
iscriversi al corso facoltativo di lingua tedesca in
quarta elementare, quando era ancora notoriamente
uno studente mediocre. Di certo spiega come mai
Putin tenesse il ritratto del padre fondatore dello
spionaggio sovietico sulla scrivania nella dacia. Il
suo migliore amico di infanzia ricorda che era “di
sicuro qualcuno dei servizi segreti perché Volodja
me lo aveva detto,”25 e in seguito Putin rivelò ai
biografi il nome del suo idolo. Jan Berzin, l’eroe
della rivoluzione, il fondatore dei servizi di
informazione sovietici, il creatore della rete di
spionaggio sovietico in tutti i principali paesi
europei, arrestato e fucilato, come molti primi
bolscevichi, alla fine del 1930 perché coinvolto in
un immaginario complotto contro Stalin. Il
personaggio storico venne riscattato nel 1956 ma da
allora rimase nell’ombra. Bisognava essere un vero
fan del KGB per conoscerne il nome e ancora di più
per trovarne il ritratto.
Non è chiaro se Putin padre abbia lavorato per il
NKVD prima della guerra né se abbia continuato a
lavorare per i servizi segreti dopo la guerra. Sembra
probabile che sia rimasto in quella che veniva
chiamata la riserva attiva, un enorme corpo di
funzionari della polizia segreta che, pur avendo
regolari lavori, erano anche al soldo del KGB come
informatori. Questo spiega come mai i Putin
avessero un tenore di vita relativamente buono: la
dacia, la televisione e il telefono - specialmente il
telefono.
All’età di sedici anni, un anno prima di finire la
scuola secondaria, Vladimir Putin si presentò
all’ufficio del KGB di Leningrado per cercare di
arruolarsi.

C’era un uomo, non mi conosceva e dopo quella


volta non l’ho più incontrato. Gli dissi che andavo a
scuola e che in futuro mi sarebbe piaciuto lavorare
per i servizi di sicurezza dello stato. Chiesi se era
possibile e cosa avrei dovuto fare per potermi
arruolare. L’uomo disse che in genere non
assumevano volontari, e che il modo migliore
sarebbe stato di andare all’università o nell’esercito.
Gli chiesi in quale facoltà e mi disse legge, mi disse
che una facoltà di legge all’università sarebbe stata
la cosa migliore.26

“Fu una sorpresa per tutti quando disse che


intendeva iscriversi all’università,” disse
l’insegnante della classe ai suoi biografi. “Gli chiesi
come avrebbe fatto. Mi rispose: ‘Ci penserò io’.”27
L’università di Leningrado era una delle istituzioni di
studi superiori più prestigiose del paese, certamente
la più competitiva in città. Come potesse anche solo
pensare uno studente mediocre, proveniente da una
famiglia priva di conoscenze - dimentichiamoci per
un attimo della fondatezza della mia ipotesi
sull’impiego del padre nella polizia segreta - di
riuscire a essere ammesso in un istituto così
rinomato era davvero un mistero. I genitori e il suo
allenatore protestarono: tutti volevano che facesse
domanda in una università più vicina a casa, in cui
fosse più facile essere ammesso e che gli
consentisse allo stesso tempo di evitare il servizio
militare.
Putin si diplomò alla scuola secondaria con ottimo
in storia, tedesco ed educazione fisica; buono in
geografia, russo e letteratura; sufficiente in fisica,
chimica, algebra e geometria.28 All’università di
Leningrado per ogni posto disponibile c’erano
quaranta candidati. Come fece a ottenere uno di quei
posti? È possibile che spinto dalla forte ambizione
sia stato capace di prepararsi bene per i difficili
esami di ammissione, a scapito di quelli del
diploma. Questa però si sarebbe rivelata una
strategia vantaggiosa perché l’università decideva
solo sulla base del risultato degli esami di
ammissione e non sui voti del diploma scolastico dei
candidati. È anche possibile che il KGB sia
intervenuto per farlo passare.
All’università Putin se ne stette per i fatti suoi,
come aveva fatto negli ultimi due anni di scuola
secondaria, evitando la comunità degli studenti e le
attività del Komsomol. Cercò di prendere buoni voti
e passò il tempo libero allenandosi nel judo (il suo
allenatore e i compagni della squadra avevano
lasciato il Sambo per una disciplina olimpica di arti
marziali) e girando con la sua macchina. Putin era
forse l’unico studente dell’università di Leningrado a
possedere un’automobile. Nei primi anni settanta
un’auto nell’Unione Sovietica era una rarità: la
grande produzione automobilistica era in gestazione,
ancora venti anni dopo c’erano a malapena 60 auto
per ogni mille abitanti nell’Unione Sovietica (da
paragonare alle 781 negli Stati Uniti).29 Un’auto
costava più o meno come una dacia. I Putin vinsero
l’auto con una lotteria, un modello recente a due
porte con il motore di una motocicletta, e invece di
prendere i soldi che gli avrebbero consentito di
uscire dall’appartamento in condivisione e di
comperare un alloggio in un edificio di recente
costruzione nella periferia di Mosca, diedero l’auto
al figlio.30 Il fatto che gli facessero un regalo così
lussuoso e che lui lo accettasse dimostra un legame
di affetto smisurato tra genitori e figlio ma anche la
loro inspiegabile agiatezza, o entrambe le ipotesi.
Comunque il rapporto di Putin con il denaro,
molto stravagante ed egoista per il contesto sociale
d’appartenenza, sembra si sia formato durante gli
anni dell’università. Come gli altri studenti Putin
passava l’estate lavorando in cantieri lontanissimi,
dove lo stipendio era molto alto: lo stato pagava
bene i lavoratori per compensare il pericolo e il
duro sforzo fisico nel lontano Nord del paese. Putin
guadagnò mille rubli31 un’estate e cinquecento
quella successiva, sufficienti per esempio a rifare il
tetto della loro dacia. Qualsiasi giovane sovietico
nelle sue condizioni - figlio unico ancora sotto il
tetto dei genitori mantenuto completamente da loro,
entrambi pensionati - avrebbe dato tutto o gran parte
del denaro alla famiglia. Invece come arrivò l’estate
Putin intraprese un viaggio con due amici attraverso
tutta la Russia, dal grande Nord fino al Sud
sovietico, alla città di Gagry sul mar Nero dove in
pochi giorni spese tutti i suoi soldi. L’anno seguente,
ritornò a Leningrado dopo aver lavorato in un
cantiere e spese tutto il denaro guadagnato per
comperare un giaccone per sé - e una torta glassata
per la madre.32
A un incontro con i biografi ricordò così l’inizio
della carriera nel KGB:

Per tutti gli anni dell’università aspettai che


l’uomo con il quale avevo parlato negli uffici del
KGB si ricordasse di me. Ma si erano dimenticati
tutto di me perché quando mi presentai da loro ero
ancora uno scolaro Ricordavo però che non
arruolavano volontari e così decisi di non prendere
iniziative. Passarono quattro anni. Silenzio. Pensai
che non ci fosse nulla da fare e cominciai a cercare
altri possibili impieghi Ma al quarto anno fui
contattato da un uomo che voleva incontrarmi. Non
disse chi era, ma l’avevo capito subito perché mi
disse: “Parleremo del tuo futuro lavoro, voglio
discuterne con te, per il momento non entrerò nei
dettagli.” Così capii. Se qualcuno non vuole dire
dove lavora, allora significa che lavora proprio
là.33

Il funzionario del KGB si incontrò con Putin


quattro o cinque volte e concluse che “non era
particolarmente espansivo, ma esprimeva energia,
flessibilità mentale e coraggio. Ancora più
importante, era bravo e rapido nel rapportarsi con la
gente - una caratteristica fondamentale per un
funzionario del KGB specialmente se deve lavorare
nei servizi segreti.”34
Quando seppe che avrebbe lavorato nel KGB
andò a trovare Viktor Borišenko, che era rimasto il
suo migliore amico fin dalle scuole elementari.

Un giorno mi dice: “Andiamo.” Io gli chiedo:


“Dove andiamo, e perché?” Lui non risponde.
Prendiamo la sua macchina e andiamo. Ci fermiamo
a un ristorante di cucina caucasica. Sono curioso.
Cerco di capire cosa sta succedendo. Ma non ci
riesco. Ero certo che fosse successo qualcosa di
importante nella sua vita. Putin però non mi ha
rivelato nulla. Nemmeno un indizio. Stava
festeggiando qualcosa. Solo molto tempo dopo ho
saputo che il mio amico stava festeggiando con me il
futuro lavoro al KGB.35

In seguito Putin non tenne segreto il suo impiego al


KGB. Lo raccontò al violoncellista Sergei Roldugin,
che sarebbe poi diventato il suo migliore amico, non
appena si sono incontrati. Avendo viaggiato
all’estero con la sua orchestra, Roldugin aveva visto
gli agenti del KGB all’opera e gli disse di essere
preoccupato ma anche curioso. “Una volta cercai di
farlo parlare di una operazione finita male, senza
però riuscirci,” raccontò ai biografi di Putin durante
un’intervista.

Un’altra volta gli dissi: “Io sono un violoncellista


e questo significa che suono il violoncello. Non sarò
mai un chirurgo. Invece tu che lavoro fai? Voglio
dire so che sei un agente dei servizi segreti. Ma
questo cosa significa? Chi sei? Cosa puoi fare?” E
lui rispose: “Sono un esperto in relazioni umane.”
Fine della conversazione. Lui credeva veramente di
sapere qualcosa della gente... ne rimasi
impressionato. Ero orgoglioso e apprezzai molto il
fatto che fosse un esperto in relazioni umane.36

(Il taglio scettico della battuta di Roldugin,


“credeva veramente di sapere qualcosa”, è chiaro e
inequivocabile sia nell’originale russo sia nella
traduzione ma sembra che né Putin né Roldugin, che
certamente approvarono la citazione, lo abbiano
colto.)
Anche dalla descrizione delle relazioni passate
traspare un comunicatore incredibilmente inetto.
Prima di incontrare Ljudmila, la futura moglie, aveva
avuto un importante legame con una donna; ma
l’aveva piantata all’altare. “È così che è successo.”
Disse ai biografi senza spiegare nulla. “È stato molto
difficile.”37 Di altrettante poche parole fu nel
parlare della donna che poi ha sposato, e anche con
lei si sarebbe dimostrato incapace di comunicare i
suoi sentimenti. Si frequentarono per più di tre anni,
un tempo davvero lungo per gli standard sovietici e
l’età avanzata della coppia: Putin aveva trentun anni
quando si sposò, il che lo colloca nel gruppo
ristretto, meno del dieci per cento,38 dei russi che
restano single oltre i trent’anni. La futura signora
Putin faceva la hostess su una linea area interna, ed
era originaria di Kaliningrad, un città sul mare
Baltico. I due si erano conosciuti attraverso un
amico comune. È stata Ljudmila a dichiarare che non
si trattò di amore a prima vista, perché la prima
volta che incontrò Putin le sembrò insignificante e
malvestito; non si conoscono invece dichiarazioni di
lui sul suo amore per la moglie. A quanto pare,
durante il fidanzamento, sembra essere stata lei la
più insistente e la più emotiva. Dalla descrizione del
giorno in cui Putin finalmente si propose in
matrimonio emerge di nuovo una tale aridità di
comunicazione e sentimenti da sembrare impossibile
che queste persone siano riuscite a sposarsi e ad
avere due bambini.

Una sera eravamo seduti nel suo appartamento e


lui mi dice: “Piccola amica, a questo punto dovresti
sapere come sono, non sono un partito molto
conveniente.” Continuò descrivendosi: “Non parlo
molto, posso essere piuttosto impulsivo, posso ferire
i tuoi sentimenti ecc. Non sono proprio una brava
persona con la quale voler passare il resto della
vita. E poi proseguì: “In questi tre anni e mezzo te ne
sarai resa conto.” Pensai che fossimo sul punto di
rompere. Così risposi: “Certo, sì, me ne sono resa
conto.” E lui disse senza nessuna incertezza nella
voce: “Veramente?” A quel punto ero sicura che
stavamo per rompere. Ma lui continuò: “Se è così
allora ti amo e ti propongo di sposarci il giorno
tale.” E questo fu del tutto inaspettato.39

Dopo tre mesi si sposarono e Ljudmila lasciò il


lavoro e si trasferì a Leningrado a vivere con Putin
nella più piccola delle due stanze dell’appartamento
che ancora condivideva con i genitori.
L’appartamento, situato in un orrendo blocco di
cemento a circa quaranta minuti di metropolitana dal
centro della città, era dei Putin dal 1977: il giovane
aveva avuto una stanza per conto suo per la prima
volta all’età di venticinque anni. Una stanza di circa
12 metri quadrati con una sola finestra piazzata così
in alto che si poteva vedere fuori solo stando in
piedi. In altre parole le condizioni di vita della
giovane coppia erano più o meno simili a quelle di
milioni di altre giovani coppie nell’Unione
Sovietica.
Ljudmila si iscrisse all’università di Leningrado
dove ha studiato filologia. Circa un anno dopo il
matrimonio rimase incinta della prima figlia.
Durante la gravidanza, e qualche mese dopo la
nascita di Maria, il marito andò a Mosca per un
corso di un anno che lo avrebbe preparato per un
incarico nei servizi di sicurezza all’estero. Da molto
prima del matrimonio Ljudmila era venuta a
conoscenza del lavoro di Putin al KGB, anche se
all’inizio lui le aveva detto di essere un ispettore di
polizia: quella che era la sua copertura.40
Che Putin non fosse molto coscienzioso nell’usare
in modo corretto la copertura è forse un indice del
fatto che non sapeva esattamente cosa dovesse
coprire. La sua ambizione - o più esattamente il suo
sogno - era quello di avere qualche incarico segreto.
“Ero affascinato da come un piccolo gruppo, o
meglio una sola persona, potesse riuscire in imprese
impossibili a un intero esercito,” disse ai suoi
biografi. “Un agente dei servizi segreti da solo
poteva decidere il destino di migliaia di persone.
Così almeno la vedevo io.”41
Putin voleva comandare il mondo, o almeno parte
del mondo, restando nell’ombra. Alla fine ci è
riuscito, ma all’inizio quando entrò nel KGB le sue
prospettive di ottenere qualcosa di significativo o
anche di lontanamente interessante erano
assolutamente incerte.
Verso la metà degli anni settanta quando Putin
entrò nel KGB, la polizia segreta come tutte le
istituzioni sovietiche era in una fase di grande
espansione. Il numero sempre crescente di
dipartimenti e direzioni produceva una enorme
quantità di informazioni che non avevano uno scopo
definito, tantomeno un utilizzo o un significato. Un
intero esercito di uomini e poche donne passavano la
vita a mettere insieme ritagli di giornali, a compilare
trascrizioni di registrazioni di conversazioni
telefoniche, rapporti sulla gente pedinata e sulle
trivialità apprese, tutto materiale che veniva
inoltrato ai vertici della piramide del KGB e quindi
ai capi del Partito comunista in gran parte senza
essere elaborato e in pratica senza essere analizzato.
“Solo il Comitato centrale del Partito comunista ha il
diritto di pensare secondo ampie categorie
politiche,” scrisse l’ultimo presidente del KGB, il
cui compito era di smantellare l’istituto.
Il KGB si limitava a raccogliere informazioni
fondamentali e a eseguire decisioni prese altrove.
Questa struttura non ha la possibilità di produrre un
pensiero critico di strategia politica al suo interno.
Ma è insuperato nella sua capacità di produrre
informazioni di qualunque genere e nella quantità che
gli viene richiesta.42
In altre parole il KGB aveva trasformato il
concetto dell’esecuzione degli orgini in una logica
estrema, assurda: i suoi agenti vedevano quello gli
veniva ordinato di vedere, sentivano quello che gli
veniva ordinato di sentire, e riferivano esattamente
quello che gli veniva ordinato di riferire.
L’ideologia interna del KGB, come quella di ogni
altra istituzione di polizia, si fondava su un chiaro
concetto del nemico. L’istituzione era dominata dalla
mentalità da assedio, la stessa che aveva motivato le
massicce persecuzioni e purghe staliniane. Putin era
però entrato nel KGB non solo nell’era
poststaliniana, ma anche in uno dei rari e brevi
periodi nei quali l’Unione Sovietica non era in
guerra: dopo il Vietnam e prima dell’Afganistan, il
paese non era impegnato in nessun conflitto aperto o
segreto. Gli unici nemici attivi erano i dissidenti, un
pugno di anime coraggiose che impegnava dunque
una quota assolutamente sproporzionata del
personale del KGB. Una nuova legge, l’articolo 190
del codice penale,43 definiva criminale la
“diffusione di voci o informazioni che possono
essere dannose per la società e la struttura di
governo,” questo dava al KGB un potere quasi
illimitato di perseguire e combattere tutti coloro che
osavano pensarla diversamente. I dissidenti, i
sospettati dissidenti e coloro che potevano avere
propensione per attività che potevano essere
considerate di dissenso erano oggetto di continua
sorveglianza e di continua pressione.44 Putin
sostiene di non avere mai preso parte in azioni
contro i dissidenti, ma nelle interviste ha dimostrato
di essere perfettamente al corrente di come erano
organizzate,45 probabilmente perché aveva mentito
nel dire di non averle svolte. In una memoria
totalmente agiografica su Putin,46 scritta da un ex
collega che era passato all’Occidente alla fine degli
anni ottanta, si dice chiaramente che a Leningrado
Putin lavorava alla Quinta Direzione, creata
appositamente per combattere i dissidenti.
Dopo l’università Putin trascorse sei mesi
passando carte negli uffici del KGB di Leningrado.
Quindi sei mesi di scuola per i funzionari KGB. “Era
una scuola assolutamente insignificante a
Leningrado,”47 disse ai suoi biografi - ce ne erano
almeno una dozzina nel paese dove i laureati
dell’università si qualificavano come agenti segreti.
Dopo il diploma di qualificazione, Putin venne
assegnato all’unità di controspionaggio a
Leningrado. Si trattava di un incarico secondario in
un reparto secondario. I servizi segreti a Mosca48 si
occupavo di rintracciare e seguire i sospettati o gli
agenti dei servizi segreti stranieri, la maggior parte
dei quali lavoravano nelle ambasciate internazionali
in città. Non c’erano ambasciate a Leningrado e in
pratica non c’era nessuno da pedinare.
Dopo sei mesi nell’unità di controspionaggio,
Putin venne mandato a Mosca per un corso di
addestramento di un anno - quindi rispedito a
Leningrado e messo nell’organico del reparto di
spionaggio.49 Si trattava di un altro incarico da
incubo e Putin non aveva via d’uscita, come
centinaia e magari migliaia di giovani ordinari che
avevano sognato di diventare spie e che adesso
aspettavano che qualcuno li notasse. La macchina
infernale del KGB li aveva formati e arruolati senza
però una ragione specifica e uno scopo preciso, così
tutti loro potevano aspettare all’infinito. Putin restò
in attesa per quattro anni e mezzo.
La grande opportunità venne nel 1984 quando
finalmente fu mandato a Mosca per il corso di un
anno da agente segreto. Il trentaduenne maggiore del
KGB sembra abbia fatto di tutto per dimostrare la
sua determinazione nell’ottenere quel lavoro, come
per esempio l’aver indossato un completo giacca,
pantaloni e gilè nel caldo soffocante dell’estate
come manifestazione di rispetto e disciplina. Si
dimostrò una strategia vincente: la scuola di
spionaggio era sostanzialmente un lungo,
impegnativo e pesante tirocinio di collocazione - gli
studenti erano attentamente studiati dal corpo
docente che avrebbe poi fatto le raccomandazioni
per il loro futuro.
Uno degli istruttori di Putin lo criticò per “scarso
senso del pericolo” - un grave difetto per una
potenziale spia. Il suo istruttore di controllo delle
tecniche di spionaggio, e quindi della
comunicazione, disse che Putin aveva una
personalità chiusa, non molto socievole. Nel
complesso si dimostrò un bravo studente, totalmente
impegnato nel lavoro alla scuola. Venne anche
nominato responsabile di classe - il suo primo ruolo
di guida dopo l’elezione a capoclasse nella sesta
classe della scuola secondaria - e pare che lo abbia
svolto bene.50
Escludendo imprevedibili disastri Putin sapeva
che sarebbe stato inviato a lavorare in Germania:
gran parte dell’impegno nella scuola di
specializzazione in spionaggio era stato dedicato al
perfezionamento della conoscenza del tedesco
(lingua che finì per parlare correntemente nonostante
il pesante accento russo). Dopo il diploma, il grande
enigma da risolvere fu capire quale fosse la
destinazione del suo incarico: se la Germania
dell’Est o la Germania dell’Ovest. La prima
opzione, comunque interessante perché si trattava
sempre di una missione all’estero, non realizzava i
sogni di Putin da vent’anni a quel momento: non
sarebbe stato un incarico di spionaggio. Per quello
avrebbe dovuto essere inviato nella Germania
Occidentale.
Quello che avvenne alla fine fu poco meno di un
disastro. Dopo un anno alla scuola di spionaggio
Putin sarebbe stato inviato in Germania, ma non
nell’Ovest e nemmeno a Berlino: venne assegnato
alla città industriale di Dresda. All’età di trentatre
anni, con Ljudmila di nuovo incinta e la figlia Maria
di un anno, prese di nuovo servizio per un incarico
secondario. L’incarico per il quale aveva studiato e
aspettato per ben venti anni non sarebbe stato
nemmeno sotto copertura. I Putin e altre cinque
famiglie russe vennero alloggiati in un grande
edificio residenziale nel piccolo mondo della
Stasi:51 ci vivevano solo impiegati della polizia
segreta. L’ufficio era a cinque minuti a piedi e i loro
bambini sarebbero andati in un asilo nello stesso
complesso residenziale. Mangiavano a casa a
mezzogiorno e la sera restavano a casa o andavano a
trovare colleghi nello stesso edificio. Il loro lavoro
era raccogliere informazioni sul “nemico”, tale era
all’epoca l’Occidente, e cioè la Germania
Occidentale e, in particolare le basi militari
americane che non erano certo meglio raggiungibili
da Dresda di quanto non lo fossero da Leningrado.
Putin e i suoi colleghi si limitavano in pratica a
raccogliere ritagli di giornale contribuendo in questo
modo alla produzione delle crescenti montagne di
informazioni inutili prodotte dal KGB.
A Ljudmila Putina piacevano la Germania e i
tedeschi. Rispetto all’Unione Sovietica la Germania
dell’Est era il paese dell’abbondanza. Era anche un
paese pulito e ordinato: le piaceva il modo nel quale
i suoi vicini tedeschi appendevano la loro biancheria
tutta uguale su fili paralleli alla stessa ora ogni
mattina. A Ljudmila sembrava che i vicini vivessero
meglio di quanto non fossero abituati i Putin. Così i
Putin cominciarono a risparmiare senza comprare
nulla per il loro appartamento temporaneo, con la
speranza che una volta a casa avrebbero avuto
abbastanza soldi per acquistare un’automobile.
Nacque anche la seconda figlia Ekaterina,
soprannominata “Katja”. Putin beveva birra di
continuo e divenne grasso.52 Interruppe gli
allenamenti e l’attività fisica e mise su dieci chili -
una aggiunta disastrosa al suo fisico smilzo e di
bassa statura. La moglie che aveva descritto i primi
anni del matrimonio come felici e sereni, non ha più
rilasciato dichiarazioni sulla vita familiare dopo la
scuola di spionaggio. Ha solo detto che il marito non
le parlava mai del suo lavoro.
Non che ci fosse molto da raccontare. Il personale
del KGB all’ufficio di Dresda apparteneva a diverse
direzioni; Putin dipendeva dalla Direzione S,53
l’ufficio che si occupava della raccolta illegale di
informazioni (terminologia KGB per indicare agenti
che operavano con identità e documenti falsi -
diversa dalla legittima raccolta di informazioni
condotta invece da agenti che non nascondevano la
loro appartenenza a organizzazioni dello stato
sovietico). Questo avrebbe potuto essere il suo
incarico ideale, solo che doveva svolgerlo a Dresda.
Il lavoro al quale Putin aveva aspirato, finalizzato
alla formazione di futuri agenti segreti, si dimostrò
non solo noioso ma inutile. Putin e i suoi due
colleghi della raccolta illegale di informazioni,
aiutati da un poliziotto di Dresda in pensione, anche
lui pagato dall’ufficio, cercavano studenti stranieri
iscritti all’Università di tecnologia di Dresda -
c’erano molti studenti provenienti dall’America
Latina potenziali agenti segreti negli Stati Uniti - e
impiegavano mesi per entrare in confidenza con i
soggetti per poi scoprire che non avevano
abbastanza soldi per convincerli a lavorare per
loro.54

Il denaro era una costante fonte di preoccupazioni,


di pena e di invidia. I cittadini sovietici vedevano le
lunghe missioni all’estero come eccezionali fonti di
reddito, spesso sufficienti per porre le basi di una
vita comoda tornati a casa. La Germania Orientale
però non era considerata proprio come una sede
all’estero, sia dalla gente comune sia dalle autorità
sovietiche: gli stipendi e le integrazioni nella
Germania Est non si potevano nemmeno paragonare
con quelli di un “vero” paese straniero, cioè di un
paese capitalista. Poco prima dell’arrivo dei Putin a
Dresda, il governo aveva finalmente autorizzato il
pagamento di modeste integrazioni dello stipendio in
valuta straniera55 (equivalenti circa a 100 dollari al
mese) per i cittadini sovietici che lavoravano in
paesi del blocco socialista. Nonostante questo gli
impiegati della sede del KGB di Dresda dovevano
stringere la cinghia e risparmiare se volevano avere
qualcosa da far vedere alla fine del loro mandato.
Negli anni si erano instaurate alcune abitudini di
frugalità - per esempio l’uso di giornali invece che
di tende per coprire le finestre. Eppure mentre tutti
gli agenti sovietici vivevano nelle stesse condizioni
di squallore, gli agenti della Stasi che avevano gli
appartamenti nello stesso edificio avevano un livello
di vita superiore e guadagnavano molto di più.56
Ma era in Occidente, così vicino e così
irraggiungibile per uno come Putin57 (qualcuno dei
cittadini sovietici in Germania Est aveva il diritto di
andare a Berlino Ovest), che la gente possedeva ciò
che veramente desiderava Putin. Confessò le sue
ambizioni anche ai pochi cittadini occidentali con i
quali era riuscito a entrare in contatto, i membri del
gruppo di estremisti della banda Baader-Meinhof
(Rote Armee Faktion), che ricevevano ordini dal
KGB e ogni tanto venivano a Dresda per sessioni di
addestramento. “Voleva sempre possedere
qualcosa,” un ex membro della RAF mi disse di
Putin. “Aveva chiesto a diverse persone gli oggetti
che voleva dall’Ovest.”58 In particolare, egli
sostiene di aver personalmente regalato a Putin una
radio Grundig Satellit, l’ultimo modello di ricevitore
radio a onde corte, e uno stereo Blaupunkt per la sua
macchina; il ricevitore Grundig l’aveva comperato e
l’autoradio Blaupunkt l’aveva presa da una delle
tante auto che la RAF aveva rubato per le sue
imprese. Un ex brigatista mi raccontò che gli
estremisti della Germania Ovest portavano sempre
regali quando andavano nella parte Est, ma c’era una
differenza nel modo nel quale gli agenti della Stasi
accettavano le merci e l’approccio di Putin: “I
tedeschi non pensavano che noi dovessimo pagare
per gli oggetti e facevano almeno lo sforzo di
chiedere: ‘Quanto ti devo?’ e noi rispondevamo:
‘Niente.’ Vova non provava nemmeno a chiedere:
‘Quanto ti devo?’”
Dare incarichi agli estremisti della RAF, che sono
stati responsabili di più di due dozzine di assassini e
attacchi terroristici tra il 1970 e il 1998, era
esattamente il tipo di lavoro che Putin avrebbe
sognato di fare, ma non ci sono prove che sia stato
direttamente coinvolto. Invece passava la maggior
parte delle sue giornate seduto alla scrivania, in una
stanza condivisa con un altro agente (tutti gli altri
agenti nell’edificio di Dresda avevano l’ufficio
personale)59. Iniziava la sua giornata con una
riunione dello staff, continuava con una riunione con
l’agente in loco, il poliziotto in pensione, e finiva la
giornata scrivendo: ogni agente doveva redigere un
rapporto completo sulle sue attività, comprese le
traduzioni in russo di tutte le informazioni che aveva
raccolto. Gli ex agenti del KGB valutarono che tre
quarti del loro tempo era assorbito dalla stesura dei
rapporti.60 Il più significativo successo di Putin
durante la sua permanenza a Dresda sembra essere
stato l’arruolamento di uno studente colombiano che
a sua volta presentò agli agenti sovietici uno studente
colombiano della Berlino Ovest che a sua volta
presentò loro un sergente dell’esercito americano
nativo della Colombia che gli vendette un manuale
non riservato dell’esercito per 800 marchi.61 Putin e
i suoi colleghi avevano molte speranze di arruolare
il sergente colombiano, ma quando finalmente
riuscirono ad acquistare il manuale, la missione di
Putin in Germania si avviava alla fine.
Proprio quando i Putin lasciarono Mosca il paese
cominciò a cambiare in modo drastico e
irrevocabile. Nel marzo 1985 Michail Gorbacëv
andò al potere. Due anni dopo aveva liberato tutti i
dissidenti che erano in prigione e aveva cominciato
ad allentare le redini dei paesi del blocco sovietico.
I capi del KGB62 e il personale di tutti i livelli e
gradi ritenevano che l’azione di Gorbacëv fosse
disastrosa. Nei pochi anni successivi si aprì un
baratro fra il partito e il KGB che culminò con il
fallito colpo di stato dell’agosto 1991.
Osservando i cambiamenti da lontano, circondato
da altri funzionari della polizia segreta, e da nessun
altro, Putin deve aver provato una disperata e furiosa
frustrazione. In patria i capi del KGB giuravano
lealtà al segretario generale e alle sue riforme. Nel
giugno del 1989 il capo della sede di Leningrado
fece una dichiarazione con la quale condannava i
crimini della polizia segreta commessi sotto il
regime di Stalin.63 Nella Germania Est come nella
Unione Sovietica la gente iniziava a riversarsi nelle
piazze per protestare, e l’impensabile cominciava
rapidamente a diventare probabile: le due Germanie
avrebbero potuto riunificarsi, il paese che Vladimir
Putin era stato mandato a vigilare poteva essere
consegnato ai nemici. Tutto quello per cui Putin
aveva lavorato era in dubbio; tutto quello in cui
aveva creduto era diventato oggetto di scherno.
Proprio la specie di insulto che avrebbe fatto
scattare l’adolescente Putin, che avrebbe fatto
saltare il giovane uomo del passato direttamente sul
responsabile per pestarlo fino a che la furia non si
fosse calmata. Invece, il Putin adulto e appesantito
restava inerte e in silenzio mentre i suoi sogni e le
sue speranze per il futuro venivano distrutte.
Nella tarda primavera e all’inizio dell’estate del
1989 ci furono a Dresda le prime riunioni senza
opposizione da parte delle autorità: piccoli gruppi di
persone si riunivano nelle pubbliche piazze, prima
per protestare contro i brogli nelle elezioni locali di
maggio e poi, come nel resto della Germania, per
chiedere il diritto di emigrare in Occidente. In
agosto decine di migliaia di tedeschi dell’Est
andarono effettivamente a Est - cogliendo
l’occasione dell’abolizione delle restrizioni dei
viaggi nel blocco sovietico - solo per raggiungere le
ambasciate della Germania Ovest a Praga, Budapest
e Varsavia. In tutte le città della Germania Orientale
cominciarono regolari proteste ogni lunedì sera e
diventavano ogni settimana sempre più affollate. La
Germania dell’Est chiuse i confini ma era troppo
tardi per bloccare la marea di emigranti e
dimostranti, così alla fine venne negoziato un
accordo per trasportare a Ovest i tedeschi dell’Est.
Viaggiavano per ferrovia e i treni passavano da
Dresda, la città della Germania Orientale più vicina
a Praga. I treni passavano vuoti da Dresda per
andare a prendere gli ottomila tedeschi dell’Est che
stavano occupando l’ambasciata della Germania
Ovest a Praga. I primi di ottobre migliaia di persone
cominciarono a radunarsi alla stazione ferroviaria di
Dresda - alcuni con pesanti valigie, tutti speravano
di trovare un passaggio verso l’Occidente, altri
andavano solo per assistere all’evento più
sbalorditivo nella storia postbellica della città.
La folla si scontrò con tutti gli agenti delle forze
dell’ordine che Dresda potesse mettere in campo: la
polizia regolare venne integrata da vari corpi
ausiliari per la sicurezza e tutti insieme
minacciarono, arrestarono e picchiarono chiunque
riuscissero a catturare. I disordini continuarono per
molti giorni. Il 7 ottobre, il giorno del
trentasettesimo compleanno di Vladimir Putin, la
Germania Est celebrava il quarantesimo anno dalla
sua fondazione. Scoppiarono disordini a Berlino;
vennero arrestati più di mille civili. Due giorni dopo
centinaia di migliaia di persone arrivarono da tutta
la Germania Est per un’altra dimostrazione del
lunedì sera e il numero dei dimostranti raddoppiò
due settimane dopo. Il 9 novembre cadde il muro di
Berlino, ma le dimostrazioni continuarono fino alle
prime elezioni libere a marzo.64
Il 15 gennaio 1990 si radunò una folla davanti alla
sede centrale della Stasi a Berlino per protestare
contro la distruzione di documenti da parte della
polizia segreta, che era stata riferita dai giornali. I
dimostranti riuscirono a travolgere le guardie e a
entrare nell’edificio. In altre città della Germania
Est i dimostranti avevano cominciato già da tempo a
invadere gli edifici del ministero della sicurezza.
Putin raccontò ai suoi biografi che era presente tra
la folla quando venne invaso l’edificio della Stasi a
Dresda. “Una delle donne gridava: ‘Cercate
l’ingresso del tunnel sotto il fiume Elba! Ci sono
prigionieri con l’acqua fino alle ginocchia.’ Di quali
prigionieri stava parlando? C’erano celle
nell’edificio, ma naturalmente non erano sotto
l’Elba.” In generale, Putin trovò la rabbia dei
dimostranti eccessiva e irritante. Erano i suoi amici
e i suoi vicini sotto attacco, proprio la gente con la
quale aveva vissuto e socializzato - in modo
esclusivo - per gli ultimi quattro anni e non poteva
immaginare che nessuno di loro fosse così malvagio
come sosteneva la folla: erano normali impiegati che
passavano carte, esattamente come Putin.
Si indignò quando i dimostranti arrivarono
all’edificio dove era situato il suo ufficio. “Posso
accettare che i tedeschi distruggano il quartier
generale del loro ministero della sicurezza,” disse ai
biografi dodici anni dopo. “Sono affari interni loro.
Ma noi non eravamo un affare interno loro. Era un
pericolo serio. Nel nostro edificio c’erano
documenti. Nessuno sembrava interessato a
proteggerci.” Le guardie all’entrata devono avere
sparato dei colpi di avvertimento - Putin disse che si
limitarono a dimostrare l’intenzione di fare tutto il
necessario per proteggere l’edificio - e i dimostranti
si tranquillizzarono per un po’ di tempo. Quando si
agitarono di nuovo Putin affermò di essere uscito di
persona.

Ho chiesto loro cosa volevano. Ho spiegato che


questa era una organizzazione sovietica. Qualcuno
dalla folla chiese: “Perché le vostre auto hanno
targhe tedesche? Comunque cosa ci fate qui?” Come
se sapessero esattamente cosa facevamo lì. Dissi che
il nostro contratto autorizzava l’uso di auto con targa
tedesca. “E tu chi sei? Parli troppo bene il tedesco,”
cominciarono a gridare. Dissi che ero un interprete.
Era gente molto aggressiva. Chiamai al telefono la
nostra rappresentanza militare e raccontai cosa stava
succedendo. Mi risposero: “non possiamo fare nulla
fino a quando non riceviamo ordini da Mosca. Ma
Mosca taceva.” Qualche ora dopo arrivarono i nostri
militari e la folla si disperse. Ma ricordo bene quel
“Mosca taceva” compresi che l’Unione Sovietica
era malata. Una malattia fatale chiamata paralisi.
Una paralisi del potere.

Il suo paese, che aveva servito come meglio


poteva accettando con pazienza qualunque incarico
gli era stato assegnato, aveva abbandonato Putin. Era
spaventato e non poteva proteggersi, per di più
Mosca taceva. Passò parecchie ore nell’edificio
assediato in attesa dell’arrivo dei militari, ficcando
documenti dentro una stufa a legna fino a quando la
stufa non si spaccò per il calore eccessivo.65
Distrusse tutto quello che lui e i suoi colleghi
avevano raccolto: tutti i contatti, tutte le cartelle
personali, i rapporti e probabilmente migliaia di
ritagli di stampa.
La Germania Est aveva iniziato il processo
penoso e tormentato di epurazione della polizia
segreta dalla società ancora prima che i dimostranti
avessero cacciato la Stasi dai suoi edifici. Tutti i
vicini dei Putin non solo persero il lavoro ma
vennero banditi da qualsiasi incarico nella polizia,
negli enti governativi e nel sistema scolastico.
Ljudmila Putina raccontò ai biografi:

La mia vicina che era diventata una cara amica


pianse per una settimana. Piangeva per il sogno
perduto, per il crollo di tutto quello in cui aveva
creduto. Tutto era stato distrutto: la loro vita, la
carriera la nostra piccola Katja aveva una maestra
all’asilo, una bravissima maestra che adesso non
poteva più lavorare con i bambini. Tutto perché
aveva lavorato con il ministero della sicurezza.

Dodici anni dopo la nuova first lady della Russia


postsovietica trovava ancora incomprensibile e
disumana la logica dell’epurazione.
I Putin ritornarono a Leningrado. Anche se
avevano perso il lavoro mantennero un tenore di vita
superiore a quello che li aspettava al loro ritorno
nella Unione Sovietica. Si portarono una
lavabiancheria vecchia di venti anni che i loro vicini
gli avevano regalato e una somma di denaro in
dollari americani sufficiente per comprare la
migliore auto di fabbricazione sovietica sul mercato.
Questo era tutto quello che potevano far vedere dopo
quattro anni di vita all’estero, e per la carriera di
spia di Vladimir Putin ancora non consumata. I
quattro membri della famiglia tornarono ad occupare
la più piccola delle stanze dell’appartamento dei
vecchi Putin. Ljudmila Putina avrebbe passato il suo
tempo a cercare roba sugli scaffali vuoti dei negozi o
ad aspettare in coda per acquistare gli articoli di
prima necessità: questo era il modo nel quale la
maggior parte delle donne sovietiche passava le loro
giornate, ma dopo quattro anni e mezzo di vita
relativamente comoda in Germania questo non era
solo umiliante ma faceva anche paura. “Avevo paura
a entrare nei negozi,” disse anni dopo agli
intervistatori. “Ci restavo il meno possibile, solo il
tempo necessario di comprare i generi di prima
necessità e poi correvo a casa. Era terribile.”66
Non poteva esserci un modo peggiore per tornare
nell’Unione Sovietica. Sergej Roldugin, il
violoncellista amico di Putin ricorda di avergli
sentito dire: “Non possono fare così. Come possono
fare una cosa del genere? Io posso sbagliare, ma
come fanno questi a sbagliare, questi che noi
riteniamo siano i professionisti migliori.” Disse che
voleva andarsene dal KGB. “Spia per una volta, spia
per sempre,” rispose l’amico; un detto corrente nella
lingua colloquiale sovietica. Vladimir Putin si
sentiva tradito dal suo paese e dalla sua comunità -
l’unica importante organizzazione alla quale aveva
sentito di appartenere, a parte il club di judo - ma
tutta la corporazione era piena di persone che si
sentivano tradite, ingannate e abbandonate; questa
era senza tanti dubbi la sensazione dominante nel
KGB del 1990.
4
SPIA PER UNA VOLTA SPIA PER SEMPRE
Tutto nella storia della Russia succede sempre a
San Pietroburgo. La città era capitale di un ricco
impero distrutto nella prima guerra mondiale,
all’inizio della quale perse anche il suo nome: il
nome di origine tedesca Sankt Peterburg cambiò in
Petrograd dal solido tono russo. L’impero venne
abbattuto dal doppio colpo delle rivoluzioni del
1917, per le quali Petrograd fu il teatro di
svolgimento. La città perse presto il ruolo di capitale
perché la sede del potere venne trasferita a Mosca.
Petrograd con i suoi poeti, i suoi artisti rimase la
capitale culturale della Russia - anche quando la
città perse il nome per la seconda volta e diventò
Leningrado alla morte del primo despota sovietico.
Le élite letterarie, artistiche, accademiche, politiche
e commerciali vennero a poco a poco decimate dalle
purghe, dagli arresti e dalle condanne a morte degli
anni trenta. Questi dieci anni disastrosi si conclusero
con la guerra russo-finnica, una sciagurata
aggressione sovietica che ebbe il suo seguito nella
seconda guerra mondiale. Durante l’assedio e dopo
la seconda guerra mondiale, Leningrado, dove i
genitori di Putin si erano ritrasferiti, era una città di
fantasmi. I suoi palazzi, una volta maestosi, erano in
rovina: i vetri delle finestre fracassati dalle
esplosioni delle bombe e dell’artiglieria; i telai
delle finestre, come i mobili, erano stati usati come
legna da ardere. Centinaia di migliaia di ratti
marciavano in processione davanti agli edifici dalle
facciate butterate, si prendevano tutto il marciapiede
travolgendo le ombre degli esseri umani
sopravvissuti.
Nei decenni dopo la guerra, la città si riempì di
nuovi abitanti e delle loro attività. Leningrado
divenne la capitale militare e industriale dell’Unione
Sovietica; centinaia di migliaia di persone venivano
da tutte le parti dell’impero e si insediavano in
enormi blocchi di grigi condomini, i quali però non
erano costruiti a un ritmo sufficiente per tenere il
passo con il flusso di popolazione in arrivo. Alla
metà degli anni ottanta gli abitanti della città
superavano i cinque milioni, molti di più della
capacità residenziale disponibile anche ai bassi
livelli qualitativi caratteristici dell’Unione
Sovietica. Nel frattempo il cuore della città, il suo
centro storico, era stato completamente trascurato
dalla ricostruzione; le famiglie come quella dei Putin
che erano sopravvissute all’inferno della prima metà
del XX secolo vivevano in grandi e decadenti edifici
di appartamenti comuni che una volta erano stati
magnifici, ma dopo decine di anni di abbandono
manutentivo erano entrati in una fase di degrado
irreversibile.
Eppure la città alla quale Putin ritornò nel 1990
era cambiata di più nei quattro anni della sua
assenza di quanto non lo fosse nei quaranta anni
precedenti. Proprio la gente che Putin e i suoi
colleghi avevano tenuto sotto controllo e inchiodato
con la paura - i dissidenti, i quasi dissidenti e gli
amici degli amici dei dissidenti - adesso si
comportavano come i padroni della città.
Il 16 marzo 1987 ci fu una spaventosa esplosione
nella piazza Sant’Isacco a Leningrado. Lo scoppio
fece crollare l’Hotel Angleterre, la cui splendida
facciata aveva caratterizzato per centocinquanta anni
una parte della più bella piazza della città, e la cui
storia era leggendaria e faceva parte dell’eredità
culturale di San Pietroburgo. Il grande poeta Sergej
Esenin si era suicidato nella stanza numero 5,
ragione per cui l’albergo venne citato nelle opere di
almeno un’altra mezza dozzina di poeti. In una città
dove i fatti della storia si potevano solo sussurrare e
dove i luoghi della storia venivano spesso nascosti,
distrutti o falsificati, l’Angleterre era un esempio
raro di oggetto reale ed esistente e fu probabilmente
per questo che molti cittadini della città di Pietro il
Grande, gran parte della quale stava letteralmente
crollando, interpretarono la perdita di questo
albergo quasi come un’offesa personale.
La demolizione dell’albergo era stata progettata,
quello che però non era stato progettato era la
nascita, sul suo sito, di un movimento che avrebbe
giocato un ruolo fondamentale nell’abbattimento del
regime sovietico.
Nel marzo 1985 Michail Gorbacëv era diventato
il capo dello stato sovietico. Aveva passato il primo
anno del suo regno consolidando la base di potere
nel politbjuro. Nel secondo anno aveva lanciato il
termine perestrojka - ristrutturazione - anche se
nessuno, probabilmente nemmeno Gorbacëv, sapeva
esattamente cosa volesse dire. Nel dicembre 1986 il
segretario generale lasciò che Andrej Sacharov, il
premio Nobel per la pace e il più conosciuto dei
dissidenti dell’Unione Sovietica, tornasse libero
nella sua casa di Mosca dalla città di Gorky dove
aveva vissuto in esilio interno per quasi sette anni.
Nel gennaio del 1987, Gorbacëv introdusse un altro
termine glasnost’ - apertura - che, per il futuro
prevedibile dell’epoca, non significava certo
l’abolizione della censura, piuttosto un suo
cambiamento, per esempio le biblioteche in tutto il
paese iniziarono a consentire l’accesso a materiali
che fino ad allora erano stati tenuti sotto chiave. Nel
febbraio 1987, Gorbacëv commutò le sentenze di
140 dissidenti prigionieri nelle galere e nei campi di
lavoro sovietici.
Certamente Gorbacëv non intendeva sciogliere
l’Unione Sovietica, né liquidare il potere del Partito
comunista o cambiare in modo radicale il regime,
per quanto lui stesso apprezzasse molto la parola
“radicale”. Il suo sogno era piuttosto quello di
modernizzare l’economia e la società sovietiche in
modo discreto senza sovvertirne le strutture
fondamentali. Ma il processo che aveva innescato
portò inevitabilmente - e in retrospettiva, molto
rapidamente - al collasso completo del sistema
sovietico.
Cinque anni prima dello slittamento tettonico,
erano cominciati leggeri ma inquietanti tremori
sotterranei. Gorbacëv aveva fatto annusare un
possibile cambiamento e la popolazione cominciò a
parlare del cambiamento come se fosse possibile.
Con prudenza la gente lasciò che queste
conversazioni filtrassero oltre le mura delle sue
cucine e nei soggiorni degli altri. Alleanze casuali
cominciarono a prendere campo. Per la prima volta
dopo decenni si discuteva seriamente di politica e di
problemi sociali senza appartenere a un movimento
di dissidenti né alle strutture formali del Partito
comunista - per questo motivo, i partecipanti ai
dibattiti presero il nome di “informali”. La
maggioranza degli informali apparteneva a una
precisa generazione, a quella dei nati durante il
disgelo di Chrušcëv, il breve periodo che va dalla
fine degli anni cinquanta all’inizio degli anni
sessanta, dalla fine del terrore di Stalin al subentro
della stagnazione di Brežnev. Gli informali non
avevano una piattaforma politica comune né un
linguaggio per i loro dibattici, nemmeno un’idea del
luogo in cui tenere queste riunioni, ma su una cosa
erano d’accordo: il rifiuto per i comportamenti dello
stato sovietico e un forte desiderio di proteggere e
conservare il poco che era rimasto della loro amata
città.
“La gente della nostra generazione aveva davanti
solo una strada senza uscita: se non si fuggiva da
questa condanna ci sarebbe stato solo il degrado,”
questo il ricordo venti anni dopo di Elena
Zelinskaja.1 Zelinskaja produceva una delle tante
pubblicazioni clandestine (samizdat) che univano gli
informali.

Non riuscivamo più a respirare in quest’aria di


bugie, ipocrisia, stupidità. Non c’era paura. E non
appena notammo i primi raggi di luce, non appena la
gente che aveva avuto le mani legate fu in grado di
muovere almeno qualche dito, si mosse anche la
gente. La gente non pensava al denaro e nemmeno a
migliorare il proprio tenore di vita, tutti pensavano a
una sola cosa: a essere liberi. Liberi di vivere come
si voleva la propria vita privata, liberi di viaggiare
e di vedere il mondo. Liberi dall’ipocrisia, liberi
dall’ascolto di questa ipocrisia; liberi dalla
diffamazione, liberi dal provare vergogna dei propri
genitori, liberi dalle menzogne velenose nelle quali
eravamo tutti immersi come in una vischiosa
melassa.

Nonostante quello che si raccontavano gli


informali nell’intimità delle loro case, l’assurda
macchina di distruzione dello stato continuava a
muoversi. Il 16 marzo 1987 si sparse una voce nella
città: l’Hotel Angleterre stava per essere raso al
suolo. Informali di ogni gruppo cominciarono a
radunarsi di fronte all’albergo. Il capo di
un’associazione informale per la conservazione,
Aleksej Kovalev, entrò nella sede del governo
cittadino, un edificio che si trovava nella stessa
piazza e cercò di aprire una trattativa con un
funzionario di alto rango della burocrazia. Il
funzionario lo assicurò che l’edificio non correva
pericoli e lo pregò di “smettere di disinformare la
gente e di diffondere il panico”.2 Meno di un’ora
dopo ci fu l’esplosione e l’edificio grande come un
intero isolato urbano diventò un mucchio di macerie
polverose.
A questo punto successe qualcosa di totalmente
inaspettato. “Dopo la nuvola di fumo e di polvere,
sembra che ci fossero rimasti solo i ricordi,”
racconta Aleksandr Vinnikov, un fisico che era
diventato attivista cittadino.

Questo accadde, ma i ricordi furono eccezionali.


Mai prima di questo momento la gente si era
immaginata di poter protestare impunita contro le
azioni delle autorità, senza finire in galera o
disoccupata. Ci ritrovammo con il ricordo di
un’incredibile sensazione di essere nel giusto, la
sensazione che prova una persona che si trova
insieme a molti altri che la pensano come lui in un
unico luogo pubblico, che ascolta un oratore che dà
voce in modo preciso e convincente al pensiero
comune di tutti. Soprattutto provammo la sensazione
della completa umiliazione a causa del totale
disprezzo delle autorità per la nostra opinione, e
cominciò a crescere la coscienza della dignità
personale, il desiderio di affermare il nostro diritto
di essere ascoltati e di essere importanti.3

La folla non si sciolse. Il pomeriggio del giorno


dopo diverse centinaia di persone si ritrovarono
davanti a quello che era stato l’Angleterre. La
recinzione intorno alla demolizione era tappezzata di
manifesti scritti a mano, volantini, poesie scritte
direttamente sulla recinzione, o semplicemente i
nomi di quelli che avevano partecipato alla protesta
e che avevano coraggiosamente deciso di rendere
noti i loro nomi.
Un articolo profetico, appeso sulla recinzione,
scritto dalla Zelinskaja, che allora aveva trentatre
anni, recitava:

Ci siamo ritrovati in piazza Sant’Isacco. Ci siamo


messi su una strada difficile... Probabilmente faremo
molti errori. Qualcuno di noi verrà costretto al
silenzio. Probabilmente non riusciremo a ottenere
tutto quello che ci siamo proposti, proprio come non
siamo riusciti a salvare l’Angleterre. Ci sono così
tante cose che non sappiamo come risolvere. È
possibile che la gente, le cui opinioni non sono mai
state richieste, sia capace di esprimersi in modo
efficace? È possibile che la gente, che è sempre stata
esclusa da qualunque attività pubblica, abbia
acquisito la capacità di battersi mentre stava chiusa
nelle cantine? È possibile che la gente, le cui azioni
e decisioni non hanno mai avuto reali conseguenze
nemmeno per la loro stessa vita, sia in grado di
calcolare la traiettoria delle loro attività?4

Centinaia di persone continuarono a ritrovarsi sul


luogo dell’esplosione nei tre giorni successivi. La
protesta che non voleva finire diventò nota con il
nome “battaglia dell’Angleterre”. Tutti i manifesti e
gli articoli rimasero appesi alla recizione per molto
tempo dopo, e sempre davanti alla recinzione
continuarono le riunioni di piccoli gruppi di persone.
La gente adesso andava all’Angleterre per sapere
cosa succedeva nella città e nel paese o per
raccontarlo agli altri. Il luogo diventò il Punto di
informazione. Le discussioni uscirono dalle cucine e
dai soggiorni degli abitanti per finire sulla
recinzione, che diventò la pagina viva5 sulla quale si
esponevano centinaia di pubblicazioni e di samizdat
della cultura clandestina.
In altri luoghi della città si stavano formando altri
spazi di discussione. In aprile un gruppo di giovani
economisti di Leningrado diedero vita a un circolo.6
Nelle loro riunioni al palazzo della gioventù
affrontavano temi mai discussi prima, come la
possibilità della privatizzazione. Prima della fine
dell’anno, uno di loro fece circolare l’idea di
privatizzare le imprese di stato attribuendo buoni per
azioni a ogni cittadino sovietico adulto. L’ipotesi
allora non ebbe buona accoglienza, ma anni dopo fu
davvero realizzata, e molti dei partecipanti a quel
circolo acquisirono ruoli importanti nella
formazione della politica economica postcomunista.
All’epoca gli addetti ai lavori avevano la
sensazione che il cambiamento della società
sovietica avvenisse a una velocità pazzesca. Ma il
movimento era due passi avanti e un passo indietro.
A maggio le autorità sovietiche posero fine alle
frequenze della maggior parte delle radio
occidentali; il 31 maggio le autorità di Leningrado
chiusero il Punto di informazione di fronte
all’Angleterre. In giugno le elezioni per il consiglio
comunale introdussero un piccolo esperimento
rivoluzionario: nel quattro per cento dei distretti,
comparvero per la prima volta due nomi sulla
scheda elettorale invece del singolo candidato
ufficiale; per la prima volta dopo decenni gli elettori
potevano scegliere tra due candidati, anche se
entrambi erano proposti dal Partito comunista. Il 10
dicembre a Leningrado ci fu il primo raduno politico
non disperso dalla polizia.7 Almeno due dei relatori
erano uomini, in precedenza internati nei campi di
lavoro per essersi opposti al regime sovietico.
La perestrojka continuò l’anno successivo. Si
formarono gradualmente molti altri gruppi di
discussione e le loro attività diventarono sempre più
strutturate. Con il tempo emersero i leader - persone
conosciute che godevano della fiducia in ambienti
anche al di fuori dei loro piccoli circoli sociali. In
un paio di anni sarebbero diventati i primi uomini
politici postsovietici.
In primavera alcuni abitanti di Leningrado
annunciarono che avrebbero inaugurato “Hyde Park”
nei giardini Michajlov nel centro della città: come
nel parco inglese un pomeriggio alla settimana
chiunque poteva tenere un discorso al pubblico. Ivan
Sošnikov, il tassista trentaduenne che all’epoca fu
una delle menti creatrici dello spazio di dibattito
all’aperto ricorda così quei momenti:

La regola era che ognuno parlasse per almeno 5


minuti su qualsiasi argomento, gli unici argomenti
esclusi erano la promozione della guerra, della
violenza e della xenofobia, sotto qualunque forma.
Vuoi parlare dei diritti umani? Avanti dunque!
Qualcuno portò la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo del 1949. Io l’avevo già letta in un
samizdat, ma quelli che non la conoscevano erano
sbalorditi. I dibattiti duravano quattro ore ogni
sabato, dalle dodici alle quattro. Era a microfono
aperto. Bisogna ricordare che questo avvenne prima
che ci fosse la libertà di stampa. Per questo molti
giornalisti venivano ad ascoltare, ma non potevano
pubblicare quello che avevano sentito.8

Dopo qualche mese la polizia cacciò Hyde Park


dai giardini Michajlov. Gli organizzatori portarono
la loro creatura alla cattedrale Kazanskij, una grande
struttura sulla prospettiva Nevskij, la strada più
importante della città. Senza l’ombra degli alberi o
la protezione del recinto, gli oratori e gli ascoltatori
erano ancora più visibili che nella posizione
precedente. Invece di cacciarli di nuovo le autorità
cittadine decisero di sommergerli con il rumore. Un
sabato gli oratori di Hyde Park arrivarono alla
cattedrale Kazanskij e ci trovarono una banda di
ottoni che suonava sul piazzale. La banda si era
portata dietro il suo pubblico i cui membri
cominciarono a gridare agli oratori: “Ecco c’è la
banda così la gente si può rilassare, questa non è
l’ora né il luogo per i vostri discorsi!” Durante un
intervallo della musica Ivan Sošnikov cercò di
chiacchierare con il maestro della banda, il quale
non ebbe difficoltà ad ammettere che erano stati
inviati per ordine di qualche autorità cittadina.
Ekaterina Podol’ceva, una brillante matematica di
quarant’anni che era diventata l’attivista pro
democrazia più nota, anche la più eccentrica, della
città propose una ricetta per sconfiggere la banda
musicale. Chiese a tutti i partecipanti di Hyde Park
di portare dei limoni. Il sabato seguente quando la
banda iniziò a suonare tutti gli attivisti cominciarono
a mangiare i limoni o a far finta di mangiarli se
erano troppo aspri.9 La Podol’ceva aveva letto da
qualche parte che quando la gente vede qualcuno che
mangia un limone produce per riflesso condizionato
una grande quantità di saliva, un fenomeno che è
incompatibile con l’attività di suonare uno strumento
a fiato. Il suo piano funzionò: la musica cessò e i
discorsi ripresero.
Il 13 giugno 1988 la corte suprema dell’URSS
annullò le sentenze vecchie di cinquanta anni che
avevano lanciato il Grande Terrore di Stalin. Il
giorno dopo si svolse a Leningrado una
manifestazione per commemorare le vittime della
repressione politica - la prima delle grandi
manifestazioni legalmente autorizzate nella storia
dell’Unione Sovietica.10
Ma i due episodi più importanti del 1988 - non
solo per Leningrado ma per tutto il paese - furono la
formazione di una organizzazione chiamata Fronte
popolare11 e il conflitto fra Armenia e Azerbaigian.
Il Fronte popolare si formò in modo spontaneo e
quasi simultaneo in più di trenta città di tutta
l’Unione Sovietica. Il suo obiettivo dichiarato era il
sostegno alla perestrojka che stava incontrando una
crescente resistenza all’interno del Partito.
Probabilmente la funzione più importante del Fronte
popolare era di condurre un esperimento senza
precedenti per scopo e portata: dare vita a
un’organizzazione, o a una rete di organizzazioni,
effettivamente democratica nella natura e nella
struttura in una società che in pratica non aveva mai
avuto alcuna esperienza di cambiamento sociale o
quantomeno alcuna attività cittadina che non fosse
stata pilotata dal vertice.
Uno dei documenti ufficiali dell’organizzazione di
Leningrado proclamava:

Un’organizzazione che vuole democratizzare la


società deve essere a sua volta democratica. Per
questa ragione le regole del Fronte popolare
conterranno una protezione contro ogni tendenza
burocratica o autoritaria. Il consiglio di
coordinamento così non ha un presidente
permanente, ma ogni membro svolgerà a turno il
ruolo di presidente. Nessun membro del Fronte
popolare potrà rappresentare la posizione
dell’organizzazione su qualunque problema se la
questione non è stata precedentemente discussa in
una riunione generale. Tutte le decisioni prese dal
consiglio di coordinamento o dalla riunione generale
saranno sotto forma di consigli: i membri in
minoranza non sono obbligati a partecipare a una
decisione che non condividono, ma in quel caso non
hanno nemmeno il diritto di contestare l’azione della
maggioranza, se non attraverso il potere della
convinzione.12

In altre parole lo scopo principale del Fronte


popolare era quello di essere diverso dal Partito
comunista. E incredibilmente funzionò. Venti anni
dopo un matematico, attivista dagli anni ottanta,
racconta la personale scoperta del Fronte popolare:

Si riunivano alla Casa della cultura dei lavoratori


dell’industria alimentare. Tutti potevano andare. Tra
i partecipanti c’erano persone squilibrate di mente.
La prima impressione era quella di un manicomio:
certi discorsi non avevano alcun senso. Andavano
avanti così per un’ora, un’ora e mezzo, discussioni
su Dio sa che cosa, poi cominciava ad andare al
microfono altra gente - scoprii dopo che alcuni di
loro erano dei capi del gruppo. Alla fine quando si
metteva ai voti una particolate questione, il testo
della risoluzione era abbastanza ragionevole; aveva
una precisa componente politica ed era scritto in
buon russo. Così venne fuori che quelli che
guidavano l’organizzazione erano persone
ragionevoli, con le quali si poteva veramente
discutere delle cose.13

La capacità di discussione era ancora la merce


più apprezzata nell’Unione Sovietica.
Una donna emerse rapidamente come il leader
indiscusso del movimento e il rappresentante più
credibile del Fronte popolare di Leningrado. Marina
Sal’e era diversa da tutti i politici che l’Unione
Sovietica avesse mai avuto. Infatti aveva poco in
comune con qualunque politico di qualunque parte
del mondo. Cinquant’anni, non sposata (aveva
vissuto a lungo con una donna che lei chiamava sua
sorella), aveva passato la maggior parte della sua
vita nei luoghi più lontani dell’Unione Sovietica,
studiando le formazioni rocciose: aveva conseguito
un Ph.D. in geologia. Era una scelta di percorso
molto comune tra i membri della intelligencija:
trovare una professione che non avesse una caratura
ideologica e andare il più lontano possibile dai
centri di comando sovietico. Non aderì mai al
Partito comunista, né fece parte di nessuna
istituzione che fosse stata screditata. Allo stesso
tempo aveva credenziali impeccabili di San
Pietroburgo. Il suo trisnonno era stato uno dei
prominenti cittadini nella storia di San Pietroburgo:
Paul Buchre, orologiaio dello zar aveva ideato
orologi ancora funzionanti e di inestimabile valore
attuale. Due dei suoi bisnonni erano arrivati a San
Pietroburgo nel XIX secolo dalla Francia e dalla
Germania. Sal’e era una donna brillante, un’ottima
oratrice, di quelle che non masticano mai le parole,
in più ispirava immediata fiducia e desiderio di
seguirla. “Con una sigaretta che pendeva dalle
labbra poteva guidare la folla su e giù per la
Nevskij, bloccando il traffico,” così la ricorda un
suo avversario politico venti anni più tardi. “L’ho
vista una volta e mi fece una grande impressione.
Nessuno poteva competere con lei.”14
Nel febbraio del 1988 scoppiò il conflitto tra
Azerbaigian e Armenia, il primo dei molti conflitti
etnici che seguirono nel Caucaso sovietico.15
Nell’Azerbaigian musulmano e relativamente ricco
c’è una regione chiamata Nagornyj Karabach,
popolata da una maggioranza di etnia armena che
dichiarò l’intenzione di separarsi e di unirsi
all’Armenia, una repubblica dell’URSS povera e a
maggioranza cristiana. Con l’eccezione di pochi
visionari dissidenti nessuno allora poteva
immaginare che l’impero sovietico potesse
sfasciarsi, tantomeno così presto. Gli avvenimenti
del Nagornyj Karabach dimostrarono che
l’impensabile era possibile. Non solo questo:
dimostrarono anche in che modo sarebbe successo:
l’URSS si sarebbe spaccato secondo linee di frattura
etnica e il processo sarebbe stato doloroso e
violento. Dimostranti pro indipendenza scesero nelle
strade del Nagornyj Karabach in grande numero e
pochi giorni dopo scoppiò un pogrom a Sumqayit,
una città dell’Azerbaigian con una forte quota di
popolazione di etnia armena. Morirono più di trenta
persone e ci furono centinaia di feriti.
L’intelligencija sovietica assisté con disappunto al
sorgere dello scontro religioso. In giugno, dopo che
il governo regionale del Nagornyj Karabach
annunciò ufficialmente le intenzioni separatiste della
regione dall’Azerbaigian più di trecento persone si
radunarono in una piazza di Leningrado per
dimostrare la loro solidarietà con il popolo
armeno.16 Alla fine dell’estate gli attivisti pro
democrazia di Leningrado fecero venire bambini
armeni da Sumqayit in campi estivi vicino a
Leningrado.17 L’antropologa di Leningrado Galina
Starovojtova - del cui assassinio avrei scritto dieci
anni dopo - divenne la rappresentante più visibile e
la voce più forte del problema armeno nella nazione.
Il 10 dicembre 1988 la maggior parte dei membri del
comitato pro secessione nel Nagornyj Karabach
venne arrestata.18
Due giorni dopo ci fu una serie di perquisizioni
della polizia in appartamenti di Leningrado. Le
cinque persone i cui appartamenti erano stati
perquisiti erano tutte attivisti radicali pro
democrazia; fra di loro c’era Julij Rybakov che era
stato un prigioniero politico e Ekaterina Podol’ceva
la matematica che aveva avuto l’idea dei limoni per
costringere al silenzio la banda di ottoni. Vennero
tutti incriminati ai sensi dell’articolo 70 del codice
penale sovietico19 che prevede pene da sei mesi a
sette anni di prigione per la diffusione di propaganda
antisovietica (pene maggiori per recidivi). Il loro
sarebbe stato l’ultimo caso nel quale venne applicato
l’articolo 70 nella storia del paese.20
La trasformazione della società sovietica
continuava a procedere al ritmo di due passi avanti e
un passo indietro: dimostrazioni pubbliche,
impensabili solo due anni prima, erano seguite da
mandati di perquisizione e discorsi sgradevoli
potevano sempre far finire qualcuno in prigione per
anni. La censura stava diventando gradualmente
meno severa: quell’anno venne finalmente
pubblicato in URSS il Dottor Živago di Boris
Pasternak, ma Aleksandr Solženicyn restava pur
sempre vietato. Andrej Sacharov era invece lasciato
in pace nella vita privata, ma nella vita pubblica
incontrava ostacoli insormontabili. Nell’estate del
1988 il Nobel dissidente andò in visita a Leningrado
e il più noto giornalista televisivo della città registrò
una intervista con Sacharov, ma i censori non ne
permisero la trasmissione. Una produttrice decise di
infilarlo di nascosto all’interno di un programma
notturno di attualità politica che stava diventando
molto popolare. Tolse il nome di Sacharov dalla
scaletta che doveva essere approvata dai censori
che, senza problemi, firmarono quello che sembrava
un programma di innocue chiacchiere. “Stasera alla
televisione vedrete questo.” “Non dirmelo!” “E
questo!” “Impossibile! Veramente?” “La pura
verità!” “Possibile?” Quello che i censori non
avevano colto era che immagini di Sacharov
sarebbero apparse sullo schermo in rapidi flash
mentre si svolgeva questo dialogo, non solo
lasciando chiaramente capire quello che i produttori
del programma avrebbero fatto vedere, ma anche
lasciando agli spettatori il tempo di chiamare tutti
quelli che conoscevano per avvertirli di accendere
la televisione.21
Nessuno venne licenziato per aver imbrogliato i
censori e questo fu un significativo segnale che i
cambiamenti in corso nell’Unione Sovietica erano
profondi e possibilmente irreversibili, e che
avrebbero trasformato non solo i mezzi di
comunicazione, ma anche le istituzioni politiche del
paese che sembravano così intransigenti. Il 1o
dicembre 1988, venne approvata una nuova legge
elettorale22 che in pratica poneva fine al monopolio
del Partito comunista sul potere.
Il 1989 cominciò con una riunione degli attivisti
pro democrazia a Leningrado per organizzare quello
che solo pochi mesi prima sarebbe stato
impensabile: una campagna elettorale. Venne
costituito un comitato dal nome Elezioni-89 sotto la
guida fra gli altri di Marina Sal’e; stamparono
volantini che spiegavano come votare: “Ci saranno
sulle schede due, tre o quattro nomi. Sono candidati
in concorrenza tra loro. Dovrete scegliere un solo
candidato e cassare gli altri.”23 Il sistema era in
effetti complicato. Dovevano essere eletti in tutta
l’Unione Sovietica 2250 rappresentanti dei quali
750 dai distretti territoriali, 750 dai distretti
amministrativi e 750 dal Partito comunista o da
istituzioni da questo controllate. Comunque era la
prima volta che gli elettori di molte regioni potevano
scegliere fra due o più candidati.
A Leningrado i funzionari del Partito comunista
vennero sconfitti. Galina Starovojtova venne eletta
come rappresentante dell’Armenia al Soviet
Supremo. Aderì a un gruppo di minoranza dei nuovi
eletti - circa trecento di loro - per formare una
corrente pro democrazia presieduta da Sacharov.
Una volta eletto al parlamento l’ex dissidente decise
che il suo obiettivo era di porre fine al potere del
Partito comunista, facendo abolire tutte le norme
costituzionali che gli garantivano il primato nella
politica dell’Unione Sovietica. Altri membri
importanti del gruppo interregionale erano Boris
Eltsin, sovversivo del partito, e Anatolij Sobcak,
affascinante ed elegante oratore, professore alla
facoltà di legge di Leningrado.
Dopo una campagna elettorale breve e travolgente
- meno di quattro mesi erano passati
dall’approvazione della nuova legge elettorale alle
votazioni - Sobcak diventò famoso per la sua arte
oratoria eccezionale. In occasione di uno dei suoi
primi interventi davanti ai potenziali elettori,
percependo la stanchezza e la noia del pubblico
scartò il discorso che aveva preparato sui problemi
della città e del paese e decise di provocare la gente
con un intervento a braccio.
Ho un sogno che le prossime elezioni non saranno
più organizzate dal Partito comunista, ma dagli stessi
elettori, che saranno liberi di unirsi e di
organizzarsi. Che i raduni elettorali saranno aperti a
tutti quelli che vogliono ascoltare, senza la necessità
di permessi speciali per partecipare. Che tutti i
cittadini avranno il diritto di candidare se stessi o
chiunque altro e che la candidature non saranno
approvate da complicate procedure, ma saranno
semplicemente messe sulla scheda elettorale alla
sola condizione che abbiano un numero adeguato di
firme di approvazione del candidato.24

Era certamente una visione utopica.


Alla fine di maggio 1989 gli eletti dal popolo,
membri del pseudo parlamento sovietico, vennero
convocati per la prima riunione del congresso. Le
strade del paese si svuotarono per due settimane:
tutti stavano davanti alla televisione per guardare il
dibattito politico aperto e pubblico per la prima
volta nella loro vita, per vedere la storia nel suo
divenire. L’enorme e quasi ingestibile assemblea si
trasformò rapidamente in un confronto fra due
persone: il capo dello stato Gorbacëv e Sacharov, la
massima autorità morale. Giovanile, energico, ora
sicuro della sua posizione e della sua popolarità,
Gorbacëv emanava fiducia. Sacharov, curvo sulle
spalle, il tono della voce pacato, incerto nel parlare
e nel muoversi, sembrava fuori dal contesto e poco
incisivo. Forse il suo più grave errore fu quando,
l’ultimo giorno del congresso, prese la parola e si
lanciò in un lungo e complicato discorso. Voleva
l’abrogazione dell’articolo 6 della costituzione
dell’Unione Sovietica, quello che sancisce il
dominio del Partito comunista sullo stato sovietico.
Parlava del collasso probabile dell’impero -
dell’Unione Sovietica e del blocco orientale - e
implorava il Congresso di adottare la risoluzione
sulla necessità della riforma. La vasta assemblea
stava diventando impaziente e sempre più villana: i
deputati del popolo cominciarono a pestare i piedi e
a zittire Sacharov con le loro urla. Il vecchio
dissidente al microfono cercava disperatamente di
farsi sentire ed esclamò: “Mi rivolgo al mondo
intero!”
Michail Gorbacëv seduto al banco della
presidenza a pochi passi da dove Sacharov cercava
di parlare era furioso, sia per la sostanza del
discorso di Sacharov sia per il tumulto con cui
veniva accolto dalla folla. Di colpo Sacharov venne
ridotto al silenzio: Gorbacëv gli aveva spento il
microfono. Sacharov raccolse le pagine del suo
discorso dal leggio e si avviò verso il banco del
segretario generale con i fogli nella mano tremante.
Gorbacëv con l’aria disgustata sibilò “Vattene
via.”25
L’umiliazione di Sacharov alla televisione fu un
errore di Gorbacëv. Sei mesi dopo, alla morte del
dissidente per un collasso cardiaco alla vigilia del
secondo congresso dei deputati del popolo - avendo
nel frattempo assistito al crollo del muro di Berlino
e allo sfascio dei paesi del blocco orientale, proprio
come lui aveva previsto - Sacharov ebbe l’immagine
del martire e Gorbacëv quella del suo aguzzino.
Decine di migliaia di persone e forse centinaia di
migliaia andarono al suo funerale a Mosca.26 Le
autorità cittadine con l’abituale inefficienza
cercarono di impedire il raduno di massa chiudendo
le stazioni della metropolitana vicino al cimitero e
disponendo cordoni di polizia attorno al perimetro;
la gente camminò per chilometri al gelo e poi ruppe
con calma i cordoni di polizia.
A Leningrado il giorno del funerale di Sacharov
circa ventimila persone si radunarono per una
manifestazione di partecipazione. La richiesta degli
organizzatori di fare la manifestazione nel centro
della città venne respinta, il raduno iniziò quindi in
una delle vaste aree che costellano la periferia delle
città socialiste; nel caso specifico si trattava del
piazzale antistante l’Auditorium Lenin. Una serie di
relatori si alternarono sul palco per parlare di
Sacharov. Nonostante il freddo polare la folla
continuò ad aumentare anche dopo la scomparsa del
debole sole invernale. Alla fine del pomeriggio la
folla prese quella che sembrò una decisione
spontanea e cominciò a marciare verso il centro
della città. Migliaia di persone si organizzarono in
un corteo e come dirette da una mano invisibile
iniziarono una lunga e difficile marcia.27
La gente a turno marciava nella prima fila
portando un ritratto di Sacharov con una candela
accesa. Per l’intero percorso Marina Sal’e marciò
dietro il ritratto esprimendo nello stesso tempo la
volontà di seguire le orme del grande dissidente e
l’assunzione di responsabilità nel guidare un corteo
non autorizzato. Meno di sei settimane prima Sal’e e
i suoi seguaci avevano organizzato un corteo diverso
per la celebrazione annuale il 7 novembre
dell’anniversario della rivoluzione di ottobre. Circa
trentamila persone si erano unite al contingente degli
attivisti pro democrazia in quella marcia. La polizia
aveva cercato di allontanare dalle telecamere la
colonna di manifestanti, ma una volta raggiunto il
palco dal quale il Comitato regionale del partito
salutava la folla il contingente si fermò e cominciò a
scandire “Fronte popolare! Fronte popolare!”
Partecipanti al corteo ufficiale del Partito comunista
cercarono di far tacere i dimostranti pro democrazia
senza rompere il loro passo. Il segretario del partito
continuò a salutare con la mano e a sorridere come
se tutto fosse normale. Quella fu l’ultima volta che
salì sul palco per salutare la folla della celebrazione
per il 7 novembre.28
In quella giornata, i manifestanti pro democrazia
si erano confrontati con gli ordinati cortei ufficiali
del Partito comunista, ma con quella marcia
proclamavano il loro diritto sulla città. La marcia si
svolse per diverse ore. La folla eluse tutti gli sforzi
della polizia per scioglierla. Si fermarono per tenere
rapidi comizi in diversi punti simbolici lungo il
percorso. A un certo punto vennero accese le
candele. Man mano che procedevano altre migliaia
di persone si univano al corteo. Per Marina Sal’e
che aveva cinquantacinque anni ed era di
corporatura pesante fu un esercizio estenuante. Quel
giorno era uscita con una pelliccia che le stava un
po’ stretta e la teneva aperta davanti e si sentiva
esposta e disordinata. A un certo punto scivolò e
cadde senza farsi male, ma rimase in imbarazzo.
Durante le ore della marcia continuava a ricevere
informazioni dal resto del corteo dove la polizia
persisteva nel tentare di fermare la marcia.
Molti anni dopo, Marina ricorda così il periodo in
questione:

Il giorno seguente, eravamo a casa mia e stavamo


preparando la piattaforma del Fronte popolare per il
prossimo congresso, quando arrivò un colonnello
della polizia per notificarmi la denuncia per avere
organizzato il corteo illegale. Il poliziotto è stato
fantastico, mi disse: “Sa, potrei essere venuto e non
avere trovato nessuno.” Era molto gentile. Ma io
dissi: “No, proceda pure.” Accettai la notifica e
cominciammo a chiamare gli avvocati e la stampa. Il
giorno dopo andai alla stazione di polizia...
Volevano sapere chi aveva organizzato il corteo. Io
continuavo a dire: “Come faccio a saperlo? Non lo
ricordo. C’era talmente tanta gente.

Infatti la marcia era stata organizzata da uno dei


compagni di Sal’e nel Fronte popolare.

Volevano una risposta, mentre ero là venne


recapitato un telegramma: alcuni noti capi
democratici di Mosca intervenivano a mia difesa.
Quindi mi dissero che sarei dovuta andare in
tribunale. Mi attaccai alla scrivania con le mani nude
con tutta la forza che avevo e dissi: “Dovrete
portarmi di peso in tribunale perché io non vado da
nessuna parte fino a quando non viene qui il mio
avvocato.” Passai tutta la giornata al posto di
polizia. Continuarono a fare telefonate cercando di
avere istruzioni su cosa dovevano fare di me. Alla
fine presero i miei documenti e mi portarono in una
stanza con le finestre a sbarre dove mi chiusero a
chiave. Poi tutto finì e mi lasciarono andare tra le
grida di gioia dei miei amici che si erano riuniti
davanti al posto di polizia.29

Il giorno dopo i giornali di Leningrado uscirono


con i titoli in prima pagina: “Arrestata per aver
pianto Sacharov,” e Marina Sal’e che era già molto
nota in città, divenne un indiscusso leader politico di
Leningrado. Dopo due mesi ci furono le elezioni per
il consiglio comunale della città e Marina Sal’e
venne eletta a grande maggioranza. Anni dopo
affermò che non era stata sua intenzione farsi
eleggere - voleva coordinare la campagna elettorale
per i candidati del Fronte popolare senza però
presentarsi personalmente - ma dopo il suo arresto
per il corteo in memoria di Sacharov aveva bisogno
dell’immunità giudiziaria.30
Questo sarebbe stato il primo consiglio comunale
della storia di Leningrado eletto da un voto popolare
e in effetti il primo istituto di governo eletto dal voto
popolare in tutta la Unione Sovietica. Come le altre
città anche Leningrado era stata governata da
rappresentanti locali del Partito comunista. Nuovi
politici, e nuove regole, proposero di relegare il
Partito comunista allo status... di partito politico, e
di amministrare la città con una democrazia
rappresentativa. La transizione fu veloce, dolorosa e
qualche volta comica. Nelle elezioni di marzo i
candidati democratici inflissero una sconfitta
umiliante al Partito comunista, conquistando circa i
due terzi dei quattrocento seggi; 120 seggi andarono
così al Fronte popolare. In seguito, un comitato
d’organizzazione composto da sessanta deputati si
riunì per discutere i prossimi lavori del consiglio
cittadino. Il capo del partito di Leningrado Boris
Gidaspov invitò il comitato ad incontrarlo
all’Istituto Smol’nyj, un collegio storico che
ospitava il quartier generale del Partito comunista
regionale. I deputati eletti suggerirono molto
educatamente a Gidaspov che sarebbe stato meglio
se fosse andato lui a incontrarli al Palazzo
Mar’inskij, il grandioso edificio sulla piazza
Sant’Isacco dove il vecchio consiglio comunale
dominato dal Partito comunista aveva tenuto le sue
sessioni, dove gli attivisti della battaglia
dell’Angleterre erano andati a trattare con i
funzionari della città, e dove si sarebbe insediato il
nuovo consiglio comunale democratico.
Gidaspov era la personificazione della vecchia
guardia, aveva vissuto tutta la vita nel complesso
militare e industriale di Leningrado, salendo
rapidamente nei ranghi fino alla direzione di diversi
istituti prima di venire nominato, nel 1989, a capo
della organizzazione cittadina del partito. Entrò nella
sala delle riunioni al Palazzo Mar’inskij e si sedette
senza esitazione alla testa del tavolo delle riunioni.
Si era appena seduto quando uno dei deputati eletti
gli disse: “Quello non è il tuo posto.”31 Era arrivato
il momento del cambio della guardia.
Giorni dopo una simile scena simbolica si svolse
nella sala consiliare del Palazzo Mar’inskij, dove
era convenuto il consiglio comunale per la sua prima
seduta. I quattrocento deputati neoeletti avevano
preso posto nel grande anfiteatro e stavano
guardando in basso nell’emiciclo dove due signori
erano già seduti a un piccolo tavolo di noce.
Entrambi vecchi burocrati del partito, della stessa
tempra di Gidaspov: corporatura pesante, abito
grigio, volti cupi che sembravano sempre mal rasati.
Uno dei due si alzò e cominciò a leggere un discorso
di circostanza che iniziava con le congratulazioni per
i deputati neoeletti. Uno dei soggetti citati si
avvicinò al tavolo e chiese: “Chi ti ha detto che
dovevi presiedere questa riunione?” Il burocrate si
ritirò confuso e Aleksej Kovalev, l’eroe della
battaglia dell’Angleterre, si fece avanti e chiese ai
due visitatori di smettere di ostacolare i lavori
dell’assemblea. I due se ne andarono e Kovalev e
Sal’e presero posto al tavolo per dirigere la prima
riunione del primo organismo di governo
democraticamente eletto nell’Unione Sovietica.32
La seduta iniziò secondo il programma
predisposto dal comitato di coordinamento, con tre
dei suoi membri che facevano gli annunci
procedurali. Quando apparvero di fronte
all’assemblea i deputati scoppiarono a ridere,
perché tutti e tre avevano il tipico look
dell’intelligencija: maglione girocollo e barba. “Era
fantastico,” ricorda un sociologo presente alla
seduta. “Un radicale cambiamento di atmosfera: i
vestiti grigi con i loro musi erano fuori luogo, gli
informali erano la normalità.”33
Per restare fedeli a quello che li aveva portati a
Palazzo Mar’inskij e che uno di loro in seguito ebbe
a definire “acuto senso della democrazia”34, i
neodeputati, in uno dei loro primi atti, decisero di
togliere tutte le guardie dal palazzo in modo che tutti
i cittadini potessero avere accesso agli uffici e alla
sala del consiglio. Ebbe a scrivere anni dopo uno
dei membri del consiglio:

Il Mar’inskij adesso sembrava una stazione


ferroviaria durante la guerra civile russa. Dozzine di
persone senza casa si appostavano all’ingresso della
sala del consiglio, afferrando i deputati e cercando
di ficcargli in mano fogli dattiloscritti. Ricordo un
uomo con la barba che cercava di convincere i
deputati a prendere in considerazione una sua
geniale invenzione. Avevamo votato di togliere le
guardie dal palazzo e il giorno dopo dovevamo
calcolare il costo di alcuni accessori in bronzo che
erano stati portati via dall’edificio.35

Le guardie vennero richiamate dopo pochi giorni,


ma la gente continuava a venire. Un altro deputato al
consiglio ricorda:

La gente da molto tempo desiderava essere


ascoltata. Quando gli elettori venivano a trovarci ci
sentivamo come preti che dovevano ascoltare le
confessioni. Dicevamo: “Non posso darvi un nuovo
appartamento, non ho questa autorità,” e loro
rispondevano: “Voglio solo che tu mi ascolti.” E noi
stavamo ad ascoltare con attenzione e pazienza. E la
gente andava via soddisfatta.36

Dopo alcuni mesi ci rendemmo conto che gli


elettori non volevano solo essere ascoltati, ma anche
protetti e nutriti.
Coerentemente con i principi della democrazia
radicale il consiglio comunale non aveva un capo
ufficiale. Una mancanza che si dimostrò poco pratica
e anche impolitica: perché i membri del nuovo
consiglio si arrangiavano per inventare più o meno
da zero le procedure parlamentari, provando e
riprovando le regole in tempo reale - e spesso
durante le trasmissioni del canale locale della
televisione - gli elettori di Leningrado cominciarono
a perdere la pazienza. La città, il paese e la vita
stessa sembrava andare a rotoli mentre i democratici
facevano le prove di democrazia senza concludere
nulla.
Marina Sal’e, che era ancora la personalità
politica più conosciuta, decise di non presentare la
sua candidatura per la presidenza del consiglio.
Venti anni dopo le chiesero, con una certa insistenza,
le ragioni di quella decisione. “Vorrei che qualcuno
mi dicesse la risposta,” disse. “Fu la mia stupidità,
la mia inesperienza, la mia timidezza o la mia
leggerezza? Non lo so, ma sta di fatto che non lo
feci. Fu un errore.”37
Dopo il rifiuto di Sal’e, gli attivisti del consiglio
decisero di rivolgersi al secondo dei due eroi della
perestrojka: Anatolij Sobcak, il professore di legge
che si era fatto una fama a Mosca come democratico
di Leningrado. Sobcak era diverso dai barbuti
informali in maglione: a differenza
dell’atteggiamento contemplativo e generalmente
dimesso degli informali, Sobcak ostentava una
sofisticata eleganza nel vestire - i comunisti
criticavano con gusto i completi “borghesi”, e le
classiche giacche a scacchi vengono rievocate negli
aneddoti politici ancora oggi dopo venti anni - ed
era un oratore convincente. Sembrava che gli
piacesse il suono della sua voce. Come ricorda un
collega, Sobcak “poteva distrarre una riunione di
lavoro improvvisando per quaranta minuti un
discorso su un ponte immaginario”38 e affascinare
gli ascoltatori senza dire in pratica nulla.
Sobcak apparteneva al gruppo interregionale di
Sacharov del Soviet Supremo, ma in realtà era molto
più conservatore degli informali che lo stavano
richiamando a Leningrado. Era un professore di
legge che aveva insegnato all’accademia di polizia e
sotto molti aspetti faceva parte dell’establishment
sovietico che veniva estromesso. Aveva
recentemente dato la sua adesione al Partito
comunista, perché era convinto che, con tutte le
riforme di Gorbacëv, il partito avrebbe continuato a
governare il paese. In una città divisa, alla quale i
nuovi politici si riferivano sempre più con il nome
storico San Pietroburgo, Sobcak si oppose al
cambiamento del nome, sostenendo che Leningrado
riflettesse meglio il suo valore militare.39
Sobcak era anche un politico molto più preparato
di quanto nessuno degli informali sapesse essere.
Aveva una grande ambizione: dopo poco tempo
cominciò a dire a tutti che sarebbe stato il futuro
presidente della Russia. Per il momento voleva
presiedere tutto il consiglio senza dover rispondere
ai democratici che lo avevano chiamato al trono. A
tal fine fece qualche avance, in totale segretezza, alla
minoranza del Partito comunista nel consiglio e i
comunisti sorpresero tutti votando a favore di
Sobcak. Pochi minuti dopo essere stato eletto
Sobcak sconvolse le aspettative dei democratici
perché non nominò come suo vice Marina Sal’e o un
altro eminente democratico. Scelse invece Vjaceslav
Šcerbakov, un viceammiraglio membro del Partito
comunista. I democratici, nonostante la deludente
sorpresa, mantennero fede al loro accordo con
Sobcak e confermarono Šcerbakov al posto di
vicepresidente dell’assemblea.40
Sobcak quindi si rivolse al consiglio della città.
Dichiarò quale sarebbe stato il suo progetto: era lì
per essere il capo, non un leader. Vedeva il consiglio
della città impantanato nei problemi “della
procedura democratica per la procedura
democratica,” mentre lui voleva procedere con
l’azione di effettivo governo della città. La voce
diventava più sicura man mano che procedeva nel
discorso, Sobcak informò il consiglio che le cose
sarebbero cambiate.
“Ci rendemmo conto del nostro errore nel
momento in cui votammo per lui,” ricordò poi uno
dei membri del consiglio.41 Sobcak aveva
l’intenzione di smantellare quello che la
maggioranza dei deputati del consiglio considerava
come il più importante risultato raggiunto nei due
mesi dalle elezioni: l’invenzione di un modo non
sovietico di amministrare la città.
Gli informali andarono a casa sconvolti e
disperati.
Sobcak andò all’aeroporto a prendere un aereo
per gli Stati Uniti dove avrebbe partecipato a un
congresso di studi giuridici.
“Gli anni di San Pietroburgo sono stati stato il
periodo più buio della vita di Putin,” racconta
Gevorkjan parlando della biografia per la campagna
elettorale che scrisse insieme ai suoi colleghi. “Non
ho mai capito come abbia fatto ad agganciare
Sobcak.”
A Leningrado i suoi colleghi del KGB cercavano
di adattarsi più che di contrastare la nuova realtà
politica, e all’inizio questa sembrò essere anche la
strategia di Putin: piuttosto di andarsene sbattendo la
porta, decise di restare soffocando il rancore in
silenzio, di guardarsi intorno per cercare nuovi
amici, nuovi protettori e forse nuovi modi per
esercitare il potere rimanendo nell’ombra.
Il detto “spia per una volta, spia per sempre” era
di fatto corretto: il KGB non toglie mai il guinzaglio
ai suoi funzionari. Ma dove andavano a finire tutte le
spie? Il KGB aveva un nome e una struttura per
l’enorme esubero di personale, si chiamava la
“riserva attiva”. Con questo nome veniva indicato il
numero incalcolabile, e forse mai calcolato, di
funzionari del KGB piazzati in tutte le istituzioni
dell’URSS.
Un anno dopo, quando Vadim Bakatin un liberale
nominato da Gorbacëv prese in mano il KGB con il
mandato di smantellare l’istituzione, fu proprio la
riserva attiva a rivelarsi il problema più difficile e
intrattabile.
Questi erano funzionari del KGB ufficialmente
inquadrati in organizzazioni statali o civili di
qualunque tipo. Quasi sempre tutto il personale delle
varie organizzazioni sapeva che queste persone
lavoravano per il KGB. I funzionari della riserva
attiva svolgevano le funzioni più varie: alcuni si
occupavano della verifica dell’affidabilità del
personale mentre altri si concentravano sul controllo
degli umori e delle conversazioni che si svolgevano
dentro l’organizzazione e prendevano le iniziative
che ritenevano opportune per trattare gli eventuali
dissidenti. [...] Certamente ci sono situazioni nelle
quali la polizia segreta deve avere persone infiltrate
all’interno di varie organizzazioni, ma si suppone
che questo tipo di operazione sia segreta. Se invece
questo personale è conosciuto da tutti che genere di
servizio segreto può svolgere?42

Bakatin si rispose da solo:

Il KGB, così come era, non poteva essere definito


un servizio segreto. Era un’organizzazione formata
per controllare e sopprimere tutto e qualunque cosa.
In particolare, sembrava specificamente creata per
organizzare cospirazioni e colpi di stato ed era
attrezzata con tutti gli strumenti necessari allo scopo:
forze armate specialmente addestrate, la capacità di
intercettare e controllare le comunicazioni, il suo
personale infiltrato dentro ogni istituzione chiave, il
monopolio sull’informazione e molte altre cose.43

Era un mostro che aveva i suoi tentacoli


all’interno della società sovietica. Vladimir Putin
decise di collocarsi all’estremità di uno di questi
tentacoli.
Aveva detto al suo amico violoncellista che
voleva andare a Mosca ed entrare nella vasta
burocrazia del KGB della capitale. Poi aveva deciso
di restare a Leningrado e, forse perché era sempre
attratto dalle cose che conosceva, scelse l’unica
istituzione esterna al KGB con la quale aveva
interagito: l’Università statale di Leningrado. Il
nuovo impiego di Putin era quello di vicerettore per
le relazioni estere dell’università. Come ogni altra
organizzazione dell’URSS, l’Università statale di
Leningrado cominciava a rendersi conto
dell’esistenza di possibili relazioni con l’estero. I
suoi docenti e i suoi laureati cominciavano a
viaggiare al di fuori dei confini del paese per
studiare e partecipare a congressi: c’erano sempre
enormi ostacoli burocratici da superare, ma
l’opzione di viaggiare all’estero, che fino ad allora
era stata riservata a pochi eletti, era adesso aperta a
molti. Studenti e docenti arrivavano anche
dall’estero: così una possibilità che prima era
riservata solo a studenti dei paesi del blocco
socialista e a pochi studenti scelti laureati dei paesi
occidentali era adesso aperta praticamente a tutti.
Come le altre migliaia di organizzazioni Sovietiche,
l’università di Leningrado si vide drasticamente
tagliati i fondi dal governo e sperò che le relazioni
con l’estero, in qualunque forma si potessero
realizzare, avrebbero portato della valuta forte
quanto più necessaria. Si trattava di un lavoro
tagliato su misura per un membro della riserva
attiva: non solo questi posti erano tradizionalmente
riservati al personale nominato dal KGB, ma tutti
pensavano che questo personale fosse quello più
qualificato per procurare relazioni con l’estero;
dopotutto erano gli unici con una certa esperienza.
Putin disse che pensava di scrivere una tesi ed
eventualmente di restare all’università in modo
stabile.44 In effetti, come altre situazioni
nell’Unione Sovietica di quel tempo, il lavoro aveva
caratteristiche di provvisorietà. Rimase alla
Università statale di Leningrado per meno di tre
mesi.
In che modo Putin finì per lavorare per Anatolij
Sobcak quando questi era presidente del consiglio
della città di Leningrado è una storia ben conosciuta,
spesso raccontata e quasi certamente falsa per molti
se non tutti i suoi notissimi dettagli.
Nella versione apocrifa, Sobcak, il professore di
legge e celebre politico, stava camminando per i
corridoi dell’università, vide Putin e gli chiese di
lavorare per lui al consiglio della città. Nella
versione di Putin un vecchio compagno di corso
organizzò l’incontro nell’ufficio di Sobcak. Inoltre,
Putin aggiunge nella sua versione che aveva
frequentato il corso di Sobcak alla facoltà di legge
negli anni settanta, ma non lo conosceva
personalmente.
“Ricordo bene la scena,” disse Putin ai suoi
biografi. “Sono entrato, mi sono presentato e gli ho
raccontato tutto. Era un uomo impulsivo e subito
dopo mi disse: ‘Parlerò con il rettore, comincerai a
lavorare lunedì. Ecco fatto. Mi occuperò io di tutto e
sarai trasferito.’”
Nel sistema sovietico di assegnazione dei posti di
lavoro, gli impiegati erano spesso spostati come
schiavi, secondo gli accordi dei padroni.

Non potevo non dirgli: “Anatolij Aleksandrovic,


per me sarebbe un piacere lavorare per te. Non solo
mi interessa, ma voglio questo lavoro. Ma c’è un
fatto che probabilmente sarà di ostacolo al
trasferimento.” Allora lui mi chiese: “E cioè?”
“Devo dirti che non sono un semplice assistente del
rettore. Sono un funzionario del KGB.” Si fermò un
attimo a pensare, perché la cosa per lui era una
sorpresa. Ci pensò un po’ e poi disse: “Bene e
chissenefrega!”45

Il dialogo è certamente inventato e, se per questo,


anche inventato male. Perché prima afferma di
“avergli detto tutto”, e poi sostiene di aver detto a
Sobcak della sua appartenenza al KGB solo dopo
che questi gli aveva offerto il lavoro? E perché lo fa
passare per sciocco ignorante e ingenuo? Tutti alla
Università statale di Leningrado sapevano che Putin
era un funzionario del KGB. Probabilmente perché
questa bugia non era stata preparata bene prima di
raccontarla ai suoi biografi, e forse avrebbe anche
preferito evitare questa domanda delicata e fin
troppo ovvia nella risposta: come mai un funzionario
nella carriera del KGB si trovò a lavorare per uno
dei più importanti politici del movimento pro
democrazia?
Lo stesso Sobcak raccontò un’altra storia di pura
fantasia. “Sono sicuro che Putin non mi venne
assegnato dal KGB,” affermò durante un’intervista a
un giornale la stessa settimana nella quale Putin
stava parlando con i suoi biografi - e questo spiega
l’incongruenza.

Io stesso ho trovato Putin e gli ho chiesto di venire


a lavorare per me perché l’avevo conosciuto in
precedenza. Mi ricordavo bene di lui quando era
studente per il suo lavoro alla facoltà di legge. Come
mai divenne il mio vice? Lo incontrai del tutto per
caso nel corridoio dell’università. Lo riconobbi e lo
salutai e gli chiesi cosa stesse facendo. Seppi che
aveva lavorato per parecchio tempo in Germania e
che adesso era un assistente del rettore. Era stato un
ottimo studente anche se come carattere non gli
piaceva primeggiare. Per questo è una persona
scevra da vanità e senza ambizioni apparenti, ma
nell’intimo è un leader.46

Anatolij Sobcak sapeva certamente che Putin era


un funzionario del KGB. Ed è proprio per questo che
lo ha cercato. Sobcak era questo genere di politico:
parlava con un linguaggio colorito di termini
democratici, ma gli piaceva avere una solida base
conservatrice con la quale gestirlo. Per questa stessa
ragione scelse un contrammiraglio comunista come
suo vice al consiglio della città. Sobcak non solo si
sentiva più sicuro in mezzo a uomini provenienti dai
diversi corpi delle forze armate, ma era molto più a
suo agio con questi uomini che non con i sofisticati,
loquaci attivisti pro democrazia fissati con la
procedura democratica, come Sal’e e i suoi amici.
Aveva insegnato legge all’accademia di polizia di
Leningrado; aveva insegnato a uomini che erano
esattamente come si immaginava Putin: affidabili
anche se non brillanti, non molto ambiziosi e sempre
attenti alla gerarchia di comando. Inoltre aveva
bisogno di Putin per le stesse ragioni per le quali ne
aveva avuto bisogno l’università: era una delle
poche persone in città che aveva lavorato all’estero
e la città aveva bisogno di aiuto straniero e denaro
straniero. Inoltre Sobcak, che aveva fatto carriera sia
in ambito universitario nel ruolo di professore
ordinario, sia in politica nel Partito comunista -
sapeva che era molto più saggio scegliersi il proprio
uomo KGB che farselo imporre.
Se Sobcak avesse ragione nel credere che stesse
scegliendo da solo il suo uomo è materia discutibile.
Un ex collega di Putin nella Germania Est mi disse
che nel febbraio 1990 Putin si era incontrato con il
generale maggiore Jurij Drozdov, capo della
direzione della sezione illegale del KGB, in
occasione di una sua visita a Berlino.47 Sergej
Bezrukov, una spia che era passata alla Germania
Ovest nel 1991, mi disse che l’unico possibile scopo
dell’incontro era quello di dare a Putin il suo
prossimo incarico. “Per quale altra ragione il capo
della direzione avrebbe dovuto incontrare un
funzionario che stava per rientrare in patria? Certe
cose non succedevano e basta.” Bezrukov e gli altri
funzionari si chiesero quale sarebbe stato il
prossimo incarico di Putin e come mai fosse così
importante da essere contattato dagli alti gradi della
burocrazia. Quando Putin andò a lavorare per
Sobcak, Bezrukov non ebbe dubbi: il suo vecchio
amico era stato richiamato per venire infiltrato nella
cerchia interna del più importante uomo politico pro
democrazia del paese. Il lavoro all’università era
stato solo un trampolino di lancio.
Putin informò il KGB di Leningrado che stava per
cambiare lavoro. “Gli dissi che avevo avuto
un’offerta di lavoro da Anatolij Aleksandrovic
[Sobcak] e che dovevo lasciare l’università. Se
questo non fosse possibile sono disposto a dare le
dimissioni. Mi risposero: ‘Assolutamente no perché
mai dovresti? Vai a lavorare nel nuovo posto. Non
c’è problema.’”48 Questo dialogo sembra un’altra
assurda fantasia, anche se sostenessimo
l’improbabile tesi che non fu il KGB a indirizzarlo a
Sobcak. Putin non aveva nessuna ragione di pensare
che l’opportunità di stare accanto al più importante
uomo politico democratico della città non avrebbe
suscitato un forte entusiasmo da parte del KGB.
In quel momento i nuovi democratici erano
diventati i soggetti principali del lavoro
dell’agenzia. L’anno prima Gorbacëv aveva istituito
il Comitato per gli errori costituzionali, un
organismo esecutivo che aveva il compito di
ricondurre la prassi di governo sovietica nell’ambito
della costituzione del paese.49 Nel 1990 il comitato
aveva iniziato la sua battaglia contro le operazioni
segrete del KGB, vietando ogni operazione basata su
direttive segrete interne, ma il KGB aveva ignorato
la direttiva.50 Infatti sottoponeva a continui controlli
Boris Eltsin e gli altri leader democratici.51
Controllava i loro telefoni, anche quelli nelle stanze
d’albergo che affittavano. Controllava i telefoni dei
loro amici, parenti, parrucchieri e allenatori
sportivi. Per cui è improbabile che Putin abbia detto
la verità ai suoi biografi quando sostenne di non aver
fatto rapporto al KGB durante il suo lavoro con
Sobcak, mentre prendeva uno stipendio dalla polizia
segreta molto superiore a quello che prendeva dal
consiglio della città.52
Come, se e quando Putin abbia finalmente
interrotto il suo rapporto con il KGB stranamente
non è oggetto di documentazioni pubbliche e
nemmeno della creazione di un’altra leggenda
credibile. Putin ha detto che dopo pochi mesi
dall’inizio del suo lavoro con Sobcak, un membro
del consiglio della città aveva cominciato a
ricattarlo, minacciando di denunciarlo come
funzionario del KGB. Putin si rese conto allora che
doveva abbandonare il suo ruolo:

Era una decisione molto difficile. Era passato


quasi un anno da quando avevo smesso di lavorare
per il servizio di sicurezza, ma tutta la mia vita era
stata incentrata su quel servizio. Era il 1990: l’URSS
non era sconfitta, il colpo di stato di agosto non era
ancora successo e quindi non c’era nessuna certezza
su come sarebbe andato a finire il paese. Sobcak era
una persona eccezionale e un politico importante, ma
mi sembrava rischioso legare il mio futuro a lui.
Tutto poteva rovesciarsi in un attimo. Non riuscivo a
pensare cosa avrei potuto fare se avessi perso il mio
lavoro per la città. Pensavo che avrei potuto tornare
all’università, scrivere una tesi, fare lavori saltuari.
Avevo un posto stabile con il KGB e il trattamento
era buono. Avevo successo in quella istituzione,
eppure decisi di andare via. Perché? Per cosa?
Stavo veramente male. Dovevo prendere la
decisione più difficile della mia vita. Ho riflettuto a
lungo cercando di mettere in ordine i miei pensieri,
alla fine mi feci coraggio, presi la penna e scrissi la
lettera di dimissioni, di getto, senza fare una brutta
copia.53

Questo monologo, recitato dieci anni dopo, è in


effetti un documento eccezionale. Se veramente Putin
se ne andò dalla più temuta e terrificante
organizzazione dell’Unione Sovietica non basò mai
la sua decisione su considerazioni ideologiche,
politiche o morali - nemmeno in retrospettiva. Dieci
anni dopo, mentre si apprestava a comandare tutta la
Russia ammise senza difficoltà che era sempre stato
pronto a servire qualunque padrone. Ma soprattutto
gli sarebbe piaciuto accontentarli tutti.
In effetti finì proprio per accontentarli tutti. Il
KGB ha perso la sua lettera di dimissioni - vuoi per
furba manovra o perché incapace di gestire i suoi
documenti. In ogni modo Vladimir Putin era ancora
un funzionario del KGB nell’agosto del 1991,
quando il KGB organizzò il colpo di stato per il
quale sembrava essere stato progettato.
5
UN COLPO DI STATO E UNA CROCIATA
Mi ci sono voluti due anni per convincere Marina
Sal’e a parlarmi. Ho dovuto guidare per dodici ore
prima di arrivare a casa sua, due delle quali su un
terreno quasi impraticabile - le istruzioni erano:
“prosegui in macchina fin dove puoi e poi vai a
piedi.” Alla fine del sentiero dovevo vedere il
tricolore della bandiera russa sventolare alto sopra
una casa in legno. Non si poteva sbagliare: i russi
non hanno l’abitudine di alzare la bandiera sulle loro
case.
Sal’e vive in un villaggio, se si può chiamare così
un aggregato di ventisei case abitato solo da sei
persone. Si trova a 170 chilometri dalla città più
vicina e a 30 chilometri dal negozio di alimentari
più vicino e come molti villaggi russi era un nido
vuoto, abbandonato, senza futuro. La
settantacinquenne Sal’e vive qui con la donna che
chiama sua sorella perché nessuno qui può trovarla.
L’altra donna che sembrava di qualche anno più
giovane e più in forma di lei, andò a prendere le
scatole di documenti che Sal’e si era portata dietro e
poi si ritirò in un’altra stanza. In quelle scatole
c’erano i risultati di mesi di continue indagini che lei
aveva svolto di persona - dopo aver scoperto la
storia della carne persa.
Nel 1990 il mondo stava andando all’inferno. O
per lo meno ci stava andando l’Unione Sovietica. Il
13 gennaio dello stesso anno, a Baku, capitale
dell’Azerbaigian, da sempre la città russa con la
massima diversità etnica, fu scenario di un pogrom
che uccise quarantotto persone di etnia armena e ne
fece fuggire quasi trentamila, praticamente l’intera
popolazione armena.1 Il campione mondiale di
scacchi Garri Kasparov, un armeno di Baku, affittò
un aereo charter per evacuare la famiglia, gli amici e
gli amici degli amici. Il 19 gennaio l’esercito russo
invase Baku, in apparenza per restaurare l’ordine,
ma ci furono oltre cento vittime civili, la maggior
parte di etnia azera.
L’impero sovietico stava implodendo. Il governo
centrale non riusciva a contenere lo sfascio, il suo
esercito era brutale e inefficace.
Anche l’economia sovietica stava per collassare.
La mancanza di cibo e dei prodotti di quotidiana
necessità era di proporzioni catastrofiche. Se Mosca
riusciva a malapena a mobilitare le risorse
dell’intero paese per rifornire delle merci essenziali
alcuni dei suoi negozi, Leningrado, la seconda città
del paese, era in pieno disastro. Nel giugno del 1989
le autorità di Leningrado avevano cominciato a
razionare tè e sapone. Nell’ottobre 1990 si
aggiunsero alla lista dei prodotti razionati lo
zucchero, la vodka e le sigarette. Nel novembre del
1990 il consiglio democratico della città fu costretto
a prendere la misura terribilmente impopolare di
introdurre le tessere annonarie - tessere che
ricordavano inevitabilmente l’assedio della città
durante la seconda guerra mondiale.2 Ogni abitante
di Leningrado aveva diritto a 1 chilo e 370 grammi
di carne al mese, 900 grammi di carni trattate, 10
uova, 450 grammi di burro, 230 grammi di olio
vegetale, 450 grammi di farina e novecento grammi
di pasta o grano duro. Con l’introduzione delle
tessere, il consiglio non solo sperava di evitare la
fame - il termine, in tutta la sua oscenità, non era più
una memoria storica né una qualifica riferita a
lontani paesi - ma sperava anche di prevenire
disordini e la ribellione della gente.
La città fu pericolosamente vicina alla sommossa
due volte quell’anno: nell’agosto del 1990 per la
protesta del tabacco, e poche settimane dopo per la
protesta dello zucchero.3 Le sigarette erano scarse
da tempo, ma i negozi del centro avevano sempre
almeno una marca disponibile sugli scaffali. Un
giorno alla fine di agosto del 1990 anche i negozi
della prospettiva Nevskij restarono senza sigarette.
Di fronte a uno dei negozi si radunò una folla in
attesa di una consegna che non venne fatta. Il negozio
chiuse per pranzo per riaprire un’ora dopo, sempre
senza sigarette sugli scaffali. Alle tre del pomeriggio
una folla di diverse migliaia di fumatori inferociti
avevano bloccato il traffico sulla Nevskij e si
preparavano a spaccare le vetrine dei negozi. I capi
della polizia nel panico chiamarono il consiglio
della città: se fossero scoppiati violenti disordini
non sarebbero stati in grado di prevenire danni alle
proprietà e alle persone. Alcuni deputati, guidati da
Sobcak, si recarono di corsa sulla Nevskij per
cercare di calmare la folla.
I politici arrivarono appena in tempo. I
dimostranti avevano già scalzato una enorme fioriera
dal marciapiede e rimosso un lungo tratto di recinto
da un cantiere vicino e stavano già costruendo
barricate per bloccare la principale arteria della
città. Il traffico era bloccato. Corpi speciali
antisommossa della polizia erano già sul posto ed
erano pronti a disperdere la protesta dei fumatori e
ad attaccare le loro barricate. Questi corpi, formati
due anni prima, erano noti per la loro brutalità nel
disperdere le manifestazioni - i loro manganelli
erano stati battezzati “democratizzatori”. A
differenza della normale polizia, gli uomini di questi
corpi con il loro equipaggiamento antisommossa,
erano calmi ed erano sicuri che sarebbe corso del
sangue. Sobcak insieme ai deputati più conosciuti
dalla popolazione cercarono di ragionare con i
diversi gruppi in mezzo alla folla, avvicinando
persone che li riconoscevano e parlando con loro.
L’ex dissidente e prigioniero politico Julij Rybakov,
che adesso era nel consiglio, andò dalle forze
speciali di polizia assicurando i loro comandanti che
stava arrivando un camion carico di sigarette e che
la protesta si sarebbe risolta pacificamente.4
Un’altra squadra del consiglio guidata da Sal’e,
girava per tutti i magazzini della città cercando
stecche di sigarette. Ne trovarono un po’ e le
distribuirono a sera inoltrata ai dimostranti sulla
prospettiva Nevskij. I fumatori si accesero le
sigarette e si dispersero, lasciando i membri del
consiglio a smantellare le barricate e a meditare sui
possibili futuri disordini, dei quali non si poteva
prevedere una soluzione altrettanto facile dal
momento che, alla fine, la città avrebbe esaurito
praticamente tutto.
Poche settimane dopo al culmine della stagione
nella quale si preparavano le confetture, lo zucchero
scomparve dagli scaffali dei negozi.5 Temendo una
nuova rivolta come quella del tabacco, un gruppo di
consiglieri cominciò a indagare. Scoprirono quello
che ritennero essere un complotto del Partito
comunista organizzato per screditare il nuovo
governo democratico della città. Approfittando del
fatto che nessuno oramai sapeva più quale autorità
fosse responsabile della città, alcuni funzionari del
Partito comunista avevano manovrato i loro vecchi
contatti per bloccare lo scarico dei treni che
portavano lo zucchero alla città di Leningrado.
Marina Sal’e convocò una riunione di emergenza di
alcuni membri del consiglio e li mandò a controllare
personalmente l’arrivo dei treni, lo scarico e la
distribuzione dello zucchero ai negozi. In questo
modo venne evitata una nuova protesta.
A questo punto, Marina Sal’e, la geologa, venne
eletta alla presidenza del comitato responsabile
delle derrate del consiglio cittadino. Sembrò in
qualche modo che una donna, che non aveva mai
avuto a che fare con gli alimenti o con la
distribuzione dei prodotti alimentari, che non aveva
mai fatto esperienze di organizzazione e non aveva
mai comandato nessuno, ma che era chiaramente
incorrotta e incorruttibile, avrebbe svolto nel modo
migliore possibile l’opera di prevenzione della fame
a Leningrado. In altre parole, al politico che godeva
della massima fiducia fu dunque assegnata la
responsabilità dell’incarico più importante e più
difficile da portare a termine nella città in quel
momento.
Nel maggio del 1991, Sal’e, nel ruolo di
responsabile del comitato per le derrate del
consiglio della città di Leningrado, andò a Berlino
per firmare dei contratti per l’importazione a
Leningrado di diversi treni carichi di patate e carne.
Le trattative erano state portate praticamente a
termine e Sal’e e un collega di fiducia
dell’amministrazione cittadina dovevano solamente
firmare i documenti.
Con tono indignato, mi raccontò l’episodio:

Quando arriviamo a Berlino, questa Frau Rudolf


con la quale ci dovevamo incontrare mi dice che non
ci può ricevere perché è impegnata in trattative
urgenti con la città di Leningrado relative
all’importazione di carne. Ci saltano gli occhi fuori
dalla testa perché noi siamo la città di Leningrado e
noi siamo venuti per trattare l’importazione di carne.

Sal’e e il suo collega corsero a telefonare al


comitato derrate della amministrazione della città di
Leningrado, l’equivalente amministrativo del suo
comitato: l’unica spiegazione che da Leningrado
riescono a fornire è che l’ufficio esecutivo si era
inesplicabilmente inserito di prepotenza nella
trattativa per il contratto. Ma il presidente del
comitato non era al corrente di nulla.

Allora chiamo Sobcak e gli dico: “Anatolij


Aleksandrovic ho appena scoperto - e adesso ho
anche i numeri - che Leningrado sta comprando
sessanta tonnellate di carne.” Sobcak chiama la
Banca Economica Esterna mentre io sono al telefono
- lo posso sentire mentre parla - lui dice il nome
della ditta e la banca conferma che sì, una linea di
credito per novanta milioni di marchi tedeschi è stata
aperta per quella ditta. Non mi dice niente altro,
solo: “Non ho la minima idea di cosa stia
succedendo.”6

Sal’e torna a Leningrado a mani vuote, solo con la


mezza speranza che sessanta tonnellate di carne
ipoteticamente comprate dalla città si
materializzassero. Cosa che non avvenne e non ebbe
nemmeno il tempo per indagare la storia misteriosa
della carne, una storia che la tormenta ancora oggi.
Tre mesi dopo peraltro, la storia venne superata da
un altro avvenimento, molto più preoccupante e non
meno misterioso - e secondo Sal’e inestricabilmente
collegato alla sua disavventura tedesca.
La vicenda più importante nella storia della
Russia moderna, il momento più drammatico del
paese, non è ancora oggetto di una narrazione
coerente e collettiva. Non c’è alcun consenso
nazionale sulla natura degli avvenimenti che hanno
determinato il paese, questa mancanza di consenso è
probabilmente il più grande fallimento della Russia
come nazione.
Nell’agosto del 1991 un gruppo di ministri del
governo federale guidato dal vicepresidente di
Gorbacëv tentò di deporre Gorbacëv, allo scopo
dichiarato di salvare l’URSS dal collasso. Il colpo
di stato fallì, ma non evitò all’Unione Sovietica di
crollare e a Gorbacëv di perdere il potere. Sono
passati vent’anni e di quegli avvenimenti non esiste
una storia comunque credibile. Cosa spinse i
ministri? Come mai il loro colpo fallì così
rapidamente e miseramente? E alla fine chi fu il vero
vincitore?
L’aspettativa di una reazione della linea dura del
partito era nell’aria fin dall’inizio dell’anno.
Qualcuno addirittura sosteneva di conoscere già la
data del colpo;7 sono venuta a conoscenza di almeno
un imprenditore, uno dei primi grandi ricchi russi,
che lasciò il paese perché aveva ricevuto una
soffiata sul colpo. Non era nemmeno necessario
avere un contatto dentro al KGB, né bisognava fare
grandi sforzi di fantasia per aspettarsi un colpo di
stato: la sensazione di paura e di incertezza fatale
era palpabile. Conflitti etnici armati stavano
scoppiando in tutto il paese. Le repubbliche baltiche
- Lettonia, Lituania ed Estonia - avevano deciso la
secessione dall’Unione Sovietica e Boris Eltsin,
presidente del Soviet Supremo della Russia era
favorevole. Gorbacëv mandò i carri armati a Vilnius,
capitale della Lituania, per soffocare la rivolta. Era
gennaio. In marzo c’erano i carri armati nelle strade
di Mosca quando Gorbacëv, disperato per la perdita
del controllo sul paese, o spinto dalla fazione più
dura della sua amministrazione, o per entrambe le
cose, tentò di vietare tutte le manifestazioni
pubbliche a Mosca; fu quella la prima volta che vidi
Galina Starovojtova alla testa di centinaia di
migliaia di moscoviti che avevano sfidato i carri
armati e il divieto di Gorbacëv. Sempre a marzo
Gorbacëv indisse un referendum per sapere dal
popolo se l’Unione Sovietica dovesse essere
mantenuta come federazione nazionale; i cittadini di
nove delle quindici repubbliche dell’Unione
votarono a favore, ma sei repubbliche boicottarono
il voto. Alla fine del mese la Georgia indisse il suo
referendum e votò per la secessione dall’URSS.
Le repubbliche smisero di pagare i tributi al
governo centrale, aggravando la crisi finanziaria che
era già drammatica. La mancanza di generi
alimentari e delle merci di prima necessità si
aggravò quando già si pensava che più grave la
situazione non potesse essere. In aprile il governo
cercò con molta disinvoltura di attenuare i controlli
sui prezzi, i prezzi salirono, ma le merci mancavano
lo stesso. In giugno l’Ucraina dichiarò la sua
indipendenza dall’USSR, così fece la Cecenia, che
in effetti era una parte della repubblica russa. La
Russia indisse le elezioni presidenziali in giugno
eleggendo Boris Eltsin. Sia Mosca che Leningrado
istituirono l’ufficio del sindaco, carica che nel
regime sovietico non esisteva. In giugno Sobcak
venne eletto sindaco di Leningrado. Un ruolo che gli
stava meglio di quello di presidente del consiglio
della città, dopo tutto aveva sempre operato come
capo esecutivo. Putin divenne vicesindaco,
responsabile delle relazioni internazionali.
In due anni di continui cambiamenti politici e di
frenetico dibattito civico, i cittadini sovietici erano
diventati teledipendenti. Il 19 agosto 1991, i più
mattinieri trovarono le televisioni mute. O non
proprio mute: il balletto del Lago dei Cigni veniva
trasmesso in continuazione. Alle sei del mattino la
rete della radio nazionale cominciò a trasmettere una
serie di comunicati e di discorsi politici. Un’ora
dopo gli stessi comunicati e discorsi vennero letti
anche alla televisione.

Compatrioti, cittadini dell’Unione Sovietica! Vi


parliamo in una congiuntura critica per la nostra
patria e per il nostro popolo! La nostra grande
madrepatria è in grave pericolo! La politica di
riforme lanciata dal signor Gorbacëv che doveva
garantire lo sviluppo dinamico del paese e la
democratizzazione della nostra società, ci ha portato
in una strada senza uscita. Quello che era iniziato
con speranza e con entusiasmo è finito nella sfiducia,
nell’apatia e nella disperazione. Il governo a tutti i
livelli ha perso la fiducia dei cittadini. Il gioco della
politica ha sopraffatto la vita pubblica, annullando la
genuina attenzione per la patria e per i cittadini. Le
istituzioni dello stato sono state trasformate in
un’orribile caricatura. Il paese è diventato, in
pratica, ingovernabile.

La giunta, che comprendeva il presidente del


KGB, il primo ministro, il ministro degli interni, il
vicepresidente del consiglio di sicurezza, il ministro
della difesa, il vicepresidente, il presidente del
Soviet Supremo, i capi dei sindacati del lavoro e
dell’agricoltura, continuava quindi con una serie di
promesse al popolo:8

“L’onore e l’orgoglio dell’uomo sovietico saranno


completamente rivalutati.”
“La crescita del paese non deve avvenire a
scapito della qualità della vita della popolazione. In
una società sana la crescita continua della ricchezza
sarà la norma.”
“Il nostro compito prioritario sarà la soluzione dei
problemi della mancanza di cibo e di case. Tutte le
forze saranno mobilitate per rispondere a queste che
sono le più importanti esigenze del popolo.”

A tal fine, un altro documento proclamava:

Per rispondere ai bisogni del popolo, che chiede


che vengano prese misure decisive per evitare che la
società scivoli in una catastrofe nazionale, per
garantire la legge e l’ordine, viene dichiarato lo
stato di emergenza per un periodo di sei mesi in
molte località dell’URSS con inizio dalle quattro del
mattino tempo di Mosca del giorno 19 agosto 1991.9

La giunta di conseguenza assumeva il nome di


Comitato statale per lo stato di emergenza
nell’URSS (GKcP). Continuarono a ripetere che
Gorbacëv era malato e non era in grado di svolgere
le sue funzioni. Era invece agli arresti domiciliari in
una casa di vacanze nella località di Foros sul mar
Nero.
In generale, la seconda metà di agosto è un
periodo morto nelle città della Russia. I consigli
cittadini erano sospesi, molti politici, attivisti e altri
abitanti andavano fuori città. Quando tutti coloro che
invece erano rimasti sentirono queste notizie
cominciarono a riunirsi sui posti di lavoro, sperando
di avere qualche linea di guida e qualche
informazione o, semplicemente, per condividere la
preoccupazione e l’angoscia con altri esseri umani.
I primi tre membri del consiglio della città di
Leningrado arrivarono a Palazzo Mar’inskij subito
dopo le sette del mattino. Decisero di convocare una
riunione del consiglio e cominciarono a fare
telefonate. Alle dieci non erano ancora riusciti ad
avere il quorum. A quel punto videro alla televisione
il generale Viktor Samsonov, capo del distretto
militare di Leninrado, che si qualificò come il
rappresentante regionale a Leningrado del GKcP e
dichiarò lo stato di emergenza nella città. Senza il
quorum Igor’ Artem’ev, il vicepresidente del
consiglio della città, decise di convocare almeno una
riunione di lavoro.10 Il barbuto, pacato Artem’ev,
trentenne Ph.D. in biologia, poco esperto nella
gestione delle riunioni, era totalmente impreparato
per quello che sarebbe avvenuto dopo. Diede la
parola alla prima persona che l’aveva chiesta, che
era appunto un rappresentante nominato del GKcP, il
contrammiraglio Viktor Chramcov. Questi aveva
appena incominciato a parlare che Vitalj Skojbeda,
trentenne consigliere noto per la sua abitudine a
provocare scontri, si scatenò nell’emiciclo gridando
che Chramcov doveva essere arrestato, arrivando
perfino a colpirlo forte in faccia.
Giunse in quel momento il presidente del
consiglio della città Aleksandr Beljaev, appena
tornato a Leningrado, si avvicinò al contrammiraglio
ancora a terra sullo splendido parquet e gli chiese se
ci fosse un documento che metteva la città in stato di
emergenza. Non c’era. In quel caso, decise Beljaev,
lo stato di emergenza non c’era.11 Marina Sal’e
dichiarò che il GKcP era “un colpo di stato
militare”12 - una definizione non ancora ovvia, ma
in grado di colpire i presenti per la sua esattezza. I
consiglieri cominciarono quindi a discutere un piano
di resistenza e formarono un comitato di
coordinamento, approvando una dichiarazione con la
quale si opponevano al colpo. Il problema a quel
punto era informare la popolazione di Leningrado.
Anche il sindaco Sobcak era fuori città, e nessuno
sapeva come raggiungerlo. Telefonò in tarda
mattinata o nel primo pomeriggio quando i
consiglieri avevano finito la loro discussione. “Gli
dicemmo che stavamo pensando di andare alla
televisione quanto prima per informare la città che
questo era un colpo di stato,” mi raccontò anni dopo
Sal’e. “‘Non fatelo,’ disse. ‘Provocherà solo panico.
Aspettate il mio arrivo.’”13 Molti consiglieri,
compresa Sal’e, cercarono di andare lo stesso alla
stazione televisiva, ma non vennero lasciati entrare.
Cominciò l’attesa per Sobcak.
Sobcak aveva passato la mattinata alla dacia di
Boris Eltsin fuori Mosca. Il presidente russo aveva
convocato tutti i leader democratici presenti a
Mosca. Era un gruppo di uomini confusi e spaventati.
Secondo una qualunque comprensibile logica Eltsin
avrebbe dovuto essere arrestato; nessuno riusciva ad
immaginare come mai non fosse stato arrestato. In
effetti un mandato per il suo arresto era stato firmato
nella notte, e avrebbe dovuto essere fermato al suo
arrivo all’aeroporto di Mosca quel mattino. Per
qualche ragione che nessuno riuscì a spiegare né
allora né in seguito, l’arresto non fu eseguito.14 Gli
agenti del KGB allora ebbero l’ordine di circondare
la dacia di Eltsin. Lo videro entrare nella casa e più
tardi lo videro uscire, ma non ricevettero mai
l’ordine di procedere all’arresto; in seguito si venne
a sapere che i due vicecomandanti responsabili
dell’unità che doveva eseguire l’operazione si erano
opposti e avevano bloccato l’ordine esecutivo. Gli
agenti del KGB rimasero armati e seduti mentre
Eltsin partiva in macchina per la sede del governo
russo nel centro di Mosca.
Altri che erano presenti andarono all’aeroporto
per raggiungere le rispettive città e coordinare la
resistenza locale. Ma prima di lasciare Mosca
Sobcak telefonò a Leningrado e ordinò alle forze
speciali di bloccare gli ingressi alla stazione
televisiva.15 Non è chiaro se abbia fatto questa
telefonata prima o dopo quella che fece al consiglio.
Ma è chiaro è che questa è la ragione per la quale
Sal’e e gli altri non vennero lasciati entrare.
Aspettarono. Sobcak sarebbe dovuto essere già
atterrato da molte ore. Infatti era arrivato, ma prima
di andare al consiglio della città - come tutti a
Leningrado ritenevamo che avrebbe dovuto fare -
Sobcak era andato al quartier generale del distretto
militare per parlare con il generale Samsonov. In
seguito nelle sue memorie scrisse:

Perché l’ho fatto? Ancora oggi non riesco a


spiegare le ragioni delle mie azioni. Forse è stata
un’intuizione, perché quando arrivai al quartier
generale nella piazza del Palazzo era in corso una
riunione di lavoro del GKcP nell’ufficio di
Samsonov... La nostra conversazione finì quando
Samsonov mi diede la sua parola d’onore che, fatti
salvi eventi eccezionali, non ci sarebbero state
truppe in città e io promisi che avrei garantito la
sicurezza.16

In effetti Sobcak scelse di seguire una strada


diversa da quella scelta dai suoi colleghi a Mosca e
in molte altre città: di nuovo aveva bilanciato i
rischi creando una situazione nella quale sarebbe
stato al sicuro in caso di vittoria della linea dura dei
vecchi gerarchi e avrebbe comunque mantenuto le
sue credenziali di democratico in caso contrario.
Anche il consiglio della città di Mosca si riunì
alle dieci del mattino e decise di opporsi al colpo di
stato.17 A differenza dei colleghi di Leningrado i
consiglieri di Mosca ebbero l’appoggio senza
riserve del sindaco Gavril Popov che, fra le altre
cose, ordinò di tagliare l’acqua, l’elettricità e il
telefono, a tutti gli edifici dove erano in azione dei
sostenitori del GKcP e ordinò alle banche di non
procedere a pagamenti in favore del GKcP e alle
organizzazioni a questo affiliate.18 Il consiglio della
città e l’ufficio del sindaco istituirono un comitato
per il coordinamento di tutte le azioni di resistenza.
Mentre nella giornata del 19 agosto l’esercito
entrava a Mosca da ogni direzione, si concentravano
volontari intorno alla “casa bianca”, come era
chiamata la sede del governo russo. Quando i
rappresentanti del GKcP chiamarono il vicesindaco
Jurij Lužkov per tentare una trattativa, Lužkov, che
era sempre stato più un burocrate che un
democratico, imprecò contro di loro e buttò giù il
telefono.19
Sobcak nel frattempo, dopo aver chiuso l’accordo
con il generale Samonov, andò finalmente nel suo
ufficio a Palazzo Mar’inskij, dove Putin aveva
organizzato un pesante schieramento di guardia e lo
stava personalmente dirigendo.20 Verso
mezzogiorno decine di migliaia di persone si erano
riunite davanti al Palazzo Mar’inskij sperando di
ottenere informazioni o di avere la possibilità di
agire. Sobcak alla fine apparve alla finestra del suo
ufficio e lesse una dichiarazione - non sua, ma quella
del presidente russo Boris Eltsin e di altri membri
del suo governo. “Chiediamo al popolo russo di
rispondere in modo appropriato ai golpisti e di
chiedere che al paese sia consentito il ritorno al suo
normale percorso di sviluppo costituzionale.”21
Dopo le nove di quella sera, insieme al suo vice
contrammiraglio si recò finalmente alla stazione
televisiva di Leningrado e lesse il suo discorso -
ispirato ed eloquente come sempre. Il discorso era
particolarmente importante perché la televisione di
Leningrado era ricevuta in molte città di tutto il
paese, e nonostante il GKcP cercasse di bloccare la
trasmissione non appena Sobcak iniziò a parlare, a
Leningrado tutto fu trasmesso correttamente. Sobcak
chiese agli abitanti di Leningrado di partecipare a un
raduno il giorno dopo. Il tono era di sfida, ma la
sfida in realtà non c’era perché Sobcak aveva
concordato il suo piano in sede preliminare con il
generale Samonov, al quale aveva promesso di
tenere i dimostranti entro un perimetro chiaramente
circoscritto. Dopo il discorso, si ritirò insieme a
Putin in un posto segreto: avrebbe passato i due
giorni successivi in un bunker sotto il più grande
impianto industriale di Leningrado, uscendone solo
una volta per apparire in una conferenza stampa.
Sobcak era terrorizzato.22
Il secondo giorno del colpo successe la cosa più
strana. Marina Sal’e stava di guardia ai telefoni nel
quartier generale della resistenza quando il
vicepresidente di Eltsin, il generale Aleksandr
Ruckoj chiamò e cominciò a urlare al telefono: “Che
diavolo ha fatto? Ha letto un decreto? Che diavolo
ha letto?”23 Ci volle qualche minuto perché Sal’e
riuscisse a capire di cosa stesse parlando il
generale, e le ci volle molto più tempo ancora per
capire cosa significasse. Ruckoj aveva emesso un
decreto con il quale esonerava il generale Samonov
dal comando del distretto militare di Leningrado e lo
aveva sostituito con il contrammiraglio Šcerbakov, il
vice di Sobcak. La sostituzione di un rappresentante
della linea dura leale al GKcP con un uomo fedele al
sindaco democratico sembrava una mossa logica,
una mossa che Sobcak avrebbe dovuto approvare.
Solo che disturbava la delicata operazione di
equilibrio che aveva impostato Sobcak e lo avrebbe
costretto a schierarsi con Eltsin non solo a parole,
cosa che aveva già fatto, ma anche nelle azioni. Per
questo Sobcak, l’avvocato, manipolò il linguaggio
del decreto di Ruckoj alla lettura nella conferenza
stampa, rendendolo praticamente invalido.
C’era un fuoco di sbarramento di dichiarazioni,
decreti, discorsi e ordini che arrivavano dalle due
parti della barricata. Era una guerra di nervi più che
una battaglia legale perché ogni organizzazione e
ogni individuo obbediva solo agli ordini che
arrivavano dalla autorità che aveva riconosciuto. Per
questo Eltsin non poteva telefonare a Samonov e
dirgli semplicemente di andarsene dal suo ufficio:
Samonov riconosceva gli ordini del GKcP e non
quelli di Eltsin. Il governo democratico di Mosca
aveva sperato che Sobcak, leggendo il decreto ad
alta voce, con tutta la sua eloquenza e la sua autorità
avrebbe conferito al documento potere sufficiente
per far credere alle truppe di stanza a Leningrado
che il loro nuovo comandante era il contrammiraglio
Šcerbakov. Ma quando Sobcak lesse il decreto
cambiò il titolo assegnato a Šcerbakov con qualcosa
come “alto comandante militare”, un titolo che
nessuno conosceva, un titolo fittizio tratto da qualche
immaginario mondo parallelo che non metteva in
alcun dubbio l’autorità del generale Samonov. In
questo modo, Sobcak mantenne la sua situazione
ambigua e stabile.
Alla fine il colpo di stato andò in frantumi. Dopo
due giorni di blocco nel centro di Mosca la maggior
parte delle unità dell’esercito non riuscì a
raggiungere la “casa bianca” e i pochi carri armati
che ci riuscirono vennero fermati da volontari
disarmati e dalla barricate che avevano costruito con
pietre estratte dai marciapiedi e autobus elettrici
ribaltati. Tre persone morirono.
Gorbacëv tornò a Mosca. Iniziò rapidissimo il
processo di smantellamento dell’Unione Sovietica.
Contemporaneamente i due governi, quello russo e
quello sovietico, iniziarono l’opera di
smantellamento della più potente istituzione
sovietica, il KGB, opera che si rivelò molto più
complicata e difficile.
Il 22 agosto 1991, il Supremo Soviet russo
approvò la risoluzione che istituiva la nuova
bandiera del paese: bianca rossa e blu. Avrebbe
sostituito la bandiera dell’era sovietica: rossa con la
falce e il martello. Un gruppo di membri del
consiglio della città guidati da Vitalij Skojbeda,
quello che tre giorni prima aveva preso a pugni il
vecchio gerarca, si avviò per sostituire la bandiera a
Leningrado. Qualche anno dopo Elena Zelinskaja,
l’editrice dei samizdat, ricorda così quel momento:

La bandiera era in un angolo della prospettiva


Nevskij di fronte alla sede centrale del Partito
comunista. La posizione più in vista in tutta la città.
Cominciarono ad ammainarla, un gruppo di
giornalisti e di membri del consiglio. Per una strana
combinazione arrivò un’orchestra: la banda della
scuola militare. Una équipe della televisione stava
riprendendo la scena. Ammainarono la bandiera
rossa lentamente con delicatezza. Mentre la banda
suonava alzarono il tricolore. L’uomo che aveva
raccolto la bandiera rossa era là in mezzo a noi sulla
Nevskij. E noi, un gruppo di persone, in piedi sulla
strada mentre la banda suonava e quest’uomo con la
bandiera nelle braccia, eravamo bloccati, nessuno
sapeva cosa fare. Tra le mani avevamo la bandiera
che era stata per ottant’anni il simbolo dello stato, la
odiavamo ma ne avevamo anche paura. Poi qualcuno
del nostro gruppo disse: “Lo so cosa dobbiamo fare:
andiamo a restituirgliela.” La sede centrale del
partito era dall’altra parte della strada. Prese la
bandiera e andò di corsa attraverso il Prospekt senza
guardare né a destra né a sinistra. Le auto si
fermarono, la banda suonava una marcia e lui
correva attraverso la strada molto larga della
Nevskij e proprio quando l’orchestra stava suonando
l’ultima nota buttò la bandiera contro la porta della
sede del Partito. Per qualche secondo non successe
nulla. Poi uno spiraglio della porta si aprì, e una
mano afferrò la bandiera e la tirò dentro. Dopo di
che la porta si chiuse. Questo è stato il momento più
bello della mia vita, quando ho visto alzare la
bandiera della Russia sulla prospettiva Nevskij.24

Cinque giorni dopo l’inizio del colpo di stato a


Mosca si svolsero i funerali dei tre giovani uomini
che erano morti cercando di fermare l’esercito. Tre
personalità politiche di Leningrado volarono a
Mosca per la cerimonia. Sal’e era una di loro. Si
unirono alla testa del funerale a Nikolaj Goncar,
presidente del consiglio della città di Mosca, un
importante democratico. “La processione procedeva
e si fermava continuamente,” mi raccontò Sal’e anni
dopo. “A ogni sosta Goncar si voltava verso di me e
mi chiedeva: ‘Marina Evgen’evna, che cosa è
successo?’ Me lo domandò almeno dieci volte.” Alla
fine di quella giornata Nikolaj Goncar l’aveva
convinta che il colpo non era stato affatto quello che
sembrava.25
Allora cosa era stato? Come mai il colpo,
preparato per molti mesi, era fallito così facilmente?
Perché in pratica non partì nemmeno? Perché i
politici democratici, con l’eccezione di Gorbacëv,
furono lasciati liberi di muoversi in tutto il paese e
di avere contatti telefonici? Perché nessuno di loro
venne arrestato? Perché nei tre giorni in cui ebbero
tra le mani il potere dell’Unione Sovietica non si
assicurarono i principali nodi di comunicazione e
dei trasporti? E perché se ne andarono senza
combattere? Il colpo era stato solo il tentativo
mediocre di un gruppo di falliti disorganizzati? O
c’era qualcosa di più complicato e sinistro dietro?
Era stato davvero un disegno attentamente progettato,
come Sal’e alla fine si convinse, che consentì a
Eltsin di mandare via Gorbacëv e di gestire lo
smantellamento pacifico dell’Unione Sovietica,
esponendolo per sempre a un pesante debito con il
KGB?
Secondo me entrambe o nessuna delle due cose.
Anche mentre il colpo si stava svolgendo, dalle due
parti delle barricate, diversi personaggi
raccontavano storie differenti. Quando finì i vincitori
di fatto - quelli che avevano combattuto per la
democrazia in Russia - non riuscirono a mettere
insieme una storia, una versione dei fatti, che potesse
diventare una verità collettiva per la nuova Russia.
Ognuno venne lasciato con la sua storia indivisuale.
Alla fine, per qualcuno quei tre giorni dell’agosto
1991 rappresentarono una storia di eroismo e una
vittoria della democrazia. Per altri diventarono la
storia di un complotto cinico. Quale sia la verità
dipende dalla storia alla quale aderiscono le persone
al potere nel paese. La domanda quindi è: qual è la
storia del colpo di stato che racconta Vladimir
Putin?
In quei tre giorni di agosto Putin rimase ancora
meno visibile del solito. Restò sempre al fianco di
Sobcak. Era l’altro vice di Sobcak, Šcerbakov, ad
avere il compito della visibilità, che agì come
addetto stampa e come uomo di punta. Šcerbakov
rimase nell’ufficio del sindaco una notte, un giorno,
e ancora una notte, mentre Sobcak e Putin stavano
nascosti nel bunker. Sappiamo che Sobcak giocava
sui due fronti della barricata; questa demarcazione
passava esattamente in mezzo alla sua cerchia
interna. All’inizio della crisi Šcerbakov scoprì che
qualcuno gli aveva messo una cimice dietro il
risvolto della giacca. Šcerbakov ricorda che

la mattina del 21 agosto avevo messo in fila


cinque sedie nel mio ufficio e mi ci ero sdraiato per
dormire. Mi ero svegliato perché qualcuno mi stava
guardando. Anatolij Aleksandrovic [Sobcak] era
tornato. “Torna a dormire Vjaceslav Nikolaevic,”
disse. “Tutto è a posto. Congratulazioni.” Ho subito
cercato la cimice con la mano e non c’era più.
Qualcuno della mia cerchia ristretta aveva piazzato
la cimice e poi l’aveva tolta perché non venisse
trovata. Qualcuno lavorava per l’altra parte della
barricata.26

Nove anni dopo, Putin rispose alle domande dei


suoi biografi sul colpo di stato. “Era pericoloso in
quei giorni lasciare l’edificio del consiglio della
città,” raccontò. “Ma abbiamo fatto molte cose,
siamo stati sempre attivi: andammo allo stabilimento
industriale di Kirov a parlare con gli operai, siamo
poi andati in altre fabbriche, anche se non ci
sentivamo molto sicuri quando ci spostavamo.”
Questa è una menzogna: molti testimoni oculari
indipendenti hanno descritto Sobcak e con lui Putin
nascosti nel bunker dello stabilimento di Kirov, dove
è probabile che Sobcak, prima di andare
letteralmente sottoterra, abbia fatto un discorso agli
operai. Non c’è nessuna testimonianza di visite ad
altre fabbriche o di altre attività in quei due giorni se
non uscire una volta per l’unica conferenza stampa.
“Cosa sarebbe successo se avesse vinto la linea
dura?” chiesero gli intervistatori. “Tu eri un
funzionario del KGB. Tu e Sobcak sareste stati
certamente sotto processo.”
Ma io non ero più un funzionario del KGB. Sin
dall’inizio del colpo decisi da che parte stare.
Sapevo per certo che non avrei mai fatto nulla
secondo le direttive dei golpisti e che non sarei mai
stato dalla loro parte. Sapevo anche benissimo che
questa sarebbe stata considerata come minimo una
trasgressione. Quindi il 20 agosto scrissi la mia
seconda lettera di dimissioni dal KGB.

La sua spiegazione non sta in piedi. Se Putin


sapeva che la prima lettera di dimissioni,
ipoteticamente scritta l’anno precedente, era andata
persa, come mai non ne scrisse immediatamente una
seconda - specialmente se, come lui ha sostenuto,
aveva deciso di dimettersi sotto la pressione di un
ricatto? Inoltre, come faceva a sapere che la lettera
era andata persa? L’unica cosa che si può presumere
è che lui continuava a prendere lo stipendio dal
KGB e che quindi all’inizio del colpo era, a tutti gli
effetti, un agente del KGB.
Ma ora affermava di aver fatto tutto quello che
poteva per uscire dall’organizzazione.
Dissi a Sobcak: “Anatolij Aleksandrovic, ho
scritto una lettera di dimissioni ma è ‘morta’ da
qualche parte lungo la strada.” Sobcak allora chiamò
immediatamente [il capo del KGB e uno dei leader
del colpo di stato Vladimir] Krjuckov che allora
dirigeva il mio distretto. Il giorno dopo mi venne
detto che la mia lettera di dimissioni era stata
firmata.27

Questa parte della storia sembra di pura fantasia.


“Non penso che la telefonata alla quale lui fa
riferimento possa essere stata fatta il 20 agosto,”
disse Arsenij Roginskij, un attivista dei diritti umani
e storico che ha passato un intero anno dopo il colpo
di stato a setacciare negli archivi del KGB e a
studiare quella istituzione. “Krjuckov quel giorno
non si sarebbe affatto occupato di un problema del
personale, tantomeno di un problema che interessava
un soggetto di rango inferiore.”28 Non è nemmeno
così facile pensare che Sobcak, occupatissimo a
giocare sui due fronti, potesse agire per rompere i
suoi legami personali con il KGB. Non è chiaro
inoltre come abbia fatto quel giorno Putin a
consegnare fisicamente la lettera - quella che
sarebbe stata firmata il giorno dopo - al quartier
generale del KGB, specie in considerazione del fatto
che non si staccò mai dal fianco di Sobcak. In
conclusione anche se ci fosse qualcosa di vero in
quello che racconta Putin è inverosimile credere che
le sue dimissioni vennero accettate l’ultimo giorno
del colpo, quando ancora non si sapeva chi sarebbe
stato il vincitore.

La cosa più probabile è che Putin e il suo capo


abbiano passato i giorni del colpo rimanendo “in
campana” e, se mai avesse dato le dimissioni dal
KGB, lo ha fatto quando il colpo era già finito. A
differenza di Sobcak e di molti altri non aveva
nemmeno seguito l’esempio di Boris Eltsin qualche
mese prima dando le dimissioni dal Partito
comunista: la tessera di Putin andò in scadenza due
settimane dopo la fine del colpo di stato fallito,
quando Eltsin emise il decreto di scioglimento del
partito. Rimane quindi l’interrogativo iniziale: qual è
la versione di Putin del colpo? È possibile che lui
fosse la persona o una delle persone della cerchia
interna di Sobcak che aveva attivamente lavorato per
i golpisti? La risposta è sì.
La partita di carne da novanta milioni di marchi
tedeschi della quale Marina aveva avuto notizia nel
mese di maggio non arrivò mai a Leningrado. Marina
però non si è mai dimenticata dei drammatici
avvenimenti che seguirono. Insultata e sconvolta da
quello che era successo in Germania, Sal’e continuò
a indagare per scoprire la verità di quella storia.
Dopo il fallito colpo di stato, quando per un breve
periodo diventò più facile accedere a tutti gli
archivi, riuscì finalmente a mettere le mani su alcuni
documenti e nel marzo 1992 aveva ricostruito tutta la
vicenda.
Nel maggio 1991, il primo ministro sovietico
Valentin Pavlov conferì a una società di Leningrado
di nome “Kontinent” l’incarico di trattare contratti di
fornitura per conto del governo sovietico. Nel giro
di poche settimane Kontinent aveva firmato il
contratto per la carne con una ditta tedesca. La carne
era stata consegnata ma a Mosca e non a
Leningrado.29 La ragione era chiara: il futuro GKcP
del quale Pavlov era uno dei capi stava cercando di
rifornire i magazzini alimentari di Mosca in modo da
riempire gli scaffali dei negozi una volta che fossero
andati a potere.
Il nome della persona che aveva trattato con i
tedeschi per conto di Kontinent? Vladimir Putin.
Quando Sal’e ritenne di sapere cosa era successo
cercò di agire. Nel marzo 1992 andò a Mosca per
incontrare una vecchia conoscenza del movimento
pro democrazia di Leningrado. Jurij Boldyrev, un
prestante baffuto giovane economista che era stato
eletto con Sobcak al Soviet Supremo, e adesso
lavorava come capo del servizio di controllo nella
amministrazione Eltsin. Sal’e gli portò
personalmente una lettera nella quale sintetizzava i
risultati della sua indagine: la strana storia della
carne che viaggiò dalla Germania a Mosca. Nel giro
di pochi giorni Boldyrev scrisse a un altro
economista di Leningrado che adesso era ministro
per il commercio estero, chiedendogli di intervenire
sui poteri di Putin.30 La lettera venne ignorata. Putin
si era probabilmente creato una base di potere e di
denaro non facile da smantellare.
Quale era stato esattamente il ruolo di Putin nel
governo della seconda città della Russia? Un donna
che aveva lavorato nell’ufficio del sindaco nello
stesso periodo di tempo ricorda Putin come un uomo
in un ufficio vuoto, tranne che per la scrivania e il
portacenere di vetro, e dietro la scrivania lui con
occhi vitrei come il portacenere.31 Nei primi mesi
del suo lavoro con il governo della città Putin aveva
colpito i colleghi come un giovane curioso,
diligente, intellettualmente impegnato.32 Adesso
invece aveva un aspetto impenetrabile e freddo. La
donna che lavorava come sua segretaria ricorda che
un giorno le toccò di dover dare al suo capo una
brutta notizia:

I Putin avevano un cane, un pastore del Caucaso di


nome Malyš [Cucciolo]. Viveva alla loro dacia e
aveva l’abitudine di scavare buche sotto la rete di
recinzione per cercare di fuggire. Un giorno riuscì
nella fuga e venne investito da un’auto. Ljudmila
Aleksandrovna lo raccolse e lo portò con la
macchina alla clinica veterinaria, da là mi chiamò
per chiedermi di avvertire il marito che il
veterinario non era riuscito a salvare il cane. Andai
nel suo ufficio e gli dissi: “C’è un problema. Malyš
è morto.” Lo guardai: sul viso non c’era segno di
emozione, zero. Rimasi così sorpresa dalla sua
freddezza che gli chiesi se qualcuno glielo avesse
già detto. Lui rispose: “No, sei la prima che me lo
dice.” Fu allora che capii di aver detto la cosa
sbagliata.33

“La cosa sbagliata” della storia si riferisce


probabilmente alla domanda se Putin fosse stato già
informato della morte del suo cane. La scena
peraltro è significativa per il senso palpabile di
incertezza e di paura che la caratterizza.
Quando i suoi biografi gli chiesero informazioni
sul suo lavoro a San Pietroburgo, Putin rispose con
la mancanza di finezza che era diventata la
caratteristica delle sue risposte a domande delicate.
Disse che aveva cercato di controllare le case da
gioco.

A quel tempo ritenevo che le case da gioco


fossero un campo nel quale lo stato dovesse avere il
monopolio. La mia posizione era contraria a quella
della legge sui monopoli, che era stata già
approvata, cercai comunque di fare in modo che lo
stato, rappresentato dalla città, avesse il controllo su
tutta l’industria delle case da gioco.

A tal fine l’amministrazione costituì una società


finanziaria che comprò il 51% delle azioni di tutte le
case da gioco della città, nella speranza di
raccoglierne i dividendi. “Ma fu un errore: le case
da gioco trafugavano il denaro liquido e mettevano
in bilancio solo perdite.” Si lamentò Putin.

In seguito i nostri oppositori cercarono di


accusarci di corruzione perché possedevamo le
azioni delle case da gioco. Una cosa ridicola...
Certo, da un punto di vista economico non era stata
l’idea migliore. Per il fatto che il sistema si dimostrò
inefficiente e non raggiungemmo i nostri obiettivi,
devo ammettere che la strategia era debole. Ma se
fossi rimasto a San Pietroburgo sarei riuscito a
incastrare le case da gioco. Gli avrei fatto pagare il
dovuto. Poi avrei dato i soldi agli anziani, agli
insegnanti, e ai medici.34

In altre parole il futuro presidente della Russia


stava dicendo che se la legge andava contro al suo
modo di pensare, tanto peggio per la legge. Non
aveva molto altro da raccontare sui suoi anni come
vice di Sobcak.
All’inizio del 1992 Marina Sal’e si era impegnata
per scoprire cosa facesse esattamente il piccolo
uomo nell’ufficio vuoto. Il consiglio decise di
indagare a fondo sulla vicenda. Le conclusioni
dell’indagine- ventidue pagine a spazio singolo più
dozzine di pagine di allegati - vennero presentate da
Sal’e ai suoi colleghi meno di due mesi dopo la sua
visita a Boldyrev. Aveva scoperto che Putin aveva
concluso dozzine di contratti a nome della città,
molti dei quali, se non tutti, legalmente discutibili.
La sezione di Putin nell’ufficio del sindaco era
adesso chiamata “Comitato per le relazioni con
l’estero”. La maggior parte delle attività era relativa
all’acquisto all’estero di scorte alimentari per la
città di Leningrado. La città non disponeva di denaro
liquido per pagare: il rublo non era una valuta
convertibile; il sistema monetario russo, ereditato
dalla Unione Sovietica, era in dissesto e gli sforzi
per rimetterlo a posto provocarono una
superinflazione. La Russia però aveva molte risorse
che poteva scambiare direttamente o indirettamente
per comperare le derrate alimentari. Per questo il
governo di Mosca autorizzò soggetti della
federazione ad esportare risorse naturali.
Sal’e scoprì che la sezione di Putin aveva
concluso una dozzina di contratti di esportazione del
valore complessivo di 92 milioni di dollari. La città
avrebbe fornito petrolio, legname, metalli, cotone e
altre risorse naturali che il governo russo le avrebbe
garantito; le ditte indicate nei contratti si occuparono
di esportare le risorse naturali e di importare le
scorte alimentari. L’indagine di Sal’e trovò che ogni
singolo contratto conteneva degli errori che lo
rendevano giuridicamente non valido: mancavano
timbri e firme o presentavano gravi inesattezze.
“Putin è un avvocato,” scrisse in seguito. “Avrebbe
dovuto sapere che questi contratti non avrebbero
retto alla verifica giuridica in un tribunale.” Aveva
violato le norme che il governo aveva fissato per
regolamentare queste operazioni di scambio merci,
perché aveva scelto le ditte senza indire un concorso
pubblico.
Le derrate che per contratto dovevano arrivare a
Leningrado non ci arrivarono mai. Ma le risorse
descritte in questi contratti vennero effettivamente
mandate all’estero; un’altra irregolarità che
l’inchiesta di Sal’e aveva denunciato erano le
strampalate percentuali di commissione concordate:
che variavano dal 25% al 50% del valore dei
contratti per un totale di 34 milioni di dollari. Tutto
indicava un semplice schema di tangenti: ditte scelte
arbitrariamente ricevevano ricchi contratti - e non
erano nemmeno tenute a rispettare i loro impegni.35
Quando i suoi biografi gli chiesero notizie
sull’indagine, Putin riconobbe che molte delle ditte
con le quali aveva firmato contratti non avevano poi
fornito le derrate alla città.

Naturalmente penso che la città non fece tutto


quello che avrebbe dovuto fare. Avremmo dovuto
lavorare a più stretto contatto con gli uffici legali e
con la polizia, avremmo dovuto costringerli con
durezza al rispetto degli impegni. Ma non aveva
senso andare in tribunale: le ditte sparivano
immediatamente, chiudevano, nascondevano le
merci. In sostanza non avevamo la possibilità di far
rispettare i nostri diritti. Bisogna ricordare come
stavano le cose a quel tempo: era pieno di affaristi
equivoci, piramidi finanziarie, quel genere di
roba.36

Questo era lo stesso uomo che solo pochi giorni


prima aveva decantato ai suoi biografi quanto poteva
essere feroce nei confronti di chi solo sembrava
mettersi contro di lui, lo stesso che era soggetto a
fulminee collere violente e difficilmente
controllabili, lo stesso uomo che i suoi amici
ritenevano capace di cavare gli occhi ai suoi
avversari quando si arrabbiava. Come faceva
quest’uomo a restare inerte quando una ditta dopo
l’altra violava i termini dei contratti che aveva
firmato con lui, lasciando la città senza le forniture
alimentari così ferocemente necessarie?
Proprio perché i contratti erano stati fin
dall’inizio volutamente scritti in modo impugnabile,
così pensava Sal’e. “Lo scopo di tutta l’operazione,”
scrisse in seguito, “era di scrivere un contratto
legalmente impugnabile con soggetti di fiducia e
conniventi, conferire a loro una licenza di
esportazione in modo che gli uffici doganali sulla
base di questa licenza lasciassero passare le merci,
spedire le merci all’estero, venderle e intascare il
denaro. Precisamente quello che si verificò.”37
Secondo Sal’e però ci fu dell’altro. Mosca aveva
dato a San Pietroburgo il permesso di esportare un
miliardo di dollari di risorse naturali, i dodici
contratti fasulli che aveva trovato rappresentavano
solo il valore del dieci per cento delle merci che
erano transitate dall’ufficio di Putin. Cosa era
successo del resto della storia? Alla fine Sal’e riuscì
a trovare le prove che tutte o quasi tutte le risorse
naturali, petrolio, alluminio, cotone erano state
esportate, o meglio erano “sparite”, ma non c’era la
documentazione. Il suo rapporto al consiglio della
città trattava solo dei dodici contratti per i quali
c’era la documentazione; quasi cento milioni di
dollari di merci barattate per derrate alimentari che
non vennero mai consegnate.
Il consiglio prese atto del rapporto di Sal’e e
decise di inoltrarlo all’ufficio del sindaco Sobcak
con la raccomandazione che il rapporto venisse
inviato alla magistratura e che Sobcak licenziasse
Putin e il vice di Putin la cui firma compariva in
molti dei contratti. Sobcak ignorò sia le
raccomandazioni che il rapporto. Il magistrato
inquirente non avrebbe aperto una indagine senza la
istanza di Sobcak. Sal’e aveva già mandato una
lettera di tre pagine a Eltsin dove esponeva le
violazioni più gravi chiedendo che venisse fatta una
indagine.38 Non ci fu nessuna reazione. Solo
Boldyrev, il capo dei controllori amministrativi del
governo russo, aveva risposto a seguito del caso,
mandando una lettera al ministro del commercio
estero.
Boldyrev esaminò i documenti che gli aveva
portato Sal’e. Le sue conclusioni erano
sostanzialmente le stesse di Sal’e: qualcuno aveva
rubato ai cittadini di San Pietroburgo. Convocò
Sobcak a Mosca perché rispondesse del caso.
“Sobcak venne accompagnato da tutti i suoi vice,”
raccontò in seguito Boldyrev in una intervista. Venne
anche Putin. “Scrissero la loro versione degli
avvenimenti... Feci recapitare le conclusioni a
Eltsin.”
Anche allora non ci fu seguito. L’ufficio del
presidente della Russia a Mosca mandò qualche
documento all’ufficio di rappresentanza del
presidente a San Pietroburgo - e la storia finì così.
Boldyrev spiegò l’inchiesta molti anni dopo:

Si trattava di una normale indagine. Aveva


denunciato serie irregolarità, ma non erano molto più
serie di quello che stava succedendo nel resto della
Russia. Erano irregolarità correnti relative
all’acquisizione di diritti di esportazione di risorse
strategicamente importanti per scambiarle con
derrate alimentari che non si materializzarono. Un
caso tipico a quel tempo.

La nuova élite russa era impegnata nel


ridistribuire la ricchezza. Questo non vuol dire che
tutti si comportassero come Putin - la dimensione e
la sfacciata arroganza della truffa scoperta da Sal’e
era eccezionale anche per il costume del paese agli
inizi degli anni novanta, specialmente se si considera
la rapidità della sua operazione - ma tutti i nuovi
governanti trattavano la Russia come se fosse una
loro proprietà personale. Meno di un anno prima
tutto apparteneva ad altra gente: al Partito comunista
dell’URSS e ai suoi capi. Adesso l’ URSS non
esisteva più e il Partito comunista era un gruppetto
di cocciuti pensionati. Tutto ciò che prima era
appartenuto a loro adesso non era più di nessuno.
Mentre gli economisti si sforzavano di capire come
fare per trasformare la proprietà dello stato in
proprietà privata - una operazione che dopo venti
anni non è ancora stata portata a termine - i nuovi
burocrati molto semplicemente facevano a pezzi
l’edificio dello stato.
Sobcak stava regalando appartamenti nel centro di
San Pietroburgo.39 Andavano agli amici, ai parenti,
agli stimati colleghi. In un paese dove il diritto alla
proprietà non era mai esistito e dove la élite
comunista al potere per molto tempo aveva goduto di
uno status da famiglia reale, Sobcak, che si beava
della sua popolarità iniziale, non vedeva nulla di
sbagliato in quello che stava facendo.
“Questi sono i documenti relativi a un intero
complesso urbano che Sobcak cercò di dare a una
società immobiliare,” mi disse Sal’e dopo tutti
questi anni, cercando fra i fogli del mucchio. “È
stato uno dei pochi casi che siamo riusciti a
bloccare, ma che battaglia è stata.”40
“Ma non è che si stesse comportando come un
qualunque caporione del partito?” Chiesi. “Anche
loro non facevano altro che dare via appartamenti.”
“Questo caso era differente,” mi rispose. “Era
diverso perché lui lo confezionava con belle parole.
Sapeva che doveva presentarlo con una apparenza
diversa ed era capace di farlo. Faceva finta di essere
democratico, ma in realtà era un vero demagogo.”41
Forse perché Sobcak era bravo nel presentare
l’immagine di una nuova specie di politico, Sal’e e i
suoi colleghi credettero che di fronte alla
documentazione relativa alle malefatte di Putin
sarebbe intervenuto. Ma perché avrebbe dovuto?
Perché mai avrebbe dovuto distinguere tra la sua
abitudine di regalare la proprietà della città e le
abitudini di Putin di intascare il ricavato delle
vendite di risorse pubbliche? Perché mai avrebbe
dovuto prestare ascolto ai democratici del consiglio
della città? Non li poteva sopportare - e quello che
lo irritava più di tutto era il militante idealismo,
l’assurda insistenza nel voler fare le cose come
dovevano essere fatte invece di come erano sempre
state fatte. Questa adesione a un immaginario codice
etico invariabilmente finiva per impedire di
realizzare qualunque cosa.
Così Sobcak non si disfece di Putin, si disfece
invece del consiglio della città.
Nell’autunno del 1993 Boris Eltsin ne aveva
abbastanza del parlamento russo. Era un organismo
strampalato: più di mille rappresentanti eletti al
Congresso dei deputati del popolo secondo una
complicata procedura quasi democratica, di questi
252 appartenevano al Soviet Supremo, un organo
bicamerale che tentava di svolgere le funzioni di una
struttura rappresentativa di governo in assenza di una
legge istitutiva. La Federazione russa non aveva
ancora una nuova costituzione postsovietica e ci
sarebbero voluti anni prima che venissero riscritti il
codice civile e il codice penale. Fra le altre cose per
la legge vigente il possesso di valuta straniera era
ancora un crimine, come erano criminali una serie di
atti che implicavano il possesso e la vendita di
oggetti. In questa situazione il Congresso dei deputati
del popolo assicurò a Eltsin il diritto di fare decreti
di riforma economica in deroga alle leggi vigenti -
ma il Soviet Supremo doveva approvare questi
decreti e aveva potere di veto. Inoltre il Soviet
Supremo aveva un organo costituito da più di trenta
membri, il Praesidium, che, nel sistema di governo
sovietico, funzionava come un capo di stato;42 nel
sistema postsovietico una volta istituita la carica di
presidente, la funzione del Praesidium era diventata
poco chiara. In pratica il Soviet Supremo aveva il
potere di fermare o bloccare qualunque iniziativa del
presidente. Man mano che le riforme economiche di
Eltsin spingevano i prezzi sempre più in alto - questo
anche quando la mancanza di derrate venne superata
quasi per magia - il suo governo divenne sempre
meno popolare e il Soviet Supremo cominciò a
bloccare quasi tutte le sue iniziative.
Il 21 settembre 1993, Eltsin decretò lo
scioglimento del Soviet Supremo e indisse le
elezioni per un vero organo legislativo. La risposta
fu negativa e il Soviet si barricò dentro “la casa
bianca” - lo stesso edificio dove i seguaci di Eltsin
si erano accampati durante il colpo di stato due anni
prima. Questa volta l’esercito aprì il fuoco e il 4
ottobre, costrinse i membri del Soviet Supremo ad
abbandonare l’edificio.
I capi politici democratici, compresi gli ex
dissidenti, furono favorevoli a quella che venne
chiamata “la fucilazione del Soviet Supremo” tanto
erano esasperati dal boicottaggio sistematico del
presidente da parte di questo organo. L’idealistico
consiglio della città di San Pietroburgo fu
praticamente l’unico organismo che si schierò contro
l’iniziativa di Eltsin. Poche settimane dopo la
“fucilazione” e subito prima che venisse pubblicata
la nuova costituzione russa che anticipava un’era di
relativa stabilità giuridica, Sobcak andò a Mosca e
convinse Eltsin a firmare un decreto di scioglimento
del consiglio della città di San Pietroburgo.43 Non
ci sarebbero state elezioni fino al dicembre
successivo e questo avrebbe lasciato la seconda città
della Russia nelle mani di un uomo per un anno
intero.
Marina Sal’e decise di lasciare la politica
cittadina. Diventò una organizzatrice politica di
professione e in seguito si trasferì a lavorare a
Mosca.
Sei anni dopo, nel periodo immediatamente
precedente all’elezione di Putin alla presidenza
della Russia, forse l’unica voce critica rimasta era
quella di Marina Sal’e. Pubblicò un articolo, “Putin
è il presidente di una oligarchia corrotta”, nel quale
esponeva i dettagli e aggiornava i risultati della sua
indagine di San Pietroburgo. Cercò senza successo
di convincere i suoi colleghi liberali a non
appoggiare Putin nelle elezioni. Si trovò sempre più
emarginata: ricorda che in una riunione della
coalizione politica dei liberal-moderati, fra oltre
duecento presenti solo lei e l’ex primo ministro di
Eltsin, Egor Gajdar, votarono contro l’appoggio a
Putin.44
Pochi mesi dopo l’elezione, Sal’e andò a trovare
uno dei rari politici che ancora riteneva dalla sua
parte. Avevano parlato della idea di formare una
nuova organizzazione. Sergej Jušenkov era un
militare di carriera che durante la perestrojka era
diventato un liberale convinto e lo era rimasto
durante tutti gli anni novanta. La visita a Jušenkov
spaventò Sal’e al tal punto che ancora dieci anni
dopo si rifiutò di riferirne i particolari.

“Quando sono arrivata c’era nel suo ufficio una


certa persona,” mi disse.
“Che genere di persona?”
“Una certa persona. Abbiamo avuto una
conversazione che non potrei definire costruttiva.
Tornai a casa e dissi a Nataša che mi sarei ritirata in
campagna.”
“Ti ha minacciato?”
“Nessuno mi ha minacciato direttamente.”
“Allora perché hai deciso di andartene?”
“Perché conoscevo questa persona.”
“E vederlo cosa ha voluto dire?”
“Ha voluto dire che dovevo andarmene il più
lontano possibile.”
“Mi dispiace, ma non capisco,” ho insistito anche
se avevo l’impressione che stava per buttarmi fuori
dal suo rifugio.
“Sapevo di cosa era capace questa persona. È più
chiaro ora?”
“Sì, grazie. Ma cosa stava facendo nell’ufficio di
Jušenkov? Cosa avevano in comune?”
“No, non so cosa ci stesse facendo e soprattutto no
so come mai Jušenkov non l’abbia mandato via
quando sono arrivata. Vuol dire che non poteva
farlo, anche se le cose delle quali Jušenkov e io
volevamo parlare erano confidenziali.”
“Capisco.”
“Questo è tutto quello che intendo dire.”

Sal’e raccolse le sue cose e si trasferì in quella


casa a dodici ore di macchina da Mosca su strade
impossibili, dove l’ho trovata dopo dieci anni. Per
un lungo periodo girava la voce che vivesse
all’estero, forse in Francia (penso che il suo
cognome di origine francese abbia provocato questa
fantasia), e che avesse ricevuto un biglietto di auguri
minaccioso da Putin per il nuovo anno. Ho sentito
gente che citava il biglietto usando esattamente le
stesse parole: “Ti auguro un felice anno nuovo e la
salute per godertelo.” Sal’e mi disse che non aveva
mai ricevuto nessun biglietto; come sospettavo la
voce insistente diceva molto di più dell’immagine
che Putin si era creato che del destino di Sal’e.
Comunque, biglietto o no, Sal’e era terrorizzata.
Sergej Jušenkov continuò la sua carriera politica.
Nel 2002 si dimise dalla fazione liberale del
parlamento per protesta contro il continuo appoggio
alla politica di Putin da parte dei suoi colleghi,
politica che lui stesso definiva “un regime di polizia
burocratica”.45 Nel pomeriggio del 17 aprile 2003,
mentre dalla sua auto si avviava verso casa in un
quartiere a nord di Mosca, Jušenkov venne ucciso
con quattro colpi di arma da fuoco nel petto.46 Nel
necrologio per il sito web di analisi politica che
curavo, scrissi:

A volte quando noi giornalisti abbiamo paura di


scrivere qualcosa e di metterci il nostro nome, ci
rivolgiamo a persone come Jušenkov che, senza
nessuna riserva dirà in chiaro e tondo quello che va
detto, tanto più necessario perché ovvio ed evidente.
Ce ne sono rimasti pochi di uomini del suo
calibro.47
6
LA FINE DI UN RIFORMISTA
Dopo la pubblicazione della sua biografia nel
febbraio del 2000, Putin smise di essere il giovane
riformista democratico inventato da Berezovskij;
adesso era per tutti il teppista diventato uomo di
governo dal pugno di ferro. Non credo che nemmeno
i creatori della sua immagine si siano resi conto
della trasformazione.
Uno che non si sarebbe potuto immaginare il
cambiamento radicale della figura pubblica di Putin
da democratico a despota era Sobcak. I due
condividevano l’antipatia per le modalità operative
della democrazia, ma nei primi anni novanta la
manifestazione di lealtà ai principi democratici era
il prezzo da pagare per essere ammessi alla vita
pubblica, e quindi alla bella vita.
In quegli anni, in tutto il paese i membri delle
nuove élite politiche e degli affari facevano a pezzi
il vecchio sistema. Senza troppe esitazioni - e senza
rimorsi di coscienza - sottraevano e ridistribuivano
pezzi delle istituzioni, e contemporaneamente i più
intraprendenti fra loro facevano comparire come per
magia un nuovo ordinamento - nel quale si
inserivano. Gente come Michail Chodorkovskij, un
funzionario del Komsomol, che diventò prima
banchiere e poi petroliere, Michail Dmitrievic
Prochorov, un rivenditore di abiti,* che passò
dall’essere un grande industriale nel campo dei
metalli preziosi a un finanziere internazionale, e
Vladimir Gusinskij, un importatore, che divenne
banchiere e magnate dei media, si erano tutti
improvvisati imprenditori e avevano cominciato la
carriera con ambigue transazioni finanziarie ma,
acquistando maggiore conoscenza del mondo e
aumentando di conseguenza le loro ambizioni,
avevano iniziato a collocarsi non solo come uomini
di affari ma come filantropi, leader civili e
visionari. Man mano che i loro punti di vista si
arricchivano, iniziarono ad investire denaro ed
energia nella costruzione di un nuovo sistema
politico.
Sobcak e anche Putin odiavano questo nuovo
sistema, e anche per questo motivo Putin, a
differenza di molti primi alleati di Sobcak, rimase
con il sindaco dopo il fallito colpo di stato del 1991,
dopo lo scandalo della corruzione del 1992 e dopo
lo scioglimento del consiglio cittadino del 1993.
Non sono sicura dei motivi per i quali Sobcak, che
aveva inizialmente abbracciato con entusiasmo la
nuova politica democratica, abbia in seguito
coltivato un odio per la democrazia e le sue
modalità; penso che, come megalomane, era
profondamente urtato ogni volta che non riusciva a
imporre la sua volontà - era urtato dalla
competizione politica in sé, dalla minima possibilità
di dissenso. Inoltre aveva sempre vicino Putin che
ogni volta cercava di mettere in evidenza gli
svantaggi del sistema democratico. Fu Putin per
esempio a convincere Sobcak e a manipolare molti
membri del consiglio perché venisse istituito
l’ufficio del sindaco: altrimenti, come Putin ebbe a
dire ai suoi biografi, “Sobcak avrebbe potuto essere
destituito in qualunque momento da quegli stessi
membri.”1 L’opposizione alla riforma democratica
di Putin era tanto personale quanto quella di Sobcak,
in più però era molto radicata.
Come molti cittadini sovietici della sua
generazione, Putin non era mai stato un idealista
della politica. I suoi genitori possono aver creduto o
meno nel futuro comunista del mondo, nel trionfo
finale della giustizia per il proletariato o in qualche
altro dei molti cliché ideologici oramai consunti
quando Putin diventava grande; probabilmente non
ha mai nemmeno considerato una sua adesione a
questi ideali. Il suo modo di parlare a proposito dei
Giovani pionieri, dai quali era stato escluso da
ragazzino, o del Komsomol, o del Partito comunista,
al quale smise di aderire non appena il partito fu
sciolto per legge, ci fa capire che per Putin
l’appartenenza a qualsiasi organizzazione non aveva
alcuna importanza. Come altri della sua generazione,
aveva sostituito alla fede nel comunismo, ormai non
più plausibile e nemmeno possibile, la fiducia nelle
istituzioni. La sua lealtà era destinata unicamente al
KGB e all’impero che il KGB serviva e proteggeva:
l’URSS.
A marzo 1994, Putin presenziò a una cerimonia
dell’Unione Europea ad Amburgo, in quella
occasione era previsto un intervento del presidente
estone Lennart Meri.2 L’Estonia come le altre due
repubbliche baltiche era stata annessa all’Unione
Sovietica all’inizio della seconda guerra mondiale,
poi era stata conquistata dalla Germania e quindi
riconquistata dall’Unione Sovietica nel 1944. Le tre
nazioni baltiche furono le ultime a entrare nell’URSS
e le prime ad uscirne - anche perché le rispettive
popolazioni avevano ancora buona memoria del loro
passato presovietico. Meri, il primo presidente
dell’Estonia democraticamente eletto dopo mezzo
secolo, era stato attivo nel movimento di liberazione
antisovietico. Parlando ad Amburgo si riferì
all’esercito dell’Unione Sovietica come esercito di
“occupazione”. A quel punto Putin che era presente
insieme alla delegazione diplomatica russa, si alzò e
lasciò la sala. “Fece molta impressione,” commentò
un collega di San Pietroburgo che avrebbe poi
presieduto la commissione per le elezioni federali
sotto il presidente Putin. “La riunione si teneva nella
Sala dei Cavalieri, che ha un soffitto alto dieci metri
e il pavimento di marmo. Mentre Putin camminava
nel silenzio assoluto, si sentivano i suoi passi
echeggiare contro il soffitto. Come se non bastasse,
quando uscì dalla stanza il portone in ghisa
rimbombò come un tuono assordante.”
Che Putin abbia sentito l’esigenza di infrangere il
protocollo diplomatico - letteralmente voltando le
spalle al presidente di un paese vicino e di un
importante partner commerciale per la città di San
Pietroburgo - è la prova di quanto fosse
personalmente sensibile al problema: quello che
sentiva come un attacco all’Unione Sovietica lo
feriva profondamente, come gli insulti personali che
da giovane scatenavano la sua rabbia. La passione
con la quale l’episodio viene raccontato dal collega
ai suoi biografi è indicativa della profonda nostalgia
sovietica della quale Putin era diventato interprete.
Putin amava l’Unione Sovietica e amava il KGB e
quando ottenne il potere, con la carica di capo
dell’amministrazione della seconda città del paese,
volle ricostruire un sistema su quel modello.
Sarebbe stato un sistema chiuso, basato sul controllo
totale centralizzato - in particolare sui flussi delle
informazioni e del denaro. Un sistema strutturato per
escludere il dissenso, pronto a reprimerlo appena
fosse apparso. Tuttavia, il suo modello si sarebbe
dimostrato migliore di quello del KGB e dell’URSS,
perché non avrebbe mai tradito Putin, in quanto
troppo intelligente e forte per farlo. Putin quindi
lavorò diligentemente per centralizzare il controllo
non solo sul commercio con l’estero, ma anche su
tutti gli affari che nascevano all’interno - di qui lo
sforzo per acquisire le case da gioco che erano
apparse all’improvviso ed erano cresciute con
grande rapidità. Successivamente si attivò per
gestire i rapporti della città con i media della stampa
e della televisione, anche se a volte li escludeva dal
consiglio, oppure li costringeva a riferire solo di
determinate storie in un determinato modo.
Sobcak aveva scelto bene il suo braccio destro:
Putin odiava gli insulsi democratici ancora più di lui
ed era anche più abile di Sobcak nel gestire la
politica dell’avidità e della paura.
I politici come Sobcak sono in genere gli ultimi a
capire che il loro momento di gloria è passato.
Quando Sobcak partecipò alle elezioni nel 1996 la
città lo odiava. Sotto il suo governo San Pietroburgo
era stata trasformata in modo tragico e farsesco -
anche se è difficile attribuire a lui tutta la colpa.
L’economia della città era disastrata: dei cinque
milioni di abitanti, oltre un milione erano impiegati
nell’industria bellica, in seguito molte fabbriche
furono chiuse e altrettante lavorarono a ritmo
ridotto.3 Come in altre parti del paese, alcuni russi
diventavano molto ricchi molto rapidamente, prima
attraverso la vendita e l’acquisto di qualsiasi cosa
(per esempio l’esportazione del legname russo e
l’importazione ombrelli cinesi), poi in maniera
graduale attraverso la privatizzazione dell’industria
sovietica e la creazione di nuove istituzioni. Molti
russi però diventavano più poveri, o quantomeno si
sentivano più poveri: i negozi erano pieni di merci,
ma loro si potevano permettere davvero poco. Quasi
tutti avevano perso l’unica cosa che invece
abbondava nell’epoca della stagnazione:
l’incrollabile certezza che il domani non sarebbe
stato diverso dall’oggi. L’incertezza del futuro li
faceva sentire ancora più poveri.
Rispetto ai problemi economici di San
Pietroburgo il resto della Russia sembrava ricco.
Tre quarti della popolazione della città viveva sotto
il livello di povertà. Le infrastrutture, già deboli alla
fine degli anni ottanta - motivo di forza del
movimento degli informali per la conservazione -
erano adesso al collasso. La pavimentazione delle
strade non era più stata rifatta, ogni volta che
pioveva o nevicava, e succedeva spesso in questa
città costiera del Nord, le strade si trasformavano in
fiumi di fango. I trasporti pubblici erano bloccati: la
città non sostituiva gli autobus che dovevano essere
ritirati dalla circolazione. In una città quasi
interamente fatta di grandi edifici, gli ascensori
funzionanti erano una specie in estinzione. La
fornitura dell’elettricità nel centro della città era
saltuaria. Nelle statistiche sul livello di qualità della
vita, la seconda città della Russia occupava
regolarmente il ventesimo posto tra tutte le città del
paese.4
In questo scenario, Sobcak si ostinava a mantenere
l’immagine dell’uomo politico mondano e
sofisticato: sempre elegante, con al fianco la bionda
moglie, si spostava con le limousine circondato da
guardie del corpo. Aleksandr Bogdanov un giovane
attivista pro democrazia ricorda di essere stato
umiliato da Sobcak nel 1991, solo due mesi dopo il
fallito colpo di stato, alla prima giornata di
commemorazione della Rivoluzione d’ottobre nella
Russia postcomunista.

C’era un concerto nella piazza del Palazzo


d’inverno. Nessuno sapeva esattamente se dovevamo
celebrare o commemorare questo giorno come una
tragica ricorrenza. Comunque nel pomeriggio c’era
un raduno politico e la sera un ballo. Per
l’occasione, Sobcak e la moglie [Ljudmila]
Narusova tenevano un banchetto nel Palazzo
Tavricevskij, il biglietto d’ingresso costava 500
rubli! Prima della superinflazione, era una somma
spropositata di denaro... Mentre stavamo girando
come degli idioti sulla pista da ballo con in mano i
nostri cartelli “Un giorno di tragedia nazionale”,
dissi: “Sapete una cosa? Perché perdiamo tempo
qui? Andiamo al Palazzo Tavricevskij dove c’è una
festa.” Arrivammo al palazzo proprio mentre stavano
salendo sulle loro automobili. Sobcak si presentò in
frac con Narusova splendidamente vestita, indossava
un cappello simile a un turbante. Sobcak aveva una
guardia del corpo, il futuro capo delle guardie del
corpo di Putin, che aveva una sciocca abitudine di
aggredirmi verbalmente urlando: “Mi irriti! Vattene
via! Sparisci, ne ho abbastanza di te!” Allora dissi a
Sobcak: “Perché la tua guardia del corpo mi
minaccia sempre?” E Ljudmila Borisovna
[Narusova] mi rispose: “Perché ti comporti sempre
come un imbecille?”Con un fare rilassato e
spocchioso Sobcak entrò nella limousine e mi disse:
“Piantala! Il popolo mi ha eletto!” Me lo ricorderò
per il resto della vita. Questa era l’arroganza di quel
soggetto.5

Come vicesindaco di Sobcak, Putin svolgeva le


funzioni che secondo la tradizione sovietica erano
riservate agli uomini del KGB nella “riserva attiva”:
oltre ad essere responsabile del commercio con
l’estero, voleva anche controllare le informazioni in
entrata e in uscita dal governo della città. Jurij
Boldyrev, il capo dei controllori amministrativi di
Eltsin, che aveva cercato senza successo di
verificare le ipotesi di reato emerse dall’indagine di
Marina Sal’e, fu anche senatore per San Pietroburgo
nel 1994-95. “In quel periodo non mi era mai
permesso di parlare in diretta alla televisione di San
Pietroburgo,” ricorda. “Solo quando non ero più
senatore mi fu consentito di parlare in diretta - ma
anche in quella occasione il conduttore continuava
ad interrompermi per cui alla fine non dissi nulla.”6
Ogni volta che andavo per qualche servizio a San
Pietroburgo, la prima persona che incontravo era
Anna Šarogradskaja: aveva l’ufficio sulla
prospettiva Nevskij poco dopo la stazione della
ferrovia, e sapeva sempre tutto. Dirigeva il Centro
della stampa indipendente, che organizzava nei suoi
locali conferenze stampa per tutti coloro che
volevano tenerne. Conosceva chiunque e non aveva
paura di nessuno. Aveva più o meno cinquanta anni
quando crollò l’Unione Sovietica e si ricordava
bene di quando le cose facevano molta più paura. Un
giorno la Šarogradskaja ospitò una conferenza
stampa nella quale si denunciava la pratica della
amministrazione di Sobcak di piazzare radiospie
negli uffici dei giornalisti e dei politici, e anche dei
suoi stessi impiegati. Molti sapevano o sospettavano
la cosa ma solo il quotidiano locale in lingua inglese
il cui personale era costituito da espatriati ebbe il
coraggio di denunciarla sulle sue pagine.
Šarogradskaja da sempre era convita che a capo
dello spionaggio sui media ci fosse Putin, il
principale responsabile dei rapporti del sindaco con
la stampa.
Secondo la prassi del KGB le informazioni che
venivano passate a Sobcak erano pesantemente
filtrate. Questo spiega anche per quale motivo non
sospettò mai di essere diventato impopolare. Una
parte degli spettatori della televisione di San
Pietroburgo ebbe l’occasione di assistere al
momento in cui Sobcak fece la spiacevole scoperta.
In particolare, la Šarogradskaja ricorda quel
momento:

C’era un programma chiamato L’opinione


pubblica. Era un programma molto seguito durante le
elezioni del 1996. Quando Sobcak vide che il rating
della sua popolarità era al 6% gridò: “Impossibile!”
e lasciò lo studio. Il programma venne annullato. La
conduttrice, Tatjana Maksimova, venne licenziata.
Suo marito Vladimir che dirigeva il programma, mi
chiamò e disse che voleva tenere una conferenza
stampa, io gli risposi: “Non c’è problema” e misi in
programma la conferenza stampa per il giorno dopo
a mezzogiorno. Vladimir mi chiamò la mattina
seguente, tre o quattro ore prima della conferenza
stampa e disse che doveva essere annullata: “Non
possiamo farla perché siamo stati minacciati.
Potrebbe succedere qualcosa a nostra figlia.” Così
gli chiesi: “Per favore spiegalo ai giornalisti, non
posso annullare la conferenza stampa.” Vennero e
dissero a tutti che erano stati minacciati e che
avevano paura. I giornalisti cercarono di saperne di
più, ma non dissero altro.7

Quando Šarogradskaja mi raccontava queste storie


negli anni novanta, mi sembravano storie di un altro
mondo. La Russia era un paese immerso nel caos più
totale e sotto molti aspetti era un paese assurdo in
quegli anni, ma non mi ero mai sentita minacciata
come giornalista - mai prima di iniziare a scrivere
da e di San Pietroburgo. Su invito di Šarogradskaja,
tenni una serie di lezioni sulla professione di
reporter al Centro della stampa indipendente, andavo
in treno nei fine settimana per lavorare con un
gruppo di laureati in giornalismo. (Tenevo lo stesso
corso all’università di Mosca, ma l’università di San
Pietroburgo non ne aveva voluto sapere - per questo
il corso venne ospitato dal centro della
Šarogradskaja). Il weekend delle elezioni mandai gli
studenti ai seggi nel centro della città per fare un
reportage. Gli studenti tornarono con gli occhi neri e
i nasi sanguinanti, due di loro dovettero andare dal
medico. Si erano presentati come giornalisti a due
seggi elettorali, le guardie avevano chiesto istruzioni
via radio e poi li avevano pestati. Questo era il
modo in cui i politici di San Pietroburgo trattavano i
giornalisti di San Pietroburgo.
Rendendosi conto troppo tardi che stava per
perdere le elezioni Sobcak fece un tentativo
disperato per rimediare la situazione. Chiese ad
Aleksandr Jurijev, il professore di psicologia
politica all’università di San Pietroburgo che aveva
cercato di avvertirlo di quanto fosse impopolare, di
dirigere la sua campagna. Due giorni dopo avere
accettato l’incarico subì un attentato gravissimo:
qualcuno suonò alla porta e al primo spiragio di
apertura gettò dell’acido solforico.8 Siccome la
porta si apriva verso l’interno, il getto dell’acido fu
contenuto: in parte andò a finire per terra, in parte
schizzò anche su chi l’aveva lanciato; questo salvò
Jurijev dal riceverne una dose letale. Cercarono
anche di sparargli, ma riuscì a cavarsela perfino in
quel caso. Gli ci vollero molti mesi e due trapianti
di pelle.
Nella corsa alle elezioni Sobcak cercò di
comprarsi i giornalisti della stampa locale,
indebitando ancora di più il bilancio cittadino.9 Era
comunque troppo tardi, la stampa lo odiava e la
gente lo odiava. Sobcak perse le elezioni. Alla fine
il responsabile della sua campagna elettorale fu
Vladimir Putin.
Come successore alla poltrona di sindaco, San
Pietroburgo scelse l’ex assessore ai lavori pubblici,
che era l’esatto contrario di Sobcak: aspetto
ordinario, mal vestito, Vladimir Jakovlev a
malapena riusciva a mettere insieme due parole. In
una città dove i trasporti pubblici erano fermi, gli
edifici perdevano i pezzi, la fornitura di energia
elettrica era aleatoria, il tecnico lasciava sperare
che avrebbe cercato di aggiustare le cose. O
quantomeno che non avrebbe mentito sulla
situazione. Alla prova dei fatti Jakovlev non riuscì
ad aggiustare la terribile situazione di San
Pietroburgo - la città continuò a diventare più
povera, più sporca e più pericolosa - ma dopo
quattro anni venne rieletto senza difficoltà perché la
popolazione stava ancora combattendo contro
l’odiato fantasma del sindaco Sobcak.
Con le elezioni Sobcak non perse solo il potere e
l’influenza, ma anche l’immunità giuridica, cosa che
lo spaventava molto. Da quasi un anno una squadra
di quaranta magistrati su incarico del procuratore
generale di Mosca stava indagando sulle ipotesi di
corruzione dell’ufficio del sindaco. Una persona, un
immobiliarista, era stata arrestata e stava
testimoniando contro i funzionari della città.
L’indagine era relativa a un edificio di appartamenti
nel centro di San Pietroburgo che era stato
ristrutturato abusivamente usando fra l’altro fondi
della città. Quasi tutti gli abitanti dell’edificio, fra i
quali c’era anche la nipote di Sobcak erano
impiegati di livello della civica amministrazione o
loro parenti stretti.10
Adesso anche Sobcak stava per essere inserito
nell’elenco dei sospetti. La maggior parte dei suoi
alleati lo avevano abbandonato, alcuni prima delle
elezioni, come l’assessore ai lavori pubblici che lo
sostituì nell’incarico di sindaco, altri aderirono al
nuovo regime dopo la sconfitta elettorale di Sobcak.
Putin rifiutò la proposta di lavoro dalla nuova
amministrazione - il gesto che procurò tanta stima da
parte di Berezovskij - e presto levò le tende per
trasferirsi a Mosca per un nuovo incarico, come se
fosse stato sollevato e trasportato da una mano
invisibile. Ai suoi biografi raccontò che un vecchio
funzionario dell’apparatik di Leningrado, che in quel
momento lavorava al Cremlino, si era ricordato di
lui e gli aveva trovato un buon posto nella
capitale.11 Putin adesso era vicetesoriere del
Cremlino, un incarico che ha l’aria di essere un’altra
sistemazione da riserva attiva. Se questo sia stato il
risultato di un disegno della polizia segreta, della
provvidenza o della normale prassi istituzionale,
probabilmente non ha importanza: il fatto è che
ancora una volta Putin aveva un lavoro di scarsa
responsabilità pubblica ma che consentiva
importanti potenziali entrature.
Il nuovo lavoro di Putin e i suoi contatti furono
chiaramente un colpo di fortuna per Sobcak che
adesso viveva nel terrore quotidiano di essere
arrestato. La procura stava inseguendo Sobcak per
consegnargli un mandato di comparizione per poterlo
interrogare. Sobcak riuscì a procrastinare
l’interrogatorio con il procuratore fino al 3 ottobre
1997, appuntamento al quale si presentò
accompagnato dalla moglie che era un membro del
parlamento. Durante l’interrogatorio Sobcak disse di
sentirsi male e la moglie Narusova chiese
un’ambulanza. Sotto gli obiettivi delle telecamere
Sobcak venne portato direttamente dall’ufficio del
procuratore all’ospedale dove gli venne
diagnosticato un attacco cardiaco. Un mese dopo
esattamente la Narusova informò la stampa che
Sobcak stava abbastanza bene e poteva essere
trasferito in una clinica diversa, all’ospedale
dell’accademia militare, dove sarebbe stato curato
da Jurij Ševcenko, un amico di famiglia dei Putin,
che qualche anno prima aveva personalmente curato
Ljudmila Putina, ferita in un grave incidente
automobilistico. Più o meno nello stesso giorno del
trasferimento di Sobcak nel reparto di Ševcenko,
Putin volò da Mosca a San Pietroburgo. Visitò il suo
vecchio capo all’ospedale. Quattro giorni dopo, in
occasione di una festa nazionale - il 7 novembre non
era più il giorno celebrativo della Rivoluzione
d’ottobre, ma restava comunque una festività -
Sobcak venne portato in ambulanza all’aeroporto,
dove un aereo medico finlandese lo stava aspettando
per portarlo a Parigi. L’operazione fu brillante:
nessuno si accorse che Sobcak se ne era andato fino
alla fine del weekend tre giorni dopo. I
corrispondenti russi piombarono immediatamente
all’Ospedale americano di Parigi, dove Ševcenko
aveva detto che Sobcak sarebbe stato curato - ma i
funzionari dell’ospedale dissero che non c’era un
paziente con quel nome. Il giorno stesso la Narusova
comunicò alla stampa che Sobcak era stato operato e
che stava meglio. Il personale dell’aeroporto nel
frattempo aveva detto ai giornalisti che l’ex sindaco
sembrava stare benissimo quando era salito
sull’aereo: l’ambulanza era andata direttamente sulla
pista e lui era uscito a piedi e si era avviato di buon
passo verso l’apparecchio.12
Sobcak iniziò la sua vita di emigrato a Parigi:
alloggiava con un suo conoscente russo, passeggiava
molto in città, diede qualche lezione alla Sorbona,
scrisse un libro di memorie dal titolo “Una dozzina
di pugnalate alla mia schiena”, nel quale si dipinse
come un uomo che era stato tradito molte volte. Jurij
Ševcenko divenne il ministro della sanità russa nel
luglio 1999, all’inizio della improvvisa scalata al
potere di Putin.
E Putin cosa faceva al Cremlino? Il suo nuovo
incarico sembrava essere qualcosa come una
sinecura. Impiegò il suo tempo per scrivere e
presentare una tesi all’università: un’ambizione che
aveva coltivato fin dai tempi in cui lavorava
all’università di Leningrado sette anni prima. La tesi,
stranamente, non era sul diritto internazionale, come
si era proposto all’inizio, ma sull’economia delle
risorse naturali e la presentò non all’università ma in
una semisconosciuta istituzione di San Pietroburgo.
Nove anni dopo un ricercatore della Brookings
Institution di Washington DC, decise di studiare a
fondo la tesi di Putin e trovò che nel testo c’erano
più di 16 pagine prese parola per parola da un libro
di testo americano, e almeno sei diagrammi e tabelle
copiate o poco modificate dello stesso testo.13 Putin
non contestò mai l’accusa di plagio.
Indipendentemente dalle sue effettive
responsabilità al Cremlino, la sua influenza politica
era notevole: solo un personaggio pubblico poteva
avere in Russia la posizione e i contatti che aveva
Putin. Forse proprio per questa ragione la speciale
squadra di magistrati del procuratore non riuscì mai
a fare molto contro l’ex sindaco e i suoi
collaboratori: i tre funzionari che erano stati
coinvolti nell’indagine vennero prosciolti, e i
magistrati cominciarono a occuparsi di altri
problemi. Senza dubbio, l’impossibilità di
raggiungere e far testimoniare l’ex sindaco tornò
utile a molti.
Incoraggiato dalla rapida ascesa del suo ex
vicesindaco, nell’estate del 1999 Sobcak decise di
porre fine al suo esilio parigino e di rientrare in
Russia. Ritornò pieno di speranze e ancora più
ambizioso. Poco prima della sua partenza da Parigi,
Arkadij Vaksberg, un penalista diventato reporter
investigativo, con il quale Sobcak aveva stretto
amicizia durante gli anni di Parigi, gli chiese se in un
futuro sperava di tornare a Parigi come
ambasciatore. “Più in alto,” rispose Sobcak.
Vaksberg era sicuro che l’ex sindaco mirava al posto
di ministro degli esteri: nei circoli politici di Mosca
si parlava di lui come del possibile futuro presidente
della corte costituzionale, la più alta carica nella
magistratura del paese.14
A causa dell’eccessiva presunzione che lo ha
sempre caratterizzato, Sobcak volle subito
partecipare alle elezioni ma soffrì un’imbarazzante
sconfitta. Quando Putin lanciò la sua campagna
elettorale lo nominò suo “rappresentante autorizzato”
- un incarico che sostanzialmente autorizzava Sobcak
a svolgere la campagna per Putin (i candidati
possono avere dozzine o anche centinaia di
rappresentanti autorizzati). E Sobcak indubbiamente
la svolse dimenticandosi che la sua reputazione
politica si era basata su credenziali democratiche.
Sobcak chiamò Putin “il nuovo Stalin”, promettendo
ai potenziali elettori non tanto gli stermini di massa
quanto il pugno di ferro: “il solo modo per far
lavorare i russi,” diceva Sobcak.15
Ma Sobcak non si limitò alla retorica. Parlava
troppo, come era sempre stato suo costume. Proprio
mentre Putin dettava la sua nuova autobiografia
ufficiale ai tre giornalisti, Sobcak rispondeva alle
domande di altri giornalisti e raccontava loro gli
episodi della carriera di Putin che tuttavia
sembravano contraddire la versione del suo ex
protetto.
Il 17 febbraio Putin chiese a Sobcak di andare a
Kaliningrad, una città russa incastrata fra la Polonia
e la Lituania per la sua campagna elettorale. La
richiesta era urgente:16 Sobcak doveva partire in
aereo quello stesso giorno cosa che irritò la moglie
che non voleva che viaggiasse da solo. Lei sosteneva
di dover controllare che prendesse le sue medicine.
Invece, la maggior parte degli amici riteneva che la
bionda ossigenata dalla voce miagolante non si
fidava di perderlo di vista. È anche probabile che
avesse paura per la sua sicurezza. Ma quel giorno
era in parlamento e non le fu possibile andare in
missione elettorale con il marito. L’ex sindaco
viaggiò con due assistenti maschi, che svolgevano
anche il servizio di guardie del corpo. Il 20 febbraio
l’ex sindaco morì in un albergo di una località di
villeggiatura nei dintorni di Kaliningrad.
I giornalisti locali notarono quasi subito alcune
circostanze strane relative alla morte di Sobcak. In
particolare, vennero condotte due differenti autopsie,
una a Kaliningrad e una a San Pietroburgo
all’ospedale militare cui era primario Jurij
Ševcenko, lo stesso medico che aveva organizzato la
fuga di Sobcak a Parigi e che pur essendo ministro
della sanità non aveva abbandonato il suo posto
all’ospedale. La causa ufficiale della morte fu un
collasso cardiocircolatorio massiccio, ma di origine
naturale.
Eppure dieci settimane dopo la morte di Sobcak,
la procura di Kaliningrad aprì una inchiesta su un
possibile caso di omicidio “aggravato dalla
premeditazione”. Tre mesi dopo l’indagine venne
archiviata senza che si fosse pervenuti ad alcun
risultato.
Al funerale di Sobcak che si svolse a San
Pietroburgo il 24 febbraio, Putin seduto vicino alla
moglie e alla figlia del defunto, mostrava un dolore
autentico. Nella sua unica dichiarazione pubblica
quel giorno Putin disse: “La dipartita di Sobcak non
è solo una morte, ma una morte violenta, il risultato
delle persecuzioni.” L’interpretazione che venne data
a queste parole fu che Sobcak era stato ingiustamente
accusato di corruzione e che era stato ucciso dallo
stress prima che il suo ex vice fosse riuscito a
riportarlo alla grandezza che meritava.
Tornato a Parigi Arkadij Vaksberg decise di fare
la sua indagine sulla morte dell’ex sindaco. Non era
mai stato nella cerchia degli amici dell’autoritario
politico russo e non era nemmeno stato un suo grande
ammiratore, ma era un giornalista investigativo con
una reale esperienza forense e un gran fiuto per
storie interessanti. Fu Vaksberg che scoprì il
dettaglio più ambiguo delle circostanze della morte
di Sobcak: i due assistenti/guardie del corpo, tutte e
due giovani robusti e muscolosi, dopo la morte di
Sobcak vennero ricoverati per leggeri sintomi di
avvelenamento. Questo era il segno caratteristico
degli assassini commissionati, eseguiti mediante
avvelenamento: molte segretarie o guardie del corpo
avevano denunciato gli stessi sintomi quando i loro
capi erano stati uccisi. Nel 2007 Vaksberg pubblicò
un libro sulla storia degli avvelenamenti politici
nell’URSS e in Russia. Nel libro espone la teoria
dell’avvelenamento anche per la morte di Sobcak,
secondo la quale il politico è stato ucciso con un
veleno piazzato sul bulbo della lampadina elettrica
dell’abat-jour sul suo comodino, di modo che la
sostanza si vaporizzasse una volta accesa.17 Una
tecnica messa a punto nell’Unione Sovietica.
Qualche mese dopo la pubblicazione del libro l’auto
di Vaksberg saltò in aria nel garage a Mosca;
Vaksberg non era nell’auto.18
* Secondo altre fonti Michail Dmitrievic
Prochorov (nato nel 1965 a Mosca) si era laureato in
economia nel 1989; fece parte del gruppo di
economisti vicini a Eltsin e con le prime
privatizzazioni acquisì il controllo della Norilsk
Nickel, il più grande complesso industriale
produttore di nickel del mondo. (N.d.T.)
7
QUANDO È MORTA L’INFORMAZIONE
Il giorno delle elezioni, il 26 marzo 2000, ero in
Cecenia. Volevo evitare il problema di andare in una
cabina elettorale per una elezione che sentivo come
una presa in giro, dopo una campagna elettorale che
era in sostanza una pagliacciata. In meno di tre mesi
dalle dimissioni di Eltsin, Putin non aveva rilasciato
dichiarazioni politiche, una scelta virtuosa secondo
il candidato e i suoi esperti di comunicazione. Putin
credeva che mettersi in gioco per prendere voti fosse
degradante. La sua campagna si riduceva
essenzialmente al libro, in cui si descriveva come
teppista, e al grande battage della stampa che lo
fotografò ai comandi di un caccia mentre atterrava
all’aeroporto di Groznyj una settimana prima delle
elezioni. In pratica, il suo messaggio politico si
esauriva nel concetto: “Non scherzate con me.”
Così accettai l’invito dell’ufficio stampa
dell’esercito di coprire le elezioni in Cecenia.
Sapevo che non avrei avuto molta libertà di andare
in giro e che ufficiali russi avrebbero controllato
ogni mia mossa, ma pensavo che mi sarei potuta fare
una qualche idea sullo stato di un paese che avevo
conosciuto bene. Erano passati tre anni dall’ultimo
viaggio in Cecenia, subito dopo l’entrata in vigore
dell’accordo per il cessate il fuoco. Prima della
guerra la città di Groznyj contava un milione di
abitanti e alla fine ne erano rimasti mezzo milione.
Conoscevo abbastanza bene la geografia di Groznyj:
una città di dimensioni gestibili, con qualche collina
e quartieri facilmente riconoscibili, l’orientamento
era facilitato dai numerosi edifici alti. Dopo i primi
bombardamenti della città gli osservatori europei la
paragonarono a Dresda, la città tedesca rasa al suolo
dalle bombe inglesi e americane alla fine della
seconda guerra mondiale. Mi sembrava un paragone
particolarmente azzeccato, ma nonostante tutto
Groznyj aveva mantenuto il suo paesaggio
fondamentale.
Dopo tre anni, la città che conoscevo non esisteva
più: gli alti edifici erano spariti, come del resto i
monumenti che la riempivano. Ora tutte le parti della
città sembravano uguali e avevano anche lo stesso
odore: carne bruciata e polvere di cemento. Il
silenzio era orribile, assordante. Prendevo nota con
ossessione delle insegne: CAFFè, INTERNET,
ACCESSORI AUTO, QUI VIVE QUALCUNO.
Quest’ultimo era un cartello d’avvertimento messo
da un uomo che, in previsione di un possibile ritorno
dopo la guerra, sperava di evitare il saccheggio e le
sparatorie.
Una dozzina di altoparlanti erano stati montati in
giro in quella che una volta era una città: segnali
udibili dei seggi elettorali o delle cucine disposte
dal ministero federale dell’emergenze. La gente
girava nelle vie in gruppi di due o tre persone,
avvicinandosi silenziosamente al suono
dell’altoparlante più vicino, certamente nella
speranza di trovare una cucina con la minestra
piuttosto che un seggio elettorale.
Noi giornalisti fummo scortati dalla nostre guide
militari a uno dei nove seggi elettorali. Arrivammo
verso mezzogiorno e ci trovammo una folla,
composta in maggioranza da donne, che era lì
dall’alba. Erano venute nella speranza di trovare
aiuto umanitario: qualcuno aveva promesso che al
seggio sarebbero stati distribuiti cibo e vestiti,
oppure era stato solo un sentito dire ad averle
portate là. LA DEMOCRAZIA è LA DITTATURA
DELLA LEGGE, questo proclamava un manifesto
all’ingresso del piccolo edificio, citando la
dichiarazione-ossimoro di Putin in aperta violazione
della legge. Non c’era alcun aiuto umanitario.
Una vecchia mi si avvicinò e mi chiese di scrivere
che lei era stata ridotta a vivere per la strada.
“Hai votato?” chiesi.
“Ho votato,” rispose lei.
“Per chi hai votato?”
“Non lo so,” rispose semplicemente. “Non so
leggere. Mi hanno dato una scheda e l’ho messa
dentro.”
Ore dopo a un seggio in un’altra parte della città
vidi in lontananza della gente che si avvicinava.
Corsi verso di loro prima che le mie guide potessero
fermarmi, allo scopo di parlare con qualche abitante
di Groznyj fuori dal seggio elettorale. Erano tre
persone, due delle quali anziane, che avevo
incontrato al primo seggio elettorale. Tutte e tre si
trascinavano dietro dei carrelli vuoti. Mi
raccontarono che dopo la partenza dell’autobus dei
giornalisti i funzionari locali avevano riferito loro
che non ci sarebbe stata alcuna distribuzione di aiuti
umanitari; avevano camminato per ore per tornare a
quello che era rimasto delle loro case.
Approfittando dei pochi secondi di distrazione
delle mie guide chiesi come mai erano tornati a
Groznyj. La vecchia coppia fece segno alla donna
più giovane perché raccontasse la sua storia. Cercò
di resistere dicendo: “A che serve parlarne?” Ma
alla fine non volle disobbedire ai vecchi. “Siamo
tornati per occuparci dei corpi dei nostri parenti. Ci
hanno fatto vedere dove erano. Erano tutti legati con
il fil di ferro, ma una testa non si trovò. Otto membri
della loro famiglia erano stati arrestati tra migliaia
di civili e poi giustiziati sommariamente dalle truppe
russe. La donna con i suoi familiari aveva lasciato
Groznyj mesi prima per andar a stare con dei parenti
in un piccolo villaggio. Gli otto familiari non
avevano i soldi per lasciare la città: ogni volta che
uno di loro passava da un posto di controllo
dell’esercito russo erono costretti a pagare. Mentre
parlavamo si avvicinò un’altra donna accompagnata
da due nipotine, una pallida di otto anni e una
ragazza adolescente più robusta.

Il padre è stato ucciso nei bombardamenti. La


madre non ha sopportato il dolore ed è morta e la
nonna anche. Le ragazze le hanno seppellite nel
cortile. Abbiamo riesumato il padre ieri, abbiamo
lavato il cadavere, ma gli uomini hanno paura di
uscire per seppellirlo, così l’abbiamo lasciato là a
casa.

Poi chiese alla ragazza più grande di confermare


la storia, ma scoppiò a piangere e si allontanò dal
gruppo.
Queste persone mi dissero che avevano votato per
un attivista dei diritti umani i cui voti alla fine erano
così pochi che non venne nemmeno menzionata dalla
stampa. Fra i ceceni vidi anche molti elettori di
Putin. “Ne ho abbastanza della guerra,” mi disse un
uomo di mezza età a Groznyj. “Sono stufo di essere
passato come un bastone da una banda di mascalzoni
all’altra.” Mi guardai intorno: eravamo in una zona
di Groznyj dove una volta c’erano state case private;
adesso c’erano solo recinti che separavano una
proprietà fantasma dall’altra. “Ma non è stato Putin
che ha fatto questo?” chiesi.
“La guerra è andata avanti per dieci anni,” rispose
l’uomo esagerando un po’: la prima rivolta armata in
Cecenia era cominciata nel 1991. “Cosa poteva
cambiare? Abbiamo bisogno di un potere forte, un
potere che sia unito. Siamo un popolo che ha bisogno
di uno che prenda delle decisioni.”
Fra i dieci sconosciuti candidati che correvano
disperatamente contro Putin in questa elezione c’era
un ceceno. Un milionario di Mosca, un
immobiliarista che aveva inviato tonnellate di farina
ai campi dei profughi ceceni prima dell’elezione.
“Non ha senso votare per lui.” Mi disse il vicecapo
di uno di questi campi nella vicina Ingušetija.
“Potrei anche votare per lui, ma in Russia non lo
voterà nessuno.” Avrebbe votato per Putin. “È uno a
posto. Non ci ha ridotto in questo stato per i suoi
esclusivi interessi: c’erano molti altri interessati a
ricominciare questa guerra.”
Il suo capo, un cinquantenne con i capelli
brizzolati di nome Hamzat, mi disse: “Hanno detto di
votare per Putin perché tanto sarà comunque
presidente.” Hamzat era stato per ventinove giorni
prigioniero dei russi durante la prima guerra cecena,
aveva ancora due cicatrici sulla testa e una scapola
scheggiata dove era stato colpito dal calcio di un
fucile. Mi fece vedere la foto di suo figlio, un
sedicenne dai capelli ricci con le labbra carnose,
che in quel momento era prigioniero dei russi.
Hamzat aveva trovato il campo dove era prigioniero
ma i guardiani avevano chiesto un riscatto di mille
dollari, una pratica corrente dalle due parti del
conflitto. Hamzat non mi ha detto cosa è successo
dopo, ma me lo hanno raccontato altri residenti del
campo profughi: fecero una colletta tutti insieme ma
riuscirono a mettere insieme solo un decimo della
somma richiesta. Il ragazzo è ancora prigioniero.
Il campo era montato con le tende militari in
eccedenza e dieci vagoni ferroviari che erano stati
trainati fino a quella postazione. Una soluzione molto
comune per supplire alla carenza di abitazioni, io
stessa vivevo in un treno militare in una cittadina
poco distante. L’ufficio di Hamzat era in un vagone
ferroviario. Fuori era stato affisso un foglio di carta
con sessantun nomi scritti a mano sotto il titolo
“Localizzati nella prigione di Narusk e quindi
trasportati all’ospedale di Pjatigorsk”. Età tra i
sedici e i cinquantadue anni erano annotate a lato dei
nomi. Sembra che questi fossero i prigionieri
trasferiti all’ospedale prima della visita della
stampa alla più nota prigione cecena. Un loro
compagno aveva compilato la lista nella speranza di
aiutare i parenti a ritrovare i loro cari dispersi.
Qualcuno con una biro blu aveva scritto “ucciso”
vicino a un nome.
In conformità con il regolamento militare passavo
la maggior parte del tempo insieme ai militari russi
in uniforme. Avrei preferito stare dalla parte dei
ceceni, non solo perché ero più vicina alla loro
causa, quanto perché trovavo esasperante
l’atmosfera di paura continua che si respirava dalla
parte russa. Con i soldati che cadevano
quotidianamente in imboscate, i giovani coscritti e i
loro ufficiali non potevano rilassarsi nemmeno
quando cercavano di ubriacarsi per dimenticare,
cosa che facevano tutte le sere, per dimenticare il
baccano della fucileria incessante. Scariche di fuoco
ci circondavano anche il giorno delle elezioni.
Quando cercai di avventurarmi in una zona di
Groznyj che una volta era intensamente popolata i
miei due tutori militari mi pregarono di fermarmi.
“Non ci abita più nessuno oramai,” disse uno di
loro. “Perché vuoi andarci? Ci faranno fuori tutti.”
Questi militari, ai quali venne ordinato di votare
Putin dai loro comandanti, teoricamente
controllavano tutta Groznyj. In verità, in quel
territorio i russi avrebbero perso uomini ogni giorno
per anni a venire.
Il capo appena nominato del distretto militare di
Groznyj mi cantò le lodi di Putin come da copione.
“Oggi, in Russia è arrivato al potere un uomo
d’oro,” disse. “Un uomo deciso.” Prima delle
elezioni gli organizzatori locali avevano rastrellato
le cantine di tutto il vicinato facendo elenchi di
votanti. Ne misero insieme 3400 e si fecero dare
altrettante schede, ma a mezzogiorno le avevano già
esaurite. “Li avevo avvertiti che ci sarebbe stata
altra gente,” si lamentò il comandante del distretto,
“e non mi hanno voluto ascoltare! Ma da dove arriva
tutta questa gente? Non è possibile che se ne escano
da sottoterra!”
In effetti erano proprio usciti da sottoterra, nel
senso che avevano vissuto nelle cantine delle loro
case demolite, e che molti di quelli che venivano a
votare - specialmente le anziane signore - arrivavano
al seggio con tre o quattro passaporti ognuna, il loro
e quello dei familiari, probabilmente perché
speravano fossero ancora vivi. Quelli che avevano
perso il loro passaporto potevano usare una scheda
speciale, ma questo significava che i loro documenti
potevano essere usati in un altro seggio. Trovai
conferma della mia teoria man mano che mi spostavo
da sezione elettorale a sezione elettorale, tutti infatti
mi invitavano a votare usando i miei documenti di
Mosca o addirittura senza nessun documento di
identità.
Prima dell’inizio della seconda guerra la
popolazione ufficiale della Cecenia era di 380.000
abitanti.1 All’epoca delle elezioni, i registri degli
aventi diritto al voto erano gonfiati a 460.000, non
solo per effetto della presenza dei militari russi,
quanto per i morti veri o immaginari i cui passaporti
venivano impiegati per ottenere la scheda. Circa il
30% dei ceceni votarono a favore di Putin, la
percentuale più bassa di tutta la Russia. Eppure nel
paese, l’uomo senza volto, senza una piattaforma
politica, che non aveva nemmeno fatto una campagna
elettorale, ottenne il 52% dei voti, per cui non ci fu
bisogno di un secondo turno elettorale.2
Il 7 maggio 2000, Vladimir Putin si insediò come
presidente della Russia. Nella storia del paese
questa fu in assoluto la prima cerimonia del genere:
Eltsin era stato eletto quando la Russia faceva
ancora parte della Unione Sovietica. Questo consentì
a Putin di definire il rito per le celebrazioni a suo
piacimento. Fu sua la proposta di cambiare il luogo
per la cerimonia: all’inizio era stata progettata al
Palazzo di Stato del Cremlino, un edificio in stile
moderno nel quale il Partito comunista teneva i
congressi e l’amministrazione di Eltsin organizzava
le conferenze, alla fine però fu spostata al Gran
Palazzo del Cremlino, la residenza storica degli
zar.3 Putin attraversò la grande sala al centro su un
lungo tappeto rosso, muovendo il braccio sinistro e
tenendo il braccio destro raccolto, stranamente
immobile, con il gomito leggermente piegato, un
passo che sarebbe diventato familiare agli spettatori
della televisione russa e che avrebbe suggerito a un
osservatore americano l’idea che Putin avesse
sofferto un trauma alla nascita o forse una leggera
ischemia quando ancora allo stato prenatale.4 Io
sono più incline a pensare che questo passo è
esattamente quello che appare: il gesto di una
persona tesa che si muove meccanicamente di fronte
al pubblico, una postura che indica a ogni passo
circospezione e ostilità. Ai russi questo modo di
camminare sembrava anche una posa giovanile,
come la sua abitudine di portare l’orologio al polso
destro (anche se Putin è destro); una moda che
attaccò immediatamente a ogni livello della
burocrazia, e una delle più importanti industrie di
orologi del paese, in Tatarstan, lanciò subito un
nuovo modello di orologio da polso per mancini che
chiamò Kremlin, e mandò il primo orologio prodotto
della serie in regalo a Putin.5 Il presidente non è mai
stato visto in pubblico con quell’orologio da poco
prezzo e di fabbricazione russa, nonostante sia stato
fotografato con molti altri orologi e in particolare
con un modello Patek Philippe Perpetual Calendar in
oro bianco da 60.000 dollari.6
C’erano mille e cinquecento invitati alla
cerimonia di insediamento, moltissimi dei quali in
uniforme. Uno degli invitati merita particolare
attenzione: Vladimir Krjuckov l’ex capo del KGB e
uno degli organizzatori del colpo del 1991. Un
giornalista presente lo descrisse come “un vecchio
di bassa statura che aveva difficoltà a stare in piedi
e che si alzò solo una volta quando venne suonato
l’inno nazionale”.7 Krjuckov si individuava
facilmente perché stava seduto in disparte rispetto
agli altri invitati: non faceva proprio parte della élite
politica russa di quel momento. Eppure nessuno si
azzardò a criticare pubblicamente la presenza di un
uomo che aveva tentato di stroncare la democrazia
russa con le armi. Era stato diciassette mesi in
prigione e nel 1994 aveva ricevuto il perdono
parlamentare. La maggior parte dei resoconti
giornalistici della cerimonia ignorò completamente
la sua presenza. Se i giornalisti avessero avuto il
dono della profezia gli avrebbero dedicato molta più
attenzione, perché la Russia non celebrava il
cambiamento solo del suo capo, ma del regime - un
cambiamento al quale Krjuckov era venuto a portare
il suo saluto.
Solo pochi mesi prima, il 18 dicembre 1999 - due
settimane prima di diventare presidente facente
funzione - Putin aveva parlato a un banchetto nel
quale si celebrava la ricorrenza della fondazione
della polizia segreta, un’oscura festa professionale
che negli anni successivi sarebbe diventata sempre
più importante, con striscioni di congratulazioni
nelle strade e copertura televisiva delle
celebrazioni. “Vorrei annunciare,” disse Putin al
banchetto, “che il gruppo di funzionari dell’FSB,
inviato in missione segreta per operare nel governo
federale, ha portato a termine con successo la prima
serie delle sue missioni.”8 La sala piena di alti
ufficiali della polizia segreta rimbombò di una
grassa risata. Putin in seguito minimizzò qualificando
la frase come una battuta, ma lo stesso giorno aveva
inaugurato una lapide nella sede dell’FSB nella
quale si ricordava al mondo che Jurij Andropov,
l’unico capo della polizia segreta che era diventato
segretario generale del Partito comunista aveva
lavorato in quell’edificio.
La campagna elettorale e il candidato avevano
avuto esistenze distinte e parallele, in particolare dal
mese di dicembre fino al suo insediamento Putin
aveva preso poche iniziative pubbliche. Aveva
scelto il suo primo ministro: un uomo di statura
imponente, una voce da basso profondo, il fisico da
attore hollywoodiano e il sorriso smagliante
mascheravano la mancanza di ambizione politica.
Michail Kas’janov aveva la burocrazia nel sangue:
aveva fatto carriera nei ranghi dei ministeri
sovietici, poi, con una elegante transizione, aveva
collaborato con i ministri di una serie di governi di
Eltsin fino a diventare recentemente ministro delle
finanze.
“Mi chiamò il 2 gennaio,” solo tre giorni dopo le
dimissioni di Eltsin, mi raccontò in seguito
Kas’janov. “Mise subito in chiaro le sue condizioni
per la mia nomina. Disse: ‘Se non invadi il mio
campo andremo d’accordo.’”9 Kas’janov che non
era per nulla abituato al linguaggio da strada, venne
colpito molto di più dalle parole di Putin che dalla
loro sostanza. La costituzione dava al primo ministro
ampi poteri sulle forze armate; Putin gli disse che
avrebbe dovuto rinunciare a quei poteri se voleva
ottenere quella carica. Kas’janov non ebbe difficoltà
a convenire e chiese in cambio a Putin di lasciargli
portare avanti le riforme economiche in programma.
Putin fu d’accordo e lo nominò suo vice primo
ministro, promettendo di nominarlo primo ministro
subito dopo l’investitura.
Kas’janov prese in mano le redini del governo.
Putin iniziò a delineare quello che aveva chiamato il
suo “campo”. Il primo atto di presidente facente
funzione fu quello di garantire l’immunità giudiziaria
a Boris Eltsin. Con il secondo atto stabilì una nuova
dottrina militare russa, abbandonando la vecchia
politica di rinuncia al primo colpo nucleare e
sottolineando il diritto di usare tali armi contro gli
aggressori “qualora tutti gli altri mezzi di risoluzione
del conflitto fossero stati esperiti e risultati
inefficaci.” Con un decreto immediatamente
successivo reintrodusse l’addestramento
obbligatorio per i riservisti (tutti gli uomini di sana e
robusta costituzione in Russia erano considerati
riservisti) - una pratica che era stata abolita, con
grande sollievo di mogli e madri, dopo che il paese
si era ritirato dall’Afghanistan. Due paragrafi fra i
sei del decreto furono dichiarati segreti, lasciando
pensare che avrebbero potuto implicare la
possibilità di inviare i riservisti in Cecenia. Pochi
giorni dopo Putin emise un decreto con il quale
autorizzava tutti i ministri del governo e altri
funzionari a segretare le informazioni, in diretta
violazione della costituzione. Reintrodusse
l’addestramento militare obbligatorio nella scuola
secondaria, sia pubblica che privata: questa materia,
che per i ragazzi comportava saper smontare, pulire
e rimontare un mitra kalashnikov, era stata abolita
durante la perestrojka. In tutto, sei o sette dei decreti
emessi da Putin nei primi due mesi da presidente
facente funzione erano relativi agli affari militari. Il
27 gennaio Kas’janov annunciò che le spese militari
sarebbero state incrementate del 50% - questo in un
paese che ancora non riusciva a far fronte alle
scadenze del suo debito internazionale e dove ancora
larghe fasce della popolazione stavano diventando
sempre più povere.10
Se qualcuno in Russia o all’estero avesse prestato
una minima attenzione, tutte le indicazioni per capire
la natura del nuovo regime erano state fornite entro
le prime settimane dall’ascesa di Putin al trono
provvisorio. Ma il paese si stava dando da fare per
eleggere un immaginario presidente e il mondo
occidentale ci avrebbe messo anni per dubitare della
scelta.
Quando Putin venne insediato, ero di nuovo in
Cecenia, a dispetto di quello che passava per
politica e giornalismo politico, io avevo
disperatamente bisogno di sapere che stavo facendo
qualcosa di significativo. Mentre il sistema politico
del paese stava andando a pezzi di fronte ai miei
occhi, mi sentivo particolarmente fortunata di poter
svolgere le ricerche e pubblicare le storie che
ritenevo importanti. Questa volta mi ero spostata con
personale militare e volontari auto-organizzati che
cercavano soldati russi caduti in azione in Cecenia,
circa mille secondo i dati ufficiali, la metà dei quali
caduti ancora nella prima guerra.
Rientrai in Russia il weekend della cerimonia
d’insediamento. Il secondo giorno del mio rientro in
ufficio, che coincideva con il secondo giorno della
presidenza di Vladimir Putin, forze speciali della
polizia fecero irruzione nella sede della società di
Vladimir Gusinskij, Media-Most, proprietaria della
rivista per la quale lavoravo. Decine di uomini in
tuta mimetica, passamontagna neri e mitra a canna
corta forzarono l’ingresso negli uffici dell’edificio
recentemente ristrutturato nel centro di Mosca a un
chilometro e mezzo dal Cremlino, maltrattarono
alcuni impiegati, ammucchiarono pile di documenti
in scatole di cartone che poi caricarono sui furgoni.
L’ufficio del procuratore, l’amministrazione
presidenziale e la finanza rilasciarono
successivamente dichiarazioni confuse e atte a
creare confusione fra le dichiarazioni pubbliche in
merito all’incursione: dissero che sospettavano
irregolarità fiscali; poi dissero che sospettavano
comportamenti irregolari del servizio di sicurezza
interna di Media-Most, dissero anche che
sospettavano di spionaggio dei giornalisti da parte
della società. La natura dell’incursione era invece
ben nota a tutti coloro avessero avuto imprese o
avessero osservato il mondo delle imprese in Russia
negli anni novanta: l’incursione era un avvertimento.
Questi blitz erano di solito condotti dalla criminalità
organizzata per far vedere chi comandava e chi
aveva più potere sulla polizia. Questa incursione era
sotto molti aspetti eccezionale: le dimensioni
(decine di uomini e di furgoni pieni di documenti); il
luogo (il centro di Mosca); l’ora (in pieno giorno);
l’obiettivo (uno dei sette imprenditori più influenti
del paese). Era eccezionale anche per l’identità del
presunto promotore, che la maggior parte delle fonti
Media-Most aveva identificato in Vladimir Putin.
D’altra parte, il presidente dichiarò di non essere a
conoscenza del fatto.11 Durante l’incursione era al
Cremlino impegnato in un incontro con Ted Turner; i
due ricordarono i Goodwill Games che si erano
tenuti a San Pietroburgo negli anni novanta, e
discussero del futuro dei media.
I mesi che seguirono il blitz agli uffici di Media-
Most sono quel genere di intervalli di tempo sempre
difficili da ricordare e descrivere, come gli
intervalli tra la diagnosi e l’inevitabile patologia, tra
il giorno in cui capisci come finirà una certa storia e
la sua effettiva fine. Penso di poter affermare a nome
di tutti che le settanta persone impiegate nella mia
rivista e le diverse centinaia impiegate nel
quotidiano di Gusinskij e a NTV - lo stesso canale
televisivo che aveva trasmesso l’inchiesta sulle
esplosioni negli edifici residenziali - avevano capito
che il giorno dell’incursione era l’inizio della fine
della più importante società privata di informazione
della Russia. Eppure continuammo a lavorare come
se non fosse successo nulla, come se la storia dei
guai della società fosse solamente un’altra storia da
raccontare.
Non ricordo il momento in cui venni a sapere
dell’arresto di Vladimir Gusinskij il 13 giugno.
Forse l’ho sentito alla radio in auto, ma è poco
probabile: era l’estate del 2000 la mia seconda
estate in bicicletta a Mosca, la bicicletta era
diventata la nuova forma di mobilità in città e in quel
mese di giugno stavo proprio scrivendo un pezzo a
proposito della nuova tendenza. Forse mi ha detto
dell’arresto un collega. Oppure mi ha telefonato
qualche amico raccontandomelo. In qualunque modo
sia stata informata, la cosa più importante non era
l’arresto di uno degli uomini più influenti del paese,
che fra l’altro mi pagava lo stipendio, quanto
piuttosto il motivo dell’arresto: avevo sentito che si
trattava di accuse relative alla privatizzazione di una
società chiamata Russkoe Video. Quella era la storia
che dovevo scrivere.
Russkoe Video era una società di produzione
televisiva, un tempo proprietà di Dmitrij
Roždestvenskij, l’uomo di San Pietroburgo che era
ormai in prigione da due anni. Era una notizia che
avevo seguito per un po’ di tempo senza capirla, da
quando ero andata a San Pietroburgo per scrivere la
storia sull’assassinio di Galina Starovojtova.
Le mie fonti locali - compreso il segretario di
Galina, che era sopravvissuto alla sparatoria -
insistettero perché incontrassi un’anziana coppia che
viveva in uno spazioso e lussuoso appartamento sul
canale di Griboedov. Nel corso di numerosi incontri
che avvennero nel corso di diversi mesi, mi
raccontarono la storia del figlio, Dmitrij
Roždestvenskij, quarantaquattrenne produttore
televisivo di raffinata educazione che aveva operato
con successo sotto Sobcak (collaboratore della sua
campagna elettorale) e che adesso era in prigione.
Sembrava che qualcuno avesse preso di mira
Roždestvenskij. Tutto ebbe inizio nel marzo 1997
quando gli mandarono gli ispettori della finanza. In
maggio gli arrivò una lettera della polizia segreta
locale che lo informava che la trasmittente della
stazione televisiva della quale era in parte
proprietario rappresentava una minaccia per la
sicurezza dello stato. Quindi Roždestvenskij venne
ripetutamente interrogato in relazione all’affare
Sobcak. “Sospettavano che Dmitrij riciclasse il
denaro di Sobcak,” mi disse la madre. “Ma Dmitrij
fu fortunato: Sobcak non aveva mai pagato alla sua
società nemmeno il denaro dovuto per la
trasmissione degli annunci della sua campagna
elettorale.” Infine nel marzo del 1998 Dmitrij
Roždestvenskij venne accusato di evasione fiscale.
Una notte dello stesso mese la squadra speciale del
procuratore perquisì gli appartamenti di quarantuno
persone collegate alla società di Roždestvenskij,
compresi i giornalisti freelance.
“Fu allora che cominciò l’attacco personale,” mi
disse l’anziana signora. Suo figlio veniva convocato
per essere interrogato quasi tutti i giorni; il suo
appartamento, la sua dacia e il suo ufficio vennero
ripetutamente perquisiti. Nell’agosto 1998 la moglie
di Dmitrij ebbe un colpo. Eravamo alla dacia,” disse
la madre. “Tutti i giorni doveva andare agli
interrogatori e non eravamo mai sicuri se sarebbe
ritornato. Io potevo sopportare quel genere di cosa -
mio padre era stato tre volte in prigione al tempo di
Stalin - ma Nataša la moglie di Dmitrij era la più
debole.”
Nel settembre del 1998 Dmitrij Roždestvenskij
venne accusato di truffa e arrestato. Due mesi dopo
incontrai i suoi genitori. Nei successivi venti mesi
mi recai molte volte a casa dei Roždestvenskij che
mi tennero sempre al corrente della situazione del
figlio. Dmitrij veniva spostato da una prigione
all’altra, era finito a Mosca e poi era tornato in una
prigione della polizia segreta vicino a San
Pietroburgo. Le imputazioni nei suoi confronti
venivano continuamente cambiate: prima venne
accusato di essersi appropriato indebitamente di
un’automobile, poi del denaro di un contratto di
pubblicità, e infine dei fondi per costruirsi una villa.
Da quanto potevo capire gli affari della famiglia e
della società erano così ingrovigliati e disordinati
che gli inquirenti non avrebbero avuto difficoltà a
trovare capi d’accusa per tenerlo in prigione per
tutto il tempo che volevano. Quello che non riuscivo
a capire era perché qualcuno volesse tenere in galera
Roždestvenskij.
I genitori mi dissero che era Vladimir Jakovlev, il
sindaco succedente a Sobcak, che si stava
vendicando per il coinvolgimento di Roždestvenskij
nella campagna elettorale di Sobcak. Ma anche altri
avevano aiutato Sobcak. Roždestvenskij era il capro
espiatorio perché altri, come Putin, erano diventati
troppo potenti? Possibile. Oppure non era affatto
Jakovlev a vendicarsi ma un altro degli ex soci in
affari di Roždestvenskij, Putin o uomini potenti a San
Pietroburgo, che sembra avessero fondato un’altra
società di produzioni televisive legata alle case da
gioco della città? Anche possibile. Oppure, come
pensava l’assistente della Starovojtova, un macabro
caso di ricatto da parte di un imprenditore che aveva
invano cercato di costringere Roždestvenskij a
vendere la sua società? Anche questo possibile.
Continuai a fare visita ai Roždestvenskij perché
non riuscivo a trovare il modo di scrivere la storia
del loro figlio. Più andava avanti e meno ci capivo.
Il potenziale imprenditore ricattatore di
Roždestvenskij alla fine venne arrestato e accusato
di una serie di assassini su commissione, compreso
quello di un assessore responsabile dello sviluppo
immobiliare: era stato ucciso a colpi di arma da
fuoco in pieno giorno sulla prospettiva Nevskij nel
1997. Una cosa era chiara: quello che stava
succedendo a Roždestvenskij aveva poco o nulla a
che fare con le imputazioni legali contro di lui e tutto
si collegava invece a come si svolgevano gli affari e
la politica a San Pietroburgo.12
Furono questo caso e questa società, della quale
la maggior parte dei russi non aveva mai sentito
parlare, a portare Vladimir Gusinskij in prigione. Mi
sedetti e cominciai a scorrere il mezzo schedario di
documenti che avevo raccolto sul caso - per la
maggior parte esposti legali e documentazione di
supporto - come avevo fatto nei due anni precedenti.
Per la prima volta cominciavano ad avere un senso,
anche se ancora non riuscivo a vederci chiaro -
proprio come non ci riuscivano i potenti avvocati di
Media-Most. “Non ci sono imputazioni,” mi disse
un’avvocatessa della compagnia di mezza età che
sembrava veramente in imbarazzo, “Non riesco
nemmeno a pensare quale possa essere l’atto
criminoso. Non riesco ad immaginare dove abbiano
trovato le cifre che citano. Qui dicono che la società
era stata fondata illegalmente ma fanno riferimento a
una legge che non c’entra nulla.”13 E anche se la
società era stata fondata in violazione della legge,
Media-Most non aveva nulla a che fare con la cosa.
La società maggiore aveva comperato Russkoe
Video insieme a dozzine di altre società di
produzione e di trasmissioni televisive regionali,
quando stava formando una rete televisiva nazionale.
La società di San Pietroburgo non era nemmeno uno
dei veicoli pubblicitari più importanti nella rete: era
stata comperata essenzialmente per la grande
raccolta di film di seconda categoria che possedeva
e che la rete avrebbe potuto usare mentre lavorava
per impostare la sua produzione.
“Sarebbe ridicolo se non fosse così triste,” disse
l’avvocatessa. “Sarebbe bello se i crimini in Russia
fossero davvero tutti così,” voleva dire fatti di
irrilevanti irregolarità.
I crimini in Russia non erano di quel genere, ma
molti casi giuridici cominciavano ad avere questo
aspetto: raffazzonati e pieni di contraddizioni. Mi
resi conto che la mia teoria iniziale sul caso di
Dmitrijj Roždestvenskij era corretta: si trattava
sicuramente della vendetta personale di qualcuno.
Ma il colpevole non era l’attuale sindaco di San
Pietroburgo, come credevano i genitore, e nemmeno
il capo mafioso in galera, come sosteneva qualcun
altro.
Qualcosa sembrava essere andato maledettamente
storto fra Dmitrij Roždestvenskij e Vladimir Putin,
con il quale aveva lavorato nella sfortunata
campagna elettorale per la rielezione di Sobcak.
Questo spiega come mai, dopo aver seguito
l’inchiesta per quasi due anni, il giudice che istruiva
il caso mi avvertì quando andai a trovarlo il 29
febbraio 2000. “Lascia perdere,” disse, “Credimi
Masha, è meglio che tu non approfondisca di più o te
ne pentirai.” Da anni trattavo casi giudiziari in
Russia e nessuno - nemmeno criminali sotto accusa o
i loro odiosi soci - mi aveva mai parlato in questo
modo. Cosa c’era di così importante e terribile in
questo caso? Solo il fatto che era portato avanti per
conto dell’uomo che adesso svolgeva la funzione di
presidente della Russia. Il magistrato Jurij Vanjušin
era stato un compagno di corso di Putin alla facoltà
di legge. Appena laureato era entrato nella
magistratura, mentre Putin andava al KGB, ma
quando Putin tornò a Leningrado e andò a lavorare
per Sobcak, Vanjušin lo raggiunse nella
amministrazione della città. Quando Putin sei anni
dopo andò a Mosca, Vanjušin tornò al tribunale,
divenne il giudice istruttore incaricato di “casi molto
importanti”, la definizione legale dell’ufficio. La
questione di Roždestvenskij non rispondeva ai
criteri di “caso molto importante”, ma era chiaro che
era molto importante per una persona molto
importante.
Un altro personaggio altrettanto vicino a Putin,
Viktor Cerkesov, che era stato nominato capo della
sezione di San Pietroburgo dell’FSB su forte
pressione di Putin e grandi proteste da parte degli ex
dissidenti, intervenne quando il caso contro
Roždestvenskij sembrava essersi arenato. Dopo che
l’ispezione fiscale non diede motivi per procedere,
Cerkesov mandò a Roždestvenskij la lettera con la
quale lo informava che il trasmettitore impiegato da
Russkoe Video rappresentava un pericolo per la
sicurezza nazionale. Russkoe Video smise di
adoperarlo e subentrò un’altra società di produzione
televisiva: dopodiché cessò di essere un pericolo.14
Un anno dopo Cerkesov raggiunse Putin a Mosca per
diventare il suo primo vice all’FSB.
I genitori di Roždestvenskij avevano sperato che
il figlio sarebbe stato liberato quando il suo vecchio
amico Vladimir Putin diventò capo della polizia
segreta e poi capo del governo e infine capo dello
stato. Invece Vanjušin non archiviò il caso
nonostante tutti i capi di accusa si dimostrassero
insostenibili e inconsistenti, piuttosto continuò a
raccattare altre improbabili ipotesi di reato per
tenerlo in prigione. Alla fine dell’estate 2000,
tenendo presenti le condizioni di salute di
Roždestvenskij il tribunale lo liberò in attesa del
processo.15 Roždestvenskij morì nel giugno del
2002 all’età di quarantotto anni.
Quello che stavo imparando guardando i
documenti che avevo tenuto per quasi due anni era la
stessa cosa che Natalja Gevorkjan aveva imparato
quando aveva affrontato Putin sul caso del
giornalista Andrej Babickij: “È un omuncolo
vendicativo,” disse. Il caso contro Gusinskij era
come quello contro Roždestvenskij un caso di
vendetta personale. Gusinskij non aveva sostenuto
Putin nelle elezioni. Aveva un rapporto di amicizia e
importanti relazioni di affari con il sindaco di
Mosca, Jurij Lužkov, il quale era anche uno dei capi
della coalizione contro la Famiglia. Era stata la
televisione di Gusinskij che aveva trasmesso il
programma inchiesta sulle esplosioni negli edifici
residenziali due giorni prima delle elezioni.
L’arresto di Gusinskij non aveva nulla a che fare
con l’affare Russkoe Video; solo che l’uomo dietro
l’arresto conosceva a fondo il caso Russkoe Video -
un motivo buono come un altro per mettere in galera
uno degli uomini più potenti della Russia. Se ci
fossero state irregolarità nella fondazione della
società, anche Putin le doveva conoscere:
controllando il mio archivio trovai un documento di
autorizzazione alla formazione della società firmato
da Vladimir Putin.
Vladimir Gusinskij passò solo tre giorni in
prigione. Appena liberato su cauzione lasciò il paese
divenendo il primo profugo politico del regime di
Putin - solo cinque settimane dopo l’insediamento.
A differenza del proprietario della società per cui
lavoravo, io ero ancora a Mosca, e a quanto pare mi
ero cacciata in guai seri, proprio come aveva
previsto il giudice Vanjušin. Avevo scritto un
articolo sul caso Russkoe Video; era stato pubblicato
pochi giorni dopo che Gusinskij aveva lasciato il
paese ed era illustrato con il documento che avevo
trovato, quello firmato da Putin. Per prima cosa mi
sono trovata un uomo con una scala davanti alla
porta del mio appartamento - ventiquattro ore al
giorno. “Cosa ci fai qui?” chiedevo ogni volta che
aprivo la porta e lo vedevo. “Aggiusto,” borbottava.
Qualche giorno dopo il telefono di casa fu
interrotto. La compagnia telefonica mi disse che non
era loro responsabilità, e trascorsero dei giorni
prima di riavere il collegamento. Queste erano le
classiche tattiche del KGB per farmi capire che non
sarei mai stata sicura e non sarei mai stata sola: il
metodo non era cambiato dagli anni settanta quando
dei ceffi si accampavano nel sottoscala della gente
per fargli capire che erano sotto sorveglianza.
Questa consapevolezza non mi rese la vita più facile.
Le tecniche di intrusione funzionavano bene oggi
come avevano funzionato bene trenta anni prima:
dopo pochi giorni di questo trattamento, la paura mi
fece andare fuori di testa.
Approfittai di un reportage per lasciare il paese
per un paio di settimane, e decisi di cominciare a
cercarmi un altro lavoro. Il mio era il più bel lavoro
del mondo e nel farlo avevo rischiato più volte la
vita andando in Cecenia, nella ex Iugoslavia e in
altre zone di guerra postsovietiche. Ma non ero
preparata a vivere sotto una costante minaccia, non
importa quanto fosse dichiarata. C’era una
possibilità di lavorare come capo dell’ufficio di
Mosca di un settimanale americano US News &
World Report e colsi la palla al balzo.
Intanto Gusinskij che si spostava tra l’Inghilterra e
la Spagna, dove aveva una casa, stava trattando con
il governo russo il destino del suo impero mediatico.
Gusinskij possedeva personalmente il 60% della sua
società un altro 30% era del monopolio statale del
gas Gazprom e il rimanente 10% era nelle mani di
privati, la maggior parte dei quali dirigenti della
società. Gusinskij si era pesantemente indebitato da
una banca controllata dallo stato per realizzare la
sua rete televisiva satellitare. Meno di un anno prima
coltivava ancora la fondata speranza che i suoi
debiti sarebbero stati sanati:16 la sua calda amicizia
con Eltsin e il ruolo che aveva svolto nella
campagna per la sua rielezione del 1996, lasciavano
pensare che questa speranza fosse relativamente
ragionevole, almeno dal punto di vista di Gusinskij.
Adesso alcune delle linee di credito erano scadute e
lo stato chiedeva il rientro anticipato delle altre
pretendendo azioni invece di denaro contante - con
lo scopo di consentire al monopolio statale del gas
di controllare le società. Gusinskij stava cercando di
ristrutturare il debito in modo che nessuno degli
azionisti potesse avere una quota di controllo, cosa
che avrebbe garantito l’indipendenza editoriale delle
uscite mediatiche.
Quando le trattative divennero più dure, qualcuno
- ognuna delle due parti disse che era stata l’altra -
passò alla stampa un documento che Gusinskij aveva
firmato prima di lasciare il paese. Dal documento
sembrava che avesse concordato, per iscritto, di
cedere la quota di maggioranza della società a
Gazprom in cambio della garanzia per la sua libertà
personale. La cosa più compromettente era che il
documento non era firmato solo da Gusinskij e dal
capo dell’ufficio dei rapporti con la stampa di
Gazprom - ricostituito specificamente per
l’occasione - ma anche dal ministro della stampa,
Michail Lesin.17 In altre parole questo era il
classico contratto mafioso, nel quale si formalizzava
la cessione di una società in cambio della sicurezza
personale del proprietario, e lo stato era connivente.
Una volta passato ai media il documento, Gusinskij
dichiarò pubblicamente che il ministro lo aveva
minacciato personalmente, costringendolo obtorto
collo a firmare le carte, praticamente “con la pistola
puntata”.18 Definì l’intera operazione come “racket
di stato”.
Putin si rifiutò di commentare la cosa. Ma nessuno
dubitava che l’ordine di estorcere la società
mediatica da Gusinskij fosse venuto direttamente da
lui. Il primo ministro Michail Kas’janov, dal sorriso
smagliante, sembrò candidamente sorpreso e anche
scandalizzato dalle rivelazioni, e riprese
pubblicamente il ministro Lesin in diretta televisiva.
Tre giorni dopo Gorbacëv uscì da un ritiro de facto
dalla politica durato nove anni per incontrare Putin e
chiedergli di risolvere la situazione di Gusinskij. Il
vecchio uomo politico uscì deluso dall’incontro,
dicendo ai media che Putin si era rifiutato di
interferire.19 Il giorno dopo il primo ministro
Kas’janov aprì la riunione del consiglio dei ministri
di nuovo rimproverando il suo ministro della stampa
Lesin.20 I giornalisti russi e i commentatori politici
interpretarono questo come un chiaro segno
dell’impotenza del primo ministro in una situazione
voluta e diretta dal presidente in persona.
Molto presto questo tipo di acquisizione di grandi
e piccole società divenne un fatto corrente. Ma il
sistema che Boris Eltsin si era lasciato alle spalle
non era sempre disponibile ad approvare il “racket
di stato”. I vari governi di Eltsin non erano riusciti a
trasformare i tribunali russi in un sistema giudiziario
funzionante, ma erano riusciti nel mettere le basi per
quell’ambizione. Questi tribunali, specialmente nelle
sedi periferiche, non ammettevano alcune delle
pretese di Gazprom: il tribunale di una città dichiarò
addirittura inammissibile la causa contro Gusinskij.
Alla fine il monopolio di stato ci impiegò quasi un
anno per acquisire il controllo dell’impero
mediatico di Gusinskij. Nell’aprile del 2001, dopo
un confronto durato quasi una settimana durante la
quale il personale di NTV trasmise in diretta la
cronaca dell’acquisizione, il vecchio staff editoriale
venne estromesso con un atto di forza dai locali. Una
settimana dopo i miei ex colleghi della rivista Itogi,
andarono al lavoro, trovarono l’ingresso sbarrato e
vennero tutti licenziati.
Io me ne ero già andata, dall’estate precedente
avevo preso il posto al US News & World Report.
Prima di cominciare il mio nuovo impiego ero
andata sul mar Nero per una breve vacanza. Dopo
solo due giorni al sole avevo dovuto prendere un
aereo e tornare al Nord: un sottomarino nucleare
stava affondando nel mare di Barents portando con
se 118 marinai.
Di tutte le tragiche storie che ho dovuto raccontare
e che il popolo russo ha dovuto sopportare, il
disastro del Kursk è stata forse la più terribile. Per
nove giorni, le madri, le mogli e i figli dei marinai
imbarcati sul sottomarino - e con loro tutto il paese -
hanno sperato che qualcuno fosse ancora vivo. Il
paese mantenne la veglia mentre falliva ogni
tentativo di salvataggio del governo e della marina.
Squadre norvegesi e inglesi si offrirono di
intervenire, ma la proposta venne declinata per
ragioni di sicurezza. La cosa peggiore fu il silenzio
del nuovo presidente: era in vacanza sulle coste del
mar Nero.
La storia del Kursk è stata in seguito interpretata
come la facile metafora della condizione
postsovietica. La sua costruzione cominciò nel 1990
contemporaneamente all’inizio del collasso
dell’Unione Sovietica; venne armato nel 1994, il
momento più tragico della storia militare russa, ma
anche il periodo in cui le ambizioni di superpotenza
del paese, messe da parte mentre l’impero veniva
smantellato, cominciavano a riaffermarsi. Il
sottomarino nucleare era enorme, proprio come
erano state una volta quelle ambizioni - e come
sarebbero state di nuovo, con Putin al potere che
prometteva di ficcare il nemico nel cesso. Il Kursk
che dopo il varo non fu quasi mai sottoposto a
manutenzione, venne inviato in missione per la prima
volta nell’estate del 1999, quando Putin andò al
potere, e avrebbe dovuto affrontare la prima
esercitazione significativa nell’agosto del 2000.
Solo dopo si vide chiaramente che né il
sottomarino, né il suo equipaggio, né l’intera flotta
russa del Nord erano pronte per l’esercitazione.
Infatti l’esercitazione di addestramento non venne
nemmeno chiamata tale, in parte perché le navi
coinvolte e i loro equipaggi non avrebbero saputo
rispondere a tutti i requisiti tecnici e legali imposti
da una vera esercitazione. Invece il sottomarino e le
altre navi da guerra che presero il mare il 12 agosto
vennero inviate a una “marcia comune”, un termine
inesistente e che quindi non comportava obblighi di
sorta. Il sottomarino prese il mare con un equipaggio
senza esperienza e che non era stato addestrato
sull’unità, messo insieme convocando uomini da
navi diverse, che non avevano esperienza di
squadra. Il sottomarino era armato con torpedini da
esercitazione, alcune delle quali avevano passato la
data di scadenza funzionale, e le altre non erano state
sottoposte alle verifiche di prassi. Alcune torpedini
avevano macchie di ruggine altre avevano anelli
connettori in gomma che erano stati usati più di una
volta, in violazione delle norme di sicurezza. “La
morte è a bordo con noi,” aveva detto un membro
dell’equipaggio alla madre sei giorni prima
dell’incidente, riferendosi alle torpedini.21
Fu una di queste torpedini che, evidentemente,
prese fuoco ed esplose. Ci furono due esplosioni a
bordo del sottomarino e la maggior parte degli
uomini di equipaggio morì all’istante. Ventitré
sopravvissuti si spostarono in una zona che non era
stata danneggiata ad aspettare i soccorsi. Avevano
l’equipaggiamento necessario per sopravvivere nel
sottomarino per un po’ di tempo; potevano
ragionevolmente sperare di essere salvati - dopotutto
erano impegnati in una operazione di addestramento,
c’erano nelle vicinanze molte navi da guerra e
l’incidente avrebbe dovuto essere stato scoperto
immediatamente. Tuttavia, mentre l’onda d’urto
dell’esplosione era stata registrata da una stazione
sismica norvegese, le navi russe vicine al
sottomarino apparentemente non si accorsero di cosa
era successo sott’acqua. Solo dopo nove ore la flotta
si rese conto che era successo un incidente; e
passarono altre nove ore prima che il residente in
vacanza venisse informato. Cominciarono le
operazioni di salvataggio, ma le squadre in questione
non erano addestrate per quel tipo lavoro. Non
riuscirono nemmeno a entrare in contatto fisico con
il sommergibile.
La maggior parte dei ventitré sopravvissuti
avrebbe potuto uscire da soli - l’incidente era
avvenuto a scarsa profondità - ma quella sezione del
sottomarino non era attrezzata con il tubo necessario
all’evacuazione, come invece secondo le norme
avrebbe dovuto. I ventitré marinai rimasero seduti al
buio fino a quando uno dei filtri di rigenerazione
dell’aria non prese fuoco riempiendo il locale di gas
tossici che uccisero gli uomini.
Per più di due giorni erano sopravvissuti
sottacqua. I ventitré uomini lanciavano l’SOS
battendo la parete metallica nel tentativo di aiutare i
soccorsi che all’inizio non c’erano e poi furono
inutili. Alla fine i loro colpi divennero irregolari e
disperati. Non ebbero mai risposta al loro
messaggio: rispettando una regola non scritta della
flotta, i soccorritori mantennero il silenzio,
apparentemente per evitare che navi nemiche
potessero individuare la loro posizione.
Sostanzialmente per la stessa ragione vennero
respinte le offerte di aiuto dei sommozzatori inglesi
e norvegesi. Quando finalmente una squadra
norvegese ebbe il permesso di entrare in acque russe
e scendere fino al Kursk, otto giorni dopo
l’incidente, si collegarono facilmente al sottomarino
al primo tentativo. Quando non riuscirono ad aprire
il portello predisposero uno strumento adatto alla
necessità e nove giorni dopo l’incidente entrarono
nel sommergibile e confermarono che non c’erano
sopravvissuti.22
Per dieci giorni il paese rimase incollato ai
televisori in attesa di notizie dal Kursk. O dal nuovo
presidente, quello che aveva promesso che avrebbe
ricostruito la potenza militare russa. All’inizio non
disse nulla. Poi, sempre in vacanza, fece un
commento vago lasciando intendere che riteneva più
importante recuperare la strumentazione a bordo del
Kursk che salvare l’equipaggio. Il settimo giorno
finalmente si decise a prendere un aereo per Mosca -
e venne immediatamente bloccato da una troupe
televisiva nella città di vacanza di Jalta sul mar
Nero. “Ho fatto la cosa giusta,” disse Putin, “perché
l’arrivo di persone non qualificate e la presenza di
autorità nella zona del disastro non sarebbe stata di
alcun aiuto e avrebbe interferito con il lavoro.
Ognuno deve stare al suo posto.”
Questo commento chiarì che Putin si vedeva come
un burocrate - un importante e potente burocrate, ma
sempre un burocrate. “Una volta pensavo che quando
qualcuno assume la carica di presidente, anche se si
tratta solo di una nomina, ha l’obbligo di cambiare.”
Così mi disse Marina Litvinovic la giovane e
brillante donna che aveva lavorato sull’immagine
pre-elettorale di Putin. “Se la nazione piange, devi
piangere insieme a lei.”
All’epoca del disastro del Kursk, la Litvinovic,
ancora ventenne, era diventata un membro
permanente della direzione per i rapporti con i
media al Cremlino. Una volta alla settimana i capi
delle tre principali reti televisive insieme alla
Litvinovic si incontravano con il capo del gabinetto
di Putin, Aleksandr Vološin, per discutere sugli affari
correnti e programmarne la copertura mediatica.
Nell’agosto del 2000 erano presenti solo tre membri
del gruppo: Litvinovic, Vološin, e il capo della
televisione e della radio di stato, tutti gli altri erano
in vacanza, come in genere lo sono ad agosto i
moscoviti.

Urlavo a Vološin. Urlavo che lui [Putin] ci doveva


andare. Alla fine Vološin prese il telefono e lo
chiamò: “Qualcuno qui pensa che tu ci debba
andare.” Io credevo che sarebbe stato Putin a urlare:
“Dov’è il mio aereo?” Mi resi conto che se io non
fossi andata a quella riunione, lui non sarebbe andato
nell’Artico.”23

La costellazione di città militari che ospita la


Flotta del Nord della Russia è un mondo a parte,
chiuso e ostile agli estranei, generalmente rassegnato
e rispettoso delle autorità. Non era permesso ai
giornalisti di entrare a Vidjaevo la città che serviva
come porto di residenza del Kursk. I familiari dei
membri dell’equipaggio vennero caricati su autobus
noleggiati che li portarono attraverso tutti i posti di
controllo a grande velocità. Alcuni dei familiari
affrontavano una marcia di 5 chilometri (una volta
arrivati non avevano più mezzi di trasporto a
disposizione) per andare da Vidjaevo al posto di
controllo dove stavano di guardia i giornalisti. Un
gruppo di donne venute da Vidjaevo registrarono un
appello alla televisione per chiedere che i soccorsi
non venissero sospesi. Una donna chiese ai
giornalisti di accompagnarle alla città di Murmansk
per comprare corone da depositare in mare.
Quelli del posto guardavano le donne ansiose con
un misto di pietà e di paura. Qui nelle città fatte di
edifici fatiscenti di cinque piani in cemento, con i
vetri rotti e senza riscaldamento centrale, si erano
assuefatti al pericolo e al degrado. “Gli incidenti
succedono.” Mi ripetevano continuamente i marinai
e le loro mogli. Intanto le donne, armate di secchi e
scope, pulivano i marciapiedi e le piazze con acqua
e sapone sperando di proteggersi dalle radiazioni
che potevano uscire dal Kursk - anche se le autorità
avevano assicurato il pubblico che non c’era
pericolo di radiazione.
Dieci giorni dopo il disastro i familiari degli
uomini dell’equipaggio vennero finalmente riuniti in
una sala di Vidjaevo, in attesa di incontrare Putin.
Nell’attesa - aspettarono per ore - il comandante
della flotta, l’ammiraglio Vladimir Kuroedov, si
rivolse al pubblico. Kuroedov, un uomo imponente,
dal viso duro, abbronzato con raffinata abilità
evitava tutte le domande. Ecco come ha descritto la
scena uno dei pochi giornalisti al quale fu permesso
di assistere all’evento, uno dei coautori della
biografia ufficiale di Putin:

“Crede che gli uomini siano ancora vivi?”

Sapete cosa rispose?


“Questa è una buona domanda! Risponderò con la
stessa franchezza con la quale lei me la ha rivolta. Io
credo che mio padre, che è morto nel 1991, sia
ancora vivo.”
Gli fecero poi un’altra domanda - probabilmente
anche questa una buona domanda.
“Come mai non avete chiesto subito l’aiuto
straniero?”
“Vedo,” disse lui, “che lei guarda il Canale 4 più
del Canale 2.”
“Quando avete informato le autorità che non
disponevate delle attrezzature per salvarli?”
“Tre anni fa.” Disse.
Pensai che qualcuno l’avrebbe picchiato, invece
demoralizzati persero qualunque interesse nella
conversazione.24

Kuroedov lasciò il pubblico frustrato. Era


presente il vice primo ministro Ilja Klebanov, che
era stato incaricato di presiedere le operazioni di
salvataggio; una donna salì sul palco afferrò
Klebanov per la giacca e scuotendolo gridò:
“Bastardo, vai la e salvali!” Quando alla fine arrivò
Putin, quattro ore dopo l’ora fissata, vestito di nero
con una camicia nera, in teoria in segno di lutto, che
invece gli conferiva vagamente un aspetto da
mafioso, la gente aggredì anche lui. Il suo biografo
era l’unico giornalista al quale era stato permesso di
rimanere nella stanza e questa è la sua descrizione
dell’incontro nell’articolo pubblicato il giorno
seguente:
“Annullate subito il lutto!” lo interruppe qualcuno
dal fondo della sala. [Era stata proclamata una
giornata di lutto nazionale per il giorno dopo.]
“Lutto?” chiese Putin, “Anch’io come voi ho
fortemente sperato fino alla fine, e spero ancora,
almeno in un miracolo. Ma la notizia ormai è certa:
ci sono stati dei morti.”
“Taci!” grida qualcuno.
“Parlo di persone che sono sicuramente morte. Ci
sono dei morti in quel sottomarino, di sicuro. Per
loro c’è il lutto. Questo è tutto.”
Qualcuno cercò di intervenire, ma lui non li lasciò
parlare.
“Ascoltatemi, ascoltate quello che sto per dirvi.
Ascoltatemi solo! Ci sono sempre state tragedie in
mare, anche quando pensavamo di vivere in un paese
di grande successo. Ci sono sempre state tragedie.
Ma non avrei mai pensato che le cose fossero in
queste condizioni”
“Perché ci avete messo tanto tempo per chiamare
gli aiuti stranieri?” chiese una donna.
Aveva un fratello nel sottomarino. Putin rispose a
lungo. Disse che la costruzione del sottomarino
risaliva alla fine degli anni settanta, come tutte le
attrezzature di salvataggio in dotazione alla Flotta
del Nord. Disse che il ministro della difesa Sergeev
lo chiamò il giorno 13 alle sette del mattino e che
fino a quel momento Putin non sapeva nulla... Disse
che l’aiuto degli stranieri è stato offerto il giorno 15
ed è stato immediatamente accettato...”
“Non abbiamo anche noi quei sommozzatori?”
gridò qualcuno disperato.
“Non abbiamo una merda in questo paese!”
rispose il presidente furioso.25

Nell’articolo si racconta che Putin passò due ore e


quaranta minuti con le famiglie dell’equipaggio e
alla fine riuscì a tranquillizzarli - anche perché per
un’ora espose in dettaglio i provvedimenti di
risarcimento previsti per loro. Accettò anche di
annullare la giornata di lutto, che alla fine, per una
strana macabra ironia, venne osservata in tutta la
Russia meno che a Vidjaevo. Putin uscì dall’incontro
distrutto e amareggiato, e deciso a non esporsi più a
esperienze di questo genere in futuro. Putin infatti
non si confrontò mai più con una folla addolorata
durante il suo mandato in nessuno dei disastri che
accaddero in seguito - e furono molti.
In breve, due cose confermarono a Putin
l’opinione che la sua visita a Vidjaevo fosse stata un
disastro. Il 2 settembre, tre settimane dopo
l’affondamento del Kursk, Sergej Dorenko, il
conduttore del Canale Uno che aveva svolto gran
parte del lavoro di base nella campagna televisiva
organizzata da Berezovskij per creare l’immagine di
Putin un anno prima, fece un programma nel quale
criticava il modo con cui Putin aveva gestito il
disastro del sottomarino. Dorenko era riuscito a
procurarsi le registrazioni della riunione con i
familiari dei marinai e ne trasmise alcuni estratti
rispetto ai quali l’articolo pubblicato dal giornalista
biografo sembrava un elogio al presidente. In una
delle registrazioni si sentiva Putin che urlava:

L’hai visto alla televisione? Questo vuol dire che


sono dei bugiardi! Sono bugiardi! C’è gente in
televisione che da dieci anni lavora per distruggere
l’esercito e la marina. Adesso parlano come se
fossero i più grandi difensori dei militari. Tutto
quello che vogliono in realtà è farli fuori del tutto.
Hanno rubato tutto questo denaro e adesso
corrompono chiunque per farsi le leggi che
vogliono!26

Putin finì con un urlo acutissimo.


Dorenko, un tipo carismatico, un uomo virile dalla
voce baritonale, passò quasi un’ora esaminando nei
particolari il comportamento di Putin, replicando
nella trasmissione i commenti meno opportuni del
presidente, insistendo nel mostrare Putin ancora in
ferie, abbronzato, rilassato e vestito con abiti chiari,
i colori da villeggiatura, mentre ride e sorride con i
suoi compagni di vacanza, per la maggior parte alti
funzionari. Mise in evidenza tutte le bugie di Putin. Il
presidente aveva detto che il mare era stato in
tempesta per otto giorni. Invece, disse Dorenko, il
tempo era stato brutto solo per i primi giorni, inoltre
la cosa non aveva comunque avuto nessun effetto alla
profondità in cui si trovava il Kursk. Dorenko
paragonò il presidente a uno scolaro che arriva tardi
a scuola: “Non sappiamo per che genere di maestro
siano pensate queste piccole menzogne di Putin, ma
sappiamo cosa risponderebbe un maestro in questi
casi: ‘Non mi importa sapere cosa ritenevi giusto -
mi importa solo che tu arrivi puntuale.’”
Dorenko passò poi una intervista che Putin aveva
rilasciato il giorno dopo la sua visita a Vidjaevo.
Compassato e con tono ufficiale il presidente disse
che aveva accettato il fardello della guida del paese
da solo cento giorni. In effetti fece notare Dorenko
erano passati 390 giorni da quando Putin era stato
nominato primo ministro e unto come successore di
Eltsin, e prima aveva diretto l’FSB, “che si presume
debba tenere d’occhio gli ammiragli.”
“Il regime non ci rispetta ed è per questo che ci
racconta menzogne.” Concluse Dorenko.
Penso che sia stato in quel momento, un anno dopo
l’inizio della sua miracolosa ascesa, cento giorni
dopo essere stato insediato come presidente che
Putin si rese conto di avere la responsabilità di tutto
il crollo rovinoso dell’ex superpotenza. Non aveva
più diritto di aggredire quelli che avevano distrutto
il potere militare sovietico e l’orgoglio imperiale: a
seguito della sua elezione a presidente, per gran
parte dell’opinione della popolazione, anche lui era
adesso uno di loro. La sua trasformazione non era
diversa da quella di un politico che dopo molti anni
all’opposizione improvvisamente va al potere - solo
che Putin non era mai stato un politico, la sua rabbia
era privata ma la sua umiliazione ora era pubblica.
Potrebbe avere avuto l’impressione di essere stato
imbrogliato: le persone contro le quali aveva urlato
quando aveva perso il controllo a Vidjaevo - quelli
che avevano disprezzato l’esercito alla televisione e
poi avevano “approvato tutte le leggi che volevano”
- erano anche quelli che l’avevano portato al potere
per farlo diventare il capro espiatorio. E poi
usavano le loro reti televisive per umiliarlo ancora
di più.

Sei giorni dopo lo show di Dorenko, Putin venne


intervistato al Larry King Live della CNN. Quando
King gli chiese: “Cosa è successo?” Putin si strinse
nelle spalle, sorrise - quasi un riso maligno - e
disse: “È affondato.”27 La battuta venne risentita
come indecente: suonò cinica, arrogante,
profondamente offensiva per tutti coloro che erano
stati toccati dalla tragedia. Riguardando la copia del
programma dieci anni dopo compresi quello che
Putin cercava di comunicare. Stava dicendo che non
dava alcuna importanza alla versione che qualche
sconsiderato manipolatore russo aveva inventato, e
cioè che il Kursk era entrato in collisione con un
sottomarino americano. Quello che voleva dire
sollevando le spalle era: “Lasciate perdere quella
stupida teoria del complotto. È affondato e basta.”
Il mondo ci vide qualcosa di assolutamente
diverso e Putin imparò una lezione fondamentale. La
televisione - la stessa televisione che lo aveva
creato, un presidente uscito dal nulla - gli si poteva
rivoltare contro e distruggerlo con la stessa rapidità
e con la stessa facile disinvoltura.
Putin convocò Berezovskij, l’ex kingmaker,
l’uomo che ancora controllava il Canale Uno, e gli
chiese di cedere la sua quota di azioni della società
televisiva.

Gli risposi di no, in presenza del capo di


gabinetto Vološin. Allora Putin cambiò il tono di
voce e disse: “Arrivederci Boris Abramovic” e si
alzò per andarsene. Io dissi: “Volodja questo è un
addio.” Con questa battuta piena di pathos ci
lasciammo. Dopo che fu uscito dalla stanza mi
rivolsi a Vološin e dissi: “Saša cosa abbiamo fatto?
Abbiamo riportato i colonnelli al potere?” Vološin si
grattò la testa e disse: “Non penso.”

Anni dopo, in qualità di testimone in un tribunale


londinese, Vološin non si ricordava i particolari
della riunione, disse solo che quello che voleva far
capire a Berezovskij era che “il concerto è finito, lo
spettacolo è finito”.28
Berezovskij si mise al tavolo e scrisse
immediatamente una lettera all’uomo che aveva a
suo tempo protetto e messo sul trono e chiese al capo
del gabinetto di fargliela avere.

Gli scrissi di quel giornalista americano che una


volta disse che ogni problema complicato ha sempre
una soluzione semplice e che quella soluzione è
sempre sbagliata. Gli scrissi anche che la Russia è
un problema colossale e complesso e che sarebbe un
colossale errore pensare che si possa risolvere con
metodi semplici.29

Berezovskij non ha mai ricevuto una risposta a


questa lettera. Pochi giorni dopo partì per la Francia
e quindi andò in Inghilterra, dove raggiunse
nell’esilio politico il suo antico rivale Gusinskij.
Dopo poco tempo ci fu il mandato per il suo arresto
in Russia e la cessione della sua quota di azioni del
Canale Uno.
A tre mesi dall’insediamento due degli uomini più
ricchi del paese erano stati spogliati del loro potere
e in pratica cacciati dalla Russia. Meno di un anno
dopo l’ascesa al potere di Putin tutte e tre le reti
televisive federali erano controllate dallo stato.
“Ho sempre detto alla gente che non ha senso
andare volontariamente in prigione.”30 Così disse a
un piccolo gruppo di giornalisti Elena Bonner, la
vedova di Andrej Sacharov, a Mosca nel novembre
2000. Raccontò che Berezovskij l’aveva chiamata
nell’estate di quell’anno per chiederle consiglio e
che lei gli aveva detto di restare fuori dal paese.
Spiegò: “Al tempo della dissidenza ho sempre
sostenuto che l’emigrazione era la scelta migliore
per coloro che erano minacciati.” Aveva convocato
una conferenza stampa per annunciare la donazione
di Berezovskij al Museo Sacharov e al Centro per i
diritti umani di Mosca, che stava per chiudere per
mancanza di fondi.
“In che periodo di merda ci tocca vivere,” disse il
direttore del museo, l’ex dissidente Jurij Samodurov.
“Ci tocca pure difendere gente che non ci è mai
piaciuta come Gusinskij e Berezovskij. Abbiamo
vissuto in uno stato totalitario che aveva due
caratteristiche: assoluto terrore, incondizionate
menzogne. Spero che il terrore assoluto non sia più
possibile nel nostro paese, ma adesso di sicuro
siamo entrati in una nuova era di incondizionate
bugie.”31
8
LA DISTRUZIONE DELLA DEMOCRAZIA
Il cambiamento del sistema politico fu così rapido
che anche gli attivisti e i professionisti dell’analisi
politica rimasero disorientati. Nel dicembre del
2000 partecipai a una tavola rotonda di politologi
dedicata all’analisi di cosa era successo in Russia a
un anno dall’ascesa al potere di Putin.1
“Ha congelato la Russia,” disse uno di loro, sulla
cinquantina, volto elegante, piccoli occhiali dalla
montatura leggera. “Questo non è necessariamente un
fatto negativo. Ha un effetto stabilizzante. Ma cosa
succederà dopo?”
“È come se fosse finita la rivoluzione,” disse un
altro, un ex dissidente, barba e capelli brizzolati e
scompigliati. Voleva dire che la società era tornata
alla sua precedente situazione postsovietica. “Sono
tornati i vecchi valori culturali, le vecchie abitudini.
Tutto il paese sta cercando di applicare le abitudini
del passato alla realtà presente.”
“Nessuno ci capisce più nulla, credo,” disse un
terzo, basso di statura con un naso prominente e una
voce profonda. A mio parere era il più intelligente
tra i presenti - e doveva essere anche il più
informato, siccome lavorava nell’amministrazione
presidenziale.
“Tutti i cambiamenti avvenuti nell’ultimo anno
sono successi con piena consapevolezza
dell’opinione pubblica,” dichiarò un politologo
liberale che si era affermato durante la perestrojka.
“La nazione è uscita da una depressione psicologica.
Questa sarà la fase politica più difficile, perché
l’ideologia nazionalista è sempre la più forte.”
“Ma lui dovrà essere all’altezza delle
aspettative,” intervenne uno studioso di una
generazione più giovane, un uomo grosso con
sopracciglia nere e folte.
L’ultimo che intervenne chiaramente non aveva
abbandonato le idee degli anni novanta, quando la
stampa o il parlamento potevano costringere il
presidente a rendere conto dei suoi atti, come
avevano fatto molte volte: Eltsin aveva rischiato
l’incriminazione ancora nel 1999. Lo studioso più
anziano che aveva parlato prima di lui era stato il
principale consigliere ideologico di Michail
Gorbacëv, vedeva gli anni novanta per quello che
erano stati: un breve periodo di pseudodemocrazia,
una rapida visione, un momento fortuito. “Hanno
vinto loro, miei cari,” disse Aleksandr Cipko ai
presenti. “La Russia è un grande stato che galleggia
su uno spazio politico informe. Cercano di riempire
questo spazio con il loro inno nazionale, con la loro
aquila bicipite, con la loro bandiera tricolore. Questi
sono i simboli del nazionalismo sovietico.”
L’incerta identità del paese negli anni novanta si
era manifestata, fra le altre cose, nell’incapacità di
stabilire quali dovessero essere i simboli dello
stato. Dopo aver conquistato la sovranità nel 1991, il
paese affondò quasi immediatamente in una sorta di
rimorso rivoluzionario, per cui l’abbandono dei
vecchi simboli e l’affermazione di nuovi divenne un
impegno doloroso e alla fine si rivelò un compito
impossibile. La bandiera sovietica venne subito
sostituita dalla bandiera tricolore bianca, blu e rossa
che era stata in precedenza la bandiera del paese per
otto mesi fra la rivoluzione borghese del febbraio
1917 e la rivoluzione bolscevica di ottobre. Il
simbolo dello stato però era rimasto quello della
stella rossa con la falce, il martello e le spighe di
grano, che significavano senza ironia l’abbondanza
durante l’era sovietica. Il parlamento aveva discusso
più volte il problema del simbolo senza concludere
nulla, tranne che per la decisione nel 1992 di
sostituire l’acronimo RSFSR (Repubblica socialista
federativa sovietica russa) con le parole
“Federazione russa”. Alla fine del 1993 Eltsin
decretò il simbolo dello stato: l’aquila bicipite, un
simbolo che il paese condivide con Albania, Serbia
e Montenegro tra gli stati moderni. Ma solo nel
dicembre 2000 il parlamento di Putin ratificò con
una legge il simbolo dell’aquila bicipite
L’inno nazionale fu una sfida ancora più ardua.
Nel 1991 l’inno sovietico era stato abbandonato e
sostituito con la Canzone patriottica un
componimento vivace del musicista dell’Ottocento
Michail Glinka. L’inno però non aveva il testo e per
di più era praticamente impossibile inserirne uno: la
linea ritmica imposta dalla musica era così breve
che ogni sforzo di adattarci delle frasi - le parole di
lingua russa tendono a essere lunghe - dava risultati
decisamente assurdi. Molti giornali e media avevano
lanciato concorsi per scegliere un testo che si
adattasse alla musica di Glinka, ma tutte le proposte
servirono invariabilmente a far divertire le
redazioni. A poco a poco la credibilità dell’inno
venne a mancare.
L’inno nazionale sovietico che era stato
abbandonato e sostituito dalla Canzone Patriottica di
Glinka aveva una storia complicata. La musica
scritta da Aleksandr Aleksandrov comparve nel
1943 con un testo lirico dell’autore di poesie per
bambini Sergej Michalkov. Il ritornello dell’inno
lodava “il Partito di Lenin, il Partito di Stalin che ci
guida al trionfo del comunismo.” Dopo la morte di
Stalin nel 1956 il suo successore Nikita Chrušcëv
denunciò il culto della personalità e il ritornello non
poteva più essere cantato, fu così che l’inno perse le
parole. La versione strumentale venne suonata per
ventuno anni mentre l’Unione Sovietica cercava il
poeta e le parole per celebrare la sua identità
poststalinista. Nel 1977, facevo la terza o quarta
elementare, l’inno ritrovò improvvisamente le parole
che noi scolari abbiamo dovuto immediatamente
imparare. E così ogni quaderno scolastico, prodotto
in quell’anno, riportava sul retro della copertina, al
posto della tavola pitagorica o dei verbi irregolari,
le nuove parole dell’inno nazionale. Le parole erano
state scritte dallo stesso poeta, ormai
sessantaquattrenne. Il nuovo ritornello lodava “il
partito di Lenin, la forza del popolo.”
Nell’autunno 2000 un gruppo di atleti olimpici si
incontrò con Putin lamentando che la mancanza di un
inno cantabile li demoralizzava prima delle gare e
privava di significato le loro vittorie. Da questo
punto di vista, affermarono, l’inno sovietico era
migliore. Fu così che il vecchio inno stalinista già
riciclato una volta venne tirato fuori dal cassetto una
seconda volta e il vecchio poeta, all’età di
ottantasette anni scrisse ancora un nuovo testo che
lodava “la saggezza dei secoli, nata con il popolo”.
Putin presentò una legge in parlamento e il nuovo
vecchio inno nazionale venne prontamente
approvato.
Quando la Duma si riunì nel gennaio 2001 il
nuovo vecchio inno fu suonato per la prima volta - e
tutti si alzarono in piedi, salvo i due ex dissidenti
Aleksej Kovalev e Julij Rybakov. “Ho passato sei
anni in prigione ascoltando questo inno,” disse
Rybakov. L’inno nazionale sovietico veniva suonato
tutti i giorni alla apertura e alla chiusura dei
programmi della radio nazionale che era
continuamente accesa nei campi di prigionia. “Sono
stato messo in prigione perché combattevo contro il
regime che aveva creato questo inno, il regime che
mandava la gente in galera e che la giustiziava
sempre al suono di questo inno.”2
Rybakov e Kovalev erano solo due dei 450
membri della Duma, la più piccola minoranza di
dissidenti da sempre. L’ethos sovietico era stato
ristabilito. Quelli che avevano fatto la rivoluzione
del 1991 erano adesso completamente emarginati. Lo
stesso parlamento, come fu costituito negli anni
novanta, non sarebbe durato a lungo.
Il 13 maggio 2000 sei giorni dopo la nomina,
Putin firmò il suo primo decreto e propose sei leggi
al parlamento, tutte mirate, come dichiarò, a
“rafforzare il potere verticale”. Questi decreti
determinarono l’inizio di una radicale
ristrutturazione dell’assetto federale della Russia, o
in altre parole, l’inizio dello smantellamento delle
strutture democratiche del paese. Uno dei
provvedimenti sostituiva i membri eletti della
camera alta del parlamento con membri nominati:
due nomine per ognuna delle ottantanove regioni, una
dal governatore della regione e l’altra dal
parlamento regionale. Un altro provvedimento
consentiva la rimozione dai loro incarichi dei
governatori eletti, in base al semplice sospetto di
comportamento improprio, senza decisione del
tribunale. Il decreto istituiva sette ispettori
presidenziali per sette dipartimenti, ognuno dei quali
comprendeva dodici regioni, tutte dotate di un
governatore e un parlamento eletto. Gli ispettori
nominati dal presidente avrebbero controllato il
lavoro dei governatori eletti.
Il problema che Putin cercava di risolvere con
queste misure era un problema reale. Nel 1998
quando la Russia andò in default sul suo debito
estero e piombò in una gravissima crisi economica,
Mosca aveva dato alle regioni ampia libertà
d’azione per quanto riguarda l’amministrazione dei
bilanci, l’esazione delle tasse, la definizione delle
tariffe e in generale la definizione delle loro
politiche economiche. Per questa e per altri motivi la
Federazione russa era diventata una struttura
pericolosamente decentrata pur rimanendo uno stato
unitario. Siccome il problema era reale, i politici
progressisti russi - che ancora credevano che Putin
fosse uno di loro - non criticarono la soluzione
proposta da Putin, anche se era chiaramente in
contrasto con lo spirito e probabilmente con il testo
della costituzione del 1993.
Putin nominò i sette ispettori. Tra loro c’erano
solo due civili - uno di questi aveva quella che
sembrava una vera e propria biografia da agente
segreto KGB.3 Due erano funzionari del KGB di
Leningrado,4 uno era un generale di polizia5 e altri
due erano generali dell’esercito6 che avevano
comandato le truppe in Cecenia. Putin quindi nominò
generali con l’incarico di controllare governatori
eletti dal popolo - i quali, d’ora in avanti, potevano
anche essere rimossi facilmente per decisione del
governo federale.
L’unica voce che si levò contro questi
provvedimenti fu quella di Boris Berezovskij, o
piuttosto quella della mia vecchia conoscenza Alex
Gol’dfarb, l’emigrato ex dissidente che solo un anno
prima si era lasciato incantare da Putin. Fu l’autore
di una brillante critica al decreto e al progetto di
legge che venne pubblicata a firma di Berezovskij in
Kommersant’, il diffuso quotidiano di proprietà di
Berezovskij.

Sostengo che il risultato più importante della


presidenza di Eltsin sia stato il cambiamento della
mentalità di milioni di persone: quelli che una volta
erano schiavi totalmente asserviti alla volontà del
loro padrone o dello stato sono diventati un popolo
libero di persone che dipendono solo da se stesse. In
una società democratica le leggi esistono per
proteggere la libertà degli individui. [...] La
legislazione che avete proposto comporterà
drastiche limitazioni all’indipendenza e alla libertà
civile di decine di migliaia di politici russi di alto
livello, costringendoli a prendere le direttive da una
singola persona e a subire la sua volontà.
Un’esperienza che abbiamo già vissuto.7

Nessuno prese atto della denuncia.


Le proposte di legge vennero approvate dal
parlamento. Gli ispettori non sollevarono proteste. In
seguito accadde esattamente quello che aveva
previsto la lettera di Berezovskij e andò molto oltre
al contenuto dei provvedimenti legali introdotti da
Putin. Qualcosa cambiò in modo veloce e
percettibile come se le note della nuova versione
russa del vecchio inno sovietico avessero segnato
l’alba di una nuova era per tutti. Gli istinti sovietici
invasero l’intero paese e lo spirito dell’Unione
Sovietica era stato restaurato in un attimo.
Non si poteva misurare il cambiamento. Un
brillante studente di dottorato all’università di
Mosca notò come i modi tradizionali di
contestazione delle pratiche elettorali, per esempio
il conteggio delle violazioni (che erano aumentate da
quando erano comuni le pratiche di voto aperto e
voto di gruppo8) o il tentativo di documentare le
falsificazioni (un compito quasi impossibile), non
erano in grado di misurare una cosa apparentemente
effimera come la cultura. Dar’ja Oreškina9
introdusse il concetto di “cultura elettorale
speciale”, una cultura per la quale le elezioni,
formalmente libere, sono in realtà orchestrate dalle
autorità locali che cercano di convogliare il favore
verso il centro federale. La Oreškina identificò i
sintomi statistici di questa pratica, come per esempio
la percentuale di votanti stranamente elevata e una
quota eccezionale di voti concentrati sul leader della
competizione. Dar’ja Oreškina riuscì a mettere in
evidenza come, con il passare del tempo, fosse
aumentato in modo regolare e veloce il numero dei
distretti elettorali nei quali la “cultura elettorale
speciale” decideva dei risultati. In altre parole ad
ogni elezione, ad ogni livello di governo i russi
cedevano alle autorità una aliquota sempre più
significativa del loro potere decisorio.10 “La
geografia scomparve,” disse in seguito; l’intero
paese si stava trasformando in uno spazio
politicamente uniforme e controllato.
Nel marzo 2004 quando Putin affrontò le elezioni
aveva cinque avversari. Per partecipare alla gara
elettorale avevano dovuto superare ostacoli
incredibili. Una legge che divenne esecutiva subito
prima dell’inizio della campagna elettorale
imponeva la presenza di un notaio che certificasse la
presenza e le firme di coloro che partecipavano a
una riunione di nomina di un candidato
presidenziale. Dal momento che per legge, era
richiesta la presenza di un minimo di cinquecento
persone a queste riunioni, i preliminari richiedevano
dalle quattro alle cinque ore. Le gente doveva
arrivare a mezzogiorno per far certificare la
presenza in modo che la riunione potesse iniziare in
serata. Dopo la nomina, il candidato aveva poche
settimane per raccogliere due milioni di firme. La
vecchia legge richiedeva la metà di firme e lasciava
il doppio di tempo per raccoglierle; ma la cosa più
grave era che la nuova legge specificava alla virgola
le caratteristiche formali delle firme. Centinaia di
migliaia di firme vennero scartate dalla
Commissione elettorale centrale per dettagli come la
scrittura di “S. Pietroburgo” invece di “San
Pietroburgo” o la mancanza delle parole “edificio” o
“appartamento” nell’indirizzo.
Uno dei colleghi di Putin nell’amministrazione di
San Pietroburgo mi raccontò anni dopo che durante il
suo incarico come vice di Sobcak, Putin aveva
ricevuto un “potente vaccino contro i modi della
democrazia”.11 Lui e Sobcak alla fine erano stati
vittime dell’imbroglio democratico di San
Pietroburgo, e adesso che Putin era al potere, stava
restaurando i meccanismi di controllo di stile
sovietico: stava istruendo una tirannia della
burocrazia. La burocrazia sovietica era stata così
soffocante, incomprensibile e ostile che l’unico
modo di trattarla era quello della corruzione, con il
denaro o con i favori personali. In questo modo il
sistema era diventato infinitamente flessibile -
diventando, in ultima analisi, la ragione dell’ottimo
funzionamento della “cultura elettorale speciale”.
Durante il voto, gli osservatori internazionali e le
organizzazioni non governative russe documentarono
una valanga di violazioni, fra queste la cancellazione
dalla votazione di oltre un milione di anziani e di
altri improbabili elettori (quando andai a votare vidi
che il nome della mia nonna di ottantaquattro anni
non compariva negli elenchi; il mio seggio inoltre,
per pura coincidenza, era adiacente all’ufficio del
partito di governo Russia Unita), la consegna a una
clinica psichiatrica di schede precompilate;
personale del seggio che con un’urna mobile si
presentò davanti alla casa di un’anziana e se ne andò
non appena si rese conto che lei non avrebbe votato
per Putin; dirigenti e funzionari scolastici che
dicevano al personale o ai genitori degli studenti che
i contratti di lavoro o di finanziamento dipendevano
dal loro voto.12 È del tutto probabile che nessuna di
queste misure sia stata dettata direttamente dal
Cremlino; piuttosto, secondo il rinnovato istinto
sovietico, le persone facevano quello che potevano
per il loro presidente.
Durante la campagna i candidati dell’opposizione
si videro sistematicamente vietata la stampa del loro
materiale di propaganda, la trasmissione dei loro
spot alla televisione e addirittura la concessione in
affitto di locali per manifestazioni elettorali. Jana
Dubejkovskaja, che dirigeva la campagna
dell’economista della sinistra nazionale Sergej
Glaz’ev, mi disse che impiegò dei giorni per trovare
una tipografia disposta ad accettare il denaro di
Glaz’ev. Quando il candidato cercò di fare un
comizio a Ekaterinburg, la più grande città degli
Urali, la polizia cacciò tutti fuori dall’edificio
sostenendo che c’era una minaccia di attentato
dinamitardo. A Nižnij Novgorod, la terza città della
Russia, mentre Glaz’ev stava per parlare mancò la
corrente e tutti i successivi eventi della campagna in
quella città vennero tenuti all’aperto perché nessuno
voleva affittare il locale al candidato paria. Subito
prima delle elezioni intervistai una lontana
conoscenza, il trentunenne vicedirettore della
programmazione dei telegiornali di tutta la
televisione di stato russa. Otto anni prima Evgenij
Revenko era stato il più giovane reporter di un
canale nazionale, la NTV indipendente di Gusinskij.
Si era fatto rapidamente la fama come uno dei più
intraprendenti e tenaci reporter. Adesso lavorava in
un modo che sembrava molto diverso. “Un paese
come la Russia ha bisogno di una televisione che
faccia passare con efficacia il messaggio del
governo,” spiegava. “Quando lo stato diventa più
forte deve poter mandare il suo messaggio
direttamente, senza interpretazioni di sorta.”
Descriveva la politica editoriale del suo canale
come molto semplice:

Mandiamo in onda storie negative - per esempio


se succede un disastro mandiamo la notizia - ma non
andiamo a cercarle. Non cerchiamo nemmeno storie
positive, ma su queste concentriamo l’attenzione
degli spettatori. Non speculiamo mai sulle cause di
un fatto - per esempio sul licenziamento di un
funzionario - anche se ne conosciamo i motivi. Tutte
le nostre informazioni arrivano da dichiarazioni
ufficiali del governo. In ogni caso la logica è
semplice. Siamo una società televisiva di stato. Il
nostro stato è una repubblica presidenziale. Questo
significa che non critichiamo il presidente.

Solo raramente ammise Revenko, dietro a un


bicchiere di birra in un pub irlandese nel centro di
Mosca, aveva sentito l’esigenza di frenare la sua
passione creativa. “Ma mi sono detto: ‘Questo è il
posto dove lavoro.’” Era cresciuto in una famiglia di
militari e in più aveva avuto un’educazione militare.
Un’utile esperienza, senza dubbio.
Il defunto stato sovietico dipendeva dallo
sfruttamento dei molti e dalla punizione dei pochi - e
il KGB si incaricava della seconda parte. Il sistema
adesso era stato più o meno restaurato. Mentre la
grande maggioranza si metteva in riga con grande
entusiasmo, chi non ce la faceva pagava il prezzo.
Marina Litvinovic, la giovane donna che aveva
collaborato alla creazione di Putin e che lo aveva
sollecitato ad andare a parlare ai familiari dei
marinai del Kursk, gestiva adesso la campagna
elettorale dell’unico oppositore progressista in gara,
l’ex membro del parlamento Irina Chakamada, anche
lei sostenitrice di Putin quattro anni prima. Durante
la campagna Litvinovic ricevette una telefonata di
uno che le disse: “Sappiamo dove vivi e dove gioca
tuo figlio.” Assunse una guardia del corpo per il
bambino di tre anni. Venne anche derubata e
picchiata. Anche Jana Dubejkovskaja, che gestiva la
campagna di Glaz’ev, venne picchiata e derubata e
una volta partì con la sua auto prima di accorgersi
che il circuito dei freni era stato tagliato. A un
livello più basso nella scala delle persecuzioni
c’erano i furti negli appartamenti. Nei mesi prima
delle elezioni i giornalisti e gli attivisti del Comitato
2008 - un gruppo che si stava organizzando per
rendere più corrette le elezioni che si sarebbero
tenute quattro anni dopo - subirono lo scasso dei
loro appartamenti. Spesso i furti nelle abitazioni
avvenivano contemporaneamente in diverse parti di
Mosca. Nel mio appartamento entrarono a febbraio.
Le uniche cose che presero furono un computer
portatile, la memoria esterna di un computer da
tavolo e un telefono cellulare.
La sera delle elezioni Chakamada organizzò una
grande festa per la sconfitta. La sua campagna affittò
uno spazioso ristorante arredato in stile messicano,
con l’open bar e i tavoli imbanditi di salmoni, astici
e carciofi. Famosi gruppi musicali si alternavano
uno dopo l’altro al microfono e i più noti giornalisti
di musica rock facevano i dj. Non si presentò
nessuno. C’erano più camerieri che ospiti e i
carciofi si raffreddarono. Gli organizzatori
continuavano a controllare i nomi dei presenti sulla
riservata lista di invitati. I progressisti russi ancora
cercavano di capire come avessero fatto ad avere
così pochi voti.
Guardando gli ospiti mi rendevo conto che ci
sarebbe voluto un bel po’ di tempo. Quattro anni
dopo aver eletto Putin, i pochi progressisti che erano
passati all’opposizione avevano ancora contatti con
molti ex progressisti che erano rimasti
nell’establishment politico. In una vuota sala da
pranzo adiacente a quella principale, Marina
Litvinovic era seduta in fondo a un lungo tavolo di
rovere accanto ad Andrej Bystrickij, vicepresidente
della radio televisione di stato russa. Bystrickij, un
elegante viveur dalla barba rossa sui quarantacinque
anni, si stava lamentando del vino. “Questo vino non
è peggiore dei nostri risultati elettorali,” in risposta
la Litvinovic lo fulminò con lo sguardo. Bystrickij
ordinò immediatamente una bottiglia di vino da cento
dollari e poi un’altra. Come se fosse venuto per
alleviare il suo senso di colpa. Giurava a chiunque
lo ascoltasse che lui aveva votato per Chakamada e
che aveva detto di fare lo stesso alle sue due
assistenti per il trucco e i capelli. Certo aveva anche
gestito la copertura televisiva della campagna
elettorale raggiungendo quarantacinque milioni di
famiglie russe, alle quali aveva detto, e ripetuto più
volte, di votare per Putin. Il settantuno per cento
degli elettori lo aveva fatto.
Andai a trovare Bystrickij nel suo ufficio tre
giorni dopo le elezioni. Ci conoscevamo da molto
tempo - negli anni novanta era stato uno dei miei
redattori a Itogi - per cui non c’era bisogno di
cincischiare sulla domanda fondamentale.
“Dimmi dunque,” dissi, “come conduci la
propaganda del regime di Putin?”
Bystrickij si strinse nelle spalle in imbarazzo e si
concentrò sui suoi doveri di ospite. Mi offrì tè,
biscotti, cioccolatini, morbide caramelle ricoperte di
cioccolata e alla fine un CD con i discorsi, le foto e i
video clip del presidente Putin. La busta che lo
conteneva riportava cinque fotografie del presidente:
serio, intenso, spassionato, sorriso formale, sorriso
informale. Il ritratto serio era stato ampiamente
diffuso: solo nel giorno delle elezioni lo avevo visto
sulla copertina dei quaderni di scuola, su ritratti
incorniciati in vendita nell’Ufficio centrale delle
poste di Mosca (un affare: un dollaro e cinquanta per
una foto formato A4), sui palloncini rosa, bianchi e
blu in vendita nella Piazza Rossa. La vendita di
ognuno di questi articoli il giorno delle elezioni era
vietata dalla legge elettorale.
“Non facciamo nessuna propaganda in
particolare,” disse Bystrickij sistemandosi sulla
poltrona di cuoio. “Guarda le elezioni, per
esempio.” La legge russa rimasta in vigore dagli anni
novanta imponeva alle televisioni e alla stampa di
garantire a tutti i candidati tempi uguali e spazi
uguali. Bystrickij aveva preparato i suoi numeri, ed
era una buffa aritmetica: il presidente, sosteneva, si
era impegnato in una sola attività elettorale -
l’incontro con gli attivisti della sua campagna - e
l’incontro durato ventinove minuti era stato
trasmesso interamente tre volte durante i telegiornali
che vennero allungati per poterlo inserire. Ogni due
giorni durante la campagna la televisione nazionale
mandava in onda Putin durante i telegiornali - di
solito come servizio portante - ma questi, spiegò
Bystrickij, non erano interventi di campagna
elettorale, piuttosto materiale sul lavoro quotidiano
del presidente. Secondo uno studio esauriente
condotto dall’Associazione russa dei giornalisti,
Putin aveva avuto una copertura sul canale nazionale
sette volte superiore a quella di Chakamada e del
candidato del Partito comunista; mentre tutti gli altri
erano stati trattati anche peggio.13 La copertura
sull’altro canale nazionale, una volta controllato da
Berezovskij, era stata ancora più settaria, mentre
NTV, la televisione tolta a Gusinskij, aveva dato a
Putin un vantaggio di quattro volte superiore rispetto
al candidato immediatamente successivo nella
graduatoria.
Questo era quello che Revenko aveva chiamato
“far passare con efficacia il messaggio del governo”.
I funzionari delle televisioni locali compresero il
messaggio e condussero la campagna elettorale di
conseguenza.
Il 1o settembre in Russia si celebra la “Giornata
del sapere”: tutte le scuole elementari, medie e licei
del paese iniziano l’anno scolastico. Il primo giorno
di scuola è un po’ una cerimonia: i bambini,
specialmente quelli di prima elementare e quelli
dell’undicesima classe (prossimi al diploma) vanno
a scuola ben vestiti, con fiori in mano, e di solito
accompagnati dai genitori. Si tengono discorsi, si
fanno gli auguri, qualche volta sono organizzati
concerti, preghiere collettive e processioni di festa.
Nell’estate 2000 - quando avevo lasciato il paese
dopo l’arresto di Gusinskij - ho adottato un bambino,
un ragazzino di nome Vova (undici mesi dopo mi è
anche nata una bambina). Il 1o settembre del 2004
accompagnai Vova al primo giorno di scuola in
prima elementare. Era serissimo, con una camicia
blu abbottonata fino al collo che continuava a uscire
dai pantaloni. Diede alla sua maestra un mazzetto di
fiori, ascoltammo i discorsi e i bambini entrarono a
scuola. Entrai in macchina per il lungo viaggio verso
l’ufficio: la Giornata del sapere è uno dei peggiori
giorni di traffico di tutto l’anno. Accesi la radio e
appresi la notizia: un gruppo di uomini armati aveva
preso in ostaggio diverse centinaia di bambini e di
genitori in una scuola dell’Ossezia del Nord.
Anche se coordinavo il reportage da Mosca - ero
vicedirettore di un nuovo settimanale cittadino - nei
tre giorni successivi ho portato a termine uno dei
lavori più difficili della mia vita. I tre giorni del
confronto nella città di Beslan, pieni di paura,
confusione e di molti momenti di viva speranza
finirono tragicamente con l’intervento dell’esercito
federale nella scuola: più di trecento persone
morirono. Il pomeriggio del 1° settembre, appena
sono entrata in ufficio ho detto ai miei colleghi tutti
più giovani e senza alcuna esperienza giornalistica
in questo campo: “Assaliranno l’edificio. Fanno
sempre così.” Ma quando è successo, mi sono seduta
alla mia scrivania e nascondendo la faccia nelle
mani sono scoppiata a piangere. Quando alla fine ho
tolto le mani, ho trovato una lattina di Coca Cola che
uno dei miei giovani colleghi mi aveva portato
tentando di consolarmi.
Il fine settimana seguente, la mia famiglia e la
famiglia della mia più cara amica si erano riunite
nella mia dacia. Quando la bambina di otto anni uscì
in giardino davanti a casa, tutti noi quattro adulti
siamo stati presi dal panico. Ho avuto la netta
sensazione che tutto il paese fosse stato traumatizzato
nello stesso modo.
Era a questa nazione sotto choc che si rivolse
Putin il 13 settembre 2004. Aveva riunito il gabinetto
dei ministri, il suo staff e tutti gli ottantanove
governatori e si rivolse a loro a porte chiuse per due
ore. Il testo del suo discorso venne poi distribuito ai
giornalisti.

Non si può che piangere parlando di quello che è


successo a Beslan. Non si può che piangere
pensandoci. Ma la compassione, le lacrime e le
parole da parte del governo non sono assolutamente
sufficienti. Dobbiamo agire, dobbiamo aumentare
l’efficienza del governo nel combattere l’intero
spettro di problemi che il paese si trova ad
affrontare. [...] Sono convinto che l’unità del paese
sia la condizione principale del successo nella lotta
al terrorismo.14

Da quel momento i governatori non saranno più


eletti; li avrebbe nominati lui come avrebbe
nominato anche il sindaco di Mosca. Nemmeno i
membri della camera bassa del parlamento
sarebbero più stati eletti direttamente, come era
avvenuto per la metà di essi. I cittadini russi
voteranno per i partiti politici che avrebbero poi
provveduto ad assegnare i seggi ai loro iscritti. La
procedura per nominare i candidati presidenziali era
semplicissima paragonata alla nuova procedura
d’iscrizione dei partiti politici. Adesso tutti i partiti
dovevano essere registrati di nuovo, una
registrazione che avrebbe però comportato
l’eliminazione di molti. La soglia per qualificarsi e
avere una quota dei seggi in parlamento venne
portata dal cinque al sette per cento. Infine tutte le
proposte di legge d’ora in poi sarebbero state filtrate
prima di essere sottoposte alla procedura di
approvazione da parte del parlamento: il presidente
avrebbe nominato una commissione “pubblica” per
la revisione delle proposte di legge.
Dopo aver trasformato in legge questi
cambiamenti, alla fine del 2004, non rimase che un
solo funzionario federale eletto direttamente dal
popolo: il presidente.
Nalla primavera 2005, uno dei personaggi russi
più noti dichiarò guerra a Putin. Garri Kasparov, il
campione di scacchi, il giocatore di scacchi più
qualificato di tutti i tempi e moderato attivista
politico, tenne una conferenza stampa per annunciare
che si sarebbe ritirato dagli scacchi e si sarebbe
impegnato per restaurare la democrazia in Russia.
Sembrava avere tutte le qualifiche necessarie: fama,
denaro, un instancabile cervello logico combinato
con l’abilità oratoria che gli consentiva di spiegare
la politica alle persone più diverse e la tenacia per
impegnarsi in un’ininterrotta campagna. Passò
l’estate 2005 impegnato in una agenda continua di
incontri con la gente e io mi unii a lui per una parte
del suo viaggio.
A Beslan, la città della crisi degli ostaggi
dell’anno prima, Kasparov passò un’ora e mezzo al
cimitero. Il “nuovo cimitero”, come lo chiamava la
gente, era un campo diviso in 330 lotti identici,
nonostante gli operai stessero ancora lavorando ogni
giorno per tagliare il granito che avrebbe formato le
tombe, per ricoprirle di ghiaia e infine metterci
sopra le lastre di granito rosa. I lotti della prima fila
erano finiti e i genitori e gli altri parenti avevano
collocato le fotografie dei bambini morti sopra le
lastre. A parte questo, l’unica differenza fra i diversi
lotti era la dimensione: ce ne erano di singoli, doppi
e tripli, molte tombe di famiglia ospitavano la madre
e tre o quattro figli, oppure due sorelle e i loro
cinque figli, C’erano bottiglie di acqua minerale o di
succhi di frutta su ogni tomba: era diventata una
tradizione di Beslan portare delle bevande già aperte
per i parenti che prima di morire avevano sofferto di
disidratazione. Kasparov si fermò ad ogni tomba
leggendo i nomi e le date di nascita e di morte
(anche se tutti quelli seppelliti a Beslan erano stati
uccisi lo stesso giorno il 3 settembre 2004) e si
piegò per posare su ogni tomba un garofano rosso
preso da una scatola portata da una delle sue guardie
del corpo. Si spostava attraverso le tombe come si
sarebbe mosso un politico incontrando una fila di
elettori, solo che non c’erano mani da stringere.
Poi Kasparov andò alla casa della cultura - un
edificio multifunzionale per incontri e spettacoli
presente in tutte le città russe - dove era previsto un
suo discorso. La casa della cultura era sbarrata, ma
una cinquantina di persone si erano riunite sotto il
portico di ingresso. Molte erano donne vestite di
nero e con il capo coperto da un velo sempre nero -
donne in lutto oppure, come erano conosciute in tutta
la Russia “madri di Beslan”. Erano diventate la
forza che animava l’impegno di trasformare il
processo all’unico terrorista sopravvissuto in una
inchiesta a tutto campo su quello che era successo
nella scuola. A poco a poco si era consolidata la
convinzione che le truppe federali fossero
responsabili della morte dei loro figli perché
avevano privilegiato l’uccisione dei terroristi
rispetto alla liberazione degli ostaggi e come
risultato avevano ucciso gli uni e gli altri.
“Sono le menzogne che hanno ucciso i vostri
figli,” disse Kasparov rivolto alle donne vestite di
nero. Durante la crisi i funzionari avevano sostenuto
che ci fossero 354 ostaggi nella scuola. Invece ce ne
erano più di mille. Ex ostaggi avevano testimoniato
che i rapitori, che stavano guardando la TV nella
sala dei professori, quando sentirono pronunciare la
cifra di 354, avevano capito che il governo,
sottostimando il numero delle possibili vittime, stava
mettendo le basi per l’attacco. Da quel momento i
rapitori smisero di distribuire l’acqua. Un’altra
affermazione della versione ufficiale, in merito alla
totale mancanza di richieste da parte dei rapitori, era
contestata da testimoni che sostenevano l’esistenza
di una lettera e di un videotape con richieste che
avrebbero potuto portare a trattative. “Sono le
menzogne che stanno alla base di questo regime,”
continuò Kasparov. “Se il processo viene bloccato e
se l’indagine viene insabbiata, Beslan si ripeterà.
Non voglio andare al potere, ma voglio che quelli
che sono al potere mi dicano la verità. Io
costringerei quegli abbietti a venire qui e a
percorrere tutto il cimitero.” Aveva le lacrime agli
occhi. “Voglio che vedano a cosa hanno portato le
loro menzogne. Menzogne!”
In quel momento ci fu uno scoppio sordo, che
sembrava proprio un colpo di fucile, le donne
gridarono: “Garri! Garri!”, poi la folla si disperse.
Le guardie del corpo cercarono in qualche modo di
fargli da schermo mentre trattenevano la gente
affinché non si calpestassero gli uni sugli altri
mentre cercavano di uscire dal portico. Un giovane
di fronte all’edificio aveva una bottiglia di ketchup
in mano e dopo averla agitata violentemente l’aveva
diretta contro Kasparov e gliel’aveva spremuta
addosso. Kasparov rimase coperto di salsa rossa
appiccicosa, la testa, il petto e la spalla destra della
giacca blu. Il portico era rimasto vuoto, salvo per un
sacco di plastica pieno di uova rotte che aveva
colpito il soffitto della struttura prima di cadere a
terra: la causa del colpo iniziale.
Un’anziana donna, che era rimasta insieme a noi,
cercava di pulire il viso di Kasparov con un
fazzoletto. “Perdonatemi, perdonatemi,” continuava a
ripetere lui scusandosi per avere provocato questo
incidente in una città che era già sconvolta dal
dolore. Un’altra donna vestita di nero di corporatura
più pesante sulla quarantina disse: “Andiamo alla
scuola - là siamo al sicuro,” Kasparov si avviò
lungo la strada in mezzo al gruppo di donne verso
l’edificio che era stato semidistrutto dall’attacco che
aveva chiuso la crisi degli ostaggi. Durante tutti i
dieci minuti della loro passeggiata, Kasparov parlò
dell’inevitabilità di una crisi politica,
dell’importanza della protesta e della necessità di
mettere da parte le differenze politiche per poter
smantellare il regime. La folla aumentò man mano
che la gente usciva dalle case e dai condomini per
unirsi alla marcia.
Entrarono nella scuola passando attraverso gli
enormi buchi nei muri di quella che era stata la
palestra. Alla fine dell’assedio, questa parte era
piena di bambini ed è qui che la maggior parte di
loro è morta. Dallo stato fisico dell’edificio, si
capisce che la palestra è stata distrutta da carri
armati che sparavano ad alzo zero: c’erano enormi
buchi negli spessi muri di mattoni dove una volta
erano fissate le finestre protette da griglie di ferro.
All’interno lo spazio era annerito da un incendio, le
madri di Beslan ritenevano che l’incendio fosse stato
innescato dai lanciafiamme usati dall’esercito (il
governo aveva ammesso l’uso di lanciafiamme, ma
aveva negato che questa potesse essere la causa
dell’incendio).
Kasparov rimase senza fiato quando entrò nella
palestra. “Oh mio dio! Oh mio dio!” sussurrò. Le
donne andarono nei diversi angoli e cominciarono a
piangere e presto la sala fu piena dei loro lamenti e
dei singhiozzi soffocati. Kasparov sembrava
distrutto, scuoteva la testa con la bocca semiaperta.
Era chiaro che in questo luogo non si poteva parlare:
la stanza era gonfia di dolore. Chiese di fare un giro
nella scuola, mentre girava per le aule con la folla,
che adesso era diventata di un centinaio di persone,
continuava a parlare: “Cammino in questa scuola e
penso: Come fa la gente a Mosca, ad andare in giro,
a parlare, a continuare a dire menzogne? Fra di loro
c’è qualcuno che ha dato l’ordine di aprire il fuoco.
Se questa persona se la cava impunita, saremo tutti
colpevoli!”
Il resto della giornata di Kasparov fu strano.
Proseguì per Vladikavkaz, a un’ora di macchina, la
capitale dell’Ossezia del Nord. Doveva parlare, ma
l’organizzatore del suo giro venne informato che il
sipario della sala era crollato sul palco e lo spazio
era inagibile. Dopo quattro settimane di campagna
questo tipo di incidente era diventato corrente: ogni
sala che Kasparov aveva affittato in ogni città della
Russia aveva qualcosa che non andava. Qui non solo
la sala era inagibile ma di fronte all’edificio era
stata organizzata all’ultimo momento una festa per
bambini con musica a tutto volume. Kasparov andò
lo stesso e parlò urlando a una folla di sessanta
persone sulla spesa sociale che in Russia era circa il
15% del bilancio - ancora meno che negli Stati Uniti.
Molti adolescenti si radunarono intorno agli
ascoltatori. Uno di loro lanciò un sasso a Kasparov e
lo mancò. Kasparov continuò a parlare. Poi ci fu una
cascata di uova due delle quali colpirono Kasparov
in testa. I ragazzi che avevano lanciato le uova
scapparono verso le auto della polizia e sparirono
rapidamente: non fecero nemmeno lo sforzo di
nascondere di essere stati accompagnati e per di più
protetti dalla polizia. Quando un giornalista tedesco
che era stato colpito da un uovo cercò di inseguire il
suo assalitore, uno dei poliziotti - che più tardi
risultò essere un addetto stampa locale del ministero
degli interni - lo afferrò per un braccio e gli disse
bruscamente di farsi i fatti suoi. “Il loro regime ha
paura delle parole!” urlò Kasparov.
Due delle sue guardie del corpo visibilmente
turbate commentavano a bassa voce: “Era solo un
ragazzino - non l’ho visto arrivare,” disse uno. “Ero
nella posizione sbagliata,” ammise l’altro, che aveva
provato senza riuscirci a proteggere la testa di
Kasparov. Le uova non sono pericolose, ma
dimostrarono chiaramente quanto fosse esposto
Kasparov nonostante le otto guardie del corpo che
giravano intorno a lui.
“Abbiamo previsto tutto quello che era
prevedibile,” mi disse Kasparov. “Ma se ci avessi
pensato non sarei andato avanti.” Una delle sue
guardie vigilava continuamente sulla preparazione
del cibo e Kasparov beveva solo acqua imbottigliata
che si era portato appresso e mangiava solo cibo
ordinato per tutta la tavola.
A cena alla chiusura del suo giro nell’Ossezia del
Nord - durato più o meno cinque ore durante le quali
Kasparov giocò tre partite a scacchi, due con un
ragazzo prodigio locale di sette anni - Alan Cociev,
un attivista dell’Ossezia, che era stato recentemente
in prigione per sette mesi per avere distribuito
materiale di propaganda antigovernativa, propose un
brindisi: “Nessuno ha mai provato a fare quello che
tu stai facendo. Non ti rivolgi a quattrocentomila
persone in ogni città, né a quattrocento in qualche
grande sala. Parli a cinquanta, sessanta persone alla
volta in un paese che ha 145 milioni di abitanti. È un
compito folle. Voglio fare questo brindisi: a un uomo
che ha scelto di fare l’impossibile. Che possa adesso
diventare possibile!”
Questa era solo metà della storia della impresa
impossibile di Kasparov. Kasparov non si stava
mettendo in moto solo per le sue idee; cercava anche
di raccogliere e diffondere informazioni, sostituendo
da solo la stampa e i media che erano stati
sequestrati. Interrogò i simpatizzanti locali sulla
situazione nella loro regione per poi divulgare
queste informazioni. La sua memoria da giocatore di
scacchi si dimostrò preziosissima: secondo uno dei
suoi assistenti, non aveva mai avuto una agenda per i
numeri del telefono perché si ricordava comunque
tutti i numeri che gli dicevano. Adesso stava
continuamente elaborando e sistemando le
informazioni nella sua testa. Manteneva un conteggio
aggiornato di tutte le tasse che ogni regione poteva
trattenere, ricordava tutti i problemi degli attivisti
progressisti, i dettagli dei discorsi e i particolari dei
comportamenti che riteneva significativi. Adesso che
i media locali e nazionali funzionavano solo per
diffondere il messaggio del governo, le informazioni
dovevano essere raccolte in questo modo: pezzo per
pezzo.
A Rostov, dove Kasparov parlò davanti alla
biblioteca pubblica - avrebbe dovuto tenere il
discorso dentro la biblioteca, ma era stata chiusa con
la scusa di una conduttura rotta - un giovane si
avvicinò alla segretaria di Kasparov, le diede il suo
biglietto da visita dicendo che avrebbe voluto
partecipare come organizzatore locale. Quando
chiesi il suo nome mi rispose: “Impossibile verrei
licenziato immediatamente.” Appresi più tardi dalla
segretaria che era un docente di un’università statale.
Kasparov aveva affittato un aereo privato per
andare nella Russia del Sud e l’idea era di usarlo
per spostarsi da una città all’altra. Dopo aver
passato la maggior parte di una giornata a terra
perché nessun aeroporto voleva dare loro il
permesso di atterrare, il gruppo di tredici persone,
tra cui Kasparov la sua segretaria e due giornalisti,
dovette passare alle automobili. Quando arrivammo
a Stavropol’ risultò che le nostre prenotazioni erano
state annullate. Nella lobby dell’albergo
l’organizzatore di Kasparov cercava di telefonare a
tutti gli alberghi della sonnolenta città, tutti
affermavano di essere al completo. A questo punto si
fece vivo il direttore dell’albergo.
“Mi dispiace,” disse ammaliato. “Deve capire la
situazione in cui mi trovo. Ma posso fare una
fotografia insieme a lei?”
“Mi dispiace,” rispose Kasparov. “Ma lei deve
capire la situazione in cui mi trovo.”
Il direttore dell’albergo divenne rosso come una
barbabietola. Adesso era imbarazzato tanto quanto
prima era stato spaventato.
“All’inferno,” disse. “Vi daremo le vostre stanze.”
Quella sera, solo uno dei dodici invitati si fece
vivo. L’organizzatore locale, un imprenditore, disse
che tutti gli invitati avevano ricevuto telefonate di
minaccia e di avvertimento perché non venissero
alla cena.
Nel Dagestan, Kasparov avrebbe dovuto
consegnare i premi ai bambini vincitori del torneo di
scacchi, ma quando arrivammo, l’unica persona ad
attenderci era un giornalista dell’opposizione. Ci
spiegò che il presidente della Federazione degli
scacchi del Dagestan aveva ricevuto una telefonata
dal governo regionale con la quale lo informarono
che l’avrebbero licenziato se Kasparov fosse stato
presente all’evento, così gli autisti - che si
rivelarono tutti poliziotti locali - ci hanno portato nel
posto sbagliato.
Dovunque Kasparov andasse era seguito. C’erano
di solito due agenti della polizia segreta, facilmente
identificabili per i vestiti e per il comportamento e
le loro videocamere “di ordinanza”. Alcuni di questi
agenti lo riprendevano, altri si comportavano da
giornalisti - facevano sempre le stesse domande e
non volevano mai dire il loro nome - altri si
limitavano a pedinarlo. Era impossibile dire se
queste straordinarie misure di sicurezza,
sorveglianza e di generale boicottaggio fossero
l’attuazione di ordini da Mosca o se fossero
iniziativa delle autorità locali. In ogni caso, diedero
a Kasparov la stimolante sensazione che il regime
avesse paura e aumentavano la credibilità delle sue
parole. Allo stesso tempo però logoravano la sua
immagine: anche un genio di fama mondiale
comincia a sembrare un po’ ridicolo girando con
vestiti macchiati di pomodoro, viaggiando in vecchi
e ammaccati pulmini a noleggio, tenendo discorsi
per strada a piccoli gruppi di persone convocate una
alla volta.
Kasparov condusse la sua campagna con la stessa
instancabile tenacia con la quale aveva giocato a
scacchi: si era battuto in alcune delle partite più
lunghe della storia del gioco e in quanto estraneo
all’establishment dello sport sovietico, non era la
prima volta che doveva confrontarsi con il gioco
truccato. Ma la sua organizzazione politica non
riuscì a crescere: totalmente tagliato fuori dalla
televisione, la sua voce con il passare degli anni
divenne sempre più marginale. Alla fine il suo
denaro, la sua fama, la sua mente geniale non valsero
a nulla contro il regime, anche se era vero che il
regime aveva paura di lui. Una volta smantellate le
istituzioni della democrazia era impossibile
organizzarsi per difenderle. Era già troppo tardi.
9
IL TERRORE AL POTERE
Il 23 novembre 2006 un uomo di nome Aleksandr
Litvinenko morì in un ospedale di Londra.* Aveva
quarantanove anni, era un funzionario dell’FSB, i
suoi ultimi giorni di vita vennero trasmessi
praticamente in diretta dalle televisioni inglesi e da
qualche televisione russa. “Solo tre settimane fa era
un uomo felice, in piena salute, con una folta
capigliatura che si allenava correndo per dieci
chilometri al giorno,” così lo descriveva il Daily
Mirror il 21 novembre.1 Una foto di Litvinenko
corredava l’articolo, emaciato e calvo, una camicia
dell’ospedale aperta sul petto, coperto di elettrodi.
“Il signor Litvinenko può a malapena alzare la testa,
talmente deboli sono i muscoli del collo. Parla con
difficoltà, brevi frasi troncate penosamente.” Il
giorno dopo la pubblicazione dell’articolo
Aleksandr Litvinenko cadde in coma. Il giorno dopo
nelle urine vennero finalmente trovate tracce del
veleno che lo aveva ucciso: si trattava di polonio,
una sostanza molto rara e fortemente radioattiva.
Poche ore dopo, il cuore di Litvinenko si arrestò per
la seconda volta e fu la fine.2
Litvinenko era stato un classico informatore
interno a una organizzazione. Nel 1998 era apparso
in una conferenza stampa televisiva con quattro suoi
colleghi della polizia segreta. Dichiararono di avere
ricevuto incarichi illegali dall’FSB e fra questi
l’ordine di uccidere Boris Berezovskij. La
conferenza stampa era stata organizzata dallo stesso
Berezovskij che Litvinenko aveva conosciuto
durante un’indagine su un indipendente tentativo di
assassinio nel 1994. I due uomini apprezzavano
molto la reciproca conoscenza e forse entrambi
ponevano eccessive speranze nell’altro. Berezovskij
credeva che la conoscenza di un uomo onesto
nell’FSB gli attribuisse protezione; Litvinenko
contava sull’influente miliardario perché lo aiutasse
a cambiare gli aspetti non funzionanti del sistema.
Litvinenko era stato nei servizi fin dall’età di
diciotto anni. Era uno dei più giovani tenenti
colonnello che ci siano mai stati nella polizia segreta
russa; era totalmente votato al sistema in cui era
cresciuto, ma apparteneva a quella rara specie di
persone incapaci di accettare le imperfezioni di un
sistema - qualunque sistema - e assolutamente sorde
nei confronti dei discorsi di chi accetta le cose come
stanno.
Vladimir Putin era stato messo a capo dell’FSB
nell’agosto 1998 in mezzo alle insinuazioni di
corruzione nei confronti della dirigenza precedente.
“Quando Putin venne nominato chiesi a Saša se lo
conoscesse.” Mi raccontò anni dopo Marina, la
vedova di Litvinenko. “Mi disse che c’erano voci
che non fosse mai stato un agente sul campo. Questo
voleva dire che lo snobbavano, perché non era di
quelli che avevano fatto la gavetta.” Berezovskij
organizzò comunque un incontro tra il suo protetto, il
capo della polizia segreta, e l’amico informatore.
Era il periodo i cui Putin percepiva l’ambiente di
lavoro così ostile da fare le riunioni con Berezovskij
nel vano ascensore in disuso nell’edificio della
direzione generale dell’FSB. Berezovskij voleva che
i due si considerassero alleati. Litvinenko era andato
all’incontro con dei grafici che illustravano i
collegamenti sospetti fra i vari settori dell’FSB e la
provenienza delle istruzioni illegali e del traffico di
denaro. Riferì a Putin anche dell’ordine di uccidere
Berezovskij, del quale sia l’oligarca che
l’informatore erano convinti non fosse al corrente.
Litvinenko disse in seguito alla moglie e a
Berezovskij che Putin non era interessato; l’incontro
durò solo dieci minuti. Litvinenko tornò a casa
deluso e preoccupato per il futuro, e come tutti gli
uomini di quella specie deciso ad agire.
La mossa successiva fu di tenere una conferenza
stampa sull’attività illegale dell’FSB. Oltre
all’ordine di uccidere Berezovskij dichiarò di aver
ricevuto istruzioni di sequestrare e pestare noti
uomini d’affari. Putin rispose con una dichiarazione
trasmessa in televisione nella quale denunciava sul
piano personale Litvinenko, accusandolo di essere
inadempiente sui pagamenti degli alimenti alla prima
moglie (la seconda moglie rispose che aveva fatto
lei stessa i pagamenti mensili e che aveva come
prova le ricevute della banca).
Tre mesi dopo Litvinenko veniva arrestato con
l’accusa di essere stato violento durante un
interrogatorio tre anni prima. Il caso non aveva
fondamenti e Litvinenko fu assolto da un tribunale
militare nel 1999. Non lo lasciarono nemmeno uscire
dall’aula: arrivarono agenti dell’FSB pronti ad
arrestarlo per altre imputazioni. Il caso fu archiviato
con una motivazione di non luogo a procedere, ma
venne immediatamente intentata una terza causa nei
suoi confronti. Un giudice militare lo lasciò in
libertà su cauzione in attesa del nuovo processo;
quando Litvinenko apprese che le udienze si
sarebbero tenute in una cittadina a cento chilometri
da Mosca, dove era poco probabile che arrivassero
giornalisti e osservatori esterni, decise di fuggire
dalla Russia.
Nel settembre 2000 disse a Marina che sarebbe
andato in una città nel Sud del paese a visitare gli
anziani genitori. Le telefonò quasi un mese dopo e le
disse di andare in vacanza. “Gli risposi che non mi
sembrava il momento giusto,” mi raccontò in seguito
Marina. “Tolja, nostro figlio, aveva appena
cominciato le lezioni di musica, perché mai sarebbe
dovuto andare in vacanza? Ma lui continuò: ‘Hai
sempre voluto andare in vacanza. Dovresti andarci
ora.’ Allora capii, certe volte aveva quel tono di
voce e io capii che dovevo fare quello che diceva.”
Prenotò un viaggio di due settimane in Spagna e ci
andò con il figlio di sei anni. Finite le due settimane
Litvinenko le disse di andare all’aeroporto di
Malaga a mezzanotte. Spaventata e confusa andò e
venne accolta da una conoscenza che portò lei e
Tolja in Turchia con un jet privato, probabilmente di
proprietà di Berezovskij. Aleksandr l’aspettava ad
Adalia una località di vacanze turca.
“Sembrava proprio come al cinema,” disse lei.
“Non potevamo credere.” Solo che nessuno aveva
scritto il soggetto della loro fuga. L’impiegato di
Berezovskij che aveva accompagnato Marina da
Malaga era dovuto ripartire. Dopo aver festeggiato
la loro riunione per due giorni in un albergo di
vacanze ad Adalia, Aleksandr e Marina
cominciarono a rendersi conto che erano dei
fuggitivi senza un posto dove andare. Berezovskij
aveva promesso di aiutarli finanziariamente, ma non
aveva alcuna idea di come poterli assistere sui
problemi logistici. Chiamò allora il suo amico Alex
Gol’dfarb che si trovava a New York dicendogli di
andare in Turchia a risolvere la cosa. Gol’dfarb
accettò anche se il coinvolgimento nella fuga di
Litvinenko gli sarebbe costato il lavoro con Georgij
Soros. Gol’dfarb accompagnò Litvinenko
all’ambasciata americana all’Ankara, dove l’agente
russo venne ascoltato, ma la sua richiesta di asilo
non venne accolta: era stato nella polizia segreta, ma
non era stato una spia e gli americani non erano
interessati alle sue informazioni. Andando
all’ambasciata però Litvinenko si era esposto agli
agenti russi che, come sapeva, sorvegliavano
continuamente l’ambasciata americana. Spaventato,
aveva bisogno di una soluzione con la massima
urgenza.
Gol’dfarb trovò una soluzione ingegnosa:
avrebbero preso un biglietto aereo con cambio a
Londra e Litvinenko si sarebbe consegnato alle
autorità inglesi all’aeroporto. Così fecero e finirono
a Londra, l’affitto e la scuola di Tolja a carico di
Berezovskij.
Dopo alcuni mesi di espedienti, Litvinenko
cominciò a scrivere. Insieme allo storico russo-
americano Jurij Felštinskij, conosciuto quando
Felštinskij aveva lavorato nella squadra dei
giornalisti di Berezovskij a Mosca, scrisse un libro
sugli attentati dinamitardi agli edifici residenziali
del 1999. Litvinenko con la sua competenza
professionale analizzò la documentazione che era
stata presentata nella televisione russa, mettendo in
evidenza le numerose incongruenze nella versione
ufficiale dell’FSB dell’attentato fallito a Rjazan’.
Lui e Felštinskij analizzarono anche la
documentazione prodotta dai reporter della Novaja
Gazeta, un settimanale di Mosca specializzato in
giornalismo investigativo. I giornalisti avevano
trovato due reclute che erano entrate in un magazzino
dell’aeronautica militare a Rjazan’ nell’autunno
1999 per cercare dello zucchero da mettere nel loro
tè. Trovarono dozzine di sacchi da cinquanta
chilogrammi con la scritta ZUCCHERO, ma la
sostanza presente nei sacchi diede al tè un sapore
così strano che denunciarono tutto l’incidente,
compresa l’effrazione e il furto, all’ufficiale
superiore. Quest’ultimo fece analizzare la sostanza
che risultò essere esogeno, l’esplosivo. Litvinenko e
Felštinskij trovarono anche prove a dimostrazione
del fatto che l’FSB aveva utilizzato il magazzino
dell’aeronautica militare, e secondo loro proprio
allo scopo di tenervi nascosto l’esplosivo.3
A poco a poco vennero alla luce altre prove.4 Un
deputato dell’opposizione, Julij Rybakov - uno dei
due parlamentari che si erano rifiutati di alzarsi in
piedi quando venne suonato l’inno sovietico-russo -
diede a Litvinenko il verbale della sessione della
Duma del 13 settembre. Il presidente della Duma
aveva interrotto il dibattito dicendo: “Abbiamo
appena ricevuto la notizia che un edificio
residenziale a Volgodonsk è stato fatto saltare ieri
notte.” In verità l’edificio saltò in aria solo tre giorni
dopo: sembra che la talpa nell’ufficio della
presidenza della Duma - che Litvinenko in seguito fu
in grado di identificare - abbia dato al presidente la
velina sbagliata al momento sbagliato, dimostrando
tuttavia di essere al corrente dell’esplosione in
anticipo.
Un altro informatore, Michail Trepaškin, uno degli
agenti dell’FSB che aveva preso parte alla maledetta
conferenza stampa di Litvinenko nel 1998, si unì alle
indagini. Riuscì a mettere in evidenza il
collegamento tra l’FSB e gli edifici di Mosca,
identificando un uomo d’affari, il cui nome era stato
impiegato per affittare un appartamento in entrambi
gli edifici, l’agente dell’FSB che aveva ingaggiato
l’uomo d’affari, e anche due degli uomini che
avevano poi organizzato di fatto l’attentato. Ancora
più sorprendente, Trepaškin riuscì a dimostrare che
l’identikit di un sospettato era stato cambiato con un
altro. Due uomini furono arrestati, e Trepaškin, in
qualità di avvocato, era pronto a rappresentare i due
sopravvissuti nelle udienze in tribunale, e in quella
sede avrebbe esposto le prove raccolte. Una
settimana prima dell’udienza Trepaškin venne
arrestato per possesso illegale di arma da fuoco;
passò cinque anni in prigione. Le udienze in
tribunale si svolsero a porte chiuse; i due sospettati
furono condannati all’ergastolo, ma non si seppe mai
chi fossero né perché avevano commesso il delitto.
La sera del 23 ottobre 2002, un paio di amici si
erano fermati da me per bere un bicchiere: avevo un
bambino di tre anni e una bambina di un anno,
passavo la maggior parte delle mie serate a casa. Gli
amici, uno dei quali era un produttore televisivo,
proposero di accendere la TV per guardare un nuovo
programma in onda per la prima volta quella sera.
Lo spettacolo non era nemmeno incominciato quanfo
fu subito interrotto da un annuncio di emergenza. In
un teatro di Mosca era in corso un sequestro con
ostaggi. A quel tempo redigevo un piccolo sito web
di analisi politica, Polit.ru. Nelle tre giornate
seguenti avrei dormito solo tre ore al giorno, i miei
giornalisti facevano i turni per seguire la situazione
al teatro e io mettevo i loro reportage sul sito web.
Il sequestro era iniziato poco dopo le nove di
sera. Lo spettacolo in programmazione includeva una
scena in cui un vero aereo della seconda guerra
mondiale si sarebbe materializzato sul palco. In quel
momento apparvero in sala uomini con il volto
coperto armati di mitra, e per qualche secondo molti
spettatori pensarono che fosse parte dello spettacolo.
A teatro quella sera c’erano circa ottocento persone
fra di loro qualche dozzina di bambini e alcuni
stranieri che i sequestratori liberarono
immediatamente - alcuni attori, molti di loro
bambini, scapparono dalla finestra dello spogliatoio.
Tutti quelli che rimasero passarono le successive
cinquantotto ore nella sala, deidratati, terrorizzati,
esausti, e alla fine disperati. Anche se gli era stato
ordinato di consegnare i telefonini molti di loro
riuscirono a chiamare le stazioni radio in vari
momenti durante il sequestro, per cui la città
attanagliata dall’ansia e dalla paura riuscì a udire le
voci dall’interno.
Verso le sette del mattino del terzo giorno del
sequestro, diversi funzionari del ministero entrarono
nella sala riunioni di una vicina università dove i
parenti degli ostaggi avevano passato la maggior
parte del tempo. Uno dei familiari ricorda quei
terribili istanti:

Erano tutti molto contenti ed eccitati. Andarono al


microfono. La stanza piombò nel silenzio più
assoluto. Poi pronunciarono queste dolci parole:
“L’operazione si è svolta senza intoppi. Tutti i
terroristi sono stati uccisi e non ci sono vittime tra
gli ostaggi.” Nella stanza scoppiarono applausi e
grida di gioia. Tutti ringraziarono le autorità per aver
salvato i loro cari.5

Quella dichiarazione trionfale era tutta una


menzogna.
Il sequestro nel teatro di Mosca è stato al
contempo una delle operazioni di maggiore successo
e uno dei recuperi degli ostaggi più fallimentari
della storia. Durante l’assedio i terroristi, che
davano l’impressione di essere disorganizzati e
disorientati, continuavano a trattare con tutti quelli
che arrivavano rilasciando continuamente ostaggi.
Una strana folla di medici, politici e giornalisti
poteva entrare e uscire dall’edificio per negoziare
condizioni migliori per i prigionieri. Il secondo
giorno i familiari che speravano in una soluzione
pacifica si riunirono in una assemblea e firmarono
una petizione che presentarono con 250 firme:

Stimato Presidente,
siamo i figli, i parenti e gli amici degli ostaggi che
sono dentro al teatro. Ci appelliamo alla sua ragione
e alla sua misericordia. Sappiamo che l’edificio è
minato e che l’uso della forza provocherà
l’esplosione delle mine e il crollo dell’edificio.
Siamo certi che nessuna concessione può essere più
importante quando la contropartita sono le vite di
settecento persone. Le chiediamo di non permettere
che ci siano vittime. Continuate a trattare! Accogliete
alcune delle loro richieste! Se i nostri cari
morissero, non potremo più credere che nella forza
del nostro stato né nella verità del nostro governo.
Non lasciateci orfani!6
Dopo qualche ora uno dei nostri reporter chiamò
per informarmi che un ospedale vicino al teatro era
stato evacuato. Mi convinsi che militari avevano
iniziato ad assalire l’edificio e che stavano
preparando lo spazio per le possibili vittime.
Alle 5.30 di sabato mattina, il terzo giorno del
sequestro, due degli ostaggi chiamarono Echo
Moskvy, la più importante stazione radio della città.
“Non so cosa stia succedendo,” disse una
singhiozzando al telefono. “C’è del gas. Sono tutti
seduti nella sala. Ve lo chiediamo per favore,
speriamo solo di non essere un nuovo Kursk.” Non
riuscendo più a parlare passò il telefono al suo
amico, che disse, sembra che stiano cominciando a
usare la forza. Per favore se c’è una possibilità non
abbandonateci. Vi preghiamo.” È disperatamente
evidente che né gli ostaggi, né i loro familiari fuori
dal teatro avevano la minima fiducia nell’esercito
russo. Il riferimento al Kursk era chiarissimo: non
credevano che il governo avesse alcun rispetto per
la vita umana.
In effetti il piano di salvataggio era brillante. Le
forze speciali avrebbero usato i passaggi sotterranei
per riempire la sala del teatro di gas che avrebbe
fatto addormentare tutti quanti e avrebbe impedito ai
terroristi di detonare le cariche piazzate intorno alla
sala: le donne vestite di nero che sembravano
indossare corpetti di esplosivo erano piazzate
ovunque. Una volta addormentati, i terroristi
avrebbero potuto essere facilmente arrestati e gli
ostaggi liberati dalle truppe dell’esercito, entrate
dagli stessi passaggi sotterranei o dagli ingressi
principali del teatro.
Nulla funzionò come previsto dal piano. Ci
vollero molti minuti prima che i terroristi si
addormentassero. Per quale motivo non detonarono
le cariche esplosive resta ancora oggi senza
spiegazione, tanto da far supporre che non ci fosse
nessun esplosivo.
Gli ostaggi in grave carenza di sonno, in
condizioni di acuta disidratazione - anche per colpa
delle due unità di forze speciali che non si misero
d’accordo per lasciar passare un carico d’acqua e di
bevande autorizzato dai terroristi - si
addormentarono subito e per svegliarli fu necessario
l’intervento dei medici. Invece di venire
immediatamente affidati a del personale medico,
furono portati fuori dal teatro e lasciati sugli scalini
davanti all’ingresso, molti sdraiati sulla schiena
invece che sul fianco, come sarebbe stato
necessario. Molte persone morirono soffocate dal
loro vomito proprio sulla scalinata del teatro, senza
nemmeno riprendere conoscenza. Gli stessi morti e
qualche persona priva di sensi vennero caricati sugli
autobus, e furono messi a sedere, sugli autobus molti
altri morirono soffocati quando le loro teste
scivolarono all’indietro. Invece di portarli
all’ospedale più vicino, gli ostaggi vennero portati
in ospedali nel centro di Mosca, dove i medici non
poterono assisterli perché i militari e la polizia si
rifiutarono di rivelare il tipo di gas impiegato
nell’operazione. Molto ostaggi entrarono in coma e
morirono in ospedale, alcuni anche una settimana
dopo la fine dell’assedio. In tutto morirono 129
persone.
Il governo proclamò la vittoria. In televisione
passarono ripetutamente le immagini dei terroristi
giustiziati sommariamente nel sonno dai militari
russi: uomini e donne stesi sulle poltrone del teatro o
sui tavoli, con i fori dei proiettili alla testa ben
visibili. Quando scrissi un articolo sul disprezzo per
la vita umana che il governo aveva dimostrato
dichiarando la vittoria nonostante i 129 morti inutili,
fui anch’io oggetto di minacce di morte: era proibito
criticare il trionfo sul terrorismo. Passarono mesi
prima che alcuni attivisti sostenitori dei diritti umani
ebbero il coraggio di denunciare la Russia per aver
violato una serie di convenzioni internazionali e
alcune sue leggi usando il gas e ricorrendo alla forza
quando i terroristi avevano dimostrato disponibilità
a trattare. Pochi in Russia sono venuti a conoscenza
del fatto che i terroristi, comandati da un
venticinquenne che non era mai stato fuori dalla
Cecenia, avevano fatto richieste così ridicole da
esaudire da poter garantire probabilmente la
liberazione degli ostaggi. Volevano che il presidente
Putin dichiarasse pubblicamente le sue intenzione di
concludere la guerra in Cecenia e che dimostrasse la
sua buona volontà ordinando il ritiro delle truppe da
uno qualunque dei distretti della repubblica
secessionista.
Ma per quanto semplici fossero le loro richieste, i
terroristi stavano domandando a Putin di agire contro
la sua natura. Il ragazzo che non era mai capace di
abbandonare una rissa - quello che si calmava solo
per infiammarsi di nuovo e ricominciare a picchiare
- e adesso il presidente che aveva promesso di
“ficcarli nel cesso” avrebbe certamente preferito
sacrificare 129 suoi concittadini piuttosto che dire
pubblicamente che voleva la pace. Quindi non lo
fece.
Due settimane dopo l’assedio al teatro, Putin andò
a Bruxelles per un vertice Unione Europea-Russia
nel quale si sarebbe dovuto discutere principalmente
della minaccia rappresentata dal terrorismo
internazionale islamico. A una conferenza stampa
dopo le riunioni, un giornalista del quotidiano
francese Le Monde fece una domanda sull’uso
dell’artiglieria pesante contro i civili in Cecenia.
Putin calmo e con un leggero sorriso agli angoli
della bocca disse:

Se lei è pronto a diventare un estremista


sostenitore dell’islam e se è disposto ad essere
circonciso la invito a venire a Mosca. Siamo un
paese dalle molte fedi. Abbiamo specialisti in
questo campo. Mi raccomanderò perché
l’operazione venga condotta in modo che nulla possa
crescere ancora in quel paese.

L’interprete non si azzardò a tradurre la risposta


completa di Putin che non venne nemmeno riportata
nella edizione del New York Times del giorno dopo,
il giornale tradusse la sua ultima frase con “Lei è
benvenuto, chiunque e qualunque cosa è tollerata a
Mosca.”7 Ma nove anni dopo quella minaccia, il
video della sua risposta sferzante al giornalista
girava ancora come un virus su RuTube prova della
sua assoluta incapacità anche solo di considerare
lontanamente una soluzione pacifica del conflitto in
Cecenia.8
Aleksandr Litvinenko viveva adesso in una casa a
schiera a nord di Londra, dall’altra parte della
stretta strada abitava Achmed Zakaev, un ex attore di
Groznyj, capitale cecena, che alla fine degli anni
novanta era diventato il volto intelligente e garbato
della Cecenia indipendente. Era stato un membro
importante del governo ceceno dopo il cessate il
fuoco e il rappresentante della Cecenia in occidente.
Nel 2000 era stato ferito e aveva lasciato la Cecenia
per farsi curare, alla fine chiese l’asilo politico alla
Gran Bretagna. Adesso viveva a Londra e riceveva
uno stipendio da Boris Berezovskij che era stato la
sua controparte durante le trattative tra russi e ceceni
- proprio come Litvinenko, che aveva passato gran
parte della seconda metà degli anni novanta in
Cecenia con le truppe sovietiche. I compagni
sopravvissuti di Zakaev lo consideravano il primo
ministro del governo della Cecenia in esilio.
Zakaev e Litvinenko avevano studiato insieme a
lungo i documenti e i video dell’assedio del teatro e
avevano fatto una scoperta sorprendente: uno dei
terroristi non era stato ucciso; infatti sembrava che
avesse lasciato l’edificio subito prima dell’assalto
dei militari russi. Lo identificarono come Chanpaš
Terkibaev, un ex giornalista che, secondo loro, aveva
lavorato da molto tempo per la polizia segreta
russa.9 Il 31 marzo 2003, Zakaev aveva visto
Terkibaev a Strasburgo, dove tutti e due erano andati
per una riunione dell’Assemblea del Parlamento
europeo come rappresentanti del popolo ceceno,
Terkibaev incaricato da Mosca, Zakaev no.
All’inizio di aprile Litvinenko aveva cercato Sergej
Jušenkov, il colonnello progressista con il quale
Marina Sal’e aveva tentato di organizzare un partito
prima di fuggire da Mosca. Jušenkov era adesso
impegnato in un’inchiesta parlamentare sull’assedio
del teatro e diede a Litvinenko tutte le informazioni
che aveva raccolto su Terkibaev.10 Due settimane
dopo Jušenkov veniva ucciso a colpi di arma da
fuoco in pieno giorno a Mosca. Litvinenko era sicuro
che questa fosse la conseguenza diretta della sua
indagine sull’assedio al teatro.
Jušenkov aveva già dato i documenti ricevuti da
Litvinenko a qualcun altro. Anna Politkovskaja era
una giornalista sulla quarantina che aveva passato la
maggior parte della sua vita professionale in relativa
oscurità, scrivendo pezzi minutamente dettagliati e
disorientanti su tutte le possibili sciagure sociali.
Durante la seconda guerra in Cecenia divenne
famosa come giornalista temeraria che passava
settimane e settimane nel paese devastato
documentando i crimini e gli abusi della guerra, a
dispetto delle limitazioni imposte dall’esercito russo
ai movimenti dei giornalisti. In due anni era
diventata ovviamente la russa più rispettata dai
ceceni. Con i capelli grigi e gli occhiali, madre di
due ragazzi già grandi, non aveva proprio l’aspetto
della giornalista d’assalto e dell’inviato di guerra,
una cosa che probabilmente la salvò in molte
occasioni. Durante l’assedio al teatro le fu permesso
di entrare nell’edificio per trattare con i terroristi e
pare che sia stata lei a ottenere la concessione da
parte loro di far passare l’acqua e le bevande perché
fossero distribuite agli ostaggi.
Politkovskaja riuscì a trovare Terkibaev, che lei
disse di aver riconosciuto non appena entrò nel
teatro, e a intervistarlo. L’individuo risultò quasi
ridicolmente vanitoso e fu facile per lei indurlo a
vantarsi di essere stato all’interno del teatro durante
l’assedio e di averci portato i terroristi dopo aver
fatto passare diversi furgoni carichi di armi
attraverso i posti di controllo in Cecenia e i posti di
polizia sulla strada verso a Mosca; si vantò anche di
avere una mappa dettagliata del teatro che invece
non era stata disponibile né alla polizia né ai
terroristi. Per chi lavorava? Per Mosca, rispose.11
La Politkovskaja fu molto prudente nel trarre
conclusioni dalla sua intervista. Terkibaev
raccontava un sacco di bugie questo era chiaro.
C’erano anche i fatti però: era stato indubbiamente
fra i rapitori, era ancora vivo e si muoveva in piena
libertà, anche come membro di delegazioni ufficiali
all’estero. La sua affermazione di avere lavorato per
uno dei servizi segreti sembrava essere fondata.
Inoltre, raccontò un aspetto importante alla
Politkovskaja: il motivo per cui i terroristi non
avevano detonato gli esplosivi, anche quando si
accorsero del gas - segno inequivocabile di un
imminente assalto all’edificio - era che non c’erano
esplosivi. Le donne piazzate intorno alla sala, che
tenevano gli occhi sugli ostaggi e un dito sul bottone,
indossavano finti corpetti esplosivi. Se le parole di
Terkibaev fossero state vere - e c’erano buone
ragioni per crederlo - tutti quelli che erano morti
nell’assedio sarebbero morti inutilmente. L’uscita
dall’edificio di Chanpaš Terkibaev prima
dell’assalto delle forze speciali era la prova che
probabilmente anche il Cremlino lo sapesse.
Il 3 luglio 2003 un secondo membro del comitato
indipendente che stava investigando sulle esplosioni
negli edifici residenziali del 1999 morì. Jurij
Šcekocichin, un politico progressista molto franco e
un giornalista d’assalto - era vicedirettore della
Novaya Gazeta e, come capo della squadra
investigativa del giornale, il diretto superiore della
Politkovskaja - era stato ricoverato in ospedale due
settimane prima con sintomi misteriosi: si lamentava
di un bruciore su tutto il corpo e vomitava
continuamente. In una settimana entrò in coma, la
pelle si staccava da tutto il corpo e aveva perso tutti
i capelli. Morì per blocco funzionale degli organi
provocato da una tossina sconosciuta.12 I medici del
migliore ospedale di Mosca diagnosticarono una
“sindrome allergica” ma non erano riusciti ad
arrestare il progresso della malattia e di alleviare in
qualche modo le sue sofferenze.
Šcekocichin aveva lavorato su tante di quelle
inchieste che i colleghi e gli amici, quasi tutti, se non
tutti, convinti che fosse stato assassinato, non erano
in grado di dire quale delle sue missioni suicide
l’aveva infine condannato a morte. Zakaev era sicuro
che Šcekocichin era stato assassinato per impedirgli
di pubblicare le informazioni sull’assedio al teatro:
in particolare, le prove che alcune delle donne
terroriste erano criminali già condannate e che, in
teoria, al tempo dell’assedio stavano scontando la
loro pena nelle prigioni russe. In altre parole, la loro
liberazione era stata assicurata da qualcuno che
aveva poteri speciali - e questo, di nuovo, indicava
il possibile coinvolgimento della polizia segreta
nell’organizzazione dell’attentato.13
Il 1o settembre 2004, appena si ebbe notizia
dell’assedio alla scuola di Beslan la Politkovskaja
andò di corsa all’aeroporto per prendere il primo
volo per il Nord Ossezia. Così fecero molti
giornalisti e fra gli altri anche l’altro reporter molto
conosciuto in Cecenia Andrej Babickij, l’uomo che
era stato sequestrato dai militari russi all’inizio del
regno di Putin. Babickij venne trattenuto
all’aeroporto di Mosca perché sospettato di
trasportare esplosivi; non ne trovarono e così lui fu
rilasciato, ma non arrivò mai a Beslan. Politkovskaja
si prenotò su tre voli consecutivi, ognuno dei quali
venne annullato prima dell’imbarco, alla fine riuscì
ad avere un posto su un volo per Rostov, la più
grande città nel Sud della Russia a circa 650
chilometri da Beslan; pensava di fare il resto del
viaggio noleggiando un’auto. Pensava di agire non
solo come giornalista ma anche, meglio che poteva,
come negoziatrice, come aveva fatto due anni prima
durante l’assedio del teatro a Mosca.14 Prima di
partire da Mosca aveva parlato a lungo al telefono
con Zakaev a Londra, sollecitandolo a contattare tutti
i capi ceceni affinché cercassero di parlare ai
terroristi e trattare il rilascio dei bambini. Propose
che i capi della rivolta cecena uscissero dai loro
nascondigli per affrontare la situazione, senza porre
da parte loro nessuna ulteriore condizione. Zakaev
era d’accordo.
La Politkovskaja era diventata sempre molto
prudente - d’altronde non poteva sottovalutare le
continue minacce di morte, specialmente dopo aver
visto il suo direttore Jurij Šcekocichin morire
avvelenato - si era quindi portata del cibo sull’aereo
e aveva chiesto solo una tazza di tè. Dieci minuti
dopo svenne. Quando l’aereo arrivò a Rostov era in
coma. A farla uscire dal coma, secondo i medici che
l’ebbero in cura a Rostov, fu solo un miracolo. I
medici di Mosca, dove venne trasportata due giorni
dopo, decisero che era stata avvelenata con una
tossina sconosciuta che aveva seriamente
danneggiato il suo fegato, i reni e tutto il sistema
endocrino. Alla Politkovskaja, che impiegò mesi a
recuperare la salute e non guarì mai completamente,
venne in pratica impedito di coprire e di indagare
sulla tragedia di Beslan. Altri affrontarono la sfida,
fra questi Marina Litvinovic, la responsabile a suo
tempo dell’immagine di Putin. Aveva lasciato il
lavoro nella piccola squadra di consulenti politici al
Cremlino dopo l’assedio al teatro, non tanto perché
aveva disapprovato il modo con il quale l’FSB gestì
la cosa, quanto perché era stata esclusa dal gruppo
di emergenza. Si era occupata senza impegno
dell’opposizione politica, proprio mentre
l’opposizione cessava in pratica di esistere, aveva
lavorato per l’oligarca Michail Chodorkovskij, che
venne subito arrestato, ed era andata a Beslan
pensando di poter utilizzare le sue capacità e i suoi
contatti.
“Avevo paura ad andare,” mi disse. “Non ero mai
stata nel Caucaso.” Era troppo imbarazzata per dirmi
cosa si aspettava esattamente, ma ormai sembrava il
prodotto di dieci anni di propaganda del periodo
bellico, quella che lei stessa aveva collaborato a
creare: l’ultima cosa che si aspettava era di scoprire
che così vicino alla Cecenia c’era gente come lei.

Andammo di casa in casa, di famiglia in famiglia


dove avevano perso dei bambini nella tragedia e
dovunque ci offrivano la “vodka in memoria”. Tutti
piangevano, io piangevo, mi sono consumata gli
occhi a piangere a Beslan. Mi raccontavano le loro
storie e piangevano e chiedevano di essere aiutati.
Oramai tutti in Russia sembravano essersi
dimenticati di Beslan, per questo a tutti quelli che
andavano chiedevano aiuto. Non sapevano che
genere di aiuto, e all’inizio non lo sapevo nemmeno
io. Gli dicevo cose banali, gli dicevo che si
dovevano organizzare. Era una cosa strana da dire a
donne che erano sempre state in casa e che, se
avevano lavorato fuori di casa, era stato in un
negozio della famiglia. A poco a poco cominciai a
passare più tempo a Beslan, lavorando su alcuni
problemi. Creammo una organizzazione. Poi
cominciammo a raccogliere i racconti dei testimoni
oculari. Poi cominciò il processo.

Come nel caso dell’assedio del teatro la maggior


parte dei sequestratori era stata giustiziata
sommariamente dai soldati russi. Ufficialmente c’era
un solo sopravvissuto e fu lui a essere processato.
Le udienze si trascinarono per due anni, la
testimonianza dell’uomo insieme alle deposizioni
dei testimoni oculari gettarono ancora una volta una
luce maledetta sul metodo del governo di gestire la
crisi e sul suo possibile coinvolgimento nella
vicenda. Celebrato nella piccola città di Beslan con
la presenza quasi esclusiva degli abitanti della città
stroncati dal dolore, il processo sarebbe passato
praticamente inosservato se la Litvinovic non avesse
organizzato una cosa molto semplice. Fece in modo
che ogni udienza venisse registrata e pubblicò le
trascrizioni sul sito web PravdaBeslana.ru ovvero
“la verità su Beslan”.
Sulla base delle testimonianze in tribunale,
Litvinovic riuscì a ricostruire ora per ora gli
avvenimenti nella scuola assediata e in particolare
minuto per minuto la giornata finale. Scoprì che
c’erano state due iniziative per l’operazione di
salvataggio, e che lavoravano in disaccordo:
un’iniziativa locale guidata dal governatore
dell’Ossezia del Nord, Aleksandr Dzasochov (il suo
titolo ufficiale era presidente dell’Ossezia del Nord)
e l’altra diretta da Mosca dall’FSB. Durante le
prime ore dell’assedio i sequestratori avevano
preparato una nota con il loro numero di cellulare e
una richiesta. Volevano che cinque persone, fra cui
Dzasochov, entrassero a trattare con loro. Dzasochov
cercò di entrare nella scuola, ma venne bloccato dai
militari che dipendevano dall’FSB. Riuscì a
organizzare l’ingresso nella scuola di Ruslan Aušev,
il capo della vicina Ingušetija. Aušev riuscì a
portare fuori ventisei ostaggi, donne con bambini
piccoli. Portò anche un elenco di richieste
indirizzate a Vladimir Putin: i terroristi volevano
l’indipendenza della Cecenia, il ritiro delle truppe e
la fine di ogni attività militare. Il secondo giorno
dell’assedio Dzasochov contattò Zakaev a Londra e
Zakaev riuscì a convincere l’autoproclamato
presidente della repubblica cecena, Aslan
Maschadov, ad andare a Beslan per trattare con i
terroristi - un accordo che la Politkovskaja aveva già
raggiunto, ma che Dzasochov si trovò a dover
rinegoziare da zero.
C’erano tutti i segnali da parte dei terroristi di
voler trattare; nella maggior parte dei paesi questo
avrebbe implicato una situazione di stallo che si
sarebbe trascinata per giorni e giorni fin a quando
fosse rimasta la speranza di salvare anche un solo
ostaggio. Ma, proprio come all’assedio del teatro,
Mosca non volle aspettare l’esaurimento delle
trattative; sembra infatti che l’inizio delle operazioni
militari sia stato organizzato proprio per impedire
un’altra riunione tra Maschadov e i terroristi, un
incontro che avrebbe potuto portare a una soluzione
pacifica.
All’una del pomeriggio del 3 settembre, pochi
minuti dopo che gli uomini del ministero per le
emergenze erano entrati nell’edificio per raccogliere
i corpi degli uomini che erano stati uccisi dai
terroristi all’inizio dell’assedio - trattativa fu
negoziata da Aušev - due esplosioni scossero
l’edificio. A quel punto la maggior parte degli
ostaggi era rimasta ammassata nella palestra da più
di due giorni. Erano disidratati - molti di loro
avevano cominciato a bere la propria urina - ed
erano terrorizzati. Sapevano che la palestra era
minata, gli esplosivi erano stati piazzati in piena
vista e due terroristi erano di guardia con i piedi sui
pulsanti che avrebbero fatto detonare le cariche.
Ma le due esplosioni, in rapida successione,
venivano da fuori. Litvinovic riuscì a determinare
che erano i militari russi che lanciavano granate
direttamente contro la palestra piena di gente. “Era
come se fosse volata una grossa palla di fuoco,”
testimoniò una donna degli ex ostaggi. Come molti
degli adulti nella palestra era una madre che si
trovava lì con la figlia. “Guardando,” racconta un
altro ex ostaggio, “vidi che al posto della porta che
dava sul cortile, c’era un grande buco fino al soffitto
e che il buco stava bruciando rapidamente.”
“Quando rinvenni, c’erano corpi sopra di me,”
testimoniò uno degli ex ostaggi. “Tutto stava
bruciando,” disse un altro. “Io ero sopra a un
mucchio di morti. C’erano altri morti seduti sulle
panche.” Una terza testimone raccontò, “Guardai e
vidi che alla mia bambina mancavano la testa e un
braccio e un piede era stato completamente
stritolato.”
Gli ostaggi avevano passato due giorni di inferno
e adesso l’inferno si stava rovesciando. I terroristi
sembrarono presi dal panico - adesso cercavano di
salvare le vite degli ostaggi. Spinsero quelli che
riuscivano a camminare nel refettorio della scuola,
più protetta dai tiri diretti. Chiesero a quelli che
erano rimasti nella palestra di andare alle finestre
per far vedere ai soldati russi che il locale era pieno
di ostaggi e che stavano sparando su donne e
bambini. I militari russi continuarono a usare carri
armati, lanciagranate e lanciafiamme mirando alla
palestra e poi anche al refettorio ad alzo zero. I
terroristi tentarono ripetutamente di spostare donne e
bambini in locali protetti dai tiri. Fuori la polizia
locale cercò inutilmente di convincere i militari
russi a cessare il fuoco. Morirono in tutto 312
persone, fra le quali anche 10 funzionari dell’FSB
che morirono cercando di salvare gli ostaggi.15
Per il secondo anniversario della tragedia di
Beslan, Litvinovic raccolse in una pubblicazione i
risultati della sua ricerca. Politkovskaja che non
aveva potuto partecipare, scrisse poco su Beslan, ma
il suo contributo fu eccezionale: aveva trovato un
documento della polizia dal quale risultava che un
uomo arrestato quattro ore prima dell’assedio aveva
avvertito la polizia del piano. L’avvertimento venne
ignorato: quella Giornata del sapere alla scuola di
Beslan non venne nemmeno rinforzata la vigilanza.16
Come si poteva interpretare un simile scenario?
Alcuni erano convinti che l’episodio di Beslan fosse
stato progettato ed eseguito dalla polizia segreta
dall’inizio alla fine. Il fatto che Putin, solo dieci
giorni dopo la tragedia, decise di annullare le
elezioni per il governatore e che abbia giustificato la
sua decisione come una risposta al terrorismo,
contribuisce a dare una certa credibilità a questa
teoria. Zakaev da parte sua era sicuro che l’FSB
avesse organizzato un gruppo criminale di ceceni
perché occupassero l’ufficio del governatore locale
- per dare a Putin il pretesto di mettere sotto
controllo federale diretto le amministrazioni
regionali - ma qualcosa era andato storto e i
terroristi erano finiti nella scuola.
Io credo che la realtà sia molto più complessa.
Che le esplosioni negli edifici residenziali fossero
state opera della polizia segreta sembra ormai certo
- anche senza la possibilità di esaminare tutta la
documentazione disponibile e non. L’assedio del
teatro e della scuola di Beslan, invece, sembrano
operazioni male organizzate, il risultato di una serie
di mosse sbagliate, alleanze equivoche e piani andati
storto. È quasi dimostrato che un certo numero di
funzionari dell’FSB avessero da molto tempo
contatti e rapporti con terroristi e potenziali
terroristi ceceni. Almeno alcuni di questi rapporti
prevedevano lo svolgimento di servizi in cambio di
denaro. È chiaro che qualcuno - la polizia
probabilmente o anche la polizia segreta - aveva
aiutato i terroristi a spostarsi in Russia. Alla fine, ci
sono tutti gli indizi che puntano il dito verso il
governo di Putin, il quale non si attivò né per
prevenire gli attacchi terroristici né per risolvere le
emergenze in modo pacifico; a questo si aggiunga
che il presidente aveva basato la sua reputazione non
solo sulla determinazione a “farli fuori” a tutti i
costi, ma anche sulla ferocia con la quale i terroristi
venivano percepiti dall’opinione pubblica.
Allora tutto questo era risultato di una serie di
precisi progetti finalizzati a consolidare la posizione
di Putin in un paese che rispondeva meglio alla
politica della paura? Non necessariamente oppure
non del tutto. All’inizio, io penso, gli organizzatori
dell’assedio del teatro e della scuola e i loro bracci
operativi avevano motivazioni diverse: i ribelli
ceceni volevano far capire ai russi attraverso la
paura l’incubo della loro guerra; alcuni di quelli che
dalla parte russa li avevano aiutati ad eseguire i loro
piani, molto probabilmente, erano motivati solo dal
denaro; altri, sui due fronti, stavano sistemando conti
personali; altri ancora erano impegnati in grandi
disegni politici che potevano o meno coinvolgere il
vertice. Una cosa è certa: i sequestri sono avvenuti,
le forze del governo che operavano sotto la
supervisione diretta di Putin hanno fatto di tutto
perché le crisi finissero nel modo più orrendo
possibile - per giustificare la continuazione della
guerra in Cecenia, l’ulteriore repressione dei media
e dell’opposizione nel paese e infine per prevenire
le possibili critiche da parte dell’Occidente che,
dopo l’attentato alle torri, era costretto a riconoscere
in Putin un alleato nella lotta contro il terrorismo
islamico. C’è un motivo per il quale i militari russi
si sono comportati a Mosca e a Beslan in modi che
hanno aumentato lo spargimento di sangue: il loro
vero scopo era di provocare paura e orrore. Questa
è la classica modalità operativa dei terroristi, e in
tal senso si può affermare con certezza che Putin e i
terroristi hanno agito di concerto.
Il 20 marzo 2006. Marina Litvinovic uscì
dall’ufficio dopo le nove di sera. Adesso lavorava
per Garri Kasparov, il campione di scacchi
diventato politico. Mantenevano un basso profilo
con un ufficio nel centro di Mosca senza targa sulla
porta dietro la quale c’erano sempre due delle otto
guardie del corpo di Kasparov. Quella sera
Kasparov e le guardie del corpo se ne andarono con
il SUV mentre il resto del piccolo staff tornava a
casa a piedi, in macchina o con la metropolitana,
ognuno per conto suo. Litvinovic, che abitava vicino,
di solito andava a piedi.
Circa un’ora dopo aver lasciato l’ufficio
Litvinovic aprì gli occhi per scoprire che era per
terra sdraiata sulla botola di una cantina e c’era
qualcuno che cercava di capire se stesse bene. Non
stava bene: era svenuta a seguito di un colpo o di più
colpi alla testa. Aveva subito un duro pestaggio,
lividi su tutto il corpo, due incisivi spaccati, la sua
borsa era vicino a lei con dentro il computer, il
telefonino e i soldi.
Quella sera passò tre o quattro ore al pronto
soccorso e il giorno dopo altre tre o quattro ore al
posto di polizia. I poliziotti erano insolitamente
gentili a loro modo, ma sostenevano con insistenza
che non era stata picchiata. Forse la giovane
trentunenne era svenuta nella strada ed era caduta in
malo modo tanto da avere pesti su tutto il corpo?
Fece notare che aveva un grosso livido su una
gamba, che i medici avevano diagnosticato come il
risultato di un manganello di gomma. Forse era stata
investita da un auto? Litvinovic fece notare che i
suoi vestiti erano pulitissimi tanto che il giorno dopo
aveva indossato gli stessi pantaloni e lo stesso
cappotto, per cui era evidente che non era stata
investita da un auto. Inoltre, e questo era uno dei
tanti particolari che confermavano il pestaggio da
parte di professionisti: mentre la picchiavano era
stata tenuta ferma e quindi posata delicatamente sulla
botola dove si ritrovò.
L’aggressione era un messaggio. La perfetta
esecuzione e il fatto che non le fosse stato rubato
nulla ne erano la conferma. Un altro giovane
consulente politico, che era stato collega della
Litvinovic e che aveva fatto una brillante carriera
lavorando per il governo di Putin, lo disse
chiaramente sul suo blog: “Le donne non dovrebbero
fare questo lavoro. [...] Marina si è unita alla guerra,
e nessuno ha mai detto che questa guerra sarebbe
stata condotta secondo le regole.”17 In altre parole
questo è quello che sarebbe successo a quelli che si
mettevano contro il Cremlino.
Sabato 7 ottobre 20006. Anna Politkovskaja
rientrando a casa nel suo appartamento nel centro di
Mosca viene uccisa a colpi di arma da fuoco
nell’ascensore.
Chi avrebbe potuto farlo? Chiunque. Politkovskaja
poteva essere molto sgradevole: il suo carattere
appassionato ed estroverso aveva anche un altro
lato, reagiva con cattiveria alla minima
provocazione. Questa era una caratteristica
pericolosa per una giornalista le cui fonti
comprendevano spesso uomini bene armati, abituati
alla violenza e per nulla disposti ad avere donne che
li contraddicevano. Poteva anche essere cattiva con
le sue fonti, come era stata con Chanpaš Terkibaev,
che dipinse come uno stupido vanesio, dopo che lui
aveva cercato ingenuamente di fare colpo su di lei.
Si era schierata, il che era estremamente pericoloso
in tempi di guerra fra clan. Ma più di tutto era nota la
sua posizione critica nei confronti del regime di
Putin. Secondo Aleksandr Litvinenko fu questo che
la uccise. “Anna Politkovskaja è stata uccisa da
Putin” fu il titolo dell’annuncio funebre che pubblicò
sul web quel giorno. “Non eravamo sempre
d’accordo e qualche volta litigavamo,” scrisse a
proposito del suo rapporto con Politkovskaja. “Ma
su un punto eravamo totalmente d’accordo: entrambi
eravamo convinti che Putin fosse un criminale di
guerra, che fosse responsabile del genocidio del
popolo ceceno e che avrebbe dovuto essere
processato in un tribunale indipendente e aperto.
Anja aveva capito che Putin avrebbe potuto
ucciderla per le sue idee e per questo lo
disprezzava.”18
Il giorno in cui venne uccisa la Politkovskaja,
Putin compiva cinquantaquattro anni. I giornalisti
qualificarono immediatamente l’assassinio come un
regalo di compleanno. Putin non rilasciò
dichiarazioni sulla morte di Politkovskaja. Il giorno
dopo mandò gli auguri di compleanno a una
campionessa di pattinaggio artistico per i sessanta
anni e a un attore molto noto per i settanta, ma non
disse una parola su un assassinio che aveva turbato
la capitale e il paese. Tre giorni dopo l’omicidio,
andò a Dresda, la città nella quale aveva abitato, per
incontrare la cancelliera tedesca Angela Merkel.
Uscendo dall’auto a Dresda si trovò di fronte a un
gruppo di dimostranti di una trentina di persone che
tenevano un cartello con scritto “Assassino,” e “Gli
assassini non sono più benvenuti qui.”19 Alla
conferenza stampa dopo la riunione con Merkel i
giornalisti - e sembra anche la stessa Angela Merkel
- lo costrinsero a rilasciare una dichiarazione
pubblica sulla morte di Politkovskaja. Ancora una
volta Putin dimostrò che quando doveva parlare in
pubblico su questioni che comportavamo aspetti
emotivi non si sapeva controllare. Mentre parlava
sembrava stesse per scoppiare:
Quella giornalista era indubbiamente una critica
severa dell’attuale governo della Russia,” disse.
“Ma penso che i giornalisti sappiano - certamente lo
sanno gli esperti - che la sua influenza politica nel
paese era pressoché insignificante. Era conosciuta
nell’ambiente dei giornalisti, fra gli attivisti per i
diritti umani e in Occidente, ma la sua influenza sulla
politica in Russia era minima. L’omicidio di questa
persona - l’omicidio a sangue freddo di una donna e
di una madre - è di per se stesso un attacco al nostro
paese. Questo assassinio provoca molto più danno
alla Russia e al suo attuale governo, e all’attuale
governo della Cecenia, di tutti i suoi articoli.20
Aveva ragione: Politkovskaja era molto più
conosciuta nei paesi dell’Europa occidentale come
Francia e Germania, dove i suoi libri erano tradotti e
ampiamente diffusi di quanto non fosse in Russia,
dove da molti anni era sulla lista nera della
televisione (a suo tempo era stata brillante e
regolare ospite dei programmi di dibattiti politici),
dove i giornali ai quali collaborava erano ritenuti
marginali, e dove, la cosa più importante, i pezzi di
giornalismo investigativo che sarebbero stati delle
bombe se la Russia fosse rimasta una quasi
democrazia funzionante, erano semplicemente
ignorati. Il governo non aveva mai reagito alla sua
intervista con Chanpaš Terkibaev né al suo articolo
che denunciava la polizia per non aver tenuto conto
degli avvertimenti prima del sequestro alla scuola di
Beslan. Nemmeno un semplice poliziotto venne
licenziato: non successe nulla, come se nulla fosse
stato detto e nessuno lo avesse sentito. Il suo
assassinio, che aveva messo Putin nella posizione di
dover provare la sua innocenza, fece certamente più
danni a lui e al suo governo di quanti non ne avesse
mai fatti Politkovskaja da viva.
La dichiarazione, pessima nella sua articolazione,
fu una chiara indicazione dell’opinione che Putin
aveva dei giornalisti, tanto che io sono portata a
pensare che in quell’occasione sia stato sincero.
Il 1o novembre 2006, solo tre settimane dopo
l’assassinio della Politkovskaja, Aleksandr
Litvinenko si ammalò. Da sempre preoccupato dalla
possibilità di venire avvelenato bevve
immediatamente quattro litri d’acqua per tentare di
eliminare quello che poteva essere entrato nel suo
organismo. Non servì a nulla: dopo poche ore era
sconvolto da violenti conati di vomito. Il dolore era
insopportabile: gli sembrava che la gola, l’esofago e
lo stomaco fossero stati ustionati, non riusciva né a
mangiare né a bere e quando vomitava era una
tortura. Dopo tre giorni di tormento venne ricoverato
in ospedale.
Litvinenko disse subito ai medici che forse era
stato avvelenato da agenti del governo russo. Come
risposta gli venne data assistenza psichiatrica -
decise quindi di non insistere con la sua teoria
tenendola per se. I medici dissero a Marina che
stavano cercando un raro batterio che aveva
provocato i violenti sintomi di Litvinenko. Per un po’
di tempo lei ebbe fiducia e attese pazientemente che
il marito migliorasse. Ma dopo dieci giorni di
tortura notò che Aleksandr stava decisamente
peggiorando. Vide che la camicia da notte
dell’ospedale era coperta di capelli.

Gli passai una mano sulla testa. Avevo un guanto


di gomma e i capelli rimasero attaccati al guanto.
Dissi: “Saša che roba è?” Lui rispose: “Non lo so,
sembra che mi stiano cadendo i capelli.” Allora mi
alzai vicino al suo letto e cominciai a gridare: “Non
vi vergognate?” Fino a quel momento avevo avuto
pazienza, ma poi mi resi conto che non ne potevo
più. Arrivò subito il medico di guardia e gli dissi:
“Lo vede cosa sta succedendo? Riesce a spiegare
cosa sta succedendo?” Chiamarono qualcuno dal
reparto di oncologia e qualche altro specialista e si
consultarono. L’oncologo disse. “Lo porto nel mio
reparto perché ha l’aspetto di uno che ha subito una
terapia radioattiva.” Lo portò nel suo reparto ma
anche lì non trovarono nulla.

Ci volle un’altra settimana perché i medici di


Litvinenko, i giornalisti inglesi e la polizia di Londra
si rendessero conto che era stato avvelenato.
Vennero trovate nell’urina tracce di tallio, un metallo
pesante che una volta era impiegato per avvelenare i
topi, ma che da molto tempo era stato vietato nei
paesi occidentali. La scoperta diede a Litvinenko a
sua moglie e agli amici qualche speranza: avrebbe
preso il giusto antidoto e sarebbe guarito. “Pensai
che sarebbe rimasto menomato - ed ero pronta a
questa evenienza,” mi raccontò Marina. “Ma non
pensavo che sarebbe morto, pensavo alle terapie che
avrebbe ricevuto.” La scoperta del tallio diede modo
alla stampa inglese di scrivere la storia della “spia
russa”, come continuavano a chiamarlo, che stava
morendo in un ospedale di Londra e Scotland Yard
cominciò ad interrogare Litvinenko. L’ex
informatore, debole, incapace di ingoiare - durante
tutto il periodo in ospedale venne alimentato con
fleboclisi - vincendo il dolore insopportabile che gli
provocava il semplice parlare, testimoniò per oltre
venti ore durante gli ultimi giorni di vita. Ma la
diagnosi diede anche modo a un famoso tossicologo
chiamato da Gol’dfarb di dire la sua: i sintomi di
Litvinenko non gli sembravano i sintomi
dell’avvelenamento da tallio.
Uno o due giorni prima di entrare in coma
Litvinenko dettò una dichiarazione che chiese che
venisse diffusa nell’eventualità della sua morte.
Gol’dfarb la trascrisse. Cominciava con alcune righe
di ringraziamento ai medici inglesi e a Marina e poi
continuava:

Mentre sono qui ho la netta sensazione della


presenza dell’angelo della morte. È ancora possibile
che io riesca a sfuggirgli, ma ho paura che i miei
piedi non siano più veloci come una volta. Penso che
sia tempo che io dica qualche parola all’uomo che è
responsabile della mia condizione.
Potrai costringermi al silenzio, ma questo silenzio
ti costerà caro. Hai adesso provato di essere il
barbaro senza scrupoli che i tuoi più duri critici
hanno sempre denunciato.
Hai dimostrato che non hai rispetto per la vita
umana, per la libertà e per gli altri valori della
civiltà.
Hai dimostrato che non meriti di occupare il posto
che occupi e che non meriti la fiducia della gente
civile.
Potrai far tacere un uomo, ma il rumore della
protesta nel mondo ti riempirà le orecchie, signor
Putin, fino alla fine dei tuoi giorni. Che possa Dio
perdonarti per quello che hai fatto, non solo a me,
ma alla mia amata Russia e al suo popolo.21

I medici finalmente identificarono la causa


dell’avvelenamento poche ore prima della sua
morte. Era polonio, una sostanza altamente
radioattiva che si trova in quantità minime in natura,
ma che può essere prodotta per via chimica. Parenti
e amici vennero informati della causa
dell’avvelenamento dalla polizia poche ore dopo la
morte di Litvinenko.
Cinque anni dopo avere incontrato Litvinenko ed
averlo aiutato a fuggire, Gol’dfarb iniziò a scrivere
un libro sull’uomo insieme alla vedova Marina.
Meno di un anno dopo, il libro venne pubblicato in
molte lingue, il titolo italiano è Morte di un
dissidente. La vicenda Litvinenko e il ritorno del
KGB nel racconto di due testimoni di eccezione
(2007). Gol’dfarb, uno scienziato e veterano
dell’attivismo politico, naturalmente portato allo
scetticismo, fu in grado di ricostruire la storia
dell’assassinio di Litvinenko in modo molto
convincente proprio perché non aveva mai
veramente creduto a quelle che definiva le “teorie
del complotto” di Litvinenko e della Politkovskaja.
La sua teoria avrebbe di sicuro fatto impallidire le
loro.
Al tempo dei due assassini, la politica della
Russia in Cecenia stava subendo una trasformazione.
Senza ammettere la sconfitta e senza trattare
ufficialmente - le due cose sarebbero state umilianti
per Putin - la Russia stava ritirando le truppe dalla
Cecenia e stava dando ampia libertà di azione ed
eccezionali aiuti finanziari a un giovane leader
ceceno che aveva scelto specificamente, Ramzan
Kadyrov, in cambio di lealtà e dell’illusione di una
pace vittoriosa. Per gli altri signori della guerra in
Cecenia questo era il capolinea: Kadyrov era
spietato con i nemici e con i rivali. Sulla base di
abbondanti prove indiziarie e di qualche
significativa intervista ufficiosa, Gol’dfarb aveva
concluso che era stato uno di questi signori della
guerra ad avere commissionato l’omicidio della
Politkovskaja nella speranza di farla sembrare
un’iniziativa di Kadyrov e quindi di screditarlo agli
occhi del governo russo. La Politkovskaja aveva
duramente e verbalmente criticato Kadyrov e lo
aveva anche insultato, ma Gol’dfarb riteneva che i
veri responsabili dell’assassinio fossero ceceni di
un clan rivale.
Dopo, sostenne Gol’dfarb, Putin si trovò nella
condizione di dover provare che non era
responsabile - ed ebbe la sensazione di essere stato
incastrato. Solo che, grazie in parte anche ai suoi
consiglieri, non pensò di essere stato incastrato da
Kadyrov, piuttosto credeva responsabile la cerchia
di Berezovskij a Londra. La persona più attiva in
quella cerchia era Litvinenko, l’agente traditore
dell’FSB, che in effetti accusava Putin
dell’assassinio. Per questo motivo Putin lo fece
uccidere.22
La teoria di Gol’dfarb è di logica impeccabile;
tutti hanno buoni motivi e i mezzi per agire. Io la
trovo troppo complicata o, forse, troppo specifica.
L’assassinio di Aleksandr Litvinenko è
indiscutibilmente opera del governo, autorizzata dal
più alto vertice: il polonio-210, che lo ha ucciso
viene prodotto solo in Russia. La sua produzione e la
sua esportazione sono rigorosamente controllate
dall’autorità nucleare federale e la sottrazione della
dose necessaria dal processo industriale di
produzione richiede un intervento del vertice in una
fase iniziale del processo stesso. L’autorizzazione
per questo intervento doveva essere arrivata
dall’ufficio del presidente. In altre parole, Vladimir
Putin ordinò di uccidere Aleksandr Litvinenko.
Identificato il veleno, la polizia inglese identificò
facilmente i sospettati dell’assassinio: il polonio,
innocuo se non viene ingerito, lascia tracce
radioattive su qualunque oggetto con il quale viene
in contatto. Questo consentì alla polizia di
identificare con precisione chi lo aveva portato a
Londra e il luogo e l’ora esatta alla quale era
avvenuto l’avvelenamento. I due uomini identificati
furono Andrej Lugovoj, l’ex capo della sicurezza del
socio di Berezovskij, che aveva poi creato una
proficua società che offriva servizi di sicurezza a
Mosca, e il suo socio in affari, Dmitrij Kovtun. Per
ragioni che la polizia inglese non volle rivelare,
Lugovoj venne identificato come autore
dell’omicidio e Kovtun come testimone. La Russia
ha respinto la richiesta di estradizione per Lugovoj,
che inoltre è stato nominato membro del parlamento,
conferendogli l’immunità giudiziaria, compresa
l’immunità da richieste di estradizione. L’Inghilterra
ha classificato il caso come puramente criminale e
non ha inoltrato una richiesta di estradizione
motivata politicamente.
Nessuna altra uccisione nella lunga sequenza di
assassini di giornalisti e di politici ha una storia
chiara ed evidente come questa. È possibile che
Anna Politkovskaja sia stata vittima della lotta per il
potere in Cecenia. È possibile che Jurij Šcekocichin
sia stato ucciso da qualche uomo d’affari o politico
del quale aveva esposto le malefatte. È anche
possibile che Sergej Jušenkov sia stato ucciso da un
avversario politico come in seguito sostenne la
polizia. È possibile che Anatolij Sobcak sia morto di
collasso cardiaco. Ma tutte queste possibilità,
analizzate separatamente, sembrano poco probabili e
considerate insieme sembrano quasi assurde. La
verità semplice e ovvia è che la Russia di Putin è un
paese nel quale i rivali politici e i critici espliciti
vengono spesso uccisi e che, almeno in qualche
caso, l’ordine viene direttamente dall’ufficio del
presidente.

* Si veda Aleksandr Litvinenko, Jurij Felštinskij,


Russia, il complotto del KGB, Milano, Bompiani,
2007. (N.d.T.)
10
AVIDITÀ INSAZIABILE
Mentre scrivo dei primi anni della presidenza di
Putin, resto fortemente colpita dal modo in cui ha
agito, così deciso, così rapido. Anche quando ne
facevo la cronaca in tempo reale mi sembrava che le
cose procedessero a velocità folle. Putin ha
cambiato il paese rapidamente, un cambiamento
profondo che avvenne con relativa facilità.
Sembrava aver invertito la rotta dell’evoluzione
storica della Russia. Per un tempo terribilmente
infinito nessuno se ne rese conto.
O almeno quasi nessuno. Nelle elezioni del
parlamento del 2003, il partito di Putin, Russia
Unita, prese circa la metà dei seggi; i restanti furono
divisi fra il Partito Comunista, il Partito Liberal
Democratico, un assurdo gruppo nazionalista dal
nome immeritato, e il nuovo partito ultranazionalista
Rodina (patria); i progressisti e democratici rimasti
invece persero tutti i loro seggi. L’Organizzazione
per la cooperazione e la sicurezza europea (OCSE)
subito dopo le elezioni crisse: “Le [...] elezioni [...]
non hanno rispettato molte delle norme OCSE e del
Consiglio d’Europa, mettendo in dubbio la volontà
della Russia di muoversi verso i criteri europei per
elezioni democratiche.”1 Il New York Times riferì
qualcosa di molto diverso, con un editoriale
connotato da toni di sufficienza ma anche di
approvazione, intitolato “I russi si avvicinano alla
democrazia”.2 L’importante testata non fece alcun
cenno alle critiche degli osservatori internazionali
nella cronaca della giornata elettorale, solo il giorno
dopo pubblicò un articolo a proposito delle critiche;
neanche il Washington Post e il Boston Globe fecero
alcun cenno alle valutazioni negative nei loro pezzi
di copertura dell’evento. Il Los Angeles Times
superò tutti: in un lungo articolo manipolò talmente
le conclusioni dell’OCSE da farle sembrare
esattamente l’opposto rispetto alla loro sostanza. Il
giornale citò un funzionario OCSE che dichiarava
che le elezioni “erano state bene organizzate, non
abbiamo registrato nessuna irregolarità di rilievo”. Il
giornale lodava il controllo completo del parlamento
russo da parte di Putin, un’opportunità per il
presidente di “far passare nuove riforme, soprattutto
volte a eliminare la corruzione profondamente
radicata.”3
La stampa fuori dagli Stati Uniti fu più critica. Il
giorno prima delle elezioni il National Post del
Canada pubblicò un articolo il cui contenuto era ben
concentrato nel titolo “Razzisti, assassini e criminali
nella gara per la Duma: le elezioni parlamentari.
Venti anni dopo la decadente era di Eltsin, la
corruzione ammorba la Russia”.4 The Economist
decretò la morte della democrazia nell’ex paese
sovietico in un editoriale uscito un mese prima delle
elezioni, poi seguì le elezioni con uno speciale
reportage nel quale definiva il nuovo parlamento
“l’incubo di un democratico”5 e sottolineava
l’eccezionale aumento dell’influenza degli
ultranazionalisti.
Ma i media più importanti nel mondo, quelli con
grandi uffici redazionali a Mosca, dormivano al
volante. Perché? In parte perché privilegiavano la
politica degli Stati Uniti. Nell’autunno 2000 mentre
Putin nazionalizzava le televisioni, la stampa
americana era concentrata sulla competizione
elettorale fra Bush e Gore. Io ero allora appena
entrata nello staff editoriale di US News & World
Report e mi stavo orientando nei primi mesi di
lavoro: la rivista non era interessata alla Russia.
Quando finì la storia delle elezioni, la stampa
americana doveva occuparsi della bolla della New
Economy, che avrebbe innescato un’ondata di tagli
delle spese e di riduzioni del personale per oltre
dieci anni. Molte testate ridussero il personale degli
uffici di corrispondenza all’estero, compresa la
Russia - e qualche volta cominciando proprio dalla
Russia. Fu una sequenza logica: avendo raccontato al
loro pubblico e a se stessi che il paese era oramai
entrato senza problemi in un periodo di stabilità
economica e politica, i media americani avevano in
pratica ignorato l’attualità russa, tagliando i fondi
per la sua copertura mediatica e quindi azzerando la
possibilità di raccontarla. ABC, che aveva dozzine
di impiegati e occupava un intero edificio nel centro
di Mosca, chiuse completamente l’ufficio. I tagli di
altre testate furono meno drammatici, ma comunque
drastici: intere redazioni vennero sostituite da
giornalisti freelance part-time. Solo pochi giornali -
The New York Times, The Wall Street Journal e The
Los Angeles Times - mantennero le redazioni
complete e gli uffici con giornalisti e impiegati a
tempo pieno.
Nel giugno 2001 George W. Bush incontrò Putin
per la prima volta, con la famosa battuta “guardò
l’uomo negli occhi” e “fu in grado di sentirne lo
spirito”. Gli articoli esaltanti sulla stampa non
registrarono né la reazione molto meno entusiasta del
presidente russo rispetto a quella del nuovo amico,6
né l’avvertimento rivolto agli Stati Uniti a proposito
del periodo di ostilità che era iniziato con i
bombardamenti della NATO in Iugoslavia nel 1999 e
che, secondo Putin, non era affatto finito. Poi ci fu
l’attacco alle Torri dell’undici settembre e la guerra
in Cecenia fu reinterpretata in chiave della lotta al
terrorismo islamico da parte del mondo occidentale
- e questo contro ogni evidenza, compresa
l’abrogazione di un accordo raggiunto con Eltsin7
secondo il quale la Russia avrebbe cessato di
vendere armi all’Iran e agli stati arabi al ritmo di
diversi miliardi di dollari l’anno.8 Per logica
geografica le più importanti testate giornalistiche
americane cominciarono a vedere Mosca non tanto
come capitale della Russia quanto come campo base
per i giornalisti che andavano in Afghanistan e, in
seguito, in Iraq. La sete di storie di guerra era
insaziabile e la Russia fu relegata a quel genere di
cronache che i giornalisti fanno en passant, fra un
incarico importante e l’altro. Le corrispondenze
dalla Russia erano articoli che si limitavano a
confermare la narrativa consolidata, scritti dagli
stessi che avevano inventato l’immagine di Putin
giovane, energico, riformatore e progressista.
La maggior parte dei giornalisti e dei direttori
americani non sembrò preoccupata dal fatto che non
ci fosse molto da raccontare su questa linea di
cronaca. Trattarono come irrilevante la
nazionalizzazione delle televisioni e della stampa,
descrissero la nomina di commissari federali
incaricati di controllare i governatori eletti come una
misura per mettere ordine nel caos, ignorarono
completamente la marcia indietro nelle riforme del
sistema giudiziario - e si concentrarono sempre di
più su argomenti di economia. A differenza di Eltsin,
che sembrava fare sempre due passi avanti e uno
indietro nelle riforme economiche in uno sforzo
costante di tenere buona l’opposizione, Putin riempì
il suo staff e il braccio economico del consiglio dei
ministri con progressisti dichiarati. Il suo primo
ministro era stato in precedenza ministro delle
finanze, un uomo di apparato cresciuto nella
tradizione burocratica sovietica, ma sinceramente
impegnato nella realizzazione delle riforme che
erano state istituite negli anni novanta - e concentrato
su questo impegno al punto di trascurare ogni altro
problema di governo, fatto che Putin non poteva fare
a meno di apprezzare. Ancora prima di diventare
presidente facente funzione - quando era solo il
candidato alla successione - Putin aveva istituito un
gruppo di esperti incaricato di impostare un piano
per lo sviluppo economico della Russia e aveva
nominato alla sua direzione un economista
progressista9, che aveva lavorato con Sobcak. Dopo
l’elezione di Putin, il capo del gruppo di esperti
divenne ministro per lo sviluppo economico: un
portafoglio ministeriale creato apposta per lui.
In particolare Putin nominò come suo consigliere
economico Andrej Illarionov. Era la prima nomina
del nuovo presidente e voleva essere un gesto di
forte impatto. Il pensiero di Illarionov era molto
noto: membro del circolo di economisti di San
Pietroburgo negli anni ottanta, era diventato un
esperto economista liberista a pieno titolo. Negli
Stati Uniti sarebbe stato qualificato come
ultraconservatore (in seguito ricoprì l’incarico al
Cato Institute, un centro di studi economici liberista
a Washington DC), ma in Russia il suo pensiero
economico lo collocava decisamente sul versante
liberista dello spettro. Illarionov non credeva nel
riscaldamento globale e credeva invece
nell’illimitata potenzialità di autoregolazione dei
mercati. Era anche conosciuto come brillante mente
analitica e per il carattere suscettibile, fatto che lo
tenne ai margini dei più importanti avvenimenti degli
anni novanta. La sua nomina fu una sorpresa per tutti,
lui compreso.
Nel pomeriggio del 28 febbraio 2000, Illarionov
stava lavorando nel suo ufficio ingombro di carte in
un piccolo centro studi che dirigeva a Mosca. Situato
nella Staraja Plošcad’ (Piazza Vecchia) dirimpetto
agli uffici dell’amministrazione presidenziale e a
meno di un chilometro dal Cremlino, l’Istituto di
analisi economica di Illarionov era lontano dal
potere quanto si poteva essere, nonostante il fatto
che Illarionov fosse in rapporti di stretta amicizia
con la maggior parte dei personaggi che per anni
avevano fatto la storia economica in Russia.
Illarionov veniva chiamato di tanto in tanto per fare
una conferenza agli strateghi della politica - come
aveva fatto per esempio alla vigilia del default russo
del 1998 avvertendoli del disastro incombente - i
suoi consigli peraltro venivano recepiti come un
esercizio accademico. La frustrazione era stata per
anni la sua condizione permanente: godeva del
rispetto dei suoi potenti colleghi, ma non aveva
influenza su di loro.
Alle quattro del pomeriggio del 28 febbraio, a
meno di un mese dalle elezioni presidenziali, suonò
il suo telefono e venne convocato la sera stessa a un
incontro con Putin. L’incontro durò tre ore. A un
certo punto durante la riunione entrò un assistente
per informare il futuro presidente che l’esercito
federale aveva appena occupato la città di Šatoj in
Cecenia. Illarionov ricorda che

Putin era felice. Gesticolava emozionato e diceva:


“Glie lo abbiamo fatto vedere, li abbiamo presi”.
Poiché non avevo niente da perdere dissi a loro tutto
quello che pensavo della guerra in Cecenia. Gli dissi
che le truppe russe ai suoi ordini commettevano un
delitto. Lui continuava a dire che erano banditi e che
li avrebbe fatti fuori e che lui era lì per fare in modo
che la Federazione Russa rimanesse intatta. Quello
che mi disse in privato era esattamente quello che
aveva sempre detto sull’argomento in pubblico: era
la sua sincera opinione. Invece la mia opinione
sincera era che si trattasse di un crimine.

Lo scambio andò avanti per venti o trenta minuti


diventando sempre più infuocato. Il poco
diplomatico Illarionov sapeva esattamente come
sarebbe finito questo genere di scambio: non sarebbe
stato più invitato e per lui si sarebbe chiusa un’altra
possibile via di potenziale influenza perché, come
sempre, la passione con la quale sosteneva la sua
opinione non era gradita.
Poi accadde qualcosa di incredibile.10 Putin
rimase in silenzio per un secondo, la sua faccia si
distese perdendo ogni traccia di tensione e disse:
“Basta. Lei ed io non discuteremo più della
Cecenia.” Per le due ore successive i due uomini
parlarono di economia - piuttosto Putin lasciò che
Illarionov gli tenesse una lezione di economia. Nel
salutarsi Putin propose un altro incontro per il giorno
dopo. Illarionov fece immediatamente altri due passi
falsi: gli disse di no e gli spiegò la ragione per cui
non poteva - doveva festeggiare l’anniversario
dell’arrivo in Russia della sua moglie americana,
che essendo arrivata in un anno bisestile poteva
essere festeggiato solo ogni quattro anni. Invece di
offendersi per il rifiuto e per la ragione del rifiuto,
Putin propose semplicemente un’altra data.
Illarionov gli fece un’altra lezione di economia e due
settimane dopo l’elezione del 12 aprile 2000 venne
nominato come nuovo consigliere economico del
presidente.
Illarionov fu completamente sedotto. Per anni
aveva pensato che le riforme economiche in Russia
venivano gestite in modo sbagliato e possibilmente
anche dannoso, ma non aveva mai avuto la
possibilità di modificare la politica. Adesso avrebbe
avuto accesso diretto al capo dello stato, che
sembrava veramente interessato in quello che lui
aveva da dire - e che non era per nulla irritato dal
suo modo di dirlo. Come succede a molti, quando
Illarionov trovava negli altri tratti che a lui
mancavano era portato ad considerarli come
manifestazioni di eccezionale abilità. Parlando con
me, undici anni dopo la sua nomina, Illarionov era
ancora convinto che Putin fosse “una persona
straordinaria”, e citava come prova fondamentale di
questo la sua capacità di tenere sotto controllo le sue
emozioni. Su questo aspetto c’era in realtà una massa
di prove contrarie, comprese le molte volte che Putin
aveva perso il controllo in pubblico. Ma essendo
incapace di tenere per se stesso le sue opinioni,
Illarionov era ancora colpito dalla capacità di Putin
di “semplicemente chiudere” il colloquio sulla
Cecenia - e anche, sembra, dal totale apprezzamento
di Putin nei suoi confronti. In fondo Illarionov non
riusciva a immaginare di poter essere
sistematicamente ingannato - che è esattamente la
ragione per la quale si lasciò sistematicamente
ingannare per molto tempo.
Illarionov e gli altri economisti dell’entourage
ristretto di Putin furono un segnale importante per la
stampa americana anche solo per la loro sola
presenza. Più che altro i giornalisti americani non
colsero l’essenza della storia di Putin per colpa di
alcune delle loro fonti principali che non riuscirono
a coglierla o, volutamente, decisero di ignorarla. La
grande finanza era contenta di Putin. L’economia
aveva continuato a crescere dal minimo del 1998,
quando il rublo era sceso così in basso che la
produzione di beni interna, per quanto inefficiente,
tornò finalmente a dare profitti. All’inizio degli anni
2000 cominciarono a salire i prezzi del petrolio, ma
non al punto da rendere irrilevante la produzione
industriale interna (questo sarebbe successo in
seguito). Cominciavano a vedersi dei buoni risultati
per quegli investitori che erano entrati nel mercato
russo quando era al minimo storico.
Un rappresentante emblematico di questi
investitori era William Browder, nipote di un
vecchio leader del Partito Comunista americano,
sposato con una donna sua russa. Browder era un
ideologo puro: era venuto in Russia per costruire il
capitalismo. Era un convinto assertore del fatto che
facendo soldi per i suoi investitori avrebbe creato un
brillante futuro capitalista per un paese per il quale
sentiva di dover avere affetto.
La strategia di investimento di Browder era
diretta ed efficace. Comprava una quota piccola ma
significativa in una grande società, come il
monopolio del gas o un gigante petrolifero, faceva
poi una indagine che inevitabilmente metteva in luce
la cattiva gestione della azienda da parte della
dirigenza e lanciava una campagna per la
ristrutturazione. La corruzione era endemica e non
era difficile denunciarla. La maggior parte delle
grosse società erano aggregati di aziende
privatizzate negli ultimi tre o quattro anni, con i
dirigenti che remavano contro e spesso apertamente
ostili nei confronti dei nuovi proprietari. I cosiddetti
dirigenti rossi durante il regime sovietico avevano
sistematicamente rubato dai loro datori di lavoro e
non vedevano la ragione di smettere; alcuni dei
nuovi proprietari avevano nei confronti della loro
proprietà una mentalità da saccheggio e rapina. Le
rivelazioni di Browder incontravano diversi livelli
di resistenza, ma quasi sempre riusciva a mettere in
pratica alcuni cambiamenti. Il risultato era che il
valore delle azioni, che erano state invariabilmente
comprate a prezzi stracciati, saliva
esponenzialmente.
La nuova amministrazione fu molto interessata alle
indagini di Browder. Più di una volta i suoi uomini
erano stati convocati al Cremlino dove le loro
presentazioni multimediali non mancavano mai di
fare grande impressione. Browder era sicuro di
essere su una linea di successo. Ogni volta che
riusciva a ottenere la decisione di un tribunale o di
un’agenzia di controllo che avrebbe costretto
un’altra azienda russa a rispettare di più la legge,
c’erano grida di gioia negli uffici di quello che era
stato chiamato con qualche ostentazione il Fondo
Hermitage. “Lo spirito di gruppo era incredibile:
mai l’avevo trovato in nessun altro ufficio,” mi disse
anni dopo con un filo di nostalgia nella voce.
“Perché succede molto raramente di fare soldi e di
fare allo stesso tempo una buona azione.”11 Al
massimo del suo successo il fondo, che aveva
cominciato con 25 milioni di dollari di investimenti,
aveva adesso investimenti per 4,5 miliardi di dollari
nell’economia della Russia, ed era la più grossa
società di investimenti straniera nel paese. Tale era
la fiducia di Browder nella sua strategia e nel paese
che quando l’uomo più ricco della Russia venne
arrestato - anzi specialmente perché era stato
arrestato - manifestò la sua gioia: per lui voleva dire
che nulla avrebbe fermato il nuovo presidente nella
sua azione per ristabilire la legge e l’ordine.
L’uomo più ricco della Russia di turno era
Michail Chodorkovskij, nato nel 1963, e aveva un
tratto di carattere in comune con Illarionov e con
Browder, un tratto che li rendeva molto diversi da
Putin e che li rendeva vulnerabili da lui: agivano
mossi dagli ideali. I genitori di Chodorkovskij, tutti
e due tecnici moscoviti che avevano passato la loro
vita lavorando in una fabbrica di strumenti di misura,
avevano scelto di non trasmettere al figlio unico il
loro scetticismo politico. Il loro era stato un
dilemma condiviso dalla generazione: esprimi il tuo
pensiero sull’Unione Sovietica e rischi di fare un
disgraziato di tuo figlio condannandolo per sempre
al pensare e a parlare con doppiezza. Il risultato dei
loro sforzi comunque andò molto oltre le loro stesse
aspettative: erano riusciti ad allevare un fervente
comunista e un patriota sovietico, individuo di una
specie che sembrava completamente estinta. Dopo
essersi laureato in ingegneria chimica Michail
Chodorkovskij decise di lavorare al comitato del
Komsomol. Non aveva un’agenda segreta, ma a metà
degli anni ottanta questa scelta di carriera lo mise in
condizione di avvantaggiarsi delle opportunità quasi
ufficiali ed extralegali per entrare nel mondo degli
affari. Ancora ventenne, Chodorkovskij aveva
tentato la sua fortuna nel commercio importando
personal computers nell’Unione Sovietica e poi,
esperienza più importante, era entrato nel gioco
finanziario, inventando modi per tirar fuori soldi
liquidi12 dal gigante privo di liquidità
dell’economia centralizzata dell’URSS. Operò come
consigliere economico per il primo governo Eltsin
quando la Russia era ancora parte dell’Unione
Sovietica.
Durante il colpo fallito del 1991 era sulle
barricate di fronte al Parlamento a dare una mano
alla difesa del suo governo.
In altre parole all’inizio degli anni novanta, l’ex
funzionario del Komsomol aveva cambiato
completamente idea. Insieme al suo amico e socio in
affari, un ex ingegnere softwarista di nome Leonid
Nevzlin, scrisse un lungo manifesto capitalista, dal
titolo L’Uomo con un Rublo, in cui si denunciava
l’ideologia che una volta era stata la fede di
Chodorkovskij.

Lenin voleva annullare i ricchi e la ricchezza


stessa - e creò un regime che mise fuori legge la
possibilità stessa di diventare ricchi. Quelli che
volevano fare più soldi erano equiparati a comuni
delinquenti. È tempo di smettere di vivere secondo il
dettato di Lenin! La luce che ci guida è il Profitto,
guadagnato in modo rigorosamente legale. Il nostro
Signore è Sua Maestà il Denaro. Solo lui ci può
guidare verso la ricchezza come regola di vita. È
tempo di abbandonare l’Utopia e di dedicarsi agli
Affari, che vi renderanno ricchi!13

Quando il libro venne pubblicato nel 1992,


Chodorkovskij aveva la sua banca e come gli altri
nuovi imprenditori russi comprava buoni di
privatizzazione allo scopo di avere il controllo di
molte società che erano state in precedenza di
proprietà dello stato.
Nel 1995-96 il governo russo chiese soldi in
prestito ai più ricchi uomini russi cedendo quote di
controllo nelle più grosse società russe - quote che,
secondo gli accordi, erano autorizzati a tenere una
volta che, come prevedibile, il governo non avesse
onorato il debito. Come risultato dell’operazione
Chodorkovskij entrò in possesso della Yukos, una
grossa corporazione recentemente formata, titolare
di riserve petrolifere valutate fra le più grandi nel
mondo.
Il successivo grande cambiamento avvenne nel
1998. La crisi finanziaria quell’anno fece crollare la
banca di Chodorkovskij. La società petrolifera era in
enormi difficoltà: il prezzo del petrolio sui mercati
mondiali era di 8 dollari al barile, mentre gli
impianti obsoleti della Yukos consentivano un costo
di estrazione di 12 dollari al barile. La società non
aveva liquidità per pagare le centinaia di migliaia di
dipendenti. Più di dieci anni dopo Chodorkovskij
scrisse:

Andavo ai pozzi di petrolio e la gente non se la


prendeva con me. Non scioperavano: c’era
comprensione. Solo che morivano di fame.
Specialmente i giovani con i bambini piccoli che non
avevano l’orto. E gli ospedali - prima di allora
compravamo i medicinali - mandavamo la gente
perché venisse curata in altri centri se necessario,
ma adesso non avevamo i soldi. La cosa peggiore
erano le facce disperate che esprimevano
comprensione. La gente diceva: “Non ci aspettavamo
comunque nulla. Siamo grati che tu sia venuto a
parlarci. Avremo pazienza.”14

All’età di trentasette anni l’uomo più ricco della


Russia scoprì il concetto di responsabilità sociale.
Infatti è anche probabile che abbia pensato di averlo
inventato lui. Si scoprì che il solo capitalismo
poteva fare diventare la gente ricca e felice, ma
anche povera, affamata, disperata e senza nessun
potere. Fu così che Chodorkovskij decise di
costruire una società civile in Russia. “Fino a quel
momento,” scrisse, “avevo considerato gli affari
come un gioco. Un gioco nel quale volevo vincere
ma potevo anche perdere. Un gioco nel quale
centinaia di migliaia di persone ogni mattina
venivano a lavorare per giocare con me, e la sera
tornavano nelle loro vite che non avevano nulla a
che fare con me.”15 Si trattava di un obbiettivo
molto ambizioso - ma per uno degli uomini che
credeva di aver creato una economia di mercato
partendo da zero, non era un obbiettivo assurdamente
ambizioso.
Chodorkovskij istituì una fondazione che chiamò
Otkrytaja Rossija, Russia aperta. Finanziò caffè
internet nelle provincie per fare in modo che le
persone imparassero e comunicassero fra di loro.
Finanziò scuole di giornalismo in tutto il paese, e
sponsorizzò i migliori giornalisti televisivi perché
potessero venire a Mosca a studiare per un mese.
Fondò una scuola speciale per bambini emarginati;
dopo la tragedia di Beslan dozzine di sopravvissuti
ci andarono a studiare. Nel giro di breve subentrò
nelle aree dalle quali le fondazioni e i governi
occidentali venivano via; dopotutto adesso la Russia
era considerata una democrazia stabile. Qualcuno
disse che stava finanziando più della metà di tutte le
organizzazioni non governative in Russia; secondo
qualcuno ne stava finanziando l’80%. Nel 2003 la
Yukos si impegnò a dare 100 milioni di dollari in
dieci anni alla Università Statale Russa per le
Scienze Umane, la migliore scuola di scienze umane
del paese - la prima volta che un privato contribuiva
con una significativa somma di denaro a una
istituzione universitaria.
Chodorkovskij cominciò anche a preoccuparsi di
trasformare la sua società in una corporazione gestita
correttamente, e governata in regime di trasparenza.
Assoldò la McKinsey&Company, la mega società di
consulenza gestionale, per riformare la struttura
dirigenziale, e PricewaterhouseCoopers, un altro
gigante mondiale, per impostare da zero la struttura
amministrativa e contabile. “Prima dell’arrivo della
PricewaterhouseCoopers, l’unica cosa che i
ragionieri della Yukos sapevano fare era pestare i
piedi e rubare poco alla volta,” mi disse l’ex
avvocato di Chodorkovskij. “Dovevano essere
completamente rieducati.”16 I suoi soci si
lamentavano - gli sforzi di Chodorkovskij
sembravano inutili - ma lui era deciso a far diventare
la Yukos la prima corporazione multinazionale russa.
Per questo ingaggiò una società di relazioni
pubbliche con sede a Washington DC.
“Organizzammo cinque incontri a New York e
passammo la giornata tra un incontro e l’altro,”
ricorda il consulente che lavorò con lui. “Non molti
amministratori delegati erano disposti a impegnare il
loro tempo in questo modo.” Riuscimmo a ottenere
una storia di copertina su Fortune. Era l’uomo-
immagine di quello che la gente sperava succedesse
in Russia.”17 La capitalizzazione della Yukos
crebbe a ritmo esponenziale solo in parte per effetto
dell’aumento del prezzo del petrolio, in parte per
effetto delle nuove tecnologie di perforazione e di
raffinazione, che avevano drasticamente tagliato i
costi di produzione, e in parte alla trasparenza della
nuova gestione amministrativa. Chodorkovskij era il
più ricco uomo della Russia ed era chiaramente
avviato a diventare il più ricco uomo nel mondo.
Il 2 luglio 2003, venne arrestato Platon Lebedev,
presidente del consiglio di amministrazione della
società parente della Yukos, il Gruppo Menatep.
Dopo diverse settimane il capo della sicurezza della
Yukos, un ex funzionario del KGB, finiva in galera.
Lo stesso Chodorkovskij venne avvertito da coloro
che sapevano e che ragionavano seguendo l’ovvia
logica degli avvenimenti, che anche lui sarebbe stato
arrestato. Qualcuno scrisse anche un elenco di cose
che Chodorkovskij avrebbe dovuto fare per evitare
l’arresto; il documento, la cui predisposizione era
stata ordinata da uno dei suoi addetti alle pubbliche
relazioni, non venne mai visto da Chodorkovskij
perché un altro dei suoi funzionari addetto alla
pubblicità lo stracciò indignato. In ogni modo era
chiaro quello che avrebbe dovuto fare: lasciare il
paese. Il suo socio e coautore de Un uomo con un
rublo, Leonid Nevzlin fece precisamente così: si
trasferì in Israele. Chodorkovskij andò per un breve
periodo negli Stati Uniti, ma poi rientrò e intraprese
un viaggio.
C’era un discorso che Chodorkovskij ripeteva da
un anno a questa parte. L’avevo sentito una volta che
parlò a un gruppo di giovani scrittori che erano stati
riuniti su suo invito.18 Il punto centrale del discorso
era che la Russia avrebbe dovuto unirsi al mondo
moderno: smettere di gestire le sue società come
feudi medievali nella migliore delle ipotesi e come
galere nella peggiore; trasformare la sua economia in
una economia basata sull’esportazione del know-
how e della conoscenza più che sulla esportazione di
gas e di petrolio; valorizzare le persone intelligenti
ed educate - come noi scrittori - e pagarli bene.
Chodorkovskij non era un abile oratore: era teso, la
sua voce era tenue e di tono stranamente acuto per un
uomo della sua statura, del suo aspetto e della sua
ricchezza, ma aveva dalla sua parte la forza della
sua convinzione, della sua reputazione e della sua
ricchezza; la gente era interessata a sapere quello
che lui aveva da dire.
Così invece di lasciare il paese o di
inginocchiarsi davanti a Putin - perché questo era
precisamente il contenuto del foglio di consigli
strappato - Chodorkovskij decise di crearsi il suo
circuito di conferenze. Assoldò Marina Litvinovic,
la ex creatrice dell’immagine di Putin, perché gli
insegnasse l’arte del parlare in pubblico. Lei gli
disse che lui aveva uno strano modo di continuare a
insistere su un’idea anche quando il pubblico
l’aveva accolta e che questo gli faceva perdere il
ritmo dell’esposizione. Chodorkovskij, con pochi
assistenti e otto guardie del corpo, cominciò un giro
di parecchi mesi praticamente vivendo su un jet
privato. Girò per tutto il paese, parlando agli
studenti, ai lavoratori, e anche ai militari (anche se
questo pare sia stato un errore della sua
organizzazione). Litvinovic sedeva in prima fila con
un cartello con su scritto “TEMPO”; ogni volta che
l’uomo più ricco della Russia entrava nel suo
circuito ripetitivo alzava il cartello per avvertirlo.
Durante il weekend del 18 ottobre 2003, la
squadra di Chodorkovskij era nella città di Saratov
sul fiume Volga. Nevicava e, strano per quel periodo
dell’anno, la neve rimaneva sul terreno. Per qualche
strana e incomprensibile ragione che nessuno riuscì
ad esprimere, tutto il gruppo uscì all’aperto a
vagabondare nella distesa bianca. Poi tutti
rientrarono in albergo, Chodorkovskij quasi
bruscamente diede la buonanotte a tutti e sparì, il
resto del gruppo si calò presto nello stupore
accogliente dell’alcol. Il mattino dopo
Chodorkovskij disse a Litvinovic di tornare a
Mosca:19 da settimane non vedeva il suo bambino di
tre anni e lui se la sarebbe cavata senza di lei alla
prossima destinazione.
Le telefonate arrivarono nel buio delle ore prima
dell’alba del 25 ottobre: Chodorkovskij era stato
arrestato all’aeroporto di Novosibirsk alle otto del
mattino ora locale, le cinque a Mosca. “Ecco perché
mi ha mandata a casa,” pensò Litvinovic. Anton
Drel, l’avvocato personale di Chodorkovskij,
ricevette un messaggio criptico da una terza persona:
“Il signor Chodorkovskij desidera che lei sia
informata del suo arresto. Ha detto che lei avrebbe
saputo cosa fare.” “Tipico Chodorkovskij,” pensò
Drel, che non aveva la minima di cosa fare. Più tardi
nella mattinata ricevette un’altra telefonata: “Qui
parla Michail Chodorkovskij. Riesci a venire subito
all’ufficio del procuratore generale?” chiese con
tono volutamente formale; era già stato trasferito a
Mosca. Molte ore dopo Chodorkovskij venne
imputato di sei reati, fra gli altri frode ed evasione
fiscale.
Diciotto mesi dopo, Chodorkovskij venne
accusato non di sei ma di sette reati e venne
condannato a nove anni di prigione in una colonia
penale. Molto tempo prima che la pena fosse espiata
venne accusato di una nuova serie di reati e
condannato questa volta a quattordici anni di
prigione. Lebedev, l’ex presidente del suo consiglio
di amministrazione venne processato insieme a
Chodorkovskij, tutte e due le volte. Altri dipendenti
della Yukos, l’ex capo dei servizi di sicurezza,
avvocati, e molti dirigenti non solo della Yukos, ma
di diverse società del gruppo vennero accusati di
reati vari e condannati ad analoghe dure pene;
dozzine di altri fuggirono dal paese. Alla fine anche
Amnesty International, all’inizio chiaramente restia a
difendere un miliardario, dichiarò Chodorkovskij e
Lebedev prigionieri politici. Nessuno - nemmeno i
suoi carcerieri - ha mai dubitato che sia stato
ingiustamente condannato, ma anche otto anni dopo il
suo arresto nessuno sa esattamente cosa abbia fatto
Chodorkovskij che gli è costata la libertà e la
ricchezza.
Chodorkovskij stesso e molti del suo staff
ritengono che sia stato punito per aver denunciato la
corruzione. Nel febbraio del 2003, Putin aveva
convocato i più ricchi uomini d’affari russi per una
rara discussione aperta anche ai media.
Chodorkovskij arrivò con una presentazione che
consisteva in otto semplici slide che illustravano
fatti che tutti i presenti sicuramente conoscevano e
che altrettanto sicuramente facevano finta di non
conoscere. La sesta slide era intitolata “La
corruzione costa alla economia russa 30 miliardi di
dollari all’anno” e citava quattro differenti studi che
erano arrivati più o meno alla stessa cifra. L’ottava
slide era intitolata “La formazione della nuova
generazione” e riportava un diagramma comparativo
di tre istituti di studi universitari: uno che preparava
dirigenti per l’industria petrolifera, uno che istruiva
ispettori delle tasse e uno che preparava funzionari
dello stato. La gara per entrare nel terzo istituto
vedeva undici candidati per ogni posto disponibile,
gli aspiranti ispettori delle tasse dovevano vincere
contro quattro concorrenti, mentre i futuri dirigenti di
aziende petrolifere si trovavano di fronte meno di
due concorrenti per ogni posto - questo anche se i
salari iniziali ufficiali nel settore del petrolio erano
da due a tre volte superiori a quelli del pubblico
impiego.20 Erano i dati ufficiali, disse
Chodorkovskij; gli studenti che si diplomavano dalla
scuola secondaria progettavano le loro carriere
mettendo nel conto i proventi della corruzione.
Mentre parlava Chodorkovskij fece anche
riferimento a una recente fusione tra il gigante
petrolifero statale Rosneft e una piccola compagnia
petrolifera privata. “Tutti ritengono che questa
vicenda abbia avuto, diciamo così, un retroscena,”
disse Chodorkovskij alludendo alla incredibile
somma pagata da Rosneft. “Il presidente di Rosneft è
presente e forse vuol fare qualche commento.”21 Il
presidente di Rosneft non volle fare nessun
commento e la cosa sembrò una chiara, imbarazzante
pubblica ammissione di colpevolezza.
La persona che rispose a Chodorkovskij fu lo
stesso Putin. Aveva sulla faccia lo stesso ghigno di
quando, qualche mese prima, aveva suggerito che un
giornalista francese venisse castrato22 -
un’espressione che indicava la difficoltà di
contenere la sua rabbia. “Ci sono delle società, e fra
queste la Yukos, che hanno enormi riserve di denaro.
Ci si chiede come abbiano fatto ad acquisirle,” disse
spostando la sedia per alzare la spalla in un gesto
che lo faceva sembrare più grosso, il sorriso da
bullo faceva chiaramente capire che non si trattava
di una domanda, ma di una minaccia.

La sua compagnia aveva avuto dei grossi


problemi con le tasse. Per riconoscere i meriti della
direzione della Yukos, bisogna dire che ha trovato il
modo di sistemare tutto e di risolvere tutti i suoi
problemi con lo stato. Forse è proprio questa la
ragione per la quale c’è tanta concorrenza per
entrare nell’università delle tasse?

In altre parole Putin accusava Chodorkovskij di


aver corrotto gli ispettori delle tasse e minacciava di
sequestrare la sua società.
C’era anche un’altra scuola di pensiero che
riteneva i guai di Chodorkovskij di origine politica:
era stato troppo intraprendente. Aveva fatto
donazioni ai partiti politici, compreso il Partito
Comunista. Subito dopo l’arresto di Lebedev a
luglio, Chodorkovskij aveva chiesto al primo
ministro Kas’janov, con il quale aveva un rapporto
distante ma di forte intuitiva simpatia, di capire cosa
era successo. “Ci vollero tre o quattro tentativi,” mi
disse Kas’janov. “Putin insisteva nel dire che
l’ufficio del procuratore sapeva cosa stava facendo.
Alla fine mi disse che la Yukos finanziava i partiti
politici, non solo [i piccoli partiti progressisti], che
Putin lo aveva autorizzato a finanziare, ma anche i
comunisti, che lui non aveva permesso di
finanziare.”23 Otto anni dopo, Nevzlin - il socio di
Yukos che aveva lasciato il paese - confermò che i
finanziamenti al Partito Comunista erano
“ovviamente” stati autorizzati dal Cremlino.24
Qualcuno nella cerchia ristretta di Chodorkovskij
qualificava la storia del finanziamento del partito il
“doppio-doppio gioco”: qualcuno, molto vicino a
Putin, aveva incastrato Chodorkovskij dicendogli
che il finanziamento al Partito Comunista era stato
autorizzato. Tutte queste discussioni avvenivano
poco prima delle elezioni parlamentari del dicembre
2003 - quelle che secondo il corrispondente del
New York Times avevano provato che la Russia si
stava avvicinando alla democrazia.
Un terzo gruppo di osservatori aveva, del destino
di Chodorkovskij, una spiegazione più semplice.
“Non è andato in prigione per l’evasione fiscale o
per avere rubato il petrolio, in nome di dio!” mi
disse Illarionov sette anni e mezzo dopo il suo
arresto. “È andato in prigione perché era - ed è - un
essere umano indipendente. Perché non si è
inchinato. Perché è rimasto un uomo libero. Questo
stato punisce la gente che vuole essere
indipendente.”25
Nell’ottobre del 2003, quando si seppe del suo
arresto, la natura oscura e assurda della cosa era ben
lontana dall’essere ovvia per la gente. William
Browder per esempio, applaudì l’arresto. In un
editoriale pubblicato sul quotidiano in lingua inglese
The Moscow Times e distribuito agli investitori
scrisse, “Dovremmo [...] dare pieno appoggio [a
Putin] per il suo sforzo di riprendere il controllo del
paese dagli oligarchi.”26
Il 13 novembre 2005. Browder stava ritornando a
Mosca da Londra. Viveva in Russia da nove anni e,
anche se non parlava russo, a Mosca si trovava
perfettamente a suo agio. Il denaro gli consentiva un
livello di vita al quale i super ricchi che vivevano
nei paesi produttori di petrolio erano abituati: dal
momento dell’atterraggio a Mosca viaggiava su una
corsia privilegiata di lusso, passava rapidissimo
tutte le formalità dell’aeroporto, trovava il suo
autista, un ex poliziotto che però conservava la sua
tessera che gli assicurava un ruolo da re sulle strade
di Mosca notoriamente una giungla senza legge.
Questa volta però Browder si trovò bloccato nel
salotto VIP dell’aeroporto: il suo passaporto era
stato ritirato dai funzionari dell’immigrazione. Un
paio d’ore dopo finì nella cella di sicurezza
dell’aeroporto, una stanza spoglia con sedie di
plastica, insieme a molti altri detenuti, ognuno con un
destino di totale incertezza. Quindici ore dopo il suo
arrivo Browder fu messo su un volo per Londra: il
suo visto d’ingresso in Russia era stato revocato.
Certamente si trattava di un clamoroso equivoco:
Browder chiamò i ministri e gli impiegati del
Cremlino che avevano sempre molto apprezzato le
sue presentazioni con power point. Li trovò evasivi,
vaghi e molto lontani. Dopo diverse telefonate
cominciò a rendersi conto che i problemi del suo
visto non si sarebbero risolti rapidamente. Con tutta
la fiducia che aveva nelle migliori intenzioni di
Putin, quello che Browder sapeva con certezza era
che l’ultima cosa da fare era di lasciare disattesa una
società d’affari in Russia. Cominciò subito a
spostare le sue attività a Londra. Gli analisti
traslocarono; il fondo si liberò di 4,5 miliardi di
dollari in azioni di società russe, senza che nessuno
in apparenza se ne accorgesse. Alla fine dell’estate
del 2006 le società russe del Fondo Hermitage erano
un guscio vuoto con un piccolo ufficio a Mosca che
veniva ogni tanto visitato dalla segretaria della
società.
La segretaria era presente, insieme ad alcuni
impiegati in visita da Londra, quando venticinque
funzionari di polizia piombarono nell’ufficio e lo
perquisirono da cima a fondo. Subito dopo gli stessi
funzionari al comando dello stesso ufficiale che
aveva comandato la prima incursione, si
presentarono all’ufficio dello studio legale che si
occupava del Fondo Hermitage, cercavano timbri,
sigilli e certificati delle tre holding attraverso le
quali il Fondo Hermitage gestiva i suoi investimenti.
Quando uno degli avvocati obbiettò che non avevano
i mandati di perquisizione di legge, fu condotto nella
sala riunioni e picchiato.
Quattro mesi dopo vennero notificate a Browder
sentenze per svariati milioni di dollari emesse da un
tribunale di San Pietroburgo contro le sue società.
Indiziato con l’annullamento del suo visto,
spaventato dalle incursioni della polizia fiscale,
adesso era nel terrore completo per una serie di
avvenimenti per i quali non riusciva a trovare
ragionevole spiegazione. Per quale ragione la
polizia fiscale voleva i documenti di registrazione, i
timbri e i sigilli di società vuote? Come potevano
essere andate in giudizio sentenze contro queste
società se i loro rappresentanti non avevano mai
avuto nessun avviso di reato né convocazione in
tribunale?
Non fu un avvocato, ma un giovane contabile che,
dopo più di un anno di indagini fu finalmente in
grado di ricostruire una assurda, quasi incredibile,
ma nonostante tutto logica, sequenza di avvenimenti.
Le tre società vuote, scoprì Sergej Magnickij erano
state riregistrate a nome di altre persone, tutti
criminali condannati. Quindi le società erano state
denunciate da altre società che esibirono contratti in
cui risultava che le società rubate dovevano loro del
denaro. Tre tribunali in tre diverse città della Russia
avevano celebrato rapidissime udienze ed emesso
sentenze che condannavano le ex società di Browder
a pagare una somma complessiva di un miliardo di
dollari, una cifra che corrispondeva esattamente al
profitto denunciato dalle tre società nel precedente
anno fiscale. I nuovi proprietari inoltrarono richieste
all’ufficio delle tasse per avere il rimborso delle
somme pagate: diritto maturato in quanto, sulla carta,
le società non avevano avuto alcun guadagno. I
rimborsi, per complessivi 230 milioni di dollari,
vennero approvati in un solo giorno nel dicembre del
2007; vennero trasferiti ai nuovi proprietari e quindi
scomparvero dal sistema bancario russo.
Magnickij aveva scoperto una truffa che
coinvolgeva l’ufficio delle tasse e i tribunali di
almeno tre città: se i giudici non fossero stati
complici non avrebbero emesso le sentenze con
quella facilità e rapidità. L’ufficio delle tasse non
avrebbe evaso la pratica del rimborso così
rapidamente, o probabilmente mai, se la truffa non
fosse stata preparata al vertice o molto vicino al
vertice dell’agenzia - visto che gli avvocati di
Browder avevano già presentato sei differenti
impugnative sulla base del furto delle sue società.
Browder, sempre illuso dall’ideologia, ci vide
una possibilità. A questo punto era sicuro che la sua
cacciata dalla Russia fosse stata decisa nei vertici:
anche se non ne conosceva l’esatta ragione, poteva
solo pensare che qualcuno al quale aveva pestato i
piedi avesse tramato per convincere il presidente, o
qualcuno molto vicino al presidente, che lui
Browder era indesiderabile. Ma adesso aveva la
possibilità di salvare di nuovo la Russia. “È
impossibile che il presidente possa permettere che
230 milioni di dollari dei contribuenti vengano
rubati.” Questo era il suo modo di ragionare. “Voglio
dire la truffa fiscale è così cinica. Se avessimo
esposto denuncia, la gente avrebbe reagito
all’oltraggio. Avremmo visto i corpi speciali
arrivare con gli elicotteri e arrestare tutti i cattivi.”
Magnickij aveva scritto sedici diverse denunce
allo scopo di far scoprire la truffa e innescare
un’inchiesta. Ma invece di vedere gli elicotteri con
le truppe speciali gli avvocati assunti da Browder
vennero colpiti da una pioggia di avvisi di reato.
Sette avvocati di quattro diversi studi legali
ricevettero la comunicazione che erano accusati di
svariati reati penali. A questo punto Browder aveva
capito abbastanza e offrì agli avvocati la possibilità
di fuggire in Inghilterra. “Come sai io ho ricevuto la
preparazione di analista finanziario,” mi disse un
paio di anni dopo, cercando in parte di spiegare
quanto fosse stata difficile per lui tutta la vicenda e
in parte per giustificarsi per il tempo che ci aveva
messo a capire la gravità della situazione.

Non sono un militare. Non mi avevano addestrato


al fatto che la gente dovesse rischiare la vita. Andai
da ognuno dei nostri avvocati e dissi: “Mi dispiace
per quello che è successo. Non era mia intenzione
esporti a un pericolo fisico, voglio che tu lasci la
Russia a mie spese e che tu venga a Londra a mie
spese e che tu viva a Londra a mie spese.” Non è
stata una conversazione facile con nessuno di loro.
Erano tutti sulla quarantina, al massimo della loro
carriera e alcuni di loro non parlavano una parola di
inglese. Gli chiedevo di lasciare la loro vita, la loro
professione, la loro comunità e di andare in esilio
con il preavviso di un attimo per proteggerli dal
pericolo.

Sei decisero di accettare l’offerta di Browder e si


trasferirono a Londra. L’unico che rifiutò fu Sergej
Magnickij, il contabile, aveva trentasei anni ed era il
più giovane del gruppo - così Browder cercò di
comprendere la sua decisione:

Sergej apparteneva a una generazione che credeva


che la Russia stesse cambiando. C’era una nuova
Russia, magari non era perfetta, ma stava
migliorando. I principi fondamentali della giustizia e
della legge esistevano - questa era la sua premessa.
Disse: “Non siamo nel 1937. Non ho fatto nulla di
male e conosco la legge. Non c’è nessun motivo
legittimo per cui possano venire ad arrestarmi.”
Il 24 novembre 2008, Sergej Magnickij venne
arrestato proprio in relazione alla stessa truffa che
aveva tentato di denunciare. Come il suo cliente tre
anni prima, all’inizio era sicuro che si trattasse di un
equivoco che si sarebbe rapidamente chiarito con
l’aiuto dei suoi avvocati. Alla prima udienza
sostenne che doveva essere rilasciato fra le altre
ragioni perché il suo bambino aveva l’influenza;27
era sicurissimo che la sua brutta avventura si
sarebbe conclusa in pochi giorni. Non solo non
venne rilasciato, ma le sue condizioni in prigione
peggiorarono mentre veniva trasferito avanti e
indietro fra due carceri di Mosca. Non gli fu
permesso di vedere né la moglie né la madre. Si
ammalò e gli venne rifiutata l’assistenza medica
della quale aveva bisogno. Il 16 novembre 2008
Sergej Magnickij morì in prigione all’età di
trentasette anni.
Dopo la sua morte, la direzione del carcere
consegnò alla famiglia i quaderni sui quali
Magnickij aveva meticolosamente copiato tutte le
lamentele, gli appelli, e le richieste che aveva
scritto: dopo aver capito che il suo arresto non era
stato un equivoco aveva condotto una feroce
solitaria battaglia scrivendo 450 documenti in 358
giornate trascorse in carcere. Aveva fatto
un’enciclopedia degli abusi che aveva sofferto.
Descrisse le celle sovraffollate nelle quali doveva
mangiare e scrivere seduto sulla sua cuccetta. In una
cella il vetro della finestra era rotto e la temperatura
scendeva fino a zero gradi. In un’altra il cesso, o
meglio il buco nel pavimento che fungeva da cesso si
era otturato e la cella si era riempita di liquame.
Riferì di come veniva sistematicamente lasciato
senza un cibo caldo e spesso senza cibo del tutto per
giornate intere. La cosa più grave, gli venne rifiutata
ogni cura medica anche quando il dolore cronico
all’addome era così acuto da impedirgli di dormire e
stava scrivendo le lettere che documentavano i
sintomi ed elencavano i suoi diritti di ricevere
assistenza medica. Morì di peritonite.
Browder e i suoi impiegati dovettero alla fine
diventare soldati. Lanciarono una visibilissima
campagna, vocale ed efficace che chiamarono
Giustizia per Sergej Magnickij. Raccolsero
un’abbondante documentazione sulle persone
responsabili della sua incarcerazione e delle torture
e contro coloro che erano responsabili della truffa
che lui aveva scoperto e denunciato. In pochi mesi
notifiche, che richiedevano l’abrogazione dei visti e
il congelamento dei beni di tutti i funzionari
coinvolti, arrivarono al Congresso degli Stati Uniti,
al Parlamento Europeo e ai parlamenti degli stati
membri dell’Unione Europea.
A questo punto la storia sulla Russia che da tempo
dominava nei media degli Stati Uniti cominciò
finalmente a cambiare. C’era voluto quasi tutto il
secondo mandato di Putin per trasformare il cliché
consolidato della narrativa corrente: “la democrazia
emergente” a poco a poco aveva ceduto il posto a
“tendenze autoritarie”, termine che gradualmente
diede un quadro più preciso di quella che era
diventata sotto tutti gli aspetti una dittatura criminale.
Nel 2003, quando Chodorkovskij aveva cercato di
parlare a Putin della corruzione, l’organizzazione
internazionale Transparency International aveva
classificato la Russia come il paese più corrotto del
64% dei paesi nel mondo: nella classifica era un po’
più corrotta del Mozambico e un po’ meno corrotta
dell’Algeria. Nel rapporto del 2010 la stessa
organizzazione qualificava la Russia come più
corrotta dell’86% del paesi del mondo e la poneva
in classifica tra la Papua Nuova Guinea e il
Tagikistan.28
La Russia aveva perso la fiducia del mondo degli
affari e dei media. Browder passava il suo tempo a
criticare il regime russo non solo nei parlamenti del
mondo ma anche nei forum internazionali come la
riunione annuale degli operatori finanziari a Davos
in Svizzera. Andrej Illarionov aveva dato le
dimissioni dal suo incarico. “Per tutti arriva il
momento della resa dei conti,” mi spiegò.

Per me fu Beslan. Fu allora che capii che era il


modus operandi canonico. C’era la effettiva
possibilità di salvare vite umane, e lui [Putin] scelse
invece di uccidere gente innocente. L’uccisione degli
ostaggi. Voglio dire, stavo lavorando e potevo
vedere e sentire, e vidi tutto da vicino. Mi resi conto
che se avessero continuato il confronto per almeno
alcune ore si sarebbero salvate delle vite, tutte o
quasi tutte. Non ci sarebbe stato l’assalto e i
bambini, i genitori e i maestri sarebbero stati salvi.
Così stavano le cose e c’era una sola ragione per
attaccare la scuola in quel momento. Tutto mi fu
chiaro quel giorno il 3 settembre 2004.

Illarionov diede le sue dimissioni come sherpa -


rappresentante personale di Putin - al Gruppo degli
otto; la conquista del ruolo di membro del G8 era
stato uno dei più importanti risultati dell’azione di
Illarionov. “Fare il consigliere è una cosa,” spiegò.
“Fare il consigliere è fare il consigliere: è una cosa
importante, ma non è la stessa cosa che
rappresentare personalmente qualcuno. Dissi al mio
datore di lavoro che date le circostanze non potevo
più svolgere il ruolo di suo rappresentante
personale.”29
Sei mesi dopo Illarionov rinunciava anche al suo
incarico di consigliere del presidente. “Era diventata
una cosa ridicola. Nessuno seguiva i miei consigli
sull’economia o su altro. Il treno della Russia
viaggiava a tutta velocità su rotaie assolutamente
diverse.” Continuò a scrivere una serie di articoli
durissimi definendo queste “rotaie completamente
diverse”.30 “La Russia,” scrisse, “è diventata il
contrario di una economia progressista: uno stato
non libero, guerrafondaio controllato da un gruppo
dirigente corrotto.” Come Browder, Illarionov
diventò un infaticabile, esplicito, vocale critico del
regime di Putin e portava la sua critica in tutto il
mondo.
Anche Michail Kas’janov il primo ministro se ne
era andato. L’arresto di Chodorkovskij fu la causa
particolare. “C’erano stati segni anche prima,” mi
disse. “C’era stato il sequestro delle televisioni e la
gestione dell’assedio al teatro - tutti questi segni -
ma non pensai che si trattasse di un piano
precostituito. Pensai che fossero errori che potevano
venire corretti. Continuai a pensarla in questo modo
fino all’arresto di Lebedev e di Chodorkovskij.
Allora mi resi conto che non erano errori
occasionali - questa era una scelta politica, questa
era la sua visione esistenziale.”
Kas’janov aveva scrupolosamente rispettato la
richiesta di Putin di stare “fuori dal suo campo” -
cioè fuori dalla politica - così scrupolosamente
infatti che aveva volontariamente chiuso gli occhi
per non vedere cosa succedeva nella vita politica
del paese. Nell’estate del 2003, quando Putin gli
disse che il processo di Lebedev e di Chodorkovskij
era la punizione per avere finanziato il Partito
Comunista, Kas’janov era rimasto scioccato. “Non
riuscivo a credere che qualcosa che era legittimo
avesse bisogno del permesso del Cremlino.” Il
conflitto fra Putin e il suo primo ministro divenne
presto pubblico: Kas’janov criticò apertamente gli
arresti, definendoli una misura estrema e non
giustificata. Era chiaro che Putin non si sarebbe
tenuto questo primo ministro così franco per un
secondo mandato, ma il presidente perse la pazienza
prima e nel febbraio del 2004, un mese prima delle
elezioni, licenziò il consiglio dei ministri.31
Dopo aver sollevato Kas’janov dall’incarico di
primo ministro, Putin pensò di tenerselo in una
posizione meno pubblica, Gli fece tre offerte ognuna
più pressante dell’altra: la direzione del consiglio di
sicurezza, la direzione di una nuova istituzione
bancaria dello stato, un’offerta che Putin fece per
ben due volte. Quando Kas’janov rifiutò, il tono del
suo ex datore di lavoro cambiò e da seducente
divenne minaccioso. “Ero già sulla porta quando lui
mi disse: ‘Michail Michajlovic, se tu dovessi mai
avere problemi con la polizia fiscale, potrai
chiedere aiuto, ma mi raccomando: vieni
personalmente da me.’” Kas’janov interpretò le
parole di Putin sia come minaccia sia come
disponibilità a tenere una porta aperta. I guai con il
fisco cominciarono subito, ovviamente: la società di
consulenza che Kas’janov aveva fondato subito dopo
essere stato licenziato come primo ministro, fu
oggetto di una verifica da parte della polizia fiscale.
Kas’janov decise di non chiedere aiuto e la
conseguenza fu che l’ispezione si trascinò per due
anni (le due parti trovarono alla fine un accordo su
una violazione insignificante: l’aver erroneamente
messo in contabilità una scatola di carta da lettere),
indipendentemente dalla futilità della violazione
Kas’janov divenne persona non grata nella politica
russa. Negli anni successivi al suo licenziamento
cercò di essere nuovamente eletto e cercò di fondare
un partito politico - riuscendo anche a raccogliere
l’assurdo numero di firme necessarie - ma le sue
istanze vennero sempre sistematicamente respinte
dagli uffici competenti. Senza accesso alla
televisione e alla grande stampa, Kas’janov venne
rapidamente relegato alla marginalità.
Il processo a Chodorkovskij iniziò a metà anno
del 2004 e si trascinò per dieci mesi, nonostante tutte
le richieste della difesa fossero state respinte dalla
corte, che ridusse drasticamente il numero di
testimoni e di interrogazioni in contraddittorio al
Tribunale Basmannij di Mosca. A pochi giorni dalla
sentenza Igor’ Šuvalov, avvocato e nuovo autorevole
assistente di Putin, disse: “Il caso Yukos è stato un
processo emblematico ed è stato un esempio per
altre società che utilizzano vari artifici per ridurre il
loro carico fiscale. Se non era la Yukos sarebbe stata
un’altra società.” Anche i giornalisti di Mosca,
abituati a scrivere dei politici più cinici del pianeta,
rimasero sconcertati dall’uso esplicito di un
linguaggio tipico dell’era di Stalin per dire
esattamente quello che Stalin avrebbe detto: che i
tribunali esistevano per eseguire la volontà del capo
dello stato e punire come lui riteneva opportuno chi
lui riteneva opportuno.
In effetti, solo due dei sette capi di imputazione
contro Chodorkovskij riguardavano reati di evasione
fiscale e quello che si svolse nel tribunale di Mosca
fu più un spettacolo che un processo. La difesa
chiamò un numero ridotto dei suoi testimoni - non
solo perché la corte aveva respinto molte delle sue
richieste, ma anche perché gli argomenti dell’accusa
erano talmente inconsistenti da non giustificare un
grande spiegamento di difesa, inoltre testimoniare
per la difesa comportava notevole rischio. Dieci
impiegati della Yukos, compresi due avvocati, tutte e
due donne, erano già stati arrestati, e nove erano
sfuggiti all’arresto perché avevano lasciato il paese;
presto questi numeri sarebbero sembrati piccoli
perché dozzine di persone sarebbero finite in carcere
e centinaia in fuga all’estero.
In questo processo kafkiano la difesa adottò una
linea volutamente sotto tono. Nella sua arringa
finale, Genrich Padva, il capo del collegio di difesa
di Chodorkovskij e probabilmente il più noto
avvocato difensore del paese, sembrò più un maestro
di scuola che l’appassionato protagonista di una
contesa giudiziaria. Per tre giorni di udienza Padva
lesse i suoi argomenti, elencando sistematicamente
tutti gli errori dell’accusa, per dimostrare che i
pubblici ministeri non avevano fornito alcuna prova
documentale che gli imputati fossero coinvolti nelle
società elencate nei capi di imputazione né
tantomeno che avessero commesso i reati contestati.
“E non voglio nemmeno citare il fatto che i reati
contestati si riferiscono a leggi divenute esecutive
anni dopo che i presunti fatti si siano verificati.” Un
ritornello nell’arringa di Padva. Il suo atteggiamento
lasciava chiaramente capire che non si faceva
illusioni sulla possibilità di convincere in alcun
modo i giudici, ma nell’interesse della storia e a
supporto di futuri ricorsi a tribunali internazionali,
era necessario mettere a verbale tutte le sue
argomentazioni. I giudici, tre donne massicce sulla
quarantina, ognuna con un caschetto lucido di capelli
pettinati all’indietro, stavano sedute immobili, le
labbra imbronciate per una identica espressione di
malumore. Il loro atteggiamento sembrava voler
dire: La decisione è già stata presa e la tua insistenza
su aspetti procedurali e per una discussione corretta
è un’offensiva perdita di tempo per noi tutti.
Chodorkovskij e Lebedev vennero condannati
ognuno a nove anni di colonia penale; tre mesi dopo
una corte di appello ridusse di un anno le loro
condanne. I due vennero inviati in due colonie penali
diverse lontanissime e difficili da raggiungere. Per
visitare il loro cliente gli avvocati di Chodorkovskij
dovevano viaggiare nove ore in aereo e altre
quindici ore in treno.32 La legge russa stabiliva che
i condannati dovevano essere messi in istituti di
pena facilmente raggiungibili dalla loro residenza -
la legge venne cambiata con efficacia retroattiva per
adattarla al caso Chodorkovskij.
Per sei mesi dopo il suo arresto Chodorkovskij
cercò di gestire la sua società dalla prigione. Alla
fine resosi conto della impossibilità, cedette le sue
azioni a Nevzlin, il socio che era fuggito in Israele.
Ma la società bombardata dalle rivendicazioni del
fisco e da azioni legali, con le sue basi finanziarie in
Russia da tempo requisite dallo stato, stava
crollando. Un anno dopo l’arresto di Chodorkovskij
la più grande compagnia petrolifera russa e quella di
maggiore successo, quella che una volta pagava il 5
per cento di tutte le entrate fiscali del governo
federale, era ridotta alla bancarotta. L’assetto
patrimoniale più ambito, una società chiamata
Juganskneftegaz, titolare delle più grandi riserve di
petrolio in Europa, venne messa all’asta. La società
statale che aveva il monopolio del gas, che adesso
era diretta dall’ex vice di Putin33 a San Pietroburgo,
era pronta a vincere la gara. Per bloccare l’affare gli
avvocati della Yukos aprirono la procedura di
fallimento con una istanza a un tribunale del Texas e
quindi chiesero una ordinanza del giudice di quel
tribunale che bloccasse la vendita. Gazprom, una
società russa, si sarebbe ben guardata dal rispettare
l’ordine di un tribunale americano sulla questione,
ma si dava il caso che avesse progettato di
comperare la Juganskneftegaz con fondi presi in
prestito da banche americane e dell’Europa
occidentale. Il finanziamento venne bloccato e per un
breve momento sembrò che l’acquisizione fosse stata
evitata - quando una società di recente fondazione di
nome Bajkalfinansgrup comparve dal nulla e si
iscrisse all’asta. I giornalisti si precipitarono
immediatamente all’indirizzo di registrazione della
società a Tver’, una cittadina dimenticata da dio a
tre ore da Mosca; si trattava di un piccolo edificio
usato come sede legale da circa 150 società nessuna
delle quali sembrava essere dotata di solido
patrimonio.
Nemmeno la Bajkalfinansgrup risultava avere
base finanziaria. Secondo i documenti di
registrazione, presentati due settimane prima
dell’asta, il suo capitale era di diecimila rubli,
corrispondenti a circa 300 dollari. Ma in qualche
modo la società petrolifera statale Rosneft - quella il
cui presidente un anno prima si era rifiutato di
rispondere a Chodorkovskij sull’ipotesi di
corruzione - prestò alla società sconosciuta più di 9
miliardi di dollari per comprare la Juganskneftegaz;
la cifra corrispondeva a meno della metà del valore
stimato della compagnia a quella data. L’asta, tenuta
il 19 dicembre 2004, durò due minuti.34
Parlando in Germania due giorni dopo l‘asta,
Putin reagì con stizza all’insinuazione che il
patrimonio della Yukos fosse stato comperato da una
società sconosciuta. “Conosco gli azionisti della
società e sono persone fisiche,” disse. “Sono
persone che hanno operato nel settore dell’energia
da molto tempo.” Due giorni dopo Rosneft, la
società petrolifera dello stato, acquisì il controllo
della base patrimoniale della Yukos comprando la
Bajkalfinansgrup - facendo anche in modo che questa
non potesse mai venire denunciata per averla
acquistata tramite un’asta truccata.35
Era passato solo un anno dall’arresto di
Chodorkovskij ed era adesso chiaro che la Russia
aveva posto due pietre miliari. Con l’ex uomo più
ricco della Russia in galera per un tempo indefinito,
nessuno, nemmeno i più ricchi e potenti, poteva
permettersi libertà di azione. Con la rapina alla luce
del giorno del patrimonio della più grossa società
del paese, Putin si era conquistato il ruolo di padrino
di un clan mafioso che controllava il paese. Come
tutti i capimafia non faceva grandi distinzioni fra la
sua proprietà personale, la proprietà del clan, e la
proprietà degli aderenti al clan. Come tutti i
capimafia ammassava ricchezza mediante rapine a
mani salve, come aveva fatto con la Yukos,
estorcendo presunti crediti, piazzando i suoi
complici dovunque ci fosse denaro da rastrellare.
Alla fine del 2007 secondo un esperto politico russo
- uno che si pensava avesse accesso al Cremlino - il
patrimonio personale stimato di Putin era di 40
miliardi di dollari.36
La cifra di 40 miliardi di dollari non può essere
né confermata né smentita, ma c’è una storia che
sono stata in grado di raccontare nei particolari. Una
storia che non solo getta qualche lume sull’entità del
patrimonio personale di Putin, ma anche sulle
dinamiche con cui viene accumulato. Per poterla
raccontare c’è voluta la mia fortuna di giornalista e
l’aiuto di un uomo molto coraggioso.
All’inizio degli anni 1990, Sergej Kolesnikov era
stato uno delle centinaia di scienziati che si
trasformarono in imprenditori russi. Con un Ph.D. in
biofisica cominciò a produrre attrezzature mediche e
quindi ad importarle. Durante l’amministrazione
Sobcak formò una società in comunione con la città e
fece buoni affari attrezzando le cliniche e gli
ospedali di San Pietroburgo. Dopo che Sobcak perse
le elezioni, comprò la quota di azioni della città e
trasformò la società in società privata rimanendo
nello stesso ramo di attività.
Subito dopo l’elezione di Putin alla presidenza
prese contatto con Kolesnikov un suo vecchio socio
in affari del tempo di San Pietroburgo, Gli fece
questa proposta: alcuni dei più ricchi uomini in
Russia avrebbero donato cospicue somme di denaro
per comperare attrezzature mediche per gli ospedali
russi. Kolesnikov con la sua competenza tecnica
avrebbe procurato le attrezzature con importanti
sconti a fronte dei volumi degli ordinativi. La
differenza tra il prezzo di listino, quello che sarebbe
stato comunicato al donatore, e il denaro
effettivamente speso non doveva essere meno del 35
per cento; se Kolesnikov fosse riuscito ad ottenere
condizioni più vantaggiose si sarebbe intascato la
differenza come profitto. Il 35 per cento doveva
essere depositato su un conto corrente in una banca
nell’Europa occidentale e sarebbe stato in seguito
usato per investimenti nell’economia russa.
Kolesnikov non aveva problemi per accettare lo
schema proposto. Come Browder pensava che
avrebbe guadagnato bene e nello stesso tempo
avrebbe fatto del bene alla Russia: le attrezzature
mediche quanto mai necessarie erano indubbiamente
una cosa buona; inoltre i suoi nuovi soci avrebbero
investito cospicue somme di denaro nell’economia
russa. Certo si prendevano la loro fetta - più di un
terzo del denaro donato - ma lo investivano in
Russia e non lo adoperavano per arricchirsi. Inoltre
“sapevamo che questo non era denaro guadagnato
spaccando la schiena dei lavoratori. Somme di
quell’entità in genere non si guadagnano
onestamente.”37
Il primo donatore fu Roman Abramovic, un
oligarca russo molto riservato, il futuro proprietario
del Chelsea Football Club. Fece una donazione di
203 milioni di dollari, 140 dei quali vennero spesi
per comperare attrezzature mediche per l’ospedale
dell’Accademia militare di San Pietroburgo (che era
diretta dall’amico di Putin, il ministro della salute
che aveva aiutato a portare Sobcak via dall’ufficio
del procuratore generale e poi fuori dalla Russia) e
più di 60 milioni di dollari vennero depositati nel
conto corrente della banca europea. La sua
donazione venne seguita da numerose altre di minore
entità. Alla fine del 2005 nel conto corrente della
banca europea si erano accumulati più di 200
milioni di dollari. Kolesnikov e i suoi due soci - uno
era quello che aveva cominciato con lui a San
Pietroburgo e l’altro era quello gli aveva procurato
la nuova attività - formarono una nuova società che
chiamarono Rosinvest, sussidiaria interamente
posseduta da una società svizzera che operava
tramite una terza società anche questa svizzera la cui
proprietà era suddivisa in azioni al portatore. In altre
parole, colui che aveva in mano fisicamente i titoli
ne era il legittimo proprietario. Ognuno dei tre soci
ebbe il 2 per cento delle azioni e il 94 per cento
venne dato personalmente a Putin.
La nuova società aveva un portafoglio di
investimenti in sedici progetti, per la maggior parte
imprese di produzione industriale; erano stati scelti
bene, godevano di una serie di privilegi fiscali e di
benefici di legge, davano un buon margine di profitto
il 94 per cento del quale andava a Putin. Nel
pacchetto c’era anche quello che Kolesnikov
pensava fosse un piccolo progetto personale di
Putin, una casa sul mar Nero il cui costo previsto era
di 16 milioni di dollari. “Ma continuavano ad
aggiungersi cose,” mi disse Kolesnikov.

Un ascensore per raggiungere la spiaggia, una


marina, una linea elettrica separata da alto voltaggio,
uno condotto separato per il gas, tre nuove strade di
accesso al palazzo, tre piattaforme per l’atterraggio
di elicotteri. Anche l’edificio continuava a cambiare;
venne aggiunto un anfiteatro all’aperto e poi un
teatro per l’inverno. Poi ci fu l’arredamento: mobili,
opere d’arte, argenteria. Tutto molto costoso!

Kolesnikov andava sul mar Nero due volte


all’anno per controllare il progetto, l’ultima volta
che ci andò nella primavera del 2009, quella che
originariamente era una casa era diventato un
complesso di venti edifici e il bilancio complessivo
aveva superato il miliardo di dollari.
Qualche mese prima era successa un’altra cosa. A
seguito della crisi finanziaria mondiale, il socio di
Kolesnikov lo informò che Rosinvest non avrebbe
più fatto investimenti: l’unico obbiettivo della
società era adesso il completamento del palazzo sul
mar Nero. Kolesnikov, che non era mai andato molto
per il sottile sulla legalità delle procedure, ma era
stato sempre molto orgoglioso del suo lavoro e
convinto che stava creando ricchezza per il suo
paese, restò profondamente offeso. Lasciò la Russia
portando con sé la documentazione della società e
pagò una robusta somma di denaro a uno studio
legale di Washington perché analizzasse i documenti
e verificasse la sua storia. Dopodiché pubblicò
quella che diventò nota come la storia del palazzo di
Putin. Una storia che suscitò molta attenzione in
Russia quando la scrissi, ma non provocò
significativa reazione da parte del governo: in un
primo momento la segreteria di Putin la qualificò
come spazzatura mediatica poi, quando Novaya
Gazeta pubblicò copie di documenti contrattuali
relativi all’edificio, il Cremlino confermò
l’esistenza del progetto sul mar Nero.38
Si potrebbe pensare che il progetto del palazzo
fosse uno dei tanti analoghi schemi per estrarre
ricchezza dalla Russia. La domanda è: qual è la
natura, il motivo fondamentale, dietro questi
progetti? In altre parole la domanda di nuovo è: chi è
il signor Putin.
C’è la storia del burocrate Putin, quello che non
intasca tangenti - l’immagine che spiega il fascino
che ebbe su Berezovskij, che a sua volta fu la chiave
dell’elezione di Putin alla presidenza. Il braccio
destro di Berezovskij, Julij Dubov, che era oramai
da tempo uno degli esuli di Londra, mi raccontò una
delle storie più singolari fra tutte quelle che si
raccontano di Putin. Una volta all’inizio degli anni
1990, Dubov aveva dei problemi con la
documentazione necessaria per una delle stazioni di
servizio che Berezovskij stava aprendo a San
Pietroburgo, e aveva bisogno che Putin facesse una
telefonata per facilitare la procedura. A questo
scopo aveva organizzato di andare a pranzo con lui.
Dubov arrivò in anticipo al municipio e così,
eccezionalmente, Putin. Mentre tutti e due
aspettavano l’ora per poter andare a mangiare,
Dubov accennò al problema della telefonata. Putin la
fece immediatamente e poi si rifiutò di andare a
pranzo. Dubov si ricorda queste parole: “O tu vuoi
che ti aiuti per i tuoi affari, o mi offri un pranzo.”39
Non era solo un burocrate che non accettava
mazzette: era un burocrate la cui stessa identità si
basava sull’incorruttibilità.
Poi c’era il Putin durante il cui mandato
spariscono 100 milioni di dollari di contratti
d’acquisto, come documentò Marina Sal’e. La parte
interessante di questa storia non è il furto in se - non
c’è dubbio che in quei giorni in circostanze simili
avvennero furti dappertutto in Russia, per questo le
rivelazioni di Sal’e non fecero mai molto scalpore -
quanto il fatto che tutta la somma sia stata
presumibilmente rubata. Sospetto che se Putin si
fosse preso il 5, 10, 20 o anche il 30% non si
sarebbe fatta una nemica feroce per tutta la vita come
Sal’e - come anche Kolesnikov non avrebbe lanciato
la sua campagna se il palazzo fosse rimasto solo un
costoso progetto in margine agli altri affari.
Ma è come se Putin non avesse resistito a
prendersi tutto. E secondo me questo è proprio
quello che è successo. In molte occasioni, una in
particolare molto imbarazzante e pubblica, Putin si è
comportato come una persona affetta da cleptomania.
Nel giugno 2005 a un ricevimento per uomini
d’affari americani a San Pietroburgo si intascò
l’anello con 124 diamanti del Super Bowl del
proprietario di New England Patriots, Robert
Kraft.40 Aveva chiesto di vederlo, se l’era infilato
al dito e si dice che abbia detto: “Potrei uccidere
qualcuno con questo!” poi si mise l’anello in tasca e
uscì rapidamente dalla stanza. Dopo una sventagliata
di articoli sui giornali americani, qualche giorno
dopo Kraft annunciò che l’anello era stato un regalo
- bloccando una situazione sgradevole che stava per
andare fuori controllo.
Nel settembre del 2005, Putin era ospite d’onore
al Solomon R. Guggenheim Museum di New York.41
A un certo punto gli ospiti fecero vedere un pezzo
che un altro visitatore russo doveva aver regalato al
museo: la replica in vetro di un kalashnikov piena di
vodka. Lo strano souvenir viene venduto a Mosca
per 300 dollari.42 Putin fece cenno a una delle sue
guardie del corpo che prese il kalashnikov di vetro e
lo portò via lasciando senza parole i dirigenti del
museo.
La straordinaria relazione di Putin con gli oggetti
di ricchezza materiale era già chiara quando era uno
studente all’università, se non prima ancora. Quando
accettò in regalo dai genitori l’auto che avevano
vinto a una lotteria, indifferente al fatto che il premio
avrebbe potuto servire per migliorare le condizioni
di vita della famiglia, oppure quando spese tutti i
soldi guadagnati durante l’estate per comperarsi una
giacca incredibilmente costosa - e per sua madre
comprò una torta - già allora agiva in un modo molto
strano, marginale e inaccettabile per un giovane
della sua generazione e della sua estrazione sociale.
L’ostentazione della ricchezza avrebbe facilmente
potuto rovinare la sua carriera nel KGB, e lui lo
sapeva. La storia raccontata da un estremista della
Germania Ovest - di Putin che chiedeva regali
durante il suo servizio a Dresda - completa il
quadro. Per un uomo che aveva investito la parte più
importante del suo capitale sociale nel rispetto delle
regole, questi erano comportamenti particolarmente
significativi: sembra proprio che non riuscisse a
controllarsi.
Il termine corretto probabilmente non è quello
generalmente conosciuto di “cleptomania” che si
riferisce al desiderio patologico di possedere cose
di cui non si ha effettivo bisogno, ma il più esotico
“pleonexia”, l’insaziabile desiderio di possedere ciò
che appartiene ad altri. Questa irresistibile urgenza
può spiegare la sua apparente doppia personalità:
compensa questa disfunzione creando l’immagine
dell’onesto e incorruttibile funzionario pubblico.
Andrej Illarionov fece questa scoperta meno di un
mese dopo essere diventato il consigliere economico
di Putin:43 pochi giorni dopo il suo insediamento,
Putin firmò un decreto con il quale consolidava il 70
per cento circa dei produttori di alcol del paese in
una singola società alla cui guida nominava un suo
amico di San Pietroburgo. A quel tempo il petrolio
non era ancora salito di prezzo e l’alcol era
probabilmente l’attività più ricca del paese.
Illarionov venne a sapere che nessuno della squadra
di consulenti economici del presidente era stato
consultato e nemmeno informato della decisione. Nei
mesi successivi Illarionov si abituò a questo
comportamento: Putin sosteneva in pubblico e sui
media una linea politica economica liberista e
faceva finta di ascoltare la sua brillante squadra di
consulenti sostenitori di un’economia progressista,
mentre li scavalcava regolarmente con decisioni che
concentravano le risorse del paese nelle mani dei
suoi compari.
Successe così anche per Chodorkovskij? Putin lo
fece arrestare perché si voleva impossessare della
sua società piuttosto che per ragioni di antagonismo
politico e personale? Non esattamente. Mise in
galera Chodorkovskij per le stesse ragioni per le
quali aveva abolito le elezioni e per le quali aveva
fatto uccidere Litvinenko: nel suo continuo sforzo di
trasformare il paese in una gigantesca copia del
KGB, non ci può essere spazio per i dissidenti e
nemmeno per operatori indipendenti. Gli operatori
indipendenti sono scomodi perché si rifiutano di
accettare le regole della mafia. Dopo che
Chodorkovskij finì in galera si presentò
l’opportunità di derubarlo. Nel cogliere questa
opportunità Putin, come al solito, non fece
distinzione fra se stesso e lo stato che governava.
L’avidità non sarà il suo istinto principale, ma è
quello al quale non riesce mai a resistere.
11
RITORNO ALL’URSS
Il 2 ottobre 2011 Boris Berezovskij saltava
eccitato nel suo ufficio. Io ero a Londra per seguire
il processo che, dieci anni dopo essere diventato un
esule, aveva iniziato nel tentativo di recuperare parte
del suo patrimonio e mi aveva chiesto di andare nel
suo ufficio la domenica prima dell’udienza per
rivelarmi il suo pensiero sulla situazione politica in
Russia.
“Capisci,” cominciò. “In Russia il regime non ha
ideologia, non ha partito, non ha politica: non è altro
che il potere di un singolo uomo.” La figura che
delineava era quella del Mago di Oz, senza alcuna
preoccupazione di riconoscere che quell’uomo
l’aveva inventato lui. “Basta screditarlo... lui
personalmente.” Berezovskij aveva un progetto, anzi
un paio, ma mi fece giurare di mantenere il segreto.
Lo lasciai, divertita all’idea di un uomo che non
riusciva a rinunciare al ruolo di kingmaker, ma al
contempo dovevo ammettere che la sua analisi era
corretta. Tutto l’edificio del regime russo - che agli
occhi del mondo aveva da tempo superato la
qualifica di “autoritario” ed era ormai riconosciuto
come un regime ai limiti della tirannia - si basava su
quell’uomo, lo stesso che una dozzina di anni prima
Berezovskij credeva di avere scelto per il paese. In
altre parole l’attuale regime era sostanzialmente
vulnerabile; la persona o le persone che avessero
voluto farlo cadere non avrebbero dovuto affrontare
la potenza di una ideologia consolidata, ma solo fare
vedere che il tiranno aveva i piedi di argilla.
Tuttavia, come per ogni tirannia, il punto di rottura
era imprevedibile: poteva succedere in mesi, anni o
decine di anni, innescato da un accidente marginale,
molto probabilmente un errore, commesso dallo
stesso regime che avrebbe reso rapidamente
evidente la sua vulnerabilità.
Avevo visto qualcosa del genere in Iugoslavia
undici anni prima: Slobodan Miloševic, che era
rimasto al potere grazie all’uso del terrore e
sfruttando la passione nazionalista degli altri, indisse
elezioni anticipate sicuro che le avrebbe vinte e,
sbagliando la previsione, le perse. Lo capì troppo
tardi per soffocare l’ondata di protesta. Ancora nel
2011 abbiamo visto i dittatori arabi cadere come
tasselli di un domino, abbattuti da folle che avevano
di colpo superato ogni paura per effetto delle parole
e dell’esempio di qualcuno. Il problema della Russia
però era che l’enorme paese era stato polverizzato
come mai prima. Le strategie di Putin avevano
efficacemente distrutto ogni spazio pubblico. Internet
si era diffuso come in ogni altro paese ma aveva
preso la strana forma di una serie di bolle di
informazione separate. I ricercatori americani che
avevano disegnato la mappa delle blogosfere del
mondo trovarono che, a differenza di quella
americana o iraniana, che formavano una serie di
cerchi interrelati, la blogosfera russa era costituita
da cerchi separati, ognuno senza alcun collegamento
con gli altri.1 Era l’anti-utopia della età
dell’informazione: un numero infinito di camere
anecoiche. E non valeva solo per Internet. Il
Cremlino guardava la sua televisione; il mondo degli
affari leggeva i suoi giornali, l’intelligencija leggeva
i suoi blog. Nessuno è al corrente delle realtà degli
altri, cosa che rende difficile l’innesco di una
qualunque forma di protesta di massa.
Nelle elezioni del 2000 Putin ebbe circa il 53 per
cento dei voti, mentre i suoi dieci avversari
raggiunsero percentuali che variavano dall’1 al 29.
Nelle elezioni del 2004 ottenne il 71 per cento - un
risultato tipico da regime autoritario - e i suoi cinque
avversari ottennero dallo 0,75 al 14 per cento
ognuno. All’avvicinarsi delle elezioni del 2007 il
mondo politico russo si chiedeva che cosa sarebbe
successo. Putin avrebbe cambiato la costituzione per
poter avere più di due mandati consecutivi? Avrebbe
fatto come Eltsin e indirizzato il voto del paese su un
successore di sua scelta? Per qualche tempo sembrò
che Putin volesse favorire il ministro della difesa
Sergej Ivanov, un ex collega del KGB. Ma nel
dicembre di quell’anno Putin tenne una riunione
trasmessa in televisione con i capi dei quattro partiti
fantoccio, che dichiararono che intendevano
nominare il vice primo ministro Dmitrij Medvedev
come candidato alla presidenza. Medvedev era
presente certamente non per caso a quello storico
evento gestito con precisa regia. Nelle successive
elezioni del marzo 2008 raccolse più del 70 per
cento dei voti mentre i suoi tre avversari ebbero da 0
al 17 per cento ognuno. Una volta insediato nominò
Putin suo primo ministro.
Il quarantaduenne Medvedev fece sembrare Putin
un capo carismatico. Poco più alto di un metro e
cinquanta (la statura esatta è un segreto
rigorosamente protetto, ma i pettegolezzi non
mancano così come le foto di Medvedev seduto su
un cuscino o in piedi su uno sgabello per arrivare al
microfono) al suo fianco Putin sembrava un gigante.
Era un avvocato e aveva lavorato
nell’amministrazione di San Pietroburgo, non aveva
mai guidato un lavoro di squadra né comandato
alcunché, tantomeno un paese. Imitava il modo
robotico con cui Putin pronunciava i suoi discorsi
parola per parola, con la differenza che ogni sillaba
di Putin aveva un suono minaccioso, mentre
Medvedev sembrava avere la voce di un
sintetizzatore elettronico. A differenza di Putin
Medvedev non apprezzava le barzellette volgari.
Questo - e forse la drammatica necessità di avere
qualcuno a cui affidare le loro speranze - fu
sufficiente perché gli intellettuali russi lo
considerassero con simpatia.
Per la prima volta da quando Putin aveva distrutto
i media e ucciso la politica russa, l’uomo al
Cremlino si rivolse al pubblico pensante e parlò di
quelli che gli estensori dei suoi discorsi chiamarono
le quattro “I”: istituzioni, infrastruttura, investimento
e innovazione. Sfoggiando un iPhone e subito dopo il
suo lancio un iPad, Medvedev cercava di imbottire
il suo intenso vocabolario di uno spirito moderno,
occidentale. L’intelligencija se la bevve. Quando
Medvedev chiamò gli attivisti dei diritti umani, gli
analisti politici progressisti e vari altri insigni
pensatori per formare un consiglio della presidenza
di nuova istituzione, andarono tutti, dedicando
volontariamente il loro tempo per scrivere libri
bianchi che evidentemente non vennero mai letti.
Quando i giornalisti dell’opposizione si azzardarono
a criticare non solo Putin ma anche Medvedev, i
direttori censurarono i pezzi.2 Quando Medvedev
disse a un gruppo di attivisti storici che avrebbe
finalmente approvato il progetto fermo da anni per
un museo nazionale in onore della memoria delle
vittime del terrore stalinista, gli storici mollarono
tutto per fare progetti, scrivere documenti, e fare il
lavoro che avrebbero dovuto fare i burocrati del
governo federale e che non avevano mai fatto, per
consentire a Medvedev di firmare il decreto
esecutivo, cosa che non fece mai. Quello che faceva
invece erano discorsi, promettendo la lotta alla
corruzione e la modernizzazione del paese, mentre
nulla cambiava. Michail Chodorkovskij subiva un
secondo processo. Sergej Magnickij moriva in
prigione e Vladimir Putin non solo continuava a
costruire il suo palazzo sul mar Nero, ma continuava
a regnare sul paese.
Il ruolo di Medvedev era quasi esclusivamente di
rappresentanza, ma nei loro discorsi al pubblico i
due leader divisero e conquistarono il paese.
Medvedev con l’eloquio raffinato, i suoi discorsi
sull’innovazione, le sue promesse di combattere la
corruzione incantava e tranquilizzava le minoranze
di attivisti e intellettuali una volta inquiete. Alla
maggioranza, invece, Putin continuava a regalare la
sua produzione di memorabili volgarità. Dopo due
micidiali esplosioni nella metropolitana di Mosca
nel marzo del 2010, rievocò il suo impegno del 1999
a “sbatterli nel cesso”: “Sappiamo che se ne stanno
rintanati,” disse. “Ma la legge li scrosterà dal fondo
della fogna.”3 Nel luglio del 2009, rispondendo
all’osservazione del presidente Barack Obama
secondo la quale il primo ministro “teneva un piede
nel vecchio modo di condurre gli affari e un piede in
quello nuovo,” Putin disse: “Non allarghiamo certo
le gambe.”4 Nel luglio del 2008, quando il maggiore
azionista di una industria siderurgica e di carbone
non si presentò a una riunione nella quale Putin
avrebbe voluto strigliarlo, disse: “Capisco che
quando uno è malato è malato, ma vorrei
raccomandare a Igor’ Vladimirovic [Zjuzin] di
guarire quanto prima. Se no dovrò mandare un
medico ed estirpare il problema alla radice.”5
Nell’agosto del 2010 confidò a un giornalista che gli
attivisti dell’opposizione che partecipavano a
manifestazioni non autorizzate (e oramai la maggior
parte non lo era) “si meritavano di essere presi a
bastonate sulla testa.”6 Queste battute da teppista
erano parte della sua continua campagna per
conquistare popolarità, come le centinaia di foto che
lo ritraevano a petto nudo7 in vacanza nella regione
settentrionale di Tyva e il servizio fotografico di lui
che si tuffa nel mar Nero8 e ne riemerge con
un’anfora del VI secolo preventivamente piazzata lì
dagli archeologi.9 Si trattava a tutti gli effetti della
campagna di un dittatore, di uno che non tollera né
opposizione né critiche, e che però permette la
diligente messa in scena della adulazione.
L’unico scopo era permettere la sua permanenza
come capo indiscusso del paese - un obiettivo
incredibilmente facile in presenza di un presidente in
carica - e conseguenza naturale del suo continuo
agitarsi per il primato sarebbe stato il ritorno alla
presidenza una volta esaurito il mandato di
Medvedev nel 2012. Infatti, dopo sei mesi dal suo
insediamento, Medvedev presentò una scontata
proposta di legge, che il parlamento approvò, per
portare la durata del mandato presidenziale da
quattro a sei anni.10 Il progetto, ovvio, era che
Medvedev restasse a fare bei discorsi per quattro
anni per poi cedere il trono a Putin per i successivi
due mandati consecutivi di sei anni. Per quanto
trasparente fosse lo schema, si sperava ancora che
Medvedev fosse sincero nelle sue intenzioni o che,
dopo essere stato presidente per quattro anni,
potesse coltivare nuove ed effettive ambizioni
presidenziali o che semplicemente il sistema creato
da Putin potesse crollare come prima o poi succede
a tutti i sistemi chiusi.

La vulnerabilità più evidente era proprio una certa


pleonessia di Putin e della sua cerchia interna, quel
desiderio insaziabile di possedere ciò che per diritto
appartiene agli altri, che poco alla volta erodeva il
regime dal suo interno. Ogni anno la Russia
scivolava sempre più in basso nella classifica dei
paesi corrotti stilata dal gruppo di vigilanza
internazionale Transparency International: nel 2011
aveva raggiunto (per il 2010) il 154° posto su
178.11 Sempre nel 2011 gli attivisti per i diritti
umani stimarono12 che il 15 per cento della
popolazione carceraria russa era costituito da
imprenditori che erano stati sbattuti in galera da
concorrenti con buone relazioni politiche e che
utilizzavano il sistema giudiziario per appropriarsi
delle industrie altrui. A metà del 2010 un avvocato
di trentaquattro anni di nome Aleksej Naval’nyj
riceveva decine di migliaia di visite al suo blog,
dove, analizzando sistematicamente i siti web del
governo alla ricerca di prove che ne documentassero
gli eccessi ben nascosti e tuttavia palesi, denunciava
gli innumerevoli abusi di una burocrazia
irresponsabile. Qui si trovava la documentazione
sulla regione di Voronež, che pubblicava un bando
per comperare cinque orologi d’oro da 15.000
dollari.13 Oppure sulla città di Krasnodar nella
Russia meridionale, che pagava 400 milioni di
dollari per la documentazione tecnica su un
passaggio a livello ferroviario.14 Oppure sui due
letti e comodini placcati in oro a 24 carati che il
ministero degli interni voleva comperare.15
Naval’nyj definì le persone al potere il “Partito dei
delinquenti e dei ladri”, un appellativo che ebbe
immediata popolarità. Nell’autunno del 2010 la
rivista che dirigevo pubblicò una lunga e dettagliata
intervista a Naval’nyj, nella cui introduzione scrissi:
“È nato un vero politico in Russia.”16 Altre riviste
seguirono l’esempio mettendo Naval’nyj, biondo e
di bell’aspetto, in copertina, e l’attenzione arrivò al
massimo con un articolo17 del New Yorker
nell’aprile del 2011.
Il 2 febbraio 2011 Naval’nyj annunciò che
avrebbe portato la sua solitaria campagna
anticorruzione in pubblico e chiese contributi per la
sua giovane organizzazione. Nel giro di tre ore
aveva raccolto 5000 dollari con contributi che
andavano da 5 kopeki (meno di un centesimo)
all’equivalente di 500 dollari. In ventiquattro ore
raggiunse il milione di rubli (circa 30.000 dollari):
un record assoluto in Russia nel campo della
raccolta di fondi.18 Si trattava di un chiaro segno
del fatto che i russi ne avevano abbastanza di essere
presi in giro ed erano disponibili a pagare per il
cambiamento. Ma era anche chiaro che un
combattente solitario come Naval’nyj non avrebbe
potuto cambiare nulla. Un campione di scacchi come
Garri Kasparov aveva già imparato che avere
denaro, popolarità e ragione non erano sufficienti
per consentire a un estraneo di intaccare il sistema.
Solamente qualcuno dall’interno poteva spaccare il
monolite.
Quell’uomo arrivò sulla scena nel maggio 2011.
Fu una sorpresa per tutti, anche per lui, quando
Michail Prochorov, che adesso era il secondo uomo
più ricco della Russia, annunciò che sarebbe entrato
in politica. Quarantasei anni di età, la sua storia era
simile a quella di tutti gli altri super-ricchi russi: era
entrato in affari mentre era ancora all’ultimo anno di
università, aveva cominciato a fare soldi verso la
fine degli anni ottanta vendendo e comperando tutto
quello su cui riusciva a mettere le mani, aveva
accumulato una fortuna negli anni novanta, sfruttando
saggiamente la privatizzazione, investendo con
intelligenza e ristrutturando le industrie che aveva
privatizzato. A differenza di Gusinskij, Berezovskij e
Chodorkovskij si era tenuto lontano dal Cremlino
per tutta la sua carriera, preferendo rimanere un
dirigente presente e attivo nelle sue imprese e
lasciando la politica al suo socio.
Entrare in politica non era stata esattamente una
sua idea, anche se l’avrebbe poi reclamata come
tale. Era stato sollecitato dal presidente e dal primo
ministro a prendere in mano le redini di un partito di
centro progressista in lento declino. Era un fenomeno
ricorrente: ad ogni elezione il Cremlino sceglieva un
partito di destra e uno di sinistra ai quali era
permesso comparire sulla scheda accanto al partito
di Putin Russia Unita in quella che altro non era se
non una finta competizione elettorale. Ai partiti
politici veri, con veri capi e veri programmi, veniva
nel frattempo vietata la registrazione sulla base di
leggi contorte e involute che risalivano all’inizio
degli anni duemila. Michail Prochorov era quindi
stato scelto come uomo di paglia del fallimentare
partito della destra che sarebbe stato brevemente
resuscitato in tempo per le elezioni parlamentari del
dicembre 2011: avrebbe dovuto recitare un ruolo già
scritto, magari fare due o tre dichiarazioni sciocche
da ricco sprovveduto che avrebbero aumentato il
favore per il Putin uomo normale e affidabile e
quindi sparire ai margini quando glielo avessero
chiesto.
Pensai subito che questa volta i burattinai del
Cremlino troppo sicuri di sé avessero fatto un errore
madornale. Conoscevo Prochorov, non molto, ma lo
conoscevo: negli ultimi tre anni avevo diretto una
rivista della quale lui era l’azionista principale. Mi
sembrava costituzionalmente incapace di fare l’uomo
di paglia. Inoltre da tempo cercava un campo nel
quale impegnarsi a fondo. Aveva raggiunto tutti gli
obiettivi che si era posto nel campo della finanza in
Russia, era profondamente disgustato dallo stato del
paese, e meditava la sconcertante possibilità di
vendere il suo impero industriale e di trasferirsi a
New York, dove aveva comperato la squadra di
NBA che sarebbe poi diventata i Brooklyn Nets.
Tutto a un tratto gli si presentava una alternativa:
invece di lasciare il paese poteva rimetterlo a posto.
Si scaraventò nell’impresa come a suo tempo aveva
fatto per imparare tutto sulla metallurgia del nickel e
sulle complessità della gestione aziendale, sempre in
prima linea in fabbrica quando era entrato in
possesso del gigante Norilsk Nickel, che si vantava
di aver ristrutturato radicalmente, assicurandosi il
completo appoggio dei lavoratori per i molti
cambiamenti che aveva promosso. Prochorov era un
uomo geniale, alto più di due metri, era letteralmente
un gigante e io pensai che forse sarebbe stato capace
di far saltare il sistema.
Nei mesi successivi osservai la radicale
trasformazione di Prochorov. Aveva assunto
professionisti dell’immagine: mollato i Brioni blu
navy per indossare completi grigi di taglio moderno
fatti su misura. Aveva abbandonato il modo incerto e
smozzicato di rispondere alle domande e adesso
aveva un eloquio grammaticalmente rotondo e
sofisticato e aveva imparato ad articolare la sua
esposizione con aggettivazione qualificante e
sofisticate proposizioni dipendenti. Ma, cosa più
importante, aveva riunito dozzine di esperti di
politica, economia e comunicazione perché lo
aiutassero a elaborare una attenta e articolata linea
sulla situazione politica in Russia cominciando così
a formare la sua base di potere. Coprì tutte le più
importanti città del paese di grandi manifesti con il
suo viso e slogan del tipo “Progettate il vostro
futuro”. Aveva i soldi non solo per comperare gli
spazi pubblicitari, ma anche per rimpiazzare
immediatamente i suoi manifesti quando, in più
posti, le autorità locali, sorprese dalla sua audacia,
li avevano fatti rimuovere.
Chiunque avesse avuto l’idea di scegliere
Prochorov come controfigura per l’opposizione
ovviamente non aveva pensato che si sarebbe
impegnato così seriamente. Vladislav Surkov, un
assistente di Putin che nel giro di pochi anni si era
fatto la reputazione di capo dei burattinai del
Cremlino - prendendo il posto che era stato di
Berezovskij -, cominciò a convocare Prochorov per
colloqui quasi quotidiani. Prochorov, che non era
abituato a dover riferire a nessuno, si sottopose
comunque a un rituale che trovava strano e
decisamente umiliante: fare a Surkov tutti i giorni un
resoconto completo delle sue attività politiche.
Surkov per parte sua proponeva suggerimenti, e
almeno una volta gli consigliò di togliere qualcuno
dalle liste del partito. Prochorov ignorò il consiglio
e continuò facendo quello che gli sembrava giusto,
fino al 14 settembre 2011, quando si ritrovò escluso
dal congresso programmato dal suo stesso partito.
Anche a molti degli attivisti reclutati da Prochorov
nei tre mesi precedenti venne impedito l’ingresso e
un gruppo completamente diverso di persone elesse
una dirigenza completamente diversa. Chiunque
avesse deciso di consegnare il partito nelle mani di
Prochorov, adesso aveva deciso di toglierglielo.
Vedere uno degli uomini più ricchi della Russia
completamente perso, confuso e tradito fu penoso.
Prochorov indisse una conferenza stampa per
annunciare che il blocco del congresso del partito
era stato illegale. Convocò un congresso alternativo
per il giorno successivo in modo che potesse
esprimersi. Promise che avrebbe fatto in modo che
Surkov venisse licenziato. Promise che avrebbe dato
battaglia. Disse che sarebbe ritornato entro dieci
giorni per esporre il suo programma dettagliato di
lotta politica.
Naturalmente non fu solo Surkov - se di lui si
trattava - a sbagliare seriamente i calcoli. Anche
Prochorov, la cui esperienza era comunque limitata
al suo ambito di affari, e quindi a distanza di
sicurezza dal Cremlino, aveva fatto un errore
catastrofico. Nei giorni seguenti gli arrivarono tanti
di quei messaggi su quello che sarebbe successo a
lui e alle sue aziende che in pratica fu obbligato ad
abbandonare l’idea di dedicarsi alla politica.
Prochorov non produsse mai il suo piano di battaglia
politica e sparì completamente dalla scena pubblica.
Chiunque abbia scelto Prochorov per opporsi a
Putin ha commesso un classico errore di valutazione,
ma se ne è accorto molto in tempo.
Il 24 settembre 2011 Russia Unita tenne il suo
congresso di partito. Dmitrij Medvedev si rivolse
alla folla.
“Credo che sarebbe giusto sostenere la
candidatura di Vladimir Vladimirovic Putin come
presidente,” dichiarò. Nella sala scoppiò una
ovazione travolgente con tutti i delegati in piedi.
Quando tornò il silenzio, con tono modesto disse alla
folla che quando era diventato presidente lui e Putin
avevano fatto un accordo, che Putin sarebbe
diventato di nuovo presidente e lui di nuovo il suo
primo ministro.19
Nel giro di poche ore la blogosfera russa si
riempì di fotografie di Putin truccate per farlo
sembrare vecchio e con una forte somiglianza con
Leonid Brežnev, il capo sovietico che morì dopo
essere stato diciotto anni al potere, praticamente
immobile e totalmente incoerente. Putin, si
ricordavano i blogger, avrebbe avuto settantun anni
alla fine del suo secondo mandato di sei anni.
E con questo la trasformazione della Russia in una
nuova Unione Sovietica come nelle intenzioni e negli
scopi di Putin era completa.
EPILOGO
UNA SETTIMANA DI DICEMBRE
Sabato 3 dicembre 2011
Sto andando in macchina con la mia famiglia a
vedere una insulsa commedia americana in un
costoso supermercato del centro di Mosca. La neve
sembra in ritardo quest’anno e la città è immersa in
una permanente umida oscurità. L’illuminazione
eccessiva sul Garden Ring, la grande strada a otto
corsie che circonda il centro della città, non serve a
molto per cambiare questa sensazione. Ma mi
colpisce una gigantesca struttura luminosa. La si
potrebbe descrivere come un manifesto o un
cartellone pubblicitario, ma nessuna delle due
descrizioni sarebbe adeguata a descriverne le
dimensioni. È appoggiata sopra un edificio di due
piani del XVIII secolo e sembra più alta
dell’edificio. Retro illuminata e con i bordi
scintillanti, è una specie di cornice digitale per King
Kong. Nella cornice Putin e Medvedev, cravatta
rossa il primo, blu il secondo, con lo sguardo fiero
verso l’orizzonte sovrastano una grande scritta
RUSSIA UNITA: INSIEME VINCEREMO.
Domani ci saranno le elezioni per il parlamento.
Oggi per legge dovrebbe essere un “giorno di
silenzio”, il che vuol dire che ogni propaganda
elettorale è vietata compresi i cartelloni all’esterno.
Mi fermo a un incrocio e prendo una foto del mostro
con il mio telefono cellulare e la metto su Facebook.
Nel giro di un’ora ci sono diciassette commenti alla
fotografia, non è un record mondiale, ma una
reazione superiore a quella che mi sarei aspettata
per un sabato sera. Più sorprendente ancora perché i
commenti non arrivano dal solito gruppo di amici
politicamente impegnati. “Maiali!” scrive un
dirigente di marketing. “Uno penserebbe che
abbiamo visto di peggio, ma ti fa comunque venir
voglia di vomitare, o no?” scrive un ex giornalista
politico ritiratosi da quattordici anni.
Non voto in una elezione parlamentare da più di
dodici anni, perché le leggi di Putin lo hanno reso
inutile: i partiti politici non possono partecipare
senza il permesso del Cremlino, i membri del
parlamento non sono più eletti direttamente e i
risultati delle elezioni sono comunque truccati dagli
addetti ai seggi.
Ma un paio di mesi fa quando un gruppo di
scrittori progressisti molto conosciuti, artisti e
attivisti politici chiesero alla gente di andare a
votare scrivendo oscenità sulla scheda, criticai
l’idea sul mio sito come una tattica perdente. Il
governo aveva trasformato in una buffonata le
elezioni ma, avevo detto, è inutile sbeffeggiare un
cinico. Quello di cui avevamo veramente bisogno
era una significativa alternativa alla buffonata, come
per esempio un motivo per votare. Nel dialogo che
seguì nelle diverse pubblicazioni alcuni ne
proposero scherzosamente alcuni: il primo, per
essere sicuri che il Partito dei ladri e dei delinquenti
non votasse a tuo nome; un secondo, votare per uno
dei partiti di quasi opposizione in modo che Russia
Unita di Putin non avesse una maggioranza
costituzionale in parlamento. Con grande meraviglia
la cosa si diffuse come un virus.
La mia compagna, che ha scritto la sua tesi sulle
elezioni ed è una che vota per principio sempre e
seriamente, si sveglia l’altro giorno e mi chiede:
“L’ho sognato o hai veramente detto che avresti
votato?”
“Sì, voterò.”
“Perché?” mi chiede.
“Non so spiegarlo,”dico io. “Ma ho la sensazione
che stia per succedere qualcosa.”
Lo dico perché negli ultimi giorni ho avuto
parecchie discussioni con i miei amici, tutta gente
che voterà: abbiamo cercato di decidere quale finto
partito scegliere. Migliaia di persone, anche molti
amici miei, si sono registrati e sono stati istruiti per
fare i volontari ai seggi a titolo personale oppure
nell’ambito di un progetto chiamato Osservatore
cittadino, organizzato da un noto studioso di scienze
politiche, Dmitrij Oreškin (che è anche il padre della
mia compagna). Passeranno la giornata di domani ai
seggi cercando di prevenire ogni tentativo di
broglio. E la gente sta discutendo della foto di Putin
e Medvedev sulla mia pagina di Facebook, come se
tutto a un tratto gliene importasse veramente
qualcosa.
Domenica 4 dicembre
Vado al seggio mezz’ora prima della chiusura,
come mi hanno detto di fare i superesperti, in modo
da cogliere i ladri elettorali con le mani nel sacco
casomai avessero già usato il mio nome per votare.
No, né il mio nome né quello della mia nonna
novantunenne, registrata allo stesso indirizzo,
risultano aver votato. Né riesco a vedere altre
violazioni di sorta. Voto senza problemi, fotografo la
scheda e metto la foto su Facebook come possibile
prova di eventuali brogli nel conteggio dei voti
(un’altra idea del superesperto), e vado alla festa
per il quarantunesimo compleanno di un mio ex
collega.
C’è una folla mista: gente dell’editoria,
giornalisti, designer, almeno un ricco industriale... il
mio amico è una di quelle persone che sembra
conoscere tutti. Tutti parlano delle elezioni. I
trentenni arrivano dichiarando “Ho votato per la
prima volta nella mia vita!” Dopo un po’ è scontato
che tutti quelli diventati maggiorenni dopo l’ascesa
al potere di Putin a pochi minuti dal loro ingresso
facciano la medesima battuta. Un paio di ospiti che
hanno lavorato come volontari ai seggi ci regalano
qualche storia di brogli: giovani pagati per
nascondere schede già votate sotto i vestiti e
infilarle nell’urna insieme alla loro; funzionari che
allontanano gli osservatori quando comincia il
conteggio. (Domani scopriremo che molti presidenti
di seggio hanno semplicemente falsificato il risultato
finale senza preoccuparsi delle schede.)
Nulla di tutto ciò è nuovo per me e Dar’ja.
Quello che è nuovo è che ne stiamo parlando a una
festa fino a tardi nella notte. E che abbiamo tutti
votato. E anche qualcos’altro: gli osservatori ai
seggi ci hanno raccontato che i loro colleghi erano
un maestro di scuola, la moglie di un uomo d’affari
arrivata col Range Rover, e altra gente che ...non
sono come noi. Qualcosa è cambiato e non solo per
noi fissati dei media incollati alle nostre pagine di
Facebook.
“Cosa dici che ci vorrà perché la gente vada in
strada?” Chiede Vladimir, un giovane brillante
reporter dello staff del presidente di uno dei
principali quotidiani economici, alla gente riunita in
cucina.
“Non sono sicura,” rispondo, “ma ho
l’impressione che ci sia qualcosa nell’aria.”
Lunedì 5 dicembre
Porto i figli a scuola e in macchina ascolto i
risultati parziali. Russia Unita è appena sotto il 50
per cento dei voti, si fa per dire. So che non è una
cifra corretta, ma è notevolmente al di sotto dei
risultati altrettanto falsificati delle precedenti
elezioni per il parlamento, quando Russia Unita,
sempre per dire, prese il 66 per cento dei voti. Forse
questa volta i numeri veri sono così bassi che alcuni
dei funzionari addetti ai seggi non se la sono sentita
di mentire così tanto. Come scoprirò più tardi in
giornata, alcuni distretti elettorali hanno seccamente
respinto le pressioni per falsificare i risultati. I 500
volontari dell’Osservatore cittadino piazzati in 170
seggi elettorali a Mosca non hanno segnalato
violazioni gravi in 36 dei seggi controllati. Quando
sono stati contati i voti di quei seggi, Russia Unita è
risultata seconda con appena il 23 per cento dei voti
dietro il Partito comunista.1 Se per ipotesi il
campione dei seggi scelti fosse rappresentativo ne
dedurremmo che il conteggio ufficiale ha più che
raddoppiato il dato reale. L’Osservatore cittadino ha
calcolato che la partecipazione al voto sia stata del
49 per cento degli aventi diritto, una percentuale
molto superiore rispetto a tutte le precedenti elezioni
in Russia.
È prevista una manifestazione di protesta per
stasera e ci andrò. Non ne ho voglia: le
manifestazioni a Mosca sono deprimenti o
pericolose, o entrambe. Adesso la cosa funziona
così: chiunque voglia organizzare una riunione
pubblica o una dimostrazione di qualunque genere
deve informare le autorità dieci o quindici giorni
prima; la città può negare il permesso o concederlo,
per un luogo preciso e per uno specifico numero di
partecipanti. Se il permesso non viene concesso e la
dimostrazione viene comunque fatta, i partecipanti
possono essere arrestati e trattati senza molti
riguardi dalla polizia. Se viene concesso il
permesso, lo spazio allocato viene delimitato con
cordoni di polizia in funzione del numero di
partecipanti previsti e lungo il perimetro vengono
piazzati i metal detector. I dimostranti possono
essere sottoposti a sgradevoli procedure di
perquisizione personale e devono poi fare la
dimostrazione rimanendo all’interno dei cordoni di
polizia, praticamente parlando fra di loro. Non mi
piacciono le dimostrazioni non autorizzate e mi
piacciono ancora meno quelle autorizzate, ma, una
volta ogni qualche mese, sento che devo andare. È
una di quelle volte.
La mia amica Ana mi manda un sms sul telefonino
con una citazione da un articolo di oggi del New
York Times sulle elezioni in Russia. Ana, che avevo
conosciuto in Kosovo, aveva lavorato per molti mesi
a Mosca come corrispondente straniera e vive ora a
l’Aia. “‘La democrazia in azione’ ha detto il signor
Medvedev, in piedi vicino a Putin al quartier
generale di Russia Unita, dove tutti e due
sembravano un po’ sconcertati.” Aggiunge: “Se non
fosse così triste, sarebbe abbastanza buffo.”2
“Già,” rispondo. “Qualcosa si muove, ma non sta
andando da nessuna parte.”
Poi vado alla dimostrazione di protesta. Fa ancora
stranamente caldo per la stagione, che vuol dire che
il tempo è freddo e perfido: la temperatura vicina
allo zero e pioggia a rovesci. Chi avrà mai voglia di
affrontare questo tempo infame per combattere
l’inutile battaglia per la democrazia?
Tutti.
Almeno tutti quelli che conosco. Mi avvicino al
parco dove si deve svolgere la protesta con due
amici, Andrej e Maša; mentre camminiamo altra
gente si aggrega al nostro gruppetto. Uno dei fratelli
più giovani di Andrej, e poi l’altro. Due dei miei ex
reporter, quelli che fecero i turni per seguire
l’assedio al teatro nove anni fa. Uno di loro, Anton,
adesso è un attivista radicale nel campo dell’arte e
ha passato un bel po’ di tempo in carcere per via
delle sue proteste un po’ sopra le righe. L’altro,
Griša, ha da poco mollato il lavoro di redattore per
uno scontro sulla censura pre-elettorale: gli avevano
chiesto di tagliare gli articoli critici dalla sua
rassegna della stampa straniera sulle elezioni in
Russia. Man mano che ci avviciniamo non riusciamo
a trovare i metal detector nella folla. Poi gira la
voce: l’area delimitata dal cordone di polizia è
piena, la polizia non lascia più passare nessuno.
Questo vuol dire che ci sono almeno cinquecento
persone nel parco, un numero enorme per i canoni
moscoviti.
Camminiamo per la strada lungo il parco,
guardandovi dentro da una bassa recinzione. Non ci
sono centinaia, ma migliaia di persone. Ci troviamo
dentro a una falange formata per caso su un fronte di
circa dieci persone. Fermi lungo la strada ci sono gli
autobus che hanno portato la polizia e i furgoni
cellulari per il trasporto degli arrestati. “Stiamo
bloccando il traffico,” dice Andrej. “Ci
arresteranno.” La polizia guarda indifferente mentre
una dozzina di noi scavalca la recinzione per entrare
nel parco e unirsi ai dimostranti. Continua a piovere.
I miei capelli sono fradici e mi sembra che i piedi
stiano per staccarsi dalle gambe. Sono felice di
essere lì congelata a salutare gli amici che arrivano
da ogni direzione.
Arriva il mio amico fotografo con il quale avevo
visitato le zone di guerra negli anni novanta. Poi
arriva per conto suo il figlio al secondo anno di
università, nato dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
E adesso Tatijana, la mia direttrice di più di quindici
anni fa. “Ho perso il conto, sai,” mi dice. “Ti ricordi
come contavamo la gente alle dimostrazioni negli
anni novanta, suddividendo la folla mentalmente in
comparti? Non riesco più a farlo.” Nemmeno io: non
mi ricordo quel metodo e non riesco a distinguere
nulla nella folla compatta, nella pioggia e
nell’oscurità. Ma sono sicura che ci sono più di
cinquemila persone - le stime in seguito diranno fino
a diecimila - e questa sarebbe quindi la più grande
dimostrazione in Russia dall’inizio degli anni
novanta.
Quando la dimostrazione si scioglie invito il
gruppo nel mio appartamento, che è a solo un isolato
più in là. Le donne accettano ma gli uomini vogliono
andare a una marcia fino all’edificio della
commissione elettorale centrale. La marcia è
chiaramente illegale e temo che verranno arrestati.
Infatti ci furono più di trecento arresti e lo scontro fu
violento. Ma ci fu anche qualcos’altro: dopo circa
un’ora, mentre sto preparando cena e la gente nel
mio appartamento beve cognac, cercando di
riscaldarsi, Griša manda un sms dicendo che Andrej
è appena riuscito a strappare i suoi due fratelli più
giovani dal cellulare della polizia prendendoli per il
bavero dei cappotti. Dopo un’altra ora sei giovani
arrivano al mio appartamento, Griša, Andrej, i due
fratelli e due che non conosco: scarmigliati e
soddisfatti in modo romanticamente rivoluzionario
raccontano più volte, sempre più imbellita, la storia
del recupero dei prigionieri.
Penso “queste scene le ho già viste”. È il momento
nel quale la paura svanisce. Qualcuno entra nel
cellulare della polizia per recuperare i suoi fratelli e
i poliziotti in tenuta antisommossa si fanno da parte e
lo lasciano passare. Un attimo che segna un grande
cambiamento. I giovani mangiano e poi vanno ai
posti di polizia dove i loro amici meno fortunati
sono trattenuti in stato di fermo.
Martedì 6 dicembre
Portando i bambini a scuola scelgo una strada che
mi porta davanti al posto di polizia dove sono stati
portati alcuni degli arrestati della sera prima.
Davanti vedo una piccola folla; un centinaio di
persone ha passato la notte alla pioggia e al gelo,
chiedendo, senza successo, che venisse consentito
l’ingresso agli avvocati.
Un’altra protesta illegale è stata annunciata per
stasera. Tutto il giorno mi chiedo se andare e alla
fine decido di no. Ho preso parte in passato a
proteste illegali e sono sempre riuscita a sfuggire
all’arresto (una volta sgattaiolando fra le gambe di
un poliziotto). Ma la mia compagna è incinta di sette
mesi e non mi sembra una gran bella idea rischiare i
quindici giorni di arresto previsti in questi casi.
Faccio il mio lavoro con una strana sensazione,
vado in palestra e poi in un caffè per incontrare il
direttore della casa editrice per la quale comincerò a
lavorare dalla settimana prossima. Il caffè non è
lontano dalla piazza dove stasera si terrà la
manifestazione di protesta e infatti la ricezione sul
mio telefonino va e viene continuamente: gira voce
che il servizio di telefonia mobile sia stato bloccato.
Andando a casa in macchina passo vicino agli
autobus e ai mezzi blindati della polizia, che adesso
sembrano parcheggiati in ogni piazza del centro.
Secondo i bollettini delle radio decine di migliaia di
poliziotti sono stati chiamati a Mosca da altre città.
Non mi ricordo dove l’ho sentito - da un amico,
dalla radio o da Facebook - ma è stata annunciata
un’altra protesta autorizzata per sabato. La polizia e
il blocco dei telefonini sembrano più eccitanti che
minacciosi: la protesta di lunedì quindi non è stata
un caso isolato. Forse non è proprio vero che tutto
ciò non stia andando da nessuna parte.
Mi preoccupo però perché la rivoluzione che sta
covando non ha un simbolo di aggregazione, nessuno
slogan esplicito. Alle 2.43 del mattino un dirigente
pubblicitario di nome Arsen Revazov posta su
Facebook:
La rivoluzione della neve, oppure si riparte da
zero
Quando molti milioni di persone si metteranno un
nastro bianco al braccio o lo legheranno sull’auto,
alle loro borse, alle loro giacche, sarà impossibile
falsificare o truccare alcunché. Perché sarà fuori
all’aperto e visibile da tutti.
Nevicherà. Tutta la città diventerà bianca. I
cittadini con i loro nastri bianchi. Prima il dieci per
cento della popolazione, poi il venti, poi trenta, poi
cinquanta e poi settantacinque. Una volta che passa il
trenta per cento nessuno avrà più paura. E
improvvisamente tutti o quasi tutti si vorranno bene e
si guarderanno con rispetto...
Dobbiamo continuare fino a marzo. Poi sarà quel
che dio vorrà. Sono convinto che se molti milioni di
persone porteranno i nastri bianchi o fazzoletti
bianchi nella nostra città tutto cambierà per il
meglio, rapidamente e senza violenza.
Nel giro di poche ore quasi mille persone
cliccano “Mi piace” sul post e più di settecento lo
rilanciano. Inoltre sembra che una iniziativa analoga
sia partita un paio di ore prima. La rivoluzione
adesso aveva un simbolo.
Altre trecento persone vengono arrestate per la
protesta illegale. Un amico fa partire un gruppo su
Facebook per coordinare il sostegno ai fermati.
Aderisco come molte centinaia di altri. Da domani ci
saranno regolari distribuzioni di cibo, grazie al caffè
dove ho tenuto la mia riunione di lavoro oggi, e
verranno comprati o regalati sacchi a pelo e coperte
per tutti i fermati, che altrimenti devono stare in
piedi o seduti su dure panche. Il gruppo si chiama
HELP-Revolution e alle tre del mattino sono molto
orgogliosa di essere stata nominata tra gli
amministratori.
Mercoledì 7 dicembre
Prima che andassi a dormire le persone che
avevano cliccato “Partecipo” sulla pagina di
Facebook della dimostrazione di sabato erano circa
tremila. Questa mattina sono più di cinquemila.
L’ottantenne ex presidente Michail Gorbacëv ha
lanciato un appello per ripetere le elezioni.3 In un
post sul blog del forum dell’International Herald
Tribune, sul quale intervengo regolarmente, ho
descritto la protesta di lunedì cercando di tradurre
con le mie parole quello che adesso è
l’inequivocabile sensazione: che la Russia abbia
fatto una svolta fondamentale.
Il problema del regime sovietico - e di quello che
Vladimir Putin ha ricreato a sua immagine - è che
sono sistemi chiusi il cui collasso è imprevedibile.
Non c’è una relazione di causa ed effetto tra la
protesta nella piazza e la caduta del regime perché
non ci sono i meccanismi che denunciano al popolo
la responsabilità del governo.
Anche il recente ovvio paragone con la
Rivoluzione arancione del 2004 in Ucraina non è un
modello valido: in quel paese lo scontro tra la
protesta nelle piazze e il governo che aveva rubato
una elezione è stato risolto da una sentenza della
corte suprema che ha ordinato un nuovo conteggio e
la ripetizione del voto. Ma in Russia non abbiamo un
sistema giudiziario indipendente dal ramo esecutivo
del governo. Peggio ancora non servirebbero a nulla
né un nuovo conteggio né un nuovo voto, perché la
legge elettorale è un imbroglio e possono
partecipare al confronto solo i partiti approvati dal
Cremlino.
Per questo la gente che protesta contro l’elezione
rubata in effetti sta chiedendo lo smantellamento
dell’intero sistema. E si ritorna così, in mancanza di
altri esempi migliori, alla caduta dell’Unione
Sovietica.
Ci vollero cinque anni e la vicenda procedeva al
ritmo di due passi avanti e uno indietro. Le proteste
erano prima permesse, poi vietate, poi di nuovo
permesse. I dissidenti erano liberati e poi le loro
case saccheggiate dalla polizia. La censura era
abolita a pezzi e bocconi. Al culmine della protesta
centinaia di migliaia scesero nelle strade sfidando
non solo la polizia ma i carri armati, eppure era
impossibile capire se la loro azione avesse
conseguenze dirette; perché, proprio come adesso, il
popolo non aveva gli strumenti per mettere il
governo di fronte alle sue responsabilità.
Ma una cosa è chiara in retrospettiva: una volta
innescato il processo, il regime è condannato. Più
aria calda viene pompata nella bolla nella quale ha
vissuto, più vulnerabile diventerà per la crescente
pressione dall’esterno. Questo è precisamente quello
che sta succedendo in questo momento, ci vorranno
forse mesi o qualche anno, ma la bolla di Putin
scoppierà.4
Che cosa succederà adesso? Il Cremlino sembra
incerto. Ieri decine di migliaia di giovani portati con
gli autobus da fuori città sono stati ammassati nel
centro di Mosca per celebrare la vittoria di Russia
Unita. Gli erano state date giacche e tamburi blu che
dopo l’evento sono stati buttati via senza molti
riguardi. Fotografie dei tamburi, ammaccati, rotti e
inzuppati di acqua, ammucchiati sui marciapiedi
hanno invaso i blog. Sembrava una perfetta metafora
del regime: un sacco di rumore e di pompa e poi il
rigetto nel buio e nella pioggia. Quali sono le altre
opzioni del governo? La maggior parte delle persone
fermate lunedì e martedì è ancora trattenuta nelle
camere di sicurezza della polizia, che sono già
sovraffollate e i tribunali anche: arresti di massa alla
dimostrazione di protesta di sabato non sono
un’opzione plausibile. È possibile una repressione
violenta, ma sembra improbabile, perché Putin,
sospetto, non ha ancora capito quanto sia disperata
la sua situazione. È più probabile che cercherà di
ammorbidire la rabbia dei dimostranti gettandogli un
osso. Vladislav Surkov, il capo burattinaio del
Cremlino, ha già avanzato la proposta di organizzare
un nuovo partito per “rappresentare le comunità
urbane irritate.”5 Putin e la sua cerchia non
sembrano essersi resi conto che tutto il paese è
irritato con loro, per questo pensano che ammettere
alle elezioni presidenziali di marzo un candidato di
una finta opposizione scelto ad hoc possa servire per
allentare la tensione. La protesta dovrà continuare
fino a quando quelli al potere non si renderanno
conto che sono una piccola disprezzata minoranza, e
poi si comporteranno come un animale braccato. Che
cosa c’è nel loro limitato repertorio: un attacco
terroristico che consenta a Putin di dichiarare lo
stato di emergenza? Una mossa che non salverà il
suo regime, ne potrà solamente ritardare la caduta di
un anno o due.
In serata vado a una riunione di Rus’ Sidjašcaja
(Russia dietro le sbarre), una organizzazione formata
un paio di mesi fa da Olga Romanova, ex scrittrice
di problemi di management che è diventata attivista a
tempo pieno per i diritti dei carcerati dopo che il
marito imprenditore è stato condannato a otto anni di
prigione per frode. Dopo aver tentato inutilmente di
liberarlo con la corruzione, Romanova fece la sua
indagine personale e trovò le prove che il marito era
stato condannato sulla base di falsi documenti forniti
dal suo ex socio che era anche, fino all’anno scorso,
un senatore. Romanova si appellò alla corte
suprema, che annullò la sentenza di condanna; dopo
che il tribunale di Mosca ignorò la decisione, tornò
di nuovo alla corte suprema, che di nuovo annullò la
sentenza. Volò poi fino alla lontana colonia penale
per prendere il marito che era stato a quel punto in
carcere per più di tre anni. Il video della loro
riunione si diffuse istantaneamente come un virus.
Gli incontri di Rus’ Sidjašcaja si tengono in un
caffè del centro, il genere di posto dove giovani
uomini e donne scelgono tra diciotto tipi di ottimo tè
prima di passare a una scelta ridotta di vini
mediocri. Le riunioni del mercoledì sera sono in
genere di sole donne che sembrano addette alla
contabilità o dirigenti di medio livello. Solo che
lavorano a tempo pieno per tirare fuori dal carcere i
loro mariti “prigionieri d’affari”. Mi siedo a un
tavolo con Svetlana Bachmina, una ex avvocatessa
della Yukos che si è fatta quattro anni e mezzo di
prigione, e con una timida signora con gli occhiali
che mi dice che suo marito è in prigione per presunta
frode.
“Ecco Irek Murtazin!” grida Romanova,
quarantacinque anni, di buon peso, i capelli tinti di
rosso.
Entra un uomo magrolino sulla quarantina. Un ex
dirigente della televisione del Tatarstan, licenziato
nell’ottobre del 2002 per il suo servizio sull’assedio
al teatro. In seguito è diventato un blogger molto
popolare ed è stato di nuovo arrestato nel 2009 per
presunta diffamazione del presidente del Tatarstan.
Condannato a ventuno mesi di prigione per
diffamazione e, secondo il dispositivo del tribunale,
“per aver incitato all’ostilità contro uno specifico
gruppo sociale”,6 poi definito come il gruppo dei
funzionari del governo.
“Porto buone e cattive notizie,” dice Murtazin.
“La cattiva notizia è che un giudice del Tatarstan che
l’estate scorsa ubriaco alla guida di un auto ha
investito e ucciso un giovane è stato appena assolto.”
La stanza rispose con un sospiro collettivo: questo
genere di cattiva notizia non è proprio una notizia,
talmente comuni sono gli incidenti che coinvolgono
funzionari dello stato e le loro assoluzioni.
“La buona notizia,” dice Murtazin, “è che circa la
metà dei giudici di pace che trattavano i casi degli
arrestati nelle proteste di lunedì e martedì si sono
dati malati. Ottanta giudici con l’influenza.”
Questa sì che è una notizia! E siccome gli istituti
di pena sono sovraffollati alcuni degli arrestati sono
rilasciati e ufficiosamente informati di tornare in
tribunale in una data successiva. Il combattente
contro la corruzione Aleksej Naval’nyj, tuttavia, è
stato processato oggi e condannato a quindici giorni
di detenzione per aver guidato la marcia illegale di
lunedì.
Una delle donne alla riunione distribuisce nastri
bianchi a tutti. In meno di ventiquattro ore il simbolo
della rivoluzione è diventato ufficiale.
Quando arrivo a casa il numero di persone che
hanno cliccato “Partecipo” ha superato le diecimila.
Giovedì 8 dicembre
Più di ventimila frequentatori di Facebook
andranno alla protesta di sabato.
Parlo con qualcuno che è in contatto quotidiano
con membri della amministrazione del presidente e
del governo federale. “Sono isterici,” dice.
“Nessuno sa cosa fare, decidono in base all’umore
che hanno quando si alzano la mattina. Ieri
Medvedev voleva chiudere Dožd’ [il canale
televisivo indipendente via cavo]. Abbiamo fatto
fatica a fermarlo.” Pochi giorni dopo ho saputo che i
provider del cavo avevano effettivamente ricevuto
telefonate con la richiesta di non fornire più
l’accesso a Dožd’, ma avevano deciso di resistere
facendo valere i loro obblighi contrattuali. Il
proprietario e direttore di Dožd’ era rimasto
sconcertato. Intanto il presidente Medvedev ha
smesso di “seguire” Dožd’ sul suo account Twitter.
Gli addetti alla manutenzione
dell’amministrazione cittadina hanno frettolosamente
iniziato dei lavori nella piazza della Rivoluzione
dove è programmata la manifestazione di sabato: la
tattica classica, l’ultima risorsa per mandare via i
dimostranti.
Venerdì 9 dicembre
Sono nervosa, in macchina porto i bambini a
scuola, sento la radio e mi preoccupo; anche quando
l’annunciatore riferisce che venticinquemila persone
hanno intenzione di andare alla manifestazione di
sabato. Come quel momento all’inizio di una intensa
storia d’amore quando si dicono tutte e le stesse
parole del giorno prima, ma ci si accorge che il
calore della passione si è un po’ attenuato. Lascio i
bambini a scuola, torno a casa e mi metto di nuovo a
letto.
Quando mi sveglio due ore dopo la rivoluzione
continua, e gli entusiasmi sono sempre al massimo.
La cosa che adesso preoccupa è che, mentre la
protesta di sabato è tecnicamente legittima, c’è il
fatto che nella istanza iniziale degli organizzatori -
presentata dieci giorni prima - erano indicati
trecento partecipanti. In passato i partecipanti in
soprannumero venivano arrestati. Ma in questo caso
sarebbe stato impossibile arrestare migliaia o decine
di migliaia di persone, e questo avrebbe potuto dar
luogo a una violenta azione della polizia.
Due degli organizzatori - un politico di carriera e
il direttore di una rivista - vanno a trattare con
l’amministrazione civica di Mosca. Nel pomeriggio
il direttore della rivista, Sergej Parchomenko, mette
il risultato della trattativa sulla sua pagina di
Facebook: la città ha proposto un nuovo sito per la
protesta di domani, ha concesso agli organizzatori il
permesso di avere fino a trentamila partecipanti e ha
esteso la durata della protesta da due a quattro ore.
In seguito la città assicura che avrebbe consentito
anche al libero trasferimento al nuovo sito, distante
mezz’ora a piedi, di coloro che fossero andati per
errore alla piazza della Rivoluzione. L’unica cattiva
notizia era che invece della piazza con il favoloso
nome di piazza della Rivoluzione la protesta si
sarebbe svolta in piazza Bolotnaja (piazza
dell’Acquitrino). Un amico, noto poeta e
commentatore politico, Lev Rubinstein, definisce
subito il cambiamento come “una sfida linguistica.”
Lo scrittore popolarissimo e in cima alle
classifiche di vendita Grigorij Cchartišvili, autore di
romanzi polizieschi con lo pseudonimo di Boris
Akunin, scrive nel suo blog:

Non potevo star fermo


Perché in questo paese tutto deve essere sempre
così?
Ogni società civile si deve svegliare sempre
quando è scomodo per lo scrittore.
Me ne ero andato per stare un po’ di tempo nella
campagna francese a scrivere il mio prossimo
romanzo. Ma adesso non riesco a concentrarmi.
Penso che tornerò a casa. 500 chilometri di
macchina e poi spero di avere la fortuna di trovare
posto su un volo.
Spero di farcela e di poter vedere questo evento
storico con i miei occhi e non su YouTube.
Ma la ragione per cui scrivo questo messaggio è
che mi hanno chiesto di avvertire tutti quelli che
ancora non lo sanno che:

LA PROTESTA SI SVOLGERÀ IN PIAZZA


BOLOTNAJA
(non in piazza della Rivoluzione)7

A una riunione fra genitori e maestri quella sera,


noto che molti genitori hanno il nastro bianco.
Quando metto a letto mia figlia mi chiede se può
venire con me alla protesta.
“No, mi dispiace non penso che sia una buona
idea portare i bambini, per adesso.”
“Ma è una protesta autorizzata, vero?” Sa che se
non lo fosse potrei essere arrestata.
La tranquillizzo che è così e che non c’è la
possibilità che mi succeda nulla di male.
“Probabilmente andrò a molte proteste nei prossimi
mesi,” dico, “e probabilmente non ti potrò portare
con me, ma ti porterò all’ultima quando faremo una
grande festa.”
“Dici quando non ci sarà più Putin?” Trattiene il
respiro come se l’idea sia inconcepibile. Ha dieci
anni; è nata quando Putin era già al potere e per tutta
la vita ha sentito parlare di lui. Quando i miei
bambini erano piccoli, si erano fatti di Putin l’idea
del cattivo nel lessico familiare, il Babau che
sarebbe venuto a prenderli se non si fossero
comportati bene a tavola. Ho bloccato la cosa e man
mano che crescevano ho cercato di dargli una
immagine relativamente articolata della politica, ma
credo di essermi dimenticata di dire che nessuno
comanda per sempre.
Sabato 10 dicembre
Tornando in macchina in città dalla mia dacia
dove ho lasciato i bambini e Dar’ja mentre io sono
alla protesta, ascolto la radio e mi agito ancora. Che
cosa vuol dire che trentacinquemila persone hanno
detto che andranno alla protesta? Ho sentito di gente
che aveva ricevuto settecento conferme RSVP su
Facebook e alla loro festa non era venuto nessuno. In
fondo è il fine settimana, la gente non ha voglia di far
nulla, vuole dormire o stare nelle dacie, tanto
pensano ci sarà qualcun altro che andrà alla protesta.
Man mano che mi avvicino a piazza Bolotnaja
vedo gente arrivare da tutte le parti: in gruppi, a
coppie, da soli; giovani, vecchi, di mezza età. Gente
con i nastri bianchi, foulard bianchi, cappelli
bianchi, anche pantaloni bianchi, con palloncini
bianchi e garofani bianchi. Non ha ancora nevicato e
il bianco che portano deve compensare per la neve
che non c’è.
Incontro un gruppo di amici, c’è Andrej e due dei
suoi fratelli. Al metal detector la polizia è calma e
gentile. Una volta dentro giriamo per la piazza
cercando fra la folla le facce degli amici. Alla
protesta di lunedì conoscevo tutti perché riuscivo a
vedere tutti; oggi so che sono tutti qua perché non
riesco a vederli a causa della folla. Anche mandare
messaggini è impossibile perché il volume del
traffico supera la capacità delle reti della telefonia
mobile di Mosca.
Guardiamo increduli gli striscioni fatti in casa che
la gente si è portata. Uno rappresenta il grafico dei
risultati elettorali secondo la commissione elettorale
centrale e sovrapposta c’è la campana di Gauss che
racconta una storia diversa: fa vedere quale sarebbe
la distribuzione statistica normale dei voti per
Russia Unita. “Non crediamo a voi, crediamo a
Gauss,” dice il manifesto, con riferimento al
matematico Carl Friedrich Gauss che diede al
mondo la famosa curva a campana.
“Non ho votato per questi stronzi,” proclama un
altro striscione portato da un giovane con la barba
rossa, “Ho votato per gli altri stronzi. Esigo il
riconteggio.”
Sento uno che grida nel telefonino: “C’è un sacco
di gente qua! E sono tutti normali! Ho sentito un
milione di barzellette, tutte molto divertenti.”
Se per anni hai pensato che la tua opinione fosse
condivisa solo da alcuni dei tuoi più intimi amici, il
fatto di trovarti in mezzo a decine di migliaia di
persone che la pensano come te ti sembra proprio
come sentire un milione di barzellette divertenti tutte
in un colpo.
Da qualche parte lontano c’è un palco. Non riesco
a vederlo e a mala pena riesco a sentire gli
altoparlanti. Uno dei miei amici si ricorda di un
trucco degli anni novanta, quando la gente si portava
alle manifestazioni le radioline per sintonizzarsi su
chi parlava; accende la radio del suo cellulare (i
servizi di telefonia mobile sono cari, ma questa
piazza ha un collegamento wireless gratuito) e ci
ripete i punti importanti degli interventi. Ci
guardiamo intorno e ogni tanto ci uniamo agli slogan.
“Nuove elezioni!” “Libertà!” “Russia senza Putin!”
Fra gli oratori Boris Akunin (ce l’ha fatta ad
arrivare in tempo dal Sud della Francia), un
apprezzato annunciatore televisivo, da anni nella
lista nera, e altri attivisti. Il papà di Dar’ja parla dei
brogli elettorali. Non c’è nessuno di quelli che
passano per politici dell’opposizione, “gli altri
stronzi”. Non hanno ancora ricevuto il messaggio che
il potere non ha più l’indirizzo del Cremlino.
Naval’nyj è ancora in carcere e un giornalista legge
il suo messaggio ai dimostranti. Michail Prochorov,
il miliardario che ha interrotto la sua carriera
politica due mesi fa, è ancora in silenzio. Lunedì
annuncerà che si candiderà per la presidenza, ma
allora sarà troppo tardi per guadagnare credibilità
con la folla della rivoluzione: verrà immediatamente
marcato come una pedina di Putin.
Mi sono messa la maglia termica, due giacche, i
moon boot, ma nessun abbigliamento ti consente di
stare fermo in piedi nell’inverno russo. Dopo un
paio d’ore i miei amici e io decidiamo di andare via.
Altri stanno ancora arrivando. Lasciando la protesta
mi fermo su una passerella pedonale per guardare la
folla. Ce ne sono molti di più di trentacinquemila; in
seguito le stime parleranno di cifre fino a
centocinquantamila persone.
Ci sediamo a un grande tavolo in un ristorante, che
come tutti i posti che servono da mangiare nella zona
è pieno di dimostranti che ordinano vin brulé per
cercare di scaldarsi. Amici e sconosciuti si gridano
le ultime notizie da un tavolo all’altro. Andrej è il
primo che legge un paio di righe dal sito web di una
stazione radio: “La protesta sta per finire. Un
rappresentante della polizia sale sul palco. Dice:
‘Oggi ci siamo comportati come la polizia di un
paese democratico. Grazie!’ La gente applaude.” Al
nostro tavolo c’è un attimo di silenzio. “Grande,”
diciamo tutti, guardandoci increduli, “questo è
davvero grande!” Da quanto tempo non avveniva che
qualcuno di noi potesse dire senza ambiguità
“Grande!” di qualcosa che succedeva nella nostra
città?
Lascio i miei amici al ristorante e ritorno alla mia
famiglia alla dacia. Passo sul Grande Ponte di Pietra
- il più grande ponte sul fiume Moscova - proprio
nello stesso momento in cui la polizia abbandona
piazza Bolotnaja. Ci sono centinaia di poliziotti che
camminano sul marciapiede in fila per quattro o
cinque, lungo tutto il ponte. Per la prima volta da
quando me lo ricordo non mi viene un nodo allo
stomaco guardando i poliziotti in tenuta
antisommossa. Sono bloccata dietro a un camion
giallo con la pala per la neve. Non ha ancora
nevicato, e non so bene cosa stia facendo quel
camion per la strada, ma noto un palloncino bianco
attaccato all’angolo della pala.
Oggi si sono tenute dimostrazioni di protesta in
novantanove città della Russia e di fronte ai
consolati e alle ambasciate russe in più di quaranta
città nel mondo.8
In serata l’addetto stampa di Putin, Dmitrij
Peskov, dice ai giornalisti che il governo non ha
ancora rilasciato commenti ma promette di tenerli
informati.9
Pochi minuti dopo, l’NTV, il canale televisivo che
era stato portato via a Vladimir Gusinskij dieci anni
prima e che era stato asservito al governo, manda in
onda un eccellente copertura della protesta. La
guardo online sul computer - da anni non ho un
televisore funzionante in casa - e mi sembra di
riconoscere qualcosa che avevo già visto in altri
paesi quando ero stata inviata per coprire le loro
rivoluzioni. Arriva il giorno nel quale accendi il
televisore e gli stessi ceffi venduti che il giorno
prima ti sputavano in faccia la propaganda del
regime, seduti negli stessi studi con lo stesso sfondo,
cominciano a parlare con un linguaggio umano. In
questo caso però il momento per me è
particolarmente sconvolgente perché ricordo ancora
bene questi stessi giornalisti prima che diventassero
ceffi venduti, l’ultima volta che si erano espressi in
un linguaggio umano, circa dodici anni fa.
Mentre sto arrivando alla dacia comincia a
nevicare. Domani mattina tutta la campagna sarà
coperta di bianco.
NOTE
Prologo
1 Il testo completo della legge è disponibile su
http://www.shpik.info/statya1.html. Ultimo accesso:
14 luglio 2010.
2 Marina Katys, “Položitel’nyj itog: Intervju s
deputatom Gosudarstvennoj Dumy, sopredsedatelem
federal’noj partii Demokraticeskaja Rossija Galinoj
Starovojtovoj,” Professional, 1° luglio 1998,
http://www.starovoitova.ru/rus/main.php?i=5&s=29.
Ultimo accesso: 14 luglio 2010.
3 Decisione della corte costituzionale che cita il
decreto e ne sovverte il dispositivo fondamentale,
http://www.panorama.ru/ks/d9209.shtml. Ultimo
accesso: 14 luglio 2010.

4 Il divieto di protesta fu in effetti un doppio


colpo: il consiglio dei ministri lo decise e Gorbacëv
lo rafforzò ulteriormente con un decreto che istituiva
uno speciale corpo di polizia per la sua
applicazione. Tutti e due i dispositivi vennero
ritenuti incostituzionali dal governo russo, la cui
autorità comunque non venne riconosciuta da
Gorbacëv;
http://iv.garant.ru/SESSION/PILOT/main.htm.
Ultimo accesso: 15 luglio 2010.
5 Andrej Cyganov, “Seleznëv dobilsja izvinenija
za statuju Starovojtovoj,” Kommersant, 14 maggio
1999, http://www.kommersant.ru/doc-rss.aspx?
DocsID=218273. Ultimo accesso: 15 luglio 2010.
1. Presidente per caso
1 Andrei Shleifer, Daniel Treisman, “A Normal
Country: Russia After Communism”, Journal of
Economic Perspectives, 19, 1, inverno 2005, pp.
151-174. http://www.economics.harvard.edu/?
faculty/shleifer/files?/normal_jep.pdf. Ultimo
accesso: 30 aprile 2011.
2 David Hoffman, The Oligarchs: Wealth and
Power in the New Russia, New York, PublicAffairs,
2002.
3 Intervista dell’autrice a Boris Berezovskij,
giugno 2008.
4 Hoffman, The Oligarchs, cit.
5 Non è chiaro se Berezovskij fosse l’effettivo
proprietario del 25% di Sibneft e del 49% di ORT,
la società proprietaria del Canale Uno: mentre
questo libro va in stampa un tribunale londinese è
impegnato nel merito della questione. Ciò che è
incontestabile è che era l’unico dirigente della
società televisiva e che riceveva cospicue entrate
dalla compagnia petrolifera.
6 Natalja Gevorkjan, Natalja Timakova, Andrej
Kolesnikov, Ot pervogo lica: Razgovory s
Vladimirom Putinym,
http://archive.kremlin.ru/articles/bookchapter1.shtml.
Ultimo accesso: 7 febbraio 2011.
7 Blog di Tatjana Jumaševa (Djacenko), post
inserito in data 6 febbraio 2010, http://t-
yumasheva.livejournal.com/13320. Ultimo accesso:
23 aprile 2011.
2. La guerra delle elezioni
1 Numero di vittime citato sulla base della
sentenza del tribunale di Mosca nel caso A. O.
Dekušev e J. I. Krymšachalov,
http://terror1999.narod.ru/sud/delokd/prigovor.html.
Ultimo accesso: 5 maggio 2011.
2 Discorso del membro della Duma Sergej
Jušenkov al Kennan Institute di Washington DC, 24
aprile 2002,
http://terror99.ru/commission/kennan.htm. Ultimo
accesso: 5 maggio, 2011.
3 Putin in televisione il 24 settembre 1999,
http://www.youtube.com/watch?v=A_PdYRZSW-I.
Ultimo accesso: 5 maggio 2011.
4 Informazione inedita passatami dalla squadra di
Berezovskij nel novembre del 1999.
5 Intervista dell’autrice a Marina Litvinovic, 1°
luglio 2008.
6 Discorso di Boris Eltsin, 31 dicembre 1999.
Testo: http://stra.teg.ru/library/national/16/0. Ultimo
accesso: 6 maggio 2011. Video:
http://www.youtube.com/watch?
v=yvSpiFvPUP4&feature=related. Ultimo accesso: 6
maggio 2011.
7 Discorso di Vladimir Putin, 31 dicembre 1999.
Testo: http://stra.teg.ru/library/national/16/2/print.
Ultimo accesso: 6 maggio 2011. Video:
http://www.youtube.com/watch?v=i4LLxY4RPwk.
Ultimo accesso: 6 maggio 2011.
8 Intervista dell’autrice a Natalja Gevorkjan,
giugno 2008.
9 Pavel Gutëntov, “Zaurjadnoe delo”,
http://www.ruj.ru/authors/gut/100303_4.htm. Ultimo
accesso: 8 maggio 2011.
10 Trascrizione di un notiziario NTV del 9
febbraio 2000, http://www.library.cjes.ru/online/?
a=con&b_id=426&c_id=4539. Ultimo accesso: 7
maggio 2011.
11 Andrej Babickij, Na vojne, trascrizione in
lingua russa della registrazione di un manoscritto per
un editore francese,
http://somnenie.narod.ru/ab/ab6.html. Ultimo
accesso: 7 maggio 2011.
12 Trascrizione della conferenza stampa di Andrej
Babickij del 1° marzo 2000,
http://archive.svoboda.org/archive/hr/2000/ll.030100-
3.asp. Ultimo accesso: 8 maggio 2011.
13 Oleg Panfilov, Istorija Andreja Babickogo,
capitolo 3, http://www.library.cjes.ru/online/?
a=con&b_id=426&c_id=4539. Ultimo accesso: 8
maggio 2011.
14 Panfilov, Istorija, cit.
15 FAQ del Broadcasting Board of Governors
(BBG), http://www.bbg.gov/about/faq/#q6. Ultimo
accesso: 8 maggio 2011.
16 Rapporto del Congressional Research Service,
Chechnya Conflict: Recent Developments,
aggiornato al 3 maggio 2000,
http://www.fas.org/man/crs/RL30389.pdf. Ultimo
accesso: 8 maggio 2011.
17 Intervista dell’autrice a Natalja Gevorkjan,
giugno 2008.
18 Per la cronologia degli avvenimenti a Rjazan’
mi sono basata principalmente su Aleksandr
Litvinenko, Jurij Felštinskij, FSB vzryvaet Rossiju,
2a ed., New York, Liberty Publishing, 2004, pp. 65-
108, che combina molti resoconti della stampa con il
reportage originale, e su Rjazanskij sachar:
Nezavisimoe rassledovanie s Nikolaem Nikolaevym,
il programma della NTV trasmesso il 24 marzo
2000,
http://video.yandex.ru/users/provorot1/view/54/.
Ultimo accesso: 8 maggio 2011.
19 “13 sentjabrja v Rossii - den’ traura po
pogibšim ot vzryvov”, notizia non firmata, Gazeta.ru,
10 settembre 1999,
http://gazeta.lenta.ru/daynews/10-09-
1999/10mourn.htm. Ultimo accesso: 8 maggio 2011.
20 Agenzia ITAR-TASS, in Litvinenko,
Felštinskij, FSB vzryvaet Rossiju, cit.
21 Rjazanskij sachar, cit.
3. L’autobiografia di un teppista
1 Michael Jones, Leningrad: State of Siege, New
York, Basic Books, 2008.
2 Ales’ Adamovic, Danil Granin, Blokadnaja
kniga, http://lib.rus.ec/b/212340/read. Ultimo
accesso: 7 febbraio 2011.
3 Harrison Salisbury, The 900 Days: The Siege of
Leningrad, New York, Da Capo Press, 2003, pp. VII-
VIII (trad. it. I 900 giorni. L’assedio di Leningrado,
Milano, Bompiani, 1978).
4 Oleg Blockij, Vladimir Putin: Istorija žizni,
Mosca, Meždunarodnie Otnošenija, p. 24.
5 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
6 Jurij Poljakov, Valentina Žitomirskaja, Natalja
Aralovec, “‘Demograficeskoe echo’ vojny”,
pubblicato sulla rivista online Skepsis,
http://scepsis.ru/library/id_1260.html. Ultimo
accesso: 7 febbraio 2011.
7 Irina Bobrova, “Kto pridumal Putinu gruzinskie
korni?”, Moskovskij komsomolec, 13 giugno 2006,
http://www.compromat.ru/page_18786.htm. Ultimo
accesso: 7 febbraio 2011.
8 Intervista dell’autrice a Natalja Gevorkjan,
giugno 2008.
9 Dall’amico di infanzia Viktor Borišenko, citato
in Blockij, Vladimir Putin, cit., pp. 72, 89.
10 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
11 Evgenij Putin, citato in Blockij, Vladimir Putin,
cit., p. 46.
12 Viktor Borišenko, citato in Blockij, Vladimir
Putin, cit., pp. 68-69.
13 Viktor Borišenko, citato in Blockij, Vladimir
Putin, cit., p. 68.
14 Viktor Borišenko, citato in Blockij, Vladimir
Putin, cit., p. 67.
15 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
16 Dall’insegnante Vera Gurevic, citato in ibid.
17 Grigorij Gejlikman, citato in Blockij, Vladimir
Putin, cit., p. 160.
18 Nikolaj Alëchov, citato in ivi, p. 161.
19 Sergej Roldugin, citato in Gevorkjan,
Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo lica, cit.
20 Blockij, Vladimir Putin, cit., p. 259.
21 “S vyslannymi iz SšA razvedcikami vstretilsja
Vladimir Putin,” 25 luglio 2010,
http://lenta.ru/news/2010/07/25/spies/. Ultimo
accesso: 25 febbraio 2011.
22 Blockij, Vladimir Putin, cit., p. 199.
23 A. Popov, “Diversanty Stalina”,
http://militera.lib.ru/h/popov_au2/01.html. Ultimo
accesso: 25 febbraio 2011.
24 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
25 Ibid.
26 Blockij, Vladimir Putin, cit., pp. 199-200.
27 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
28 Blockij, Vladimir Putin, cit., p. 155.
29 http://www.ref.by/refs/1/31164/1.html.
Michail Blinkin, “Avtomobil’ v gorode: Osobennosti
nacional’nogo puti”,
http://www.intelros.ru/pdf/arc/02_2010/42-
45%20Blinkin.pdf. Ultimo accesso: 27 ottobre 2011.
30 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
31 Ibid.
32 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.; Blockij, Vladimir Putin, cit., pp. 226-227.
33 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
34 Blockij, Vladimir Putin, cit., p. 287.
35 Ivi, pp. 287-288.
36 Sergej Roldugin, citato in Gevorkjan,
Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo lica, cit.
37 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
38 Sergej Zacharov, “Bracnost’ v Rossii: Istorija i
sovremennost’”, Demoskop Weekly, 16-29 ottobre
2006, pp. 261-262,
http://www.demoscope.ru/weekly/2006/0261/tema02.
Ultimo accesso: 27 febbraio 2011.
39 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
40 Ibid.
41 Ibid.
42 Vadim Bakatin, Izbavlenie ot KGB, Mosca,
Novosti, 1992, pp. 45-46.
43 Ivi, pp. 32-33.
44 Filipp Bobkov, KGB i vlast’, Mosca, Veteran
MP, 1995.
45 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
46 Vladimir Usol’cev, Sosluživec, Mosca, Eksmo,
2004, p. 186.
47 Ibid.
48 Bobkov, KGB i vlast’, cit.
49 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
50 Ibid.
51 Ljudmila Putina, citata in ibid.
52 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
53 Intervista dell’autrice a Sergej Bezrukov (ex
agente del KGB a Berlino), Düsseldorf, 17 agosto
2011.
54 Usol’cev, Sosluživec, cit., pp. 70-74; intervista
dell’autrice a Sergej Bezrukov, Düsseldorf, 17
agosto 2011.
55 Usol’cev, Sosluživec, cit., p. 36.
56 Ivi, p. 30.
57 Intervista dell’autrice a Sergej Bezrukov,
Düsseldorf, 17 agosto 2011.
58 Intervista dell’autrice, Baviera, 18 agosto
2011; la fonte ha chiesto di rimanere anonima.
59 Usol’cev, Sosluživec, cit., p. 62.
60 Usol’cev, Sosluživec, cit., p. 105; intervista
dell’autrice a Sergej Bezrukov, Düsseldorf, 17
agosto 2011.
61 Intervista dell’autrice a Sergej Bezrukov,
Düsseldorf, 17 agosto 2011.
62 Bobkov, KGB i vlast’, cit.
63 O. N. Ansberg, A. D. Margolis (a cura di),
Obšcestvennaja žizn’ Leningrada v gody perestrojki
1985-1991: Sbornik materialov, San Pietroburgo,
Serebrjanyj Vek, 2009, p. 192.
64 Elizabeth A. Ten Dyke, Dresden and the
Paradoxes of Memory in History, New York,
Routledge, 2001.
65 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
66 Ljudmila Putina, citata in ibid.
67 Sergej Roldugin, citato in Gevorkjan,
Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo lica, cit.
4. Spia per una volta spia per sempre
1 Ansberg, Margolis (a cura di), Obšcestvennaja
žizn’, cit., p. 502.
2 Sergej Vasil’ev, memorie pubblicate
nell’Obvodnij Times, 4, 22, aprile 2007, p. 8, citato
in ivi, p. 447.
3 Aleksandr Vinnikov, Zena svobody, citato in
Ansberg, Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’,
cit., p. 449.
4 Elena Zelinskaja, “Vremja ne ždët”, Merkurij, 3,
1987, citato in Ansberg, Margolis (a cura di),
Obšcestvennaja žizn’, cit., pp. 41-42.
5 Sergej Vasil’ev, citato in Ansberg, Margolis (a
cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p. 447.
6 Ansberg, Margolis (a cura di), Obšcestvennaja
žizn’, cit., pp. 47, 76.
7 Ivi, pp. 51, 52, 54, 74.
8 Ivi, p. 632.

9 Ivi, p. 633.
10 Ivi, p. 112.
11 La prima riunione del Fronte popolare si tenne
a Leningrado nell’agosto del 1988; furono presenti i
rappresentanti di venti organizzazioni provenienti da
diverse città della Russia e da dodici città di altre
repubbliche sovietiche;
http://www.agitclub.ru/front/frontdoc/zanarfront1.htm.
Ultimo accesso: 13 gennaio 2011.
12 Ansberg, Margolis (a cura di), Obšcestvennaja
žizn’, cit., p. 119.
13 Andrej Boltjanskij, intervista, 2008, in ivi, p.
434.
14 Pëtr Šeliš, intervista, 2008, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
884 della versione online.
15 Thomas de Waal, Black Garden: Armenia and
Azerbaijan Through Peace and War, New York, New
York University Press, 2004.
16 Ansberg, Margolis (a cura di), Obšcestvennaja
žizn’, cit., p. 115.
17 Aleksandr Vinnikov, memorie, in ivi, p. 450.
18 Ansberg, Margolis (a cura di), Obšcestvennaja
žizn’, cit., p. 126.
19 Articolo 70 del codice penale della
Repubblica socialista federativa sovietica russa
(RSFSR),
http://www.memo.ru/history/diss/links/st70.htm.
Ultimo accesso: 17 gennaio, 2011.
20 Ansberg, Margolis (a cura di), Obšcestvennaja
žizn’, cit., p. 127.
21 Natalja Serova, intervista, in ivi, p. 621.
22
http://pravo.levonevsky.org/baza/soviet/sssr1440.htm.
Ultimo accesso: 17 gennaio, 2011.
23 Volantino distribuito dal comitato Elezioni-89,
riprodotto in Ansberg, Margolis (a cura di),
Obšcestvennaja žizn’, cit., pp. 139-140.
24 Anatolij Sobcak, Žila-Byla Kommunisticeskaja
partija, pp. 45-48, citato in Ansberg, Margolis (a
cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p. 623.
25 Jurij Afanas’ev, intervistato da Evgenij
Kiselëv su Echo Moskvy, 2008,
http://www.echo.msk.ru/programs/all/548798-echo/.
Ultimo accesso: 18 gennaio, 2011.
26 Aleksandr Nikišin, “Pochorony akademika A.
D. Sacharova”, Znamja, 5, 1990, pp. 178-188.
27 “A. D. Sacharov”, Voskresenie, 33, 65,
http://piter.anarhist.org/fevral12.htm. Ultimo
accesso: 18 gennaio 2011.
28 Aleksandr Vinnikov, memorie, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
453.
29 Marina Sal’e, intervista, 2008, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., pp.
615-616.
30 Ibid.
31 Igor’ Kucerenko, memorie, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
556.
32 Aleksandr Vinnikov, memorie, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., solo
nella versione online, pp. 568-569.
33 Viktor Voronkov, intervista, 2008, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
463.
34 Nikolaj Girenko, memorie, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
473.
35 Viktor Veniaminov, memorie, Avtobiografija
Peterburgskogo gorsoveta, p. 620, citata in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
449.
36 Bella Kurkova, memorie, in Ansberg, Margolis
(a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p. 552.
37 Intervista dell’autrice a Marina Sal’e, 14
marzo 2010.
38 Vladimir Gelman, intervista, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
471.
39 Dmitrij Gubin, “Intervju predsedatelja
Lensoveta A. A. Sobcaka,” Ogonëk, 28, 1990, citato
in Ansberg, Margolis (a cura di), Obšcestvennaja
žizn’, cit., p. 269.
40 Aleksandr Vinnikov, memorie, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., pp.
453-454.
41 Intervista dell’autrice a Marina Sal’e, 14
marzo 2010; Vinnikov, memorie, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., pp.
453-454.
42 Bakatin, Izbavlenie ot KGB, cit., p. 138.
43 Ivi, pp. 36-37.
44 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
45 Ibid.
46 Anatolij Sobcak, intervista, Literaturnaja
Gazeta, febbraio 2000, pp. 23-29, citata in Anatolij
Sobcak: Kakim on byl, Mosca, Gamma-Press, 2007,
p. 20.
47 Intervista dell’autrice a Sergej Bezrukov,
Düsseldorf, 17 agosto 2011.
48 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
49 Komitet Konstitucionnogo Nadzora SSSR,
1989-91, http://www.panorama.ru/ks/iz8991.shtml.
Ultimo accesso: 18 marzo 2011.
50 Bakatin, Izbavlenie ot KGB, cit., p. 135.
51 Ibid.
52 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
53 Ibid.
5. Un colpo di stato e una crociata
1 Playing the Communal Card: Communal
Violence and Human Rights, rapporto di Human
Rights Watch,
http://www.hrw.org/legacy/reports/1995/communal/.
Ultimo accesso: 26 gennaio 2011.
2 Leningradskaja pravda, 28 novembre 1990,
citato in Ansberg, Margolis (a cura di),
Obšcestvennaja žizn’, cit., p. 299.
3 Vladimir Monachov, intervista, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
574.
4 Julij Rybakov, intervista, in Ansberg, Margolis
(a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p. 610.
5 Vladimir Beljakov, memorie, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., pp.
425-426.
6 Intervista dell’autrice a Marina Sal’e, 14 marzo
2010.
7 Aleksandr Konanychin, http://www.snob.ru/go-
to-comment/305858. Ultimo accesso: 10 marzo
2011.
8 “Obrašcenie k sovetskomu narodu”, in J.
Kazarin, B. Jakovlev, Smert’ zagovora: Belaija
kniga, Mosca, Novosti, 1992, pp. 12-16.
9 Kazarin, Jakovlev, Smert’ zagovora, cit., p. 7.
10 Igor’ Artem’ev, memorie, in Ansberg, Margolis
(a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., pp. 407-408.
11 Aleksandr Vinnikov, memorie, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., pp.
454-455.
12 Igor’ Artem’ev, memorie, in Ansberg, Margolis
(a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p. 408.
13 Intervista dell’autrice a Marina Sal’e, 14
marzo 2010.
14 Bakatin, Izbavlenie ot KGB, cit., p. 21.
15 A. Golovkin e A. Cernov, intervista con
Anatolij Sobcak, Moskovskie novosti, 26 agosto
1991, citata in Ansberg, Margolis (a cura di),
Obšcestvennaja žizn’, cit., p. 627.
16 Anatolij Sobcak, memorie, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
627.
17 Kazarin, Jakovlev, Smert’ zagovora, cit., p.
131.
18 G. Popov, “Zajavlenie mera goroda Moskvy”,
in Kazarin, Jakovlev, Smert’ zagovora, cit., pp. 68-
69.
19 Centro Labirint, biografia di Jurij Lužkov,
http://www.anticompromat.org/luzhkov/luzhkbio.html.
Ultimo accesso: 13 marzo 2011.
20 Julij Rybakov, intervista, in Ansberg, Margolis
(a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p. 612.
21 B. Eltsin, I. Silaev, R. Chasbulatov, “K
graždanam Rossii”, in Kazarin, Jakovlev, Smert’
zagovora, cit., p. 42.
22 Vjaceslav Šcerbakov, intervista, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
681.
23 Ibid.; intervista dell’autrice a Marina Sal’e, 14
marzo 2010; testo del decreto come dettato da
Ruckoj e come letto da Sobcak, fornito da Sal’e.
24 Elena Zelinskaja, intervista, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p.
505.
25 Intervista dell’autrice a Marina Sal’e, 14
marzo 2010.
26 Vjaceslav Šcerbakov, in Ansberg, Margolis (a
cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., p. 683.
27 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
28 Intervista dell’autrice a Arsenij Roginskij,
Mosca, 20 giugno 2008.
29 Lettera di Marina Sal’e all’ispettore capo della
Federazione russa Jurij Boldyrev in data 25 marzo
1992, inedito.
30 Lettera di Jurij Boldyrev a Pëtr Aven in data 13
marzo 1992, documento n. 105-177/n.
31 Intervista dell’autrice a Irène Commeaut,
Parigi, giugno 2010.
32 Il’ja Kolmanovskij, intervista con Aleksandr
Margolis, San Pietroburgo, giugno 2008.
33 Marina Ental’ceva, citato in Gevorkjan,
Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo lica, cit.
34 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
35 Otcët rabocej deputatskoj gruppy Komiteta po
meždunarodnym i vnešnim svjazjam, postojannych
komissij po prodovolstviju, torgovle i sfere
bytovych uslug Sankt-Peterburgskogo gorodskogo
Soveta narodnych deputatov po voprosu
kvotirovanija i licenzirovanija eksporta i importa
tovarov na tierritorii Sankt-Peterburga, con
risoluzione 8 maggio 1992, n. 88; Marina Sal’e,
“Putin - prezident korrumpirovannoj oligarchii!”,
ottenuto dalla Fondazione Glasnost’ di Mosca il 18
marzo 2000.
36 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.

37 Sal’e, “Putin - prezident korrumpirovannoj


oligarchii!”, cit.
38 “Analiz normativnych dokumentov,
izdavaemych merom i vice-merom S. Peterburga”,
datata 15 gennaio 1992, porta l’annotazione: “Data a
B. Eltsin il 15 gennaio 1992”.
39 Si vedano, ad esempio, “Rasporjaženie mera
Sankt-Peterburga o predostavlenii žiloj plošcjadi
Kurkovoj B. A.”, 08.12.1992, n. 1107-R, e
“Rasporjaženie mera Sankt-Peterburga o
predostavlienii žiloj plošcjadi Stepašinu S. V.”,
16.12.1992, n. 1147-R.
40 Intervista dell’autrice a Marina Sal’e, 14
marzo 2010.
41 Ibid.
42
http://1993.sovnarkom.ru/TEXT/SPRAVCHN/?
VSOVET/?vsovet1.htm. Ultimo accesso: 2 aprile
2011.
43 Besik Pipja, “Lensovetu stuknulo 10 let”,
Nezavisimaja gazeta, 5 aprile 2000,
http://www.ng.ru/politics/2000-04-
05/3_lensovet.html. Ultimo accesso: 2 aprile 2011.
44 Intervista dell’autrice a Marina Sal’e, 14
marzo 2010.
45 “Pochmel’kin, Jušenkov, Gologlev i Rybakov
vyšli iz SPS,” articolo non firmato, Newsru.com,
http://www.newsru.com/russia/14jan2002/sps.html.
Ultimo accesso: 8 maggio 8 2011.
46 “V Moskve ubit deputat Gosdumy Sergej
Jušenkov”, articolo non firmato, Newsru.com,
http://www.newsru.com/russia/17apr2003/killed.html.
Ultimo accesso: 8 maggio 2011.
47 Masha Gessen, “Pamjati Sergeja Jušenkova”,
Polit.ru, 18 aprile 2003,
http://www.polit.ru//world/2003/04/18/615774.html.
Ultimo accesso: 8 maggio 2011.
6. La fine di un riformista
1 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
2 Vladimir Curov, citato in ibid.
3 Anatolij Sobcak, Djužina nožej v spinu, Mosca,
Vagrius/Petro-News, 1999, p. 72.
4 Masha Gessen, “Princip Pitera”, Itogi, 5
settembre 2000.
5 Aleksandr Bogdanov, intervista, in Ansberg,
Margolis (a cura di), Obšcestvennaja žizn’, cit., pp.
431-432.
6 Intervista su Radio Liberty con Jurij Boldyrev, 9
marzo 2010,
http://www.svobodanews.ru/articleprintview/1978453
Ultimo accesso: 1° dicembre 2011.
7 Intervista di Il’ja Kolmanovskij ad Anna
Šarogradskaja, 1° giugno 2008.
8 Sobcak, Djužina, cit., pp. 73-78.
9 Boris Višnevskij, “Kto i zacem kanoniziruet
Sobcaka?”, Radio Svoboda, 25 febbraio 2010,
http://www.svobodanews.ru/content/article/1968322.h
Ultimo accesso: 27 ottobre 2011.
10 “Ljudi oni chorošie, no kvartirnyj vopros ich
isportil...”, Na straže Rodiny, 14 agosto 1996; Brian
Whitmore, “Is a Probe of City Graft a Tool of City
Hall?”, St. Petersburg Times, 9 aprile 1998.
11 Gevorkjan, Timakova, Kolesnikov, Ot pervogo
lica, cit.
12 Ibid.; Boris Višnevskij, K demokratii i obratno,
http://www.yabloko.ru/Publ/Book/Freedom/freedom_0
Ultimo accesso: 10 aprile 2011.
13 Julie Corwin, “Russia: US Academics Charge
Putin with Plagiarizing Thesis”, sito web di Radio
Free Europe/Radio Liberty, 27 marzo 2006,
http://www.rferl.org/content/article/1067113.html.
Ultimo accesso: 10 aprile 2011.
14 Peter Reddaway, “Some Notes on the Possible
Murder of Sobchak, the Political Career and
Persecution of Marina Sal’ye, and Some Related
Cases”, documento inedito.
15 Ibid.
16 Intervista dell’autrice a Natalja
Roždestvenskaja, marzo 2000.
17 Arkadij Vaksberg, I veleni del Cremlino. Gli
omicidi politici in Russia da Lenin a Putin, Milano,
Guerini e associati, 2007.
18 Reddaway, “Some Notes on the Possible
Murder of Sobchak”, cit.
7. Quando è morta l’informazione
1 Rapporto della missione OCSE sulle elezioni
del 26 marzo 2000 in Russia, traduzione russa,
http://hro-uz.narod.ru/vibori.html. Ultimo accesso:
17 maggio 2011.
2 Statistiche sulle elezioni del 2000,
http://www.electoralgeography.com/ru/countries/r/russ
president-elections-russia.html. Ultimo accesso: 17
marzo 2011.
3 Andrej Kolesnikov, Ja Putina videl!, Mosca,
Eksmo, 2005, p. 13.
4 Brenda Connors, specialista in dinamiche
posturali, citata in Paul Starobin, “The Accidental
Autocrat”, Atlantic, marzo 2005,
http://www.theatlantic.com/magazine/archive/2005/03
accidental-autocrat/3725/. Ultimo accesso: 9 maggio
2011.
5 Šamil Idjatullin, Olga Tatarcenko, “Pora
perevodit’ casy na pravuju ruku”, Kommersant, 18,
maggio 2000,
http://www.kommersant.ru/Doc/148145. Ultimo
accesso: 19 maggio 2011.
6 “Kakie casy nosjat prezidenty i oligarchi”,
articolo non firmato, Newsru.com, 17 febbraio 2005,
http://www.newsru.com/russia/17feb2005/watch.html.
Ultimo accesso: 19 maggio 2011.
7 Kolesnikov, Ja Putina videl!, cit., p. 16.
8 Vitalij Jaroševskij, “Operacija ‘Vnedrenie’
zaveršena”, intervista con Olga Kryštanovskaja,
Novaja Gazeta, 30 agosto 2004,
http://www.novayagazeta.ru/data/2004/63/43.html.
Ultimo accesso: 19 maggio 2011.
9 Intervista dell’autrice a Michail Kas’janov,
Mosca, 18 maggio 2011.
10 Masha Gessen, “Lockstep to Putin’s New
Military Order”, New York Times, 29 febbraio
2000, p. 21.
11 Sergej Parchomenko, “Besedy na jasnom
glazu”, Itogi, 11 maggio 2000,
http://www.itogi.ru/archive/2000/20/111020.html.
Ultimo accesso: 21 maggio 2011.
12 Masha Gessen, “Leningradskoe delo”, Itogi, 18
luglio 2000,
http://www.itogi.ru/archive/2000/29/112897.html.
Ultimo accesso: 23 maggio 2011.
13 Intervista dell’autrice a Nina Lepcenko, 3
luglio 2000.
14 Gessen, “Leningradskoe delo”, cit.
15 “Glava ‘Russkogo video’ Dmitrij
Roždestvenskij umer ot serdecnogo pristupa,”
articolo non firmato, Lenta.ru,
http://lenta.ru/russia/2002/06/06/rusvideo/. Ultimo
accesso: 23 maggio 2011.
16 Michail Kas’janov, Bez Putina, Mosca,
Novaya Gazeta, 2009, pp. 70-73.
17 Dmitrij Pinsker, “Ulika nomer 6”, Itogi, 26
settembre 2000,
http://www.itogi.ru/archive/2000/39/114667.html.
Ultimo accesso: 25 maggio 2011.
18 “Gusinskij ne budet ispolnjat’ soglašenija s
Gazpromom, potomu cto oni podpisany pod ugrozoj
lišenija svobody. Ugrožal emu licno Lesin,” articolo
non firmato, Polit.ru,
http://old.polit.ru/documents/320557.html. Ultimo
accesso: 25 maggio 2011.
19 “Putin scitaet, cto konflikt meždu Gazpromom i
Media-Mostom - spor chozjajstvujušcich subjektov,
rešat’, kotoryj dolžen sud,” pezzo non firmato,
Polit.ru, http://old.polit.ru/documents/329155.html.
Ultimo accesso: 25 maggio 2011.
20 “Kas’janov snova publicno otcital Lesina. Na
tom delo i koncilos’”, pezzo non firmato, Polit.ru,
http://old.polit.ru/documents/334896.html. Ultimo
accesso: 25 maggio 2011.
21 Boris Kuznecov, “Ona utonula...”: Pravda o
“Kurske”, kotoruju skryl genprokuror Ustinov,
Mosca, De-Fakto, 2005.
22 “Gibel’ atomnoj podvodnoj lodki ‘Kursk.’
Chronologija,” pezzo non firmato, RIA Novosti,
http://ria.ru/society/20050812/41140663.html.
Ultimo accesso: 1° giugno 2011.
23 Intervista dell’autrice a Marina Litvinovic, 1°
luglio 2008.
24 Kolesnikov, Ja Putina videl!, p. 35.
25 Ibid., pp. 38-39.
26 Programma Sergeja Dorenko ob APL Kursk,
trasmesso il 2 settembre 2000,
http://sergeydorenko.spb.ru/news-1-24.htm. Ultimo
accesso: 1° giugno 2011.
27 Larry King Live, “Russian President Vladimir
Putin Discusses Domestic and Foreign Affairs”,
trasmesso l’8 settembre 2000,
http://transcripts.cnn.com/TRANSCRIPTS/0009/08/lk
Ultimo accesso: 1° giugno 2011.
28 Aleksandr Vološin, testimonianza resa alla
London Commercial Court, 14 novembre 2011.
29 Intervista dell’autrice a Boris Berezovskij,
giugno 2008.
30 Elena Bonner, conferenza stampa, Mosca, 30
novembre 2000.
31 Jurij Samodurov, conferenza stampa, Mosca,
30 novembre 2000.
8. La distruzione della democrazia
1 “Un anno di Putin”, discussione a una tavola
rotonda tenutasi a Mosca il 26 dicembre 2000. I
partecipanti erano Leonid Ionin, docente di scienze
politiche applicate alla Scuola superiore di
economia; il deputato alla Duma Vjaceslav Igrunov;
il consulente politico Simor Kordonskij; il filosofo
Aleksandr Cipko; e lo studioso del Carnegie Center
Andrej Rjabov.
2 Julij Rybakov, intervistato da Marina Korolëva
per Echo Moskvy, 17 gennaio 2001,
http://www.echo.msk.ru/programs/beseda/13380.phtm
Ultimo accesso: 7 giugno 2011.
3 Leonid Dracevskij ha lavorato nelle ambasciate
sovietiche in Spagna e in Polonia.
4 Viktor Cerkesov e Georgij Poltavcenko.
5 Pëtr Latyšev.
6 Viktor Kazancev e Konstantin Pulikovskij.
7 Boris Berezovskij, “Licnye svobody - glavnyj
zakon demokraticeskogo obšcestva. Otkrytoe pis’mo
prezidentu Rossijskoj federacii Vladimiru Putinu”,
Kommersant, 31 maggio 2000,
http://www.kommersant.ru/doc/149293/print. Ultimo
accesso: 1° maggio 2011.
8 Rapporto della missione OCSE sulle elezioni
2004,
http://www.osce.org/odihr/elections/russia/33101.
Ultimo accesso: 8 giugno 2011.
9 Esplicito come da prassi un mio possibile
conflitto di interessi: un paio di anni dopo aver
sostenuto la sua tesi sull’argomento Dar’ja è
diventata la mia compagna di vita.
10 Dar’ja Oreškina, Kartograficeskij metod v
issledovanii elektoral’nogo povedenija naselenija
Rossijskoj Federacii, tesi di Ph.D. sostenuta alla
Università statale di Mosca nel 2006.
11 Il’ja Kolmanovskij, intervista ad Alexander
Margolis, San Pietroburgo, giugno 2008.
12 Conferenza stampa a Golos, Mosca, 14 marzo
2004.
13 Sojuz Žurnalistov Rossii, “Predvaritel’nyj
otcët o monitoringe osvešcenija s SMI vyborov
Prezidenta Rossijskoj Federacii 14 marta 2004 g.”,
http://www.ruj.ru/news_2004/news_040331_1.html.
Ultimo accesso: 3 dicembre 2011.
14 “Putin objavil o perestrojke gosudarstva posle
tragedii v Beslane,” pezzo non firmato, Newsru.com,
e testo completo del discorso di Putin, 13 settembre
2004,
http://www.newsru.com/russia/13sep2004/putin.html.
Ultimo accesso: 9 giugno 2011.
9. Il terrore al potere
1 “Terrible Effects of Poison on Russian Spy
Shown in First Pictures”, articolo non firmato, Daily
Mail, 21 novembre 2006,
http://www.dailymail.co.uk/news/article-
417248/Terrible-effects-poison-Russianspy-shown-
pictures.html. Ultimo accesso: 22 giugno 2011.
2 Intervista dell’autrice a Marina Litvinenko,
Londra, 24 aprile 2011.
3 Alexandr Litvinenko, Jurij Felštinskij, FSB
vzryvaet Rossiju. New York, Liberty Publishing,
2004.
4 Aleksandr Gol’dfarb con Marina Litvinenko,
Saša, Volodja, Boris..., 2a ed., New York-London,
AGC/Grani, 2010, p. 236.
5 L. Burban et al., “Nord-Ost. Neokoncennoe
rassledovanie. Sobytija, fakty, vyvody”, Mosca, 26
aprile 2006, Appendice 6.5, “Opisanie sobytij
poterpevšej Karpovoj T. I.”,
http://www.pravdabeslana.ru/nordost/pril6.htm.
Ultimo accesso: 23 giugno 2011.
6 L. Burban et al., Chronologija terakta,
http://www.pravdabeslana.ru/nordost/1-2.htm.
Ultimo accesso: 23 giugno 2011.
7 Elaine Sciolino, “Putin Unleashes His Fury
Against Chechen Guerrillas”, New York Times, 12
novembre 2002, http://www.nytimes.com/?
2002/11/12/international/?europe/12RUSS.html.
Ultimo accesso: 23 giugno 2011.
8 Si veda ad esempio
http://www.youtube.com/watch?v=m-6ejE1KG8A.
Ultimo accesso: 23 giugno 2011.
9 Intervista dell’autrice ad Achmed Zakaev,
Londra, 6 giugno 2011.
10 “Litvinenko: FSB ubila Jušenkova za pravdu o
Nord-Oste”, articolo non firmato, Grani.ru, 25 aprile
2003, http://grani.ru/Events/Terror/m.30436.html.
Ultimo accesso: 24 giugno 2011.
11 Anna Politkovskaja, “Odin iz gruppy
terroristov ucelel. My ego našli”, Novaya Gazeta, 28
aprile 2003,
http://politkovskaya.novayagazeta.ru/pub/2003/2003-
035.shtml. Ultimo accesso: 20 giugno 2011.
12 “K zakljuceniju kommissionnoj
sudebnomedicinskoj ekspertizy o pravil’nosti
lecenija Šcekocichina Jurija Petrovica, 1950 goda
roždenija”, Novaya Gazeta, 1° luglio 2004,
http://2004.novayagazeta.ru/nomer/2004/46n/n46n-
s05.shtml. Ultimo accesso: 20 giugno 2011.
13 Intervista dell’autrice ad Achmed Zakaev,
Londra, 6 giugno 2011.
14 Sergej Sokolov, Dmitrij Muratov, “Anna
Politkovskaja otravlena FSB”, Novaya Gazeta, 4
settembre 2004,
http://tapirr.narod.ru/politkovskaya2005.html#???????
Ultimo accesso: 20 giugno 2011.
15 “Pravda Beslana”,
http://www.pravdabeslana.ru/pravda_beslana.pdf.
Ultimo accesso: 26 giugno 2011.
16 Anna Politkovskaja, “Cto delalo MVD do
Beslana, vo vremja i posle”, Novaya Gazeta, 28
agosto 2006,
http://politkovskaya.novayagazeta.ru/pub/2006/2006-
77.shtml. Ultimo accesso: 26 giugno 2011.
17 Blog di Aleksej Cadaev, 21 marzo 2006,
http://kerogazzbatyr.livejournal.com/365459.html?
thread=4023699#t4023699. Ultimo accesso: 3
dicembre 2011.
18 Alexandr Litvinenko, “Annu Politkovskuju ubil
Putin”, Chechenpress, 8 ottobre 2006,
http://alexanderlitvinenko.narod.ru/myweb2/article3.ht
Ultimo accesso: 27 giugno 2011.
19 “V Drezdene Putina nazvali ubijcej”, non
firmato, Grani.ru, 10 ottobre 2006,
http://grani.ru/Society/Media/m.112666.html. Ultimo
accesso: 27 giugno 2011.
20 Putin parlando a una conferenza stampa a
Dresda il 10 ottobre 2006,
http://www.newstube.ru/Media.aspx?
mediaid=511BE4A2-5153-4F4E-BEA2-
3086663E96D4, Ultimo accesso: 27 giugno 2011.
21 Gol’dfarb, Litvinenko, Saša, Volodja, Boris...,
cit., p. 335.
22 Intervista dell’autrice ad Alexandr Gol’dfarb,
Londra, 6 giugno 2011; Gol’dfarb, Litvinenko, Saša,
Volodja, Boris..., cit.
10. Avidità insaziabile
1 OCSE PA, International Election Observation
Mission, Statement of Preliminary Findings and
Conclusions,
http://www.osce.org/odihr/elections/russia/18284.
Ultimo accesso: 14 giugno 2011.
2 “Russians Inch Toward Democracy”, articolo di
fondo non firmato, New York Times, 8 dicembre
2003,
http://www.nytimes.com/2003/12/08/opinion/russians-
inch-toward-democracy.html. Ultimo accesso: 14
giugno 2011.
3 David Holley, Kim Murphy, “Election Bolsters
Putin’s Control”, Los Angeles Times, 8, 2003,
http://articles.latimes.com/2003/dec/08/world/fg-
russelect8. Ultimo accesso: 14 giugno 2011.
4 “Racists, Killers and Criminals Run for Duma”,
National Post, 6 dicembre 2003.
5 “Putin’s Way”, Economist, 11 dicembre 2003,
http://www.economist.com/node/2282403. Ultimo
accesso: 14 giugno 2011.
6 “Bush and Putin: Best of Friends”, BBC News,
16 giugno 2001,
http://news.bbc.co.uk/2/hi/1392791.stm. Ultimo
accesso: 11 giugno 2011.
7 Robert O. Freeman, “Russia, Iran and the
Nuclear Question: The Putin Record”, pubblicazione
dello Strategic Studies Institute,
http://www.strategicstudiesinstitute.army.mil/?
pdffiles/pub737.pdf. Ultimo accesso: 11 luglio 2011.
8 Si veda ad esempio “Russia Signs Arms Deals
with Arab States Totaling $12 Billion”, articolo non
firmato, Pravda.ru,
http://english.pravda.ru/russia/economics/22-02-
2011/116979-russia_arms_deals-0/. Ultimo accesso:
11 luglio 2011.
9 L’economista era German Gref, e il gruppo di
studio il Centr strategiceskich razrabotok (Centro
iniziative strategiche).
10 Intervista dell’autrice ad Andrej Illarionov,
Mosca, giugno 2011; Andrej Illarionov, “Slovo i
delo”, Kontinent, 134, 2007, pp. 83-147.
11 Intervista dell’autrice a William Browder,
Londra, 13 maggio 2011.
12 Hoffman, The Oligarchs, cit.
13 Michail Chodorkovskij, Leonid Nevzlin,
Celovek s rublëm,
http://lit.lib.ru/n/newzlin_l_b/text_0010.shtml.
Ultimo accesso: 16 luglio 2011.
14 Ljudmila Ulickaja, Michail Chodorkovskij,
“Dialogi”, Znamja, 10, 2009,
http://magazines.russ.ru/znamia/2009/10/ul12.html.
Ultimo accesso: 16 luglio 2011.
15 Ibid.
16 Intervista dell’autrice a Pavel Ivlev, New York
City, 2 luglio 2011.
17 Intervista dell’autrice a Charles Krause, New
York City, 30 giugno 2011.
18 Discorso tenuto a Zvenigorod il 27 ottobre
2002.
19 Intervista dell’autrice a Marina Litvinovic,
dicembre 2009.
20 “Korrupcija v Rossii - tormoz ekonomiceskogo
rosta”, presentazione su slide ottenuta dall’ufficio
stampa di Chodorkovskij a Mosca, giugno 2011.
21 Kolesnikov, Ja Putina videl!, cit., p. 284.
22 Video della riunione,
http://www.youtube.com/watch?v=3KLzF3_-
ShU&NR=1. Ultimo accesso: 17 luglio 2011.
23 Intervista dell’autrice a Michail Kas’janov,
Mosca, maggio 2011.
24 Intervista dell’autrice a Leonid Nevzlin,
Greenwich, Connecticut, 1° luglio 2011.
25 Intervista dell’autrice ad Andrej Illarionov,
Mosca, giugno 2011.
26 Moscow Times, 21 gennaio 2004. Testo
integrale:
http://hermitagefund.com/newsandmedia/index.php?
ELEMENT_ID=312. Ultimo accesso: 17 luglio
2011.
27 Sergej Magnickij, testimonianza in tribunale,
documento inedito.
28 Transparency International, Global Corruption
Report 2003 e Global Corruption Report 2010,
http://www.transparency.org/publications/gcr.
Ultimo accesso: 17 luglio 2011. Il posto in classifica
nel 2003 era l’84° e nel 2010 il 154°, ma siccome
cambia il numero dei paesi oggetto dell’indagine
(133 nel 2003 e 178 nel 2010) ho riportato il dato in
percentuale.
29 Intervista dell’autrice ad Andrej Illarionov,
Mosca, giugno 2011.
30 Illarionov, “Drugaja Strana”, originale
pubblicato in Kommersant, 27 gennaio 2006,
http://www.liberal.ru/anons/312. Ultimo accesso: 17
luglio 2011.
31 “Kas’janov, Michail,” dossier non firmato,
Lentapedia, http://lenta.ru/lib/14159606/full.htm.
Ultimo accesso: 17 luglio 2011.
32 Intervista dell’autrice a Karina Moskalenko,
Strasburgo, 5 luglio 2011.
33 “Miller, Aleksej”, dossier non firmato,
Lentapedia, http://lenta.ru/lib/14160384/. Ultimo
accesso: 18 luglio 2011.
34 Elena Ljubarskaja, “‘Juganskneftegaz’ utopili v
‘Bajkale’”, Lenta.ru, 20 dicembre 2004,
http://lenta.ru/articles/2004/12/20/ugansk/. Ultimo
accesso: 18 luglio 2011. Denis Skorobogat’ko,
Dmitrij Butrin, Nikolaj Kovalëv, “‘Jugansk’ kupili
ljudi iz ‘Londona’”, Kommersant, 12 dicembre 2004,
http://www.kommersant.ru/doc/534631?
isSearch=True. Ultimo accesso: 18 luglio 2011.
“Russia to Hold Yukos Auction Despite US Ruling”,
articolo non firmato, MSNBC,
http://www.msnbc.msn.com/id/6726341/. Ultimo
accesso: 18 luglio 2011.
35 “‘Rosneft’ kupila ‘Bajkalfinansgrup,’ poluciv
control’ nad ‘Juganskneftegazom’”, articolo non
firmato, Newsru.com,
http://www.newsru.com/finance/23dec2004/rosneft.htm
Ultimo accesso: 18 luglio 2011.
36 Luke Harding, “Putin, the Kremlin Power
Struggle, and the $40bn Fortune”, Guardian, 21
dicembre 2007,
http://www.guardian.co.uk/world/2007/?dec/21/?
russia.topstories3. Ultimo accesso: 18 luglio 2011.
37 Intervista dell’autrice a Sergej Kolesnikov,
Helsinki, giugno 2011.
38 Roman Anin, “Dvorcovaja plošcad’ 740 tysiac
kvadratnych metrov”, Novaya Gazeta, 14 febbraio
2011,
http://www.novayagazeta.ru/data/2011/016/00.html#su
Ultimo accesso: 19 luglio 2011. Pavel Korobov,
Oleg Kašin, “Vot cego-cego, a kontrollërov u nas
chvataet”, Kommersant, 20 aprile 2011,
http://www.kommersant.ru/Doc/1625310. Ultimo
accesso: 19 luglio 2011.
39 Intervista dell’autrice a Julij Dubov, Londra, 6
giugno 2011.
40 Jacob Gershman, “Putin Pockets Patriots
Ring”, New York Sun, 28 giugno 2005,
http://www.nysun.com/foreign/putin-pockets-
patriots-ring/16172/. Ultimo accesso: 19 luglio
2011. Donovan Slack, “For Putin, It’s a Gem of a
Cultural Exchange”, Boston Globe, 29 giugno 2005,
http://www.boston.com/?
sports/football/patriots/articles?/2005/06/29/for_putin
Ultimo accesso: 19 luglio 2011; “Vladimir Putin
polucil persten’ s 124 brill’jantami”, pezzo non
firmato, Kommersant, 30 giugno 2005,
http://www.kommersant.ru/news/984560. Ultimo
accesso: 19 luglio 2011. Il commento di Putin
“Potrei uccidere qualcuno con questo” venne riferito
dalla moglie di Robert Kraft Myra; si veda “Myra
Kraft: Putin Stole Robert’s Ring”, Jewish Russian
Telegraph, 18 marzo 2007,
http://www.jrtelegraph.com/2007/03/myra_kraft_puti.h
Ultimo accesso: 31 ottobre 2011.
41 Il consulente artistico Nic Iljine racconta
l’incidente nel suo saggio “Guggengheim 24/7,” in
Laura K. Jones (a cura di), A Hedonist Guide to Art,
London, Filmer, 2010; si veda ad esempio:
http://www.theaustralian.com.au/news/world/book-
details-strongman-vladimir-putins-artful-ways/story-
e6frg6so-1225978192724.
42 Qui ad esempio è messo in elenco per 8200
rubli:
http://www.alcoport.ru/katalog/products/vodka/vodka-
kalashnikov/vodka-kalashnikov-1l. Ultimo accesso:
19 luglio 2011.
43 Intervista dell’autrice ad Andrej Illarionov,
Mosca, giugno 2011.
11. Ritorno all’URSS
1 Intervista con Bruce Eitling e John Kelly,
Cambridge, Massachusetts, 7 novembre 2008.
2 Nel marzo 2011, Dožd’, un canale TV via
Internet, tagliò il programma Graždanin Poet per via
di uno sketch che prendeva di mira Medvedev. Il
direttore generale Natalja Sindeeva rilasciò una
dichiarazione nella quale affermava che non era sua
intenzione insultare Medvedev sul piano personale;
http://tvrain.ru/teleshow/poet_and_citizen/. Ultimo
accesso: 10 novembre 2011. Come direttore di
Snob.ru ho avuto molte esperienze simili; ad
esempio quando fui costretta a tagliare il riferimento
a un articolo di un giornale inglese nel quale
Medvedev veniva definito “assistente di Putin”.
3 “Putin porucil specslužbam ‘vykovyrjat’
terroristov so dna kanalizacii”, pezzo non firmato,
Lenta.ru, 30 marzo 2010,
http://lenta.ru/news/2010/03/30/drainpipe/. Ultimo
accesso: 10 novembre 2011.
4 “Putin obidelsja na sravnenie Obamy: My ne
umeem stojat’ ‘vraskorjacku’”, pezzo non firmato,
Newsru.com, 3 luglio 2009,
http://www.newsru.com/russia/03jul2009/raskoryachk
Ultimo accesso: 10 novembre 2011.
5 Pëtr Mironenko, Dmitrij Butrin, Elena Kiselëva,
“Rvët i Mecet”, Kommersant, 25 luglio 2008,
http://www.kommersant.ru/Doc/915811. Ultimo
accesso: 10 novembre 2011.
6 “Putin predrëk oppozicioneram ‘otovarivanie
dubinkoj’”, pezzo non firmato, Lenta.ru, 30 agosto
2010, http://lenta.ru/news/2010/08/30/explain/.
Ultimo accesso: 10 novembre 2011.
7 “Vladimir Putin Goes Fishing”, reportage
fotografico, Guardian, 14 agosto 2007,
http://www.guardian.co.uk/?news/gallery/?
2007/aug/14/russia.internationalnews. Ultimo
accesso: 10 novembre 2011.
8 “Vladimir Putin, našedšij amforu VI veka, stal
objektom dlja nasmešek rossijskich bloggerov i
zarubežnych SMI”, pezzo non firmato, Newsru.com,
11 agosto 2011,
http://www.newsru.com/russia/11aug2011/putin_amf.h
Ultimo accesso: 10 novembre 2011.
9 L’addetto stampa di Putin, Dmitrij Peskov, in
seguito ammise che le anfore erano state piazzate
appositamente. Si veda Stepan Opalev, “Peskov pro
Putina: Amforu našël ne sam”, Slon, 5 ottobre 2011,
http://slon.ru/?russia/?
peskov_pro_putina_amfory_nashel_ne_sam-
684066.xhtml. Ultimo accesso: 10 novembre 2011.
10 “Medvedev vnës v Gosdumu zakonoproekt o
prodlenii prezidentskich polnomocij”, pezzo non
firmato, Lenta.ru, 11 novembre 2008,
http://lenta.ru/news/2008/11/11/medvedev/. Ultimo
accesso: 11 novembre 2011.
11 Transparency International, Corruption
Perceptions Index,
http://www.transparency.org/policy_research/?
surveys_indices/?cpi/2010/results. Ultimo accesso:
15 novembre 2011.
12 Ljudmila Alekseeva parlando alla cerimonia di
premiazione di Egor Gajdar, Mosca, 14 novembre
2011.
13 “Zolotye casy dlja upravlenija delami
Voronežskoj oblasti. Prodolženie”, blog Rospil, 6
ottobre 2011, http://rospil.info/news/p/983. Ultimo
accesso: 11 novembre 2011.
14 “Rešenie komissii FAS po zakazu s cenoj
kontrakta bolee cem 11.5 mlrd rublej”, blog Rospil,
11 ottobre 2011, http://rospil.info/news/p/999.
Ultimo accesso: 11 novembre 2011.
15 “MVD zaplatit 25 millionov rublej za
otdelannye zolotom krovati”, pezzo non firmato,
Lenta.ru, 19 agosto 2008,
http://lenta.ru/news/2009/08/19/gold/. Ultimo
accesso: 11 novembre 2011.
16 Anna Kacurovskaja, “Aleksej Naval’nyj:
Tol’ko, požalujsta, ne nado govorit’: ‘Naval’nyj
sravnil sebja s Obamoj’”, Snob.ru, novembre 2010.
17 Julia Ioffe, “Net Impact: One Man’s Cyber-
Crusade Against Russian Corruption”, New Yorker,
4 aprile 2011,
http://www.newyorker.com/reporting/2011/04/04/1104
Ultimo accesso: 11 novembre 2011.
18 “Proekt ‘Rospil’ sobral pervyj million na
‘Yandexden’gach’”, pezzo non firmato, Lenta.ru, 3
febbraio 2011,
http://lenta.ru/news/2011/02/03/million/. Ultimo
accesso: 11 novembre 2011.
19 “Putin vydvigaetsja na prezidentskie vybory
2012 goda”, pezzo non firmato, Gazeta.ru, 24
settembre 2011,
http://www.gazeta.ru/news/lastnews/?
2011/09/24/n_2022837.shtml. Ultimo accesso: 12
novembre 2011.
Epilogo: una settimana di dicembre
1 Aleksej Zacharov, “Rezultaty vyborov na tech
ucastkach, gde ne byli zafiksirovany narušenija”,
Slon, 5 dicembre 2011,
http://slon.ru/calendar/event/723777/. Ultimo
accesso: 11 dicembre 2011.
2 David Herszenhorn, Ellen Barry, “Majority for
Putin’s Party Narrows in Rebuke from Voters” New
York Times, 4 dicembre 2011,
http://www.nytimes.com/2011/12/05/world/europe/rus
vote-governing-party-claims-early-victory.html?
n=Top/News/World/Countries%20and%20Territories/
ref=russia. Ultimo accesso: 11 docembre 2011.
3 “Michail Gorbacëv - Novoj”, Novaya Gazeta, 7
dicembre 2011,
http://www.novayagazeta.ru/politics/49918.html.
Ultimo accesso: 12 dicembre 2011.
4 Masha Gessen, “When There’s No Going Back”,
International Herald Tribune, 8 dicembre 2011,
http://latitude.blogs.nytimes.com/2011/12/08/when-
theres-no-going-back/?
scp=2&sq=masha%20gessen&st=cse. Ultimo
accesso: 12 dicembre 2011.
5 Natalja Rajbman, “Surkov: Nužno sozdat’
partiju dlja razdražënnych gorožan”, Vedomosti, 6
dicembre 2011, http://www.vedomosti.ru/politics/?
news/1444694/?
surkov_nuzhno_sozdat_partiyu_dlya_razdrazhennyh_go
Ultimo accesso: 12 dicembre 2011.
6 Olga Korol’, “Ex-pressekretarju prezidenta
Tatarstana Murtazinu dali real’nyj srok”,
Komsomol’skaja Pravda, 26 novembre 2009,
http://www.kp.ru/online/news//577494/. Ultimo
accesso: 12 dicembre 2011.
7 Post di Boris Akunin sul blog, “I Could Not Sit
Still”, 9 dicembre 2011,
http://borisakunin.livejournal.com/45529.html.
Ultimo accesso: 12 dicembre 2011.
8 Konstantin Benjumov, “Vstavaj, strana
ogromnaja! Mitingi protesta 10 dekabrja prošli v 99
gorodach Rossii”, OnAir.ru,
http://www.onair.ru/main/enews/view_msg/NMID_38
Ultimo accesso: 13 dicembre 2011.
9 “Dmitrij Peskov ne kommentiruet miting na
Bolotnoj plošcadi”, pezzo non firmato, Gazeta.ru, 10
dicembre 2011,
http://www.gazeta.ru/news/lenta/2011/12/10/n_21301
Ultimo accesso: 12 dicembre 2011.
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio Cullen Murphy, che per primo mi ha
suggerito di scrivere un pezzo su Vladimir Putin per
Vanity Fair, e la mia agente Elyse Cheney, che si rese
conto che il pezzo aveva tutta la voglia di diventare
un libro.
Ringrazio Rebecca Saletan, che con il suo editing
ha fatto diventare il libro molto più bello di come
sarebbe stato senza il suo intervento. Ci sono molte
altre persone che devo ringraziare e spero che un
giorno, presto, io possa farlo a mezzo stampa senza
timore che questo riconoscimento possa essere un
pericolo. Voi sapete chi siete e spero che sappiate
quanto vi sono grata. Due persone non posso non
citare: il mio amico e collega Il’ja Kolmanovskij, la
cui ricerca e le cui opinioni sono state cruciali nella
fase iniziale di impostazione di questo progetto; e la
mia compagna Dar’ja Oreškina, che mi ha reso
felice e produttiva come non sono stata mai.

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