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Negli anni della grande depressione e del fascismo trionfante, lavoratori e intellettuali

antifascisti di tutto il mondo guardavano con interesse e speranza all'Unione Sovietica:


il paese che tentava di costruire una nuova società fondata sui princìpi del socialismo e
che si presentava come l’estrema riserva dell’antifascismo mondiale. Non solo: mentre
gli Stati capitalistici dibattevano nelle spire della grande crisi, l'Urss, in virtù del suo
stesso isolamento economico, non ne era affatto toccata, anzi si rendeva protagonista
di un gigantesco sforzo di industrializzazione.
La decisione di forzare i tempi dello sviluppo industriale e di porre fine all’esperienza
della Nep che aveva reintrodotto elementi di parziale liberalizzazione economica fu
presa da Stalin tra il ’27 e il ’28, subito dopo la definitiva sconfitta di quell’opposizione di
sinistra che proprio sulla priorità dell’industrializzazione aveva impostato la sua
battaglia. Del resto quasi tutto il gruppo dirigente comunista aveva sempre
considerato la Nep come una soluzione transitoria. L’idea dell’industrializzazione come
presupposto insostituibile della società socialista si univa alla convinzione che solo un
deciso impulso all’industria pesante avrebbe potuto fare dell'Urss una grande potenza
militare, in grado di competere con le potenze capitalistiche.
Il primo e più importante ostacolo alla costruzione di un’economia totalmente
collettivizzata e altamente industrializzata fu individuato nel ceto dei contadini
benestanti, i kulaki, accusati di affamare le città non consegnando allo Stato la quota di
prodotto dovuta e di venderla sul mercato arricchendosi alle spalle del popolo. Dopo
una prima fase caratterizzata da misure restrittive e sistematiche requisizioni dei loro
prodotti, a partire dall’estate ’29 i kulaki furono espropriati di terre, bestiame e mezzi di
produzione e inquadrati a forza nelle fattorie collettive, i cosiddetti kolchoz. Queste
misure avevano l’obiettivo di “eliminare i kulaki come classe” e di procedere
immediatamente alla collettivizzazione del settore agricolo.
Contro questa linea prese posizione Nikolaj Bucharin, numero due del regime e
convinto teorico della Nep, che sosteneva la necessità di non spezzare l’alleanza fra
operai e contadini. Ma la maggioranza del partito si schierò con Stalin: Bucharin e i suoi
seguaci, condannati nel 1930 come “deviazionisti di destra”, subirono una sorte analoga
a quella dell’opposizione “di sinistra”. E il gruppo dirigente comunista procedette sulla
via della collettivizzazione forzata, senza arretrare dinanzi alla prospettiva di una
inevitabile, sanguinosa repressione.
Non solo i contadini ricchi, ma anche tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e
resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive furono considerati “nemici del
popolo”. Migliaia furono i fucilati dopo processi sommari. Centinaia di migliaia gli
arrestati. Milioni di contadini furono deportati con le loro famiglie in Siberia o nella
Russia settentrionale, chiusi in campi di lavoro forzato o abbandonati in terre inospitali.
Agli effetti della repressione si sommarono quelli di una nuova spaventosa carestia.
Culminata negli anni 1932-33, e a lungo nascosta al mondo, la nuova carestia fu
determinata da una serie di fattori concomitanti: l’inefficienza di una macchina
organizzativa troppo grande e troppo centralizzata per tener conto delle situazioni
locali; la resistenza dei contadini che, in molti casi, preferirono macellare subito il
bestiame piuttosto che consegnarlo alle fattorie collettive; ma anche la cinica
determinazione delle autorità centrali che non solo non aiutarono in alcun modo la
popolazione affamata, ma insistettero nella politica delle requisizioni, decise com’erano
a stroncare con tutti i mezzi ogni possibile resistenza. Gli effetti furono terribili in
termini di costi umani: fra il ’29 e il ’33 i kulaki, che in tutta l'Urss erano circa 5 milioni,
scomparvero non solo “come classe”, ma in gran parte anche come persone fisiche.
Nella sola Ucraina, in quegli stessi anni, le vittime ammontarono, secondo calcoli
recenti, a 4 milioni. Ma anche il bilancio economico dell’operazione fu, nell’immediato,
disastroso: solo alla fine degli anni ’30 la produzione agricola, grazie al massiccio
impiego di macchine e concimi, tornò ai livelli dei tempi della Nep, mentre, per
l’allevamento, si dovettero attendere gli anni ’50. In compenso, fra deportazioni, morti
per fame e fuga nelle città, l’eccesso di popolazione nelle campagne fu drasticamente
ridotto e la grande maggioranza dei contadini fu inserita nelle fattorie collettive.
Il vero scopo di quella che lo stesso Stalin definì una “rivoluzione dall’alto” era però
favorire l’industrializzazione del paese mediante lo spostamento di risorse economiche
e di energie umane. Da questo punto di vista i risultati furono indubbiamente notevoli,
anche se inferiori a quelli programmati: il primo piano quinquennale per l’industria,
varato nel 1928, fissava infatti una serie di obiettivi tecnicamente impossibili da
conseguire, frutto più di una decisione politica che di un calcolo economico. La crescita
del settore fu comunque imponente e si svolse con ritmi che nessun paese capitalistico
aveva mai conosciuto fino ad allora.
Questi risultati furono consentiti non solo da una straordinaria concentrazione di
risorse ma anche dal clima di entusiasmo ideologico e patriottico che Stalin seppe
suscitare nella classe operaia intorno agli obiettivi del piano e che permise ai lavoratori
dell’industria di sopportare sacrifici pesanti, anche se non paragonabili a quelli dei
contadini, in termini di consumi individuali e di ritmi lavorativi. Gli operai furono infatti
sottoposti a una disciplina severissima, ai limiti della militarizzazione, ma furono anche
stimolati con incentivi materiali che premiavano in modo vistoso i lavoratori più
produttivi. Il caso di un minatore del bacino del Don, Aleksej Stachanov, diventato
famoso per aver estratto in una notte un quantitativo di carbone superiore di ben
quattordici volte quello normale, diede origine a un vero e proprio movimento di
esaltazione del lavoro, detto appunto stachanovismo, sostenuto dalle autorità ed
esaltato da Stalin.
L ’eco di questi successi varcò i confini dell'Urss galvanizzando i comunisti di tutto il
mondo, che ne trassero auspici per un prossimo trionfo della rivoluzione nell'Occidente
capitalistico, e suscitando ammirazione anche presso esponenti di altri schieramenti
politici. Intellettuali sin allora lontani dai partiti comunisti ne divennero simpatizzanti o
aderenti. Meno noti fuori dall'Urss erano i costi umani e politici di quell’impresa. Pochi
immaginavano le reali dimensioni della tragedia che si era consumata nelle campagne.
E pochi si resero conto che il clima creatosi nel paese in coincidenza col lancio dei piani
quinquennali era il più adatto ad accentuare i tratti totalitari del regime e la crescita del
potere assoluto di Stalin.
Sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco, Stalin finì con l’assumere
in Urss un ruolo di capo assoluto, non diverso da quello svolto nello stesso periodo dai
dittatori di opposta sponda ideologica. Era il padre e la guida infallibile del suo popolo.
Era l’autorità politica suprema, ma anche il depositario della “autentica” dottrina
marxista e al tempo stesso il garante della sua corretta applicazione. Ogni critica, da
qualunque parte avanzata, assumeva i caratteri odiosi del tradimento.
Le stesse attività intellettuali dovevano ispirarsi alle direttive del capo e dei suoi
interpreti autorizzati: uno di questi, Andrej Zdanov, sarebbe assurto alla fine degli anni
’30 al ruolo di controllore di tutto il settore culturale. La letteratura, il cinema, la musica
e le arti figurative furono sottoposti a un regime di rigida censura e costretti a svolgere
una funzione propagandistico-pedagogica entro i canoni del cosiddetto realismo
socialista: il che in pratica significava limitarsi alla descrizione e all’esaltazione della
realtà sovietica. La storia recente fu riscritta per mettere meglio in luce il ruolo di Stalin
e cancellare quello di Trotzkij e degli altri oppositori sconfitti ed emarginati alla fine
degli anni ’20. Persino il settore delle scienze naturali fu messo sotto controllo e
scienziati illustri furono perseguitati per aver sostenuto teorie giudicate non ortodosse.
Questa deriva totalitaria, che si accentuò nel corso degli anni ’30, era in parte già
implicita nei caratteri del bolscevismo e nella prassi autoritaria inaugurata da Lenin
subito dopo la presa del potere. Ma Stalin introdusse nella gestione di questo sistema
elementi di spietatezza e arbitrio, riconducibili anche ad alcuni aspetti patologici della
sua personalità, che peraltro non gli impedivano di ragionare in termini di cinico
realismo: non si limitò a combattere i nemici della rivoluzione, ma eliminò buona parte
del gruppo dirigente comunista e tutti coloro che considerava rivali reali o potenziali. E
fece sparire assieme a loro migliaia di quadri dirigenti del partito e un numero
incalcolabile di semplici cittadini sospetti di “deviazionismo” o soltanto invisi alla polizia
politica.
La macchina del terrore indiscriminato aveva cominciato a funzionare già negli anni
del primo piano quinquennale e della collettivizzazione: vittime principali erano stati i
contadini e tutti coloro che potevano essere accusati di ostacolare lo sforzo produttivo.
Nel 1934, l’assassinio di Sergej Kirov, astro nascente del gruppo dirigente comunista,
fornì il pretesto per un’imponente ondata di arresti che colpirono in larga misura gli
stessi quadri del partito. Cominciava così la stagione delle “grandi purghe”, ossia delle
epurazioni di massa che periodicamente colpivano dirigenti politici o intere categorie
di cittadini, sempre giustificate con la necessità di combattere traditori e nemici di
classe. Si trattò di una gigantesca repressione poliziesca che fu condotta nell’arbitrio
più assoluto: milioni di persone, spesso senza neanche conoscere le accuse a loro
carico, furono deportate nei numerosi campi di lavoro disseminati nelle zone più
inospitali dell'Urss e chiamati, con termine tedesco, “Lager”: quell’universo a cui molti
anni dopo lo scrittore Aleksandr Solženicyn avrebbe dato il nome di “Arcipelago Gulag”.
Ancora peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi,
formalmente regolari ma in realtà basati su confessioni estorte con la tortura, in cui gli
imputati si confessavano colpevoli di complotti tramati immancabilmente d’intesa con
i “trotzkisti” e con gli agenti del fascismo internazionale. In questo modo furono
eliminati tutti gli antichi oppositori di Stalin, ma anche molti stretti collaboratori del
dittatore, inghiottiti dalla stessa macchina che avevano contribuito a creare. Lo stesso
Trotzkij, esule dal ’29 e animatore dall’estero di un’instancabile polemica anti staliniana,
fu ucciso nel 1940 in Messico da un sicario di Stalin.
La repressione non risparmiò alcun settore della società. Professionisti e intellettuali,
tecnici e scienziati scomparvero a migliaia nei campi di concentramento. Nel ’37 una
drastica epurazione colpì i quadri delle forze armate: furono eliminati circa 20 mila
ufficiali, a cominciare dal maresciallo Tuchačevskij, capo dell’Armata rossa. Si calcola
che, tra il ’37 e il ’38, circa 700 mila persone perirono a causa delle purghe. Fra l’inizio
della collettivizzazione e lo scoppio della seconda guerra mondiale, il conto totale delle
vittime ammontò a 10-11 milioni.
Le “grandi purghe” e i processi degli anni ’30 provocarono notevole impressione in
Occidente. Nel complesso, però, la denuncia dello stalinismo non ebbe grande rilievo
negli ambienti democratici e socialisti. Lo impedivano la scarsità di informazioni sulle
reali dimensioni del fenomeno, ma anche i pregiudizi ideologici e soprattutto le remore
politiche: troppo prezioso era il contributo dell'Unione Sovietica e del comunismo
internazionale alla lotta contro il fascismo. Così l’immagine di Stalin riuscì a passare
indenne attraverso il drammatico periodo delle persecuzioni di massa e il regime
comunista sovietico continuò a esercitare il suo fascino su milioni di lavoratori europei.

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