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Mosca, 6/7/2023
Prefazione
di Toni Negri
una guerra che finirà per mostrare il fallimento del progetto putiniano
di ricostruzione dell’impero russo –, quali potranno essere i disposi-
tivi e le tendenze del potere in Russia? Colombo ne indica tre, ognu-
na alternativa all’altra. Il primo scenario è quello “iraniano”, ovvero
l’installazione della Russia in una zona semiperiferica della globaliz-
zazione. Quest’isolamento semiperiferico sembra a Colombo il risul-
tato più probabile al termine dell’attuale vicenda bellica. Il secondo
scenario prevede una riforma interna, una variante chruščëviana, una
rivoluzione dall’alto, un’operazione di ammodernamento: dovrebbe
essere radicale – ma è di questa capacità di agire in maniera radicale
che soprattutto Colombo dubita. Non è tanto qui in questione la sua
possibilità quanto l’efficacia della sua realizzazione quando si consi-
derino la complessità neofeudale e la rigidità dei rapporti di potere
ormai consolidatisi nel putinismo, nel “lungo inverno” post-socialista.
E anche (e soprattutto) quando si consideri la condizione post-sovie-
tica nella crisi globale, carica di vulnerabilità sia dinanzi alle variazioni
critiche del mercato mondiale sia a fronte delle strategie degli attori
primari della globalizzazione – una vulnerabilità che impedisce sia la
riforma (perestrojka) che una semplice lucida conoscenza della situa-
zione (glasnost). D’altra parte, quando si sia analizzata l’odierna cul-
tura reazionaria che in Russia vegeta rigogliosa, come si potrebbero
ancora sviluppare ideali di glasnost?
La terza soluzione potrebbe essere una rivoluzione democratica…
Ma per prevedere o lavorare a quest’ultima (così come per rafforzare
o liquidare le precedenti ipotesi) occorre aprire la discussione su altri
aspetti della situazione attuale. In particolare sul rapporto che stringe
la guerra russo-ucraina alla vicenda della globalizzazione e alla sua
crisi attuale. Colombo ci introduce a questo livello di analisi, limi-
tandosi tuttavia al confronto della crisi russa con lo sviluppo politico
dell’Unione Europea. E non ha difficoltà a dirci quanto sia stretto il
cammino sul quale parimenti si muovono Europa e Russia. Vittime
(l’Europa non meno della Russia) della volontà egemone americana
di impedire il consolidamento di altri poteri fuori dall’unilateralismo
globale statunitense.
Qui si ferma il discorso di Yurii Colombo, correttamente, perché
il limite è posto dalla materia stessa e dalla difficoltà di mostrare dal
di dentro la Russia di Putin. A noi di proseguire a un ulteriore livello
prefazione 11
Toni Negri
la russia dopo putin
A tutti i russi che si battono per la libertà
Il secolo breve era stato il titolo scelto per l’edizione italiana del
fortunato libro di Eric Hobsbawm The Age of Extreme, pubblicato
nel 1994, e per alcuni anni c’è stata ragione di ritenere che il Vente-
simo secolo fosse stato veramente un “secolo breve”. In quell’opera
lo storico di sinistra britannico sosteneva che il secolo morente fosse
rimasto schiacciato tra l’esplosione della Prima Guerra Mondiale nel
1914 (e dalla ricaduta imprevedibile dell’“assalto al cielo” bolscevico
del 1917 su scala continentale) e l’implosione dei regimi del “sociali-
smo irrealizzato” in Europa orientale nel tormentato triennio 1989-
1991. Tuttavia, se per certi versi l’incedere degli inediti e giganteschi
processi della globalizzazione nei trasporti e nelle comunicazioni, le
trasformazioni delle filiere produttive, lo sviluppo di nuove relazioni
di genere e dei movimenti per la libertà sessuale, la trasformazione e
l’esplosione della spesa pubblica e della liberalizzazione estrema dei
rapporti capitale-lavoro, l’emergere della centralità della questione
ecologica dimostrano che il secolo in cui viviamo si presenta come
qualcosa “di altro” rispetto al precedente, l’esplosione della guerra in
Ucraina proprio nell’ex Urss, laddove il Ventesimo secolo sembrava
essersi concluso, ripropone, seppure con degli aggiornamenti signifi-
cativi, il rimosso dal punto di vista analitico e politico della questione
delle “relazioni imperialistiche”, troppo rapidamente derubricate a
geopolitica o a fardello marxista ormai desueto.
I processi sociali profondi si sono fatti beffe delle ideologie, e la
“vecchia talpa” ha continuato inesorabilmente a scavare. Il marxismo,
cacciato dalla porta della “crisi del socialismo reale”, sta rientrando
28 la russia dopo putin
armeno Nikol Pashinyan chiese aiuto alla Russia sulla base del trattato
bilaterale di amicizia, cooperazione e assistenza reciproca del 1997 ma
Putin non si peritò neppure di rispondere, e nel giro di pochi giorni
l’Armenia capitolò di fronte alla supremazia militare azera sostenuta
dall’alleato turco.
Tabella 1
bli per acquistare lo stesso paniere di beni che nel 1990 si poteva
acquistare con 100 rubli.
società russa Thomas Piketty, la forbice tra il 10% più ricco e quello
più povero della società russa del 2016 è lo stesso di quello della Rus-
sia di Nikolaj II nel 1905.
Quando Boris El’cin alla fine del 1999 decise di far diventare l’ex
ufficiale del Kgb Vladimir Putin suo successore, vennero subito fatti
baluginare davanti ai russi grandi progetti e grandi speranze. Il 30
dicembre 1999 Vladimir Putin pubblicò sulla «Nezavisimaja Gazeta»
un articolo intitolato La Russia al millennio in cui si sosteneva che
fosse
Banca Mondiale, nel 2020 era, con il 15,74% del totale, già sotto la
Cina. Così, appena si alza lo sguardo si può intravedere come la guer-
ra in Ucraina sia anche un nuovo capitolo del confronto tra Pechino e
Washington, con Mosca e Bruxelles come vittime sacrificali. Ciò detto
andrebbe evitato di ragionare in termini semplicemente di Stati o di
nazionalismi, perché così facendo si imbocca un binario morto che
impedisce di vedere come in realtà le vittime predestinate delle guerre
contemporanee siano tutti i popoli del mondo.
La guerra è arrivata sugli schermi dell’opinione pubblica interna-
zionale non più come qualcosa di esotico e lontano ma di vicino e
“nostro”, assai più delle guerre nella ex Jugoslavia, che pure in pro-
porzione erano ancora più distruttive e pericolose.
Per l’Ucraina la tragedia è immane: si calcola che la riduzione del
Pil sarà del 30-35% solo nel 2022, con la distruzione di buona parte
delle infrastrutture, del potenziale economico, con decine se non cen-
tinaia di migliaia di morti e invalidi, milioni di rifugiati. Fonti ucraine
hanno stimato che il costo del ripristino delle infrastrutture, il finan-
ziamento dello sforzo bellico (munizioni, armi ecc.), la perdita di al-
loggi, di immobili commerciali, i risarcimenti per morti e feriti, i costi
di reinsediamento, il sostegno al reddito ecc. costeranno tra i 500 e i
1.000 miliardi di dollari. E si tratta di stime provvisorie, non sapendo
nessuno quanto potrà durare il conflitto.
Forse ancora peggiore è il dato demografico. Dei rifugiati in Paesi
occidentali o in Russia si calcola che 4 milioni non rientreranno più in
Ucraina, dove resterebbero a vivere permanentemente solo 32 milioni
di persone anche se non fosse mutilata di altre sue province. Forse
davvero troppo poche per la ripresa di un Paese così grande.
In Russia gli oligarchi hanno già iniziato a realizzare profitti enor-
mi sulla guerra. Mentre l’opinione pubblica viene tenuta all’oscuro
sui costi della guerra (che sono stati calcolati all’ingrosso tra i 500 e
i 1.000 miliardi di rubli al mese), gli oligarchi del gas, del petrolio e
il complesso militar-industriale, oltre che il loro padrone installato al
Cremlino, hanno iniziato a incassare cifre da record. Il 30 giugno 2022
Gazprom (di cui il 50,23% delle azioni è controllato dallo Stato) ha
annunciato profitti per 1.244 miliardi di rubli, ma ha subito messo in
chiaro che i dividendi quest’anno non verranno distribuiti, con l’o-
biettivo evidente di dirottarli verso lo sforzo bellico (il titolo ha subito
il secolo lungo dell ’ ex urss 45
L’era Putin
tacinque giorni all’anno, che il Padre del Popolo vegli sulla Grande
Madre Russia. Dopo il suicidio della moglie Nadežda Allilueva, non
si seppe più nulla della vita privata di Stalin, come – malgrado tutte
le voci circolanti sui giornali rosa moscoviti sulla relazione con Alina
Kabaeva – non si sa nulla di quella del “Nuovo Zar” dopo il divorzio
dalla moglie Ljudmila nel 2014.
Nel decidere all’età di settant’anni di intraprendere, con l’invasio-
ne dell’Ucraina, la battaglia più importante della sua vita, Putin non
ha nascosto del resto di paragonarsi ai grandi condottieri della Russia
del passato. Nel suo incontro con i giovani imprenditori del 9 giugno
2022, ha dichiarato che
Benché aspiri con tutte le sue forze ad essere uno zar della stazza di
Pietro I che rilancerà la Russia nel contesto mondiale, Putin non potrà
che essere, malgrado i suoi intendimenti, come vedremo nel proseguo
di questo libro, null’altro che il curatore fallimentare del proprio Pa-
ese, destinato a spingere tutti i popoli dell’ex Urss in una catastrofe
ancora non del tutto immaginabile. Pietro, del resto, fu sì un conqui-
statore, ma anche un convinto occidentalista, che giunse a introdurre
un gran numero di parole di origine tedesca nel vocabolario russo.
50 la russia dopo putin
Putin sovietico
livello più alto il controllo del Kgb era talmente stretto che, secon-
do un ex membro della Raf: «Mielke non avrebbe nemmeno scor-
reggiato senza prima chiedere il permesso a Mosca… Noi [della
Raf] ci siamo incontrati lì [a Dresda] più o meno una dozzina di
volte».
Gli anni Novanta in Russia furono gli anni della transizione dal
sistema sovietico dell’economia di comando semi-autarchica e di un
welfare state che mostrava le crepe sotto i colpi della globalizzazione
neoliberista, al caos delle privatizzazioni dove gruppi di oligarchi sorti
l ’ era putin 53
dal nulla e clan mafiosi finiscono per controllare buona parte del Pa-
ese. La Russia viveva una crisi devastante che era al contempo sociale,
economica e morale. I dati statistici, nella crudezza, sono impressio-
nanti: il Pil calò del 30% tra il 1991 e il 2000, ci furono nello stesso
periodo almeno 150.000 omicidi, e l’aspettativa di vita media della po-
polazione passò da 68,9 anni a 65,9, mentre corruzione e criminalità
dilaganti mettevano in discussione i legami sociali e la stessa identità
del Paese, che non erano venuti meno neppure negli anni più difficili
del periodo sovietico.
Alle grandi mobilitazioni politiche e sociali della fine degli anni
Ottanta e degli anni Novanta seguirono la rassegnazione e il disincan-
to. A livello internazionale la Russia era ai margini della contesa, con
la prima guerra cecena che aveva messo in luce segni di demoralizza-
zione nell’esercito e un apparato bellico da modernizzare.
Putin, tornato a Leningrado, riesce a entrare nella squadra del nuo-
vo sindaco Anatolij Sobčak, uno dei più liberal nell’era della transizio-
ne e nella sua amministrazione, dove lavora per promuovere i rapporti
con l’estero e attirare gli investimenti stranieri. Il Putin di quegli anni
è già “uomo di mondo” che ha abbandonato Kgb e Partito a fil di
sirena, proprio durante il fallito golpe del 1991.
Nel suo periodo sanpietroburghese ci sono luci e ombre. Partecipa
alla vendita dell’Hotel Astoria, supervisiona la creazione di un cambio
di valuta a San Pietroburgo e contribuisce all’apertura della Bnp-Dre-
sdner Bank Rossija, una delle prime banche straniere in Russia. Allo
stesso tempo la procura di San Pietroburgo lo accusò di aver rilasciato
illegalmente un permesso speciale per il gioco d’azzardo all’azienda
Lenattraktsion, che gestiva slot machine. Nel 1995 dirige la campa-
gna elettorale del partito filopresidenziale Nostra Casa Russia che si
dimostra un disastro, superato non solo dai comunisti di Zjuganov ma
anche dall’estrema destra xenofoba di Žirinovskij.
Secondo una biografia pubblicata su «Kommersant» il giorno se-
guente la sua nomina a capo del Fsb nel 1998,
nel 1996 Putin ha poi avuto un ruolo non secondario nella scon-
fitta elettorale di Anatolij Sobčak. All’epoca, in città girava la voce
che Putin avesse “venduto” il sindaco: incontrò il suo rivale Vla-
dimir Jakovlev per due volte due giorni prima delle elezioni. In
54 la russia dopo putin
ogni caso, Putin non rimase a San Pietroburgo, sebbene fosse stato
invitato a unirsi alla squadra di Jakovlev,
Lo stallo
tré per le donne, e ciò mise fine definitivamente alla “luna di miele”
tra gran parte dei russi in età avanzata e Putin. Lo stesso distacco si
ebbe con la parte più dinamica socialmente della gioventù urbana,
autorappresentatasi nel movimento liberal-liberale di Aleksej Navalnij
e poi repressa senza tante storie, che cementerà ancora di più un “noc-
ciolo duro putiniano”, una “maggioranza politica” impegnata sempre
di più a obliterare con evidente fastidio le pagine più tragiche della
propria storia. La chiusura imposta dai giudici di Mosca nel 2021 a
Memorial, la grande associazione voluta da Andrej Sacharov nel 1989
sulle repressioni nel periodo sovietico, ha segnato una sorta di non
ritorno nella storia del regime putiniano.
Russia». Putin allora si peritò di ricordare più volte che pur avendo
deciso di introdurre un sistema di vaccinazione, questa restava una
«libera scelta».
La “maggioranza no-Covid” si dimostrò coriacea: alla fine dell’a-
gosto 2021 avevano fatto entrambe le dosi solo 44 milioni di persone
su 145 milioni di abitanti (di cui 43 milioni sono pensionati). Lev Gu-
dkov, direttore del Levada Center, l’istituto di sondaggi più autorevo-
le in Russia, sostiene che i motivi di questa incredulità siano legati al
cinismo che attraversa orizzontalmente la società: «In Russia la gente
non si fida quasi di nessuno: degli altri, del governo, dei media, dei me-
dici. Questo è in parte il motivo per cui la campagna di vaccinazione
Covid-19 è fallita. Qualsiasi germoglio di società civile – volontariato,
beneficenza, organizzazioni no-profit – è stato di recente duramente
represso dalle autorità. La società è frammentata, atomizzata, incapa-
ce di solidarietà sociale, e questo mette in discussione l’esistenza della
Russia come Paese moderno».
Il mostro sociale costituitosi con il putinismo come un novello
Frankenstein così si rivolta contro il suo creatore. E paradossalmente
fa così paura al potere da dover essere sempre sorvegliato e riunifica-
to. Riunificato da cosa? Ormai solo dal nazionalismo.
La guerra-lampo
Putin in realtà aveva già mostrato le carte quando sette mesi prima
aveva pubblicato sul sito presidenziale l’articolo Sull’unità storica dei
russi e degli ucraini, in cui si negava la stessa esistenza di una identità
ucraina separata da quella russa. Come sottolineato dallo storico Gio-
vanni Savino nel suo volume Il nazionalismo russo 1900-1914,
Otto anni prima, di fronte alla crisi della Maidan, Putin aveva già
minacciato: «Se voglio prendo Kyiv in due settimane». Questa rico-
struzione è stata confermata anche dal politologo filoputiniano Sergej
Markov:
l ’ era putin 71
L’ideologia putiniana
Infine, il fascismo stava dalla parte della ragione per Il’in, perché «si
basava su un sano senso di patriottismo nazionale, senza il quale nes-
suna nazione può affermare la propria esistenza o creare la propria
cultura». Tuttavia alla prova dei fatti i fascismi avevano commesso
anche degli errori, tra cui: «L’irreligiosità», «la creazione di un totali-
tarismo di destra», «l’istituzione di un monopolio di partito»; erano
«scesi verso gli estremi del nazionalismo», avevano «mescolato le ri-
forme sociali con il socialismo», assunto pose da «cesarismo idolatri-
co». Errori però evitati con successo nella penisola iberica: «Franco e
Salazar se ne sono resi conto e stanno cercando di evitare di commet-
tere gli stessi errori. Non chiamano il loro regime “fascista”».
Nel suo libro Is Russia Fascist? la storica francese Marlène Laruelle
sostiene che la Russia non può essere definita un regime fascista solo
perché il suo presidente considera Il’in il suo filosofo di riferimento e
lo cita nei suoi discorsi. Secondo la professoressa,
Questa difesa d’ufficio di Il’in però, pur non essendo lui assimilabile ai
fascismi storici, fa acqua da tutte le parti. Il pensiero e la riflessione di
Il’in certamente non si ridussero all’aperto sostegno del regime musso-
liniano, hitleriano e ai regimi di estrema destra spagnoli e portoghesi
nel secondo dopoguerra, se no non si capirebbe neppure la valenza
teorica che la sua opera ha per il Cremlino. Tuttavia, anche Julius Evola
ebbe una vasta riflessione che abbracciò anche la sessualità e le religioni
orientali. Malgrado ciò nessuno su scala mondiale si sogna di non de-
finire l’autore di Cavalcare la tigre fascista e, in Italia – almeno per ora
– nessuno si sogna di costruirgli statue oppure dedicargli istituti statali.
In La Russia del futuro (1949) Il’in comunque non solo si schie-
ra contro il «totalitarismo (marxismo)» e contro quella che definisce
«democrazia formale» dell’Occidente, ma propone una “terza via” di
ricostruzione dello Stato e della società dai danni arrecati al Paese dal-
la «debole e danneggiata autostima» dei russi. Il’in vede nell’influenza
dell’Occidente qualcosa di «predatorio nei confronti dell’eredità dei
russi», concetti che ritornano spesso nell’ultimo Putin.
Il’in appare e riappare più volte nella riflessione del Presidente rus-
so in chiave ipernazionalista, come per esempio dopo l’occupazione
della Crimea, quando affermò che «chiunque ami la Russia deve de-
siderare la sua libertà; soprattutto la libertà della Russia stessa, l’indi-
pendenza e l’autonomia, la libertà della Russia come unità dei russi».
Il’in fornisce a Putin soprattutto il concetto di “sovranità autori-
taria”, che deve rappresentare l’intera tradizione storica, e che tale
potere non può essere condiviso o violato.
Questa concezione dell’autorità morale e politica da parte di Putin
deve essere garantita da un sovrano che rifiuti la cultura occidentale
moderna e democratica e la dipendenza economica e la colonizzazio-
ne culturale del Paese, oltre che le sirene dei “falsi valori”. Putin del
resto rifiuta l’appellativo di “Zar”, sostenendo di essere uomo d’azio-
ne e non di comando, un sommo servitore dello Stato che di quando
in quando è costretto a delle restrizioni alla libertà, e che esercita il
dominio dello Stato sull’individuo per raggiungere la rinascita spiri-
tuale di un intero popolo.
l ’ ideologia putiniana 79
Ivan Il’in non è e non può essere l’ideologo del Cremlino perché
la caratteristica principale del regime costruito da Putin è l’eclettismo
nazionalista autocratico. Il fascista Ivan Il’in può essere citato periodi-
camente e impunemente da Putin solo perché il mondo accademico e la
stampa russi sono da tempo proni al regime, incapaci di qualsiasi auto-
nomia intellettuale. Il regime così può basarsi su un minestrone ideolo-
gico che ha un solo fine: la permanenza al potere di Putin e del suo clan.
Secondo Surkov
sistema politico made in Russia non solo adatto per il futuro del
Paese, ma che ha chiaramente un significativo potenziale di export;
una domanda per questo sistema [il putinismo] o per i suoi singoli
aspetti esiste già, la sua esperienza è studiata e parzialmente adot-
tata, è emulata sia dai partiti di governo sia da partiti di opposizio-
ne in molti Paesi.
Laqueur aggiunse poi che Dugin aveva cercato per molti anni di
presentare un’ideologia sinteticamente nuova, una miscela di alcuni
dei più famigerati elementi occidentali (il neofascismo italiano nello
stile di Julius Evola, la “Nuova Destra” francese di Alain de Benoist e
la geopolitica neonazista), per poi rendersi conto della necessità di al-
cuni elementi specifici russi e adottare una versione rinnovata dell’eu-
rasiatismo.
Il politologo americano Stephen Schoenfield ha sostenuto a sua
volta che «la chiave della visione politica di Dugin è il concetto classi-
co di “rivoluzione conservatrice”, che mira a rovesciare l’ordine mon-
diale post-illuminista e a stabilire un nuovo ordine in cui i valori eroici
di una “Tradizione” quasi dimenticata devono essere fatti rivivere. È
l’impegno in questo concetto che identifica chiaramente Dugin come
un fascista».
Tra una conferenza e l’altra sulla “Quarta Teoria”, la sua, che su-
pererebbe capitalismo, socialismo e fascismo in un balzo solo, Dugin
ogni tanto si è lasciato andare a dichiarazioni più nette, quando invita
in un talk show a «uccidere, uccidere, uccidere» gli ucraini, che nel
2015 lo costringono a lasciare la cattedra all’Università Lomonosov di
Mosca e le presenze in tv.
Dopo il 24 febbraio Dugin, da sempre votato all’irredentismo im-
periale, è tornato in auge con una messe di interviste, articoli e saggi
in cui sostiene essenzialmente di essere “più putinista di Putin” e di
riconoscersi appieno nella logica dello “scontro di civiltà” con l’Occi-
dente da cui vanno tratte tutte le necessarie conseguenze.
Il suo nuovo inizio lo ha definito in una lunga intervista in cui chia-
risce come dovrà essere il mondo di domani, caratterizzato dallo «spi-
rito tradizionale russo». Putin, secondo Dugin, avrebbe finalmente
abbandonato ogni idea di compromesso e avrebbe iniziato una «guer-
ra di civiltà» contro «il totalitarismo unipolare» dove esiste «un’u-
manità unificata, che immaginano dovrebbe essere liberale, omo e
transessuale, femminista. Dove la ragione è sostituita dall’intelligenza
artificiale: iPhone in mano, cuffie nelle orecchie, dove in tutti in con-
tinenti si suona la stessa cosa e dove passano gli stessi video idioti di
TikTok».
Al contrario di Dugin, chi è stato ufficialmente braccio destro di
Putin per gli affari esteri per molti anni, e continua ad esserlo dietro le
86 la russia dopo putin
Nei social network, nelle discussioni, come anche nel dibattito ac-
cademico, la questione se lo Stato putiniano sia fascista è tornata inevi-
88 la russia dopo putin
In questo senso si può capire perché la Russia non abbia mai cono-
sciuto una reale stabilità politico-sociale, come in parte è accaduto nei
Paesi del “centro” del sistema-mondo.
«La Russia» sottolinea Kagarlickij «esportava materie prime e im-
portava tecnologia. Nel mercato mondiale competeva con altri Paesi e
territori che si trovano alla periferia del sistema mondiale emergente.
Questa combinazione di potere e vulnerabilità predeterminò l’inevi-
tabile aggressività della politica estera della Moscovia, nonché i suoi
successivi fallimenti».
Come si vede è cambiato ben poco da allora…
Passando per alterne vicende il carattere di fondo dell’economia
russa, nei secoli, fondamentalmente non è mai mutato, se si esclude
forse il tentativo dell’epoca di Stalin, non si sa quanto voluto o im-
posto dalle contingenze, di costituire una sorta di mercato mondiale
alternativo semi-autarchico a quello occidentale.
Dal 1960 con la scoperta di giganteschi giacimenti di petrolio in
Siberia occidentale, però, l’Urss iniziò ad aumentare l’esportazione di
materie prime verso il mondo capitalista in cambio di prodotti finiti e
tecnologie. Iniziarono a comparire le fabbriche che producevano Fiat
124 progettate in Italia e quelle che producevano bottigliette della
Pepsi-Cola.
Fino alla fine dell’Urss l’intercambio all’interno del Comecon ri-
mase comunque fondamentale, ma la burocrazia sovietica si trovò
sempre di più impigliata nel mercato mondiale e con un significativo
debito esterno, determinato da una sempre maggiore dipendenza dai
sistemi produttivo e finanziario occidentale. Da presunta seconda po-
la struttura economica russa 93
Non è quindi un caso che sia stato questo settore ad essere messo più
sotto pressione dopo il 24 febbraio 2022, quando si è rivelata chia-
ramente la dipendenza dalle tecnologie e dai mercati di sbocco oc-
cidentali, neppure tanto attraverso le sanzioni quanto con la parziale
distruzione delle catene della logistica.
Alcuni riferimenti statistici per quanto imperfetti offrono un qua-
dro dello sviluppo economico del Paese nel contesto della competi-
zione globale. Secondo i dati della Labour International Organization
pubblicati nel 2021, la produttività del lavoro (Pil per ora lavorata in
dollari) era di 30,3 in Russia contro i 70,6 degli Stati Uniti e il 57,7
dell’Italia. La metà quindi dei Paesi altamente sviluppati in generale.
Per quello che riguarda il tasso d’innovazione nel complesso, secondo
il Global Innovation Index pubblicato dalla Wipo il Paese più innova-
tivo al mondo nel 2020 era la Svizzera con un rating del 66,08, seguito
dalla Svezia a dagli Usa. La Russia con 35,63 era solo al quarantasette-
simo posto superata da tutti i Paesi occidentali. L’innovazione russa si
concentra in primo luogo nel complesso militare, nella cosmonautica
e nell’energia atomica. Come ha messo in luce il professor Evgenij Ba-
lackij dell’Accademia Russa delle Scienze, il fallimento dei piani di in-
novazione tecnologica russi e quindi dell’aumento di produttività van-
no fatti risalire a due ragioni: 1. l’esagerato ruolo giocato dalle imprese
statali in questo campo; 2. il tentativo di saltare la fase “imitativa” (che
invece hanno seguito Corea del Sud e Cina) al fine di saltare una fase
di sviluppo e attestarsi immediatamente al livello dei Paesi più avan-
zati. Il risultato è che la prima azienda russa nel 2021 per innovazione
e ricerca era Gazprom al 448º posto della classifica mondiale.
Basterà aggiungere che la Russia, malgrado ci sia una grande tra-
dizione scientifica ereditata dall’Urss, ha ricevuto dall’arrivo al potere
di Putin solo quattro Premi Nobel nelle scienze, tutti nel campo della
fisica. Sono Žores Alfërov, Vitalij Ginzburg, Aleksej Abrikosov e Kon-
stantin Novosëlov, ma gli ultimi due erano da lungo tempo emigrati
al momento del conseguimento del Nobel, e l’ultimo, Novosëlov, nel
2010 si era da tempo naturalizzato inglese.
96 la russia dopo putin
dal bilancio in Russia sono 60 milioni, di cui 17,5 milioni sono dipen-
denti pubblici (43 milioni di persone sono pensionate).
«Dal 2011 il numero di dipendenti pubblici è aumentato del 2%.
Nel frattempo, il settore privato si sta riducendo, in particolare le pic-
cole e medie imprese si stanno estinguendo e il reddito imprenditoria-
le è sceso al livello più basso dai primi anni 2000» si legge nell’articolo.
I dipendenti statali rappresentano il 34% del reddito totale percepito
dai russi. Una quota non insignificante di questo terzo della popola-
zione, in un Paese autoritario come la Russia, è rappresentata dalle
spese per le strutture repressive interne, che rappresenta poco meno
del 10% del bilancio. Quanto viene speso per i servizi segreti è top
secret da anni, ma il ruolo per la stabilità del regime è così importante
che i siloviki sono diventati i vertici della classe privilegiata in Russia,
superando persino la nomenklatura del partito Russia Unita.
Così il Fsb tende sempre di più, secondo molti osservatori, a tra-
sformarsi in una casta parassitaria e corrotta, sulle orme della no-
menklatura brezneviana degli anni Settanta. Secondo il presidente
del Fsb Patrušev, per la loro devozione all’attività e il patriottismo
i suoi uomini sarebbero da definire «una nuova nobiltà», ma per
molti critici questa definizione sarebbe da declinare nel senso di una
sorta di guardia pretoriana da Ancien Régime. Il giornalista russo
Andrej Soldatov, nel libro The New Nobility, ritiene che «per certi
versi il Fsb somiglia di più alla spietata mukhabarat, la polizia se-
greta del mondo arabo: dedita alla protezione dei regimi autoritari,
che risponde solo a chi è al potere, è impenetrabile, completamente
corrotta e disponibile all’utilizzo di metodi brutali contro individui e
gruppi sospettati di terrorismo o di dissenso». Già a partire dai primi
anni Duemila, questa «nuova nobiltà» avrebbe sostituito in buona
parte per ruolo e funzioni la vecchia nomenklatura sovietica. Questo
passaggio di consegne sarebbe avvenuto non solo simbolicamente,
ma anche fisicamente: molte famiglie degli alti ufficiali del Fsb si
sarebbero installate nella lussuosa e quieta periferia moscovita della
Rublëvka che un tempo era appannaggio delle villette della burocra-
zia comunista.
Viktor Alksnis, un ex ufficiale dell’aviazione più volte decorato,
nel 2006 ha scoperto che nel 2003 e nel 2004 lo Stato aveva distribuito
a privati cittadini circa 99 acri della sua terra proprio alla Rublëvka.
la struttura economica russa 99
L’inverno demografico
Uno degli obiettivi del gruppo dirigente del Cremlino prima con
l’annessione della Crimea e poi con l’invasione ucraina sarebbe quel-
lo di sfuggire dall’inverno demografico del Paese. Ma è un progetto
realizzabile?
Tabella 2
di vita era di 82,9 anni, e nel 2019 di 83,6. Seppur prese prudenzial-
mente, queste statistiche segnalano come la Russia, non avendo avuto
una mortalità superiore in percentuale a quella italiana durante la fase
Covid, ha iniziato ad avere un calo dell’aspettativa di vita, indipenden-
te dallo sviluppo della pandemia.
In generale è evidente che in epoca putiniana l’aspettativa di vita
è aumentata, ma lentamente, e ora ha la tendenza a calare. Secondo
il demografo russo Aleksej Raška l’eventuale annessione di tutte le
regioni del Donbass non migliorerà la situazione, se non momentane-
amente, come è avvenuto per la Crimea.
«Anche prima della guerra del 2022» sostiene lo studioso
e anche prima del 2014, il Donbass era una regione con una delle
peggiori situazioni demografiche in Ucraina. Questa è una regione
carbonifera e metallurgica, in alcuni punti depressa. Le imprese
che vi hanno sede richiedono negli anni sempre meno lavoratori,
perché in questi settori si registra un progresso abbastanza rapido
e un aumento della produttività del lavoro. Cioè, il numero di per-
sone impiegate nelle fabbriche del Donbass è diminuito. E dove, in
una situazione del genere, sistemare la popolazione? In effetti, in
epoca sovietica, vi furono costruite grandi città. Una volta c’erano
i membri del Komsomol provenienti da tutta l’Unione Sovietica
che si concentravano lì. Negli anni Trenta queste città crebbero.
Ma poi la crescita si è fermata, la popolazione ha cominciato a
diminuire, perché la produttività del lavoro è cresciuta in Unione
Sovietica e i vecchi giacimenti si sono esauriti.
Già prima della guerra c’era l’emigrazione da queste regioni, per-
ché lì non c’era bisogno di così tante persone. Il tasso di natalità
nel Donbass era uno dei più bassi in Ucraina e il tasso di mortalità
era uno dei più alti.
Per anni quasi ogni giorno Putin ha ripetuto che la Russia sarebbe
tornata a correre sulla base dei «programmi nazionali», che prevede-
vano giganteschi progetti di sviluppo di infrastrutture. Progetti per-
lopiù poi abbandonati o mai portati a termine. O che aspettano da
tempo immemore di essere completati.
Uno dei più noti è il progetto del cosmodromo Vostočnyj, che
avrebbe dovuto garantire la minor dipendenza da quello di Baikonur
in Kazakistan, costruito in epoca sovietica.
Il progetto fu annunciato con grande enfasi da Putin nel 2007, ma
solo nel 2011 iniziò la costruzione, che avrebbe dovuto essere comple-
tata nel 2018. Tuttavia il presidente di Roskosmos, Dmitrij Rogozin,
dichiarò con baldanza che i lavori erano stati accelerati e il cosmodro-
mo sarebbe stato pronto entro il 2015.
Lo sviluppo del nuovo cosmodromo avrebbe dovuto avere un
effetto impressionante sull’economia dell’Estremo Oriente, con ri-
cadute importanti sull’occupazione nella zona. L’architetto Dmitrij
Pšeničnikov sostenne che l’insediamento che sarebbe sorto vicino al
cosmodromo sarebbe diventato una «città spaziale scientifica e turi-
stica unica nel suo genere, con un design unico e un bellissimo pae-
saggio», ma a breve iniziò a girare la voce negli ambienti ministeriali
che Vostočyj non fosse altro che l’ennesimo dolgostroj, che in russo
significa ‘una boiata edile senza fine’.
la struttura economica russa 105
Certi autori – alcuni dei quali si professano marxisti, come nel caso
del russo Ruslan Dzarasov, che in passato aveva scritto opere inte-
ressanti –, a partire dalla valutazione che la Russia è (evidentemente)
un Paese della semiperiferia, hanno pensato che essa sia anche una
classica semi-colonia, da sostenere nella guerra d’Ucraina essendo il
conflitto null’altro che una guerra della Nato sul suolo slavo.
Una tesi che ovviamente è tesa a coprire una posizione politica: che
la guerra combattuta dall’esercito russo sia sostanzialmente “reattiva”
o “difensiva”.
Tuttavia, ogni parola, ogni discorso di Putin dal 24 febbraio in poi
è impregnato dell’ideologia autocratica “grande-russa”, dallo spirito
egemonico e razzista nei confronti del popolo ucraino e dal disprezzo
per qualsiasi forma di democrazia e autodeterminazione, anche nelle
sue forme più imperfette e classiste come quelle che vigono nel resto
dell’Europa. Come abbiamo già fatto notare, la Russia è una semi-co-
lonia peculiare che ha caratteristiche di imperialismo regionale con
proiezione mondiale. Questo se si vuole avere una caratterizzazione
sintetica.
Tuttavia, c’è una cattiva abitudine in parte del dibattito marxista,
che è quella di impiccarsi alle parole o alle citazioni dei “classici” –
spesso collocate fuori dal contesto storico – per avvalorare le pro-
prie tesi, mentre si perde di vista “l’analisi concreta della situazione
concreta”. Si perde di vista, in un contesto determinato, chi siano gli
oppressi, chi siano gli oppressori e soprattutto quali siano i motivi,
spesso complessi, per cui si combatte una guerra. In questo caso fer-
marsi all’aspetto puramente economico (il carattere arretrato dell’élite
108 la russia dopo putin
Il dilemma dell’Europa
Negli ultimi due secoli, prima nel 1812 e poi nel 1939, le due prin-
cipali potenze europee continentali delle rispettive epoche cercarono
di sottomettere la Russia militarmente senza riuscirci, e ciò ha prodot-
to nelle dirigenze sovietiche e poi russe una “sindrome di accerchia-
mento” difficile da cancellare, che è diventata uno dei pilastri della
propaganda del regime putiniano.
La guerra napoleonica e la guerra antinazista, per quanto dall’asce-
sa dello stalinismo in poi siano definite dalla storiografia russa entram-
be «patriottiche», furono diverse tra loro: se la resistenza sovietica al
nazismo divenne da un certo momento in poi una resistenza popolare,
Lenin, e con lui il massimo storico dell’“epoca aurea” del bolscevi-
smo, Michail Pokrovskij, considerò sempre la guerra franco-russa una
“banale” lotta interimperialistica per l’egemonia in Europa. Come ha
scritto lo storico britannico Adam Zamoyski nel suo libro sulla cam-
pagna napoleonica in Russia, secondo Pokrovskij
Gli errori di cui parla Borrell, però, hanno radici più antiche. Quando
l’Urss di Gorbačëv tese la mano all’Occidente e propose una mas-
siccia demilitarizzazione del continente, mentre iniziava all’interno
una coraggiosa seppure confusa politica di democratizzazione della
società russa (sui limiti del gorbaciovismo rimando al mio libro sul
crollo dell’Urss Un’ambigua utopia), l’Occidente si dimostrò superfi-
ciale, colonialista e cinico.
La speranza accarezzata ingenuamente dal leader sovietico era
quella della «casa comune europea», una sintesi giornalistica che in
realtà l’ex leader sovietico utilizzò per la prima volta solo nel 2009,
ma di cui parlò all’inizio del suo mandato come segretario del Partito
il dilemma dell ’ europa 113
ricordò che «ci venne assicurato che le strutture militari della Nato
non avanzassero e che non venissero dispiegate ulteriori forze armate
sul territorio dell’allora Rdt [Repubblica Democratica Tedesca] dopo
la riunificazione della Germania. La dichiarazione di Baker fu fatta in
quel contesto».
Gorbačëv aggiunse: «L’accordo sulla risoluzione finale con la Ger-
mania diceva che non sarebbero state create nuove strutture militari
nella parte orientale del Paese; non sarebbero state dispiegate altre
truppe; non sarebbero state collocate armi di distruzione di massa.
Promessa che è stata rispettata in tutti questi anni».
Ma Gorbačëv sostenne anche, in quell’intervista, che ciò che si è
verificato dopo il 1990, con la decisione di altri Paesi di aderire alla
Nato, è «una violazione dello spirito delle dichiarazioni e delle assicu-
razioni fatteci nel 1990».
Documenti declassificati americani, sovietici, tedeschi, britannici
e francesi, pubblicati online nel 2017 dal National Security Archive
della George Washington University nella capitale americana, sugge-
riscono che Gorbačëv abbia avuto qualche ragione per essere scon-
tento in seguito.
«I documenti mostrano che molteplici leader nazionali stavano
considerando e rifiutando l’adesione dell’Europa centrale e orientale
alla Nato a partire dall’inizio del 1990 e per tutto il 1991, che le discus-
sioni sulla Nato nel contesto dei negoziati per l’unificazione tedesca
nel 1990 non erano affatto limitate allo status del territorio della Ger-
mania orientale» viene osservato dagli specialisti della George Wash-
ington University, nella loro valutazione dei documenti pubblicati.
I politici occidentali sostengono che la Russia di fatto acconsentì
all’allargamento dell’alleanza atlantica a est quando nel 1997 firmò
con la Nato l’Atto di fondazione sulle relazioni reciproche, la coope-
razione e la sicurezza. In quell’accordo politico, che aveva lo scopo
di costruire la fiducia tra est e ovest e di stabilire abitudini di consul-
tazione e cooperazione, la Nato si impegnava a non stazionare for-
ze di combattimento permanenti e consistenti sui territori degli Stati
dell’ex Patto di Varsavia che avevano aderito all’alleanza occidentale.
Tuttavia, avrebbe fatto ruotare dei distaccamenti per condurre eser-
citazioni e mantenere l’interoperabilità e l’integrazione delle forze
dell’alleanza.
116 la russia dopo putin
accorgendo ormai perfino gli Stati Uniti quando mettono il becco del-
la loro Aquila fuori di casa, come si è visto in Afghanistan o in Iraq. Il
diritto all’autodeterminazione dei popoli, pur essendo formula imper-
fetta e che necessita di aggiornamenti, deve restare una delle stelle po-
lari delle relazioni internazionali. Anche perché forse, e questo Putin
non sembra averlo capito, il mondo multipolare esiste già, non serve
una lotta per realizzarlo, e allora il problema non è come ripartirlo
“più equamente” tra le diverse potenze, ma come renderlo sempre più
accogliente, pulito, egualitario.
In questa ultima parte del libro delineerò tre possibili scenari della
Russia del futuro e il ruolo che potrebbe giocarvi l’Europa, dentro
l’esplosione finale di quelli che sono stati i riferimenti ideali e teorici
del passato. Con l’avvertimento che ogni ipotesi qui proposta è stret-
tamente legata al corso della guerra in Ucraina e altre variabili che
nessuno può ancora prevedere.
Lo scenario iraniano
Il ritmo storico è imprevedibile sia nelle sue accelerazioni che nei lun-
ghi periodi di attesa.
Se la guerra proseguirà a lungo o comunque non si concluderà con
una disfatta dell’esercito russo o l’impossibilità di controllare almeno
tutto il Donbass agevolmente, l’ipotesi che la classe dirigente installata
al Cremlino si rintani in Russia a leccarsi le ferite non è improbabile.
La conquista del solo Donbass o anche di altre porzioni del territo-
rio ucraino non muteranno la condizione internazionale della Russia,
ma permetterebbero forse a Putin di restare in sella. Il ripiegamento
dell’opposizione, la tendenza a prendere la strada dell’esilio da parte
di chi dissente, il consolidamento del regime verso un’aperta dittatu-
ra, l’atomizzazione della classe lavoratrice della Federazione inducono
a pensare che questa possibilità sia purtroppo la più plausibile. In tal
caso si potrebbe venire formando uno “scenario iraniano”.
Secondo uno dei più importanti economisti russi di oggi, Jacob
Mirkin, se il regime di Putin dovesse reggere si potrebbe trasforme-
rebbe dal punto di vista economico per il 65-70% di probabilità in
qualcosa di simile all’Iran (l’altro 30-35% delle possibilità è che torni
a essere una specie di Urss riverniciata).
L’Iran, anche dal punto di vista politico-sociale, è modello ed esem-
pio lampante di come un Paese possa sopravvivere per decenni semi-i-
solato dalla comunità internazionale e schiacciato dalle sanzioni, e di
come il suo regime possa riprodursi, rigenerarsi e perfino in qualche
misura riformarsi. C’è chi attese invano dal 1979 che il regime sciita
potesse essere rovesciato (inizialmente perfino da sinistra) a causa del-
le sue contraddizioni interne e dalle sue ricorrenti crisi economiche.
Ma il regime clericale resistette anche a una guerra terrificante con il
suo vicino iracheno.
Ted Hopf, professore associato alla Ohio State University, ritiene
nel suo saggio Russia’s Place in the World. An Exit Option? che la
categoria di “semiperiferia” possa essere trasferita dal piano più squi-
sitamente economico a quello politico in Paesi in costante oscillazione
tra integrazione nel sistema mondiale e precaria esistenza ai suoi mar-
gini, e questo accomunerebbe di certo la Russia all’Iran. Alcuni altri
osservatori hanno definito in questo senso l’Iran la «ricetta perfetta
per l’instabilità»; un Paese in cui esiste un’opinione pubblica disillusa,
l’economia è stagnante e dove il sistema politico mostra le crepe con
il dilemma dell ’ europa 119
Tuttavia, dopo aver aggiunto che sia Russia che Iran sono entrambi
dei grandi produttori di petrolio, si potrebbe dire che le similitudini
finiscono praticamente qui. Il regime iraniano fonda la sua esistenza
su una base ideologica solidissima come la religione musulmana e una
struttura gerarchica ecclesiastica capace di riprodursi socialmente. La
società iraniana è relativamente impermeabile alle sirene dei model-
li sociali ed economici dell’Occidente, e ha dalla sua una narrazione
“anticapitalista” oltre che “antimperialista” di un certo spessore. A
Putin tutto questo manca. Il leader russo ha sempre aderito aperta-
mente seppur in chiave statal-capitalista al sistema liberista, mentre i
suoi oligarchi e i suoi manager (oltre che una parte della popolazione
urbana europea) sono imbevuti dell’ideologia dei modelli consumisti
occidentali. Dovrà e potrà costituire, come abbiamo visto, un’ideolo-
gia minimamente coerente che faccia da piedistallo al suo incedere, vi-
sto che il solo nazionalismo irredentista agitato fino a ora si dimostrerà
alla lunga insufficiente. Deve farlo in fretta: basti pensare che anche
nelle regioni più povere è difficile reclutare contractors per la guerra
ucraina, malgrado gli ottimi stipendi e promesse di molti benefit (tassi
d’interesse minimi per la casa, formazione professionale, pensioni per
le famiglie in caso di morte ecc.).
In generale nel Paese c’è un sostegno alla guerra totalmente passi-
vo e cinico, lontano anni luce dall’entusiasmo che si respirava al tempi
dell’annessione della Crimea del 2014. Ai tempi della guerra d’Ucrai-
na si tifa dal divano di casa, mettendo dei like sui social e con una
lattina di birra in mano mentre la mobilitazione generale, che avrebbe
tolto alcune castagne dal fuoco a Putin, è impensabile, in quanto alta-
mente impopolare anche tra chi sostiene la guerra.
Inoltre la Russia manca di una struttura di quadri politici solidi (i
dirigenti della nuova nomenklatura sono abituati invece agli stili di
vita più parassitari che si possono trovare in Occidente) che non siano
completamente corrotti.
120 la russia dopo putin
La “variante Kruščëv”
Le sanzioni funzionano?
Danilevskij o Lenin
Guardare al futuro
nuovi, più violenti scontri in Europa oppure allo sviluppo di una fase
in cui gli interessi, le culture, le vicende dei diversi popoli che ci vivo-
no possano trovare una sintesi, nuovi equilibri: dove ci possa essere
una rinnovata cooperazione economica, sociale, culturale. Un’Europa
non segnata dall’aumento del militarismo e dallo “scontro di civiltà”.
Se vuole esistere politicamente, l’Europa non può che includere
la Russia. L’Europa non può essere quella regione del mondo dove si
costruiscono muri, si impedisce la circolazione delle persone, si deli-
mita un dibattito sulle prospettive dell’Est Europa ai giornalisti e agli
studiosi embedded di entrambi i fronti.
Il filosofo francese e marxista Étienne Balibar, in una recente in-
tervista, sostenendo l’inanità del pacifismo e della necessità di appog-
giare la resistenza ucraina, ha rilevato giustamente come questa non
è solo una proxy war, e neppure solo una guerra per l’indipendenza
nazionale ucraina, ma anche «una guerra europea».
Questa breve lirica scritta nel 1866 da Sergej Tjutčev, un poeta pansla-
vista e moderatamente progressista in politica interna, è molto celebre
anche tra i russi di oggi benché spesso non sappiano chi sia l’autore.
I russi vi si riconoscono da molte generazioni perché sintetizza non
solo l’aspetto “irrazionale” o istintivo del loro carattere ma anche il
trasporto sentimentale che accompagna, in terre fredde e inospitali, la
loro esistenza. Si tratta di ciò che spesso impropriamente viene chia-
mata l’“anima russa” e che chi ha vissuto almeno un po’ di tempo qui
può recepire.
Così nel farsi della sua storia, la Russia resta insondabile, impreve-
dibile, misteriosa, anche per chi ci è nato.
La Russia è la terra del dominio imperiale, della knut, della frusta
del padrone sulla schiena del contadino, dei pogrom contro gli ebrei.
Ma la Russia è anche la rivolta di Pugačëv, le mogli dei decabristi che
attendono per decenni il ritorno del marito dal confino siberiano, del-
la prima rivoluzione socialista della storia…
Io sono di madre russa, mio nonno è morto combattendo il nazi-
smo il 12 agosto 1941, mia nonna è passata per il Gulag. Sono venuto a
vivere in Russia alcuni anni fa, ci ho studiato ai tempi della perestrojka,
l’ho visitata nei decenni regolarmente. Eppure dal 24 febbraio non
140 la russia dopo putin