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Yurii Colombo

LA RUSSIA DOPO PUTIN

Prefazione di Toni Negri


Nota alla seconda edizione

Gli eventi dell’ultimo anno in Russia, seguiti alla pubblicazione


di questo libro, ne hanno confermato l’impianto generale. L’inizio
dell’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 ha segnato un passag-
gio decisivo nel declino del putinismo. Questo declino era già iniziato
qualche anno prima e aveva avuto nella rivolta in Bielorussia del 2020
il suo punto di snodo (e parzialmente anche nella crisi in Kazakistan
del 2022).
Troppi osservatori e analisti su scala nazionale e internazionale, in
questi ultimi due anni, si sono concentrati sugli aspetti geopolitici le-
gati all’agenda post-Covid, pur importanti, perdendo di vista lo scon-
tro diretto tra le oligarchie russe e ucraine, ma soprattutto perdendo
di vista le dinamiche interne. In questo passaggio della storia della
Russia giocano dei fattori di lunga durata nella sua storia, come la
colonizzazione e il succedersi delle crisi politico-sociali interne dal-
la seconda metà del Diciannovesimo secolo in poi. Si pensi solo alla
storia del movimento di liberazione nazionale ucraino, ampiamente
sconosciuta quando non rigettata.
Frank Furedi in un ottimo recente pamphlet (The Road to Ukrai-
ne. How the West Lost Its Way) ha segnalato come ciò crei dei pro-
blemi proprio alla narrativa fondante dell’Unione Europea, “potenza
benevolente”, e della matrice universalistica che sta alla base della sua
fondazione.
L’esperienza indica che l’indifferenza dell’Unione Europea nei
confronti della storia l’ha privata della capacità di comprendere il
presente. La riflessione di Tony Judt sulla propensione «a negare la
6 la russia dopo putin

rilevanza dell’esperienza passata ai problemi attuali» è particolar-


mente importante per capire perché così tanti esperti e commentatori
sono stati colti alla sprovvista dallo slancio che ha portato all’invasio-
ne dell’Ucraina da parte della Russia. Il disinteresse per la continuità
storica che ha caratterizzato la visione delle élite culturali occidentali
ha avuto un riscontro molto minore negli ex Stati satellite dell’Unione
Sovietica. Decenni di oppressione totalitaria sono ancora freschi nella
mente della gente. Non è solo in Ucraina che le persone sono molto
sensibili alla precarietà della loro indipendenza nazionale.
L’ascesa e il declino del putinismo, da questo punto di vista, rap-
presentano solo un capitolo di una vicenda più lunga e complessa che
si chiama storia slava, solo parzialmente sovrapponibile a quella del
Vecchio Continente.
Dopo l’inizio della guerra in Ucraina anche i mass media occiden-
tali spesso sono caduti nella falsa rappresentazione di un Putin forte,
capace di mantenere un altissimo livello di sostegno popolare. Questa
percezione è ora finita in frantumi, ma non è detto ora che all’appro-
fondito della crisi del putinismo segua per forza un rapido. Le dina-
miche militari in corso in Ucraina decideranno in gran parte il ritmo
degli eventi, anche se non il loro senso di marcia.
In questa nuova edizione ho aggiunto un capitolo e aggiornato la
bibliografia che analizza i più recenti avvenimenti, correggendo solo
pochi refusi ed errori fattuali del resto del lavoro. Ringrazio come
sempre l’Editore per la sua disponibilità.

Mosca, 6/7/2023
Prefazione

di Toni Negri

Un libro importante La Russia dopo Putin; una domanda implicita,


un problema aperto. Un libro che non offre soluzioni, questo di Yurii
Colombo – e tuttavia un’opera che propone piste da percorrere, at-
torno a problemi che la guerra ucraina ha drammaticamente imposto
alla nostra attenzione: perché Putin è andato in guerra? Come finirà
questa guerra? Come ne verrà fuori la Russia? E l’Europa? E tutti
noi che, in un modo o nell’altro, ci siamo appassionati al socialismo e
all’Europa?
Ma mentre mi dico: ecco il modo corretto di presentare questo
libro, una narrazione liscia e densa di problemi, mi chiedo: ma per
noi lettori l’accostarci a questa guerra, dentro questo solido cammino
critico, potrà aiutarci a uscire dall’enorme disagio, se non dal pani-
co, nel quale questa guerra ci ha messo e promette di mantenerci
per almeno un decennio? Commentando quel che avviene (la guerra
ucraina ma anche quella sotterranea e incipiente nei mari di Cina, e
quella guerra civile che brontola nel ventre degli States e nella crisi
che attraversa l’Europa), Mike Davis titolava un suo schizzo: Thana-
tos Triumphant. Ed è vero che la morte si presenta ormai sulla scena
postmoderna del nostro mondo capitalista in modi tanto continui e
in forme tanto estese da rinnovare quadri tardo-medievali di disa-
stri e apocalissi. Consapevoli della tragedia che viviamo, ripetiamo-
ci la questione: ci basta approfondire la conoscenza di quel che sta
avvenendo sia sui confini della nostra Europa sia nei centri politici
del mondo globalizzato per attutire quel senso di morte e colmare
quell’ansia che ci ha colto?
8 la russia dopo putin

Ora, il libro di Yurii Colombo è importante non solo perché ci


offre una conoscenza approfondita di come la guerra ucraino-russa
si sia aperta e quali ne siano le cause e le probabili conseguenze, ma
anche perché nella sua ricerca Yurii introduce la critica politica ed
evidenzia le passioni che rendono tragica questa maledetta guerra e
toccano il nostro cuore come il nostro cervello in termini inquieti.
Vediamo prima gli elementi di conoscenza, poi quelli che nei cammini
della tradizione si attribuiscono al nostro esprit de finesse, alle ragioni
del nostro cuore.
Il primo contributo alla conoscenza di cosa sia il potere in Rus-
sia e di come esso si muova – e da cosa sia motivato nel farlo – va,
secondo Colombo, scavato all’interno dell’evoluzione degli Stati e/o
delle regioni che costituivano l’impero sovietico prima della sua fine.
Il quadro che egli traccia è impressionante. L’ex Urss, la cui storia Eric
Hobsbawm dice costituire un «secolo breve», in realtà disgregandosi
sviluppa in un “secolo lungo” un’impressionante serie di guerre in-
testine, di rivolte e di guerre esterne, di massacri e di conflitti ecc. Il
punto di vista interno allo scioglimento del vincolo federativo che co-
stituiva l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche rivela la com-
plessità di quella vicenda e i prodromi del conflitto ucraino. In questo
modo si può cogliere la fragilità dei legami che tenevano insieme quel
complesso di Paesi e di etnie, saltati i quali quell’insieme è stato pre-
da di una sorta di fisica gravità che allontanava le parti dal centro
imperiale, cui corrisponde un altrettanto fisico impulso a innalzare
la centralità del potere, nella presunzione di tenere insieme un mon-
do sfasciato. Detto in un altro modo: siamo abituati a vedere la fine
dell’Urss come una decisione sacrosanta di liberazione dai ceppi di
un socialismo andato a male, consideriamo fondamentale l’azione di
Gorbačëv… i russi vedono piuttosto nella fine dell’Urss la distruzione
della potenza russa su un impero enormemente esteso e forte. La legit-
timità putiniana si fonda essenzialmente su questa presa di coscienza.
Dopo averci messo dentro le crisi che, senza sosta, caratterizza-
no la “lunga uscita” dal “secolo breve”, Colombo ci fa gustare con
grande realismo quel che succede agli abitanti di quell’enorme Paese
che ancora si chiama Russia. Ragionando a freddo, mantenendo lo
sguardo dell’interprete (ma qual è la differenza tra un’attenta obiet-
tività e una sorta di cinismo quando l’interpretazione è fatta corpo a
prefazione 9

corpo con un inestricabile garbuglio?), Yurii ci ricorda le spaventose


dimensioni economiche della crisi (della fame, del crollo demografico
ecc…) e i risvolti ideologico-politici dentro i quali esse sono lette e
vissute. Questo è il secondo elemento di conoscenza, un punto di no-
vità rispetto alle altre letture del problema russo – troppo spesso mera
propaganda assunta a verità – per il quale questo libro è apprezzabile.
L’ideologia e la politica putiniane sono qui esposte come ricalco e mi-
sura di controllo di quell’enorme insieme di contraddizioni che la fine
dell’Urss, la fuoriuscita dal socialismo di Gorbačëv, e le sue utopie,
la fallimentare gestione neoliberale el’ciniana avevano determinato. E
che – in un’economia globalizzata – in Russia non potevano risuonare
che come armi rivolte dall’esterno contro un corpo malato e incapa-
ce di reagire. Che cos’è più la Russia di Putin? Forse ormai solo un
Paese semiperiferico, drammaticamente legato a una memoria (e a un
armamento) di potenza globale. In ogni caso un Paese costretto ad as-
sumere la guerra (quella con le altre parti dell’ex impero) quasi come
una forma di governance. Governance? Di cosa… se non di una serie
di contraddizioni interne alla propria storia che si presentano ormai
come insolubili?
Il terzo elemento di conoscenza offerto da questo libro vien fuori
quando si faccia attenzione al punto di vista del suo autore – punto
di vista di un comunista, privo di ogni pur minima indulgenza sul
passato ma che non perde in nessun momento la consapevolezza che
l’Urss ha rappresentato una radicale rottura del sistema capitalista e
una vittoria del proletariato, il cui segno va al di là di tutto ciò che
oggi avviene. La critica del passato si articola quindi al freddo senti-
mento del presente, alla presa in conto della ferocia della storia della
lotta di classe senza mai chiudere alla speranza di un nuovo balzo in
avanti nella storia degli oppressi e degli sfruttati. La luce della storia
dell’Unione Sovietica debolmente ma sicuramente illumina ancora il
futuro dell’umanità.
Dentro questo quadro cominciano a porsi nuove questioni – quella
indicata dallo stesso titolo del libro è la fondamentale: che cosa sarà
la Russia dopo Putin? Sulla base di quanto Colombo chiarisce, dopo
una guerra (più lunga sarà, più grave ne sarà il risultato) promossa per
sfuggire alla stagnazione economica e all’irresponsabilità nell’aver de-
gradato o corrotto ogni altro strumento di governance – dunque, dopo
10 la russia dopo putin

una guerra che finirà per mostrare il fallimento del progetto putiniano
di ricostruzione dell’impero russo –, quali potranno essere i disposi-
tivi e le tendenze del potere in Russia? Colombo ne indica tre, ognu-
na alternativa all’altra. Il primo scenario è quello “iraniano”, ovvero
l’installazione della Russia in una zona semiperiferica della globaliz-
zazione. Quest’isolamento semiperiferico sembra a Colombo il risul-
tato più probabile al termine dell’attuale vicenda bellica. Il secondo
scenario prevede una riforma interna, una variante chruščëviana, una
rivoluzione dall’alto, un’operazione di ammodernamento: dovrebbe
essere radicale – ma è di questa capacità di agire in maniera radicale
che soprattutto Colombo dubita. Non è tanto qui in questione la sua
possibilità quanto l’efficacia della sua realizzazione quando si consi-
derino la complessità neofeudale e la rigidità dei rapporti di potere
ormai consolidatisi nel putinismo, nel “lungo inverno” post-socialista.
E anche (e soprattutto) quando si consideri la condizione post-sovie-
tica nella crisi globale, carica di vulnerabilità sia dinanzi alle variazioni
critiche del mercato mondiale sia a fronte delle strategie degli attori
primari della globalizzazione – una vulnerabilità che impedisce sia la
riforma (perestrojka) che una semplice lucida conoscenza della situa-
zione (glasnost). D’altra parte, quando si sia analizzata l’odierna cul-
tura reazionaria che in Russia vegeta rigogliosa, come si potrebbero
ancora sviluppare ideali di glasnost?
La terza soluzione potrebbe essere una rivoluzione democratica…
Ma per prevedere o lavorare a quest’ultima (così come per rafforzare
o liquidare le precedenti ipotesi) occorre aprire la discussione su altri
aspetti della situazione attuale. In particolare sul rapporto che stringe
la guerra russo-ucraina alla vicenda della globalizzazione e alla sua
crisi attuale. Colombo ci introduce a questo livello di analisi, limi-
tandosi tuttavia al confronto della crisi russa con lo sviluppo politico
dell’Unione Europea. E non ha difficoltà a dirci quanto sia stretto il
cammino sul quale parimenti si muovono Europa e Russia. Vittime
(l’Europa non meno della Russia) della volontà egemone americana
di impedire il consolidamento di altri poteri fuori dall’unilateralismo
globale statunitense.
Qui si ferma il discorso di Yurii Colombo, correttamente, perché
il limite è posto dalla materia stessa e dalla difficoltà di mostrare dal
di dentro la Russia di Putin. A noi di proseguire a un ulteriore livello
prefazione 11

di analisi che permetta di cogliere l’ambiente complessivo della guer-


ra ucraino-russa e la sua articolazione globale, il suo esondare sulla
totalità del pianeta Terra. In questa prospettiva si potrà probabilmen-
te esser più indulgenti sulle responsabilità di Putin nell’attuale crisi
e meno comprensivi delle ragioni ucraine e delle esasperazioni del
patriottismo/nazionalismo di Kyiv. Ma al di là di questi elementi di
contorno la cosa fondamentale consisterà (come Colombo fa in vari
luoghi del suo lavoro) nel cercare strade più dirette per stringere il
destino dell’Europa e quello dei Paesi slavi in un’opera comune che
interpreti la vocazione solidarista e libertaria di quella cultura rivolu-
zionaria illuminista che ha sempre animato la potenza di liberazione
dei popoli europei e russi.
Avevamo cominciato dicendo che questo libro non offre soluzioni,
chiudiamo la Prefazione con un appello a uno spirito illuminista di
conciliazione cosmopolitica. Un lettore smaliziato potrebbe conclu-
dere: ecco un inutile retorico auspicio, proprio oggi, quando Occi-
dente e Oriente si scontrano ferocemente. Ci sono momenti, tuttavia,
nei quali è “realistico” (lo dico in senso machiavellico, come aggettivo
adeguato all’agire politico) richiamare qualche principio ideale: per-
ché dinanzi alla nostra emozione di spettatori e agli orribili e disastrosi
effetti quotidiani che questa guerra ci mostra, si impone un richia-
mo alla ragione, della Ragione. Se Yurii Colombo non dà soluzione
ai problemi che pone, è perché non c’è soluzione oggi al problema
del potere, della sua legittimità ed efficacia sul terreno della guerra.
Più la globalizzazione avanza, più la guerra diventa una pura essen-
za distruttiva: non è astratto dunque il cosmopolitismo pacifista. È
piuttosto diventato un ferreo richiamo a come su questa nostra Terra
tutte le esistenze siano a contatto l’una dell’altra nell’abbraccio della
natura. Ringraziamo l’autore di questo bel libro per averci introdotto
a questo – non esoterico – finale.

Toni Negri
la russia dopo putin
A tutti i russi che si battono per la libertà

«E Zarathustra, allora, disse al popolo così:


“È giunto il tempo che l’uomo si proponga una meta. È giunto
il tempo che l’uomo getti il seme della sua più alta speranza.
Il suo terreno è abbastanza ricco, oggi, per ciò.
Ma un giorno sarà impoverito e sfruttato e non potrà dar vita
a nessun albero di alto fusto.
Guai! Si appressa il tempo in cui l’uomo non lancerà più la
freccia della sua brama oltre l’uomo, e la corda del suo arco
avrà disappreso a sibilare!
Io vi dico: bisogna aver ancora un caos in sé per poter genera-
re una stella danzante. Io vi dico:
voi avete ancora del caos in voi”»
friedrich nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885
Introduzione

Questo libro si è venuto componendo essenzialmente mentre gi-


ravo per l’Italia nella primavera del 2022 dal Trentino fino alla Puglia
per presentare la nuova edizione del libro Svoboda. Ucraina fra Nato e
Russia dall’indipendenza a oggi. Incontrando migliaia di persone con
orientamenti politici e culturali diversi, interessate a farsi un’opinione
su quanto stava succedendo in Europa orientale, ho avuto l’occasione
di rispondere a tante domande sulle dinamiche della società russa,
sulle sue contraddizioni, sulle forze sociali interne, sui caratteri della
sua leadership e ovviamente sulle prospettive di una società che non
può non essere scossa fino alle fondamenta da ciò che è avvenuto a
partire dal 24 febbraio 2022. In questo senso questo libro tratta solo
incidentalmente della tragedia ucraina e si concentra sui caratteri del
fenomeno putiniano per provare a scrutare quale sarà il destino della
Russia nei prossimi anni.
Tra chi partecipava a queste riunioni, come è inevitabile quando
ci si confronta con la morte, la sofferenza, il caos sociale, questa volta
tanto vicini a ognuno di noi, si sono formate delle idee ben definite
e spesso radicalmente opposte su quanto stava accadendo – trasver-
salmente ai tradizionali perimetri politici e culturali – che rimandano
a un complesso di fattori culturali ma anche psicologici e ancestrali.
Così tra chi simpatizzava per Putin mi è capitato di trovare persino il
vecchio militante anarchico insurrezionalista così come – all’opposto
– ho verificato il fascino dell’ex quadro del Pci berlingueriano verso
quel Zelenskij delle giornate di marzo che tiene in mano un Paese che
sembra ogni giorno lì lì per crollare.
18 la russia dopo putin

In generale però, in queste libere discussioni ho trovato una straor-


dinaria voglia di capire e di andare oltre a un’informazione che oscilla
tra propaganda di guerra, realismo (capitalista, direbbe Mark Fisher)
e scetticismo cinico. E visto che nei pochi minuti di un’assemblea non
si riesce a fornire letture sufficientemente approfondite e problema-
tiche su una realtà complessa come la Russia, mi ero ripromesso di
fornire delle risposte più esaurienti in forma scritta.
In molti, a Mosca, avevamo pensato che una guerra in Ucraina
avrebbe condotto al rovesciamento del regime o comunque alla sua
radicale messa in discussione. Così non è stato. Perché? I motivi sono
molti. In primo luogo perché parte della società russa è incorsa in una
trasformazione antropologica, e io tra gli altri non me ne ero accorto
(o facevo finta di non accorgermi). Il russo medio, soprattutto quello
che vive nella “grande provincia”, cioè fuori dalle metropoli europee,
ha smesso da tempo di sognare l’Occidente. Quest’ultimo resta lon-
tano non solo per tenore e stili di vita. La grande provincia Russia,
a un certo punto, ha inteso che l’Europa tanto anelata in realtà non
esiste, e quella che esiste è inafferrabile e incomprensibile oltre che
irraggiungibile. Si tratta della famosa “occidentofobia”; basta accen-
dere la tv o frequentare i social russi per vederla crescere e debordare
costantemente. Appena si esce da Mosca e San Pietroburgo il colore
dominante diventa quello del rigetto del femminismo, dei diritti Lgbt,
della xenofobia anti-immigrati, e più in generale della diffidenza per
la democrazia, inutile orpello di un mondo in decadenza.
La nostalgia per l’Urss è anch’essa mutata di segno. Ieri era memo-
ria di condizioni di vita e di uno stato sociale per la maggioranza dei
cittadini russi migliori di quelli odierni, e perfino di relazioni sociali
parzialmente slegate dalla logica mercantilistica (l’economia naturale,
il baratto, la cultura del dono, i lasciti dell’umanesimo socialista, il
comunitarismo). Oggi la nostalgia per l’Urss è diventata culto di un
passato di potenza e di civilizzazione imperiale che è sempre convis-
suto accanto a un’enorme distruzione di ricchezza sociale e umana, di
conformismo e di repressioni.
Queste idee si sono imposte nel tempo, grazie a una propaganda si-
stematica sui mass media statali e mainstream e sui social network, ma
è inutile negarlo, sono anche un portato di lunga durata della “Russia
profonda” già messo in luce all’inizio del Ventesimo secolo da Nikolaj
introduzione 19

Berdjaev. Di forze sociali che trascendono una singola epoca. Dopo


l’inizio del conflitto, questa Russia passiva, informe, nazionalista, raz-
zista, l’abbiamo vista ergersi in tutta la sua disperazione, incurante di
cosa le stava piovendo addosso in termini di sanzioni e di isolamento.
Non che ci sia riluttanza di fronte alla morte, allo scempio delle di-
struzioni di un Paese fino a ieri “fratello” come l’Ucraina, ma il si salvi
chi può prevale assieme a un fatalismo anch’esso da sempre radicato
nella storia russa.
Il 9 maggio 2022, quando il regime ha infine trasformato il corteo
del “reggimento immortale” (già da tempo diventato giornata della
riconciliazione della Russia bianca e rossa e dell’orgoglio nazionale)
in ricordo del sacrificio dei popoli sovietici nella lotta contro il nazi-
smo in una parata a sostegno dell’aggressione a uno dei popoli che
facevano parte fin dalla sua fondazione dell’Urss, si è oltrepassato
il Rubicone: il nazismo per la maggioranza dei russi non è già più
un’ideologia razzista, costruita sulla negazione dell’uguaglianza e dei
diritti umani, ma solo una variante delle politiche di aggressione alla
Russia. L’altro ieri quelle napoleoniche, ieri quelle hitleriane, oggi
quelle occidentali.
Non che non esista “un’altra Russia”. Fino al 22 luglio 2022 duran-
te manifestazioni o presidi c’erano stati 16.380 fermi, erano stati aperti
194 casi penali, 3.303 casi amministrativi «per discredito delle forze
armate», 184 persone erano state poste agli arresti domiciliari, decine
di persone rinchiuse negli ospedali psichiatrici, 5.500 siti bloccati, 26
organi di stampa chiusi d’imperio (tra cui «Novaja Gazeta» del Pre-
mio Nobel Dmitrij Muratov, centinaia di migliaia di persone, se non
milioni, hanno preso la via dell’esilio in Armenia, Georgia e altri Paesi
europei. Ljudmila Ulickaja, forse la più grande scrittrice russa viven-
te, che nel marzo del 2022 ha deciso a sua volta di prendere la strada
dell’esilio in Germania, ha dichiarato con rassegnazione che «la presa
di posizione dell’intellettualità russa è inutile». Parole che dette in un
Paese di grande tradizione culturale sono ancora più amare e tristi.
Nella società russa prevale la paura. Tra i colleghi di lavoro, tra gli
amici, nelle scuole, la guerra è stata sin dall’inizio un argomento tabù,
che quando è stato affrontato ha condotto in molti casi a rotture di
amicizie e di relazioni, mentre è sempre incombente il timore della
delazione.
20 la russia dopo putin

Il 12 luglio 2022 è apparso un articolo sul quotidiano «Komsomol’skaja


Pravda» in cui si dava notizia che

Un residente del paese di Gorkij-10, distretto urbano di Odinco-


vo, provincia di Mosca, ha presentato una denuncia alla polizia
contro la moglie. Il motivo era l’opposizione della moglie all’o-
perazione speciale in Ucraina. Come ha appreso il nostro gior-
nale, il trentasettenne ha chiesto alla questura di agire contro la
moglie. Ha dichiarato che la signora stava esprimendo sentimenti
anti-russi in relazione all’Operazione Militare Speciale e induceva
loro figlio a schierarsi contro il governo. Il procedimento penale
è ora in corso.

Purtroppo la delazione non è qualcosa di alieno dalla storia del Paese.


Il caso più celebre fu la trasformazione nel 1932 in eroe nazionale del
tredicenne Pavlik Morozov che aveva denunciato il padre alla Gpu in
quanto agente controrivoluzionario, facendolo condannare prima al
Gulag e poi alla fucilazione. Vero è che poi i nonni, il cugino e lo zio a
sua volta uccisero il ragazzino in un’imboscata, ma ciò forse dà il senso
della tragicità della storia della Russia e sovietica.
Intitolare un libro La Russia dopo Putin comporta dei rischi. Il Pre-
sidente russo in fondo è al potere da oltre vent’anni praticamente sen-
za interruzioni – la presidenza Medvedev fu in realtà un escamotage
per una Russia non ancora pronta nel 2008 a un potere autocratico
– e subito dopo l’inizio dell’“operazione speciale” la sua popolarità
nel Paese è persino, contraddittoriamente, aumentata. Oggi provare a
prevedere un “dopo Putin” appare quasi fantascientifico. Le previsio-
ni sono fatte per essere sbagliate, del resto, le si fa per provare a mi-
surarsi con i limiti dell’oggi piuttosto che per indovinare cosa avverrà.
Detto ciò parlare di “dopo Putin” resta un rischio calcolato, per-
ché il tempo, nel suo avanzare, non concede tregue neppure a uno zar.
Il Presidente russo è nato nel 1952, e malgrado i mutamenti co-
stituzionali da lui voluti nel 2020 gli consentano di restare al potere
fino al 2036, e sebbene la salute lo abbia sorretto fino a oggi, c’è da
dubitare che possa continuare a restare al Cremlino fino ad allora. Il
potere “verticale” che egli ha costruito – molto simile per livelli di ac-
centramento a quello degli zar o di Stalin – esige una concentrazione
introduzione 21

di energie fisiche e psichiche molto superiori a quelle di un qualsiasi


altro leader di statura internazionale.
In secondo luogo perché il potere putiniano si basa su equilibri di
potere politici ed economici assai delicati. Non è un caso che i capi
dei dicasteri fondamentali e delle principali imprese degli idrocarburi
da cui dipende, in ultima istanza, l’economia russa vengano raramente
sostituiti. Il ministro degli Esteri Sergej Lavrov è seduto nel proprio
ufficio dal 2004, il capo del dicastero della Difesa Sergej Shoigu dal
2012, Dmitrij Medvedev, uno dei rampolli di Putin già dai tempi di
San Pietroburgo, oltre ad esser stato presidente ha ricoperto per lun-
ghissimo tempo la carica di premier, e ora è il vice di Putin al Consi-
glio di Sicurezza della Federazione.
Altri membri del gruppo dei “leningradesi” fanno parte del “cer-
chio magico” di Putin: Aleksandr Bortnikov a capo del Fsb dal 2008,
Igor’ Sečin, anche lui considerato un “duro”, a capo di Rosneft, il gi-
gante del petrolio russo, e Aleksej Miller ai vertici di Gazprom da or-
mai vent’anni. Il sistema politico russo è un sistema chiuso che non dà
la possibilità a nuovi attori politici di entrare in gioco (il nuovo gruppo
parlamentare Novij Ljudy apparso alla Duma nel 2021 è un’appen-
dice di Russia Unita). Dagli anni Novanta partecipano alle elezioni
sempre e solo quattro partiti che, se non in alcuni casi limitati (l’ultima
volta risale all’opposizione del Partito Comunista e di Russia Giusta
alla “riforma” delle pensioni), votano compattamente tutte le leggi
volute da Putin. Gli stessi leader di questi partiti sono sempre gli stessi
perfino dal crollo dell’Urss (recentemente in realtà il leader del Partito
Liberaldemocratico è cambiato, ma solo per l’avvenuto decesso per i
postumi di Covid-19 del suo fondatore, xenofobo e razzista, Vladimir
Žirinovskij).
Quasi nessun “cremlinologo” ha dubbi, in Russia, che un’eventua-
le uscita di scena dello “Zar” provocherebbe dei sommovimenti dal
vertice alla base della società russa di grandi proporzioni. Coloro che
mostrano certezze granitiche sono solo i pasdaran del regime, come
per esempio Vjačelsav Volodin il portavoce della Duma, in un’inter-
vista nel 2019 presto divenuta un mantra del gruppo dirigente russo
ha sostenuto candidamente che «c’è Putin, allora c’è la Russia, non
c’è Putin, allora non c’è la Russia», una rozza riformulazione delle tesi
di uno dei grandi più grandi storici della Russia, Vasilij Ključevskij
22 la russia dopo putin

secondo cui non si può parlare di Russia senza parlare essenzialmente


di “statualità”. «Non c’è Russia senza Stato» ha confermato uno dei
più grandi scrittori russi contemporanei Boris Akunin, il quale, varrà
la pena ricordarlo, vive in esilio a Londra da molti anni ed è un aperto
sostenitore di Aleksej Navalnij. E lo Stato per la maggioranza dei russi
si identifica con una sola persona: il presidente eterno.
Questo per segnalare che anche la “boutade anarchica” leniniana
sul “governo delle cuoche” è sempre rimasta tale in Urss, poco più
di una battuta, e l’attrazione per “l’uomo solo al comando” è sempre
riemersa sulla Moscova.
La Russia post-Putin potrebbe avere un corso simile a quello della
Cina, dove assieme al controllo di una casta statale dominante si possa
produrre al contempo modernizzazione e sviluppo del mercato? Ope-
razione complessa ma non da escludere, visto che la storia economica
russa è basata in buona parte sul controllo dall’alto dell’economia. La
cosiddetta economia pianificata di comando, del resto, non è nata con
Lenin ma con Pietro I. Tuttavia, determinanti economiche e sociali
giocano a sfavore di questa ipotesi: il tasso di corruzione interno, la
subalternità culturale all’Occidente e l’elevata impoliticità dell’élite
attuale fanno pensare che a Putin non seguirà il putinismo.
Lo sganciamento radicale della Russia dal suo tratto europeo in
questo senso potrebbe avvenire solo con il prevalere all’interno del
Vecchio Continente di un complesso di forze sociali e politiche an-
ti-illuministiche e ipernazionalistiche che si potrebbero definire ap-
prossimativamente “sovraniste”. Un’Europa così fatta rimetterebbe
in discussione gli equilibri sorti dalla fine della Guerra Fredda ma
anche delle dinamiche di modernizzazione emerse dopo il 1968. Lo
stesso quadro dell’Unione Europea sarebbe messo in discussione.
A questo si sovrapporrebbe un’egemonia russa continentale in
chiave eurasiatica, una variante del “gramscismo di destra” presente
nell’eurasiatismo immaginato da Aleksandr Dugin, o in quello “bizan-
tino-comunista” di Sergej Glaz’ev o – ancora meglio – in una sintesi
di entrambe. Sta già nel novero delle possibilità, una nuova Weimar.
Putin ha più volte ripetuto di essere contrario a qualsiasi ipotesi
“rivoluzionaria” e non ha nascosto la sua viscerale antipatia per Lenin.
«Il nostro Paese ha conosciuto troppe rivoluzioni e deve ora svilup-
parsi su base evolutiva» ha dichiarato ancora nel 2019. Tuttavia non
introduzione 23

esiste politica meno “evolutiva” della guerra: così, paradossalmente,


il Presidente russo sta scimmiottando sempre di più l’appello comin-
ternista del “Congresso di Baku” del 1920 ai “Paesi dominati”. Ov-
viamente la sua postura “antimperialista” non è intesa a spezzare le
gerarchie globali ma a riprodurne di nuove in cui la Russia abbia un
ruolo se non di pivot, almeno di importante comprimario.
Ključevskij sosteneva che il secondo elemento chiave della sto-
ria russa fosse quello della colonizzazione, «una colonizzazione si è
espansa insieme al territorio dello Stato». «Questo movimento pluri-
secolare» scrive lo storico nella sua Russkaja Istorija «si intensificò con
l’abolizione della servitù della gleba, quando la popolazione cominciò
a lasciare le province centrali delle Terre Nere, dove era stato per lun-
go tempo artificialmente condensato e forzatamente ritardato. Da qui
la popolazione si diresse in vari flussi alla Novorossija, al Caucaso,
al Volga e oltre». Tradotto in ideologia putiniana ciò significa oggi
riunificazione del “Mondo Russo” in un progetto espansionista nel
“Vicino Estero” che però manca sia di forza economica che di una
narrazione forte che lo supportino. L’ultima davvero tale fu quella sta-
linista, l’epopea dell’industrializzazione e della resistenza al nazismo,
che però appare oggi irripetibile nella sua tragica magnitudo.
L’aquila russa autocratica è bicefala, e mentre una testa guarda
all’Europa, l’altra volge lo sguardo a Oriente. Ma si tratta perlopiù del
suo Oriente interno ancora largamente disabitato, e quindi più che
altro una zavorra per un Paese che ha enormi problemi demografici.
Spesso il limite di chi studia la politica russa è quello di non tenere
conto dei fattori interni, o ancora meglio, di quali ricadute essi han-
no. Sono questa multiformità e questa complessità che hanno reso
la Russia sempre più instabile a fronte dello straordinario sviluppo
socioeconomico del capitalismo nel Ventesimo secolo, sempre incerta
tra espansionismo imperiale e implosione, tra bastione del conserva-
torismo e rivoluzione internazionale.
Per questo Putin, lungi dall’essere un approdo della storia russa,
rappresenta una pausa in attesa di nuovi straordinari avvenimenti che
l’attendono. «Da noi non ci si annoia» dice il tristemente ironico pro-
verbio russo, e la storia degli ultimi due secoli sta lì a dimostrarlo.
L’“Altra Russia” intanto ha continuato a vivere nei secoli accanto
a quella “autocratica e sciovinista” restando pur sempre un fenomeno
24 la russia dopo putin

più ricco dell’“occidentalismo”. La Russia non è stata solo paterna-


lismo più o meno illuminato, i pogrom dei centoneri, lo schiavismo
concentrazionario, ma anche Sten’ka Razin, l’afflato decabrista, l’illu-
minismo raffinato di Herzen, gli anarchismi di Bakunin e Kropotkin,
il generoso socialismo giacobino leninista e socialrivoluzionario, il
grande movimento della perestrojka dal basso nella seconda metà del
Diciannovesimo secolo. Forze e tensioni che ora sembrano spazzate
via dal Dna del popolo russo, ma che riemergeranno inevitabilmente.
Tuttavia la riflessione non può restare a metà. La completa dege-
nerazione della cricca installata al Cremlino, che ha raggiunto il suo
apice con la criminale invasione dell’Ucraina, interroga l’Europa,
la sua storia e soprattutto le sue culture politiche (e in particolare,
per quanto mi riguarda, quelle di origine socialista). In Occidente la
democrazia politica è diventata un simulacro prono agli interessi fi-
nanziari internazionali ed è sbranata giorno per giorno dai populismi
trionfanti; il dibattito politico, senza nessun serio confronto di analisi,
è diventato virtuale, mentre le uniche agende politiche progressive
viabili sono quelle di un ecologismo che non mette in discussione i
modelli produttivi e dei consumi. Resta il menù dei diritti civili come
agenda che deve coprire la coperta sempre più corta delle libertà. Li-
berté, Égalité, Fraternité sono parole d’ordine a cui ancora qualcuno
crede appena uscito dall’ascensore del condominio, passato il badge
per accedere all’ufficio o in fabbrica? La pulsione autoritaria e deci-
sionista che attraversa il Vecchio Continente non rischia di diventare
allora una variante dell’autoritarismo al pari di quella putiniana, che è
la versione “del dispotismo orientale”? Se si riflettesse con freddezza
e onestà intellettuale si potrebbe scoprire che la Russia odierna non
è altro che un altro mostro prodotto da oltre trent’anni di liberali-
smo trionfante. L’artista e intellettuale russo Maksim Kantor aveva
lucidamente inteso quale fosse la tragedia già nel 2015, subito dopo
l’annessione della Crimea:

Il nuovo fascismo arriva oggi dopo la delusione per la democrazia;


il nuovo fascismo è armato di conoscenze sull’imperfezione del-
la democrazia; il nuovo fascismo si basa sull’opinione di persone
che la democrazia ha ingannato. E questo rende il nuovo fascismo
invulnerabile alle critiche: il sostegno popolare è dalla sua parte.
introduzione 25

Il mercato ha sostituito la democrazia, senza che la democrazia si


accorgesse di questa sostituzione per un po’.

Aver stroncato la lotta di classe, l’antagonismo storico tra lavoratori


salariati e capitalisti, ha portato in grembo non solo una riduzione
dell’innovazione tecnologica e un deterioramento terrificante del di-
battito culturale, ma anche il frutto amaro dei nazionalismi e del po-
pulismo.
Non si tratta qui di mettere un segno di equivalenza tra dispotismi
tendenzialmente totalitari e le democrazie capitaliste malate (da quale
parte stare o non stare nelle resistenze europee durante la Seconda
Guerra Mondiale alla fine fu risolto praticamente). E non si tratta di
negare il pericolo che tante realtà democratiche e di sinistra in Eu-
ropa orientale segnalano in caso di una vittoria completa di Putin in
Ucraina. E neppure negare che l’avventurismo putiniano possa essere
quella scintilla che spinge il mondo verso un confronto militare nu-
cleare. Si tratta di altro. Si tratta di capire come il putinismo, che ha
iniziato a radicarsi in Occidente, possa essere sconfitto. Anche perché
lo sprofondamento in un conflitto non è già più inverosimile: la “con-
dizione” della vita sotto minaccia atomica è già diventata con questa
guerra una “possibilità”.
Pensiamo davvero che sia possibile un’altra Europa (quella che c’è
è evidente che piaccia a pochi) senza la Russia? Oppure che sia pos-
sibile nell’Europa attuale un’Ucraina unita, indipendente e democra-
tica? Oppure ancora, ci si accontenterà di far diventare la Russia, ed
eventualmente il regime di Erdoğan, un facilissimo capro espiatorio?
Pensiamo davvero che il continente possa fare a meno, non tanto delle
risorse naturali quanto di quelle umane e culturali della Russia?
Chi ha conosciuto, apprezzato, sostenuto il movimento del dissen-
so in Unione Sovietica negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso
sa che bisogna costruire ponti, dialogo e solidarietà con quell’univer-
so, non sbarramenti artificiali.
Se si vuole immaginare una Russia senza Putin bisognerà iniziare
a pensare insomma anche a riallacciare un dialogo con i popoli che
ci vivono, e non solo in termini di cannoniere. Senza ciò, si rischierà
di consegnare la Russia a un “dopo” in cui si rimpiangerà il “prima”.
1

Il secolo lungo dell’ex Urss

Il secolo breve era stato il titolo scelto per l’edizione italiana del
fortunato libro di Eric Hobsbawm The Age of Extreme, pubblicato
nel 1994, e per alcuni anni c’è stata ragione di ritenere che il Vente-
simo secolo fosse stato veramente un “secolo breve”. In quell’opera
lo storico di sinistra britannico sosteneva che il secolo morente fosse
rimasto schiacciato tra l’esplosione della Prima Guerra Mondiale nel
1914 (e dalla ricaduta imprevedibile dell’“assalto al cielo” bolscevico
del 1917 su scala continentale) e l’implosione dei regimi del “sociali-
smo irrealizzato” in Europa orientale nel tormentato triennio 1989-
1991. Tuttavia, se per certi versi l’incedere degli inediti e giganteschi
processi della globalizzazione nei trasporti e nelle comunicazioni, le
trasformazioni delle filiere produttive, lo sviluppo di nuove relazioni
di genere e dei movimenti per la libertà sessuale, la trasformazione e
l’esplosione della spesa pubblica e della liberalizzazione estrema dei
rapporti capitale-lavoro, l’emergere della centralità della questione
ecologica dimostrano che il secolo in cui viviamo si presenta come
qualcosa “di altro” rispetto al precedente, l’esplosione della guerra in
Ucraina proprio nell’ex Urss, laddove il Ventesimo secolo sembrava
essersi concluso, ripropone, seppure con degli aggiornamenti signifi-
cativi, il rimosso dal punto di vista analitico e politico della questione
delle “relazioni imperialistiche”, troppo rapidamente derubricate a
geopolitica o a fardello marxista ormai desueto.
I processi sociali profondi si sono fatti beffe delle ideologie, e la
“vecchia talpa” ha continuato inesorabilmente a scavare. Il marxismo,
cacciato dalla porta della “crisi del socialismo reale”, sta rientrando
28 la russia dopo putin

dalla finestra della “dialettica reale”. Non è un caso che a confrontarsi


direttamente sul piano bellico sono l’Ucraina e la Russia, ovvero le
due repubbliche più importanti dell’ex Unione Sovietica, che rappre-
sentavano il cuore slavo di quella potenza politica crollata nel 1991.
Se l’ordine capitalistico mondiale dopo la tempesta perfetta del
2008 non ha più ritrovato un suo equilibrio, l’universo post-sovietico
non lo ha mai raggiunto, e proprio per questo diventa l’epicentro delle
tensioni internazionali. La Russia e l’Ucraina e tutto il mondo dell’ex
Urss sono diventati (per i distratti) improvvisamente lo snodo decisivo
della politica mondiale che chiama in causa centinaia di milioni di per-
sone e decine di popoli. «We are to stay» ci sta dicendo tutto un mon-
do, di cui si sa davvero poco, che va dalle spiagge di Odessa fino alle
montagne kazake, che passa dal Caucaso e arriva fino a Vladivostok.
Si faccia un rapido check: tra il 1992 e oggi in Europa tutti i nuovi
conflitti hanno riguardato l’ex Urss e la sistemazione della sua area
“socialista”. Anche questo evidentemente non è un caso.
Nel 1991 la guardia nazionale russa iniziò una breve offensiva mi-
litare in Moldavia per garantire la sopravvivenza della repubblica au-
toproclamata della Transnistria che si era dichiarata indipendente da
Chișinău l’anno prima: la questione è ancora aperta e rischia di diven-
tare una delle prossime puntate del confronto tra Occidente e Russia.
Tra il 1994 e il 2009, la Federazione Russa prima di El’cin e poi
di Putin condusse due guerre spietate per sottomettere la piccola re-
pubblica musulmana della Cecenia ai propri voleri, e i morti furono
(in gran parte civili) per le stime più conservative oltre 150.000. Nel
2008 fu la volta della guerra tra Georgia e Russia, che durò solo dodici
giorni e si concluse con la conquista da parte della Federazione di due
piccole regioni, l’Ossezia del Sud e l’Abcasia. In seguito in Ucraina,
nel 2014, l’emergere del movimento della Euromaidan apertamente
sostenuto dal governo statunitense e il rovesciamento del Presidente
Janukovič spinsero la Russia ad annettersi la Crimea e intervenire –
seppur informalmente – a fianco delle repubbliche secessioniste di
Donec’k e di Luhans’k. Nel settembre del 2020 infine si riaccese il
conflitto nel Nagorno-Karabakh (per gli armeni “Repubblica di Art-
sakh”) tra Armenia e Azerbaigian rimasto congelato dal 1994. In que-
sto caso, va ricordato che l’assistenza militare russa a favore dell’Ar-
menia non scattò. Il 31 ottobre, in pieno conflitto, il primo ministro
il secolo lungo dell ’ ex urss 29

armeno Nikol Pashinyan chiese aiuto alla Russia sulla base del trattato
bilaterale di amicizia, cooperazione e assistenza reciproca del 1997 ma
Putin non si peritò neppure di rispondere, e nel giro di pochi giorni
l’Armenia capitolò di fronte alla supremazia militare azera sostenuta
dall’alleato turco.

Una regione del mondo in fiamme

In questo trentennio tutta l’area è stata scossa non solo da guerre,


ma anche da profonde tensioni sociali e politiche. Si sono succedu-
te, senza soluzioni di continuità, mobilitazioni popolari in Kirghizi-
stan, Kazakistan, Georgia, Armenia che hanno condotto spesso se
non a cambi di regimi a profonde trasformazioni del quadro politico.
Nell’Ucraina stessa dal 2004 si sono susseguite grandi e contraddit-
torie ascese, non solo “filoeuropeiste” ma anche nella forma classica
della lotta di classe, con i grandi scioperi dei minatori, nella pubblica
amministrazione e contro gli aumenti dei delle tariffe condominiali.
Secondo Volodymyr Iščenko, un sociologo ucraino residente in
Germania che ha studiato a fondo tali dinamiche, potremmo essere a
un punto di svolta da questo punto di vista: l’irruzione delle trasfor-
mazioni determinate dalla nuova Guerra Fredda e poi della guerra in
Ucraina potrebbero portare delle fuoriuscite progressive allo stato di
crisi semipermanente che hanno attraversato questi Paesi.
In questo contesto, isolare il conflitto russo-ucraino dalle dinami-
che che stanno conducendo a un’ulteriore disgregazione politica e
sociale dell’ex Urss iniziata nel 1991 non è assolutamente possibile.
Complessivamente il destino dei Paesi ex sovietici non è stato brillan-
te, se si eccettua quello dei piccoli Paesi baltici entrati subito nell’or-
bita socioeconomica dell’Unione Europea (mentre la traiettoria delle
ex democrazie popolari è stata evidentemente diversa) o dell’Azerbai-
gian da tempo junior partner turco e ricchissimo di idrocarburi, ma
che comunque continua a conoscere nepotismo, corruzione e dise-
guaglianze sociali enormi.
I Paesi del Centrasia forniscono un’immagine esaustiva di cosa sia
successo a molte popolazioni ex sovietiche dopo il 1991. Per esempio
il Kirghizistan.
30 la russia dopo putin

Nel 2004 lo scrittore Silvano Agosti scrisse un falso reportage inti-


tolato Lettere dalla Kirghisia in cui si narrava di un utopico Paese dove
lo stile di vita sarebbe stato basato sui princìpi del giovane Marx («La
possibilità di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina an-
dare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo
pranzo criticare»). Il pamphlet conobbe un certo successo, tuttavia
purtroppo quel Kirghizistan non è mai esistito. Dopo una certa cresci-
ta sociale in era sovietica grazie allo sviluppo integrato dell’economia
di piano, il Paese ha conosciuto un continuo degrado. Il 22,4% della
popolazione nel 2019 viveva sotto la soglia della povertà, il reddito
medio annuo è di 1.370 dollari, e su una popolazione complessiva di
meno di 7 milioni di abitanti, un milione lavora e vive permanente-
mente o stagionalmente in Russia svolgendo le attività meno retribuite
come operai edili o netturbini.
Anche il Paese più ricco dell’area, il Kazakistan (ricco di petrolio,
gas e uranio) ha sviluppato nel corso del tempo contraddizioni interne
gigantesche. Il 4 gennaio 2022 iniziò uno sciopero generale in tutta
la provincia di Mangistau, nel sud-est del Kazakistan, che si affaccia
sul Caspio. La protesta inizialmente diretta contro un aumento del
prezzo del gas liquido del 100%, da 60 a 120 tenge (la valuta locale),
si trasformò presto in rivolta di massa in gran parte del Paese, e portò
all’imposizione dello stato di emergenza. La rivolta si allargò poi ad
altre città, e in particolare ad Almaty, la più popolosa del Paese, dove
vasti gruppi di giovani, in alcuni casi equipaggiati con armi da fuoco,
giunsero a occupare parte del centro cittadino e dell’aeroporto. Ven-
nero segnalate e registrate in quei giorni anche forme di fraternizza-
zione tra polizia e soldati da una parte e dimostranti dall’altra.
Le rivendicazioni della rivolta divennero politiche: in alcuni vo-
lantini furono richieste apertamente le dimissioni del governo e la na-
zionalizzazione sotto controllo dei lavoratori delle imprese straniere.
Ciò indusse il Presidente del Paese Kassim Tokaev a introdurre la
legge marziale e “invitare” l’Organizzazione del trattato di sicurezza
collettiva, l’alleanza militare a guida russa di cui il suo Paese fa parte,
a riportare l’ordine. E l’ordine venne riportato, dopo il dispiegamen-
to di 5.800 uomini (in gran parte russi e bielorussi) e al costo di una
durissima repressione (2.300 morti secondo i rendiconti della stes-
sa amministrazione kazaka) e migliaia di arresti. Eppure alcuni, nel
il secolo lungo dell ’ ex urss 31

frastagliato arcipelago del “mondo filorusso” e cospirazionista, riuscì


ancora a gridare alla “rivoluzione colorata”, anche se non è mai stato
provato alcun coinvolgimento di Paesi stranieri o gruppi islamici nella
dinamica della rivolta. Anzi. Ned Price, il portavoce del Dipartimento
di Stato americano, il 6 gennaio 2022 affermò di voler «condannare
con la massima fermezza gli atti di violenza e la distruzione di pro-
prietà e di voler porgere le sue più sentite condoglianze alle persone
colpite. Gli Stati Uniti esortano le autorità e il popolo del Kazakistan
a trovare una soluzione pacifica e costruttiva allo stato di emergenza».
Quanto successo fu presto archiviato dalla tutta la stampa interna-
zionale come una “ottocentesca rivolta del pane” e nessuno chiese o
impose sanzioni, malgrado i diritti umani e civili fossero stati palese-
mente calpestati (il 70% delle aziende che controllano le risorse na-
turali del Kazakistan sono americane, britanniche, olandesi e italiane,
nonché russe, e questo forse non è un dettaglio trascurabile).
In Bielorussia, dove nei primi lustri Aleksandr Lukašenko era det-
to “Batko”, poiché aveva tenuto in piedi una sorta di modello “sovie-
tico”, in cui a una dittatura spietata si era accompagnato un modesto
welfare state e la garanzia del posto di lavoro nei settori industriali,
si sviluppò un grande movimento popolare e democratico dopo le
elezioni-farsa dell’agosto 2020 (definite in un primo momento perfino
dallo stesso ministro degli Esteri russo Lavrov «lontane dalla perfe-
zione»). Un movimento poi sconfitto grazie al sostegno politico ed
economico del “Grande Fratello” russo, ma che aveva visto una vasta
mobilitazione dal basso a partire dai quartieri popolari dei “micro-
rajon” di Minsk e l’emergere di un inedito (per l’Europa orientale
post-sovietica) e originale movimento femminista e antipatriarcale.
Un’altra “storia di insuccesso” post-sovietico, forse meno dram-
matica di quella bielorussa, viene dalla Moldavia. Piccolo Paese che
doveva le sue fortune in epoca sovietica principalmente alla produzio-
ne agricola e alla viticoltura (vino e cognac principalmente), dal 1991
subì un vero e proprio tracollo. Nel 2014 fallirono tre delle principali
banche del Paese controllate da un ristretto gruppo di oligarchi, la-
sciandosi dietro un “buco” di un miliardo di dollari, oltre il 15% della
ricchezza nazionale annua prodotta a quel tempo. Ciò condusse l’«E-
conomist» a scrivere che si era di fronte «alla più grande truffa finan-
ziaria mai avvenuta nella storia». La lotta per la sopravvivenza, quindi,
32 la russia dopo putin

spinse gran parte della popolazione attiva a migrare, soprattutto verso


l’Unione Europea, di cui la Moldavia è diventata “Paese associato”.
Oltre un milione di persone, il 25% della popolazione totale, ormai
risiede all’estero definitivamente, e le rimesse ai parenti rimasti a casa
rappresentano il 30% del Pil complessivo della Moldavia.

Le mani delle grandi corporation sull’Ucraina

L’Ucraina stessa, dopo il 2014 e l’Euromaidan, non ha fatto al-


cun serio passo in avanti per fuoriuscire dal marasma dove era stata
trascinata dalle diverse oligarchie che l’avevano dominata nel primo
quindicennio di esistenza indipendente.
L’amministrazione di Volodymyr Zelenskij non è riuscita a far
meglio di quella disastrosa del “re del cioccolato” Pëtr Porošenko.
Malgrado il Paese continui ad avere un potenziale economico e so-
ciale di tutto rispetto, in parte ereditato dal passato sovietico, prima
dell’inizio dell’invasione il suo prodotto interno lordo pro capite era
poco più di 3.000 dollari all’anno, inferiore cioè a quello del Bhutan e
di Vanuatu. In questo quadro inevitabilmente il flusso migratorio era
continuo e inarrestabile (non solo verso l’Unione Europa ma anche
verso la Russia). Secondo Kenneth Rapoza di «Forbes» la presidenza
Zelenskij dopo due anni e mezzo di amministrazione era stata “un
flop” e il suo indice di popolarità era intorno al 30%. Zelenskij aveva
promesso agli uomini d’affari stranieri che l’Ucraina sarebbe stata la
“terra promessa” per gli investimenti esteri, ma il persistere della con-
troversia sul Donbass e dello scontro con la Russia non era certo stato
il solo motivo del suo fallimento.
«L’Ucraina» scriveva Rapoza mesi prima dell’inizio della guerra

è bloccata dagli stessi vecchi personaggi. I soliti vecchi personaggi


che amano fracassarsi la testa a vicenda e distruggere i loro nemici.
In Ucraina tutto ciò non avviene solo in politica, anche l’élite im-
prenditoriale ne è coinvolta. Diventa un posto difficile per fare af-
fari. Le imprese straniere vogliono esserci. È un grande Paese, con
un fiorente settore informatico, molte risorse naturali, un glorioso
potenziale agricolo e una forza lavoro con un livello di istruzione
il secolo lungo dell ’ ex urss 33

decente e competenze nei settori dell’industria pesante e della tec-


nologia. E per gli standard del dollaro, è molto economico.

Il columnist del giornale americano concludeva però melanconico: vi-


sta l’opacità del mercato «forse sarebbe meglio investire in Dogecoin».
In un rapporto pubblicato il 23 settembre dalla Corte dei Conti
Europea sulla corruzione in Ucraina si affermava del resto che tra
il 2016 e il 2020 i tre principali ostacoli alla crescita economica era-
no gli stessi che si rintracciavano prima del movimento della Maidan,
quando la popolazione protestava a favore dell’integrazione nella Ue.
Sembrava che la corruzione, la mancanza di fiducia nei tribunali e i
monopoli di mercato fossero i principali ostacoli alla modernizzazione
dell’Ucraina. Più che una percezione, però, per gli ucraini si trattava
di una realtà spesso fatta di miseria, di servizi sociali al collasso.
Ma le colpe della corrotta borghesia ucraina si sono intrecciate a
quelle istituzioni politiche e finanziarie internazionali che hanno favo-
rito l’indebitamento insostenibile del Paese, armandolo al contempo
fino ai denti.
Il debito pubblico estero dell’Ucraina dopo l’inizio del conflitto
ammonta complessivamente a 54 miliardi di dollari. Solo nel 2022 ha
dovuto pagare 7,3 miliardi di dollari di interessi. Più della metà è do-
vuta a creditori privati come banche e hedge fund, mentre la maggior
parte del rimanente è dovuta a istituzioni multilaterali come il Fondo
Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Europea
per gli Investimenti. E come ha segnalato l’attivista ed esperta di
economia Heidi Chow sul portale «Debt Justice», «la risposta delle
istituzioni multilaterali è stata quella di concedere ancora più prestiti
all’Ucraina. Dall’inizio della guerra, il Fmi ha concesso un prestito
d’emergenza di 1,4 miliardi di sterline, mentre la Banca Mondiale ha
fornito un pacchetto finanziario di 723 milioni di dollari che inclu-
de 589 milioni di dollari in prestiti». Si tratta di metodi abbastanza
conosciuti dalle popolazioni dell’America Latina, che spesso hanno
sofferto del cappio al collo dei debiti insolvibili a tassi d’interessi
insostenibili.
Per questo molti intellettuali di sinistra come Iulija Yurčenko, autri-
ce dell’importante libro Ukraine and Empire of Capital. From Marketi-
sation to Armed Conflict, hanno chiesto a gran voce la cancellazione del
34 la russia dopo putin

debito ucraino. Come c’era d’attendersi, dalle istituzioni finanziarie e


dai governi occidentali, per ora, non è venuta alcuna risposta.
Anzi, mentre in tutto il mondo si assiste a un’ondata di spesa pub-
blica assistenziale – e perfino di interesse in diverse forme per pro-
grammi “socialisti”, come nel caso di alcuni Paesi dell’America Latina
e delle fortunate campagne elettorali di Bernie Sanders prima e di
Jean-Luc Mélenchon poi –, il governo ucraino si sta muovendo in di-
rezione opposta, indirizzandosi verso politiche di liberalizzazione sel-
vaggia dell’economia come piattaforma per far entrare nel dopoguer-
ra i colossi occidentali dell’agroalimentare, dell’industria metallurgica
e della cantieristica, e rendere il più flessibile ed economica possibile
la forza lavoro ucraina.
L’Ucraina post-sovietica, con i suoi 32 milioni di ettari, le terre
nere, è da sempre il “granaio d’Europa”: ha una produzione annuale
di 64 milioni di tonnellate di cereali e semi, e si colloca tra i maggiori
produttori mondiali di orzo, grano e olio di girasole.
Nonostante la moratoria sulla vendita di terreni agli stranieri che
era stata imposta nel 2001, nel 2016, come ha spiegato l’economista
Michael Roberts nel suo articolo Ukraine. The Invasion of Capital
(pubblicato sul suo blog «thenextrecession»),

dieci multinazionali agricole erano già arrivate a controllare 2,8


milioni di ettari di terreno. Oggi, alcune stime parlano di 3,4 mi-
lioni di ettari nelle mani di società straniere e di società ucraine
con fondi stranieri come azionisti. Altre stime arrivano a 6 milioni
di ettari. La moratoria sulle vendite, che il Dipartimento di Stato
americano, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mon-
diale avevano ripetutamente chiesto di rimuovere, è stata infine
abrogata dal governo Zelenskij nel 2020, prima di un referendum
finale sulla questione previsto per il 2024.
Ora, con la guerra in corso, il 4 e 5 luglio 2022, funzionari di Stati
Uniti, Unione Europea, Gran Bretagna, Giappone e Corea del Sud
si sono incontrati in Svizzera per la cosiddetta “Ukraine Recovery
Conference” (Urc).
L’agenda dell’Urc era esplicitamente incentrata sull’imposizione di
cambiamenti politici al Paese, ovvero «rafforzamento dell’econo-
mia di mercato», «decentralizzazione, privatizzazione, riforma del-
il secolo lungo dell ’ ex urss 35

le imprese statali, riforma fondiaria, riforma dell’amministrazione


statale» e «integrazione euro-atlantica».
Tutto ciò malgrado i piani dell’Urc siano osteggiati dalla maggior
parte degli ucraini. Un recente sondaggio ha rilevato che solo il
12,4% è favorevole alla privatizzazione delle imprese statali, men-
tre il 49,9% si oppone. (Un ulteriore 12% era indifferente, mentre
il 25,7% non ha risposto).

Secondo l’Oakland Institute, oltre al piano di ripresa nazionale e al


briefing strategico, la conferenza sulla ripresa dell’Ucraina del luglio
2022 ha presentato un rapporto preparato dalla società Economist
Impact, una società di consulenza aziendale che fa parte del Gruppo
Economist. L’Ukraine Reform Tracker (Urt) spingerebbe ad «aumen-
tare gli investimenti diretti esteri» da parte delle società internaziona-
li, e non a investire risorse in programmi sociali per il popolo ucraino.
Il rapporto della Urt sottolinea l’importanza di sviluppare il settore
finanziario e chiede di «rimuovere le regole eccessive».
Senza troppi giri di parole l’Urt presenta la guerra come un’op-
portunità per imporre l’acquisizione di quasi tutta l’economia ucraina
da parte del capitale straniero: «Il momento postbellico può rappre-
sentare un’opportunità per completare la difficile riforma fondiaria
estendendo il diritto di acquistare terreni agricoli a persone giuridiche,
anche straniere» si legge nel rapporto. «L’apertura della strada al capi-
tale internazionale per l’agricoltura ucraina probabilmente aumenterà
la produttività del settore, incrementando la sua competitività nel mer-
cato dell’Ue» è stato anche affermato nel documento. «Una volta ter-
minata la guerra, il governo dovrà anche prendere in considerazione la
possibilità di ridurre in modo sostanziale la quota delle banche statali,
privatizzando PrivatBank, il più grande istituto di credito del Paese, e
Oschadbank, che si occupa di pensioni e pagamenti sociali».
L’acquisizione dell’Ucraina da parte del capitale (principalmente
straniero) sarà così portata a termine “pacificamente” e il suo popolo
potrà iniziare a ripagare i suoi debiti e a fornire nuovi profitti all’Oc-
cidente.
La Rada (il parlamento ucraino) ha inoltre approvato nell’estate
del 2022 una legge in cui si eliminano nei periodi di legge marziale i
diritti di contrattazione collettiva per i lavoratori di qualsiasi datore di
36 la russia dopo putin

lavoro con un numero di dipendenti pari o inferiore a 250, e consente


a tali datori di lavoro di ignorare i termini dei contratti collettivi esi-
stenti nei contratti di lavoro individuali e la legge 5161, che consente
a tutti i datori di lavoro di assumere fino al 10% della propria forza
lavoro con contratti “occasionali” o “a zero ore”. Il nuovo disegno di
legge consentirebbe al 10% dei dipendenti di essere assegnato a un
massimo di 32 ore al mese e di essere “reperibile” ogni giorno per tutti
i lavori assegnati. Insomma, dove non sono arrivati i “job act” europei
occidentali c’è arrivato il governo ucraino usando cinicamente l’emer-
genza di guerra.
Dopo che nel 2021 aveva garantito un’estesa privatizzazione delle
terre, il regime di Zelenskij ha iniziato nell’autunno 2022 quello che è
stato definito «il più grande progetto di privatizzazione delle aziende
pubbliche». Seppur presentato come un progetto a favore delle pic-
cole iniziative private, si prevede che alla fine «non più di 100 imprese
dovrebbero restare di proprietà dello Stato» e che «420 imprese sta-
tali saranno trasferite al fondo per le proprietà statali per un’ulteriore
privatizzazione e liquidazione».
Il rischio, ben concreto, per chi ha a cuore il destino dell’Ucraina è
che, se non sarà annessa dalla Russia, si trasformi da una semi-colonia
in un vero protettorato degli Stati Uniti e dell’Europa.

Il Portogallo e le navi spaziali

La Russia stessa in trent’anni non è stata incapace di stabilizzare


la propria situazione interna dopo il disfacimento sovietico. Mentre
si continuano a cercare le ragioni di fondo della guerra russo-ucraina
solo nelle tensioni e contraddizioni internazionali, non ci si sofferma
quasi mai sulle ragioni e sulle contraddizioni interne che hanno spinto
Putin a passare il punto di non ritorno dell’aggressione militare.
Quando l’ex ufficiale del Kgb giunse al potere, il Paese si trovava
in un uno stato di prostrazione. Le due amministrazioni di El’cin era-
no state disastrose. Negli anni Novanta il Pil era calato inesorabilmen-
te ogni anno e tornò a riprendersi con la prima amministrazione Putin
del 2000 (vedi Tabella 1).
il secolo lungo dell ’ ex urss 37

Tabella 1

Mutamenti annuali del prodotto interno lordo in Russia


Indici dei prezzi
Mutamento del Pil al consumo
Mutamento
Anno in % rispetto agli come %
in %
anni precedenti del dicembre
precedente
1989 / / /
1990* 97,6 a 95,0 -2,4 a 5,0 /
1991 95,0 -5,0 +260
1992 85,5 -14,5 +2,610
1993 91,3 -8,7 +940
1994 87,3 -12,7 +320
1995 95,9 -4,1 +230
1996 96,6 -3,4 +122
1997 100,9 +0,9 +111
1998 95,1 -4,9 +184
1999 103,2 +3,2 +137
2000 107,7 +7,7 +120
2001 105,0 +5,0 +119

*1990: Pil dell’Urss secondo i dati della Cia.


Fonte: Goskomstat Rossii, Rossiiskii Statisticheskii Ezhegodnik (‘Russian Statistical
Report’), Goskomstat, 2000, pp. 16, 559, in Economic Newsletter, Davis Center for
Russian Studies, Harvard University, 19 febbraio 2002, p. 12.

Come ha sintetizzato l’economista Marshall I. Goldman nel suo The


Piratization of Russia:

Le statistiche ufficiali russe indicano che dal 1991 al 1998 il Pil


russo scese di oltre il 40% (alcuni dicono del 50%).
Questo calo ha superato il crollo economico dell’America durante
la Grande Depressione. Ma a differenza degli Stati Uniti negli anni
Trenta, la Russia sofferse anche di una simultanea iperinflazione.
Nel 1992, ad esempio, i prezzi russi aumentarono di ventisei volte.
Di conseguenza, nel dicembre 1999, erano necessari 1.602.658 ru-
38 la russia dopo putin

bli per acquistare lo stesso paniere di beni che nel 1990 si poteva
acquistare con 100 rubli.

Il capitalismo sorto dopo il crollo dell’Urss mise insieme tutte le defi-


cienze del sistema zarista con le distorsioni (se non addirittura le ino-
peratività) della legge del valore sovietica. Nella Russia putiniana, ac-
canto a una codificazione legislativa ipertrofica e al contempo vaga, si
sono riprodotti gli stessi caratteri di inefficienza burocratica, di scarsa
produttività e di corruzione; caratteri che possono essere sopportati
solo da un Paese con enormi risorse naturali.
Come solo la sua penna sapeva fare, Nikolaj Gogol’ aveva già de-
scritto quasi due secoli fa, nella pièce teatrale L’ispettore generale,
quanto la società russa vivesse nell’ipocrisia e nella corruzione. La leg-
genda racconta anche – a proposito di malaffare all’interno dello Stato
in epoca zarista – che, dopo aver verificato segretamente quanti dei
suoi funzionari fossero disposti a ricevere bustarelle, lo Zar Nikolaj
I confessò al suo erede Aleksandr II: «Saška, sembra che in Russia ci
siano solo due persone che non rubano: tu e io».
Il sistema di riproduzione sociale che è emerso dai regimi di El’cin
e Putin non è altro che la riproposizione di quel modello su scala
più ampia, e sulla base di un Paese pienamente immerso negli scam-
bi dell’economia mondiale globalizzata. A seguito di uno studio sul
livello di corruzione negli appalti pubblici condotto dall’Istituto di
gestione statale e comunale della Scuola Superiore di Economia di
Mosca nel dicembre 2021, è venuto fuori che «in media, l’importo
delle tangenti in uno schema di corruzione è quasi un quinto dell’im-
porto totale di un appalto governativo, e il volume totale delle tangen-
ti negli appalti pubblici è stimato a quasi 6,6 trilioni di rubli». A titolo
di confronto basterà dire che 6,6 trilioni corrispondono al 6,2% del
Pil russo e al 35,3% delle entrate del bilancio federale (18,7 trilioni
di rubli). Putin ammicca spesso a quella parte della società russa che
guarda con nostalgia al passato sovietico, ma si dimentica sempre di
ricordare che il suo sistema non solo ha riprodotto i guasti di quello
sovietico senza i suoi pregi (lo stato sociale), ma perfino quelli della
decadente autocrazia di inizio Ventesimo secolo: oggi, come ha dimo-
strato nel suo studio From Soviets to Oligarchs. Inequality and Property
in Russia 1905-2016 dedicato alle ineguaglianze lungo un secolo nella
il secolo lungo dell ’ ex urss 39

società russa Thomas Piketty, la forbice tra il 10% più ricco e quello
più povero della società russa del 2016 è lo stesso di quello della Rus-
sia di Nikolaj II nel 1905.
Quando Boris El’cin alla fine del 1999 decise di far diventare l’ex
ufficiale del Kgb Vladimir Putin suo successore, vennero subito fatti
baluginare davanti ai russi grandi progetti e grandi speranze. Il 30
dicembre 1999 Vladimir Putin pubblicò sulla «Nezavisimaja Gazeta»
un articolo intitolato La Russia al millennio in cui si sosteneva che
fosse

necessario superare la crisi prolungata, creare i presupposti per


uno sviluppo economico e sociale rapido e sostenibile del Paese.
Sottolineo che deve essere veloce, perché al Paese non sarà conces-
so tempo per riprendersi. Ecco i calcoli degli esperti. Per raggiun-
gere una produzione di Pil pro capite pari a quella del Portogallo
e della Spagna di oggi – Paesi che non sono leader dell’economia
mondiale – abbiamo bisogno di circa quindici anni con un tasso
di crescita del Pil di almeno l’8% all’anno. Se riusciremo a mante-
nere negli stessi quindici anni un tasso di crescita del Pil del 10%
all’anno, raggiungeremo l’attuale livello di produzione del Pil pro
capite della Gran Bretagna o della Francia.

I risultati del primo decennio di reggenza Putin furono sorprendenti,


seppure aiutati dai costanti prezzi alti degli idrocarburi sul mercato
mondiale.
In realtà il Pil crebbe dell’8% solo nel 2007-2008, e quello pro ca-
pite è rimasto lontano dal portoghese, anche se nei primi anni si assi-
stette in Russia a un certo grado di sviluppo della classe media urbana.
Ma che le cose non sarebbero state così facili lo si iniziò a segnalare
con ironia già nel 2004, quando il giornale della Confindustria russa
«Kommersant» ironizzò sulla sconfitta della nazionale di calcio russa
per 7 a 1 proprio contro i lusitani.
Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2021 il Pil pro capite
portoghese era del 47% superiore a quello russo, 21.826 dollari con-
tro 14.832. E se si calcola invece il Pil al livello della parità di potere
d’acquisto le cose cambiano poco, 23.000 dollari contro 17, con una
forbice di tenore di vita tra i due Paesi del 31%. Se si esclude il livello
40 la russia dopo putin

della disoccupazione (15,7% del Paese iberico contro il 5,5%), ma


qui pesano le inesistenti garanzie per i lavoratori e il bassissimo tasso
di sindacalizzazione russa, non esiste un parametro o indice interna-
zionale in cui la Russia sia superiore al Portogallo. Se si analizzano
tutti gli altri coefficienti, dal coefficiente Gini sull’ineguaglianza o il
Technology Index, anche qui il confronto è nettamente sfavorevole
alla Russia.
Il nazionalismo esasperato e la creazione del nemico esterno occi-
dentalista è allora diventato il collante fondamentale per tenere insie-
me un Paese sempre più perplesso e inerte. L’annessione della Crimea
del 2014 ha rappresentato un momento di entusiasmo nazionalista
irripetibile che ha condotto alla formazione dell’immaginario della ri-
unificazione del “Mondo Russo” separato da una diaspora che non ri-
guarda solo la disintegrazione sovietica ma anche il perduto universo
della grandezza zarista infranta dal cosmopolitismo internazionalista
dei bolscevichi della prima ora.
L’invasione dell’Ucraina, in questo contesto, è stata anche un modo
per rimandare il momento in cui i russi dovranno fare i conti con la
loro condizione di Paese “semicoloniale”, costruita nell’ultima fase
dell’epoca sovietica da Brežnev e “perfezionata” da Putin in regime
semi-feudale (su cui torno in dettaglio nel capitolo 3).
L’attacco del 24 febbraio ha rappresentato quindi il tentativo di
spostare sul terreno precipuamente della forza militare la lotta sorda
per quote del mercato mondiale e dell’accumulazione del capitale, per
la ripartizione e le rotte delle risorse energetiche, per lo sfruttamento
e l’uso dei flussi di forza lavoro su scala mondiale. In questo senso si
tratta di una partita che coinvolge tutte le grandi potenze mondiali
in una guerra per procura (proxy war) di cui la principale vittima è il
popolo ucraino e la sua indipendenza.
Un tentativo che può condurre l’umanità sul terreno del confronto
nucleare, anche se già in troppi invitano al “don’t look up” e a prose-
guire su una strada sdrucciolevole che può condurre nel baratro: chi
nega la possibilità della Terza Guerra Mondiale seguendo l’illusione
che l’“umanità è in fondo razionale” continua a spargere le peggiori
illusioni sul futuro dei rapporti capitalistici di produzione.
il secolo lungo dell ’ ex urss 41

Il socialismo alla prova

Il mondo sovietico però non fu solo un’area geopolitica dominata


dall’Unione Sovietica, ma anche di un contraddittorio tentativo di
costruire delle società non basate sulle leggi del valore capitalistico
quanto su un certo grado di uguaglianza e di esteso welfare state. Un
progetto rivoluzionario prima e di ingegneria sociale poi, destinato
già forse dall’inizio al fallimento. Tale dinamica si riverberò durante
tutto il corso del Ventesimo secolo. Per certi versi le stesse ascese
del fascismo e del nazismo come controrivoluzioni anti-bolsceviche
e anche del New Deal furono una risposta non solo al crollo di Wall
Street, ma anche alla protratta minaccia di nuove rivoluzioni socia-
liste nel mondo, malgrado il riflusso della controrivoluzione interna
staliniana.
La Seconda Guerra Mondiale non fu solo la prosecuzione della
prima (sconfitta tedesca, ridimensionamento britannico e francese e
definitiva egemonia americana su scala mondiale), ma nel suo teatro
europeo anche un’evoluzione delle linee di faglia aperte dall’Ottobre.
All’inizio dell’Operazione Barbarossa, come ha sottolineato Ernest
Mandel nel suo The Meaning of Second World War,

nonostante l’identificazione con la Rivoluzione – un fenomeno


molto più diffuso nel 1939-41 rispetto a oggi – la massa del popolo
sovietico era ostile alla dittatura di Stalin. In alcune aree, come le
repubbliche baltiche e l’Ucraina, dove l’oppressione nazionale era
stata combinata con il terrore, e la carestia su larga scala della col-
lettivizzazione, l’ostilità a Stalin di settori ampi di contadini, classi
professionali e strati della classe operaia si era trasformata in vero e
proprio odio, intensificato dall’esperienza dell’abbandono agli in-
vasori tedeschi nel 1941. Tuttavia, a prescindere dal potenziale che
questo avrebbe potuto creare unito a un grado significativo di col-
laborazione tra gli invasori e la popolazione locale, esso fu presto
annullato dai mostruosi crimini perpetrati dalle forze di occupa-
zione naziste. La distruzione sistematica delle infrastrutture della
vita civile, la schiavitù di massa di decine di milioni di persone in
condizioni disumane, l’esecuzione di persone e i maltrattamenti
su una scala superiore a quella condotta da Stalin e dai suoi so-
42 la russia dopo putin

stenitori – tutto questo ha presto ribaltato la situazione. Le masse


sovietiche – in primo luogo la classe operaia e i soldati dell’Armata
Rossa, ma non solo loro – mostrarono l’indomita determinazione
alla Resistenza, di cui la difesa di Leningrado, per molti versi ancor
più di Stalingrado, divenne un simbolo.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale emerse anche il movimento


di decolonizzazione come altro lato della medaglia dell’ascesa dell’e-
gemonia politica e finanziaria americana su scala globale, il cui faro fu
da subito la Rivoluzione Cinese conclusasi nel 1949, che si poneva in
diretta continuità ideale con quella russa e allargava in Asia il campo
delle “democrazie popolari”.
A un certo punto il cosiddetto “movimento democratico e sociali-
sta mondiale” sembrò persino – per l’attimo che andò dalla Rivoluzio-
ne dei Garofani in Portogallo all’inizio della transizione post-Franco
in Spagna, e passando per le vittorie in Indocina dei movimenti di
guerriglia comunisti – riuscire a mettere seriamente in discussione
l’ordine mondiale capitalistico.
La guerra Vietnam-Cambogia, la fuoriuscita reazionaria della rivo-
luzione iraniana e le elezioni di Margaret Thatcher e Ronald Reagan
misero presto fine a quelle fugaci illusioni.
La crisi dei modelli di economia autoritaria e di comando dei Paesi
dell’Est, iniziata con l’emergere di Solidarność, ebbero il loro culmine
con il crollo del Muro di Berlino nel 1989.
Dopo una lunga crisi politica e sociale emersa con i processi di
democratizzazione avviati con la perestrojka, il 25 dicembre 1991 la
bandiera sovietica veniva ammainata dai pennoni del Cremlino, sosti-
tuita dal tricolore russo.
La demoralizzazione e la confusione che ne seguì nella sinistra so-
cialista internazionale rappresentò un brusco atterraggio in una nuo-
va realtà rappresentata da quel realismo capitalista evocato da Mark
Fisher, in cui domina il «There is no alternative» (Tina). Questa di-
sfatta non ebbe solo un significato simbolico ma si agganciò all’eclissi
del movimento operaio e all’atomizzazione sociale delle classi domi-
nate determinato dal nuovo livello della globalizzazione, che era stato
all’origine dell’implosione sovietica e che moltiplicò per cento il fiasco
dell’ipotesi sorta nel 1917.
il secolo lungo dell ’ ex urss 43

Da allora, il socialismo e l’idea di trasformazione sociale in senso


egualitario non si è più ripresa.
Si sono sviluppate in varie aree del mondo movimenti sociali che
alludono alla ricomposizione sociale di classe, che però finora non si è
mai data. Anche la necessità di costituire una nuova teoria e una nuo-
va ipotesi della trasformazione sociale non si è fatta strada. L’unico
tentativo generoso di coniugare in una cornice nuova la prassi con la
teoria è rimasto di fatto quello del Partito dei Lavoratori del Kurdi-
stan di Abdullah Öcalan.

La guerra americana per procura e l’ostaggio russo

Questa guerra non può essere rinchiusa in semplici schemi e in let-


ture manichee. La questione dell’indipendenza ucraina esiste e viene
ripresa, almeno in uno dei suoi passaggi meno conosciuti, nell’appen-
dice di questo libro, ma è del tutto evidente che si tratta anche di una
guerra di “procura” principalmente americana contro la Russia, al fine
di giungere a un rovesciamento del regime putiniano, o in subordine
(o alternativa) al suo indebolimento. Putin ha scelto forse il momento
più propizio per attaccare, quando alla fine della fase peggiore del
Covid-19, con la ritirata ingloriosa dell’esercito Usa dall’Afghanistan,
i limiti oggettivi dell’amministrazione di Joe Biden si palesavano nel
modo evidente. Tuttavia il Pentagono, una volta messo con le spalle al
muro, è passato al contrattacco.
Il 24 febbraio, durante una conferenza stampa alla Casa Bianca
nel primo giorno dell’invasione russa, Biden ha sostenuto senza mezzi
termini che le sanzioni non sono state concepite per prevenire l’in-
vasione, ma per punire la Russia, e a medio termine impantanarla
in un “nuovo Vietnam”. Gli Stati Uniti, dopo aver accarezzato negli
anni Novanta la possibilità di controllare la politica del Cremlino per
mezzo dell’amministrazione El’cin, e in definitiva di mettere le mani
sulle grandi risorse naturali del Paese, hanno formulato questo nuovo
modo di rimandare il declino dell’egemonia statunitense e della sua
presa sull’Europa. Gli Stati Uniti hanno ridotto la loro quota percen-
tuale in termini assoluti dal 40% circa del Pil mondiale al 22% circa
del 2014. E il suo Pil a parità di potere di acquisto, secondo i dati della
44 la russia dopo putin

Banca Mondiale, nel 2020 era, con il 15,74% del totale, già sotto la
Cina. Così, appena si alza lo sguardo si può intravedere come la guer-
ra in Ucraina sia anche un nuovo capitolo del confronto tra Pechino e
Washington, con Mosca e Bruxelles come vittime sacrificali. Ciò detto
andrebbe evitato di ragionare in termini semplicemente di Stati o di
nazionalismi, perché così facendo si imbocca un binario morto che
impedisce di vedere come in realtà le vittime predestinate delle guerre
contemporanee siano tutti i popoli del mondo.
La guerra è arrivata sugli schermi dell’opinione pubblica interna-
zionale non più come qualcosa di esotico e lontano ma di vicino e
“nostro”, assai più delle guerre nella ex Jugoslavia, che pure in pro-
porzione erano ancora più distruttive e pericolose.
Per l’Ucraina la tragedia è immane: si calcola che la riduzione del
Pil sarà del 30-35% solo nel 2022, con la distruzione di buona parte
delle infrastrutture, del potenziale economico, con decine se non cen-
tinaia di migliaia di morti e invalidi, milioni di rifugiati. Fonti ucraine
hanno stimato che il costo del ripristino delle infrastrutture, il finan-
ziamento dello sforzo bellico (munizioni, armi ecc.), la perdita di al-
loggi, di immobili commerciali, i risarcimenti per morti e feriti, i costi
di reinsediamento, il sostegno al reddito ecc. costeranno tra i 500 e i
1.000 miliardi di dollari. E si tratta di stime provvisorie, non sapendo
nessuno quanto potrà durare il conflitto.
Forse ancora peggiore è il dato demografico. Dei rifugiati in Paesi
occidentali o in Russia si calcola che 4 milioni non rientreranno più in
Ucraina, dove resterebbero a vivere permanentemente solo 32 milioni
di persone anche se non fosse mutilata di altre sue province. Forse
davvero troppo poche per la ripresa di un Paese così grande.
In Russia gli oligarchi hanno già iniziato a realizzare profitti enor-
mi sulla guerra. Mentre l’opinione pubblica viene tenuta all’oscuro
sui costi della guerra (che sono stati calcolati all’ingrosso tra i 500 e
i 1.000 miliardi di rubli al mese), gli oligarchi del gas, del petrolio e
il complesso militar-industriale, oltre che il loro padrone installato al
Cremlino, hanno iniziato a incassare cifre da record. Il 30 giugno 2022
Gazprom (di cui il 50,23% delle azioni è controllato dallo Stato) ha
annunciato profitti per 1.244 miliardi di rubli, ma ha subito messo in
chiaro che i dividendi quest’anno non verranno distribuiti, con l’o-
biettivo evidente di dirottarli verso lo sforzo bellico (il titolo ha subito
il secolo lungo dell ’ ex urss 45

perso sui mercati il 25%, ma ormai per i piccoli azionisti i buoi-divi-


dendi erano fuggiti verso la stalla del complesso militar-industriale).
Il Paese nel 2022 sarebbe dovuto crescere del 2% secondo le stime;
si assiste invece al crollo dei salari reali e a un’inflazione a due cifre.
E appena migliore si presenta la situazione per i lavoratori occi-
dentali a fronte dell’aumento dei prezzi dei prodotti energetici e delle
contrazioni delle relazioni economiche con la Russia. Insomma, quan-
do la guerra presenta il suo conto c’è chi paga e chi incassa: come e
quando finirà, avrà come sicure sconfitte le classi popolari dei diversi
Paesi coinvolti a diverso grado in questo conflitto.
Si tratta di una verità che si può negare solo facendo un esercizio
estremo di realismo e cinismo politico, oppure immolandosi comple-
tamente alle ragioni del nazionalismo.
In questo senso l’appendice del “secolo breve” sta dipanandosi
senza che il popolo lavoratore abbia coscienza del suo interesse e della
necessità di avere una propria politica. Se non ne prenderà presto co-
scienza, per dirla con Marx, continuerà «contenta a forgiare essa stes-
sa le catene dorate con le quali la borghesia la trascina dietro di sé».
2

L’era Putin

Nell’estate 2020 feci una lunga intervista al noto regista cinema-


tografico russo Valerij Todorovskij. Durante il colloquio mi disse di
essere contento di vivere il suo tempo perché aveva potuto vivere in
tre Russie diverse: quella sovietica, quella degli anni Novanta e quella
putiniana. Tre Russie molto diverse tra loro, ma in cui Putin, in diver-
sa misura, è stato sempre protagonista. Costruire una continuità tra il
giovane Putin del Kgb e quello di oggi è un’operazione in cui alcuni
biografi si sono cimentati, anche con successo commerciale, ma su cui
è lecito avere dubbi.
Esistono tanti Putin diversi, anche se forse esiste un’idea guida che
non ha mai abbandonato l’uomo: la mission di servire il suo Paese al
meglio, fino al punto di credere di essere stato insignito divinamente
del compito di farlo tornare una grande potenza. Non avendo Putin in-
telligenza analitica, ha sempre cercato di mascherare questo suo limite
con la capacità tattica, la determinazione e l’audacia. E come qualche
volta accade, un uomo politico che non ha particolari doti oratorie, sen-
za un particolare appeal, è riuscito a diventare il punto di riferimento, il
leader di buona parte del suo popolo. Putin ha costruito un profondo
legame sentimentale con la parte più fragile e impolitica della società
russa, perché incarna la nostalgia sovietica scollata dal socialismo, l’or-
goglio nazionalistico, il decisionismo machista. Un cocktail di pulsioni
che è riuscito a superare i confini nazionali alimentando simpatie e so-
stenitori del populismo di destra e di sinistra su scala internazionale.
Dunque, quando nel futuro si studierà la storia russa, un capitolo
importante dovrà inevitabilmente essere dedicato al regime creato da
Putin nel 2000.
48 la russia dopo putin

Nella Russia contemporanea, nel momento in cui scrivo questo


libro, solo Stalin ha regnato più a lungo (ventinove anni se si calco-
la anche l’«interregno» dopo la morte di Lenin, come lo ha defini-
to Edward Carr), e fatte le dovute differenze di contesto storico, il
Vertikal’nij Vlast’ (‘potere verticale’) di Putin, per concentrazione ed
estensione, ha delle evidenti analogie con quello del dittatore georgia-
no. Con Stalin condivide del resto l’aspirazione a un sistema al con-
tempo impersonale ma fortemente accentrato sulla figura del leader,
in cui un piccolo clan di fedelissimi detta l’agenda economica e poli-
tica di un intero Paese. Secondo quanto riportato dal figlio adottivo
di Stalin Artyom Sergeev, una volta il padre fece una dura reprimenda
al figlio naturale Vasilij che in un colloquio aveva preteso di assumere
anche lui il nome di “Stalin”. «No, non lo sei» rispose Stalin. «Tu non
sei Stalin e io non sono Stalin. Stalin è il potere sovietico. Stalin è quel-
lo che appare sui giornali e nei ritratti, non tu, e nemmeno io!». Ecco,
in un certo senso anche Putin è un’autocreazione.
Uno dei suoi più stretti collaboratori, Vladislav Surkov, che in-
contreremo ancora nelle pagine di questo libro, afferma che Putin è
stato inventato «per tutti coloro che non sono Putin ma vorrebbero
essere come lui. Perché Putin possa trasmettere i suoi metodi e ap-
procci nei tempi a venire». Questo testimone, però, il leader russo
difficilmente riuscirà a passarlo a un successore, visto che nel tempo
si è circondato – come spesso capita ai dittatori – di così tanti “tec-
nocrati” e “yes-men” da non avere preparato le condizioni perché
apparisse sulla scena un valido successore. A forza di sentirsi inso-
stituibili, si resta invariabilmente soli. Successe anche a Stalin, che
usò vie assai spicce per restare “l’uomo solo al comando”: della “leva
Stalin” (quella del Congresso del 1934 dei “vincitori”, che andò alle-
gramente a farsi stritolare nei Gulag senza neppure sapere il perché)
al momento della sua morte nessuno era nella posizione di prende-
re il potere se non “collettivamente”, come successo con la triade
Kruščev-Malenkov-Beria.
I due uomini sono simili per altri aspetti. Della vita privata di en-
trambi si è sempre saputo poco, perché la “riservatezza” del “vero
leader russo” suggerisce la piena dedizione alla causa della Russia,
deve lasciare ai russi la sensazione che la luce dell’ufficio del Cremli-
no rimanga sempre accesa, ventiquattr’ore al giorno, trecentosessan-
l ’ era putin 49

tacinque giorni all’anno, che il Padre del Popolo vegli sulla Grande
Madre Russia. Dopo il suicidio della moglie Nadežda Allilueva, non
si seppe più nulla della vita privata di Stalin, come – malgrado tutte
le voci circolanti sui giornali rosa moscoviti sulla relazione con Alina
Kabaeva – non si sa nulla di quella del “Nuovo Zar” dopo il divorzio
dalla moglie Ljudmila nel 2014.
Nel decidere all’età di settant’anni di intraprendere, con l’invasio-
ne dell’Ucraina, la battaglia più importante della sua vita, Putin non
ha nascosto del resto di paragonarsi ai grandi condottieri della Russia
del passato. Nel suo incontro con i giovani imprenditori del 9 giugno
2022, ha dichiarato che

Pietro il Grande combatté la Guerra del Nord per ventun anni.


Sembrava che fosse in guerra con la Svezia, che le stesse portando
via qualcosa… Non stava portando via nulla, stava restituendo! È
vero, si tratta di tutta la Ladoga, dove fu fondata San Pietrobur-
go. Quando fondò la nuova capitale, non un solo Paese europeo
riconobbe questo territorio come russo, ma tutti sostenevano fosse
svedese… Lì, insieme ai popoli ugro-finnici, c’erano da secoli gli
slavi, e questo territorio era stato sotto il controllo dello Stato rus-
so. Lo stesso vale in direzione occidentale, per quanto riguarda
la Narva, per quanto riguarda le sue prime campagne. Perché si
mosse in quella direzione? Per ritornare e consolidare: ecco cosa
stava facendo.
Ora è toccato anche a noi di ritornare e rafforzare. Se partiamo dal
presupposto che questi valori fondamentali costituiscono la base
della nostra esistenza, riusciremo senza dubbio ad affrontare le sfi-
de che abbiamo di fronte.

Benché aspiri con tutte le sue forze ad essere uno zar della stazza di
Pietro I che rilancerà la Russia nel contesto mondiale, Putin non potrà
che essere, malgrado i suoi intendimenti, come vedremo nel proseguo
di questo libro, null’altro che il curatore fallimentare del proprio Pa-
ese, destinato a spingere tutti i popoli dell’ex Urss in una catastrofe
ancora non del tutto immaginabile. Pietro, del resto, fu sì un conqui-
statore, ma anche un convinto occidentalista, che giunse a introdurre
un gran numero di parole di origine tedesca nel vocabolario russo.
50 la russia dopo putin

Putin invece è finito in un tunnel da cui al massimo potrà aspirare a


diventare un alleato minore delle potenze asiatiche ascendenti.
Putin si vede nell’Olimpo, ma conduce una battaglia di retroguar-
dia. Come ha scritto Georgij Plechanov, il fondatore del marxismo
russo, più di un secolo fa nel saggio La funzione della personalità nella
storia:

Gli individui, in virtù di determinate particolarità del loro carat-


tere, possono influire sulle sorti della società. Talvolta la loro in-
fluenza può essere persino molto importante. Però tanto la possi-
bilità stessa di tale influenza, quanto le sue proporzioni vengono
determinate dall’organizzazione della società, dal rapporto delle
sue forze. Il carattere dell’individuo è un “fattore” dello sviluppo
sociale solamente dove, quando e in quanto lo permettano i rap-
porti sociali.

In questo senso il “Fattore P.” non trascende le regole generali dello


sviluppo storico.

Putin sovietico

Putin è stato sin da ragazzo un’intelligenza concreta: amante della


vita di strada, pratica le arti marziali, è sorretto da spirito patriottico
più che socialista quando entra nel Komsomol (la gioventù comuni-
sta). Del resto il giovane Vladimir cresce nell’Urss della stagnazione
brezneviana, dove il marxismo è stato ridotto a catechismo dal guar-
diano dell’ortodossia Michail Susvlov. A sedici anni vede il film Šit
e meč (‘Lo scudo e la spada’) e decide che sarà come l’eroe del film
Aleksandr Belov, un agente segreto al servizio dell’Urss. Il film, che
ebbe un certo successo, raggiunse le sale cinematografiche nel 1968
e racconta di un agente russo che riesce a infiltrarsi a Berlino nelle Ss
durante la Seconda Guerra Mondiale; fa colpo su Putin, che inizia a
cercare di sapere quanto più possibile sull’attività dei “čekisti” (da
Čeka, l’acronimo dei primi segreti russi in epoca leniniana, ancora
oggi un termine usato per indicare un uomo dei servizi). Nell’unica
biografia del Presidente russo fino a oggi “autorizzata”, Putin raccon-
l ’ era putin 51

ta che «anche prima di diplomarmi, avevo il desiderio di lavorare per


l’intelligence, anche se sembrava una cosa irraggiungibile, come un
volo su Marte». Secondo quanto testimoniato da Viktor Borišenko,
un suo amico di gioventù, nella dacia di campagna della famiglia il
futuro Presidente russo teneva sulla scrivania una foto di Jan Berzin.
Il dettaglio è interessante perché Berzin era non solo a capo dell’in-
telligence militare sovietica, ma era anche un idealista (membro del
Partito della prima ora, dal 1905) che in Spagna si era opposto alla re-
pressione degli anarchici e dei poumisti e per questo poi sarebbe fini-
to nel tritacarne dello stalinismo, fucilato nel 1937. Un passaggio della
biografia di Berzin che allora Putin non avrebbe potuto conoscere.
Fu solo quando era ormai laureato, nel 1975, che il futuro Pre-
sidente fu ricontattato dai servizi, entrandone a far parte con entu-
siasmo. Quindi nel 1985, dopo un corso speciale per agenti stranieri
presso l’accademia Bandiera Rossa, Putin poté finalmente andare a
lavorare in Germania Orientale, seppure non a Berlino Est ma nella
più provinciale e decentrata Dresda. Il lavoro di Putin, da quello che
si conosce in quel periodo, è routinario, soprattutto d’ufficio, dove
si impegna nella raccolta archivistica di materiali e biografie. Sem-
bra anche che il Kgb in quella città reclutasse agenti tra i dirigenti
tedesco-occidentali della Siemens per ottenere informazioni sulla mi-
croelettronica tedesca da girare poi alla Robotron tedesco-orientale,
l’unica società produttrice di personal computer dei Paesi dell’Est in
grado di produrre macchine concorrenziali con quelli occidentali.
A ingigantire il ruolo e la figura del Putin di quell’epoca ci ha pen-
sato però un certo giornalismo e una certa storiografia occidentale.
Per esempio, nella ricostruzione di Catherine Belton Putin’s People, il
futuro Presidente russo negli anni di Dresda, grazie al sostegno logi-
stico della Stasi, avrebbe coordinato le operazioni terroristiche della
Rote Armee Fraktion (Raf): «Putin, ben lungi dall’assumere il ruolo
secondario che spesso gli viene attribuito negli anni di Dresda, era
fra i leader in quegli incontri, ha dichiarato un ex membro Raf, e un
generale della Stasi prendeva ordini da lui» ha scritto la giornalista
americana.

I sovietici avevano sempre controllato le operazioni della Stasi, con


agenti di collegamento ad ogni livello della catena di comando. Al
52 la russia dopo putin

livello più alto il controllo del Kgb era talmente stretto che, secon-
do un ex membro della Raf: «Mielke non avrebbe nemmeno scor-
reggiato senza prima chiedere il permesso a Mosca… Noi [della
Raf] ci siamo incontrati lì [a Dresda] più o meno una dozzina di
volte».

L’ex membro della Raf citato anonimamente da Belton in realtà è ben


noto, si chiama Dietmar Clodo ed era un vecchio membro dell’orga-
nizzazione armata tedesca uscito di prigione nel 2013. Un personaggio
squalificato che negli anni ha cambiato la versione dei suoi rapporti
con il futuro Presidente russo almeno una mezza dozzina di volte.
Il periodo tedesco di Putin all’estero in realtà è già stato ricostru-
ito in modo dettagliato da chi lavorò con lui. Vladimir Usol’čev, che
condivideva l’ufficio con Putin negli anni di Dresda, ha scritto un li-
bro di memorie intitolato Sosluživec (‘Il collega’) in cui ricostruisce
la loro vita di agenti (squattrinati) in Germania: «Trascorrevamo il
70% del nostro tempo a scrivere “rapporti senza senso”» ha sostenu-
to Usol’čev. Si tratta di una ricostruzione più verosimile: un giorno,
quando si potrà ricostruire la biografia di Putin prendendo le distanze
dall’attualità politica, ci si troverà di fronte a un uomo assai più ordi-
nario del previsto, un “ragionier Rossi” dalla determinazione ferrea e
dalle grandi capacità d’intrigo, capace di scalare il vertice di uno dei
più importanti Stati del mondo e di restare così a lungo al potere da
trasformarlo in un trono che vorrebbe imperiale.
Ma l’inizio fu difficile. Si può immaginare che il ritorno a casa di
Putin nella sua Leningrado dopo il crollo del Muro di Berlino nel no-
vembre 1989 fu mesto. A questo punto l’agente del Kgb aveva quasi
quarant’anni e poche prospettive, e pensava addirittura di trasformar-
si in taxista.

Il Putin della transizione

Gli anni Novanta in Russia furono gli anni della transizione dal
sistema sovietico dell’economia di comando semi-autarchica e di un
welfare state che mostrava le crepe sotto i colpi della globalizzazione
neoliberista, al caos delle privatizzazioni dove gruppi di oligarchi sorti
l ’ era putin 53

dal nulla e clan mafiosi finiscono per controllare buona parte del Pa-
ese. La Russia viveva una crisi devastante che era al contempo sociale,
economica e morale. I dati statistici, nella crudezza, sono impressio-
nanti: il Pil calò del 30% tra il 1991 e il 2000, ci furono nello stesso
periodo almeno 150.000 omicidi, e l’aspettativa di vita media della po-
polazione passò da 68,9 anni a 65,9, mentre corruzione e criminalità
dilaganti mettevano in discussione i legami sociali e la stessa identità
del Paese, che non erano venuti meno neppure negli anni più difficili
del periodo sovietico.
Alle grandi mobilitazioni politiche e sociali della fine degli anni
Ottanta e degli anni Novanta seguirono la rassegnazione e il disincan-
to. A livello internazionale la Russia era ai margini della contesa, con
la prima guerra cecena che aveva messo in luce segni di demoralizza-
zione nell’esercito e un apparato bellico da modernizzare.
Putin, tornato a Leningrado, riesce a entrare nella squadra del nuo-
vo sindaco Anatolij Sobčak, uno dei più liberal nell’era della transizio-
ne e nella sua amministrazione, dove lavora per promuovere i rapporti
con l’estero e attirare gli investimenti stranieri. Il Putin di quegli anni
è già “uomo di mondo” che ha abbandonato Kgb e Partito a fil di
sirena, proprio durante il fallito golpe del 1991.
Nel suo periodo sanpietroburghese ci sono luci e ombre. Partecipa
alla vendita dell’Hotel Astoria, supervisiona la creazione di un cambio
di valuta a San Pietroburgo e contribuisce all’apertura della Bnp-Dre-
sdner Bank Rossija, una delle prime banche straniere in Russia. Allo
stesso tempo la procura di San Pietroburgo lo accusò di aver rilasciato
illegalmente un permesso speciale per il gioco d’azzardo all’azienda
Lenattraktsion, che gestiva slot machine. Nel 1995 dirige la campa-
gna elettorale del partito filopresidenziale Nostra Casa Russia che si
dimostra un disastro, superato non solo dai comunisti di Zjuganov ma
anche dall’estrema destra xenofoba di Žirinovskij.
Secondo una biografia pubblicata su «Kommersant» il giorno se-
guente la sua nomina a capo del Fsb nel 1998,

nel 1996 Putin ha poi avuto un ruolo non secondario nella scon-
fitta elettorale di Anatolij Sobčak. All’epoca, in città girava la voce
che Putin avesse “venduto” il sindaco: incontrò il suo rivale Vla-
dimir Jakovlev per due volte due giorni prima delle elezioni. In
54 la russia dopo putin

ogni caso, Putin non rimase a San Pietroburgo, sebbene fosse stato
invitato a unirsi alla squadra di Jakovlev,

Giunto a Mosca, diventa controllore capo di Stato e poi vicecapo


dell’amministrazione presidenziale per gli Affari Regionali. Incarichi
che adempie sempre con zelo ma senza grandi successi. Ma a questo
punto Boris El’cin lo identifica come il funzionario oscuro e senza gran-
de carisma a cui affidare il governo del Paese. Sembra fissato l’ultimo
El’cin con gli uomini dei servizi: negli anni del declino, prima di Putin,
aveva nominato come primi ministri Evgenij Primakov (già a capo dei
servizi esteri) e poi Sergej Stepašin (direttore del Fsb nel 1995).
Al Fsb Putin passerà tredici mesi. Qui poté cogliere la frustrazione
e lo scontento di un apparato noto per la sua efficienza, in seguito al
crollo dell’Urss. Negli uffici della Lubjanka si ricordavano con no-
stalgia i tempi in cui i servizi di sicurezza erano stati diretti, prima
di diventare segretario del Pcus, da Jurij Andropov. Putin conosceva
bene questo ambiente di cui aveva fatto parte per molti anni, ne con-
divideva le preoccupazioni, fiutò lo spirito di rivalsa che vi serpeggia-
va. Lo stretto controllo dell’esercito, dei servizi e di tutte le strutture
della forza si dimostreranno uno strumento formidabile per costruire
un regime inamovibile.
Quando viene nominato direttore, il suo compito principale è
quello dello snellimento dell’apparato centrale dell’agenzia, che do-
vrebbe scendere a sole 4.000 unità: inutile dire che non verrà mai re-
alizzato. Benché i numeri della struttura del Fsb siano oggi diventati
segreti, le quote di bilancio destinate all’azione di intelligence negli
ultimi vent’anni sono aumentate costantemente.
Quando nell’estate del 1999 diventa premier, dunque, Putin non è
certo considerato l’uomo della provvidenza; ma ha la massima stima di
Boris El’cin, alcolizzato ma ancora con un fiuto politico eccezionale.
Nei documenti declassificati nel 2018 da Bill Clinton riguardanti la sua
presidenza, sono state rinvenute le conversazioni che ebbe con l’allora
Presidente russo a proposito della stella nascente del Cremlino.
L’8 settembre 1999, infatti, poche settimane dopo aver promos-
so Putin, El’cin ricevette da Clinton una telefonata: il nuovo primo
ministro russo era in gran parte sconosciuto, essendo salito ai vertici
del Servizio di Sicurezza Federale solo un anno prima; ma El’cin vol-
l ’ era putin 55

le rassicurare il Presidente americano: questo Vladimir Putin era un


«uomo solido».
«Vorrei parlarle di lui per farle capire che tipo di uomo è» disse.
«Ho scoperto che è un uomo solido che si tiene ben aggiornato sui
vari argomenti di sua competenza. Allo stesso tempo, è scrupoloso
e forte, molto socievole. E riesce facilmente ad avere buoni rapporti
e contatti con i suoi partner. Sono sicuro che lo troverete un partner
altamente qualificato» concluse.
In un incontro a quattr’occhi di due mesi dopo, a Istanbul, Clinton
tornò a parlare di Putin, e El’cin disse chiaramente chi pensava avreb-
be vinto le elezioni previste per il marzo 2000.
«Putin, naturalmente. Sarà il successore di Boris El’cin. È un de-
mocratico e conosce l’Occidente» spiegò, parlando di sé in terza per-
sona. La formula magica era quella di un liberale ma čekista, capace di
collaborare con gli americani ma di mostrare i denti come lui non era
riuscito a fare di fronte all’attacco della Nato alla Serbia l’anno prima.
Il suo battesimo del fuoco sarà la seconda guerra cecena, che du-
rerà quasi un decennio e sarà anticipata dai disastrosi attentati ceceni
a dei caseggiati popolari in Russia che provocheranno centinaia di vit-
time (il tentativo di alcuni autori di attribuirgli questi attentati come
strumento per accelerare il conflitto nel Caucaso non è mai stato cor-
roborato da prove convincenti).
L’immagine di Putin viene costruita nell’inverno dello stesso anno,
quando lo si deve preparare a vincere le elezioni presidenziali. È com-
pito dei due principali oligarchi della comunicazione, Vladimir Gu-
sinskij e Boris Berezovskij (che per ironia della storia finiranno per
essere distrutti da Putin durante la guerra agli oligarchi promossa
qualche anno dopo). Il campione di judo, l’uomo dei servizi segreti
dagli occhi di ghiaccio, ma anche l’uomo dalle origini semplici che
conosce i travagli della gente comune: questa figura venne costruita in
nuce già allora. Tuttavia lo si ritiene ancora un uomo della transizio-
ne di cui ci si potrà liberare facilmente, un po’ alla stessa maniera di
quando era giunto alla carica di segretario del Partito Leonid Brežnev,
che poi invece resterà al comando del Paese per tutto il resto della
vita, per diciotto anni.
Putin, una volta giunto al potere, si mosse parallelamente in due
direzioni: da una parte favorì una serie di misure che liberalizzavano
56 la russia dopo putin

l’economia russa, e dall’altra dichiarò guerra agli oligarchi che control-


lavano l’industria energetica, quella metallurgica e i mass media. Le
liberalizzazioni vennero affidate al ministro delle Finanze Aleksej Ku-
drin, che si dimostrò all’altezza del compito affidatogli. Questi intro-
dusse una flat tax del 13% e deregolamentò completamente il settore
della piccola e media impresa. Allo stesso tempo, impose un controllo
fiscale rigidissimo sulle aziende petrolifere che divenne lo strumento
per finanziare le importazioni e la spesa pubblica. Inoltre, con l’intro-
duzione del nuovo Codice del Lavoro del 2001, che rendeva illegali gli
scioperi qualora non fossero legati al mancato pagamento dei salari,
anche il conflitto sociale venne messo sotto tutela. Dal 1999 al 2005 le
entrate fiscali provenienti dall’industria petrolifera – grazie all’esplo-
sione del prezzo del greggio e il prelievo alla fonte sulle esportazioni
– passarono da 5,6 miliardi a 83,2 miliardi di dollari.
Ciò permise di appianare il debito estero, di costituire un fondo
valutario solidissimo e portare il rapporto tra debito e Pil al 12%. Si-
multaneamente, Putin iniziò la guerra contro gli oligarchi che avevano
«immiserito il Paese». Nel 2003 fu la volta del magnate del petrolio e
dell’acciaio a capo della holding Yukos, Michail Chodorkovskij, allora
considerato, con un patrimonio di 15 miliardi di dollari, l’uomo più
ricco della Russia; arrestato per frode fiscale, sconterà quasi dieci anni
di prigione prima di essere graziato da Putin.
La campagna contro gli oligarchi ebbe un consenso popolare va-
stissimo. I russi avevano vissuto per decenni in un sistema sociale
come quello sovietico in cui le diseguaglianze sociali tra i vertici della
burocrazia, del Partito e dello Stato e il cittadino medio sovietico era-
no significative, ma non incommensurabili. L’operazione di “deoligar-
chizzazione” fu da una parte un’abile mossa di propaganda populista,
dall’altra creò una nuova leva di oligarchi e manager fedeli al regime.

Cambio di marcia in politica estera

Il 10 febbraio 2007 a Monaco di Baviera, durante la Munich Secu-


rity Conference, Putin tenne il discorso che secondo alcuni segna la
svolta della sua aperta contrapposizione all’unipolarismo stellestrisce
e della necessità di costruire un mondo multipolare in cui gli interessi
l ’ era putin 57

almeno degli Stati più forti vengano tenuti in dovuta considerazione.


In realtà – per molti versi – si tratta di una ricostruzione ex post. Alcu-
ne delle denunce del Presidente russo erano condivisibili, per esempio
quelle sul ruolo di “gendarme mondiale” degli Usa (anche tenendo
conto che avvenivano solo quattro anni dopo la brutale aggressione
angloamericana all’Iraq). In quel contesto il discorso di Putin non era
rivolto solo alle potenze emergenti (India e Cina in primis) ma anche
agli europei che si erano apertamente opposti all’attacco del 2003.
Compariva anche qualche nota “antimperialista” che avrebbe tirato
fuori di tanto in tanto anche in seguito: «Diciamo le cose come stan-
no: una mano distribuisce aiuti caritatevoli e l’altra non solo preserva
l’arretratezza economica, ma ne raccoglie anche i profitti. La crescen-
te tensione sociale nelle regioni depresse si traduce inevitabilmente
nella crescita del radicalismo, dell’estremismo, alimenta il terrorismo
e i conflitti locali» affermò in quell’occasione Putin.
Tuttavia non fu un discorso di completa rottura come oggi si vuol
far credere. Nello stesso discorso, per esempio, rivendicò il ruolo
dell’Onu: «Sono convinto che l’unico meccanismo che può prendere
decisioni sull’uso della forza militare come ultima risorsa sia quello
sancito Carta delle Nazioni Unite. E non dobbiamo sostituire la Nato
o l’Ue all’Onu. Quando l’Onu unirà davvero le forze della comuni-
tà internazionale e potrà realmente reagire agli eventi nei vari Paesi,
quando ci lasceremo alle spalle questo disprezzo per il diritto inter-
nazionale, allora la situazione potrà cambiare». E non solo: ricordò il
valore della democrazia a partire dal superamento del sistema buro-
cratico del suo Paese quando affermò che «abbiamo assistito a una
trasformazione pacifica del regime sovietico – una trasformazione pa-
cifica! E che regime! Con un gran numero di armi, comprese quelle
nucleari! Perché dovremmo iniziare a bombardare e sparare ora ad
ogni occasione? È forse vero che senza la minaccia della distruzione
reciproca non abbiamo abbastanza cultura politica, rispetto per i va-
lori democratici e per la legge?».
Il discorso di Monaco non ebbe così tanta risonanza: il giorno dopo
non andò in apertura su nessuno dei principali quotidiani mondiali,
e la replica americana fu tra il serio e il faceto. Robert Gates, l’allora
capo della diplomazia americana, affermò che «le vecchie spie amano
parlare senza peli sulla lingua… il mondo in cui viviamo è diverso
58 la russia dopo putin

e molto più complesso, tutti siamo di fronte a problemi che vanno


affrontati in collaborazione con altri Paesi, Russia compresa». (Per
ironia della storia l’articolo di cronaca dell’epoca su «la Repubblica»
si concludeva così: «A questo riguardo, il segretario Usa alla Difesa
ha chiesto agli alleati lo stanziamento di nuovi fondi e l’invio di altre
truppe in Afghanistan, “se si vuole che la Nato resti la potente allean-
za militare e il successo in Afghanistan non può sfuggirci di mano per
trascuratezza e scarsa determinazione politica”»).
Putin intuì che il mondo sta cambiando in fretta, e che per cam-
biare i rapporti di forza bisognava fare appello ai Paesi dell’ex Terzo
Mondo.
Che qualcosa non funzioni su scala internazionale neppure all’Onu
a oggi se ne sono accorti in molti. In un editoriale della rivista america-
na «Foreign Policy» dell’estate 2022, Howard F. French ha scritto che:

Il Consiglio di Sicurezza è stato in qualche modo democratizza-


to dall’ingresso della Cina come membro permanente nel 1971,
essendo le sue dimensioni difficili da non tenere in considerazio-
ne, ma il Consiglio di Sicurezza è composto da nazioni prevalen-
temente bianche, la cui storia è legata al dominio imperiale. Gli
Stati Uniti sono l’unico Paese con una popolazione molto nume-
rosa, attualmente la terza al mondo. La Russia, la cui economia è
all’incirca pari a quella dell’Italia, uscirà presto dalla top 10 dei
Paesi più popolosi. Francia e Gran Bretagna sono molto indietro.
Dov’è l’India? Dov’è la Nigeria, che secondo le proiezioni avrà
più cittadini degli Stati Uniti entro la metà di questo secolo, e che
probabilmente si collocherà dietro solo all’India e alla Cina entro
il 2100? E il Brasile o il Messico o l’Indonesia dove sono?

L’idea di Putin, da allora in poi, fu proprio quella di fare leva sull’evi-


dente ingiustizia nelle relazioni internazionali per agganciare la Rus-
sia, Paese declinante, a quelli ascendenti, anche se poi non è in grado,
per mancanza di risorse, di sviluppare una politica di sviluppo econo-
mico in quelle regioni (seppur con alcune eccezioni, come nel settore
civile dell’energia atomica).
La Russia in realtà ha solo mimato quella politica, essendo appunto
troppo fragile finanziariamente: non è stata in grado di investire nella
l ’ era putin 59

ricostruzione della Siria, e in Paesi come la Repubblica Centrafricana


ha solo installato le truppe mercenarie della Wagner: lo scambio con
il governo in carica è basato sullo sfruttamento di parte delle risorse
naturali del Paese in cambio di protezione dalle guerriglie locali.

Lo stallo

Il 2008, con la guerra facilmente vinta con la Georgia e l’esplosione


della crisi mondiale, segna un cambio decisivo nella politica di Putin.
Mentre i programmi per la differenziazione dell’economia non rie-
scono a decollare (vedi il capitolo 4 sulla struttura economica russa)
si assiste a un ripiegamento della “spinta propulsiva” del putinismo.
Le grandi manifestazioni del 2011-2012 contro la corruzione e le
frodi elettorali non trovano uno sbocco politico per la mancanza di
un’alternativa credibile. Qui Putin, a fronte di un evidente calo di
appeal per il sistema corruttivo e clientelare messo in piedi dal suo
partito Russia Unita, lavorò per contenere i malumori nella società
istituzionalizzando, per così dire, le frodi elettorali. Il suo ex ministro
delle Finanze Aleksej Kudrin stimò che nelle grandi città, nelle elezio-
ni per la Duma del 2011, il 5-10% dei voti era espresso da “elettori
controllati” e il 5-10% da “elettori a libro paga”, o da liste manipolate
di “anime morte” (sullo stile di quanto narrato meravigliosamente da
Gogol’ nel suo celebre romanzo). Alcune ricerche dimostrarono che
il 20-25% della popolazione come “elettori controllati” e una bassa
affluenza alle urne avrebbero dato facilmente al regime il 45-50% dei
voti di cui aveva bisogno per rivendicare la vittoria.
Fu allora che le elezioni iniziarono ad essere in modo sistemati-
co “disegnate” dai tecnologi del Cremlino in modo da rappresentare
un quadro “verosimile” per il cittadino distratto e per la comunità
internazionale. Questo tipo di “disegno prefabbricato” deve garan-
tire una percentuale modesta ma non insignificante agli altri partiti
di “sistema”, impedire la partecipazione a quelli “non di sistema”,
ovvero quelli che possano rappresentare un pericolo per il regime, ma
al contempo garantire alla Duma la maggioranza assoluta al partito di
sua ispirazione e un successo plebiscitario con partecipazione di mas-
sa (sul 70%) nelle presidenziali. Una versione modernizzata del tipo
60 la russia dopo putin

di plebiscito esemplificato da Ernst Jünger nel Trattato del Ribelle: il


sistema dittatoriale moderno non deve più rappresentare attraverso le
elezioni una società in cui esiste una minoranza sovversiva del 2%, per
reprimere la quale è necessaria una polizia segreta efficiente, ma più
modernamente una società raccolta attorno al suo leader che si trova
di fronte una minoranza del 20-30% ma frammentata e diversificata,
da tenere ai margini della società e reprimere “selettivamente”, un
individuo ogni tante migliaia, in modo tale che sia da esempio per gli
altri. Per questo Putin non partecipa mai alle campagne elettorali, tan-
to meno al confronto con altri candidati. La percezione che deve avere
il cittadino medio è che il presidente sia costantemente impegnato a
risolvere i problemi della gente comune mentre gli altri candidati sono
dei perditempo che urlano nei talk show.

Gli anni del declino

La popolarità di Putin sulla base del “tesoretto” della stabilizzazio-


ne del Paese era ormai consunta alla metà degli anni Dieci. Per la cam-
pagna elettorale delle presidenziali del 2018, presentò un programma
per i sei anni successivi, faraonico.
Il programma Russia con lo sguardo rivolto al futuro prevedeva che
la crescita economica nei sei anni successivi avrebbe dovuto essere
«superiore alla media internazionale», e demograficamente si sarebbe
dovuti entrare nel ‘‘club 80+”, il novero dei Paesi dove l’aspettativa
di vita supera gli ottant’anni. La Russia sarebbe dovuta diventare un
centro mondiale per l’archiviazione e l’elaborazione dei big data, dove
«organizzare la logistica con l’aiuto dell’intelligenza artificiale»: «Nel
2019-2024» proseguiva Putin «più del 4% del Pil sarà destinato alla
sanità, ma dovremmo puntare al 5%. La spesa sanitaria totale do-
vrebbe raddoppiare». La quota delle piccole e medie imprese avrebbe
dovuto superare il 40%.
Naturalmente nessun punto del programma è stato raggiunto, ma
neppure lontanamente avvicinato, anzi la situazione è andata via via
peggiorando. Appena eletto, Putin decise invece – proprio alla vigi-
lia dell’inizio dei Mondiali di calcio in Russia nel 2018 – l’aumento
dell’età pensionabile a sessantacinque anni per gli uomini e sessanta-
l ’ era putin 61

tré per le donne, e ciò mise fine definitivamente alla “luna di miele”
tra gran parte dei russi in età avanzata e Putin. Lo stesso distacco si
ebbe con la parte più dinamica socialmente della gioventù urbana,
autorappresentatasi nel movimento liberal-liberale di Aleksej Navalnij
e poi repressa senza tante storie, che cementerà ancora di più un “noc-
ciolo duro putiniano”, una “maggioranza politica” impegnata sempre
di più a obliterare con evidente fastidio le pagine più tragiche della
propria storia. La chiusura imposta dai giudici di Mosca nel 2021 a
Memorial, la grande associazione voluta da Andrej Sacharov nel 1989
sulle repressioni nel periodo sovietico, ha segnato una sorta di non
ritorno nella storia del regime putiniano.

Plebiscitarismo del Cremlino e Covid-19

Per comprendere meglio su quali equilibri il Cremlino ha costru-


ito le sue relazioni con l’“opinione pubblica russa”, può essere utile
fare riferimento a come è stato costruito il plebiscitarismo in Russia
e i limiti che ha mostrato durante la pandemia, visto che il sistema di
formazione del consenso e del suo controllo segue strade tortuose, a
prima vista poco intelligibili per l’osservatore straniero.
Il regno di Putin è stato punteggiato da cinque elezioni presiden-
ziali. La prima nel marzo del 2000, pochi mesi dopo che era emerso
sul grande proscenio nazionale, dove venne sostenuto apertamente
non solo dalla vecchia cricca eltsiniana ma da tutto il mondo oligar-
chico, e in primis quelli che controllavano buona parte dei media:ot-
tenne il 52,94%, con il comunista Zjuganov in caduta libera al 29,1%
(nel 1996 aveva raggiunto al secondo turno oltre il 40%). L’atmosfera
plebiscitaria si iniziò a conformare però solo nel 2004, quando oltre al
71,31% raccolto da Putin sulla base della stabilizzazione economica
e sociale del Paese si dovrebbe conteggiare il 4,10% di Sergej Glaz’ev
del partito Rodina, che di lì a poco sarà cooptato consigliere sulle
questioni geopolitiche al Cremlino.
Nel 2008 – visto che la Costituzione russa prevedeva solo due
mandati consecutivi – la presidenza passò in mano al fidato Dmitrij
Medvedev (mentre Putin supervisionava da primo ministro l’azio-
ne dell’amico leningradese), eletto anche lui al primo turno con il
62 la russia dopo putin

70,28%. Le elezioni del “grande ritorno” di Putin alla presidenza del


2012 furono anticipate e seguite da grandi manifestazioni ostili al suo
regime che si conclusero da una parte con una mossa volta a recupe-
rare consenso (la concessione dell’elezione di parte delle realtà ammi-
nistrative che prima venivano direttamente nominate dal presidente)
e repressione del movimento di opposizione e, dall’altra, con l’inizio
della costruzione di un vero e proprio regime putinista, con l’appro-
vazione della modifica costituzionale che prevede l’allungamento del
mandato presidenziale da quattro a sei anni.
Allo stesso tempo, soprattutto dopo gli esiti della crisi in Ucraina
nel 2014, iniziò quel processo di silenzioso esilio di centinaia di mi-
gliaia di russi.
Dopo aver fatto fuori Aleksej Navalnij – l’unico candidato poten-
zialmente fastidioso per il regime (impedito a partecipare per una
condanna per motivi fiscali) –, l’entourage di Putin costruì scientifica-
mente per la prima volta un’elezione del tutto falsificata in cui il pre-
sidente uscente non partecipò neppure formalmente alla campagna
elettorale, se non per premiare allo stadio di Mosca gli atleti di ritorno
dalle olimpiadi invernali.
Un Paese senza più alcun ascensore sociale, se non per gli “amici
e gli amici degli amici”, in cui spesso l’alternativa per sfuggire alla
cancrena della povertà cronica è quella di trasferirsi in una capitale
sempre più anonima megalopoli (più di 20 milioni di abitanti tra Mo-
sca e provincia, dicono gli algoritmi), e dove le pensioni sono sotto il
livello della sopravvivenza (150 dollari al mese). Buona parte della so-
cietà russa allora ha cercato un’ancora di salvezza in colui che l’aveva
salvata dall’orlo dell’abisso del decennio eltsiniano.
Mancando nel Paese quelli che si definiscono “i corpi intermedi”
del sindacalismo, dell’associazionismo e perfino del lobbismo, il pas-
saggio da un sistema autoritario a un sistema apertamente dittatoriale
poté avvenire senza grandi scossoni (se si eccettuano le grandi mani-
festazioni anti-regime del gennaio 2021 dopo il ritorno e l’arresto di
Navalnij dalla Germania a seguito del suo avvelenamento, in decine
di città).
In un Paese che, una volta assorbita l’ubriacatura sciovinista
dell’annessione della Crimea del 2014, si trovava sempre più confuso,
si venne conformando l’idea dell’uomo solo al comando.
l ’ era putin 63

Venne costruita dai “tecnologi elettorali” e dagli spin doctor del


Cremlino l’idea che in tempi di crisi bisogna affidarsi all’“usato sicu-
ro”, a chi magari ha solidificato quel mondo di corruzione e di dise-
guaglianza, però sa dove condurre la “nave Russia”. Con il recupero
della figura di Stalin e di un inesistente passato-epoca aurea della
sovranità della casa dei Romanov, si venne compilando un orizzonte
propagandistico in cui tutte le disgrazie della Russia erano dovute
al nemico esterno. Ma mentre nell’ideologia sovietica l’imperialismo
sarebbe stato prima o poi inevitabilmente vinto, nell’universo puti-
niano – come per il contraltare americano – il nemico diventa per-
manente, a giustificazione delle future difficoltà, fallimenti o scelte
espansioniste.
In piena pandemia, nell’estate del 2020, per istituzionalizzare la
sua dittatura personale, venne imposto un referendum che permet-
teva al presidente-sovrano di restare alla presidenza per altri dodici
anni alla fine del mandato del 2024. Putin però volle modificare la
Costituzione anche nel preambolo per conformarla ai suoi desideri:
l’inserimento del riferimento a Dio («tramandatoci dagli antenati»),
il valore della famiglia composta da «un maschio e una femmina»,
e il patriottismo. Dio, patria e famiglia, insomma, con l’aggiunta di
un articolo che ora prevedeva superiorità della legge russa su quella
internazionale per non rispettare le sentenze del Tribunale dei Diritti
dell’Uomo (il risultato fu, per la cronaca, 76,9% di sì con una parte-
cipazione del 58,8%).
Tutto ciò però non significa che Putin non tema l’opinione pubbli-
ca. Anzi, il monitoraggio degli umori profondi del “suo” popolo sono
una costante preoccupazione dei suoi sondaggisti e del Fsb. Quando
nel mese di marzo del 2020 – con forte ritardo rispetto agli altri Pa-
esi europei – la Russia decise il lockdown per un mese (con misure,
come a Mosca e provincia, a onor del vero più flessibili di quelle della
maggior parte dei Paesi europei), il Presidente russo si rese conto im-
mediatamente di essere entrato in contrasto con la sua “maggioranza
sociale”, e presto giunse ad allentare tutte le misure più severe. I dati
dei sondaggi parlavano chiaro: un terzo dei russi (32,8%) riteneva che
il rischio di un’epidemia di coronavirus fosse esagerato o che si trat-
tasse di una bufala delle lobby interessate, ben il 23,2% degli intervi-
stati riteneva addirittura che l’epidemia fosse una «congiura contro la
64 la russia dopo putin

Russia». Putin allora si peritò di ricordare più volte che pur avendo
deciso di introdurre un sistema di vaccinazione, questa restava una
«libera scelta».
La “maggioranza no-Covid” si dimostrò coriacea: alla fine dell’a-
gosto 2021 avevano fatto entrambe le dosi solo 44 milioni di persone
su 145 milioni di abitanti (di cui 43 milioni sono pensionati). Lev Gu-
dkov, direttore del Levada Center, l’istituto di sondaggi più autorevo-
le in Russia, sostiene che i motivi di questa incredulità siano legati al
cinismo che attraversa orizzontalmente la società: «In Russia la gente
non si fida quasi di nessuno: degli altri, del governo, dei media, dei me-
dici. Questo è in parte il motivo per cui la campagna di vaccinazione
Covid-19 è fallita. Qualsiasi germoglio di società civile – volontariato,
beneficenza, organizzazioni no-profit – è stato di recente duramente
represso dalle autorità. La società è frammentata, atomizzata, incapa-
ce di solidarietà sociale, e questo mette in discussione l’esistenza della
Russia come Paese moderno».
Il mostro sociale costituitosi con il putinismo come un novello
Frankenstein così si rivolta contro il suo creatore. E paradossalmente
fa così paura al potere da dover essere sempre sorvegliato e riunifica-
to. Riunificato da cosa? Ormai solo dal nazionalismo.

Una guerra sbagliata

Il 20 febbraio 2022, quattro giorni prima dell’inizio della guerra in


Ucraina, ha luogo l’ultima telefonata tra Emmanuel Macron e Vladi-
mir Putin. Il Presidente russo rassicura quello francese: le esercitazio-
ni militari stanno per concludersi e la Russia è pronta a tenere aperto
il dialogo sul Donbass e perfino a giungere a un incontro diretto con
Biden. Pochi giorni prima il cancelliere tedesco Olaf Scholz era vola-
to a Mosca, e dopo un colloquio di tre ore con il capo del Cremlino
aveva affermato: «Abbiamo avuto una conversazione molto intensa,
abbiamo parlato in un’atmosfera amichevole, ma nelle questioni in cui
abbiamo posizioni diverse c’è stata un’intensa discussione». Il leader
tedesco garantisce a Putin che non solo l’ingresso di Kyiv nella Nato
non è all’ordine del giorno, ma anche che si impegna personalmen-
te a far accettare a Zelenskij le leggi che garantiranno autonomia al
l ’ era putin 65

Donbass delle “Repubbliche Popolari”. Insomma, per gli europei il


cielo su Kyiv si sta rasserenando.
La Cia invece sta avvertendo da settimane che l’invasione è pronta,
ma non c’è unanimità neppure tra gli osservatori americani. «È ancora
possibile evitare la guerra» afferma il Pentagono il 21 febbraio. Nes-
suno vuole crederci perché questa volta la guerra in Europa avrebbe
ben altre conseguenze rispetto sia a quella della Georgia del 2008, sia
a quella sempre ucraina del 2014, dove l’intervento russo rimase in fin
dei conti limitato a preservare l’esistenza delle Repubbliche Popolari
di Donec’k e Luhans’k.
Una decisione come quella di condurre una guerra generalizzata
non è mai «inevitabile» o «ineluttabile», come ha affermato Putin sul-
la Piazza Rossa il 9 maggio 2002 in occasione dell’anniversario della
fine della Grande Guerra Patriottica, è sempre una scelta. E la scelta
della guerra di Putin in Ucraina è un rebus anche se la si osserva dal
punto di vista della razionalità economica e politica. È stato calcolato
che i Paesi occidentali e la Nato hanno complessivamente 37 volte il
Pil della Russia e spendono per la difesa 17 volte più di Mosca. Le
sanzioni, se colte nella loro dimensione strategica, potrebbero esse-
re devastanti, basti pensare a quanto è successo all’Iran negli ultimi
quarant’anni. Ma Putin pensa di giocare una carta a sorpresa: non
garantirsi semplicemente il controllo delle due province del Donbass,
ma rovesciare il governo di Kyiv con una Blitzkrieg e porre non tanto
gli Usa quanto l’Europa davanti al fait accompli. Una scommessa che
stupisce qualcuno, ma già nella guerra in Georgia del 2008, nella crisi
siriana e poi con l’annessione della Crimea, Putin si era preso i suoi
rischi e aveva avuto successo. Successo tattico perlopiù, perché la Siria
è rimasta dopo di allora un Paese allo sfascio (per un po’ Putin spin-
se su Angela Merkel perché la Germania entrasse nel business della
sua ricostruzione, ma senza risultati), e perché Georgia e soprattutto
Ucraina si sono orientate definitivamente verso la prospettiva dell’U-
nione Europea.
Nella scelta dello “Zar” c’è qualcosa che si misura con un’auto-
stima cresciuta nel tempo in modo esponenziale: dietro l’invasione
dell’Ucraina c’è un’idea di onnipotenza. Se è zar incontrastato in Rus-
sia, allora può anche provare a ricostruire lo spazio geopolitico che
apparteneva all’Urss e ai Romanov, ricollocare la Russia nel gioco che
66 la russia dopo putin

sta veramente diventando multipolare. L’ultima grande battaglia della


sua vita: gettare le basi perché la Russia torni ad essere grande.
Sottovaluta l’avversario, pensa che Zelenskij e il gruppo dirigen-
te ucraino siano dei dilettanti, il loro esercito di cartone. Sottovaluta
soprattutto l’accumulazione di rancore e di spirito identitario nazio-
nalistico che è cresciuta negli ultimi otto anni in Ucraina. Il fattore
morale come in ogni guerra ha il suo peso: lo ha avuto nella guerra
del Donbass nel 2014 a vantaggio dei separatisti, quando riuscirono
seppur con l’aiuto russo a ribaltare l’esito del conflitto, lo ha ora a
favore degli ucraini.
Il 18 febbraio 2002 Putin prova a creare una “crisi dei rifugiati”
nel Donbass delle Repubbliche Popolari che possa giustificare l’i-
nizio dell’invasione in Ucraina. Ne ha discusso da pochi giorni con
Aleksandr Lukashenko, il quale è assai abile a costruire provocazioni,
per esempio quella di qualche mese prima, quando ha fatto ammas-
sare migranti iracheni al confine della Polonia per creare artatamente
tensioni dentro l’Unione Europea. A Donec’k le autorità costruiscono
piani di evacuazione sostenendo che ormai sarebbe in corso un mas-
siccio attacco ucraino. Ma la provocazione fallisce miseramente: dopo
i primi quattro giorni – secondo i dati ufficiali – poco più di 50.000
persone su una popolazione di oltre 4 milioni di abitanti si è spostata
in Russia.
Si passa quindi al piano B, quello di riconoscere le due repubbliche
autoproclamate direttamente.

La guerra-lampo

Dopo la comica riunione del 21 febbraio con i massimi dirigenti


dello Stato, in cui tutto il mondo vede balbettare il capo dei servizi
esteri Sergej Nariškin il suo “sì” al capo, il dado viene tratto.
Ma è il discorso serale in cui Putin decide di riconoscere le due
repubbliche che lascia a bocca aperta prima di tutti il popolo russo e
quello ucraino a cui è in gran parte rivolto. Dura ben 56 minuti, e per
tutta la prima parte si tratta di un bigino della storia delle relazioni
russo-ucraine in cui non riesce a nascondere il proprio disprezzo e
livore nei confronti di Lenin e dei bolscevichi.
l ’ era putin 67

«Vorrei iniziare col dire che l’Ucraina moderna» afferma il Pre-


sidente russo «è stata creata interamente dalla Russia, o più precisa-
mente dalla Russia bolscevica e comunista. Il processo è iniziato quasi
subito dopo la rivoluzione del 1917, e Lenin e i suoi collaboratori lo
hanno realizzato nel modo più rozzo nei confronti della Russia stessa:
con la secessione, strappandole parte dei suoi territori storici… Furo-
no le idee di Lenin di una struttura statale essenzialmente confederati-
va e del diritto delle nazioni all’autodeterminazione fino alla secessio-
ne a costituire la base della statualità sovietica: prima nel 1922, nella
Dichiarazione sull’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, e
poi, dopo la morte di Lenin, nella Costituzione dell’Urss del 1924».
Per Putin, Lenin fece enormi concessioni ai “nazionalisti dell’epo-
ca” fino, come nel caso ucraino, a consentire la nascita di una repub-
blica con diritto di secessione.
Nella Russia putiniana composta da oltre cento nazionalità, dove
è vietato per legge, ed è reato penale, persino formare un partito au-
tonomista, il dogma assoluto è l’intangibilità territoriale (la Russia al
limite può annettere altri territori che considera parte del suo mondo)
e quindi non è un caso che Putin abbia un odio recondito nei confron-
ti di Lenin, l’inventore dell’“autodeterminazione dei popoli” sovietici.
Il fondatore dell’Urss per Putin non era null’altro che un pazzo asse-
tato di potere e pronto far qualunque cosa pur di mantenerlo: «Dopo
la rivoluzione» afferma Putin «il compito principale dei bolscevichi
fu quello di mantenere il potere ad ogni costo. Per questo si è giunti
a fare di tutto: come le umilianti condizioni del Trattato di Brest…
Dal punto di vista del destino storico della Russia e del suo popolo, i
principi leninisti di costruzione dello Stato non furono solo un errore,
ma, come si dice, molto peggio di un errore. La politica bolscevica ha
portato alla nascita dell’Ucraina sovietica, che ancora oggi può essere
giustamente chiamata “Ucraina di Vladimir Lenin”. Ne fu l’autore e
l’architetto».
L’attacco a Lenin è un invito alla popolazione ucraina ad essere co-
erente con la decomunistizzazione e portarla fino alle estreme conse-
guenze: far sparire l’Ucraina dalla carta geografica e riunificarla come
“Piccola Russia” al mondo a cui ha sempre appartenuto: il mitico
“Mondo Russo”. In realtà la formazione della Repubblica Ucraina nei
confini dell’Urss, pur non incarnando quella “piena sovranità” che ve-
68 la russia dopo putin

niva garantita nella carta costituzionale, rappresentò un grande passo


avanti verso una più completa formazione dell’identità nazionale. Uno
dei più grandi studiosi di storia ucraina a livello mondiale, Ivan Lysjak
Radnickij, non certo simpatizzante del bolscevismo, nel suo Essays in
Modern Ukraine History ha correttamente affermato che:

La Repubblica Socialista Sovietica Ucraina può essere meglio com-


presa se la consideriamo come l’incarnazione di un compromesso
tra il nazionalismo ucraino e il centralismo russo, ovviamente non
nel senso di un accordo formale e negoziato, ma piuttosto di un
bilanciamento de facto di forze sociali antagoniste, nessuna delle
quali era abbastanza forte da affermarsi completamente. Se la ri-
voluzione ucraina del 1917-21 avesse potuto seguire il suo corso
naturale, il risultato logico sarebbe stato uno Stato nazionale indi-
pendente. Ma la forza del movimento di liberazione ucraino non
era all’altezza di questo compito e l’Ucraina dovette accettare la
continua dominazione di Mosca.
Come controparte, Lenin – che prima della rivoluzione aveva più
volte espresso la sua preferenza per i grandi Stati unitari e il suo
rifiuto del federalismo – fu obbligato a riconoscere che la rinascita
nazionale dell’Ucraina (e delle altre nazionalità non russe dell’ex
impero zarista) era un dato di fatto con cui bisognava fare i conti.
Non c’è dubbio che la disponibilità a fare concessioni alle naziona-
lità non russe fu un fattore importante nella vittoria dei bolscevichi
sui loro concorrenti russi.

Putin in realtà aveva già mostrato le carte quando sette mesi prima
aveva pubblicato sul sito presidenziale l’articolo Sull’unità storica dei
russi e degli ucraini, in cui si negava la stessa esistenza di una identità
ucraina separata da quella russa. Come sottolineato dallo storico Gio-
vanni Savino nel suo volume Il nazionalismo russo 1900-1914,

il Presidente russo nel corso degli ultimi anni ha dedicato partico-


lare attenzione ai rapporti storici con l’Ucraina e la sua identità,
tema inevitabile a causa dell’annessione della Crimea da parte di
Mosca, e della guerra nella regione del Donbass, conflitto ancora
oggi ben lontano da una soluzione. Putin ritiene che la costruzione
l ’ era putin 69

dell’entità statale ucraina sia essenzialmente una creazione esoge-


na, dovuta alla creazione di un’identità artificiale, in passato volta a
dividere la bol’šaja russkaja nacija (la ‘grande nazione russa’, com-
posta da grandi russi, piccoli russi e bielorussi, su cui torneremo),
e oggi usata come avamposto nella strategia globale di accerchia-
mento della Russia.

Il discorso ovviamente fa scalpore, e mentre si dà per scontato l’i-


nizio del conflitto (Putin chiede subito i pieni poteri alla Duma per
dirigere delle non meglio specificate azioni militari in Ucraina), molti
ritengono ancora che sarà solo una “guerra per il Donbass”.
Un’eventualità di “piccola guerra” che però viene dissipata meno
di quarantott’ore dopo, quando all’alba Putin annuncia la guerra
totale.
Questa volta il discorso è più breve e si concentra sull’inevitabi-
le scontro che si aprirà con l’Occidente, rivendicando la necessità di
condurre una guerra preventiva usando la più prevedibile delle ana-
logie storiche, che guarda caso proprio la storiografia a lui più vicina
continua a negare: la fiducia di Stalin in Hitler fino al 21 giugno 1941.
«Sappiamo bene dalla storia come nel ’40 e all’inizio del ’41 l’U-
nione Sovietica abbia cercato in tutti i modi di prevenire o almeno
ritardare lo scoppio della guerra. Per fare questo, cercò letteralmente
fino all’ultimo minuto di non provocare un potenziale aggressore, non
eseguendo o rimandando i passi più necessari e ovvi per prepararsi a
respingere l’inevitabile attacco. E i passi che sono stati fatti alla fine
erano disastrosamente in ritardo.
Di conseguenza, il Paese non era pronto a far fronte all’invasione
della Germania nazista, che attaccò la nostra patria senza dichiarazio-
ne di guerra il 22 giugno 1941. Il nemico fu fermato e poi schiacciato,
ma a un costo colossale… Non commetteremo un simile errore una
seconda volta, non ne abbiamo il diritto».
L’obiettivo dell’intervento russo viene fissato in due parole dal
Presidente russo: «Demilitarizzazione e denazificazione» dell’Ucrai-
na. Cosa significhi in concreto viene tenuto nel vago, ma oggi si cono-
scono i dettagli del piano di Putin per conquistare Kyiv, rovesciare la
presidenza di Zelenskij e trovare un accordo con l’esercito ucraino per
una «giunta di salvezza nazionale».
70 la russia dopo putin

Il giorno dopo, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza,


Putin afferma: «Ancora una volta mi rivolgo ai membri delle forze
armate ucraine. Non permettete ai neonazisti e ai banderisti di usare
i vostri figli, le vostre mogli e gli anziani come scudi umani. Prendete
il potere nelle vostre mani! Per noi è più facile trovare un accordo
con voi che con questa banda di tossicodipendenti e neonazisti che
si è insediata a Kyiv e ha preso in ostaggio l’intera nazione ucraina».
Ma poche ore dopo il suo portavoce Dmitrij Peskov sostiene candi-
damente che per la Russia «Zelenskij resta il presidente in carica».
Inizia qui il gioco di minacce gangsteristiche e aperture formali che
segnano tutta la confusa campagna mediatica del Cremlino.
Il progetto però è chiaro e la Cia lo conosce già da qualche giorno,
come è stato narrato poi nella straordinaria serie di articoli pubblicata
sul «Washington Post» nell’estate del 2022:

Secondo le informazioni, i russi sarebbero arrivati da nord, da en-


trambi i lati di Kyiv. Una forza si sarebbe mossa a est della capitale
attraverso la città ucraina di Čhernihiv, mentre l’altra avrebbe af-
fiancato Kyiv a ovest, spingendosi a sud dalla Bielorussia attraverso
un varco naturale tra la “zona di esclusione” della centrale nucleare
abbandonata di Černobyl e le paludi circostanti. L’attacco sarebbe
avvenuto in inverno perché la terra dura rendesse il terreno facil-
mente percorribile dai carri armati. Formando una tenaglia intorno
alla capitale, le truppe russe prevedevano di conquistare Kyiv in tre
o quattro giorni. Gli “Specnaz”, le loro forze speciali, avrebbero
trovato e rimosso il Presidente Volodymyr Zelenskij, uccidendolo se
necessario, e installato un governo fantoccio favorevole al Cremlino.
Separatamente, le forze russe sarebbero arrivate da est e avrebbe-
ro attraversato l’Ucraina centrale fino al fiume Dnepr, mentre le
truppe dalla Crimea avrebbero preso il controllo della costa su-
dorientale. Secondo i piani russi, queste azioni potrebbero durare
diverse settimane.

Otto anni prima, di fronte alla crisi della Maidan, Putin aveva già
minacciato: «Se voglio prendo Kyiv in due settimane». Questa rico-
struzione è stata confermata anche dal politologo filoputiniano Sergej
Markov:
l ’ era putin 71

La prima fase dell’operazione speciale in ucraina è stata quella in


cui l’esercito russo, utilizzando gruppi di forze speciali, ha fatto
breccia in direzioni chiave e si è avvicinato a città importanti come
Kyiv, Charkiv, Chernihiv, Poltava, Mykolayiv e Cherson. Si è ipo-
tizzato che i combattimenti in queste città avrebbero portato al
collasso il sistema di potere statale ucraino, creando un vuoto di
potere che sarebbe stato riempito in primo luogo da ex politici
ucraini che sono stati costretti a partire per la Russia dopo il 2014,
come Oleg Carev, in secondo da politici ucraini repressi come i
membri della squadra di Viktor Medvedčuk, poi da persone senza
principi che avrebbero disertato il nuovo governo, e infine da ge-
nerali e ufficiali delle forze dell’ordine.
Tuttavia, la prima fase non ha avuto successo, è stata completata
solo al venti per cento, è stato possibile raggiungere le principali
città e persino conquistare Cherson. Ma non c’è stato alcun crollo
del potere statale ucraino: esso ha continuato a funzionare, le forze
di sicurezza sono rimaste fedeli al regime di Kyiv. Inoltre, i gruppi
di forze speciali russe che si erano spinti in avanti si sono trovati
sotto un duro attacco sul fianco e hanno subito perdite sostanziali.

Markov definisce questa fase della guerra un «quasi fallimento» i cui


costi in termini di vite umane non sono ancora noti.

Fino all’ultimo respiro

Errori di valutazione del Fsb oppure azzardo di Putin? Che si po-


tesse solo pensare a un simile piano razionalmente lasciava dei dubbi
persino alla Cia. «Non sembrava il tipo di cosa che un Paese razionale
avrebbe intrapreso» ha detto in seguito un uomo dei servizi americani a
proposito dell’occupazione pianificata della maggior parte di un Paese
di 232.000 miglia quadrate e quasi 45 milioni di persone. «Alcune parti
dell’Ucraina erano profondamente anti-russe e si sollevava così lo spet-
tro di un’insurrezione, anche se Putin avesse rovesciato il governo di
Kyiv» ha sostenuto la vicedirettrice dei servizi americani Avril Haines.
Putin, al momento di sferrare l’attacco, ha sul tavolo i sondaggi su-
gli umori che covano nel popolo ucraino preparatogli dai suoi agenti.
72 la russia dopo putin

La risposta alla domanda «sarebbe pronto a difendere l’Ucraina?» in


caso di invasione conforta il Presidente russo: complessivamente si
dichiara per il sì solo il 48,3% (punta massima in Ucraina occidentale
55,6%, punta minima in Ucraina orientale 35,6%) contro il 39,6%.
Ma è la risposta al secondo quesito che dovrebbe far alzare le antenne
a Putin. Alla domanda «la comparsa delle truppe russe la conside-
rerebbe un’occupazione?» la risposta è schiacciante: il sì è all’84%
(91,1% in Ucraina occidentale e perfino un 71,1% nelle zone orien-
tali). Putin però tira dritto, anche perché come già detto sottovaluta il
suo principale avversario, un ex comico secondo i suoi uomini dedito
all’uso di cocaina.
La ritirata e la nuova definizione degli obiettivi dell’esercito russo
sono state disordinate, e il concentramento degli sforzi militari limi-
tato in un’area della regione del Donbass. Qui inizia la seconda fase
dell’Operazione Militare Speciale, che consiste nell’utilizzo da parte
della Federazione Russa di un vantaggio quantitativo nell’artiglieria e
nei missili, e che ha avuto, al momento, un unico successo strategico
nella conquista di Marjupol. Sono rimaste comunque poco chiare e
incerte le prospettive della guerra in Ucraina. L’unica opzione per la
ripresa in larga scala del conflitto da parte russa sarebbe di fatto la
mobilitazione generale, che porterebbe a uno squasso sociale interno
e internazionale inimmaginabile, mentre la strada della trattativa ap-
pare, mentre scriviamo, ancora chiusa. Soprattutto perché la possibile
penetrazione a sud incontrerebbe la netta opposizione della Turchia.
L’ultimo Putin appare invecchiato, ripiegato sulle sue convinzioni
che “o la Russia sarà imperiale o non sarà”, che questa guerra do-
vrà dimostrare definitivamente “le qualità del popolo russo”. Il Putin
pragmatico lo si intravede ancora nell’“agilità” delle scelte tattiche
momentanee, come quella di sostenere il corso turco giungendo ad
autofinanziare persino la centrale nucleare in costruzione da Rosatom,
nell’operazione della tenuta del rublo o anche nel ricatto energetico
all’Europa. Ma ciò che prevale è l’idea di fondo, la sua ossessione di
voler difendere il suo potere anche portando con sé tutta la Russia
nel baratro. Un baratro in cui si intravvede lo spettro di una guerra
mondiale.
3

L’ideologia putiniana

Si sono spesso fatte molte congetture sull’ideologia e sui riferimen-


ti teorici di Putin. E correttamente si è sottolineato che il Presidente
russo sia un pragmatico per eccellenza e non ami perdersi in troppe
letture “astratte”. Giunto al potere in una fase in cui non solo in Russia
si propagandava la “morte delle ideologie”, a seconda delle occasioni
si è dichiarato “socialdemocratico”, “liberale”, “democratico” e an-
che sostenitore di un “potere forte”. Anche del marxismo-leninismo,
di cui ha dovuto necessariamente dare degli esami per entrare, come
si usava in Urss, nel Komsomol (la gioventù comunista) e nel Partito
Comunista, ha dimostrato più volte di avere una conoscenza abbor-
racciata. Intervenendo al forum del Movimento Popolare Panrusso il
13 novembre 2014, Putin ha sostenuto: «Non abbiamo bisogno del
movimento, non siamo trockisti. Abbiamo bisogno del risultato finale.
Era il modo di ragionare di Trockij: il movimento è tutto, l’obiettivo
finale è niente». Naturalmente «il fine è nulla, il movimento è tutto»
Trockij, per chi lo conosce appena, non si sarebbe mai sognato di
dirlo. La frase appartiene invece a Eduard Bernstein, il fondatore del
“revisionismo” socialdemocratico tedesco di inizio Novecento, il qua-
le affermava questa tesi per contrapporre l’azione riformista a quella
rivoluzionaria, giusto l’opposto di quanto voleva sostenere – seppur
impropriamente – il Presidente russo.
Non è l’unico svarione sul tema. Al Forum di Valdaj – un think
tank annuale della burocrazia e dell’oligarchia del Cremlino – nell’ot-
tobre 2021 ha dimostrato ancora una volta di aver appreso poco e
male il marxismo nei corsi scolastici, affermando che il «modello mo-
74 la russia dopo putin

rale» occidentale capitalista odierno sia simile a quello «comunista»,


mettendo in diretta relazione il modello marxista di “moralità uma-
na” con quello occidentale contemporaneo: «I bolscevichi, dopo la
rivoluzione del 1917, basandosi sui dogmi del marxismo di Marx e di
Engels [sic!], annunciarono anche che avrebbero cambiato il modo
abituale di vivere non solo politicamente ed economicamente, ma ri-
definendo l’idea stessa di cosa fosse la moralità umana, le basi di una
società sana, distruggendo i valori secolari, le relazioni tra le persone
fino al completo abbandono dell’istituto della famiglia». La questione
dei “valori tradizionali” e “familiari” è diventata una vera ossessione
dell’ultimo Putin, che considera l’inverno demografico della Russia
nulla più del portato del rovesciamento di questi “valori” e delle idee
“liberali”, i cui antenati non sarebbero altro che i due «fondatori del
socialismo scientifico».
Per quanto rozza, reazionaria, filistea, quindi, l’ideologia “putina-
na”, come vedremo in questo capitolo, esiste e ha anzi un gran bi-
sogno di consolidarsi. Essa però è ancora in fieri, e non è il frutto di
molte letture ma soprattutto di lunghe discussioni con alcuni dei suoi
consiglieri più stretti. Malgrado non sia mai stata esposta in un vero e
proprio manifesto, si basa su degli assi come quello della “centralità e
verticalità del Mondo Russo”, dell’“espansionismo colonialista bene-
volente” e appunto sui “valori tradizionali”.

Ivan Il’in, l’Evola russo

Il più importante punto riferimento teorico e morale per Putin è


rappresentato dal filosofo Ivan Il’in. Il Presidente russo ha affermato
nel 2021 di «riprenderlo in mano spesso», e ne fa inserire regolarmen-
te delle citazioni ai suoi speech writers.
Il’in è il padre spirituale e filosofico del fascismo russo e del movi-
mento bianco dell’emigrazione, quindi la sua “riabilitazione” si è do-
vuta realizzare con cautela. Inizialmente, nell’autunno del 2005, l’o-
perazione fu condotta dal regista cinematografico Nikita Michailkov,
teorico della riconciliazione nazionale tra “bianchi e rossi” che fece
giungere le ceneri di Il’in da Parigi assieme a quelle del generale mo-
narchico e bianco Anton Denikin e di sua moglie. Seguirono i mo-
l ’ ideologia putiniana 75

numenti, le targhe commemorative, la titolazione di istituti pubblici.


Putin ha iniziato a citarlo spesso a partire dal 2007-2008, ovvero in
quello che viene definito il periodo della sua svolta anti-occidentalista.
Ma chi sia Il’in lo sanno pochissimi anche in Russia, e in Occidente
solo nei cenacoli della destra estrema.
Ivan Aleksandrovič Il’in nacque qualche giorno dopo la morte di
Marx nel 1883 a Mosca, in una famiglia benestante, e studiò diritto e
filosofia all’università nella sua città natale. Prese il dottorato tardi, a
trentacinque anni, ma il suo studio La filosofia di Hegel come dottrina
della concretezza di Dio e dell’uomo è brillante e gli permette di otte-
nere una cattedra. Inizialmente di orientamento liberal-conservatore,
impegnato a promuovere i valori e nelle tradizioni dell’ortodossia, fu
un inconciliabile oppositore del regime bolscevico, in contatto con i
principali leader politici e militari del movimento bianco, per la «Rus-
sia unita, sacra e spiritualmente rinnovata del futuro».
Espulso dall’Urss, Il’in giunse a Berlino nel novembre 1922, dove
divenne presto una figura di spicco nella vita della colonia russa di
esuli più conservatrice e tradizionalista. Partecipò alla fondazione
dell’Accademia Religioso-Filosofica e dell’Istituto Russo delle Scien-
ze, e diresse il suo dipartimento di diritto. Inoltre tenne numerose
conferenze in russo e in tedesco su temi di attualità politica, come le
cause della Rivoluzione Russa o l’essenza del comunismo.
Nel 1927 fondò la rivista patriottica «Russkij Kolokol» (‘La cam-
pana russa’). Il saggio più importante lo pubblicò nel terzo numero
di questa rivista del 1928, intitolato, guarda caso, Sul fascismo russo.
In questo articolo Il’in sosteneva che «il movimento bianco è un
movimento di uomini cavallereschi uniti dallo spirito religioso, dalla
disciplina e dalla brama di essere al servizio alla patria durante le fasi
sociali pericolose della società». E qualche anno più tardi aggiungerà:
«Lo spirito dei partiti politici è sempre stato velenoso». Secondo il
sovietologo Peter Rüdiger Hartmut, autore del saggio Il’in e il fasci-
smo, «i sistemi politici basati sui partiti, e quindi anche la democrazia
politica in quanto tale, erano per Il’in nettamente da rifiutare. Il suo
ideale politico era un governo autocratico, anche se non necessaria-
mente monarchico».
Mostrò aperto sostegno anche al nazismo in Germania al momento
della sua ascesa con un articolo pubblicato sulla rivista «Vozraždenija»
76 la russia dopo putin

il 17 maggio 1933, Il nazionalsocialismo, la via russa. In questo saggio


il filosofo si lamentava che «l’Europa non capisce il movimento na-
zionalsocialista» e chiedeva agli ebrei di «farsi da parte»: «Mi rifiuto
categoricamente di vedere gli eventi degli ultimi tre mesi in Germania
dal punto di vista degli ebrei tedeschi, che hanno perso la loro po-
sizione giuridica in pubblico, sofferto finanziariamente o addirittu-
ra sono fuggiti dal Paese». Il nazismo andava invece valutato come
«un movimento di passione nazionale e politica, concentrata in dodici
anni, che per anni, sì, anni, ha versato il sangue dei suoi aderenti nel-
le battaglie con i comunisti». Il nazismo non sarebbe stato altro che
«una reazione agli anni del dopoguerra. di decadenza e sconforto, una
reazione di dolore e rabbia… Che cosa ha fatto Hitler? Ha fermato il
processo di bolscevizzazione in Germania e ha reso un grande servizio
a tutta l’Europa».
Il fascismo tedesco, italiano e il movimento bianco russo, inoltre,
per Il’in erano «naturalmente affini», seppur diversi per ragioni sto-
riche, e avrebbero dovuto trovare la forza per combattere il nemico
comune, il Comintern.
L’atteggiamento di Il’in nei confronti dell’antisemitismo, alla prova
dei fatti, non fu semplicemente “equidistante”: quando Semyon Frank
fu costretto a dimettersi all’inizio dell’estate del 1933 a causa delle sue
origini ebraiche, Il’in assunse senza fiatare la direzione dell’istituto di
diritto. Dopo l’approvazione dello statuto nel luglio 1934, secondo il
quale solo i “connazionali tedeschi” potevano essere dipendenti dell’i-
stituto, dovette però andarsene. Fino al 1937 poi continuò a tenere
conferenze e a svolgere la sua opera di propaganda anticomunista.
Solo nel 1938 lasciò Berlino senza ostacoli e si trasferì in Svizzera, a ul-
teriore riprova del fatto che non fu mai un “perseguitato” del regime
nazista, come alcuni hanno cercato di sostenere in Russia e non solo.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale Il’in, in un articolo
scritto nel 1948, tornò ad affrontare la questione del fascismo, che gli
stava evidentemente a cuore, questa volta con una qualche circospe-
zione, ma senza rinnegare le sue simpatie per i fascismi rimasti al po-
tere dopo il crollo di quelli tedeschi e italiani. Per Il’in Il fascismo era

un fenomeno complesso e sfaccettato e, storicamente, ben lun-


gi dall’essere estinto. Ci sono [fenomeni] sani e malati, vecchi e
l ’ ideologia putiniana 77

nuovi, protettivi e distruttivi. Pertanto, nella sua valutazione sono


necessarie calma ed equità… Il fascismo nacque come reazione
al bolscevismo, come concentrazione di forze conservatrici dello
Stato a destra. All’epoca dell’inizio del caos e del totalitarismo di
sinistra fu un fenomeno sano, necessario e inevitabile.

Il fascismo secondo Il’in aveva moltissimi pregi perché

opponendosi al totalitarismo di sinistra il fascismo andava a destra,


cercava riforme sociopolitiche giuste. Questa ricerca può avere o
meno successo: è difficile risolvere problemi di questo tipo e i pri-
mi tentativi potrebbero non essere andati a buon fine. Ma rispon-
dere all’ondata di psicosi socialista – con misure sociali e, quindi,
antisocialiste – era necessario.

Infine, il fascismo stava dalla parte della ragione per Il’in, perché «si
basava su un sano senso di patriottismo nazionale, senza il quale nes-
suna nazione può affermare la propria esistenza o creare la propria
cultura». Tuttavia alla prova dei fatti i fascismi avevano commesso
anche degli errori, tra cui: «L’irreligiosità», «la creazione di un totali-
tarismo di destra», «l’istituzione di un monopolio di partito»; erano
«scesi verso gli estremi del nazionalismo», avevano «mescolato le ri-
forme sociali con il socialismo», assunto pose da «cesarismo idolatri-
co». Errori però evitati con successo nella penisola iberica: «Franco e
Salazar se ne sono resi conto e stanno cercando di evitare di commet-
tere gli stessi errori. Non chiamano il loro regime “fascista”».
Nel suo libro Is Russia Fascist? la storica francese Marlène Laruelle
sostiene che la Russia non può essere definita un regime fascista solo
perché il suo presidente considera Il’in il suo filosofo di riferimento e
lo cita nei suoi discorsi. Secondo la professoressa,

l’eredità intellettuale di Il’in non comprende solo il mero elogio


dei regimi fascisti dell’Europa meridionale. Egli sviluppò anche
una visione della Russia basata su tre pilastri: il destino unico del
Paese, la sua statualità (gosudarstvennost’) e la coscienza giuridica
(pravosoznanie). In quanto professore di diritto vicino al partito
cadetto, Il’in apparteneva alla tradizione russa di filosofia del dirit-
78 la russia dopo putin

to che non può essere sussunta in un puro abbraccio al fascismo,


tanto meno al nazismo.

Questa difesa d’ufficio di Il’in però, pur non essendo lui assimilabile ai
fascismi storici, fa acqua da tutte le parti. Il pensiero e la riflessione di
Il’in certamente non si ridussero all’aperto sostegno del regime musso-
liniano, hitleriano e ai regimi di estrema destra spagnoli e portoghesi
nel secondo dopoguerra, se no non si capirebbe neppure la valenza
teorica che la sua opera ha per il Cremlino. Tuttavia, anche Julius Evola
ebbe una vasta riflessione che abbracciò anche la sessualità e le religioni
orientali. Malgrado ciò nessuno su scala mondiale si sogna di non de-
finire l’autore di Cavalcare la tigre fascista e, in Italia – almeno per ora
– nessuno si sogna di costruirgli statue oppure dedicargli istituti statali.
In La Russia del futuro (1949) Il’in comunque non solo si schie-
ra contro il «totalitarismo (marxismo)» e contro quella che definisce
«democrazia formale» dell’Occidente, ma propone una “terza via” di
ricostruzione dello Stato e della società dai danni arrecati al Paese dal-
la «debole e danneggiata autostima» dei russi. Il’in vede nell’influenza
dell’Occidente qualcosa di «predatorio nei confronti dell’eredità dei
russi», concetti che ritornano spesso nell’ultimo Putin.
Il’in appare e riappare più volte nella riflessione del Presidente rus-
so in chiave ipernazionalista, come per esempio dopo l’occupazione
della Crimea, quando affermò che «chiunque ami la Russia deve de-
siderare la sua libertà; soprattutto la libertà della Russia stessa, l’indi-
pendenza e l’autonomia, la libertà della Russia come unità dei russi».
Il’in fornisce a Putin soprattutto il concetto di “sovranità autori-
taria”, che deve rappresentare l’intera tradizione storica, e che tale
potere non può essere condiviso o violato.
Questa concezione dell’autorità morale e politica da parte di Putin
deve essere garantita da un sovrano che rifiuti la cultura occidentale
moderna e democratica e la dipendenza economica e la colonizzazio-
ne culturale del Paese, oltre che le sirene dei “falsi valori”. Putin del
resto rifiuta l’appellativo di “Zar”, sostenendo di essere uomo d’azio-
ne e non di comando, un sommo servitore dello Stato che di quando
in quando è costretto a delle restrizioni alla libertà, e che esercita il
dominio dello Stato sull’individuo per raggiungere la rinascita spiri-
tuale di un intero popolo.
l ’ ideologia putiniana 79

Ivan Il’in non è e non può essere l’ideologo del Cremlino perché
la caratteristica principale del regime costruito da Putin è l’eclettismo
nazionalista autocratico. Il fascista Ivan Il’in può essere citato periodi-
camente e impunemente da Putin solo perché il mondo accademico e la
stampa russi sono da tempo proni al regime, incapaci di qualsiasi auto-
nomia intellettuale. Il regime così può basarsi su un minestrone ideolo-
gico che ha un solo fine: la permanenza al potere di Putin e del suo clan.

Vladislav Surkov e il Grande Fratello

La visione del mondo di Putin in realtà si forma, più che attraver-


so le letture, che lo annoiano, attraverso fitte conversazioni con i più
stretti e fidati collaboratori. Tra le persone che sono state più vicine a
Putin negli anni in cui si è formata la sua idea della “rinascita russa”
c’è Vladislav Surkov, classe 1964, di Lipeck, nella profonda provincia
meridionale della Russia bianca. La sua carriera si sviluppa per linee
interne, inizialmente agganciata all’oligarca Michail Chodorkovskij e
poi nell’ambito dell’amministrazione del Presidente della Federazio-
ne Russa.
Nel 2011, quando viene nominato vice primo ministro, riassume
così la sua carriera politica in un’intervista a «Interfax»: «Sono stato
tra coloro che hanno aiutato il Presidente El’cin a effettuare la tran-
sizione pacifica del potere, tra coloro che hanno aiutato il Presidente
Putin a stabilizzare il sistema politico, e sono stato tra coloro che han-
no aiutato il Presidente Medvedev a liberalizzare il sistema politico».
Dal 2013 è stato ufficialmente aiutante del Presidente Putin, di cui,
malgrado le voci di recenti dissapori, si dichiara ancora un sostenitore,
seppur “eretico”. Personaggio segnato dalle ampie letture eclettiche,
dalla smodata ambizione personale, che gli permette di transitare dal
liberalismo della Russia degli anni Novanta e primi anni del Ventu-
nesimo secolo all’autoritarismo dello “Stato forte”, ha creato dal nul-
la l’ossimoro della “democrazia sovrana” incarnato dalla presidenza
eterna di Vladimir Putin e l’idea del “Mondo Russo”, ovvero dell’e-
spansionismo militarista che punta a ricostituire l’idea imperiale in
bilico tra Pietro I e Josif Stalin. Come ha sintetizzato Ilya Budraitskis,
attivista e intellettuale della sinistra russa sul portale «Posle»:
80 la russia dopo putin

Dopo l’annessione della Crimea e l’inizio del conflitto nel Donbass


nel 2014, il “Mondo Russo” viene definitivamente spogliato dei
segni del soft power e diventa un’ideologia dell’irredentismo, cioè
un programma per riunire le “terre storiche” perdute, se non di-
rettamente all’interno della Federazione Russa… L’appartenenza
al “Mondo Russo” non è quindi una questione di scelta personale,
ma è già predeterminata dal destino, dall’origine e dal territorio.

Surkov ha anche tradotto il concetto di “Mondo Russo” per il pubbli-


co dei social network in chiave “internazionalista”.
«Il “Mondo Russo” è quello dove» ha affermato Surkov nel 2021

si parla e si pensa russo. Ma anche un luogo dove magari non si


parla e non si pensa in russo, ma dove c’è un grande rispetto per la
cultura russa. È qui che molti vedono il modello russo di sviluppo
nazionale come un’alternativa a quello che hanno in patria. Quello
in cui la gente teme le armi russe, quello è anche il Mondo Russo.
Dove si guardano con stima i nostri scienziati, i nostri scrittori, la
nostra arte; dove il nostro Putin è rispettato, è anche tutto Mondo
Russo. E ci sono molti luoghi in cui egli è rispettato, anche da
persone che non parlano russo, che hanno anche solo una vaga
idea della Russia. E anche in qualsiasi Paese che spera nella Russia,
nella sua protezione, nel suo patrocinio, nel suo appoggio in caso
di conflitti. Ci sono molti Paesi di questo tipo: sia in Africa che nel
resto del mondo.

In un articolo più strategico, Il lungo Stato di Putin, nel 2019 Surkov


aveva anche proposto un vero e proprio manifesto che fece molto
scalpore, e basta leggerne alcuni brani per capirne il perché.

L’impossibile innaturale e controstorica disintegrazione della Rus-


sia è stata, seppur tardivamente, fermamente arrestata. Quando
la Russia è crollata dal livello dell’Urss a quello della Federazione
Russa, ha smesso di crollare, ha iniziato a restaurarsi ed è tornata al
suo stato naturale e unico possibile di grande comunità di nazioni
in crescita e in grado di estendersi territorialmente.
l ’ ideologia putiniana 81

Secondo Surkov

la storia russa conosce, quindi, quattro modelli principali di Stato,


che possono essere convenzionalmente chiamati con il nome dei
loro creatori: lo Stato di Ivan III (Granducato/Regno di Mosca e
di tutta la Russia, Quindicesimo-Diciassettesimo secolo); lo Stato
di Pietro il Grande (Impero Russo, Diciottesimo-Diciannovesimo
secolo); lo Stato di Lenin (Unione Sovietica, Ventesimo secolo); lo
Stato di Putin (Federazione Russa, Ventunesimo secolo). Create da
uomini di quella che Gumilëv chiamava «lunga volontà», queste
grandi macchine politiche, sostituendosi l’una all’altra, aggiustan-
dosi e adattandosi man mano, hanno fatto sì che il Mondo Russo si
muovesse costantemente verso l’alto, secolo dopo secolo.

Si tratta degli stessi argomenti imperialisti e colonialisti che poi Putin


ha “popolarizzato” dopo l’inizio della guerra.
Il Presidente russo, secondo Surkov, avrebbe creato un

sistema politico made in Russia non solo adatto per il futuro del
Paese, ma che ha chiaramente un significativo potenziale di export;
una domanda per questo sistema [il putinismo] o per i suoi singoli
aspetti esiste già, la sua esperienza è studiata e parzialmente adot-
tata, è emulata sia dai partiti di governo sia da partiti di opposizio-
ne in molti Paesi.

Ma il “Progetto Putin” non è semplicemente la creazione di una sorta


di “internazionale populista”: come il Grande Fratello di 1984 la mac-
china propagandistica russa secondo Surkov «si sta intromettendo nei
loro cervelli [occidentali] e loro non sanno più già cosa fare con la
loro coscienza alterata». Il putinismo si presenta come il primo caso
vincente di populismo che nasce e si sviluppa dall’interno dell’élite
politica e non dall’opposizione, e sa usare la politica come qualsiasi
altra tecnologia non solo per indirizzare il consenso interno ma a fini
imperiali.
«Quando tutti erano ancora pazzi per la globalizzazione e chiede-
vano a gran voce un mondo piatto e senza confini» afferma ancora
Surkov
82 la russia dopo putin

Mosca ci ha ricordato chiaramente che la sovranità e gli interessi


nazionali contano. All’epoca, molti ci accusavano di essere “inge-
nuamente” attaccati a queste vecchie cose, presumibilmente fuori
moda da tempo. Ci hanno insegnato che non dovevamo aggrap-
parci ai valori del Diciannovesimo secolo, ma che dovevamo en-
trare con coraggio nel Ventunesimo secolo, dove non ci sarebbero
state nazioni e Stati nazionali sovrani. Il Ventunesimo secolo, tut-
tavia, è uscito a modo nostro. La Brexit britannica, il #graceagain
americano e le recinzioni anti-immigrazione dell’Europa sono solo
le prime voci della lunga lista delle manifestazioni onnipresenti
della deglobalizzazione, del riverbero e del nazionalismo.

L’Impero appare quindi rovesciato: la globalizzazione va prima con-


tenuta e poi trasformata nella Vandea internazionale del Ventunesimo
secolo.
La Russia avrebbe svelato al mondo il “bug” della democrazia glo-
balista americana e avrebbe riportato a galla la questione della “sovra-
nità” e dei nazionalismi, ricompostosi lungo un decennio in Europa
orientale nel periodo che va dall’apertura delle frontiere dell’Unghe-
ria nell’estate del 1989 e l’ultima guerra nella ex Jugoslavia del 1999,
ma non chiusasi nell’ex Urss, e che ora come un giocattolo caricato a
molla dalle troppe contraddizioni– afferma Surkov– rimbalza di nuo-
vo in Occidente.

Non molto tempo fa il termine poco conosciuto derin devlet,


tratto dal dizionario politico turco, è stato riprodotto dai media
americani, tradotto in inglese come deep state, e poi diffuso nei
nostri media. In russo significa ‘profondo’ o ‘Stato profondo’.
Il termine indica la rigida organizzazione a rete, completamente
antidemocratica, del potere reale delle strutture di potere nasco-
ste dietro istituzioni esterne e ostentatamente democratiche. Un
meccanismo che in pratica opera attraverso la violenza, la cor-
ruzione e la manipolazione ed è nascosto in profondità sotto la
superficie della società civile, con parole (ipocritamente o sem-
plicemente) di condanna della manipolazione, della corruzione
e della violenza.
l ’ ideologia putiniana 83

Nella visione di Surkov, la Russia basandosi su un sistema autori-


tario esplicito, in cui le “libertà” vengono rinchiuse ermeticamente
nella sfera privata, e che si batte con ogni strumento per difendere i
suoi interessi strategici, diventa finalmente comprensibile e accettabi-
le anche per parte dell’opinione pubblica occidentale. Si tratta insom-
ma di una versione aggiornata della filosofia na kuchnju (‘in cucina’)
dell’era sovietica, quando i discorsi proibiti in famiglia e tra gli amici
si facevano solo in cucina, al riparo da orecchie pericolose di possibili
delatori. Quella “cucina” è diventata solo un po’ più ampia, e include
la possibilità di scaricarsi un film o un libro o persino di insultare il
“Grande Fratello”, ma non deve esprimersi in nessuna forma politica
di protesta o di associazione. In linea di massima nell’ultima Russia
vale la regola espressa da un satirico bulgaro del passato: «Puoi pensa-
re ma non puoi parlare, e se parli non scrivere, e se scrivi non firmare
nulla. Ma avendo deciso di firmare, non stupitevi di ciò che seguirà».
Lo Stato russo per Surkov, nella sua brutalità, è «affascinante» per-
ché non è «ipocrita» («siamo quel che siamo» ha sintetizzato Lavrov
in un’intervista alla Bbc dopo l’inizio della guerra in Ucraina). Uti-
lizzando una metafora neanche tanto implicita, Surkov sostiene che
«le strutture più brutali della sua struttura di potenza si sviluppano
in Russia, senza alcun orpello architettonico». Quindi la Russia non
vivrebbe di doppiezze; nell’unità attorno a Zar Putin si sinterizzano
le speranze, i progetti, i sogni della maggioranza dei sudditi che loro
spesso non sono neppure in grado di esprimere e rappresentare po-
liticamente: «In Russia non c’è uno Stato profondo, è tutto sotto gli
occhi di tutti, ma c’è un popolo profondo» con cui lo Zar opera un
feedback, cosciente com’è della determinazione storica del suo agire.
Per Surkov

il concetto di popolo, qualunque cosa significhi, precede quello


di Stato, ne predetermina la forma, limita le fantasie dei teorici,
costringe a praticare determinate azioni. È una potente calamita
a cui tutte le traiettorie politiche inevitabilmente conducono, sen-
za eccezioni. In Russia si può iniziare da qualsiasi parte: dal con-
servatorismo, dal socialismo, dal liberalismo, ma alla fine si deve
arrivare più o meno alla stessa cosa. In effetti, è proprio così. La
capacità di ascoltare e capire il popolo, di vedere attraverso di esso
84 la russia dopo putin

e di agire di conseguenza è la virtù unica e principale dello Stato di


Putin. È adeguata al popolo, è un tutt’uno con esso, e quindi non
è soggetto ai sovraccarichi distruttivi delle correnti contrarie della
storia. Di conseguenza, è efficace e durevole.

Il progetto “totalitario” putiniano è il contraltare del progetto “totali-


tario” democratico-americano in cui ogni pietà e ipocrisia è morta; si
presenta immediatamente come nudo potere dello Zar su cui si con-
centrano le aspirazioni popolari fondamentali. Per dirla ancora con
Surkov: «Nel nuovo sistema, tutte le istituzioni sono subordinate al
compito principale di garantire la comunicazione e l’interazione tra il
sovrano e i cittadini».

Dugin- Glaz’ev, il fascismo millenaristico e l’eurasiatismo soviet-style

In Europa e in Italia in particolare nella pubblicistica si è sempre


dato un gran spazio ad Aleksandr Dugin come rappresentante con-
temporaneo dell’euroasiatismo russo, che ha le sue radici in Nikolaj
Trubeckoj e nell’etnologo Lev Gumilëv. Invitato più volte in Italia a
tenere conferenze da formazioni e think tank di estrema destra, ma
anche dalla Lega, il personaggio si attaglia perfettamente alla figu-
ra del “fascista maledetto”. Da sempre dotato di una folta barba da
Vecchio Credente, esordisce nella dissidenza sovietica a diciotto anni
aderendo al gruppo Ordine nero Ss. Quindi dopo il crollo dell’Urss
è il fondatore con Limonov del Partito Nazionalbolscevico che vor-
rebbe coniugare e assemblare tutte le diverse pulsioni dell’estrema
destra europea degli anni Novanta, con il recupero assai ardito del
Debord della Società dello spettacolo passando per il “gramscismo di
destra”, come anche di alcune correnti estetizzanti della “rivoluzione
conservatrice”, facendo della Russia il cuore di un disegno paneuro-
peo tradizionalista.
All’inizio degli anni Novanta, lo storico Walter Laqueur sostenne
che le opinioni di Dugin erano caratterizzate «da irrazionalismo, an-
tisemitismo, intolleranza verso il socialismo e una visione cospirativa
della storia, andando oltre il tradizionale nazionalismo russo e avvici-
nandosi all’ultraconservatorismo europeo».
l ’ ideologia putiniana 85

Laqueur aggiunse poi che Dugin aveva cercato per molti anni di
presentare un’ideologia sinteticamente nuova, una miscela di alcuni
dei più famigerati elementi occidentali (il neofascismo italiano nello
stile di Julius Evola, la “Nuova Destra” francese di Alain de Benoist e
la geopolitica neonazista), per poi rendersi conto della necessità di al-
cuni elementi specifici russi e adottare una versione rinnovata dell’eu-
rasiatismo.
Il politologo americano Stephen Schoenfield ha sostenuto a sua
volta che «la chiave della visione politica di Dugin è il concetto classi-
co di “rivoluzione conservatrice”, che mira a rovesciare l’ordine mon-
diale post-illuminista e a stabilire un nuovo ordine in cui i valori eroici
di una “Tradizione” quasi dimenticata devono essere fatti rivivere. È
l’impegno in questo concetto che identifica chiaramente Dugin come
un fascista».
Tra una conferenza e l’altra sulla “Quarta Teoria”, la sua, che su-
pererebbe capitalismo, socialismo e fascismo in un balzo solo, Dugin
ogni tanto si è lasciato andare a dichiarazioni più nette, quando invita
in un talk show a «uccidere, uccidere, uccidere» gli ucraini, che nel
2015 lo costringono a lasciare la cattedra all’Università Lomonosov di
Mosca e le presenze in tv.
Dopo il 24 febbraio Dugin, da sempre votato all’irredentismo im-
periale, è tornato in auge con una messe di interviste, articoli e saggi
in cui sostiene essenzialmente di essere “più putinista di Putin” e di
riconoscersi appieno nella logica dello “scontro di civiltà” con l’Occi-
dente da cui vanno tratte tutte le necessarie conseguenze.
Il suo nuovo inizio lo ha definito in una lunga intervista in cui chia-
risce come dovrà essere il mondo di domani, caratterizzato dallo «spi-
rito tradizionale russo». Putin, secondo Dugin, avrebbe finalmente
abbandonato ogni idea di compromesso e avrebbe iniziato una «guer-
ra di civiltà» contro «il totalitarismo unipolare» dove esiste «un’u-
manità unificata, che immaginano dovrebbe essere liberale, omo e
transessuale, femminista. Dove la ragione è sostituita dall’intelligenza
artificiale: iPhone in mano, cuffie nelle orecchie, dove in tutti in con-
tinenti si suona la stessa cosa e dove passano gli stessi video idioti di
TikTok».
Al contrario di Dugin, chi è stato ufficialmente braccio destro di
Putin per gli affari esteri per molti anni, e continua ad esserlo dietro le
86 la russia dopo putin

quinte, è Sergej Glaz’ev, classe 1961, un mezzosangue ucraino (è nato a


Zaporože) e fondatore di Rodina, un partito di estrema destra putinia-
no dai toni violentemente anti-occidentali che ama riprodurre simboli-
smi sovietici. I temi e gli argomenti però sono simili a quelli di Dugin.
Glaz’ev, di suo, prende spesso in prestito a sostegno delle sue tesi
imperialiste Karl Marx e soprattutto Nikolaj Kondratev (paradossale
che uno stalinista dichiarato ami citare spesso un socialrivoluzionario
e un economista che fu prima messo nel Gulag e poi fucilato dalla
Nkvd), ma ha recuperato delle assonanze con l’impianto definito da
Giovanni Arrighi sui cicli imperiali del capitalismo.
Nelle sue monografie sulla geopolitica mondiale Glaz’ev ripete in
modo più organico le tesi sostenute da Putin dopo l’inizio dell’attacco
all’Ucraina. La guerra per la “denazificazione” dell’Ucraina è in realtà
per lo studioso del Cremlino, senza mezzi termini, un mezzo per ini-
ziare un confronto, per “alzare la posta in gioco”.
«Chipizzazione, intelligenza artificiale, Lgbt, distruzione della fami-
glia» scrive Glaz’ev «questa è un’immagine di morte, non di futuro».
Questa nuova «guerra ibrida mondiale» tra Russia e Occidente sa-
rebbe una guerra «tra il bene e il male e una guerra in ultima istanza
per la sopravvivenza dell’umanità nel lungo periodo». Sono tesi che
l’analista del Cremlino ha già sostenuto in diverse voluminose mo-
nografie del passato: la guerra per la Crimea e il Donbass avrebbero
coinvolto l’intero “Mondo Russo” e avrebbero condotto a una Terza
Guerra Mondiale contro l’America, che ora, a questo punto, sarebbe
già in corso.
Glaz’ev ritiene che l’apice del confronto sarà nel 2024. «Perché
il 2024, e perché ci troviamo in questa situazione di guerra ibrida?»
si chiedeGlaz’ev. Perché il centro dell’economia mondiale si sposta
inesorabilmente a Oriente, mentre il vecchio «ordine anglosassone»
intende utilizzare alcune nuove tecnologie come armi per frenare l’e-
voluzione naturale verso un «nuovo ordine» basato sulla Cina e con la
Russia come alleato europeo.
«Nel corso di questa fase di transizione» sostiene Glaz’ev

si è già formato un nuovo stadio tecnologico, un noto complesso


di nanoingegneria delle tecnologie dell’informazione e della comu-
nicazione, che si sta evolvendo non solo nell’economia, ma anche
l ’ ideologia putiniana 87

nelle modalità di guerra. Stiamo vedendo che non siamo solo di


fronte a un avversario con sede al Pentagono e all’MI6. Le nostre
truppe stanno affrontando l’intelligenza artificiale. Questa è già la
guerra di un nuovo paradigma tecnologico.

In questa versione riveduta e corretta di Matrix, la Russia non avreb-


be fatto altro che razionalizzare e cogliere le tendenze del prossimo
futuro: per questo essa rappresenta l’avanguardia, per ora in solitaria
ma non per molto, della “lotta per la sopravvivenza dell’umanità” e
che troverà inevitabilmente alleati nella “parte sana” dell’Occidente.
Quale sia la parte sana è facile immaginare.
All’ideologia putiniana Glaz’ev aggiunge l’idea della Russia come
«impero benevolente», impegnato a svilupparsi non solo nel “Vicino
Estero” ma nel mondo intero. Nel suo libro L’ultima guerra mondia-
le. Gli Stati Uniti l’iniziano e la perdono, Glaz’ev afferma che «la co-
scienza nazionale russa, secondo Dostoevskij, è caratterizzata da una
“coscienza universale reattiva”». Si è manifestato chiaramente nella
politica estera dell’Impero Russo e nell’’Unione Sovietica. «Gli zar
risposero alle richieste dei popoli oppressi» sottolinea Glaz’ev «acco-
gliendole e aiutandoli a svilupparsi». Nella sua infinita generosità, «la
Russia si riteneva responsabile dell’intero mondo ortodosso e slavo,
e mobilitò i soldati russi per difendere la Georgia dalle bellicose tri-
bù caucasiche e per liberare i Balcani dal giogo ottomano». Così poi
anche «l’Urss fu impegnata in una lotta estenuante per costruire il
socialismo in ogni continente del pianeta, assistendo i partiti comuni-
sti, i movimenti di liberazione nazionale e i Paesi in via di sviluppo a
orientamento socialista».
Una lotta plurisecolare quella dello “spirito russo”, nella visione di
Glaz’ev, che va oltre le organizzazioni sociali ed economiche del Paese
e che si proietta nella “guerra mondiale” lanciata da Putin contro la
degenerazione occidentale.

La Russia è uno Stato fascista?

Nei social network, nelle discussioni, come anche nel dibattito ac-
cademico, la questione se lo Stato putiniano sia fascista è tornata inevi-
88 la russia dopo putin

tabilmente in auge. Tuttavia molto spesso si ha la sensazione che questa


caratterizzazione si basi su esigenze più propagandistiche che scienti-
fiche. Il regime di Putin naturalmente è un regime dittatoriale, basato
come abbiamo visto su spezzoni di ideologia radicalmente reazionaria
e imperialista, sul dominio all’interno del Paese di un piccolo gruppo
di uomini raccolti intorno al leader carismatico. Ma è anche vero che
molti regimi autoritari, compreso il totalitarismo staliniano, hanno avu-
to queste caratteristiche senza dover per forza essere definiti fascisti.
Se prendiamo come riferimento alcune delle quattordici categorie del
fascismo elencate da Umberto Eco nel suo saggio sul Fascismo eterno
(culto della tradizione, paura della diversità, ossessione per i complotti,
percezione eccessiva della forza dei nemici interni, idea della guerra
permanente, elitismo, eroismo, machismo, uso della neolingua ecc.) la
Russia potrebbe essere definita fascista. Da parte sua la filosofa Judith
Butler, una vera propria icona del femminismo del Ventunesimo secolo,
in una recente intervista sul blog della casa editrice Verso ha sostenuto
che il «nuovo fascismo» legittimerebbe l’odio dei nuovi «oppressi» del
cosiddetto Primo Mondo, cioè della classe operaia e i lavoratori a basso
salario negli Stati Uniti, diventati da tempo una risorsa per la massiccia
mobilitazione politica portata avanti da Trump. Anche secondo Il’ja
Budraitzkis «probabilmente si può già affermare con assoluta certez-
za: l’attuale regime politico in Russia rappresenta una nuova forma di
fascismo, un fascismo del Ventunesimo secolo per cui si attaglierebbe
meglio l’analisi di Karl Polanyi a quella di Ernst Nolte».
All’opposto la studiosa Marlène Laruelle, che abbiamo già incon-
trato in questo capitolo, ha negato con decisione che per il putinismo
possa attagliarsi la definizione di fascismo. Laruelle, nel libro citato,
non ritiene sufficiente che il regime di Putin si concentri sulla messa
al bando dell’opposizione liberale e inviti i cittadini a occuparsi della
loro vita privata e del loro benessere individuale, concedendo quan-
ti più spazi liberi per l’espressione non politica al fine di evitare il
risentimento, che potrebbe diventare un motore della mobilitazione
anti-regime.
Laruelle segnala anche che

al regime di Putin manca anche un altro elemento centrale del fa-


scismo: l’indottrinamento e la mobilitazione di massa. Il regime
l ’ ideologia putiniana 89

non si fonda su una dottrina convalidata dallo Stato. Non è stato


ricostruito niente di simile al marxismo-leninismo, con le sue let-
ture obbligatorie, le citazioni e gli esami richiesti per perseguire
qualsiasi obiettivo, e gli esami necessari per intraprendere qualsiasi
carriera di alto livello.

Entrambe queste posizioni presentano dei limiti, anche se il tentativo


della studiosa francese di ridurre il fenomeno Putin a una forma di
autoritarismo neppure tanto virulento è inquietante.
Allo stesso tempo è vero che il regime putiniano non può essere
interpretato come fascismo con il metodo classico del Trockij degli
anni Trenta. Nel suo celebre opuscolo Cos’è il fascismo il fondatore
dell’Armata Rossa sosteneva che il fascismo italiano fosse «un movi-
mento spontaneo di grandi masse», un movimento «di origine plebea,
diretto e finanziato dai grandi poteri capitalistici» oltre che «in una
certa misura, dalle masse proletarie», e lo stesso valeva essenzialmente
per la sua variante tedesca. Il fascismo inoltre si presentava come un
movimento di opposizione che voleva ricostruire lo Stato capitalista su
nuove basi, come movimento controrivoluzionario, che aspirava a mo-
bilitare le masse. Queste caratteristiche “classiche” del fascismo man-
cano al sistema putiniano, che nasce dentro la nomenklatura sovietica
e dentro le élite oligarchiche e cresce in una fase di eclissi del movi-
mento operaio “per sé” e di sconfitta storica delle sue organizzazioni.
L’ipotesi segnalata da Budraitzkis basandosi sulle riflessioni di Po-
lanyi, secondo cui «l’obiettivo del fascismo era la completa atomizza-
zione sociale e la dissoluzione dell’individuo nella macchina di produ-
zione», e in questo il fascismo somiglierebbe al possibile divenire del
putinismo, merita di essere tenuta in conto, ma come ha sottolineato
Michele Cangiani nel suo libro Economia e democrazia. Saggio su Karl
Polanyi, in un senso ancora più ampio:

Polanyi dà al termine “controrivoluzione” un significato particola-


re: esso indica che la crisi delle istituzioni democratico-liberali dà
luogo alla loro completa e violenta abolizione e a una trasforma-
zione radicale del sistema politico ed economico. Non è fascista
qualsiasi controrivoluzione, ma il fascismo è controrivoluzionario
anche rispetto alla rivoluzione borghese.
90 la russia dopo putin

Nel prossimo futuro, se il regime putiniano dovesse reggere e su-


perare indenne la prova della guerra in Ucraina, un maggiore inqua-
dramento ideologico della società russa sembra inevitabile. Durante
l’incontro con i giovani imprenditori del 9 giugno 2022 che abbiamo
già citato, alla domanda di uno degli ospiti se «i russi staranno poi me-
glio tra dieci anni», Putin ha risposto «alla fine sì, staranno meglio».
La rottura dell’ordine mondiale cercata e voluta dal Presidente
russo, dunque, prevederebbe almeno dieci anni di sacrifici. A fronte
di ciò alla popolazione russa dovrà essere fornito un senso storico e
mitopoietico della svolta putiniana che non potrà che essere sempre
più ideologico: se non si promette più al popolo il comunismo integra-
le come Kruščëv negli anni Sessanta ma solo un più vago “mondo mi-
gliore” basato “sui valori tradizionali e la sovranità”, necessariamente
ciò dovrà essere supportato da una visione della società russa e delle
sue prospettive molto più strutturata.
La volontà di inquadrare la gioventù come durante il periodo so-
vietico, per esempio, c’è tutta. Nel mese di maggio 2022 la Duma ha
approvato con voto all’unanimità una legge «sul movimento russo
dei bambini e dei giovani». Simbolicamente la votazione è avvenuta
il giorno in cui in Unione Sovietica si celebrava la Giornata dell’Or-
ganizzazione dei Pionieri, che nel 2022 ha compiuto cento anni. Il
movimento, secondo uno dei capi di Russia Unita, Artëm Metelev,
«promuoverà le politiche dello Stato per i bambini e i giovani» e pre-
parerà i giovani cittadini a «una vita piena nella società, compresa la
formazione della loro visione del mondo sulla base dei valori spirituali
e morali tradizionali russi».
Si tratta di un processo in corso e di cui non si possono intuire
pienamente i tratti futuri. Per questo c’è da ritenere che per compren-
dere la “natura sociale” del regime russo non basterà semplicemente
applicare una categoria del passato come “fascismo” e andranno scan-
dagliati ancora di più la sua struttura economico-sociale e le trasfor-
mazioni interne negli ultimi vent’anni. Forse nel corso del tempo si
potrà giungere a inquadrarlo per quello che è, come “putinismo”, e
ciò basterà a qualificarlo.
4

La struttura economica russa

L’idea di Putin di far tornare “grande” la Russia grazie a un’espan-


sione territoriale, e un riequilibrio dei rapporti di forza che inserisca
in una posizione di forza la Russia nel multipolarismo in quanto “po-
tenza sovrana”, è basata su delle illusioni in cui al Cremlino si cullano
ormai da tanto tempo, e che sono destinate a concludersi con un bru-
sco ritorno alla realtà. Anche perché, viste le fragilità e i limiti della
propria economia, sembra difficile che il Paese possa sviluppare nel
tempo anche solo un programma bellico convenzionale ed efficace. In
ultima istanza la sua potenza nucleare è l’unico elemento di forza (o di
ricatto) che la mantiene ancora tra il novero delle potenze mondiali.
La Russia è un Paese dai caratteri socioeconomici ibridi determi-
nati dalla sua storia contraddittoria.
Boris Kagarlickij, sociologo e attivista di sinistra russo, ha definito
in Impero della periferia con una sintesi fulminante l’economia russa
un «impero della periferia» che ha iniziato a prendere forma commer-
cialmente già nel Sedicesimo secolo. In quell’epoca

da un lato c’era un’eccedenza, un costante afflusso di valuta forte


in cui la Russia beneficiava del commercio mondiale, garantendo
l’accumulo di capitale, e dall’altro la struttura del commercio era
chiaramente periferica. Le somiglianze con le colonie americane
notate da Willan sono tutt’altro che casuali. Le colonie del Nord
America (Nuova Inghilterra) furono originariamente concepite
come basi di materie prime per sostituire o integrare i prodotti
provenienti dalla Russia. Tuttavia, come nota J.L. Beer, famoso
92 la russia dopo putin

studioso di storia coloniale, «i tentativi di assicurarsi forniture di


catrame, canapa e altri prodotti necessari per la costruzione di navi
dal New England, che continuarono per un lungo periodo, si con-
clusero con un completo fallimento. I liberi coloni americani, fin
dall’inizio, non produssero ciò che la metropoli richiedeva, ma ciò
che era redditizio per loro. La struttura economica della Nuova
Inghilterra riprodusse spontaneamente l’economia britannica. In
questa situazione, le forniture di materie prime dalla Russia rima-
sero indispensabili per la marina e l’industria britannica per tutto
il Diciassettesimo e Diciottesimo secolo».

In questo senso si può capire perché la Russia non abbia mai cono-
sciuto una reale stabilità politico-sociale, come in parte è accaduto nei
Paesi del “centro” del sistema-mondo.
«La Russia» sottolinea Kagarlickij «esportava materie prime e im-
portava tecnologia. Nel mercato mondiale competeva con altri Paesi e
territori che si trovano alla periferia del sistema mondiale emergente.
Questa combinazione di potere e vulnerabilità predeterminò l’inevi-
tabile aggressività della politica estera della Moscovia, nonché i suoi
successivi fallimenti».
Come si vede è cambiato ben poco da allora…
Passando per alterne vicende il carattere di fondo dell’economia
russa, nei secoli, fondamentalmente non è mai mutato, se si esclude
forse il tentativo dell’epoca di Stalin, non si sa quanto voluto o im-
posto dalle contingenze, di costituire una sorta di mercato mondiale
alternativo semi-autarchico a quello occidentale.
Dal 1960 con la scoperta di giganteschi giacimenti di petrolio in
Siberia occidentale, però, l’Urss iniziò ad aumentare l’esportazione di
materie prime verso il mondo capitalista in cambio di prodotti finiti e
tecnologie. Iniziarono a comparire le fabbriche che producevano Fiat
124 progettate in Italia e quelle che producevano bottigliette della
Pepsi-Cola.
Fino alla fine dell’Urss l’intercambio all’interno del Comecon ri-
mase comunque fondamentale, ma la burocrazia sovietica si trovò
sempre di più impigliata nel mercato mondiale e con un significativo
debito esterno, determinato da una sempre maggiore dipendenza dai
sistemi produttivo e finanziario occidentale. Da presunta seconda po-
la struttura economica russa 93

tenza economica mondiale si ritrovò rapidamente a svolgere il ruolo


di semi-colonia. Che le cose stiano così lo ha riconosciuto – seppur
rozzamente – lo stesso Putin nella sua conversazione con i giovani
imprenditori:

Per poter rivendicare una leadership – non parlo di una leadership


globale, ma almeno in qualcosa – ovviamente ogni Paese, ogni na-
zione, ogni etnia deve garantire la propria sovranità. Perché non
c’è nessuna componente intermedia, nessuno Stato intermedio: o
il Paese è sovrano o è una colonia, non importa come la si chiami.
Ora non farò esempi, per non offendere nessuno, ma se un Paese
o un gruppo di Paesi non è in grado di prendere decisioni sovrane
è già in qualche modo una colonia. E una colonia non ha alcuna
prospettiva storica, né alcuna possibilità di sopravvivere in una lot-
ta geopolitica così dura.

L’integrazione dell’Urss e poi della Russia nel mercato internaziona-


le si dipanò in Urss in modo originale, in quanto parte significativa
dell’economia era precedentemente collocata all’esterno del mercato
mondiale e, allo stesso tempo, l’accumulazione primitiva a differen-
za della Cina era ormai già definitivamente alle spalle. Non potendo
sfruttare la nuova ondata di internazionalizzazione dell’economia de-
gli anni Ottanta e Novanta, invece di un tardo capitalismo di marca
occidentale, sorse in Russia un mostro bicefalo, in cui la prima testa
è una variante del capitalismo di Stato semiperiferico “alla Waller-
stein” basato su un insieme di relazioni neofeudali e incentrato sulla
corruzione, sul clientelismo e sul parassitismo del capitale privato, e la
seconda un sistema tardo-feudale neoliberista.
Così, date le dimensioni e il ruolo storico della Russia, il suo essere
“semiperiferia” ha delle caratteristiche particolari, non è paragonabile
a nessun’altra semiperiferia del mondo. Una delle sintesi migliori del
carattere “intermedio” della Russia si può rintracciare nel saggio «Up-
per Volta with Gas»? Russia as a Semi-Peripheral State di Rick Simon,
pubblicato in una interessante raccolta del 2009 proprio sul sistema
periferico su scala mondiale. Partendo dalla classica definizione del-
la scuola del “sistema-mondo”, l’autore sottolinea che le peculiarità
storiche del pieno rientro della Russia nel mercato mondiale hanno
94 la russia dopo putin

caratterizzato anche la sua élite, la quale non è semplicemente ricon-


ducibile a una “borghesia compradora”.
La Russia è uno stato semiperiferico, anche se atipico, perché la
«rivoluzione passiva», o la «grande involuzione», come la chiama Mi-
chael Burawoy,

ha comportato la ricombinazione o il mantenimento di componen-


ti significative del sistema sovietico in termini di gestione e dell’ap-
parato gerarchico.
Inoltre, il passato della Russia come grande potenza militare e l’ap-
partenenza a organismi internazionali le conferiscono un’impor-
tanza particolare (membro permanente nel Consiglio di Sicurezza
dell’Onu con diritto di veto) e una presenza globale diversa da
quella di qualsiasi altro Paese “semiperiferico”.

Se si volessero sintetizzare i caratteri della Russia si potrebbe parlare


di un capitalismo di Stato neofeudale semiperiferico, o di una potenza
imperialista regionale con proiezione mondiale.
Come ha spiegato correttamente ancora Kagarlickij:

Negli anni Novanta, in Russia iniziò un processo di deindustria-


lizzazione accelerata e milioni di persone che prima lavoravano
nell’industria sono state costrette a trovare nuovi lavori: piccoli
commercianti, vigilantes, domestici. La brusca transizione verso
un’economia aperta ha fatto sì che i lavoratori sovietici, abituati a
un ambiente sociale completamente diverso, si trovassero indifesi
di fronte al mercato globale. Interi settori dell’economia stavano
crollando. I riformatori si sono giustificati ricordando che molte
delle imprese crollate producevano prodotti di bassa qualità ed
erano inefficienti, e così la Russia andò inesorabilmente ad assu-
mere il posto di semiperiferia che la divisione internazionale del
lavoro le aveva assegnato. Uno dei pochi settori in controtendenza
fu l’ingresso della metallurgia russa nel mercato mondiale dopo
il default finanziario del 1998… Come nel Diciottesimo secolo,
il calo della domanda interna (riduzione al minimo dell’ordine di
difesa) ha portato alla liberazione di capacità inutilizzata, mentre
l’economicità della manodopera ha reso il metallo russo piuttosto
la struttura economica russa 95

competitivo. E qui la crescita della produzione non è dovuta tanto


allo sviluppo e alla modernizzazione, quanto alle vecchie potenzia-
lità dell’era sovietica.

Non è quindi un caso che sia stato questo settore ad essere messo più
sotto pressione dopo il 24 febbraio 2022, quando si è rivelata chia-
ramente la dipendenza dalle tecnologie e dai mercati di sbocco oc-
cidentali, neppure tanto attraverso le sanzioni quanto con la parziale
distruzione delle catene della logistica.
Alcuni riferimenti statistici per quanto imperfetti offrono un qua-
dro dello sviluppo economico del Paese nel contesto della competi-
zione globale. Secondo i dati della Labour International Organization
pubblicati nel 2021, la produttività del lavoro (Pil per ora lavorata in
dollari) era di 30,3 in Russia contro i 70,6 degli Stati Uniti e il 57,7
dell’Italia. La metà quindi dei Paesi altamente sviluppati in generale.
Per quello che riguarda il tasso d’innovazione nel complesso, secondo
il Global Innovation Index pubblicato dalla Wipo il Paese più innova-
tivo al mondo nel 2020 era la Svizzera con un rating del 66,08, seguito
dalla Svezia a dagli Usa. La Russia con 35,63 era solo al quarantasette-
simo posto superata da tutti i Paesi occidentali. L’innovazione russa si
concentra in primo luogo nel complesso militare, nella cosmonautica
e nell’energia atomica. Come ha messo in luce il professor Evgenij Ba-
lackij dell’Accademia Russa delle Scienze, il fallimento dei piani di in-
novazione tecnologica russi e quindi dell’aumento di produttività van-
no fatti risalire a due ragioni: 1. l’esagerato ruolo giocato dalle imprese
statali in questo campo; 2. il tentativo di saltare la fase “imitativa” (che
invece hanno seguito Corea del Sud e Cina) al fine di saltare una fase
di sviluppo e attestarsi immediatamente al livello dei Paesi più avan-
zati. Il risultato è che la prima azienda russa nel 2021 per innovazione
e ricerca era Gazprom al 448º posto della classifica mondiale.
Basterà aggiungere che la Russia, malgrado ci sia una grande tra-
dizione scientifica ereditata dall’Urss, ha ricevuto dall’arrivo al potere
di Putin solo quattro Premi Nobel nelle scienze, tutti nel campo della
fisica. Sono Žores Alfërov, Vitalij Ginzburg, Aleksej Abrikosov e Kon-
stantin Novosëlov, ma gli ultimi due erano da lungo tempo emigrati
al momento del conseguimento del Nobel, e l’ultimo, Novosëlov, nel
2010 si era da tempo naturalizzato inglese.
96 la russia dopo putin

In realtà la situazione per la Russia è ancora peggiore di quanto si


possa pensare, perché il rapporto tra produttività e input di risorse
come prima in epoca staliniana e poi in misura minore nel secondo
dopoguerra resta negativo. Lo ha dovuto segnalare anche l’Accade-
mia Russa delle Scienze in uno studio del 2022 e basato su dati della
Rosstat 2014. La crescita della produttività russa era di 4,3 per ogni
risorsa investita, ma la quota di risorse primarie era stata di 23,5. La
Germania ha prodotto un 7,1 della produttività con una quota di ri-
sorse primarie di 13,5. Il Paese tecnologicamente avanzato da cui la
Russia è meno staccata è il Giappone (5,6 di produttività e 18 di ri-
sorse utilizzate). Gli studiosi russi che hanno pubblicato tale studio
hanno messo in luce che

A prima vista, la differenza di produttività e di quota di risorse


primarie utilizzate nella produzione tra la Russia e i Paesi svilup-
pati non sembra insormontabile. Tuttavia, questa differenza, data
la velocità del cambiamento tecnologico, è significativa e la sua
eliminazione potrebbe richiedere decenni. Ad esempio, il tempo
necessario per colmare il divario tecnologico tra Russia e Giappo-
ne è stimato in venticinque anni.

I dati sono per certi versi impietosi e il soprassalto per rimettere in


discussione la gerarchia mondiale da parte dell’oligarchia russa la ren-
dono l’ultima romanticheria da Diciannovesimo e Ventesimo secolo,
quando si pensava ancora che si potessero cambiare i destini del mon-
do con una campagna militare ben congegnata.

Capitalismo di Stato e servizi segreti

L’Urss, per molti motivi, non fu mai un capitalismo di Stato, come


fu teorizzato da Amadeo Bordiga, da Tony Cliff e altri teorici marxisti:
solo Putin è riuscito nell’impresa. Oggi i gangli fondamentali dell’e-
conomia russa sono controllati rigidamente dal Cremlino. Due terzi
della capitalizzazione di borsa sono in mano di aziende statali anche
solo attraverso il controllo della maggioranza dei pacchetti azionari:
petrolio, gas e elettricità, il sistema finanziario, l’industria della difesa
la struttura economica russa 97

ovviamente, i trasporti (ferrovie russe, Transneft, Rostelecom e Fede-


ral Grid).
Tra il 2003 e il 2008 si assistette a un gigantesco passaggio di
proprietà delle imprese della Federazione da mani private a statali
(in alcuni casi la rinazionalizzazione fu mascherata attraverso l’uso
di oligarchi-prestanomi). Non solo gli oligopoli di Chordorkovskij
e Berezovskij vennero smembrati e finirono sotto il controllo di uo-
mini di Putin. Yuganskneftegaz passò sotto il controllo di Rosneft,
Gazprom acquisì il 51% di Sibneft Oil, AvtoVaz Automobile (la
fabbrica di Togliattigrad a suo tempo costruita dalla Fiat) e Kamaz
Vsmpo-Avisma Titanium vennero acquisite da Rosoboronexport.
Kazan Aircraft, Mig Aircraft, Sukhoi Aviation, Ilyushin Aviation,
Gagarin Komsomolsk-on-Amur, Sokol Aircraft, Chkalov Aircraft e
anche la mitica Tupolev entrarono a far parte dell’azienda United
Aircraft (Oak) controllata dal potente ministero dell’Industria e del
Commercio.
Il “cerchio magico” del potere economico putiniano è essenzial-
mente composto dagli amici fidati dei tempi leningradesi e da uo-
mini ex Kgb e Fsb come Sergej Čemezov (amministratore delegato
di Rosoboronexport e poi di Rostec che incontreremo di nuovo più
avanti), Sergej Ivanov (presidente di United Aviation Airplane Ma-
nufacture, amministratore delegato di svariate aziende e consigliere
personale del presidente), Viktor Ivanov (già a capo di Aeroflot e
Almaz), Sergej Naryškin (già vicepresidente della Rosneft Oil e dal
2016 massimo dirigente dei servizi di intelligence all’estero), e natu-
ralmente Igor Sečin (presidente di Rosneft, da sempre considerato il
capobastone della corrente siloviki). Alla “vecchia guardia” si sono
via via aggiunti personaggi nuovi come Evgenij Dietrich, Vitalij Sa-
veljev e il ministro dell’Industria e del Commercio Denis Manturov,
in sella ormai dal 2012.
Questa squadra ha lavorato alacremente negli anni per realizzare
il sogno accarezzato dai golpisti dell’agosto 1991 di un capitalismo di
Stato russo a trazione liberista che realizzasse una versione in salsa
russa del regime di Pechino.
Il capitalismo di Stato rappresenta anche la base di massa del
consenso al regime. In un’inchiesta pubblicata dal portale «Kapital
Strany» si viene a conoscenza del fatto che le persone che dipendono
98 la russia dopo putin

dal bilancio in Russia sono 60 milioni, di cui 17,5 milioni sono dipen-
denti pubblici (43 milioni di persone sono pensionate).
«Dal 2011 il numero di dipendenti pubblici è aumentato del 2%.
Nel frattempo, il settore privato si sta riducendo, in particolare le pic-
cole e medie imprese si stanno estinguendo e il reddito imprenditoria-
le è sceso al livello più basso dai primi anni 2000» si legge nell’articolo.
I dipendenti statali rappresentano il 34% del reddito totale percepito
dai russi. Una quota non insignificante di questo terzo della popola-
zione, in un Paese autoritario come la Russia, è rappresentata dalle
spese per le strutture repressive interne, che rappresenta poco meno
del 10% del bilancio. Quanto viene speso per i servizi segreti è top
secret da anni, ma il ruolo per la stabilità del regime è così importante
che i siloviki sono diventati i vertici della classe privilegiata in Russia,
superando persino la nomenklatura del partito Russia Unita.
Così il Fsb tende sempre di più, secondo molti osservatori, a tra-
sformarsi in una casta parassitaria e corrotta, sulle orme della no-
menklatura brezneviana degli anni Settanta. Secondo il presidente
del Fsb Patrušev, per la loro devozione all’attività e il patriottismo
i suoi uomini sarebbero da definire «una nuova nobiltà», ma per
molti critici questa definizione sarebbe da declinare nel senso di una
sorta di guardia pretoriana da Ancien Régime. Il giornalista russo
Andrej Soldatov, nel libro The New Nobility, ritiene che «per certi
versi il Fsb somiglia di più alla spietata mukhabarat, la polizia se-
greta del mondo arabo: dedita alla protezione dei regimi autoritari,
che risponde solo a chi è al potere, è impenetrabile, completamente
corrotta e disponibile all’utilizzo di metodi brutali contro individui e
gruppi sospettati di terrorismo o di dissenso». Già a partire dai primi
anni Duemila, questa «nuova nobiltà» avrebbe sostituito in buona
parte per ruolo e funzioni la vecchia nomenklatura sovietica. Questo
passaggio di consegne sarebbe avvenuto non solo simbolicamente,
ma anche fisicamente: molte famiglie degli alti ufficiali del Fsb si
sarebbero installate nella lussuosa e quieta periferia moscovita della
Rublëvka che un tempo era appannaggio delle villette della burocra-
zia comunista.
Viktor Alksnis, un ex ufficiale dell’aviazione più volte decorato,
nel 2006 ha scoperto che nel 2003 e nel 2004 lo Stato aveva distribuito
a privati cittadini circa 99 acri della sua terra proprio alla Rublëvka.
la struttura economica russa 99

Queste terre consistevano in 80 lotti, 38 dei quali prelevati dai fondi


della direzione del materiale e del supporto tecnico del Fsb con il
consenso della direzione del servizio. Tali appezzamenti, forse non del
tutto casualmente, sono stati concessi a titolo definitivo a ex e attuali
funzionari di alto rango dell’Fsb. Secondo Alksnis, la terra veniva con-
cessa con il più semplice dei meccanismi: una lettera di richiesta a ti-
tolo gratuito era tutto ciò che serviva perché la terra passasse di mano.

L’inverno demografico

Uno degli obiettivi del gruppo dirigente del Cremlino prima con
l’annessione della Crimea e poi con l’invasione ucraina sarebbe quel-
lo di sfuggire dall’inverno demografico del Paese. Ma è un progetto
realizzabile?

Tabella 2

Popolazione in Russia (1939-2022)


% rispetto periodo
Anno Popolazione assoluta
precedente
2022 145.557.576 -0,42%
2021 146.171.015 -0,39%
2020 146.748.590 +0,33%
2015 146.267.288 +2,39%
2010 142.856.536 -2,75%
2000 146.890.128 -0,52%
1990 147.665.081 +6,91%
1980 138.126.600 +6,19%
1970 130.079.210 +9,27%
1960 119.045.800 +16,63%
1950 102.067.000 -5,82
1939 108.337.000 /

Fonte: Rosstat 2022


100 la russia dopo putin

Si noterà osservando la Tabella 2 come nel periodo sovietico, dopo gli


effetti della guerra mondiale, la popolazione crebbe intensamente, in
linea con la gran parte delle nazioni industrializzate, tra il 9 e il 16%.
La popolazione crebbe comunque nello stesso periodo della “stagna-
zione brezneviana”, ma con le privatizzazioni e il libero mercato della
seconda metà degli anni Ottanta e dei primi Novanta si ebbe un netto
calo, con una riduzione di 4 milioni di abitanti. Sono tutte tendenze
note per chi appena conosce la storia russa. Ciò che può sorprendere
è che gli effetti demografici positivi della crescita economica putiniana
sono ristretti in un breve lasso di tempo, sostanzialmente tra il 2010 e
il 2015, e a un livello insufficiente, il 2%, per invertire la tendenza. Se
si esclude la popolazione della Crimea, annessa nel 2014 (che secon-
do il censimento di quell’anno era composta da 2.884.769 persone),
potremmo vedere che al netto dell’aumento della mortalità determi-
natasi per gli effetti di Covid-19, la popolazione russa non cresce più,
o meglio si riduce a un ritmo circa doppio rispetto agli altri Paesi eu-
ropei. Secondo un’agenzia di stampa del ministero degli Interni rus-
so, grazie alle nuove leggi che facilitano (soprattutto per gli ucraini)
l’ottenimento del doppio passaporto, nel 2019 sono stati consegnati
circa 498.000 passaporti russi, nel 2020 656.000, e nel 2021 – secondo
tale nota – sarebbero cresciuti ancora di più. Può darsi che se la Rus-
sia riuscirà a confermare l’annessione di nuovi territori con la guerra
iniziata nel 2022, la popolazione crescerà ancora, ma presto anche
questo “effetto demografico coloniale” sarà spazzato via dall’“effetto
della generazione El’cin” (considerata debole psicofisicamente e de-
dita all’alcol), ovvero quando la popolazione nata nell’era della grande
depressione degli anni Novanta diventerà il “cuore” della società rus-
sa. L’emigrazione politica dopo l’inizio del conflitto (in primo luogo
composta da maschi giovani) è ancora difficilmente quantificabile (si
parla di cifre intorno al milione di persone), ma potrebbe incidere
ulteriormente sulle performance demografiche future.
I dati dell’aspettativa di vita evidenziano in modo ancora più netto
– anche in termini di qualità della vita – la spina demografica. Secon-
do i dati di Rosstat l’aspettativa di vita in Russia è di 70,0 anni. Su
questo dato pesa l’effetto di Covid-19, naturalmente (nel 2019 era di
73,3 anni). Tuttavia se si prendono dei dati in linea di massima parago-
nabili, come quelli Eurostat del 2021, si vede che in Italia l’aspettativa
la struttura economica russa 101

di vita era di 82,9 anni, e nel 2019 di 83,6. Seppur prese prudenzial-
mente, queste statistiche segnalano come la Russia, non avendo avuto
una mortalità superiore in percentuale a quella italiana durante la fase
Covid, ha iniziato ad avere un calo dell’aspettativa di vita, indipenden-
te dallo sviluppo della pandemia.
In generale è evidente che in epoca putiniana l’aspettativa di vita
è aumentata, ma lentamente, e ora ha la tendenza a calare. Secondo
il demografo russo Aleksej Raška l’eventuale annessione di tutte le
regioni del Donbass non migliorerà la situazione, se non momentane-
amente, come è avvenuto per la Crimea.
«Anche prima della guerra del 2022» sostiene lo studioso

e anche prima del 2014, il Donbass era una regione con una delle
peggiori situazioni demografiche in Ucraina. Questa è una regione
carbonifera e metallurgica, in alcuni punti depressa. Le imprese
che vi hanno sede richiedono negli anni sempre meno lavoratori,
perché in questi settori si registra un progresso abbastanza rapido
e un aumento della produttività del lavoro. Cioè, il numero di per-
sone impiegate nelle fabbriche del Donbass è diminuito. E dove, in
una situazione del genere, sistemare la popolazione? In effetti, in
epoca sovietica, vi furono costruite grandi città. Una volta c’erano
i membri del Komsomol provenienti da tutta l’Unione Sovietica
che si concentravano lì. Negli anni Trenta queste città crebbero.
Ma poi la crescita si è fermata, la popolazione ha cominciato a
diminuire, perché la produttività del lavoro è cresciuta in Unione
Sovietica e i vecchi giacimenti si sono esauriti.
Già prima della guerra c’era l’emigrazione da queste regioni, per-
ché lì non c’era bisogno di così tante persone. Il tasso di natalità
nel Donbass era uno dei più bassi in Ucraina e il tasso di mortalità
era uno dei più alti.

Inoltre, politiche migratorie incoerenti dal punto di vista della legisla-


zione, e che non hanno contrastato il razzismo tra i russi, stanno ridu-
cendo la quota di migranti provenienti dal Centrasia, e metteranno a
repentaglio nei prossimi anni sia la fornitura dei servizi pubblici nelle
grandi città tradizionalmente svolti da questi lavoratori sottopagati,
sia la possibilità di avere migliori saldi demografici.
102 la russia dopo putin

La Russia ha realizzato negli ultimi anni un programma Maternity


Capital che ha avuto un grande successo, e secondo le diverse stime
ha avuto come esito tra i 2 e 3 milioni di bambini che non sarebbero
mai nati. Tuttavia altre questioni essenziali non sono state affrontate,
come l’aumento del tenore di vita reale della popolazione, le quote del
budget dedicate alla spesa sanitaria, la fiducia nella stabilità a lungo
termine del Paese. In questo quadro, la pretesa del regime di scarica-
re tutto sui “rischi di aumento del tasso di omosessualità” dovuti, si
presume, alla propaganda occidentale tra la popolazione, e di limitare
la libertà di aborto si sta dimostrando mera propaganda reazionaria,
anche perché la forbice tra i Paesi occidentali (ma anche a questo
punto con gran parte dell’Asia) non tende a chiudersi ma ad allargarsi.
In questo quadro, secondo Raška

la Russia non può essere un attore globale della politica internazio-


nale. Rappresenta solo l’1,8% della popolazione totale della Terra
e in futuro questa quota potrebbe ridursi all’1,2%. Non puoi avere
un esercito super potente, cercare di essere un Paese completa-
mente indipendente e allo stesso tempo avere una popolazione così
piccola… La Russia moderna è meno della metà della popolazione
dell’Unione Sovietica, mentre la popolazione mondiale dal crollo
dell’Urss è cresciuta di una volta e mezza. L’Impero Russo prima
della Prima Guerra Mondiale rappresentava più del 9% della po-
polazione mondiale. Quindi globalmente oggi il nostro Paese, per
definizione, non può più essere una superpotenza. Ci sono due
superpotenze nel mondo: la Cina e gli Stati Uniti. L’India sarà la
terza in termini di demografia. Qui è dove inizia e finisce la storia.

La straordinaria avventura di Rosnano

Ciclicamente nella dirigenza russa si ripropone il tema della diffe-


renziazione dell’economia per evitare la dipendenza dagli idrocarburi
e in generale dalle esportazioni. E ciclicamente vengono anche orga-
nizzati convegni, pubblicate brochure e articoli sui giornali, e in qual-
che caso perfino fatti seri investimenti. Il caso da manuale, passato alla
storia, è quello delle nanotecnologie.
la struttura economica russa 103

Il 6 ottobre 2009, l’allora Presidente russo Dmitrij Medvedev an-


nunciò, in occasione dell’apertura del forum internazionale sulle na-
notecnologie a Mosca: «Dobbiamo fare delle nanotecnologie uno dei
settori più potenti dell’economia». Il progetto era ambiziosissimo, anzi
«immodesto», disse Medvedev, cosa che si dimostrò in seguito pur-
troppo tale. «La cosa principale» sottolineò il capo di Stato russo «è
abbandonare la dipendenza dalle materie prime, per creare un’eco-
nomia post-crisi basata sulla conoscenza e sulle tecnologie innovative,
non sul petrolio e sul gas». Dagli annunci di Medvedev in poi il settore
su scala mondiale si è enormemente sviluppato e accanto ai Paesi tradi-
zionalmente forti in questo campo come Usa e Giappone sta crescendo
enormemente la Cina. L’uso di nanomateriali è già considerato la nor-
ma nella produzione di processori ad alta velocità, micro e radioelet-
tronica, medicina, ingegneria aeronautica e altre industrie. E la Russia?
A suo tempo, su decisione di Putin, era stata creata una apposi-
ta società statale, la Russian Corporation of Nanotechnologies (dal
2011 Rosnano), a cui era stato posto a capo Anatolij Čubais (sì, pro-
prio lui, quello che guidò le privatizzazioni in Russia con El’cin!) e da
allora furono investiti miliardi di rubli. Di tanto in tanto sui giornali
la dirigenza dell’azienda annunciò che nel prossimo futuro ci sareb-
bero state scoperte rivoluzionarie che avrebbero cambiato la faccia
a tutto il settore su scala mondiale. Nel marzo 2019, in un incontro
con Vladimir Putin, Čubais sostenne che gli impianti realizzati da
Rosnano hanno versato 132 miliardi di rubli al bilancio federale per
l’intero periodo dei lavori, rimborsando integralmente il contributo
dello Stato. Tuttavia, questi fondi coprivano solo il contributo iniziale
dello Stato, 130 miliardi di rubli, versati sul conto della società statale
al momento della creazione nel 2007, e non tenevano conto neppure
dell’inflazione di dodici anni. Nel 2020 Čubais lasciò l’incarico non
solo senza essere stato in grado di produrre una qualche innovazione
del settore, ma neppure un’azienda operante. Licenziato? No, pro-
mosso a “rappresentante speciale del Presidente della Federazione
Russa” Vladimir Putin con dei nuovi compiti mirabolanti, tra cui l’i-
potesi di far diventare la Russia uno dei Paesi all’avanguardia nella
produzione di energia dall’idrogeno. Peccato che poi Čubais abbia
abbandonato la Russia poco dopo l’inizio dell’“Operazione Militare
Speciale”, e per l’idrogeno si vedrà. Nel novembre 2021, nel frattem-
104 la russia dopo putin

po, Rosnano era in stato di pre-default avendo avuto un crollo del


titoli di oltre del 90%.
A latere, e fuori da Rosnano, oggi esistono aziende russe che hanno
iniziato a produrre nanomembrane e nanomateriali e stanno avendo
un certo successo. Tuttavia, si parla di joint venture con società occi-
dentali che semplicemente localizzano la produzione utilizzando tec-
nologie occidentali in Russia, o di importazioni del progresso scienti-
fico mondiale con raffinazione interna, o della produzione in Russia di
prodotti non unici, e che hanno una lunga durata di sviluppo in altri
Paesi. Tutta una filiera destinata a una vita ancora più difficile dopo
l’introduzione delle nuove sanzioni nel 2022.

Ritorno al futuro: il cosmodromo Vostočnyj

Per anni quasi ogni giorno Putin ha ripetuto che la Russia sarebbe
tornata a correre sulla base dei «programmi nazionali», che prevede-
vano giganteschi progetti di sviluppo di infrastrutture. Progetti per-
lopiù poi abbandonati o mai portati a termine. O che aspettano da
tempo immemore di essere completati.
Uno dei più noti è il progetto del cosmodromo Vostočnyj, che
avrebbe dovuto garantire la minor dipendenza da quello di Baikonur
in Kazakistan, costruito in epoca sovietica.
Il progetto fu annunciato con grande enfasi da Putin nel 2007, ma
solo nel 2011 iniziò la costruzione, che avrebbe dovuto essere comple-
tata nel 2018. Tuttavia il presidente di Roskosmos, Dmitrij Rogozin,
dichiarò con baldanza che i lavori erano stati accelerati e il cosmodro-
mo sarebbe stato pronto entro il 2015.
Lo sviluppo del nuovo cosmodromo avrebbe dovuto avere un
effetto impressionante sull’economia dell’Estremo Oriente, con ri-
cadute importanti sull’occupazione nella zona. L’architetto Dmitrij
Pšeničnikov sostenne che l’insediamento che sarebbe sorto vicino al
cosmodromo sarebbe diventato una «città spaziale scientifica e turi-
stica unica nel suo genere, con un design unico e un bellissimo pae-
saggio», ma a breve iniziò a girare la voce negli ambienti ministeriali
che Vostočyj non fosse altro che l’ennesimo dolgostroj, che in russo
significa ‘una boiata edile senza fine’.
la struttura economica russa 105

Il progetto divenne una vera mangiatoia per “boiardi di Stato”, i


cosiddetti činovniki: fino a oggi sono stati aperti oltre sessanta casi
penali per corruzione, e spesso i lavoratori impegnati nel progetto
hanno protestato per il ritardo del pagamento dei salari. Si iniziò
a parlare di una nuova data d’inaugurazione per il 2023, ma pochi
mesi dopo l’inizio della guerra in Ucraina, il 15 luglio 2022, Rogozin
è stato improvvisamente licenziato da Putin, e il progetto si può im-
maginare continuerà a restare a lungo un libro dei sogni (per avere
dei riferimenti utili, il cosmodromo sovietico in Kazakistan, proget-
tato nel 1955, iniziò ad essere operativo nel 1957 con il lancio di
Sputnik-1 e fu in grado di mandare nello spazio già nel 1961 Jurij
Gagarin).

La divisione internazionale del lavoro e la leggenda del soviet-tele-


fonino

Il problema, per chi come Putin ragiona in termini novecenteschi,


è che le catene del valore non possono essere strappate in un punto
qualsiasi senza produrre una reazione internazionale devastante. Oggi
le maggiori potenze mondiali non hanno difficoltà a combattersi mili-
tarmente in campo aperto solo perché domina la cappa terribile di un
possibile conflitto nucleare, ma anche per il grado di integrazione di
ogni economia alle altre. L’effetto domino della guerra russo-ucraina è
lungi dall’aver sprigionato ancora tutti i suoi effetti devastanti.
Il declino russo è solo incidentalmente legato alle sanzioni inter-
nazionali imposte dalle potenze occidentali, e si deve semplicemente
al fatto che ogni relazione economica è basata in ultima istanza sulla
fiducia. La chiusura dei mercati non può impedire alla divisione inter-
nazionale del lavoro di riprodursi. La Russia, malgrado Putin continui
a ripetere insistentemente che non vuole isolare la Russia dal mercato
mondiale, ha continuato a pensarsi come quell’enorme Paese che era
l’Urss – che aveva riprodotto con i suoi alleati un vero e proprio mon-
do separato al cui interno operava comunque una divisione del lavoro
basata sulla produzione in larga scala.
Questa tendenza è bene illustrata dal tentativo qualche anno fa di
costruire un telefonino.
106 la russia dopo putin

Nel 2013 il mondo venne a sapere che la Russia avrebbe avuto


un proprio telefonino, il quale potenzialmente avrebbe dovuto com-
petere su scala mondiale con i colossi della Apple e Samsung. Lo
YotaPhone, così venne chiamato, venne presentato dal presidente di
Rostec Sergej Čemezov al premier Medvedev già lo stesso anno. Il
telefono sarebbe stato assemblato in Russia, ma i componenti sareb-
bero stati prodotti a Singapore. La seconda versione del sovietfonino,
come venne ribattezzato dalla stampa, venne regalato da Putin con
orgoglio a Xi Jinping il 9 novembre 2019. Già allora le performance
di vendita erano disastrose, ma in Russia si andò avanti a “pompare”
lo YotaPhone con premi creati ad hoc e perfino con festival a Mosca
in cui vennero inviate a partecipare star internazionali del cinema e
della musica pop. Non bastò nemmeno cercare di produrne una terza
versione. Come era già scritto, nel 2019 Yota Devices finì in banca-
rotta – bancarotta che fu sigillata da una causa giudiziaria quando il
produttore dei dispositivi, Hi-P Singapore, citò in giudizio la società
russa. Al momento della bancarotta, in cinque anni, di Yota ne erano
stati venduti solo 75.000 pezzi in tutto il mondo.
Per intendere come funziona il “capitalismo alla russa”, il presiden-
te di Rostec – che è una società che produce essenzialmente per la dife-
sa – Sergej Čemezov, non subì alcuna conseguenza da un simile tracol-
lo. Basta leggere la sua biografia per afferrarne subito la ragione. Egli
è amico di Putin dai tempi di Dresda, quando erano colleghi nel Kgb.
Formavano un trio inseparabile con Nikolaj Tokarev, il quale guarda
caso oggi è alla testa di Transneft, il gigante russo degli oleodotti.
L’idea di poter essere competitivi anche solo sul mercato nazionale
in un qualche settore commerciale senza giganteschi finanziamenti,
senza avere una cultura dell’innovazione o senza esserne monopolisti
sul proprio mercato è un idea che può sorgere da una casta neofeu-
dale che i conti con il mercato non è abituata a farli. YotaPhone rap-
presenta bene la parabola e l’inconsistenza del capitalismo russo che
passa da un fallimento all’altro e viene finanziato costantemente dai
profitti degli idrocarburi.
Anche la guerra non sembra aver fatto cambiare mentalità e at-
teggiamento ai governanti russi. Dopo che moltissime aziende hanno
abbandonato il mercato russo nel 2022, si sono fatti altisonanti an-
nunci sull’apertura di nuove aziende di “sostituzione” per i prodotti
la struttura economica russa 107

che hanno abbandonato il mercato russo. Molti di essi resteranno sul-


la carta o produrranno solo prodotti di cattiva qualità. Dopo l’inizio
della guerra la fabbrica Electrosignal in Daghestan ha affermato di
voler iniziare la produzione di televisori, 500.000 all’anno, in seguito
al ritiro dei produttori stranieri dal Paese; normalmente Electrosignal
produce antenne per la Difesa. Tutto lascia presagire che la qualità
delle tv non sarà di livello mondiale.

La Russia è un Paese imperialista?

Certi autori – alcuni dei quali si professano marxisti, come nel caso
del russo Ruslan Dzarasov, che in passato aveva scritto opere inte-
ressanti –, a partire dalla valutazione che la Russia è (evidentemente)
un Paese della semiperiferia, hanno pensato che essa sia anche una
classica semi-colonia, da sostenere nella guerra d’Ucraina essendo il
conflitto null’altro che una guerra della Nato sul suolo slavo.
Una tesi che ovviamente è tesa a coprire una posizione politica: che
la guerra combattuta dall’esercito russo sia sostanzialmente “reattiva”
o “difensiva”.
Tuttavia, ogni parola, ogni discorso di Putin dal 24 febbraio in poi
è impregnato dell’ideologia autocratica “grande-russa”, dallo spirito
egemonico e razzista nei confronti del popolo ucraino e dal disprezzo
per qualsiasi forma di democrazia e autodeterminazione, anche nelle
sue forme più imperfette e classiste come quelle che vigono nel resto
dell’Europa. Come abbiamo già fatto notare, la Russia è una semi-co-
lonia peculiare che ha caratteristiche di imperialismo regionale con
proiezione mondiale. Questo se si vuole avere una caratterizzazione
sintetica.
Tuttavia, c’è una cattiva abitudine in parte del dibattito marxista,
che è quella di impiccarsi alle parole o alle citazioni dei “classici” –
spesso collocate fuori dal contesto storico – per avvalorare le pro-
prie tesi, mentre si perde di vista “l’analisi concreta della situazione
concreta”. Si perde di vista, in un contesto determinato, chi siano gli
oppressi, chi siano gli oppressori e soprattutto quali siano i motivi,
spesso complessi, per cui si combatte una guerra. In questo caso fer-
marsi all’aspetto puramente economico (il carattere arretrato dell’élite
108 la russia dopo putin

russa e della sua struttura economica, la sua posizione negli interscam-


bi globali) fa perdere di vista il cuore del problema.
Il primo elemento da afferrare in questo caso è che tutta la storia
russa dal punto di vista delle classi dominanti è una storia imperiale e
una storia di colonizzazione.
Al momento dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, Lenin
sintetizza così il ruolo della Russia nel conflitto nell’opuscolo Il falli-
mento della Seconda Internazionale:

Perché combatte la Russia? In Russia, l’imperialismo capitalista


del più nuovo conio si è pienamente rivelato nella politica dello za-
rismo verso la Persia, la Manciuria, la Mongolia; ma in generale in
Russia predomina un imperialismo militare e feudale. In nessuna
parte del mondo esiste una simile oppressione della maggioranza
della popolazione del Paese come in Russia: i Grandi Russi rap-
presentano solo il 43% della popolazione, e cioè meno della metà,
e tutti gli altri, in quanto allogeni, sono privi di diritti. Dei 170
milioni di abitanti della Russia circa 100 milioni sono oppressi e
privi di diritti. Lo zarismo conduce la guerra per impadronirsi del-
la Galizia e per soffocare definitivamente la libertà degli ucraini,
per impadronirsi dell’Armenia, di Costantinopoli ecc. Lo zarismo
vede nella guerra un mezzo per distrarre l’attenzione dal crescente
malcontento nell’interno del Paese e per schiacciare il crescente
movimento rivoluzionario. Attualmente, ogni due Grandi Russi si
contano in Russia da due a tre “allogeni” privi di diritti: per mez-
zo della guerra, lo zarismo si sforza di aumentare il numero delle
nazioni oppresse dalla Russia, di consolidare la loro schiavitù, e
con ciò di stroncare la lotta per la libertà dei Grandi Russi stessi.
La possibilità di opprimere e depredare popoli stranieri stabilizza
il ristagno dell’economia, perché, anziché lo sviluppo delle forze
produttive, è lo sfruttamento semifeudale degli “allogeni” che
rappresenta, non di rado, la fonte del profitto. In tal modo, per
quanto riguarda la Russia, la guerra si distingue per il carattere
spiccatamente reazionario e illiberale.

Naturalmente si possono fare tante critiche corrette a questo passag-


gio dello scritto di Lenin, come ha fatto per esempio recentemente
la struttura economica russa 109

Zbigniew Kowalewski, sulla precisione delle definizioni e sui caratteri


del capitalismo russo. Tuttavia è evidente che per Lenin qui è impor-
tante la sostanza: ovvero la denuncia della politica di doppia aggres-
sione dello zarismo, al di là del fatto che il capitalismo russo fosse già
pienamente giunto alla sua fase più avanzata o meno. Un’aggressione
esterna che copriva un’aggressione interna ai popoli che facevano par-
te dell’impero. L’imperialismo russo è da sempre in buona parte inter-
no, giocato contro i popoli che oggi chiameremmo il “Vicino Estero”.
La Russia di Nikolaj II era già un capitalismo pienamente realiz-
zato, oppure doveva ancora completare la “rivoluzione borghese”?
Evidentemente in Russia era in corso una transizione dal sistema feu-
dale a un capitalismo sviluppato, e parlare di imperialismo per alcuni
aspetti sarebbe stato improprio. Sia Lenin con la sua sintesi «dittatura
democratica degli operai e dei contadini», sia Trockij con la sua for-
mula della «rivoluzione permanente», del resto, sostenevano che la
Rivoluzione Russa avrebbe dovuto attuare compiti anche democrati-
co-borghesi, in un contesto assolutamente originale. Nella sua Storia
economica della Russia Ivan Blagich ha sottolineato come la Prima
Guerra Mondiale fu principalmente una guerra di

ridistribuzione dei possedimenti coloniali e dei mercati per le ma-


terie prime e le vendite. La Russia, come sappiamo, non aveva co-
lonie al di fuori dei suoi confini imperiali, ma questo non significa
che non avesse interessi economici al di fuori di essi. Come altre
potenze europee, aveva anche un forte interesse nei Balcani e da
tempo cercava di impossessarsi degli stretti del Bosforo e dei Dar-
danelli, attraverso i quali passavano le navi militari e mercantili
russe. In particolare, non meno del 75% delle esportazioni di gra-
no del nostro Paese, e in totale circa un terzo di tutte le esporta-
zioni russe sono stati esportati attraverso questi stretti dalle regioni
meridionali produttrici di grano del nostro Paese.

Nei mesi successivi Lenin pubblicherà il celebre L’imperialismo fase


suprema del capitalismo, che nelle intenzioni dell’autore svolge una
funzione polemico-politica in funzione anti-kautskiana sostenendo
che il capitalismo mondiale «nel suo complesso» è entrato in una fase
«imperialista». Schematicamente, nella vis polemica, Lenin suddivide
110 la russia dopo putin

(prima di aver accennato comunque all’importanza della questione


dell’autodecisione delle nazioni) la caratterizzazione dell’imperiali-
smo in politica ed economia. «L’imperialismo è la tendenza alle annes-
sioni: a questo si riduce la parte politica della definizione kautskiana.
È esatta, ma molto incompleta, poiché, politicamente, imperialismo
significa, in generale, tendenza alla violenza e alla reazione». Il secon-
do aspetto l’autore lo lascia sintetizzare a Hobson, uno studioso paci-
fista dell’epoca a cui fa riferimento costantemente nel suo pamphlet:

Il nuovo imperialismo si distingue dall’antico in primo luogo per


il fatto di aver sostituito alle tendenze di un solo impero in conti-
nua espansione la teoria e la prassi di imperi gareggianti, ciascuno
dei quali è mosso dagli stessi avidi desideri di espansione politica
e di vantaggi commerciali; in secondo luogo per il dominio degli
interessi finanziari, ossia degli interessi che si riferiscono al collo-
camento di capitale, sugli interessi commerciali.

Non è questo lo spazio per definire concettualmente se il regime pu-


tiniano sia più o meno “imperialista” secondo i due aspetti, ma di
comprendere il processo storico-politico con cui il regime reazionario
putiniano si sia andato definendo dopo il crollo dell’Urss e quali siano
i suoi caratteri, piuttosto che appiccicare un’etichetta che copre tutto
e non spiega nulla. Questa guerra, da parte russa, in buona parte si
spiega, come abbiamo già dimostrato, con il tentativo di colmare il
gap che non le permette di restare tra le prime economie del mondo
neppure dal punto di vista nominale. Nel 2021, la quota del prodotto
mondiale della Russia è stata del 3,07%; il suo picco era già stato
raggiunto nel 2008 con il 3,68%, e nel futuro non potrà far altro che
calare.
Ciò rende la guerra in Ucraina una guerra imperialista di conqui-
sta, e per questo deve essere contrastata in tutti i modi. In primo luogo
dagli ucraini, che ne sono le prime vittime, e subito dopo dai russi.
5

Il dilemma dell’Europa

Negli ultimi due secoli, prima nel 1812 e poi nel 1939, le due prin-
cipali potenze europee continentali delle rispettive epoche cercarono
di sottomettere la Russia militarmente senza riuscirci, e ciò ha prodot-
to nelle dirigenze sovietiche e poi russe una “sindrome di accerchia-
mento” difficile da cancellare, che è diventata uno dei pilastri della
propaganda del regime putiniano.
La guerra napoleonica e la guerra antinazista, per quanto dall’asce-
sa dello stalinismo in poi siano definite dalla storiografia russa entram-
be «patriottiche», furono diverse tra loro: se la resistenza sovietica al
nazismo divenne da un certo momento in poi una resistenza popolare,
Lenin, e con lui il massimo storico dell’“epoca aurea” del bolscevi-
smo, Michail Pokrovskij, considerò sempre la guerra franco-russa una
“banale” lotta interimperialistica per l’egemonia in Europa. Come ha
scritto lo storico britannico Adam Zamoyski nel suo libro sulla cam-
pagna napoleonica in Russia, secondo Pokrovskij

lo Stato zarista era destinato a estendere l’egemonia russa oltre i


suoi confini per garantire all’interno la sopravvivenza di un sistema
sostanzialmente feudale. Arrivò ad affermare che l’invasione napo-
leonica della Russia era un atto necessario di autodifesa da parte
dell’imperatore francese. Era profondamente critico nei confronti
di Kutuzov e di altri generali russi. Sottolineò il ruolo del clima
nella sconfitta francese e ridimensionò quello della “società russa”,
mettendo in discussione il mito dei contadini patriottici. Coloro
112 la russia dopo putin

che si opposero agli invasori lo fecero, a suo giudizio, per difende-


re polli e oche, non la madrepatria.

In questo orizzonte, la Seconda Guerra Mondiale nel fronte orienta-


le ebbe per l’Unione Sovietica un più evidente carattere difensivo: il
controllo dei Paesi dell’Europa orientale rappresentò più un “cusci-
netto” contro nuove ipotesi di egemonismo occidentale, e le “demo-
crazie popolari” più che altro un fardello di difficile amministrazione.
La soluzione, disastrosa per ogni aspirazione di autodeterminazione
sia a est sia a ovest, fu il riconoscimento delle cosiddette “sfere d’in-
fluenza”, che furono istituzionalizzate con l’accettazione da parte oc-
cidentale della “Dottrina Brežnev”.
Tuttavia, nell’agitare il tema della pressione della Nato, negli ultimi
trent’anni, Putin ha qualche buon motivo.
In un’intervista concessa al canale televisivo francese TF1 tredici
giorni dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, l’alto rappresentante
per gli Affari Esteri della Commissione Europea Josep Borrell ha so-
stenuto di essere

pronto ad ammettere che abbiamo commesso una serie di errori e


che abbiamo perso la possibilità di un riavvicinamento della Russia
all’Occidente. Ci sono stati momenti in cui potevamo fare meglio,
ci sono cose che abbiamo proposto e poi non abbiamo potuto at-
tuare, come, ad esempio, la promessa che l’Ucraina e la Georgia
entrassero a far parte della Nato.

Gli errori di cui parla Borrell, però, hanno radici più antiche. Quando
l’Urss di Gorbačëv tese la mano all’Occidente e propose una mas-
siccia demilitarizzazione del continente, mentre iniziava all’interno
una coraggiosa seppure confusa politica di democratizzazione della
società russa (sui limiti del gorbaciovismo rimando al mio libro sul
crollo dell’Urss Un’ambigua utopia), l’Occidente si dimostrò superfi-
ciale, colonialista e cinico.
La speranza accarezzata ingenuamente dal leader sovietico era
quella della «casa comune europea», una sintesi giornalistica che in
realtà l’ex leader sovietico utilizzò per la prima volta solo nel 2009,
ma di cui parlò all’inizio del suo mandato come segretario del Partito
il dilemma dell ’ europa 113

Comunista dell’Urss, già il 30 settembre del 1985, conversando con i


giornalisti della stessa TF1. In quell’occasione Gorbačëv disse:

La leadership sovietica ha sempre guardato con attenzione alle re-


lazioni con l’Europa occidentale nella sua politica estera. Direi ad-
dirittura grande attenzione. E il motivo è evidente. Io e voi viviamo
in questa Europa. Penso che gli Stati dell’Europa occidentale non
siano meno interessati a sviluppare le loro relazioni con l’Unione
Sovietica, e che l’Unione Sovietica giochi un ruolo non meno im-
portante nella vostra politica estera. Abbiamo tradizioni comuni.
Abbiamo una storia dalla quale traiamo alcune lezioni, impariamo
da questa storia. In ogni caso, gli europei hanno molta saggezza.
Qualunque sia l’aspetto dello sviluppo dell’organizzazione umana
che prendiamo in esame, il contributo degli europei è enorme. Vi-
viamo in un’unica casa, anche se alcuni entrano in questa casa da
un ingresso, altri da un altro. Dobbiamo collaborare e stabilire una
comunicazione in questa casa.

C’è in questo invito, ingenuo e quindi forse imperdonabile, mai rac-


colto dalle cancellerie occidentali, un afflato umanistico, così distante
dal cinismo del gruppo dirigente del Cremlino attuale. Restò lettera
morta, diventando strumento politico di quella parte del Cremlino
che ormai pensava solo a smontare l’Urss e abbracciare sic et simpli-
citer il mercato capitalistico. In questo senso l’ultimo segretario del
Pcus è stato una figura tragica della storia mondiale.
Questa idea forte non venne sostenuta se non formalmente dal-
le principali forze della sinistra europea dell’epoca e venne usata
dall’Occidente solo per vincere una Guerra Fredda già sepolta nella
coscienza della maggioranza delle opinioni pubbliche europee, e pre-
pararsi a invadere i semi-vergini mercati dei Paesi del Patto di Var-
savia. Quanto successe in seguito è noto, e il fatto che sia stato più
volte denunciato da Putin non lo rende meno vero. Anzi dimostra,
con l’adesione della Svezia e della Finlandia alla Nato, subito dopo
l’inizio dell’invasione, quanto sia miope la politica di scontro frontale
del Cremlino.
Il Presidente russo Vladimir Putin e i suoi collaboratori hanno ri-
petutamente affermato che le potenze occidentali non hanno mante-
114 la russia dopo putin

nuto le promesse fatte di non espandere la Nato con il crollo dell’U-


nione Sovietica.
Nella conferenza stampa di fine anno tenuta a Mosca a dicembre
2021, Putin accusò la Nato di aver ingannato la Russia dando garanzie
negli anni Novanta che non si sarebbe espansa verso Est – promes-
se fatte al leader sovietico Michail Gorbačëv durante i negoziati tra
l’Occidente e l’Unione Sovietica sull’unificazione tedesca (“Trattato
4+2”).
«Ci hanno imbrogliato» aggiunse Putin «in modo palese. La Nato
si sta espandendo». Ha citato anche l’ex segretario di Stato americano
James Baker in un’osservazione che questi fece a Gorbačëv nel 1990:
«La Nato non si sposterà di un centimetro più a est».
Il leader russo ha ripetuto spesso la stessa affermazione sui sot-
terfugi della Nato, accusando le potenze occidentali di aver appro-
fittato di una Russia indebolita e disorientata dal crollo dell’Unione
Sovietica. In un discorso al Cremlino dopo l’annessione della penisola
ucraina di Crimea nel 2014, puntò l’indice contro i leader occidenta-
li, colpevoli di aver «mentito molte volte, preso decisioni alle nostre
spalle, messo davanti a noi un fatto compiuto».
L’ex ambasciatore americano in Ucraina Steven Pifer, da parte sua,
ha replicato in un saggio che «i leader occidentali non si sono mai im-
pegnati a non allargare la Nato», e che la storia «si adatta così bene al
quadro che il leader russo cerca di dipingere di una Russia aggredita,
sfruttata da altri e sempre più isolata, non a causa delle proprie azioni,
ma a causa delle macchinazioni di un Occidente ingannevole».
Il segretario di Stato americano Antony Blinken, alla vigilia dei
colloqui bilaterali tra diplomatici americani e russi a Ginevra nell’au-
tunno del 2021, quando Putin aveva già fissato la cosiddetta “linea
rossa” della inaccettabilità dell’adesione ucraina alla Nato, dichiarò ai
giornalisti: «La Nato non ha mai promesso di non ammettere nuovi
membri. Non poteva e non voleva: la “politica della porta aperta” era
una disposizione fondamentale del Trattato Nord Atlantico del 1949
che ha fondato la Nato».
Le dichiarazioni più recenti di Gorbačëv a tale proposito, fatte in
un’intervista a «Russia Beyond» nel 2014, sono state contraddittorie e
ingenue: effettivamente in nessun documento ufficiale la Nato né gli
altri Paesi occidentali diedero formalmente queste garanzie. Gorbačëv
il dilemma dell ’ europa 115

ricordò che «ci venne assicurato che le strutture militari della Nato
non avanzassero e che non venissero dispiegate ulteriori forze armate
sul territorio dell’allora Rdt [Repubblica Democratica Tedesca] dopo
la riunificazione della Germania. La dichiarazione di Baker fu fatta in
quel contesto».
Gorbačëv aggiunse: «L’accordo sulla risoluzione finale con la Ger-
mania diceva che non sarebbero state create nuove strutture militari
nella parte orientale del Paese; non sarebbero state dispiegate altre
truppe; non sarebbero state collocate armi di distruzione di massa.
Promessa che è stata rispettata in tutti questi anni».
Ma Gorbačëv sostenne anche, in quell’intervista, che ciò che si è
verificato dopo il 1990, con la decisione di altri Paesi di aderire alla
Nato, è «una violazione dello spirito delle dichiarazioni e delle assicu-
razioni fatteci nel 1990».
Documenti declassificati americani, sovietici, tedeschi, britannici
e francesi, pubblicati online nel 2017 dal National Security Archive
della George Washington University nella capitale americana, sugge-
riscono che Gorbačëv abbia avuto qualche ragione per essere scon-
tento in seguito.
«I documenti mostrano che molteplici leader nazionali stavano
considerando e rifiutando l’adesione dell’Europa centrale e orientale
alla Nato a partire dall’inizio del 1990 e per tutto il 1991, che le discus-
sioni sulla Nato nel contesto dei negoziati per l’unificazione tedesca
nel 1990 non erano affatto limitate allo status del territorio della Ger-
mania orientale» viene osservato dagli specialisti della George Wash-
ington University, nella loro valutazione dei documenti pubblicati.
I politici occidentali sostengono che la Russia di fatto acconsentì
all’allargamento dell’alleanza atlantica a est quando nel 1997 firmò
con la Nato l’Atto di fondazione sulle relazioni reciproche, la coope-
razione e la sicurezza. In quell’accordo politico, che aveva lo scopo
di costruire la fiducia tra est e ovest e di stabilire abitudini di consul-
tazione e cooperazione, la Nato si impegnava a non stazionare for-
ze di combattimento permanenti e consistenti sui territori degli Stati
dell’ex Patto di Varsavia che avevano aderito all’alleanza occidentale.
Tuttavia, avrebbe fatto ruotare dei distaccamenti per condurre eser-
citazioni e mantenere l’interoperabilità e l’integrazione delle forze
dell’alleanza.
116 la russia dopo putin

El’cin voleva che nell’Atto di fondazione fosse incluso un veto rus-


so su qualsiasi ulteriore espansione, ma i leader occidentali, valutando
ormai la Russia troppo debole per imporre qualsiasi condizione, lo
respinsero. La strada verso l’abisso iniziò a tracciarsi allora.
Tale spirito era quello di un’Europa aperta e democratica che ven-
ne rapidamente chiudendosi non certo solo per colpa di Mosca. Ov-
viamente le successive adesioni alla Nato, nel 1999, nel 2004, 2009 e
del 2017, vennero compiute liberamente dagli Stati dell’Europa cen-
trale, ma senza tenere conto delle aspirazioni geopolitiche di Mosca.

Il bandolo della matassa

Come abbiamo cercato di mostrare nei precedenti capitoli, il pro-


getto putiniano è sostanzialmente fallito e la guerra in Ucraina rappre-
senta solo il tentativo della classe dirigente russa di sfuggire alle sue re-
sponsabilità, alla sua corruzione e inefficienza, e alla stagnazione senza
prospettive della sua economia. La sfida per tornare ai fasti dell’Urss
o dei Romanov è destinata a concludersi in una sconfitta. Del resto la
tattica della “piccola vittoria” fa già parte della storia dall’autocrazia
russa con la guerra russo-giapponese, conclusasi poi con una disfatta.
L’economia mondiale è completamente interdipendente non solo
dal punto di vista della produzione e della distribuzione, ma anche
del flusso delle informazioni e della comunicazione. In questo senso
abbiamo lasciato definitivamente la fase imperialista e siamo entrati in
“nuovo disordine” che Antonio Negri e Michael Hardt hanno defini-
to Impero. Non è quindi un paradosso che i principali finanziatori del-
la guerra putiniana siano stati proprio gli Stati dell’Unione Europea. È
quanto risulta da uno studio della Crea (Centre for Research on Ener-
gy and Clean Air), secondo il quale la Federazione Russa ha generato
l’equivalente di 158 miliardi di euro di entrate durante i primi sei mesi
di conflitto, mentre la spesa per la guerra è stata stimata in 100 miliar-
di di euro. Il maggior acquirente di energia, con 185 miliardi di euro,
sono stati i Paesi della Ue, seguiti dalla Cina con 35 miliardi di euro.
Va aggiunto che, per quanto le istituzioni del diritto internazionale
facciano acqua da tutte le parti e il ruolo dell’Onu sia spesso decora-
tivo, allo stato dell’arte non esistono alternative ad esse. Se ne stanno
il dilemma dell ’ europa 117

accorgendo ormai perfino gli Stati Uniti quando mettono il becco del-
la loro Aquila fuori di casa, come si è visto in Afghanistan o in Iraq. Il
diritto all’autodeterminazione dei popoli, pur essendo formula imper-
fetta e che necessita di aggiornamenti, deve restare una delle stelle po-
lari delle relazioni internazionali. Anche perché forse, e questo Putin
non sembra averlo capito, il mondo multipolare esiste già, non serve
una lotta per realizzarlo, e allora il problema non è come ripartirlo
“più equamente” tra le diverse potenze, ma come renderlo sempre più
accogliente, pulito, egualitario.
In questa ultima parte del libro delineerò tre possibili scenari della
Russia del futuro e il ruolo che potrebbe giocarvi l’Europa, dentro
l’esplosione finale di quelli che sono stati i riferimenti ideali e teorici
del passato. Con l’avvertimento che ogni ipotesi qui proposta è stret-
tamente legata al corso della guerra in Ucraina e altre variabili che
nessuno può ancora prevedere.

Lo scenario iraniano

Malgrado la via imboccata da Putin in prospettiva conduca in un


vicolo cieco, non è detto che, paradossalmente, il regime putiniano
non possa resistere e perfino rafforzarsi nel prossimo futuro.
La storia spesso non è sincronizzata con le aspettative e i desideri
degli uomini che la fanno. Questo scarto, il filosofo Antonio Labriola,
trattando a suo tempo la questione del “revisionismo” della social-
democrazia tedesca all’iniziò del Ventesimo secolo, lo definì nei suoi
Scritti filosofici il «tempo psicologico»:

In verità, al di sotto di tutto questo rumore di disputa, c’è una que-


stione grave ed essenziale: le speranze ardenti, vivissime, precoci
di qualche anno fa – quelle aspettative dai dettagli e dai contorni
troppo precisi – vengono a cozzare ora contro la più complicata re-
sistenza dei rapporti economici e contro i più imbrogliati congegni
del mondo politico. E coloro che non possono mettere il loro tem-
po psicologico (vale a dire la pazienza e lo spirito di osservazione)
all’unisono coi ritmi del tempo delle cose, si arrestano a metà del
cammino e deviano.
118 la russia dopo putin

Il ritmo storico è imprevedibile sia nelle sue accelerazioni che nei lun-
ghi periodi di attesa.
Se la guerra proseguirà a lungo o comunque non si concluderà con
una disfatta dell’esercito russo o l’impossibilità di controllare almeno
tutto il Donbass agevolmente, l’ipotesi che la classe dirigente installata
al Cremlino si rintani in Russia a leccarsi le ferite non è improbabile.
La conquista del solo Donbass o anche di altre porzioni del territo-
rio ucraino non muteranno la condizione internazionale della Russia,
ma permetterebbero forse a Putin di restare in sella. Il ripiegamento
dell’opposizione, la tendenza a prendere la strada dell’esilio da parte
di chi dissente, il consolidamento del regime verso un’aperta dittatu-
ra, l’atomizzazione della classe lavoratrice della Federazione inducono
a pensare che questa possibilità sia purtroppo la più plausibile. In tal
caso si potrebbe venire formando uno “scenario iraniano”.
Secondo uno dei più importanti economisti russi di oggi, Jacob
Mirkin, se il regime di Putin dovesse reggere si potrebbe trasforme-
rebbe dal punto di vista economico per il 65-70% di probabilità in
qualcosa di simile all’Iran (l’altro 30-35% delle possibilità è che torni
a essere una specie di Urss riverniciata).
L’Iran, anche dal punto di vista politico-sociale, è modello ed esem-
pio lampante di come un Paese possa sopravvivere per decenni semi-i-
solato dalla comunità internazionale e schiacciato dalle sanzioni, e di
come il suo regime possa riprodursi, rigenerarsi e perfino in qualche
misura riformarsi. C’è chi attese invano dal 1979 che il regime sciita
potesse essere rovesciato (inizialmente perfino da sinistra) a causa del-
le sue contraddizioni interne e dalle sue ricorrenti crisi economiche.
Ma il regime clericale resistette anche a una guerra terrificante con il
suo vicino iracheno.
Ted Hopf, professore associato alla Ohio State University, ritiene
nel suo saggio Russia’s Place in the World. An Exit Option? che la
categoria di “semiperiferia” possa essere trasferita dal piano più squi-
sitamente economico a quello politico in Paesi in costante oscillazione
tra integrazione nel sistema mondiale e precaria esistenza ai suoi mar-
gini, e questo accomunerebbe di certo la Russia all’Iran. Alcuni altri
osservatori hanno definito in questo senso l’Iran la «ricetta perfetta
per l’instabilità»; un Paese in cui esiste un’opinione pubblica disillusa,
l’economia è stagnante e dove il sistema politico mostra le crepe con
il dilemma dell ’ europa 119

una crescente astensionismo elettorale, ma che riesce a sopravvivere


a se stesso.

Russia: una classe dirigente impolitica

Tuttavia, dopo aver aggiunto che sia Russia che Iran sono entrambi
dei grandi produttori di petrolio, si potrebbe dire che le similitudini
finiscono praticamente qui. Il regime iraniano fonda la sua esistenza
su una base ideologica solidissima come la religione musulmana e una
struttura gerarchica ecclesiastica capace di riprodursi socialmente. La
società iraniana è relativamente impermeabile alle sirene dei model-
li sociali ed economici dell’Occidente, e ha dalla sua una narrazione
“anticapitalista” oltre che “antimperialista” di un certo spessore. A
Putin tutto questo manca. Il leader russo ha sempre aderito aperta-
mente seppur in chiave statal-capitalista al sistema liberista, mentre i
suoi oligarchi e i suoi manager (oltre che una parte della popolazione
urbana europea) sono imbevuti dell’ideologia dei modelli consumisti
occidentali. Dovrà e potrà costituire, come abbiamo visto, un’ideolo-
gia minimamente coerente che faccia da piedistallo al suo incedere, vi-
sto che il solo nazionalismo irredentista agitato fino a ora si dimostrerà
alla lunga insufficiente. Deve farlo in fretta: basti pensare che anche
nelle regioni più povere è difficile reclutare contractors per la guerra
ucraina, malgrado gli ottimi stipendi e promesse di molti benefit (tassi
d’interesse minimi per la casa, formazione professionale, pensioni per
le famiglie in caso di morte ecc.).
In generale nel Paese c’è un sostegno alla guerra totalmente passi-
vo e cinico, lontano anni luce dall’entusiasmo che si respirava al tempi
dell’annessione della Crimea del 2014. Ai tempi della guerra d’Ucrai-
na si tifa dal divano di casa, mettendo dei like sui social e con una
lattina di birra in mano mentre la mobilitazione generale, che avrebbe
tolto alcune castagne dal fuoco a Putin, è impensabile, in quanto alta-
mente impopolare anche tra chi sostiene la guerra.
Inoltre la Russia manca di una struttura di quadri politici solidi (i
dirigenti della nuova nomenklatura sono abituati invece agli stili di
vita più parassitari che si possono trovare in Occidente) che non siano
completamente corrotti.
120 la russia dopo putin

Perfino Stalin non riuscì a prolungare lo stalinismo dopo se stesso,


e finora il Presidente russo non ha creato le condizioni perché si crei
una filiera di uomini politici che non siano dei tecnocrati, all’altezza di
dirigere politicamente il Paese dopo di lui.
All’inizio della guerra anzi il suo gruppo dirigente ha mostrato con-
fusione e isteria. Dmitrij Medvedev ha passato buona del suo tempo a
“trollare” in rete con minacce di olocausti, e il capo della diplomazia
Sergej Lavrov è caduto nel più sguaiato antisemitismo adombrando le
ipotetiche radici ebraiche di Adolf Hitler. Il 24 giugno 2022 lo stesso
Lavrov è giunto perfino a paragonare l’Europa e la Nato a una coalizio-
ne nazista: «Quando iniziò la Seconda Guerra Mondiale, Hitler riunì
una parte significativa, se non la maggior parte, dei Paesi europei sotto
la sua bandiera per la guerra contro l’Unione Sovietica. Ora anche l’U-
nione Europea, insieme alla Nato, sta riunendo una coalizione moderna
per combattere e, in linea di massima, per condurre una guerra contro
la Federazione Russa» ha dichiarato in una conferenza stampa a Baku.
Anche in Iran, è vero, ci si aspettava che la rivoluzione soccombes-
se alle lotte intestine quando Khomeini morì nel 1989, ma le probabi-
lità che il regime putiniano sopravviva al suo creatore restano comun-
que scarse.
Il putinismo forse potrebbe riprodursi, dopo la sua uscita di sce-
na, trasformandosi in un regime di stampo cileno che impedisca la
guerra del tutti contro tutti all’interno della nomenklatura. Ma un tale
regime difficilmente sarebbe però basato principalmente sulle forze
dell’esercito.
L’esercito russo infatti non svolge un ruolo politico autonomo in
Russia dall’era della congiura dei decabristi del 1825: né Trockij duran-
te “l’interregno” dopo la morte di Lenin né il generale Tuchačevskij e
neppure il maresciallo Žukov – malgrado l’enorme popolarità di tutti
e tre quando brillava la loro stella – riuscirono a mobilitare l’Armata
Rossa a loro favore. E l’attuale ministro della Difesa Sergej Šoigu non
sembra avere la caratura per giocare un simile ruolo.
Un ruolo da “junta” che invece potrebbe essere giocato eventual-
mente dal Fsb, sulla cui efficienza però si nutrono molti dubbi. L’e-
sempio del disastro del fallito “putsch d’agosto” del 1991 è ancora vi-
vido e le performance dell’intelligence russa in Ucraina sono apparse
scadenti.
il dilemma dell ’ europa 121

A differenza dell’Iran, tutta una serie di sanzioni – ininfluenti per


Teheran – sono invece dolorose per un Paese che da Jalta fino a Vla-
divostok si percepisce in grandissima parte come europeo e persino
occidentale. La mancata partecipazione a manifestazioni sportive
delle squadre e degli atleti russi, la cancellazione di tutti gli spetta-
coli musicali, l’impossibilità di accedere all’acquisto di buona parte
dell’abbigliamento o dei gadget occidentali, le difficoltà a viaggiare
sono restrizioni che peseranno nel tempo. La fuoriuscita del cinema
hollywoodiano ha provocato un vero tracollo del mercato cinemato-
grafico in Russia: al 31 luglio 847 sale e multisale erano state chiuse
in tutto il Paese, mentre la pay per view offre pacchetti scontati anche
fino al 70%, non potendo più proporre le novità occidentali. L’idea
del governo russo di proporre versioni pirata dei film nei cinema è sta-
ta quasi subito messa da parte, anche se in provincia circolano copie
dei film americani con pessimi doppiaggi.

Pechino e l’“internazionale canaglia”

L’economia russa, piaccia o no, resterà quella di un Paese semi-


coloniale, dedito alla vendita delle materie prime e all’acquisto di
tecnologia e prodotti finiti all’estero subendo pesantemente i sali-
scendi dei cicli dell’economia mondiale. Putin deve quindi pensare
seriamente alla costruzione di alleanze politiche strategiche su scala
mondiale proprio basate sull’asse “sovranismo-valori tradizionali”.
In questo senso un accordo strategico con Pechino è una recondita
speranza del Cremlino, perché i due attori hanno interessi diversi,
anche se in molti casi convergono al fine di contenere e sottrarre
spazio agli Stati Uniti.
La Cina e la Russia non riuscirono ad andar d’accordo neppure
quando formalmente condividevano la stessa ideologia, e Mao Tse-
Tung giunse al punto di dichiarare che l’imperialismo russo era più
pericoloso di quello americano. Nel 1979 si combatterono persino per
procura, in quella carneficina che fu la guerra tra Vietnam e Cambo-
gia. Nel 1980, il trattato Cina-Unione Sovietica non venne neppure
rinnovato e i due Paesi ebbero scarsissime relazioni fino all’avvento
di Gorbačëv.
122 la russia dopo putin

L’economia cinese è la seconda più grande al mondo, otto volte


quella della Russia, e continua, per ora, a crescere. Da questo punto
di vista le strade dei due Paesi ex comunisti sono divergenti (malgrado
Putin continui a negarlo): la tendenza della Russia condurrà inevita-
bilmente a un certo grado di chiusura autarchica e di sostituzione del-
le importazioni, mentre la Cina resterà il più grande alfiere dei mercati
aperti. L’Unione Sovietica ottenne dei vantaggi temporanei nell’isolar-
si dai centri dello sviluppo dell’innovazione: l’accumulazione primiti-
va di Stalin fu un successo, anche se nei decenni successivi non fece
che accrescere lo scarto tra il tenore di vita dei cittadini occidentali e
sovietici; potrebbe ottenerli anche ora.
Come ha scritto Lindsay Maizland su «Council on Foreign Affairs»,
la Cina ha tratto grandi vantaggi dall’attuale ordine internazionale e
cerca di riformarlo, piuttosto che distruggerlo dalle fondamenta.

Da quando la Cina ha aderito all’Organizzazione Mondiale del


Commercio nel 2001, i funzionari cinesi hanno pubblicizzato lo
sviluppo del Paese come una “ascesa pacifica” che mira a evitare il
conflitto militare con gli Stati Uniti e i suoi alleati. La Cina ha lavo-
rato per competere con gli Stati Uniti, costruire legami economici
e diplomatici con i Paesi di tutto il mondo attraverso la Belt and
Road e promuovere una visione di cooperazione win-win. Inoltre,
ha svolto un ruolo sempre più attivo nelle istituzioni internaziona-
li, come le Nazioni Unite.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha posto la Cina in una


posizione difficile: Pechino non ha fornito pubblicamente assistenza
militare alla Russia in Ucraina (anche se la Russia l’avrebbe richie-
sta), sapendo che ciò avrebbe scatenato le reazioni occidentali, ma
partecipa regolarmente ad alcune esercitazioni militari con Mosca.
L’atteggiamento cinese è talmente abbottonato diplomaticamente da
non aver riconosciuto neppure l’annessione della Crimea nel 2014. Se
Putin dovesse reggere almeno per qualche anno, potremmo invece
vedere la Russia diventare dipendente dalle importazioni cinesi, un
processo già iniziato, ma solo timidamente. In certo senso la Russia
cambierebbe solo padrone: dalla dipendenza tecnologica nei confron-
ti dei Paesi occidentali passerebbe a quella nei confronti della Cina.
il dilemma dell ’ europa 123

Anche dal punto di vista finanziario le difficoltà resteranno enormi:


la fuoriuscita dallo Swift e l’abbandono delle grandi corporation del
pagamento a credito ha portato finora a una vasta de-dollarizzazione
delle relazioni commerciali tra i due Paesi, i cui numeri però restano
insignificanti su scala mondiale, mentre la Russia fa fatica persino a
espandere significativamente il circuito cinese di pagamento a credito
di Unionpay, parzialmente alternativo a Visa e Mastercard.
In questo quadro la Russia putiniana, avendo fretta di costituire
nuove alleanze, potrebbe cercare di mettersi alla testa di una inedita
internazionale di “Stati canaglia”. Putin ne ha già parlato apertamen-
te. Nell’estate del 2022 ha sostenuto:

Apprezziamo il fatto che il nostro Paese abbia molti alleati, part-


ner, persone che la pensano come noi in diversi continenti. Si tratta
di Stati che non si piegano di fronte al cosiddetto egemone. I loro
leader danno prova di vera virilità e non si piegano. Stanno sce-
gliendo un percorso di sviluppo sovrano e indipendente, vogliono
risolvere collettivamente le questioni di sicurezza globale e regio-
nale sulla base del diritto internazionale, della responsabilità reci-
proca e della considerazione dei rispettivi interessi, contribuendo
così alla difesa di un mondo multipolare. La Russia apprezza sin-
ceramente i legami storicamente forti, amichevoli e di fiducia con
gli Stati dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa.

Si tratterebbe di far leva sugli “scontenti della globalizzazione” oppu-


re su Paesi come la Turchia che intendono aprirsi con le buone o con
le cattive uno spazio significativo come potenze regionali.
Come è evidente nell’ordine del discorso putiniano manca l’Eu-
ropa, colta come una mera “colonia americana”, il continente in cui
la maggioranza dei russi vive e si riconosce culturalmente. Qui Pu-
tin giocherà sulle divergenze tra gli Stati che lo compongono, pro-
ponendo un’idea della Russia come un Paese povero ma ordinato,
inefficiente ma ancorato a valori tradizionali. E ovviamente cercherà
di far emergere all’interno del Vecchio Continente partiti sovranisti e
reazionari che possano raggiungere il potere. Se si assistesse a un’aper-
tura di credito nei confronti della Russia in qualche Paese europeo,
ciò segnerebbe l’esplosione definitiva non solo dell’Unione Europea
124 la russia dopo putin

per come l’abbiamo conosciuta, ma sarebbe anche l’inizio di una si-


tuazione delicatissima in cui il sovranismo di estrema destra potrebbe
agganciarsi al putinismo.

La “variante Kruščëv”

Le analogie storiche vanno sempre prese con le pinze. Tuttavia una


possibile riforma o fuoriuscita dal sistema putiniano relativamente in-
dolore è possibile sia con Putin in vita, sia dopo la sua morte. Se ormai
l’ipotesi che l’Occidente possa accettare di riprendere le relazioni con
Putin o con qualcuno del suo più stretto entourage è irrealistica e
suicida, una riforma interna del sistema è immaginabile e sta dentro la
storia e la cultura russa.
Ai tempi dell’Unione Sovietica ciò è già avvenuto due volte nel
Ventesimo secolo, prima con l’ascesa al potere di Nikita Kruščëv tra
il 1953 e il 1956, e poi con l’elezione di Michail Gorbačëv a segretario
del Partito Comunista dell’Urss nel 1985.
Entrambe le volte i protagonisti si mossero inizialmente con cir-
cospezione. La triade Beria-Malenkov-Kruščëv che assunse il potere
dopo la morte di Stalin si mosse subito dopo i funerali del dittatore
georgiano per depressurizzare le tensioni che produceva l’economia
del Gulag, che era ormai diventata economicamente insostenibile e
rischiava di produrre delle tensioni sociali (come comunque sarebbe
poi avvenuto). L’ottepel’ (il ‘disgelo’) si sarebbe realizzato gradual-
mente in seguito. Tuttavia già nel 1956 al momento della denuncia al
XX Congresso dei crimini di Stalin non ci fu alcuna reazione né dalla
base del Partito né all’interno della società (se si esclude la rivolta in
chiave ipernazionalista in Georgia).
La perestrojka gorbaciovana anch’essa iniziò con il silenziatore e
accelerò solo nel 1987-1988. Qui al contrario dell’epoca krusciovia-
na emersero accanto alla “rivoluzione dall’alto” in chiave di riforma
capitalistica anche dei movimenti di “rivoluzione dal basso”. Entram-
be queste varianti di riforma, definiamole per comodità “passive” e
“attive”, sono possibili in Russia. Sarebbe sostenuta da tutta quella
parte dell’élite che paga i prezzi più cari della svolta putiniana legati
tradizionalmente alle importazioni occidentali.
il dilemma dell ’ europa 125

Se ci dovesse essere un “superamento di Putin” con una “con-


giura di palazzo”, o in seguito all’emergere di “tendenze riformiste”
all’interno del Cremlino, la leggenda e il mito di Putin crollerebbe
come un castello di carte e ancora più velocemente di quella di Sta-
lin: quando venne smontato il suo mausoleo sulla Piazza Rossa che
sormontava quello di Lenin, in poco tempo tutti vollero rapidamente
dimenticare la sua era, anche se venne mantenuta una certa continu-
ità storico-politica.
Per quanto riguarda la possibilità che l’élite economiche russe pos-
sano entrare in contrapposizione diretta con il regime di Putin, la cosa
è fuori discussione. Esse non hanno alcuna autonomia economica e
quindi politica, e anzi essendo la Russia essenzialmente un “capitali-
smo di Stato” con tratti neofeudali, come abbiamo visto, dipendono in
tutto e per tutto dal Cremlino. Potrebbero agganciarsi a una riforma
dall’alto ma non promuoverla. I vari Potanin, Mordašov e Lisin non
alzerebbero mai un dito contro chi li ha portati tanto in alto, anche se
loro e i loro parenti, dolorosamente, non potranno più godere in futu-
ro della vita dorata in Italia o negli Stati Uniti a causa delle sanzioni.
Una ripresa delle relazioni politiche ed economiche con l’Occi-
dente si presenterebbe comunque difficile perché implicherebbe una
ripresa di fiducia nelle relazioni (anche da parte russa) che oggi non
si riesce a immaginare. Sarebbe comunque necessaria una rivisitazio-
ne dell’impostazione ideologica che il Paese ha costruito negli ultimi
anni e il ritorno a un quadro politico democratico, seppur in salsa
russa, con il riemergere di una società civile che tra mille difficoltà
continuerà comunque a esistere, in Russia e nell’emigrazione. In que-
sto quadro non è neppure da escludere che la Russia possa puntare a
una riapertura con l’asse franco-tedesco, ma non con i Paesi dell’area
centro-orientale in funzione antiamericana.

La “rivoluzione democratica”, ovvero gettare il cuore oltre l’ostacolo

Esiste invece la possibilità di una rivoluzione democratica che porti


alla destituzione dell’attuale regime? Naturalmente oggi questa ipotesi
appare lontana, priva di qualsiasi base, dopo che l’unico movimento
strutturato su base nazionale, il movimento di Aleksej Navalnij, è stato
126 la russia dopo putin

distrutto. Il suo leader è finito in galera, sepolto con decenni di con-


danne come molti altri leader e attivisti, mentre tanti altri ancora hanno
scelto della via dell’esilio in attesa di tempi migliori. Il movimento di
opposizione russa – seppur sfaccettato – si è trovato dipendente da co-
lui che aveva costruito l’unica macchina organizzativa “leninista” effi-
ciente, raccolta attorno al leader carismatico. Le difficoltà che avrebbe
conosciuto l’opposizione russa, già prima che chiunque potesse imma-
ginare l’invasione in Ucraina, divennero chiare dopo le ultime ondate
di protesta del gennaio 2021, che hanno dimostrato tutti i limiti della
mancanza di una prospettiva politica chiara. L’occidentalismo di Na-
valnij poteva essere una leva per poche città europee, ma non per la
Russia profonda, che soffre economicamente ormai da molti anni gli
effetti della deindustrializzazione. Si tratta di quel 69% della popola-
zione che non è mai stato all’estero e non soffrirà certo di una dieta più
spartana, della mancanza dei film occidentali o del divieto di viaggiare.
Il limite assoluto del liberalismo russo è quello di idealizzare un
Occidente che, se mai è esistito, sta scomparendo. Si tratta dello stesso
errore che i cadetti e i sostenitori di una evoluzione “pacifica” verso
l’Occidente avevano preconizzato all’inizio del Ventesimo secolo. Il
fatto che la Russia non sia mai stata “centro” del sistema di svilup-
po è sempre sfuggito ai liberali, che hanno difficoltà a capire quanto
il problema della Russia non era l’“arretratezza”, ma uno sviluppo
da sempre diverso. Il tentativo di superare subito il ritardo con delle
“svolte” radicali in Urss ha creato nuovi problemi, nuovi pericoli e
contraddizioni sconosciuti ai Paesi “avanzati”. In questo senso la sto-
ria recente russa è piena di “troppe” svolte. Il problema della Russia
era, è e resterà un suo sviluppo originale, europeo ma indipendente.
Storicamente i grandi sommovimenti della storia russa, dalle tre
rivoluzioni 1905-1917 fino alla “perestrojka dal basso” negli anni Ot-
tanta, ebbero come epicentro le due capitali, e la provincia seguì senza
fiatare il corso degli eventi del centro: in questo senso la rivoluzione in
Russia mantiene una sua attualità.
La massiccia emigrazione di oppositori fa immaginare che qualsiasi
ipotesi di “rivoluzione democratica” avrebbe comunque bisogno di
anni per ricreare organizzazione e fiducia, e potrebbe innestarsi solo
un radicale peggioramento di vita nelle grandi città.
il dilemma dell ’ europa 127

Sconfiggere Putin, ma come?

L’aggressione all’Ucraina deve essere fermata, perché rappresenta


non solo per gli ucraini, ma per tutti i popoli del cosiddetto “Vicino
Estero”, un pericolo mortale che potrebbe portare a uno spaventoso
arretramento politico e sociale in tutta l’area dell’ex Urss, ancora più
profondo di quello attuale. Come è stato scritto con semplicità dalla
sezione ceca dell’Internazionale delle Federazioni Anarchiche,

ci sembra impertinente affermare che le due parti della guerra in


Ucraina sono uguali. Il regime di Putin è infinitamente più brutale
di una democrazia capitalista, dove esistono almeno alcune possi-
bilità di sviluppo di reti e relazioni antiautoritarie. Inoltre, l’eserci-
to russo non rispetta assolutamente le convenzioni internazionali
sui diritti umani; al contrario, massacra sistematicamente la popo-
lazione civile per minare il morale dei difensori. Sostenere la lotta
armata contro gli occupanti è quindi un dovere per chiunque non
voglia screditarsi completamente agli occhi del popolo ucraino.

Si tratta di un punto di vista, e di fondatissimi timori, non solo propri


degli anarchici cechi, ma condivisi anche dalla stragrande maggioran-
za dei democratici e di chi si considera a qualunque titolo di sinistra in
Europa orientale. Se l’espansionismo russo vincesse in Ucraina met-
terebbe una pietra tombale sul futuro democratico in Bielorussia, in
Armenia e in Centrasia, e sarebbe foriero di nuove aggressioni e di
nuove minacce.
In questo senso – al di là delle politiche che il governo Zelenskij
sviluppa, e dei valori nazionalistici e reazionari che promuove –, il
diritto all’autodeterminazione, al rispetto della cultura ucraina, deve
essere riconosciuto, così come quello alla secessione di popoli all’in-
terno del suo territorio (nel caso della Crimea e delle popolazioni rus-
sofone del Donbass).
La marcia dell’Ucraina verso l’entrata nell’Unione Europa però
rischia di essere una via crucis dove mille pressioni potrebbero emer-
gere, compresi gli appetiti annessionistici dei suoi vicini più prossimi
come Polonia e Romania. In questo quadro anche all’interno dell’U-
nione Europea si potrebbero aprire profonde divisioni.
128 la russia dopo putin

Appena dopo l’inizio del conflitto, il cancelliere tedesco Olaf


Scholz ha dichiarato di «rispettare ogni pacifismo e ogni posizione»,
ma di considerare «cinico dire ai cittadini ucraini di difendersi dall’ag-
gressione di Putin senza armi». Il diritto del popolo ucraino di resi-
stere per difendere la propria vita, le proprie case, le proprie basi di
sviluppo socioeconomico dall’imperialismo russo è fuori discussione.
Nessuno ha mai messo in dubbio la legittimità delle resistenze eu-
ropee che hanno utilizzato le armi fornite dagli eserciti anglosassoni
durante la Seconda Guerra Mondiale, o nella resistenza curda attuale
di fronte agli assalti dell’esercito siriano o delle milizie turche.
Tuttavia, si crede davvero che la potenza russa – che si basa, più
che sulla potenza economica e sulle cannoniere convenzionali, soprat-
tutto sulle testate nucleari – potrà essere sconfitta in primo luogo mili-
tarmente? Nessuno sembra crederci, appena si esce dalla propaganda.
Scholz stesso ha dichiarato più di una volta che «la Russia in Ucraina
non deve vincere» (cioè, nemmeno l’Ucraina può, o addirittura non
deve, vincere) e che in ultima istanza «la pace dovrà essere raggiunti
per via diplomatica».
La linea della “vittoria militare ucraina” non è neppure sostenuta
da Washington, che ha più volte dichiarato di avere un altro obiettivo
in questa guerra: «Indebolire al massimo la potenza russa». Sono gli
obiettivi della proxy war: far dimenticare i disastri del neocolonialismo
Usa di questi ultimi vent’anni in Afghanistan e in Iraq e mettere in
un angolo la Russia per preparare il confronto a lungo termine con la
Cina.
In una qualche misura in questi mesi se ne è perfino accorto Ze-
lenskij, di quanto poco importi alla Casa Bianca il destino del popolo
ucraino. Non così dovrebbe essere per l’Europa, che condivide con
la Russia lo stesso spazio geopolitico e, tra alti e bassi, mille anni di
storia. Non si tratta, ovviamente, di far la pace con il regime di Putin
ormai discreditato e colpevole di numerosi crimini, ma di costruire re-
lazioni, scambi, confronti proprio con l’“Altra Russia”. Quella Russia
che tutti gli europei dovrebbero avere nel cuore. In tempi di “fobie”
e di sciovinismi si tratta di un compito tutt’altro che facile ma assolu-
tamente vitale.
il dilemma dell ’ europa 129

Le sanzioni funzionano?

Per l’Europa la stessa linea delle sanzioni, in questo senso, è in


una certa misura contraddittoria. Naturalmente il blocco delle attività
finanziarie, delle ricchezze e delle proprietà del governo russo e degli
oligarchi sono assolutamente necessarie per inceppare la riproduzione
della macchina bellica russa. Il divieto a viaggiare in Occidente per gli
oligarchi e i manager, per i membri e i funzionari del governo di alto
rango, per il codazzo dei propagandisti come il pseudogiornalista Vla-
dimir Solov’ëv, sono misure essenziali, perché colpiscono duro sugli
stili di vita della classe dominante russa. E anche una serie di misure
volte a impedire che la Russia possa importare tecnologie utilizzabili
a fini bellici. Ma tale politica condotta in modo generalizzato e disor-
dinato, come è avvenuto subito dopo il 24 febbraio, può avere degli
effetti contraddittori.
Benché in questo caso siano in parte necessarie per frenare l’intera
l’economia russa e quindi la sua forza bellica, le sanzioni non hanno
mai fatto cadere fino a oggi un regime. Lo indeboliscono economica-
mente, ma spesso lo rafforzano nella sua coesione interna, in questo
caso permettendo di far leva a Putin sulla “russofobia europea”. Uno
dei più importanti economisti russi, avversario acerrimo del governo
che ora vive a Londra, Andrej Movčan, ha sostenuto che ci sia dell’ir-
razionalità in tutta una serie di sanzioni:

Il mondo non sarà né più freddo né più caldo se esiste McDo-


nald’s nella Federazione Russa. Soprattutto non è più freddo o
caldo se c’è l’azienda di giocattoli Lego o meno in Russia. La
questione è se la Russia sia privata dell’opportunità di riceve-
re dall’esterno beni a duplice uso, tecnologie che consentano lo
sviluppo di un complesso militare e armi, non le catene di risto-
ranti, non i produttori di giocattoli… Ciò non ha assolutamente
nulla a che vedere con questa situazione. In che modo le mini-
gonne di Zara potrebbero influenzare il potere militare russo? In
alcun modo.

Lo scontro Occidente-Russia in realtà si gioca in buona parte contro


il tempo: ci metterà più la Russia a sostituire le tecnologie occidentali
130 la russia dopo putin

e ad abituarsi alla mancanza dei suoi beni, o l’Europa a trovare nuove


fonti di energia non troppo costose?
Le stesse sanzioni che impediscono ai russi di vedere le serie su
Netflix o un concerto dei Green Day a Mosca (tutte cose che i russi
delle grandi città amano follemente) rischia di essere semplicemente
una punizione per il solo fatto di essere russi, e non fa che aiutare chi
vuole costruire barriere artificiali tra i cittadini russi e quelli del mon-
do occidentale. Un esercizio che sta diventando la normalità in Polo-
nia e nei Paesi baltici, per esempio, in cui una russofobia comprensi-
bile ma non giustificabile sta prendendo rapidamente piede. Come ha
dichiarato la giornalista moscovita Marina Ovsjannikova, che per aver
denunciato la guerra è stata costretta agli arresti domiciliari, «non è
una vergogna essere russi, è una vergogna essere a favore della guer-
ra». Alimentare la “russofobia” e l’odio per le colpe del governo russo
non creerà contraddizioni sociali interne, anzi.
Anche il divieto rivolto a squadre o atleti russi di partecipare alle
competizioni internazionali non è probabilmente uno dei migliori
strumenti per mettere alle corde Putin. Anche se è vero che lo sport
nel Ventesimo secolo è stato spesso usato come un’arma di propa-
ganda politica, probabilmente la contestazione del pubblico contro
gli sportivi che hanno dimostrato di essere favorevoli o apertamente
neutrali nei confronti del regime in cui vivono sarebbe molto più
efficace.
Anche durante la prima Guerra Fredda gli Usa imposero un va-
sto programma di sanzioni contro l’Urss. Dal 1948, gli Stati Uniti
iniziarono una campagna contro i Paesi dell’Est che sarebbe du-
rata più di cinquant’anni. Nel marzo di quello stesso anno, il di-
partimento del Commercio annunciò restrizioni alle esportazioni
verso l’Unione Sovietica e i suoi alleati europei, e il Congresso for-
malizzò queste restrizioni nell’Export Control Act del 1949. Nel
1951, gli Stati Uniti tentarono di rafforzare queste sanzioni con il
cosiddetto Battle Act. Secondo questa legge, gli Stati Uniti avreb-
bero rifiutato l’assistenza a qualsiasi nazione che non avesse impo-
sto l’embargo sui beni strategici, compreso il petrolio, all’Unione
Sovietica e alle nazioni soggette alla sua influenza. E fu solo grazie
alle pressioni dell’Europa che gli Usa accettarono molte esenzioni
da questa legge.
il dilemma dell ’ europa 131

Per molti anni, l’embargo nei confronti dell’Unione Sovietica fu


piuttosto severo (più ridotto nei confronti dei suoi alleati meno alline-
ati come la Romania). Con la crescente distensione degli anni Settan-
ta, le restrizioni commerciali vennero alleggerite, in particolare con il
permesso concesso ai sovietici di acquistare grandi quantità di grano
americano dopo il fallimento del raccolto sovietico nel 1973. Ma le
restrizioni furono nuovamente inasprite dopo l’invasione sovietica
dell’Afghanistan nel dicembre 1979, e nel 1983 Ronald Reagan ap-
provò la National Security Decision Directive 75. Questo regime più
severo di sanzioni portò a notevoli conflitti con gli europei in seno al
Comitato di coordinamento per il controllo delle esportazioni multi-
laterali (Cocom), soprattutto per quanto riguardava l’esportazione di
attrezzature per il petrolio e il gas.
Quando l’Unione Sovietica crollò nel 1991, si poté infine discutere
liberamente sull’efficacia delle sanzioni. Il più importante studio sulla
questione firmato da Gary Clyde Hufbauer, Jeffrey J. Schott, Kim-
berly Ann, Elliott Barbara Oegg, Economic Sanctions Reconsidered,
giunse alla conclusione che, sebbene gli Stati Uniti fossero riusciti a
negare ai sovietici alcune armi e tecnologie chiave, il crollo del regime
fu dovuto piuttosto alle inefficienze interne.

Ci può essere una politica europea autonoma?

Il vero dibattito tra Berlino e Parigi da una parte e Washington


dall’altra ha sempre riguardato lo sviluppo di una crescente pressione
sul Cremlino. Gli Usa restano legati alla Dottrina Kennan del con-
tenimento, mentre soprattutto la Germania ha sviluppato nel tempo
una politica basata sull’«interdipendenza» nei confronti della Russia
che «prese forma circa trecento anni fa, quando finì la Grande Guer-
ra del Nord e divenne chiaro che la Russia era saldamente radicata
nel Baltico» sostiene lo storico Martin Schulze-Wessel in una recen-
te intervista. L’idea di «cambiamento attraverso il riavvicinamento»
(Wandel durch Annäherung) fu il motto della “nuova politica orienta-
le” (Ostpolitik) tedesca, avviata dal cancelliere tedesco Willy Brandt
all’inizio degli anni Settanta, un approccio che oggi viene messo in un
angolo dopo il “grande tradimento” di Putin, così come il giudizio sul
132 la russia dopo putin

cancellierato di Angela Merkel, troppo ammaliata dal capo del Crem-


lino per realizzare in vent’anni una differenziazione delle importazioni
di idrocarburi.
Comunque sia, se l’Europa dal punto di vista strategico vuole ave-
re un futuro non può avere lo stesso orizzonte degli americani, né
del nuovo blocco che si presagisce “russofobo” del Centro e Nord
Europa, dei partigiani di una Guerra Fredda 2.0 che potrebbe durare
molto a lungo.
Malgrado sia segnato da una sottovalutazione dei rischi globali
dell’avventura putiniana iniziata il 24 febbraio, Nicolas Guilhot su
«Jacobin» ha colto bene bene il rischio della rinascita di un «liberali-
smo da Guerra Fredda», radicato soprattutto, anche se non solo, negli
Usa. Un progetto politico che appariva moribondo fino a poco tempo
fa, ma che con la guerra in Ucraina ha fatto tornare in auge anche
personaggi come Francis Fukuyama.

Il progetto liberale è entrato in crisi per i troppi impegni catastrofi-


ci assunti nelle guerre eterne dell’America e per i troppi fallimenti
interni. Piuttosto che riconoscere questi fallimenti, gli appassionati
di droni e gli Spartani da poltrona di oggi preferiscono dare la col-
pa alle politiche identitarie, a Black Lives Matter o ai movimenti
per una maggiore giustizia sociale. Se non altro per ragioni strate-
giche, il liberalismo originario della Guerra Fredda era in grado di
far fare passi avanti alla giustizia sociale e razziale. La sua nuova
versione è chiaro che non li farà fare.

Danilevskij o Lenin

Malgrado nella élite russa si accarezzi l’idea di Nikolaj Danilevskij,


per molti uno dei fondatori della geopolitica euroasiatista nell’Otto-
cento, secondo cui la Russia è qualcosa d’altro rispetto all’Europa,
ed è necessario costruire l’unione di tutti gli slavi sotto la guida di
Mosca, l’idea di fondo di Putin fino a ieri è sempre stata quella di
riequilibrare i rapporti con l’Occidente, seppur con prove di forza
che via via determinassero una bilancia tra le potenze, conflittuale
e dinamica. Ma la folle decisione di attaccare l’Ucraina ha mandato
il dilemma dell ’ europa 133

all’aria per la Russia ogni tipo di progetto politico razionale di difen-


dere i propri interessi.
Il fatto che ogni equilibrio sia saltato definitivamente rende in-
certa e problematica anche l’esistenza della Russia come entità na-
zionale. Non solo perché esiste un rischio di balcanizzazione, ma
soprattutto perché dopo la Rivoluzione Russa lo Stato non ha fatto
altro che indebolirsi, un paradosso che vendica in parte il “Principe
leniniano”.
Si tratta di una tesi sviluppata qualche decennio fa da Michail
Gefter, uno degli intellettuali russi, oltre che dissidente, più importan-
te del Ventesimo secolo, ma purtroppo pressoché sconosciuto fuori
dalla Russia.
Nella lettura di Gleb Pavlovskij, uno dei suoi allievi poi divenuto,
salvo pentirsene, uno dei consiglieri di Putin, Gefter sosteneva che
«il potere russo non è uno Stato. Occupa i luoghi in cui dovrebbero
trovarsi la società e lo Stato nazionale, monopolizzandoli… Dallo sla-
vofilo al borghese, dal comunista Majakovskij allo snob Michail Bul-
gakov tutti ne sono stati coinvolti». Secondo Pavlovskij «la biofiloso-
fia gefteriana di Lenin è l’unica forte… Nel progresso russo, il potere
ha condotto a ciò che Lenin chiama “servitù della gleba”, un modus
vivendi russo che lega la società al potere»
Il potere russo non conoscerebbe alcun rapporto con il Paese, se
non quello tra signore e schiavo, e quindi solo il partito rivoluzionario,
il Mosè europeo, il partito, può guidare il popolo fuori dalla schiavitù
asiatica, può rovesciare l’enigma.
Danilevskij per l’appunto in Lenin viene rovesciato: la peculiarità
russa è colta in negativo, e il suo riallineamento all’Europa non può
che avvenire per via rivoluzionaria. Per Gefter «i russi hanno bisogno
di un’Europa avanzata e senza alternative». In questo senso Lenin è
cofondatore a pieno titolo dell’Europa odierna.
Al centro del comunismo sovietico c’è l’utopia marxiana della sto-
ria europea come «unico modus Homo sapiens: l’universale diventerà
un giorno veramente tale e comprenderà l’intero pianeta. La Russia
è un’Europa emarginata, non una mistica “Eurasia” ma un attivo al-
ter-Ovest, un Euro-Est dell’Euro-Ovest stesso».
Però dopo il definitivo crollo dell’esperienza sovietica, Gefter era
pessimista: pensava che questo inedito incontro-scontro potesse ri-
134 la russia dopo putin

prodursi, e la Russia, lasciata a stessa, poteva diventare un pericolo,


una bomba a orologeria e «far saltare il mondo intero». Una premoni-
zione con cui oggi dobbiamo fare i conti.
Non si tratta quindi ovviamente di convertire l’Europa occidenta-
le, fuori tempo massimo, alle virtù del leninismo, che dimostrò impor-
tanti limiti nel suo farsi e che rappresenta un’epopea irripetibile, ma
di riproporre nuovamente la questione di uno stare insieme in Euro-
pa che non ponga la questione della relazione tra libertà, fraternità e
uguaglianza che appaiono sempre più consunte e formali.
Il più grande problema si avrà se l’Europa non saprà trarre alcuna
lezione da quanto è successo, come invece seppe in gran parte fare
con il compromesso sociale nel secondo dopoguerra. Scholz e Macron
hanno parlato più volte di un nuovo Piano Marshall per l’Ucraina,
ma senza una maggiore giustizia sociale in tutto il continente, nusuna
stabilità sarà possibile in Europa.

Guardare al futuro

Nel preciso momento in cui l’Europa costruirà una storia della


guerra in Ucraina ridotta all’“orso russo” che ha cercato di penetra-
re in Europa attraverso Kyiv, in pratica avrà perso anch’essa, non ri-
conoscendo (per pigrizia o per mero interesse) nel regime putiniano
quello spregiudicato autoritarismo che fa coppia con il più sfrenato
neoliberismo.
La Russia è destinata a cambiare pelle, ma non si può chiederle di
diventare una colonia dell’economia occidentale in cui saccheggiare
materie prime e sfruttare forza lavoro qualificata a basso prezzo. Si
tratta, dell’altra faccia della medaglia, della questione dell’Ucraina in-
dipendente, neutrale e democratica, così come della Bielorussia, della
Georgia o dell’Armenia.
Come è noto parte delle popolazioni sovietiche occidentali più col-
pite dalla repressione staliniana accolsero inizialmente a “pane e sale”
i nazisti che arrivavano nelle loro città, ma quando si accorsero che a
un tiranno ne sarebbe seguito uno peggiore, e per giunta straniero,
iniziarono a combattere: perfino Stalin riuscì a diventare il simbolo
del riscatto e della Resistenza.
il dilemma dell ’ europa 135

Gli ultimi trent’anni di libero mercato hanno profondamente di-


silluso i russi, che si sono trovati impoveriti e senza più quei punti
di riferimento che in qualche misura l’Urss aveva creato. E così im-
provvisamente la nostalgia per il passato sovietico si è trasformato in
revanscismo.
Putin e la sua corte sono alla fine riusciti a costruire il sostegno
intorno a un cinico irredentismo: le loro vittime sono diventate i loro
più grandi sostenitori.
I russi dal 2014 in poi sono stati mobilitati dal Cremlino a lotta-
re per tutto ciò che il mercato ha sottratto loro. Saccheggiati da un
gruppo di oligarchi senza scrupoli che hanno trovato il loro Camale-
onte-Zar, buono per qualsiasi stagione. Come ha sottolineato ancora
l’artista e intellettuale russo Maksim Kantor, «ieri i russi morivano
separatamente, derubati dal mercato, ma oggi sono uniti nell’odio
verso chi li ha impoveriti. Ubriachi di odio, pensano che il mondo
occidentale li abbia impoveriti, ma in realtà sono in guerra con la loro
stessa storia di guerra di rapina, incarnata plasticamente dalla vicenda
Ucraina».
Se nel “post-Putin” questa frustrazione e rabbia resterà intatta,
non ci sarà una prospettiva positiva né per la Russia né per l’Europa
nel suo complesso.
In questo senso la l’oligarchia neofeudale che domina a Mosca ha
il suo più grande alleato nelle masse impoverite del Paese, orgogliose
del proprio presidente, delle proprie armi supersoniche, ma anche dei
propri ultraricchi funzionari che possono mostrare al mondo la loro
sfacciata ricchezza costruita sul depredamento della ricchezza sociale,
sulla mancanza di protezioni sociali e sulla liberalizzazione completa
del mercato della forza lavoro.

La sconfitta di Putin può preparare un’alternativa?

Putin deve essere sconfitto, e il più presto possibile, ma sarebbe


un errore grossolano pensare di umiliare i russi. Liberarsi di Putin
e del suo regime è compito del popolo russo e solo di esso, anche se
il dovere di ogni internazionalista è ovviamente solidarizzare con le
loro battaglie. Questa sconfitta può avere diversi sbocchi e condurre a
136 la russia dopo putin

nuovi, più violenti scontri in Europa oppure allo sviluppo di una fase
in cui gli interessi, le culture, le vicende dei diversi popoli che ci vivo-
no possano trovare una sintesi, nuovi equilibri: dove ci possa essere
una rinnovata cooperazione economica, sociale, culturale. Un’Europa
non segnata dall’aumento del militarismo e dallo “scontro di civiltà”.
Se vuole esistere politicamente, l’Europa non può che includere
la Russia. L’Europa non può essere quella regione del mondo dove si
costruiscono muri, si impedisce la circolazione delle persone, si deli-
mita un dibattito sulle prospettive dell’Est Europa ai giornalisti e agli
studiosi embedded di entrambi i fronti.
Il filosofo francese e marxista Étienne Balibar, in una recente in-
tervista, sostenendo l’inanità del pacifismo e della necessità di appog-
giare la resistenza ucraina, ha rilevato giustamente come questa non
è solo una proxy war, e neppure solo una guerra per l’indipendenza
nazionale ucraina, ma anche «una guerra europea».

Non solo perché si svolge in un territorio che può essere con-


siderato come appartenente all’Europa o alla sua frontiera, ma
perché è una guerra che si svolge all’interno dell’insieme storico,
culturale e politico che chiamiamo Europa. E tutto questo include
la Russia.
Questo non vuol dire che la Russia e il suo attuale regime, una sor-
ta di “petro-oligarchia” autocratica, ultra-militarizzata e sempre
più sorvegliata, nostalgica dell’Impero Russo, non siano il nemico
del momento. Sono il nemico degli ucraini e, di conseguenza, il
nemico di tutti coloro che considerano, come me, che la priorità è
sostenere la loro resistenza.
Ma è molto importante considerare, contro una certa evidenza,
che questa non è una guerra tra l’Europa, ridotta a “piccola Euro-
pa”, e una potenza che sarebbe esterna per definizione. Tra “noi”
e “loro”. È una guerra che si sta svolgendo all’interno del nostro
spazio europeo, ma che potrebbe ancora espandersi, questo è un
rischio evidente.

L’Europa riuscirà a mettere in crisi il regime putiniano e i pericoli


mortali che porta con sé, si mostrerà accogliente, inclusiva, aperta e
democratica. In un certo senso questo fu uno dei motivi che condus-
il dilemma dell ’ europa 137

se l’Occidente a vincere la prima Guerra Fredda: l’idea di essere lo


spazio della libertà sintetizzata nei jeans e nella musica rock, oltre a
tutti gli altri beni di consumo e della democrazia politica. Oggi però
i popoli non possono e non vogliono vivere di sola narrazione della
libertà e il benessere: li vogliono davvero.
Questo modello capitalista è più che appannato, ma l’alternativa
socialista, intesa in senso lato, è rimasta nel baratro, per ora, in cui è
stata cacciata. Dopo il 1989 e l’eclissi del movimento operaio, l’alter-
nativa di società è di là da venire. Non perché questa non è necessaria,
ma ha ancora bisogno di tempo per definirsi e costruire la forza ne-
cessaria tra gli oppressi: il nodo di una democrazia diretta e con meno
diseguaglianze sta tornando faticosamente in agenda. E la stessa mes-
sa in discussione di istituzioni come la Nato si dovrà muovere con una
rinnovata alleanza con i popoli di quello che un tempo si chiamava il
Sud del mondo.
In questo senso, piaccia o no, non siamo alla viglia di processi di
rivoluzione in permanenza, come se li immaginava Marx nel 1848.
Ma è solo dentro le contraddizioni odierne, e non volgendo la testa al
passato, che un’idea di liberazione potrà farsi strada.
Conclusioni

Non si può capire la Russia con la mente,


Non può essere misurata con il metro comune:
Ha una natura molto speciale
nella Russia si può solo credere.

Questa breve lirica scritta nel 1866 da Sergej Tjutčev, un poeta pansla-
vista e moderatamente progressista in politica interna, è molto celebre
anche tra i russi di oggi benché spesso non sappiano chi sia l’autore.
I russi vi si riconoscono da molte generazioni perché sintetizza non
solo l’aspetto “irrazionale” o istintivo del loro carattere ma anche il
trasporto sentimentale che accompagna, in terre fredde e inospitali, la
loro esistenza. Si tratta di ciò che spesso impropriamente viene chia-
mata l’“anima russa” e che chi ha vissuto almeno un po’ di tempo qui
può recepire.
Così nel farsi della sua storia, la Russia resta insondabile, impreve-
dibile, misteriosa, anche per chi ci è nato.
La Russia è la terra del dominio imperiale, della knut, della frusta
del padrone sulla schiena del contadino, dei pogrom contro gli ebrei.
Ma la Russia è anche la rivolta di Pugačëv, le mogli dei decabristi che
attendono per decenni il ritorno del marito dal confino siberiano, del-
la prima rivoluzione socialista della storia…
Io sono di madre russa, mio nonno è morto combattendo il nazi-
smo il 12 agosto 1941, mia nonna è passata per il Gulag. Sono venuto a
vivere in Russia alcuni anni fa, ci ho studiato ai tempi della perestrojka,
l’ho visitata nei decenni regolarmente. Eppure dal 24 febbraio non
140 la russia dopo putin

mi ci sono più trovato a mio agio, ho provato un dolore immenso nel


vedere quanti russi sostenessero la guerra.
Allora mi è tornato alla mente che nell’inverno del 2021 mi ero re-
cato – annoiato di stare in casa – a visitare il Museo delle forze armate
russe, che si trova non lontano dalla bella fermata del metrò dedicata
a Dostoevskij. Le prime sale della mostra, allestite in epoca sovietica
ma aggiornate in epoca della perestrojka, dove viene dato spazio anche
ai personaggi innominabili in epoca sovietica finiti nel buco nero delle
purghe, sono dedicate alle rivoluzioni e alla Grande Guerra Patriot-
tica, e fu qui che mi soffermai di più. Avviandomi poi però all’usci-
ta non potei non notare delle sale dedicate alla guerra d’Afghanistan
(aperta nel 2014) e quella alla guerra in Georgia (aperta nel 2009), che
rappresentano entrambe due guerre russe contemporanee e, seppur
diverse tra loro, di conquista. Erano fatte male, composte soprattutto
di foto e di modelli di armi. Si recepiva una netta discontinuità negli
allestimenti e nei contenuti tra le prime sale e queste.
È noto che musei come questi non sono molto frequentati, salvo
qualche scolaresca, e la propaganda oggi – anche quella di divulgazio-
ne storica – utilizza altri strumenti più diretti. Ciò che percepii vivi-
damente però era quanto il Paese viva di memorie affastellate, dove
dietro l’apparente ordine autoritario vige il pressapochismo, e, per
quanto riguarda chi dirige e gestisce un museo come quello, un tirare
a campare. In attesa che ovviamente si rivedano anche quelle dedicate
alle rivoluzioni e alla guerra civile secondo i nuovi dettami del Crem-
lino. Quiete e tempesta si sovrappongono.
Con l’inizio del conflitto mi sono svegliato da un sogno che si era
trasformato improvvisamente in un incubo. Mi sono reso conto di
aver idealizzato un Paese che da tanto tempo non è più quello che ho
conosciuto, o avevo pensato di conoscere e di amare. «Sono contro la
guerra ma…» ho iniziato a sentirlo su troppe bocche, mentre i ragazzi
per le strade venivano arrestati per aver gridato il loro no, nell’indif-
ferenza o nella paura. Mentre troppi in silenzio prendevano la strada
dell’esilio. Troppi, perché il Paese non cambierà da solo.
Ho iniziato allora automaticamente a pensare in termini di “noi”
(occidentali) e “loro” (russi). Un meccanismo psicologico per difen-
dermi dallo sciovinismo, dal cinismo, dalla montagna di bugie riversa-
ta immediatamente dai mass media moscoviti. Una reazione terribile
conclusioni 141

(so benissimo che l’Occidente non è il migliore dei mondi possibili)


ma forse inevitabile.
E allora ho capito che anche se mi sento in parte russo, resto un
occidentale. Non c’è internazionalismo che possa staccare questo dal-
la mia pelle. Del resto, piaccia o no, il socialismo in tutte le sue va-
rianti, da quella socialdemocratica fino a quella anarchica, affondano
le proprie radici soprattutto in Europa occidentale. Lo stesso si può
dire del movimento operaio in Ucraina. Insomma, che si chiamassero
Bakunin o Lenin, Machno e Trockij, erano sì russi e ucraini, ma erano
imbevuti di cultura europea. Non è un caso che sia Putin che Zelen-
skij siano impegnati in una vigorosa campagna, ognuno a modo suo,
per decomunistizzare quel poco che restava della tradizione viva dei
soviet e delle rivoluzioni. Anche per questo penso che una qualsiasi
idea di riscatto sociale non potrà vivere nella separazione della Russia
dall’Europa o facendo aderire l’Ucraina all’Europa come una qualsia-
si colonia da depredare.
La mia solidarietà con il popolo ucraino e la mia vicinanza con chi
resiste è stata naturale, istintiva, impolitica: si sta con gli aggrediti e
non con gli aggressori, anche se non amo il governo installato a Kiyv
e ho ben chiaro che non si tratti solo di una guerra per l’indipendenza
nazionale. Però ho anche imparato tanto tempo fa che «è necessario
distinguere il nazionalismo della nazione dominante dal nazionalismo
della nazione oppressa».
Il Do you remember revolution?, l’idea che non ci sarà un futuro di
pace, di autodeterminazione, di benessere né in Ucraina, né in Russia
e neppure nel “nostro mondo”, se non tornerà in agenda un progetto
di trasformazione sociale, mi è chiara ancora più oggi rispetto a quan-
do a sedici anni passavo i miei sabati pomeriggio in cortei vocianti
contro tutti gli imperialismi del pianeta.
Il disincanto e l’indifferenza, in tempi tanto difficili e confusi, non
devono prevalere. Purtroppo per ora è solo un auspicio, ma va ripetu-
to come un mantra. Anche in questa occasione.
Appendice

La Russia in guerra: tra egemonia neoconservatrice


europea e privatizzazione del caos

Le controffensive dell’esercito ucraino dell’estate-autunno del


2022 hanno rimesso in discussione le poche certezze del Cremlino
sul conflitto. La perdita di una parte significativa delle pur modeste
conquiste territoriali della prima fase del conflitto hanno condotto
Vladimir Putin a prendere delle decisioni difficili, che hanno mina-
to la fiducia nella certezza della vittoria di buona parte dell’opinione
pubblica russa. Qui l’aspetto cronologico è fondamentale per com-
prendere quanto si è innestato e le conseguenti ricadute, non solo tra
le élite russe ma nell’intera società.
Alla fine di settembre del 2022, in fretta e furia, il Cremlino ha
deciso di promuovere l’annessione di quattro oblast’ occupati nella
prima fase del conflitto. Si trattava delle autoproclamate Repubblica
Popolare di Donec’k e di quella di Luhans’k, e i territori degli oblast’
di Cherson e Zaporože. Dei due primi oblast’, al momento dei “refe-
rendum farsa”, l’esercito controllava buona parte del territorio, ma
non la totalità, mentre nelle altre due province, sottoposte dalla Russia
ad amministrazione militare e occupate nelle prime settimane dell’in-
vasione, non controllava il capoluogo di Zaporože, e avrebbe perso
rapidamente, nel giro di qualche settimana, quello di Cherson. Si pro-
filava il rischio di tracollo del fronte con ricadute inimmaginabili sotto
il profilo militare e del morale.
Così il 21 settembre 2022, il Presidente della Federazione Russa
ha ordinato la «mobilitazione parziale» di oltre 300.000 riservisti per
gestire un fronte che ormai si allungava per oltre 1.000 chilometri. Il
significato storico di questo passaggio è stato evidente: per la prima
144 la russia dopo putin

volta in Russia dopo la Grande Guerra Patriottica si pronunciava la


fatidica parola “mobilitazione”, che avrebbe coinvolto un gran nume-
ro di uomini per proseguire la guerra. Solo poche settimane prima lo
stesso Putin aveva firmato un ukaze in cui ordinava al ministero della
Difesa della Federazione di portare il numero di soldati dell’esercito
russo a 2 milioni. Una tendenza a costruire una “società di armi” in
cui ogni cittadino potenzialmente può essere chiamato a combattere
in ogni momento fino all’età di sessant’anni.
La ricaduta sociale di questa decisione non si è fatta attendere. Ne-
gli aeroporti, nelle stazioni, lungo le vie di percorrenza stradali che
portano ai confini di Georgia e Armenia, centinaia di migliaia di russi
abbandonavano alla chetichella il Paese per paura di essere spedito
al fronte. Molti, come già all’inizio della guerra, hanno abbandonato
“per sempre”, non intendono tornarci fino a quando sussisterà il re-
gime attuale.
In molte interviste che ho realizzato per la Televisione Svizzera in
Israele, Georgia, Armenia, ho ricevuto conferma di una cosa: parte
della gioventù, in particolare del ceto medio urbano, è stata protago-
nista di una nuova diaspora. Gli effetti di questa ondata migratoria
sono difficili ancora da immaginare, ma si tratta della terza diaspora
in un secolo, dopo quella seguita alla fine della guerra civile (1921) e
quella seguita al crollo dell’Urss (1991).
L’altra faccia della medaglia è stata l’ascesa fulminea di Evgenij Pri-
gožin, il fondatore della compagnia militare privata Wagner all’onore
delle cronache internazionali. Il personaggio era già conosciuto agli
addetti ai lavori da almeno un decennio. Leningradese come Putin,
che conosce dai tempi il cui il futuro Presidente era il braccio destro
del sindaco della città, nel 1992 (dopo aver scontato un decennio nel-
le patrie galere sovietiche per vari reati comuni), Prigožin nel 1995
fonda la holding Concord che negli anni cresce operando nel settore
alimentare, alberghiero e immobiliare.
Poi, all’inizio degli anni Dieci, la svolta verso la politica con atti-
vità di supporto all’azione del putinismo. Una nuova e postmoderna
frontiera dell’agire politico, lontana anni luce dalle forme politiche
tradizionali, anche quelle più leaderistiche, o basate sul confronto de-
mocratico, in cui conta creare onde emotive nell’opinione pubblica
del web. Un populismo aggressivo, sciovinista come quello russo ha
appendice 145

bisogno dei suoi strumenti per promuoversi, e questo Prigožin lo ca-


pisce per tempo.
Nel 2012 crea il gruppo editoriale Patriot, che si occupa di creare
una fitta rete di siti e di “troll” sui social volti a molestare e attaccare
su scala nazionale e internazionale tutti coloro che si oppongono “alla
rinascita della Russia”. Già durante le elezioni presidenziali americane
del 2016, che portano alla Casa Bianca Donald Trump, secondo il por-
tale di San Pietroburgo «Fontanka», la campagna elettorale Usa è sta-
ta inquinata da una fitta rete di agenzie stampa che produssero a getto
continuo notizie e approfondimenti contro i Democratici sotto il con-
trollo di un singolo azionista russo, ma il nome di Prigožin non spunta
ancora. Si tratta del vero cuore pulsante della diffusione dell’ideologia
sovranista anti-gay e anti-femminista che invade la rete mondiale. Dal
2019 in poi la Patriot diventa una vera potenza con oltre quattrocento
collaboratori. Quando vengono bloccati dal governo russo, all’inizio
della rivolta, i suoi siti e canali avevano un bacino di decine di milioni
di potenziali lettori e 6 milioni di lettori al giorno.
Dal 2014 accanto a questa rete inizia a crescere anche la compagnia
militare privata Wagner, che si occupa di reclutare foreign fighters in
tutto il territorio dell’ex Urss per proteggere e sviluppare gli interes-
si russi in alcune zone chiave dell’Africa e naturalmente in Siria, ma
ancora modestamente nel Donbass. Si tratta ancora di piccoli reparti
ultra-specializzati in grado di svolgere azioni di guerriglia, di esplora-
zione e di raccolta di informazioni. Secondo Samuel Ramani, che ha
scritto una vera e propria enciclopedia della prima fase della guerra
in Ucraina (Putin’s War on Ukraine), il salto di qualità su terreno pro-
priamente militare inizia solo nel marzo 2022. La portata degli sforzi
di reclutamento del gruppo Wagner elevò l’importanza di Prigožin
per lo sforzo bellico. Il 19 settembre, un alto funzionario statuniten-
se ha rivelato che il gruppo Wagner stava pianificando di reclutare
1.500 condannati per lo sforzo bellico della Russia. Secondo le stime
dell’ong per i diritti dei prigionieri Jailed Russia, 11.000 detenuti si
erano arruolati per la guerra in Ucraina e le campagne di reclutamen-
to del gruppo Wagner avevano trasportato 600 prigionieri da Nižnij
Novgorod in una sola volta. A metà agosto, i rappresentanti del grup-
po Wagner avevano visitato ventuno colonie penali in tredici regioni
russe e il 20% dei prigionieri a cui Wagner aveva chiesto di prestare
146 la russia dopo putin

servizio aveva accettato. Prigožin appare in video mentre recluta la


feccia della società russa, gente che spesso non ha nulla da perdere
promettendo l’amnistia, ma solo pochi mesi dopo la Duma di Stato
varerà una legge che rende il reclutamento nelle prigioni perfettamen-
te legale. Quando Prigožin alla fine del giugno 2023 giunge a sfidare
l’intero apparato statale russo sostiene di avere dalla sua parte 25.000
uomini e di averne perduti almeno altrettanto nella sanguinosissima
battaglia di Bachmut. Il giornalista filo-putiniano Dmitrij Kiseleev ha
sostenuto che

la società militare privata Wagner, fondata da Evgenij Prigožin, ha


ricevuto poco più di 858 miliardi di rubli in contratti con lo Stato.
Nell’ambito di altri contratti, la sua holding denominata Concord
ha fornito servizi per 845 miliardi di rubli. Questo non significa
che abbiano guadagnato così tanto, ma ci narra della portata dei
loro affari e delle loro ambizioni.

Il fenomeno della privatizzazione dell’esercito non è solo russo e


naturalmente non è nato neppure in Russia. Le compagnie militari
private iniziarono a svilupparsi con la Guerra Fredda ma crebbero
in modo esplosivo dopo l’intervento in Afghanistan e l’invasione an-
gloamericana in Iraq. Il «Washington Post» segnalò in un articolo del
16 dicembre 2009 che in Afghanistan erano presenti da 130 a 160
anni mercenari o poliziotti privati, ovvero oltre il 60% degli uomini
complessivamente dislocati dagli Usa nel Paese. Aziende come la ce-
leberrima compagnia militare Blackwater prendevano un pezzo molto
importante di quella torta, che veniva poi diviso tra decine di compa-
gnie private di diverse dimensioni.
Nel suo Modern Mercenary, Sean McFate afferma che siamo stati
testimoni negli ultimi anni di un vero e proprio cambio di paradigma,
in cui si è prodotto «l’avanzamento» del capitalismo verso un neome-
dievalismo, una brusca «avanzata verso il passato» dal Ventesimo al
Dodicesimo secolo.

Nel moderno ordine mondiale westfaliano, solo gli Stati potevano


creare il diritto internazionale e farlo rispettare attraverso il mo-
nopolio della forza. Cioè, solo gli Stati potevano usare “legittima-
appendice 147

mente” la violenza per imporre la loro volontà, lasciando i riva-


li non statali alla loro mercé. Gli Stati mettevano rigorosamente
fuori legge i mercenari, perché minacciavano questo monopolio e
contestano il sistema. L’erosione del tabù contro il mercenarismo
preannuncia un cambiamento nell’ordine mondiale, dal sistema
westfaliano Statocentrico allo status quo ante del Medioevo. Il si-
stema medievale non era dominato dagli Stati, ma era di natura
policentrica, con un’autorità diluita e condivisa tra attori statali
e non statali. Gli Stati erano solo un altro attore su un affollato
palcoscenico mondiale e nessuno aveva il monopolio della forza.
Al contrario, esisteva un libero mercato della forza e gli attori –
re, papi, principi, città-Stato, famiglie ricche e così via – usavano
comunemente il mercenariato per risolvere le controversie nella
guerra contrattuale.

Il passaggio dal “nuovo ordine mondiale” al “multipolarismo” non


rappresenta quindi un “passo avanti” verso il “governo mondiale” ma
verso un caos ben poco controllato.
In questo quadro la vicenda della Wagner di Prigožin segnala
quanto la legge dello “sviluppo diseguale e combinato” russo funzioni
alla perfezione.
Pur essendo arrivata tra le ultime alla privatizzazione dell’esercito
– avendo alle spalle il mito del ruolo “socialista” e “internazionalista”
dell’Armata Rossa – la Russia si è posta subito all’avanguardia di que-
sto tumultuoso processo. Era già successo con le politiche neoliberi-
ste. Dopo aver introdotto la completa deregolamentazione nel merca-
to del lavoro, i governi Putin hanno rinazionalizzato buona parte dei
settori strategici ponendoli non solo sotto il controllo dello Stato ma
della sua personale camarilla. Si tratta di quel crony capitalism che con
la pandemia e un inedito neokeynesismo privatistico ha accelerato in
tutte le grandi economie occidentali.
La novità introdotta dalla Wagner è stata la crescita di una strut-
tura mediatica apertamente politica con una compagnia militare pri-
vata, e questo a un certo punto ha reso inquieti i sonni dell’oligarchia
installata al Cremlino.
Detto ciò, resta aperto il problema della collocazione strategica
della Russia, vista la sua cultura europea che non può essere ripla-
148 la russia dopo putin

smata sulla base del “multipolarismo”. Il gruppo dirigente putiniano


sembra aver iniziato solo adesso a rifletterci. In una lunga intervista
al giornale «Rbk» uscita il 13 giugno 2023, il vicepremier Andrej Be-
lousov ha indicato “come” e con “quali obiettivi” la Russia si collo-
cherebbe in Europa nel futuro. Tra le direzioni con cui la Russia può
presentarsi al mondo c’è la tradizione e il conservatorismo nel lungo
periodo. Ma non è tutto.
Deve essere un conservatorismo modernizzato. La Russia può di-
ventare la custode dei valori tradizionali dell’Occidente. Mentre l’Oc-
cidente ha detto addio a questi suoi valori tradizionali ed è passato a
qualcos’altro, che in realtà è anti-tradizione nel quadro del postmo-
dernismo. Conservando i valori tradizionali dell’Occidente, che in un
certo senso sono i valori della civiltà cristiana occidentale, della civiltà
europea, la Russia può diventare la custode di questi valori. Una sto-
ria un po’ paradossale, ma nondimeno. Quindi è sbagliato dire che
l’Occidente è nostro nemico. Ma in Occidente ci sono élite e ampi
strati sociali che sono legati proprio ai valori tradizionali. E potrebbe
risultare che per loro la Russia è una pagliuzza salvavita che dà loro
qualcosa da salvare».
Niente di nuovo dal fronte orientale, la Russia putiniana si candi-
da a quel ruolo di bastione reazionario già giocato dalla dinastia dei
Romanov che rese per molti anni Marx un “russofobo”. L’ipotesi di
una “internazionale canaglia” intorno a Mosca è una delle ipotesi che
accompagna questo libro. L’insidia è ancora lì: non una guerra di ci-
viltà ma una guerra civile nella civiltà europea contemporanea, dove a
un tratto la fascista Eurasia immaginata dal filosofo Aleksandr Dugin
diventa possibile.
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2021
Indice

Nota alla seconda edizione 5


Prefazione di Toni Negri 7

la russia dopo putin 13


Introduzione 17
1. Il secolo lungo dell’ex Urss 27
2. L’era Putin 47
3. L’ideologia putiniana 73
4. La struttura economica russa 91
5. Il dilemma dell’Europa 111
Conclusioni 139
Appendice 143
Bibliografia 151
154 la russia dopo putin
 155
Stampato da Fp Design s.r.l.
Via delle Baleari 228
00121 Roma
www.fp-design.it

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