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Vito Sibilio

IL DELITTO MORO
Dal Cremlino a Via Caetani
INTRODUZIONE

A quarant’anni dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro (1916-1978), solo brandelli di verità ci
sono stati restituiti, nonostante la sterminata pubblicistica, le accurate indagini processuali più volte
replicate, i voluminosi atti delle molteplici Commissioni di inchiesta e i resoconti innumerevoli di
testimoni più o meno autorevoli. All’atroce delitto sembra manchi una chiave di lettura unitaria, che
permetta di sintetizzare le informazioni erratiche a nostra disposizione, non prive di esaustività in alcuni
campi ma del tutto insufficienti in altre. Sembra che ai tasselli del mosaico manchino alcuni pezzi per
rendere riconoscibile la figura che ne dovrebbe emergere; anzi più propriamente sembra che alcuni
compositori di tali tessere si ostinino a volerle fare entrare laddove esse non hanno il loro luogo
naturale. Il refrain che accompagna questa limitatezza nel processo ricostruttivo è dato dall’accusa a
non ben identificati poteri, al di qua o al di là dell’Oceano, di non divulgare la verità che sarebbe da essi
custodita. Cosa, questa, che a rigori appare illogica, in quanto essendo essa sconosciuta, non si può
certo ipotizzare dove sia e in che cosa consista. Spesso si sgrana un rosario di nomi ai quali è facile
addebitare non ben chiare responsabilità, semplicemente perché sono gli stessi a cui da sempre si è soliti
addebitarne quando non sono ben delineate, con un metodo assai disonesto intellettualmente.
Nelle pagine che seguono chi scrive propone una cornice in cui incastrare i dati più significativi
attualmente a nostra disposizione, sposando una ipotesi che già altri prima hanno suffragato come tesi
mediante migliori esposizioni, ossia che il Sequestro Moro sia stato compiuto nell’interesse dell’URSS.
Senza la pretesa di voler risolvere l’enigma chiuso nel labirinto che andò da Via Fani a Via Caetani –
anche perché troppe resistenze psicologiche ci sono per abbracciare una visione come quella che il
sottoscritto va a riproporre – vedremo una serie di motivazioni atte a sostenere l’assunto appena
formulato, distinguendole tra quelle desumibili dal modo in cui le Brigate Rosse gestirono il sequestro
del Presidente della Democrazia Cristiana, quelle ricavabili dalla maniera con cui lo Stato italiano
condusse le indagini per raggiungere il Grande prigioniero e quelle deducibili dagli obiettivi che l’URSS
avrebbe potuto raggiungere se avesse realmente ordinato e diretto quell’impresa criminale. Ovviamente,
data la vastità della materia, quanto segue sarà trattato nel modo più sintetico possibile, con l’auspicio
che il lettore voglia approfondire la questione e riflettere sugli spunti offerti, i quali non hanno altro
scopo che contribuire al disvelamento della verità 1.

1
Sono indicate nel testo le date di nascita e di morte dei personaggi quando è stato possibile reperirle.
CAPITOLO I
Aldo Moro tra le BR e l’URSS

Dal 1967 in poi l’URSS dispose di una internazionale terrorista. Nell’aprile e nel maggio 1968 si tennero
due convegni, uno a Roma e l’altro – più celebre – a L’Avana, a cui parteciparono, a nome di diciassette
Partiti comunisti, centinaia di quadri e militanti, che dicevano di lottare contro l’imperialismo nel Terzo
Mondo, ma che in realtà erano impegnati nella sovversione armata, sia in America Latina che in Medio
Oriente. Dal 1969 l’Europa fu investita da un’ondata di terrorismo senza precedenti, sviluppatasi dopo che
l’OLP, grazie alle pressioni della sua frangia marxista, decise di operare anche nel nostro continente e non
solo in Asia2. Uno dei massimi responsabili di questa sinfonia del terrore fu Alexander Alexevitch Soldatov
(1915-1999), soprannominato Francesco, membro della Commissione della Sicurezza di Stato dell’URSS nel
1940, funzionario del Dipartimento delle Americhe del Ministero degli Affari Esteri tra il 1955 e il 1966,
ambasciatore in Gran Bretagna dal 1960 al 1966 – dove piazzò centocinque spie come diplomatici che il
Governo di Sua Maestà espulse quando se ne accorse, ma senza risalire alla sua responsabilità – Vice
Ministro degli Esteri nel 1967, ambasciatore a Cuba dal 1967 al 1970 – dove poté sovrintendere al congresso
di cui sopra –, rettore del MIGMO dal 1971 al 1974, ambasciatore in Libano dal 1974 al 1986 e che
soggiornò per alcuni periodi in Italia tra il 1970 e il 19713.
Si può dimostrare che le BR facevano parte di questa rete, in modo diretto o indiretto? Si può asserire che
l’omicidio di Moro avvenne nel suo interesse? Quel che segue tenta di dare una risposta.

1.1 L’antefatto del Sequestro Moro: l’Attentato a Berlinguer

Un dato dal quale non si è mai partito nel processo di ricostruzione investigativa del Sequestro Moro è che
esso è il corrispettivo dell’attentato fallito ad Enrico Berlinguer (1922-1984), tentato a Sofia il 3 ottobre
1973. Seppur tardivamente, oramai siamo stati ben edotti sul disegno criminale con cui l’URSS di Leonid
Breznev (1906-1982), per il tramite del DS bulgaro e del presidente Zivkhov (1911-1998), avrebbe voluto
fermare il Segretario del PCI nella sua lunga marcia verso l’Eurocomunismo. Berlinguer non solo marcava le
differenze dalla politica estera dell’URSS, come faceva la Romania, ma andava revisionando temi e concetti
del marxismo-leninismo ufficiale, distanziandosi dall’ortodossia del PCUS. Fu Berlinguer, non
dimentichiamolo, a proporre il Compromesso Storico alla DC, non il contrario. Fu così che, dopo una visita
ufficiale in Bulgaria sollecitata dal Partito Comunista locale, a stento il Segretario del PCI si salvò dal
camion dell’esercito che travolse l’auto di rappresentanza che lo stava portando all’aeroporto. L’attentato a
Sofia, sul quale Berlinguer, per patriottismo ideologico e strategia politica, stese una coltre di silenzio, venne
perpetrato mentre il Segretario stava pubblicando i suoi celebri articoli su Rinascita per realizzare l’incontro
politico con la DC. Il primo era uscito l’11 settembre. Precipitatosi a rientrare in Italia, Berlinguer, che si era
fatto rimpatriare da un aereo italiano e non da uno bulgaro rifiutando anche il ricovero ospedaliero dopo aver
minacciato di ricorrere all’Ambasciata se gli fosse stato imposto, diede alle stampe gli altri due articoli che
realizzavano la sua svolta: il 5 e il 12 ottobre. In quest’ultima data il Segretario propose il Compromesso
storico come antidoto al rischio cileno dell’Italia, parlando di alternativa democratica e non più solamente di
sinistra per la guida del Paese. Fu da lui che Moro raccolse il ramoscello della pacificazione tra i partiti
rivali. Ovviamente questo progetto non piacque sin dall’inizio innanzi tutto alla sinistra del PCI, capeggiata
da Armando Cossutta (1926-2015) – che in tempi più recenti non avrebbe negato il suo appoggio al I
Governo D’Alema e alla sua politica estera atlantista nei Balcani, forse proprio per tenere sepolti certi
imbarazzanti segreti del suo passato più o meno remoto – e poi ai Partiti fratelli e tantomeno alla Casa Madre
di Mosca. Le prime avvisaglie dello scisma italiano erano state colte dai comunisti italiani nel 1961, nel
1964, nel 1968 e nel 19694. La Primavera di Praga aveva mostrato a Mosca la precarietà della sua egemonia
sui Paesi del campo socialista, che solo la rigida divisione in blocchi del mondo poteva puntellare,
permettendo al Cremlino l’uso dell’Armata Rossa per la repressione dei dissensi senza rischio di ritorsione
alcuna. Nulla di più normale che Mosca tentasse di stroncare sul nascere lo scisma deviazionista
berlinguerino, tanto più che, se mai il PCI fosse andato al potere in Italia, il pedaggio che avrebbe dovuto
pagare a Washington sarebbe stata l’accettazione della NATO e della CEE, come del resto avvenne. A

2
R. KAUFFER, Comunismo e terrorismo, in AA. VV., Il Libro Nero del Comunismo, Mondadori Milano 1998, vol. I, pp.
330-336.
3
D. E P. DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, Edition de Paris, Parigi 2006, pp. 208-209.
4
G. FASANELLA-C. INCERTI, Berlinguer deve morire, Sperling&Kupfer, Torino 2014, pp. 41-67. 114-123.
Mosca si era ben consapevoli di questo e spettava al Cremlino, non ad altri, fermare una deriva che poteva
nuocere solo ad esso. Si trattava di estendere, di fatto, la dottrina della sovranità limitata non solo agli Stati,
ma anche ai Partiti Comunisti che, del resto, in passato erano stati non organismi indipendenti gli uni dagli
altri ma mere sezioni della Terza Internazionale. Tale unità dogmatica e operativa rimaneva viva anche dopo
la dissoluzione di quell’organismo interpartitico. Il PCUS aveva già perso la Jugoslavia, la Cina e l’Albania,
mentre la conservazione deldl’Ungheria e della Cecoslovacchia le erano costate enormi sforzi. La Polonia
era in continua agitazione. Ora non poteva perdere il PCI e il suo “semiprotettorato” sull’Italia, come lo ha
definito Antonio Varsori. Tuttavia il tentativo criminale di Sofia fallì e la strategia politica di Berlinguer,
prudente, abile, sensibile e circospetta, continuò; messa in ombra dall’analoga attività morotea in campo
avverso, ma continuò: vero baricentro delle complesse geometrie politiche che la DC tentava di costruire
sotto la guida felpata dello statista di Maglie. Egli pure aveva molti avversari nel suo partito e in Occidente,
che non condividevano la sua politica. Ma la posta in gioco, dato il precedente e fallito attentato bulgaro, era
molto più alta per l’URSS che per gli USA e la NATO. Appare perfettamente logico che a continuare
nell’ostruzionismo violento fosse sempre Mosca, anche se cambiando obiettivo. Mancato il bersaglio sardo, i
sovietici misero nel mirino quello pugliese. Forse con la benevola comprensione di chi, oltre Atlantico,
temeva le forze che l’apprendista stregone con la frezza bianca potesse evocare senza poi saperle domare.
Del resto, il PCI era l’architrave, e non una semplice espressione, dell’Eurocomunismo, ossia del marxismo
ripensato da Berlinguer per l’Europa Occidentale: perdute Botteghe Oscure, il Cremlino avrebbe perso anche
i comunisti di Francia e Spagna. Appare logico che i sovietici abbiano rilanciato la sfida e in grande stile.
Stando a Maria Fida Moro (1946-), il padre, Ministro degli Affari Esteri nel V Governo di Mariano Rumor
(1915-1990), sarebbe dovuto morire già nella notte tra il 3 e il 4 agosto del 1974, nell’attentato all’Italicus5.
Ma, scampato provvidenzialmente a quella strage in quanto sceso per firmare dei documenti importanti, lo
statista, che nulla fece trapelare del rischio corso, poté continuare a dialogare con il PCI di Berlinguer, così
da diventare il 23 novembre di quell’anno Presidente del Consiglio per la quarta volta, alla testa di un
bicolore DC-PRI, con l’appoggio esterno di PSI e PSDI: tutte forze inclini all’accordo politico con Botteghe
Oscure6. Se fosse vero che il SID di Vito Miceli (1916-1990), in quelle circostanze, depistò le indagini, si
dovrebbe anche considerare il fatto che quell’ufficiale era vicinissimo a Moro e che potrebbe essersi
intromesso proprio per coprire nell’attentato complicità internazionali che, se emerse, avrebbero sbarrato la
strada ai progetti del suo alto protettore, spaccando le sinistre sul modo di valutarle, e che rapide
rivendicazioni di estrema destra per la strage potrebbero aver contribuito, provvidenzialmente, a tenere
nascoste.
In questa prospettiva, si può considerare l’ipotesi che il furto di carte nello studio di Moro e riguardanti il
Golpe Borghese – carte che sembra documentassero il ruolo di esponenti democristiani nella gestione
dell’oscuro episodio – sia stato compiuto anch’esso per colpire il Compromesso Storico. Tale effrazione
avvenne il 26 dicembre 1975. Chi violò lo studio di Moro, all’epoca Presidente del suo Quinto e ultimo
Governo e alle soglie del patto col PCI, cercava forse prove contro il politico considerato più vicino al
principe Borghese, ossia Giulio Andreotti (1919-2013), che Moro, una volta conosciuto il responso delle
urne, probabilmente già vagheggiava come suo successore alla testa di un esecutivo non ostacolato dal PCI.
Se qualcosa di compromettente fosse emerso in tal senso e fosse stato divulgato, il PCI sarebbe stato
costretto a interrompere ogni progetto di collaborazione con la DC. Di certo ne avrebbe tratto vantaggio
elettorale, ma la linea di Berlinguer sarebbe stata vanificata. E’ peraltro significativo che Moro, nonostante la
sua altissima posizione, non sporse denuncia, quasi temesse che non fosse un semplice furto e attendesse gli
eventi. Tuttavia nulla dovette emergere di significativo dalla documentazione sottratta e questo progetto
ricattatorio abortì. La notizia fu data soltanto il 19 gennaio 1979, dall’Osservatorio Politico di Mino
Pecorelli (1928-1979). Da questo momento inizia una significativa serie di tentativi di sottrazione e di
occultamento di documenti segreti che accompagnano il prologo, lo svolgimento e l’epilogo di tutto il Caso
Moro, nonché i suoi inquietanti paralipomeni. Questo accadde perché Moro fu, in effetti, l’uomo politico
italiano più addentro alla gestione e all’uso bilanciato dei servizi segreti 7.

5
S. LIMITI, L’anello della Repubblica, Chiarelettere, Milano 20142 , p. 177. Audito dalla Commissione Fioroni, Nicola
Rana, stretto collaboratore di Moro, ha dichiarato di non ricordare questa circostanza. Cfr. COMMISSIONE
PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUL SEQUESTRO E L’OMICIDIO DI ALDO MORO (d’ora in poi COMMISSIONE FIORONI),
Relazione sull’attività della Commissione, 20 dicembre 2016, p. 37. Non è questa la sede per fare ipotesi sui veri
esecutori della strage dell’Italicus, che- sebbene attribuita sempre alle destre neofasciste- non ha ancora veri colpevoli.
6
I. MONTANELLI-M. CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, in I. MONTANELLI, Storia d’Italia, vol. XI, Rizzoli-Corsera,
Milano 2004, pp. 147-148.
Un secondo tentativo di furto, andato a vuoto, avvenne nello stesso studio dello statista il 27 maggio 1977,
quando il Compromesso Storico, nella formula della Non Sfiducia, era in atto 8. Esaurita evidentemente anche
questa opzione, per i suoi nemici rimase in campo quella dell’attacco diretto a Moro. Egli ora era ad un punto
della sua avventura politica con Berlinguer che da un lato esigeva, per essere fermata, che Moro uscisse di
scena traumaticamente, e dall’altro che ciò accadesse non senza un logoramento delle grandi forze politiche
popolari italiane. Ma l’unica potenza che aveva interesse a colpire palla e pallino, ossia PCI e DC, era
all’epoca l’URSS. Gli USA infatti non potevano correre il rischio di eliminare il partito cattolico, su cui in
Italia si imperniava il fronte atlantista. Potevano avere interesse a far morire Moro, ma non a gettare lo
scompiglio nella DC. Questo dato va tenuto ben a mente. Se la morte di Moro poteva fare comodo, nel 1974
o nel 1978, anche agli USA, la sua scomparsa dopo una lunga prigionia poteva interessare solo all’URSS.
Invece gli USA potevano trarre grosso vantaggio dalla trasformazione del PCI in una forza antisovietica e di
ispirazione socialdemocratica, anche se ovviamente seguivano con circospezione e a volte con diffidenza e
timore il percorso politico di Berlinguer9.
Con questo non voglio dire che solo i sovietici abbiano potuto porre in essere azioni criminali contro il
Presidente DC, ma che esse, se e quando ci furono, dovettero tenere conto della necessità di salvaguardare lo
schieramento atlantista, fondato sul partito cattolico italiano. Non a caso l’ultimo tentativo targato Stati Uniti
per delegittimare Moro avvenne proprio il giorno prima del suo sequestro e fu la propalazione della voce che
egli fosse l’Antilope Kobbler dello Scandalo Lockheed. Mezzo, questo, molto diverso da quello che il giorno
dopo sarebbe stato adoperato dagli altri.

1.2 I rapporti tra le BR e la RAF

E’ oramai un dato certo che, nella preparazione e nell’esecuzione del Sequestro di Moro e della strage della
scorta, con le BR collaborò la RAF, la formazione terroristica comunista della Germania Occidentale, che
peraltro dipendeva completamente dall’HVA 10, il servizio segreto della DDR, che a sua volta, tramite la
STASI, dipendeva direttamente dal KGB11. Di questo per esempio è assolutamente convinto Sereno Freato
(1928-2013)12. I rapporti storici tra le due formazioni terroristiche, la somiglianza tra il Sequestro Moro e
quello di Hans Martin Schleyer (1915-1977) in Germania Ovest (fatto appunto dalla RAF), i contatti al
vertice tra le due organizzazioni terroristiche, le forniture di armi dai tedeschi agli italiani, i sospetti della
BKA tedesco-occidentale su un possibile attentato politico in Italia a firma congiunta BR-RAF da realizzarsi
nel 1978, il presumibile riferimento a Moro in alcuni documenti RAF mediante l’uso delle iniziali di nome e
cognome (“Altmann”, letteralmente “Uomo vecchio”, che altri invece considerano un nome in codice di
Mario Moretti), l’alleanza strategica tra i due gruppi, la presenza di terroristi tedeschi a Milano nei giorni del
Sequestro e i loro contatti con quelli nostrani, la presenza di uomini e materiali tedeschi in Via Fani
debitamente attestate, una rivendicazione del Sequestro fatta dalla RAF il 17 marzo 1978, il rapporto della
BKA in data 9 gennaio 1979 sulla presenza di otto terroristi RAF in Via Fani che avrebbero sparato al posto
delle BR, la frequentazione del Covo di Via Gradoli da parte di tedeschi, movimenti di terroristi germanici in
varie parti di Italia in quei giorni drammatici sono le ampie e circostanziate prove della collaborazione che fu
alla base dell’atto criminale 13. Persino il fatto che, nella fase finale del Sequestro, si concretizzò l’ipotesi di
scambiare Moro con esponenti della RAF detenuti in Jugoslavia costituisce un elemento di prova del nesso
tra i due gruppi terroristici 14. La presenza germanica in Via Fani chiarisce molti punti oscuri dell’azione

7
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA CONCERNENTE IL "DOSSIER MITROKHIN" E L'ATTIVITÀ D'INTELLIGENCE
ITALIANA, Documento conclusivo (di maggioranza), Roma, 15 marzo 2006, p. 94 (d’ora in poi Commissione Mitrokhin).
8
M. ALTAMURA, La borsa di Moro, Iuppiter Edizioni, Napoli 2016, p. 35; p. 62, n.11.
9
Commissione Mitrokhin, pp. 101-106.
10
G. MASTRANGELO, La luna rossa, Controcorrente, Napoli 2004, pp. 41 ss.; A. FUNDER, C’era una volta la DDR,
Feltrinelli, Milano 2005, p. 15; F. I MPOSIMATO, I cinquantacinque giorni che hanno cambiato l’Italia, Newton
Compton, Roma 20132 , pp. 95-107.
11
Cfr. sull’arg. A. COLONNA VILASI, Storia della Stasi, Libellula University Press, 2016; D. CHILDS-R. POPPLEWELL,
The Stasi. The East Germany Intelligence and Security Service. 1917-1989, New York University Press, New York
1989.
12
A. FORLANI, La zona franca, Lit edizioni, Roma 2013, pp. 131-150.
13
F. IMPOSIMATO-S. PROVVISIONATO, Doveva morire, Chiarelettere Milano 20142 , pp. 199-222. 242-248, nn. 1-38;
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 204-208; A. SELVATICI, Chi spiava i terroristi. KGB-STASI, BR-RAF, Pendragon,
Bologna 2010, pp. 69-91;
14
COMMISSIONE FIORONI, pp. 62-63.100.
militare dei terroristi e giustifica molti silenzi degli investigatori italiani 15. Particolarmente interessante un
documento citato dalla Commissione Fioroni 16: si tratta di un rapporto del KGB al DS bulgaro, di cui l’Italia
è entrata in possesso dopo la pubblicazione dei materiali riservati dei servizi segreti bulgari ad opera della
Commissione Andreev. In tale rapporto i sovietici comunicano ai loro alleati che le BR sequestrarono e
uccisero Moro in collaborazione con la RAF. Nello stesso documento affermano che i servizi italiani
avevano gestito l’intera vicenda per danneggiare il PCI, ma questa ricostruzione non è altro che un modo
sovietico per non ammettere, in una comunicazione tra Stati sovrani, la propria responsabilità.
La RAF non avrebbe agito contro Moro senza mandato della DDR e dell’URSS. Specularmente, gli
inquirenti italiani tennero sempre nascosta questa pista internazionale durante i cinquantacinque giorni del
Sequestro, evidentemente perché sapevano che avrebbe potuto creare tensioni nella maggioranza, nel Paese e
nel quadro internazionale. Per esempio, si può ipotizzare che la riluttanza delle forze dell’ordine di arrivare a
Via Gradoli si debba imputare anche al fatto che in quel covo vi fossero prove certe del coinvolgimento dei
tedeschi; una volta poi che il covo fu bruciato, alla stessa ragione si potrebbe attribuire la lentezza
nell’utilizzare gli elementi ivi rinvenuti.
I nomi dei principali terroristi RAF che vennero identificati in Italia durante il Sequestro di Moro sono i
seguenti: Sigmund Hoppe (1949-) – identificato presumibilmente con una persona che con Prospero
Gallinari cercò di reclutare uomini forse per l’agguato di Via Fani-, Brigitte Monhaupt (1949-)– che
probabilmente decise assieme alle BR di rapire lo statista DC- Rolf Clemens Wagner (1944-2014) – che è
possibile sia stato uno degli strateghi militari dell’operazione – Sieglinde Hoffmann (1945-), Gabriele
Tiedemann (1951-1995) – a cui probabilmente si deve un generoso finanziamento alle BR di natura illegale
– Elizabeth von Dick (1950-1979)– che potrebbe essere la misteriosa donna che partecipò all’agguato
sparando in modo eccezionale, se non addirittura un altro misterioso killer fino ad oggi di incerta identità
sessuale17. Willy Peter Stoll (1950-1978), uno degli strateghi della RAF, stette a Roma durante il periodo del
rapimento di Moro alloggiando comodamente all’Hotel Cavalieri Hilton. Rapporti tra la RAF e le BR, in
relazione al Caso Moro, sono attestati fino all’ottobre 1978 18.

1.3 Le BR e i servizi segreti dei Paesi Comunisti

La STASI aveva manifestato a volte un singolare interesse per Moro: nel 1976 a Budapest lo aveva
pedinato, durante una visita di Stato19. Ma un altro dato di recente acquisizione e di maggior peso
contribuisce ad illuminare la pista rossa del Delitto Moro. Le BR, comprese quelle del commando che
sequestrò il Presidente della DC, erano spiate e schedate sia dalla STASI che dal KGB, ma anche da altri
servizi segreti dei Paesi comunisti. Quelle agenzie spionistiche erano perfettamente edotte su quanto le BR
stavano per fare. Quand’anche non fosse avvenuto su loro impulso, esse erano perfettamente in grado di
impedire che il Sequestro Moro accadesse, se avessero voluto. Ma evidentemente non vollero. Entrando nei
dettagli, il giorno dopo il ritrovamento del corpo di Moro, la STASI ordinò di intensificare i controlli ai
valichi di frontiera: nell’arco di un anno trentasei brigatisti rossi entrarono ed uscirono senza problemi nella
DDR, che ne conosceva perfettamente le identità, con cui vennero registrati negli schedari segreti. Ma di
questi movimenti non vi è traccia negli atti dei processi italiani, perché i terroristi viaggiavano con
documenti falsi che in modo compiacente le autorità tedesco-orientali accettavano per veri. Le cartelle
d’archivio che riportano questi dati sono attualmente privi di quei documenti che avrebbero potuto spiegarci
perché i brigatisti rossi andarono così spesso e in così gran numero in Germania Est – assieme ad altri
centocinquantaquattro nostri connazionali implicati in attività criminali e presumibilmente spionistiche nelle
Germania Ovest e in Italia- ma in compenso il Dipartimento dell’antiterrorismo della STASI – incaricato di
prevenire l’eversione in Patria e di favorirla all’estero- conserva schede intestate a nomi tristemente noti e
implicati anche nel Sequestro Moro: Valerio Morucci (1949-), Barbara Balzerani (1946-), Cesare Battisti
(1954-), Renato Curcio (1941-), Adriana Faranda (1950-), Alberto Franceschini (1947-), Prospero Gallinari
(1951-2103), Franco Piperno (1943-), Giovanni Zamboni, Mario Moretti (1946-), Lauro Azzolini (1943-),

15
Questa connessione fu sostenuta già negli Atti della COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SULLA STRAGE DI
VIA FANI, SUL SEQUESTRO E L’ASSASSINIO DI ALDO MORO E SUL TERRORISMO IN ITALIA, la cui Relazione di
Maggioranza, edita a Roma nel 1983 allude alla RAF alle pp. 75, 124-126, 128-131 (da ora in poi Relazione di
Maggioranza).
16
Alle pagine 166-169.
17
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 211-217; ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 202. 249-250.
18
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 207-208.
19
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 112-113.
Alessio Casimirri (1951-), Patrizio Peci (1953-) e Sergio Spazzali (1936-1994). Come si vede, un parterre
des rois del terrore – oggi fin troppo dimenticato – che andava ben oltre i confini delle BR, arrivando fino ad
Autonomia Operaia. Altre schede sono state distrutte. Questo Dipartimento, il numero XXII, custodiva anche
le schede di Ali Agča e di Oral Çelik, i due attentatori alla vita di Giovanni Paolo II (1978-2005). Al vertice
di questo Dipartimento c’era quel Günter Bohnsack (1939-2013) che fu il vero organizzatore dell’attentato al
Papa20. In molte di queste schede troviamo citato l’”Album di amici sul terrorismo internazionale”, elenco di
terroristi compilato dal KGB in forma di libro il cui titolo è parlante. Vi sono Renato Curcio, nel 1977, 1980
e 1982; Lauro Azzolini nel 1980 e 1982, Barbara Balzerani nel 1982. Le schede dei capi storici delle BR,
ossia la Balzerani, Gallinari, Azzolini, Franceschini, Curcio, Morucci e Moretti, erano classificate quali
“ZAIG-5” ed appartenenti alla documentazione del circuito SOUD, comprendente i servizi segreti
dell’URSS, della Bulgaria, della Polonia, della Cecoslovacchia, della DDR, della Mongolia, del Vietnam e di
Cuba. In ragione di ciò, si può dedurre che questi nominativi potessero essere raggiunti da tutte queste
agenzie di intelligence con molta facilità. Sul retro della scheda intestata a Valerio Morucci si rimanda allo
“Archivio Moro”, che però è completamente scomparso dagli archivi di Berlino Est. Sempre dagli archivi
STASI apprendiamo che le BR, come del resto il Movimento degli Autonomi e le Cellule Comuniste
Combattenti – senza contare altre organizzazioni criminali straniere – erano infiltrate da agenti dell’HVA. Il
nome in codice dell’agente nelle BR era Else Brunner. Degno di nota è che la STASI, in Italia e all’estero,
oltre a gestire attività economiche in partnership con i locali Partiti Comunisti, oltre a finanziarli in questa
maniera, svolgeva anche attività spionistiche di carattere militare 21. Una cosa di cui dovremo ricordarci più
avanti. C’è però da puntualizzare subito che ai servizi italiani queste relazioni pericolose delle BR e della
galassia eversiva di sinistra non dovettero essere sconosciute; cosa, questa, che dovette influire anche nella
conduzione delle indagini sul Sequestro di Moro, che diversamente non avrebbero condotto solo alla
liberazione eventuale dello statista, ma ad una crisi internazionale sicura e di incalcolabile portata.

1.4 Il ruolo dell’Hyperion

Un altro tassello di eccezionale importanza nella ricostruzione del nostro mosaico a sfondo rosso è che
Mario Moretti apparteneva all’Hyperion, una scuola di lingue parigina che coordinava il terrorismo rosso
internazionale e supervisionò l’intera vicenda Moro. L’Hyperion era sotto l’egida del KGB, per cui lo stesso
Moretti era nella medesima condizione. Lo schermo di una organizzazione culturale era una tipica trovata
sovietica per coprire attività politiche illegali in Paesi stranieri. Ma andiamo per ordine. I membri italiani
dell’Hyperion erano dei fuoriusciti del terrorismo, tra cui lo stesso Moretti, che entrarono in contrasto col
gruppo dei fondatori storici delle BR, ossia Franceschini, Curcio e Mara Cagol (1945-1975), e che decisero
di fondare un gruppo segreto a parte, nel 1970. Erano, oltre ai già menzionati Moretti e Gallinari, Corrado
Simioni (1934-2008), Giovanni Mulinaris (1946-), Duccio Berio (1947-), Silvia Malagugini (1946-), Giorgio
Semeria (1950-2013), Corrado Alunni (1947-), Arnaldo Lintrami, Maurizio Ferrari (1945-). Sebbene dai
processi che li riguardarono essi uscirono assolti 22, molte ombre ancora si addensano su di loro, a giudizio di
magistrati del calibro di Ferdinando Imposimato (1936-) e Rosario Priore (1939-), ai cui pareri in parte ci
rifacciamo23. Questo gruppo era caratterizzato dalla volontà egemonica e dalla smania di agire in modo
clandestino e risoluto contro gli USA e per la rivoluzione proletaria 24. Questi obiettivi corrispondono
perfettamente a quelli perseguiti dal KGB in Occidente, mediante il sostegno attivo a gruppi terroristici, e
sono descritti in documenti riservati della SED (il partito comunista tedesco orientale) e della STASI 25.
Alcuni del gruppo, denominato La Ditta o il Superclan – con riferimento alla clandestinità –compirono
stranamente solo poche azioni sovversive e ancor meno ne rivendicarono, per una deliberata scelta,
teorizzata da Simioni, più simile a quella di una agenzia spionistica che di una organizzazione rivoluzionaria.
Tuttavia la Ditta aveva chiari ed esclusivi collegamenti con Giangiacomo Feltrinelli (1926-1972): in un atto

20
V. SIBILIO, L’attentato a Giovanni Paolo II e la Guerra Fredda, ebook, amazon.com, 2016, p. 13. Tale archivio
conteneva svariati nominativi e non tutti gli schedati erano al corrente di esservi registrati, tuttavia molti di essi erano
considerati contattabili ed erano disponibili per un uso diretto o indiretto
21
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 21-39.
22
Ricca documentazione su quanto relativo all’inchiesta su Moro nelle vicende Hyperion fino al 1994 nel vol. CIII
allegato alla Relazione di maggioranza, reperibile anche su internet.
23
S. DE PROSOPO-R. PRIORE, Chi manovrava le Brigate Rosse?, Ponte alle Grazie, Firenze 2011.
24
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 175-176.
25
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, p. 8.
terroristico ad Atene usò materiale simile a quello che l’editore dinamitardo avrebbe adoperato nell’attentato
di Segrate in cui avrebbe perso la vita.
Tra il 1971 e il 1973 Moretti, Gallinari, Semeria, Alunni, Lintrami e Ferrari entrarono nelle BR, mentre
Alunni entrò in Prima Linea. Ma non ruppero mai le relazioni con Simioni, Mulinaris e Berio, trasferitisi a
Parigi dove, assieme ad altre personalità francesi (come Francoise Tuscher [1950-]) e tedesche (come Christa
Von Petersdorff [1930-]) della medesima formazione politica e incontrate per qualcosa di più di una
semplice coincidenza, fondarono l’Agorà, poi rinominata Hyperion: un centro culturale e una scuola di
lingue internazionale, assai quotata, ben sostenuta, stimata oltre le sue reali benemerenze e ascesa, sia pur
nell’ombra, ad un prestigio che lascia sospettare misteriosi appoggi. Essa aprì sedi anche a Bruxelles e a
Londra, creando una triangolazione con Parigi guarda caso ancora oggi importante nella geografia del
terrore. Nel 1974 Moretti, ancora strettamente legato all’Hyperion, divenne capo delle BR, dopo che Curcio
e Franceschini, probabilmente traditi proprio da lui, furono arrestati 26. Per colpa di Moretti, le BR fecero un
tragico salto di qualità, iniziando ad uccidere. Secondo gli inquirenti italiani, proprio all’Hyperion si decisero
i sequestri di Schleyer, del politico democristiano tedesco Peter Lorenz (1922-1987), di Moro e di Leopoldo
Pirelli (1925-2007), poi mai realizzato. In questa scuola di lingue si incontravano e decidevano insieme,
infatti, le BR, la RAF, l’IRA, l’ETA, il FPLP dell’OLP e Action Directe27. Queste organizzazioni
terroristiche, tutte o quasi comuniste, non avrebbero converso sulla neonata scuola se non avessero avuto una
indicazione ben precisa da qualcuno molto autorevole per loro, capace di guidarle e proteggerle. La
dissociata BR Emilia Libéra (1954-) infatti attestò che l’Hyperion, evidentemente non di virtù sua,
proteggeva i latitanti. Fu presumibilmente sotto la sua egida che dal 1971 al 1984 si riunirono, in varie parti
d’Europa, svariati convegni di numerose organizzazioni terroriste comuniste di tutto il mondo 28. Il pentito
BR Antonio Savasta (1955-), del resto, testimoniò che Moretti espresse la convinzione che l’ Hyperion
gestiva il progetto rivoluzionario internazionale per conto dell’URSS. Analogamente, Ferdinando
Imposimato ci informa che un rapporto CESIS del 1983 qualifica la Scuola parigina quale strumento del
KGB, mentre una nota del SISMI definisce Simioni agente del KGB 29. Franceschini dal canto suo ha asserito
che Simioni ha esplicitamente affermato che l’Hyperion era la testa delle BR in quanto i capi di queste
ultime erano membri della Scuola di lingue. Secondo lui la catena di comando era Hyperion- Moretti-BR, a
cui evidentemente in cima bisogna anteporre KGB. In effetti, Moretti, durante la latitanza, andava e veniva
indisturbato da Parigi, come fece notare il generale Dalla Chiesa 30. Sempre il padre fondatore delle BR ha
asserito che per lui l’Hyperion era una sorta di camera di compensazione dei servizi segreti nel tentativo di
gestire il fenomeno terroristico. Questo è senz’altro vero, purché si riconosca che le varie agenzie di
intelligence cercavano, operando nella Scuola, di arginare l’iniziativa sovietica, nel cui solo interesse veniva
pianificata l’azione terroristica internazionale. Lo SDECE, il servizio segreto francese, seppe in effetti il 12
febbraio 1978 che in Italia stava per essere rapito un importante uomo politico e a mio parere passò la notizia
ai servizi italiani e alla rete Stay Behind. La CIA teneva sotto controllo la Scuola di lingue, perché una delle
sue utenze telefoniche spesso comunicava con una misteriosa villa di Rouen, protetta con sistemi tipicamente
americani31. Forse fu essa stessa la fonte che informò i francesi. Ma l’egemonia spionistica russa in Francia
era fuori discussione: il KGB e i servizi segreti satelliti penetrarono ampiamente nel Paese da subito dopo la
II Guerra Mondiale, facendone uno degli Stati più infiltrati al mondo, con agenti nello stesso SDECE, nella
stampa, nel Partito Socialista e nelle istituzioni in genere. Furono loro a favorire l’ascesa della Scuola,
pilotando a suo favore gli stessi servizi francesi 32. Furono probabilmente ancora i sovietici, tramite la rete
operativa in Italia, a boicottare la collaborazione tra gli inquirenti nostrani e quelli francesi nel percorrere la
pista di Rouen, all’indomani dell’omicidio di Moro. Forse fu questa la linea riservata usata per le trattative
riservate internazionali sullo statista.

26
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 177-179.
27
Relazione di Maggioranza, pp. 135-137.
28
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 71-72. Ricca documentazione su quanto relativo all’inchiesta su Moro nel vol.
CIII allegato alla Relazione.
29
Si veda anche COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SULLA STRAGE DI VIA FANI, SUL SEQUESTRO E
L’ASSASSINIO DI ALDO MORO E SUL TERRORISMO IN ITALIA, Relazioni di Minoranza – Rapporto dei Servizi di
Sicurezza allegato alla Relazione del deputato Franco Franchi e del senatore Michele Marchio del gruppo
parlamentare MSI-DN, pp. 383-387.
30
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 186-189.
31
COMMISSIONE FIORONI, p. 51, audizione del giudice Calogero.
32
C. ANDREW-V. MITROKHIN, L’Archivio Mitrokhin, Rizzoli, Milano 1999, pp. 560-575.
In effetti, nel settembre 1977 Simioni e i suoi vennero in Italia, mentre le BR preparavano, con la RAF, il
Sequestro di Moro. Dal giugno di quell’anno l’Hyperion aveva aperto tre uffici, di cui due a Roma non molto
distanti da Via Fani e uno a Milano, ubicato in un palazzo dove avevano sede due società fittizie del SISMI 33,
che evidentemente in questo modo pensava di poter marcare stretto la quinta colonna sovietica. Tuttavia la
Scuola di lingue in Italia non svolse nessuna attività. Franceschini, nel suo romanzo La Borsa del Presidente,
descrisse un misterioso personaggio che ricorda Simioni e che interrogò l’ostaggio, ma tutto questo
ufficialmente è opera di fantasia 34. In compenso uno dei suoi dipendenti, Luigi Perini, una volta smantellata
la rete italiana, prese in affitto il locale di Via Foà 31 a Roma, subito dopo che la Tipografia delle BR, ivi
ubicata, era stata smantellata dagli inquirenti. Ciò fece sospettare a Ferdinando Imposimato, che a lungo ha
indagato sul Caso Moro, che in questo modo venisse recuperato materiale importante sul sequestro custodito
negli scantinati del locale, che le autorità avevano perquisito solo superficialmente, forse per timore di quello
che si poteva trovare35. Le relazioni tra l’Hyperion e le BR continuarono anche dopo l’omicidio di Moro:
l’OLP vendette armi di fabbricazione sovietica ai terroristi italiani con la mediazione della Scuola, con
l’indispensabile consenso di Mosca, e quando Moretti andò in prigione, le relazioni con Parigi le tenne
Giovanni Senzani (1942-).

1.5 Il ruolo di Separat

Valerio Morucci fece parte di Separat, l’organizzazione terroristica internazionale di Ilich Ramirez Sanchez
lo Sciacallo (1949-), il quale aveva contatti con una quindicina di servizi segreti di Paesi comunisti e arabi,
esercitava una funzione di coordinamento su svariate organizzazioni terroristiche europee (BR, ETA, IRA,
Cellule Rivoluzionarie, Prima Linea, Lavoro Illegale, XVII Novembre ed ELA) e una forte egemonia
sull’Italia36, accompagnato da un frenetico attivismo 37. Infatti le BR mantennero contatti, dapprima episodici
e poi stretti, con Separat, in posizione chiaramente subordinata, dal 1974 in poi. Le mitragliette
cecoslovacche Skorpion V2 61, una delle quali uccise Moro, erano armi in dotazione a Separat che poté
fornirle alle BR. Il nome di Morucci è stato rinvenuto nel 1985 nelle annotazioni personali di Carlos, durante
una perquisizione segreta a Budapest, assieme a quello di Curcio, Antonio Savasta, Antonio Girardi e Abu
Anzeh Saleh. Separat, acquartierata dapprima a Berlino Est e poi a Budapest, controllata con fastidio dalla
STASI e dell’AVH magiaro, dipendeva dal GRU, il servizio segreto militare sovietico 38. Separat era
senz’altro in condizione di favorire o di bloccare l’intera Operazione Fritz – come i brigatisti chiamavano il
Sequestro Moro – e, se partecipò ad essa attivamente, non poté farlo se non in un ruolo egemone, data la sua
enorme potenza. La notizia del suo coinvolgimento fu immediatamente nota ai servizi segreti italiani, ma
non debitamente considerata sempre per le temute conseguenze politiche interne ed estere, tanto che i
rapporti in questione, dedicati anche al ruolo del KGB e dell’Hyperion, trovarono poco spazio negli atti
ufficiali39. Una fonte controversa ha asserito che fu Carlos a suggerire alle BR l’idea di sequestrare Moro e
che egli personalmente venne in Italia nel periodo del rapimento, entrando dalla Libia. In questa scia si
colloca la voce, rimasta senza riscontro, messa in giro da Falco Accame (1925-) e risalente al 2005, di una
presenza attiva dello stesso Carlos in Via Fani, che sarebbe stato l’eccezionale killer di cui ho parlato sopra.
Infatti nel 1985 due giornalisti dell'agenzia giapponese Kyodo rivelarono di aver appreso che il rapimento
Moro sarebbe stato proposto alle BR da Carlos stesso, che sarebbe entrato clandestinamente in Italia, avrebbe
diretto il sequestro e sarebbe poi sparito dopo l'omicidio. Nello stesso anno, Franco Mazzola (1936-2014),
nel suo libro I giorni del diluvio40, raccontando il Caso Moro in modo romanzato, sembra adombrare dietro
uno dei suoi personaggi proprio lo Sciacallo. Nel 2000, il settimanale 7Giorni7 scrisse che Carlos avrebbe
addestrato i rapitori di Aldo Moro e pubblicò due documenti che proverebbero i contatti internazionali delle
Brigate Rosse41. In ogni caso, lo Sciacallo si è sempre tirato fuori dal Caso Moro. Al netto di ciò, dietro le
33
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 179-183.
34
Libro edito a Roma per Ediesse nel 1987. COMMISSIONE FIORONI, pp. 111-129.
35
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, p. 185.
36
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, p. 223.
37
Commissione Mitrokhin, pp. 275-288 [304].
38
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 41-60; IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, p. 222.
39
Relazioni di Minoranza – Rapporto dei Servizi di Sicurezza allegato alla Relazione del deputato Franco Franchi e
del senatore Michele Marchio del gruppo parlamentare MSI-DN, pp. 378-396.
40
Aragno, Milano 20072 . Prima edizione anonima per Rusconi, Milano 1985.
41
Ne “La Gazzetta del Mezzogiorno, 28 giugno 2008”, http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/notizie-
nascoste/79161/terrorismo-carlos-lo-sciacallo-ed-il-rapimento-di-aldo-moro.html. La fonte controversa è Antonino
Arconte, su cui torneremo.
BR e le sue due scuole di pensiero, quella rigida di Moretti e quella duttile di Morucci, si scorgono le sagome
del KGB di Yurij Vladimirovitch Andropov (1914-1984), schermata dall’Hyperion, e del GRU di Piotr
Ivanovitch Ivaschoutine (1909-2002), riparata dietro Separat. Il punto di snodo di questa duplice influenza è
l’HVA di Markus Wolff (1923-2006). Ma chi fece da demiurgo alle BR, e per quale ragione?

1.6 Le BR tra la Scuola Politica del Compagno Sinka e l’STB

Per trattare questo tema, dobbiamo fare un salto indietro. Sin dal 1946 dall’Italia fuggirono alcuni partigiani
comunisti che, nella Resistenza, si erano macchiati di svariati crimini. Con l’aiuto di Pietro Secchia (1903-
1973), partigiano anch’egli e storico dirigente del PCI – poi travolto dallo scandalo di Giulio Seniga (1915-
1999), amico di suo figlio e trafugatore del tesoro del Partito – essi emigrarono in Cecoslovacchia, dove i
comunisti avevano appena vinto le elezioni. L’anno successivo l’emigrazione divenne più forte, sia per
motivi economici – incentivata dalla CGIL – sia per la partecipazione al Festival Internazionale della
Gioventù, dopo il quale molti studenti non rientrarono in Italia. Nel 1948, dopo il Colpo di Praga, altri
partigiani latitanti in svariati Stati europei furono radunati dal KGB in Cecoslovacchia e affidati al
coordinamento dell’STB. Lo stesso anno nacque la rivista Democrazia Popolare, dei comunisti italiani
locali, e iniziarono le trasmissioni in italiano di Radio Praga. Nel 1949 altri agitatori comunisti italiani si
rifugiarono in Cecoslovacchia. L’STB decise allora di intrupparli tutti nella PSSS, acronimo in ceco della
Scuola Politica del Compagno Sinka, detta poi Gladio Rossa, che divenne così il ramo italiano della rete
militare clandestina dell’ex-Comintern. Questa organizzazione divenne operativa l’anno successivo, quando i
servizi segreti italiani la scoprirono. In essa gli istruttori, oltre che italiani, erano russi e bulgari. Nel corso
del 1950 altri militanti comunisti italiani arrivarono a Praga e l’STB affidò alla PSSS il progetto di un golpe
in Italia, concertato con il PCI e da sostenersi con l’invasione di truppe cecoslovacche aviotrasportate.
Questo piano, che si sarebbe concretizzato nel 1951, fu scoperto dai servizi segreti italiani e sventato, ma la
notizia fu tenuta segreta per ovvie ragioni di politica interna ed estera. Nel corso di quell’anno il
coordinamento del progetto era stato affidato alla redazione della trasmissione radiofonica clandestina Oggi
in Italia, che avrebbe dovuto comunicare in codice con gli agenti operativi. In reazione a ciò, da un lato
nacque in Italia la Stay Behind42 e dall’altro, in Cecoslovacchia, gli esuli cominciarono a disperare di poter
tornare trionfalmente, per cui si spostarono su posizioni politiche ancora più estremiste in seno al PCI.
Ma il progetto eversivo non venne abbandonato mai definitivamente: nel 1952 il SIFAR scoprì altre scuole
di sabotaggio cecoslovacche per comunisti italiani, gestite dal Cominform, mentre nel 1953 il nostro
Governo ebbe notizia di settecento comunisti italiani che si preparavano in quel Paese ad un nuovo tentativo
di colpo di Stato. Alcuni di essi entrarono in Italia clandestinamente. Sono inoltre attestate da quel periodo
strette relazioni tra il PCI da una parte e il PCC e l’Ambasciata cecoslovacca in Italia dall’altra. Le notizie da
trasmettere da Oggi in Italia per il nostro Paese venivano inviate da ricetrasmittenti installate nelle sedi del
PCI, nel quadro di un sistema complesso di comunicazioni clandestine internazionali, spiate anche dai nostri
servizi segreti e da quelli americani 43. Solo la morte di Stalin ([1878] 1922-1953) pose fine a questi
preparativi sovversivi perché fece archiviare il progetto di guerra preventiva che il Maresciallo voleva
scatenare in tutta Europa contro la NATO e nel cui quadro si inserivano anche i piani per l’invasione
dell’Italia supportata da una rivoluzione interna. Da questo momento, il revanchismo dei partigiani latitanti
costituì un problema politico molto grave per il PCI e l’Italia in genere. Si trattava di risanare le ferite della
Guerra di Liberazione in un modo accettabile per tutti. Tuttavia la Gladio Rossa continuava a funzionare, nel
caso fosse scoppiata una guerra, per supportare l’Armata Rossa, danneggiare le Forze Armate italiane e
ostacolare quelle alleate. Nel 1954 i contatti tra il PCI e la PSSS continuarono fitti: presso di essa si addestrò
anche Francesco Primerano (1915-1961) e dirigenti del calibro di Luigi Longo (1900-1980) e Giancarlo
Pajetta (1911-1990) si recarono Oltrecortina per incontrare i compagni esuli. Ancora nel 1957 Francesco
Moranino (1920-1971) si rifugiò a Praga per sfuggire alla galera per crimini di guerra. Nel 1964 il SIFAR
predispose una lista di settecentotrentaquattro sovversivi comunisti da arrestare in caso di realizzazione del
Piano Solo. Scoperto il Piano, la lista non fu mai resa nota per motivi politici. Fu tuttavia il presidente della
Repubblica Giuseppe Saragat ([1898] 1964-1971) ad avviare la politica delle grazie ai partigiani latitanti, dal
1965, per cui molti di essi, Moranino in testa, tornarono in Italia e intrapresero la carriera politica.
La svolta tragica avvenne nel 1968: il PCI prese posizione contro l’invasione della Cecoslovacchia da parte
del Patto di Varsavia, auspice Enrico Berlinguer, che ben conosceva la situazione di quel Paese e dei
42
A. PANNOCCHIA- F. TOSOLINI, Gladio. Storia di finti complotti e di veri patrioti, Gino Rossato Editore, Venezia 2009,
pp. 12-28.
43
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 137-152.
comunisti esuli, avendovi soggiornato più volte ma evidentemente senza assorbirne il fanatismo. In verità
anche la redazione italiana di Radio Praga prese posizione contro la repressione sovietica e il governo
restaurato di Gustav Husak ([1913] 1969-1989[1991]) la soppresse. Alle aperture di Berlinguer verso un
socialismo dal volto umano rispose Aldo Moro che cominciò nel 1969 a parlare di strategia dell’attenzione al
PCI, che a sua volta ruppe col PCC. L’STB reagì, favorendo dapprima la nascita del movimento terrorista
italiano XXII Ottobre, i cui membri vennero addestrati in Cecoslovacchia. Lo stesso anno poi nacquero le
BR, sempre con l’appoggio del servizio segreto di Praga e dei suoi agenti nel PCI, come Giuseppe Setti
(1922-1984)44; secondo Savasta, esse arruolarono anche diversi compagni che avevano lavorato nella Radio
italiana della capitale cecoslovacca 45. Alberto Franceschini indicò con vari pseudonimi – Sergio, Bruno,
Luigi, Vittorio, Cosimo, Giovanni, Aldo e Riccardo – le figure che lui e gli altri fondatori
dell’organizzazione terroristica presero a modello e che presumibilmente entrarono nella Direzione
Strategica del movimento, dopo essere stati nella PSSS, e che vi rimasero fino a quando l’egida sul
movimento la prese l’Hyperion. Lo stesso Franceschini figurava tra i nominativi dei cittadini italiani allenati
dai gruppi speciali del GRU (gli Spesnatz) in Cecoslovacchia e contenuti in una lista, posseduta dal generale
Jan Sejna (1929-1997), che nel 1968 aveva defezionato negli USA 46. Vi erano poi già contatti con la RAF
che servivano forse a coprire quelli con l’STB, facendo capo entrambi alla STASI, che si configura, anche in
questa ricostruzione, come la regista della strategia del terrore in Europa. L’URSS, spaventata per i disordini
nella sua sfera di influenza (endemica, come dicevo, la crisi in Polonia), reagì contro l’Occidente favorendo
sommovimenti terroristici mediante i fedeli vassalli tedeschi orientali e gli altri satelliti.
Nel 1970 la Cecoslovacchia diventò per i terroristi italiani quello che era stata per la PSSS, le cui strutture e
i cui membri accolsero e addestrarono i nuovi compagni. Tra essi Giangiacomo Feltrinelli, nei cui NAP
militarono anche membri della PSSS. Nel 1972 il I Governo Andreotti venne a conoscere i nomi dei terroristi
italiani che si addestravano in Cecoslovacchia e quelli di ventidue diplomatici sovietici che in realtà erano
agenti del KGB e sostenevano l’eversione di estrema sinistra. Questi ultimi erano spie a mio avviso piazzate
da Soldatov nel suo soggiorno romano. Tuttavia proprio il Presidente del Consiglio pose il veto alla misura
di espulsione, caldeggiata dal ministro della Difesa Franco Restivo (1911-1976) e da quello degli Esteri, che
era lo stesso Moro47. In quei frangenti Andreotti, alla guida di un monocolore senza maggioranza e alla
vigilia delle elezioni, non si sentiva abbastanza forte dinanzi al PCI e all’URSS. Tuttavia, quando le notizie
delle compromissioni tra cecoslovacchi e terroristi si diffusero ulteriormente, la reazione delle forze politiche
italiane fu unanime: nel 1973 Andreotti, alla testa del suo II Governo – DC PSDI PLI – denunciò le trame di
Praga in Parlamento e Berlinguer, ostilissimo alla formula di maggioranza, dopo essere scampato
all’attentato di Sofia, lanciò il Compromesso Storico anche per combattere più efficacemente il terrorismo.
La conseguenza di ciò fu che, sia nell’area parlamentare che in quella extraparlamentare, si moltiplicarono i
tentativi di fermare il riformismo del Segretario PCI. Nel 1974 forti pressioni giunsero dal PCUS sul PCI
perché si preparasse allo scontro violento con la DC 48. Nello stesso anno il gruppo dei filosovietici guidato da
Cossutta (che Berlinguer aveva esautorato dopo il suo attentato), rimase legato direttamente a Mosca tramite
Praga. Qui si recarono dirigenti di partito e intellettuali, per partecipare, assieme agli ultimi esuli della PSSS,
alle riunioni del Comitato Centrale del PCC, in cui discutere come fermare il Compromesso Storico. Vi
furono anche contatti tra Cossutta e l’Ambasciata sovietica, per scongiurare il ripudio del leninismo da parte
di Berlinguer, anche a prezzo di una scissione nel PCI 49.
Nello stesso anno nacquero le Nuove BR di Mario Moretti, aiutato, come abbiamo visto, a scalare
l’organizzazione dopo il suo periodo parigino. Del nuovo capo, Michele Galati (1952-) disse che gli aveva
fatto intendere che era stato addestrato sul Mar Nero 50, perciò o a Varna in Bulgaria o a Sinferopoli (come
Alì Ağca, che era stato peraltro in entrambi i luoghi). Le nuove BR, secondo Gallinari, cominciarono a
progettare da allora il rapimento di Moro, evidentemente almeno come opzione operativa. Il legame tra le
BR, la PSSS, il PCC e l’STB preoccupava Berlinguer, che inviò più volte nel 1975 e nel 1976 Salvatore
Cacciapuoti (1910-1992) a Praga per dissuadere i cecoslovacchi dal continuare a sostenere il terrorismo in
Italia, per non compromettere il buon nome del comunismo. In quella sede il dirigente comunista ribadì

44
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 112-120.
45
MASTRANGELO, La luna rossa, p. 40.
46
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 97-100; MASTRANGELO, La luna rossa, p. 37.
47
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, p. 102.
48
MASTRANGELO, La luna rossa, p. 35.
49
http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1999/10/11/Politica/KGB-COSSUTTA-SI-LAMENTO-DI-VILE-
RIFIUTO-LENINISMO_213200.php
50
MASTRANGELO, La luna rossa, p. 40.
l’accusa di aver addestrato terroristi, come Franceschini. Quest’ultima accusa destò molta preoccupazione tra
i cecoslovacchi51 ma la missione fu inutile: la PSSS e l’STB continuano a sostenere le BR e nacque la
Colonna genovese dei terroristi, in una città, appunto Genova, dove i legami tra alcuni degli ex partigiani
rossi e quelli latitanti oltrecortina erano molto forti, così da favorire la nascita di un humus culturale in cui
germogliò l’idea di una ripresa della Guerra resistenziale in chiave rivoluzionaria. Nello stesso anno il V
Governo Moro apprese che le BR e altri terroristi italiani (come i NAP e i GAP) erano addestrati in
Cecoslovacchia nel campo di Doupov, vicino a Karlovy Vary, e che diversi ex partigiani tornavano
clandestinamente in Italia da quel Paese. Un altro campo c’era presso Krumlov, a Boletice. La PSSS era
oramai trasfusa nelle BR ed esse perseguivano il suo antico disegno di lotta armata, questa volta anche
contro il PCI ufficiale.
Nel 1976, con la formula della Non Sfiducia, PCI, PSI, PSDI e PRI sostennero un Governo monocolore di
Andreotti, il III. Le Botteghe Oscure ruppero ancora una volta con Praga. Nel 1978 avvenne appunto il
Sequestro Moro alla vigilia della nascita del IV Governo Andreotti, sostenuto dalla Solidarietà Nazionale di
tutto l’arco costituzionale escluso il PLI, e subito le connessioni con la Cecoslovacchia emersero, con grande
imbarazzo della DC e del PCI. La rete della PSSS era già coinvolta nella logistica del sequestro: come spiegò
Paolo Emilio Taviani (1912-2001), il covo di Via Gradoli 96, frequentato da Moretti e dalla RAF,
apparteneva ad una ex partigiana secchiana, Luciana Bozzi, ed era sotto controllo da parte del SISMI prima
ancora del rapimento, visto che molti appartamenti di quello stabile erano di sua proprietà. La Bozzi e il
marito, Giancarlo Ferrero, avevano affittato la casa a Moretti senza registrare il contratto di locazione, a
dispetto anche della legge antiterrorismo52. La consapevolezza delle implicazioni politiche – interne ed estere
– di una perquisizione di quella casa ritardò la sua scoperta ufficiale 53. Leonardo Sciascia (1921-1989)
accusò Praga di essere dietro il rapimento di Moro, raccogliendo una confidenza fatta da Berlinguer a Renato
Guttuso (1911-1987), prima seccamente smentita dal Pittore e poi di nuovo sostanzialmente confermata, alla
morte del Segretario. La stampa rilanciò la notizia dell’addestramento delle BR, durato qualche mese, a
Karlovy Vary e rivelò l’esistenza di una base di coordinamento terrorista in Svizzera. Circolò la voce,
ammiccante, di una detenzione di Moro sul Monte Amiata, ossia in una regione da dove molti partigiani
erano dovuti fuggire Oltrecortina: essa si rivelerà infondata. Tuttavia il Comitato Esecutivo delle BR era, per
ammissione dello stesso Moretti, a più di trecento chilometri da Roma, a Firenze, in una regione dove la rete
PSSS era presubilmente forte ma in cui le BR operarono pochissimo. La forza brigatista in loco dipendeva
anche dalle radici che il terrorismo aveva affondato nel terreno della Gladio Rossa. Dal canto suo Sergio
Spazzali, avvocato delle BR che abbiamo visto schedato dalla STASI, affermò che la salvezza di Moro
dipendeva dalla posizione che avrebbe preso il Comitato Centrale del PCI sulla linea della fermezza, che
però Berlinguer aveva già sposato per necessità, onde evitare la spaccatura del Partito e il suo scavalcamento
a sinistra da parte dei terroristi, oltre che la vanificazione degli obiettivi antiterroristici della maggioranza di
governo.
La conseguenza fu che la sinistra italiana si schierò col PCI ufficiale. Subito dopo Via Fani Arturo Colombi
(1900-1983) denunciò le connivenze tra Praga e le BR e l’insensibilità della prima dinanzi alle proteste del
PCI nel corso degli anni precedenti54. Il 4 maggio Giorgio Amendola (1907-1980) si recò dall’incaricato
d’affari cecoslovacco a Roma, Vladimir Koucky (in carica dal 21 marzo 1978 al 25 luglio 1979) e lo avvisò
che, se i rapitori di Moro fossero stati presi, l’aiuto che l’STB aveva dato alle BR sarebbe emerso; aggiunse
che aveva tentato di far ragionare in tal senso direttamente il Governo di Praga. Singolarmente,
l’ambasciatore sovietico in Italia, Nikita Ryzhov (in carica dal 1966 al 1988), si schierò con Amendola,
attestando che l’ambasciata praghese a Roma era in contatto segreto con le BR. Egli aveva già accusato
Koucky di aver causato solo guai non accorgendosi di chi alle sue spalle era associato alle BR 55. Ciò fa
chiaramente intravedere delle divergenze nella gestione del Sequestro Moro tra le varie parti coinvolte in
esso, se non un tentativo di ricavarsi un ruolo mediativo nella faccenda da parte di Mosca, sebbene l’avesse
creata essa stessa. Ma le proteste non servirono a nulla e Praga negò qualsiasi coinvolgimento. Allora le
Botteghe Oscure coprirono i contatti coi terroristi interni al PCI di cui erano a conoscenza per salvaguardare

51
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 108-112.
52
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 252-253; IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni , pp.107-109.
53
S. FLAMIGNI, La tela del ragno, Kaos, Milano 1993, pp. 282-286.
54
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, p. 241.
55
RAGGRUPPAMENTO OPERATIVO SPECIALE CARABINIERI- REPARTO ANTI EVERSIONE, n. 556/6 di prot., Acquisizione
delegata presso il SISMI del Rapporto Impedian, n. 143 (da ora in poi Rapporto Impedian). I MPOSIMATO-
PROVVISIONATO, Doveva morire, p. 240.
la Solidarietà Nazionale e la stessa sopravvivenza politica del Partito 56. Moro venne ucciso, il 9 maggio,
giorno della festa nazionale della Cecoslovacchia, usando peraltro, come dicevo, un’arma fabbricata in quel
Paese con la matricola abrasa, appartenente a uno dei numerosi stock di forniture che le BR avevano
ricevuto, direttamente o indirettamente, da Praga.
Ancora dopo la morte di Moro il SISMI, nel 1979, informò il Governo che dal 1948 ad allora almeno
duemila italiani avevano frequentato i corsi terroristici, in Cecoslovacchia e altrove, e che di costoro erano
noti circa seicento nominativi. Lo stesso rapporto denunciava l’azione di reclutamento dell’STB a Milano e a
Roma a favore dei gruppi terroristici, i cui candidati, appositamente selezionati e coperti dall’Ambasciata
cecoslovacca, venivano avviati ai campi di addestramento e poi fatti rientrare per entrare in azione 57. Nel
1990 Praga rivelò che i comunisti italiani ivi residenti e costituenti la PSSS erano sempre stati al suo servizio
e a quello del KGB. Nello stesso anno si alzò il velo sul tentato colpo di Stato del 1951. Le conseguenti
inchieste spinsero prudenzialmente il PCI a far sparire due camion di documenti ed armi nel 1992,
provenienti direttamente da Botteghe Oscure. In quell’anno, Praga rivelò i nomi dei quindicimila suoi agenti
in tutto il mondo, compresi gli italiani. Le inchieste si chiusero nel 1994 e nel 2002 senza condanne. Ma i
nomi contenuti negli elenchi erano spesso stupefacenti, trattandosi di gente che ancora oggi occupa posizioni
di rilievo, conservate evidentemente sapendo passare, dopo la caduta del Muro, da un padrone all’altro 58. Dal
2007 sono disponibili i documenti cecoslovacchi riguardanti le BR nell’archivio dell’Istituto per lo Studio
dei Regimi Totalitari di Praga, in cui sono catalogati Franceschini, Pelli, Curcio, Setti, Feltrinelli, Viel,
Ognibene, le BR in genere e anche Cacciapuoti e Francesco Cossiga (1928-2009). Ma non tutte le cartelle
corrispondenti esistono ancora59. Tuttavia il dato storico del rapporto tra PSSS e BR nel Sequestro Moro in
chiave antiberlingueriana rimane60.

1.7 I rapporti tra le BR e l’FPLP

Un capitolo chiave della ricostruzione della trama rossa dietro il Sequestro Moro è l’insieme delle relazioni
tra le BR e l’FPLP di George Habbash, (1926-2008) il ramo marxista dell’OLP 61, che come abbiamo detto
all’inizio fu il fulcro dell’internazionale terrorista sovietica. Lo stesso Carlos era stato un discepolo di Wadi
Haddad (1927-1978) a sua volta agente del KGB nel cuore dell’OLP. Orbene, i primi rapporti tra BR, altre
organizzazioni terroristiche e FPLP sono attestati dal 1974, in Libano, Libia e Yemen del Sud. Non vi sono
elementi di prova di relazioni tra BR e FPLP nel 1975 e nemmeno tra il 1977 e il 1978, ma questo non
significa che non ci siano stati 62. Ci sono anzi ottime ragioni per ritenere che vi fossero rapporti stretti e che
George Habbash mentisse quando dichiarò che non aveva idea di chi avesse rapito Moro. Diversamente, non
si sarebbero allacciate trattative segrete tra lo Stato e l’OLP per la liberazione del prigioniero dalle mani delle
BR. A titolo quantomeno di cortesia (se non per una esplicita richiesta), Mario Moretti inviò all’OLP quelle
parti dei verbali dell’interrogatorio dello statista in cui egli parlava della Questione Palestinese.
In ogni caso, attorno a Moro si giocò una partita singolare tra Stato, BR e FPLP. Il colonnello Stefano
Giovannone (1921-1985), capocentro del SISMI a Beirut e uomo di fiducia del Presidente DC nello
scacchiere mediorientale, ricevette proprio dal FPLP una soffiata sull’imminenza di una eclatante operazione
di terrorismo internazionale, che sarebbe stata fatta in Europa e forse in Italia con gravi implicazioni
politiche. La notizia fu girata a Roma e arrivò alle orecchie di Moro, che in effetti pochi giorni prima del suo
sequestro espresse timori per sé stesso63. Da ciò si evince che una frazione dell’FPLP e in genere dell’OLP
non era favorevole al rapimento del leader DC, che si era sempre distinto per la sua sensibilità per le
problematiche della Palestina e del mondo arabo in genere. Ma si deduce anche che all’interno della galassia
palestinese erano ben informati di quanto stava per accadere in Italia e che ciò aveva l’approvazione, se non
56
Questa linea continuò nella Relazione di Maggioranza, pp. 139-140, che considera l’ipotesi della relazione tra BR e
Cecoslovacchia come non sufficientemente provata.
57
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, p. 241.
58
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 165-204.
59
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 105-108.
60
La ricostruzione delle relazioni tra PSSS e BR è in R. T URI, Gladio Rossa, Marsilio, Venezia 2004, pp. 30-53. 65-68.
91-111. 121-229. Su alcuni aspetti del Sequestro Moro cfr. pp. 164, 156-160, 167-169, 176 n. 48, 180, 184-193, 209 n.
26, 215-228, 230.
61
Per quanto noto in merito ai servizi segreti italiani ai tempi del Sequestro Moro cfr. Relazioni di Minoranza –
Rapporto dei Servizi di Sicurezza allegato alla Relazione del deputato Franco Franchi e del senatore Michele Marchio
del gruppo parlamentare MSI-DN, pp. 379-382.
62
Commissione Fioroni, pp. 87-89.
63
Commissione Fioroni, pp. 81-86.
di tutti, almeno di quei dirigenti più infeudati alla linea terroristica internazionale decisa dall’URSS a
L’Avana e, nella fattispecie, all’alleanza strategica con le BR.
A parte questo, sappiamo che le BR ebbero relazioni, gestite da Azzolini e Moretti 64, con l’FPLP di Wadi
Haddad anche tramite la RAF,. Sono attestate poi ingenti forniture di armi dall’OLP all’FPLP e da questo,
trattenuta la sua parte, alle BR dopo il Sequestro Moro, di fabbricazione cinese e russa – giunte per via di
terra nel maggio 1978 – e anche di provenienza occidentale – per via mare nell’aprile del 1979, quando
Moretti andò a prendersele con una barca in Libano 65. In quelle circostanze, le BR ebbero anche esplosivo
russo. I contatti erano stati avviati nell’ambito dell’Hyperion, come Moretti confidò a Savasta e come
Markus Wolff confermò a Ferdinando Imposimato 66. Nelle stesse forniture, gli stock per le BR erano gratuiti,
mentre altre organizzazioni come Prima Linea o i CO.CO.RI dovevano pagare. Si disse che tale trattamento
di favore dipendesse dal fatto che i Palestinesi fossero stati impressionati positivamente dal Sequestro Moro
e che volessero servirsi delle BR per la loro strategia contro la NATO. Ma la cosa mi sembra poco
convincente, mentre una relazione consolidata sarebbe un ben più persuasivo presupposto per questo
trattamento di favore. Moretti infatti disse a Savasta che l’URSS sapeva che l’OLP passava armi alle BR 67, il
che cambia molto i termini della questione. Contestualmente alla prima fornitura del 1978, Moretti aveva
concluso un accordo con Abu Iyad (1934-1971), che prevedeva appunto rifornimenti di mezzi,
addestramento in campi di guerriglia e aiuto ai latitanti da parte dell’OLP e la custodia delle armi palestinesi
in Italia da parte delle BR e loro attacchi ad obiettivi israeliani 68. Tuttavia molti brigatisti, ignari
evidentemente di così alte connessioni, non volevano essere il braccio armato dei Palestinesi in Italia e
Moretti in alcuni casi dovette fare pressioni perché le armi da essi avute fossero adoperate per gli scopi per
cui erano state consegnate. Si disse che le BR si disimpegnarono dalle relazioni con l’FPLP, ma il dato di
fatto è che Moretti e Anna Laura Braghetti (1953-) tennero i rapporti con i Palestinesi da Parigi sino alla
cattura, quando subentrarono loro Fulvia Miglietta (1950-) e Vincenzo Guagliardo (1948-). A costoro
successe in quest’incarico Giovanni Senzani 69. Tutti utilizzavano un numero riservatissimo conosciuto in
origine solo da Moretti70, ma di Senzani ci è rimasto un importantissimo olografo rivolto ad Al Fatah, che
attesta la vastità delle relazioni tra BR e OLP. Inoltre, sono attestati addestramenti di terroristi in campi
palestinesi in Libano, ossia alle soglie del covo di Soldatov, anche se non si sa di quale organizzazione
precisamente71.
Appare evidente un rapporto strutturato delle BR con l’FPLP e il suo inserimento in quello che negli anni
Ottanta del XX sec. fu chiamato, con singolare affinità semantica all’Eurocomunismo ma con ben altri
obiettivi, Euroterrorismo, sviluppando gli obiettivi di raccordo su scala continentale delle organizzazioni di
estrema sinistra, coordinate dal KGB72. Anche l’intermediazione di Maurizio Folini (1953-), detto Armando,
tra le BR e alcuni mercanti d’armi era avvenuta grazie ai buoni uffici dell’FPLP 73.
Proprio in questi traffici di armi collocherei il ruolo del Bar Olivetti in Via Fani e della ‘Ndrangheta
calabrese nel Caso Moro. Tullio Olivetti, padrone del bar omonimo, fallito ufficialmente nel dicembre 1977,
e Luigi Guardigli erano coinvolti in un traffico di armi coi libanesi – ossia con l’OLP – di notevole
importanza. Un carico di armi italiane erano state dapprima mandate in Medio Oriente e poi forse furono
reimportate in Italia e date alle BR, perché le usassero nell’agguato di Via Fani. Questa partita di giro doveva
coprire gli agganci internazionali all’impresa criminale. Fu per questo fortissimo legame con l’FPLP che
Olivetti poté essere indotto a simulare il fallimento. Se il bar fosse stato aperto, l’operazione di guerriglia non
si sarebbe potuta tenere. Inoltre, è sostanzialmente certo che quel giorno il bar fosse aperto e che servisse
come base operativa per alcuni degli assalitori. Cosa, questa, su cui torneremo più avanti. L’assoluto riserbo
degli inquirenti su questo elemento attesta come esso potesse portare in una direzione molto scottante,
all’estero, verso un gruppo, quello palestinese, col quale peraltro il Grande prigioniero aveva sempre
intrattenuto rapporti stretti e segreti (come quelli legati al famoso Lodo che portava il suo nome e che

64
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, p. 210; IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, p. 112.
65
Relazione di maggioranza, pp. 131-135.
66
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 186-190.
67
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 190-192.
68
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 62-63.
69
http://www.liberoreporter.it/2012/11/inchieste/bologna-cade-anche-lultimo-segreto-lolografo-di-senzani-e-gli-accordi-
segreti-tra-br-e-palestinesi.html
70
Relazione di maggioranza, p. 139.
71
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 65-68.
72
SELVATICI, Chi spiava i terroristi, pp. 90-91.
73
Relazione di maggioranza, pp. 146-148.
copriva anche movimenti di armi sul nostro territorio nazionale). Ebbene, in questo losco traffico entrò anche
la ‘Ndrangheta calabrese74. Del resto, i servizi segreti sovietici avevano molti amici nelle mafie italiane 75; tra
i calabresi poteva contare su Giustino De Vuono (1945-1994), su cui Mino Pecorelli, il 16 gennaio 1979,
insinuò il sospetto di essere stato uno dei due carnefici di Moro, assieme a Moretti 76. Forse la ‘Ndrangheta
acquistò armi dai Palestinesi tramite questo giro, forse le vendette in cambio di droga dell’Asia centrale,
forse le trasportò; sta di fatto che la presenza di quella associazione mafiosa aleggiò sul luogo del sequestro
di Moro per lungo tempo. Innanzitutto, il boss Antonio Nirta (1919-2015) poté forse essere presente sulla
scena dell’agguato, avendone avuto notizia in anticipo grazie ai contatti che abbiamo descritto 77, pur essendo
legato ad ambienti di estrema destra e di massoneria deviata, dei quali peraltro il KGB era anche solito
servirsi78. Poi, essendo intimorita da questa geometrica potenza in espansione in Italia, la ‘Ndrangheta
propose allo Stato di collaborare nella liberazione dello statista, magari anche facendo un favore a chi,
dall’altra parte del fronte, voleva in cambio riavere una documentazione fotografica scottante degli istanti del
sequestro. Furono così allacciate le trattative, sfortunate e parallele a quelle con l’OLP stesso, di Benito
Cazora (1933-1999)79 per la liberazione di Moro. Infine, la ‘Ndrangheta poté prestarsi a depistaggi per
coprire i suoi stessi segreti, accusandosi, tramite collaboratori di giustizia prodighi di rivelazioni e avari di
riscontri, di aver partecipato al rapimento moroteo 80.

1.8 La presenza del KGB nel Sequestro Moro

In Italia il KGB aveva una rete eccezionale: gli agenti erano circa duecentosessanta e gli informatori
diecimila all’incirca, senza contare quelli che lavoravano per l’STB, la STASI e gli altri servizi segreti
satelliti81. A Roma nel 1975 vi erano ventuno agenti, dei quali la maggior parte erano giornalisti, infiltrati a
partire dal Dopoguerra, nel breve tempo in cui il PCI era stato al Governo con gli altri Partiti del CLN. Nel
1970 vi erano dieci agenti imprenditori e accademici, il cui numero presumibilmente non era cambiato negli
anni a seguire: essi seguivano la cosiddetta Linea X, ossia lo spionaggio scientifico. Vi erano poi tredici
agenti della Linea PR, ossia quella dell’intelligence politica, nel 1977: i loro nomi in codice erano Frank,
Podhvizny e Stazher – giornalisti- Dario, Nemets, Orlando, Acero, Fidelio e Renato – questi ultimi due
direttori di giornale- Mavr – giornalista - Loreto, Metsenat – funzionario pubblico – e Turist – editore di un
giornale. Di questi, Turist e Fidelio smisero di collaborare nel 1978, Dario e Metsenat nel 1979, Renato nel
1980 e Frank nel 198282. Il KGB aveva come ambienti scelti di coltivazione di spie il Collegio di Difesa della
NATO, i Dipartimenti dei Ministeri degli Interni e degli Esteri che si occupavano dell’Alleanza Atlantica, la
DC, i Partiti di estrema destra extraparlamentare, le Ambasciate a Roma dei Paesi della NATO e la
Confindustria, ma infiltrò anche la P2 83. Nel Rapporto Impedian vi sono diverse schede di possibili spie che a
mio avviso potevano servire in un caso come quello di Moro 84. L’ambasciatore italiano Enrico Aillaud
(1911-2009), per esempio, era stato in Cecoslovacchia dal 1960 al 1962, nella DDR dal 1973 al 1975 e dal
1975 al 1977 fu in URSS, ossia nei Paesi chiave della vicenda Moro 85. Il KGB aveva inoltre una rete di
infiltrati illegali per azioni di sabotaggio; era in grado di addestrare agenti in sede; aveva distaccamenti in
numerose grandi città (comprese Firenze e Genova, cruciali nel Sequestro Moro), presso cui funzionavano
gruppi di sabotaggio molti dei quali erano pienamente attivi, capaci di disinnescare esplosivi e dotati di
uniformi di ordinanza rubate; aveva una rete di indirizzi postali per le comunicazioni clandestine; poteva
compiere intercettazioni delle comunicazioni; gestiva una rete di ricetrasmittenti clandestine attorno a Roma;
74
Commissione Fioroni, pp. 165-186.
75
DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, p. 145.
76
FORLANI, La zona franca, p. 254.
77
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 287-289.
78
Relazioni di Minoranza – Rapporto dei Servizi di Sicurezza allegato alla Relazione del deputato Franco Franchi e
del senatore Michele Marchio del gruppo parlamentare MSI-DN, p. 388.
79
FORLANI, La zona franca, pp. 97-114.
80
LIMITI, L’anello della Repubblica, pp. 187-189.
81
DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, pp. 164-166.
82
ANDREW-MITROKHIN, L’Archivio Mitrokhin, pp. 575-588.
83
Rapporto Impedian, n. 61.
84
Rapporto Impedian, nn. 3, 8, 17, 19, 20, 22, 26, 31, 33, 34, 38, 39, 41, 67, 76, 84, 91, 123, 128, 173, 174, 179,185,
187, 199, 214 (Vincenzo Marrazziutta ossia Metsenat), 241.
85
Rapporto Impedian n. 21. Aillaud ha sempre smentito di aver collaborato con l’URSS e la Procura di Roma non ha
trovato elementi a suo carico, non aprendo nemmeno l’inchiesta relativa. Tuttavia investigatori come Imposimato hanno
mantenuto diversi dubbi sul suo conto.
monitorava attentamente i gruppi sociali e politici da usare per i suoi scopi; pianificava con cura i suoi
obiettivi spionistici; raccoglieva informazioni sugli ex partigiani; prendeva molte misure attive contro i suoi
avversari e particolarmente contro la NATO e la CIA; rubava documenti dal nostro Ministero degli Esteri
anche per il GRU86. Tutte cose che facevano del servizio sovietico il gestore ideale di una operazione
terroristica internazionale di ampia portata. Tutte cose che rendono impossibile credere che il Presidente DC
sia stato rapito senza almeno la sua benevola neutralità. Tutte cose che almeno in parte sono accadute nel
Caso Moro. Ma chi ci garantisce che questa poderosa struttura sia entrata realmente in esso?
Alcune premesse, non necessariamente orientate tanto al sequestro dello statista quanto alla dissoluzione
dello Stato italiano, erano state messe da tempo dal KGB. Probabilmente si dovette agli infiltrati sovietici nel
PSI e nei servizi segreti militari la determinazione di Giacomo Mancini (1916-2002), segretario di quel
partito, a chiedere, nel 1976, la soppressione del Servizio di Sicurezza del Ministero degli Interni, accusato di
fare campagne contro lo stesso leader socialista. L’organismo fu sostituito dal ministro Taviani con
l’Ispettorato Antiterrorismo e alla sua testa fu messo il questore Emilio Santillo, persona capace ma priva di
coperture politiche e senza esperienza in materia. Solo in seguito l’Ispettorato sarebbe stato assorbito
dall’UCIGOS, creato appositamente da Francesco Cossiga, nuovo titolare degli Interni, per la lotta al
terrorismo87. Nel 1977 poi il III Governo Andreotti dovette cedere alle pressioni delle sinistre e smantellare il
SID, scindendolo precipitosamente in SISMI e SISDE (quest’ultimo si trovò ad iniziare la lotta contro
l’eversione quasi senza mezzi). Arrivava così a compimento un processo di intossicazione dell’opinione
pubblica contro i nostri servizi di sicurezza, iniziato diversi anni prima dal KGB 88, arrivato all’apice nella
stagione delle Stragi (che evidentemente giovarono più alle opposizioni che alla DC) e che ancora oggi
perdura. Ma cosa fu fatto dal KGB contro Moro, se fu fatto?
Oleg Gordjevsky (1938-), il transfuga che ha contribuito moltissimo alla ricostruzione della storia del KGB
del quale era stato alto ufficiale, ha scritto che il servizio segreto civile sovietico era molto preoccupato del
processo di allontanamento da Mosca dei Partiti Comunisti dei Paesi satelliti e in genere dei vari movimenti
proletari. Secondo il nostro, Andropov agiva e pensava secondo la sindrome del complotto e lo vedeva dietro
la Primavera di Praga e le agitazioni polacche. Nello stesso tempo però Gordjevsky asserisce che Mosca
guardava con una certa perplessità ma non con malevolenza alla strategia di Berlinguer, che implicava
l’avvicinamento del PCI all’area di governo nel periodo 1976-1978, e che era sostanzialmente rassegnata allo
scivolamento delle Botteghe Oscure verso l’Eurocomunismo. Asserisce anche che l’URSS era soddisfatta
che almeno il PCI continuasse a dialogare con il PCUS e, cosa significativa, che fin quando Moro fu
Presidente del Consiglio dei Ministri, i rapporti con l’Italia furono ottimi, per cui la morte dello statista fu un
duro colpo per i sovietici 89. Si tratta senz’altro di una ricostruzione molto benevola dei rapporti tra URSS e
PCI ai tempi di Berlinguer, ampiamente smentita dai documenti dello stesso KGB 90. Comunque, premesso
che Gordjevsky non è certo il solo custode di tutti i segreti del servizio segreto sovietico e che è probabile
che egli del rapimento del Presidente DC non sapesse nulla, tra le righe di questa ricostruzione si intravedono
tre elementi: il primo, che l’obiettivo sovietico in un coinvolgimento nel Sequestro Moro non coincideva con

86
Rapporto Impedian, nn. 114, 116, 118, 152, 153, 154, 155, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 201, 207, 208, 217, 235-237,
238, 243, 256.
87
MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 80-82; F. COSSIGA, La versione di K, Rai- Eri Rizzoli, Milano 2009, pp. 117-118.
88
COSSIGA, La versione di K, pp. 145-146.
89
C. ANDREW - O. GORDJEVSKY, Storia segreta del KGB, BUR Storia, Milano 2017, ebook, cap. XIII.
90
Sin dal 1970 Luigi Longo, segretario del PCI, dovette prendere le difese del suo delfino Berlinguer con
l’ambasciatore sovietico Ryzhov, che invece spalleggiava Giorgio Amendola, con l’aiuto di Pietro Ingrao e Giancarlo
Pajetta. Inoltre il KGB prese misure molto forti contro Berlinguer: finanziò la corrente di Cossutta, Cappellari e
Marmugi, anche con forniture, addestramenti e supporti tecnici; finanziò il PSIUP; pubblicò le memorie di Pietro
Secchia che gli era molto ostile; cercò di comprometterlo con uno scandalo finanziario nel 1970; seguì sempre con
preoccupazione la sua politica; monitorò i contatti del PCI col PC cinese, specie in relazione alle BR; prese misure
contro l’Eurocomunismo. Il 17 febbraio 1977, secondo le istruzioni del Comitato Centrale del PCUS, Ryzhov chiamò
Enrico Berlinguer e gli consegnò una lettera in cui si esprimeva allarme per il meeting di Madrid dei tre Partiti
Comunisti occidentali e preoccupazione per la instaurazione di una sorta di area regionale marxista con francesi e
spagnoli. Il PCUS temeva che il movimento comunista si dividesse, con i Partiti Comunisti Occidentali che si
distanziavano dai Partiti Comunisti dell'Europa Orientale. In una conversazione riservata del marzo 1977 Tullio
Vecchietti disse al russo che Berlinguer aveva rigettato il principio della dirigenza collettiva del PCI. Al contrario, egli
stava cercando di decidere su tutte le questioni da solo e stava prendendo decisioni unilateralmente (Cfr. Rapporto
Impedian 131). Tra il PCUS e il PCI erano rimasti costanti gli aiuti economici e tecnici, nonché le agevolazioni alle
imprese italiane appartenenti alle Botteghe Oscure che lavoravano in URSS. Cose che però servivano a tenere legato il
PCI a Mosca. Cfr. Rapporto Impedian nn. 119, 122, 126, 127, 130, 131, 133, 143, 145, 193, 194, 195, 196, 209.
quello delle BR: infatti per queste si trattava di allontanare il PCI dall’area di governo fomentando la
Rivoluzione proletaria, mentre per Mosca poteva essere un’ottima occasione per farlo entrare nel Palazzo; il
secondo, che Moro venne sequestrato per bilanciare la sterzata verso destra che il Compromesso Storico
aveva fatto con la designazione – voluta a tale scopo dallo stesso statista pugliese - a Presidente del
Consiglio di Giulio Andreotti, così da rendere più veloce, mediante una crisi senza precedenti, l’ingresso del
PCI a pieno titolo nel Governo; la terza, che almeno all’inizio del Sequestro il KGB non aveva ancora
pianificato la morte dell’ostaggio. Possiamo dunque partire da un punto fermo: fino a quando il patto tra DC
e PCI non fu siglato, l’URSS poteva avere interesse a bloccarlo, ma quando nacque, ebbe senz’altro maggior
motivo nel tentare di affrettarne i risultati, così da portare al potere un PCI che ancora fosse almeno
parzialmente sotto la sua influenza e non completamente riformato da Berlinguer 91. A tali riflessioni sono
indotto dal fatto che Gordjevsky parla di Moro come se fosse stato il Presidente del Consiglio della Non
Sfiducia, mentre lo era Andreotti. Da questa sorta di messaggio tra il criptico e il lapsus freudiano ho pensato
di fare queste deduzioni.
Questa riflessione fa il paio con altri due elementi. Il primo, segreto, è la testimonianza di un grande esperto
dei servizi segreti dell’Est, il fondatore del CIRPO Pierre Faillant De Villemarest (1922-2008), il quale
scrisse che il Sequestro Moro fu voluto dal KGB e dal GRU per impedire l’alleanza paritetica della DC col
PCI e favorire l’affermazione di un Governo sostenuto sì dal PCI eurocomunista, ma solo con alleati di
sinistra. Una volta che fu chiaro che la DC non avrebbe perso il potere e che il PCI non voleva sottrarglielo
ma gestirlo insieme a lei, Moro fu assassinato92.
Il secondo elemento, pubblico, è quello che emerse nella crisi di governo del 1978, quella che portò dal III al
IV Governo Andreotti. Lo stesso Presidente annotò che PRI, PSDI, PSI e PCI potevano fare maggioranza da
soli e registrò le opinioni di chi riteneva che avrebbe fatto bene alla DC stare all’opposizione. La cosa si
ripeté nella crisi del 1979, quella che traghettò l’Italia dal IV al V esecutivo del Divo Giulio 93. Su questa
ipotesi di coalizione partitica torneremo, ma già solo tale autorevole testimonianza attesta che il cambio di
maggioranza, come esito fatale del Sequestro Moro, non era un obiettivo impossibile per il KGB.
La strategia del KGB in queste circostanze cambiava rispetto a quella che era stata contro Berlinguer a Sofia
e contro lo stesso Moro fino al 1976. Ma le tracce del coinvolgimento russo ci sono ed anche evidenti.
Alcune furono subito note94, altre molto dopo. Parleremo soprattutto di queste ultime.
Una prima è data dal ruolo di Serghej Fedorovitch Sokolov (1953-), colonnello del V Dipartimento del I
Direttorato Centrale del KGB (retto dal 1974 al 1978 da Vladimir A. Krju čkov e addetto alle Informazioni
Estere). Sokolov venne una prima volta in Italia il 29 settembre 1977 – pochi giorni prima le BR avevano
acquistato l’appartamento di Via Montalcini 8 – e ripartì il 23 marzo 1978 95. Questo suo arrivo fu considerato
talmente compromettente che, quando il Dossier Mitrokhin venne consegnato al SISMI nel 1995, questo
censurò il report su Sokolov facendo risultare che il russo fosse arrivato nel nostro Paese solo nel 1981,
quando in realtà tornò, sotto le mentite spoglie di giornalista, per partecipare anche al complotto contro
Giovanni Paolo II96. Sarebbe ripartito definitivamente nel 1985, dopo essersi macchiato di un omicidio
politico non identificato e dopo la defezione a Londra del suo collega e amico Vladimir Kuzinsky, già
organizzatore di un attentato a Khomeini (1902-1989). Evidentemente Mosca non reputava più che fosse
sicura la posizione del suo agente a Roma. Nel 1977 dunque Sokolov venne nella Capitale per la prima volta,
dopo un breve soggiorno a Perugia – dove avrebbe soggiornato anche Alì Ağca - in qualità di finto borsista
di Storia Moderna, ma all’Università La Sapienza frequentò le lezioni di Moro alla Facoltà di
Giurisprudenza, lo avvicinò, parlò con lui e fece domande che lo riguardavano. Franco Tritto (1950-2005),
fermamente convinto come Freato che la regia del Sequestro fosse ad Est 97, raccontò minuziosamente questa
vicenda, ma il controspionaggio italiano sapeva già bene chi era Sokolov, sia durante il suo primo soggiorno

91
Pecorelli, alla caduta del V Governo Moro nel 1976, scrisse che era finita ogni possibilità di sedimentazione
democratica del Compromesso Storico di Berlinguer, a mio avviso riferendosi proprio alla sterzata a destra che sarebbe
accaduta con la designazione di Andreotti. Questo infatti avrebbe innescato la resistenza interna al PCI. Il giornalista,
con acume polemico, disse che Moro era politicamente in agonia, chiamandolo sarcasticamente il Morobondo.
92
DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican , pp. 165-166.
93
G. ANDREOTTI, Diari 1976-1979, Rizzoli Milano 1981, pp. 174. 302.
94
Relazioni di Minoranza – Rapporto dei Servizi di Sicurezza allegato alla Relazione del deputato Franco Franchi e
del senatore Michele Marchio del gruppo parlamentare MSI-DN, p. 382.
95
Rapporto Impedian, n. 83.
96
Per la storia della trasmissione e della divulgazione del Rapporto Impedian in Italia cfr. Commissione Mitrokhin, pp.
13- 31. 33-65.
97
FORLANI, La zona franca, p. 167.
italiano che durante il secondo. Date le funzioni del suo Dipartimento, Sokolov era arrivato in Italia per
sovrintendere da vicino alle ultime fasi della preparazione del Sequestro Moro 98.
La sua presenza in Italia fa il paio con un'altra prova importante a carico della Pista rossa. Renzo Rota,
ministro plenipotenziario e già consigliere d’Ambasciata a Mosca dal 1965 al 1972, in un celebre rapporto
inviato alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul sequestro e l’omicidio dell’Onorevole Aldo Moro,
documentò che la parte centrale del Primo Comunicato delle BR (del 18 marzo) e tutto il Secondo (del 25
marzo) erano stati scritti da un ideologo del PCUS di lingua russa, mentre gli altri Comunicati, dal Terzo al
Nono, erano stati redatti da italiani che peraltro avevano cercato di correggere gli errori linguistici precedenti
nelle forme adottate. Rota addusse una ricchissima documentazione probatoria: individuò trentasei passaggi
retrovertibili dall’italiano al russo e trentatré stereotipi del linguaggio burocratico sovietico; fece poi un dotto
commento politico che dimostrava i legami strutturali tra il KGB e le BR. Ma la Commissione ritenne che
simili somiglianze linguistiche tra il lessico brigatista e quello sovietico dipendesse dalla formazione
culturale dei terroristi99. Per questo motivo il dossier di Rota fu utilizzato solo nelle Relazioni di
minoranza100. Ma quando uno o più documenti, attribuiti a un medesimo autore o gruppo di autori, scritti
peraltro in un pessimo italiano, possono essere agevolmente resi in un’altra lingua (nella fattispecie il russo),
nella quale invece acquistano coerenza stilistica, sintattica, grammaticale e lessicale, allora ci si trova davanti
a testi che non solo sono stati pensati, ma anche scritti originariamente in diverso linguaggio, oltre che
malamente e frettolosamente tradotti. Quando uno o più documenti italiani esprimono malamente ma
chiaramente una determinata ideologia che, una volta che essi vengono retroversi in altra lingua, ossia il
russo, viene improvvisamente espressa in modo chiaro anche se stereotipato, allora quei testi sono stati scritti
da qualcuno che, pur condividendo quell’ideologia con i sedicenti estensori italiani, l’ha conosciuta e
comunicata nella sua lingua. Questo qualcuno dev’essere stato un esperto dotato di una autorità tale da
imporre questi documenti all’uso delle BR e talmente importante da dover essere coperto da una pseudo
epigrafia. Personalmente credo si tratti di Sokolov. Questi stette in Italia abbastanza tempo per redigere i due
Comunicati – il Secondo pubblicato due giorni dopo la sua partenza – ma non per stendere gli altri. Sempre
Sokolov poté stendere una lista di domande da fare al prigioniero, così da far nascere la voce che un russo
avesse interrogato Moro101.
Durante il suo soggiorno a Roma, Sokolov frequentò la Biblioteca del Ministero degli Affari Esteri, dove
poté incontrare il summenzionato Dario, al secolo Giorgio Conforto (1908-1986), qualificato da Taviani
come secchiano e che in realtà era la maggiore spia italiana del KGB, che aveva avuto relazioni con
Giangiacomo Feltrinelli102 e che da questo momento entrò nel Caso Moro. Giorgio Conforto nei suoi anni
migliori aveva lavorato alla Farnesina, era stato il centro di una rete di dieci spie, di cui una lavorava a Parigi
in Ambasciata, una per il Consigliere diplomatico di Giovanni Gronchi (1887-1978), quattro al Viminale e le
altre al Ministero degli Esteri103. Questa rete era in gran parte ancora attiva al momento dell’incontro con
Sokolov. Probabilmente Conforto infiltrò anche il Noto Servizio, i cui incartamenti furono rinvenuti in una
cartella segreta significativamente siglata con il titolo “Dario” e i cui presunti finanziamenti ai MAR
giunsero tramite Jordan Vesselinoff, agente al servizio del KGB oltre che dell’Italia. In questo modo avrebbe
avuto notizia anche della rete che legava i terroristi rossi e neri dietro le quinte della Strage di Piazza della
Loggia e forse ne fece parte integrante 104. Ma Giorgio era anche il padre di Giuliana Conforto (1942-), la
padrona di casa in Via Giulio Cesare 47, laddove, come suoi ospiti, il 29 maggio 1978 furono arrestati
Adriana Faranda e Valerio Morucci – l’uomo di Separat -, oramai transfughi dalle BR, delle quali non
avevano condiviso la scelta di assassinare Moro. I due terroristi avevano con sé armi – tra cui la Skorpion
che aveva ucciso Moro105 – e documenti; volevano altresì fondare una nuova organizzazione. Dopo l’arresto,
la Conforto dichiarò di aver accolto in casa i due giovani senza sapere chi fossero in realtà, per fare un
piacere a Lanfranco Pace (1947-) e Franco Piperno (1943-) – uno degli interlocutori del PSI nella linea della
trattativa – e collaborò con gli inquirenti, uscendo sostanzialmente pulita dal processo che ne derivò. Ma non

98
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 223-240; 249 n. 51; I MPOSIMATO, I cinquantacinque giorni , pp.
65-94
99
Relazione di maggioranza, p. 88.
100
Relazioni di minoranza - Allegato 7 alla Relazione del deputato Franco Franchi e del senatore Michele Marchio del
gruppo parlamentare MSI-DN, pp. 221-267.
101
FORLANI, La zona franca, p. 240.
102
Commissione Mitrokhin, p. 200 n. 18. Su Conforto cfr. ivi, pp. 219 -228.
103
Rapporto Impedian, nn. 137-142.
104
G. FASANELLA-G. ROCCA, La storia di Igor Markevič, Chiarelettere Milano 2014, pp. 357-361.
105
Commissione Mitrokhin, p. 223.
abbastanza da non suscitare i sospetti di un suo coinvolgimento nella rete di sostegno delle BR in Ferdinando
Imposimato. Il magistrato ha sottolineato altri importanti indizi in tal senso, compreso il fatto che Anna
Maria Conforto, sorella di Giorgio, possedeva una mansarda in Via di Porta Tiburtina 36, sullo stesso piano
di un appartamento che fu la base brigatista in cui si nascose Luigi Rosati, ex marito della Faranda, nel
1977106. Ma l’elemento che più insospettì il magistrato riguardava ancora una volta Via Gradoli 96. La
proprietaria dell’appartamento, Luciana Bozzi, lavorava al Centro Ricerche Nucleari La Casaccia con
Giuliana Conforto107. Le due donne si frequentavano proprio in Via Gradoli 96, dove la Conforto aveva un
appartamento col marito108. La Bozzi inoltre era considerata come una possibile spia dell’Est, mentre la
Conforto aveva avuto contiguità con ambienti terroristici, specie con l’eversione rossa latino –americana,
tramite Georges Mattei (1933-2000) 109. Fa pensare anche il fatto che a denunziare la presenza dei terroristi
Faranda e Morucci in casa della figlia fu proprio Giorgio Conforto, evidentemente preoccupato, ma anche
ben informato e soprattutto motivato politicamente 110. Egli era anche presente al momento dell’arresto,
apparentemente per ragioni fortuite111. Del resto, dopo l’inchiesta che coinvolse la figlia, il KGB lo congelò
come agente. Ma non si può escludere che anche dopo abbia potuto partecipare alla campagna di
disinformazione sul Sequestro Moro di cui diremo. Infatti Giorgio Conforto collaborò per anni con le riviste,
ferocemente anticlericali, di Eduardo di Giovanni (1875-1979), massone, senatore del PCI e poi deputato del
PSDI. Costui aveva un nipote, omonimo, che era anche avvocato in Soccorso Rosso, la rete che, tra le altre
cose, difendeva ed aiutava anche le BR112. Su quelle riviste scrivevano anche Giuliana Conforto e Ambrogio
Donini (1903-1991), vicino a Pietro Secchia. Il nome di Giuliana Conforto fu rinvenuto anche sull’agenda di
Laura Di Nola (-1979), la padrona di casa di Via Sant’Elena 8, nel Ghetto di Roma – probabile covo BR -
nonché figlia del proprietario di un deposito di tessuti appartenente al complesso di Palazzo Caetani e con
accesso in Piazza Paganica, che fu anch’esso quasi sicuramente una prigione di Moro nelle ultime ore della
sua vita, in quanto sugli abiti e sulle scarpe dello statista assassinato, nonché sulla Renault 4 che lo trasportò
cadavere, si ritrovarono tracce di fibre tessili, la cui permanenza suppone che l’auto fosse partita da non più
di cinquanta metri dal luogo di rinvenimento e fosse andata a bassissima velocità. La distanza tra quel
deposito e il luogo del rinvenimento del cadavere di Moro è in effetti di quarantanove metri. La stessa Laura
di Nola possedeva una casa a Trevignano Romano, presso il Lago di Bracciano. Un terriccio tipico di quelle
zone è stato rinvenuto sulle scarpe di Moro, al di sotto di uno strato di sabbia, presente anche nel risvolto dei
pantaloni, che invece è tipico dell’arenile tra il settore nord di Focene e Marina di Polidoro 113. Mi sembra
evidente da quanto detto una contiguità tra KGB e BR per il tramite della PSSS, per la gestione dei covi
terroristi.
Ancora su Via Gradoli 96 si allunga l’ombra del KGB, almeno secondo Imposimato. Qualcuno voleva
ardentemente che lo Stato andasse in quel covo. Una settimana dopo il sequestro, lo Stato sapeva che in
quella strada vi era forse addirittura la prigione di Moro, per la segnalazione del gladiatore Pier Francesco
Cancedda (1955-)114. Era una villetta con ricetrasmittente. Forse al numero 92, se fu esatta una criptica
indicazione di Pecorelli, data dopo la morte dello statista DC 115. Lo stesso giorno però la BKA invitò la
polizia italiana a cercare Moro sul litorale romano o nel Nord del Paese e i nostri inquirenti seguirono questa
pista. Così il 27 marzo fu perlustrata la costa da Roma a Terracina e il 6 aprile quella da Fiumicino a
Grosseto, utilizzando i calcoli dei computer della polizia tedesca e usando un aereo speciale attrezzato per le
rilevazioni delle fonti di calore116.
Il 6 aprile lo Stato finse di setacciare 117 il piccolo paese di Gradoli, in provincia di Viterbo, sulla base di una
notizia avuta in modo misterioso da una singolare comitiva di professori universitari, capeggiati da Romano
Prodi (1936-), i quali non trovarono nulla di meglio per giustificare la loro indicazione di ricerca che l’esito
di una seduta spiritica, mentre secondo alcuni veniva, magari per vie traverse, proprio dall’Est 118.
106
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 271-279.
107
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 252-253.
108
Commissione Mitrokhin, pp. 224-228.
109
Commissione Fioroni, p. 149. 157-160. Commissione Mitrokhin, pp. 213-219.
110
Commissione Fioroni, pp. 150-151.
111
Commissione Mitrokhin, pp. 222-223.
112
Commissione Mitrokhin, pp. 229-242.
113
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič pp. 352-355.
114
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni , pp. 147-150.
115
LIMITI, L’anello della Repubblica, pp. 200-202.
116
FORLANI, La zona franca, p. 246.
117
Cfr. A. ARCONTE, L’Ultima Missione, ebook, 2003.
118
Commissione Mitrokhin, pp. 229-242.
Naturalmente a Gradoli Moro non c’era e la fonte misteriosa, sia pure in modo criptico (il messaggio recitava
“Gradoli Viterbo 96 11”), probabilmente alludeva a Via Gradoli 96, interno 11 di condominio, a Roma.
La causa del ritrovamento del covo della Capitale, avvenuto il 18 aprile, fu una perdita d’acqua causata ad
arte119. Solo così le forze dell’ordine poterono entrare in quel luogo tanto importante. Quando il covo perse
acqua, Moro di certo non c’era più in quella strada. Ma è emblematico quello che accade dopo: Francesco
Cossiga bruciò il ritrovamento avvisando personalmente la stampa di quanto era accaduto. Il risultato fu che
Mario Moretti, giunto colà mentre l’intervento era in corso, mangiò la foglia e se ne tornò da dove era
venuto, indisturbato. Anche la valutazione del materiale del covo fu differita e con essa stettero in stand by i
segreti internazionali più compromettenti: le relazioni tra BR, RAF, PSSS e KGB. Se almeno Moretti fosse
stato pedinato, forse si poteva giungere alla prigione di Moro. Invece furono il magistrato Luciano Infelisi
(1959-) e il colonnello Antonio Varisco ([1927-1989] poi assassinato dalle BR) ad essere sorvegliati e
fotografati dalle BR quando entrarono in Via Gradoli per la prima volta dopo la scoperta del covo 120. Se,
come alcuni suppongono, fu Moretti stesso a far trovare il covo e a fotografare gli inquirenti che vi entrarono
per la prima volta, allora forse lo stesso capo brigatista voleva condurre gli investigatori alla prigione di
Moro, anche se non sappiamo per quale scopo reale, evidentemente diverso da quelli perseguiti ufficialmente
dalle BR col Sequestro. Comunque, sia gli sviluppi documentali dell’indagine, sia una fallita liberazione di
Moro dalla prigione una volta individuata, sia la sua stessa liberazione potevano innescare una crisi
governativa, che l’emergenza aveva solo dilazionato. Fu evidentemente per questo che il Ministro
dell’Interno sviò l’indagine: per evitare che essa portasse ad uno sviluppo imprevisto, ossia una crisi che
portasse la DC all’opposizione e consegnasse il Paese al PCI. Ossia realizzasse gli obiettivi che noi stessi,
all’inizio, abbiamo messo in capo al KGB. Per le stesse ragioni Cossiga aveva solo finto di far setacciare il
paesino di Gradoli. In una manovra come questa che portò alla scoperta del covo di Via Gradoli 96, infatti, è
evidente la mano di un agente segreto e non di una organizzazione terroristica; per cui, se fu Moretti, egli
stesso sarebbe stato una spia e non solo un brigatista. Un analogo discorso può farsi per la scoperta della
tipografia di Enrico Triaca in Via Pio Foà 31, dove le BR stampavano i loro volantini: una scoperta tardiva
per indagini lente e un esame differito della ricca documentazione custoditavi 121. Ancora una volta il
medesimo gioco delle parti: una, occulta, che sin dal 19 aprile mette l’UCIGOS – controllata dal Ministro –
in condizione di arrivare alla tipografia; l’altra, quella dell’UCIGOS stesso che, per la ragion di Stato,
antepone la stabilità del Governo al ritrovamento di Moro. E questa è una strategia spionistica in cui
cacciatore e preda si invertono i ruoli. Ma potrebbe esserci un’altra ragione ancora per la reticenza dello
Stato nell’impegnarsi nell’indagine che porterebbe alla prigionie del Presidente DC, ossia quella di voler
puntare sul luogo, diverso da questo, dove si custodiva il Memoriale, contenente notizie che avrebbero
potuto interessare solo una potenza straniera ostile e della cui stesura Moro stesso aveva informato il mondo
esterno con la sua lettera del 29 marzo, la prima. Chi pilotò i ritrovamenti forse sperava che lo Stato andasse
a liberare Moro e distogliesse le sue forze dalla ricerca del “Secondo Ostaggio”. Cosa che lo Stato si guardò
bene dal fare, perché il Secondo Ostaggio era più importante del Primo. E anche questo era un gioco di spie,
non di terroristi. Personalmente non credo che il KGB avesse bisogno di rapire Moro per carpire i segreti del
Memoriale, essendo peraltro un procedimento complesso e rischioso, ma penso che se quei segreti fossero
arrivati al grande pubblico in seguito ad un simile sequestro, la perdita di immagine della DC e la
conseguente ascesa al potere del PCI con alleati di sinistra sarebbe stata cosa facile, tenendo presente il fatto
che il più criticato nel testo moroteo era il presidente Andreotti. Da qui il gioco a nascondino tra inquirenti,
servizi nostrani e stranieri.
Durante il Sequestro, e specie nella sua seconda fase, com’è noto, il partito della trattativa fu incarnato dal
PSI e dalla corrente fanfaniana della DC. Sia Bettino Craxi (1934-2000), segretario politico socialista, che
Amintore Fanfani (1908-1999), presidente del Senato, avevano ragioni politiche specifiche per queste scelte,
ma è degno di nota che attorno a loro vi erano agenti sovietici, che avrebbero potuto influenzarli in tale senso
o almeno informare i loro superiori delle intenzioni dei due politici, cosi che essi potessero assecondarle 122.

119
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 131-134.
120
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 131-134; 259-263; Relazione di Maggioranza, pp. 35-37.
121
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 263-271; Relazione di Maggioranza, pp. 46-48.
122
Rapporto Impedian, n. 4 Lelio Basso, n. 30 Franco Galluppi, n.70 Nemets, confidente di Fanfani che fornisce notizie
su Franco Moreno, n. 74 un senatore del PSIUP membro della Segreteria di Presidenza del Senato, n. 81 Michele
Achillis, n. 95, agente Euclide, n. 97 un collaboratore di De Martino, 124 Francesco de Martino. Anche Enrico Aillaud
era amico di Fanfani, come di Sergio Segre, esponente del PCI. Ovviamente per questa lista avvennero le stesse cose
che successero per quella della P2: molti in essa iscritti sostennero di non aver mai avuto a che fare col KGB . Ma
questi nomi vengono riportati per attestare la capacità pervasiva del servizio sovietico, indipendentemente dal
Del resto il PSI era da tanto tempo molto più ben disposto del PCI verso i gruppi extraparlamentari
fiancheggiatori del terrorismo, per scavalcare a sinistra le Botteghe Oscure, e il KGB poté strumentalizzare
anche questa velleitaria e irresponsabile politica. Specularmente, il KGB poté condizionare la politica della
fermezza di Berlinguer nel PCI mediante numerosi agenti, dei quali il più importante era senz’altro Armando
Cossutta e il più stupefacente Emanuele Macaluso 123. La minaccia di una scissione, ventilata da Cossutta,
spingeva Berlinguer a perseguire l’unità del Partito a qualunque costo, quale presupposto della realizzazione
del suo disegno eurocomunista, per il quale aveva bisogno della base elettorale tutta intera. In ragione di ciò,
quanto più i terroristi chiedevano la trattativa, tanto più egli la respingeva per paura dei nemici di Partito,
sostenuti da Mosca, la quale così tirava il PCI da ambo le parti, per piegarne la resistenza. Il Berlinguer che
diceva no alla trattativa ed era sostenuto, nei cinquantacinque giorni, da un Partito apparentemente compatto,
era quello che, in caso di una liberazione di Moro o di una sua morte in un fallito blitz, avrebbe dovuto
andare precocemente al potere senza l’appoggio DC e in balìa della frangia massimalista, nonché dei suoi
velleitari emuli nel PSI.
Ancora al KGB può ricondursi la figura dell’ingegnere Altobelli, identificato con lo scomparso brigatista
Germano Maccari (1953-2001), ma che potrebbe essere stato un nome di copertura usato anche da altri, oltre
che da lui. Potrebbero esserci stati agenti stranieri che per vari motivi avevano bisogno di avvicinarsi a Moro
e che sfruttavano quell’identità fantasma che i coinquilini di Via Montalcini 8 non riuscivano ad associare a
un viso preciso. Partivano da quel civico e si spostavano nei vari luoghi di detenzione dello statista. Si è
pensato ad agenti dell’STB, ma potrebbero essere anche di altri servizi. L’ultimo di essi sembrerebbe aver
lasciato l’Italia per la Turchia. Questo ha suscitato qualche dubbio sulla morte improvvisa di Maccari, il
quale dopo molte resistenze aveva ammesso di essere Altobelli e di aver presenziato all’omicidio di Moro,
dopo essere stato accusato da altre BR 124. Maccari potrebbe essere stato ucciso per non svelare quanti altri
Altobelli gironzolassero nelle stanze insonorizzate del Caso Moro. Di certo, se lo statista DC doveva essere
liberato e almeno fino al momento in cui si pensò questo, nessuno straniero prese parte attiva ai suoi
interrogatori, per ovvi motivi di sicurezza propri e del prigioniero, nonostante si sia pensato il contrario.
Diverso è il discorso su chi realmente redasse la lista di domande che Moretti pose al prigioniero: esse
lasciano supporre una mente politica sottile e una conoscenza di tematiche affini a quelle trattate dallo
spionaggio. Per cui queste domande (e poi la morte di Moro) poterono essere decise – o conservate, se
redatte da Sokolov - in una sede insospettabile, dove si nascondeva questo agente supervisore o che forse è la
stessa dell’anfitrione che le BR avevano a Firenze per il loro Comitato Esecutivo, in via Barbieri e di
proprietà di Gianpaolo Barbi125, appartenente a quell’aristocrazia brigatista che fu il comitato esecutivo della
Toscana, fatto da persone di alta cultura e che mai entrò nel filone di inchiesta su Moro, nonostante la
logistica del Sequestro avesse in Toscana una regione chiave. Tra di essi vi erano Paolo Baschieri (1951-),
Dante Cianci, Salvatore Bombaci e lo stesso Barbi, arrestati – e sempre dichiaratisi innocenti - con un elenco
di undici banche e finanziarie elvetiche nei cui caveau Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione
Stragi, ipotizzò che fossero custodite le carte originali di Moro o i proventi della loro vendita 126. A questo
livello, sembra probabile che l’agente fosse del KGB e non dell’STB, forse della STASI. Costui, come ho
detto, potrebbe essere stato l’ultimo avatar di Altobelli. In quanto ai membri della Direzione Strategica delle
BR, che come abbiamo visto, almeno per il Sequestro Moro si potrebbero identificare con i membri della
Direzione dell’Hyperion, dati i legami di questa scuola con il KGB, è senz’altro a quest’ultimo che si deve la
loro mancata identificazione.
Sempre al KGB porta la traccia seguita dal SISMI nel maggio 1978. Per ordine del generale Demetrio
Cogliandro (1929-2003), che aveva ricevuto a questo proposito una segnalazione dal suo segretario Antonio
Fattorini – molto vicino al Mossad e prematuramente scomparso nel 1984 - alcuni agenti del
controspionaggio si recarono a Palazzo Caetani Lovatelli a Roma, presso cui qualche giorno dopo sarebbe
stato trovato il cadavere di Moro, alla ricerca di un certo Igor, legato da imprecisata parentela a Marguerite
Chapin Caetani (1888-1963) e che avrebbe interrogato il prigioniero. Qualche giorno dopo lo stesso Igor,
identificato con l’omonimo pianista Markevič (1912-1983), nipote acquisito di Margherita perché marito di
Topazia Caetani (1921-1990), venne cercato nella tenuta di famiglia a Ninfa. Tuttavia al SISMI, come per la
faccenda di Via Gradoli, giunse l’ordine di fermarsi, perché la pista portava a due altre possibili prigione
dello statista DC, quella nel Ghetto in Via Sant’Elena 8 e quella del deposito di tessuti in Piazza Paganica, a

coinvolgimento in operazioni attive.


123
Rapporto Impedian, nn. 132, 134. Valga anche per Macaluso quanto detto alla nota precedente.
124
TURI, Gladio Rossa, p. 86; ID., Storia segreta del PCI, Rubbettino Soveria Mannelli 2013, pp. 31-32.
125
FORLANI, La zona franca, pp. 240. 243-244; M. CASTRONUOVO, Vuoto a perdere, p. 53, Besa, Lecce 2007.
126
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, p. 367.
cui facemmo già cenno. Tuttavia il servizio segreto tenne sempre d’occhio l’appartamento, di proprietà della
citata Laura Di Nola127, moglie di un presunto brigatista, documentarista del Centro Sperimentale di
Cinematografia, vicina agli ambienti dell’estrema sinistra, ai primi movimenti omosessualisti (di ispirazione
marxista sessantottina), al Partito Radicale (contrario al Compromesso Storico), collaboratrice della rivista
Shalom e membro della rete antinazista di Simon Wiesenthal (1908-2005)– in cui il Mossad era solito
reclutare i suoi agenti128. In quella casa vi erano alcune tracce che la collegavano alla centrale di Via Gradoli.
Si può dunque immaginare che, anche per questi covi, i servizi abbiano intrapreso lo stesso gioco a
rimpiattino che abbiamo visto con Via Gradoli 96, anche se questa volta l’imbeccata venne dal Mossad. Il
servizio segreto israeliano voleva forse favorire la liberazione di Moro che, per gratitudine, avrebbe
modificato la politica estera italiana filopalestinese. Ma il SISMI, con la sua inchiesta, da un lato monitorò la
situazione e dall’altro impedì alla notizia di diffondersi, presumibilmente sempre per i medesimi motivi.
Quando al Ghetto giunsero Rosario Priore e Ferdinando Imposimato, nel corso delle loro indagini dopo la
morte di Moro, fu probabilmente il SISDE, dalla sua postazione di Palazzo Antici Mattei, a fotografarli a
scopo intimidatorio, mentre la loro fonte su Via Sant’Elena, il brigatista pentito Elfino Mortati (1959-),
ritrattò tutto sentendosi minacciato dalle rivelazioni della stampa su una sentenza di morte emessa dai suoi ex
compagni contro di lui. Fu ancora il SISMI che, quando la Commissione Stragi nel 1980 chiese
delucidazioni su questa pista investigativa, insabbiò l’inchiesta inviando una breve relazione sull’informativa
di Fattorini, ma datandola a dopo la morte dello statista DC, ossia il 14 novembre 1978 129. Uno dei pochi
testimoni disponibili a parlare di tutto questo imbroglio, il principe Johannes Schwarzenberg (1903-1978),
ambasciatore dello SMOM in Vaticano che viveva a Palazzo Caetani, non fece in tempo a decidere di recarsi
dagli inquirenti italiani, perché morì, nel maggio 1978, in un incidente 130. Se non fu casuale, forse il Principe
fu tradito da un mandatario infedele, uno delle tante spie russe nell’Ordine di Malta 131.
Quanto la figura di Markevič potesse essere ambiguamente associata al Sequestro Moro (cosa che avvenne a
lungo), lo attestano diversi elementi. Se l’identificazione tra il Maestro e l’anfitrione fiorentino delle BR –
che Moretti chiamava il Conte Rosso – è caduta (diversamente bisognerebbe supporre una operazione di
depistaggio delle più recenti acquisizioni investigative, che continuerebbe l’iniziativa in tal senso del SISMI
nel 1978), se l’affermazione che l’uno e l’altro si siano conosciuti tramite Senzani non è più considerata
credibile e se l’ipotesi che la morte di Moro fosse stata decisa nella villa del Pianista – cosa che Cossiga
stesso non considerava impossibile – oggi non ha elementi di sostegno 132, a suffragio dell’ambiguità della
posizione di Markevič rimangono però le cose che stiamo per dire. Pietro di Donato (1911-1992), nel suo
Christ in Plastic133, descrisse l’arrivo di Moro in una prima prigione, alla Balduina, dove venne accolto da un
russo, parzialmente simile al grande Pianista. Se l’idea di una spia che accoglie a viso aperto lo statista
sequestrato – che peraltro lo riconosce – mi appare assolutamente assurda, colpisce la citazione del covo che
solo in tempi recenti è stato oggetto di indagine ed è oggi considerato probabilmente la prima tappa del
calvario di Moro. Il covo alla Balduina era presumibilmente un doppio immobile appartenente allo IOR, in
Via Massimi 91, il cui garage ha accesso su Via della Balduina 323. Esso ospitava già qualche brigatista e
qualche membro di Autonomia Operaia e fu subito noto ai servizi nostrani 134. La sua disponibilità per i
terroristi fu senz’altro un colpo di genio dei sovietici e poté arrivare grazie alla rete di agenti del KGB
infiltrata in Vaticano e in particolare nel Torrione di Niccolò V 135. Il riconoscimento tra Moro e lo pseudo-
Markevič avvenuto nel racconto potrebbe poi essere una indicazione indiretta del fatto che lo statista
conosceva il suo carceriere, anche se non poté riconoscerlo in quanto incappucciato, per cui egli poteva
benissimo essere Markevič, ma più ragionevolmente Sokolov. Di maggior spessore sono i dati che seguono.
Il Maestro era stato in contatto col KGB dal Ventennio fascista e durante la Resistenza aveva collaborato coi
GAP. Aveva fatto parte della rete spionistica sovietica nell’Europa occupata dai nazisti, chiamata Orchestra
Rossa. Il Pianista era inoltre consuocero dell’agente Jordan Vesselinoff, di cui abbiamo fatto menzione e che
sembra essere stato uno dei burattinai degli estremisti rossi e neri nell’interesse anche, se non soltanto, di

127
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič pp. 343-345, che cita la Relazione sulla figura del musicista russo
Igor Markevič, del 27.2.2001, scritta da Silvio Bonfigli per la Commissione Stragi.
128
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, pp. 352-354.
129
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, pp. 345-346.
130
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, p. 348.
131
DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, pp. 65-68.
132
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, pp. 365-366; FORLANI, La zona franca, p. 244.
133
Racconto pubblicato su Penthouse nel dicembre 1978.
134
Commissione Fioroni, pp. 65-79.
135
DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, pp. 33-48; 187-198.
Mosca. Dal 1974 al 1979 Markevič fu in relazione con Yuri Borissov, addetto culturale dell’Ambasciata
sovietica a Parigi e agente del KGB e per questo motivo fu controllato dai servizi segreti francesi. In Italia fu
presumibilmente agente di influenza e forse girò fondi alle BR tramite un intermediario. Sembrerebbe aver
avuto il profilo di un agente triplo, tra CIA, KGB e Mossad, ma con netta prevalenza della dipendenza dal
secondo. Va però anche detto che le condizioni di salute del musicista, all’epoca del Caso Moro, erano
pessime e appare difficile che abbia avuto un ruolo attivo nella vicenda. Il massimo che si può supporre è
che, nell’ambito di una trattativa diventata stringente tra opposti servizi segreti e di un marcaggio ormai
stretto dei terroristi da parte degli inquirenti, il KGB, non volendo usare i contatti che aveva adoperato fino a
quel momento, abbia riattivato un vecchio agente, per dare poche ma perentorie – e mortali - direttive
finali136.
L’ultima traccia del lucido superpotere del KGB nel Caso Moro è legata all’Operazione Shpora 137, con la
quale la Residentura romana riuscì a gettare sulla CIA l’ombra del sospetto di aver ucciso il Presidente DC,
ombra che ancora oggi si allunga. A Benigno Zaccagnini (1912-1989), segretario DC e moroteo doc, fu
consegnato un documento con questa accusa, alla vigilia del Consiglio Nazionale del Partito del 29-30
giugno 1978. Cossiga disse che forse esso arrivò con la complicità di uno dei collaboratori del Segretario,
che erano Beppe Pisanu (1937-), Guido Bodrato (1933-), Corrado Belci (1926-2011), Franco Salvi (1921-
1994) e Tina Anselmi (1927-2016), tra i quali quindi potrebbe esserci stata una spia sovietica 138. In
conseguenza di questo rapporto, Carlo Fracanzani (1935-) chiese una Commissione di inchiesta – che si fece
nonostante la ritrosia del PCI- e Giuseppe Zamberletti (1933-) dichiarò che forse davvero gli USA avevano
voluto la morte di Moro. L’offensiva mediatica partì da Panorama, dove Filippo Chicchiarelli incautamente
scrisse l’articolo “Moro come Kennedy”. Il resto della stampa italiana raccolse l’imbeccata, in quanto si mise
a disposizione della campagna la poderosa rete di agenti e informatori sovietici attestata dal Rapporto
Impedian, che si ramificava in testate e agenzie come il Corriere della Sera, Il Manifesto, La Repubblica, Il
Messaggero, Nuovi Tempi, Il Tempo, L’Automobile, Adista, L’Espresso (che il KGB aveva finanziato dal
1962), L’Europeo, SetteGiorni, Mondo Nuovo, Il Popolo, La Gazzetta del Popolo, L’Unità, Paese Sera,
L’Europa Domani, L’Avanti, L’Astrolabio, Nuove Terre, La Scena Illustrata e persino la RAI-TV e il
Dipartimento Stampa della DC 139. Per indottrinare meglio i mezzi di comunicazione di massa, il KGB aveva
a disposizione eventualmente agenti che erano anche giornalisti professionisti e che, come avevano già fatto
in passato, all’occorrenza potevano venire in Italia, lavorando ufficialmente per la rivista del colonnello
Yona Andronov (1934-), la Literaturnaja Gazeta, che si sarebbe impegnata anche nella disinformazione
sull’attentato al Papa e il Sequestro Orlandi 140. Fu così che a Mosca Lvov, capo del V Dipartimento del
Primo Direttorato Centrale del KGB, ossia il superiore diretto di Sokolov, ricevette con grande soddisfazione
il telegramma dell’11 agosto della Residentura romana che annunciava il risultato positivo dell’Operazione
Shpora e lo inoltrava con trionfalistici commenti a Georghj P. Antonov. Il 27 ottobre e il 3 novembre
L’Europeo rincarò la dose pubblicando un altro falso sovietico: una versione del manuale FM 30-31 B
dell’esercito USA in cui si era inserito un passo apocrifo che faceva della strumentalizzazione del terrorismo
una direttiva del Pentagono. Si trattava di una notizia che il KGB aveva messo in giro dal 1975 in Turchia,
Thailandia e Spagna e che ancora oggi gode di credito. Sempre in questo filone disinformativo si collocano
diversi tentativi, fatti attraverso il Partito Operaio Europeo e le riviste Il Male e Metropoli, di attirare
l’attenzione sulla CIA, lo SMOM e Palazzo Caetani 141.

1.9 Il ruolo del GRU nel Sequestro Moro

Accanto al KGB, si può scorgere la sagoma anche del GRU, il servizio segreto militare sovietico, nella fitta
trama del sequestro di Moro. Del resto, nelle grandi operazioni – e quella di Moro lo era senz’altro – i due
servizi sovietici, il civile e il militare, agivano appaiati, dopo aver ricevuto l’approvazione del Politburo .
136
FORLANI, La zona franca, p. 287.
137
Rapporto Impedian 234; Commissione Mitrokhin, pp. 242-245.
138
MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 199-201.
139
Rapporto Impedian n. 4 Giuliano Zincone, n. 5 Sandro Viola, n.6 Luigi Fossati, n.. 13 Giorgio Girardet (ossia
Turist), n. 15, nome in codice Kanio, n. 27 Franco Leonori, n. 32 Libero Lizzadri (ossia Mavr), n. 35 Gianni Corbi, n.
36 Alberto Cavallari, n. 37 Rugiero Orfei, n. 43 Carlo Longo, n. 47 Giuseppe Avolio, n. 51 Angelo Padovan, n. 89 Ias
Gawronsky, n. 93, n. 109 Padre Nazzareno Fabbretti, n. 136 Santini (Alceste?), n. 146 testate usate dal KGB, n. 218
Francesco Gozzano, n. 249 Giancarlo Lannutti, n. 261 Giuseppe Pullara. Valga per questi nomi la puntualizzazione di
cui alla nota 101.
140
Rapporto Impedian n. 129. SIBILIO, L’attentato a Giovanni Paolo II, p. 32.
141
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, pp. 348.350.352.
Prima di operare, essi predisponevano i loro piani, di solito a carico del KGB, e poi, riuniti i vertici, facevano
votare la risoluzione attiva. Fecero così con l’attentato a Giovanni Paolo II 142 e dovettero fare così anche con
Moro. A queste riunioni congiunte presenziavano i direttori del KGB e del GRU e il segretario aggiunto del
Politburo per la supervisione degli Organi – com’erano chiamati i servizi segreti. Da un punto di vista
dunque meramente burocratico, data l’evidenza del coinvolgimento del KGB e dei servizi segreti satelliti
(HVA e STB), come accadeva nelle grandi emergenze, il GRU dovette partecipare al piano contro Moro.
Inoltre, per quanto concerne il processo di disinformazione che precede, accompagna e segue il sequestro e
in genere l’azione di boicottaggio dell’URSS verso Berlinguer e di inquinamento dell’azione dei servizi
segreti italiani negli anni settanta e ottanta, è impossibile che si siano realizzate senza l’apporto determinante
degli apparati di propaganda del GRU, retti da Nikolaj Vassilievitch Orgakov (1917-1996), maestro
impareggiabile in materia, che si sarebbe occupato anche della delegittimazione di Giovanni Paolo II dopo il
fallimento dell’attentato143, e che aveva predisposto una precisa strategia di difesa mediatica dell’intervento
in Cecoslovacchia nel 1968. Ma oltre a questi due interventi istituzionali, il GRU fece altro e di ben più
specifico nel Caso Moro.
Innanzitutto bisogna ricordare che, quando abbiamo detto che gli Spesnatz allenarono le BR in
Cecoslovacchia sotto il controllo del GRU, abbiamo già individuato una traccia della sua presenza, essendo i
reparti speciali di quel servizio orientati a svolgere missioni e compiti supervisionati da esso o almeno
inseriti in piani specificamente predisposti. Va poi evidenziato che l’azione di Via Fani è essa stessa condotta
con una tecnica da Spesnatz, ossia con una tecnica di un corpo speciale mandato in avanscoperta 144. Ma in
quale direzione?
Vi è un dato storico generale: nel 1977 l’URSS era pronta a scatenare la guerra in Europa 145 e una fazione
importante della classe dirigente – compresi i vertici dell’Armata Rossa, del GRU e del KGB – mordevano il
freno in tale senso. L’URSS aveva dei piani di grande precisione e una macchina da guerra di grande potenza
il cui mantenimento all’infinito costituiva un enorme peso, anche per la crisi economica che attanagliava
Mosca146. I sovietici avevano una netta preponderanza sul Vecchio Continente e nel Vicino Oriente, che però
poteva essere messa in discussione dall’installazione dei missili Pershing e Cruise, i quali avrebbero
costituito una valida contromisura agli SS20 del Patto di Varsavia. Vi era peraltro una crescente opposizione
dei Paesi satelliti alla possibilità dello scoppio di una guerra nucleare, che avrebbe implicato il sacrificio dei
loro territori, esposti alla gittata dei missili occidentali. Una simile opposizione non poteva che crescere ed
esigeva che una eventuale azione bellica fosse fatta il prima possibile 147. In questi piani, l’occupazione
dell’Italia sarebbe spettata alle truppe ungheresi e cecoslovacche 148, lungo un fronte che corrisponde alla
zona geografica in cui nacquero le BR, quasi che l’STB, quando le addestrava con la PSSS, tenesse in conto
anche il loro uso durante un conflitto, che per forza di cose sarebbe avvenuto 149. In questo contesto, si colloca
il Sequestro Moro e, al suo interno, un evento che è un mistero nel mistero.
Dopo l’arrivo della prima lettera di Moro, il 29 marzo, con cui lo statista paventava il rischio che le BR gli
estorcessero importanti segreti di Stato e invitava alla trattativa, Cossiga chiese un parere al SISMI sulla
pericolosità di eventuali rivelazioni di Moro in politica estera e in materia di difesa. La risposta, giunta il 31
marzo da Giuseppe Santovito (1918-1984), capo del servizio segreto militare, comprendeva diverse relazioni
rassicuranti. Una era quella tecnica, proveniente dalla Farnesina, di uno stretto collaboratore di Moro stesso
agli Esteri, il segretario generale, barone Franco Malfatti di Montetretto (1920-1999, in carica dal 1977 al
1985), che asserì inspiegabilmente il falso, ossia che l’ostaggio, cinque volte Presidente del Consiglio e più
volte Ministro degli Esteri, non conoscesse importanti segreti di Stato. Un’altra, del vice - capo di Stato
maggiore della Difesa, era altrettanto rassicurante e infondata. Una terza era dell’Ambasciatore italiano
presso la NATO e anch’essa fuorviante150.
L’ammiraglio Fulvio Martini (1923-2003), vice-comandante del SISMI, ha asserito che questo documento
interno faceva parte di una strategia del Governo per screditare il valore di Moro quale ostaggio. Cossiga
stesso sapeva che Moro era stato con Taviani uno dei fondatori della Stay Behind in Italia e lo avrebbe

142
SIBILIO, L’attentato a Giovanni Paolo II, p. 20.
143
SIBILIO, L’attentato a Giovanni Paolo II, p. 28.
144
Commissione Mitrokhin, p. 62. 118-120.
145
Commissione Mitrokhin, pp. 108-110.
146
Commissione Mitrokhin, pp. 115-198.
147
Commissione Mitrokhin, pp. 141-144.
148
Commissione Mitrokhin, pp. 163-166.
149
Commissione Mitrokhin, p. 153.
150
M. GOTOR, IL memoriale della Repubblica, Einaudi Torino 2011, pp. 397-398.
rivelato nel 2007. Il prigioniero conosceva gli omissis del Piano Solo, che aveva personalmente dettato
essendo all’epoca Presidente del Consiglio, e conosceva i segreti del finanziamento ai Partiti, compresi quelli
dei fondi provenienti da Mosca per il PCI 151. Fu proprio Martini a raccogliere le relazioni a nome di
Santovito e a stendere la nota, e nei giorni successivi alla sua consegna a Cossiga e al ministro della Difesa
Attilio Ruffini (1924-2011), mentre continuava l’inchiesta su quello che Moro sapeva, ebbe l’idea di
verificare il contenuto della cassaforte dello stesso Ruffini, e scoprì che mancava un documento che
descriveva tutto l’apparato di difesa dietro le linee della NATO in Europa, ossia l’organigramma della Stay
Behind. Era stato redatto da Paolo Inzerilli (1933-) il 16 settembre 1977 e consegnato al Ministro della
Difesa. Il 24 ottobre era servito per il passaggio delle consegne tra l’ammiraglio Mario Casardi, capo del SID
(1974-1977) e lo stesso Santovito all’atto della nascita del SISMI. Quando Ruffini era succeduto a se stesso
nel passaggio tra il III e il IV Governo Andreotti il 18 marzo 1978, il documento era rimasto in cassaforte.
Ora, agli inizi di aprile, era scomparso. La scoperta di Martini accese gli animi e l’Ammiraglio litigò col
Ministro della Difesa in una riunione al Viminale dov’era presente anche Cossiga 152. In effetti, i due
contendenti potevano essere anche i maggiori sospettati. Ma in realtà tutti erano vittime della tattica
disinformativa creata dai servizi italiani e poi ritortasi contro di loro, perché in ultima analisi più funzionale
agli interessi dei sequestratori di Moro che a quelli del Governo. Gli stessi estensori della nota del SISMI da
cui tutto era iniziato non erano al di sopra di ogni sospetto. Ad esempio, secondo De Villemarest, il Barone
Malfatti, che era già stato consigliere di Legazione dell’Ordine di Malta ed all’epoca era vicino ai circoli del
Gruppo Bilderberg, aveva una figlia, Alessandra, che era stata vicina al PCI e agente del KGB e si era servita
del passaporto diplomatico per spiare non solo l’Ordine, ma anche il Vaticano e l’Italia. Quando il suo
spionaggio era stato scoperto, nel 1953, anche grazie a Giovanni Battista Montini poi Paolo VI ([1897] 1963-
1978), le era stato ritirato in segreto il passaporto diplomatico. Ma la donna era stata poi subito assunta nella
Sezione per gli Affari Generali della Segreteria di Stato dallo stesso Montini, quale prezioso tramite coi
sovietici e lo stesso PCI. Lo scandalo era rientrato e il padre era addirittura diventato ambasciatore in Francia
nel 1969 al 1977, incarico dopo il quale arrivò alla segreteria generale della Farnesina 153. Un simile segreto
poteva essere senz’altro uno strumento di pressione, anche se non vi è alcuna prova per dire che lo sia stato.
Di certo i tre pareri, confluiti nel documento del SISMI, avrebbero potuto garantire la tranquillità degli
scambi che nel frattempo le BR – ben consapevoli dell’importanza delle conoscenze del loro ostaggio -
avrebbero avuto con gli intimi di Moro, sotto l’egida degli Organi sovietici, e che invece erano stati
scoperti154e, nei giorni successivi, immediatamente denunciati, quasi per bloccare quegli stessi scambi.
Infatti il 4 aprile e il 23 maggio Mino Pecorelli pubblicò due articoli in cui affermava che Moro, magari
drogato, potesse rivelare segreti della NATO e che per questo motivo l’Alleanza aveva cambiato i suoi piani
operativi. Asseriva anche che esisteva una trattativa tra le BR e i collaboratori di Moro, nel corso della quale
documenti segreti potevano essere stati consegnati ai terroristi 155.
Morto Moro, il 15 ottobre 1978 L’Espresso scrisse che una fotocopia dell’accordo di cooperazione
internazionale tra i servizi segreti italiani e quelli dei Paesi NATO era stata consegnata alle BR, su richiesta
dello stesso Presidente DC, che l’aveva fatta prelevare dal suo studio privato tramite un canale di ritorno mai
identificato con certezza. Era senz’altro un duro colpo al prestigio del Governo e partiva da una redazione
che come abbiamo visto era sotto l’influenza del KGB. Si scoprì poi che la fonte di questa notizia era
Stefano Silvestri (1942-), che fu seccamente smentito da Cossiga 156 e che in seguito fu sospettato di essere un
agente KGB allo IAI e poi considerato da alcuni contatto dell’STB 157. L’affermazione era in effetti
ingannatrice e gravemente infamante per lo scomparso statista, in quanto non da casa sua ma dal Ministero
stesso qualcuno aveva sottratto il documento in questione. Significativo che Silvestri, come vedremo, fosse
nel novero dei più intimi consiglieri di Cossiga nella gestione politica del Caso Moro.
Il dossier Martini, misteriosamente come era uscito, rientrò al Ministero il 6 luglio 1980. Uno degli aiutanti
del Ministro lo inviò al suo estensore con tanto di biglietto di accompagnamento, come se un documento del
genere si potesse perdere e trovare a piacimento. Titolare di Palazzo Baracchini era allora Lelio Lagorio
(1925-2017), di Palazzo Chigi lo stesso Francesco Cossiga. La maggioranza non era più con il PCI e il

151
FORLANI, La zona franca, p. 252.
152
Commissione Mitrokhin, pp. 201-211.
153
DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, pp. 167-172.
154
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 395 ss.
155
GOTOR, IL memoriale della Repubblica, pp. 398-400; sui contatti tra Moro, i suoi amici e parenti e le BR cfr.
Relazione di maggioranza, pp. 111-113.
156
GOTOR, IL memoriale della Repubblica, pp. 395-397.
157
GOTOR, IL memoriale della Repubblica, pp. 411-413.
documento, rientrato anche il progetto di guerra preventiva sovietica, poteva essere restituito. Ma ciò non
placò le ansie di tutti.
Alla disinformazione si aggiunse il panico, alimentato nelle stanze del potere da rivelazioni che il grande
pubblico avrebbe conosciuto in seguito: l’esistenza di audiocassette di Moro che confessava i piani
anticomunisti della DC e del PRI e quella di un filmato dello statista che raccontava i segreti di Stato alle
BR; il tutto in mani ignote e pronte ad uscire nel momento peggiore 158. Nulla tuttavia di tutto ciò è ancora
mai uscito, ad eccezione del dossier Marini, preso da misteriosi e potenti ladri. Ma da chi?
Che sia stato qualcuno dell’entourage di Moro- ricattato dalle BR- appare piuttosto difficile: la cassaforte
del Ministro della Difesa era la più importante ed inviolabile del dicastero, pari solo ad una di emergenza che
il SISMI aveva a Londra; più probabile che qualcuno, nel caos dei primi giorni dopo il sequestro, che furono
anche i primi del nuovo Governo, abbia approfittato per rubare il plico. Forse lo consegnò ad amici di Moro,
perché cogliessero il suggerimento implicito di consegnarlo alle BR, se non addirittura perché cedessero ad
un ricatto fatto in tal senso. Ciò implicherebbe però un contatto indiretto tra le BR e i ladri, che non potevano
consegnare le carte direttamente ai terroristi. In questo caso i ladri sarebbero stati finti amici di Moro e veri
complici dei terroristi. Preferisco questa ipotesi a quella che i ladri abbiano agito per richiesta dei
collaboratori dello statista prigioniero, onde consegnare il maltolto ai terroristi, perché nella fattispecie
farebbe di Moro un traditore della Patria. Altrettanto improponibile il nome di Cossiga come quello del
ladro, perché se l’affetto per il prigioniero poteva essere un movente ed una attenuante ad un tempo per un
furto, il suo contegno durante tutta la vicenda attestò una completa indisponibilità ad una trattativa fatta in
questo modo. In ogni caso, la fuga di notizie documentali fu di una eccezionale gravità: mentre nel suo
Memoriale Moro poteva dire qualunque cosa ed essere poi smentito, per cui non avrebbe avuto senso rapirlo
per estorcergli notizie riservate ma non dettagliate che potevano essere reperite in modo più discreto, con il
dossier Martini le BR avevano in mano segreti di Stato concreti. La rete Gladio veniva potenzialmente
disarticolata e non poteva essere rigenerata perché basata su agenti coperti addestrati per anni e supportati da
una logistica segreta che non poteva essere modificata in tempi brevi. Appare peraltro evidente che l’unico
vero committente di un simile furto poteva essere il servizio segreto militare sovietico, che quindi agiva
tramite le BR, sia pure mediante una ulteriore, nutrita serie di schermi e intermediari (HVA, STB, PSSS) che
avevano ben istruito i terroristi. Né si può pensare che una simile operazione fosse improvvisata e lasciata
all’estro di Moro desideroso di essere rilasciato: se non possiamo affermare con certezza che il sequestro
avvenisse in vista di uno scoppio imminente della guerra, possiamo dedurre che venisse gestito anche per
questo scopo ipotetico. Tra l’altro, se il suo principale obiettivo, ossia l’ascesa immediata del PCI al governo,
non si fosse realizzato, all’URSS sarebbe rimasta in mano una carta importante: la conoscenza del sistema
difensivo dietro le linee che, in Italia, avrebbe inoltre ammortizzato la perdita di influenza di Mosca sulle
Botteghe Oscure, vanificando la speranza di Berlinguer di essere al sicuro sotto l’ombrello della NATO. Non
a caso il dossier rientrò nel Ministero della Difesa quando al potere c’era Cossiga, alla guida di un tripartito
DC PSI PRI. Ossia quando il GRU, come dicevo, non aveva più bisogno di controassicurazioni per
l’eventuale presenza del PCI al potere e poteva dare all’Italia e alla NATO il contentino della restituzione.
La concretezza dei timori avuti per questa fuga di notizie fu ulteriormente provata da un elenco di membri di
Stay Behind più lungo di quello reso noto da Andreotti nel 1990 e custodito in un faldone relativo al
Sequestro Moro, rinvenuto nel 2001 al Viminale 159. Si trattava evidentemente di nominativi che le fughe di
notizie a cui abbiamo fatto riferimento avevano messo in pericolo. Sicuramente, da dopo il trafugamento del
dossier, la Stay Behind in Italia non poteva più servire in caso di guerra.
Forse anche al GRU può essere ricondotta l’enigmatica vicenda del falso Comunicato 7 del 18 aprile, quello
che annunciava la morte di Moro e l’abbandono del suo cadavere nel Lago della Duchessa. Diramato poco
dopo la scoperta indotta del covo di Via Gradoli, sembra iscriversi in una strategia differente. Manda infatti
gli inquirenti a setacciare un Lago ghiacciato dove difficilmente può essere stato infilato un cadavere. I più
pensano che i servizi italiani lo redassero per distogliere ufficialmente l’attenzione dalla nuova indagine che
poteva aprirsi160. Ma vi sono due elementi che fanno pensare anche ad un’altra matrice. L’avvocato della DC
nei Processi Moro, Giuseppe De Gori, sostenne che il falso comunicato, redatto materialmente dal BR Tony
Chichiarelli (1948-1984), sarebbe stato scritto su suggerimento di agenti della STASI di nazionalità
sudamericana161. Considerando che lo stesso falsario vantava la sua conoscenza con lo Sciacallo, la cosa non
158
GOTOR, IL memoriale della Repubblica, pp. 403-407.
159
GOTOR, IL memoriale della Repubblica, pp. 407-411.
160
GOTOR, IL memoriale della Repubblica, pp. 302-315.
161
COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SULLA STRAGE DI VIA FANI, SUL SEQUESTRO E L’ASSASSINIO DI ALDO
MORO E SUL TERRORISMO IN ITALIA, Resoconto stenografico della 37a seduta dell’8 luglio 1998, in www.parlamento.it
sarebbe impossibile, anche se tramite Separat si risalirebbe ad una iniziativa del GRU. Ma perché la STASI
avrebbe fatto redigere un comunicato poco credibile? Giulio Andreotti ha rivelato che il 17 aprile aveva
saputo da un tramite tra le BR e la Santa Sede che il giorno dopo sarebbe stato diffuso un falso comunicato
come segno della disponibilità a trattare 162. Il tramite poteva essere uno dei tanti agenti doppi e confidenti dei
servizi segreti dei Paesi dell’Est presenti in Vaticano e tollerati dalla Segreteria di Stato per avere contatti
sempre aperti con ambienti importanti e spesso ostili. Questo farebbe supporre che due fazioni si
contendevano la gestione del Sequestro: una facente capo al KGB che voleva far morire o liberare Moro in
seguito ad un’azione della polizia italiana – a cui si era svelato il covo di Via Gradoli – onde aprire una crisi
di Governo, e un’altra che invece voleva avviare una trattativa, liberando lo statista dopo aver ottenuto
preziose concessioni. Probabilmente, le due fazioni agivano di concerto, per manipolare le BR e lo Stato
italiano, in attesa di vedere quale strategia fosse stata migliore per i loro scopi.

1.10 L’anello mancante. Il ruolo di Licio Gelli.

Il fatto che dietro il Sequestro Moro si intravedano con precisione i servizi segreti di URSS, DDR e
Cecoslovacchia, nonché la rete terroristica di Soldatov che si dipana attraverso il FPLP, Separat, l’Hyperion
e le stesse BR, non fa scomparire tutte le ambiguità dei servizi segreti italiani, minuziosamente raccolti dalla
pubblicistica patria più gettonata. In realtà anche questi comportamenti, che qua e là anche noi abbiamo
indicato ed indicheremo, possono essere ricondotti alla congiura rossa, in azione senza che gli stessi servizi
italiani se ne accorgessero. Gli storici e i cronisti del Caso Moro che considerano la pista interna o quella
della CIA hanno giustamente ipotizzato che la comune appartenenza dei vertici dei servizi segreti alla Loggia
Massonica P2 potesse essere la matrice a cui ricondurre i difetti dolosi delle indagini 163. Ma pochi fino ad ora
hanno considerato i rapporti esistenti tra il vertice della Loggia e l’URSS. Bisogna cominciare dall’inizio e
seguire la ricostruzione della vita di Licio Gelli (1919-2015) fatta da Pierre Faillant De Villemarest, il cui
CIRPO, nel 1981, preannunziò con qualche mese di anticipo nella sua Lettre d’Information lo scandalo P2,
che avrebbe destabilizzato tutto l’Occidente e che era orchestrato esso stesso dal KGB. In quel numero del
notiziario venivano ripercorse le tappe più controverse della vita del Maestro Venerabile, poi descritte da De
Villemarest anche in un suo libro164.
Nel 1943 Gelli, che era miliziano della Repubblica Sociale Italiana, aveva una sorella partigiana comunista e
vi si rivolse per negoziare la sua personale salvezza. La cellula partigiana dipendeva da un’antenna – ossia
un agente comunicatore coperto - dei servizi speciali sovietici infiltrata in Austria, che ottennero da Gelli i
segreti delle retrovie nazifasciste in Italia Settentrionale e gli ordinarono di avvicinarsi al CIC, il
controspionaggio della V Armata USA. Il repubblichino, già reduce della Guerra di Spagna, diventato
comunista per opportunismo, ora faceva il triplo gioco. Entrò così nell’OSS e poi nella CIA, che a loro volta
lo inserirono nei servizi italiani, considerandolo anticomunista per il suo passato di fascista. In realtà Gelli
era anticomunista, ma oramai aveva contratto un debito coi sovietici. L’aretino nel 1949 gestì una libreria a
Roma, che serviva da copertura per le comunicazioni tra gli agenti del GRU, nonostante lavorasse già per la
CIA. Nel 1950 il Controspionaggio di Pistoia redasse un rapporto in cui denunziava il triplo gioco di Gelli.
Altri rapporti, che lo smentirono, furono opportunamente redatti in seguito, ma in questa prima occasione
Gelli, non ancora abbastanza potente per difendersi, riparò in Argentina, dove aveva molti amici: erano i
nazisti che aveva aiutato a fuggire dopo la Guerra, molti dei quali erano diventati essi stessi, per sua
mediazione e non solo, agenti sovietici in America Latina. Furono costoro ad introdurlo negli ambienti di
Juan Domingo Péron (1895-1974, in carica per la prima volta dal 1946 al 1955), che era stato egli stesso
vicino dapprima ad agenti nazisti e poi sovietici e di cui Gelli divenne un importante supporter. Tornato in
Italia nel 1953, Gelli divenne concessionario per Pistoia della Remington Rand degli USA e nel 1956
divenne direttore della Permaflex, con la quale poté fare lucrosi affari soprattutto nei Paesi dell’Est e
particolarmente in Romania. La ditta infatti faceva preferibilmente affari con Bucarest da prima ancora
dell’arrivo di Gelli, per cui il suo ingresso in essa fu favorito dai suoi principali clienti. Entrato nella
massoneria nel 1964 e in relazione con Alexander Haig (1924-2010) dallo stesso anno 165, Gelli continuò le
sue relazioni pericolose con l’Est, anche quando, nel 1966, sotto il gran magistero di Giordano Gamberini
(1915-2003, in carica dal 1961 al 1970) divenne adepto della Loggia Propaganda Massonica Numero Due e

(.html senza numerazione di pagina)


162
FORLANI, La zona franca, p. 197.
163
Relazione di maggioranza, pp. 86-88.
164
DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, pp. 201-215.
165
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, p. 46.
nel 1971, sotto quello di Lino Salvini (1925-1982, in carica dal 1970 al 1978), suo segretario organizzativo.
Nel 1973 Gelli organizzò il ritorno al potere di Péron in Argentina. Nel 1974 il gran maestro Salvini tentò di
demolire (nel senso massonico del termine) la Loggia P2 ma Gelli, grazie all’arte del ricatto, mantenne
intatta la sua posizione. Nello stesso anno la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede dichiarò che la
responsabilità dei cattolici che si iscrivevano alle logge massoniche che non avevano lo scopo di combattere
la Chiesa era meno grave. Da questa data la possibilità della P2 di espandersi nella DC aumentò, almeno fino
alle puntualizzazioni restrittive fatte dallo stesso dicastero della Santa Sede nel 1983, che confermò il vincolo
di colpa grave per gli adepti battezzati della Chiesa Gnostica. Nel 1975 Lino Salvini fu costretto a
riconoscere Licio Gelli Maestro Venerabile della P2; nello stesso anno il nuovo capo della Loggia e i suoi
più stretti collaboratori redassero lo Schema R o Piano di Rinascita Nazionale, molto ostile al PCI e alla
sinistra DC. Nel 1976 Gelli fondò l’Organizzazione Mondiale per l’Assistenza Massonica e ne diventò
segretario. Un tentativo di Salvini di arginare il potere del Rasputin italiano destituendolo venne vanificato e
i lavori della P2 vennero sospesi, cosa che, nei regolamenti della Massoneria, li sottrasse da qualunque
controllo del Grande Oriente. Cinquanta ufficiali dell’Esercito, trentasette della Guardia di Finanza,
trentadue dell’Arma dei Carabinieri, ventidue dirigenti della Polizia, quattordici magistrati, cinquantanove
parlamentari, tre ministri, un giudice costituzionale, otto direttori di giornale, quattro editori, ventidue
giornalisti, centoventotto dirigenti di aziende pubbliche, diplomatici e imprenditori erano fratelli massoni
della P2, al momento della pubblicazione dei suoi elenchi, peraltro largamente incompleti, in quanto i nomi
censiti erano novecentocinquantasette e ne mancavano all’appello ottocentoventitrè. I vertici dei servizi
segreti – Santovito, Gianadelio Maletti (1921-) e Pietro Musumeci (1920-)- e della Guardia di Finanza vi
erano iscritti quasi completamente. La Loggia era diventata il paravento dell’atlantismo organizzato (e in
effetti roccaforte atlantica venne considerata dai suoi pochi ma strenui difensori) 166. Ma il vertice di questa
organizzazione, Gelli, era un agnostico politico pronto a qualsiasi azione: una sorta di guardiano dei confini
delle reciproche sfere di influenza dell’URSS e degli USA.
Relazioni strutturate tra Gelli e il KGB ci furono per una cooperazione ad altro livello tra P2 e sovietici per
il controllo, tra il 1970 e il 1971, di una organizzazione terroristica armena che nel 1975 sarebbe diventata
l’ASALA. Nell’ambito di tale cooperazione, nella quale per debito di gratitudine faceva gli interessi
sovietici, Gelli tirò le fila di un vasto complotto tra terrorismo internazionale eterodiretto dall’URSS, tramite
Alexander Alexeevitch Soldatov (che abbiamo incontrato all’inizio del nostro racconto), mafia e massoneria,
senza che queste ultime due si rendessero veramente e pienamente conto degli scopi per cui venivano usate.
La futura ASALA era retta da un ufficiale sovietico del KGB, Alexander Semionovitch Balackhyne, vice-
capo della sottosezione del Primo Direttorato incaricata del Vicino Oriente. Balachyne era tuttavia anche al
servizio della CIA. Viveva in Svezia sotto lo pseudonimo di Martin Skakke e aveva alle sue dipendenze
Levon Aroutiounian, comandante esecutivo dei terroristi armeni. Nel 1968 gli consegnò in Polonia una forte
somma di denaro perché la sua organizzazione si adeguasse alla politica e agli interessi dell’URSS. Nel 1969
fece lo stesso col suo successore Bardassar Nersessian, in Romania. La Securitate garantì il suo appoggio
logistico agli armeni. Ma la gestione di Balackhyne non riuscì a sbrogliare la matassa delle divisioni interne
al gruppo terrorista; l’ufficiale sovietico poi aveva in uggia l’invadenza del GRU negli affari della futura
ASALA e fu maldestro nell’esecuzione di un certo Mulberg, avvenuta in Svezia e che attirò l’attenzione
della stampa, la quale nel 1970 lanciò l’allarme sulla connivenza tra sovietici e armeni all’interno del Paese.
Il 20 agosto Balackhyne fu assassinato a Bautzen nella DDR da alcuni armeni, forse per ordine della CIA,
gettando la futura ASALA nel caos e creando diverse fratture tra KGB e GRU. Soldatov fu incaricato di
mettere in ordine la situazione, eliminando i dissidenti all’interno dell’organizzazione terroristica in Europa e
Medio Oriente. Siccome in queste imprese l’URSS non poteva rischiare di comparire, Soldatov si rivolse ad
una organizzazione terza, ossia la P2 di Licio Gelli. Un collaboratore di Soldatov, Mikhail Vassiliev,
soprannominato Garvei, incontrò un assistente di Gelli, un tale Marco Venittola (probabilmente un nome
fittizio), il 3 settembre 1970 a Copenhagen e ordinò che la P2 facesse interrompere i rapporti tra alcune
cosche della mafia e i resistenti armeni. Vassiliev disse che si aspettava che la P2 eliminasse gli
indesiderabili dai suoi amici. Quando il suo interlocutore italiano obiettò che un simile intervento sarebbe
stato la prova dei legami tra la P2 e il KGB, il russo minacciò interventi diretti. Un secondo incontro avvenne
tra il 16 e il 17 settembre 1970, a Castellammare di Stabia, tra un altro non identificato assistente di Gelli,
tale Aldo Aretso, e Samuel Tevossian, dirigente dell’ASALA, a cui il massone rinfacciò gli errori della sua
organizzazione. Il giorno dopo i due si rividero alla presenza di Soldatov stesso, che Tevossian presentò
quale suo stretto complice. Questi chiese al massone se nella P2 vi fossero anche dirigenti del SISMI. Dopo
una risposta positiva, si diede a definire i dettagli di una ulteriore collaborazione tra la Loggia, l’ASALA e il
166
COSSIGA, La versione di K, pp. 129-148.
KGB. Soldatov chiese notizie su Pier Santi Mattarella (1935-1980) 167 e Guido Rossa (1934-1979). Chiese di
visitare un centro di addestramento segreto a disposizione della P2 a Lorenzago e lo ottenne. Durante quella
visita, mise a punto i dettagli dell’omicidio degli assassini di Balackhyne. Il 3 gennaio del 1971 Soldatov
incontrò Licio Gelli, il quale si dimostrò contrario alla prosecuzione dei loro rapporti, ma lo ragguagliò su
diversi aspetti delle finanze vaticane. Anche i russi, del resto, non tenevano ad avere da vicino il Maestro
Venerabile, considerandolo pericoloso, vanesio, egocentrico, esibizionista e ossessionato dai complotti.
Volevano usarlo e poi rimetterlo al suo posto.
Secondo questa ricostruzione sconcertante e a tratti enigmatica, Gelli era perfettamente in grado di gestire
organizzazioni terroristiche e aveva relazioni dirette col KGB. Se egli fu scomodato per castigare l’ASALA,
a maggior ragione dovette svolgere un ruolo nel Sequestro Moro eterodiretto da Mosca. Magari con
riluttanza, ma è logico dedurre che lo fece. Del resto, sempre lui informò l’URSS nel 1981 dei trasferimenti
di fondi dallo IOR a Solidarnosç tramite il Banco Ambrosiano 168. Il resoconto di De Villemarest, peraltro,
rende più credibili quelli tradizionalmente noti in Italia sul doppiogiochismo del Venerabile, e che Mino
Pecorelli, ufficialmente piduista ma evidentemente in rottura col suo capo, avrebbe voluto rammentare al
suo selezionato pubblico, ristampando sul suo Osservatorio Politico il rapporto di Pistoia del 1950, venendo
però fermato dalla mano dei suoi misteriosi assassini il 20 marzo 1979, nel bel mezzo della scrittura dei suoi
reportage sul Caso Moro169. Da questo momento in poi, la presenza ambigua di Gelli in questa vicenda e
quella dei suoi massoni acquista un senso, se letta alla luce degli interessi dell’URSS. Si trattava di favorire
anche la gestione politica del sequestro fatta da Oltrecortina, fingendo di voler solo difendere lo Stato
italiano dal pericolo dell’eversione e dell’avanzata del PCI, mentre si mettevano le basi per la distruzione del
progetto politico di Moro, Andreotti e Berlinguer.
Non bisogna però enfatizzare il ruolo del doppiogiochista: la CIA e i servizi italiani sapevano delle sue
frequentazioni pericolose e miravano a sfruttarle. Gelli era, come dicevo, una sorta di sentinella al confine di
due Imperi, e per questa funzione entrambi i suoi padroni sapevano delle sue relazioni con l’altro. Durante il
Sequestro Moro molti presumibilmente si servirono del suo doppio canale, per cui poté fungere da mediatore
e camera di compensazione. Così come lo adombra Franco Mazzola nel suo romanzo I giorni del Diluvio
dietro la figura del Marchese, Gelli – creato conte da Umberto II (1904-1983) a Cascais - fu probabilmente
favorevole a un tentativo di blitz nella prigione di Moro, ma esso fu vanificato dal trasferimento del
sequestrato, perché il KGB teneva sotto controllo il suo stesso informatore. La sua doppia obbedienza era
nota a Francesco Cossiga170, che ha attestato che da tempo il vero scettro della P2 era stato dagli USA
trasferito nelle mani di Randolph K. Stone, imprenditore e capo della CIA a Roma, apparentemente semplice
membro della Loggia. Del resto, chi può essere sicuro che il progetto di Moro di addomesticare il PCI non
trovasse simpatia nella P2 o da cosa si potrebbe dedurlo? Dal fatto che nel Piano di Rinascita i politici
elogiati erano Andreotti e Craxi? Ma all’epoca della sua stesura Andreotti era il perno del Governo della
Solidarietà Nazionale e Craxi era, sia pure sofferente, in maggioranza. Vito Miceli (1916-1990) e altri
piduisti, pur non essendo democristiani e tantomeno andreottiani, erano stati amici di Moro. Anche per
questo la ricorrente idea di un sequestro di Moro orchestrato dalla P2 è inconsistente, oltre che per il fatto
che essa, se veramente ne fosse stata responsabile, avrebbe agito in modo assai maldestro disseminando
indizi a suo carico un poco ovunque. Cosa, invece, più comprensibile se la Loggia fosse stata tirata dentro, in
tutto o in parte, suo malgrado nella vicenda.
Un primo punto controverso è se Gelli abbia mai partecipato alle riunioni del Comitato di crisi con il nome
di Luciano Luciani – peraltro personaggio realmente esistente e membro della P2. Il Venerabile Maestro ha
ammesso di averlo fatto, ma Cossiga ha seccamente smentito 171. E’ difficile sapere a chi credere, ma a mio
avviso non c’era motivo perché Gelli partecipasse, essendo in condizione di sapere tutto tramite i suoi adepti.
Egli ha asserito di andare regolarmente alla Marina Militare e alla Difesa, di incontrare il presidente
Giovanni Leone (1908-2001), il ministro degli Esteri Arnaldo Forlani (1925-), il presidente Giulio Andreotti
e il capogruppo DC Flaminio Piccoli. Ma una così fitta rete di contatti peraltro in un momento tanto delicato

167
Alla luce di questa enigmatica richiesta di informazioni, la morte del politico siciliano potrebbe trovare la sua ragione
nel fatto che egli avrebbe potuto far rinascere, a livello nazionale, il Compromesso Storico. In tal caso il sospetto
tradizionale, dell’omicidio terroristico di destra, sarebbe fondato, salvo ammettere che quei terroristi agissero per un
mandato indiretto di Mosca. La classificazione come mafioso di questo delitto avrebbe poi eliminato ogni sospetto e
depistato le indagini.
168
SIBILIO, L’attentato a Giovanni Paolo II, p. 24.
169
DE VILLEMAREST, Le KGB, p. 204.
170
FORLANI, La zona franca, pp. 37.39.42.177-179.283.287.
171
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 237-345.
sembra più una millanteria, essendo peraltro soverchia e imprudente. Darei più credito alla versione di
Cossiga. Vero che il Presidente è stato considerato piduista anch’egli, ma la cosa non ha altro appoggio
documentale che un dossier su di lui rinvenuto a Montevideo in Uruguay nell’archivio di Gelli da Ninetto
Lugaresi (1920-), che peraltro il generale distrusse a suo dire per evitare una crisi politica 172 e che quindi
nessuno ha visto. Le tardive dichiarazioni del Maestro Venerabile sulla sua partecipazione alle sedute del
Comitato di crisi sembrano un ennesimo tentativo di depistaggio, per coprire le responsabilità più occulte. In
ogni caso, proprio alla P2 alluse Mino Pecorelli quando, in un suo celebre articolo del 17 ottobre 1978,
scrisse che Cossiga venne condizionato dalla Loggia che rallentò le sue decisioni e le indagini 173. Questo è
senz’altro esatto e probabilmente lo stesso Cossiga alludeva ai massoni da cui era circondato quando parlava
di fughe di notizie a vantaggio delle BR durante riunioni riservate. E’ anche senz’altro vero che Gelli seppe
che il Memoriale Moro fu pubblicato incompleto, sempre grazie ai rapporti dei suoi collaboratori 174. Si
delinea quindi il profilo, tipicamente gelliano, di un paziente trasmettitore di notizie da un capo all’altro
dell’universo sotterraneo dei servizi, per garantire che quel sequestro non intaccasse certi equilibri, sia pure
per ragioni opposte, che spettava a lui far coincidere. Se l’idea di un governo di sinistra in Italia di sicuro
faceva orrore a Gelli nato fascista, la prospettiva di un’alleanza DC PCI fatta contro il volere dell’URSS di
certo lo vide contrario, sapendo quale potenza di condizionamento avesse Mosca. Come Gelli, forse anche
altri nella P2 vissero sulla propria pelle una dualità di intenti che si ricomponeva in azioni uniche. E’ un fatto
che alcuni nomi – Enrico Aillaud, Francesco Malfatti di Montetretto – sono presenti sia nella lista dei
piduisti che in quella degli agenti del KGB – il primo – o delle persone vicine ad essi che abbiamo
incontrato. In genere, un omicidio di Moro poteva anche andare bene agli oltranzisti atlantici, ma un
sequestro ricattatorio contro la DC in un momento di crescita elettorale del PCI era pericoloso anche per
quella fazione politica. In quest’ottica andrebbe forse letta, se vera, la rivelazione della segretaria di Gelli,
Nara Lazzerini, che afferma di aver udito, il giorno del sequestro di Moro, che il suo capo ne fu
immediatamente informato e aspettava di vedere le reazioni 175: non complicità attiva, ma passiva. Come
dimostra forse quello che andiamo a dire.

1.11 La prova del nove: il ruolo della Stay Behind nelle indagini

Abbiamo oggi elementi significativi sul fatto che la Stay Behind, sia come struttura nazionale che come rete
NATO, sia intervenuta in Italia per cercare di risolvere il Caso Moro. Siccome alcuni vertici della rete
nazionale erano legati alla P2, questi avrebbero potuto, anche se inconsapevolmente, dare a Gelli le
indicazioni necessarie per svolgere il suo ruolo di agente doppio. Ma soprattutto questo dimostra che a
gestire il Sequestro Moro erano i sovietici, perché solo questo poteva giustificare l’intervento della Stay
Behind.
Una prima, discussa fonte in materia è costituita da Antonino Arconte (1954-). Membro del COMSUBIN
della Marina Militare e dal 1970 della Gladio delle Centurie – ossia una struttura altrimenti sconosciuta che
egli identifica col SID parallelo e di cui racconta le gesta militari anticomuniste in tutto il mondo - col nome
in codice G71,fu convocato il 26 febbraio 1978 dai superiori per una missione che sarebbe iniziata il 6
marzo. All’epoca il Capo di Stato Maggiore della Marina era Giovanni Torrisi ([1917-1922] considerato la
mente di questa operazione), mentre il capo del SID parallelo era Vito Miceli ed entrambi erano massoni
della P2. Arconte partì nella data fissata per Beirut, dove giunse pochi giorni dopo e consegnò all’agente
G219, ossia Mario Ferraro (ucciso nel 1995), una lettera riservata, che il Ferraro avrebbe poi girato a Stefano
Giovannone, in codice G216. Nella missiva, a firma di Remo Valisardi, i due destinatari erano autorizzati a
“ottenere informazioni di terzo grado e più, se utili alla condotta di operazioni di ricerca e contatto con
gruppi del terrorismo mediorientale al fine di ottenere la liberazione dell’Onorevole Aldo Moro”, che però
sarebbe stato rapito il 16 marzo. Arconte aveva letto la lettera, nonostante il divieto ricevuto in tal senso, e
Ferraro ne conservò una copia, sebbene fosse a distruzione immediata. Quello che Giovannone fece lo
vedremo dopo. In quanto ad Arconte, dopo l’improvvisa smobilitazione della Gladio delle Centurie nel 1986
decisa in seguito alla glasnost sovietica, fu messo a riposo e nel 1993 scampò ad un attentato. Fu proprio ad
Arconte che Ferraro, prima di morire, consegnò la copia della lettera, cosa che impedì che fosse rubata dagli
assassini dell’agente G219. Arconte, nel 2003, per cautelarsi, pubblicò l’ebook L’Ultima Missione in cui
raccontava tutto quello che sapeva. A questa pubblicazione ne seguirono altre. Le rivelazioni di Arconte
172
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 259-265.
173
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, p. 245.
174
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 265-266.
175
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 260-261.
furono considerate false da Cossiga e da Flamigni – che però ammisero che la lettera sembrava senz’altro
autentica - mentre molti documenti dell’ebook furono giudicati fasulli dai ROS nel 2004 176.
A mio parere, questa vicenda è vera e assai importante per la pista rossa nel Caso Moro. Innanzitutto, se
fosse un falso, sarebbe talmente assurdo che nessuno l’avrebbe potuto concepire. Credo quia absurdum.
Inoltre, quella missiva attesta che l’allarme dello SDECE del 12 febbraio e quello di Giovannone del 17 dello
stesso mese furono presi in considerazione e approfonditi. Poi dalla lettera si vede come gli amici di Moro
nella Gladio si dessero molto da fare, da Miceli a Giovannone; quest’ultimo, che aveva ricevuto le notizie
dall’OLP, lo avrebbe dovuto ricontattare, sapendo che il FPLP era coinvolto nell’imminente sequestro, e
vedere cosa si poteva fare per liberare lo statista non appena fosse stato catturato. Appare in più
maggiormente evidente quell’atteggiamento ambiguo dell’OLP e del FPLP verso le BR, di cui dicevamo, e
che dipendeva dal fatto che la morte di Moro avrebbe potuto far decadere quel Lodo da lui posto in essere e
per il quale i Palestinesi potevano transitare liberamente in Italia purché non vi facessero attentati. In quanto
poi al SID parallelo, compariva nel dossier che Andreotti nel 1990 consegnò alla Commissione Stragi dopo
la fuga di notizie sulla stampa sulla Stay Behind. Quando poi il Presidente del Consiglio si rese conto che
essa non riguardava quella struttura, si fece restituire i documenti e li riconsegnò mutilati della parte che
riguardava il SID parallelo, salvo poi reintegrare il plico, secretandolo 177. Questo vuol dire che esistevano più
Gladio, compartimentate le une alle altre, e che quella difensiva fu sacrificata a quella offensiva. Nulla vieta
di riconoscere in essa la Gladio delle Centurie di Arconte. Lo stesso Cossiga ha ammesso che i gladiatori non
erano seicentoventuno, come comunicato da Andreotti, ma tra i mille e i milleduecento 178. Inoltre, l’impegno
della Gladio italiana per Moro era perfettamente coerente col ruolo importante che lo statista aveva avuto
nella sua fondazione. In quanto alla lettera in sé, fa intendere chiaramente che l’Italia aveva saputo bene cosa
stava per accadere ma non poteva impedirlo. Moro stava per essere preso in ostaggio. Bisognava sapere cosa
dare in cambio. Un nemico così potente poteva essere solo l’URSS.
Naturalmente questa lettera pone alcuni interrogativi. Fu informato Moro della sorte che l’attendeva? E il
Presidente del Consiglio? Cosa fu fatto per alzare la soglia di sicurezza del Presidente DC? Io penso che il
SISMI abbia tenuto all’oscuro l’uno e l’altro e non abbia fatto granché per migliorare la sicurezza di Moro.
Se la notizia dell’imminente ed inevitabile sequestro si fosse diffusa, anche solo ad altissimo livello, tra i
politici, si sarebbe innescata una crisi di reciproca diffidenza e la Solidarietà Nazionale non sarebbe scattata,
in un momento in cui la DC non aveva altre maggioranze disponibili. Questo, unito al fatto che i dettagli
dell’operazione imminente non credo fossero noti, poté influire sul mancato potenziamento della
sorveglianza di Moro. I servizi hanno agito separatamente dalla pubblica sicurezza in tutto il Caso Moro.
L’imprecisione della conoscenza dei dettagli e la consapevolezza dell’ineluttabilità dell’operazione forse
fecero si che il SISMI da un lato non facesse in tempo a far migliorare la sicurezza di Moro e da un altro non
volesse aumentare troppo uomini e mezzi, onde evitare un più alto spargimento di sangue. Magari i vertici
dei servizi furono in questo influenzati dal finto atlantismo di Gelli, che poté essere informato della vicenda e
il cui presunto commento sul sequestro appena compiuto ascoltato dalla segretaria acquisterebbe, in tale
contesto, un significato ben preciso. Se questa intuizione è vera, in un certo senso la scorta di Moro fu
sacrificata. In quest’ottica colloco la personale convinzione che il Presidente DC non sapesse altro al di fuori
della pure allarmata informativa di Giovannone. In quanto ad Andreotti, dopo il rapimento di Moro vomitò e
svenne, ritardando di due ore la discussione della fiducia al suo Governo alla Camera 179. Una simile reazione
non è simulabile ed è quella di un uomo profondamente sgomento. Certo, si può essere sgomenti anche
perché quello che si paventava è avvenuto, ma dopo la conoscenza della missiva di Arconte il Senatore a vita
si comportò con insolita chiarezza, presentando una interpellanza al Ministro della Difesa sulla vicenda e
dicendo che se fosse stata vera avrebbe cambiato la ricostruzione del sequestro. A quella interpellanza la
risposta non venne mai. Forse Andreotti sapeva che non poteva venire, ma in questo caso avrebbe potuto
negare l’autenticità della lettera di Arconte come fece Cossiga, per il quale a mio avviso vale la stessa
presunzione di buona fede, data anche la lunga serie di malattie psichiche e psicosomatiche che gli vennero
dopo la morte di Moro, dalla ciclotimia alla vitiliggine. In Italia spesso i servizi hanno agito a discrezione e
questo caso credo sia uno di quelli. Sintetizzando, se la lettera di Arconte è vera, non inficia ma rafforza la
costruzione della pista rossa.

176
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 117-132. 136. 142-144. 146-147. Giudizio negativo su Arconte,
considerato un imbroglione, in PANNOCCHIA- TOSOLINI, Gladio cit.
177
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 144-146.
178
R. FARINA, Cossiga mi ha detto, Marsilio, Venezia 2011, p. 147.
179
M. FRANCO, Andreotti. La vita di un politico, la storia di un’epoca, Mondadori Milano 2010, pp. 118-220.
Un elemento degno di essere menzionato è l’asserita presenza, da parte dell’agente SISMI Pierluigi Ravasio
(1958-), del colonnello Camillo Guglielmi (1924-1992) in Via Fani nelle ore della strage. Egli avrebbe
ammesso di essere passato per quella strada verso le 9,00, ma perché invitato a pranzo da un collega,
residente nei paraggi, che ha confermato. Nessun approfondimento definitivo è stato fatto su questo episodio,
che di recente è stato ampiamente ridimensionato 180. Di certo, una spia sul luogo avrebbe dovuto trovarsi
miglior alibi, sia pure dopo tanti anni. Ravasio sostenne che Guglielmi fu in Via Fani per ordine di Santovito,
che aveva avuto una soffiata da uno studente universitario infiltrato nelle BR. Questa presenza potrebbe
collocarsi nel monitoraggio che il SISMI stava facendo dell’imminente e ineluttabile sequestro. Ma a mio
avviso è un depistaggio e anche maldestro, in quanto ad un certo punto nella ricostruzione di Ravasio salta
fuori anche l’immancabile Banda della Magliana, che sarebbe la vera ed unica rapitrice di Moro 181. E’
evidente che con simili premesse è difficile dare retta a questa storia. Analogo giudizio esprimo sull’idea che
in Via Fani vi fosse il Noto Servizio, in quanto priva di adeguati fondamenti ed espressa in modi
contraddittori, perché chi la sostiene vorrebbe che esso, dopo aver contribuito al sequestro di Moro, volesse
liberarlo, peraltro senza riceverne l’autorizzazione 182.
Tornando al nostro discorso principale, accanto al SID parallelo, nel Sequestro Moro entrò anche la Stay
Behind che tutti conosciamo. Entrò come struttura NATO, ossia come ACC, Comitato Alleato Clandestino,
dipendente dal SACEUR e dal CPC e che coordina i servizi segreti nazionali 183. Entrò perché come abbiamo
visto il rapimento di Moro metteva in forse la sicurezza di tutta l’Europa. Cossiga ha svelato
progressivamente l’arrivo dei servizi segreti inglesi, di quelli tedeschi occidentali e l’impiego della V
Divisione del SISMI. Lo stesso Presidente confermò nel 2008 che gli era stata spedita una relazione riservata
del BND tedesco occidentale nel 1990, in cui gli si illustrava l’operato durante il Sequestro Moro 184. La CIA
stette a guardare, nonostante le sollecitazioni di Miceli, per non compromettersi direttamente e seguendo una
strategia speculare a quella russa, che agiva tramite diversi schermi. Del resto i servizi italiani erano tenuti a
passare documenti alla CIA e a riceverne istruzioni mediante l’ufficio di ricetrasmissione Brenno, ubicato
negli USA. Cossiga ha poi affermato che inglesi e italiani erano pronti ad un blitz nella zona di Forte Boccea
e della Via Aurelia, che però fu annullato, come tutti gli altri, compreso quello del COMSUBIN 185. Anche
un’azione su Palo Laziale, dove c’era una probabile prigione di Moro – quella dove le sue scarpe e i suoi
pantaloni si erano sporcati di sabbia – era stata annullata 186. Sebbene tutte le opzioni fossero sempre aperte –
come attesta la redazione di due piani operativi, l’uno detto Viktor se Moro fosse stato preso vivo, e l’altro
Mike se fosse stato ucciso dalle BR, entrambi datati 5 maggio 187– è probabile che tutti questi annullamenti
dipesero dal timore di conseguenze politiche catastrofiche in caso di fallimento o semplicemente di
liberazione di Moro, sia perché la soluzione del caso avrebbe scongelato la crisi virtualmente aperta dal
Sequestro e relativa all’inefficienza della formula di governo monocolore, sia perché nessuno sapeva cosa
avrebbe fatto il Presidente DC, una volta libero, contro la DC e il PCI, allineati sul fronte della fermezza e
contro i quali manifestava virulento rancore nelle sue lettere. Inoltre dovette influire la consapevolezza che,
una volta liberato Moro, le indagini avrebbero svelato i legami tra le BR e i Paesi dell’Est, innescando una
crisi che era proprio compito dei servizi segreti della NATO impedire. Sembrerebbe quindi che anche l’ACC
condividesse la linea politica dell’Italia e che non abbia fondamento l’idea di un Governo Andreotti e di un
ministro Cossiga espropriati della gestione del Sequestro 188. Dalla considerazione dei dati a nostra
disposizione, sembra che la Stay Behind sia intervenuta per ricacciare oltre le linee una autentica incursione,
sia pure segreta, del Patto di Varsavia, non tanto agendo militarmente ma con una azione di intelligence,
scompaginando la strategia del KGB. Se questo voleva spaccare la DC e umiliare la componente
berlingueriana del PCI, precipitando la sua ascesa al potere, l’ACC invece voleva congelare il progetto e
costringere le BR alla trattativa per la liberazione dello statista. In effetti, tutti i covi delle BR presso cui o
vicino ai quali Moro fu prigioniero, erano monitorati dai servizi italiani e alleati: Via Gradoli, Via della
Balduina, Via Sant’Elena, o prima o durante o immediatamente dopo la detenzione dello statista. Altri covi,
come quello presunto di Palo Laziale, erano stati individuati. In questo modo il circuito che era stato creato

180
MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 95-97; sulla svalutazione dell’episodio cfr. CASTRONUOVO, Vuoto a perdere.
181
LIMITI, L’anello della Repubblica, pp. 173-174.
182
LIMITI, L’anello della Repubblica, pp.185-187. 195-202.
183
Per la struttura e la storia di Stay Behind cfr. PANNOCCHIA- TOSOLINI, Gladio, pp. 38-56.
184
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, p. 386.
185
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 185-189. 237.
186
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, p. 355.
187
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 203-221.
188
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 270-271.
dagli agenti italiani del KGB con la PSSS era stato disarticolato. L’unico mancante all’appello è quello del
Lago di Bracciano, dove il Presidente DC si era sporcato di sabbia le scarpe. Ma non è detto che non fosse
anch’esso spiato, visto che di questo supposto covo nulla sappiamo. Moro non poteva tornare nei covi
scoperti e non poteva uscire da quelli monitorati senza che la NATO lo sapesse. I servizi occidentali non si
muovevano per evitare conseguenze politiche, ma se Moro fosse stato ucciso potevano entrare
immediatamente e ammazzare i brigatisti, ammortizzando il danno d’immagine, sia pure come extrema ratio;
se poi il Presidente DC fosse stato liberato, le forze speciali potevano intervenire subito e prendersi il merito,
magari agendo in un modo tale da non permettere alle BR di smentirli, ossia massacrandole. Le BR avevano
sempre chiesto di trattare dettando le loro condizioni e sin dal 29 marzo avevano umiliato Moro nel loro
Comunicato numero 3 rendendo pubblica la lettera dello statista che chiedeva una trattativa riservata mediata
dalla Santa Sede. Avevano insistito su questa linea il 4, il 10 e il 15 aprile, con i Comunicati 4, 5 e 6, l’ultimo
dei quali aveva anche annunciato la condanna a morte del prigioniero. Verso quella data Moro scrisse la sua
lettera di addio alla famiglia, come attestò una perizia 189. Tuttavia la sentenza non venne eseguita, la lettera
venne congelata – sarebbe stata resa nota il 5 maggio - e nonostante il 20 e il 24 aprile le BR ribadissero le
loro richieste di scambio di ostaggi e di riconoscimento politico da parte della DC, di fatto si avviarono alla
trattativa segreta. L’ACC li aveva portati a questo col suo assedio, che avrebbe potuto durare all’infinito e
quindi annullare il potere di ricatto detenuto da chi aveva l’ostaggio in mano. A parere di Cossiga, se le BR
avessero avuto l’intelligenza di liberare esse stesse e spontaneamente, a quel punto, l’ostaggio, avrebbero
riportato una vera vittoria politica e morale 190, ma la trattativa riuscì ad irretirle e a impedire questa sconfitta
incruenta dello Stato.
La trattativa prevedeva tre cose, che sarebbero avvenute tutte il 9 maggio, come conseguenza della
liberazione di Moro fissata in quella data. La prima, caldeggiata da Moro stesso 191, era la liberazione di
alcuni terroristi della RAF detenuti in Jugoslavia, prelevati a bella posta da Fulvio Martini e che sarebbero
stati estradati in Yemen del Sud su un aereo messo a disposizione da Giovannone e accompagnati da
esponenti dell’OLP. L’aereo, una volta liberato Moro, sarebbe decollato dal Libano, avrebbe raggiunto la
Jugoslavia e poi, con il suo carico di merce umana di scambio, sarebbe andato nello Yemen. Qui Carlos
avrebbe rimesso i terroristi nel loro sanguinario giro internazionale. I terroristi, il cui arresto non era ancora
stato divulgato dalla Jugoslavia all’Interpool, erano alcuni di quelli che abbiamo visto coinvolti nel Sequestro
Moro sin dall’inizio: Monhaupt, Wagner, Hofmann, più Peter Jürgen Bock. Era il risultato dell’allerta
lanciata sin da prima del Sequestro dal SID parallelo e dallo stesso Giovannone, il cui intervento era stato
invocato da Moro stesso dalla sua prigione 192. Uno scambio di prigionieri, dunque, ma non come voluto dalle
BR e non su territorio italiano, bensì su quello di un Paese non allineato, sebbene comunista, la cui
disponibilità è senz’altro rimarchevole e da sottolineare in chiave antisovietica, essendo Belgrado in rottura
con Mosca e leader tra i Non Allineati.
La seconda forma di trattativa era il pagamento di un esorbitante riscatto messo a disposizione da Paolo VI
alle BR193, una sorta di gesto umanitario fatto da uno Stato terzo e assolutamente neutrale, che offriva il suo
territorio per la liberazione del prigioniero. Cinquanta miliardi furono raccolti per le BR che li avrebbero
riscossi al momento della liberazione di Moro. La terza era forse la più eclatante di tutte, perché consisteva
in una apertura di credito non del Governo né della Segreteria DC, ma del presidente del Senato Fanfani alle
BR, con una disponibilità generica alla trattativa, essendo stata scartata, per l’opposizione dell’esecutivo e
del PCI, l’ipotesi di una grazia presidenziale per una terrorista malata 194. A questo progetto, anche Andreotti
e Berlinguer avevano dato il loro assenso. Fanfani avrebbe proposto l’apertura al Consiglio Nazionale DC
proprio il 9 maggio, il giorno in cui Moro doveva essere rilasciato e in cui invece morì. Chiaramente dopo
una simile svolta il IV Governo Andreotti doveva cadere. La trasformazione della maggioranza era
caldeggiata da Moro stesso nelle sue lettere. Il problema era che la nuova formula di governo proposta, ossia
un ritorno al Centrosinistra, era numericamente quasi impraticabile e Moro sicuramente lo sapeva e recitava
la sua parte. Per cui se l’apertura di credito di Fanfani fosse avvenuta e Moro fosse stato liberato, subito dopo
il Compromesso Storico sarebbe continuato ma leggermente spostato a sinistra, forse con Fanfani stesso
presidente del Consiglio e non più con un monocolore ma con un bicolore DC – PSI appoggiato dagli altri
Partiti dell’arco costituzionale, in attesa del loro ingresso formale nell’esecutivo. In alternativa il nuovo
189
FORLANI, La zona franca, pp. 206-207.
190
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 245-246.
191
COSSIGA, La versione di K, p. 125.
192
FORLANI, La zona franca, pp. 35-59.
193
FORLANI, La zona franca, pp. 185-216.
194
FORLANI, La zona franca, pp. 73-95.
Governo poteva essere presieduto da Claudio Signorile (1937-). In questo modo l’istanza fondamentaledei
sequestratori , il governo della sola sinistra, sarebbe stata respinta e nello stesso tempo sarebbe stato data loro
una soddisfazione politica, con l’avvento del riformista Fanfani, suggellato dall’esilio che Moro aveva
dichiarato di voler prendere – e che era l’unico approdo possibile per lui dopo le rivelazioni fatte in carcere.
Del resto, era stato Moro, uomo dalla logica sofisticata e bizantina, ad intendere il Compromesso Storico
come un modo per imbrigliare la capacità rivoluzionaria del PCI e sempre lui aveva voluto Andreotti
presidente del Consiglio e aveva dato via libera ai suoi Governi composti da ministri DC risolutamente
anticomunisti. Ora, con la svolta fanfaniana e socialista, lo stesso Presidente DC contribuiva a rielaborare gli
equilibri credendo di salvare se stesso.
Le BR, già spaccate al loro interno sulla condanna di Moro – favorevole Moretti, contrario Morucci, ancora
fino al 3 maggio, con la Faranda 195 – sembrarono accettare. Esse erano praticamente accerchiate a Via
Montalcini 8 dall’ACC che, in caso di rifiuto, erano pronte ad un blitz196. Era una spaccatura che rispecchiava
quella tra gli stessi servizi sovietici, di cui i capi brigatisti erano i terminali ultimi, rispettivamente del KGB e
del GRU197. Il primo mirava a mantenere l’influenza sul PCI e sull’Italia, il secondo a creare confusione nel
nostro Paese. Per il primo scopo la morte di Moro era utile, per il secondo invece no. Perciò, mentre le BR
trattavano, i sovietici discutevano al loro interno sulle decisioni finali da prendere.
Il 9 maggio Moro, trasferito al deposito di tessuti nel complesso di Palazzo Caetani, doveva essere liberato
ed entrare vivo nel bagagliaio della Renault 4. Ma all’ultimo minuto le BR e in particolare Moretti
eseguirono gli ordini definitivi, perentori a dispetto della stessa spaccatura tra i terroristi: l’ostaggio, invece
di essere liberato, fu ucciso. In questo modo i sequestratori avevano salvato se stessi, perché non potevano
essere arrestati o uccisi sul momento, pena la scoperta della trattativa stessa, che ufficialmente non esisteva
ancora. Ma soprattutto avevano stabilizzato la situazione e realizzato in altro modo l’obiettivo del KGB: se il
PCI non poteva andare al governo senza la DC, non valeva nemmeno la pena di un nuovo esecutivo più a
sinistra che avrebbe maggiormente irretito Botteghe Oscure. Uccidendo Moro, la trattativa non sarebbe più
andata in porto e insensibilmente, come poi avvenne, l’esperienza della Solidarietà Nazionale sarebbe finita,
mancando di un vero mediatore e, nella DC, una sicura sponda a Berlinguer 198. In questo senso può essere
inteso il commento di Pecorelli su OP il 17 ottobre 1978, sotto forma di una lettera firmata inviata al
Direttore, ossia a se stesso. In essa il giornalista scrisse che si era voluto a tutti i costi l’anticomunista Moro
morto, attraverso un asse DC-PCI, perché nessuno poteva toccare l’Internazionale. Mi sembra una chiara
chiamata in causa dei servizi sovietici. Nella medesima lettera, peraltro, Pecorelli alludeva alla prigionia
terminale di Moro presso il Ghetto nel complesso di Palazzo Caetani, affermando che quella sede era
conosciuta da Cossiga grazie a un rapporto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (1920-1982), il quale
avrebbe voluto liberare il prigioniero199, ma ne fu impedito perché il Ministro non poteva decidere nulla
senza aver consultato un potere superiore, che secondo me era proprio l’ACC. Il giornalista alluse anche alla
fine che il generale, uomo che sapeva troppo, avrebbe dovuto fare prima o poi. Questo fu, a mio parere, il
senso e lo scopo della presenza della Stay Behind in Italia e il suo risultato fallimentare.
Un piccolo cenno a parte merita la questione di dove fosse tenuto Moro durante la fase centrale delle
trattative, perché legata alla questione della Stay Behind. Il prigioniero raggiunse Palazzo Caetani da Via
Montalcini 8, dove sarebbe a sua volta giunto dall’Oasi di Ninfa, all’attuale Posta Vecchia, dove sarebbe
stato detenuto per alcuni giorni in ottime condizioni, mentre avrebbe trascorso la sua ultima notte nello stesso
Palazzo o in uno vicino come quello Antici Mattei 200, per poi scendere nel deposito di tessuti in cui sarebbe
stato ucciso. Colui che avrebbe concesso questa ospitalità forzata a Moro sia al mare che nel Palazzo sarebbe
195
MONTANELLI-.CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, pp. 208-209.
196
IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 153-196. Fu dunque la disponibilità delle BR che evitò l’ingresso
violento nel covo quando c’era Moro e non una presunta cattiva volontà della NATO, come fecero credere ad
Imposimato nel 2008 due fonte poi rivelatesi inattendibili, in quanto erano la stessa persona che lo contattarono con
nomi diversi e modi differenti. Questa fonte, peraltro, si qualificò in entrambi i suoi avatar quale militare di leva che
doveva essere adoperato nell’operazione ed è a mio parere assurdo che per una cosa tanto segreta si usassero militari di
leva. Questo stesso blitz, come fu rivelato da Torrisi, doveva avvenire tra il 15 e il 20 aprile e non l’8 maggio, ossia
dopo la pubblicazione della sentenza di morte delle BR per Moro, che però fu sospesa, evidentemente per la pressione
diplomatica e militare sui terroristi.
197
DE VILLEMAREST, Le KGB, p. 228.
198
MONTANELLI-.CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, pp. 211-212.
199
E’ a questo covo che bisogna riferire il blitz di cui in IMPOSIMATO, I cinquantacinque giorni, pp. 254-255. Nel 2009
al magistrato autore un tale Alfonso Ferrara, che poi ritrattò, fece credere che si dovesse fare in Via Montalcini 8. Ma è
a mio avviso una indicazione fuorviante e depistante.
200
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, pp. 403-406.
stato il padrone di casa, l’aristocratico inglese Hubert Howard (1907-1987), peraltro fondatore del WWF
Italia che gestiva la sua stessa Oasi. Il nome di Howard entrò nell’inchiesta perché, sposato ad una Caetani,
era consuocero di Markevič, col quale aveva collaborato alla trattativa coi nazisti per la liberazione di
Firenze durante la II Guerra Mondiale. Il russo rappresentava i partigiani e l’inglese la PWB, ossia gli alleati .
Inoltre il suo nome di battesimo, senza cognome, era appuntato su una agenda di Laura Di Nola 201. La
detenzione di Moro a Ninfa spiegherebbe la presenza di sabbia di quella zona del litorale laziale sulle sue
scarpe. Stando a questa ricostruzione, Howard, in un momento di grave crisi come questo, sarebbe stato
richiamato in servizio per la mediazione con le BR e il KGB che passava per la sua famiglia. Presupposto
quindi della sua presenza nel Caso è che anche Igor Markevič sia stato coinvolto202. La frequentazione che
Howard aveva con importanti personalità coinvolte nel Caso Moro, come Malfatti e Andreotti (ma i suoi
salotti erano sempre ben frequentati e da tantissimi pezzi da novanta, essendo l’inglese vicino al Gruppo
Bilderberg, allo IAI, alla Trilateral Commission, all’Istituto Atlantico, al Club di Roma, al Centro Studi
Americani di Roma, all’IRD e all’ambiente dell’ex OSS, tutte istituzioni interessate alla vicenda di Moro 203),
oltre al fatto che egli in quegli anni risiedesse proprio a Ninfa e la vecchia amicizia coi fondatori di Gladio in
Italia, come Enrico Mattei (1906-1962), resero più plausibile il suo coinvolgimento, unitamente al fatto che
La Posta Vecchia somiglia molto al palazzo nobiliare sul litorale del Lazio che, nel romanzo di Franceschini
La Borsa del Presidente, fu una prigione di Moro204. A questo si aggiunsero alcuni argumenta in silentia: la
presa di contatto, riferita da Giovanni Pellegrino (1939-) e avvenuta nei giorni del Sequestro Moro, da parte
di Howard, col Governo italiano per motivi sconosciuti, nonché l’assoluta mancanza di documenti su di lui e
sul suo consuocero in Palazzo Caetani, cosa che pure colpì il Presidente della Commissione Stragi, il quale la
imputò a una tempestiva sottrazione alla vigilia della perquisizione ordinata da lui stesso 205. In questa
ricostruzione – che le sdegnate reazioni, anche in sede giudiziaria, degli eredi Howard non sono riuscite a
sradicare completamente dalla pubblicistica - Howard e Markevič non avrebbero trattato solo per lo scambio
di prigionieri, per il riscatto e per l’apertura di Fanfani alle BR, ma, a livello copertissimo, per il possesso
delle sue carte, vero pomo della discordia che, una volta superato, avrebbe reso superflua la vita stessa di
Moro. I suoi scritti originali sarebbero stati distrutti dagli Occidentali mentre l’Est avrebbe, in un colpo di
coda, eliminato lo statista, come abbiamo detto206.
Personalmente sono molto perplesso, perché mi sembrano strane due cose: che Moro fosse prigioniero delle
BR in un possedimento di un agente occidentale, sia pure a scopo cautelativo per entrambe le parti, e che si
parli di una distruzione delle carte: il loro ritrovamento in Via Monte Nevoso a Milano e la loro riemersione
nel 1990 in chiave anti DC dimostrano che stettero sempre in mani ostili e sostanzialmente integre. Se è
certo, date le ricerche cui facemmo cenno, che Moro sia passato sul Litorale del Lazio, nonostante Moretti
sostenne che la sabbia l’avevano messa le BR a scopi depistanti - mentre tace del terriccio del Lago di
Bolsena – non lo è che fosse detenuto a Ninfa e tantomeno col consenso di Howard. Non vedo nemmeno la
necessità che Moro passasse l’ultima notte ai piani alti di Palazzo Caetani, potendo benissimo trascorrerla nel
deposito di tessuti. Di certo in materia sono evidenti tentativi di depistaggio. Com’è altrettanto evidente che
le linee di comunicazione per eventuali trattative sulla testa delle BR potevano passare benissimo per quelle
che collegavano l’Hyperion alla CIA e delle quali facemmo cenno in precedenza.

1.12 Ulteriori elementi deducibili dalla gestione del Prigioniero

La gestione del Sequestro e in particolare del prigioniero da parte delle BR è in molti punti essa stessa spia
di un coinvolgimento di servizi segreti stranieri nell’ambito di una partita giocata sullo scacchiere
geopolitico internazionale. Questi elementi rafforzano l’ipotesi della pista rossa che da Via Fani porta al
Cremlino. Vediamoli sinteticamente.
L’intento dichiarato del Sequestro Moro per le BR era la dispersione e la distruzione della DC e
l’umiliazione del PCI. Già questo fa il paio con gli intenti sovietici e non certo con quelli statunitensi, che
avrebbero dovuto ambire al massimo al contrario207.

201
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, pp. 355-356. 388.
202
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, p. 392.
203
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, pp. 390-391; FORLANI, La zona franca, pp. 317-338.
204
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, pp. 387-388. 391; FORLANI, La zona franca, p. 245. 250.
205
FASANELLA-ROCCA, La storia di Igor Markevič, p. 388; FORLANI, La zona franca, p. 253.
206
FORLANI, La zona franca, pp. 253-286.
207
MONTANELLI-CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, p. 203; MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 57-60. 73-78.123-
126.
Le BR gestirono Moro come in una operazione di spionaggio. Lo processarono, lo interrogarono sui segreti
di Stato, presumibilmente lo registrarono e lo filmarono, gli fecero stendere un Memoriale in più versioni –
due note e almeno una primigenia che si suppone dalla comparazione filologica delle altre due 208 –
dichiararono di volerlo rendere pubblico e poi non lo fecero 209. Quei segreti evidentemente, almeno finché
Moro fu vivo, erano destinati a rimanere tali nell’interesse di una potenza straniera, che non poteva essere
che l’URSS. I capitoli più scabrosi del Memoriale, infatti, erano o relativi a segreti militari – di cui abbiamo
abbondantemente parlato- o a segreti politici, riguardanti specialmente la DC e in particolar modo
Andreotti210. Chi aveva in mano questi documenti poteva causare il tracollo del Governo, forse più usandoli
come mezzi di pressione occulta che rendendoli pubblici, perché in quel caso tutti avrebbero potuto smentirli
adducendo come pretesto le condizioni in cui Moro era stato costretto a scrivere. Evidentemente l’intento
delle BR non era tanto quello di svergognare il massimo esponente del “regime” DC, ma di minare alla base
la possibilità stessa della prosecuzione della Solidarietà Nazionale, decidendo esse – o i loro superiori
incogniti – cosa e quando e a chi far sapere le cose. Mi sembra, questa, una strategia spionistica e non
terroristica, come dicevo facente il paio con gli interessi sovietici, perché si presume che gli USA avrebbero
voluto danneggiare il solo PCI e non la DC né, tantomeno, il loro uomo di fiducia nel partito, ossia
Andreotti.
Le BR gestirono alla stessa maniera la corrispondenza di Moro. Delle novantasette morotee, decisero quali
lettere rendere pubbliche e quali no, anche a dispetto dell’autore. Anch’esse vennero usate per minare alla
base l’alleanza DC – PCI. Quando la prima missiva, che doveva rimanere riservata, fu resa nota 211 e lo stato
maggiore del PCI scoprì che Moro voleva che lo Stato trattasse con le BR, esso si schierò risolutamente
contro questa linea212, condizionando politicamente la DC. Sulla linea della fermezza si schierarono il PRI di
Ugo La Malfa (1903-1979), il PLI e il PSDI. La linea di Berlinguer era ovvia, essendo il PCI entrato in
maggioranza anche per sgominare il terrorismo – per tacere del fatto che quest’ultimo aveva simpatie in quei
settori del Partito più ostili al Segretario e vicini a Mosca- ma per la DC la situazione era diversa. Molti nel
partito erano affettivamente legati al prigioniero; Zaccagnini, Andreotti, Cossiga e gli stessi ministri erano ai
loro posti per scelta, indicazione, suggerimento e consenso di Moro. La linea stessa del partito era stata data
dal prigioniero, che era il Presidente DC. Quella linea era stata osteggiata e aveva molti nemici ancora nello
Scudo Crociato. Moro ora proponeva di scavalcare a sinistra il PCI e di intendersi con i terroristi. Si poteva
dedurre che le lettere del prigioniero avrebbero avuto un impatto divisivo non solo nel partito, ma nelle
coscienze stesse dei suoi maggiorenti. I democristiani ostili al Compromesso Storico ora potevano
considerare Moro una sponda e non a caso a loro il Presidente si rivolse in diverse lettere. I democristiani
favorevoli dovevano scegliere se seguire la politica di Moro sacrificando lui stesso, o salvarlo abbandonando
la sua politica. A rendere particolarmente scabrosa la questione era la modalità in cui Moro era stato rapito,
ossia massacrando senza misericordia tutti gli agenti della sua scorta , il maresciallo Oreste Leonardi (1926-
1978), l’appuntato Domenico Ricci (1934-1978), i vicebrigadieri di PS Raffaele Iozzino (1953-1978) e
Francesco Zizzi (1948-1978), la guardia Giulio Rivera (1954-1978). Chi avesse accettato l’invito moroteo
alla trattativa – mai accompagnato da alcuna parola di commiserazione per gli agenti morti per salvarlo –
avrebbe anche preso la responsabilità di disprezzare la loro sorte. Giulio Andreotti fu il più lucido
nell’avvertire l’errore, morale e politico, che era insito in una simile scelta se fosse stata fatta, così come fu il
primo a capire e a dire che la trattativa sarebbe stato il preludio alla distruzione dello Stato e della DC 213.
Appariva riprovevole a quasi tutti i commentatori l’idea di liberare alcuni terroristi, peraltro a richiesta, per
salvare il solo Moro dopo le modalità del suo rapimento 214. Una delle vedove dei caduti minacciò di darsi
fuoco se fosse stato liberato un solo brigatista, mentre il PCI minacciò di far cadere il Governo se questo
avesse adoperato vie informali per trattare con i terroristi, anche tramite la Croce Rossa o Amnesty
International215. Il modo in cui le BR usavano le lettere di Moro fu una sorta di stress test per la DC, che alla
fine fu vicinissima al cedimento, pur in una forma che poteva salvare la cooperazione col PCI. Non è dunque
arguibile che un simile modo di agire mirasse alla disarticolazione della maggioranza? Devo ripetermi
dicendo che, se la DC avesse ceduto, la sua credibilità sarebbe venuta meno e l’alternativa sarebbe stata una

208
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 429-485.
209
MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 137-140.
210
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 444-445. 487-490.
211
MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 113-117.
212
COSSIGA, La versione di K, pp. 120.
213
FRANCO, Andreotti , p. 140.
214
MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 141-144. 165-166.171-174.
215
COSSIGA, La versione di K, pp. 118-119. 121.
coalizione PCI PSI PSDI PRI, non avendo la Balena Bianca i voti sufficienti per governare con il PSI della
trattativa. Ora, una simile prospettiva, sottile e raffinata, sembra quella di un Istituto per gli Affari
Internazionali e non di un gruppo terroristico. Peraltro, era un obiettivo diametralmente opposto agli interessi
degli USA, della NATO, della DC e del PCI berlingueriano. Invece calzava a pennello alla strategia
sovietica, che avrebbe avuto al potere e da solo un PCI non ancora completamente trasformato da Berlinguer
in senso socialista e riformista.
Lo stesso Moro, in questa complessa partita, giocò un ruolo di difficile decifrazione. Chiese pateticamente e
risolutamente che si trattasse a suo favore 216, il che può essere ricondotto senz’altro alla condizione in cui si
trovava e permise a molti di considerare, con una certa facilità, inautentiche le sue lettere, non solo
moralmente ma anche stilisticamente217 . Infierì su coloro che non volevano trattare, così da giustificare il
timore politico legato ad una sua liberazione 218. Ma prese anche posizioni più articolate, che rivelavano una
grande presenza dello statista a se stesso 219 e nelle quali egli suggeriva linee di comportamento per la sua
liberazione, indicava persone e cose per realizzarle, muoveva accuse circostanziate (per esempio ai tedeschi
occidentali accusati di fomentare la linea dura dell’Italia), lanciava messaggi trasversali (a Paolo Emilio
Taviani, che condivideva con lui i segreti di Gladio e poteva farla intervenire) 220, attaccava o esortava
compagni di partito e addirittura teorizzava nuove maggioranze, pur sapendo, come dicevamo, che erano
impossibili nei fatti221. Delineava persino il suo futuro, chiamandosi fuori dalla politica e dimettendosi dalla
DC e dal suo gruppo parlamentare, chiedendo di essere trasferito a quello misto o ipotizzando il suo esilio
all’estero222. Aumentava e diminuiva il coinvolgimento emotivo nei suoi scritti a seconda della loro
utilizzazione. Insomma, usava le BR nello stesso modo in cui esse lo usavano, anche se in una ovvia
posizione di minorità. Riuscì anche, leggendo il Memoriale a posteriori, a centellinare le rivelazioni. Forse,
in anagrammi con scarto di lettera inseriti nelle sue missive, indicò pure i luoghi della sua detenzione 223.
Insomma giocava una partita complessa la cui posta in gioco era la sua stessa vita e i cui contorni
internazionali sembrava vedere meglio di chi era fuori dalla sua prigione, calibrando i toni sulla base delle
esigenze propagandistiche delle BR e cercando così di guadagnare tempo 224. Aveva capito che la posta in
gioco era l’assetto governativo e il suo stesso ruolo nella politica. Fatto assai significativo, non si rivolse
quasi mai al PCI e delineò sempre scenari che, sia pure senza le Botteghe Oscure, mantenessero la DC al
centro del sistema. Aveva senz’altro capito che chi aveva ordinato il suo sequestro voleva che il PCI non
governasse più con la DC, e si impegnava perché non lo facesse da solo, perché sarebbe stato il male minore
per i suoi veri sequestratori. Ossia continuava a fare una grande, complessa e contraddittoria politica, con una
intelligenza fine e con dei codici di comunicazione talmente sofisticati che non furono subito e
completamente compresi dai loro destinatari.
Anche le sue rivelazioni furono senz’altro meno esplosive di quanto avrebbero potuto essere. Lo statista, in
molti suoi documenti, scrive come chi ha capito che ha di fronte persone legate al potere sovietico,
interessate ai segreti dell’Occidente non in chiave antisistema ma nella logica della Guerra Fredda.
L’evocazione dello scambio di prigionieri come equivalente a quello tra spie tra Cile e URSS è in questo un
esempio assai eloquente, come la disponibilità a consegnarsi in un carcere italiano 225.
Non vanno poi dimenticate le manovre con cui incogniti personaggi cercarono, come abbiamo visto, di
portare gli inquirenti ai covi di Moro. Questo, specie quando si vide che la trattativa non aveva nessuno
spazio nella gestione ufficiale del Sequestro, apriva una serie di scenari che sono più diplomatici e spionistici
che terroristici. Un Moro liberato ed ostile a DC e PCI o un Moro morto durante un blitz erano due
circostanze che avrebbero aperto una crisi gravissima tra le forze politiche e in seno alla DC in particolare.
Un così grande fallimento sarebbe stato un motivo sufficiente perché Piazza del Gesù perdesse Palazzo Chigi
e forse uscisse dalla maggioranza. La stessa liberazione di Moro, pur se fosse avvenuta all’inizio della
vicenda, avrebbe immediatamente posto un problema di governabilità del Paese e causato presumibilmente
un ingresso prematuro del PCI nel governo, prematuro non solo per Piazza del Gesù, ma anche per il

216
MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 145-148. 159-164. 179-190.
217
MONTANELLI-CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, pp. 203-204. 207; MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 141-144.
218
MONTANELLI-CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, p. 211.
219
COSSIGA, La versione di K, pp. 120-121.
220
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 21-28.
221
FORLANI, La zona franca, pp. 88-95
222
MONTANELLI- CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, pp. 207-208; FORLANI, La zona franca, pp. 125-127
223
FORLANI, La zona franca, pp. 173-184.
224
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 503-507.
225
MONTANELLI-CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, p. 205; FORLANI, La zona franca, pp. 88-95-
principale inquilino delle Botteghe Oscure. Ora, questi complessi disegni politici, che erano tutti orientati ad
aprire la successione al Governo Andreotti, sembrano e furono spionistici e di alta politica, non di carattere
meramente terroristico.
La lunga detenzione di Moro è essa stessa una prova del fatto che il sequestro era eterodiretto. Innanzitutto,
chi avesse voluto solamente interrompere la collaborazione tra DC e PCI avrebbe ucciso Moro e basta, senza
sequestrarlo, e peraltro forse anche tempo prima. Invece quel rapimento cruento aveva rinsaldato
nell’immediato la collaborazione tra i due partiti di massa, evidentemente come preludio di una sostituzione
in corsa della DC da parte del PCI come perno della maggioranza 226. In quei cinquantacinque giorni stette
sulla graticola proprio quel partito che stoltamente si considera mandante del sequestro del suo uomo
migliore, Moro, e con essa quell’Andreotti sul quale si concentrano ancora oggi incomprensibilmente i
peggiori sospetti. Poi, proprio la durata della detenzione, l’intangibilità delle prigioni morotee, la libertà nella
distribuzione dei comunicati e nel recapito delle lettere, i movimenti del prigioniero in Roma e fuori della
città – probabilmente spesso nella rete fognaria - attesta che le BR godevano di una protezione che solo una
superpotenza straniera era in grado di offrire. Per quanto i servizi nostrani guardassero dall’altra parte, anzi
proprio per questo, le BR dimostravano di avere per se stesse protezioni potentissime, che non potevano
essere scoperte ufficialmente, pena conseguenze anche peggiori 227.

1.13La gestione del Secondo Ostaggio e la pista rossa

Anche la vicenda del Secondo Ostaggio ha un antefatto. Si tratta delle dimissioni del presidente della
Repubblica Giovanni Leone, sul quale, proprio nei mesi del Sequestro Moro, si concentrò una pubblicistica e
una campagna di stampa – partita da Pecorelli e da L’Espresso – che culminò nell’accusa rivolta al
Presidente di essere l’Antelope Kobbler dello Scandalo Lockheed. Cosa singolare, La Stampa invocò le
dimissioni di Leone e la sua sostituzione con Moro, allora prigioniero, che doveva essere supplito da Fanfani.
Come disse Andreotti, la campagna si sviluppò quasi improvvisamente, alla vigilia del semestre bianco, e
sembrò essere una delle mosse chiave per dare scacco matto alla DC e aprirne la successione. Berlinguer
sostenne il Presidente fino a dopo le elezioni amministrative del maggio giugno 1978, che perse. Per lanciare
un segnale al suo elettorato sulla diversità morale del PCI, il 15 giugno decise di appoggiare la richiesta di
dimissioni di Leone proveniente da più parti. In quelle circostanze la DC poteva scegliere: o far dimettere
Andreotti o smettere di sostenere il Presidente della Repubblica. Si optò per la seconda scelta e lo stesso
giorno Leone, rinunciando a un messaggio autodifensivo in TV, si dimise. Annoto che ancora una volta
l’obiettivo poteva essere la Solidarietà Nazionale, che fortunosamente sopravvisse, insediando in modo
compatto Sandro Pertini al Quirinale. Credo che, se queste dimissioni leonine fossero avvenute in
concomitanza con una fine diversa del Caso Moro (come ad esempio con un ostaggio ucciso durante un blitz
o libero e livoroso verso la DC), avrebbero avuto un impatto ancora più distruttivo sullo Scudo Crociato e,
quindi, avrebbero potuto favorire il disegno di un Governo delle sole sinistre caldeggiato dal KGB. Perciò,
data la coincidenza tra il Caso Moro e quello Leone, nonché data la presenza di mezzi di stampa invischiati
nella rete Mitrokhin nella campagna contro il Presidente della Repubblica, suppongo che dietro le quinte
dell’offensiva contro di lui ci fosse ancora una volta il servizio segreto sovietico, che magari aveva ripreso
notizie montate negli USA, prima che Moro fosse rapito 228. Come tutti sanno, Leone risultò poi
completamente innocente.
Ho espresso la personale convinzione che nella trattativa per Moro la questione del Memoriale non entrò.
Nulla nei dati a nostra disposizione ci permette di credere che le parti abbiano parlato di quelle carte. Sono
tuttavia convinto che gli investigatori, durante il sequestro, si misero a cercarle con più impegno di quanto
facessero con Moro – comprensibilmente - e che per questo evitarono di liberarlo prima di aver individuato
anche il luogo dove era conservato il Secondo Ostaggio, come lo chiamò Pellegrino. Non parliamo poi del
dossier di Martini, che è un capitolo ancora più nebuloso e che di certo non entrò nelle trattative note. Queste
potevano, se fossero andate in porto, creare un clima politico in cui quelle carte sarebbero state depotenziate,
ma ciò non avvenne ed esse rimasero a lungo come una bomba inesplosa. Il fallimento delle trattative su
Moro, tuttavia, permise agli inquirenti di dedicarsi alla ricerca delle carte in modo più tranquillo ed efficace.
Fu Carlo Alberto Dalla Chiesa che mise piede nel covo di Via Monte Nevoso 8 il 1 ottobre 1978, pochi
giorni dopo che il Memoriale vi era giunto da Firenze e prima che le BR iniziassero a redigere quegli
opuscoli che dovevano diffonderne il contenuto nell’opinione pubblica. Questa operazione, che avrebbe
226
MONTANELLI-CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, pp. 194-196; MASTRANGELO, La luna rossa, pp. 113-118.
227
TURI, Gladio Rossa, pp. 185-186.
228
MONTANELLI-CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, pp. 164-168. 215-222.
dovuto iniziare molto tempo prima, era stata interrotta essenzialmente per la volontà dell’STB, della STASI e
del KGB che sovrintendevano all’operazione. Ora il progetto di divulgazione riprendeva, evidentemente col
consenso dei servizi segreti dell’Est, dei quali i più vicini erano quelli cecoslovacchi. A chi sostiene che le
BR non abbiano divulgato il Memoriale, durante il Sequestro, solo per timore di massicci interventi ritorsivi
dello Stato, obietto che tali interventi non sarebbero mai potuti accadere se i terroristi, invece di annunziare
che Moro stava rivelando segreti politici, avessero messo tutti dinanzi al fatto compiuto cominciando a
diffondere le sue rivelazioni immediatamente. Il rischio dell’intervento dello Stato era dunque perfettamente
calcolato e non considerato tale da essere di reale intralcio.
Dalla Chiesa giunse a Milano avvalendosi di fonti talmente qualificate e riservate da spingere l’Arma a non
rivelare mai come veramente fosse entrata in possesso delle informazioni necessarie, nascondendo tutto
dietro tre versioni differenti. Sembra che le carte morotee fossero portate fuori dal covo per essere lette dal
Generale e censurate dal SISMI il giorno stesso del ritrovamento. I Carabinieri del Corpo Speciale rimasero
nell’appartamento fino al 5 ottobre, quando dovettero cedere il passo, per competenza territoriale, a quelli
della Divisione Pastrengo. In quei cinque giorni, a mio avviso, Dalla Chiesa ebbe il tempo di scoprire anche
il vano segreto della parete che nel 1990 avrebbe restituito il resto del Memoriale, in quanto appare difficile
credere che i suoi uomini facessero una perquisizione sommaria. Se qualcosa c’era dietro da allora, egli
dovrebbe averlo trovato. Dando per ammesso e non per concesso che c’era, chi subentrò al Generale
inventariò tutto il materiale del covo e quindi ebbe la responsabilità legale di aver nascosto una parte
importante del documento. Questo conflitto di attribuzioni e questo conseguente palleggiamento di
responsabilità nell’occultamento di documenti è stato attribuito alla volontà egemonica dei vertici della
Pastrengo, iscritti alla P2, ma mi sembra il caso di notare che anche Dalla Chiesa era iscritto alla Loggia, per
cui altri furono i motivi per cui essi insorsero, evidentemente ignoti 229.
Vi furono quindi due censure sul documento, delle quali la seconda è senz’altro la più importante, anche
perché pone alcuni interrogativi su chi poté conoscere il testo completo del Memoriale Moro, quello che
sarebbe uscito nel 1990, visto che la parte censurata dal SISMI fu, come di dovere, inviata ad Andreotti e al
nuovo ministro degli Interni Virginio Rognoni (1924-) e coperta provvisoriamente dal segreto di Stato. Si è
sostenuto, senza prove, che Dalla Chiesa portasse personalmente il dossier ad Andreotti e immediatamente;
peraltro, se fosse accaduto, sarebbe stato perfettamente logico e doveroso. Inoltre da subito iniziarono delle
fughe di notizie sul contenuto integrale del Memoriale ritrovato al di qua del pannello, su testate anche sotto
l’influenza sovietica, le quali cercavano di mettere in imbarazzo il Governo, ancora della Solidarietà
Nazionale, praticamente facendo, con più eleganza, quello che le BR non avevano fatto in tempo a fare. La
Repubblica fece questa campagna diversi giorni, per costringere l’esecutivo a pubblicare il testo, venendo
sostenuta da L’Espresso. In seguito, si asserì che la fuga di notizie era stata organizzata dal generale Enrico
Galvaligi (1920-1980), assassinato nel 1985 dalle BR, che quindi non poté né confermare né smentire. Non è
chiaro se questi avrebbe agito contro Dalla Chiesa o in accordo con lui e soprattutto perché avrebbe deciso di
agire in tale modo. Si è asserito che il Generale volesse opporsi al tentativo di censurare verità scottanti da
parte di Andreotti, ma rilevo che una simile fuga di notizie non sarebbe stato un semplice mezzo per
combattere un eventuale crimine (anche se di Stato), ma uno strumento per influire sul quadro politico, cosa
di cui Galvaligi non avrebbe potuto non essere consapevole. Analogamente, sarebbe stato da sprovveduti
credere che un uomo solo e qualche articolo di giornale potesse minare alla base un assetto politico che
nemmeno la morte di Moro aveva intaccato. Ragion per cui o Galvaligi si inserì consapevolmente in una
filiera che agiva contro il Governo e nella quale la sua era solo una delle azioni previste nel quadro di un più
ampio piano, o non fu lui a dare quelle carte alla stampa. Dato che la prima ipotesi implicherebbe la
vicinanza del Generale all’STB e a servizi stranieri o a gruppi sostanzialmente contigui alle BR, che però lui
sempre combattè e che poi lo uccisero, propendo per la seconda.
In ogni caso, mi sembra molto evidente che il KGB, manovrando la stampa, volesse continuare la politica
contro il Governo Andreotti, questa volta colpendo lui stesso. Il gruppo editoriale Espresso – Repubblica era
sempre stato favorevole al Compromesso Storico, ma voleva la sterzata a sinistra che la morte di Moro aveva
bloccato e che, a conti fatti, poteva essere di preludio a un governo di sole sinistre o senza sinistre, come poi
avvenne. Ma, come registrò Mino Pecorelli il 31 ottobre, l’effetto sperato – anche da lui che aveva
cominciato a parlare delle indagini di Dalla Chiesa dal 31 agosto – non era stato raggiunto. Il Governo infatti
aveva parato il colpo grazie ad un aiuto provvidenziale, facendo la pubblicazione ufficiale il 17 ottobre, il
giorno dopo l’elezione di Giovanni Paolo II (1978-2005) e quindi in un cono d’ombra mediatico. Anche
Licio Gelli si interessò della campagna di stampa in corso, per quale scopo non sappiamo, come non
sappiamo se le carte occultate, sia nella prima che nella seconda eventuale censura, gli siano state consegnate
229
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 49-94.
dai suoi mandatari, né se egli, qualora le ebbe, le usasse nell’interesse della NATO o dell’URSS 230. Dato
quello che accadde dopo, propendo per la seconda ipotesi.
In questo contesto si collocò l’azione di Mino Pecorelli. Egli, che dal 1977 combatteva una battaglia
accanita contro Andreotti – e che in quell’anno aveva sollevato la questione degli assegni del Presidente –
fino al 24 ottobre scrisse una serie di articoli che facevano importanti rivelazioni sul Sequestro Moro e che
noi abbiamo spesso citato. Il giornalista conosceva bene anche il Memoriale e diverse notizie non riportate in
esso nelle versioni a noi note. Questi articoli pongono due problemi: le fonti e gli scopi. Essi erano
generalmente polemici con Andreotti ed essendo Pecorelli uomo legato ai servizi segreti, alla P2 e a Dalla
Chiesa, si è pensato che sia stato usato da tutti costoro o da alcuni di essi proprio per colpire il Divo Giulio.
Ma, aggiungo io, se Andreotti fosse stato danneggiato politicamente, quale prospettiva politica si apriva se
non quella di una crisi della maggioranza della Solidarietà Nazionale? Il che mi lascia supporre che Pecorelli
sia stato usato non da Dalla Chiesa in una improbabile lotta personale contro Andreotti, scoperto
improvvisamente corrotto e pericoloso dopo una lunga dimestichezza, ma, sin dal 1977, da agenti segreti
infedeli allo Stato che tramavano rivolgimenti politici perfettamente coincidenti con gli interessi sovietici del
momento. Essi nel 1978, dopo la morte di Moro, coincidevano con una stabilizzazione del sistema italiano e
con il ritorno del PCI all’opposizione. Avrebbe mai potuto quel partito continuare a governare con la DC se
avesse scoperto che Andreotti era un poco di buono? In quel contesto di diminuzione dei consensi non
avrebbe nemmeno potuto ambire a succedere alla DC, ma sarebbe stato costretto ad andarsene
all’opposizione. Tuttavia qualcosa accadde, perché Pecorelli ad un certo punto sposò la linea governativa,
quasi che qualcuno gli avesse fatto aprire gli occhi sulla verità o lo avesse convinto a cambiare bandiera. Le
sue fonti ora erano quelle parti dei servizi non infeudati alla P2, come il colonnello Antonio Vezzier. Si
avvicinò alla corrente di Andreotti, dal mese di gennaio 1979 cominciò a scrivere nuovamente sul Caso
Moro annunciando una serie di reportage per raccontarlo e pose mano ad una serie di articoli che
denunciavano il ruolo di agente doppio di Licio Gelli (2 gennaio, 20 febbraio e 20 marzo 1979). In
quest’ultimo giorno venne ucciso e una telefonata anonima avvisò la Procura di Roma che il mandante era
stato Gelli (che sarebbe stato processato e prosciolto dall’accusa nel 1991) 231. La stessa stampa che abbiamo
visto all’opera sul Memoriale montò una campagna di insinuazioni che legavano la morte di Pecorelli non
agli attacchi a Gelli, ma a quelli degli ultimi mesi ad Andreotti che, diversi anni dopo, venne accusato di
averlo fatto uccidere per la questione degli assegni che però il giornalista aveva divulgato dal lontano 1977.
La vendetta andreottiana sarebbe quindi stata piuttosto tardiva. Dopo un lungo processo, il Senatore a vita fu
assolto.
Era dunque Andreotti sotto attacco, come ultimo epigono della politica di Moro, dall’ottobre 1978 al marzo
1979. Quando Pecorelli fu assassinato, la Solidarietà Nazionale era già finita, e per un motivo molto serio,
l’adesione dell’Italia allo SME. Osteggiata da un Berlinguer che andava irrigidendosi dottrinalmente e
politicamente per fronteggiare l’opposizione interna del suo partito e del suo elettorato alle sue scelte
eurocomuniste, quella adesione era stata tuttavia fatta dal Governo nel rispetto della tempistica stabilita dalla
CEE per le forti pressioni della Francia e della Germania. Quando però lo SME doveva partire, ossia il 1
gennaio 1979, i francesi annunciarono con disinvoltura il differimento per ragioni legate alle loro necessità
politiche. Di certo non si trattava di una questione pretestuosa e fu il PCI, non la DC, a fare inversione ad U
nella politica internazionale, ma non credo di sbagliare se dico che le nazioni partner vollero contribuire a
far crollare il Governo della Solidarietà Nazionale. In esso non furono ammessi ministri comunisti, che
Berlinguer chiese sapendo che non avrebbe ottenuto per il suo cambiamento di politica sulla CEE. L’effetto
fu raggiunto e Andreotti varò il suo V esecutivo, che serviva per preparare le elezioni ed era formato da DC
PRI e PSDI. Andreotti varò il Governo il giorno stesso dell’assassinio di Pecorelli 232. Se il mandante
dell’omicidio fosse stato lui, il giorno scelto sarebbe stato molto infelice. Più probabile invece che il
mandante fosse Licio Gelli, il quale evidentemente faceva una politica completamente opposta a quella di
Andreotti nell’interesse dell’URSS. Lo statista romano sarebbe stato in panchina un’intera legislatura, perché
per tutti rimase a lungo l’uomo dell’alleanza col PCI, mentre ora stava sorgendo l’astro del Pentapartito.
Il 23 febbraio 1982 il generale Dalla Chiesa fu ascoltato dalla Commissione Moro, alla quale attestò
costernato che non vi era alcuna traccia dell’originale dattilografato del Memoriale, che le forze dell’ordine
avevano rinvenuto in seconda battitura, né tantomeno di quello autografo, in nessun covo, e che nessun
230
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 95-133.
231
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 223-250; G. ANDREOTTI, A non domanda rispondo, Rizzoli Milano 1999,
pp. 94-103. 203-204
232
MONTANELLI-CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, pp. 250-260; ANDREOTTI, Diari 1976-1979, pp. 295. 307-312.
320.
brigatista forniva notizie in questo senso. Ne dedusse che l’originale era stato recepito da qualcuno e
ricevette l’accondiscendente approvazione del deputato PR Leonardo Sciascia, primo assertore, come
vedemmo, della pista cecoslovacca. Il 3 settembre il Generale, mandato dal presidente del Consiglio
Giovanni Spadolini (1925-1994) e dal ministro degli Interni Virginio Rognoni a fare il Prefetto di Palermo
senza particolari poteri – nonostante l’opposizione politica pro domo sua di Andreotti – fu assassinato da
Cosa Nostra. La sua cassaforte personale fu aperta e svuotata. Pecorelli, lo abbiamo visto, aveva ipotizzato
nel 1978 che, se Dalla Chiesa fosse stato ucciso, sarebbe avvenuto perché conosceva la ragione politica
internazionale della morte di Moro. Erano tuttavia passati alcuni anni e nulla era successo, evidentemente per
la discrezione del Generale. Poi, e sino ai tempi nostri, si è sostenuto che Dalla Chiesa si fosse impegnato in
una lotta politica contro Andreotti, da lui considerato pericoloso, e che volesse distruggerlo facendo venire
alla luce il Memoriale di Moro, nella forma più completa a sua disposizione. In questa battaglia egli avrebbe
avuto come alleato Pecorelli ed avrebbe persino tentato di fare arrivare alle BR in carcere quel testo tanto
prezioso, prima che il giornalista morisse 233. Personalmente ritengo assai poco fondati questi ultimi racconti
e, se anche lo fossero, varrebbero per essi le riflessioni fatte sulla presunta fuga di notizie orchestrata da
Galvaligi. Mi pare inoltre assurda l’idea che il Generale abbia pensato che le BR potessero usare, per la loro
propaganda politica, peraltro in un penitenziario, documenti di dubbia origine. Inoltre aggiungo che, una
volta che Andreotti aveva smesso di fare il Presidente del Consiglio, Dalla Chiesa avrebbe potuto più
facilmente raggiungere l’obiettivo di distruggerlo, semplicemente offrendo i documenti che aveva ai suoi
nemici politici, in Italia o all’estero. Del resto il processo per mafia ad Andreotti ha appurato che egli non fu
il mandante dell’assassinio del Generale. Cosa Nostra aveva, al momento del suo omicidio, già tanti motivi
per ammazzare Dalla Chiesa, ma se proprio vogliamo ipotizzare che il Generale Prefetto conservasse copia
del Memoriale Moro, come parve probabile anche a Cossiga 234, che essa fosse nella cassaforte di Palermo e
che l’omicidio del Generale servisse a recuperarla, chi avrebbe voluto omicidio e furto dovrebbero essere le
stesse persone che avevano recepito gli originali e che così ne avrebbero mantenuto il monopolio esclusivo.
Mentre Andreotti aveva, al massimo, le copie coperte dal segreto di Stato. Invece dal 1979 al 1993, anno in
cui il Senatore a vita andò sotto processo anche come mandante del duplice delitto Pecorelli - Dalla Chiesa,
qualcuno imbastì una trama che voleva scaricare su di lui la responsabilità di aver occultato quei documenti
che Moro aveva concepito, sotto la minaccia brigatista, proprio per far cadere il Governo della Solidarietà
Nazionale e che quindi, dopo la fine di quell’esperienza politica, non servivano più a quello scopo, ma
evidentemente ad altri sì. La morte di Enrico Berlinguer, avvenuta il 7 giugno 1984, garantiva con tanta
sicurezza che essa non sarebbe tornata, che apparve persino sospetta ad alcuni 235.
Per questo motivo, secondo me quegli originali stettero quieti laddove le BR li avevano depositati, ossia in
Cecoslovacchia, in tutti quegli anni in cui in Italia si tramava. Questo è del resto anche il parere di Giovanni
Pellegrino236. Quelle carte, attraverso la rete della PSSS, arrivarono all’STB, che le custodì, quale pegno e
garanzia che in Italia non si sarebbe ripetuta una esperienza di Solidarietà Nazionale.
La prova di ciò viene da quello che accadde nel 1990, quando i regimi comunisti erano crollati e i loro
servizi erano stati aboliti. Nell’ambito dell’inchiesta sulla Strage di Peteano il pubblico ministero Felice
Casson (1953-) si era avvicinato molto a scoprire l’esistenza della Stay Behind. Il presidente del Consiglio
Giulio Andreotti gli aveva concesso di visionare alcune carte di Forte Boccea il 27 luglio. Il 2 agosto il
deputato DP Luigi Cipriani (1940-1992), nel corso di un dibattito parlamentare sulla sentenza sulla Strage di
Bologna, parlò dell’esistenza di una organizzazione segreta alle dipendenze del SISMI, i cui membri erano
addestrati in Sardegna a Capo Marrargiu. Non si è mai saputo chi diede a Cipriani questa notizia (anche se si
può sospettare di Ravasio che egli conosceva), perché il combattivo parlamentare morì stroncato da un
infarto prima che qualunque giudice potesse convocarlo, ma la Sinistra Indipendente presentò subito in
Parlamento un’nterpellanza sull’argomento. Il giorno dopo Andreotti preannunziò alla Commissione Stragi
una relazione completa, affermando che l’organizzazione appena scoperta serviva alla difesa del Paese e
aveva cessato di funzionare nel 1972. Quest’ultima affermazione era falsa, in quanto Gladio era ancora
ufficialmente attiva. Il Presidente si prese sessanta giorni di tempo per presentare la relazione. L’11 ottobre,
casualmente, il padrone dell’appartamento di Via Monte Nevoso 8 a Milano – finalmente dissequestrato –
trovò altre lettere di Moro e una parte mancante del Memoriale, rimuovendo il pannello parietale di cui
facevamo cenno prima. Il 18 ottobre Andreotti presentò, come ho anticipato, una relazione intitolata “Il
233
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 255-277.
234
COSSIGA, La versione di K, pp. 123-124.
235
TURI, Storia segreta del PCI, pp. 32 ss..
236
G. FASANELLA- C. SESTIERI- G. PELLEGRINO, Segreto di Stato. La verità da Gladio al Caso Moro, Einaudi, Torino
2000, pp. 200-201.
cosiddetto SID parallelo- Il Caso Gladio”, che però si fece restituire cinque giorni dopo per fornirne un’altra,
il 24 ottobre, mancante di due pagine. I commissari chiesero il reintegro della documentazione mancante e il
Presidente lo concesse, purché i supplementi rimanessero segreti 237. L’Italia scoprì così l’esistenza di Gladio,
di cui anche il Memoriale intero, appena ritrovato, parlava. Iniziò un aspro dibattito sulla legalità della Stay
Behind e sulle sue connessioni col Caso Moro. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in quei
giorni ad Edimburgo, chiese al PCI, che cavalcava l’onda, di attendere il suo ritorno per avere da lui stesso le
necessarie delucidazioni. Ma Botteghe Oscure coinvolse anche il Presidente nella polemica e da questo
momento Cossiga difese a spada tratta l’organizzazione come legale e ne attribuì la paternità a se stesso e a
Moro. L’8 novembre Andreotti prendeva anche lui posizione al Senato sulla struttura, definendola legale,
divulgando i nomi di seicentoventidue gladiatori e riservandosi di fornirne altri al COPACO – cosa che non
fece mai. Il 27 novembre la Gladio fu sciolta, mentre infuriava la polemica contro Cossiga, capeggiata dal
PCI e dalla stampa di sinistra, specie L’Unità e La Repubblica, e in cui fu molto attivo Armando Cossutta.
Nello stesso mese la Procura di Roma aprì un procedimento contro ignoti per il ritrovamento della carte di
Moro. Il 5 dicembre il Consiglio di Gabinetto decise di rendere pubblici i nomi dei seicentoventidue
gladiatori italiani. Ne derivò una polemica fortissima con Cossiga che minacciò le dimissioni, poi rientrate.
Nel frattempo DP chiese l’impeachment del Presidente della Repubblica. La richiesta fu respinta dal
Comitato Parlamentare, mentre il 26 febbraio 1991 Andreotti presentò alle Camere una nuova relazione più
dettagliata, che dimostrava che la Stay Behind non aveva mai partecipato ad attività eversive e corredata dal
parere di legittimità costituzionale dell’Avvocatura Generale dello Stato. Il 4 marzo anche il COPACO diede
parere analogo. Il 10 ottobre l’inchiesta di Casson, che nella sua sentenza di incompetenza giudicò Gladio
illegale, passò alla Procura di Roma. Andarono sotto inchiesta Paolo Inzerilli e Fulvio Martini. Il 21
novembre Cossiga si autodenunciò polemicamente per il suo ruolo nella Stay Behind. Il 3 febbraio 1992 la
Procura trasmise gli atti, per incompetenza, al Tribunale dei Ministri, con una sentenza che smontava quella
di Casson. Il 22 aprile invece, a Camere sciolte, il presidente della Commissione Stragi Libero Gualtieri
(1923-1999), di estrazione partigiana comunista, presentò una relazione fortemente critica sulla Stay Behind,
passata col voto favorevole di soli quattordici commissari su quarantuno. L’8 luglio 1994 la posizione di
Cossiga fu archiviata dal Tribunale dei Ministri e il procedimento sui militari fu rinviato alla Procura di
Roma, pur riconoscendo la legittimità della struttura di Gladio. Il 9 luglio 1997 la posizione di Martini e
Inzerilli fu archiviata. Il 3 luglio 2001 la Corte d’Assise di Roma chiudeva un secondo procedimento sui due
ufficiali assolvendoli con formula piena e confermando la legalità di Gladio e delle sue azioni 238.
Come si vede, il Caso Gladio, poi conclusosi in un nulla di fatto, affiorò misteriosamente, venne amplificato
enormemente dalla riscoperta del Memoriale Moro e fu uno strumento di lotta politica che servì non poco ad
accelerare il declino della DC, colpendo in modo particolare Francesco Cossiga. A questa lotta parteciparono
molte di quelle forze – politiche e mediatiche – che nel Caso Moro o erano contro la Solidarietà Nazionale o
erano infiltrate dai servizi segreti orientali. Ma il Memoriale non servì solo a questo.
Nel maggio 1990 il giornale cecoslovacco Ludovè Noviny rivelò l’esistenza di una rete di ex partigiani
comunisti italiani operante clandestinamente nel nostro Paese e la sua dipendenza dall’STB; divulgò i nomi
degli iscritti tra cui vi erano illustri esponenti del PCI. Il 31 maggio 1991 L’Europeo svelò l’esistenza, la
struttura e le attività della Gladio Rossa. Il 20 giugno la Gazzetta del Sud svelò la storia della PSSS. Nel
maggio, due camion di documenti e di armi della PSSS furono fatti sparire, come dicevamo, dalle Botteghe
Oscure. Nello stesso mese i numeri 13, 14 e 15 del periodico cecoslovacco Rude Pravo pubblicarono i nomi
dei quindicimila agenti esteri dell’STB, tra cui vi erano molti italiani. In seguito a ciò iniziò l’inchiesta della
Procura di Roma sulla struttura, conclusasi il 6 luglio con l’archiviazione. Nel 1998 la Commissione Stragi
prese ad indagare sulla Gladio Rossa. Nel 2000, tra le diciotto relazioni finali, la stessa Commissione
pubblicò quella di Gianni Donno (1948-), che illustrava le attività illegali dell’organizzazione e che fu
spedita alla Procura di Roma per una nuova inchiesta, chiusa anch’essa con una archiviazione nel 2002. Il
tema della Gladio Rossa come quello della Stay Behind nel Caso Moro sono stati affrontati dalla
Commissione Mitrokhin dal 2002 al 2006. Una importante relazione sul tema fatta a questa Commissione è
secretata dal 2012.
Se si guardano le date, si nota una sovrapponibilità delle rivelazioni sulle due strutture, anche se l’eco
politica e mediatica di quella su Stay Behind fu molto più forte, anche grazie alla riscoperta del Memoriale
Moro, di poco posteriore all’inizio di entrambe le vicende. Se a questo aggiungiamo che nei Processi
Andreotti, il Memoriale servì ad imbastire l’accusa degli omicidi di Pecorelli e di Dalla Chiesa, vediamo che
quel documento servì a due scopi: distruggere la DC e salvare il PCI (anche se con nomi diversi), nella sua
237
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 135-188.
238
PANNOCCHIA- TOSOLINI, Gladio, pp. 56-97.
componente stalinista. Nel 1990 avvenne cioè quello che sarebbe dovuto accadere nel 1978 se le BR
avessero divulgato il Memoriale, o durante o dopo il sequestro. Un’operazione anche questa di intelligence
che però era stata sospesa e impedita, e che ora ricominciava per motivazioni tutte interne all’Italia, ma non
senza un coinvolgimento straniero, determinante per il ritrovamento del Memoriale. Come infatti l’apertura
degli archivi cecoslovacchi fu decisiva per il recupero della documentazione sulla PSSS, così lo fu per il
rinvenimento del Memoriale completo o, quanto meno, per l’individuazione del suo nascondiglio. Nell’uno e
nell’altro caso, chi volle il ritrovamento lo volle per le ragioni che abbiamo appena illustrato, e siccome a
conoscere il nascondiglio del Memoriale erano solo le BR e i servizi segreti italiani e stranieri, essendo le
prime impossibilitate ad agire e non essendo i secondi interessati al rinvenimento, solo ai terzi poterono
rivolgersi coloro che erano interessati a che avvenisse. Costoro, ossia gli esponenti della frangia estrema del
PCI, costituirono l’ambiente da cui vennero fuori le informazioni a Cipriani, magari tramite qualche finto
confidente corrotto. Furono essi, evidentemente, a far ritrovare il Memoriale Moro in Via Monte Nevoso.
Furono ancora loro, come si è visto, ad usare i documenti in un modo tale da screditare gli avversari politici e
avvantaggiare se stessi. L’apertura degli archivi cecoslovacchi e la grande quantità di materiale in essi
contenuto, unita alla contiguità delle BR alla PSSS e all’STB fanno si che, con un margine molto alto di
probabilità, proprio in essi quei comunisti italiani a cui ho fatto cenno poterono facilmente trovare le
informazioni di cui avevano bisogno. Riflessione, questa, che fa il paio con quelle che ci hanno indotto a
credere che le BR consegnassero a Praga gli originali degli scritti di Moro. Probabilmente c’erano copie del
Memoriale in più covi brigatisti, da Via Gradoli – dove avvenne uno strano furto l’8 ottobre 1978, che
smontò un cassettone degli avvolgibili lasciando intatti gli altri 239- a Firenze e a Milano stessa. Da qui
poterono partire tranquillamente, prima che il laccio di Dalla Chiesa si chiudesse su Via Monte Nevoso.
Vale la pena di concludere dicendo che l’idea di un ritrovamento del Memoriale per opera occulta di
Andreotti o Craxi, ai fini di ingraziarsi il PCI ed ottenerne i consensi per l’elezione al Quirinale è
semplicemente assurda, come dimostra il fatto che, nella stagione degli scandali così apertasi, i due politici
caddero senza che Botteghe Oscure, candidate a succedere al PSI e alla DC nella guida dello Stato,
muovessero un solo dito per aiutarli, anzi cavalcando l’onda contro di loro. Questo risultato era
perfettamente prevedibile, soprattutto da personaggi avveduti come Andreotti e Craxi, che quindi non
avrebbero mai concepito un piano tanto ingenuo. Vanno invece rilevati altri due elementi: che, nonostante
l’URSS fosse caduta e il KGB fosse stato diviso in FSB e SVR, la Federazione Russa, tramite il GRU,
continuò a mantenere la sua rete all’estero, compresa l’Italia, con i relativi referenti; che la tecnica degli
omicidi di Pecorelli e di Dalla Chiesa, nonché della creazione dello Scandalo Gladio sembra una
trasposizione di quella che in gergo è chiamata balayeur, ossia un crimine in cui, oltre alla vittima, è uccisa
anche un’altra persona spacciata per carnefice 240. In questi casi si tentarono l’assassinio morale e politico di
Andreotti, Cossiga e della DC. Con un successo ritardato di dodici anni.

CAPITOLO II
La Repubblica Italiana tra Moro, le BR e l’URSS

Quando il Presidente DC fu sequestrato l’Italia non era ancora ufficialmente uscita dalla crisi di governo più
grave del Dopoguerra. In quella fase già complessa che è il triennio 1976-1979, segnalo alcune tappe che
aiutano a capire il clima in cui nacque il Caso Moro.
Questi si dimise da Presidente del Consiglio il 30 aprile 1976, aprendo la strada ad elezioni anticipate. Il 20
e 21 giugno gli Italiani diedero il 38,7% alla DC e il 34,1% al PCI, così che qualunque maggioranza avrebbe
dovuto almeno indirettamente associare i due Partiti. Moro il 7 luglio chiese ad Andreotti di assumere la
Presidenza del Consiglio perché, anche se la DC si era impegnata a tenere fuori i comunisti dal Governo,
almeno la loro neutralità era indispensabile per uscire da una situazione difficile e per avere la collaborazione
dei socialisti. Questo però sarebbe stato possibile solo se a presiedere l’esecutivo fosse stato un uomo non

239
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 181-182.
240
DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, pp. 182-183. 185-186.
appartenente alla Sinistra DC e apprezzato dai Paesi alleati e dalla Chiesa. Andreotti accettò. Se egli, come
alcuni incautamente sostengono, avesse voluto boicottare il progetto moroteo, avrebbe dovuto solo rifiutare
la designazione. Da questo momento Moro e Andreotti divennero la mente e il braccio di un medesimo
progetto politico. Al Presidente incaricato Berlinguer, in un incontro riservato, disse che il PCI non avrebbe
votato la fiducia ma, se gli fosse stata chiesta esplicitamente, avrebbero concesso l’astensione. Nacque così
quel III Governo Andreotti, monocolore, di cui abbiamo parlato, che contava sull’astensione di tutto l’arco
costituzionale. Il Presidente del Consiglio dichiarò a Le Monde il 2 marzo 1977 che quella era l’unica
formula possibile e che apprezzava l’europeismo, l’atlantismo e l’apertura al libero mercato del PCI, pur
mantenendo una certa diffidenza.
Un grave ostacolo sulla strada del Governo fu il dibattito dal 3 al 10 marzo 1977 sullo Scandalo Lockheed a
Camere riunite. Era questo uno strumento destabilizzante sulla cui ambivalenza ci siamo già dilungati.
Superato lo scoglio, per iniziativa del PCI fu redatto un accordo programmatico che fu approvato alla
Camera il 12 luglio. Questo cambiò profondamente la fisionomia del Governo Andreotti. Quindi è un dato di
fatto che, almeno da allora, lo Scandalo Lockheed avvantaggiò il PCI, anche se non sappiamo con quanta
consapevolezza degli inquilini di Botteghe Oscure. Al Presidente del Consiglio il Segretario del PCI aveva
confidato che la contrattazione del programma gli era indispensabile per bilanciare le insidie dei sovietici e
dei filosovietici. Berlinguer sapeva che l’astensione gli avrebbe fatto perdere consensi e aveva bisogno di
successi concreti per liberarsi dalla tutela di Mosca. Analisi, questa, di incalcolabile importanza per capire il
contesto storico-politico del Caso Moro. Questi, dal canto suo, il 24 luglio, in una riunione correntizia ad
Atri, individuò negli accordi programmatici uno strumento per spingere il PCI a proseguire nella sua
revisione ideologica e confermare la DC nel suo progetto di riaffermazione popolare.
Tuttavia questi equilibri non potevano durare a lungo e Berlinguer il 23 ottobre a Napoli chiese un governo
con la piena partecipazione del PSI e del PCI. Per bilanciare la richiesta, nel discorso pronunciato a Mosca il
2 novembre per il sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre rilanciò la sua svolta
eurocomunista. Prese poi pubblica posizione per la libertà religiosa e il 1 dicembre votò in Parlamento una
risoluzione di maggioranza che definiva la NATO il termine fondamentale di riferimento della politica
italiana. Cosa, questa, che non piacque a Mosca e particolarmente al GRU.
I primi mesi del 1978 furono i più difficili. Il PCI premeva oramai da diversi mesi per entrare ufficialmente
in maggioranza, mentre vi erano forti resistenze in tal senso all’interno della DC. Gli altri partiti, eccettuato
quello liberale, avevano una sofferta comprensione per le istanze berlingueriane e chiedevano almeno che si
superasse il monocolore con una maggioranza più ampia che le altre forze politiche potessero sostenere
anche con l’astensione. Il 16 gennaio 1978, in conseguenza delle spinte comuniste, Giulio Andreotti si
dimise. Il giorno dopo, nella plenaria del Gruppo DC al Senato, moltissimi espressero la loro contrarietà
all’ingresso del PCI in maggioranza a pieno titolo. Il 19 gennaio il presidente Leone conferì ad Andreotti
l’incarico di formare il nuovo Governo, non essendoci preclusioni contro di lui da parte di nessuno. Lo
avvisò però che in caso di fallimento, non avrebbe potuto sciogliere le Camere e che quindi sarebbe toccato
ad altri subentrargli, forse anche ad un laico, che ovviamente avrebbe composto maggioranze potenzialmente
molto diverse. Il 23 gennaio Andreotti, parlando ai Gruppi parlamentari DC riuniti, ammonì che la crisi
doveva risolversi mantenendo centrale il ruolo della DC, perché diversamente la problematica si sarebbe
spostata dalla questione dei programmi a quelle delle formule, così da costringere lo Scudo Crociato
all’opposizione o a ridimensionarlo. Era una difesa della collaborazione col PCI. Il 26 gennaio Berlinguer, al
Comitato Centrale del partito, respinse l’ipotesi di una maggioranza senza la DC e di tutte le sinistre (PRI
PSDI PSI PCI) e rilanciò la formula della collaborazione di tutte le forze democratiche. Il 30 gennaio La
Malfa rilanciò la proposta, affermando che bisognava concordare una nuova formula politica e dopo definire
i programmi. L’idea di una coalizione DC-PRI piaceva forse al PCI, ma il PSI e il PSDI erano contrari. Il 1
febbraio Flaminio Piccoli disse chiaramente al Direttivo del Gruppo DC alla Camera che non riteneva che il
PCI potesse entrare a pieno titolo in maggioranza, perché la base non avrebbe capito. Ricordava poi che solo
l’unità della DC, che su una simile scelta poteva dividersi, avrebbe garantito la democrazia del Paese. Il 2
febbraio Moro espresse il desiderio di aggregare il PCI alla maggioranza facendo deliberare in tal senso il
Consiglio Nazionale, ma i Capigruppo obiettarono che una simile svolta poteva decidersi solo in un
Congresso. Il giorno dopo, la Direzione Nazionale della DC dichiarò che non si poteva fare maggioranza col
PCI, ma che Andreotti avrebbe potuto proseguire sulla base di un programma concordato. Il 12 lo SDECE
avvisò di una possibile azione terroristica in Italia, ma in questo caos una simile notizia non poteva essere la
priorità. Il 16 febbraio Moro incontrò Berlinguer e gli promise che avrebbe lavorato per convincere i Gruppi
Parlamentari. Il giorno dopo arrivò l’informativa di Giovannone dal Libano e si affiancò alle problematiche
politiche imminenti. In quella stessa data si incontrarono le delegazioni DC PCI PSI PSDI PRI PLI. Moro
difese le ragioni della DC e del suo elettorato impegnandosi a fondo, presentando il suo partito come
garanzia della democrazia in Italia. Chiedeva e dava rispetto. Ottenne il plauso di tutti, con Andreotti, Piccoli
e Berlinguer in testa. Il 20 febbraio Moro spiegò a Giovanni Galloni (1927-) che il Governo in formazione
sarebbe stato di emergenza e transizione. Dopo che si fosse governato tutti insieme, arrivando anche ad una
ulteriore tappa con ministri di tutti i colori politici, i partiti avrebbero dovuto dividersi in due blocchi per
l’alternanza democratica: DC e partiti di centro da un lato e PCI dall’altra. Il 18 febbraio, intervistato da La
Repubblica, il Presidente DC disse un chiaro no al consociativismo e al Compromesso Storico stabile: la
Balena Bianca non avrebbe governato per sempre con la Falce e Martello. Il 22 febbraio la DC decise di
affrontare la questione dell’inserimento del PCI in maggioranza in una conferenza congiunta dei Gruppi
parlamentari e non nel Consiglio Nazionale. Il dibattito iniziò il 27 febbraio e durò sino al 1 marzo. Quando
Andreotti prese la parola, sostenendo la linea di Moro, fu duramente attaccato dai dorotei, dai fanfaniani e da
Forze Nuove. Per la DC, Andreotti e Moro erano la stessa cosa, anche se il secondo aveva una capacità di
sintesi che il primo non aveva. Così ancora Moro, il 28 febbraio, dovette chiedere un Governo di tregua,
innanzitutto dalle faide correntizie della DC e poi tra i partiti. Il giorno dopo fu approvato un documento che
esprimeva la nuova linea, pur concedendo tutto il possibile a chi l’aveva osteggiata. I testimoni affermano
che Moro, vincitore, era perplesso su quanto da lui stesso congegnato, a dimostrazione della complessità del
momento. L’8 marzo si riunì il tavolo della maggioranza, da cui uscirono i liberali. Il 13 marzo L’Unità
espresse riserve sulla lista dei ministri, di cui molti erano anticomunisti e che rappresentavano tutte le
correnti DC. Il 15 marzo, di notte, Moro si appellò a Berlinguer perché non ponesse pregiudiziali sulla lista
che era immodificabile. Il giorno dopo, prima del voto, Moro fu rapito 241. Questo, ovviamente, come
dicevamo, congelò ogni possibile crisi e facilitò la fiducia all’Andreotti IV.
Nei cinquantacinque giorni del Sequestro Moro il Governo italiano, consapevole della posta in gioco e a
conoscenza di molti – anche se non di tutti - retroscena, modulò le proprie reazioni sulla base di ragioni
eminentemente politiche, nazionali e internazionali. La linea ufficiale fu quella della fermezza, interpretata
anche come immobilismo, per mantenere il precario equilibrio tra i Partiti della coalizione e le loro
componenti interne. L’unica eccezione fu il mandato, presto ritirato per la delusione della DC e
l’opposizione del PCI, all’avvocato ginevrino Denis Payot (1942-1990), entrato come mediatore anche nel
Sequestro Schleyer con la RAF, evidentemente con scarso successo dato il modo con cui si era concluso 242.
Ma ufficiosamente, come si è visto, si trattò, e molto, all’interno di una partita la cui posta in gioco era la
sovranità stessa dell’Italia.

2.1 L’atteggiamento delle istituzioni e dei Partiti

La linea del Governo, quella ufficiale, non ammise mai palinodie. Non appena Moro fu rapito, Andreotti
affidò la gestione politica della crisi al Comitato Interministeriale per la Sicurezza, composto da lui, Cossiga,
Forlani, Ruffini, il ministro delle Finanze Franco Maria Malfatti (1927-1991) e quello dell’Industria Carlo
Donat Cattin (1919-1991), il segretario del CESIS Gaetano Napoletano, Santovito, il capo del SISDE Giulio
Grassini (1922-1992), il comandante dei Carabinieri Pietro Corsini (1917-1991), quello della GDF Raffaele
Giudice (1915-1994), quello della PS Giuseppe Parlato (1917-2003) e dal Capo Gabinetto della Presidenza
del Consiglio Vincenzo Milazzo (1923-1986) 243. Francesco Cossiga dal canto suo istituì tre Comitati di crisi:
il primo tecnico-operativo per il coordinamento dell’attività delle forze di polizia, composto dai vertici della
PS, della GdF, del SISMI, del SISDE, dal Questore di Roma e da altre autorità similari; il secondo,
denominato Comitato I – come intelligence – costituito dai capi dei servizi segreti, del CESIS e dei servizi
informativi dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica; il terzo, formato da esperti che studiassero le
caratteristiche e le implicazioni del sequestro, i quali erano Franco Ferracuti (1927-1992), il già citato
Stefano Silvestri, Steve Pieczenik (1942-) e Vincenzo Cappelletti (1930-). Lo spiegamento delle forze attesta
che il Viminale sapeva bene quale fosse la posta in gioco. L’orientamento politico di questi organismi era
rigorosamente atlantista, come attesta il fatto che molti dei loro membri erano iscritti alla Loggia P2.
Tuttavia questo non impedì a costoro di dividersi per le reciproche competenze, cominciando dai capi dei
servizi segreti. Ai tre Comitati il Governo, per decreto legge del 21 marzo, concesse il diritto di accedere agli
atti della Procura. All’interno di questa ben presto si confrontarono due linee: quella dei magistrati ligi alle
241
F. MALGERI, I governi Andreotti e la difficile democrazia degli Anni Settanta, in M. BARONE – E. DI NOLFO (a cura
di), Giulio Andreotti. L’uomo, il cattolico, lo statista, Rubettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 145-206, in partic. 177-
192.
242
Relazione di Maggioranza, pp. 75-76.
243
Relazione di Maggioranza, p. 32.
procedure ma non consapevoli della posta in gioco e quella dei togati che invece ne erano consapevoli ed
erano disposti a transazioni in nome della ragione di Stato. Così il procuratore di Roma Giovanni De Matteo,
che voleva rimettere gli atti al Giudice Istruttore, fu esautorato di fatto dal procuratore generale Pietro
Pascalino, che avocò a sé l’inchiesta, togliendo il Governo da un grande imbarazzo 244.
Il terzo Comitato, i cui lavori furono tanto segreti da implicare la distruzione degli atti, fu una sorta di
camera di compensazione di tutti i poteri, nazionali e internazionali, chiamati in causa dal sequestro. I suoi
membri furono concordi nell’impostare una strategia rigida e nel valutare severamente il comportamento di
Moro dalle sue prigioni. Franco Ferracuti, massone e vicino alla CIA, sostenne l’inattendibilità delle lettere
del prigioniero e ipotizzò persino che fosse stato drogato 245. Stefano Silvestri, di cui abbiamo già parlato e
poi presidente dello IAI e membro della Commissione Trilaterale, sostenne, ad un certo punto del sequestro,
che non si poteva più seguire una strategia che, da un lato, premesse sulle BR per trovarne il covo e,
dall’altro, cercasse con esse canali diretti o indiretti di contatto per liberare il prigioniero. Contemperare la
salvaguardia dello Stato, l’ordine pubblico, la solidarietà politica tra i Partiti e la vita di Moro era difficile e a
volte contraddittorio, col rischio che le BR, lavorando le istituzioni ai fianchi ed evitando il confronto,
mediante cambiamenti di fronte e di tattica, le costringesse a trattare in condizioni di impopolarità, di
ridicolizzazione e di fermento nella società civile. Siccome l’unico punto di forza delle BR era proprio il
possesso fisico di Moro, per Silvestri, se lo Stato non riusciva a recuperarlo, non poteva fare altro che ridurne
il valore di ostaggio. Questo poteva sembrare cedevole nei confronti dei terroristi e crudele verso l’ostaggio,
lasciato in balia della loro reazione, ma li avrebbe spinti a tornare allo scontro diretto e quindi li avrebbe
esposti ad una definitiva risposta dello Stato 246. Vincenzo Cappelletti, direttore scientifico dell’Istituto
dell’Enciclopedia Treccani, mediante la costituzione di un sottocomitato tecnico, cercò di documentare
l’inautenticità morale delle lettere del prigioniero e che egli fosse afflitto dalla Sindrome di Stoccolma 247.
Steve Pieczenik, statunitense di origine russo-francese, capo della prima cellula antiterroristica americana e
consigliere di Henry Kissinger (1923-) quando era Segretario di Stato, fece analisi molto dettagliate sulla
situazione. In un documento intitolato Ipotesi sulla strategia e tattica delle BR e ipotesi sulla gestione della
crisi, l’americano mise dieci punti fermi. Il rapimento era senz’altro opera delle BR, perché se così non fosse
stato esse, coerentemente col loro modo di fare, avrebbero smentito la rivendicazione fatta a proprio nome.
Lo scopo del sequestro era rompere l’unità della DC, così da permettere al PCI di entrare nel Governo a tutti
gli effetti, suscitando poi una reazione della destra che avrebbe potuto portare l’Italia alla guerra civile. Le
dichiarazioni di Moro dal carcere collimavano troppo con la propaganda brigatista per essere prese tutte in
considerazione. La famiglia Moro mirava ad uno scambio intelligentemente negoziato di ostaggi per sfiducia
nella DC. Le BR difficilmente avrebbero fatto una escalation di violenza con altre azioni. Non si poteva
escludere l’apporto di terroristi esteri nell’organizzazione dell’azione di Via Fani. Alla stampa bisognava
dare notizie limitate e mirate per attutire l’impatto mediatico della vicenda. Si doveva, all’occorrenza,
contattare le BR mediante un mediatore scelto dal Governo o da esse accettato o anche attraverso i brigatisti
in carcere. Bisognava lavorare collegialmente con la Magistratura. Il Sequestro Moro aveva avuto un
appoggio interno perché era scomparsa la sua borsa, era avvenuto nell’unico giorno in cui lo statista non era
andato in chiesa col nipote ed era stato portato a termine senza vittime occasionali, che invece ci sono quasi
sempre in azioni terroristiche. Nell’Allegato riservatissimo alle Ipotesi Pieczenik, dopo aver constatato che
il Viminale aveva preso in considerazione tutte le possibili opzioni comportamentali delle BR, si
meravigliava del fatto che esse avessero chiesto perentoriamente lo scambio di Moro con tredici prigionieri,
minacciando in cambio il suo assassinio. In questo modo infatti si riducevano i margini di manovra con le
loro stesse mani, condannandosi al discredito se non avessero eseguito la minaccia o al cedimento se
avessero poi voluto trattare. Annotava con altrettanta meraviglia che le BR non avevano usato politicamente
le rivelazioni di Moro, magari sullo Scandalo Lockheed, limitandosi a rendere pubblico un attacco del
prigioniero a Taviani. Suggeriva poi di offrire del denaro ai sequestratori, di tracciarne gli identikit
psicologici e di avviare contatti segreti con le BR. Nella Esposizione schematica, sempre l’americano
delineava acutamente la strategia brigatista: a breve termine, mettere in evidenza la debolezza della DC; a
medio termine, spaccare le istituzioni, dividere i partiti e fomentare una rivoluzione a cui partecipassero le
masse comuniste; a lungo termine, rendere instabile cronicamente il sistema politico italiano. Descriveva poi
la tattica delle BR: tenere prigioniero Moro per un tempo indefinito; costringere la famiglia ad esercitare una
pressione più forte sulla DC così da favorirne la divisione; aumentare il numero di aggressioni individuali
244
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 75-84. 87-91.
245
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 107-111.
246
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 111-115.
247
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 116-117.
per costringere il Governo allo scambio di ostaggi; scambiare Moro con questi o, in caso estremo, ucciderlo
senza farlo sapere per continuare a ricattare lo Stato; addirittura arrivare a rapire anche Berlinguer, Cossiga
ed Andreotti. Sottolineava che una durata indefinita del Sequestro come di una mancata divulgazione
dell’omicidio di Moro costituiva un pericolo per le BR, in quanto l’opinione pubblica poteva saturarsi e
diventare indifferente, mentre esse sarebbero rimaste senza nessuna arma effettiva contro il Governo.
L’Esposizione delineava poi la strategia del Governo: mantenere la linea della fermezza, senza concessioni o
riscatti o negoziati, e proteggersi da altri attentati; ottenere il rilascio dell’ostaggio; mantenere la propria
funzionalità; conservare il controllo dei rapporti con le BR. Passava poi a descrivere la tattica dello Stato, che
doveva: isolare le BR togliendo loro l’appoggio costituito dalle notizie diffuse liberamente dai media,
dall’inquietudine dei familiari di Moro e dalla divisione della DC. In conseguenza di ciò bisognava censurare
le notizie, graduare le iniziative della famiglia Moro, sorvegliarla e se necessario isolarla; mantenere l’unità
della DC rimpiazzando Moro nei suoi incarichi, anche se con personalità di basso profilo; sminuire le sue
dichiarazioni dal carcere; delegare la gestione della crisi ai tecnici e allontanarne le ombre da Andreotti e
Cossiga; chiedere notizie sull’ostaggio a mezzo stampa corredate da prove; guadagnare tempo mediante
l’azione di un mediatore indipendente; sviluppare la collaborazione tra Governo e Magistratura; neutralizzare
eventuali itinerari di fuga dei terroristi in Medio Oriente, Africa ed Europa dell’Est; tenersi pronti
all’eliminazione delle BR una volta trovate, anche se i servizi fino a quel momento erano stati inutili;
rimanere inattivi fino a quando i terroristi, disperati, non facessero qualcosa; tendere eventualmente delle
trappole alle BR; aumentare la sicurezza per i membri del Governo e per alcuni detenuti importanti; entrare
in contatto con l’OLP e ottenerne la condanna del sequestro 248.
Come si vede, in queste relazioni tecniche e specie in quelle dell’esperto americano, si trovano tutte le
ragioni che spinsero lo Stato alla linea della fermezza. Ma si trovano anche precisi corrispettivi alle ipotesi
da me fatte sugli obiettivi del KGB e del GRU nel Sequestro Moro. Si individuano parecchie delle opzioni
che il Governo seguì. Si vede anche che quest’ultimo, con le trattative informali, seppe ritagliarsi spazi ampi
di manovra rispetto ai pareri dell’esperto. Appare strano quindi che Pieczenik, in successive dichiarazioni,
rese nel 1994, nel 1998 e nel 2006, sostenesse che Cossiga passava informazioni alle BR – la fuga di notizie
da molto in alto di cui parlammo a proposito di Gelli – che c’era stato un complotto per uccidere Moro e che
era stato lui stesso, con la sua strategia, a farlo ammazzare 249. Sembrerebbe che più la possibilità di scoprire
la pista rossa si concretizzava – fino alla Commissione Mitrokhin – più l’esperto statunitense volesse
accreditare, del resto come Cossiga, la natura meramente italica del Caso Moro.
In ogni caso, se la strategia dello Stato fu ufficialmente univoca e ufficiosamente più elastica, e se esso non
si fece irretire da nessun esperto, l’atteggiamento dei Partiti fu più articolato, all’interno stesso della
maggioranza. A quanto abbiamo detto, aggiungiamo quanto segue. Innanzitutto per il PCI, il partito da cui
partì la linea della fermezza, quello il cui dirigente Ugo Pecchioli (1925-1996), dopo la prima lettera con cui
Moro chiese dal carcere di trattare la sua liberazione, dichiarò che, comunque fosse andato a finire il
sequestro, per il suo partito il Presidente DC era politicamente morto. Berlinguer era andato al potere per
combattere i terroristi e per condividere il potere con la DC onde bilanciare i filosovietici. Botteghe Oscure
quindi doveva puntellare l’unità della DC: se la diga bianca fosse caduta, il PCI ne avrebbe risentito in ogni
caso, o con un Berlinguer in balia dei filosovietici o con una scissione tra filo e antigovernativi, a seconda
della situazione che si poteva creare. Poi, per la DC, in cui i nemici politici di Moro potevano essere la
sponda della sua liberazione solo per fare dispetto ai filocomunisti del Partito, mentre l’ingresso del PCI nel
Governo avrebbe potuto portarli all’opposizione. Indi per il PSI, in cui Craxi per guadagnare spazio politico
tra PCI e DC caldeggiava una trattativa umanitaria, sperando in una spaccatura tra i due partiti che riportasse
in auge il Centrosinistra. I soli compatti erano i minori, PLI PRI PSDI – in cui però Giuseppe Saragat (1898-
1998) era per la trattativa – che non vivevano il trauma della lacerazione correntizia e che avevano fatto
univocamente ciascuno la propria scelta, pro o contro, la Solidarietà Nazionale 250. Conformemente alla loro
vocazione antisistema, il MSI e il PR erano per la trattativa. Una menzione particolare meritano le accuse
mosse ad Andreotti e a Cossiga di aver scelto la linea dura per favorire la propria carriera: il primo avrebbe
sperato di sbarazzarsi di un concorrente per il Quirinale e il secondo di spianarsi la strada per Palazzo
Chigi251. Sebbene formulate evidentemente in un quadro di disinformazione che risale al periodo del
sequestro, sono accuse illogiche, in quanto Moro, se fosse uscito vivo di prigione, sarebbe stato
impresentabile quale candidato presidenziale dopo le sue aperture alle BR, mentre il Governo sarebbe
248
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 117-129.
249
S. PIECZENIK- E. AMARA, Nous avons tué Aldo Moro, Patrick Robin Editions, Parigi 2006.
250
Relazione di maggioranza, pp. 151-179.
251
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 343-348.
rimasto in sella con il medesimo Presidente del Consiglio fino a quando il PCI lo avesse sostenuto, perché
questi erano i patti.
Non emerge da nessun documento la strategia che il Governo tenne sulla natura internazionale della crisi,
ma essa esistette e si deduce da quelle scelte prudenziali che esso fece e di cui abbiamo parlato e riparleremo.
I documenti relativi forse furono distrutti. Tutti gli indizi che potevano portare fuori Italia insabbiati, in nome
di una inesorabile ragione di Stato.

2.2 I segreti su Via Fani

La maggior parte di questi indizi sono legati alla ricostruzione dell’agguato di Via Fani. Valerio Morucci
nel 1984 si decise a collaborare, stendendo il canovaccio ufficiale della storia di Via Fani, una storia che
coincideva perfettamente con quella che lo Stato era disposta ad avallare, onde evitare una crisi
internazionale e, in genere, la scoperta di importati ed imbarazzanti segreti politici. Nel 1990 Morucci
completò la sua versione aggiungendo i nomi dei brigatisti che, fino al quel momento, aveva taciuto. Questo
memoriale fu poi inviato al presidente Cossiga il 13 marzo di quell’anno, con un gesto simbolico di grande
importanza. L’ex brigatista, peraltro, dal primo momento in cui cominciò a parlare, pur affermando di voler
difendere l’onore della causa rivoluzionaria, di fatto avviò il processo di smantellamento della rete
terroristica. Mettendo insieme le cose che disse nei due momenti indicati, possiamo come segue ricostruire la
sua verità e le sue menzogne. Innanzitutto affermò che le BR avevano preso in considerazione la possibilità
di rapire anche Andreotti e Fanfani, oltre che Moro, su cui poi conversero, sin dal 1975. Nel progetto
originario non si dovevano ammazzare i membri della scorta, perché il potere democristiano non doveva
essere distrutto ma solo ridimensionato, mediante la rivelazione di segreti di Stato estorti al prigioniero, così
da gettare il Paese nel caos. Con questa risposta, l’uomo di Separat mostrava di aver ben assimilato interessi
e metodi del GRU, ma nello stesso tempo non spiegava chi e perché aveva indotto le BR alla svolta stragista,
che resero la Strage di Via Fani assai simile ad una spedizione punitiva. Rivelò che il Comitato Esecutivo
delle BR aveva dato l’ordine del sequestro di Moro alla Colonna romana nel settembre del 1977. Questa
pianificò l’operazione in un villino di Velletri, abbandonato dopo il 16 marzo, e di cui non sappiamo di chi
fosse. In quel giorno, nove brigatisti si misero all’incrocio tra Via Fani e Via Stresa in varie posizioni. Le BR
non sapevano che Moro sarebbe passato di là con certezza, perciò avrebbero riprovato altre volte a rapirlo se
non ci fossero riusciti subito. Le confessioni iniziavano così con una palese assurdità. Tutto iniziò alle 9,02.
Mario Moretti guidava una Fiat 128 blu con targa del Corpo Diplomatico venezuelano che, frenando
improvvisamente, provocò un tamponamento tra la Fiat 130 (che aveva Ricci alla guida, Leonardi al suo
fianco e dietro Moro) e l’Alfetta della scorta (che portava Rivera, Zizzi e Iozzino) e poi tra le stesse Fiat 130
e 128. Quest’ultima circostanza poi risultò falsa e non si capisce perché Morucci spieghi la causa di una cosa
che non era accaduta252. Alvaro Lojacono (1955-) e Alessio Casimirri chiusero la parte alta di Via Fani con
una Fiat 128 bianca disposta trasversalmente alla carreggiata, Barbara Balzerani fece lo stesso nella parte
bassa mettendosi in mezzo all’incrocio. Morucci stesso, Raffaele Fiore (1954-), Prospero Gallinari e Franco
Bonisoli (1955-) spararono uscendo da dietro le siepi del Bar Olivetti dove si erano nascosti, travestiti da
avieri, essendo la zona abitata da molti addetti ai voli, per cui vestiti così non avrebbero attirato l’attenzione
nel loro appostamento. Fu Bonisoli ad assassinare Iozzino, Rivera e Zizzi. Bruno Seghetti (1950-) era su di
una Fiat 132 blu posteggiata all’angolo tra Via Fani e Via Stresa e che fece marcia indietro quando finì la
sparatoria, così da prendere a bordo Moro, caricatovi da Moretti, Fiore e Gallinari. Sulla Fiat 132 si
allontanarono Moretti, Fiore, Seghetti e l’ostaggio, mentre sulla Fiat 128 bianca fuggirono Lojacono,
Casimirri e Gallinari; sulla Fiat 128 blu si dileguarono Morucci, Bonisoli e la Balzerani. Nel suo resoconto,
Morucci negò che in Via Fani vi fossero stati altri due terroristi a bordo di una motocicletta Honda, che era
stata dapprima parcheggiata davanti al Bar Olivetti e che era stata segnalata da diversi testimoni e anche dai
messaggi delle ricetrasmittenti della Questura di Roma. Asserì che invece un brigatista, di cui non fece il
nome, a bordo di una moto ulteriore, li aveva avvisati di quando Moro stava arrivando. Morucci diede questa
versione compromissoria e non citò, nella sua ricostruzione, Rita Algranati (1958-), che invece attraversò
Via Fani con un mazzo di fiori in mano per ritardare il passaggio del convoglio, in attesa della retromarcia di
Moretti.
Il punto debole della ricostruzione di Morucci è proprio l’elenco dei membri del gruppo di fuoco, i quali (lui
compreso) furono concordi nell’asserire che all’inizio dell’assalto le loro armi si incepparono (cosa peraltro
252
Perché smentita dalle foto, in quanto le macchine non erano vicine. La vettura di Moro era stata tamponata il giorno
prima dall’Alfetta di scorta che aveva frenato troppo bruscamente mentre la precedeva. Cfr. A LTAMURA, La borsa di
Moro, pp. 109-111.
riscontrabile mediante perizia balistica): i mitra FNA 43 di Bonisoli e Morucci stesso, l’M12 di Fiore, la
machine pistol T245 di Gallinari. Considerando che il mitra MAB 38/42 e la pistola Browning HP di
Moretti, la stessa arma di Morucci e di Fiore, il fucile automatico calibro 30 M1 di Loiacono e il mitra CZ
Skorpion 7,65 della Balzerani non spararono, Morucci non poté spiegare da dove vennero i quarantanove
colpi esplosi di mitra, non servendo alla bisogna la pistola Smith & Wesson 39 di Gallinari e la Beretta 51 di
Bonisoli, che pure furono usate. Perciò dalla versione dell’uomo di Separat si evinceva che ci fosse stato
almeno un quinto brigatista in campo nel gruppo di fuoco.
Morucci poi aggiunse di aver rubato due borse dall’auto di Moro, una con le medicine che prendeva il
Presidente DC e una con le tesi di laurea di cui era relatore e che in parte caddero per strada, e di averle
messe sulla Fiat 128. La deduzione logica è che le BR sapevano quale borsa conteneva i farmaci di cui il
prigioniero aveva bisogno. Questa borsa, assieme a quella dei documenti più delicati, era tenuta da Moro
sempre vicino a sé. Strano quindi che Morucci non abbia preso anche questa preferendo la borsa con le tesi
di laurea, assolutamente inutile per le BR 253. Moro portava con sé sempre cinque borse, di cui altre due
furono subito trovate nella Fiat 130 e l’altra, dopo cinque giorni, nel bagagliaio della stessa auto. Ma sul
tappetino posteriore dell’auto vi era una superficie rettangolare priva di qualunque traccia di sangue,
perfettamente combaciante con il fondo di una borsa. Evidentemente la terza borsa in origine era anch’essa
vicino allo statista, ai suoi piedi. Morucci sostenne che nella borsa delle tesi vi erano anche dei documenti
politici, ma di scarso valore. Era senz’altro una versione confortante anche per gli inquirenti. Ma lo
spostamento della borsa e il suo differito ritrovamento da parte degli inquirenti fanno pensare che questi ben
controllarono il contenuto delle borse stesse e che, una volta che si accorsero che una era stata depredata di
qualcosa di importante, la misero in un posto diverso da quello in cui era durante l’agguato, perché nessuno
capisse cosa era accaduto. Secondo me, Morucci prese tutte e tre le borse vicino a Moro; siccome si
aspettava di trovarne due, le aprì tutte e tre, svuotò quella delle tesi in parte per strada e vi mise dentro i
documenti che c’erano nella terza posta in terra. Così confuse le acque e poté far credere che in realtà Moro
non aveva con sé nulla di importante, oltre che il furto delle borse fosse avvenuto a casaccio. Secondo
Giovanni Galloni i documenti sottratti dalle BR riguarderebbero proprio esse stesse, in quanto Moro aveva
da poco ottenuto notizie che le riguardavano e che gli USA e Israele, pur avendole, non avevano mai passato
all’Italia. Probabilmente le BR erano state edotte in questo dal Mossad, con cui avevano contatti, e
desideravano sapere cosa Moro conoscesse su di loro 254.
Mario Moretti, nel 1998, scrisse un libro, Le BR una storia italiana255, in cui negò che la Fiat 130 avesse
tamponato la 128 delle BR e si riservò un ruolo attivo nell’azione di fuoco, ma confermò sostanzialmente la
versione di Morucci256. In quell’anno, il GRU assassinò Aloïs Estermann (1954-1998), diventato
Comandante delle Guardie Svizzere e che era stato, in qualità di agente dell’HVA, il basista dell’attentato al
Papa; egli inoltre aveva rivelato ad Antonino Arconte che dietro il Sequestro Moro c’era il KGB 257. Il capo
BR aveva dunque buoni motivi di tenere ancora per sé i suoi segreti. Ma molti di questi sono riemersi per vie
traverse, riesaminando le deposizioni dei testimoni oculari.
Innanzitutto, Morucci non è entrato nei dettagli della preinchiesta, che fu laboriosa. Moro fu spiato a lungo,
dalla fine del 1977, da almeno tre macchine: una nei pressi di casa, una come vedetta e una presso lo studio.
Di queste, due – una Fiat 128 bianca con targa del corpo diplomatico e una Renault 4 rossa – sarebbero poi
riapparse nei luoghi del suo calvario 258. Le BR elaborarono almeno altri due piani per sequestrare Moro oltre
a quello di Via Fani: uno nella Chiesa di Santa Chiara, che era solito frequentare, e uno all’Università La
Sapienza, per poi scartarli entrambi 259, il primo per la ristrettezza dei luoghi e l’alto rischio di coinvolgere
innocenti, il secondo forse dopo un parere tecnico superiore come quello di Sokolov. Sarebbe stato
interessante chiedere al capo BR cosa sapeva della probabile attività di spionaggio a danno di Moro fatta da
un impiegato, con strani contatti con l’estrema destra, attività illegali e entrate di gran lunga superiori al suo
stipendio. Questi, Franco Moreno, è stato visto più volte nei pressi delle dimore morotee a bordo di una
BMW, dagli inizi del 1978260. Un’altra domanda importante per Morucci poteva essere cosa sapeva

253
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 56-74; ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 189-192.
254
ALTAMURA, La borsa di Moro, p. 328.
255
Edito da Mondadori a Milano nel 2007, scritto con Rossana Rossanda e Carla Mosca e con una copertina che con
pessimo gusto porta una foto di Moro prigioniero.
256
ALTAMURA, La borsa di Moro, p. 193.
257
SIBILIO, L’attentato a Giovanni Paolo II, pp. 53-57; DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, pp. 175-186.
258
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 44-49.
259
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 99-104.
260
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 32-42.
dell’incursione di due motociclette – una Kawasaki e una Honda, modello che tornerà in Via Fani – il 23
novembre 1977 a via Savoia. L’episodio - che sembrava preludere ad una rapina a Franco Di Bella (1927-
1997), direttore del Corriere della Sera (un piduista una volta tanto non sospettato di qualcosa in questa
vicenda!), in visita a Moro, e che fu sventato dal maresciallo Leonardi - fu derubricato come legato alla
microcriminalità, essendo uno dei proprietari delle moto un delinquente comune. Ma ha sempre suscitato
perplessità261.
Inoltre, sin dalla fine di febbraio all’incrocio di Via Fani e Via Stresa furono avvistate alcune delle
automobili poi usate nell’agguato, tutte intente a simulare le spericolate manovre che furono fatte il 16
marzo. Tra esse spiccava la Fiat 128 CD, che fu avvistata da sei testimoni anche in altre strade di Roma nel
centro, probabilmente anche davanti alla Clinica Villa Maria Pia, di cui avremo occasione di riparlare tra
breve. Le BR inoltre rubarono o si predisposero a rubare, in quei giorni, almeno otto mezzi di locomozione,
evidentemente per una operazione molto importante 262. Questo dimostra sia che l’agguato fu preparato con
cura, sia che le BR avevano delle protezioni tali da permettere loro di muoversi indisturbate anche attirando
l’attenzione, specie con una macchina con la targa diplomatica che poi avrebbe fatto parlare di sé.
Con quanta cura, lo dimostra un ulteriore elemento di difficile casualità. Moro, che aveva una rosa non
molto ricca di percorsi possibili ogni mattina in base alle sue mete, il 16 marzo sembra volesse recarsi, prima
di andare alla Camera per partecipare al dibattito sulla fiducia al Governo, nella Chiesa di Santa Chiara che
avrebbe potuto raggiungere, partendo da casa sua in Via del Forte Trionfale, passando per Via Cortina
d’Ampezzo. Quella mattina un incidente sulla Cassia Vecchia, proprio all’altezza di quella strada, fece sì che
il suo convoglio deviasse per l’alternativa Via Fani. Quell’incidente fu talmente grande da costringere la
forza pubblica a deviare il traffico263.
Anche a Via Fani molte cose erano disposte in un modo favorevole, anche se non sappiamo se voluto. La
strada era pressoché sgombra di macchine lungo il segmento dove sarebbe avvenuto l’agguato, mentre era
piena di auto in parcheggio nel tratto precedente. Inoltre le tre sole macchine in sosta occupavano posizioni
che si sarebbero rivelate utili per gli aggressori. Erano una Mini Clubman Estate a destra, da dietro la quale
sbucarono altri incursori di cui Morucci non parlò, e una Mini Cooper con una Fiat 127 rossa a sinistra,
davanti alle siepi del Bar Olivetti, da cui uscirono gli avieri killer. Le prime due auto erano parcheggiate
distanti dal marciapiede. La terza addirittura quasi in mezzo alla strada. La loro presenza coprì gli assalitori
agli occhi della scorta di Moro mentre il convoglio arrivava, ma non ne intralciò i movimenti. Lo fece invece
con quelli delle auto del Presidente, rimaste imbottigliate non solo dai mezzi delle BR, ma anche da quelli
parcheggiati. La Mini Clubman per esempio era praticamente addosso al lato destro dell’auto di Moro,
quando essa fu costretta a fermarsi. Su queste macchine si è indagato e si sono trovati i proprietari delle
prime due, mentre della terza non si è rintracciata neanche la targa, essendo stata rimossa la vettura da Via
Fani non si sa da chi o quando. La Mini Clubman apparteneva ad una società immobiliare a responsabilità
limitata, la Poggio delle Rose, e in quei giorni era usata da uno dei soci, Patrizio Bonanni, che aveva in Via
Fani 108 un appartamento dove si recava saltuariamente con la compagna e dove appunto si trovava al
mattino della strage. Interessante sarebbe stato sapere perché la coppia aveva deciso di trascorrere la notte in
Via Fani. L’auto era stata parcheggiata laddove solitamente prendeva posto il furgone di un fioraio, noto alle
BR, le quali probabilmente furono coloro che gli sgonfiarono le gomme la notte precedente l’agguato.
Dell’immobiliare si sono voluti cercare, ma inutilmente, contatti coi servizi segreti italiani a quella data. Ce
ne furono, ma indiretti e posteriori. La Mini Cooper invece apparteneva ad una persona, Tullio Moscardi, che
quel giorno si trovava, con la moglie, in un appartamento di Via Fani 109 prestato loro da degli amici per
qualche tempo, i quali hanno confermato. Anche in questo caso sarebbe interessante sapere perché la coppia
si fece prestare l’appartamento e come mai in quei giorni. Agli investigatori tutte queste cose risultarono
essere sostanzialmente casuali 264. A mio avviso, magari anche senza che se ne accorgessero e in un modo che
ci sfugge, quelle persone furono indotte a parcheggiare in quella strada in quel preciso giorno. Il guidatore
della Mini Cooper infatti collaborò con la giustizia rendendo testimonianze importanti, dimostrando così la
sua buona fede. In ogni caso, a coloro che cercano sempre piste legate ai servizi italiani, giova ricordare

261
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 36-38.
262
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 194. 153-159
263
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 126-128.
264
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 178-183; COMMISSIONE FIORONI, Relazione intermedia, 14 dicembre 2015, ad
indicem (.pdf non impaginato da www.fasaleaks.it). La Commissione si dilunga sui rapporti tra la Poggio delle Rose e
la sua società contabile Fridev e tra questa e alcune società di copertura del SISDE per ragioni di lavoro. Non spiega
invece per quali imprese era agente di commercio Moscardi, che trattava di acciai, esattamente come la Eumit spa,
società del PCI e della HVA.
ancora una volta che ai nostri 007 eventualmente ostili all’alleanza DC PCI non serviva sequestrare ma al
massimo solo uccidere Moro, oltre il fatto che essi erano ampiamente infiltrati dal KGB, dalla HVA e
dall’STB, nonché dominati dalla P2 dell’agente doppio Gelli.
La stessa dinamica dell’agguato fu molto differente da come la descrissero Morucci e Moretti. La teste Lina
Cinzia De Andreis (1956-) fece sei deposizioni nel 1978, dopo una iniziale esitazione per paura. Esse furono
gestite esclusivamente dall’Arma dei Carabinieri e a lungo tenute nascoste alla Magistratura per riemergere
dal sottosuolo solo in tempi recenti e ingiustamente a mio avviso sono state gabellate come depistanti da
qualche membro della Commissione Fioroni 265. La donna vide la mattina del 16 marzo un uomo in nero
dall’aspetto torvo all’angolo tra Via Stresa e Via Fani. Vide poi la Fiat 128 CD arrivare in retromarcia e
mettersi alla destra dell’auto di Moro, già bloccata dalla Mini Clubman; sopraggiunsero poi, sempre in
retromarcia, la Fiat 128 blu che si piazzò obliqua a sinistra mettendosi tra la Fiat 130 di Moro e la 128 CD, e
la Fiat 132 che si posizionò vicino alle siepi del Bar Olivetti. La teste sentì diverse urla e grida, delle quali
alcune alla fine in una lingua sconosciuta, che non era né inglese, né francese e neppure tedesco. Assistette al
trasbordo di un uomo – Moro – e all’abbandono di un cadavere – quello di Leonardi – in un auto; un altro
corpo, che a lei sembrava morto – ma che probabilmente non lo era – fu messo nella 132. La donna, in stato
di chock, fu poi tratta in salvo da uno sconosciuto. Il fatto che non si sia mai detto chi fosse nelle deposizioni
rese alla Benemerita mi fa sospettare che il salvatore della ragazza fosse, sia pure casualmente, un
carabiniere. La testimonianza della De Andreis faceva il paio col rapporto del Nucleo Operativo dei
Carabinieri del 29 marzo, il quale diceva che l’assalto era stato condotto da due gruppi operativi: uno
sopraggiunto a piedi, in divisa e formato da almeno quattro persone, che spararono; un altro giunto nelle auto
e di almeno due individui, esclusi gli autisti, che prese in consegna il prigioniero 266.
Il numero degli assalitori fu di molto superiore a quello ufficiale. La stampa italiana a caldo parlò di sessanta
terroristi e la polizia tedesca di quaranta. Di certo furono meno sul campo ma non furono i nove di Morucci,
come abbiamo visto anche nel capitolo precedente. Gli avieri per esempio erano sicuramente della RAF, in
quanto il loro travestimento fece sì che le BR li riconoscessero e perché diversi testimoni ne videro in zona
alcuni che parlavano tedesco. Erano biondi ed entrarono nel Bar Olivetti, quel giorno aperto e funzionante,
nonostante fosse ufficialmente fallito267. Qualsiasi tentativo di identificarli con italiani è a mio avviso
depistante.
Un testimone potrebbe aver riconosciuto tra i terroristi Giustino De Vuono 268, mentre Patrizio Peci (1953-),
già membro della Colonna romana delle BR, non solo affermò dinanzi al giudice Giancarlo Caselli (1939-)
di aver partecipato all’impresa di Via Fani senza sparare, ma che vi erano i capi colonna delle BR di tutta
Italia. Peci, che stette per un certo periodo a Via Montalcini, affermò che uno dei terroristi fu colpito e
possiamo ipotizzare che andasse alla Clinica Villa Maria Pia, dove un testimone affermò di aver visto entrare
una persona ferita portata a spalla da altri due, poco dopo l’agguato in Via Fani 269. Potrebbe essere costui
l’uomo apparentemente morto portato in una macchina e visto dalla De Andreis. In questo caso la clinica,
all’epoca controllata da una società a responsabilità limitata egiziana, sarebbe stata una singolare ed
insospettabile base di supporto per le BR, peraltro assai vicina alla casa di Moro. In seguito però la posizione
di Peci fu stralciata e fu discolpato, forse per premiare la sua collaborazione in qualità di pentito 270.
Per un altro testimone, Alessandro Marini, gli aggressori erano tredici e divisi in tre gruppi di azione: uno
della 128 CD, uno di avieri – che sparò da dietro un’auto parcheggiata, ossia la Mini Cooper – e uno che
portò via Moro. Lo stesso teste vide in Via Fani la motocicletta Honda blu a cui facevo riferimento in
precedenza; avvistata anche da altri cinque testimoni, portava due centauri, di cui una armata e una di sesso
femminile, che presumibilmente erano la stessa persona, essendo difficile che il conducente avesse in mano
delle armi. Le indagini su questa motocicletta portarono a Ladispoli ma la perquisizione del 29 marzo nel
caseggiato di Via Torre Perla in cui poteva essere custodita non si completò perché alcuni box del garage

265
Lettera di Gero Grassi a Giuseppe Fioroni del 15 febbraio 2017, e-mail, in download dal suo sito. Il deputato dubita
della veracità della teste per tre motivi: che si fermò per venti minuti ad assistere all’agguato invece di andare a lavoro;
che non si sa chi l’ha soccorsa; che ha un cognome simile a un framassone della P2. Se al secondo dubbio può darsi una
risposta, agli altri due si può obiettare che è normale fermarsi senza cognizione del tempo dinanzi ad un evento
drammatico e paralizzante, mentre nelle liste della P2 vi è anche un Grassi, ma che per questo nessuno dubita della
credibilità del deputato estensore della missiva.
266
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 195-201.
267
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 201-212.
268
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 225-231.
269
ALTAMURA, La borsa di Moro, p. 256, n. 3.
270
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 212-218.
erano chiusi in mancanza dei padroni. Questa dinamica ricorda quella di Via Gradoli 96. Forse la stessa
motocicletta fu usata da Moretti se e quando giunse in questo covo e vide che era stato scoperto. Su chi
cavalcasse la moto in Via Fani vi sono solo ipotesi molto discutibili: dalla presenza di agenti segreti italiani
dipendenti da quel colonnello Guglielmi di cui si affermò che fosse sul luogo della strage – in tal caso
avrebbero avuto la funzione di ridurre al minimo le violenze inevitabili dei terroristi – a quella di uomini del
Mossad. Quest’ultima fu formulata da Giuseppe De Gori, mentre la prima affiorò tra il 2010 e il 2014, grazie
ad una lettera anonima, in cui un presunto agente dei servizi, malato di cancro, si decideva a rivelare non la
propria, ma l’identità del suo compagno di avventura, ma solo attraverso degli indizi. Questa bizzarra pista,
che peraltro contraddiceva la testimonianza che individuava una donna e un uomo sul sellino della Honda, fu
tuttavia seguita dagli inquirenti e portò ad individuare un sospetto che però morì di infarto prima che si
potessero approfondire le indagini sul suo conto. Sembra un depistaggio perfetto, che crea una pista
alternativa, non permette di approfondirla e getta dubbi sui pochi dati certi disponibili, mediante la morte di
un potenziale sospetto. Di sicuro, secondo Fiore, in Via Fani vi erano persone non gestite dalle BR 271, il che
allude a mio avviso a organizzazioni terroristiche estere. Il 17 marzo 1978 la DIGOS individuò nove killer,
escluse le coperture, di cui tre sparavano da destra, due da dietro la Mini Cooper e uno in piedi sul ciglio
della strada. Perciò la Procura Generale di Roma poté concludere, l’11 novembre 2014, che tutta la logistica
ricostruita dalle BR era falsa272.
Undici testimoni affermarono di aver udito, in Via Fani, prima colpi singoli, evidentemente contro gli
autisti, e poi raffiche. Altri due testi videro sparare da destra e non solo dalle siepi del Bar. I quarantanove
colpi avanzati nella descrizione di Morucci possono essere attribuiti a un super killer armato di un mitra FNA
43 o divisi tra due terroristi aventi due mitra di questo tipo, a seconda della ricostruzione fatta sulla base
delle perizie balistiche. Sembra infatti che ci fossero due di queste armi in Via Fani, ma solo una è stata
recuperata. Tuttavia, anche se fossero stati due, quei tiratori sarebbero sempre stati particolarmente bravi e la
loro identità è ancora ignota. Il maresciallo Leonardi, contrariamente a quanto Morucci affermò, uscì
dall’auto per tentare una difesa, ma fu ucciso e poi, come dicevamo, gettato in auto in una posizione che
sembrava supporre che egli si fosse, istintivamente, girato verso Moro per intimargli di stare giù. Questo
spostamento fu fatto forse per evitare che gli inquirenti sapessero che l’assalto era venuto da entrambi i lati
della strada273. Lo stesso Iozzino fu ucciso da spari provenienti dal lato di Via Fani dove, secondo le BR, non
c’era invece nessuno.
Nella parte superiore di Via Fani due testimoni – i padroni della Mini Cooper – videro la Fiat 128 messa
obliquamente dietro l’Alfetta di Moro, e con loro altri quattro testi asserirono di avere visto vicino ad essa un
uomo mascherato ed armato, che però non sparò. Sceso dall’auto, poteva essere Casimirri, Lojacono o un
terzo non identificato274. Un altro testimone vide un terrorista in loden e coi guanti che sparò dal lato del Bar
Olivetti, esplodendo una raffica lunga alla Fiat di Moro e che poi, con un salto indietro, spara anche
all’Alfetta. Era il killer atletico che abbiamo menzionato e di cui non si può dire con certezza nemmeno se
fosse maschio o femmina275. Tre testimoni videro scendere dalla Fiat 128 CD, su cui ufficialmente c’era solo
Moretti, un altro killer, che avrebbe sparato al maresciallo Leonardi, evidentemente aggirandolo a destra.
Potrebbero essere stati o Luca Nicolotti (1954-) o Riccardo Dura (1950-1980), entrambi brigatisti di alta
preparazione militare276.
La teste Eleonora Guglielmo (1955-), ragazza alla pari in una abitazione a pianterreno di Via Fani, ha
descritto il prelevamento di Moro, al quale ha potuto assistere nonostante i terroristi l’abbiano allontanata
dalla finestra da cui si era affacciata con una raffica di mitra. Da una macchina scura, presumibilmente
sopraggiunta alla fine del conflitto a fuoco, scesero una donna e un uomo vestito di chiaro, con un
impermeabile e un cappello, molto alto. Questo personaggio prese Moro per il braccio, quasi a sostenerlo, e
lo condusse a passo normale sulla 128 blu, che se ne andò verso Via Trionfale, seguita da una moto,
verosimilmente la Honda. La ragazza sentì Moro dire: - “Lasciatemi!”. Poi alla fine qualcuno soggiunse:-
“No, quello no.” Per il resto, grida di uomini e di una donna, e due inconfondibili achtung scanditi in
tedesco. Nel giardino della casa della ragazza un fotografo improvvisato, Tommaso Ruggeri, nascose un
rullino e una foto Polaroid, per non consegnarle alla Polizia, che però li rintracciò. La ragazza fu sentita per
la prima volta dalla Commissione Fioroni il 9 aprile 2015, nonostante avesse reso dichiarazioni agli
271
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 218-225.
272
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 231-232.
273
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 232-238.
274
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 239-245.
275
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 249-250.
276
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 251-252.
inquirenti poco dopo il sequestro e addirittura concesso sul momento un’intervista alla RAI, il cui testo è
introvabile negli archivi multimediali che ho potuto visionare 277. Agli Atti della Commissione non vi è
domanda alla teste sul punto cruciale di chi prese Moro in consegna 278.
L’ultima cosa da segnalare è che la rete telefonica di Via Fani dopo l’agguato per pochi minuti ebbe una
interruzione che isolò i possibili testimoni 279. Un’azione che si preferisce ricondurre al Presidente della SIP,
perché massone della P2, piuttosto che, più ragionevolmente, ai gruppi di sabotatori del KGB a Roma.
Ce n’è abbastanza in queste dichiarazioni, lasciate nel dimenticatoio per anni, per poter dire che quegli
aspetti del Sequestro Moro e della Strage di Via Fani, che li rendevano chiaramente riconducibili ad una
operazione di terrorismo internazionale frammista ad una compiuta da servizi segreti militari, vennero
prudenzialmente dapprima celati dagli inquirenti e poi dalle stesse BR, per ragioni di sicurezza pubblica e
individuali. Si tratta di un autentica azione da Spesnatz, preparata per giorni e con agenti di entrambi i sessi
e di tre lingue: italiano, tedesco e una non identificata, che si possono riferire alle BR, alla RAF e forse a
Separat. Vi furono almeno dai sei agli otto uomini in più dei dichiarati da Morucci. Almeno tre abilissimi
tiratori. Almeno una macchina in più e da una a due motociclette. Quelle che spararono di meno furono
proprio le BR. Probabilmente vi furono dei basisti involontari in Via Fani e qualcuno volontario
nell’entourage moroteo, che riferì alle BR il contenuto della borsa dei documenti e molto sulle sue abitudini.
Di sicuro fu usato il Bar Olivetti. Forse vi furono coinvolti importanti malavitosi che trafficavano in armi coi
Palestinesi. Potrebbero essere stati presenti agenti di almeno tre servizi segreti di cui due stranieri. Vi fu
almeno un ferito tra gli assalitori e sicuramente un presidio sanitario disponibile ad accoglierlo in pieno
giorno per le cure mediche. Vi fu un altro gruppo di azione che presumibilmente causò un incidente per
deviare il passaggio di Moro su Via Fani. Un altro sabotò le linee telefoniche. Infine, il prigioniero fu preso
in consegna da un civile e non da un guerrigliero urbano. Non a caso tutte le possibili, anche se controverse,
testimonianze documentali, furono occultate. Oltre al rullino di cui sopra e alla relativa Polaroid, anche un
altro rullino, di Gherardo Nucci ed Eleonora Guglielmo, che invece alcune testate giornalistiche – L’Unità,
Paese Sera, La Stampa e L’Espresso- di cui alcune nella rete delle spie del KGB, cercarono insistentemente
di portare a galla per mettere evidentemente in imbarazzo gli inquirenti e lo Stato; una ripresa fatta
dall’elicottero della Elis Servizio levatosi in volo subito dopo il rapimento; una ripresa filmica degli avieri
nel Bar Olivetti280. Alla stessa maniera si tentò di depistare le indagini da subito. Un meccanico avente
l’officina nei pressi di Via Fani attestò infatti di aver a volte riparato l’auto della scorta di Moro portatagli da
uno dei suoi agenti, non identificato. Il meccanico avrebbe anche riparato una delle auto dei brigatisti, andata
in panne prima dell’agguato e sarebbe anche entrato nel Bar Olivetti. Questa figura, a metà strada tra Casa
Moro e le BR, sembrò evocare ad alcuni la presenza di un basista nella stessa cerchia degli intimi del
Presidente, ma questa voce sembra poco credibile e depistante perché proveniente dagli ambienti
dell’estrema sinistra281.
Il percorso indicato da Morucci per il trasbordo di Moro (Via Stresa, Piazza Montegaudio, Via Trionfale,
Largo Cervinia, Via Belli, Via Casale de Bustis, Via Massimi, Via Bitossi, Piazza Madonna del Cenacolo,
Via Olimpica, Via dei Colli Portuensi, Via Montalcini 282) è a mio avviso credibile fino a quando si parla di
Via Massimi, dove plausibilmente l’ostaggio dovrebbe essere stato portato alla prima prigione, quella della
Balduina, mentre il resto del convoglio potrebbe aver proseguito sino a Via Montalcini.
Era Moro ben difeso? Com’è noto su questo monta da anni una polemica. Abbiamo visto che, in seguito alle
segnalazioni di Giovannone, egli si era mostrato molto più preoccupato ed è probabile che se fosse vissuto
più a lungo avrebbe ottenuto una maggiore protezione, ma i tempi non bastarono. Abbiamo anche visto che
la Stay Behind probabilmente sapeva cosa sarebbe accaduto ma non quando, e che presumibilmente tenne la
notizia per sé. Ma a livello di pubblica sicurezza forse si può tenere una soluzione mediana tra chi sostiene
che il Presidente DC era abbandonato a se stesso e chi invece disse che si era fatto tutto il possibile. Partiamo
dal dato che in quegli anni l’Italia aveva un lassismo rassegnato verso il terrorismo; ci aggiungiamo la
lentezza cronica della burocrazia; sommiamo a questo i limiti intrinseci degli apparati di sicurezza e avremo
trovato le ragioni palesi dei punti deboli che aveva la sicurezza attorno a Moro e i motivi tutt’altro che
occulti per cui tante segnalazioni fatte dalla sua scorta non vennero prese sul serio 283. La scorta di Moro era
277
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 298-302.
278
COMMISSIONE FIORONI, Relazione intermedia, ad indicem.
279
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 142-153.
280
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 261-297. 303-306. 309.
281
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 159-164.
282
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 30-31.
283
ALTAMURA, La borsa di Moro, pp. 49-53; 70-71.
uguale a quella di Cossiga e di Andreotti ed è logico affermare che il Presidente DC non ebbe la macchina
blindata semplicemente perché non la chiese lui stesso284, in quanto aveva ottenuto la scorta, molto più
impegnativa per le finanze pubbliche, per i suoi figli 285. Non è neanche vero che le sue guardie del corpo
fossero delle persone sprovvedute, addirittura coi mitra nel bagagliaio. E’ invece vero che, date le modalità
dell’assalto, qualunque scorta sarebbe stata insufficiente. Una macchina blindata senz’altro avrebbe reso
tutto più difficile, ma di sicuro le BR in quel caso avrebbero dispiegato mezzi ancora più poderosi. Moro non
era abbastanza difeso, considerando quello che successe dopo. Ma se fosse stato difeso meglio, sicuramente
qualcosa di peggiore sarebbe potuto succedere, nel Paese in cui può saltare un’autostrada per uccidere un
magistrato e in cui i terroristi avevano l’appoggio di quattro servizi segreti e due organizzazioni sovversive.

2.3 I segreti di Via Montalcini e Via Caetani

Nel corso dei cinquantacinque giorni, non mancarono agli inquirenti buone occasioni per scovare la prigione
di Moro, ma il timore di conseguenze politiche gravi sull’esecutivo o nelle relazioni internazionali bloccò
quasi sempre le iniziative, sia nei casi che abbiamo contemplato, sia in altri. Ferdinando Imposimato ne ha
contate almeno otto, includendovi anche la trattativa per mezzo della mafia siciliana, che però io considero
una storia poco convincente, una sorta di depistaggio che quasi occulta il più sostanzioso ruolo dei calabresi
in questa vicenda. Lo stesso penso del ruolo della Nuova Camorra Organizzata. Ma la sostanza del discorso
sulle occasioni mancate per la liberazione di Moro non cambia 286.
L’ultima pagina del Sequestro Moro è anch’essa la prova della circospezione dello Stato nel trattare tutta la
vicenda per non scoprire segreti politici e implicazioni internazionali. Moro, lo abbiamo visto, fu assassinato
certamente in Via Caetani, per ragioni che abbiamo documentato, dopo il fallimento delle trattative segrete e
per impulso del KGB. Eppure la versione ufficiale della morte del Presidente di cinque Governi della
Repubblica è stata a lungo quella delle BR, che furono le prime a darsi da fare per coprire i loro illustri
mandanti, come attestò indirettamente l’intercettazione telefonica di una conversazione tra tre esponenti di
Separat, fatta a Budapest dai servizi segreti ungheresi il 16 gennaio 1980 287. All’inizio le BR accettarono la
risultanza investigativa che faceva di Gallinari l’assassino di Moro, poi esse stesse gli affiancarono Moretti e
poi a questi misero a fianco il solo Maccari. La versione definitiva la diedero Mario Moretti, nel suo libro,
Germano Maccari in Corte d’Assise e, sia pure solo per confermare, Prospero Gallinari e Anna Laura
Braghetti, ossia i quattro carcerieri ufficiali di Moro. Lo statista fu fatto scendere nell’ascensore
dall’appartamento al garage in una cesta da Moretti e Maccari, che poi lo trasportarono nel box in cui
l’attendeva una Renault 4. Mentre la Braghetti sorvegliava l’ascensore e Maccari l’appartamento, i due
assassini fecero sdraiare Moro nel bagagliaio, dicendogli che stavano per portarlo fuori libero. Lo fecero per
pietà, ma presumibilmente anche per evitare che la vittima designata potesse attirare l’attenzione con
richieste di aiuto. Subito dopo Moretti sparò a Moro uno o due colpi con una Walther PKK cecoslovacca
modificata. Gli inflisse anche una o due raffiche di mitraglietta Skorpion. In questa ricostruzione colpisce
l’uso delle armi senza silenziatore in un condominio, poco prima delle 6,30. Sulla salma fu messa una
coperta. I carnefici sostennero di aver compiuto il delitto in auto per non lasciare tracce di sangue
nell’appartamento e nel condominio, ma non spiegano perché non abbiano pensato di tamponare le ferite in
casa, piuttosto che nel bagagliaio dell’auto, dove pure dovette esser fatto, visto che il vano era pulito. Infatti,
come dicevamo, alcune tracce di sangue avrebbero dovuto in ogni caso rimanere in quel vano, se Moro fosse
stato ucciso sdraiato. Queste curiose spiegazioni furono date da Maccari, il quale parlò di quell’evento come
uno che in realtà non vi avesse partecipato e recitasse un copione, peraltro controvoglia. L’altro killer, oltre a
Moretti, era in effetti non Maccari ma molto probabilmente Giustino De Vuono. A lui alludeva Pecorelli
nell’articolo a cui facemmo riferimento in precedenza, quando scriveva “non diremo che il legionario si
chiama De e il macellaio Maurizio”, parlando degli assassini di Moro. De Vuono era stato nella legione
straniera e Maurizio era il nome di battaglia di Moretti. Del resto, Maccari era contrario all’esecuzione del
prigioniero e sarebbe stato strano che fosse stato poi disponibile all’omicidio. Egli infatti lasciò le BR subito
dopo il delitto, il 12 maggio288. La Renault 4, col suo macabro carico, guidata da Moretti e con a fianco
Maccari, partì alle 6,30 da Via Montalcini 8, vista da un’ inquilina. Con essa, partì anche una Simca, con a
bordo Seghetti e Morucci. Il convoglio alle 7,15 raggiunse Via Caetani dove, spostata un’auto segnaposto, la
284
COSSIGA, La versione di K, pp. 113-115.
285
ALTAMURA, La borsa di Moro, p. 32.
286
IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Doveva morire, pp. 338-341.
287
Relazione di Maggioranza, pp. 212-213.
288
FORLANI, La zona franca, pp. 254-256.
Renault 4 si parcheggiò un poco dopo il portone gentilizio. Secondo Maccari, la salma stette là, nell’auto
abbandonata, senza che nessuno se ne avvedesse, almeno cinque ore. Un’ora dopo, disse confondendo gli
orari, la famiglia fu avvisata289. Tutto questo risultò falso.
Già l’autopsia del 9 maggio evidenziò alcune menzogne delle BR: Moro non era morto alle 6, 30 ma alle
10,00. Non era stato cinquantacinque giorni in un ambiente angusto, quasi sempre sdraiato, ma era tonico
muscolarmente. Ossia non era stato sempre a Via Montalcini 8, in un vano ricavato dietro una parete fittizia
in una sala. Moro era pulito e con la barba non fatta da due o tre giorni. Inoltre, come dicemmo, il cadavere
non aveva lasciato tracce di sangue nel bagagliaio perché le ferite erano state tamponate ed era stato deposto
in esso dopo la morte. Non aveva fatto più di cinquanta metri in quell’auto e ad andatura lentissima, perché
alcune tracce di tessuti sul cadavere e sull’auto non erano state rimosse dall’attrito con l’aria e dal
movimento. Moro non era quindi morto in Via Montalcini ma nell’isolato di Via Caetani, in un deposito di
tessuti. Era stato ucciso da un colpo di pistola e da dieci colpi di mitraglietta, in due raffiche, tutti sparati da
sinistra. Esse si erano disposti come a formare una rosa attorno al cuore, mentre la pistola aveva puntato ai
polmoni290. Secondo Padre Cesare Curioni (1923-1996), uno dei mediatori della Santa Sede nella trattativa
per liberare Moro, le armi spararono a distanza di tempo l’una dall’altra, forse una ventina di minuti. Moro
morì dopo quindici minuti circa di agonia, ma non si sa se dopo il primo colpo o dopo le raffiche di
mitraglietta. Il sacerdote aggiunse un particolare inquietante: il Presidente DC fu consegnato quasi
agonizzante alle BR, che furono costrette a mettere la firma al delitto con la loro Skorpion 291, ma la cosa
personalmente non mi convince.
Di recente Luigi Ripani (1957-), tenente colonnello e comandante del RIS dei Carabinieri, ha ricostruito
l’omicidio in audizione presso la Commissione Fioroni. Moro era “seduto sul pianale, sopra la coperta, con
il busto eretto e le spalle rivolte verso l’interno dell’abitacolo, il portellone aperto”. Secondo Ripani, furono
sparati dodici colpi in tre momenti differenti. I primi tre colpi raggiunsero il rapito “con direzione ortogonale
al torace”. Moro si accasciò e venne colpito da altri spari della Skorpion. Infine due ultimi spari, uno dalla
Walther PKK, l’altro ancora dalla Skorpion. Ci fu dunque un colpo in più rispetto a quelli contati nella
perizia del 1978. Sul bavero sinistro della giacca di Moro erano presenti macchie biancastre. Dagli
accertamenti è emerso che si trattava di saliva, compatibile con la posizione in cui è stato trovato il cadavere
e con la circostanza che la morte non sia arrivata nell’immediatezza. 
Altre bugie sono legate alle modalità del ritrovamento della salma. Il giorno 8 maggio Andreotti, confortato
dal Noto Servizio che seguiva la faccenda, confidava a Cossiga di riporre buone speranze nella mediazione
della Santa Sede. La mattina del 9 Cossiga fu rassicurato telefonicamente da Markus Wolff del buon esito
della trattativa, grazie a un intervento del Mossad. Questa notizia è stata fornita da Giuliano Vassalli (1915-
2009). Claudio Signorile si recò nello studio del Ministro degli Affari Interni a metà mattinata e fu testimone
dell’ottimismo di Cossiga, ma anche della diffusione, a mezzo altoparlante, della notizia radiotrasmessa dalla
Polizia, che era stato trovato il cadavere di Moro. Questa cosa fu immediatamente confermata da due
radiotelefonate al Ministro, il quale cadde subito in una profonda costernazione. Ciò accadde tra le 11,00 e le
13,00292. Alle 12,13 Valerio Morucci – ancora una volta in prima linea uno dell’ala non stragista delle BR,
quasi a compattare il gruppo – telefonò a Franco Tritto informandolo che il corpo di Moro era in una
Renault 4 rossa in Via Caetani. Il Viminale quindi seppe della telefonata intorno alle 12,30. Alle 13,20 i
Carabinieri furono mandati a controllare l’esattezza della segnalazione. Datane conferma a Cossiga, questi
avvisò Zaccagnini dopo le 13,45. L’ANSA batté la notizia alle 13,59 e diede il nome di Moro alle 14,00. Ma
cosa accadde tra le 12,30 e le 13,20?
Alle 13,05 una testimone, diretta nel suo ufficio, parcheggiò la sua auto dietro alla Renault 4, e asserì che
non vi era nessuno. Solo alle 13,20 vide arrivare le forze dell’ordine. Qualcuno quindi, dal Viminale, arrivò,
controllò e bloccò l’arrivo dei Carabinieri fino alle 13,20. Questo qualcuno fu forse quello stesso gruppo di
persone che avrebbe dovuto prendere in consegna Moro se fosse stato liberato. Una coppia di sposi, infatti,
verso le 13,10 entrò in Via Caetani da Via dei Funari, ossia dalla parte del Ghetto. Nella strada,
completamente vuota, notò il custode di Palazzo Antici Mattei e un gruppo di quattro operai in tuta azzurra
pulita e stirata di fronte al portone di Palazzo Caetani. Il gruppo squadrò i testimoni e questi si allontanarono
avvicinandosi alla vetrina di un negozio all’angolo. Da qui videro passare una ragazza vestita in modo
appariscente con un mazzo di fiori in mano, che vennero consegnati, in Piazza del Gesù, a un uomo sulla

289
FORLANI, La zona franca, pp. 264-266.
290
FORLANI, La zona franca, p. 256.
291
FORLANI, La zona franca, p. 258.
292
FORLANI, La zona franca, pp. 261-262.
quarantina. Questo era il segnale che tutti i controlli erano stati compiuti. Evidentemente dagli uomini in tuta
azzurra, che però invece di andarsene con un vivo, avevano un morto tra le mani 293.
Le cose erano andate molto diversamente da quello che dissero Moretti e le altre BR: Moro era in Via
Caetani almeno dalla sera prima, come abbiamo visto, presumibilmente nel deposito di tessuti. Laura Di
Nola forse era il contatto del Mossad di cui parlò Wolff a Cossiga. Il custode di Moro forse era Giustino De
Vuono. La mattina arrivò la Renault 4 alle 7,15, guidata da Moretti ma vuota, e si posteggiò. Poi entrò dopo
un poco presumibilmente anch’essa nell’isolato di Palazzo Caetani, nel deposito di tessuti. Avrebbe dovuto
caricare Moro, che infatti si accomodò sul bagagliaio aperto. Fuori attendevano i finti operai, che avrebbero
controllato il carico. Da lì, l’auto sarebbe stata portata nel luogo della liberazione, forse nel Cortile di San
Damaso (dove Paolo VI da tempo voleva allestire una prigione per Moro sotto la supervisione della Croce
Rossa e della Mezzaluna294), mentre Padre Enrico Zucca (1906-1979), religioso e agente segreto del Noto
Servizio, avrebbe consegnato cinquanta miliardi alle BR a Milano, ricevuti da monsignor Pasquale Macchi
(1921-) e da Padre Carlo Cremona (1921-2003). Saputa la notizia, Fanfani avrebbe fatto la sua apertura
politica alla trattativa con le BR nel Consiglio Nazionale DC. Contestualmente, Marini avrebbe preso in
consegna i terroristi RAF a Belgrado e li avrebbe consegnati a Giovannone che, a sua volta, li avrebbe portati
nello Yemen del Sud. Il giorno prima Lanfranco Pace e Franco Piperno avevano avvisato Moretti di quello
che Fanfani avrebbe detto, per cui le BR sapevano benissimo cosa sarebbe accaduto 295. Nonostante tutte
queste concessioni, attraverso un canale diverso da quello della STASI, contattato da Cossiga, un ordine
differente era già giunto a De Vuono e a Moretti dagli Organi sovietici: quello di uccidere Moro. Si era
deciso di tenere conto del fatto che la cosa più agognata, il Governo delle sinistre senza la DC, non si sarebbe
realizzata. Perciò si ordinò alle BR di recedere dalla trattativa e i sicari, prima De Vuono e poi Moretti,
compirono il loro orrido dovere. Il rumore dei finti lavori in corso coprì gli spari. A cose fatte, Morucci
avvisò la famiglia di Moro296. Se è vero che il Noto Servizio, come dicevo, era infiltrato dal KGB, questo
seguì la trattativa molto da vicino e inflisse il colpo mortale in un momento in cui poteva umiliare tutti
insieme: DC, PCI, Vaticano, ACC, OLP e Jugoslavia. Della decisione dei servizi sovietici trapelò notizia
dagli ambienti calabresi impegnati nella trattativa con Cazora. Essi proposero di fare irruzione nel covo dove
Moro era detenuto e di liberarlo essi stessi, ma il Viminale non autorizzò questa spericolata impresa,
dall’esito incerto e che poteva essere una trappola, oltre che un debito troppo grande con la ‘Ndrangheta 297.
Se però quest’ultima, coinvolta nel traffico d’armi proveniente dal Libano, seppe di questa decisione tenuta
nascosta a tre Stati sovrani impegnati in una trattativa, si può ipotizzare che il canale di comunicazione tra le
BR e i loro superiori occulti portasse direttamente a Beirut, da Soldatov, che abbiamo incontrato all’inizio
della nostra ricostruzione e che ora la chiude.
Una ricostruzione in cui le trattative, le dinamiche, le ritrosie attestano evidentemente che dietro le BR vi era
una potenza sovrana che l’Italia tentò inutilmente di sganciare da esse e nel contempo di ammansire, e da cui
fu crudelmente castigata. Per nascondere questa verità inconfessabile, la Repubblica Italiana si assoggettò a
numerosi depistaggi e reticenze, diventati sempre più forti in corrispondenza della rivelazione di fonti
riservate dei Paesi ex comunisti (dal 1989 al 1992 dopo la caduta del Comunismo e dal 1995 al 2008 per il
Dossier Mitrokhin298). Tali atteggiamenti dapprima dovevano salvaguardare gli equilibri interni ed esteri, poi
la credibilità delle sinistre nostrane, andate al potere dopo l’abiura del comunismo ma sempre con grossi
scheletri nell’armadio. Furono scelte politiche fatte da politici di grosso calibro nel corso della Guerra Fredda
– come Andreotti, Cossiga e Berlinguer – e conservate dai loro successori. Dal canto suo, la Federazione
Russa, erede dell’URSS, ha sempre respinto ogni coinvolgimento negli italici intrighi, subordinando così le
buone relazioni con il nostro Paese al mantenimento del riserbo su certe questioni.
Gli stessi brigatisti del commando che sequestrò Moro hanno avuto dopo un comportamento degno di una
guerra di spie. Dapprima eliminarono spietatamente chiunque si avvicinasse ai loro segreti più reconditi,
come il giornalista Walter Tobagi ([1947-1980] che aveva intuito la frattura avvenuta nella storia brigatista
con l’ascesa di Moretti 299) e come il giudice Emilio Alessandrini ( [1942- 1979] che, come persino il

293
FORLANI, La zona franca, pp. 262-264. 283.
294
FORLANI, La zona franca, p. 203.
295
FORLANI, La zona franca, pp. 267-268.
296
FORLANI, La zona franca, pp. 280-282.
297
FORLANI, La zona franca, p. 108.
298
La Relazione di minoranza della Commissione ad acta è in effetti uno sforzo notevole per smontare ogni pista che
porti ad Est non solo per il Caso Moro ma anche per l’Attentato al Papa.
299
TURI, Gladio Rossa, pp. 215-217.
circospetto Andreotti annotò nei suoi Diari300, aveva scoperto importanti segreti sul terrorismo).
Contemporaneamente eliminarono, sulla scia del macabro suggerimento di Soldatov ai gregari di Gelli, quel
Guido Rossa della CGIL e del PCI antiterroristico che evidentemente molto sapeva, magari senza capirlo, dei
legami occulti tra la Colonna genovese e altri centri di potere eversivi stranieri. Poi questi stessi assassini
furono tenuti in galera e poi liberati in cambio del loro silenzio o di un parlare sbugiardato in tanti elementi
ma utile a se stessi e alle parti politiche coinvolte in questo gioco oscuro. Nel caso dei sequestratori ed
assassini di Moro sono emblematici i dati che seguono. Mario Moretti, arrestato nel 1981, è in semilibertà
dal 1997 nonostante sei ergastoli. Valerio Morucci, preso nel 1979, è stato scarcerato nel 1994. Barbara
Balzerani, arrestata nel 1985, ebbe la libertà condizionata nel 2006 e fu libera nel 2011. Raffaele Fiore,
arrestato nel 1979, ebbe la libertà condizionata nel 1997. Alvaro Lojacono, cittadino elvetico, dopo undici
anni scontati in carcere per altri delitti brigatisti, nel 1988 non poté essere processato per il Delitto Moro
perché le BR non vollero testimoniare in Svizzera. Alessio Casimirri, dopo essere fuggito a Mosca, è
attualmente latitante in Nicaragua e non ha mai fatto un giorno di carcere. Franco Bonisoli, arrestato nel
1978, è anch’egli attualmente in semilibertà. Anna Laura Braghetti, arrestata nel 1980, ha la libertà
condizionata dal 2002. Adriana Faranda, arrestata nel 1979, ebbe la libertà condizionata nel 1994. Rita
Algranati è stata arrestata solo nel 2004. Molti di costoro hanno beneficato della legge n. 34/87 sui dissociati,
per cui potevano parlare dei propri reati senza fare nomi. Al netto delle norme applicate per gli sconti di pena
a costoro, colpisce che tutti i responsabili conclamati della Strage di Via Fani abbiano pagato un debito mite
alla giustizia per le sei vite innocenti che stroncarono. Gli assassini sono quasi dimenticati, mentre il rovello
sul Caso Moro si agita sempre sui politici al potere all’epoca, specie se di targa DC, e sulla CIA.

2.4 Il contesto internazionale

L’Italia fu condizionata nella gestione del Sequestro dal contesto internazionale, nel quale non trovò una
sponda a cui agganciarsi nella sua lotta contro la rete globale del terrorismo rosso. Premetto quanto detto in
precedenza: se Moro fosse stato ucciso per impedire al PCI di entrare nell’area di Governo, o sarebbe stato
assassinato nel 1976 o, quanto meno, sarebbe stato ammazzato in Via Fani. Un lungo Sequestro era logorante
per il partito cardine dello schieramento atlantico e soprattutto aumentava le chanches del PCI di andare al
potere, come conseguenza di un esito negativo della crisi. Un esito che, meminisse iuvat, in realtà ci fu
almeno in parte, visto che lo Stato ufficialmente non trattò ma il prigioniero morì, anche se poteva succedere
molto peggio. Fu solo l’attaccamento degli Italiani alla libertà che fece sì che la DC superasse questa prova,
così da continuare a fare da diga ai rischi totalitari. In questo contesto, l’atteggiamento delle potenze
occidentali è condizionato dagli eventi ma non ne è il motore principale.
Prendiamo gli USA, per esempio. Il presidente Richard Nixon ([1913] 1969-1974 [1994] ), il presidente
Gerald Ford ( [1913] 1974-1977 [2006] ) e il segretario di Stato Kissinger (in carica dal 1973-1977) non
fecero mai mistero della loro ostilità ai progetti morotei; specialmente con l’ultimo Moro ebbe rapporti tesi,
culminati in un duro colloquio del 1974, in cui allo statista italiano si intimò di cambiare politica, pena gravi
conseguenze301. Una parte di queste ricostruzioni è senz’altro stata amplificata dall’Operazione Sphora, ma il
nocciolo storico esiste e non deve meravigliare. Tuttavia quell’atteggiamento non era il solo in America. Ve
n’era un altro, specie nei circoli mondialisti, assai influenti sotto la presidenza di Jimmy Carter ([1924] 1977-
1981), che mirava a far entrare il mondo sovietico in una sfera di coesistenza pacifica basata sulla
tecnocrazia e sull’integrazione economica. Poco noti all’epoca (ma noti a Moro), quei circoli – la
Commissione Trilaterale e il Gruppo Bilderberg in particolare - avevano una grandissima influenza, anche
oltre cortina. Periodicamente riunivano Conferenze di tecnocrati americani e sovietici a Darmouth,
favorivano l’erogazione di generosi prestiti ai Paesi comunisti, URSS compresa 302 e, naturalmente,
guardavano con simpatia alla possibilità di una trasformazione, dal di dentro, del PCI in un partito
socialdemocratico. Un importante prestito del FMI – meritato dal rigore amministrativo del Governo della
Non Sfiducia – il 18 aprile di quell’anno e la capacità di comprensione politica del segretario di Stato Cyrus
Vance (1917-2002) mostrarono in questo periodo l’influenza di quest’altro schieramento politico americano
e occidentale. In modo significativo, Andreotti – che di quegli ambienti faceva parte - e Giorgio Napolitano
([1925-] che ne fa parte ora) furono accolti molto bene negli USA nel luglio 1977 da Ford. Nel dicembre
dello stesso anno Andreotti vi tornò e incontrò anche Kissinger, che rimaneva molto diffidente verso il PCI,
ma assunse un atteggiamento più cordiale. L’unica nota stonata fu la dichiarazione del 12 gennaio 1978, che
300
ANDREOTTI, Diari 1976-1979, p. 304.
301
GOTOR, Il memoriale della Repubblica, pp. 527-528.
302
DE VILLEMAREST, Le KGB, pp. 263-265
ribadiva che il governo americano non aveva mutato atteggiamento nei confronti dei Partiti comunisti,
incluso l’italiano. Alle richieste di spiegazioni per vie diplomatiche da parte di Andreotti, gli USA, tramite
l’ambasciatore Richard Gardner ([1927] 1977-1981), risposero che confermavano l’appoggio al nostro
Governo e che certe cose si dicevano per motivi di propaganda 303. In questa condizione di ambivalenza, gli
USA non furono d’aiuto, ma nemmeno di ostacolo alla gestione del sequestro da parte degli inquirenti. Il
controllo che gli USA avevano di parte dei nostri servizi senz’altro li teneva aggiornati di tutto quanto
avveniva di importante, ma l’ambiguità e la fluidità della situazione li spingevano alla neutralità. Non
avevano sfidato l’URSS nella sfera di loro competenza, ossia la gestione del PCI, ma nemmeno volevano
supportarla, in attesa degli sviluppi. Ma quando ci furono, quelle stesse oligarchie mondialiste, nelle quali
erano anche rappresentati i ceti imprenditoriali italiani e che potevano aver apprezzato il Compromesso
Storico, che idea positiva poterono mai avere di un Moro che dalla prigione favoriva il dialogo con le BR,
scavalcando il PCI a sinistra? Evidentemente nessuna. Fu cosi che nulla fecero.
Le altre nazioni occidentali andarono sempre a rimorchio: da un lato, garantirono il rispetto per la tenuta
democratica dell’Italia, confortate dalle prese di posizione europeiste e atlantiste di Berlinguer; dall’altro,
posero dei paletti prudenziali. Il 16 luglio 1976 – allora aveva ancora senso perché la Non Sfiducia era in
gestazione– il G7 di Portorico aveva, in una seduta in cui gli Italiani erano assenti, stabilito che il nostro
Paese non avrebbe avuto nessun aiuto finanziario se il PCI fosse andato al Governo 304. Anche qui, una
posizione cauta e di attesa dei nostri alleati, perfettamente comprensibile, che si riscontra nei minuti Diari di
Andreotti in tutto il periodo della Solidarietà Nazionale. A questa presa di posizione Moro reagì con precise
anche se garbate rimostranze, mentre Andreotti fu più comprensivo e riservato. Gli giunsero altri consigli di
prudenza da Parigi, Bonn e Washington. Ma, durante la crisi del Caso Moro, come vedemmo, almeno tre
nazioni europee importanti – RFT, Gran Bretagna e Francia – aiutarono l’Italia nelle indagini.
Tra queste, quella più ostile al Compromesso Storico, all’Italia e a Moro fu la Gran Bretagna, ma per ragioni
che riguardavano tutta la politica mediterranea. Gli inglesi temevano l’attivismo di Roma nell’area e la sua
emancipazione dal predominio di Londra nel settore energetico mediante accordi con i sovietici e con la
Libia. Il partito britannico in Italia era poi tenacemente anticomunista e ben addentrato nei meandri della
Stay Behind. Nel 1976 alcuni ambienti della Gran Bretagna non esclusero di favorire un colpo di Stato in
Italia, ma vennero dissuasi dall’ostilità di USA e RFT, mentre la Francia era neutrale. In conseguenza di ciò,
Londra il 13 maggio scelse una diversa azione sovversiva. Ma l’ambasciatore Alan Campbell (1919-2007), il
14 dicembre, informò il suo governo che il PCI non sarebbe arrivato subito al Governo e che nemmeno
voleva farlo305. Per cui, se da un lato la diversa azione sembrerebbe essere il sostegno al terrorismo e persino
una benevola neutralità verso il Sequestro Moro, quando fu realizzato, la consapevolezza dell’accelerazione
che tale evento avrebbe impresso all’avanzata del PCI verso il potere avrebbe dovuto essere un buon motivo
per evitare proprio quelle scelte. In sintesi, nemmeno all’MI6 poteva sfuggire che la lunga detenzione di
Moro – non la sua morte immediata – sarebbe stato un rischio troppo grande per la DC. Anche a Londra
quindi io credo che non si sia andati oltre ad una benevola comprensione delle intenzioni di Mosca, magari
più fattiva di quella degli altri Stati occidentali. Vedrei lo zampino inglese più nella campagna scandalistica
sulle tangenti petrolifere prese da personalità vicine ad Andreotti e forse anche a Moro, e che Pecorelli
orchestrò nel 1976-1979 con la divulgazione del dossier MI.FO.BIALI, piuttosto che in altre azioni
violente306. Sintomatico che il dossier, come quello su Gelli, non vide mai la stampa, anche perché la
Solidarietà Nazionale era già finita.
Poi c’era Israele. Tutti sanno oramai che Tel Aviv aveva relazioni con le BR forse da prima ancora di
qualsiasi altra potenza e che voleva servirsene contro il nostro Governo, filopalestinese. Il Lodo che porta il
suo nome di certo non faceva di Moro il più amato dagli israeliani. Ma paradossalmente proprio il fatto che il
FPLP fosse coinvolto nel suo sequestro potrebbe aver spinto il Mossad a dare una mano per la liberazione di
Moro, il quale, una volta uscito, avrebbe dovuto essere grato agli israeliani e, di converso, avrebbe avuto
buoni motivi per cambiare politica verso l’OLP, assieme a tutta la DC e al PCI stesso di Berlinguer. Non a
caso, l’unico servizio che risulta aver fatto qualcosa per far liberare il Presidente DC nell’ultima, convulsa
fase del suo rapimento, fu quello israeliano.
Infine, ad oriente, l’URSS, sempre evocata in queste pagine. Con essa l’Italia aveva delle ottime relazioni,
che Mosca avrebbe preferito consolidare con un Governo DC senza la partecipazione del PCI, per non avere
debiti con Berlinguer. Lo stesso Andreotti annotò con circospezione che, negli anni 1976-1979, i suoi
303
G. ANDREOTTI, Gli USA visti da vicino, Rizzoli Milano 1989, pp. 113-123.
304
MONTANELLI-CERVI, L’Italia degli Anni di Piombo, pp. 174-177.
305
M. J. CEREGHINO- G. FASANELLA, Il Golpe Inglese, Chiarelettere Milano 2014, ebook, ad indicem.
306
LIMITI, L’anello della Repubblica, pp. 91-99.
rapporti con l’URSS non furono degni di nota, diversamente dal passato, per la presenza del PCI nella
maggioranza307. In ogni caso le relazioni italo-sovietiche erano importanti. L’Italia sapeva quanto era grande
l’affanno nel mondo comunista e Andreotti con Moro volevano che Mosca dialogasse con l’Occidente per
favorire l’evoluzione liberale dei sovietici. Vi erano poi strettissimi legami economici, che negli anni settanta
erano diventati molto favorevoli per l’URSS, essendo aumentate le importazioni di materie prime da essa in
Italia e diminuite le esportazioni industriali dal nostro Paese. Ciò era stato causato dalla crisi economica
italiana e nonostante ciò la Confindustria chiese al Governo di mantenere una generosa linea creditizia verso
Mosca. Ciò accadde nel 1977, tra le critiche della CEE e degli USA, visto che l’Italia aveva ottenuto a sua
volta prestiti, come dicevamo, dall’FMI. Questa generosità era legata anche al fatto che l’URSS esportava da
noi petrolio e gas, permettendoci di divincolarci dalla morsa della crisi energetica, causata dalla mancanza di
accordi tra i Paesi europei e quelli dell’OPEC. A queste forniture l’Italia non rinunziò nemmeno sotto le
pressioni degli USA. Anche dopo la morte di Moro l’Italia e l’URSS conclusero importanti accordi
economici nel campo energetico 308. Molto sintomatico poi che, nel giugno 1979, quando oramai Andreotti
sapeva che non sarebbe tornato a Palazzo Chigi, i sovietici lo invitarono a fare tappa a Mosca mentre tornava
dal vertice dei Paesi industrializzati a Tokyo, nonostante – se non proprio perché – sapessero che il PCI,
uscito battuto dalle elezioni, non avrebbe gradito 309. Morto Moro e il Compromesso Storico, Giulio Andreotti
e la DC tornavano ad essere interlocutori da vezzeggiare. L’uomo che si era fatto garante dei segreti di Stato
internazionali durante il Caso Moro – e che ancora lo avrebbe fatto fino alla morte - venne ricevuto con tutti
gli onori al Cremlino dal premier Alexei Nikolaevitch Kosygin (1904-1980) e dal ministro degli Esteri
Andrej Andreevitch Gromiko (1909-1989). Fatto che colpì il Divo Giulio, Kosygin gli mostrò, privatamente
e confidenzialmente, la stanza di lavoro di Stalin, mai smantellata, senza che egli ne capisse appieno il
motivo. Personalmente, lo considero intimidatorio310. Altrettanto sintomatico l’appellativo che Craxi rivolse
ad Andreotti in quegli anni: l’amico di Boris Ponomarëv (1905-1995), presidente della Commissione Esteri
del Soviet delle Nazionalità e assai poco amato dal PCI, che egli ricambiava con altrettanta stringatezza di
sentimenti311. L’uomo del Compromesso Storico era ora, sia pure polemicamente e polemicamente, diventato
il garante del ritrovato equilibrio tra Mosca e Roma. Per Craxi Andreotti era, sia pure temporaneamente, un
reietto perché difendeva il lavoro fatto con il PCI al governo e snobbava il PSI, ma al di là di questo, il Divo
Giulio era l’uomo che, all’estero, ora era guardato benevolmente da quei gerontocrati sovietici che, con
Ponomarëv in testa, avevano, come vedemmo, esortato il PCI stesso allo scontro finale con la DC prima
della Non Sfiducia. Come si vede, si tratta di una trama ad equilibri inversi all’interno e all’esterno
dell’Italia.
Tutti fattori, questi, che vanno tenuti in conto per comprendere quali e quanti interessi condizionarono
l’Italia nella gestione del Caso Moro.

307
G. ANDREOTTI, L’URSS vista da vicino, Rizzoli Milano 1988, p. 123.
308
S. TAVIANI, L’Ostpolitik italiana nella politica estera di Andreotti, in BARONE – DI NOLFO, Giulio Andreotti , pp.
243- 304, in partic. pp. 284-289.
309
ANDREOTTI, L’URSS vista da vicino, p. 131.
310
ANDREOTTI, L’URSS vista da vicino, p. 137.
311
ANDREOTTI, L’URSS vista da vicino, p. 140.
CONCLUSIONE

Avendo studiato e ricostruito sia la storia dell’attentato a Giovanni Paolo II che quella dell’omicidio di
Moro, ho notato delle singolari coincidenze strutturali. Il primo nasce per risolvere la crisi sistemica del
POUP, il secondo per risolvere quella del PCI, entrambe viste ovviamente con gli occhi di Mosca. Nel primo
caso si tentò di imbrigliare la Polonia in una rete costruita tra URSS e DDR, pronta ad intervenire anche
militarmente. Nel secondo caso si cercò di neutralizzare, anche fisicamente, Berlinguer attraverso
l’opposizione interna e la Bulgaria. Entrambe le situazioni precipitarono per due eventi inattesi: l’elezione
papale e la disponibilità di Moro ad assecondare il riformismo di Berlinguer. Allora il Cremlino organizza
una risposta a più livelli: violenta, denigratoria e ricattatoria, per l’una e l’altra situazione. I due organi, KGB
e GRU, convergendo sulla soluzione per obiettivi comuni, imbastiscono una trama internazionale. In essa,
sia nel 1978 che nel 1981, ha un ruolo di primo piano l’HVA, il più efficiente servizio segreto satellite.
Questo sceglie un altro servizio segreto servente, che nel caso del Papa fu il DS bulgaro e nel caso di Moro
fu l’STB cecoslovacco, già profondamente radicato in Italia e burattinaio della rete militare clandestina
comunista in Italia, la PSSS. Nell’attentato al Papa, si decise di ricorrere a forme di terrorismo di apparente
colore politico diverso, per schermare l’azione. Nel sequestro di Moro, fu attivata la rete internazionale del
terrorismo rosso, controllata direttamente da Mosca. In entrambi i casi, il servizio segreto servente cercò un
mediatore che lo mettesse in contatto con l’organizzazione terroristica scelta: per il Papa fu la mafia turca,
per Moro l’Hyperion. Nel primo caso furono contattati i Lupi Grigi, nel secondo le BR con la RAF e forse
Separat. In entrambe le circostanze, i killer erano persone note e gradite all’URSS e alla DDR, nei cui
archivi erano schedate. L’attentato al Papa non riuscì, e il killer fu arrestato. Per indurlo a tacere sulla via
delle rivelazioni giudiziarie furono rapite Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi, anche se dei due sequestri
solo il secondo ha una vera funzione politica, mentre l’altro è in un certo senso propedeutico. Il sequestro di
Moro riuscì, ma l’obiettivo politico sfuggì di mano e allora furono usati come ostaggi il Memoriale e altri
documenti segreti, onde impedire la prosecuzione della politica morotea. L’ostinazione del Papa polacco e la
capacità suasoria di Moro furono elementi di disturbo e i servizi segreti dell’Est dovettero rimodulare la loro
azione. Nel caso del Papa, accontentandosi che la Pista bulgara fosse chiusa, nel caso di Moro arrivando ad
ucciderlo per bloccare la trattativa e spezzare la coalizione DC-PCI. Nel secondo caso fu una vittoria
importante per l’URSS, ma questa è l’unica differenza di peso tra i due eventi delittuosi. Infatti, dopo
l’attentato al Papa, i sovietici colpirono a fondo le finanze vaticane con lo Scandalo dell’Ambrosiano, mentre
dopo il Sequestro di Moro vibrarono un altro colpo alla DC con le dimissioni di Leone. In tutte e due le
operazioni vi furono ampie manovre di disinformazione, che nel caso del Papa legarono il rapimento Orlandi
al Vaticano e in quello di Moro ricondussero il suo omicidio alla DC e agli USA. Queste manovre furono
assecondate dalle loro vittime per ragioni di politica internazionale, solo che quando le condizioni
geopolitiche cambiarono i complici silenti rimasero irretiti nel loro stesso gioco di acquiescenza. Sia
l’attentato al Papa che il Sequestro Moro sono diventati un labirinto da cui nessuno è riuscito ad uscire,
trovando la strada della verità. Sia l’uno che l’altro si avvalsero di una rete spionistica sovietica ramificata
per essere perpetrati. Entrambi videro un ruolo importante di istituzioni deviate, spesso riconducibili a Licio
Gelli. Infine, in entrambi, molti che sapevano sono stati uccisi 312. Sono due delitti simmetrici, che rivelano un
marchio di fabbrica. Sono due delitti i cui dati sono leggibili nell’insieme ed insieme solo col paradigma
epistemologico della pista rossa.
A distanza di molti anni, è una esigenza politica e culturale che la verità sia disvelata sul Caso Moro, specie
nel quarantesimo della sua scomparsa. La comprensione di quel passato ci aiuterebbe a capire meglio anche
il presente. Ma c’è un’altra ragione per cui questa verità esige di essere conosciuta. Nei suoi Diari, Andreotti
il 12 giugno 1978 registra stupito che San Pio da Pietrelcina (1887-1968), di cui Moro era un devoto
discepolo, aveva profetizzato la morte violenta dello statista 313. Questa notizia ci porta all’uomo Moro, al
credente, al padre di famiglia, a cui mani ostili hanno senza alcun diritto tolto la vita, assieme ai suoi agenti
di scorta. Moro era un cattolico democratico che anteponeva allo Stato il valore della persona. Si può non
essere d’accordo con questo, ma l’immenso valore di quella vita e delle altre recise con la sua reclamano il
diritto allo smascheramento dei colpevoli. Da dove si trovano, quelle vittime non ne hanno certo bisogno,
prese da ben altre soddisfazioni. Ma ne abbiamo bisogno noi che siamo sopravvissuti a quel bagno di sangue.
All’epoca, la ragion di Stato esigeva silenzi e segreti. Oggi esige chiarezza e sincerità, per dare un senso sia
alle morti che alla coltre oscura in cui dovettero essere avvolte. I tempi sono maturi per sapere ogni cosa.

312
Per la ricostruzione dell’Attentato a Giovanni Paolo II cfr. SIBILIO, L’attentato a Giovanni Paolo II e la Guerra
Fredda.
313
ANDREOTTI, Diari 1976-1979, p. 232.
BIBLIOGRAFIA
(comprende solo i testi citati in apparato e quindi non ha alcuna pretesa di esaustività)

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