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Semeiotica otorinolaringoiatrica

L’esame obiettivo otorinolaringoiatrico si effettua particolarmente mediante l’ispezione e


mediante la palpazione. Differentemente dalla semeiotica cardiologica o pneumologica
l’ispezione otorinolaringoiatrica in parte è già endoscopica.
Innanzitutto, è necessario procedere con l’anamnesi tenendo conto dei sintomi e del fatto
che ogni patologia presenta il proprio corteo sintomatologico; in anamnesi, il paziente
solitamente riferisce uno o più sintomi fondamentali, ma occorre ricordare che una volta che
il paziente accusi un sintomo, questo deve essere inquadrato temporalmente e bisogna
ampliare l’anamnesi di tutti gli eventuali sintomi che possano essere presenti o meno. Un
paziente che accusi un disturbo della voce deve essere opportunamente inquadrato anche
per altri sintomi eventualmente di patologia laringea, allorché se ne sospetti una.
Chiaramente, vanno anche considerati altri sintomi che possono essere eventualmente
presenti al fine di avere un quadro completo locale, regionale e generale, dal momento che
vi sono patologie di ordine sistemico che hanno manifestazioni locali.

PATOLOGIE LARINGEE

Le patologie laringee possono dare uno o alcuni sintomi, e ogni patologia ha i propri sintomi
di esordio e di evoluzione:
a) Disfonia: si intende una alterazione della propria voce; è importante dire “proprio”
poiché la voce è un carattere antropometrico e ben preciso per cui il soggetto ha una
percezione di sé ben precisa in base alla voce. Con “antropometrico” si intende
connaturata ad ogni individuo.
b) Disfagia: sensazione soggettiva di difficoltà durante l’atto della deglutizione, ricordando
che la deglutizione riguarda sia cibi solidi che saliva/liquidi. Nel senso più patologico del
termine si manifesta nella cosiddetta sindrome disfagica1, pur se vi sono altre patologie
che per cause di carattere meccanico, oppure neurologico, possono determinare una
difficoltà nell’atto deglutitorio. Le difficoltà di deglutizione sono fondamentali da
considerare perché possono comportare polmonite ab ingestis.
c) Dispnea: si intende una sensazione soggettiva di difficoltà respiratoria che può
avere cause tra le più vaste e che pertiene all’otorinolaringoiatria anche perché di fronte

1
Sindrome disfagica: passaggio di cibi solidi e liquidi nelle vie aeree inferiori, una cui complicanza può essere la
polmonite ab ingestis
a un paziente dispnoico si può iniziare a capire con delle accortezze dove sta il problema,
cioè se abbia un problema pneumologico, cardiologico oppure neurologico.
d) Odinfagia: insorgenza di un dolore alla deglutizione che può ad esempio insorgere
conseguentemente ad una tonsillite.
Il dolore può essere
- diffuso,
- localizzato, per esempio “lateralizzato”: ingoiare una spina di pesce causa una dolore
puntorio lateralizzato
- irradiato, in genere verso l’orecchio e questa è un’evenienza importante.
e) Tosse: segno e sintomo
f) Emoftoe: emissione di un espettorato con strisce di sangue, con saliva e frammisto a
muco, in seguito ad un colpo di tosse
g) Emottisi: emissione di cospicue quantità di sangue dalle vie aeree, in seguito ad un
colpo di tosse
h) Ematemesi: emissione di sangue con vomito: presenza di sangue, solitamente
evidenziabile durante il vomito, proveniente dall’esofago, dallo stomaco o dal duodeno
(dispense vecchie).
i) Ororaggia: emissione di sangue dalla bocca senza tosse, è sintomo di patologia
dentaria.
Il soggetto può avere una diversa condizione di fuoriuscita di sangue dalla bocca, come
anche l’emottisi, l’ororragia e l’ematemesi. Tra emoftoe ed emottisi la differenza consiste
nella quantità di sangue emessa ma in entrambi i casi si verifica l’emissione con la tosse,
mentre l’ororragia si manifesta in assenza di tosse; ancora, l’emottisi si presenta con il
vomito.
Quindi occorre porre diverse domande:
i. Se vi è tosse
ii. Se vi è vomito
iii. Se la emissione con tosse avviene mista a saliva o meno

PATOLOGIA NASO-SINUSALE
a) Ostruzione respiratoria nasale: il soggetto con ostruzione respiratoria nasale non
è un soggetto dispnoico. Un soggetto che respira male dal naso va investigato in vari
modi:
i. Tempo da cui soffre della patologia
ii. Modalità di insorgenza
iii. Decorso: stabile, cronico, cronico-evolutivo o rapidamente evolutivo: in
quest’ultimo caso si pensa soprattutto a condizioni neoplastiche
iv. Se respira male da una o entrambe le narici
Vi sono patologie in cui il soggetto respira male solo da un lato, il che è rilevante dal
momento che un’ostruzione monolaterale può suggerire la presenza di un corpo
estraneo (accade frequentemente nei bambini), mentre la presenza di una ostruzione
bilaterale orienta verso una patologia distrettuale.
b) Rinorrea: fuoriuscita di secrezioni dalle cavità nasale; va chiesta la composizione,
mucosa, purulenta, alle volte sierosa monolaterale o bilaterale.
c) Starnutazione: segno e sintomo
d) Epistassi: fuoriuscita di sangue dalle fosse nasali, può essere anteriore/posteriore,
mono/bilaterale. In caso di epistassi, prima dell’eventuale valutazione del
trattamento, è necessario occludere le narici premendo sulle ali nasali in senso
latero-mediale e bilateralmente, mantenendo la testa del paziente flessa verso il
basso. Dopo aver trattato l’emergenza si definisce se l’espistassi è anteriore (a livello
delle narici) o posteriore (a ridosso del rinofaringe). Inoltre bisogna comprendere la
causa: le epistassi hanno cause locali oppure cause di ordine generale, poiché
molte volte è la prima spia di patologie di carattere generale e questo è comunque
un elemento di confondimento. Soggetti ipertesi molto spesso manifestano epistassi,
soggetti anticoagulati, trombocitopenie di varia natura anche in età infantile alle volte.
e) Iposmie o anosmie: disturbi dell’olfatto, riduzione o assenza della capacità olfattiva
f) Cacosmie: percezione di odori sgradevoli che in realtà non sono presenti
g) Parosmia: sensazione differente dalla realtà: percezione odorosa diversa rispetto a
quella reale
h) Cefalea: disturbo doloroso della testa, talora associato a dolorabilità di faccia e/o
collo: è la più comune tra le sindromi dolorose(dispense vecchie).
Bisogna distinguere la cefalea da seni paranasali e quella di tipo neurologico: non
bisogna confondere un mal di testa con sinusite.
Le patologie naso-sinusali si possono accompagnare a cefalea ma la problematica
nella pratica clinica è che le cefalee vengano subito attribuite a sinusopatie: al
contrario, una recente review scientifica ha stimato come solo il 9% dei soggetti con
cefalea e diagnosi di sinusopatia soffre effettivamente di sinusopatia (la probabilità
che un soggetto abbia cefalea a causa di una sinusopatia è bassissima / dispense
vecchie). In passato la diagnosi era anche confermata tramite RX dei seni paranasali,
indagine che oggi non viene utilizzata, perché le diagnosi sono cliniche in fase
acuta/subacuta o con TC senza mdc in fase ricorrente e cronica. La diagnosi di
sinusite è ben precisa e non va sottovalutata, per certi versi specialistica ma la cosa
importante è non confondere mal di testa e sinusite. Chiaramente, se il pz fa terapia
per sinusite ma il mal di testa non passa si tratterà di cefalea di tipo neurologico.

PATOLOGIA OTOLOGICA

a) Ipoacusia: diminuzione della capacità uditiva:


i. Monolaterale
ii. Bilaterale: a sua volta si descrive come simmetrica o asimmetrica, in
quest’ultimo caso con differenze qualitative tra le due orecchie (dispense
vecchie)
In quest’ultimo caso, va opportunamente richiesto al paziente se sente di meno in
maniera uguale in tutte e due le orecchie, poiché se così è, si pensa ad una patologia
globale.
Può accadere che un soggetto senta dei suoni fortissimi per qualche frequenza e si
parla di residui.
b) Anacusia: sordità monolaterale, condizione che può intervenire a destra o a sinistra.
c) Cofosi: sordità bilaterale, indica l’assenza di percezione del suono bilaterale totale.
d) Disturbi algici: otodinia/otalgia: c’è una sottilissima differenza tra i due termini
utilizzati per descrivere la terminologia algica al fine di sottolineare una problematica
anamnestica e semeiologica.
i. Otodinia: dolore che deriva da patologia di pertinenza strettamente otologica.
ii. Otalgia: dolore auricolari con strutture perfettamente normali (più frequente).
Entrambi indicano la presenza di un dolore localizzato nella regione auricolare, ma
sussiste una differenza fisiopatologica, nel senso che vi sono situazioni patologiche
che possono comportare un dolore riferito alla regione auricolare, pur se le strutture
auricolari siano normali. In questo caso si apre una problematica diagnostica, poiché
patologie dell’articolazione temporo-mandibolare, dei denti, della faringe, fenomeni
nevralgici possono dare un dolore riferito all’orecchio, tanto è vero che nelle tonsilliti
importanti i soggetti possono riferire dolore auricolare.
e) Otorrea: fuoriuscita di secrezioni dall’orecchio, dal meato acustico esterno,
condizione che alle volte può conseguire ad otiti medie acute o croniche purulente.
La secrezione può essere sierosa o purulenta.
f) Otorragia: fuoriuscita di sangue dall’orecchio, l’otorragia è sempre un fatto acuto e
due sono le ipotesi patogenetiche che sottintendono una otorragia:
i. Traumi: possono alle volte provocare una rottura della rocca petrosa ma non
solo
§ Incidenti stradali: grossi traumi cranici
§ Incidenti di lavoro
§ Traumi minimi: per uso sconsiderato del cotton fioc
§ Percossa
§ Schiaffo sull’orecchio, che determina una compressione dell’aria nel
condotto uditivo esterno e l’aria compressa può determinare la rottura
di timpano; il soggetto inizialmente non sente il dolore ma solo una
lieve ipoacusia, una sensazione di ovattamento, che tende a perdurare
e in questi casi è necessario fare delle medicazioni particolari per far
cicatrizzare l’orecchio; alle volte, quando non bastano le medicazioni,
può essere necessario effettuare una ricostruzione chirurgica.
§ Traumi mandibolari: possono portare a otorragia per via dei rapporti
che esistono tra il condotto uditivo esterno e l’articolazione temporo-
mandibolare.
ii. Otiti: esiste nei bambini una forma di otite che spesso preoccupa le madri
perché provocano otorragia.
iii. Neoplasie (raramente)
g) Vertigini: erronea sensazione di movimento del proprio corpo rispetto allo spazio o
viceversa:
i. Soggettive: quando a carico del proprio corpo, è il corpo che si muove
ii. Oggettive: quando a carico dell’ambiente circostante, è l’ambiente che si
muove.
Non sempre le vertigini derivano da patologie di competenza otorinolaringoiatrica,
poiché oltre al vestibolo vi sono altre informazioni che arrivano ad altri centri nervosi
che partecipano ad esempio al mantenimento dell’equilibrio. Le vertigini periferiche
sono funzionalmente destabilizzanti ma non mettono in pericolo la vita del soggetto,
mentre le vertigini centrali che sono di carattere neurologico mettono seriamente in
pericolo la vita del paziente.
Bisogna quindi distinguere tramite l’esame otoneurologico:
- vertigine periferica, di competenza dell’otorinolaringoiatra
- vertigine centrale, causata da patologie del SNC, ad esempio un’emorragia
subaracnoidea
h) Acufeni: sensazione soggettiva di fischi, sibili e ronzii nell’orecchio. Gli acufeni
possono essere soggettivi o oggettivi, ma si tratta di condizioni patogeneticamente
non chiare (ancora oggi la patogenesi non è chiara), ma funzionalmente debilitanti,
che preoccupano molto più di una ipoacusia. Alla rapida insorgenza e alla non
dissuadenza di questo sintomo va fatta una pronta diagnosi, il paziente che manifesta
questo disturbo deve essere subito indirizzato ad un otorinolaringoiatra. A volte
possono insorgere in soggetti che non hanno un problema otologico, in soggetti sani.
Occorre considerare che per questa problematica debilitante non vi sono delle vere
e proprie terapie. Il consiglio è quello di approcciare la situazione all’insorgenza e di
non sottovalutarla.
i) Autofonia: sensazione di rimbombo della propria voce nell’orecchio.
j) Ovattamento (Fulness Auricolare): si accompagna a patologie otologiche. È
solitamente un sintomo patognomonico di alcune patologie, ma è evidenziabile
anche in un soggetto che presenta semplicemente un tappo di cerume nell’orecchio,
quindi questa è la prima patologia da escludere nel percorso diagnostico (dispense
vecchie).

PATOLOGIE ORO-FARINGEE

a) Disfagia
b) Odinfagia: dolore elicitato dal dolore, dolore che peggiora con la deglutizione
c) Faringodinia: si intende una sensazione dolorosa soggettiva, spontanea, non
esacerbata dalla deglutizione, che il paziente riferisce “alla gola” e può dipendere
da patologie faringee oppure non faringee, è un dolore spontaneo. Alle volte può
coesistere con l’odinfagia.
d) Sensazione di bolo faringeo: alcuni soggetti riferiscono la sensazione di “avere
qualcosa in gola” che non si muove, non potendo essere deglutito né espulso. La
si ritrova in varie situazioni patologiche, di cui una di queste è il reflusso gastro-
esofageo.
e) Ororragia: percezione di sangue nel cavo orale. Non essendoci né tosse né
vomito, la causa è prettamente orale (dentaria) o al massimo del rinofaringe
(dispense vecchie)
f) Scialorrea: alterazione della salivazione, sia per iperproduzione che per difficoltà
a contenere e gestire la saliva. I soggetti non trattengono saliva nel cavo orale
per aumento della produzione oppure per una alterazione della deglutizione.
g) Trisma e stomatolalia: rappresentano sintomi di una faringo-tonsillite
complicata che si esprime con un ascesso peritonsillare e con una
tumefazione della regione faringo-tonsillare, con spostamento mediale in genere
della tonsilla. La tumefazione in questione determina un cambiamento delle
volumetrie, cambiando l’acustica della voce, stomatolalia, mentre il trisma è
impossibilità o difficoltà di aprire la rima buccale. Il trisma può anche avere altre
cause, non solo otorinolaringoiatriche ma anche neurologiche, come il tetano
cefalico.
STOMATOLALIA: è un sintomo e un segno che corrisponde ad una tipica
mutazione vocale dovuta all’impedimento del passaggio di aria espiratoria
attraverso le narici; detta anche “voce di rospo” o “parlare con la polpetta in
bocca”. (dispense vecchie)
TRISMA: impossibilità o difficoltà ad aprire la rima buccale. Le cause più frequenti
sono di due tipi:
- cause neurologiche: come il tetano cefalico
- cause locali:
i. Neoplasie in stadio avanzato: raro oggi che un paziente arrivi a diagnosi
di carcinoma oro-faringeo per trisma, perché la neoplasia avrà prima
comportato disfagia, odinofagia, ororragia
ii. Ascesso peritonsillare: complicanza di tonsillite acuta batterica,
determina tumefazione oro-faringea che causa a sua volta stomatolalia
h) Disgeusia: alterazioni del gusto.
Tutti i sintomi vanno ricercati in termini di presenza o assenza della sintomatologia accusata
o misconosciuta dal paziente e in termini temporali, nonché corroborato dall’eventuale
approfondimento della sintomatologia generale, dell’anamnesi patologica remota. Esistono
anche altri sintomi, di competenza fonologica, come la disodia che è la alterazione della
voce cantata dal paziente.

Per ogni sintomo bisogna indagare:


- insorgenza
- modalità di insorgenza
- durata
- decorso

Esame obiettivo otorinolaringoiatrico


Dopo l’anamnesi si procede con l’esame obiettivo.
L’esame obiettivo otorinolaringoiatrico consiste in:
- ispezione
- palpazione

ISPEZIONE

Le strutture otorinolaringoiatriche hanno pochissima evidenza all’esterno2 pertanto è


necessario servirsi di ispezione endoscopica, illuminando le strutture da ispezionare.
• Rinoscopio: divarica le pareti estensibili del naso permettendo alla luce di illuminare
l’interno delle fosse stesse (rinoscopia anteriore). Tradizionalmente, ma non si usa
più, per visualizzare rinofaringe e coane, si poteva utilizzare uno strumento simile
allo specchietto laringeo.
• Otoscopio: strumento metallico per studiare il meato acustico esterno con estremità
foggiata a cono; le due metà combacianti del cono possono essere allontanate l’una
dall’altra per mezzo di un’impugnatura con la quale si tiene anche in mano lo
strumento. Si inserisce la punta del cono nel meato acustico esterno, si divaricano le
metà del cono in modo da stirare il padiglione in alto e indietro per rendere il condotto

2
Fosse nasali, condotto uditivo, membrana timpanica, rinofaringe, ipofaringe, laringe non sono accessibili
all’ispezione esterna.
uditivo più rettilineo e permettere quindi la convergenza dei raggi luminosi nel meato
acustico esterno: in questo modo si osservano meato acustico esterno e faccia
esterna della membrana timpanica.
La luce proviene da una lampadina che il medico porta fissata ad una fascia applicata
alla fronte: si tratta di un a sorgente luminosa e di un sistema di convergenza dei
raggi chiamato speculum auricolare.

• Specchietto laringeo: strumento utilizzato per lo studio delle strutture ipofaringo-


laringee, in particolare delle corde vocali (ipofaringo-laringoscopia indiretta);
necessita di una fonte luminosa.
Il laringoscopio è costituito da uno specchietto (molto simile a quello usato dal
dentista) montato su un lungo manico, angolato rispetto a questo di circa 45 gradi.
Lo specchietto va riscaldato prima dell’introduzione nella gola, in modo che non si
appanni per l’umidità contenuta nell’aria espirata: lo specchietto viene passato
qualche volta attraverso una fiamma, senza essere riscaldato troppo, poi utilizzato.
Si chiede al paziente di aprire la bocca, si inserisce lo specchietto con la superficie
riflettente verso il basso, fino a toccare la parete posteriore della faringe: mantenendo
orizzontale il manico e illuminando fortemente, sullo specchietto si forma
un’immagine rovesciata delle strutture laringee sottostanti.
L’operazione risulta fastidiosa per il paziente e può provocare vomito: per evitare ciò
si può utilizzare una soluzione spray di un anestetico che viene nebulizzata in bocca
prima dell’esame, tuttavia l’anestesia superficiale è associata a rischio di edema della
glottide quindi molti otorinolaringoiatri preferiscono non usarla.
Si ricorre a questo esame principalmente in caso di alterata funzionalità dell’apparato
di emissione di suoni: pazienti con voce abbassata (disfonia) o totale assenza di voce
(afonia) o con emissione di voce dai caratteri particolari (voce nasale, bitonale, etc).

• Fibroscopio: costituito da fibre ottiche rigide o flessibili dotate di fonte luminosa e


telecamera collegata ad un monitor esterno, si tratta quindi di un esame diretto (es:
laringoscopia diretta) perché non necessita di uno specchio attraverso il quale si
osserva l’immagine.
- fibroscopio flessibile: utilizzata per via transnasale per valutare in
successione cavità nasali, faringe, laringe fino ai primi anelli tracheali. La
fibroscopia diretta flessibile è generalmente esplorativa.
- fibroscopio rigido: i fibroscopi rigidi possiedono più fibre ottiche quindi
consentono una visione più nitida delle strutture. Tutti i fibroscopi rigidi sono
dotati di vari angoli di visione, propria fonte luminosa e l’oculare per
visualizzazione diretta o connessione con telecamera.
A differenza del fibroscopio flessibile, l’ingresso può essere sia transnasale
che transorale.
Le fibre ottiche rigide possono essere:
Ø Corte e sottili: per l’orecchio, sono molto poco utilizzate
Ø Lunghe e sottili: per il naso
Ø Lunghe e di maggior diametro (generalmente 1 cm): per la via orale; in
questo modo si possono osservare le strutture rinofaringee puntando
verso l’alto e le strutture ipofaringolaringee puntando verso il basso.
Il fibroscopio rigido transorale necessita di anestesia locale (per evitare il
riflesso faringo-laringeo) e di tirare fuori la lingua: questo non permette di
effettuare uno studio dinamico, perché con la lingua mantenuta fuori il paziente
non può parlare.
La fibroscopia diretta rigida può essere esplorativa e al tempo stesso
terapeutica.

• Microscopio ottico: si usa soprattutto nell’ambito diagnostico-ambulatoriale


otologico (otomicroscopia).
Il microscopio si utilizza anche in sala operatoria oltre che nella pratica clinica
otologica: tutti gli interventi di chirurgia otologica si fanno con il microscopio e in
ambito laringologico il microscopio si usa nella chirugia ipofaringea-laringea3 in
anestesia generale: durante l’atto chirurgico si può anche affinare la diagnosi.
• Specchio frontale: specchio concavo montato su una fascia che si applica sulla
fronte dello specialista; lo specchio è dotato di un sistema di illuminazione che
consiste in una lampadina4 applicata alla fascia frontale e sospesa anteriormente al
lato concavo dello specchio. I raggi luminosi colpendo la concavità dello specchio
vengono fatti convergere lungo un asse che corrisponde all’asse visivo dello
specialista. Questo sistema quindi permette di illuminare lungo lo stesso asse della

3
Chirugia ipofaringea-laringea: fonochirurgia o chirurgia laringea endoscopica con laser (microlaringoscopia).
4
La lampada fissata sulla fronte del medico prende il nome di fotoforo: illumina l’area di intervento lasciando libere le
mani.
visione, mantenendo le mani libere e valutando le altre strutture organiche con gli
strumenti già visti oltre che con gli endoscopi a fibre ottiche.
• Altri strumenti utilizzati nella pratica clinica-ambulatoriale e in chirurgia:
- speculum nasale: per dilatare le narici
- abbassa-lingua: per visualizzare l’orofaringe
- aspiratori: per aspirare le secrezioni eventualmente presenti; sono tutti dotati di una
placchetta, una piastrina che ha al centro un foro che comunica con il lume
dell’aspiratore: quando il medico non vuole aspirare lascia il foro aperto, quando
decide di aspirare lo chiude.
- pinza a baionetta: per prelevare campioni
Tutti questi ferri sono angolati per garantire una buona visuale, altrimenti la presa
occuperebbe sia la visuale che il tragitto dei raggi luminosi.

L’obiettività ispettiva si può suddividere in tre gradi:


1. Obiettività di primo grado: utilizzo di ferri rinoscopici, otoscopici, laringoscopici
insieme a fonti luminose e ad aspiratori;
2. Obiettività di secondo grado: utilizzo delle fibre ottiche, flessibile o rigide a seconda
della patologia da indagare
3. Obiettività di terzo grado: utilizzo del microscopio ottico in ambulatorio per quanto
riguarda l’otomicroscopia e in sala operatoria per la patologia laringea.

PALPAZIONE

La palpazione permette di palpare strutture del massiccio facciale, del cavo orale e del
collo.
L’obiettività cervicale viene effettuata stando alle spalle del paziente, utilizzando i polpastrelli
delle quattro dita escluso il pollice: si fa deglutire il paziente, si fanno effettuare movimenti.
Il capo deve essere lievemente flesso per far rilassare le fasce e permettere quindi una
migliore palpazione: bisogna indagare la presenza-assenza di tumefazioni e la consistenza
di queste.
Disfonie

Con il termine disfonia si intende l’alterazione della propria voce ed è bene sottolinearlo
giacché la voce è un carattere che descrive strettamente la personalità di un individuo e più
specificatamente viene definito come un carattere antropometrico definito da alcuni
parametri, in particolare l’alterazione di uno o più parametri acustici della voce, ovvero:
1. Timbro
2. Intensità
3. Altezza
La disfonia è un segno/sintomo che può conseguire a patologie laringee o non-laringee,
dovute quindi a malattie che non determinano danneggiamento delle strutture laringee, per
cui ogniqualvolta si riscontri la presenza di una disfonia si aprono differenti ipotesi
diagnostiche in merito a quale possa essere la patologia che determini l’insorgenza di
questo segno/sintomo.
1) FONAZIONE
Durante la fonazione, si inspira volontariamente e successivamente si verifica un
cambiamento della respirazione da automatica a volontaria: le corde vocali si chiudono e
inizia l’espirazione. L’espirazione a glottide chiusa determina aumento della pressione
sottoglottidea fino a che questa non vince la pressione e apre le corde vocali: nel momento
in cui esse si aprono si verifica un crollo pressorio che genera un risucchio delle corde vocali,
che vibrano.
La laringe ha una struttura sfinteriale: durante la inspirazione le corde vocali si abducono e
nell’espirazione si adducono lievemente.
Il meccanismo della fonazione prevede quindi in successione:
1. Inalazione di aria (corde vocali aperte)
2. Chiusura glottica
3. Espirazione: dislocazione delle corde vocali
4. Ritorno in posizione delle corde vocali
In realtà, l’espressione di vibrazione delle corde vocali non è propriamente corretta dal
momento che non risulta vibrare interamente la struttura della corda vocale bensì lo strato
mucoso, che riveste le corde vocali stesse e che prospetta la cavità laringea. Questa
oscillazione dello strato mucoso è possibile da aversi dal momento che alla tonaca mucosa
delle corde vocali sottostà uno strato gelatinoso, che prende il nome eponimo di strato di
Reinke. La successione di eventi che comporta la vibrazione delle corde vocali, intesa come
uno scivolamento dello strato mucoso sullo strato di Reinke, prende il nome di onda o
oscillazione mucosa: durante la fonazione non vibra l’intera corda vocale bensì solo la
superficie mucosa.
La vibrazione presenta una frequenza all’incirca di 100 Hz circa nell’uomo e 200 Hz nella
donna, per cui non esisterebbero degli strumenti adeguati per poter cogliere questa
vibrazione, pur se si possa ricorrere ad un artificio diagnostico che si vale dell’utilizzo della
luce stroboscopica: detta luce è una luce a flash che dà l’illusione ottica di un movimento
ricostruito ma ovviamente questa vibrazione avviene molto più velocemente. Le
caratteristiche principali della voce, o meglio i parametri vocali sono:
1. Timbro: o colore, corrisponde ad un aspetto percettivo soggettivo della struttura
sonora, armonica e non, di un suono; esso dipende dalle caratteristiche di intensità
e frequenza delle armoniche componenti e dalla presenza di rumore (un problema di
acustica).
2. Intensità: quantità di energia sonora
3. Altezza: frequenza fondamentale
Una buona voce dipende da un rapporto equilibrato tra la tensione dei muscoli laringei e la
pressione della colonna aerea che determina la vibrazione delle corde vocali vere in
relazione alla tonalità ed all’intensità dei suoni che devono essere emessi. Quindi una buona
voce dipende da un rapporto molto equilibrato.
Nell’ambito delle disfonie, ve n’è una in particolare che consegue a sforzo vocale,
intendendosi con questa espressione due distinte qualità descritti con due termini mutuati
dalla scuola francese di foniatria:
1. Abuso vocale: errori di intensità, durata e velocità
2. Maltrattamento vocale: utilizzo di fonazione alterata in altezza, impostazione,
qualità, supporto respiratorio; associato ad abuso.
Ad esempio, alcuni soggetti parlano senza prendere aria e si può vedere come si
contraggono i muscoli del collo quando parlano. Il mancato rifornimento aereo mette sotto
sforzo le strutture fonatorie, peraltro questi soggetti presentano una respirazione non
perfetta e questo può portare a disfonia disfunzionale, per la quale l’aspetto precipuo è
l’anamnesi positiva per sforzo vocale.
2) APPROCCIO ALLE DISFONIE
Le disfonie possono essere intese anche come un segno/sintomo di malattia che alle volte
non è neanche squisitamente laringea, motivo per cui è necessario conoscerne tutte le
possibili cause, anche perché mediante un minimo di diagnostica differenziale si può
correttamente giungere alla diagnosi in tempi ragionevolmente brevi. Molto spesso infatti,
accade che le patologie laringee che causino disfonie o altre patologie non strettamente
laringee ma che si presentino con questo sintomo/segno presentano sintomi o segni clinici
poco evidenti, spesso non vi sono dolore, febbre o altri sintomi per cui alle volte la diagnosi
è abbastanza tardiva e questo sicuramente è un aspetto che limita il margine di intervento
sulla patologia che causi la disfonia stessa. Peraltro, molto spesso specialisti di altre
discipline che abbiano poca dimestichezza con questa manifestazione clinica potrebbero
erroneamente sottovalutare il problema, quando invece un paziente che lamenti una
disfonia deve essere rapidamente indirizzato a visita specialistica otorinolaringoiatrica.
Per questo motivo, al fine di scongiurare situazioni in cui si verifichino diagnosi tardive ogni
paziente con un cambiamento della propria voce perdurante da almeno due settimane
deve effettuare una endoscopia, che è da considerarsi come l’esame di base per la
diagnosi di una disfonia. In realtà, questa regola generale presenza anche delle eccezioni
dal momento che ogniqualvolta si riscontri un cambiamento improvviso della propria voce
si deve ricorrere all’esecuzione dell’endoscopia, dal momento che alle volte l’insorgenza
improvvisa della disfonia può essere spia clinica di una patologia acuta che necessiti di un
trattamento precoce, che evidentemente diverrebbe inefficace se si aspettassero le due
settimane per effettuare l’endoscopia.
Esempio di un caso clinico: una giovane madre cantante lirica grida con i suoi figli,
successivamente accusa una disfonia improvvisa, una riduzione delle capacità fonatorie;
viene sottoposta rapidamente ad endoscopia e si riscontra una formazione polipoide su una
corda vocale. La diagnosi endoscopica precoce ha permesso di effettuare una terapia
cortisonica, capace di far regredire la formazione nel giro di 3-4 giorni. Se l’endoscopia fosse
stata fatta dopo due settimane, la paziente avrebbe necessitato un intervento chirurgico,
con la possibilità di rovina della sua carriera.
3) CLASSIFICAZIONE
Come anticipato, la disfonia è un sintomo o un segno clinico per il quale, allorquando se ne
riscontri la presenza, sussistono diverse ipotesi eziopatogenetiche, per cui è necessario
conoscerne la classificazione dal momento che si basa sull’eziopatogenesi delle disfonie
stesse:
1. Disfonia disfunzionale da sforzo: si intende con l’espressione di disfonia
disfunzionale da sforzo una alterazione della propria voce, specificatamente del
timbro vocale e nella più parte dei casi nel senso della raucedine oppure della
prestazionalità vocale in assenza di modificazioni organiche. Se ne riconoscono
tre distinte qualità:
a) Disfonia disfunzionale da sforzo ipercinetica
b) Disfonia disfunzionale da sforzo ipocinetica
c) Disfonia disfunzionale da sforzo mista
2. Disfonia disfunzionale complicata con laringopatia: si intende in questo caso con
tale espressione una disfonia inizialmente insorta come una alterazione del timbro o
della prestazionalità vocale nella quale, ad una iniziale fase senza danno
morfologico, subentra un danno organico, esso stesso secondario alla disfonia
disfunzionale.
3. Disfonia psicogena: si definisce con l’espressione di disfonia psicogena una
disfonia che consegue a delle patologie o dei fenomeni di natura psichica e di
competenza psichiatrica; si tratta spesso di stati psichici che in qualche maniera
possono alterare lo stato emozionale del paziente e per il tramite di queste alterazioni
alterano la voce dal momento che determinano una alterazione del gesto fonatorio,
come accade anche nell’ambito delle disfonie disfunzionali da sforzo.
4. Disfonia da patologia della muta: si intende una patologia che si manifesta durante
la muta vocale, intendendosi con questa espressione il processo per il tramite del
quale durante la pubertà si verifica un cambiamento della voce, particolarmente nei
soggetti di sesso maschile dove la voce tende a divenire molto più grave e bassa. Si
tratta, infatti, di un fenomeno assolutamente fisiologico che è molto più lampante
nell’uomo che nella donna, anche in considerazione del fatto che le frequenze di
fonazione che si raggiungono nel soggetto adulto di sesso maschile si aggirano sui
100 Hz, la metà, circa, della frequenza di vibrazione delle donne adulte. La disfonia
da patologia della muta può conseguire a fattori psicogeni o ormonali e il
coinvolgimento di questi ultimi si spiega facendo riferimento al fatto che la voce è un
carattere sessuale secondario.
5. Disfonia organica: si intende con l’espressione di disfonia organica una alterazione
della propria voce conseguente a patologia laringea che risulta essere il movente
eziopatogenetico della disfonia. Si tratta di un gruppo di disfonie da considerarsi
diverso e distinto da quello delle disfonie disfunzionali complicate con lesione
organica secondaria, in cui pure si documenta un danno morfologicamente
identificabile. Sul piano concettuale queste due forme di disfonia differiscono per via
del fatto che la lesione organica è causa e conseguenza, in un caso o nell’altro, della
disfonia; sul piano clinico-diagnostico, solitamente quelli con una disfonia da sforzo
complicata con lesione organica sono soggetti con una anamnesi da sforzo positiva.
6. Disfonia neurologica: si intende con questa espressione una disfonia che consegue
ad un danno neurologico centrale o periferico, dal momento che la laringe è un
organo statico-dinamico che gode di una fine innervazione e allorché ne risulti un
danno dei centri motori che generano l’impulso nervoso ovvero delle lesioni che
alterino la conduzione dell’impulso nervoso a livello dei nervi periferici si può
verificare una disfonia neurologica.
Si può ben comprendere come vi siano differenti categorie classificative delle disfonie,
ognuna delle quali presieduta da un preciso meccanismo eziopatogenetico e, in ognuno di
questi meccanismi patogenetici, sono annoverate patologie diverse che possono dare la
risultanza medesima, cioè una disfonia appartenente ad una di queste categorie. Per cui
conoscere ognuna di queste categorie classificative e conoscere di ciascuna le varie
patologie che determinino l’insorgenza della disfonia è un aspetto estremamente importante
come guida nella pratica clinica per poter interpretare un segno/sintomo clinico tanto
misconosciuto talora quanto difficile da interpretare.
4) APPROCCIO DIAGNOSTICO
Solitamente, il primo approccio diagnostico per le disfonie è sempre quello di eseguire una
attenta anamnesi, al fine di poter documentare se sussistano dei fattori personali che
possano orientare verso la diagnosi di una di queste patologie. Infatti, non infrequentemente
soggetti che lamentino una disfonia documentano una anamnesi positiva per abuso vocale
(errori di intensità, durata o velocità) oppure maltrattamento vocale (errori di fonazione in
altezza o impostazione); ancora, la disfonia disfunzionale da sforzo solitamente incide con
maggiore frequenza in soggetti che utilizzino la voce come mezzo del proprio lavoro o, in
altri casi, in soggetti per i quali la voce è l’essenza stessa dell’attività lavorativa, come
cantanti o attori, soprattutto di teatro. Oltre agli eventuali fattori scatenanti, l’anamnesi deve
essere in grado di chiarire anche la modalità di esordio, se improvvisa o graduale, e il
decorso, se acuto o cronico, e l’eventuale sintomatologia regionale. Chiaramente,
l’anamnesi fornisce delle informazioni orientative, sia pure di estrema importanza, per
l’indirizzo diagnostico della disfonia, motivo per cui è necessario approfondire l’iter delle
disfonie innanzitutto con la laringoscopia tradizionale indiretta con fibre ottiche, a tutta
ragione annoverata come una metodica dell’esame obiettivo otorinolaringoiatrico, e
successivamente mediante l’utilizzo di indagini strumentali come la laringostroboscopia,
la valutazione aerodinamica e la valutazione elettroglottografica.
• DISFONIA DISFUNZIONALE DA SFORZO
Con l’espressione di disfonia disfunzionale da sforzo si intende una alterazione della
propria voce, in particolare del timbro o della prestazionalità della voce, che consegue ad
un abuso vocale o ad un maltrattamento vocale in assenza di lesioni organiche. Si tratta
quindi di una alterazione della funzione fonatoria corrispondente ad un difetto di
adattamento o di coordinazione degli organi che normalmente sono coinvolti nella
fonazione, per cui viene anche definita con il nome alternativo di disfunzione
pneumofonica, che dall’essere pura e cioè ascrivibile esclusivamente ad un difetto
funzionale, può divenire secondaria od organica allorquando in considerazione del
perdurante sforzo vocale che causa la disfonia subentri una lesione organica, che in
questo caso non è causa ma conseguenza della disfonia: tale è la disfonia complicata con
laringopatia.
1) CATEGORIE A RISCHIO
La disfonia disfunzionale da sforzo è una manifestazione che consegue ad un abuso vocale
o ad un maltrattamento vocale, per cui è chiaro che vi siano delle categorie maggiormente
a rischio, semplicemente perché in queste si verifica una concentrazione di sforzo elevata
nella voce. In questa categoria rientrano soggetti che tendono a gridare eccessivamente o
soggetti che svolgono professioni in cui la voce è un mezzo di esercizio o l’essenza
dell’attività lavorativa stessa, come gli insegnanti, nonché i cantanti, soprattutto quando
escano al di fuori del proprio repertorio di possibilità canora, lavoratori dei call-center,
militari che devono impartire ordini a voce alta e molto impostata. Sono da considerarsi a
rischio anche le madri di figli molto piccoli, che costituiscono una delle categorie in cui più
frequentemente queste problematiche si verificano.
2) FISIOPATOLOGIA
Quindi, la disfonia disfunzionale da sforzo consegue ad un errore di intensità, di durata e
velocità (=abuso vocale) o all’utilizzo di una voce alterata, ad errori in impostazione ed
altezza (=maltrattamento vocale) che alterano la gestualità dell’atto fonatorio. Infatti, al fine
di produrre una buona voce, è necessario che venga assicurato un finissimo equilibrio
pneumo-fonatorio, che si estrinseca tra l’atto respiratorio volontario, particolarmente quello
espiratorio giacché la fonazione avviene durante l’espirazione, e l’assetto della laringe, che
si pone con la propria muscolatura nel giusto assetto fonatorio, in considerazione del
segnale vocale che si intende riprodurre. Possiamo in definitiva dire che la produzione di
una buona voce è indissolubilmente legata all’equilibrio esistente tra la tensione dei
muscoli laringei e la pressione della colonna d’aria espirata che determini la vibrazione
delle corde vocali vere.
Dunque, similmente ad un atleta che, per il subentrare della stanchezza, commetta un errore
nell’esecuzione dello sforzo fisico, allo stesso modo l’assetto laringeo tende a variare con lo
sforzo vocale, per cui risulterà alterato rispetto a quello normale che è necessario alla
produzione di una buona voce: il risultato sarà inizialmente una alterazione del timbro,
particolarmente nel senso della raucedine. Pur tuttavia, la caratteristica di questa disfonia
è che non sia presente alcun danno morfologicamente identificabile e prova ne sia che il
soggetto, a seguito di un riposo vocale completo, riprende l’attività fonatoria normale. Lo
sforzo vocale è una condizione tipicamente parafisiologica che si riscontra soprattutto in
seguito alla necessità di adempiere a degli obblighi, ad esempio lavorativi in categorie
professionali per cui la voce rappresenti un mezzo o l’essenza stessa del lavoro, e se
protratto nel tempo lo sforzo vocale determina l’istituirsi di un circolo vizioso, tale per cui
lo sforzo vocale causi una alterazione della propria voce, in realtà di diversi parametri di cui
quello evidentemente più compromesso è il timbro, la quale alterazione comporta ulteriore
sforzo fonatorio per produrre la voce: quando questo circolo vizioso perduri a lungo si può
realizzare una vera e propria incoordinazione pneumofonica. Dunque, nella disfonia
disfunzionale sussiste una disfunzione pneumo-fonica, una mancanza dell’adeguato
equilibrio e della giusta energia con cui i diversi componenti dell’apparato pneumo-fonico
agiscono. Ciò determina una disfunzionalità la cui manifestazione più evidente è la disfonia.
Quindi si riscontrano:
1. Modificazione della dinamica respiratoria (costale superiore)
2. Modificazione della dinamica laringea
a) Assetto motorio ipercinetico
b) Assetto motorio ipocinetico
I comportamenti del vocal tract e del piano glottico sono caratterizzati da uno sforzo
muscolare fisiologicamente non necessario, che determina irregolarità dell’attività vocale e
respiratoria con alterazione dei parametri fonatori, tra i quali il timbro è quello compromesso
in modo evidente.
3) DIAGNOSI
Il percorso diagnostico per una disfonia disfunzionale da sforzo è indissolubilmente legato
alla presenza di uno sforzo vocale, che è la condizione necessaria affinché si possa
verificare questa forma di disfonia, che si presenta come una forma subdola e recidivante,
la quale tende a scomparire a seguito del riposo totale e tende a ricomparire nuovamente a
seguito di sforzi vocali. In questo caso, la sintomatologia è perlopiù legata alla presenza
della raucedine, che risulta essere la principale espressione dell’alterazione della propria
voce, in tal caso. In realtà, oltre che rauca, la voce può anche riscontrarsi soffiata,
strozzata, ruvida, aspra o pressata e il soggetto potrebbe riferire durante la fonazione
alcuni sintomi soggettivi come bruciore faringeo, irritazione, sensazione di corpo
estraneo o dolore durante la fonazione, senso di oppressione. Comunque, il concetto
fondamentale da considerare per fare diagnosi di una disfonia disfunzionale da sforzo è che
sia presente il dato anamnestico in assenza di alcun tipo di alterazione organica;
all’endoscopia laringea è possibile documentare eventualmente la presenza di un pattern
motorio preciso, che può caratterizzarsi con una eccessiva adduzione cioè costrizione
delle corde vocali, o per una eccessiva abduzione: si parla rispettivamente di disfonia
disfunzionale ipercinetica e ipocinetica, ancorché esistano anche delle forme di disfonia
disfunzionale da sforzo mista, che tuttavia sono di pertinenza prettamente specialistica.
4) TERAPIA
Generalmente, questa forma di disfonia necessita esclusivamente del riposo assoluto, con
cui evidentemente la voce può ritornare normale, anche se in alcuni casi è necessario il
ricorso alla riabilitazione logopedica.

• DISFONIA DISFUNZIONALE COMPLICATA


Si intende con l’espressione di disfonia disfunzionale complicata una alterazione della
propria voce sempre determinata dalla presenza di un abuso vocale (=errori di intensità, di
velocità e di durata) o di un maltrattamento vocale (=voce alterata, errori di altezza o
impostazione), che in questo caso causa la presenza di una lesione morfologicamente
identificabile, che non è essa stessa la causa della disfonia, che sempre dipende dalla
presenza dello sforzo vocale, quanto piuttosto una conseguenza dell’anomalo assetto
fonatorio che determina l’insorgenza di lesioni che potremmo intendere essere traumatiche,
la cui presenza è, tuttavia, fondamentale per il perdurare della disfonia e prova ne sia che
l’andamento che assume la disfonia è cronico e non recidivante come lo è nel caso della
disfonia disfunzionale da sforzo non-complicata e questo testimonia come pur abolendo lo
sforzo vocale sussiste una lesione che determina alterazione della voce.
1) CATEGORIE A RISCHIO
Come per la disfonia disfunzionale da sforzo non-complicata, anche in tal caso i soggetti in
cui maggiormente ricorre questa forma di disfonia è costituita da tutti quei pazienti che per
via di abitudini lavorative o extralavorative eseguano frequentemente sforzi vocali, che in tal
caso perdurano facendo sì che l’assetto pneumo-fonatorio non adeguato generi delle lesioni
definite traumatiche.
2) LARINGOPATIA ORGANICA SECONDARIA
Le lesioni morfologicamente identificabili a seguito dello sforzo vocale prendono il nome di
omnicomprensivo di laringopatie organiche secondarie, dal momento che si riscontra un
danno identificabile morfologicamente e dal momento che non sono esse stesse la causa
della disfonia, piuttosto sono esito organizzato di un trauma conseguente ad uno sforzo
vocale. Secondo la classificazione francese, quindi, le alterazioni secondarie a sforzo vocale
sono:
1. Noduli;
2. Polipi;
3. Prolasso di corda vocale;
4. Edema fusato;
5. Cisti sottomucose;
6. Pseudocisti sierose;
7. Emorragie cordali;
8. Ectasie vascolari.
I noduli sono formazioni sessili e nodulari che insorgono a limite tra il terzo anteriore e il
terzo medio del margine della corda vocale, potendo essere definiti monolaterali ovvero
bilaterali; in quest’ultimo caso, durante il movimento di adduzione delle corde vocali i due
noduli entrano in contatto e questo ne giustifica la denominazione di “kissing nodules”. Per
definizione, un polipo, quale che sia la propria localizzazione, è una formazione vegetante
della mucosa, conseguente ad espansione del comparto epiteliale, dotato di un asse
fibrovascolare non ramificato. I polipi laringei in questione hanno una patogenesi
iperplastica e non sono affatto da considerarsi come delle lesioni neoplastiche. Possono
essere monolaterali ovvero bilaterali, riscontrandosi questa evenienza circa nel 15% dei
casi, e in considerazione all’aspetto endoscopico della lesione possono essere definiti
sessili, allorquando presentino un aspetto cupoliforme a larga base di impianto, o
peduncolati, allorché la lesione presenti una base di impianto ristretto. Sono delle lesioni
che insorgono a qualsiasi livello sul margine libero della corda vocale. Per quanto riguarda
il prolasso di corda vocale altresì noto con il nome eponimo di edema di Reinke, si tratta
di una lesione morfologicamente identificabile per la presenza di edema ed eventualmente
anche fenomeni mixedematosi a livello dello strato gelatinoso, che è quello che sottostà alla
tonaca mucosa e che ne consente lo scivolamento in quella che prende il nome di onda o
oscillazione mucosa. Nell’edema di Reinke, spesso, le corde vocali all’endoscopia appaiono
tumefatte e rigonfie per via dell’edema e giallastre.
In questo caso, si possono documentare dei veri e propri reperti morfologici, che sono
l’effetto organizzato di un trauma fonatorio prolungato e il concetto fondamentale per
comprendere questa variante di disfonia è che si tratta di lesioni benigne, non intendendo
l’aggettivo benigno come riferito ad una neoplasia giacché queste non sono affatto delle
lesioni neoplastiche benigne.
3) CLINICA E DIAGNOSI
Dal punto di vista clinico, l’aspetto fondamentale nell’ambito di questa disfonia è
l’andamento temporale, che differentemente da quanto accada per la disfonia
disfunzionale non-complicata, presenta un andamento cronico, per cui il soggetto non
migliora a seguito del riposo vocale completo, come invece accade per l’altra forma e questo
dipende dal fatto che nella disfonia disfunzionale complicata con una laringopatia organica
insorga una lesione che determina il perdurare dell’alterazione della voce. Il soggetto,
inoltre, accusa anche una fonodinia, cioè un dolore fonatorio, che risulta migliorare con il
riposo, differentemente dalla disfonia stessa che è il carattere fondamentale e che non
migliora; altri sintomi locoregionali solitamente non sono affatto presenti. In alcuni casi,
possono anche intervenire dei fattori favorenti che si associano allo sforzo vocale e che
determinano l’insorgenza della disfonia, come accade per l’edema di Reinke, in cui fattori
come il fumo di sigaretta e il reflusso gastroesofageo sono addirittura preponderanti
rispetto allo sforzo stesso per l’insorgenza del disturbo. Quindi, l’anamnesi deve ricercare
scrupolosamente l’eventuale presenza di elementi come lo sforzo vocale e fattori favorenti
come il fumo di sigaretta e la malattia da reflusso gastroesofageo. Inoltre, occorre chiarire
specificatamente l’andamento della disfonia, che è un elemento clinicamente molto utile
per discriminare una forma disfunzionale pura da una forma disfunzionale complicata,
giacché l’andamento della disfonia disfunzionale pura è recidivante, mentre in questo caso
è cronico e se il paziente lamenti una alterazione della propria voce perdurante da almeno
due settimane è necessario eseguire una endoscopia, che documenterà uno dei quadri
morfologici con cui il danno si esprime nella laringopatia organica secondaria e che è
dirimente per la diagnosi della disfonia disfunzionale complicata.
4) TERAPIA
Una volta eseguita la diagnosi è necessario ridurre i fattori favorenti, cioè sia lo sforzo
vocale che, soprattutto, gli altri fattori di rischio come il fumo o il reflusso gastroesofageo:
qualsiasi approccio terapeutico in assenza di contenzione dei fattori di rischio non porta
giovamento alcuno. D’altro canto, si può propendere per la riabilitazione logopedica o per
la chirurgia. La chirurgia necessaria per queste lesioni è endoscopica e si vale di tecniche
di microchirurgia (cioè microscopio e laringoscopia diretta), in anestesia generale con
strumenti freddi: si tratta della così detta fonochirurgia, ovvero quella chirurgia che mira al
ripristino o al miglioramento della voce del paziente. È qualcosa di tecnico molto mirato, non
è una banale asportazione di una lesione perché deve avere delle caratteristiche tecniche
e prognostiche ben precise.
Nella fibroscopia chirurgica si utilizza un fibroscopio flessibile con canale operatorio per
poter rimuovere la lesione e operare. Questa tecnica ha dei vantaggi e degli svantaggi
rispetto alla fonochirurgia tradizionale con laringoscopia in sospensione e anestesia
generale.
Sarà lo specialista, in funzione dell’intero soggetto, a optare per la tecnica migliore per
cercare di eliminare la problematica e di assicurare un ritorno quanto più possibile vicino
alla voce originaria

• DISFONIA DISFUNZIONALE PSICOGENA


Viene definita come una disfonia disfunzionale dal momento che, al pari della disfonia
disfunzionale da sforzo, anche in tal caso sussiste una anomalia nell’assetto della laringe,
che quindi non si pone nel corretto assetto funzionale alla produzione del gesto fonatorio.
Pur tuttavia, differentemente dalla disfonia disfunzionale da sforzo, in questo caso, non si
riscontra una anamnesi da sforzo, ergo non sussiste alcun abuso o maltrattamento vocale
che possa giustificare l’alterazione della voce propria del paziente. In tal caso, l’alterazione
del gesto pneumofonatorio consegue ad un fattore psichico e tanto è vero questo che
sussistono una serie di stati emozionali differenti che in condizioni anche normali possono
causare delle alterazioni della voce; in tal caso è il disturbo psichico di base che produce
una disfunzione dell’atto fonatorio, generalmente identificabile nei termini di un pattern ben
preciso che è quello ipercinetico, cioè con una eccessiva adduzione delle corde vocali.
La disfonia disfunzionale psicogena è una alterazione della propria voce che ha una
genesi neuropsichiatrica, è un meccanismo di conversione in una sintomatologia: un
soggetto o può lamentare afonia oppure può avere un assetto motorio ipocinetico, con corde
tendenzialmente in abduzione.
La diagnosi la si esegue innanzitutto mediante una attenta anamnesi, che permetta di
escludere ragionevolmente la presenza di sforzi vocali, e mediante l’esame obiettivo che
non documenta affatto alcuna alterazione morfologica delle corde vocali. In tal caso,
neanche con l’endoscopia è possibile riscontrare una lesione dal momento che la genesi
della malattia è di tipo neuropsichiatrico e si manifesta mediante una disfonia giacché
l’anomalia neuropsichiatrica determina una alterazione del normale assetto laringeo.
Sostanzialmente, in questo caso si riscontreranno:
1. Anamnesi muta per sforzo vocale
2. Endoscopia negativa
3. Test specifici:
a) Prova di Lombard
b) Prova della tosse
La prova della tosse consiste semplicemente nel richiedere al paziente di tossire: per avere
una tosse valida le corde vocali si devono chiudere serratamente e si devono aprire
violentemente per cui si può comprendere come l’eventuale presenza di una tosse valida
già possa escludere un meccanismo di paralisi di corda/e vocale/i.
Invece, la prova di Lombard consiste nel privare il soggetto del feedback auditivo: se questo
paziente senza feedback auditivo parla normalmente è molto probabile che sia un
simulatore di sordità o che abbia una disfonia psicogena. Dopo che il soggetto abbia
indossato delle cuffie a volume elevato, gli si chiede di leggere, se la voce viene
normalmente prodotta il problema è psicogeno. Esistono diverse forme di disfonia
psicogena, infine:
1. Isterica: più frequente, improvvisa, forma di finzione per sottrarsi a difficoltà o
mascherare un disagio. Caratterizzata da afonia.
2. Neurostenica: timore di malattia o paura di morire
3. Ossessiva: fissazione in determinati atteggiamenti comunicativi

• DISFONIA DA PATOLOGIA DELLA MUTA VOCALE


Si intende con l’espressione di disfonia da patologia della muta vocale una alterazione della
propria voce che si verifica a seguito di una anomalia patologica nel processo della muta
vocale, espressione con cui si intende il fenomeno di cambiamento della voce durante la
fase puberale e che si verifica sotto stimolo ormonale, essendo la voce un carattere
sessuale secondario, per cui risente della concentrazione di estrogeni e di progesterone,
per cui a tutta ragione possiamo intendere come sia possibile riscontrare la presenza di una
disfonia a seguito di problematiche ormonali, in cui chiaramente la disfonia si presenta solo
come uno dei tanti sintomi e delle tante problematiche che una alterazione ormonale durante
il corso della pubertà può comportare. Occorre considerare che la voce di un bambino
raggiunge frequenze che sono all’incirca di 300-400 Hz mentre nell’adulto di sesso maschile
le frequenze della voce sono pari circa a 100 Hz, mentre nel sesso femminile intorno ai 200
Hz. Per questo motivo, in considerazione della maggiore differenza di cambiamento delle
frequenze la muta vocale è un processo molto più evidente nel soggetto di sesso maschile
che non nel soggetto di sesso femminile in cui comunque si verifica, ancorché sia meno
evidente. La muta vocale si verifica nel soggetto di sesso femminile intorno ai dodici o
tredici anni, mentre nel soggetto di sesso maschile intorno ai tredici o quattordici anni,
con l’intervento di note più gravi che rendono la voce maschile più profonda di quella
femminile: quando la muta non avvenga in maniera naturale si parla di patologia della muta.
I fattori che stanno alla base della presenza di una patologia della muta vocale possono
essere di due tipologie distinte, vale a dire fattori ormonali e fattori psicogeni. Nel primo
caso, una qualsiasi problematica di carattere endocrinologico, potendo alterare l’equilibrio
ormonale esistente tra estrogeni, progesterone e androgeni può provocare una alterazione
della muta vocale, tal che ne consegua alle volte una voce definita eunucoide nei soggetti
di sesso maschile; in altri casi, soprattutto quelli in cui nel soggetto si riscontri un
ipogonadismo addirittura la muta vocale può non verificarsi affatto; in altri casi ancora
l’alterazione in difetto o in eccesso di increzione ormonale può essere alla base di un
rallentamento o di un’accelerazione della muta vocale, rispettivamente, tal che si parli di
muta ritardata o di muta anticipata. D’altro canto, la muta vocale in altri casi può essere
associata alla presenza di una serie di fattori psicogeni, potendosi distinguere, secondo
una vecchia classificazione differenti tipologie:
1. Muta con voce di falsetto: la voce del soggetto, soprattutto di sesso maschile,
risulta eccessivamente acuta.
2. Muta aggravata: eccessiva gravità del timbro della voce.
3. Muta prolungata: si tratta della forma più frequente di disfonia da patologia della
muta, in cui per periodi di tempo anche lunghi, di circa un anno, i soggetti, spesso
maschi in età puberale, passano dall’avere una voce acuta da bambino all’avere una
voce eccessivamente grave, addirittura alle volte rauca, essendo questa una
condizione che spesso preoccupa molto i genitori dei bambini che ne siano affetti.
4. Muta incompleta: si manifesta con un minimo cambiamento della voce del soggetto.
La diagnostica differenziale di questa variante di disfonia è estremamente complessa e
molto fine e in genere necessita di uno specialista, non dell’otorinolaringoiatra ma uno
specialista che si occupa di voce, il foniatra, che può cogliere queste sfumature molto meglio
per poi eventualmente affidare questo soggetto con diagnosi certa ad una eventuale
riabilitazione.
La patologia della muta può avere anche origine endocrina, quindi il paziente può soffrire di
problematiche a lui sconosciute di tipo endocrinologico e il problema vocale può essere la
prima o unica alle volte manifestazione clinica della malattia, cioè quella che ne determina
l’insorgenza del sospetto clinico.

• DISFONIA ORGANICA
Si intende con l’espressione di disfonia organica una alterazione della propria voce che
consegue ad un danno morfologicamente identificabile a livello laringeo, condizione
evidentemente molto diversa da quella che viene definita come disfonia disfunzionale da
sforzo complicata in cui la lesione è l’esito organizzato di un trauma da sforzo, conseguente
ad abuso o maltrattamento vocale; in questo caso, differentemente, non è un trauma vocale
che determini disfonia a causare la lesione, piuttosto è la lesione morfologicamente
documentabile ad essere la causa dell’insorgenza della disfonia. Dal punto di vista
classificativo, le disfonie organiche possono essere classificate dal punto di vista eziologico
in forme primitive e secondarie, vale a dire in considerazione del fatto che la disfonia sia
il sintomo di una patologia squisitamente laringea ovvero espressione di una patologia o di
una condizione dannosa che arreca secondariamente danno alla laringe stessa: in
quest’ultimo caso si descrivono disfonie secondarie a traumi, a reflusso gastroesofageo
oppure disfonie secondarie a medicamenti farmacologici o a presidi chirurgici.
1. Forme primitive:
a) Patologie congenite: si intende con questa espressione quell’insieme di
patologie in questo caso della laringe che sono presenti fin dalla nascita nei
soggetti in cui evidentemente è possibile che si riscontri una disfonia.
b) Patologie sistemiche con localizzazione laringea:
i. Artrite reumatoide
ii. Sindrome di Sjögren
iii. Amiloidosi
Si tratta di due patologie di competenza reumatologica, definite come
patologie autoimmuni di cui una, l’artrite reumatoide, è definita come una
polisinovite cronica delle grandi e delle piccole articolazioni pur se questa sia
una definizione calzante dal punto di vista fisiopatologico ma limitante dal
momento che l’artrite reumatoide è una patologia autoimmune potenzialmente
sistemica. La sindrome di Sjögren è una esocrinopatia autoimmune, che
colpisce caratteristicamente ghiandole esocrine, come le ghiandole salivari
maggiori, le ghiandole lacrimali, il pancreas e anche le ghiandole secretorie
che si trovano a livello della laringe e della trachea. In questi casi, se il soggetto
presenti una alterazione della propria voce perdurante per almeno quindici
giorni è obbligatorio eseguire una endoscopia di controllo, con la quale si può
confortevolmente avviare l’iter diagnostico della disfonia organica.
c) Infiammazioni:
i. Acute
ii. Croniche
Le flogosi possono essere una delle possibili cause dell’insorgenza di una
disfonia e tra le flogosi croniche che possono essere alla base dell’insorgenza
di una disfonia vi è la tubercolosi. Differentemente, tra le flogosi acute che
possono eventualmente determinare l’insorgenza di una condizione di questo
genere si riscontrano le laringiti acute, che sono delle patologie infiammatorie
della laringe prevalentemente su base virale, che spesso insorgono nel
contesto di una laringo-tracheobronchite; differentemente le epiglottiti
acute batteriche hanno poco a che vedere con le sindromi disfoniche,
essendo delle patologie che si manifestano con odinfagia, febbre e disfagia e
che si associano alla presenza di possibili ostruzioni dell’aditus laringeo, il
che è espressione della presenza di una patologia che induce alle volte a
dover eseguire una tracheotomia preventiva. Al netto delle epiglottiti acute
batteriche, le laringiti acute virali sono delle patologie anche discretamente
frequenti, che si associano a tosse, febbre e sindrome influenzale, astenia
che generalmente si risolvono in maniera favorevole senza dover
necessariamente ricorrere alla terapia. Soprattutto in ambito
otorinolaringoiatrico, l’aspirina è un farmaco da utilizzare con estrema cautela;
difatti si tratta di un farmaco ad azione antinfiammatoria, antipiretica e
analgesica ma è anche un farmaco che agisce come antiaggregante
piastrinico, il che è un aspetto estremamente pericoloso da considerare in un
paziente con laringite acuta e sindrome disfonica. Infatti, di per sé la disfonia
impone uno sforzo al fine di produrre la voce e questo sforzo accoppiato
all’azione antiaggregante dell’aspirina può provocare delle vere e proprie
emorragie cordali, che rendono assai più complicata una situazione di per sé
a decorso favorevole. Per questo motivo, la terapia unica per la disfonia da
laringite acuta virale è il riposo vocale completo.
d) Lesioni neoplastiche:
i. Precancerosi
ii. Benigne
iii. Maligne
Alle volte, a livello laringeo possono insorgere delle lesioni francamente
neoplastiche o delle lesioni che precorrono il carcinoma vero e proprio e tali
sono le eritroplachie o le leucoplachie vale a dire delle placche biancastre che
si possono riscontrare a livello della laringe. Differentemente, le lesioni
propriamente definite come tumori laringei possono essere suddivise in due
differenti entità clinico-patologiche distinte, vale a dire i tumori benigni,
spesso papillomi ad eziologia virale, e tumori maligni, vale a dire carcinomi,
più spesso di istotipo squamoso a vari gradi di differenziazione tumorale.
Sfortunatamente, a livello laringeo sono più frequenti i tumori maligni di quelli
benigni. Queste lesioni, nell’ambito della patologia disfonica hanno una duplice
identità nel senso che possono di per loro predisporre allo sviluppo di una
disfonia in alcuni casi, mentre in alcuni altri è la chirurgia oncologica,
soprattutto per i tumori maligni, a determinare per necessità di sacrificio del
nervo laringeo o per danno collaterale durante l’intervento una disfonia, ma in
questa cerchia di casi si parla di una ben precisa forma di disfonia secondaria
a chirurgia.
e) Disendocrinie: soprattutto quelle di carattere generale che possono tra i vari
effetti anche determinare una alterazione della laringe, soprattutto perché la
laringe è un organo ormone-dipendente.
2. Forme secondarie:
a) Chirurgia oncologica funzionale: si definisce in questo modo una disfonia
che consegue alla presenza di un intervento chirurgico eseguito al fine di
rimuovere una neoplasia, soprattutto se trattasi di neoplasia maligna, in cui la
priorità dell’intervento chirurgico è quello di perseguire un esito radicale, per
cui di estrema importanza in questi casi è la eradicazione completa della
neoplasia e, chiaramente, a fronte della necessità di essere quanto più radicali
è possibile al fine di migliorare quanto possibile la prognosi del paziente, la
necessità di preservazione di una buona voce diviene secondaria e tanto è
vero questo che vi sono neoplasie per le quali al fine di raggiungere l’R0 si
deve necessariamente asportare una corda vocale; in tal caso chiaramente il
soggetto con una sola corda vocale presenterà una disfonia che è una
problematica in questo contesto secondaria, dal momento che poi si può
avviare un programma di riabilitazione logopedica per migliorare la produzione
della voce.
b) Iatrogena postchirurgica: tutte le disfonie conseguenti a chirurgia diversa da
quella oncologica per rimozione di un carcinoma della laringe, sono da
considerarsi come delle disfonie iatrogene postchirurgiche e in particolar
modo, gli interventi di chirurgia laringea per rimozione di lesioni benigne come
un polipo o gli interventi di chirurgia tiroidea possono presentare come
possibile complicanza quella della disfonia. Difatti, è possibile che si riscontri
tipicamente un danneggiamento accidentale del nervo laringeo ricorrente
molto più frequentemente che del nervo laringeo superiore. Il ricorrente può
essere reciso per errore altro che nei casi in cui la infiltrazione neoplastica del
nervo non ne imponga il sacrificio. Tuttavia, l’approccio tecnico alla
tiroidectomia per il cancro della tiroide è notevolmente migliorata, ma questo
non vuole affatto significare che non possano verificarsi delle complicanze
come ad esempio può essere una contusione o un danneggiamento del nervo
stesso che causa quella che prende il nome di paralisi periferica
ricorrenziale. La diagnosi anche in questo caso deve essere rapida e tanto è
vero questo che si esegue endoscopia preoperatoria raccomandando poi un
altro esame endoscopico in caso di disfonia post-chirurgica, al risveglio: in
questo modo si possono eseguire per tempo dei tentativi terapeutici
allorquando si manifesti la disfonia.
c) Iatrogena medica: diversi sono i presidi farmacologici per os o inalatori che
possono determinare una disfonia e tra questi vi sono gli antistaminici, i quali
sono inclusi nel novero delle possibili cause di una disfonia medicamentosa
dal momento che inducono secchezza della mucosa di rivestimento cordale.
Se la mucosa delle vie aeree è secca, si possono avere delle alterazioni alle
volte anche lacerative che predispongono alla insorgenza della disfonia.
Conoscere questo aspetto ha una estrema rilevanza pratica dal momento che
da questo ne viene che in corso di patologie o problemi di voce non va mai
somministrato un antistaminico. Rientrano, nel novero dei farmaci che
possono causare disfonia, anche furosemide, terazosina, metildopa,
farmaci anti-Parkinson (L-dopa) o cortisonici inalatori. Le particelle
cortisoniche possono depositarsi sulla mucosa laringea, causando secchezza,
riduzione dell’elasticità e ipotrofia del muscolo delle corde vocali. Inoltre, i
corticosteroidi, essendo dei farmaci che debilitano la risposta immunitaria,
possono agire come fattori favorenti verso infezioni micotiche, pur tuttavia
rare, che si manifestano con chiazze biancastre visibili endoscopicamente. In
questi casi, il problema sussiste nel sospendere il cortisonico oppure nel
proseguire il trattamento. L’aspirina, già prima citata, rientra nel novero dei
farmaci possibilmente in causa in una disfonia dal momento che predispone
invece ad emorragie cordali.
d) Traumi: si tratta di disfonie che conseguono a traumi esterni che arrecano
danno alla laringe e nel novero dei traumi, oltre a quelli accidentali o da
incidente stradale, da ferita da arma da taglio e da qualsiasi altra arma che
possa potenzialmente arrecare un trauma del collo, si devono anche
annoverare le intubazioni.
e) Reflusso laringofaringeo: si tratta di un reflusso di materiale proveniente
dallo stomaco in forme clinicamente silenti di reflusso gastroesofageo, alle
volte di difficile inquadramento dal momento che è possibile che il quadro
clinico sia assolutamente silente per sintomi caratteristici del reflusso
gastroesofageo come la pirosi e il rigurgito.
f) Presbifonia: si intende con l’espressione di presbifonia una alterazione della
propria voce secondaria a invecchiamento, dal momento che si verifica con il
corso degli anni una progressiva atrofia cordale con riduzione dell’elasticità
delle strutture cordali: questi fenomeni iniziano all’incirca dopo i quarant’anni
e descrivono quella che prende il nome di presbilaringe.
Quindi, questa classificazione è da tenere strettamente in considerazione nell’ambito della
diagnostica delle disfonie, dal momento che la ricerca di uno di questi elementi diviene un
vero e proprio algoritmo diagnostico che può essere estremamente utile al fine di chiarire
quale sia o quale possa essere la causa che sta alla base della disfonia.
1) PATOLOGIA CORDALE CONGENITA
Si intende con l’espressione di patologia cordale congenita una anomalia dello sviluppo
delle corde vocali, che sostanzialmente determina una disfonia (=alterazione della propria
voce) che assume un carattere cronico e peggiorativo allorquando subentrino abusi o
maltrattamenti vocali. Le varie anomalie malformative congenite delle corde vocali possono
essere:
1. Cisti epidermoide: si intende una lesione occupante spazio dotata di un epitelio di
rivestimento proprio che circoscrive il lume della cisti stessa. Si tratta di una lesione
occupante spazio che alle volte può presentare una così sottile parete di rivestimento
da lasciare intravedere endoscopicamente delle ectasie vascolari. Secondo una
teoria patogenetica, si pensa che la cisti epidermoide sia una malformazione
congenita della laringe che possa andare incontro ad una apertura tal che ne residui
una incisura con epitelio sottile e sostanzialmente atrofico e in base al fatto che
questa incisura abbia una andatura longitudinale o più ampia e ristretta in senso
sagittale, si definiscono rispettivamente sulcus glottidis e vergeture.
2. Sulcus glottidis: si intende con l’espressione di sulcus glottidis una incisura a
sviluppo longitudinale, cioè il cui asse maggiore è parallelo a quello di sviluppo della
corda vocale. In fibrolaringoscopia appare come una invaginazione longitudinale che
si approfonda verso lo spazio di Reinke, che si caratterizza per l’aspetto biancastro.
3. Vergeture: si tratta di una regione invaginata della mucosa della corda vocale che
appare molto meno sviluppata in senso longitudinale rispetto al sulcus glottidis,
presentandosi caratteristicamente come una lesione che è più o meno adesa al
legamento vocale.
4. Ponte mucoso: si intende una anomalia malformativa in cui si riscontra una
bandarella mucosa che media la connessione tra le due corde vocali.
5. Microdiaframma della commessura anteriore: corrisponde ad una struttura che
residua a seguito dell’assenza di separazione delle due corde vocali durante lo
sviluppo. Difatti, le due corde vocali si separano anteroposteriormente durante lo
sviluppo, per cui se questa separazione non è completa dall’indietro in avanti, si può
riscontrare l’insorgenza di un microdiaframma a livello della commessura anteriore.
Estremamente suggestiva è la teoria eziopatogenetica europea del sulcus glottidis e della
vergeture che sarebbero due esiti differenti della cisti epidermoide, teoria, questa, che è
accettata anche dalla comunità scientifica americana, che tuttavia ipotizza anche una
compartecipazione flogistica che darebbe degli esiti cicatriziali della lesione.
Comunque, a prescindere dall’eziopatogenesi, nei soggetti con disfonia per patologia
congenita si riscontra fin dall’infanzia una leggera raucedine che si giustifica in funzione
di una alterazione dell’onda mucosa dovuta al sulcus o alla vergeture, tale per cui venga
meno lo scorrimento dall’alto in basso e in senso lateromediale dell’onda di oscillazione
mucosa, generando un segnale fonatorio sporco. La disfonia in questi soggetti è cronica
con andamento peggiorativo in funzione delle richieste vocali (raucedine indotta da eventi
acuti, subacuti o recidivanti) e tanto è vero questo che i pazienti con patologia cordale
congenita giungono a diagnosi in maniera accidentale o suggerita (soprattutto da soggetti
che non si conoscono). In questo caso l’andamento della disfonia nelle prime fasi è
disfunzionale da sforzo, intendendosi con questo paragone il fatto che la disfonia peggiori a
seguito di uno sforzo, per poi ritornare alla normalità (intesa come normalità della voce prima
dello sforzo) con il riposo. Pur tuttavia, se il maltrattamento o l’abuso vocale perdura, nel
periodo intercritico si sviluppano delle lesioni traumatiche che fanno evolvere la condizione
da una disfonia da sforzo a una disfonia organica. La diagnosi di questa variante di
patologia delle corde vocali si esegue sulla base del reperto dirimente dell’endoscopia, ma
può essere sospettata per tutti quei soggetti che lamentino una perlomeno leggera
raucedine fin dalla prima infanzia e in cui a seguito di sforzi intervenuti di recente si sia
notato un ulteriore peggioramento della disfonia.
La terapia per questi soggetti si muove su due fronti differenti, cioè la possibilità di
correggere chirurgicamente la lesione congenita che è alla base della disfonia e, oltre che
asportare la lesione, sulla prevenzione delle recidive dal momento che si tratta di soggetti
predisposti a sviluppare recidive. In questo caso le lesioni traumatiche sono secondarie alle
lesioni congenite che di per loro sono trattate con interventi chirurgici molto particolari, altro
che nel caso delle cisti il cui trattamento è piuttosto banale, prevedendosi come tecnica
chirurgica quella di divaricazione delle corde vocali e di successiva rimozione della cisti; in
questi casi, il microscopio aiuta ad avere una migliore risoluzione. Il trattamento chirurgico
deve essere altamente modulato in funzione del paziente anche perché basta un piccolo
errore tecnico dell’intervento per peggiorare la situazione. La fonochirurgia è un campo che
va ben oltre il semplice ripristino della morfologia normale della corda vocale e che dipende
dal complesso equilibrio tra necessità del paziente, indicazioni terapeutiche e tecniche
chirurgiche.
2) NEOPLASIE BENIGNE
Sono una delle possibili cause primitive di insorgenza di una disfonia organica e sono
essenzialmente dei papillomi, che possono essere singoli o multipli e quando lo siano può
esservi una multifocalità sincrona o metacrona, quest’ultima nel momento in cui si riscontri
la presenza di un atteggiamento recidivante delle lesioni. I papillomi per definizione sono
delle lesioni neoplastiche benigne, che conseguono alla infezione da HPV6 o HPV11 e che
si presentano come delle formazioni vegetanti dalla superficie moriforme. Si tratta di lesioni
che possono localizzarsi, rimanendo nell’ambito strettamente laringeo, in sede
sopraglottica, glottica o sottoglottica e alle volte possono essere estremamente ingombranti
da determinare una ostruzione respiratoria: le dimensioni elevate e il rischio di ostruzione
respiratoria, nonché una franca ostruzione respiratoria in atto sono indicazioni assolute alla
chirurgia d’urgenza dei papillomi, che vengono diagnosticati eventualmente mediante
l’esecuzione di una endoscopia. Nel caso che non siano così tanto di grandi dimensioni da
ostruire il passaggio dell’aria, i papillomi possono, localizzandosi a livello delle corde vocali,
interferire con l’onda di oscillazione mucosa e determinare una disfonia. Essendo delle
lesioni ad eziologia virale, possono essere assolutamente responsive al trattamento con
farmaci antivirali, anche se è possibile disporne l’asportazione chirurgica in elezione e non
d’urgenza.
3) PATOLOGIA FLOGISTICA DELLA LARINGE
Le flogosi, più frequentemente quelle acute dacché quelle croniche siano rare, possono
determinare una disfonia. In questo caso la situazione pertiene soprattutto a delle laringo-
tracheobronchiti ad eziologia virale che si manifestano mediante dei sintomi locali come la
tosse e una sensazione di bruciore che si associano alla presenza di sintomi come astenia
e febbre. Differentemente da queste patologie che nella più parte dei casi hanno eziologia
virale, l’epiglottite acuta batterica, che è un’entità clinico-patologica estremamente
pericolosa determina delle problematiche di tipo disfagico o di tipo ostruttivo delle vie
respiratorie.
Infatti, il quadro clinico è caratterizzato da febbre, disfagia, odinfagia ed ha una evoluzione
piuttosto subdola giacché, nell’ambito di una flogosi delle vie aeree, fa più spesso sospettare
una faringite acuta o faringotonsillite acuta, mentre in realtà c’è qualcosa di più importante:
difatti in questi quadri sintomatologici si fa sempre una laringoscopia per verificare lo stato
dell’epiglottide.
Accade talora che l’epiglottite acuta vada incontro ad una evoluzione ascessualizzante
con iniziale esternalizzazione dell’ascesso.
L’epiglottite acuta batterica, piuttosto che avere a che fare con una sindrome disfonica,
pertiene soprattutto ad una sindrome disfagica, ma ha una sua importante pericolosità:
accade talora che si verifichi una tumefazione situata proprio sull’aditus laringeo che può
assumere volume tale da bloccare l’aditus risultandovi come conseguenza un quadro di
insufficienza respiratoria acuta, tanto è vero che talvolta si è costretti a eseguire una
tracheotomia per assicurare la capacità respiratoria e permettere il trattamento della
condizione patologica, ancorché nella più parte dei casi il trattamento medico sia sufficiente.
4) DISFONIA MEDICAMENTOSA
Si intende una alterazione della propria voce secondaria a dei presidi farmacologici che
causano lesioni delle corde vocali. Si riconoscono molti farmaci in grado di generare questo
sintomo/segno:
1. Antistaminici
2. Corticosteroidi
3. Anti-parkinsoniani
4. Metildopa
5. Aspirina
6. Diuretici
Gli antistaminici sono farmaci che causano secchezza del vocal tract, delle corde vocali.
L’onda mucosa delle corde vocali è finissima, richiede un gran livello di elasticità della
mucosa di rivestimento cordale ed è chiaro che se questa venga meno si abbia
un’alterazione dell’onda di oscillazione. Gli antistaminici quindi, alterando lo scorrimento
dell’onda mucosa, possono essere responsabili di disfonia iatrogena medica. Infatti, con
i problemi di voce non si somministra mai l’antistaminico. L’antistaminico si utilizza quando
c’è un problema di allergia, ma assolutamente non si somministra in caso di flogosi acute
su base infettiva.
Gli antidepressivi triciclici causano normalmente secchezza, difatti vengono utilizzati in
soggetti con scialorrea per cercare di diminuire la secrezione salivare, quindi migliorare la
sintomatologia. Hanno tuttavia effetti collaterali di altra natura.
Estremamente frequente come disfonia iatrogena secondaria a presidi farmacologici è
l’alterazione della voce che consegue ad assunzione di steroidi inalatori, soprattutto in
quei soggetti asmatici per i quali è prevista la terapia, soprattutto nelle forme di asma grave,
con PAF cortisonici; a lungo andare conseguentemente a questo trattamento cortisonico
topico per via inalatoria, le particelle si stratificano sulle strutture laringee cordali e causano
secchezza e perdita di elasticità, ma non solo, possono causare anche fenomeni di
ipotrofia a livello delle strutture cordali. I trattamenti cortisonici prolungati possono agire da
fattori favorenti per l’insorgenza di fenomeni micotici, quindi micosi laringee o faringee,
evenienze tuttavia abbastanza rare.
I pazienti in cui si rilevano fenomeni micotici delle prime vie aereo-digestive sono in genere
soggetti debilitati, sottoposti a chemioterapia o trattamenti cortisonici prolungati, il che
significa che la valutazione di queste infezioni che appaiono come degli induiti biancastri
endoscopicamente documentabili affiancata ad una corretta anamnesi farmacologica può
risultare dirimente. Molte volte ai primi sintomi viene subito sospesa la somministrazione del
cortisonico inalatorio.
L’aspirina, di cui si è già detto, è considerata come una possibile causa iatrogena della
disfonia dal momento che predispone alle emorragie cordali.
5) PRESBIFONIA
Si intende una alterazione della propria voce che consegue ad un processo di
invecchiamento che si verifica dai quarant’anni in poi e si caratterizza per la presenza di una
ipotrofia delle corde vocali e di perdita progressiva dell’elasticità. Rispetto al processo vocale
delle aritenoidi si possono distinguere due porzioni che sono la glottide cartilaginea, situata
posteriormente, e la glottide membranosa che occupa i due terzi anteriori. Normalmente,
durante il corso della fonazione, nei soggetti con laringe normotrofica e con elasticità
normale i processi vocali vibrano e le corde vocali si adducono; differentemente nel caso
della presbifonia, si riscontra una riduzione dell’elasticità ed una ipotrofia cordale, che
descrivono il quadro noto come presbilaringe e che si caratterizza per vibrazione dei
processi vocali che si toccano senza che vi sia una completa adduzione delle corde vocali
conseguente alla ipotrofia muscolare: la glottide nella fase fonatoria appare ovalare. Si tratta
di una patologia da non considerarsi assolutamente banale.
6) REFLUSSO FARINGOLARINGEO
Si intende con l’espressione di reflusso faringolaringeo la distrettualizzazione della
sintomatologia e delle lesioni morfologiche causate dalla malattia da reflusso
gastroesofageo a livello della laringe o del faringe. La malattia da reflusso gastroesofageo
è una patologia di competenza gastroenterologica che si definisce come caratterizzata da
episodi di reflusso patologico, tale per cui i sintomi che ne siano alla base, cioè soprattutto
pirosi e rigurgito, interferiscano con la qualità della vita del soggetto. Pur se sia una patologia
di competenza del gastroenterologo, alle volte la malattia da reflusso gastroesofageo si
caratterizza per la presenza di sintomi extraesofagei, tra cui quelli che si riscontrano a livello
laringeo o faringeo. La spiegazione del perché alle volte sussistano sintomi extraesofagei a
carico della laringe o del faringe piuttosto che pirosi e rigurgito che sono i sintomi
classicamente associati alla malattia da reflusso gastroesofageo riguarda il fatto che alle
volte il reflusso staziona molto poco tempo in esofago per poter determinare sintomi
esofagei e prova ne sia il fatto che in questi casi difficilmente si riscontrano sintomi come il
dolore retrosternale che è invece modalità frequente di presentazione della GERD quando
dia luogo a sintomi in loco. In questo caso i sintomi possono anche essere abbastanza
marcati a livello faringo-laringeo semplicemente perché si tratta di organi nei quali il
rivestimento mucoso è assolutamente inadatto a tollerare uno stimolo acido, ancor meno
adatto di quanto non lo sia per l’esofago dove peraltro alterazioni di natura flogistica o
addirittura metaplastica e displastica possono verificarsi se il reflusso perduri per lungo
tempo. Dal punto di vista sintomatologico, il reflusso faringolaringeo si esprime clinicamente
mediante l’insorgenza di una raucedine, nient’altro che una alterazione del timbro vocale
che a tutta ragione può considerarsi come una disfonia. Spesso i pazienti in cui si verifichi
il reflusso faringolaringeo presentano una certa necessità di schiarimento della gola e
possono riferire una ipersecrezione mucosa, che può essere intesa come il tentativo reattivo
della mucosa di proteggersi dall’aggressione determinata dal reflusso acido in questione.
Occorre considerare che sussiste, inoltre, la possibilità di aversi una sensazione di bolo
faringeo; il paziente potrebbe anche riferire la presenza di una difficoltà di deglutizione o di
transito alimentare, ma in questi casi il transito avviene normalmente poiché la motilità
esofagea non è alterata e questo lo si documenta eventualmente con la manometria
esofagea, che è in realtà un esame che viene indicato soprattutto quando si necessiti, in
pazienti giovani e scarsamente aderenti alla terapia medica, della plastica antireflusso per
la quale informazione estremamente importante è il tono dello sfintere esofageo inferiore. Il
paziente può anche riferire tosse cronica, soprattutto in posizione supina, posizione questa
in cui tutti i sintomi vengono esacerbati dalla maggiore tendenza al reflusso che deriva da
questa posizione. Dal punto di vista endoscopico, si possono riscontrare alcuni reperti
come lo pseudosulcus glottidis, l’edema delle corde vocali, l’ipertrofia della
commessura posteriore, l’iperemia diffusa, l’obliterazione del ventricolo oppure il
granuloma laringeo posteriore; come anche l’ipertrofia della commessura posteriore, il
granuloma interviene a questo livello perché questa è la regione maggiormente esposta
all’insulto acido. Si tratta di una formazione più o meno sessile, a volte peduncolata, situata
a livello del processo vocale dell’aritenoide, motivo per cui viene anche indicato con il nome
alternativo di granuloma aritenoideo. Questi granulomi a volte lisci, bilaterali a volte più
irregolari, generalmente si situano posteriormente.
Il trattamento è medico, bisogna eliminare il reflusso: questi evidentemente recidivano nel
qual caso non si tratti opportunamente il reflusso gastroesofageo. Il trattamento chirurgico
è indicato solo in caso di ingombri meccanici molto importanti che limitino la liberta dei
movimenti e la pervietà dello spazio glottico. Il granuloma laringeo posteriore può avere
anche un’altra eziopatogenesi: l’intubazione; data la giacenza del tubo proprio nelle regioni
posteriori laringee, esso può causare l’insorgenza del granuloma laringeo posteriore
conseguentemente all’evoluzione granulomatosa delle lesioni da decubito. La diagnosi
differenziale tra le due possibilità eziopatogenetiche è facile: tramite l’anamnesi si
comprende se il paziente ha subito intubazione o meno.
• DISFONIA NEUROLOGICA
La disfonia neurologica è una alterazione della propria voce che consegue a cause di
carattere neurologico; si tratta di una delle varianti di disfonia di più difficile inquadramento
dal momento che in questi casi il reperto endoscopico, a meno che non sussistano
coesistenti lesioni, a livello laringeo è negativo; in generale in tutti quei casi in cui non siano
documentabili delle lesioni a livello laringeo e in cui sussista la presenza di una disfonia,
altro che nei casi in cui vi sia una anamnesi certa per abuso o per maltrattamento vocale, la
diagnosi è sempre molto fine e approfondita, quasi ad esclusivo appannaggio dello
specialista foniatra. Le due condizioni, ultraspecialistiche, che si descrivono nel contesto
delle disfonie neurologiche sono costituite dal movimento vocale paradosso e dalla
disfonia spasmodica.
1) CENNI SULL’INNERVAZIONE DELLA LARINGE
Dunque, la laringe è un organo che presenta sia una innervazione sensitiva che una
innervazione motoria, essendo la prima delle due quella che si fa carico della veicolazione
della sensibilità laringea, per il tramite dei recettori di parete, che sono sostanzialmente
recettori della sensibilità viscerale, essendo i rami che innervano la laringe dei rami del vago.
L’innervazione motoria riguarda differentemente i muscoli della laringe. I rami del vago che
si fanno carico della innervazione della laringe sono il nervo laringeo superiore e il nervo
laringeo inferiore o ricorrente. Diramatosi dal vago, il nervo laringeo superiore decorre in
senso lateromediale e superoinferiore, dividendosi nei suoi due rami a livello del grande
corno dell’osso ioide. Il nervo laringeo ricorrente ha un differente decorso a destra e a
sinistra, venendo rilasciato nel primo caso all’altezza della biforcazione dell’arteria anonima
nella carotide comune di destra e dell’arteria succlavia. A questo livello gira intorno alla
biforcazione arteriosa avvolgendola antero-infero-posteriormente e risale fino alla laringe;
differentemente a sinistra il ramo del nervo laringeo ricorrente viene rilasciato all’altezza
dell’arco dell’aorta, attorno al quale forma un’ansa che avvolge l’arteria dall’avanti all’indietro
e quindi risale entrando in stretto rapporto, come anche il controlaterale, con la faccia
posteriore dei lobi tiroidei, per poi raggiungere la laringe.
2) MOVIMENTO VOCALE PARADOSSO
Condizione di estremo interesse specialistico e squisitamente foniatrico, il movimento
vocale paradosso rientra nelle forme neurologiche di disfonia considerandosi e definendosi
come una condizione in cui venga perduto il meccanismo altamente coordinato di abduzione
e adduzione che si verifica nel contesto della fonazione. Normalmente, quando si debba
eseguire la fonazione, si verifica dapprima una transizione dalla respirazione automatica
alla respirazione volontaria e quindi durante l’atto inspiratorio le corde vocali inizialmente
abdotte per consentire il passaggio di aria, si adducono, quando la fase inspiratoria sia
completata. Quindi, quando si debba fonare, prima dell’espirazione le corde vocali si
abducono totalmente, di modo che la colonna di aria espirata trovi un ostacolo che
determina un aumento della pressione. L’aumento della pressione sottoglottica forza
l’apertura delle corde vocali, che si aprono tal che si generi l’onda di oscillazione mucosa la
quale consegue al crollo di pressione che si verifica all’apertura delle corde vocali quasi che
si generi una onda di risucchio. Dal momento che la fonazione implica una respirazione
volontaria, normalmente durante un discorso si eseguono delle pause per “prendere fiato”,
cioè per rifornire di aria necessaria alla fonazione. Accade talora, nei soggetti che siano
affetti da un movimento vocale paradosso, questa fine coordinazione venga perduta, tal che
le corde vocali non si adducano più dopo che sia avvenuto il passaggio inspiratorio di aria,
piuttosto si adducono prima del passaggio e in fase espiratoria le corde vocali tendono a
abdurre molto più del dovuto. In questi casi, alla diagnosi si arriva mediante storia clinica di
una disfonia e di una dispnea di lunga durata in assenza di reperti endoscopici, anche se
l’endoscopia può documentare il movimento paradosso durante la respirazione e la
fonazione. È una diagnosi, quella di movimento vocale paradosso, ultraspecialistica, che
pertiene propriamente ed esclusivamente allo specialista foniatra.
3) DISFONIA SPASMODICA
È una alterazione della propria voce a carattere cronico e accessionale, il che significa
che la patologia, sempre presente per lungo tempo, si manifesta con accessi disfonici a
distanza temporale l’uno dall’altro, e si può definire come una disfonia definita dalla
presenza di una eccessiva contrazione dei muscoli della fonazione, i quali come è ben
noto possono andare incontro a contrazione determinando abduzione o adduzione delle
corde vocali; la prima delle due situazioni è quella che descrive la cosiddetta disfonia
spasmodica abduttoria e la seconda è quella che definisce la disfonia spasmodica
adduttoria, pur se esistano anche dei casi di disfonia spasmodica mista, ancorché la
prima e la terza siano due condizioni abbastanza più rare della disfonia spasmodica
adduttoria, che è tra le tre la forma più frequente. In questo caso, la caratteristica principale
è quella di una voce strangolata, quasi che mentre il soggetto foni si vi sia
qualcuno/qualcosa che tenda a strangolarlo. La voce strozzata è l’espressione di un quadro
fonatorio ben preciso, caratterizzato da contrazione spastica, talmente intensa e quasi
concentrica che le corde vocali spariscono, in questa che è una patologia in cui è come se
laringe che si contragga su sé stessa: la voce strozzata è il prodotto di questa
ipercontrazione. Del fatto che la voce strozzata sia un prodotto di questo quadro fonatorio
prova ne è il fatto che iniettando in loco tossina botulinica, che determina una paralisi
flaccida dei muscoli striati, la voce migliora.
4) PARALISI DI CORDA VOCALE
La paralisi di corda vocale è una condizione patologica che determina una impossibilità
contrattile dei muscoli delle corde vocali su base neurologica che è a tutta ragione una delle
possibili cause di disfonia neurologica.
L’innervazione della laringe è assicurata dal nervo laringeo superiore bilateralmente e dal
nervo laringeo ricorrente, sia a destra che a sinistra, ma il concetto più importante da
considerare è che l’innervazione cortico-bulbare è bilaterale, il che significa che il nucleo
motore di destra da cui nascono le fibre del nervo laringeo inferiore (il superiore è
prevalentemente sensitivo), decussano in parte entrando nella costituzione del nervo
laringeo di sinistra e viceversa. Il che significa che in un soggetto con un’emiparesi,
entrambe le corde vocali continueranno a muoversi giacché il nucleo motore controlaterale
assicura comunque la veicolazione dell’impulso motorio: il macromovimento è
salvaguardato da questa bilateralità tal che da una emiparesi centrale non risulti mai la
presenza di una paralisi monolaterale di corda vocale, motivo per cui una paralisi
monolaterale di corda vocale è sempre dovuta a cause periferiche che possono essere
tanto vagali quanto ricorrenziali. Viceversa, le paralisi di corda vocale dovute a cause
centrali devono essere necessariamente bilaterali, dal momento che devono essere lesi
entrambi i nuclei motori affinché venga meno l’innervazione.
Il nervo laringeo superiore è un nervo fondamentalmente sensitivo, ha un piccolo ramo
motorio destinato al muscolo cricotiroideo che è un muscolo tensore che partecipa ai
cambiamenti di tonalità della voce e tanto è vero questo che soggetti con la lesione del
nervo laringeo superiore hanno problemi di sensibilità laringea e problemi di modulazione,
ovvero non riescono più a raggiungere le note acute. I quadri endoscopici sono alquanto
variabili.
Invece il nervo laringeo inferiore (ricorrente) è un nervo quasi esclusivamente motorio:
quindi un’interruzione del segnale elettrico al suo interno porta a blocco della corda vocale.
Quel che è meno intuitivamente deducibile nell’ambito della paralisi di corda vocale dovuta
a lesione ricorrenziale è che la paralisi monolaterale si manifesta mediante disfonia, ma
mai mediante una completa afonia o con dispnea, giacché comunque il movimento
preservato della corda vocale controlaterale assicura una benché anomala produzione di
voce e il passaggio di aria mediante la presenza di movimenti monolaterali di ab-adduzione.
Differentemente, le paralisi bilaterali periferiche, dovute cioè a lesioni ricorrenziali
bilaterali si manifestano mediante afonia e mediante dispnea, addirittura anche con
disfagia.
Diversamente, un problema centrale come un’emiparesi non esita mai nella paralisi dalla
corda vocale omolaterale al lato della lesione centrale poiché l’innervazione è bilaterale.
Un soggetto con patologia neurologica centrale può avere però dei cambi di voce: in questi
casi di patologiche neurologiche diffuse e globali per il soggetto, si hanno fenomeni di
incoordinazione.
Molte volte i disturbi di voce o di deglutizione sono il sintomo di esordio di queste patologie
e come tali le disfonie, soprattutto quando non vi sia (1) lesione morfologicamente evidente
o (2) eclatante anamnesi da sforzo, possono essere la spia clinica di patologie neurologiche
ben più gravi, che come tale non deve mai essere sottovalutata. Tali patologie sono la
malattia di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica, la sclerosi multipla e la
miastenia gravis, in cui disfonia e/o disfagia possono addirittura essere l’unico sintomo di
esordio della patologia e questa è dimostrazione del fatto che la disfonia possa essere indice
e alle volte spia clinica non solo di patologia distrettuale laringea. Estremamente importante
in tal caso è l’anamnesi: i pazienti con questo disturbo spesso riferiscono nella propria storia
clinica un cambiamento di voce. In questi casi, sempre tramite l’anamnesi si può eseguire
una piuttosto confortevole diagnosi differenziale con una disfonia disfunzionale
semplicemente ponendo le giuste domande al paziente: l’anamnesi in questi casi è
assolutamente muta per sforzo vocale e, anche non avendo una conoscenza specialistica
di tipo foniatrico, il medico comprende che questo soggetto non fa parte della categoria a
rischio per disfonia da sforzo (non ha bambini piccoli che lo possono portare a sforzo vocale
per esempio, non canta, non fa il professore, non lavora in un call center).
Questa disfonia può quindi essere confusa con una patologia disfunzionale perché il quadro
endoscopico è normale dal punto di vista strutturale: di certo e fortunatamente l’informazione
anamnestica dell’assenza di sforzo vocale è di grande aiuto nella diagnostica differenziale
e come tale va destinata a questa fase (l’anamnesi) dell’esame obiettivo la massima
importanza.
Il problema principale, una volta insorto il dubbio clinico, è riferire il sospetto diagnostico
stesso al paziente, cioè che questo sintomo di esordio possa essere la spia di allarme di
una patologia neurologica ben più grave, la quale potrà presentarsi a distanza di anni.
Si consiglia quindi al paziente di eseguire dei controlli neurologici ravvicinati negli anni a
venire, ma non si può fare diagnosi certa sulla base della disfonia. Gli assetti motori che si
possono rilevare in caso di una paralisi di corda vocale sono:
1. Ipoadduttivi;
2. Iperadduttivi;
3. Misti;
4. Tremori.
Tuttavia, ciò che interessa di più è il cambio di voce. È capitato frequentemente che pazienti
con questa disfonia abbiano poi sviluppato la malattia di Parkinson: guardando questi
pazienti nella loro interezza si nota che siano bradicinetici e bradilalici cioè rispettivamente
con un rallentamento della velocità dei movimenti e dell’articolazione della parola e che
siano con una determinata postura.
In questa situazione l’otorinolaringoiatra pone il sospetto diagnostico, quest’ultimo deve poi
essere confermato o scartato tramite una valutazione neurologica.
Quindi patologie neurologiche di ordine generale nel loro corteo sintomatologico possono
dare problemi di voce sia in fase conclamata che soprattutto in fase di esordio.
Il quadro è quello di una laringe normale, con macromovimenti di adduzione e abduzione
normali.
Poi ci sono delle finezze endoscopiche, ovvero degli assetti motori alterati che si possono
valutare e che permettono di capire cosa stia succedendo.
Caso clinico (tratto dalla prefazione di un libro di neurolaringologia): giovane donna di circa
25 anni che ad un certo momento inizia ad avere un’alterazione di voce, in particolare la sua
voce inizia a calare. Questa donna viene visitata da molti specialisti, viene diagnosticata
una disfonia disfunzionale ipocinetica, e viene trattata con logopedia. Tuttavia, la logopedia
non porta risultati, e viene quindi rivisitata la diagnosi: paziente psichiatrica con disfonia
psicogena. In presenza di un quadro normolaringeo, lo specialista foniatra esegue il test
del Tensilon, un test per la miastenia grave, una patologia che si caratterizza per la
produzione di alcuni autoanticorpi anti-recettore nicotinico dell’acetilcolina, quello, per
intenderci, espresso a livello della placca neuromuscolare; alle volte questa patologia può
essere intesa come una sindrome paraneoplastica.
Il test del Tensilon consiste nella somministrazione di un determinato farmaco, l’endrofonio
cloruro, che ripristina la conduzione a livello della giunzione neuromuscolare: il test del
Tensilon è positivo nella paziente per cui si è fatta diagnosi di miastenia gravis in cui il dato
clinico fondamentale era il cambiamento di voce; certamente si tratta di un caso di
repertorio, anche perché nella più parte dei casi la miastenia grave esordisce mediante la
presenza di una ptosi palpebrale.
Questo dimostra che di fronte ad un quadro laringeo morfologico normale, bisogna fare il
maggior numero di ipotesi possibili senza mai dimenticare che la presenza di una disfonia
in quadro normolaringeo e con anamnesi vocale muta per sforzo sia da sospettarsi sempre
un disordine neurologico.
Patologia del faringe

L’orofaringe è la parte posteriore del cavo orale, laddove sono presenti le tonsille palatine
che hanno una funzione linfo-reticolare e vengono in contatto con qualsivoglia agente
patogeno che venga inalato per il tramite della cavità orale. Le tonsille rappresentano il
primo sito di contatto con gli agenti esterni, esse sono quindi organi linfoidi che danno origine
ad una risposta immunologica nei confronti di antigeni esterni che penetrano nel cavo orale.
Le tonsille palatine hanno funzione immunologica e di solito tendono ad avere la
maggiore attività nei primi anni di vita per cui sono estremamente utili nel bambino tra 3
e 10 anni che entra in contatto con i microrganismi laddove liberano IgA secretorie. Trattasi
di strutture facilmente visibili all’ispezione del cavo orale poiché esofitiche con superficie
criptica, la quale contiene invaginazioni che si approfondano nella tonsilla creando delle
vere e proprie sacche all’interno delle quali si può indovare materiale alimentare,
particolarmente sostanze biancastre che possono generare elementi di confondimento con
faringotonsilliti purulenti ad eziologia batterica.
La presenza di queste cripte sulla superficie è del tutto fisiologica: la funzione di queste
ultime è incrementare la superficie di contatto con gli antigeni esterni che penetrano nel
cavo orale tramite respirazione e masticazione. La presenza di cripte accentuate non
comporta alcun danno: talvolta possono però rimanervi intrappolati residui di cibo che
difficilmente vengono rimossi.
La presenza di tali residui nella maggior parte dei casi non dà sintomi ma è visibile sotto
forma di chiazze bianco-giallastre e poltacee (materiale che andrà poi incontro a necrosi)
che fanno pensare ad una faringo-tonsillite, oppure possono causare dolenzia tonsillare e
alitosi.
In questi casi è importante fare diagnosi differenziale con un processo infettivo di
faringotonsillite per applicare il trattamento corretto: la faringotonsillite si distingue per la
sintomatologia caratterizzata da un esordio importante e per il trattamento che consiste in
terapia antibiotica.
Nel caso di residui di cibo occorre invece rimuovere meccanicamente questi ultimi, cercando
di essere quanto meno aggressivi sulla superficie tonsillare, per evitare ulteriori escoriazioni
e danni (approfondimento cripte: dispense vecchie).
Le tonsille palatine agiscono in concerto ad altre strutture che sono presenti alla base della
lingua, tonsilla linguale, e della volta del rinofaringe (cavità posta dietro le fosse nasali),
tonsilla faringea o adenoide, per cui insieme con le tonsille palatine che si trovano
lateralmente nell’orofaringe costituiscono l’anello del Waldeyer.
Quindi l’anello del Waldeyer è una struttura di tessuto linfoide, a funzione immunologica,
costituita da più formazioni (o tonsille) disposte ad anello, comprese all’interno della cavità
orale e nel rinofaringe; le tonsille che lo compongono, riassumendo, sono:
- Tonsille palatine, all’interno del cavo orale
- Tonsilla linguale, a livello della base della lingua
- Tonsilla faringea (adenoide), a livello della volta del rinofaringe

TONSILLE PALATINE

Ciascuna tonsilla palatina è contenuta all’interno della così detta “loggia tonsillare”,
delimitata anteriormente e posteriormente da due pilastri costituiti da fasci muscolari e
rivestiti da mucosa:
- pilastro anteriore: formato dal muscolo glossopalatino
- pilastro posteriore: formato dal muscolo faringopalatino
Inoltre, lateralmente la tonsilla poggia su fasci muscolari orizzontali rappresentati dal
muscolo costrittore del faringe.

Ciascuna tonsilla è quindi posizionata in una loggia riccamente vascolarizzata: questo è il


motivo per cui le tonsillectomie possono dare problemi emorragici. In passato le
tonsillectomie erano estremamente frequenti mentre oggi le indicazioni a questo tipo di
intervento chirurgico sono cambiate.

La tonsilla presenta un epitelio reticolare che riveste un follicolo linfatico preposto alla
produzione di IgA. Tale follicolo è dotato di zona mantellare e centro germinativo e produce
quindi anticorpi che causano una risposta locale.
Nell’epitelio reticolare sono presenti cellule presentanti l’Ag:
Le APC trasportano l’Ag dall’epitelio reticolare al follicolo linfoide prendendo contatto con i
linfociti Th, i quali a loro volta stimolano i linfociti B, i quali producono IgA secretorie.

Queste strutture fisiologicamente garantiscono quindi una risposta immunitaria locale,


immediata nel momento in cui l’Ag penetra all’interno della tonsilla.
• FARINGOTONSILLITI
Le faringotonsilliti sono delle patologie infiammatorie delle tonsille faringee che
conseguono ad una eziologia infettiva, che può essere definita come una patologia virale,
batterica, o, in una percentuale di casi estremamente più bassa, fungina o parassitaria.
1) EPIDEMIOLOGIA
Dal punto di vista epidemiologico le faringotonsilliti sono delle patologie estremamente
frequenti: circa il 61% delle patologie delle vie aeree superiori sono delle faringotonsilliti e,
sul totale dei casi di faringotonsillite, circa il 40% dei casi ricorre in età pediatrica tra i tre
anni e i dieci anni, giacché è questa l’età in cui le tonsille sono maggiormente reattive e
sensibili agli stimoli esterni.
2) EZIOLOGIA
Dal punto di vista eziologico le faringotonsilliti sono delle malattie infettive, cioè che
conseguono ad una infezione, potendo questa essere sostenuta da microrganismi tra loro
assai distinti:
1. Virus
2. Batteri:
a) Streptococchi
b) Stafilococchi
c) Moraxella catarrhalis
d) Haemophilus influenzae
3. Funghi
4. Parassiti
Le faringotonsilliti virali sono delle patologie estremamente frequenti, essendo i virus
responsabili di oltre il 50% dei casi di faringotonsillite, mentre un ulteriore 20-40% dei casi
dipende da infezioni batteriche; le infezioni fungine e le infezioni parassitarie a livello delle
tonsille faringee sono degli eventi abbastanza poco frequenti, che ricorrono quasi
esclusivamente nei soggetti immunodepressi.
Conoscere l’eziologia della faringotonsillite è estremamente importante dal momento che
permette di orientare al meglio la terapia da utilizzare e questo è un aspetto estremamente
importante da considerare soprattutto nel caso della faringotonsillite da streptococco β-
emolitico di gruppo A, altresì noto con il nome di Streptococcus pyogenes. Lo
streptococco β-emolitico di gruppo A è un batterio che presenta una parete cellulare
costituita da N-acetil-β-glucosammina e ramnosio ed esprime alcuni antigeni di superficie
tra cui la proteina M streptococcica, che si rende responsabile di alcuni aspetti importanti
dell’infezione da parte di questo batterio. In soggetti che ne siano predisposti e soprattutto
nel qual caso la terapia antibiotica non sia correttamente impostata o non sia eradicante, lo
streptococco β-emolitico di gruppo A è in grado di suscitare l’insorgenza di una malattia
multifocale, altresì nota con l’espressione di febbre reumatica acuta. La febbre reumatica
in passato era una patologia molto più frequente rispetto ad oggi, anche in considerazione
del fatto che non esistesse una terapia antibiotica eradicante. In particolare, alcuni ceppi
dello streptococco β-emolitico di gruppo A, come i ceppi M1, M3, M18 e M19, noti con il nome
di ceppi reumatogeni, possono determinare un coinvolgimento di altri organi, che sono poi
quelli classicamente interessati nell’ambito dell’insorgenza della febbre reumatica, che si
caratterizza, a distanza di quindici giorni circa dalla faringotonsillite batterica, per un
reumatismo articolare acuto, che interessa principalmente le grandi articolazioni e
assume un andamento migrante, per la presenza di una cardite acuta, la quale con il
perdurare degli attacchi recidivanti di riattivazione dell’infezione può arrecare un danno che
tende a divenire cronico, e la corea di Sydenham, una caratteristica alterazione
neurologica. Tutte queste alterazioni che si riscontrano nella febbre reumatica acuta
conseguono a dei meccanismi di reattività crociata di alcuni antigeni espressi dallo
streptococco β-emolitico di gruppo A, in soggetti predisposti e a seguito di una terapia non-
eradicante, tal che vengano prodotti degli anticorpi che, per via della somiglianza molecolare
tra antigeni self e antigeni streptococcici, tendono ad interagire anche con i primi. Per questo
motivo, proprio al fine di evitare l’evoluzione in una patologia certamente debilitante ed
estremamente aggressiva come la febbre reumatica è necessario che la terapia antibiotica
intrapresa per questa infezione sia quanto mai efficace ed eradicante, nonché corretta. In
realtà, l’infezione da streptococco β-emolitico di gruppo A può anche determinare
l’insorgenza di una glomerulonefrite definita propriamente poststreptococcica, che si
distingue clinicamente per una sindrome nefritica, caratterizzata da edema,
prevalentemente a livello del volto, ematuria e ipertensione arteriosa, e che insorge sempre
a distanza di circa due settimane dall’avvenuta infezione. In alcuni casi, l’eziologia in causa
nella malattia è costituita da germi atipici, come Micoplasmi, Clamidie e Rickettsie, o
funghi e parassiti, le cui infezioni sono da considerarsi come una spia clinica di una
condizione di compromissione della risposta immunitaria.
Con la clinica, è alle volte abbastanza confortevole eseguire una diagnosi differenziale tra
una infezione virale e una infezione batterica e questa diagnosi differenziale ha importanti
implicazioni sul piano pratico, giacché le forme virali tendono ad autolimitarsi entro quattro
o cinque giorni, al massimo necessitando di una terapia di supporto con antinfiammatori e
analgesici. Differentemente, le infezioni batteriche necessitano di terapia antibiotica, che
deve essere quanto più corretta è possibile al fine di poter prevenire lo sviluppo di recidive
di malattia dovute alla incongrua terapia e alla incompleta eradicazione batterica: le recidive
di faringotonsillite costituiscono una delle principali caratteristiche delle infezioni batteriche
delle tonsille palatine.
3) CLINICA
Dal punto di vista clinico, le manifestazioni delle faringotonsilliti sono importanti da
conoscere, giacché la diagnosi di patologia è in prima battuta clinica mentre diviene
laboratoristica quando si ricerchi l’eziologia specifica della patologia. Tuttavia, già
considerando la clinica della faringotonsillite è possibile eventualmente discriminare le
forme virali dalle forme batteriche, anche e soprattutto in considerazione del reperto ispettivo
e soprattutto del reperto clinico che pertiene alla febbre. Le faringotonsilliti virali mostrano
dei sintomi e dei segni specifici, in associazione a dei sintomi aspecifici di
accompagnamento:
1. Sintomi specifici:
a) Faringodinia
b) Odinfagia
c) Febbricola
2. Sintomi aspecifici:
a) Cefalea
b) Tosse
c) Rinorrea
d) Congiuntivite
Le faringotonsilliti virali, differentemente da quelle batteriche, non presentano mai un rialzo
termico imponente e generalmente si manifestano mediante la presenza di una febbricola
che non supera i 37.5°C, solitamente. Gli unici due sintomi orientativi sulla patologia sono
costituiti dalla faringodinia e dalla odinfagia, cioè dal dolore deglutitorio che all’anamnesi
questi pazienti pressoché sistematicamente riferiscono. Le forme virali possono presentare
anche dei sintomi aspecifici di accompagnamento a corollario di uno stato di malessere
generalizzato e di debilitazione dell’organismo. Un dato anamnestico estremamente
importante riguarda anche la diffusione nel nucleo familiare, soprattutto in considerazione
del fatto che i virus responsabili delle faringotonsilliti virali siano estremamente contagiosi.
Le faringotonsilliti batteriche, similmente alle faringotonsilliti virali si caratterizzano per la
presenza di faringodinia e di odinfagia, ma differentemente dalle forme virali le
faringotonsilliti ad eziologia batterica si caratterizzano per un imponente rialzo termico,
che solitamente supera i 38°C. Possono essere presenti anche in questo caso dei sintomi
aspecifici di accompagnamento, che sono espressione della presenza di un
abbassamento delle difese immuni del soggetto.
Alla sintomatologia, che già suggerisce alcune differenze tra le faringotonsilliti batteriche e
le faringotonsilliti virali, seguono anche delle caratteristiche differenziali all’esame obiettivo,
che trova la massima espressione nell’ispezione del cavo orale e nella palpazione dei
linfonodi superficiali del collo. L’ispezione del cavo orale si esegue mediante un
abbassalingua e una luce che viene puntata nel cavo orale e per il tramite della quale è
possibile osservare le tonsille che appaiono tumefatte e per via dell’iperemia possono
assumere una colorazione rosso-violacea per via della flogosi che determina una reazione
eritematosa. Nel caso delle forme batteriche, si riscontra solitamente una essudazione
purulenta, che costituisce quelle che popolarmente sono note come “placche alla gola” cioè
la risultanza dell’accumulo nelle cripte tonsillari del materiale di disfacimento dei batteri, e
la linfoadenopatia può non essere così evidente come invece lo è nel caso delle forme ad
eziologia virale. Comunque i linfonodi sono dolenti alla palpazione e nella maggior parte
dei casi assumono una consistenza molle, differentemente da tutte quelle tumefazioni
cervicali linfonodali che assumono consistenza fibrosa o duro-fibrosa che sono altamente
sospette per metastasi carcinomatosa o per tumore della linea linfoide (non
infrequentemente i linfonodi laterocervicali nel giovane sono sede di un linfoma di Hodgkin).
Le forme virali si caratterizzano per la presenza di una tumefazione tonsillare di colore
rosso-violaceo che si associa ad una linfoadenopatia reattiva dolente alla palpazione,
mediante la quale si può apprezzare come le dimensioni dei linfonodi interessati siano
maggiori rispetto a quelle dei linfonodi interessati a seguito di una faringotonsillite
batterica streptococcica, nella quale possono anche essere presenti delle eruzioni
petecchiali o un rash scarlattiniforme. La scarlattina fa parte delle malattie esantematiche,
ma differentemente da morbillo, rosolia o varicella, ha una eziologia batterica, conseguendo
ad una infezione streptococcica, precisamente da streptococco β-emolitico di gruppo A,
frequentemente localizzata a livello delle tonsille faringee. La scarlattina consegue non alla
localizzazione del batterio a livello cutaneo, piuttosto all’immissione in circolo di una tossina,
che è l’endostreptolisina: dopo circa due o tre giorni dalla comparsa della febbre e della
faringodinia, si apprezza un esantema maculo-papuloso, che coinvolge
caratteristicamente dapprima il collo e il tronco, per poi estendersi agli arti e al volto
risparmiando la regione circumorale.
4) CLASSIFICAZIONE ANATOMOPATOLOGICA
Dal punto di vista anatomopatologico, in considerazione della morfologia che la tonsilla
palatina può assumere, si descrivono differenti varianti di faringotonsillite:
1. Eritematosa
2. Eritemato-poltacea
3. Pseudomembranosa
4. Ulcero-necrotica
Questa classificazione in quattro distinte categorie è l’espressione di quale delle lesioni
istopatologiche sia quella che prevale sulle altre, dal momento che vi sono forme in cui la
componente essudativa è marginale o quasi assente a fronte di una prominente
componente iperemica, differentemente da altri casi in cui la componente essudativa è
preminente. In altri casi ancora, la flogosi può esprimersi dal punto di vista istologico in
maniera tale da favorire la stratificazione di strutture membranose a livello delle tonsille e,
ancora, in altri casi l’attività flogistica può essere così tanto violenta che ne consegua una
massiva e profonda perdita di sostanza. Chiaramente, la prevalenza dell’una o dell’altra
alterazione non è casuale, dal momento che quale delle lesioni istopatologiche prevalga
dipende anche dalla patogenicità e dalla virulenza del microrganismo considerato e per
questo motivo la classificazione anatomopatologica delle faringotonsilliti ha anche una
estrema rilevanza pratica dal momento che consente di intendere, sia pure in maniera
assolutamente non conclusiva, quale sia l’eziologia in causa. Peraltro, comprendiamo bene
come questa classificazione abbia una propria rilevanza dal momento che la prevalenza
dell’una o dell’altra lesione produce dei rilievi semeiologici osservabili, per cui
riconoscendone la presenza con l’ispezione del cavo orale si può indirizzare il percorso
diagnostico.
La faringotonsillite eritematosa si caratterizza esclusivamente per la presenza di una
iperemia tonsillare, che determina come conseguenza una colorazione rosso-violacea
della tonsilla stessa; questa forma può avere eziologia virale o batterica e sulla base della
sola ispezione del cavo orale è difficile in questo caso poterne intendere l’agente eziologico
in causa pur se sulla base dei riscontri clinici si possano trarre delle conclusioni di certo non
definitive e che necessitano di conferma diagnostica: in questo caso può eventualmente
essere utile considerare che le forme virali generalmente non si associano a febbre elevata,
differentemente da quelle batteriche.
La faringotonsillite eritemato-poltacea si caratterizza per la presenza di una poltiglia
biancastra che si stratifica sulla superficie della tonsilla, motivo per cui è evidente alla
ispezione del cavo orale, nel corso della quale si possono anche apprezzare delle aree di
colore rosso-violaceo che sono espressione dell’intensa iperemia che pure è presente in
questa che è una variante per la quale è piuttosto confortevole sospettare una eziologia
batterica, anche se chiaramente non se ne può riconoscere l’agente eziologico in causa.
La faringotonsillite pseudomembranosa si caratterizza per la presenza di una
stratificazione membranosa di colore bianco-grigiastro o giallastro a livello della
superficie tonsillare e in alcuni casi l’aspetto lacunoso della tonsilla scompare del tutto,
allorquando le membrane si depositino diffusamente sulla superficie tonsillare. Questa
variante può dipendere da faringotonsilliti batteriche, anche se non infrequentemente la
mononucleosi infettiva si presenta mediante questa presentazione clinica. La
mononucleosi infettiva è una patologia ad eziologia virale, che consegue all’infezione da
Epstein-Barr virus e che insorge caratteristicamente nei soggetti adolescenti a seguito di
contatto interumano, motivo per cui è anche nota popolarmente come “malattia del bacio”.
La mononucleosi infettiva, a differenza di molte altre infezioni virali, esordisce con febbre
elevata, associata a faringodinia e linfoadenomegalia dolente, soprattutto localizzata a
livello dei linfonodi superficiali del collo, dei linfonodi inguinali e dei linfonodi ascellari. Si
tratta di una patologia, questa, che pure determina una stratificazione pseudomembranosa
a livello della tonsilla, per cui è difficilmente distinguibile, perlomeno in prima battuta, rispetto
ad una faringotonsillite batterica, con cui evidentemente entra in diagnosi differenziale.
Differentemente dalle faringotonsilliti batteriche pseudomembranose, la mononucleosi
infettiva risulta essere una patologia che si caratterizza per una splenomegalia e nel 10%
dei casi anche per una epatomegalia. La diagnosi differenziale tra una faringotonsillite
batterica e una mononucleosi infettiva si esegue mediante degli esami di laboratorio;
sicuramente un rilievo emocromocitometrico aspecifico della mononucleosi infettiva è
costituito dalla linfocitosi: la connotazione sindromica classica della mononucleosi infettiva
è definita da (1) febbre elevata e faringodinia, (2) linfoadenopatia, (3) splenomegalia, (4)
linfocitosi e (5) anticorpi eterofili circolanti. È molto importante sospettare una mononucleosi
infettiva quando i riscontri clinici siano legati ad una linfoadenopatia, a febbre elevata e
faringodinia con flogosi pseudomembranosa: non infrequentemente la mononucleosi
infettiva viene misconosciuta e viene trattata empiricamente con antibiotici, soprattutto con
β-lattamici che possono determinare la comparsa di un esantema maculo-papuloso che
altrimenti non si osserva nel contesto di questa patologia.
La faringotonsillite ulcero-necrotica consegue a infezioni batteriche da germi
estremamente patogeni, che siano in grado di determinare una massiva perdita di sostanza
nella tonsilla, della quale all’ispezione si nota il fondo grigiastro. In questo caso si riscontra
una completa perdita dell’originaria morfologia della tonsilla; pur se si tratti di una flogosi
estesamente destruente, in questi casi la patologia è pienamente compatibile con la
restitutio ad integrum del tessuto tonsillare. Il reperto ulcero-necrotico a livello tonsillare è
di estremo riguardo dal momento che può essere un elemento di sospetto per patologie ben
più gravi della faringotonsillite batterica, soprattutto se l’ulcerazione e la necrosi non siano
state anticipate dai sintomi acuti della tonsillite e soprattutto nel qual caso la ulcerazione sia
monolaterale; un altro criterio, questa volta definito come criterio ex iuvantibus, utile per il
sospetto clinico di linfoma, di una leucemia o di un carcinoma a partenza dall’epitelio
tonsillare è la assenza di responsività alla terapia antibiotica, cioè nel momento in cui
non si riscontri la restitutio ad integrum dopo l’esecuzione della terapia antibiotica empirica.
5) DIAGNOSI EZIOLOGICA
Sospettare e documentare la presenza di una faringotonsillite non è complesso se si
conosce la clinica, ma discorso ben diverso è la diagnosi differenziale ed eziologica, che
ha una vitale importanza nell’economia dell’impostazione terapeutica: è chiaro che non si
possano somministrare antibiotici in maniera casuale, poiché si rischierebbe da una parte
di suscitare una resistenza antibiotica e dall’altra di determinare un impoverimento della
flora batterica saprofita del cavo orale che tra le altre ha anche la funzione di difendere
l’organismo da ulteriori infezioni faringee, per cui non infrequentemente a seguito di
somministrazioni antibiotiche incaute si possono apprezzare delle complicanze micotiche
come le candidosi del cavo orale. Comunque, sono stati dal 1970 messi a punto dei criteri,
che si basano su dati clinici (stagionalità dell’infezione, sintomi lamentati dal paziente) e su
dati laboratoristici, al fine di discriminare l’eziologia batterica da quella virale di una
faringotonsillite, pur se questi siano dei criteri non troppo affidabili. La diagnosi eziologica
dirimente viene eseguita in maniera definitiva mediante un tampone faringeo, che si vale
dell’utilizzo di un tampone monouso, simile ad un cotton fioc, che viene strisciato sulla
tonsilla palatina dalla quale raccoglie del materiale. Sul materiale raccolto dal tampone è
possibile eseguire una ricerca microbiologica del microrganismo in causa ed eventualmente
si può eseguire l’antibiogramma se l’agente eziologico riscontrato come patogeno sia un
batterio. Occorre considerare che nell’ambito di una situazione come questa il tampone
faringeo necessita di circa tre o quattro giorni per dare i primi risultati, per cui è chiaro che
non si possono aspettare questi tempi per l’eventuale diagnosi eziologica e per impostare
la terapia: il tampone faringeo trova indicazione solo nelle forme batteriche recidivanti,
nelle quali magari sussiste la presenza di una caratteristica resistenza antibiotica della quale
è necessario avere consapevolezza per poter eseguire la più corretta terapia: in questi casi
si esegue il tampone faringeo per la diagnosi di certezza e per poter successivamente
eseguire l’antibiogramma. Peraltro, un secondo problema dei tamponi faringei è che in molti
soggetti lo streptococco β-emolitico è presente ma non è patogeno, semplicemente il
soggetto è un portatore sano di SBEGA (streptococco β-emolitico di gruppo A), il che
significa che ci sia il rischio di incappare in falsi positivi: per questo motivo è assolutamente
insensato pensare di proporre il tampone faringeo come test di screening per l’infezione da
SBEGA. Differentemente, un test estremamente più rapido è costituito dall’ELISA, cioè un
dosaggio quantitativo immunoenzimatico che consente in poco tempo, finanche pochi
minuti, di ottenere il risultato, ma si tratta di un test costoso, che trova applicazione
pressoché esclusiva nel campo pediatrico. Per quanto riguarda gli esami di laboratorio,
chiaramente la presenza di una patologia infiammatoria all’emocromo documenterà la
presenza di una leucocitosi e, eventualmente, anche di una piastrinosi reattiva; tra gli altri
indici di laboratorio, estremamente significativi sono la VES e la CRP: la proteina C reattiva
aumenta in qualità di reactante di fase acuta, mentre la velocità di eritrosedimentazione
aumenta per via del cambiamento delle proprietà chimico-fisiche del sangue durante la
flogosi, che favoriscono l’impilamento dei globuli rossi a formare dei rouleaux. Per l’infezione
da streptococco β-emolitico di gruppo A viene dosato anche il titolo antistreptolisinico,
cioè il TAS, come viene indicato in acronimo, intendendosi con questa espressione il titolo
anticorpale diretto contro la endostreptolisina streptococcica, che è una tossina del batterio
immessa in circolo e contro la quale vengono prodotti degli anticorpi. Il titolo
antistreptolisinico indica la presenza di un contatto tra il sistema immunitario e la tossina
streptococcica conseguentemente ad una infezione e che non ritorna a zero dopo la
guarigione dell’infezione, conferendo al soggetto una protezione immunitaria rispetto alla
tossina streptococcica, che peraltro è responsabile della scarlattina, motivo per cui dopo
aver contratto questa malattia, il soggetto sviluppa immunità rispetto alla malattia
esantematica, non rispetto allo streptococco, la cui patogenicità dipende anche da altri
antigeni patogeni da esso espressi. Comunque, il titolo antistreptolisinico è elevato durante
la fase acuta dell’infezione, ma si riduce a seguito della guarigione clinica dell’infezione,
senza mai annullarsi completamente. Questa variazione del titolo antistreptolisinico è
espressione di una faringotonsillite streptococcica andata incontro a guarigione completa,
ancorché in altri casi il titolo antistreptolisinico possa assumere un andamento differente,
che è espressione di forme di infezione streptococcica che hanno differente evoluzione:
1. Evoluzione recidivante:
a) Clinica:
i. Esordio acuto con sintomi
ii. Guarigione
iii. Recidiva
b) Titolo antistreptolisinico:
i. Aumento
ii. Riduzione
iii. Aumento
2. Evoluzione cronica:
a) Titolo antistreptolisinico persistente
b) Indicazione terapeutica differente
Nel caso delle forme ad evoluzione recidivante in cui il titolo antistreptolisinico aumenta, a
seguito dell’esordio acuto, il paziente migliora clinicamente, il titolo antistreptolisinico si
riduce, ma a distanza di quindici o venti giorni il paziente sviluppa una recidiva:
ricompaiono i sintomi e il titolo antistreptolisinico risulta nuovamente aumentato. Nella forma
ad evoluzione cronica, invece, si riscontra la presenza di un titolo antistreptolisinico
persistentemente aumentato per cui in questi casi sussiste indicazione alla tonsillectomia
come tentativo terapeutico di eliminare la sede di annidamento dello streptococco β-
emolitico di gruppo A.
Conoscere l’eziologia è fondamentale al fine di evitare la terapia inadeguata e stimolare
l’eventuale insorgenza di una resistenza all’antibiotico. Peraltro, nel cavo orale sono
presenti altri microrganismi saprofiti che vengono annientati da terapie antibiotiche
eccessive ed incongrue esponendo il soggetto ad altre ulteriori infezioni del faringe: non è
affatto infrequente in questi casi che dopo terapia antibiotica il paziente sviluppi infezioni da
Candida Albicans.
6) COMPLICANZE
Le complicanze delle faringotonsilliti intervengono soprattutto a seguito di terapie non
idonee.
Tra queste, una di quelle che in passato era tra le più frequenti è la malattia reumatica,
una patologia di competenza reumatologica, fortunatamente oggi poco frequente e che
consegue ad una stimolazione antigenica crociata. Alcuni ceppi dello streptococco β-
emolitico di gruppo A espongono alcuni antigeni che presentano un certo mimetismo
molecolare rispetto ad antigeni self, motivo per cui stimolano la produzione di alcuni
anticorpi che in considerazione di questa somiglianza molecolare possono reagire contro
strutture self; tra i principali antigeni espressi dallo streptococco β-emolitico di gruppo A e
che possono cross-reagire vi sono:
1. Acido ialuronico:
a) Capsula streptococcica
b) Cavità articolari
c) Reumatismo articolare acuto
2. Proteina M:
a) Parete cellulare streptococcica
b) Cross-reazione con tropomiosina
c) Cross-reazione con laminina
d) Cardite reumatica
3. Carboidrati di gruppo A:
a) Membrana streptococcica
b) Nucleo caudato
c) Corea minor di Sydenham
Oltre a questo, la somiglianza molecolare tra alcuni antigeni della membrana basale
glomerulare e la proteina M streptococcica e soprattutto la presenza di un meccanismo di
ipersensibilità da immunocomplessi, cioè del III tipo, si rende responsabile della insorgenza
di una glomerulonefrite poststreptococcica, che si manifesta con una sindrome nefritica.
Tra le complicanze più strettamente di competenza otorinolaringoiatrica, si riscontrano la
sinusite, l’otite e l’ascesso peritonsillare che sono complicanze che si verificano per via
della presenza di una contiguità mucosale per cui sono complicanze ascrivibili alla
protrazione della flogosi che si estende per contiguità anche a questo livello.
La tonsilla si trova localizzata entro la loggia tonsillare che è circoscritta da alcuni fasci
muscolari e nel caso dell’ascesso peritonsillare l’essudato purulento viene depositato
all’interno di una cavità virtuale che si trova tra la tonsilla stessa e i fasci muscolari del
costrittore superiore del faringe, che ne circoscrivono la loggia: l’ascesso si colloca nello
spazio peritonsillare.
Nella più parte dei casi, l’essudato si deposita monolateralmente, risultandovi una
compressione della tonsilla che viene sospinta verso la linea mediana: tale è la
medializzazione della tonsilla a seguito della quale l’ugola viene completamente spostata
verso il lato opposto, mentre la tonsilla che presenta l’ascesso è spinta verso il centro del
cavo orale.
All’ispezione del cavo orale non si riscontra la presenza dell’essudato poltaceo dal momento
che la raccolta si localizza internamente, tra tonsilla e parete laterale del faringe.
Fortunatamente, alla impossibilità di visualizzazione dell’ascesso, si affianca la
medializzazione, che rende gli ascessi dal punto di vista clinico individuabili e peraltro la
faringodinia in questi casi è localizzata, prevalentemente monolateralmente, giacché è
in una delle due tonsille che solitamente si verifica la presenza della raccolta di essudato.
Inoltre, la relativamente bassa difficoltà di individuazione dell’ascesso dipende anche dalla
sintomatologia, che è quasi patognomonica:
1. Faringodinia monolaterale: nella faringotonsillite non complicata con ascesso
peritonsillare in genere il dolore interessa entrambe le tonsille.
2. Febbre altissima;
3. Odinofagia: a causa del dolore alla deglutizione il paziente cerca di deglutire il meno
possibile; in alcuni casi questo comportamento potrebbe portare anche a scialorrea.
4. Irradiazione del dolore: può generare elementi di confondimento con una otite,
giacché il dolore si irradia a livello dell’orecchio ipsilaterale per via della
infiammazione del muscolo pterigoideo interno che si inserisce in prossimità
dell’orecchio.
5. Trisma: impossibilità di apertura della rima buccale per causa, in questo caso,
antalgica. Il trisma è causato dall’infiammazione dei muscoli circostanti l’ascesso, i quali
si contraggono antalgicamente. Il paziente non muove più la mandibola e la rima
buccale è leggermente aperta e non può essere divaricata ulteriormente.
La diagnosi dell’ascesso peritonsillare in soggetto con faringotonsillite precedente è
sostanzialmente clinica, basata sulla sintomatologia altamente significativa soprattutto in
relazione alla presenza di una faringodinia monolaterale, e sulla ispezione del cavo orale
mediante la quale si riscontra una medializzazione della tonsilla interessata, con
conseguente lateralizzazione controlaterale dell’ugola.
L’unica terapia effettivamente efficace per questa complicanza è il drenaggio dell’ascesso
che viene effettuato per incisione con paziente sveglio: avendo aperto una cavità il
passaggio dell’aria permette di migliorare la situazione e a questa manovra terapeutica si
associa terapia antibiotica. Questa procedura comporta un miglioramento della
sintomatologia: immediatamente dopo l’incisione il materiale purulento trova sfogo verso
l’esterno, diminuisce la tensione tra le pareti, scompare il trisma e il paziente avverte un
sollievo determinato dalla riduzione del dolore.
Una volta effettuata l’incisione, la breccia chirurgica resterà aperta per qualche giorno in
associazione a terapia antibiotica: quindi la raccolta durante questo lasso di tempo viene
drenata e nell’ambito di pochi giorni si ha la guarigione.
È importante riconoscere subito l’ascesso ed effettuare immediatamente il drenaggio,
soprattutto nei pazienti immunodepressi, come i diabetici, i pazienti portatori di
immunodepressioni congenite ovvero acquisite. Se, infatti, il processo infettivo non viene
curato in tempo, nei soggetti immunodepressi questa raccolta può estendersi: per gravità
l’ascesso può scendere verso il basso e interessare le strutture del collo, inserendosi negli
spazi tra muscoli, fascio vascolo-nervoso, laringe. Si possono quindi formare ascessi nel
collo che danneggiano le strutture qui presenti, muscolari, vasali e nervose.
Il processo infettivo talvolta può essere così importante che l’ascesso si spinga in basso fino
al mediastino, evento quest’ultimo che porta nell’arco di 24-48h a setticemia (esempio:
autopsia di una ragazza di 15 anni in cui sono stati ritrovati focolai settici anche a livello
cerebrale).
Tutto ciò fondamentalmente avviene dal momento che lo spazio peritonsillare è in continuità
con il collo per cui l’ascesso peritonsillare può evolvere nella formazione di un ascesso
laterocervicale che necessita di una incisione chirurgica affinché venga garantita la
guarigione. Queste infezioni nel soggetto immunodepresso o nel diabetico possono
evolvere verso una fascite cervicale necrotizzante, alle volte con massivo interessamento
delle strutture dello spazio vascolo-nervoso del collo che è preludio all’esito infausto della
malattia. L’ascesso può anche estendersi verso la cute, la quale si presenta arrossata e
dolente per via della flogosi che può determinare una lacerazione dei tessuti,
conseguendovi la formazione di un tragitto fistoloso entro il quale trova sfogo verso l’esterno
l’essudato purulento. Quando l’ascesso si localizza posteriormente alla tonsilla,
l’eradicazione è più complicata.
7) TERAPIA DELLE FARINGOTONSILLITI
La terapia per le faringotonsilliti può essere impostata in due differenti modalità in accordo
ai riscontri clinici e diagnostici. In un caso, quando non si disponga di dati certi sull’eziologia
della malattia, la terapia è ragionata sulla base dell’esperienza clinica e sulla base della
differente epidemiologia nelle differenti fasce di età, chiaramente tenendo conto anche
dell’eventuale impossibilità all’assunzione di determinati farmaci; se la faringotonsillite è
batterica, l’indicazione è quella alla terapia antibiotica. Quindi le possibilità terapeutiche in
caso di faringotonsillite sono:
1. Iniziare la terapia antibiotica in base alle evidenze cliniche a favore dell’eziologia
batterica
2. In assenza di evidenze cliniche soddisfacenti, si esegue tampone faringeo o test
rapido (se disponibile) per differenziare forme batteriche: nel caso sia confermata
l’eziologia batterica iniziare la terapia antibiotica
Il trattamento di prima scelta prevede solitamente una associazione di penicilline e acido
clavulanico, eventualmente, come scelta alternativa si dispone di cefalosporine,
prevalentemente per via iniettiva, macrolidi per i soggetti allergici alle penicilline e/o alle
cefalosporine, fluorochinoloni raramente dal momento che possono provocare una
alterazione dell’accrescimento osseo per cui vengono utilizzati con riserva solo in pazienti
selezionati e perlopiù adulti. I lincosamidi sono invece farmaci che vengono utilizzati in
ambiente ospedaliero. L’indicazione all’esecuzione della terapia antibiotica per le forme
sintomatiche di faringotonsillite batterica si ha in tutti i casi, soprattutto se sussista la
presenza di un rischio di malattia multifocale elevato. La durata della terapia antibiotica
è di dieci giorni per la penicillina, mentre è di cinque giorni per la cefalosporina ed il
paziente deve essere edotto al fatto che il ciclo di terapia vada completato, anche se i
sintomi regrediscono prima della fine della terapia: il rischio della sospensione della terapia
antibiotica prima del completamento del ciclo è duplice dal momento che (1) si rischia di
favorire l’insorgenza di resistenze antibiotiche e (2) ci si espone al rischio di recidiva.
Le faringotonsilliti virali, differentemente da quelle batteriche non necessitano di terapia
antibiotica evidentemente, ma neanche di terapia antivirale: dal momento che si risolvono
entro quattro o cinque giorni e al più si giovano dell’eventuale somministrazione di
antinfiammatori o di antidolorifici.
Nei soggetti con faringotonsilliti recidivanti può essere necessaria la tonsillectomia che
oggi viene effettuata in molti meno casi rispetto al passato.
Oggi questo intervento è riservato a pazienti che ogni 15-20 giorni hanno un episodio di
tonsillite.
In passato invece l’intervento veniva fatto in qualunque caso di tonsillite, anche non
recidivante.
L’intervento di tonsillectomia non è tecnicamente complesso ma vi è il rischio di subentro di
complicanze per via dell’elevata vascolarizzazione delle tonsille stesse: nel momento in cui
si rimuova la tonsilla, si forma un’escara di fibrina che si può staccare anche violentemente
nei primi giorni post-operatori. Il distacco crea sanguinamento nel cavo orale di cui
solitamente il paziente adulto si rende conto, a differenza del paziente pediatrico aprendosi
quindi il rischio di una complicanza emorragica postchirurgica. Il rischio di emorragia si
ha nei primi 15 giorni postoperatori ed è solitamente più alto nel paziente adulto che ha
sofferto per più tempo di tonsillite recidivante, in cui questo maggior numero di episodi può
comportare un aumento della vascolarizzazione delle tonsille. L’intervento di tonsillectomia
viene oggi eseguito per alcune cause piuttosto che altre:
1. Tonsillite recidivante (46%);
2. Ipertrofia tonsillare (41%):
a) Ostruzione
b) OSAS
3. Neoplasie maligne:
a) Linfomi
b) Carcinomi
In quest’ultimo caso, l’utilità dell’intervento chirurgico è duplice, dal momento che si può
anche disporre del pezzo operatorio per la diagnosi istologica di certezza; altre indicazioni
al trattamento chirurgico sono:
1. Ascesso peritonsillare
2. PANDAS
3. PFAPA o Sindrome di Marshall
PANDAS (Pediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorder Asssociated with A
Streptococci) e PFAPA (Periodic Fever- Aphthous stomatitis- Pharyngitis- Adenopathy)
sono due patologie autoimmuni tipiche dell’infanzia.
La Società Italiana di Otorinolaringoiatria ha individuato delle linee guida per la rimozione
delle tonsille nel caso delle faringotonsilliti:
1. Tonsillite batterica acuta ricorrente: si definisce tale in presenza di almeno 5
episodi all’anno di comprovata gravità cioè che si manifestano con febbre,
essudato, anche dopo trattamento antibiotico adeguato.
2. Stagionalità: gli episodi durante il periodo estivo sono più gravi
3. Gravità: gli episodi devono essere invalidanti, il soggetto deve presentare sintomi
che non consentono di espletare attività normali, perduranti per 12 mesi.
4. Risposta alla terapia: occorre seguire il paziente per un periodo di tempo di almeno
un anno, per vedere come risponde alla terapia antibiotica e per constatare se
effettivamente, nonostante la terapia antibiotica, il processo non riesca ad essere
eradicato (sintomi invalidanti perduranti per 12 mesi)
Nei bambini la frequenza delle tonsilliti tende a ridursi soprattutto durante la crescita; fattori
aggravanti sono dati da linfadenopatie laterocervicali che non regrediscono di volume,
comparsa di convulsioni febbrili duranti le tonsilliti, ascesso peritonsillare e in questi casi
prima si drena l’ascesso e dopo si programma la tonsillectomia, la quale differentemente
dall’ascesso peritonsillare non si esegue mai durante il corso della patologia, bensì dopo
risoluzione.
• IPERTROFIA ADENOIDEA
L’ipertrofia adenoidea, altresì nota come ipertrofia della tonsilla faringea, corrisponde ad
un aumento di volume dell’adenoide che corrisponde alla tonsilla presente a livello della
volta del rinofaringe. Differentemente dalle tonsille palatine, che sono rivestite da una
capsula, l’adenoide non è rivestita da alcuna capsula ma è comunque tenacemente adesa
alla volta del rinofaringe e precisamente alla muscolatura faringea. L’adenoide è una tonsilla
che appartiene all’anello linfatico del Waldeyer ma che durante l’età puberale va incontro
ad una progressiva atrofia per cui è maggiormente reattiva nei bambini, residuandovi già in
età adolescenziale esclusivamente del tessuto cicatriziale che è possibile apprezzare
ispettivamente e questo spiega come sia possibile che l’ipertrofia adenoidea sia una
condizione patologica che si riscontra esclusivamente nell’età pediatrica, per cui è
estremamente raro che questa patologia possa determinare problematiche respiratorie
nell’adulto, come invece può fare nel bambino.
1) CLASSIFICAZIONE
Dal punto di vista classificativo, si distinguono quattro differenti gradi di ipertrofia tonsillare,
distinti in considerazione del volume dell’adenoide:
1. Ipertrofia di I grado: si intende con l’espressione di ipertrofia adenoidea di I grado
un aumento del volume dell’adenoide che ostruisce il 25% dello spazio faringeo,
condizione che evidentemente non determina problematiche di tipo ostruttivo, per cui
non interferisce affatto con la respirazione del paziente.
2. Ipertrofia di II grado: si intende una ipertrofia dell’adenoide pari al 50% dello spazio
faringeo. Questa condizione si verifica a seguito di una risposta reattiva dell’adenoide
alle stimolazioni immunologiche provenienti dall’esterno. Solitamente, il bambino con
una ostruzione del 50% dello spazio faringeo respira normalmente, al più durante i
periodi in cui sia raffreddato, dal momento che il tessuto aumenta ulteriormente, si
può riscontrare la presenza di una respirazione buccale, per ostruzione del
rinofaringe.
3. Ipertrofia di III grado: si intende una ipertrofia adenoidea che determina ostruzione
del 75% dello spazio del rinofaringe, tal che il soggetto in questo caso presenti una
respirazione buccale costante, anche nei periodi di non-raffreddamento. In questo
caso, occorre considerare che l’ipertrofia dell’adenoide determini ostruzione della
tuba di Eustachio, condizione che riducendo la ventilazione dell’orecchio determina
predisposizione alla insorgenza di una otite media sieromucosa. Una otite media
catarrale e cronica nei primi anni di vita può comportare come conseguenza una
interferenza con lo sviluppo delle funzioni uditive e, venendo meno il corretto sviluppo
delle funzioni auditive, il bambino potrebbe anche mostrare delle problematiche di
sviluppo del linguaggio, per cui nei casi di ipertrofia adenoidea di III grado è da
valutare attentamente la necessità dell’intervento chirurgico.
4. Ipertrofia di IV grado: l’ipertrofia di IV grado comporta una ostruzione totale del
rinofaringe, che si caratterizza
per una cronica respirazione
buccale; i bambini con questo
grado di ipertrofia adenoidea
presentano spesso occhi
cerchiati, lingua protrusa
anteriormente, rima buccale
costantemente aperta e problemi
di sviluppo dentale: tale è la facies
adenoidea. I bambini con ipertrofia di IV grado sono respiratori orali cronici, i quali
durante il sonno spesso tendono a russare soprattutto quando si trovino in posizione
supina, per via della ostruzione al passaggio dell’aria che si verifica in questa
circostanza e che è esacerbata dalla posizione supina. Occorre considerare che i
bambini con questo tipo di problematica spesso tendono ad avere predisposizione
allo sviluppo di apnee notturne, che si associano a sintomatologia notturna con
respiro russante e risvegli improvvisi con sensazione di soffocamento, nonché
sudorazione ed enuresi notturna; dal momento che questa condizione tende a
peggiorare notevolmente la qualità del sonno, i soggetti in questione accusano
sonnolenza diurna che si associa a perdita di appetito. L’inappetenza può
determinare dei disturbi malnutritivi che nella fase di accrescimento possono
determinare insorgenza di un disturbo dell’accrescimento.
Questa classificazione ha una importanza fondamentale dal momento che l’ipertrofia di IV
grado è di per sé una indicazione al trattamento chirurgico in anestesia generale mediante
un adenotomo, cioè uno strumento a forma di rastrello, dotato di una chiusura a mo’ di
ghigliottina che consente letteralmente di raschiare via il tessuto ipertrofico. Tuttavia,
l’opportunità chirurgica va discussa anche nel caso di una ipertrofia di III grado complicata
con otite media cronica, in considerazione del rischio che questa possa interferire con lo
sviluppo delle funzioni auditive. In realtà, l’ipertrofia di III grado deve essere trattata
chirurgicamente ogniqualvolta subentrino delle complicanze, che, oltre all’otite media
catarrale, possono essere costituite da sinusiti, che costituiscono anche una complicanza
possibile delle faringotonsilliti.
2) DIAGNOSI
Nelle forme di ipertrofia adenoidea di IV grado, la diagnosi può essere suggerita
dall’ispezione dal momento che si riscontra la presenza di una facies caratteristica, cioè la
facies adenoidea. Differentemente, in tutti gli altri casi, la diagnosi può essere suggerita
dalla respirazione orale nel bambino. Oggi, la diagnosi di certezza dell’ipertrofia adenoidea
è eseguita mediante fibroscopia ottica, che si vale di uno strumento, il fibroscopio ottico,
che consente accesso alla cavità del faringe, essendo uno strumento sottile, del diametro
di 1.5 mm, e che permette con le fibre ottiche di proiettare l’immagine su di un monitor. In
passato, la diagnosi di ipertrofia adenoidea veniva eseguita mediante palpazione: con un
abbassalingua e una luce, l’otorinolaringoiatra immetteva il dito, dotato di un dispositivo
protettivo in metallo, nel cavo orale, per poi risalire fino all’adenoide e palparla.
Successivamente, questa metodica è stata sostituita dalla radiografia laterale del cranio
che permetteva di valutare lo spazio residuo nella cavità del rinofaringe tra le pareti e
l’adenoide, che appare ipodiafana all’RX. Anche questa metodica è stata abbandonata dal
momento che è basata su una immagine indiretta che come tale è poco affidabile.
3) IPERTROFIA ADENOIDEA E OSAS
OSAS è acronimo per sindrome delle apnee ostruttive del sonno ed è, evidentemente
un disturbo respiratorio del sonno che interviene durante questa fase della giornata dal
momento che questa è la fase in cui più caratteristicamente si ha una riduzione del tono
dei muscoli costrittori del faringe, dei muscoli del velo del palato ed è chiaro che se
sussistono delle condizioni che di per loro predispongono alla riduzione del flusso aereo,
che si sommano al collabimento fisiologico delle alte vie respiratorie, si possa riscontrare la
presenza di apnee ostruttive del sonno. Queste condizioni predisponenti, nel bambino
possono essere costituite proprio dalla ipertrofia adenoidea, oppure da alcune anomalie
craniofacciali come la retrognazia, la macroglossia e la stenosi delle coane.
Differentemente, nei soggetti adulti, la condizione predisponente più importante è data
dall’obesità, soprattutto dal momento che in posizione supina l’effetto di schiacciamento
determinato dal grasso stesso esacerba la chiusura delle alte vie respiratorie, soprattutto a
livello del faringe che tra le alte vie respiratorie è l’unica non dotata di alcuno scheletro
cartilagineo. In questi casi, si riscontrano episodi di apnea notturna che determinano sintomi
come russamento, sudorazione notturna, nicturia, risveglio improvviso accompagnato
da sensazione di soffocamento, cefalea mattutina frontale, sonnolenza diurna, che si
associano a sviluppo ricorrente di episodi di ipossiemia e di acidosi che aumentano
progressivamente nel soggetto adulto un aumento del rischio cardiovascolare. La diagnosi
si vale dell’aiuto del partner di letto (o della mamma del bambino) che spesso riferisce lo
sviluppo di apnee notturne e il russamento e dell’anamnesi patologica prossima, soprattutto
legata a sintomi come la cefalea mattutina, la sonnolenza diurna, la nicturia e la presenza,
nel soggetto adulto, anche di una riduzione della libido. Questa prima fase della diagnosi è
poi comprovata dal ricorso ad alcune indagini come la cefalometria, cioè uno studio delle
proporzioni delle strutture del massiccio facciale, dalla fibroscopia per eventuale presenza
di ipertrofia adenoidea e dalla polisonnografia, che è un esame che si vale di un
elettroencefalografo, di un elettromiografo e di un elettrocardiografo, del saturimetro e di
due tipologie di sensori, l’uno sonoro che registra il russamento, e l’altro motorio, applicato
su due fasce, l’una addominale e l’altra toracica, che consentono di registrare gli eventuali
movimenti paradossi che sono tipici delle apnee ostruttive: queste sono le apnee notturne
di interesse otorinolaringoiatrico e, ancor di più, di interesse pneumologico. Pur tuttavia,
esiste anche una seconda variante di apnee, definita centrale, che dipende da deficit
neurologici, cioè a carico dei centri del respiro bulbari: solitamente, in questa tipologia di
apnea mancano totalmente i movimenti paradossi, anzi, durante l’episodio di apnea si
riscontra assenza di movimento toracico e addominale. La terapia dell’OSAS si muove su
diversi fronti: nei bambini in cui la causa solitamente è meccanica e legata all’ipertrofia
adenoidea, l’approccio di scelta è la rimozione dell’adenoide, differentemente dai soggetti
adulti in cui innanzitutto il primo obiettivo è quello della perdita di peso, cui si associa come
terapia di elezione la CPAP (Continuous Positive Airways Pressure), che tuttavia è una
terapia per la quale i pazienti sono poco complianti, per cui in questi casi si può optare per
l’intervento chirurgico.
Dispnee

Si intende con l’espressione di dispnea un sintomo legato ad una sensazione soggettiva


di fame d’aria, per cui nel momento stesso in cui si riscontri la presenza di una condizione
dispnoica, si aprono diverse ipotesi patogenetiche e diagnostiche che non possono
prescindere assolutamente dalla conoscenza delle possibili cause che stanno alla base
della dispnea e chiaramente dalla modalità con cui questa dispnea si manifesti, dal
momento che esistono alcune sfumature del sintomo stesso e dei segni semeiologici ad
esso associati che permettono di orientare il percorso diagnostico differenziale fin già dalla
fase clinica dell’anamnesi e dell’esame obiettivo.
Per quanto riguarda il discorso legato al sintomo, sostanzialmente questo esordisce a
seguito di una alterazione della normale fisiologia dell’apparato respiratorio, che si articola
fondamentalmente su due versanti, di cui l’uno è costituito dalla funzione meccanica e
ventilatoria, cioè l’attività di espansione e di retrazione del polmone, e l’altra è quella dello
scambio gassoso, che consente l’ossigenazione del sangue. In base a quale di questi
processi sia deficitario rispetto agli altri, dal punto di vista clinico e fisiopatologico, è possibile
distinguere differenti varianti di dispnea:
1. Dispnee ematochimiche: si intende con questa espressione una sensazione
soggettiva propriamente di fame d’aria conseguente ad una alterazione dello
scambio gassoso, quindi dell’ossigenazione del sangue che può conseguire a
patologie che comportino in qualche maniera una inefficienza nella captazione di
ossigeno da parte dell’emoglobina, quali sono ad esempio gli avvelenamenti da
monossido di carbonio, oppure a patologie che riducono la perfusione del circolo
polmonare mediante una alterazione del rapporto ventilazione/perfusione: tale è, a
titolo di esempio, la tromboembolia polmonare.
2. Dispnee ostruttive: si intendono come delle sensazioni di fame d’aria che insorgono
sostanzialmente a seguito della presenza di una ostruzione che limita il flusso
ventilatorio, determinando tipicamente una caratteristica riduzione della ventilazione;
in tal caso, le cause che stanno alla base dell’ostruzione possono intervenire a
differenti livelli, cioè a carico della laringe, della trachea o dei bronchi; in base a
questo si definiscono, ulteriormente:
a) Dispnea laringea
b) Dispnea tracheale
c) Dispnea bronchiale
3. Dispnee restrittive: si intendono come delle forme in cui il sintomo della dispnea si
declina prevalentemente come una difficoltà respiratoria conseguente alla riduzione
della capacità ventilatoria del polmone. In queste forme di dispnea frequentemente
si apprezza una riduzione della capacità vitale forzata (FVC) e della capacità
polmonare totale, per via della presenza di condizioni che in qualche maniera limitino
l’espansione del polmone. L’espansione del polmone è regolata dalla presenza di
alcune forze di tensione elastica, che sono determinate sia dalla tensione superficiale
alveolare che è regolata a propria volta dal surfattante polmonare, sia dal contenuto
di fibre collageno presenti nell’interstizio polmonare. Questi elementi generano una
tensione elastica, che rende ragione della resistenza del polmone all’espansione e
che rappresenta la forza che i muscoli respiratori devono vincere sviluppando un
lavoro sufficiente a determinare espansione del polmone. Espanso il polmone, gli
elementi elastici stirati accumulano un ritorno elastico che rende ragione della fase
di espirazione, che per questo motivo è passiva. Quindi, si individuano due forze di
fondamentale importanza per la ventilazione polmonare, che sono costituite dalle
forze elastiche, rappresentate dal contenuto collageno dell’interstizio polmonare, e
dai muscoli inspiratori, per cui è chiaro che anche la normale anatomia della gabbia
tracica svolga un ruolo nel contesto di questa meccanica ventilatoria. Da queste
considerazioni elementari di meccanica ventilatoria, ne viene che le dispnee
restrittive possano conseguire ad un danno a carico della gabbia toracica o
dell’interstizio polmonare, in maniera tale che nel primo caso si riscontri una riduzione
della forza sviluppata dai muscoli respiratori (è il motivo per cui soggetti con cifosi,
scoliosi o malattie neuromuscolari possono presentare dispnea) e nel secondo un
aumento del contenuto collageno del polmone, in tutte quelle che sono le
innumerevoli cause che stanno alla base delle interstiziopatie con evoluzione
fibrosante del polmone. In questi casi, sostanzialmente, viene colpita la superficie
ventilante, cioè quella alveolare.
Occorre considerare, inoltre, che la respirazione è un atto motorio complesso automatico,
tranne che nel momento della fonazione in cui la respirazione diviene francamente
volontaria al fine di regolare il flusso aereo inspiratorio ed espiratorio soprattutto per la
produzione della voce. È chiaro, quindi, che quale atto motorio complesso, la respirazione
sia regolata da alcuni centri nervosi del respiro, che si trovano precisamente a livello del
bulbo del tronco encefalico, per cui teoricamente una lesione a carico dei centri del respiro
può determinare caratteristicamente una dispnea neurologica, che è un’altra forma di
dispnea possibilmente presente. Ritornando sulle dispnee cosiddette ostruttive, occorre non
confondere queste con le cosiddette ostruzioni nasali o rinofaringee, dal momento che in
questi casi il soggetto non è dispnoico, è eupnoico a riposo.
In proposito, del concetto di eupnoico, si definisce eupnoico un soggetto in cui il numero di
atti respiratori al minuto sia normale e il valore normale di atti respiratori al minuto è di 14
atti/min: quando la frequenza respiratoria aumenti al di sopra di 20 atti/min si parla
propriamente di tachipnea, mentre quando si riduca al di sotto di 10 atti/min si parla di
bradipnea; la tachipnea è molto caratteristica soprattutto delle dispnee restrittive o
ematochimiche, mentre più frequentemente le dispnee di tipo ostruttivo si identificano con
una bradipnea.

• DISPNEA LARINGEA
Si intende con l’espressione di dispnea laringea una sensazione di difficoltà respiratoria e/o
di fame d’aria, che consegue caratteristicamente alla presenza di una patologia che
comporta una ostruzione o una stenosi a livello della laringe, cioè una condizione patologica
che determina una franca occupazione del lume laringeo oppure una condizione che
determinando un ispessimento o una retrazione cicatriziale della parete induce un
restringimento del lume della laringe.
1) EZIOLOGIA
In termini eziologici, diverse possono essere le cause che stanno alla base dell’insorgenza
di una dispnea laringea e tra queste possiamo annoverare:
1. Patologie congenite/connatali:
a) Emangiomi infantili della glottide
b) Laringomalacia
c) Glottide palmata
d) Atresia laringea
2. Traumi della laringe;
3. Tumori della laringe;
4. Laringiti:
a) Edema della parete
b) Evoluzione stenosante
c) Eziologia:
i. Laringite da virus influenzali
ii. Laringite da rinovirus
iii. Laringite da virus parainfluenzali
iv. Laringite erpetica
v. Laringite da Proteus
vi. Laringite da Pseudomonas Aeruginosa
vii. Laringiti micotiche
d) Complicanze:
i. Epiglottite
ii. Ascesso dell’aditus laringeo
5. Paralisi laringee
6. Laringospasmi:
a) Cause neurologiche
b) Reflusso faringo-laringeo
7. Corpi estranei
8. Postumi chirurgici
Questo è un elenco di tutte le possibili cause che possono potenzialmente dare luogo ad
una dispnea laringea, ma è chiaro che, evidentemente, non sempre e comunque queste
cause danno luogo alla presenza di una dispnea laringea in funzione dell’entità. Ad esempio,
una neoplasia laringea in incipiente fase di crescita più difficilmente determina insorgenza
di una ostruzione tale da indurre la presenza di una caratteristica condizione dispnoica,
viceversa accade, invece, per quanto riguarda i carcinomi della laringe che siano
estensivamente infiltranti la parete oppure quelli vegetanti di grandi dimensioni, dal
momento che possono indurre tipicamente una restrizione del lume per ispessimento della
parete o per occupazione endoluminale tale da generare l’insorgenza di una dispnea
laringea, che è classicamente definita come una dispnea ostruttiva. Ancora, una paralisi
bilaterale in adduzione delle corde vocali può determinare come conseguenza
l’insorgenza di una dispnea, allorquando ne consegua l’insorgenza caratteristica di una
adduzione stretta in posizione mediana o paramediana; in alcuni rari e fortunati casi,
tuttavia, è possibile che la paralisi delle corde vocali in adduzione non si esprima in posizione
mediana o paramediana, il che evidentemente rende ragione della evoluzione non-
stenosante della patologia. Tra le altre possibili cause che stanno alla base di una possibile
dispnea ostruttiva laringea vi sono le cosiddette laringiti, tra le quali particolarmente temibile
è la laringite epiglottica infantile. Le laringiti sono delle patologie infiammatorie della
laringe, frequentemente su base infettiva, che possono dare luogo ad una essudazione
edematosa, che imbibisce la parete della laringe e conseguentemente ne determina un
ispessimento tale da determinare una riduzione del diametro luminale. In altri casi, le laringiti
possono avere esito cicatriziale e stenosante, per cui determinare un effetto retraente che
determina insorgenza di una stenosi laringea, la quale è una delle possibili cause che stanno
alla base dell’insorgenza di una dispnea laringea. La chirurgia laringea può essere una
delle possibili cause che stanno alla base dell’insorgenza di una dispnea ostruttiva di tipo
laringeo dal momento che il trauma operatorio può indurre eventuale insorgenza di un
edema della parete della laringe, che al pari degli edemi infiammatori può essere alla base
della insorgenza della stenosi e prova ne sia il fatto che alle volte accade che soggetti che
abbiano affrontato un intervento chirurgico otorinolaringoiatrico per superare l’edema
postchirurgico necessitano della tracheotomia. La tracheotomia è una manovra invasiva
che consiste nell’immettere una cannula in trachea dopo incisione longitudinale a livello del
collo, con la finalità di bypassare una regione ostruita a monte che può essere a livello
tracheale o, come in questi casi, a livello laringeo. Quello che è importante considerare,
quindi, è che alle volte la presenza di una ostruzione nel flusso aereo inspiratorio a livello
laringeo può essere trattata farmacologicamente con terapia medica, ad esempio per
quanto riguarda il discorso legato alle laringiti infettive, oppure mediante intubazione
endotracheale, mentre in altri casi si rende necessaria l’esecuzione della tracheotomia,
quando con la terapia medica non si riesca a controllare e a far regredire la causa che stia
alla base dell’ostruzione laringea o quando con l’intubazione non si riesca a garantire la
ventilazione. Tra le altre possibili cause di una dispnea ostruttiva laringea vi sono i
laringospasmi che corrispondono a delle contrazioni spasmodiche della laringe, che
possono essere sostenute da differenti cause tra cui patologie neurologiche oppure ad
una malattia da reflusso gastroesofageo che può determinare anche delle complicanze e
delle problematiche a livello faringo-laringeo: ci si riferisce con l’espressione di reflusso
faringo-laringeo alle complicanze della malattia da reflusso gastroesofageo nel distretto
otorinolaringoiatrico.
Una dispnea prettamente laringea può insorgere pressoché a tutte le età, ma in età
neonatale le patologie che sono più chiamate in causa sono laringotracheomalacia,
emangiomi, atresia laringea, diaframma laringeo; nella prima infanzia le principali cause
di insorgenza di una dispnea laringea sono costituite dai fenomeni flogistici su base
edematosa. Una delle cause possibili è costituita dagli emangiomi infantili che sono delle
neoplasie che originano dai vasi ematici e che ricorrono con una frequenza discretamente
elevata soprattutto nei neonati con basso peso alla nascita. Alle volte gli emangiomi sono
delle patologie che decorrono in maniera assolutamente benigna, ma altre volte, gli
emangiomi infantili possono, in considerazione soprattutto della sede, determinare delle
complicanze che sono alle volte anche mortali, come nel caso degli emangiomi profondi
della regione sottomentoniera, che si esprimono solitamente come dei noduli bluastri che
frequentemente si associano ad una ostruzione della glottide, che si rende responsabile
di una dispnea laringea.
Una seconda patologia, sostanzialmente congenita e malformativa che può causare
insorgenza di una dispnea ostruttiva laringea è la laringomalacia, espressione con cui si
intende un difetto di sviluppo: lo scheletro laringeo è molto elastico, non abbastanza solido,
per cui durante la fase inspiratoria collabisce per azione della riduzione della pressione nella
via respiratoria a seguito dell’espansione del polmone.
Il diaframma laringeo, anche detto glottide palmata, è una patologia malformativa e
congenita, altra possibile causa di dispnea laringea, ma anche di disfonia, che consiste nella
mancata separazione delle due corde vocali; in tal caso l’entità della dispnea è relativa
all’entità dell’impegno del lume.
Una quarta causa di dispnea laringea neonatale o pediatrica è l’atresia laringea; il termine
atresia, genericamente inteso per qualsiasi organo cavo, intende la mancanza di pervietà
di un organo che normalmente dovrebbe essere dotato di un lume; in tal caso l’atresia può
insorgere in qualsiasi sede, presentandosi caratteristicamente associata alla persistenza di
una membrana fibrosa, che ostruisce il transito dell’aria. In tal caso, il soggetto è
caratteristicamente afono e tenda di inspirare in maniera vigorosa, da cui il cornage e il
tirage che caratterizzano le stenosi laringee.
L’epiglottite è un’altra possibile causa di insorgenza di una dispnea inspiratoria laringea, la
quale si definisce come una infiammazione su base infettiva e prevalentemente batterica
(Haemophilus Influenzae), che colpisce tutta l’epiglottide; si forma una raccolta
ascessuale e i sintomi sono sfumati: disfagia, odinofagia, voce abbastanza normale. La
gravità della presentazione clinica dipende dall’estensione della patologia, che può causare
un vero e proprio tappo sull’aditus laringeo, a volte con dispnea improvvisa, ingravescente
e ovviamente molto grave.
Potenzialmente, a tutte le età è possibile che la causa di insorgenza di una dispnea ostruttiva
laringea sia costituita dalla presenza di un corpo estraneo, che nella più parte dei casi è
costituito da frutta secca o legumi (65% dei casi circa) e meno frequentemente da frammenti
di carne, ossicini, metalli o plastica. In questi casi, chiaramente, il corpo estraneo potrebbe
ostruire qualsiasi tratto della via respiratoria, in considerazione del calibro del corpo
estraneo che se elevato tende ad ostruire le parti prossimali dell’albero respiratorio, come
la laringe. Diversamente, in altri casi, il corpo estraneo può superare la laringe e la trachea
e raggiungere i bronchi, tra i due quello maggiormente interessato è il bronco principale di
destra, sia per via del maggiore calibro, sia per via del fatto che assume rispetto all’asse
della trachea un decorso più verticale e meno obliquo rispetto a quello del bronco di sinistra
e non infrequentemente corpi di piccolissimo calibro possono transitare nel contesto della
via aerea di destra e raggiungere finanche il parenchima polmonare per poi dare luogo ad
un focolaio broncopneumonico di polmonite ab ingestis. Diversamente, i corpi estranei di
calibro maggiore sono quelli che più frequentemente determinano insorgenza di ostruzioni
laringee le quali intervengono caratteristicamente soprattutto nei bambini e negli anziani per
il venire meno della coordinazione tra l’atto deglutitorio e la chiusura dell’epiglottide: si
definisce l’insieme di segni e sintomi da ostruzione delle vie respiratorie da corpo estraneo
con l’espressione di sindrome da penetrazione, che intende l’insieme di manifestazioni
che si realizzano nel contesto della penetrazione glottidea di un corpo estraneo. In tal caso,
soprattutto se l’ostruzione è sopraglottidea, si può eseguire la manovra liberatoria di
Heimlich, che consiste nell’imporre una pressione a livello dell’addome del soggetto con
ostruzione, tal che aumentando la pressione sottodiaframmatica aumenti anche quella
toracica, forzando l’espulsione dell’aria e generando una sorta di colpo di tosse artificiale
che favorisce l’eliminazione del corpo estraneo.
2) CLINICA
Le stenosi o le ostruzioni del lume laringeo, quali che siano le cause che le abbiano
determinate, si presentano clinicamente con una dispnea ostruttiva, cioè causata dalla
presenza di un ostacolo a livello della laringe che ostruisce il flusso aereo in entrata, motivo
per cui al fine di compensare questa ostruzione del flusso aereo inspiratorio si verificano (1)
un aumento dello sforzo inspiratorio, tanto che il soggetto utilizza anche muscoli
accessori dell’inspirazione come trapezio e sternocleidomastoideo e (2) un allungamento
del tempo di inspirazione: dal momento che il volume di aria nell’unità di tempo viene
ridotto dalla ostruzione, il soggetto compensa mediante un aumento del tempo di
inspirazione al fine di inspirare una quota di volume sufficiente, a fronte dell’impiego di un
tempo maggiore. Questo aspetto rende ragione del fatto che nei soggetti con dispnea
ostruttiva laringea si riscontri un rapporto tra il tempo di inspirazione e quello di espirazione
pari circa a 4:1, quando il normale rapporto è di 6:5 o 3:2: il tempo inspiratorio aumenta,
quello espiratorio rimane tale, motivo per cui nell’unità di tempo (minuto) il numero degli
atti respiratori diminuisce. Dal momento che la frequenza respiratoria si riduce al di sotto
del valore di 10 atti/min, il soggetto viene definito bradipnoico.
Oltre alla bradipnea e all’allungamento della fase inspiratoria che sono due segni clinici
pressoché comuni a tutte le dispnee ostruttive laringotracheali, nel caso delle dispnee
laringee si riscontra anche un caratteristico segno clinico che è definito cornage laringeo
e che corrisponde ad uno stridore inspiratorio, dovuto al fatto che la stenosi comporti
restringimento del lume e, in accordo alla meccanica dei fluidi, il diametro del condotto entro
cui il fluido (l’aria, in tal caso) transita è una variabile che influenza la modalità del moto del
fluido: al restringersi del lume, il flusso cambia da laminare a turbolento tal che ne consegua
il classico rumore che giustifica il cornage. Di base, a fronte di una riduzione del flusso
nell’unità di tempo, il tempo inspiratorio aumenta, al fine di fornire una quantità di aria al
polmone adeguata a garantire una sufficiente ossigenazione del sangue; la stenosi causa
anche una alterazione dell’equilibrio pressorio presente nelle vie respiratorie e lo squilibrio
viene ulteriormente amplificato durante la fase inspiratoria, tal che ne consegua una sorta
di risucchio degli spazi molli della regione del collo, condizione che descrive il cosiddetto
tirage laringeo, che è il secondo sintomo altamente caratteristico di una stenosi laringea. Il
tirage laringeo si esprime come un rientramento caratteristicamente a livello di alcune sedi,
che sono:
1. Fossetta giugulare
2. Fossette sopraclaveari
3. Fossetta tra i capi dello sternocleidomastoideo
4. Spazi intercostali
5. Fossetta epigastrica
Il tirage a livello della fossa tra i due capi di inserzione dello sternocleidomastoideo è
variabilmente presente, mentre il tirage a livello della fossetta epigastrica è espressione di
una forma particolarmente grave di ostruzione laringea.
Dal punto di vista clinico, quindi, la dispnea laringea si definisce per diversi aspetti:
1. Dispnea ostruttiva:
a) Allungamento della fase inspiratoria
b) Rapporto tempo inspirazione/espirazione 4:1
c) Bradipnea
2. Segni caratteristici:
a) Cornage laringeo inspiratorio
b) Tirage laringeo inspiratorio
Dal momento che si tratta di una condizione dietro la quale si celano patologie laringee, la
dispnea ostruttiva laringea si associa alla presenza, possibile, anche di tosse secca e
sorda e soprattutto di disfonia, la quale si intende come un segno clinico che consiste
nell’alterazione della propria voce. Inoltre, il soggetto presenta il capo iperesteso quale
tentativo compensatorio rispetto alla stenosi di contrastare la riduzione del flusso aereo
inspiratorio mediante un allungamento e uno stiramento della via respiratoria, mediante
proprio l’estensione del collo e della testa.

• DISPNEA TRACHEALE E BRONCHIALE


La dispnea tracheale è una dispnea ostruttiva, anch’essa si manifesta con bradipnea per
via del tentativo di compensare la riduzione del flusso inspiratorio al minuto mediante un
allungamento del tempo inspiratorio, ma è particolare e distintiva rispetto alla dispnea
laringea dal momento che si riscontrano dei segni clinici paragonabili a quelli della dispnea
laringea, pur se siano lievemente meno evidenti e soprattutto durante la fase espiratoria
possiamo apprezzare un leggero stridore. Peraltro, essendo in tal caso la laringe sana, la
tosse è sonora ed abbaiante, differentemente da quanto accada nelle dispnee laringee in
cui venendo colpito l’organo preposto alla fonazione la tosse è sorda e si riscontra disfonia,
mentre nel caso della dispnea tracheale la voce è normale. Il rumore in fase espiratoria,
assente nel caso delle dispnee laringee, diventa sempre più importante quanto più in basso
è situata la zona di ostruzione e il soggetto non presenta iperestensione, quanto piuttosto
una flessione del collo come tentativo inconscio di detendere la trachea e in qualche
maniera di aumentarne il lume. Ricapitolando, le caratteristiche cliniche della dispnea
tracheale sono costituite da:
1. Bradipnea
2. Tirage più lieve
3. Cornage più lieve
4. Stridore espiratorio
5. Tosse abbaiante e sonora
6. Assenza di disfonia
Le patologie che determinano ostruzione tracheale sono poco frequenti e tra queste quella
più spesso responsabile di dispnea tracheale è l’ostruzione neoplastica da carcinoma di
trachea.
La dispnea bronchiale si manifesta anch’essa mediante insorgenza della bradipnea; la
principale patologia bronchiale che determina una dispnea per ostruzione dei bronchi è
l’asma bronchiale allergico o non allergico. Anche nelle dispnee bronchiali si riscontra
bradipnea, ma espiratoria: la diminuzione del numero degli atti respiratori nell’unità di
tempo è dovuto alla costrizione bronchiale che interferisce con l’espirazione dell’aria per cui
il soggetto al fine di raggiungere il normale volume residuo a fine respirazione, tenta in
maniera compensatoria di allungare il tempo espiratorio. Sempre durante la fase espiratoria
il passaggio dell’aria attraverso i bronchi contratti spasticamente, determina transizione da
un flusso laminare ad un flusso turbolento, sicché l’aria passandovi attraverso i bronchi
generi un sibilo espiratorio, il cosiddetto wheezing, la voce sarà normale, la fase
inspiratoria è muta e breve. Ricordiamo che l’asma cardiogeno ha dei sintomi molto simili a
quelli dell’asma bronchiale, per cui è una delle possibili cause di dispnea ostruttiva che si
manifesta con bradipnea, fase espiratoria lunga e con stridore e fase inspiratoria muta e
breve. Quindi, di fronte ad un soggetto bradipnoico, cercando ulteriori segni, possiamo
subito dire se l’ostruzione è in sede laringea, tracheale o bronchiale:
1. Fase inspiratoria:
a) Dispnea laringea:
i. Tirage
ii. Cornage
iii. Lunga
b) Dispnea tracheale:
i. Tirage lieve
ii. Cornage lieve
iii. Lunga
c) Dispnea bronchiale:
i. Muta
ii. Breve
2. Fase espiratoria:
a) Dispnea laringea:
i. Muta
ii. Breve
b) Dispnea tracheale:
i. Breve
ii. Lieve stridore
c) Dispnea bronchiale:
i. Lunga
ii. Stridore espiratorio
Quindi, a fronte di una dispnea ostruttiva che si presenta classicamente bradipnoica, è
possibile risalire all’eventuale causa che ne sia alla base semplicemente prestando
attenzione alla durata, alla eventuale presenza di rumori patologici in fase inspiratoria o
espiratoria, tenendo conto che quanto più distalmente si collochi l’ostruzione tanto più
aumentano la durata e la presenza di rumori patologici in fase espiratoria, al contrario di
quanto accada nel contesto delle dispnee con ostruzioni collocate tanto più prossimalmente,
in cui aumentano la durata e l’intensità del cornage, mentre la fase espiratoria diviene
progressivamente più breve e muta.

• TRACHEOTOMIA
La tracheotomia è un intervento chirurgico che mira a mettere in comunicazione il lume
della trachea con l’ambiente esterno, non è altro che una comunicazione chirurgicamente
determinata e diretta che viene mantenuta pervia dal posizionamento di una cannula
tracheotomica. La tracheotomia si esegue a livello cervicale anteriore, mediano e inferiore.
Quando parliamo di tracheotomia o tracheostomia, ricordiamo che la laringe o parte di essa,
è sempre in sede. La tracheotomia è un intervento che ha una lunghissima storia, sono
rinvenute notizie di questa tipologia di accesso chirurgico addirittura dei tempi degli Egizi.
Dal punto di vista tecnico abbiamo vari tipi di tracheotomia:
1. Tracheotomia chirurgica cervicotomica anteriore;
2. Tracheotomia percutanea e trans-laringea che vengono effettuate in ambiente
rianimatorio;
3. Minitrack, procedura di estrema urgenza praticata con kit dedicati.
Dal punto di vista terminologico esistono degli elementi di minimo confondimento, dal
momento che si utilizzano indifferentemente sia il termine tracheotomia che il termine
tracheostomia, anche se quello più in voga è tracheostomia. In realtà nella storia chirurgica
c’è una piccola differenza. Infatti, parliamo di tracheostomia quando i lembi tracheali
vengono suturati alla cute in modo da rimanere divaricati, anche senza cannula, pur se
solitamente questa venga inserita. Viene infatti confezionato un tracheostoma, cioè una
sutura con la cute, invece nella tracheotomia non avviene questa sutura. Nei soggetti
sottoposti a laringectomia totale, intervento chirurgico per i carcinomi T3 o T4 della laringe
che infiltrino massivamente le corde vocali, la muscolatura e le aritenoidi compromettendo
fortemente la motilità di queste strutture, parliamo invece di tracheostoma a permanenza
in quanto la laringe non c’è più e il moncone laringeo viene suturato alla cute del giugulo.
Quindi abbiamo tecnicamente tre situazioni: tracheotomia con apertura della trachea e
posizionamento della cannula; tracheostomia con apertura della trachea, sutura dei lembi
tracheali alla cute con varie tecniche e posizionamento della cannula; tracheostoma a
permanenza con asportazione totale della laringe, creazione di un tracheostoma a livello
del giugulo.
1) INDICAZIONI ALLA TRACHEOTOMIA
La tracheotomia non è un intervento di appannaggio esclusivo dello specialista chirurgo
otorinolaringoiatra. Possiamo trovare indicazioni o effettuazioni pratiche anche in altri ambiti
specialistici. Per definire le indicazioni ci vuole un razionale e, quando si debba rimuovere
la cannula al paziente, le indicazioni che hanno portato al posizionamento della cannula
devono essere risolte. Esistono indicazioni di tipo otorinolaringoiatrico, di tipo rianimatorio,
di tipo pneumologico e di tipo neurologico:
1. Indicazioni otorinolaringoiatriche:
a) Ostruzione laringea non trattabile con farmaci
b) Ostruzione laringea non trattabile con intubazione
c) Corpo estraneo laringeo nell’aditus (tracheotomia obbligatoria)
d) Edema postchirurgico (tracheotomia preventiva)
e) Paralisi laringee bilaterali in adduzione
f) Laringiti edematose refrattarie agli steroidi
g) Traumi maxillo-facciali
h) Lacerazioni o perforazioni laringotracheali
2. Indicazioni pneumologiche:
a) BPCO
b) Enfisema
3. Indicazioni rianimatorie
Le indicazioni otorinolaringoiatriche consistono in tutte quelle patologie con evoluzione
stenosante od ostruttiva della laringe non altrimenti trattabili dal momento che alle volte
anche a fronte di una stenosi importante della laringe, ci potrebbero essere modalità
terapeutiche non chirurgiche per riacquisire la pervietà della via aerea. Le modalità non-
tracheotomiche sono o le terapie mediche o, se possibile, un’intubazione. Ad esempio, se
abbiamo un edema laringeo su base allergica, il trattamento è medico. Nei casi in cui il
trattamento medico non abbia un pronto effetto risolutivo, poiché sussiste una situazione
edematosa, allora questi pazienti potrebbero essere intubati. Anche una neoplasia può
permettere una intubazione, anche se più difficile. Una paralisi cordale bilaterale in
adduzione non potrebbe essere trattata dal punto di vista medico perché non ne abbiamo
possibilità, però è possibile intubare il paziente e poi con calma decidere il trattamento, se
fare interventi chirurgici particolari o se fare una tracheotomia. Se vi è un corpo estraneo
laringeo che blocca l’aditus laringeo, diventa obbligatoria la tracheotomia sia per
permettere la ventilazione, ma anche per addormentarlo e procedere in sicurezza alle
manovre per estrarlo. Nei casi dei postumi chirurgici, se l’intervento è fortemente demolitivo
su parte della laringe, l’edema postchirurgico può ostruire quindi il paziente viene
preventivamente sottoposto a tracheotomia e fuoriesce dalla sala operatoria con una
cannula tracheotomica.
Inoltre, le indicazioni pneumologiche alla tracheotomia sussistono quando si abbia una
pneumopatia, con laringe e trachea pervie. I soggetti con patologie polmonari che vengono
indirizzati alla tracheotomia sono spesso pazienti che hanno deficit ventilatorio cronico, in
genere portatori di broncopneumopatia cronica ostruttiva o enfisema. In questi casi può
essere indicata la tracheotomia dal momento che tutte le vie aeree non sono che un
condotto di trasporto dell’aria e il soggetto compie un’attività per portare l’aria dall’ambiente
esterno fino agli alveoli, aria che comunque incontra una certa resistenza nel trasporto lungo
lo spazio morto respiratorio, ovvero quella parte che non partecipa allo scambio gassoso.
Con il confezionamento di una tracheotomia, viene eliminata parte dello spazio morto
respiratorio, quindi il tragitto che l’aria deve compiere è di fatto più breve, lo sforzo
respiratorio è minore e il tutto si concretizza in un minore sforzo per l’attività ventilatoria.
Parallelamente, il posizionamento di una cannula tracheotomica in questi soggetti,
bypassando le vie aeree superiori (fondamentalmente, la laringe) permette di eseguire le
broncoaspirazioni o lavaggi bronchiali (laddove indicato) in cannula tracheotomica in
tutta sicurezza. Le broncoaspirazioni in cannula tracheotomica, sono semplici, comode,
possono essere praticate frequentemente e quindi contribuiscono a mantenere pervia la
parte della via aerea residua e quindi migliorano ulteriormente l’attività respiratoria. Con la
tracheotomia, lo spazio morto respiratorio si riduce di una percentuale variabile dal 10%
al 50%.
Un soggetto in rianimazione il più delle volte è un soggetto con ventilazione assistita a
pressione positiva; questi pazienti vengono normalmente intubati e quindi vengono ventilati
a pressione positiva intermittente finché non si verifichi o il risveglio del paziente e quindi il
ritorno alla ventilazione spontanea oppure l’exitus. Inoltre, esiste la necessità di praticare la
tracheotomia anche quando, pur essendo possibile eseguire una intubazione oro-naso-
tracheale, si determinerebbero degli esiti cicatriziali che approdano ad una stenosi
cicatriziale irreversibile della laringe.
La storia clinica dopo i primi tempi dell’introduzione della ventilazione oro-naso-tracheale,
ha messo in evidenza che dopo intubazioni prolungate insorgevano dei fenomeni
cicatriziali, causati dalle lesioni da decubito che il tubo a permanenza induce nelle vie
aeree superiori. Soprattutto quello che più interessa in ambito otorinolaringoiatrico sono le
lesioni a livello laringeo, poiché il decubito del tubo a permanenza comporta nella laringe la
formazione di lesioni che dopo la rimozione del tubo guariscono ma danno esiti cicatriziali,
i quali causano nel tempo fenomeni stenosanti su base cicatriziale che sono risultati
difficilmente risolvibili tal che si dovesse ricorrere al mantenimento del tubo quoad vitam
(questo accadeva negli anni ’70). L’esperienza sul campo a posteriori ha fatto introdurre la
necessità di salvaguardare la laringe, per cui la tracheotomia è indicata laddove
l’intubazione debba prolungarsi per oltre una settimana, valutando attentamente tutti i fattori
prognostici. Quindi, quando un paziente giunga in rianimazione con assenza di attività
respiratoria va intubato, se dopo una settimana non siano state riprese le funzioni
ventilatorie autonome, per via dell’effetto traumatico determinato dal decubito del tubo
endotracheale, il paziente va sottoposto a tracheotomia e successivo collegamento del
ventilatore alla cannula tracheotomica.
2) TECNICA CHIRURGICA DELLA TRACHEOTOMIA
Nei casi di indicazione rianimatoria il paziente è intubato e in anestesia generale, mentre
nel caso delle indicazioni otorinolaringoiatriche si procede in anestesia locale con
infiltrazione di lidocaina.
Quando viene indicata una tracheotomia per cause prettamente ostruttive, per non incorrere
in problemi bisogna sempre essere certi che l’occlusione sia trapassabile, essere sicuri di
superare la zona stenotica. Per la via cervicale anteriore, la trachea non è tutta aggredibile,
ma abbiamo la possibilità di aggressione, in funzione della tecnica, dei primi 4-5 anelli
tracheali, pur se ci siano altre tecniche per superare eventuali stenosi più basse.
Parliamo di tracheomia alta, media, bassa o coniotomia in funzione dei rapporti con l’istmo
della tiroide o in funzione dell’accesso attraverso la membrana cricotiroidea per la
coniotomia:
1. Tracheotomia alta o sovra-istmica: incisione al di sopra dell’istmo della ghiandola
tiroide.
2. Tracheotomia trans-istmica:
a) Clampaggio dell’istmo tiroideo
b) Incisura dell’istmo
c) Apertura della ghiandola
3. Tracheotomia sotto-istmica:
a) Lussazione superiore dell’istmo
b) Incisione sub-tiroidea
4. Coniotomia: viene praticata mediante una incisione sulla membrana cricotiroidea.
La tracheotomia si esegue in regime di anestesia locale se il paziente non può essere
intubato (come in caso di neoplasie importanti) o in anestesia generale, laddove il paziente
possa essere intubato. I tempi fondamentali per l’esecuzione della tracheotomia sono:
posizionamento della testa, anestesia locale (oppure prima anestesia generale e poi
posizionamento della testa), incisione cutanea, apertura della loggia viscerale del collo. Per
l’esecuzione della tracheotomia trans-istmica si esegue il clampaggio dell’istmo della tiroide
e la sua incisura, successivamente si eseguono anestesia della mucosa tracheale, apertura
della trachea, introduzione di una cannula tracheotomica oppure il cosiddetto tubo di
Montandon e infine sutura della cute che non deve essere mai aderente alla cannula,
altrimenti si potrebbero riscontrare delle complicanze.
Il posizionamento della testa, in genere, prevede che si ponga un cuscino sotto le spalle
in maniera tale che la testa vada in iperestensione, tal che si abbia una maggiore
superficializzazione dell’asse laringotracheale. Ci sono dei punti di repere per fare
l’anestesia locale con lidocaina quando necessario.
Allo stato attuale, con tutta la diagnostica precoce e grazie al fatto che gli anestesisti con il
laringoscopio riescono ad intubare quasi tutti i pazienti è abbastanza raro il ricorso
all’anestesia locale per fare una tracheotomia. I punti di repere fondamentali sono il
cosiddetto pomo d’Adamo, l’incisura tiroidea ma soprattutto la cricoide. L’incisione cutanea
può essere di due tipi: orizzontale o verticale. L’incisura orizzontale in genere si mette in
atto o nelle tracheotomie in elezione e quindi anche questo ha uno scopo estetico, o quando
la linea di incisione verrà prolungata nel collo per effettuare un intervento chirurgico a cielo
aperto sulle strutture cervicali o laringee. D’urgenza la tracheotomia deve essere praticata
con incisione verticale mediana. Ai lati dell’asse laringotracheale ci sono una serie di
grossi vasi, quindi il tenere la linea mediana è di salvaguardia da un lato e dall’altro di strada
chirurgica. Anche nella zona paramediana possiamo trovare dei grossi vasi, i vasi giugulari
anteriori, anche verticali, per cui se facciamo un’incisione trasversa a volte
involontariamente possiamo sezionarli, invece tenendo sempre la linea mediana e andando
avanti chirurgicamente strato per strato con accortezza, possiamo avere un maggiore
controllo con sicurezza del campo operatorio, infatti spesso ci si aiuta con l’esplorazione
digitale per rimanere sempre in contatto con i punti di repere che sono la cartilagine cricoide
e i primi anelli tracheali.
Con l’incisura mediana verticale si accede direttamente alla loggia viscerale del collo che
contiene sia l’asse laringo-tracheale che la tiroide, che si trova anteriormente, avvolta da
una capsula molto vascolarizzata. Per eseguire una tracheotomia trans-istmica occorre
scollare la parte posteriore dell’istmo tiroideo dalla trachea, clampare l’istmo, poi effettuare
una legatura dei due monconi destro e sinistro. Prima del posizionamento della cannula
tracheotomica è opportuno accedere con una siringa e aspirare, dal momento che se con
l’aspirazione viene aspirata solo aria allora si è sicuri di aver avuto accesso alla trachea e
questo è un aspetto molto importante nella pratica clinica otorinolaringoiatrica dal momento
che innanzitutto sussiste una variabilità anatomica, in secondo luogo l’asse
laringotracheale è mobile e, in terzo luogo, ci possono essere alterazioni dei tessuti o
patologie che alterano quella che è la normale anatomia dell’asse laringotracheale. Subito
dietro l’asse laringotracheale si trovano l’esofago e le vertebre ed evidentemente nei casi in
cui vi sia una alterazione della normale anatomia della loggia viscerale del collo sussiste la
possibilità di incappare in errori chirurgici che portino ad incisione delle vertebre o
dell’esofago.
Una volta clampato ed inciso l’istmo si esegue l’anestesia locale con lidocaina, quindi si
esegue l’incisione tracheale, per la quale vi sono diverse tecniche, ciascuna con i propri
vantaggi e svantaggi:
1. Creazione di uno sportello
2. Incisura verticale
3. Incisura a doppia T
In genere, quale che sia la tecnica di incisione, solitamente si esegue all’altezza del
secondo, del terzo oppure del quarto anello tracheale. Quindi, eseguita l’incisione
tracheale è necessario eseguire l’immissione della cannula tracheotomica oppure del tubo
di Montandon, ma per fare questo è necessario dapprima divaricare i lembi tracheali che si
formano dopo l’incisione della stessa mediante uno strumento chiamato divaricatore
tracheale di Laborde che è dotato di tre valve, una destra, una sinistra ed una inferiore,
l’ultima delle quali entrando in trachea e andando verso il basso crea proprio una strada per
il posizionamento o della cannula tracheotomica con cuffia (fondamentale per fare la
ventilazione assistita) o il tubo di Montandon, che non è altro che un tubo endotracheale con
una foggia ben precisa. Il tubo per l’intubazione per l’anestesia in genere può essere o oro-
tracheale oppure naso-tracheale, dotato della sua cuffia: è un piccolo palloncino che viene
alimentato da un piccolo condotto e dalla cosiddetta cuffia pilota, si gonfia con l’aria e questo
piccolo pallone chiamato cuffia va a chiudere quella porzione di trachea tra mucosa
tracheale e parete esterna del tubo creando quindi una via obbligata attraverso il nostro
tubo. Se noi dobbiamo operare sulla laringe e sul collo o posizioniamo un tubo, ma ci
darebbe fastidio, o una cannula tracheotomica, ma ci darebbe anch’essa un po’ di fastidio,
o mettiamo questo tubo di Montandon, che attraverso la breccia tracheotomica entra in
trachea e poggia sul torace, rendendo libero il campo operatorio.

• CANNULE TRACHEOTOMICHE
Le cannule tracheotomiche sono dei presidi medico-chirurgici applicati a seguito di
tracheotomia con l’obiettivo di mantenere e assicurare la pervietà del tratto compreso tra il
lume della trachea e l’ambiente esterno attraverso il condotto luminale della cannula che
evidentemente è sempre pervio e consente la ventilazione del paziente. Le cannule
tracheotomiche sono dei dispositivi costituiti da tre parti principali, che sono la cannula vera
e propria, la controcannula e la flangia.
La cannula vera e propria è in genere un tubo curvo, grossomodo un arco di cerchio, che si
posiziona in trachea. La flangia è una placchetta laminare, ovoidale, in genere può essere
sia morbida che rigida, sempre orientabile che si mantiene adesa alla cute del collo del
paziente, in continuità con la cannula. Da un lato costituisce un limite così che la cannula
non possa più penetrare in trachea, e dall’altra è un dispositivo di ancoraggio della cannula
stessa dal momento che ha due fori laterali che permettono il passaggio di un nastro per
mantenere la cannula. Sulla flangia è anche presente una serie di numeri che sono gli
indicatori della tipologia di cannula che viene utilizzata nel praticare la tracheotomia. La
cannula deve essere fissata al paziente o con un nastro che cinge il collo del paziente o con
dei punti di sutura, sempre passanti tra cute e questi due fori della flangia, precisando
tuttavia che i soli punti di sutura non rendono molta stabilità perché la cute è elastica.
Il mandrino invece non è altro che un piccolo tubicino che viene inserito all’interno della
cannula quando bisogni introdurla in sede dal momento che la punta arrotondata del
mandrino che fuoriesce dall’estremità distale della cannula ne permette una migliore
introduzione questo dal momento che la cannula tracheotomica ha una punta tronca. Dopo
aver posizionato la cannula col mandrino, esso viene rimosso e viene posizionata la
controcannula. La controcannula è sempre presente, salvo che nelle cannule pediatriche
molto piccole per ragioni prettamente di spazio. Ha un’importanza fondamentale ed
estremamente importante è considerare che sia rimovibile: la rimozione della
controcannula permette la pulitura del lume della cannula, evitando che in essa si
stratifichino secrezioni che possano in qualche maniera possano indurre un restringimento
del suo lume. La porzione della cannula che fuoriesce dalla trachea, oppure la
controcannula oppure entrambe, possono essere dotate di un raccordo universale, cioè
una porzione cilindrica con un diametro prestabilito che può essere attaccato a qualsiasi
respiratore artificiale: in questa maniera, mediante questo accorgimento è possibile
teoricamente assicurare la respirazione artificiale a qualsiasi paziente tracheotomizzato che
ne abbia necessità. Questo cilindro, che non è altro che un connettore standard e lo
possiamo trovare o sulla controcannula oppure direttamente sulla flangia.
1) TIPOLOGIE DI CANNULE
In base alla presenza o meno della cuffia, in base alla presenza o meno della finestra e/o
della controcannula, si possono distinguere differenti tipologie di cannule tracheotomiche:
cannule fenestrate e non-fenestrate, cannule cuffiate e non-cuffiate.
La cuffia è una sorta di palloncino posto all’estremità distale che viene gonfiato attraverso
un tubicino di raccordo. Sulla flangia di ogni cannula tracheotomica si trovano dei numeri,
delle sigle che indicano la tipologia della cannula, dal momento che ve ne sono di diverse e
dunque in questo caso è opportuno chiedersi quali siano i criteri per poter fare la scelta della
cannula più idonea per dimensioni, tipologia. Sono tre i parametri fondamentali di una
cannula tracheotomica: la marca; il codice o tipologia che può essere una sigla che ci dice
se la cannula è cuffiata o meno, se è fenestrata o meno (cioè se dotata di una finestra che
metta in comunicazione il lume interno della cannula con l’esterno), le dimensioni o
quant’altro; il side ovvero la misura, un numero unico che racchiude all’interno tutta una
serie di misure che sono la lunghezza, il diametro esterno, il diametro interno. Tutti questi
parametri si possono evincere alla superficie esterna della cannula.
2) FUNZIONE DELLA CUFFIA DELLA CANNULA
Ha un ruolo primario, quello, cioè di permettere una ventilazione a pressione positiva,
infatti si trova nella parte del tubo che entrerà in trachea, per cui una volta inserito il tubicino
della cannula, la cuffia viene gonfiata. La cuffia non serve per stabilizzare la cannula e in
questo senso ha una funzione totalmente diversa dalla funzione che hanno le cuffie dei
cateteri viscerali. La cuffia ha anche un ruolo secondario: se un soggetto ha emorragia nel
campo operatorio, attraverso la breccia tracheotomica il sangue potrebbe entrare in trachea
e quindi inondare le vie aeree inferiori, ma se noi abbiamo una cannula con cuffia, essa
separa le vie aeree superiori dalle inferiori e non abbiamo la possibilità di inondare le vie
aeree inferiori. Parallelamente possiamo subito procedere all’anestesia generale per
un’emostasi operatoria. In questi casi, ove ci fosse una cannula con tubicino di aspirazione,
potremmo aspirare il sangue che magari si deposita al di sopra della cannula cuffiata. Altro
vantaggio, molto importante, è quello di prevenire eventuali inalazioni di materiale
alimentare o di saliva; infatti, durante l’attività deglutitoria se un paziente deglutisce male,
cioè è disfagico, il cibo penetra nelle vie aeree, supera la laringe, va in trachea e nei polmoni,
ma se la cannula è dotata della cuffia si impedisce questo passaggio semplicemente perché
la cuffia stessa ha anche una funzione di ingombro; per cui i principali vantaggi delle cannule
cuffiate sono quelli di (1) assicurare la ventilazione a pressione positiva, (2) impedire
che i sanguinamenti operatori inondino le vie aeree inferiori e (3) prevenire eventuali
fenomeni di inalazione di saliva o materiale alimentare. Ma quest’ultimo è un problema
acuto, transitorio, perché una volta che il cibo si stratifica, quando si proceda con lo
scuffiamento, questi penetra nelle vie aeree inferiori, tant’è vero che un soggetto disfagico
ha determinati protocolli di trattamento e di educazione, non è certo la cuffia che lo fa
deglutire in sicurezza.
Nel soggetto sottoposto a laringectomia totale, nel periodo postoperatorio, per permettere
la cicatrizzazione dello stoma, si posiziona temporaneamente una cannula non cuffiata, con
angolatura limitata. È una cannula tipo Pietrantoni, che prende il nome dal laringologo che
la inventò intorno agli anni ’60. In tal caso, la cannula non ha la forma incurvata tipica delle
cannule tracheali, potremmo dire che sia a forma di arco di cerchio con raggio di curvatura
molto elevato, per cui è una cannula quasi rettilinea ed a curvatura limitata. I primi prototipi
di cannula di Pietrantoni erano metallici e più lunghi, le cannule attuali sono più corte e con
materiale plastico ma oramai sono cadute in disuso.
3) CANNULE FENESTRATE
Nelle cannule fenestrate, la parte superiore dell’arco di cerchio presenta dei fori che
comunicano con il lume che prendono il
nome di finestre; la finestra ha la funzione
di migliorare la fonazione, pur se il
posizionamento della cannula venga fatto
fondamentalmente per problemi respiratori
per cui possiamo dire che la cannula
fenestrata venga utilizzata per tutte quelle
patologie che comportino
contemporaneamente problematiche
respiratorie e di fonazione. Le paralisi
laringee bilaterali con corde vocali in
adduzione, in questo senso,
rappresentano le patologie prototipiche per
le quali è indicato l’utilizzo di queste cannule. L’adduzione delle corde vocali, difatti, è una
posizione fonatoria, quindi se ci fosse aria nei polmoni da permettere una espirazione il
paziente fonerebbe benissimo, ma aria nei polmoni non ve n’è semplicemente perché la via
aerea è chiusa e non è consentito il flusso aereo inspiratorio. La fonazione avviene in fase
espiratoria, quando l’aria transiti in corrispondenza delle corde vocali così da permettere
l’onda di oscillazione mucosa; se la cannula non presentasse la finestra, l’aria passerebbe
tutta dalla cannula in espirazione, senza raggiungere le corde vocali, per cui in tal caso, la
finestra permette una comunicazione tra il lume della cannula e il lume tracheale
consentendo un flusso di aria verso le corde vocali che assicura la fonazione. In questi
soggetti con paralisi laringee bilaterali con corde in adduzione o in soggetti che hanno subito
una laringectomia parziale (ma questo è un ambito specialistico) mediante il posizionamento
di una cannula con finestra, il paziente inspira con la cannula aperta, poi chiude la cannula
o col dito o con una controcannula non fenestrata, l’aria va in maggior quota verso l’alto
perché penetra subito nella cannula, fuoriesce dalla finestra e penetra tra parete tracheale
e cannula (se c’è la cuffia ovviamente la cannula deve essere scuffiata), dando una quota
di aria maggiore ai fini fonatori. Noi sappiamo che ai fini fonatori viene messa in atto una
espirazione volontaria, modulata in intensità ai fini del nostro atto fonatorio. Quindi, la
finestra migliora la fonazione. Per fare questo in un paziente con stenosi importante,
dobbiamo occludere il lume della cannula in fase espiratoria, perché altrimenti l’aria
uscirebbe tramite la cannula stessa. Questo si può fare o volontariamente (il paziente lo fa
con il dito) oppure esistono delle valvole che si chiudono automaticamente in fase
espiratoria. Ovviamente, una cannula fenestrata diventa tranquillamente non fenestrata
posizionando una controcannula non fenestrata. La pulizia della cannula attraverso la
rimozione della controcannula è fondamentale e deve essere effettuata ogni 3-4 ore o
almeno 3-4 volte al giorno, specialmente prima della notte.
4) RIMOZIONE DELLA CANNULA TRACHEOTOMICA
Quando siano venute meno le indicazioni alla tracheotomia, quindi il paziente è in respiro
spontaneo, si esegue la manovra di svezzamento cioè quella di rimozione della cannula
tracheotomica. Il processo di svezzamento è un processo di rieducazione alla respirazione
per le alte vie aeree. Il paziente ha respirato attraverso la cannula, ha perso un po’ la
concezione e sensazione del normale respiro, quindi va rieducato per sicurezza. La corretta
manovra di svezzamento prevede la chiusura della cannula a vie aeree pervie, inizialmente
qualche ora al mattino e qualche ora al pomeriggio, poi tutta la giornata e poi anche la notte.
Quando le vie aeree sono completamente pervie e vi è una respirazione in sicurezza per
24h, si procede alla rimozione della cannula tracheotomica. Chiudere la cannula
tracheotomica permette il passaggio di aria attraverso le vie aeree superiori. Ci sono tutta
una serie di passaggi prettamente meccanici per poter rimuovere una cannula
tracheotomica: innanzitutto devono venire meno tutte le indicazioni che hanno reso
necessaria la tracheotomia e in secondo luogo deve essere assicurata pienamente la
ventilazione spontanea. Quando venga applicata una cannula tracheotomica con cuffia,
prima deve essere rimossa quest’ultima e quindi viene intrapresa una primissima fase di
allenamento, dopodiché c’è la fase vera e propria di svezzamento con chiusura. Il
monitoraggio della pervietà della via aerea lo si può eseguire mediante una fibroscopia che
può essere tradizionale con accesso dall’alto, ma addirittura è possibile accedere in cannula
con il fibroscopio ed esplorare le vie aeree inferiori a partire da dove la cannula finisce. Il
controllo fibroscopico permette soprattutto di scongiurare alcune delle possibili complicanze
del decannulamento soprattutto quando si utilizzino le cannule fenestrate: accade talora che
si generino delle lesioni da decubito che comportano una reazione granulomatosa che
penetra nella finestra tracheale; fortunatamente, il controllo periodico della cannula con
fibroscopia permette di scongiurare questo rischio con un attento monitoraggio.
Una volta rimossa la cannula, in genere la fistola si medica, si chiude spontaneamente nel
giro di un mesetto, ma se non si chiude spontaneamente si possono fare interventi di
plastica.
5) COMPLICANZE DELLA TRACHEOTOMIA
Le complicanze della tracheotomia possono essere suddivise in complicanze
intraoperatorie e complicanze postoperatorie. Le complicanze intraoperatorie sono tutte
quelle che hanno a che fare con l’atto chirurgico, tra le postoperatorie vi sono le complicanze
immediate (in genere nella prima settimana) o tardive (di competenza prettamente
specialistica):
1. Ostruzione della cannula: riduce la ventilazione nel paziente e quindi il paziente si
può presentare dispnoico;
2. Decannulamento accidentale: se la cannula non è stata posizionata in maniera
corretta e coerente al collo del paziente, per tante possibilità accidentali o meno, per
pazienti psicopatici che si staccano la cannula dal collo è possibile che si abbia un
decannulamento accidentale. Il decannulamento può essere una complicanza grave,
ma a volte non immediatamente evidente. Solitamente, la prima manifestazione del
decannulamento accidentale è quello del ritorno alla situazione respiratoria
precedente alla tracheotomia, quindi se il paziente era dispnoico si riscontra un
ritorno della dispnea, ma se il paziente in origine non era dispnoico potremmo anche
non accorgercene. Se la cannula è posizionata grossomodo nel collo, fuoriesce dalla
trachea e il lume distale della cannula guarda la faccia anteriore della trachea, quindi
ce ne accorgiamo posizionando la mano sul lume della nostra cannula e avvertiamo
se vi è un flusso aereo. Se non siamo ancora sicuri, introduciamo un sondino e
vediamo se pesca. Se il sondino si blocca dopo una decina di centimetri (grossomodo
la lunghezza della cannula), ovviamente significa che qualcosa non va. Nei casi dubbi
possiamo penetrare per il tramite del lume della cannula con i fibroscopi e vedere la
situazione. In taluni casi, la cannula è ostruita per granulomi o perché vi sono
secrezioni rapprese che hanno ostruito il lume;
3. Enfisema sottocutaneo cervicale: la cannula viene posizionata in trachea, ma
durante l’attività respiratoria, se la cannula non è cuffiata, una minima quota di aria
si infiltra tra la parete esterna della cannula e i lembi tracheali e, seguendo la cannula,
fuoriesce all’esterno. Se noi suturiamo la cute in maniera molto aderente intorno alla
cannula, questo piccolo flusso aereo non fuoriesce spontaneamente ma riesce a
infiltrarsi, dati i gradienti pressori, nelle fasce cervicali e in particolare nella fascia
cervicale superficiale. Questa situazione crea un enfisema sottocutaneo
apprezzabile alla palpazione come una sensazione soggettiva di crepitio che
tradizionalmente può essere paragonabile al crepitio che si apprezza palpando la
neve appena caduta. Quindi, buona norma è non posizionare dei punti di sutura
cutanei aderenti alla cannula e, in secondo luogo, palpare il collo del paziente. questa
è una situazione pericolosa perché questo enfisema si può estendere verso il
mediastino e quindi dar luogo allo pneumomediastino che può dar luogo ad un
enfisema mediastinico, che rappresenta una complicanza abbastanza temibile.
4. Emorragie nel campo operatorio: il sangue attraverso la breccia tracheale penetra
in trachea. Se c’è la cannula cuffiata, si ferma al di sopra della cuffia, se è scuffiata
penetra nelle vie aeree inferiori. Ce ne accorgiamo perché il paziente inizia a tossire
sangue attraverso la cannula, e questo avviene se la cannula è scuffiata. Se vi è la
cuffia, il sangue dell’emorragia o fuoriesce col vomito, oppure fuoriesce dal cavo
orale. In questi casi, se è stata applicata una cannula scuffiata, in primo luogo,
occorre cuffiare, in secondo luogo procedere ad un’emostasi chirurgica. Nei primi
tempi postoperatori, quindi, la presenza di una cannula con cuffia da un lato ci aiuta
in caso di complicanze, dall’altro ci permette di procedere subito a una ventilazione
a pressione positiva. A situazione stabilizzata, quando non serve più, la cannula con
cuffia potrà essere sostituita con una cannula senza cuffia;
5. Sindromi disfagiche: in fase acuta, episodica, la presenza di una cuffia può aiutare
per la disfagia perché separa le vie aeree superiori dalle inferiori a livello della cuffia
(il cosiddetto “effetto piscina”). Parallelamente però una cannula cuffiata preme sulla
pars membranacea della trachea e a sua volta preme sull’esofago, quindi crea un
momento di stenosi. Inoltre, la presenza della cannula riduce l’elevazione laringea
che abbiamo durante l’atto deglutitorio e quindi rende più difficoltosa la deglutizione.
Tutto questo, con un fine bilancio del paziente, viene facilmente superato. Se c’è una
cannula con doppia strada possiamo mantenere la cuffia e aspirare il contenuto, ma
in linea di massima se un soggetto ha una sindrome disfagica va trattato con
determinati kit di modalità alimentare, sia per via enterale che parenterale o
comunque per os, oppure rieducato tramite rieducazione logopedica.
La tracheotomia non è una manovra chirurgica sempre semplice, soprattutto in pazienti con
un collo più tozzo. Infatti, in rianimazione spesso non si può procedere con sicurezza alle
tecniche percutanee translaringee e bisogna optare per tracheotomie chirurgiche. Ci sono
molti rischi e problematiche anche intra-operatorie.
Dopo aver fatto una tracheotomia trans-istmica, si procede alla creazione di uno sportello
fisso a livello della breccia tracheotomica. Viene fatto per mantenere il più possibile pervia,
con sicurezza, la via aerea perché se si ha decannulamento accidentale comunque questa
tecnica permette un momento di tranquillità prima del riposizionamento, e non magari la
chiusura della breccia. Dopo una tracheotomia, se c’è un decannulamento accidentale, più
precoce è la tracheotomia, maggiore è la velocità con cui quella breccia si chiude.
Ovviamente, se c’è una cannula tracheotomica posizionata da un anno, ci vorrà un po’ di
tempo affinché la breccia si chiuda spontaneamente.
Carcinoma laringeo

Con l’espressione di carcinoma laringeo si intende un tumore epiteliale maligno e


primitivo della laringe che origina dalle cellule epiteliali di rivestimento della mucosa laringea,
essendo tra i tumori del distretto testa-collo il più frequente. Infatti, in corrispondenza del
distretto di competenza puramente otorinolaringoiatrica esistono differenti tipologie di tumori
maligni, alcuni dei quali originano dall’epitelio di rivestimento delle varie strutture, compreso
il cavo orale e il faringe ed altri invece originano dalla trasformazione maligna delle cellule
che entrano nella costituzione dei linfonodi e non infrequentemente nei soggetti di giovane
età oppure in soggetti ultrasessantacinquenni è possibile che si riscontrino delle particolari
neoplasie note con il nome eponimo di linfoma di Hodgkin, per le quali una delle particolari
sedi predilette per l’insorgenza è costituita proprio dai linfonodi laterocervicali, per cui nella
diagnostica differenziale delle tumefazioni cervicali è estremamente importante considerare
anche queste neoplasie; il distretto testa-collo può anche essere interessato da altre
neoplasie, chiaramente tra queste si ricordano anche le neoplasie della tiroide, che tuttavia
sono gestite perlopiù dal chirurgo generale e dall’endocrinologo, e le neoplasie della linea
linfoide distinte dai linfomi di Hodgkin che per contrapposizione prendono il nome di linfomi
non-Hodgkin, tra cui si ricorda il linfoma a cellule marginali del MALT che insorge nei soggetti
con sindrome di Sjögren particolarmente in corrispondenza della ghiandola parotide lì dove
nei casi a prognosi peggiore il linfoma non-Hodgkin può essere del tipo del linfoma diffuso
a grandi cellule B. Non bisogna, peraltro, dimenticare che anche l’epitelio ghiandolare della
parotide o delle altre salivari maggiori può essere interessato dall’insorgenza di tumori
maligni di origine ghiandolare che come tali sono definiti adenocarcinomi.
Quindi, sicuramente sono molte e molto diverse per istotipo e prognosi, le neoplasie del
distretto testa-collo ma certamente tra queste il tumore maligno più frequente è costituito
dal carcinoma della laringe, che origina dall’epitelio di rivestimento della mucosa dell’organo.
1) EPIDEMIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO DEL CARCINOMA LARINGEO
Il carcinoma laringeo è un tumore di fatto discretamente frequente che incide con
estremamente maggiore frequenza nei soggetti di sesso maschile e soprattutto nei soggetti
ultracinquantenni, essendo questi un tumore che ricorre maggiormente nei soggetti di età
compresa tra i cinquant’anni e i sessant’anni. Il carcinoma laringeo individua alcuni
particolari fattori di rischio; in realtà per la trasformazione carcinomatosa del distretto testa-
collo si individuano due importanti fattori di rischio che sono costituiti dal fumo di sigaretta
e dall’alcol; il tabagismo rappresenta un fattore di rischio nella misura in cui gli idrocarburi
aromatici policiclici e le nitrosammine contenute nel fumo di sigaretta possano determinare
un danno infiammatorio cronico a livello della laringe ed è a noi ben nota l’associazione che
esiste tra l’infiammazione cronica e il cancro, così come è noto il ruolo dell’alcol che per via
della debilitazione dei sistemi di difesa immunitaria e per via dell’azione cronica indotta in
termini di irritazione svolge un’azione cancerosa che alle volte è congiunturale rispetto alla
funzione svolta dal fumo di sigaretta nel contesto di tale patologia. Occorre considerare che
il carcinoma laringeo possa giovarsi nel proprio insorgere di alcune condizioni professionali,
soprattutto per quei soggetti che siano stati lungamente esposti a determinati stimoli irritativi
cronici come lo sono le polveri di amianto (anche se i tumori più tipicamente asbesto-
correlati siano il carcinoma squamocellulare del polmone e il mesotelioma maligno della
pleura), di carbone e dei tessili e le radiazioni del distretto testa-collo, che possono
rappresentare un fattore predisponente alla genesi del danno cronico nel contesto della
cancerogenesi del distretto testa-collo.
Il reflusso faringo-laringeo e i fattori genetici ereditariamente trasmissibili hanno, ad oggi, un
ruolo che non è stato pienamente chiarito come invece è per quanto riguarda il tabagismo
e l’alcolismo.
Sicuramente, l’epidemiologia e i fattori di rischio sono di estrema importanza da conoscersi
poiché possono giovare all’insorgenza del sospetto clinico che deve essere sempre istituito,
nel contesto dell’oncologia cervicofacciale, allorquando sussista la presenza di una
sintomatologia soggettiva che non regredisce mediante terapia: non infrequentemente i
soggetti in questione lamentano una sintomatologia ingravescente e rivolgendosi al medico
di medicina generale intraprendono una terapia che non sortisce effetti; quando la
sintomatologia insorga in soggetti soprattutto di sesso maschile, di età ultracinquantenne
con fattori di rischio conclamati e tende ad assumere un andamento cronico-ingravescente
pur in presenza di una eventuale terapia, occorre sempre sospettare la presenza di un
carcinoma della regione testa-collo e quindi indirizzare il paziente al consulto specialistico
otorinolaringoiatrico, anche perché il carcinoma laringeo se individuato precocemente è un
tumore a buona prognosi, per il quale sussiste anche una metodica di diagnosi efficace che
si vale del contributo della panendoscopia del distretto cervicofacciale che viene effettuata
ogni qualvolta sussista questa sintomatologia sospetta.
2) ELEMENTI DI ISTOPATOLOGIA
Dal punto di vista istopatologico, il carcinoma della laringe è un carcinoma
epidermoidale, il che significa che origina dalla trasformazione neoplastica di un epitelio
pavimentoso composto che assume aspetti cheratinizzanti, tal che venga considerato alla
stregua dell’epidermide.
In realtà, il carcinoma della laringe origina da un progressivo percorso di de-differenziazione
cito-istologica, in cui progressivamente le cellule perdono la propria originaria morfologia e
differenziazione a seguito di alcune anomalie che comportano una stratificazione del danno
genetico; possiamo dire, quindi, che la progressiva alterazione cito-istologica sia nient’altro
che l’espressione morfologica del danno indotto dall’alcol e dal tabagismo, quali principali
fattori di rischio, che comportano una serie di danni al DNA, tal che si abbia un guadagno di
funzione dei protooncogeni e una perdita di funzione degli oncosoppressori. Questo
percorso di progressivo guadagno dell’anaplasia è graduale e si esprime mediante la
presenza di alcuni precursori, cioè di lesioni preneoplastiche che precorrono il carcinoma
vero e proprio, cioè quella neoplasia che assume caratteristiche marcatamente infiltranti e
marcatamente in grado di metastatizzare, seppur il carcinoma laringeo epidermoidale non
sia uno dei tumori ad elevato tasso di metastatizzazione. Comunque, per le lesioni
preneoplastiche della laringe esistono due differenti sistemi di classificazione:
1. Classificazione di Kleinsasser e Lepage:
a) Stadio I:
i. Iperplasia senza cheratinizzazione
ii. Iperplasia con cheratinizzazione
b) Stadio II:
i. Iperplasia
ii. Atipie cito-architetturali
c) Stadio III:
i. Iperplasia
ii. Carcinoma in situ
2. Classificazione di Friedman:
a) LIN I o displasia lieve
b) LIN II o displasia moderata
c) LIN III o displasia grave
Nella classificazione di Kleinsasser le lesioni precancerose della laringe vengono
sostanzialmente classificate in tre differenti stadi di gravità in considerazione delle figure
cito-cariologiche che sono presenti, dal momento che la sola iperplasia con
cheratinizzazione o senza cheratinizzazione rappresenta lo stadio I della precancerosi, la
cui gravità aumenta con l’accumulo delle atipie fino a che, in funzione del progressivo
stratificarsi del danno genetico, le cellule non acquisiscono francamente un significato
canceroso in quello che prende il nome di carcinoma in situ che presenta tutte le
caratteristiche del carcinoma vero e proprio meno che l’invasione del connettivo sottostante
all’epitelio e in tal caso l’espressione “in situ” intende che la lesione sia francamente un
carcinoma, che quindi origina dall’epitelio, ma in questa fase nell’epitelio rimane confinata
venendo segregata dal connettivo subepiteliale dalla membrana basale che assolve la
funzione di barriera istologica del tessuto. Diversamente, la classificazione di Friedman
indica le lesioni preneoplastiche della laringe come LIN, che è acronimo per Neoplasia
Intraepiteliale Laringea (Laryngeal Intraepithelial Neoplasia) ad indicare che le lesioni
proliferative che nella classificazione di Kleinsasser vengono definite iperplastiche non sono
altro che delle lesioni per le quali sussiste un continuum biologico e morfologico con il
carcinoma invasivo, difatti esistono dei fattori genetici che si riscontrano tanto nelle lesioni
preneoplastiche quanto nelle lesioni francamente invasive (chiaramente insieme a molti
altri). In tal caso, in accordo al fatto che la displasia, quale difetto di maturazione del tessuto,
coinvolga il terzo basale, i due terzi basali o tutto lo spessore dell’epitelio, si parla di
displasia lieve, moderata e grave, tra le quali la differenza, oltre che nello spessore
dell’epitelio interessato e nell’eventuale numero di atipie presenti, sussiste (1) nella velocità
e (2) nella probabilità che quella lesione, se lasciata in sede, evolva nel carcinoma invasivo.
Queste due classificazioni, comunque, adottano criteri microscopici ed istologici, mentre dal
punto di vista endoscopico, le lesioni preneoplastiche della laringe appaiono come delle
placche ispessite, quale espressione dei fenomeni di iperplasia e di possibile
cheratinizzazione che rappresentano quasi un meccanismo difensivo rispetto all’azione
irritativa dell’alcol e del tabacco; queste placche possono avere tanto un colorito biancastro
quanto un colorito rossastro e vengono quindi per questo definite come leucoplachia ed
eritroplachia.

• CARCINOMA LARINGEO: CLINICA, DIAGNOSI E TERAPIA


Il carcinoma della laringe è un tumore che si caratterizza per l’istologia epidermoidale, per
cui è un tumore epiteliale maligno con aspetti di differenziazione epidermica per il quale
sono importanti da conoscere due aspetti su tutti, al fine di poterne identificare e riconoscere
la clinica: modalità di presentazione macroscopica e sede. In realtà, in termini di sede, è
possibile anche descrivere un carcinoma faringo-laringeo che colpisce il seno piriforme e la
plica epiglottica e quindi si spinge inferiormente per coinvolgere anche l’epiglottide e le false
corde vocali; comunque, dal punto di vista topografico, il carcinoma della laringe può
definirsi sopraglottico, glottico e sottoglottico; quando il carcinoma della laringe colpisca
le corde vocali, questo risulta essere in grado di determinare un sovvertimento della normale
architettura istologica delle corde vocali stesse: si apprezza un cambiamento della
superficie, che diviene mammellonata, biancastra e/o rossastra ma comunque perde il
proprio aspetto endoscopico normale e probabilmente l’infiltrazione dello strato gelatinoso
di Reinke rende ragione della maggiore aderenza tra il piano superficiale mucoso e quello
sottomucoso, tal che venga meno la possibilità di scivolamento della mucosa sulla
sottomucosa, che è il presupposto essenziale affinché si realizzi l’onda di oscillazione
mucosa che è il meccanismo che assicura la vibrazione della mucosa delle corde vocali e
quindi la fonazione; dal momento che il carcinoma laringeo è in grado di determinare un
sovvertimento dell’architettura macroscopica e conseguentemente anche microscopica
delle corde vocali, è possibile che questi si presenti clinicamente mediante una disfonia,
cioè mediante una alterazione della propria voce che, come sappiamo, quando sussista da
almeno due settimane impone necessariamente il controllo endoscopico che quindi è una
delle indagini di cui si serve la diagnostica otorinolaringoiatrica al fine di poter individuare un
carcinoma della laringe.
Dal punto di vista macroscopico, il carcinoma della laringe può assumere due principali
modalità di presentazione, che sono la modalità di presentazione vegetante e quella
stenosante, pur se sia anche contemplata la presenza di una variante ulcerata che non è
altro che la risultanza della necrosi tumorale centrale nel contesto di una lesione vegetante
preesistente; nel primo caso, la massa presenta una crescita esofitica, aggettando
all’interno del lume della cavità laringea come una lesione assolutamente polipoide o
papillomatosa, mentre nel secondo caso il tumore tende invece a crescere in maniera
cosiddetta endofitica, vale a dire esclusivamente infiltrando gli strati profondi dello spessore
della parete laringea. Nel primo caso, la lesione vegetante tende a crescere in direzione
endoluminale, determinando una franca occupazione di spazio nel lume laringeo riducendo
l’area della sezione trasversa disponibile al passaggio d’aria per la ventilazione. Nel
secondo caso, il carcinoma crescendo nello spessore della parete laringea induce una
caratteristica reazione desmoplastica, vale a dire che sussiste la presenza di una
deposizione reattiva di collageno denso a seguito della presenza delle cellule nella parete
della laringe, che comporta la presenza di una stenosi circonferenziale ed anulare, anche
perché il collageno denso depositatosi per la reazione desmoplastica ha un effetto retraente:
con un meccanismo differente, anche questo tipo di lesione determina riduzione dell’area
della sezione trasversa del lume laringeo necessaria alla ventilazione. Come meccanismo
compensatorio all’ostruzione o alla stenosi, nel soggetto aumentala durata della fase
inspiratoria rispetto alla fase espiratoria quasi a voler compensare la riduzione del flusso
inspiratorio al minuto. Chiaramente a fronte di un aumento del tempo di inspirazione, si
riscontra una riduzione della frequenza respiratoria: il soggetto è tipicamente bradipnoico
e si riscontra come espressione della riduzione del calibro del lume uno stridore inspiratorio
definito cornage laringeo che è la risultanza della transizione del flusso dell’aria da
laminare a turbolento in una regione stenotica. In associazione al cornage laringeo si
associa un altro segno caratteristico che è quello del tirage, un rientramento dei tessuti molli
soprattutto della fossetta giugulare, della fossetta sovraclaveare, della fossetta tra i due capi
dello sternocleidomastoideo, degli spazi intercostali e nei casi gravi anche della fossetta
epigastrica: per come è stata descritta questa è la classica presentazione clinica della
dispnea laringea ostruttiva, di cui una possibile causa può essere proprio un carcinoma
laringeo, lì dove alla sintomatologia dispnoica si associ una tosse secca e soprattutto sorda
(poiché associata a disfonia), differentemente dalle dispnee tracheali nelle quali la tosse è
sonora ed abbaiante.
Chiaramente, la clinica è fortemente condizionata dalla sede di primitiva insorgenza del
tumore anche se con l’eventuale estendersi della lesione alle altre sezioni della laringe la
sintomatologia si arricchisce di altri sintomi in maniera progressiva.
Il carcinoma delle corde vocali evidentemente esordisce con disfonia poiché colpisce le
strutture deputate alla fonazione ma ciò non toglie che la crescita tumorale non possa
generare una occupazione di spazio tale da indurre una dispnea ostruttiva laringea. Il
carcinoma della piega epiglottica, per la vicinanza con il tratto terminale del faringe,
esordisce con disfagia da compressione dell’ipofaringe, prevalentemente riferita ai cibi
solidi, così come il carcinoma ipoglottico può esordire con dispnea ostruttiva tipicamente
inspiratoria e man mano che queste lesioni si estendono la sintomatologia si arricchisce di
ulteriori sintomi associati sempre alla sede interessata.
Infatti, un carcinoma glottico vegetante che raggiunga elevate dimensioni può determinare
anche l’insorgenza di una dispnea di tipo ostruttivo; oppure un carcinoma sopraglottico che
esordisca con disfagia, se si estende alle corde vocali si associa a disfonia e divenendo
vegetante anche a dispnea. I carcinomi sopraglottici e faringo-laringei, qualora dovessero
presentare delle manifestazioni ulcerative, possono determinare insorgenza di odinofagia,
cioè di un dolore nell’atto deglutitorio che in tal caso si irradia verso l’orecchio omolaterale;
l’ulcerazione comporta anche perforazione dei vasi tumorali che sono altamente labili e
disordinati, tal che, accanto all’odinofagia, i carcinomi sopraglottici e faringo-laringei
inducano anche tosse ed emoftoe.
1) PERCORSO DIAGNOSTICO
Di estrema importanza nel percorso diagnostico è il sospetto clinico: la presenza di un
carcinoma della regione testa-collo deve sospettarsi soprattutto in soggetti
ultracinquantenni con fattori di rischio, come l’abitudine tabagica e l’alcolismo, che
lamentino sintomi come disfagia, dispnea ostruttiva classicamente laringea o disfonia.
Come anticipato, la sintomatologia è anche funzione della sede, tal che preferenzialmente
un carcinoma laringeo della regione sopraglottica si manifesti con disfagia, eventualmente
complicata con odinofagia ed emoftoe; un carcinoma glottico si manifesta preferenzialmente
con disfonia e un carcinoma sottoglottico preferenzialmente con dispnea ostruttiva laringea
ma non è affatto detto che con l’evoluzione e l’infiltrazione delle regioni laringee viciniori e
con l’aumento dimensionale il carcinoma, dall’iniziale sintomatologia, non possa anche
arricchirsi con altri sintomi. Chiaramente, al fine di intendere i fattori di rischio e la
sintomatologia è necessario approfondire l’anamnesi sui fattori quali il tabagismo e
l’alcolismo e completare l’anamnesi patologica prossima con l’approfondimento della
sintomatologia e, chiaramente, se trattasi di un carcinoma che insorge prevalentemente con
una dispnea ostruttiva, saranno obiettivabili aspetti quali il cornage e il tirage laringeo;
l’eventuale presenza di una massa di grandi dimensioni può eventualmente apprezzarsi,
quale tumefazione cervicale, alla palpazione del collo, che è anche una manovra
semeiologica utile per valutare l’eventuale presenza di masse linfonodali che siano
espressione delle metastasi locoregionali del tumore. L’esame obiettivo si basa anche sulla
panendoscopia tradizionale o con fibre ottiche. Importante è la panendoscopia perché
purtroppo chi è affetto da carcinoma del distretto testa-collo, può avere in maniera o
sincrona o metacrona un secondo tumore. L’endoscopio permette di valutare la morfologia
e la motilità delle strutture e soprattutto, come anticipato, sussiste indicazione all’esecuzione
dell’endoscopia ogniqualvolta si riscontri la presenza di una disfonia perdurante da almeno
due settimane. È possibile anche eseguire indagini come la TC collo e la RMN cervicale
che sono indagini di imaging che permettono di eseguire una valutazione morfo-
dimensionale del tumore e degli eventuali rapporti che la neoplasia ha con la fascia cervicale
e con gli organi e le strutture circostanti; pur tuttavia, l’imaging con TC e/o con RMN è utile
soprattutto alla stadiazione clinica del tumore che si esegue dopo la diagnosi di certezza
che può aversi esclusivamente in presenza di un reperto bioptico positivo, per cui è richiesta
con l’endoscopia l’esecuzione della biopsia che viene inviata in anatomia patologica e
successivamente viene analizzata, in maniera tale che (1) venga confermato il sospetto
clinico e (2) che venga eseguita anche una corretta valutazione del grado di differenziazione
del tumore, che è parte integrante della prognosi della neoplasia. La biopsia della neoplasia,
in passato si eseguiva in laringoscopia indiretta e in anestesia locale, mentre oggi per la
diagnosi di certezza viene eseguita una micro-laringoscopia indiretta in anestesia
generale, la quale può essere una procedura diagnostica a sé stante oppure può essere il
primo tempo di un intervento chirurgico e questa evenienza si realizza allorquando il
materiale biopsiato venga analizzato in estemporanea con l’esame intraoperatorio e a
seguito della conferma anatomopatologica si procede con l’intervento chirurgico.
Differentemente, quando venga eseguita la biopsia come procedura a sé stante, il campione
viene analizzato dall’anatomopatologo che ne pone diagnosi con l’esame istologico classico
della biopsia e successivamente si procede con la valutazione dell’intervento chirurgico
anche in funzione dei fattori prognostici istologici e in funzione dei fattori istologici che
derivano dalla valutazione clinica e dalla stadiazione TNM.
2) STADIAZIONE DEL TUMORE
La stadiazione del carcinoma laringeo può essere eseguita dal patologo sul pezzo
operatorio, ma chiaramente questo è possibile farlo solo ed esclusivamente a seguito
dell’asportazione chirurgica del tumore, oppure dall’otorinolaringoiatra con le indagini di
imaging che possono valutare la dimensione del tumore e l’eventuale interessamento
locoregionale della neoplasia: si definisce questa stadiazione come cTNM. La stadiazione
del tumore si esegue valutando tre parametri, cioè il parametro T che intende le dimensioni
del tumore, il parametro N che valuta l’eventuale interessamento linfonodale e il parametro
M che valuta l’eventuale presenza di metastasi a distanza, pur se il carcinoma laringeo di
base sia una neoplasia che non mostra un notevole atteggiamento metastatizzante,
ancorché evidentemente la tendenza a dare luogo a metastasi aumenti in considerazione
dell’aumento dell’anaplasia del tumore, essendo le metastasi prevalentemente localizzate
a livello polmonare e del cervello, le quali si realizzano circa nel 10% dei carcinomi laringei.
Sfortunatamente, pur eseguendo un’attenta stadiazione del tumore primitivo e dei linfonodi
laterocervicali, con indagini semeiologiche e di imaging, le adenopatie cervicali potrebbero
comunque essere misconosciute e questo è un aspetto di estrema importanza in termini
prognostici dal momento che potrebbe sussistere a questo livello una quota variabile di nidi
cellulari metastatici definiti come metastasi linfonodali subcliniche. Questo è un dato
importante dal momento che influenza il trattamento della neoplasia: è necessario
programmare oltre al trattamento del tumore primitivo in maniera oncologica radicale una
rimozione elettiva e preventiva dei linfonodi tributari, anche nei casi in cui non si riscontrino
adenopatie clinicamente evidenti. Solo se la neoplasia primitiva è limitata nella sua
estensione, ad esempio ad una sola corda vocale, non si eseguono interventi di
linfoadenectomia, che comunque seguono dei protocolli chirurgici differenti, potendosi avere
linfoadenectomie funzionali, demolitive o selettive.
3) TERAPIA
La terapia del carcinoma della laringe si vale certamente del contributo della chirurgia,
ancorché in alcuni casi sia previsto anche un tempo chirurgico per la chemioterapia in
setting prevalentemente adiuvante o per la radioterapia, che alle volte può essere eseguita
non in regime adiuvante né neoadiuvante, bensì con scopo radicale soprattutto per i
tumori T1N0 glottici per i quali la radioterapia è associata ad un buon controllo locale di
malattia e ad una buona preservazione delle funzioni fonatorie; difatti di estrema importanza
nel contesto del trattamento dei tumori laringei è la possibilità di assicurare e preservare -
quando, dove e per quanto possibile- una buona funzione fonatoria. I trattamenti con
intento radicale nel carcinoma laringeo sono quindi differenti:
1. Radioterapia:
a) Buon controllo locale di malattia
b) Tumori glottici T1N0
c) Esito funzionale soddisfacente
2. Cordectomia:
a) Carcinomi T1 glottici
b) Controllo locale soddisfacente
c) Buon esito funzionale
3. Laringectomia orizzontale sopraglottica:
a) Rimozione sopraglottica
b) Risparmio delle corde vocali
4. Laringectomia sopracricoidea:
a) Tumori T3
b) Aritenoidi non-infiltrate
5. Laringectomia totale:
a) Malattia localmente avanzata
b) Massiva infiltrazione laringea
Esistono, dal punto di vista chirurgico differenti tipologie di intervento, alcune minormente
demolitive ed altre maggiormente demolitive ed alcune volte eventualmente affiancate allo
svuotamento linfonodale laterocervicale che è indicato in alcuni casi di tumore N0 ad
elevato rischio di metastasi linfonodale oppure in tutti i casi con linfonodi positivi per
localizzazione ectopica di malattia tumorale. Chiaramente, la maggiore o minore demolitività
dell’intervento chirurgico dipendono anche dalle indicazioni chirurgiche che vengono poste
dallo staging del tumore; ad esempio i carcinomi glottici T1N0 sono tumori per i quali è
indicato un intervento minimamente invasivo che è la cordectomia endoscopica o a cielo
aperto, che prevede la sola asportazione della corda vocale o delle corde vocali che siano
interessate dalla malattia mediante un microscopio chirurgico e un laser CO2. Esistono
sei differenti tipologie di cordectomia con laser, ma comunque in ogni caso il soggetto viene
preventivamente sottoposto ad una tracheotomia per superare l’eventuale edema
postchirurgico. La cordectomia è un intervento minimamente invasivo che ha come
vantaggi quelli di essere rapido, associato ad un buon controllo locale di malattia e
soprattutto ha un soddisfacente esito funzionale, cioè di preservazione delle funzioni
fonatorie, deglutitorie e respiratorie; quindi dopo un breve periodo riabilitativo il paziente
riprende autonomamente le proprie attività; addirittura l’alimentazione può ritornare
autonoma anche entro ventiquattro-quarantottore dall’intervento chirurgico. Tra gli
interventi invasivi, si distinguono la laringectomia orizzontale sopraglottica, la
laringectomia subtotale sopracricoidea e la laringectomia totale:
1. Laringectomia orizzontale sopraglottica: è un intervento chirurgico che risparmia
le corde vocali, essendo indicata per tutti quei tumori che si collocano in sede
sopraglottica e che risparmiano la motilità delle corde vocali per cui al fine di
assicurare al paziente la fonazione, le corde vocali se non interessate vengono
risparmiate dall’asportazione. A seguito dell’asportazione, si esegue una sutura del
moncone residuo superiore con l’osso ioide.
2. Laringectomia subtotale sopracricoidea: viene eseguita con risparmio della
cartilagine cricoide e delle due cartilagini aritenoidi, essendo indicata soprattutto nei
tumori T3 che abbiano infiltrato la muscolatura laringea, compromettendo la motilità
delle corde vocali ma non delle cartilagini aritenoidi, dal momento che l’articolazione
cricoaritenoidea viene risparmiata.
3. Laringectomia totale: molto meno utilizzata rispetto a quarant’anni fa, la
laringectomia totale è oggi indicata esclusivamente nei tumori oltremodo avanzati,
cioè tumori T3 o T4 che abbiano infiltrato massivamente le strutture laringee in
maniera tale da compromettere la motilità delle corde vocali e delle cartilagini
aritenoidi, motivo per cui non avrebbe senso risparmiare la cricoide e le due
aritenoidi, e anche i muscoli intrinseci della laringe.
L’esecuzione della laringectomia totale implica la separazione della via aerea dalla via
digestiva, infatti il moncone tracheale (a livello del secondo, terzo o quarto anello a seconda
dell’estensione della neoplasia) viene abboccato alla cute del giugulo con un tracheostoma
a permanenza e si esegue una plastica delle strutture faringee costituendo un canale unico
che dal cavo orale procede in faringe e in esofago.
Questi pazienti non necessitano di cannula tracheotomica, ma possono necessitare di una
cannula particolare tipo Pietrantoni, per brevi periodi di tempo, al fine di stabilizzare lo
stoma; rari sono i casi, per delle complicanze, in cui il paziente sottoposto a laringectomia
totale è portatore di cannula tracheotomica classica.
4) PROBLEMATICHE POSTOPERATORIE
La laringectomia totale è un intervento estensivamente demolitivo, che comporta una
problematica molto seria che è quella della impossibilità di fonazione, cui si associano (1)
un aumentato rischio infettivo per via della mancanza del filtro delle vie aeree superiori che
vengono bypassate dal tracheostoma a permanenza e (2) problematiche alimentari legate
al fatto che l’alterazione dell’anatomia del distretto testa-collo comporta certamente anche
una alterazione della deglutizione. Nel trattamento del carcinoma laringeo, proprio alla luce
degli eventuali e possibili insuccessi funzionali, dopo la chirurgia è utile impostare un
programma per la riabilitazione vocale (chirurgica, logopedica o protesica) chiaramente
quando l’intervento chirurgico almeno in parte abbia preservato la possibilità fonatoria. Il
paziente che fa un percorso riabilitativo logopedico, ha una voce erigmofonica, perché
deglutisce aria e la emette in maniera controllata a livello esofageo, emettendo un segnale
sonoro che viene articolato dal vocal tract. La riabilitazione protesica consiste nell’impianto
della cosiddetta laringe elettronica, formata dal laringofono che è in grado di generare il
segnale sonoro e poi trasmetterlo al faringe, dove viene articolato dalle strutture del vocal
tract. Questo strumento si attiva con un pulsante e con un cursore è possibile cambiare la
tonalità. La riabilitazione chirurgica (voce tracheo-esofagea) si esegue con la formazione di
una fistola tra la parte alta della trachea e il faringe, inserendo una protesi all’interno, in
modo tale che il paziente chiudendo con un dito lo stoma devia l’aria nel faringe dove il
suono viene articolato.
Il paziente che subisce il trattamento oncologico deve essere seguito con un follow-up per
almeno cinque anni con cadenza ben precisa, in quanto può andare incontro a recidive
locali (sede primitiva se è stata fatta una chirurgia conservativa), regionali, a livello
linfonodale (se non c’è stato il trattamento di questi), o a distanza per la riattivazione di
cellule metastatiche, o può andare incontro a secondarismi tumorali o ad insuccessi
funzionali. Ad esempio un paziente sottoposto ad una chirurgia conservativa a cielo aperto,
può avere disturbi persistenti della deglutizione anche dopo varie pratiche riabilitative.
Paralisi laringee

Le paralisi laringee sono delle patologie della laringe che comportano abolizione dei
movimenti cordali volontari e che conseguono ad una interruzione della veicolazione
dell’impulso nervoso motorio per il tramite della via motrice che garantisce la contrazione
della muscolatura laringea, che caratteristicamente si associa a delle lesioni di carattere
nervoso, che possono localizzarsi a livello del sistema nervoso centrale o periferico. Le
alterazioni della via motoria laringea sono anche responsabili di alcune forme di alterazione
della propria voce, definite disfonie neurologiche, tra le quali su tutte si distinguono i
movimenti cordali paradossi e la disfonia spasmodica.
1) INNERVAZIONE DELLA LARINGE
La laringe è un organo del quale si distinguono una innervazione motoria ed una
innervazione sensitiva, quest’ultima preposta alla registrazione e alla veicolazione degli
stimoli della sensibilità tattile e propriocettiva, essendo quest’ultima quella che veicola le
informazioni circa la posizione e la forza di contrazione dei muscoli, in maniera tale che al
sistema nervoso centrale giungano dei feedback sull’assetto pneumo-fonatorio della laringe:
la fonazione è un meccanismo fine e complesso che necessita di un certo equilibrio
nell’assetto contrattile della laringe che si adatta via via allo schema motorio necessario alla
produzione della voce e del suono che si voglia emettere. L’innervazione somestesica della
laringe è del tutto assicurata dal nervo laringeo superiore, che è un ramo collaterale del
vago e che presenta anche una componente motoria indirizzata totalmente al muscolo
cricotiroideo, muscolo estensore in grado di variare l’estensione vocale. Diversamente, la
totalità dell’innervazione motoria è competenza del nervo laringeo inferiore o ricorrente,
motivo per cui l’abolizione dei movimenti cordali viene definita come paralisi laringea o
ricorrenziale. Dal punto di vista anatomico, il nervo laringeo ricorrente è un nervo pari ma
non simmetrico, ramo collaterale del vago che a destra e a sinistra ha un decorso differente;
in entrambi i lati viene rilasciato inferiormente alla laringe per poi assumere un decorso
infero-superiore ma a sinistra viene rilasciato più distalmente, quando il vago raggiunga
l’arco dell’aorta dove il nervo laringeo ricorrente di sinistra viene rilasciato e cinge postero-
infero-anteriormente l’arco dell’aorta per poi risalire dal mediastino alla regione del collo,
dove sostanzialmente decorre nella doccia compresa tra la faccia posteriore del lobo
tiroideo, la parete laterale della trachea e la faccia anteriore dell’esofago, per poi
raggiungere la laringe. L’innervazione motoria della laringe sottostà ad una via motoria del
sistema motore somatico, che individua come centro di origine dell’impulso motorio la
corteccia dell’area motoria primaria, che si trova in corrispondenza del lobo frontale nel
giro precentrale, cioè al davanti del solco centrale. A questo livello si trova il motoneurone
di primo ordine della via motrice somatica, il quale è regolato mediante una comunicazione
sinaptica in afferenza dai neuroni della corteccia cerebellare, che sono in grado di inviare
informazioni circa lo schema motorio da applicare affinché si realizzi la corretta contrazione
in successione per la produzione del suono che il soggetto intenda emettere. Dai
motoneuroni della corteccia motoria primaria vengono inviate delle fibre nervose che
entrano nella costituzione del tratto cortico-troncoencefalico, o cortico-bulbare, che
decorre nel contesto della capsula interna del telencefalo e quindi raggiunge il tronco
cerebrale per poi contattare i motoneuroni di secondo ordine dei nuclei motori del tronco
encefalico, tra cui il nucleo costituito dai motoneuroni somatici di secondo ordine del vago.
Il vago è infatti un nervo misto, somatico e viscerale, motore e sensitivo e le fibre motrici
somatiche del nervo vago che innervano la laringe originano dai motoneuroni di secondo
ordine del nucleo ambiguo; a questo livello i motoneuroni vengono regolati dalle fibre del
tratto cortico-troncoencefalico che sono delle fibre dirette e crociate, sia ipsilaterali che
controlaterali, il che significa che il controllo centrale dell’attività motoria somatica del vago
viene regolata da fibre omolaterali e da fibre che provengono dal lato opposto, il che significa
che quando ci si trovi di fronte ad una paralisi delle corde vocali monolaterali questa non
può mai essere dovuta a lesione monolaterale centrale, dal momento che una lesione
monolaterale centrale non precluderebbe l’attività del nucleo ambiguo, semplicemente
poiché questa sarebbe compensata dall’attività delle fibre provenienti dal lato opposto. Dalla
neuroanatomia, quindi, deriva un concetto essenziale per la clinica delle paralisi cordali: una
paralisi monolaterale di corda vocale può essere esclusivamente determinata da un danno
della via motrice periferica, cioè un danno localizzato a livello del nervo vago o del nervo
laringeo ricorrente, ma chiaramente nel primo caso un danno a carico del vago si presenterà
sia con la clinica legata alla compromissione della motilità laringea che della motilità di tutti
gli altri distretti, somatici o viscerali che siano, che rappresentano territorio di distribuzione
del nervo vago.
2) CLASSIFICAZIONE DELLE PARALISI LARINGEE
Le paralisi laringee, innanzitutto possono essere dovute alla compromissione funzionale del
territorio motorio del ricorrente (=paralisi ricorrenziali) oppure alla compromissione del
muscolo cricotiroideo per lesioni del nervo laringeo superiore. A propria volta, le paralisi del
nervo ricorrente possono essere classificate mediante una serie di criteri classificativi, tutti
utili dal punto di vista clinico al fine di ricavare informazioni importanti sulla patogenesi, sulla
sede del danno e sull’eventuale manifestazione clinica:
1. Criterio eziologico:
a) Paralisi centrali
b) Paralisi periferiche
2. Coinvolgimento delle corde vocali:
a) Paralisi bilaterali
b) Paralisi monolaterali
3. Compromissione dei movimenti cordali:
a) Paralisi complete
b) Paralisi incomplete
4. Posizione delle corde vocali:
a) Adduzione
b) Abduzione
5. Manifestazioni cliniche:
a) Paralisi disfonizzanti
b) Paralisi dispneizzanti
Dal punto di vista della classificazione, di estrema importanza è riconoscere quale sia la
posizione che assumono le corde vocali nel contesto della paralisi, giacché queste possono
paralizzarsi in sede mediana o paramediana, in sede intermedia o laterale e quanto
maggiore è la lateralizzazione della corda vocale tanto più il problema clinicamente si sposta
verso l’insufficienza glottica, determinando particolarmente problematiche di carattere
fonatorio, dal momento che occorre considerare che la vibrazione delle corde vocali, o
meglio l’onda di oscillazione mucosa, si realizza con le corde vocali addotte in fase di
espirazione, quando quest’ultima divenga volontaria al fine di produrre la voce, per cui nel
caso che le corde vocali siano paralizzate in posizione laterale si riscontrerà un’afonia (che
è poi ciò che si osserva nella cosiddetta paralisi di Ziemssen); differentemente, quando le
corde vocali siano addotte in posizione mediana, la chiusura della commessura inter-cordale
si associa alla produzione della voce: in questi casi la disfonia è minima, mentre invece è
importante nei casi di paralisi paramediana bilaterale ma anche monolaterale, poiché per
quanto la corda vocale funzionante possa cercare di ridurre la commessura inter-cordale, la
distanza tra le due rimane comunque sempre eccessiva. Diversamente, quanto più addotte
siano le corde, tanto maggiormente dispneizzante è la problematica associata alla presenza
della paralisi cordale, dal momento che le corde vocali si abducono in fase inspiratoria per
consentire il passaggio dell’aria, motivo per cui a seguito della mancata adduzione delle
corde vocali la paralisi determinerà una ostruzione prettamente inspiratoria che si presenta
clinicamente mediante una dispnea ostruttiva laringea: criterio posizionale e criterio di
manifestazione clinica per l’inquadramento classificativo della paralisi cordale sono legati
tra loro allo stesso modo in cui lo sono il criterio eziologico sulla sede del danno e il criterio
della lateralità della paralisi. Come anticipato già in precedenza, una paralisi cordale
monolaterale non può mai essere centrale, dal momento che le lesioni centrali per poter
ledere la motilità della laringe debbono essere associate a danno bilaterale del motoneurone
piramidale o del tratto cortico-bulbare, giacché se uno di questi elementi fosse leso da un
solo lato, l’attività dei motoneuroni del vago sarebbe compensata dalla regolazione dei
motoneuroni piramidali del lato opposto. Viceversa, le paralisi periferiche possono essere
sia monolaterali che bilaterali e conseguono ad un danno a valle del tratto cortico-bulbare e
dei motoneuroni del nucleo ambiguo cioè a livello delle fibre nervose del vago o del nervo
laringeo ricorrente. Unilateralità e bilateralità delle paralisi laringee sono anche associate
alla sintomatologia clinica, dal momento che frequentemente le forme monolaterali danno
luogo a disfonia ma difficilmente a dispnea, che invece si riscontra particolarmente in tutte
quelle paralisi laringee bilaterali in cui il grado di disfonia dipende anche dal grado di
adduzione delle corde vocali; in quest’ultimo caso, le paralisi bilaterali possono anche dare
contemporaneamente una disfonia.
Non è sempre e solo detto che la paralisi laringea dia luogo ad una dispnea a riposo, in
alcuni casi, quando la paralisi della corda vocale si esprima mediante una adduzione
paramediana con lieve conservazione della commessura tra le corde vocali è possibile che
si manifesti esclusivamente una dispnea sotto sforzo. Le paralisi, in base al fatto che
vengano aboliti tutti i movimenti cordali oppure che se ne preservino alcuni, vengono definite
con l’espressione di paralisi complete e paralisi incomplete, pur se effettivamente vi sia
un solo tipo di paralisi incompleta che corrisponde alla paralisi incompleta bilaterale in
adduzione che consegue ad un danneggiamento a carico del nucleo ambiguo di destra e
del nucleo ambiguo di sinistra.
1. Paralisi unilaterale:
a) Paralisi unilaterale destra:
i. Carcinomi dell’esofago cervicale
ii. Carcinomi dell’apice polmonare
iii. Nevriti virali
b) Paralisi unilaterale sinistra:
i. Carcinomi dell’esofago cervicale
ii. Tumori mediastinici
iii. Nevriti virali
iv. Cardiochirurgia
Pur se vi sia una lieve differenza in termini di patogenesi, si tratta di forme di
paralisi unilaterali che conseguono ad un danneggiamento delle fibre nervose
periferiche, dal momento che, come già anticipato, non esistono paralisi unilaterali
che non siano periferiche e viceversa tutte le paralisi centrali sono sempre e
comunque bilaterali. Una delle cause che più frequentemente determina
insorgenza di una paralisi di corda vocale unilaterale è il danneggiamento
postchirurgico soprattutto per interventi di tiroidectomia, dato l’intimo rapporto
che sussiste tra la ghiandola tiroide e il nervo laringeo ricorrente. Il sintomo
caratteristico di queste lesioni è quello della disfonia, mentre raramente si assiste
alla presenza di dispnea.
2. Paralisi bilaterali complete periferiche: in questo caso la paralisi coinvolge
entrambe le corde vocali, che assumono una posizione in adduzione mediana o
paramediana, conseguentemente a varie cause, che possono essere:
a) Tiroidectomia con lesione ricorrenziale bilaterale
b) Sindromi compressive
c) Sindromi infiltranti
I tumori con localizzazione mediastinica oppure i tumori con localizzazione
polmonare possono occasionalmente determinare infiltrazione del nervo laringeo
ricorrente tal che ne consegua l’insorgenza di una paralisi di corda vocale; le sindromi
compressive o infiltrative nel contesto di questa condizione possono dare luogo a
delle forme monolaterali o bilaterali a seconda del fatto che siano compressi/infiltrati
entrambi i nervi laringei ricorrenti oppure uno solo dei due. La più frequente
espressione della paralisi bilaterale periferica è definita con il nome eponimo di
sindrome di Reigel e si manifesta mediante la presenza di una dispnea che si
esprime con tutte le caratteristiche di una dispnea ostruttiva laringea: il soggetto si
presenta bradipnoico con aumento della durata della fase inspiratoria e fase
espiratoria muta e breve; in fase inspiratoria si riscontrano la presenza di un cornage
laringeo (=stridore inspiratorio) e un tirage, cioè un rientramento dei tessuti molli della
fossetta giugulare, delle fossette tra i capi di inserzione dello sternocleidomastoideo,
degli spazi intercostali, della fossetta sopraclaveare e della fossetta epigastrica nei
casi gravi.
3. Paralisi bilaterali incomplete: esiste una sola variante rara, nota con il nome
eponimo di sindrome di Gerhardt che consegue ad una lesione bilaterale del
nucleo ambiguo, soprattutto del contingente che origina le fibre di innervazione del
muscolo cricotiroideo che è il muscolo dilatatore della laringe per eccellenza. Il nucleo
ambiguo corrisponde al nucleo tronco-encefalico in cui sono presenti i motoneuroni
che rilasciano gli assoni che costituiranno le fibre motrici somatiche del nervo vago,
un cui contingente è diretto ai muscoli della laringe, anche al muscolo cricotiroideo
che è un muscolo preposto alla dilatazione della laringe. Questa particolare paralisi,
l’unica ad essere bilaterale ed incompleta, si associa a piccoli movimenti di
adduzione non accompagnati dalla dilatazione della rima glottidea, motivo per cui la
principale manifestazione di questa condizione è la dispnea ostruttiva laringea, che
presenta sempre pressoché le stesse caratteristiche.
4. Paralisi bilaterale periferica in abduzione: si tratta di una paralisi completa, che
è anche nota con il nome eponimo di sindrome di Ziemssen e rappresenta una
forma estremamente rara di paralisi laringea, la quale si caratterizza per una
problematica che non è la disfonia ma addirittura l’afonia, dal momento che in tal
caso le corde vocali sono abdotte in posizione intermedia o intermedio-laterale,
il che significa che non assumono mai la posizione necessaria alla fonazione, cioè
quella addotta che permette il passaggio dell’aria, il contatto di questa con la mucosa
cordale e l’insorgenza dell’onda di oscillazione mucosa. Un altro problema in tal caso
è quello dell’insufficienza glottica, legato particolarmente alla mancanza dello
sfintere glottico, tal che i soggetti che siano affetti da questa condizione siano
predisposti alla eventuale insorgenza di fenomeni di inalazione di saliva o di
materiale alimentare, per cui frequentemente sviluppano polmonite ab ingestis.
Esiste anche la possibilità che alle volte le lesioni del nervo vago si associno a lesioni del X
o dell’XI nervo cranico quando questi tra transitino, per uscire dalla cavità del neurocranio
per il foro lacero, dove i tre nervi sono in intimo rapporto, per cui una lesione dell’uno può
associarsi anche ad una lesione degli altri due.
3) CAUSE DELLE PARALISI LARINGEE
Le paralisi laringee sono delle condizioni patologiche per le quali, quando se ne individui la
presenza, si aprono diverse ipotesi diagnostiche: si tratta di patologie di interesse
otorinolaringoiatrico e gestite in regime otorinolaringoiatrico che tuttavia spesso hanno
patogenesi internistica oppure chirurgica. Chiaramente, le ipotesi patogenetiche delle
paralisi laringee di corda vocale non possono prescindere dall’inquadramento della
condizione, che sia essa bilaterale o monolaterale, dal momento che a seconda del fatto
che la patologia colpisca entrambe le corde vocali o meno, le ipotesi diagnostiche sono
differenti.
Ad esempio, per le paralisi unilaterali sinistre, sicuramente la patogenesi è periferica dal
momento che non esistano paralisi centrali che siano monolaterali dal momento che il tratto
cortico-bulbare è sia diretto che crociato, per cui regola sia il nucleo ambiguo ipsilaterale
che quello controlaterale. In secondo luogo, le paralisi di corde vocali unilaterali sinistre
possono essere associate ad interventi cardiochirurgici in prossimità dell’arco dell’aorta,
dal momento che il nervo laringeo ricorrente di sinistra è in intimo rapporto proprio con l’arco
dell’aorta. Sicuramente, anche patologie infiltranti del mediastino o del polmone
possono associarsi ad una paralisi di corda vocale periferica unilaterale di sinistra; alla
stessa stregua delle paralisi di corda vocale di sinistra, anche le paralisi di corda vocale di
destra possono associarsi a patogenesi infiltrativa di tipo neoplastico: la più frequente causa
di paralisi di corda vocale destra unilaterale è un carcinoma dell’apice polmonare, quello
che prende anche il nome di tumore di Pancoast. Le forme bilaterali, viceversa, possono
avere patogenesi centrale cioè neurologica, oppure periferica potendosi associare a
patologie che interessano l’esofago o la tiroide: non infrequentemente la tiroidectomia
comporta danno periferico bilaterale ricorrenziale, tal che ne risulti una paralisi periferica
bilaterale e completa in adduzione, anche nota con il nome eponimo di sindrome di Reigel.
4) CLINICA
La clinica delle paralisi di corde vocali è caratteristicamente associata alla disfonia, più
tipicamente nelle paralisi laringee unilaterali oppure a dispnea soprattutto nelle forme
bilaterali in adduzione, mentre nelle forme bilaterali in abduzione, forme rare note con il
nome eponimo di sindrome di Ziemssen, si riscontra caratteristicamente la presenza di una
afonia completa in associazione a ricorrenti polmoniti ab ingestis per il venire meno
dell’attività sfinteriale della rima glottidea. Estremamente importante è considerare l’esordio,
che se brusco e associato a sintomatologia evolutiva è sicuramente indice di una patologia
grave.
5) APPROCCIO TERAPEUTICO
L’approccio terapeutico è, chiaramente, funzione della sintomatologia e della patogenesi,
ad esempio un paziente che improvvisamente divenga dispnoico viene intubato ma poi per
condurre una vita normale deve essere tracheotomizzato o eventualmente deve essere
programmato un intervento chirurgico di dilatazione della glottide. Nelle paralisi unilaterali
il problema è dato dalla disfonia, se la corda patologica rimane in posizione mediana, la
corda vocale sana in fase fonatoria riuscirà a vicariare, ma se invece si pone in posizione
paramediana, più aperta lateralmente in fase fonatoria resterà uno spazio aperto tra le due
corde vocali e la disfonia sarà importante.
In questi casi i pazienti possono essere indirizzati ad una riabilitazione logopedica che
tramite determinate tecniche favorisce il compenso glottico, cercando di far avvicinare
l’emiglottide sana alla patologica, oppure possono essere sottoposti ad una terapia
chirurgica per via endoscopica o per via esterna. Queste tecniche mirano ad aumentare il
volume cordale o tramite iniezioni di sostanze che gonfiano la corda e ripristinano
un’adduzione glottica fonatoria oppure mediante l’utilizzo di protesi impiantate per via
esterna.
TIPOLOGI MOVIMEN POSIZIONE SINTOMI SEDE CAUSE EPONIM
A DI TI DELLE DEL O
PARALISI RESIDUI CORDE DANNO
Unilateral Assenti: Abduzione: Disfonia Periferic Tumore di
e destra paralisi generalment a Pancoast,
completa e tumori
paramedia infiltranti
na del
mediastino
Unilateral Assenti: Abduzione: Disfonia Periferic Tumori,
e sinistra paralisi generalment a lesioni
completa e chirurgiche
paramedia monolatera
na li
Bilaterale Assenti: Adduzione: Dispnea Periferic Danno Sindrom
paralisi posizione a chirurgico e di
completa mediana da Reigel
tiroidectomi
a
Bilaterale Assenti: Abduzione: Afonia Periferic Sindrom
paralisi posizione Inalazion a e di
completa respiratoria e di Ziemsse
saliva- n
materiale
alimentar
e
Bilaterale Adduzione: Posizione Disfonia Centrale Sindrom
paralisi paramedia : nuclei e di
incomplet na ambigui Gerhardt
a
Riniti e rinopatie vasomotorie

La parte che noi possiamo osservare della struttura nasale è la piramide nasale. Questa
ha una forma piramidale ed è costituita da una porzione ossea e da una porzione
cartilaginea. La radice del naso,
che è la parte più alta della
piramide, è costituta da tessuto
osseo (osso nasale) ed è la parte
che prende rapporti con l’osso
frontale, il resto, sia la parete
laterale che la parete mediale,
unica al centro a dividere la
piramide in due fosse nasali,
sono di tipo cartilagineo. La
parete laterale è costituita dalla
cartilagine laterale, una lamina
piuttosto ampia e liscia, che si
associa alla cartilagine alare maggiore. Quest’ultima ha una forma ad U, con la branca
laterale si porta a completare la parete laterale, con la branca mediale che si incurva e si
fonde con la branca mediale dell’altro lato forma la parete mediale, che permette di
distinguere due fosse nasali e due narici completamente separate tra di loro. Oltre alla
cartilagine laterale e alla cartilagine alare maggiore ci sono altre strutture cartilaginee
accessorie e sono la cartilagine alare minore e la cartilagine alare accessoria.
Mediante palpazione si apprezza che l’orifizio nasale è costituito anche da tessuto fibro-
adiposo che va a completare la parete laterale e in parte la parete mediale. Questo ci dice
che traumi meccanici a carico del naso vengono attutiti dal tessuto cartilagineo e fibro-
adiposo, cosa che invece non accade per l’osso nasale che può subire rottura o frattura.
Le fosse nasali sono separate completamente dalla lamina centrale, mediana, detta setto
nasale.
La porzione più anteriore del setto è cartilaginea (cartilagine del setto), posteriormente
invece è ossea, formata dal vomere in basso e dalla lamina perpendicolare dell’etmoide
in alto. Il vomere poggia sul pavimento della fossa nasale costituito dall’osso mascellare e
dall’osso palatino. Le due fosse nasali sono lunghe qualche centimetro e oltre ad avere il
pavimento, la parete laterale e la parete mediale hanno un tetto rappresentato dalla lamina
cribrosa dell’etmoide, attraverso cui passano i filuzzi olfattivi che danno origine al nervo
olfattivo.
All’interno delle fosse nasali sono presenti tre estroflessioni ossee dette conche nasali o
turbinati o cornetti che si estendono dall’avanti indietro come turbinato nasale inferiore,
turbinato nasale medio e turbinato nasale superiore. Esiste anche una conca nasale
suprema, appena accennata, in corrispondenza della lamina cribrosa dell’etmoidea, a
queste si aggiungono l’osso mascellare, il lacrimale e in parte l’osso palatino.

La funzione dei turbinati è quella di aumentare la superficie di contatto con l’esterno della
parete laterale, sono ricoperti da mucosa sottile nella porzione mediale e spessa nella
porzione laterale.
Questa mucosa è estremamente attiva e va incontro a processi infiammatori ogni qual
volta si abbiano processi patologici a carico del naso, aumentando di spessore anche in
un banale raffreddore (ipertrofia dei turbinati).
Per poter guardare i due terzi anteriori delle fosse nasali di un soggetto si esegue la
rinoscopia anteriore, in cui si usa uno speculum nasale che permettere di allargare l’orifizio
narinale e una fonte luminosa posta sulla fronte del medico. Con questo esame
strumentale si può osservare la mucosa, di solito rosea, della parete mediale (setto), della
testa (parte più anteriore) del turbinato inferiore e della testa del turbinato medio,
permettendo di valutare eventuali aumenti di volume ed eventuali presenze di secrezioni.
Per osservare tutta la fossa nasale si usa un altro strumento cioè l’endoscopio, costituito
da fibre ottiche contenute in un tubicino di metallo (rigido) o di gomma (flessibile), di pochi
mm (3,5). L’endoscopio flessibile può incurvarsi e adattarsi alle anfruttuosità
permettendoci di guardare i turbinati in tutta la loro estensione ( testa, corpo, coda).
rinoscopia anteriore endoscopio rigido endoscopio flessibile
La mucosa è ricca di vasi, venosi e arteriosi, ritroviamo rami dell’arteria carotide esterna in
particolare derivanti dal ramo mascellare e i rami etmoidale anteriore e posteriore che si
portano ad irrorare la parete laterale e mediale del naso. Questo è importante sottolinearlo
perché la vascolarizzazione risulta essere caratterizzata da una fitta rete di capillari piccoli
e sottili, soprattutto a livello della parete settale, che in seguito a micro-traumi o a processi
infiammatori possono sanguinare. Esiste una regione situata anteriormente in prossimità
della punta del naso: è il locus valsalvae, un locus minoris resistentiae in cui la mucosa
che ricopre il setto è estremamente sottile e ricca di vasi, facilmente esposta a traumi,
chiamata anche area di Little o plesso di Kiesselbach.

Posteriormente, nella zona in cui vi è l’anastomosi tra i rami dell’arteria sfenopalatina e


l’arteria faringea ascendente c’è un’altra zona di facile sanguinamento, chiamata plesso di
Woodruf. È più frequente il fenomeno dell’epistassi nella zona di Valsalvae, in cui vi è
l’anastomosi tra i rami settali dell’arteria sfenopalatina, l’arteria labiale superiore, la
palatina maggiore e l’etmoidale anteriore.
Le funzioni del naso sono sostanzialmente associate alla respirazione e alla sensibilità
olfattiva:
1. Respirazione: la corretta respirazione avviene attraverso le fosse nasali che grazie
alle loro strutture riscaldano a 31-37 gradi e umidificano al 95% l’aria, per poi
spingerla a livello dell’albero bronchiale.
2. Filtro e difesa: il sistema di trasporto mucociliare è in grado di filtrare tutto ciò che
penetra con la respirazione
3. Funzione olfattoria: i recettori terminali del nervo olfattorio si trovano sul tetto della
fossa nasale. Un semplice raffreddore può portare il pz ad anosmia o iposmia, cioè
alla riduzione o alla perdita dell’olfatto per un’infiammazione a livello dei recettori
terminali.
4. Funzione di risonanza: il suono prodotto a livello della laringe viene modificato a
formare suoni diversi, detti fonemi, da strutture di passaggio come i denti, la lingua,
le labbra e poi ulteriormente modificato dall’effetto risonanza creato a livello del
naso e del cavo orale. Si parla di rinolalia chiusa quando si chiude il naso e la
cassa nasale di risonanza; mentre si parla di rinolalia aperta quando, invece,
aumenta l’effetto risonanza, cioè qunado il naso entra in comunicazione diretta con
il cavo orale per la mancata chiusura del palato a livello della linea mediana nel
paziente che soffre di una anomalia malformativa della faccia che prende il nome di
labiopalatoschisi.

La funzione fondamentale del naso è la respirazione, cioè il passaggio di aria non uguale
contemporaneamente in entrambe le fosse nasali, con un flusso di tipo laminare. Si dice
che le fosse nasali abbiano un’alternanza di pervietà, ve n’è sempre una che è più pervia
dell’altra, con un ciclo nasale che può durare dalle 2 alle 5-7 ore. Noi non percepiamo
questa diversa respirazione, la percepiamo uguale, tranne quando siamo raffereddati, in
questo caso però non parliamo di un fisiologico ciclo nasale ma di una condizione
patologica nella quale il passaggio di aria tende ad essere ridotto. Attraverso esami
strumentali si può calcolare la quantità di aria che passa all’interno della fossa nasale
(rinomanometria).
La funzione di difesa e purificazione dell’aria si ha grazie alle caratteristiche dell’epitelio
colonnare monostrato che ricopre la parete nasale, definito di tipo respiratorio, costituito
da cellule basali e 2 cellule fondamentali: cellule caliciformi mucipare e cellule ciliate.
Queste ultime due danno origine al trasporto muco-ciliare, le ciglia inserite nel muco che
ricopre l’epitelio, si muovono nella stessa direzione con un movimento metacronale una
dopo l’altra, spingendo il muco verso l’interno.
Il muco è formato da una fase sol e una fase gel, la cui caratteristica è quella di poter
intrappolare tutte le particelle che penetrano con la respirazione (polvere, batteri) sullo
strato superficiale, per poi trasportarle attraverso il movimento delle ciglia dal naso verso il
rinofaringe e poi nell’orofaringe dove vengono deglutite con la saliva.
In condizioni normali il trasporto muco-ciliare non è percepito perché la quantità di muco
prodotta è minima, si può percepire solo mettendo un dito nel naso e sentendo l’umidità.
Diventa patologico e ci accorgiamo della presenza quando la quantità di muco prodotta
diventa maggiore, come in seguito ad un raffreddore o ad altre affezioni a carico del naso.
I seni paranasali sono delle cavità vuote ripiene di aria, che si trovano all’interno del
massiccio facciale e sono in comunicazione con il naso. Tali cavità sono ricoperte dalla
stessa mucosa delle fosse nasali, quindi si trovano sia CCM che cellule ciliate.
È importante considerare, poiché possibilmente alla base dell’eventuale insorgenza di una
rinosinusite, che il movimento delle ciglia delle cellule cigliate della mucosa nasale verso
l’ostio di comunicazione tra il naso e i seni mascellari comporta spostamento del muco nei
seni paranasali. Il muco trasportato al rinofaringe per poi essere deglutito deriva dalle
fosse nasali ma anche dai seni paranasali.

• RINITI
Con l’espressione di rinite si intende un processo infiammatorio del naso, genericamente
inteso, ancorché si distinguano le riniti in base all’eziologia, dal momento che pososno
essere chiamati in causa differenti agenti eziologici, infettivi, chimico-tossici, alterazioni di
carattere vascolare:
1. Riniti infettive:
a) Riniti virali
b) Riniti batteriche
c) Riniti micotiche
Tra queste, la più frequente è rappresentata dalla rinite virale che corrisponde a
quello che comunemente viene definito con l’espressione di “raffreddore”; le riniti
infettive possono essere acute ovvero croniche e non infrequentemente le riniti
atrofiche corrispondono alla risultanza della cronicizzazione di una infezione nasale.
2. Riniti non-infettive: sono delle patologie infiammatorie del naso che conseguono
all’azione tossico-irritativa di agenti chimici o fisici, che determinano uno stimolo
irritativo nasale.
3. Riniti vasomotorie: più correttamente sono chiamate rinopatie vasomotorie e
sono delle patologie che conseguono alla presenza di una alterazione vascolare e
che caratteristicamente vengono distinte in specifiche cioè allergiche e
aspecifiche:
a) Rinopatie vasomotorie allergiche:
i. Stagionali
ii. Perenni
b) Rinopatie vasomotorie aspecifiche:
i. Con neutrofilia
ii. Con eosinofilia
iii. Mastocitarie
Nel primo dei due casi è nota l’eziologia, per cui si parla di rinopatie vasomotorie
specifiche, che si associano a meccanismi di ipersensibilità del I tipo, cioè allergica,
che per il tramite del rilascio dell’istamina induce una vasodilatazione ed una
vasopermeabilizzazione che sono responsabili dell’edema e della congestione
vascolare del naso; caratteristicamente, queste forme allergiche in considerazione
della cadenza temporale vengono suddivise in forme perenni e forme stagionali che
sono quelle classicamente associate alla presenza di aeroallergeni, come i pollini,
che sono presenti nell’aria respirata solo in alcuni periodi dell’anno.
4. Riniti atrofiche: si tratta di rinopatie infiammatorie spesso croniche che possono
essere la risultanza della cronicizzazione di un processo infiammatorio o essere
espressione di una patologia prevalentemente senile; in questi casi la mucosa
nasale perde la propria funzione fisiologica andando incontro ad atrofia. Infatti, la
mucosa che riveste il setto nasale e i turbinati modifica le proprie caratteristiche
istologiche e conseguentemente anche funzionali. Nelle forme infettive e
infiammatorie la mucosa si ispessisce, nelle forme atrofiche invece tende ad
assottigliarsi diminuendo la produzione di muco. Questo avviene in maniera
parafisiologica in età senile ma può avvenire anche quando vi siano processi
infiammatori o infettivi cronici.

• RINITI INFETTIVE
Le riniti infettive sono delle patologie infiammatorie del naso che conseguono ad una
infezione e che come tali possono essere ulteriormente classificabili in rapporto
all’eziologia in riniti virali, batteriche e micotiche.
1) RINITE VIRALE
La più frequente delle riniti infettive è la rinite virale che è anche popolarmente nota con il
nome di “raffreddore” ed è una malattia infettiva acuta e benigna che si autolimita.
L’eziologia della rinite virale si associa ad alcuni virus, tra cui:
1. Rinhovirus
2. Paramixovirus
3. Adenovirus
4. Virus respiratorio sinciziale
5. Coronavirus
Nella sintomatologia legata all’infezione da SARS-CoV-2 si riscontra spesso la rinite virale
a cui si associa anosmia o iposmia, proprio perché la penetrazione a livello nasale del
virus crea un danno tale da manifestare i segni classici dell’infiammazione oltre a dare un
intreressamento dell’albero bronchiale. Il contagio avviene, per tutti questi virus, per il
tramite dell’inalazione di microparticelle espulse dall’individuo contagiante con la tosse,
con la starnutazione ma alle volte anche con il solo respiro. È contemplata anche la
possibilità che si abbia una caratteristica modalità di contagio per contatto con superfici o
con mani infette.
I tempi di incubazione dei virus che sono coinvolti nel contesto della rinite virale sono
compresi tra tra le ventiquattrore e le quarantottore e la via di trasmissione
preferenziale è per contatto diretto con mani sporche o superfici infette o per via aerea
tramite colpi di tosse e starnuto, con il quale si emettono particelle contenenti saliva, muco
e virus. I virus che siano in causa nella rinite virale sono virus che osservano una rapida
crescita e sono in grado di dare origine ad una risposta infiammatoria notevole a livello
locale, con aumento della produzione di muco (rinorrea), distruzione dell’epitelio e perdita
di funzione di trasporto mucociliare. L’aumento della produzione di citochine, richiamerà
cellule infiammatorie dal circolo, infatti prelevando e osservando l’epitelio della mucosa
nasale al microscopio ottico vedremo la presenza del virus, ma anche delle cellule
infiammatorie. Peraltro, i virus in questione sono dei forti induttori della produzione di
interferoni, particolarmente di IFN-α che è in grado di dare luogo all’attivazione della
risposta antivirale. La sintomatologia clinica della rinite virale si associa a:
1. Rinorrea: si intende con l’espressione di rinorrea un aumento della secrezione
nasale, che inizialmente è costituita da un liquido limpido e poco denso in quella
che prende il nome di rinorrea sierosa, ma che si trasforma progressivamente in
rinorrea mucosa nel momento in cui il muco divenga più denso. Difatti, l’iniziale
rinorrea sierosa è ascrivibile all’edema infiammatorio che consegue alla
vasodilatazione, mentre la progressiva assunzione di una consistenza viscosa e di
un colorito giallognolo è espressione della risposta reattiva delle cellule caliciformi
mucipare nelle quali si apprezza un compensatorio aumento della produzione
mucosa.
2. Faringodinia;
3. Sintomi di accompagnamento:
a) Cefalea
b) Astenia
c) Mialgia
d) Debolezza
e) Tosse
Alla forma virale, può sopraggiungere la forma batterica per via di una sovrainfezione,
per cui la sovrapposizione batterica è a tutti gli effetti da considerarsi come una
complicanza della rinite virale. La rinorrea mucosa per la presenza di batteri a seguito
della sovrinfezione assume una colorazione giallo-verdastra e i sintomi possono perdurare
finanche per 6 settimane. Se la rinite batterica non viene eliminata, grazie alla
comunicazione tra la fossa nasale e i seni paranasali l’infezione può estendersi a questo
livello dando origine ad una sinusite acuta o cronica.
2) RINITE BATTERICA
La rinite batterica è una rinite infettiva, che frequentemente esordisce come complicanza
della rinite virale, presentandosi mediante una secrezione purulenta giallo-verdastra con
sintomi del comune raffreddore che si accompagnano a questa rinorrea purulenta, i quali
possono perdurare fino alle sei settimane; oltre ai sintomi del raffreddore e alla rinorrea
purulenta, si apprezzano altri sintomi come l’ostruzione nasale, per la congestione della
mucosa dei turbinati e del setto che non permette il passaggio di aria. In realtà, a
determinare questa ostruzione non è solo l’effetto massa ma anche l’aumento della
produzione di muco che ristagna, motivo per il quale il paziente accusa anche
un’aumentata percezione del trasporto muco-ciliare dal naso all’orofaringe (scolo di
secrezione muco-purulenta). La presenza dell’orifizio tubarico a livello del rinofaringe
costituisce la base anatomica della possibile estensione del processo infiammatorio a
livello della tuba di Eustachio, in questo modo una rinite batterica può complicarsi con una
otite media, con accumulo di secrezioni ed essudazione nella cassa del timpano,
congestione della mucosa e ipoacusia di trasmissione.
3) RINITI MICOTICHE
La rinite funginea è la meno frequente e può insorgere per l’utilizzo prolungato di farmaci
o per la presenza di sostanze particolari o funghi nell’ambiente. L’utilizzo prolungato della
terapia antibiotica determina modificazione della flora residente, facendo sì che venga
meno l’effetto di competizione biologica che di norma impedisce la virulentazione dei
funghi e della flora saprofita. Osservando al microscopio un prelievo di muco con piccoli
tranci di epitelio nasale si possono osservare le spore a forma di clessidra oppure le ife
ramificate che sono segno di un’infezione funginea.

• RINITI CRONICHE IPERTROFICHE E ATROFICHE


Le forme croniche aspecifiche ipertrofiche sono delle riniti che si esprimono mediante un
aumento dello spessore della mucosa dei turbinati, da cui il nome; in questo caso, dal
punto di vista eziologico non si ha un danno determinato direttamente dall’agente infettivo:
il meccanismo di insorgenza del danno è perlopiù ascrivibile alla presenza di una azione
irritativa cronica determinata da alcuni agenti chimici. Osserveremo un’ostruzione nasale
subcontinua dovuta all’ipertrofia dei turbinati inferiori, una rinorrea bilaterale
catarrale e lo scolo rinofaringeo soprattutto nelle ore notturne facilitato dalla posizione
supina. La mucosa, ispezionabile mediante una rinoscopia anteriore, apparirà tumida, di
colore rosso cupo e con superficie mammellonata.
Queste forme ipertrofiche croniche aspecifiche possono essere legate o alla continua
inalazione di sostanze che danno irritazione oppure all’uso prolungato di
decongestionanti (rinazina, vixines): tali sono le riniti croniche aspecifiche
medicamentose.
I decongestionanti hanno come meccanismo di azione farmacologica quello di agire a
livello della parete vascolare: nell’immediato detrminano una vasocostrizione che riduce il
calibro dei vasi, successivamente riducono la vascolarizzazione della mucosa riducendo lo
spessore del turbinato e permettendo così un più agevole passaggio d’aria.
L’effetto ha la durata transitoria di qualche ora, dopodiché scompare e il paziente non
infrequentemente sentirà la necessità di riutilizzare il farmaco, se si inizi ad assumere
decongestionante in maniera continua per mesi è possibile andare incontro ad un effetto
rebound di congestione: la mucosa e la parete vasale non rispondono più all’effetto del
farmaco.
La mucosa tende a rimanere cronicamente ipertrofica e il soggetto tende ad avere
difficoltà respiratorie nasali importanti, a lungo andare si crea un danno a livello delle CCM
e della funzione ciliare che determina un accumulo di muco che esacerba il danno.
Nella rinite cronica aspecifica atrofica a differenza di quella definita ipertrofica, la mucosa
appare assottigliata, pallida e asciutta, in quanto diminuisce la produzione di muco e la
piccola quantità di muco prodotto forma delle piccole croste nella metà anteriore del naso
che rendono difficoltoso il flusso di aria, che infatti da laminare diventa turbolento.
L’eziologia della rinite cronica aspecifica atrofica può essere ascrivibile o ad un
processo infiammatorio acuto che si cronicizza e con il tempo tende a determinare
atrofia, oppure a determinate sostanze che tendono ad irritare cronicamente le fosse
nasali, per esempio in coloro che lavorano nelle fabbriche del lino, del cotone e della
canapa, che sono sostanze che facilmente penetrano nell’albero respiratorio.
Tra le forme di rinite cronica, anche se rara, ve n’è una definita ozena, una forma infettiva
determinata dalla Klebsiella ozene, responsabile di un’atrofia della mucosa che si
accompagna ad un danno a livello delle strutture ossee dei turbinati, che risultano
assottigliate. È caratterizzata da una familiarità, associandosi a maggiore prevalenza
nelle donne; clinicamente si manifesta con la formazione di croste verdastre e fetide
dette a stampo che occupano tutta la fossa nasale e con i segni classici della rinite, quali
secchezza, ostruzione nasale e anosmia.

• RINOPATIE VASOMOTORIE
Con l’espressione di rinopatie vasomotorie si intende un gruppo di patologie che
conseguono alla presenza di una alterazione vascolare di tipo funzionale a livello della
rete arteriosa del naso, la cui principale espressione clinica è definita dall’ostruzione
nasale. Le rinopatie vasomotorie sono a loro volta ulteriormente classificate in
considerazione della differente eziologia, riconoscendosene alcune che prendono il nome
di rinopatie vasomotorie allergiche o specifiche, ed altre, che sono in contrapposizione
alle prime, definite rinopatie vasomotorie non-allergiche delle quali la manifestazione
più frequente è una patologia anche chiamata NARES; esistono anche delle rinopatie
vasomotorie definite distoniche.

FORME DISTONICHE
36%

NARES
FORME ALLERGICHE …
43% 21%

FORME ALLERGICHE FORME DISTONICHE NARES

1) RINOPATIE VASOMOTORIE ALLERGICHE


Si intende con l’espressione di rinopatia vasomotoria allergica una patologia del naso che
consegue alla presenza di una reazione allergica. Le allergie sono delle patologie che
conseguono ad un meccanismo di ipersensibilità del I tipo e che incidono con maggiore
frequenza nei soggetti di molto giovane età, con un picco massimo intorno ai cinque anni e
in età adolescenziale sia pure atteso che possano anche colpire soggetti adulti in maniera
tuttavia meno frequente di quanto non facciano nei soggetti giovani.
In termini eziopatogenetici, le allergie si possono intendere come delle manifestazioni di
esagerata risposta patologica ad una particolare esposizione ambientale ad antigeni che
di per loro non sono patogeni, ma che in soggetti che ne siano geneticamente predisposti -
e questa predisposizione prende il nome di atopia- suscitano una esagerata risposta
mastocitaria. Difatti, nel contesto della patogenesi delle manifestazioni allergiche sussiste
una azione congiunturale di fattori ambientali esterni, cioè l’esposizione a quegli antigeni
che vengono chiamati allergeni, e di fattori intrinseci, legati all’aumentata suscettibilità di
questi soggetti allo sviluppo di una esagerata produzione di IgE patologiche dirette contro
tali antigeni che nei soggetti non predisposti di norma non sono affatto in grado di
stimolare alcuna manifestazione allergica. Le manifestazioni allergiche possono esprimersi
a differente livello, cioè a livello cutaneo con quella che prende il nome di orticaria, a livello
delle basse vie respiratorie in quello che è l’asma allergico oppure a livello delle alte vie
respiratorie con la rinite allergica o rinopatia vasomotoria allergica. La patogenesi di
questa malattia prevede un meccanismo a due fasi, di cui la prima è definita come fase di
sensibilizzazione e non esita affatto in alcun tipo di sintomatologia clinica. In questa
prima fase, gli allergeni stimolano la presentazione antigenica da parte dei fagociti, che
migrando per il tramite della via linfatica a livello dei linfonodi determinano attivazione delle
cellule T CD4+ che in tal caso si differenziano sotto l’azione di un preciso subset di
citochine in TH2, i quali a loro volta istruiscono e attrezzano la risposta anticorpale
favorendo l’attivazione delle cellule B e indirizzandone lo switch idiotipico verso la
produzione di IgE specifiche per quell’allergene. Le IgE sono delle immunoglobuline di
grandi dimensioni che, rispetto alle IgG che sono gli anticorpi prototipici, presentano una
regione costante aggiuntiva, che ha la funzione di legare un recettore di membrana ad alta
affinità presente in corrispondenza della superficie di membrana delle mastcellule: tale è il
recettore FcεRI. Dunque, la fase di sensibilizzazione della patogenesi della rinopatia
vasomotoria allergica si associa alla produzione delle IgE specifiche che vengono
ancorate sulla superficie delle mastcellule residenti, in tal caso, a livello della mucosa
nasale. Una volta che si sia verificata la seconda, o successiva, esposizione all’allergene,
le IgE specifiche ancorate sulla superficie di membrana della mstcellula complessando
l’antigene con la porzione variabile determinano un cambiamento conformazionale del
recettore FcεRI, che media una segnalazione intracellulare, la quale esita definitivamente
nella degranulazione mastocitaria, quindi particolarmente nel rilascio dell’istamina,
quale principale mediatore preformato che ha azione vasodilatante e
vasopermeabilizzante, e innesca i meccanismi di sintesi dei mediatori neoformati, tra
cui i leucotrieni che sono delle molecole derivate dal metabolismo dell’acido arachidonico
che potenziano il meccanismo di flogosi allergica e richiamano cellule
dell’infiammazione, tra le quali particolarmente rappresentati sono i granulociti neutrofili;
difatti un prelievo di mucoso e un’analisi nel soggetto con rinite allergica documenta
caratteristicamente la presenza di residui della degranulazione mastocitaria e la presenza
di eosinofili che sono delle cellule di estrema importanza nel contesto delle fasi di
cronicizzazione delle risposte allergiche. Priopriamente, il principale leucotriene ad azione
chemiotattica è il leucotriene B4, che si rende responsabile della chemiotassi dei neutrofili
e degli eosinofili.
In definitiva, possiamo dire che nel contesto della reazione allergica si riconoscano due
fasi: la prima, acuta, sostenuta interamente dalla degranulazione dell’istamina e la
seconda, chiamata anche flogosi allergica o reazione tardiva, che consegue alla sintesi
di mediatori neoformati e soprattutto di LTB4 che innesca i fenomeni di chemiotassi
neutrofila ed eosinofila di estrema importanza nel richiamo di neutrofili e di eosinofili.
Dal punto di vista eziologico, gli allergeni che possono determinare insorgenza di queste
reazioni sono numerosi e molto diversi tra loro:
1. Pollini:
a) Graminacee
b) Parietaria
c) Polline d’ulivo
d) Artemisie
e) Mimose
f) Cipressi
È importante considerare che questi pollini sono presenti nell’aria durante il
periodo della fioritura della pianta, per cui si riscontrano caratteristicamente con
cadenza stagionale; la massima parte di queste piante menzionate fiorisce
durante il periodo primaverile; differentemente i cipressi fioriscono di inverno.
Conoscere questa cadenza della fioritura è estremamente importante dal
momento che è proprio questa che giustifica la cadenza stagionale delle
manifestazioni della rinopatia vasomotoria allergica.
2. Acari della polvere:
a) Dermatophagoides Pteronyssinus
b) Dermatophagoides Farinae
c) Acarus Sirus
3. Derivati epidermici di animali (forfore):
a) Cane
b) Gatto
c) Cavalli
d) Bovini
In alcuni casi l’esposizione a questi derivati epidermici di animali è di natura
professionale, soprattutto per quanto riguarda l’esposizione a derivati epidermici
di bovini e cavalli.
4. Muffe:
a) Eumiceti
b) Deuteromiceti
Dal punto di vista clinico, la sintomatologia di una rinopatia vasomotoria allergica si
caratterizza per un andamento temporale variabile, in funzione della stagione in cui si
abbia la maggiore esposizione alla sostanza allergizzante, pur se in alcuni casi le
manifestazioni siano continuative e non a cadenza stagionale: si parla rispettivamente di
rinopatia vasomotoria allergica stagionale e perenne. Comunque, quale che sia
l’andamento temporale della manifestazione allergica, in entrambi i casi la clinica è
dominata da un sintomo che è l’ostruzione nasale, la quale si associa anche ad altri
sintomi che sono espressione della intensa irritazione trigeminale, tal che si abbia
insorgenza di prurito, vellichio in gola e starnutazione; talora i soggetti con rinopatia
vasomotoria allergica lamentano anche cefalea. Si riscontra una ipersecrezione che
viene definita come una rinorrea sierosa o nei casi in cui il secreto sia più viscoso come
una rinorrea siero-mucosa. Dal punto di vista dell’obiettività nasale, la mucosa è
tumefatta e iperemica, perciò di colore violaceo e pallido per via dell’edema, si riscontra
ipertrofia dei turbinati e questi reperti obiettivi si associano alla presenza di una
ipereosinofilia che potrebbe documentarsi mediante l’esecuzione di un esame citologico
del materiale della rinorrea.
2) RINOPATIE VASOMOTORIE NON ALLERGICHE
Le rinopatie vasomotorie non allergiche sono un gruppo di patologie del naso in cui si
riscontra una alterazione vascolare alla base dell’insorgenza della patologia, in assenza di
uno stimolo elicitante riconosciuto nell’allergene, differentemente da quanto accada per le
rinopatie vasomotorie allergiche nelle quali l’elicitazione del meccanismo fisiopatologico e
della patogenesi della patologia conseguono all’esposizione all’allergene. Non essendovi,
nelle rinopatie vasomotorie non allergiche, la possibilità di riconoscere univocamente
l’agente eziologico, queste vengono anche definite come rinopatie vasomotorie
aspecifiche e vengono classificate sulla base dei riscontri citologici microscopici, nel
senso che vengono suddivise sulla base dell’infiltrato infiammatorio cellulare che si
riscontra, che può essere eosinofilo, neutrofilo o mastcellulare; la più rappresentativa delle
rinopatie vasomotorie non allergiche è quella che presenta un infiltrato eosinofilo e che
come tale prende il nome di NARES acronimo per rinite non-allergica con sindrome
eosinofila (Non-allergic Rhinitis with Eosinophilia Syndrome). LA NARES è una
patologia che entra in diagnosi differenziale diretta con la rinopatia vasomotoria allergica
non fosse altro perché le manifestazioni cliniche sono del tutto assimilabili, in
considerazione del fatto che anche in tal caso la patogenesi della malattia dipende da una
degranulazione mastocitaria, con la differenza che in questa patologia la degranulazione
mastocitaria e il rilascio di mediatori neoformati non dipendono da un meccanismo IgE-
mediato che si attiva quando si abbia un legame della IgE con l’allergene: nella NARES
non vi sono IgE specifiche dirette contro un determinato allergene che possa scatenare la
risposta allergica, piuttosto in questo caso si osserva una degranulazione aspecifica
delle mastcellule ascrivibile all’azione di alcuni stimoli chimici, tossici o irritativi sulla
mucosa nasale che hanno come caratteristica quella di indurre un danno alla membrana
mastocitaria che favorisce il rilascio di istamina, responsabile della congestione e
dell’ostruzione nasale indotta dall’edema, dal momento che l’istamina è una sostanza
vasodilatante e vasopermeabilizzante. Nella NARES come nella rinopatia vasomotoria
allergica, si riscontrano sintomi come congestione nasale e ostruzione nasale, associati
alla presenza di ipo-anosmia, cefalea, prurito e starnutazione, ma differentemente dalla
rinopatia vasomotoria allergica, nella quale la sintomatologia ha classico andamento
stagionale, la NARES insorge indipendentemente dalla stagione dal momento che non
consegue ad allergeni che vengano liberati nell’aria con la fioritura delle piante, piuttosto
consegue a stimoli come possono essere anche i profumi. Per questo motivo, a fronte di
una clinica qualitativamente uguale a quella della rinopatia vasomotoria allergica, è
necessario eseguire una corretta anamnesi volta soprattutto a comprendere l’eventuale
correlazione con la stagione di insorgenza dei sintomi, giacché l’assenza di questa
stagionalità dei sintomi è significativa della NARES piuttosto che della rinopatia
vasomotoria allergica. L’obiettività nasale mostra in tal caso la presenza di una ipertrofia
del turbinato inferiore con mucosa che appare ispessita e pallida.
Oltre alla NARES, che corrisponde alla rinopatia vasomotoria non allergica più frequente,
ne esistono delle altre, che sono definite sulla base della qualità dell’infiltrato nasale, che
non è eosinofilo come nella NARES; si distinguono, infatti, altre tre forme:
1. NARNE: rinopatia vasomotoria non allergica con infiltrazione neutrofila.
2. NARMA: rinopatia vasomotoria non allergica con infiltrazione mastocitaria.
3. NARESMA: rinopatia vasomotoria non allergica con infiltrazione eosinofila e
mastocitaria.
In questi casi, in considerazione della perdurante espressione di un danno comunque
flogistico, la mucosa nasale va incontro ad una risposta reattiva epiteliale, che consiste
nella proliferazione cellulare e nella formazione di lesioni vegetanti, che prendono il nome
di polipi nasali, i quali sono delle formazioni assolutamente benigne, che tuttavia
causando ingombro all’interno della mucosa nasale riducono l’ingresso di aria,
peggiorando ulteriormente la respirazione: i polipi nasali sono a tutti gli effetti da
considerarsi come delle complicanze delle rinopatie vasomotorie non allergiche e sono
meritevoli di un trattamento chirurgico di asportazione, al fine di migliorare la respirazione.
Accanto alla poliposi nasale, sussistono altre due complicanze che sono definite dalla
estensione del processo infiammatorio ai seni paranasali, in quella che prende il nome di
rinosinusite, e dalla sindrome rinobronchiale, che è espressione dell’estensione del
processo infiammatorio anche alle basse vie respiratorie.
3) RINOPATIA VASOMOTORIA DISTONICA
Anche nota come rinopatia vasomotoria neurovegetativa, la rinopatia vasomotoria
distonica corrisponde ad una rinopatia su base non allergica che consegue ad una serie di
stimolazioni endogene o esogene che possano indurre alterazioni a livello nasale. Questa
particolare rinopatia vasomotoria consegue all’espressione di alcuni stimoli che
slatentizzano uno squilibrio preesistente tra l’attività dell’ortosimpatico e del parasimpatico
e tali stimoli possono essere di diversa natura:
1. Stimoli endogeni:
a) Fattori ormonali
b) Gravidanza
c) Alterazioni psichiche
d) Stress emozionali
2. Stimoli esogeni:
a) Fisici
b) Chimici
c) Cambiamenti climatici
d) Stimoli sensoriali
In ogni caso, quale che sia l’eziologia, questi stimoli agiscono in soggetti che di per loro
siano predisposti dal momento che esiste una alterazione dell’equilibrio della bilancia
neurovegetativa. Difatti, questa forma viene definita neurovegetativa dal momento che è
coinvolta una alterazione dei meccanismi legati all’attività del sistema nervoso
ortosimpatico e del sistema nervoso parasimpatico e viene definita distonica dal momento
che sussiste una alterazione tra il tono del braccio ortosimpatico e parasimpatico del
sistema vegetativo. Il fatto che una alterazione dell’equilibrio del sistema nervoso
vegetativo sia alla base di una rinopatia vasomotoria è un aspetto assolutamente coerente
dal momento che questi si fa carico, tra gli altri, della regolazione del tono vasomotorio e,
sia dal momento che l’ortosimpatico ha azione vasocostrittrice e il parasimpatico un’azione
perfettamente antagonista sia dal momento che le rinopatie vasomotorie condividono
come meccanismo di base un aumento della permeabilità vascolare e del calibro vasale, è
chiaro che in tal caso lo squilibrio sia a favore del sistema nervoso parasimpatico. Nello
specifico, nella rinopatia vasomotoria distonica si descrive una iporeattività
dell’ortosimpatico, che è ascrivibile ad una serie di aspetti:
1. Riduzione dell’espressione recettoriale: il sistema ortosimpatico agisce mediante
l’increzione catecolaminica a livello periferico; le catecolamine innescano dei
meccanismi di segnalazione intracellulare mediante recettori α e recettori β e in
tal caso sia i recettori α1 che i recettori β risultano ridotti in termini di espressione
sulla superficie cellulare.
2. Feedback negativo: sussiste un’accentuazione dei meccanismi a feedback
negativo che sopprimono l’increzione di adrenalina e di noradrenalina da parte del
sistema ortosimpatico.
3. Deficit funzionale della β-idrossilasi: la β-idrossilasi, meglio conosciuta come
dopamina-β-ossidoreduttasi è un enzima espresso a livello neuronale che
catalizza la trasformazione della dopamina in noradrenalina, per cui è chiaro che
una riduzione funzionale dell’attività dell’enzima sia legata ad una ipoincrezione di
catecolamine.
Se da una parte si riscontra una riduzione dell’attività dell’ortosimpatico, dall’altra si
descrive un aumento dell’attività del sistema nervoso parasimpatico, che è ascrivibile
all’aumentata espressione dei recettori muscarinici, all’aumentata attività della colina
acetil-transferasi, enzima espresso a livello neuronale che media la formazione
dell’acetilcolina a partire dalla colina e dall’Acetil-CoA. In realtà, oltre che esservi una
espressa e manifesta alterazione nella concentrazione dei due principali neurotrasmettitori
del sistema nervoso autonomo, cioè noradrenalina e acetilcolina,si riscontra anche una
compartecipazione di altri neurotrasmettitori, quali sono il NPY, la sostanza APP, la
sostanza P e il VIP. Tra questi, il VIP agisce come vasodilatatore periferico e quindi
agisce come un agonista colinergico, mentre invece la sostanza P incrementa il rilascio
dell’istamina a livello delle mucose.
La clinica è molto simile a quella delle altre rinopatie vasomotorie, per cui si riscontra la
presenza di congestione e di ostruzione nasale a bascula, associata a rinorrea;
cefalea, starnutazione e anosmia sono meno presenti rispetto alle rinopatie vasomotorie
allergiche e alla NARES. Dal punto di vista della obiettività rinoscopica, si riscontrano
caratteristicamente ipertrofia dei turbinati e colore della mucosa rosso-violaceo.
SINTOMI Allergiche NARES
Distoniche
Ostruz. Nasale +++ +++ +++

Rinorrea +++ +++ ++–

Starnutazione +++ +++ +±–


Cefalea ++– +±– +––
Ipo- anosmia +±– ++± ±––

• DIAGNOSI DI RINITI INFETTIVE E RINOPATIE VASOMOTORIE


La diagnosi delle rinopatie non può prescindere dall’eventuale anamnesi, in particolar
modo, per le rinopatie vasomotorie di estrema importanza è chiarire l’eventuale relazione
temporale che esiste tra l’insorgenza dei sintomi ed eventuali stagioni dell’anno, dal
momento che quando questa relazione sia presente, la diagnosi si orienta perlopiù verso
una rinopatia vasomotoria allergica; differentemente le forme non allergiche o distoniche
non mostrano questa insorgenza stagionale. L’esame obiettivo si esegue mediante
effettuazione della rinoscopia anteriore che viene completata successivamente
dall’endoscopia nasale eseguita con endoscopio flessibile o rigido, che consente la
visualizzazione completa della cavità nasale. In questo caso, anche sulla base della
qualità delle secrezioni e sull’aspetto della mucosa, si può eventualmente intendere
l’eziologia. Le rinopatie vasomotorie allergiche presentano una secrezione fluida associata
ad una ipertrofia dei turbinati la cui mucosa assume un aspetto pallido, lucente e violaceo.
Differentemente, nelle rinopatie vasomotorie non allergiche, come la NARES, la mucosa
nasale appare tumida e pallida; nella rinopatia vasomotoria distonica è caratteristicamente
pallida. Inoltre, si possono eventualmente apprezzare delle secrezioni purulente che sono
spesso espressione di una sinusite mucopurulenta. Ancora, è possibile riscontrare alle
volte delle formazioni dall’aspetto carnoso, mammellonate, in cui non si riconosce la
separazione con il setto nasale: tali sono i polipi nasali.
Un secondo esame di estrema
importanza è la rinomanometria, che è
una prova di funzionalità respiratoria
nasale, simile concettualmente alla
spirometria, e che si esegue facendo
respirare il paziente con il naso nella
mascherina. In questo modo si valuta la
quantità d’aria che passa nella singola
fossa nasale, tappando l’altra. Quindi, un
computer riproduce un grafico dove in
blu evidenzia la fossa nasale di sinistra e
in rosso quella di destra. Consiste in un
forcipe che pian piano si allarga e si
orizzontalizza quando la respirazione
non è adeguata. Oltre che fornire una informazione qualitativa sull’eventuale o meno
funzionamento di una fossa nasale, la rinomanometria fornisce anche dei valori numerici
che indicano di quanto la fossa nasale sia ostruita, se c’è difficoltà a respirare e quanto i
valori si discostano dalla normalità.
Questo esame ha il vantaggio di non essere fatto solo di base ma di essere usato anche
per diagnosticare una rinopatia vasomotoria: nei soggetti con rinopatia vasomotoria, a
fronte di una rinomanometria patologica, la ripetizione del test a dieci minuti dalla
somministrazione di un decongestionante ad azione vasocostrittiva determina
miglioramento dell’esito dell’esame.
Se il mal funzionamento respiratorio è dato da anomalie anatomiche, come il setto nasale
deviato, che ostruisce la fossa nasale, ovviamente con la somministrazione di
decongestionante la situazione non cambia, questo può essere anche dimostrato con
l’endosopia che serve proprio per confermare una diagnosi o per fare diagnosi
differenziale.
Una volta confermata una rinopatia vasomotoria con la rinomanometria, è necessario
conoscere la causa alla base e la tipologia di rinopatia vasomotoria e per fare questo
bisogna continuare con test diagnostici di primo livello. Il più usato è lo Skin-Prick test, in
cui si testano 12 gocce di allergeni sulla faccia volare dell’avambraccio, applicati mediante
delle striscette apposite. Inoltre, si applicano sulla superficie dell’avambraccio anche un
controllo positivo ed uno negativo, per la standardizzazione del test. Il controllo positivo
consiste nella somministrazione locale, vicino alla piega del gomito, di istamina che dà
origine ad un pomfo, il cui diametro viene confrontato con altri eventuali ponfi che si
formano per il contatto con l’allergene e in base alle dimensioni di questi si stabilisce il
grado di allergia verso quell’antigene specifico.
Il controllo negativo, invece, si utilizza dal momento che l’applicazione degli allergeni nello
Skin-Prick test si vale dello sfregamento e il paziente potrebbe presentare un
dermografismo, cioè la tendenza a generare una reazione eritemato-pomfoide a seguito
dell’applicazione di uno stimolo punto-pressorio di sfregamento a livello cutaneo. In questi
casi, tutti gli Skin-Prick test sono positivi, ma trattasi chiaramente dei falsi positivi che non
fanno altro che generare confondimento diagnostico. Dunque, prima di eseguire il test
vero e proprio, si esegue la prova del dermografismo, che se negativa permette di
procedere con lo Skin-Prick test vero e proprio.
Se lo Skin-Prick test è positivo, si può confermare la diagnosi di rinopatia vasomotoria
allergica; i vantaggi di questo test sono la facilità d’esecuzione, l’individuazione delle
sostanze causali e l’elevata attendibilità.
Se il test cutaneo non è significativo si può eseguire il PRIST, in cui si dosano le IgE totali
nel sangue, anche se è poco usato dal momento che fornisce informazioni sui livelli totali
di IgE e non sui livelli di IgE specifiche per allergeni, per cui è un test poco informativo.
Proprio in virtù di questo, è preferibile eseguire una ricerca in vitro delle IgE nel sangue
mediante un altro test, che adotta tecniche di immunoenzimatica o
radioimmunologiche e che prende il nome di RAST, che dosa le IgE allergene-
specifiche nel sangue del paziente per una serie di sostanze, dando informazione anche
sulla classe cioè il grado di allergia. Il PRIST e il RAST sono esami di secondo livello.
Nel momento in cui anche questi test siano negativi, la diagnosi di rinopatia vasomotoria
allergica è da escludersi, piuttosto è necessario vagliare l’ipotesi che si tratti di una
rinopatia vasomotoria non allergica.
Esistono diverse forme di rinopatie vasomotorie non allergiche, per la cui diagnosi è utile
eseguire il rinocitogramma (altro esame di secondo livello), nel quale si efettua una
lettura dei vetrini di secreto nasale o di screping della mucosa del turbinato, con
colorazione ematossilina-eosina. La più classica delle forme non allergiche, la NARES
presenta una clinica del tutto simile a quella della rinopatia vasomotoria allergica, con
eosinofilia nella mucosa nasale (al pari della rinopatia vasomotoria allergica) ma a fronte di
una negatività ai test epicutanei per gli allergeni e al RAST.
Il prelievo di muco nel quale non si osservino cellule richiamate dal sangue, per esclusione
ci permette di diagnosticare la terza forma di rinopatia vasomotoria, la rinopatia
vasomotoria neurovegetativa o distonica, il cui reperto fondamentale è la citologia
negativa.
Un ultimo test a disposizione è il test di provocazione nasale, in cui spruzzando l’allergene
nella fossa nasale si stimola direttamente la mucosa; se il paziente è allergico,
evidentemente avrà immediatamente una reazione e confrontando una rinomanometria
eseguita prima della provocazione allergica con una eseguita dopo la provocazione
allergica, si documenta un peggioramento del flusso aereo intra-nasale. Questo è un
esame di terzo livello e difficilmente si arriva a farlo perché con il prick test e la citologia si
ha già diagnosi di certezza nella più parte dei casi.

• CENNI DI TERAPIA
Nelle forme allergiche abbiamo come meccanismo patogenetico la degranulazione dei
mastociti con la liberazione di istamina, che ci suggerisce l’opportunità di poter utilizzare
come terapia gli antistaminici, che legano i recettori dell’istamina bloccando la
sintomatologia. Possono essere utilizzati in monosomministrazione per via orale
(emività intera giornata), oppure si possono usare farmaci che agiscono in maniera topica
sulla congestione della mucosa e l’aumento di volume del turbinato, come il cortisone in
spray per periodi prolungati. Il decongestionante non si usa, salvo per qualche giorno
nella cura della sintomatologia acuta. Sussiste una ulteriore opportunità terapeutica, cioè i
cromoni, utili ma poco efficaci, agiscono nel 40% dei soggetti allergici, andando a
bloccare la degranulazione dei mastociti, prima che la cascata sia innescata. Sono farmaci
vantaggiosi, se hanno effetto, perché usandolo poco prima della pollinosi, il mastocita non
libera istamina e si previene l’insorgenza della sintomatologia. Possono essere usati
anche anticolinergici e antileucotrienici quando c’è già componente asmatica
sovrapposta alla rinopatia vasomotria allergica. Da qualche anno è in commercio uno
spray topico con istamina e cortisone in un’unica somministrazione, senza la necessità di
prendere l’antistaminico per via orale. L’approccio terapeutico passa anche per la
prevenzione cioè l’allontanamento dell’allergene, per esempio se si è allergici all’acaro
della polvere bisogna togliere tappeti, peluches e fare aeare i locali. L’immunoterapia
con il vaccino è un’altra opportunità, che rende il paziente insensibile all’allergene. Viene
somministrato in gocce sublinguali di sostanza antigenica, con una durata circa di 4 anni,
è importante, infatti, la compliance del paziente che non deve interrompere la
somministrazione dell’immunoterapia. Il vaccino antiallergico si può utilizzare nel paziente
allergico ad 1-2 sostanze al massimo, oppure se è un paziente polisensibile si possono
scegliere 1-2 allergeni, in quanto l’associazione di più vaccini si è visto non avere efficacia.
Nelle forme non allergiche si ha sempre liberazione di istamina e ipertrofia dei turbinati,
quindi possono essere utili i cromoni, i corticosteroidi topici e gli antistaminici sistemici o
locali. Cambia, tra il soggetto allergico e non allergico, la posologia e la prognosi; la
rinopatia vasomotoria non allergica può avere delle complicanze, quindi la terapia deve
essere modificata nei dosaggi in base alla sintomatologia e alle caratteristiche del
paziente e non deve essere abbandonata.
Nelle riniti croniche come trattamento si utilizzano presidi differenti nella forma ipertrofica
e in quella atrofica:
1. Rinite cronica ipertrofica:
a) Crenoterapia salsobromoiodica o sulfurea
b) Decongestionanti nasali (abuso causa danno)
c) Decongestione della mucosa dei turbinati
2. Rinite cronica atrofica:
a) Inalazioni salsoiodiche o solforose
b) Pomate topiche epitelio-trofiche
3. Ozena:
a) Lavaggi nasali tiepidi con soluzioni alcaline deboli
b) Sulfamidici in polvere aerosol
c) Terapia con streptomicina
ll trattamento delle riniti infettive invece consiste nella somministrazione di acido
acetilsalicilico, come terapia aspecifica, di decongestionanti nasali come terapia
sintomatica e come terapia eziologica nella somministrazione di antibiotici per quanto
riguarda la rinite infettiva batterica.
Sinusiti

Le sinusiti o rinosinusiti sono delle patologie infiammatorie dei seni paranasali che sono
delle cavità pneumatiche che si trovano in corrispondenza di alcune ossa brevi all’interno
delle quali sono scavate suddette cavità; tali ossa sono il mascellare, l’etmoide, il corpo
del frontale e il corpo dello sfenoide. Dal punto di vista istologico, i seni paranasali sono
rivestiti dalla medesima mucosa che riveste le fosse nasali, per cui sono costituiti da epitelio
respiratorio, espressione con cui istologicamente si intende un epitelio batiprismatico
pseudostratificato costituito da cellule ciliate intervallate da cellule caliciformi mucipare.
I seni paranasali si sviluppano progressivamente e in maniera metacrona, vale a dire in
successione e tra questi il primo a svilupparsi è il seno etmoidale insieme al seno
mascellare, mentre il seno frontale e il seno sfenoidale si sviluppano tardivamente e tra
i due quello che si sviluppa successivamente e completa più tardivamente lo sviluppo è il
seno sfenoidale, che completa la propria formazione intorno ai diciotto anni. Dal punto di
vista pratico questa
SINUSITI
informazione è
ETMOIDO-FRONTO-SFENO-MASCELLARI
estremamente importante da
considerare: clinicamente, le
FES
MF
sinusiti si esprimono come SINUSITI
ETMOIDO-MASCELLARI
delle patologie che
ETMOIDITI ES
determinano, tra le altre
OSTEOMIELITE
manifestazioni, un dolore in F

sede frontale, per cui sulla


base della clinica e dell’età ME

del soggetto che lamenti


questo dolore si può
sospettare quale sia la sede
della sinusite. È chiaro che in
un bambino un dolore frontale non possa riferirsi assolutamente ad una sinusite del seno
sfenoidale, dal momento che, semplicemente, il suo sviluppo non si completa prima dei
diciotto anni. Per questo motivo, conoscere l’età e la successione di sviluppo dei seni è
fondamentale, poiché sulla base dell’età del soggetto che lamenti la manifestazione clinica
è ragionevolmente possibile escludere alcune sedi.
Nel neonato, la presenza di un interessamento dei seni può solo aversi in corrispondenza
dell’etmoide, per cui si possono avere solo delle sinusiti etmoidali, o al più delle osteomieliti
dell’etmoide, mentre successivamente, fino circa ai sei anni di età, per via del fatto che in
questa fase si sia completato lo sviluppo del seno mascellare, le sinusiti possono essere
anche mascellari o etmoido-mascellari. Solo nei soggetti di età superiore ai diciott’anni,
quando si completi lo sviluppo del seno sfenoidale è possibile l’aversi di sinusiti etmoido-
fronto-sfeno-mascellari.
Come anticipato, i seni paranasali sono rivestiti da mucosa respiratoria perfettamente
uguale a quella che si riscontra nel contesto della cavità nasale, per cui anche in questo
caso vengono assolte le funzioni di produzione del muco e di trasporto muco-ciliare ma il
presupposto fondamentale affinché si possa mantenere un ambiente fisiologicamente
normale è che l’ostio di comunicazione tra i seni e la cavità nasale sia pervio, dal
momento che a seguito della produzione di muco nel contesto dei seni si realizza un ciclo
di clearance muco-ciliare.

CICLO SINUSALE NORMALE


La secrezione mucosa è
quali-quantitativamente normale
L’ostio è pervio Le secrezioni fluide
non ristagnano e contengono Ab e IgAs

Assenza di ispessimento
mucosale
Il pH è alcalino

L’infezione batterica
Il metabolismo della
sarà ostacolata nella
cavità sinusale mucosa è normale

Normale deflusso delle


secrezioni del seno Cilia ed epitelio
normostrutturati
Clearance muco-ciliare
rimuove sostanze nocive
in cavità

da Kennedy DW, Passàli D. et al: Sinus Disease, 1994

In condizioni normali le secrezioni paranasali sono fluide e contengono soprattutto IgA


secretorie che assicurano una funzione immunologica, il pH delle cavità dei seni paranasali
è alcalino e il metabolismo è normale. La normalità del metabolismo delle cellule di
rivestimento della mucosa respiratoria paranasale fa sì che l’attività di clearance operata
dalle ciglia sia normale: le secrezioni transitano nel naso e in faringe, quindi non si verifica
un ristagno che è l’espressione di una condizione predisponente alle sovrainfezioni
batteriche che determinano ispessimento della mucosa paranasale, ostruzione dell’ostio di
comunicazione con la cavità nasale e conseguentemente alterano il pH e il metabolismo
delle cellule mucosali; è logico, quindi, aspettarsi che l’alterazione di questi aspetti determini
un ristagno delle secrezioni, una ulteriore proliferazione batterica che esacerbando la flogosi
induce un ulteriore ispessimento della mucosa paranasale, ostruendo ulteriormente l’ostio
tal che si istituisca un vero e proprio circolo vizioso.

• PATOGENESI E FISIOPATOLOGIA DELLE SINUSITI


Considerando quale sia la normale fisiologia della clearance muco-ciliare è chiaro che
qualsiasi condizione a carico del naso che comporti una ostruzione dell’ostio di
comunicazione possa essere alla base dell’insorgenza di una condizione patologica definita
come rinosinusite. Occorre considerare, in realtà, che esistono due differenti meccanismi
patogenetici nel contesto delle sinusiti che corrispondono al cosiddetto meccanismo
rinogeno, nel quale evidentemente la patogenesi è a partenza nasale, e al cosiddetto
meccanismo odontogeno, che corrisponde sostanzialmente ad un meccanismo di
colonizzazione microbica a seguito di un processo infettivo che coinvolge primariamente il
dente e che per estensione per contiguità può essere esclusivamente in grado di
determinare una sinusite del mascellare.

SINUSITE RINOGENA SINUSITE ODONTOGENA


La sinusite odontogena può interessare esclusivamente il seno mascellare ed è l’unica
forma di sinusite che presenta un mantenimento della pervietà dell’ostio di comunicazione
del seno mascellare con la cavità nasale. In tutti gli altri casi, l’ostio di comunicazione è
ostruito parzialmente o totalmente per via di una patologia nasale che comporti edema e
congestione (ad esempio le riniti batteriche possono complicarsi con una sinusite, allo
stesso modo delle rinopatie vasomotorie non allergiche). In questi casi, due sono gli aspetti
fisiopatologici precipui che possano giustificare la patogenesi delle sinusiti rinogene: (1)
compromissione della pervietà dell’ostio e (2) alterazione della clearance muco-
ciliare.
1) COMPROMISSIONE DELL’INTEGRITÀ DELL’OSTIO
Nelle sinusiti rinogene sussiste sempre o una anomalia ostruttiva o una rinopatia di base
che si esprima con edema e congestione nasale, che come tale determina una riduzione
della pervietà dell’ostio di comunicazione tra il seno mascellare e la cavità nasale, il quale
costituisce l’unica via per l’allontanamento delle secrezioni della mucosa dei seni paranasali.
Il complesso ostio-meatale, cioè quel canale che permette accesso al seno paranasale è
un orifizio di comunicazione pari e simmetrico, che è normalmente pervio e ogni accesso
dal naso ad ognuno dei seni paranasali è uguale. L’alterazione dell’integrità del complesso
ostio-meatale è da intendersi come una ostruzione che ne compromette la pervietà,
condizione, questa, che nelle sinusiti rinogene può essere dovuta ad un edema della
mucosa che ispessendosi fa sì che questo ostio del diametro normale di 2.4 mm perda la
propria pervietà.
1. Edema della mucosa nasale:
a) Riniti batteriche
b) Rinopatie vasomotorie
c) Riniti medicamentose (rinite cronica ipertrofica)
2. Traumi:
a) Incidenti stradali
b) Colluttazioni
c) Condizioni barotraumatiche
3. Chiusura meccanica:
a) Corpi estranei
b) Polipi nasali
L’edema della mucosa nasale può conseguire a rinite batteriche, a riniti vasomotorie,
prevalentemente quelle su base non allergica, oppure patologie sistemiche che comportano
danno a carico delle mucose, riniti medicamentose. Differentemente, condizioni
barotraumatiche, traumi facciali e soprattutto traumatismi durante incidenti stradali o
colluttazioni possono comportare una lacerazione con eventuale accumulo di sangue che
predispone alle infezioni e all’ostruzione del complesso ostio-meatale. In altri casi l’ostio è
chiuso meccanicamente da polipi nasali, da deviazione del setto nasale che è di norma
una lamina mediana che divide le due fosse nasali, o da corpi estranei. Dunque, la poliposi
nasale consiste in nient’altro che delle estroflessioni della mucosa per rinopatie vasomotorie
allergiche o aspecifiche (più frequentemente la NARES) che possono occupare le fosse
nasali e l’ostio di comunicazione con i seni paranasali tal che il soggetto non solo non respiri
bene ma per assenza di ventilazione sviluppi anche sinusite. I polipi hanno un aspetto a
colletto e una consistenza gelatinosa. Per i bambini molto pericolosi sono i corpi estranei
nel naso che determinano irritazione della fossa nasale responsabile a propria volta di una
rinorrea mucopurulenta con striatole ematiche.
Nelle rinopatie croniche ipertrofiche si verifica una ipertrofia della porzione mucosale dei
turbinati che comporta chiusura delle fosse nasali per cui anche queste sono da intendersi
come espressione di una possibile causa di insorgenza di ostruzione del complesso ostio-
meatale e nella più parte dei casi le riniti croniche ipertrofiche sono espressione di un danno
determinato cronicamente dai decongestionanti nasali: per questo motivo vengono anche
chiamate riniti croniche ipertrofiche medicamentose. Anche nel caso delle riniti
allergiche si verifica una ipertrofia dei turbinati, per cui quello che è importante considerare
è che quale che sia l’eziologia della rinite, la flogosi determina congestione nasale e questa
a propria volta comporta un ispessimento della mucosa con riduzione della pervietà
dell’ostio. A seguito della riduzione della pervietà dell’ostio, l’aria ristagna, e si verificano
una alterazione del pH e del normale metabolismo della mucosa paranasale, tal che ne
conseguano un aumento della secrezione e una riduzione dell’attività muco-ciliare: il
ristagno delle secrezioni è l’espressione predisponente alla colonizzazione batterica dei
seni paranasali. Per completezza, occorre citare che siano anche possibili, quali condizioni
predisponenti alle sinusiti, delle malformazioni congenite come l’atresia coanale.
L’espressione atresia intende la mancata apertura di un segmento che dovrebbe
normalmente essere pervio e che corrisponde in tal caso alla coana, cioè all’orifizio osseo
che mette in comunicazione ognuna delle due fosse nasali con il rinofaringe: l’atresia
coanale può essere unilaterale o bilaterale. Si tratta di una condizione rara, che si manifesta
fin dall’età neonatale: la mancata comunicazione con il rinofaringe, determina una
ipoventilazione cronica tale per cui l’aria ristagni sia nel naso che nei seni paranasali
predisponendo allo sviluppo di sinusiti.
2) ALTERAZIONE DELLA CLEARANCE CILIARE
Il secondo aspetto della patogenesi delle sinusiti riguarda la presenza di una alterazione
del trasporto e della clearance muco-ciliare che sono gli aspetti di fondamentale importanza
affinché si possa mantenere e assicurare una pervietà dell’ostio di comunicazione con le
cavità nasali. In questo caso, certamente la condizione origina sempre dalla riduzione della
pervietà dell’ostio, per cui le secrezioni ristagnano, il pH diventa acido, il metabolismo
mucosale cambia e come conseguenza ultima le secrezioni si accumulano ulteriormente
determinando una condizione favorente alla proliferazione batterica che incrementa
l’essudazione dell’edema esacerbando la congestione della mucosa: si innesca un circolo
vizioso finché non si riesca a ripristinare una pervietà degli osti.
Quindi, obiettivi terapeutici sono quelli di ripristinare la pervietà determinando un drenaggio
e ripresa della secrezione normale.
3) EZIOLOGIA DELLE SINUSITI
Se la patogenesi delle sinusiti si associa alla presenza di una serie di condizioni che
comportano il venire meno dell’attività di drenaggio delle secrezioni e di trasporto muco-
ciliare, dall’altra sussiste sempre la presenza di una proliferazione batterica, che è favorita
dalla presenza di condizioni legate al ristagno delle secrezioni. In questo contesto, tre sono
i principali agenti eziologici delle sinusiti e la conoscenza di queste potrebbe essere un
elemento di aiuto diagnostico nel contesto della scelta terapeutica: i germi più
frequentemente in causa sono Streptococcus Pneumoniae, Moraxella Catarrhalis e
Haemophilus Influenzae, che nel gergo otorinolaringoiatrico costituiscono il cosiddetto “trio
infernale”.
• CLINICA
Dal punto di vista clinico, esiste una caratteristica e precisa sintomatologia che si associa
alle sinusiti, che prevede:
1. Rinorrea mucopurulenta persistente
2. Scolo retrofaringeo
3. Febbre
4. Tosse diurna o notturna
5. Cefalea
6. Edema periorbitario
7. Alitosi
In presenza di questi elementi clinici è necessario porre il sospetto clinico di una
rinosinusite; la rinorrea mucopurulenta è espressione di un processo infettivo di carattere
batterico che corrisponde ad una perdita di secrezioni dal naso perdurante in tal caso per
più di dieci giorni; la rinorrea si esprime in maniera mucopurulenta dal momento che i germi
che sono responsabili della patologia sono classicamente dei germi piogeni, che
determinano un notevole richiamo di granulociti neutrofili che sostengono l’infiammazione.
Le secrezioni nasali, che si riscontrano nel contesto di queste patologie, tendono a venire
trasportate in corrispondenza del rinofaringe e quindi dell’orofaringe, conseguendovi la
presenza del cosiddetto scolo retrofaringeo. Il paziente frequentemente riferisce una
sensazione di “muco in gola” e con l’abbassalingua all’esame obiettivo si può notare come
questa secrezione densa, mucopurulenta e di colore giallo-verdastro si localizzi a livello del
faringe. La febbre è un sintomo presente, ma comunque si tratta di una febbre con rialzo
termico modesto e si riscontra anche dolore la cui localizzazione cambia in funzione di
quale sia il seno interessato; una sinusite mascellare si esprime mediante un dolore
gravativo a livello della regione zigomatica, nel caso che sia interessato il seno frontale
il dolore è classicamente trafittivo e localizzato a livello della regione sopraccigliare e
della fronte; la sinusite etmoidale si esprime mediante un dolore compressivo o gravativo,
avvertito come un senso di pressione al di dietro dei bulbi oculari; la sinusite sfenoidale
si esprime con un dolore a livello della nuca o a livello del vertice del capo; chiaramente,
quando siano interessati tutti i seni paranasali il dolore si riscontra in tutte le zone prima
descritte. In termini di evoluzione clinica, la sinusite è una patologia che può essere definita
acuta, acuta ricorrente o recidivante e cronica:
1. Sinusite acuta: si definisce sinusite acuta una infiammazione su base infettiva dei
seni paranasali che sia andata incontro a guarigione completa dopo 6-8 settimane
o che si manifesti con meno di quattro episodi per anno.
2. Sinusite acuta ricorrente:
a) > 4 episodi l’anno, con guarigione completa
b) Germi patogeni differenti
3. Sinusite acuta recidivante:
a) > 4 episodi l’anno, con guarigione completa
b) Germe patogeno uguale
4. Sinusite cronica: uno dei due tra
a) > 8 episodi l’anno
b) ≥ 4 episodi l’anno con lesioni iperplastiche

• DIAGNOSI
La diagnosi delle sinusiti si muove fondamentalmente su due obiettivi: il primo è quello di
confermare l’ipotesi diagnostica di sinusite e il secondo è indagare sulla causa che sia stata
alla base dell’insorgenza della patologia. Sicuramente, per larga parte la diagnosi di una
sinusite è clinica e come detto il sospetto clinico deve insorgere ogniqualvolta vi siano
elementi di sospetto come rinorrea mucopurulenta da almeno dieci giorni, scolo faringeo
(che il paziente riferisce con sensazione di “muco in gola”), dolore nelle regioni
caratteristicamente associate alle sinusiti (regione zigomatica per la sinusite mascellare,
regione della fronte per sinusite frontale, regione della nuca o vertice del capo per sinusite
sfenoidale, pressione retrobulbare per sinusite etmoidale), febbricola, edema periorbitario e
tosse notturna o diurna. Tipicamente, l’edema periorbitario è una espressione
caratteristica soprattutto della sinusite etmoidale, essendo tra questi l’etmoide un osso che
è in stretta vicinanza rispetto alla cavità orbitaria, come d’altronde lo è anche l’osso frontale.
In questi casi, l’infiammazione può determinare per contiguità estensione dell’essudazione
soprattutto a livello della palpebra superiore, dove quindi si documenta la presenza di una
tumefazione. Oltre ai sintomi e all’ispezione, con la pressione a livello della regione
zigomatica o frontale si può eventualmente esacerbare il dolore quando questo sia legato
alla presenza di una sinusite del seno mascellare o del seno frontale. Si completa, quindi,
l’esame obiettivo mediante esecuzione della rinoscopia anteriore e dell’endoscopia con
endoscopio rigido o flessibile che consente di osservare direttamente la perdita di pervietà
dell’ostio oppure le secrezioni mucopurulente. In passato, si eseguivano anche indagini
come ad esempio la diafanoscopia o l’RX cranio che in realtà oggi non vengono più utilizzate
e soprattutto l’RX cranio mostra sempre immagini dai limiti non netti, per cui quando non si
riesca con la sola clinica a fare diagnosi di una sinusite, si può utilizzare come supporto
diagnostico la TC che oltre a produrre delle immagini nitide, permette anche di cogliere un
eventuale interessamento dell’osso, quindi di documentare eventuali complicanze ossee.

È chiaro che, una volta confermata la diagnosi di sinusite, se si voglia evitare che questa
insorga nuovamente, bisognerà approfondire la diagnosi eziologica, al fine di intendere
quale sia stata la patologia che ha determinato l’istituirsi delle premesse della sinusite e
quindi trattarla. Si può eseguire un tampone nasale per l’esecuzione dell’esame colturale
e dell’antibiogramma; se con l’endoscopia nasale non si sia trovata alcuna anomalia
strutturale congenita o alcuna formazione poliposica che possa in qualche maniera rendersi
responsabile della ostruzione, si deve pensare che la patologia che abbia determinato un
edema e una congestione della mucosa tali da indurre insorgenza della sinusite per
ostruzione dell’ostio di comunicazione sia una rinopatia su base vasomotoria, che può
eventualmente essere confermata mediante valutazione comparativa di una
rinomanometria prima e dopo introduzione di un decongestionante nasale. Dopodiché,
mediante esami come lo Skin-Prick test, il PRIST e soprattutto il RAST e successivamente
il rinocitogramma, si può avere eventuale conferma del fatto che la patologia alla base sia
una rinopatia vasomotoria allergica, una rinopatia vasomotoria non allergica con eosinofilia
(NARES) oppure una rinopatia vasomotoria distonica (o neurovegetativa).
• TERAPIA
La terapia per le sinusiti può essere sia medica che chirurgica, ma chiaramente il ricorso
all’intervento chirurgico sottostà a delle precise indicazioni e quando queste non sussistano
si esegue la terapia medica.
1) TERAPIA MEDICA
La terapia medica ha come obiettivi quelli di ripristinare la pervietà dell’ostio e restituire
l’attività di clearance muco-ciliare e chiaramente anche quella di debellare l’infezione:
questi sono i tre obiettivi terapeutici che ci si propone con la terapia medica. Al fine di liberare
l’ostio di comunicazione con i seni paranasali, vengono utilizzati farmaci topici e lavaggi
nasali, che consentono la rimozione meccanica delle secrezioni. I lavaggi nasali possono
essere eseguiti mediante spray anche se è più efficace eseguire dei lavaggi a pressione,
utilizzando cioè del liquido isotonico o ipertonico contenuto in una sacca, a propria volta
collegata ad un tubicino (sistema Lavonase®): mediante la fuoriuscita a pressione costante,
il liquido determina rimozione meccanica delle secrezioni. Solo dopo che si sia eseguito il
lavaggio è possibile eseguire la somministrazione di decongestionanti nasali che
mediante la vasocostrizione riducono l’essudazione e favoriscono l’assottigliamento della
mucosa nasale, favorendo la restituzione della pervietà dell’ostio del seno mascellare.
Chiaramente, se il decongestionante spray venisse applicato quando ancora non siano stati
eseguiti i lavaggi nasali, lo strato di muco ne impedirebbe la penetrazione, per cui
l’applicazione dei decongestionanti va eseguita solo dopo esecuzione del lavaggio nasale.
È anche possibile somministrare in tal caso dei cortisonici topici dal momento che sono
farmaci antiedemigeni. Accanto al ripristino della pervietà dell’ostio, è necessaria anche una
somministrazione antibiotica sistemica per debellare l’infezione; come detto in
precedenza, è possibile eseguire dei tamponi per l’esecuzione dell’esame colturale e
dell’antibiogramma che guida la più corretta scelta terapeutica, ma d’altra parte anche sulla
base della conoscenza degli agenti eziologici in causa si può somministrare una terapia
antibiotica empirica, che sia efficace contro gli agenti del cosiddetto trio infernale
(Streptococcus Pneumoniae, Moraxella Catarrhalis e Haemophilus Influenzae); i farmaci
antibiotici più utilizzati sono i chinolonici che tuttavia non possono essere utilizzati nei
bambini, a cui è prescritta somministrazione di penicilline, cefalosporine di III
generazione o macrolidi. Alla terapia antibiotica si associano mucolitici ed eventualmente
cortisonici per via orale in presenza di complicanze che possono essere acute oppure
croniche.
2) TERAPIA CHIRURGICA
La terapia medica è raramente risolutiva per le sinusiti, per cui mediante un monitoraggio
TC in questi casi è possibile stabilire quando sia necessario intervenire chirurgicamente, al
fine di mirare al ripristino della pervietà dell’ostio. In particolare, la sinusite viene trattata
chirurgicamente quando con la sola terapia medica non si riesca a gestire la patologia o
quando sussistano delle complicanze della sinusite stessa.
In passato, l’accesso chirurgico veniva effettuato a cielo aperto, mentre adesso l’intervento
viene effettuato con l’endoscopia a fibre ottiche (FESS, chirurgia endoscopica funzionale
dei seni paranasali che ha funzione solo di aumentare la pervietà dell’ostio). Prima, con
l’intervento di Caldwell Luc si effettuava accesso dal fornice gengivale per determinare
formazione di un secondo ostio ma questo era inutile dal momento che pur in presenza di
un secondo ostio, il drenaggio avviene sempre verso la via di normale scorrimento, cioè
verso l’ostio normale.
Differentemente, oggi, si usano strumenti endoscopici a fibre ottiche introdotti nel naso, in
maniera tale da riuscire con essi a raggiungere i seni e usare anche strumenti che hanno la
funzione di allargare, ripristinando la pervietà di quest’ostio di comunicazione. Questo viene
denominato FESS cioè Functional Endoscopic Sinus Surgery, vale a dire chirurgia
endoscopica dei seni paranasali funzionale, che ha la funzione di allargare l’ostio, ma
permette anche un drenaggio delle secrezioni tramite un ripristino della funzione muco-
ciliare. Questo intervento è molto meno invasivo rispetto all’intervento di “Caldwell-Luc”, il
quale, per raggiungere il seno paranasale, necessitava di accesso tramite il fornice
gengivale. A seguito dell’accesso, si andava ad abbattere la parete anteriore del seno
mascellare per accedervi e creare un ostio aggiuntivo all’interno del seno mascellare.
Questo intervento, però, non era non utile perché il drenaggio delle secrezioni avviene
sempre in un’unica direzione, ovvero quella del trasporto muco-ciliare verso l’ostio naturale,
quindi creare osti accessori favoriva di certo i drenaggi, ma non attraverso la normale via di
scorrimento del muco dovuto al movimento metacronale di queste cellule ciliate. Oggi
questo intervento non viene praticato, infatti la FESS tenta di aprire gli osti già presenti
aumentandone il diametro. Se vediamo che i seni paranasali risultano chiusi perché il
complesso ostio-meatale è chiuso dalla presenza, ad esempio, di una mucosa ispessita,
quello che si può fare è abbattere pareti ossee per permettere una migliore ventilazione e
un migliore drenaggio.
RINOSINUSITI

MASCELLARI ETMOIDO-FRONTALI

CRONICIZZARSI COMPLICARSI
Ovviamente, il motivo dell’intervento tempestivo è legato alle complicanze, dal momento
che la sinusite può complicarsi in maniera acuta con cellulite periorbitaria o edema
palpebrale o con complicanze croniche come un interessamento dell’albero
respiratorio, mediante una sindrome rino-sinuso-bronchiale. Nei bambini, date le
dimensioni molto piccole del seno frontale, una eventuale sinusite di questi può determinare
ben presto una complicanza che è quella dell’osteomielite del frontale. Se l’infezione del
seno frontale si estende in alto si possono avere ascessi frontali o addirittura degli ascessi
nella cavità del neurocranio; a livello oculare, oltre alla cellulite periorbitaria, si può anche
determinare perdita del visus per interessamento dell’etmoide e questo accade soprattutto
nei bambini dove le pareti della cavità orbitaria sono molto sottili i pazienti a rischio di perdita
del visus sono frequentemente soggetti giovani che arrivano di pronto soccorso con
notevole tumefazione e diplopia nonché neurite retrobulbare.
1. Complicanze acute:
a) Cellulite periorbitaria
b) Edema palpebrale (per etmoidite soprattutto)
c) Neurite retrobulbare (etmoidite nei bambini)
d) Osteomielite del frontale (bambini)
e) Ascesso frontale
2. Complicanze croniche:
a) Sindrome rino-sinuso-bronchiale
Epistassi

Con l’espressione di epistassi si intende un sanguinamento nasale, cioè che origina per
fatti emorragici a carico della rete vascolare nasale e si tratta di manifestazioni piuttosto
frequenti dal momento che circa il 60% della popolazione ha sperimentato un
sanguinamento nasale. Le epistassi, quindi, sono delle manifestazioni estremamente
frequenti soprattutto nei soggetti pediatrici e anziani, nei quali si attesta la più gran parte
delle manifestazioni di epistassi.
Dal punto di vista classificativo, esistono differenti criteri mediante i quali sia possibile
inquadrare l’epistassi:
1. Frequenza della manifestazione:
a) Sporadiche
b) Ricorrenti
c) Subcontinue
2. Sede del sanguinamento:
a) Anteriore
b) Posteriore
3. Lateralizzazione:
a) Monolaterali
b) Bilaterali
4. Modalità di sanguinamento:
a) Arterioso
b) Venoso
È opportuno prestare attenzione soprattutto alle cosiddette epistassi monolaterali in soggetti
anziani e soprattutto se associate ad eventuali tumefazioni cervicali che potrebbero celare
la presenza di un carcinoma nasale o del rinofaringe. Il sanguinamento nasale può originare
per emorragia arteriosa o per emorragia venosa e nel primo dei due casi il sangue ha un
colore rosso più acceso e il sanguinamento è più copioso poiché la pressione del sangue
nell’albero arterioso è maggiore di quella dell’albero venoso. Inoltre, il sanguinamento
nasale in base alla sede può definirsi anteriore o posteriore: nel primo caso si assiste alla
presenza di una emissione di sangue dalle narici o dalla singola narice, nel secondo caso,
per il tramite delle coane il sangue raggiunge il rinofaringe e quindi l’orofaringe e
successivamente viene eliminato dal cavo orale (10% dei casi di epistassi).
Dal punto di vista anatomico, il naso è di per sé più predisposto rispetto ad altri organi e
altre sedi ai sanguinamenti, soprattutto dal momento che sussista una elevatissima
vascolarizzazione che è assicurata da una serie di arterie, tra cui l’arteria sfenopalatina e
le arterie etmoidali, anteriore e posteriore. Da queste arterie originano dei capillari che si
anastomizzano ampiamente in alcune aree che sono dei veri e propri loci minoris
resistentiae, come la porzione anteroinferiore del setto, anche nota con il nome eponimo
di locus di Valsalva, il plesso di Kiesselbach e l’area di Little; a questi livelli si riscontra
la presenza di anastomosi tra l’arteria sfenopalatina, l’arteria palatina maggiore e l’arteria
labiale e l’etmoidale anteriore, mentre a livello del plesso di Woodruf si riscontra la
presenza di anastomosi tra l’arteria faringea ascendente e l’arteria sfenopalatina: questi
sono i loci minoris resistentiae del naso da cui può potenzialmente insorgere una
manifestazione emorragica, nota come epistassi.

• CAUSE
L’epistassi è un segno clinico e quindi non è una patologia a sé stante; peraltro è anche
un segno clinico non-univoco, il che significa che quando se ne riscontri la presenza si
aprono diverse ipotesi patogenetiche e diagnostiche che è necessario vagliare al fine di
chiarire quale sia la causa che ne sta alla base; innanzitutto, le cause di epistassi possono
essere bipartite in due grandi gruppi, cioè le cause sistemiche e le cause locoregionali, cioè
che pertengono strettamente a patologie del naso:
1. Cause generali:
a) Patologie dell’emostasi:
i. Piastrinopenie
ii. Piastrinopatie
iii. Coagulopatie congenite o acquisite
b) Disturbi di circolo:
i. Ipertensione arteriosa
ii. Vasculopatia diabetica
c) Vasculopatie:
i. Congenite: teleangectasia ereditaria
ii. Acquisite:
§ Granulomatosi con poliangioite
§ Poliarterite nodosa
d) Ipovitaminosi K
e) Terapia anticoagulante
2. Cause locali:
a) Riniti
b) Rinosinusiti
c) Neoplasie benigne
d) Neoplasie maligne
e) Traumi
f) Barotraumi
g) Fratture
h) Sostanze tossiche:
i. Cocaina
ii. Decongestionanti
i) Sondino naso-gastrico
j) Rottura del setto
k) Perforazione del setto
l) Rottura di aneurismi carotidei
m) Varici del setto nasale
Tra le cause generali, occorre ricordare che frequentemente le patologie dell’emostasi,
soprattutto le piastrinopenie e le piastrinopatie si esprimono mediante dei sanguinamenti a
carico del naso; ricordiamo che si intendono con l’espressione di piastrinopenia i deficit
quantitativi delle piastrine e con l’espressione di piastrinopatia delle alterazioni qualitative
dell’emostasi, che possono essere acquisite oppure congenite, come nel caso della
sindrome di Bernard-Soulier, che consegue a deficit della GPIb, oppure la tromboastenia
di Glanzmann che invece pertiene a deficit congenito della GPIIb/IIIa. Piastrinopenie,
invece, si possono avere per condizioni idiopatiche, oppure per condizioni secondarie a
cirrosi epatica oppure a patologie autoimmuni come il Lupus Eritematoso Sistemico e la
sindrome di Sjögren, nonché a condizioni come le patologie linfoproliferative e
mieloproliferative, soprattutto quando queste colonizzino massivamente il midollo osseo,
determinando come conseguenza una sottrazione di spazio e fattori di crescita (tra le altre)
alle colonie megacarioblastiche.
Tra le cause sistemiche di possibile sanguinamento vi è una condizione estremamente
frequente che è l’ipertensione arteriosa, una alterazione emodinamica che consegue
caratteristicamente ad un rialzo pressorio. Ancorché la vasculopatia ipertensiva sia
effettivamente una condizione che predispone all’insorgenza di epistassi, i rialzi pressori
talora modesti non sempre si associano alla presenza di una epistassi, mentre le crisi
ipertensive massive sono spesso condizioni che predispongono alla rottura dei vasi nasali.
Da questa correlazione ne viene che ogniqualvolta un soggetto adulto lamenti epistassi,
specie se bilaterale, va misurata la pressione arteriosa. Inoltre, data la elevata possibilità
che siano alterazioni emostatiche coinvolte nell’epistassi, nel caso della presenza di
epistassi recidivanti va indagata la funzionalità coagulativa sia nell’adulto che nel bambino
perché nel bambino per quanto nella maggior parte dei casi il sanguinamento avvenga per
immaturità dei capillari vanno sospettati eventuali deficit di fattore VII ma soprattutto di VIII
o IX (emofilia A ed emofilia B).
Le cause locali possono essere diverse e soprattutto quando l’epistassi insorga in soggetti
ultracinquantenni e soprattutto quando sia monolaterale occorre sospettare che possa
trattarsi di una patologia neoplastica del rinofaringe o della mucosa nasale. Tra le possibili
cause di sanguinamento nasale vi è anche una patologia sistemica con precipuo
interessamento delle alte vie respiratorie che è la granulomatosi con poliangioite, altresì
nota con il nome eponimo di granulomatosi di Wegener, patologia granulomatosa ad
espressione vasculitica che colpisce i piccoli vasi e si associa caratteristicamente ad una
positività ad alcuni autoanticorpi, indicati con l’acronimo di ANCA. Altre cause locali di
epistassi possono essere le patologie infiammatorie del naso, oppure la permanenza
prolungata del sondino naso-gastrico. Le perforazioni del setto nasale sono una delle
possibili cause traumatiche che stanno alla base delle epistassi; il setto nasale è rivestito
da una mucosa molto poco resistente ed estremamente sensibile ai traumi, motivo per cui
le lacerazioni della cartilagine del setto possono determinare anche lesioni a carico della
parete vascolare determinando come conseguenza una epistassi. Tra le cause tossiche di
insorgenza di una epistassi vi è l’abuso di cocaina, che è una sostanza dall’intensa attività
di vasocostrizione, la quale determinando una riduzione del calibro vascolare induce
tipicamente insorgenza di una riduzione della perfusione che genera ischemia e quindi
necrosi della mucosa, con lacerazione dei vasi e possibile sanguinamento. Le medesime
lesioni perforanti derivate dall’inalazione a livello nasale, si possono osservare anche in
corrispondenza del palato duro, che probabilmente è la sede più tipica della necrosi da
cocaina.

• TELEANGECTASIA EMORRAGICA EREDITARIA


Si intende con l’espressione di teleangectasia emorragica ereditaria una vasculopatia
congenita che si esprime clinicamente mediante dei sanguinamenti anche ma non solo a
livello nasale. Questa vasculopatia ereditaria viene chiamata teleangectasia poiché a fronte
di alcune mutazioni geniche ereditarie si verifica una dilatazione dei vasi ematici
terminali, quindi soprattutto i vasi arteriosi precapillari, le venule e i capillari che rendono
estremamente labili questi vasi predisponendone al sanguinamento che non solo si osserva
a livello nasale ma anche in altre sedi. Evidentemente, il fatto che sia una patologia
ereditaria presuppone che l’anamnesi familiare del paziente sia positiva per queste
manifestazioni patologiche.
1) EZIOPATOGENESI
Possiamo dire che esistano differenti geni che possono in qualche maniera essere associati
ad una teleangectasia emorragica ereditaria:
1. Gene ENG:
a) Cromosoma 9
b) Endoglina binding transforming growth factor β
c) Fenotipo I
2. Gene SMAD4:
a) Cromosoma 18
b) HHT e poliposi adenomatosa giovanile
3. Gene ALK1:
a) Cromosoma 12
b) Activing receptor-Like Kinase
c) Fenotipo II
4. Cromosoma 5:
a) Gene sconosciuto
b) Fenotipo III
5. Cromosoma 7
a) Gene sconosciuto
b) Fenotipo IV
Quindi, esistono differenti mutazioni geniche che sono associate alla presenza di questa
patologia; possiamo dire che a fronte della manifestazione clinica di base medesima, cioè
la dilatazione dei vasi ematici e lo sfiancamento di parete che ne induce rottura e
sanguinamento, sussistano eziologie differenti e fenotipi clinici di malattia tra loro differenti;
tra questi estremamente interessante è la teleangectasia emorragica ereditaria associata a
mutazione del gene SMAD4 che è un gene coinvolto nella cosiddetta progressione
adenoma-carcinoma, cioè un percorso di oncogenesi del colon, che trova come propria
possibile condizione predisponente una sindrome poliposica ereditaria, che può conseguire,
tra le altre possibili cause, anche a mutazione del gene SMAD4.
2) MANIFESTAZIONI CLINICHE
Si tratta di una patologia piuttosto seria e grave, che oltre a presentare delle teleangectasie
in corrispondenza della mucosa nasale e orale, spesso si associa anche alla presenza di
alcune caratteristiche malformazioni arterovenose polmonari e cerebrali, che si
documentano mediante esecuzione di una Risonanza Magnetica Cerebrale o toracica. I
soggetti con questa patologia spesso presentano sanguinamenti a carico di diversi organi,
soprattutto a livello del naso dove le epistassi sono molto violente e ne consegue molto
spesso l’insorgenza di una anemia sideropenica che classicamente si definisce
microcitica, associata a iposideremia, riduzione della saturazione della transferrina e
aumento della TIBC e dei recettori solubili della transferrina. Il fatto che questi soggetti
presentino una intensa perdita ematica, spesso li costringe alla terapia marziale con ferro
e/o a trasfusioni addirittura con cadenza settimanale.
3) DIAGNOSI
La teleangectasia ereditaria emorragica è una patologia che va sospettata in soggetti con
sanguinamenti, tra cui soprattutto epistassi, di violenta entità, che insorgono
caratteristicamente intorno ai vent’anni con anamnesi familiare positiva per
sanguinamenti di varia sede, tra cui anche il naso. Per la diagnosi, si prendono in
considerazione i cosiddetti criteri di Caraçao:
1. Epistassi:
a) Ricorrenti
b) Spontanee
2. Teleangectasie:
a) Nasali
b) Orali
c) Labiali
d) Ai polpastrelli
3. Malformazioni arterovenose:
a) Cerebrali
b) Polmonari
c) Epatiche
d) Gastrointestinali
4. Anamnesi familiare positiva
La diagnosi di teleangectasia emorragica ereditaria si dice certa in presenza di tre criteri,
mentre si definisce probabile in presenza di due di questi criteri.
La teleangectasia emorragica ereditaria è una patologia piuttosto seria dal momento che in
considerazione della presenza di una predisposizione emorragica, il soggetto può
sviluppare emorragie cerebrali, insufficienza respiratoria o emorragie epatiche e
gastrointestinali. La terapia otorinolaringoiatrica per le teleangectasie si occupa
sostanzialmente dell’arresto delle epistassi ed è quella con laser il cui vantaggio è quello di
coagulare direttamente la teleangectasia senza alterare il naso.

• APPROCCIO TERAPEUTICO ALLE EPISTASSI


L’epistassi, per l’urgenza del momento, richiede un approccio che sia tempestivo e che deve
osservare alcune regole semplici che tuttavia nello scenario comune non sono molto
conosciute e questo rappresenta evidentemente una problematica soprattutto dal momento
che spesso non è il personale sanitario che per primo approccia il paziente con epistassi. Il
primo accorgimento che va preso è quello di non mettere mai la testa del paziente in
estensione, per due motivi: (1) il sangue tende a refluire nel rinofaringe e nell’orofaringe
potendo essere deglutito o peggio (2) inalato conseguendovi all’inalazione una polmonite
ab ingestis. La testa deve essere chinata in avanti, in maniera tale che il sangue defluisca
anteriormente, se il sanguinamento è abbondante e il paziente tende a collassare lo si pone
su un fianco e si prende un accesso venoso.
Il trattamento sintomatico si fa innanzitutto con la digitopressione, una manovra che
consiste nello schiacciare tra le due dita le ali del naso in maniera tale da far collabire le
pareti del vaso; mediante questa manovra, se non molto abbondante, il sanguinamento si
riesce ad arrestare e quindi si può procedere con la detersione della fossa nasale per poter
individuare poi la sede del sanguinamento. Molto spesso, al fine di arrestare il
sanguinamento, ci si vale dell’aiuto del ghiaccio o di altre sostanze fredde che vanno messe
sul naso e con queste si può eseguire la manovra di schiacciamento dal momento che il
freddo determina vasocostrizione. Si può eseguire un trattamento di vasoprotezione per via
generale e soprattutto si possono utilizzare tamponi che devono occupare completamente
la fossa nasale e che possono essere imbibiti di acido tramexanico che può anche essere
utilizzato per via generale. Non è consigliato il cotone emostatico che tende a sfilacciarsi
creando un miscuglio con il sangue. è preferibile utilizzare dell’ovatta. Questa manovra di
immissione di un tampone viene definita tamponamento nasale anteriore ed è indicata
quando non si riesca ad individuare la sede del sanguinamento o nel caso di sanguinamenti
in atto.
Lì dove questo sistema di tamponamento anteriore non sia efficace, si esegue un
tamponamento nasale di pronto soccorso con Merocell®, che è una spugna che si gonfia
a contatto con il sangue e che viene prima imbibita con l’acido tramexanico e cosparsa di
antibiotico. Solitamente, il Merocell® si tende a non utilizzarlo nei pazienti con
teleangectasia emorragica ereditaria per via del possibile traumatismo generato dalla
rimozione; si preferisce utilizzare per questi pazienti delle garze grasse imbibite di vaselina.
Questo è tampone che si fa per sanguinamento anteriore, viene tenuto in sede per quattro
giorni, dopodiché potendo dare reazione da corpo estraneo deve essere rimosso. Un altro
tampone è il Quick-Pack™, cioè un dispositivo dotato di un palloncino gonfiabile ad acqua
o ad aria che si inserisce in cavità nasale e si gonfia, ma per via del decubito sull’ala nasale
spesso risulta doloroso e quindi scarsamente tollerato dal paziente.
Nel 10% dei casi si hanno epistassi posteriori e chiaramente in questo caso l’approccio
cambia, dal momento che si utilizzano tamponi a doppio pallone di cui uno ostruisce
anteriormente e l’altro posteriormente.

Il tamponamento anteroposteriore va tenuto in sede al massimo per tre giorni poiché


ostruisce il rinofaringe e anche la tuba di Eustachio tal che si abbia una interruzione della
ventilazione dell’orecchio medio che può predisporre ad otiti medie. In questo caso si toglie
prima il tampone posteriore e solo dopo quello anteriore.
Queste manovre (tamponamento nasale anteriore, Merocell®, Quick-Pack™ e
tamponamento anteroposteriore) sono espressione di un blocco sintomatico dell’epistassi
ma se si vuole intervenire per risolvere la causa si eseguono altri interventi, quali ad esempio
la coagulazione con causticazione chimica a base di nitrato di argento che oggi non
viene più effettuata poiché sostituita dalla causticazione elettrica che non crea danni alla
mucosa circostante. Tale trattamento è indicato per le varici settali, che sono una delle
possibili cause di sanguinamento nasale.
Altre volte il danno è a carico dei vasi di più grosso calibro, per cui la causticazione elettrica
non è un presidio efficace, per cui per i vasi di grosso calibro, sede e causa di epistassi, è
indicata l’esecuzione di una embolizzazione selettiva, che viene effettuata sulle arterie
come la sfenopalatina e le etmoidali anteriore e posteriore. L’embolizzazione selettiva è
una tecnica che viene utilizzata d’urgenza nei casi in cui il tamponamento non sia efficace
ed è utile per individuare la sede del sanguinamento nasale. Pur tuttavia, essendo il naso
molto vascolarizzato, già dopo ventiquattrore si formano nuovi vasi e nuove anastomosi per
cui ha funzione di emergenza ma non è totalmente curativa. Oltre che per arrestare un
sanguinamento qualora non siano efficaci le manovre di tamponamento, l’embolizzazione
selettiva può essere utile nel contesto di masse tumorali riccamente vascolarizzate; in
questi casi l’embolizzazione eseguita prima dell’intervento, circa dodici ore prima al fine di
evitare il sanguinamento intraoperatorio per rimozione del tumore, può essere utile al fine
di indurre una parziale necrosi vascolare del tumore.
La legatura chirurgica è una tecnica utilizzata quando tutte le altre non siano efficaci ed è
indicata soprattutto per vasi di grosso calibro, come possono esserlo l’arteria
sfenopalatina, l’arteria etmoidale anteriore o quella posteriore, oppure l’arteria
mascellare.
Tumefazioni cervicali

Con l’espressione di tumefazione cervicale si intende una lesione occupante spazio del
collo che si esprime mediante la presenza di un gonfiore che compare più o meno
improvvisamente e che è apprezzabile alla palpazione del collo. Occorre considerare che
sussiste spesso una problematica di approccio diagnostico e terapeutico al problema della
tumefazione cervicale che comporta poi delle complicanze poiché a fronte dell’errore di
approccio diagnostico la patologia che stia alla base della tumefazione cervicale può
venire misconosciuta e quando lo faccia è possibile anche che venga compromessa la vita
del paziente. Per questo motivo, l’approccio alle tumefazioni cervicali deve essere
strettamente rigoroso, anche perché a fronte di una tumefazione cervicale si aprono
diverse ipotesi patogenetiche e diagnostiche che sono importanti da tenere in
considerazione: le tumefazioni cervicali sono delle lesioni occupanti spazio che meritano
un approfondimento diagnostico specialistico di tipo otorinolaringoiatrico.
1) CLASSIFICAZIONE DELLE TUMEFAZIONI CERVICALI
Per quanto riguarda il discorso legato alla situazione in questione, innanzitutto, per le
tumefazioni cervicali sussiste una classificazione clinico-pratica, che le suddivide in
tumefazioni anteriori e tumefazioni laterali in considerazione della sede in cui queste si
trovino. Le tumefazioni anteriori sono molto spesso in sede grosso modo mediana e si
suddividono ulteriormente in tumefazioni sopraioidee e sottoioidee adottando come
punto di riferimento l’osso ioide che si trova a livello della terza vertebra cervicale. Le
tumefazioni cervicali possono interessare tutte le età e proprio in considerazione della
possibile età di insorgenza e della sede in cui queste insorgano è possibile considerare
alcune ipotesi diagnostiche che siano più o meno probabili rispetto ad altre; ad esempio le
tumefazioni mediane in età neonatale o pediatrica sono frequentemente delle cisti del
dotto tireoglosso, cioè che derivano dalla persistenza di alcuni residui del dotto tireoglosso
che si organizzano a formare dei follicoli tiroidei che aumentano di dimensione man mano
si depositi la colloide al loro interno. Differentemente, è probabile che una tumefazione
cervicale indolente e lateralizzata nel soggetto di età ultraquarantenne abbia una eziologia
neoplastica. Quindi, accanto al criterio di classificazione topografica, le tumefazioni
cervicali vengono anche suddivise in base all’eziologia, che può essere di tre distinte
qualità:
1. Congenita:
a) Cisti mediane del collo
b) Cisti laterali del collo
Sono lezioni occupanti spazio cavitate che conseguono alla persistenza di
residui embrionali che nel primo caso sono rappresentati dalle cellule del dotto
tireoglosso e nel secondo caso dagli archi branchiali o faringei.
2. Infiammatoria:
a) Infettiva: tra le quali ad esempio
i. Mononucleosi infettiva
ii. Toxoplasmosi (linfadenite di Piringer-Kuchinka)
iii. Citomegalovirus
iv. Malattia da graffio del gatto
b) Non-infettiva
3. Neoplastica:
a) Tumori maligni:
i. Carcinoma nasale
ii. Carcinoma faringeo
iii. Carcinoma laringeo
iv. Carcinoma delle ghiandole salivari
v. Carcinoma della tiroide
vi. Linfomi
b) Tumori benigni:
i. Lipoma
ii. Emangioma
iii. Paraganglioma
iv. Neurofibroma
v. Schwannoma
vi. Noduli tiroidei benigni
Sicuramente, i tumori della regione testa-collo più frequenti sono i carcinomi
epidermoidali della laringe, ancorché non vada trascurata la possibilità di riscontrare
anche tumori delle ghiandole salivari maggiori, particolarmente le ghiandole
sottomandibolare e parotide, le quali danno delle tumefazioni che sono ben definite dal
punto di vista topografico. Dal punto di vista clinico, possono dare una crescita molto
rapida con fissurazione della cute e addirittura delle paralisi, come la paralisi del nervo
facciale nelle neoplasie maligne della parotide per infiltrazione del nervo, dal momento che
il tratto extracranico del nervo facciale decorre nel contesto del parenchima della parotide.
Occorre considerare che la più parte dei tumori della parotide, che sono comunque rari,
origina dall’epitelio ghiandolare, per cui quando maligni questi prendono il nome di
adenocarcinomi. Pur tuttavia, soprattutto nei soggetti che siano affetti dalla sindrome di
Sjögren sussiste un aumentato rischio di insorgenza di tumori di origine linfoide che
conseguono all’accasamento linfocitario e all’espansione monoclonale della popolazione
linfocitaria, tal che nel 7% dei soggetti con Sjögren sussista l’insorgenza di un linfoma che
nei casi meno sfortunati è un linfoma a cellule marginali del MALT, mentre nei casi più
sfortunati ma anche più rari è un linfoma diffuso a grandi cellule B.
Possiamo avere anche tumefazioni che rientrano nel contesto dei tumori benigni dei
tessuti molli, cioè tumori di origine mesenchimali, a carico dei grossi vasi, del tessuto
adiposo cervicale (=lipomi, che sono masse dalla consistenza molle e sfuggenti alla
palpazione), o tumori neurali come una schwannoma vagale, che è un tumore benigno
delle guaine dei nervi periferici. Tra le patologie a carico dei grossi vasi, possiamo
annoverare tumori vascolari che insorgono in giovane età come un linfangioma, o un
emangioma; gli emangiomi, in genere, tendono a scomparire con la crescita,
generalmente attraversando una prima fase di accrescimento che dura al massimo per un
anno. Dopodiché tendono a rallentare e a regredire progressivamente entro il quarto, il
sesto o nei casi con regressione più lenta il decimo anno di vita. Meno importanti, dal
punto di vista prognostico, sono le cisti, che spesso si manifestano quando incorrono in
fenomeni suppurativi. Possono riscontrarsi, nel contesto delle lesioni a contenuto liquido e
cavitate le cosiddette cisti branchiali, in soggetti più giovani, messe in evidenza da
risonanza, che conseguono a mancata regressione degli archi faringei. Queste sono
sottoposte a trattamento chirurgico di asportazione.
Per quanto riguarda le cisti mediane del collo, queste conseguono ad anomalia di
regressione del dotto tireoglosso. Dall’embriologia è noto che la tiroide origini da un foro,
che prende il nome di forame cieco, al limite tra il corpo e la radice della lingua, da cui
origina un cordone cellulare, che migra in senso supero-inferiore fino a raggiungere la
sede definitiva della tiroide, per divenire progressivamente cavitato e dotato di un lume
durante questa migrazione dalla base della lingua in basso; la migrazione in fase
embriologica residua un dotto che nella maggior parte dei casi si atrofizza, ma a volte può
dare tumefazioni con cisti o addirittura delle fistole (le cosiddette fistole mediane del collo).
Spesso, una cisti del dotto tireoglosso (=cisti mediana del collo) dà contezza di sé solo
quando vada incontro a fenomeni suppurativi. Il problema di queste cisti è che sono di
competenza otorinolaringoiatrica, anche se spesso banalmente si permette l’asportazione
anche da non specialisti, mentre il trattamento più idoneo, per non incorrere in recidive,
deve essere sicuramente l’asportazione della cisti, ma anche di asportazione di tutte le
strutture inerenti alla via di discesa, cioè al dotto che va a contornare la parte mediana
dell’osso ioide e finisce nel forame cieco. Quindi, va asportata tutta questa strada,
altrimenti il paziente andrà incontro a recidiva. È un intervento un po’ più ampio rispetto
all’asportazione di una banale cisti.
Molto spesso il primo errore nel contesto di una tumefazione cervicale consiste nella
prescrizione dell’esame di imaging, ecografia o TC che possono anche non portare ad
alcun risultato se non vengano richiesti con criterio e chiaramente il criterio con cui
richiedere questi esami è assolutamente associato alla clinica: spesso il soggetto presenta
dei sintomi di cui alle volte può non avere consapevolezza, poiché magari si tratta di alcuni
sintomi blandi oppure, semplicemente poiché egli non li ritenga importanti non li riferisce al
medico, per cui è necessario innanzitutto eseguire una corretta e scrupolosa anamnesi, al
fine di chiarire se il soggetto presenti sintomi associati alla tumefazione cervicale come ad
esempio problemi respiratori, problemi deglutitori, problemi fonatori o ancora
problemi di ipoacusia, dal momento che non è infrequente che un tumore della tonsilla
palatina o del rinofaringe esordisca mediante una ipoacusia trasmissiva monolaterale che
consegue al ristagno delle secrezioni sieromucose dal momento che la lesione occupante
spazio magari occupa l’ostio della tuba di Eustachio impedendo che si possa avere una
corretta ventilazione dell’orecchio medio. Ad esempio, un carcinoma rinofaringeo può
esprimersi ed esordire mediante una ipoacusia trasmissiva monolaterale ma anche con
epistassi, che sono due manifestazioni cliniche che farebbero pensare a malattie
assolutamente non accomunabili; ad esempio, un carcinoma laringeo può esprimersi
mediante una dispnea ostruttiva laringea, mediante una disfonia ma anche mediante
disfagia, anche se apparentemente la funzione deglutitoria non ha nulla a che vedere con
la laringe, ma per il semplice fatto che la laringe si trovi al davanti dell’esofago cervicale,
una neoplasia laringea della regione sopraglottica, soprattutto, potendo comprimere
sull’esofago può determinare insorgenza di una disfagia prevalentemente per i cibi solidi.
All’iniziale valutazione dei sintomi locoregionali si associa la valutazione dei sintomi
sistemici e costituzionali, come febbre, astenia ed eventuale perdita di peso. Un altro
criterio importante da considerare è il criterio anagrafico, dal momento che la maggior
parte delle tumefazioni in età pediatrica e giovane-adulta è benigna, ma al di sopra dei 40
anni, nell’80% dei casi, le tumefazioni cervicali sono delle patologie neoplastiche, e molte
volte di tipo neoplastico maligno.
2) TUMEFAZIONI LINFONODALI
Estremamente importanti nel contesto delle tumefazioni cervicali sono quelle definite come
tumefazioni linfonodali, che possono avere eziologia infettiva o neoplastica, soprattutto e
questo è un aspetto estremamente importante da considerare anche perché nella più gran
parte dei casi sussistono delle differenze in termini di presentazione clinica della massa
linfonodale. Infatti, i linfonodi che siano interessati da una linfadenopatia reattiva sono
innanzitutto considerabili come delle tumefazioni secondarie ad una patologia infettiva
del distretto testa-collo e si presentano classicamente di consistenza normale o ridotta,
spesso molle per via della colliquazione linfonodale determinata dalla flogosi, e soprattutto
sono frequentemente dolenti alla palpazione: tra le principali cause di insorgenza di una
linfadenopatia reattiva dei linfonodi laterocervicali si riscontra la mononucleosi infettiva,
che è una patologia infettiva ad eziologia virale, dovuta ad infezione da Epstein-Barr virus,
che si associa alla presenza di una faringodinia per via dell’infiammazione
faringotonsillare, a linfoadenomegalia dolente, febbre elevata e splenomegalia, con
aumento di volume del fegato nel 10% dei casi. Ancora, un’altra possibile causa di
insorgenza di una tumefazione linfonodale è la toxoplasmosi, una patologia infettiva su
base protozoaria determinata dall’infezione da parte di un parassita, il Toxoplasma Gondii,
che è un particolare protozoo che determina delle infezioni asintomatiche nei soggetti
normoergici ed immunocompetenti, nei quali, tuttavia, prima di entrare in una fase di
quiescenza il protozoo può determinare una manifestazione laterocervicale con una
linfadenopatia che prende il nome di linfadenite di Piringer-Kuchinka; anche il virus
dell’HIV può determinare insorgenza di linfadenopatie cervicali. Diversamente dalle
eventuali linfadenopatie cervicali reattive a patologie flogistiche, le linfoadenomegalie
tumorali sono frequentemente indolenti e in tal caso è di estrema importanza distinguere
sul piano concettuale la presenza di linfoadenomegalie tumorali primitive, cioè che
conseguono alla presenza di una neoplasia della linea linfoide, come può esserlo sia un
linfoma di Hodgkin che un linfoma non-Hodgkin, e linfoadenomegalie tumorali
secondarie cioè che conseguono ad estensione locoregionale di neoplasie a partenza
epiteliale dall’epitelio del cavo orale, del faringe o della laringe. Alle volte, soprattutto nelle
regioni più anfrattuose del distretto testa-collo, come il rinofaringe, la principale
manifestazione clinica evidente della patologia neoplastica è proprio la tumefazione
linfonodale secondaria, che appare come una linfoadenomegalia non dolente, con
aumento di consistenza del linfonodo e spesso anche riduzione della mobilità. Questi
elementi sono importanti da considerare e soprattutto, dal momento che le metastasi
linfonodali sono molto più frequenti dei tumori primitivi del linfonodo occorre sempre e
comunque sospettare che una linfoadenomegalia non dolente, asimmetrica, con linfonodo
di consistenza aumentata possa essere piuttosto una neoplasia secondaria del linfonodo,
spia clinica di un tumore primitivamente originatosi in altra sede. Quindi, è di estrema
importanza considerare sempre l’evenienza che una tumefazione linfonodale possa
essere secondaria e non necessariamente primaria, poiché se si considerasse solo la
seconda possibilità si correrebbe il rischio di misconoscimento della lesione primaria,
soprattutto nelle sedi anfrattuose del distretto testa-collo, quelle clinicamente più silenti e
compiacenti alla crescita tumorale. Addirittura, esiste una particolare linfoadenomegalia
che è da considerarsi assolutamente come una metastasi a distanza a livello del
linfonodo di Virchow, che è un linfonodo sopraclaveare sinistro che si associa alla
presenza di una tumefazione non-dolente e dura (=segno di Troiser) da metastasi di
carcinoma gastrico, particolarmente da una variante del carcinoma dello stomaco che è
il carcinoma castoniforme o diffuso. Inoltre, sono diversi i casi nella letteratura scientifica
che associano la presenza di una linfoadenomegalia non dolente a metastasi di tumori
germinali del testicolo, oppure a carcinomi del polmone. Il concetto di estrema importanza
da ricordare sempre nella pratica clinica delle tumefazioni cervicali è che una tumefazione
linfonodale specie se sospetta per neoplasia va sempre considerata di dubbia
provenienza, in altre parole non ci sono elementi che possano permettere di escludere
aprioristicamente che si tratti di una lesione secondaria a neoplasia insorta in altra sede,
per cui occorre vagliare l’ipotesi di un tumore che sia insorto in altra sede nel distretto
testa-collo, procedendo chiaramente con un certo ordine che è definito dalla conoscenza
dei distretti di drenaggio delle stazioni linfonodali del distretto testa-collo:
1. Linfonodi sottomandibolari:
a) Cavo orale
2. Linfonodi giugulari superiori e medi:
a) Ipofaringe
b) Laringe
3. Linfonodi sopraclaveari:
a) Polmone
b) Stomaco
4. Linfonodi scaleni/spinali:
a) Rinofaringe
Solo una volta considerate le diverse ipotesi e cioè che la tumefazione linfonodale possa
essere primitiva o secondaria e che in quest’ultimo caso possa conseguire a metastasi dal
tumore della sede che la stazione linfonodale dreni è possibile procedere con indagini di
imaging diagnostico.
3) APPROCCIO DIAGNOSTICO ALLE TUMEFAZIONI CERVICALI
Il primo step nel contesto della valutazione della tumefazione cervicale è quello della
valutazione dei sintomi associati, dopodiché con l’ispezione si valuta la sede, dal
momento che questa, anche in relazione all’età del paziente può fornire utili informazioni
preliminari, come ad esempio la presenza di una massa laterale non dolente in soggetto
ultracinquantenne che è fortemente sospetta per neoplasia. In tal caso, anche la
palpazione fornisce informazioni importanti circa la natura della massa: le tumefazioni
infiammatorie in genere sono dolenti, differentemente dalle tumefazioni neoplastiche che
di rado (o mai) lo sono, che hanno una consistenza aumentata e spesso sono poco mobili.
Quindi, si procede con anamnesi di tipo otorinolaringoiatrico, ispezione e palpazione,
dunque con endoscopia delle prime vie aeree e digestive, eventuale imaging. Tutti questi
dati ci danno tutte le informazioni che è necessario possedere per poter iniziare a porre
una diagnosi della tumefazione prima di sottoporla a trattamento.
Una volta eseguita l’eventuale anamnesi e l’esame obiettivo con annessa endoscopia
delle alte vie aero-digestive, laddove alcuni criteri diagnostici non siano ancora del tutto
chiari, si può effettuare un agoaspirato, per l’esame citologico che permette di
considerare l’eventuale presenza di anomalie citologiche che possano essere utili per
intendere l’eventuale eziologia neoplastica o meno della malattia e questo torna utile ad
esempio per l’eventuale presenza di tumefazioni della ghiandola parotide al fine di
intenderne l’eziologia se neoplastica o meno. L’agoaspirato è anche importante nella
diagnostica della patologia tiroidea, in cui l’agoaspirato assume una importanza tale che
esiste addirittura un sistema di gradazione del referto che è il sistema TIR.
Per quanto riguarda l’imaging, l’ecografia è un ottimo esame di primo approccio, dal
momento che è facilmente eseguibile, di facile accesso sul territorio, a basso costo ed è
molto informativo soprattutto nella necessità di eseguire una diagnosi differenziale
strumentale tra una tumefazione cistica o una tumefazione solida. L’ecografia è anche
una metodica abbastanza standardizzata ed informativa a livello delle ghiandole salivari
maggiori, oltre che della tiroide. Si può, quindi, ricorrere anche all’esecuzione di indagini
strumentali più sensibili e specifiche dell’ecografia come ad esempio possono essere la
TC, la RMN oppure la scintigrafia, quest’ultima ad esempio torna utile nella diagnostica
differenziale delle tumefazioni della tiroide o delle ghiandole paratiroidee.
Nel soggetto adulto, l’intero percorso diagnostico di una tumefazione cervicale deve
sempre essere volto alla ricerca ed eventualmente all’esclusione di una patologia
neoplastica: i dati epidemiologici indicano che il 12% delle tumefazioni cervicali
asimmetriche senza altro sintomo associato siano di origine neoplastica e di tutte queste, i
carcinomi squamosi sono ben l’80%.
Nel qual caso con l’anamnesi, l’esame obiettivo, l’endoscopia e l’imaging strumentale non
si riesca ad arrivare ad alcuna diagnosi, è possibile, come ultimo tentativo procedurale,
programmare una esplorativa chirurgica, che è un intervento diagnostico e
potenzialmente curativo allorché si riesca ad individuare ed asportare la tumefazione, ma
chiaramente si tratta di una procedura invasiva, che come tale deve essere assolutamente
programmata per tempo, valutando i vantaggi e gli svantaggi della procedura. La
cervicotomia esplorativa consente eventualmente di individuare una tumefazione che
deve essere asportata e inviata al patologo per la diagnosi di certezza che in questo caso
è francamente anatomopatologica. Una volta asportata la massa, il successivo protocollo
di azione varia in funzione della diagnosi definitiva: nei soggetti in cui la tumefazione sia
un linfoma, la gestione del paziente e le successive terapie sono demandate
all’oncoematologo, nel caso di alcuni adenocarcinomi il percorso termina con la
radicalizzazione dei margini di asportazione della massa, mentre in altri casi è necessario
approfondire ulteriormente. Non è infrequente che si riscontri la presenza di metastasi
linfonodali carcinomatose in presenza di imaging ed endoscopia silenti: nel caso che non
si riesca ad individuare la sede primitiva di insorgenza del tumore si parla di carcinoma
occulto e in tal caso tutti gli sforzi diagnostici devono essere assolutamente indirizzati ad
individuare la sede primitiva di insorgenza del tumore.
In questi casi è imperativo, dopo aver eseguito l’accesso chirurgico cervicotomico e aver
avuto questa diagnosi istologica intraoperatoria, fare una mac dissection. Per questo noi
parliamo di cervicotomia esplorativa: non bisogna limitarsi a prendere la tumefazione e
farla esaminare, ma addirittura, in qualche caso, il paziente deve essere edotto sulla
possibilità che sia possibile trovare la metastasi laterocervicale. Si effettua lo
svuotamento del collo e c’è un determinato protocollo clinico-terapeutico per questi
pazienti. Se andassimo a chiudere in questo caso il paziente, favoriremmo la
disseminazione neoplastica e la sua prognosi potrebbe peggiorare. Anche per questo
fatto, la tumefazione cervicale è una condizione patologia di pertinenza
otorinolaringoiatrica.
• ANATOMIA CLINICA DEL COLLO
Per poter eseguire una corretta diagnosi differenziale delle tumefazioni cervicali è di
estrema importanza conoscere l’anatomia clinica e topografica del collo, che è una
regione estremamente complessa dal punto di vista anatomico, costituita da una parete
quasi del tutto muscolare, che solo posteriormente in regione mediana è costituita da
strutture ossee che sono le vertebre cervicali. Per il resto, l’intera parete del collo è
delimitata da strutture muscolo-fasciali e questo è un aspetto di estrema importanza
poiché rende molte delle strutture cervicali presenti nella cavità del collo accessibili con la
palpazione.
1) ANATOMIA TOPOGRAFICA
Dal punto di vista topografico, il collo è la prima regione in successione supero-inferiore
del tronco, presentandosi come una regione a forma di tronco di cono con apice tronco
superiore e base inferiore; la base del collo non è separata da alcun dispositivo anatomico
rispetto al torace, rispetto al quale sussiste piena comunicazione, difatti gli spazi
connettivali del collo si continuano nel mediastino. Il limite superiore del collo rispetto alla
regione della testa è definito da una linea convenzionale chiamata anche linea cervico-
facciale che decorre sul margine inferiore della mandibola e, raggiunto l’angolo della
mandibola, flette in alto e posteriormente per raggiugere la mastoide, quindi da questa
procede posteriormente fino alla protuberanza occipitale esterna.
Posteriormente, la linea convenzionale che separa il collo dal torace procede sul margine
superiore della clavicola e prosegue posteriormente sul margine superiore del muscolo
trapezio.
Dal punto di vista topografico, a livello cervicale si distinguono, in termini di anatomia di
superficie, due triangoli, uno anteriore e l’altro posteriore, che sono tra loro separati dal
muscolo sternocleidomastoideo, che presenta inserzione a livello della mastoide e a
livello dello sterno e della clavicola. In corrispondenza del triangolo anteriore del collo è
possibile distinguere ulteriori regioni:
1. Regione sottomentoniera: è un triangolo con base posteriore costituita
dall’osso ioide e con i due lati che sono costituiti bilateralmente dal ventre anteriore
del muscolo digastrico. Si tratta di una regione al cui livello sono contenute alcune
ghiandole salivari sottomentoniere e dei linfonodi che, essendo questo un triangolo
completamente rivestito da strati muscolari e dalla fascia cervicale, è pienamente
accessibile con la palpazione.
2. Regione sottomandibolare: all’interno di questo triangolo riscontriamo la
ghiandola sottomandibolare, che è l’organo principale contenuto all’interno di
questo triangolo. Essa è una delle ghiandole salivari maggiori. All’interno di questa
regione troviamo anche l’arteria e la vena facciale e, lungo il bordo della mandibola
vi è il nervo marginalis mandibulae. Questo triangolo è costituito da una base rivolta
verso l’alto che corrisponde al margine inferiore della mandibola, e da due lati,
costituiti dal ventre anteriore e dal ventre posteriore del muscolo digastrico.
a) Limiti anatomici:
i. Base: margine inferiore della mandibola
ii. Lati: ventre anteriore e posteriore del digastrico
b) Contenuto anatomico:
i. Arteria facciale
ii. Vena facciale
iii. Ghiandola sottomandibolare
iv. Nervo marginalis mandibulae
v. Linfonodi
3. Triangolo carotideo: i limiti sono costituiti dal ventre posteriore del muscolo
digastrico, dal ventre superiore del muscolo omoioideo e poi dal muscolo
sternocleidomastoideo. All’interno di questa area sarà contenuta l’arteria carotide,
oltre a linfonodi; in realtà nel triangolo carotideo transita interamente il fascio
vascolonervoso del collo, che è costituito dalla carotide comune, dalla vena
giugulare interna e dal nervo vago.
a) Limiti anatomici:
i. Sternocleidomastoideo
ii. Ventre posteriore del digastrico
iii. Ventre superiore dell’omoioideo
b) Contenuto:
i. Carotide comune
ii. Giugulare interna
iii. Nervo vago
iv. Linfonodi
4. Regione sottoioidea: è delimitata anatomicamente dal bordo dell’osso ioide, dal
bordo antero-inferiore del muscolo sternocleidomastoideo, dal ventre anteriore del
muscolo omoioideo e una linea mediana immaginaria che rappresenta il punto di
unione tra l’osso ioide e lo sterno, attraverso la quale vediamo in trasparenza la
laringe, nonché i primi anelli tracheali. Questo triangolo è costituito oltre che dai
muscoli sottoioidei, anche da organi viscerali: la regione del triangolo sottoioideo è
quella a cui corrisponde la maggior parte delle strutture viscerali del collo e tanto è
vero questo che lo spazio che si pone in profondità ad esso prende il nome di
spazio viscerale impari mediano del collo, al cui livello gli organi sono disposti in
piani che si succedono in senso antero-posteriore, quindi dall’avanti all’indietro si
trovano la tiroide e le paratiroidi, la laringe che si continua inferiormente all’altezza
di C6 con la trachea e posteriormente l’esofago, senza dimenticare che la faccia
posteriore dei lobi tiroidei, sia a destra che a sinistra, è in rapporto con il nervo
laringeo ricorrente.
a) Limiti:
i. Margine inferiore dell’osso ioide
ii. Margine anteriore dello sternocleidomastoideo
iii. Ventre anteriore dell’omoioideo
b) Contenuto anatomico:
i. Tiroide e paratiroidi
ii. Laringe e trachea
iii. Esofago
iv. Nervo laringeo ricorrente
Del triangolo posteriore è possibile descrivere due ulteriori triangoli che sono il triangolo
occipitale e il triangolo sopraclaveare. Il triangolo occipitale costituisce la parte più
alta del triangolo posteriore del collo, essendo limitato dal margine posteriore dello
sternocleidomastoideo e dal margine antero-superiore del trapezio. A questo livello sono
presenti tessuto fibroadiposo e soprattutto strutture nervose, dal momento che in
profondità rispetto al triangolo occipitale si colloca il plesso brachiale e peraltro a questo
livello transita anche l’undicesimo nervo cranico, cioè l’accessorio spinale; sono anche
presenti linfonodi. Il triangolo sopraclaveare, invece, è delimitato dal ventre inferiore
dell’omoioideo, dallo sternocleidomastoideo e dal margine superiore della clavicola; anche
in tal caso sono presenti strutture del plesso brachiale e tessuto fibroadiposo; sono
presenti linfonodi sopraclaveari alcuni dei quali di estrema importanza clinica, come ad
esempio il linfonodo di Virchow che è un linfonodo soprclaveare sinistro che risulta
interessato da una linfoadenomegalia (segno di Troisier) nel contesto di una patologia
neoplastica che è il cancro dello stomaco, particolarmente uno dei due istotipi di
carcinoma gastrico, vale a dire il carcinoma gastrico diffuso. In definitiva, possiamo dire
che il collo sia una regione anatomicamente complessa, di cui si distinguono un triangolo
anteriore ed uno posteriore, separati dal muscolo sternocleidomastoideo e, se nella
regione anteriore prevalgono strutture viscerali, come le vie aerodigestive superiori,
ghiandole esocrine ed endocrine e grossi vasi, la regione posteriore è importante per la
predominanza della componente nervosa che al suo interno si riscontra.
2) FASCIA CERVICALE
Il collo è una regione anatomica di notevole complessità, anche perché è una struttura che
osserva una organizzazione cavitaria, per cui al suo interno si individuano degli spazi
profondi che sono a loro volta delimitati tra loro mediante la presenza di una struttura
connettivale lassa, dipendenza cervicale della fascia profonda, che prende il nome di
fascia cervicale. La fascia cervicale, pur se si possa considerare nella propria interezza,
al fine di rivestire le strutture viscerali del collo e al fine di organizzare e sepimentare lo
spazio profondo del collo, emana delle dipendenze, per cui è possibile considerare che
esistano tre differenti fasce a livello cervicale, che tra loro sono in continuità, e che sono la
fascia cervicale superficiale, la fascia cervicale media e la fascia cervicale profonda.
La fascia cervicale superficiale è tesa tra i due bordi del trapezio e del muscolo splenio.
Decorre dall’indietro in avanti, raggiungendo lo sternocleidomastoideo laddove si sdoppia
per offrirne un rivestimento fasciale. Anteriormente, la fascia cervicale superficiale si fonde
sulla linea mediana bilateralmente in corrispondenza di un rafe che individua la linea
mediana cervicale o linea alba cervicale.

La fascia cervicale media, invece, origina come uno sdoppiamento dalla fascia cervicale
superficiale, portandosi più in profondità a rivestire i muscoli prelaringei, la ghiandola
tiroide e anche il fascio vascolonervoso del collo al quale offre una vera e propria
guaina di rivestimento che fornisce alle strutture del fascio, estremamente importanti ma al
contempo anche estremamente labili, una protezione maggiore. Infine, la fascia cervicale
profonda organizza lo spazio prevertebrale, cioè quello che si trova subito al davanti
della colonna vertebrale, dove suddetta fascia riveste i muscoli prevertebrali che
posteriormente completano la parete del collo, come i muscoli scaleni e gli elevatori della
scapola.

La caratteristica del collo è che tutte queste strutture sono ricoperte da una fascia, ovvero
un tessuto molto lasso connettivale, molto sottile, che ricopre tutte le strutture del collo,
dunque i muscoli, i visceri e il fascio vascolo-nervoso (nervo vago, arteria carotide
comune, vena giugulare).
3) SPAZI PROFONDI DEL COLLO
In realtà, è necessario considerare il collo in maniera tridimensionale, quindi queste
strutture connettivali, che sono tutte dipendenze della fascia a livello cervicale, operano
una suddivisione di veri e propri spazi all’interno della cavità del collo, di cui alcuni sono
virtuali, cioè spazi che in realtà non ospitano alcuna struttura in quanto la cavità è assente;
pur tuttavia, questi spazi possono alle volte divenire reali in condizioni patologiche che
comportino accumulo di materiale ad esempio purulento, oppure ematico. Gli spazi
connettivali del collo sono diversi e tra loro se ne distinguono diversi:
1. Spazio sottomentoniero: è lo spazio che si trova in profondità rispetto alla regione
sottomentoniera. Delimitato dal ventre anteriore del digastrico e dall’osso ioide, lo
spazio sottomentoniero ospita alcune ghiandole salivari sottomentoniere e alcuni
linfonodi.
2. Spazio viscerale impari mediano del collo: è lo spazio che si trova in posizione
mediana e sottoioidea, difatti è individuato dalla linea alba cervicale in posizione
mediana, dal margine anteroinferiore dello sternocleidomastoideo, dal ventre
anteriore dell’omoioideo e dall’osso ioide. Si tratta dello spazio profondo del collo
che contiene la maggior parte delle strutture viscerali, quindi la tiroide, le paratiroidi,
le vie aerodigestive superiori ed è rivestito da una struttura connettivale che
appartiene alla fascia cervicale media.
3. Spazio vascolonervoso: sempre in regione sottoioidea, lo spazio vascolonervoso
del collo è delimitato dal muscolo sternocleidomastoideo, dal ventre posteriore del
digastrico e dal ventre anteriore dell’omoioideo, contenendo il fascio
vascolonervoso del collo che è rivestito da una guaina che è chiamata guaina
vascolonervosa, dipendenza della fascia cervicale media.
4. Spazio peritonsillare: è uno spazio che si trova tra il muscolo costrittore superiore
del faringe e la tonsilla palatina; si tratta di uno spazio che si trova al di sopra dello
ioide, presentandosi come uno spazio virtuale che tuttavia può divenire reale in
seguito a processi purulenti, come sono le faringotonsilliti purulente (poltacee) per
le quali sussiste possibile complicanza nella insorgenza di un ascesso
peritonsillare; in tal caso la raccolta purulenta si ha nello spazio peritonsillare che
da virtuale diviene reale per discostamento indotto dall’essudato suppurativo del
muscolo costrittore superiore del faringe dalla tonsilla palatina.
5. Spazio parafaringeo: posto lateralmente al muscolo costrittore superiore del
faringe e non medialmente come lo spazio peritonsillare, ospita importanti strutture
come la ghiandola parotide, all’interno della quale, peraltro, decorrono il tratto
extracranico del nervo facciale e un tratto della carotide esterna. ha la forma di una
piramide capovolta.
6. Spazio retrofaringeo: prendendo sempre come punto di riferimento il muscolo
costrittore superiore del faringe, evidentemente, questo spazio gli si pone al di
dietro ed è in piena comunicazione con il mediastino posteriore da cui la possibilità
che una raccolta purulenta possa interessare anche il mediastino, conseguendovi
una serie di complicanze che alle volte possono essere anche molto gravi.
Sostanzialmente, gli spazi che si collocano in prossimità del faringe, nella regione
sopraioidea sono sostanzialmente definiti utilizzando come struttura anatomica di
riferimento il costrittore faringeo superiore.

Da ciò si può evincere che il collo non è una struttura a sé, ma in virtù della comunicazione
con il torace, può espandere delle infezioni site in quella sede anche in sede mediastinica.
4) SISTEMA LINFATICO DEL COLLO
Il collo, oltre a contenere muscoli, nervi, organi viscerali e vasi, contiene un sistema
linfatico con linfonodi che si intersecano lungo delle catene che scendono per le strutture
del collo. Infatti, così come il collo è stato diviso topograficamente, assegnando dei limiti
che servono per comunicare in maniera precisa le localizzazioni di una determinata
patologia tra i vari specialisti della medicina, allo stesso modo è stata operata una
suddivisione dei linfonodi in base alle zone in cui si trovano:
1. Linfonodi sottomentonieri
2. Linfonodi sottomandibolari
3. Linfonodi carotidei
4. Linfonodi occipitali
5. Linfonodi sopraclavicolari
Questa suddivisione viene eseguita topograficamente in base alla zona anatomica alla
quale questi linfonodi pertengono. È importante descrivere la zona alla quale
appartengono questi linfonodi, in quanto essi vanno incontro a condizioni patologiche, che
possono avere origine eziologica differente, potendosi descrivere linfadeniti primitive ma
soprattutto linfadenopatie reattive alla presenza di una flogosi di una struttura del collo che
può essere su base infettiva o non-infettiva, o ancora i linfonodi possono essere sede di
processi tumorali primitivi, cioè linfomi, o secondari, vale a dire metastasi carcinomatose.
Infatti, conoscere i gruppi linfonodali diventa importante in quanto significa sapere dove si
possono localizzare delle metastasi, proprio perché ciascun organo drenerà in una regione
particolare del collo.
Ancorché la regione del collo venga definita da limiti convenzionali che ne determinano
l’estensione dalla mandibola fino alla clavicola, vengono inseriti nel contesto dei linfonodi
cervicali anche i linfonodi preauricolari che si trovano in contiguità della ghiandola
parotide.
La conoscenza di questi linfonodi è di estrema importanza, dal momento che a fronte di
una tumefazione linfonodale del collo, è possibile in base ad alcune caratteristiche
semeiologiche prevalentemente palpatorie intendere, sia pure in maniera approssimativa,
la natura della tumefazione linfonodale, che sia essa di origine infiammatoria, neoplastica
e, se tale, primitiva o secondaria, e in considerazione dell’eventuale localizzazione della
massa è possibile risalire a quale sia la sede di origine del primitivo processo patologico
che abbia determinato insorgenza della tumefazione linfonodale, ma chiaramente per
risalire a questa informazione è necessario conoscere quali siano le sedi che drenano
nelle corrispettive stazioni linfonodali:
1. Linfonodi sottomentonieri:
a) Pavimento del cavo orale
b) Gengiva
c) Guancia
2. Linfonodi sottomandibolari:
a) Ghiandola sottomandibolare
b) Naso
c) Seni paranasali
3. Linfonodi occipitali:
a) Trigono retromolare
b) Pilastro palatino
c) Tonsilla palatina
4. Linfonodi preauricolari:
a) Ghiandola parotide
È chiaro che, poi, in base alla consistenza della lesione e in base alle caratteristiche
palpatorie, la tumefazione linfonodale possa avere una eziologia differente e proprio la
topografia della tumefazione linfonodale, insieme con le caratteristiche di consistenza,
dolorabilità e mobilità della lesione permette di indirizzare, rispettivamente, dove cercare e
cosa cercare come patologia che stia alla base dell’eventuale aumento di volume
linfonodale. Quindi, possiamo dire che per ogni organo del distretto testa-collo esista un
drenaggio linfatico obbligato, tal che ogni struttura faccia univocamente capo ad una ed
una sola stazione linfonodale e questo è un aspetto estremamente importante per gli
interventi di chirurgia oncologica otorinolaringoiatrica, dal momento che in alcuni casi, a
fronte di un possibile o documentato interessamento linfonodale, sussiste la necessità di
programmare un intervento di linfoadenectomia, cioè di asportazione linfonodale cervicale
che è anche chiamato svuotamento cervicale. Gli interventi di svuotamento cervicale
sono interventi comunque complessi dal punto di vista tecnico, soprattutto perché si opera
in regioni che sono molto anfrattuose e in contatto stretto con organi vitali (come la
carotide, ad esempio) la cui compromissione è certamente associata a complicanze anche
gravi. Per questo motivo, l’evoluzione negli anni della pratica chirurgica
otorinolaringoiatrica in merito agli svuotamenti linfonodali è stata quella di raggiungere una
sempre maggiore conoscenza dei percorsi di drenaggio linfatico, al fine di procedere con
interventi di linfoadenectomia selettiva ed è chiaro che questo sia possibile solo quando
si conosca quale sia l’obbligato percorso del drenaggio linfatico da ogni organo; così,
dall’American Accademy of Otolaryngology è stata elaborata una classificazione dei
linfonodi cervicali, i quali sono stati suddivisi in sei livelli in considerazione della
topografia del collo stesso, per cui si distinguono sei livelli, ulteriormente suddivisibili in un
sottolivello “a” e un sottolivello “b”:
1. Linfonodi di I livello: si tratta dei linfonodi del triangolo sottomandibolare e
sottomentoniero, quindi ulteriormente suddivisi in:
a) Linfonodi sottomentonieri (Ia)
b) Linfonodi sottomandibolari (Ib)
2. Linfonodi di II livello: sono i linfonodi della catena giugulare interna superiori, a
loro volta ulteriormente suddivisi in:
a) Linfonodi giugulari anteriori (IIa)
b) Linfonodi giugulari posteriori (IIb)
3. Linfonodi di III livello: si tratta dei linfonodi della catena giugulare interna medi,
altresì noti anche con il nome di linfonodi giugulo-carotidei.
4. Linfonodi di IV livello: anche noti come linfonodi giugulo-digastrici, sono i
linfonodi della catena giugulare inferiore.
5. Linfonodi di V livello: si tratta dei linfonodi del triangolo posteriore, che
decorrono sulla catena del muscolo spinale e dell’arteria cervicale trasversa; sono
suddivisi in:
a) Linfonodi dello spinale (Va)
b) Linfonodi cervicali trasversi e sopraclaveari (Vb)
6. Linfonodi di VI livello: sono i linfonodi tracheoesofagei, quindi i linfonodi della
catena anteriore e sono di quasi esclusiva pertinenza del cancro della tiroide.
Questa suddivisione topografica costituisce la base dalla quale sono partiti una serie di
studi che sono stati efficacemente volti a comprendere e studiare quale fosse l’incidenza
delle metastasi locoregionali a seconda della localizzazione del tumore. Infatti, la chirurgia
oncologica, non solo in ambito otorinolaringoiatrico, si muove da una parte sul fronte della
radicabilità totale che chiaramente presuppone anche la necessità di asportare le stazioni
linfonodali quando queste siano interessate o quando sussistano eventuali fattori di rischio
che rendono ragione di una elevata probabilità di recidiva locoregionale e dall’altra si
muove nella direzione della preservazione funzionale quanto maggiore possibile. Nel
contesto otorinolaringoiatrico, la chirurgia oncologica opera in distretti molto anfrattuosi, in
cui sussiste tutta una serie di strutture la cui compromissione può determinare degli esiti
estremamente gravi dal punto di vista funzionale e questo accade soprattutto quando
vengano, ad esempio, lese le strutture nervose del plesso brachiale. Per questo motivo, la
conoscenza delle sedi di possibile metastasi di un tumore del distretto testa-collo è di
estrema importanza dal momento che consente una linfoadenectomia selettiva, cioè
rivolta solo e soltanto verso quelle strutture che siano o possano essere maggiormente
interessate dalla metastasi carcinomatosa. Per essere estremamente pratici, a seconda
del tumore e della sede esiste un protocollo di asportazione linfonodale:
1. Tumori del cavo orale:
a) Livello I
b) Livello II
c) Livello III
2. Tumori della laringe:
a) Livello II
b) Livello III
c) Livello IV
Oltretutto, occorre considerare che la classificazione delle stazioni linfonodali è utile per
l’indirizzamento diagnostico; infatti, ad esempio, nel carcinoma della laringe lo
svuotamento laterocervicale è rivolto ai linfonodi di II livello (giugulari interni superiori), di
III livello (giugulari interni medi) e di IV livello (giugulari inferiori), poiché sono queste le
sedi di metastasi ed è chiaro che quando si debba ricercare un interessamento
metastatico dei linfonodi nel corso della stadiazione clinica TNM sarà necessario rivolgere
attenzione a questi tre livelli linfonodali per stadiare il parametro N, poiché sono le stazioni
che drenano la linfa dalla laringe anche in condizioni normali. Quindi, la conoscenza delle
stazioni linfonodali ha una propria importanza per poter intendere (1) la sede di origine di
una tumefazione linfonodale secondaria, (2) l’eventuale sede di origine del tumore se la
tumefazione linfonodale è una metastasi carcinomatosa, (3) per studiare dal punto di vista
diagnostico in maniera mirata i linfonodi al fine di stadiare il parametro N e (4) per poter
eseguire svuotamenti cervicali che siano radicali, cioè che rimuovano i linfonodi
potenzialmente o effettivamente interessati senza eseguire asportazioni linfonodali
eccessive che possano essere associate ad un maggiore rischio di complicanze
intraoperatorie e postoperatorie.

• APPROCCIO DIAGNOSTICO AL PAZIENTE CON TUMEFAZIONE CERVICALE


La tumefazione cervicale è intesa genericamente come una massa occupante spazio
visibile ad occhio nudo poiché determina una rilevatezza della cute e come tale, quindi, è
un segno clinico non univoco nel senso che all’osservazione di una tumefazione
cervicale si aprono diverse ipotesi diagnostiche, per cui è sicuramente importante
conoscere quali possano essere le possibili cause di una tumefazione cervicale in senso
assoluto e relativamente all’età del paziente e in secondo luogo è necessario applicare un
algoritmo diagnostico rigoroso, dal momento che non infrequentemente i pazienti con
tumefazione cervicale vengono in maniera del tutto causale indirizzati all’esecuzione di
alcune indagini strumentali, ma non avendosi elementi clinici che riescano ad indirizzare il
percorso diagnostico purtroppo spesso accade che queste indagini non diano alcun
risultato, per cui si rischia che la tumefazione passi misdiagnosticata e questo è un aspetto
estremamente pericoloso, a volte, per la salute del paziente. Innanzitutto, è necessario
conoscere le possibili cause di una tumefazione cervicale, che possono originare da fatti
infiammatori, da patologie neoplastiche o possono essere espressione di un difetto
congenito:
1. Tumefazioni congenite:
a) Cisti laterali del collo
b) Cisti mediane del collo
c) Linfangioma
d) Teratoma
e) Masse timiche
f) Torcicollo congenito
2. Tumefazioni di origine infiammatoria:
a) Non infettive:
i. Scialoadeniti
ii. Tiroiditi
b) Infettive:
i. Linfadenite da toxoplasmosi (linfadenite di Piringer-Kuchinka)
ii. Linfadenite da mononucleosi infettiva
iii. Linfadenite erpetica
iv. Linfadenite da citomegalovirus
v. Tubercolosi
vi. Malattia da graffio del gatto (batterica)
3. Tumefazioni di origine neoplastica:
a) Tumori benigni:
i. Mesenchimali:
§ Lipoma
§ Fibromi
§ Schwannomi
§ Neurofibromi
§ Emangiomi
§ Linfangiomi
§ Paragangliomi
ii. Epiteliali: tumori benigni delle salivari
b) Tumori maligni:
i. Carcinomi/linfomi delle ghiandole salivari
ii. Carcinomi del cavo orale
iii. Carcinomi del faringe
iv. Carcinomi della laringe
v. Linfomi
vi. Carcinomi della tiroide
Chiaramente, questo è solo un elenco delle possibili cause che devono essere vagliate nel
paziente con tumefazione cervicale, anche orientando l’approccio clinico in considerazione
dell’età del paziente: le tumefazioni congenite del collo evidentemente insorgono fin già
dall’età connatale o pediatrica, differentemente le neoplasie incidono con maggiore
frequenza nei soggetti di età almeno ultraquarantenne.
1) ANAMNESI
Il primo step nell’approfondimento clinico di una tumefazione cervicale è l’anamnesi, il cui
primo elemento da chiarire è l’età: le eventuali ipotesi diagnostiche vanno vagliate anche
ragionando sull’età di incidenza della causa della tumefazione e sull’età del paziente.
1. Età:
a) < 40 anni
b) > 40 anni
2. Fattori di rischio personale:
a) Precedente irradiazione
b) Precedente neoplasia
c) Fumo
d) Alcol
3. Anamnesi familiare:
a) Familiarità per tumori
b) Ereditarietà per tumori
Nei bambini, l’80% delle tumefazioni laterocervicali ha eziologia benigna,
differentemente da quanto accada negli adulti, in cui l’80% delle tumefazioni cervicali ha
eziologia maligna, di tipo neoplastico. Quindi, soprattutto in soggetti di età superiore ai
quarant’anni è sempre opportuno sospettare la presenza di una neoplasia quando
insorga una tumefazione cervicale. Chiaramente, questo iniziale sospetto clinico viene
eventualmente anche supportato dall’eventuale presenza di altri aspetti dell’anamnesi,
come l’eventuale esposizione a fattori di rischio che sono notoriamente associati alla
insorgenza di una patologia neoplastica del distretto testa-collo: è necessario ricercare
specificatamente nell’anamnesi personale del soggetto fattori di rischio per tumori del
distretto testa-collo, come sono il tabagismo e l’alcolismo che sono importanti fattori di
rischio per i carcinomi del cavo orale e soprattutto per i carcinomi della laringe che
riconoscono in questi due importanti fattori di rischio. Altri fattori di rischio, soprattutto se si
tratti di tumori della linea linfoide, ma non solo, sono costituiti dalle irradiazioni del
distretto testa-collo, che siano per scopo terapeutico, di tipo accidentale o professionale;
in proposito delle irradiazioni per scopo terapeutico, queste vengono eseguite per tumori
del distretto testa-collo e non è impossibile che un soggetto che in passato abbia subito
una irradiazione per un tumore del distretto otorinolaringoiatrico possa in futuro sviluppare
una tumefazione cervicale che sia indicativa o della recidiva del precedente tumore o della
comparsa di un secondo e distinto tumore. Oltretutto, vanno approfonditi anche gli aspetti
dell’anamnesi familiare, dal momento che la familiarità o l’ereditarietà per tumore sono
aspetti che evidentemente aumentano in un soggetto il rischio di insorgenza della lesione.
Quindi, questo primo aspetto dell’anamnesi è estremamente importante nella misura in cui
permette di orientare o meno il sospetto clinico sulla neoplasia, che nel soggetto
ultraquarantenne è sempre da sospettarsi, fino a prova contraria, quando compaia una
tumefazione cervicale. In secondo luogo, valutati attentamente gli aspetti anamnestici
legati alla storia personale e familiare, è necessario approfondire altri aspetti che
riguardano le caratteristiche della massa, soprattutto legate alla dolenzia della stessa e
all’epoca di insorgenza; infatti, una massa ad insorgenza brusca, soprattutto quando
dolente, è spesso espressione di un fatto di carattere infiammatorio ed acuto, per cui
solitamente l’esordio brusco della tumefazione e la presenza di una dolenzia persistente o
elicitata dalla palpazione depongono per una patologia benigna. Al contrario, masse
cronicamente evolutive che siano insorte nell’arco di mesi, dalla consistenza dura e
non dolenti sono sfortunatamente molto sospette per neoplasia, per cui sarà questo il
primo sospetto clinico da confermare o escludere. Molto spesso, un errore che si compie
nell’inquadramento delle tumefazioni cervicali è quello di indirizzare fin da subito il
paziente agli esami diagnostici senza che si abbia un sospetto clinico fondato che,
chiaramente, deriva soprattutto dalla analisi attenta dei sintomi che il paziente possa
lamentare, poiché questi possono eventualmente anticipare clinicamente la sede della
massa. Ad esempio, la disfonia associata a tumefazione cervicale in pazienti
ultracinquantenni e ancor di più se in presenza di fattori di rischio come tabagismo o
alcolismo è sospetta per carcinoma laringeo soprattutto se questi si collochi nella regione
glottica, dal momento che il carcinoma stravolge l’istologia normale delle corde vocali,
determinando una infiltrazione degli strati profondi che genera una aderenza maggiore tra
la mucosa e lo strato gelatinoso di Reinke, riducendo notevolmente la possibilità di
scivolamento della mucosa sulla sottomucosa, che è poi il meccanismo che garantisce
l’insorgenza dell’onda di oscillazione mucosa necessaria alla produzione della voce. In
realtà, un carcinoma laringeo può anche presentarsi con una dispnea, soprattutto per
quelli che sono i carcinomi laringei della regione sottoglottica, lì dove un carcinoma
vegetante o stenosante della laringe può determinare un’ostruzione inspiratoria, tal che
si riscontri la caratteristica dispnea laringea che è (1) ostruttiva, (2) prevalentemente
inspiratoria, con fase espiratoria muta e breve, (3) caratterizzata dalla presenza di
cornage e tirage laringei. In realtà, i carcinomi che si collochino nella regione
sopraglottica potendo comprimere sull’esofago posteriormente possono generare
disfagia, che è un sintomo clinico possibilmente riscontrabile anche nei tumori del faringe,
dell’esofago che si possono anche esprimere con quella che prende il nome di
sensazione di globo, descritta frequentemente dai pazienti come “corpo estraneo in
gola”. Differentemente, la presenza di una ipoacusia trasmissiva monolaterale deve far
sospettare la presenza di una massa a livello del rinofaringe che stia ostruendo l’ostio
faringeo della tuba di Eustachio, determinando un ristagno delle secrezione sieromucose e
inducendo l’insorgenza di una otite media sieromucosa; in tal caso, come già anticipato,
soprattutto nei soggetti ultraquarantenni e con fattori di rischio per carcinomi della regione
testa-collo e in presenza di una ipoacusia trasmissiva monolaterale è sempre opportuno
pensare che possa trattarsi di una patologia neoplastica a carico in tal caso del rinofaringe
o della tonsilla palatina. In realtà, i tumori del rinofaringe, come anche i carcinomi a
partenza dalla mucosa nasale, possono presentarsi anche con epistassi monolaterale,
potendo peraltro indurre anche la presenza di una rinorrea cronica. Le emissioni di sangue
dagli orifizi facciali sono importanti da considerare e non sempre e non solo queste
derivano dal naso, dal momento che è possibile che queste provengano dall’orifizio orale
sotto forma di emottisi o di emoftoe, che sono espressione di una massa che stia
sanguinando, frequentmente un carcinoma ulcerato. Altro sintomo da considerare è
l’otalgia, che quando si associ ad otoscopia negativa cioè in assenza di reperti patologici
dell’orecchio, deve essere considerata come possibile espressione di dolore riflesso.
Quindi, diversi sono i sintomi distrettuali da analizzare nell’approfondimento diagnostico
delle tumefazioni cervicali e accanto a questi vanno anche considerati gli eventuali
sintomi costituzionali, che possono eventualmente essere associati alla sintomatologia
locoregionale, come astenia, calo ponderale e febbre.
2) ESAME OBIETTIVO
L’esame obiettivo è sostanzialmente ispettivo e palpatorio e consente di valutare le
dimensioni della tumefazione cervicale, la consistenza, la mobilità e la dolorabilità
della massa, che spesso sono aspetti che possono facilitare l’inquadramento clinico della
malattia. Ad esempio, non infrequentemente i linfomi, che possono dare interessamento
del distretto cervico-facciale, particolarmente a carico dei linfonodi laterali del collo, si
presentano con delle massive linfoadenomegalie, che determinano la formazione di veri e
propri pacchetti linfonodali di grandi dimensioni, definiti con il nome di masse Bulky,
quando di dimensioni superiori a 10 cm. In questo caso, è anche la clinica che giova
all’istituzione del sospetto clinico, dal momento che non infrequentemente un linfoma si
associa a sintomi costituzionali come prurito, febbre, sudorazione e calo ponderale.
Occorre considerare che i linfonodi in condizioni normali non sono accessibili alla
palpazione poiché di dimensioni inferiori al centimetro, mentre in corso di condizioni
patologiche che li interessino divengono di dimensioni superiori a due centimetri,
finanche superiori a 10 cm nel contesto di massive linfoadenomegalie linfomatose, che
spesso hanno una consistenza fibrosa, sicuramente non dura come quella delle
metastasi linfonodali carcinomatose, e sono caratteristicamente indolenti e spesso la
distribuzione delle tumefazioni linfomatose è a grappolo. Indolenti sono anche le
metastasi carcinomatose linfonodali che caratteristicamente si associano alla presenza
di una consistenza duro-fibrosa o addirittura alle volte duro-calcifica, in assenza di
mobilità della struttura linfonodale giacché la lesione neoplastica tende ad infiltrare gli
strati superficiali riducendo lo scorrimento del linfonodo su questi; l’ipomobilità è anche
una caratteristica delle masse linfomatose, che tuttavia hanno una mobilità leggermente
superiore rispetto alle metastasi linfonodali carcinomatose: il dato comune è che tutte le
tumefazioni linfonodali di origine neoplastica, che siano esse dei tumori primitivi o
secondari del linfonodo sono indolenti; la dolorabilità e la dolenzia della tumefazione
linfonodale sono spesso segno positivo poiché depongono a favore di una tumefazione
linfonodale infiammatoria, che può essere secondaria cioè reattiva alla presenza di una
flogosi di un distretto vicino ovvero primitiva nel qual caso si descrivano infezioni da CMV,
da EBV, occasionalmente da HSV, oppure nel caso della tubercolosi dei linfonodi, della
malattia da graffio del gatto, nel caso della linfadenite di Piringer-Kuchinka che è un
quadro elettivo dell’eventuale infezione primaria sintomatica da Toxoplasma Gondii.
Quindi, ricapitolando le eventuali caratteristiche obiettive delle tumefazioni cervicali, le
principali sono legate alla consistenza, alla mobilità e alla dolorabilità:
1. Tumefazioni infiammatorie acute:
a) Rapida insorgenza
b) Dolorabili e dolenti
c) Mobili
d) Consistenza soffice
2. Tumefazioni infiammatorie croniche:
a) Lenta insorgenza
b) Dolenti
c) Ipomobili o mobili
3. Tumefazioni linfomatose:
a) Insorgenza subacuta
b) Ipomobili
c) Consistenza fibrosa
4. Tumefazioni carcinomatose:
a) Insorgenza cronica
b) Indolenti
c) Consistenza duro-fibrosa
d) Immobili
5. Tumefazioni vascolari:
a) Pulsanti
b) Consistenza elastica
c) Soffi vascolari
Nel contesto delle tumefazioni cervicali, estremamente interessanti sono le tumefazioni
vascolari che sono nient’altro che dei tumori benigni che originano dai vasi e soprattutto
quando si tratti di tumori che originano dai vasi ematici, queste assumono una
consistenza teso-elastica, presentandosi come delle masse pulsanti associate a soffi
vascolari ad esempio a livello carotideo. Una volta valutati gli aspetti obiettivi,
considerando questi e l’anamnesi del soggetto, in funzione dell’età si iniziano a vagliare le
prime ipotesi: nel momento in cui si sospetti una neoplasia (poiché la massa è solida,
indolente, di consistenza dura e immobile in soggetto ultraquarantenne con fattori di
rischio) si procede con l’approfondimento strumentale; quando si sospetti una tumefazione
infiammatoria (poiché la massa è insorta acutamente, è dolente, mobile, di consistenza
soffice), si procede con l’eventuale documentazione dell’infiammazione; in tal caso è utile
eventualmente poter eseguire un insieme di indagini di laboratorio per documentare
l’infezione mediante isolamento e dimostrazione della presenza del germe o mediante
sierologia.
3) ESAMI DI LABORATORIO
Gli esami di laboratorio sono particolarmente utili nel caso delle tumefazioni cervicali di
origine infettiva, granulomatosa oppure nel contesto della presenza di un linfoma.
Soprattutto, nel caso delle malattie infettive un esempio eclatante è costituito dalla
faringotonsillite streptococcica, che individua come germe patogeno lo streptococco β-
emolitico di gruppo A, per il quale è utile l’eventuale esecuzione del test rapido per lo
streptococco, oppure la valutazione del titolo anticorpale degli anticorpi anti-streptolisina
o, ancora, il tampone faringeo per l’individuazione del germe. Solitamente, la
sintomatologia tipica della faringotonsillite streptococcica, che è una infezione che incide
con maggiore frequenza nei soggetti pediatrici o di età comunque giovane, è associata a
faringodinia, febbre e linfoadenomegalia: i linfonodi sono aumentati di volume, dolenti e
di consistenza soffice. Ancora, ritornano utili, nel caso di sospetta tumefazione
linfonodale infettiva, test come lo Skin test con tubercolina oppure la ricerca
sierologica degli anticorpi anti-EBV. Esami di laboratorio standard come l’emocromo e
l’elettroforesi delle proteine plasmatiche sono molto utili alle volte nel contesto della
diagnosi di una tumefazione linfonodale di origine linfomatosa; infatti, è possibile che un
linfoma si associ alla presenza di alterazioni all’emocromo oppure che si associ ad un
aumento degli indici di flogosi, VES e CRP, e ad una ipergammaglobulinemia
policlonale che comporti riduzione del rapporto albumina/γ-globuline. Inoltre, non bisogna
dimenticare che alle volte tumefazioni del distretto testa-collo possono associarsi a
scialoadeniti, cioè infiammazioni delle ghiandole salivari ed una di queste è costituita dalla
sindrome di Sjögren che è una esocrinopatia autoimmune che colpisce anche le ghiandole
salivari, tra le altre, presentandosi spesso con una tumefazione parotidea, che si associa
ad una massiva ipergammaglobulinemia policlonale e ad un notevole aumento della CRP
e soprattutto della VES. In altri casi, le tumefazioni cervicali possono essere di origine
tiroidea, per cui soprattutto quando la tumefazione si collochi in sede mediana inferiore in
presenza di sintomi clinici che possano far sospettare un ipertiroidismo (tachicardia,
intolleranza al caldo, perdita di peso, agitazione psicomotoria) o un ipotiroidismo
(bradicardia, mixedema, intolleranza al freddo, depressione psicomotoria) il dosaggio degli
ormoni tiroidei e del TSH può essere utile alla diagnosi.
4) ESAMI STRUMENTALI ED ENDOSCOPICI
Soprattutto quando la tumefazione cervicale sia di sospetta origine neoplastica è
necessario ricorrere ad indagini strumentali come la TC, la Risonanza Magnetica o
eventualmente la PET che trova tuttavia indicazioni precise soprattutto dopo la diagnosi
nella stadiazione della neoplasia e nel follow-up. Comunque, in alcuni casi la neoplasia
primitiva può essere occulta, cioè associata ad un rilievo clinico che è la tumefazione
linfonodale in assenza di evidenza clinica della sede primitiva del tumore, poiché magari
questo si trova in una sede clinicamente silente oppure perché di dimensioni molto piccole
ma non per questo meno aggressivo. Chiaramente, esistono degli elementi anamnestici
che possono far sospettare la presenza di una neoplasia come causa della tumefazione
linfonodale, come d’altra parte esistono anche delle caratteristiche semeiologiche della
massa linfonodale come la consistenza, l’immobilità e la non-dolenzia che sono tutte
caratteristiche associate al sospetto clinico tumorale. In tal caso, la clinica del soggetto
guida la ricerca della lesione primitiva: ad esempio, un soggetto che lamenti disfonia è
fortemente sospetto per patologia laringea, per cui in questo caso è necessario eseguire
una endoscopia laringea, che è indicata anche in altre circostanze, dal momento che un
carcinoma laringeo si può esprimere clinicamente mediante la presenza di una dispnea o
di una disfagia, sintomo, quest’ultimo che può anche associarsi a tumori esofagei o del
faringe. Il vantaggio della panendoscopia è quello di permettere la visualizzazione
mediante accesso diretto alle vie aerodigestive superiori e di associare alla visualizzazione
un campionamento bioptico che sia utile per supportare il sospetto clinico con l’esame
istologico della lesione campionata.
L’esame strumentale di primo livello che si esegue nel contesto dell’approfondimento
diagnostico di una tumefazione cervicale è l’ecografia, che è un esame poco costoso e
per niente invasivo, che utilizza una sonda ultrasonografica che non espone il paziente a
radiazioni: per questo motivo è assai utile soprattutto nella valutazione delle tumefazioni
cervicali pediatriche, anche perché queste sono frequentemente delle cisti congenite del
collo e l’ecografia è un esame che fornisce informazioni importanti circa la natura solida o
cistica della lesione occupante spazio. Inoltre, l’ecografia è utile per definire sia pure
indicativamente le dimensioni della massa, l’ecostruttura (isoecogena, iperecogena o
ipoecogena), i rapporti con la fascia cervicale e mediante l’utilizzo concomitante del
Doppler può essere utile al fine di valutare la vascolarizzazione della massa. Peraltro,
nei pazienti di età pediatrica, molto frequentemente le tumefazioni cervicali sono delle
linfadeniti, per cui l’indagine ecografica può rivelare alcuni aspetti del linfonodo che siano
in qualche maniera in grado di indirizzare la diagnostica differenziale verso un’infezione.
L’ecografia quando si sospetti la presenza di una metastasi di un tumore primitivo a sede
ignota non è di grande aiuto mentre fornisce un contributo diagnostico indiscutibilmente
utile nel momento in cui si sospetti che la tumefazione del collo origini da una patologia
delle ghiandole salivari, che si vedono molto bene all’ecografia, o quando si necessiti di
distinguere una massa solida da una massa cistica (congenita); l’ecografia con il Doppler
è molto utile per la diagnosi differenziale delle tumefazioni cervicali sospette per patologie
vascolari dal momento che è possibile mediante l’utilizzo della sonda Doppler vedere il
flusso e la vascolarizzazione della massa.
Differentemente dalle tumefazioni cervicali dell’età pediatrica che frequentemente hanno
origine infettiva e danno luogo a linfadeniti, o in altri casi sono masse cistiche, per le quali
l’ecografia è molto sensibile e specifica, nell’adulto la più parte delle tumefazioni cervicali
sfortunatamente è di origine neoplastica (80% dei casi) e come anticipato soprattutto nel
qual caso non si conosca la sede del tumore primitivo, del quale si apprezza
esclusivamente la linfoadenomegalia con caratteristiche di metastasi linfonodale
carcinomatosa, l’ecografia non è di grande aiuto. In questo caso è necessario ricorrere ad
alcune indagini strumentali più accurate, come la TC e la RMN:
1. Tomografia Computerizzata (TC):
a) Metodo di scelta per approfondimento diagnostico;
b) Distingue masse cistiche da masse solide;
c) Migliore visualizzazione dei linfonodi patologici rispetto alla RMN. I
linfonodi patologici individuabili con TC sono quelli di dimensione
superiore a 1.5 cm e si presentano lucenti e con forma alterata;
d) Estensione della lesione, rapporti con la fascia cervicale e con le strutture
viciniori.
e) Vascolarizzazione per quanto riguarda la TC con mdc;
f) Evidenziazione di tumori occulti in presenza di metastasi
g) Scansioni coronali valutano l’estensione cranio-caudale della lesione
h) Sensitività 74%, Specificità 75%, Accuratezza 74%
2. Risonanza Magnetica Nucleare (RMN):
a) Rispetto alla TC distingue lesioni dei tessuti molli da strutture vascolari
senza somministrazione di mdc;
b) Più costosa della TC;
c) Differenzia la neoplasia dal tessuto cicatriziale post-chirurgico;
d) Riconosce linfonodi da muscolo e grasso circostante anche se di 5-10 mm;
e) Più utile per lesioni vicine al basicranio e tumori con diffusione
perineurale;
In ambito otorinolaringoiatrico TC e RMN sono preferite alla PET che è un esame che non
mette ben in evidenza la morfologia e i confini della lesione neoplastica; inoltre, la PET è
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un’indagine di medicina nucleare che si vale dell’utilizzo del FDG, che viene captato
genericamente da tutte quelle cellule che presentino un elevato metabolismo, non solo
dalle cellule tumorali, quindi, ma anche da cellule infiammatorie che si trovino ad esempio
nel contesto di un granuloma, per cui si tratta di una metodica sensibile ma poco specifica,
poiché associata a possibile numero elevato di falsi positivi per tumore; questo rende
ragione di come l’utilizzo della PET sia indicato soprattutto una volta documentata la
diagnosi e per il monitoraggio clinico della risposta terapeutica o dell’eventuale comparsa
di una recidiva tumorale.
5) AGOASPIRATO E BIOPSIA LINFONODALE
Una volta eseguito l’approfondimento strumentale, per approdare eventualmente ad una
diagnosi di certezza sussiste la possibilità diagnostica di prelevare cellule direttamente
dalla tumefazione del collo, chiaramente una volta che la lesione primitiva sia stata
individuata, attraverso un agoaspirato. L’agoaspirato è molto utile nel caso la tumefazione
sia di un linfonodo aumentato di volume. Differentemente, l’agobiopsia non è indicata in
caso di formazioni cistiche in quanto la tecnica di agoaspirazione potrebbe peggiorare il
quadro, determinando un evento di sovrapposizione infettiva o una lacerazione della
parete della cisti determinandone rottura e fuoriuscita del liquido. L’agoaspirato viene
quindi molto usato per studiare i linfonodi ed è anche indicato come metodica di primo
livello nell’approfondimento diagnostico dei noduli tiroidei, per i quali è presente un
sistema di gradazione del sospetto di malignità del nodulo tiroideo che è il cosiddetto
sistema TIR, che contempla cinque gradi differenti di sospetta malignità da TIR1
(agoaspirato non diagnostico, con indicazione alla ripetizione della procedura) a TIR5
(nodulo altamente sospetto per malignità, per il quale è indicata l’asportazione).
L’agoaspirato permette di fare diagnosi differenziale tra un quadro infiammatorio e un
quadro neoplastico, su linfonodi ingranditi o su noduli tiroidei. Quindi, possiamo dire che le
indicazioni e le controindicazioni all’esecuzione dell’agoaspirato dipendano dalla natura
della massa:
1. Indicazioni:
a) Massa tiroidea
b) Tumefazione linfonodale
c) Tumefazione cervicale senza precedente episodio infettivo
d) Massa non responsiva a terapia medica
2. Controindicazioni:
a) Sospetta o documentata massa cistica
b) Tumefazioni vascolari
Se l’agoaspirato non è diagnostico, si possono asportare i linfonodi ingranditi mediante
una procedura che è quella della biopsia linfonodale; in generale la biopsia escissionale
è l’ultima spiaggia quando tutte le altre indagini non abbiano dato alcun riscontro
diagnostico definitivo.
Quando si asporta un linfonodo, questo deve essere inviato in anatomia patologica per
l’esame bioptico: questo può avvenire o con un esame istologico definitivo, fissando il
campione biopsiato in formalina e poi analizzato per produrre una risposta dopo 10-15
giorni, oppure attraverso l’esame in estemporanea al congelatore, anche chiamato esame
intraoperatorio. In quest’ultimo caso il linfonodo viene consegnato all’anatomopatologo
immediatamente dopo averlo rimosso, viene congelato, quindi si tagliano delle sezioni che
saranno osservate: nell’arco di 15 minuti è possibile avere una risposta, quindi l’ORL
saprà se è un linfonodo infiammatorio, se è neoplastico per una metastasi per un tumore a
partenza dall’epitelio o è un linfoma e chiaramente in base alla causa l’algoritmo di azione
varia in funzione dell’eziologia:
1. Linfonodo infiammato:
a) Ricerca della causa
b) Terapia eziologica
2. Linfoma:
a) Tipizzazione istologica
b) Stadiazione strumentale (TC, RMN)
c) Terapia medica per linfoma
3. Metastasi di carcinoma:
a) Ricerca della sede primitiva
b) Svuotamento laterocervicale
Quando la biopsia del linfonodo confermi che l’aumento di volume del linfonodo sia legato
ad una metastasi di un tumore delle vie aeree/digestive superiori, l’asportazione di un
solo linfonodo non è curativa: in questo caso andrà fatto lo svuotamento laterocervicale di
tutti i livelli ed è per questo motivo che quando si esegua la biopsia escissionale di un
linfonodo, bisogna prima preparare il paziente attraverso il consenso informato ad
un’eventuale necessità di completare l’intervento con lo svuotamento laterocervicale lì
dove l’anatomopatologo confermi che si tratti di una metastasi di un tumore del collo. Se,
infatti, venisse rimosso solo un linfonodo, si interromperebbe la catena linfonodale,
rischiando una diffusione della metastasi all’interno di altre strutture del collo. Asportando
tutti i linfonodi del collo si evita questa possibile complicanza iatrogena. Quindi,
ogniqualvolta che si trovi in un adulto il sospetto di una massa solida asimmetrica,
bisogna considerare che questa sia una lesione metastatica: masse cervicali asimmetriche
e asintomatiche rappresentano il 12% dei tumori del distretto ORL e nell’80% dei casi
sono metastasi da carcinomi squamosi epiteliali o del cavo orale, o della laringe o
dell’ipofaringe.

• MASSE A PARTENZA TIROIDEA


Tra le possibili cause che stanno alla base di una tumefazione cervicale vi sono le masse
tiroidee, che si collocano evidentemente in sede mediana e possono essere espressione
di una patologia infiammatoria, cioè di una tiroidite, di una patologia gozzigena oppure
di una patologia francamente neoplastica. Le patologie della tiroide più frequentemente
insorgono nei soggetti di sesso femminile e in età giovane-adulta. In questo caso, la
diagnosi e l’inquadramento della tumefazione cervicale sono anche facilitati in qualche
maniera dalla sintomatologia clinica che sta alla base, che può deporre a favore di un
ipertiroidismo o di un ipotiroidismo. Ad esempio, tra le possibili cause di un aumento di
volume della tiroide, si può descrivere la cosiddetta tiroidite di Hashimoto che è una
tiroidite autoimmune, causa più frequente in assoluto di ipotiroidismo. Dal punto di vista
clinico, la tiroidite di Hashimoto si esprime mediante i sintomi riconducibili alla riduzione
della produzione di ormoni tiroidei, per cui si documenta dal punto di vista clinico la
presenza di bradicardia, aumento di peso, disattenzione ed eventualmente anche
spossatezza e disturbi dell’attenzione o della memoria. I soggetti con la tiroidite di
Hashimoto spesso presentano anche mixedema a livello delle gambe e alterazione
dell’alvo in senso stitico. Al dosaggio laboratoristico degli ormoni tiroidei si documenta la
presenza di una riduzione di fT3 e di fT4 a fronte di un aumento del TSH. Dal punto di
vista semeiologico, si riscontra un aumento del volume della tiroide e della sua
consistenza, associata spesso a superficie lobulata per la presenza di noduli tiroidei
diffusi. La diagnosi è confermata dal dosaggio degli autoanticorpi anti-tireoglobulina, anti-
ormoni tiroidei e/o anti-tireoperossidasi.
Altre possibili tumefazioni cervicali di origine tiroidea sono costituite dai gozzi, di cui
l’espressione più prototipica è il morbo di Basedow-Graves, anche definito come gozzo
tiroideo diffuso, che si esprime mediante un diffuso aumento di volume della tiroide, che è
palpabile all’esame del collo, associandosi ai segni clinici e laboratoristici tipici
dell’ipertiroidismo:
1. Clinica:
a) Tachicardia
b) Agitazione psicomotoria
c) Perdita di peso
d) Alvo frequente
e) Intolleranza al caldo
2. Laboratorio:
a) Riduzione del TSH
b) Aumento di fT4 e/o fT3
c) Autoanticorpi anti-TSHR
Il morbo di Graves si può associare nel 50% dei casi anche ad una oftalmopatia, che si
associa alla presenza di esoftalmo, ipertrofia della caruncola lacrimale, edema palpebrale
e iperemia congiuntivale; è possibile anche il lagoftalmo.
Differentemente, i noduli carcinomatosi sono frequentemente associati alla presenza di
una tumefazione cervicale dura, di consistenza duro-fibrosa o duro-lignea, determinando
una riduzioen della mobilità della tiroide per via della presenza di una massa che infiltra la
capsula di rivestimento della loggia tiroidea; il nodulo frequentemente presenta anche dei
confini irregolari. La consistenza duro-fibrosa, la riduzione della mobilità e i margini sfumati
della lesione nodulare sono anche caratteristiche di una patologia benigna della tiroide che
è la tiroidite di Riedel, che si caratterizza per la preservazione della funzionalità ormonale
della tiroide, a fronte di una sintomatologia compressiva sulle vie aeree che si trovano
posteriormente alla tiroide stessa. La tiroidite di Riedle, altresì nota con il nome improprio
di struma ligneo, entra in diagnosi differenziale, che è esclusivamente istologica, con un
carcinoma della tiroide, che è una neoplasia maligna della ghiandola che insorge più
tipicamente nei soggetti di sesso femminile tra i quaranta e i sessant’anni di età.
Soprattutto per i gozzi tiroidei, la diagnosi è abbastanza confortevole; un gozzo è una
patologia iperplastica non-infiammatoria e non-neoplastica della tiroide, facilmente
diagnosticabile mediante agoaspirato, TC del collo, che consente di capire i limiti e di
programmare l’asportazione chirurgica. Già la consistenza è abbastanza tipica, va dal
teso-elastico al parenchimatoso (quindi dal consistente al duro) ed è più frequente nelle
donne adulte, avendo un carattere benigno.

• LINFOMI DELLA REGIONE TESTA-COLLO


Il linfoma, per definizione, è una neoplasia a primitiva espressione linfonodale che
consegue alla trasformazione neoplastica delle cellule della linea linfoide e, in questo
contesto, rientra tra le possibili cause di una tumefazione cervicale. I linfomi della regione
testa-collo sono più frequenti nei soggetti di età pediatrica o nei giovani. In realtà, di linfomi
esistono diverse varianti distinte per prognosi, per patogenesi, per espressione istologica e
per morfologia e la prima grande distinzione che si esegue nel contesto dei linfomi è quella
tra i linfomi del gruppo del linfoma di Hodgkin e, in contrapposizione a questi, i linfomi
non-Hodgkin, espressione sotto la cui dicitura rientrano differenti tipologie tumorali
distinte per istologia, patogenesi, prognosi ed età di incidenza. Il linfoma di Hodgkin è
una neoplasia della linea linfoide a primitiva espressione linfonodale che si caratterizza per
la presenza di un marker istologico che è costituito dalla cellula di Reed-Sternberg e
dalla cellula di Hodgkin che hanno un immunofenotipo definito CD30+ e CD15+, pur se
esista una variante di linfoma di Hodgkin che si caratterizza per la presenza di altre cellule
marker che sono le cellule L/H o cellule popcorn che presentano un immunofenotipo
CD20+.
Il linfoma di Hodgkin è una neoplasia che può alle volte decorrere asintomaticamente, in
quello che prende il nome di quadro A, mentre nel contesto delle forme sintomatiche si
descrive il cosiddetto quadro B, che è, appunto, dominato dai sintomi di tipo B che oltre
che essere utili per l’inquadramento clinico sono anche utili alla stadiazione prognostica
del linfoma che segue il sistema di stadiazione di Ann Arbor. Il linfoma di Hodgkin si
presenta caratteristicamente mediante febbre superiore a 38°C, sudorazione soprattutto
notturna, astenia, calo ponderale e anche prurito. All’esame obiettivo, si documenta
spesso la presenza di una poli-linfoadenomegalia, che generalmente interessa stazioni
linfonodali continue, tra cui quelle maggiormente colpite sono proprio costituite dalle
stazioni linfonodali cervicali, pur se con il progredire la malattia tenda ad interessare
progressivamente le stazioni linfonodali al di sopra e al di sotto del diaframma, la milza, il
fegato ed infine il midollo osseo. Il linfoma di Hodgkin si esprime o si può esprimere
clinicamente mediante una tumefazione cervicale linfonodale, che si caratterizza per la
presenza di voluminosi pacchetti linfonodali che hanno consistenza aumentata rispetto al
normale, sono normalmente asimmetrici e caratteristicamente indolenti. In questi casi, il
percorso diagnostico converge verso l’esecuzione della biopsia linfonodale, per la diagnosi
di certezza del linfoma di Hodgkin; a completamento dell’iter diagnostico si eseguono
esami per la stadiazione della neoplasia, cioè indagini strumentali, particolarmente la TC
del collo, del torace e dell’addome.

• TUMEFAZIONI DELLE GHIANDOLE SALIVARI MAGGIORI


Nel contesto della patologia della regione testa-collo, le tumefazioni cervicali possono
anche eventualmente essere delle tumefazioni a partenza dalle ghiandole salivari, a
loro volta suddivise in tumefazioni non-neoplastiche e tumefazioni neoplastiche. I tumori
della parotide sono nell’80% dei casi benigni e nel 20% dei casi maligni. Quando invece il
tumore origina dalla ghiandola sottomandibolare è il contrario, l’80% di questi sono maligni
e solo il 20% sono benigni. Ovviamente si possono avere caratteristiche diverse che già
indicano una malignità o una benignità. Ad esempio, le tumefazioni che celano una massa
maligna hanno frequentemente una rapida crescita, tendono ad infiltrare la cute, dando
addirittura alle volte una ulcerazione cutanea e si presentano spesso come delle masse
a consistenza dura, ipomobili o assolutamente immobili, asimmetriche e non-dolenti; i
tumori maligni della parotide caratteristicamente si associano alla possibilità che si abbia
una infiltrazione del nervo facciale che dia luogo alla insorgenza di una paralisi
periferica del facciale.
La patologia infiammatoria delle ghiandole salivari viene genericamente definita con
l’espressione di scialoadenite; la scialoadenite è una condizione infiammatoria che può
avere una eziologia infettiva ovvero non-infettiva e in quest’ultimo caso si distinguono due
differenti condizioni, di cui la prima è quella che consegue alla insorgenza di un fenomeno
di carattere autoimmune che coinvolge diverse ghiandole esocrine tra cui le salivari e che
prende il nome di sindrome di Sjögren e che viene anche categorizzata,
distrettualizzando strettamente le sole manifestazioni salivari, come una scialopatia
linfoproliferativa, dal momento che si caratterizza come una patologia che determina un
vero e proprio accasamento delle cellule linfoidi B e T. Eccettuando le cause di carattere
infettivo, le patologie infiammatorie delle ghiandole salivari possono conseguire alla
formazione di concrezioni calcolotiche che si verificano a seguito di fenomeni litogeni
nei dotti lì dove transita la saliva: questa condizione prende il nome di scialolitiasi.
Le ghiandole salivari sono ghiandole esocrine che producono saliva. All’interno di queste
si possono però creare degli accumuli, dei piccoli calcoli che possono ostacolare il flusso
della saliva conseguendovene un accumulo all’interno della ghiandola. A seguito
dell’accumulo, la ghiandola tende ad aumentare di volume per questo accumulo di saliva,
realizzandosi una tumefazione che è estremamente dolente per via della tensione
generata sulla capsula della ghiandola dove sono presenti i nocicettori; la tumefazione
caratteristicamente si realizza nel momento in cui si verifichi la maggiore produzione di
saliva, cioè durante il periodo prandiale o postprandiale, per cui anche dal punto di vista
anamnestico la scialolitiasi è una condizione di facile individuazione per la sua insorgenza
in correlazione al pasto ed è una delle possibili cause di tumefazione cervicale. Le
caratteristiche cliniche tipiche della scialolitiasi sono:
1. Aumento di volume e consistenza ghiandola sottomandibolare o parotide
2. Manifestazione a breve distanza dal pasto
3. Dolorabilità intensa per accumulo di saliva all’interno
4. La cute può essere arrossata e dolente, spontaneamente ma anche alla palpazione
La scialolitiasi è una condizione discretamente frequente, che colpisce più spesso la
ghiandola sottomandibolare che non la parotide ed è una condizione per la quale l’esatta
patogenesi è sconosciuta ma probabilmente risulta essere l’espressione di una flogosi
scatenata da un trigger ignoto e probabilmente infettivo, che sia in grado di determinare
caratteristicamente una precipitazione dei sali inorganici che si stratificano su del materiale
organico. Difatti, la flogosi variando il pH del lume del dotto favorisce lo spostamento
dell’equilibrio di solubilizzazione del calcio e del fosfato, tal che questi precipitino
ostruendo la ghiandola e favorendo ulteriore infiammazione, che contribuisce ad istituire
un circolo vizioso. La tumefazione in tal caso viene esacerbata soprattutto a seguito del
pasto, si caratterizza per un dolore di insorgenza improvvisa e ad esordio acuto che dopo
un’acuzie tende a regredire, similmente alle coliche biliari o renali che conseguono alla
presenza di una colelitiasi o di una urolitiasi.
La diagnosi della scialolitiasi si vale del contributo dell’ecografia, che permette di
individuare i calcoli che sono classicamente iperecogeni ed eventualmente in caso di
necessità è possibile completare l’iter diagnostico della patologia mediante l’esecuzione di
una TC. La terapia per questa patologia si vale di:
1. Terapia medica: per eliminare l’infiammazione determinata dall’accumulo di saliva
attraverso antinfiammatori. In attesa che il calcolo venga eliminato
spontaneamente.
2. Litotrissia: nel caso non sia possibile che il calcolo venga eliminato
spontaneamente. Essa va a frantumare il calcolo
3. Endoscopia: tramite endoscopi molto piccoli si entra a livello della ghiandola e si
va a rimuovere il calcolo.
4. Asportazione chirurgica della ghiandola: quando non è possibile asportare il
calcolo in altra maniera.
È bene precisare che tra queste, l’unico provvedimento terapeutico completamente
risolutivo è rappresentato dalla asportazione della ghiandola. La scialoadenite è la
principale patologia non-infettiva responsabile delle infiammazioni delle ghiandole salivari
maggiori, tra le quali la più frequentemente colpita è la ghiandola sottomandibolare, in
maniera maggiore rispetto alla ghiandola parotide. Occorre considerare, tuttavia, che
esiste una seconda patologia che si associa alla presenza di una scialoadenite, su base,
questa volta, autoimmune e tale è la sindrome di Sjögren che si definisce come una
esocrinopatia autoimmune, che incide con maggiore frequenza nei soggetti di sesso
femminile e il cui pieno delle manifestazioni cliniche si riscontra in età avanzata ancorché il
danno alle ghiandole esocrine insorga tipicamente in maniera cronicamente evolutiva fin
già dall’età giovane. La sindrome di Sjögren è una patologia che può colpire le ghiandole
lacrimali (cheratocongiuntivite secca), le ghiandole esocrine della trachea (xerotrachea),
il pancreas (pancreatite acuta asintomatica, aumento di amilasi e lipasi) e le ghiandole
salivari, lì dove si presenta con l’espressione di una scialoadenite autoimmune
tipicamente linfocitaria che determina come principali espressioni la xerostomia e la
tumefazione parotidea, solitamente poco dolente, di modeste dimensioni e cronicamente
presente, cui può seguire una attivazione proliferante monoclonale dei linfociti B infiltranti
la ghiandola tal che ne consegua, nel 7% dei casi l’insorgenza di un linfoma, che nella più
parte dei casi è un linfoma del MALT a cellule marginali e in una minoranza di casi più
sfortunati un linfoma diffuso a grandi cellule B. Le manifestazioni della sindrome di
Sjögren, in realtà, si estendono anche ad altri organi, come cute, apparato
gastrointestinale, apparato respiratorio, sangue periferico (tipica è la triade citopenica,
definita da anemia [megaloblastica, emolitica o da infiammazione cronica], leucopenia e
piastrinopenia), rene e vescica, sistema nervoso periferico piuttosto che centrale.
Oltre alle condizioni di scialoadenite dovute alla presenza di calcoli interni alle ghiandole,
oppure alla presenza di un meccanismo autoimmune, è possibile avere scialoadeniti
infettive, sia virali che batteriche, per le quali la principale manifestazione è quella di una
tumefazione parotidea acuta e dolente, insorta acutamente e dolorabile alla palpazione.
Tra le cause principali della scialoadenite infettiva vi sono il virus della Parotite
epidemica, che dà anche manifestazioni testicolari nel maschio con orchite od
orchiepididimite che compare frequentemente in ottava-decima giornata, e che oramai è
quasi del tutto stata debellata dalla somministrazione del vaccino per il virus della Parotite
epidemica. Tra le forme batteriche, si descrive la scialoadenite da streptococchi, che
perlopiù si giovano nel proprio insorgere di condizioni predisponenti, quali sono la
presenza di infezioni settiche o lesioni di continuo nel cavo orale o nella cute che riveste la
parotide. Si tratta di infezioni suppurative per le quali solitamente è sufficiente la
somministrazione di una terapia antibiotica a base di macrolidi.

• NEOPLASIE VASCOLARI DEL COLLO


Le tumefazioni del collo possono dipendere anche da patologie a partenza dai vasi, come
per esempio i tumori del glomo carotideo (anche chiamati paragangliomi) e la
caratteristica di queste lesioni neoplastiche è che sono pulsatili, sono compressibili e
tendono ad assumere una consistenza teso-elastica
La diagnosi, di solito confermata da una un’angiografia, viene già più che sospettata
durante il corso dell’esame obiettivo per via delle caratteristiche che la lesione stessa
assume.
Il trattamento consiste soprattutto nella irradiazione del distretto interessato dal tumore:
1. Irradiazione
2. Follow-up nel paziente anziano
3. Asportazione chirurgica in alcuni casi
Altri tumori vascolari sono gli emangiomi o linfangiomi, che sono delle lesioni
neoplastiche benigne che insorgono entro il primo anno di vita, presentandosi come delle
lesioni che originano dai vasi ematici o linfatici.
Alcune volte questi tumori possono avere una componente endoluminale, quindi possono
interessare anche la laringe, il cavo orale e soprattutto quando si abbia una protrusione
nella laringe, questa è da considerarsi come indicazione invariabile all’esecuzione del
trattamento chirurgico. L’aspetto positivo è che tendono a risolversi spontaneamente: con
il passare del primo anno di vita i tumori tendono ad andare incontro a regressione
spontanea, difatti gli emangiomi infantili soprattutto presentano una prima fase di crescita
più o meno rapida che si articola fino circa all’ottavo-nono mese, al massimo dodicesimo;
dopodiché inizia la fase regressiva dell’emangioma che si protrae alle volte finanche al
sesto anno di vita. Quando sono parecchio voluminosi si tende a trattarli con terapia
steroidea per cercare di accelerare la riduzione del volume. Soprattutto, le indicazioni al
trattamento dell’emangioma vengono poste quando si abbia un elevato rischio di
insorgenza di complicanze.
1) CLINICA DEGLI EMANGIOMI
Gli emangiomi vengono classificati mediante un criterio che sottintende la localizzazione
dell’emangioma, tal che si possano descrivere emangiomi superficiali, emangiomi
profondi ed emangiomi misti; precisiamo che con questa terminologia ci si stia riferendo
strettamente agli emangiomi cutanei,
per cui l’aggettivo profondo non si
riferisce ad una localizzazione
viscerale, pur se effettivamente
esistano degli emangiomi con
localizzazione negli organi interni e
tra questi quello classicamente più
coinvolto è il fegato. Comunque, gli
emangiomi cutanei si definiscono superficiali se la proliferazione emangiomatosa si
colloca al massimo nel derma superficiale, tenendo comunque a mente che un
emangioma non possa mai localizzarsi a livello dell’epidermide, semplicemente perché a
questo livello non esistono strutture vascolari. Per converso, gli emangiomi cutanei si
definiscono profondi nel momento in cui si riscontra una collocazione a livello almeno del
derma medio-profondo, pur se alle volte addirittura gli emangiomi cutanei possano
riscontrarsi a livello dell’ipoderma. Questa classificazione ha anche una propria rilevanza
pratica, dal momento che gli emangiomi profondi appaiono quando visibili come dei
noduli bluastri che peraltro non sono visibili fino a che non raggiungano dimensioni tali
da poter essere palpabili e visibili.
Differentemente, gli emangiomi cutanei superficiali, nella fase di crescita proliferativa
presentano un colore rosso fragola, presentandosi sotto forma di macule, papule,
noduli o placche leggermente rilevate ed a prevalente sviluppo tangenziale.
Gli emangiomi misti presentano sia una componente localizzata a livello del derma
superficiale, la quale appare come una
macula, una papula, una placca o un
nodulo dal colore rosso acceso, che una
componente profonda che invece presenta
le caratteristiche di un nodulo bluastro e che
tendenzialmente è più rappresentata della
componente superficiale. Quale che sia la
localizzazione dell’emangioma e la modalità
di presentazione clinica, tutti gli emangiomi
in fase proliferativa alla palpazione
presentano una consistenza teso-elastica,
ma colore e consistenza si modificano nel
tempo indicando eventuale transizione dalla
fase proliferativa alla fase regressiva: gli
emangiomi superficiali, o la componente
superficiale degli emangiomi misti,
dall’avere un colore rosso fragola diviene di colore rosso scuro, compaiono aree bianco-
grigiastre che rendono non uniforme la colorazione dell’emangioma. Per quanto riguarda
la consistenza dell’emangioma, questa tende a divenire meno tesa, assumendo dapprima
una consistenza parenchimatosa e successivamente una consistenza molle, sempre
più molle al completarsi della fase regressiva.
2) COMPLICANZE E INDICAZIONI AL TRATTAMENTO
Gli emangiomi sono delle lesioni che tendono a regredire spontaneamente tanto che nella
più parte dei casi non necessitano di trattamento e quando regrediscano completamente
alle volte possono non rimanervi sequele, altre volte possono essere presenti delle
sequele estetiche; in altri casi ancora, cioè in quei casi che necessitino di trattamento,
l’emangioma può presentare delle complicanze ben più gravi per la salute del bambino
degli esiti estetici.
1. Sequele estetiche:
a) Teleangectasie
b) Tessuto fibroadiposo
c) Tessuto cicatriziale esuberante
2. Ostruzione e disturbi funzionali:
a) Sviluppo dell’occhio
b) Ostruzione nasale
3. Complicanze life-threatening:
a) Emangiomi paraglottici
b) Emangiomi intratracheali
4. Ulcerazione:
a) 10-20% degli emangiomi
b) Testa-collo
c) Regione del pannolino
d) Labbro
e) Pieghe cutanee
In questi casi, quando sussista un rischio di complicanze, gli emangiomi vengono trattati
con terapia medica, prevalentemente steroidea anche se esistono dei più moderni
trattamenti.

• TUMORI NEUROGENI DEL COLLO


I tumori neurogeni del collo sono delle neoplasie che originano dalle guaine di rivestimento
dei nervi periferici e sono suddivise in due entità cliniche: neurofibroma e schwannoma
che sono entrambi dei tumori benigni delle guaine dei nervi periferici.
Le masse neoplastiche del collo possono aver origine dai molti nervi (nervi cranici, rami
del plesso cervicale, rami del plesso brachiale) presenti a questo livello:
1. Neurofibromi: sono dei tumori benigni delle guaine dei nervi periferici che originano
dall’endonervio di rivestimento.
2. Schwannomi: sono dei tumori benigni delle guaine dei nervi periferici che originano
dalle cellule di Schwann, sono anche chiamati neurinomi o neurilemmomi e tra tutti i
neurinomi uno di quelli di maggiore interesse otorinolaringoiatrico è il neurinoma
dell’acustico che insorge in corrispondenza del nervo stato-acustico e che si rende
responsabile di una possibile ipoacusia neurosensoriale.
I neurofibromi sono delle lesioni che frequentemente insorgono nel contesto di una
patologia genetica che prende il nome di neurofibromatosi di tipo I o malattia di von
Recklinghausen, che consegue all’anomala strutturazione di una proteina chiamata
neurofibromina per mutazione congenita a trasmissione autosomica dominante e a
penetranza incompleta, che predispone alla formazione di multipli neurofibromi e alla
eventuale presenza di una trasformazione di uno o più di questi nell’entità corrispettiva
maligna che prende il nome di tumore maligno delle guaine dei nervi periferici. La
neurofibromatosi di tipo I frequentemente esordisce mediante delle lesioni maculari a
livello della cute, che hanno un colore cosiddetto caffellatte le quali transitano per fasi di
accrescimento polipoide. Lo schwannoma, differentemente dal neurofibroma, è una
lesione che insorge per trasformazione neoplastica benigna delle cellule di Schwann.
Altresì noto come neurinoma, spesso insorge a livello della cavità del neurocranio a livello
del nervo acustico, passando per una prima fase di accrescimento a livello del meato
uditivo interno e per una successiva fase di accrescimento cisternale: il collo è la
localizzazione extracranica dello schwannoma più frequente, laddove insorgono circa il
45% dei casi di neurinoma extracranico. L’età tipica di insorgenza è quella giovane-adulta,
tra i vent’anni e i quarant’anni, presentandosi tipicamente asintomatico, ancorché
quando insorga a livello del nervo vago (lo schwannoma vagale è la variante topografica
più frequente) o del nervo laringeo ricorrente possa eventualmente dare luogo ad una
disfonia, mentre nel momento in cui si riscontri la presenza di un interessamento del
ganglio stellato, cioè un ganglio della catena dell’ortosimpatico che risulta dalla fusione di
due gangli della medesima catena, vale a dire dell’ultimo cervicale e del primo toracico, si
può avere come espressione clinica la sindrome di Claude-Bernard-Horner che si
caratterizza per miosi, enoftalmo e ptosi palpebrale.
La diagnosi si fa attraverso l’esame obiettivo del collo, attraverso la palpazione che
documenta consistenza molle-elastica, margini definiti e massa non-dolente, e viene
completata da indagini radiologiche. In base alle dimensioni si deciderà se asportare
chirurgicamente questi tumori.

• CISTI CONGENITE DEL COLLO


Si tratta di tumefazioni che si manifestano per patologie congenite, in particolare quelle più
frequenti sono le cisti branchiali laterali, pur se sia possibile anche riscontrare delle cisti
che prendono il nome di cisti mediane del collo, che hanno una origine differente rispetto
a quella delle cisti laterali del collo.
1) CISTI LATERALI DEL COLLO
Si sviluppano a partire dal secondo e terzo arco branchiale, più frequentemente il secondo
che dà origine circa al 95% delle cisti laterali del
collo. Sono delle masse estremamente molli,
fluttuanti che sono visibili alla risonanza magnetica
ma anche alla TC, come delle immagini che sono
trasparenti nella parte centrale che appare nera per
via della presenza del liquido, con un cercine
bianco intorno che rappresenta la parete che viene
meno attraversata dai raggi che si utilizzano per
l’esecuzione dell’indagine di imaging.
L’aspetto delle cisti laterali del collo alle indagini
strumentali è tipico: la parete è bianca e l’interno è
nero perché di solito le cisti contengono un liquido
sieroso, tranne quando si infettano, situazione in
cui il contenuto diventa più purulento e si
riscontrano parallelamente anche altri sintomi e segni della flogosi della cisti
1. Rubor: arrossamento cute sovrastante
2. Calor: la cute diventa calda al tatto
3. Tumor: aumenta la tumefazione nel giro di pochi giorni
4. Dolor: cute tesa e dolente
Sono delle particolari lesioni occupanti spazio che, dal momento che originano da una
anomalia della regressione di strutture embrionali, rappresentano causa di tumefazione
cervicale di età pediatrica o al massimo adolescenziale; alle volte quando di molto piccole
dimensioni possono anche non essere colte dal paziente: in tal caso non è infrequente che
la tumefazione sia rivelata da una sovrapposizione infettiva.
2) CISTI MEDIANE DEL COLLO
Altra categoria di cisti congenite è rappresentata
dalle cisti mediane del dotto tireoglosso, dovute
alla mancata chiusura del dotto tireoglosso durante
la crescita (nel passaggio della tiroide dalla base
della lingua scendendo lungo il collo, il dotto
tireoglosso dovrebbe chiudersi). Se questo non
accade, il dotto tireoglosso rimane pervio, si può
infettare e dare delle cisti.
Si presentano come una tumefazione mediana
nel 75% dei casi; circa nella metà dei casi
compaiono prima dei vent’anni e sono
frequentemente (65% dei casi) in sede
sottoioidea, presentandosi come delle masse
mobili, che vengono spostate dalla protrusione della lingua o dalla deglutizione.
Il materiale grigiastro all’interno della cisti, visibile alle indagini di imaging è indice di flogosi
purulenta.
In questo caso la diagnosi si fa abbastanza facilmente:
1. localizzazione tipica
2. elevazione della cisti durante la deglutizione del paziente: la cisti è adesa all’osso
ioide e segue i suoi movimenti durante la deglutizione

• ALGORITMO DIAGNOSTICO PER LE TUMEFAZIONI CERVICALI


Prima domanda da porsi davanti ad un soggetto che si presenti all’attenzione medica con
una tumefazione cervicale è l’età: è fondamentale considerare se trattasi di un bambino
o di un adulto, dal momento che le cause variano.
Nei bambini l’80% delle tumefazioni cervicali è costituita da linfoadeniti acute, che si
presentano clinicamente con delle linfadenopatie dolenti e di consistenza molle; le
principali cause di linfadenite sono:
1. Infezioni virali:
a) EBV
b) HSV
c) CMV (infrequentemente sintomatico in soggetti normoergici)
2. Toxoplasmosi.
Esistono poi delle linfadeniti croniche, che hanno espressione tipicamente
granulomatosa e possono riscontrarsi nel contesto della tubercolosi, delle actinomicosi,
della malattia da graffio del gatto e della sarcoidosi: in questo caso la consistenza è
leggermente maggiore e la mobilità del linfonodo ridotta.
Il primo approccio nel contesto delle linfadeniti è quello di chiarire la causa
dell’infiammazione tramite esami sierologici e strumentali. Soprattutto quando la lesione
presenti aspetti come la presenza di una massiva linfoadenomegalia che coinvolge
diverse stazioni linfonodali, nel giovane in associazione a sintomi come febbre, calo
ponderale, astenia, prurito e sudorazione notturna, si sospetti linfoma della regione testa-
collo.
Negli adulti l’approccio è differente: bisogna innanzitutto capire dalla storia cosa può
essere, se la tumefazione cervicale si trovi in sede da tanti anni senza evolvere affatto,
non può essere un tumore, se è cresciuta da qualche mese può essere una forma
tumorale, se è cresciuta nell’arco di pochi giorni bisogna pensare a qualcosa di
infiammatorio.
La diagnosi può essere:
1. Anomalia congenita:
a) Cisti branchiale del collo
b) Cisti del dotto tireoglosso
ecografia o TC per la diagnosi di certezza, successivamente asportazione della
cisti.
2. Infezione: si intraprende terapia antibiotica empirica e bisogna capire se c’è un
miglioramento, se non c’è miglioramento bisogna fare delle indagini per capire quali
possono essere gli agenti eziologici responsabili dell’infezione: esami sierologici,
pannello virale, ricerca di batteri, anche specifici come ad esempio il batterio
della TBC.
3. Neoplasia: studio radiologico tramite TC/RM, agoaspirato della lesione. Bisogna
sempre associare la valutazione della massa del collo ad una endoscopia per
vedere se riconosciamo la sede primitiva del tumore che ha determinato la
metastasi. Quando si fa diagnosi del tumore primitivo e dalla metastasi linfonodale
si può decidere l’approccio chirurgico sia sul tumore primitivo che sulla metastasi
linfonodale attraverso uno svuotamento laterocervicale.
Otiti esterne

Per definizione, con l’espressione di otite si intende un processo infiammatorio


prevalentemente su base infettiva che interviene a carico dell’orecchio esterno o
dell’orecchio medio motivo per cui sulla base della topografia della lesione, si distinguono
otiti esterne ed otiti medie. Le otiti esterne sono dei processi infiammatori che si
localizzano a livello dell’orecchio esterno, quella parte dell’orecchio costituita dal padiglione
auricolare, dotato di rivestimento cutaneo, e dal condotto uditivo esterno, del quale si
distinguono una porzione esterna, che ha uno scheletro fibrocartilagineo ed è rivestita da
cute e sottocute, essendovi nello spessore della prima le ghiandole ceruminose, e una
porzione interna che invece ha scheletro osseo e viene rivestita da cute ma non da
sottocutaneo. In ordine di frequenza, le otiti esterne possono conseguire a patologie infettive
a eziologia batterica, micotica o virale.

• OTITE ESTERNA BATTERICA


Si intende con l’espressione di otite esterna batterica un processo infiammatorio ad
eziologia infettiva dell’orecchio esterno, che quindi colpisce il padiglione auricolare ma
soprattutto il condotto uditivo esterno. Dal punto di vista epidemiologico, si tratta perlopiù
di patologie stagionali, cioè che insorgono caratteristicamente durante un periodo dell’anno
che è quello estivo, per via del fatto che in estate più che in inverno si realizzi maggiormente
il contatto con acqua non sterile o addirittura infetta.
Il secondo motivo è che per via del bagnamento dell’orecchio che più frequentemente si
realizza durante l’estate, il soggetto è maggiormente esposto a lesioni dello stesso, che
tuttavia non vengono generate di per loro dal bagnamento ma dal traumatismo che viene
indotto con le dita, che possono anche essere portatrici dei germi.
1) EZIOLOGIA
L’eziologia della otite esterna batterica è legata nella più parte dei casi ad un batterio gram-
negativo che è la Pseudomonas Aeruginosa, batterio che si giova nel proprio penetrare
a livello dell’orecchio di soluzioni di continuo per generare una infezione per via del contatto
con acque non sterili o infette o per i microtraumi generati dal contatto dell’orecchio con le
dita della mano. In questi casi le microlesioni che possono essere facilitate nel proprio
insorgere dal bagnamento dell’orecchio, offrono una via di penetrazione al germe; ancorché
in alcuni casi l’eziologia della malattia in questione sia differente, associata ad infezioni da
Klebsiella o da Stafilococco aureo, l’eziologia più frequente è quella da Pseudomonas
Aeruginosa, il che ha una propria implicazione pratica nella scelta terapeutica anche perché
i ceppi di Pseudomonas con cui oggi si ha a che fare sono prevalentemente dei ceppi
multiresistenti a determinati antibiotici.
2) CLINICA
La clinica dell’otite esterna batterica è predominata dalla presenza dell’otalgia, cioè di un
dolore che in questo caso non è riferito, bensì localizzato, all’orecchio esterno e che viene
esacerbato quando si comprima sul trago o quando si trazioni verso il basso la conca del
padiglione auricolare. Il soggetto con questa patologia lamenta frequentemente anche una
otorrea purulenta, di colore giallo-verdastro o francamente verdastro anche perché le
colonie della Pseudomonas Aeruginosa sono di colore verde smeraldo. La presenza del
materiale purulento si apprezza anche all’ispezione dell’orecchio con l’otoscopio, che
documenta la presenza di un restringimento del canale uditivo esterno, situazione che
riduce la conduzione dell’aria e quindi comporta riduzione della soglia auditiva per la via
aerea ma non per la via ossea; peraltro, in questo caso la prova di Weber con il diapason
documenta una lateralizzazione del suono verso l’orecchio patologico (se solo uno dei due
è colpito), per via del venir meno del fenomeno del mascheramento ambientale. Pur tuttavia,
si tratta di una ipoacusia trasmissiva transitoria, che regredisce con la corretta terapia del
paziente. È presente inoltre un senso di ovattamento e solo tenendo presente questi
elementi clinici si può confortevolmente giungere alla diagnosi dell’otite esterna batterica.
3) DIAGNOSI
La diagnosi è fondamentalmente clinica, associata alla valutazione dei sintomi e
all’anamnesi, nonché al periodo dell’anno nel quale il paziente richieda l’attenzione medica:
l’otite esterna batterica è la principale causa di otalgia nel periodo estivo. Si potranno
apprezzare gli eventuali segni cardinali della flogosi, che sono il tumor (la tumefazione è
visibile mediante osservazione con lampada frontale), il calor, il rubor, il dolor (l’otalgia
esacerbata dalla pressione sul trago o dalla trazione verso il basso del padiglione auricolare)
e la functio laesa che si manifesta mediante la presenza di una ipoacusia trasmissiva, la
quale ha a che verificarsi dal momento che l’essudato purulento che si accumula
nell’orecchio determina una ostruzione del condotto uditivo esterno e quindi impedisce la
veicolazione dell’onda sonora.
4) TERAPIA
Il primo consiglio che bisogna dare al paziente è di evitare il contatto con l’acqua: non
bisogna pulire e lavare l’orecchio che deve essere trattato solo con soluzioni e terapie
idonee.
L’orecchio va, infatti, deterso con soluzioni acide, in particolare soluzione a base di acido
borico o di acido acetico che servono a detergere il condotto uditivo esterno in maniera tale
da eliminare il più possibile l’essudato purulento.
La terapia specifica per l’infezione si vale dell’utilizzo di gocce otologiche: si tratta di
soluzioni contenenti farmaci che sono attivi nei confronti della P. Aeruginosa, infatti esse
nella maggior parte dei casi contengono farmaci antibiotici che fanno parte della classe
degli aminoglicosidi, tra cui la gentamicina per uso topico. Difatti, gli aminoglicosidi per
via sistemica sono dei farmaci potenzialmente ototossici cioè che possono arrecare
danno all’orecchio interno risultandovi come conseguenza l’insorgenza di una ipoacusia
neurosensoriale. Per la Pseudomonas Aeruginosa, allorquando l’otite non possa venire
adeguatamente confinata con la terapia antibiotica topica e quindi si estenda ad esempio al
condilo mandibolare (primo segno dell’evoluzione nell’otite esterna maligna) si necessita di
una terapia specifica che è l’ossigenoterapia, dal momento che la P. Aeruginosa è batterio
anaerobio.

• OTITE ESTERNA MICOTICA


L’otite esterna micotica è una infezione dell’orecchio esterno, caratteristica del periodo
estivo, ma meno frequente della forma batterica, conseguente a infezioni fungine, da
Candida Albicans, Aspergillus Flavus o Niger. Si tratta di una infezione che pure si giova nel
proprio insorgere della presenza di un contatto più o meno prolungato con l’acqua non sterile
o addirittura infetta, oppure dei traumatismi che si generano al livello dell’orecchio,
esattamente come la otite esterna batterica. Differentemente da questa, tuttavia, l’otite
esterna micotica può anche insorgere per via dell’utilizzo incongruo degli antibiotici, in
particolar modo degli antibiotici topici che vengono impiegati nel trattamento delle otiti
esterne batteriche. Difatti, questi farmaci antibiotici determinano una riduzione della flora
batterica saprofita residente a livello dell’orecchio esterno; la funzione di questa flora, che
viene meno a seguito di trattamenti sconsiderati con antibiotici topici, è quello, per un effetto
definito di competizione batterica, di prevenire lo sviluppo di infezioni micotiche e di
infezioni gravi.
1) EPIDEMIOLOGIA
L’otite esterna micotica, come la forma batterica, è frequente nel periodo estivo e
soprattutto incide con maggiore frequenza nei soggetti portatori di un apparecchio
acustico, i quali costituiscono una percentuale importante della popolazione. Occorre
considerare, infatti, che per via dell’inquinamento sonoro tutti i soggetti sono sottoposti ad
una cronica e parcellare perdita delle funzionalità cocleari, che tuttavia risulta clinicamente
evidente e più rapida solo in alcuni soggetti, nei quali si riscontra quella che prende il nome
di presbiacusia, una forma di ipoacusia neurosensoriale da danno prevalentemente o
esclusivamente cocleare. La perdita uditiva è un fenomeno che si realizza circa nel 30-35%
dei soggetti, per cui è abbastanza elevata la fascia di popolazione che è a rischio per
insorgenza di una otite esterna micotica.
2) CLINICA
La clinica si caratterizza sempre per la presenza di otalgia, che è anche incrementata dalla
pressione aumentata nel condotto uditivo esterno a causa dell’essudazione che determina
l’insorgenza di una otorrea, cioè la perdita di materiale dall’orecchio, che è differente a
seconda del fungo considerato: per gli Aspergilli, il materiale è classicamente cotonoso,
dal momento che questi funghi proliferano formando spore o ife che danno luogo a queste
perdite di materiale cotonoso punteggiato di giallo nel caso dell’Aspergillus Flavus e di nero
nel caso dell’Aspergillus Niger. Le essudazioni da Candida, come in altre sedi sono bianche
e cremose. Si può riscontrare la presenza di una ipoacusia trasmissiva per via
dell’ostruzione del meato e dell’intero condotto uditivo esterno, ancorché il sintomo
principale di queste forme di otite sia il prurito, che in genere nell’orecchio esterno è legato
a sole due cause, cioè ad una infezione fungina o ad un eczema della cute dell’orecchio.
Con la clinica e l’esame obiettivo in questi casi si giunge confortevolmente alla diagnosi
della patologia.
3) TRATTAMENTO
Il trattamento prevede la detersione del condotto da parte del medico attraverso degli
aspiratori, raccomandando al paziente di detergere il condotto attraverso soluzioni sterili e
acidificanti a cui deve seguire l’applicazione di gocce otologiche a base di antimicotico.

• OTITE ESTERNA VIRALE


L’otite esterna virale è una patologia infiammatoria dell’orecchio esterno che
differentemente dalle forme batterica e micotica è tipica del periodo invernale. Altresì nota
con l’espressione di otite bolloso-emorragica o miringite bolloso-emorragica dal
momento che le bolle possono anche disporsi sulla faccia laterale della membrana del
timpano, questa otite esterna è legata all’infezione del virus dell’influenza. Quindi, essa è
una forma di otite che si può manifestare con i sintomi tipici dell’influenza (febbre, dolori
muscolari, spossatezza, tosse) ma non è affatto detto che lo faccia; comunque dal momento
che si sta trattando dell’otite esterna virale, chiaramente questa patologia presenterà
invariabilmente dei sintomi di competenza otorinolaringoiatrica.
Il virus dell’influenza causa lesioni della cute del condotto uditivo esterno caratterizzate da
uno slaminamento tra derma e sottocute e dalla formazione di bolle che si riempiono prima
di un essudato sieroso e poi di un essudato ematico e prova ne sia il fatto che questa otite
è stata definita otite bolloso-emorragica, proprio perché è caratterizzata dalla presenza di
bolle piene di sangue.
Questa patologia è più tipica del periodo invernale, in particolare del periodo dell’influenza.
Inoltre, essa spesso interessa i bambini.
1) SINTOMATOLOGIA
Il paziente riferisce:
1. Otalgia: mal d’orecchio, dolore, legato alla pressione del sangue sulle pareti del
condotto e prova di questo ne sia il fatto che la rottura delle bolle quale tentativo di
decompressione si associa ad una riduzione dell’intensità del dolore.
2. Ipoacusia: si tratta di un’ipoacusia trasmissiva in quanto a volte anche la membrana
timpanica è interessata da queste bolle; tanto è vero che questa malattia viene anche
chiamata su alcuni testi miringite bolloso-emorragica.
3. Otorrea siero-ematica: talvolta le bolle si rompono e ciò determina otorrea. Il
paziente si rivolge al medico perché vede sangue uscire dall’orecchio.
Questa patologia molto spesso interessa i bambini: spesso capita che le mamme chiamino
il pediatra in panico dal momento hanno trovato sangue sul cuscino del bambino. Non
infrequentemente accade che il bambino pianga per tutta la notte per via del dolore fin
quando poi si addormenti; in questo caso, il dolore cessa quando si rompe la bolla e il
sangue fuoriesce, causando l’otorrea sieroematica.
Il dolore è legato alla pressione del sangue sulle pareti del condotto: nel momento in cui
questa bolla ematica si rompe e quindi si realizza il drenaggio di questo materiale ematico,
il dolore scompare mentre compare l’otorrea sieroematica.
Non è una patologia grave, questa rottura non provoca perforazione del timpano, che è
una delle principali preoccupazioni per patologie come le otiti medie purulente e che
necessita di diagnosi e terapia adeguata.
In questi casi con l’ispezione e l’anamnesi positiva per otorrea sieroematica si può
confortevolmente giungere alla diagnosi, senza necessità di eseguire alcuna indagine di
maggiore impegno o costo.
2) TRATTAMENTO
In teoria, essendo questa un’infezione virale non si dovrebbe somministrare alcun farmaco
ma paradossalmente si consiglia l’utilizzo di antibiotici ad ampio spettro, sol perché in
questi casi sussiste l’eventuale rischio che si possa avere una sovrinfezione batterica e
nonostante l’eziologia sia virale, è un’infezione che molto spesso dà luogo ad una
sovrinfezione batterica, differentemente dalla maggior parte delle infezioni virali delle vie
aeree superiori come la faringite o l’otite media per le quali questo tipo di complicanza non
è prevista.
Gli antibiotici consigliati sono quindi quelli ad ampio spettro: ad esempio l’amoxicillina-
acido clavulanico (Augmentin®). Si tratta di germi che tipicamente interessano le vie aeree
superiori e che sono responsivi a questi antibiotici (non come la Pseudomonas).
Anche qui l’utilizzo di gocce antibiotiche per evitare una sovrainfezione batterica è utile,
insieme eventualmente alla somministrazione di gocce a base di lidocaina, che è un
anestetico locale utile calmare il dolore.
• OTITE ESTERNA MALIGNA
L’otite esterna maligna è una patologia infettiva definita tale dal momento che può portare il
soggetto a exitus e corrisponde ad una complicanza di otiti batteriche e micotiche che non
siano state trattate come di dovere. Pur se oggi si abbia una vasta opportunità farmacologica
per il trattamento delle otiti, alle volte accade che queste si complichino e questo accade
soprattutto nei soggetti che ne siano in qualche maniera predisposti per via della presenza
di condizioni, che possono essere congenite o acquisite, talora iatrogene, che comportino
una riduzione della efficienza della risposta immunitaria.
1) EPIDEMIOLOGIA
L’epidemiologia e in particolar modo le fasce della popolazione che siano maggiormente
esposte a questa complicanza suggeriscono quali siano le motivazioni che stanno alla base
dell’eventuale insorgenza di una patologia come questa che può risultare anche mortale
soprattutto nei casi in cui si verifichi una polmonite ab ingestis che costituisce una delle
principali cause di morte per questi soggetti. L’otite esterna maligna è una patologia che
insorge preferenzialmente in soggetti che siano in qualche maniera incapaci di poter
debellare una infezione e a maggior ragione allorquando si associ a questa condizione
personale un approccio terapeutico non efficace all’otite esterna fungina o batterica. L’otite
esterna maligna incide con maggiore frequenza, ad esempio, nei soggetti anziani, per via
dell’ipoergia del sistema immunitario e dal momento che la popolazione anziana è sempre
in aumento per via dell’aumento della vita media dei soggetti, si può considerare come
questa sia una patologia comunque non eccezionale. La seconda categoria di soggetti che
risulta esposta maggiormente a questa complicanza delle otiti esterne infettive è costituita
dal diabete: il diabete è oggi la più comune causa di immunodepressione anche perché le
condizioni di iperglicemia riducono l’efficacia della attività di chemiotassi neutrofila e di killing
dei microrganismi. Inoltre, numerosi sono anche soggetti nei quali l’immunodepressione sia
prevista dal trattamento terapeutico, come accade per i chemioterapici nei pazienti
oncologici, per la terapia corticosteroidea o immunosoppressiva per i pazienti con patologie
autoimmune o gli immunosoppressori per i pazienti trapiantati.
2) CLINICA
Sicuramente, le manifestazioni cliniche della otite esterna maligna in parte sono
sovrapponibili a quelle di una otite esterna acuta, questo dal momento che l’otite esterna
maligna è una complicanza di una patologia che si manifesta con otalgia, otorrea (di distinte
qualità), acufeni ed ipoacusia trasmissiva. Le altre manifestazioni cliniche dell’otite esterna
maligna conseguono alla estensione della flogosi alle strutture vicine, di cui una delle prime
è costituita dal condilo mandibolare. Il condilo della mandibola partecipa all’istituzione
dell’articolazione temporomandibolare e assume funzione importante non solo nel contesto
della masticazione ma anche nel contesto dell’apertura della rima labiale: la flogosi erode
l’osso, determinando una ipomobilità morfo-funzionale dell’articolazione tal che insorga il
trisma, che corrisponde ad un sintomo associato alla impossibilità di apertura della rima
labiale. Alla TC, che è un esame radiologico di estrema importanza per lo studio delle ossa,
si può notare come nell’otite esterna maligna il processo infiammatorio eroda dapprima la
compatta e poi la spugnosa dell’osso: il primo sintomo che deve far sospettare l’evoluzione
da quella che è ancora una otite esterna acuta a quella che è già un’otite esterna maligna è
il trisma.
Successivamente, possono comparire anche degli interessamenti infiammatori dei nervi
che si trovano in vicinanza della sede primitiva della flogosi, tra cui il nervo facciale. In tal
caso, la paralisi del facciale è sostanzialmente monolaterale, associandosi alla presenza di
una impossibilità di movimento dei muscoli dei tre comparti, cioè del terzo superiore,
medio e inferiore della faccia. Trattandosi di una paralisi periferica del facciale, il soggetto
non presenta la preservazione dei muscoli del terzo superiore, che invece è rilievo
caratteristico delle paralisi centrali del facciale.
1. Paralisi del facciale:
a) Periferica
b) Monolaterale
2. Coinvolgimento del IX (glossofaringeo):
a) Disfagia
b) Ipomobilità del palato molle
3. Coinvolgimento del X (nervo vago):
a) Disfonia
b) Polmonite ab ingestis
4. Coinvolgimento del XII (ipoglosso):
a) Alterazione della motilità della lingua
b) Fascicolazione monolaterale
Possono essere interessati anche altri nervi che sono più o meno in vicinanza dell’orecchio,
quali sono il glossofaringeo (IX), l’accessorio spinale (XI) e l’ipoglosso (XII). Il nervo
glossofaringeo presiede all’innervazione gustativa del terzo posteriore della lingua e
all’innervazione sia sensitiva che motoria del faringe e del palato molle, risultandovi come
conseguenza una ipomobilità del palato molle e del faringe che può determinare come
sintomo una disfagia prevalentemente della fase orale o oro-faringea.
Il coinvolgimento infiammatorio del nervo vago si estrinseca per il tramite soprattutto di una
disfonia e di una alterazione della motilità laringea, dal momento che il vago rilascia il nervo
laringeo superiore, che presiede l’innervazione sensitiva della laringe e l’innervazione
motoria del muscolo cricotiroideo, e il nervo laringeo inferiore, che invece assicura quasi del
tutto l’innervazione motoria della laringe. Per questo motivo, si verifica come possibile
sintomo la disfonia, per paralisi di corda vocale soprattutto monolaterale. Occorre
considerare che le alterazioni della motilità della laringe comportano anche come possibile
conseguenza l’ingestione di materiale alimentare, che alle volte è anche facilitato dalla
presenza di rigurgiti associati alla disfagia e all’ipomotilità faringea. La polmonite ab ingestis
costituisce una delle principali cause di morte per i soggetti con questa patologia nei quali è
possibile che si sviluppi accanto all’ipomotilità faringea e all’alterazione dell’atto deglutitorio
anche un’insufficienza glottica con una paralisi in abduzione delle corde vocali.
L’interessamento dell’ipoglosso comporta una alterazione della motilità della lingua, che si
esprime mediante una deviazione della punta della lingua dal lato patologico e per la
presenza di una fascicolazione della stessa; l’eventuale coinvolgimento del nervo
accessorio spinale determina riduzione della motilità del trapezio e dello
sternocleidomastoideo. L’infiammazione può anche estendersi coinvolgendo la base del
neurocranio, risultandovi come conseguenza l’insorgenza di una osteomielite della base
del cranio; complicanze assolutamente temibili sono costituite dalla presenza di una
tromboflebite della giugulare, che comporta aumento della pressione nei seni venosi della
dura, conseguendovi una riduzione del drenaggio del liquor cefalorachidiano e
conseguentemente un idrocefalo ipertensivo comunicante che si esprime con una
ipertensione endocranica, e dalla meningite, che si manifesta violentemente con una
sindrome da ipertensione endocranica, che si presenta con cefalea gravativa e diffusa,
papilledema e vomito a getto non alimentare, in associazione a rigidità nucale e positività ai
cosiddetti segni di meningismo.
3) DIAGNOSI
La diagnosi è integrata tra i dati clinici, le indagini strumentali e le indagini di laboratorio. La
clinica è fondamentalmente ascrivibile ad una più o meno lunga storia personale di otalgia
e otorrea, che si associano, nelle fasi precoci della otite esterna maligna, al trisma o ad
eventuali sintomi che depongono a favore di una paralisi del facciale o di altri segni di
coinvolgimento dei nervi cranici. L’esame obiettivo si esegue mediante ispezione del
condotto uditivo e otoscopia che documentano la presenza di edema infiammatorio ed
essudato purulento di colore e caratteristiche composizionali differenti in considerazione
del germe responsabile anche se nella più parte dei casi si tratta di una infezione da
Pseudomonas Aeruginosa che dunque produce un essudato verde o giallo-verdastro.
L’eventuale esecuzione di una orofaringoscopia documenta la ipomotilità del palato e la
laringoscopia l’eventuale ipomotilità delle corde vocali. Tuttavia, ancorché nella più parte dei
casi l’agente in causa sia la Pseudomonas Aeruginosa e al netto del fatto che spesso si
possa risalire all’eziologia mediante valutazione dell’essudato e del colore di questo, è
necessario eseguire un tampone ed un antibiogramma, al fine di stabilire con certezza
l’eziologia dell’infezione e l’eventuale spettro di antibiotici a cui il batterio sia sensibile.
Inoltre, nel percorso diagnostico di estrema importanza sono la TC e la RMN, per studiare
rispettivamente le ossa e i tessuti molli al fine di stimare l’eventuale coinvolgimento di altre
strutture vicine.
4) TERAPIA
La terapia è mirata e somministrata per via sistemica; chiaramente nel qual caso si
riscontri la presenza di una infezione batterica, sulla base dell’antibiogramma, si potrà
impostare la più corretta terapia antibiotica possibile.
Mentre l’otite esterna semplice la si tratta solamente nella maggior parte dei casi in maniera
topica, qui c’è necessità di somministrare una terapia sistemica che deve durare almeno 2
mesi: se non si eradichi completamente tutta l’infezione, in particolare l’infezione che ha
interessato l’osso, c’è un rischio estremamente alto che il paziente non guarisca, recidivi e
possa andare incontro a complicanze mortali. La causa mortale più frequente è la
polmonite ab ingestis: la paralisi laringea predispone alla inalazione del cibo ingerito, il
quale finisce nei polmoni causando la polmonite.
Patologie dell’orecchio medio

Le patologie dell’orecchio medio sono tutte quelle malattie che coinvolgono la cassa del
timpano e si distinguono sulla base di un criterio anatomopatologico e temporale in acute e
croniche:
1. Patologie acute: di durata inferiore ai venti giorni
a) Otite media purulenta
b) Otite media sieromucosa
2. Patologie croniche:
a) Otiti croniche
b) Colesteatoma
c) Timpanosclerosi
d) Atelettasia dell’orecchio medio
Le patologie acute e le patologie croniche sono distinte sulla base del decorso clinico,
dell’andamento della sintomatologia clinica e sulla base di un criterio anatomopatologico dal
momento che le patologie infiammatorie acute sono pienamente compatibili con la restitutio
ad integrum del tessuto, differentemente dalle otiti croniche che si associano a guarigione
cicatriziale, senza preservazione della originaria morfologia e quindi della originaria funzione
dalla struttura interessata. Le patologie acute hanno solitamente una sintomatologia che
insorge in maniera improvvisa, protraendosi questa per circa 20-30 giorni, differentemente
dalle forme croniche nelle quali la sintomatologia può anche essere meno violenta nella fase
iniziale ma certamente si associa ad una protrazione temporale maggiore e proprio in
corrispondenza della espressa e perdurante alterazione patologica lascia delle sequele che
possono essere delle cicatrici sclerosanti, nel caso di quella che prende il nome di
timpanosclerosi, o delle perforazioni in quella che è una complicanza temibilissima come
la perforazione della membrana del timpano.

• OTITE MEDIA PURULENTA (O ACUTA)


L’otite media acuta (o purulenta) è una patologia infiammatoria acuta dell’orecchio medio
dalla insorgenza improvvisa e che tende frequentemente a guarigione in poco tempo con
restitutio ad integrum, spontanea o indotta da terapia antibiotica ad ampio spettro, a meno
che non subentrino delle complicanze come possono essere quelle rappresentate dalla
perforazione della membrana del timpano. Si tratta di una patologia che incide con
estremamente maggiore frequenza nei soggetti di molto giovane età, soprattutto è
estremamente frequente in età pediatrica, dal momento che in questa fascia di età sussiste
sempre la presenza di una immaturità funzionale del sistema immunitario.
1) EZIOLOGIA
L’otite media acuta rappresenta sostanzialmente una complicanza di processi infiammatori
dell’alto tratto respiratorio, motivo per cui frequentemente si associa a delle manifestazioni
infiammatorie a questo livello; nella più parte dei casi le otiti medie acute che non giungono
all’attenzione medica sono le otiti virali (70-80% dei casi), cioè quelle che insorgono a
seguito di una infezione virale da parte di virus come il rinovirus, il virus respiratorio
sinciziale e l’adenovirus mentre altre forme che più frequentemente vengono all’attenzione
medica, del medico di medicina generale o del pediatra, sono le forme batteriche, che sono
estremamente frequenti e che conseguono ad infezioni da parte di uno di quei batteri che
sono responsabili delle sinusiti purulente, vale a dire Pneumococco (Gram-positivo),
Moraxella Catarrhalis o Haemophilus Influenzae. Alle volte, le infezioni batteriche
dell’orecchio medio possono essere una complicanza di una otite media virale, mentre in
altri casi insorgono come tali ab initio ed è importante considerare che conoscere l’eziologia
è estremamente importante, dal momento che, altro che nei casi in cui si verifichi
perforazione della membrana del timpano e conseguente fuoriuscita del pus, l’essudato
purulento rimane compartimentalizzato e segregato nella cassa del timpano per cui non vi
è possibilità di eseguire un tampone per la diagnosi microbiologica, quindi in questi casi
conoscere l’eziologia è di fondamentale importanza dal momento che sulla base di questa,
quando non si disponga di materiale per eseguire il tampone, si può impostare una terapia
antibiotica empirica efficace per questi tre batteri.
2) CLINICA
Dal momento che nella maggioranza dei casi si tratta di una complicanza di una infezione
delle alte vie respiratorie, l’otite media acuta si manifesta con otalgia associata alla
presenza di sintomi come rinorrea, faringodinia, che sono espressione dell’eventuale
presenza di una faringite oppure di una faringotonsillite o ancora di una rinite o di una
rinosinusite (gli elementi clinici caratteristici della sinusite sono costituiti da rinorrea
mucopurulenta, dolore in corrispondenza dei seni, scolo retrofaringeo, tosse, alitosi, edema
periorbitario). La febbre è rara e quindi non rappresenta un sintomo di rilievo, come invece
lo sono l’autofonia e la ipoacusia di trasmissione. L’autofonia corrisponde al fenomeno
di rimbombo della propria voce, che si associa spesso ad un senso di ovattamento;
chiedere al paziente se avverta il rimbombo della propria voce è fondamentale dal momento
che quando questo non sia presente si deve sospettare una patologia differente, soprattutto
se al senso di ovattamento in assenza dell’autofonia si associa una ipoacusia: in questi casi
si deve sospettare che l’ipoacusia sia neurosensoriale e non trasmissiva. Contrariamente,
nel caso della otite media acuta, in cui sussiste il fenomeno dell’autofonia, si riscontra anche
la presenza di una ipoacusia trasmissiva chiaramente monolaterale, localizzata
all’orecchio sede della patologia infiammatoria, e associata a lateralizzazione del suono
all’orecchio patologico nel caso che si effettui la prova di Weber con il diapason. Per quanto
riguarda gli altri sintomi, difficilmente, in meno del 5% dei casi, si verifica la presenza di una
otorrea, dal momento che l’essudato purulento è segregato a livello della cassa del
timpano, dalla quale il condotto uditivo esterno è separato dalla membrana del timpano per
cui a meno che non si verifichi una perforazione di questa, l’essudato non è possibile
osservarlo.
3) DIAGNOSI
Fondamentale è considerare la clinica, che si presenta mediante una otalgia, che è rilievo
presente anche nelle otiti esterne, differentemente dalle quali, tuttavia, una otite media non
mostra essudazione nel condotto uditivo esterno, a meno che a seguito di una pressione
esercitata dall’essudato purulento sulla faccia mediale della membrana del timpano questa
non vada incontro a perforazione. Oltretutto, differentemente da una otite esterna, nella più
parte dei casi, e quasi sistematicamente, l’otite media si associa a sintomi delle alte vie
respiratorie, che sono espressione della stretta connessione che sussiste tra la flogosi del
naso, del faringe e/o dei seni paranasali e la flogosi dell’orecchio medio. Comunque,
differentemente dalle otiti esterne, in cui non si riscontra la presenza di alterazioni della
membrana del timpano, in tal caso l’otoscopia documenta la presenza di una membrana
del timpano che risulta arrossata, bombata, tumefatta e iperemica, essendo queste
espressione della flogosi che coinvolge direttamente dall’interno la membrana e (la
bombatura) della pressione esercitata dall’essudato presente all’interno della cassa del
timpano. Questo quadro di presentazione della membrana del timpano è estremamente
differente rispetto a quello che si osserva normalmente, in cui la membrana del timpano
dopo illuminazione mostra un triangolo anteroinferiore che è illuminato rispetto al resto. Una
volta completata questa fase dell’esame obiettivo, si può completare la valutazione con una
audiometria tonale che documenta una ipoacusia trasmissiva o mediante una
impedenzometria, che documenta normalità del riflesso stapediale e timpanogramma di tipo
B.
• OTITE MEDIA SIEROMUCOSA O ESSUDATIVA
L’otite media effusiva è una infiammazione dell’orecchio medio, caratterizzata dalla
presenza di un versamento effusivo qualitativamente definito sieromucoso al di dietro di
una membrana integra: nell’orecchio medio, la cassa del timpano è piena di un essudato
sieromucoso, per via di quella che potremmo genericamente definire come una disfunzione
tubarica e prova dello strettissimo coinvolgimento in termini eziopatogenetici di questa
patologia con una alterazione della funzionalità della tuba di Eustachio è il fatto che venga
anche chiamata con l’espressione di otite media tubotimpanica.
1) EPIDEMIOLOGIA
L’otite media effusiva è una patologia estremamente frequente in età pediatrica,
presentando una ricorrenza di 1:6 nei bambini di età compresa tra i 5 e i 6 anni: la
prevalenza è del 15%.
Dal momento che si tratta di una patologia che non si manifesta con una sintomatologia
otalgica che accelera il percorso diagnostico per tutte le altre otiti, la tendenza a manifestarsi
e venire individuata clinicamente alle volte è così bassa che la condizione, potendo
cronicizzare, determini dei disturbi della funzionalità uditiva e il venire meno del feedback
auditivo comporta spesso dei deficit nell’apprendimento degli schemi motori necessari alla
fonazione e allo sviluppo del linguaggio: è una delle cause principali di ritardo del linguaggio
diagnosticato in età scolare e prescolare.
2) EZIOPATOGENESI
Il fatto che sia una patologia che incide con estremamente maggiore frequenza in età
pediatrica pone l’accento su due degli aspetti principali della eziopatogenesi di questa
malattia, vale a dire il ruolo del sistema immunitario e la funzionalità tubarica che assume
un ruolo di primo rilievo nel contesto di questa patologia, pur se alle volte sia una patologia
che insorge nei soggetti adulti e prevalentemente in maniera monolaterale essendo, tuttavia,
sostenuta da un meccanismo differente.
Il primo meccanismo, cioè quello che giustifica l’insorgenza nell’età pediatrica, che poi è
l’età in cui più comunemente questa patologia insorge, è rappresentato da una disfunzione
tubarica: la tuba uditiva di Eustachio ha varie funzioni e la principale è quella di garantire la
ventilazione dell’orecchio medio. La tuba di Eustachio è un condotto osteocartilagineo che
origina dalla parete anteriore della cassa del timpano e decorre in senso obliquo dall’indietro
in avanti, dall’alto verso il basso e in senso lateromediale aprendosi con un orifizio a livello
faringeo. Anatomicamente, la tuba di Eustachio è costituita da due porzioni: un terzo
superiore di composizione ossea e i due terzi inferiori fibrocartilaginei. Questa differente
composizione presuppone che il tratto prossimale della tuba sia sempre pervio,
differentemente dal tratto distale della tuba che si apre solo a seguito della contrazione di
due muscoli del velo del palato, che sono il muscolo elevatore e il muscolo tensore del velo
del palato.
Il senso dell’apertura dell’ostio faringeo della tuba di Eustachio è quello di garantire
l’ingresso di aria nell’orecchio medio, tal che se ne assicuri una ventilazione che garantisce
anche un mantenimento della pressione dell’aria nell’orecchio medio, che è identica alla
pressione atmosferica. In secondo luogo, per il tramite dell’apertura dell’ostio, la tuba di
Eustachio permette il drenaggio delle secrezioni sieromucose, che vengono prodotte dalla
mucosa dell’orecchio medio. Il muco prodotto non può accumularsi nell’orecchio medio
altrimenti si riempirebbe, per cui ogni qual volta abbiamo un’apertura della tuba vi è da un
lato l’ingresso dell’aria e dall’altro la fuoriuscita del muco; l’apertura dell’ostio della tuba non
consente il passaggio delle secrezioni, di norma, dal faringe all’orecchio medio, per via del
decorso anatomico che comunque è superoinferiore, per cui il fatto che non si verifichi
passaggio del materiale faringeo nella tuba è anche un semplice fatto attinente alla forza di
gravità. In definitiva, le due funzioni principali della tuba di Eustachio sono costituite dalla
ventilazione e dal drenaggio delle secrezioni nell’orecchio medio. Pur tuttavia esiste una
terza funzione della tuba di Eustachio, che si assicura anche di garantire una difesa
dell’orecchio rispetto ai corpi esterni, che viene garantita da tre meccanismi:
1. Decorso della tuba: la tuba è un canale virtuale, un canale chiuso e obliquo, che
impedisce il passaggio di tutto dal rinofaringe fino a livello dell’orecchio medio.
2. Clearance muco-ciliare: la tuba è rivestita da un epitelio respiratorio ciliato
pseudostratificato, che ha una funzione di protezione, dal momento che spinge il
muco dall’orecchio medio fino al rinofaringe dove poi passerà in ipofaringe, in
esofago e verrà digerito
3. Tessuto linfatico sottomucoso.
In un soggetto adulto normale la tuba è obliqua, l’orifizio faringeo non è sempre pervio,
quindi si oppone al passaggio di secrezioni di muco presenti nel naso a livello dell’orecchio
medio. Purtroppo, quando si nasce e fino ai 6 anni di età la tuba ha diverse caratteristiche:
1. Composizione anatomica: nei primi sei anni di vita, la tuba presenta
prevalentemente una componente ossea, che è quella tra le due che normalmente
viene definita sempre pervia.
2. Decorso: il decorso della tuba nei primi anni di vita è orizzontale, il che presuppone
sia che il materiale dal faringe possa transitare frequentemente e facilmente
nell’orecchio medio sia che la gravità che assicura parte del drenaggio delle
secrezioni sieromucose dell’orecchio medio viene meno.
3. Ipertrofia adenoidea: l’adenoide è una formazione di tessuto linfatico che si trova a
livello della volta del faringe e che prima del sesto anno di vita è estremamente
reattiva nei riguardi degli stimoli esterni per cui frequentemente può andare incontro
ad una ipertrofia, che quando di III grado, soprattutto, può ostruire l’ostio della tuba.
Le condizioni anatomiche fino ai 6 anni possono favorire il passaggio di materiale dal
rinofaringe alla tuba; l’immaturità del sistema immunitario correla con una maggiore
suscettibilità alle infezioni.
Questi sono i motivi per cui l’otite sieromucosa è estremamente frequente in età pediatrica.
Come anticipato, l’apertura dell’ostio faringeo della tuba di Eustachio è regolata dalla
contrazione di due muscoli, che sono l’elevatore e il tensore del velo del palato, i quali si
inseriscono a livello del margine posteriore del palato osseo, il che significa che eventuali
anomalie nella contrazione di questi muscoli possa ridurre notevolmente la capacità di
apertura dell’ostio della tuba uditiva. Questa anomalia nella contrazione dei muscoli può
verificarsi allorché questi non si inseriscano come di dovere sul palato duro, quando questo
presenti una malformazione congenita: tale è la palatoschisi, precisamente la
uranoschisi, che è una schisi, cioè una mancata fusione sulla linea mediana, del palato
duro, risultante da una noxa patogena che induce una mancata fusione dei processi palatini
sulla linea mediana.
Quando sussista una malformazione del palato, una schisi palatale, questi due muscoli non
si inseriscono come dovrebbero e pur contraendosi non riescono ad aprire in maniera
idonea e sufficiente la tuba uditiva di Eustachio.
In realtà, esistono anche condizioni che possono portare a un’otite sieromucosa nell’adulto:
l’unica e la più importante che bisogna sempre ricordare nell’adulto è il tumore maligno del
rinofaringe.
I tumori maligni del rinofaringe sono nella più parte dei casi dei carcinomi squamosi e, al
netto dei dettagli oncologici o anatomopatologici, si tratta di lesioni occupanti spazio, che
possono comportare ostruzione di uno dei due osti della tuba uditiva, risultandovi come
conseguenza l’insorgenza di una otite sieromucosa monolaterale, differentemente da
quanto accada per le forme dell’età pediatrica che sono nella più gran parte dei casi
bilaterali, poiché le condizioni morfo-funzionali sono caratteristiche di ambedue le tube
uditive. Quando si stia parlando di un organo pari, il sintomo monolaterale deve sempre far
sospettare una patologia neoplastica. Per cui un’epistassi monolaterale può essere indice
di patologia neoplastica della fossa nasale, allo stesso modo in cui un’otite sieromucosa
monolaterale può essere indice di una patologia neoplastica del rinofaringe per via
dell’ostruzione dell’ostio tubarico che suddetta neoplasia determina.
Quindi, ricapitolando, quando la tuba non sia in grado di attendere alla propria funzione,
viene meno il drenaggio e viene meno la ventilazione, ciò comporta da un lato una mancata
ventilazione, una pressione negativa nella cassa del timpano che può evolvere finanche
verso l’atelettasia del cavo del timpano e che comunque comporta sempre, per via del
gradiente pressorio un richiamo di liquidi, risultandovi un accumulo di trasudato sieroso
a cui si associa un essudato mucoso, che è quello prodotto dalle cellule caliciformi
mucipare della mucosa respiratoria dell’orecchio medio.
3) SINTOMATOLOGIA
L’otite media sieromucosa, dal punto di vista clinico, si manifesta mediante una ipoacusia
di tipo trasmissivo, che compare in associazione alla sensazione di ovattamento
auricolare associato all’autofonia; spesso sussiste una associazione con sintomi che
depongono per flogosi delle alte vie respiratorie. La caratteristica che rende spesso difficile
l’inquadramento clinico dell’otite effusiva è l’assenza di otalgia, che rende molto complesso
l’inquadramento della malattia soprattutto nel bambino, giacché perlomeno i soggetti adulti
riescono a descrivere la sensazione di ovattamento, l’autofonia e l’ipoacusia che, essendo
di tipo trasmissivo, presenterà una lateralizzazione verso l’orecchio patologico del suono
prodotto alla prova di Weber con il diapason se uno dei due orecchi è sano o meno colpito
del controlaterale. Proprio per via della assenza di dolore, vi è una certa reticenza nella
presentazione clinica, la patologia può anche perdurare a lungo nel bambino, dove
ricordiamo essere nella stragrande maggioranza dei casi bilaterale. Evidentemente la
perdurante presenza della flogosi riduce il feedback auditivo necessario allo sviluppo del
linguaggio: l’otite media effusiva è una delle cause principali di ritardo del linguaggio
diagnosticato in età scolare e prescolare, che si può presentare con ipoacusia anche di 40-
50 dB. Non infrequentemente accade che alcuni bambini vengano indirizzati al pediatra per
un ritardo del linguaggio proprio dalle maestre dell’asilo o della scuola elementare. In caso
di bambino con ritardo del linguaggio, la prima cosa da fare è un esame audiometrico, non
mandarlo subito al logopedista. La prima cosa da fare è quindi un esame diagnostico per
capire il motivo del ritardo del linguaggio, il quale spesso dipende da una perdita auditiva
fino a quel momento misconosciuta.
4) DIAGNOSI
La diagnosi dell’otite media sieromucosa si esegue soprattutto con l’esame obiettivo, in
particolare con l’otoscopia, che può evidenziare la presenza di questo materiale
sieromucoso nel cavo del timpano e contemporaneamente documentare la presenza di una
pressione negativa nella cassa conseguentemente all’ostruzione dell’ostio faringeo della
tuba che riduce la ventilazione dell’orecchio.
1. Quadro otoscopico classico:
a) Retrazione della membrana del timpano
b) Essudato sieromucoso
2. Quadro otoscopico in guarigione:
a) Aria
b) Livelli idroaerei
3. Quadro otoscopico in evoluzione:
a) Collasso della membrana del timpano
b) Visualizzazione delle strutture del cavo
In presenza di una pressione negativa associata alla presenza di un essudato sieromucoso
nell’orecchio medio, si riscontra una retrazione della membrana del timpano,
particolarmente a livello della pars flaccida; l’essudato sieromucoso appare come un liquido
di colore giallo-ambrato apprezzabile per trasparenza all’otoscopia. In realtà, all’otoscopia
possono anche apprezzarsi altri quadri che dipendono dalla fase della malattia; soprattutto
è possibile che si riscontri la presenza di alcuni quadri che depongono a favore della fase di
guarigione dell’otite media effusiva.
Con la guarigione il muco viene sciolto e si verifica il ripristino della ventilazione
dell’orecchio, per cui entra aria che apparirà sotto forma di bolle: il materiale sieromucoso
è frammisto a bolle d’aria, dando luogo alla presenza di quelli che prendono il nome di livelli
idroaerei.
Un terzo quadro patologico all’otoscopia deriva dalla possibilità che il paziente non guarisca:
il muco si condensa, si solidifica, scompare completamente l’aria e la membrana timpanica
viene risucchiata fino ad aderire alla parete mediale della cassa del timpano. La membrana
non è perforata ma è come collassata verso la parete mediale della cassa e addirittura
questo rende possibile vedere con l’otoscopia tutte le strutture che stanno nella cassa del
timpano, cioè l’incudine, la staffa con il tendine dello stapedio, il promontorio che è il
rilievo della coclea, la finestra rotonda, l’orifizio tubarico dell’orecchio.
Accanto all’otoscopia, è importante per fare diagnosi la valutazione strumentale, la quale
consente di completare l’esame obiettivo attraverso la valutazione del distretto nasale rino-
faringeo mediante una rinofibroscopia con fibroscopio flessibile che permette, entrando
dalle fosse nasali, di visualizzare le stesse fosse nasali, il rinofaringe fino alle corde vocali.
Si eseguono quindi degli esami come l’audiometria tonale, che documenta una deriva della
soglia uditiva per la via aerea ma non per la via ossea e l’impedenzometria che documenta
la presenza di un timpanogramma di tipo B che si definisce tale nel momento in cui
descriva una curva piatta, che è espressione di un sistema timpano-ossiculare
completamente bloccato. Differentemente la curva del timpanogramma di tipo C è a
campana con compliance ridotta, espressione di una minore trasmissione a livello del
sistema timpano-ossiculare che è spostata su pressioni negative dal momento che vige
proprio una pressione negativa a livello della cassa.
5) TRATTAMENTO
La finalità del trattamento è quella di sciogliere il muco e liberare l’orecchio e anche il naso,
per cui esistono una serie di terapie (comuni soprattutto per i pediatri) che servono a tenere
più libero possibile le fosse nasali e sciogliere i muchi dell’orecchio medio in modo da
ripristinare il normale meccanismo di ventilazione dell’orecchio medio.
È possibile anche far eseguire al paziente delle terapie termali che mirano, attraverso
alcune manovre, a insufflare aria nell’orecchio medio e quindi a sbloccare la tuba. Infatti,
esistono delle cure che si chiamano “cure per la sordità rinogena”, sordità causate dai
disturbi del naso.
Chiaramente, se questo processo infiammatorio persiste e dura oltre 3 mesi non lo si
definisce più come una forma acuta, bensì come un’otite sieromucosa cronica.

• OTITI MEDIE CRONICHE


Si intende genericamente con l’espressione di otite media cronica un processo
infiammatorio cronico che interessa l’orecchio medio e che in questo caso, oltre la cassa
del timpano, molto spesso interessa le celle mastoidee che sono presenti a livello del
processo mastoideo dell’osso temporale. Le celle mastoidee sono in comunicazione con la
cassa del timpano per il tramite dell’aditus ad antrum che è un orifizio posteriore della
cassa del timpano che media l’accesso all’antro mastoideo, uno spazio pneumatico che si
trova anteriormente alle celle mastoidee.
Per cui quando un processo infiammatorio duri più di due mesi, è chiaro che, essendovi un
continuum, per via di una estensione per contiguità si verifichi anche un interessamento
delle cavità pneumatiche che sono scavate a livello del processo mastoideo.
Le otiti medie croniche sono distinte rispetto alle controparti acute per via di un criterio
cronologico, relativo alla durata, ma anche anatomopatologico: il processo infiammatorio si
associa ad alterazioni istologiche irreversibili. In base all’espressione istopatologica, si
distinguono tre varianti differenti di otite media cronica, che sono
1. Otite sieromucosa cronica
2. Otite cronica purulenta semplice
3. Otite cronica colesteatomatosa
Queste sono delle forme che perdurando a lungo residuano degli esiti: in tutti quei casi in
cui si è riusciti con la terapia medica a eliminare l’infiammazione residuano delle sequele
cicatriziali, chiamate timpano-sclerosi, piuttosto che delle perforazioni della membrana
del timpano. Questo comporterà come sintomo principale una perdita uditiva, in assenza
di flogosi non ci sarà dolore o fuoriuscita di pus.
Ad un certo punto se la terapia medica non risolve la situazione si è costretti in maniera
chirurgica a rimuovere il liquido e ad aspirarlo: si assorbe il muco attraverso piccoli interventi
chirurgici.

• OTITE MEDIA CRONICA PURULENTA


L’otite media cronica purulenta è un processo infiammatorio cronico che interessa l’orecchio
medio e la mastoide, caratterizzato dalla presenza di una perforazione della membrana
timpanica e da una flogosi della mucosa dell’orecchio medio. Essendovi una perforazione
della membrana del timpano, in tal caso l’essudazione infiammatoria fuoriesce impegnando
anche il condotto auditivo esterno, condizione, questa, che determina caratteristicamente la
possibilità di apprezzare una otorrea che nel contesto della controparte acuta non si verifica.
Nella maggior parte dei casi questa infiammazione è di origine batterica, tuttavia mentre
nelle forme acute i responsabili sono quasi sempre tre, quelli omnicomprensivamente
chiamati con il nome di trio infernale, vale a dire Pneumococco, Haemophilus Influenzae e
Moraxella Catarrhalis, nell’eziologia della otite media cronica purulenta i germi
potenzialmente in causa nella malattia sono numerosissimi e la terapia dell’otite cronica
non è sistemica ma topica: lavaggi con soluzioni acide che permettono di sterilizzare
l’orecchio medio e successiva terapia antibiotica e antinfiammatoria.
Dal punto di vista anatomopatologico si riconoscono tre forme distinte nei termini delle
alterazioni morfologiche che risultano essere riscontrabili nel contesto di ognuna di queste
patologie:
1. OMC purulenta semplice
2. OMC purulenta iperplastica
3. OMC purulenta con osteite
Si tratta di tre varianti differenti di otite media cronica purulenta che si distinguono anche
sulla base del quadro clinico-otoscopico che si riscontra.
1) SINTOMATOLOGIA
Il sintomo principale dell’otite cronica è l’otorrea, che si associa alla presenza di una
ipoacusia trasmissiva: il paziente ha degli episodi recidivanti di otorrea purulenta che si
associano ad una perdita uditiva, solitamente ipoacusia di tipo trasmissivo o al massimo
ipoacusia di tipo misto. È raro che il paziente abbia mal d’orecchio, questo succede
soltanto nei casi di importante riacutizzazione del processo infettivo, per cui l’otalgia è un
sintomo che difficilmente è presente.
I sintomi delle otiti croniche sono tutti uguali indipendentemente dalla causa, per questo è
importante fare diagnosi differenziale tra le varie forme, poiché sulla base dei soli riscontri
clinici è molto complesso, se non addirittura impossibile poter risalire alla variante di otite
cronica.
2) DIAGNOSI
A fronte di una clinica abbastanza sovrapponibile tra le varie forme di otite cronica, la
diagnosi è abbastanza confortevole per il medico esperto perché si basa solamente
sull’otoscopia. L’otoscopia evidenzia perforazione del timpano, solitamente della pars
tensa della membrana timpanica con presenza di otorrea e attraverso la perforazione è
possibile vedere all’otoscopia le strutture dell’orecchio medio, il promontorio, l’incudine, il
tendine dello stapedio, la finestra rotonda.
Differentemente da quello appena descritto che è il quadro dell’otite cronica purulenta
semplice, un’otite cronica iperplastica presenta un più evidente essudato purulento che si
associa all’iperplasia della mucosa dell’orecchio medio.
Quando il processo infiammatorio coinvolga anche la catena ossiculare ci saranno
anche segni di osteite e questo è l’aspetto discriminante tra quella che è ancora una otite
media cronica semplice da quella che è già una otite cronica purulenta con osteite, pur se
alle volte sia possibile che sussista una coesistenza di aree iperplastiche e di osteite che
determinano la coesistenza di alcuni quadri morfologicamente tra loro differenti.
Fatta la diagnosi, deve essere eseguito anche un esame audiometrico che evidenzia
un’ipoacusia trasmissiva o un’ipoacusia mista, cioè determinata dalla presenza di una
componente di trasmissione e di una componente neurosensoriale determinata dal possibile
coinvolgimento infiammatorio anche dell’orecchio interno. Anche qui può essere utile fare la
TC, la quale però non aggiunge molte informazioni.
3) TRATTAMENTO
Il primo obiettivo terapeutico di questa patologia è quello di ridurre la flogosi, con
antinfiammatori.
Spenta l’infiammazione è necessario preoccuparsi della perforazione del timpano che va
quindi riparata: si fa un intervento chirurgico. Va riparata perché un soggetto con
perforazione del timpano ha limitazione della qualità di vita.
C’è una notevole limitazione della qualità di vita e questo è il motivo principale per cui si
consiglia l’intervento chirurgico di ricostruzione della membrana del timpano. L’intervento si
chiama miringoplastica o plastica della membrana timpanica:
1. serve a chiudere la perforazione e a riprendere una vita normale, quindi il contatto
con l’acqua durante la doccia per esempio
2. migliorare l’udito del paziente
3. se questa situazione si verifica in un soggetto di 70 anni si può anche eventualmente
applicare un apparecchio acustico, cosa che invece in presenza di una perforazione
è controindicata
Quindi terapia medica e successivamente terapia chirurgica. In tutti i casi di otite media
cronica purulenta va innanzitutto assicurata per quanto possibile una bonifica del condotto
uditivo esterno e della cassa del timpano mediante dei lavaggi con soluzioni acide e sterili
e nei limiti del possibile si deve cercare di contenere la situazione mediante terapia medica,
mentre la perforazione della membrana si tratta mediante l’intervento di miringoplastica.

• OTITE MEDIA CRONICA COLESTEATOMATOSA


Con l’espressione di otite media cronica colesteatomatosa si intende una patologia
infiammatoria dell’orecchio medio che si caratterizza per la presenza di un colesteatoma,
cioè di epitelio pavimentoso composto cheratinizzato nella cassa del timpano, che
corrisponde ad una formazione cutanea, che si trova dislocata in sede ectopica e tanto è
vero questo che nella letteratura anglosassone la definizione di colesteatoma è quella di
“skin in the wrong place”. L’otite media cronica colesteatomatosa è solo una delle possibili
cause che determinino l’insorgenza di un colesteatoma, che potremmo definire come una
causa acquisita. Difatti, esistono anche delle condizioni congenite che si esprimono
mediante la presenza di un colesteatoma:
1. Colesteatoma congenito: è una dislocazione nella cassa del timpano di epitelio
pavimentoso composto e cheratinizzato, trattandosi di una forma rara, connatale e
caratterizzata dalla presenza medialmente alla membrana del timpano di una
neoformazione cistica rivestita da epidermide, quasi che fosse un vero e proprio
epidermoide, cioè un tumore benigno epidermico, che insorge in una sede in cui
normalmente di epidermide non dovrebbe esservene, pur se questo, per motivi
purtroppo per noi non ben conosciuti, in taluni casi sia possibile da aversi. Questa
formazione sferoidale rivestita da epidermide, può trovarsi tanto al davanti del manico
del martello quanto al di dietro. Il problema di questa condizione è che il colesteatoma
tende ad accrescersi nel cavo del timpano, interessandone tutte le strutture e in primo
luogo, quindi, tendendo ad alterare il meccanismo di trasmissione del suono e in
secondo luogo ad erodere l’osso. Infatti, il colesteatoma esercita una forza
compressiva sulle ossa della catena timpano-ossiculare di cui ne viene stimolato il
riassorbimento, tal che ne consegua quella che prende il nome di necrosi asettica.
2. Colesteatoma acquisito: in questo caso, la presenza di cute in sede ectopica
consegue alla presenza di una infezione e l’erosione ossea può essere associata al
rilascio di enzimi osteolitici da parte della mucosa infiammata oltre che conseguire
alla forza compressiva esercitata dalla massa stessa.
In entrambi i casi, comunque, si riscontra una integrità morfologica e funzionale della
membrana del timpano.
1) COLESTEATOMA CONGENITO
Il colesteatoma congenito è un accumulo di cute in sede ectopica, cioè nella cassa del
timpano, che consegue a motivazioni non note, tuttavia ipotizzabili. In questo caso il sintomo
pressoché unico del colesteatoma è costituito dalla ipoacusia trasmissiva, legata alla
presenza di questa massa occupante spazio, ma nel tempo possono insorgere delle
eventuali complicanze.
2) COLESTEATOMA ACQUISITO
La seconda espressione della presenza di un colesteatoma è l’otite cronica
colesteatomatosa acquisita motivo per cui in tal caso la massa non è presente fin dalla
nascita ma si forma successivamente a seguito di alcune condizioni che alterino una serie
di meccanismi; particolarmente, il colesteatoma acquisito ha a che formarsi a seguito della
presenza di fenomeni di migrazione o di retrazione, tal che si parli di colesteatoma di
migrazione e di colesteatoma da retrazione. Dunque, il colesteatoma si può creare a
seguito di una retrazione della membrana timpanica, la quale a sua volta può conseguire ad
una disventilazione dell’orecchio medio, la quale induce una riduzione della pressione
vigente nella cassa del timpano, tal che la membrana del timpano tenda al collasso e alla
formazione di una tasca di retrazione, anche se una seconda, ma non meno importante,
conseguenza della disventilazione dell’orecchio medio è costituita dall’otite sieromucosa.
Nell’ambito dello sviluppo di un colesteatoma acquisito, suddetta tasca di retrazione può
approfondirsi in maniera più o meno importante pur conservando la capacità di
autodetersione.
Infatti, il condotto uditivo esterno, che è rivestito da cute, fisiologicamente non presenta mai
una iperstratificazione cutanea dal momento che la cute stessa che si trova a livello della
porzione più mediale è in grado di migrare verso la porzione più laterale. Questo è il motivo
per cui non è consigliato usare il cotton fioc, il quale non fa altro che spingere dentro ciò che
la natura porta fuori.
Nella prima fase, a seguito della disventilazione, può verificarsi una retrazione verso l’interno
della membrana del timpano, tal che si formi una tasca rivestita da cute che nella prima fase
conserva ancora la capacità di autodetersione ma nel momento in cui questa capacità venga
persa, si verifica un accumulo di materiale epidermico a partire dalla tasca, tale per cui si
formi una cisti epidermica, che guadagna spazio nell’orecchio medio.
La membrana timpanica retratta e pulita e una tasca di retrazione più profonda, pur sempre
autodetergentesi, si riscontrano nella prima fase del processo patologico all’otoscopia,
anche se progressivamente la capacità di autodetersione si perde fino ad arrivare ad una
situazione in cui vi è un accumulo di epidermide che chiaramente andrà ad accrescersi a
livello dell’orecchio medio.
La tasca di retrazione interessa prevalentemente la pars flaccida, che per questo è quella
interessata dalla presenza di materiale epidermico a livello delle strutture dell’orecchio
medio. Quando il colesteatoma si generi con questo meccanismo che comporta una
retrazione della membrana timpanica, si parla di colesteatoma da retrazione.
Differentemente, quando prevalga il meccanismo della migrazione, si parla di colesteatoma
da migrazione, che consegue alla presenza di una perforazione della membrana
timpanica, tal che venga meno la anatomica barriera che segna il limite tra l’orecchio
esterno, rivestito da cute, e l’orecchio medio rivestito da mucosa, pur se il motivo per cui la
cute migri verso la cassa del timpano per il tramite di questa soluzione di continuo sia
sconosciuto. A differenza del colesteatoma da retrazione, in questo caso è prevalentemente
la pars tensa della membrana del timpano ad essere coinvolta dalla formazione di un
colesteatoma da migrazione.
Dal punto di vista sintomatologico, i sintomi del colesteatoma acquisito sono pressoché
identici a quelli di una otite media cronica, presentandovisi otorrea e ipoacusia. Pur
tuttavia, la differenza sostanziale tra i due e il motivo per cui è importante fare una diagnosi
corretta è che mentre l’otite cronica semplice non comporta altro che otorrea e ipoacusia
tramissiva, nel caso del colesteatoma l’accrescimento cutaneo induce un riassorbimento
osseo, sia della catena timpano-ossiculare che del resto delle strutture dell’osso temporale,
per cui l’erosione può interessare la parete mediale della cassa del timpano e quindi la
patologia infiammatoria può sconfinare nell’orecchio interno coinvolgendo anche il sistema
vestibolare a seguito della formazione di una fistola labirintica, visibile con la TC: si
possono avere dei sintomi che pertengono ad una sindrome vestibolare periferica, con
vertigine, più spesso rotatoria oggettiva. L’erosione ossea può anche coinvolgere le strutture
che delimitano il canale del facciale, tal che si abbia come conseguenza una paralisi del
facciale, che essendo periferica si associa alla impossibilità monolaterale di movimento dei
muscoli del terzo superiore, del terzo medio e del terzo inferiore della faccia.
A differenza dell’otite media cronica semplice, quindi, l’otite cronica colesteatomatosa è
caratterizzata da una incistazione dell’epidermide che fondamentalmente tende ad
accrescersi al livello dell’orecchio medio e della mastoide, per cui mediante la propria attività
di proliferazione erode l’osso -e questo è un elemento fisiopatologico di distinzione rispetto
ad una otite cronica non-colesteatomatosa- potendo questa attività di erosione rivolgersi
anche alla catena degli ossicini uditivi. L’interessamento erosivo delle strutture ossee
giustifica la comparsa di complicanze quali le vertigini, a seguito dell’interessamento del
labirinto osseo e il rischio di paralisi del nervo facciale, nel qual caso vengano erose le
lamine ossee che delimitano il canale del nervo stesso.
3) DIAGNOSI
La diagnosi di colesteatoma si vale del contributo dell’otoscopia, la quale evidenzierà la
presenza di una perforazione/retrazione della membrana timpanica o in corrispondenza
della pars tensa (colesteatoma da migrazione) o in corrispondenza della pars flaccida
(colesteatoma da retrazione), attraverso cui si documenta la presenza di squame
epidermiche. Al di dietro dello strato epidermico, in virtù della presenza dell’erosione,
saranno visibili le meningi che rivestono il lobo temporale. A volte è possibile riscontrare la
presenza di un polipo sentinella; cioè una neoformazione esofitica che quando presente
spesso anticipa il rilievo ispettivo del colesteatoma. Dunque, i rilievi che si riscontrano
all’otoscopia sono (1) la perforazione con le squame epidermiche che traspaiono al suo
didietro, o (2) la presenza di questo polipo che deve essere rimosso dal chirurgo o
dall’otorino con un aspiratore e posteriormente al quale si trova il colesteatoma.
La conferma diagnostica avviene attraverso la TC che permette di documentare la
presenza di materiale nella mastoide che viene frequentemente interessata. Come
anticipato, il colesteatoma ha un’attività erosiva che può rivolgersi verso alcune o altre
strutture ossee, tra cui la superficie mediale della cassa del timpano che funge da limite
anatomico con la cavità dell’orecchio interno. Allorquando questo si verifichi, l’erosione può
finanche coinvolgere un canale semicircolare osseo, tal che ne consegua una
comunicazione non-anatomica e preternaturale tra la cavità del timpano e il canale
semicircolare osseo: tale è la cosiddetta fistola labirintica. L’erosione può interessare
anche altre strutture come il tegmen tympani e la coclea.
L’ipoacusia viene documentata mediante le prove con il diapason e mediante l’esame
audiometrico tonale; per quanto riguarda le prove con il diapason, la prova di Weber
documenta una lateralizzazione del suono nell’orecchio patologico, come classicamente
accade per le ipoacusie trasmissive. L’esame audiometrico tonale evidenzia una ipoacusia
trasmissiva o mista nel qual caso vengano anche coinvolte le strutture della coclea; nel
momento in cui si riscontri la presenza di una ipoacusia trasmissiva, l’esame audiometrico
tonale documenta una deriva della soglia uditiva per la via aerea ma non per la via ossea,
come classicamente accade per tutte le ipoacusie di trasmissione. Come anticipato, la TC
ad alta risoluzione conferma la diagnosi e documenta l’erosione ossea.
4) TERAPIA
La prima opzione terapeutica è la terapia medica che serve a debellare l’infezione dal
momento che tutto il materiale contenuto nella cisti colesteatomatosa è spesso infetto (in
gergo otorinolaringoiatrico, si dice che questa terapia “serve a far asciugare l’orecchio”); a
questa segue la terapia chirurgica che consiste nella rimozione di questa cisti epidermica,
affinché il colesteatoma non vada incontro a complicanze e anche perché questo migliora
la qualità della vita, ma se ad esempio è un paziente anziano, dunque a rischio
anestesiologico, le indicazioni all’intervento vengono meno. L’intervento è definito
tecnicamente timpano-plastica, e consiste, dopo aver rimosso il colesteatoma, nel
ricostruire le strutture della cassa del timpano. L’intervento si compone di due fasi, dunque:
una prima che viene definita demolitiva e con la quale si asporta il colesteatoma e una
seconda, definita ricostruttiva che consiste nella ricostruzione di timpano e ossicini. Questo
intervento, quindi, consente in un unico tempo chirurgico di rimuovere l’infezione, ripristinare
l’integrità delle strutture timpaniche e restituire le capacità uditive. In alcuni casi, quando non
sia possibile ricostruire dal momento che i danni sono irreparabili, ci si limita alla sola
asportazione del colesteatoma.

• ESITI DELLE OTITI CRONICHE


Le otiti medie croniche e recidivanti possono residuare degli esiti cicatriziali, noti con
l’espressione di timpanosclerosi. Questo significa che l’espressa e perdurante attività
infiammatoria esita nella formazione di placche fibrosclerotiche a livello dell’orecchio
medio e della mastoide, che sono distinte a loro volta in due categorie, cioè le
timpanosclerosi a timpano aperto e quelle a timpano chiuso.
La timpanosclerosi a timpano aperto viene definita tale, evidentemente, dal momento che
sussiste la presenza di una soluzione di continuo con l’esterno, definita e identificata dalla
presenza di una perforazione della membrana timpanica associata alla presenza di esiti
cicatriziali che morfologicamente si esprimono come delle placche bianche che
interessano sia la membrana sia la cassa del timpano. Differentemente, nella
timpanosclerosi a timpano chiuso la membrana del timpano non è perforata e si riscontra
sempre la presenza delle placche bianche che sono espressione dell’evoluzione
fibrosclerotica del processo infiammatorio. La sintomatologia è prevalentemente ascrivibile
alla presenza di una ipoacusia trasmissiva, dal momento che la presenza di queste
cicatrici irrigidisce la membrana del timpano e quindi impedisce una buona trasmissione del
suono; le ipoacusie trasmissive alla prova di Weber, quando monolaterali, si presentano con
una lateralizzazione del suono nell’orecchio patologico. La presenza della perforazione
potrebbe, in alcuni casi, portare ad una riaccensione del processo infiammatorio, quindi ad
otorrea. La diagnosi di timpanosclerosi è otoscopica: mediante l’otoscopio si apprezza la
presenza di una membrana timpanica sclerotica con o senza perforazione. Attraverso la
perforazione del timpano ritroviamo delle vere e proprie concrezioni che interessano il
timpano o anche gli ossicini. L’iter diagnostico di una timpanosclerosi, quindi, si compone
di anamnesi, esame obiettivo otoscopico ed esame audiometrico che documenta la natura
trasmissiva dell’ipoacusia.
Se il timpano è integro, è anche possibile effettuare la timpanometria che in questo caso
documenta la presenza di un timpanogramma di tipo B, dal momento che il sistema di
trasmissione è irrigidito. Il trattamento è chirurgico: mediante un intervento chirurgico si
rimuovono le placche di timpanosclerosi, mentre la terapia medica è un approccio inefficace
alla situazione. Al primo momento chirurgico di asportazione delle placche, segue la
ricostruzione della membrana del timpano. Nei casi in cui non sia possibile effettuare un
trattamento chirurgico o nei casi in cui il quadro sia complicato, ci si preoccupa del
trattamento dell’ipoacusia mediante l’installazione di una protesi acustica, scelta
terapeutica, questa, percorribile, tuttavia, solo nei casi in cui il paziente presenti il timpano
integro, giacché se il timpano è perforato è necessario prima chiuderlo, per poi applicare
una protesi acustica.
• COMPLICANZE DELL’OTITE MEDIA CRONICA
Si tratta di complicanze di un processo infiammatorio che interessa l’orecchio medio,
generalmente di un’otite cronica colesteatomatosa, dal momento che è raro che un’otite
cronica media semplice dia luogo a queste complicanze, che sono divisibili in due grosse
classi a seconda della sede in cui si estenda il processo infiammatorio, cioè complicanze
endotemporali e complicanze endocraniche.
1. Complicanze endotemporali: si manifestano all’interno dell’osso temporale
a) Labirintite: si intende con l’espressione di labirintite, una estensione del
processo infiammatorio dall’orecchio medio all’orecchio interno, potendosene
distinguere vari tipi, tra cui quella più comune è la labirintite circoscritta o
fistola labirintica, vale a dire una erosione circoscritta della parete del canale
semicircolare laterale, attraverso cui si ha diffusione del processo
infiammatorio/infettivo. Se si presenta labirintite, ai segni tipici del
colesteatoma si associano sintomi di interessamento dell’orecchio interno
come gli acufeni e le vertigini oggettive. In particolar modo, la vertigine
assume i connotati caratteristici di una vertigine periferica, cioè una vertigine
rotatoria oggettiva, che insorge solitamente in maniera violenta, associandosi
alla presenza di un nistagmo la cui fase lenta batte in direzione dell’orecchio
patologico e la cui fase rapida batte nella direzione opposta all’orecchio
patologico. Il nistagmo in una sindrome vestibolare acuta, peraltro, risulta
essere ritmico, inibito dalla fissazione e più spesso orizzontale, dal momento
che il canale semicircolare laterale è quello dominante e inoltre quello più
tipicamente coinvolto in questa patologia; si tratta di una complicanza
caratteristica dell’otite cronica colesteatomatosa.
b) Mastoidite: la mastoidite è una infiammazione della mastoide conseguente
a diffusione del processo infiammatorio/infettivo dall’orecchio medio alla
mastoide, con la quale la cavità del timpano comunica per il tramite dell’aditus
ad antrum. Questa complicanza è tipica dell’otite media acuta, soprattutto in
età pediatrica. Si tratta di bambini con storia di otalgia che iniziano a
presentare una tumefazione del solco retroauricolare e una
anteriorizzazione del padiglione auricolare. Il solco retroauricolare è
tumefatto e fluttuante perché si crea una raccolta purulenta subperiostea,
che supera l’osso, posizionandosi tra questo e il periostio. Il paziente con
mastoidite solitamente ha febbre, iperemia e tumefazione della cute
retroauricolare, vi è un appianamento del solco retroauricolare. Se non si
intervenga precocemente con un drenaggio dell’essudato, la condizione
patologica può evolvere risultandovi come complicanza, nel migliore dei casi,
la formazione di una fistola cutanea; nel peggiore dei casi l’essudato trova
sfogo verso l’interno, risultandovi una raccolta purulenta nel neurocranio.
Fortunatamente, nella più parte dei casi, il rilievo della tumefazione
retroauricolare risulta un segno di allarme che permette di individuare
clinicamente la mastoidite in tempi sufficienti affinché questo quadro clinico
venga evitato.
c) Petrosite: è una flogosi che si caratterizza per interessamento dell’apice
petroso, cioè dell’apice della rocca petrosa del temporale, che presenta una
forma piramidale con base posteriore e apice anteriore, con asse diretto
dall’indietro in avanti e in senso lateromediale, tanto che viene anche chiamata
piramide del temporale. Il processo infiammatorio-infettivo dall’orecchio medio
in questo caso si porta all’apice della piramide dell’osso temporale, cioè l’apice
petroso, che è quella porzione anatomica lì dove l’osso temporale si articola
con lo sfenoide. Sulla faccia superiore della piramide dell’osso temporale si
trova il ganglio di Gasser, altresì noto come ganglio trigeminale, che
costituisce il ganglio che presenta i neuroni di primo ordine delle vie sensitive
trigeminali, quelli cioè deputati a raccogliere la sensibilità facciale nel territori
del nervo trigemino; sulla faccia mediale della piramide del temporale decorre
il nervo abducente, che successivamente si impegna nel seno cavernoso che
decorre in rapporto con la faccia laterale del corpo dell’osso sfenoide, per cui
un interessamento della rocca petrosa del temporale insorge clinicamente
mediante una cefalea per dolore localizzato a livello delle meningi, dal
momento che i nervi meningei sono rami del nervo trigemino. Il dolore si
localizza tipicamente in sede retrooculare mentre la diplopia è espressione
della paralisi del sesto nervo cranico. La diagnosi di questa complicanza si
esegue con la TC.
d) Paralisi del facciale: è legata ad interessamento del nervo facciale che per
buona parte del proprio decorso nel cranio, dopo aver impegnato la cisterna
ponto-cerebellare, impegna dapprima il meato acustico interno e il condotto
uditivo interno, per poi imboccare, a livello del fondo di questi, l’orifizio di
ingresso del canale del facciale di cui si distinguono tre differenti segmenti. Il
primo e il secondo di questi segmenti sono scavati nello spessore della
piramide del temporale, avendo il primo un decorso perpendicolarmente
orizzontale e il secondo longitudinale rispetto all’asse maggiore della piramide
del temporale. La paralisi del facciale che si riscontra in tal caso è una paralisi
periferica, tipicamente monolaterale, se il processo infiammatorio coinvolge
solo uno dei due orecchi, e associata a impossibilità di movimento dei muscoli
del comparto superiore, intermedio e inferiore del volto.
2. Complicanze endocraniche rapidamente progressive: si tratta di complicanze
che insorgono a seguito di una estensione del processo infiammatorio quando
sconfini al di fuori del temporale per interessare il cranio dall’interno.
a) Ascesso epidurale
b) Meningite otogena
c) Tromboflebite del seno petroso
d) Ascesso cerebrale
L’infezione alla base del processo infiammatorio dell’orecchio, può sconfinare e
determinare un coinvolgimento dello spazio compreso tra meninge ed osso cioè dello
spazio epidurale, che di norma è uno spazio virtuale, ma che diviene reale quando si
accumuli sangue (ma non è questo il caso) o liquido di altra natura, che in questo
caso è un essudato purulento, tal che si parli di una raccolta purulenta circoscritta
in una cavità; in altre parole un ascesso epidurale. Tipicamente, questa
complicanza si riscontra allorquando il processo infettivo-infiammatorio (più spesso
quello di un colesteatoma che non di una otite cronica iperplastica) sconfini oltre il
tegmen tympani, risultandovi come conseguenza una sintomatologia aspecifica,
dominata da cefalea, febbre, afasia e altri disturbi del linguaggio nonché rigidità del
collo. La diagnosi dell’ascesso epidurale è neuroradiologica e la terapia chirurgica,
anche se dopo asportazione dell’ascesso è necessario impostare una corretta
terapia antibiotica. In alcuni casi, per via di una estensione per contiguità oppure per
il tramite di una embolizzazione settica l’otite media può determinare insorgenza di
una meningite otogena, cioè secondaria ad una otite media (spesso acuta). Si tratta
di una delle complicanze più frequenti dell’otite media, che si associa alla presenza
di febbre, cefalea e rigidità del collo; in questi casi la TC o la RMN possono
documentare la presenza di una infiammazione delle meningi, anche se può essere
utile eseguire una puntura lombare, che documenterà una iperprotidorrachia, una
ipoglicorrachia e generalmente il liquor, che di norma ha un aspetto ad acqua di
roccia, si presenta torbido per la colonizzazione microbica e si presenta iperteso.
Lo studio del liquor è estremamente utile al fine di poter intendere quale sia l’agente
eziologico in causa e per impostare una terapia antibiotica specifica dopo aver
eseguito un antibiogramma.
Alle volte, per il tramite sempre della via ematogena, l’infezione raggiunge il tessuto
cerebrale conseguendovi una encefalite o un ascesso cerebrale che nella più parte
dei casi interessa il lobo temporale per la vicinanza anatomica con la sede primaria
dell’infezione. Infine, in alcuni casi, il processo infettivo-infiammatorio interessa il
seno sigmoideo, cosicché si abbia una tromboflebite e si formino dei coaguli che
determinano ostruzione del drenaggio venoso, che a sua volta determina un aumento
della pressione a monte che si ripercuote anche sugli altri seni venosi della dura,
interferendo con il riassorbimento del liquor cefalorachidiano: idrocefalo otitico.
Quando il processo infiammatorio supera i limiti dell’osso temporale e va ad interessare le
strutture della fossa cranica media e della fossa cranica posteriore le complicanze si dicono
locali. Le vie di diffusione sono tre: per continuità a seguito di erosione ossea (dall’orecchio
medio all’orecchio interno e da questi alla componente endocranica); attraverso vie
preformate, ovvero canali che già esistono e che quindi possono essere utilizzati
dall’infezione, come la finestra rotonda, la finestra ovale, o altre strutture come gli
acquedotti; per contiguità, attraverso processi tromboflebitici (questo, ad esempio, è il
meccanismo che porta alla tromboflebite del seno sigmoideo).
Ipoacusie neurosensoriali

Si intende con l’espressone di ipoacusia neurosensoriale una perdita o riduzione


dell’udito e della percezione sonora conseguente alla presenza di un danno a carico della
porzione neurosensoriale del sistema uditivo. In queste particolari ipoacusie
neurosensoriali si riscontra un danno a carico dell’organo deputato alla percezione dello
stimolo sonoro e nella conversione dell’onda sonora in un segnale sinaptico, vale a dire il
rilascio di un neurotrasmettitore, oppure a carico dell’organo deputato alla veicolazione e
alla ritrasmissione dello stimolo nervoso a livello dei nuclei cocleari: tali sono
rispettivamente l’ipoacusia cocleare, che consegue ad un danno della coclea, e
l’ipoacusia retrococleare, che consegue ad un danno a carico del nervo acustico.
Evidentemente, questa particolare suddivisione delle ipoacusie neurosensoriali consegue
ad una discriminazione eseguita sulla base della sede del danno e sono da considerarsi
distinte rispetto a tutte quelle forme di ipoacusia che invece conseguono ad un danno a
carico della via di trasmissione aerea, quindi a livello dell’orecchio esterno e dell’orecchio
medio. Oltre alla suddivisione sulla base della sede del danno, le ipoacusie
neurosensoriali vengono anche distinte sulla base di un criterio anagrafico in ipoacusie
neurosensoriali infantili e dell’adulto.

• IPOACUSIE NEUROSENSORIALI INFANTILI


Le ipoacusie neurosensoriali infantili sono delle riduzioni dell’udito per via di un danno
cocleare o retrococleare che si istituisce in età pediatrica. Dal punto di vista
epidemiologico si tratta di forme abbastanza frequenti, che hanno una incidenza di circa 1-
3 casi/1000 abitanti e possono essere delle forme talora anche molto invalidanti dal
momento che se l’ipoacusia interviene durante il periodo dello sviluppo del linguaggio il
bambino potrà anche mostrare un deficit di sviluppo del linguaggio.
1) CLASSIFICAZIONE
Come anticipato, le ipoacusie possono essere delle condizioni che nell’infanzia possono
anche interferire pesantemente con lo sviluppo del linguaggio e proprio sulla base del fatto
che insorgano prima, durante o dopo lo sviluppo del linguaggio vengono definite in
maniera differente. In secondo luogo, è possibile classificare le ipoacusie neurosensoriali
infantili, come tutte le altre ipoacusie, in realtà, in ipoacusie lievi, moderate, moderate-
gravi, severe e profonde; un ulteriore criterio classificativo adottato per classificare le
ipoacusie infantili neurosensoriali è quello eziopatogenetico:
1. Sviluppo del linguaggio:
a) Ipoacusie pre-verbali
b) Ipoacusie verbali
c) Ipoacusie post-verbali
2. Entità dell’ipoacusia:
a) Lieve (20-40 dB)
b) Moderata (41-55 dB)
c) Moderata-severa (56-70 dB)
d) Grave (71-90 dB)
e) Profonda (> 90 dB)
3. Eziologia:
a) Cause genetiche
b) Cause acquisite
Questi criteri classificativi sono estremamente importanti per poter intendere una serie di
aspetti: una ipoacusia neurosensoriale che insorga durante il periodo di sviluppo del
linguaggio può associarsi ad una interferenza con lo sviluppo di questa funzione nervosa,
per cui evidentemente quelle forme definite verbali o peri-verbali possono essere
estremamente pericolose in termini di sequele funzionali che determinano. Pur tuttavia,
questi particolari criteri classificativi sono in una certa maniera svincolati tra loro, dal
momento che non è affatto detto che una ipoacusia infantile neurosensoriale congenita si
presenti nel periodo antecedente al periodo di sviluppo del linguaggio, come non è affatto
detto che una ipoacusia neurosensoriale acquisita insorga necessariamente dopo il
completamento dello sviluppo del linguaggio.
2) IPOACUSIE NEUROSENSORIALI INFANTILI GENETICHE
Le ipoacusie neurosensoriali infantili genetiche conseguono ad una alterazione genotipica
geneticamente trasmissibile e costituiscono il 60-70% delle ipoacusie infantili, venendo
ulteriormente classificate in termini di complessità del genotipo, da cui evidentemente
consegue anche una variabilità nei termini della manifestazione fenotipica. Le forme
cosiddette non-sindromiche sono associate ad una singola mutazione genetica che si
manifesta mediante esclusivamente una alterazione dell’udito e si tratta di condizioni
diverse e distinte rispetto alle forme sindromiche in cui l’anomalia o le anomalie
genetiche determinano espressione di un fenotipo complesso nel quale l’alterazione
dell’udito è solo una delle possibili alterazioni che si possono riscontrare. Le ipoacusie
neurosensoriali sindromiche sono numerosissime ma incidono con una frequenza
inferiore rispetto alle forme genetiche non-sindromiche, essendo le prime di queste
responsabili circa del 30% dei casi di ipoacusia genetica infantile e neurosensoriale. Tra
le varie sindromi con fenotipo complesso che possono determinare anche una ipoacusia,
vi sono:
1. Sindrome di Usher:
a) Retinite pigmentosa
b) Ipoacusia neurosensoriale
Oltre alla perdita dell’udito, per via del coinvolgimento della retina questa forma si
associa anche a progressiva perdita del visus e a cecità bilaterale.
2. Sindrome di Pendred:
a) Gozzo ipotiroideo congenito
b) Ipoacusia neurosensoriale
L’anomalia uditiva consegue ad una malformazione dell’orecchio interno che si
associa alla presenza di una alterazione del volume e della funzione della tiroide
che appare ridotta.
3. Sindrome di Alport:
a) Ipoacusia neurosensoriale
b) Danno renale
Si tratta di una sindrome che si associa a mutazione dei geni codificanti per alcune
subunità α del collageno, motivo per cui risulta questa essere una delle possibili
cause di insorgenza di una macroematuria o microematuria cronica, associandosi
anche ad una progressiva sordità.
4. Sindrome di Waardenburg:
a) Ipoacusia neurosensoriale
b) Anomalie della pigmentazione
All’ipoacusia in tal caso si associa un’anomalia della pigmentazione che si
manifesta mediante la presenza di una eterocromia iridea e alla presenza spesso
anche di una anomalia dei capelli: spesso i soggetti nascono con ciuffo bianco.
5. Sindrome di Treacher-Collins:
a) Anomalie facciali
b) Ipoacusie neurosensoriali
6. Sindrome BOR (o brachio-oto-renale):
a) Anomalie degli archi branchiali
b) Anomalie renali
c) Ipoacusia neurosensoriale
Sono, queste, delle sindromi che hanno un fenotipo clinico composito, ma comunque sono
ben riconoscibili anche perché tra tutte le sindromi che possono causare fenotipi
complessi con ipoacusia sono quelle relativamente più frequenti rispetto a molte altre.
Differentemente da quelle definite sindromiche, in cui l’ipoacusia si inserisce nel contesto
di un quadro clinico composito, vi sono delle forme definite non-sindromiche ma pur
sempre su base genetica, in cui sussiste una mutazione specifica a carico di un gene che
codifica per una proteina che svolge specifiche funzioni solo nella funzione cocleare ed è
questo il motivo per cui non sussiste un quadro sindromico in queste che sono delle forme
classificate in merito alla modalità di trasmissione in forme autosomiche recessive,
autosomiche dominanti e diaginiche (o X-linked). La più frequente forma di ipoacusia
non-sindromica congenita (80% dei casi) osserva una trasmissione autosomica
recessiva e consegue alla mutazione (posizione 35) a carico della connessina 26, che è
una proteina espressa a livello della membrana delle cellule ciliate della coclea, lì dove
regola i flussi ionici, soprattutto del potassio, per cui adempie una funzione cruciale nella
stimolazione della cellula ciliata affinché questa possa rilasciare il neurotrasmettitore
necessario a generare l’impulso nervoso a livello delle fibre del nervo cocleare. Essendo
una forma a trasmissione autosomica recessiva, le madri dei soggetti che ne siano affetti è
fenotipicamente sana il che è un aspetto che può trarre in inganno, giacché si potrebbe
pensare che non essendo la madre affetta non lo sia nemmeno il neonato. Questo è
assolutamente falso ed è anche un approccio pericoloso dal momento che si potrebbero
verificare al persistere dell’ipoacusia delle vere e proprie sindromi di sordo-mutismo per
interferenza dell’ipoacusia con lo sviluppo del linguaggio. Evidentemente, pensare che sol
perché la madre sia fenotipicamente sana lo sarà anche il nascituro è errato per almeno
due motivi e cioè perché (1) la mutazione è autosomica recessiva per cui si manifesta in
omozigosi recessiva, ma se oltre alla madre anche il padre sia portatore della mutazione
ed entrambi trasmettano la mutazione al nascituro questi sarà inevitabilmente affetto e
perché (2) è possibile che si verifichino delle condizioni di eterozigosi composta, tali per
cui il soggetto possa presentare una doppia eterozigosi, ascrivibile a mutazione
autosomica recessiva del gene della connessina 26 e del gene della connessina 30
condizione questa che risulta associata comunque ad un fenotipo patologico.
Estremamente meno frequenti sono le forme a trasmissione autosomica dominante (20%
dei casi circa) e le forme a trasmissione diaginica (1% dei casi circa). Una frazione
estremamente bassa e trascurabile di casi di sordità neurosensoriale congenita consegue
alla presenza di una mutazione ad ereditarietà mitocondriale, che generalmente espone
l’orecchio ad una maggiore tossicità da farmaci.
3) IPOACUSIE NEUROSENSORIALI INFANTILI ACQUISITE
Queste forme non conseguono a cause genetiche e nel contesto delle ipoacusie
neurosensoriali infantili incidono con una frequenza inferiore. Le sordità neurosensoriali
infantili possono conseguire a cause tra loro differenti anche in relazione all’eventuale
periodo in cui queste insorgano, potendosi distinguere forme pre-natali, peri-natali e post-
natali; questa suddivisione avviene sulla base di precise suddivisioni temporali ed è
fondamentale dal momento che sussiste in questi casi una associazione caratteristica
anche con le cause che ne siano alla base:
1. Ipoacusie neurosensoriali infantili pre-natali:
a) Prima della nascita
b) Complesso TORCH
2. Ipoacusie neurosensoriali infantili peri-natali:
a) Parto/primi giorni di vita
b) Cause:
i. Ipossia
ii. Ittero
iii. Farmaci
3. Ipoacusie neurosensoriali infantili post-natali:
a) Dopo mesi o anni dal parto
b) Cause:
i. Traumi
ii. Infezioni
Le ipoacusie neurosensoriali infantili che vengono definite pre-natali evidentemente
conseguono a cause che intervengono prima della nascita; le cause che possono
determinare l’insorgenza di un danno prima della nascita possono essere genetiche (ma
non è il caso delle ipoacusie neurosensoriali infantili acquisite) ovvero infettive e/o tossiche
e nell’ambito delle sordità infantili neurosensoriali assumono particolare rilevanza proprio
le cause infettive, che pertengono a tutte quelle infezioni che contratte dalla madre
possano essere trasmesse al feto per il tramite della barriera ematoplacentare e che
possono dare luogo ad uno spettro clinico di gravità variabile in considerazione della
carica microbica e soprattutto delle tempistiche in cui intervenga l’infezione nel feto: si
tratta del complesso TORCH. La prima delle patologie infettive che rientrano nel
complesso TORCH è la Toxoplasmosi (“T”), che viene contratta per la contaminazione di
alimenti con le uova di Toxoplasma Gondii oppure per contatto con le feci animali,
particolarmente quelle del gatto. La toxoplasmosi è una patologia assolutamente benigna,
anzi asintomatica nella più parte dei casi, purché il soggetto sia immunocompetente, ma
nei soggetti anergici può determinare un quadro clinico-patologico anche grave come
quello della neurotoxoplasmosi, che è una delle complicanze più temibili, ad esempio,
dell’AIDS conclamato. Anche il feto è un organismo che non presenta una particolare
efficienza del sistema immunitario, per cui è possibile che la Toxoplasmosi trasmessa
dalla madre al feto dia delle complicanze nefaste, potendo nel primo trimestre di vita
anche determinare la morte del feto nell’utero. Il secondo gruppo di patologie appartenenti
al complesso TORCH è costituito da varicella, lue (esiste una particolare forma di sifilide
congenita, definita sifilide congenita tardiva che si esprime clinicamente mediante sordità
labirintica, denti a semiluna e cheratite interstiziale), infezioni da Parvovirus B19,
Coxsackie virus (“O” sta per Other); di questa categoria fa parte anche il Rubella virus
che è il virus della Rosolia per la quale possiamo ragionevolmente affermare che sia una
patologia in parte o del tutto debellata in funzione dell’introduzione del vaccino trivalente.
La quarta malattia infettiva appartenente a questo complesso è la infezione da
citomegalovirus che è una infezione estremamente subdola giacché, altro che nei
pazienti ipoergici o anergici, non determina alcun sintomo, per cui la madre che ne sia
portatrice è assolutamente asintomatica, differentemente nel feto questa infezione può
provocare dei danni anche molto gravi; peraltro non esiste per il citomegalovirus, che è un
virus dall’elevata sieroprevalenza, un vaccino. Infine, l’ultima infezione appartenente a
questo complesso è l’infezione da Herpes Simplex II più frequentemente che Herpes
Simplex I. Proprio al fine di evitare queste complicanze infettive nefaste nel feto, si esegue
uno screening, mediante dosaggio delle IgM piuttosto che delle IgG materne, poiché le
prime sono segno di infezione recente, per cui se la madre risulti positiva alle IgM per uno
dei microrganismi del TORCH, si esegue valutazione sierologica anche nel feto.
La seconda categoria di ipoacusie neurosensoriali infantili acquisite corrisponde al
gruppo delle forme perinatali che evidentemente sono quelle che insorgono nel periodo
di immediata vicinanza alla nascita, sia immediatamente prima che immediatamente dopo
e rappresentano un problema soprattutto per i bambini nati prematuri, nei quali possa
sussistere una immaturità del circolo che possa determinare una ipossia neonatale,
particolarmente a livello dell’orecchio e del sistema nervoso, oppure una immaturità
epatica, tal che il neonato non riesca a metabolizzare tutta la bilirubina indiretta, che alle
volte può raggiungere delle concentrazioni straordinariamente elevate e tali da
determinare anche insorgenza di un ittero nucleare che sia in grado di danneggiare i
nuclei della base del sistema nervoso centrale. Molto spesso, al fine di ovviare questo
problema, i neonatologi ricorrono ad alcuni strumenti come la fototerapia, che permette di
convertire la bilirubina indiretta in una forma più solubile di modo che possa essere
escreta con le urine, oppure alla ex-sanguinotrasfusione, alla quale si ricorre nei casi
gravi. Infine, i soggetti neonati prematuri sono spesso sottoposti ad un deficit più o meno
grave del sistema immunitario, per cui al fine di prevenire eventuali infezioni che possano
anche evolvere nella sepsi, sussiste la necessità di somministrazione di aminoglicosidi
come la gentamicina, che sono tra i pochi farmaci efficaci ed utilizzabili in un neonato,
tanto che risultano talora salvavita. Il problema è che, soprattutto nei soggetti nati
pretermine e possibilmente con una mutazione mitocondriale, questi farmaci possono
risultare fortemente ototossici.
Le ipoacusie neurosensoriali infantili acquisite post-natali possono conseguire a due
differenti gruppi di cause: i traumi, che possono determinare fratture della rocca petrosa
o concussioni, e le infezioni, che si localizzino a livello del sistema nervoso centrale
soprattutto. Tra le varie infezioni, tra cui quelle batteriche da Haemophilus Influenzae e
quelle da Pneumococco, assolutamente temibile è la meningite batterica da
meningococco, che oltre a poter essere una infezione estremamente grave tanto da
compromettere talora la sopravvivenza del bambino, possono determinare delle sequele
anche a livello cocleare che clinicamente si esprimono mediante una ipoacusia, mentre
dal punto di vista istopatologico si esprimono in una fibrosi prima ed in una
ossificazione, poi, della coclea membranosa e questo è un aspetto assolutamente
problematico dal momento che limita fortemente la possibilità di trattamento della sordità.
Le ipoacusie infantili possono essere approcciate mediante alcuni presidi otologici, quali
l’impianto cocleare, che tuttavia per poter essere installato necessita della pervietà della
coclea, che evidentemente in questo caso viene perduta.
4) DIAGNOSI E TERAPIA DI IPOACUSIA NEUROSENSORIALE INFANTILE
La diagnosi delle ipoacusie neurosensoriali infantili si è profondamente modificata negli
ultimi anni, dal momento che in passato si tendeva ad approfondire la diagnosi di una
ipoacusia infantile solo in soggetti con fattori di rischio, quali la familiarità per sordità, la
presenza di infezioni congenite nel feto, la nascita prematura, le infezioni post-natali o i
traumi. Evidentemente, questo approccio non è sufficiente poiché adottando la presenza
di fattori di rischio come criterio di scelta per sottoporre il bambino alla diagnosi di
ipoacusia infantile, circa il 50% dei soggetti non viene diagnosticato e questo è un
aspetto che può comportare complicanze estremamente gravi per lo sviluppo funzionale
del bambino. Difatti, alcune sordità, evidentemente bilaterali, croniche e di una certa entità
possono determinare una interferenza con lo sviluppo del linguaggio. Infatti, alla
nascita il soggetto presenta una funzionalità cocleare piena, pari al 100%, mentre la
corteccia cerebrale, soprattutto in questo caso le aree che siano deputate allo sviluppo del
linguaggio, si sviluppano progressivamente dai primi quattro mesi di vita, in cui inizia la
prima fase dello sviluppo che è quella della lallazione, in cui il bambino emette dei foni
che non hanno valore referenziale, alla fase finale che si completa entro il quinto o il
sesto anno di vita, con l’acquisizione delle capacità morfosintattiche che ne consentono
l’articolazione di frasi complesse. Durante tutto questo percorso di sviluppo del linguaggio
esiste un particolare periodo, noto come periodo critico, che è quello dei primi due anni,
entro i quali si deve cercare di intervenire dopo diagnosi precoce al fine di cercare di
preservare lo sviluppo del linguaggio. In questa fase è fondamentale per il bambino
disporre di un feedback auditivo giacché egli in relazione l’articolazione della parola
con il ritorno dell’afferenza uditiva che ne consegue in questo modo ricava uno schema
percettivo-motorio utile allo sviluppo del linguaggio, che viene poi rinforzato dai costanti
feedback uditivi derivanti dalla propria voce. Evidentemente, l’approccio diagnostico e i
criteri di selezione per i bambini da avviare al percorso diagnostico dell’ipoacusia utilizzati
in passato erano inefficaci e prova ne sia che solo il 50% di questi soggetti veniva poi
individuato, risultandovi una elevata percentuale di sordomuti, molto maggiore di quelli che
sono oggi presenti. Per questo motivo, oggi tutti i neonati vengono obbligatoriamente
sottoposti allo screening della funzionalità auditiva, che si basa su un’indagine che valuta
le otoemissioni acustiche evocate, che sono dei suoni generati dalla contrazione delle
cellule acustiche esterne in risposta ad uno stimolo tonale somministrato ad una data
frequenza, al quale le cellule ciliate esterne rispondono mediante la genesi di un suono
della frequenza medesima ma di intensità di 1-2 dB. Sulla base della valutazione delle
otoemissioni acustiche evocate è possibile selezionare i neonati in coloro i quali
presentano una funzionalità uditiva normale e in coloro i quali potrebbero non avere una
funzionalità uditiva normale e questi ultimi sono i pazienti selezionati all’approfondimento
diagnostico entro il sesto mese mediante ABR (Auditory Brainstem Response), altresì
noto come potenziali acustici evocati troncoencefalici. Si tratta di una indagine di
natura elettrofisiologica che registra i potenziali generati dalla via acustica in risposta ad
una stimolazione acustica, generalmente a frequenza elevata, di 2000-4000 Hz
permettendo di trarre informazioni abbastanza precise circa la soglia uditiva del bambino.
Ricordiamo che la diagnostica audiologica trova nel bambino un candidato molto difficile,
poiché non collaborante, poiché diffidente verso qualsiasi indagine medica e poiché
disinteressato ai normali stimoli che si utilizzano nel contesto della diagnosi audiometrica
convenzionale, per cui l’ABR è un esame oggettivo, che non richiedendo alcuna
collaborazione del paziente risulta essere ottimo per questo contesto. Tutti i soggetti, a cui
dopo l’ABR venga diagnosticata una ipoacusia neurosensoriale, vengono candidati
all’impianto di un apparecchio acustico e qualora questo intervento non sia sufficiente, si
procede con l’installazione di un impianto cocleare, che viene applicato mediante
intervento chirurgico. Si accede dalla finestra ovale e si posiziona un cavetto con ventidue
elettrodi a livello della scala timpanica, che deve essere pervia e ripiena di liquido, poiché
se così non fosse non si potrebbe assolutamente pensare di installare questo dispositivo.
Gli elettrodi sono in grado di stimolare direttamente il nervo cocleare e a loro volta
vengono attivati a seguito della stimolazione sonora, captata, analizzata ed inviata agli
elettrodi da uno stimolatore esterno. Chiaramente, questi soggetti vengono, dopo
l’impianto, indirizzati a riabilitazione per la sordità e i bambini che nel frattempo stiano
sviluppando un disturbo del linguaggio, vengono indirizzati a riabilitazione logopedica.

• IPOACUSIE NEUROSENSORIALI DELL’ADULTO


Le ipoacusie neurosensoriali dell’adulto, distinte dalle forme infantili banalmente sulla base
di un criterio anagrafico, sono delle condizioni di riduzione della percezione del suono che
conseguono ad un danno a carico della coclea ovvero a carico del nervo
vestibolococleare. Dal momento che il nervo vestibolococleare è costituito da due
componenti, l’una deputata alla veicolazione dell’informazione sonora e l’altra deputata
alla veicolazione dell’informazione vestibolare, e dal momento che la coclea si trova a
livello dell’orecchio interno in contiguità con le strutture vestibolari, alle volte il danno che
determini l’insorgenza di una ipoacusia neurosensoriale può eventualmente associarsi ad
una sintomatologia vestibolare e proprio in considerazione di questo le ipoacusie
neurosensoriali dell’adulto si suddividono in due grandi categorie che sono le ipoacusie
pure e le ipoacusie associate a sindrome vertiginosa:
1. Ipoacusie neurosensoriali pure:
a) Sordità
b) Acufeni
c) Fullness (ovattamento uditivo)
2. Ipoacusie associate a sindrome vertiginosa:
a) Acufeni
b) Sordità
c) Vertigine periferica
Chiaramente, esistono anche delle patologie in cui il danneggiamento è esclusivamente a
carico delle strutture vestibolari, per cui si tratta di patologie dell’orecchio interno che si
manifestano esclusivamente con una sindrome vertiginosa periferica in assenza di sintomi
uditivi. Della prima categoria fanno parte la presbiacusia, l’ipoacusia neurosensoriale
secondaria a farmaci ototossici e la ipoacusia neurosensoriale da rumore, mentre
della seconda categoria fanno parte la sordità neurosensoriale idiopatica, la sindrome
di Ménière e il neurinoma dell’acustico.

• IPOACUSIE NEUROSENSORIALI DELL’ADULTO ISOLATE


Si tratta di patologie che comportano una riduzione della percezione sonora e dell’udito
che conseguono a danni al sistema neurosensoriale, costituito da coclea e nervo cocleare,
non associati ad alcun danno o deficit di funzione vestibolare, motivo per cui si
manifestano esclusivamente con sintomi ascrivibili alla funzione uditiva; di questa
categoria fanno parte la presbiacusia, l’ipoacusia neurosensoriale legata a farmaci e la
ipoacusia da rumore. Si tratta di forme che nella più parte dei casi sono simmetriche e
bilaterali.
1) PRESBIACUSIA
La presbiacusia è una ipoacusia neurosensoriale conseguente all’invecchiamento della
coclea, che consegue alla presenza di una progressiva degenerazione dell’organo
deputato alla recezione dello stimolo sonoro e che in conseguenza della cronica
esposizione al rumore, ma non solo, va incontro ad una progressiva riduzione della propria
funzionalità. La presbiacusia è una condizione estremamente frequente che incide nei
soggetti ultrasessantacinquenni, essendo una patologia nella quale sicuramente la
predisposizione genetica gioca un ruolo rilevante, dal momento che incide sul
deterioramento della coclea per il 30-35%, ancorché da sola non sia sufficiente a
determinare l’insorgenza di un danno clinicamente evidente e cioè che si manifesti
mediante una sordità. Per converso, nell’eziologia della patologia avrebbe un ruolo
fondamentale anche l’insieme dei fattori ambientali o acquisiti in senso generale che
potrebbero accelerare ed intensificare un processo patologico di invecchiamento e perdita
di funzione, tal che questo esiti in una sintomatologia clinicamente apprezzabile. La
presbiacusia è una condizione la cui prevalenza e la cui incidenza negli ultimi anni sono
aumentate soprattutto nei paesi sviluppati e nelle aree urbane in considerazione di una
serie di aspetti legati da una parte all’aumento della sopravvivenza della popolazione
anziana e dall’altra alla cronica esposizione al rumore e infatti una serie di studi ha
dimostrato che l’incidenza e la prevalenza della presbiacusia siano maggiori e insorgano
anche più precocemente nei soggetti che abitino le aree urbane piuttosto che quelle rurali
(si parla a tal proposito anche di socio-acusia). I fattori esterni incidono con un peso del
65-70% sulla patogenesi e l’insorgenza di una presbiacusia essendo, oltre alla cronica
esposizione al rumore, anche coinvolti altri particolari aspetti quali sono abitudini
voluttuarie come fumo ed alcol e patologie croniche, quali possono essere
l’ipertensione arteriosa, il diabete e l’ipercolesterolemia. Possiamo dire che la
presbiacusia sia una patologia caratterizzata da una perdita in termini di soglia uditiva e da
una riduzione della capacità di discriminazione vocale, sia in ambienti silenziosi che,
soprattutto, in ambienti rumorosi. Questo duplice aspetto della presbiacusia si associa alla
presenza di un meccanismo patogenetico che agisce su due fronti e che da una parte
comporta un danneggiamento e un deterioramento delle vie uditive centrali, aspetto
che giustifica la riduzione della capacità che il soggetto ha non solo di sentire ma anche di
comprendere i suoni. Il secondo fronte di azione del danno che causa l’insorgenza della
presbiacusia è quello periferico, potendovi essere un danno a carico delle cellule
acustiche (=presbiacusia sensoriale, curva in discesa da 2 kHz), un irrigidimento della
membrana basilare (=presbiacusia meccanica, curva in discesa da 1 kHz), una
alterazione della stria vascolare (=presbiacusia striale, curva in salita da 1kHz) e/o un
danno a carico dei neuroni del ganglio del Corti (=presbiacusia striatale, con curva
che rivela pressoché la medesima deriva di soglia alle diverse frequenze). Nella
patogenesi della presbiacusia spesso questi quattro aspetti coesistono tra loro e
coesistono con il danneggiamento a carico del sistema nervoso centrale. I soggetti
riferiscono quindi una difficoltà a sentire e a comprendere i suoni, difficoltà che viene
attenuata quando il dialogo a due voci avvenga nella possibilità di vedere il proprio
interlocutore, giacché in questo caso le afferenze visive adiuvano l’interpretazione della
parola dell’interlocutore. La diagnosi di questa patologie è abbastanza confortevole e
aiutata dall’anamnesi nella quale il soggetto, anziano, riferisce una sordità bilaterale e
simmetrica, associata ad esame obiettivo normale. Le eventuali prove con il diapason in
questo caso documentano la presenza di un danno a carico del sistema neurosensoriale,
in particolar modo la prova di Weber non si associa a lateralizzazione del suono generato
dal diapason in sede controlaterale rispetto all’orecchio (più) patologico se entrambi gli
orecchi sono danneggiati in egual modo; la prova di Rinne riferirà una riduzione del tempo
di ascolto sia per la via ossea che per la via aerea che appaiono danneggiate in egual
modo. L’audiometria tonale documenta una perdita in termini di soglia uditiva bilaterale
e simmetrica, con perdita sia nelle soglie uditive della via aerea che della via ossea: nelle
ipoacusie neurosensoriali è caratteristica l’alterazione della soglia uditiva della via ossea e
della via aerea. L’audiometria vocale mostra invece una perdita maggiore alle alte
intensità, che si traduce in una riduzione della discriminazione vocale conseguente al
fatto che alle alte intensità la distorsione del suono sia maggiore. Nell’orecchio normale,
alle alte intensità la sensibilità recettoriale delle cellule acustiche, inoltre, varia in maniera
dinamica massimizzando la percezione dei suoni: questa caratteristica viene meno nel
caso delle presbiacusie, ma anche in altre sordità neurosensoriali. Il trattamento prevede
l’installazione di un apparecchio acustico, ma il trattamento più efficace è quello della
prevenzione primaria, che cerchi in qualche maniera di ridurre al minimo i fattori
ambientali o esterni che possano ledere la funzione dell’orecchio. Chiaramente, sui fattori
genetici il margine di intervento è assolutamente nullo. Modernamente, recenti scoperte
scientifiche hanno posto l’accento sul ruolo delle ipoacusie neurosensoriali nello sviluppo
della demenza, che è un deficit cognitivo grave tal che il soggetto non sia in grado di
eseguire le normali attività quotidiane. La demenza è una problematica estremamente
importante sia perché la mortalità della condizione patologica è in aumento sia perché
sussiste un notevole impatto socio-economico nella gestione di questi che sono pazienti
assolutamente non-autosufficienti. La demenza è una condizione neurologica per la quale
sfortunatamente alcuni dettagli patogenetici sono ancora nebulosi e lacunosi di alcuni
aspetti meccanicistici e purtroppo non esistono terapie risolutive. Comunque, alcuni dati
sono disponibili e si conoscono circa i fattori di rischio di questa condizione che sarebbe
associata alla presenza sia di fattori genetici -e prova ne sia il fatto che viene annoverato
come fattore di rischio un polimorfismo del gene dell’ApoE- che di fattori esterni, tra cui
anche alcuni aspetti socio-culturali: pare che il basso livello culturale sia associato ad un
maggiore rischio di insorgenza della demenza in età avanzata. Altri fattori acquisiti ed
esterni che potrebbero incidere sull’insorgenza di una demenza sono malattie
cardiovascolari, obesità e ipoacusie neurosensoriali particolarmente la presbiacusia
che ha un peso rilevante (del 10%) nello sviluppo della demenza e sarebbe associata ad
un aumento del rischio relativo di insorgenza entro cinque o dieci anni di demenza pari
circa a due-tre volte. Quindi, la presbiacusia assume un ruolo rilevante dal momento che
è un fattore di rischio per la demenza e dal momento che si tratta di una patologia
confortevolmente trattabile mediante l’installazione di un apparecchio acustico.
2) IPOACUSIA NEUROSENSORIALE DA RUMORE
L’ipoacusia neurosensoriale da rumore è una perdita uditiva sostanzialmente di tipo
cocleare legata ad un trauma acustico conseguente all’esposizione di lunga durata a
rumori intensi. Un rumore traumatizzante viene definito tale quando presenti una intensità
superiore al valore di 85 dB anche se l’eventuale entità dell’evento traumatizzante si
caratterizza anche in funzione dell’eventuale durata dell’esposizione. Si può
ragionevolmente e con una certa sicurezza affermare che i rumori di intensità inferiore al
valore di 80 dB non rappresentino di per loro un rumore traumatizzante, differentemente
dai rumori di intensità superiore ad 85 dB per i quali l’entità del danno peraltro diviene più
grave all’aumentare della intensità: essendovi una scala logaritmica nell’intensità,
l’aumentare della intensità sonora riduce il tempo di esposizione necessario e sufficiente
affinché si abbia la genesi del danno uditivo. L’ipoacusia neurosensoriale da rumore è una
patologia che può insorgere in soggetti che per scopo lavorativo siano esposti per lungo
tempo a rumori traumatizzanti: questa è una forma professionale o occupazionale di
ipoacusia neurosensoriale da rumore che è di pertinenza specialistica del medico del
lavoro, essendo peraltro l’ipoacusia neurosensoriale da rumore la più frequente patologia
occupazionale in senso assoluto. L’altra variante è quella che insorge in soggetti che siano
esposti a traumi sonori non legati all’occupazione dell’individuo, quanto piuttosto ad altre
cause: oggi la causa principale di ipoacusia neurosensoriale da rumore è costituita dalle
auricolari, soprattutto quando utilizzate, chiaramente, a volume molto elevato e proprio al
fine di ovviare a questa
problematica i dispositivi a cui le
cuffie sono collegate sono dotati di
sistemi di segnalazione del volume
troppo elevato dell’audio. In
passato, quando ancora l’utilizzo dei
dispositivi auricolari non era in voga
e diffuso come oggi, una delle
principali cause dell’ipoacusia
neurosensoriale da rumore era
costituita dall’esposizione per
motivi ludici, basti pensare ai
soggetti che eseguissero attività al poligono di tiro, o ai cacciatori.
Studi hanno dimostrato che l’ipoacusia neurosensoriale da rumore si manifesta dapprima
con un deterioramento della soglia uditiva per le alte frequenze, soprattutto quelle
prossime al valore di 3000-4000 Hz come testimonia quello che viene definito come il
classico pattern della curva audiometrica tonale per un soggetto con una ipoacusia
neurosensoriale da rumore.
Questo aspetto, perlomeno nelle fasi iniziali della patologia, dimostra come i soggetti con
questa forma di ipoacusia non lamentino affatto alcun tipo di disturbo nella esecuzione di
una conversazione a due voci, dal momento che la normale frequenza della voce umana
si aggira attorno al valore di 1000-2000 Hz, oscillando da un minimo di 500 Hz ad un
massimo di circa 3000 Hz per le voci assolutamente acute. Chiaramente, questo
rappresenta solo il quadro iniziale della patologia, dal momento che in considerazione
della espressa e perdurante esposizione allo stimolo sonoro traumatizzante, si verifica un
progressivo deterioramento della funzionalità uditiva, che interesserà anche le frequenze
più gravi, per cui a lungo andare il soggetto con sordità da rumore presenterà anche una
difficoltà nella conduzione di un dialogo a due voci.
Il meccanismo patogenetico che sta alla base della insorgenza di queste forme di
ipoacusia neurosensoriale è legato al danno a carico dapprima delle cellule ciliate
esterne e successivamente anche delle cellule ciliate interne, per cui si tratta di una
forma di ipoacusia neurosensoriale cocleare. La cronica esposizione al rumore determina
un esaurimento metabolico delle cellule ciliate, che investono grandi quantità di energia
al fine di registrare questo stimolo sonoro traumatizzante. Inizialmente, la condizione è
temporanea dal momento che dopo un periodo di riposo sonoro le cellule ciliate
recuperano la propria funzionalità: questa viene definita come fase della deriva
temporanea di soglia uditiva. È chiaro che man mano che aumenti il tempo di
esposizione allo stimolo sonoro traumatizzante, aumenta anche il danno che dal
coinvolgere solo le cellule ciliate esterne coinvolge anche quelle interne, che dall’essere
temporaneo diviene permanente: è questa la fase della deriva permanente di soglia
uditiva che consegue alla morte cellulare per apoptosi delle cellule ciliate notevolmente
stressate dalla perdurante ed elevata intensità dello stimolo sonoro traumatizzante. In
questi soggetti la sordità è solitamente bilaterale e simmetrica, per cui alla prova di Weber
con il diapason, se i due orecchi sono danneggiati in egual modo quali-quantitativamente,
non si apprezza lateralizzazione del suono; la prova di Rinne documenta bilateralmente la
presenza di una riduzione del tempo di ascolto sia per la via ossea che per la via uditiva
(generalmente la riduzione è tale per cui il rapporto tra le due rimanga inalterato).
L’audiometria tonale mostra una deriva della soglia uditiva che inizialmente è rivolta alle
sole frequenze prossime ai 4000 Hz ma che con il progredire del tempo tende a
coinvolgere anche le frequenze più gravi: generalmente è in questa fase che il soggetto
richiede attenzione medica poiché inizia ad avvertire una difficoltà nella conduzione del
dialogo a due voci. In questo caso, queste indagini associate all’anamnesi positiva per
trauma sonoro perdurante sono sufficienti per porre la diagnosi; addirittura oggi, in
considerazione del vasto impiego dei dispositivi auricolari, si vedono casi di ipoacusia
neurosensoriale da rumore in soggetti giovani, anche di vent’anni, con quadri di gravità
paragonabili a chi per lungo tempo e per scopi lavorativi sia ad esempio stato esposto a
stimoli rumorosi traumatizzanti e per questo motivo la prevenzione ha in questa patologia
un ruolo di assoluto rilievo.
3) IPOACUSIA NEUROSENSORIALE SECONDARIA A FARMACI OTOTOSSICI
L’ipoacusia neurosensoriale legata a farmaci ototossici è una forma di ipoacusia
neurosensoriale legata soprattutto ad un danno cocleare, che consegue all’esposizione
ad alcuni farmaci, che possono essere di differenti categorie e molti di questi presentano
anche vasto impiego in patologie neoplastiche, autoimmuni, infettive o di competenza
internistica:
1. Antibiotici:
a) Aminoglicosidi
b) Macrolidi
c) Glicopeptidi
Alcuni antibiotici, come ad esempio gli aminoglicosidi, soprattutto la gentamicina
per via sistemica, sono farmaci di vasto impiego nel trattamento delle sepsi e nelle
infezioni da batteri gram negativi, sia nell’adulto che nel bambino, dove possono
determinare l’insorgenza di una ipoacusia neurosensoriale infantile. Si tratta di
farmaci che spesso, soprattutto per i neonati prematuri, possono risultare salvavita,
ma tra gli effetti collaterali vi è l’ototossicità che può riguardare sia un danno a
carico dell’udito che a carico delle funzioni vestibolari, ma evidentemente in questo
contesto si fa riferimento esclusivamente al danno a carico della coclea. Altri
farmaci antibiotici, particolarmente utilizzati in ambito pediatrico sono l’amikacina e
alcuni farmaci non aminoglicosidici come la vancomicina (glicopeptide) o la
eritromicina (macrolide).
2. Diuretici: tra i più utilizzati vi è la furosemide (Lasix®), che trova vasto impiego sia
nel trattamento dell’ipertensione arteriosa grave, che nel trattamento dello
scompenso cardiaco nonché nell’ambito della pratica clinica nefrologica. Spesso
questo farmaco, a fronte del vantaggio che reca nel miglioramento della patologia
cardiologica o nefrologica per la quale è somministrato, può determinare effetti
collaterali come gli acufeni, per cui se il paziente ne lamenta l’insorgenza, come
espressione di un danno a carico dell’orecchio interno, questi farmaci vanno
sospesi e sostituiti con altri farmaci diuretici attualmente in commercio.
3. Chemioterapici:
a) Cisplatino
b) Carboplatino
c) Oxaliplatino
I complessi di coordinazione del platino trovano vasto impiego nella pratica clinica
oncologica sia nei protocolli di chemioterapia adiuvante o neoadiuvante sia nei
protocolli di chemioterapia di prima linea o di linee successive alla prima. Spesso
sono utilizzati in combinazione con altri chemioterapici in alcuni schemi terapeutici
per il trattamento di alcune neoplasie, come lo schema terapeutico FOLFOX che è
impiegato nel trattamento di alcune neoplasie del tratto gastroenterico. A fronte
dell’eventuale efficacia, soprattutto il cisplatino viene comunque somministrato ma
comunque il paziente viene monitorato con esame audiometrico e nell’eventualità si
può scegliere di sostituire il cisplatino con il carboplatino che ha un miglior profilo di
tossicità.
4. Farmaci per malattie reumatologiche:
a) Colchicina
b) Idrossiclorochina
Vengono utilizzati nel contesto di patologie come il Lupus Eritematoso Sistemico, o
l’artrite reumatoide; la colchicina in particolare è particolarmente efficace nel
trattamento di particolari patologie reumatologiche che sono le malattie
autoinfiammatorie e nel trattamento della condrocalcinosi, che è una artropatia da
microcristalli.
5. Acido acetilsalicilico: fortunatamente, l’aspirina solo a dosi molto elevate si ritiene
responsabile di un danno da ototossicità. A dosaggi clinici non determina problemi,
ma nel qual caso si incorra erroneamente in un sovradosaggio, con dosi superiori a
1-1.5 g/die, si riscontrano dei danni a livello della funzione uditiva che sono definiti
dose-dipendenti, cioè i segni clinici del danno cocleare compaiono e sono sempre
maggiori all’aumentare della concentrazione nel sangue ma fortunatamente, come
compaiono al superarsi di una certa soglia, scompaiono quando le concentrazioni di
acido acetilsalicilico nel sangue siano scomparse.
Per via del fatto che questi farmaci possano dare luogo ad una ototossicità nella pratica
clinica otorinolaringoiatrica non vengono mai utilizzati e prescritti, pur se questo non ne
elimini l’esposizione da parte dei pazienti poiché nella pratica clinica soprattutto internistica
ed oncologica sono largamente utilizzati.

• SORDITÀ IMPROVVISA IDIOPATICA


La sordità improvvisa idiopatica è una ipoacusia neurosensoriale che comporta una
improvvisa e monolaterale perdita dell’udito che si associa nel 50% dei casi a sintomi
vestibolari, cioè a delle vertigini periferiche, per cui rientra in quel gruppo di ipoacusie
dell’adulto che si caratterizzano per la presenza di sintomi vestibolari e sintomi uditivi.
Possiamo dire che questa sia una patologia tempo-dipendente, in cui il recupero
funzionale è tanto più probabile quanto minore è il tempo che intercorre tra l’insorgenza
dell’ipoacusia e l’intervento medico.
1) EZIOPATOGENESI
L’eziopatogenesi di questa patologia non è nota, motivo per cui la si definisce come una
sordità idiopatica, che probabilmente presenta un meccanismo patogenetico che sia
assimilabile ad una sorta di infarto dell’orecchio interno che tuttavia non è documentabile,
come non lo è l’altra ipotesi patogenetica, dal momento che non è possibile eseguire
biopsie dell’orecchio interno, le quali indurrebbero un danno irreversibile a livello dello
stesso. Si può, tuttavia, ragionevolmente supporre che l’eventuale eziopatogenesi della
malattia si assimili ad una interruzione vascolare dei rami che perfondono l’orecchio
interno, al cui livello vige una circolazione terminale, che viene assicurata da alcuni rami
dell’arteria labirintica, a sua volta ramo dell’arteria cerebellare anteroinferiore. Dal
momento che in questo caso non sussistono delle anastomosi che possano in qualche
maniera vicariare l’apporto di ossigeno, quando venga occluso un ramo terminale, ne può
risultare un danno irreversibile. La seconda ipotesi patogenetica, al fianco di quella
vascolare, è l’ipotesi virale, secondo la quale alcuni virus come quelli appartenenti alla
famiglia delle Orthomyxoviridae o delle Paramyxoviridae, cioè i virus influenzali e
parainfluenzali, sarebbero in grado, particolarmente in soggetti defedati, di arrecare un
danno monolaterale a carico dell’orecchio interno, che certamente si rivolge a livello del
settore cocleare, ma che nel 50% dei casi si estende anche al settore vestibolare
dell’orecchio interno. Infine, la terza ipotesi patogenetica è quella definita vascolo-
virale, nella quale si accetta la coesistenza di un meccanismo ischemico e di una
infezione virale che agirebbero in concerto nel determinismo patogenetico della patologia,
della quale sfortunatamente ancora oggi non si conosce la causa.
2) CLINICA
Il soggetto con sordità improvvisa idiopatica riferisce una perdita improvvisa e
monolaterale dell’udito, che si associa anche all’assenza di autofonia, vale a dire
l’assenza di rimbombo della propria voce, da uno dei due orecchi che è quello definito
patologico; solitamente l’assenza di autofonia è uno dei rilievi riscontrabili più
frequentemente nelle ipoacusie neurosensoriali, mentre nelle ipoacusie trasmissive
spesso si riscontra la presenza dell’autofonia; difatti, soprattutto nelle otiti medie
sieromucose all’anamnesi diviene fondamentale per l’inquadramento clinico approfondire
l’eventuale presenza di questo aspetto, dal momento che viene a mancare un sintomo
tipico di molte altre otiti medie, cioè l’otalgia. Comunque, oltre alla ipoacusia che domina la
sintomatologia, il soggetto lamenta spesso anche acufeni, cioè rumori ricorali che
possono alle volte anche disturbare pesantemente il sonno del soggetto. Oltretutto, nel
50% dei casi, vengono riferiti anche dei sintomi vestibolari, che possono associarsi ad
una sindrome vertiginosa periferica, tipicamente caratterizzata da vertigini rotatorie
oggettive, di insorgenza violenta e alle volte di breve durata, in associazione a sintomi
neurovegetativi, che solitamente sono assenti nelle vertigini di origine neurologica che più
tipicamente sono rotatorie soggettive.
L’esame obiettivo si compie con l’utilizzo dell’otoscopio che documenta l’assenza di
danno a carico della membrana del timpano, la quale solitamente è integra. Si possono
anche eseguire le cosiddette prove con il diapason, particolarmente le prove di Weber e
di Rinne, che sono particolarmente utili per eseguire una prima, e sia pure approssimativa,
discriminazione tra una sordità di trasmissione ed una sordità neurosensoriale. Se, come
in questo caso, il danno è monolaterale, alla prova di Weber il soggetto lateralizzerà il
suono in corrispondenza dell’orecchio controlaterale a quello patologico; la prova di Rinne
documenta una riduzione del tempo di ascolto per la via ossea e per la via aerea da un
solo lato. Nel qual caso il soggetto lamenti anche una vertigine, che depone a favore di un
danno anche vestibolare, dopo aver analizzato le caratteristiche delle vertigini si possono
eseguire alcuni test come la prova di Romberg, il test del cammino a stella, la prova di
Barany e quella delle braccia tese. Si possono analizzare le caratteristiche del nistagmo,
che risulta essere spesso ritmico, orizzontale ed inibito dalla fissazione dello sguardo nelle
patologie che colpiscono a livello del vestibolo.
3) DIAGNOSI
Dopo l’anamnesi, l’esame obiettivo e le prove con il diapason, si possono eseguire delle
indagini come l’audiometria tonale che nelle sordità neurosensoriali si associa a deriva
della soglia uditiva sia della via ossea che della via aerea; l’audiometria vocale mostra il
fenomeno cosiddetto del roll-over, cioè una riduzione della percentuale di parole
pronunciate all’aumentare dell’intensità con cui vengono somministrate dall’audiometro,
ma comunque, assume un pattern differente nelle sordità neurosensoriali cocleari, come
questa, e in quelle neurosensoriali retrococleari. Occorre considerare che nell’ambito della
diagnostica audiologica, esami particolarmente importanti nel contesto della diagnostica
affinata tra le ipoacusie neurosensoriali cocleari e quelle retrococleari sono
l’impedenzometria, e in particolare la stima della latenza del riflesso stapediale che è
ritardato oppure assente nelle forme retrococleari mentre è preservato nelle forme
cocleari, e l’ABR che dà luogo ad onde particolarmente destrutturate nel caso delle forme
retrococleari, mentre nelle forme cocleari queste risultano differenti dalla norma ma
comunque non troppo distorte. Inoltre, le otoemissioni acustiche evocate danno luogo a
risultati differenti nelle forme retrococleari e in quelle cocleari (come questa) nelle quali il
danno a carico della coclea riduce o annulla le otoemissioni, giacché queste sono la
risultanza della risposta contrattile delle cellule acustiche esterne alla somministrazione di
uno stimolo ad una determinata frequenza incidente. Chiaramente, se ad essere
danneggiata è la coclea, queste otoemissioni vengono meno, come nel caso delle
ipoacusie neurosensoriali cocleari.
A fronte dell’indubbio vantaggio che deriva da queste indagini audiologiche, il gold
standard per la diagnosi è costituito dalla Risonanza Magnetica Nucleare, che consente
di visualizzare l’eventuale presenza di un danno a livello retrococleare, cioè a carico del
nervo vestibolococleare, che permetterebbe di escludere questa che è una patologia
classicamente associata a danno cocleare.
4) TERAPIA
La terapia che si esegue in questo caso è particolarmente efficace, pur se non sia nota la
causa che ne sta alla base. Infatti, con la terapia cortisonica sistemica, che permette nel
60% dei casi un recupero funzionale dell’udito. Se si sospetta una causa vascolare, si
possono anche somministrare vasodilatatori o anticoagulanti.

• SINDROME DI MÉNIÉRE
La sindrome di Ménière è una patologia dell’orecchio interno caratterizzata da attacchi
spontanei e ricorrenti di vertigini, ipoacusie, acufeni e fullness auricolare, che quindi
si caratterizza per la presenza di un coinvolgimento vestibolare e cocleare, il cui
reperto istopatologico correlato è quello dell’idrope endolinfatico. Si tratta, infatti, di una
patologia che rientra tra le cause di ipoacusia neurosensoriale dell’adulto, giacché si
associa a perdita della funzione uditiva per via di un danno cocleare, e, nell’ambito delle
ipoacusie, è una di quelle patologie che si associano a sintomi vestibolari per il
contestuale coinvolgimento delle strutture deputate alla vestibolocezione, cioè i canali
semicircolari membranosi, l’utricolo e il sacculo.
1) DATI EPIDEMIOLOGICI
La malattia di Ménière incide con maggiore frequenza in età compresa tra trentacinque
anni e sessantacinque anni, essendo una patologia che ha una leggera prevalenza nel
sesso femminile, assolutamente rara durante l’infanzia. È una patologia, questa, che nel
95% dei casi, circa, è monolaterale e incide con maggiore frequenza, come pare dalle
casistiche, nei paesi sviluppati.
2) EZIOPATOGENESI
L’eziopatogenesi della malattia di Ménière si spiega facendo riferimento al fisiologico
processo di formazione, filtrazione e
drenaggio dell’endolinfa, muovendo a
partire dal correlato istopatologico di base
della malattia che è quello della presenza
di un idrope endolinfatico, intendendosi
con questo un aumento del contenuto
dell’endolinfa che comporta dilatazione
delle strutture nelle quali normalmente
l’endolinfa è contenuta.
L’endolinfa viene prodotta a due livelli
differenti, che sono la stria vascolare e le
cellule scure del vestibolo, mentre viene
riassorbita a differenti livelli tra cui dal
sacco endolinfatico, che si stacca dalla superficie mediale del sacculo. Presumibilmente,
nell’ambito della patogenesi di questa patologia, che ancora non è nota, sarebbero
chiamate in causa sia alterazioni della produzione che disturbi di riassorbimento; in
particolar modo pare che vi sia un ruolo estremamente importante del sacco endolinfatico
cui competono funzioni importanti nell’equilibrio dell’ambiente dell’orecchio interno tra cui
soprattutto quello di garantire, mediante il suo immagazzinamento, un corretto e idoneo
volume di endolinfa all’interno del labirinto membranoso.
3) CLINICA
Affinché si possa parlare di sindrome di Ménière devono essere presenti degli attacchi
recidivanti che alle volte hanno una durata estremamente lunga. Sostanzialmente,
occorre considerare che sussiste la presenza di un insieme di sintomi che sono definiti
vestibolari e un insieme di sintomi che sono definiti uditivi. Tra questi ultimi vi è
l’ipoacusia, che è neurosensoriale, per cui alla prova di Weber con il diapason si associa
alla lateralizzazione controlaterale del suono prodotto, mentre la prova di Rinne
documenta una riduzione monolaterale del tempo di ascolto della via aerea e della via
ossea. Inoltre, si riscontrano acufeni e fullness uditivo. L’ipoacusia neurosensoriale si
associa tipicamente alla deriva della soglia uditiva, che nelle prime fasi della malattia, è
fluttuante e decisamente risparmia la frequenza di 2000 Hz.

Per cui le caratteristiche audiologiche sono legate alla deriva della soglia uditiva per
tutte le frequenze tranne quelle intorno a 2000 Hz nella prima fase della malattia, pur se
nelle successive fasi successive tenda ad interessare pressoché tutte le frequenze
descrivendo una curva pantonale all’audiometria tonale. La vertigine che si riscontra in
questa patologia è espressione della presenza di un danno del settore vestibolare
dell’orecchio interno, presentandosi la vertigine come tipicamente rotatoria oggettiva,
associata a sintomi neurovegetativi e al mantenimento dello stato di coscienza durante il
corso della patologia stessa. Occorre considerare che nell’ambito della situazione in
questione, il nistagmo è classicamente orizzontale, ritmico e inibito dalla fissazione dello
sguardo come accade nell’ambito del classico nistagmo da patologia vestibolare
periferica, in cui solitamente l’attacco di vertigine è violento ed improvviso. In
considerazione della ricorrenza delle acuzie di malattia, può risultarvi un danneggiamento
irreversibile delle cellule acustiche, tal che ne venga la presenza di una ipoacusia che
non sia più fluttuante bensì che sia persistente. Differentemente, con l’evoluzione di
malattia spesso si riscontra una riduzione fino alla scomparsa delle vertigini dal momento
che queste sono la risultanza di una asimmetria acuta delle afferenze vestibolocettive
derivante, tale asimmetria, dal funzionamento dell’uno e dalla disfunzione acuta della
percezione dell’altro vestibolo. Tuttavia, quando il danno vestibolare divenga cronico, il
centro di integrazione della sensibilità propriocettiva speciale in qualche maniera va
incontro ad un adattamento.
4) VARIANTI CLINICHE
Della malattia di Ménière esistono delle varianti cliniche, che sono definite
differentemente in considerazione della sintomatologia e della clinica a cui danno luogo:
1. Ménière cocleare
2. Ménière vestibolare
3. Sindrome di Lermoyez
4. Sindrome di Tumarkin
5. Idrope endolinfatica ritardata
Evidentemente, Ménière cocleare e vestibolare si caratterizzano differenzialmente per via
della clinica, che nel caso della prima delle due è ascrivibile esclusivamente ad una
perdita della funzionalità uditiva che si associa ad acufeni, fullness uditivo e ipoacusia
neurosensoriale dapprima fluttuante e successivamente cronica e persistente, in assenza
di vertigini, che invece sono presenti nella Ménière vestibolare, lì dove si apprezza la
presenza di una vertigine rotatoria oggettiva nella più parte dei casi, della durata di almeno
venti minuti, ma più frequentemente di due o tre ore, che insorge violentemente e si
associa a sintomi neurovegetativi e mantenimento dello stato di coscienza. È presente in
questa variante un nistagmo orizzontale, ritmico e solitamente inibito dalla fissazione dello
sguardo. La sindrome di Lermoyez, altresì nota con l’espressione popolare di “vertigine
che fa udire”, esordisce con dei sintomi auricolari, quindi acufeni, fullness auricolare e
ipoacusia neurosensoriale, che anticipano clinicamente la comparsa della vertigine, al cui
manifestarsi l’ipoacusia migliora. Nell’idrope linfatica ritardata, si riscontra insorgenza di
crisi vertiginose in soggetti ipoacusici o anacusici di vecchia data.
5) DIAGNOSI
L’anamnesi alle volte è utile per poter intendere la diagnosi della malattia, dal momento
che altamente suggestivo è l’andamento ricorrente delle manifestazioni sintomatologiche;
all’esame obiettivo con l’otoscopio la membrana del timpano è normale. Con la clinica e il
supporto di alcune indagini, si possono individuare i criteri diagnostici della malattia di
Ménière, che definiscno:
1. Malattia certa:
a) Ménière definita
b) Conferma istopatologica
2. Malattia definita:
a) Vertigini spontanee: con caratteristiche precise
i. ≥2
ii. ≥ 20 minuti
b) Documentazione audiometrica dell’ipoacusia
c) Acufeni/ovattamento auricolare
d) Esclusione di altre cause
3. Malattia probabile:
a) Una vertigine > 20 minuti
b) Ipoacusie documentata con audiometria
c) Acufeni/ovattamento
d) Altre cause escluse
4. Malattia possibile:
a) Una vertigine
b) Esclusione di altre cause
Mancano in tal caso la documentazione audiometrica di almeno un episodio di
ipoacusia neurosensoriale cocleare, gli acufeni e/o l’ovattamento auricolare.
Con l’audiometria vocale si riscontra il pattern classico delle ipoacusie neurosensoriali
cocleari con presenza del fenomeno del roll-over; l’audiometria tonale mostra
caratteristicamente una curva con deriva della soglia uditiva particolarmente per le
frequenze gravi con classico risparmio della soglia uditiva delle frequenze vicine a 2000
Hz, anche se con il progredire della malattia anche queste vengono interessate dalla
perdita uditiva. Altri esami audiologici confermano la presenza di un danno a carico della
coclea, come l’ABR, le otoemissioni acustiche evocate e l’impedenzometria,
particolarmente la reflessometria stapediale che documenta la presenza di un riflesso
stapediale normale. La funzione vestibolare si studia mediante la valutazione di due riflessi
che sono il riflesso vestibolo-oculomotore e il riflesso vestibolo-spinale, che nella
prima fase della malattia documentano la presenza di un vestibolo normo-reflessico e
che diviene ipo-areflessico nelle fasi avanzate della patologia. La Risonanza Magnetica,
permette di escludere patologie retrococleari.
6) TERAPIA
La sindrome di Ménière è una patologia caratterizzata da attacchi ricorrenti, per cui è
chiaro che nel proprio decorso sia una malattia caratterizzata da acuzie della
sintomatologia intervallate a relative fasi di benessere. In tal caso, occorre considerare che
il trattamento è differente nella fase critica, quella caratterizzata dalle crisi vertiginose che
sono fortemente invalidanti, e la fase intercritica; la prima delle due fasi è solitamente
gestita in pronto soccorso, mentre la seconda è gestita dallo specialista otorinolaringoiatra
che dispone di alcuni presidi farmacologici e chirurgici per il trattamento della patologia.
Nella fase acuta della malattia sussiste la presenza di una asimmetria acuta nelle
afferenze vestibolari dai due lati, che è la causa della vertigine. Per cui in questo caso
occorre somministrare dei farmaci che in qualche maniera siano in grado di sopprimere
l’attività vestibolare, come le benzodiazepine, tra cui il diazepam (Valium®), oppure gli
antagonisti dopaminergici e gli anticolinergici, oppure i monoaminergici, da
somministrare endovena, intramuscolo o per supposta, dal momento che con queste
modalità di somministrazione sono più efficaci rispetto che nella modalità di
somministrazione orale. Tra i farmaci che si possono somministrare in pronto soccorso
endovena o intramuscolo, vi è la levosulpride. Possono anche essere somministrati
farmaci come la prometazina o la trietilperazina, che sono farmaci antistaminici H1 di I
generazione che attraversando la barriera ematoencefalica hanno una azione sedativa
centrale, risultando quindi utili nel trattamento della fase critica della malattia di Ménière.

• NEURINOMA DELL’ACUSTICO
Il neurinoma dell’acustico, o schwannoma vestibolococleare, è un tumore benigno che
viene annoverato nel vasto gruppo dei tumori dei tessuti molli, dal momento che origina
dal rivestimento mielinico, costituito dalle cellule di Schwann, del nervo vestibolococleare.
Per questo motivo, rientra specificatamente nell’ambito della categoria dei tumori benigni
delle guaine dei nervi periferici essendo la più frequente causa di ipoacusia
neurosensoriale retrococleare.
Il neurinoma dell’acustico è una neoplasia benigna che presenta una incidenza pari circa
a 1 caso/100.000 abitanti/anno, presentandosi come una lesione che rappresenta il 7-8%
\dei tumori intracranici, insorgendo caratteristicamente in corrispondenza dell’angolo
pontocerebellare che è la sede caratteristica di questa neoplasia. Il neurilemmoma
dell’acustico è una patologia che solitamente insorge in sede monolaterale e quando lo
faccia si tratta di una forma sporadica, differentemente dalle forme che insorgono in sede
bilaterale che hanno una connotazione genetica.
1) TIPOLOGIE EZIOLOGICHE DI NEURINOMA
Quindi, in base a questa differente eziologia sono da considerarsi distinte le forme
acquisite da quelle congenite, essendo queste ultime espressione di una patologia che
gode di un substrato ereditario geneticamente trasmissibile. Infatti, si tratta di una
patologia che è l’espressione caratteristica della neurofibromatosi di tipo II. La
neurofibromatosi di tipo II è una patologia genetica a trasmissione autosomica
dominante, che consegue alla mutazione del gene NF2, mentre la neurofibromatosi di tipo
I, altresì nota con il nome eponimo di malattia di von Recklinghausen, consegue ad una
mutazione del gene NF1 codificante per la neurofibromina. Se la neurofibromatosi di tipo I
si associa alla insorgenza di multipli neurofibromi cutanei che sono comunque dei tumori
benigni delle guaine dei nervi periferici, l’espressione patologica caratteristica della
neurofibromatosi di tipo II è quella del neurinoma bilaterale dell’acustico, che presenta
un atteggiamento maggiormente aggressivo tanto che si mostra caratteristicamente a
rischio di trasformazione nel tumore maligno delle guaine dei nervi periferici.
Contrariamente, la presenza di neurinomi bilaterali dell’angolo pontocerebellare è rara
nell’ambito della vera malattia di von Recklinghausen. I soggetti con neurofibromatosi di
tipo II presentano una mutazione del gene codificante per la merlina, proteina che
sembrerebbe regolare l’inibizione da contatto. I soggetti con neurofibromatosi di tipo II
tendono a sviluppare neurinomi bilaterali dell’acustico, associati a meningiomi, tumori del
midollo spinale e tumori del nervo ottico, per cui sono soggetti assolutamente intrattabili,
per i quali l’unica scelta è quella del counseling genetico e quella di consigliare
caldamente di non avere figli, dal momento che la patologia presenta una probabilità di
trasmissione del 50% e dal momento che si tratta di una patologia caratterizzata da un
anticipo fenotipico nelle generazioni filiali. Differentemente, il neurinoma dell’acustico
sporadico si caratterizza per l’insorgenza monolaterale ed è un tumore trattabile
chirurgicamente, dal momento che si può risolvere la situazione mediante asportazione
con un intervento chirurgico.
2) EVOLUZIONE CLINICA DEL NEURINOMA
Il neurinoma dell’acustico è un tumore per il quale sussistono due fasi principali di
evoluzione, di cui la prima è definita intra-canalare e la seconda cisternale, dipendendo
da queste e dalla dimensione del tumore l’eventuale sintomatologia con cui questo si
manifesta.
Dapprima, il tumore origina in corrispondenza della regione di passaggio dal rivestimento
di oligodendrociti e quello di cellule di Schwann, che si realizza a livello del canale uditivo
interno. In questa fase, il tumore è ancora di modeste dimensioni, motivo per cui non si
associa a compressione delle strutture vicine o a sindrome da ipertensione endocranica
che sono delle manifestazioni più tardive e associate all’aumento di dimensione notevole
del tumore. Sostanzialmente, in questa prima fase, intra-canalare, dell’accrescimento del
neurinoma dell’acustico, i sintomi sono del tutto uditivi, presentandovisi acufeni ed
ipoacusia neurosensoriale retrococleare. I disturbi dell’equilibrio sono solitamente
assenti perlomeno in questa fase dal momento che si tratta di un tumore che si accresce
in maniera molto lenta, guadagnando circa un millimetro per anno. Infatti, affinché si
abbiano delle vertigini è necessario che si abbia una asimmetria acuta delle afferenze
vestibolari dai due lati, condizione che mai si verifica in questo caso dal momento che
sussiste una lenta crescita del tumore. Pur se i soggetti non riferiscano quasi mai le
vertigini in senso stretto, è possibile che si abbiano altre alterazioni dell’equilibrio.
Successivamente, il tumore transita per la fase di crescita definita cisternale, dal
momento che si accresce in corrispondenza della cisterna pontocerebellare, cioè una
dilatazione dello spazio subaracnoideo che si localizza a livello dell’angolo ponto-
cerebellare. Si tratta di una cisterna, questa, che è delimitata medialmente dal ponte,
lateralmente dal temporale e posteriormente dal cervelletto e a questo livello transitano
importanti strutture nervose come il trigemino, il nervo facciale, il nervo glossofaringeo
e il nervo ipoglosso. È chiaro che in questa fase l’eventuale sintomatologia del
neurinoma dell’acustico dipende dall’eventuale compressione generata a livello delle varie
strutture:
1. Compressione del trigemino:
a) Ipoestesia trigeminale
b) Nevralgia trigeminale
2. Compressione del facciale:
a) Paralisi del facciale
3. Compressione del glossofaringeo:
a) Ipomotilità del velo del palato
b) Riduzione del riflesso faringeo
4. Compressione del cervelletto:
a) Adiadococinesia
b) Dismetria
5. Ostruzione dei ventricoli:
a) Idrocefalo interno non comunicante
b) Ipertensione endocranica
La compressione del cervelletto è un aspetto estremamente importante da considerare
nel contesto della clinica del neurinoma dell’acustico, che è un tumore che comprimendo il
cervelletto nella fase cisternale dell’evoluzione può determinare una interferenza delle
funzioni cerebellari. Il cervelletto è infatti deputato alla coordinazione degli schemi motori e
al mantenimento dell’equilibrio, motivo per cui la compressione cerebellare comporta
l’insorgenza di una disfunzione nel mantenimento dell’equilibrio durante la deambulazione,
tal che il soggetto per mantenere l’equilibrio durante la camminata debba allargare la base
d’appoggio, quindi tende a camminare a gambe larghe, condizione che viene definita
come adiadococinesia. Inoltre, la compromissione delle funzioni cerebellari si associa
anche alla presenza di una caratteristica interferenza con la coordinazione motoria tal che
il soggetto compia spesso movimenti definiti dismetrici, cioè scoordinati e il classico
segno neurologico associato a questa alterazione è costituito dalla impossibilità di toccare
la punta del naso con la punta dell’indice, ad occhi aperti e/o ad occhi chiusi.
Particolarmente grave è l’eventualità che si verifichi una ostruzione ventricolare,
particolarmente del quarto ventricolo, tal che ne risulti un idrocefalo ipertensivo non
comunicante che si associa all’insorgenza di una sindrome da ipertensione
endocranica, le cui caratteristiche principali sono la cefalea diffusa e gravativa, il vomito a
getto non-alimentare e l’annebbiamento della vista per via del papilledema. La sindrome
da ipertensione endocranica è una condizione di assoluta emergenza, che si associa alla
possibile erniazione cerebrale, di cui si distinguono in particolare tre forme differenti, che
sono l’ernia subfalcina, laddove il giro del cingolo ernia al di sotto della grande falce
cerebrale, l’ernia transtentoriale, lì dove la parte mediale del lobo temporale ernia al di
sotto del tentorio del cervelletto, e l’ernia tonsillare, che risulta essere la più grave dal
momento che la tonsilla del cervelletto ernia attraverso il grande foro occipitale, o forame
magno, e nel suo erniare determina compressione del tronco encefalico, particolarmente
dei centri nervosi di controllo del respiro e del battito cardiaco.
Oggi, grazie alle conoscenze del quadro clinico e alla diagnostica strumentale il neurinoma
dell’acustico viene diagnosticato prima dell’approdo alla fase dell’ipertensione
endocranica.
3) DIAGNOSI
La diagnosi di un neurinoma dell’acustico si pone a partire dal sospetto clinico, legato
all’anamnesi positiva per la presenza di acufeni ed ipoacusia neurosensoriale
monolaterale, nella forma sporadica, il che significa che si associa a lateralizzazione del
suono nell’orecchio controlaterale alla sede del neurinoma alla prova di Weber con il
diapaso. Lo studio audiologico si vale del contributo di alcuni esami:
1. Audiometria tonale: documenta una deriva della soglia uditiva per la via aerea e
per la via ossea monolaterale, particolarmente associato alla presenza di una
perdita per le frequenze superiori ad 1.5 kHz.

2. Audiometria vocale: si documenta nell’80% il fenomeno del roll-over e si riscontra


come caratteristica principale delle sordità neurosensoriali la presenza di una
dissociazione verbo-tonale, espressione di una intellegibilità piuttosto scadente
dei suoni. I soggetti con questo tipo di patologie oltre che non percepire il suono,
non sono in grado molto spesso di comprenderne il significato.
3. Impedenzometria:
a) Timpanogramma
b) Riflessometria stapediale
Dipendendo il riflesso stapediale da fenomeni di conduzione nervosa, questi è
ritardato o assente addirittura, a differenza delle ipoacusie neurosensoriali cocleari,
in cui il riflesso è normalmente conservato.
4. Otoemissioni acustiche evocate: dipendendo dall’attività delle cellule ciliate
esterne che in tal caso sono normali, le otoemissioni acustiche evocate vengono
preservate.
5. Test di Anderson: risulta alterato in tutte le ipoacusie neurosensoriali retrococleari,
per cui anche in tal caso è positivo per patologia retrococleare.
6. ABR: i potenziali acustici troncoencefalici evocati documentano la presenza di una
destrutturazione del tracciato; la V onda può essere assente, o se presente può
presentare un notevole aumento del tempo di latenza, che di norma è di 5.5-5.6
ms.
Oltre a queste indagini, le prove vestibolari risulteranno alterate e si riscontrerà anche la
presenza di una caratteristica lesione alla Risonanza Magnetica Encefalica che
documenta la presenza di una lesione occupante spazio; la Risonanza Magnetica con
mdc, precisamente con gadolino, è molto sensibile e specifica anche per tumori di
piccole dimensioni per cui è un esame particolarmente importante anche per fare diagnosi
precoce della malattia.

4) TERAPIA
La terapia di scelta, solitamente, è costituita dalla chirurgia eseguita in collaborazione tra
l’équipe otorinolaringoiatrica e quella neurochirurgica, anche se alle volte si può optare per
un approccio con terapia radiante. Addirittura, essendo un tumore benigno con tasso di
crescita molto lento, quando presenti dimensioni molto piccole, ad esempio inferiori o
uguali a 5 mm, si può anche non asportare; è stato dimostrato che questa scelta attendista
non influenzi la sopravvivenza e il potenziale esito futuro dell’intervento.

• OTOSCLEROSI
L’otosclerosi è una patologia dell’orecchio interno che si caratterizza per la presenza di un
processo distrofico a carico della capsula otica, che per il suo prevalente interessamento
della finestra ovale causa un blocco del movimento della staffa, conseguendovi una
caratteristica anchilosi stapedo-ovalare. L’otosclerosi è una patologia che incide con
maggiore frequenza nei soggetti giovani-adulti, di età compresa tra i trent’anni e i
quarant’anni, essendo una patologia che incide con maggiore frequenza nei soggetti di
sesso femminile, con una frequenza circa tre volte superiore.
1) EZIOPATOGENESI
Dal punto di vista eziopatogenetico, l’otosclerosi è una patologia che interessa
caratteristicamente la capsula otica, che è una struttura che contiene il labirinto
posteriore e la chiocciola, che diversamente dal resto dell’osso temporale va incontro ad
un processo di sviluppo embriologico conseguente alla presenza di una ossificazione
encondrale. Accade talora che a livello della capsula otica vi siano alcune aree che vanno
incontro a riassorbimento osseo tal che ne residuino delle cavità spongiotiche in quello
che prende il nome di osteospongiosi. L’osteospongiosi nel contesto dello sviluppo
dell’otosclerosi non è diffusa, si estende piuttosto a focolai, da cui si verificano successivi
processi di distrofia ossea che sfociano evidentemente nell’otosclerosi. Nella più gran
parte dei casi, i processi di otosclerosi interessano caratteristicamente la finestra ovale,
che rappresenta quell’orifizio posto sulla parete mediale della cassa del timpano, al cui
livello si inserisce la base della staffa che, ricevuta la vibrazione dell’onda sonora
trasmessa per il tramite della membrana del timpano, del martello e dell’incudine, la
trasmette all’orecchio interno nella cui cavità, scavata nella piramide del temporale, si
affaccia la base della staffa. In condizioni normali, la staffa si inserisce nella finestra ovale
mediante un legamento che viene definito legamento anulare e che ne consente la
vibrazione che nel caso dell’insorgenza di una otosclerosi risulta inevitabilmente
compromessa, conseguendovi una impossibilità di trasmissione dell’onda sonora, che
rende ragione della possibilità che insorga una caratteristica ipoacusia trasmissiva, pur se
sia anche possibile che il processo di otosclerosi coinvolga anche, o solo, la coclea, tal
che ne consegua nel primo caso una ipoacusia mista (stapedo-cocleare o cocleo-
stapediale) e nel secondo caso una ipoacusia neurosensoriale. Comunque, oggi non si
conosce ancora quale sia l’eziologia della patologia, pur se si ritenga che nel 50% dei casi
di otosclerosi sussista una ereditarietà autosomica dominante a penetranza
incompleta. A lungo si è discusso sulle possibili cause che possano stare alla base
dell’insorgenza di un’otosclerosi ma le due più accreditate riguardano (1) la presenza di
una patogenesi virale legata ad una infezione latente da virus del morbillo il cui RNA è
stato riscontrato nel contesto della capsula otica nei soggetti affetti da otosclerosi o (2) la
carenza di fluoro da cui deriverebbe la presenza dei focolai di osteospongiosi che
successivamente andrebbero incontro a distrofia ossea. La patologia incide con maggiore
frequenza nei soggetti di sesso femminile e probabilmente questo aspetto è espressione
di un ruolo ormonale e tanto è vero questo che i soggetti di sesso femminile lamentano
non infrequentemente la presenza di una slatentizzazione o di una esacerbazione della
patologia durante i periodi di massimo cambiamento ormonale, cioè durante la
mestruazione, durante la gravidanza o la menopausa.
2) CLINICA
Dal punto di vista clinico, il sintomo principale dell’otosclerosi è l’ipoacusia, che consegue
all’interessamento della staffa, nel 90-95% dei casi, oppure della coclea, in
considerazione di quale delle due sia l’elemento interessato esclusivamente o
maggiormente. In alcuni casi è anche possibile che vengano interessati sia la staffa che la
coclea, condizioni che evidentemente intendono l’eventuale insorgenza di una ipoacusia
mista, definita stapedo-cocleare o cocleo-stapediale, che rappresentano due differenti
modalità di ipoacusia mista possibili nel contesto di questa patologia, le quali
sostanzialmente differiscono per via del fatto che nella forma stapedo-cocleare la funzione
del nervo cocleare risulta maggiormente preservata. È chiaro che, parlando delle forme
che colpiscano esclusivamente la staffa o esclusivamente la coclea, si manifesteranno
delle ipoacusie trasmissive pure o delle ipoacusie neurosensoriali pure, tra le quali
sussistono differenze in termini di clinica, soprattutto nella prova di Weber con il diapason
se tra i due orecchi vi è una differenza di funzionalità, altrimenti se ambedue sono colpiti
allo stesso modo dalla patologia, la prova di Weber con il diapason non documenta alcun
tipo di lateralizzazione del suono. Accanto all’ipoacusia che è il sintomo principale, i
soggetti con l’otosclerosi lamentano anche la presenza di acufeni, che sono una
sensazione acustica riferita dal paziente in assenza di uno stimolo sonoro. L’acufene nel
paziente otosclerotico può essere di due distinte qualità: pulsante, allorquando si riscontri
la percezione del battito cardiaco dal momento che l’otospongiosi comporta un aumento
del flusso ematico, oppure continuo, come un rumore di fondo che il paziente avverte
costantemente e che può peggiorarne la qualità della vita significativamente, soprattutto
durante la notte deteriorando la qualità del sonno. Il paziente con otosclerosi può anche
avvertire un altro sintomo che corrisponde alla cosiddetta paracusia dolorosa,
espressione con cui si intende una sintomatologia dolorosa conseguentemente alla
percezione di suoni di intensità di almeno 80-85 dB, sintomo che consegue
all’ipoefficienza del riflesso stapediale. Il riflesso stapediale è un riflesso basato sull’attività
di contrazione del muscolo stapedio, che è un muscolo il grado di regolare la tensione
della membrana del timpano e a mezzo di questa regolazione di esercitare un
meccanismo protettivo nei riguardi dei suoni molto intensi. In tal caso, viene meno la
possibilità di smorzare la tensione della membrana del timpano a seguito di stimoli molto
intensi, il che causa l’insorgenza della paracusia dolorosa. L’esame obiettivo nei soggetti
con otosclerosi è normale.
3) DIAGNOSI
A fronte della sintomatologia dominata dall’ipoacusia, dalla presenza di acufeni e talora
dalla paracusia dolorosa e di un esame obiettivo fondamentalmente normale, si rende
necessaria una diagnostica strumentale accurata, che sia volta a documentare la
presenza di una ipoacusia mediante gli esami strumentali strettamente audiologici, di tipo
audiometrico, e a documentare la presenza dell’otosclerosi: l’esame gold standard per
documentare la presenza dell’otosclerosi è la TC cranica, che permette di documentare il
processo di sclerosi della capsula otica. Pur tuttavia, è necessario anche eseguire altri
esami, cioè l’audiometria tonale e l’impedenzometria. L’audiometria tonale documenterà
una ipoacusia di tipo trasmissivo o di tipo neurosensoriale, ricordando che tra le due una
delle principali differenze in audiometria tonale è costituita dalla presenza di una deriva
della soglia uditiva per la via ossea e per la via aerea per quanto riguarda le forme di tipo
neurosensoriale, differentemente dalle varianti di tipo trasmissivo in cui si assiste ad un
deterioramento della sola soglia uditiva aerea, a fronte di un mantenimento della soglia
aerea della via ossea. Caratteristicamente, nel caso dell’ipoacusia trasmissiva
nell’otosclerosi si descrive una caratteristica curva che prende il nome di curva di rigidità,
la quale si associa alla presenza di una perdita della soglia uditiva della via aerea
soprattutto alle frequenze più gravi.
L’impedenzometria è un’altra indagine strumentale squisitamente audiologica di estrema
importanza nel contesto della diagnosi delle ipoacusie, valutando la resistenza incontrata
dalla trasmissione di un’onda sonora a livello della membrana del timpano
(timpanogramma) in considerazione dell’effetto sulla membrana indotto dal riflesso
stapediale (reflessologia stapediale). Dal momento che si è detto che i soggetti con
otosclerosi lamentino una paracusia dolorosa, legata alla impossibilità di regolare la
tensione della membrana del timpano mediante il riflesso stapediale che è compromesso,
la reflessologia stapediale documenterà una assenza del riflesso. Certamente, quando
l’otosclerosi dia luogo ad una ipoacusia di tipo trasmissivo la diagnosi è abbastanza
confortevole, differentemente da quanto accada nel momento in cui si riscontri la presenza
di una ipoacusia neurosensoriale dal momento che in quest’ultimo caso le cause di
ipoacusia neurosensoriale sono numerosissime, per cui ci si vale di diversi riscontri, tra cui
quelli dell’impedenzometria, che danno luogo ad un timpanogramma di tipo A e ad una
assenza del riflesso stapediale; inoltre, i soggetti con otosclerosi, dal momento che
presentano una perdita maggiore sulle frequenze gravi, riferiscono di riuscire a
discriminare abbastanza bene la voce umana, che classicamente si attesta su delle
frequenze più acute.
4) TERAPIA
La terapia dell’otosclerosi è sostanzialmente quella delle ipoacusie: per l’ipoacusia
neurosensoriale, l’unica terapia percorribile è quella di installazione di un dispositivo
acustico. Per l’ipoacusia trasmissiva, è possibile sottoporre il paziente ad un intervento
chirurgico che consiste nel sostituire la staffa con un piccolo pistone. Si crea
chirurgicamente un foro al livello della platina della staffa, nel foro si inserisce una protesi
a pistone che permette di trasmettere in maniera idonea il suono. Il pistone ha un
diametro di 0.4 mm e una lunghezza di circa 5-5.5 mm. Una volta inserito il pistone, si
rimuove la staffa che è bloccata disarticolandola dall’incudine, si taglia lo stapedio e si
rimuove la sovrastruttura della staffa. In questo modo si può ripristinare la normale
trasmissione a livello del sistema timpano-ossiculare.
Vertigini

Le vertigini sono definite come una sensazione di falso movimento e sono espressione di
una patologia che può essere a carico dell’orecchio interno oppure a carico delle strutture
centrali della sensibilità vestibolare, tal che si definiscano delle vertigini periferiche e
delle vertigini centrali.
Da un punto di vista non puramente eziologico, ma anche clinico giacché nella più parte
dei casi la presentazione clinica è agli antipodi, la vertigine può dirsi centrale o periferica,
in considerazione del fatto che il danno intervenga a carico del sistema nervoso centrale
ovvero a carico del labirinto dell’orecchio interno. Le vertigini centrali differiscono da quelle
periferiche sicuramente per l’eziologia della malattia dal momento che la prima è
espressione di una patologia di competenza neurologica mentre la seconda è espressione
di una patologia di competenza otorinolaringoiatrica. Talora, le vertigini periferiche sono
maggiormente invalidanti differentemente dalle vertigini centrali che molto spesso hanno
un esordio subdolo e quindi di per loro non sono fortemente invalidanti, ma in compenso
spesso la patologia che ne sia alla base risulta essere più grave. La vertigine periferica,
nella maggior parte dei casi, è violenta, insorgendo in maniera improvvisa ed
associandosi a sintomi neurovegetativi, come la bradicardia, il pallore, la nausea, il
vomito; peraltro nella maggior parte dei casi se non in tutti la vertigine periferica si
definisce oggettiva, essendo questa una vertigine in cui la falsa sensazione di movimento
è riferita all’ambiente esterno: il soggetto riferisce di avvertire una rotazione dell’ambiente
attorno a sé. Solitamente, questa rotazione è avvertita sul piano orizzontale, essendo, tra
tutti gli organi dell’orecchio interno deputati alla vestibolocezione, il canale semicircolare
laterale quello che è deputato alla sensibilità rotatoria sul piano orizzontale. Dal momento
che il canale semicircolare laterale è anche quello predominante tra i tre, la vertigine è
solitamente definita da una sensazione rotatoria orizzontale dell’ambiente circostante.
Differentemente dalla vertigine periferica, la vertigine centrale ha spesso un esordio più
subdolo, potendosi talora associare ad una perdita di coscienza che mai si verifica nel
caso della vertigine periferica; inoltre, la vertigine centrale è solitamente soggettiva: il
soggetto riferisce di avvertire sé stesso ruotare rispetto all’ambiente circostante.

• FISIOLOGIA DEL SISTEMA VESTIBOLARE


Per meglio comprendere i sintomi che sono associati alla presenza delle vertigini, bisogna
comprendere quale sia il funzionamento del sistema vestibolare.
Il sistema vestibolare è un sistema localizzato a livello sottocorticale e ciò significa che
non è controllato dalla nostra volontà. Essendo sottocorticale funziona per riflessi, in
maniera involontaria.
Ha la funzione di raccogliere informazioni relative alla posizione e al movimento del capo
e del corpo, in particolare relativamente al movimento, tal che riconosca le accelerazioni
statiche e dinamiche. All’accelerazione statica e lineare tutti i soggetti sono sottoposti
continuamente, anche quando si è fermi, poiché continuamente agisce la forza di
gravità, che è orientata verso il basso. Accanto a questa c’è l’accelerazione dinamica,
angolare, anch’essa riconosciuta e definita rotazionale. Queste informazioni che vengono
raccolte a livello del sistema vestibolare, raggiungono il SNC dove vengono integrate con
le informazioni visive e propriocettive garantendo l’equilibrio. Infatti l’equilibrio è
mantenuto grazie all’integrazione delle informazioni provenienti dal sistema visivo,
propriocettivo e vestibolare. Di conseguenza un disturbo dell’equilibrio potrà derivare sia
da un danno vestibolare, sia da un danno visivo che da un danno propriocettivo.
Il sistema vestibolare come detto è un sistema sottocorticale e involontario, per cui
funziona per riflessi e in particolare i riflessi di estrema importanza fisiologica e clinica
sono due:
1. Riflesso vestibolo-oculomotore (VOR): ha il compito di stabilizzare la visione
durante i movimenti; grazie a questo riflesso indipendentemente da quanto ci si
muove, si riesce a vedere il campo visivo in condizione di fissità e soprattutto con
una messa a fuoco che prescinde da qualsiasi movimento. Infatti grazie a questo
riflesso, ogni movimento della testa è controbilanciato da un movimento di
compenso degli occhi, per cui l’immagine viene sempre mantenuta a livello della
fovea, la regione centrale della retina di massima acuità visiva.
2. Riflesso vestibolo-spinale (VS): ha il compito di agire sulla muscolatura del tronco
e degli arti, garantendo l’equilibrio, statico (da fermi) e dinamico (camminando o
correndo etc), senza cadere.
Questi riflessi, come tutti i riflessi, sono costituiti da 3 componenti, che sono il recettore
periferico, l’elaboratore centrale a livello del SNC e l’effettore motorio. Il recettore periferico
si trova a livello dell’orecchio interno nel labirinto, l’elaboratore centrale si trova a livello del
tronco encefalico, da cui partono fibre efferenti che raggiungono differenti target in
considerazione del riflesso considerato: per il VOR i nuclei dei tre nervi dell’oculomozione
(oculomotore, trocleare e abducente) e quindi tramite questi viene controllato il movimento
degli occhi; per il VS i motoneuroni di II ordine del corno grigio anteriore del midollo
spinale da dove partono gli assoni motori che raggiungono i muscoli di collo, tronco e arti.
Considerando i recettori vestibolari, ve ne sono di due tipi, preposti alla registrazione degli
stimoli di accelerazione rotazionale e di accelerazione lineare:
1. Recettori canalari: si trovano nei canali semicircolari, responsabili del
riconoscimento delle accelerazioni angolari. I canali semicircolari sono 3,
perpendicolari tra di loro e orientati lungo i 3 piani dello spazio: il canale
semicircolare laterale è orientato lungo il piano orizzontale, il canale semicircolare
superiore è orientata lungo il piano sagittale e il canale semicircolare posteriore è
orientato lungo il piano frontale. Ne deriva che questi recettori riconoscono i
movimenti in tutti e 3 i piani dello spazio. In particolare i recettori si trovano a livello
delle ampolle dei canali semicircolari.
Il canale semicircolare laterale è l’unico ad avere un braccio ampollare e un braccio
non ampollare indipendenti, a differenza del canale semicircolare superiore e
posteriore che hanno un braccio ampollare indipendente e un braccio non
ampollare comune (crux comune). Questo è uno dei motivi per cui il canale
semicircolare orizzontale prevale sugli altri due.
2. Recettori maculari: presenti a livello delle macule, che sono due strutture situate
nell’utricolo (che si orienta sul piano orizzontale) e nel sacculo (che si orienta sul
piano verticale) e che riconoscono le accelerazioni lineari.
A livello delle ampolle dei canali semicircolari (che sono delle dilatazioni terminali di uno
dei due bracci dei canali) e a livello delle macule dell’utricolo e del sacculo, sono presenti
delle cellule recettoriali specializzate, che prendono il nome di cellule ciliate sensoriali,
distinte in cellule di tipo I e di tipo II, che a differenza di quelle della coclea, oltre che le
stereociglia presentano anche un chinociglio. Queste cellule ciliate (in particolare quelle
di tipo I) rilasciano un neurotrasmettitore con una frequenza di scarica primaria, cioè
anche quando il chinociglio si trova in una posizione neutra, queste cellule rilasciano il
neurotrasmettitore. Per cui il nervo vestibolare ha una frequenza di scarica spontanea,
spontaneus firing rate, e tonica, che evidentemente viene alterata allorquando si abbia
eccitazione delle cellule ciliate, condizione che consegue alla presenza di accelerazioni
lineari o rotazionali e che altera il rilascio del neurotrasmettitore.
Questa frequenza di scarica, determinata dalla secrezione basale della cellula non
eccitata, sarà incrementata nel momento in cui la cellula ciliata venga depolarizzata a
seguito dello stimolo e ciò avviene secondariamente al movimento delle ciglia indotto dalle
accelerazioni: il movimento del chinociglio, spostando le ciglia da un lato, induce apertura
dei canali del Ca2+ e del K+, depolarizzando la cellula che rilascia una maggiore quantità
di neurotrasmettitore, risultandovi come conseguenza un aumento della frequenza di
scarica del nervo. Occorre tuttavia considerare che il chinociglio presenta una direzione di
movimento tale per cui quando si muova in questa direzione determini depolarizzazione,
mentre quando si muova dal lato opposto (cioè quando vi è una accelerazione dal lato
opposto rispetto al recettore considerato) si verifica una iperpolarizzazione che riduce la
frequenza di scarica del nervo stesso. Evidentemente, questo è un aspetto che definisce
come la sensazione di movimento lineare od orizzontale da un lato o dall’altro, derivi da
questo complesso equilibrio e da questa differente frequenza di scarica dei nervi
vestibolari dei due lati: il movimento del chinociglio modula la frequenza di scarica del
nervo vestibolare.
1) CANALI SEMICIRCOLARI
Nei canali semicircolari, la porzione recettoriale, presente nell’ampolla (del braccio
ampollare dei canali), prende il nome di cresta ampollare. Questa è caratterizzata dalle
cellule sensoriali ciliate, sulla cui porzione basale arrivano le terminazioni del nervo
vestibolare; suddette cellule, in corrispondenza del polo apicale sono sovrastate da una
cupola gelatinosa, all’interno della quale sono immerse le stereociglia e il chinociglio
delle cellule sensoriali. La cupola permette di amplificare il movimento del chinociglio a
seguito del movimento angolare della testa. Quando il soggetto è fermo, la cupola si trova
nella posizione di “resting”, neutra, quando il soggetto ruoti la testa, ad esempio verso
sinistra, ci sarà un movimento relativo dell’endolinfa che sposta la cupola verso destra. Il
movimento della cupola inclina, flette il chinoglio, e a seconda del lato ciò determina una
iper o depolarizzazione, in particolare a sinistra depolarizzazione e a destra
iperpolarizzazione. I canali semicircolari sono accoppiati, in particolare i canali
semicircolari orizzontali dei due lati, destro e sinistro sono accoppiati tra loro, poi il canale
semicircolare superiore destro è accoppiato con il posteriore sinistro, e infine il canale
semicircolare superiore sinistro è accoppiato con il posteriore destro.
Didatticamente è più facile spiegare cosa accade considerando quelli laterali: se il
soggetto è fermo i due canali semicircolari laterali rilasciano una quantità di
neurotrasmettitore identica, e quindi anche la frequenza di scarica dei nervi vestibolari dei
due lati è uguale. Se il soggetto gira la testa a sinistra, il canale sinistro viene eccitato e
quello di destra viene inibito, e quindi ci sarà l’aumento di scarica del nervo vestibolare di
sinistra e una riduzione di scarica del nervo vestibolare di destra tal che il cervello riceva
sempre delle informazioni simmetriche e complementari: si parla di meccanismo push
and pull. La somma dell’informazione che proviene da un lato con quella che proviene
dall’altro lato deve essere sempre la stessa.
La presenza di una scarica uguale da parte dei nervi vestibolari dei due lati viene
interpretata dal centro di integrazione della vestibolocezione, che è il cervelletto, come una
assenza di accelerazione, mentre la differenza di scarica viene integrata dal cervelletto
come una accelerazione, in particolare dal lato nel quale la frequenza di scarica del nervo
vestibolare sia maggiore.
Il fatto di ricevere informazioni in abbondanza va sotto il nome di ridondanza sensoriale,
fenomeno fisiologico e particolarmente importante in patologia. Per essere estremamente
pratici, immaginiamo che vi sia un danno a livello di un orecchio, per esempio un
colesteatoma che danneggia il labirinto di destra, comunque avendo le informazioni da
sinistra il cervello riesce a creare i riflessi. Infatti se il soggetto si muove a sinistra ci sarà
una scarica maggiore considerando il nervo vestibolare di sinistra, se si muove a destra ci
sarà una minore scarica del nervo vestibolare di sinistra. Queste informazioni che il
cervello riceve saranno sufficienti per sviluppare i riflessi. Questo meccanismo di
ridondanza sensoriale quindi è particolarmente importante per recuperare l’equilibrio dopo
le patologie del labirinto, permette cioè che avvenga il fenomeno del compenso
vestibolare. Medesima cosa accade per gli altri canali semicircolari accoppiati, ovviamente
nei loro piani.
2) UTRICOLO E SACCULO
Nel sacculo e nell’utricolo l’apparato recettoriale è la macula, sensibile alle
accelerazioni lineari, orizzontale per l’utricolo e verticale per il sacculo.
Anche qui vi è la presenza delle cellule sensoriali ciliate, con stereociglia e chinociglio,
immerse in questo caso nella membrana otolitica, che è una struttura gelatinosa
rivestita da uno strato di cristalli di carbonato di calcio, che prendono il nome di otoliti o
otoconi. Questi otoliti hanno il compito di rendere più pesante la struttura gelatinosa e
renderla quindi più sensibile alle accelerazioni lineari, rendendo a sua volta l’orecchio più
sensibile alle accelerazioni lineari. Può accadere che vi sia il distacco degli otoliti che
finiscono nei canali semicircolari, e questa è la causa più comune di vertigine nell’uomo,
giustificandone il 30% delle crisi all’incirca. Questo distacco otolitico viene comunemente
chiamato labirintite, anche se non è una labirintite, ma è la vertigine parossistica
posizionale benigna.
3) COMPONENTI CENTRALI DELLA VIA VESTIBOLARE
Tutte le informazioni che originano a livello del labirinto, attraverso il nervo vestibolare
superiore (che porta le informazioni dalla macula dell’utricolo e dalle creste ampollari dei
canali semicircolari superiore e laterale) e inferiore (che porta le informazioni dalla macula
del sacculo e dalla cresta ampollare del canale semicircolare posteriori) raggiungono il
ganglio di Scarpa, sede dei neuroni bipolari da cui originano le fibre periferiche che
raggiungono gli elementi sensoriali del labirinto e d’altra parte fibre afferenti che portano
l’informazione al livello del tronco encefalico, ed in particolare ai nuclei vestibolari. I
nuclei vestibolari sono 4, distinti in superiore e inferiore, mediale e laterale, costituiti da
due popolazioni neuronali distinte, cioè da neuroni di II ordine della sensibilità vestibolare
e motoneuroni di I ordine. Dai primi originano le fibre vestibolo-cerebellari che mediano
l’informazione ai nuclei del cervelletto, dai secondi originano delle fibre motrici che
raggiungono i nuclei dell’oculomozione, cioè il nucleo motore del III, del IV e del VI, e i
motoneuroni di II ordine del corno grigio anteriore del midollo spinale, costituendo la via
che risulta associata al controllo rispettivamente del riflesso vestibolo-oculomotore (VOR)
e del riflesso vestibolo-spinale (VSR).
4) RIFLESSO VESTIBOLO-OCULOMOTORE
Il riflesso vestibolo oculomotore è un riflesso involontario che permette un controllo
perfetto degli occhi in rapporto al movimento della testa (sia lineare che angolare),
garantendo che le informazioni visive cadano sempre a livello della fovea, regione della
visione distinta. Per essere estremamente pratici, il riflesso vestibolo-oculomotore
determina per ogni movimento della testa un movimento degli occhi dal lato opposto per
attivazione dell’oculomotore omolaterale e dell’abducente controlaterale e per inibizione
dell’oculomotore controlaterale al movimento e dell’abducente omolaterale al movimento.
Questo dipenda dal fatto che a seguito di un movimento rotazionale della testa, si verifica
attivazione del canale semicircolare (per movimenti orizzontali è il canale semicircolare
laterale) omolaterale e inibizione di quello controlaterale. La frequenza di scarica del nervo
vestibolare omolaterale aumenta mentre quella del nervo controlaterale si riduce; viene
quindi veicolata una informazione differente a livello dei nuclei vestibolari, particolarmente
al nucleo vestibolare mediale, tal che ne consegua una differente eccitazione dei
motoneuroni dei nuclei dell’oculomozione dei due lati. Quindi, a seguito di un movimento si
verificano:
1. Modificazioni dell’attività dei canali semicircolari bilaterali:
a) Attivazione dell’omolaterale
b) Inibizione del controlaterale
2. Modificazioni della scarica dei nervi vestibolari:
a) Aumento omolaterale
b) Riduzione controlaterale
3. Modulazione motoria:
a) Omolateralmente al movimento:
i. Attivazione del III
ii. Inibizione del VI
b) Controlateralmente al movimento:
i. Attivazione del VI
ii. Inibizione del III
Per essere estremamente pratici, per un soggetto che ruoti la testa a sinistra, tutta la
catena di eventi porta ad un’attivazione del canale semicircolare laterale di sinistra e una
inibizione di quello di destra. Si verifica un aumento della frequenza di scarica del nervo
vestibolare di sinistra e una riduzione della scarica di quello di destra. Le informazioni,
veicolate a livello dei nuclei vestibolari, fanno sì che venga modulata l’attività dei
motoneuroni di II ordine dell’abducente e dei motoneuroni dell’oculomotore: a sinistra
viene attivato l’oculomotore e inibito l’abducente, a destra viene attivato l’abducente e
inibito l’oculomotore. In definitiva, se ci si muove a sinistra vengono attivati l’abducente di
destra e l’oculomotore di sinistra, vengono inibiti l’oculomotore di destra e l’abducente di
sinistra. Se ci si muove verso destra, viene attivato l’oculomotore di destra e l’abducente di
sinistra, mentre vengono inibiti l’oculomotore di sinistra e l’abducente di destra.
Tutto questo è importante per capire il nistagmo, segno clinico più importante della
vertigine.
5) RIFLESSO VESTIBOLO-SPINALE
Il riflesso vestibolo-spinale invece, che è sempre un riflesso involontario, ha la funzione di
stabilizzare la testa e il corpo, agendo sulla muscolatura del tronco e degli arti,
garantendo l’equilibrio, statico (da fermi) e dinamico (camminando o correndo etc).
Come detto in questo caso bisogna considerare fibre che partono prevalentemente dal
nucleo vestibolare laterale e che vanno sui motoneuroni delle corna anteriori del midollo
spinale, da cui partono le fibre motori per muscolatura di collo, tronco e arti.

• VERTIGINI E NISTAGMO
Le vertigini e il nistagmo costituiscono due elementi clinici di fondamentale importanza
per la diagnosi delle vertigini, anche perché a seconda del fatto che si tratti di vertigini da
deficit del vestibolo o di vertigini da deficit neurologici si riscontrano delle differenti
caratteristiche. La vertigine periferica insorge in maniera violenta, generalmente è
oggettiva e si associa alla presenza di sintomi neurovegetativi. Differentemente da queste,
le vertigini centrali sono frequentemente delle vertigini soggettive, che si associano alla
presenza di sintomi talora molto differenti di volta in volta. Quindi, da sé una vertigine
centrale è difficilmente distinguibile considerandone solo le proprie caratteristiche, ma
considerandola in maniera differenziale rispetto alla vertigine periferica risulta più
confortevolmente distinguibile, nel senso che conoscendo come quest’ultima si presenta,
si può differenziare per esclusione l’altra.
1) VERTIGINE OGGETTIVA
La vertigine oggettiva consegue ad una asimmetria acuta tra i due sistemi vestibolari
controlaterali, tal che si origini quella che prende il nome di sindrome vestibolare acuta.
Evidentemente, tenendo conto del fatto che il cervelletto integri le informazioni dai due lati
cosicché possa decodificare le informazioni e tradurle nella percezione del movimento, nel
momento in cui si verifichi un qualsiasi movimento la decodifica dell’informazione e la
percezione dello spostamento della testa derivano dalla differente scarica che giunge dai
due nervi vestibolari. Quindi, nel momento in cui si verifichi una patologia a carico del
vestibolo, si genera una differenza di scarica tra i due nervi, condizione che è esattamente
equiparabile a quella che fisiologicamente si verifica durante un movimento. Se il vestibolo
di un lato è leso, il nervo vestibolare di quel lato ridurrà la propria frequenza di scarica e a
seguito di questo è come se il soggetto percepisca un movimento rotatorio dal lato
opposto. La differente informazione dai due lati innesca una risposta motoria, un riflesso
vestibolo-oculomotore perfettamente uguale a quello che si avrebbe se un soggetto sano
ruotasse realmente dal lato opposto. Il risultato è che gli occhi del soggetto si sposteranno
dal lato della lesione vestibolare: questo è alla base della presenza del nistagmo.
La vertigine vestibolare è classicamente una vertigine oggettiva, che insorge
violentemente e si associa alla presenza di sintomi neurovegetativi, senza perdita di
coscienza.
2) NISTAGMO SPONTANEO PERIFERICO
Il nistagmo è la risultanza dei circuiti neuronali che dal punto di vista fisiologico
giustificano il riflesso vestibolo-oculomotore. Si tratta di un movimento composto di due
fasi, la prima è quella definita lenta, che comporta lo spostamento verso la periferia
dell’orbita dei bulbi oculari e l’altra è la fase rapida che comporta il riposizionamento dei
bulbi oculari al centro dell’orbita mediante una saccade rapida. Fisiologicamente, il
movimento del nistagmo è tale per cui la fase lenta batta nella direzione opposta a quella
del movimento; nel qual caso vi sia una patologia vestibolare, per via del fatto che le
informazioni vestibolari vengano integrate come vi fosse un movimento controlaterale della
testa, il nistagmo batte dal lato opposto del fittizio e percepito movimento, per cui dal lato
patologico. Il nistagmo patologico è innanzitutto spontaneo, cioè si verifica senza che vi
sia un movimento della testa, proprio perché la asimmetria delle afferenze che giungono
dai due sistemi vestibolari è come fosse un vero movimento e in secondo luogo nella più
parte dei casi è un nistagmo orizzontale, cioè che avviene sul piano orizzontale, anche in
considerazione del fatto che tra i canali semicircolari il dominante è quello laterale. Il
nistagmo spontaneo periferico è ritmico, orizzontale e come terza caratteristica
fondamentale si ha il fatto che venga inibito dalla fissazione dello sguardo. Quello che è
importante considerare è che la fase lenta nistagmo spontaneo periferico batte sempre dal
lato patologico, mentre la fase rapida batte dal lato opposto e non cessa quale che sia la
direzione dello sguardo. Comunque dal punto di vista clinico, la direzione del nistagmo
viene definita dalla direzione della fase rapida, per cui dire che “il nistagmo batte a destra”
significa che il nistagmo ha fase rapida a destra, che è il lato opposto a quello della lesione
patologica: in questo caso il vestibolo patologico è quello di sinistra.
Inoltre, il nistagmo si valuta facendo indossare al paziente gli occhiali di Frenzel, occhiali
con lenti a 20 o più diottrie che impediscono al soggetto di fissare lo sguardo, dato che il
soggetto vedrà tutto sfocato. Il nistagmo spontaneo periferico è sempre uguale a sé
stesso, a differenza del nistagmo centrale che può essere estremamente variabile.
3) NISTAGMO SPONTANEO CENTRALE
Il nistagmo spontaneo centrale ha delle caratteristiche assai differenti rispetto a quelle del
nistagmo spontaneo periferico. Se il secondo di questi due è orizzontale nella più parte dei
casi ma sempre monolaterale, tal che batta (la fase rapida) dal lato opposto a quello della
lesione, nel nistagmo centrale la direzione della fase rapida varia in funzione della
direzione dello sguardo: se fissato in alto batte (la fase rapida) verso l’alto, se fissato a
destra verso destra, se rivolto a sinistra verso sinistra. In secondo luogo, il nistagmo
spontaneo centrale non è inibito dalla fissazione dello sguardo a differenza del nistagmo
spontaneo periferico e si tratta di un nistagmo aritmico.
4) RISVOLTI CLINICI DELL’ATTIVAZIONE DEL VSR
Se l’espressione clinica dell’attivazione del riflesso vestibolo-oculomotore è quella del
nistagmo, le cui caratteristiche variano se si riscontri una lesione centrale o una lesione
periferica, d’altra parte l’attivazione del VSR per via della patologia vestibolare o delle
strutture centrali si traduce in alcune alterazioni del tono muscolare, che si possono
valutare mediante delle prove cliniche. Il razionale fisiologico che spiega gli esiti delle
prove di valutazione del tono muscolare risiede nel fatto che quando il soggetto ruoti da un
lato, il peso e il tono muscolare aumentano dal lato opposto come tentativo di
mantenimento dell’equilibrio e della postura eretta: se vi è un’accelerazione verso destra,
aumenta il tono dell’emisoma sinistro. Quando viga una patologia vestibolare, se
danneggiato è il vestibolo di un lato, il movimento viene percepito dal lato opposto: il tono
muscolare e il peso si sposteranno verso il lato patologico. Nel più semplice di questi test,
la prova di Romberg il soggetto staziona ad occhi chiusi con le braccia conserte; se un
vestibolo è danneggiato, si percepisce un movimento dal lato opposto: il risultato è che
nell’ambito delle patologie vestibolari la prova di Romberg è positiva per caduta dal lato
del vestibolo patologico. Un altro test che si può eseguire è quello della marcia sul posto,
che documenta una rotazione dal lato ipofunzionante, quello cioè del vestibolo patologico,
verso cui tende a cadere nel corso della prova di Romberg, quello verso cui batte la fase
lenta del nistagmo (che batte dallo stesso lato del vestibolo patologico, mentre la fase
rapida batte dal lato opposto del vestibolo patologico). Quando la prova di Romberg
documenti una caduta dallo stesso lato verso cui devia il paziente durante la prova della
marcia sul posto e verso cui batte la fase lenta del nistagmo si parla di sindrome
armonica, in contrapposizione alla disarmonia che si riscontra nel contesto della sindrome
disarmonica: le sindromi disarmoniche caratterizzano tipicamente le patologie centrali.

• VALUTAZIONE CLINICA DEL PAZIENTE VERTIGINOSO


La valutazione clinica del paziente vertiginoso si effettua considerando una serie di vari
aspetti che partono dall’anamnesi, passano per la clinica e per alcune prove che siano in
grado di documentare l’eventuale attività patologica di alcuni riflessi come il riflesso
vestibolo-spinale o il riflesso vestibolo-oculomotore; la valutazione del paziente vertiginoso
si conclude con l’esecuzione dell’imaging diagnostico.
1) ANAMNESI
Il primo aspetto di notevole importanza nella valutazione del paziente con vertigini è
costituita dalla valutazione clinico-anamnestica: esaminando le caratteristiche della
vertigine è possibile spesso, circa nell’85% dei casi, risalire al fatto che sia una vertigine
periferica o una vertigine centrale. Le vertigini periferiche presentano una serie di
caratteristiche, di cui quelle maggiormente rilevanti sono (1) il fatto che sia oggettiva, (2)
l’insorgenza violenta, (3) la durata e (4) la associazione con eventuali sintomi neurologici.
La vertigine periferica è classicamente una vertigine oggettiva, cioè il paziente riferisce di
avvertire una rotazione dell’ambiente intorno a sé, differentemente dalla vertigine
soggettiva che nella più parte dei casi consegue a delle patologie neurologiche e si
associa alla sensazione di falso movimento di sé stesso rispetto all’ambiente circostante.
Oltre a questo, occorre valutare l’insorgenza, dal momento che nella stragrande
maggioranza dei casi la vertigine neurologica insorge in maniera subdola, differentemente
dalla vertigine periferica che più frequentemente insorge in maniera violenta e
improvvisa e quasi mai ha una durata superiore ai quattro o cinque giorni, anche se nella
più parte dei casi si realizza una durata di alcune ore. Altra differenza sussiste nel fatto
che la vertigine centrale assuma un andamento subdolo e più progressivo e cronico. La
vertigine periferica, inoltre, si associa anche a dei sintomi neurovegetativi, ipoacusie,
acufeni, senza perdita di coscienza differentemente dalla vertigine centrale che si associa
a sintomi neurologici che sono tra di loro molto differenti in considerazione della differente
patologia che ne sia alla base. Possiamo dire che nel caso della vertigine centrale la
presentazione clinica sottintende ad una reale variabilità, differentemente dalla vertigine
periferica che si presenta con delle caratteristiche quasi sempre uguali e ripetitive, per cui
conoscendo quest’ultima, si può anche diagnosticare clinicamente per esclusione l’altra.
Infine, oltre al carattere (soggettiva vs oggettiva), alla durata, alla modalità di
insorgenza, ai sintomi associati, una ulteriore differenza estremamente importante tra
queste due differenti tipologie di vertigine sussiste nell’evento scatenante che è
estremamente variabile nel caso delle vertigini centrali, potendo essere una aritmia, lo
stress, una iperventilazione. Differentemente, nel caso delle vertigini periferiche è
estremamente importante considerare se la causa scatenante sia il cambiamento di
posizione, poiché molto frequentemente il paziente riferisce di avvertire la vertigine, con
tutte le caratteristiche di una patologia vestibolare, a seguito di un cambiamento di
posizione, ad esempio la mattina quando si sveglia, la notte quando cambia posizione o la
sera quando vada a dormire. Chiedere specificatamente se sussista un fattore
scatenante come il cambiamento di posizione è estremamente importante dal momento
che la più frequente forma di vertigine periferica è la vertigine parossistica posizionale
benigna, che proprio viene scatenata nell’insorgenza dell’episodio vertiginoso, dal
cambiamento di posizione.
2) ESAME OBIETTIVO
L’esame obiettivo si esegue sostanzialmente con il paziente allettato e consiste di un
esame oto-neurologico, che possa, una volta indirizzato il sospetto clinico, confermare la
presenza di una patologia vestibolare, di competenza otorinolaringoiatrica, oppure di
competenza neurologica poiché conseguente ad un deficit centrale. L’esame obiettivo
trova un caposaldo nella valutazione del nistagmo, che può innanzitutto definirsi
spontaneo oppure evocato; spesso nelle patologie che comportino l’insorgenza della
vertigine, si riscontra la presenza di un nistagmo spontaneo, ma non sempre è detto che
sia così. Il nistagmo è la risultanza di una anomala attivazione del riflesso vestibolo-
oculomotore, dal momento che la patologia comporta una asimmetria delle informazioni al
centro di integrazione della sensibilità vestibolare. Questo fa sì che l’asimmetria di
informazioni venga integrata come un movimento dal lato opposto rispetto a quello della
riduzione dell’afferenza nervosa. Evidentemente, in questo caso (per le patologie
vestibolari) viene percepito dal sistema nervoso un movimento dal lato opposto a quello
patologico, quindi si attiva un complesso meccanismo di regolazione dei nuclei
dell’oculomozione, che fa sì che i bulbi oculari si muovano dal lato opposto rispetto a
quello dell’apparente movimento (=lato patologico). Questo giustifica l’insorgenza della
fase lenta del nistagmo che batte dal lato del vestibolo patologico, differentemente dalla
fase rapida del nistagmo che batte dal lato opposto a quello patologico. Il nistagmo
spontaneo periferico batte con la fase rapida dal lato opposto a quello della lesione, è
tipicamente orizzontale e ritmico, inoltre è inibito dalla fissazione dello sguardo.
Differentemente, il nistagmo spontaneo centrale spesso batte dallo stesso lato verso cui è
diretto lo sguardo del paziente, può essere rotatorio, è aritmico e non è inibito dalla
fissazione dello sguardo. In altri casi il nistagmo non è spontaneo per cui deve essere
evocato dalla posizione o dal posizionamento, intendendosi con la prima espressione il
fatto che il paziente assuma una determinata posizione e con la seconda espressione il
fatto che l’operatore dell’esame obiettivo debba in qualche maniera far eseguire dei
movimenti al paziente al fine di evocare il nistagmo. Il nistagmo evocato da posizione
può insorgere sia in decubito (supino o laterale) sia in posizione seduta o eretta.
Differentemente, il nistagmo evocato da posizionamento necessita di essere
slatentizzato da alcune manovre di posizionamento e assume importanza nell’eventuale
diagnosi della vertigine parossistica posizionale benigna. Le manovre di posizionamento
sono fondamentalmente tre:
1. Manovra di Dix-Hallpike: viene eseguita per la valutazione dei canali semicircolari
posteriori; durante l’esecuzione della manovra, da una iniziale posizione seduta sul
lettino, il paziente assume posizione distesa con la testa al di fuori del piano di
appoggio del lettino. In questo caso si ruota di 30° la testa e la si iperestende, quasi
che lo sguardo del paziente venga fissato in alto e lateralmente e si osserva se
sono presenti delle alterazioni della funzionalità del canale semicircolare di un lato o
dell’altro.
2. Manovra di Semont: il paziente è seduto sul lettino e quindi viene fatto stendere da
un lato e la testa viene fatta ruotare, al fine di valutare anche in questo caso la
funzionalità del canale semicircolare posteriore, sia da un lato che dall’altro.
3. Manovra di Pagnini-McClure: il paziente è supino, viene fatta ruotare dai due lati
la testa, per valutare se sussista la presenza di un nistagmo che in questo caso,
essendo questa una manovra che esplora il canale semicircolare laterale deputato
alle accelerazioni rotazionali sul piano orizzontale, avviene appunto sul piano
orizzontale.
Esistono anche delle prove che possono valutare l’eventuale efficacia dei riflessi
vestibolari, in particolar modo in tal caso si può eseguire il test di Halmagyi, che testa
l’eventuale efficacia del riflesso vestibolo-oculomotore. Il test consiste nel far compiere dei
movimenti rotatori della testa, chiedendo al paziente di fissare la punta del naso
dell’esaminatore dell’esame obiettivo. Un soggetto con funzionalità vestibolare normale,
presenterà dei movimenti rapidi, dal lato opposto alla direzione della rotazione al fine di
mantenere la fissità dello sguardo sul naso dell’esaminatore. Differentemente, un soggetto
con una patologia vestibolare monolaterale quando venga effettuata rotazione dal lato del
vestibolo patologico non presenta questa risposta oculare, bensì gli occhi si muoveranno
nella direzione della tesa e raggiunto il margine dell’orbita effettueranno un movimento
controlaterale nella direzione opposta a quella del movimento: questi movimenti sono delle
saccadi brevi che sono espressione di una risposta corticale, precisamente della
corteccia visiva, che chiaramente rende ragione della ipo-reflessività vestibolare.

Si possono eseguire anche delle valutazioni mediante la somministrazione di acqua calda


o acqua fredda che rispettivamente eccita ed inibisce il vestibolo di un lato, tal che si
possa anche in questo caso documentare se insorga una patologia, allorquando il
nistagmo compaia da un lato o da quello opposto. Per quanto riguarda il discorso legato
alla situazione in questione, è anche possibile eseguire delle prove per valutare l’efficienza
del riflesso vestibolo-spinale che sono la prova di Romberg e la prova della marcia sul
posto, che sono espressione di una anomalia quando il soggetto tenda a cadere nell’una o
ruotare nell’altra, generalmente dallo stesso lato verso cui batte la fase lenta del nistagmo,
quindi dallo stesso lato del vestibolo patologico, nel caso di patologie periferiche, le quali,
dal momento che il nistagmo con la fase lenta batte dallo stesso lato verso cui ruota il
soggetto nella prova della marcia sul posto e verso cui tende a cadere nella prova di
Romberg, vengono anche definite come sindromi armoniche: le sindromi disarmoniche,
differentemente sono espressione più spesso di una patologia centrale e di competenza
neurologica.

• VERTIGINE PAROSSISTICA POSIZIONALE BENIGNA


La vertigine parossistica posizionale benigna è una malattia del labirinto ad elevata
incidenza che consegue alla presenza di attacchi vertiginosi acuti e ricorrenti scatenati
dal cambiamento di posizione, che non si associano a sintomi cocleari o neurologici. Dal
punto di vista epidemiologico, la vertigine parossistica posizionale benigna è una patologia
che si caratterizza per una incidenza di circa 70 casi/100.000 abitanti/anno, con una
prevalenza del 13-17% nella popolazione, essendo una patologia che incide con
maggiore frequenza in età compresa tra i quarant’anni e i settant’anni ed essendo una
malattia che presenta una leggera predilezione di sesso per le donne.
1) EZIOPATOGENESI
Dal punto di vista dell’eziopatogenesi, nella più parte dei casi si definisce come una
patologia idiopatica, della quale non si conosce l’eziologia, ma quello di cui si è certi è
che si tratta di una patologia che consegue al distacco degli otoliti dalle macule di utricolo
e/o sacculo e all’immissione all’interno dei canali semicircolari e tanto è vero questo che
viene definita anche con il nome alternativo di labirintolitiasi. In altri casi, la patologia si
definisce secondaria a patologie come ad esempio i traumi della rocca petrosa del
temporale
2) CLASSIFICAZIONE TOPOGRAFICA
Dal punto di vista topografico, si classificano le varie forme di vertigine parossistica
posizionale benigna in considerazione di quale sia il canale semicircolare coinvolto:
1. Canale semicircolare anteriore:
a) Emicanale ampollare
b) Emicanale non ampollare
2. Canale semicircolare posteriore:
a) Emicanale ampollare
b) Emicanale non ampollare
3. Canale semicircolare laterale:
a) Emicanale ampollare
b) Emicanale non ampollare
In questo senso, assume particolare importanza considerare che la forma più frequente
sia quella che interessa il canale semicircolare posteriore, a seguire vi sono le
labirintolitiasi che interessano il canale semicircolare laterale e, per ultimo, il canale
semicircolare anteriore e questo è importante da considerare dal momento che differenti
sono le manovre di posizionamento alle quali queste patologie sono responsive; le
manovre di posizionamento che esplorano il canale semicircolare posteriore sono la
manovra di Dix-Hallpike e la manovra di Semont.
3) CLINICA
Gli aspetti principali della vertigine parossistica posizionale benigna sono legati alla
vertigine e al nistagmo; tipicamente il soggetto riferisce che la vertigine, oggettiva e ad
esordio improvviso ma mai perdurante, insorga al cambiamento di posizione. Il nistagmo
che si riscontra nel contesto della vertigine parossistica posizionale benigna prende il
nome di nistagmo parossistico posizionale e si caratterizza per l’essere slatentizzato ed
evocato a seguito di una manovra di posizionamento, per il tramite della quale, dopo un
tempo di latenza, compare in risposta ad una delle specifiche manovre in rapporto alla
sede della litiasi:
1. VPP del CSP
a) Manovre di posizionamento:
i. Dix-Hallpike
ii. Semont
b) Latenza di comparsa: 5-15”
c) Direzione: verticale-rotatoria
d) Durata: 8-30”
e) Faticabilità presente
2. VPP del CSL:
a) Manovra di Pagnini-McClure
b) Latenza di comparsa: 3-5”
c) Direzione: orizzontale
d) Durata: 1-4’
e) Faticabilità assente
Quindi, già soltanto sulla base di quale sia la manovra di posizionamento che determini
l’insorgenza del nistagmo, si può discriminare quale sia l’eventuale canale semicircolare
interessato.
4) TERAPIA
L’unica maniera per eliminare gli otoliti dal canale semicircolare è quella di eseguire le
manovre liberatorie, mentre per la terapia della fase acuta si possono somministrare
farmaci quali sono ad esempio i farmaci vestibolo-inibitori.

• NEURITE VESTIBOLARE
La neurite vestibolare, altresì nota come neuronite vestibolare o deficit vestibolare
acuto, consiste in un singolo attacco vertiginoso spontaneo di solito della durata di due o
tre giorni almeno, con associati sintomi neurovegetativi e progressivo recupero, in
assenza di segni neurologici e cocleari.
1) EZIOPATOGENESI
Il danno nel caso della neurite vestibolare è un danno acuto che consegue a due
differenti ipotesi patogenetiche di cui una è l’ipotesi virale, espressione con la quale si
vuole intendere la presenza di un deficit a carico del vestibolo conseguente ad una
reazione immunomediata post-virale, e l’altra è l’ipotesi vascolare.
In questi casi, il soggetto presenta un attacco vertiginoso acuto, ad insorgenza violenta,
che successivamente tende a regredire e scomparire, pur se permangano comunque delle
alterazioni dell’equilibrio. La scomparsa della vertigine si verifica solitamente nell’arco di
una settimana al massimo e consegue al fenomeno di compenso vestibolare, che trova
la propria giustificazione e il proprio substrato neurofisiologico nella abbondanza di
informazioni, cioè nel fatto che le informazioni arrivino al sistema nervoso centrale
bilateralmente. Questa condizione fa sì che il sistema nervoso centrale con il passare dei
giorni adatti le informazioni che riceve sicché con le sole informazioni di un vestibolo
riesca comunque a non determinare insorgenza della vertigine. Chiaramente, in questo
caso il fatto che le vertigini regrediscano per via del fenomeno di compenso vestibolare è
un aspetto che non ha a che vedere con l’equilibrio, dal momento che i meccanismi di
mantenimento della postura e dell’equilibrio vengono comunque danneggiati e il paziente
presenta quindi delle alterazioni del mantenimento dell’equilibrio che magari possono
regredire entro qualche mese.
2) CLINICA
Il soggetto con un deficit vestibolare acuto, o neurite vestibolare, lamenta l’insorgenza di
una vertigine oggettiva, che è violenta, della durata di due o tre giorni, circa. La vertigine
della neurite vestibolare, come altre forme di vertigine periferica, si associa alla presenza
di sintomi neurologici. È anche presente il nistagmo, come espressione dell’anomala
attivazione del riflesso vestibolo-oculomotore; il nistagmo batte con la fase rapida dal lato
opposto rispetto al vestibolo patologico, mentre con la fase lenta batte dallo stesso lato del
vestibolo patologico. La gravità del nistagmo, che in questo caso è spontaneo,
orizzontale e ritmico, inibito dalla fissazione dello sguardo, solitamente, si classifica in tre
livelli di gravità:
1. Nistagmo di I grado: viene definito tale quando compare nel momento in cui lo
sguardo sia diretto verso la direzione della fase rapida del nistagmo, quindi quando
lo sguardo del soggetto sia direzionato dal lato opposto a quello del vestibolo
patologico.
2. Nistagmo di II grado: compare anche quando lo sguardo del soggetto è
direzionato verso il lato del vestibolo patologico, cioè compare solo quando lo
sguardo sia diretto verso la direzione in cui batte la fase lenta del nistagmo.
3. Nistagmo di III grado: compare anche quando il soggetto presenta lo sguardo in
posizione neutra, cioè fisso in posizione centrale.
Le alterazioni dell’equilibrio e l’impossibilità di garantire dei riflessi vestibolo-spinali idonei
al mantenimento della postura fanno sì che in questi soggetti si realizzino alterazioni alla
prova di Romberg o alla prova della marcia sul posto: il soggetto cade o ruota la marcia
nella direzione del vestibolo patologico, che è la stessa verso cui batte la fase lenta del
nistagmo, opposta alla direzione della fase rapida del nistagmo stesso e la stessa della
direzione della fase lenta del nistagmo (=sindrome armonica). La gravità del nistagmo e
l’esito delle prove tonico-posturali si attenuano con il passare dei giorni: all’inizio il
nistagmo è di III grado e il soggetto non riesce nemmeno a stazionare in posizione eretta,
ma con il passare dei giorni il nistagmo si attenua e l’equilibrio riesce ad essere
mantenuto, ma magari il soggetto non ancora riesce ad avere una marcia completamente
rettilinea.
3) DIAGNOSI DIFFERENZIALE CON L’ICTUS CEREBELLARE
L’ostruzione o la rottura dell’arteria cerebellare posteroinferiore causa un ictus
cerebellare, che clinicamente si manifesta mediante la presenza di una vertigine rotatoria
oggettiva, che si associa alla presenza di un nistagmo spontaneo che è molto simile a
quello che si verifica nella neurite vestibolare. Chiaramente, discernere tra queste due
patologie è importante poiché a fronte di una clinica simile la prognosi è estremamente
differente: l’ictus cerebellare è una patologia che ha un esito altamente infausto se non
trattata precocemente; sicuramente il ricorso alla diagnostica strumentale è utile ma il più
delle volte non vi è il tempo necessario affinché queste indagini vengano effettuate, per cui
con il test di Halmagyi è possibile effettuare questa discriminazione: il test di Halmagyi è
patologico nel deficit vestibolare acuto, normale nel caso di un ictus cerebellare.
Paralisi del facciale

Il nervo facciale è un nervo cranico, precisamente il VII paio ed è un nervo dotato di fibre
somatiche motorie e sensitive e di alcune fibre della sensibilità viscerale che raccolgono
dai due terzi anteriori della lingua la sensibilità gustativa. Ancorché la paralisi del facciale
debba intendersi come un segno neurologico, nella più parte dei casi si tratta di una
condizione che cela delle patologie di interesse otorinolaringoiatrico e questo in
considerazione del fatto che (1) si tratta di un nervo che decorre all’emergenza
macroscopica dal tronco encefalico in vicinanza del nervo statoacustico il quale quando
interessato da un neurinoma dell’acustico in fase cisternale può determinare
compressione del nervo facciale; (2) dal momento che si tratta di un nervo che decorre
nello spessore della piramide del temporale, che è una struttura ossea in cui sono presenti
le strutture dell’orecchio interno e peraltro entra in rapporto anche con delle strutture
dell’orecchio medio. In terzo luogo, il tratto extracranico del facciale decorre all’interno
dello spessore della ghiandola parotide, per cui patologie di questa ghiandola possono
determinare parimenti delle paralisi del facciale e anche queste sono delle patologie di
competenza (anche) otorinolaringoiatrica.
1) ANATOMIA DEL NERVO FACCIALE
Il nervo facciale emerge a livello del solco bulbopontino, cioè a livello di quella struttura
che segna il confine anatomico ma puramente convenzionale tra il bulbo e il ponte. Quindi,
decorre lateralmente,
dirigendosi verso l’orifizio di
accesso del meato acustico
interno, che prospetta la
fossa neurocranica media; a
questo livello impegna la
cisterna pontocerebellare e
decorre in stretta vicinanza
con l’VIII che pure si dirige
verso l’orifizio del meato
acustico interno. A livello del
fondo del meato acustico
interno, che separa tale
condotto dalla cavità dell’orecchio interno, il nervo facciale impegna il canale del facciale,
un canale che è suddiviso in tre tratti differenti che stabiliscono la direzione del decorso
del nervo stesso. Infatti, il primo tratto del canale del facciale decorre orizzontalmente e
perpendicolarmente all’asse maggiore della piramide del temporale, che è obliquo
dall’avanti all’indietro in senso mediolaterale. Quindi, esauritosi il primo tratto, il nervo
facciale e il canale omonimo descrivono un ginocchio, cioè una flessione di 130°, lì dove
è presente un ganglio che per via della propria collocazione prende il nome di ganglio
genicolato. A seguito della flessione di 130°, l’asse del canale del facciale diviene
parallelo all’asse della piramide del temporale, salvo poi flettere nuovamente, individuando
un secondo ginocchio, questa volta di 90°, per il tramite del quale il decorso del canale si
fa verticale e diretto dall’alto in basso, direzione che consente al nervo stesso di
abbandonare l’osso temporale fuoriuscendone a mezzo del forame stilomastoideo. La
prima porzione del canale del facciale viene definita labirintica, la seconda viene invece
definita timpanica, dal momento che solca la parete mediale della cassa del timpano,
decorrendo dall’avanti all’indietro in direzione parallela a quella dell’asse maggiore della
piramide del temporale. Nella parte più posteriore di questo tratto, il canale flette verso il
basso, descrivendo la porzione mastoidea, che decorre nel processo mastoideo del
temporale, dall’alto in basso lasciando un rilievo osseo visibile sulla superficie posteriore
della cassa del timpano; nel proprio decorrere dall’alto verso il basso, il nervo facciale
rilascia la corda del timpano, che è un nervo, costituito da fibre gustative che raccolgono
la sensibilità gustativa dai due terzi anteriori della lingua. Questo nervo viene chiamato
corda del timpano dal momento che solca dall’avanti all’indietro da un punto all’altro della
membrana del timpano, congiungendo un punto anteriore con uno posteriore proprio come
la corda di un cerchio. Lungo il proprio decorso intracranico, il nervo facciale rilascia altri
due nervi, cioè il nervo grande petroso superficiale e il nervo stapedio, di cui il primo,
rilasciato a livello del ganglio genicolato, si fa carico della innervazione della ghiandola
lacrimale e il secondo si fa invece carico dell’innervazione del muscolo stapedio e
partecipa al braccio efferente del circuito nervoso che descrive il riflesso stapediale.
2) TERRITORIO DI DISTRIBUZIONE
Il nervo facciale, quindi si rende responsabile della innervazione motoria, sensitiva di
diverse parti dell’organismo. Mediante delle fibre motrici somatiche innerva il muscolo
stapedio ed i muscoli pellicciai della regione della faccia, mentre con le fibre motrici
viscerali si fa carico della secrezione lacrimale, della secrezione salivare delle ghiandole
sottomandibolare, sottolinguale e delle salivari minori. Le fibre sensitive viscerali che
convergono nella corda del timpano sono destinate a raccogliere la sensibilità gustativa a
livello dei due terzi anteriori della lingua; le fibre sensitive somatiche raccolgono la
sensibilità della regione cutanea del meato acustico esterno, della conca del padiglione
auricolare e della regione periauricolare.

• CLINICA E DIAGNOSI
La diagnosi di una paralisi del nervo facciale è sostanzialmente clinica e i segni che
questa genera sono estremamente caratteristici e suggestivi della situazione. Dalla
neuroanatomia è noto che le fibre che entrano nella costituzione del nervo facciale sono
nient’altro che degli assoni che vengono rilasciati dai motoneuroni che si trovano nel
nucleo motore del facciale, situato nel ponte, che a loro volta sono regolati dall’attività dei
motoneuroni della corteccia motoria primaria.
1) CLASSIFICAZIONE CLINICA DELLE PARALISI DEL FACCIALE
Data la neuroanatomia, quindi, le paralisi del facciale possono conseguire a danni a
diversi livelli, di cui due sono costituiti dal danno neuronale a carico del nucleo motore
del facciale, monolateralmente o bilateralmente, oppure a carico degli assoni dei
neuroni in questione. Differentemente, ve ne sono delle altre di paralisi del facciale che
conseguono ad alcune patologie che comportano un danneggiamento a monte dei nuclei
motori del facciale, che come detto sono controllati dalla corteccia motoria primaria, che
è dotata di alcuni motoneuroni che sono anche chiamati motoneuroni di I ordine, i quali
rilasciano assoni che entrano nella costituzione della bianca del centro semiovale prima e
della capsula interna, decorrendo nel contesto del tratto cortico-troncoencefalico, poi
discendendo al fine di istituire delle sinapsi con i motoneuroni del nucleo del facciale che
quindi prendono il nome di motoneuroni di II ordine. I motoneuroni di I ordine proiettano
sia in senso ipsilaterale, cioè sul nucleo motore del facciale dello stesso lato, che in
senso crociato, cioè sul nucleo del facciale del lato opposto, giacché alcune fibre nel
contesto della bianca del centro semiovale decussano. Le fibre che si impegnano
controlateralmente modulano l’attività dei motoneuroni di II ordine che innervano la
regione della fronte, i quali quindi godono di una componente corticale sia diretta che
crociata, differentemente dai motoneuroni di II ordine che innervano i due terzi inferiori dei
muscoli facciali che sono controllati esclusivamente da una componente diretta. Quindi,
sulla base del fatto che il danno intervenga a livello o a valle del nucleo del facciale oppure
a monte del nucleo del facciale, cioè al tratto cortico-troncoencefalico o alla corteccia
motoria primaria, le paralisi del facciale si suddividono in paralisi periferiche e paralisi
centrali, le quali sottintendono a cause differenti e a presentazione clinica differente:
1. Paralisi centrali:
a) Ictus cerebrali:
i. Ictus ischemici
ii. Ictus emorragici
b) Malattie demielinizzanti
c) Tumori cerebrali
2. Paralisi periferiche:
a) Lesione del motoneurone II
b) Lesioni assonali
c) Neurinoma dell’acustico
d) Otite esterna maligna
e) Colesteatoma
f) Tumori delle ghiandole salivari
g) Traumi delle ghiandole salivari
h) Altri tumori troncoencefalici
Oltre alla eziologia, anche la clinica delle paralisi centrali e periferiche è differente, dal
momento che le paralisi centrali sono classicamente definite come delle paralisi toniche,
mentre le paralisi periferiche sono tipicamente flaccide. Inoltre, dal momento che si è
detto del fatto che i motoneuroni di II ordine del facciale sono innervati da una componente
diretta e da una componente crociata derivante dalle fibre del tratto cortico-
troncoencefalico, le lesioni centrali monolaterali si manifestano con delle alterazioni
dell’attività dei muscoli dei due terzi inferiori della faccia, dal momento che l’attività
normale dei muscoli del terzo superiore, al venir meno della regolazione da parte delle
fibre ipsilaterali, viene vicariata dalle fibre corticali controlaterali, che istituiscono sinapsi
solo con i motoneuroni di II ordine che controllano il movimento dei muscoli della fronte.
Tutto questo, invece, non si verifica nel caso delle paralisi periferiche che sono dirette nei
riguardi di tutto il territorio motorio del facciale.
2) SEGNI CLINICI E DIAGNOSI
La conoscenza della clinica della paralisi del facciale è fondamentale dal momento che
questa permette di approdare ad una diagnosi e di discriminare anche dal punto di vista
topografico la sede in cui intervenga la lesione, se a livello centrale o a livello periferico. La
semeiologia di una paralisi del facciale si caratterizza per alcuni segni dinamici e per
alcuni segni statici:
1. Segni dinamici: il paziente con una paralisi periferica del facciale presenta una
alterazione della motilità dei muscoli mimici della regione facciale per cui il paziente
riesce a corrugare la fronte solo da un lato (opposto al danno) nelle paralisi
periferiche, che generalmente sono monolaterali e determinano alterazione
omolaterale, per cui l’ipomobilità dei muscoli della fronte si verifica
omolateralmente. Quando si chieda al paziente di chiudere l’occhio, si potrà
apprezzare un movimento verso l’alto e verso l’esterno del globo oculare, per cui
nello sforzo di chiudere l’occhio, che non si chiude, si vede esclusivamente la
sclera: tale è il segno di Bell. Quando il paziente sorrida, si riscontra una
asimmetria della rima labiale, dovuta a contrazione di solo uno dei due muscoli
orbicolari delle labbra, mentre l’altro risulta essere interessato da una assenza di
contrattilità.
2. Segni statici: i segni statici si apprezzano solo nelle paralisi periferiche di lunga
durata nelle quali si riscontra la presenza di una ipotonia dovuta all’assenza per
lungo tempo di contrattilità. A seguito di questa ipotonia, si riscontra la presenza di
una caduta del tono muscolare, che determina una paralisi dell’emivolto che è
completa, cioè rivolta al terzo superiore, medio e inferiore. Si riscontra obliquità
della rima labiale, con appianamento delle rughe, ectropion palpebrale e
lagoftalmo.
Sono sempre da tenere a mente i dati clinici che permettono di effettuare una diagnosi
differenziale piuttosto immediata tra una paralisi centrale ed una paralisi periferica,
essendo quest’ultima caratterizzata da una diffusione a tutti i comparti muscolari facciali,
differentemente da una paralisi centrale che si caratterizza, invece, per il coinvolgimento
dei soli due terzi inferiori dei muscoli facciali. Tenendo conto del fatto che nel tratto
intracranico il nervo facciale rilasci tre differenti rami, che sono il nervo grande petroso, la
corda del timpano e il nervo stapediale, si possono eseguire tre test che prendono il nome
di test topodiagnostici; tra questi il primo è costituito dal test di Schirmer, peraltro
anche utilizzato nella diagnosi della sindrome di Sjögren. Il test consiste nell’apporre una
striscia graduata a livello del fornice congiuntivale inferiore per poi valutarne l’imbibizione:
se l’imbibizione è assente o inferiore al valore di 5 mm di striscia graduata in cinque minuti
il test si dice positivo per ipolacrimazione, che documenta in tal caso la presenza di un
danno a carico del nervo facciale che si istituisce a monte del ganglio genicolato lì dove
viene rilasciato il nervo grande petroso superficiale. Il secondo test che si potrebbe
effettuare è quello di valutazione del riflesso stapediale e il terzo è quello della
retrogustometria, che se negativo indica che il danno si sia verificato a valle della corda
del timpano. Pur tuttavia, questo tipo di test viene ormai poco effettuato. Quindi, con la
clinica si può sicuramente distinguere tra le paralisi periferiche e quelle centrali; con i test
topodiagnostici si può valutare la sede del danno nelle paralisi periferiche. Una indagine di
estrema importanza in questo caso è costituita dalla Risonanza Magnetica Nucleare, che
permette di escludere eventualmente l’eventuale presenza di un neurinoma dell’acustico,
poiché anche questo può presentarsi con una sintomatologia legata alla paralisi del
facciale, pur se evidentemente nel caso del neurinoma dell’acustico sussista la presenza
di una ipoacusia neurosensoriale che nelle paralisi del facciale da altre cause non si
verifica.
Occorre considerare che una volta eseguite tutte le possibili indagini ed escluse le cause
centrali nonché tutte le altre possibili cause periferiche, si definisce la paralisi come
paralisi di Bell, che è una paralisi del facciale che oggi viene definita fisiopatologicamente
come una neurite virale, determinata dall’Herpes Simplex. In questo caso, la Risonanza
Magnetica che esclude tumori documenta un aumento del contrasto del nervo facciale.
Diagnostica audiologica nelle ipoacusie

L’orecchio è un organo pari, motivo per cui qualsiasi malattia che lo interessi
monolateralmente va trattata con il dovuto riguardo perché deve mettere sempre un po’ di
sospetto. L’orecchio dal punto di vista anatomico è formato da 3 porzioni: orecchio
esterno, medio ed interno. L’orecchio esterno e l’orecchio medio assieme vanno a
costituire l’apparato di trasmissione. L’orecchio esterno è costituito dal padiglione
auricolare, dal condotto uditivo esterno e dalla membrana timpanica, che separa
l’orecchio esterno dall’orecchio medio. Questa parte è importante, anche se viene spesso
messa in secondo piano, perché nonostante non sia così nobile rispetto a quello di altre
specie animai, serve a convogliare le onde sonore nel condotto uditivo esterno affinché
possano impattare sulla membrana timpanica. Il padiglione auricolare avendo una
costituzione in plichi e rilievi permette un’amplificazione di onde con frequenza compresa
tra i 1000 e i 4000Hz, mentre il meato acustico esterno garantisce un’amplificazione delle
frequenze acute, tra i 2000 e i 4000Hz per andare poi ad impattare sulla membrana
timpanica.
La membrana timpanica ha una superficie non completamente vibrante, solo per i 2/3,
perché le porzioni limitrofe al manico del martello, cosi come le porzioni periferiche che si
inseriscono sull’anulus timpanico sono meno elastiche e non vibrano. In più vi è una piccola
parte, detta pars flaccida, che non serve da un punto di vista funzionale, ma è importante
per una serie di patologie a suo carico. Quindi sulla membrana timpanica distinguiamo due
zone, la pars flaccida e la pars tensa. La pars flaccida, poco estesa, a differenza della
pars tensa, manca dello strato fibroso, per cui avremo i due epiteli contrapposti,
pavimentoso che guarda il meato acustico esterno, e cubico che guarda l’orecchio medio,
o meglio il cavo del timpano. Invece nella pars tensa tra i due epiteli contrapposti, i
medesimi di cui prima, vi è uno strato di tessuto connettivo ricco di fibre elastiche che
sono disposte sia in senso radiale che longitudinale che trasversale che circolare. Questa
fitta rete di fibre elastiche permette una grande resistenza, ma anche la possibilità che la
membrana possa essere messa in vibrazione, quando l’energia meccanica vibratoria delle
onde sonore impatta sul timpano, per determinare la trasmissione del suono.
Iniziamo a parlare di orecchio medio e in particolare dobbiamo considerare la membrana
del timpano e la catena degli ossicini dell’udito come un unico sistema. Gli ossicini
dell’udito sono 3 ossa articolate tra loro che in senso latero-mediale sono il martello,
l’incudine e la staffa. Questo sistema viene messo in vibrazione attraverso i movimenti
della catena ossiculare perché il vantaggio che dobbiamo avere è la trasmissione del
suono fino alla platìna della staffa. Affinchè ciò avvenga non solo tutto il sistema deve
essere libero da possibili meccanismi di contenimento, ma ci sono le articolazioni tra la
testa del martello e il corpo dell’incudine, tra la crus lunga dell’incudine e il corpo della staffa
e tra la platìna della staffa e la finestra ovale.
Perché è presente questo sistema articolato? Non potremmo avere un unico elemento che
collegasse il timpano alla platina della staffa? Questo sistema è utile perché produce una
doppia possibile amplificazione del suono. La prima amplificazione è dovuta al fatto che
la superficie della membrana del timpano (55mm2) è più ampia rispetto alla superficie
della platìna della staffa (3mm2) ed è proprio questa importante differenza di superficie che
permette l’amplificazione del suono. La seconda amplificazione è dovuta dai meccanismi
di leva della catena ossiculare. In tutto si ritiene che l’amplificazione del sistema timpano-
ossiculare giunga a 21 volte. Ciò significa che un suono che incide sulla membrana
timpanica viene amplificato 21 volte sulla platina della staffa.
A cosa serve questa amplificazione? E’ importante perché all’interno dell’orecchio interno ci
sono dei fluidi e quindi se il suono prima viaggia attraverso l’aria e attraverso il sistema
timpano-ossiculare, che comunque è sospeso nell’orecchio medio in cui vi è presenza
d’aria, poi, nell’orecchio interno vi sono i fluidi labirintici, motivo per cui la platìna della
staffa deve vincere la loro resistenza: se non vi ci fosse questa sistema di amplificazione
non si riuscirebbe a vincere la resistenza dei fluidi. Inoltre anticipiamo un concetto
importante: poiché un fluido non può essere compresso in un canale, membranoso o osseo
che sia, affinché ci sia una possibile compressione dei liquidi labirintici dobbiamo avere
una decompressione che è data dalla membranella della finestra rotonda. Quindi se da
un lato c’è la spinta verso i liquidi attraverso la patìna della staffa dall’altro c’è la
decompressione dei liquidi stessi attraverso la membrana della finestra rotonda. Questo
sistema di compressione-decompressione viene detto sistema di fase e determina un
ulteriore possibile amplificazione dell’energia sonora. Si ritiene che se tutto il sistema
timpano ossiculare venisse a mancare la nostra capacità sonora si ridurrebbe di 60dB.
Introduciamo, allora, in concetto di deciBel (dB).
Il dB è l’unità di misura della percezione acustica, e non l’unità di misura del suono. Il suono
può essere misurato in W/cm2, ma se usassimo l’unità di misura fisica del suono avremmo
una serie di numeri scomodi da usare, perciò il professore Bel ha introdotto il concetto di
Bel prima e di dB poi. Il db è il logaritmo in base 10 dell’energia sonora, quindi se un soggetto
avesse una perdita di 50db, l’energia sonora che dovrebbe arrivare all’orecchio dovrebbe
essere di 100000 volte superiore rispetto a quella di un orecchio normo-udente.
Torniamo a parlare dell’orecchio medio considerando che questo possiede due
piccolissimi muscoli. Il primo è il tensore del timpano il cui tendine si inserisce sul collo
del martello e un secondo muscolo detto stapedio il cui tendine ha un’inserzione
variabile poiché si può inserire sul capitello della staffa o a livello dell’articolazione
incudo-stapediale. A cosa servono questi muscoli? Il muscolo stapedio si contrae
nell’ambito di un arco rifelsso acustico-facciale le cui vie anatomiche sono state
identificate negli anni ’60. Mentre, per quanto riguarda le vie anatomiche di eventuali archi
riflessi in cui è coinvolto il tensore del timpano, si brancola ancora oggi nel buio.
Lo stapedio è innervato da un piccolo nervo, il nervo stapedio, a sua volta diramazione
del nervo facciale, quindi VII paio di nervi encefalici. L’arco riflesso acustico facciale va
come via afferente dalla coclea, giunge ai nuclei cocleari, si interseca a livello del
complesso olivare superiore e del corpo trapezoide e si trasferisce ai nuclei del facciale
per determinare la contrazione del muscolo stapedio.
La contrazione del muscolo stapedio avviene solo e soltanto quando l’energia sonora
supera i 60-70 dB, ma ciò in un soggetto normo-udente. Presupponendo che i giovani
normo-udenti abbiamo una soglia uditiva di 10 dB per tutte le frequenze, i 60-70 dB cui ci
riferivamo, significa non in assoluto, ma 60-70 dB al di sopra della soglia uditiva. Quindi
in un soggetto giovane normo-udente per avere l’arco riflesso acustico-facciale l’attivazione
del muscolo stapedio dobbiamo avere un suono di 70-80 dB in assoluto, altrimenti non si
contrae.
Il muscolo tensore del timpano, invece, è innervato da un piccolo nervo che deriva dalla
branca mandibolare del trigemino, V paio di nervi encefalici. Non si sa, però, qual è l’arco
riflesso acustico-trigeminal. Si ritiene che le stazioni intermedie possano essere mediate
dalla sostanza reticolare o dalla substantia nigra, motivo per cui è ancora oggi difficile
identificare le vie anatomiche.
Al netto di ciò si è notato che il muscolo tensore del timpano sembra contrarsi solo per
energie sonore molto elevate, circa 120-130 dB di energie, livelli enormi. Inoltre il tensore
del timpano si contrae anche per riflessi trigemino-trigeminali, quindi per esempio se
soffiano nell’occhio di una persona e attiviamo il riflesso corneale il tensore del timpano si
può contrarre, oppure se pizzichiamo la guancia di una persona altrettanto il tensore del
timpano si può contrarre. Quindi quando parliamo di 120-130 dB vuol dire che probabilmente
l’attivazione non è necessariamente acustico-trigeminale, ma può essere anche trigemino-
trigeminale perché un’energia sonora di tale entità determina lo spostamento di una grande
massa d’aria che investe la persona e ciò stimola i recettori cutanei del viso, quelli
trigeminali, e si può avere l’attivazione del tensore del timpano. Però la situazione non è
ancora completamente chiara motivo per cui questo muscolo non viene studiato, non ci
sono applicazioni diagnostiche o mediche mentre, come vedremo, ciò ci sarà per lo
stapedio.
Altro componente dell’orecchio medio è la tuba uditiva o tuba di Eustachio.
La tuba è un canale virtuale che si apre molte volte durante la giornata e anche durante la
notte. La tuba si apre quando mastichiamo, quando deglutiamo e per eventi forzati o
accidentali come una manovra di Valsalva (soffiare a narici chiuse come quando facciamo
una compressione andando sott’acqua), quando starnutiamo, soprattutto quando è
contenuto.
La tuba è formata da due parti, un terzo che è quello più vicino all’orecchio medio è
rivestito da epitelio cubico, come tutto l’orecchio medio, e i due terzi più vicini al
rinofaringe rivestiti da epitelio cilindrico ciliato come tutto l’albero respiratorio, che viene
mobilitato da due piccoli muscoli ovvero i muscoli pterigoideo interno ed esterno (muscoli
peristafilini).
La tuba è importante perché ci permette di fornire aria all’orecchio medio consentendo di
equilibrare la pressione sui due lati della membrana del timpano, quindi tra orecchio
esterno e medio. Se non ci fosse la tuba uditiva e nell’orecchio medio non ci fosse aria
avremmo il collasso delle strutture timpano-ossiculari per la pressione atmosferica
presente all’esterno.
Altra funzione è di drenaggio perché l’epitelio vibratile batte verso il rinofaringe quindi le
secrezioni eventuali viaggiano verso il rinofaringe. Se avessimo muco nel naso e facessimo
una manovra di Valsalva forzeremmo la risalita di muco verso la tuba e lo porteremmo verso
l’orecchio medio. Motivo per cui si sconsiglia di effettuare tale manovra dopo un viaggio in
aereo nel caso in cui si fosse raffreddati poiché si complicherebbe la situazione. In questi
casi si consiglia di masticare molto.
La tuba inoltre, ha anche il surfactante, diverso da quello polmonare, perché ha un peso
molecolare più basso, e quindi ha un’azione antiadesiva. In più l’epitelio ha numerose
cellule caliciformi mucipare interposte che producono muco e ciò aiuta il veicolare di
piccole particelle che possono essersi introdotte attraverso la respirazione dal naso verso
la tuba.
In più c’è un’azione immunologica perché sulla superficie della tuba sono presente diverse
IgA. E’ quindi l’organo che predispone ad un processo di infiammazione dell’orecchio
medio sia per un problema di ostruzione che per un problema di meccanica non più perfetta.
ORECCHIO INTERNO
L’orecchio interno è formato da grossomodo da coclea e nervo cocleare, che formano il
sistema neurosensoriale.
Entriamo più nel dettaglio nella descrizione dell’orecchio interno.
L’orecchio interno è formato dal labirinto osseo, un complesso sistema di cavità scavate
nello spessore della piramide dell’osso temporale, e dal labirinto membranoso, un insieme
di vescicole e condotti membranosi (delimitati da pareti connettivali e rivestiti internamente
da epitelio) contenuti nelle cavità del labirinto osseo e contenenti un liquido che viene detto
“endolinfa” . A separare il labirinto osseo da quello membranoso vi si interpone lo spazio
perilinfatico in cui troviamo la “perilinfa”, o liquidi labirintici.
Il labirinto osseo è formato da: una parte posteriore, detta anche vestibolare, che
comprende il vestibolo osseo, i canali semicircolari ossei e l’acquedotto del vestibolo;
una parte anteriore, detta anche acustica, formata dalla coclea ossea e dall’acquedotto
della chioccola.
Il labirinto membranoso è formato da: una parte posteriore, che comprende il vestibolo
membranoso (a livello del vestibolo osseo), i canali semicircolari membranosi (a livello
dei canali semicircolari ossei), e il condotto endolinfatico (a livello dell’acquedotto del
vestibolo), responsabile della percezione propriocettiva statocinetica (equilibrio); una parte
anteriore, formata dal condotto cocleare (a livello della coclea ossea), che presiede alla
ricezione e alla trasmissione degli stimoli acustici.
Focalizziamoci, per prima cosa sulla parte posteriore dell’orecchio interno, quindi sulla
parte vestibolare. Importante è il ruolo dei canali semicircolari membranosi, tre canali,
che si trovano all’interno dei canali semicircolari ossei, distinti in canale semicircolare
verticale, orizzontale o laterale, e posteriore. I canali semicircolari membranosi
convogliano in due piccoli organelli che si trovano nel vestibolo osseo e che sono l’utricolo
e il sacculo, costituenti il vestibolo membranoso. I canali semicircolari membranosi
servono a regolare le accelerazioni angolari, cioè gli spostamenti del nostro corpo in senso
angolare, come i movimenti a destra e sinistra, invece l’utricolo e il sacculo servono per le
accelerazioni di tipo lineare come il camminamento.
Focalizziamoci, adesso, sulla parte anteriore dell’orecchio interno, quindi su coclea ossea
e condotto cocleare.
La coclea ossea è un canale osseo a forma di spirale avvolto attorno a un nucleo osseo
di forma conica, il cosiddetto modiolo, che compiendo due giri e tre quarti termina a fondo
cieco. Importante è considerare che il canale spirale è percorso dalla lamina spirale ossea
che si inserisce nella parete assiale e sale con decorso a spirale fino all’apice del modiolo.
Ciò è importante perché la lamina spirale ossea suddivide, seppur parzialmente, la coclea
ossea in due scale ovvero la scala vestibolare e la scala timpanica comunicanti tra loro
a livello di un piccolo foro l’elicotrema che precede immediatamente il fondo cieco terminale
della coclea ossea.
A livello della scala vestibolare troviamo la finestra ovale in cui si inserisce la platìna della
staffa, mentre a livello della scala timpanica abbiamo la finestra rotonda coperta dalla sua
membranella.
La separazione tra le due scale viene completata dalla membrana basilare che fa parte del
condotto cocleare. Il condotto cocleare, che costituisce la parte anteriore del labirinto
membranoso, è un canale contenuto per la massima parte nella scala vestibolare da cui è
separato grazie alla membrana di Reissner. A livello del condotto cocleare è presente
l’Organo del Corti, che poggia sulla membrana basilare.
Quindi quando il suono mette in vibrazione il sistema timpano-ossiculare la platìna della
staffa comprime i liquidi labirintici della scala vestibolare prima e, grazie all’elicotrema, della
scala vestibolare poi, fino alla membrana della finestra rotonda dove avviene la
decompressione. Questo movimento dei liquidi serve a mettere in sollecitazione le
strutture del condotto cocleare ovvero la membrana di Reissner e la membrana basilare, su
cui poggia l’organo del Corti, per avere la sollecitazione delle cellule acustiche o ciliate.
Le cellule ciliate sono divise in due tipi: le cellule ciliate interne ed esterne.
Le cellule ciliate interne, in numero di 3000-3500, sono un po’ più globose rispetto alle
ciliate esterne, e formano un’unica fila di cellule lontane dalla periferia della coclea.
Le cellule acustiche esterne, invece, in numero di 8000-9000, sono più cilindriche rispetto
a quelle interne e sono disposte in più file più lateralmente rispetto alle prime.
Le cellule ciliate esterne possiedono un numero maggiore di ciglia, sono ricche di
mitocondri, hanno un RE e apparato del Golgi sviluppati e anche tanti ribosomi e ciò a
differenza delle cellule ciliate interne che possiedono un numero minore di ciglia, hanno
meno mitocondri, RE e apparato del Golgi meno sviluppati.
Inoltre consideriamo che le cellule ciliate esterne è provvista lungo tutta la sua periferia,
quindi al di sotto della membrana plasmatica, di numerosi compartimenti di strutture
contrattili formate da actina, miosina e troponina a differenza della cellula cigliata interna
che non ha queste strutture.
Vi è una differenza anche per quanto riguarda i collegamenti nervosi, ma la vedremo
successivamente.
Date queste numerose differenze tra cellule ciliate interne ed esterne ci si è chiesti per tanto
tempo come mai ci fossero due tipi di cellule ciliate e il motivo della loro differenza.
Gli studi biologici hanno portato a capire che la cellula ciliata esterna, in realtà, non è il
vero recettore acustico, ma una cellula che modula il segnale in arrivo, invece la cellula
ciliata interna è il vero recettore acustico. La cellula ciliata esterna modula il segnale
attraverso la possibilità di allungarsi e contrarsi grazie alle molecole contrattili di cui
dispone, così da sollecitare meglio le ciglia sotto la membrana tectoria determinando gli
spikes nervosi che passano lungo il nervo cocleare fino ai centri nervosi tronco-
encefalici. E’ una via ascendente (o afferente) che dalla periferia si porta verso il centro,
dove a livello del complesso olivare superiore avremo la partenza di una fibra
discendente (efferente) che si andrà a distribuire sia sulle cellule ciliate esterne che sulle
cellule ciliate interne.
Semplificando le fibre nervose che partono dalle cellule ciliate esterne sono in rapporto di
1:1, cioè ogni cellula ciliata esterna è collegata da una fibra nervosa che parte dalla periferia
e si porta nei centri nervosi superiori, mentre le fibre discendenti (o efferenti) che dai centri
nervosi giungono alle cellule ciliate esterne si distribuiscono in maniera multipla, cioè una
singola fibra nervosa si distribuisce a più cellule ciliate esterne. In questo modo la cellula
ciliata esterna ha un controllo maggiore in senso ascendente, mentre ottiene un controllo
minore in senso discendente. N.B. La cellula ciliata interna, invece, ha un controllo
ascendente minore perché più cellule ciliate sono collegate a una singola fibra nervosa,
mentre ha un maggiore controllo discendente perché ogni fibra nervosa si distribuisce a una
singola cellula ciliata interna.
Questo genere di controllo permette alle cellule ciliate esterne di modulare il segnale in
arrivo, agendo un po’ da filtro dell’energia sonora sulla nostra coclea e quindi indirettamente
sulle cellule ciliate interne.
Quindi nel 1972 uno studioso inglese definì che la coclea funziona con due filtri, un primo
filtro dovuto al movimento della membrana basilare e un secondo filtro dovuto proprio alle
cellule ciliate esterne.
Questi filtri servono a filtrare non tanto la quantità di energia, ma le frequenze.
Infatti consideriamo che la nostra coclea ha una distribuzione topografica in quanto il giro
basale della coclea corrisponde a stimoli di frequenza acuta, il giro intermedio a stimoli di
frequenza media e la porzione apicale a stimoli di frequenza grave.
Le frequenza acute sono più vicine alla platìna della staffa e alla finestra rotonda e quindi
possono teoricamente essere interessate un po’ più precocemente da danni che vengano
direttamente attraverso i movimenti della platìna della staffa, quindi sue compressioni un
po’ più energiche. Per esempio se abbiamo un’energia molto intensa presente in vicinanza
di una persona, quello che definiamo “trauma acustico acuto”, il primo danno si va a creare
proprio sulle frequenze acute.
Quindi, le frequenze gravi sono meno interessate da un eventuale trauma, però in questa
sede la membrana basale è più spessa e larga, quindi più rigida, e se ci sono disturbi
elettrolitici dei liquidi labirintici oppure dei disturbi legati all’età avanzata con una membrana
basilare che diventa sempre più rigida, queste persone, con queste problematiche, possono
avere perdite maggiori sulle frequenze gravi.

• IPOACUSIE
Si intende con l’espressione di ipoacusia o di sordità un difetto nella percezione sonora,
per cui si identifica con questa espressione un gruppo di patologie che vengono definite
omnicomprensivamente come dei disturbi della funzionalità auditiva che possono essere
classificati facendo riferimento a due differenti criteri classificativi, il primo che riguarda
l’entità della riduzione della percezione sonora e l’altro la sede di insorgenza del disturbo:
1. Entità delle ipoacusie:
a) Lieve: compresa tra 20-40 dB
b) Moderata: compresa tra 41-55 dB
c) Moderata-severa: compresa tra 56-70 dB
d) Grave: compresa tra 71-90 dB
e) Profonda: superiore a 90 dB
2. Sede del danno:
a) Trasmissive
b) Neurosensoriali
c) Miste
La classificazione delle ipoacusie sulla base dell’entità è utile dal momento che permette
praticamente di comprendere fino a quanto sia lesa la funzione auditiva, soprattutto in
considerazione di quali possano essere i suoni che il soggetto riesca a percepire o non
riesca a percepire. Ad esempio, un soggetto con una ipoacusia di entità moderata presenta
delle difficoltà nel dialogo a due voci, considerando che una normale conversazione tra due
normoudenti si attesti all’incirca su una intensità sonora di 40-50 dB, differentemente dai
soggetti che invece presentino una sordità cosiddetta lieve, che non hanno difficoltà a
sostenere una conversazione con un altro individuo. Differentemente, un soggetto con una
ipoacusia moderata-severa o ancor di più con una sordità grave presenta una impossibilità
parziale nel primo caso o totale, nel secondo ma anche alle volte nel primo caso, di svolgere
una conversazione a due voci. Una sordità grave, differentemente, implica un quasi totale
isolamento dal mondo dei suoni: soggetti con una ipoacusia profonda possono percepire
solo suoni molto intensi, come sono ad esempio i suoni generati da un martello pneumatico,
da un aereo o da un colpo di pistola.
L’udito è un senso specifico, che viene assicurato da un complesso sistema di trasmissione
e di neurotrasmissione; la trasmissione del suono è assicurata dall’orecchio esterno e
dall’orecchio medio, essendo il primo costituito dal padiglione auricolare e dal meato uditivo
esterno che hanno il compito di convogliare le onde sonore e di veicolarle a livello della
membrana timpanica, che presenta una parte anteriore, precisamente i due terzi anteriori,
che la mettono in vibrazione. La membrana del timpano è una struttura che media la
separazione anatomica tra l’orecchio esterno
che le si pone lateralmente, e la cavità
dell’orecchio medio, che le si pone medialmente
e al cui livello è presente il cosiddetto sistema
timpano-ossiculare, costituito, in successione
lateromediale, dal martello, dall’incudine e
dalla staffa. Il martello presenta una porzione,
chiamata manico, che entra in rapporto con la
faccia mediale della membrana del timpano e
per il tramite di questo rapporto anatomico, la
vibrazione della membrana timpanica viene
trasmessa al martello e da questi alla staffa per
il tramite dell’incudine. La staffa è un ossicino
dell’orecchio medio che presenta una porzione
definita base, che ha una forma ovale che ne consente l’inserimento all’interno della finestra
ovale, per il tramite della quale trasmette le vibrazioni alla coclea. L’intero sistema costituito
dall’orecchio esterno e dall’orecchio medio costituisce il cosiddetto sistema di
trasmissione, cioè quello deputato al trasferimento dell’onda sonora a livello della coclea,
al cui livello sono posti i recettori dell’udito che convertono lo stimolo sonoro in un segnale
nervoso, dapprima chimico e mediato dai neurotrasmettitori sinaptici e successivamente
nervoso. Il segnale chimico mediato dalla sinapsi viene convertito in impulso nervoso
allorquando i neurotrasmettitori, legando specifici recettori a livello delle fibre della
componente acustica del nervo vestibolo-cocleare, determinino delle modificazioni di canali
ionici di membrana che generano l’impulso poi veicolato a livello dei centri di ritrasmissione
situati a livello del tronco encefalico. La coclea è un organo presente nell’orecchio interno,
costituito da un rivestimento esterno definito come coclea ossea e da una porzione interna
definita coclea membranosa, che è in continuità posteriormente con la faccia anteriore del
vestibolo, con cui entra in rapporto la base della staffa: a seguito della vibrazione impressa
dalla staffa al vestibolo, il contenuto liquido in esso presente e in continuità con il contenuto
liquido della scala timpanica della coclea membranosa vibra e vibrando determina
stimolazione dei recettori auditivi della coclea stessa. Quindi, se le sordità trasmissive sono
associate a danni a carico dell’orecchio esterno o dell’orecchio medio, le sordità
neurosensoriali sono ascrivibili a danneggiamenti del sistema di neurotrasmissione, che è
costituito dalla coclea e dal nervo vestibolococleare, pur se nella più parte dei casi il
danno sia localizzato a livello della coclea piuttosto che del nervo statoacustico.
• IPOACUSIE DI TRASMISSIONE
Si possono, quindi, definire le sordità di trasmissione come dei difetti della percezione
sonora conseguenti ad un danno a carico dell’orecchio esterno o dell’orecchio medio, che
costituiscono insieme il sistema di trasmissione.
1) CAUSE
Le cause che stanno alla base dell’insorgenza di una sordità di trasmissione sono
ascrivibili alla presenza di processi infiammatori, oppure alla presenza di traumi, o,
ancora a tumori. I traumi possono essere frequentemente causa di una sordità di
trasmissione, allorquando una caduta o una colluttazione (specialmente schiaffi a livello
dell’orecchio) possano comportare un notevole aumento della pressione nel meato acustico
esterno, tal che ne possa addirittura conseguire alle volte una vera e propria lacerazione
della membrana del timpano. In altri casi, sicuramente più rari, l’ipoacusia di trasmissione
può conseguire a cause neoplastiche, come possono essere alcuni tumori, che comunque
sono abbastanza poco frequenti, come i tumori dell’orecchio esterno, che nella più parte
dei casi sono tumori cutanei, essendo il meato auditivo esterno e il padiglione auricolare
rivestiti da cute: i tumori cutanei che si possono riscontrare a questo livello possono essere
un carcinoma basocellulare o un carcinoma squamocellulare. Tumori dell’orecchio
medio, ancor più rari, sono i tumori vascolari dei glomi, vale a dire i tumori del glomo
timpano-giugulare o del glomo timpanico. In casi sempre poco frequenti, la neoplasia
dell’orecchio medio che può essere in causa nell’ipoacusia può essere un adenoma o un
adenocarcinoma. Al netto di questa che è una panoramica generale di tutte le possibili
cause che sono alla base di una ipoacusia, la causa più frequente di sordità di trasmissione
è costituita dalle patologie infiammatorie.
2) ANAMNESI
Per poter impostare un corretto percorso diagnostico al fine di giungere alla diagnosi
eziologica della ipoacusia è necessario innanzitutto eseguire una corretta anamnesi
generale e specialistica, essendo la prima incentrata particolarmente sull’eventuale
presenza di episodi infettivi locali o sistemici precedentemente intervenuti, sulla
eventuale presenza di allergie o di occlusioni dentarie. Non bisogna dimenticare che nei
soggetti giovani in cui si abbia una ipertrofia di III grado dell’adenoide, l’aumento di volume
tonsillare tonsillare può essere responsabile della insorgenza di una occlusione della tuba
di Eustachio alla quale consegue un deterioramento della ventilazione dell’orecchio medio,
che può predisporre ad un’otite media sieromucosa, che si manifesta con ipoacusia di
trasmissione associata a senso di ovattamento e autofonia in assenza di otalgia.
All’anamnesi generale segue l’anamnesi specialistica, che consiste nell’esecuzione di
domande precise ed opportune al fine di chiarire e di orientarsi sulla possibile diagnosi
eziologica dell’ipoacusia. In questo caso, è necessario chiedere specificatamente se il
paziente avverta otalgia, cioè un dolore localizzato o riferito all’orecchio. Infatti, accade
frequentemente che l’otalgia sia semplicemente una otalgia riflessa o riferita, ad esempio
a seguito di una patologia dentaria, spesso dell’ottavo, che determina delle algie riflesse, o
di una patologia dell’articolazione temporomandibolare. Non bisogna dimenticare che
nei soggetti con una faringotonsillite complicata con ascesso peritonsillare può verificarsi
una infiammazione del muscolo pterigoideo interno che determina anche un dolore riferito
all’orecchio (in associazione al trisma e alla medializzazione della tonsilla, a febbre elevata).
Dell’otalgia occorre chiarire alcuni aspetti come la durata e le caratteristiche, vale a dire
(1) la modalità di insorgenza, (2) la protrazione temporale se costante o incostante e (3)
l’intensità che già sono informazioni molto importanti da considerare. Durante l’anamnesi il
paziente può anche riferire una perdita liquida dall’orecchio esterno, che viene
specificatamente definita otorrea. A fronte di un’otorrea si aprono alcune ipotesi
patogenetiche che innanzitutto pertengono alla sede di derivazione della perdita liquida, che
può essere l’orecchio esterno o più frequentemente l’orecchio medio, dal quale deriva la
perdita di liquido per il tramite di piccole o grandi perforazioni della membrana timpanica.
Dall’otorrea si possono cogliere delle informazioni molto importanti circa la gravità del
processo patologico e infiammatorio alla base, considerandone le caratteristiche
composizionali. Sulla base della composizione, l’otorrea si definisce (1) sierosa quando il
liquido è particolarmente fluido, chiaro e di consistenza poco viscosa e, se associato a
striature ematiche si definisce sieroematico ed è espressione caratteristica dell’otite
esterna virale (o bolloso-emorrgica) (2) mucosa, quando il liquido assume una consistenza
più densa e più filante e assume un colorito giallognolo, (3) purulenta quando il liquido sia
particolarmente denso e di colorito giallo-verdastro, soprattutto nelle otiti esterne batteriche
da Pseudomonas Aeruginosa, che conferisce colore verde all’essudazione o (4) purulento-
ematica allorquando si riscontri un essudato purulento associato a presenza di striature
ematiche. Solitamente, un’otorrea di consistenza sierosa depone a favore di un processo
infiammatorio più lieve, differentemente da una otorrea purulenta che depone a favore di un
processo infiammatorio violento, presumibilmente ad eziologia batterica e in cui, peraltro,
i batteri hanno una elevata virulenza e patogenicità, tale da determinare una perforazione
della membrana timpanica e una necrosi colliquativa dei tessuti circostanti che, se coinvolge
anche le ossa del sistema timpano-ossiculare oppure se coinvolge le strutture vascolari,
diviene una otorrea purulento-ematica.
D’altra parte, a fronte di una problematica dell’orecchio medio occorre approfondire la storia
clinica del paziente chiedendo se abbia avuto o abbia tuttora dei sintomi nasali, come ad
esempio una ostruzione nasale, rinorrea, starnutazione, prurito nasale o russamento
notturno dal momento che non infrequentemente sia l’otite media acuta purulenta che l’otite
media sieromucosa possono associarsi alla presenza di sintomi naso-respiratori a fronte di
una assenza di otorrea, giacché l’essudazione è compartimentalizzata nella cassa del
timpano. La rinorrea va approfondita nei termini della qualità della perdita nasale, dal
momento che anche questa può essere sierosa, mucosa o purulenta e solitamente quando
sia sierosa ci si trova di fronte ad un banale episodio di raffreddamento o di allergia se
coesistono anche prurito e starnutazione che sono dei sintomi caratteristici della rinite
allergica. Differentemente, nel qual caso si faccia riferimento ad una rinorrea purulenta,
frequentemente questa pertiene a problematiche di tipo rino-sinusitico (la rinorrea
mucopurulenta perdurante, la tosse notturna o diurna, il dolore in sedi caratteristiche, l’alitosi
e la presenza di edema periorbitale sono dei sintomi di sospetto per una sinusite). Inoltre, è
fondamentale chiarire l’eventuale presenza di alcuni sintomi come possono essere il
russamento o le apnee notturne, oppure tutta una serie di sintomi correlati alle apnee
notturne, giacché alle volte una otite media sieromucosa può conseguire alla presenza di
una ipertrofia adenoidea di III grado che oltre a provocare problematiche notturne di
ventilazione è anche associata a problematiche di pertinenza otologica, come una otite
media per scarsa ventilazione dell’orecchio medio causata da una ostruzione della tuba di
Eustachio. Infatti, tanto è vero questo che nell’ipertrofia adenoidea di III grado sussiste
indicazione all’adenoidectomia se questa risulti complicata con una otite media, giacché
questa cronicizzando potrebbe determinare una ipoacusia permanente; alle volte, le otiti
medie sieromucose che conseguono ad ostruzione della tuba di Eustachio sono di difficile
inquadramento soprattutto nei bambini, dal momento che non sussiste otalgia e il perdurare
dell’ostruzione potendo deprivare la corteccia del feedback auditivo può incidere sullo
sviluppo del linguaggio. In altri casi, il russamento può esprimere un disturbo della
compliance del palato molle, ascrivibile ad una non-corretta ventilazione e ad una non-
corretta separazione tra orofaringe e rinofaringe. È necessario anche chiarire, nel caso sia
presente una patologia infiammatoria dell’orecchio medio se sussistano sordità,
cefalee e/o vertigini, pur se queste ultime siano difficili da aversi ma quando si abbiano
possono essere espressione di un processo infiammatorio che ha sconfinato l’orecchio
medio e ha coinvolto le strutture vestibolari dell’orecchio interno, per cui meritano un
approfondimento diagnostico ulteriore. Per quanto riguarda la sordità occorre chiarire la
durata e l’andamento temporale, vale a dire rispettivamente da quanto tempo sia insorta
e se ci siano delle fluttuazioni. Soprattutto, occorre chiarire se l’ipoacusia si associ a vertigini
o ad acufeni, essendo questi ultimi dei rumori ricorali, simili a dei ronzii che spesso
disturbano il sonno del paziente. Solitamente, quando siano espressione di una forma acuta,
gli acufeni tendono a scomparire con la guarigione della forma acuta, contrariamente alle
forme croniche che tendono a perdurare a lungo e spesso a interferire pesantemente con
la qualità della vita del soggetto. La cefalea è, differentemente dalle vertigini, un sintomo
molto più frequentemente riferito dai pazienti e soprattutto insorge più spesso in soggetti
giovani che non in soggetti adulti.
3) DIAGNOSTICA STRUMENTALE PER LE PATOLOGIE INFIAMMATORIE DELL’ORECCHIO
MEDIO
La diagnostica strumentale nell’ambito della valutazione di un processo infiammatorio
dell’orecchio medio si compone di una serie di valutazioni, innanzitutto una valutazione
della soglia uditiva, intendendosi con questa espressione la minima quantità di energia
che deve possedere l’onda sonora al fine di produrre la minima sensazione acustica.
Successivamente, si eseguono delle particolari indagini sulla base delle quali si valuta
dinamicamente il sistema timpano-ossiculare e la funzione tubarica. Nell’eventualità che
si sospetti una patologia nasale concomitante o causale rispetto alla patologia infiammatoria
dell’orecchio medio si devono effettuare esami come la fibroscopia nasale e quella
faringea, oltre che la rinomanometria e la citologia del liquido nasale. Mediante la
rinomanometria si valuta la funzionalità del naso, mentre mediante la citologia nasale è
possibile eventualmente considerare la presenza di cellule atipiche che non
necessariamente debbono essere sinonimo di patologia infausta o tumorale e tanto è vero
questo che nell’ambito delle rinopatie se ne riscontra una che prende il nome di NARES,
acronimo per rinopatia secretiva eosinofila non-allergica, in cui si documenta la
presenza di una eosinofilia pur se questo non voglia affatto e sempre significare che la
patologia sia allergica, giacché in questo caso lo Skin-Prick test e il RAST, che pure si
possono eseguire nelle patologie in questione specialmente se sussistano sintomi come
prurito o starnutazione, risultano negativi.
Inoltre, si può eseguire uno studio radiologico dell’orecchio mediante una TC senza mdc;
la TC studia l’osso e l’eventuale possibilità di utilizzo del mezzo di contrasto va riservata
esclusivamente alla sospetta presenza di un tumore. Queste sono certamente indagini utili
da eseguirsi ma non sufficienti da sé dal momento che è necessario anche considerare
l’eventuale presenza di una ipoacusia conseguente alla presenza della patologia
infiammatoria dell’orecchio medio, per cui questo apre il capitolo della diagnostica
audiologica.

• DIAGNOSTICA AUDIOLOGICA NELLE IPOACUSIE DI TRSMISSIONE


Di estrema importanza è il diapason che consente di eseguire le cosiddette prove con il
diapason, che permettono di eseguire una eccellente prima diagnosi del disturbo. Il
diapason utilizzato in audiologia è uno strumento tarato generalmente su 256 Hz, anche se
alcuni utilizzano dei diapason tarati su 512 Hz e altri ne utilizzano alcuni tarati su 128 Hz,
ma comunque si tratta sempre di diapason a basse frequenze che sono costituiti da un
manico e da due rebbi, che possono essere posti in vibrazione nel momento in cui si
avvicinino l’uno all’altro.
Prima di parlare di queste prove occorre definire cosa sia il fenomeno dell’autofonia.
L’autofonia è un fenomeno comune, ed è la cosiddetta sensazione di rimbombo della
propria voce nell’orecchio tappato. Se siamo raffreddati solitamente abbiamo le orecchie
tappate, di solito entrambi, ma ammettiamo che uno lo sia più dell’altro. Proviamo a
deglutire, a sbadigliare, ma non riusciamo a sboccarlo. Se una persona giunge
all’osservazione con un singolo orecchio tappato, bisogna chiedergli se sente la voce
rimbombare nel proprio orecchio.
In caso positivo la situazione è banale poiché si può trattare di una banale fatto
infiammatorio o di un tappo di cerume a livello del condotto uditivo che lo occlude
completamente, quindi patologie risolvibili con terapia medica la prima e con estrazione
del tappo nel secondo caso, senza necessità di un intervento immediato. Però è importante
che è la voce dello stesso soggetto che rimbomba, non quella degli altri e ciò è importante
per la differenza con le sordità neurosensoriali. Quindi possiamo avere il primo caso in cui
il soggetto con orecchio tappato con possibile sordità di trasmissione presenta fenomeno
dell’autofonia positivo.
Oppure possiamo avere un ipotesi di sordità neurosensoriale, sempre monolaterale, che
non presenta il fenomeno dell’autofonia, più che altro avverte un fenomeno di
alterazione della propria voce, un fenomeno di distorsione della proprio voce, e poi le
voci degli altri o i rumori esterni possono essere fastidiosi come se ci fosse una eccessiva
amplificazione anche se abbiamo un orecchio chiuso. Il paziente con sordità
neurosensoriale è un paziente più critico che nella fase acuta va individuato subito
soprattutto se vi è un caso si sordità neurosensoriale acuta, quello che viene detto “sordità
improvvisa”. Usualmente si ritiene che l’intervento medico in caso di sordità
neurosensoriale acuta è efficace quando viene fatto entro le 72 ore, ciò significa che ci sono
più probabilità che quel genere di sordità improvvisa possa ottenere il massimo beneficio.
Con il diapason la situazione è più semplice.
1) PROVE CON IL DIAPASON
La prima delle due prove che si eseguono con il diapason prende il nome di prova di Weber
e consiste in una prova con il diapason posto in un punto centrale del capo, che può essere
la teca cranica, la fronte, la glabella o anche il mento, ma comunque un punto situato sulla
linea mediana; la posizione che più frequentemente viene utilizzata è quella frontale.

Dunque, la prova di Weber può dare tre differenti risultati, che sono espressione di tre
differenti condizioni, a seconda che la percezione del suono sia bilaterale, monolateralizzata
da uno o dall’altro lato, rispetto all’orecchio patologico o maggiormente leso:
1. Suono centralizzato: la prova di Weber che dia come esito un suono centralizzato
depone a favore di una condizione uguale a carico dei due orecchi, il che può
significare tanto che i due organi siano sani quanto che entrambi siano affetti da un
disturbo che dal punto di vista qualitativo e quantitativo si esprime nella stessa
maniera. Quindi, in questo caso il test di Weber depone a favore di una condizione
assolutamente uguale nei due orecchi, che può esprimere una sordità bilaterale,
come lo è classicamente l’ipoacusia da rumore.
2. Suono lateralizzato: quando il suono sia lateralizzato si aprono diverse ipotesi
diagnostiche soprattutto in considerazione del fatto che il suono venga lateralizzato
omolateralmente all’orecchio malato (o più malato) o controlateralmente rispetto
all’orecchio malato (o più malato. Difatti, occorre entrare nell’ottica per cui qualsiasi
condizione patologica, anche quando coinvolga bilateralmente le due orecchie, può
determinare una lateralizzazione del suono se uno dei due orecchi risulta
maggiormente colpito:
a) Lateralizzazione controlaterale (rispetto all’orecchio [maggiormente]
colpito): in questo caso la condizione è espressione di un disturbo
neurosensoriale. Infatti, è a noi ben noto che la conduzione delle onde
sonore avviene per il tramite dell’orecchio esterno e dell’orecchio medio. In
questo caso, la conduzione del suono avviene attraverso le ossa e i tessuti
della testa, per cui in questo modo l’onda giunge a livello della piramide del
temporale e colpisce direttamente la coclea, per cui se una delle due risulta
meno funzionante allora questo indica che vi sia un problema a livello del
sistema cocleare o del nervo acustico controlateralmente rispetto a quello
dell’orecchio patologico, poiché l’altra coclea funziona o funziona meglio.
b) Lateralizzazione omolaterale (rispetto all’orecchio [maggiormente] colpito):
si tratta di una condizione, questa che depone a favore di una sordità di
conduzione. Come sappiamo, il sistema di conduzione risulta costituito dal
padiglione auricolare, dal condotto uditivo esterno e dall’orecchio medio. In
questo caso, i disturbi della conduzione, cioè l’ipoacusia trasmissiva,
determinano una lateralizzazione omolaterale rispetto all’orecchio patologico
nella prova di Weber e per spiegare questo è necessario considerare quello
che prende il nome di fenomeno del mascheramento ambientale,
intendendosi con questa espressione l’insieme delle vibrazioni acustiche
accessorie rispetto al suono che provengono dall’aria. Chiaramente, se il
soggetto presenta un deficit del sistema di conduzione, venendo meno l’effetto
del mascheramento ambientale presenterà una maggiore percezione del
suono emesso con il diapason; differentemente, nell’orecchio sano (o più
sano) l’effetto di mascheramento è (maggiormente o totalmente) preservato,
per cui venendo condotte una serie di vibrazioni sonore dall’ambiente esterno
accessorie rispetto al suono emesso dal diapason, il suono stesso verrà
percepito meno intensamente: questa è la spiegazione che sta alla base della
lateralizzazione omolaterale del suono emesso dal diapason nella prova di
Weber quando si riscontri una ipoacusia trasmissiva.
Possiamo, quindi, dire che la prova di Weber determini lateralizzazione omolaterale del
suono nel caso della presenza di una ipoacusia di trasmissione monolaterale, mentre
determina una lateralizzazione controlaterale nel caso della ipoacusia neurosensoriale.
La seconda prova con il diapason prende il nome di test di Rinne, che configura un
confronto tra la percezione sonora per vibrazioni condotte dalla via aerea e dalla via ossea.

La prova di Rinne si esegue in due momenti; nel primo dei due si fanno vibrare i due rebbi
del diapason e si pone questo a 10 cm dal padiglione auricolare, avendo cura di chiedere
al paziente per quanto tempo avverte il suono, al fine di poterlo misurare: generalmente in
condizioni normali questo tempo di ascolto si aggira sui 30-40 s circa. Una volta eseguita
questa prova, si pone nuovamente il diapason in vibrazione e si colloca il manico sul
processo mastoideo, sempre avendo cura di chiedere al paziente per quanto tempo abbia
ascoltato il suono: generalmente in condizioni normali il tempo di ascolto si aggira intorno a
15 s, per cui il rapporto tra i due tempi di ascolto normalmente è di circa 2:1; quando il test
di Rinne è tale, con un rapporto 2:1 (30/15), si definisce positivo, mentre si definisce
negativo, intuitivamente, quando il rapporto è ridotto ad 1:1, ma anche quando il rapporto
è 2:1 con i due tempi di ascolto abbreviati. Nel primo caso, la riduzione del rapporto indica
che sussiste una riduzione del tempo di ascolto del suono propagato per aria, il che significa
che sussiste un problema di trasmissione: in questo caso si fa diagnosi qualitativa di
ipoacusia di trasmissione. Differentemente, quando entrambi i tempi di ascolto siano
accorciati il problema non sussiste a carico della via di conduzione ma a carico del sistema
neurosensoriale, per cui si fa diagnosi qualitativa di ipoacusia neurosensoriale. Le prove
con il diapason hanno una importanza estrema nella diagnostica audiologica delle ipoacusie
dal momento che in questi casi è possibile eseguire una diagnosi qualitativa di una o
dell’altra ipoacusia e questo ha una rilevanza pratica molto importante dal momento che
permette di discriminare delle forme di sordità di trasmissione, che possono anche non
necessitare di una terapia immediata, differentemente da alcune forme di sordità
neurosensoriale che nelle forme cosiddette acute necessitano di un trattamento
terapeutico immediato, che viene definito efficace se avviene entro settantadue ore.
2) ESAME AUDIOMETRICO TONALE
L’esame audiometrico tonale viene eseguito al fine di valutare l’entità dell’ipoacusia e viene
eseguito all’interno di una cabina priva di rumore, somministrando stimoli uditivi al paziente
tramite delle cuffie apposite. In questo test si ricerca la soglia uditiva per ogni frequenza,
particolarmente per frequenze di 125 Hz, 250 Hz, 500 Hz, 1000 Hz, 2000 Hz, 3000 Hz, 4000
Hz e 8000 Hz. In questo caso si costruisce un grafico in cui in ascisse vi sono i valori di
frequenza e in ordinata i valori di intensità sonora e mediante questo test, oltre che ricercare
la soglia auditiva si ricercano anche la soglia del fastidio e la soglia del dolore, essendo
rispettivamente pari a 80-90 dB e 110-120 dB per un soggetto normo-udente con soglia
uditiva di 20 dB.
Prima di eseguire il test, si chiede al paziente quale dei due ritenga essere l’orecchio normo-
udente o meglio funzionante e da quello si inizia il test.
Inizialmente, si parte dalla somministrazione di suoni di frequenza di 1000 Hz e di intensità
tale che il paziente possa sentire comodamente il suono; quindi si somministrano segnali
sonori di 40 dB, come prima somministrazione. Quindi, si procede a ridurre l’intensità di 10
dB per volta, fino a raggiungere delle intensità alle quali il paziente riferisce di non avvertire
nulla: si è raggiunta la soglia uditiva e abbassando ulteriormente l’intensità del suono,
questo non viene percepito. A questo punto, si aumenta nuovamente l’intensità di 5 dB per
volta, chiedendo al paziente quando riesca nuovamente ad avvertire il suono: a questo
punto si è raggiunta la soglia uditiva e si può indicare questa sull’audiogramma (cerchio
rosso). Si ripete la medesima procedura per tutte le altre frequenze e se la soglia uditiva è
uguale a tutte le frequenze saggiate, evidentemente l’orecchio del paziente è normo-
funzionante.
Si procede quindi ad esaminare l’orecchio controlaterale, quello che il paziente accusa
essere patologico. Chiaramente, se il soggetto ritiene che quello sia l’orecchio patologico,
non si parte dalla somministrazione di uno stimolo di 40 dB, piuttosto si procede con la
somministrazione di uno stimolo di circa 60-70 dB alla frequenza di 1000 Hz; per il resto si
procede come in precedenza, segnando sull’audiogramma i valori della soglia uditiva
registrati frequenza per frequenza (chiaramente verranno indicati con un segno differente
rispetto a quello utilizzato per l’altro orecchio; in questo caso, la croce blu).
A questo punto, per comprendere, eventualmente, di fronte a che tipo di sordità ci si trovi
dal punto di vista qualitativo, si ricorre al Weber audiometrico, che non si vale più
dell’utilizzo delle cuffie ma di un vibratore osseo collegato ad un audiometro mediante cui si
inviano dei segnali per le quattro frequenze fondamentali, cioè 500 Hz, 1000 Hz, 2000Hz e
4000 Hz. In questo caso, inizialmente si pone il vibratore osseo dapprima a livello della
fronte del paziente e si inviano i segnali tonali. Come per la prova di Weber con il diapason,
anche in questo caso la lateralizzazione del suono a livello dell’orecchio patologico depone
a favore di una sordità di trasmissione, dal momento che venendo meno l’effetto di
mascheramento ambientale, il suono, trasmesso per via ossea, viene meglio percepito. A
questo punto, si pone il vibratore in corrispondenza del processo mastoideo e quindi si
valuta la soglia acustica per la trasmissione ossea del suono: in questi casi la soglia uditiva
per la via ossea nell’orecchio patologico sarà normale dal momento che nelle sordità di
trasmissione la coclea è preservata, per cui la via di trasmissione ossea, che esplora
direttamente la funzionalità cocleare non risulta alterata, differentemente da quanto accada
per la via ossea nella sordità neurosensoriale. Quello che tuttavia non si può fare è ricercare
la soglia uditiva per la via ossea nell’orecchio sano, giacché se il paziente presenta una
sordità di trasmissione, ponendo sul mastoide controlaterale il vibratore, comunque il
soggetto avvertirà una lateralizzazione nell’orecchio patologico: in questo caso l’esame
audiometrico si definisce completato ma non completo, poiché non è possibile stabilire la
soglia uditiva per la via di trasmissione ossea nell’orecchio normale se presente una sordità
di trasmissione. In alcuni casi la curva che si può costruire per la soglia uditiva dell’orecchio
patologico può mostrare una maggiore perdita sulle frequenze gravi, per le quali quindi la
soglia uditiva è più elevata: questa in gergo audiologico viene definita come curva di
rigidità, dal momento che l’orecchio medio può essere libero, ma la catena timpano-
ossiculare è ipomobile, per via della presenza di una otosclerosi, che è la tipica malattia
in grado di determinare questa curva all’esame audiometrico tonale ed è una malattia
giovanile, non geriatrica.
Diversamente, nel qual caso in cui si abbia una maggiore perdita sulle frequenze acute,
per le quali sussiste una soglia uditiva più elevata, si descrive quella che prende il nome di
curva di massa, dal momento che in tal caso si riscontra la presenza di una lesione
occupante spazio nell’orecchio medio. La catena ossiculare è sempre ipomobile ma per
via della presenza di una massa che può essere solida oppure liquida, nel momento in cui
si riscontri la presenza di un versamento endotimpanico, come può essere una otite
media siero-mucosa, molto frequente in età pediatrica ed in età geriatrica.
Esistono, infine, delle condizioni in cui coesistono sia delle condizioni di rigidità aumentata
del sistema timpano-ossiculare sia delle masse occupanti spazio nell’orecchio medio
oppure situazioni con membrana del timpano ampiamente perforata e catena ossiculare
erosa: queste descrivono delle curve rettilinee con una soglia uditiva aumentata e prendono
il nome di curve di attrito.

• IPOACUSIE NEUROSENSORIALI
Le sordità neurosensoriali rappresentano un capitolo spesso misconosciuto e si definiscono
come delle riduzioni della percezione sonora conseguentemente ad un danno a carico della
coclea o, meno frequentemente, dell’VIII paio.
1) EZIOLOGIA
Le cause delle sordità neurosensoriali sono molto complesse da considerare e non sempre
sono ben conosciute, il che evidentemente è un aspetto che sicuramente complica
l’eventuale approccio diagnostico alla patologia, soprattutto nella misura in cui queste alle
volte affinché il trattamento sia efficace necessitano della identificazione della causa che ne
sia alla base. Le cause che stanno alla base di una eventuale sordità neurosensoriale
possono essere tra loro molto differenti e nell’elenco delle possibili eziologie di queste
ipoacusie rientrano anche le forme genetiche, che sono state meglio caratterizzate solo
negli ultimi anni e che non sempre determinano un’insorgenza in età pediatrica, pur se nella
più parte dei casi sia effettivamente così. Le forme genetiche possono avere esordio in età
pediatrica, ma alle volte le forme di ipoacusia neurosensoriale possono esordire in età
adolescenziale e possono eventualmente poi aggravarsi intorno al venticinquesimo anno
di vita; inoltre, possono esservi delle forme di presbiacusia precoce, che vengono
trasmesse geneticamente. Occorre considerare che, nell’ambito di questa situazione,
l’orecchio come tutti gli organi è soggetto ad un invecchiamento che risulta clinicamente
evidente intorno ai sessant’anni, circa, pur se non sempre questo esiti nella sensazione di
riduzione della funzione uditiva. Di certo, patologie concomitanti come delle patologie
intercorrenti come il diabete o la cronica esposizione al rumore e ai danni acustici sono delle
situazioni che giovano all’insorgenza più precoce della presbiacusia. Comunque, si ritiene
che il deterioramento delle funzioni auditive inizi molto più precocemente rispetto all’effettiva
età di insorgenza della sordità, in considerazione dell’espresso e perdurante
danneggiamento con perdita delle cellule acustiche che si verifica continuativamente
dall’inizio della vita extrauterina. Chiaramente, questo processo di perdita delle cellule
recettoriali è un processo estremamente parcellare, tal che raramente esiti in una
sintomatologia di sordità se non coesistono delle cause che determinino una accelerazione
di questa perdita. Chiaramente, l’entità e la celerità con cui il danno alla funzione cocleare
si accumuli è espressione anche dell’inquinamento sonoro, cioè della entità e della quantità
di stimoli sonori a cui il soggetto è esposto, come testimonia uno studio di comparazione del
deterioramento della funzionalità uditiva eseguito negli anni Ottanta da un medico italiano,
che ha dimostrato come sussista un maggiore deterioramento delle funzioni uditive nei
soggetti che abitino in città piuttosto che nei soggetti che abitino al di fuori dei centri urbani
o che abitino a latitudini in cui l’inquinamento sonoro è estremamente basso, come accade
per gli abitanti del deserto.
Altre volte, le cause di sordità neurosensoriali sono costituite da patologie infettive, che
possono dare luogo a delle ipoacusie neurosensoriali gravi e spesso irreversibili: questo
accade ad esempio per patologie infettive come il morbillo quando dia luogo a complicanze
gravi, per la mononucleosi infettiva, oppure per la parotite epidemica e per i virus
influenzali. Generalmente, queste sono da intendersi come delle complicanze di patologie
infettive che nella più parte dei casi hanno un decorso favorevole, per cui sono da
considerarsi come espressione di una disseminazione ematogena del virus nonché come
complicanze che intervengono più facilmente se il soggetto presenti una condizione di più
o meno grave compromissione del sistema immunitario. Solitamente si tratta di ipoacusie
neurosensoriali monolaterali, pur se le forme bilaterali possano anche osservarsi e
possono interessare anche i bambini all’età di quattro o cinque anni. L’eziologia infettiva
delle sordità neurosensoriali non è l’unica possibile, dal momento che è possibile che si
riscontri anche la presenza di forme batteriche, anche se queste sono molto difficili ad
aversi, anche perché è poco frequente che un batterio per il tramite della via ematogena
raggiunga direttamente l’orecchio interno; frequentemente le forme batteriche
rappresentano una complicanza di una otite media purulenta, che sia essa acuta o
cronica, in cui si sia formata una soluzione di continuo tra l’orecchio medio e l’orecchio
interno.
Le cause di una possibile ipoacusia neurosensoriale possono anche essere dei traumi,
specialmente delle patologie traumatiche dell’età pediatrica che possono comportare
l’insorgenza di una frattura della rocca petrosa del temporale, all’interno della quale
ricordiamo essere presenti gli organi dell’orecchio interno.
In altri casi, ancora, le cause di una possibile ipoacusia neurosensoriale possono essere
tossiche, legate essenzialmente all’immissione in circolo di sostanze tossiche durante la
vita intrauterina, per via dell’abuso di alcol, di droghe, o di farmaci, o ancora per via di
condizioni che causino una tossicosi endogena come il diabete; tutte queste sono condizioni
che comportano immissione nel circolo materno di sostanze potenzialmente tossiche, che
possono raggiungere il circolo fetale per il tramite della barriera ematoplacentare, che non
riesce opportunamente ad ostacolarne il passaggio. Esistono, poi, delle forme che, in età
media o avanzata, possono essere causate da patologie vascolari quali l’aterosclerosi.
Ancora, da alcuni anni è noto che anche delle patologie autoimmuni possono essere
responsabili della insorgenza di queste malattie. Certamente, le patologie autoimmuni
rappresentano un vasto capitolo e sfortunatamente queste sono malattie per le quali alcuni
dettagli sono ancora nebulosi e lacunosi sono alcuni aspetti; peraltro, considerando due
patologie autoimmuni ben note e di competenza reumatologica come il Lupus Eritematoso
Sistemico e l’artrite reumatoide, si può considerare come esista spesso una reale variabilità
nell’ambito della presentazione clinica della malattia, aspetto che sicuramente vale più per
il Lupus che per l’artrite reumatoide, per la quale sicuramente questo aspetto è vero se si
pensa che esistono almeno quattro modalità di esordio più frequenti ed una meno frequente
dell’artrite reumatoide e se si pensa che sia una patologia potenzialmente sistemica.
Peraltro, spesso i dati di laboratorio non sono sempre affidabilissimi, ad esempio, per il
Lupus, eccezion fatta per l’anticorpo anti-Sm che è diagnostico (ma presente solo in un
quarto dei casi), possono essere positivi oltre agli ANA anche altri autoanticorpi, alcuni
anche presenti in altre patologie, come gli anti-Ro/SS-A che sono positivi anche nello
Sjögren. Comunque, ritornando al discorso legato alle cause autoimmuni di ipoacusia,
occorre considerare che nella più parte dei casi, se non addirittura sempre, queste forme
sono bilaterali ed un criterio ex iuvantibus estremamente utile per poterle individuare è la
responsività al cortisone: i soggetti con queste forme di ipoacusie neurosensoriali
autoimmuni tendono a riferire un miglioramento dopo espletamento della terapia cortisonica.
Addirittura, queste forme si possono anche definire cortisone-dipendenti, dal momento che
i soggetti alla sospensione della terapia tendono a mostrare un deterioramento della
funzionalità uditiva. Infine, ultima ma non per importanza, la causa di una ipoacusia
neurosensoriale può essere neoplastica, specificatamente un neurinoma. Il neurinoma, o
schwannoma o neurilemmoma, è un tumore benigno delle guaine dei nervi periferici che
origina dalle cellule di Schwann e che trova una delle sue principali sedi di espressione
proprio a livello dell’VIII paio di nervi cranici, dove frequentemente si localizza
all’emergenza, cioè a livello dell’angolo pontocerebellare. Il sospetto di un neurinoma
acquisito dell’VIII deve insorgere quando vi siano sordità neurosensoriali monolaterali e
ingravescenti, ad andamento cronico e progressivo. In alcuni casi, rari, la neurofibromatosi
di tipo II può esprimersi mediante dei neurilemmomi dell’VIII paio che in tal caso sono
bilaterali e insorgono in soggetti molto giovani.
2) CLINICA E APPROCCIO DIAGNOSTICO NELLE IPOACUSIE NEUROSENSORIALI
La diagnosi di una ipoacusia neurosensoriale è molto più complessa della eventuale
diagnosi di una sordità di trasmissione, pur se questo non voglia affatto significare che la
prima di queste due sia oltremodo confortevole, poiché così non è. Comunque, il sintomo
che il soggetto riferisce come principale è la ipoacusia o sordità e a fronte di questo sintomo
e di una serie di altri sintomi è necessario approfondire l’anamnesi generale e l’anamnesi
specialistica. Innanzitutto, occorre chiedere al paziente se soffra di patologie
internistiche, come il diabete che abbiamo detto poter accelerare il deterioramento della
funzionalità auditiva e determinare l’insorgenza eventualmente di una presbiacusia
clinicamente evidente; se il soggetto è un bambino, occorre chiedere alla madre se abbia
sofferto di alcuni disturbi metabolici, se abbia assunto alcol in gravidanza, oppure se abbia
assunto farmaci di diversa natura, poiché questa è una possibile causa tossica di insorgenza
di sordità neurosensoriale in età molto precoce. Occorre chiedere al paziente se abbia
eseguito interventi chirurgici e se soffra di patologie neurologiche, nonché se sia in
trattamento per altre patologie (anamnesi farmacologica). A questo punto, terminata la
fase dell’anamnesi generale si deve eseguire una scrupolosa anamnesi specialistica, che
si concentra prevalentemente sui sintomi e segni di competenza audiologica. Quindi,
occorre valutare innanzitutto le caratteristiche dell’ipoacusia, chiedendo (1) la modalità
di insorgenza, se improvvisa o progressiva e (2) l’andamento temporale, se acuto o
cronicamente ingravescente o ancora se fluttuante e (3) la sede, che sia essa monolaterale
oppure bilaterale. Solitamente, il paziente con ipoacusia neurosensoriale non lamenta
alcun tipo di otalgia, che tuttavia può essere presente se la ipoacusia neurosensoriale
consegua ad una complicazione di una otite media che abbia generato una soluzione di
continuo che ne abbia determinato una propagazione nell’orecchio interno. Solitamente,
non si associa neanche otorrea.
Alla ipoacusia che è il principale dato che il soggetto riferisca, possono associarsi altri
sintomi come gli acufeni; il paziente può anche riferire di accusare vertigini che sono una
manifestazione assente nelle ipoacusie di trasmissione altro che nel caso in cui, ancora una
volta, una otite media non si complichi interessando l’orecchio interno e quindi il vestibolo
e/o i canali semicircolari, tal che ne consegua una ipoacusia di trasmissione per
danneggiamento dell’orecchio medio e vertigini per danneggiamento vestibolare. Le
vertigini labirintiche, cioè quelle che dipendono da un danno a carico del sistema
sensoriale della propriocezione speciale, sono violente ed invalidanti, non consentono al
soggetto di passare dalla posizione seduta a quella ortostatica e se colpiscono l’individuo
quando sia in ortostasi, questi cade a terra, ma non perché abbia avuto una perdita di
coscienza: il soggetto con vertigine labirintica è lucido, differentemente da un soggetto con
vertigine neurologica che può associarsi a perdita di coscienza. La durata della vertigine è
variabile da alcuni secondi finanche ad alcuni giorni e si presenta spesso accompagnata da
sintomi neurovegetativi come nausea, vomito, pallore e sudorazione. La vertigine può
essere definita come rotatoria soggettiva o rotatoria oggettiva a seconda che il soggetto
riferisca di avvertire sé stesso ruotare rispetto all’ambiente o viceversa, rispettivamente.
Una volta eseguita l’anamnesi, si esegue un esame obiettivo con l’otoscopio, che
consente di effettuare una ispezione. Inoltre, si esegue una valutazione oftalmologica, con
esame del fundus oculi, dei movimenti extraoculari e del nistagmo; per l’eventuale
valutazione oftalmologica ci si può anche valere della consulenza specialistica; inoltre vanno
valutati anche gli altri nervi cranici, per cui i movimenti oculari valuteranno la funzionalità
dei nervi dell’oculomozione (III, IV e VI paio), la sensibilità del territorio facciale valuta la
funzionalità del trigemino, il movimento dei muscoli facciali quella del VII paio, la deglutizione
valuta la funzionalità del nervo glossofaringeo, i movimenti delle corde vocali la funzionalità
del vago.
La prima valutazione, quella che precede la diagnostica strettamente audiologica, si
completa con l’esecuzione eventualmente di esami di laboratorio e di esami strumentali
come la TC dell’orecchio interno o la RMN con gadolino che è un mezzo di contrasto e che
può permettere di valutare l’eventuale intensità del liquido labirintico, giacché l’iperintensità
della lesione può voler significare che vi sia stata una flogosi, anche se la principale
indicazione alla Risonanza Magnetica nelle ipoacusie neurosensoriali si esegue al fine di
documentare/escludere un neurinoma dell’VIII. Il neurinoma, o schwannoma o
neurilemmoma, è un tumore benigno delle guaine dei nervi periferici che origina dalle cellule
di Schwann e che trova una delle sue principali sedi di espressione proprio a livello dell’VIII
paio di nervi cranici, dove frequentemente si localizza all’emergenza, cioè a livello
dell’angolo pontocerebellare. Il sospetto di un neurinoma acquisito dell’VIII deve insorgere
quando vi siano sordità neurosensoriali monolaterali e ingravescenti, ad andamento cronico
e progressivo. In alcuni casi, rari, la neurofibromatosi di von Recklinghausen può esprimersi
mediante dei neurilemmomi dell’VIII paio che in tal caso sono bilaterali e insorgono in
soggetti molto giovani. Gli esami di laboratorio che si richiedono in questi casi sono delle
indagini di ordine generale, come l’emocromo, il dosaggio degli elettroliti, degli ormoni
tiroidei e del TSH, degli ormoni sessuali; si richiedono in caso di clinica sospetta il VDRL, il
TPHA, l’FTA-ABS e l’ELISA che sono quattro test, di cui uno definito non-treponemico, per
la diagnosi della lue; si richiedono assetto lipidico e dosaggio della glicemia a digiuno e
OGTT, test di funzionalità epatica e renale. Nell’eventualità che la clinica sia sospetta, si
possono richiedere test che esplorino l’eventuale assetto autoimmune, come il dosaggio
della complementemia, il dosaggio degli autoanticorpi per l’artrite reumatoide e per il Lupus,
gli immunocomplessi circolanti.

• DIAGNOSTICA AUDIOLOGICA NELLE IPOACUSIE NEUROSENSORIALI


La diagnostica audiologica si vale di un ampio protocollo diagnostico, che comprende
una prima batteria di esami, cioè l’audiometria tonale, l’audiometria vocale e la
impedenzometria che vengono eseguiti sempre e comunque a prescindere dal tipo di
sordità che si riscontra.
Differentemente, indagini come l’esame vestibolare, il VEMPS, l’ABR e l’ASSR sono esami
che vengono eseguiti prevalentemente o esclusivamente per le sordità neurosensoriali.
1) ESAME AUDIOMETRICO TONALE
L’esame viene condotto esattamente con la stessa procedura con cui viene condotto nella
diagnosi delle ipoacusie di trasmissione, con la differenza che in questo caso le curve hanno
una morfologia differente: nel caso delle ipoacusie di trasmissione, le curve hanno una
precisa geometria che riferisce un determinato processo patologico, così si descrivono
curve di rigidità, curve di massa e curve di attrito. Differentemente, nelle ipoacusie
neurosensoriali, le curve vengono denominate in considerazione della differente geometria,
per cui si descrivono curve in discesa, curve pantonale, curve a corda molle, curve in
salita.
La curva a corda molle viene
definita tale dal momento che,
registrando le soglie uditive dei due
orecchi sia per la via di trasmissione
aerea che per la via di trasmissione
ossea mostra una perdita maggiore
a carico delle frequenze centrali,
mentre le frequenze più acute e
quelle più gravi sono caratterizzate
dalla presenza di una soglia uditiva
leggermente più preservata. In
questo caso, il fatto che si tratti di
una sordità neurosensoriale è anche suggerito dal fatto che si riscontra la presenza di una
perdita pressoché uguale sia per quanto riguarda la via di trasmissione ossea che la via di
trasmissione aerea: nelle forme di ipoacusia di trasmissione, differentemente, sussiste
sempre un gap tra la soglia uditiva della via di trasmissione ossea a quella della via di
trasmissione aerea. Alle volte, la presenza di una curva a corda molle può deporre a favore
di una sordità neurosensoriale di tipo genetico.
La curva in discesa,
differentemente dalla precedente,
si caratterizza per la presenza di
una progressiva perdita
all’aumentare della frequenza del
tono, cosicché la soglia uditiva sia
evidentemente aumentata per le
frequenze più alte mentre per le
frequenze più gravi la soglia uditiva
è più o meno preservata. In questo
caso come in tutti gli altri, se la
sordità risulta essere bilaterale le
due curve per i due orecchi saranno uguali e avranno un decorso accoppiato, mentre nel
caso che si tratti di una forma monolaterale solo una delle due curve sarà alterata. In questo
caso, come nelle altre forme di ipoacusia neurosensoriale si riscontra la presenza di un
accoppiamento della perdita uditiva per la via aerea e per la via ossea, tra le quali il gap è
preservato nel caso che si tratti di una sordità di trasmissione. Come per le sordità di
trasmissione, anche per le ipoacusie neurosensoriali, se monolaterali, si esegue il test di
Weber audiometrico, utilizzando un vibratore osseo collegato ad un audiometro. In questo
caso, posizionando il vibratore osseo al centro, esattamente come nella prova di Weber con
il diapason il soggetto lateralizza il suono nell’orecchio normo-udente o meglio udente. A
questo punto, si può valutare la soglia uditiva per la via ossea dell’orecchio normo-udente,
mentre invece esisterà una reale problematica nella valutazione della soglia uditiva per la
via ossea dell’orecchio patologico, che si esegue sempre ponendo il vibratore osseo sulla
mastoide. Pur posizionando a questo livello in prossimità dell’orecchio malato il vibratore
osseo, il soggetto riferirà il suono lateralizzato sempre all’orecchio sano, per cui si utilizza in
questo caso un artificio diagnostico: si somministra all’orecchio normo-udente uno stimolo
mascherante, cioè un suono assordante che impedisca all’orecchio normale la
partecipazione alla percezione dello stimolo tonale generato dal vibratore osseo posto sul
mastoide controlaterale; si stima in questa maniera la soglia auditiva per la via ossea
dell’orecchio patologico, indicandola sul grafico con una cuspide, non aperta ma chiusa.
L’operazione di mascheramento si può anche eseguire per la valutazione della soglia uditiva
per la via aerea, soprattutto in questo caso quando all’aumentare delle frequenze aumenti
il gap tra la soglia auditiva aerea dell’orecchio patologico e quella dell’orecchio malato.
La curva pantonale è un altro classico esempio della presenza di una sordità
neurosensoriale e anche in tal caso nell’orecchio o negli orecchi patologici, si riscontra una
assoluta uguaglianza tra la curva che descrive l’andamento della soglia uditiva aerea e
quella della via ossea.
Esiste, infine, un altro esempio classico di curva che si può riscontrare nell’ambito delle
sordità neurosensoriali, cioè una curva che presenta una ipoacusia neurosensoriale
bilaterale, caratterizzata da un mantenimento pressoché normale delle soglie uditive a
frequenze basse fino circa a 300 Hz, dopodiché all’aumentare della frequenza si riscontra
un progressivo aumento della soglia uditiva che raggiunge il massimo a 4000 Hz circa, per
poi risalire. In altre parole, la soglia uditiva aumenta all’avvicinarsi a frequenze acute di 4000
Hz: questo è il classico pattern audiometrico tonale di un paziente con ipoacusia
neurosensoriale di un soggetto che lavori in un ambiente rumoroso.
2) ESAME AUDIOMETRICO VOCALE
L’esame audiometrico vocale non viene sempre eseguito, ma questo non significa che non
sia un esame importante per la diagnosi di una ipoacusia. L’esame consiste nel dotare il
paziente di alcune cuffie (si esplora mediante via di conduzione aerea del suono), che sono
collegate ad un audiometro che trasmette a determinata intensità delle parole bilanciate,
bisillabiche (cane, pane, cesto, cerchio etc…). Si istruisce il paziente affinché egli,
ascoltate le parole emesse ad una determinata intensità le ripeta, quindi si esegue un
conteggio della percentuale di parole che il soggetto abbia ripetuto correttamente.
Chiaramente, le parole emesse dall’audiometro vocale non vengono emesse a caso, ma
seguendo un ordine costituito da liste di dieci parole ognuna. I dati che vengono raccolti
con questo test sono inseriti su di un grafico, che presenta in ascissa l’intensità e in ordinata
la percentuale di parole correttamente ripetute. In questi casi, quindi, si costruiscono delle
curve, che normalmente hanno una morfologia a S italica; si individuano inoltre delle
soglie, che sono definite soglia di detenzione, soglia di percezione e soglia di
intellezione, rispettivamente definite come la soglia di intensità alla quale il soggetto
pronuncia correttamente lo 0%, il 50% e il 100% delle parole emesse dell’audiometro.
Normalmente, per i soggetti normo-udenti, la soglia di detenzione si ha alla intensità di 0
dB, quella di percezione a 10 dB e quella di intellezione a 30 dB. Nei soggetti con una
sordità di trasmissione, la curva mantiene circa l’andamento a S italica e comunque la soglia
di intellezione viene raggiunta, sia pure a intensità più elevata, differentemente dai casi di
ipoacusia neurosensoriale in cui pur all’aumentare dell’intensità non si riscontra un
raggiungimento della soglia di intellezione.

Addirittura, nelle ipoacusie neurosensoriali all’aumentare dell’intensità del suono si verifica


una riduzione della percentuale di parole correttamente ripetute e questo dipende dal
cosiddetto fenomeno del roll-over. Il roll-over si verifica spiega facendo riferimento al fatto
che di norma le cellule acustiche aumentano la propria sensibilità quando vengano stimolate
dai suoni e contemporaneamente si abbassano la soglia del fastidio e la soglia del dolore.
Per questo motivo, nelle sordità neurosensoriali l’eventuale perdita delle cellule acustiche
riduce questo effetto di ipersensibilità che è particolarmente utile quando i suoni abbiano
alta intensità: il risultato è che all’aumentare della intensità il soggetto con ipoacusia
neurosensoriale senta peggio e questo è estremamente tipico sia delle sordità cocleari
che delle sordità retrococleari, cioè quelle che dipendono da danni a carico del nervo
cocleare.
3) IMPEDENZOMETRIA
L’impedenzometria è un esame nel quale si distinguono un timpanogramma da una
reflessometria, essendo quest’ultima l’indagine che esplora l’efficacia del riflesso
stapediale, che può essere normale, assente o ritardato, quest’ultimo caso nel momento
in cui l’evocazione del riflesso avvenga a intensità sonore più elevate. Questa indagine è
utile per discriminare una sordità neurosensoriale cocleare da una retrococleare:
1. Sordità neurosensoriale cocleare:
a) Riflesso stapediale preservato
b) Test di Anderson normale
2. Sordità neurosensoriale retrococleare:
a) Riflesso stapediale assente
b) Riflesso stapediale ritardato
c) Test di Anderson alterato
Evidentemente, nell’ambito delle sordità di trasmissione non si può riscontrare mai alcuna
alterazione del riflesso stapediale, per cui non ha neanche senso studiarlo, dal momento
che si tratta di una funzione, quella riflessogena, strettamente neurosensoriale e più
specificatamente nervosa. Esiste anche un altro test che è utile per discriminare una sordità
neurosensoriale cocleare da una retrococleare e che corrisponde al test di Anderson.
L’esame impedenzometrico valuta l’elasticità del sistema timpano-ossiculare ai
cambiamenti di pressione appositamente indotti nel condotto uditivo esterno e da questo ne
viene che esistano delle condizioni, in cui in qualche maniera viga una alterazione del
condotto uditivo esterno (stenosi serrate, flogosi importanti, malformazioni del condotto,
tappo di cerume prima della rimozione) oppure una perforazione della membrana del
timpano, nelle quali non sia possibile eseguire questa indagine. I cambiamenti di pressione
nel condotto uditivo esterno vengono ottenuti previa apposizione di una sonda che è dotata
di un tappo che chiude l’orifizio di comunicazione del condotto uditivo esterno: si ottiene in
questo modo una camera di un centimetro cubico delimitata esternamente dal tappo della
sonda e internamente dalla membrana del timpano e per il tramite della sonda utilizzata
viene somministrata o sottratta aria, al fine di indurre degli incrementi o delle riduzioni di
pressione nella camera chiusa, rappresentata dal condotto uditivo esterno: in questo modo,
si esplora l’elasticità del sistema timpano-ossiculare che fisiologicamente si pone in
vibrazione all’arrivo dell’onda sonora che di fatto non è altro che un’onda pressoria che si
propaga per il tramite di un mezzo elastico di conduzione. Come detto, l’esame
impedenzometrico si compone di due parti, cioè la timpanometria e la reflessologia
stapediale: con il primo dei due esami si esplora la membrana del timpano.
Il timpanogramma non è altro che un grafico che mette in relazione una variabile
indipendente, cioè la pressione dell’aria (in cmH2O) vigente nel condotto uditivo esterno e
variata in funzione dell’attività della sonda utilizzata per eseguire l’esame, e la compliance
o mobilità della membrana del timpano: si possono riscontrare tre differenti grafici, che
vengono definiti rispettivamente timpanogramma di tipo A, timpanogramma di tipo B e
timpanogramma di tipo C.
Il timpanogramma A è il rilevo timpanometrico di un soggetto normoudente, nel quale il
picco della compliance della membrana del timpano si riscontra al valore di pressione pari
a zero, con una emi-curva ascendente man mano che dai valori negativi ci si avvicini allo
zero e con una emi-curva discendente a destra, man mano che ci si allontani dallo zero
verso valori pressori positivi.
Diversamente, nel momento in cui il picco della mobilità timpanica e l’intera curva siano
spostati interamente verso valori negativi si definisce il timpanogramma di tipo C.

Ancora, quando il timpanogramma non documenti alcun picco, si definisce


timpanogramma di tipo B.
Sia il timpanogramma di tipo B che il timpanogramma di tipo C sono espressione di una
condizione di carattere patologico; ad esempio il timpanogramma di tipo B si riscontra
sistematicamente quando si abbia la presenza di una patologia che determini occupazione
di spazio nella cassa del timpano oppure quando si abbia un irrigidimento di questa, tali
sono ad esempio le otiti medie e le timpanosclerosi che sono nient’altro che degli esiti fibro-
cicatriziali di otiti medie croniche che alterino la normale elasticità della membrana. Il
timpanogramma di tipo C, differentemente, è espressione della presenza di una perdita di
aria per insufficienza tubarica, tal che si abbia una riduzione della pressione vigente nel
cavo del timpano che determina una possibile retrazione della membrana; questa
condizione non sempre si associa alla presenza di una perdita auditiva, ma può essere alla
base della insorgenza di una tasca di retrazione (soprattutto sulla pars flaccida della
membrana) che è una teoria eziopatogenetica del colesteatoma otomastoideo,
precisamente del colesteatoma otomastoideo da retrazione. Una volta riscontrata la
presenza di un timpanogramma A o C, si prosegue con la seconda parte dell’esame
impedenzometrico che corrisponde alla reflessologia stapediale, che consiste in un
esame che esplora l’efficacia del riflesso stapediale. Il riflesso stapediale, anche noto come
riflesso acustico-facciale, si compone come tutti i riflessi di un circuito del quale si possono
individuare:
1. Braccio afferente: è determinato dalle fibre del nervo acustico che registrano e
recano informazioni sulla intensità e la frequenza sonora.
2. Stazione intermedia di ritrasmissione:
a) Complesso olivare superiore
b) Corpo trapezoide
3. Braccio efferente: fibre motrici del nervo stapedio, ramo collaterale del nervo
facciale, rilasciato nella membrana del timpano (insieme al grande petroso
superficiale e alla chorda tympani).
Questo è un riflesso ipsilaterale e controlaterale che regola la tensione del sistema timpano-
ossiculare in rapporto all’energia sonora (intensità del suono) posseduta dal suono quando
questa superi di circa 65 dB la soglia uditiva: di norma, essendo la soglia uditiva dei
normoudenti pari a 10-20 dB il riflesso è efficace già a 70 dB circa. Quindi, perché si possa
avere un riflesso stapediale normoergico è necessario che vi sia un funzionamento
normale del circuito che ne assicura l’esistenza, tal che in tutte le patologie in cui sussista
un danno a carico della via nervosa, cioè le ipoacusie neurosensoriali retrococleari il
riflesso stapediale è assente o ipo-efficace, come accade nel caso di un neurinoma
dell’acustico che è la principale causa di sordità neurosensoriale retrococleare (le altre
principali cause, come presbiacusia, sindrome di Ménière, ipoacusia da rumore e sordità
improvvisa idiopatica, pertengono ad un danno cocleare, solitamente). Nel caso di
versamenti endotimpanici (otite media acuta purulenta, otite media sieromucosa,
emotimpano postraumatico), di irrigidimenti (timpanosclerosi) e di masse occupanti spazio
(colesteatoma otomastoideo o tumore glomico, meningocele timpanico) si riscontra una
ipoacusia di trasmissione associata a timpanogramma di tipo B, mentre esiste una patologia
che pur esitando in una sordità di trasmissione determina la presenza di un timpanogramma
A e di una reflessologia stapediale patologica: tale è l’otosclerosi. Si definisce otosclerosi
una patologia che comporta una otodistrofia della capsula otica conseguentemente ad una
otospongiosi, che colpisce prevalentemente la platìna della staffa determinando una
anchilosi stapedo-ovalare. Si tratta di una patologia giovanile, che può coinvolgere sia la
staffa che la coclea che entrambe (otosclerosi stapedo-ovalare con via ossea migliore di 40
dB all’audiometria tonale, otosclerosi cocleo-stapediale con via ossea peggiore di 40 dB
all’audiometria tonale). Nel momento in cui si esprima con una anchilosi stapedo-ovalare
determina una ipoacusia trasmissiva caratterizzata da un rilievo caratteristico che è quello
della curva di rigidità con deriva della soglia uditiva della via aerea alle basse frequenze e
bilateralmente. In tal caso, essendovi una rigidità della staffa, le vibrazioni non vengono
trasmesse e non trasmettendosi le vibrazioni si verifica una assenza del riflesso stapediale.
Quindi, i rilievi caratteristici dell’otosclerosi (e di tutte le condizioni di anchilosi stapedo-
ovalare) sono (1) ipoacusia di trasmissione con curva di rigidità in audiometria tonale, (2)
timpanogramma di tipo A e (3) riflesso stapediale assente. In questo caso, la reflessologia
stapediale determina presenza di un piccolo spike positivo all’inizio dell’esame, un ritorno
isoelettrico e un nuovo spike positivo: si parla di riflesso on-off. Differentemente, esiste un
riflesso giant on-off in cui si riscontra spike positivo, deflessione negativa, ritorno
isoelettrico e nuovo spike positivo. Come detto, il riflesso stapediale si innesca allorquando
si abbia un suono di intensità superiore alla soglia, difatti si definisce soglia del riflesso
stapediale la minima intensità sonora capace di innescare succitato riflesso. Il calcolo della
soglia minima del riflesso stapediale è un aspetto di estrema importanza dal momento che
è una informazione necessaria al calcolo del cosiddetto Gap di Metz, espressione con cui
si intende la differenza esistente tra la soglia minima del riflesso stapediale e la soglia
uditiva del paziente calcolata con l’audiometria. Ad esempio, un soggetto che abbia una
soglia uditiva di 40 dB e una soglia minima del riflesso stapediale pari a 90 dB avrà un Gap
di Metz pari a 50 dB. Il valore di 50 dB è un valore di riferimento nel calcolo del Gap di Metz
per le ipoacusie neurosensoriali, poiché assume il significato di valore soglia:
1. Gap di Metz > 50 dB: ipoacusia neurosensoriale retrococleare
2. Gap di Metz < 50 dB: ipoacusia neurosensoriale cocleare
Il calcolo del Gap di Metz è estremamente importante poiché sfortunatamente alle volte
nelle sordità neurosensoriali retrococleari (nelle quali la reflessologia stapediale dovrebbe
documentare assenza del riflesso acustico-facciale) il riflesso stapediale è presente.
Possiamo, quindi, concludere, dicendo che ogniqualvolta con le prove con diapason e con
l’audiometria (tonale e vocale) si indirizzi la diagnosi verso una sordità neurosensoriale la
reflessologia stapediale fornisce importanti informazioni, circa la presenza (=cocleare) o
l’assenza (=ipoacusia retrococleare) del riflesso e, quando sia presente, circa il Gap di Metz
che supera i 50 dB nelle sordità neurosensoriali retrococleari nelle quali il riflesso sia
presente, a differenza delle sordità neurosensoriali cocleari nelle quali il Gap di Metz si
mantiene al di sotto della soglia di 50 dB.
4) POTENZIALI ACUSTICI EVOCATI TRONCOENCEFALICI
Per comprenderne l’essenza è necessario considerare la via uditiva, che nasce
perifericamente con il nervo cocleare, le cui fibre raggiungono il ponte, laddove si trovano i
nuclei cocleari, distinti in nucleo cocleare dorsale e nucleo cocleare ventrale, da cui
originano ulteriori fibre che, decussando raggiungono il complesso olivare superiore e
quindi entrano nella costituzione del lemnisco laterale, che ascende per il tronco encefalico
raggiungendo il collicolo inferiore della lamina quarigemina, da cui si dipartono delle fibre
che ritrasmettono a livello del corpo genicolato mediale del talamo. Dal talamo originano
delle fibre afferenti alla corteccia cerebrale, alcune delle quali imboccano la cosiddetta
radiazione acustica, un fascio di fibre della via uditiva centrale che raggiungono il lobo
temporale transitando per la capsula interna.
VIE UDITIVE CENTRALI

Area acustica
primaria
(area 41)
Aree acustiche
secondarie Corpo
(aree 22 e 521) genicolato
Tubercolo mediale
quadrigemino
inferiore
VIA ACUSTICA
AFFERENTE Lemnisco
laterale

Corpo Nucleo cocleare


restiforme dorsale

Nucleo cocleare
ventrale

Ramo cocleare del


nervo acustico
Organo di Corti

Ganglio di Corti

In passato, i potenziali della via acustica centrale venivano studiati mediante una sorta di
elettroencefalografia, chiamata ERA, acronimo per Electric Responsis Audiometry e
utilizzata per studiare la funzione uditiva in soggetti non collaboranti e per studiare l’attività
corticale a seguito della somministrazione di uno stimolo sonoro. Questa indagine, tuttavia
si rilevava particolarmente inefficace per i pazienti neurologici o sotto trattamento con
psicofarmaci per cui è stata successivamente sostituita con un’altra indagine, che è quella
dei potenziali acustici evocati troncoencefalici, introdotta negli anni Ottanta del secolo
scorso. L’esito dell’indagine è un grafico che mostra cinque onde differenti e tra una e l’altra
si riscontra un tempo di latenza entro una finestra temporale di 10 ms entro cui compaiono
tutt’e cinque le onde.
Il tempo di latenza per la comparsa della prima onda è di 1.4 ms, il tempo di latenza per
la comparsa della seconda onda è di 2.4-2.6 ms, mentre per la terza onda la latenza è di
3.4 ms; la quarta onda e la quinta onda compaiono con una latenza dalle precedenti di
4.6-4.7 ms e 5.5-5.6 ms rispettivamente.
Potenziali evocati acustici troncoencefalici

In passato, si tendeva ad associare strettamente le cinque latenze di comparsa delle onde


ai cinque punti di ritrasmissione della via fino al tronco encefalico, vale a dire la
ritrasmissione tra cellule acustiche e sinapsi del nervo, tra fibre del nervo e nuclei cocleari,
tra nuclei cocleari e complesso olivare, tra complesso olivare superiore e lemnisco laterale,
tra lemnisco laterale e collicolo inferiore della lamina quadrigemina; la sesta e la settima
onda, che sono due onde ulteriori, esprimono la ritrasmissione tra il collicolo inferiore della
lamina quadrigemina e il corpo genicolato mediale e tra questi e la corteccia auditiva
dell’area acustica primaria.
Questa stretta associazione si è progressivamente perduta e si è dapprima approdati alla
concezione che le prime tre onde descrivessero l’attività di ritrasmissione a livello della parte
caudale della via acustica e le ultime due a livello della parte rostrale della via acustica
tronco-encefalica. In realtà, anche questa concezione si è perduta dal momento che ogni
onda è il risultato dell’attività elettrica di ritrasmissione in un punto della via e delle altre
precedenti, per cui alla fine quella delle onde che modernamente viene valutata per studiare
la funzionalità auditiva è la quinta onda. Questa è un’indagine che si effettua in un
ambiente insonorizzato e isolato dal punto di vista elettrico ed elettromagnetico per
evitare interferenze; il paziente viene sdraiato su un lettino e quindi gli si attaccano mediante
una pasta conduttiva degli elettrodi. Si producono due tracciati, uno per l’orecchio stimolato
omolateralmente e l’altro per l’orecchio stimolato controlateralmente; in quest’ultimo,
mancheranno le prime due onde, giacché la via acustica controlaterale viene stimolata a
livello del complesso olivare superiore, dalle fibre che decussano dai nuclei cocleari ventrali
e dorsali omolaterali rispetto allo stimolo acustico.
Il tracciato patologico è destrutturato, le onde non sono visibili o nel qual caso fossero
visibili hanno dei tempi di latenza anomali e questo descrive la patologica perdita della
funzione neurosensoriale; le informazioni di questo test vengono integrate con quelle di altri
test, come quelli audiometrici tonali e vocali e quelli di reflessometria. Questa indagine
permette sostanzialmente di affinare la diagnosi: solitamente nelle sordità neurosensoriali
cocleari il tracciato è alterato ma simile alla norma, differentemente dalle sordità
neurosensoriali retrococleari, in cui il tracciato è totalmente destrutturato e spesso l’unica
onda visibile è la quinta, che peraltro ha una latenza estremamente elevata rispetto a tutte
le altre. Questo è un test molto importante da eseguire giacché permette di affinare la
diagnosi, soprattutto in merito alla possibilità di recupero dell’udito che potrebbe aversi nelle
forme cocleari mentre non è possibile averlo nelle forme retrococleari.
La seconda applicazione dei potenziali acustici evocativi tronco-encefalici è quella della
ricerca della soglia uditiva, nei soggetti non collaboranti come i bambini o che fingano una
sordità per altre motivazioni. In questo caso, si può proceder somministrando un click
sonoro a intensità elevata, per poi diminuirla fino a quando non si riscontra più alcun tipo di
onda sul tracciato: in questo modo si sarà trovata la soglia uditiva riferita ad uno stimolo
acustico pluri-frequenziale come il click centrato a 2000 Hz e 4000 Hz, per cui la soglia
uditiva sarà riferita essenzialmente a queste due frequenze.
In passato, prima della risonanza magnetica, i potenziali elettrici tronco-encefalici venivano
anche utilizzati per il sospetto e la diagnosi di sclerosi multipla insieme con la puntura
lombare, che ora non si utilizzano più dal momento che la Risonanza Magnetica è
conclusiva per la diagnosi. Qualora i potenziali acustici siano invalidati da malattie
neurologiche o per la ricerca della soglia uditiva in pazienti non collaboranti, si può eseguire
la elettrococleografia, un’indagine poco utilizzata che permette di derivare i potenziali
periferici vale a dire il potenziale microfonico cocleare e il potenziale d’azione del nervo
cocleare; queste valutazioni si eseguono mediante un elettrodo ad ago che viene
posizionato nell’orecchio, oltrepassando la membrana del timpano e poggiandosi sul
promontorio.
5) OTOEMISSIONI ACUSTICHE EVOCATE
È un’indagine recente, nata no più di trent’anni fa che deriva dall’assunto fisiologico per cui
la coclea emette dei suoni, che possono essere spontanei ed evocati, prodotti in risposta ad
uno stimolo sonoro. Si tratta di potenziali che si generano a seguito dei movimenti delle
cellule acustiche sulla membrana basilare e sulle cellule ciliate. Sono suoni di bassissima
intensità, di 1-2 dB, per cui non percepiti dal nostro orecchio, però un’amplificazione
particolare può determinarne la registrazione. In un tipico tracciato, si notano due
configurazioni ad onda con picchi stretti (una di colore bianco e una di colore giallo) e di
queste una indica il suono incidente e una il suono riflesso dalla coclea. Non si parla di
intensità, ma di frequenza, quindi se il suono incidente è di 1000 Hz, la coclea risponde con
un suono di 1000 Hz di bassa intensità per cui non percepito dall’orecchio. Sono delle
emissioni dovute all’attività delle cellule ciliate esterne, quindi sono presenti in tutti gli
orecchi in cui le cellule ciliate esterne sono normo-funzionanti. Se ci sono danni della
coclea, le cellule ciliate esterne sono quelle che più precocemente tendono a subire danni
e a perdere la propria funzione, motivo per cui in questi casi non si registreranno le
otoemissioni acustiche evocate. Quindi, si tratta di una ulteriore indagine che conferma
l’attività normale della coclea o un’attività patologica della coclea. A differenza degli altri
esami, l’assenza dell’emissione otoacustica indica che in caso di sordità neurosensoriale
c’è un danno a livello della coclea, invece la presenza delle otoemissioni acustiche indica
un retrococleare. Anche questa indagine non si esegue mai di fronte ad una sordità di
trasmissione.
Oggi questa indagine è usata quasi esclusivamente come screening uditivo neonatale,
quindi solo nei bambini appena nati. Da 5-6 anni è una pratica obbligatoria in tutti i reparti
neonatali per uno screening uditivo neonatale nei primissimi giorni di vita. La presenza delle
otoemissioni acustiche indica un’attività cocleare normale e si ritiene che il bambino sia
normo-udente oppure che abbia una sordità retro-cocleare, che riguarda il nervo cocleare,
ma nei bambini le cosiddette neuropatie uditive sono molto rare; invece l’assenza delle
otoemissioni acustiche indica un’assenza dell’attività cocleare, quindi il bambino è affetto
da sordità. Per documentare nel bambino ai primi mesi di vita una neuropatia uditiva
dovrebbe essere eseguito ulteriormente un altro test di screening detto ABR evocato, o
potenziali acustici tronco-encefalici automatici che però non sono obbligatori per legge e
quindi solo alcuni centri nascita lo effettuano.

• SORDITÀ INFANTILI
Le sordità infantili riguardano i bambini in età pediatrica o neonatale e sono delle riduzioni
della percezione sonora al pari di tutte le altre ipoacusie, differentemente dalle quali, tuttavia,
presentano una problematica legata all’esplorazione diagnostica della patologia stessa, dal
momento che i bambini non offrono collaborazione, spesso sono diffidenti verso le indagini
di natura medica, sono disinteressati agli stimoli acustici normalmente utilizzati in audiologia.
In passato, per la diagnosi di una ipoacusia infantile veniva utilizzata la reattometria, una
particolare indagine che consente di esplorare le risposte del neonato a stimoli intensi.
Sostanzialmente, con questa indagine viene valutato se alla somministrazione di uno
stimolo intenso il bambino si sveglia, piange, muove gli arti. Questa indagine, tuttavia
presenta una percentuale di falsi positivi del 2% per cui viene oggi utilizzata solo come test
di screening, al quale affiancare indagini che siano più specifiche; in realtà oggi la
reattometria è poco utilizzata poiché sostituita a scopo diagnostico da altri esami come i
potenziali acustici troncoencefalici evocati e le otoemissioni evocate. L’indagine dei
potenziali acustici evocati è una indagine sicura essendo una indagine di natura
elettrofisiologica, anche se è opportuno in questi casi affidarsi anche a delle indagini
comportamentali. Una di queste indagini è il BOEL test, che impiega una scatola
contenente stimoli sonori evocati ad esempio da campanelli e da strumenti a scopo ludico
come dei bastoncini rossi o degli anelli concentrici. Il BOEL test si esegue dal quarto mese
di vita fino al settimo all’incirca e valuta l’attenzione selettiva del bambino quando viene
fatto scuotere il campanello ai lati della testa. Il BOEL test è una indagine nata per valutare
le risposte psico-comportamentali del bambino, per cui è un test che l’audiologia ha mutuato
dalla neuropsichiatria infantile.
Dagli anni Ottanta del secolo scorso, degli audiologi italiani hanno messo a punto l’AMBO
test, che si esegue nei bambini dai sei ai dodici mesi di vita, al fine di valutare la
funzionalità uditiva. Questo test si vale di una valigetta nella quale sono contenuti degli
strumenti sonori, ognuno tarato ad intensità differente. L’emissione sonora, in tal caso,
avviene alle spalle del bambino e si valuta se questi reagisca voltandosi alla comparsa del
suono. Può anche essere utilizzato per valutare l’eventuale efficacia delle protesi acustiche.
Un altro possibile test che si può eseguire è il COR o teatrino di Suzuki-Ogiba; il bambino
non indossa cuffie ed è al lato della madre; delle casse sono presenti ai lati della stanza in
cui si esegue il test e si cerca di istruire il bambino affinché spinga un bottone ogniqualvolta
percepisca un suono; per la migliore riuscita del test, si può associare una ricompensa ogni
volta che il bambino spinga il pulsante, che può essere un cartone animato o con
l’illuminazione di giocattoli presenti innanzi al bambino. Infine, il PEEP show si vale della
ricerca della soglia uditiva mediante delle cuffie per via aerea e di un vibratore per la via
ossea; viene eseguita nei bambini di età almeno tre anni. Generalmente, dopo i cinque anni
si possono eseguire esami audiologici standard come l’audiometria vocale e quella tonale.

• PROTESI AURICOLARI
Occorre considerare che oggi la sordità è un handicap che colpisce soprattutto l’età
evolutiva e tanto è vero questo che circa il 25 % della popolazione
ultrasessantacinquenne e prima dei settantacinque anni presenti una significativa perdita
uditiva; nei soggetti ultrasettantacinquenni, la percentuale di sordità sale al 50%, quindi,
stanti i dati di popolazione, in Italia ci sono 5 milioni di persone che avrebbero bisogno di
un’amplificazione acustica. Questa offre dei vantaggi, come una migliore localizzazione
del suono nello spazio, una migliore discriminazione dei suoni, a fronte tuttavia di una
serie di controindicazioni o di effetti di uso invalidante soprattutto per le persone non più
giovani, come per esempio i problemi di manualità, gli aspetti psicologici ed economici.
La protesi deve poter convogliare il suono sul microfono, amplificarlo e andare a
stimolare il nostro orecchio tramite un ricevitore pur se comunque di protesi oggi esistano
diverse tipologie. Le protesi più comuni sono le protesi retroauricolari e sono forse quelle
più funzionali, cioè che possono adattare meglio, che forniscono una migliore
amplificazione. Come esistono delle protesi retroauricolar ne esistono delle altre
endoauricolari, ad oggi addirittura non più visibili dall’esterno, e sono protesi che
amplificano bene per sordità non molto gravi, quindi sono appannaggio di sordità medie
o medio-gravi. Le protesi che si usano per le sordità gravi sono le protesi impiantabili
chirurgicamente mediante dei veri e propri interventi di impianto, benché siano visibili
dall’esterno. Una protesi impiantabile è la Vibrant che è collegata addirittura alla apofisi
lunga dell’incudine, ha una parte esterna per la conduzione per via ossea e si può usare sia
per forme trasmissive che neurosensoriali. Importanti sono anche gli impianti cocleari, in
cui attraverso un intervento chirurgico si inserisce un elettrodo all’interno della coclea,
risultando questi utili dal momento che forniscono una ripresa ottimale della funzionalità e li
si utilizza i tutti i pazienti in cui non si possa usare una protesi convenzionale, però ha come
difetto la grande vistosità dall’esterno e ingombro. È appannaggio sia nei bambini che negli
adulti, senza limiti di età. Gli interventi si fanno in Italia solo dopo il primo anno di età, prima
non è consentito farli, a meno che non si abbia la certezza che la coclea sia già andata in
degenerazione come avviene nei bambini affetti da meningite che abbia provocato una
sordità totale bilaterale.
Diagnostica nella patologia vestibolare

La patologia vestibolare periferica dà luogo ad un sintomo preminente rispetto a tutti gli


altri che è la vertigine vestibolare o periferica, che assume delle caratteristiche
notevolmente differenti rispetto a quelle della vertigine centrale o neurologica. Infatti, sulla
base della sede del danno, quindi su di un criterio definito almeno in parte eziologico, si
distingue una vertigine centrale o neurologica determinata da danni a carico dei nuclei
vestibolari, della sostanza reticolare o del cervelletto rispetto ad una vertigine periferica,
che consegue alla presenza di un danno che si istituisce a carico dei recettori vestibolari o
del nervo vestibolare. Queste due distinte forme di vertigine presentano anche delle
caratteristiche differenziali nei termini della modalità con cui si presentano. Si suole
distinguere due forme di vertigine, che sono la vertigine rotatoria soggettiva e la vertigine
rotatoria oggettiva in considerazione della differente modalità con cui si presentano, dal
momento che nel caso della vertigine rotatoria soggettiva è il soggetto che avverte la
rotazione di sé stesso rispetto all’ambiente o rispetto al proprio asse, differentemente dalla
vertigine rotatoria oggettiva in cui il soggetto riferisce una rotazione dell’ambiente rispetto a
sé stesso. Nella maggior parte dei casi, la vertigine rotatoria soggettiva è di competenza
neurologica o consegue a delle alterazioni che pertengono a patologie internistiche
differentemente dalla vertigine rotatoria oggettiva, che spesso è di competenza dello
specialista che si occupi di vestibologia. Occorre tenere presente che molto spesso la
vertigine periferica, oltre che essere una vertigine rotatoria oggettiva presenta delle
caratteristiche precise, dal momento che è violenta e nella maggior parte dei casi costringe
il paziente a fermarsi se deambula o a sedersi addirittura. In questo caso, la vertigine
periferica assume perfettamente i connotati di quello che prende il nome di deficit
vestibolare acuto. La vertigine periferica spesso si associa alla presenza di segni
neurovegetativi come il pallore, la nausea e il vomito, la bradicardia e la sudorazione,
potendosi anche associare a dei segni audiologici, come la presenza di acufeni o anche
di ipoacusie. La vertigine periferica non si accompagna inoltre a perdita di coscienza,
differentemente dalla vertigine centrale o neurologica che raramente si accompagna a segni
neurovegetativi che invece spesso si associano alla presenza di una patologia vestibolare
che si manifesti con vertigine oggettiva. Peraltro, la vertigine periferica ha spesso un esordio
più subdolo e meno intenso e quasi mai si associa ad un attacco vertiginoso acuto.
Quando si sospetti la presenza di una patologia vestibolare la prima manifestazione da
osservare, eventualmente, è costituita dal nistagmo, che è un movimento coniugato degli
occhi scatanato soprattutto da una vertigine periferica e raramente da una vertigine centrale.
Il nistagmo è costituiti di due distinte fasi, di cui la prima definita fase lenta, che in realtà è
la vera espressione clinica della patologia, e la seconda definita fase veloce che
corrisponde ad un movimento compensatorio degli occhi determinato dalle vie nervose. Per
studiare il nistagmo, generalmente si chiede al paziente di fissare una mira, che può essere
sia il dito dell’operatore dell’esame obiettivo che una penna, sempre tenuta in mano
dall’esaminatore. In questa prima valutazione, la mira dapprima viene tenuta fissa in
posizione centrale e successivamente si esegue spostamento a destra e a sinistra,
lentamente, dell’oggetto che il paziente stia fissando.
Il nistagmo, nelle forme periferiche, è generalmente unidirezionale, inibito dalla fissazione
dello sguardo nel senso che viene rallentato quando lo sguardo del soggetto è fisso e si
tratta di movimenti ritmici. Differentemente, nelle forme centrali non è inibito dalla fissazione
e si caratterizza per una serie di movimenti multidirezionali.

• SINDROMI VESTIBOLARI
L’espressione sindrome vestibolare intende genericamente la presenza di una alterazione
a carico del sistema vestibolare che consegue ad un danno a carico di una delle strutture
anatomiche che entrano nella costituzione della sensibilità propriocettiva speciale. Occorre
considerare, quindi, che sulla base della sede del danno si definiscono forme di sindrome
vestibolare periferica e centrale, essendo la prima associata a danni a carico dei canali
semicircolari e/o del vestibolo oppure del nervo vestibolare, mentre nel caso della seconda
si riscontrano danni a carico dei nuclei vestibolari, che sono situati tra bulbo e ponte a livello
della losanga del quarto ventricolo, della sostanza reticolare oppure del cervelletto che è il
centro superiore, o centro di integrazione, di elaborazione delle informazioni vestibolari.
1) ANAMNESI
Nel caso del sospetto di una vertigine, o quando lo stesso soggetto riferisca una vertigine,
è necessario che si esegua una corretta anamnesi, che alle volte nella diagnostica della
patologia vestibolare è l’aspetto più complesso e per il quale si debba disporre di una certa
esperienza sul campo, ma è parimenti anche l’aspetto della diagnosi maggiormente
sottovalutato. Comunque, come già anticipato, l’anamnesi è fondamentale per avere delle
informazioni circa la localizzazione del danno al sistema vestibolare, dal momento che le
vertigini periferiche e quelle centrali differiscono per modalità di esordio e per intensità
dell’attacco, per associazione con eventuali sintomi neurovegetativi e audiologici nonché
sull’eventuale tipologia della vertigine nelle sindromi vestibolari centrali (SVC) e nelle
sindromi vestibolari periferiche (SVP):
1. Tipologia di vertigine:
a) Rotatoria soggettiva in SVC
b) Rotatoria oggettiva in SVP
2. Modalità di esordio:
a) Subdolo in SVC
b) Acuto e violento in SVP
3. Intensità:
a) Lieve-moderata in SVC
b) Intensa in SVP
4. Segni audiologici:
a) Assenti in SVC
b) Presenti in SVP
5. Sintomi neurovegetativi:
a) Assenti/scarsi in SVC
b) Presenti in SVP
Il soggetto con sindrome vestibolare periferica spesso lamenta dei “giramenti di testa”
improvvisi e violenti che ne limitano fortemente l’espletamento delle attività allorquando
insorgano dal momento che sono degli attacchi che costringono spesso il paziente ad
arrestare la deambulazione e addirittura ad assumere la posizione seduta.
Inoltre, sussiste anche la possibilità di riscontrare delle differenze a carico del nistagmo, che
chiaramente non si possono cogliere con l’anamnesi ma devono essere documentate con
l’ispezione. Stante questa indubbia efficacia dell’anamnesi, sicuramente una delle prime
cose da fare con un paziente che lamenti vertigini è quella di tranquillizzarlo ed invitarlo a
stendersi sul lettino, preferibilmente minimizzando le afferenze uditive e visive, anche
perché sulla base del decubito che il paziente assume si possono trarre delle prime e
approssimative informazioni. Dal momento che il paziente assume un decubito laterale in
funzione della percezione della sintomatologia vertiginosa: in altre parole decubita dal lato
su cui avverte meno la vertigine.
2) PROVE DELL’ASIMMETRIA DI TONO MUSCOLARE
Dopo l’anamnesi al letto del paziente, che possa chiarire eventualmente alcuni aspetti della
natura della vertigine, occorre effettuare uno studio del tono muscolare che si vale della
presenza di alcune prove cliniche, che permettano di studiare sia il tono degli arti inferiori
che degli arti superiori: per i primi si adoperano la prova di Romberg e la prova del
cammino a stella, mentre per gli altri due la prova delle braccia tese e la prova di Barany.
La prova di Romberg è una prova che studia la simmetria o l’asimmetria del tono degli arti
inferiori e consiste nel far stazionare il paziente in ortostatismo e ad occhi chiusi. Un soggetto
normale non ha problema alcuno a mantenere lo stazionamento eretto, mentre il soggetto
con una patologia vestibolare tende a cadere da un lato, generalmente dal lato opposto
rispetto alla sede del danno.

La prova del cammino a stella, altresì nota con il nome eponimo di prova di Babinski-
Weil consiste nel far compiere al paziente tre passi in avanti e tre passi indietro ad occhi
chiusi: il soggetto con patologia vestibolare periferica tende a cadere da un lato. Nella
cosiddetta sindrome vestibolare armonica, il soggetto nella prova del cammino a stella
tenderà a cadere verso il lato dell’orecchio patologico durante la marcia in avanti, che poi è
anche il lato verso cui batte la fase lenta del nistagmo spontaneo.
Durante la marcia all’indietro, tende invece a deviare dal lato opposto rispetto a quello
dell’orecchio patologico; peraltro, durante la marcia all’indietro il soggetto tende ad
accentuare la deviazione, cosicché dopo alcuni cicli di camminata in avanti e all’indietro, il
paziente addirittura tenderà ad assumere una direzione che è perpendicolare rispetto a
quella di inizio. Per lo studio del tono degli arti superiori, si eseguono la prova delle braccia
tese e la prova di Barany; nella prima, si chiede al paziente ad occhi chiusi di tendere
perpendicolarmente le braccia a 90°: i soggetti con patologia vestibolare presentano una
caduta di una delle due braccia, che nella sindrome vestibolare armonica è la stessa del
lato in cui batte la fase lenta del nistagmo, per cui la medesima dell’orecchio patologico. La
prova di Barany, invece, consiste nel chiedere al paziente ad occhi chiusi di toccare con
l’indice le ginocchia: il soggetto patologico tende a deviare gli arti.
3) STUDIO DEL NISTAGMO
Per nistagmo spontaneo si intende una ritmica e involontaria oscillazione di bulbi oculari
rilevabile a testa ferma ed eretta, in posizione seduta o anche in posizione ortostatica e in
questo casi si distingue un nistagmo di primo grado da un nistagmo di secondo grado; il
nistagmo può essere meglio apprezzato se il paziente indossa gli occhiali con lente di
ingrandimento di Frenzel. Il nistagmo presenta caratteristicamente due fasi, che sono la
fase lenta e la fase rapida, essendo la prima determinata dallo sbilanciamento che esiste
tra le informazioni nervose derivanti dal vestibolo sano e dal vestibolo patologico tal che la
fase lenta del nistagmo batta sempre dal lato del vestibolo patologico, differentemente dalla
fase lenta del nistagmo che corrisponde ad un reattivo riposizionamento dei bulbi oculari al
centro dell’orbita. Occorre considerare che il nistagmo fornisce importanti informazioni
anch’esso circa la sede del danno a carico del sistema vestibolare, poiché presenta
caratteristiche di direzione e di inibizione alla fissazione che sono differenti a seconda che
si tratti di una sindrome vestibolare centrale (SVC) o di una sindrome vestibolare periferica
(SVP):
1. Orientamento del nistagmo:
a) Multidirezionale in SVC
b) Orizzontale in SVC
2. Fissazione dello sguardo:
a) Non-inibizione in SVC
b) Inibizione in SVP
3. Ritmicità:
a) Aritmico in SVC
b) Ritmico in SVP
Nel caso della presenza di un nistagmo è anche possibile alle volte apprezzare come questo
si verifichi in presenza di uno sguardo controlaterale (nistagmo di terzo grado) che è
espressione di una patologia più severa. Il nistagmo può anche essere definito rotatorio,
nel qual caso i bulbi oculari sembrino ruotare, o verticale nel qual caso l’asse del nistagmo
sia superoinferiore che più spesso consegue a patologia centrale. Oltre al nistagmo
spontaneo che si studia con
l’ispezione degli occhi mentre il
paziente fissa una mira, è possibile
studiare il nistagmo evocato
mediante l’Head-Shaking Test, che
consiste nello scuotere la testa del
paziente, che è flesso in avanti di 30°
gradi, circa una dozzina di volte sul
piano orizzontale: si nota che in
questo caso il nistagmo batta dal lato
opposto rispetto a quello patologico.
Si tratta di un test che non è molto sensibile, ancorché possa essere utile al fine di scoprire
eventuali patologie vestibolari latenti. Molto utile, estremamente specifico ma poco sensibile
è il test di Halmagyi, che dovrebbe essere effettuato di pronto soccorso a tutti i pazienti
che soffrano di una sindrome vertiginosa acuta. Consiste nell’indurre dei movimenti di
rotazione passiva, di circa 1 Hz, e di 20-30° nel paziente ad occhi aperti. Nel paziente con
patologia vestibolare, la rotazione omolaterale all’orecchio patologico scatena l’insorgenza
di due-tre movimenti saccadici controlaterali alla direzione della rotazione e al lato
dell’orecchio patologico. Quando si riscontri la presenza di una sindrome vertiginosa acuta
con test di Halmagyi negativo si deve necessariamente pensare che la sindrome vertiginosa
sia scatenata da una patologia neurologica acuta, come una emorragia cerebrale per cui
occorre fare immediatamente una TC.
4) CAUSE DI VERTIGINE PERIFERICA
Le cause che stanno alla base di una vertigine periferica possono essere molto differenti sia
in termini di eziopatogenesi sia in termini di gravità della patologia che ne stia alla base.
Tipicamente, la forma più frequente di sindrome vertiginosa periferica è la vertigine
parossistica posizionale, che si definisce tale dal momento che si tratti di una
manifestazione accessuale ed improvvisa e dal momento che risulta essere evocata se si
assumono determinate posizioni; ad esempio, si ritiene che sia associata alla presenza di
posizioni come la posizione in decubito laterale; solitamente i pazienti possono riferire di
avvertire una vertigine quando dalla posizione supina transitino nella posizione di decubito
laterale, dopodiché transitando nuovamente nella posizione supina la vertigine tende a
scomparire entro dieci minuti. Si tratta di una patologia frequente e benigna, probabilmente
ascrivibile ad una alterazione a carico degli otoliti in quella che prende il nome di litiasi
labirintica. Dunque, si definisce come la presenza di due o più episodi di vertigine di breve
durata, scatenata improvvisamente da cambiamenti di posizione della testa e/o del corpo
non associata a sintomi cocleari o neurologici bensì a soli sintomi neurovegetativi. Questa
particolare patologia potrebbe essere scatenata da microtraumatismi o da posizioni
maldestre della testa. Per scoprire la presenza di una forma di vertigine parossistica
posizionale, esistono delle manovre, che sono la manovra di Dix-Hallpike e alla manovra
di Semont. La prima delle due consiste nel ruotare la testa del paziente, mentre lo si fa
stendere rapidamente, avendo cura di far “cadere” la testa al di fuori del supporto offerto dal
lettino. Se è presente un nistagmo, si è dinnanzi ad una vertigine posizionale parossistica
ed occorre eseguire una manovra liberatoria che si esegue semplicemente ripristinando
la posizione seduta del paziente, ruotando la testa dal lato opposto e ripetendo la manovra
di sdraiamento.
Rispetto alla manovra di Dix-Hallpike, la manovra di Semont si esegue con il paziente
seduto sul lettino, lo si fa sdraiare e gli si ruota la testa verso l’alto. Se si riscontra il nistagmo,
si riporta il paziente in posizione seduta e lo si sdraia dal lato opposto ruotando la testa
verso il basso: questa è in tal caso la manovra liberatoria.

Esistono, in realtà, anche altre cause di vertigine parossistica, come quelle nei soggetti di
molto giovane età e che tende a regredire con l’adolescenza, o come quelle su base
vascolare, da fistola perilinfatica, o su base ortostatica e/o cervicale. Esiste poi un
secondo grosso capitolo che si associa all’eventuale insorgenza delle vertigini periferiche e
che riguarda il cosiddetto deficit vestibolare periferico acuto o DVA. Si definisce come
un deficit acuto, monolaterale e labirintico, che si associa alla presenza di una totale o
parziale perdita di funzione associato a manifestazione vertiginosa e sintomi
neurovegetativi, ascrivibile alla perdita della funzione vestibolare periferica che può anche
durare alcuni giorni. In tal caso le cause che ne stanno alla base possono essere
infiammatorie, legate cioè ad una neurite dell’VIII, ad una flogosi vestibolare ma anche
ad una labirintite suppurativa e possibile causa della prima può essere una infezione da
Herpes Zoster Oticus, che può causare una polinevrite dei nervi cranici tra cui anche il
nervo statoacustico. Infine anche cause vascolari, come delle possibili tromboembolie,
degli spasmi arteriosi o delle emorragie dell’arteria uditiva interna, e fratture del temporale
possono eventualmente determinare insorgenza di queste manifestazioni. Tra le altre
cause, che non rientrano né nelle vertigini parossistiche né nel deficit vestibolare acuto
possono essere una specifica patologia come la malattia di Ménière e il neurinoma del
nervo statoacustico, oppure il conflitto neurovascolare del tronco, in cui vi sono dei vasi
che passano a ponte al di sopra del nervo vestibolare
Foniatria

La foniatria è una disciplina specialistica che si occupa della patologia della


comunicazione e della patologia della deglutizione in età evolutiva, adulta e senile.
Accanto al foniatra, figura importante nella gestione dei disturbi foniatrici è il logopedista
che si occupa di abilitazione e riabilitazione, di educazione e rieducazione in tutte le
patologie foniatriche. Il catalogo nosologico della foniatria comprende:
1. Disfonie o turbe della voce:
a) Disfonia disfunzionale:
i. Da sforzo
ii. Complicata con laringopatia secondaria
b) Disfonia da patologia della muta
c) Disfonia psicogena
d) Disfonia neurogena
e) Disfonia organica
2. Disturbi dell’articolazione (o dello speech):
a) Dislalie
b) Disartrie
c) Rinolalie
3. Disfluenze o turbe del flusso verbale:
a) Balbuzie
b) Tumultus sermonis
4. Disfagie o turbe della deglutizione;
5. Afasie o turbe del lessico (o del linguaggio) che fanno parte del corteo
sintomatologico clinico dei soggetti con patologie neurologiche:
a) Fluenti
b) Non-fluenti
6. Dislogie o turbe della comunicazione nei soggetti con insufficienza mentale o con
demenze;
7. Turbe comunicative causate da sordità;
8. Dislessie, disortografia, discalculia o i disturbi specifici dell’apprendimento
(DSA);
9. Le turbe comunicative da inadeguatezze socioculturali o di rapporto interpersonale,
come l’autismo
• CARATTERISTICHE DEL SUONO
La comunicazione è la capacità di produrre segnali specifici per interagire con altri soggetti
e questo è alla base di qualsiasi organizzazione vivente, ovviamente con le dovute
differenze comunicative tra le varie specie. Il linguaggio è un mezzo di comunicazione. Il
linguaggio è l’insieme dei fenomeni comunicativi: facoltà di esprimere pensieri, desideri e
sentimenti per mezzo di suoni articolati e codificati (=linguaggio verbale) o in altro modo
(=linguaggio extraverbale). Il linguaggio verbale ed extra-verbale sono, quindi, due forme
di comunicazione che molte volte sono concorrenti, lavorano insieme. Il linguaggio verbale
è un sistema comunicativo specifico e i suoni del linguaggio verbale, che noi produciamo
con il nostro apparato pneumo-fono-articolatorio governato dal sistema nervoso centrale
e periferico, sono dei fenomeni acustici. I fenomeni acustici che noi produciamo, però, sono
caratterizzati da caratteristiche fisico-acustiche alquanto differenziali. Per esempio la “t”,
la “p” e la “b” hanno caratteristiche fisico-acustiche diverse e in base a ciò noi possiamo da
un lato percepirli, udirli con determinate intensità, ma dall’altro possiamo discriminarli.
Ogni lingua è formata da un sistema di segni acustici di base, foni e fonemi (tra i quali c’è
una piccola differenza) che sono combinati tra loro per formare le parole e le parole sono
disposte in sequenze per formare le frasi, con determinate regole grammaticali e sintattiche.
Il tutto è specifico di ogni lingua perché la lingua è essenzialmente un codice.
Infatti, il numero, la struttura ed il valore referenziale delle combinazioni fonetiche e delle
loro sequenze variano in funzione delle regole fonologiche e grammaticali che ogni
comunità per convenzione adatta. Il linguaggio extra-verbale possiede:
1. Aspetti prosodici: si intendono alcune caratteristiche del fenomeno acustico che
sono fondamentali per conferire alla frase un significato differenziale, che varia al
variare di:
a) Melodia
b) Ritmo
c) Intonazione
d) Accentuazione
2. Fattori paralinguistici:
a) Cenni col capo
b) Contatto oculare
c) Gesti simbolici, escogitati da ogni cultura parallelamente alla produzione
della voce al fine di veicolare informazioni e messaggi.
d) Prossemica: si intende la distanza tra due interlocutori che in maniera intuitiva
conferisce informazioni sull’eventuale rapporto interpersonale che esiste.
3. Icone: segni comunicativi (grafici, verbali o gestuali) uguali o simili alla realtà
(immagini, fotografie, gesti, parole onomatopeiche).
La produzione del linguaggio verbale non è altro che l’esecuzione in rapida successione e
perfetta coordinazione di movimenti molto precisi come entità e durata degli organi
pneumo-fono-articolatori.
Quando parliamo si mette in movimento tutto il nostro vocal tract, la respirazione passa
sotto il controllo volontario ai fini della durata e dell’intensità dell’eloquio, ma, soprattutto,
in maniera preventiva e esecutiva intervengono dei fenomeni centrali di ideazione e
formulazione, coordinazione e controllo in maniera precisa soprattutto per la pronuncia dei
suoni, una esecuzione neuromotoria, produzione di flusso aereo in quanto noi parliamo in
fase espiratoria con un flusso aereo che viene sonorizzato attraverso il vocal tract.
Ed è questo flusso aereo sonorizzato attraverso il vocal tract che è la matrice di base che,
unitamente ad articolazione e risonanza, ci dà la possibilità di produrre i foni, i suoni
distintivi minimi del nostro linguaggio verbale, quelle che noi chiamiamo lettere.
1. Regolazione centrale:
a) Processi di ideazione
b) Processi di formulazione
c) Processi di controllo motorio
2. Respirazione volontaria;
3. Espirazione:
a) Apertura forzata delle corde vocali addotte
b) Onda di oscillazione mucosa
4. Articolazione e risonanza
A questo punto ricordiamo che lo sviluppo del linguaggio verbale ha delle determinate
tappe che si vanno a concludere anche ai 5 anni.
1. Lallazione (4-10 mesi): si intende la prima fase dello sviluppo del linguaggio che
comporta la produzione delle prime parole che non hanno valore referenziale, ma
sono dei suoni che il bambino emette in relazione ai movimenti labiali e fattori
espiratori perché il movimento più importante a questo stadio è la suzione;
2. Prime parole (10-12 mesi);
3. Olofrasi (12-20 mesi): si intende con questa terminologia il periodo delle frasi di una
sola parola, che hanno un iniziale valore referenziale.
4. Due parole (20-24 mesi)
5. Fase contratta (24-36 mesi)
6. Fase strutturata (36-60 mesi)
Vediamo che lo sviluppo del linguaggio verbale è un processo lungo e durante questo
sviluppo possiamo avere delle situazioni patologiche. Abbiamo tracciato il primo schema
della produzione del linguaggio verbale e abbiamo detto che esiste una sonorizzazione del
flusso aereo attraverso il vocal tract. Abbiamo una prima attività fisiologica fondamentale,
cioè la produzione di un segnale complesso quasi periodico a livello delle corde vocali,
ovvero il segnale vocale laringeo (=voce in senso stretto) e quindi la vocalizzazione e la
fonazione in senso stretto, anche se in alcune consonanti, quelle che chiamiamo consonanti
sorde, e nella produzione di alcuni rumori, il flusso aereo passa indisturbato attraverso le
corde vocali aperte, trova degli ostacoli a livello del vocal tract e genera un rumore. Quindi
la sonorizzazione del flusso aereo attraverso il vocal tract, cioè il suono di base che
plasmeremo, può avvenire in due maniere, attraverso le corde vocali, o attraverso gli
ostacoli che superiormente il flusso aereo incontra. Dopo la sua produzione il segnale
sonoro di base generato va articolato, e quindi il vocal tract va incontro a delle modifiche
di forma, dimensioni e postura variamente combinate che determinano la produzione di un
determinato suono (fono/fonema). Consideriamo che esiste uno schema statico e/o
dinamico di produzione per ciascun suono, quindi suono-specifico. Possiamo quindi dire
che con l’espressione di articolazione del suono si intende la modificazione della forma,
della dimensione e della postura delle strutture del vocal tract che variamente combinate tra
loro e loro presiedono alla produzione di un determinato fono/fonema, in accordo ad un
preciso schema motorio statico-dinamico e suono-specifico.
In altri termini se devo produrre un determinato fono “p”, “b”, “c”, devo farlo con delle precise
modalità di impostazione del vocal tract, altrimenti il suono non viene fuori in maniera
corretta. Per esempio per produrre i suoni “p”, “b” e “m”, si occlude il vocal tract mettendo in
contatto le due labbra, superiore e inferiore, per poi aprirli.
Oppure per produrre il suono “t” bisogna mettere l’apice della lingua dietro gli incisivi
superiori.
Per produrre il suono “gn” bisogna mettere la lingua verso il palato duro.
A queste modalità, bisogna aggiungere in alcuni casi il problema della risonanza perché
cambiando tutte queste posture varia la volumetria e cambiano le risonanze e quindi il suono
viene per certi versi amplificato e per certi versi ridotto, in termini di frequenza.
Quindi i suoni del nostro linguaggio verbale sono:
1. Fono: è l’unità linguistica minima dotata di un valore articolatorio e fisico-acustico.
2. Fonema: è la minima unità linguistica dotata di valore distintivo, per cui ha un
valore funzionale. Per essere estremamente pratici, nelle parole “cane” o “pane” il
cambio del fono ha dato alla parola un valore distintivo, un significato diverso, per cui
in quanto unità fonetiche distintive, “c” e “p” sono considerati come fonemi.
Ogni lingua ha i propri fonemi, nella lingua italiana i foni sono 30, 21 fonemi consonantici, 7
fonemi vocali e 2 semiconsonantici. Quindi ricapitolando come si produce un fono:
1. Organi e luoghi di articolazione:
a) Lingua
b) Palato duro
c) Incisivi
d) Posture del vocal tract
2. Modo di articolazione, cioè il modo in cui si costringa o meno il vocal tract:
a) Modo di articolazione costrittivo
b) Modo di articolazione semicostrittivo
c) Modo di articolazione occlusivo
3. Sonorità, ovvero presenza o meno di segnale vocale laringeo. Per la maggior parte
dei foni, tutti i vocalici e buona parte dei consonantici, la sonorizzazione avviene a
livello delle corde vocali, quindi si parla di “suoni”. Invece, per alcuni foni detti “sordi”,
la sonorizzazione non avviene a livello delle corde vocali, ma a livello di strutture di
ostacolo superiori;
4. Risonanza: può essere orale o nasale. Ricordiamo che il palato molle divide
l’orofaringe dal rinofaringe ed è importante per la deglutizione perché quando si
solleva separa i due comparti e permette al bolo alimentare di prendere la via del
canale alimentare. Infatti ci sono alcune situazioni congenite (palatoschisi), post-
chirurgiche o neurologiche in cui il palato molle non svolge la sua funzione e il cibo
risale nel rinofaringe e nel naso. Vi sono solo tre foni nasali, ovvero foni nella cui
produzione il palato molle è abbassato, e sono la “m”, la “n” e la “gn”.
Per tutti gli altri foni il palato molle è elevato e la risonanza è orale, mentre per quei
3 la risonanza sarà anche nasale. Infatti, quando siamo raffreddati c’è qualche
piccola confusione. Nella “m” c’è risonanza nasale e se siamo raffreddati la “m”
diventa “b” perché manca la risonanza nasale dovuta alla congestione nasale, e lo
stesso accade per la “n” che diventa una “d”.
La fonetica è la scienza che studia i foni come entità fisiche sotto gli aspetti acustici e
articolatori.
La fonologia, invece, è lo studio astratto delle rappresentazioni mentali dei suoni del
linguaggio.
Quindi, i criteri classificativi sono quattro, i cosiddetti tratti distintivi che si applicano in
maniera importante per la produzione delle consonanti (e in maniera minore, ma presente
per le vocali):
1. Zona di articolazione: organo e luogo di articolazione;
2. Grado di apertura: modalità occlusivo-costruttivo-semicostruttiva;
3. Opposizione di sonorità: coesistenza o meno di vibrazione cordale, quindi sonorità
o sordità;
4. Opposizione di risonanza: coesistenza o meno di risonanza nasale.
Anche i fonemi vocali li produciamo nel vocal tract, ma prima di tutto sono tutti sonori, sono
tutte a risonanza orale e gli ostacoli sono molto minori. Infatti abbiamo una maggiore
apertura del cavo orale, le labbra sono più o meno stirate e la lingua si posiziona verso
l’avanti o verso l’indietro. I fonemi vocalici sono 7 perché la “e” e la “o” sono sia aperte che
chiuse.
La “a” è il fonema vocalica che incontra meno ostacoli e il segnale sonoro è quello che più
si avvicina al segnale sonoro laringeo.

• CLASSIFICAZIONE DEI DISTURBI DEL LINGUAGGIO VERBALE


Tra i disturbi del linguaggio verbale includiamo:
1. Ritardo dello sviluppo. Abbiamo visto che lo sviluppo del linguaggio si può
completare anche fino ai 5 anni, prima della scolarizzazione, con diverse tappe.
Queste tappe possono essere alterate nel senso che si concretizzano in ritardo.
Importante è diagnosticare subito il ritardo dello sviluppo, non è possibile aspettare.
Possiamo avere un banale ritardo o può essere dovute ad una serie di situazioni
patologiche sia di tipo neuropsichiatrico-infantile sia di tipo otorino-laringoiatrico.
La constatazione di un problema nello sviluppo del linguaggio verbale avviene più
nelle mamme, negli asili nido e nei pediatri, e bisogna porre subito il bambino in un
percorso di valutazione che può interessare tanto l’otorino-laringoiatra, quindi
l’audiofoniatra tanto il neuropsichiatra infantile.
Le conoscenze che ci sono rispetto a tanti anni fa ci fanno porre una diagnosi precoce
perché ci sono dei disturbi dello sviluppo del linguaggio verbale dovuti a ipoacusie,
ma dal punto di vista squisitamente otorino-laringoiatra queste situazioni patologiche
oggi sono di facile diagnosi perché abbiamo degli strumenti di screening, e in
particolare le otoemissioni acustiche evocate (OAE) che già alla nascita ci
permettono di capire se il bambino ha dei problemi uditivi e già entro 6 mesi tramite i
potenziali acustici evocati troncoencefalici (ABR, Auditory Brainstem Response)
possiamo avere delle informazioni riguardanti la capacità uditiva dei bambini perché
per avere lo sviluppo del linguaggio verbale è necessaria una corretta capacità
uditiva.
Dopo di che se l’apparato uditivo è normale, un ritardo rientra in un campo foniatrico
e neuro-psichiatrico.
Comunque il disturbo può essere semplice, dovuto a uno sviluppo non rapido in un
bambino, o dei disturbi specifici dello sviluppo del ritardo mentale ed hanno dei nomi
specifici, ma il più importante è il disturbo specifico del linguaggio (DSL);
2. Disturbi della voce, come la disfonia o le disartrofonie, dei disturbi della voce dovuti
ad alterazioni neurologiche del primo motoneurone;
3. Disturbi dell’articolazione e della risonanza, come la dislalia, la rinolalia e la
disartria, che sono più disturbi di tipo produttivo, in cui viene alterato il normale
processo di cambiamento di forma, di dimensione e di postura del vocal tract,
ricordando che l’articolazione del suono si esplica nell’organo e nel luogo di
articolazione, nel grado di apertura (costrittiva, semicostrittiva o occlusiva), nella
opposizione di risonanza (vocale o nasale) e nell’opposizione di sonorità
(coesistenza o meno di produzione del segnale vocale laringeo).
4. Disturbi dell’espressione e della comprensione verbale, come le afasie che si
dividono in fluenti e non fluenti che rientrano in situazioni patologiche di natura
neurologica;

• DISARTRIE
Con l’espressione di disartria si intende un disturbo del linguaggio verbale e
precisamente della motricità pneumo-fono-articolatoria causato da lesioni organiche
del I motoneurone o del II motoneurone, secondo la classificazione americana dei disturbi
del linguaggio, mentre nella concezione europea si tende a classificare le lesioni del
secondo motoneurone come dei disturbi che rientrano nella categoria classificativa delle
dislalie. Occorre ricordare che l’espressione di articolazione del linguaggio, che poi è
quella che nel contesto della disartria viene alterata, intende la modificazione della forma,
della posizione e della dimensione del vocal tract, che determina l’assunzione di un preciso
assetto pneumo-fono-articolatorio che dipende da (1) zona e luogo di articolazione del
linguaggio, (2) opposizione di sonorità, (3) opposizione di risonanza e (4) grado di
chiusira del vocal tract.
1) RICHIAMO DI ANATOMIA
Dobbiamo considerare che affinché si possa avere una produzione di un fono/fonema
preciso è necessaria una modulazione nervosa, che permetta l’assunzione, innanzitutto a
livello laringeo dove si produce il segnale vocale, di un corretto assetto contrattile, cui si
associa l’assunzione di un corretto assetto contrattile anche a livello del vocal tract. La
motricità pneumo-fono-articolatoria è un aspetto dinamico che si modifica di volta in volta in
considerazione del fono/fonema che si intenda produrre. Per cui, al fine di produrre un suono
intervengono dapprima dei fenomeni di ideazione e di elaborazione a livello delle aree
della corteccia associativa, che vengono poi tradotte in uno schema motorio, il quale viene
finemente coordinato dalle interrelazioni che esistono tra i motoneuroni piramidali, che si
collocano a livello della corteccia motoria primaria, i neuroni dell’extrapiramidale e i
neuroni cerebellari, dal momento che la produzione del segnale vocale laringeo prima e
del fono/fonema articolato, poi, presuppongono che venga applicato uno schema motorio
che trova parte della propria efficienza proprio nella contrazione coordinata e l’organo
deputato alla coordinazione e all’applicazione degli schemi motori acquisiti è proprio il
cervelletto; sia i motoneuroni piramidali, che quelli extrapiramidali e cerebellari sono tutti
considerati alla stregua di motoneuroni del primo ordine. Le interconnessioni tra questi tre
neuroni con le aree dell’ideazione e dell’elaborazione producono uno schema motorio, le
cui informazioni vengono veicolate ai nuclei motori del tronco encefalico, che innervano la
laringe e le strutture del vocal tract superiore, come il palato (glossofaringeo) o la lingua
(ipoglosso), ad esempio. I motoneuroni dei nuclei motori dei nervi cranici sono considerati
dal punto di vista neuroanatomico come dei motoneuroni di II ordine, per cui a rigore di
classificazione, secondo la concezione americana, anche le lesioni del nucleo motore del
glossofaringeo (che è il nucleo ambiguo) e del nucleo motore dell’ipoglosso sono da
considerarsi come delle condizioni associate alla presenza di una disartria. Esemplificativo,
in questo senso è la presenza di una paralisi dell’ipoglosso (ricordando che talora questa
possa essere determinata ad esempio da una otite esterna maligna oppure da un neurinoma
dell’acustico che comprima sul XII). Il nervo ipoglosso emerge a livello del solco
anterolaterale del bulbo come un insieme di radicole che convergono, formando il tronco
nervoso del XII, per poi decorrere in senso superoinferiore e imboccare il canale
dell’ipoglosso, situato a livello dell’osso occipitale, precisamente sovrastato medialmente
dal condilo dell’osso occipitale; quindi emerge dal cranio e decorre in senso superoinferiore
nello spazio vascolo nervoso del collo, per flettere medialmente al proprio territorio di
distribuzione che prevede l’innervazione motoria della lingua. In caso di paralisi del nervo
ipoglosso la lingua non ha più i propri movimenti e le sue posture perfette e ci possono
essere degli errori di pronuncia.
2) CLASSIFICAZIONE
Di fatto, le disartrie sono dei disturbi del linguaggio nei quali viene perduta la capacità di
eseguire una corretta coordinazione e ed esecuzione del gesto motorio, necessario a
conferire le caratteristiche fisico-acustiche al fono, che ricordiamo essere la minima entità
linguistica dotata di valore fisico-acustico.
Globalmente, rientrano, secondo la concezione americana, in questa categoria classificativa
di disturbi del linguaggio tutte le lesioni del I o del I motoneurone che siano in grado di
arrecare una perdita della capacità articolatoria del segnale vocale prodotto a livello
laringeo. Dal punto di vista classificativo, si distinguono:
1. Lesioni del II motoneurone
2. Lesioni del I motoneurone:
a) Piramidale: spastico
b) Extrapiramidale:
i. Ipocinetico
ii. Ipercinetico
c) Cerebellare: atassica
d) Mista
Le lesioni del I motoneurone sono considerate tutte quelle lesioni a carico del sistema
piramidale, dell’extrapiramidale o del cervelletto e sulla base della sede del danno si
distinguono differenti tipologie di disartria da lesione del I motoneurone, anche in
considerazione di quale sia la funzione a cui quel motoneurone presiede. Infatti, occorre
considerare che le lesioni del I motoneurone si esprimono mediante delle disartrie
spastiche, mentre le lesioni del motoneurone cerebellare, per via delle funzioni di
coordinazione che questi assolve, si esprimono come delle disartrie atassiche,
differentemente dalle forme legate a lesioni dei motoneuroni dell’extrapiramidale, che
possono esprimersi sia come delle disartrie ipercinetiche che come delle disartrie
ipocinetiche: ad esempio, la patologie neurologica che prototipicamente determina una
disartria ipocinetica da lesioni dei nuclei della base è la malattia di Parkinson. In realtà,
alle volte la situazione clinica della disartria è più complessa e sottintende la presenza di
una condizione che si esprime mediante fenomeni in combinazione spastici, atassici, iper-
o ipocinetici: tali sono le disartrie miste. Tra le disartrie miste se ne distinguono diverse:
1. Spastico-flaccida: Sclerosi Laterale Amiotrofica
2. Cerebello-spastica: Sclerosi Multipla e traumi cranici
3. Spastico-atassica-ipocinetica: Morbo di Wilson.
La malattia di Wilson è una patologia metabolica che viene definita anche come
degenerazione epato-lenticolare; si tratta di una patologia genetica dovuta a mutazione
del gene codificante per l’ATP7B, che regola il metabolismo del rame. A seguito di una
perdita di funzione del gene, si verifica un progressivo accumulo di rame (1) nel fegato e (2)
nel nucleo lenticolare, che è uno dei nuclei della base a propria volta costituito da putamen
e globo pallido, che entra nella costituzione dei circuiti dell’extrapiramidale. Le disartrie,
inoltre, si possono classificare mediante un criterio anagrafico, che le suddivide in forme
cosiddette infantili e forme cosiddette dell’adulto, tra le quali sussiste una notevole
differenza nei termini della eziologia che ne sia in causa.
1. Disartrie infantili:
a) Prenatali:
i. TORCH
ii. Disgenesie
iii. Anossie
b) Perinatali: da parto
c) Postnatali:
i. Traumi cranici
ii. Infezioni
2. Disartrie dell’adulto:
a) Patologie neurodegenerative
b) Neoplasie cerebrali
c) Ictus ischemico/emorragico
d) Malattie infettive
e) Traumi cranici
A propria volta, le disartrie infantili possono essere suddivise in forme prenatali (da infezioni
[TORCH], disgenesie o anossia), perinatali (legate al parto) e postnatali (da traumi cranici
o infezioni). Le forme invece dell’adulto, conseguono a patologie neurologiche come la
malattia di Parkinson, la SLA o la sclerosi multipla, a patologie metaboliche con precipuo
interessamento del sistema nervoso centrale (come la malattia di Wilson), oppure a malattie
infettive, traumi cranici o neoplasie.

• DISLALIE
Differentemente dalle disartrie che sono dei disturbi del linguaggio che pertengono ad
alterazioni della motricità pneumo-fono-articolatoria necessaria a conferire caratteri fisico-
acustici al suono (per lesioni del I o del II motoneurone secondo la classificazione
americana, le dislalie sono dei disturbi articolatori del linguaggio e dello speech che si
esprimono come delle omissioni, delle distorsioni o delle sostituzioni di uno o più fonemi.
Dal punto di vista della classificazione, si distinguono due entità clinico-patologiche
distinte:
1. Dislalie fisiologiche
2. Dislalie patologiche:
a) Organiche
b) Funzionali
Le dislalie fisiologiche si intendono come dei disturbi dello speech che si esprimono
mediante omissione, distorsione o sostituzione di uno o più fonemi che si riscontrano
durante lo sviluppo del linguaggio, che ricordiamo intraprendersi intorno ai due anni con
la lallazione e completarsi entro i cinque anni circa con l’acquisizione della capacità di
costruire e pronunciare frasi complesse con un significato compiuto. È chiaro che, essendo
il linguaggio una funzione nervosa che si sviluppa progressivamente e si rinforza anche
grazie al feedback auditivo, i primi foni/fonemi che siano prodotti dal bambino siano in parte
distorti, ma chiaramente con il progressivo sviluppo della funzione nervosa questo disturbo
tende a scomparire.
Diversamente, quando il disturbo dello speech persista dopo il completamento dello
sviluppo del linguaggio, o addirittura insorga successivamente, si parla di dislalie
patologiche, che in considerazione dell’espressione del danno possono essere suddivise
in dislalie patologiche organiche e dislalie patologiche funzionali. Le dislalie
patologiche organiche sono anche definite meccaniche, giacché in questi casi si riscontra
la presenza di una alterazione morfologica che di per sé presuppone la presenza di una
alterazione della motricità. Esempio caratteristico di dislalia organica è la labiopalatoschisi,
particolarmente quella forma di labiopalatoschisi che si esprime mediante una mancata
fusione dei processi palatini che entrano nella costituzione del palato duro. In questo
caso, si riscontra la presenza di una anomala risonanza, per via della presenza di una
alterazione a carico di quella struttura che dovrebbe di norma determinare una corretta
separazione tra la cavità nasale e il cavo orale. Anche una disgenesie emilinguale, oppure
un intervento chirurgico sul labbro possono essere condizioni che determinano in qualche
maniera l’insorgenza di una dislalia che si esprime solo per quei foni/fonemi che siano
necessarie le strutture mancanti o alterate. La concezione europea fa rientrare nell’ambito
delle dislalie anche i problemi neurologici dovuti al solo II motoneurone e in questo rientrano
eventuali problematiche del nervo facciale, del nervo ipoglosso.
Invece nella concezione americana, più ampia, qualsiasi problema inerente il motoneurone,
del primo, del secondo o di entrambi, viene fatta rientrare nelle disartrie. Tra le dislalie
rientrano anche il rotacismo e il sigmatismo, comunemente noti come “S moscia” ed “R
moscia”.
Se un soggetto produce la “s” male si parla di sigmatismo, invece se produce male la “r”
ovvero la “r moscia” in cui la “r” viene prodotta con una non determinata vibrazione e postura
della lingua ha il rotacismo, che invece è presente nella lingua francese perché la postura
per il fono “r” nella lingua francese è diversa rispetto alla lingua italiana.
Poi ci sono le dislalie patologiche funzionali, in cui il vocal tract è perfetto, il sistema neuro-
motorio è perfetto, ma abbiamo dei disturbi della pronuncia e la situazione patologica di
base è la dislalia “audiogena”. Con il termine dislalie audiogene si intendono quei disturbi
del linguaggio verbale, fono-articolatori, causati da un deficit uditivo che presupponga la
presenza di una distorsione, emissione o sostituzione di uno o più foni. Qui entriamo nel
campo della sordità infantile, dal momento che si tratta di patologie che intervengono nei
soggetti audiolesi, per l’incapacità di sviluppare e controllare la loro produzione verbale a
causa del deficit del feedback acustico.

• INSUFFICIENZA VELO-FARINGEA
L’insufficienza velo-faringea è una patologia che si caratterizza per la incapacità del velo del
palato di attendere alla propria normale funzione, cioè quella di separare correttamente il
cavo orale e l’orofaringe dalla cavità nasale durante il meccanismo della deglutizione e
durante il meccanismo di fonazione dal momento che mediante la funzione svolta dal velo
del palato, si verifica l’indirizzamento del segnale vocale faringeo in corrispondenza della
cavità nasale (risonanza nasale) o del cavo orale (risonanza orale). Fatta eccezione per le
schisi, le cause che stanno alla base dell’eventuale presenza di una insufficienza velo-
faringea sono:
1. Paresi/paralisi del X
2. Velo corto congenito
3. Disproporzione palato/rinofaringe
4. Esiti postchirurgici
5. Traumi facciali
6. Schisi sottomucose
La sintomatologia, in questo caso, si esprime mediante un disturbo della deglutizione e
del linguaggio: frequente è il reflusso di cibi, soprattutto liquidi, dal naso e il soggetto
accuserà anche la presenza di un disturbo dello speech, che si esprime mediante una
distorsione, sostituzione od omissione di uno o più foni/fonemi.

• Ipoacusie infantili
Le ipoacusie neurosensoriali infantili si intendono come delle riduzioni o delle vere e proprie
perdite della percezione sonora, che devono essere considerate nel contesto dello sviluppo
del linguaggio verbale dal momento che la progressiva acquisizione del linguaggio prevede
l’acquisizione di schemi motori, la cui correttezza viene via via saggiata e rinforzata (e gli
eventuali errori corretti) dal feedback acustico: è chiaro che venendo a mancare il feedback
auditivo durante il periodo dello sviluppo del linguaggio, si potranno avere delle
conseguenze su questo fronte, dei disturbi del linguaggio, di entità tanto più grave quanto
maggiore e perdurante è la deprivazione del feedback acustico: è chiaro che una ipoacusia
bilaterale che intervenga durante il periodo della lallazione sia estremamente più grave di
una che interviene a cinque o sei anni quando oramai lo sviluppo del linguaggio è in via di
completamento.
1) CLASSIFICAZIONE DELLE IPOACUSIE INFANTILI
Come del resto tutte le altre ipoacusie, anche quelle infantili possono essere classificate
sulla base di un criterio che faccia riferimento all’entità dell’ipoacusia e in base ad un altro
criterio che mette capo invece al meccanismo eziopatogenetico:
1. Entità:
a) Ipoacusie lievi (20-40 dB)
b) Ipoacusie moderate (41-55 dB)
c) Ipoacusie moderate-severe (56-70 dB)
d) Ipoacusie severe (> 70 dB)
e) Ipoacusie profonde (> 90 dB)
2. Sede del danno:
a) Ipoacusie trasmissive
b) Ipoacusie neurosensoriali
Le ipoacusie trasmissive sono quelle che intervengono a seguito di un danno a carico della
via di conduzione aerea del suono e generalmente, essendo monolaterali, non determinano
affatto alcun tipo di deficit del linguaggio, altro che nei casi in cui si riscontri una ipoacusia
trasmissiva bilaterale: in tal caso un esempio caratteristico è l’otite media sieromucosa,
che è una forma che nel bambino interviene bilateralmente e si giova nel proprio insorgere
della immaturità della tuba di Eustachio e della sua incapacità di assicurare un corretto
drenaggio delle secrezioni auricolari nonché di una condizione molto frequente nel bambino,
che è l’ipertrofia adenoidea (dal III grado in poi causa questa forma di otite). Si tratta di una
condizione che nel bambino è estremamente pericolosa per le sequele funzionali che può
scatenare, dal momento che oltre ad essere bilaterale si esprime esclusivamente mediante
ipoacusia, ovattamento e autofonia, in assenza di otalgia condizione, questa, che rende
particolarmente difficile l’inquadramento clinico della malattia che perdurando può deprivare
a lungo il bambino dell’eventuale insorgenza di un feedback acustico idoneo.
Differentemente, le ipoacusie neurosensoriali sono delle condizioni che conseguono ad un
danno cocleare o retrococleare e vengono ulteriorment classificate sulla base
dell’eziologia e dell’epoca di insorgenza:
1. Ipoacusie neurosensoriali genetiche:
a) Sindromiche:
i. Sindrome di Usher
ii. Sindrome di Pendred
iii. Sindrome di Treacher-Collins
iv. Sindrome brachio-oto-renale
v. Sindrome di Waardenburg
vi. Sindrome di Alport
b) Non-sindromiche:
i. Autosomiche recessive (connessina 26 o 30)
ii. Autosomiche dominanti
iii. Diaginiche
iv. Mitocondriali
2. Ipoacusie neurosensoriali non-genetiche:
a) Prenatali:
i. TORCH
ii. Ipossie/ischemie
iii. Disgenesie
b) Perinatali: legate al parto
c) Postnatali:
i. Infezioni
ii. Traumi della rocca petrosa
iii. Traumi cranici
Inoltre, dal momento che un aspetto di estrema importanza per questo tipo di patologie
pertiene alla presenza di un possibile disturbo del linguaggio, sussiste una ulteriore
classificazione delle sordità infantili in preverbali, verbali e postverbali.
Le tappe dello sviluppo del linguaggio verbale si articolano dai due anni ai cinque anni, e
sono (1) lallazione, (2) prime parole, (3) olofrasi, (4) due parole, (5) frase contratta, (6) frase
strutturata. Queste tappe possono durare anche fino ai 5 anni e durante queste tappe è
fondamentale avere il feedback acustico cioè l’apparato uditivo deve funzionare, dal
momento che nello sviluppo del linguaggio verbale il bambino mette in rapporto la sequenza
fono-articolatoria che all’inizio emette in maniera involontaria con la capacità uditiva e
ricava uno schema percettivo-motorio e che viene rinforzato dal feedback uditivo.
Affinché possiamo parlare di sordità infantile, sempre ai fini dello sviluppo del linguaggio
verbale, l’ipoacusia deve avere determinate caratteristiche cliniche:
1. Deve situarsi in questo percorso, quindi alla nascita o durante il corso dello sviluppo
in maniera tale da danneggiare il feedback uditivo;
2. Deve essere bilaterale, in quanto una ipoacusia monolaterale non da un problema
nello sviluppo del linguaggio verbale;
3. Deve essere stabile, duratura nel tempo;
4. Deve essere irreversibile, non curabile;
5. Deve essere elevata dal punto di vista dell’entità
La limitazione della capacità verbale è di solito tanto più elevata quanto più grave è il
deficit uditivo e minor tempo ha avuto il bambino di udire e memorizzare i segnali del
codice linguistico usato dagli adulti. Il grado del deficit uditivo e l’epoca in cui si manifesta
quindi sono i due elementi patogenetici che condizionano l’entità delle alterazioni del
linguaggio.
Nella storia naturale dei disturbi avremo ritardi del linguaggio, alterazioni della voce e della
risonanza e alterazioni dell’articolazione e quindi dislalie audiogene. Ciò che abbiamo detto
e che riguarda la storia naturale, però, oggi ha un valore relativo perché si può fare diagnosi
precoce delle sordità infantili che parte con le otoemissioni acustiche evocate (OAE) che
vengono impiegate come screening neonatale, in soggetti prematuri o con particolari
patologie, e continua con lo studio dei potenziali tronco-encefalici evocati (ABR) entro il
sesto mese nei pazienti in cui le otoemissioni acustiche evocate diano risultato patologico.
Questo è importante perché con la diagnosi precoce si può intervenire tempestivamente
con una riabilitazione audiologica mediante protesi acustiche o impianto cocleare, nei casi
più gravi. Ciò comporta una sorta di revitalizzazione del canale uditivo dove possibile e
quindi il bambino cerca, mediante una riabilitazione logopedica specifica, di imparare il
linguaggio verbale. In passato la diagnosi precoce non esisteva, non esistevano gli impianti
cocleari, ma le protesi che comunque richiedendo un minimo di capacità acustica, vista con
i residui uditivi, per amplificare i suoni. Ma se un soggetto ha dei residui uditivi importanti
per cui la protesi non è efficiente si ricorre all’impianto cocleare per recuperare la capacità
uditiva, il feeedback uditivo, per un corretto sviluppo del linguaggio verbale.
Grazie a questo i soggetti sordo-muti tipici di una volta con soglia superiore ai 90-95 dB,
non esistono più, naturalmente laddove si interviene in maniera tempestiva.
Infatti tanto più precocemente viene ristabilito il feedback acustico e la riabilitazione
logopedica, maggiore sarà la plasticità neuronale e migliori saranno i risultati: il periodo
migliore è tra 1 anno e 2 anni. Se un soggetto viene trattato dopo i 2 anni i risultati saranno
più scarsi.

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