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PATOLOGIE LARINGEE
Le patologie laringee possono dare uno o alcuni sintomi, e ogni patologia ha i propri sintomi
di esordio e di evoluzione:
a) Disfonia: si intende una alterazione della propria voce; è importante dire “proprio”
poiché la voce è un carattere antropometrico e ben preciso per cui il soggetto ha una
percezione di sé ben precisa in base alla voce. Con “antropometrico” si intende
connaturata ad ogni individuo.
b) Disfagia: sensazione soggettiva di difficoltà durante l’atto della deglutizione, ricordando
che la deglutizione riguarda sia cibi solidi che saliva/liquidi. Nel senso più patologico del
termine si manifesta nella cosiddetta sindrome disfagica1, pur se vi sono altre patologie
che per cause di carattere meccanico, oppure neurologico, possono determinare una
difficoltà nell’atto deglutitorio. Le difficoltà di deglutizione sono fondamentali da
considerare perché possono comportare polmonite ab ingestis.
c) Dispnea: si intende una sensazione soggettiva di difficoltà respiratoria che può
avere cause tra le più vaste e che pertiene all’otorinolaringoiatria anche perché di fronte
1
Sindrome disfagica: passaggio di cibi solidi e liquidi nelle vie aeree inferiori, una cui complicanza può essere la
polmonite ab ingestis
a un paziente dispnoico si può iniziare a capire con delle accortezze dove sta il problema,
cioè se abbia un problema pneumologico, cardiologico oppure neurologico.
d) Odinfagia: insorgenza di un dolore alla deglutizione che può ad esempio insorgere
conseguentemente ad una tonsillite.
Il dolore può essere
- diffuso,
- localizzato, per esempio “lateralizzato”: ingoiare una spina di pesce causa una dolore
puntorio lateralizzato
- irradiato, in genere verso l’orecchio e questa è un’evenienza importante.
e) Tosse: segno e sintomo
f) Emoftoe: emissione di un espettorato con strisce di sangue, con saliva e frammisto a
muco, in seguito ad un colpo di tosse
g) Emottisi: emissione di cospicue quantità di sangue dalle vie aeree, in seguito ad un
colpo di tosse
h) Ematemesi: emissione di sangue con vomito: presenza di sangue, solitamente
evidenziabile durante il vomito, proveniente dall’esofago, dallo stomaco o dal duodeno
(dispense vecchie).
i) Ororaggia: emissione di sangue dalla bocca senza tosse, è sintomo di patologia
dentaria.
Il soggetto può avere una diversa condizione di fuoriuscita di sangue dalla bocca, come
anche l’emottisi, l’ororragia e l’ematemesi. Tra emoftoe ed emottisi la differenza consiste
nella quantità di sangue emessa ma in entrambi i casi si verifica l’emissione con la tosse,
mentre l’ororragia si manifesta in assenza di tosse; ancora, l’emottisi si presenta con il
vomito.
Quindi occorre porre diverse domande:
i. Se vi è tosse
ii. Se vi è vomito
iii. Se la emissione con tosse avviene mista a saliva o meno
PATOLOGIA NASO-SINUSALE
a) Ostruzione respiratoria nasale: il soggetto con ostruzione respiratoria nasale non
è un soggetto dispnoico. Un soggetto che respira male dal naso va investigato in vari
modi:
i. Tempo da cui soffre della patologia
ii. Modalità di insorgenza
iii. Decorso: stabile, cronico, cronico-evolutivo o rapidamente evolutivo: in
quest’ultimo caso si pensa soprattutto a condizioni neoplastiche
iv. Se respira male da una o entrambe le narici
Vi sono patologie in cui il soggetto respira male solo da un lato, il che è rilevante dal
momento che un’ostruzione monolaterale può suggerire la presenza di un corpo
estraneo (accade frequentemente nei bambini), mentre la presenza di una ostruzione
bilaterale orienta verso una patologia distrettuale.
b) Rinorrea: fuoriuscita di secrezioni dalle cavità nasale; va chiesta la composizione,
mucosa, purulenta, alle volte sierosa monolaterale o bilaterale.
c) Starnutazione: segno e sintomo
d) Epistassi: fuoriuscita di sangue dalle fosse nasali, può essere anteriore/posteriore,
mono/bilaterale. In caso di epistassi, prima dell’eventuale valutazione del
trattamento, è necessario occludere le narici premendo sulle ali nasali in senso
latero-mediale e bilateralmente, mantenendo la testa del paziente flessa verso il
basso. Dopo aver trattato l’emergenza si definisce se l’espistassi è anteriore (a livello
delle narici) o posteriore (a ridosso del rinofaringe). Inoltre bisogna comprendere la
causa: le epistassi hanno cause locali oppure cause di ordine generale, poiché
molte volte è la prima spia di patologie di carattere generale e questo è comunque
un elemento di confondimento. Soggetti ipertesi molto spesso manifestano epistassi,
soggetti anticoagulati, trombocitopenie di varia natura anche in età infantile alle volte.
e) Iposmie o anosmie: disturbi dell’olfatto, riduzione o assenza della capacità olfattiva
f) Cacosmie: percezione di odori sgradevoli che in realtà non sono presenti
g) Parosmia: sensazione differente dalla realtà: percezione odorosa diversa rispetto a
quella reale
h) Cefalea: disturbo doloroso della testa, talora associato a dolorabilità di faccia e/o
collo: è la più comune tra le sindromi dolorose(dispense vecchie).
Bisogna distinguere la cefalea da seni paranasali e quella di tipo neurologico: non
bisogna confondere un mal di testa con sinusite.
Le patologie naso-sinusali si possono accompagnare a cefalea ma la problematica
nella pratica clinica è che le cefalee vengano subito attribuite a sinusopatie: al
contrario, una recente review scientifica ha stimato come solo il 9% dei soggetti con
cefalea e diagnosi di sinusopatia soffre effettivamente di sinusopatia (la probabilità
che un soggetto abbia cefalea a causa di una sinusopatia è bassissima / dispense
vecchie). In passato la diagnosi era anche confermata tramite RX dei seni paranasali,
indagine che oggi non viene utilizzata, perché le diagnosi sono cliniche in fase
acuta/subacuta o con TC senza mdc in fase ricorrente e cronica. La diagnosi di
sinusite è ben precisa e non va sottovalutata, per certi versi specialistica ma la cosa
importante è non confondere mal di testa e sinusite. Chiaramente, se il pz fa terapia
per sinusite ma il mal di testa non passa si tratterà di cefalea di tipo neurologico.
PATOLOGIA OTOLOGICA
PATOLOGIE ORO-FARINGEE
a) Disfagia
b) Odinfagia: dolore elicitato dal dolore, dolore che peggiora con la deglutizione
c) Faringodinia: si intende una sensazione dolorosa soggettiva, spontanea, non
esacerbata dalla deglutizione, che il paziente riferisce “alla gola” e può dipendere
da patologie faringee oppure non faringee, è un dolore spontaneo. Alle volte può
coesistere con l’odinfagia.
d) Sensazione di bolo faringeo: alcuni soggetti riferiscono la sensazione di “avere
qualcosa in gola” che non si muove, non potendo essere deglutito né espulso. La
si ritrova in varie situazioni patologiche, di cui una di queste è il reflusso gastro-
esofageo.
e) Ororragia: percezione di sangue nel cavo orale. Non essendoci né tosse né
vomito, la causa è prettamente orale (dentaria) o al massimo del rinofaringe
(dispense vecchie)
f) Scialorrea: alterazione della salivazione, sia per iperproduzione che per difficoltà
a contenere e gestire la saliva. I soggetti non trattengono saliva nel cavo orale
per aumento della produzione oppure per una alterazione della deglutizione.
g) Trisma e stomatolalia: rappresentano sintomi di una faringo-tonsillite
complicata che si esprime con un ascesso peritonsillare e con una
tumefazione della regione faringo-tonsillare, con spostamento mediale in genere
della tonsilla. La tumefazione in questione determina un cambiamento delle
volumetrie, cambiando l’acustica della voce, stomatolalia, mentre il trisma è
impossibilità o difficoltà di aprire la rima buccale. Il trisma può anche avere altre
cause, non solo otorinolaringoiatriche ma anche neurologiche, come il tetano
cefalico.
STOMATOLALIA: è un sintomo e un segno che corrisponde ad una tipica
mutazione vocale dovuta all’impedimento del passaggio di aria espiratoria
attraverso le narici; detta anche “voce di rospo” o “parlare con la polpetta in
bocca”. (dispense vecchie)
TRISMA: impossibilità o difficoltà ad aprire la rima buccale. Le cause più frequenti
sono di due tipi:
- cause neurologiche: come il tetano cefalico
- cause locali:
i. Neoplasie in stadio avanzato: raro oggi che un paziente arrivi a diagnosi
di carcinoma oro-faringeo per trisma, perché la neoplasia avrà prima
comportato disfagia, odinofagia, ororragia
ii. Ascesso peritonsillare: complicanza di tonsillite acuta batterica,
determina tumefazione oro-faringea che causa a sua volta stomatolalia
h) Disgeusia: alterazioni del gusto.
Tutti i sintomi vanno ricercati in termini di presenza o assenza della sintomatologia accusata
o misconosciuta dal paziente e in termini temporali, nonché corroborato dall’eventuale
approfondimento della sintomatologia generale, dell’anamnesi patologica remota. Esistono
anche altri sintomi, di competenza fonologica, come la disodia che è la alterazione della
voce cantata dal paziente.
ISPEZIONE
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Fosse nasali, condotto uditivo, membrana timpanica, rinofaringe, ipofaringe, laringe non sono accessibili
all’ispezione esterna.
uditivo più rettilineo e permettere quindi la convergenza dei raggi luminosi nel meato
acustico esterno: in questo modo si osservano meato acustico esterno e faccia
esterna della membrana timpanica.
La luce proviene da una lampadina che il medico porta fissata ad una fascia applicata
alla fronte: si tratta di un a sorgente luminosa e di un sistema di convergenza dei
raggi chiamato speculum auricolare.
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Chirugia ipofaringea-laringea: fonochirurgia o chirurgia laringea endoscopica con laser (microlaringoscopia).
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La lampada fissata sulla fronte del medico prende il nome di fotoforo: illumina l’area di intervento lasciando libere le
mani.
visione, mantenendo le mani libere e valutando le altre strutture organiche con gli
strumenti già visti oltre che con gli endoscopi a fibre ottiche.
• Altri strumenti utilizzati nella pratica clinica-ambulatoriale e in chirurgia:
- speculum nasale: per dilatare le narici
- abbassa-lingua: per visualizzare l’orofaringe
- aspiratori: per aspirare le secrezioni eventualmente presenti; sono tutti dotati di una
placchetta, una piastrina che ha al centro un foro che comunica con il lume
dell’aspiratore: quando il medico non vuole aspirare lascia il foro aperto, quando
decide di aspirare lo chiude.
- pinza a baionetta: per prelevare campioni
Tutti questi ferri sono angolati per garantire una buona visuale, altrimenti la presa
occuperebbe sia la visuale che il tragitto dei raggi luminosi.
PALPAZIONE
La palpazione permette di palpare strutture del massiccio facciale, del cavo orale e del
collo.
L’obiettività cervicale viene effettuata stando alle spalle del paziente, utilizzando i polpastrelli
delle quattro dita escluso il pollice: si fa deglutire il paziente, si fanno effettuare movimenti.
Il capo deve essere lievemente flesso per far rilassare le fasce e permettere quindi una
migliore palpazione: bisogna indagare la presenza-assenza di tumefazioni e la consistenza
di queste.
Disfonie
Con il termine disfonia si intende l’alterazione della propria voce ed è bene sottolinearlo
giacché la voce è un carattere che descrive strettamente la personalità di un individuo e più
specificatamente viene definito come un carattere antropometrico definito da alcuni
parametri, in particolare l’alterazione di uno o più parametri acustici della voce, ovvero:
1. Timbro
2. Intensità
3. Altezza
La disfonia è un segno/sintomo che può conseguire a patologie laringee o non-laringee,
dovute quindi a malattie che non determinano danneggiamento delle strutture laringee, per
cui ogniqualvolta si riscontri la presenza di una disfonia si aprono differenti ipotesi
diagnostiche in merito a quale possa essere la patologia che determini l’insorgenza di
questo segno/sintomo.
1) FONAZIONE
Durante la fonazione, si inspira volontariamente e successivamente si verifica un
cambiamento della respirazione da automatica a volontaria: le corde vocali si chiudono e
inizia l’espirazione. L’espirazione a glottide chiusa determina aumento della pressione
sottoglottidea fino a che questa non vince la pressione e apre le corde vocali: nel momento
in cui esse si aprono si verifica un crollo pressorio che genera un risucchio delle corde vocali,
che vibrano.
La laringe ha una struttura sfinteriale: durante la inspirazione le corde vocali si abducono e
nell’espirazione si adducono lievemente.
Il meccanismo della fonazione prevede quindi in successione:
1. Inalazione di aria (corde vocali aperte)
2. Chiusura glottica
3. Espirazione: dislocazione delle corde vocali
4. Ritorno in posizione delle corde vocali
In realtà, l’espressione di vibrazione delle corde vocali non è propriamente corretta dal
momento che non risulta vibrare interamente la struttura della corda vocale bensì lo strato
mucoso, che riveste le corde vocali stesse e che prospetta la cavità laringea. Questa
oscillazione dello strato mucoso è possibile da aversi dal momento che alla tonaca mucosa
delle corde vocali sottostà uno strato gelatinoso, che prende il nome eponimo di strato di
Reinke. La successione di eventi che comporta la vibrazione delle corde vocali, intesa come
uno scivolamento dello strato mucoso sullo strato di Reinke, prende il nome di onda o
oscillazione mucosa: durante la fonazione non vibra l’intera corda vocale bensì solo la
superficie mucosa.
La vibrazione presenta una frequenza all’incirca di 100 Hz circa nell’uomo e 200 Hz nella
donna, per cui non esisterebbero degli strumenti adeguati per poter cogliere questa
vibrazione, pur se si possa ricorrere ad un artificio diagnostico che si vale dell’utilizzo della
luce stroboscopica: detta luce è una luce a flash che dà l’illusione ottica di un movimento
ricostruito ma ovviamente questa vibrazione avviene molto più velocemente. Le
caratteristiche principali della voce, o meglio i parametri vocali sono:
1. Timbro: o colore, corrisponde ad un aspetto percettivo soggettivo della struttura
sonora, armonica e non, di un suono; esso dipende dalle caratteristiche di intensità
e frequenza delle armoniche componenti e dalla presenza di rumore (un problema di
acustica).
2. Intensità: quantità di energia sonora
3. Altezza: frequenza fondamentale
Una buona voce dipende da un rapporto equilibrato tra la tensione dei muscoli laringei e la
pressione della colonna aerea che determina la vibrazione delle corde vocali vere in
relazione alla tonalità ed all’intensità dei suoni che devono essere emessi. Quindi una buona
voce dipende da un rapporto molto equilibrato.
Nell’ambito delle disfonie, ve n’è una in particolare che consegue a sforzo vocale,
intendendosi con questa espressione due distinte qualità descritti con due termini mutuati
dalla scuola francese di foniatria:
1. Abuso vocale: errori di intensità, durata e velocità
2. Maltrattamento vocale: utilizzo di fonazione alterata in altezza, impostazione,
qualità, supporto respiratorio; associato ad abuso.
Ad esempio, alcuni soggetti parlano senza prendere aria e si può vedere come si
contraggono i muscoli del collo quando parlano. Il mancato rifornimento aereo mette sotto
sforzo le strutture fonatorie, peraltro questi soggetti presentano una respirazione non
perfetta e questo può portare a disfonia disfunzionale, per la quale l’aspetto precipuo è
l’anamnesi positiva per sforzo vocale.
2) APPROCCIO ALLE DISFONIE
Le disfonie possono essere intese anche come un segno/sintomo di malattia che alle volte
non è neanche squisitamente laringea, motivo per cui è necessario conoscerne tutte le
possibili cause, anche perché mediante un minimo di diagnostica differenziale si può
correttamente giungere alla diagnosi in tempi ragionevolmente brevi. Molto spesso infatti,
accade che le patologie laringee che causino disfonie o altre patologie non strettamente
laringee ma che si presentino con questo sintomo/segno presentano sintomi o segni clinici
poco evidenti, spesso non vi sono dolore, febbre o altri sintomi per cui alle volte la diagnosi
è abbastanza tardiva e questo sicuramente è un aspetto che limita il margine di intervento
sulla patologia che causi la disfonia stessa. Peraltro, molto spesso specialisti di altre
discipline che abbiano poca dimestichezza con questa manifestazione clinica potrebbero
erroneamente sottovalutare il problema, quando invece un paziente che lamenti una
disfonia deve essere rapidamente indirizzato a visita specialistica otorinolaringoiatrica.
Per questo motivo, al fine di scongiurare situazioni in cui si verifichino diagnosi tardive ogni
paziente con un cambiamento della propria voce perdurante da almeno due settimane
deve effettuare una endoscopia, che è da considerarsi come l’esame di base per la
diagnosi di una disfonia. In realtà, questa regola generale presenza anche delle eccezioni
dal momento che ogniqualvolta si riscontri un cambiamento improvviso della propria voce
si deve ricorrere all’esecuzione dell’endoscopia, dal momento che alle volte l’insorgenza
improvvisa della disfonia può essere spia clinica di una patologia acuta che necessiti di un
trattamento precoce, che evidentemente diverrebbe inefficace se si aspettassero le due
settimane per effettuare l’endoscopia.
Esempio di un caso clinico: una giovane madre cantante lirica grida con i suoi figli,
successivamente accusa una disfonia improvvisa, una riduzione delle capacità fonatorie;
viene sottoposta rapidamente ad endoscopia e si riscontra una formazione polipoide su una
corda vocale. La diagnosi endoscopica precoce ha permesso di effettuare una terapia
cortisonica, capace di far regredire la formazione nel giro di 3-4 giorni. Se l’endoscopia fosse
stata fatta dopo due settimane, la paziente avrebbe necessitato un intervento chirurgico,
con la possibilità di rovina della sua carriera.
3) CLASSIFICAZIONE
Come anticipato, la disfonia è un sintomo o un segno clinico per il quale, allorquando se ne
riscontri la presenza, sussistono diverse ipotesi eziopatogenetiche, per cui è necessario
conoscerne la classificazione dal momento che si basa sull’eziopatogenesi delle disfonie
stesse:
1. Disfonia disfunzionale da sforzo: si intende con l’espressione di disfonia
disfunzionale da sforzo una alterazione della propria voce, specificatamente del
timbro vocale e nella più parte dei casi nel senso della raucedine oppure della
prestazionalità vocale in assenza di modificazioni organiche. Se ne riconoscono
tre distinte qualità:
a) Disfonia disfunzionale da sforzo ipercinetica
b) Disfonia disfunzionale da sforzo ipocinetica
c) Disfonia disfunzionale da sforzo mista
2. Disfonia disfunzionale complicata con laringopatia: si intende in questo caso con
tale espressione una disfonia inizialmente insorta come una alterazione del timbro o
della prestazionalità vocale nella quale, ad una iniziale fase senza danno
morfologico, subentra un danno organico, esso stesso secondario alla disfonia
disfunzionale.
3. Disfonia psicogena: si definisce con l’espressione di disfonia psicogena una
disfonia che consegue a delle patologie o dei fenomeni di natura psichica e di
competenza psichiatrica; si tratta spesso di stati psichici che in qualche maniera
possono alterare lo stato emozionale del paziente e per il tramite di queste alterazioni
alterano la voce dal momento che determinano una alterazione del gesto fonatorio,
come accade anche nell’ambito delle disfonie disfunzionali da sforzo.
4. Disfonia da patologia della muta: si intende una patologia che si manifesta durante
la muta vocale, intendendosi con questa espressione il processo per il tramite del
quale durante la pubertà si verifica un cambiamento della voce, particolarmente nei
soggetti di sesso maschile dove la voce tende a divenire molto più grave e bassa. Si
tratta, infatti, di un fenomeno assolutamente fisiologico che è molto più lampante
nell’uomo che nella donna, anche in considerazione del fatto che le frequenze di
fonazione che si raggiungono nel soggetto adulto di sesso maschile si aggirano sui
100 Hz, la metà, circa, della frequenza di vibrazione delle donne adulte. La disfonia
da patologia della muta può conseguire a fattori psicogeni o ormonali e il
coinvolgimento di questi ultimi si spiega facendo riferimento al fatto che la voce è un
carattere sessuale secondario.
5. Disfonia organica: si intende con l’espressione di disfonia organica una alterazione
della propria voce conseguente a patologia laringea che risulta essere il movente
eziopatogenetico della disfonia. Si tratta di un gruppo di disfonie da considerarsi
diverso e distinto da quello delle disfonie disfunzionali complicate con lesione
organica secondaria, in cui pure si documenta un danno morfologicamente
identificabile. Sul piano concettuale queste due forme di disfonia differiscono per via
del fatto che la lesione organica è causa e conseguenza, in un caso o nell’altro, della
disfonia; sul piano clinico-diagnostico, solitamente quelli con una disfonia da sforzo
complicata con lesione organica sono soggetti con una anamnesi da sforzo positiva.
6. Disfonia neurologica: si intende con questa espressione una disfonia che consegue
ad un danno neurologico centrale o periferico, dal momento che la laringe è un
organo statico-dinamico che gode di una fine innervazione e allorché ne risulti un
danno dei centri motori che generano l’impulso nervoso ovvero delle lesioni che
alterino la conduzione dell’impulso nervoso a livello dei nervi periferici si può
verificare una disfonia neurologica.
Si può ben comprendere come vi siano differenti categorie classificative delle disfonie,
ognuna delle quali presieduta da un preciso meccanismo eziopatogenetico e, in ognuno di
questi meccanismi patogenetici, sono annoverate patologie diverse che possono dare la
risultanza medesima, cioè una disfonia appartenente ad una di queste categorie. Per cui
conoscere ognuna di queste categorie classificative e conoscere di ciascuna le varie
patologie che determinino l’insorgenza della disfonia è un aspetto estremamente importante
come guida nella pratica clinica per poter interpretare un segno/sintomo clinico tanto
misconosciuto talora quanto difficile da interpretare.
4) APPROCCIO DIAGNOSTICO
Solitamente, il primo approccio diagnostico per le disfonie è sempre quello di eseguire una
attenta anamnesi, al fine di poter documentare se sussistano dei fattori personali che
possano orientare verso la diagnosi di una di queste patologie. Infatti, non infrequentemente
soggetti che lamentino una disfonia documentano una anamnesi positiva per abuso vocale
(errori di intensità, durata o velocità) oppure maltrattamento vocale (errori di fonazione in
altezza o impostazione); ancora, la disfonia disfunzionale da sforzo solitamente incide con
maggiore frequenza in soggetti che utilizzino la voce come mezzo del proprio lavoro o, in
altri casi, in soggetti per i quali la voce è l’essenza stessa dell’attività lavorativa, come
cantanti o attori, soprattutto di teatro. Oltre agli eventuali fattori scatenanti, l’anamnesi deve
essere in grado di chiarire anche la modalità di esordio, se improvvisa o graduale, e il
decorso, se acuto o cronico, e l’eventuale sintomatologia regionale. Chiaramente,
l’anamnesi fornisce delle informazioni orientative, sia pure di estrema importanza, per
l’indirizzo diagnostico della disfonia, motivo per cui è necessario approfondire l’iter delle
disfonie innanzitutto con la laringoscopia tradizionale indiretta con fibre ottiche, a tutta
ragione annoverata come una metodica dell’esame obiettivo otorinolaringoiatrico, e
successivamente mediante l’utilizzo di indagini strumentali come la laringostroboscopia,
la valutazione aerodinamica e la valutazione elettroglottografica.
• DISFONIA DISFUNZIONALE DA SFORZO
Con l’espressione di disfonia disfunzionale da sforzo si intende una alterazione della
propria voce, in particolare del timbro o della prestazionalità della voce, che consegue ad
un abuso vocale o ad un maltrattamento vocale in assenza di lesioni organiche. Si tratta
quindi di una alterazione della funzione fonatoria corrispondente ad un difetto di
adattamento o di coordinazione degli organi che normalmente sono coinvolti nella
fonazione, per cui viene anche definita con il nome alternativo di disfunzione
pneumofonica, che dall’essere pura e cioè ascrivibile esclusivamente ad un difetto
funzionale, può divenire secondaria od organica allorquando in considerazione del
perdurante sforzo vocale che causa la disfonia subentri una lesione organica, che in
questo caso non è causa ma conseguenza della disfonia: tale è la disfonia complicata con
laringopatia.
1) CATEGORIE A RISCHIO
La disfonia disfunzionale da sforzo è una manifestazione che consegue ad un abuso vocale
o ad un maltrattamento vocale, per cui è chiaro che vi siano delle categorie maggiormente
a rischio, semplicemente perché in queste si verifica una concentrazione di sforzo elevata
nella voce. In questa categoria rientrano soggetti che tendono a gridare eccessivamente o
soggetti che svolgono professioni in cui la voce è un mezzo di esercizio o l’essenza
dell’attività lavorativa stessa, come gli insegnanti, nonché i cantanti, soprattutto quando
escano al di fuori del proprio repertorio di possibilità canora, lavoratori dei call-center,
militari che devono impartire ordini a voce alta e molto impostata. Sono da considerarsi a
rischio anche le madri di figli molto piccoli, che costituiscono una delle categorie in cui più
frequentemente queste problematiche si verificano.
2) FISIOPATOLOGIA
Quindi, la disfonia disfunzionale da sforzo consegue ad un errore di intensità, di durata e
velocità (=abuso vocale) o all’utilizzo di una voce alterata, ad errori in impostazione ed
altezza (=maltrattamento vocale) che alterano la gestualità dell’atto fonatorio. Infatti, al fine
di produrre una buona voce, è necessario che venga assicurato un finissimo equilibrio
pneumo-fonatorio, che si estrinseca tra l’atto respiratorio volontario, particolarmente quello
espiratorio giacché la fonazione avviene durante l’espirazione, e l’assetto della laringe, che
si pone con la propria muscolatura nel giusto assetto fonatorio, in considerazione del
segnale vocale che si intende riprodurre. Possiamo in definitiva dire che la produzione di
una buona voce è indissolubilmente legata all’equilibrio esistente tra la tensione dei
muscoli laringei e la pressione della colonna d’aria espirata che determini la vibrazione
delle corde vocali vere.
Dunque, similmente ad un atleta che, per il subentrare della stanchezza, commetta un errore
nell’esecuzione dello sforzo fisico, allo stesso modo l’assetto laringeo tende a variare con lo
sforzo vocale, per cui risulterà alterato rispetto a quello normale che è necessario alla
produzione di una buona voce: il risultato sarà inizialmente una alterazione del timbro,
particolarmente nel senso della raucedine. Pur tuttavia, la caratteristica di questa disfonia
è che non sia presente alcun danno morfologicamente identificabile e prova ne sia che il
soggetto, a seguito di un riposo vocale completo, riprende l’attività fonatoria normale. Lo
sforzo vocale è una condizione tipicamente parafisiologica che si riscontra soprattutto in
seguito alla necessità di adempiere a degli obblighi, ad esempio lavorativi in categorie
professionali per cui la voce rappresenti un mezzo o l’essenza stessa del lavoro, e se
protratto nel tempo lo sforzo vocale determina l’istituirsi di un circolo vizioso, tale per cui
lo sforzo vocale causi una alterazione della propria voce, in realtà di diversi parametri di cui
quello evidentemente più compromesso è il timbro, la quale alterazione comporta ulteriore
sforzo fonatorio per produrre la voce: quando questo circolo vizioso perduri a lungo si può
realizzare una vera e propria incoordinazione pneumofonica. Dunque, nella disfonia
disfunzionale sussiste una disfunzione pneumo-fonica, una mancanza dell’adeguato
equilibrio e della giusta energia con cui i diversi componenti dell’apparato pneumo-fonico
agiscono. Ciò determina una disfunzionalità la cui manifestazione più evidente è la disfonia.
Quindi si riscontrano:
1. Modificazione della dinamica respiratoria (costale superiore)
2. Modificazione della dinamica laringea
a) Assetto motorio ipercinetico
b) Assetto motorio ipocinetico
I comportamenti del vocal tract e del piano glottico sono caratterizzati da uno sforzo
muscolare fisiologicamente non necessario, che determina irregolarità dell’attività vocale e
respiratoria con alterazione dei parametri fonatori, tra i quali il timbro è quello compromesso
in modo evidente.
3) DIAGNOSI
Il percorso diagnostico per una disfonia disfunzionale da sforzo è indissolubilmente legato
alla presenza di uno sforzo vocale, che è la condizione necessaria affinché si possa
verificare questa forma di disfonia, che si presenta come una forma subdola e recidivante,
la quale tende a scomparire a seguito del riposo totale e tende a ricomparire nuovamente a
seguito di sforzi vocali. In questo caso, la sintomatologia è perlopiù legata alla presenza
della raucedine, che risulta essere la principale espressione dell’alterazione della propria
voce, in tal caso. In realtà, oltre che rauca, la voce può anche riscontrarsi soffiata,
strozzata, ruvida, aspra o pressata e il soggetto potrebbe riferire durante la fonazione
alcuni sintomi soggettivi come bruciore faringeo, irritazione, sensazione di corpo
estraneo o dolore durante la fonazione, senso di oppressione. Comunque, il concetto
fondamentale da considerare per fare diagnosi di una disfonia disfunzionale da sforzo è che
sia presente il dato anamnestico in assenza di alcun tipo di alterazione organica;
all’endoscopia laringea è possibile documentare eventualmente la presenza di un pattern
motorio preciso, che può caratterizzarsi con una eccessiva adduzione cioè costrizione
delle corde vocali, o per una eccessiva abduzione: si parla rispettivamente di disfonia
disfunzionale ipercinetica e ipocinetica, ancorché esistano anche delle forme di disfonia
disfunzionale da sforzo mista, che tuttavia sono di pertinenza prettamente specialistica.
4) TERAPIA
Generalmente, questa forma di disfonia necessita esclusivamente del riposo assoluto, con
cui evidentemente la voce può ritornare normale, anche se in alcuni casi è necessario il
ricorso alla riabilitazione logopedica.
• DISFONIA ORGANICA
Si intende con l’espressione di disfonia organica una alterazione della propria voce che
consegue ad un danno morfologicamente identificabile a livello laringeo, condizione
evidentemente molto diversa da quella che viene definita come disfonia disfunzionale da
sforzo complicata in cui la lesione è l’esito organizzato di un trauma da sforzo, conseguente
ad abuso o maltrattamento vocale; in questo caso, differentemente, non è un trauma vocale
che determini disfonia a causare la lesione, piuttosto è la lesione morfologicamente
documentabile ad essere la causa dell’insorgenza della disfonia. Dal punto di vista
classificativo, le disfonie organiche possono essere classificate dal punto di vista eziologico
in forme primitive e secondarie, vale a dire in considerazione del fatto che la disfonia sia
il sintomo di una patologia squisitamente laringea ovvero espressione di una patologia o di
una condizione dannosa che arreca secondariamente danno alla laringe stessa: in
quest’ultimo caso si descrivono disfonie secondarie a traumi, a reflusso gastroesofageo
oppure disfonie secondarie a medicamenti farmacologici o a presidi chirurgici.
1. Forme primitive:
a) Patologie congenite: si intende con questa espressione quell’insieme di
patologie in questo caso della laringe che sono presenti fin dalla nascita nei
soggetti in cui evidentemente è possibile che si riscontri una disfonia.
b) Patologie sistemiche con localizzazione laringea:
i. Artrite reumatoide
ii. Sindrome di Sjögren
iii. Amiloidosi
Si tratta di due patologie di competenza reumatologica, definite come
patologie autoimmuni di cui una, l’artrite reumatoide, è definita come una
polisinovite cronica delle grandi e delle piccole articolazioni pur se questa sia
una definizione calzante dal punto di vista fisiopatologico ma limitante dal
momento che l’artrite reumatoide è una patologia autoimmune potenzialmente
sistemica. La sindrome di Sjögren è una esocrinopatia autoimmune, che
colpisce caratteristicamente ghiandole esocrine, come le ghiandole salivari
maggiori, le ghiandole lacrimali, il pancreas e anche le ghiandole secretorie
che si trovano a livello della laringe e della trachea. In questi casi, se il soggetto
presenti una alterazione della propria voce perdurante per almeno quindici
giorni è obbligatorio eseguire una endoscopia di controllo, con la quale si può
confortevolmente avviare l’iter diagnostico della disfonia organica.
c) Infiammazioni:
i. Acute
ii. Croniche
Le flogosi possono essere una delle possibili cause dell’insorgenza di una
disfonia e tra le flogosi croniche che possono essere alla base dell’insorgenza
di una disfonia vi è la tubercolosi. Differentemente, tra le flogosi acute che
possono eventualmente determinare l’insorgenza di una condizione di questo
genere si riscontrano le laringiti acute, che sono delle patologie infiammatorie
della laringe prevalentemente su base virale, che spesso insorgono nel
contesto di una laringo-tracheobronchite; differentemente le epiglottiti
acute batteriche hanno poco a che vedere con le sindromi disfoniche,
essendo delle patologie che si manifestano con odinfagia, febbre e disfagia e
che si associano alla presenza di possibili ostruzioni dell’aditus laringeo, il
che è espressione della presenza di una patologia che induce alle volte a
dover eseguire una tracheotomia preventiva. Al netto delle epiglottiti acute
batteriche, le laringiti acute virali sono delle patologie anche discretamente
frequenti, che si associano a tosse, febbre e sindrome influenzale, astenia
che generalmente si risolvono in maniera favorevole senza dover
necessariamente ricorrere alla terapia. Soprattutto in ambito
otorinolaringoiatrico, l’aspirina è un farmaco da utilizzare con estrema cautela;
difatti si tratta di un farmaco ad azione antinfiammatoria, antipiretica e
analgesica ma è anche un farmaco che agisce come antiaggregante
piastrinico, il che è un aspetto estremamente pericoloso da considerare in un
paziente con laringite acuta e sindrome disfonica. Infatti, di per sé la disfonia
impone uno sforzo al fine di produrre la voce e questo sforzo accoppiato
all’azione antiaggregante dell’aspirina può provocare delle vere e proprie
emorragie cordali, che rendono assai più complicata una situazione di per sé
a decorso favorevole. Per questo motivo, la terapia unica per la disfonia da
laringite acuta virale è il riposo vocale completo.
d) Lesioni neoplastiche:
i. Precancerosi
ii. Benigne
iii. Maligne
Alle volte, a livello laringeo possono insorgere delle lesioni francamente
neoplastiche o delle lesioni che precorrono il carcinoma vero e proprio e tali
sono le eritroplachie o le leucoplachie vale a dire delle placche biancastre che
si possono riscontrare a livello della laringe. Differentemente, le lesioni
propriamente definite come tumori laringei possono essere suddivise in due
differenti entità clinico-patologiche distinte, vale a dire i tumori benigni,
spesso papillomi ad eziologia virale, e tumori maligni, vale a dire carcinomi,
più spesso di istotipo squamoso a vari gradi di differenziazione tumorale.
Sfortunatamente, a livello laringeo sono più frequenti i tumori maligni di quelli
benigni. Queste lesioni, nell’ambito della patologia disfonica hanno una duplice
identità nel senso che possono di per loro predisporre allo sviluppo di una
disfonia in alcuni casi, mentre in alcuni altri è la chirurgia oncologica,
soprattutto per i tumori maligni, a determinare per necessità di sacrificio del
nervo laringeo o per danno collaterale durante l’intervento una disfonia, ma in
questa cerchia di casi si parla di una ben precisa forma di disfonia secondaria
a chirurgia.
e) Disendocrinie: soprattutto quelle di carattere generale che possono tra i vari
effetti anche determinare una alterazione della laringe, soprattutto perché la
laringe è un organo ormone-dipendente.
2. Forme secondarie:
a) Chirurgia oncologica funzionale: si definisce in questo modo una disfonia
che consegue alla presenza di un intervento chirurgico eseguito al fine di
rimuovere una neoplasia, soprattutto se trattasi di neoplasia maligna, in cui la
priorità dell’intervento chirurgico è quello di perseguire un esito radicale, per
cui di estrema importanza in questi casi è la eradicazione completa della
neoplasia e, chiaramente, a fronte della necessità di essere quanto più radicali
è possibile al fine di migliorare quanto possibile la prognosi del paziente, la
necessità di preservazione di una buona voce diviene secondaria e tanto è
vero questo che vi sono neoplasie per le quali al fine di raggiungere l’R0 si
deve necessariamente asportare una corda vocale; in tal caso chiaramente il
soggetto con una sola corda vocale presenterà una disfonia che è una
problematica in questo contesto secondaria, dal momento che poi si può
avviare un programma di riabilitazione logopedica per migliorare la produzione
della voce.
b) Iatrogena postchirurgica: tutte le disfonie conseguenti a chirurgia diversa da
quella oncologica per rimozione di un carcinoma della laringe, sono da
considerarsi come delle disfonie iatrogene postchirurgiche e in particolar
modo, gli interventi di chirurgia laringea per rimozione di lesioni benigne come
un polipo o gli interventi di chirurgia tiroidea possono presentare come
possibile complicanza quella della disfonia. Difatti, è possibile che si riscontri
tipicamente un danneggiamento accidentale del nervo laringeo ricorrente
molto più frequentemente che del nervo laringeo superiore. Il ricorrente può
essere reciso per errore altro che nei casi in cui la infiltrazione neoplastica del
nervo non ne imponga il sacrificio. Tuttavia, l’approccio tecnico alla
tiroidectomia per il cancro della tiroide è notevolmente migliorata, ma questo
non vuole affatto significare che non possano verificarsi delle complicanze
come ad esempio può essere una contusione o un danneggiamento del nervo
stesso che causa quella che prende il nome di paralisi periferica
ricorrenziale. La diagnosi anche in questo caso deve essere rapida e tanto è
vero questo che si esegue endoscopia preoperatoria raccomandando poi un
altro esame endoscopico in caso di disfonia post-chirurgica, al risveglio: in
questo modo si possono eseguire per tempo dei tentativi terapeutici
allorquando si manifesti la disfonia.
c) Iatrogena medica: diversi sono i presidi farmacologici per os o inalatori che
possono determinare una disfonia e tra questi vi sono gli antistaminici, i quali
sono inclusi nel novero delle possibili cause di una disfonia medicamentosa
dal momento che inducono secchezza della mucosa di rivestimento cordale.
Se la mucosa delle vie aeree è secca, si possono avere delle alterazioni alle
volte anche lacerative che predispongono alla insorgenza della disfonia.
Conoscere questo aspetto ha una estrema rilevanza pratica dal momento che
da questo ne viene che in corso di patologie o problemi di voce non va mai
somministrato un antistaminico. Rientrano, nel novero dei farmaci che
possono causare disfonia, anche furosemide, terazosina, metildopa,
farmaci anti-Parkinson (L-dopa) o cortisonici inalatori. Le particelle
cortisoniche possono depositarsi sulla mucosa laringea, causando secchezza,
riduzione dell’elasticità e ipotrofia del muscolo delle corde vocali. Inoltre, i
corticosteroidi, essendo dei farmaci che debilitano la risposta immunitaria,
possono agire come fattori favorenti verso infezioni micotiche, pur tuttavia
rare, che si manifestano con chiazze biancastre visibili endoscopicamente. In
questi casi, il problema sussiste nel sospendere il cortisonico oppure nel
proseguire il trattamento. L’aspirina, già prima citata, rientra nel novero dei
farmaci possibilmente in causa in una disfonia dal momento che predispone
invece ad emorragie cordali.
d) Traumi: si tratta di disfonie che conseguono a traumi esterni che arrecano
danno alla laringe e nel novero dei traumi, oltre a quelli accidentali o da
incidente stradale, da ferita da arma da taglio e da qualsiasi altra arma che
possa potenzialmente arrecare un trauma del collo, si devono anche
annoverare le intubazioni.
e) Reflusso laringofaringeo: si tratta di un reflusso di materiale proveniente
dallo stomaco in forme clinicamente silenti di reflusso gastroesofageo, alle
volte di difficile inquadramento dal momento che è possibile che il quadro
clinico sia assolutamente silente per sintomi caratteristici del reflusso
gastroesofageo come la pirosi e il rigurgito.
f) Presbifonia: si intende con l’espressione di presbifonia una alterazione della
propria voce secondaria a invecchiamento, dal momento che si verifica con il
corso degli anni una progressiva atrofia cordale con riduzione dell’elasticità
delle strutture cordali: questi fenomeni iniziano all’incirca dopo i quarant’anni
e descrivono quella che prende il nome di presbilaringe.
Quindi, questa classificazione è da tenere strettamente in considerazione nell’ambito della
diagnostica delle disfonie, dal momento che la ricerca di uno di questi elementi diviene un
vero e proprio algoritmo diagnostico che può essere estremamente utile al fine di chiarire
quale sia o quale possa essere la causa che sta alla base della disfonia.
1) PATOLOGIA CORDALE CONGENITA
Si intende con l’espressione di patologia cordale congenita una anomalia dello sviluppo
delle corde vocali, che sostanzialmente determina una disfonia (=alterazione della propria
voce) che assume un carattere cronico e peggiorativo allorquando subentrino abusi o
maltrattamenti vocali. Le varie anomalie malformative congenite delle corde vocali possono
essere:
1. Cisti epidermoide: si intende una lesione occupante spazio dotata di un epitelio di
rivestimento proprio che circoscrive il lume della cisti stessa. Si tratta di una lesione
occupante spazio che alle volte può presentare una così sottile parete di rivestimento
da lasciare intravedere endoscopicamente delle ectasie vascolari. Secondo una
teoria patogenetica, si pensa che la cisti epidermoide sia una malformazione
congenita della laringe che possa andare incontro ad una apertura tal che ne residui
una incisura con epitelio sottile e sostanzialmente atrofico e in base al fatto che
questa incisura abbia una andatura longitudinale o più ampia e ristretta in senso
sagittale, si definiscono rispettivamente sulcus glottidis e vergeture.
2. Sulcus glottidis: si intende con l’espressione di sulcus glottidis una incisura a
sviluppo longitudinale, cioè il cui asse maggiore è parallelo a quello di sviluppo della
corda vocale. In fibrolaringoscopia appare come una invaginazione longitudinale che
si approfonda verso lo spazio di Reinke, che si caratterizza per l’aspetto biancastro.
3. Vergeture: si tratta di una regione invaginata della mucosa della corda vocale che
appare molto meno sviluppata in senso longitudinale rispetto al sulcus glottidis,
presentandosi caratteristicamente come una lesione che è più o meno adesa al
legamento vocale.
4. Ponte mucoso: si intende una anomalia malformativa in cui si riscontra una
bandarella mucosa che media la connessione tra le due corde vocali.
5. Microdiaframma della commessura anteriore: corrisponde ad una struttura che
residua a seguito dell’assenza di separazione delle due corde vocali durante lo
sviluppo. Difatti, le due corde vocali si separano anteroposteriormente durante lo
sviluppo, per cui se questa separazione non è completa dall’indietro in avanti, si può
riscontrare l’insorgenza di un microdiaframma a livello della commessura anteriore.
Estremamente suggestiva è la teoria eziopatogenetica europea del sulcus glottidis e della
vergeture che sarebbero due esiti differenti della cisti epidermoide, teoria, questa, che è
accettata anche dalla comunità scientifica americana, che tuttavia ipotizza anche una
compartecipazione flogistica che darebbe degli esiti cicatriziali della lesione.
Comunque, a prescindere dall’eziopatogenesi, nei soggetti con disfonia per patologia
congenita si riscontra fin dall’infanzia una leggera raucedine che si giustifica in funzione
di una alterazione dell’onda mucosa dovuta al sulcus o alla vergeture, tale per cui venga
meno lo scorrimento dall’alto in basso e in senso lateromediale dell’onda di oscillazione
mucosa, generando un segnale fonatorio sporco. La disfonia in questi soggetti è cronica
con andamento peggiorativo in funzione delle richieste vocali (raucedine indotta da eventi
acuti, subacuti o recidivanti) e tanto è vero questo che i pazienti con patologia cordale
congenita giungono a diagnosi in maniera accidentale o suggerita (soprattutto da soggetti
che non si conoscono). In questo caso l’andamento della disfonia nelle prime fasi è
disfunzionale da sforzo, intendendosi con questo paragone il fatto che la disfonia peggiori a
seguito di uno sforzo, per poi ritornare alla normalità (intesa come normalità della voce prima
dello sforzo) con il riposo. Pur tuttavia, se il maltrattamento o l’abuso vocale perdura, nel
periodo intercritico si sviluppano delle lesioni traumatiche che fanno evolvere la condizione
da una disfonia da sforzo a una disfonia organica. La diagnosi di questa variante di
patologia delle corde vocali si esegue sulla base del reperto dirimente dell’endoscopia, ma
può essere sospettata per tutti quei soggetti che lamentino una perlomeno leggera
raucedine fin dalla prima infanzia e in cui a seguito di sforzi intervenuti di recente si sia
notato un ulteriore peggioramento della disfonia.
La terapia per questi soggetti si muove su due fronti differenti, cioè la possibilità di
correggere chirurgicamente la lesione congenita che è alla base della disfonia e, oltre che
asportare la lesione, sulla prevenzione delle recidive dal momento che si tratta di soggetti
predisposti a sviluppare recidive. In questo caso le lesioni traumatiche sono secondarie alle
lesioni congenite che di per loro sono trattate con interventi chirurgici molto particolari, altro
che nel caso delle cisti il cui trattamento è piuttosto banale, prevedendosi come tecnica
chirurgica quella di divaricazione delle corde vocali e di successiva rimozione della cisti; in
questi casi, il microscopio aiuta ad avere una migliore risoluzione. Il trattamento chirurgico
deve essere altamente modulato in funzione del paziente anche perché basta un piccolo
errore tecnico dell’intervento per peggiorare la situazione. La fonochirurgia è un campo che
va ben oltre il semplice ripristino della morfologia normale della corda vocale e che dipende
dal complesso equilibrio tra necessità del paziente, indicazioni terapeutiche e tecniche
chirurgiche.
2) NEOPLASIE BENIGNE
Sono una delle possibili cause primitive di insorgenza di una disfonia organica e sono
essenzialmente dei papillomi, che possono essere singoli o multipli e quando lo siano può
esservi una multifocalità sincrona o metacrona, quest’ultima nel momento in cui si riscontri
la presenza di un atteggiamento recidivante delle lesioni. I papillomi per definizione sono
delle lesioni neoplastiche benigne, che conseguono alla infezione da HPV6 o HPV11 e che
si presentano come delle formazioni vegetanti dalla superficie moriforme. Si tratta di lesioni
che possono localizzarsi, rimanendo nell’ambito strettamente laringeo, in sede
sopraglottica, glottica o sottoglottica e alle volte possono essere estremamente ingombranti
da determinare una ostruzione respiratoria: le dimensioni elevate e il rischio di ostruzione
respiratoria, nonché una franca ostruzione respiratoria in atto sono indicazioni assolute alla
chirurgia d’urgenza dei papillomi, che vengono diagnosticati eventualmente mediante
l’esecuzione di una endoscopia. Nel caso che non siano così tanto di grandi dimensioni da
ostruire il passaggio dell’aria, i papillomi possono, localizzandosi a livello delle corde vocali,
interferire con l’onda di oscillazione mucosa e determinare una disfonia. Essendo delle
lesioni ad eziologia virale, possono essere assolutamente responsive al trattamento con
farmaci antivirali, anche se è possibile disporne l’asportazione chirurgica in elezione e non
d’urgenza.
3) PATOLOGIA FLOGISTICA DELLA LARINGE
Le flogosi, più frequentemente quelle acute dacché quelle croniche siano rare, possono
determinare una disfonia. In questo caso la situazione pertiene soprattutto a delle laringo-
tracheobronchiti ad eziologia virale che si manifestano mediante dei sintomi locali come la
tosse e una sensazione di bruciore che si associano alla presenza di sintomi come astenia
e febbre. Differentemente da queste patologie che nella più parte dei casi hanno eziologia
virale, l’epiglottite acuta batterica, che è un’entità clinico-patologica estremamente
pericolosa determina delle problematiche di tipo disfagico o di tipo ostruttivo delle vie
respiratorie.
Infatti, il quadro clinico è caratterizzato da febbre, disfagia, odinfagia ed ha una evoluzione
piuttosto subdola giacché, nell’ambito di una flogosi delle vie aeree, fa più spesso sospettare
una faringite acuta o faringotonsillite acuta, mentre in realtà c’è qualcosa di più importante:
difatti in questi quadri sintomatologici si fa sempre una laringoscopia per verificare lo stato
dell’epiglottide.
Accade talora che l’epiglottite acuta vada incontro ad una evoluzione ascessualizzante
con iniziale esternalizzazione dell’ascesso.
L’epiglottite acuta batterica, piuttosto che avere a che fare con una sindrome disfonica,
pertiene soprattutto ad una sindrome disfagica, ma ha una sua importante pericolosità:
accade talora che si verifichi una tumefazione situata proprio sull’aditus laringeo che può
assumere volume tale da bloccare l’aditus risultandovi come conseguenza un quadro di
insufficienza respiratoria acuta, tanto è vero che talvolta si è costretti a eseguire una
tracheotomia per assicurare la capacità respiratoria e permettere il trattamento della
condizione patologica, ancorché nella più parte dei casi il trattamento medico sia sufficiente.
4) DISFONIA MEDICAMENTOSA
Si intende una alterazione della propria voce secondaria a dei presidi farmacologici che
causano lesioni delle corde vocali. Si riconoscono molti farmaci in grado di generare questo
sintomo/segno:
1. Antistaminici
2. Corticosteroidi
3. Anti-parkinsoniani
4. Metildopa
5. Aspirina
6. Diuretici
Gli antistaminici sono farmaci che causano secchezza del vocal tract, delle corde vocali.
L’onda mucosa delle corde vocali è finissima, richiede un gran livello di elasticità della
mucosa di rivestimento cordale ed è chiaro che se questa venga meno si abbia
un’alterazione dell’onda di oscillazione. Gli antistaminici quindi, alterando lo scorrimento
dell’onda mucosa, possono essere responsabili di disfonia iatrogena medica. Infatti, con
i problemi di voce non si somministra mai l’antistaminico. L’antistaminico si utilizza quando
c’è un problema di allergia, ma assolutamente non si somministra in caso di flogosi acute
su base infettiva.
Gli antidepressivi triciclici causano normalmente secchezza, difatti vengono utilizzati in
soggetti con scialorrea per cercare di diminuire la secrezione salivare, quindi migliorare la
sintomatologia. Hanno tuttavia effetti collaterali di altra natura.
Estremamente frequente come disfonia iatrogena secondaria a presidi farmacologici è
l’alterazione della voce che consegue ad assunzione di steroidi inalatori, soprattutto in
quei soggetti asmatici per i quali è prevista la terapia, soprattutto nelle forme di asma grave,
con PAF cortisonici; a lungo andare conseguentemente a questo trattamento cortisonico
topico per via inalatoria, le particelle si stratificano sulle strutture laringee cordali e causano
secchezza e perdita di elasticità, ma non solo, possono causare anche fenomeni di
ipotrofia a livello delle strutture cordali. I trattamenti cortisonici prolungati possono agire da
fattori favorenti per l’insorgenza di fenomeni micotici, quindi micosi laringee o faringee,
evenienze tuttavia abbastanza rare.
I pazienti in cui si rilevano fenomeni micotici delle prime vie aereo-digestive sono in genere
soggetti debilitati, sottoposti a chemioterapia o trattamenti cortisonici prolungati, il che
significa che la valutazione di queste infezioni che appaiono come degli induiti biancastri
endoscopicamente documentabili affiancata ad una corretta anamnesi farmacologica può
risultare dirimente. Molte volte ai primi sintomi viene subito sospesa la somministrazione del
cortisonico inalatorio.
L’aspirina, di cui si è già detto, è considerata come una possibile causa iatrogena della
disfonia dal momento che predispone alle emorragie cordali.
5) PRESBIFONIA
Si intende una alterazione della propria voce che consegue ad un processo di
invecchiamento che si verifica dai quarant’anni in poi e si caratterizza per la presenza di una
ipotrofia delle corde vocali e di perdita progressiva dell’elasticità. Rispetto al processo vocale
delle aritenoidi si possono distinguere due porzioni che sono la glottide cartilaginea, situata
posteriormente, e la glottide membranosa che occupa i due terzi anteriori. Normalmente,
durante il corso della fonazione, nei soggetti con laringe normotrofica e con elasticità
normale i processi vocali vibrano e le corde vocali si adducono; differentemente nel caso
della presbifonia, si riscontra una riduzione dell’elasticità ed una ipotrofia cordale, che
descrivono il quadro noto come presbilaringe e che si caratterizza per vibrazione dei
processi vocali che si toccano senza che vi sia una completa adduzione delle corde vocali
conseguente alla ipotrofia muscolare: la glottide nella fase fonatoria appare ovalare. Si tratta
di una patologia da non considerarsi assolutamente banale.
6) REFLUSSO FARINGOLARINGEO
Si intende con l’espressione di reflusso faringolaringeo la distrettualizzazione della
sintomatologia e delle lesioni morfologiche causate dalla malattia da reflusso
gastroesofageo a livello della laringe o del faringe. La malattia da reflusso gastroesofageo
è una patologia di competenza gastroenterologica che si definisce come caratterizzata da
episodi di reflusso patologico, tale per cui i sintomi che ne siano alla base, cioè soprattutto
pirosi e rigurgito, interferiscano con la qualità della vita del soggetto. Pur se sia una patologia
di competenza del gastroenterologo, alle volte la malattia da reflusso gastroesofageo si
caratterizza per la presenza di sintomi extraesofagei, tra cui quelli che si riscontrano a livello
laringeo o faringeo. La spiegazione del perché alle volte sussistano sintomi extraesofagei a
carico della laringe o del faringe piuttosto che pirosi e rigurgito che sono i sintomi
classicamente associati alla malattia da reflusso gastroesofageo riguarda il fatto che alle
volte il reflusso staziona molto poco tempo in esofago per poter determinare sintomi
esofagei e prova ne sia il fatto che in questi casi difficilmente si riscontrano sintomi come il
dolore retrosternale che è invece modalità frequente di presentazione della GERD quando
dia luogo a sintomi in loco. In questo caso i sintomi possono anche essere abbastanza
marcati a livello faringo-laringeo semplicemente perché si tratta di organi nei quali il
rivestimento mucoso è assolutamente inadatto a tollerare uno stimolo acido, ancor meno
adatto di quanto non lo sia per l’esofago dove peraltro alterazioni di natura flogistica o
addirittura metaplastica e displastica possono verificarsi se il reflusso perduri per lungo
tempo. Dal punto di vista sintomatologico, il reflusso faringolaringeo si esprime clinicamente
mediante l’insorgenza di una raucedine, nient’altro che una alterazione del timbro vocale
che a tutta ragione può considerarsi come una disfonia. Spesso i pazienti in cui si verifichi
il reflusso faringolaringeo presentano una certa necessità di schiarimento della gola e
possono riferire una ipersecrezione mucosa, che può essere intesa come il tentativo reattivo
della mucosa di proteggersi dall’aggressione determinata dal reflusso acido in questione.
Occorre considerare che sussiste, inoltre, la possibilità di aversi una sensazione di bolo
faringeo; il paziente potrebbe anche riferire la presenza di una difficoltà di deglutizione o di
transito alimentare, ma in questi casi il transito avviene normalmente poiché la motilità
esofagea non è alterata e questo lo si documenta eventualmente con la manometria
esofagea, che è in realtà un esame che viene indicato soprattutto quando si necessiti, in
pazienti giovani e scarsamente aderenti alla terapia medica, della plastica antireflusso per
la quale informazione estremamente importante è il tono dello sfintere esofageo inferiore. Il
paziente può anche riferire tosse cronica, soprattutto in posizione supina, posizione questa
in cui tutti i sintomi vengono esacerbati dalla maggiore tendenza al reflusso che deriva da
questa posizione. Dal punto di vista endoscopico, si possono riscontrare alcuni reperti
come lo pseudosulcus glottidis, l’edema delle corde vocali, l’ipertrofia della
commessura posteriore, l’iperemia diffusa, l’obliterazione del ventricolo oppure il
granuloma laringeo posteriore; come anche l’ipertrofia della commessura posteriore, il
granuloma interviene a questo livello perché questa è la regione maggiormente esposta
all’insulto acido. Si tratta di una formazione più o meno sessile, a volte peduncolata, situata
a livello del processo vocale dell’aritenoide, motivo per cui viene anche indicato con il nome
alternativo di granuloma aritenoideo. Questi granulomi a volte lisci, bilaterali a volte più
irregolari, generalmente si situano posteriormente.
Il trattamento è medico, bisogna eliminare il reflusso: questi evidentemente recidivano nel
qual caso non si tratti opportunamente il reflusso gastroesofageo. Il trattamento chirurgico
è indicato solo in caso di ingombri meccanici molto importanti che limitino la liberta dei
movimenti e la pervietà dello spazio glottico. Il granuloma laringeo posteriore può avere
anche un’altra eziopatogenesi: l’intubazione; data la giacenza del tubo proprio nelle regioni
posteriori laringee, esso può causare l’insorgenza del granuloma laringeo posteriore
conseguentemente all’evoluzione granulomatosa delle lesioni da decubito. La diagnosi
differenziale tra le due possibilità eziopatogenetiche è facile: tramite l’anamnesi si
comprende se il paziente ha subito intubazione o meno.
• DISFONIA NEUROLOGICA
La disfonia neurologica è una alterazione della propria voce che consegue a cause di
carattere neurologico; si tratta di una delle varianti di disfonia di più difficile inquadramento
dal momento che in questi casi il reperto endoscopico, a meno che non sussistano
coesistenti lesioni, a livello laringeo è negativo; in generale in tutti quei casi in cui non siano
documentabili delle lesioni a livello laringeo e in cui sussista la presenza di una disfonia,
altro che nei casi in cui vi sia una anamnesi certa per abuso o per maltrattamento vocale, la
diagnosi è sempre molto fine e approfondita, quasi ad esclusivo appannaggio dello
specialista foniatra. Le due condizioni, ultraspecialistiche, che si descrivono nel contesto
delle disfonie neurologiche sono costituite dal movimento vocale paradosso e dalla
disfonia spasmodica.
1) CENNI SULL’INNERVAZIONE DELLA LARINGE
Dunque, la laringe è un organo che presenta sia una innervazione sensitiva che una
innervazione motoria, essendo la prima delle due quella che si fa carico della veicolazione
della sensibilità laringea, per il tramite dei recettori di parete, che sono sostanzialmente
recettori della sensibilità viscerale, essendo i rami che innervano la laringe dei rami del vago.
L’innervazione motoria riguarda differentemente i muscoli della laringe. I rami del vago che
si fanno carico della innervazione della laringe sono il nervo laringeo superiore e il nervo
laringeo inferiore o ricorrente. Diramatosi dal vago, il nervo laringeo superiore decorre in
senso lateromediale e superoinferiore, dividendosi nei suoi due rami a livello del grande
corno dell’osso ioide. Il nervo laringeo ricorrente ha un differente decorso a destra e a
sinistra, venendo rilasciato nel primo caso all’altezza della biforcazione dell’arteria anonima
nella carotide comune di destra e dell’arteria succlavia. A questo livello gira intorno alla
biforcazione arteriosa avvolgendola antero-infero-posteriormente e risale fino alla laringe;
differentemente a sinistra il ramo del nervo laringeo ricorrente viene rilasciato all’altezza
dell’arco dell’aorta, attorno al quale forma un’ansa che avvolge l’arteria dall’avanti all’indietro
e quindi risale entrando in stretto rapporto, come anche il controlaterale, con la faccia
posteriore dei lobi tiroidei, per poi raggiungere la laringe.
2) MOVIMENTO VOCALE PARADOSSO
Condizione di estremo interesse specialistico e squisitamente foniatrico, il movimento
vocale paradosso rientra nelle forme neurologiche di disfonia considerandosi e definendosi
come una condizione in cui venga perduto il meccanismo altamente coordinato di abduzione
e adduzione che si verifica nel contesto della fonazione. Normalmente, quando si debba
eseguire la fonazione, si verifica dapprima una transizione dalla respirazione automatica
alla respirazione volontaria e quindi durante l’atto inspiratorio le corde vocali inizialmente
abdotte per consentire il passaggio di aria, si adducono, quando la fase inspiratoria sia
completata. Quindi, quando si debba fonare, prima dell’espirazione le corde vocali si
abducono totalmente, di modo che la colonna di aria espirata trovi un ostacolo che
determina un aumento della pressione. L’aumento della pressione sottoglottica forza
l’apertura delle corde vocali, che si aprono tal che si generi l’onda di oscillazione mucosa la
quale consegue al crollo di pressione che si verifica all’apertura delle corde vocali quasi che
si generi una onda di risucchio. Dal momento che la fonazione implica una respirazione
volontaria, normalmente durante un discorso si eseguono delle pause per “prendere fiato”,
cioè per rifornire di aria necessaria alla fonazione. Accade talora, nei soggetti che siano
affetti da un movimento vocale paradosso, questa fine coordinazione venga perduta, tal che
le corde vocali non si adducano più dopo che sia avvenuto il passaggio inspiratorio di aria,
piuttosto si adducono prima del passaggio e in fase espiratoria le corde vocali tendono a
abdurre molto più del dovuto. In questi casi, alla diagnosi si arriva mediante storia clinica di
una disfonia e di una dispnea di lunga durata in assenza di reperti endoscopici, anche se
l’endoscopia può documentare il movimento paradosso durante la respirazione e la
fonazione. È una diagnosi, quella di movimento vocale paradosso, ultraspecialistica, che
pertiene propriamente ed esclusivamente allo specialista foniatra.
3) DISFONIA SPASMODICA
È una alterazione della propria voce a carattere cronico e accessionale, il che significa
che la patologia, sempre presente per lungo tempo, si manifesta con accessi disfonici a
distanza temporale l’uno dall’altro, e si può definire come una disfonia definita dalla
presenza di una eccessiva contrazione dei muscoli della fonazione, i quali come è ben
noto possono andare incontro a contrazione determinando abduzione o adduzione delle
corde vocali; la prima delle due situazioni è quella che descrive la cosiddetta disfonia
spasmodica abduttoria e la seconda è quella che definisce la disfonia spasmodica
adduttoria, pur se esistano anche dei casi di disfonia spasmodica mista, ancorché la
prima e la terza siano due condizioni abbastanza più rare della disfonia spasmodica
adduttoria, che è tra le tre la forma più frequente. In questo caso, la caratteristica principale
è quella di una voce strangolata, quasi che mentre il soggetto foni si vi sia
qualcuno/qualcosa che tenda a strangolarlo. La voce strozzata è l’espressione di un quadro
fonatorio ben preciso, caratterizzato da contrazione spastica, talmente intensa e quasi
concentrica che le corde vocali spariscono, in questa che è una patologia in cui è come se
laringe che si contragga su sé stessa: la voce strozzata è il prodotto di questa
ipercontrazione. Del fatto che la voce strozzata sia un prodotto di questo quadro fonatorio
prova ne è il fatto che iniettando in loco tossina botulinica, che determina una paralisi
flaccida dei muscoli striati, la voce migliora.
4) PARALISI DI CORDA VOCALE
La paralisi di corda vocale è una condizione patologica che determina una impossibilità
contrattile dei muscoli delle corde vocali su base neurologica che è a tutta ragione una delle
possibili cause di disfonia neurologica.
L’innervazione della laringe è assicurata dal nervo laringeo superiore bilateralmente e dal
nervo laringeo ricorrente, sia a destra che a sinistra, ma il concetto più importante da
considerare è che l’innervazione cortico-bulbare è bilaterale, il che significa che il nucleo
motore di destra da cui nascono le fibre del nervo laringeo inferiore (il superiore è
prevalentemente sensitivo), decussano in parte entrando nella costituzione del nervo
laringeo di sinistra e viceversa. Il che significa che in un soggetto con un’emiparesi,
entrambe le corde vocali continueranno a muoversi giacché il nucleo motore controlaterale
assicura comunque la veicolazione dell’impulso motorio: il macromovimento è
salvaguardato da questa bilateralità tal che da una emiparesi centrale non risulti mai la
presenza di una paralisi monolaterale di corda vocale, motivo per cui una paralisi
monolaterale di corda vocale è sempre dovuta a cause periferiche che possono essere
tanto vagali quanto ricorrenziali. Viceversa, le paralisi di corda vocale dovute a cause
centrali devono essere necessariamente bilaterali, dal momento che devono essere lesi
entrambi i nuclei motori affinché venga meno l’innervazione.
Il nervo laringeo superiore è un nervo fondamentalmente sensitivo, ha un piccolo ramo
motorio destinato al muscolo cricotiroideo che è un muscolo tensore che partecipa ai
cambiamenti di tonalità della voce e tanto è vero questo che soggetti con la lesione del
nervo laringeo superiore hanno problemi di sensibilità laringea e problemi di modulazione,
ovvero non riescono più a raggiungere le note acute. I quadri endoscopici sono alquanto
variabili.
Invece il nervo laringeo inferiore (ricorrente) è un nervo quasi esclusivamente motorio:
quindi un’interruzione del segnale elettrico al suo interno porta a blocco della corda vocale.
Quel che è meno intuitivamente deducibile nell’ambito della paralisi di corda vocale dovuta
a lesione ricorrenziale è che la paralisi monolaterale si manifesta mediante disfonia, ma
mai mediante una completa afonia o con dispnea, giacché comunque il movimento
preservato della corda vocale controlaterale assicura una benché anomala produzione di
voce e il passaggio di aria mediante la presenza di movimenti monolaterali di ab-adduzione.
Differentemente, le paralisi bilaterali periferiche, dovute cioè a lesioni ricorrenziali
bilaterali si manifestano mediante afonia e mediante dispnea, addirittura anche con
disfagia.
Diversamente, un problema centrale come un’emiparesi non esita mai nella paralisi dalla
corda vocale omolaterale al lato della lesione centrale poiché l’innervazione è bilaterale.
Un soggetto con patologia neurologica centrale può avere però dei cambi di voce: in questi
casi di patologiche neurologiche diffuse e globali per il soggetto, si hanno fenomeni di
incoordinazione.
Molte volte i disturbi di voce o di deglutizione sono il sintomo di esordio di queste patologie
e come tali le disfonie, soprattutto quando non vi sia (1) lesione morfologicamente evidente
o (2) eclatante anamnesi da sforzo, possono essere la spia clinica di patologie neurologiche
ben più gravi, che come tale non deve mai essere sottovalutata. Tali patologie sono la
malattia di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica, la sclerosi multipla e la
miastenia gravis, in cui disfonia e/o disfagia possono addirittura essere l’unico sintomo di
esordio della patologia e questa è dimostrazione del fatto che la disfonia possa essere indice
e alle volte spia clinica non solo di patologia distrettuale laringea. Estremamente importante
in tal caso è l’anamnesi: i pazienti con questo disturbo spesso riferiscono nella propria storia
clinica un cambiamento di voce. In questi casi, sempre tramite l’anamnesi si può eseguire
una piuttosto confortevole diagnosi differenziale con una disfonia disfunzionale
semplicemente ponendo le giuste domande al paziente: l’anamnesi in questi casi è
assolutamente muta per sforzo vocale e, anche non avendo una conoscenza specialistica
di tipo foniatrico, il medico comprende che questo soggetto non fa parte della categoria a
rischio per disfonia da sforzo (non ha bambini piccoli che lo possono portare a sforzo vocale
per esempio, non canta, non fa il professore, non lavora in un call center).
Questa disfonia può quindi essere confusa con una patologia disfunzionale perché il quadro
endoscopico è normale dal punto di vista strutturale: di certo e fortunatamente l’informazione
anamnestica dell’assenza di sforzo vocale è di grande aiuto nella diagnostica differenziale
e come tale va destinata a questa fase (l’anamnesi) dell’esame obiettivo la massima
importanza.
Il problema principale, una volta insorto il dubbio clinico, è riferire il sospetto diagnostico
stesso al paziente, cioè che questo sintomo di esordio possa essere la spia di allarme di
una patologia neurologica ben più grave, la quale potrà presentarsi a distanza di anni.
Si consiglia quindi al paziente di eseguire dei controlli neurologici ravvicinati negli anni a
venire, ma non si può fare diagnosi certa sulla base della disfonia. Gli assetti motori che si
possono rilevare in caso di una paralisi di corda vocale sono:
1. Ipoadduttivi;
2. Iperadduttivi;
3. Misti;
4. Tremori.
Tuttavia, ciò che interessa di più è il cambio di voce. È capitato frequentemente che pazienti
con questa disfonia abbiano poi sviluppato la malattia di Parkinson: guardando questi
pazienti nella loro interezza si nota che siano bradicinetici e bradilalici cioè rispettivamente
con un rallentamento della velocità dei movimenti e dell’articolazione della parola e che
siano con una determinata postura.
In questa situazione l’otorinolaringoiatra pone il sospetto diagnostico, quest’ultimo deve poi
essere confermato o scartato tramite una valutazione neurologica.
Quindi patologie neurologiche di ordine generale nel loro corteo sintomatologico possono
dare problemi di voce sia in fase conclamata che soprattutto in fase di esordio.
Il quadro è quello di una laringe normale, con macromovimenti di adduzione e abduzione
normali.
Poi ci sono delle finezze endoscopiche, ovvero degli assetti motori alterati che si possono
valutare e che permettono di capire cosa stia succedendo.
Caso clinico (tratto dalla prefazione di un libro di neurolaringologia): giovane donna di circa
25 anni che ad un certo momento inizia ad avere un’alterazione di voce, in particolare la sua
voce inizia a calare. Questa donna viene visitata da molti specialisti, viene diagnosticata
una disfonia disfunzionale ipocinetica, e viene trattata con logopedia. Tuttavia, la logopedia
non porta risultati, e viene quindi rivisitata la diagnosi: paziente psichiatrica con disfonia
psicogena. In presenza di un quadro normolaringeo, lo specialista foniatra esegue il test
del Tensilon, un test per la miastenia grave, una patologia che si caratterizza per la
produzione di alcuni autoanticorpi anti-recettore nicotinico dell’acetilcolina, quello, per
intenderci, espresso a livello della placca neuromuscolare; alle volte questa patologia può
essere intesa come una sindrome paraneoplastica.
Il test del Tensilon consiste nella somministrazione di un determinato farmaco, l’endrofonio
cloruro, che ripristina la conduzione a livello della giunzione neuromuscolare: il test del
Tensilon è positivo nella paziente per cui si è fatta diagnosi di miastenia gravis in cui il dato
clinico fondamentale era il cambiamento di voce; certamente si tratta di un caso di
repertorio, anche perché nella più parte dei casi la miastenia grave esordisce mediante la
presenza di una ptosi palpebrale.
Questo dimostra che di fronte ad un quadro laringeo morfologico normale, bisogna fare il
maggior numero di ipotesi possibili senza mai dimenticare che la presenza di una disfonia
in quadro normolaringeo e con anamnesi vocale muta per sforzo sia da sospettarsi sempre
un disordine neurologico.
Patologia del faringe
L’orofaringe è la parte posteriore del cavo orale, laddove sono presenti le tonsille palatine
che hanno una funzione linfo-reticolare e vengono in contatto con qualsivoglia agente
patogeno che venga inalato per il tramite della cavità orale. Le tonsille rappresentano il
primo sito di contatto con gli agenti esterni, esse sono quindi organi linfoidi che danno origine
ad una risposta immunologica nei confronti di antigeni esterni che penetrano nel cavo orale.
Le tonsille palatine hanno funzione immunologica e di solito tendono ad avere la
maggiore attività nei primi anni di vita per cui sono estremamente utili nel bambino tra 3
e 10 anni che entra in contatto con i microrganismi laddove liberano IgA secretorie. Trattasi
di strutture facilmente visibili all’ispezione del cavo orale poiché esofitiche con superficie
criptica, la quale contiene invaginazioni che si approfondano nella tonsilla creando delle
vere e proprie sacche all’interno delle quali si può indovare materiale alimentare,
particolarmente sostanze biancastre che possono generare elementi di confondimento con
faringotonsilliti purulenti ad eziologia batterica.
La presenza di queste cripte sulla superficie è del tutto fisiologica: la funzione di queste
ultime è incrementare la superficie di contatto con gli antigeni esterni che penetrano nel
cavo orale tramite respirazione e masticazione. La presenza di cripte accentuate non
comporta alcun danno: talvolta possono però rimanervi intrappolati residui di cibo che
difficilmente vengono rimossi.
La presenza di tali residui nella maggior parte dei casi non dà sintomi ma è visibile sotto
forma di chiazze bianco-giallastre e poltacee (materiale che andrà poi incontro a necrosi)
che fanno pensare ad una faringo-tonsillite, oppure possono causare dolenzia tonsillare e
alitosi.
In questi casi è importante fare diagnosi differenziale con un processo infettivo di
faringotonsillite per applicare il trattamento corretto: la faringotonsillite si distingue per la
sintomatologia caratterizzata da un esordio importante e per il trattamento che consiste in
terapia antibiotica.
Nel caso di residui di cibo occorre invece rimuovere meccanicamente questi ultimi, cercando
di essere quanto meno aggressivi sulla superficie tonsillare, per evitare ulteriori escoriazioni
e danni (approfondimento cripte: dispense vecchie).
Le tonsille palatine agiscono in concerto ad altre strutture che sono presenti alla base della
lingua, tonsilla linguale, e della volta del rinofaringe (cavità posta dietro le fosse nasali),
tonsilla faringea o adenoide, per cui insieme con le tonsille palatine che si trovano
lateralmente nell’orofaringe costituiscono l’anello del Waldeyer.
Quindi l’anello del Waldeyer è una struttura di tessuto linfoide, a funzione immunologica,
costituita da più formazioni (o tonsille) disposte ad anello, comprese all’interno della cavità
orale e nel rinofaringe; le tonsille che lo compongono, riassumendo, sono:
- Tonsille palatine, all’interno del cavo orale
- Tonsilla linguale, a livello della base della lingua
- Tonsilla faringea (adenoide), a livello della volta del rinofaringe
TONSILLE PALATINE
Ciascuna tonsilla palatina è contenuta all’interno della così detta “loggia tonsillare”,
delimitata anteriormente e posteriormente da due pilastri costituiti da fasci muscolari e
rivestiti da mucosa:
- pilastro anteriore: formato dal muscolo glossopalatino
- pilastro posteriore: formato dal muscolo faringopalatino
Inoltre, lateralmente la tonsilla poggia su fasci muscolari orizzontali rappresentati dal
muscolo costrittore del faringe.
La tonsilla presenta un epitelio reticolare che riveste un follicolo linfatico preposto alla
produzione di IgA. Tale follicolo è dotato di zona mantellare e centro germinativo e produce
quindi anticorpi che causano una risposta locale.
Nell’epitelio reticolare sono presenti cellule presentanti l’Ag:
Le APC trasportano l’Ag dall’epitelio reticolare al follicolo linfoide prendendo contatto con i
linfociti Th, i quali a loro volta stimolano i linfociti B, i quali producono IgA secretorie.
• DISPNEA LARINGEA
Si intende con l’espressione di dispnea laringea una sensazione di difficoltà respiratoria e/o
di fame d’aria, che consegue caratteristicamente alla presenza di una patologia che
comporta una ostruzione o una stenosi a livello della laringe, cioè una condizione patologica
che determina una franca occupazione del lume laringeo oppure una condizione che
determinando un ispessimento o una retrazione cicatriziale della parete induce un
restringimento del lume della laringe.
1) EZIOLOGIA
In termini eziologici, diverse possono essere le cause che stanno alla base dell’insorgenza
di una dispnea laringea e tra queste possiamo annoverare:
1. Patologie congenite/connatali:
a) Emangiomi infantili della glottide
b) Laringomalacia
c) Glottide palmata
d) Atresia laringea
2. Traumi della laringe;
3. Tumori della laringe;
4. Laringiti:
a) Edema della parete
b) Evoluzione stenosante
c) Eziologia:
i. Laringite da virus influenzali
ii. Laringite da rinovirus
iii. Laringite da virus parainfluenzali
iv. Laringite erpetica
v. Laringite da Proteus
vi. Laringite da Pseudomonas Aeruginosa
vii. Laringiti micotiche
d) Complicanze:
i. Epiglottite
ii. Ascesso dell’aditus laringeo
5. Paralisi laringee
6. Laringospasmi:
a) Cause neurologiche
b) Reflusso faringo-laringeo
7. Corpi estranei
8. Postumi chirurgici
Questo è un elenco di tutte le possibili cause che possono potenzialmente dare luogo ad
una dispnea laringea, ma è chiaro che, evidentemente, non sempre e comunque queste
cause danno luogo alla presenza di una dispnea laringea in funzione dell’entità. Ad esempio,
una neoplasia laringea in incipiente fase di crescita più difficilmente determina insorgenza
di una ostruzione tale da indurre la presenza di una caratteristica condizione dispnoica,
viceversa accade, invece, per quanto riguarda i carcinomi della laringe che siano
estensivamente infiltranti la parete oppure quelli vegetanti di grandi dimensioni, dal
momento che possono indurre tipicamente una restrizione del lume per ispessimento della
parete o per occupazione endoluminale tale da generare l’insorgenza di una dispnea
laringea, che è classicamente definita come una dispnea ostruttiva. Ancora, una paralisi
bilaterale in adduzione delle corde vocali può determinare come conseguenza
l’insorgenza di una dispnea, allorquando ne consegua l’insorgenza caratteristica di una
adduzione stretta in posizione mediana o paramediana; in alcuni rari e fortunati casi,
tuttavia, è possibile che la paralisi delle corde vocali in adduzione non si esprima in posizione
mediana o paramediana, il che evidentemente rende ragione della evoluzione non-
stenosante della patologia. Tra le altre possibili cause che stanno alla base di una possibile
dispnea ostruttiva laringea vi sono le cosiddette laringiti, tra le quali particolarmente temibile
è la laringite epiglottica infantile. Le laringiti sono delle patologie infiammatorie della
laringe, frequentemente su base infettiva, che possono dare luogo ad una essudazione
edematosa, che imbibisce la parete della laringe e conseguentemente ne determina un
ispessimento tale da determinare una riduzione del diametro luminale. In altri casi, le laringiti
possono avere esito cicatriziale e stenosante, per cui determinare un effetto retraente che
determina insorgenza di una stenosi laringea, la quale è una delle possibili cause che stanno
alla base dell’insorgenza di una dispnea laringea. La chirurgia laringea può essere una
delle possibili cause che stanno alla base dell’insorgenza di una dispnea ostruttiva di tipo
laringeo dal momento che il trauma operatorio può indurre eventuale insorgenza di un
edema della parete della laringe, che al pari degli edemi infiammatori può essere alla base
della insorgenza della stenosi e prova ne sia il fatto che alle volte accade che soggetti che
abbiano affrontato un intervento chirurgico otorinolaringoiatrico per superare l’edema
postchirurgico necessitano della tracheotomia. La tracheotomia è una manovra invasiva
che consiste nell’immettere una cannula in trachea dopo incisione longitudinale a livello del
collo, con la finalità di bypassare una regione ostruita a monte che può essere a livello
tracheale o, come in questi casi, a livello laringeo. Quello che è importante considerare,
quindi, è che alle volte la presenza di una ostruzione nel flusso aereo inspiratorio a livello
laringeo può essere trattata farmacologicamente con terapia medica, ad esempio per
quanto riguarda il discorso legato alle laringiti infettive, oppure mediante intubazione
endotracheale, mentre in altri casi si rende necessaria l’esecuzione della tracheotomia,
quando con la terapia medica non si riesca a controllare e a far regredire la causa che stia
alla base dell’ostruzione laringea o quando con l’intubazione non si riesca a garantire la
ventilazione. Tra le altre possibili cause di una dispnea ostruttiva laringea vi sono i
laringospasmi che corrispondono a delle contrazioni spasmodiche della laringe, che
possono essere sostenute da differenti cause tra cui patologie neurologiche oppure ad
una malattia da reflusso gastroesofageo che può determinare anche delle complicanze e
delle problematiche a livello faringo-laringeo: ci si riferisce con l’espressione di reflusso
faringo-laringeo alle complicanze della malattia da reflusso gastroesofageo nel distretto
otorinolaringoiatrico.
Una dispnea prettamente laringea può insorgere pressoché a tutte le età, ma in età
neonatale le patologie che sono più chiamate in causa sono laringotracheomalacia,
emangiomi, atresia laringea, diaframma laringeo; nella prima infanzia le principali cause
di insorgenza di una dispnea laringea sono costituite dai fenomeni flogistici su base
edematosa. Una delle cause possibili è costituita dagli emangiomi infantili che sono delle
neoplasie che originano dai vasi ematici e che ricorrono con una frequenza discretamente
elevata soprattutto nei neonati con basso peso alla nascita. Alle volte gli emangiomi sono
delle patologie che decorrono in maniera assolutamente benigna, ma altre volte, gli
emangiomi infantili possono, in considerazione soprattutto della sede, determinare delle
complicanze che sono alle volte anche mortali, come nel caso degli emangiomi profondi
della regione sottomentoniera, che si esprimono solitamente come dei noduli bluastri che
frequentemente si associano ad una ostruzione della glottide, che si rende responsabile
di una dispnea laringea.
Una seconda patologia, sostanzialmente congenita e malformativa che può causare
insorgenza di una dispnea ostruttiva laringea è la laringomalacia, espressione con cui si
intende un difetto di sviluppo: lo scheletro laringeo è molto elastico, non abbastanza solido,
per cui durante la fase inspiratoria collabisce per azione della riduzione della pressione nella
via respiratoria a seguito dell’espansione del polmone.
Il diaframma laringeo, anche detto glottide palmata, è una patologia malformativa e
congenita, altra possibile causa di dispnea laringea, ma anche di disfonia, che consiste nella
mancata separazione delle due corde vocali; in tal caso l’entità della dispnea è relativa
all’entità dell’impegno del lume.
Una quarta causa di dispnea laringea neonatale o pediatrica è l’atresia laringea; il termine
atresia, genericamente inteso per qualsiasi organo cavo, intende la mancanza di pervietà
di un organo che normalmente dovrebbe essere dotato di un lume; in tal caso l’atresia può
insorgere in qualsiasi sede, presentandosi caratteristicamente associata alla persistenza di
una membrana fibrosa, che ostruisce il transito dell’aria. In tal caso, il soggetto è
caratteristicamente afono e tenda di inspirare in maniera vigorosa, da cui il cornage e il
tirage che caratterizzano le stenosi laringee.
L’epiglottite è un’altra possibile causa di insorgenza di una dispnea inspiratoria laringea, la
quale si definisce come una infiammazione su base infettiva e prevalentemente batterica
(Haemophilus Influenzae), che colpisce tutta l’epiglottide; si forma una raccolta
ascessuale e i sintomi sono sfumati: disfagia, odinofagia, voce abbastanza normale. La
gravità della presentazione clinica dipende dall’estensione della patologia, che può causare
un vero e proprio tappo sull’aditus laringeo, a volte con dispnea improvvisa, ingravescente
e ovviamente molto grave.
Potenzialmente, a tutte le età è possibile che la causa di insorgenza di una dispnea ostruttiva
laringea sia costituita dalla presenza di un corpo estraneo, che nella più parte dei casi è
costituito da frutta secca o legumi (65% dei casi circa) e meno frequentemente da frammenti
di carne, ossicini, metalli o plastica. In questi casi, chiaramente, il corpo estraneo potrebbe
ostruire qualsiasi tratto della via respiratoria, in considerazione del calibro del corpo
estraneo che se elevato tende ad ostruire le parti prossimali dell’albero respiratorio, come
la laringe. Diversamente, in altri casi, il corpo estraneo può superare la laringe e la trachea
e raggiungere i bronchi, tra i due quello maggiormente interessato è il bronco principale di
destra, sia per via del maggiore calibro, sia per via del fatto che assume rispetto all’asse
della trachea un decorso più verticale e meno obliquo rispetto a quello del bronco di sinistra
e non infrequentemente corpi di piccolissimo calibro possono transitare nel contesto della
via aerea di destra e raggiungere finanche il parenchima polmonare per poi dare luogo ad
un focolaio broncopneumonico di polmonite ab ingestis. Diversamente, i corpi estranei di
calibro maggiore sono quelli che più frequentemente determinano insorgenza di ostruzioni
laringee le quali intervengono caratteristicamente soprattutto nei bambini e negli anziani per
il venire meno della coordinazione tra l’atto deglutitorio e la chiusura dell’epiglottide: si
definisce l’insieme di segni e sintomi da ostruzione delle vie respiratorie da corpo estraneo
con l’espressione di sindrome da penetrazione, che intende l’insieme di manifestazioni
che si realizzano nel contesto della penetrazione glottidea di un corpo estraneo. In tal caso,
soprattutto se l’ostruzione è sopraglottidea, si può eseguire la manovra liberatoria di
Heimlich, che consiste nell’imporre una pressione a livello dell’addome del soggetto con
ostruzione, tal che aumentando la pressione sottodiaframmatica aumenti anche quella
toracica, forzando l’espulsione dell’aria e generando una sorta di colpo di tosse artificiale
che favorisce l’eliminazione del corpo estraneo.
2) CLINICA
Le stenosi o le ostruzioni del lume laringeo, quali che siano le cause che le abbiano
determinate, si presentano clinicamente con una dispnea ostruttiva, cioè causata dalla
presenza di un ostacolo a livello della laringe che ostruisce il flusso aereo in entrata, motivo
per cui al fine di compensare questa ostruzione del flusso aereo inspiratorio si verificano (1)
un aumento dello sforzo inspiratorio, tanto che il soggetto utilizza anche muscoli
accessori dell’inspirazione come trapezio e sternocleidomastoideo e (2) un allungamento
del tempo di inspirazione: dal momento che il volume di aria nell’unità di tempo viene
ridotto dalla ostruzione, il soggetto compensa mediante un aumento del tempo di
inspirazione al fine di inspirare una quota di volume sufficiente, a fronte dell’impiego di un
tempo maggiore. Questo aspetto rende ragione del fatto che nei soggetti con dispnea
ostruttiva laringea si riscontri un rapporto tra il tempo di inspirazione e quello di espirazione
pari circa a 4:1, quando il normale rapporto è di 6:5 o 3:2: il tempo inspiratorio aumenta,
quello espiratorio rimane tale, motivo per cui nell’unità di tempo (minuto) il numero degli
atti respiratori diminuisce. Dal momento che la frequenza respiratoria si riduce al di sotto
del valore di 10 atti/min, il soggetto viene definito bradipnoico.
Oltre alla bradipnea e all’allungamento della fase inspiratoria che sono due segni clinici
pressoché comuni a tutte le dispnee ostruttive laringotracheali, nel caso delle dispnee
laringee si riscontra anche un caratteristico segno clinico che è definito cornage laringeo
e che corrisponde ad uno stridore inspiratorio, dovuto al fatto che la stenosi comporti
restringimento del lume e, in accordo alla meccanica dei fluidi, il diametro del condotto entro
cui il fluido (l’aria, in tal caso) transita è una variabile che influenza la modalità del moto del
fluido: al restringersi del lume, il flusso cambia da laminare a turbolento tal che ne consegua
il classico rumore che giustifica il cornage. Di base, a fronte di una riduzione del flusso
nell’unità di tempo, il tempo inspiratorio aumenta, al fine di fornire una quantità di aria al
polmone adeguata a garantire una sufficiente ossigenazione del sangue; la stenosi causa
anche una alterazione dell’equilibrio pressorio presente nelle vie respiratorie e lo squilibrio
viene ulteriormente amplificato durante la fase inspiratoria, tal che ne consegua una sorta
di risucchio degli spazi molli della regione del collo, condizione che descrive il cosiddetto
tirage laringeo, che è il secondo sintomo altamente caratteristico di una stenosi laringea. Il
tirage laringeo si esprime come un rientramento caratteristicamente a livello di alcune sedi,
che sono:
1. Fossetta giugulare
2. Fossette sopraclaveari
3. Fossetta tra i capi dello sternocleidomastoideo
4. Spazi intercostali
5. Fossetta epigastrica
Il tirage a livello della fossa tra i due capi di inserzione dello sternocleidomastoideo è
variabilmente presente, mentre il tirage a livello della fossetta epigastrica è espressione di
una forma particolarmente grave di ostruzione laringea.
Dal punto di vista clinico, quindi, la dispnea laringea si definisce per diversi aspetti:
1. Dispnea ostruttiva:
a) Allungamento della fase inspiratoria
b) Rapporto tempo inspirazione/espirazione 4:1
c) Bradipnea
2. Segni caratteristici:
a) Cornage laringeo inspiratorio
b) Tirage laringeo inspiratorio
Dal momento che si tratta di una condizione dietro la quale si celano patologie laringee, la
dispnea ostruttiva laringea si associa alla presenza, possibile, anche di tosse secca e
sorda e soprattutto di disfonia, la quale si intende come un segno clinico che consiste
nell’alterazione della propria voce. Inoltre, il soggetto presenta il capo iperesteso quale
tentativo compensatorio rispetto alla stenosi di contrastare la riduzione del flusso aereo
inspiratorio mediante un allungamento e uno stiramento della via respiratoria, mediante
proprio l’estensione del collo e della testa.
• TRACHEOTOMIA
La tracheotomia è un intervento chirurgico che mira a mettere in comunicazione il lume
della trachea con l’ambiente esterno, non è altro che una comunicazione chirurgicamente
determinata e diretta che viene mantenuta pervia dal posizionamento di una cannula
tracheotomica. La tracheotomia si esegue a livello cervicale anteriore, mediano e inferiore.
Quando parliamo di tracheotomia o tracheostomia, ricordiamo che la laringe o parte di essa,
è sempre in sede. La tracheotomia è un intervento che ha una lunghissima storia, sono
rinvenute notizie di questa tipologia di accesso chirurgico addirittura dei tempi degli Egizi.
Dal punto di vista tecnico abbiamo vari tipi di tracheotomia:
1. Tracheotomia chirurgica cervicotomica anteriore;
2. Tracheotomia percutanea e trans-laringea che vengono effettuate in ambiente
rianimatorio;
3. Minitrack, procedura di estrema urgenza praticata con kit dedicati.
Dal punto di vista terminologico esistono degli elementi di minimo confondimento, dal
momento che si utilizzano indifferentemente sia il termine tracheotomia che il termine
tracheostomia, anche se quello più in voga è tracheostomia. In realtà nella storia chirurgica
c’è una piccola differenza. Infatti, parliamo di tracheostomia quando i lembi tracheali
vengono suturati alla cute in modo da rimanere divaricati, anche senza cannula, pur se
solitamente questa venga inserita. Viene infatti confezionato un tracheostoma, cioè una
sutura con la cute, invece nella tracheotomia non avviene questa sutura. Nei soggetti
sottoposti a laringectomia totale, intervento chirurgico per i carcinomi T3 o T4 della laringe
che infiltrino massivamente le corde vocali, la muscolatura e le aritenoidi compromettendo
fortemente la motilità di queste strutture, parliamo invece di tracheostoma a permanenza
in quanto la laringe non c’è più e il moncone laringeo viene suturato alla cute del giugulo.
Quindi abbiamo tecnicamente tre situazioni: tracheotomia con apertura della trachea e
posizionamento della cannula; tracheostomia con apertura della trachea, sutura dei lembi
tracheali alla cute con varie tecniche e posizionamento della cannula; tracheostoma a
permanenza con asportazione totale della laringe, creazione di un tracheostoma a livello
del giugulo.
1) INDICAZIONI ALLA TRACHEOTOMIA
La tracheotomia non è un intervento di appannaggio esclusivo dello specialista chirurgo
otorinolaringoiatra. Possiamo trovare indicazioni o effettuazioni pratiche anche in altri ambiti
specialistici. Per definire le indicazioni ci vuole un razionale e, quando si debba rimuovere
la cannula al paziente, le indicazioni che hanno portato al posizionamento della cannula
devono essere risolte. Esistono indicazioni di tipo otorinolaringoiatrico, di tipo rianimatorio,
di tipo pneumologico e di tipo neurologico:
1. Indicazioni otorinolaringoiatriche:
a) Ostruzione laringea non trattabile con farmaci
b) Ostruzione laringea non trattabile con intubazione
c) Corpo estraneo laringeo nell’aditus (tracheotomia obbligatoria)
d) Edema postchirurgico (tracheotomia preventiva)
e) Paralisi laringee bilaterali in adduzione
f) Laringiti edematose refrattarie agli steroidi
g) Traumi maxillo-facciali
h) Lacerazioni o perforazioni laringotracheali
2. Indicazioni pneumologiche:
a) BPCO
b) Enfisema
3. Indicazioni rianimatorie
Le indicazioni otorinolaringoiatriche consistono in tutte quelle patologie con evoluzione
stenosante od ostruttiva della laringe non altrimenti trattabili dal momento che alle volte
anche a fronte di una stenosi importante della laringe, ci potrebbero essere modalità
terapeutiche non chirurgiche per riacquisire la pervietà della via aerea. Le modalità non-
tracheotomiche sono o le terapie mediche o, se possibile, un’intubazione. Ad esempio, se
abbiamo un edema laringeo su base allergica, il trattamento è medico. Nei casi in cui il
trattamento medico non abbia un pronto effetto risolutivo, poiché sussiste una situazione
edematosa, allora questi pazienti potrebbero essere intubati. Anche una neoplasia può
permettere una intubazione, anche se più difficile. Una paralisi cordale bilaterale in
adduzione non potrebbe essere trattata dal punto di vista medico perché non ne abbiamo
possibilità, però è possibile intubare il paziente e poi con calma decidere il trattamento, se
fare interventi chirurgici particolari o se fare una tracheotomia. Se vi è un corpo estraneo
laringeo che blocca l’aditus laringeo, diventa obbligatoria la tracheotomia sia per
permettere la ventilazione, ma anche per addormentarlo e procedere in sicurezza alle
manovre per estrarlo. Nei casi dei postumi chirurgici, se l’intervento è fortemente demolitivo
su parte della laringe, l’edema postchirurgico può ostruire quindi il paziente viene
preventivamente sottoposto a tracheotomia e fuoriesce dalla sala operatoria con una
cannula tracheotomica.
Inoltre, le indicazioni pneumologiche alla tracheotomia sussistono quando si abbia una
pneumopatia, con laringe e trachea pervie. I soggetti con patologie polmonari che vengono
indirizzati alla tracheotomia sono spesso pazienti che hanno deficit ventilatorio cronico, in
genere portatori di broncopneumopatia cronica ostruttiva o enfisema. In questi casi può
essere indicata la tracheotomia dal momento che tutte le vie aeree non sono che un
condotto di trasporto dell’aria e il soggetto compie un’attività per portare l’aria dall’ambiente
esterno fino agli alveoli, aria che comunque incontra una certa resistenza nel trasporto lungo
lo spazio morto respiratorio, ovvero quella parte che non partecipa allo scambio gassoso.
Con il confezionamento di una tracheotomia, viene eliminata parte dello spazio morto
respiratorio, quindi il tragitto che l’aria deve compiere è di fatto più breve, lo sforzo
respiratorio è minore e il tutto si concretizza in un minore sforzo per l’attività ventilatoria.
Parallelamente, il posizionamento di una cannula tracheotomica in questi soggetti,
bypassando le vie aeree superiori (fondamentalmente, la laringe) permette di eseguire le
broncoaspirazioni o lavaggi bronchiali (laddove indicato) in cannula tracheotomica in
tutta sicurezza. Le broncoaspirazioni in cannula tracheotomica, sono semplici, comode,
possono essere praticate frequentemente e quindi contribuiscono a mantenere pervia la
parte della via aerea residua e quindi migliorano ulteriormente l’attività respiratoria. Con la
tracheotomia, lo spazio morto respiratorio si riduce di una percentuale variabile dal 10%
al 50%.
Un soggetto in rianimazione il più delle volte è un soggetto con ventilazione assistita a
pressione positiva; questi pazienti vengono normalmente intubati e quindi vengono ventilati
a pressione positiva intermittente finché non si verifichi o il risveglio del paziente e quindi il
ritorno alla ventilazione spontanea oppure l’exitus. Inoltre, esiste la necessità di praticare la
tracheotomia anche quando, pur essendo possibile eseguire una intubazione oro-naso-
tracheale, si determinerebbero degli esiti cicatriziali che approdano ad una stenosi
cicatriziale irreversibile della laringe.
La storia clinica dopo i primi tempi dell’introduzione della ventilazione oro-naso-tracheale,
ha messo in evidenza che dopo intubazioni prolungate insorgevano dei fenomeni
cicatriziali, causati dalle lesioni da decubito che il tubo a permanenza induce nelle vie
aeree superiori. Soprattutto quello che più interessa in ambito otorinolaringoiatrico sono le
lesioni a livello laringeo, poiché il decubito del tubo a permanenza comporta nella laringe la
formazione di lesioni che dopo la rimozione del tubo guariscono ma danno esiti cicatriziali,
i quali causano nel tempo fenomeni stenosanti su base cicatriziale che sono risultati
difficilmente risolvibili tal che si dovesse ricorrere al mantenimento del tubo quoad vitam
(questo accadeva negli anni ’70). L’esperienza sul campo a posteriori ha fatto introdurre la
necessità di salvaguardare la laringe, per cui la tracheotomia è indicata laddove
l’intubazione debba prolungarsi per oltre una settimana, valutando attentamente tutti i fattori
prognostici. Quindi, quando un paziente giunga in rianimazione con assenza di attività
respiratoria va intubato, se dopo una settimana non siano state riprese le funzioni
ventilatorie autonome, per via dell’effetto traumatico determinato dal decubito del tubo
endotracheale, il paziente va sottoposto a tracheotomia e successivo collegamento del
ventilatore alla cannula tracheotomica.
2) TECNICA CHIRURGICA DELLA TRACHEOTOMIA
Nei casi di indicazione rianimatoria il paziente è intubato e in anestesia generale, mentre
nel caso delle indicazioni otorinolaringoiatriche si procede in anestesia locale con
infiltrazione di lidocaina.
Quando viene indicata una tracheotomia per cause prettamente ostruttive, per non incorrere
in problemi bisogna sempre essere certi che l’occlusione sia trapassabile, essere sicuri di
superare la zona stenotica. Per la via cervicale anteriore, la trachea non è tutta aggredibile,
ma abbiamo la possibilità di aggressione, in funzione della tecnica, dei primi 4-5 anelli
tracheali, pur se ci siano altre tecniche per superare eventuali stenosi più basse.
Parliamo di tracheomia alta, media, bassa o coniotomia in funzione dei rapporti con l’istmo
della tiroide o in funzione dell’accesso attraverso la membrana cricotiroidea per la
coniotomia:
1. Tracheotomia alta o sovra-istmica: incisione al di sopra dell’istmo della ghiandola
tiroide.
2. Tracheotomia trans-istmica:
a) Clampaggio dell’istmo tiroideo
b) Incisura dell’istmo
c) Apertura della ghiandola
3. Tracheotomia sotto-istmica:
a) Lussazione superiore dell’istmo
b) Incisione sub-tiroidea
4. Coniotomia: viene praticata mediante una incisione sulla membrana cricotiroidea.
La tracheotomia si esegue in regime di anestesia locale se il paziente non può essere
intubato (come in caso di neoplasie importanti) o in anestesia generale, laddove il paziente
possa essere intubato. I tempi fondamentali per l’esecuzione della tracheotomia sono:
posizionamento della testa, anestesia locale (oppure prima anestesia generale e poi
posizionamento della testa), incisione cutanea, apertura della loggia viscerale del collo. Per
l’esecuzione della tracheotomia trans-istmica si esegue il clampaggio dell’istmo della tiroide
e la sua incisura, successivamente si eseguono anestesia della mucosa tracheale, apertura
della trachea, introduzione di una cannula tracheotomica oppure il cosiddetto tubo di
Montandon e infine sutura della cute che non deve essere mai aderente alla cannula,
altrimenti si potrebbero riscontrare delle complicanze.
Il posizionamento della testa, in genere, prevede che si ponga un cuscino sotto le spalle
in maniera tale che la testa vada in iperestensione, tal che si abbia una maggiore
superficializzazione dell’asse laringotracheale. Ci sono dei punti di repere per fare
l’anestesia locale con lidocaina quando necessario.
Allo stato attuale, con tutta la diagnostica precoce e grazie al fatto che gli anestesisti con il
laringoscopio riescono ad intubare quasi tutti i pazienti è abbastanza raro il ricorso
all’anestesia locale per fare una tracheotomia. I punti di repere fondamentali sono il
cosiddetto pomo d’Adamo, l’incisura tiroidea ma soprattutto la cricoide. L’incisione cutanea
può essere di due tipi: orizzontale o verticale. L’incisura orizzontale in genere si mette in
atto o nelle tracheotomie in elezione e quindi anche questo ha uno scopo estetico, o quando
la linea di incisione verrà prolungata nel collo per effettuare un intervento chirurgico a cielo
aperto sulle strutture cervicali o laringee. D’urgenza la tracheotomia deve essere praticata
con incisione verticale mediana. Ai lati dell’asse laringotracheale ci sono una serie di
grossi vasi, quindi il tenere la linea mediana è di salvaguardia da un lato e dall’altro di strada
chirurgica. Anche nella zona paramediana possiamo trovare dei grossi vasi, i vasi giugulari
anteriori, anche verticali, per cui se facciamo un’incisione trasversa a volte
involontariamente possiamo sezionarli, invece tenendo sempre la linea mediana e andando
avanti chirurgicamente strato per strato con accortezza, possiamo avere un maggiore
controllo con sicurezza del campo operatorio, infatti spesso ci si aiuta con l’esplorazione
digitale per rimanere sempre in contatto con i punti di repere che sono la cartilagine cricoide
e i primi anelli tracheali.
Con l’incisura mediana verticale si accede direttamente alla loggia viscerale del collo che
contiene sia l’asse laringo-tracheale che la tiroide, che si trova anteriormente, avvolta da
una capsula molto vascolarizzata. Per eseguire una tracheotomia trans-istmica occorre
scollare la parte posteriore dell’istmo tiroideo dalla trachea, clampare l’istmo, poi effettuare
una legatura dei due monconi destro e sinistro. Prima del posizionamento della cannula
tracheotomica è opportuno accedere con una siringa e aspirare, dal momento che se con
l’aspirazione viene aspirata solo aria allora si è sicuri di aver avuto accesso alla trachea e
questo è un aspetto molto importante nella pratica clinica otorinolaringoiatrica dal momento
che innanzitutto sussiste una variabilità anatomica, in secondo luogo l’asse
laringotracheale è mobile e, in terzo luogo, ci possono essere alterazioni dei tessuti o
patologie che alterano quella che è la normale anatomia dell’asse laringotracheale. Subito
dietro l’asse laringotracheale si trovano l’esofago e le vertebre ed evidentemente nei casi in
cui vi sia una alterazione della normale anatomia della loggia viscerale del collo sussiste la
possibilità di incappare in errori chirurgici che portino ad incisione delle vertebre o
dell’esofago.
Una volta clampato ed inciso l’istmo si esegue l’anestesia locale con lidocaina, quindi si
esegue l’incisione tracheale, per la quale vi sono diverse tecniche, ciascuna con i propri
vantaggi e svantaggi:
1. Creazione di uno sportello
2. Incisura verticale
3. Incisura a doppia T
In genere, quale che sia la tecnica di incisione, solitamente si esegue all’altezza del
secondo, del terzo oppure del quarto anello tracheale. Quindi, eseguita l’incisione
tracheale è necessario eseguire l’immissione della cannula tracheotomica oppure del tubo
di Montandon, ma per fare questo è necessario dapprima divaricare i lembi tracheali che si
formano dopo l’incisione della stessa mediante uno strumento chiamato divaricatore
tracheale di Laborde che è dotato di tre valve, una destra, una sinistra ed una inferiore,
l’ultima delle quali entrando in trachea e andando verso il basso crea proprio una strada per
il posizionamento o della cannula tracheotomica con cuffia (fondamentale per fare la
ventilazione assistita) o il tubo di Montandon, che non è altro che un tubo endotracheale con
una foggia ben precisa. Il tubo per l’intubazione per l’anestesia in genere può essere o oro-
tracheale oppure naso-tracheale, dotato della sua cuffia: è un piccolo palloncino che viene
alimentato da un piccolo condotto e dalla cosiddetta cuffia pilota, si gonfia con l’aria e questo
piccolo pallone chiamato cuffia va a chiudere quella porzione di trachea tra mucosa
tracheale e parete esterna del tubo creando quindi una via obbligata attraverso il nostro
tubo. Se noi dobbiamo operare sulla laringe e sul collo o posizioniamo un tubo, ma ci
darebbe fastidio, o una cannula tracheotomica, ma ci darebbe anch’essa un po’ di fastidio,
o mettiamo questo tubo di Montandon, che attraverso la breccia tracheotomica entra in
trachea e poggia sul torace, rendendo libero il campo operatorio.
• CANNULE TRACHEOTOMICHE
Le cannule tracheotomiche sono dei presidi medico-chirurgici applicati a seguito di
tracheotomia con l’obiettivo di mantenere e assicurare la pervietà del tratto compreso tra il
lume della trachea e l’ambiente esterno attraverso il condotto luminale della cannula che
evidentemente è sempre pervio e consente la ventilazione del paziente. Le cannule
tracheotomiche sono dei dispositivi costituiti da tre parti principali, che sono la cannula vera
e propria, la controcannula e la flangia.
La cannula vera e propria è in genere un tubo curvo, grossomodo un arco di cerchio, che si
posiziona in trachea. La flangia è una placchetta laminare, ovoidale, in genere può essere
sia morbida che rigida, sempre orientabile che si mantiene adesa alla cute del collo del
paziente, in continuità con la cannula. Da un lato costituisce un limite così che la cannula
non possa più penetrare in trachea, e dall’altra è un dispositivo di ancoraggio della cannula
stessa dal momento che ha due fori laterali che permettono il passaggio di un nastro per
mantenere la cannula. Sulla flangia è anche presente una serie di numeri che sono gli
indicatori della tipologia di cannula che viene utilizzata nel praticare la tracheotomia. La
cannula deve essere fissata al paziente o con un nastro che cinge il collo del paziente o con
dei punti di sutura, sempre passanti tra cute e questi due fori della flangia, precisando
tuttavia che i soli punti di sutura non rendono molta stabilità perché la cute è elastica.
Il mandrino invece non è altro che un piccolo tubicino che viene inserito all’interno della
cannula quando bisogni introdurla in sede dal momento che la punta arrotondata del
mandrino che fuoriesce dall’estremità distale della cannula ne permette una migliore
introduzione questo dal momento che la cannula tracheotomica ha una punta tronca. Dopo
aver posizionato la cannula col mandrino, esso viene rimosso e viene posizionata la
controcannula. La controcannula è sempre presente, salvo che nelle cannule pediatriche
molto piccole per ragioni prettamente di spazio. Ha un’importanza fondamentale ed
estremamente importante è considerare che sia rimovibile: la rimozione della
controcannula permette la pulitura del lume della cannula, evitando che in essa si
stratifichino secrezioni che possano in qualche maniera possano indurre un restringimento
del suo lume. La porzione della cannula che fuoriesce dalla trachea, oppure la
controcannula oppure entrambe, possono essere dotate di un raccordo universale, cioè
una porzione cilindrica con un diametro prestabilito che può essere attaccato a qualsiasi
respiratore artificiale: in questa maniera, mediante questo accorgimento è possibile
teoricamente assicurare la respirazione artificiale a qualsiasi paziente tracheotomizzato che
ne abbia necessità. Questo cilindro, che non è altro che un connettore standard e lo
possiamo trovare o sulla controcannula oppure direttamente sulla flangia.
1) TIPOLOGIE DI CANNULE
In base alla presenza o meno della cuffia, in base alla presenza o meno della finestra e/o
della controcannula, si possono distinguere differenti tipologie di cannule tracheotomiche:
cannule fenestrate e non-fenestrate, cannule cuffiate e non-cuffiate.
La cuffia è una sorta di palloncino posto all’estremità distale che viene gonfiato attraverso
un tubicino di raccordo. Sulla flangia di ogni cannula tracheotomica si trovano dei numeri,
delle sigle che indicano la tipologia della cannula, dal momento che ve ne sono di diverse e
dunque in questo caso è opportuno chiedersi quali siano i criteri per poter fare la scelta della
cannula più idonea per dimensioni, tipologia. Sono tre i parametri fondamentali di una
cannula tracheotomica: la marca; il codice o tipologia che può essere una sigla che ci dice
se la cannula è cuffiata o meno, se è fenestrata o meno (cioè se dotata di una finestra che
metta in comunicazione il lume interno della cannula con l’esterno), le dimensioni o
quant’altro; il side ovvero la misura, un numero unico che racchiude all’interno tutta una
serie di misure che sono la lunghezza, il diametro esterno, il diametro interno. Tutti questi
parametri si possono evincere alla superficie esterna della cannula.
2) FUNZIONE DELLA CUFFIA DELLA CANNULA
Ha un ruolo primario, quello, cioè di permettere una ventilazione a pressione positiva,
infatti si trova nella parte del tubo che entrerà in trachea, per cui una volta inserito il tubicino
della cannula, la cuffia viene gonfiata. La cuffia non serve per stabilizzare la cannula e in
questo senso ha una funzione totalmente diversa dalla funzione che hanno le cuffie dei
cateteri viscerali. La cuffia ha anche un ruolo secondario: se un soggetto ha emorragia nel
campo operatorio, attraverso la breccia tracheotomica il sangue potrebbe entrare in trachea
e quindi inondare le vie aeree inferiori, ma se noi abbiamo una cannula con cuffia, essa
separa le vie aeree superiori dalle inferiori e non abbiamo la possibilità di inondare le vie
aeree inferiori. Parallelamente possiamo subito procedere all’anestesia generale per
un’emostasi operatoria. In questi casi, ove ci fosse una cannula con tubicino di aspirazione,
potremmo aspirare il sangue che magari si deposita al di sopra della cannula cuffiata. Altro
vantaggio, molto importante, è quello di prevenire eventuali inalazioni di materiale
alimentare o di saliva; infatti, durante l’attività deglutitoria se un paziente deglutisce male,
cioè è disfagico, il cibo penetra nelle vie aeree, supera la laringe, va in trachea e nei polmoni,
ma se la cannula è dotata della cuffia si impedisce questo passaggio semplicemente perché
la cuffia stessa ha anche una funzione di ingombro; per cui i principali vantaggi delle cannule
cuffiate sono quelli di (1) assicurare la ventilazione a pressione positiva, (2) impedire
che i sanguinamenti operatori inondino le vie aeree inferiori e (3) prevenire eventuali
fenomeni di inalazione di saliva o materiale alimentare. Ma quest’ultimo è un problema
acuto, transitorio, perché una volta che il cibo si stratifica, quando si proceda con lo
scuffiamento, questi penetra nelle vie aeree inferiori, tant’è vero che un soggetto disfagico
ha determinati protocolli di trattamento e di educazione, non è certo la cuffia che lo fa
deglutire in sicurezza.
Nel soggetto sottoposto a laringectomia totale, nel periodo postoperatorio, per permettere
la cicatrizzazione dello stoma, si posiziona temporaneamente una cannula non cuffiata, con
angolatura limitata. È una cannula tipo Pietrantoni, che prende il nome dal laringologo che
la inventò intorno agli anni ’60. In tal caso, la cannula non ha la forma incurvata tipica delle
cannule tracheali, potremmo dire che sia a forma di arco di cerchio con raggio di curvatura
molto elevato, per cui è una cannula quasi rettilinea ed a curvatura limitata. I primi prototipi
di cannula di Pietrantoni erano metallici e più lunghi, le cannule attuali sono più corte e con
materiale plastico ma oramai sono cadute in disuso.
3) CANNULE FENESTRATE
Nelle cannule fenestrate, la parte superiore dell’arco di cerchio presenta dei fori che
comunicano con il lume che prendono il
nome di finestre; la finestra ha la funzione
di migliorare la fonazione, pur se il
posizionamento della cannula venga fatto
fondamentalmente per problemi respiratori
per cui possiamo dire che la cannula
fenestrata venga utilizzata per tutte quelle
patologie che comportino
contemporaneamente problematiche
respiratorie e di fonazione. Le paralisi
laringee bilaterali con corde vocali in
adduzione, in questo senso,
rappresentano le patologie prototipiche per
le quali è indicato l’utilizzo di queste cannule. L’adduzione delle corde vocali, difatti, è una
posizione fonatoria, quindi se ci fosse aria nei polmoni da permettere una espirazione il
paziente fonerebbe benissimo, ma aria nei polmoni non ve n’è semplicemente perché la via
aerea è chiusa e non è consentito il flusso aereo inspiratorio. La fonazione avviene in fase
espiratoria, quando l’aria transiti in corrispondenza delle corde vocali così da permettere
l’onda di oscillazione mucosa; se la cannula non presentasse la finestra, l’aria passerebbe
tutta dalla cannula in espirazione, senza raggiungere le corde vocali, per cui in tal caso, la
finestra permette una comunicazione tra il lume della cannula e il lume tracheale
consentendo un flusso di aria verso le corde vocali che assicura la fonazione. In questi
soggetti con paralisi laringee bilaterali con corde in adduzione o in soggetti che hanno subito
una laringectomia parziale (ma questo è un ambito specialistico) mediante il posizionamento
di una cannula con finestra, il paziente inspira con la cannula aperta, poi chiude la cannula
o col dito o con una controcannula non fenestrata, l’aria va in maggior quota verso l’alto
perché penetra subito nella cannula, fuoriesce dalla finestra e penetra tra parete tracheale
e cannula (se c’è la cuffia ovviamente la cannula deve essere scuffiata), dando una quota
di aria maggiore ai fini fonatori. Noi sappiamo che ai fini fonatori viene messa in atto una
espirazione volontaria, modulata in intensità ai fini del nostro atto fonatorio. Quindi, la
finestra migliora la fonazione. Per fare questo in un paziente con stenosi importante,
dobbiamo occludere il lume della cannula in fase espiratoria, perché altrimenti l’aria
uscirebbe tramite la cannula stessa. Questo si può fare o volontariamente (il paziente lo fa
con il dito) oppure esistono delle valvole che si chiudono automaticamente in fase
espiratoria. Ovviamente, una cannula fenestrata diventa tranquillamente non fenestrata
posizionando una controcannula non fenestrata. La pulizia della cannula attraverso la
rimozione della controcannula è fondamentale e deve essere effettuata ogni 3-4 ore o
almeno 3-4 volte al giorno, specialmente prima della notte.
4) RIMOZIONE DELLA CANNULA TRACHEOTOMICA
Quando siano venute meno le indicazioni alla tracheotomia, quindi il paziente è in respiro
spontaneo, si esegue la manovra di svezzamento cioè quella di rimozione della cannula
tracheotomica. Il processo di svezzamento è un processo di rieducazione alla respirazione
per le alte vie aeree. Il paziente ha respirato attraverso la cannula, ha perso un po’ la
concezione e sensazione del normale respiro, quindi va rieducato per sicurezza. La corretta
manovra di svezzamento prevede la chiusura della cannula a vie aeree pervie, inizialmente
qualche ora al mattino e qualche ora al pomeriggio, poi tutta la giornata e poi anche la notte.
Quando le vie aeree sono completamente pervie e vi è una respirazione in sicurezza per
24h, si procede alla rimozione della cannula tracheotomica. Chiudere la cannula
tracheotomica permette il passaggio di aria attraverso le vie aeree superiori. Ci sono tutta
una serie di passaggi prettamente meccanici per poter rimuovere una cannula
tracheotomica: innanzitutto devono venire meno tutte le indicazioni che hanno reso
necessaria la tracheotomia e in secondo luogo deve essere assicurata pienamente la
ventilazione spontanea. Quando venga applicata una cannula tracheotomica con cuffia,
prima deve essere rimossa quest’ultima e quindi viene intrapresa una primissima fase di
allenamento, dopodiché c’è la fase vera e propria di svezzamento con chiusura. Il
monitoraggio della pervietà della via aerea lo si può eseguire mediante una fibroscopia che
può essere tradizionale con accesso dall’alto, ma addirittura è possibile accedere in cannula
con il fibroscopio ed esplorare le vie aeree inferiori a partire da dove la cannula finisce. Il
controllo fibroscopico permette soprattutto di scongiurare alcune delle possibili complicanze
del decannulamento soprattutto quando si utilizzino le cannule fenestrate: accade talora che
si generino delle lesioni da decubito che comportano una reazione granulomatosa che
penetra nella finestra tracheale; fortunatamente, il controllo periodico della cannula con
fibroscopia permette di scongiurare questo rischio con un attento monitoraggio.
Una volta rimossa la cannula, in genere la fistola si medica, si chiude spontaneamente nel
giro di un mesetto, ma se non si chiude spontaneamente si possono fare interventi di
plastica.
5) COMPLICANZE DELLA TRACHEOTOMIA
Le complicanze della tracheotomia possono essere suddivise in complicanze
intraoperatorie e complicanze postoperatorie. Le complicanze intraoperatorie sono tutte
quelle che hanno a che fare con l’atto chirurgico, tra le postoperatorie vi sono le complicanze
immediate (in genere nella prima settimana) o tardive (di competenza prettamente
specialistica):
1. Ostruzione della cannula: riduce la ventilazione nel paziente e quindi il paziente si
può presentare dispnoico;
2. Decannulamento accidentale: se la cannula non è stata posizionata in maniera
corretta e coerente al collo del paziente, per tante possibilità accidentali o meno, per
pazienti psicopatici che si staccano la cannula dal collo è possibile che si abbia un
decannulamento accidentale. Il decannulamento può essere una complicanza grave,
ma a volte non immediatamente evidente. Solitamente, la prima manifestazione del
decannulamento accidentale è quello del ritorno alla situazione respiratoria
precedente alla tracheotomia, quindi se il paziente era dispnoico si riscontra un
ritorno della dispnea, ma se il paziente in origine non era dispnoico potremmo anche
non accorgercene. Se la cannula è posizionata grossomodo nel collo, fuoriesce dalla
trachea e il lume distale della cannula guarda la faccia anteriore della trachea, quindi
ce ne accorgiamo posizionando la mano sul lume della nostra cannula e avvertiamo
se vi è un flusso aereo. Se non siamo ancora sicuri, introduciamo un sondino e
vediamo se pesca. Se il sondino si blocca dopo una decina di centimetri (grossomodo
la lunghezza della cannula), ovviamente significa che qualcosa non va. Nei casi dubbi
possiamo penetrare per il tramite del lume della cannula con i fibroscopi e vedere la
situazione. In taluni casi, la cannula è ostruita per granulomi o perché vi sono
secrezioni rapprese che hanno ostruito il lume;
3. Enfisema sottocutaneo cervicale: la cannula viene posizionata in trachea, ma
durante l’attività respiratoria, se la cannula non è cuffiata, una minima quota di aria
si infiltra tra la parete esterna della cannula e i lembi tracheali e, seguendo la cannula,
fuoriesce all’esterno. Se noi suturiamo la cute in maniera molto aderente intorno alla
cannula, questo piccolo flusso aereo non fuoriesce spontaneamente ma riesce a
infiltrarsi, dati i gradienti pressori, nelle fasce cervicali e in particolare nella fascia
cervicale superficiale. Questa situazione crea un enfisema sottocutaneo
apprezzabile alla palpazione come una sensazione soggettiva di crepitio che
tradizionalmente può essere paragonabile al crepitio che si apprezza palpando la
neve appena caduta. Quindi, buona norma è non posizionare dei punti di sutura
cutanei aderenti alla cannula e, in secondo luogo, palpare il collo del paziente. questa
è una situazione pericolosa perché questo enfisema si può estendere verso il
mediastino e quindi dar luogo allo pneumomediastino che può dar luogo ad un
enfisema mediastinico, che rappresenta una complicanza abbastanza temibile.
4. Emorragie nel campo operatorio: il sangue attraverso la breccia tracheale penetra
in trachea. Se c’è la cannula cuffiata, si ferma al di sopra della cuffia, se è scuffiata
penetra nelle vie aeree inferiori. Ce ne accorgiamo perché il paziente inizia a tossire
sangue attraverso la cannula, e questo avviene se la cannula è scuffiata. Se vi è la
cuffia, il sangue dell’emorragia o fuoriesce col vomito, oppure fuoriesce dal cavo
orale. In questi casi, se è stata applicata una cannula scuffiata, in primo luogo,
occorre cuffiare, in secondo luogo procedere ad un’emostasi chirurgica. Nei primi
tempi postoperatori, quindi, la presenza di una cannula con cuffia da un lato ci aiuta
in caso di complicanze, dall’altro ci permette di procedere subito a una ventilazione
a pressione positiva. A situazione stabilizzata, quando non serve più, la cannula con
cuffia potrà essere sostituita con una cannula senza cuffia;
5. Sindromi disfagiche: in fase acuta, episodica, la presenza di una cuffia può aiutare
per la disfagia perché separa le vie aeree superiori dalle inferiori a livello della cuffia
(il cosiddetto “effetto piscina”). Parallelamente però una cannula cuffiata preme sulla
pars membranacea della trachea e a sua volta preme sull’esofago, quindi crea un
momento di stenosi. Inoltre, la presenza della cannula riduce l’elevazione laringea
che abbiamo durante l’atto deglutitorio e quindi rende più difficoltosa la deglutizione.
Tutto questo, con un fine bilancio del paziente, viene facilmente superato. Se c’è una
cannula con doppia strada possiamo mantenere la cuffia e aspirare il contenuto, ma
in linea di massima se un soggetto ha una sindrome disfagica va trattato con
determinati kit di modalità alimentare, sia per via enterale che parenterale o
comunque per os, oppure rieducato tramite rieducazione logopedica.
La tracheotomia non è una manovra chirurgica sempre semplice, soprattutto in pazienti con
un collo più tozzo. Infatti, in rianimazione spesso non si può procedere con sicurezza alle
tecniche percutanee translaringee e bisogna optare per tracheotomie chirurgiche. Ci sono
molti rischi e problematiche anche intra-operatorie.
Dopo aver fatto una tracheotomia trans-istmica, si procede alla creazione di uno sportello
fisso a livello della breccia tracheotomica. Viene fatto per mantenere il più possibile pervia,
con sicurezza, la via aerea perché se si ha decannulamento accidentale comunque questa
tecnica permette un momento di tranquillità prima del riposizionamento, e non magari la
chiusura della breccia. Dopo una tracheotomia, se c’è un decannulamento accidentale, più
precoce è la tracheotomia, maggiore è la velocità con cui quella breccia si chiude.
Ovviamente, se c’è una cannula tracheotomica posizionata da un anno, ci vorrà un po’ di
tempo affinché la breccia si chiuda spontaneamente.
Carcinoma laringeo
Le paralisi laringee sono delle patologie della laringe che comportano abolizione dei
movimenti cordali volontari e che conseguono ad una interruzione della veicolazione
dell’impulso nervoso motorio per il tramite della via motrice che garantisce la contrazione
della muscolatura laringea, che caratteristicamente si associa a delle lesioni di carattere
nervoso, che possono localizzarsi a livello del sistema nervoso centrale o periferico. Le
alterazioni della via motoria laringea sono anche responsabili di alcune forme di alterazione
della propria voce, definite disfonie neurologiche, tra le quali su tutte si distinguono i
movimenti cordali paradossi e la disfonia spasmodica.
1) INNERVAZIONE DELLA LARINGE
La laringe è un organo del quale si distinguono una innervazione motoria ed una
innervazione sensitiva, quest’ultima preposta alla registrazione e alla veicolazione degli
stimoli della sensibilità tattile e propriocettiva, essendo quest’ultima quella che veicola le
informazioni circa la posizione e la forza di contrazione dei muscoli, in maniera tale che al
sistema nervoso centrale giungano dei feedback sull’assetto pneumo-fonatorio della laringe:
la fonazione è un meccanismo fine e complesso che necessita di un certo equilibrio
nell’assetto contrattile della laringe che si adatta via via allo schema motorio necessario alla
produzione della voce e del suono che si voglia emettere. L’innervazione somestesica della
laringe è del tutto assicurata dal nervo laringeo superiore, che è un ramo collaterale del
vago e che presenta anche una componente motoria indirizzata totalmente al muscolo
cricotiroideo, muscolo estensore in grado di variare l’estensione vocale. Diversamente, la
totalità dell’innervazione motoria è competenza del nervo laringeo inferiore o ricorrente,
motivo per cui l’abolizione dei movimenti cordali viene definita come paralisi laringea o
ricorrenziale. Dal punto di vista anatomico, il nervo laringeo ricorrente è un nervo pari ma
non simmetrico, ramo collaterale del vago che a destra e a sinistra ha un decorso differente;
in entrambi i lati viene rilasciato inferiormente alla laringe per poi assumere un decorso
infero-superiore ma a sinistra viene rilasciato più distalmente, quando il vago raggiunga
l’arco dell’aorta dove il nervo laringeo ricorrente di sinistra viene rilasciato e cinge postero-
infero-anteriormente l’arco dell’aorta per poi risalire dal mediastino alla regione del collo,
dove sostanzialmente decorre nella doccia compresa tra la faccia posteriore del lobo
tiroideo, la parete laterale della trachea e la faccia anteriore dell’esofago, per poi
raggiungere la laringe. L’innervazione motoria della laringe sottostà ad una via motoria del
sistema motore somatico, che individua come centro di origine dell’impulso motorio la
corteccia dell’area motoria primaria, che si trova in corrispondenza del lobo frontale nel
giro precentrale, cioè al davanti del solco centrale. A questo livello si trova il motoneurone
di primo ordine della via motrice somatica, il quale è regolato mediante una comunicazione
sinaptica in afferenza dai neuroni della corteccia cerebellare, che sono in grado di inviare
informazioni circa lo schema motorio da applicare affinché si realizzi la corretta contrazione
in successione per la produzione del suono che il soggetto intenda emettere. Dai
motoneuroni della corteccia motoria primaria vengono inviate delle fibre nervose che
entrano nella costituzione del tratto cortico-troncoencefalico, o cortico-bulbare, che
decorre nel contesto della capsula interna del telencefalo e quindi raggiunge il tronco
cerebrale per poi contattare i motoneuroni di secondo ordine dei nuclei motori del tronco
encefalico, tra cui il nucleo costituito dai motoneuroni somatici di secondo ordine del vago.
Il vago è infatti un nervo misto, somatico e viscerale, motore e sensitivo e le fibre motrici
somatiche del nervo vago che innervano la laringe originano dai motoneuroni di secondo
ordine del nucleo ambiguo; a questo livello i motoneuroni vengono regolati dalle fibre del
tratto cortico-troncoencefalico che sono delle fibre dirette e crociate, sia ipsilaterali che
controlaterali, il che significa che il controllo centrale dell’attività motoria somatica del vago
viene regolata da fibre omolaterali e da fibre che provengono dal lato opposto, il che significa
che quando ci si trovi di fronte ad una paralisi delle corde vocali monolaterali questa non
può mai essere dovuta a lesione monolaterale centrale, dal momento che una lesione
monolaterale centrale non precluderebbe l’attività del nucleo ambiguo, semplicemente
poiché questa sarebbe compensata dall’attività delle fibre provenienti dal lato opposto. Dalla
neuroanatomia, quindi, deriva un concetto essenziale per la clinica delle paralisi cordali: una
paralisi monolaterale di corda vocale può essere esclusivamente determinata da un danno
della via motrice periferica, cioè un danno localizzato a livello del nervo vago o del nervo
laringeo ricorrente, ma chiaramente nel primo caso un danno a carico del vago si presenterà
sia con la clinica legata alla compromissione della motilità laringea che della motilità di tutti
gli altri distretti, somatici o viscerali che siano, che rappresentano territorio di distribuzione
del nervo vago.
2) CLASSIFICAZIONE DELLE PARALISI LARINGEE
Le paralisi laringee, innanzitutto possono essere dovute alla compromissione funzionale del
territorio motorio del ricorrente (=paralisi ricorrenziali) oppure alla compromissione del
muscolo cricotiroideo per lesioni del nervo laringeo superiore. A propria volta, le paralisi del
nervo ricorrente possono essere classificate mediante una serie di criteri classificativi, tutti
utili dal punto di vista clinico al fine di ricavare informazioni importanti sulla patogenesi, sulla
sede del danno e sull’eventuale manifestazione clinica:
1. Criterio eziologico:
a) Paralisi centrali
b) Paralisi periferiche
2. Coinvolgimento delle corde vocali:
a) Paralisi bilaterali
b) Paralisi monolaterali
3. Compromissione dei movimenti cordali:
a) Paralisi complete
b) Paralisi incomplete
4. Posizione delle corde vocali:
a) Adduzione
b) Abduzione
5. Manifestazioni cliniche:
a) Paralisi disfonizzanti
b) Paralisi dispneizzanti
Dal punto di vista della classificazione, di estrema importanza è riconoscere quale sia la
posizione che assumono le corde vocali nel contesto della paralisi, giacché queste possono
paralizzarsi in sede mediana o paramediana, in sede intermedia o laterale e quanto
maggiore è la lateralizzazione della corda vocale tanto più il problema clinicamente si sposta
verso l’insufficienza glottica, determinando particolarmente problematiche di carattere
fonatorio, dal momento che occorre considerare che la vibrazione delle corde vocali, o
meglio l’onda di oscillazione mucosa, si realizza con le corde vocali addotte in fase di
espirazione, quando quest’ultima divenga volontaria al fine di produrre la voce, per cui nel
caso che le corde vocali siano paralizzate in posizione laterale si riscontrerà un’afonia (che
è poi ciò che si osserva nella cosiddetta paralisi di Ziemssen); differentemente, quando le
corde vocali siano addotte in posizione mediana, la chiusura della commessura inter-cordale
si associa alla produzione della voce: in questi casi la disfonia è minima, mentre invece è
importante nei casi di paralisi paramediana bilaterale ma anche monolaterale, poiché per
quanto la corda vocale funzionante possa cercare di ridurre la commessura inter-cordale, la
distanza tra le due rimane comunque sempre eccessiva. Diversamente, quanto più addotte
siano le corde, tanto maggiormente dispneizzante è la problematica associata alla presenza
della paralisi cordale, dal momento che le corde vocali si abducono in fase inspiratoria per
consentire il passaggio dell’aria, motivo per cui a seguito della mancata adduzione delle
corde vocali la paralisi determinerà una ostruzione prettamente inspiratoria che si presenta
clinicamente mediante una dispnea ostruttiva laringea: criterio posizionale e criterio di
manifestazione clinica per l’inquadramento classificativo della paralisi cordale sono legati
tra loro allo stesso modo in cui lo sono il criterio eziologico sulla sede del danno e il criterio
della lateralità della paralisi. Come anticipato già in precedenza, una paralisi cordale
monolaterale non può mai essere centrale, dal momento che le lesioni centrali per poter
ledere la motilità della laringe debbono essere associate a danno bilaterale del motoneurone
piramidale o del tratto cortico-bulbare, giacché se uno di questi elementi fosse leso da un
solo lato, l’attività dei motoneuroni del vago sarebbe compensata dalla regolazione dei
motoneuroni piramidali del lato opposto. Viceversa, le paralisi periferiche possono essere
sia monolaterali che bilaterali e conseguono ad un danno a valle del tratto cortico-bulbare e
dei motoneuroni del nucleo ambiguo cioè a livello delle fibre nervose del vago o del nervo
laringeo ricorrente. Unilateralità e bilateralità delle paralisi laringee sono anche associate
alla sintomatologia clinica, dal momento che frequentemente le forme monolaterali danno
luogo a disfonia ma difficilmente a dispnea, che invece si riscontra particolarmente in tutte
quelle paralisi laringee bilaterali in cui il grado di disfonia dipende anche dal grado di
adduzione delle corde vocali; in quest’ultimo caso, le paralisi bilaterali possono anche dare
contemporaneamente una disfonia.
Non è sempre e solo detto che la paralisi laringea dia luogo ad una dispnea a riposo, in
alcuni casi, quando la paralisi della corda vocale si esprima mediante una adduzione
paramediana con lieve conservazione della commessura tra le corde vocali è possibile che
si manifesti esclusivamente una dispnea sotto sforzo. Le paralisi, in base al fatto che
vengano aboliti tutti i movimenti cordali oppure che se ne preservino alcuni, vengono definite
con l’espressione di paralisi complete e paralisi incomplete, pur se effettivamente vi sia
un solo tipo di paralisi incompleta che corrisponde alla paralisi incompleta bilaterale in
adduzione che consegue ad un danneggiamento a carico del nucleo ambiguo di destra e
del nucleo ambiguo di sinistra.
1. Paralisi unilaterale:
a) Paralisi unilaterale destra:
i. Carcinomi dell’esofago cervicale
ii. Carcinomi dell’apice polmonare
iii. Nevriti virali
b) Paralisi unilaterale sinistra:
i. Carcinomi dell’esofago cervicale
ii. Tumori mediastinici
iii. Nevriti virali
iv. Cardiochirurgia
Pur se vi sia una lieve differenza in termini di patogenesi, si tratta di forme di
paralisi unilaterali che conseguono ad un danneggiamento delle fibre nervose
periferiche, dal momento che, come già anticipato, non esistono paralisi unilaterali
che non siano periferiche e viceversa tutte le paralisi centrali sono sempre e
comunque bilaterali. Una delle cause che più frequentemente determina
insorgenza di una paralisi di corda vocale unilaterale è il danneggiamento
postchirurgico soprattutto per interventi di tiroidectomia, dato l’intimo rapporto
che sussiste tra la ghiandola tiroide e il nervo laringeo ricorrente. Il sintomo
caratteristico di queste lesioni è quello della disfonia, mentre raramente si assiste
alla presenza di dispnea.
2. Paralisi bilaterali complete periferiche: in questo caso la paralisi coinvolge
entrambe le corde vocali, che assumono una posizione in adduzione mediana o
paramediana, conseguentemente a varie cause, che possono essere:
a) Tiroidectomia con lesione ricorrenziale bilaterale
b) Sindromi compressive
c) Sindromi infiltranti
I tumori con localizzazione mediastinica oppure i tumori con localizzazione
polmonare possono occasionalmente determinare infiltrazione del nervo laringeo
ricorrente tal che ne consegua l’insorgenza di una paralisi di corda vocale; le sindromi
compressive o infiltrative nel contesto di questa condizione possono dare luogo a
delle forme monolaterali o bilaterali a seconda del fatto che siano compressi/infiltrati
entrambi i nervi laringei ricorrenti oppure uno solo dei due. La più frequente
espressione della paralisi bilaterale periferica è definita con il nome eponimo di
sindrome di Reigel e si manifesta mediante la presenza di una dispnea che si
esprime con tutte le caratteristiche di una dispnea ostruttiva laringea: il soggetto si
presenta bradipnoico con aumento della durata della fase inspiratoria e fase
espiratoria muta e breve; in fase inspiratoria si riscontrano la presenza di un cornage
laringeo (=stridore inspiratorio) e un tirage, cioè un rientramento dei tessuti molli della
fossetta giugulare, delle fossette tra i capi di inserzione dello sternocleidomastoideo,
degli spazi intercostali, della fossetta sopraclaveare e della fossetta epigastrica nei
casi gravi.
3. Paralisi bilaterali incomplete: esiste una sola variante rara, nota con il nome
eponimo di sindrome di Gerhardt che consegue ad una lesione bilaterale del
nucleo ambiguo, soprattutto del contingente che origina le fibre di innervazione del
muscolo cricotiroideo che è il muscolo dilatatore della laringe per eccellenza. Il nucleo
ambiguo corrisponde al nucleo tronco-encefalico in cui sono presenti i motoneuroni
che rilasciano gli assoni che costituiranno le fibre motrici somatiche del nervo vago,
un cui contingente è diretto ai muscoli della laringe, anche al muscolo cricotiroideo
che è un muscolo preposto alla dilatazione della laringe. Questa particolare paralisi,
l’unica ad essere bilaterale ed incompleta, si associa a piccoli movimenti di
adduzione non accompagnati dalla dilatazione della rima glottidea, motivo per cui la
principale manifestazione di questa condizione è la dispnea ostruttiva laringea, che
presenta sempre pressoché le stesse caratteristiche.
4. Paralisi bilaterale periferica in abduzione: si tratta di una paralisi completa, che
è anche nota con il nome eponimo di sindrome di Ziemssen e rappresenta una
forma estremamente rara di paralisi laringea, la quale si caratterizza per una
problematica che non è la disfonia ma addirittura l’afonia, dal momento che in tal
caso le corde vocali sono abdotte in posizione intermedia o intermedio-laterale,
il che significa che non assumono mai la posizione necessaria alla fonazione, cioè
quella addotta che permette il passaggio dell’aria, il contatto di questa con la mucosa
cordale e l’insorgenza dell’onda di oscillazione mucosa. Un altro problema in tal caso
è quello dell’insufficienza glottica, legato particolarmente alla mancanza dello
sfintere glottico, tal che i soggetti che siano affetti da questa condizione siano
predisposti alla eventuale insorgenza di fenomeni di inalazione di saliva o di
materiale alimentare, per cui frequentemente sviluppano polmonite ab ingestis.
Esiste anche la possibilità che alle volte le lesioni del nervo vago si associno a lesioni del X
o dell’XI nervo cranico quando questi tra transitino, per uscire dalla cavità del neurocranio
per il foro lacero, dove i tre nervi sono in intimo rapporto, per cui una lesione dell’uno può
associarsi anche ad una lesione degli altri due.
3) CAUSE DELLE PARALISI LARINGEE
Le paralisi laringee sono delle condizioni patologiche per le quali, quando se ne individui la
presenza, si aprono diverse ipotesi diagnostiche: si tratta di patologie di interesse
otorinolaringoiatrico e gestite in regime otorinolaringoiatrico che tuttavia spesso hanno
patogenesi internistica oppure chirurgica. Chiaramente, le ipotesi patogenetiche delle
paralisi laringee di corda vocale non possono prescindere dall’inquadramento della
condizione, che sia essa bilaterale o monolaterale, dal momento che a seconda del fatto
che la patologia colpisca entrambe le corde vocali o meno, le ipotesi diagnostiche sono
differenti.
Ad esempio, per le paralisi unilaterali sinistre, sicuramente la patogenesi è periferica dal
momento che non esistano paralisi centrali che siano monolaterali dal momento che il tratto
cortico-bulbare è sia diretto che crociato, per cui regola sia il nucleo ambiguo ipsilaterale
che quello controlaterale. In secondo luogo, le paralisi di corde vocali unilaterali sinistre
possono essere associate ad interventi cardiochirurgici in prossimità dell’arco dell’aorta,
dal momento che il nervo laringeo ricorrente di sinistra è in intimo rapporto proprio con l’arco
dell’aorta. Sicuramente, anche patologie infiltranti del mediastino o del polmone
possono associarsi ad una paralisi di corda vocale periferica unilaterale di sinistra; alla
stessa stregua delle paralisi di corda vocale di sinistra, anche le paralisi di corda vocale di
destra possono associarsi a patogenesi infiltrativa di tipo neoplastico: la più frequente causa
di paralisi di corda vocale destra unilaterale è un carcinoma dell’apice polmonare, quello
che prende anche il nome di tumore di Pancoast. Le forme bilaterali, viceversa, possono
avere patogenesi centrale cioè neurologica, oppure periferica potendosi associare a
patologie che interessano l’esofago o la tiroide: non infrequentemente la tiroidectomia
comporta danno periferico bilaterale ricorrenziale, tal che ne risulti una paralisi periferica
bilaterale e completa in adduzione, anche nota con il nome eponimo di sindrome di Reigel.
4) CLINICA
La clinica delle paralisi di corde vocali è caratteristicamente associata alla disfonia, più
tipicamente nelle paralisi laringee unilaterali oppure a dispnea soprattutto nelle forme
bilaterali in adduzione, mentre nelle forme bilaterali in abduzione, forme rare note con il
nome eponimo di sindrome di Ziemssen, si riscontra caratteristicamente la presenza di una
afonia completa in associazione a ricorrenti polmoniti ab ingestis per il venire meno
dell’attività sfinteriale della rima glottidea. Estremamente importante è considerare l’esordio,
che se brusco e associato a sintomatologia evolutiva è sicuramente indice di una patologia
grave.
5) APPROCCIO TERAPEUTICO
L’approccio terapeutico è, chiaramente, funzione della sintomatologia e della patogenesi,
ad esempio un paziente che improvvisamente divenga dispnoico viene intubato ma poi per
condurre una vita normale deve essere tracheotomizzato o eventualmente deve essere
programmato un intervento chirurgico di dilatazione della glottide. Nelle paralisi unilaterali
il problema è dato dalla disfonia, se la corda patologica rimane in posizione mediana, la
corda vocale sana in fase fonatoria riuscirà a vicariare, ma se invece si pone in posizione
paramediana, più aperta lateralmente in fase fonatoria resterà uno spazio aperto tra le due
corde vocali e la disfonia sarà importante.
In questi casi i pazienti possono essere indirizzati ad una riabilitazione logopedica che
tramite determinate tecniche favorisce il compenso glottico, cercando di far avvicinare
l’emiglottide sana alla patologica, oppure possono essere sottoposti ad una terapia
chirurgica per via endoscopica o per via esterna. Queste tecniche mirano ad aumentare il
volume cordale o tramite iniezioni di sostanze che gonfiano la corda e ripristinano
un’adduzione glottica fonatoria oppure mediante l’utilizzo di protesi impiantate per via
esterna.
TIPOLOGI MOVIMEN POSIZIONE SINTOMI SEDE CAUSE EPONIM
A DI TI DELLE DEL O
PARALISI RESIDUI CORDE DANNO
Unilateral Assenti: Abduzione: Disfonia Periferic Tumore di
e destra paralisi generalment a Pancoast,
completa e tumori
paramedia infiltranti
na del
mediastino
Unilateral Assenti: Abduzione: Disfonia Periferic Tumori,
e sinistra paralisi generalment a lesioni
completa e chirurgiche
paramedia monolatera
na li
Bilaterale Assenti: Adduzione: Dispnea Periferic Danno Sindrom
paralisi posizione a chirurgico e di
completa mediana da Reigel
tiroidectomi
a
Bilaterale Assenti: Abduzione: Afonia Periferic Sindrom
paralisi posizione Inalazion a e di
completa respiratoria e di Ziemsse
saliva- n
materiale
alimentar
e
Bilaterale Adduzione: Posizione Disfonia Centrale Sindrom
paralisi paramedia : nuclei e di
incomplet na ambigui Gerhardt
a
Riniti e rinopatie vasomotorie
La parte che noi possiamo osservare della struttura nasale è la piramide nasale. Questa
ha una forma piramidale ed è costituita da una porzione ossea e da una porzione
cartilaginea. La radice del naso,
che è la parte più alta della
piramide, è costituta da tessuto
osseo (osso nasale) ed è la parte
che prende rapporti con l’osso
frontale, il resto, sia la parete
laterale che la parete mediale,
unica al centro a dividere la
piramide in due fosse nasali,
sono di tipo cartilagineo. La
parete laterale è costituita dalla
cartilagine laterale, una lamina
piuttosto ampia e liscia, che si
associa alla cartilagine alare maggiore. Quest’ultima ha una forma ad U, con la branca
laterale si porta a completare la parete laterale, con la branca mediale che si incurva e si
fonde con la branca mediale dell’altro lato forma la parete mediale, che permette di
distinguere due fosse nasali e due narici completamente separate tra di loro. Oltre alla
cartilagine laterale e alla cartilagine alare maggiore ci sono altre strutture cartilaginee
accessorie e sono la cartilagine alare minore e la cartilagine alare accessoria.
Mediante palpazione si apprezza che l’orifizio nasale è costituito anche da tessuto fibro-
adiposo che va a completare la parete laterale e in parte la parete mediale. Questo ci dice
che traumi meccanici a carico del naso vengono attutiti dal tessuto cartilagineo e fibro-
adiposo, cosa che invece non accade per l’osso nasale che può subire rottura o frattura.
Le fosse nasali sono separate completamente dalla lamina centrale, mediana, detta setto
nasale.
La porzione più anteriore del setto è cartilaginea (cartilagine del setto), posteriormente
invece è ossea, formata dal vomere in basso e dalla lamina perpendicolare dell’etmoide
in alto. Il vomere poggia sul pavimento della fossa nasale costituito dall’osso mascellare e
dall’osso palatino. Le due fosse nasali sono lunghe qualche centimetro e oltre ad avere il
pavimento, la parete laterale e la parete mediale hanno un tetto rappresentato dalla lamina
cribrosa dell’etmoide, attraverso cui passano i filuzzi olfattivi che danno origine al nervo
olfattivo.
All’interno delle fosse nasali sono presenti tre estroflessioni ossee dette conche nasali o
turbinati o cornetti che si estendono dall’avanti indietro come turbinato nasale inferiore,
turbinato nasale medio e turbinato nasale superiore. Esiste anche una conca nasale
suprema, appena accennata, in corrispondenza della lamina cribrosa dell’etmoidea, a
queste si aggiungono l’osso mascellare, il lacrimale e in parte l’osso palatino.
La funzione dei turbinati è quella di aumentare la superficie di contatto con l’esterno della
parete laterale, sono ricoperti da mucosa sottile nella porzione mediale e spessa nella
porzione laterale.
Questa mucosa è estremamente attiva e va incontro a processi infiammatori ogni qual
volta si abbiano processi patologici a carico del naso, aumentando di spessore anche in
un banale raffreddore (ipertrofia dei turbinati).
Per poter guardare i due terzi anteriori delle fosse nasali di un soggetto si esegue la
rinoscopia anteriore, in cui si usa uno speculum nasale che permettere di allargare l’orifizio
narinale e una fonte luminosa posta sulla fronte del medico. Con questo esame
strumentale si può osservare la mucosa, di solito rosea, della parete mediale (setto), della
testa (parte più anteriore) del turbinato inferiore e della testa del turbinato medio,
permettendo di valutare eventuali aumenti di volume ed eventuali presenze di secrezioni.
Per osservare tutta la fossa nasale si usa un altro strumento cioè l’endoscopio, costituito
da fibre ottiche contenute in un tubicino di metallo (rigido) o di gomma (flessibile), di pochi
mm (3,5). L’endoscopio flessibile può incurvarsi e adattarsi alle anfruttuosità
permettendoci di guardare i turbinati in tutta la loro estensione ( testa, corpo, coda).
rinoscopia anteriore endoscopio rigido endoscopio flessibile
La mucosa è ricca di vasi, venosi e arteriosi, ritroviamo rami dell’arteria carotide esterna in
particolare derivanti dal ramo mascellare e i rami etmoidale anteriore e posteriore che si
portano ad irrorare la parete laterale e mediale del naso. Questo è importante sottolinearlo
perché la vascolarizzazione risulta essere caratterizzata da una fitta rete di capillari piccoli
e sottili, soprattutto a livello della parete settale, che in seguito a micro-traumi o a processi
infiammatori possono sanguinare. Esiste una regione situata anteriormente in prossimità
della punta del naso: è il locus valsalvae, un locus minoris resistentiae in cui la mucosa
che ricopre il setto è estremamente sottile e ricca di vasi, facilmente esposta a traumi,
chiamata anche area di Little o plesso di Kiesselbach.
La funzione fondamentale del naso è la respirazione, cioè il passaggio di aria non uguale
contemporaneamente in entrambe le fosse nasali, con un flusso di tipo laminare. Si dice
che le fosse nasali abbiano un’alternanza di pervietà, ve n’è sempre una che è più pervia
dell’altra, con un ciclo nasale che può durare dalle 2 alle 5-7 ore. Noi non percepiamo
questa diversa respirazione, la percepiamo uguale, tranne quando siamo raffereddati, in
questo caso però non parliamo di un fisiologico ciclo nasale ma di una condizione
patologica nella quale il passaggio di aria tende ad essere ridotto. Attraverso esami
strumentali si può calcolare la quantità di aria che passa all’interno della fossa nasale
(rinomanometria).
La funzione di difesa e purificazione dell’aria si ha grazie alle caratteristiche dell’epitelio
colonnare monostrato che ricopre la parete nasale, definito di tipo respiratorio, costituito
da cellule basali e 2 cellule fondamentali: cellule caliciformi mucipare e cellule ciliate.
Queste ultime due danno origine al trasporto muco-ciliare, le ciglia inserite nel muco che
ricopre l’epitelio, si muovono nella stessa direzione con un movimento metacronale una
dopo l’altra, spingendo il muco verso l’interno.
Il muco è formato da una fase sol e una fase gel, la cui caratteristica è quella di poter
intrappolare tutte le particelle che penetrano con la respirazione (polvere, batteri) sullo
strato superficiale, per poi trasportarle attraverso il movimento delle ciglia dal naso verso il
rinofaringe e poi nell’orofaringe dove vengono deglutite con la saliva.
In condizioni normali il trasporto muco-ciliare non è percepito perché la quantità di muco
prodotta è minima, si può percepire solo mettendo un dito nel naso e sentendo l’umidità.
Diventa patologico e ci accorgiamo della presenza quando la quantità di muco prodotta
diventa maggiore, come in seguito ad un raffreddore o ad altre affezioni a carico del naso.
I seni paranasali sono delle cavità vuote ripiene di aria, che si trovano all’interno del
massiccio facciale e sono in comunicazione con il naso. Tali cavità sono ricoperte dalla
stessa mucosa delle fosse nasali, quindi si trovano sia CCM che cellule ciliate.
È importante considerare, poiché possibilmente alla base dell’eventuale insorgenza di una
rinosinusite, che il movimento delle ciglia delle cellule cigliate della mucosa nasale verso
l’ostio di comunicazione tra il naso e i seni mascellari comporta spostamento del muco nei
seni paranasali. Il muco trasportato al rinofaringe per poi essere deglutito deriva dalle
fosse nasali ma anche dai seni paranasali.
• RINITI
Con l’espressione di rinite si intende un processo infiammatorio del naso, genericamente
inteso, ancorché si distinguano le riniti in base all’eziologia, dal momento che pososno
essere chiamati in causa differenti agenti eziologici, infettivi, chimico-tossici, alterazioni di
carattere vascolare:
1. Riniti infettive:
a) Riniti virali
b) Riniti batteriche
c) Riniti micotiche
Tra queste, la più frequente è rappresentata dalla rinite virale che corrisponde a
quello che comunemente viene definito con l’espressione di “raffreddore”; le riniti
infettive possono essere acute ovvero croniche e non infrequentemente le riniti
atrofiche corrispondono alla risultanza della cronicizzazione di una infezione nasale.
2. Riniti non-infettive: sono delle patologie infiammatorie del naso che conseguono
all’azione tossico-irritativa di agenti chimici o fisici, che determinano uno stimolo
irritativo nasale.
3. Riniti vasomotorie: più correttamente sono chiamate rinopatie vasomotorie e
sono delle patologie che conseguono alla presenza di una alterazione vascolare e
che caratteristicamente vengono distinte in specifiche cioè allergiche e
aspecifiche:
a) Rinopatie vasomotorie allergiche:
i. Stagionali
ii. Perenni
b) Rinopatie vasomotorie aspecifiche:
i. Con neutrofilia
ii. Con eosinofilia
iii. Mastocitarie
Nel primo dei due casi è nota l’eziologia, per cui si parla di rinopatie vasomotorie
specifiche, che si associano a meccanismi di ipersensibilità del I tipo, cioè allergica,
che per il tramite del rilascio dell’istamina induce una vasodilatazione ed una
vasopermeabilizzazione che sono responsabili dell’edema e della congestione
vascolare del naso; caratteristicamente, queste forme allergiche in considerazione
della cadenza temporale vengono suddivise in forme perenni e forme stagionali che
sono quelle classicamente associate alla presenza di aeroallergeni, come i pollini,
che sono presenti nell’aria respirata solo in alcuni periodi dell’anno.
4. Riniti atrofiche: si tratta di rinopatie infiammatorie spesso croniche che possono
essere la risultanza della cronicizzazione di un processo infiammatorio o essere
espressione di una patologia prevalentemente senile; in questi casi la mucosa
nasale perde la propria funzione fisiologica andando incontro ad atrofia. Infatti, la
mucosa che riveste il setto nasale e i turbinati modifica le proprie caratteristiche
istologiche e conseguentemente anche funzionali. Nelle forme infettive e
infiammatorie la mucosa si ispessisce, nelle forme atrofiche invece tende ad
assottigliarsi diminuendo la produzione di muco. Questo avviene in maniera
parafisiologica in età senile ma può avvenire anche quando vi siano processi
infiammatori o infettivi cronici.
• RINITI INFETTIVE
Le riniti infettive sono delle patologie infiammatorie del naso che conseguono ad una
infezione e che come tali possono essere ulteriormente classificabili in rapporto
all’eziologia in riniti virali, batteriche e micotiche.
1) RINITE VIRALE
La più frequente delle riniti infettive è la rinite virale che è anche popolarmente nota con il
nome di “raffreddore” ed è una malattia infettiva acuta e benigna che si autolimita.
L’eziologia della rinite virale si associa ad alcuni virus, tra cui:
1. Rinhovirus
2. Paramixovirus
3. Adenovirus
4. Virus respiratorio sinciziale
5. Coronavirus
Nella sintomatologia legata all’infezione da SARS-CoV-2 si riscontra spesso la rinite virale
a cui si associa anosmia o iposmia, proprio perché la penetrazione a livello nasale del
virus crea un danno tale da manifestare i segni classici dell’infiammazione oltre a dare un
intreressamento dell’albero bronchiale. Il contagio avviene, per tutti questi virus, per il
tramite dell’inalazione di microparticelle espulse dall’individuo contagiante con la tosse,
con la starnutazione ma alle volte anche con il solo respiro. È contemplata anche la
possibilità che si abbia una caratteristica modalità di contagio per contatto con superfici o
con mani infette.
I tempi di incubazione dei virus che sono coinvolti nel contesto della rinite virale sono
compresi tra tra le ventiquattrore e le quarantottore e la via di trasmissione
preferenziale è per contatto diretto con mani sporche o superfici infette o per via aerea
tramite colpi di tosse e starnuto, con il quale si emettono particelle contenenti saliva, muco
e virus. I virus che siano in causa nella rinite virale sono virus che osservano una rapida
crescita e sono in grado di dare origine ad una risposta infiammatoria notevole a livello
locale, con aumento della produzione di muco (rinorrea), distruzione dell’epitelio e perdita
di funzione di trasporto mucociliare. L’aumento della produzione di citochine, richiamerà
cellule infiammatorie dal circolo, infatti prelevando e osservando l’epitelio della mucosa
nasale al microscopio ottico vedremo la presenza del virus, ma anche delle cellule
infiammatorie. Peraltro, i virus in questione sono dei forti induttori della produzione di
interferoni, particolarmente di IFN-α che è in grado di dare luogo all’attivazione della
risposta antivirale. La sintomatologia clinica della rinite virale si associa a:
1. Rinorrea: si intende con l’espressione di rinorrea un aumento della secrezione
nasale, che inizialmente è costituita da un liquido limpido e poco denso in quella
che prende il nome di rinorrea sierosa, ma che si trasforma progressivamente in
rinorrea mucosa nel momento in cui il muco divenga più denso. Difatti, l’iniziale
rinorrea sierosa è ascrivibile all’edema infiammatorio che consegue alla
vasodilatazione, mentre la progressiva assunzione di una consistenza viscosa e di
un colorito giallognolo è espressione della risposta reattiva delle cellule caliciformi
mucipare nelle quali si apprezza un compensatorio aumento della produzione
mucosa.
2. Faringodinia;
3. Sintomi di accompagnamento:
a) Cefalea
b) Astenia
c) Mialgia
d) Debolezza
e) Tosse
Alla forma virale, può sopraggiungere la forma batterica per via di una sovrainfezione,
per cui la sovrapposizione batterica è a tutti gli effetti da considerarsi come una
complicanza della rinite virale. La rinorrea mucosa per la presenza di batteri a seguito
della sovrinfezione assume una colorazione giallo-verdastra e i sintomi possono perdurare
finanche per 6 settimane. Se la rinite batterica non viene eliminata, grazie alla
comunicazione tra la fossa nasale e i seni paranasali l’infezione può estendersi a questo
livello dando origine ad una sinusite acuta o cronica.
2) RINITE BATTERICA
La rinite batterica è una rinite infettiva, che frequentemente esordisce come complicanza
della rinite virale, presentandosi mediante una secrezione purulenta giallo-verdastra con
sintomi del comune raffreddore che si accompagnano a questa rinorrea purulenta, i quali
possono perdurare fino alle sei settimane; oltre ai sintomi del raffreddore e alla rinorrea
purulenta, si apprezzano altri sintomi come l’ostruzione nasale, per la congestione della
mucosa dei turbinati e del setto che non permette il passaggio di aria. In realtà, a
determinare questa ostruzione non è solo l’effetto massa ma anche l’aumento della
produzione di muco che ristagna, motivo per il quale il paziente accusa anche
un’aumentata percezione del trasporto muco-ciliare dal naso all’orofaringe (scolo di
secrezione muco-purulenta). La presenza dell’orifizio tubarico a livello del rinofaringe
costituisce la base anatomica della possibile estensione del processo infiammatorio a
livello della tuba di Eustachio, in questo modo una rinite batterica può complicarsi con una
otite media, con accumulo di secrezioni ed essudazione nella cassa del timpano,
congestione della mucosa e ipoacusia di trasmissione.
3) RINITI MICOTICHE
La rinite funginea è la meno frequente e può insorgere per l’utilizzo prolungato di farmaci
o per la presenza di sostanze particolari o funghi nell’ambiente. L’utilizzo prolungato della
terapia antibiotica determina modificazione della flora residente, facendo sì che venga
meno l’effetto di competizione biologica che di norma impedisce la virulentazione dei
funghi e della flora saprofita. Osservando al microscopio un prelievo di muco con piccoli
tranci di epitelio nasale si possono osservare le spore a forma di clessidra oppure le ife
ramificate che sono segno di un’infezione funginea.
• RINOPATIE VASOMOTORIE
Con l’espressione di rinopatie vasomotorie si intende un gruppo di patologie che
conseguono alla presenza di una alterazione vascolare di tipo funzionale a livello della
rete arteriosa del naso, la cui principale espressione clinica è definita dall’ostruzione
nasale. Le rinopatie vasomotorie sono a loro volta ulteriormente classificate in
considerazione della differente eziologia, riconoscendosene alcune che prendono il nome
di rinopatie vasomotorie allergiche o specifiche, ed altre, che sono in contrapposizione
alle prime, definite rinopatie vasomotorie non-allergiche delle quali la manifestazione
più frequente è una patologia anche chiamata NARES; esistono anche delle rinopatie
vasomotorie definite distoniche.
FORME DISTONICHE
36%
NARES
FORME ALLERGICHE …
43% 21%
• CENNI DI TERAPIA
Nelle forme allergiche abbiamo come meccanismo patogenetico la degranulazione dei
mastociti con la liberazione di istamina, che ci suggerisce l’opportunità di poter utilizzare
come terapia gli antistaminici, che legano i recettori dell’istamina bloccando la
sintomatologia. Possono essere utilizzati in monosomministrazione per via orale
(emività intera giornata), oppure si possono usare farmaci che agiscono in maniera topica
sulla congestione della mucosa e l’aumento di volume del turbinato, come il cortisone in
spray per periodi prolungati. Il decongestionante non si usa, salvo per qualche giorno
nella cura della sintomatologia acuta. Sussiste una ulteriore opportunità terapeutica, cioè i
cromoni, utili ma poco efficaci, agiscono nel 40% dei soggetti allergici, andando a
bloccare la degranulazione dei mastociti, prima che la cascata sia innescata. Sono farmaci
vantaggiosi, se hanno effetto, perché usandolo poco prima della pollinosi, il mastocita non
libera istamina e si previene l’insorgenza della sintomatologia. Possono essere usati
anche anticolinergici e antileucotrienici quando c’è già componente asmatica
sovrapposta alla rinopatia vasomotria allergica. Da qualche anno è in commercio uno
spray topico con istamina e cortisone in un’unica somministrazione, senza la necessità di
prendere l’antistaminico per via orale. L’approccio terapeutico passa anche per la
prevenzione cioè l’allontanamento dell’allergene, per esempio se si è allergici all’acaro
della polvere bisogna togliere tappeti, peluches e fare aeare i locali. L’immunoterapia
con il vaccino è un’altra opportunità, che rende il paziente insensibile all’allergene. Viene
somministrato in gocce sublinguali di sostanza antigenica, con una durata circa di 4 anni,
è importante, infatti, la compliance del paziente che non deve interrompere la
somministrazione dell’immunoterapia. Il vaccino antiallergico si può utilizzare nel paziente
allergico ad 1-2 sostanze al massimo, oppure se è un paziente polisensibile si possono
scegliere 1-2 allergeni, in quanto l’associazione di più vaccini si è visto non avere efficacia.
Nelle forme non allergiche si ha sempre liberazione di istamina e ipertrofia dei turbinati,
quindi possono essere utili i cromoni, i corticosteroidi topici e gli antistaminici sistemici o
locali. Cambia, tra il soggetto allergico e non allergico, la posologia e la prognosi; la
rinopatia vasomotoria non allergica può avere delle complicanze, quindi la terapia deve
essere modificata nei dosaggi in base alla sintomatologia e alle caratteristiche del
paziente e non deve essere abbandonata.
Nelle riniti croniche come trattamento si utilizzano presidi differenti nella forma ipertrofica
e in quella atrofica:
1. Rinite cronica ipertrofica:
a) Crenoterapia salsobromoiodica o sulfurea
b) Decongestionanti nasali (abuso causa danno)
c) Decongestione della mucosa dei turbinati
2. Rinite cronica atrofica:
a) Inalazioni salsoiodiche o solforose
b) Pomate topiche epitelio-trofiche
3. Ozena:
a) Lavaggi nasali tiepidi con soluzioni alcaline deboli
b) Sulfamidici in polvere aerosol
c) Terapia con streptomicina
ll trattamento delle riniti infettive invece consiste nella somministrazione di acido
acetilsalicilico, come terapia aspecifica, di decongestionanti nasali come terapia
sintomatica e come terapia eziologica nella somministrazione di antibiotici per quanto
riguarda la rinite infettiva batterica.
Sinusiti
Le sinusiti o rinosinusiti sono delle patologie infiammatorie dei seni paranasali che sono
delle cavità pneumatiche che si trovano in corrispondenza di alcune ossa brevi all’interno
delle quali sono scavate suddette cavità; tali ossa sono il mascellare, l’etmoide, il corpo
del frontale e il corpo dello sfenoide. Dal punto di vista istologico, i seni paranasali sono
rivestiti dalla medesima mucosa che riveste le fosse nasali, per cui sono costituiti da epitelio
respiratorio, espressione con cui istologicamente si intende un epitelio batiprismatico
pseudostratificato costituito da cellule ciliate intervallate da cellule caliciformi mucipare.
I seni paranasali si sviluppano progressivamente e in maniera metacrona, vale a dire in
successione e tra questi il primo a svilupparsi è il seno etmoidale insieme al seno
mascellare, mentre il seno frontale e il seno sfenoidale si sviluppano tardivamente e tra
i due quello che si sviluppa successivamente e completa più tardivamente lo sviluppo è il
seno sfenoidale, che completa la propria formazione intorno ai diciotto anni. Dal punto di
vista pratico questa
SINUSITI
informazione è
ETMOIDO-FRONTO-SFENO-MASCELLARI
estremamente importante da
considerare: clinicamente, le
FES
MF
sinusiti si esprimono come SINUSITI
ETMOIDO-MASCELLARI
delle patologie che
ETMOIDITI ES
determinano, tra le altre
OSTEOMIELITE
manifestazioni, un dolore in F
Assenza di ispessimento
mucosale
Il pH è alcalino
L’infezione batterica
Il metabolismo della
sarà ostacolata nella
cavità sinusale mucosa è normale
• DIAGNOSI
La diagnosi delle sinusiti si muove fondamentalmente su due obiettivi: il primo è quello di
confermare l’ipotesi diagnostica di sinusite e il secondo è indagare sulla causa che sia stata
alla base dell’insorgenza della patologia. Sicuramente, per larga parte la diagnosi di una
sinusite è clinica e come detto il sospetto clinico deve insorgere ogniqualvolta vi siano
elementi di sospetto come rinorrea mucopurulenta da almeno dieci giorni, scolo faringeo
(che il paziente riferisce con sensazione di “muco in gola”), dolore nelle regioni
caratteristicamente associate alle sinusiti (regione zigomatica per la sinusite mascellare,
regione della fronte per sinusite frontale, regione della nuca o vertice del capo per sinusite
sfenoidale, pressione retrobulbare per sinusite etmoidale), febbricola, edema periorbitario e
tosse notturna o diurna. Tipicamente, l’edema periorbitario è una espressione
caratteristica soprattutto della sinusite etmoidale, essendo tra questi l’etmoide un osso che
è in stretta vicinanza rispetto alla cavità orbitaria, come d’altronde lo è anche l’osso frontale.
In questi casi, l’infiammazione può determinare per contiguità estensione dell’essudazione
soprattutto a livello della palpebra superiore, dove quindi si documenta la presenza di una
tumefazione. Oltre ai sintomi e all’ispezione, con la pressione a livello della regione
zigomatica o frontale si può eventualmente esacerbare il dolore quando questo sia legato
alla presenza di una sinusite del seno mascellare o del seno frontale. Si completa, quindi,
l’esame obiettivo mediante esecuzione della rinoscopia anteriore e dell’endoscopia con
endoscopio rigido o flessibile che consente di osservare direttamente la perdita di pervietà
dell’ostio oppure le secrezioni mucopurulente. In passato, si eseguivano anche indagini
come ad esempio la diafanoscopia o l’RX cranio che in realtà oggi non vengono più utilizzate
e soprattutto l’RX cranio mostra sempre immagini dai limiti non netti, per cui quando non si
riesca con la sola clinica a fare diagnosi di una sinusite, si può utilizzare come supporto
diagnostico la TC che oltre a produrre delle immagini nitide, permette anche di cogliere un
eventuale interessamento dell’osso, quindi di documentare eventuali complicanze ossee.
È chiaro che, una volta confermata la diagnosi di sinusite, se si voglia evitare che questa
insorga nuovamente, bisognerà approfondire la diagnosi eziologica, al fine di intendere
quale sia stata la patologia che ha determinato l’istituirsi delle premesse della sinusite e
quindi trattarla. Si può eseguire un tampone nasale per l’esecuzione dell’esame colturale
e dell’antibiogramma; se con l’endoscopia nasale non si sia trovata alcuna anomalia
strutturale congenita o alcuna formazione poliposica che possa in qualche maniera rendersi
responsabile della ostruzione, si deve pensare che la patologia che abbia determinato un
edema e una congestione della mucosa tali da indurre insorgenza della sinusite per
ostruzione dell’ostio di comunicazione sia una rinopatia su base vasomotoria, che può
eventualmente essere confermata mediante valutazione comparativa di una
rinomanometria prima e dopo introduzione di un decongestionante nasale. Dopodiché,
mediante esami come lo Skin-Prick test, il PRIST e soprattutto il RAST e successivamente
il rinocitogramma, si può avere eventuale conferma del fatto che la patologia alla base sia
una rinopatia vasomotoria allergica, una rinopatia vasomotoria non allergica con eosinofilia
(NARES) oppure una rinopatia vasomotoria distonica (o neurovegetativa).
• TERAPIA
La terapia per le sinusiti può essere sia medica che chirurgica, ma chiaramente il ricorso
all’intervento chirurgico sottostà a delle precise indicazioni e quando queste non sussistano
si esegue la terapia medica.
1) TERAPIA MEDICA
La terapia medica ha come obiettivi quelli di ripristinare la pervietà dell’ostio e restituire
l’attività di clearance muco-ciliare e chiaramente anche quella di debellare l’infezione:
questi sono i tre obiettivi terapeutici che ci si propone con la terapia medica. Al fine di liberare
l’ostio di comunicazione con i seni paranasali, vengono utilizzati farmaci topici e lavaggi
nasali, che consentono la rimozione meccanica delle secrezioni. I lavaggi nasali possono
essere eseguiti mediante spray anche se è più efficace eseguire dei lavaggi a pressione,
utilizzando cioè del liquido isotonico o ipertonico contenuto in una sacca, a propria volta
collegata ad un tubicino (sistema Lavonase®): mediante la fuoriuscita a pressione costante,
il liquido determina rimozione meccanica delle secrezioni. Solo dopo che si sia eseguito il
lavaggio è possibile eseguire la somministrazione di decongestionanti nasali che
mediante la vasocostrizione riducono l’essudazione e favoriscono l’assottigliamento della
mucosa nasale, favorendo la restituzione della pervietà dell’ostio del seno mascellare.
Chiaramente, se il decongestionante spray venisse applicato quando ancora non siano stati
eseguiti i lavaggi nasali, lo strato di muco ne impedirebbe la penetrazione, per cui
l’applicazione dei decongestionanti va eseguita solo dopo esecuzione del lavaggio nasale.
È anche possibile somministrare in tal caso dei cortisonici topici dal momento che sono
farmaci antiedemigeni. Accanto al ripristino della pervietà dell’ostio, è necessaria anche una
somministrazione antibiotica sistemica per debellare l’infezione; come detto in
precedenza, è possibile eseguire dei tamponi per l’esecuzione dell’esame colturale e
dell’antibiogramma che guida la più corretta scelta terapeutica, ma d’altra parte anche sulla
base della conoscenza degli agenti eziologici in causa si può somministrare una terapia
antibiotica empirica, che sia efficace contro gli agenti del cosiddetto trio infernale
(Streptococcus Pneumoniae, Moraxella Catarrhalis e Haemophilus Influenzae); i farmaci
antibiotici più utilizzati sono i chinolonici che tuttavia non possono essere utilizzati nei
bambini, a cui è prescritta somministrazione di penicilline, cefalosporine di III
generazione o macrolidi. Alla terapia antibiotica si associano mucolitici ed eventualmente
cortisonici per via orale in presenza di complicanze che possono essere acute oppure
croniche.
2) TERAPIA CHIRURGICA
La terapia medica è raramente risolutiva per le sinusiti, per cui mediante un monitoraggio
TC in questi casi è possibile stabilire quando sia necessario intervenire chirurgicamente, al
fine di mirare al ripristino della pervietà dell’ostio. In particolare, la sinusite viene trattata
chirurgicamente quando con la sola terapia medica non si riesca a gestire la patologia o
quando sussistano delle complicanze della sinusite stessa.
In passato, l’accesso chirurgico veniva effettuato a cielo aperto, mentre adesso l’intervento
viene effettuato con l’endoscopia a fibre ottiche (FESS, chirurgia endoscopica funzionale
dei seni paranasali che ha funzione solo di aumentare la pervietà dell’ostio). Prima, con
l’intervento di Caldwell Luc si effettuava accesso dal fornice gengivale per determinare
formazione di un secondo ostio ma questo era inutile dal momento che pur in presenza di
un secondo ostio, il drenaggio avviene sempre verso la via di normale scorrimento, cioè
verso l’ostio normale.
Differentemente, oggi, si usano strumenti endoscopici a fibre ottiche introdotti nel naso, in
maniera tale da riuscire con essi a raggiungere i seni e usare anche strumenti che hanno la
funzione di allargare, ripristinando la pervietà di quest’ostio di comunicazione. Questo viene
denominato FESS cioè Functional Endoscopic Sinus Surgery, vale a dire chirurgia
endoscopica dei seni paranasali funzionale, che ha la funzione di allargare l’ostio, ma
permette anche un drenaggio delle secrezioni tramite un ripristino della funzione muco-
ciliare. Questo intervento è molto meno invasivo rispetto all’intervento di “Caldwell-Luc”, il
quale, per raggiungere il seno paranasale, necessitava di accesso tramite il fornice
gengivale. A seguito dell’accesso, si andava ad abbattere la parete anteriore del seno
mascellare per accedervi e creare un ostio aggiuntivo all’interno del seno mascellare.
Questo intervento, però, non era non utile perché il drenaggio delle secrezioni avviene
sempre in un’unica direzione, ovvero quella del trasporto muco-ciliare verso l’ostio naturale,
quindi creare osti accessori favoriva di certo i drenaggi, ma non attraverso la normale via di
scorrimento del muco dovuto al movimento metacronale di queste cellule ciliate. Oggi
questo intervento non viene praticato, infatti la FESS tenta di aprire gli osti già presenti
aumentandone il diametro. Se vediamo che i seni paranasali risultano chiusi perché il
complesso ostio-meatale è chiuso dalla presenza, ad esempio, di una mucosa ispessita,
quello che si può fare è abbattere pareti ossee per permettere una migliore ventilazione e
un migliore drenaggio.
RINOSINUSITI
MASCELLARI ETMOIDO-FRONTALI
CRONICIZZARSI COMPLICARSI
Ovviamente, il motivo dell’intervento tempestivo è legato alle complicanze, dal momento
che la sinusite può complicarsi in maniera acuta con cellulite periorbitaria o edema
palpebrale o con complicanze croniche come un interessamento dell’albero
respiratorio, mediante una sindrome rino-sinuso-bronchiale. Nei bambini, date le
dimensioni molto piccole del seno frontale, una eventuale sinusite di questi può determinare
ben presto una complicanza che è quella dell’osteomielite del frontale. Se l’infezione del
seno frontale si estende in alto si possono avere ascessi frontali o addirittura degli ascessi
nella cavità del neurocranio; a livello oculare, oltre alla cellulite periorbitaria, si può anche
determinare perdita del visus per interessamento dell’etmoide e questo accade soprattutto
nei bambini dove le pareti della cavità orbitaria sono molto sottili i pazienti a rischio di perdita
del visus sono frequentemente soggetti giovani che arrivano di pronto soccorso con
notevole tumefazione e diplopia nonché neurite retrobulbare.
1. Complicanze acute:
a) Cellulite periorbitaria
b) Edema palpebrale (per etmoidite soprattutto)
c) Neurite retrobulbare (etmoidite nei bambini)
d) Osteomielite del frontale (bambini)
e) Ascesso frontale
2. Complicanze croniche:
a) Sindrome rino-sinuso-bronchiale
Epistassi
Con l’espressione di epistassi si intende un sanguinamento nasale, cioè che origina per
fatti emorragici a carico della rete vascolare nasale e si tratta di manifestazioni piuttosto
frequenti dal momento che circa il 60% della popolazione ha sperimentato un
sanguinamento nasale. Le epistassi, quindi, sono delle manifestazioni estremamente
frequenti soprattutto nei soggetti pediatrici e anziani, nei quali si attesta la più gran parte
delle manifestazioni di epistassi.
Dal punto di vista classificativo, esistono differenti criteri mediante i quali sia possibile
inquadrare l’epistassi:
1. Frequenza della manifestazione:
a) Sporadiche
b) Ricorrenti
c) Subcontinue
2. Sede del sanguinamento:
a) Anteriore
b) Posteriore
3. Lateralizzazione:
a) Monolaterali
b) Bilaterali
4. Modalità di sanguinamento:
a) Arterioso
b) Venoso
È opportuno prestare attenzione soprattutto alle cosiddette epistassi monolaterali in soggetti
anziani e soprattutto se associate ad eventuali tumefazioni cervicali che potrebbero celare
la presenza di un carcinoma nasale o del rinofaringe. Il sanguinamento nasale può originare
per emorragia arteriosa o per emorragia venosa e nel primo dei due casi il sangue ha un
colore rosso più acceso e il sanguinamento è più copioso poiché la pressione del sangue
nell’albero arterioso è maggiore di quella dell’albero venoso. Inoltre, il sanguinamento
nasale in base alla sede può definirsi anteriore o posteriore: nel primo caso si assiste alla
presenza di una emissione di sangue dalle narici o dalla singola narice, nel secondo caso,
per il tramite delle coane il sangue raggiunge il rinofaringe e quindi l’orofaringe e
successivamente viene eliminato dal cavo orale (10% dei casi di epistassi).
Dal punto di vista anatomico, il naso è di per sé più predisposto rispetto ad altri organi e
altre sedi ai sanguinamenti, soprattutto dal momento che sussista una elevatissima
vascolarizzazione che è assicurata da una serie di arterie, tra cui l’arteria sfenopalatina e
le arterie etmoidali, anteriore e posteriore. Da queste arterie originano dei capillari che si
anastomizzano ampiamente in alcune aree che sono dei veri e propri loci minoris
resistentiae, come la porzione anteroinferiore del setto, anche nota con il nome eponimo
di locus di Valsalva, il plesso di Kiesselbach e l’area di Little; a questi livelli si riscontra
la presenza di anastomosi tra l’arteria sfenopalatina, l’arteria palatina maggiore e l’arteria
labiale e l’etmoidale anteriore, mentre a livello del plesso di Woodruf si riscontra la
presenza di anastomosi tra l’arteria faringea ascendente e l’arteria sfenopalatina: questi
sono i loci minoris resistentiae del naso da cui può potenzialmente insorgere una
manifestazione emorragica, nota come epistassi.
• CAUSE
L’epistassi è un segno clinico e quindi non è una patologia a sé stante; peraltro è anche
un segno clinico non-univoco, il che significa che quando se ne riscontri la presenza si
aprono diverse ipotesi patogenetiche e diagnostiche che è necessario vagliare al fine di
chiarire quale sia la causa che ne sta alla base; innanzitutto, le cause di epistassi possono
essere bipartite in due grandi gruppi, cioè le cause sistemiche e le cause locoregionali, cioè
che pertengono strettamente a patologie del naso:
1. Cause generali:
a) Patologie dell’emostasi:
i. Piastrinopenie
ii. Piastrinopatie
iii. Coagulopatie congenite o acquisite
b) Disturbi di circolo:
i. Ipertensione arteriosa
ii. Vasculopatia diabetica
c) Vasculopatie:
i. Congenite: teleangectasia ereditaria
ii. Acquisite:
§ Granulomatosi con poliangioite
§ Poliarterite nodosa
d) Ipovitaminosi K
e) Terapia anticoagulante
2. Cause locali:
a) Riniti
b) Rinosinusiti
c) Neoplasie benigne
d) Neoplasie maligne
e) Traumi
f) Barotraumi
g) Fratture
h) Sostanze tossiche:
i. Cocaina
ii. Decongestionanti
i) Sondino naso-gastrico
j) Rottura del setto
k) Perforazione del setto
l) Rottura di aneurismi carotidei
m) Varici del setto nasale
Tra le cause generali, occorre ricordare che frequentemente le patologie dell’emostasi,
soprattutto le piastrinopenie e le piastrinopatie si esprimono mediante dei sanguinamenti a
carico del naso; ricordiamo che si intendono con l’espressione di piastrinopenia i deficit
quantitativi delle piastrine e con l’espressione di piastrinopatia delle alterazioni qualitative
dell’emostasi, che possono essere acquisite oppure congenite, come nel caso della
sindrome di Bernard-Soulier, che consegue a deficit della GPIb, oppure la tromboastenia
di Glanzmann che invece pertiene a deficit congenito della GPIIb/IIIa. Piastrinopenie,
invece, si possono avere per condizioni idiopatiche, oppure per condizioni secondarie a
cirrosi epatica oppure a patologie autoimmuni come il Lupus Eritematoso Sistemico e la
sindrome di Sjögren, nonché a condizioni come le patologie linfoproliferative e
mieloproliferative, soprattutto quando queste colonizzino massivamente il midollo osseo,
determinando come conseguenza una sottrazione di spazio e fattori di crescita (tra le altre)
alle colonie megacarioblastiche.
Tra le cause sistemiche di possibile sanguinamento vi è una condizione estremamente
frequente che è l’ipertensione arteriosa, una alterazione emodinamica che consegue
caratteristicamente ad un rialzo pressorio. Ancorché la vasculopatia ipertensiva sia
effettivamente una condizione che predispone all’insorgenza di epistassi, i rialzi pressori
talora modesti non sempre si associano alla presenza di una epistassi, mentre le crisi
ipertensive massive sono spesso condizioni che predispongono alla rottura dei vasi nasali.
Da questa correlazione ne viene che ogniqualvolta un soggetto adulto lamenti epistassi,
specie se bilaterale, va misurata la pressione arteriosa. Inoltre, data la elevata possibilità
che siano alterazioni emostatiche coinvolte nell’epistassi, nel caso della presenza di
epistassi recidivanti va indagata la funzionalità coagulativa sia nell’adulto che nel bambino
perché nel bambino per quanto nella maggior parte dei casi il sanguinamento avvenga per
immaturità dei capillari vanno sospettati eventuali deficit di fattore VII ma soprattutto di VIII
o IX (emofilia A ed emofilia B).
Le cause locali possono essere diverse e soprattutto quando l’epistassi insorga in soggetti
ultracinquantenni e soprattutto quando sia monolaterale occorre sospettare che possa
trattarsi di una patologia neoplastica del rinofaringe o della mucosa nasale. Tra le possibili
cause di sanguinamento nasale vi è anche una patologia sistemica con precipuo
interessamento delle alte vie respiratorie che è la granulomatosi con poliangioite, altresì
nota con il nome eponimo di granulomatosi di Wegener, patologia granulomatosa ad
espressione vasculitica che colpisce i piccoli vasi e si associa caratteristicamente ad una
positività ad alcuni autoanticorpi, indicati con l’acronimo di ANCA. Altre cause locali di
epistassi possono essere le patologie infiammatorie del naso, oppure la permanenza
prolungata del sondino naso-gastrico. Le perforazioni del setto nasale sono una delle
possibili cause traumatiche che stanno alla base delle epistassi; il setto nasale è rivestito
da una mucosa molto poco resistente ed estremamente sensibile ai traumi, motivo per cui
le lacerazioni della cartilagine del setto possono determinare anche lesioni a carico della
parete vascolare determinando come conseguenza una epistassi. Tra le cause tossiche di
insorgenza di una epistassi vi è l’abuso di cocaina, che è una sostanza dall’intensa attività
di vasocostrizione, la quale determinando una riduzione del calibro vascolare induce
tipicamente insorgenza di una riduzione della perfusione che genera ischemia e quindi
necrosi della mucosa, con lacerazione dei vasi e possibile sanguinamento. Le medesime
lesioni perforanti derivate dall’inalazione a livello nasale, si possono osservare anche in
corrispondenza del palato duro, che probabilmente è la sede più tipica della necrosi da
cocaina.
Con l’espressione di tumefazione cervicale si intende una lesione occupante spazio del
collo che si esprime mediante la presenza di un gonfiore che compare più o meno
improvvisamente e che è apprezzabile alla palpazione del collo. Occorre considerare che
sussiste spesso una problematica di approccio diagnostico e terapeutico al problema della
tumefazione cervicale che comporta poi delle complicanze poiché a fronte dell’errore di
approccio diagnostico la patologia che stia alla base della tumefazione cervicale può
venire misconosciuta e quando lo faccia è possibile anche che venga compromessa la vita
del paziente. Per questo motivo, l’approccio alle tumefazioni cervicali deve essere
strettamente rigoroso, anche perché a fronte di una tumefazione cervicale si aprono
diverse ipotesi patogenetiche e diagnostiche che sono importanti da tenere in
considerazione: le tumefazioni cervicali sono delle lesioni occupanti spazio che meritano
un approfondimento diagnostico specialistico di tipo otorinolaringoiatrico.
1) CLASSIFICAZIONE DELLE TUMEFAZIONI CERVICALI
Per quanto riguarda il discorso legato alla situazione in questione, innanzitutto, per le
tumefazioni cervicali sussiste una classificazione clinico-pratica, che le suddivide in
tumefazioni anteriori e tumefazioni laterali in considerazione della sede in cui queste si
trovino. Le tumefazioni anteriori sono molto spesso in sede grosso modo mediana e si
suddividono ulteriormente in tumefazioni sopraioidee e sottoioidee adottando come
punto di riferimento l’osso ioide che si trova a livello della terza vertebra cervicale. Le
tumefazioni cervicali possono interessare tutte le età e proprio in considerazione della
possibile età di insorgenza e della sede in cui queste insorgano è possibile considerare
alcune ipotesi diagnostiche che siano più o meno probabili rispetto ad altre; ad esempio le
tumefazioni mediane in età neonatale o pediatrica sono frequentemente delle cisti del
dotto tireoglosso, cioè che derivano dalla persistenza di alcuni residui del dotto tireoglosso
che si organizzano a formare dei follicoli tiroidei che aumentano di dimensione man mano
si depositi la colloide al loro interno. Differentemente, è probabile che una tumefazione
cervicale indolente e lateralizzata nel soggetto di età ultraquarantenne abbia una eziologia
neoplastica. Quindi, accanto al criterio di classificazione topografica, le tumefazioni
cervicali vengono anche suddivise in base all’eziologia, che può essere di tre distinte
qualità:
1. Congenita:
a) Cisti mediane del collo
b) Cisti laterali del collo
Sono lezioni occupanti spazio cavitate che conseguono alla persistenza di
residui embrionali che nel primo caso sono rappresentati dalle cellule del dotto
tireoglosso e nel secondo caso dagli archi branchiali o faringei.
2. Infiammatoria:
a) Infettiva: tra le quali ad esempio
i. Mononucleosi infettiva
ii. Toxoplasmosi (linfadenite di Piringer-Kuchinka)
iii. Citomegalovirus
iv. Malattia da graffio del gatto
b) Non-infettiva
3. Neoplastica:
a) Tumori maligni:
i. Carcinoma nasale
ii. Carcinoma faringeo
iii. Carcinoma laringeo
iv. Carcinoma delle ghiandole salivari
v. Carcinoma della tiroide
vi. Linfomi
b) Tumori benigni:
i. Lipoma
ii. Emangioma
iii. Paraganglioma
iv. Neurofibroma
v. Schwannoma
vi. Noduli tiroidei benigni
Sicuramente, i tumori della regione testa-collo più frequenti sono i carcinomi
epidermoidali della laringe, ancorché non vada trascurata la possibilità di riscontrare
anche tumori delle ghiandole salivari maggiori, particolarmente le ghiandole
sottomandibolare e parotide, le quali danno delle tumefazioni che sono ben definite dal
punto di vista topografico. Dal punto di vista clinico, possono dare una crescita molto
rapida con fissurazione della cute e addirittura delle paralisi, come la paralisi del nervo
facciale nelle neoplasie maligne della parotide per infiltrazione del nervo, dal momento che
il tratto extracranico del nervo facciale decorre nel contesto del parenchima della parotide.
Occorre considerare che la più parte dei tumori della parotide, che sono comunque rari,
origina dall’epitelio ghiandolare, per cui quando maligni questi prendono il nome di
adenocarcinomi. Pur tuttavia, soprattutto nei soggetti che siano affetti dalla sindrome di
Sjögren sussiste un aumentato rischio di insorgenza di tumori di origine linfoide che
conseguono all’accasamento linfocitario e all’espansione monoclonale della popolazione
linfocitaria, tal che nel 7% dei soggetti con Sjögren sussista l’insorgenza di un linfoma che
nei casi meno sfortunati è un linfoma a cellule marginali del MALT, mentre nei casi più
sfortunati ma anche più rari è un linfoma diffuso a grandi cellule B.
Possiamo avere anche tumefazioni che rientrano nel contesto dei tumori benigni dei
tessuti molli, cioè tumori di origine mesenchimali, a carico dei grossi vasi, del tessuto
adiposo cervicale (=lipomi, che sono masse dalla consistenza molle e sfuggenti alla
palpazione), o tumori neurali come una schwannoma vagale, che è un tumore benigno
delle guaine dei nervi periferici. Tra le patologie a carico dei grossi vasi, possiamo
annoverare tumori vascolari che insorgono in giovane età come un linfangioma, o un
emangioma; gli emangiomi, in genere, tendono a scomparire con la crescita,
generalmente attraversando una prima fase di accrescimento che dura al massimo per un
anno. Dopodiché tendono a rallentare e a regredire progressivamente entro il quarto, il
sesto o nei casi con regressione più lenta il decimo anno di vita. Meno importanti, dal
punto di vista prognostico, sono le cisti, che spesso si manifestano quando incorrono in
fenomeni suppurativi. Possono riscontrarsi, nel contesto delle lesioni a contenuto liquido e
cavitate le cosiddette cisti branchiali, in soggetti più giovani, messe in evidenza da
risonanza, che conseguono a mancata regressione degli archi faringei. Queste sono
sottoposte a trattamento chirurgico di asportazione.
Per quanto riguarda le cisti mediane del collo, queste conseguono ad anomalia di
regressione del dotto tireoglosso. Dall’embriologia è noto che la tiroide origini da un foro,
che prende il nome di forame cieco, al limite tra il corpo e la radice della lingua, da cui
origina un cordone cellulare, che migra in senso supero-inferiore fino a raggiungere la
sede definitiva della tiroide, per divenire progressivamente cavitato e dotato di un lume
durante questa migrazione dalla base della lingua in basso; la migrazione in fase
embriologica residua un dotto che nella maggior parte dei casi si atrofizza, ma a volte può
dare tumefazioni con cisti o addirittura delle fistole (le cosiddette fistole mediane del collo).
Spesso, una cisti del dotto tireoglosso (=cisti mediana del collo) dà contezza di sé solo
quando vada incontro a fenomeni suppurativi. Il problema di queste cisti è che sono di
competenza otorinolaringoiatrica, anche se spesso banalmente si permette l’asportazione
anche da non specialisti, mentre il trattamento più idoneo, per non incorrere in recidive,
deve essere sicuramente l’asportazione della cisti, ma anche di asportazione di tutte le
strutture inerenti alla via di discesa, cioè al dotto che va a contornare la parte mediana
dell’osso ioide e finisce nel forame cieco. Quindi, va asportata tutta questa strada,
altrimenti il paziente andrà incontro a recidiva. È un intervento un po’ più ampio rispetto
all’asportazione di una banale cisti.
Molto spesso il primo errore nel contesto di una tumefazione cervicale consiste nella
prescrizione dell’esame di imaging, ecografia o TC che possono anche non portare ad
alcun risultato se non vengano richiesti con criterio e chiaramente il criterio con cui
richiedere questi esami è assolutamente associato alla clinica: spesso il soggetto presenta
dei sintomi di cui alle volte può non avere consapevolezza, poiché magari si tratta di alcuni
sintomi blandi oppure, semplicemente poiché egli non li ritenga importanti non li riferisce al
medico, per cui è necessario innanzitutto eseguire una corretta e scrupolosa anamnesi, al
fine di chiarire se il soggetto presenti sintomi associati alla tumefazione cervicale come ad
esempio problemi respiratori, problemi deglutitori, problemi fonatori o ancora
problemi di ipoacusia, dal momento che non è infrequente che un tumore della tonsilla
palatina o del rinofaringe esordisca mediante una ipoacusia trasmissiva monolaterale che
consegue al ristagno delle secrezioni sieromucose dal momento che la lesione occupante
spazio magari occupa l’ostio della tuba di Eustachio impedendo che si possa avere una
corretta ventilazione dell’orecchio medio. Ad esempio, un carcinoma rinofaringeo può
esprimersi ed esordire mediante una ipoacusia trasmissiva monolaterale ma anche con
epistassi, che sono due manifestazioni cliniche che farebbero pensare a malattie
assolutamente non accomunabili; ad esempio, un carcinoma laringeo può esprimersi
mediante una dispnea ostruttiva laringea, mediante una disfonia ma anche mediante
disfagia, anche se apparentemente la funzione deglutitoria non ha nulla a che vedere con
la laringe, ma per il semplice fatto che la laringe si trovi al davanti dell’esofago cervicale,
una neoplasia laringea della regione sopraglottica, soprattutto, potendo comprimere
sull’esofago può determinare insorgenza di una disfagia prevalentemente per i cibi solidi.
All’iniziale valutazione dei sintomi locoregionali si associa la valutazione dei sintomi
sistemici e costituzionali, come febbre, astenia ed eventuale perdita di peso. Un altro
criterio importante da considerare è il criterio anagrafico, dal momento che la maggior
parte delle tumefazioni in età pediatrica e giovane-adulta è benigna, ma al di sopra dei 40
anni, nell’80% dei casi, le tumefazioni cervicali sono delle patologie neoplastiche, e molte
volte di tipo neoplastico maligno.
2) TUMEFAZIONI LINFONODALI
Estremamente importanti nel contesto delle tumefazioni cervicali sono quelle definite come
tumefazioni linfonodali, che possono avere eziologia infettiva o neoplastica, soprattutto e
questo è un aspetto estremamente importante da considerare anche perché nella più gran
parte dei casi sussistono delle differenze in termini di presentazione clinica della massa
linfonodale. Infatti, i linfonodi che siano interessati da una linfadenopatia reattiva sono
innanzitutto considerabili come delle tumefazioni secondarie ad una patologia infettiva
del distretto testa-collo e si presentano classicamente di consistenza normale o ridotta,
spesso molle per via della colliquazione linfonodale determinata dalla flogosi, e soprattutto
sono frequentemente dolenti alla palpazione: tra le principali cause di insorgenza di una
linfadenopatia reattiva dei linfonodi laterocervicali si riscontra la mononucleosi infettiva,
che è una patologia infettiva ad eziologia virale, dovuta ad infezione da Epstein-Barr virus,
che si associa alla presenza di una faringodinia per via dell’infiammazione
faringotonsillare, a linfoadenomegalia dolente, febbre elevata e splenomegalia, con
aumento di volume del fegato nel 10% dei casi. Ancora, un’altra possibile causa di
insorgenza di una tumefazione linfonodale è la toxoplasmosi, una patologia infettiva su
base protozoaria determinata dall’infezione da parte di un parassita, il Toxoplasma Gondii,
che è un particolare protozoo che determina delle infezioni asintomatiche nei soggetti
normoergici ed immunocompetenti, nei quali, tuttavia, prima di entrare in una fase di
quiescenza il protozoo può determinare una manifestazione laterocervicale con una
linfadenopatia che prende il nome di linfadenite di Piringer-Kuchinka; anche il virus
dell’HIV può determinare insorgenza di linfadenopatie cervicali. Diversamente dalle
eventuali linfadenopatie cervicali reattive a patologie flogistiche, le linfoadenomegalie
tumorali sono frequentemente indolenti e in tal caso è di estrema importanza distinguere
sul piano concettuale la presenza di linfoadenomegalie tumorali primitive, cioè che
conseguono alla presenza di una neoplasia della linea linfoide, come può esserlo sia un
linfoma di Hodgkin che un linfoma non-Hodgkin, e linfoadenomegalie tumorali
secondarie cioè che conseguono ad estensione locoregionale di neoplasie a partenza
epiteliale dall’epitelio del cavo orale, del faringe o della laringe. Alle volte, soprattutto nelle
regioni più anfrattuose del distretto testa-collo, come il rinofaringe, la principale
manifestazione clinica evidente della patologia neoplastica è proprio la tumefazione
linfonodale secondaria, che appare come una linfoadenomegalia non dolente, con
aumento di consistenza del linfonodo e spesso anche riduzione della mobilità. Questi
elementi sono importanti da considerare e soprattutto, dal momento che le metastasi
linfonodali sono molto più frequenti dei tumori primitivi del linfonodo occorre sempre e
comunque sospettare che una linfoadenomegalia non dolente, asimmetrica, con linfonodo
di consistenza aumentata possa essere piuttosto una neoplasia secondaria del linfonodo,
spia clinica di un tumore primitivamente originatosi in altra sede. Quindi, è di estrema
importanza considerare sempre l’evenienza che una tumefazione linfonodale possa
essere secondaria e non necessariamente primaria, poiché se si considerasse solo la
seconda possibilità si correrebbe il rischio di misconoscimento della lesione primaria,
soprattutto nelle sedi anfrattuose del distretto testa-collo, quelle clinicamente più silenti e
compiacenti alla crescita tumorale. Addirittura, esiste una particolare linfoadenomegalia
che è da considerarsi assolutamente come una metastasi a distanza a livello del
linfonodo di Virchow, che è un linfonodo sopraclaveare sinistro che si associa alla
presenza di una tumefazione non-dolente e dura (=segno di Troiser) da metastasi di
carcinoma gastrico, particolarmente da una variante del carcinoma dello stomaco che è
il carcinoma castoniforme o diffuso. Inoltre, sono diversi i casi nella letteratura scientifica
che associano la presenza di una linfoadenomegalia non dolente a metastasi di tumori
germinali del testicolo, oppure a carcinomi del polmone. Il concetto di estrema importanza
da ricordare sempre nella pratica clinica delle tumefazioni cervicali è che una tumefazione
linfonodale specie se sospetta per neoplasia va sempre considerata di dubbia
provenienza, in altre parole non ci sono elementi che possano permettere di escludere
aprioristicamente che si tratti di una lesione secondaria a neoplasia insorta in altra sede,
per cui occorre vagliare l’ipotesi di un tumore che sia insorto in altra sede nel distretto
testa-collo, procedendo chiaramente con un certo ordine che è definito dalla conoscenza
dei distretti di drenaggio delle stazioni linfonodali del distretto testa-collo:
1. Linfonodi sottomandibolari:
a) Cavo orale
2. Linfonodi giugulari superiori e medi:
a) Ipofaringe
b) Laringe
3. Linfonodi sopraclaveari:
a) Polmone
b) Stomaco
4. Linfonodi scaleni/spinali:
a) Rinofaringe
Solo una volta considerate le diverse ipotesi e cioè che la tumefazione linfonodale possa
essere primitiva o secondaria e che in quest’ultimo caso possa conseguire a metastasi dal
tumore della sede che la stazione linfonodale dreni è possibile procedere con indagini di
imaging diagnostico.
3) APPROCCIO DIAGNOSTICO ALLE TUMEFAZIONI CERVICALI
Il primo step nel contesto della valutazione della tumefazione cervicale è quello della
valutazione dei sintomi associati, dopodiché con l’ispezione si valuta la sede, dal
momento che questa, anche in relazione all’età del paziente può fornire utili informazioni
preliminari, come ad esempio la presenza di una massa laterale non dolente in soggetto
ultracinquantenne che è fortemente sospetta per neoplasia. In tal caso, anche la
palpazione fornisce informazioni importanti circa la natura della massa: le tumefazioni
infiammatorie in genere sono dolenti, differentemente dalle tumefazioni neoplastiche che
di rado (o mai) lo sono, che hanno una consistenza aumentata e spesso sono poco mobili.
Quindi, si procede con anamnesi di tipo otorinolaringoiatrico, ispezione e palpazione,
dunque con endoscopia delle prime vie aeree e digestive, eventuale imaging. Tutti questi
dati ci danno tutte le informazioni che è necessario possedere per poter iniziare a porre
una diagnosi della tumefazione prima di sottoporla a trattamento.
Una volta eseguita l’eventuale anamnesi e l’esame obiettivo con annessa endoscopia
delle alte vie aero-digestive, laddove alcuni criteri diagnostici non siano ancora del tutto
chiari, si può effettuare un agoaspirato, per l’esame citologico che permette di
considerare l’eventuale presenza di anomalie citologiche che possano essere utili per
intendere l’eventuale eziologia neoplastica o meno della malattia e questo torna utile ad
esempio per l’eventuale presenza di tumefazioni della ghiandola parotide al fine di
intenderne l’eziologia se neoplastica o meno. L’agoaspirato è anche importante nella
diagnostica della patologia tiroidea, in cui l’agoaspirato assume una importanza tale che
esiste addirittura un sistema di gradazione del referto che è il sistema TIR.
Per quanto riguarda l’imaging, l’ecografia è un ottimo esame di primo approccio, dal
momento che è facilmente eseguibile, di facile accesso sul territorio, a basso costo ed è
molto informativo soprattutto nella necessità di eseguire una diagnosi differenziale
strumentale tra una tumefazione cistica o una tumefazione solida. L’ecografia è anche
una metodica abbastanza standardizzata ed informativa a livello delle ghiandole salivari
maggiori, oltre che della tiroide. Si può, quindi, ricorrere anche all’esecuzione di indagini
strumentali più sensibili e specifiche dell’ecografia come ad esempio possono essere la
TC, la RMN oppure la scintigrafia, quest’ultima ad esempio torna utile nella diagnostica
differenziale delle tumefazioni della tiroide o delle ghiandole paratiroidee.
Nel soggetto adulto, l’intero percorso diagnostico di una tumefazione cervicale deve
sempre essere volto alla ricerca ed eventualmente all’esclusione di una patologia
neoplastica: i dati epidemiologici indicano che il 12% delle tumefazioni cervicali
asimmetriche senza altro sintomo associato siano di origine neoplastica e di tutte queste, i
carcinomi squamosi sono ben l’80%.
Nel qual caso con l’anamnesi, l’esame obiettivo, l’endoscopia e l’imaging strumentale non
si riesca ad arrivare ad alcuna diagnosi, è possibile, come ultimo tentativo procedurale,
programmare una esplorativa chirurgica, che è un intervento diagnostico e
potenzialmente curativo allorché si riesca ad individuare ed asportare la tumefazione, ma
chiaramente si tratta di una procedura invasiva, che come tale deve essere assolutamente
programmata per tempo, valutando i vantaggi e gli svantaggi della procedura. La
cervicotomia esplorativa consente eventualmente di individuare una tumefazione che
deve essere asportata e inviata al patologo per la diagnosi di certezza che in questo caso
è francamente anatomopatologica. Una volta asportata la massa, il successivo protocollo
di azione varia in funzione della diagnosi definitiva: nei soggetti in cui la tumefazione sia
un linfoma, la gestione del paziente e le successive terapie sono demandate
all’oncoematologo, nel caso di alcuni adenocarcinomi il percorso termina con la
radicalizzazione dei margini di asportazione della massa, mentre in altri casi è necessario
approfondire ulteriormente. Non è infrequente che si riscontri la presenza di metastasi
linfonodali carcinomatose in presenza di imaging ed endoscopia silenti: nel caso che non
si riesca ad individuare la sede primitiva di insorgenza del tumore si parla di carcinoma
occulto e in tal caso tutti gli sforzi diagnostici devono essere assolutamente indirizzati ad
individuare la sede primitiva di insorgenza del tumore.
In questi casi è imperativo, dopo aver eseguito l’accesso chirurgico cervicotomico e aver
avuto questa diagnosi istologica intraoperatoria, fare una mac dissection. Per questo noi
parliamo di cervicotomia esplorativa: non bisogna limitarsi a prendere la tumefazione e
farla esaminare, ma addirittura, in qualche caso, il paziente deve essere edotto sulla
possibilità che sia possibile trovare la metastasi laterocervicale. Si effettua lo
svuotamento del collo e c’è un determinato protocollo clinico-terapeutico per questi
pazienti. Se andassimo a chiudere in questo caso il paziente, favoriremmo la
disseminazione neoplastica e la sua prognosi potrebbe peggiorare. Anche per questo
fatto, la tumefazione cervicale è una condizione patologia di pertinenza
otorinolaringoiatrica.
• ANATOMIA CLINICA DEL COLLO
Per poter eseguire una corretta diagnosi differenziale delle tumefazioni cervicali è di
estrema importanza conoscere l’anatomia clinica e topografica del collo, che è una
regione estremamente complessa dal punto di vista anatomico, costituita da una parete
quasi del tutto muscolare, che solo posteriormente in regione mediana è costituita da
strutture ossee che sono le vertebre cervicali. Per il resto, l’intera parete del collo è
delimitata da strutture muscolo-fasciali e questo è un aspetto di estrema importanza
poiché rende molte delle strutture cervicali presenti nella cavità del collo accessibili con la
palpazione.
1) ANATOMIA TOPOGRAFICA
Dal punto di vista topografico, il collo è la prima regione in successione supero-inferiore
del tronco, presentandosi come una regione a forma di tronco di cono con apice tronco
superiore e base inferiore; la base del collo non è separata da alcun dispositivo anatomico
rispetto al torace, rispetto al quale sussiste piena comunicazione, difatti gli spazi
connettivali del collo si continuano nel mediastino. Il limite superiore del collo rispetto alla
regione della testa è definito da una linea convenzionale chiamata anche linea cervico-
facciale che decorre sul margine inferiore della mandibola e, raggiunto l’angolo della
mandibola, flette in alto e posteriormente per raggiugere la mastoide, quindi da questa
procede posteriormente fino alla protuberanza occipitale esterna.
Posteriormente, la linea convenzionale che separa il collo dal torace procede sul margine
superiore della clavicola e prosegue posteriormente sul margine superiore del muscolo
trapezio.
Dal punto di vista topografico, a livello cervicale si distinguono, in termini di anatomia di
superficie, due triangoli, uno anteriore e l’altro posteriore, che sono tra loro separati dal
muscolo sternocleidomastoideo, che presenta inserzione a livello della mastoide e a
livello dello sterno e della clavicola. In corrispondenza del triangolo anteriore del collo è
possibile distinguere ulteriori regioni:
1. Regione sottomentoniera: è un triangolo con base posteriore costituita
dall’osso ioide e con i due lati che sono costituiti bilateralmente dal ventre anteriore
del muscolo digastrico. Si tratta di una regione al cui livello sono contenute alcune
ghiandole salivari sottomentoniere e dei linfonodi che, essendo questo un triangolo
completamente rivestito da strati muscolari e dalla fascia cervicale, è pienamente
accessibile con la palpazione.
2. Regione sottomandibolare: all’interno di questo triangolo riscontriamo la
ghiandola sottomandibolare, che è l’organo principale contenuto all’interno di
questo triangolo. Essa è una delle ghiandole salivari maggiori. All’interno di questa
regione troviamo anche l’arteria e la vena facciale e, lungo il bordo della mandibola
vi è il nervo marginalis mandibulae. Questo triangolo è costituito da una base rivolta
verso l’alto che corrisponde al margine inferiore della mandibola, e da due lati,
costituiti dal ventre anteriore e dal ventre posteriore del muscolo digastrico.
a) Limiti anatomici:
i. Base: margine inferiore della mandibola
ii. Lati: ventre anteriore e posteriore del digastrico
b) Contenuto anatomico:
i. Arteria facciale
ii. Vena facciale
iii. Ghiandola sottomandibolare
iv. Nervo marginalis mandibulae
v. Linfonodi
3. Triangolo carotideo: i limiti sono costituiti dal ventre posteriore del muscolo
digastrico, dal ventre superiore del muscolo omoioideo e poi dal muscolo
sternocleidomastoideo. All’interno di questa area sarà contenuta l’arteria carotide,
oltre a linfonodi; in realtà nel triangolo carotideo transita interamente il fascio
vascolonervoso del collo, che è costituito dalla carotide comune, dalla vena
giugulare interna e dal nervo vago.
a) Limiti anatomici:
i. Sternocleidomastoideo
ii. Ventre posteriore del digastrico
iii. Ventre superiore dell’omoioideo
b) Contenuto:
i. Carotide comune
ii. Giugulare interna
iii. Nervo vago
iv. Linfonodi
4. Regione sottoioidea: è delimitata anatomicamente dal bordo dell’osso ioide, dal
bordo antero-inferiore del muscolo sternocleidomastoideo, dal ventre anteriore del
muscolo omoioideo e una linea mediana immaginaria che rappresenta il punto di
unione tra l’osso ioide e lo sterno, attraverso la quale vediamo in trasparenza la
laringe, nonché i primi anelli tracheali. Questo triangolo è costituito oltre che dai
muscoli sottoioidei, anche da organi viscerali: la regione del triangolo sottoioideo è
quella a cui corrisponde la maggior parte delle strutture viscerali del collo e tanto è
vero questo che lo spazio che si pone in profondità ad esso prende il nome di
spazio viscerale impari mediano del collo, al cui livello gli organi sono disposti in
piani che si succedono in senso antero-posteriore, quindi dall’avanti all’indietro si
trovano la tiroide e le paratiroidi, la laringe che si continua inferiormente all’altezza
di C6 con la trachea e posteriormente l’esofago, senza dimenticare che la faccia
posteriore dei lobi tiroidei, sia a destra che a sinistra, è in rapporto con il nervo
laringeo ricorrente.
a) Limiti:
i. Margine inferiore dell’osso ioide
ii. Margine anteriore dello sternocleidomastoideo
iii. Ventre anteriore dell’omoioideo
b) Contenuto anatomico:
i. Tiroide e paratiroidi
ii. Laringe e trachea
iii. Esofago
iv. Nervo laringeo ricorrente
Del triangolo posteriore è possibile descrivere due ulteriori triangoli che sono il triangolo
occipitale e il triangolo sopraclaveare. Il triangolo occipitale costituisce la parte più
alta del triangolo posteriore del collo, essendo limitato dal margine posteriore dello
sternocleidomastoideo e dal margine antero-superiore del trapezio. A questo livello sono
presenti tessuto fibroadiposo e soprattutto strutture nervose, dal momento che in
profondità rispetto al triangolo occipitale si colloca il plesso brachiale e peraltro a questo
livello transita anche l’undicesimo nervo cranico, cioè l’accessorio spinale; sono anche
presenti linfonodi. Il triangolo sopraclaveare, invece, è delimitato dal ventre inferiore
dell’omoioideo, dallo sternocleidomastoideo e dal margine superiore della clavicola; anche
in tal caso sono presenti strutture del plesso brachiale e tessuto fibroadiposo; sono
presenti linfonodi sopraclaveari alcuni dei quali di estrema importanza clinica, come ad
esempio il linfonodo di Virchow che è un linfonodo soprclaveare sinistro che risulta
interessato da una linfoadenomegalia (segno di Troisier) nel contesto di una patologia
neoplastica che è il cancro dello stomaco, particolarmente uno dei due istotipi di
carcinoma gastrico, vale a dire il carcinoma gastrico diffuso. In definitiva, possiamo dire
che il collo sia una regione anatomicamente complessa, di cui si distinguono un triangolo
anteriore ed uno posteriore, separati dal muscolo sternocleidomastoideo e, se nella
regione anteriore prevalgono strutture viscerali, come le vie aerodigestive superiori,
ghiandole esocrine ed endocrine e grossi vasi, la regione posteriore è importante per la
predominanza della componente nervosa che al suo interno si riscontra.
2) FASCIA CERVICALE
Il collo è una regione anatomica di notevole complessità, anche perché è una struttura che
osserva una organizzazione cavitaria, per cui al suo interno si individuano degli spazi
profondi che sono a loro volta delimitati tra loro mediante la presenza di una struttura
connettivale lassa, dipendenza cervicale della fascia profonda, che prende il nome di
fascia cervicale. La fascia cervicale, pur se si possa considerare nella propria interezza,
al fine di rivestire le strutture viscerali del collo e al fine di organizzare e sepimentare lo
spazio profondo del collo, emana delle dipendenze, per cui è possibile considerare che
esistano tre differenti fasce a livello cervicale, che tra loro sono in continuità, e che sono la
fascia cervicale superficiale, la fascia cervicale media e la fascia cervicale profonda.
La fascia cervicale superficiale è tesa tra i due bordi del trapezio e del muscolo splenio.
Decorre dall’indietro in avanti, raggiungendo lo sternocleidomastoideo laddove si sdoppia
per offrirne un rivestimento fasciale. Anteriormente, la fascia cervicale superficiale si fonde
sulla linea mediana bilateralmente in corrispondenza di un rafe che individua la linea
mediana cervicale o linea alba cervicale.
La fascia cervicale media, invece, origina come uno sdoppiamento dalla fascia cervicale
superficiale, portandosi più in profondità a rivestire i muscoli prelaringei, la ghiandola
tiroide e anche il fascio vascolonervoso del collo al quale offre una vera e propria
guaina di rivestimento che fornisce alle strutture del fascio, estremamente importanti ma al
contempo anche estremamente labili, una protezione maggiore. Infine, la fascia cervicale
profonda organizza lo spazio prevertebrale, cioè quello che si trova subito al davanti
della colonna vertebrale, dove suddetta fascia riveste i muscoli prevertebrali che
posteriormente completano la parete del collo, come i muscoli scaleni e gli elevatori della
scapola.
La caratteristica del collo è che tutte queste strutture sono ricoperte da una fascia, ovvero
un tessuto molto lasso connettivale, molto sottile, che ricopre tutte le strutture del collo,
dunque i muscoli, i visceri e il fascio vascolo-nervoso (nervo vago, arteria carotide
comune, vena giugulare).
3) SPAZI PROFONDI DEL COLLO
In realtà, è necessario considerare il collo in maniera tridimensionale, quindi queste
strutture connettivali, che sono tutte dipendenze della fascia a livello cervicale, operano
una suddivisione di veri e propri spazi all’interno della cavità del collo, di cui alcuni sono
virtuali, cioè spazi che in realtà non ospitano alcuna struttura in quanto la cavità è assente;
pur tuttavia, questi spazi possono alle volte divenire reali in condizioni patologiche che
comportino accumulo di materiale ad esempio purulento, oppure ematico. Gli spazi
connettivali del collo sono diversi e tra loro se ne distinguono diversi:
1. Spazio sottomentoniero: è lo spazio che si trova in profondità rispetto alla regione
sottomentoniera. Delimitato dal ventre anteriore del digastrico e dall’osso ioide, lo
spazio sottomentoniero ospita alcune ghiandole salivari sottomentoniere e alcuni
linfonodi.
2. Spazio viscerale impari mediano del collo: è lo spazio che si trova in posizione
mediana e sottoioidea, difatti è individuato dalla linea alba cervicale in posizione
mediana, dal margine anteroinferiore dello sternocleidomastoideo, dal ventre
anteriore dell’omoioideo e dall’osso ioide. Si tratta dello spazio profondo del collo
che contiene la maggior parte delle strutture viscerali, quindi la tiroide, le paratiroidi,
le vie aerodigestive superiori ed è rivestito da una struttura connettivale che
appartiene alla fascia cervicale media.
3. Spazio vascolonervoso: sempre in regione sottoioidea, lo spazio vascolonervoso
del collo è delimitato dal muscolo sternocleidomastoideo, dal ventre posteriore del
digastrico e dal ventre anteriore dell’omoioideo, contenendo il fascio
vascolonervoso del collo che è rivestito da una guaina che è chiamata guaina
vascolonervosa, dipendenza della fascia cervicale media.
4. Spazio peritonsillare: è uno spazio che si trova tra il muscolo costrittore superiore
del faringe e la tonsilla palatina; si tratta di uno spazio che si trova al di sopra dello
ioide, presentandosi come uno spazio virtuale che tuttavia può divenire reale in
seguito a processi purulenti, come sono le faringotonsilliti purulente (poltacee) per
le quali sussiste possibile complicanza nella insorgenza di un ascesso
peritonsillare; in tal caso la raccolta purulenta si ha nello spazio peritonsillare che
da virtuale diviene reale per discostamento indotto dall’essudato suppurativo del
muscolo costrittore superiore del faringe dalla tonsilla palatina.
5. Spazio parafaringeo: posto lateralmente al muscolo costrittore superiore del
faringe e non medialmente come lo spazio peritonsillare, ospita importanti strutture
come la ghiandola parotide, all’interno della quale, peraltro, decorrono il tratto
extracranico del nervo facciale e un tratto della carotide esterna. ha la forma di una
piramide capovolta.
6. Spazio retrofaringeo: prendendo sempre come punto di riferimento il muscolo
costrittore superiore del faringe, evidentemente, questo spazio gli si pone al di
dietro ed è in piena comunicazione con il mediastino posteriore da cui la possibilità
che una raccolta purulenta possa interessare anche il mediastino, conseguendovi
una serie di complicanze che alle volte possono essere anche molto gravi.
Sostanzialmente, gli spazi che si collocano in prossimità del faringe, nella regione
sopraioidea sono sostanzialmente definiti utilizzando come struttura anatomica di
riferimento il costrittore faringeo superiore.
Da ciò si può evincere che il collo non è una struttura a sé, ma in virtù della comunicazione
con il torace, può espandere delle infezioni site in quella sede anche in sede mediastinica.
4) SISTEMA LINFATICO DEL COLLO
Il collo, oltre a contenere muscoli, nervi, organi viscerali e vasi, contiene un sistema
linfatico con linfonodi che si intersecano lungo delle catene che scendono per le strutture
del collo. Infatti, così come il collo è stato diviso topograficamente, assegnando dei limiti
che servono per comunicare in maniera precisa le localizzazioni di una determinata
patologia tra i vari specialisti della medicina, allo stesso modo è stata operata una
suddivisione dei linfonodi in base alle zone in cui si trovano:
1. Linfonodi sottomentonieri
2. Linfonodi sottomandibolari
3. Linfonodi carotidei
4. Linfonodi occipitali
5. Linfonodi sopraclavicolari
Questa suddivisione viene eseguita topograficamente in base alla zona anatomica alla
quale questi linfonodi pertengono. È importante descrivere la zona alla quale
appartengono questi linfonodi, in quanto essi vanno incontro a condizioni patologiche, che
possono avere origine eziologica differente, potendosi descrivere linfadeniti primitive ma
soprattutto linfadenopatie reattive alla presenza di una flogosi di una struttura del collo che
può essere su base infettiva o non-infettiva, o ancora i linfonodi possono essere sede di
processi tumorali primitivi, cioè linfomi, o secondari, vale a dire metastasi carcinomatose.
Infatti, conoscere i gruppi linfonodali diventa importante in quanto significa sapere dove si
possono localizzare delle metastasi, proprio perché ciascun organo drenerà in una regione
particolare del collo.
Ancorché la regione del collo venga definita da limiti convenzionali che ne determinano
l’estensione dalla mandibola fino alla clavicola, vengono inseriti nel contesto dei linfonodi
cervicali anche i linfonodi preauricolari che si trovano in contiguità della ghiandola
parotide.
La conoscenza di questi linfonodi è di estrema importanza, dal momento che a fronte di
una tumefazione linfonodale del collo, è possibile in base ad alcune caratteristiche
semeiologiche prevalentemente palpatorie intendere, sia pure in maniera approssimativa,
la natura della tumefazione linfonodale, che sia essa di origine infiammatoria, neoplastica
e, se tale, primitiva o secondaria, e in considerazione dell’eventuale localizzazione della
massa è possibile risalire a quale sia la sede di origine del primitivo processo patologico
che abbia determinato insorgenza della tumefazione linfonodale, ma chiaramente per
risalire a questa informazione è necessario conoscere quali siano le sedi che drenano
nelle corrispettive stazioni linfonodali:
1. Linfonodi sottomentonieri:
a) Pavimento del cavo orale
b) Gengiva
c) Guancia
2. Linfonodi sottomandibolari:
a) Ghiandola sottomandibolare
b) Naso
c) Seni paranasali
3. Linfonodi occipitali:
a) Trigono retromolare
b) Pilastro palatino
c) Tonsilla palatina
4. Linfonodi preauricolari:
a) Ghiandola parotide
È chiaro che, poi, in base alla consistenza della lesione e in base alle caratteristiche
palpatorie, la tumefazione linfonodale possa avere una eziologia differente e proprio la
topografia della tumefazione linfonodale, insieme con le caratteristiche di consistenza,
dolorabilità e mobilità della lesione permette di indirizzare, rispettivamente, dove cercare e
cosa cercare come patologia che stia alla base dell’eventuale aumento di volume
linfonodale. Quindi, possiamo dire che per ogni organo del distretto testa-collo esista un
drenaggio linfatico obbligato, tal che ogni struttura faccia univocamente capo ad una ed
una sola stazione linfonodale e questo è un aspetto estremamente importante per gli
interventi di chirurgia oncologica otorinolaringoiatrica, dal momento che in alcuni casi, a
fronte di un possibile o documentato interessamento linfonodale, sussiste la necessità di
programmare un intervento di linfoadenectomia, cioè di asportazione linfonodale cervicale
che è anche chiamato svuotamento cervicale. Gli interventi di svuotamento cervicale
sono interventi comunque complessi dal punto di vista tecnico, soprattutto perché si opera
in regioni che sono molto anfrattuose e in contatto stretto con organi vitali (come la
carotide, ad esempio) la cui compromissione è certamente associata a complicanze anche
gravi. Per questo motivo, l’evoluzione negli anni della pratica chirurgica
otorinolaringoiatrica in merito agli svuotamenti linfonodali è stata quella di raggiungere una
sempre maggiore conoscenza dei percorsi di drenaggio linfatico, al fine di procedere con
interventi di linfoadenectomia selettiva ed è chiaro che questo sia possibile solo quando
si conosca quale sia l’obbligato percorso del drenaggio linfatico da ogni organo; così,
dall’American Accademy of Otolaryngology è stata elaborata una classificazione dei
linfonodi cervicali, i quali sono stati suddivisi in sei livelli in considerazione della
topografia del collo stesso, per cui si distinguono sei livelli, ulteriormente suddivisibili in un
sottolivello “a” e un sottolivello “b”:
1. Linfonodi di I livello: si tratta dei linfonodi del triangolo sottomandibolare e
sottomentoniero, quindi ulteriormente suddivisi in:
a) Linfonodi sottomentonieri (Ia)
b) Linfonodi sottomandibolari (Ib)
2. Linfonodi di II livello: sono i linfonodi della catena giugulare interna superiori, a
loro volta ulteriormente suddivisi in:
a) Linfonodi giugulari anteriori (IIa)
b) Linfonodi giugulari posteriori (IIb)
3. Linfonodi di III livello: si tratta dei linfonodi della catena giugulare interna medi,
altresì noti anche con il nome di linfonodi giugulo-carotidei.
4. Linfonodi di IV livello: anche noti come linfonodi giugulo-digastrici, sono i
linfonodi della catena giugulare inferiore.
5. Linfonodi di V livello: si tratta dei linfonodi del triangolo posteriore, che
decorrono sulla catena del muscolo spinale e dell’arteria cervicale trasversa; sono
suddivisi in:
a) Linfonodi dello spinale (Va)
b) Linfonodi cervicali trasversi e sopraclaveari (Vb)
6. Linfonodi di VI livello: sono i linfonodi tracheoesofagei, quindi i linfonodi della
catena anteriore e sono di quasi esclusiva pertinenza del cancro della tiroide.
Questa suddivisione topografica costituisce la base dalla quale sono partiti una serie di
studi che sono stati efficacemente volti a comprendere e studiare quale fosse l’incidenza
delle metastasi locoregionali a seconda della localizzazione del tumore. Infatti, la chirurgia
oncologica, non solo in ambito otorinolaringoiatrico, si muove da una parte sul fronte della
radicabilità totale che chiaramente presuppone anche la necessità di asportare le stazioni
linfonodali quando queste siano interessate o quando sussistano eventuali fattori di rischio
che rendono ragione di una elevata probabilità di recidiva locoregionale e dall’altra si
muove nella direzione della preservazione funzionale quanto maggiore possibile. Nel
contesto otorinolaringoiatrico, la chirurgia oncologica opera in distretti molto anfrattuosi, in
cui sussiste tutta una serie di strutture la cui compromissione può determinare degli esiti
estremamente gravi dal punto di vista funzionale e questo accade soprattutto quando
vengano, ad esempio, lese le strutture nervose del plesso brachiale. Per questo motivo, la
conoscenza delle sedi di possibile metastasi di un tumore del distretto testa-collo è di
estrema importanza dal momento che consente una linfoadenectomia selettiva, cioè
rivolta solo e soltanto verso quelle strutture che siano o possano essere maggiormente
interessate dalla metastasi carcinomatosa. Per essere estremamente pratici, a seconda
del tumore e della sede esiste un protocollo di asportazione linfonodale:
1. Tumori del cavo orale:
a) Livello I
b) Livello II
c) Livello III
2. Tumori della laringe:
a) Livello II
b) Livello III
c) Livello IV
Oltretutto, occorre considerare che la classificazione delle stazioni linfonodali è utile per
l’indirizzamento diagnostico; infatti, ad esempio, nel carcinoma della laringe lo
svuotamento laterocervicale è rivolto ai linfonodi di II livello (giugulari interni superiori), di
III livello (giugulari interni medi) e di IV livello (giugulari inferiori), poiché sono queste le
sedi di metastasi ed è chiaro che quando si debba ricercare un interessamento
metastatico dei linfonodi nel corso della stadiazione clinica TNM sarà necessario rivolgere
attenzione a questi tre livelli linfonodali per stadiare il parametro N, poiché sono le stazioni
che drenano la linfa dalla laringe anche in condizioni normali. Quindi, la conoscenza delle
stazioni linfonodali ha una propria importanza per poter intendere (1) la sede di origine di
una tumefazione linfonodale secondaria, (2) l’eventuale sede di origine del tumore se la
tumefazione linfonodale è una metastasi carcinomatosa, (3) per studiare dal punto di vista
diagnostico in maniera mirata i linfonodi al fine di stadiare il parametro N e (4) per poter
eseguire svuotamenti cervicali che siano radicali, cioè che rimuovano i linfonodi
potenzialmente o effettivamente interessati senza eseguire asportazioni linfonodali
eccessive che possano essere associate ad un maggiore rischio di complicanze
intraoperatorie e postoperatorie.
Le patologie dell’orecchio medio sono tutte quelle malattie che coinvolgono la cassa del
timpano e si distinguono sulla base di un criterio anatomopatologico e temporale in acute e
croniche:
1. Patologie acute: di durata inferiore ai venti giorni
a) Otite media purulenta
b) Otite media sieromucosa
2. Patologie croniche:
a) Otiti croniche
b) Colesteatoma
c) Timpanosclerosi
d) Atelettasia dell’orecchio medio
Le patologie acute e le patologie croniche sono distinte sulla base del decorso clinico,
dell’andamento della sintomatologia clinica e sulla base di un criterio anatomopatologico dal
momento che le patologie infiammatorie acute sono pienamente compatibili con la restitutio
ad integrum del tessuto, differentemente dalle otiti croniche che si associano a guarigione
cicatriziale, senza preservazione della originaria morfologia e quindi della originaria funzione
dalla struttura interessata. Le patologie acute hanno solitamente una sintomatologia che
insorge in maniera improvvisa, protraendosi questa per circa 20-30 giorni, differentemente
dalle forme croniche nelle quali la sintomatologia può anche essere meno violenta nella fase
iniziale ma certamente si associa ad una protrazione temporale maggiore e proprio in
corrispondenza della espressa e perdurante alterazione patologica lascia delle sequele che
possono essere delle cicatrici sclerosanti, nel caso di quella che prende il nome di
timpanosclerosi, o delle perforazioni in quella che è una complicanza temibilissima come
la perforazione della membrana del timpano.
• SINDROME DI MÉNIÉRE
La sindrome di Ménière è una patologia dell’orecchio interno caratterizzata da attacchi
spontanei e ricorrenti di vertigini, ipoacusie, acufeni e fullness auricolare, che quindi
si caratterizza per la presenza di un coinvolgimento vestibolare e cocleare, il cui
reperto istopatologico correlato è quello dell’idrope endolinfatico. Si tratta, infatti, di una
patologia che rientra tra le cause di ipoacusia neurosensoriale dell’adulto, giacché si
associa a perdita della funzione uditiva per via di un danno cocleare, e, nell’ambito delle
ipoacusie, è una di quelle patologie che si associano a sintomi vestibolari per il
contestuale coinvolgimento delle strutture deputate alla vestibolocezione, cioè i canali
semicircolari membranosi, l’utricolo e il sacculo.
1) DATI EPIDEMIOLOGICI
La malattia di Ménière incide con maggiore frequenza in età compresa tra trentacinque
anni e sessantacinque anni, essendo una patologia che ha una leggera prevalenza nel
sesso femminile, assolutamente rara durante l’infanzia. È una patologia, questa, che nel
95% dei casi, circa, è monolaterale e incide con maggiore frequenza, come pare dalle
casistiche, nei paesi sviluppati.
2) EZIOPATOGENESI
L’eziopatogenesi della malattia di Ménière si spiega facendo riferimento al fisiologico
processo di formazione, filtrazione e
drenaggio dell’endolinfa, muovendo a
partire dal correlato istopatologico di base
della malattia che è quello della presenza
di un idrope endolinfatico, intendendosi
con questo un aumento del contenuto
dell’endolinfa che comporta dilatazione
delle strutture nelle quali normalmente
l’endolinfa è contenuta.
L’endolinfa viene prodotta a due livelli
differenti, che sono la stria vascolare e le
cellule scure del vestibolo, mentre viene
riassorbita a differenti livelli tra cui dal
sacco endolinfatico, che si stacca dalla superficie mediale del sacculo. Presumibilmente,
nell’ambito della patogenesi di questa patologia, che ancora non è nota, sarebbero
chiamate in causa sia alterazioni della produzione che disturbi di riassorbimento; in
particolar modo pare che vi sia un ruolo estremamente importante del sacco endolinfatico
cui competono funzioni importanti nell’equilibrio dell’ambiente dell’orecchio interno tra cui
soprattutto quello di garantire, mediante il suo immagazzinamento, un corretto e idoneo
volume di endolinfa all’interno del labirinto membranoso.
3) CLINICA
Affinché si possa parlare di sindrome di Ménière devono essere presenti degli attacchi
recidivanti che alle volte hanno una durata estremamente lunga. Sostanzialmente,
occorre considerare che sussiste la presenza di un insieme di sintomi che sono definiti
vestibolari e un insieme di sintomi che sono definiti uditivi. Tra questi ultimi vi è
l’ipoacusia, che è neurosensoriale, per cui alla prova di Weber con il diapason si associa
alla lateralizzazione controlaterale del suono prodotto, mentre la prova di Rinne
documenta una riduzione monolaterale del tempo di ascolto della via aerea e della via
ossea. Inoltre, si riscontrano acufeni e fullness uditivo. L’ipoacusia neurosensoriale si
associa tipicamente alla deriva della soglia uditiva, che nelle prime fasi della malattia, è
fluttuante e decisamente risparmia la frequenza di 2000 Hz.
Per cui le caratteristiche audiologiche sono legate alla deriva della soglia uditiva per
tutte le frequenze tranne quelle intorno a 2000 Hz nella prima fase della malattia, pur se
nelle successive fasi successive tenda ad interessare pressoché tutte le frequenze
descrivendo una curva pantonale all’audiometria tonale. La vertigine che si riscontra in
questa patologia è espressione della presenza di un danno del settore vestibolare
dell’orecchio interno, presentandosi la vertigine come tipicamente rotatoria oggettiva,
associata a sintomi neurovegetativi e al mantenimento dello stato di coscienza durante il
corso della patologia stessa. Occorre considerare che nell’ambito della situazione in
questione, il nistagmo è classicamente orizzontale, ritmico e inibito dalla fissazione dello
sguardo come accade nell’ambito del classico nistagmo da patologia vestibolare
periferica, in cui solitamente l’attacco di vertigine è violento ed improvviso. In
considerazione della ricorrenza delle acuzie di malattia, può risultarvi un danneggiamento
irreversibile delle cellule acustiche, tal che ne venga la presenza di una ipoacusia che
non sia più fluttuante bensì che sia persistente. Differentemente, con l’evoluzione di
malattia spesso si riscontra una riduzione fino alla scomparsa delle vertigini dal momento
che queste sono la risultanza di una asimmetria acuta delle afferenze vestibolocettive
derivante, tale asimmetria, dal funzionamento dell’uno e dalla disfunzione acuta della
percezione dell’altro vestibolo. Tuttavia, quando il danno vestibolare divenga cronico, il
centro di integrazione della sensibilità propriocettiva speciale in qualche maniera va
incontro ad un adattamento.
4) VARIANTI CLINICHE
Della malattia di Ménière esistono delle varianti cliniche, che sono definite
differentemente in considerazione della sintomatologia e della clinica a cui danno luogo:
1. Ménière cocleare
2. Ménière vestibolare
3. Sindrome di Lermoyez
4. Sindrome di Tumarkin
5. Idrope endolinfatica ritardata
Evidentemente, Ménière cocleare e vestibolare si caratterizzano differenzialmente per via
della clinica, che nel caso della prima delle due è ascrivibile esclusivamente ad una
perdita della funzionalità uditiva che si associa ad acufeni, fullness uditivo e ipoacusia
neurosensoriale dapprima fluttuante e successivamente cronica e persistente, in assenza
di vertigini, che invece sono presenti nella Ménière vestibolare, lì dove si apprezza la
presenza di una vertigine rotatoria oggettiva nella più parte dei casi, della durata di almeno
venti minuti, ma più frequentemente di due o tre ore, che insorge violentemente e si
associa a sintomi neurovegetativi e mantenimento dello stato di coscienza. È presente in
questa variante un nistagmo orizzontale, ritmico e solitamente inibito dalla fissazione dello
sguardo. La sindrome di Lermoyez, altresì nota con l’espressione popolare di “vertigine
che fa udire”, esordisce con dei sintomi auricolari, quindi acufeni, fullness auricolare e
ipoacusia neurosensoriale, che anticipano clinicamente la comparsa della vertigine, al cui
manifestarsi l’ipoacusia migliora. Nell’idrope linfatica ritardata, si riscontra insorgenza di
crisi vertiginose in soggetti ipoacusici o anacusici di vecchia data.
5) DIAGNOSI
L’anamnesi alle volte è utile per poter intendere la diagnosi della malattia, dal momento
che altamente suggestivo è l’andamento ricorrente delle manifestazioni sintomatologiche;
all’esame obiettivo con l’otoscopio la membrana del timpano è normale. Con la clinica e il
supporto di alcune indagini, si possono individuare i criteri diagnostici della malattia di
Ménière, che definiscno:
1. Malattia certa:
a) Ménière definita
b) Conferma istopatologica
2. Malattia definita:
a) Vertigini spontanee: con caratteristiche precise
i. ≥2
ii. ≥ 20 minuti
b) Documentazione audiometrica dell’ipoacusia
c) Acufeni/ovattamento auricolare
d) Esclusione di altre cause
3. Malattia probabile:
a) Una vertigine > 20 minuti
b) Ipoacusie documentata con audiometria
c) Acufeni/ovattamento
d) Altre cause escluse
4. Malattia possibile:
a) Una vertigine
b) Esclusione di altre cause
Mancano in tal caso la documentazione audiometrica di almeno un episodio di
ipoacusia neurosensoriale cocleare, gli acufeni e/o l’ovattamento auricolare.
Con l’audiometria vocale si riscontra il pattern classico delle ipoacusie neurosensoriali
cocleari con presenza del fenomeno del roll-over; l’audiometria tonale mostra
caratteristicamente una curva con deriva della soglia uditiva particolarmente per le
frequenze gravi con classico risparmio della soglia uditiva delle frequenze vicine a 2000
Hz, anche se con il progredire della malattia anche queste vengono interessate dalla
perdita uditiva. Altri esami audiologici confermano la presenza di un danno a carico della
coclea, come l’ABR, le otoemissioni acustiche evocate e l’impedenzometria,
particolarmente la reflessometria stapediale che documenta la presenza di un riflesso
stapediale normale. La funzione vestibolare si studia mediante la valutazione di due riflessi
che sono il riflesso vestibolo-oculomotore e il riflesso vestibolo-spinale, che nella
prima fase della malattia documentano la presenza di un vestibolo normo-reflessico e
che diviene ipo-areflessico nelle fasi avanzate della patologia. La Risonanza Magnetica,
permette di escludere patologie retrococleari.
6) TERAPIA
La sindrome di Ménière è una patologia caratterizzata da attacchi ricorrenti, per cui è
chiaro che nel proprio decorso sia una malattia caratterizzata da acuzie della
sintomatologia intervallate a relative fasi di benessere. In tal caso, occorre considerare che
il trattamento è differente nella fase critica, quella caratterizzata dalle crisi vertiginose che
sono fortemente invalidanti, e la fase intercritica; la prima delle due fasi è solitamente
gestita in pronto soccorso, mentre la seconda è gestita dallo specialista otorinolaringoiatra
che dispone di alcuni presidi farmacologici e chirurgici per il trattamento della patologia.
Nella fase acuta della malattia sussiste la presenza di una asimmetria acuta nelle
afferenze vestibolari dai due lati, che è la causa della vertigine. Per cui in questo caso
occorre somministrare dei farmaci che in qualche maniera siano in grado di sopprimere
l’attività vestibolare, come le benzodiazepine, tra cui il diazepam (Valium®), oppure gli
antagonisti dopaminergici e gli anticolinergici, oppure i monoaminergici, da
somministrare endovena, intramuscolo o per supposta, dal momento che con queste
modalità di somministrazione sono più efficaci rispetto che nella modalità di
somministrazione orale. Tra i farmaci che si possono somministrare in pronto soccorso
endovena o intramuscolo, vi è la levosulpride. Possono anche essere somministrati
farmaci come la prometazina o la trietilperazina, che sono farmaci antistaminici H1 di I
generazione che attraversando la barriera ematoencefalica hanno una azione sedativa
centrale, risultando quindi utili nel trattamento della fase critica della malattia di Ménière.
• NEURINOMA DELL’ACUSTICO
Il neurinoma dell’acustico, o schwannoma vestibolococleare, è un tumore benigno che
viene annoverato nel vasto gruppo dei tumori dei tessuti molli, dal momento che origina
dal rivestimento mielinico, costituito dalle cellule di Schwann, del nervo vestibolococleare.
Per questo motivo, rientra specificatamente nell’ambito della categoria dei tumori benigni
delle guaine dei nervi periferici essendo la più frequente causa di ipoacusia
neurosensoriale retrococleare.
Il neurinoma dell’acustico è una neoplasia benigna che presenta una incidenza pari circa
a 1 caso/100.000 abitanti/anno, presentandosi come una lesione che rappresenta il 7-8%
\dei tumori intracranici, insorgendo caratteristicamente in corrispondenza dell’angolo
pontocerebellare che è la sede caratteristica di questa neoplasia. Il neurilemmoma
dell’acustico è una patologia che solitamente insorge in sede monolaterale e quando lo
faccia si tratta di una forma sporadica, differentemente dalle forme che insorgono in sede
bilaterale che hanno una connotazione genetica.
1) TIPOLOGIE EZIOLOGICHE DI NEURINOMA
Quindi, in base a questa differente eziologia sono da considerarsi distinte le forme
acquisite da quelle congenite, essendo queste ultime espressione di una patologia che
gode di un substrato ereditario geneticamente trasmissibile. Infatti, si tratta di una
patologia che è l’espressione caratteristica della neurofibromatosi di tipo II. La
neurofibromatosi di tipo II è una patologia genetica a trasmissione autosomica
dominante, che consegue alla mutazione del gene NF2, mentre la neurofibromatosi di tipo
I, altresì nota con il nome eponimo di malattia di von Recklinghausen, consegue ad una
mutazione del gene NF1 codificante per la neurofibromina. Se la neurofibromatosi di tipo I
si associa alla insorgenza di multipli neurofibromi cutanei che sono comunque dei tumori
benigni delle guaine dei nervi periferici, l’espressione patologica caratteristica della
neurofibromatosi di tipo II è quella del neurinoma bilaterale dell’acustico, che presenta
un atteggiamento maggiormente aggressivo tanto che si mostra caratteristicamente a
rischio di trasformazione nel tumore maligno delle guaine dei nervi periferici.
Contrariamente, la presenza di neurinomi bilaterali dell’angolo pontocerebellare è rara
nell’ambito della vera malattia di von Recklinghausen. I soggetti con neurofibromatosi di
tipo II presentano una mutazione del gene codificante per la merlina, proteina che
sembrerebbe regolare l’inibizione da contatto. I soggetti con neurofibromatosi di tipo II
tendono a sviluppare neurinomi bilaterali dell’acustico, associati a meningiomi, tumori del
midollo spinale e tumori del nervo ottico, per cui sono soggetti assolutamente intrattabili,
per i quali l’unica scelta è quella del counseling genetico e quella di consigliare
caldamente di non avere figli, dal momento che la patologia presenta una probabilità di
trasmissione del 50% e dal momento che si tratta di una patologia caratterizzata da un
anticipo fenotipico nelle generazioni filiali. Differentemente, il neurinoma dell’acustico
sporadico si caratterizza per l’insorgenza monolaterale ed è un tumore trattabile
chirurgicamente, dal momento che si può risolvere la situazione mediante asportazione
con un intervento chirurgico.
2) EVOLUZIONE CLINICA DEL NEURINOMA
Il neurinoma dell’acustico è un tumore per il quale sussistono due fasi principali di
evoluzione, di cui la prima è definita intra-canalare e la seconda cisternale, dipendendo
da queste e dalla dimensione del tumore l’eventuale sintomatologia con cui questo si
manifesta.
Dapprima, il tumore origina in corrispondenza della regione di passaggio dal rivestimento
di oligodendrociti e quello di cellule di Schwann, che si realizza a livello del canale uditivo
interno. In questa fase, il tumore è ancora di modeste dimensioni, motivo per cui non si
associa a compressione delle strutture vicine o a sindrome da ipertensione endocranica
che sono delle manifestazioni più tardive e associate all’aumento di dimensione notevole
del tumore. Sostanzialmente, in questa prima fase, intra-canalare, dell’accrescimento del
neurinoma dell’acustico, i sintomi sono del tutto uditivi, presentandovisi acufeni ed
ipoacusia neurosensoriale retrococleare. I disturbi dell’equilibrio sono solitamente
assenti perlomeno in questa fase dal momento che si tratta di un tumore che si accresce
in maniera molto lenta, guadagnando circa un millimetro per anno. Infatti, affinché si
abbiano delle vertigini è necessario che si abbia una asimmetria acuta delle afferenze
vestibolari dai due lati, condizione che mai si verifica in questo caso dal momento che
sussiste una lenta crescita del tumore. Pur se i soggetti non riferiscano quasi mai le
vertigini in senso stretto, è possibile che si abbiano altre alterazioni dell’equilibrio.
Successivamente, il tumore transita per la fase di crescita definita cisternale, dal
momento che si accresce in corrispondenza della cisterna pontocerebellare, cioè una
dilatazione dello spazio subaracnoideo che si localizza a livello dell’angolo ponto-
cerebellare. Si tratta di una cisterna, questa, che è delimitata medialmente dal ponte,
lateralmente dal temporale e posteriormente dal cervelletto e a questo livello transitano
importanti strutture nervose come il trigemino, il nervo facciale, il nervo glossofaringeo
e il nervo ipoglosso. È chiaro che in questa fase l’eventuale sintomatologia del
neurinoma dell’acustico dipende dall’eventuale compressione generata a livello delle varie
strutture:
1. Compressione del trigemino:
a) Ipoestesia trigeminale
b) Nevralgia trigeminale
2. Compressione del facciale:
a) Paralisi del facciale
3. Compressione del glossofaringeo:
a) Ipomotilità del velo del palato
b) Riduzione del riflesso faringeo
4. Compressione del cervelletto:
a) Adiadococinesia
b) Dismetria
5. Ostruzione dei ventricoli:
a) Idrocefalo interno non comunicante
b) Ipertensione endocranica
La compressione del cervelletto è un aspetto estremamente importante da considerare
nel contesto della clinica del neurinoma dell’acustico, che è un tumore che comprimendo il
cervelletto nella fase cisternale dell’evoluzione può determinare una interferenza delle
funzioni cerebellari. Il cervelletto è infatti deputato alla coordinazione degli schemi motori e
al mantenimento dell’equilibrio, motivo per cui la compressione cerebellare comporta
l’insorgenza di una disfunzione nel mantenimento dell’equilibrio durante la deambulazione,
tal che il soggetto per mantenere l’equilibrio durante la camminata debba allargare la base
d’appoggio, quindi tende a camminare a gambe larghe, condizione che viene definita
come adiadococinesia. Inoltre, la compromissione delle funzioni cerebellari si associa
anche alla presenza di una caratteristica interferenza con la coordinazione motoria tal che
il soggetto compia spesso movimenti definiti dismetrici, cioè scoordinati e il classico
segno neurologico associato a questa alterazione è costituito dalla impossibilità di toccare
la punta del naso con la punta dell’indice, ad occhi aperti e/o ad occhi chiusi.
Particolarmente grave è l’eventualità che si verifichi una ostruzione ventricolare,
particolarmente del quarto ventricolo, tal che ne risulti un idrocefalo ipertensivo non
comunicante che si associa all’insorgenza di una sindrome da ipertensione
endocranica, le cui caratteristiche principali sono la cefalea diffusa e gravativa, il vomito a
getto non-alimentare e l’annebbiamento della vista per via del papilledema. La sindrome
da ipertensione endocranica è una condizione di assoluta emergenza, che si associa alla
possibile erniazione cerebrale, di cui si distinguono in particolare tre forme differenti, che
sono l’ernia subfalcina, laddove il giro del cingolo ernia al di sotto della grande falce
cerebrale, l’ernia transtentoriale, lì dove la parte mediale del lobo temporale ernia al di
sotto del tentorio del cervelletto, e l’ernia tonsillare, che risulta essere la più grave dal
momento che la tonsilla del cervelletto ernia attraverso il grande foro occipitale, o forame
magno, e nel suo erniare determina compressione del tronco encefalico, particolarmente
dei centri nervosi di controllo del respiro e del battito cardiaco.
Oggi, grazie alle conoscenze del quadro clinico e alla diagnostica strumentale il neurinoma
dell’acustico viene diagnosticato prima dell’approdo alla fase dell’ipertensione
endocranica.
3) DIAGNOSI
La diagnosi di un neurinoma dell’acustico si pone a partire dal sospetto clinico, legato
all’anamnesi positiva per la presenza di acufeni ed ipoacusia neurosensoriale
monolaterale, nella forma sporadica, il che significa che si associa a lateralizzazione del
suono nell’orecchio controlaterale alla sede del neurinoma alla prova di Weber con il
diapaso. Lo studio audiologico si vale del contributo di alcuni esami:
1. Audiometria tonale: documenta una deriva della soglia uditiva per la via aerea e
per la via ossea monolaterale, particolarmente associato alla presenza di una
perdita per le frequenze superiori ad 1.5 kHz.
4) TERAPIA
La terapia di scelta, solitamente, è costituita dalla chirurgia eseguita in collaborazione tra
l’équipe otorinolaringoiatrica e quella neurochirurgica, anche se alle volte si può optare per
un approccio con terapia radiante. Addirittura, essendo un tumore benigno con tasso di
crescita molto lento, quando presenti dimensioni molto piccole, ad esempio inferiori o
uguali a 5 mm, si può anche non asportare; è stato dimostrato che questa scelta attendista
non influenzi la sopravvivenza e il potenziale esito futuro dell’intervento.
• OTOSCLEROSI
L’otosclerosi è una patologia dell’orecchio interno che si caratterizza per la presenza di un
processo distrofico a carico della capsula otica, che per il suo prevalente interessamento
della finestra ovale causa un blocco del movimento della staffa, conseguendovi una
caratteristica anchilosi stapedo-ovalare. L’otosclerosi è una patologia che incide con
maggiore frequenza nei soggetti giovani-adulti, di età compresa tra i trent’anni e i
quarant’anni, essendo una patologia che incide con maggiore frequenza nei soggetti di
sesso femminile, con una frequenza circa tre volte superiore.
1) EZIOPATOGENESI
Dal punto di vista eziopatogenetico, l’otosclerosi è una patologia che interessa
caratteristicamente la capsula otica, che è una struttura che contiene il labirinto
posteriore e la chiocciola, che diversamente dal resto dell’osso temporale va incontro ad
un processo di sviluppo embriologico conseguente alla presenza di una ossificazione
encondrale. Accade talora che a livello della capsula otica vi siano alcune aree che vanno
incontro a riassorbimento osseo tal che ne residuino delle cavità spongiotiche in quello
che prende il nome di osteospongiosi. L’osteospongiosi nel contesto dello sviluppo
dell’otosclerosi non è diffusa, si estende piuttosto a focolai, da cui si verificano successivi
processi di distrofia ossea che sfociano evidentemente nell’otosclerosi. Nella più gran
parte dei casi, i processi di otosclerosi interessano caratteristicamente la finestra ovale,
che rappresenta quell’orifizio posto sulla parete mediale della cassa del timpano, al cui
livello si inserisce la base della staffa che, ricevuta la vibrazione dell’onda sonora
trasmessa per il tramite della membrana del timpano, del martello e dell’incudine, la
trasmette all’orecchio interno nella cui cavità, scavata nella piramide del temporale, si
affaccia la base della staffa. In condizioni normali, la staffa si inserisce nella finestra ovale
mediante un legamento che viene definito legamento anulare e che ne consente la
vibrazione che nel caso dell’insorgenza di una otosclerosi risulta inevitabilmente
compromessa, conseguendovi una impossibilità di trasmissione dell’onda sonora, che
rende ragione della possibilità che insorga una caratteristica ipoacusia trasmissiva, pur se
sia anche possibile che il processo di otosclerosi coinvolga anche, o solo, la coclea, tal
che ne consegua nel primo caso una ipoacusia mista (stapedo-cocleare o cocleo-
stapediale) e nel secondo caso una ipoacusia neurosensoriale. Comunque, oggi non si
conosce ancora quale sia l’eziologia della patologia, pur se si ritenga che nel 50% dei casi
di otosclerosi sussista una ereditarietà autosomica dominante a penetranza
incompleta. A lungo si è discusso sulle possibili cause che possano stare alla base
dell’insorgenza di un’otosclerosi ma le due più accreditate riguardano (1) la presenza di
una patogenesi virale legata ad una infezione latente da virus del morbillo il cui RNA è
stato riscontrato nel contesto della capsula otica nei soggetti affetti da otosclerosi o (2) la
carenza di fluoro da cui deriverebbe la presenza dei focolai di osteospongiosi che
successivamente andrebbero incontro a distrofia ossea. La patologia incide con maggiore
frequenza nei soggetti di sesso femminile e probabilmente questo aspetto è espressione
di un ruolo ormonale e tanto è vero questo che i soggetti di sesso femminile lamentano
non infrequentemente la presenza di una slatentizzazione o di una esacerbazione della
patologia durante i periodi di massimo cambiamento ormonale, cioè durante la
mestruazione, durante la gravidanza o la menopausa.
2) CLINICA
Dal punto di vista clinico, il sintomo principale dell’otosclerosi è l’ipoacusia, che consegue
all’interessamento della staffa, nel 90-95% dei casi, oppure della coclea, in
considerazione di quale delle due sia l’elemento interessato esclusivamente o
maggiormente. In alcuni casi è anche possibile che vengano interessati sia la staffa che la
coclea, condizioni che evidentemente intendono l’eventuale insorgenza di una ipoacusia
mista, definita stapedo-cocleare o cocleo-stapediale, che rappresentano due differenti
modalità di ipoacusia mista possibili nel contesto di questa patologia, le quali
sostanzialmente differiscono per via del fatto che nella forma stapedo-cocleare la funzione
del nervo cocleare risulta maggiormente preservata. È chiaro che, parlando delle forme
che colpiscano esclusivamente la staffa o esclusivamente la coclea, si manifesteranno
delle ipoacusie trasmissive pure o delle ipoacusie neurosensoriali pure, tra le quali
sussistono differenze in termini di clinica, soprattutto nella prova di Weber con il diapason
se tra i due orecchi vi è una differenza di funzionalità, altrimenti se ambedue sono colpiti
allo stesso modo dalla patologia, la prova di Weber con il diapason non documenta alcun
tipo di lateralizzazione del suono. Accanto all’ipoacusia che è il sintomo principale, i
soggetti con l’otosclerosi lamentano anche la presenza di acufeni, che sono una
sensazione acustica riferita dal paziente in assenza di uno stimolo sonoro. L’acufene nel
paziente otosclerotico può essere di due distinte qualità: pulsante, allorquando si riscontri
la percezione del battito cardiaco dal momento che l’otospongiosi comporta un aumento
del flusso ematico, oppure continuo, come un rumore di fondo che il paziente avverte
costantemente e che può peggiorarne la qualità della vita significativamente, soprattutto
durante la notte deteriorando la qualità del sonno. Il paziente con otosclerosi può anche
avvertire un altro sintomo che corrisponde alla cosiddetta paracusia dolorosa,
espressione con cui si intende una sintomatologia dolorosa conseguentemente alla
percezione di suoni di intensità di almeno 80-85 dB, sintomo che consegue
all’ipoefficienza del riflesso stapediale. Il riflesso stapediale è un riflesso basato sull’attività
di contrazione del muscolo stapedio, che è un muscolo il grado di regolare la tensione
della membrana del timpano e a mezzo di questa regolazione di esercitare un
meccanismo protettivo nei riguardi dei suoni molto intensi. In tal caso, viene meno la
possibilità di smorzare la tensione della membrana del timpano a seguito di stimoli molto
intensi, il che causa l’insorgenza della paracusia dolorosa. L’esame obiettivo nei soggetti
con otosclerosi è normale.
3) DIAGNOSI
A fronte della sintomatologia dominata dall’ipoacusia, dalla presenza di acufeni e talora
dalla paracusia dolorosa e di un esame obiettivo fondamentalmente normale, si rende
necessaria una diagnostica strumentale accurata, che sia volta a documentare la
presenza di una ipoacusia mediante gli esami strumentali strettamente audiologici, di tipo
audiometrico, e a documentare la presenza dell’otosclerosi: l’esame gold standard per
documentare la presenza dell’otosclerosi è la TC cranica, che permette di documentare il
processo di sclerosi della capsula otica. Pur tuttavia, è necessario anche eseguire altri
esami, cioè l’audiometria tonale e l’impedenzometria. L’audiometria tonale documenterà
una ipoacusia di tipo trasmissivo o di tipo neurosensoriale, ricordando che tra le due una
delle principali differenze in audiometria tonale è costituita dalla presenza di una deriva
della soglia uditiva per la via ossea e per la via aerea per quanto riguarda le forme di tipo
neurosensoriale, differentemente dalle varianti di tipo trasmissivo in cui si assiste ad un
deterioramento della sola soglia uditiva aerea, a fronte di un mantenimento della soglia
aerea della via ossea. Caratteristicamente, nel caso dell’ipoacusia trasmissiva
nell’otosclerosi si descrive una caratteristica curva che prende il nome di curva di rigidità,
la quale si associa alla presenza di una perdita della soglia uditiva della via aerea
soprattutto alle frequenze più gravi.
L’impedenzometria è un’altra indagine strumentale squisitamente audiologica di estrema
importanza nel contesto della diagnosi delle ipoacusie, valutando la resistenza incontrata
dalla trasmissione di un’onda sonora a livello della membrana del timpano
(timpanogramma) in considerazione dell’effetto sulla membrana indotto dal riflesso
stapediale (reflessologia stapediale). Dal momento che si è detto che i soggetti con
otosclerosi lamentino una paracusia dolorosa, legata alla impossibilità di regolare la
tensione della membrana del timpano mediante il riflesso stapediale che è compromesso,
la reflessologia stapediale documenterà una assenza del riflesso. Certamente, quando
l’otosclerosi dia luogo ad una ipoacusia di tipo trasmissivo la diagnosi è abbastanza
confortevole, differentemente da quanto accada nel momento in cui si riscontri la presenza
di una ipoacusia neurosensoriale dal momento che in quest’ultimo caso le cause di
ipoacusia neurosensoriale sono numerosissime, per cui ci si vale di diversi riscontri, tra cui
quelli dell’impedenzometria, che danno luogo ad un timpanogramma di tipo A e ad una
assenza del riflesso stapediale; inoltre, i soggetti con otosclerosi, dal momento che
presentano una perdita maggiore sulle frequenze gravi, riferiscono di riuscire a
discriminare abbastanza bene la voce umana, che classicamente si attesta su delle
frequenze più acute.
4) TERAPIA
La terapia dell’otosclerosi è sostanzialmente quella delle ipoacusie: per l’ipoacusia
neurosensoriale, l’unica terapia percorribile è quella di installazione di un dispositivo
acustico. Per l’ipoacusia trasmissiva, è possibile sottoporre il paziente ad un intervento
chirurgico che consiste nel sostituire la staffa con un piccolo pistone. Si crea
chirurgicamente un foro al livello della platina della staffa, nel foro si inserisce una protesi
a pistone che permette di trasmettere in maniera idonea il suono. Il pistone ha un
diametro di 0.4 mm e una lunghezza di circa 5-5.5 mm. Una volta inserito il pistone, si
rimuove la staffa che è bloccata disarticolandola dall’incudine, si taglia lo stapedio e si
rimuove la sovrastruttura della staffa. In questo modo si può ripristinare la normale
trasmissione a livello del sistema timpano-ossiculare.
Vertigini
Le vertigini sono definite come una sensazione di falso movimento e sono espressione di
una patologia che può essere a carico dell’orecchio interno oppure a carico delle strutture
centrali della sensibilità vestibolare, tal che si definiscano delle vertigini periferiche e
delle vertigini centrali.
Da un punto di vista non puramente eziologico, ma anche clinico giacché nella più parte
dei casi la presentazione clinica è agli antipodi, la vertigine può dirsi centrale o periferica,
in considerazione del fatto che il danno intervenga a carico del sistema nervoso centrale
ovvero a carico del labirinto dell’orecchio interno. Le vertigini centrali differiscono da quelle
periferiche sicuramente per l’eziologia della malattia dal momento che la prima è
espressione di una patologia di competenza neurologica mentre la seconda è espressione
di una patologia di competenza otorinolaringoiatrica. Talora, le vertigini periferiche sono
maggiormente invalidanti differentemente dalle vertigini centrali che molto spesso hanno
un esordio subdolo e quindi di per loro non sono fortemente invalidanti, ma in compenso
spesso la patologia che ne sia alla base risulta essere più grave. La vertigine periferica,
nella maggior parte dei casi, è violenta, insorgendo in maniera improvvisa ed
associandosi a sintomi neurovegetativi, come la bradicardia, il pallore, la nausea, il
vomito; peraltro nella maggior parte dei casi se non in tutti la vertigine periferica si
definisce oggettiva, essendo questa una vertigine in cui la falsa sensazione di movimento
è riferita all’ambiente esterno: il soggetto riferisce di avvertire una rotazione dell’ambiente
attorno a sé. Solitamente, questa rotazione è avvertita sul piano orizzontale, essendo, tra
tutti gli organi dell’orecchio interno deputati alla vestibolocezione, il canale semicircolare
laterale quello che è deputato alla sensibilità rotatoria sul piano orizzontale. Dal momento
che il canale semicircolare laterale è anche quello predominante tra i tre, la vertigine è
solitamente definita da una sensazione rotatoria orizzontale dell’ambiente circostante.
Differentemente dalla vertigine periferica, la vertigine centrale ha spesso un esordio più
subdolo, potendosi talora associare ad una perdita di coscienza che mai si verifica nel
caso della vertigine periferica; inoltre, la vertigine centrale è solitamente soggettiva: il
soggetto riferisce di avvertire sé stesso ruotare rispetto all’ambiente circostante.
• VERTIGINI E NISTAGMO
Le vertigini e il nistagmo costituiscono due elementi clinici di fondamentale importanza
per la diagnosi delle vertigini, anche perché a seconda del fatto che si tratti di vertigini da
deficit del vestibolo o di vertigini da deficit neurologici si riscontrano delle differenti
caratteristiche. La vertigine periferica insorge in maniera violenta, generalmente è
oggettiva e si associa alla presenza di sintomi neurovegetativi. Differentemente da queste,
le vertigini centrali sono frequentemente delle vertigini soggettive, che si associano alla
presenza di sintomi talora molto differenti di volta in volta. Quindi, da sé una vertigine
centrale è difficilmente distinguibile considerandone solo le proprie caratteristiche, ma
considerandola in maniera differenziale rispetto alla vertigine periferica risulta più
confortevolmente distinguibile, nel senso che conoscendo come quest’ultima si presenta,
si può differenziare per esclusione l’altra.
1) VERTIGINE OGGETTIVA
La vertigine oggettiva consegue ad una asimmetria acuta tra i due sistemi vestibolari
controlaterali, tal che si origini quella che prende il nome di sindrome vestibolare acuta.
Evidentemente, tenendo conto del fatto che il cervelletto integri le informazioni dai due lati
cosicché possa decodificare le informazioni e tradurle nella percezione del movimento, nel
momento in cui si verifichi un qualsiasi movimento la decodifica dell’informazione e la
percezione dello spostamento della testa derivano dalla differente scarica che giunge dai
due nervi vestibolari. Quindi, nel momento in cui si verifichi una patologia a carico del
vestibolo, si genera una differenza di scarica tra i due nervi, condizione che è esattamente
equiparabile a quella che fisiologicamente si verifica durante un movimento. Se il vestibolo
di un lato è leso, il nervo vestibolare di quel lato ridurrà la propria frequenza di scarica e a
seguito di questo è come se il soggetto percepisca un movimento rotatorio dal lato
opposto. La differente informazione dai due lati innesca una risposta motoria, un riflesso
vestibolo-oculomotore perfettamente uguale a quello che si avrebbe se un soggetto sano
ruotasse realmente dal lato opposto. Il risultato è che gli occhi del soggetto si sposteranno
dal lato della lesione vestibolare: questo è alla base della presenza del nistagmo.
La vertigine vestibolare è classicamente una vertigine oggettiva, che insorge
violentemente e si associa alla presenza di sintomi neurovegetativi, senza perdita di
coscienza.
2) NISTAGMO SPONTANEO PERIFERICO
Il nistagmo è la risultanza dei circuiti neuronali che dal punto di vista fisiologico
giustificano il riflesso vestibolo-oculomotore. Si tratta di un movimento composto di due
fasi, la prima è quella definita lenta, che comporta lo spostamento verso la periferia
dell’orbita dei bulbi oculari e l’altra è la fase rapida che comporta il riposizionamento dei
bulbi oculari al centro dell’orbita mediante una saccade rapida. Fisiologicamente, il
movimento del nistagmo è tale per cui la fase lenta batta nella direzione opposta a quella
del movimento; nel qual caso vi sia una patologia vestibolare, per via del fatto che le
informazioni vestibolari vengano integrate come vi fosse un movimento controlaterale della
testa, il nistagmo batte dal lato opposto del fittizio e percepito movimento, per cui dal lato
patologico. Il nistagmo patologico è innanzitutto spontaneo, cioè si verifica senza che vi
sia un movimento della testa, proprio perché la asimmetria delle afferenze che giungono
dai due sistemi vestibolari è come fosse un vero movimento e in secondo luogo nella più
parte dei casi è un nistagmo orizzontale, cioè che avviene sul piano orizzontale, anche in
considerazione del fatto che tra i canali semicircolari il dominante è quello laterale. Il
nistagmo spontaneo periferico è ritmico, orizzontale e come terza caratteristica
fondamentale si ha il fatto che venga inibito dalla fissazione dello sguardo. Quello che è
importante considerare è che la fase lenta nistagmo spontaneo periferico batte sempre dal
lato patologico, mentre la fase rapida batte dal lato opposto e non cessa quale che sia la
direzione dello sguardo. Comunque dal punto di vista clinico, la direzione del nistagmo
viene definita dalla direzione della fase rapida, per cui dire che “il nistagmo batte a destra”
significa che il nistagmo ha fase rapida a destra, che è il lato opposto a quello della lesione
patologica: in questo caso il vestibolo patologico è quello di sinistra.
Inoltre, il nistagmo si valuta facendo indossare al paziente gli occhiali di Frenzel, occhiali
con lenti a 20 o più diottrie che impediscono al soggetto di fissare lo sguardo, dato che il
soggetto vedrà tutto sfocato. Il nistagmo spontaneo periferico è sempre uguale a sé
stesso, a differenza del nistagmo centrale che può essere estremamente variabile.
3) NISTAGMO SPONTANEO CENTRALE
Il nistagmo spontaneo centrale ha delle caratteristiche assai differenti rispetto a quelle del
nistagmo spontaneo periferico. Se il secondo di questi due è orizzontale nella più parte dei
casi ma sempre monolaterale, tal che batta (la fase rapida) dal lato opposto a quello della
lesione, nel nistagmo centrale la direzione della fase rapida varia in funzione della
direzione dello sguardo: se fissato in alto batte (la fase rapida) verso l’alto, se fissato a
destra verso destra, se rivolto a sinistra verso sinistra. In secondo luogo, il nistagmo
spontaneo centrale non è inibito dalla fissazione dello sguardo a differenza del nistagmo
spontaneo periferico e si tratta di un nistagmo aritmico.
4) RISVOLTI CLINICI DELL’ATTIVAZIONE DEL VSR
Se l’espressione clinica dell’attivazione del riflesso vestibolo-oculomotore è quella del
nistagmo, le cui caratteristiche variano se si riscontri una lesione centrale o una lesione
periferica, d’altra parte l’attivazione del VSR per via della patologia vestibolare o delle
strutture centrali si traduce in alcune alterazioni del tono muscolare, che si possono
valutare mediante delle prove cliniche. Il razionale fisiologico che spiega gli esiti delle
prove di valutazione del tono muscolare risiede nel fatto che quando il soggetto ruoti da un
lato, il peso e il tono muscolare aumentano dal lato opposto come tentativo di
mantenimento dell’equilibrio e della postura eretta: se vi è un’accelerazione verso destra,
aumenta il tono dell’emisoma sinistro. Quando viga una patologia vestibolare, se
danneggiato è il vestibolo di un lato, il movimento viene percepito dal lato opposto: il tono
muscolare e il peso si sposteranno verso il lato patologico. Nel più semplice di questi test,
la prova di Romberg il soggetto staziona ad occhi chiusi con le braccia conserte; se un
vestibolo è danneggiato, si percepisce un movimento dal lato opposto: il risultato è che
nell’ambito delle patologie vestibolari la prova di Romberg è positiva per caduta dal lato
del vestibolo patologico. Un altro test che si può eseguire è quello della marcia sul posto,
che documenta una rotazione dal lato ipofunzionante, quello cioè del vestibolo patologico,
verso cui tende a cadere nel corso della prova di Romberg, quello verso cui batte la fase
lenta del nistagmo (che batte dallo stesso lato del vestibolo patologico, mentre la fase
rapida batte dal lato opposto del vestibolo patologico). Quando la prova di Romberg
documenti una caduta dallo stesso lato verso cui devia il paziente durante la prova della
marcia sul posto e verso cui batte la fase lenta del nistagmo si parla di sindrome
armonica, in contrapposizione alla disarmonia che si riscontra nel contesto della sindrome
disarmonica: le sindromi disarmoniche caratterizzano tipicamente le patologie centrali.
• NEURITE VESTIBOLARE
La neurite vestibolare, altresì nota come neuronite vestibolare o deficit vestibolare
acuto, consiste in un singolo attacco vertiginoso spontaneo di solito della durata di due o
tre giorni almeno, con associati sintomi neurovegetativi e progressivo recupero, in
assenza di segni neurologici e cocleari.
1) EZIOPATOGENESI
Il danno nel caso della neurite vestibolare è un danno acuto che consegue a due
differenti ipotesi patogenetiche di cui una è l’ipotesi virale, espressione con la quale si
vuole intendere la presenza di un deficit a carico del vestibolo conseguente ad una
reazione immunomediata post-virale, e l’altra è l’ipotesi vascolare.
In questi casi, il soggetto presenta un attacco vertiginoso acuto, ad insorgenza violenta,
che successivamente tende a regredire e scomparire, pur se permangano comunque delle
alterazioni dell’equilibrio. La scomparsa della vertigine si verifica solitamente nell’arco di
una settimana al massimo e consegue al fenomeno di compenso vestibolare, che trova
la propria giustificazione e il proprio substrato neurofisiologico nella abbondanza di
informazioni, cioè nel fatto che le informazioni arrivino al sistema nervoso centrale
bilateralmente. Questa condizione fa sì che il sistema nervoso centrale con il passare dei
giorni adatti le informazioni che riceve sicché con le sole informazioni di un vestibolo
riesca comunque a non determinare insorgenza della vertigine. Chiaramente, in questo
caso il fatto che le vertigini regrediscano per via del fenomeno di compenso vestibolare è
un aspetto che non ha a che vedere con l’equilibrio, dal momento che i meccanismi di
mantenimento della postura e dell’equilibrio vengono comunque danneggiati e il paziente
presenta quindi delle alterazioni del mantenimento dell’equilibrio che magari possono
regredire entro qualche mese.
2) CLINICA
Il soggetto con un deficit vestibolare acuto, o neurite vestibolare, lamenta l’insorgenza di
una vertigine oggettiva, che è violenta, della durata di due o tre giorni, circa. La vertigine
della neurite vestibolare, come altre forme di vertigine periferica, si associa alla presenza
di sintomi neurologici. È anche presente il nistagmo, come espressione dell’anomala
attivazione del riflesso vestibolo-oculomotore; il nistagmo batte con la fase rapida dal lato
opposto rispetto al vestibolo patologico, mentre con la fase lenta batte dallo stesso lato del
vestibolo patologico. La gravità del nistagmo, che in questo caso è spontaneo,
orizzontale e ritmico, inibito dalla fissazione dello sguardo, solitamente, si classifica in tre
livelli di gravità:
1. Nistagmo di I grado: viene definito tale quando compare nel momento in cui lo
sguardo sia diretto verso la direzione della fase rapida del nistagmo, quindi quando
lo sguardo del soggetto sia direzionato dal lato opposto a quello del vestibolo
patologico.
2. Nistagmo di II grado: compare anche quando lo sguardo del soggetto è
direzionato verso il lato del vestibolo patologico, cioè compare solo quando lo
sguardo sia diretto verso la direzione in cui batte la fase lenta del nistagmo.
3. Nistagmo di III grado: compare anche quando il soggetto presenta lo sguardo in
posizione neutra, cioè fisso in posizione centrale.
Le alterazioni dell’equilibrio e l’impossibilità di garantire dei riflessi vestibolo-spinali idonei
al mantenimento della postura fanno sì che in questi soggetti si realizzino alterazioni alla
prova di Romberg o alla prova della marcia sul posto: il soggetto cade o ruota la marcia
nella direzione del vestibolo patologico, che è la stessa verso cui batte la fase lenta del
nistagmo, opposta alla direzione della fase rapida del nistagmo stesso e la stessa della
direzione della fase lenta del nistagmo (=sindrome armonica). La gravità del nistagmo e
l’esito delle prove tonico-posturali si attenuano con il passare dei giorni: all’inizio il
nistagmo è di III grado e il soggetto non riesce nemmeno a stazionare in posizione eretta,
ma con il passare dei giorni il nistagmo si attenua e l’equilibrio riesce ad essere
mantenuto, ma magari il soggetto non ancora riesce ad avere una marcia completamente
rettilinea.
3) DIAGNOSI DIFFERENZIALE CON L’ICTUS CEREBELLARE
L’ostruzione o la rottura dell’arteria cerebellare posteroinferiore causa un ictus
cerebellare, che clinicamente si manifesta mediante la presenza di una vertigine rotatoria
oggettiva, che si associa alla presenza di un nistagmo spontaneo che è molto simile a
quello che si verifica nella neurite vestibolare. Chiaramente, discernere tra queste due
patologie è importante poiché a fronte di una clinica simile la prognosi è estremamente
differente: l’ictus cerebellare è una patologia che ha un esito altamente infausto se non
trattata precocemente; sicuramente il ricorso alla diagnostica strumentale è utile ma il più
delle volte non vi è il tempo necessario affinché queste indagini vengano effettuate, per cui
con il test di Halmagyi è possibile effettuare questa discriminazione: il test di Halmagyi è
patologico nel deficit vestibolare acuto, normale nel caso di un ictus cerebellare.
Paralisi del facciale
Il nervo facciale è un nervo cranico, precisamente il VII paio ed è un nervo dotato di fibre
somatiche motorie e sensitive e di alcune fibre della sensibilità viscerale che raccolgono
dai due terzi anteriori della lingua la sensibilità gustativa. Ancorché la paralisi del facciale
debba intendersi come un segno neurologico, nella più parte dei casi si tratta di una
condizione che cela delle patologie di interesse otorinolaringoiatrico e questo in
considerazione del fatto che (1) si tratta di un nervo che decorre all’emergenza
macroscopica dal tronco encefalico in vicinanza del nervo statoacustico il quale quando
interessato da un neurinoma dell’acustico in fase cisternale può determinare
compressione del nervo facciale; (2) dal momento che si tratta di un nervo che decorre
nello spessore della piramide del temporale, che è una struttura ossea in cui sono presenti
le strutture dell’orecchio interno e peraltro entra in rapporto anche con delle strutture
dell’orecchio medio. In terzo luogo, il tratto extracranico del facciale decorre all’interno
dello spessore della ghiandola parotide, per cui patologie di questa ghiandola possono
determinare parimenti delle paralisi del facciale e anche queste sono delle patologie di
competenza (anche) otorinolaringoiatrica.
1) ANATOMIA DEL NERVO FACCIALE
Il nervo facciale emerge a livello del solco bulbopontino, cioè a livello di quella struttura
che segna il confine anatomico ma puramente convenzionale tra il bulbo e il ponte. Quindi,
decorre lateralmente,
dirigendosi verso l’orifizio di
accesso del meato acustico
interno, che prospetta la
fossa neurocranica media; a
questo livello impegna la
cisterna pontocerebellare e
decorre in stretta vicinanza
con l’VIII che pure si dirige
verso l’orifizio del meato
acustico interno. A livello del
fondo del meato acustico
interno, che separa tale
condotto dalla cavità dell’orecchio interno, il nervo facciale impegna il canale del facciale,
un canale che è suddiviso in tre tratti differenti che stabiliscono la direzione del decorso
del nervo stesso. Infatti, il primo tratto del canale del facciale decorre orizzontalmente e
perpendicolarmente all’asse maggiore della piramide del temporale, che è obliquo
dall’avanti all’indietro in senso mediolaterale. Quindi, esauritosi il primo tratto, il nervo
facciale e il canale omonimo descrivono un ginocchio, cioè una flessione di 130°, lì dove
è presente un ganglio che per via della propria collocazione prende il nome di ganglio
genicolato. A seguito della flessione di 130°, l’asse del canale del facciale diviene
parallelo all’asse della piramide del temporale, salvo poi flettere nuovamente, individuando
un secondo ginocchio, questa volta di 90°, per il tramite del quale il decorso del canale si
fa verticale e diretto dall’alto in basso, direzione che consente al nervo stesso di
abbandonare l’osso temporale fuoriuscendone a mezzo del forame stilomastoideo. La
prima porzione del canale del facciale viene definita labirintica, la seconda viene invece
definita timpanica, dal momento che solca la parete mediale della cassa del timpano,
decorrendo dall’avanti all’indietro in direzione parallela a quella dell’asse maggiore della
piramide del temporale. Nella parte più posteriore di questo tratto, il canale flette verso il
basso, descrivendo la porzione mastoidea, che decorre nel processo mastoideo del
temporale, dall’alto in basso lasciando un rilievo osseo visibile sulla superficie posteriore
della cassa del timpano; nel proprio decorrere dall’alto verso il basso, il nervo facciale
rilascia la corda del timpano, che è un nervo, costituito da fibre gustative che raccolgono
la sensibilità gustativa dai due terzi anteriori della lingua. Questo nervo viene chiamato
corda del timpano dal momento che solca dall’avanti all’indietro da un punto all’altro della
membrana del timpano, congiungendo un punto anteriore con uno posteriore proprio come
la corda di un cerchio. Lungo il proprio decorso intracranico, il nervo facciale rilascia altri
due nervi, cioè il nervo grande petroso superficiale e il nervo stapedio, di cui il primo,
rilasciato a livello del ganglio genicolato, si fa carico della innervazione della ghiandola
lacrimale e il secondo si fa invece carico dell’innervazione del muscolo stapedio e
partecipa al braccio efferente del circuito nervoso che descrive il riflesso stapediale.
2) TERRITORIO DI DISTRIBUZIONE
Il nervo facciale, quindi si rende responsabile della innervazione motoria, sensitiva di
diverse parti dell’organismo. Mediante delle fibre motrici somatiche innerva il muscolo
stapedio ed i muscoli pellicciai della regione della faccia, mentre con le fibre motrici
viscerali si fa carico della secrezione lacrimale, della secrezione salivare delle ghiandole
sottomandibolare, sottolinguale e delle salivari minori. Le fibre sensitive viscerali che
convergono nella corda del timpano sono destinate a raccogliere la sensibilità gustativa a
livello dei due terzi anteriori della lingua; le fibre sensitive somatiche raccolgono la
sensibilità della regione cutanea del meato acustico esterno, della conca del padiglione
auricolare e della regione periauricolare.
• CLINICA E DIAGNOSI
La diagnosi di una paralisi del nervo facciale è sostanzialmente clinica e i segni che
questa genera sono estremamente caratteristici e suggestivi della situazione. Dalla
neuroanatomia è noto che le fibre che entrano nella costituzione del nervo facciale sono
nient’altro che degli assoni che vengono rilasciati dai motoneuroni che si trovano nel
nucleo motore del facciale, situato nel ponte, che a loro volta sono regolati dall’attività dei
motoneuroni della corteccia motoria primaria.
1) CLASSIFICAZIONE CLINICA DELLE PARALISI DEL FACCIALE
Data la neuroanatomia, quindi, le paralisi del facciale possono conseguire a danni a
diversi livelli, di cui due sono costituiti dal danno neuronale a carico del nucleo motore
del facciale, monolateralmente o bilateralmente, oppure a carico degli assoni dei
neuroni in questione. Differentemente, ve ne sono delle altre di paralisi del facciale che
conseguono ad alcune patologie che comportano un danneggiamento a monte dei nuclei
motori del facciale, che come detto sono controllati dalla corteccia motoria primaria, che
è dotata di alcuni motoneuroni che sono anche chiamati motoneuroni di I ordine, i quali
rilasciano assoni che entrano nella costituzione della bianca del centro semiovale prima e
della capsula interna, decorrendo nel contesto del tratto cortico-troncoencefalico, poi
discendendo al fine di istituire delle sinapsi con i motoneuroni del nucleo del facciale che
quindi prendono il nome di motoneuroni di II ordine. I motoneuroni di I ordine proiettano
sia in senso ipsilaterale, cioè sul nucleo motore del facciale dello stesso lato, che in
senso crociato, cioè sul nucleo del facciale del lato opposto, giacché alcune fibre nel
contesto della bianca del centro semiovale decussano. Le fibre che si impegnano
controlateralmente modulano l’attività dei motoneuroni di II ordine che innervano la
regione della fronte, i quali quindi godono di una componente corticale sia diretta che
crociata, differentemente dai motoneuroni di II ordine che innervano i due terzi inferiori dei
muscoli facciali che sono controllati esclusivamente da una componente diretta. Quindi,
sulla base del fatto che il danno intervenga a livello o a valle del nucleo del facciale oppure
a monte del nucleo del facciale, cioè al tratto cortico-troncoencefalico o alla corteccia
motoria primaria, le paralisi del facciale si suddividono in paralisi periferiche e paralisi
centrali, le quali sottintendono a cause differenti e a presentazione clinica differente:
1. Paralisi centrali:
a) Ictus cerebrali:
i. Ictus ischemici
ii. Ictus emorragici
b) Malattie demielinizzanti
c) Tumori cerebrali
2. Paralisi periferiche:
a) Lesione del motoneurone II
b) Lesioni assonali
c) Neurinoma dell’acustico
d) Otite esterna maligna
e) Colesteatoma
f) Tumori delle ghiandole salivari
g) Traumi delle ghiandole salivari
h) Altri tumori troncoencefalici
Oltre alla eziologia, anche la clinica delle paralisi centrali e periferiche è differente, dal
momento che le paralisi centrali sono classicamente definite come delle paralisi toniche,
mentre le paralisi periferiche sono tipicamente flaccide. Inoltre, dal momento che si è
detto del fatto che i motoneuroni di II ordine del facciale sono innervati da una componente
diretta e da una componente crociata derivante dalle fibre del tratto cortico-
troncoencefalico, le lesioni centrali monolaterali si manifestano con delle alterazioni
dell’attività dei muscoli dei due terzi inferiori della faccia, dal momento che l’attività
normale dei muscoli del terzo superiore, al venir meno della regolazione da parte delle
fibre ipsilaterali, viene vicariata dalle fibre corticali controlaterali, che istituiscono sinapsi
solo con i motoneuroni di II ordine che controllano il movimento dei muscoli della fronte.
Tutto questo, invece, non si verifica nel caso delle paralisi periferiche che sono dirette nei
riguardi di tutto il territorio motorio del facciale.
2) SEGNI CLINICI E DIAGNOSI
La conoscenza della clinica della paralisi del facciale è fondamentale dal momento che
questa permette di approdare ad una diagnosi e di discriminare anche dal punto di vista
topografico la sede in cui intervenga la lesione, se a livello centrale o a livello periferico. La
semeiologia di una paralisi del facciale si caratterizza per alcuni segni dinamici e per
alcuni segni statici:
1. Segni dinamici: il paziente con una paralisi periferica del facciale presenta una
alterazione della motilità dei muscoli mimici della regione facciale per cui il paziente
riesce a corrugare la fronte solo da un lato (opposto al danno) nelle paralisi
periferiche, che generalmente sono monolaterali e determinano alterazione
omolaterale, per cui l’ipomobilità dei muscoli della fronte si verifica
omolateralmente. Quando si chieda al paziente di chiudere l’occhio, si potrà
apprezzare un movimento verso l’alto e verso l’esterno del globo oculare, per cui
nello sforzo di chiudere l’occhio, che non si chiude, si vede esclusivamente la
sclera: tale è il segno di Bell. Quando il paziente sorrida, si riscontra una
asimmetria della rima labiale, dovuta a contrazione di solo uno dei due muscoli
orbicolari delle labbra, mentre l’altro risulta essere interessato da una assenza di
contrattilità.
2. Segni statici: i segni statici si apprezzano solo nelle paralisi periferiche di lunga
durata nelle quali si riscontra la presenza di una ipotonia dovuta all’assenza per
lungo tempo di contrattilità. A seguito di questa ipotonia, si riscontra la presenza di
una caduta del tono muscolare, che determina una paralisi dell’emivolto che è
completa, cioè rivolta al terzo superiore, medio e inferiore. Si riscontra obliquità
della rima labiale, con appianamento delle rughe, ectropion palpebrale e
lagoftalmo.
Sono sempre da tenere a mente i dati clinici che permettono di effettuare una diagnosi
differenziale piuttosto immediata tra una paralisi centrale ed una paralisi periferica,
essendo quest’ultima caratterizzata da una diffusione a tutti i comparti muscolari facciali,
differentemente da una paralisi centrale che si caratterizza, invece, per il coinvolgimento
dei soli due terzi inferiori dei muscoli facciali. Tenendo conto del fatto che nel tratto
intracranico il nervo facciale rilasci tre differenti rami, che sono il nervo grande petroso, la
corda del timpano e il nervo stapediale, si possono eseguire tre test che prendono il nome
di test topodiagnostici; tra questi il primo è costituito dal test di Schirmer, peraltro
anche utilizzato nella diagnosi della sindrome di Sjögren. Il test consiste nell’apporre una
striscia graduata a livello del fornice congiuntivale inferiore per poi valutarne l’imbibizione:
se l’imbibizione è assente o inferiore al valore di 5 mm di striscia graduata in cinque minuti
il test si dice positivo per ipolacrimazione, che documenta in tal caso la presenza di un
danno a carico del nervo facciale che si istituisce a monte del ganglio genicolato lì dove
viene rilasciato il nervo grande petroso superficiale. Il secondo test che si potrebbe
effettuare è quello di valutazione del riflesso stapediale e il terzo è quello della
retrogustometria, che se negativo indica che il danno si sia verificato a valle della corda
del timpano. Pur tuttavia, questo tipo di test viene ormai poco effettuato. Quindi, con la
clinica si può sicuramente distinguere tra le paralisi periferiche e quelle centrali; con i test
topodiagnostici si può valutare la sede del danno nelle paralisi periferiche. Una indagine di
estrema importanza in questo caso è costituita dalla Risonanza Magnetica Nucleare, che
permette di escludere eventualmente l’eventuale presenza di un neurinoma dell’acustico,
poiché anche questo può presentarsi con una sintomatologia legata alla paralisi del
facciale, pur se evidentemente nel caso del neurinoma dell’acustico sussista la presenza
di una ipoacusia neurosensoriale che nelle paralisi del facciale da altre cause non si
verifica.
Occorre considerare che una volta eseguite tutte le possibili indagini ed escluse le cause
centrali nonché tutte le altre possibili cause periferiche, si definisce la paralisi come
paralisi di Bell, che è una paralisi del facciale che oggi viene definita fisiopatologicamente
come una neurite virale, determinata dall’Herpes Simplex. In questo caso, la Risonanza
Magnetica che esclude tumori documenta un aumento del contrasto del nervo facciale.
Diagnostica audiologica nelle ipoacusie
L’orecchio è un organo pari, motivo per cui qualsiasi malattia che lo interessi
monolateralmente va trattata con il dovuto riguardo perché deve mettere sempre un po’ di
sospetto. L’orecchio dal punto di vista anatomico è formato da 3 porzioni: orecchio
esterno, medio ed interno. L’orecchio esterno e l’orecchio medio assieme vanno a
costituire l’apparato di trasmissione. L’orecchio esterno è costituito dal padiglione
auricolare, dal condotto uditivo esterno e dalla membrana timpanica, che separa
l’orecchio esterno dall’orecchio medio. Questa parte è importante, anche se viene spesso
messa in secondo piano, perché nonostante non sia così nobile rispetto a quello di altre
specie animai, serve a convogliare le onde sonore nel condotto uditivo esterno affinché
possano impattare sulla membrana timpanica. Il padiglione auricolare avendo una
costituzione in plichi e rilievi permette un’amplificazione di onde con frequenza compresa
tra i 1000 e i 4000Hz, mentre il meato acustico esterno garantisce un’amplificazione delle
frequenze acute, tra i 2000 e i 4000Hz per andare poi ad impattare sulla membrana
timpanica.
La membrana timpanica ha una superficie non completamente vibrante, solo per i 2/3,
perché le porzioni limitrofe al manico del martello, cosi come le porzioni periferiche che si
inseriscono sull’anulus timpanico sono meno elastiche e non vibrano. In più vi è una piccola
parte, detta pars flaccida, che non serve da un punto di vista funzionale, ma è importante
per una serie di patologie a suo carico. Quindi sulla membrana timpanica distinguiamo due
zone, la pars flaccida e la pars tensa. La pars flaccida, poco estesa, a differenza della
pars tensa, manca dello strato fibroso, per cui avremo i due epiteli contrapposti,
pavimentoso che guarda il meato acustico esterno, e cubico che guarda l’orecchio medio,
o meglio il cavo del timpano. Invece nella pars tensa tra i due epiteli contrapposti, i
medesimi di cui prima, vi è uno strato di tessuto connettivo ricco di fibre elastiche che
sono disposte sia in senso radiale che longitudinale che trasversale che circolare. Questa
fitta rete di fibre elastiche permette una grande resistenza, ma anche la possibilità che la
membrana possa essere messa in vibrazione, quando l’energia meccanica vibratoria delle
onde sonore impatta sul timpano, per determinare la trasmissione del suono.
Iniziamo a parlare di orecchio medio e in particolare dobbiamo considerare la membrana
del timpano e la catena degli ossicini dell’udito come un unico sistema. Gli ossicini
dell’udito sono 3 ossa articolate tra loro che in senso latero-mediale sono il martello,
l’incudine e la staffa. Questo sistema viene messo in vibrazione attraverso i movimenti
della catena ossiculare perché il vantaggio che dobbiamo avere è la trasmissione del
suono fino alla platìna della staffa. Affinchè ciò avvenga non solo tutto il sistema deve
essere libero da possibili meccanismi di contenimento, ma ci sono le articolazioni tra la
testa del martello e il corpo dell’incudine, tra la crus lunga dell’incudine e il corpo della staffa
e tra la platìna della staffa e la finestra ovale.
Perché è presente questo sistema articolato? Non potremmo avere un unico elemento che
collegasse il timpano alla platina della staffa? Questo sistema è utile perché produce una
doppia possibile amplificazione del suono. La prima amplificazione è dovuta al fatto che
la superficie della membrana del timpano (55mm2) è più ampia rispetto alla superficie
della platìna della staffa (3mm2) ed è proprio questa importante differenza di superficie che
permette l’amplificazione del suono. La seconda amplificazione è dovuta dai meccanismi
di leva della catena ossiculare. In tutto si ritiene che l’amplificazione del sistema timpano-
ossiculare giunga a 21 volte. Ciò significa che un suono che incide sulla membrana
timpanica viene amplificato 21 volte sulla platina della staffa.
A cosa serve questa amplificazione? E’ importante perché all’interno dell’orecchio interno ci
sono dei fluidi e quindi se il suono prima viaggia attraverso l’aria e attraverso il sistema
timpano-ossiculare, che comunque è sospeso nell’orecchio medio in cui vi è presenza
d’aria, poi, nell’orecchio interno vi sono i fluidi labirintici, motivo per cui la platìna della
staffa deve vincere la loro resistenza: se non vi ci fosse questa sistema di amplificazione
non si riuscirebbe a vincere la resistenza dei fluidi. Inoltre anticipiamo un concetto
importante: poiché un fluido non può essere compresso in un canale, membranoso o osseo
che sia, affinché ci sia una possibile compressione dei liquidi labirintici dobbiamo avere
una decompressione che è data dalla membranella della finestra rotonda. Quindi se da
un lato c’è la spinta verso i liquidi attraverso la patìna della staffa dall’altro c’è la
decompressione dei liquidi stessi attraverso la membrana della finestra rotonda. Questo
sistema di compressione-decompressione viene detto sistema di fase e determina un
ulteriore possibile amplificazione dell’energia sonora. Si ritiene che se tutto il sistema
timpano ossiculare venisse a mancare la nostra capacità sonora si ridurrebbe di 60dB.
Introduciamo, allora, in concetto di deciBel (dB).
Il dB è l’unità di misura della percezione acustica, e non l’unità di misura del suono. Il suono
può essere misurato in W/cm2, ma se usassimo l’unità di misura fisica del suono avremmo
una serie di numeri scomodi da usare, perciò il professore Bel ha introdotto il concetto di
Bel prima e di dB poi. Il db è il logaritmo in base 10 dell’energia sonora, quindi se un soggetto
avesse una perdita di 50db, l’energia sonora che dovrebbe arrivare all’orecchio dovrebbe
essere di 100000 volte superiore rispetto a quella di un orecchio normo-udente.
Torniamo a parlare dell’orecchio medio considerando che questo possiede due
piccolissimi muscoli. Il primo è il tensore del timpano il cui tendine si inserisce sul collo
del martello e un secondo muscolo detto stapedio il cui tendine ha un’inserzione
variabile poiché si può inserire sul capitello della staffa o a livello dell’articolazione
incudo-stapediale. A cosa servono questi muscoli? Il muscolo stapedio si contrae
nell’ambito di un arco rifelsso acustico-facciale le cui vie anatomiche sono state
identificate negli anni ’60. Mentre, per quanto riguarda le vie anatomiche di eventuali archi
riflessi in cui è coinvolto il tensore del timpano, si brancola ancora oggi nel buio.
Lo stapedio è innervato da un piccolo nervo, il nervo stapedio, a sua volta diramazione
del nervo facciale, quindi VII paio di nervi encefalici. L’arco riflesso acustico facciale va
come via afferente dalla coclea, giunge ai nuclei cocleari, si interseca a livello del
complesso olivare superiore e del corpo trapezoide e si trasferisce ai nuclei del facciale
per determinare la contrazione del muscolo stapedio.
La contrazione del muscolo stapedio avviene solo e soltanto quando l’energia sonora
supera i 60-70 dB, ma ciò in un soggetto normo-udente. Presupponendo che i giovani
normo-udenti abbiamo una soglia uditiva di 10 dB per tutte le frequenze, i 60-70 dB cui ci
riferivamo, significa non in assoluto, ma 60-70 dB al di sopra della soglia uditiva. Quindi
in un soggetto giovane normo-udente per avere l’arco riflesso acustico-facciale l’attivazione
del muscolo stapedio dobbiamo avere un suono di 70-80 dB in assoluto, altrimenti non si
contrae.
Il muscolo tensore del timpano, invece, è innervato da un piccolo nervo che deriva dalla
branca mandibolare del trigemino, V paio di nervi encefalici. Non si sa, però, qual è l’arco
riflesso acustico-trigeminal. Si ritiene che le stazioni intermedie possano essere mediate
dalla sostanza reticolare o dalla substantia nigra, motivo per cui è ancora oggi difficile
identificare le vie anatomiche.
Al netto di ciò si è notato che il muscolo tensore del timpano sembra contrarsi solo per
energie sonore molto elevate, circa 120-130 dB di energie, livelli enormi. Inoltre il tensore
del timpano si contrae anche per riflessi trigemino-trigeminali, quindi per esempio se
soffiano nell’occhio di una persona e attiviamo il riflesso corneale il tensore del timpano si
può contrarre, oppure se pizzichiamo la guancia di una persona altrettanto il tensore del
timpano si può contrarre. Quindi quando parliamo di 120-130 dB vuol dire che probabilmente
l’attivazione non è necessariamente acustico-trigeminale, ma può essere anche trigemino-
trigeminale perché un’energia sonora di tale entità determina lo spostamento di una grande
massa d’aria che investe la persona e ciò stimola i recettori cutanei del viso, quelli
trigeminali, e si può avere l’attivazione del tensore del timpano. Però la situazione non è
ancora completamente chiara motivo per cui questo muscolo non viene studiato, non ci
sono applicazioni diagnostiche o mediche mentre, come vedremo, ciò ci sarà per lo
stapedio.
Altro componente dell’orecchio medio è la tuba uditiva o tuba di Eustachio.
La tuba è un canale virtuale che si apre molte volte durante la giornata e anche durante la
notte. La tuba si apre quando mastichiamo, quando deglutiamo e per eventi forzati o
accidentali come una manovra di Valsalva (soffiare a narici chiuse come quando facciamo
una compressione andando sott’acqua), quando starnutiamo, soprattutto quando è
contenuto.
La tuba è formata da due parti, un terzo che è quello più vicino all’orecchio medio è
rivestito da epitelio cubico, come tutto l’orecchio medio, e i due terzi più vicini al
rinofaringe rivestiti da epitelio cilindrico ciliato come tutto l’albero respiratorio, che viene
mobilitato da due piccoli muscoli ovvero i muscoli pterigoideo interno ed esterno (muscoli
peristafilini).
La tuba è importante perché ci permette di fornire aria all’orecchio medio consentendo di
equilibrare la pressione sui due lati della membrana del timpano, quindi tra orecchio
esterno e medio. Se non ci fosse la tuba uditiva e nell’orecchio medio non ci fosse aria
avremmo il collasso delle strutture timpano-ossiculari per la pressione atmosferica
presente all’esterno.
Altra funzione è di drenaggio perché l’epitelio vibratile batte verso il rinofaringe quindi le
secrezioni eventuali viaggiano verso il rinofaringe. Se avessimo muco nel naso e facessimo
una manovra di Valsalva forzeremmo la risalita di muco verso la tuba e lo porteremmo verso
l’orecchio medio. Motivo per cui si sconsiglia di effettuare tale manovra dopo un viaggio in
aereo nel caso in cui si fosse raffreddati poiché si complicherebbe la situazione. In questi
casi si consiglia di masticare molto.
La tuba inoltre, ha anche il surfactante, diverso da quello polmonare, perché ha un peso
molecolare più basso, e quindi ha un’azione antiadesiva. In più l’epitelio ha numerose
cellule caliciformi mucipare interposte che producono muco e ciò aiuta il veicolare di
piccole particelle che possono essersi introdotte attraverso la respirazione dal naso verso
la tuba.
In più c’è un’azione immunologica perché sulla superficie della tuba sono presente diverse
IgA. E’ quindi l’organo che predispone ad un processo di infiammazione dell’orecchio
medio sia per un problema di ostruzione che per un problema di meccanica non più perfetta.
ORECCHIO INTERNO
L’orecchio interno è formato da grossomodo da coclea e nervo cocleare, che formano il
sistema neurosensoriale.
Entriamo più nel dettaglio nella descrizione dell’orecchio interno.
L’orecchio interno è formato dal labirinto osseo, un complesso sistema di cavità scavate
nello spessore della piramide dell’osso temporale, e dal labirinto membranoso, un insieme
di vescicole e condotti membranosi (delimitati da pareti connettivali e rivestiti internamente
da epitelio) contenuti nelle cavità del labirinto osseo e contenenti un liquido che viene detto
“endolinfa” . A separare il labirinto osseo da quello membranoso vi si interpone lo spazio
perilinfatico in cui troviamo la “perilinfa”, o liquidi labirintici.
Il labirinto osseo è formato da: una parte posteriore, detta anche vestibolare, che
comprende il vestibolo osseo, i canali semicircolari ossei e l’acquedotto del vestibolo;
una parte anteriore, detta anche acustica, formata dalla coclea ossea e dall’acquedotto
della chioccola.
Il labirinto membranoso è formato da: una parte posteriore, che comprende il vestibolo
membranoso (a livello del vestibolo osseo), i canali semicircolari membranosi (a livello
dei canali semicircolari ossei), e il condotto endolinfatico (a livello dell’acquedotto del
vestibolo), responsabile della percezione propriocettiva statocinetica (equilibrio); una parte
anteriore, formata dal condotto cocleare (a livello della coclea ossea), che presiede alla
ricezione e alla trasmissione degli stimoli acustici.
Focalizziamoci, per prima cosa sulla parte posteriore dell’orecchio interno, quindi sulla
parte vestibolare. Importante è il ruolo dei canali semicircolari membranosi, tre canali,
che si trovano all’interno dei canali semicircolari ossei, distinti in canale semicircolare
verticale, orizzontale o laterale, e posteriore. I canali semicircolari membranosi
convogliano in due piccoli organelli che si trovano nel vestibolo osseo e che sono l’utricolo
e il sacculo, costituenti il vestibolo membranoso. I canali semicircolari membranosi
servono a regolare le accelerazioni angolari, cioè gli spostamenti del nostro corpo in senso
angolare, come i movimenti a destra e sinistra, invece l’utricolo e il sacculo servono per le
accelerazioni di tipo lineare come il camminamento.
Focalizziamoci, adesso, sulla parte anteriore dell’orecchio interno, quindi su coclea ossea
e condotto cocleare.
La coclea ossea è un canale osseo a forma di spirale avvolto attorno a un nucleo osseo
di forma conica, il cosiddetto modiolo, che compiendo due giri e tre quarti termina a fondo
cieco. Importante è considerare che il canale spirale è percorso dalla lamina spirale ossea
che si inserisce nella parete assiale e sale con decorso a spirale fino all’apice del modiolo.
Ciò è importante perché la lamina spirale ossea suddivide, seppur parzialmente, la coclea
ossea in due scale ovvero la scala vestibolare e la scala timpanica comunicanti tra loro
a livello di un piccolo foro l’elicotrema che precede immediatamente il fondo cieco terminale
della coclea ossea.
A livello della scala vestibolare troviamo la finestra ovale in cui si inserisce la platìna della
staffa, mentre a livello della scala timpanica abbiamo la finestra rotonda coperta dalla sua
membranella.
La separazione tra le due scale viene completata dalla membrana basilare che fa parte del
condotto cocleare. Il condotto cocleare, che costituisce la parte anteriore del labirinto
membranoso, è un canale contenuto per la massima parte nella scala vestibolare da cui è
separato grazie alla membrana di Reissner. A livello del condotto cocleare è presente
l’Organo del Corti, che poggia sulla membrana basilare.
Quindi quando il suono mette in vibrazione il sistema timpano-ossiculare la platìna della
staffa comprime i liquidi labirintici della scala vestibolare prima e, grazie all’elicotrema, della
scala vestibolare poi, fino alla membrana della finestra rotonda dove avviene la
decompressione. Questo movimento dei liquidi serve a mettere in sollecitazione le
strutture del condotto cocleare ovvero la membrana di Reissner e la membrana basilare, su
cui poggia l’organo del Corti, per avere la sollecitazione delle cellule acustiche o ciliate.
Le cellule ciliate sono divise in due tipi: le cellule ciliate interne ed esterne.
Le cellule ciliate interne, in numero di 3000-3500, sono un po’ più globose rispetto alle
ciliate esterne, e formano un’unica fila di cellule lontane dalla periferia della coclea.
Le cellule acustiche esterne, invece, in numero di 8000-9000, sono più cilindriche rispetto
a quelle interne e sono disposte in più file più lateralmente rispetto alle prime.
Le cellule ciliate esterne possiedono un numero maggiore di ciglia, sono ricche di
mitocondri, hanno un RE e apparato del Golgi sviluppati e anche tanti ribosomi e ciò a
differenza delle cellule ciliate interne che possiedono un numero minore di ciglia, hanno
meno mitocondri, RE e apparato del Golgi meno sviluppati.
Inoltre consideriamo che le cellule ciliate esterne è provvista lungo tutta la sua periferia,
quindi al di sotto della membrana plasmatica, di numerosi compartimenti di strutture
contrattili formate da actina, miosina e troponina a differenza della cellula cigliata interna
che non ha queste strutture.
Vi è una differenza anche per quanto riguarda i collegamenti nervosi, ma la vedremo
successivamente.
Date queste numerose differenze tra cellule ciliate interne ed esterne ci si è chiesti per tanto
tempo come mai ci fossero due tipi di cellule ciliate e il motivo della loro differenza.
Gli studi biologici hanno portato a capire che la cellula ciliata esterna, in realtà, non è il
vero recettore acustico, ma una cellula che modula il segnale in arrivo, invece la cellula
ciliata interna è il vero recettore acustico. La cellula ciliata esterna modula il segnale
attraverso la possibilità di allungarsi e contrarsi grazie alle molecole contrattili di cui
dispone, così da sollecitare meglio le ciglia sotto la membrana tectoria determinando gli
spikes nervosi che passano lungo il nervo cocleare fino ai centri nervosi tronco-
encefalici. E’ una via ascendente (o afferente) che dalla periferia si porta verso il centro,
dove a livello del complesso olivare superiore avremo la partenza di una fibra
discendente (efferente) che si andrà a distribuire sia sulle cellule ciliate esterne che sulle
cellule ciliate interne.
Semplificando le fibre nervose che partono dalle cellule ciliate esterne sono in rapporto di
1:1, cioè ogni cellula ciliata esterna è collegata da una fibra nervosa che parte dalla periferia
e si porta nei centri nervosi superiori, mentre le fibre discendenti (o efferenti) che dai centri
nervosi giungono alle cellule ciliate esterne si distribuiscono in maniera multipla, cioè una
singola fibra nervosa si distribuisce a più cellule ciliate esterne. In questo modo la cellula
ciliata esterna ha un controllo maggiore in senso ascendente, mentre ottiene un controllo
minore in senso discendente. N.B. La cellula ciliata interna, invece, ha un controllo
ascendente minore perché più cellule ciliate sono collegate a una singola fibra nervosa,
mentre ha un maggiore controllo discendente perché ogni fibra nervosa si distribuisce a una
singola cellula ciliata interna.
Questo genere di controllo permette alle cellule ciliate esterne di modulare il segnale in
arrivo, agendo un po’ da filtro dell’energia sonora sulla nostra coclea e quindi indirettamente
sulle cellule ciliate interne.
Quindi nel 1972 uno studioso inglese definì che la coclea funziona con due filtri, un primo
filtro dovuto al movimento della membrana basilare e un secondo filtro dovuto proprio alle
cellule ciliate esterne.
Questi filtri servono a filtrare non tanto la quantità di energia, ma le frequenze.
Infatti consideriamo che la nostra coclea ha una distribuzione topografica in quanto il giro
basale della coclea corrisponde a stimoli di frequenza acuta, il giro intermedio a stimoli di
frequenza media e la porzione apicale a stimoli di frequenza grave.
Le frequenza acute sono più vicine alla platìna della staffa e alla finestra rotonda e quindi
possono teoricamente essere interessate un po’ più precocemente da danni che vengano
direttamente attraverso i movimenti della platìna della staffa, quindi sue compressioni un
po’ più energiche. Per esempio se abbiamo un’energia molto intensa presente in vicinanza
di una persona, quello che definiamo “trauma acustico acuto”, il primo danno si va a creare
proprio sulle frequenze acute.
Quindi, le frequenze gravi sono meno interessate da un eventuale trauma, però in questa
sede la membrana basale è più spessa e larga, quindi più rigida, e se ci sono disturbi
elettrolitici dei liquidi labirintici oppure dei disturbi legati all’età avanzata con una membrana
basilare che diventa sempre più rigida, queste persone, con queste problematiche, possono
avere perdite maggiori sulle frequenze gravi.
• IPOACUSIE
Si intende con l’espressione di ipoacusia o di sordità un difetto nella percezione sonora,
per cui si identifica con questa espressione un gruppo di patologie che vengono definite
omnicomprensivamente come dei disturbi della funzionalità auditiva che possono essere
classificati facendo riferimento a due differenti criteri classificativi, il primo che riguarda
l’entità della riduzione della percezione sonora e l’altro la sede di insorgenza del disturbo:
1. Entità delle ipoacusie:
a) Lieve: compresa tra 20-40 dB
b) Moderata: compresa tra 41-55 dB
c) Moderata-severa: compresa tra 56-70 dB
d) Grave: compresa tra 71-90 dB
e) Profonda: superiore a 90 dB
2. Sede del danno:
a) Trasmissive
b) Neurosensoriali
c) Miste
La classificazione delle ipoacusie sulla base dell’entità è utile dal momento che permette
praticamente di comprendere fino a quanto sia lesa la funzione auditiva, soprattutto in
considerazione di quali possano essere i suoni che il soggetto riesca a percepire o non
riesca a percepire. Ad esempio, un soggetto con una ipoacusia di entità moderata presenta
delle difficoltà nel dialogo a due voci, considerando che una normale conversazione tra due
normoudenti si attesti all’incirca su una intensità sonora di 40-50 dB, differentemente dai
soggetti che invece presentino una sordità cosiddetta lieve, che non hanno difficoltà a
sostenere una conversazione con un altro individuo. Differentemente, un soggetto con una
ipoacusia moderata-severa o ancor di più con una sordità grave presenta una impossibilità
parziale nel primo caso o totale, nel secondo ma anche alle volte nel primo caso, di svolgere
una conversazione a due voci. Una sordità grave, differentemente, implica un quasi totale
isolamento dal mondo dei suoni: soggetti con una ipoacusia profonda possono percepire
solo suoni molto intensi, come sono ad esempio i suoni generati da un martello pneumatico,
da un aereo o da un colpo di pistola.
L’udito è un senso specifico, che viene assicurato da un complesso sistema di trasmissione
e di neurotrasmissione; la trasmissione del suono è assicurata dall’orecchio esterno e
dall’orecchio medio, essendo il primo costituito dal padiglione auricolare e dal meato uditivo
esterno che hanno il compito di convogliare le onde sonore e di veicolarle a livello della
membrana timpanica, che presenta una parte anteriore, precisamente i due terzi anteriori,
che la mettono in vibrazione. La membrana del timpano è una struttura che media la
separazione anatomica tra l’orecchio esterno
che le si pone lateralmente, e la cavità
dell’orecchio medio, che le si pone medialmente
e al cui livello è presente il cosiddetto sistema
timpano-ossiculare, costituito, in successione
lateromediale, dal martello, dall’incudine e
dalla staffa. Il martello presenta una porzione,
chiamata manico, che entra in rapporto con la
faccia mediale della membrana del timpano e
per il tramite di questo rapporto anatomico, la
vibrazione della membrana timpanica viene
trasmessa al martello e da questi alla staffa per
il tramite dell’incudine. La staffa è un ossicino
dell’orecchio medio che presenta una porzione
definita base, che ha una forma ovale che ne consente l’inserimento all’interno della finestra
ovale, per il tramite della quale trasmette le vibrazioni alla coclea. L’intero sistema costituito
dall’orecchio esterno e dall’orecchio medio costituisce il cosiddetto sistema di
trasmissione, cioè quello deputato al trasferimento dell’onda sonora a livello della coclea,
al cui livello sono posti i recettori dell’udito che convertono lo stimolo sonoro in un segnale
nervoso, dapprima chimico e mediato dai neurotrasmettitori sinaptici e successivamente
nervoso. Il segnale chimico mediato dalla sinapsi viene convertito in impulso nervoso
allorquando i neurotrasmettitori, legando specifici recettori a livello delle fibre della
componente acustica del nervo vestibolo-cocleare, determinino delle modificazioni di canali
ionici di membrana che generano l’impulso poi veicolato a livello dei centri di ritrasmissione
situati a livello del tronco encefalico. La coclea è un organo presente nell’orecchio interno,
costituito da un rivestimento esterno definito come coclea ossea e da una porzione interna
definita coclea membranosa, che è in continuità posteriormente con la faccia anteriore del
vestibolo, con cui entra in rapporto la base della staffa: a seguito della vibrazione impressa
dalla staffa al vestibolo, il contenuto liquido in esso presente e in continuità con il contenuto
liquido della scala timpanica della coclea membranosa vibra e vibrando determina
stimolazione dei recettori auditivi della coclea stessa. Quindi, se le sordità trasmissive sono
associate a danni a carico dell’orecchio esterno o dell’orecchio medio, le sordità
neurosensoriali sono ascrivibili a danneggiamenti del sistema di neurotrasmissione, che è
costituito dalla coclea e dal nervo vestibolococleare, pur se nella più parte dei casi il
danno sia localizzato a livello della coclea piuttosto che del nervo statoacustico.
• IPOACUSIE DI TRASMISSIONE
Si possono, quindi, definire le sordità di trasmissione come dei difetti della percezione
sonora conseguenti ad un danno a carico dell’orecchio esterno o dell’orecchio medio, che
costituiscono insieme il sistema di trasmissione.
1) CAUSE
Le cause che stanno alla base dell’insorgenza di una sordità di trasmissione sono
ascrivibili alla presenza di processi infiammatori, oppure alla presenza di traumi, o,
ancora a tumori. I traumi possono essere frequentemente causa di una sordità di
trasmissione, allorquando una caduta o una colluttazione (specialmente schiaffi a livello
dell’orecchio) possano comportare un notevole aumento della pressione nel meato acustico
esterno, tal che ne possa addirittura conseguire alle volte una vera e propria lacerazione
della membrana del timpano. In altri casi, sicuramente più rari, l’ipoacusia di trasmissione
può conseguire a cause neoplastiche, come possono essere alcuni tumori, che comunque
sono abbastanza poco frequenti, come i tumori dell’orecchio esterno, che nella più parte
dei casi sono tumori cutanei, essendo il meato auditivo esterno e il padiglione auricolare
rivestiti da cute: i tumori cutanei che si possono riscontrare a questo livello possono essere
un carcinoma basocellulare o un carcinoma squamocellulare. Tumori dell’orecchio
medio, ancor più rari, sono i tumori vascolari dei glomi, vale a dire i tumori del glomo
timpano-giugulare o del glomo timpanico. In casi sempre poco frequenti, la neoplasia
dell’orecchio medio che può essere in causa nell’ipoacusia può essere un adenoma o un
adenocarcinoma. Al netto di questa che è una panoramica generale di tutte le possibili
cause che sono alla base di una ipoacusia, la causa più frequente di sordità di trasmissione
è costituita dalle patologie infiammatorie.
2) ANAMNESI
Per poter impostare un corretto percorso diagnostico al fine di giungere alla diagnosi
eziologica della ipoacusia è necessario innanzitutto eseguire una corretta anamnesi
generale e specialistica, essendo la prima incentrata particolarmente sull’eventuale
presenza di episodi infettivi locali o sistemici precedentemente intervenuti, sulla
eventuale presenza di allergie o di occlusioni dentarie. Non bisogna dimenticare che nei
soggetti giovani in cui si abbia una ipertrofia di III grado dell’adenoide, l’aumento di volume
tonsillare tonsillare può essere responsabile della insorgenza di una occlusione della tuba
di Eustachio alla quale consegue un deterioramento della ventilazione dell’orecchio medio,
che può predisporre ad un’otite media sieromucosa, che si manifesta con ipoacusia di
trasmissione associata a senso di ovattamento e autofonia in assenza di otalgia.
All’anamnesi generale segue l’anamnesi specialistica, che consiste nell’esecuzione di
domande precise ed opportune al fine di chiarire e di orientarsi sulla possibile diagnosi
eziologica dell’ipoacusia. In questo caso, è necessario chiedere specificatamente se il
paziente avverta otalgia, cioè un dolore localizzato o riferito all’orecchio. Infatti, accade
frequentemente che l’otalgia sia semplicemente una otalgia riflessa o riferita, ad esempio
a seguito di una patologia dentaria, spesso dell’ottavo, che determina delle algie riflesse, o
di una patologia dell’articolazione temporomandibolare. Non bisogna dimenticare che
nei soggetti con una faringotonsillite complicata con ascesso peritonsillare può verificarsi
una infiammazione del muscolo pterigoideo interno che determina anche un dolore riferito
all’orecchio (in associazione al trisma e alla medializzazione della tonsilla, a febbre elevata).
Dell’otalgia occorre chiarire alcuni aspetti come la durata e le caratteristiche, vale a dire
(1) la modalità di insorgenza, (2) la protrazione temporale se costante o incostante e (3)
l’intensità che già sono informazioni molto importanti da considerare. Durante l’anamnesi il
paziente può anche riferire una perdita liquida dall’orecchio esterno, che viene
specificatamente definita otorrea. A fronte di un’otorrea si aprono alcune ipotesi
patogenetiche che innanzitutto pertengono alla sede di derivazione della perdita liquida, che
può essere l’orecchio esterno o più frequentemente l’orecchio medio, dal quale deriva la
perdita di liquido per il tramite di piccole o grandi perforazioni della membrana timpanica.
Dall’otorrea si possono cogliere delle informazioni molto importanti circa la gravità del
processo patologico e infiammatorio alla base, considerandone le caratteristiche
composizionali. Sulla base della composizione, l’otorrea si definisce (1) sierosa quando il
liquido è particolarmente fluido, chiaro e di consistenza poco viscosa e, se associato a
striature ematiche si definisce sieroematico ed è espressione caratteristica dell’otite
esterna virale (o bolloso-emorrgica) (2) mucosa, quando il liquido assume una consistenza
più densa e più filante e assume un colorito giallognolo, (3) purulenta quando il liquido sia
particolarmente denso e di colorito giallo-verdastro, soprattutto nelle otiti esterne batteriche
da Pseudomonas Aeruginosa, che conferisce colore verde all’essudazione o (4) purulento-
ematica allorquando si riscontri un essudato purulento associato a presenza di striature
ematiche. Solitamente, un’otorrea di consistenza sierosa depone a favore di un processo
infiammatorio più lieve, differentemente da una otorrea purulenta che depone a favore di un
processo infiammatorio violento, presumibilmente ad eziologia batterica e in cui, peraltro,
i batteri hanno una elevata virulenza e patogenicità, tale da determinare una perforazione
della membrana timpanica e una necrosi colliquativa dei tessuti circostanti che, se coinvolge
anche le ossa del sistema timpano-ossiculare oppure se coinvolge le strutture vascolari,
diviene una otorrea purulento-ematica.
D’altra parte, a fronte di una problematica dell’orecchio medio occorre approfondire la storia
clinica del paziente chiedendo se abbia avuto o abbia tuttora dei sintomi nasali, come ad
esempio una ostruzione nasale, rinorrea, starnutazione, prurito nasale o russamento
notturno dal momento che non infrequentemente sia l’otite media acuta purulenta che l’otite
media sieromucosa possono associarsi alla presenza di sintomi naso-respiratori a fronte di
una assenza di otorrea, giacché l’essudazione è compartimentalizzata nella cassa del
timpano. La rinorrea va approfondita nei termini della qualità della perdita nasale, dal
momento che anche questa può essere sierosa, mucosa o purulenta e solitamente quando
sia sierosa ci si trova di fronte ad un banale episodio di raffreddamento o di allergia se
coesistono anche prurito e starnutazione che sono dei sintomi caratteristici della rinite
allergica. Differentemente, nel qual caso si faccia riferimento ad una rinorrea purulenta,
frequentemente questa pertiene a problematiche di tipo rino-sinusitico (la rinorrea
mucopurulenta perdurante, la tosse notturna o diurna, il dolore in sedi caratteristiche, l’alitosi
e la presenza di edema periorbitale sono dei sintomi di sospetto per una sinusite). Inoltre, è
fondamentale chiarire l’eventuale presenza di alcuni sintomi come possono essere il
russamento o le apnee notturne, oppure tutta una serie di sintomi correlati alle apnee
notturne, giacché alle volte una otite media sieromucosa può conseguire alla presenza di
una ipertrofia adenoidea di III grado che oltre a provocare problematiche notturne di
ventilazione è anche associata a problematiche di pertinenza otologica, come una otite
media per scarsa ventilazione dell’orecchio medio causata da una ostruzione della tuba di
Eustachio. Infatti, tanto è vero questo che nell’ipertrofia adenoidea di III grado sussiste
indicazione all’adenoidectomia se questa risulti complicata con una otite media, giacché
questa cronicizzando potrebbe determinare una ipoacusia permanente; alle volte, le otiti
medie sieromucose che conseguono ad ostruzione della tuba di Eustachio sono di difficile
inquadramento soprattutto nei bambini, dal momento che non sussiste otalgia e il perdurare
dell’ostruzione potendo deprivare la corteccia del feedback auditivo può incidere sullo
sviluppo del linguaggio. In altri casi, il russamento può esprimere un disturbo della
compliance del palato molle, ascrivibile ad una non-corretta ventilazione e ad una non-
corretta separazione tra orofaringe e rinofaringe. È necessario anche chiarire, nel caso sia
presente una patologia infiammatoria dell’orecchio medio se sussistano sordità,
cefalee e/o vertigini, pur se queste ultime siano difficili da aversi ma quando si abbiano
possono essere espressione di un processo infiammatorio che ha sconfinato l’orecchio
medio e ha coinvolto le strutture vestibolari dell’orecchio interno, per cui meritano un
approfondimento diagnostico ulteriore. Per quanto riguarda la sordità occorre chiarire la
durata e l’andamento temporale, vale a dire rispettivamente da quanto tempo sia insorta
e se ci siano delle fluttuazioni. Soprattutto, occorre chiarire se l’ipoacusia si associ a vertigini
o ad acufeni, essendo questi ultimi dei rumori ricorali, simili a dei ronzii che spesso
disturbano il sonno del paziente. Solitamente, quando siano espressione di una forma acuta,
gli acufeni tendono a scomparire con la guarigione della forma acuta, contrariamente alle
forme croniche che tendono a perdurare a lungo e spesso a interferire pesantemente con
la qualità della vita del soggetto. La cefalea è, differentemente dalle vertigini, un sintomo
molto più frequentemente riferito dai pazienti e soprattutto insorge più spesso in soggetti
giovani che non in soggetti adulti.
3) DIAGNOSTICA STRUMENTALE PER LE PATOLOGIE INFIAMMATORIE DELL’ORECCHIO
MEDIO
La diagnostica strumentale nell’ambito della valutazione di un processo infiammatorio
dell’orecchio medio si compone di una serie di valutazioni, innanzitutto una valutazione
della soglia uditiva, intendendosi con questa espressione la minima quantità di energia
che deve possedere l’onda sonora al fine di produrre la minima sensazione acustica.
Successivamente, si eseguono delle particolari indagini sulla base delle quali si valuta
dinamicamente il sistema timpano-ossiculare e la funzione tubarica. Nell’eventualità che
si sospetti una patologia nasale concomitante o causale rispetto alla patologia infiammatoria
dell’orecchio medio si devono effettuare esami come la fibroscopia nasale e quella
faringea, oltre che la rinomanometria e la citologia del liquido nasale. Mediante la
rinomanometria si valuta la funzionalità del naso, mentre mediante la citologia nasale è
possibile eventualmente considerare la presenza di cellule atipiche che non
necessariamente debbono essere sinonimo di patologia infausta o tumorale e tanto è vero
questo che nell’ambito delle rinopatie se ne riscontra una che prende il nome di NARES,
acronimo per rinopatia secretiva eosinofila non-allergica, in cui si documenta la
presenza di una eosinofilia pur se questo non voglia affatto e sempre significare che la
patologia sia allergica, giacché in questo caso lo Skin-Prick test e il RAST, che pure si
possono eseguire nelle patologie in questione specialmente se sussistano sintomi come
prurito o starnutazione, risultano negativi.
Inoltre, si può eseguire uno studio radiologico dell’orecchio mediante una TC senza mdc;
la TC studia l’osso e l’eventuale possibilità di utilizzo del mezzo di contrasto va riservata
esclusivamente alla sospetta presenza di un tumore. Queste sono certamente indagini utili
da eseguirsi ma non sufficienti da sé dal momento che è necessario anche considerare
l’eventuale presenza di una ipoacusia conseguente alla presenza della patologia
infiammatoria dell’orecchio medio, per cui questo apre il capitolo della diagnostica
audiologica.
Dunque, la prova di Weber può dare tre differenti risultati, che sono espressione di tre
differenti condizioni, a seconda che la percezione del suono sia bilaterale, monolateralizzata
da uno o dall’altro lato, rispetto all’orecchio patologico o maggiormente leso:
1. Suono centralizzato: la prova di Weber che dia come esito un suono centralizzato
depone a favore di una condizione uguale a carico dei due orecchi, il che può
significare tanto che i due organi siano sani quanto che entrambi siano affetti da un
disturbo che dal punto di vista qualitativo e quantitativo si esprime nella stessa
maniera. Quindi, in questo caso il test di Weber depone a favore di una condizione
assolutamente uguale nei due orecchi, che può esprimere una sordità bilaterale,
come lo è classicamente l’ipoacusia da rumore.
2. Suono lateralizzato: quando il suono sia lateralizzato si aprono diverse ipotesi
diagnostiche soprattutto in considerazione del fatto che il suono venga lateralizzato
omolateralmente all’orecchio malato (o più malato) o controlateralmente rispetto
all’orecchio malato (o più malato. Difatti, occorre entrare nell’ottica per cui qualsiasi
condizione patologica, anche quando coinvolga bilateralmente le due orecchie, può
determinare una lateralizzazione del suono se uno dei due orecchi risulta
maggiormente colpito:
a) Lateralizzazione controlaterale (rispetto all’orecchio [maggiormente]
colpito): in questo caso la condizione è espressione di un disturbo
neurosensoriale. Infatti, è a noi ben noto che la conduzione delle onde
sonore avviene per il tramite dell’orecchio esterno e dell’orecchio medio. In
questo caso, la conduzione del suono avviene attraverso le ossa e i tessuti
della testa, per cui in questo modo l’onda giunge a livello della piramide del
temporale e colpisce direttamente la coclea, per cui se una delle due risulta
meno funzionante allora questo indica che vi sia un problema a livello del
sistema cocleare o del nervo acustico controlateralmente rispetto a quello
dell’orecchio patologico, poiché l’altra coclea funziona o funziona meglio.
b) Lateralizzazione omolaterale (rispetto all’orecchio [maggiormente] colpito):
si tratta di una condizione, questa che depone a favore di una sordità di
conduzione. Come sappiamo, il sistema di conduzione risulta costituito dal
padiglione auricolare, dal condotto uditivo esterno e dall’orecchio medio. In
questo caso, i disturbi della conduzione, cioè l’ipoacusia trasmissiva,
determinano una lateralizzazione omolaterale rispetto all’orecchio patologico
nella prova di Weber e per spiegare questo è necessario considerare quello
che prende il nome di fenomeno del mascheramento ambientale,
intendendosi con questa espressione l’insieme delle vibrazioni acustiche
accessorie rispetto al suono che provengono dall’aria. Chiaramente, se il
soggetto presenta un deficit del sistema di conduzione, venendo meno l’effetto
del mascheramento ambientale presenterà una maggiore percezione del
suono emesso con il diapason; differentemente, nell’orecchio sano (o più
sano) l’effetto di mascheramento è (maggiormente o totalmente) preservato,
per cui venendo condotte una serie di vibrazioni sonore dall’ambiente esterno
accessorie rispetto al suono emesso dal diapason, il suono stesso verrà
percepito meno intensamente: questa è la spiegazione che sta alla base della
lateralizzazione omolaterale del suono emesso dal diapason nella prova di
Weber quando si riscontri una ipoacusia trasmissiva.
Possiamo, quindi, dire che la prova di Weber determini lateralizzazione omolaterale del
suono nel caso della presenza di una ipoacusia di trasmissione monolaterale, mentre
determina una lateralizzazione controlaterale nel caso della ipoacusia neurosensoriale.
La seconda prova con il diapason prende il nome di test di Rinne, che configura un
confronto tra la percezione sonora per vibrazioni condotte dalla via aerea e dalla via ossea.
La prova di Rinne si esegue in due momenti; nel primo dei due si fanno vibrare i due rebbi
del diapason e si pone questo a 10 cm dal padiglione auricolare, avendo cura di chiedere
al paziente per quanto tempo avverte il suono, al fine di poterlo misurare: generalmente in
condizioni normali questo tempo di ascolto si aggira sui 30-40 s circa. Una volta eseguita
questa prova, si pone nuovamente il diapason in vibrazione e si colloca il manico sul
processo mastoideo, sempre avendo cura di chiedere al paziente per quanto tempo abbia
ascoltato il suono: generalmente in condizioni normali il tempo di ascolto si aggira intorno a
15 s, per cui il rapporto tra i due tempi di ascolto normalmente è di circa 2:1; quando il test
di Rinne è tale, con un rapporto 2:1 (30/15), si definisce positivo, mentre si definisce
negativo, intuitivamente, quando il rapporto è ridotto ad 1:1, ma anche quando il rapporto
è 2:1 con i due tempi di ascolto abbreviati. Nel primo caso, la riduzione del rapporto indica
che sussiste una riduzione del tempo di ascolto del suono propagato per aria, il che significa
che sussiste un problema di trasmissione: in questo caso si fa diagnosi qualitativa di
ipoacusia di trasmissione. Differentemente, quando entrambi i tempi di ascolto siano
accorciati il problema non sussiste a carico della via di conduzione ma a carico del sistema
neurosensoriale, per cui si fa diagnosi qualitativa di ipoacusia neurosensoriale. Le prove
con il diapason hanno una importanza estrema nella diagnostica audiologica delle ipoacusie
dal momento che in questi casi è possibile eseguire una diagnosi qualitativa di una o
dell’altra ipoacusia e questo ha una rilevanza pratica molto importante dal momento che
permette di discriminare delle forme di sordità di trasmissione, che possono anche non
necessitare di una terapia immediata, differentemente da alcune forme di sordità
neurosensoriale che nelle forme cosiddette acute necessitano di un trattamento
terapeutico immediato, che viene definito efficace se avviene entro settantadue ore.
2) ESAME AUDIOMETRICO TONALE
L’esame audiometrico tonale viene eseguito al fine di valutare l’entità dell’ipoacusia e viene
eseguito all’interno di una cabina priva di rumore, somministrando stimoli uditivi al paziente
tramite delle cuffie apposite. In questo test si ricerca la soglia uditiva per ogni frequenza,
particolarmente per frequenze di 125 Hz, 250 Hz, 500 Hz, 1000 Hz, 2000 Hz, 3000 Hz, 4000
Hz e 8000 Hz. In questo caso si costruisce un grafico in cui in ascisse vi sono i valori di
frequenza e in ordinata i valori di intensità sonora e mediante questo test, oltre che ricercare
la soglia auditiva si ricercano anche la soglia del fastidio e la soglia del dolore, essendo
rispettivamente pari a 80-90 dB e 110-120 dB per un soggetto normo-udente con soglia
uditiva di 20 dB.
Prima di eseguire il test, si chiede al paziente quale dei due ritenga essere l’orecchio normo-
udente o meglio funzionante e da quello si inizia il test.
Inizialmente, si parte dalla somministrazione di suoni di frequenza di 1000 Hz e di intensità
tale che il paziente possa sentire comodamente il suono; quindi si somministrano segnali
sonori di 40 dB, come prima somministrazione. Quindi, si procede a ridurre l’intensità di 10
dB per volta, fino a raggiungere delle intensità alle quali il paziente riferisce di non avvertire
nulla: si è raggiunta la soglia uditiva e abbassando ulteriormente l’intensità del suono,
questo non viene percepito. A questo punto, si aumenta nuovamente l’intensità di 5 dB per
volta, chiedendo al paziente quando riesca nuovamente ad avvertire il suono: a questo
punto si è raggiunta la soglia uditiva e si può indicare questa sull’audiogramma (cerchio
rosso). Si ripete la medesima procedura per tutte le altre frequenze e se la soglia uditiva è
uguale a tutte le frequenze saggiate, evidentemente l’orecchio del paziente è normo-
funzionante.
Si procede quindi ad esaminare l’orecchio controlaterale, quello che il paziente accusa
essere patologico. Chiaramente, se il soggetto ritiene che quello sia l’orecchio patologico,
non si parte dalla somministrazione di uno stimolo di 40 dB, piuttosto si procede con la
somministrazione di uno stimolo di circa 60-70 dB alla frequenza di 1000 Hz; per il resto si
procede come in precedenza, segnando sull’audiogramma i valori della soglia uditiva
registrati frequenza per frequenza (chiaramente verranno indicati con un segno differente
rispetto a quello utilizzato per l’altro orecchio; in questo caso, la croce blu).
A questo punto, per comprendere, eventualmente, di fronte a che tipo di sordità ci si trovi
dal punto di vista qualitativo, si ricorre al Weber audiometrico, che non si vale più
dell’utilizzo delle cuffie ma di un vibratore osseo collegato ad un audiometro mediante cui si
inviano dei segnali per le quattro frequenze fondamentali, cioè 500 Hz, 1000 Hz, 2000Hz e
4000 Hz. In questo caso, inizialmente si pone il vibratore osseo dapprima a livello della
fronte del paziente e si inviano i segnali tonali. Come per la prova di Weber con il diapason,
anche in questo caso la lateralizzazione del suono a livello dell’orecchio patologico depone
a favore di una sordità di trasmissione, dal momento che venendo meno l’effetto di
mascheramento ambientale, il suono, trasmesso per via ossea, viene meglio percepito. A
questo punto, si pone il vibratore in corrispondenza del processo mastoideo e quindi si
valuta la soglia acustica per la trasmissione ossea del suono: in questi casi la soglia uditiva
per la via ossea nell’orecchio patologico sarà normale dal momento che nelle sordità di
trasmissione la coclea è preservata, per cui la via di trasmissione ossea, che esplora
direttamente la funzionalità cocleare non risulta alterata, differentemente da quanto accada
per la via ossea nella sordità neurosensoriale. Quello che tuttavia non si può fare è ricercare
la soglia uditiva per la via ossea nell’orecchio sano, giacché se il paziente presenta una
sordità di trasmissione, ponendo sul mastoide controlaterale il vibratore, comunque il
soggetto avvertirà una lateralizzazione nell’orecchio patologico: in questo caso l’esame
audiometrico si definisce completato ma non completo, poiché non è possibile stabilire la
soglia uditiva per la via di trasmissione ossea nell’orecchio normale se presente una sordità
di trasmissione. In alcuni casi la curva che si può costruire per la soglia uditiva dell’orecchio
patologico può mostrare una maggiore perdita sulle frequenze gravi, per le quali quindi la
soglia uditiva è più elevata: questa in gergo audiologico viene definita come curva di
rigidità, dal momento che l’orecchio medio può essere libero, ma la catena timpano-
ossiculare è ipomobile, per via della presenza di una otosclerosi, che è la tipica malattia
in grado di determinare questa curva all’esame audiometrico tonale ed è una malattia
giovanile, non geriatrica.
Diversamente, nel qual caso in cui si abbia una maggiore perdita sulle frequenze acute,
per le quali sussiste una soglia uditiva più elevata, si descrive quella che prende il nome di
curva di massa, dal momento che in tal caso si riscontra la presenza di una lesione
occupante spazio nell’orecchio medio. La catena ossiculare è sempre ipomobile ma per
via della presenza di una massa che può essere solida oppure liquida, nel momento in cui
si riscontri la presenza di un versamento endotimpanico, come può essere una otite
media siero-mucosa, molto frequente in età pediatrica ed in età geriatrica.
Esistono, infine, delle condizioni in cui coesistono sia delle condizioni di rigidità aumentata
del sistema timpano-ossiculare sia delle masse occupanti spazio nell’orecchio medio
oppure situazioni con membrana del timpano ampiamente perforata e catena ossiculare
erosa: queste descrivono delle curve rettilinee con una soglia uditiva aumentata e prendono
il nome di curve di attrito.
• IPOACUSIE NEUROSENSORIALI
Le sordità neurosensoriali rappresentano un capitolo spesso misconosciuto e si definiscono
come delle riduzioni della percezione sonora conseguentemente ad un danno a carico della
coclea o, meno frequentemente, dell’VIII paio.
1) EZIOLOGIA
Le cause delle sordità neurosensoriali sono molto complesse da considerare e non sempre
sono ben conosciute, il che evidentemente è un aspetto che sicuramente complica
l’eventuale approccio diagnostico alla patologia, soprattutto nella misura in cui queste alle
volte affinché il trattamento sia efficace necessitano della identificazione della causa che ne
sia alla base. Le cause che stanno alla base di una eventuale sordità neurosensoriale
possono essere tra loro molto differenti e nell’elenco delle possibili eziologie di queste
ipoacusie rientrano anche le forme genetiche, che sono state meglio caratterizzate solo
negli ultimi anni e che non sempre determinano un’insorgenza in età pediatrica, pur se nella
più parte dei casi sia effettivamente così. Le forme genetiche possono avere esordio in età
pediatrica, ma alle volte le forme di ipoacusia neurosensoriale possono esordire in età
adolescenziale e possono eventualmente poi aggravarsi intorno al venticinquesimo anno
di vita; inoltre, possono esservi delle forme di presbiacusia precoce, che vengono
trasmesse geneticamente. Occorre considerare che, nell’ambito di questa situazione,
l’orecchio come tutti gli organi è soggetto ad un invecchiamento che risulta clinicamente
evidente intorno ai sessant’anni, circa, pur se non sempre questo esiti nella sensazione di
riduzione della funzione uditiva. Di certo, patologie concomitanti come delle patologie
intercorrenti come il diabete o la cronica esposizione al rumore e ai danni acustici sono delle
situazioni che giovano all’insorgenza più precoce della presbiacusia. Comunque, si ritiene
che il deterioramento delle funzioni auditive inizi molto più precocemente rispetto all’effettiva
età di insorgenza della sordità, in considerazione dell’espresso e perdurante
danneggiamento con perdita delle cellule acustiche che si verifica continuativamente
dall’inizio della vita extrauterina. Chiaramente, questo processo di perdita delle cellule
recettoriali è un processo estremamente parcellare, tal che raramente esiti in una
sintomatologia di sordità se non coesistono delle cause che determinino una accelerazione
di questa perdita. Chiaramente, l’entità e la celerità con cui il danno alla funzione cocleare
si accumuli è espressione anche dell’inquinamento sonoro, cioè della entità e della quantità
di stimoli sonori a cui il soggetto è esposto, come testimonia uno studio di comparazione del
deterioramento della funzionalità uditiva eseguito negli anni Ottanta da un medico italiano,
che ha dimostrato come sussista un maggiore deterioramento delle funzioni uditive nei
soggetti che abitino in città piuttosto che nei soggetti che abitino al di fuori dei centri urbani
o che abitino a latitudini in cui l’inquinamento sonoro è estremamente basso, come accade
per gli abitanti del deserto.
Altre volte, le cause di sordità neurosensoriali sono costituite da patologie infettive, che
possono dare luogo a delle ipoacusie neurosensoriali gravi e spesso irreversibili: questo
accade ad esempio per patologie infettive come il morbillo quando dia luogo a complicanze
gravi, per la mononucleosi infettiva, oppure per la parotite epidemica e per i virus
influenzali. Generalmente, queste sono da intendersi come delle complicanze di patologie
infettive che nella più parte dei casi hanno un decorso favorevole, per cui sono da
considerarsi come espressione di una disseminazione ematogena del virus nonché come
complicanze che intervengono più facilmente se il soggetto presenti una condizione di più
o meno grave compromissione del sistema immunitario. Solitamente si tratta di ipoacusie
neurosensoriali monolaterali, pur se le forme bilaterali possano anche osservarsi e
possono interessare anche i bambini all’età di quattro o cinque anni. L’eziologia infettiva
delle sordità neurosensoriali non è l’unica possibile, dal momento che è possibile che si
riscontri anche la presenza di forme batteriche, anche se queste sono molto difficili ad
aversi, anche perché è poco frequente che un batterio per il tramite della via ematogena
raggiunga direttamente l’orecchio interno; frequentemente le forme batteriche
rappresentano una complicanza di una otite media purulenta, che sia essa acuta o
cronica, in cui si sia formata una soluzione di continuo tra l’orecchio medio e l’orecchio
interno.
Le cause di una possibile ipoacusia neurosensoriale possono anche essere dei traumi,
specialmente delle patologie traumatiche dell’età pediatrica che possono comportare
l’insorgenza di una frattura della rocca petrosa del temporale, all’interno della quale
ricordiamo essere presenti gli organi dell’orecchio interno.
In altri casi, ancora, le cause di una possibile ipoacusia neurosensoriale possono essere
tossiche, legate essenzialmente all’immissione in circolo di sostanze tossiche durante la
vita intrauterina, per via dell’abuso di alcol, di droghe, o di farmaci, o ancora per via di
condizioni che causino una tossicosi endogena come il diabete; tutte queste sono condizioni
che comportano immissione nel circolo materno di sostanze potenzialmente tossiche, che
possono raggiungere il circolo fetale per il tramite della barriera ematoplacentare, che non
riesce opportunamente ad ostacolarne il passaggio. Esistono, poi, delle forme che, in età
media o avanzata, possono essere causate da patologie vascolari quali l’aterosclerosi.
Ancora, da alcuni anni è noto che anche delle patologie autoimmuni possono essere
responsabili della insorgenza di queste malattie. Certamente, le patologie autoimmuni
rappresentano un vasto capitolo e sfortunatamente queste sono malattie per le quali alcuni
dettagli sono ancora nebulosi e lacunosi sono alcuni aspetti; peraltro, considerando due
patologie autoimmuni ben note e di competenza reumatologica come il Lupus Eritematoso
Sistemico e l’artrite reumatoide, si può considerare come esista spesso una reale variabilità
nell’ambito della presentazione clinica della malattia, aspetto che sicuramente vale più per
il Lupus che per l’artrite reumatoide, per la quale sicuramente questo aspetto è vero se si
pensa che esistono almeno quattro modalità di esordio più frequenti ed una meno frequente
dell’artrite reumatoide e se si pensa che sia una patologia potenzialmente sistemica.
Peraltro, spesso i dati di laboratorio non sono sempre affidabilissimi, ad esempio, per il
Lupus, eccezion fatta per l’anticorpo anti-Sm che è diagnostico (ma presente solo in un
quarto dei casi), possono essere positivi oltre agli ANA anche altri autoanticorpi, alcuni
anche presenti in altre patologie, come gli anti-Ro/SS-A che sono positivi anche nello
Sjögren. Comunque, ritornando al discorso legato alle cause autoimmuni di ipoacusia,
occorre considerare che nella più parte dei casi, se non addirittura sempre, queste forme
sono bilaterali ed un criterio ex iuvantibus estremamente utile per poterle individuare è la
responsività al cortisone: i soggetti con queste forme di ipoacusie neurosensoriali
autoimmuni tendono a riferire un miglioramento dopo espletamento della terapia cortisonica.
Addirittura, queste forme si possono anche definire cortisone-dipendenti, dal momento che
i soggetti alla sospensione della terapia tendono a mostrare un deterioramento della
funzionalità uditiva. Infine, ultima ma non per importanza, la causa di una ipoacusia
neurosensoriale può essere neoplastica, specificatamente un neurinoma. Il neurinoma, o
schwannoma o neurilemmoma, è un tumore benigno delle guaine dei nervi periferici che
origina dalle cellule di Schwann e che trova una delle sue principali sedi di espressione
proprio a livello dell’VIII paio di nervi cranici, dove frequentemente si localizza
all’emergenza, cioè a livello dell’angolo pontocerebellare. Il sospetto di un neurinoma
acquisito dell’VIII deve insorgere quando vi siano sordità neurosensoriali monolaterali e
ingravescenti, ad andamento cronico e progressivo. In alcuni casi, rari, la neurofibromatosi
di tipo II può esprimersi mediante dei neurilemmomi dell’VIII paio che in tal caso sono
bilaterali e insorgono in soggetti molto giovani.
2) CLINICA E APPROCCIO DIAGNOSTICO NELLE IPOACUSIE NEUROSENSORIALI
La diagnosi di una ipoacusia neurosensoriale è molto più complessa della eventuale
diagnosi di una sordità di trasmissione, pur se questo non voglia affatto significare che la
prima di queste due sia oltremodo confortevole, poiché così non è. Comunque, il sintomo
che il soggetto riferisce come principale è la ipoacusia o sordità e a fronte di questo sintomo
e di una serie di altri sintomi è necessario approfondire l’anamnesi generale e l’anamnesi
specialistica. Innanzitutto, occorre chiedere al paziente se soffra di patologie
internistiche, come il diabete che abbiamo detto poter accelerare il deterioramento della
funzionalità auditiva e determinare l’insorgenza eventualmente di una presbiacusia
clinicamente evidente; se il soggetto è un bambino, occorre chiedere alla madre se abbia
sofferto di alcuni disturbi metabolici, se abbia assunto alcol in gravidanza, oppure se abbia
assunto farmaci di diversa natura, poiché questa è una possibile causa tossica di insorgenza
di sordità neurosensoriale in età molto precoce. Occorre chiedere al paziente se abbia
eseguito interventi chirurgici e se soffra di patologie neurologiche, nonché se sia in
trattamento per altre patologie (anamnesi farmacologica). A questo punto, terminata la
fase dell’anamnesi generale si deve eseguire una scrupolosa anamnesi specialistica, che
si concentra prevalentemente sui sintomi e segni di competenza audiologica. Quindi,
occorre valutare innanzitutto le caratteristiche dell’ipoacusia, chiedendo (1) la modalità
di insorgenza, se improvvisa o progressiva e (2) l’andamento temporale, se acuto o
cronicamente ingravescente o ancora se fluttuante e (3) la sede, che sia essa monolaterale
oppure bilaterale. Solitamente, il paziente con ipoacusia neurosensoriale non lamenta
alcun tipo di otalgia, che tuttavia può essere presente se la ipoacusia neurosensoriale
consegua ad una complicazione di una otite media che abbia generato una soluzione di
continuo che ne abbia determinato una propagazione nell’orecchio interno. Solitamente,
non si associa neanche otorrea.
Alla ipoacusia che è il principale dato che il soggetto riferisca, possono associarsi altri
sintomi come gli acufeni; il paziente può anche riferire di accusare vertigini che sono una
manifestazione assente nelle ipoacusie di trasmissione altro che nel caso in cui, ancora una
volta, una otite media non si complichi interessando l’orecchio interno e quindi il vestibolo
e/o i canali semicircolari, tal che ne consegua una ipoacusia di trasmissione per
danneggiamento dell’orecchio medio e vertigini per danneggiamento vestibolare. Le
vertigini labirintiche, cioè quelle che dipendono da un danno a carico del sistema
sensoriale della propriocezione speciale, sono violente ed invalidanti, non consentono al
soggetto di passare dalla posizione seduta a quella ortostatica e se colpiscono l’individuo
quando sia in ortostasi, questi cade a terra, ma non perché abbia avuto una perdita di
coscienza: il soggetto con vertigine labirintica è lucido, differentemente da un soggetto con
vertigine neurologica che può associarsi a perdita di coscienza. La durata della vertigine è
variabile da alcuni secondi finanche ad alcuni giorni e si presenta spesso accompagnata da
sintomi neurovegetativi come nausea, vomito, pallore e sudorazione. La vertigine può
essere definita come rotatoria soggettiva o rotatoria oggettiva a seconda che il soggetto
riferisca di avvertire sé stesso ruotare rispetto all’ambiente o viceversa, rispettivamente.
Una volta eseguita l’anamnesi, si esegue un esame obiettivo con l’otoscopio, che
consente di effettuare una ispezione. Inoltre, si esegue una valutazione oftalmologica, con
esame del fundus oculi, dei movimenti extraoculari e del nistagmo; per l’eventuale
valutazione oftalmologica ci si può anche valere della consulenza specialistica; inoltre vanno
valutati anche gli altri nervi cranici, per cui i movimenti oculari valuteranno la funzionalità
dei nervi dell’oculomozione (III, IV e VI paio), la sensibilità del territorio facciale valuta la
funzionalità del trigemino, il movimento dei muscoli facciali quella del VII paio, la deglutizione
valuta la funzionalità del nervo glossofaringeo, i movimenti delle corde vocali la funzionalità
del vago.
La prima valutazione, quella che precede la diagnostica strettamente audiologica, si
completa con l’esecuzione eventualmente di esami di laboratorio e di esami strumentali
come la TC dell’orecchio interno o la RMN con gadolino che è un mezzo di contrasto e che
può permettere di valutare l’eventuale intensità del liquido labirintico, giacché l’iperintensità
della lesione può voler significare che vi sia stata una flogosi, anche se la principale
indicazione alla Risonanza Magnetica nelle ipoacusie neurosensoriali si esegue al fine di
documentare/escludere un neurinoma dell’VIII. Il neurinoma, o schwannoma o
neurilemmoma, è un tumore benigno delle guaine dei nervi periferici che origina dalle cellule
di Schwann e che trova una delle sue principali sedi di espressione proprio a livello dell’VIII
paio di nervi cranici, dove frequentemente si localizza all’emergenza, cioè a livello
dell’angolo pontocerebellare. Il sospetto di un neurinoma acquisito dell’VIII deve insorgere
quando vi siano sordità neurosensoriali monolaterali e ingravescenti, ad andamento cronico
e progressivo. In alcuni casi, rari, la neurofibromatosi di von Recklinghausen può esprimersi
mediante dei neurilemmomi dell’VIII paio che in tal caso sono bilaterali e insorgono in
soggetti molto giovani. Gli esami di laboratorio che si richiedono in questi casi sono delle
indagini di ordine generale, come l’emocromo, il dosaggio degli elettroliti, degli ormoni
tiroidei e del TSH, degli ormoni sessuali; si richiedono in caso di clinica sospetta il VDRL, il
TPHA, l’FTA-ABS e l’ELISA che sono quattro test, di cui uno definito non-treponemico, per
la diagnosi della lue; si richiedono assetto lipidico e dosaggio della glicemia a digiuno e
OGTT, test di funzionalità epatica e renale. Nell’eventualità che la clinica sia sospetta, si
possono richiedere test che esplorino l’eventuale assetto autoimmune, come il dosaggio
della complementemia, il dosaggio degli autoanticorpi per l’artrite reumatoide e per il Lupus,
gli immunocomplessi circolanti.
Area acustica
primaria
(area 41)
Aree acustiche
secondarie Corpo
(aree 22 e 521) genicolato
Tubercolo mediale
quadrigemino
inferiore
VIA ACUSTICA
AFFERENTE Lemnisco
laterale
Nucleo cocleare
ventrale
Ganglio di Corti
In passato, i potenziali della via acustica centrale venivano studiati mediante una sorta di
elettroencefalografia, chiamata ERA, acronimo per Electric Responsis Audiometry e
utilizzata per studiare la funzione uditiva in soggetti non collaboranti e per studiare l’attività
corticale a seguito della somministrazione di uno stimolo sonoro. Questa indagine, tuttavia
si rilevava particolarmente inefficace per i pazienti neurologici o sotto trattamento con
psicofarmaci per cui è stata successivamente sostituita con un’altra indagine, che è quella
dei potenziali acustici evocati troncoencefalici, introdotta negli anni Ottanta del secolo
scorso. L’esito dell’indagine è un grafico che mostra cinque onde differenti e tra una e l’altra
si riscontra un tempo di latenza entro una finestra temporale di 10 ms entro cui compaiono
tutt’e cinque le onde.
Il tempo di latenza per la comparsa della prima onda è di 1.4 ms, il tempo di latenza per
la comparsa della seconda onda è di 2.4-2.6 ms, mentre per la terza onda la latenza è di
3.4 ms; la quarta onda e la quinta onda compaiono con una latenza dalle precedenti di
4.6-4.7 ms e 5.5-5.6 ms rispettivamente.
Potenziali evocati acustici troncoencefalici
• SORDITÀ INFANTILI
Le sordità infantili riguardano i bambini in età pediatrica o neonatale e sono delle riduzioni
della percezione sonora al pari di tutte le altre ipoacusie, differentemente dalle quali, tuttavia,
presentano una problematica legata all’esplorazione diagnostica della patologia stessa, dal
momento che i bambini non offrono collaborazione, spesso sono diffidenti verso le indagini
di natura medica, sono disinteressati agli stimoli acustici normalmente utilizzati in audiologia.
In passato, per la diagnosi di una ipoacusia infantile veniva utilizzata la reattometria, una
particolare indagine che consente di esplorare le risposte del neonato a stimoli intensi.
Sostanzialmente, con questa indagine viene valutato se alla somministrazione di uno
stimolo intenso il bambino si sveglia, piange, muove gli arti. Questa indagine, tuttavia
presenta una percentuale di falsi positivi del 2% per cui viene oggi utilizzata solo come test
di screening, al quale affiancare indagini che siano più specifiche; in realtà oggi la
reattometria è poco utilizzata poiché sostituita a scopo diagnostico da altri esami come i
potenziali acustici troncoencefalici evocati e le otoemissioni evocate. L’indagine dei
potenziali acustici evocati è una indagine sicura essendo una indagine di natura
elettrofisiologica, anche se è opportuno in questi casi affidarsi anche a delle indagini
comportamentali. Una di queste indagini è il BOEL test, che impiega una scatola
contenente stimoli sonori evocati ad esempio da campanelli e da strumenti a scopo ludico
come dei bastoncini rossi o degli anelli concentrici. Il BOEL test si esegue dal quarto mese
di vita fino al settimo all’incirca e valuta l’attenzione selettiva del bambino quando viene
fatto scuotere il campanello ai lati della testa. Il BOEL test è una indagine nata per valutare
le risposte psico-comportamentali del bambino, per cui è un test che l’audiologia ha mutuato
dalla neuropsichiatria infantile.
Dagli anni Ottanta del secolo scorso, degli audiologi italiani hanno messo a punto l’AMBO
test, che si esegue nei bambini dai sei ai dodici mesi di vita, al fine di valutare la
funzionalità uditiva. Questo test si vale di una valigetta nella quale sono contenuti degli
strumenti sonori, ognuno tarato ad intensità differente. L’emissione sonora, in tal caso,
avviene alle spalle del bambino e si valuta se questi reagisca voltandosi alla comparsa del
suono. Può anche essere utilizzato per valutare l’eventuale efficacia delle protesi acustiche.
Un altro possibile test che si può eseguire è il COR o teatrino di Suzuki-Ogiba; il bambino
non indossa cuffie ed è al lato della madre; delle casse sono presenti ai lati della stanza in
cui si esegue il test e si cerca di istruire il bambino affinché spinga un bottone ogniqualvolta
percepisca un suono; per la migliore riuscita del test, si può associare una ricompensa ogni
volta che il bambino spinga il pulsante, che può essere un cartone animato o con
l’illuminazione di giocattoli presenti innanzi al bambino. Infine, il PEEP show si vale della
ricerca della soglia uditiva mediante delle cuffie per via aerea e di un vibratore per la via
ossea; viene eseguita nei bambini di età almeno tre anni. Generalmente, dopo i cinque anni
si possono eseguire esami audiologici standard come l’audiometria vocale e quella tonale.
• PROTESI AURICOLARI
Occorre considerare che oggi la sordità è un handicap che colpisce soprattutto l’età
evolutiva e tanto è vero questo che circa il 25 % della popolazione
ultrasessantacinquenne e prima dei settantacinque anni presenti una significativa perdita
uditiva; nei soggetti ultrasettantacinquenni, la percentuale di sordità sale al 50%, quindi,
stanti i dati di popolazione, in Italia ci sono 5 milioni di persone che avrebbero bisogno di
un’amplificazione acustica. Questa offre dei vantaggi, come una migliore localizzazione
del suono nello spazio, una migliore discriminazione dei suoni, a fronte tuttavia di una
serie di controindicazioni o di effetti di uso invalidante soprattutto per le persone non più
giovani, come per esempio i problemi di manualità, gli aspetti psicologici ed economici.
La protesi deve poter convogliare il suono sul microfono, amplificarlo e andare a
stimolare il nostro orecchio tramite un ricevitore pur se comunque di protesi oggi esistano
diverse tipologie. Le protesi più comuni sono le protesi retroauricolari e sono forse quelle
più funzionali, cioè che possono adattare meglio, che forniscono una migliore
amplificazione. Come esistono delle protesi retroauricolar ne esistono delle altre
endoauricolari, ad oggi addirittura non più visibili dall’esterno, e sono protesi che
amplificano bene per sordità non molto gravi, quindi sono appannaggio di sordità medie
o medio-gravi. Le protesi che si usano per le sordità gravi sono le protesi impiantabili
chirurgicamente mediante dei veri e propri interventi di impianto, benché siano visibili
dall’esterno. Una protesi impiantabile è la Vibrant che è collegata addirittura alla apofisi
lunga dell’incudine, ha una parte esterna per la conduzione per via ossea e si può usare sia
per forme trasmissive che neurosensoriali. Importanti sono anche gli impianti cocleari, in
cui attraverso un intervento chirurgico si inserisce un elettrodo all’interno della coclea,
risultando questi utili dal momento che forniscono una ripresa ottimale della funzionalità e li
si utilizza i tutti i pazienti in cui non si possa usare una protesi convenzionale, però ha come
difetto la grande vistosità dall’esterno e ingombro. È appannaggio sia nei bambini che negli
adulti, senza limiti di età. Gli interventi si fanno in Italia solo dopo il primo anno di età, prima
non è consentito farli, a meno che non si abbia la certezza che la coclea sia già andata in
degenerazione come avviene nei bambini affetti da meningite che abbia provocato una
sordità totale bilaterale.
Diagnostica nella patologia vestibolare
• SINDROMI VESTIBOLARI
L’espressione sindrome vestibolare intende genericamente la presenza di una alterazione
a carico del sistema vestibolare che consegue ad un danno a carico di una delle strutture
anatomiche che entrano nella costituzione della sensibilità propriocettiva speciale. Occorre
considerare, quindi, che sulla base della sede del danno si definiscono forme di sindrome
vestibolare periferica e centrale, essendo la prima associata a danni a carico dei canali
semicircolari e/o del vestibolo oppure del nervo vestibolare, mentre nel caso della seconda
si riscontrano danni a carico dei nuclei vestibolari, che sono situati tra bulbo e ponte a livello
della losanga del quarto ventricolo, della sostanza reticolare oppure del cervelletto che è il
centro superiore, o centro di integrazione, di elaborazione delle informazioni vestibolari.
1) ANAMNESI
Nel caso del sospetto di una vertigine, o quando lo stesso soggetto riferisca una vertigine,
è necessario che si esegua una corretta anamnesi, che alle volte nella diagnostica della
patologia vestibolare è l’aspetto più complesso e per il quale si debba disporre di una certa
esperienza sul campo, ma è parimenti anche l’aspetto della diagnosi maggiormente
sottovalutato. Comunque, come già anticipato, l’anamnesi è fondamentale per avere delle
informazioni circa la localizzazione del danno al sistema vestibolare, dal momento che le
vertigini periferiche e quelle centrali differiscono per modalità di esordio e per intensità
dell’attacco, per associazione con eventuali sintomi neurovegetativi e audiologici nonché
sull’eventuale tipologia della vertigine nelle sindromi vestibolari centrali (SVC) e nelle
sindromi vestibolari periferiche (SVP):
1. Tipologia di vertigine:
a) Rotatoria soggettiva in SVC
b) Rotatoria oggettiva in SVP
2. Modalità di esordio:
a) Subdolo in SVC
b) Acuto e violento in SVP
3. Intensità:
a) Lieve-moderata in SVC
b) Intensa in SVP
4. Segni audiologici:
a) Assenti in SVC
b) Presenti in SVP
5. Sintomi neurovegetativi:
a) Assenti/scarsi in SVC
b) Presenti in SVP
Il soggetto con sindrome vestibolare periferica spesso lamenta dei “giramenti di testa”
improvvisi e violenti che ne limitano fortemente l’espletamento delle attività allorquando
insorgano dal momento che sono degli attacchi che costringono spesso il paziente ad
arrestare la deambulazione e addirittura ad assumere la posizione seduta.
Inoltre, sussiste anche la possibilità di riscontrare delle differenze a carico del nistagmo, che
chiaramente non si possono cogliere con l’anamnesi ma devono essere documentate con
l’ispezione. Stante questa indubbia efficacia dell’anamnesi, sicuramente una delle prime
cose da fare con un paziente che lamenti vertigini è quella di tranquillizzarlo ed invitarlo a
stendersi sul lettino, preferibilmente minimizzando le afferenze uditive e visive, anche
perché sulla base del decubito che il paziente assume si possono trarre delle prime e
approssimative informazioni. Dal momento che il paziente assume un decubito laterale in
funzione della percezione della sintomatologia vertiginosa: in altre parole decubita dal lato
su cui avverte meno la vertigine.
2) PROVE DELL’ASIMMETRIA DI TONO MUSCOLARE
Dopo l’anamnesi al letto del paziente, che possa chiarire eventualmente alcuni aspetti della
natura della vertigine, occorre effettuare uno studio del tono muscolare che si vale della
presenza di alcune prove cliniche, che permettano di studiare sia il tono degli arti inferiori
che degli arti superiori: per i primi si adoperano la prova di Romberg e la prova del
cammino a stella, mentre per gli altri due la prova delle braccia tese e la prova di Barany.
La prova di Romberg è una prova che studia la simmetria o l’asimmetria del tono degli arti
inferiori e consiste nel far stazionare il paziente in ortostatismo e ad occhi chiusi. Un soggetto
normale non ha problema alcuno a mantenere lo stazionamento eretto, mentre il soggetto
con una patologia vestibolare tende a cadere da un lato, generalmente dal lato opposto
rispetto alla sede del danno.
La prova del cammino a stella, altresì nota con il nome eponimo di prova di Babinski-
Weil consiste nel far compiere al paziente tre passi in avanti e tre passi indietro ad occhi
chiusi: il soggetto con patologia vestibolare periferica tende a cadere da un lato. Nella
cosiddetta sindrome vestibolare armonica, il soggetto nella prova del cammino a stella
tenderà a cadere verso il lato dell’orecchio patologico durante la marcia in avanti, che poi è
anche il lato verso cui batte la fase lenta del nistagmo spontaneo.
Durante la marcia all’indietro, tende invece a deviare dal lato opposto rispetto a quello
dell’orecchio patologico; peraltro, durante la marcia all’indietro il soggetto tende ad
accentuare la deviazione, cosicché dopo alcuni cicli di camminata in avanti e all’indietro, il
paziente addirittura tenderà ad assumere una direzione che è perpendicolare rispetto a
quella di inizio. Per lo studio del tono degli arti superiori, si eseguono la prova delle braccia
tese e la prova di Barany; nella prima, si chiede al paziente ad occhi chiusi di tendere
perpendicolarmente le braccia a 90°: i soggetti con patologia vestibolare presentano una
caduta di una delle due braccia, che nella sindrome vestibolare armonica è la stessa del
lato in cui batte la fase lenta del nistagmo, per cui la medesima dell’orecchio patologico. La
prova di Barany, invece, consiste nel chiedere al paziente ad occhi chiusi di toccare con
l’indice le ginocchia: il soggetto patologico tende a deviare gli arti.
3) STUDIO DEL NISTAGMO
Per nistagmo spontaneo si intende una ritmica e involontaria oscillazione di bulbi oculari
rilevabile a testa ferma ed eretta, in posizione seduta o anche in posizione ortostatica e in
questo casi si distingue un nistagmo di primo grado da un nistagmo di secondo grado; il
nistagmo può essere meglio apprezzato se il paziente indossa gli occhiali con lente di
ingrandimento di Frenzel. Il nistagmo presenta caratteristicamente due fasi, che sono la
fase lenta e la fase rapida, essendo la prima determinata dallo sbilanciamento che esiste
tra le informazioni nervose derivanti dal vestibolo sano e dal vestibolo patologico tal che la
fase lenta del nistagmo batta sempre dal lato del vestibolo patologico, differentemente dalla
fase lenta del nistagmo che corrisponde ad un reattivo riposizionamento dei bulbi oculari al
centro dell’orbita. Occorre considerare che il nistagmo fornisce importanti informazioni
anch’esso circa la sede del danno a carico del sistema vestibolare, poiché presenta
caratteristiche di direzione e di inibizione alla fissazione che sono differenti a seconda che
si tratti di una sindrome vestibolare centrale (SVC) o di una sindrome vestibolare periferica
(SVP):
1. Orientamento del nistagmo:
a) Multidirezionale in SVC
b) Orizzontale in SVC
2. Fissazione dello sguardo:
a) Non-inibizione in SVC
b) Inibizione in SVP
3. Ritmicità:
a) Aritmico in SVC
b) Ritmico in SVP
Nel caso della presenza di un nistagmo è anche possibile alle volte apprezzare come questo
si verifichi in presenza di uno sguardo controlaterale (nistagmo di terzo grado) che è
espressione di una patologia più severa. Il nistagmo può anche essere definito rotatorio,
nel qual caso i bulbi oculari sembrino ruotare, o verticale nel qual caso l’asse del nistagmo
sia superoinferiore che più spesso consegue a patologia centrale. Oltre al nistagmo
spontaneo che si studia con
l’ispezione degli occhi mentre il
paziente fissa una mira, è possibile
studiare il nistagmo evocato
mediante l’Head-Shaking Test, che
consiste nello scuotere la testa del
paziente, che è flesso in avanti di 30°
gradi, circa una dozzina di volte sul
piano orizzontale: si nota che in
questo caso il nistagmo batta dal lato
opposto rispetto a quello patologico.
Si tratta di un test che non è molto sensibile, ancorché possa essere utile al fine di scoprire
eventuali patologie vestibolari latenti. Molto utile, estremamente specifico ma poco sensibile
è il test di Halmagyi, che dovrebbe essere effettuato di pronto soccorso a tutti i pazienti
che soffrano di una sindrome vertiginosa acuta. Consiste nell’indurre dei movimenti di
rotazione passiva, di circa 1 Hz, e di 20-30° nel paziente ad occhi aperti. Nel paziente con
patologia vestibolare, la rotazione omolaterale all’orecchio patologico scatena l’insorgenza
di due-tre movimenti saccadici controlaterali alla direzione della rotazione e al lato
dell’orecchio patologico. Quando si riscontri la presenza di una sindrome vertiginosa acuta
con test di Halmagyi negativo si deve necessariamente pensare che la sindrome vertiginosa
sia scatenata da una patologia neurologica acuta, come una emorragia cerebrale per cui
occorre fare immediatamente una TC.
4) CAUSE DI VERTIGINE PERIFERICA
Le cause che stanno alla base di una vertigine periferica possono essere molto differenti sia
in termini di eziopatogenesi sia in termini di gravità della patologia che ne stia alla base.
Tipicamente, la forma più frequente di sindrome vertiginosa periferica è la vertigine
parossistica posizionale, che si definisce tale dal momento che si tratti di una
manifestazione accessuale ed improvvisa e dal momento che risulta essere evocata se si
assumono determinate posizioni; ad esempio, si ritiene che sia associata alla presenza di
posizioni come la posizione in decubito laterale; solitamente i pazienti possono riferire di
avvertire una vertigine quando dalla posizione supina transitino nella posizione di decubito
laterale, dopodiché transitando nuovamente nella posizione supina la vertigine tende a
scomparire entro dieci minuti. Si tratta di una patologia frequente e benigna, probabilmente
ascrivibile ad una alterazione a carico degli otoliti in quella che prende il nome di litiasi
labirintica. Dunque, si definisce come la presenza di due o più episodi di vertigine di breve
durata, scatenata improvvisamente da cambiamenti di posizione della testa e/o del corpo
non associata a sintomi cocleari o neurologici bensì a soli sintomi neurovegetativi. Questa
particolare patologia potrebbe essere scatenata da microtraumatismi o da posizioni
maldestre della testa. Per scoprire la presenza di una forma di vertigine parossistica
posizionale, esistono delle manovre, che sono la manovra di Dix-Hallpike e alla manovra
di Semont. La prima delle due consiste nel ruotare la testa del paziente, mentre lo si fa
stendere rapidamente, avendo cura di far “cadere” la testa al di fuori del supporto offerto dal
lettino. Se è presente un nistagmo, si è dinnanzi ad una vertigine posizionale parossistica
ed occorre eseguire una manovra liberatoria che si esegue semplicemente ripristinando
la posizione seduta del paziente, ruotando la testa dal lato opposto e ripetendo la manovra
di sdraiamento.
Rispetto alla manovra di Dix-Hallpike, la manovra di Semont si esegue con il paziente
seduto sul lettino, lo si fa sdraiare e gli si ruota la testa verso l’alto. Se si riscontra il nistagmo,
si riporta il paziente in posizione seduta e lo si sdraia dal lato opposto ruotando la testa
verso il basso: questa è in tal caso la manovra liberatoria.
Esistono, in realtà, anche altre cause di vertigine parossistica, come quelle nei soggetti di
molto giovane età e che tende a regredire con l’adolescenza, o come quelle su base
vascolare, da fistola perilinfatica, o su base ortostatica e/o cervicale. Esiste poi un
secondo grosso capitolo che si associa all’eventuale insorgenza delle vertigini periferiche e
che riguarda il cosiddetto deficit vestibolare periferico acuto o DVA. Si definisce come
un deficit acuto, monolaterale e labirintico, che si associa alla presenza di una totale o
parziale perdita di funzione associato a manifestazione vertiginosa e sintomi
neurovegetativi, ascrivibile alla perdita della funzione vestibolare periferica che può anche
durare alcuni giorni. In tal caso le cause che ne stanno alla base possono essere
infiammatorie, legate cioè ad una neurite dell’VIII, ad una flogosi vestibolare ma anche
ad una labirintite suppurativa e possibile causa della prima può essere una infezione da
Herpes Zoster Oticus, che può causare una polinevrite dei nervi cranici tra cui anche il
nervo statoacustico. Infine anche cause vascolari, come delle possibili tromboembolie,
degli spasmi arteriosi o delle emorragie dell’arteria uditiva interna, e fratture del temporale
possono eventualmente determinare insorgenza di queste manifestazioni. Tra le altre
cause, che non rientrano né nelle vertigini parossistiche né nel deficit vestibolare acuto
possono essere una specifica patologia come la malattia di Ménière e il neurinoma del
nervo statoacustico, oppure il conflitto neurovascolare del tronco, in cui vi sono dei vasi
che passano a ponte al di sopra del nervo vestibolare
Foniatria
• DISARTRIE
Con l’espressione di disartria si intende un disturbo del linguaggio verbale e
precisamente della motricità pneumo-fono-articolatoria causato da lesioni organiche
del I motoneurone o del II motoneurone, secondo la classificazione americana dei disturbi
del linguaggio, mentre nella concezione europea si tende a classificare le lesioni del
secondo motoneurone come dei disturbi che rientrano nella categoria classificativa delle
dislalie. Occorre ricordare che l’espressione di articolazione del linguaggio, che poi è
quella che nel contesto della disartria viene alterata, intende la modificazione della forma,
della posizione e della dimensione del vocal tract, che determina l’assunzione di un preciso
assetto pneumo-fono-articolatorio che dipende da (1) zona e luogo di articolazione del
linguaggio, (2) opposizione di sonorità, (3) opposizione di risonanza e (4) grado di
chiusira del vocal tract.
1) RICHIAMO DI ANATOMIA
Dobbiamo considerare che affinché si possa avere una produzione di un fono/fonema
preciso è necessaria una modulazione nervosa, che permetta l’assunzione, innanzitutto a
livello laringeo dove si produce il segnale vocale, di un corretto assetto contrattile, cui si
associa l’assunzione di un corretto assetto contrattile anche a livello del vocal tract. La
motricità pneumo-fono-articolatoria è un aspetto dinamico che si modifica di volta in volta in
considerazione del fono/fonema che si intenda produrre. Per cui, al fine di produrre un suono
intervengono dapprima dei fenomeni di ideazione e di elaborazione a livello delle aree
della corteccia associativa, che vengono poi tradotte in uno schema motorio, il quale viene
finemente coordinato dalle interrelazioni che esistono tra i motoneuroni piramidali, che si
collocano a livello della corteccia motoria primaria, i neuroni dell’extrapiramidale e i
neuroni cerebellari, dal momento che la produzione del segnale vocale laringeo prima e
del fono/fonema articolato, poi, presuppongono che venga applicato uno schema motorio
che trova parte della propria efficienza proprio nella contrazione coordinata e l’organo
deputato alla coordinazione e all’applicazione degli schemi motori acquisiti è proprio il
cervelletto; sia i motoneuroni piramidali, che quelli extrapiramidali e cerebellari sono tutti
considerati alla stregua di motoneuroni del primo ordine. Le interconnessioni tra questi tre
neuroni con le aree dell’ideazione e dell’elaborazione producono uno schema motorio, le
cui informazioni vengono veicolate ai nuclei motori del tronco encefalico, che innervano la
laringe e le strutture del vocal tract superiore, come il palato (glossofaringeo) o la lingua
(ipoglosso), ad esempio. I motoneuroni dei nuclei motori dei nervi cranici sono considerati
dal punto di vista neuroanatomico come dei motoneuroni di II ordine, per cui a rigore di
classificazione, secondo la concezione americana, anche le lesioni del nucleo motore del
glossofaringeo (che è il nucleo ambiguo) e del nucleo motore dell’ipoglosso sono da
considerarsi come delle condizioni associate alla presenza di una disartria. Esemplificativo,
in questo senso è la presenza di una paralisi dell’ipoglosso (ricordando che talora questa
possa essere determinata ad esempio da una otite esterna maligna oppure da un neurinoma
dell’acustico che comprima sul XII). Il nervo ipoglosso emerge a livello del solco
anterolaterale del bulbo come un insieme di radicole che convergono, formando il tronco
nervoso del XII, per poi decorrere in senso superoinferiore e imboccare il canale
dell’ipoglosso, situato a livello dell’osso occipitale, precisamente sovrastato medialmente
dal condilo dell’osso occipitale; quindi emerge dal cranio e decorre in senso superoinferiore
nello spazio vascolo nervoso del collo, per flettere medialmente al proprio territorio di
distribuzione che prevede l’innervazione motoria della lingua. In caso di paralisi del nervo
ipoglosso la lingua non ha più i propri movimenti e le sue posture perfette e ci possono
essere degli errori di pronuncia.
2) CLASSIFICAZIONE
Di fatto, le disartrie sono dei disturbi del linguaggio nei quali viene perduta la capacità di
eseguire una corretta coordinazione e ed esecuzione del gesto motorio, necessario a
conferire le caratteristiche fisico-acustiche al fono, che ricordiamo essere la minima entità
linguistica dotata di valore fisico-acustico.
Globalmente, rientrano, secondo la concezione americana, in questa categoria classificativa
di disturbi del linguaggio tutte le lesioni del I o del I motoneurone che siano in grado di
arrecare una perdita della capacità articolatoria del segnale vocale prodotto a livello
laringeo. Dal punto di vista classificativo, si distinguono:
1. Lesioni del II motoneurone
2. Lesioni del I motoneurone:
a) Piramidale: spastico
b) Extrapiramidale:
i. Ipocinetico
ii. Ipercinetico
c) Cerebellare: atassica
d) Mista
Le lesioni del I motoneurone sono considerate tutte quelle lesioni a carico del sistema
piramidale, dell’extrapiramidale o del cervelletto e sulla base della sede del danno si
distinguono differenti tipologie di disartria da lesione del I motoneurone, anche in
considerazione di quale sia la funzione a cui quel motoneurone presiede. Infatti, occorre
considerare che le lesioni del I motoneurone si esprimono mediante delle disartrie
spastiche, mentre le lesioni del motoneurone cerebellare, per via delle funzioni di
coordinazione che questi assolve, si esprimono come delle disartrie atassiche,
differentemente dalle forme legate a lesioni dei motoneuroni dell’extrapiramidale, che
possono esprimersi sia come delle disartrie ipercinetiche che come delle disartrie
ipocinetiche: ad esempio, la patologie neurologica che prototipicamente determina una
disartria ipocinetica da lesioni dei nuclei della base è la malattia di Parkinson. In realtà,
alle volte la situazione clinica della disartria è più complessa e sottintende la presenza di
una condizione che si esprime mediante fenomeni in combinazione spastici, atassici, iper-
o ipocinetici: tali sono le disartrie miste. Tra le disartrie miste se ne distinguono diverse:
1. Spastico-flaccida: Sclerosi Laterale Amiotrofica
2. Cerebello-spastica: Sclerosi Multipla e traumi cranici
3. Spastico-atassica-ipocinetica: Morbo di Wilson.
La malattia di Wilson è una patologia metabolica che viene definita anche come
degenerazione epato-lenticolare; si tratta di una patologia genetica dovuta a mutazione
del gene codificante per l’ATP7B, che regola il metabolismo del rame. A seguito di una
perdita di funzione del gene, si verifica un progressivo accumulo di rame (1) nel fegato e (2)
nel nucleo lenticolare, che è uno dei nuclei della base a propria volta costituito da putamen
e globo pallido, che entra nella costituzione dei circuiti dell’extrapiramidale. Le disartrie,
inoltre, si possono classificare mediante un criterio anagrafico, che le suddivide in forme
cosiddette infantili e forme cosiddette dell’adulto, tra le quali sussiste una notevole
differenza nei termini della eziologia che ne sia in causa.
1. Disartrie infantili:
a) Prenatali:
i. TORCH
ii. Disgenesie
iii. Anossie
b) Perinatali: da parto
c) Postnatali:
i. Traumi cranici
ii. Infezioni
2. Disartrie dell’adulto:
a) Patologie neurodegenerative
b) Neoplasie cerebrali
c) Ictus ischemico/emorragico
d) Malattie infettive
e) Traumi cranici
A propria volta, le disartrie infantili possono essere suddivise in forme prenatali (da infezioni
[TORCH], disgenesie o anossia), perinatali (legate al parto) e postnatali (da traumi cranici
o infezioni). Le forme invece dell’adulto, conseguono a patologie neurologiche come la
malattia di Parkinson, la SLA o la sclerosi multipla, a patologie metaboliche con precipuo
interessamento del sistema nervoso centrale (come la malattia di Wilson), oppure a malattie
infettive, traumi cranici o neoplasie.
• DISLALIE
Differentemente dalle disartrie che sono dei disturbi del linguaggio che pertengono ad
alterazioni della motricità pneumo-fono-articolatoria necessaria a conferire caratteri fisico-
acustici al suono (per lesioni del I o del II motoneurone secondo la classificazione
americana, le dislalie sono dei disturbi articolatori del linguaggio e dello speech che si
esprimono come delle omissioni, delle distorsioni o delle sostituzioni di uno o più fonemi.
Dal punto di vista della classificazione, si distinguono due entità clinico-patologiche
distinte:
1. Dislalie fisiologiche
2. Dislalie patologiche:
a) Organiche
b) Funzionali
Le dislalie fisiologiche si intendono come dei disturbi dello speech che si esprimono
mediante omissione, distorsione o sostituzione di uno o più fonemi che si riscontrano
durante lo sviluppo del linguaggio, che ricordiamo intraprendersi intorno ai due anni con
la lallazione e completarsi entro i cinque anni circa con l’acquisizione della capacità di
costruire e pronunciare frasi complesse con un significato compiuto. È chiaro che, essendo
il linguaggio una funzione nervosa che si sviluppa progressivamente e si rinforza anche
grazie al feedback auditivo, i primi foni/fonemi che siano prodotti dal bambino siano in parte
distorti, ma chiaramente con il progressivo sviluppo della funzione nervosa questo disturbo
tende a scomparire.
Diversamente, quando il disturbo dello speech persista dopo il completamento dello
sviluppo del linguaggio, o addirittura insorga successivamente, si parla di dislalie
patologiche, che in considerazione dell’espressione del danno possono essere suddivise
in dislalie patologiche organiche e dislalie patologiche funzionali. Le dislalie
patologiche organiche sono anche definite meccaniche, giacché in questi casi si riscontra
la presenza di una alterazione morfologica che di per sé presuppone la presenza di una
alterazione della motricità. Esempio caratteristico di dislalia organica è la labiopalatoschisi,
particolarmente quella forma di labiopalatoschisi che si esprime mediante una mancata
fusione dei processi palatini che entrano nella costituzione del palato duro. In questo
caso, si riscontra la presenza di una anomala risonanza, per via della presenza di una
alterazione a carico di quella struttura che dovrebbe di norma determinare una corretta
separazione tra la cavità nasale e il cavo orale. Anche una disgenesie emilinguale, oppure
un intervento chirurgico sul labbro possono essere condizioni che determinano in qualche
maniera l’insorgenza di una dislalia che si esprime solo per quei foni/fonemi che siano
necessarie le strutture mancanti o alterate. La concezione europea fa rientrare nell’ambito
delle dislalie anche i problemi neurologici dovuti al solo II motoneurone e in questo rientrano
eventuali problematiche del nervo facciale, del nervo ipoglosso.
Invece nella concezione americana, più ampia, qualsiasi problema inerente il motoneurone,
del primo, del secondo o di entrambi, viene fatta rientrare nelle disartrie. Tra le dislalie
rientrano anche il rotacismo e il sigmatismo, comunemente noti come “S moscia” ed “R
moscia”.
Se un soggetto produce la “s” male si parla di sigmatismo, invece se produce male la “r”
ovvero la “r moscia” in cui la “r” viene prodotta con una non determinata vibrazione e postura
della lingua ha il rotacismo, che invece è presente nella lingua francese perché la postura
per il fono “r” nella lingua francese è diversa rispetto alla lingua italiana.
Poi ci sono le dislalie patologiche funzionali, in cui il vocal tract è perfetto, il sistema neuro-
motorio è perfetto, ma abbiamo dei disturbi della pronuncia e la situazione patologica di
base è la dislalia “audiogena”. Con il termine dislalie audiogene si intendono quei disturbi
del linguaggio verbale, fono-articolatori, causati da un deficit uditivo che presupponga la
presenza di una distorsione, emissione o sostituzione di uno o più foni. Qui entriamo nel
campo della sordità infantile, dal momento che si tratta di patologie che intervengono nei
soggetti audiolesi, per l’incapacità di sviluppare e controllare la loro produzione verbale a
causa del deficit del feedback acustico.
• INSUFFICIENZA VELO-FARINGEA
L’insufficienza velo-faringea è una patologia che si caratterizza per la incapacità del velo del
palato di attendere alla propria normale funzione, cioè quella di separare correttamente il
cavo orale e l’orofaringe dalla cavità nasale durante il meccanismo della deglutizione e
durante il meccanismo di fonazione dal momento che mediante la funzione svolta dal velo
del palato, si verifica l’indirizzamento del segnale vocale faringeo in corrispondenza della
cavità nasale (risonanza nasale) o del cavo orale (risonanza orale). Fatta eccezione per le
schisi, le cause che stanno alla base dell’eventuale presenza di una insufficienza velo-
faringea sono:
1. Paresi/paralisi del X
2. Velo corto congenito
3. Disproporzione palato/rinofaringe
4. Esiti postchirurgici
5. Traumi facciali
6. Schisi sottomucose
La sintomatologia, in questo caso, si esprime mediante un disturbo della deglutizione e
del linguaggio: frequente è il reflusso di cibi, soprattutto liquidi, dal naso e il soggetto
accuserà anche la presenza di un disturbo dello speech, che si esprime mediante una
distorsione, sostituzione od omissione di uno o più foni/fonemi.
• Ipoacusie infantili
Le ipoacusie neurosensoriali infantili si intendono come delle riduzioni o delle vere e proprie
perdite della percezione sonora, che devono essere considerate nel contesto dello sviluppo
del linguaggio verbale dal momento che la progressiva acquisizione del linguaggio prevede
l’acquisizione di schemi motori, la cui correttezza viene via via saggiata e rinforzata (e gli
eventuali errori corretti) dal feedback acustico: è chiaro che venendo a mancare il feedback
auditivo durante il periodo dello sviluppo del linguaggio, si potranno avere delle
conseguenze su questo fronte, dei disturbi del linguaggio, di entità tanto più grave quanto
maggiore e perdurante è la deprivazione del feedback acustico: è chiaro che una ipoacusia
bilaterale che intervenga durante il periodo della lallazione sia estremamente più grave di
una che interviene a cinque o sei anni quando oramai lo sviluppo del linguaggio è in via di
completamento.
1) CLASSIFICAZIONE DELLE IPOACUSIE INFANTILI
Come del resto tutte le altre ipoacusie, anche quelle infantili possono essere classificate
sulla base di un criterio che faccia riferimento all’entità dell’ipoacusia e in base ad un altro
criterio che mette capo invece al meccanismo eziopatogenetico:
1. Entità:
a) Ipoacusie lievi (20-40 dB)
b) Ipoacusie moderate (41-55 dB)
c) Ipoacusie moderate-severe (56-70 dB)
d) Ipoacusie severe (> 70 dB)
e) Ipoacusie profonde (> 90 dB)
2. Sede del danno:
a) Ipoacusie trasmissive
b) Ipoacusie neurosensoriali
Le ipoacusie trasmissive sono quelle che intervengono a seguito di un danno a carico della
via di conduzione aerea del suono e generalmente, essendo monolaterali, non determinano
affatto alcun tipo di deficit del linguaggio, altro che nei casi in cui si riscontri una ipoacusia
trasmissiva bilaterale: in tal caso un esempio caratteristico è l’otite media sieromucosa,
che è una forma che nel bambino interviene bilateralmente e si giova nel proprio insorgere
della immaturità della tuba di Eustachio e della sua incapacità di assicurare un corretto
drenaggio delle secrezioni auricolari nonché di una condizione molto frequente nel bambino,
che è l’ipertrofia adenoidea (dal III grado in poi causa questa forma di otite). Si tratta di una
condizione che nel bambino è estremamente pericolosa per le sequele funzionali che può
scatenare, dal momento che oltre ad essere bilaterale si esprime esclusivamente mediante
ipoacusia, ovattamento e autofonia, in assenza di otalgia condizione, questa, che rende
particolarmente difficile l’inquadramento clinico della malattia che perdurando può deprivare
a lungo il bambino dell’eventuale insorgenza di un feedback acustico idoneo.
Differentemente, le ipoacusie neurosensoriali sono delle condizioni che conseguono ad un
danno cocleare o retrococleare e vengono ulteriorment classificate sulla base
dell’eziologia e dell’epoca di insorgenza:
1. Ipoacusie neurosensoriali genetiche:
a) Sindromiche:
i. Sindrome di Usher
ii. Sindrome di Pendred
iii. Sindrome di Treacher-Collins
iv. Sindrome brachio-oto-renale
v. Sindrome di Waardenburg
vi. Sindrome di Alport
b) Non-sindromiche:
i. Autosomiche recessive (connessina 26 o 30)
ii. Autosomiche dominanti
iii. Diaginiche
iv. Mitocondriali
2. Ipoacusie neurosensoriali non-genetiche:
a) Prenatali:
i. TORCH
ii. Ipossie/ischemie
iii. Disgenesie
b) Perinatali: legate al parto
c) Postnatali:
i. Infezioni
ii. Traumi della rocca petrosa
iii. Traumi cranici
Inoltre, dal momento che un aspetto di estrema importanza per questo tipo di patologie
pertiene alla presenza di un possibile disturbo del linguaggio, sussiste una ulteriore
classificazione delle sordità infantili in preverbali, verbali e postverbali.
Le tappe dello sviluppo del linguaggio verbale si articolano dai due anni ai cinque anni, e
sono (1) lallazione, (2) prime parole, (3) olofrasi, (4) due parole, (5) frase contratta, (6) frase
strutturata. Queste tappe possono durare anche fino ai 5 anni e durante queste tappe è
fondamentale avere il feedback acustico cioè l’apparato uditivo deve funzionare, dal
momento che nello sviluppo del linguaggio verbale il bambino mette in rapporto la sequenza
fono-articolatoria che all’inizio emette in maniera involontaria con la capacità uditiva e
ricava uno schema percettivo-motorio e che viene rinforzato dal feedback uditivo.
Affinché possiamo parlare di sordità infantile, sempre ai fini dello sviluppo del linguaggio
verbale, l’ipoacusia deve avere determinate caratteristiche cliniche:
1. Deve situarsi in questo percorso, quindi alla nascita o durante il corso dello sviluppo
in maniera tale da danneggiare il feedback uditivo;
2. Deve essere bilaterale, in quanto una ipoacusia monolaterale non da un problema
nello sviluppo del linguaggio verbale;
3. Deve essere stabile, duratura nel tempo;
4. Deve essere irreversibile, non curabile;
5. Deve essere elevata dal punto di vista dell’entità
La limitazione della capacità verbale è di solito tanto più elevata quanto più grave è il
deficit uditivo e minor tempo ha avuto il bambino di udire e memorizzare i segnali del
codice linguistico usato dagli adulti. Il grado del deficit uditivo e l’epoca in cui si manifesta
quindi sono i due elementi patogenetici che condizionano l’entità delle alterazioni del
linguaggio.
Nella storia naturale dei disturbi avremo ritardi del linguaggio, alterazioni della voce e della
risonanza e alterazioni dell’articolazione e quindi dislalie audiogene. Ciò che abbiamo detto
e che riguarda la storia naturale, però, oggi ha un valore relativo perché si può fare diagnosi
precoce delle sordità infantili che parte con le otoemissioni acustiche evocate (OAE) che
vengono impiegate come screening neonatale, in soggetti prematuri o con particolari
patologie, e continua con lo studio dei potenziali tronco-encefalici evocati (ABR) entro il
sesto mese nei pazienti in cui le otoemissioni acustiche evocate diano risultato patologico.
Questo è importante perché con la diagnosi precoce si può intervenire tempestivamente
con una riabilitazione audiologica mediante protesi acustiche o impianto cocleare, nei casi
più gravi. Ciò comporta una sorta di revitalizzazione del canale uditivo dove possibile e
quindi il bambino cerca, mediante una riabilitazione logopedica specifica, di imparare il
linguaggio verbale. In passato la diagnosi precoce non esisteva, non esistevano gli impianti
cocleari, ma le protesi che comunque richiedendo un minimo di capacità acustica, vista con
i residui uditivi, per amplificare i suoni. Ma se un soggetto ha dei residui uditivi importanti
per cui la protesi non è efficiente si ricorre all’impianto cocleare per recuperare la capacità
uditiva, il feeedback uditivo, per un corretto sviluppo del linguaggio verbale.
Grazie a questo i soggetti sordo-muti tipici di una volta con soglia superiore ai 90-95 dB,
non esistono più, naturalmente laddove si interviene in maniera tempestiva.
Infatti tanto più precocemente viene ristabilito il feedback acustico e la riabilitazione
logopedica, maggiore sarà la plasticità neuronale e migliori saranno i risultati: il periodo
migliore è tra 1 anno e 2 anni. Se un soggetto viene trattato dopo i 2 anni i risultati saranno
più scarsi.