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Introduzione al corso

Gli argomenti che il professore ha scelto di trattare durante il corso sono le patologie dell’apparato
respiratorio particolarmente rilevanti come l’asma bronchiale, le polmoniti, il tumore del polmone, la
tubercolosi, la BPCO. L’unica eccezione è rappresentata dalle malattie rare del polmone, che saranno
comunque trattate perché Padova è uno dei centri più importanti in Italia per queste patologie e perché
esse, chiamate anche “fibrosi del polmone”, negli ultimi anni hanno visto uno sviluppo incredibile per
l’introduzione di due nuovi farmaci.
All’esame verranno chiesti argomenti importanti: difficilmente saranno chiesti i dettagli, in linea di
massima sono domande generali. Il prof. valuta gli argomenti e le domande considerando i motivi per cui
gli pneumologi sono chiamati in consulenza più spesso:

 un paziente ha fatto una spirometria; cosa dice la spirometria?


 un paziente ha fatto la TAC, cosa dice la TAC?
 il paziente ha bisogno di ossigeno oppure no?
Questo vuol dire che si può usare qualsiasi testo di riferimento ma all’esame il Prof. Spagnolo tende a
chiedere inevitabilmente quello che ha spiegato a lezione. Si consiglia anche il sito UpToDate che è un
sito inglese che per un determinato argomento include tutti gli update più recenti, qualunque libro
rischia di non essere al passo con gli ultimi aggiornamenti.
Il Prof ad ogni lezione è disponibile per fare una ricapitolazione dell’argomento trattato nella lezione
precedente.
Per le presenze: il codice sarà generato circa a metà lezione; se sia il 74% o l’81% di frequenza rispetto al
vincolo del 75% non fa nessuna differenza, è ovvio però che all’esame il Prof. si rende conto subito se lo
studente è stato oppure no a lezione.
All’esame sono generalmente presenti i docenti delle varie discipline; la cardiologia ha un peso
leggermente maggiore rispetto alle altre quindi la media non è distribuita esattamente tra le varie
materie.
Le due date dell’esame devono essere comprese nell’arco di due o tre settimane. La prima dovrebbe
essere nell’ultima settimana di Gennaio e la seconda entro i primi 15 giorni di Febbraio.

Le polmoniti

L’imaging, che sia una radiografia del torace o una TAC del torace, in generale è molto indicativo ed è
fondamentale per gli pneumologi, tanto che per alcune patologie può essere considerato diagnostico.
Una Rx del polmone è PA cioè postero-anteriore: i raggi vengono da dietro, quello che si vede alla nostra
sinistra è alla destra del paziente.
La radiografia a fianco potrebbe rappresentare
diverse patologie, tra cui anche una polmonite basale
caratterizzata da confini non netti o definiti: potrebbe
ad esempio essere una broncopolmonite
Spesso nei libri di testo si trovano immagini di
radiografie perfette con polmoni di grandi dimensioni
e polmonite lobare ben definita; in clinica non è così, i
pazienti sono allettati e quindi bisogna fare i conti con
la postura stessa che può determinare un’ombra
cardiaca o il fatto che il polmone non sia espanso.
Nella Rx osservata i polmoni sono piccoli, si contano
circa 4-5 spazi intercostali (solitamente se ne
dovrebbero contare 6 o 7), il paziente potrebbe
dunque essere allettato.

Quando si osserva una Rx del torace, tendenzialmente si guarda il polmone, ma


non bisogna dimenticarsi di considerare anche le pleure se è presente un
versamento, le ossa se c’è una frattura, il cuore se c’è un’ombra cardiaca
ingrandita.
Dall’Rx a destra si può dedurre che il paziente sta male poiché presenta una polmonite estesa. Il
polmone di destra si vede pochissimo: potrebbe essere un paziente in rianimazione.

In una TAC di solito il paziente è steso, la testa è al di là dello schermo, si osservano delle sezioni e si
vede il paziente dai piedi.
In questa sezione si osservano l’apice del polmone di destra e sinistra.
Nella TAC del polmone si vedono solitamente tre colori: il nero, il bianco, il grigio. Se c’è nero significa
che c’è aria, se c’è bianco vuol dire che
l’aria non è presente; se c’è grigio significa
che c’è meno aria.
I motivi per cui si ha meno aria possono
essere molteplici, per esempio ci può essere
un accumulo di sangue (un’emorragia), un
accumulo di cellule infiammatorie, un
accumulo di liquido (scompenso cardiaco),
un accumulo di cellule eosinofile (polmonite
eosinofila).
Nella TAC osservata sopra si nota del grigio:
questo tipo di immagine è definita dai
radiologi ground glass  opacity (GGO) che
significa vetro smerigliato. In questo caso si tratta di
una polmonite bilaterale e quindi a focolai multipli,
per definizione una situazione molto grave.
La base del polmone di destra è completamente
compattata: si parla anche di epatizzazione.
Spesso in un quadro cosi avanzato ci sono dei segni
che danno delle informazioni fondamentali. Ad
esempio la lesione estesa in questo caso non
potrebbe essere un tumore, perché si vedono dei
bronchi pervi che rappresentano il segno del
broncogramma aereo, un segno radiologico
fondamentale. Al contrario il tumore non ha
delimitazione, non c’è motivo per cui dovrebbe “risparmiare” le vie aeree.

Parlando di polmoniti è fondamentale il rapporto tra il patogeno e il paziente, l’ospite. La combinazione


peggiore è un patogeno molto aggressivo in un paziente defedato. Ecco perché si cerca sempre di non
ritardare le dimissioni: uno dei motivi (non il principale) è evitare o ridurre la possibilità che il paziente
possa contrarre una polmonite nosocomiale.

Definizione di polmonite

 Anatomopatologica: infezione degli alveoli, delle vie aeree distali e dell’interstizio


polmonare caratterizzata da aree di consolidamento parenchimale con alveoli ripieni di
globuli bianchi (soprattutto neutrofili), globuli rossi e fibrina. È quindi interessato il
polmone profondo, con compartecipazione importante di cellule infiammatorie.
 Clinica: la diagnosi è sempre clinico-radiologica. Si ha un sospetto in base ai segni e ai
sintomi (febbre alta, brivido scuotente, tosse produttiva, dolore pleurico,
espettorazione, escreato rugginoso, herpes labiale, rantoli crepitanti all’auscultazione)
che vien confermato con un’opacità polmonare alla radiografia del torace.

Il Prof. sottolinea che non si metterebbe mai a chiedere la definizione di polmonite anatomo-
patologica, invece potrebbe chiedere come si fa diagnosi di polmonite, quindi la definizione
clinica.

Dal punto di vista epidemiologico è fondamentale la distinzione tra:

o CAP, community-acquired pneumonia, polmoniti acquisite in comunità;


o HAP, hospital-acquired pneumonia, polmoniti nosocomiali, acquisite in ambiente
ospedaliero. Le HAP possono a loro volta essere:
1. associate a ventilazione meccanica: un paziente intubato presenta un rischio molto alto
di polmonite;

2. non associate a ventilazione meccanica;

3. healthcare-associated pneumonia, tipica dei


pazienti che sono a contatto con il sistema
sanitario per tempi prolungati come i
dializzati, i pazienti in trattamento per il piede
diabetico, i pazienti in lunga degenza.

La distinzione è importante perché le polmoniti acquisite in comunità possono essere gestite a


domicilio, a meno che non siano presenti una serie di complicanze o comorbidità. Invece il
paziente che contrae polmonite nosocomiale è in ospedale per un motivo quindi
verosimilmente sarà defedato e la polmonite è probabilmente più grave.
Le fasce di età più colpite sono le fasce estreme, tende però a cambiare il tipo di patogeno: il
bambino è colpito prevalentemente da infezioni virali o miste (virali con complicanze
batteriche); l’anziano e l’adulto è più probabile che contraggano infezioni batteriche tipiche o
atipiche.

Patogenesi

Per quanto riguarda la patogenesi bisogna considerare la via di infezione, i fattori di virulenza
del microorganismo e i fattori di suscettibilità dell’ospite, per tenere sempre presente il
rapporto tra microorganismo e ospite.
Relativamente alle vie di infezione, ce ne sono quattro di principali:

 aspirazione (inalazione): si tratta generalmente di pazienti con turbe di coscienza, con


problemi di deglutizione, anziani, pazienti che hanno avuto ictus cerebrale con questo
tipo di sequele neurologiche. A questi soggetti possono andare facilmente cibi “per
traverso”, (ragion per cui questi pazienti sono spesso nutriti con nutrizione parenterale);
 aerosolizzazione: il virus si muove con goccioline di saliva come quello dell’influenza;

 diffusione per via di contiguità: può avvenire per esempio da un organo vicino, da una
miocardite, da una colecistite sottodiaframmatica;

 diffusione per via ematogena: è la diffusione più complicata perché implica che, come
l’infezione ha colpito il polmone, essa possa colpire anche altri organi;
Fattori di virulenza: Non tutti i microrganismi sono uguali,
ci sono microrganismi in grado di alterare la clearance
muco-ciliare, di produrre enzimi proteolitici che inattivano
le IgA o di inibire la fagocitosi e ci saranno inevitabilmente
dei patogeni più aggressivi.
Suscettibilità dell’ospite: a maggior rischio e con polmoniti
più gravi sono gli immunodepressi, i pazienti con
alterazioni anatomiche come le bronchiectasie, il
sequestro polmonare, ostruzioni polmonari, gli
splenectomizzati.

Sequestro polmonare: è un’alterazione anatomica rarissima, rappresenta l’1% delle alterazioni


anatomiche a livello polmonare, di solito è congenita. La vascolarizzazione di tale porzione di
polmone deriva dall’aorta toracica e non dal circolo polmonare. Si chiama sequestro perché
deriva da un’embriogenesi anomala in cui parte del polmone ha una circolazione diversa
rispetto al resto del polmone, cioè sistemica e non polmonare, ed è ventilato da bronchi
anomali.
In questa TAC le alterazioni sono alla nostra sinistra in basso; si tratta di bronchi dilatati,
bronchiectasie varicose che coinvolgono un lobo polmonare. È una TAC tipica di un paziente
con la fibrosi cistica, infatti esistono molti tipi di bronchiectasie con diversi livelli di gravità ma
quando sono così estese sono caratteristiche di questa patologia.
Il fattore predisponente all’infezione, in questo caso, è quello anatomico.

In genere i soggetti affetti hanno più di un patogeno, ma il 100% ha lo Pseudomonas. È un


batterio Gram negativo molto aggressivo e molto difficile da raggiungere con le variazioni
anatomiche sopracitate (“un animale in una tana”). I pazienti con fibrosi cistica muoiono spesso
di infezione recidivante e insufficienza respiratoria, per questo il trapianto più comune a cui
sono sottoposti è il trapianto di polmone.

Domanda: La bronchiectasia si definisce come dilatazione bronchiale?


Risposta: Sì. Si tratta di dilatazioni solitamente irreversibili. Il problema è che spesso possono
andare incontro a riacutizzazione: il paziente ha sempre le bronchiectasie ma queste
periodicamente possono peggiorare, riacutizzandosi con febbre e aumento di produzione di
espettorato.
Ci sono linee guida dell’American Thoracic Society precise sull’ iter
diagnostico e terapeutico per le bronchiectasie. I pazienti devono vaccinarsi
per prevenire le riacutizzazioni e quindi il trattamento che consiste in lunghe
terapie antibiotiche.
Domanda: Che differenza c’è tra bronchiectasia
normale e bronchiectasia varicosa?
Risposta: La bronchiectasia varicosa si distingue per
l’estensione, nella maggior parte dei casi le
bronchiectasie sono limitate come estensione.
Esistono vari tipi di bronchiectasie, quelle varicose,
quelle a grappolo etc… Il bronco è come una radice
di un albero, ci si aspetta che le dimensioni si
riducano verso la
periferia; nelle bronchiectasie invece il bronco rimane ectasico e
dilatato verso la periferia (noto anche come segno radiologico del
binario).
Nella maggior parte dei casi si vedono bronchiectasie di limitata
entità; nella TAC sovrastante è quasi certo, in virtù dell’estensione
delle bronchiectasie, che il paziente sia affetto da fibrosi cistica
oppure da una patologia congenita di qualche tipo (qualche
distrofia dei bronchi).

Quadri patologici

1. Polmonite lobare

La polmonite lobare coinvolge in maniera omogenea un intero lobo polmonare. La diffusione


avviene attraverso i pori di Kohn e vi è occupazione degli spazi alveolari. Dal punto di vista
radiologico è caratterizzata da un addensamento parenchimale a delimitazione scissurale, con
broncogramma aereo e che raggiunge la pleura.
Nell’Rx a sinistra c’è un’ombra cardiaca ingrandita e la polmonite è alla destra del paziente. Da
quest’immagine ci si può immaginare un paziente con probabile insufficienza cardiaca e/o
patologie multiple; ci si potrebbe aspettare, in caso di insufficienza cardiaca, anche un possibile
versamento pleurico (se è presente un versamento pleurico non si vedono più i seni
costofrenici liberi; si vede un accumulo rettilineo nelle zone più declivi, un opacamento
uniforme). Il lobo colpito è il medio.

Nella radiografia a destra è invece colpito il lobo inferiore di sinistra. Per definire precisamente
la localizzazione si utilizza la proiezione latero-laterale.
Domanda: può chiarire il concetto di broncogramma aereo?
Risposta: In caso di polmonite ci si può immaginare il polmone come una spugna, diventa molto
compatto, pieno di essudato, pesante come il fegato (epatizzazione) e si forma un
addensamento. Il processo risparmia però i bronchi: se si incontra un addensamento con
bronchi pervi è quasi certo che si tratti di polmonite.
In realtà “addensamento” è un termine generico, si verifica anche in caso di tumore al polmone;
in caso di tumore però si osserva una massa al cui interno non c’è nulla perché la cellula
neoplastica infiltra, non rispetta il bronco, quindi gli addensamenti neoplastici sono diversi da
quelli di una polmonite. Il concetto di broncogramma aereo come altri segni radiologici è da
contestualizzare alla storia del paziente e in base a come viene fatta la diagnosi.

Domanda: quando vediamo bronchi pervi dobbiamo dire che c’è broncogramma aereo?
Risposta: il broncogramma aereo è proprio un addensamento a bronchi pervi.

2. Broncopolmonite
Nella broncopolmonite l’addensamento è meno delimitato, si incontrano addensamenti
irregolari e a volte possono essere escavati. Le caratteristiche sono:
 Irregolari aree di consolidamento parenchimale soprattutto a carico dei segmenti
posteriori dei lobi inferiori;
 Essudato a livello bronchiolare con diffusione centripeta agli alveoli;

 Radiologicamente è caratterizzata da opacità irregolari o da addensamenti segmentali


talvolta escavati.

Nell’Rx a fianco si nota una polmonite estesa a sinistra.


La probabilità che questo paziente sia in insufficienza respiratoria è alta:
l’insufficienza si verifica se la PaO2 misurata con un’emogasanalisi è inferiore
a 60 mmHg (In condizioni normali dovrebbe essere 90/95 mmHg). Un
processo cosi esteso è dunque probabile che abbia complicanze funzionali.
È importante sapere se il paziente è in insufficienza respiratoria perché in
questo caso viene ricoverato senza esitazioni.
Nell’immagine a fianco si nota una lesione
escavata. I patogeni che danno escavazione sono
il Mycobacterium tuberculosis (agente della
tubercolosi) e lo Staphylococcus.

Domanda: Come si fa a distinguere dall’imaging una polmonite da


una broncopolmonite?
Risposta: La differenza è più clinica che radiologica: ciò
che interessa nella polmonite è identificare il patogeno, in quanto la terapia dipende
da quello e dal tipo di paziente che ha preso la polmonite. Non è una differenza enorme che si tratti di
una polmonite o di una broncopolmonite: la broncopolmonite generalmente è piuttosto estesa. Si può
parlare chiaramente di polmonite in caso di polmonite lobare, però potrebbe anche esserci una
polmonite interstiziale che è meno definita. Non c’è pertanto uno spartiacque preciso tra polmonite e
broncopolmonite.
Inoltre non ci sono dei dati clinici o radiologici che permettono di predire con assoluta certezza la genesi,
ovvero il patogeno. Se il paziente è immunodepresso è probabile sia una polmonite virale ma in generale
non si riesce dalla TAC ad affermare se quella che si vede è una polmonite, ad esempio, pneumococcica.
Infatti il trattamento viene effettuato a prescindere senza aspettare di individuare il patogeno: il
patogeno si identifica in meno della metà dei casi.

Domanda: Cosa si intende per “irregolari aree di consolidamento parenchimale”?


R: Il consolidamento è il “bianco” che si vede in radiografia. La definizione precisa è la seguente: quando
quello che si vede nel polmone lascia intravedere i bronchi e i vasi sottostanti quello è “vetro
smerigliato” o “ground glass”; se invece c’è una palla bianca che non lascia intravedere nulla al di sotto
si parla di consolidamento. Questo concetto tornerà quando si parlerà di interstiziopatie e fibrosi
polmonare in quanto esse sono patologie diffuse: non si vedrà mai un consolidamento grande ma
qualcosa di molto lieve ed estremamente diffuso di colore grigio che lascia intravedere le strutture
sottostanti. Consolidamento e addensamento sono sinonimi e i radiologici utilizzano questi termini in
modo interscambiabile (in inglese si traducono entrambi con “consolidation”)

3. Polmonite interstiziale
La radiografia a destra è di difficile interpretazione, sembra tipicamente normale e si intravede
qualcosa solo a occhio esperto.
In questa TAC invece si vede chiaramente la polmonite a sinistra che
interessa il polo inferiore sotto la scissura.

La radiografia a destra è di una paziente donna: le mammelle rendono tutto


meno visibile per la presenza di tessuto mammario. Si vede una polmonite
abbastanza estesa a sinistra ma è probabile ci sia qualcosa anche a destra.

La TAC qui sopra a

sinistra
evidenzia un’interstiziopatia. L’interstiziopatia non ha una lesione unica: non è una massa o un tumore,
sono delle alterazioni che interessano in maniera pressoché uniforme il polmone. Ci sono numerose
lesioni che vengono chiamate nodulini “fluffy” (come dei fiocchi di neve) e si fa fatica a vedere dove
finisce uno e inizia l’altro: questo è tipico di un quadro interstiziale dove non c’è addensamento lobare. Il
vetro smerigliato è il risultato di una miriade di nodulini fluffy. Nella sarcoidosi o nella polmonite da
ipersensibilità possono esserci aree di vetro smerigliato proprio dovute a essi.
Questo ci permette di escludere un quadro di tubercolosi miliare (visibile invece nell’immagine a destra)
dove i nodulini sono molto più netti, delimitati e hanno forma simile ai chicchi di miglio.
C’è una patologia che entra in diagnosi differenziale con la tubercolosi miliare caratterizzata da noduli
attaccati alla pleura e diffusi uniformemente (“non viene risparmiato niente”): è il caso delle metastasi
polmonari, che infatti non hanno una disposizione particolare e colpiscono in maniera uniforme.
Pertanto, quando c’è un quadro compatibile come nel caso di paziente defedato, che ha perso peso, con
tosse produttiva con una TAC come quella a destra probabilmente siamo di fronte a tubercolosi; nel caso
di un paziente con un altro tipo di storia e un tumore da un’altra parte dobbiamo innanzitutto escludere
che sia una metastasi.

D: Le metastasi possono essere così estese?


R: Le metastasi possono praticamente dare qualsiasi tipo di quadro. In genere (pancreas, rene,
mammella) sono delle lesioni nodulari di 1 o più cm di dimensione e in genere sono tutte abbastanza
simili, ovvero cambia la dimensione ma rimane invariata la forma.

Polmonite acquisita in comunità (CAP)


È la polmonite che viene acquisita in ambiente comunitario al di fuori dell’ospedale o in un paziente che
è stato ricoverato da meno di 48-72 ore (2/3 giorni).

Epidemiologia

Gli USA contano 4 milioni di nuovi casi all’anno con 8-15 persone ogni 1000 all’anno e all’incirca 1 su 5
(circa il 20%) richiede l’ospedalizzazione. In Europa e negli Usa è la 6° causa complessiva di morte (1°
causa di morte per malattia infettiva). Si tratta di manifestazioni ed episodi sempre clinicamente
rilevanti.

Fattori di rischio per CAP

 Fumo
 Alcolismo
 Patologie ostruttive (asma e BPCO)
 Immunodepressione (per esempio per farmaci, età, co-patologie)
 Età>70 (un’ottantenne per definizione è immunodepresso perché ha un insieme di co-
patologie)
 Co-patologie (demenza senile, patologia cerebro-vascolare, cardiopatia)

Altri fattori di rischio per CAP da patogeni specifici (raramente richiesto all’esame in quanto sono dati
importanti che però valgono più nella carta che sulla pratica clinica)
Un aspetto molto importante già sottolineato è il seguente: una patologia strutturale del polmone
(bronchiectasie) è un fattore di rischio per lo Pseudomonas.

Eziologia

Esistono più di 100 patogeni responsabili di CAP tra batteri, funghi, virus, parassiti. La frequenza relativa
di ciascun agente patogeno varia in relazione all’età del paziente, alla gravità, alle comorbidità e alle
caratteristiche epidemiologiche. Per esempio nell’adulto la polmonite virale è comune negli
immunodepressi: nel reparto di ematologia, dove i pazienti sono immunodepressi, le polmoniti sono
quasi sempre opportunistiche da funghi (Aspergillus), virus (Citomegalovirus). Nella pratica quotidiana in
oltre il 70% dei casi l’eziologia rimane sconosciuta.
La tabella qui riportata è di fondamentale importanza
e raggruppa gli agenti eziologici in base al tipo di
assistenza:

 In ambulatorio i patogeni più comuni


saranno: Streptococcus pneumoniae,
Mycoplasma pneumoniae, Haemophilus
influenzae, Chlamydia pneumoniae o virus
respiratori (quest’ultimi danno bronchite e
patologie delle vie aeree superiori).
 In degenza ordinaria fa la sua comparsa la
Legionella.
 In terapia intensiva compaiono i Gram negativi e lo
Staphylococcus aureus.
La polmonite in questo caso sta nel lobo inferiore e nel lobo medio.
Questa è invece una polmonite a focolaio multiplo; questo
paziente è sicuramente in insufficienza respiratoria. La
polmonite è molto estesa e riguarda quasi tutto il polmone sinistro e
una parte del destro.

In questo caso la polmonite riguarda il polmone sinistro, lobo superiore.

Questo è un altro broncogramma aereo: il polmone


è compatto (epatizzato) ma i bronchi all’interno
sono risparmiati. Si tratta di una polmonite lobare
inferiore molto ben definita in quanto è netta e
“sembra disegnata con il compasso”.

Per quanto riguarda l’eziologia, nei bambini le polmoniti sono prevalentemente virali oppure ‘miste’,
ovvero virali con sovrapposizione batterica mentre negli anziani è
più probabile che siano forme batteriche.

Manifestazioni cliniche

Esistono dei sintomi tipici ma questo dipende essenzialmente dal patogeno: per esempio nella
polmonite pneumococcica i sintomi tipici sono la febbre, la tosse (non produttiva o produttiva di
escreato purulento o rugginoso), dolore toracico dovuto alla pleura parietale che fa male, brividi,
dispnea. Poi ci sono una serie di sintomi associati: cefalea, sintomi gastrointestinali (nausea, vomito,
diarrea), mialgie, artralgie, astenia.
Reperti obiettivi

Dipendono molto dalla localizzazione (se per esempio la polmonite raggiunge la periferia del polmone).
In generale si apprezzano rantoli, crepitazioni, sfregamenti pleurici nella pleurite secca, soffio
bronchiale nel caso delle escavazioni (come mettersi a soffiare dentro una bottiglia). Oltre a questi si
può avere tachipnea, ottusità alla percussione, aumento del fremito vocale tattile, murmure
vescicolare ridotto o assente.
Le manifestazioni cliniche sono quindi molto variabili come anche l’esordio, che può essere drammatico
o insidioso.
NB: Nelle persone anziane ciò che è stato detto finora vale molto poco: sintomi comuni all’esordio della
polmonite possono essere un calo di appetito, perdita di peso, nausea. Nell’anziano non si assiste
dunque alla sintomatologia tipica con tosse produttiva, febbre, herpes labiale ma si ha soprattutto
astenia, senso di spossatezza e perdita di peso (che possono anche essere associati a neoplasia).

Non ci sono correlazioni particolarmente strette tra una determinata eziologia e un determinato quadro
clinico. La radiografia viene effettuata in due casi:

1) Se c’è un forte sospetto clinico e auscultatorio: in presenza di quadro clinico classico per
confermare la diagnosi;
2) Quando c’è un sospetto non chiaro: in presenza di un quadro clinico non da libro
(disturbi aspecifici che possono rimandare a un problema polmonare), come nel caso di
pazienti anziani.
La diagnosi in ogni caso è sempre clinico-radiologica.

Valutazione di gravità

Appena il paziente arriva in reparto bisogna verificare tramite un prelievo radiale se è in insufficienza
respiratoria: in caso positivo bisogna sempre ricoverarlo. Il paziente però potrebbe anche non essere in
insufficienza respiratoria ma necessitare lo stesso del ricovero.
Per valutare la gravità della malattia si utilizzano degli score: questi “proteggono” il medico curante che
segue queste linee guida ed è un problema non
conoscerli. Ad oggi si cerca di fare tutto secondo le linee
guida perché permettono di tutelarsi.
1) Score di gravità PORT (PSI, pneumonia severity Index)
Permette una classificazione in 5 livelli di gravità sulla base del rischio di mortalità a 30 giorni

Prende in considerazione una serie di variabili cliniche e laboratoristiche e assegna un punteggio a


ciascuna variabile. I parametri presi in considerazione sono quindi: l’età (nell’uomo il numero di anni,
nella donna il numero di anni meno dieci), se il paziente si trova in una struttura protetta o meno
(ambiente ospedaliero, lungodegenza, case di riposo) se ha altre patologie o meno. Non è importante
conoscere precisamente quanti punti vale ogni parametro, ma è importante che sia chiaro che ci sono
diversi aspetti che concorrono a determinare la gravità della malattia e che ciascuno di essi assume una
rilevanza nella classificazione.

D: C’è un motivo per cui nella donna l’età vale come numero di anni meno 10?
R: Ci sono probabilmente una serie di studi che dimostrano che il rischio nella donna è alto solo al di
sopra di una certa età, diversamente dall’uomo. A parità di età, quindi, la donna ha un minor rischio.

Oltre a questi parametri si considerano una serie di


segni obiettivi:

 Alterazione del sensorio: se un paziente


arriva in ospedale confuso e non sa dove
si trova e perché si trova in ospedale
ovviamente avrà un rischio di mortalità
maggiore;
 Frequenza respiratoria: se un paziente
ha 30 atti respiratori al minuto è
chiaramente una situazione importante.
 (Altri riportati nella slide)

Oltre a questi vanno aggiunti gli esami di laboratorio o i reperti radiologici in quanto ognuno di questi
elementi ha un’importanza.

Classi di rischio

Se il paziente dopo questo tipo di valutazione è nella


classe I la mortalità a 30 giorni è trascurabile, quindi
o viene mandato a casa oppure viene rivisto dopo un
po’ di tempo. Nel caso della classe II il paziente è
curato a domicilio mentre nel caso della classe III vengono fatte delle valutazioni più articolate. Nel caso
delle classi IV e V il problema non si pone: se un paziente proviene da una struttura protetta con una
polmonite probabilmente non viene nemmeno fatto il PORT: il paziente viene ricoverato in quanto
molto a rischio.
L’algoritmo decisionale è il seguente; non è importante conoscere com’è stato ricavato bensì il concetto
generale che c’è dietro questo tipo di classificazione, in cui diversi elementi concorrono a stabilire il
rischio per il paziente.

2) CURB severity score


Il CURB è più semplice nel precedente (frequentemente richiesto all’esame) ed è un criterio di
valutazione proposto dalla British Thoracic Society. Considera 4 fattori prognostici principali, di cui 3
parametri clinici ed un parametro laboratoristico:

 C sta per Confusion; alterazione del livello di coscienza


 U sta per Urea > 7mmol/L
 R sta per Respiratory rate, FR > 30 atti/min
 B sta per Blood pressure, pressione diastolica < 60 mmHg e/o pressione sistolica < 90
mmHg
Nel CURB 65 si aggiunge l’età, cioè i pazienti con più di 65 anni hanno un rischio maggiore.

Tra i fattori prognostici negativi aggiuntivi si hanno:


 Ipossiemia (SatO2 < 92%) in quanto nella curva di dissociazione dell’emoglobina a questo
livello di saturazione è molto probabile che corrisponda un’insufficienza respiratoria,
visibile se si fa un emogas;
 Quadro radiologico di interessamento bilaterale o multi-lobare (polmonite a focolai
multipli).
Tra i fattori prognostici negativi pre-esistenti si hanno:

 Età ≥ 50 anni;
 Comorbidità.

Anche in questo caso abbiamo l’algoritmo decisionale:

Domanda su CURB e la sepsi: risposta non


chiara, il CURB non va ad escludere un quadro di sepsi bensì a classificare la gravità del fenomeno
polmonare.

Diagnosi eziologica di CAP

Tutti gli studi dimostrano che l’inizio della terapia prima della diagnosi eziologica riduce la mortalità.
Tuttavia, bisogna sempre cercare di capire qual è il patogeno tramite la diagnosi eziologica, che viene
fatta mediante:

 Ricerca dell’agente patogeno su:


- sangue (emocoltura);
- espettorato, se il paziente ha tosse produttiva;
- liquido pleurico;
- broncoaspirato, brushing, lavaggio bronchiale: procedure limitate ai pazienti più
complessi nei quali è più importante capire la genesi oppure quando ci sono in diagnosi
differenziale più possibilità.
 Sierologia
- ricerca IgM;
- dimostrazione dell’incremento di 4 volte del titolo anticorpale nella fase di
convalescenza.
 Ricerca dell’antigene
es. Ag urinario di Legionella o Pneumococco

Verranno ora analizzati gli aspetti uno a uno:

Ricerca dell’agente patogeno


Sangue

o La ricerca va fatta prima dell’inizio della terapia antibiotica;


o Le emocolture sono positive solo nel 20-25% dei casi (1/4 o 1/5 casi)
o La positività correla con la gravità e quindi con la prognosi : se l’emocoltura è positiva
vuol dire che l’infezione è sistemica e sarà più grave.
Espettorato

o Disponibile in circa il 60% dei casi;


o Può essere negativo per effetto di una terapia antibiotica.

Liquido pleurico

o Viene effettuata la toracentesi per escludere la presenza di empiema, ovvero la


formazione di materiale purulento a livello dell’infezione. Questa risulta essere una
complicanza importante perché è praticamente impossibile che l’antibiotico si concentri
a livello del materiale purulento; l’empiema ha una consistenza simile al dentifricio,
quindi a volte è necessario un drenaggio chirurgico per depurare il campo.
Broncoaspirato, brushing o lavaggio bronchiale

o Indicati nei casi di polmonite grave o che si complicano nonostante la terapia.


Sierologia
o É indicata nei casi di sospetta polmonite “atipica” ovvero da Chlamydia e Mycoplasma
(cioè causata da patogeni intracellulari o da virus) che danno alla radiografia delle forme
‘sfumate’ (polmoniti interstiziali);
o La ricerca delle IgM può essere negativa se viene effettuata nei primi 7-10 gg
dall’esordio della sintomatologia;
o La dimostrazione di un incremento di 4 volte del titolo anticorpale nella fase di
convalescenza è utile per la conferma di un sospetto diagnostico;
o Indicata nei pazienti ricoverati per CAP in corso di eventi epidemici e per la sorveglianza
epidemiologica.

Ricerca dell’antigene
o Ag urinario di Legionella pneumophila sierogruppo 1: è un test rapido, con elevata
specificità (>95%) e buona sensibilità (~80%). Il rischio di falsi negativi è basso. Può
essere negativo nei primi 3 gg dall’esordio dei sintomi, ma l’escrezione dell’antigene si
mantiene per alcune settimane anche dopo l’inizio della terapia antibiotica.
o Ag di Streptococcus pneumoniae: può essere individuato nell’espettorato (80%), nelle
urine (circa 40%) e nel siero (9-23%); è però di scarso utilizzo nonostante l’elevata
sensibilità, poiché sono possibili reazioni crociate con altri streptococchi o si possono
verificare risultati falsamente positivi in casi di colonizzazione asintomatica
dell’orofaringe da parte di S. pneumoniae.

Parametri di laboratorio

All’emocromo in genere si vede una leucocitosi


neutrofila (nelle forme classiche). Negli anziani, come
detto già per la clinica, la leucocitosi può mancare.
Oltre a questo, si può avere un aumento dell’azotemia
e della creatinina (fattori associati a una prognosi
negativa).
Nel caso di polmoniti ricorrenti anche dopo diagnosi e trattamento, bisogna sospettare che il problema
non sia effettivamente una polmonite. Potrebbe invece essere:

 Tumore del polmone


 Metastasi polmonari
 TB
 Corpi estranei
 Immunodepressione

Il corpo estraneo evidenziato dalla radiografia


qui a lato è una dentiera: il caso è di un
signore che non aveva tolto la dentiera per
fare la broncoscopia. Dopo diverse settimane e
diverse polmoniti, è stata fatta una radiografia
che ha evidenziato questo corpo estraneo a
livello dei bronchi: la dentiera era andata giù
con il broncoscopio flessibile; per rimuoverla è
stato necessario un intervento con
broncoscopio rigido in anestesia e chirurgia
generale.

Principi di terapia

È fondamentale iniziare la terapia subito perché questo si associa a una miglior prognosi . Generalmente
si agisce entro le primissime ore e la terapia viene protratta per almeno 7 giorni.
In pazienti trattati ambulatorialmente con un antibiotico a lunga emivita (ad es. azitromicina) può essere
sufficiente un trattamento di soli 3 gg.
Bisogna inoltre considerare l’eventuale resistenza a determinati patogeni: per esempio qualche anno fa
nella zona di Modena la probabilità che ci fosse resistenza ai macrolidi era di circa il 30%, quindi un
paziente su 3 non avrebbe risposto a farmaci tipo Klacid oppure Zitromax (azitromicina).
Una grave polmonite da Legionella o da Pseudomonas (quindi correlata a bronchiectasie) o da altri
batteri Gram negativi richiede un trattamento prolungato per 21 gg (2/3 settimane)

Andamento clinico
In uno studio è stato osservato che circa l’86% dei pazienti a distanza di 30 gg presenta ancora almeno
uno dei sintomi correlati alla polmonite: tosse, dolore pleuritico, senso di spossatezza, dolori articolari.
Questi sintomi potrebbero essere dovuti agli effetti collaterali della terapia antibiotica: per esempio, si
tende a non dare i fluorochinolonici (Levoxacin) alle persone anziane perché possono dare problemi
articolari e tendinei (il professore cita il caso di un paziente che ha avuto la rottura di una tendina per la
levofloxacina).

È inoltre da sottolineare come non sempre la clinica delle polmoniti correli con l’imaging: si possono
avere casi di pazienti con radiografia negativa (ovvero pulita, normale) ai quali sta per venire una
polmonite e anche il contrario, ovvero una radiografia che mostra una polmonite ma il paziente è
normale.
Un altro aspetto da evidenziare è che nel momento in cui si ha una radiografia del torace che fa vedere
una polmonite e si inizia il trattamento, la radiografia successiva non deve essere effettuata troppo
presto, perché i polmoni necessitano di un po’ di tempo per riventilarsi. In genere si aspetta qualche
settimana per il paziente a domicilio; è chiaro che se il paziente è in ospedale ed è critico la radiografia
viene effettuata dopo poco tempo per controllare che il decorso sia quello giusto.
In soggetti sani, di età < 50 anni, non fumatori, si osserva una risoluzione radiologica completa entro 6
settimane dall’esordio.

Polmoniti nosocomiali (HAP, Hospital Acquired Pneumonia)

Le polmoniti nosocomiali sono definite come delle polmoniti che si manifestano in un paziente
ospedalizzato da più di 48-72 ore. Rappresentano circa il 15% di tutte le infezioni nosocomiali, pertanto
tra i pazienti ricoverati in una struttura ospedaliera 1 su 7 sarà affetto da questa patologia; riguardano
circa lo 0,5-2% dei pazienti ospedalizzati. Inoltre, più del 25% delle polmoniti nosocomiali si sviluppa in
pazienti ricoverati in terapia intensiva.
Va tenuto conto anche del fatto che questa patologia si associa ad un tasso di mortalità pari al 30-70%.
Nel considerare questi dati si deve tenere presente che nel paziente allettato il polmone ha anche
minore possibilità di ventilare e molte delle polmoniti che insorgono in questi pazienti sono legate
quindi alla scarsa disponibilità di movimento del polmone; per questo, all’aumentare del periodo di
degenza aumenta la probabilità che insorga una polmonite.

In linea generale, si ritiene che le polmoniti nosocomiali presentino una gravità e quindi una prognosi
differente sulla base della tempistica con cui si manifestano:

 Polmoniti nosocomiali che insorgono entro quattro giorni dal ricovero in una struttura
ospedaliera sono in genere associate a infezione da parte di microrganismi sensibili al
trattamento, pertanto alla patologia si associa una prognosi favorevole;
 Polmoniti nosocomiali che insorgono oltre i cinque giorni dal ricovero in una struttura
ospedaliera sono in genere associate a infezione da parte di microrganismi
multiresistenti al trattamento, pertanto alla patologia si associa una prognosi infausta.

Le polmoniti nosocomiali possono essere suddivise in due gruppi principali:

 Ventilator-associated pnumonia (VAP), che insorge in associazione alla ventilazione


meccanica del paziente ospedalizzato e si manifesta entro 48-72 ore dall’intubazione
endotracheale dello stesso. Questa forma di polmonite nosocomiale riguarda circa il 9-
27% dei pazienti intubati e il rischio maggiore di sviluppo della patologia si colloca nei
primi cinque giorni dall’intubazione: la maggior parte delle polmoniti di questo tipo
insorge proprio entro quattro giorni dall’intubazione. La ventilator-associated
pneumonia (VAP) costituisce più del 90% di tutte le polmoniti nosocomiali che insorgono
nei pazienti ricoverati nei reparti di terapia intensiva;

 Healthcare-associated pneumonia (HCAP), che insorge in un paziente che presenta le


seguenti condizioni:
o Ospedalizzazione recente;
o Paziente ospite di una struttura protetta o di un reparto di lungodegenza;
o Paziente sottoposto a terapia antibiotica endovenosa recente;
o Paziente che necessita di assistenza sanitaria continua.

Eziologia delle polmoniti nosocomiali

L’eziologia delle polmoniti nosocomiali prevede il coinvolgimento di diverse componenti, prima fra tutte
l’ambiente: nell’aria possono essere contenuti agenti come l’Aspergillus e virus respiratori, nell’acqua
può essere contenuto Legionella, nel cibo possono essere contenuti bacilli Gram-; inoltre, possono
essere riscontrate delle le superfici contaminate da Streptococcus aereus e virus respiratorio sinciziale
(RSV).
Va anche tenuto conto del ruolo delle apparecchiature sanitarie, che includono tubi endotracheali,
cateteri, broncoscopi, apparecchi per la respirazione assistita e sondini naso-gastrici: trattandosi
comunque di corpi estranei presenti all’interno del paziente, essi possono costituire dei vettori
attraverso cui è facilitata la diffusione dei microrganismi. Inoltre, il personale sanitario può favorire lo
sviluppo di infezioni da parte di Pseudomonas aeruginosa o di altri microrganismi multiresistenti, mentre
gli altri pazienti possono favorire l’infezione da parte di virus influenzali, Haemophilus influenzae e
Staphylococcus aureus.
I principali microrganismi responsabili dell’insorgenza di una polmonite nosocomiale includono
Pseudomonas aeruginosa, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Staphylococcus aureus (in particolare
i ceppi meticillino-resistenti, MRSA), Legionella pneumophila (in pazienti trapiantati o affetti da diabete
mellito, pneumopatie e nefropatie), alcune specie di Acinetobacter, alcuni altri batteri Gram- e alcuni
batteri che colonizzano l’orofaringe (soprattutto in pazienti immunodepressi).

Fattori di rischio per le polmoniti nosocomiali

Nel considerare i fattori di rischio per l’insorgenza delle polmoniti nosocomiali è necessario tenere
presenti sia i fattori legati al paziente sia i fattori legati al microrganismo responsabile dell’infezione da
cui scaturisce la patologia. Per quanto riguarda i fattori di rischio relativi al paziente si annoverano:
sesso maschile, età, sussistenza di comorbidità, obesità e alterazioni del riflesso della tosse o della
deglutizione.

Inoltre, si riscontrano dei fattori di rischio esogeni, in cui rientrano i seguenti aspetti:

 Interventi chirurgici a livello toraco-addominale;


 Intubazione endrotracheale e ventilazione meccanica;
 Nutrizione enterale e il decubito assunto durante tale modalità di nutrizione;
 Terapia steroidea o pregressa terapia antibiotica;
 Mancato rispetto dell’asepsi, quindi trasmissione dell’infezione da parte del personale
sanitario;
 Colonizzazione delle alte vie respiratorie.

Nell’immagine a fianco è riportata la TAC di un paziente affetto


da polmonite da crack. Le regioni di colore bianco nella porzione
più bassa dell’immagine sono rappresentative di un
addensamento del tessuto polmonare: si parla di polmone
epatizzato per via dell’addensamento tissutale che fa apparire
all’imaging la consistenza del polmone come simile a quella del
fegato. Le regioni di colore grigio, indicanti la presenza di
materiale liquido, nella porzione più alta dell’immagine mostrano
un’emorragia alveolare, ipotesi corroborata dall’eventuale riscontro di un’importante anemia del
paziente nel corso di un emocromo. Si riscontra anche la presenza di broncogramma aereo.
Diagnosi delle polmoniti nosocomiali

Una polmonite nosocomiale deve essere sospettata ogni qualvolta compaia un nuovo infiltrato alla
radiografia del torace in associazione all’insorgenza di sintomi quali febbre, espettorato purulento,
leucocitosi e peggioramento della saturazione di O2.

La diagnosi eziologica richiede la ricerca del microrganismo su campioni di secrezioni delle basse vie
respiratorie, prelevati in corso di broncoscopia. Questa pratica diventa di primaria importanza nelle
polmoniti nosocomiali, mentre è considerata secondaria nell’ambito delle polmoniti acquisite in
comunità, in quanto per vari motivi i pazienti ospedalizzati risultano essere complessi.
Raramente le emocolture sono positive (< 25% dei casi), ma in caso di positività la sorgente di infezione
può non essere correlata con i dispositivi di ventilazione meccanica. Nei pazienti ospedalizzati in cui si
sospetta una polmonite nosocomiale in genere si procede anche con l’esecuzione di un broncolavaggio,
che prevede l’iniezione di fisiologica nelle vie respiratorie del paziente.
Inoltre, se è presente un versamento pleurico, la toracentesi può essere diagnostica (ad esempio per
distinguere una pleurite da una lesione tubercolare) o terapeutica (per consentire al paziente di
ripristinare la dinamica respiratoria, impedita dalla presenza di liquido nel cavo pleurico) e comunque
può consentire di escludere la presenza di un empiema pleurico.

Digressione sui versamenti pleurici massivi: una condizione di versamento pleurico massivo (detta white
lung, per l’aspetto del polmone all’imaging) si manifesta ad esempio in caso di metastasi avanzata che
ha coinvolto il polmone; in questa condizione il paziente manifesta un’importante dispnea e nel decubito
avrà la tendenza a stendersi dal lato del versamento, per consentire al polmone sano di espandersi al
massimo a fini di compenso. Nel versamento pleurico massivo, il liquido accumulato all’interno del cavo
pleurico può raggiungere i 5-6 L, ma durante l’evacuazione terapeutica mediante toracentesi è
necessario non prelevare troppo liquido, in quanto lo svuotamento eccessivamente rapido del cavo
pleurico potrebbe causare edema polmonare da ri-espansione: infatti, il versamento pleurico comprime il
polmone, che si rispande a seguito della rimozione del liquido. Pertanto, in presenza di versamento
pleurico massivo, in ogni caso con la toracentesi non si rimuove mai l’intero volume del liquido presente
nel cavo pleurico.

Diagnosi differenziale di HAP

Quando si sospetta una polmonite nosocomiale, si devono contemplare nella diagnosi differenziale le
seguenti patologie:

 Sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS);


 Tromboembolia polmonare;
 Atelettasia;
 Polmonite da farmaci;
 Polmonite eosinofila (acuta o cronica);
 Pneumopatia interstiziale diffusa;
 Neoplasia polmonare (primitiva o metastatica);
 Polmonite da radiazioni.

Nell’immagine a fianco è riportata la TAC di un paziente affetto da


polmonite causata da Herpes virus su un substrato di patologia
ematologica. Si tratta di un’immagine di bassa qualità, ma il fatto
che ci sia una patologia polmonare diffusa è suggerito
dall’intensità del colore scuro all’interno delle vie aeree, che
spinge a concludere che il bianco e il grigio che si osservano in
tutta la superficie del polmone siano dovuti alla patologia e non a
difetti dell’immagine. Nei pazienti affetti da patologie
ematologiche generalmente le polmoniti presentano una notevole
gravità e la loro eziologia è legata all’infezione da microrganismi
che raramente causano una patologia nei pazienti non
immunocompromessi: ad esempio, con elevata frequenza in questi
pazienti si riscontrano delle pneumocistosi, cioè delle polmoniti provocate da Pneumocysti carinii
oppure da Pneumocystis jirovecii che colpiscono soprattutto i pazienti che presentano una condizione di
leucocitopenia (in particolare quando riguarda i linfociti T).

Trattamento delle polmoniti nosocomiali

Nel caso delle polmoniti nosocomiali insorte entro i primi cinque giorni dal ricovero oppure con scarsi
fattori di rischio per eziologia da parte di microrganismi multiresistenti, la terapia consigliata prevede
la somministrazione di un unico farmaco tra ceftriaxone, levofloxacina, moxifloxacina, ciprofloxacina,
ampicillina + sulbactam o ertapenem.

Nel caso invece delle polmoniti nosocomiali insorte dopo i primi cinque giorni dal ricovero con notevoli
fattori di rischio per eziologia da parte di microrganismi multiresistenti, la terapia consigliata prevede
la somministrazione di una combinazione di farmaci: un farmaco a scelta tra cefepime o ceftazidime,
imipenem o meropenem o piperacillina + tazobactam, in associazione a un farmaco a scelta tra
ciprofloxacina o levofloxacina, amikacina, gentamicina o tobramicina.

In più vanno aggiunti linezolid e vancomicina se si sospetta un’infezione da Staphylococcus aureus di un


ceppo meticillino-resistente (MRSA).
In alcuni casi il trattamento farmacologico delle polmoniti nosocomiali fallisce e questo può essere
conseguente a diverse cause:

 Infezione da microrganismi multiresistenti;


 Inappropriatezza della terapia antibiotica in termini di tipo di farmaco scelto e dosaggio;
 Insorgenza di complicanze polmonari tra cui empiema e ascesso polmonare;
 Sussistenza di altra diagnosi tra cui atelettasia, embolia polmonare, sindrome da distress
respiratorio acuto (ARDS), emorragia alveolare o neoplasia.
Di conseguenza, risulta precipitoso sostenere che un paziente che non risponde al trattamento per la
polmonite non sia veramente affetto da tale patologia. Ad esempio, nel caso della polmonite post-
ostruttiva che compare in presenza di un’ostruzione bronchiale, il trattamento farmacologico non avrà
alcun effetto, perché la causa della polmonite è l’ostruzione del bronco che provoca l’atelettasia degli
alveoli a valle; al fine di recuperare lo stato di salute dell’apparato respiratorio è necessario innanzitutto
rimuovere l’ostruzione.

Polmonite nel paziente immunodepresso

La polmonite è una patologia che spesso si manifesta in pazienti immunodepressi, ovvero soggetti che
presentano un deficit congenito o acquisito dell’immunità cellulo-mediata; le principali cause di
immunodepressione sono la presenza di neoplasie, di un quadro clinico di AIDS e l’assunzione di una
terapia antirigetto a seguito di un trapianto. In questi pazienti si verifica una drastica riduzione del
numero di neutrofili, linfociti T, linfociti B, piastrine e macrofagi alveolari.
Nel paziente immunodepresso le polmoniti sono causate in circa il 45% dei casi dall’infezione da parte di
Pneumocystis jirovecii, nel 25% dei casi da parte di vari batteri (indicati nel grafico in basso, a destra) e in
circa il 12% dei casi da Mycobcterium tubercolosis; esistono poi delle cause minori che contribuiscono
solo limitatamente all’insorgenza della patologia.
Nell’immagine a fianco è riportata la TAC di un paziente affetto
da polmonite che dà
manifestazioni
bilaterali
con
caratteristiche
differenti. La
regione di colore
grigio chiaro nella
porzione intermedia
della parte sinistra dell’immagine indica
un essudato, mentre le regioni bianche nella porzione più bassa della parte destra mostrano un
addensamento del tessuto polmonare. È possibile osservare anche un versamento pleurico e la presenza
di broncogramma aereo.
In casi come questo in cui si ritrovano più pattern diversi di alterazione del tessuto polmonare, si aprono
due differenti possibilità: può trattarsi di una condizione di tossicità da farmaci oppure di
connettivopatia: ad esempio, l’artrite reumatoide può causare alterazioni polmonari in circa il 10% dei
casi e comporta lesioni con caratteristiche variabili: brochiectasia, fibrosi, addensamento del tessuto
polmonare e coinvolgimento della pleura; invece, il lupus eritematoso sistemico (LES) si caratterizza per
l’interessamento della pleura e la sclerosi sistemica per la fibrosi.

L’immagine a lato è la radiografia di un paziente immunodepresso affetto


da polmonite interstiziale. La patologia non è confinata a specifiche regioni
del polmone, ma si presenta in forma diffusa, rappresentando una
condizione di notevole gravità. Risulta difficile definire il tipo di
lesione presente nei polmoni del paziente, ma si può parlare in linea
generale di infiltrati di aspetto reticolo-nodulare.

Farmaci pneumotossici

Tra i farmaci che causano tossicità polmonare va ricordato l’amiodarone (Cordarone è il nome
commerciale), farmaco antiaritmico che dà tossicità polmonare in circa il 15% dei pazienti, con un arco
temporale di settimane dall’inizio del trattamento. Per questo motivo, prima di cominciare una terapia a
base di questo farmaco, sarebbe opportuno fare una valutazione radiologica del paziente, in modo da
avere un elemento di confronto rispetto a radiografie successive alla terapia; ciò permette di valutare le
variazioni delle caratteristiche radiologiche dei polmoni e di intervenire tempestivamente con una
modifica o una sospensione della terapia qualora fosse necessario. Infatti, la valutazione della tossicità
polmonare da farmaci si basa sul timing, quindi sulla tempistica di insorgenza di eventuali alterazioni del
polmone dopo l’inizio della terapia.
Inoltre, lo iodio contenuto nell’amiodarone induce lo sviluppo di una memoria immunologica piuttosto
lunga, pertanto anche a seguito della rimozione del farmaco dopo eventuali complicanze, queste
impiegano diverso tempo prima di rientrare (e in alcuni casi persistono anche in caso di terapia con
cortisone dopo rimozione del farmaco induttore di tossicità polmonare).

Domanda: Si fa sempre la radiografia prima di cominciare la terapia con amiodarone?


Risposta: Andrebbe fatta sempre. C’è un sito che si chiama Pneumotox
(https://www.pneumotox.com/drug/index/), accessibile a chiunque, che suggerisce gli effetti deleteri sul
polmone potenzialmente provocati da alcuni farmaci. In ogni caso il rapporto causa-effetto tra
l’assunzione di un farmaco e la comparsa di lesioni polmonari è tutto da verificare. Per i farmaci per cui è
noto un rischio elevato di complicanze polmonari sarebbe comunque opportuno effettuare sempre un
controllo radiologico prima dell’inizio della terapia.

Domanda: C’è il tempo di effettuare una radiografia? Un paziente che si presenta dal medico con
un’aritmia, non dovrebbe essere trattato immediatamente con un farmaco antiaritmico?
Risposta: Non necessariamente il trattamento deve essere così immediato, anche perché le condizioni
acute che necessitano di un intervento così tempestivo sono in genere molto rare.

In ultima analisi, la tossicità polmonare da farmaci è un fenomeno imprevedibile, difficile da


diagnosticare e con un quadro TAC variabile; è importante quindi tenere sempre presente la lista dei
farmaci assunti da un paziente quando si valuta la presenza di lesioni polmonari.

Domanda: La polmonite può essere classificata in restrittiva e ostruttiva?


Risposta: I termini restrittiva e ostruttiva fanno riferimento esclusivamente al quadro funzionale
spirometrico; si definiscono patologie ostruttive quelle in cui la dinamica respiratoria è compromessa
dalla presenza di un ostacolo al flusso d’aria (ad esempio asma ed enfisema), mentre le patologie
restrittive sono quelle in cui la dinamica respiratoria è compromessa dalla riduzione delle dimensioni del
polmone che si “accartoccia” su se stesso (ad esempio fibrosi). Nel paziente affetto da polmonite
generalmente non risulta necessario eseguire una spirometria.

Domanda: In presenza di sangue negli alveoli polmonari si parla di epatizzazione grigia?


Risposta: Sì, ma si tratta di termini anatomopatologici.

Domanda: Quali sono i virus che possono dare polmonite nel paziente pediatrico?
Risposta: Sono soprattutto i Rhinovirus.

Domanda: Qual è la definizione di polmonite ab ingestis?


Risposta: Per una questione anatomica le polmoniti ab ingestis si riscontrano in genere nei campi
polmonari inferiori e non di rado affliggono il lobo medio del polmone destro. Sono in genere delle
condizioni cliniche legate all’infezione da parte di un microrganismo anaerobio e questo fatto condiziona
la scelta della terapia da adottare.

Domanda: Che differenza c’è tra un pattern reticolare e un pattern nodulare riscontrato presso i polmoni
attraverso l’applicazione di tecniche di imaging?
Risposta: L’interstizio polmonare è uno spazio virtuale posto tra alveolo polmonare e capillare, in cui si
colloca una sorta di reticolo di proteine attraverso le quali diffondono i gas respiratori, che pertanto si
muovono in uno spazio molto limitato; è l’impalcatura che sorregge il polmone. Quando l’interstizio
subisce delle alterazioni relativamente alle proprie caratteristiche si parla di interstiziopatia. Il pattern
reticolare compare nel momento in cui si verifica un ispessimento diffuso dell’interstizio; il pattern
nodulare compare quando si formano presso l’interstizio dei noduli a maggiore densità tissutale. A volte
i due pattern coesistono in alcuni quadri clinici.

Disclaimer: il professore, su specifica domanda, ha detto che non chiederà mai all’esame di
riconoscere e associare una radiografia o una tac a una specifica malattia (le nozioni più
dettagliate che fornisce, infatti, sono “a titolo informativo”), invece si soffermerà di più su
conoscenze di base, come sapere se in un paziente anziano è più facile che si verifichi una
sarcoidosi o una malattia fibrotica.

Interstitial lung diseases (ILDs)

Il professore inizia la lezione chiedendo quale fra le due radiografie sottostanti sia patologica: lo
sono entrambe e rappresentano i due estremi nell’ambito delle interstiziopatie, che
corrispondono clinicamente parlando a un campo enorme. Nell’immagine a sinistra il paziente è
affetto da fibrosi polmonare idiopatica (IPF), una patologia progressiva con una prognosi simile
a quella del tumore al polmone; è una patologia legata all’età, rara se si considera tutta la
popolazione, ma che colpisce circa lo 0,2% degli ultrasettantenni. A destra, invece, si ha l’rx di
un paziente affetto da sarcoidosi, che generalmente è benigna: si nota la tipica linfoadenopatia
ilare bilaterale simmetrica che se individuata in un reperto occasionale di un soggetto giovane e
in salute, indica la presenza di sarcoidosi con una percentuale altissima, del 99,99%.
L’interstizio
L’interstizio può essere definito come il “tragitto” che i gas devono percorrere per spostarsi dal
sangue all’aria alveolare o viceversa; è uno spazio minimo, dallo
spessore compreso fra 0,2 e 0,6 micrometri.

A destra è riportata l’immagine di un interstizio sano, mentre nella


pagina seguente uno patologico.

Il disturbo principale associato a quest’ultimo è la


dispnea: dovendo compensare l’interstiziopatia i
pazienti respirano in maniera più rapida. La dispnea è
sempre un sintomo svantaggioso, sia perché molto
dispendiosa da un punto di vista energetico sia
perché poco efficiente, in quanto fra i due gas quello
che diffonde più velocemente è l’anidride carbonica: i
pazienti che ne soffrono, anche quando sono
terminali e prossimi alla morte, non hanno mai
ipercapnia (la quale si presenta solo in caso di
affaticamento dei muscoli respiratori).

Il termine interstiziopatie, tuttavia, non è il termine più adatto a definire al meglio le patologie
in questione perché non è coinvolto solo l’interstizio, ma anche l’epitelio, spazio alveolare e il
microcircolo polmonare, i bronchioli respiratori, la pleura e le vie aeree maggiori; il termine più
corretto sarebbe quello di pneumopatie diffuse. A detta del professore, l’argomento è fra i più
complicati nell’ambito delle patologie respiratorie, ma merita di essere approfondito perché
circa 1 paziente su 7/8 che viene ricoverato nel reparto soffre di interstiziopatie.

Le interstiziopatie comprendono più di 200 entità e sono caratterizzate:

 Radiologicamente da infiltrati diffusi ; ci può anche essere una loro localizzazione


prevalente, ma tendono nel tempo a diventare diffuse omogeneamente all’interno del
torace;
 Istologicamente da una distorsione del parenchima, in particolare a livello degli alveoli;
 Fisiologicamente da un deficit restrittivo del polmone , che in alcune patologie è più
accentuato, mentre in altre come la sarcoidosi ci sono aspetti sia restrittivi che ostruttivi.
Classificazione
La classificazione delle ILDs va a distinguere quelle idiopatiche, a causa sconosciuta come IPF,
da quelle associate o secondarie, come nel caso del polmone del contadino (patologia dovuta
all’inalazione cronica tramite il fieno ammuffito di un fungo particolare), o di connettivopatie
spesso complicate da interstiziopatie (come nel caso dell’artrite reumatoide).

Se la ILD è associata o secondaria si interviene sulla patologia primaria, ovvero la causa,


piuttosto che sul sintomo, anche se a volte la situazione non migliora anche in seguito a
trattamento della patologia primaria.

Diagnosi delle ILDs


Le ILDs sono patologie complesse di cui pochi centri si occupano ad alto livello, fra cui Padova;
per la loro diagnosi l’anamnesi è sempre la componente più importante, perché si tratta di
patologie che colpiscono solo determinate classi della popolazione (e.g. IPF, che colpisce gli
over 65; la LAM o linfangioleiomiomatosi, patologia rarissima che colpisce solo le donne, 1-2
per milione). Oltre a queste vi sono patologie familiari, quelle associate al fumo o all’utilizzo
farmaci o ad altre esposizioni.
In seguito all’anamnesi seguono l’esame obiettivo e l’analisi della funzione polmonare,
dopodiché si esegue una RX torace o la TAC; se queste non sono risolutive si passa al lavaggio
bronco-alveolare (BAL), e a vari tipi di biopsia sulla base delle lesioni del paziente.

Il professore annuncia che un giorno farà tenere lezione a un suo amico endoscopista, che
mostrerà solo filmati endoscopici.

Confronto fra TAC convenzionale e TAC ad alta risoluzione

Nell’immagine sottostante a sinistra si vede la TAC convenzionale, a destra quella ad alta


risoluzione. La differenza sta nel fatto che la prima è una TAC a cosiddetto strato spesso, ovvero

effettua dei “tagli” ogni 10 mm, mentre la seconda è a strato sottile, ovvero i suoi “tagli”
vengono effettuati ogni 1-1,5 mm; questo significa che mentre con quella convenzionale si può
perdere casualmente dal referto anche un nodulo di 5 mm, il rischio che sfugga qualcosa in
quella ad alta risoluzione è trascurabile.

Il professore inizia a descrivere una serie di casi clinici mediante RX e TAC


In quest’immagine si può notare
uno pneumotorace con le due
pleure, parietale e viscerale, che
sono staccate (n.d.r. spazio nero
indicato dalla freccia) nella parte
anteriore del polmone di destra.
PNX e versamento pleurico richiedono il posizionamento di un drenaggio toracico per essere
trattati.

In queste TAC (slide 12,13,14) si vede il


cosiddetto pattern a vetro smerigliato (o ground
glass opacity), nella parte posteriore
dell’immagine; esse permettono inoltre di capire
che le interstiziopatie corrispondono a lesioni
diffuse (come dimostrato da una delle slide in cui
non c’è polmone risparmiato). Nella slide 14 si
nota che l’esofago di questa giovane donna è
dilatato e questi due caratteri (n.d.r. vetro
smerigliato ed esofago dilatato), sono spesso
associati alle connettivopatie, come la sclerosi
sistemica. Un occhio allenato e attento, secondo
il professore, riconoscerebbe subito tale tipo di tac.

Nell’immagine a fianco si ha la radiografia di un


paziente con una linfoadenopatia ilare bilaterale
simmetrica; quegli addensamenti che si vedono sono,
infatti, dei pacchetti linfonodali.

Quando questo aspetto viene riscontrato nella


radiografia di una persona giovane e in buona salute è
certo che si tratta di sarcoidosi. Se la persona invece
ha febbre, un importante interessamento sistemico,
astenia e soprattutto quando la linfoadenopatia non è
simmetrica (c’è solo da un lato o nei due lati si trova
ad altezze diverse), il discorso è completamente
diverso, ed è più probabile che il paziente abbia un
linfoma. Quadro clinico e contesto clinico sono
pertanto fondamentali in quest’ambito.
Le due immagini soprastanti e quella sottostante sono referti dello stesso paziente: dalla RX e
TC frontali è difficile trarre delle conclusioni, mentre dalla TAC coronale si capisce che si tratta di
un polmone pieno di cisti.

Il professore, in relazione alle immagini, sostiene che se dovesse chiedere solo un’informazione
sul paziente chiederebbe il sesso, perché se questo fosse una donna in età fertile si potrebbe
fare diagnosi, dato che queste lesioni sono tipiche della linfangioleiomiomatosi.

Le cisti in questi casi possono rompersi e causare


pneumotorace (n.d.r. immagine a fianco); per questo ai
pazienti si sconsiglia di fare sforzi fisici, attività subacquea e
lunghi viaggi transcontinteali in aereo.
Nelle TAC sottostanti, invece, è difficile definire cosa si vede: il professore direbbe che ci sono
degli addensamenti nodulariformi, alcuni dei quali caratterizzati da escavazione (visibile come
zone nere in qualche noduli); da notare anche la distribuzione della patologia, che va a
risparmiare le basi (n.d.r. ultima immagine). Il paziente è affetto da una malattia tipica del
fumatore (colpisce il 100% dei fumatori?), ovvero l’istiocitosi a cellule di Langerhans.

TAC di un paziente ricoverato in


ematologia che ha seguito brevemente
anche il prof. Spagnolo. Le lesioni che si
vedono sono difficili da definire e in
questi casi le possibilità sono due: o il
paziente ha un problema associato a
tossicità da farmaci o ha una
connettivopatia. In effetti il paziente
aveva una neoplasia vescicale e gli veniva somministrata bleomicina, antitumorale efficace ma
molto tossico tanto che già nei topi da esperimento causa fibrosi polmonare (n.d.r. si tratta di
una tossicità selettiva perché tutti i tessuti sani presentano la bleomicina idrolasi ad eccezione di
pelle e polmoni).

La prognosi varia molto da paziente a paziente ma spesso è catastrofica (n.d.r. la frase forse è
riferita all’eventuale fibrosi polmonare secondaria alla bleomicina): a volte tolto il farmaco il
quadro migliora, ma in questo nonostante sia stato tolto il farmaco e somministrato il cortisone
ad alte dosi il paziente è comunque deceduto.

TAC di una paziente di 35 anni,


forte fumatrice e con storia di
bronchiti recidivanti; alla
spirometria viene individuato
un deficit ostruttivo simile a
quello associato all’asma e alla
bronchite cronica.
Nell’immagine si possono
notare dei nodulini (frecce),
che in questi casi sono difficili
da identificare; nel 90% dei
casi, soprattutto se scoperti
accidentalmente, sono tumori
benigni, ma se si trovano in un fumatore anziano che sputa sangue il sospetto, ovviamente, è
diverso. La signora non è tranquilla e viene quindi svolta un’anamnesi approfondita associata a
biopsia polmonare chirurgica, nella quale non si vedono cellule ma solo fibre collagene;
l’anatomopatologo diagnostica polmonite da varicella (la signora riferisce che gliel’ha passata il
figlio malato).

Il professore mostra alcuni segni clinici associati alle malattie che sono state citate:

 Ippocratismo digitale, di cui non si conosce il meccanismo fisiopatologico; il 10% dei casi
sono familiari, quindi idiopatici, mentre negli altri il segno è dovuto in ordine di
importanza a mesotelioma pleurico, silicosi, IFP;
 Fenomeno di Raynaud;
 Pelle lucida e tesa, tipica della sclerosi sistemica;
 Mani con papule di Gottron (n.d.r. lesioni
rossastre, rilevate, desquamanti, localizzate sulle
superfici estensorie delle articolazioni interfalangee prossimali e distali), patognomiche
di dermatomiosite

 Mani da meccanico, ovvero polpastrelli ipercheratosici; in pazienti che


non hanno svolto professioni manuali questo segno suggerisce la
presenza di una complicanza a livello polmonare. Spesso i pazienti di
questo tipo hanno una polimiosite di base con poi interessamento del
polmone con fibrosi.

C’è quindi una relazione fra le mani e i polmoni.

 Macchie di questo tipo sono tipiche della sarcoidosi (nel 30% dei casi si ha
un interessamento cutaneo); in questi pazienti sono da sconsigliare i
tatuaggi perché spesso vengono attaccati dalla malattia (vedere slide). In
questi casi non si svolge biopsia polmonare.

 Lupus pernio, una complicanza della sarcoidosi molto


importante a livello estetico che colpisce soprattutto
persone di colore e i portoricani.

Spirometria
Viene presentato brevemente questo grafico
associato alla valutazione della funzionalità
polmonare mediante spirometria. La zona verde rappresenta il profilo normale; quello giallo,
detto “a zampa di cane”, corrisponde alla funzionalità polmonare di un paziente con deficit
ostruttivo, causato per esempio da asma o bronchite cronica; il profilo rosso invece indica un
deficit restrittivo: in questo caso la forma della curva è conservata ma la dimensione è
significativamente più piccola.

Altre RX e TC
In questa radiografia si osserva bene il cosiddetto segno della
scomparsa di silhouette, ovvero il profilo di cuore viene perso.

Nella TAC riportata in basso a destra invece si nota


posteriormente una patologia cistica a nido d’ape, con cisti una
sopra l’altra, a cui ci si riferisce con il termine polmone a nido
d’ape o honeycomb lung. Il polmone risulta essere distrutto
dalle cisti: presenta una difficoltà nel gonfiarsi e anche al tatto si
sente che è più rigido; oltre a questo è molto pesante,
infatti in acqua affonda.

La patologia in questione nel paziente si è poi riaccesa


(slide 34); questo ha una prognosi infausta nella
maggior parte dei casi.

La TAC per queste patologie è quindi un esame


fondamentale, in quanto una sua analisi accurata
spesso e volentieri dice tutto quello che c’è da sapere.

Usual interstial pneumonia o pattern UIP


Con il termine pattern radiologi e
anatomopatologi indicano uno
specifico aspetto del polmone agli
esami radiologici; non è quindi un
termine che si rifersice ad una
specifica patologia. Il pattern UIP
corrisponde al polmone a nido
d’ape, ovvero il polmone distrutto
dalla malattia e pieno di cicatrici;
la sua presenza non è mai un buon
segno e ha una cattiva prognosi.

Quando si guarda la TAC di un


paziente con interstiziopatia ci si
deve sempre chiedere se questi ha
nido d’ape o meno, poiché la
risposta apre degli scenari completamente diversi (anche se nella maggior parte dei caso la
presenza di honeycombing è dubbia). Se poi questo tipo di pattern non ha una causa, allora
tipicamente si parla di fibrosi polmonare idiopatica o IPF. Il pattern dev’essere sempre
contestualizzato, perché può essere idiopatico o meno.

Un elemento che aiuta in questo caso è l’età: per esempio in un paziente di 70 anni, maschio e
fumatore, il pattern a nido d’ape è quasi certo che sia idiopatico; in un paziente con artrite
reumatoide invece il pattern UIP non può essere idiopatico e va seguito in combinazione col
reumatologo.

Il professore mostra una TAC (slide 38) di un paziente con IPF (patologia che predilige le basi,
mentre altre patologie le risparmiano -slide 41-).

////In questa TAC invece non ci sono porzioni di polmone risparmiate dalla patologia; è
presente una bronchiectasia da trazione (n.d.r. frecce bianche), ovvero in periferia le
ramificazioni bronchiali rimangono dilatate invece di assottigliarsi (n.d.r. sembra che il
professore abbia detto qualcosa in più su tale condizione, ma dalla registrazione non si capisce).

/Le lettere PA indicano l’arteria polmonare e sottolineano il fatto che questa sia più grande
dell’adiacente aorta ascendente: essendo i polmoni fibrotici, si sviluppa un quadro di
ipertensione polmonare e quindi il cuore di destra deve lavorare a pressioni maggiori con
conseguente dilatazione dell’arteria polmonare.

Nella TAC a destra invece si ha complessità all’interno della complessità: c’è soprattutto vetro
smerigliato, ma si notano anche delle zone scure di intrappolamento aereo, non simmetriche. Si
tratta di casi di bronchiolite e la patologia associata si chiama polmonite da ipersensibilità (e.g.
polmone del contadino o del coltivatore di funghi).

/In alto a sinistra si riconosce il pattern nodulare, in questo caso con noduli centrali, tipico della
sarcoidosi (n.d.r. viene ripreso più avanti).

In alto a destra si nota un polmone con pattern a vetro smerigliato e dilatazione dell’esofago.

In basso a sinistra la TAC di una donna affetta da LIM, mentre in basso a destra il cosiddetto
segno dell’atollo o reversed halo sign (n.d.r. area centrale a vetro smerigliato accompagnata da
un’addensamento periferico), nell’ambito di una polmonite in organizzazione infiammatoria.

Lavaggio bronco-alveolare o BAL


Se mediante la TAC non si riesce a fare diagnosi si passa al lavaggio bronco-alveolare, più
invasivo.

/Un esempio è la tac riportata a fianco, con pattern a vetro smerigliato denso.

Fondamentalmente viene instillata soluzione fisiologica o un altro fluido nel polmone e, in


questo caso, viene aspirato un liquido lattescente ricco di mucopolisaccaridi e legato a un
accumulo di surfactante negli alveoli: si tratta di una patologia molto rara (1-2 casi su milione),
ovvero la proteinosi alveolare polmonare, che può essere idiopatica o secondaria (tipicamente
di linfopatie maligne), ed è causata da un alterato metabolismo di questo da parte dei
macrofagi alveolari. L’analisi del liquido in questione, in questi casi, è diagnostica.

La terapia prevede un vero e proprio intervento chirurgico con lavaggio dei polmoni (uno alla
volta altrimenti il paziente morirebbe, con un secondo intervento dopo 6-8 settimane). Mentre
il paziente è sedato, a partire dal naso o dalla bocca con un broncoscopio flessibile si raggiunge
un bronco e, mentre l’altro polmone viene ventilato, si lava il polmone con soluzione fisiologica
a 37 gradi in grandi quantità, anche 30-40 L, per cui le procedure sono molto lunghe. In questi
interventi non si riesce mai a togliere tutto il liquido che si introduce, ma solo o .

In alcuni casi, come detto, l’esame è diagnostico; nel liquido derivato dal BAL, composto per
l’80-85% da macrofagi (aumentano ulteriormente nei fumatori), 10-12% da linfociti e per la
restante parte da granulociti, si trovano cellule che non dovrebbero esserci, come grandi
quantità di eosinofili, che in associazione ad una TAC con addensamenti multipli permettono di
diagnosticare la polmonite eosinofila.
/Biopsia transbronchiale
Se vi sono plurimi noduli attorno alle vie aeree c'è la possibilità di fare biopsia non dall'esterno
ma dall'interno, con la biopsia transbronchiale: in questo tipo di biopsia, insieme alla sonda, si
mette una pinza che permette di fare un prelievo del parenchima.

In questo vetrino istologico si vede ‘’tanto blu’’ e ciò significa che vi sono moltissime cellule.

In basso a sinistra si vedono dei granulomi ben delimitati, sono granulomi da sarcoidosi.

La sarcoidosi si configura quindi come una patologia granulomatosa, un altro esempio di questo
tipo di patologie è la tubercolosi. La differenza tra granuloma sarcoidosico e tubercolare è che il
primo, per definizione, è un tipo di granuloma senza necrosi. Ovviamente vi sono delle
eccezioni a questa regola ma in linea generale, i granulomi della sarcoidosi sono privi di necrosi.

La sarcoidosi è una malattia a eziologia sconosciuta però vi sono dei fattori genetici
predisponenti: tra le tante ipotesi, vi è anche come possibile causa il M. Tubercolosis, allora
viene da chiedersi come mai in un paziente il micobatterio provochi tubercolosi e in un altro
paziente causi sarcoidosi, ma a questa domanda non c'è una risposta.

Trattando un paziente affetto da sarcoidosi con la terapia antitubercolare, si ottengono scarsi


risultati e non esistono attualmente delle evidenze tali che possano portare i medici ad
utilizzare la terapia antitubercolare come terapia per i pazienti con la sarcoidosi.

/In questa immagine si può vedere come i polmoni assumano un aspetto a vetro smerigliato
determinato dalla somma di migliaia di piccoli noduli, questo aspetto è anche chiamato fluffy
(n.d.s. cotonoso).

Se vi sono pazienti di mezza età, ad esempio di circa 58 anni, che alla TAC non rivelano
addensamenti strani ed hanno un ground glass (o vetro smerigliato) molto denso ai limiti del
consolidamento cos'altro si può fare?

- La biopsia transbronchiale è difficile che possa fornire una diagnosi, con essa infatti si
riesce a prelevare un campione di piccole dimensioni, intorno a 1 mm se si è fortunati.
Queste sono delle patologie che per definizione hanno una distribuzione patchy (a
macchia di leopardo), per questo è difficile che con 1 mm si riesca ad avere il quadro
intero.
- /La biopsia polmonare chirurgica è l’alternativa alla biopsia transbronchiale: questa
metodica viene utilizzata dai radiologi e dai patologi che stabiliscono se si tratta di un
quadro di UIP (usual interstitial pneumonia). Con la biopsia chirurgica si prendono di
solito sezioni di circa 4 mm, quindi più estese in grado di fornire maggiori informazioni.
- /In questa sezione qui riportata, a destra si vede prevalentemente tessuto connettivo e
pleura; è possibile osservare inoltre una eterogeneità spaziale e temporale: da un lato
honeycomb che però è diverso da quello della TAC poiché quello rilevato all'istologia
risulta essere un honeycomb molto più piccolo di quello della tac. Si vedono in
prossimità dell'honeycomb delle cisti mentre a sinistra è possibile vedere un polmone
normale. Bisogna inoltre sottolineare che all'istologia, l'UIP si presenta con una brusca
interruzione tra polmone sano e malato.

Vi è inoltre un aggregato di cellule detto focus fibroblastico che rappresenta l'origine delle
cicatrice, il tessuto cicatriziale nascerà da qui.

/In questa immagine si può vedere come cambi la dimensione da una biopsia transbronchiale
ad una biopsia chirurgica, inoltre vi è anche un esempio di criobiopsia: questa tecnica prevede
l’utilizzo di una sonda a -70/-80°C vanno in fondo, il polmone intorno si attacca e poi si strappa.
Non è una manovra particolarmente delicata però permette di recuperare campioni di qualche
millimetro evitando così la biopsia polmonare chirurgica.

Ci sono due complicanze importanti della criobiopsia: un'emorragia del parenchima oppure se
si va troppo in profondità nello strappo si lesiona anche la pleura causando quindi uno
pneumotorace.

Nell’immagine a sinistra è riportata la metodica VATS (video-assisted thoracoscopic surgery),


per fare una biopsia polmonare chirurgica.

In questa immagine in alto a sinistra si vede un esempio di sarcoidosi con vari granulomi;

In alto a destra si vede sempre un quadro di sarcoidosi con i granulomi;

In basso a destra si vede il focus fibroblastico.


Fibrosi polmonare idiopatica
È una patologia degli anziani ed al momento della diagnosi l'età media è 65 anni . La diagnosi si
ottiene in genere dopo circa 2 anni che questi pazienti sono andati più volte dai medici di
medicina generale o da vari specialisti a causa di una tosse persistente. Se capita ad esempio ad
un forte fumatore, si attribuisce la colpa della tosse al fumo oppure nel caso di patologie
professionali si pensa che la causa sia la lunga esposizione all'agente scatenante.

/Ci sono solo due tumori che hanno una mortalità più alta rispetto all'IPF, il tumore al polmone
e quello del pancreas; tutti gli altri tumori hanno minore mortalità rispetto all'IPF (che ha una
sopravvivenza media tra 2 e 5 anni)

In questi pazienti si procede con una RX torace prima e poi una TAC, se si trova un quadro di
questo tipo, un pattern UIP, bisogna chiedere al soggetto se ha la fibromatosi, se prende
farmaci pneumotossici o se ha qualche condizione che possa predisporlo a questo.

Vengono riportate le varie condizioni in cui è possibile riscontrare un UIP pattern, tra queste
quella idiopatica è quella che è riferita all’IPF.

Il professore mostra la foto di un’immagine fatta al London Hospital, la prima domanda che ci si
pone è se questo quadro sia idiopatico o meno (si ricorda come per effettuare diagnosi di IPF
bisogna trovarsi di fronte ad un quadro idiopatico). Ci si chiede anche se il paziente presenti
collagenopatie (per questo si fanno anticorpi anti peptidi citrullati o fattore reumatoide per
escludere AR etc.), se il paziente presenti asbestosi ossia inalazione cronica di sostanze tossiche
per i polmoni o altre morbidità che potrebbero spiegare il pattern a nido di ap... Guardando
questa TAC, alcuni radiologi molto bravi riescono a diagnosticare o ad escludere una fibrosi
interstiziale idiopatica poiché, ad esempio, se vi fosse un’artrite reumatoide riuscirebbero a
rilevare un minimo inspessimento pleurico o una bronchiectasia che fa escludere l’uno o l’altro
caso.

- Una studentessa chiede se guardando le 3 sezioni di tac sopra riportate si possa


escludere una collagenopatia.
- Il professore analizza la TAC partendo dall'esofago che in questo caso è leggermente
dilatato, inoltre afferma che tutto dipende dalle caratteristiche del paziente: se questa
TAC proviene da una donna di 30 anni non si può sospettare IPF, nel caso di un 60enne
invece dopo indagini approfondite si può giungere a questa conclusione; considerando
solo persone con più di 80 anni la prevalenza delle malattie è molto più alta.
- Uno studente ricorda come nella lezione precedente sia stato detto che nel caso di
tossicità da amiodarone si possa avere un pattern nodulare o altri tipi di pattern, a
questo punto lo studente chiede se si possa avere un pattern UIP anche in caso di
tossicità da amiodarone.
- /Il professore risponde dicendo che questo tipo di pattern nella tossicità da amiodarone
è molto raro. Potrebbe vedersi questo pattern in pazienti che assumono statine o
metotrexate ma guardando alcuni punti della TAC e considerando che ci si trova di
fronte ad un signore di 70 anni, considerando inoltre che nessun reumatologo ha trovato
segni di AR, non si può non essere sicuri che abbia una IPF.

Guardando questa TAC il professore chiede se c'è polmone a nido d'api oppure no, il signore
della foto ha 73 anni nel momento in cui viene fatta la tac.

La risposta esatta è che questi polmoni presentano un quadro a nido d’ape.

Se analizzando la biopsia il patologo riscontra un UIP pattern allora si potrebbe trattare di una
IPF, se il patologo vede dei granulomi la diagnosi di IPF è molto improbabile: più facile una
polmonite cronica da ipersensibilità.

Se il patologo vede molte cellule aggregate colorate di blu intensamente, si potrebbe trattare di
una malattia del tessuto connettivo come una collagenopatia.
/Viene presentato un grafico con due curve: la curva blu indica la percentuale di pazienti che
sopravvivono non avendo la IPF mentre la curva rossa indica la sopravvivenza di pazienti con IPF
dopo alcuni anni dalla diagnosi.

Al giorno d'oggi la seconda curva è un po' migliorata perché vi è stata l'introduzione di farmaci
antifibrotici.

In questa slide viene mostrato come la mortalità per questa malattia sia in aumento, anche se
è difficile dire se questo sia un dato reale o semplicemente il risultato del fatto che se ne
riconoscono di più.

La causa della fibrosi polmonare idiopatica è sconosciuta ma quello che si immagina possa
succedere è che ci sia un danno a carico dell'alveolo ad esempio a causa del fumo o
dall'aspirazione cronica di liquido gastrico. Inoltre, vi sono pazienti che hanno delle alterazioni
delle proteine del surfactante e per questo motivo presentano un epitelio alveolare vulnerabile.
A questo punto il polmone non riesce a riparare il danno, la causa si pensa che sia l'alterazione
dell'epitelio alveolare e della membrana basale e se viene alterata la membrana basale, non si
riuscirà più a riparare il danno .

Nell'immagine viene mostrato il declino di pazienti trattati con Pirfenidone e con un placebo: la
sopravvivenza dei pazienti trattati con il farmaco migliora rispetto al placebo del 50% circa. Un
altro farmaco utilizzato per il trattamento di IPF è il Nintedanib.

- Uno studente chiede se quando si riscontra il pattern a nido d'ape si possa pensare ad
una sarcoidosi.
- Il professore risponde dicendo che il pattern UIP nella sarcoidosi si può trovare molto
raramente, aggiunge inoltre che vedendo un polmone a nido d'ape non si procede con
ulteriori indagini strumentali perchè questo pattern da solo basta per fare diagnosi

Sarcoidosi
La sarcoidosi è una malattia complessa come l'ipertensione o il diabete: c'è una varietà di
alterazioni genetiche, non come nel caso di fibrosi cistica in cui invece è un solo gene alterato a
determinare la malattia.

La sarcoidosi nonostante le numerose ipotesi rimane una malattia ad eziologia sconosciuta:


questo è anche il motivo per il quale non c'è una vera e propria cura ma si trattano i pazienti
semplicemente con il cortisone per ovviare la sintomatologia.

/La sarcoidosi presenta una serie di alterazioni immunologiche e genetiche che fanno pensare
che la sarcoidosi sia una malattia causata da un antigene, nonostante quest'ultimo non sia stato
ancora riconosciuto.

Perchè si verifichi tutta la cascata che dà inizio alla sarcoidosi, si necessitano 3 attori: la APC, la
cellula T helper e ovviamente l'antigene, inoltre affinché la APC possa presentare l'antigene in
modo efficace c'è bisogno di un TCR che riconosca l'antigene, c'è bisogno della “giusta
serratura” per il nostro antigene, e la giusta serratura è fornita appunto da uno specifico clone
di linfociti T che presenta il TCR giusto. Il fatto che venga attivato solo un gruppo specifico e non
tutti indistintamente, ci fa essere ancora più sicuri del fatto che il responsabile della sarcoidosi
sia un particolare antigene.

Le cause di patologie granulomatose sono tante e per questo non si può fare diagnosi di
sarcoidosi solo mediante il riscontro di granulomi.

/In alto a sinistra si vedono disturbi della retina, in Giappone invece è comune l'interessamento
cardiaco. Per ogni anno muoiono 15-20 persone di morte improvvisa a causa di sarcoidosi
cardiaca, su 100 milioni è un numero molto piccolo.

Nonostante ciò, quando si ha la sarcoidosi è bene fare uno screening cardiaco mediante un
ECG; si ha inoltre un ovvio interessamento polmonare. In basso a sx si vede un eritema nodoso,
molto frequente nella sarcoidosi. Il suo difetto è che non può rappresentare la sede di un
prelievo bioptico perché in questa zona non si riscontra mai una lesione granulomatosa: se si
presenta una persona con questo tipo di lesione, questa persona potrebbe avere la sarcoidosi
ma bisogna evitare di fare il prelievo bioptico nella zona dell'eritema.
Diagnosi
Per fare diagnosi bisogna innanzitutto trovare granulomi, è necessario pure un contesto clinico-
radiologico a supporto ad esempio i pazienti possono avere febbre, sudorazioni notturne,
interessamento delle parotidi. Bisogna poi eliminare tutte le cause di flogosi granulomatosa:
ad esempio se un paziente ha una vasculite, la sua granulomatosi deriva dalla vasculite oppure
un paziente con tubercolosi: la diagnosi di sarcoidosi è dunque un processo esclusivo.

La sarcoidosi ha una mortalità del 3% che è concentrata in zone del corpo vitali: ad esempio la
neurosarcoidosi o la sarcoidosi polmonare; bisogna anche tenere conto di come la qualità di
vita di questi pazienti peggiori: essi infatti hanno poca voglia di fare le cose, vanno in
depressione… per questo sono pazienti molto difficili da gestire

In questa immagine vengono mostrate le lesioni della sarcoidosi, non danno né prurito né
dolore ma dal punto di vista estetico se sono localizzate sul volto possono dare problemi.

Il professore racconta un aneddoto di quando lavorava a Londra: si presenta una signora con un
cerotto sul naso, allora il dottore con cui lavorava il professore chiese alla donna di togliere il
cerotto e far vedere al professore di cosa si trattasse: si trattava di un lupus pernio, una lesione
molto aggressiva che erode i tessuti circostanti (muscoli, ossa…).

Aneddoto: Jonathan Hutchinson fu il primo a descrivere la sarcoidosi, Conan Doyle non era
molto amico di Hutchinson ma comunque scambiò di sicuro qualche opinione con lui e rimase
colpito a tal punto che in una delle sue opere creò un personaggio con la sarcoidosi.

Parametri sierologici: ace


Per la diagnostica di un paziente che si presenta dicendo che la sua funzione respiratoria è
peggiorata si fa la spirometria e poi si valuta anche l'ACE, un peggioramento della spirometria
e un aumento dei livelli di ACE indicano un peggioramento della condizione. In ogni caso non si
può mai fare affidamento completo sull'ACE perchè aumenta in molti altri casi.

- Uno studente chiede perchè in caso di danno da sarcoidosi polmonare l'ACE aumenti
visto che viene distrutto il parenchima polmonare
- il professore risponde dicendo che l'ACE non viene prodotto solo dall'epitelio polmonare
ma anche dai macrofagi alveolari che nel caso di sarcoidosi vengono iperattivati e
producono molte sostanze tra cui l'ACE.

Quando si fa il dosaggio dell'ACE bisogna prima di tutto assicurarsi che il paziente non prenda
gli ace inibitori.

Tutte le condizioni riportate a sinistra descrivono situazioni in cui aumenta l’ACE e fra queste v’è
la berilliosi, molto simile alla sarcoidosi come QC.

All'imaging si possono vedere diverse fasi:

- /una prima fase di linfoadenopatia ilare senza addensamenti (stage 1),


- una fase di linfoadenopatia ilare con addensamenti (stage 2) che potrebbe essere un
quadro di berilliosi adulta e una
- fase di fibrosi (stage 3), alla TAC lo stage 3 si presenta con un pattern nodulare.
///Se si osserva una TAC con un pattern nodulare per prima cosa si chiede al paziente come sta
e se ha avuto problemi (tipo febbre o altro) nell’ultimo mese: se il paziente riferisce di star bene
e quindi una TAC del genere si configura come reperto accidentale allora si può fare diagnosi di
sarcoidosi.

///

1) Sarcoidosi
2) Linfoadenopatia paratracheale monolaterale destra
3) TAC con una fibrosi molto rigida che disloca la trachea

/Guardando la sezione in alto a sinistra, con questa lesione si pensa possa essere un tumore o
una metastasi, ma guardando le altre sezioni si vira su un approfondimento e non si fa subito
diagnosi di tumore.

Guardando questa TAC a primo impatto verrebbe da dire che si tratta di una massa (n.d.r. il
professore spiega la differenza tra massa e lesione, la prima ha una misura maggiore di 3 cm,
mentre la seconda non va oltre questo valore).

In questo caso per fare diagnosi si potrebbe fare una biopsia transbronchiale perché la massa è
molto vicina alla trachea, alternativamente si potrebbe fare anche optare per una biopsia
chirurgica ''bucando'' da fuori perché la massa è anche adesa alla parete.

/// /

1) sarcoidosi
2) questo è un esame che si faceva un tempo e che ora non si fa più, è una sorta di scintigrafia e
presenta un pattern a ''panda''

Facendo un lavaggio broncoalveolare in un paziente con sarcoidosi si trova una linfocitosi (n.d.r.
normalmente i linfociti dovrebbero essere intorno al 10-12%, in questo caso se ne trovano
molti di più), inoltre nella sarcoidosi si esprimono più CD4.

Se si deve fare una biopsia, si considerano per prima cosa le sedi più facilmente accessibili: la
cute, i linfonodi periferici, la congiuntiva e i polmoni; ci sono anche casi in cui si va a fare la
biopsia in organi inaccessibili come il cervello, l'occhio o il cuore.

/La biopsia al cervello non si fa nel caso in cui vi siano lesioni tipo l'eritema nodoso, il paziente
con eritema nodoso presenta di solito dolore alle articolazioni e nella sede della lesione.

Il professore ripete ancora una volta che c'è bisogna di una serie di elementi per fare diagnosi di
sarcoidosi e in particolare bisogna prima escludere ogni altra possibile diagnosi: la diagnosi di
sarcoidosi è sempre una diagnosi per esclusione

/Nell’immagine accanto si ha una paziente di 75 anni con linfoadenopatia ilare bilaterale,


bisogna ricordare che la sarcoidosi colpisce prevalentemente i giovani, in particolare la fascia
di età 45-50 anni. Alla signora fanno il cortisone (che si usa per curare la sarcoidosi) ma la
signora non migliora; all'istologia si presenta un quadro di granulomatosi. Dopo una serie di
accertamenti si fa una biopsia midollare, nel frattempo la signora viene ricoverata con febbre e
calo ponderale importante, c'è una sintomatologia sistemica grave e la signora muore di MOF
(multisystem organ failure) mentre si aspettava il risultato dell'istologia.

All'esame istologico verrà rilevata una linfopatia matura.

Se il paziente fosse stato un ventenne che gioca a calcetto con una radiografia del genere allora
si sarebbe potuta sospettare la sarcoidosi, al contrario una paziente di 75 anni è molto
improbabile che abbia la sarcoidosi (sebbene quest'ultima non vada esclusa a priori nella
diagnosi differenziale). Il professore sostiene inoltre che è sbagliato dare subito il cortisone ad
una paziente di 75 anni con una radiografia del genere.

Take home message


Le interstiziopatie sono un gruppo di patologie molto complesso, richiedono inoltre
l'intervento di diversi specialisti (radiologi, patologi etc.) ed in particolare il patologo che deve
essere abituato a vedere polmoni e saper riconoscere i diversi casi per fare diagnosi.
Asma bronchiale

Definizione
Le definizioni delle malattie sono importanti perché in esse si trovano tutti i criteri per fare la
diagnosi.
L’asma è una malattia eterogenea, caratterizzata da un’infiammazione cronica delle vie aeree.
È definita da una storia di sintomi respiratori quali il respiro sibilante, la dispnea, il senso di
costrizione toracica e la tosse, che variano nel tempo e nell’intensità, insieme a una riduzione
del flusso aereo variabile. Questi sintomi non sono costanti ma variano: per questo si dicono
episodici.
Questa definizione è anamnestica, infatti la diagnosi di asma bronchiale si fa basandosi su una
accurata anamnesi unita alla documentata presenza di una riduzione del flusso aereo variabile.
L’asma dunque è caratterizzata da:

 episodi ricorrenti di respiro sibilante, dispnea, senso di costrizione toracica e tosse. Non
è necessario che siano presenti tutti.
 riduzione variabile del flusso aereo.
 presenza di iperreattività bronchiale . Si tratta di una caratteristica del bronco che ha una
maggiore tendenza a contrarsi. La contrazione della muscolatura comporta la chiusura o
ostruzione del bronco con tutti i sintomi conseguenti.

NB: Nel polmone non ci sono sensori del dolore; le parti del torace provviste di nocicettori sono
la pleura, la gabbia toracica, l’esofago e i vasi. Il polmone e i bronchi usano altri meccanismi per
segnalare che qualcosa non va: questi segnali sono proprio la difficoltà a respirare e la tosse.

Epidemiologia
L’asma è una delle malattie croniche più diffuse al mondo e la prevalenza è in aumento in molti
paesi, soprattutto nei bambini, con conseguente aumento del rischio di morte. Questo sembra
essere dovuto al fatto che viviamo in un mondo sempre più sterile: il contatto con allergeni (ad
esempio bambini che vivono in campagna a contatto con fieno e animali) porta a una
desensibilizzazione per queste sostanze e la prevalenza della malattia è inferiore.
È una causa importante di assenza da scuola e da lavoro. La mortalità è di 1-5:100000 e viene
sottolineato il fatto che il decesso sopraggiunge per la mancata gestione di un attacco acuto.

Sintomi
I sintomi sono:

1. Respiro sibilante
2. Dispnea, ovvero la mancanza di respiro, che è prevalentemente espiratoria.
3. Senso di costrizione toracica
4. Tosse. Durante l’anamnesi è importante definirne le caratteristiche: nel soggetto
asmatico la tosse compare tipicamente la notte ma soprattutto la mattina. La tosse che
compare in posizione distesa invece è più probabilmente dovuta a un reflusso
gastroesofageo.

Fattori di rischio
L’asma è una malattia scatenata dalla commistione di due fattori: fattori individuali e fattori
ambientali. Il soggetto nasce quindi con la predisposizione e i sintomi si manifestano quando
entra in contatto con fattori ambientali che determinano riacutizzazione e persistenza della
sintomatologia. I fattori ambientali sono quindi la causa scatenante e sono necessari perché i
sintomi si estrinsechino.
I fattori individuali sono:

 La predisposizione genetica: spesso infatti il paziente asmatico ha familiari che


presentano lo stesso problema o che sono allergici
 L’atopia, definita come la presenza di un elevato livello di IgE specifiche per un
determinato allergene.
 L’iperreattività bronchiale, cioè la spiccata tendenza del bronco a chiudersi in seguito
all’esposizione a determinati fattori di rischio quali la polvere, gli sbalzi temperatura, la
nebbia, l’umidità.
 L’obesità. Sembra che nel paziente obeso il tessuto adiposo produca fattori
infiammatori che predispongono l’individuo alla comparsa della patologia.

I fattori ambientali sono:

 Allergeni
 Sostanze professionali (si parla di asma professionale quando essi sono gli unici
responsabili)
 Fumo di tabacco
 Inquinamento atmosferico
 Infezioni delle vie respiratorie
 Fattori socioeconomici (bambini esposti a vari allergeni si desensibilizzano presto quindi
hanno meno probabilità di sviluppare sintomi respiratori; bambini che vivono in
condizioni disagiate sono comunque proni a sviluppare l’asma)
 Le abitudini alimentari e i farmaci (ad esempio una dieta ricca di grassi)
 Stress e fattori psicosociali per produzione di neurotrasmettitori che possono favorire
l’estrinsecazione dei sintomi
Domanda: una dieta ricca di grassi è un fattore di rischio per l’asma perché aumenta la
produzione di mediatori lipidici dell’infiammazione?
Risposta: Sì, è legato al fatto che i grassi saturi comportano l’attivazione di citochine e prodotti
dell’infiammazione che predispongono il paziente. In ogni caso, se un paziente ha una dieta
scorretta e fuma, questi sono entrambi due fattori negativi ma impatta molto più il fumo di
sigaretta rispetto alla dieta. Comunque per il corretto controllo della malattia questi fattori
devono tutti essere presi in considerazione.

Patogenesi
I fattori di rischio provocano una infiammazione che nella maggior parte dei casi è di tipo Th2,
ma ci sono anche forme più gravi e più rare che comportano l’attivazione
della via Th1. L’infiammazione a sua volta stimola
l’iperreattività bronchiale e causa la bronco-ostruzione con i
sintomi prima descritti.

Osservando le
immagini in
alto:

L’immagine
a sinistra
mostra

una via
aerea normale: si
presenta aperta con un ampio lume, la parete bronchiale è sottile e non inspessita, sono assenti
cellule infiammatorie.
L’immagine a destra mostra invece una via aerea
patologica: si tratta del bronco di un paziente asmatico
deceduto per un grave attacco d’asma. Il lume si presenta
come una fessura, la parete bronchiale è inspessita e
ripiegata a fisarmonica perché il muscolo liscio bronchiale è
diventato ipertrofico (come si vede nell’immagine qui a
destra, a più alto ingrandimento). Infine, sono presenti
moltissime cellule infiammatorie che sovvertono la
struttura normale.
Fenotipi e fenotipizzazione
L’asma secondo definizione è una malattia eterogenea, cioè ogni individuo ha diversi fattori
scatenanti che determinano fenotipi diversi, cioè diverse forme di asma. I fenotipi differiscono
per meccanismi patogenetici, tipo e grado di infiammazione bronchiale (la più comune è quella
Th2 ma ci sono forme Th1), modalità di presentazione clinica, evoluzione nel tempo e risposta
alla terapia.
Ci sono due fenotipi fondamentali di asma: l’asma eosinofilo e l’asma neutrofilico.

1. L
’ a
s
m a

eosinofilo è caratterizzato dall’attivazione della via Th2 e si divide a sua volta in due
fenotipi:
 il fenotipo allergico, più frequente, dove i fattori di rischio sono gli allergeni che
scatenano la cascata infiammatoria di tipo Th2 con produzione di eosinofili
 il fenotipo non allergico dove i fattori di rischio sono l’inquinamento, le infezioni e il
fumo di sigaretta.
2. L’asma neutrofilico prevede invece l’attivazione della via Th1. I fattori di rischio che
scatenano i sintomi sono sempre inquinamento, infezioni virali e batteriche e fumo di
sigaretta. Questi fattori portano alla produzione di citochine Th1 e determinano forme di
asma più rare e gravi.
Oltre ai macro-fenotipi esistono dei sub-
fenotipi: ci sono forme più tipiche dell’adulto
come l’asma associato all’obesità e forme più
presenti nel bambino, come l’asma allergico.
È importante fenotipizzare il paziente per
somministrare la terapia più adeguata. La
caratterizzazione si basa su una serie di
strumenti: indiretti:

 test allergometrici cutanei, ovvero test per indagare gli allergeni a cui è sensibile il
paziente (skin prick test)
 prelievi ematici che consentono di dosare le IgE totali e specifiche ed evidenziare un
eventuale stato atopico del paziente (i Prist sono le IgE totali, i Rast sono le IgE
specifiche per allergeni inalanti o alimentari)
 gli eosinofili periferici che sembrano avere una corrispondenza con gli eosinofili del
polmone
 la frazione esalata di NO (feNO), un indice indiretto che quantifica l’infiammazione
polmonare. C’è una correlazione per cui più alta è la frazione esalata, maggiore è
l’infiammazione polmonare.

Tutto questo è volto a praticare una medicina di precisione per dare una terapia adeguata.

Diagnosi
La definizione dell’asma è anamnestica quindi è necessario interrogare accuratamente il
paziente riguardo la sua storia clinica di sintomi tipici. Si faranno in seguito esami strumentali
per indagare se c’è una riduzione del flusso aereo variabile. Infine, devono essere poste in
diagnosi differenziale ed escluse altre patologie. La diagnosi si basa quindi su:

1. anamnesi
2. esame obiettivo
3. prove di funzionalità respiratoria
4. altri esami strumentali

1. Anamnesi

Durante l’anamnesi saranno documentati i sintomi, la loro modalità di


presentazione e i fattori scatenanti. Prima di tutto si vanno a
indagare i 4 sintomi tipici e per ciascuno di essi
bisogna specificare l’episodicità, la frequenza e la gravità.
Bisogna conoscere la modalità di presentazione dei
sintomi: se avviene in particolari stagioni quindi con stagionalità, se sono sintomi perenni che si
presentano tutto l’anno, se sono notturni. I sintomi notturni, ovvero quelli che sono in grado di
svegliare il paziente durante il sonno, sono sempre gravi che devono essere seriamente presi in
considerazione. Devono poi essere indagati i fattori scatenanti precedentemente elencati.

2. Esame obiettivo

Durante l’esame obiettivo si possono presentare varie situazioni:

- un esame del torace negativo caratterizzato da assenza di rumori patologici: non


significa necessariamente che il paziente non è asmatico ma solamente che in quel
momento non ha broncospasmo;
- si possono sentire sibili respiratori per broncospasmo
- Silenzio respiratorio, cioè un murmure vescicolare quasi assente perché il broncospasmo
è serrato e impedisce che l’aria arrivi agli alveoli.

3. Prove di funzionalità respiratoria

Si tratta di test che vengono eseguiti dopo l’anamnesi e l’esame obiettivo per confermare la
diagnosi di asma. Questi sono:

 la spirometria
 il picco di flusso espiratorio
 test di stimolazione bronchiale
 test dell’esercizio
 trattamento antiinfiammatorio

Spirometria
Si compone di una prova lenta e una veloce. La prova veloce consente di misurare il VEMS
(volume massimo espirato nel primo secondo), la CVF (capacità vitale forzata) e il rapporto
VEMS/CVF. Questo rapporto, anche detto indice di Tiffenau, indica quanta aria il paziente è
riuscito a espellere nel primo secondo rispetto alla capacità vitale forzata.
L’ostruzione bronchiale è presente quando:

- l’indice di Tiffenau (VEMS/CVF) è <70%


- il VEMS (o FEV1) è <80% rispetto al valore teorico.

Un paziente che ha un’anamnesi positiva per asma e che alla spirometria presenta ostruzione
deve essere sottoposto al test di reversibilità. Questo test consiste nel somministrare al
paziente 4 puff di Ventolin (400 microgrammi) e ripetere la spirometria dopo 20 minuti: se il
VEMS aumenta del 12% e di 200ml significa che il paziente prima era ostruito ma ha risposto
bene al farmaco e l’ostruzione non è più presente. Si parla quindi di reversibilità quando il
VEMS aumenta del 12% dopo inalazione di B2 agonista a breve durata d’azione (definizione
dalla slide).

Questa a sinistra è la curva flusso-volume normale che si genera durante una spirometria.
In ascissa c’è il volume spostato mentre in ordinata il flusso. Durante una prova
forzata il paziente inspira creando la curva negativa che raggiunge lo zero quando il
torace è pieno d’aria; durante l’espirazione il paziente butta fuori l’aria con forza
creando un picco di flusso mentre il resto dell’aria viene spinta fuori con una forza
inversamente proporzionale al volume. Il volume spostato dal massimo
inspirio al massimo espirio è la capacità vitale forzata e consiste nella
massima quantità di aria mobilizzata in un atto respiratorio massimale. Il
grafico indica quindi la capacità vitale forzata e la forza con cui il
volume è stato spinto fuori. In questo paziente ipotetico il VEMS
è >80% e il rapporto VEMS/CVF è >70%.

Questa è invece una curva flusso-volume di tipo ostruttivo. Il paziente con ostruzione
bronchiale durante l’inspirio ha una curva normale, durante l’espirio invece crea un
picco più piccolo e una concavità della curva verso l’alto dovuta a una caduta dei
flussi. Se il bronco è piccolo la quantità di aria che passa per unità di tempo è bassa:
l’indice di Tiffenau risulta inferiore al 70% e il VEMS è inferiore al 80%. In
queste condizioni è fondamentale fare la prova di reversibilità: se il
paziente migliora viene confermata la diagnosi di asma.

Picco di flusso espiratorio


È uno strumento che il paziente riceve in dotazione. La
misura è semplice e deve essere fatta in tre momenti diversi della giornata
(mattina, pomeriggio, sera). Correla con il grado di bronco-ostruzione e consente di
documentare la variabilità del respiro che in ambulatorio, in un momento zero, non si riesce a
determinare. Ci sono strumenti meccanici e anche elettronici: il paziente azzera la levetta,
mette il boccaglio in bocca, butta fuori l’aria e la freccia si sposta al valore corrispondente di
flusso espirato. Infine, i valori misurati nei vari momenti della giornata verranno segnati su un
grafico. Il picco di flusso espiratorio rappresenta sia uno strumento diagnostico nei casi di
incertezza ma soprattutto uno strumento di controllo dell’asma sia per il paziente stesso e per il
medico.
Il grafico a sinistra descrive un flusso che aumenta durante la giornata per
poi ricadere la notte. Il flusso ha una variabilità elevatissima
e siamo in una situazione di asma non controllato.

Questa situazione (a destra) è diversa perché c’è una


variabilità del flusso normale per un paziente asmatico; in
questo caso se il paziente non ha sintomi, l’esame obiettivo
è normale e riferisce di riposare bene, l’asma è ben
controllato.

Test di stimolazione bronchiale o test con la metacolina


Come già affermato la spirometria può essere normale se il paziente non è ostruito in quel
momento, ma ciò non significa che non egli non sia asmatico. Alla spirometria può in alternativa
presentarsi una situazione di ostruzione e bisogna fare il test di reversibilità per avere la
conferma.
Il test di stimolazione bronchiale o test con la metacolina viene eseguito quando il paziente si
presenta con anamnesi positiva per asma ma spirometria normale. Consiste nella
somministrazione via aerosol di metacolina, una sostanza che stimola i recettori colinergici a
livello del bronco, per poi eseguire una spirometria. Questi passaggi vengono ripetuti sette
volte: si fa una seconda somministrazione di metacolina e una seconda spirometria, poi una
terza e così via in modo che le dosi della sostanza siano cumulative. Se il paziente durante
questi step presenta alla spirometria una caduta del suo VEMS di più del 20% rispetto al VEMS
di partenza (senza metacolina), la prova è positiva per iperreattività bronchiale. Il test di
stimolazione bronchiale unito a una anamnesi positiva per asma consente dunque la diagnosi.
Si ricorda che il 100% di VEMS è quella fatta all’inizio senza metacolina.
Questo test è prescritto solo nel caso in cui l’anamnesi non è così evidente, non c’è familiarità
per l’asma, i sintomi sono subdoli (solo tosse secca non correlata a reflusso, senza altre
motivazioni). Il paziente che si sottopone al test deve stare bene, deve avere una spirometria
normale, non deve essere bronco-ostruito e non deve aver avuto attacchi recenti di asma
perché rischierebbe la vita.
Il test inoltre non correla con la gravità dell’asma: se la riduzione della VEMS avviene dopo due
somministrazioni di metacolina non indica un’asma più grave rispetto a un calo della VEMS alla
settima somministrazione.

4. Altri esami

Alcuni esami utili alla fenotipizzazione del paziente sono:

- la frazione esalata di NO (FeNO)


- prove allergometriche cutanee
- dosaggio di IgE totali e specifiche
- conta degli eosinofili ematici

Altri esami importanti per la diagnosi differenziale sono:

- l’emogasanalisi
- l’elettrocardiogramma (vengono somministrati farmaci che possono avere effetti a
livello cardiaco)
- la visita ORL (visita otorinolaringoiatrica)
- Rx torace

Ad esempio in un paziente fumatore con la tosse è importante escludere un tumore polmonare


tramite una radiografia toracica.

Diagnosi differenziale
Bisogna differenziare l’asma dalle altre patologie ostruttive delle vie aeree quali BCPO e
bronchiectasie. La differenza è che nell’asma l’ostruzione è variabile e reversibile o col ventolin
o col broncodilatatore, mentre nella BPCO la bronco-ostruzione è fissa e il paziente è
solitamente anziano, fumatore e non allergico.
Bisogna escludere anche l’insufficienza cardiaca congestizia perché il respiro sibilante può
essere indice di scompenso cardiaco visto che il bronco imbibito di liquido fischia.
Altra patologia da porre in diagnosi differenziale è la disfunzione delle corde vocali: in questo
caso ci sarà dispnea inspiratoria dovuta alla disfunzione delle corde vocali. Devono essere
escluse inoltre sinusite e reflusso gastroesofageo.
Infine altre condizioni da considerare sono l’ostruzione meccanica delle vie aeree, la polmonite
eosinofila (infiltrati infiammatori di tipo eosinofilico), la tosse secondaria a farmaci (esempio
ACE-inibitori), l’embolia polmonare.

Classificazione di gravità
La seguente è una tabella datata, non più presente nelle ultime linee guida; in ogni caso il livello
di gravità deve essere ben definito perché sulla base di questo si fa una terapia mirata.
La classificazione di gravità si basa sulla presenza di sintomi diurni, notturni e sulla funzionalità
respiratoria (VEMS). Le categorie in cui classificare il paziente sono: intermittente, lieve
persistente, moderato persistente e grave persistente.

La professoressa riprende la precedente lezione sull’asma riassumendo ciò che è stato detto la
scorsa volta.
Si definisce l’asma una malattia eterogena, ossia che presenta vari fenotipi, tra i quali si
ricordano quello allergico-eosinofilico, quello non allergico-eosinofilico, quello neutrofilico,
quello pauci-granulocitico; questi fenotipi a loro volta possono essere suddivisi in base alla
presenza di cofattori o comorbidità come l’obesità, il fumo ecc.
La caratteristica che accomuna tutti i tipi di asma è l’infiammazione cronica, più
frequentemente quella di tipo TH2, ma anche di tipo TH1.
Per arrivare alla diagnosi è sufficiente una buona anamnesi: si chiede al paziente che sintomi
presenta e con quali modalità. Se il pz riferisce anche solo un sintomo tra respiro sibilante,
dispnea, senso di costrizione toracico e tosse (di solito è secca), e se il sintomo in questione ha
natura variabile ed episodica, ci si può orientare verso la diagnosi. Dopo l’anamnesi si fa
l’esame obiettivo, che può risultare anche del tutto normale, oppure si possono sentire dei fischi
all’auscultazione (se il paziente presenta un broncospasmo), oppure il silenzio respiratorio, che è
indice di alta gravità, in quanto significa che il paziente è talmente bronco-ostruito che l’aria
non arriva agli alveoli. In seguito si devono svolgere esami strumentali volti a misurare la
funzione respiratoria, tra cui la spirometria, che può risultare normale oppure può evidenziare
una situazione di bronco-ostruzione reversibile dopo la somministrazione di broncodilatatori; se
la spirometria è normale e l’anamnesi è dubbia, si può fare la prova di stimolazione bronchiale
con la metacolina, farmaco che stimola la reattività del bronco: se dopo la sua
somministrazione il VEMS del paziente si riduce di almeno il 20% del valore iniziale, si può fare
diagnosi di iper-reattività bronchiale, che assieme all’anamnesi permette di diagnosticare senza
dubbio l’asma. Inoltre, si può fare la misurazione del picco di flusso espiratorio tramite uno
strumento che il paziente usa a domicilio per misurarsi autonomamente la funzionalità
respiratoria.
La diagnosi differenziale è importante: un paziente sintomatico sui 50 anni e fumatore potrebbe
avere un tumore al polmone e non l’asma.
Infine abbiamo visto la classificazione dell’asma che si basa sulla presenza di sintomi diurni e
sintomi notturni e distingue un asma intermittente, un asma lieve-persistente, un asma
moderato-persistente fino a un asma grave-persistente; tale classificazione non rientra più nelle
linee guida attuali ma è importante per poi decidere la terapia.

Nella lezione di oggi parleremo del trattamento, delle crisi asmatiche gravi e dell’asma grave.

Trattamento
Esso si basa su 2 principali classi di farmaci:
1. Anti-infiammatori;
2. Broncodilatatori;
L’asma è una malattia infiammatoria cronica delle vie aeree in cui, in seguito a un’iper-reattività
bronchiale, si può sviluppare una bronco-ostruzione, perciò prima di tutto bisogna sfiammare il
paziente e poi broncodilatarlo.
Di asma non si guarisce mai, anche pazienti trattati con molte dosi di anti-infiammatori per
molti anni alla biopsia bronchiale presentano sempre un po’ di infiammazione; in ogni caso ciò
che interessa non è guarire il paziente ma permettergli di svolgere una vita normale, eliminare i
fattori di rischio e dare una terapia adeguata.
La terapia si divide in 2 momenti:
 Terapia al bisogno o reliever medication: da somministrare nel momento di crisi, è
costituita da β2-agonisti inalatori a breve durata di azione , ossia il ventolin
(salbutamolo), e da anticolinergici inalatori a breve durata d’azione che però non sono
più commercializzati;
 Terapia fissa o controller medication: è costituita da corticosteroidi inalatori, β2-agonisti
inalatori a lunga durata d’azione, anti-leucotrienici e teofillina, la quale è un farmaco a
basso costo che in Italia non si usa molto, solo in aggiunta ad altri principi farmacologici;
è invece usata soprattutto nel terzo mondo per il basso costo;
Step terapeutici

In questo schema si individuano cinque step terapeutici successivi a seconda della gravità del
paziente: quando la malattia non è più controllata dalla terapia in atto bisogna passare allo step
successivo.
Allo step 1 come primo farmaco viene dato uno steroide inalatorio a bassa dose (ICS sta per
inhaled corticosteroid) come antiinfiammatorio, che in seguito può essere associato ad un β2-
agonista come broncodilatatore (nell’immagine è indicato il formoterolo, un β 2-agonista a
lunga durata), e poi a un anti-leucotrienico (LTRA nell’immagine); a mano a mano che si sale
negli step si possono aumentare le dosi dei vari farmaci, oppure si può aggiungere uno steroide
orale, fino ad arrivare allo step 5 dove il paziente fa tutte le terapie degli step precedenti e se
non risulta ancora controllato bisogna pensare di candidarlo per le terapie di ultimo livello, che
prevedono l’utilizzo di farmaci biologici.

Siccome è emerso che alcuni pazienti abusano della terapia al bisogno con ventolin
(broncodilatatore) senza però avere una terapia fissa adeguata, nelle ultime linee guida per la
terapia al bisogno viene consigliato l’uso, come prima scelta, di un broncodilatatore insieme a
uno steroide inalatorio invece del solo ventolin, in quanto, in caso di sintomi, il paziente oltre a
essere bronco-ostruito è anche infiammato (e quindi bisogna trattare anche l’infiammazione e
non solo l’ostruzione del bronco); inoltre il broncodilatatore, se assunto da solo in quantità
elevata in assenza di anti-infiammatori, comporta una riduzione del numero dei recettori β2-
agonisti e una loro desensibilizzazione.
Per quanto riguarda la terapia fissa le indicazioni sono per l’uso di steroidi assieme a β2-agonisti
ed eventualmente anche a anti-leucotrienici: questi ultimi sono rivolti soprattutto a pazienti con
asma correlato a rinite allergica o con asma da sforzo.

Domanda del prof. Spagnolo: “Visto che i farmaci sono presi per molti anni e qualcuno li prende
anche a vita, essi, in generale, sono ben tollerati con il passare degli anni oppure determinano
un aumento del rischio di effetti collaterali?”
Risposta: “Sono ben tollerati perché c’è un basso assorbimento, e soprattutto va considerata la
gravità dell’asma, in quanto se un paziente risparmia sui farmaci inalatori e a causa di questo
diventa non controllato e presenta una brutta crisi, è costretto ad assumere la dose di steroidi
che non ha assunto per 1 o 2 anni, perciò vale sempre la pena somministrarli. Nei pazienti che
per esempio fanno elevate dosi inalatorie e che poi passano a basse dosi di steroidi ci sono degli
strumenti per il controllo della malattia e per monitorare gli effetti collaterali dati dagli steroidi,
tra cui l’aumento della pressione arteriosa, la gastrite, la riduzione della produzione di proteine
o l’alterazione dell’asse corticotropo… la presenza di questi effetti si può monitorare attraverso
esami del sangue, profilo proteico, cortisolemia, cortisoluria, glicemia a digiuno. Nella mia
esperienza ho trovato solo una persona in cui, dopo tanti anni di utilizzo di un farmaco
inalatorio, è stata riscontrata un’inibizione dell’asse corticotropo; ciò è da tenere presente ma è
una cosa molto rara. I β2-agonisti possono dare cardiopalmo è non è infrequente che il ventolin
dia cardiopalmo e tremori, perciò sono disponibili degli anti-colinergici a lunga durata d’azione
che possono aiutare nel trattamento, un esempio è il tiotropio; gli anti-colinergici hanno lo
stesso effetto dei β2-agonisti ma non gli stessi effetti collaterali”.

Nelle ultime linee guida si evidenzia


come la gestione terapeutica dell’asma
dovrebbe avere un andamento
circolare: quando si vede il paziente
per la prima volta si devono indagare i
sintomi e i fattori di rischio per fare
diagnosi e, una volta fatta questa,
bisogna insegnare al paziente ad
assumere correttamente il farmaco; c’è
uno studio che mostra come la metà
dei pazienti non controllati assume male il farmaco, per esempio erogando lo spray dopo aver
inspirato, impedendo così al principio attivo di andare nelle vie respiratorie e confinandolo nella
bocca. In seguito si deve aggiustare la terapia e si devono trattare i fattori di rischio che possono
esacerbare l’asma, come il sovrappeso, il reflusso gastroesofageo e la rinite. Il passo successivo
consiste nel rivedere l’effetto della terapia, i sintomi e gli effetti collaterali, senza mai dare per
scontato niente. Infine si riprende il cerchio rivalutando il paziente, i suoi fattori di rischio e la
tecnica di assunzione dei farmaci inalatori.

L’obiettivo del trattamento nell’asma, come detto precedentemente, non è la guarigione ma il


controllo dei sintomi e per capire se il paziente è controllato o meno bisogna porgli le seguenti
4 domande:
1. ha sintomi giornalieri per più di 2 volte a settimana?
2. Ha sintomi notturni/risvegli?
3. Ha necessità di usare il farmaco al bisogno per più di 2 volte a settimana?
4. È limitato dall’asma nelle attività giornaliere?
In base a come risponde il paziente può essere:
 Controllato se non risponde mai di sì;
 Parzialmente controllato se risponde di sì a 1 o 2 domande;
 Non controllato se risponde di sì a 3 o 4 domande.

Il controllo della malattia oggigiorno non riguarda solo il controllo dei sintomi ma anche il
concetto di rischio futuro; il controllo della malattia asmatica è dato sia dal controllo attuale dei
sintomi, tramite l’uso del farmaco al bisogno e la funzionalità polmonare che si testa alla visita
con la spirometria, sia dalla prevenzione di eventi futuri, per cui un paziente che presenta
instabilità, peggioramento delle funzioni respiratorie, riacutizzazioni, comparsa di eventi avversi
alla terapia per i quali non la farà nel modo adeguato, scarsa compliance, fattori di rischio come
rinite, reflusso e obesità, è da considerare solo parzialmente controllato anche se sta bene.
Questo concetto è importante perché, rifacendosi allo schema a pag. 2, se un paziente allo step
terapeutico 1 che prende un corticosteroide e un broncodilatatore oppure solo un
corticosteroide sta bene (non ha sintomi, non si sveglia la notte e non è limitato nelle sue
attività), ma presenta reflusso, rinite ed è obeso non si può dire che sia controllato, perciò non
si può scalare la terapia a causa del rischio futuro. Nel momento in cui un paziente non è più
controllato con la terapia si passa allo step successivo: per esempio se il paziente prende solo
steroidi si aggiunge il broncodilatatore, se utilizza sia lo steroide che il broncodilatatore si
aggiunge un anti-leucotrienico, se è nello step 2 si alza la dose di steroide e broncodilatatore
oppure si aggiunge un anti-colinergico, il tiotropio, fino ad arrivare allo step 5 in cui si utilizzano
farmaci biologici o addirittura steroidi orali fissi.
Crisi asmatiche gravi
Sono emergenze mediche che mettono il paziente in pericolo di vita, perciò il trattamento deve
essere tempestivo.

I fattori di rischio per le crisi sono:


 Essere un qualsiasi paziente asmatico, anche un pz che sta bene da anni e non prende
farmaci; esso può avere una crisi grave, per esempio nel caso di un paziente allergico
che dopo tanto tempo va nella sua casa in montagna e la trova piena di polvere;
 Precedenti attacchi;
 Gravità della malattia;
 Predisposizione genetica, l’avere familiari con asma grave;
 Disagiata condizione socio-economica;
 Problemi psicologici, perché possono determinare scarsa aderenza al trattamento;
inoltre gli attacchi d’ansia possono portare a una crisi respiratoria;
 Bassa percezione della dispnea, in quanto ci sono pazienti che non fanno il trattamento
perché si sono “settati” a un livello respiratorio non normale e quindi si sentono bene
nonostante abbiano dispnea e rumori espiratori;
 Inadeguata assistenza medica;
 Inadeguato trattamento.

Cosa si fa in caso di crisi asmatica grave


Durante la crisi fino a qualche anno fa era importante trattare i pazienti con broncodilatatori, in
quanto presentano essi una bronco-ostruzione serrata; oggi si sa che è meglio associare anche
uno steroide per contrastare l’infiammazione, sia inalatorio che sistemico; inoltre se necessario
si fornisce un supplemento di ossigeno.
Durante la crisi bisognerebbe poi monitorare la risposta al trattamento usando un picco di
flusso espiratorio o una spirometria, ma ciò non viene mai fatto a causa della mancanza di
tempo dovuta alla grande affluenza in PS; infatti i pazienti asmatici solitamente stanno male in
periodi in cui molte persone presentano problemi (ad es. influenze invernali). Il monitoraggio è
possibile nel caso in cui un paziente presenti il proprio strumento per il picco di flusso.
Asma grave
È un’entità che oggigiorno attira l’attenzione della comunità scientifica in quanto assorbe una
grande quantità di risorse economiche: i pazienti con asma infatti rappresentano il 5% della
popolazione, di questi il 5% ha asma grave e questi ultimi da soli assorbono più del 60% di tutte
le risorse messe a disposizione per i pazienti asmatici.

Ci sono 3 tipi di asma grave:


1. Asma grave non in trattamento: richiama il concetto di rischio futuro, in quanto il
paziente non si tratta anche se ne avrebbe bisogno, perciò potenzialmente può
sviluppare un asma grave; un eventuale trattamento consente di raggiungere un buon
controllo, eliminando il paziente da questa categoria;
2. Asma grave difficile da trattare: è un asma in cui per comorbidità, per scarso accesso
alle risorse sanitarie o mancata aderenza al trattamento il paziente rimane non
controllato; riguarda per esempio un paziente in cura con una terapia massimale che
però presenta un reflusso o una rinite resistente a tutti i trattamenti. Si tratta di un asma
grave dato che c’è qualcosa che impedisce al paziente di ottenere il massimo controllo
sulla malattia;
3. Asma grave resistente al trattamento: sono quei tipi di asma controllati solo con il più
alto livello di terapia, ossia lo step 4 o 5 con steroidi e broncodilatatori ai massimi livelli
e in aggiunta anti-leucotrienici, anti-colinergici e steroidi orali, oppure riguardano
pazienti che nonostante la massima terapia non sono controllati; quest’ultima situazione
viene definita asma refrattario steroido-resistente.

Come si trattano i pazienti con asma grave


Prima di tutto si verificano la terapia inalatoria e la tecnica inalatoria, poi si aumentano le dosi
di corticosteroidi, si aggiunge il β2-agonista long acting (LABA), il tiotropio, l’anti-leucotrienico e
in caso anche la teofillina. In seguito bisogna fare la bonifica dei fattori di rischio come
l’esposizione a inquinanti, ad allergeni, al fumo di sigaretta; bisogna indagare le comorbidità, in
particolare la rinite, la sinusite, il reflusso, l’obesità, le malattie psichiatriche; infine bisogna
fenotipizzare il paziente tramite gli esami del sangue per vedere se è atopico, ossia se presenta
elevate IgE specifiche, per controllare le IgE totali, l’eosinofilia e la frazione esalata di NO.
Se il paziente, nonostante tutti questi presidi, rimane ancora non controllato e presenta
riacutizzazioni frequenti si può pensare all’uso di farmaci biologici: quelli disponibili al giorno
d’oggi sono l’omalizumab e il mepolizumab; presto sarà disponibile il dupilumab, inoltre ci sono
ancora studi in corso sul reslizumab e il benralizumab.
Indicazioni all’uso dei farmaci biologici
L’omalizumab è un farmaco biologico (è un mAb) anti IgE, per cui va dato a pazienti con asma
allergico ad allergeni perenni, come acari e muffe, che presentano una funzione respiratoria
ridotta, ossia una FEV1 <80%, e livelli di IgE sierici totali tra 30 e 1500 U/µL; sopra 1500 U/µL si è
visto che il farmaco ha poca risposta, per cui l’essere troppo allergici non ha un effetto
favorevole.

Il mepolizumab è un mAb anti IL5, destinato a pazienti con asma eosinofilico e con livelli di
eosinofili attuali superiori a 150 cellule/ µL e di eosinofili storici superiori a 300 cellule/ µL; questi
valori possono comunque essere considerati normali, in quanto è presente una spiccata
eosinofilia per valori superiori a 500 cellule/ µL. Diversamente dall’omalizumab, si è visto che il
farmaco ha effetti anche per valori superiori a 150 cellule/µL.

Se un paziente è allergico e anche eosinofilico, si inizia con l’omalizumab e se non funziona si


shifta verso il mepolizumab, mentre se un paziente presenta un’asma grave non allergico e non
eosinofilico, come l’asma pauci-granulocitario e l’asma neutrofilico, purtroppo al momento non
ci sono farmaci efficaci; sono in corso vari studi per mAb contro citochine del tipo TH 1.
L’alternativa al momento è la termopalstica, un trattamento che si fa in broncoscopia con un
broncoscopio che alla sua estremità presenta una sonda estraibile composta da una serie di fili
metallici che vengono scaldati e permettono di creare delle bruciature a livello del muscolo
bronchiale, al fine di ridurre l’iper-reattività bronchiale e quindi la risposta ai fattori scatenanti,
impedendo il verificarsi di crisi di broncospasmo importanti. È una metodica eseguita solo in
centri selezionatissimi in Italia, che devono avere grande esperienza, inoltre viene svolta
solamente su pazienti con determinate caratteristiche, tra cui anche la risposta ai
broncodilatatori. Essa sta ancora prendendo piede quindi non esiste una casistica elevatissima.

Al termine della lezione la professoressa ci lascia l’indirizzo di un sito dove si possono trovare
dei pocket guide sull’asma utili per lo studio: www.ginasma.it / www.ginasthma.org .

Domanda: ”Per quanto riguarda i mAb, è possibile una terapia combinata con entrambi?”
Risposta: ”Al momento non è approvata, anche perché sono prodotti da ditte diverse e a
nessuna viene in mente di mettersi assieme, piuttosto si cerca di capire quanti pazienti
rispondono a uno o all’altro. Se uno non funziona non si aggiunge l’altro, semplicemente lo si
cambia e si passa all’altro.”

Domanda: “Comunque ci sono molti eosinofili anche nell’asma allergico, perché quindi non si
usa il mepolizumab anche in questi casi?”
Risposta: “Il meccanismo sarebbe quello, la cascata infiammatoria dell’allergia prevede
l’attivazione degli eosinofili, però proprio a causa dell’eterogeneità è anche vero, per esperienza
clinica, che non tutti i pazienti allergici hanno una spiccata eosinofilia; ci sono review che
dimostrano come i pazienti allergici ed eosinofili si sovrappongono solo per una piccola parte e
non si sa il perché.”

Domanda: “Come cambia la terapia in pazienti cardiopatici?”


Risposta: “Bisogna stare attenti ai β2-agonisti soprattutto in chi presenta fibrillazione atriale, ma
c’è la possibilità di dare al posto dei β2-agonisti l’anti-colinergico. Il farmaco principale nell’asma
è lo steroide e si può usare anche solo questo, ma se l’asma non è controllato si può aggiungere
anche un anti-colinergico, il tiotropio ed eventualmente l’anti-leucotrienico.”

Domanda: “Ma se uno ha l’asma ed è in terapia con β-bloccanti, si possono dare questi ultimi
assieme al tiotropio, che è un anti-colinergico, o si dovrebbero evitare?”
Risposta: “Se si può scegliere un’altra classe farmacologica è meglio, bisogna considerare però
che i β-bloccanti sono selettivi ora, quindi dipende dal pz, però se non c’è a disposizione un altro
farmaco si dà il β-bloccante cardiaco super selettivo e si vede come risponde: per esempio se
alla spirometria peggiora ed era sempre andato bene bisogna pensare di sospenderlo.”

Domanda: “Nel caso di asma allergico magari a esordio in età pediatrica, la figura di riferimento
è l’allergologo o lo pneumologo, e come si interfacciano?”
Risposta: “Secondo me lo pneumologo ha un’esperienza anche nel gestire la crisi respiratoria, è
sempre un lavoro a quatto mani; magari l’allergologo ha esperienza soprattutto per la terapia
di desensibilizzazione perché lo pneumologo per esempio non fa il vaccino anti-acaro o anti-
graminacee; poi ci sono allergologi/pneumologi che riescono a gestire tutto, ma direi che sono
necessari entrambi sia per la terapia di fondo di desensibilizzazione che per l’inquadramento del
paziente, soprattutto perché nei bambini ci sono crisi anafilattiche per cui si ha bisogno di fiale
di adrenalina, quindi l’allergologo serve di base per l’inquadramento del paziente e lo
pneumologo per la terapia, per le riacutizzazioni, per la gestione farmacologica respiratoria
specifica.”

Embolia polmonare

Caso clinico
Si presenta il caso di una donna di 36 anni, fumatrice, obesa con diabete di tipo 2, due aborti
spontanei e due gravidanze portate a termine.
La signora entra in PS per una dispnea grave, emottisi, dolore toracico e dolore addominale da
due mesi (ha avuto un parto cesareo due mesi prima).

EO: non rumori patologici aggiunti; riduzione del MV; toni cardiaci parafonici; addome
trattabile, dolente alla palpazione profonda in sede pelvica ove è presente la cicatrice del taglio
cesareo; FC 115 bpm, FR 35 atti respiratori/min; non edemi declivi agli arti inferiori; PA
100/60mmHg.

L’emogasanalisi evidenzia un quadro tendente all’alcalosi (pH 7,46), ipossiemia (50 mmHg) e
ipocapnia (33 mmHg); l’alcalosi è respiratoria perché i bicarbonati sono nella norma (22,5
mmol/L).

L’ECG evidenzia una tachicardia sinusale, mentre gli esami del sangue mostrano leucocitosi e
PCR, che suggeriscono uno stato flogistico.

Si presta inoltre attenzione ai valori aumentati del D-dimero.

RX: nel polmone destro è visibile un disomogeneo


addensamento parenchimale diffuso all’apice e, in
misura minore, al lobo basale del polmone di destra; si nota anche il sollevamento
dell’emi-diaframma destro.

La signora viene ricoverata, soprattutto a causa


dell’insufficienza respiratoria evidenziata
dall’emogasanalisi (uno dei criteri per il ricovero dei
pazienti è proprio l’insufficienza respiratoria, nel caso in
cui la pO2 sia inferiore a 60 è troppo rischioso gestire il paziente a domicilio).

Diagnosi iniziale: insufficienza respiratoria secondaria a polmonite acquisita in comunità (CAP),


cioè non dopo le 72 ore dal ricovero.

La saturazione della paziente è 88% (compatibile con la pO2 vista prima), è tachicardica,
tachipnoica e ipotesa. Vista la leucocitosi, gli inidici di fase acuta e l’addensamento polmonare
sembra quindi trattarsi di una polmonite.

Il D-dimero è alto e può fare pensare a uno stato trombotico (e in questo caso un’embolia
polmonare visto il quadro respiratorio), ma è un parametro con bassa specificità, sebbene abbia
una sensibilità molto alta; è quindi molto informativo se è negativo ma non diagnostico quando
è alto.

Il D-dimero ha quindi un alto VPN e un basso VPP per l’embolia polmonare.

Se all’anamnesi vengono poste le giuste domande (a meno che la patologia non si riveli essere
una condizione estremamente rara), le risposte del paziente danno spesso indicazioni molto
importanti. Il professore pone quindi il quesito: si inizia subito la copertura antibiotica per la
polmonite o si eseguono subito altre indagini?

A questo punto viene svelata la diagnosi: si tratta di un’embolia polmonare.

L’esame diagnostico per l’embolia polmonare è l’angio-TC, che si esegue con un mezzo di
contrasto introdotto per via endovenosa. Il mezzo di contrasto fa apparire bianchi i vasi e
l’embolo come un’ostruzione opaca; tale esame permette di valutare dimensioni e la sede
esatta dell’ostruzione. Chiaramente, l’arteria a valle dell’embolo appare nera, poiché lì il mezzo
di contrasto non può arrivare.

“Purtroppo, o per fortuna, RX e TAC sono sue esami molto diversi che possono evidenziare
quadri patologici completamente differenti”

L’embolo viene ricercato in arteria polmonare, dato che spesso origina da una TVP degli arti
inferiori e il primo ostacolo che trova e in cui si blocca è il circolo polmonare.

L’angio-
TC

evidenzia inoltre un infarto polmonare (foto a destra), riconoscibile come un addensamento di


forma triangolare, la cui base è posta sulla pleura; è l’infarto polmonare a causare dolore alla
paziente.
Referto: embolo di circa 5 cm in ramo destro dell’arteria polmonare, lieve versamento pleurico
e addensamento parenchimale.

La diagnosi cambia quindi in: insufficienza respiratoria acuta secondaria a tromboembolia


polmonare e infarto polmonare.

Terapia (viene ripresa nel paragrafo sottostante)


Si prescrive un antiaggregante come il Clexane (eparina a basso peso molecolare), 0,8 UI per via
sottocutanea due volte al giorno.

Eziologia e trattamento
A questo punto bisogna indagare la possibile causa dell’embolia polmonare, bisogna
individuare i fattori di rischio. La signora ha avuto un parto cesareo e gli interventi chirurgici
sono un importante fattore di rischio. Per questo i pazienti che hanno appena subito un
intervento chirurgico indossano delle calze elastiche (per prevenire la formazione di TVP che
possono evolvere in embolie polmonari). Si cerca quindi di mobilizzare i pazienti il prima
possibile per non aggiungere uno stato di stasi sanguigna.

La signora esegue un’ecografia agli arti inferiori che risulta però negativa; esegue inoltre dei test
per la trombofilia ma risultano negativi anche questi (è un buon sospetto in questo caso, dato
che la paziente ha avuto in passato due aborti spontanei; avrebbe potuto avere, ad esempio, la
sindrome degli anticorpi anti-fosfolipidi).

L’ecocardiografia evidenzia un cuore sinistro sano ma un cuore destro dilatato e una pressione
in arteria polmonare di 70 mmHg, altissima.
La malattia ha una mortalità del 30% se non trattata e si rileva comunque mortale nel 2-3% dei
pazienti trattati, quindi è fondamentale iniziare la terapia il prima possibile. La severità varia da
paziente a paziente e quindi la terapia: ci sono pazienti che hanno bisogno di supporto con
ossigeno, oppure nei casi più gravi c’è bisogno della ventilazione meccanica. Se occorre si
provvede a dare un supporto emodinamico, come ad esempio in questo caso dato che la
signora era ipotesa.

Il trattamento anticoagulante e fibrinolitico a lungo termine espongono al rischio di emorragie;


può capitare di avere pazienti problematici in cui non fornire la terapia anticoagulante li
esporrebbe al rischio di trombosi, ma paradossalmente sarebbero a rischio di emorragia nel
caso in cui venissero scoagulati. Un esempio riportato dal professore sono i pazienti con doppia
terapia anticoagulante che subiscono un evento cerebrale ischemico ma non emorragico.

Si tratta di decisioni molto difficili che devono essere prese tempestivamente.

Fattori prognostici negativi


Scompenso cardiaco destro

BNP elevato, viene infatti prodotto dalle pareti cardiache (dalle slides: >90 pg/mL)

Troponina elevata (dalle slides: > 0,07 mcg/L)

Epidemiologia
In USA causa la morte di 100.000 - 200.000 pazienti all’anno, su un totale di casi di circa 600.000
all’anno; ciò significa che la mortalità si aggira tra 1/6 e 1/3.
Sono frequenti i casi di errata diagnosi di embolia polmonare: spesso si vedono pazienti con D-
dimero alto, sintomi compatibili e fattori di rischio compatibili ma che non hanno un’embolia
polmonare.

Il motivo per cui le diagnosi errate sono frequenti in questi ambiti è che i sintomi dell’embolia
polmonare sono molto aspecifici e possono benissimo essere causati da una brutta polmonite.
La signora del caso clinico presentava inoltre leucocitosi e febbre che potevano benissimo far
sospettare tale quadro infettivo.

Il vero test diagnostico è l’angio-TC, che però non è un esame di prima scelta, non è semplice da
eseguire come un qualunque test ematologico e viene effettuato solo se c’è un sospetto clinico
che suggerisce l’embolia polmonare.

Fattori di rischio
Fattori ereditari:

 Difetti genetici che rendono il paziente predisposto a uno


stato di trombofilia (difetti di Proteina C, Proteina S…);

Fattori acquisiti:

 Ridotta mobilità
 Neoplasie (possono portare ad uno stato pro-trombotico);
n.d.r. ad esempio possono causare la sindrome di
Trousseau o tromboflebite migrante;
 Patologie autoimmuni (che molto frequentemente vedono aumenti del D-dimero);
 Contraccettivi orali;
 Terapia ormonale sostitutiva;
 Interventi chirurgici;

Non tutti i fattori di rischio hanno la


stessa importanza, il professore pone
particolare attenzione su quelli che
costituiscono un alto rischio: età
maggiore di 75 anni, pregressa embolia
polmonare, pregressa trombosi venosa
superficiale, trombofilia, interventi chirurgici, neoplasie… (quelli non citati possono essere letti
nell’immagine a lato).

Scores per la diagnosi


Score di Wells

Il professore commenta i vari parametri presi in esame dallo


score.

Segni di trombosi profonda (ad esempio arto gonfio arrossato


e dolente); tachicardia (>100 bpm); Si pone attenzione al
secondo punto che si basa sul sospetto clinico; il professore
non è sicuro che la diagnosi più probabile del caso clinico visto potesse essere
l’embolia polmonare (tale punto è operatore-dipendente).

Immobilizzazione, intervento chirurgico e un’embolia


polmonare pregressa sono altri aspetti da tenere in
considerazione.

Lo score di Ginevra è più complesso ma è più obiettivo.

“Conoscere gli scores non è essenziale ma se li sapete è


meglio”

Diagnosi
Pazienti dispnoici che rientrano nella categoria a rischio per le embolie polmonari possono però
presentare altre patologie che danno dispnea. Nonostante la dispnea sia un sintomo molto
prevalente (80%) in chi ha embolia polmonare, non tutti quelli che si presentano con dispnea
hanno un’embolia polmonare.

Lo stesso vale per altri sintomi quale emottisi, dolore toracico, sia retrosternale che pleurico, e
altri.
Diagnosi differenziale

 Malattie ostruttive
 Edema polmonare
 Polmonite
 Infarto miocardico
 Frattura costole
 Pneumotorace

Normalmente l’edema polmonare è distinguibile alla radiografia, solitamente è accompagnato


da un ingrandimento dell’aia cardiaca e può essere presente un versamento pleurico; il
polmone è completamente costellato da nodulini “fluffy” (piccoli noduli bianchi e dai contorni
indefiniti).

Il professore riporta quindi un caso in cui una paziente con sospetto edema polmonare ha
eseguito una RX torace che ha mostrato un pattern miliariforme di noduli fluffy e nel referto
venne scritto che era compatibile con un edema polmonare. Tuttavia, una successiva angio-TC
smentì la diagnosi iniziale.

“Spesso si tende a guardare il dito e non la Luna che il dito vuole indicare”, un radiologo che
esamina un gran numero di radiografie in un giorno tende inevitabilmente a orientare la ricerca
di una diagnosi in base ai sospetti clinici con cui il paziente è arrivato.

Si ricorda che il quadro miliariforme osservabile a una RX è compatibile con:

 TBC miliare;
 Metastasi polmonare (che si rivelò la diagnosi corretta);

D-dimero
Ha un’alta sensibilità per embolia polmonare ma bassa specificità; questo è vero soprattutto in
pazienti anziani che hanno varie patologie che sono in grado di aumentare il D-dimero (e.g.
flogosi e recenti interventi chirurgici)

Nei reparti di chirurgia, richiedere un D-dimero rischia di suscitare le risate del personale, in
quanto tutti i pazienti, essendo stati sottoposti a intervento, avranno verosimilmente i livelli
molto alti. Diventa quindi poco o per nulla informativo in questi casi.
Di seguito viene riportata una slide in cui sono riportate altre patologie in grado di causare un
aumento del D-dimero.

ECG
Non è possibile fare diagnosi definitiva con un ECG, ma se affiancato ad altri esami è in grado di
essere molto informativo (come in un puzzle, l’insieme di più pezzi possono generare
un’immagine).

Tipici dell’ECG in caso di embolia polmonare sono segni di sovraccarico del ventricolo dx,
tachicardia sinusale, disturbi del ritmo come FA o extrasistoli.

RX torace
I segni tipici sono:

 Versamento pleurico omolaterale;


 Sollevamento emi-diaframmatico omolaterale;
 I vasi ilari possono essere asimmetrici;
 Opacità piramidali a base pleurica  infarto polmonare (dalle slides: segno di
Hampton);
 Amputazione dei rami polmonari principali (non sono visibili omolateralmente o lo sono
di meno)

Emogasanalisi arteriosa
È quello caratteristico di un’insufficienza respiratoria ipossica e ipocapnica;

(il prof ne sottolinea l’importanza anche se sorvola sulla slide 40 in cui viene trattata
l’emogasanalisi)

Ecocardiogramma
Serve a valutare il cuore destro e confrontandolo con la funzionalità del sinistro si può
stratificare il rischio del paziente (ma non è definitivo per la diagnosi).

Il ventricolo destro andando incontro a un’espansione rapida schiaccia il ventricolo sinistro


riducendone ad un certo punto la frazione di eiezione (n.d.r. può insorgere una condizione si
shock). Il paziente che muore per embolia polmonare muore quindi per insufficienza cardiaca
sinistra.

L’ecocardiogramma è uno strumento utile per valutare il rischio del paziente.

Angio-TC
È il gold standard. Se al paziente non può essere eseguita perché non può essergli
somministrato il mezzo di contrasto, si opta per la scintigrafia, che permette di individuare un
mismatch tra ventilazione e perfusione polmonare. Se una zona ventila ma non è perfusa vuol
dire che c’è un ostacolo al circolo. Tuttavia, il risultato della scintigrafia è dato in termini di
bassa, media o alta probabilità e non è quindi risolutivo.

Bisogna quindi valutare se il paziente può, nonostante ad esempio una CKD, essere preparato
adeguatamente alla TAC tramite idratazione e somministrazione di N-acetilcisteina (Fluimucil);

se ciò non è possibile si rischia di mandare il paziente in dialisi.

La sensibilità non è del 100% perché il mezzo di contrasto non riesce a mettere in evidenza i vasi
più piccoli, ma è comunque molto alta. Se quindi l’embolia è subsegmentale non viene rilevata,
ma allo stesso tempo è difficile che sia clinicamente significativa.

Algoritmo diagnostico
Se la probabilità di embolia è medio-bassa si fa il D-dimero e un risultato negativo esclude
automaticamente l’ipotesi di embolia polmonare (ma il più delle volte è positivo).

Nella seconda eventualità il paziente viene sottoposto ad altri esami quali RX ed ecografia
vascolare e se il sospetto viene confermato da questi esami si fa un’angio-TC per confermare la
diagnosi e localizzare l’embolo.

Quando c’è una


probabilità molto alta
di embolia
polmonare (casi rari),
siamo in qualche
modo giustificati a
somministrare la
terapia con eparina,
anche se non
abbiamo la conferma
definitiva. Questo
perché un intervento
tempestivo può
salvare la vita del
paziente nel caso in
cui l’embolia sia
grave.

Aforismi e messaggi finali

“L’embolia polmonare è la malattia più diagnosticata quando c’è e la meno diagnosticata


quando c’è.” (Israel 1974)

La presentazione clinica della TEP è variabile e non specifica e ciò rende la diagnosi difficoltosa.
“E’ una patologia ancora ampiamente sotto-diagnosticata. Spesso non è diagnosticata perché
non sospettata.” (Wood JE. Chest 2002;121:877)

Il problema della mortalità è un problema di ritardo diagnostico.

Versamento pleurico

Il prof. Spagnolo introduce il dott. Davide Biondini, ricercatore che si occupa anche di endoscopia, e
anticipa che nella lezione di oggi si verrà presentato un caso clinico di versamento pleurico, mentre
lunedì prossimo si parlerà di tecniche endoscopiche.

Il versamento pleurico è una patologia frequentissima e quindi importante da conoscere,


indipendentemente dalla specializzazione di un medico.

Caso clinico
Il caso trattato riguarda un paziente giovane, di 39 anni, proveniente dalla Nigeria, in Italia da qualche
anno, disoccupato, non fuma e nega allergie. Arriva in pronto soccorso per febbre con brividi e
sudorazione da una settimana, aveva già iniziato una terapia accordata col medico di base con 2 gr di
Augmentin (amoxicillina) al giorno, ma nonostante questo dopo tre giorni ha sviluppato una tosse secca
con anche un dolore puntorio destro. Alla luce di questi sintomi, senza aver a disposizione una lastra, le
patologie che subito vengono in mente sono la pleuropolmonite, o magari lo pneumotorace (per il
dolore puntorio): è importante ricordare che un dolore a livello toracico può essere avvertito solo in
caso di interessamento della pleura (una polmonite senza interessamento pleurico, infatti, non ha come
sintomo caratteristico il dolore toracico).

Il paziente ha 39°C di febbre, una frequenza respiratoria di 19-20 atti al minuto (quindi è tachipnoico),
una SpO₂ in aria ambiente bassa pari al 93%, pressione 115/60 mmHg, frequenza cardiaca 95 bpm.
Essendo la SpO₂ in un individuo giovane di 40 anni (ben diverso da un 80enne con BPCO a cui basta poco
per avere un valore più basso della norma) così bassa, nonostante normalmente il cutoff sia a 92%, è
indice di una patologia polmonare piuttosto importante.
All’esame obiettivo si segnalano riduzione del fremito vocale tattile, ipofonesi plessica, murmure
vescicolare abolito e soffio bronchiale. Il soffio bronchiale è tipico del versamento pleurico, perché gli
alveoli in concomitanza col versamento
vengono chiusi, mentre i bronchi sono aperti e
producono appunto questo soffio (con
un’ostruzione bronchiale, invece, non ci
sarebbe neanche il soffio e si avrebbe silenzio
respiratorio).

Agli esami ematochimici si evidenzia un


aumento della PCR e degli indici aspecifici di
infiammazione.

La radiografia del paziente, invece, è quella a


lato.

Questa radiografia si differenzia da quella di


una polmonite perché in questo caso a livello del settimo spazio intercostale a destra circa si riesce a
seguire una concavità che evidenzia la tipica disposizione del versamento pleurico : non è comunque una
radiografia facile da analizzare, perché potrebbe anche esserci un addensamento tipico della polmonite.
Se invece ci fosse una linea netta, quella sarebbe aria e quindi si sarebbe in presenza di pneumotorace.

Inoltre, a differenza dell’atelettasia (perdita di volume degli alveoli) in cui la trachea appare stirata dallo
stesso lato perché la perdita di volume retrae tutto l’albero bronchiale, nel versamento pleurico la
trachea viene spinta controlateralmente dal versamento stesso.

Un versamento che interessa metà campo polmonare come quello della radiografia è abbastanza
cospicuo (circa 3 litri), per cui come trattamento è necessaria una toracentesi in cui si preleva circa un
litro e lo si analizza (aspetto ripreso più avanti nel corso della lezione).

A lato è possibile osservare


la lastra in proiezione
latero-laterale dello stesso
paziente (immagine più a
sinistra): si riesce ad
identificare meglio il
versamento, e solitamente
in basso (cerchio rosso) si
dovrebbe vedere tutto
nero perché c’è aria (come
nella radiografia di un
polmone sano
dell’immagine a destra),
mentre in questo caso si
vede bianco. Di norma la radiografia in proiezione latero-laterale si fa sempre perché può essere d’aiuto
soprattutto in caso di polmoniti posteriori che possono non vedersi.

L’emogas del paziente è il seguente: come detto prima la SpO₂ al 93% non è normale, la pO₂ a 68 mmHg
è bassa ma non è
indice di insufficienza
respiratoria, tuttavia
in un paziente di 40
anni un valore sotto ai
70 mmHg è
comunque
preoccupante.

Cause di versamento pleurico

Si elencano brevemente le possibili cause di versamento


pleurico: innanzitutto, esso può essere dovuto
all’aumento della pressione idrostatica nei capillari
pleurici. La classica causa di versamento pleurico,
soprattutto se bilaterale, è infatti l’insufficienza cardiaca
(o comunque altre problematiche di tipo cardiologico).
La prima cosa da indagare in un paziente con
versamento pleurico soprattutto se bilaterale quindi è la
situazione cardiologica.

Un’altra causa tipica del versamento pleurico bilaterale è la riduzione della pressione oncotica: in
questo caso quindi è necessario verificare la presenza di possibili epatopatie o nefropatie.

Le 3 sedi principali di patologie che possono portare ad un versamento pleurico bilaterale sono quindi
sempre cuore, fegato e reni.

È da specificare che in ogni caso non è così netta la distinzione: in un versamento pleurico non bilaterale
comunque non bisogna escludere per forza una di queste cause, anche se è utile ricordarsi di questo
orientamento iniziale.
Un’altra causa può essere l’aumento della permeabilità della superficie pleurica, come nel caso clinico
riportato: un evento flogistico-infettivo di qualunque tipo può portare a un versamento pleurico; in
questo caso però è tipicamente monolaterale.

Ci può essere altrimenti una riduzione del drenaggio linfatico: è da tenere presente che dalla pleura
parietale si dipartono delle piccole strutture linfatiche che drenano i liquidi dall’interno dello spazio
pleurico; esse sono in grado di aumentare il drenaggio in caso di aumento del liquido, ma fino ad una
certa soglia. Sono tipicamente le neoplasie che possono portare ad alterazioni di questo tipo (anche qui
il versamento pleurico è di solito monolaterale).

Casi un po’ più rari invece sono dovuti all’aumento della negatività della pressione endopleurica. Viene
preso come esempio un intervento chirurgico come la pneumectomia, dopo il quale rimane un
emitorace vuoto: lo spazio ora libero non sarà occupato da “aria”, ma si riempirà di liquido (quindi un
paziente pneumectomizzato avrà in imaging un polmone bianco, dal momento che è pieno di liquido).
Questo è dovuto al fatto che in una cavità difficilmente rimane dell’aria (a meno che non si tratti di uno
pneumotorace), quindi ad esempio nel caso della pneumectomia o di un fibrotorace (che si faceva per
trattamenti da TB, in cui il polmone si retrae) nella parte di pleura lasciata vuota ci può essere un
aumento della pressione che porta a richiamare acqua: qui il versamento è solo una sorta di
compensazione di uno spazio vuoto. Raramente, ci sono anche alcuni casi di patologie pleuriche
tumorali che fanno sì che il polmone sia tutto “coartato”: in questi casi il liquido anche se rimosso
tornerà puntualmente a riformarsi, poiché il polmone non si riespande. Se il polmone non si riespande,
l’aria verosimilmente non rimane e quindi del liquido andrà ad occupare il volume libero.

Infine, ci possono essere delle alterazioni della barriera transdiaframmatica che, soprattutto nei
pazienti epatopatici (ascite), possono favorire l’insorgenza del versamento.

“Queste ultime cause di versamento pleurico sono le meno importanti e frequenti: se venisse chiesto
all’esame, è meglio iniziare con le prime tre”.

Come si affronta il
versamento pleurico

Viene quindi riportata una flowchart


che riassume come teoricamente si
dovrebbe affrontare il versamento
pleurico.

Innanzitutto, si fa un’ecografia/una
RX/una TC per verificare la quantità di
liquido del versamento pleurico: se ce
n’è poco (nel flowchart viene indicato come meno di 10 mm di spessore), o comunque se eseguire una
toracentesi è difficile/rischioso, ci si limita all’osservazione.

Se invece il versamento è presente con una quantità di liquido che consentirebbe e richiederebbe di
proseguire con una toracentesi, la prima cosa che bisogna verificare è se il paziente sia scompensato. Se
il paziente è scompensato, se il versamento è simmetrico (quindi se non è asimmetrico) e se il paziente
non ha dolore o febbre, allora la cosa più probabile è che sia proprio lo scompenso cardiaco la causa del
versamento: si prova quindi a risolvere la cosa somministrando diuretici. Il primo trattamento in caso sia
l’ipotesi cardiologica la più probabile è quindi proprio l’uso di diuretici.

Se le condizioni del paziente non migliorano, o se il versamento è monolaterale e accompagnato da


febbre (come nel caso clinico) e dolore toracico, allora si procede con la toracentesi.

Ma perché si fa la toracentesi? Ci si può aspettare una diagnosi dalla sola toracentesi?

Per esempio, se fosse un versamento su base infettiva si potrebbe fare un antibiogramma, ma se


risultasse negativo?

La sensibilità di analisi microbiologiche e soprattutto citologiche del liquido pleurico da toracentesi nel
caso ad esempio si sospetti una patologia tumorale è davvero bassissima: ma quindi la toracentesi in
cosa aiuta?

Prima di rispondere alla domanda, vengono commentate due immagini esplicative della corretta
metodica per la toracentesi.

Anni fa, in preparazione alla toracentesi, per


stimare la posizione del versamento si facevano
solo RX e percussione del torace da esame
obiettivo: ciò era però rischioso, perché spesso il
diaframma può essere innalzato, e l’obbiettività
in questo caso è uguale a quella del versamento.

Oggi invece prima della toracentesi si fa sempre


un’ecografia, perché essa consente di
individuare subito l’area di interesse, di vedere
chiaramente il versamento e soprattutto
permette di decidere facilmente il punto di

accesso migliore.
Una volta percepito lo spazio intercostale, ci si posiziona sempre sul margine superiore della costa,
perché nella parte inferiore è situato il fascio vascolonervoso (vera, arteria e nervo).

Ci sono vari strumenti: si possono usare strumenti che hanno un ago che viene retratto appena si è
entrati nella cavità, oppure anche una siringa normale.

È da ricordare che l’ecografia consente di vedere anche eventuali vasi anomali, e di evitarli: alcune
arterie intercostali infatti soprattutto nelle porzioni più paravertebrali possono avere un decorso più
ondulato, e quindi senza ecografia si potrebbe rischiare di pungerle.

Al paziente in questione è stata fatta una toracentesi, con la quale sono stati prelevati 1000 cc di liquido.

È riportata la serie di analisi che costituiscono l’esame chimico-fisico, che è il terzo oltre al
microbiologico ed il citologico.

L’esame chimico-fisico del versamento pleurico permette innanzitutto di distinguere tra trasudato ed
essudato, che sono le due grosse categorie: il trasudato è tipico più della patologia sistemica, e quindi
dei casi in cui il versamento è bilaterale, mentre l’essudato, che è solitamente di origine
infiammatoria/infettiva o tumorale, ed è più tipico del monolaterale.

Del liquido estratto vengono descritti aspetto, colore, pH, densità, e le proteine come la LAD
(latticodeidrogenasi, LDH), oltre al commento eventuale come in questo caso, che riporta numerosi
linfociti e rari macrofagi.

Nel caso clinico il liquido è un essudato, che combacia con la clinica che il paziente aveva.

Diagnosi differenziale con la toracentesi


Ma come aiuta a fare diagnosi la toracentesi?

La toracentesi serve soprattutto a fare diagnosi differenziale tra:

 emotorace: per esempio, in caso di un anziano che


fa terapia anticoagulante che è caduto, o di un
paziente che ha subito un trauma (“una botta”), se
alla toracentesi si dovesse aspirare sangue si
potrebbe già fare diagnosi.
È fondamentale sempre rimuovere il sangue, capire
se questo è puro (bisogna vedere che l’ematocrito
sia superiore al 50 % di quello su sangue
periferico), e verificare se il versamento è rifornito o meno (se dovesse esserlo, bisogna agire in
fretta poiché l’emorragia potrebbe portare a shock o comunque a complicanze anche gravi).
 empiema: oltre al microbiologico, bisogna verificare che non sia già un empiema, che si
presenta come liquido torbido o giallo carico e con qualche frustolo; l’empiema ha inoltre pH
acido (<7.2). Anche in questo caso bisogna agire tempestivamente: se non viene drenato, il
paziente può infettarsi ulteriormente, o magari si renderà necessaria una decorticazione
pleurica, quindi un intervento chirurgico vero e proprio. Il paziente del caso proposto a lezione
aveva un’infezione, e quindi è stato importante vedere se essa fosse già arrivata a livello del
cavo pleurico.
 versamento chiloso: è raro (il professore dice di averne visto solo uno negli ultimi 6 anni), ma è
da ricordare, anche se è meno importante ed urgente delle due condizioni sopra citate. Può
essere dovuto a rottura traumatica (Spagnolo suppone ferita da lama) o spontanea del dotto
toracico; inoltre, alcuni linfomi o altre patologie tumorali possono esordire proprio con un
chilotorace.

Domanda: i valori di trigliceridi riportati sono quelli del liquido pleurico estratto? Risposta: sì.
Solitamente le analisi dei trigliceridi sono richieste solo se si ha sospetto di chilotorace: è un
esame da considerarsi “in più”, tranne in caso di sospetto, in cui aiuta a far diagnosi. I pazienti
con chilotorace vanno poi messi in dieta.

 pancreatite/patologia esofagea: si tratta di casi rari; non ha un aspetto tipico a livello di


versamento pleurico. Si richiede l’amilasi, che se è aumentata può essere dovuta a pancreatite.

In ogni caso, la toracentesi di un versamento pleurico di dimensioni pari o superiori a quello del caso
clinico riportato serve almeno inizialmente a escludere emotorace ed empiema.
Si inviano poi sempre campioni per le analisi microbiologiche e citologiche, che però spesso danno
risultati negativi.
Ecografie del versamento pleurico
Si vedono ora immagini del versamento pleurico in ecografia.

L’ecografia è tra le metodiche più sensibili, perché si riescono a vedere anche versamenti molto piccoli,
mentre per l’RX toracico servono quantità di liquido maggiori. In ecografia il versamento risulta nero: qui
si vedono bene il liquido, il diaframma, il fegato, ed il polmone che “sguazza” nel liquido pleurico. Il
polmone in questi casi può sembrare quasi fegato perché è tutto consolidato (“epatizzato”).

Domanda: nella prima immagine la sezione è sagittale? Risposta: sì, viene messa sagittale, anche se in
realtà è indifferente che sia longitudinale o medio-obliqua. Qui non si vede bene, perché tra le due
sezioni l’aspetto è similare: l’unico modo che avresti per distinguere tra sagittale e obliqua sarebbe
vedere l’orientamento dello spazio intercostale. In questa immagine non è chiaro, ma non ha
importanza: per avere una migliore definizione di solito comunque si mette la sonda seguendo la
direzione delle coste, quindi non è proprio una sagittale. In questo caso quindi l’orientamento è diverso
rispetto a quello di una TC o di una RX, che sono ortogonali: si cerca di seguire le coste perché se si
mettesse l’ecografo sull’osso non si vedrebbe niente, e le coste hanno un andamento più o meno obliquo
a seconda del paziente, e quindi si deve cercare di seguire lo spazio intercostale e muoversi su di esso;
non c’è lo stesso orientamento in tutti i pazienti, ma cambia ogni volta per seguire l’andamento delle
coste.

In ecografia il versamento appare molto nero, e quindi è detto anecogeno o ipoecogeno.


Nell’immagine riportata qui, si vedono anche accumuli di fibrina che creano delle loculazioni: già questo
potrebbe indicare che verosimilmente si tratta di un empiema. Ecco che quindi in questo caso l’ecografia
ancor prima della toracentesi potrebbe aver già rivelato il tipo di versamento: non servirebbe forse
neanche fare la toracentesi, e si potrebbe già mettere un drenaggio (si tratta di un cavo infetto che non
va lasciato così).

Si capisce bene quindi come l’ecografia sia stata fondamentale, perché ha consentito di capire la
situazione fin da subito, permettendo quindi già di decidere come agire e dove posizionarsi per
prelevare il liquido: si vedono il liquido, gli spazi intercostali, il diaframma, i vasi, e l’empiema.

Dopo la toracentesi
Sono citati i criteri di Light, che sono dei calcoli
funzionalizzati ad avere un ulteriore conferma del
fatto che si tratti di un essudato: il rapporto tra le
proteine del liquido pleurico e quelle sul siero deve
essere superiore a 0.5, il rapporto tra LDH del liquido pleurico e quello sul siero deve essere maggiore di
0.6, e infine i valori di LDH del liquido pleurico devono essere superiori ai 2/3 di quello del siero. Questi
calcoli sono utili soprattutto nei casi limite.

Continuando con il flowchart: se questi calcoli danno


risultati negativi si ha un trasudato, le cui cause principali
sono state precedentemente elencate (scompenso
cardiaco, epatopatie e nefropatie), mentre se sono positivi
si ha un essudato, e bisogna proseguire con le indagini.
Nel caso presentato a lezione era stata fatta la toracentesi ed era stato tolto 1 L di essudato, ma gli
esami citologico e microbiologico come si vedrà erano risultati negativi.

Come si prosegue allora? Bisogna rifare la toracentesi? Come si fa la diagnosi?

Viene aperta una parentesi dal professore riguardo la corretta quantità di liquido da prelevare con la
toracentesi.

Immaginando che fosse un versamento pleurico massivo (quindi 6-7 L), quando liquido si sarebbe
dovuto togliere al paziente in quel caso?

Indicativamente si dovrebbe togliere circa 1.5-2 L: se si dovesse togliere di più si rischierebbe un edema
polmonare da riespansione, o uno pneumotorace. In realtà, in caso di versamento pleurico massivo è
basso il rischio di pneumotorace (a meno che non si causi con l’ago usato per la toracentesi, ma è
comunque difficile perché gli aghi sono corti e si è distanti dalla superficie polmonare, proprio per il
versamento), perché il polmone è “tutto appallottolato”, coartato, e non riesce ad espandersi anche se
gliene viene data la possibilità. In ogni caso, se dovesse capitare, è perché lo svuotamento troppo rapido
porta il polmone ad espandersi troppo e alla formazione di micro-rotture di qualche bolla.

In ogni caso comunque la toracentesi sembra una procedura piuttosto sicura, ma in realtà non lo è mai
del tutto, perché comunque una volta tolto l’ago non si è più in condizioni di sicurezza, perché può
avvenire un’emorragia, o uno pneumotorace, o un edema

Quindi come si può fare con la diagnosi? Il professore anticipa un concetto che poi viene ripreso, e cioè
che:

Oltre all’imaging, in ogni caso alla fine serve una biopsia all’interno del cavo pleurico, ottenuta con la
toracoscopia: questa si fa entrando dall’esterno; con la broncoscopia invece non si fa diagnosi di
qualcosa dentro il cavo pleurico, perché esso e i bronchi sono due compartimenti separati.

Cause del versamento pleurico essudatizio


Vengono elencate alcune delle cause di versamento
pleurico essudatizio: escluse quelle da farmaci o da
radiazioni, per le quali c’è la storia di esposizione, si vedono
come prima causa tutti i tipi di tumore che possono colpire il
polmone, da quelli polmonari primari, alle metastasi
pleuriche, fino ai mesoteliomi (lesioni primitive della
pleura). Inoltre, anche tutte le polmoniti possono dare un
quadro di versamento pleurico, come anche l’embolia
polmonare (era plausibile anche in questo paziente, poiché
aveva anche dolore toracico; l’embolia polmonare è da
ricordare, perché può presentarsi un po’ in tutti i modi).
Oltre a queste, sono da considerare anche patologie sistemiche come connetivopatie, artrite
reumatoide e LES (anche se è raro che questi pazienti si presentino con un versamento pleurico come
prima manifestazione della malattia, mentre viceversa se se ne è già a conoscenza, è una diagnosi
differenziale in più che bisogna fare: è la patologia che sa già di avere che magari è poco sotto controllo,
o la causa è un'altra non collegata? Questi a detta del professore sono i casi più difficili da diagnosticare).

Ci sono anche altre cause, come la sarcoidosi, ma sono più rare.

Analisi dalla toracentesi

Tornando al caso clinico, sono ripresi i risultati delle


analisi: l’esame citologico è negativo, il colturale è
negativo, la ricerca dei miceti è risultata negativa,
come quella dei micobatteri.

L’esame citologico sul liquido pleurico non ha dato


nessuna informazione in più, se non il fatto che ci
sono numerosi linfociti.
Inoltre, visto che il paziente è di provenienza nigeriana è sempre bene indagare la possibile storia di
tubercolosi: gli è stata fatta la PCR su liquido pleurico, ma è risultata anch’essa negativa.

In realtà alla fine quindi la toracentesi ha solo portato a concludere che ci sono linfociti aumentati (cosa
che comunque non è fisiologica, ci sono vari scenari patologici in cui i linfociti possono aumentare). In
questo caso la toracentesi ha aiutato a dire c’è una linfocitosi, quindi ha ristretto un po' il campo: se ci
fossero stati tanti eosinofili sarebbe stato un quadro più probabilmente dovuto a farmaci.

In tutta questa serie di cause rimangono quindi tumori,


tubercolosi, embolia polmonare, artrite reumatoide e
sarcoidosi.

La cosa più importante è sempre escludere che il versamento


pleurico sia causato da un tumore.

TC del versamento pleurico

Sono riportate ora due TC del caso


clinico.

Questa è una TC con la finestra per il


parenchima: esso si vede bene, e appare
nero perché pieno di aria; si vedere
anche la trachea, nera anch’essa perché piena di aria. Inoltre, il paziente ha anche un po’ l’esofago
beante, anche questo pieno d’aria.

Questa finestra serve per vedere il parenchima polmonare, e infatti viene usata ad alta risoluzione per la
diagnosi di interstiziopatie (la TC ad alta risoluzione consente di vedere con ancora più precisione
l’interstizio ed il parenchima polmonare; nel caso presentato non è stata usata perché non necessaria).

Domanda: il parenchima così è normale? Risposta: sì, è normale, ce lo si aspetta più o meno di questo
colore. Nella base destra invece non è normale, perché si vede bianco.

Il parenchima contiguo al versamento è schiacciato: si vede una banderella più bianca che non è un
addensamento o un tumore, ma è il polmone normale schiacciato dal versamento.

Ciò si può osservare ancora meglio nella


TC con finestra per mediastino, in cui il
parenchima polmonare è nero (non si
vede benissimo perché in questa finestra
quello che interessa è il mediastino), e
con l’utilizzo del mezzo di contrasto si
vedono bene tutti i vasi, l’aorta, la arteria
polmonare e tutte le strutture linfonodali
e mediastiniche.

Qui il versamento è grigiastro, e la parte


più bianca è sempre il parenchima
polmonare schiacciato dal versamento.

Quindi quando c’è un versamento


pleurico, soprattutto se di dimensioni
importanti, non si vede cosa c’è sotto:
sarebbe difficile riuscire a capire se c’è una massa tumorale, perché è tutto schiacciato.

Neanche se si arrivasse da dentro i bronchi facendo una broncoscopia si riuscirebbe a fare molto, perché
si troverebbe comunque tutto schiacciato. La prima TC che si fa serve solo per avere una prima idea, ma
poi è sempre bene rifarla dopo lo svuotamento per vedere bene tutto il polmone.

Il professore riprende ancora il concetto brevemente anticipato in precedenza, e cioè che:

Si capisce quindi che con il versamento pleurico per fare diagnosi c’è sempre bisogno di un campione
bioptico, di un frammento istologico o citologico (meglio se istologico): per prelevarlo, è necessario
arrivare dall’esterno attraverso la parete toracica, con la toracoscopia.

Esami microbiologici
I vari esami microbiologici sono tutti risultati
negativi a parte il Quantiferon: esso misura
l’esposizione dei linfociti alla TB. Che sia
risultato positivo non deve stupire: questo
paziente sicuramente è già stato in contatto con
la TB in quanto proviene dalla Nigeria, anzi ci si
potrebbe quasi stupire del contrario. In ogni
caso, non dice niente di più, perché di solito in
una TB attiva il Quantiferon è negativo; qui ha
indicato solo che il paziente ne è venuto a
contatto.

Domanda: quindi la polmonite è stata scartata perché c’è la linfocitosi nel versamento? Risposta: in linea
di massima sì, perché di solito le cause di linfocitosi sono ad esempio i linfomi.

Domanda: quindi non si inizia la terapia antibiotica nel frattempo? Risposta: con la polmonite bisogna
sempre iniziare una terapia antibiotica, ancor prima di conoscere esattamente il patogeno, perché se si
aspetta di avere la risposta microbiologica passa troppo tempo, anche giorni. In caso di sospetta
polmonite si fa sempre una terapia empirica, tarata a seconda del paziente, a seconda cioè dei suoi
fattori di rischio, delle patologie che ha, della sua storia, di dove potrebbe averla presa, dello stato (se è
un paziente già ricoverato o meno), rivolta verso il patogeno più probabile per quel paziente.

Iniziata la terapia poi si può decidere di andare avanti con altri tipi di indagini se la polmonite non
dovesse passare. Il concetto comunque è che la polmonite si tratta sempre, perché se si aspetta si fa solo
peggio; nei casi peggiori si può rischiare addirittura una sepsi, se il patogeno è già in diffusione ematica.
Ecco perché secondo le linee guida bisogna iniziare il trattamento nel giro di poche ore dalla diagnosi,
talvolta già addirittura in pronto soccorso (di solito non lo fanno mai un antibiotico in PS).

Se poi procedendo con le indagini si dovesse trovare altro allora l’antibiotico può essere sospeso in caso;
per esempio, se si sospettasse una TB non si dovrebbe dare come antibiotico la levofloxacina, perché
essa agisce sui micobatteri andando magari a negativizzare l’espettorato: se in dubbio di TB, tra tutti gli
antibiotici è meglio non dare levofloxacina perché potrebbe dare dei falsi negativi; in questo caso è
meglio aspettare gli esiti delle analisi e poi eventualmente trattare.

Il concetto è che con la polmonite, si dà sempre l’antibiotico.


Domanda: mentre per l’embolia polmonare in diagnosi differenziale, la scarto subito quella? Risposta: ad
un paziente che arriva con dolore toracico e con una TC simile a quella del caso riportato, di cui tu però
non sei sicuro di poter escludere l’embolia perché magari è stato molto allettato, vanno fatte angioTC e
D-dimero.

Nel nostro caso clinico, che era caratterizzato da uno stato infiammatorio, il D-dimero potrebbe venire
facilmente positivo: se venisse negativo si potrebbe stare abbastanza tranquilli, e non servirebbe fare
altro. Visto il quadro infiammatorio probabilmente verrebbe aumentato: in questo caso si procederebbe
sicuramente con un’angioTC, per verificare lo stato di parenchima, cavo pleurico, e con la quale si riesce
a vedere se c’è un’embolia o no.

Dolore toracico
Il professore apre una parentesi riprendendo un dato dell’inizio del caso clinico, cioè il dolore toracico: un
paziente con un versamento così copioso probabilmente non ha più dolore toracico come all’inizio dei
sintomi. Perché?

Il dolore nella pleurite è puntorio ed esacerbato dagli atti del respiro, perché le pleure vanno a sfregare
tra loro: con un versamento così ingente però esse non arrivano a toccarsi, e di conseguenza non
sfregano.

Pazienti come il caso riportato all’inizio hanno dolore in quanto il versamento non è ancora così
cospicuo, ma poi dopo qualche giorno, come anche all’arrivo in PS, è difficile che abbiano ancora male,
proprio grazie all’ingrandimento del versamento (anche se probabilmente avvertono una sensazione di
peso, perché ovviamente hanno del liquido che occupa spazio e pesa).

Questa è in realtà un’altra problematica del versamento pleurico: questi pazienti potrebbero riportare al
medico che il dolore è diminuito, portandolo a sottovalutare la cosa e a liquidarla con un po' di
antibiotico; in realtà si sta meglio solo perché c’è ancora più liquido, mentre paradossalmente la
situazione intanto sta peggiorando.

È da ricordare quindi che il dolore toracico è sì presente nell’embolia, nello pneumotorace e nella
pleurite, ma spesso quest’ultima proprio perché dà infiammazione da liquido ed è essudativa porta ad
una diminuzione del dolore toracico intanto che il versamento pleurico aumenta.

Domanda: perché la TC effettuata in questo caso è a bassa risoluzione, se potrei vedere meglio dei
possibili noduli? Risposta: questa non è a “bassa risoluzione”, è una TC normale. Si può invece
richiederne una ad alta risoluzione, ma è un qualcosa in più. Noduli, nodulini e addensamenti li vedresti
comunque in una TC normale, mentre per le patologie interstiziali che necessitano di indagini più precise
si richiede quella ad alta risoluzione, che fornisce “fette” di tessuto più sottili, utili per indagare le
alterazioni fini dell’interstizio.
Terapia antibiotica

Procedendo, il paziente nel nostro caso clinico ha continuato


la terapia antibiotica, ma come si vede la febbre non è passata.
Quando la febbre non passa in una polmonite significa che si
sta sbagliando qualcosa: o c’è una complicanza che bisogna
indagare, o l’agente che è stato supposto è sbagliato, oppure la
diagnosi stessa è sbagliata. Se il paziente continua ad avere
febbre non si deve continuare a fare gli stessi trattamenti per
10 giorni, perché di solito la febbre dopo qualche giorno si
dovrebbe sempre ridurre.

Broncoscopia

A questo paziente è stata fatta anche una broncoscopia,


non tanto per fare la diagnosi del versamento, ma perché
essendo un paziente proveniente da zone ad alta endemia
di TB è sempre bene verificare che non abbia una TB attiva,
anche se alla clinica non ce l’aveva. Anche in questo caso,
si vede come sia risultato praticamente tutto negativo:
anche la broncoscopia non è servita.

Toracoscopia

Si giunge finalmente alla toracoscopia: essa è l’esame mediante il quale si riesce a fare diagnosi a livello
del cavo pleurico: si va direttamente ad osservare l’interno del cavo pleurico, si fanno dei prelievi
istologici e si riesce quindi a fare diagnosi (il professore ci tiene a ricordare la differenza con la
broncoscopia, nella quale si rimane confinati dentro i bronchi).

La toracoscopia può essere fatta dai chirurghi (in


questo caso si chiama VATS, Video-Assisted
Thoracoscopic Surgery): è fatta in sala operatoria con
il paziente intubato, è ventilato in monopolmone, con
3 accessi ecc.
Altrimenti si può fare in sala endoscopica con una metodica un po' meno invasiva: il paziente non è
intubato ma è solo sedato, non è cosciente ma è in respiro spontaneo, e in anestesia con Propofol più
l’anestetico locale.

Le controindicazioni sono le stesse di


qualunque tipo di procedura invasiva: la
coagulazione è la cosa più importante, come
anche tutte le problematiche cardiologiche. Per
fare una procedura del genere infatti il paziente
deve essere in un buon compenso cardiologico,
circolatorio, pressorio, e deve avere dei valori
di coagulazione nella norma, anche per le
biopsie.

Si riporta una foto degli


strumenti utilizzati nella
toracoscopia: le ottiche
con cui si vede
all’interno, le pinze con
cui si fanno le biopsie, le
luci, ed il trocar,
strumento che serve a
fare da tramite tra
l’esterno e l’interno.

Una volta per scegliere il punto di


accesso si usava questo triangolo di
sicurezza, ma come è stato detto
precedentemente per la toracentesi
con l’ecografia ora si sceglie in
maniera più precisa e sicura il punto
ideale.

Prima dell’avvento dell’ecografia per il punto di


accesso si faceva come per la toracentesi, solo
con l’esame obiettivo, ma come è stato detto variazioni come i diaframmi sollevati potevano essere un
imprevisto.

Ancora, ogni tanto si possono


trovare delle aderenze, cioè dei
punti in cui il polmone è incollato
alla parete: senza l’ecografia di
controllo poteva capitare di
accedere al cavo pleurico proprio
in corrispondenza di una
aderenza, avvenimento che
portava facilmente a bucare il
polmone. L’ecografia non solo
permette di vedere dove si trova il
liquido, ma permette di capire
anche dove sono queste zone che
è meglio evitare.

Con la siringa
dell’anestesia locale si
entra in profondità fino ad
arrivare in cavo pleurico:
se si aspira il liquido
pleurico significa che si è
nel posto giusto; a questo
punto si fa un’anestesia
locale profonda e di tutti i
piani sottocutanei, si lascia
dentro la siringa riaspirando per essere sicuri che ci sia sempre liquido e che quindi essa sia ancora in
cavo pleurico. Si fa anche l’anestesia sottocutanea, superficiale.

Si procede quindi
facendo un taglietto di
1.5 cm circa (è l’unica
invasività), e con una
forbice a punta smussa si
spinge per scollare (non
tagliare) i piani
sottocutanei: non si
incide tutto, ma solo la
superficie.
Una volta che si è riusciti ad
entrare in cavo pleurico si
toglie la forbice e si
inserisce il trocar (qui è in
plastica, usa e getta), che
diventa quindi tramite per
l’accesso nello spazio
pleurico: tramite questo si
inseriscono quindi i vari
strumenti.

Se si aspira tutto il liquido (durante la


toracoscopia si può fare anche questo), si
vede la parete toracica, la pleura, e se ne
valuta lo stato (normale/infiammato).

Di solito le biopsie se si può si evita di farle sul


polmone, per il rischio di PNX.

Un polmone è normale anche se ha


una leggera antracosi.

Le due immagini inferiori invece


contengono noduli infiammatori e
neoplastici, ed anche un’aderenza. Si
capisce che questi noduli sono
maligni già solo guardandoli, ma
l’unico modo per fare diagnosi
approfondita è prelevarli: se si fa
solo la toracentesi la probabilità di
fare una diagnosi precisa è
bassissima, mentre se invece si fa
biopsia la diagnosi la si avrà al 100%.
Altri noduli maligni.

Qui invece si vedono


granulomi, quindi tubercolosi:
anche la tubercolosi pleurica
può dare questi quadri di
micronoduli diffusi.

In questa immagine si vedono


placche asbestosiche: non
sono esse la malattia, ma
sono indice di esposizione
all’amianto.

La biopsia non sarà fatta di


queste placche, ma del
tessuto attorno ad esse.

Le complicanze della toracoscopia non sono molte:

 emorragia: è rara perché di solito non si fa una


biopsia di grosse dimensioni, ma si tolgono
porzioni piccole. Si valuta inoltre se la lesione da
biopsiare è vascolarizzata o meno.
 Anche la perforazione polmonare è rara, perché
come è stato detto poco sopra di solito non si
vanno a fare biopsie al polmone.
In questa biopsia si vede la pleura molto
bianca, con un ispessimento diffuso: se ne
preleva una porzione che andrà a costituire il
campione da inviare in analisi.

Domanda: quanto son grandi le biopsie?


Risposta: possono essere anche di 2 cm. Ci
sono però anche delle tecniche di peeling,
tramite le quali si esfoliano strati sottili di
tessuto nel caso non ci sia un nodulo franco;
se c’è il nodulo invece lo si preleva per intero.

Inoltre, si può anche “talcare”: il talcaggio si effettua soprattutto se la patologia è fortemente suggestiva
di neoplasia. Esso serve a creare un’aderenza tra le due pleure per evitare che si riformi il liquido: è una
pleuroadesi chimica, data dal fatto che si porta alla creazione di un’infiammazione che porta le due
pleure ad aderire. Più talco viene posto, maggiore l’aderenza.

Il talcaggio di per sé serve quindi


a ridurre il rischio di recidiva del
versamento pleurico; si fa di
default se la patologia è
neoplastica.

Dopo l’intervento si toglie il


trocar e si mette un drenaggio (il
professore cita il marchio Pleur-
evac) da tenere per almeno 3
giorni per monitorare le perdite,
per far sì che il polmone si
riespanda e torni a parete. Una
volta che la situazione si è
normalizzata, si toglie il tutto.

Se il polmone collassa un po’ come in questa immagine, si riesce a


vedere bene proprio tutta la cavità.
Il messaggio della slide qui riportata è che in pazienti che hanno una citologia negativa alla toracentesi
la probabilità che sia veramente negativa è molto bassa: se un paziente ha una storia soprattutto di
tumore, ha un versamento pleurico e la toracentesi dà un citologico negativo, non bisogna fermarsi,
perché quel negativo è verosimilmente un falso negativo.

La percentuale di positività al citologico è molto bassa, e comunque di certo non si farà diagnosi di un
versamento pleurico neoplastico con la toracentesi e un citologico positivo, quando oggigiorno è
necessario sapere tutte le mutazioni della neoplasia: una citologia non serve a niente.

Per concludere, il paziente esaminato ha


fatto la toracoscopia, ed è risultata una
pleurite tubercolare.

Il Gold Standard per fare diagnosi di pleurite


tubercolare è proprio la biopsia pleurica: gli
era stata fatta la PCR su liquido pleurico da
toracentesi, il colturale, la broncoscopia, ed
era risultato tutto negativo. Ciò fa capire
che finché non si fa la biopsia la diagnosi
non la si ha, come in questo caso. L’unico
modo per giungere alla diagnosi è stato
fare la toracoscopia.
Pneumologia interventistica

Broncoscopia
È una metodica nata nel XIX secolo e sviluppata da Killian, un gastroenterologo che di fatto
riadattò la tecnica e la strumentazione della
gastroscopia. Agli albori si utilizzava esclusivamente un
endoscopio rigido provvisto di una fonte luminosa. In
tale contesto il paziente era disteso o seduto con il capo
completamente in estensione, proprio per facilitare
l’introduzione dello strumento in gola; ovviamente la
procedura era molto dolorosa nonché invasiva, ma fu
comunque un primo approccio a tale tecnica.
Tutt’ora la strumentazione rigida viene utilizzata in
particolari contesti, dal momento che ci permette di
effettuare in sicurezza alcune procedure altrimenti critiche. In particolare, il broncoscopio rigido
può fungere da “catetere guida” in cui vengono inseriti gli endoscopi mobili, tutta la
strumentazione e che rimane pervio anche in caso di ostruzione bronchiale. In tal modo
l’operatore ha un pieno controllo delle vie aeree: è un po' come avere il paziente intubato. Non
si ottiene un totale isolamento delle vie aeree come in corso di tracheoscopia, anche se
comunque c’è un palloncino che si può gonfiare per sigillare il lume tracheale. Il broncoscopio
rigido è dunque una misura di sicurezza che ci permette di mantenere adeguatamente ventilato
il paziente durante tutto l’intervento, anche qualora si verifichi un sanguinamento che potrebbe
occludere i bronchi. Per tale motivo è utilizzato in tutti gli interventi più invasivi, mentre in
quelli più semplici e sicuri lo si cerca di evitare per ovvi motivi di praticità; non è dunque mai
utilizzato come strumento singolo (in tal caso si userebbe uno flessibile), ma solo come tramite
per inserire gli altri endoscopi.
Quando si esegue una broncoscopia si può arrivare al
massimo nei bronchi sub-segmentali, ma solitamente
non si riesce ad andare oltre ai rami segmentali.
Quindi in broncoscopia non si possono visualizzare
tutti i bronchi fino in periferia, ma si arriva solo
fino ad un certo punto, anche a seconda dello
stato in cui si trovano i bronchi (ci sono alcuni
pazienti che possono presentare bronchi dilatati,
per cui in tal caso si riuscirebbe ad andare più in
profondità); in ogni caso in linea di massima non si
può andare fino in fondo. Per tale motivo sono
state studiate delle tecniche che, al contrario,
permettono di indagare lo stato dei bronchi fino
alle diramazioni terminali.
Il professore ricorda che a destra ci sono tre lobi mentre a sinistra solamente due; il lobo medio
a destra è un’entità anatomica a sé stante mentre a sinistra fa parte del lobo superiore.

All’inizio dunque tutte le broncoscopie erano eseguite con il broncoscopio rigido, ma nel corso
del Novecento si è introdotta la tecnica del broncoscopio flessibile,
che sfrutta la tecnologia delle fibre ottiche: grazie ad esse
l’operatore riesce a guardare all’interno attraverso un oculare
che poggia su un supporto da cui si possono anche introdurre gli
strumenti e aspirare materiale in caso di lavaggio bronchiale.
Ora si preferisce evitare se possibile il broncoscopio ottico, dal
momento che l’operatore si trova in una posizione scomoda in
cui è difficoltoso intervenire, essendo concentrato al di sopra
dell’oculare; nei reparti attrezzati si predilige la video-
broncoscopia. In tal caso il medico può eseguire la procedura
guardando uno schermo collegato ad una videocamera posta
sulla punta dell’endoscopio: in questo modo l’introduzione della
strumentazione nonché il suo utilizzo sono molto più semplici che non
nella broncoscopia ottica. D’altro canto è vero che la torretta video non è presente in tutti i
reparti, per cui qualora quest’ultima non fosse disponibile si è tutt’ora costretti a servirsi del
broncoscopio ottico.

Riassumendo dunque entrambe le tecniche sono utilizzate tutt’ora; quando si può si predilige la
video-broncoscopia dal momento che è più pratica per l’operatore che deve intervenire. In
entrambe è presente un canale operativo dove si possono introdurre le pinze per fare le biopsie
o la strumentazione per i bronco-lavaggi; in più è presente anche un piccolo foro di uscita su cui
si inserisce il tubo di suzione che serve ad aspirare eventuale liquido precedentemente
instillato.

Attualmente sono stati introdotti anche dei broncoscopi usa e


getta che consentono di servirsi della video-broncoscopia anche
nei reparti sprovvisti di torretta video; sono collegati ad un
tablet su cui si possono guardare le immagini in diretta. Tale
strumentazione è molto utilizzata soprattutto nei pazienti in isolamento
che presentano infezioni da multi-resistenti, per evitare la
disseminazione del patogeno. Infatti, anche se è vero che ogni
broncoscopio viene sterilizzato alla fine di ogni esame, non si
potrà mai raggiungere il grado di sterilità di uno strumento usa e
getta. È più costoso, però se si fanno i confronti con le spese di
manutenzione di uno broncoscopio classico in realtà la differenza non è poi così eccessiva.

Gli esami da richiedere prima di una broncoscopia partono dall’imaging: senza una
RX o una TAC del torace è impensabile fare una
broncoscopia, come minimo per avere un’idea
sia di quello che si cerca sia dello stato generale in
cui si trovano i polmoni; in più l’imaging è necessario
per fare diagnosi, quindi deve sempre essere
richiesto. Poi viene richiesto l’ECG, dal momento
che la procedura viene fatta in anestesia (senza però
intubazione perché il paziente ventila
autonomamente), per evidenziare
eventuali aritmie di cui l’anestesista deve essere a conoscenza.
Altri esami richiesti sono: lo stato coagulativo, l’emocromo, la conta piastrinica ecc.
Un altro step fondamentale da eseguire prima di intervenire è l’anamnesi; poi si prosegue con
l’imaging, che comprende RX torace, la TAC torace e la PET-TAC (quella che fornisce una
risoluzione migliore).

Come tutte le procedure anche la broncoscopia non è esente da rischi: in casi estremi e rari il
paziente potrebbe anche morire, ma controindicazioni assolute non ce ne sono. Anche nei
pazienti con particolari problematiche, qualora la broncoscopia fosse strettamente necessaria
per la diagnosi, verrebbe comunque eseguita informando il paziente dei rischi in cui potrebbe
incorrere.
Le condizioni ad alto rischio sono:

 pazienti con aritmie;


 pazienti ipossiemici, dal momento che l’endoscopio va a
ridurre il diametro delle vie aeree (può arrivare ad
occupare un terzo della
trachea), per cui la funzione
respiratoria durante l’esame
diminuisce. Ciò può
rappresentare un serio problema per un paziente
già al limite dell’ipossiemia; se per di più la
dose di sedativo è eccessiva, egli può andare in apnea e
desaturare;
 soggetti con cardiomiopatia
ischemica instabile o
scompenso cardiaco congestizio;
 paziente asmatico con broncospasmo in atto; con un attacco asmatico acuto è
impensabile fare una broncoscopia, finché il paziente non si stabilizza;

Nessuna di tali condizioni preclude a priori l’intervento endoscopico, solo che per ciascuna
condizione devono essere prese in considerazione tutte le precauzioni e valutati i rischi del
caso.

Broncoaspirato
Consiste nell’infusione e successiva aspirazione di 10 o più cc di fisiologica per via
endobronchiale. Se un paziente presenta molto catarro esso potrà essere aspirato
eventualmente anche senza dover iniettare della fisiologica, viceversa se c’è né poco se ne
faciliterà l’aspirazione proprio grazie all’infusione di fisiologica.
Quello che si ottiene è un campione le cui
caratteristiche cambiano molto a seconda
del quadro patologico presentato dal
paziente: se la quantità di catarro è poca
l’aspirato sarà abbastanza limpido (figura a
sinistra); se invece la quantità è maggiore
l’aspirato sarà molto più torbido e denso
(figura a destra). Nelle due foto al centro si possono vedere due lavaggi che hanno rivelato la
presenza di sangue all’interno delle vie aeree, producendo un aspirato rosso (la seconda figura
dalla sinistra è indicativa di un sanguinamento in atto dato il colore molto più intenso). In caso
di sanguinamento delle vie aeree in corso di broncoscopia è sempre necessario ricorrere ad un
broncoscopio ottico poiché il sangue distorce a tal punto le immagini che è impensabile
proseguire con la video-broncoscopia di routine.
Una volta ottenuto l’aspirato si può procedere con l’iter diagnostico eseguendo su di esso un
esame microbiologico, volto all’identificazione del patogeno responsabile del quadro clinico
(come nel caso di una polmonite o di una sospetta tubercolosi). In più si può eseguire
sull’aspirato anche l’esame citologico, accompagnato spesso dalla biopsia, nonostante la
positività del citologico sia di norma estremamente bassa dal momento che è molto difficile
ottenere un broncoaspirato positivo. Anche nel caso in cui fosse positivo, spesso non si possono
fare indagini molecolari sulle cellule aspirate, per cui se si deve far diagnosi di neoplasia tale
esame può essere di supplemento ma mai il gold standard.

BAL - lavaggio bronco-alveolare


La parola lavaggio indica che la quantità di liquido instillata è maggiore rispetto al
broncoaspiraggio: si può arrivare ad infondere 200/250 ml di fisiologica, per cui si fa un vero e
proprio “lavaggio” delle vie aeree. Si sceglie di solito il bronco medio di destra o la lingula a
sinistra, data la loro posizione perpendicolare rispetto all’albero bronchiale che permette un
migliore recupero di materiale [e dal momento che, come spiegato in seguito, tale test è
eseguito per patologie che interessano spesso tutto il polmone, per cui non è importante il
punto in cui si va a prelevare materiale].
Con lo strumento si arriva dunque fino al lobo medio, poi da qui si seleziona un bronco e si
iniziano a fare delle instillazioni di 50 ml di fisiologica: ogni instillazione è immediatemente
seguita da un’aspirazione, con la quale si cerca di riaspirarare più liquido possibile. Dunque si
procede con vari cicli di istillazioni-aspirazioni; però non sempre si riesce a riaspirare tutto: con
100-150 ml riaspirati [a fronte dei 200/250 immessi] si può essere soddisfatti perché si può dire
di aver fatto un buon lavaggio. Se invece non si riesce a riaspirare abbastanza liquido si
preferisce ridurre la dose di liquido instillata perché si rischia di lasciare troppa fisiologica
all’interno degli alveoli e ciò potrebbe causare un processo infiammatorio locale.
Tale metodica è molto utile nelle pneumopatie infiltrative diffuse, soprattutto se c’è linfocitosi o
eosifilia; ad esempio tale esame è particolarmente indicato nella diagnosi di sarcoidosi. Inoltre il
BAL si presenta come un valido strumento diagnostico anche negli addensamenti parenchimali
focali come la pneumocistosi (?).
Infatti grazie al broncolavaggio si riesce ad arrivare bene in periferia, riuscendo a campionare
il polmone profondo, molto di più rispetto a quanto non faccia il broncoaspirato. Dunque il BAL
non va eseguito indisintamente a tutte le polmoniti per fare un semplice esame microbiologico,
ma è un esame in più da fare in casi selezionati, anche per via della maggiore invasività. In
particolare, è indicato per la diagnosi di interstiziopatie.

A lato si può osservare una normale cellularità del BAL,


in cui è evidente la predominanza dei macrofagi (80-
90%), seguita dai linfociti, neutrofili, eosinofili e mast
cells. Per cui se si trova una conta linfocitica o
eosinofilica superiore ai valori standard, si è di fronte a
un dato importante per la diagnosi.

Il rischio legato al BAL è minimo e sovrapponibile a quelli legati alla broncoscopia stessa; tutto
sommato come metodica è abbastanza sicura. Di norma vanno indagati i valori di caogulazione,
lo stato in cui si trova il cuore e la conta piastrinica.
L’unica possibile complicanza è che il paziente nei giorni successivi può presentare un po' di
febbre dovuta al processo infiammatorio alveolare causato dall’eventuale ristagno di acqua
instillata; non è mai nulla di grave o invalidante e tende a risolversi spontaneamente. Se così
non fosse, significherebbe che tali sintomi non sono imputabili alla procedura ma ad una
patologia sottostante su cui
andare ad indagare
ulteriormente. In rari casi si
potrebbero provocare un
broncospasmo o alcuni piccoli
addensamenti, sempre dovuti
al processo infiammatorio, ma
che comunque regrediscono in
pochi giorni.

Biopsie
La biopsia può essere bronchiale o transbronchiale. Essa si differenzia dal broncoaspirato
perché mentre quest’ultimo è un
esame citologico, la biopsia è un
esame istologico, per cui se si deve
far diagnosi di tumore o interstiziopatie quest’ultima ci consente di avere del tessuto da
analizzare.
Le pinze utilizzate possono essere di diversi tipi.

La biopsia bronchiale è scelta in quei casi in cui l’operatore è in grado di vedere direttamente la
lesione, mentre quella transbronchiale viene scelta per quelle zone in cui il tessuto da biopsiare
si trova in periferia e non può essere raggiunto direttamente con l’endoscopio.
Ad esempio, se in corso di endoscopia ci si ritrova ad osservare una lesione come
quella a lato, si può eseguire una biopsia bronchiale prelevando esclusivamente
tessuto bronchiale; mentre con una biopsia transbronchiale si va a prelevare anche
del tessuto alveolare (n.d.r. per essere definita tale una biopsia
transbronchiale deve contenere del parenchima polmonare).

La biopsia bronchiale è tutto sommato semplice: si scende con l’endoscopio, si vede la lesione,
con la pinza si ricava un frustolo di tessuto che poi sarà analizzato dal patologo. Prima di
prelevare un campione è necessario analizzare tramite alcune piccole incisioni la lesione per
capire il suo grado di vascolarizzazione e sanguinamento, onde evitare possibili complicanze. Di
base la complicanza più rilevante in cui si può incorrere in corso di biopsia bronchiale è proprio
il sanguinamento della lesione.

Viene mostrata l’RX di un torace che a prima vista sembrerebbe tutto sommato negativo;
l’unica cosa che salta all’occhio è il fatto che l’ilo di destra si presenta un po' più globoso
rispetto a quello di sinistra. In realtà tale signora presentava un grosso interessamento
mediastinico dell’area sotto-carenale, capace di infiltrare anche una porzione dei bronchi.
Tramite l’endoscopia si vedeva chiaramente tutta la porzione di tumore infiltrata. Questo era
un esempio per sottolineare come una lesione molto centrale a livello dell’ilo può non essere
rilevante all’RX, ma essere evidente a livello endoscopico [in sostanza un linfonodo mediastinico
aveva infiltrato la parete bronchiale provocando una massa evidente che protrudeva nel lume
bronchiale]. Ulteriori indagini hanno inquadrato tale lesione come un carcinoma squamo-
cellulare del polmone.

Come già affermato in precedenza, il rischio delle biopsie bronchiali è legato principalmente al
sanguinamento, per cui prima di procedere con tale esame bisogna sempre
indagare attentamente lo stato coagulativo del paziente. Un occhio di
rigurdo va dunque posto in coloro che presentano coagulopatie severe, tra
cui spiccano gli epatopatici, i quali presenteranno dunque dei rischi maggiori
(ma su cui comunque si può andare ad intervenire con gli opportuni
accorgimenti).
In figura si può apprezzare una massa occludente il lume bronchiale. In tal caso oltre alla biopsia
per fini diagnostici si può anche bruciare direttamente la lesione garantendo una
ricanalizzazione parziale del territorio a valle del segmento.

Come si può vedere dalle


radiografie, si è passati da una
condizione in cui il lobo
inferiore di sinistra era
epatizzato e non funzionante ad
un quadro sostanzialmente
migliore, in cui il campo
polmonare è molto più espanso
rispetto alla condizione pre- trattamento. Tale
intervento è stato possibile grazie all’utilizzo dell’endoscopio rigido: all’interno di esso viene
introdotto l’endoscopio flessibile dotato di una pinza capace di bruciare ed eliminare la lesione.
In tal caso il rischio di sangunamento è minore rispetto alla biopsia normale dal momento che la
pinza, servendosi del calore, è in grado di cauterizzare direttamente la ferita prevenendo
eventuali sanguinamenti.

TAC che mostra il mediastino dello stesso paziente,


in cui si evidenzia la lesione sotto-carenale con
atelettasia del polmone e conseguente epatizzazione
del parenchima polmonare.
La biopsia transbronchiale - TBB
Si opta per tale procedura nel caso in cui il tessuto da analizzare si
trovi molto in periferia, in un punto inaccessibile all’endoscopio.
Per prima cosa si preocede con il broncoscopio fin dove il
diametro dei bronchi lo consente; poi si procede solo con la canula su cui
è montata la pinza fino al punto da biopsiare.
Per identificare il ramo bronchiale esatto da incanulare ci si può servire
di varie tecniche di imaging; solitamente si opta per una TAC.
Tale procedura è indicata per le lesioni periferiche non raggiungibili con
normale endoscopia e per la diagnosi differenziale di pneumopatie infiltrative diffuse.
Ovviamente per poter eseguire la TBB la lesione si deve localizzare vicino al bronco, mentre è
molto più difficile biopsiare qualcosa che sia troppo distante delll’albero bronchiale.

A lato si può osservare un’immagine che riporta il materiale


ricavato da due biopsie: normalmente la quantità di tessuto
estratto è minima, dell’ordine di qualche millimetro, mentre in
alcuni casi rari si va a prelevare molto più tessuto. Di base
comunque le biopsie sono di pochi millimetri.

Il rischio endoscopico è sempre


pressoché lo stesso e comprende soprattutto la possibilità
di sanguinamento, per cui prima di
eseguire la TBB si deve andare ad indagare
dettagliatamente il profilo
coagulativo del paziente. Come si può
notare, ogni manovra endoscopica invasiva ha più o meno sempre le stesse controindicazioni
ed avvertenze.

La complicanza della TBB in più rispetto alla biopsia


bronchiale è la possibilità di provocare uno pneumotorace
secondario su base iatrogena: andando a prelevare del parenchima
periferico l’eventualità di perforare la pleura viscerale è
tutt’altro che trascurabile.

La figura a lato mostra uno pneumotorace massivo di


sinistra: il polmone è evidentemente collassato sull’ilo (l’area
è più opaca), mentre il resto dell’emitorace di sinistra è espanso e quasi totalmente nero (di
solito se c’è il polmone un po' di opacità c’è sempre e la zebratura delle coste è meno
evidente). [n.d.r. si può notare anche lo schiacciamento dell’emidiaframma omolaterale].
Solo nel caso di bolle enfisematose estremamente diffuse si possono vedere zone così scure
laddove invece ci dovrebbe essere parenchima polmonare.
Dunque la principale complicanza della TBB è proprio lo pneumotorace. Di solito tali
procedure sono effettuate in day hospital, per cui il paziente viene monitorato per qualche ora
dopo l’intervento proprio per scongiurare il rischio di pneumotorace. Tale complicanza, se è
presente, ha il vantaggio di manifestarsi subito: il paziente si sveglia, riferisce dolore e quindi si
fa l’RX per vedere se c’è o meno lo pneumotorace. È molto improbabile che si manifesti
improvvisamente dopo molte ore dall’intervento.

Se la malattia è molto diffusa (come le interstiziopatie), per cui non è fondamentale ai fini
diagnostici biopsiare un’area rispetto ad un’altra, si esegue la biopsia transbronchiale alla cieca;
mentre se si deve andare a prelevare del materiale da delle zone ben precise si ha bisogno di
fare ulteriori indagini prima di procedere con la TBB. Esse comprendono:

 La fluoroscopia; si marca la regione interessata e si procede con una biopsia sotto


radiografia, in cui posso vedere in diretta su uno schermo la zona che si sta andando a
prelevare;
 L’ecografia radiale (endo-bronchial-ultra-sound); prima di fare la broncoscopia si
inserisce una sonda ecografica che consente una scansione a 360° dell’area attorno al
bronco. Normalmente l’immagine dovrebbe essere omogeneamente nera (parenchima
polmonare sano), ma se riscontro dei piccoli consolidamenti opachi (come nella foto in
alto a sinistra), ciò significa che in quella zona è presente un’alterazione istologica,
presumibilmente neoplastica. Una volta ben delimitata la zona da indagare, rimuovo la
sonda ecografica, inserisco la pinza e prelevo il materiale. Tale procedura ha permesso
di aumentare di molto la precisione della TBB rispetto alla variante “alla cieca”.
TBNA - agoaspirato transbronchiale
Si predilige l’agoaspirato quando invece è necessario andare a indagare lesioni al di fuori delle
vie aeree, come nel caso di linfonodi o masse sospette che circondano la trachea o i bronchi.
Per prima cosa viene indagato il linfonodo da biopsiare, si posiziona poi il broncoscopio, si
introduce l’ago con cui si punge la parete bronchiale, si penetra il linfonodo e infine si aspira un
po' di materiale da analizzare.
Le stazioni linfonodabili campionabili con la TBNA sono tutte quelle paratracheali, quelle
sottocarenali e quelle intraparenchimali. Chiaramente tutti i linfonodi posizionati dietro ai grossi
vasi o para-esofagali non possono essere indagati con l’agoaspirato transbronchiale, ma si
ricorre alla trans-gastroscopia.

Una volta la TBNA si eseguiva alla cieca, o meglio: si faceva la


TAC, si indentificava la sede della lesione
e la stazione linfonodale da indagare, si
trovavano determinati punti di repere ma alla fine il
prelievo veniva eseguito alla cieca, senza esser certi del materiale
che si andava a prelevare. Per tale
ragione la possibilità di avere falsi negativi
era elevata; in oltre c’era anche il rischio di andare a pungere i grossi vasi o ancora peggio il
cuore, esponendo il paziente al rischio di importanti sanguinamenti.
Per tale motivo recentemente è stata introdotta la metodica dell’EBUS-TBNA.

EBUS-TBNA (trans-bronchial-needle-aspiration)
L’EBUS-TBNA prevede di eseguire un agoaspirato non più alla cieca ma
sotto ecografia endobronchiale. Lo strumento [foto a destra] possiede due
estremità: quella più grossa è un ecografo, su cui è montato un
palloncino che può essere gonfiato per ottenere una migliore
adesione della sonda e aumentare la superfice dell’ecografo;
mentre nell’altra è montato l’ago con cui si va a biopsiare [è lo stesso
dell’agoaspirato classico].

La procedura è pressoché identica a quella dell’agoaspirato classico: con l’endoscopio si scende


fino al punto dove si sospetta la lesione, poi però al posto di bucare alla cieca prima si fa
un’ecografia in loco per localizzare il linfonodo sospetto (lo si distingue come una massa più
scura) e solo in seguito si introduce l’ago. Il punto di inserimento dell’ago è segnato nell’eco
come un puntino verde in alto a destra; durante la biopsia si è certi di posizionare
correttamente l’ago dal momento che man mano che lo si introduce, esso compare nello
schermo come un sottile filo iperecogeno (bianco).

In tal modo la possibilità di incorrere in un falso negativo è molto più bassa, poiché si riesce a
vedere in diretta dove e quanto in fondo pungere. L’eco molto spesso è anche dotato di un
doppler, con cui ad esempio (figura a sinistra) si possono vedere i flussi di liquido all’interno del
linfonodo provocati dall’aspirazione. Tale doppler è anche utile per evitare di pungere i grossi

vasi.

Questa metodica è particolarmente utile per la diagnosi differenziale di molte patologie


mediastiniche, siano esse di natura linfonodale, ematologica o sarcoidosi.

Biopsia e TBNA possono essere utilizzate nella stadiazione dei tumori: se c’è un paziente con
una lesione anche periferica per essere sicuri che non ci sia un interessamento linfonodale si
può scegliere di eseguire una TBNA dei linfonodi nel mediastino.

TAC mediastinica senza mezzo di


contrasto di una signora con
sarcoidosi: si può notare la
linfoadenopatia mediastinica
simmetrica bilaterale
patognomica di tale malattia
[n.d.r. il grigio uniforme
centrale]. Per cui se c’è linfoadenopatia non è detto che per forza sia tumore, soprattutto se,
come il tal caso non è mono ma bilaterale.
Una volta prelevato il materiale dal linfonodo viene fatta immediatamente in sala endoscopica
una colorazione dell’aspirato, seguita da un esame microscopico per esser certi che il prelievo
sia adeguato ai fini diagnostici (e magari individuare già dei nidi di cellule sospette); in caso
affermativo si prelevano altre due o tre porzioni di tessuto, mentre se il campione è negativo si
va cercare in un altro punto. Tale metodica è definita valutazione on-side ed è routine nella
maggior parte dei centri endoscopici. In seguito, il materiale verrà spedito al patologo che così
potrà fare diagnosi.

(Il sogno sarebbe quello che il patologo fosse già presente in sala endoscopica per poter far
subito diagnosi, ma per ora questo non può rimanere altro che un sogno).

TTNA ecoguidata - trans-toracic-needle-aspiration


Le lesioni più periferiche di circa due/tre centimentri possono essere approcciate
dall’esterno, soprattutto se sono a contatto con la pleura,
attraverso una biopsia trans-toracica. Tale metodica è molto
utile soprattutto in caso di neoplasie, mentre non è indicata
per la diagnosi di interstiziopatie. Dunque in caso di addensamenti sospetti periferici
oltre alla biopsia transbronchiale ci si può servire di tale mezzo di indagine.
Le TTNA possono essere condotte sia sotto guida TAC che ecografica: per prima cosa il
radiologo individua la lesione da analizzare e trova degli adeguati punti di repere, poi si penetra
la cute con l’introduttore tramite il quale viene fatta la biopsia con un trocar, che consente di
prelevare una “carota” di tessuto. La sensibilità di tale test è di solito molto buona.

Viene poi mostrato un video di una TTNA. Questo e tutti gli altri filmati che non sono stati
mostrati né commentati a lezione dal momento che non funzionavano, ma possono comunque
essere trovati e visti nel drive.

Questa metodica dunque non è particolarmente complessa; i rischi sono sempre legati al
sanguinamento, che però può essere scongiurato dall’uso dell’ecodoppler che consente di
evitare di pungere eventuali vasi.

D:” Per quale tipo di lesione decidiamo di eseguire una biopsia trans-toracica al posto di quella
trans-bronchiale?”

R:” La trans-bronchiale la faccio se le lesioni periferiche non sono troppo piccole, perchè sennò
rischio di non pungerle con l’ago, soprattutto se non utilizzo la fluoroscopia o l’EBUS. Le lesioni
periferiche piccole sono più facili da indagare con la TTNA TAC-guidata, anche perchè i radiologi
riescono ad essere molto precisi, dal momento che con la TAC la lesione è molto chiara e
definibile al millimetro. La metodica sarà più lunga però si hanno maggiori possibilità di
prendere la lesione. Per cui per lesioni solide, piccole (non al di sotto del centimetro e fino ai
quattro), e periferiche si predilige la TTNA. D’altro canto se la lesione è più centrale e vicina al
mediastino si preferisce la trans-bronchiale, dal momento che con la trans-toracica si dovrebbe
penetrare molto parenchima polmonare presumibilmente sano, per cui il rischio di
pneumotorace aumenta.
In linea di massima la trans-bronchiale è prefereibile per lesioni diffuse e grandi, mentre per
quelle più piccole e periferiche si predilige la trans-toracica. Per decidere bisogna però anche
valutare le condizioni generali in cui si trova il paziente: nella trans-bronchiale deve essere
addormentato mentre la TTNA è eseguita in anestesia locale, per cui risulta più sicura nei
pazienti più problematici, come ad esempio i cardipatici che sono a rischio in sedazione. In linea
di massima comunque più le lesioni sono piccole e più è indicata la trans-toracica, mentre se
sono grandi e centrali si preferisce la trans-bronchiale.

Tecniche endoscopiche meno diffuse


Le tecniche più di nicchia sono:

 L’autofluorescenza, che consente di


visualizzare delle aree di
iperplasia nella mucosa,
dove ad esempio potrebbe localizzarsi un carcinoma in situ
[n.d.r. figura a lato -al centro della biforcazione si nota
un’area ipopigmentata-];
 La criobiopsia (non
utilizzata a Padova), la quale può essere utilizzata sia per la
diagnosi di neoplasie che per quella delle interstiziopatie
[n.d.r. come la TBB]. In
sostanza si procede come
nella biopsia bronchiale, solo che al
posto della pinza si ha uno strumento a punta che, una volta
raggiunta la lesione, viene portato a meno 80°: il materiale da campionare rimane
incollato [n.d.r. come quando da bambini il ghiacciolo si incollava alla lingua] e così può
essere prelevato. Tale metodica permette di ottenere campioni maggiori rispetto alla
TBB, per cui si ha un vantaggio dignostico a fronte però di un aumento del rischio di
complicanze, legate sempre al sanguinamento e allo pneumotorace: più tessuto si
preleva, più la manovra è invasiva e il rischio di complicanze aumenta.
 La navigazione elettromagnetica; tecnologia utilizzata per le lesioni più periferiche in cui
dei software utilizzano i dati dell’imaging per guidare l’operatore nella scelta del bronco
da indagare. Tali tecniche sono esclusive, molto costose e presenti solo in pochissimi
centri; comunque l’aumento di sensibilità che offrono spesso non è così rilevante da
giustificarne i costi.

Scambi respiratori ed Emogasanalisi

Il sistema respiratorio ha la funzione di far passare O 2 dall’aria ambiente al sangue capillare ed


eliminare la CO2 dal sangue capillare tramite passaggio all’aria ambiente.

Ci sono tre variabili da considerare per comprendere la fisiologia degli scambi gassosi:

 Ventilazione (pervietà delle vie aeree, corretto funzionamento dei muscoli respiratori…)
 Perfusione (buono stato di salute del circolo polmonare)
 Capacità di diffusione attraverso la membrana alveolo-capillare
La struttura preposta allo scambio dei gas è l’unità alveolo-capillare (interfaccia respiratoria), le
cui componenti principali sono pneumocita, membrana basale ed endotelio (in polmoni fibrotici
appare uno spazio interstiziale tra endotelio e pneumocita dovuto a deposizione di collagene).
In determinate condizioni patologiche è importante considerare anche il surfactante alveolare.

L’Insufficienza respiratoria consiste in una situazione patologica in cui si ha una riduzione della
pressione parziale di O2 nel sangue arterioso che può associarsi o meno a un aumento della
PaCO2. Si parla di ipossiemia per PaO2 < 60mmHg con o senza PaCO 2 > 45. Quando la PaCO2
supera i 45mmHg si parla di ipercapnia.

Nel caso in cui sia presente PaO 2 < 60mmHg con una PaCO 2 normale si parla di ipossia di tipo 1,
si parla invece di ipossia di tipo 2 quando è presente anche ipercapnia.

Misurazione gas ematici

Può essere eseguita in due modalità:


- Invasiva: EGA (prelievo di sangue arterioso). Normalmente il prelievo arterioso viene
effettuato da arteria radiale o brachiale (dalle slides: si usa una siringa eparinata) e i
parametri principali che vengono analizzati sono:
 pH
 PaCO2
 PaO2
 Bicarbonati
 Saturazione dell’Hb
- Non invasiva: pulsossimetria (il classico saturimetro che misura la saturazione tramite la
molletta applicata al dito). Il pulsossimetro utilizza raggi infrarossi per valutare la
percentuale di emoglobina che è legata all’ossigeno

Per quanto riguarda la PaO2 si considerano nella norma valori da 70-80 a 100 mmHg, ma è
possibile calcolare un valore più esatto con la seguente formula:

PaO2 = 109 – (0,43 * età ) mmHg

I valori della PaO2 sono modificati da una serie di fattori come la posizione del paziente (più
bassa se è supino) e dalla temperatura. Quest’ultima influenza anche tutti gli altri parametri
dell’EGA visti.

Scambi gassosi e saturazione dell’emoglobina

Nella curva a fianco si può vedere a quali valori di PaO 2


corrisponde una certa saturazione e viceversa; come si
può osservare, i valori di pH, temperatura e livelli 2,3-
difosfoglicerato modificano la curva di dissociazione
dell’Hb (La curva blu in mezzo è quella fisiologica).

Effetto Bohr: maggiore è la PaCO2 (calo del pH) e


minore è l’affinità di Hb per l’ossigeno, pertanto nel
caso in cui la curva si sposti verso destra (acidemia,
aumento di DPG o di T°) sarà necessaria una PaO2
maggiore per raggiungere la stessa saturazione.

Una cosa che può essere importante ricordare per


l’esame è che una PaO2 60mmHg corrisponde circa a una saturazione del 90%.
Meccanismi che inducono ipossiemia

1. Alterazione del rapporto V/Q (rapporto ventilazione/perfusione)


Gli scambi respiratori sono garantiti da una corretta ventilazione degli alveoli
polmonari e da un’adeguata perfusione dei vasi polmonari. Fisiologicamente il
rapporto tra queste due variabili non è costante in tutte le parti del
polmone. Difatti, normalmente, l’apice del
polmone è meno ventilato e perfuso rispetto
alla base. Nel grafico a sinistra si vede bene
questo andamento e si nota un altro
particolare: le due linee (quelle che descrivono
la perfusione e la ventilazione) ad un certo punto si
incrociano: questo vuol dire che il rapporto si
invertirà (n.d.r. il rapporto sarà circa 3 all’apice e
circa 0,6 alla base del polmone).

All’apice del polmone si avrà quindi una PaO 2 (nei vasi polmonari)
maggiore di quella alla base, di conseguenza all’apice il
rapporto PaO2/PaCO2 è maggiore di quello alla base.

Possibili alterazioni di questo rapporto possono essere le


seguenti:

- Spazio morto: Nel momento in cui si ha


un’ostruzione dei vasi polmonari il rapporto V/Q
tende all’infinito (perfusione zero), mentre, dato
che l’alveolo è sano, la PAO2 alveolare sarà uguale
a quella dell’aria ambiente. In questo caso la PACO 2 sarà nulla. Un esempio di spazio morto
si ha nell’embolia polmonare
- Shunt: Nel caso invece in cui vi sia un’ostruzione delle vie aeree verrà a mancare la
ventilazione e il rapporto V/Q sarà 0 (n.d.r.: e la PaO2 assumerà valori prossimi a quelli del
sangue venoso, vedi immagine). Esempi di shunt possono essere ostruzioni delle vie aeree
di ogni tipo (ad esempio polmonite).
Un’ipossiemia si risolve normalmente aumentando la pressione parziale di O 2 nell’aria ispirata
del paziente, quindi si somministra ossigeno a meno che il rapporto V/Q non sia alterato in
modo molto grave.

La seguente formula permette di capire se si è in presenza di un’alterazione del rapporto V/Q:

Δ (PAO2-PaO2) = [(760–50) * FiO2–(PaCO2/0.8)] – PaO2 mmHg

I parametri considerati sono:

PA = pressione di O2 alveolare

Pa = pressione di O2 arteriosa (PaO2 e PaCO2 si ottengono dall’EGA)

Pressione atmosferica = 760 mmHg

Pressione dell’O2 nel vapore acqueo = 50 mmHg

FiO2 = % di O2 presente nell’aria respirata (concentrazione)

Quoziente respiratorio = VO2/VCO2= 0.8

Si usa tale formula perché permette di trovare la differenza tra la pressione parziale di ossigeno
a livello dell’alveolo e dell’arteria. In base al risultato ottenuto si può avere:

- Range di normalità: 10-15 mmHg; se è più alto si è in una situazione di mismatch


ventiloperfusiorio
- se >20 mmHg si tratta di alterazione degli scambi gassosi
- se >50 mmHg grave alterazione
2. Shunt destro-sinistro
Descrive tutte le condizioni in cui si ha passaggio di sangue dal cuore destro al sinistro senza che
sia avvenuta ossigenazione. Le cause possono essere:

Cause extrapolmonari

 Difetto del setto interatriale


 Sindrome di Fallot
Cause polmonari

 Fistole arterovenose
 Polmoniti, e altri addensamenti parenchimali
 Atelettasie
NB: Questa è l’unica tra le cause di ipossiemia che non può essere corretta con la
somministrazione di ossigeno.

3. Capacità di diffusione polmonare


Ossigeno e anidride carbonica devono superare la
membrana alveolocapillare (surfactante, pneumocita,
membrana basale e endotelio): tutte le condizioni che
ne aumentano lo spessore possono causare ipossiemia.
Questo tipo di ipossiemia può essere corretta con la
somministrazione di ossigeno.

A fianco è visibile un preparato istologico proveniente


da un paziente con fibrosi polmonare: si vede
un’abbondante deposizione di collagene negli spazi
interalveolari.

4. Ipoventilazione
La ventilazione alveolare (VA) è data dalla seguente formula:

VA (5250ml/min) = (VE) (7500ml/min) - VD (2250 ml/min.)

In cui VE è la ventilazione totale e VD è la ventilazione dello spazio morto


Tale risultato si ottiene considerando una frequenza respiratoria di 15 bpm, quindi i valori
considerati sono ottenuti dai seguenti calcoli:

- Ventilazione totale = 500ml x15


- Ventilazione VD = 150ml x15
- Ventilazione alveolare: (VA) = 350ml x 15
Lo spazio morto comprende quel volume di vie aeree sprovvisto di superfici adatte allo scambio
di gas (trachea e bronchi): l’aria che ventila nello spazio morto non contribuisce
all’ossigenazione del sangue e va quindi sottratta.

La ventilazione alveolare è quindi circa 5 Litri/min.

Meccanismi che inducono ipercapnia


Il range di normalità della PaCO2 è 35-45 mmHg. I meccanismi di alterazione sono due:

1. Alterazione del rapporto V/Q vedi paragrafo precedente a pagina 2


2. Ipoventilazione
La PaCO2 si può calcolare anche nel seguente modo:

PaCO2 = VCO2 / VA dove VCO2 è il volume di CO2 prodotto in unità di tempo

Questa formula è didattica nel rappresentare le conseguenze delle variazioni della ventilazione
sulla PaCO2. Analizzando alcuni esempi si osserva che:

1) PaCO2 = 200ml/min. / 5L/min (7L/min - 2L/min) = 40 mm Hg  Ventilazione normale


2) PaCO2 = 200ml/min. / 2,5L/min (3,5L/min - 1L/min) = 80 mm Hg  Ipoventilazione,
ipercapnia, acidosi
3) PaCO2 = 200ml/min. / 10L/min = (14L/min-4L/min) = 20 mm Hg  Iperventilazione,
ipocapnia, acidosi.

Cause di ipoventilazione:

 Una PaCO2 bassa si può trovare semplicemente anche in un soggetto ansioso che
iperventila.
 Depressione del SNC: farmaci, anestesia, ipotiroidismo
 Disturbi dei centri respiratori: trauma, emorragie, tumori…
 Disturbo del controllo respiratorio come apnea notturna o obesità
 Patologie neuromuscolari: miastenia gravis, Sdr. di Guillan-Barré, SLA

pH del sangue
Le alterazioni della CO2 si accompagnano a variazioni del pH i cui valori fisiologici sono compresi
tra 7,35 e 7,45.

Un aumento dei bicarbonati può essere conseguenza di un’alcalosi metabolica o di un


compenso di acidosi respiratoria (il rene trattiene bicarbonati).

Una diminuzione dei bicarbonati può essere conseguenza di un’acidosi metabolica o di un


compenso di alcalosi respiratoria (il rene elimina più bicarbonati).

Un aumento della PaCO2 può essere conseguenza di acidosi respiratoria o di un compenso di


alcalosi metabolica. .

Una diminuzione di PaCO2 può essere conseguenza di alcalosi respiratoria o di un compenso di


acidosi metabolica.

Il Diagramma di Davenport è utile per monitorare la risposta dell’organismo alle alterazioni


dell’equilibrio acido-base

- In acidosi respiratoria, ad esempio in caso di


ipoventilazione acuta (esempio nel grafico a
destra), il rene trattiene un maggior numero di
bicarbonati riportando il pH verso valori
fisiologici. I parametri EGA si spostano quindi dal
punto B al punto D. Notare che la PaCO2 è costante.

- In alcalosi respiratoria il rene compenserà aumentando


l’escrezione di bicarbonati, si passerà dal punto C al punto F. Anche qui PaCO 2 costante.

- In acidosi metabolica il paziente compenserà iperventilando ed espellendo più CO 2


riducendone la Pa spostando la situazione dal punto G al punto F. Qui i bicarbonati sono
costanti. La si può osservare in pazienti diabetici.
- In alcalosi metabolica il paziente compenserà ipoventilando e trattenendo quindi CO 2
aumentandone la Pa. Si andrà dal punto E al punto D; anche qui bicarbonati sono costanti.
Questa situazione la si può vedere in pazienti che fanno uso di diuretici.

Viene riportata di seguito una tabella riassuntiva (viene invece omessa una tabella che indica la
gravità di un acidosi/alcalosi in base ai valori di pH e di PaCO2, è possibile trovarla nelle slides)

Spirometria e valutazione della funzionalità respiratoria


È un esame che misura i flussi espiratori ed inspiratori, è utile dunque per caratterizzare la
patologia (restrittiva ostruttiva, mista) e
per fare quindi diagnosi differenziale.
Trova inoltre utilità nella valutazione
della gravità della patologia, nella sua
evoluzione e nella risposta del paziente
al trattamento.

Ci sono alcuni pazienti che non possono


eseguire la spirometria e sono quelli che
presentano emottisi, pneumotorace,
intervento recente al torace, trauma
toracico, aneurisma toracico, IMA o angina
instabile.

La spirometria permettere di distinguere i volumi mobilizzabili da quelli non mobilizzabili. I


volumi mobilizzabili possono ulteriormente essere distinti in statici e dinamici, anche questi
valutabili.

La spirometria semplice è in grado di misurare i volumi mobilizzabili (segnati in azzurro), mentre


per misurare i non mobilizzabili (in rosso) serve una spirometria globale.

Durante il respiro a riposo lo spirometro misura fluttuazioni di 500 ml che corrispondono al


volume corrente (VC). Con un’inspirazione massimale si è in grado di mobilitare anche il volume
di riserva inspiratoria (VRI) e con un’espirazione massimale il volume di riserva espiratoria
(VRE).

Tuttavia, anche in espirazione massimale, resta un po’ di aria nel polmone che costituisce il
volume residuo (VR). La somma di VRE e VR costituisce la capacità funzionale residua (CFR).
Inoltre:

- La somma di VC e VRI costituisce la capacità inspiratoria (CI).


- La somma di VC, VRI e VRE costituisce la capacità vitale forzata (CVF).
- Se si somma il volume residuo alla CVF si ottiene la capacità polmonare totale (CPT), il VR e i
suoi derivati in rosso (CPT e CFR) possono essere misurati solo con la spirometria globale.

Spirometria semplice e volumi mobilizzabili statici


Si può effettuare tramite:

- Spirometro a campana: è il più classico. Si tratta di una campana collegata ad


un boccaglio che il paziente usa per compiere i suoi atti
espiratori abbassando e alzando la campana stessa. La
campana, essendo connessa a un pennino, traccia la
spirografia.
Di seguito sono riportati i valori fisiologici dei volumi
mobilizzabili che la spirometria semplice misura:

 CVF: capacità vitale forzata (VRE+VC+VRE) = 4.6L


 VRI: volume di riserva inspiratoria = 3L
 CI: capacità inspiratoria = 3.5 L
 VRE: volume di riserva espiratoria= 1.1L
 VC: volume corrente = 500 ml
- Pneumotacografo, detto più comunemente spirometro a flusso. La sua misura primaria è
appunto il flusso ma essendo quest’ultimo una misura di Volume/tempo si possono ricavare
anche i volumi.

volumi polmonari mobilizzabili dinamici

- VEMS (o FEV1): è il volume massimo


mobilitato nel primo secondo di espirazione
forzata
- CVF: capacità vitale forzata
- Indice di Tiffeneau (VEMS/CVF): utilizzato per
discriminare deficit ostruttivi e restrittivi.
Volumi non mobilizzabili e tecniche di spirometria
globale

Per misurare questi volumi si utilizzano altri strumenti:

- Pletismografia: il paziente viene posto dentro una cabina ermetica e respira tramite un
boccaglio. Questa metodica sfrutta la legge di Boyle che vede il rapporto tra pressione e
volume costanti: P1*V1=P2*(V1+∆V). Si sfruttano le fluttuazioni di pressione e volume nella
cabina dove si trova il paziente per derivare i volumi polmonari del paziente.
- Tecnica di diluizione dell’elio: il paziente compie degli atti respiratori tramite un boccaglio
collegato a un contenitore con concentrazione e volume noti di elio. Dopo un certo numero
di atti la concentrazione di elio sarà uguale nei polmoni del paziente e nel contenitore.
Usando la formula: C1 X V1 = C2 (V1+V2) è possibile ricavare i volumi che servono.
I volumi non mobilizzabili hanno i seguenti valori:

 VR: volume residuo = 1.2 L


 CFR: capacità funzionale residua (VRE+VR) = 2.3L
 CPT: capacità polmonare totale: (CVF+VR) = 5.8L
La CFR è inoltre il volume che ha il polmone quando è in perfetto equilibrio pressorio con l’aria
ambiente senza l’intervento dei muscoli respiratori (n.d.r.: nella respirazione a riposo infatti si
usano solo i muscoli inspiratori, per espirare si rilassano semplicemente questi ultimi e si lascia
che la pressione atmosferica comprima la gabbia toracica fino al suddetto equilibrio).

A fianco è riportato il grafico Flusso-Volume


(potrebbe essere chiesto di disegnarlo
all’esame).

La parte del grafico sotto l’asse delle ascisse


rappresenta l’atto inspiratorio: come si può
vedere si possono derivare tutti i volumi
mobilizzabili.

La curva ideale è come quella mostrata in


figura: rotonda in fase inspiratoria e triangolare
in espiratoria.

Prima di dire se una spirometria mette in evidenza una patologia o meno bisogna vedere se è
stata eseguita correttamente. La professoressa porta i due esempi seguenti:

 Interruzione improvvisa  Colpo di tosse

dell’espirio e ripresa subito

dopo.
L’interpretazione dei risultati avviene comparandoli con i valori teorici, questi ultimi sono
stratificati in base a sesso, età, etnia, altezza e peso.

Interpretazione del deficit respiratorio

In base alla spirometria si possono distinguere:

 deficit ostruttivi
 deficit restrittivi
 deficit misti

Deficit di tipo ostruttivo


Per valutare un’eventuale ostruzione è fondamentale l’Indice di Tiffenau, ovvero il rapporto tra
VEMS e CVF (FEV1/FVC)

Se > 70%  non c’è ostruzione bronchiale

Se < 70%  c’è ostruzione bronchiale

La gravità dell’ostruzione è poi valutabile in base al valore


di FEV1 (immagine a destra).

Le patologie ostruttive sono determinate da un’ostruzione dei bronchi che ostacola il flusso
d’aria.

Test di reversibilità (già esposto ampiamente dalla prof.ssa Oliani durante la lezione 03)

Si somministrano 4 inalazioni di Salbutamolo (Ventolin) in un


paziente con indice di Tiffenau < 70% e si riesegue la
spirometria: se il FEV1 dopo il Salbutamolo vede un aumento
di almeno il 12% e di 200ml rispetto al valore basale si
considera il test positivo e la bronco-ostruzione è definita
reversibile.

Nell’immagine a fianco è mostrata il tipico diagramma flusso-


volume di un paziente con deficit ostruttivo, se il test di
reversibilità è positivo si osserverà una modifica della curva che si avvicinerà verso il teorico
indicato con la linea tratteggiata.

Il test di reversibilità permette di distinguere un paziente asmatico da uno che ha una BPCO
(queste sono le principali cause di deficit ostruttivi); l’asma è infatti una condizione in cui si ha
una flogosi delle vie aeree e un’iperreattività delle stesse, questa può essere causata da vari
fattori come lo sforzo fisico, sostanze irritanti, allergeni, sbalzi di temperatura…

Nella BPCO l’esposizione cronica al fumo di sigaretta crea invece un danno strutturale
irreversibile.

Volume residuo e indice di Motley

Il volume di aria che rimane nei polmoni dopo un’espirazione massimale normalmente è il 20-
25% della CPT (1,2 Litri). Un aumento del volume residuo può essere misurato nei seguenti
modi:

 aumento del 20% rispetto al teorico (VR > 120% VR teorico)


 Indice di Motley: VR/CPT > 35%
Tali valori sono indice di una grave ostruzione che impedisce a un quantitativo consistente di
aria di uscire durante l’atto espiratorio, come la BPCO grave, l’enfisema, l’asma.

Deficit di tipo restrittivo


Si calcola sulla CPT, serve quindi necessariamente una
spirometria globale.

Se CPT < 80% del teorico si fa diagnosi di deficit restrittivo.

Quando non è disponibile la CPT si può avere sospetto di


deficit restrittivo quando:

- FEV1 e FVC <80% del teorico


- FEV1/FVC >70%

Esempi di patologie:

Deficit ostruttivo
 Asma
 BPCO
 Bronchiectasie
 Fibrosi cistica
Deficit restrittivo

 Fibrosi polmonare
 Patologie della gabbia toracica
 Patologie neuromuscolari
 Lesioni occupanti spazio

Deficit di tipo misto


È osservabile ad esempio in pazienti asmatici e allo stesso
tempo fumatori da molto tempo.

Si osserva allo stesso tempo una riduzione di:

 FEV1/FVC <70%
 CPT <80% del teorico

Si riporta di seguito una slide che riassume quanto detto sui vari tipi di deficit:

NB: una spirometria normale non è sinonimo di assenza di malattia. Questo è particolarmente
vero in pazienti asmatici giovani in cui nonostante vi sia la sintomatologia e il sospetto clinico
(tosse secca, sensazione di peso sul torace, risvegli notturni, difficoltà espiratoria…) la
spirometria è ancora nei range di normalità poiché lo stato infiammatorio potrebbe essere
ancora lieve.

Tali dubbi possono essere fugati dal test di provocazione bronchiale con metacolina che si
effettua se c’è sospetto clinico di asma anche dopo una spirometria negativa.

Si somministra la metacolina che, nei soggetti che hanno iperreattività bronchiale, induce
broncocostrizione. Dunque si procede con una spirometria. Se il FEV1 diminuisce del 20% il test
è positivo.

Casi clinici con esempi di spirometria

Caso clinico 1: il rapporto FEV1/FVC indica che


si tratta di un deficit ostruttivo e in questo non
migliora con la somministrazione di un
broncodilatatore (test di reversibilità negativo).

Caso clinico 2: anche in questo caso si tratta di


un deficit ostruttivo, ma qui, dopo la
somministrazione del broncodilatatore, il
miglioramento dei parametri (specie il FEV1) è
molto evidente. È quindi un deficit ostruttivo
reversibile.
Caso clinico 3: FEV1/FVC < 70% ci dice che si tratta di un deficit restrittivo di grado moderato.

Tutti gli altri parametri confermano la diagnosi: notare la CPT (TLC) che è ben sotto l’80%
teorico.

Caso Clinico 1
Il professore ribadisce l’importanza di fare una buona anamnesi, in particolare in campo pneumologico è
importante chiedere se ha allergie (sia verso fattori ambientali che verso determinati farmaci), la storia
di fumo (perché è un fattore di rischio per BPCO, fibrosi polmonare idiopatica, …) e la professione (infatti
alcune insterstiziopatie sono legate all’esposizione a determinati fattori ambientali collegati ad alcuni
ambienti di lavoro).

Anamnesi

 Uomo caucasico di 70 anni


 Ex fumatore, storia di fumo da 18 ai 62 anni con 22 pacchetti/anno
 Allergie non presenti
 Ex impiegato, non a contatto con sostanza pneumotossiche
Anamnesi Patologica Remota

 Ipertrofia prostatica benigna


 Settoplastica per deviazione del setto nasale
 Maggio 2017 contatto con il consuocero indonesiano, il quale ha successivamente
ricevuto diagnosi di tubercolosi a luglio 2017
Anamnesi Patologica Prossima 1

 Tosse inizialmente poco produttiva, successiva comparsa di espettorato di colore


bianco/giallastro.
 Assenza di altri sintomi: non dispnea, non febbre, non sudorazioni notturne, non dolore
toracico, …

Sulla base di queste informazioni vengono formulate delle ipotesi: faringite, tracheite, reflusso
gastroesofageo (si chiede perciò se ha altri sintomi coerenti con questa patologia, ad esempio se la tosse
è presente quando è disteso, se ha mai avuto un’ernia iatale, …), asma bronchiale (la tosse in questo
caso ha un andamento intermittente con episodi in passato), patologia interstiziale e tumore
polmonare.
Sono invece scartati: la polmonite perché non è presente febbre e lo pneumotorace perché non c’è
dolore toracico né dispnea.

Il professore ricorda che bisogna indagare le caratteristiche della tosse: se è continua o intermittente, se
è produttiva o meno, etc.

Valutazione del medico curante

 Paziente eupnoico a riposo, apiretico, non sofferente, SatO2 98% in AA (ottimale).


 Non ci sono problematiche particolari a livello del torace: MV presente su tutto l’ambito
polmonare, non rumori patologici aggiunti.
Il paziente inizia terapia antibiotica con amoxicillina/ac. clavulanico (con scarso beneficio).

Anamnesi Patologica Prossima 2

Dopo 2 settimane alla comparsa dei primi sintomi è comparsa la febbre, ha avuto episodi di emoftoe e
la tosse è peggiorata nonostante abbia iniziato la terapia antibiotica.

Altre ipotesi diagnostiche (sono state scartate la faringite e la tracheite) sulla base dei nuovi sintomi:

1. Polmonite virale: non è da scartare ma è raro che dia emoftoe, è comunque difficile che
venga ad una persona che non è immunodepressa o che non abbia altre co-patologie
polmonari
2. Polmonite da batterio resistente alla terapia antibiotica adottata

Esame obiettivo in reparto:

 SatO2 88% in aria ambiente, frequenza cardiaca 80 bpm ritmica, Tc 38,5 °C.
 Eupnoico a riposo, dispnoico all’eloquio, sofferente, astenico.
 Cuore: nella norma
 Addome: trattabile e non dolente
Da questa visita si vede che la saturazione di ossigeno è bassa (ipossiemia), infatti con 88% si è sotto a 60
mmHg che è il limite per l’insufficienza respiratoria acuta.

 Torace: alla percussione suono chiaro polmonare, basi polmonari mobili e simmetriche,
MV normotrasmesso a sinistra, ridotto all’apice di destra, qualche ronco mobilizzabile
con la tosse ai campi polmonari di destra.
A questo punto si ipotizza una TB perché il paziente è stato esposto, ha febbre, emoftoe e solitamente
questa patologia si localizza agli apici polmonari.

Emogas

(Il professore ricorda che le prime cose da


guardare sono il pH, la pCO2 ed i bicarbonati)

Il bicarbonato è nel range fisiologico, il pH è al


limite fisiologico mentre la pCO2 è bassa a
causa della iperventilazione del paziente (in
questo caso non basta dire che il paziente è
tachipnoico perché la pCO2 scende solo se la
ventilazione alveolare aumenta. Ci potrebbero
essere invece patologie in cui un paziente ha
una frequenza respiratoria aumentata ma per
vari motivi la sua pCO2 rimane fisiologica).

Il paziente sta quindi aumentando la sua capacità ventilatoria (infatti se trovo una persona
tachipnoica ma con pCO2 normale devo indagare le cause) per compensare la sua ipossiemia.

Radiografia del torace

Si vede un addensamento a livello


apicale destro.

Si vede la scissura che è leggermente


abbassata indice di un processo
infiammatorio molto inteso ed
all’interno dell’addensamento si vedono
delle aree di aria (delle “escavazioni”).

Da questo esame si ricava un’altra


ipotesi che è la neoplasia polmonare.
Indicazioni terapeutiche:

1. Richiedere un esame microbiologico sull’espettorato (colorazione di Ziehl-Neelsen per


micobatteri ed altri test per batteri MDR). Tempo di attesa dei risultati circa 1-2 giorni.
2. Mettere il paziente in stanza singola perché possibilmente infetto.
3. Si inizia terapia antibiotica che non vada ad intaccare i possibili risultati del test
sull’espettorato (quindi non antibiotici contro TB tipo isoniazide); si usano antibiotici
solitamente usati contro batteri MDR come lo stafilococco aureus o altri.
4. Infine si fa una broncoscopia con broncoaspirato (in particolare se il paziente non ha
espettorato).

Risultati

L’esame microbiologico su espettorato è negativo mentre il quantiferon è positivo (ce lo


aspettavamo perché sapevamo che il paziente era stato esposto alla TB).

Con la broncoscopia era stata fatta anche una biopsia transbronchiale per verificare l’ipotesi di
tumore.

Sul broncoaspirato la ricerca di batteri acido-alcol resistenti è stata negativa ma all’esame


colturale si è vista una crescita di pseudomonas, dopo aver fatto l’antibiogramma si inizia la
terapia con meropenem e cirpofloxacina. È supposta quindi una polmonite da pseudomonas.

Radiografia di controllo

Dopo circa 15 giorni di terapia antibiotica si fa


un’altra RX del torace per controllare la
progressione, se la causa del problema fosse una
polmonite ci aspetteremmo una regressione
completa in circa 5/6 settimane.
Si vede in questo caso una leggera regressione dell’area interessata tuttavia il risultato non è
soddisfacente.

Il risultato dell’esame istologico della biopsia fatta in contemporanea alla broncoscopia indica la
presenza di un materiale fibrinoso inglobante granulociti. Si opta quindi per far fare anche una
TC al paziente.

TC al torace

La lesione che si vede è una massa


escavata che coinvolge quasi tutto
l’organo superiore fino alla scissura
circa mentre le basi sono abbastanza
libere.

Si nota anche un leggero versamento


biancastro a destra.
Il professore dice che non è necessario mettere un drenaggio toracico perché comunque il
versamento è modesto e quindi è poco probabile che si organizzi portando a complicanze. Il
drenaggio è invece obbligatorio nell’empiema.

Non è inoltre necessario eseguire una toracoscopia perché quest’ultima si fa in caso di problemi
alla pleura mentre in questo caso ciò che ci interessa principalmente è il polmone.

L’esame più indicato da fare in questo caso è una biopsia trans toracica TC-guidata, si ricorda
che questa procedura espone al rischio di pneumotorace (specie se il paziente è enfisematoso
o se ha delle lesioni cavitarie del parenchima) tuttavia se eseguita correttamente questo rischio
è accettabile.

Il referto dell’esame istologico ci dice che alla fine il paziente aveva un adenocarcinoma (dalle
slide: Frustoli di parenchima polmonare con infiltrazione di neoplasia epiteliomorfa costituita da
elementi nucleolati (A1, B1, C1). Il quadro morfologico e immunofenotipico depongono per un
NSCLC, a favore di adenocarcinoma.).

Il professore ricorda l’importanza di non escludere a priori alcune ipotesi diagnostiche.

Caso Clinico 2
Per questioni di velocità il professore presenta solo la spirometria del paziente, vengono
riportate le altre informazioni dalle diapositive per completezza.

Anamnesi

Uomo caucasico, 58 anni, ex fumatore (dai 18 anni fino ai 47 anni 10 sigarette die, P/Y 11),
allergico ad acari, muffe, aspergillus. Professione: ex-coltivatore diretto con esposizione a fieno
fino al 2007.

 Familiarità per asma bronchiale.


 Asma bronchiale noto fin dall’infanzia in terapia continuativa con ICS/LABA fino ad una
decina di anni fa; attualmente SABA al bisogno.
 Non altri precedenti anamnestici.
 Terapia domiciliare: nessuna.

Anamnesi Patologica Prossima

 Episodi di tosse secca stizzosa, senso di costrizione toracica, respiro sibilante (1/sett);
dispnea ingravescente (mMRC 1).
 Non variazioni dell’attività lavorativa o dell’ambiente domestico.

Prima valutazione pneumologica

Terapia steroidea orale a scalare e terapia inalatoria con budesonide/formoterolo 160/4.5

Esame obiettivo

 SatO2 93% in aria ambiente, FR 17 atti/min, FC 97 bpm ritmica, PA 140/90 mmHg, Tc


36,5 °C.
 Eupnoico a riposo, dispnoico all’eloquio prolungato, non sofferente.
 Cuore: toni cardiaci validi, ritmici, non soffi né click, assenti III e IV tono.
 Addome: piano, trattabile, non dolente né dolorabile alla palpazione superficiale e
profonda, peristalsi presente e valida, fegato e milza non palpabili.
 Torace: alla percussione suono chiaro polmonare, basi polmonari mobili e simmetriche,
MV ridotto su tutto l’ambito polmonare, crepitii a velcro bibasali.
 Arti inferiori: non edemi declivi, polsi periferici validi e simmetrici.
Emogas

Spirometria

La prima cosa da guardare è l’indice di Tiffeneau e poi si guarda il FEV1; i valori soglia sono
>70% per Tiffenau e >80% per tutti gli altri (tuttavia è molto importante anche guardare
l’andamento temporale di questi parametri cioè se calano e quando velocemente questo
succede).

La DLCO è ridotta, le patologie che contribuiscono a questo sono le interstiziopatie (aumenta lo


spessore della membrana) e l’enfisema (la superficie di scambio si riduce). Quest’ultima è
tuttavia da escludere in quanto tutti gli altri valori della spirometria sono nella norma (nelle
interstiziopatie infatti prima cala la DLCO e poi calano i volumi espiratori perché il polmone
diventa fibroso).

Una terza causa della riduzione di DLCO è l’ipertensione polmonare ma il paziente sarebbe
dispnoico e non avrebbe una tosse secca.

La lezione comincia riprendendo gli argomenti della spirometria trattati nell’ultima lezione e verranno
applicati a due casi clinici.

Spirometria
La spirometria misura quanta aria si riesce a far uscire dal polmonare sia nella respirazione tranquilla che
nella respirazione forzata. Inoltre, si misurano i volumi di aria rimasti nel polmone nell’espirazione
forzata. Esistono due tipi di spirometria:

 Semplice: misura i volumi polmonari mobilizzabili;


 Globale: misura tutti i volumi polmonari sia i mobilizzabili che i non mobilizzabili.
Volumi polmonari non mobilizzabili sono:

 volume polmonare residuo: la quantità


di aria che rimane nel polmone dopo
aver espirato profondamente; vale circa
1L o 1,5L;
 capacità funzionale residua: la somma
tra il volume di riserva espiratorio (cioè
quello che si butta fuori facendo un
espirio forzato) e il volume residuo
 capacità polmonare totale: tutta l’aria
che c’è nel polmone facendo un espirio
forzato. È data dalla somma tra la
capacità funzionale residua, volume
corrente (500 ml) e volume di riserva
inspiratorio (ossia, tutta l’aria in più che si può tirare dentro con un inspirio forzato).

La spirometria può guidare nel fare diagnosi di varie patologie polmonari in base ai vari tipi di deficit.
Curva flusso-volume (viene spessa chiesta all’esame)

Presenta in ascissa il volume e in ordinata il flusso. La


linea ovale arancione sotto l’asse delle ascisse indica il
volume corrente in fase inspiratoria (sotto l’asse delle
ascisse) ed espiratoria (sopra l’asse delle ascisse).
Facendo un’inspirazione forzata si ottiene la parte sotto
della curva rossa che permette di ottenere la somma di
volume corrente, volume di riserva inspiratorio ed
espiratorio.

Deficit ostruttivo
Definizione

Si definisce deficit ostruttivo la condizione in cui il paziente presenta il rapporto FEV1/FVC<70%. Il FEV1
è il volume espirato in maniera forzata nel primo secondo di espirazione. L’FVC, o capacità vitale forzata,
è data dalla somma di volume corrente, volume di riserva inspiratorio e volume di riserva espiratorio .
Tra le patologie ostruttive si ricordano l’asma e la bronchite cronica. Il deficit ostruttivo può essere
classificato in base al valore di FEV1 come:

 lieve, FEV1≥80%;
 moderato, 50%≤FEV1<80%;
 grave, 30%≤FEV1<50%;
 molto grave, FEV1≤30%.
La curva flusso-volume di un paziente ostruito (immagine a
fianco) presenta la parte inspiratoria normale, mentre è
compromessa la parte espiratoria. Infatti, i pazienti asmatici ma
anche i bronchitici cronici che hanno una patologia ostruttiva,
hanno problemi in fase espiratoria e avranno un espirio prolungato perché avranno difficoltà non tanto
a tirare dentro aria, quanto a buttarla fuori.

Le due patologie principali sono asma e BPCO e per distinguerle bisogna fare il test di reversibilità.

Test di reversibilità

Si fa inspirare al paziente del Ventolin, salbutamolo, un broncodilatatore a rapida azione, che agisce a
livello dei bronchi. Se il rapporto FEV1/FVC torna sopra il 70% o il FEV1 aumenta del 12% o di 200 ml,
allora si ha una bronco-ostruzione reversibile, come l’asma. In caso contrario, si avrà una bronco-
ostruzione non reversibile, come lo è la BPCO.

L’asma è una patologia che si scopre soprattutto nei giovani adulti, ma non è legata al fumo; la BPCO è
l’infiammazione cronica a livello bronchiale nei pazienti che fumano: non si può etichettare la BPCO a
un paziente che non ha mai fumato. Nella BPCO c’è un’infiammazione bronchiale che si arrossa, si
gonfia e il condotto in cui passa l’aria diventa sempre più stretto. Quindi sono entrambe patologie
bronco-ostruttive, ma l’eziologia è diversa.

CASO CLINICO 1
Uomo, 73 anni (può aver avuto di tutto), dice di avere fame d’aria e tosse produttiva (mucosa).

Possibili domande da porre:

 se è fumatore;
 se è stato a contatto con persone malate;
 da quanto dura la tosse produttiva;
 se la tosse è sempre rimasta produttiva o lo è diventata recentemente;
 se la dispnea è da sforzo;
 se ha avuto altri episodi simili;
 se prende farmaci;
 se ha febbre;
 se ha allergie.
Il paziente fuma e questi sintomi sono comparsi progressivamente nel tempo. Inizialmente non dava
peso alla mancanza di fiato e alla tosse produttiva, ma poi è diventata invalidante. Non ha mai avuto
febbre e quindi si può escludere una genesi infettiva. Si accorge di avere la mancanza di fiato quando fa
le scale. Ha tosse produttiva a cui non viene dato peso perché essendo stato fumatore l’ha sempre avuta
da quando ha 25 anni. Il catarro è bianco quindi mucoso che il paziente riferisce di aver sempre avuto.
Inoltre, è importante osservare che il paziente non è in PS, quindi non è una cosa acuta.

Spirometria del paziente

Dalla spirometria emerge che c’è un deficit ostruttivo che non migliora. La prima cosa da fare in una
spirometria è guardare la curva flusso-volume, poi si guardano i valori numeri dei vari volumi. In un
paziente di 73 anni, maschio, di circa la stessa altezza, ci si aspetta un PEF (picco di flusso espiratorio) di
circa 6L, invece tale paziente ha un PEF di 2,53L. Inoltre, la curva dovrebbe avere una concavità
abbastanza dritta, mentre in questo paziente è concava verso l’alto e non segue quell’andamento.
Questo fa pensare ad un deficit espiratorio (paziente fa fatica a buttar fuori) per lo più sulle piccole vie
respiratorie, cioè sicuramente nella parte iniziale della curva e poi si estende nel resto. Al paziente
manca il picco di flusso, ma anche il volume: invece di essere di 3L è di poco superiore a 1,5L. Quindi il
paziente è ostruito.

Osservando i valori numerici ottenuti dalla spirometria, si vede che il paziente è ostruito grazie all’indice
di Tiffeneau, che è sotto il 70%. Ma, essendo questo un rapporto, si devono andare a valutare i due
valori rapportati e si nota che sia FEV1 che FVC sono ridotti, ma il più ridotto è il FEV1 che da come
rapporto finale l’ostruzione.

Vengono ricapitolati i passaggi essenziali:

 guardare che la curva sia fatta bene (eseguita correttamente);


 rapporto tra FEV1/FVC (indice di Tiffeneau);
 capire se paziente è ostruito e se è reversibile;
 guardare gli altri parametri della spirometria.
Il paziente in questione ha un deficit ostruttivo non reversibile di grado moderato.

La volta scorsa si era parlato dell’indice di Motley (volume residuo/capacità polmonare totale ). Questo
indice è utile per capire se il paziente ha gas trapping, ossia aria intrappolata nelle vie aeree che non può
essere usata dal paziente. Se il rapporto è superiore al 30% allora c’è intrappolamento aereo . Il nostro
paziente ha 43% quindi c’è intrappolamento aereo.

La BPCO ha due componenti principali:

 ostruzione al flusso fissa, che la differenzia dall’asma e dalla bronchite cronica che sono
reversibili;
 enfisema: rarefazione del parenchima polmonare con una perdita della struttura
alveolare a causa del fumo; si formano dei setti sempre più grandi perché gli alveoli
all’interno sono stati distrutti.
RX torace

Nel caso del paziente, sia l’enfisema che il gas trapping


fanno si che i polmoni siano dilatati e nell’RX si vede che
occupano quasi completamente la lastra. È visibile un po’ di
rarefazione del parenchima (il polmone è più nero)
soprattutto agli apici. Quest’ultimo è un segno tipo di
enfisema perché, essendoci meno parenchima, questo
scherma meno i raggi che vengono dati e il polmone risulta
più nero. La diagnosi di enfisema, però, la si fa solo con una
TAC del torace ad alta risoluzione. Per cui, si può sospettare
l’enfisema con l’RX torace, ma poi bisogna accertarlo con
una TAC ad alta risoluzione.

In conclusione, nella lastra si vede il parenchima rarefatto, i


campi polmonari sono più espansi, con cupole
diaframmatiche appiattite a causa dell’iperdistensione del parenchima polmonare, dato sia dal gas
trapping sia dal parenchima distrutto dall’enfisema.

Domanda: nel lobo inferiore sinistro, cosa c’è?


Risposta: si vede la bolla gastrica.

Per distingue la parte destra e sinistra della lastra si deve guardare il cuore, che è prevalentemente a
sinistra, e il campo polmonare che a destra è più grande che a sinistra perché a destra ci sono tre lobi e
due a sinistra.

Quello che si può notare nella lastra è che i campi inferiori hanno delle zone addensate come delle
palline e il profilo cardiaco non si vede bene (l’ombra cardiaca si perde con i confini polmonari) e ciò
non è normale. Questa situazione può essere spiegata con delle zone di bronchi con del muco.

Inoltre, sulla base di sinistra si vedono delle ‘dita di guanto’ che permettono di vedere la struttura del
bronco. Questo dovrebbe far pensare alle bronchiectasie. Quindi, alle basi, forse c’è anche altro oltre
che alla sola BPCO.
La macchia bianca che si vede alle basi di destra può far pensare ad una placca calcifica. Spesso qualcosa
di calcifico è qualcosa di cronico e non nuovo. Responsabili di queste placche possono essere TBC e
pleurite cronica come l’esposizione da asbesto. Quindi le ipotesi diagnostiche per questo paziente
vedendo questa lastra sono:

 asbestosi pleurica;
 BPCO;
 sindrome bronchiectasica, diagnosticata con la TAC vedendo i bronchi dilatati (li si
riconoscono confrontandoli con le dimensioni dei vasi: se alla TAC il bronco è più grande
del vaso contiguo allora è dilatato).
Viene ripetuta la definizione di insufficienza respiratoria

Si parla di insufficienza respiratoria quando la PaO2 è minore di 60 mmHg. A questo quadro si può anche
associare un quadro di ipercapnia con aumento di PaCO 2 sopra i 45 mmHg. Se è presente solo
ipossiemia, si parla di insufficienza respiratoria di tipo 1, se è presente sia l’ipossiemia che l’ipercapnia
allora c’è insufficienza di tipo 2. L’insufficienza viene valutata solo con un prelievo arterioso.

Emogasanalisi arteriosa

Si fa generalmente a livello radiale o in altre sedi di facile raggiungimento dei vasi (brachiale o
femorale). Ciò che interessa in questo esame sono cinque valori:

 pressione dell’ossigeno del sangue (PaO2);


 pressione della CO2 (PaCO2);
 pH;
 bicarbonati;
 saturazione dell’emoglobina.
Cause di ipossiemia

Erano gia state definite nella lezione scorsa, ma vengono ripetute per fare un ripasso:

 alterazione del rapporto ventilazione/perfusione (V/Q);


 shunt;
 alterazione della diffusione;
 ipoventilazione.
Cause di ipercapnia:

 alterazione del rapporto V/Q;


 ipoventilazione alveolare.
Il rapporto V/Q, in condizioni fisiologiche, è differente nelle varie zone del polmone: maggiore agli apici
rispetto alle basi. Questa condizione si ripercuote sui valori di O 2 e CO2 che si misurano se si fa un
prelievo a livello dell’apice o delle basi del polmone.
Ci sono condizioni estreme:

 rapporto V/Q è infinito: è presente solo ventilazione, ma non perfusione. Questa porta
alla condizione dello ‘spazio morto’, in cui l’aria entra, ma il sangue non viene
ossigenato;
 rapporto V/Q è zero: è la condizione di shunt, in cui il sangue passa, ma non viene
ossigenato, perché c’è qualche blocco a livello delle vie aeree.
L’alterazione del rapporto V/Q si identifica usando una formula abbastanza complicata (da sapere):

760 mmHg= pressione parziale dell’O 2

50 mmHg= pressione del vapore acqueo

FiO2= percentuale di ossigeno che c’è nell’aria

PaCO2=pressione della CO2 che si misura con l’emogas

0,8= quoziente respiratorio.

Questo rapporto è alterato se superiore a 15 nei giovani e 30 negli anziani.

Il pH ha valori normali compresi tra 7,35 e 7,45:

 valori inferiori a 7,35 indicano la condizione di acidosi;


 valori superiori a 7,45 indicano una condizione di alcalosi.
Ci sono dei meccanismi di compenso dati dai carbonati o dalla CO 2 stessa che vanno ad agire a seconda
della situazione.

CASO CLINICO 2
Paziente donna, grande anziana di 91 anni, si presenta con tosse produttiva e dispnea progressiva con
successiva comparsa di stato soporoso. Portata dai familiari perché da giorni non si sentiva tanto bene
ed arriva in ospedale che è praticamente in coma.

Considerazioni:

 il paziente non è cosciente;


 la dispnea è progressiva ma non si sa da quanto dura ; gli accompagnatori riferiscono che
alla paziente manca il fiato, ha meno voglia di fare; prima faceva qualche passo, da due
giorni non si muove più e viene spostata dagli accompagnatori.
Domande:
 paziente ha febbre? No la paziente non ha mai avuto febbre;
 ha dolore toracico? No, alla paziente manca solo il fiato. A volte, facendo respiri
profondi, avvertiva dolori sulla parte bassa a destra della schiena. Ma non sempre;
 che altre malattie ha? È una signora anziana cardiopatica, con FA;
 Fuma? No, non ha mai fumato;
 prende farmaci? Cumadin.
I parametri vitali della signora sono: PA 90/60 mmHg, FC di 110, FR 22 atti al minuto. Cosa ci si aspetta di
trovare?

 Le gambe potrebbero essere gonfie, ma non lo sono.


 La tosse potrebbe essere produttiva (come per il paziente del caso clinico 1), ma
probabilmente non lo è.
Ipotesi:

 Non si esclude uno scompenso cardiaco perché la dispnea progressiva la da anche lo


scompenso cardiaco come anche la tosse produttiva causata dall’edema polmonare.
 La trombosi può spiegare la dispnea, ma non la tosse produttiva. Se la paziente è in
stato soporoso da ictus, la paziente non avrà avuto la dispnea per un po’ di giorni, a
meno che non abbia il forame ovale pervio e si fa sia trombosi che ictus.
 Potrebbe avere ipercapnia;
 Uno stato settico, infatti gli anziani non sempre hanno la febbre in queste condizioni.
Emogasanalisi

La prima cosa che si guarda è il pH e si nota che la paziente è in acidosi (pH=7,2). Poi si guarda la CO 2 e la
O2: paziente è ipercapnica (le due cause possono essere ipoventilazione e alterazione V/Q) ed
ipossiemica. Il rene compensa un po’ perché i bicarbonati sono alti, quindi non può essere una cosa
tanto nuova, altrimenti si avrebbero valori molto più bassi. Il BE è in linea; la paziente satura male (77%).
Si fa la diffe