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IL DONBASS, ma ci state prendendo in giro ? Facciamo chiarezza...

Da quando è iniziata l'aggressione della Russia all'Ucraina, ogni due per i tre i sodali di "Bozambo"
se ne escono fuori con la storia dei 14.000 civili morti uccisi nel Donbass dagli Ucraini dal 2014 ad
oggi, e mi rimproverano di non parlarne.
Confesso la mia ignoranza: all'epoca ho sottovalutato la cosa, ritenendola poco più di una questione
interna all'Ucraina, e se dovessi interessarmi di tutte le questioni simili nel mondo, non avrei tempo
per altro.
Diverso il caso di uno Stato potente e dotato di armamento nucleare che ne aggredisce un'altro
piccolo, con solo armamento convenzionale, e in 40 giorni fa quasi la metà delle vittime degli 8
anni del conflitto Donbass....e credo che su questo vorrete convenire....
Ma veniamo alla questione delle vittime. Stamattina, Monica Mainardibis , che, mi pare, non parli
mai vuoto,, ha precisato in un commento su un mio post:
"I civili del Donbass non sono 14.000. Questa cifra è il numero complessivo di morti. Di cui: 5.795
dei SOLDATI separatisti del Donbass, tra i 400 e i 500 SOLDATI russi, 4.641 SOLDATI ucraini e
infine 3.393 CIVILI (di cui 312 stranieri). Certo! anche 3.393 civili uccisi è sempre un numero
tremendo di gente. ... oltre al fatto che - siccome c'era una guerra e le due parti si sparavano addosso
- i civili sono spesso caduti anche sotto i colpi dei separatisti e dei russi.
Per questo motivo il 16 MARZO 2022 la Corte internazionale di giustizia ha emesso la sentenza che
"non ci fu alcun genocidio" nel Donbass. C'era una GUERRA..."
Insomma, una bufala, che tutti ripetono senza minimamente approfondire, ma solo per "sentirsi in
compagnia" qui su FB, nel gruppo che -almeno fino a qualche giorno fa, ora ha abbassato un pò le
penne- appariva maggioritario, ed era sicuramente più aggressivo
25 MARZO 2022
La Russia, le accuse di genocidio ucraino in Donbass e la verità distorta
DI Marco Bocchese

Sabato 26 febbraio, nel giorno forse più drammatico della storia ucraina dalla fine della Seconda
guerra mondiale, il governo del presidente Zelensky ha citato la Federazione Russa in giudizio
dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), il principale organo giudiziario delle Nazioni
Unite. Vista la disperata battaglia per la sopravvivenza in cui governo e popolo ucraino sono
impegnati, è lecito interrogarsi circa il motivo e la tempistica di tale decisione.

Nello specifico, l’Ucraina si è rivolta all’ICJ al duplice scopo di rigettare l’infamante accusa di aver
commesso genocidio a danno delle minoranze russofone di Donetsk e Luhansk e contestualmente
accusare la Federazione Russa di aver adottato una politica genocidaria nei confronti dei cittadini
ucraini in quanto tali. Il motivo del contendere è dunque la volontà di appurare la direttrice lungo la
quale l’odio latente si traduce in azione criminale. Stando alla definizione sancita dalla
Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio del 1948, trattato
multilaterale che Russia ed Ucraina ratificarono nel lontano 1954, il reato in oggetto può essere
perpetrato ai danni dei membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Le minoranze
linguistiche non sono quindi ricomprese tra le categorie suddette, la cui classificazione deve
ritenersi tassativa anche alla luce dell’esclusione di gruppi di natura diversa in sede di negoziazione
del trattato.

Ma perché si parla di genocidio in un contesto che, pur caratterizzato da molteplici atrocità,


sofferenze e violazioni del diritto internazionale umanitario, non ricorda altri e più noti esempi di
detto crimine, dall’Olocausto al genocidio cambogiano o ruandese? La risposta più plausibile ha
poco a che fare col diritto ed attiene all’artificiosa costruzione di una narrativa di medio periodo
intorno alla quale il governo di Mosca ha costruito il pretesto per l’odierna invasione dell’Ucraina.
In parole povere, l’impiego, spesso ingiustificato, del termine “genocidio” apre scenari che vanno
oltre la mera criminalità dell’atto. Il termine “genocidio”, infatti, genera aspettative con riferimento
alla responsabilità del Paese che lo pone in essere, alla risposta che ci si attende dalla Comunità
Internazionale nel suo insieme, ed al trattamento risarcitorio da adottare nei confronti di chi ne è
vittima.

Tra i vari principi di diritto internazionali invocati dal governo di Mosca al momento del
riconoscimento dell’indipendenza delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk figura
innanzitutto l’autodeterminazione dei popoli, ma al Cremlino sanno bene che da decenni tale
principio non è più sinonimo di indipendenza ma, tutt’al più, di autonomia amministrativa
sull’esempio delle regioni a statuto speciale italiane o delle comunità autonome spagnole. Ma il
principio di autodeterminazione viene altresì citato da Mosca nella sua controversa versione
“rimediale.” Secondo questa teoria legale, al Kosovo fu consentito secedere dalla Serbia e
dichiararsi indipendente nel febbraio 2008 pur senza il preliminare (e necessario) consenso di
Belgrado proprio in quanto vittima di crimini contro l’umanità perpetrati del governo serbo. A quel
tempo la Russia non fu l’unica ad ammonire gli Stati Uniti ed i suoi alleati che creare un simile
precedente avrebbe avuto implicazioni destabilizzanti per un sistema internazionale fatto di stati
sovrani, ma è altresì vero che da allora il governo di Mosca abbia ripetutamente cercato di replicare
quanto successo in Kosovo a proprio vantaggio ed a danno di stati vicini, dalla Georgia nel 2008
all’Ucraina nel 2014 ed ancora nel 2022.

L’uso (od abuso) del termine “genocidio” mira non solo a stigmatizzare chi lo compie, ma anche a
conferire una certa libertà d’iniziativa a chi voglia porvi fine attraverso l’impiego di misure
coercitive che possono includere il ricorso ad operazioni militari. È così che negli anni 90 del secolo
scorso alcuni Stati, Regno Unito e gli Stati Uniti in primis, cominciarono ad invocare il cosiddetto
intervento umanitario, cioè l’uso della forza al fine esplicito di porre fine agli abusi e violazioni dei
diritti umani commessi nello (e spesso dallo) stato contro il quale si interviene militarmente.
Tuttavia, così facendo si finisce per violare apertamente i principi fondanti della Carta delle Nazioni
Unite, tra cui l’obbligo per gli Stati membri di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla
minaccia o dall'uso della forza, pur pretendendo che il fine nobile giustifichi la condotta illecita. Un
noto esempio di intervento umanitario fu quello lanciato dalle forze NATO, Italia compresa, contro
il regime di Milošević nel marzo 1999.

La Russia prese nota e propose la propria versione di intervento umanitario quando più le convenne.
Nell’estate del 2008, quando le crescenti tensioni tra Georgia e le regioni separatiste dell’Abcasia e
soprattutto dello Tskhinvali (altresì nota come Ossezia del Sud) crearono le condizioni per
l’intervento armato russo a favore di queste ultime, il governo di Mosca accusò la controparte
georgiana di pulizia etnica e genocidio ai danni degli ossetini. Ad onor del vero, non si è mai trovata
traccia del suddetto genocidio sebbene le autorità ossetine lo commemorino ufficialmente ogni 20
giugno. Alle accuse di genocidio si accompagnava altresì un potente e rodato repertorio di analogie
storiche, tali per cui la distruzione causata dalle forze georgiane a Tskhinvali ricordava quella assai
più nota e grave di Stalingrado al termine del lungo assedio nazista. Detto repertorio, tuttora in uso,
si riscontra chiaramente nelle recenti dichiarazioni di Putin secondo cui l’intervento russo si
propone di “denazificare” la leadership ucraina.

Ma come si inventa un genocidio a tavolino? Si comincia da casa propria con costanza e pazienza,
piegando la realtà storica agli imperativi della propaganda. Il caso del Donbas è emblematico a tal
riguardo. Fin dal 2014, anno in cui il governo di Kiev perse il controllo di una parte significativa
delle province orientali, il Comitato Investigativo della Federazione Russa ha prima istruito e poi
condotto procedimenti penali a carico di cittadini ucraini accusati di genocidio contro membri della
minoranza (qui appositamente elevata a gruppo nazionale) russofona dell’Ucraina orientale. A
prescindere da dettagli squisitamente procedurali, quali l’assenza di giurisdizione penale su crimini
asseritamente avvenuti in territorio ucraino, le autorità russe hanno rivisto ed allargato la
definizione di genocidio fino a farvi rientrare le minoranze linguistiche. È altresì interessante notare
come detta interpretazione, artificiosamente lata, contraddica allo stesso tempo sia la definizione di
genocidio sancita dalla Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio
che quella adottata dal Codice penale russo. Quanto alla tempistica, l’esercizio dell’azione penale in
Russia ha convenientemente preceduto, seppur di poco, le prime accuse di genocidio rivolte agli
ucraini da Putin, ormai risalenti al 2015.

Secondo le stime fornite dalla Nazioni Unite, dall’inizio del conflitto nel Donbass al dicembre 2021
oltre 13.100 persone hanno perso la vita, inclusi 3.400 civili. Il numero dei feriti sarebbe di molto
maggiore; gli sfollati supererebbero il milione e mezzo. Questi dati, indubbiamente drammatici, si
riferiscono tuttavia sia alle vittime sul fronte ucraino che a quelle sul fronte separatista, incluse
alcune centinaia di cittadini e militari russi schierati con le forze separatiste (400-500 secondo il
Dipartimento di Stato Americano). Rapporti indipendenti pubblicati da organizzazioni non
governative negli ultimi otto anni citano episodi di abusi da entrambi gli schieramenti. Perpetrati in
larga parte da milizie filorusse e filo-ucraine, tali abusi in alcuni casi costituirebbero crimini di
guerra. Tanto detto, ad oggi non c’è alcuna evidenza empirica che sostenga la tesi del Cremlino
secondo cui sia in atto una politica genocidaria contro i membri della minoranza russofona
nell’Ucraina orientale.

In conclusione, la Russia è sistematicamente ricorsa al vocabolario del diritto internazionale per


(tentare di) giustificare azioni intraprese in palese violazione di trattati e consuetudini. Mosca ha
ripetutamente agitato lo spettro del genocidio contro la minoranza russofona al fine di chiamare
intervento umanitario quella che è invece un’invasione, far passare gli ucraini aggrediti come
criminali neonazisti, e dipingere i separatisti come vittime della cieca violenza altrui sottacendone le
molteplici atrocità commesse. Ciò non bastasse, il copione seguito dal governo russo non è neppure
particolarmente originale, essendo già stato utilizzato in occasione del conflitto russo-georgiano
dell’agosto 2008.

Che le accuse di cui sopra non fossero supportate dai fatti è emerso con chiarezza solo in seguito
all’udienza del 7 ed 8 marzo u.s. dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia, udienza alla quale la
Russia ha strategicamente deciso di non partecipare. In una memoria depositata in data 11 marzo, la
Russia ha sorpreso tutti, ammettendo che non v’è nesso causale tra il presunto genocidio in atto nel
Donbass e l’intervento militare russo ancora in essere. Detto intervento è ora giustificato in termini
di autotutela/legittima difesa di cui all’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. La suddetta
memoria non deve aver convinto i giudici della ICJ, i quali, con 13 voti favorevoli e 2 soli contrari
(espressi dal giudice russo e dal collega cinese), hanno ordinato alla Russia di sospendere
immediatamente le operazioni militari iniziate in Ucraina. Il governo di Kiev si è dunque
aggiudicato il primo round di questa battaglia legale, ottenendo l’applicazione delle misure cautelari
richieste. Quale sarà l’epilogo del procedimento non è dato sapersi, ma si procederà comunque a
ruoli invertiti: da grande accusatrice, la Russia è ora accusata di genocidio, il più grave di tutti i
crimini.

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