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Askesis / Studi di filosofia antica

n. 2

Collana diretta da Salvatore Lavecchia (Università di Udine)


e Linda M. Napolitano Valditara (Università di Verona)

COMITATO SCIENTIFICO
Michele Abbate (Università di Salerno)
Enrico Berti (Professore Emerito, Università di Padova)
Elisabetta Cattanei (Università di Cagliari)
Fulvia De Luise (Università di Trento)
Thomas A. Szlezák (Università di Tubingen)
SALVATORE LAVECCHIA

OLTRE L’UNO ED I MOLTI


Bene ed Essere
nella filosofia di Platone

MIMESIS
Askesis / Studi di filosofia antica
Alla pubblicazione di questo libro ha contribuito un finanziamento del MIUR legato al
programma di incentivi per la mobilità di studiosi italiani impegnati all’estero (“Rientro
dei cervelli”).

© 2010 seconda edizione riveduta – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


Collana: Askesis / Studi di filosofia antica, n. 2
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INDICE

RINGRAZIAMENTI p. 6

PREMESSA. IL BENE E LA NON-DUALITÀ p. 7

1. PERCHÉ PARLARE DEL PRINCIPIO? SUL BENE


COME FONDAMENTO DELL’ICONA p. 11
2 BENE O UNO-UNO? SULLA POSSIBILITÀ O IMPOSSIBILITÀ
DI FARSI PRINCIPIO p. 17
3 OLTRE IL MONISMO E IL DUALISMO.
I(L) PRINCIPI(O) COME UNO E DUALITÀ INDETERMINATA p. 21
4 LA DUALITÀ INDETERMINATA È UN PRINCIPIO DEL MALE?
ANCORA SUL BENE COME RADICE DEI MOLTI p. 29
5 LA DUALITÀ INDETERMINATA, OVVERO DEL FECONDO NULLA
POSTO FRA IL BENE E L’ESSERE p. 37
6 BENE OLTRE L’ESSERE O IDEA DEL BENE?
OLTRE TRASCENDENZA E IMMANENZA p. 43
7 DELLA LIBERTÀ DI FARSI BENE p. 57
8 UN ESPERIMENTO DI COMPARAZIONE: UN INNO VEDICO
E LA PROTOLOGIA PLATONICA p. 65
9 DALL’ONTOLOGIA ALL’AGATOLOGIA: LA CONTEMPLAZIONE
CREATRICE COME SOSTANZA DEL FILOSOFARE PLATONICO p. 75
10 METAMORFOSI DI UN’AGATOLOGIA. FRAMMENTI DI
PHILOSOPHIA PERENNITER PLATONICA p. 81

BIBLIOGRAFIA p. 91

L’ALEF CON ZERO


di Marcello Losito p. 97
Ringraziamenti

Il proposito di scrivere un lavoro monografico sul Bene nella filosofia di Platone


è sgorgato dai fecondi dialoghi condotti con Michele Abbate e Marcello Losito: per
quei dialoghi, animati e accompagnati da una filosofiva autenticamente a[fqono",
vorrei qui esprimere la più profonda gratitudine. Ad un’idea di Marcello devo l’alef
con zero della copertina e la rinnovata attenzione verso un campo da cui avevo
distolto lo sguardo quasi vent’anni fa. A Milena Bontempi e Claudia Luchetti sono
grato per l’ormai lungo e sempre nuovo percorso comune sul sentiero che conduce
al Principio della filosofia platonica: un percorso che ha donato non pochi spunti
al contenuto di questo libro. Ma i primi dialoghi realmente filosofici sul Principio
e sulle infinite possibilità dell’Essere sono legati all’amicizia con Pasqualino Ma-
sciarelli: le lunghe e accese discussioni avvenute durante il nostro eone studentesco
sono state per me uno stimolo decisivo ad intraprendere i primi passi sul cammino
di una riflessione protologica.

Anna e Alessandro Federico mi hanno donato la calda atmosfera di anacoresi


triadica in cui ho potuto scrivere questo libro. A loro dedico ogni sua parola che sia
riuscita nel tentativo di legarlo al Principio.
7

PREMESSA.
IL BENE E LA NON-DUALITÀ

våcás pátiµ viçvakármå~am ¨táye manojúvaµ


vâje adyâ huvema
¸g-Veda X 81, 7

Questo piccolo libro si propone come un esperimento: vuole sperimenta-


re una riflessione sulla filosofia platonica del Principio che provi a trascen-
dere ogni approccio univocamente monistico o dualistico. Perché, intuendo
il Bene come radice dell’Essere, Platone, lo vedremo, ci invita a pensare il
Principio come fondamento tanto dell’unità quanto della dualità-moltepli-
cità, e quindi come dimorante oltre l’Uno ed i Molti: riprendendo un termi-
ne del Vedānta, potremmo dire di trovarci di fronte ad una prospettiva che
implica una metanoetica e metalogica Non-Dualità (advaita) dell’Uno e
dei Molti nel Bene1. In questa prospettiva si dissolvono le apparenti aporie
di un filosofare che, secondo le testimonianze relative allʼinsegnamento
orale di Platone, oltre ogni forma di essere pone tanto l’Uno quanto la
Dualità (Diade) Indeterminata (Indefinita), di un filosofare che, come mo-
stra la Repubblica, vede nel Bene sia un Principio trascendente ogni forma
di essere (Resp. 509b6-10) sia il supremo Ente (Resp. 518c9-10; 526e3-4;
532c5-6). Come infatti si vedrà, il Bene, pur dimorando nella più radicale
trascendenza, non si esaurisce nell’Uno, ma è immediato autocomunicarsi
(cfr. Tim. 29e1-30a3), vale a dire pone immediatamente, e paradossalmen-
te, in sé la principiale possibilità di un Altro: il Bene è, in altri termini,
Non-Dualità oltre l’Unità, radice allo stesso tempo dell’Uno e del Non-

1 Il termine non-dualità (e non-duale), inteso in questo lavoro nel suo significato


più letterale (né unità né dualità), ovvero senza la più o meno forte connotazione
monistica cui sovente viene associato, è parso il più adeguato per rinviare ad una
prospettiva che trascenda le univocità e approssimazioni concettuali peculiari di
ogni protologia monistica o dualistica. La scelta del termine è esclusivamente
dovuta alla sua insuperata efficacia: in nessun modo si vuole influenzare più o
meno direttamente il giudizio del lettore riguardo alle possibilità di comparazio-
ne tra la filosofia platonica e alcune forme del pensiero indiano. Possibilità che,
come si vedrà in seguito, chi scrive ritiene comunque assai degne di attenzione. In
una prospettiva non accademica, riguardo alla filosofia platonica l’orizzonte della
Non-Dualità è stato esplorato in Raphael 2008 (1984).
8 Oltre l’Uno ed i Molti

Uno, ovvero dei Molti, e pertanto implica in se stesso, oltre ogni forma
di relazione, la possibilità di una differenza, di una negazione rispetto a
se stesso. In quest’ottica, più che essere indizio di un qualche dualismo, il
rinvio delle fonti ai due Principi Uno e Dualità Indefinita si rivela un se-
gnale della suddetta, eminentemente antinomica Non-Dualità costituita dal
Bene; e più che rinviare ad ingenue asimmetrie concettuali, l’oscillare della
Repubblica fra un Bene oltre l’Essere ed un Bene immanente all’Essere ci
mostra, in modo indiretto, come il carattere non-duale del Bene implichi
la radicale immanenza del Bene stesso nell’Essere. A partire da tali pre-
messe la filosofia platonica del Principio (o, meglio, dei(-l) Principi(o)2), la
protologia di Platone, si manifesta in tutta la propria potenza speculativa.
Una potenza che, intuendo nel Bene un Principio non-duale, colloca nel
Principio, su uno stesso piano, senza alcun subordinazionismo, le radici
(Principi-ajrcaiv) tanto dell’Uno quanto dei Molti, e per questo supera ogni
sterile dualismo fra Bene ed Essere (Idea), fra Assoluto e Manifestazione,
fra Archetipo ed Icona.

Data la sua estensione questo lavoro non pretende di fornire una disa-
mina esaustiva riguardo ad ogni aspetto della protologia platonica; né può
discutere, o anche solo menzionare, le varie interpretazioni che di quella
protologia sono state fornite, ovvero esaminare sistematicamente le fonti
che la riguardano. Suo unico scopo è suscitare interesse verso alcuni oriz-
zonti che potrebbero illuminare in modo più chiaro la sostanza e il senso
della filosofia di Platone.
In qualche suo momento il presente tentativo di esplicitare alcune di-
mensioni della protologia platonica, ossia di colmare le lacune lasciate
dalle fonti che la riguardano, potrebbe dar l’impressione di una (più o
meno eccessiva) dipendenza da concetti non originariamente platonici,
per esempio da concetti legati al Neoplatonismo o all’Idealismo: insomma,
potrebbe esser percepito come un arbitrario modernizzare. Ora, tramite un
esperimento di comparazione, nella sua parte finale questo libro vorreb-
be mostrare come, in realtà, le interpretazioni proposte nelle sue pagine
sembrino restituirci un Platone quanto mai arcaico: un Platone che forse

2 Nel prosieguo della trattazione il lettore noterà un certo oscillare fra il Principio
e i(l) Principi(o), nonché fra la caratterizzazione del Bene da un lato come Prin-
cipio, dall’altro come Metaprincipio. Le suddette oscillazioni vogliono sempli-
cemente segnalare: da una parte il carattere non-dualistico, e quindi antinomico,
della protologia platonica; dall’altro l’ugualmente antinomica non-dualità che
caratterizza la relazione fra il Bene e l’Essere, ovvero fra il Metaprincipio ed il
suo farsi Principio ontopoietico.
Premessa 9

presenta più punti di contatto con la protologia vedica che con le filosofie
del Principio cronologicamente più vicine a noi. Al lettore sia demandata la
scelta: scelga di fermarsi ai testi, e di applicare a tutto ciò che segue l’eti-
chetta di Neoplatonismo, Idealismo, o (perché no?) arcaismo d’accatto; ov-
vero scelga di sperimentare, senza alcun pregiudizio, se si è detto qualcosa
che, in un modo o nell’altro, potrebbe riguardare Platone.
11

1.
PERCHÉ PARLARE DEL PRINCIPIO?
SUL BENE COME FONDAMENTO DELL’ICONA

Aujto;" ga;r oJ ajgaqoergo;" tw`n o[ntwn e[rw" ejn tajgaqw`/


kaq∆ uJperbolh;n prou>pavrcwn oujk ei[asen aujto;n a[gonon
ejn eJautw`/ mevnein, ejkivnhse de; aujto;n eij" to; praktikeuvesqai
kata; th;n aJpavntwn genhtikh;n uJperbolhvn.
Dionysius Areopagita, de divinis nominibus IV, 10,
p. 155, 17-20 Suchla

Il Bene è l’assoluto Principio di tutte le cose. In quanto tale, non è iden-


tificabile con alcuna manifestazione dell’Essere, ma, donando l’essere ad
ogni ente, dimora oltre la determinazione stessa di Essere, al di là della
oujsiva: in questa asserzione culmina la celebre analogia fra il Bene ed il
sole, analogia mediante cui nella Repubblica Platone illustra il rapporto fra
il Principio e le realtà principiate (Resp. 506d8-509c, in particolare 509b6-
10). Di fronte a tale asserzione il lettore è subito stimolato a chiedersi: per-
ché, invischiandosi nel più patente dei paradossi, Platone ha mirato a par-
lare, seppur per mezzo di analogie, di qualcosa che trascende ogni forma di
essere, quindi di qualcosa che mai dovrebbe esser concesso racchiudere in
concetti o immagini? Platone stesso fornisce uno strumento per rispondere
a questo legittimo interrogativo, e lo fa in un luogo del Timeo, dove offre
una caratterizzazione molto chiara dell’essere buono.
Prima di descrivere le operazioni mediante cui il Demiurgo, il dio pro-
duttore del cosmo sensibile, ha donato forma all’universo, Timeo indica la
causa che ha condotto quel dio all’azione cosmopoietica (Tim. 29d7-30a2):
egli era buono (ajgaqo;" h\n), e in chi è buono mai sussiste alcuna gelosa
invidia nei confronti di alcuna cosa (ajgaqw`/ de; oujdei;" peri; oujdeno;"
oujdevpote ejggivgnetai fqovno"); ecco perché quel dio volle che tutte le
cose divenissero, al grado più alto possibile, vicine alla sua natura, simili
a lui (pavnta o{ti mavlista ejboulhvqh genevsqai paraplhvsia eJautw`/),
vale a dire che divenissero tutte, nella misura più alta possibile, buone
(boulhqei;" … oJ qeo;" ajgaqa; me;n pavnta)1.

1 Per l’essere privo di gelosa invidia (a[fqono") come tratto essenziale dell’essere
buono nell’etica platonica cfr. Milobenski 1964, 27-58.
12 Oltre l’Uno ed i Molti

In base al luogo del Timeo qui richiamato, il buono si manifesta come in


sé diffusivum sui, ossia come intrinsecamente produttore di relazionalità.
L’essere buono implica infatti, lo si è appena visto, un (ovviamente libero)
impulso che porta il soggetto a manifestare e comunicare immediatamente
la propria natura ad un altro: il buono tende a generare una immagine di
sé, a porre in essere qualcosa che, giova ripeterlo, essendogli simile, par-
tecipi del suo essere buono. Ora, nella maniera più radicale questo impul-
so all’automanifestazione-auocomunicazione, questo essere fondamento
di relazionalità, caratterizzerà ciò che di ogni essere buono è l’archetipo,
ovvero il Bene, il Principio di tutte le cose. Di conseguenza, per Platone
il Bene sarà un Principio eminentemente relazionale ed iconopoietico: un
Principio caratterizzato, appunto, dall’impulso a produrre immagini-icone
di sé, a generare un Altro che gli sia simile (eijkwvn = ciò che è simile [e[oike]
al modello2).
Il Platone che intuisce il Bene come Principio dell’Essere non è, allora,
quel padre di tutte le iconoclastie che le interpretazioni vulgate ci hanno
consegnato. A partire dal Bene, da un Principio che in sé è impulso a ma-
nifestarsi come immagine di sé, l’Essere stesso si rivela infatti quale Icona
mediante cui il Principio si comunica: l’Essere è, nella sua natura più inti-
ma, la Figura, l’Aspetto, la Forma del Bene; è il lasciarsi vedere-guardare,
ovvero l’Idea del Bene (ijdeva = forma, figura, aspetto, ciò che risulta al
vedere [ijdei`n])3. L’Essere, in altri termini, manifesta la potenza del Bene

2 Platone è pienamente consapevole dello stretto implicarsi fra l’essere icona


(eijkwvn) e l’essere simile (o{moio") al modello: cfr. ad esempio Resp. 506e3-4 e
509a9; 517a8-b3; Leg. 836e2; 867a6-b1; 897e4-898b3. In Crat. 431d2-3 il pro-
durre un’icona viene connesso all’imitazione dell’essere del modello (th;n oujsivan
tw`n pragmavtwn ajpomimouvmeno"): l’icona bella manifesta ciò che conviene
alla natura dell’archetipo (Crat. 431d4-5; 433c4-5), è conforme alla sua verità
(439a8-b2). Detto altrimenti, l’immagine deve rispecchiare, come si sostiene nel
Sofista, i rapporti di misura che costituiscono l’essenza del modello (si veda come
Platone caratterizza l’arte produttrice di icone in Soph. 235d6-236c8; un’ottima
discussione di questo luogo si trova in Napolitano Valditara 2007, 158-178). Per-
tanto l’icona manifesta, in misura più o meno elevata, l’essere dell’archetipo, e
concretamente lo comunica a chi è in relazione con essa (si veda in particolare
Resp. 401b-d3). Per ulteriori approfondimenti mi permetto di rinviare a Lavecchia
2006, 199-202. Sul concetto di icona in Platone si vedano anche le interessanti
riflessioni svolte in Bontempi 2009, 197-224 passim.
3 Ciò può spiegare la funzione centrale delle immagini legate al vedere e alla vista
nella comunicazione filosofica messa in atto da Platone. Riguardo a queste im-
magini è fondamentale l’ampia trattazione fornita in Paquet 1970. Interessanti
spunti, e ulteriore bibliografia, si possono trovare in Napolitano Valditara 1994 e
Napolitano Valditara 2007.
Perché parlare del Principio? 13

(duvnami" Resp. 509b9-10 e Phil. 64e5), la potenza che trascende ogni altra
potenza e che, trascendendo anche il proprio trascendere, si fa altra da sé,
vale a dire, appunto, Idea, Icona di sé: l’Essere è la luce ontopoietica che
emana dal sole del Principio, la Verità (cfr. Resp. 508d4-6) mediante cui il
Bene si disvela quale Altro e nell’Altro (aj-lhvqeia = non nascondimento),
facendosi pienamente conoscere mediante la propria immagine. Si com-
prende dunque perché Platone connetta intimamente l’Essere e la cono-
scibilità: ciò che è nella maniera più compiuta è conoscibile nella maniera
più compiuta (Resp. 477a3 to; me;n pantelw`" o]n pantelw`" gnwstovn);
ossia, in quanto icona del Bene, l’Essere sarà, come il Bene, potenza che si
autocomunica, che si lascia conoscere. Detto altrimenti: se il Bene è come
il sole, perché la sua natura non è scindibile dal suo automanifestarsi, e
quindi dal risultare conoscibile; e se l’Essere è la luce del suo disvelarsi,
vale a dire il suo non-nascondersi, la Verità-ajlhvqeia; allora l’Idea, il som-
mo manifestarsi del Bene, nell’essere il più vero fra gli enti sarà anche il
più luminoso, il più evidente (tou` o[nto" to; fanovtaton Resp. 518c9), os-
sia la realtà che più di tutte rivela se stessa, che più di tutte è conoscibile.
Tutte le cose che sono, ad ogni livello della gerarchia ontologica, ricevo-
no dal Bene la propria Verità, il disvelarsi della propria natura, e per questo
sono conoscibili (Resp. 508e1-3; 509b6-7): anche quando ciò avvenga in
misura infima, in quanto partecipa dell’Essere ogni ente è nella propria
vera natura immagine del Bene, e quindi potenza che tende ad autocomuni-
carsi, a farsi, appunto, conoscere. Conoscere significa perciò disvelare a se
stessi, in tutte le cose, la traccia, o, riguardo agli enti più elevati, l’autoco-
sciente presenza del Bene; significa, insomma, porsi in cosciente relazione
con la potenza, con la duvnami" mediante la quale il Principio si fa Essere
e radice di ogni ente.
Nel proprio manifestarsi la potenza del Bene non si fossilizza in un solip-
sistico Ente supremo che fa del rapporto col Bene un possesso esclusivo: in
quanto icona del Bene, quel manifestarsi intrinsecamente tende a produrre
un’immagine di sé, a comunicarsi, a produrre una relazione con un altro.
Il sommo grado di questo comunicarsi si realizza, come piena unità nella
molteplicità, nella vita delle Idee, dell’universo intelligibile4: le Idee non
sono scheletriche astrazioni di un più o meno acuto intelletto, ma viventi
essenze (cfr. Soph. 248e7-249a2; Tim. 30c2-d1), somme icone del Bene che
vivono nella più compiuta giustizia (Resp. 500c3-4 ou[t∆ ajdikou`nta ou[t∆

4 All’unità molteplice del mondo delle Idee rinvia chiaramente Tim. 30c5-31a, dove
il Vivente intelligibile viene caratterizzato come unità dei molteplici Viventi intel-
ligibili che esso abbraccia in sé.
14 Oltre l’Uno ed i Molti

ajdikouvmena), ovvero nel più compiuto manifestarsi e comunicarsi della


loro natura5.
Poiché è immagine del Bene, come il Bene anche la vita delle Idee, degli
Intelligibili, non rimane gelosamente racchiusa in sé: mediante l’azione
del sommo Intelligibile, mediante l’Idea del Bene, la molteplice unità del
Vivente intelligibile si fa Demiurgo del nostro cosmo, comunicando il pro-
prio essere buona (cfr. Tim. 29e1-30a3)6. Così come il Bene ha prodotto
un’icona di sé nella forma di una realtà altra, quel Vivente buono produce
dunque un’icona di sé nella forma di una vita altra, ossia si manifesta nel
cosmo sensibile come aspetto-forma di ciò che è la cosa più buona (Tim.
46c8-d1: il Demiurgo opera th;n tou` ajrivstou kata; to; dunato;n ijdevan
ajpotelw`n). Anche l’universo sensibile è, quindi, sebbene in maniera me-
diata, icona della potenza tramite cui il Bene si disvela come Essere7.
Ora, l’uomo è l’unico ente dell’universo sensibile capace di porsi in una
relazione cosciente con la potenza ontopoietica del Bene, ossia capace di
farsi cosciente icona non solo dell’universo sensibile8, ma anche di quel-
lo intelligibile (Resp. 500c2-d3), che di quella potenza sono, lo abbiamo
visto, evidente manifestazione. Ciò che fonda la sua essenza, vale a dire
l’intelletto (il nou`"), l’uomo infatti lo riceve direttamente dal Demiurgo
(Tim. 41c6-d1; 69c3-5; 90a2-7), dal sommo Intelligibile (dall’Idea del
Bene!): perciò nella sua essenza è intimamente affine alla natura del Prin-
cipio9, e, di conseguenza, con quella natura può coscientemente entrare
in rapporto. A questo fatto rinvia in modo implicito l’analogia fra il sole
e il Bene illustrata nella Repubblica: come l’occhio, di natura affine al

5 Per un approfondimento riguardo a questo aspetto del pensiero platonico mi sia


consentito rinviare a Lavecchia 2006, 216, 225-231, 278-279, 286 (con ulteriore
bibliografia).
6 All’identità fra Demiurgo e sommo Intelligibile (sommo Vivente) rinviano Tim.
29a5-6 (il Demiurgo è la più buona fra le cause) e 37a1 (il Demiurgo è il più
buono fra gli Intelligibili); all’attività demiurgica dell’Idea del Bene allude Resp.
517c3; infine, l’identità fra sommo Intelligibile e mondo delle Idee è manifesta in
Tim. 30c5-31a1. Sull’identità fra Demiurgo, Intelligenza, sommo Vivente, sommo
Intelligibile e totalità delle Idee si vedano, fra i contributi più recenti, Halfwassen
2000, 50-62; Ferrari 2003b passim, specialmente 322-325; Karfík 2004, 127-138;
Ferrari 2008, 98-102 (con ulteriore bibliografia). Sull’identità fra Demiurgo e Idea
del Bene cfr. la messa a punto in Lavecchia 2006, 116-117, 216-222 (con ulteriore
bibliografia).
7 Sul cosmo sensibile come icona del cosmo intelligibile, e quindi del Bene, si veda
Lavecchia 2007, 207-211.
8 Su questo tema cfr. Lavecchia 2007, 212-220.
9 Per questa dimensione dell’intelletto umano sia permesso rinviare a Lavecchia
2006, 221-222, 231-236.
Perché parlare del Principio? 15

sole (hJlioeidevstaton Resp. 508b3), e quindi portatore di luce (cfr. Tim.


45b3 fwsfovra … o[mmata), si vede dispensata la potenza della vista dal
sole, che appunto gli infonde la luce (508b6-710), sostanza di quella potenza
(507e11-508a8)11, così l’intelletto e la sua attività, la conoscenza, saranno
l’occhio e la vista boniformi12 che, sostanziati e alimentati dalla luce del
Bene, ossia dalla Verità e dall’Essere (Resp. 508d4-6), possono condurre
l’uomo all’esperienza diretta, alla intuizione-visione del Principio.
Per Platone l’intuizione del Bene è un’esperienza che l’uomo può real-
mente attingere13 se, guidato dalla filosofia, acquista la piena coscienza ri-
guardo alla propria vera natura, ossia riguardo al proprio intelletto. Perché,
come l’occhio e la sua attività sono sostanziati di luce solare, così quella
natura, dimorante appunto nell’intelletto (nou`"), è integralmente sostan-
ziata dal manifestarsi, dalla luce del Bene. In questa prospettiva si spiega
quanto affermato nell’Alcibiade Primo riguardo alla virtù dell’intelletto,
ovvero riguardo alla sostanza della sua essenza14: come la virtù dell’occhio
è data dal vedere, così la virtù dell’intelletto è data dalla sapienza, dalla
sofiva (Alcib. I 133b2-c7), vale a dire dalla forma più alta di conoscenza,
che, lo dice chiaramente la Repubblica, consiste nella visione del manife-
starsi, dell’Idea del Bene (Resp. 517b8-c1). Quindi, attingendo la piena
autoconoscenza-autocoscienza15 e, con essa, la vera virtù del proprio in-
telletto (cfr. Alcib. I 133b7-c2), l’uomo non incontrerà lo sterile nulla di
algide astrazioni; né sarà chiamato ad un estatico annichilirsi di fronte ad
un raggelante Assoluto: nel proprio intelletto egli incontrerà, appunto, il
rivelarsi, l’Idea del Bene, ossia una potenza (duvnami" Resp. 509b9) che è
puro autocomunicarsi e manifestarsi, una forza ontopoietica e iconopoie-
tica che non risucchia ogni altro nel vortice di un geloso possesso, ma
genera e sostanzia l’altro ad immagine del proprio potere. E l’incontro con
quella potenza generatrice tenderà, intrinsecamente, a farsi atto somma-
mente generatore, a produrre un’icona della coscienza che lo vive. Questo

10 th;n duvnamin h}n e[cei ejk touvtou tamieuomevnhn w{sper ejpivrruton kevkthtai
ktl.
11 Su questo aspetto dell’analogia fra il sole e il Bene cfr. Calabi 2003. Sulla fisiolo-
gia dell’occhio e della vista in Platone cfr. Napolitano Valditara 2007a, 343-349.
12 jAgaqoeidhv" qualifica la gnw`si" (ejpisthvmh) in Resp. 509a3.
13 Cfr. ad esempio Resp. 504c9-d3; 508e4; 511b7; 517b8-c1; 518c9-10; 519d1-2;
526e1; 532c5-6, e3; 540a7-9; Ep. 6, 323d2-6. Su questo tema si veda pure Szlezák
2003, 79-80, 99-101.
14 Riguardo alla virtù come manifestazione piena della natura del suo soggetto cfr.
Lavecchia 2006, 278-284.
15 Sul tema dell’autoconoscenza in Platone si veda la recente messa a punto in Na-
politano Valditara 2007b (con ampia bibliografia).
16 Oltre l’Uno ed i Molti

è l’atto con il quale, nel Simposio, Diotima fa culminare il percorso cono-


scitivo ispirato da Eros (Symp. 201d1-212a7), dall’impulso che, guidando
l’uomo all’unione (sunovnto" 212a2) con l’Idea del Bello (210e3-211b5;
212a1-2), gli disvela la somma manifestazione, l’Idea del Bene16: è, lo in-
segna Diotima, la generazione della vera virtù (212a3-6).
L’esperienza del Bene non è l’integrale assorbimento in una passiva con-
templazione, né il solipsistico bearsi in un’inerte estasi. In quell’esperienza
contemplazione e azione, teoresi e prassi, ricettività e produttività costi-
tuiscono una superiore sintesi: mai l’unione col Bene si esaurirà in geloso
possesso, ma, attinta nell’intuizione essenziante del Vero, sempre si farà
immaginazione creatrice del Bello. In altre parole, il soggetto che vive una
reale esperienza del Principio si farà sempre demiurgo d’icone del Bene. Il
Principio, per Platone, non è infatti il nulla di un abissale nascondersi che
inghiotte ogni coscienza altra: è il radicale estrinsecarsi, l’incondizionato
disvelarsi di un’interiorità che, senza perché e senza mediazioni, fuori da
ogni gelosa invidia (cfr. Tim. 29e1-3), nel donare la propria pienezza ad un
altro si fa archetipo di ogni vera virtù. E appunto di questo archetipo si fa
icona e produce icone chi percorre fino in fondo il cammino della filosofia,
la via che conduce al Bene. Ecco allora che, attinta l’esperienza del Bene,
il filosofo platonico non sceglierà di chiudersi in una protologia apofatica,
non imboccherà la via del silenzio. Anche se il Principio dimora oltre ogni
parola (cfr. Ep. 7, 341c5-6), il filosofo sceglierà di parlare del Principio,
di plasmare sue icone. Perché chi è autenticamente buono non può non
compiere opere belle … affinché, come insegna Timeo, tutte le cose diven-
gano il più possibile buone (Tim. 29e-30a), e l’universo riveli sempre più il
proprio essere icona del sommo Dio intelligibile (Tim. 92c7): figura, idea
di ciò che è la cosa più buona (Tim. c8-d1 th;n tou` ajrivstou … ijdevan).

16 All’identità fra Bene e Bello Platone rinvia in Resp. 505b3; 508e4-6; 509a6-7; cfr.
inoltre Crito 48b7-9; Charm. 160e12-161a1; Lys. 216d2-3; Hipp. Mai. 295b7-
297d1; Prot. 358b5-6; Gorg. 475a1-b2, 477a1-4; Men. 77b6-e4; Phdr. 246e1; Alc.
I 115a1-116c6; Phil. 64e5-8 e 65a1-5.
17

2.
BENE O UNO-UNO?
SULLA POSSIBILITÀ O IMPOSSIBILITÀ
DI FARSI PRINCIPIO

- \H dunato;n ou\n peri; to; e}n tau`ta ou{tw" e[cein…


- Ou[koun e[moige dokei`.
Plato, Parmenides 142a6-8

Se il Principio di tutte le cose è il Bene, allora, lo abbiamo visto, in


quanto tale quel Principio implicherà immediatamente la relazionalità,
ovvero l’impulso a generare una immagine di sé, un Altro che partecipi
della sua natura e, quindi, gli sia simile. In altre parole, quel Principio, emi-
nentemente iconopoietico, porrà in se stesso, nella maniera più radicale,
la possibilità di una differenza da se stesso, ossia di una autonegazione.
Allora non potrà essere identificato, quasi ad anticipare il Neoplatonismo,
con un Uno che in sé escluda ogni forma di rapporto con il molteplice, e,
perciò, ogni possibile alterità, vale a dire non potrà essere legato alla no-
zione di Uno che è solo Uno, nozione che Platone stesso caratterizza nel
Parmenide. Infatti, come mostra la prima serie di deduzioni nella seconda
parte del Parmenide (137c4-142a), di quell’Uno-Uno (lo e}n e{n di Parm.
142c2-3) non si potrà predicare alcuna determinazione se non quella di
Uno. Pertanto, necessariamente, l’Uno-Uno implicherà l’impossibilità di
una qualsiasi forma di partecipazione riguardo a qualsiasi concetto o ente:
non potrà partecipare neanche della determinazione più universale, ovve-
ro dell’Essere (Parm. 141e7-142a1), perché ciò lo renderebbe molteplice,
vale a dire Uno ed Ente (cfr. 142b5-143a3); e non potrà essere coinvolto in
una qualche forma di relazione, nemmeno nella relazione di autoidentità,
perché essa implicherebbe un rapporto con la natura dell’Identico, quin-
di con qualcosa che non è l’Uno (139d1-e4). Tanto meno poi l’Uno-Uno
parteciperà di una qualche determinazione che implichi il rapporto con un
altro: in nessun modo potrà partecipare dell’alterità, così come in nes-
sun modo potrà essere simile-dissimile o uguale-disuguale rispetto ad una
qualsiasi cosa (139c2 segg.; 139e7-140d), dal momento che tutte queste
determinazioni presuppongono il rapporto con un Non-Uno. Ecco perché,
alla fine, di quell’Uno non si potrà neanche dire che è Uno (141e10-11), né
18 Oltre l’Uno ed i Molti

riguardo a quell’Uno potrà sussistere, in un qualche modo, una percezione,


un nome, un discorso, un’opinione, una qualche forma di sapere (142a3-6).
Insomma, l’Uno-Uno sarà in tutto e per tutto irrelato e irrelazionabile tan-
to riguardo a se stesso quanto riguardo ad una qualsiasi altra cosa … Come
potrà tale Uno farsi Principio?
… Tramite la persona di un certo Aristotele, giovane interlocutore di
Parmenide1, Platone stesso inscena la netta negazione della possibilità che
realmente si dia un Uno siffatto. A Parmenide, che gli chiede se le cose
riguardo all’Uno possano mai stare così (142a6-7), Aristotele dà infatti una
risposta decisamente negativa, che chiude in maniera lapidaria e inequivo-
cabile la prima serie di deduzioni del Parmenide: «A me in nessun modo
pare possibile!» (a7-8). E che per i dialoganti (quindi, in questo caso, per
Platone!) la via dell’Uno-Uno rappresenti un vicolo cieco lo confermano
le battute immediatamente successive: di fronte alla risposta di Aristote-
le Parmenide propone di percorrere di nuovo, fin dal suo principio, la ri-
flessione sull’Uno (Bouvlei ou\n ejpi; th;n uJpovqesin pavlin ejx ajrch`"
ejpanevlqwmen… 142b1-2), per vedere se, imboccando una nuova via, si po-
trà manifestare (fanh`/` 142b2) qualcosa che sia di diversa specie (ajlloi`on
ibid.!); e Aristotele accetta in maniera del tutto inequivocabile («Lo voglio
assolutamente!», Pavnu me;n ou\n bouvlomai 142b2-3)2.
Certo, in nessun punto del loro dialogo Parmenide e Aristotele negano
la correttezza logica delle deduzioni svolte riguardo all’Uno-Uno, in sé del
tutto rigorose3; eppure, lo abbiamo appena visto, per Parmenide e Aristote-

1 Su questo personaggio, futuro membro del governo dei Trenta Tiranni, e sul suo
possibile essere figura dello Stagirita, si veda Migliori 1990, 380-385.
2 Il tono netto con cui si chiude la prima serie di deduzioni e con cui, immediata-
mente dopo, viene introdotta la seconda; il fatto che la seconda venga presentata
come percorso alternativo alla prima: tutto ciò esclude in partenza un’interpreta-
zione positiva della prima serie di deduzioni, ossia un’interpretazione come quella
neoplatonica, che identifica il Principio con l’Uno-Uno. La suddetta interpretazio-
ne, a partire dalla quale la prima serie di deduzioni conterrebbe i tratti fondamen-
tali di una teologia negativa, è illegittima non perché vada oltre il testo, ma perché
le conseguenze che trae dal testo nel testo stesso non sono neppure implicite:
Parmenide e Aristotele semplicemente assumono l’impossibilità, l’inaccettabilità
dell’Uno-Uno; perciò ogni esegesi che voglia negare quell’impossibilità percorre
una via altra rispetto a quella imboccata nel Parmenide (l’ajlloi`on di 142b2 è
quanto mai pregnante!), ossia rispetto a quella imboccata da Platone. Sulla inac-
cettabilità dell’Uno-Uno nella prospettiva entro cui si colloca la filosofia platonica
si vedano Berti 1971; Krämer 2001 (1982), 200-202; Berti 1988; Migliori 1990,
218-222; Ferrari 2004, 112-113.
3 Sulla correttezza di queste deduzioni, evidente anche a partire da differenti ap-
procci interpretativi, basti rinviare a Migliori 1990, 221 e Fronterotta 2001, 301.
Bene o Uno-Uno? 19

le è impossibile, ovvero inammissibile che l’Uno possa essere l’Uno-Uno.


Ora, in nessun luogo del Parmenide questa impossibilità viene motivata
in maniera esplicita. Ma in un dialogo che nella sua prima parte è stato
incentrato sui rapporti fra le Idee e le realtà partecipanti delle Idee (Parm.
128e6-135d6), e che ha voluto negare l’incomunicabilità ontologica tra la
sfera delle Idee ed il mondo sensibile4, la motivazione non può essere solo
astrattamente logica, ma deve essere eminentemente metafisica, vale a dire
derivare da una concreta esperienza dell’Essere e del suo Principio.
In un dialogo in cui si presenta la conoscenza delle Idee come necessa-
ria per la comprensione del mondo sensibile (135a7-c), e perciò si nega che
rispetto alle cose sensibili l’Idea sia univocamente una-in sé, separata, e
quindi inconoscibile (133a11-135a7), in questo stesso dialogo non si può
ad un certo punto accettare, anche come semplice ipotesi, un Uno separa-
to da ogni altra determinazione e relazione, un qualcosa di radicalmente
impartecipabile, a partire da cui sarebbe possibile ammettere un abissale
e incolmabile iato fra i diversi piani della realtà5. Quell’Uno, fra l’altro,
rappresenterebbe una radicale contraddizione rispetto ad una filosofia che
nel Bene intuisce il Principio di tutte le cose, il fondamento dell’Essere:
per Platone il Principio non può essere un Uno arelazionale, abissalmente
e tremendamente separato dall’Essere; perché, come già visto, in quanto
Bene il Principio è intrinsecamente aperto alla relazionalità, all’autoco-
municarsi, e quindi pone immediatamente in sé la possibile negazione di
sé, ovvero è Uno e Non-Uno. Certo, nel Parmenide non si fa alcun cenno
al Bene come Principio dell’Essere; eppure la nozione di quel Principio
sembra occultamente orientare l’andamento del dialogo fra Parmenide e
Aristotele. Solo a partire dalla concezione platonica del Bene come Prin-
cipio dell’Essere si può infatti comprendere, fino in fondo, perché Parme-
nide e Aristotele neghino con decisione un Uno chiuso di fronte all’Essere,
e perché, subito dopo, affermino, con altrettanta decisione, un Uno che,
pur essendo trascendente, ossia altro-diverso rispetto all’Essere (143b1-
36), ammette una relazione con l’Essere. In base a quella stessa concezio-
ne, l’identità fra Bene e Uno oggetto dell’insegnamento orale di Platone

4 Una prima, stimolante introduzione ai problemi discussi riguardo alle Idee nella
prima parte del Parmenide si può trovare in Ferrari 2004, 34-108 (con ulteriore,
ricca bibliografia).
5 Cfr. Migliori 1990, 219-221.
6 Qui l’essere dell’Uno viene considerato altro-diverso rispetto all’Uno in sé, che
appunto non è Essere, ma partecipa dell’Essere: a[llo ti e{teron me;n ajnavgkh
th;n oujsivan aujtou` ei\nai, e{teron de; aujtov, ei[per mh; oujsiva to; e{n, ajll∆ wJ"
e}n oujsiva" metevscen. Cfr. pure b3-6.
20 Oltre l’Uno ed i Molti

sui Principi7 non potrà, allora, riguardare la nozione di Uno-Uno esposta


nel Parmenide: necessariamente essa presupporrà un Uno che, pur essen-
do radicalmente e semplicemente Uno, è altrettanto radicalmente aperto
all’Essere8. Di quell’Uno, o, meglio, di quel Bene che è Uno, l’Essere sarà
un’icona, e perciò, come si è mostrato in precedenza, allo stesso modo del
Bene sarà sostanziato di apertura verso l’Altro, di relazionalità.
Il quadro appena tracciato chiarisce pienamente il motivo per cui all’Uno
aperto il dialogo fra Parmenide e Aristotele dedichi la serie di deduzioni di
gran lunga più estesa (Parm. 142b1-157b5): il motivo sarà la necessità di
mostrare che l’Essere non è costituito di Uni-Uni assolutamente chiusi in
se stessi, ma di Unità che, come il Principio dell’Essere, sono intrinseca-
mente relazionali. Sicuramente nel contesto drammaturgico del Parmenide
questa esigenza richiama prima di tutto il trascendimento della rigida on-
tologia parmenidea9. Le sue radici, ossia le radici dell’ontologia dinamica
e relazionale peculiare di Platone, affondano però nella viva intuizione del
Principio: e il Principio non è, appunto, un geloso Uno-Uno10, ma Bene che
dimora oltre l’Uno ed i Molti. Bene che, senza invidia, si dona come luce
dell’Essere ed immag(in)a la propria potenza in luminosa sostanza d’un
cosmo.

7 All’identità fra Bene e Uno nella protologia platonica rinviano esplicitamente o


implicitamente Aristoxen. Harm. II, 39-40 Da Rios (Test. 7 Gaiser, 1 Richard);
Aristot. Metaph. 1091b13-15 (Test. 51 Gaiser, 65 Richard); Eth. Eud. 1218a15-33
(Test. 79 Richard); si vedano pure Aristot. Metaph. 988a14-15 (Test. 22A Gaiser,
34 Richard); 1075a33-37; 1084a35 (Test. 61 Gaiser, 58 Richard); Sext. Emp. Adv.
Math. X 268-275 (Test. 32 Gaiser, 94 Richard); Hermodor. ap. Simplic. in Phys.
248, 2-15 Diels (Test. 31 Gaiser, 91 Richard); Porph. fr. 220F Smith (ap. Cyrill.
Alex. contra Iulian. I 31A, PG 76, 549A5-B6); Syrian. in Metaph. 182, 6-7 Kroll;
ibid. 183, 1 Kroll.
8 Col già visto accenno all’alterità dell’Uno in sé rispetto all’Essere (143b1-3) la
seconda serie di deduzioni del Parmenide sembra voler rinviare proprio alla ne-
cessità di tenere insieme l’assoluta unità, e quindi trascendenza, dell’Uno con la
sua assoluta relazionalità. Questo tenere insieme non si appoggia però sulla (più
o meno paradossale) accettabilità della prima serie di deduzioni (cfr. invece Donà
2003, 104-105, in un orizzonte nella sostanza non distante da quello qui presup-
posto), ma trova il proprio fondamento nel carattere essenzialmente relazionale
dell’ontologia e della protologia platoniche.
9 Per la seconda serie di deduzioni come difesa di un concetto relazionale dell’Es-
sere inteso come superamento della dottrina parmenidea cfr. Berti 1971 e Berti
1988.
10 Per il rapporto fra la protologia platonica ed il concetto di Uno presentato nel Par-
menide basti rinviare a Krämer 2001 (1982), 200-204 e Migliori 1990, 453-466.
21

3.
OLTRE IL MONISMO E IL DUALISMO.
I(L) PRINCIPI(O) COME UNO
E DUALITÀ INDETERMINATA

Freuet euch des wahren Scheins,


Euch des ernsten Spieles:
Kein Lebendiges ist ein Eins,
Immer ist’s ein Vieles.
Johann Wolfgang von Goethe, Epirrhema

Che per Platone il Bene sia un fondamento di rango prioritario rispetto


all’Uno sembra mostrarlo un dato, apparentemente banale, contenuto nelle
testimonianze relative alla protologia platonica, dato che finora non ha rice-
vuto spesso l’attenzione dovutagli: quando le fonti indicano il tema dell’in-
segnamento orale di Platone riguardo ai Principi, sfondo di ciò che Aristo-
tele chiama dottrine non scritte (a[grafa dovgmata1), quell’insegnamento
viene sempre indicato mediante la locuzione sul Bene2. A partire da questo
dato il Bene si manifesta quale assoluto centro della protologia platonica.
Allora ogni aspetto di quella protologia, e ogni suo riflesso sulla concezio-
ne platonica dell’Essere, andranno interpretati in base a tale presupposto,
senza alcuna possibilità di scissione fra un orizzonte assiologico(-etico) ed
uno (meta)ontologico3. Ma nella misura più alta il carattere cardinale del
Bene andrà tenuto presente nell’interpretazione del fatto più peculiare e
per certi versi sconcertante cui rinviano le dottrine non scritte: il fatto che

1 Cfr. Aristot. Phys. 209b14-15 (Test. 54A Gaiser, 2 Richard).


2 Questo fatto viene giustamente valorizzato in Krämer 2001 (1982), 168. La locu-
zione viene usata in relazione sia all’insegnamento interno all’Accademia sia alla
ajkrovasi" pubblica tenuta da Platone sui Principi (riguardo alla quale è testimone
Aristotele, ap. Aristoxen. Harm. II, 39-40 Da Rios [Test. 7 Gaiser, 1 Richard]).
Per i contesti (pubblici o esoterici) dell’insegnamento protologico di Platone e per
le fonti ad essi relative basti rinviare alla recente messa a punto in Erler 2007, 419-
421 (con ampia bibliografia e indicazione delle diverse ipotesi interpretative).
3 In proposito è chiarissimo Krämer 2001 (1982), 168-175. Che a partire dalla pro-
tologia platonica etica e ontologia costituiscano una unità inscindibile viene rico-
nosciuto, anche se in una prospettiva fortemente critica, già nella Grande Etica di
Aristotele (1182a23-30, Test. 81 Richard).
22 Oltre l’Uno ed i Molti

l’insegnamento orale di Platone riguardasse due Principi, vale a dire l’Uno,


identificato con il Bene, e la Dualità Indeterminata (ajovristo" duav"), en-
trambi Principi dimoranti oltre ogni forma di essere4.
In che modo si può armonizzare questo fatto con il quadro offerto in
dialoghi come il Fedone (99b6-c6), la Repubblica (504a2-509c), il Filebo
(64c-65a6), in cui il Bene viene caratterizzato quale unico Principio? Per
essere fruttuosa, ogni risposta a questo interrogativo dovrà partire dalla
premessa che tanto i luoghi degli scritti platonici concernenti il Principio
quanto, come già visto, i contenuti dell’insegnamento orale di Platone,
hanno appunto nel Bene il proprio assoluto centro. In quest’ottica si potrà
tentare un esperimento ermeneutico: ci si potrà chiedere se il contrasto
fra l’orizzonte protologico dei dialoghi e quello dell’insegnamento ora-
le possa essere interpretato come rinvio ad una differenza di prospettive
piuttosto che ad una contraddizione o ad una dissimmetria concettuale.
Riguardo al Principio i dialoghi si mantengono infatti sempre in una pro-
spettiva immanente all’Essere, in una prospettiva che, nel considerare il
Principio, parte, potremmo dire, dal basso5; l’insegnamento orale invece
offre una esplicazione dell’Essere a partire dall’orizzonte del Principio.

4 Cfr. soprattutto Aristot., Metaph. 987b14-988a17 (Test. 22A Gaiser, 34 Richard);


Speus. Fragm. 62 Isnardi Parente = 48 Tarán (Test. 50 Gaiser, 92 Richard); Theo-
phr. Metaph. IX 11a27-b7 (Test. 90 Richard); Alex. Aphrod. in Metaph. 55, 20-56,
35 Hayduck (Test. 22B Gaiser, 10 Richard); Alex. Aphrod. ap. Simplic. in Phys.
454, 19-455, 14 Diels (Test. 54B Gaiser, 11 Richard); Simplic. in Phys. 151, 6-19
Diels (Test. 8 Gaiser, 13 Richard). Per qualsiasi approfondimento riguardo alla
protologia cui rinviano le dottrine non scritte basti rinviare alle ampie trattazioni
in Krämer 1959; Gaiser 1968; Krämer 2001 (1982); Richard 2008 (1986); Reale
1997. Più sintetiche messe a punto, concernenti anche i vari approcci interpreta-
tivi alla filosofia platonica dei Principi, vengono fornite in Hösle 1984, 459-506;
Halfwassen 1997; Schefer 2001, 57-60, 185-187 (con ricca bibliografia); Ferrari
2006; Erler 2007, 406-429 e 703-707 (bibliografia). La trattazione più stimolante
della protologia platonica da un punto di vista squisitamente filosofico resta an-
cora quella fornita in Krämer 2001 (1982), 151-333. Una ricchissima bibliogra-
fia sulle dottrine non scritte, aggiornata al 2001, si può trovare in Krämer 2001
(1982), 418-439.
5 Si considerino brevemente i tre luoghi, a questo proposito esemplari, cui si è ap-
pena accennato: Fedone 99b6-c6 rinvia al Bene a partire dalla prospettiva del
cosmo e dell’Intelletto che lo governa; pur accennando alla trascendenza del Bene
rispetto all’Essere, Repubblica 504a2-509c non caratterizza la natura intrinseca
del Bene, ma il Bene nel suo manifestarsi come fondamento di ogni essenza e
conoscenza; Filebo 64c-65a6, e tutto il Filebo, considera il Bene nell’orizzonte
dell’ideale di vita cui l’uomo deve aspirare. In altre parole, nessuno dei tre luoghi
vuole esplicare l’Essere a partire dalla prospettiva del Bene: nel loro orizzonte il
Bene è sempre punto di arrivo, mai di partenza.
Oltre il monismo e il dualismo 23

Ora, in quest’ultima prospettiva, che parte dall’alto, si presenta con tutta


la propria forza uno spinoso problema riguardo alla natura intrinseca del
Principio, problema cui si è già accennato, e che consiste nella risposta
alla domanda: come può un Uno che è solo Uno farsi Principio dell’Esse-
re, ovvero del Molteplice6? A partire da una reale intuizione del Bene, nel
proprio insegnamento orale Platone sembra aver voluto fornire la seguente
risposta a questo interrogativo, interrogativo fondamentale in ogni matura
filosofia del Principio: il Bene è quell’Unico oltre l’Uno ed i Molti che,
privo di invidia, per principiale volontà d’autocomunicarsi ad un Altro,
pone in maniera parimenti radicale tanto se stesso quanto la negazione di
sé; vale a dire, oltre ogni forma di essere il Bene è, con la medesima prin-
cipialità, radice tanto dell’Uno quanto del Molti, o, per usare il linguaggio
delle cosiddette dottrine non scritte, tanto dell’Uno quanto della Dualità
Indeterminata, ovvero dei(-l) Principi(o) dalla cui Non-Dualità l’Essere
trae origine e sostanza. In altri termini, possiamo dire che nel Bene Plato-
ne sembra intuire, più che un Principio, un non-duale Metaprincipio: un
Metaprincipio eminentemente automanifestativo, e dunque ontopoietico,
che, a partire dalla propria assoluta trascendenza e potenza (duvnami" Resp.
509b9-10), si sovressenzia come Principi(o) dell’Essere per farsi sostanza
dell’Altro da sé, ossia per autocomunicarsi.
L’Essere non può emanare nè da un Uno-Uno né da due Principi. In-
fatti, lo abbiamo già constatato, l’Uno-Uno escluderà in partenza qualsia-
si rapporto con il molteplice, ovvero con il Non-Uno, con l’Altro. E due
Principi mai potranno essere realmente Principi: perché essi comunque
presupporranno da una parte un qualcosa che li rende affini, ovvero il tro-
varsi entrambi in una relazione di principialità con la realtà principiata, e
dall’altra un qualcosa che li differenzia, ovvero che sostanzia la specificità
di ognuno; quindi il loro essere Principi non sarà autofondato, ma rinvierà
ad un ulteriore piano di fondamento, piano su cui andranno collocati quei
due qualcosa. Però anche quel piano non potrà ritenersi del tutto origi-
nario: rimarrà da spiegare la residua dualità, l’alterità che sussiste fra la
relazione di somiglianza e la relazione di differenza in cui sono coinvolti
i due Principi7. Insomma, il Principio dell’Essere non potrà essere dato né
dall’Uno-Uno né da una Polarità o (ancor meno!) Dualità, ma solo dalla
Non-Dualità dell’Uno e dei Molti. Riguardo alla protologia platonica sus-
sistono buone ragioni per ritenere che il Bene sia da identificare con tale

6 Al riguardo si vedano le efficaci considerazioni in von Weizsäcker 1971, 476 e


491.
7 In questa direzione si muove già von Weizsäcker 1971, 476 e 491.
24 Oltre l’Uno ed i Molti

Non-Dualità, e che i due Principi indicati dalle fonti, come subito vedremo,
più che rinviare ad una qualche forma di dualismo, di quella stessa Non-
Dualità costituiscano un’icona, una manifestazione.

Il Bene, si è più volte detto, è immediato autocomunicarsi: allora è in-


condizionato riversarsi oltre se stesso, ossia potenza autotrascendentesi
che dona ad un Altro la sostanza della propria natura. Detto altrimenti, il
Bene è la somma pienezza dell’Unità, l’assoluto autofondarsi, la suprema
sovridentità che, del tutto priva di invidia, esce immediatamente da sé e
si fa automanifestazione. Di conseguenza, pur essendo il supremo Uno,
insieme con la propria Unità, in modo altrettanto assoluto e originario, vale
a dire non-dualisticamente, il Bene pone in se stesso l’immediato auto-
negarsi. Quindi, paradossalmente, oltre ogni relazione di autoidentità, il
Bene-Uno non è tale se non come Uno-Non-Uno8. E proprio perché è Uno-
Non-Uno può farsi Principio dell’Essere, ovvero affermarsi in un Altro che
del suo essere Bene-Uno sarà rivelazione.
In quanto Bene, il Bene-Uno implica la non-dualità con un Secondo, la
principiale originarietà di un Secondo. Quel Secondo da un lato è posto
insieme con il Bene del Primo, e dall’altro non può non essere punto di
discontinuità rispetto al Primo, vale a dire assoluta, sovrareale possibilità
di un Altro che partecipi della natura del Bene. Il Secondo è, in altre parole,
la radicale negazione dell’Unità, negazione posta dal Bene in se stesso me-
diante il suo incondizionato potere di manifestarsi in modo assoluto; è, in
breve, la Dualità Indeterminata cui le fonti relative alle dottrine non scritte
riconducono ogni forma di molteplicità9. A partire dall’essere diffusivum
sui del Bene quella Dualità è principiale, è Principio tanto quanto l’Uno-
Unità, perché solo a partire dall’originarietà del Non-Uno il Bene-Uno
può autocomunicarsi ad un Altro, costituendosi come sostanza dell’Altro.
In quest’ottica si può comprendere perché le testimonianze concernenti la
protologia platonica rinviino a due Principi, indipendentemente dalla con-
sapevolezza che ai loro autori si può o si vuole attribuire riguardo ad un
retroterra come quello appena caratterizzato.
Nel quadro finora delineato il secondo Principio non potrà essere l’auto-
rivelarsi del primo, né, in base ad un’interpretazione dualistica, potrà esse-
re ritenuto altro rispetto a quel Principio. Il secondo Principio è piuttosto,

8 Secondo Gaiser 1988, 26 la protologia platonica implica la paradossale unità di


unità e non-unità.
9 Si veda ad esempio Aristot., Metaph. 987b14-988a17 (Test. 22A Gaiser, 34
Richard).
Oltre il monismo e il dualismo 25

giova ripeterlo, l’immediata discontinuità rispetto a se stesso che il Bene


presuppone in se stesso, in quanto Bene: l’originario autonegarsi che, pri-
ma di ogni forma di essere, sussiste nel Bene (non accanto al Bene o fuori
dal Bene!), e che conduce il Bene a rivelarsi, a farsi fondamento dell’Es-
sere. Ora, in quanto principiale, e quindi assoluta negazione dell’Uno, in
sé questo Principio del molteplice sarà necessariamente negazione di ogni
identità e di ogni determinazione: perciò nelle fonti viene denominato Dua-
lità-Diade Indeterminata-Indefinita (ajovristo" duav").
Per la sua assoluta indeterminatezza, in sé, ovvero astratta dalla sua im-
plicazione nel Bene, la Dualità Indeterminata comporterebbe l’impossibi-
lità dell’Essere: ogni forma di essere, vale a dire ogni essenza e identità, è
infatti affermazione del Bene-Uno; Bene-Uno che, tramite la propria azio-
ne determinante-delimitante, esercitata sulla Dualità, ovvero sul proprio
autonegarsi, si fa causa formale, e quindi essenziante, di tutte le cose10.
Pertanto, come dall’Uno-Uno in sé, anche dal Non-Uno-Non-Uno in sé
mai potrà nascere l’Essere: così come un Uno arelazionale rispetto al Non-
Uno mai potrà generare l’Altro rispetto a sé, allo stesso modo un Non-Uno
arelazionale rispetto all’Uno, un Molti-Molti, mai potrà in qualche modo
essere, perché implicherà la più radicale indeterminatezza e indetermina-
bilità11. Dunque l’Essere presuppone necessariamente, e con la medesima
principialità, tanto l’Uno quanto i Molti, vale a dire l’Essere può sgorgare
solo dalla Non-Dualità dell’Uno con i Molti. Ma, come ovvio, quella Non-
Dualità non potrà trovare il proprio fondamento né nell’Uno né nei Molti.
Suo fondamento potrà essere solo un Oltre-l’Uno-ed-i-Molti: a partire da

10 Riguardo all’azione determinante ed essenziante del Bene-Uno nella protologia


platonica si vedano ad esempio Aristot., Metaph. 987b14-988a17 (Test. 22A Gai-
ser, 34 Richard); Alexand. Aphrod. in Metaph. 55, 20-56, 35 Hayduck (Test. 22B
Gaiser, 10 Richard); Simplic. in Phys. 453, 30-455, 11 Diels (Test. 23B Gaiser,
Richard 11); Sext. Emp. Adv. Math. X 277 (Test. 32 Gaiser, 94 Richard).
11 Su questo sfondo si può richiamare l’ottava serie di deduzioni del Parmenide
(165e2-166c2), che mostra come l’assoluto non-essere dell’Uno (l’assoluto Non-
Uno, ovvero l’essere degli Altri privo di ogni relazione con l’Uno) implichi il
nulla (e}n eij mh; e[stin, oujdevn ejstin 166c1): quindi, come la prima serie di
deduzioni mostra l’inaccettabilità di un Uno che sia solo Uno (e che perciò esclu-
da l’essere degli Altri), così l’ottava, la conclusiva, mostra come l’esistenza degli
Altri dall’Uno, ossia dei Molti, non possa essere concepita senza un rapporto con
l’Uno. Per l’inaccettabilità delle rispettive conclusioni come fatto che lega stretta-
mente la prima e l’ottava serie di deduzioni del Parmenide si vedano Wyller 1960
[2007], 111; Berti 1971; Krämer 2001 (1982), 201, n. 45; Migliori 1990, 352;
Berti 1988.
26 Oltre l’Uno ed i Molti

sé e in sé quell’Oltre costituirà non solo l’Uno ed i Molti, ma anche, e con


la stessa assolutezza, la Non-Dualità che li rende Principi(o) dell’Essere.
Solo l’Oltre-l’Uno-ed-i-Molti potrà dare alla luce l’Essere: solo un qual-
cosa che, con la medesima principialità, è tanto assoluta unità con se stesso
quanto assoluta libertà di trascendersi per donarsi ad un Altro. Quell’Ol-
tre, a partire dal quale l’Essere si costituisce come realtà eminentemente
relazionale, e quindi etica, ovvero come retta mescolanza fra l’Uno ed i
Molti12, andrà identificato con il Bene. Solo il Bene è infatti quel radicale
autocomunicarsi che, incondizionatamente, tanto si pone quanto si nega
come Uno, e che per questo implica in sé la Non-Dualità dei(-l) Principi(o)
ontopoietici(-o), dell’Uno e dei Molti, dando sostanza all’Altro dall’Uno.
L’Uno ed i Molti (la Dualità Indeterminata) sono entrambi, con la mede-
sima assolutezza e principialità, impliciti nel Bene, nel Metaprincipio. Ciò
fa sì che il loro rapporto trascenda ogni forma di relazione, che dimori anche
oltre l’identità e la differenza. A partire da questa metarelazione, che, oltre
ogni legge della logica, nel Bene costituisce i(l) Principi(o) dell’Essere, la
protologia platonica non può essere ridotta ad una qualsiasi forma di mo-
nismo o dualismo13. La filosofia platonica dei(-l) Principi(o) è in sé antino-
mica14: in maniera del tutto immediata e assoluta, da un lato i due-non-due
Principi dell’Essere si negano, dall’altro si implicano reciprocamente e ra-
dicalmente nel Bene. Se infatti la Dualità Indeterminata non è concepibile
senza il Bene-Uno, d’altra parte l’autorivelarsi del Bene-Uno, la sua bontà,
che implica il sostanziarsi e il sussistere di un Altro accanto all’Uno, pre-
suppone necessariamente la Dualità Indeterminata15. Quindi i(l) Principi(o)

12 Nel Filebo l’identità di ogni ente è data dalla retta mescolanza fra il Limite (che ha
funzione unificante) e l’Illimitato (la cui nozione rinvia al Principio della molte-
plicità), mescolanza causata, a livello macrocosmico, da un’Intelligenza che vive
in cosciente relazione col Bene (cfr. Phil. 30a9-c7 e 64b2-65e8). Per un approfon-
dimento riguardo al retroterra protologico dell’ontologia presentata nel Filebo cfr.
Migliori 1993, 439-469. Sulla relazionalità come carattere sostanziale dell’Essere
nella filosofia di Platone si vedano le efficaci considerazioni in Donà 2003, 66-92
passim e Le Moli 2005, 76, 78, 98-104.
13 Le varie interpretazioni della protologia platonica basate sui concetti di monismo
e dualismo si trovano riassunte in Erler 2007, 428-429.
14 Cfr. Gaiser 1968, 13, 200. Per la trascendenza dei(-l) Principi(o) rispetto alle leggi
della logica si vedano anche Krämer 1968, 146; Krämer 1980, 34; Krämer 2001
(1982), 155. Il carattere antinomico di ogni consapevole riflessione sull’Inizio
si trova evidenziato nelle stimolanti trattazioni di Cacciari 2001, 17-232 pas-
sim, 527-596 passim e Cacciari 2004, 13-108 passim, 271-310 passim, 331-512
passim.
15 Per la Dualità Indeterminata come ciò che rende possibile il sussistere di un Altro
accanto all’Uno si veda Speus. Fragm. 62 Isnardi Parente = 48 Tarán (Test. 50
Oltre il monismo e il dualismo 27

Uno e Dualità Indeterminata si costituiscono, nella Non-Dualità del Bene,


mediante la loro radicale reciproca discontinuità-negazione-opposizione,
ed insieme danno luogo ad una unità diadica, ovvero ad una diadicità mo-
nadica. Paradossalmente, pur escludendo la loro identità e, addirittura, un
loro reciproco contatto, la loro metarelazione non implica una reciproca al-
terità16, ossia il loro essere due termini17; quindi può considerarsi, fuori da
ogni relazione di tipo gerarchico, come una sovraipostatica coincidentia
oppositorum18. Questa metaunità del Principio dell’Unità col Principio del-
la Molteplicità19, questa metarelazione che, antinomicamente, si costituisce
tramite la discontinuità fra quei Principi, precede e fonda l’Essere in ogni
sua dimensione e forma: dalla Non-Dualità di Uno e Dualità Indeterminata
emana la sostanza di ogni cosa e di ogni natura, dalle eterne essenze delle
Idee alle mutevoli identità delle cose sensibili.
Nella prospettiva fin qui tracciata l’ontologia e la cosmologia platoniche
si rivelano incompatibili con quel dualismo che in molte interpretazioni
è stato loro associato. Nell’orizzonte della protologia platonica nessuna
forma di dualismo fra mondo intelligibile e mondo sensibile può trovare
una qualche giustificazione. Tanto le essenze intelligibili, le Idee, quanto
gli enti sensibili vanno infatti ricondotti agli stessi Principi, ovvero, come

Gaiser, 92 Richard). Sui chiari rapporti fra questo frammento speusippeo e la


protologia platonica cfr. Krämer 1969, 4-5, 11; Halfwassen 1993.
16 Secondo Parm. 146e2-147a6 il rapporto fra l’Uno e il Non-Uno intesi in senso
pieno (cfr. 147a3-4, a8-b1) non è dato dall’alterità, dal momento che entrambi
non partecipano dell’e{teron. Questo però non implica la loro identità, perché
quest’ultima presupporrebbe la partecipazione del Non-Uno all’Uno, esclusa in
147a3-4. L’impossibilità di un contatto dell’Uno con se stesso (contatto implica
molteplicità), e quindi anche con il Non-Uno, viene affermata in 149a2-3 e c7-
d3. Su questi luoghi del Parmenide ed i loro impliciti rinvii alla protologia cfr.
Migliori 1990, 250-255, 263-266, 463-466.
17 Il Non-Uno non può essere coinvolto in una qualsiasi relazione con l’Uno che
possa essere espressa in termini numerici. Infatti, non partecipando dell’Uno, non
parteciperà neanche del numero (il numero è tale per partecipazione all’Uno): cfr.
Parm. 147a3-6.
18 Cfr. Gaiser 1968, 13, 200; Hösle 1984, 480-490; Gaiser 1988a, 26; Schefer 2001,
59, 185-187. Per l’Uno e la Dualità Indeterminata come opposti cfr. Aristot. Me-
taph. 1075a27-33; 1091b30-33 (Test. 51 Gaiser, 65 Richard); Theophr. Metaph.
IX 11a27-b7 (Test. 90 Richard); Alex. Aphrod. in Metaph. 55, 20-56, 35 Hayduck
(Test. 22B Gaiser, 10 Richard); ibid. 250, 13-20 Hayduck (Test. 39B Gaiser, 18
Richard). In proposito si veda pure Krämer 2001 (1982), 154-155.
19 Per i Principi platonici come unità di unità e molteplicità cfr. Hösle 1984, 480-
490.
28 Oltre l’Uno ed i Molti

si è appena visto, all’Uno e alla Dualità Indeterminata20, mediante i quali il


Bene si fa radice dell’Essere. Tale riducibilità ai medesimi Principi, che ri-
conduce la vera identità di ogni ente alla potenza, alla duvnami" del Bene, è
fondamento dell’affinità tra tutte le cose che, per Platone, fa dell’universo
un cosmo retto da giustizia e amicizia (cfr. Meno 81c9-d1; Gorg. 507e6-
508a4)21. Questa universale affinità, a partire da cui ogni cosa, se manifesta
la propria vera natura, può farsi icona del Bene, è cifra peculiare della fi-
losofia platonica22: una filosofia che, contrariamente ad ogni forma di dua-
lismo, stimola il soggetto conoscente a non rassegnarsi di fronte all’abisso
della negazione e dell’alterità; perché in quell’abisso osa cogliere l’intra-
scendibile autotrascendersi del Bene, vale a dire la radice dell’Essere, della
potenza che al soggetto del vero conoscere dona sostanza e libero volere.

20 Si vedano le testimonianze di Aristot. Metaph. 987b18-22 (cfr. 1091b13-15 e 26-


35, Test. 51 Gaiser, 65 Richard); Phys. 202b34-203a16 (Test. 23A Gaiser, 69 Ri-
chard); Theophr. Metaph. IX 11a27-b7 (Test. 90 Richard); Porphyr. ap. Simplic.
in Phys. 453, 22-454, 19 Diels (Test. 23B Gaiser, 14 Richard); Simplic. in Phys.
151, 6-19 Diels (Test. 8 Gaiser, 13 Richard); ibid. 503, 10-35 Diels (solo parzial-
mente riportato in Test. 53B Gaiser, 6 Richard).
21 Per l’affinità come fondamento dell’amicizia nel pensiero di Platone cfr. Lavec-
chia 2006, 236-240.
22 Per un approfondimento riguardo a questo tema cfr. des Places 1964, 63-102;
Herter 1967; Lavecchia 2006, 225-231 (con particolare riguardo al rapporto col
Bene).
29

4.
LA DUALITÀ INDETERMINATA
È UN PRINCIPIO DEL MALE?
ANCORA SUL BENE COME RADICE DEI MOLTI

(to; a[peiron) ejkei`no de; … oJ plou`to"


kai; hJ gonimovth" tw`n eijdw`n ejstin.
Simplicius, in Aristot. Phys. commentarius, p. 503, 30-31 Diels

Nell’orizzonte della protologia platonica l’Essere non può sgorgare da


un Principio che sia un Uno-Uno: il suo Principio non può implicare in sé
solo il fondamento dell’Unità, ma, in maniera altrettanto radicale, deve ab-
bracciare anche il suo opposto, il fondamento del Molti. In altri termini, il
Principio dell’Essere, paradossalmente, è la principialità della più radicale
opposizione-contraddizione, dell’opposizione fra Uno e Non-Uno1, ovvero
è la Non-Dualità di due Principi, Principi che le testimonianze relative alle
dottrine non scritte identificano con l’Uno e con la Dualità Indeterminata.
Nelle pagine precedenti si è cercato di mostrare come questa Non-Dualità
sia radicata nel Bene, nel fatto che il Bene è intrinsecamente e incondi-
zionatamente (senza invidia: Tim. 29e1-3) automanifestativo, e che quindi
pone, con la medesima assolutezza, tanto se stesso quanto la negazione
di sé, ossia il proprio opposto-contraddittorio: il Bene ci è apparso come
l’Unico, come il Metaprincipio che in se stesso, immediatamente, pone
tanto l’Uno quanto il Non-Uno (= Dualità Indeterminata), tanto la più radi-
cale autoaffermazione quanto la più radicale autonegazione2.

1 Si veda Krämer 2001 (1982), 154.


2 A questa prospettiva si avvicina Massimo Donà, affermando che «per Platone,
l’Uno è principio in quanto ab origine “determinantesi” nella forma di una po-
sitiva-negazione (o come negativa affermazione) nella “dualità-indeterminata”»
(Donà 2008, 209). Come tutti gli interpreti della protologia platonica che vanno
nella stessa direzione, pur caratterizzando l’Uno e la Dualità Indeterminata quali
«momenti del medesimo orizzonte […] costituito da un solo e identico principio»
(ibid.), anche Donà riguardo a quel principio pensa ad una identità con l’Uno
(ibid.), senza prendere in considerazione il Bene. Eppure, si ha l’impressione che
gli interessanti orizzonti aperti da Donà riguardo al Principio potrebbero trovare,
sia consentito il termine, la loro più salda giustificazione proprio mediante l’assu-
mere la priorità del Bene rispetto all’Uno. Solo quella priorità, a mio parere, può
30 Oltre l’Uno ed i Molti

A questo punto una difficoltà sembra sorgere a partire da una testimo-


nianza di Aristotele: secondo Metaph. 988a8-15 (Test. 22A Gaiser, 34 Ri-
chard) Platone avrebbe attribuito la causa del bene all’Uno e la causa del
male alla Dualità Indeterminata3. Questa testimonianza parrebbe mettere
in crisi l’interpretazione della protologia platonica fin qui proposta: come
si può ammettere che il Bene ponga in se stesso un Principio del male? In
realtà il luogo appena menzionato va inserito in un contesto più ampio,
all’interno del quale l’affermazione di Aristotele non può essere diretta-
mente riferita all’insegnamento di Platone. In un altro luogo della Metafisi-
ca (1091b13-35, Test. 51 Gaiser, 65 Richard) l’identificazione della Duali-
tà con il Principio del male viene infatti presentata come conseguenza che,
nella prospettiva di Aristotele, si deve trarre dall’insegnamento di Platone
riguardo ai Principi: ponendo come Principio accanto all’Uno l’opposto
dell’Uno, ed identificando l’Uno con il Bene (cfr. 1091b13-14), la protolo-
gia platonica, deduce Aristotele, identificherebbe l’opposto dell’Uno, ov-
vero il Principio del molteplice, e quindi il molteplice stesso, con il male in
sé4. In ogni caso, anche se avessimo a disposizione solo Metaph. 988a8-15,
questo luogo non potrebbe costringere ad assumere che Platone identificas-
se la Dualità Indeterminata in sé con un Principio del male. Da questa as-
sunzione deriverebbero infatti conseguenze del tutto assurde nell’orizzonte
della sua filosofia: prima fra tutte il fatto che, essendo la Dualità Indeter-

infatti spiegare fino in fondo, al di là di ogni pur convincente serie di argomen-


tazioni, perché il Principio è «porre che è in-uno un opporre», ossia perché «in
esso il porsi dell’essere è, sub eodem, un opporsi come non-essere» (Donà 2008,
232).
3 Cfr. in particolare 988a14-15 e[ti de; th;n tou` eu\ kai; tou` kakw`" aijtivan toi`"
stoiceivoi" ajpevdwken (scil. all’Uno e alla Dualità) eJkatevroi" eJkatevran.
4 In 1091 b13-35, dopo un breve rinvio all’identificazione del Bene con l’Uno
(b13-14), da un lato si indicano alcune difficoltà da essa derivanti riguardo alla
concezione delle Idee, e dall’altro si sostiene che ad essa seguirebbe l’identifica-
zione con il male in sé del Principio opposto all’Uno e, quindi, del molteplice: cfr.
b30-32 tau`tav te dh; sumbaivnei a[topa, kai; to; ejnantivon stoicei`on … to;
kako;n aujtov. … to; kako;n th;n tou` plh`qo" fuvsin ei\nai. Si tratta, appunto,
di conclusioni tratte dall’insegnamento platonico, non di conclusioni che è stato
Platone a trarre (cfr. b32-34). Il fatto che il luogo appena discusso non menzioni
espressamente Platone non costituisce un problema: infatti esso rinvia agli stessi
contenuti che in 988a7-15 (Test. 22A Gaiser, 34 Richard) vengono esplicitamente
connessi all’insegnamento di Platone sui Principi. Di una conclusione derivata
da quell’insegnamento, e, quindi, non necessariamente attribuibile a Platone, si
tratta anche in 1075a34-36 (cfr. a25-27), dove si afferma che, essendo il Principio
opposto all’Uno il male in sé, allora tutte le cose, eccetto l’Uno, parteciperebbero
del male.
La Dualità Indeterminata è un Principio del male? 31

minata, tanto quanto l’Uno, Principio degli enti intelligibili, e non solo di
quelli sensibili, le Idee stesse si troverebbero ad esser partecipi del male,
mentre Platone identifica col mondo intelligibile il sommo archetipo di
virtù e giustizia (cfr. Resp. 500c2-5!). Pertanto, anche se si vorrà privilegia-
re la testimonianza di Metaph. 988a8-15 rispetto a quella di 1091b13-35,
comunque quella testimonianza andrà opportunamente armonizzata con la
prospettiva di Platone, che essa parzialmente distorce5. Infatti, pur volendo
ammettere che Platone legasse la causa del male alla Dualità Indetermina-
ta, quel legame non potrà essere inteso come diretto.
Certo, nel proprio insegnamento Platone, giova ripeterlo, ha presentato
l’Uno come Principio formale, come determinante-delimitante che, agen-
do sulla Dualità Indeterminata, dona ad ogni cosa la sua essenza. Senza
dubbio questo fatto ha delle implicazioni assiologiche: in quanto Principio
formale l’Uno è Principio di misura, ordine, conoscibilità, bellezza e ve-
rità6. Nelle fonti concernenti le dottrine non scritte alla Dualità Indeter-
minata vengono invece legati il non-essere, il luogo, il vuoto, l’indefinito,
l’assenza di forma, l’inconoscibile7. Questi fatti però, lo vedremo subito,
non implicano necessariamente che la Dualità in sé sia il male.
Particolarmente interessante per comprendere la natura della Dualità, e
quindi il suo eventuale rapporto con il male, risulta la sua connessione con
il non-essere: questa connessione mostra infatti come la Dualità Indetermi-
nata sia prima di tutto, in maniera del tutto neutrale, un Principio della ne-

5 Una costruttiva critica alle testimonianze aristoteliche qui discusse si può trovare
in Robin 1908, 571-580.
6 Cfr. ad esempio Aristot. Eth. Eud. 1218a15-33 (Test. 79 Richard). Per ulteriori
approfondimenti su questi aspetti dell’Uno cfr. Krämer 1959, 214, 298-300, 307,
396-398, 491-492, 510-511, 547-549; Krämer 2001 (1982), 168-171. Per il rap-
porto fra Bene e somma Misura si vedano Plat. Resp. 504c1-3, d8-e3; Phil. 64c1-
65a6, 66a4-8; Tim. 87c4-5; Aristot. fr. 79 Rose (Politikov" fr. 2 Ross) pavntwn
ga;r ajkribevstaton mevtron tajgaqovn. Su questo tema cfr. le importanti precisa-
zioni in Bontempi 2009, 45-50 e 147-170.
7 Nella Dualità Indeterminata hanno radice l’instabile, il senza forma, l’indefinito,
il non-essere (a[staton kai; a[morfon kai; a[peiron kai; oujk o]n ktl.) secondo
Hermodor. ap. Simplic. in Phys. 248, 13-14 Diels (Test. 31 Gaiser, 91 Richard); il
luogo, il vuoto e l’indefinito (tovpo" kai; keno;n kai; a[peiron) secondo Theophr.
Metaph. III 6a28-b1 (Test. 30 Gaiser, 89 Richard); l’indefinito, il non ordinato, il
senza forma (to; a[peiron kai; to; a[takton kai; pa`sa wJ" eijpei`n ajmorfiva)
secondo Theophr. Metaph. IX 11b3-5 (Test. 90 Richard); il non-essere e l’irrego-
lare (to; mh; o]n kai; to; ajnwvmalon) secondo Eudem. ap. Simplic. in Phys. 431,
8-9 Diels (Test. 55B Gaiser, 68 Richard); l’indefinito e l’inconoscibile (a[peiron,
a[gnwston) secondo Simplic. in Phys. 503, 14 e 19 Diels (Test. 53B Gaiser, 6
Richard).
32 Oltre l’Uno ed i Molti

gazione, o, lo si è già accennato, un Non-Uno, ossia il Principio che rende


possibile l’essere altro, l’essere diverso rispetto al Bene-Uno. Ora, abbiamo
visto come la bontà del Bene, vale a dire il suo farsi Principi(o) dell’Essere,
il suo autocomunicarsi, si costituisca proprio perché, in quanto tale, il Bene
pone in se stesso, appunto, il Non-Uno, la radicale possibilità dell’Altro da
sé, ossia della propria autonegazione: senza il proprio autonegarsi, senza
l’apertura incondizionata alla differenza da sé, il Bene non sarebbe più il
Bene, ma l’Uno-Uno, a partire dal quale l’Essere è impossibile. In altre
parole, nel proprio farsi radice dell’Essere il Bene pone immediatamente,
in se stesso e a partire da se stesso, tanto la potenza (duvnami") del proprio
essere quanto la potenza del proprio non-essere8: questo porre se stesso e
il proprio opposto-contraddittorio, questo porre antinomico che precede e
fonda l’Essere, è la Non-Dualità di Uno e Dualità Indeterminata.
Da quanto detto finora consegue, in maniera del tutto ovvia, che per co-
stituirsi l’Essere non necessita solo di un Principio dell’Essere, ma anche,
paradossalmente, di un Principio del Non-Essere: non solo dell’Uno, ma
anche della Dualità Indeterminata. Insomma, senza la Dualità Indetermina-
ta, vale a dire senza il proprio opposto-contraddittorio, l’Essere-Ente non
potrebbe principiarsi9, e il Bene non sarebbe bontà che immediatamente si
manifesta: senza il vuoto (kenovn) che il Bene apre in se stesso a partire da
se stesso, senza l’abisso che nega radicalmente l’immediata autoidentità
dell’Uno, non potrebbe prodursi il luogo (tovpo"), lo spazio dell’Altro cui
il Bene si comunica10. Ecco allora che la Dualità Indeterminata non ci ap-
pare solo come un univoco Principio della negazione-negatività, ma anche
come il Principio di individuazione mediante cui si sostanzia l’autonomia
della realtà principiata rispetto al Bene-Uno11. La Dualità Indeterminata è
quindi ciò che rende reale l’immediato automanifestarsi del Bene: senza
la discontinuità rispetto a se stesso che il Bene pone in se stesso il manife-

8 Qui potenza non viene inteso nel significato aristotelico di potenzialità, ma vuo-
le rinviare a quella ipertrascendente e intrascendibile duvnami" che caratterizza il
Bene in Resp. 509b9-10: a quel potere, a quella forza a partire dalla quale il Bene
trascende e allo stesso tempo fonda l’Essere in ogni sua forma.
9 Non a caso in Speus. Fragm. 62 Isnardi Parente = 48 Tarán (Test. 50 Gaiser, 92
Richard) la Dualità viene identificata con il principium entium.
10 Giova ripetere che secondo Theophr. Metaph. III 6a28-b1 il vuoto e il luogo deri-
vano dalla Dualità Indeterminata.
11 Questa funzione della Dualità Indeterminata risulta evidente a partire dall’in-
terpretazione della protologia platonica formulata in Simpl. in Phys. 503, 24-35
Diels, dove, in rapporto al mondo intelligibile, la Dualità viene strettamente con-
nessa alla distinzione (diavkrisi") delle Idee.
La Dualità Indeterminata è un Principio del male? 33

starsi del Bene o non sussisterebbe o sarebbe un banale automoltiplicarsi


dell’Uno12, vale a dire la famigerata notte in cui tutte le vacche sono nere.
Solo perché si profonda nell’abisso dell’autodifferenziazione, ponendo
in se stesso la Non-Dualità di Uno e Dualità Indeterminata, il Bene che di-
mora oltre l’Essere può farsi Uno che è Uno-Essere, Uno-Molti, ossia può
produrre una reale e vivente icona di sé, e non la banale magia di una pura
illusione. L’autotrascendentesi potenza del Bene, che si dona come Uno in
una molteplicità di forme individuali e autonome, non il solipsismo di un
Uno-Uno, si rivela dunque elemento peculiare e sostanziante della proto-
logia platonica: di una protologia nel cui orizzonte il Bene-Uno è Bene ed
Uno perché si fa Principio dei Molti, vale a dire perché pone in maniera
del tutto principiale la propria autonegazione. In quell’orizzonte il nega-
tivo della Dualità Indeterminata non può essere ritenuto in sé Principio
del male; anzi, quel negativo si rivela fondamento di ogni possibile essere
buono: in quanto radice dei Molti, dell’Altro dal Bene-Uno, esso è ciò che
fa del Bene un Principio eminentemente ontopoietico ed iconopoietico, un
Uno che consiste nel manifestarsi senza invidia, nel produrre l’Essere qua-
le vivente Icona della propria potenza.
Il percorso fin qui tracciato impedisce di porre il problema del male
nell’orizzonte protologico della filosofia platonica13. Il mistero del male si
presenta solo a partire dalla dimensione ontologica di quella filosofia, o,
meglio, solo a partire dalla sfera dell’ontologia platonica che concerne la
realtà sensibile. Nella dimensione puramente intelligibile dell’Essere in-
fatti non sussiste alcuna forma di male: lì la distinzione rispetto al Bene si
manifesta semplicemente come individuazione di forme-figure, di Idee che
sono immediate e coscienti icone-aspetti del Bene, e che, tutte insieme,
costituiscono l’uni-molteplicità di un vivente organismo orientato verso il
Metaprincipio, e quindi compenetrato di virtù (cfr. Resp. 500c2-5; Tim.
30c3-31a1)14. Solo dove l’individuazione degli enti può farsi separazione,
e in ultima istanza oblio rispetto al Bene, quindi solo nell’universo sensibi-
le, il male può trovare la propria radice e dimora.
Nel mondo sensibile l’Essere non può più manifestarsi immediatamen-
te come uni-molteplicità: lì il manifestarsi dell’Uno non vive in dinamica

12 Cfr. anche le osservazioni di Krämer 2001 (1982), 154.


13 Si vedano pure le considerazioni di Robin 1908, 571-580.
14 Ogni Intelligibile vive in immediato rapporto col Bene, perché è immediatamen-
te e integralmente governato dall’intelletto, dal nou`", la cui essenza si sostanzia
appunto del costante orientamento verso il Bene: in proposito si vedano le chiare
osservazioni di Phaedo 97c3-6; 98a7-b3; 99a7-b2, c5-6 (cfr. inoltre i materiali
raccolti in Lavecchia 2006, 231-236).
34 Oltre l’Uno ed i Molti

identità con i Molti, ma viene legato ai Molti dall’esterno, mediante la per-


suasione dell’Intelletto che sconfigge la Necessità (cfr. Tim. 47e5-48a5). In
quel mondo le polarità che costituiscono l’Essere, a cominciare da quella
di Uno e Molti, divengono infatti contrarietà che implicano scissione e
incompatibilità. Nella sfera dei(-l) Principi(o), invece, lo abbiamo visto, il
Bene stesso pone e allo stesso tempo trascende il proprio contraddittorio, e
perciò integra nel proprio farsi radice dell’Essere la discontinuità rispetto a
se stesso, ossia la Dualità Indeterminata. Il mondo intelligibile è immediata
e fedele icona di quella integrazione, ovvero assolutamente intrinseca e
immediata armonia delle polarità sostanzianti l’Essere, ossia immediato
manifestarsi della Non-Dualità di Uno e Dualità Indeterminata15.
Nel mondo sensibile i Molti divengono antagonisti rispetto all’Uno, e
tendono a disperderlo nell’indefinito, nell’a[peiron. In altri termini, mentre
il Bene sul piano dei(-l) Principi(o) sovressenzia l’Uno e la Dualità Indeter-
minata, e mentre nel mondo delle Idee è l’uni-molteplice Vivente intelligi-
bile (cfr. Tim. 30c4-31a116), nell’universo sensibile abbiamo un bene da cui
tende a separarsi il male, una unità da cui tende a separarsi il molteplice.
Ecco perché, a livello tanto macrocosmico quanto microcosmico, l’anima,
l’essenza chiamata a produrre armonia fra le polarità del mondo sensibile
(cfr. Tim. 34c8-37a2), si trova di fronte a due possibili e fra loro incompati-
bili orientamenti di vita: l’uno che la rende piena manifestazione della sua
essenza, del suo essere una, l’altro che disperde la sua vera natura in una
caotica molteplicità, nell’indefinito pelago della dissomiglianza dalla sua
essenza17.

15 In quest’ottica risulta illuminante il modo in cui Simplicio interpreta la polarità di


Uno e Dualità Indeterminata riguardo al mondo intelligibile, eliminando qualsiasi
connotazione negativa dal fatto che la Dualità è appunto indefinita-indeterminata:
nel mondo intelligibile l’indeterminatezza è da un lato ciò che sostanzia la distin-
zione delle Idee rispetto ai(-l) Principi(o), dall’altro ciò che fonda la ricchezza
e la fecondità delle Idee stesse, nonché il loro dinamico espandersi nell’Essere
(Simpl. in Phys. 503, 20-35 Diels, interpretazione purtroppo trascurata negli studi
relativi alla protologia platonica).
16 Per l’identità fra il Vivente intelligibile del Timeo e l’Idea del Bene cfr. Lavecchia
2006, 217 (con ulteriore bibliografia).
17 In una prospettiva macrocosmica Platone rinvia a questa doppia possibilità nella
sezione del Politico in cui caratterizza la vita del cosmo sensibile (268d5-274e3):
nella fase in cui non viene direttamente guidato dal suo artefice, l’universo rischia
di divenire preda del disordine connesso alla sua natura corporea, e quindi, appun-
to, di dissolvere la propria unità (ovvero la propria anima) nel th`" ajnomoiovthto"
a[peiro" povnto" (273d6-e1). In un orizzonte microcosmico l’opposizione fra
unità e molteplicità nella vita dell’anima viene costantemente tematizzata, ad
esempio, nella Repubblica: lì viene indicato come obiettivo della suprema sa-
La Dualità Indeterminata è un Principio del male? 35

La dimora sensibile dell’anima, non la sede e la radice della sua vera


natura, è ciò che, con effetto distorcente, riverbera la Non-Dualità di Uno e
Dualità Indeterminata come scissione del molteplice dall’unità, del malva-
gio dal buono18: è solo uno specchio deformante, e non la sovrarealtà dei(-l)
Principi(o), ciò che, alla fine, ci si manifesta come causa del male19.

pienza la produzione del legame che porta l’anima a superare la dispersione nel
molteplice e a diventare una (Resp. 443c9-444a2, in particolare 443d7-e1), vale a
dire icona del Bene-Uno (per i rinvii all’identità fra Bene e Uno nella Repubblica
cfr. Krämer 1959, 471-478).
18 Queste considerazioni possono far comprendere perché nelle Leggi si rinvii non
ad una, ma a due anime macrocosmiche: l’una responsabile delle azioni conformi
al bene, l’altra delle azioni ad esse contrarie (cfr. 896d10-e7; 898b5-c5). Signifi-
cativamente, nel primo caso l’anima ha nell’intelletto, nel nou`", il proprio dio gui-
da, mentre nel secondo è caratterizzata dalla dissennatezza, ovvero è scissa dalla
guida dell’intelletto (si veda 897b1-4 e 898b8). In altri termini, il male presente
nell’universo sensibile scaturisce dalla direzione che un’anima ha conferito alla
propria vita, ossia non ha alcuna radice nel mondo intelligibile, e tanto meno nella
sfera dei(-l) Principi(o). Alla stessa prospettiva può essere ricondotto il luogo del
Teeteto che a livello macrocosmico situa due paradigmi di vita: l’uno ipostatizza
la forma più elevata di felicità, l’altro il contrario (176e3-177a). Più che un rinvio
implicito o esplicito all’Uno e alla Dualità Indeterminata (in questa direzione si
muove Krämer 1959, 502), il suddetto luogo potrebbe essere legato allo stesso
orizzonte appena discusso riguardo alle Leggi.
19 In Resp. 379b15-6 si dice che il Bene è causa di tutte le cose positive (cfr. pure
517c2), mentre non è causa dei mali (Oujk a[ra pavntwn ge ai[tion to; ajgaqovn,
ajlla; tw`n me;n eu\ ejcovntwn ai[tion, tw`n de; kakw`n ajnaivtion; si veda anche
c6-7). Non necessariamente questo luogo va interpretato come allusione alla Dua-
lità Indeterminata (così Szlezák 2003, 120): se la causa diretta di ciò che è buono
va collocata nella sfera dei(-l) Principi(o), ciò non implica che in quella sfera vada
posta anche la causa diretta del male.
37

5.
LA DUALITÀ INDETERMINATA,
OVVERO DEL FECONDO NULLA
POSTO FRA IL BENE E L’ESSERE

Et est continue agens spera divina opus divinum


quo detinet ut nihil in suo esse eternaliter,
a quo per exuberanciam sue bonitatis vocavit in esse.
Liber viginti quattuor philosophorum XIV1

La Dualità Indeterminata, si è più volte ripetuto, può essere vista come


la discontinuità rispetto a se stesso, come l’autonegarsi che il Bene implica
in se stesso per farsi radice dell’Essere. In questa prospettiva essa appare
come l’abisso del Non-Essere, abisso che il Bene, fuori da ogni tempo,
pone e trascende per riversarsi nella propria manifestazione, per comuni-
carsi senza invidia. Comprendiamo quindi perché la Dualità Indeterminata,
lo abbiamo già visto, venga identificata con la radice del vuoto (Theophr.
Metaph. III 6a28-b1, Test. 30 Gaiser, 89 Richard). Questo vuoto non andrà
semplicemente identificato con uno sterile nulla che si oppone all’Essere
e tende solo a dissolverlo, a nientificarlo: poiché è principialmente, non-
dualisticamente implicito nel Bene, ovvero non può essere astratto dalla
propria metarelazione col Bene, questo nulla si rivela prima di tutto come
l’immediata, feconda potenzialità di ogni possibile essere. Il vuoto, il nulla
costituito dalla Dualità Indeterminata, può essere insomma caratterizzato
come l’aspaziale aprirsi che dona all’Altro dal Bene, all’Essere, la possi-
bilità di sussistere ed essenziarsi.
In quanto costituisce la principiale e incondizionata apertura del Bene
all’Essere, la Dualità Indeterminata non può non accogliere in sé, fuori
da ogni principio di esclusione o contraddizione, e oltre ogni relazione di

1 Citato secondo il testo del manoscritto più antico, il cod. L (Laon, Bibl. Mun.
412): cfr. Hudry 1989, 133. Le altre fonti hanno quo detinet nihil etc., a quo etc.
vocavit in esse rem quae est quasi circa centrum (edizione critica in Hudry 1997).
Per il possibile legame di questo testo con il de philosophia di Aristotele (quindi
con un’opera influenzata dall’insegnamento protologico di Platone) cfr. Hudry
1989, 31-71, specialmente 38-46 (critico verso questa prospettiva si mostra Lu-
centini 1999, 11-46).
38 Oltre l’Uno ed i Molti

identità, le indefinite possibilità e polarità a partire dalle quali l’Essere si


sostanzia in tutte le proprie sfere e forme. Implicita nel Bene, la Dualità
è Indeterminata-Indefinita perché, lo ripetiamo, è la potenzialità di ogni
essere determinato posta nel Bene dal Bene stesso. Ecco il motivo per cui
da Platone essa veniva denominata anche il Grande e il Piccolo2: questa
locuzione condensa efficacemente il suo poter abbracciare, come indefinito
spazio di possibilità, senza limiti di espansione o progressione, e oltre ogni
struttura, tutte le polarità-dualità sostanzianti l’Essere, e, con esse, ogni
forma di ente. La Dualità Indeterminata è quindi da un lato il Principio a
partire da cui l’Essere può manifestarsi nelle opposte direzioni-dimensioni
che lo costituiscono, espandendosi o contraendosi in maniera potenzial-
mente indefinita; dall’altro il Principio nel quale ogni direzione-dimensione
dell’Essere trova la possibilità di manifestarsi come successione potenzial-
mente indefinita di stati fra loro omogenei3.
A partire da queste premesse la Dualità Indeterminata, come già accen-
nato, non può essere considerata un Principio nientificante. Essa sembra
rivelarsi, piuttosto, come il fecondo Nulla posto fra il Bene e l’Essere, Nul-
la che, paradossalmente, contiene tutte le infinite possibilità dell’Essere:
un Nulla che il Bene, non-dualisticamente, implica in se stesso (non pone
accanto a se stesso!) per donarsi ad un Altro, per farsi radice dell’Essere4.
In quest’ottica non è possibile pensare ad una qualche forma di gerarchia
fra Bene-Uno e Dualità Indeterminata. Perché la bontà del Bene-Uno, il
suo immediato autocomunicarsi, il suo produrre icone di sé, non può co-
stituirsi e sostanziarsi-realizzarsi se non mediante il porsi come Nulla del
Bene-Uno stesso: se non mediante un eccedersi-negarsi del Bene-Uno,
ossia mediante il suo principiale porsi non come Uno-Uno, ma come Uno-
Non-Uno, come Uno e Dualità Indeterminata. Ora, se da un lato questo
autoeccedersi del Bene-Uno, vale a dire la Dualità Indeterminata, viene
eternamente limitato-misurato dall’Uno, che lo determina come Essere,
dall’altro, affinché l’Essere sia compiuta icona del Bene, questo stesso

2 To; mevga kai; mikrovn: cfr. ad esempio Aristot. Metaph. 987b20, 26 (Test. 22A
Gaiser, 34 Richard); 988a26; 992a12 (Test. 26A Gaiser, 36 Richard); 998b10;
1083b24, 32; 1085a9 (Test. 27A Gaiser, 59 Richard); 1087a8-11.
3 Su questo tema si vedano pure le considerazioni esposte in Krämer 2001 (1982),
154-155, nonché le testimonianze di Aristot. Phys. 206b27-33 (Test. 53A Gaiser,
71 Richard); Hermodor. ap. Simplic. in Phys., 247, 13-248, 30 (Test. 31 Gaiser, 91
Richard); Alex. Aphrod. in Metaph. 56, 18-20 Hayduck (Test. 22B Gaiser, 10 Ri-
chard); Alex. ap. Simplic. in Phys. 455, 1 Diels (Test. 54B Gaiser, 11 Richard).
4 A partire da una storia della nozione di nulla nel pensiero europeo, interessanti
spunti per un approfondimento della prospettiva qui indicata possono venire da
Givone 1995.
La Dualità Indeterminata, ovvero del fecondo Nulla posto fra il Bene e l’Essere 39

eccedersi non può venir nullificato dall’Uno: il suo eterno eccedere5, ov-
vero la mai completa trascendibilità della Dualità Indeterminata da parte
dell’Uno, infatti costituisce e consente l’autocomunicarsi, l’immediato far-
si diffusivum sui che rende l’Essere immagine del Bene, realtà eminente-
mente relazionale, uni-molteplicità.
Oltre ogni gerarchia e oltre ogni forma di relazione, l’autotrascender-
si sempre trasceso del Bene6 pone immediatamente tanto l’Uno quanto
la Dualità Indeterminata, tanto l’Uguale, principiato dall’Uno, quanto il
Disuguale, principiato dalla Dualità (Alex. Aphrod. in Metaph. 56, 14-
19 Hayduck, Test. 22B Gaiser, 10 Richard), o, ancora, tanto il Principio
dell’Identico quanto il Principio del Diverso(-dell’Altro). Questa agerar-
chica metarelazionalità dei(-l) Principi(o) Platone sembra presupporla, pur
senza alcun esplicito rinvio alla protologia, in un luogo del Parmenide. In
Parm. 150c6-d87, trattando dell’Uno aperto all’Essere (dell’Uno-che-è),
si afferma che da un lato Grandezza e Piccolezza (Grande e Piccolo) in
rapporto all’Uno non hanno la potenza di superare o di essere superate,
e che dall’altro né rispetto ad esse né rispetto agli Altri (scil. a ciò che
è Altro dall’Uno stesso) l’Uno può essere più grande o più piccolo, per-
ché non possiede né grandezza né piccolezza alcuna (150c7-d4)8. Pertan-
to, di necessità, rispetto agli Altri(-Altro) l’Uno non potrà né superare né

5 In quest’ottica si comprende perché in alcune fonti si indichi la Dualità Indeter-


minata con la locuzione to; uJperevcon kai; to; uJperecovmenon (Aristot. Metaph.
1087b18 e 22; Alex. Aphrod. in Metaph. 56, 18-20 Hayduck, Test. 22B Gaiser,
10 Richard). In quanto Grande e Piccolo, la Dualità Indeterminata non può avere
alcun rapporto con l’Uguale, ma è il Disuguale in sé (cfr. Alex. Aphrod., ibid.,
56, 14-19 Hayduck), ovvero si trova ad essere in permanente eccesso e perma-
nentemente ecceduta: il Grande in sé è infatti al di là di qualunque grandezza, e il
Piccolo in sé è al di qua di qualsiasi piccolezza. A partire dal loro rispecchiamento
nella realtà sensibile, e negli enti che sono in relazione con essa, non a partire
dalla Dualità in sé, le connotazioni cui si è appena accennato assumono il signi-
ficato negativo di eccesso e difetto (uJperochv e e[lleiyi" in Alex. Aphrod. ibid.),
e quindi si contrappongono alla virtù, intesa da Platone come misura. Riguardo
al concetto platonico di virtù in un orizzonte protologico resta fondamentale la
trattazione di Krämer 1959. Sulle implicazioni etiche del concetto di misura in
Platone cfr. ora Bontempi 2009, passim.
6 Sul Bene come eccedenza si veda pure Bontempi 2009, 92.
7 Per i possibili rapporti fra questo luogo del Parmenide e la filosofia dei(-l)
Principi(o) cfr. Migliori 1990, 267-272, 466.
8 … ou[te aujtw; touvtw (scil. mevgeqo" kai; smikrovthta) pro;" to; e}n e[ceton
th;n duvnamin th;n tou` uJperevcein kai; uJperevcesqai, … ou[te au\ to; e}n
touvtoin oujde; tw`n a[llwn mei`zon a]n oujd∆ e[latton ei[h, mhvte mevgeqo" mhvte
smikrovthta e[con.
40 Oltre l’Uno ed i Molti

essere superato (d5-6 ajnavgkh aujto; ejkeivnwn mhvte uJperevcein mhvte


uJperevcesqai). Quindi, trattandosi di qualcosa che né eccede né viene ecce-
duto (d7), in modo del tutto necessario l’Uno si troverà sullo stesso piano
rispetto agli Altri(-all’Altro), ossia anche rispetto al Grande e al Piccolo
(d7-8 pollh; ajnavgkh ejx i[sou ei\nai): rispetto ad essi l’Uno sarà uguale,
di ugual rango (d8 ejx i[sou de; o]n i[son ei\nai).
Dagli argomenti or ora esposti consegue che Uno e Grandezza-Picco-
lezza (Grande-Piccolo) considerati in sé sono indifferenti rispetto a qual-
siasi forma di reciproca relazione, e perciò, come già accennato, non sono
inquadrabili in alcuna nozione di gerarchia: in questo particolar senso
metarelazionale, e, come ovvio, non nel senso di una identità, essi sono,
paradossalmente, uguali, ossia sono sullo stesso piano, hanno ugual rango.
In altri termini si potrebbe dire che l’uno rispetto all’altro essi sono un
nulla: pur collocati sullo stesso piano, antinomicamente Uno e Grandezza-
Piccolezza si trovano in reciproca, radicale discontinuità. Siamo quindi di
fronte ad una relazione-non-relazione, o, come già accennato, ad una me-
tarelazione, e questo proprio a partire da un discorrere che concerne l’Uno
e la Grandezza-Piccolezza, vale a dire due concetti che immediatamente
ci richiamano i Principi delle cosiddette dottrine non scritte: l’Uno e il
Grande-Piccolo, ovvero l’Uno e la Dualità Indeterminata.
Il Parmenide mostra come Platone sia capace di pensare in un orizzon-
te integralmente armonizzabile con un Principio non-duale, ossia con la
metarelazione agerarchica qui assunta riguardo all’Uno e alla Dualità In-
determinata. Pur non riferendosi alla protologia platonica, con il chiaro
rinvio all’Uno e alla Grandezza-Piccolezza il luogo del Parmenide appena
discusso sembra voler suggerire l’applicabilità del proprio contenuto alla
filosofia dei(-l) Principi(o). In base a quel contenuto, e alle conseguenze
che se ne possono trarre, l’Uno e la Dualità Indeterminata si rivelano, an-
cora una volta, del tutto trascendenti rispetto ad ogni prospettiva monistica
o dualistica: il Bene pone in se stesso e a partire da se stesso, con la stessa
principialità (sullo stesso piano), ossia nella più radicale in-differenza, tan-
to l’Uno quanto le infinite possibilità dell’Essere (la Dualità Indeterminata,
i Molti), ovvero pone con la medesima radicalità tanto l’Assoluto quanto la
sua piena Manifestazione, la sua perfetta Icona.
In quest’orizzonte l’Icona, la Manifestazione, non si ritrova prima o poi
riassorbita dall’Assoluto, ma, ricevendo senza invidia la potenza del Bene,
è, rispetto all’Assoluto, del tutto autonoma e libera: nell’Assoluto essa
non trova un limite, dal momento che, in quanto somma Bontà, in quanto
Uno aperto all’Essere, l’Assoluto apre un abissale, infinito spazio al Non-
Uno, al Nulla delle indefinite possibilità. Quel Nulla, che né è trasceso
La Dualità Indeterminata, ovvero del fecondo Nulla posto fra il Bene e l’Essere 41

né trascende l’Uno, quel Non-Uno non ancora determinato dall’Uno, che


fonda ogni possibilità di essere Altro, di autonomia dall’Uno, è appunto
la Dualità Indeterminata. Non a partire dall’Uno-Uno, ma solo a partire
dall’Uno-Non-Uno implicito nel Bene, l’Essere può costituirsi come Altro,
come realtà integralmente autonoma, come assoluto (ab-solutum) rispet-
to alla propria radice. Solo nel Nulla della Dualità Indeterminata, vale a
dire solo nel Bene, che nega radicalmente l’esclusività dell’identico, può
fondarsi l’assolutezza del principiato: Principio dell’indefinita possibili-
tà, la Dualità Indeterminata infatti contiene e sostiene in forma originaria
la radicale differenza-alterità rispetto al Bene-Uno, e quindi la potenza di
un’identità assoluta accanto a quella del Bene-Uno stesso.
Nel Nulla della Dualità Indeterminata il Bene-Uno e l’Altro dal Bene-
Uno sono in-differenti: il Bene si riversa senza invidia nell’abisso dell’auto-
negazione, del donare la propria potenza ad un Altro; perciò il suo rapporto
con l’Altro sarà l’immagine del rapporto fra Uno e Dualità Indeterminata,
sarà, appunto, l’in-differenza, la non-differenza di un cusaniano non-aliud,
ossia una non-relazione, o, meglio, una metarelazione, che farà dell’Altro
un Essere assolutamente incondizionato e libero. In breve, rispetto all’Es-
sere il Bene, in quanto, appunto, non-aliud, non sarà né trascendente né
trascendibile: sarà quella Non-Dualità di immanenza e trascendenza9 a par-
tire dalla quale il Principiato potrà farsi compiuta Icona, trasparente Idea
dei(-l) propri(o) Principi(o).

9 Nel de non-aliud Cusano presenta la nozione di non-aliud come concetto che,


trascendendo qualsiasi altro concetto, compreso quello di uno (de non-aliud IV),
paradossalmente riesce ad esprimere tanto la trascendenza quanto l’immanenza di
Dio rispetto all’Essere (si veda de non-aliud VI). Sulla nozione cusaniana di non-
aliud come modo di dire la trascendente immanenza del Principio cfr. Beierwaltes
1980, 112-117.
43

6.
BENE OLTRE L’ESSERE O IDEA DEL BENE?1
OLTRE TRASCENDENZA E IMMANENZA

nu`n de; kavllo" movnon tauvthn e[sce moi`ran,


w{st∆ ejkfanevstaton ei\nai kai; ejrasmiwvtaton.
Plato, Phaedrus 250d6-8

La non-dualità di trascendenza e immanenza che caratterizza il rapporto


fra il Bene e l’Essere sembra affiorare nella rappresentazione del Bene che
Platone traccia nella Repubblica. Infatti, dando luogo a quella che, di pri-
mo acchito, sembrerebbe una più o meno ingenua asimmetria concettuale,
la Repubblica ci presenta il Bene da un lato come posto al di là dell’Essere,
dall’altro come il sommo fra gli enti. A questo punto della nostra riflessione
può risultare interessante soffermarsi su questa apparente asimmetria, per
verificare se realmente la protologia delle cosiddette dottrine non scritte, e
l’interpretazione finora datane, si possa integrare con l’immagine del Bene
che Platone delinea nella sua opera più celebre2.

Nella parte conclusiva dell’analogia fra il sole e il Bene, il Bene viene


caratterizzato come la fonte da cui sgorga non solo ogni forma di verità e
di scienza (ajlhvqeia ed ejpisthvmh: Resp. 508e1-4), ma anche la potenza-
facoltà stessa del conoscere (tw`/ gignwvskonti th;n duvnamin ajpodidovn

1 Nella sua recente traduzione della Repubblica Mario Vegetti propone di rende-
re ijdeva tou` ajgaqou` con idea del buono e, ovviamente, ajgaqovn con buono.
Ora, tenendo conto della dimensione metaontologica del Metaprincipio, prefe-
risco continuare a rendere ajgaqovn con Bene e ijdeva tou` ajgaqou` con Idea del
Bene. A partire da quella dimensione il Bene è infatti oltre ogni buono, anche
oltre l’identità con l’ente sommamente buono. Quindi, se l’ijdeva tou` ajgaqou` è
l’immediato manifestarsi del Metaprincipio, essa sarà, rispetto al Metaprincipio,
appunto l’Idea, il manifestarsi del Bene, e non del buono. L’Idea del Bene è il
Buono, l’essere buono in sé, vale a dire l’ente sommamente buono, solo a partire
dal proprio rapporto con le altre manifestazioni dell’Essere, ossia quale archetipo
di ogni essere buono: in quest’ottica si potrà dire che essa è anche (e quindi non
è in sé), l’Idea del Buono. Riguardo al problema qui brevemente accennato si
vedano pure le riflessioni di Bontempi 2009, 89-90 e la relativa n. 160.
2 Si riprendono e ampliano qui alcuni spunti presentati in Lavecchia 2005 e Lavec-
chia 2006, 110-118.
44 Oltre l’Uno ed i Molti

508e2) e la conoscibilità (509b6-7): il Bene ha quindi un rango più elevato


rispetto ad ogni forma di verità e di sapere (Resp. 508e5-509a53). Ora, la
radice di ogni scienza e conoscibilità sarà, necessariamente, anche radi-
ce di ogni forma di essere: la sfera dell’Essere e la sfera del conoscere-
conoscibile infatti coincidono (cfr. 476e7-477a3; 477a9-10, b5-12; 478a6,
b3-5). Ecco allora che il Bene, oltre a donare la conoscibilità, donerà ad
ogni cosa tanto l’essere in generale quanto la sua essentità, il suo essere
ente individuale, ovvero donerà ad ogni cosa l’ei\nai e l’oujsiva4: quindi si
troverà, per rango e potenza, oltre il fatto di essere, oltre l’oujsiva, vale a
dire non sarà identificabile con alcuna manifestazione o forma dell’Essere,
e quindi neanche con l’Essere in sé (509b6-105).
Caratterizzando il Bene come Principio che dimora al di là del fatto di
essere, ejpevkeina th`" oujsiva" (509b9), l’analogia fra il sole ed il Bene si
conclude con l’apertura di una prospettiva metaontologica. La locuzione
ejpevkeina th`" oujsiva", oltre l’essentità, rinvia, come già implicitamente
accennato, ad una trascendenza rispetto all’Essere6: come il sole fa sì che

3 Il Bene è altro e più bello rispetto a verità e scienza (a[llo kai; kavllion 508e5-6.
cfr. 509a7), e la sua condizione deve essere ritenuta di maggior pregio rispetto alla
loro (e[ti meizovnw" timhtevon th;n tou` ajgaqou` e{xin).
4 La traduzione di oujsiva con essentità riprende il latino essentitas, per il quale
cfr. ad esempio Marius Victor. adv. Arium I 49 unum ante omnen essentitatem.
Per l’interpretazione di oujsiva come termine che esplica ei\nai si veda Krämer
1997, 186, n. 9 «[…] der Ausdruck Seinsheit (ousia) präzisiert den zuerst genan-
nten des (infinitivischen) Seins (einai) und bezeichnet die formale ontologische
Selbständigkeit und Subsistenz der einzelnen Ideen, nicht jedoch ihr inhaltliches
Wesen (Essenz)». L’uso di oujsiva accanto a ei\nai sembra, appunto, proporsi come
una esplicazione che, senza voler tradursi in una qualche terminologia, evidenzia
come il Bene sia Principio non solo della determinazione più universale di essere,
ma anche del fatto che sussistano molteplici enti: in quanto principiato dal Bene,
che dimora oltre l’Uno ed i Molti, necessariamente l’Essere, che del Bene è l’im-
mediato rivelarsi, viene colto come uni-molteplicità, vale a dire tanto come unità
dell’essere (ei\nai) quanto come molteplicità degli enti (delle oujsivai).
5 toi`" gignwskomevnoi" toivnun mh; movnon to; gignwvskesqai favnai uJpo; tou`
ajgaqou` parei`nai, ajlla; kai; to; ei\naiv te kai; th;n oujsivan uJp∆ ejkeivnou
aujtoi`" prosei`nai, oujk oujsiva" o[nto" tou` ajgaqou`, ajll∆ e[ti ejpevkeina th`"
oujsiva" presbeiva/ kai; dunavmei uJperevconto".
6 Se è vero che Resp. 509b7-8 si riferisce a ei\nai e oujsiva, e che Platone non carat-
terizza il Bene come ejpevkeina tou` ei\naiv te kai; th`" oujsiva", d’altra parte in
Platone non è attestata una distinzione terminologica fra ei\nai = essere e oujsiva
= essenza (si veda già Stumpf, 214, n.*; il tentativo più stimolante di presuppor-
re questa distinzione è a tutt’oggi quello compiuto in Baltes 1997). Non a caso
negli scritti platonici o[n, oujsiva e ei\nai sono del tutto interscambiabili: non es-
sendo connotati terminologicamente, senza alcuna distinzione possono, appunto
Bene oltre l’Essere o Idea del Bene? 45

le cose possano generarsi, crescere e nutrirsi, ma non è la generazione e il


generarsi (509b2-4 … ouj gevnesin aujto;n o[nta), così il Bene fa sì che le
cose siano, ma non è una qualche forma dell’Essere (oujk oujsiva" o[nto"
tou` ajgaqou` 509b8-9)7; infatti, mentre l’Essere risulta da una determi-
nazione, sebbene dalla più alta e universale, ossia dall’autodeterminarsi
del Bene come fondamento di tutte le cose, il Bene è la metaontologica,
metadimensionale e sovrareale radice di ogni determinazione e realtà, e
per questo è radicalmente trascendente rispetto ad ogni possibile deter-
minazione. Il Bene trascenderà quindi non solo ogni ente, ogni o[n-oujsiva,
ma anche l’Essere in generale (ei\nai): mentre l’Essere è determinato dalla
propria identità, dal fatto che non può non essere, e che quindi è sommo
Ente, oujsiva, il Bene consiste, lo abbiamo già visto, nel più puro trascen-
dere ed autotrascendersi, nella principiale libertà rispetto ad ogni identità,
e dunque rispetto, appunto, ad ogni determinazione, sia essa anche la più
assolutamente autofondata.
… Eppure nella Repubblica il Bene viene caratterizzato prima di tutto
come immanente all’Essere, come la suprema Idea (vale a dire come il su-
premo Ente), da cui l’autentico sapere ed il retto agire traggono sostanza e
vita (cfr. ad esempio 505a2-4; 517b7-c5; 526e1-4; 534b8-d1): sorprenden-
temente Platone identifica in modo esplicito il Bene come Idea, l’Idea del
Bene, con il Bene in sé, che pure si è appena rivelato dimorare oltre l’es-
sentità8. Ecco quindi che il Bene viene presentato come l’ente più luminoso

tutti e tre, indicare in generale il rapporto con la nozione di essere, fuori da ogni
sfumatura di contenuto (cfr. i numerosi luoghi menzionati in Halfwassen 2000,
46, n. 16). A questo proposito basti accennare alla totale equivalenza fra oujsiva"
metevcein e metevcein tou` ei\nai nel Parmenide: per la prima locuzione cfr. ad
esempio 141e7-8, 9, 11; 142b8-c2, c5-6; 143a6-7, b3; per la seconda 152a2-3,
in un contesto che subito prima (151e7-8) vede to; ei\nai come equivalente di
mevqexi" oujsiva"; cfr. anche 156a1-2, 4-5 (con metalambavnei tou` ei\nai e
oujsiva" metalambavnein).
7 Su questo aspetto del Bene nel pensiero platonico si veda l’ampia trattazione di
Halfwassen 1992, 183-405 passim; inoltre Krämer 1959, 535-551; Krämer 1969;
Halfwassen 1998. Le strategie e gli strumenti letterari di cui Platone si serve per
manifestare la radicale trascendenza del Bene vengono efficacemente esposti in
Szlezák 2003, 67-68, 121-126. La trascendenza del Bene rispetto all’Essere è ri-
chiamata anche in alcune fonti concernenti l’insegnamento orale di Platone: cfr.
Speus. Fragm. 62 Isnardi Parente = 48 Tarán (Test. 50 Gaiser, 92 Richard); Mo-
derat. ap. Simpl. in Phys. 230, 35 Diels; Porph. fr. 220F Smith (ap. Cyrill. Alex.
contra Iulian. I 31A, PG 76, 549A5-B6); Syrian. in Metaph. 182, 6-7 Kroll; ibid.
183, 1-5 Kroll.
8 L’identità fra Idea del Bene e Bene in sé è presupposta chiaramente in 505b1-3;
507b5-7; 518c9-d1; 519c9-10; 532a5-b2; 534b8-c5.
46 Oltre l’Uno ed i Molti

(tou` o[nto" to; fanovtaton 518c9-10), come l’ente che gode della sorte
più prospera (to; eujdaimonevstaton tou` o[nto" 526e3-4), e come l’ottimo
fra gli enti (to; a[riston ejn toi`" ou\si 532c5-6) … Sarà possibile armo-
nizzare questa immanenza del Bene con l’oltre l’essentità, con l’ejpevkeina
th`" oujsiva" di Resp. 509b99?
I constatati accenti antinomici della protologia platonica ci legittima-
no a verificare se la tensione fra immanenza e trascendenza del Bene
peculiare della Repubblica, piuttosto che tradire ingenue dissimmetrie
concettuali, non si possa interpretare quale implicito richiamo, appun-
to, al carattere antinomico della riflessione condotta da Platone sui(-l)
Principi(o) e sul Metaprincipio. Certamente le esplicite caratterizzazioni
del Bene come ente potrebbero essere intese nel senso di enunciati im-
propri, finalizzati a rappresentare il Principio per analogiam, partendo
dalla realtà principiata10. In questo caso anche la locuzione Idea del Bene
(ijdeva tou` ajgaqou`) avrebbe valenza analogico-metaforica11: infatti il
Bene oltre l’essentità, l’ajgaqo;n ejpevkeina th`" oujsiva", non può essere
considerato un’Idea, perché un’Idea necessariamente rientra nella sfera
dell’essentità, dell’oujsiva (ogni ijdeva è necessariamente una oujsiva). Ma
Platone non fornisce alcun indizio in base a cui si possa sostenere questa
ipotesi: in nessun luogo gli enunciati riguardanti il Bene sono accompa-
gnati da locuzioni, quali trovpon tinav, ph/, pw" etc., marcanti la distan-
za dal significato proprio dei termini usati. Inoltre, un luogo come Resp.
534b3-c5 rivela chiaramente che nella locuzione Idea del Bene il termine
Idea va appunto inteso nel suo significato più proprio. In quel luogo viene
caratterizzato come dialettico chi conosce il vero essere, la oujsiva delle
cose, chi riguardo ad ogni ente sa dar ragione del modo in cui quell’ente
manifesta l’Essere, ovvero chi sa esplicitare il lovgo" th`" oujsiva", l’idea
di quel’ente. Ora, questa caratterizzazione del dialettico viene ritenuta
valida anche riguardo al rapporto con il Bene (534b8): la conoscenza del
Bene è, allora, la conoscenza della sua oujsiva, della sua Idea, del modo in
cui il Bene si manifesta nell’Essere12.

9 Questa tensione fra trascendenza e immanenza, identità e differenza del Bene ri-
spetto all’Essere, peculiare della Repubblica, è stata efficacemente evidenziata in
Ferrari 2001, 14-15, 18, 22, 23-24, 33, 36-37; Ferrari 2002, 267-274, 277-278;
Ferrari 2002a, 284-297; Ferrari 2003b, 295-317. Stimolanti considerazioni in pro-
posito si trovano ora in Bontempi 2009, 90-91.
10 Questa interpretazione è stata proposta in Halfwassen 2000, 48.
11 Si veda Halfwassen 2000, S. 48, che riprende la prospettiva di Procl. Theol. Plat.
II 7, p. 47, 17-23 Saffrey-Westerink.
12 Resp. 534b3-c5 \H kai; dialektiko;n kalei`" to;n lovgon eJkavstou lambavnonta
Bene oltre l’Essere o Idea del Bene? 47

A questo punto ci si trova di fronte ad un’alternativa: ipotizzare la pre-


senza di un’imprecisione concettuale proprio in Resp. 509b9-10, vale a dire
proprio in un luogo chiave non solo per tutta la Repubblica, ma anche per
tutti gli scritti platonici; oppure, non fermandosi a ciò che nel testo è esplici-
to, assumere una distinzione fra il Bene oltre l’essentità (ajgaqo;n ejpevkeina
th`" oujsiva") di 509b9-10 e l’Idea del Bene, fra la radice dell’Essere-Ente
ed il sommo Ente, tra il fondamento ultimo di ogni intelligenza-conoscen-
za ed il supremo intelligibile-conoscibile13. Questa distinzione costituisce
l’ipotesi da cui qui si deciderà di partire14. Perché l’ipotesi che un autore
così autocosciente, come Platone, si addormenti in un luogo chiave della

th`" oujsiva"… … Oujkou`n kai; peri; tou` ajgaqou` wJsauvtw": o}" a]n mh; e[ch/
diorivsasqai … th;n tou` ajgaqou` ijdevan, kai; … kat∆ oujsivan proqumouvmeno"
ejlevgcein, … ou[te aujto; to; ajgaqo;n fhvsei" eijdevnai to;n ou{tw" e[conta
ou[te a[llo ajgaqo;n oujdevn, ktl. Al senso proprio del termine idea riguardo al
Bene rinvia anche il fatto che nella Repubblica la caratterizzazione del Bene è
accompagnata da locuzioni peculiari, appunto, della teoria delle Idee: cfr. Ferrari
2001, 12, con il rinvio a 506d8-9 aujto; me;n tiv pot∆ ejsti; tajgaqovn, 507a3 aujtou`
tou` ajgaqou`, 532b1 aujto; o} e[stin ajgaqovn; si vedano pure 507b5-7; 532a5-b2;
534a8-c5.
13 Questo assunto, non supportato da un’esplicita distinzione, nel testo platonico, fra
Idea del Bene e Bene oltre l’Essere, può essere legittimamente criticato a partire
da una lettura univocamente filologica dell’analogia fra il sole ed il Bene. Eppure
lo stesso tipo di lettura conduce a rilevare che la locuzione ejpevkeina th`" oujsiva"
non può armonizzarsi con una nozione del Bene inteso come Idea. Siamo quin-
di di fronte alla scelta fra un atteggiamento agnostico ed il tentativo, certo non
sostenibile mediante argomenti filologici, ma forse più produttivo dal punto di
vista filosofico, di esplicitare fino alle sue ultime implicazioni, nello spirito di un
filosofare platonico, la caratterizzazione del Bene tracciata nella Repubblica. Il
non sufficiente o mancante svolgimento di quelle implicazioni non prova infatti la
loro assenza nel pensiero di Platone: ché l’autore Platone riguardo all’analogia fra
il sole ed il Bene rinvia all’omissione di molte cose (509c7). Ora, il paradossale
presentarci un Bene che è tanto Idea quanto oltre l’esssentità non potrebbe essere
un mezzo tramite cui l’autore della Repubblica vuol provocare alla scoperta di
quelle molte cose?
14 Già Schelling distingueva il Bene ejpevkeina th`" oujsiva" dall’Idea del Bene. Cfr.
Schelling, Philosophie der Mythologie, 570, n. 1: si fa torto a Platone «wenn man
meint, er spreche bloß von der Idee des Guten. Es ist ihm vielmehr to; ajgaqovn
das Gute selbst (dieß liegt deutlich in dem ejpevkeina th`" oujsiva" [Rep. VI, 509
B] und erhellt aus dem Erstaunen des Mitunterredners) – freilich in der Idee, nur
als Gedanke, aber doch das Gute selbst […]. Daß Platon auch von der Idee des
Guten spricht, ist natürlich […], aber to; ajgaqovn (aujto; to; ajgaqovn) heißt ihm
nur ijdeva tou` ajgaqou` in Bezug auf die einzelnen ajgaqav als metevconta tou`
ajgaqou` […], oder die ijdeva ist ihm nur oJ tou` ajgaqou` e[kgono" ([Rep.] VI, 508
B), wie aus dem ganzen Zusammenhang erhellt».
48 Oltre l’Uno ed i Molti

propria opera, una tale ipotesi non può non essere assurda15. In ogni caso,
la distinzione qui assunta non potrà implicare una qualche forma di separa-
zione fra la radice dell’Essere e l’Essere-Ente. Perché, sgorgando dall’abis-
so dell’autonegazione che il Bene pone in se stesso, il sommo Ente non
sarà altro che il primigenio automanifestarsi del Bene, ossia l’assoluto, o,
meglio, principiale autonegarsi dell’autonegarsi implicito nel Bene. In as-
senza di questa negazione della negazione non si potrebbe infatti costituire
alcuna essentità, alcuna oujsiva: il semplice negarsi del Bene darebbe luogo
al nulla di una pura, inessenziabile potenzialità, ad un insostanziabile Non-
Uno-Non-Uno. In altre parole, il sommo Essere, il sommo Ente di necessità
sgorgherà dall’assoluto autoaffermarsi del Bene oltre ogni possibile limite-
negazione, vale a dire sarà, appunto, la più assoluta e concreta identità del
Bene col suo autorivelarsi.
In quanto fondamento il Bene sostanzia la propria identità mediante il
proprio manifestarsi, mediante il proprio farsi Idea, Icona di se stesso, ov-
vero Essere e sommo Ente: l’Idea del Bene è il Bene che abbandona il
proprio trascendere e si comunica, si lascia vedere-conoscere (ijdei`n-ijdeva)
come radice e sommo archetipo di ogni essenza. Detto altrimenti, l’Idea del
Bene è l’autoessenziarsi del Bene come quell’originario Altro cui la sua
bontà può incondizionatamente donarsi.
Nella prospettiva qui aperta si può comprendere perché nella Repub-
blica il Bene venga caratterizzato tanto come al di là dell’Essere quan-
to come Ente-Idea. A partire da questa stessa prospettiva si cercherà ora
di individuare con maggior precisione le modalità secondo cui può venir
qualificata la relazione fra Idea del Bene e Bene oltre l’Essere. Come può
essere pensata una relazione che sembra manifestarsi quale metaidentità,
quale antinomica identità nella distinzione, o, meglio, coincidentia in al-
teritate16? Si può pensare, nonostante questa antinomica identità, anche ad
una qualche forma, altrettanto antinomica, di gerarchia, ovviamente non
ontologica, ma protologica17?

Come già sottolineato, mai nella Repubblica si distingue esplicitamente


fra Idea del Bene e Bene oltre l’Essere. Eppure non può essere casuale il
fatto che Platone non ricorra più al termine idea proprio nel luogo dove

15 La meticolosa cura con cui Platone ha costantemente rivisto i propri scritti viene
significativamente enfatizzata in Dionys. Halicarn. de comp. verb. 25, 32-33.
16 Questa seconda formulazione mi è stata suggerita da Michele Abbate.
17 Dimorando oltre l’Essere, il Bene in sé non potrà rientrare in alcuna gerarchia
ontologica: allora il suo rapporto con l’Idea del Bene, con il sommo Ente, non sarà
interpretabile a partire da coordinate e relazioni applicabili alla sfera dell’Essere.
Bene oltre l’Essere o Idea del Bene? 49

mira ad evidenziare la trascendenza del Bene rispetto a qualsiasi forma di


essere (509a9-b10)18. Ora, quel luogo si trova in una posizione assoluta-
mente marcata dal punto di vista retorico-letterario: infatti chiude l’analo-
gia fra il sole e il Bene, facendola culminare, appunto, nell’accenno al Bene
oltre l’Essere. Inoltre, il suo contenuto viene esplicitamente enfatizzato ri-
spetto ai momenti dell’analogia che lo precedono: Socrate esorta Glauco-
ne a considerare ancor più approfonditamente l’icona del Bene plasmata
nell’analogia col sole (509a9-10 … w|de ma`llon th;n eijkovna aujtou` e[ti
ejpiskovpei), in modo da poter riconoscere la trascendenza del Principio
rispetto all’Essere (509b)19; e la sua esortazione è introdotta dall’appello,
fortemente connotato in senso misterico, a non pronunciare parole empie
riguardo all’oggetto di cui si sta trattando (eujfhvmei 509a9)20. Perché ora
non si parlerà più di ciò che emana dal Principio, ma si dovrà tentare di
compiere il salto dagli enti principiati all’esperienza diretta, all’immediato
rivelarsi del Principio in sé: il salto dalle cose cui il sole dona vita al sole in
sé. Il Bene-sole in sé dimora infatti in una sfera posta oltre l’orizzonte del
visibile-intelligibile, oltre la dimensione in cui finora l’analogia fra il sole
e il Bene si era mossa.
L’afflato misterico e l’enfasi parenetica di Socrate, giova ribadir-
lo, vogliono marcare un vero e proprio salto di dimensione all’interno
dell’analogia fra il sole ed il Bene: nell’analogia la relazione fra il sole-
Bene in sé e la sfera del visibile-intelligibile21 viene infatti percepita
come omologa a quella fra il divino e la dimensione del visibile-sensibi-
le22, ovvero implica un divino iato tra il sole-Bene e la sfera del visibile-
intelligibile. Appunto per questo le parole che riguardano il sole-Bene in
sé devono essere compenetrate da un atteggiamento profondamente reli-

18 Si veda anche Ferrari 2002a, 293-294.


19 In 508e1-509a8 il rinvio al Bene oltre l’Essere è come anticipato dalla notevole
enfasi mediante cui viene caratterizzata la superiorità e trascendenza del Bene
rispetto ad ogni forma di conoscenza e verità (quindi, implicitamente, rispetto
all’Essere, visto che, come già detto, Verità-conoscenza-conoscibile ed Essere
coincidono): cfr. 508e5-6 e 509a4-7 (in proposito si veda Szlezák 2003, 124-
125).
20 Sulle connotazioni misteriche di eujfhvmei in questo luogo della Repubblica cfr.
Schefer 2001, 121-122 (inoltre 73-74 e 139, con ulteriore bibliografia); si veda
pure Szlezák 2003, 126. Per la dimensione religiosa dell’analogia del sole in ge-
nerale, e per il relativo retroterra, cfr. Schefer 1996, cap. IV.2; Schefer 2001, 120-
136; Calabi 2003, 336-347.
21 L’analogia tra sfera del visibile e sfera dell’Essere-intelligibile è evidente in 507c-
508c2.
22 Cfr. Szlezák 2003, 67-68. Il sole viene qualificato come dio in 508a4, 9.
50 Oltre l’Uno ed i Molti

gioso23: solo un sentire religioso può sperimentare la divina trascenden-


za, la daimoniva uJperbolhv (509c1-2)24 del Bene oltre l’Essere25. In altri
termini, il parlare riguardo al Bene in sé presuppone una discontinuità
tra lo svolgimento dell’analogia con il sole in rapporto al visibile-intel-
ligibile ed il piano della sua decifrazione riguardo al sole in sé. Nella
Repubblica il contenuto di quella decifrazione viene solo sfiorato: mol-
te cose Socrate(-Platone) decide di tralasciarle (sucnav ge ajpoleivpw
509c726), lasciando quindi al lettore l’esplorazione di un piano ulteriore,
o, meglio, superiore dell’analogia. Quel piano aprirà una prospettiva
trascendente l’autorivelarsi del Bene come somma Idea, una prospettiva
orientata verso il Bene oltre l’Essere, verso l’ajgaqo;n ejpevkeina th`"
oujsiva". Come si potrà caratterizzare il rapporto fra quella prospettiva
ed il piano dell’analogia relativo al visibile-intelligibile, all’Essere, in
modo da precisare meglio la peculiarità della relazione fra Idea del Bene
e Bene in sé?
Il piano dell’Essere, del visibile-intelligibile, vede il Bene identico
all’Idea del Bene, alla forma-figura in cui il Bene stesso si manifesta27:
l’Idea del Bene è il sole-Bene nel suo essere non solo origine di luce-Esse-
re-Verità, ma anche luce-Essere-Verità in sé, inseparabili dalla sua solarità
(cfr. 508d4-6)28. Il Bene oltre l’Essere è invece il nucleo del sole, nascosto
ad ogni facoltà visiva. Quel nucleo, quella solarità oltre la luce è la radice
di ogni vedere, radice che, precedendo e fondando ogni vedere, può essere
sperimentata, senza mai essere oggetto di vista, solo al di là di ogni visione-

23 Significativamente l’allusione al Bene oltre l’Essere, che chiude l’analogia fra il


Bene e il sole, è immediatamente accompagnata dall’invocazione ad un dio, ad
Apollo, non a caso dio della luce e del sole (cfr. Schefer 2001, 120-136; Szlezák
2003, 126).
24 Per il significato di questa locuzione si vedano Schefer 2001, 130-131 e Szlezák
2003, 124-126.
25 Sugli strumenti letterari mediante cui l’autore Platone enfatizza la trascendenza
del Bene in sé cfr. Szlezák 2003, 124-125.
26 L’affermazione di Socrate non è un vuoto artificio retorico, ma costituisce una
vera e propria Aussparungsstelle (Szlezák 2003, 119-120). Una delle molte cose
omesse da Socrate potrebbe essere un riferimento più o meno esteso al calore del
sole.
27 Al riguardo si vedano anche le illuminanti precisazioni in Bontempi 2009, 91,
dove si connette al Bene il «tenersi, non dialettico ma principiale, dell’“al di là
dell’essere” e del massimo degli enti».
28 In questa prospettiva risulterà del tutto evidente il motivo per cui in 518c8-d1 il
Bene viene identificato con il più luminoso fra gli enti.
Bene oltre l’Essere o Idea del Bene? 51

conoscenza29. In base alle corrispondenze visione-conoscenza-pensiero-in-


telligenza (o[yi"-gnw`si"-novhsi") e visibile-essente-conoscibile-pensabile-
intelligibile (oJratovn-o[n-gnwstovn-nohtovn), corrispondenze che strutturano
l’analogia fra il sole e il Bene, la coerente esplicitazione di quell’analogia
guida infatti ad un piano di esperienza posto oltre ogni forma del vedere-
conoscere-pensare, oltre ogni atto noetico: il Bene oltre l’Essere, il nucleo
del sole, dimora appunto al di là del visibile-essente-conoscibile-pensa-
bile-intelligibile. Pertanto, come ciò che sta dietro l’irraggiare e la luce
del sole non può essere visto, poiché il vedere è causato dalla luce irrag-
giata, così ciò che sta dietro l’autorivelarsi (dietro l’Idea) del Bene, e che
di quell’autorivelarsi è radice, dimora in una sfera metanoetica30, ossia
oltre ogni forma di attività e manifestazione del pensare. In quanto oltre
l’Essere, e quindi oltre ogni conoscibilità-pensabilità, necessariamente il
Bene in sé sussiste prima e al di là di ogni atto conoscitivo, di ogni atto
noetico: ché, lo si afferma chiaramente nella Repubblica, l’atto noetico,
la novhsi", riguarda l’essentità (534a3 novhsin de; peri; oujsivan), vale a
dire l’Essere-Ente. Quanto fin qui detto non implica però, in alcun modo,
che l’esperienza diretta del Bene presupponga un irrazionalistico sacrificio
dell’intelletto. Perché nell’incontro col Bene l’intelletto (il nou`") ed il pen-
sare non trovano il proprio annientamento, ma si congiungono alla somma
potenza creatrice (duvnami") dalla quale sgorga la loro vera essenza. Ora,
quell’essenza non risiede in un meccanico produrre o riprodurre asfittiche
astrazioni, ma consiste nel farsi soggetto di un’autonoma attività ontopoie-
tica, ovvero nel divenire libero veicolo di quell’autocomunicarsi a partire
da cui il Bene si manifesta come luce produttrice dell’Essere. Se quindi,
da un lato, l’esperienza diretta del Bene implicherà l’autotrascendersi del
pensare, dall’altro quell’autotrascendersi non si esaurirà in un passivo au-
todissolvimento, o in una soffocante sclerosi lontana da ogni potenza di

29 Ad un sostrato (o[gko" o sw`ma) da cui emana la luce del sole accenna Plotin. Enn.
V, 5, 7, 11-12 e VI, 4, 7, 44-45 Henry-Schwyzer. La relazione sole-luce nell’ana-
logia fra il sole e il Bene viene efficacemente illustrata in Plotin. Enn. I, 7, 1, 25
segg. Henry-Schwyzer.
30 A questa dimensione metanoetica si accenna anche al di fuori della Repubbli-
ca. Secondo Symp. 211a5-b2 qualsiasi forma di scienza (e quindi di pensiero)
concernente il Bello (= Bene: cfr. 212a2-5) viene trascesa dall’esperienza diretta
del Bello (= Bene) in sé. Nel Fedone il Bene viene presentato come trascenden-
te rispetto all’intelletto (nou`"), perché è fondamento della sua azione (cfr. 97d-
99c6). La trascendenza del Bene rispetto a intelligenza-conoscenza e intelletto
(frovnhsi" e nou`") viene esplicitamente affermata anche nel Filebo (cfr. 61a1-2;
64c1-3; 66b1-6; 67a5-12).
52 Oltre l’Uno ed i Molti

vita, ma diverrà autocosciente rivelarsi della solarità che essenzia la radice


di ogni ente e di ogni conoscenza.
Il pensare che, educato dalla filosofia, osa guardare direttamente la
luce del sole-Bene, non ne rimarrà arso, ma scoprirà che la sua natura
e la sua autonomia affondano le radici nel nucleo di quel sole: lì l’in-
telletto, il nou`", non verrà riassorbito da un Uno-Uno, ma scoprirà una
Non-Dualità che non può essere scissa dal proprio manifestarsi. Quel
manifestarsi, che è il diffondersi senza invidia del Bene, l’intelletto
lo sperimenterà come vera essenza della propria natura, della propria
principiale libertà: della libertà che, avvicinandolo e unendolo alla luce
dell’Essere, a ciò che è nel senso più pieno (Resp. 490b5 plhsiavsa" kai;
migei;" tw`/ o[nti o[ntw"), gli dona la vita del sole-Bene, e quindi lo por-
ta ad autocomunicarsi incondizionatamente, a farsi, come il Bene, luce
ontopoietica. L’intelletto e il pensare che si unisce al Bene allora non si
arroccherà in una univoca trascendenza, ma, come il manifestarsi, come
l’Idea del Bene, genererà intelletto e verità (Resp. 490b5-6 gennhvsa"
nou`n kai; ajlhvqeian; cfr. 517c4-5 [l’Idea del Bene è] ajlhvqeian kai; nou`n
parascomevnh): si farà demiurgo d’icone del Bene, donando all’uomo la
potenza (duvnami") che lo rende, come gli dèi, autonomo principio della
sua vita31.
Il pensare che vive la vita del sole-Bene sperimenta come il nucleo
di quel sole non possa essere separato dal rivelarsi del sole quale ente
sostanziato di luce: quel rivelarsi è infatti ciò che fonda la solarità del
sole. In altre parole, il pensare che incontra il Bene al di là dell’Essere
scopre che il Bene in sé, pur essendone distinto, non può essere scisso
dalla sua Idea, dal suo manifestarsi come Ente supremo, come potenza
(duvnami") ontopoietica: infatti proprio questo autorivelarsi costituisce e
sostanzia la sua bontà, appunto non scindibile da una attività che la co-
munichi, da una agatopoiesi. In quest’orizzonte il Bene oltre l’Essere e
l’Idea del Bene danno luogo, allora, ad una unità antinomica, ad una rela-
zione che trascende ogni gerarchia logica o discontinuità protologica fra
i(l) Principi(o) e il suo autorivelarsi: vengono a costituire, insomma, una
metalogica identità nella discontinuità. Come ovvio, questa metaidentità
non coinvolge la sfera dei(-l) Principi(o) in sé, perché quella sfera trascen-
de ogni Idea, ogni manifestarsi. Quindi, a partire dall’in sé di quella sfera
non può non sussistere una netta gerarchia protologica, ossia una radicale
discontinuità-alterità fra il Bene e l’Idea del Bene. Quella discontinuità,

31 Per il nesso fra nou`", Bene e autonomia del soggetto agente cfr. Lavecchia 2006,
1-2, 281-282, 285-286.
Bene oltre l’Essere o Idea del Bene? 53

però, non è un limite ingiunto al manifestarsi del Bene, all’Idea del Bene.
Essa infatti non è posta dal Bene nei confronti del suo automanifestarsi,
ma trova la propria radice e prolessi nella natura del Bene in sé: la bontà
del Bene è, lo si è già visto, costituita da un radicale autonegarsi, autone-
garsi che altrettanto radicalmente si trascende; ossia è costituita, appunto,
da una principiale discontinuità rispetto a se stesso che il Bene implica
in se stesso. Per questo il Bene si può autocomunicare senza invidia,
vale a dire si manifesta nella forma più assolutamente incondizionata, e
quindi in assoluto meno condizionante. Per il suo carattere principiale,
la discontinuità rispetto a se stesso implicita nel Bene è, dunque, ciò che
rende il Bene tanto trascendente quanto immanente rispetto al suo rive-
larsi, vale a dire ciò che, antinomicamente, tanto nega quanto afferma la
sua continuità con l’Essere, con l’Idea. Essa rende il Bene trascendente
perché il principiale autonegarsi fa del Bene l’intrascendibile, ma sem-
pre autotrascendentesi Oltre, non determinato-limitato neppure da una
qualche forma di identità, e, perciò, ancor meno dal proprio manifestarsi.
Essa rende il Bene immanente perché quella medesima intrascendibile e
autotrascendentesi trascendenza sostanzia nel Bene l’assenza di invidia,
sostanzia il suo comunicarsi ad un Altro senza alcuna condizione posta a
se stesso e all’autonomia dell’Altro, ovvero il suo riversarsi pienamente e
integralmente nella propria rivelazione. In quel riversarsi, proprio perché
il suo impulso è del tutto incondizionato, il Bene non vuole affermare la
propria identità: perciò quel riversarsi può disvelare nell’Essere, può im-
manentizzare l’antinomica metaidentità del Metaprincipio, manifestando
la sua Idea.
Se il Bene non trascendesse ogni automanifestazione, al primigenio
Altro cui si comunica non potrebbe donarsi come Assoluto: l’Altro non
potrebbe essere il Metaprincipio che, negando il proprio autonegarsi, si
disvela in tutto e per tutto, anche nella propria assolutezza-incondizio-
natezza. Se il Bene in sé non trascendesse il farsi Principi(o) dell’Es-
sere, ovvero se dal principiare l’Essere, e quindi dall’Essere, fosse de-
terminato, andrebbe infatti identificato con il sommo Essere-Ente. Ora,
in base a questa premessa nessuna sua manifestazione potrebbe essere
autonomo-incondizionato fondamento riguardo alla propria essenza:
coincidendo con il Bene in sé, il sommo Essere-Ente di necessità con-
terrebbe l’essenza del Bene in sé, il che ovviamente condizionerebbe la
sua natura e quella di ogni altra essenza ed ente. L’Essere-Ente sarebbe
dunque vincolato, o, appunto, condizionato dalla continuità-identità con
il proprio fondamento, e, di conseguenza, non potrebbe essenziarsi come
integralmente autonomo-principiale, come radicalmente libero rispetto
54 Oltre l’Uno ed i Molti

a quel fondamento, vale a dire non potrebbe, lo ripetiamo, autofondarsi


nella propria essenza. Così però, lo si è già detto, l’Essere non manife-
starebbe l’assolutamente incondizionato, ossia il carattere precipuo del
Bene. In altri termini, l’autorivelarsi del Bene in sé risulterebbe relativiz-
zato da una originaria coincidenza del Bene con l’Essere, ovvero da una
continuità del Bene rispetto al proprio manifestarsi: sarebbe relativizzato
dall’identità del manifestantesi con una essenza. Ciò implicherebbe un
autocomunicarsi del Bene che, in quanto predeterminato dal Bene stesso
mediante la sua identità-essenza, non sarebbe del tutto privo di invidia; o
comporterebbe un inspiegabile limite imposto a quell’autocomunicarsi,
vincolandolo al dovere di essere.
Solo a partire dalla propria radicale e paradossale discontinuità rispetto
ad ogni autorivelazione, rispetto all’Essere, il Bene può autocomunicarsi,
e quindi può apparire nella propria assolutezza, ovvero può comunicare
all’Essere anche l’assoluta alterità rispetto al proprio autooggettivarsi.
Detto altrimenti, solo a partire dalla propria sovressenzialità il Bene oltre
l’Essere può riversarsi pienamente nel proprio manifestarsi, nell’Essere.
Il suo manifestarsi, e non il suo in sé, sarà allora, nel senso più autentico,
la suprema, l’assoluta Idea-Essenza (ijdeva-oujsiva), il cui essere assoluta
rivelerà integralmente il Metaprincipio ed il suo incondizionato donarsi
all’Essere, all’Altro essenziatosi mediante la sua automanifestazione(-
determinazione). In questa prospettiva l’assoluta trascendenza del Bene
si rivela presupposto della sua assoluta immanenza nell’Essere, o, meglio,
implica questa immanenza32. Il Bene si rivela quindi essere allo stesso
tempo trascendente nell’immanenza e immanente nella trascendenza, vale
a dire Non-Dualità di trascendenza e immanenza: il Bene è l’assoluta as-
senza che, proprio perché tale, si fa immediatamente assoluta presenza33.
Ecco allora che, visti a partire dall’Essere, l’Uno, la Dualità Indeterminata
e l’Idea del Bene formano una tri-unità, una tri-unità in cui l’Idea del
Bene è, nella più radicale immediatezza, il principiale autorivelarsi della

32 Con il riferimento a questa implicazione, già presente in Lavecchia 2006, 116, non
si è voluto e non si vuole in alcun modo introdurre nel Bene un elemento di neces-
sità logica o dialettica (riguardo a cui si nutrono le stesse perplessità giustamente
affioranti in Bontempi 2009, 382, n. 165): si tratta di una implicazione a partire
dai principiati, che ovviamente non tocca il radicale essere incondizionato del
Bene.
33 All’assoluta presenza del Bene nell’Essere, presenza che si mostra fin nella sfera
del sensibile, Platone rinvia implicitamente, ma efficacemente, in Phdr. 250d6-8:
qui il Bello, ossia il rendersi visibile del Bene (cfr. Symp. 212a2-7 e Phil. 64e5-7),
viene caratterizzato come l’unica realtà intelligibile che può essere oggetto di im-
mediata percezione sensibile (cfr. in generale 250c7-d).
Bene oltre l’Essere o Idea del Bene? 55

Non-Dualità implicita nel Bene, Non-Dualità costituita dall’Uno e dalla


Dualità Indeterminata34.

34 Certamente sarebbe puerile cercare paralleli immediati con la teologia trinitaria


del Cristianesimo. In ogni caso, come si spera di aver mostrato, la relazione fra la
Non-Dualità dei(-l) Principi(o) ed il suo autorivelarsi non presuppone una vera e
propria gerarchia: perciò quella relazione può essere vista, pur con tutte le cautele,
come espressione di un pensare proletticamente trinitario. Se infatti da un lato
l’uni-diadico Principio è altro rispetto al proprio rivelarsi, questo fatto comunque
non implica il suo essere separato dalla propria originaria automanifestazione,
ma, lo si è accennato, sembra rinviare ad una metalogica identità nella discontinu-
ità. In questa metalogica identità la Dualità Indeterminata è pienamente integrata
tanto come abisso, interno al Bene, fra il Bene ed il suo autorivelarsi, quanto
come sostrato dell’alterità a partire da cui l’autorivelarsi del Bene si realizza. La
Dualità è, in altri termini, il Secondo, non separato dal Primo, o, meglio, implicito
nel Primo, che, insieme con il Primo, costituisce immediatamente il Terzo, ovvero
la forma, l’Idea in cui il Primo si automanifesta.
57

7.
DELLA LIBERTÀ DI FARSI BENE

Die Elective Freyheit ist poëtisch -


daher d[ie] Moral von Grund aus Poësie ist.
Ideal der Alleswollung. Magischer Willen.
Sollte jede freye Wahl abs[olut] poëtisch-moralisch seyn?
Novalis, Allgemeines Brouillon nr. 769

La suprema Idea è il Bene che, oltre l’abisso dell’alterità rispetto ad ogni


autorivelarsi, si manifesta come supremo Ente-Intelligibile (Resp. 518c9-
d1; 526e3-4; 532c5-6): è il risplendere del sole-Bene e la sua luce, fonte
e sostanza di Verità ed Essere (cfr. 508d5), e perciò radice di ogni essenza
e conoscenza (cfr. 508d4-6, e1-4; 517b8-c4). L’Idea del Bene è, in altri
termini, l’incondizionato manifestarsi e comunicarsi della intrascendibile
e incondizionabile potenza del Bene (duvnami" 509b9), potenza a partire
dalla quale il Bene si irraggia in ogni forma dell’Essere, originando l’iden-
tità di ogni ente.
Proprio perché il Bene è, lo abbiamo visto, assolutamente libero, ov-
vero trascendente rispetto ad ogni identità e autorivelazione, allora la sua
potenza ontopoietica può manifestarsi anche nella sfera dell’Essere in cui
l’alterità in rapporto al Principio diviene possibilità di scissione dal Prin-
cipio stesso, vale a dire materialità sensibile: principialmente libero da
ogni determinazione d’identità, e per questo capace di autocomunicarsi in-
condizionatamente, il Bene si dona anche al piano dell’Essere in cui il suo
autonegarsi sperimenta il proprio limite estremo, facendosi oblio del Prin-
cipio. Ecco il motivo per cui l’Idea, la manifestazione del Bene non è solo
luce intelligibile, ma si effonde e comunica, senza alcuna precondizione,
anche su quel piano della realtà, facendosi genitrice della luce sensibile e
del suo signore, del sole (Resp. 517b9-c2 … e[n te oJratw`/ fw`" kai; to;n
touvtou kuvrion tekou`sa)1; sole che, a sua volta, in un certo senso, è cau-
sa prima riguardo all’esistenza delle cose sensibili (516c1-2 ejkeivnwn w|n
sfei`" eJwvrwn trovpon tina; pavntwn ai[tio")2. In quest’ottica l’Idea del

1 Il sole viene caratterizzato come signore della luce in 508a4-8. Nell’analogia con
il sole il Bene è padre del sole (506e3 segg.; 507a3; 508b12-c2).
2 Sulla causalità dell’Idea del Bene riguardo al mondo sensibile cfr. Szlezák 2003,
112.
58 Oltre l’Uno ed i Molti

Bene si rivela essere prima radice non solo riguardo al cosmo intelligibile,
ma anche riguardo al cosmo visibile (517b7-c5). Ci si manifesta quindi la
sua già accennata coincidenza con l’Artefice del nostro universo, con il
Demiurgo3, al cui assoluto essere buono, lo si è più volte sottolineato, il
cosmo sensibile deve la propria esistenza e sussistenza (Tim. 29e1-30a2;
cfr. Pol. 273d4-e4): non a caso nel Timeo il Demiurgo viene caratterizzato
come l’ottima fra le cause (29a6 a[risto" tw`n aijtivwn), come il supremo
e l’ottimo fra gli intelligibili (tw`n nohtw`n ajeiv te o[ntwn to; a[riston:
cfr. 37a1), ovvero come quel sommamente Ottimo (to; a[riston: cfr. 30a7)
che, appunto, coincide con l’Idea del Bene, con l’Ottimo fra gli enti (to;
a[riston ejn toi`" ou\si Resp. 532c5-6).
Nel proiettarsi oltre ogni identità, nel negare la propria trascendenza4,
estaticizzandosi nella propria Idea, ossia facendosi Idea del Bene, il Bene
esplicita il Principio della negazione-alterità implicito nella sua natura non-
duale. L’esplicitarsi del suddetto Principio, della Dualità Indeterminata, è
radice e archetipo di ogni materia(bi)lità. Quell’esplicitarsi origina dunque
il sostrato a partire dal quale si può realizzare non solo l’alterità, ma an-
che la separazione dal Bene; è, quindi, tanto originario e necessario fon-
damento per la sussistenza dell’Essere, vale a dire di un Altro autonomo
rispetto al Bene, quanto, all’interno dell’Essere, radice del sensibile quale
dimensione che, appunto, separa e, se assolutizzata, può anche scindere
dal supremo fondamento. Ora, da un lato l’Idea del Bene guarda in se
stessa, al Bene oltre l’Essere, e così, nell’interiorità dell’Idea, l’esplicitar-
si della Dualità Indeterminata si fa sostrato per l’identità di Uno e Molti
peculiare dell’universo intelligibile, ossia per quel mondo in cui l’indivi-
dualità e l’autonomia degli enti non implica alcuna reciproca separazione.
Dall’altro l’Idea del Bene, in quanto originaria icona del Metaprincipio,
allo stesso modo del Bene si nega per autocomunicarsi, e dunque indiriz-
za la propria potenza verso la produzione di un altro che le sia simile. A
questo punto, però, l’autocomunicarsi non può più implicare, insieme con
l’affermazione, l’immediata autonegazione dell’alterità, come avviene nel
primigenio rivelarsi del Bene: adesso l’alterità non è più immediata, pa-
radossale identità rispetto al proprio fondamento, come nel rapporto fra
Bene oltre l’Essere e Idea del Bene, ma si manifesta come esteriorità. Al-
lora la Dualità Indeterminata non si esplicita più nell’interiorità della vita
intelligibile: essa si proietta davanti all’Idea del Bene, si esteriorizza come

3 Si veda anche la puntualizzazione fornita alla n. 6 del cap. 1, e, per ulteriori appro-
fondimenti, la bibliografia ivi menzionata.
4 Si riprendono qui le riflessioni proposte in Lavecchia 2006, 117.
Della libertà di farsi Bene 59

caotico giustapporsi, l’una accanto all’altra, di infinite possibilità, fra loro


non comunicanti e prive di ogni coscienza del Bene5. Questo esteriorizzar-
si della Dualità Indeterminata è il sostrato materiale del mondo sensibile, il
caotico complesso di forme e movimenti che l’Idea del Bene trova davanti
a sé nel momento in cui si manifesta la sua dimensione cosmopoietica (cfr.
Tim. 30a2-6; 47e-53b6). Ente buono per eccellenza, e perciò assolutamente
privo di invidia, l’Idea del Bene ha l’immediato impulso a donare la pro-
pria natura anche a quel caotico sostrato, ossia l’impulso a farsi Demiurgo
di un universo che a quello stesso sostrato comunichi la bellezza di un’ico-
na del Bene (cfr. Tim. 29e-30a6 e 92c7-9).
Le riflessioni appena svolte ci riconducono al momento iniziale di que-
sta ricerca sul Bene: allora, proprio considerando l’impulso che, secondo
il Timeo, muove l’azione cosmopoietica del Demiurgo (Tim. 29e1-30a1),
si era data una prima caratterizzazione dell’essere buono. A partire da
quella caratterizzazione, più volte richiamata, il Bene si è rivelato essere
un Metaprincipio che, trascendendo ogni limitazione esteriore o interiore
(l’invidia di Tim. 29e1-2), si fa potenza (duvnami" Resp. 509b9) incondi-
zionatamente autocomunicantesi e, quindi, eminentemente generatrice di
essere, potenza ontogonica e ontopoietica. A questo punto della nostra
ricerca qualche lettore, forse, percepirà l’impulso a pretendere una rispo-
sta ad alcuni legittimi interrogativi. Perché Platone vuole qualificare come
Bene un Principio che qui ci si ostina a presentare come assolutamente
non determinato, e pertanto non qualificabile? Un Principio che è Bene,
infatti, non è forse, in opposizione a qualcosa che è male, determinato
riguardo al proprio essere buono? O, ancora, secondo la caratterizzazione
dell’essere buono proposta da Platone (Tim. 29e1-3), non è in un certo
senso necessitato ad autocomunicarsi, ad automanifestarsi, ossia a farsi
Principio, o Demiurgo?
La ricerca fin qui condotta porta a concludere che per Platone il Bene
è tale non perché opposto, e quindi in qualche modo condizionato-deter-

5 Molti obietteranno che le presenti riflessioni suonano troppo plotiniane (fra l’altro,
nessuno vuol negare i loro effettivi contatti col pensiero di Plotino …), e, quindi,
poco platoniche. E se, invece, proprio un approccio interpretativo plotiniano fosse
il più atto ad esplicitare, riguardo alla filosofia platonica dei(-l) Principi(o), molte
delle implicazioni presenti non solo nei dialoghi, ma anche nelle fonti concernen-
ti l’insegnamento orale? L’atteggiamento contrario a questo approccio, ovvero
l’iperfilologistico letteralismo del fermarsi ai testi, rifiutandosi di cogliere ciò che
viene presupposto ma non detto, spesso, se messo univocamente in atto, implica
solo la rassegnata rinuncia ad ogni interpretazione.
6 Sul rapporto fra il principio materiale del Timeo e la Dualità Indeterminata si veda
Reale 1997, 598-633.
60 Oltre l’Uno ed i Molti

minato rispetto al male. Può infatti il Bene, o l’ente-atto buono, essere


autenticamente Bene-buono se è miseramente vincolato (sia logicamente
sia concretamente) alla polarità con un opposto? Al contrario, in base alle
riflessioni finora sviluppate, il Bene e l’ente-atto buono sono tali solo per-
ché sostanziati della più radicale e abissale libertà da ogni determinazio-
ne: perché sono al di là di ogni polarità, e quindi anche di ciò che, solo nel
mondo dell’anima, si manifesta come polarità di bene e male. Insomma, il
Bene è tale proprio perché è l’abissalmente e intrascendibilmente Incon-
dizionato, il Prima e l’Oltre rispetto ad ogni determinazione, in cui ogni
determinazione trova il compimento della propria essenza7. Certo, a parti-
re dall’Essere, dal principiato, il Bene è tale in quanto potenza che si auto-
comunica, in quanto è diffusivum sui e, di conseguenza, si fa Principi(o).
Il suo farsi potenza autocomunicantesi, ossia Principi(o), però non è in
alcun senso una necessità, né logica né di natura8. In altri termini, in sé il
Bene è tale perché, in maniera del tutto incondizionata, con la stessa radi-
calità e libertà con cui si comunica potrebbe non comunicarsi, potrebbe
non farsi Principi(o)9: Bene è, insomma, per riprendere un’espressione
già usata, l’in-differenza, la non-differenza del non-aliud, che trascende
ogni forma di relazione, incluse identità e differenza, e che proprio per
questo intrascendibile trascendere può donarsi ed essenziarsi come rela-
zione, ossia come immanenza in un Altro. Proprio perché trascende ogni
forma di affermazione e negazione, di essere e di non-essere, il Bene può
farsi Principi(o) nel senso più radicale del termine: trascendente rispetto
all’Uno e ai Molti, all’Essere e al Nulla, alla manifestazione e al vuoto,
può, senza invidia, senza perché, oltre ogni forma di libertà e necessità, e
perciò di arbitrio, volersi come quel Nulla nel cui abisso l’Altro, ovvero
l’Essere, trova il proprio incondizionato fondamento e attuarsi10 … un vo-
lere impossibile per un Uno-Uno, per un Uno che non ammette possibile,

7 Cfr. Bontempi 2009, 91: «prima di qualsiasi determinazione – uno, identico, es-
sere, etc. – chiameremo agathòn il principio, a dire il contenersi e giustificarsi
di tutte quelle nella loro compiutezza, ma anche la loro non esaustività e non
costrittività rispetto alla natura dell’arché».
8 Si veda pure Bontempi 2009, ibid.
9 In proposito cfr. anche Bontempi 2009, ibid. Le presenti considerazioni possono
essere consolidate o ampliate-approfondite mediante le stimolanti riflessioni sulla
natura del Principio e della sua libertà proposte, a partire da altre correnti di pen-
siero, in Pareyson 2000, 7-81 passim, 119-134, 170-178, 281-292, 295-298, 439-
478 passim; Cacciari 2001, 85-87, 139-149; Coda 2003, 316-331; Donà 2008,
21-234 passim.
10 Interessanti spunti di approfondimento riguardo a questo tema possono venire
dalle considerazioni sull’Inizio svolte in Cacciari 2001, 181-182, 198-205.
Della libertà di farsi Bene 61

e che rimane racchiuso, ovvero determinato, da un trascendere vuoto di


ogni potenza.
Bene è possibilità di un volere superessenziale e immediatamente at-
tuante che, trascendendo ogni prolessi, si dona come potenza e sostanza
dell’Essere: è la metadimensionale potenza, la somma duvnami" che, non
determinata dalla propria assolutezza, nel niente di un incollocabile istan-
te, improvvisamente (ejxaivfnh"11) s’inabissa nel proprio Nulla, dimensio-
nandosi come assoluto Fondamento e incommensurabile Misura, vale a
dire comunicandosi ad un Altro come radice tanto della sua essenza quanto
della sua autonomia. Bene è, quindi, l’Un-Grund che, appunto in quanto
tale, è Non-Dualità con il farsi Ur-Grund; è il Fondamento in-fondato e
non fondabile che, a partire dalla propria abissalità, sostiene e compenetra
il proprio manifestarsi, e questo fino al fondo di una possibile integrale
scissione dalla radice di quel manifestarsi: è l’autocomunicarsi, l’assenza
d’invidia che riesce tanto a porre quanto a trascendere, anche nella sua

11 Il concetto platonico di improvvisamente-istante (ejxaivfnh") è particolarmente


adatto a connotare l’originario, abissale salto (l’Ur-Sprung) oltre il Nulla che
conduce il Bene superessenziale a farsi Essere. In Parm. 156d6-e3 l’istante
(ejxaivfnh") viene caratterizzato come quell’incollocabile (a[topo" d1, 7) che,
fuori dal tempo (ejn oujdeni; crovnw/ d6), dimora tra (metaxuv) i due stati coinvolti
in un processo di mutamento (ad esempio, nel passaggio dal moto alla quiete,
o viceversa), e che costituisce il non dimensionale punto di transito, ossia di
discontinuità, fra uno stato e l’altro, ovviamente senza appartenere ad uno dei
due stati. Negli scritti platonici questa funzione di ponte e discontinuità fra stati
o dimensioni dell’essere l’istante-improvviamente non la assume solo quando il
mutamento avviene in senso orizzontale (come nel caso di quiete e moto), ma
anche quando il suo senso è verticale, e pertanto indica un salto di dimensione:
particolarmente significativi in proposito sono luoghi come Symp. 210e4 (salto
dalle manifestazioni del Bello al Bello in sé); Resp. 515c6-7 (liberato dalle cate-
ne, il prigioniero della caverna viene indotto a mutare improvvisamente la propria
condizione, ossia ad alzarsi, a voltarsi e a guardare in alto verso la luce); 516a3
(sulla soglia che separa le tenebre della caverna dalla luce del mondo esterno,
improvvisamente il prigioniero liberato dalla caverna si trova inondato dalla luce
del sole); 516e5-6 (il liberato che vuole tornare nella caverna, varcata la soglia,
si trova disorientato, perché improvvisamente viene avvolto dall’oscurità); Ep. 7,
341c7 (il passaggio alla forma più alta di esperienza del vero, a partire dagli stadi
precedenti del cammino conoscitivo, ha luogo improvvisamente). Su questa fun-
zione del concetto platonico di istante si vedano le interessanti osservazioni di
Barbaric 1999, 47 e Schölles 2007, cap. I. 1. i. Sull’ejxaivfnh" come il tra, come
il nulla che rende possibili gli opposti cfr. Beierwaltes 1966-67, 272-275; su
istante e contraddizione si veda Vitiello 1988. Per il legame fra istante e origine
dell’Essere cfr. Barbaric, 48. Un’ampia bibliografia sul concetto di ejxaivfnh" in
Platone si può trovare in Napolitano Valditara 2004, n. 37.
62 Oltre l’Uno ed i Molti

forma più radicale, il limite dell’alterità, manifestandosi fin nel precosmico


caos della materia visibile, ovvero facendosi Demiurgo di una corporeità
illuminata dalla Bellezza (tou` kallivstou te kai; ajrivstou dhmiourgov"
Tim. 68e1-2; cfr. 30a6-7; 53b2-7).
Nell’orizzonte qui aperto l’esperienza del Bene cui aspira la filosofia di
Platone si rivela quale incontro con la radice di una integrale, autentica-
mente assoluta libertà. Il Bene non è lo sclerotico fondamento di un vivere
ispirato ad un filisteismo legalistico, o soffocato da un’etica prescrittiva,
ma è la radice di ogni autentica individualità: di una vita che ha attinto il
fondamento di Essere e Vero (Resp. 508d5), di ogni essenza, e perciò può
divenire autonomo principio della propria identità. Chi ha conosciuto il
Bene, ossia il filosofo che ha raggiunto la meta del proprio percorso, tra-
scende pertanto ogni legge (Pol. 294a7-b6), poiché ha in se stesso la divina
sostanza che nutre ogni autorità e governo, tanto esteriore quanto interiore
(cfr. Resp. 590c8-591a3): la sostanza dell’ordine che regge ogni sfera e
manifestazione dell’Essere, dando forma alla natura di ogni ente.
Chi ha incontrato il Bene, il filosofo realizzato, vive una vita integral-
mente libera12. Per sperimentare l’oltre l’Essere ha infatti dovuto trascen-
dere ogni manifestazione, e quindi ogni determinazione dell’Essere. In
altre parole, nell’incontro col Bene ha vissuto un’esperienza assoluta-
mente non influenzata da ogni altra forma di esperienza, un’esperienza
radicalmente individuale, e per questo generatrice di autentica libertà.
Sostenuto dalla luce del Bene, il suo agire trascende allora ogni condizio-
namento non solo da parte di un qualsiasi vissuto, ma anche da parte di
ogni possibile regola, tanto esteriore quanto interiore; perciò, al contrario
di ogni legge, si manifesta sempre come adeguato a farsi mediatore del
buono e del giusto nell’individualità di ogni situazione (cfr. Pol. 294a7-
b6). La libertà che ne deriva non è, però, vuoto e narcisistico arbitrio,
né si fa nichilistica retorica dell’al di là del bene e del male. Ché l’oltre
l’Essere non è l’abisso di un’egotistica vanità, né inane volontà di poten-
za, ma intrascendibile potenza (duvnami") che, lo abbiamo visto, senza
perché vuole l’Essere come Altro. Una potenza che, certo, è oltre il farsi
Bene, oltre il farsi Principi(o) e potenza, ma che appunto per questo è la
Non-Dualità con il proprio attuarsi come Bene, col proprio donarsi come
agatopoiesi13: è, questa, la potenza del filosofo Socrate, potenza che,

12 Più volte negli scritti platonici viene sottolineato l’intrinseco rapporto tra filosofia
(o educazione filosofica) e libertà: cfr. Resp. 387b4-6; 486a-b5; 499a4-6; 590c8-
591a3; Theaet. 172c8-d2; 173a4-b2; 175d6-176a1; Soph. 253c7-9.
13 Efficaci considerazioni sul Principio, sull’Inizio come Possibile uno con la propria
Im-possibilità si possono trovare in Cacciari (2001), 141-145.
Della libertà di farsi Bene 63

senza invidia (Apol. 33a8), incondizionatamente, a partire da una liber-


tà integrale, si effonde (Euthyphr. 3d8) per rendere l’altro partecipe del
Bene, inabissandosi nelle tenebre della caverna (Resp. 516c4-517a7)14. E
in quell’inabissarsi trascende ogni forza che la nega, fino ad affermarsi
oltre il baratro della morte.

14 Su Socrate come paradigma dell’assenza di invidia, ossia della volontà di comu-


nicare il Bene, si veda Lavecchia 2006, 250-252.
65

8.
UN ESPERIMENTO DI COMPARAZIONE:
UN INNO VEDICO
E LA PROTOLOGIA PLATONICA

Deus est monos, monadem ex se gignens,


in se unum reflectens ardorem.
Liber viginti quattuor philosophorum I1

Le considerazioni svolte finora riguardo alla filosofia platonica dei(-l)


Principi(o) in qualche lettore hanno forse ingenerato un certo senso di di-
sagio. Qualcuno si può esser chiesto: tutto questo ragionare di un Principio
che trascende Uno e Molti, che in sé contiene il proprio negarsi, e che pro-
prio tramite quel negarsi si fa assoluta presenza nel proprio manifestarsi …
tutto ciò non implica forse l’arbitraria applicazione al pensiero platonico di
categorie concettuali seriori, in particolare ricavate dalla filosofia neopla-
tonica o dall’Idealismo tedesco?
A questo, per molti versi comprensibile, interrogativo si può rispondere
prima di tutto con una osservazione generale: in relazione ad aspetti deter-
minanti della filosofia platonica dei(-l) Principi(o) le fonti sono del tutto
carenti e lacunose, o estremamente succinte; in particolare questi limiti
delle fonti sono riscontrabili, purtroppo, proprio riguardo a temi centrali
nella presente ricerca, ovvero riguardo ad una precisa caratterizzazione del
rapporto fra Uno e Dualità Indeterminata, e, in maniera del tutto radicale,
riguardo al salto dai(-l) Principi(o) all’Essere. Di fronte a questo fatto, piut-
tosto che rinunciare all’interpretazione si è preferito ricorrere ad una certa
dose di, sperabilmente sana, divinatio, e si è tentato di integrare le fonti,
ossia di proporre interpretazioni non documentabili mediante la lettera di
un qualche testo, ma percepite in armonia con la sostanza della filosofia
platonica. Ora, il fatto che queste interpretazioni evochino concetti attestati
in forme di pensiero succesive a Platone non può valere come obiezione, se
non a partire da un atteggiamento mosso dal pregiudizio.

1 Citato secondo il testo del manoscritto più antico, il cod. L (Laon, Bibl. Mun.
412): cfr. Hudry 1989, 89. Gli altri manoscritti hanno Deus est monas monadem
gignens etc.
66 Oltre l’Uno ed i Molti

Al di là di quanto appena osservato, le riflessioni che seguono mirano a


mostrare come, se di echi si vuol parlare, in realtà l’interpretazione della
protologia platonica fornita nelle pagine precedenti echeggi prima di tut-
to forme di pensiero molto più arcaiche rispetto al filosofare di Platone.
In particolare si vogliono qui evidenziare i possibili, interessanti punti di
contatto con un famoso inno cosmogonico del ¸g-Veda2, inno databile al
1100-1000 a. C.3.

¸g-Veda X 1294

1. Allora non c’era né l’essente né il non-essente. Non c’era lo spazio né


la volta celeste sopra di esso. Cosa faceva da limite? Dove? Sotto la prote-
zione di cosa? Cos’era l’acqua, l’abissalmente profondo?

2 Per una breve introduzione generale ai principali motivi cosmogonici del ¸g-
Veda cfr. Oberlies 1998, 363-390 (con ampia bibliografia).
3 Una trattazione riassuntiva riguardo alla datazione dei componimenti raccolti nel
¸g-Veda si può trovare in Oberlies 1998, 152-159. Recentemente le interessanti
possibilità di confronto fra pensiero greco e pensiero indiano antichi sono state
messe in luce nelle ampie trattazioni di Mc Evilley 2002 (su Platone cfr. 157-
224, comunque senza approfondimenti riguardo alla protologia) e Pinchard 2009.
Si vedano le importanti puntualizzazioni in Sassi 2009, 27-50. Ovviamente la
comparazione fra cosmogonia vedica e protologia platonica svolta in questa sede
non vuole stimolare una ingenua, più o meno meccanica ricerca di eventuali fonti
riguardo alla filosofia platonica dei(-l) Principi(o). Semplicemente si vuole mo-
strare che le interpretazioni qui proposte in rapporto a quella filosofia inseriscono
il pensiero platonico in un universo concettuale piuttosto arcaico. Se, come già
detto, in relazione ad alcuni problemi centrali nella protologia di Platone le fonti
sono in parte o del tutto carenti, allora, pur con tutte le doverose cautele del caso,
quell’universo concettuale può fornire importanti integrazioni ad ogni ricerca che,
senza pregiudizi, tenti di attingere le sfere più profonde della riflessione platonica
sui(-l) Principi(o).
4 Il lettore italiano può accedere facilmente ad una traduzione completa (con note di
commento) mediante tre raccolte antologiche di componimenti vedici: Ambrosini
1981, 126-127; Panikkar 2001 [1977], I, 76-78; Sani 2000, 65. Una bibliografia
generale riguardo al ¸g-Veda viene fornita in Sani 2000, 331-335. La traduzione
parziale qui tentata è frutto di una discussione del testo condotta insieme con Sa-
bine Ziegler, che ringrazio sentitamente per l’aiuto fornitomi. Il presente tentativo
si fonda, ovviamente, anche sul confronto con le principali traduzioni di questo
inno. Riguardo ai luoghi più discussi qui non si potrà dare un panorama esaustivo
delle varie ipotesi d’interpretazione. In nota si citeranno solo i contributi e le tra-
duzioni da cui si sono tratti spunti rilevanti ai fini della presente riflessione. Per un
elenco delle principali traduzioni si rinvia a Sani 2000, 331-332.
Un esperimento di comparazione: un inno vedico e la protologia platonica 67

2. Non c’era la morte né l’immortalità allora. Non c’era la manifestazio-


ne né del giorno né della notte. Respirava, senza alitare, autodeterminato,
Questo, lui solo. Davvero non esisteva nient’altro al di là di Questo.
3. Al principio tenebra era nascosta da tenebra. Questo Tutto era corren-
te salata immanifesta (non percepibile, indiscernibile). Ciò che, vuoto, era
avvolto dal vuoto, questo si generò come Uno (Unico) mediante la potenza
del proprio ardore.
4. Al principio Questo si mosse (concentrandosi) come desiderio, e ciò
fu il primo seme del pensiero.

Le strofe iniziali di questo inno rinviano a due stati chiaramente distin-


guibili: uno stato precosmico, in cui sussiste solo ciò che si farà Principio
di tutte le cose, ma che ancora non è Principio (strr. 1-2); ed uno stato di
principio del cosmo, legato al generarsi del pensiero, a sua volta nato dal
Principio di tutte le cose (strr. 3-4). Il primo stato viene caratterizzato come
radicalmente trascendente rispetto ad ogni determinazione, anche rispetto
alle determinazioni più universali, come quelle di essere e non-essere (str.
1). In questa condizione di totale in-determinatezza nessuna fra le polarità
costituenti l’Essere è manifesta: i contrari a partire dai quali il cosmo si
struttura (morte e immortalità, giorno e notte) sono ancora indifferenziati
(str. 2). In questo stato di assoluta trascendenza rispetto ad ogni forma di
essere dimora l’Assoluto, o, potremmo anche dire, il Metaprincipio: un
Questo del tutto incondizionato, e quindi completamente autodeterminato,
la cui vita è attività trascendente ogni manifestazione, «respiro che non
alita» (ibid.).
Trascendendo ogni forma di determinazione, l’Assoluto, il Metaprinci-
pio, non viene qualificato mediante un nome: è semplicemente un Questo,
di cui si sottolinea enfaticamente l’unicità (str. 2); unicità che, parados-
salmente, lo pone oltre lo stesso essere Uno, oltre l’Unità. Perché l’Unità,
l’Uno, viene percepito come risultante dal primigenio autodeterminarsi-
autofecondarsi dell’Assoluto, a partire dal quale il preprincipiale Questo
si genera come Principio di tutte le cose (str. 3)5. L’intrascendibile stato

5 Nella traduzione di tád ékam nella strofe 2 mi pongo sulla stessa linea di
Hillebrandt 1913, 133 e Sani 2000, 65, che rendono rispettivamente con «nur
das Das» e con «soltanto Ciò, unico». In questo modo diviene chiara l’ovvia
distinzione rispetto al tád ékam della strofe 3, riferito al Questo che appunto
compie il salto dalla propria assoluta trascendenza al generarsi come Uno. Per
una indagine generale su éka negli inni vedici cfr. Soressi 1987. Il Principio che
è Uno appare preceduto da un Metaprincipio anche in ¸g-Veda X 82, 6, dove
l’Uno è posto nell’ombelico del Non-Nato (ajá). In X 121, 1 l’aureo embrione
68 Oltre l’Uno ed i Molti

preprincipiale dell’Assoluto, marcato, rispetto all’in principio (str. 3), da


un indefinito allora (str. 1), può essere quindi caratterizzato come un al di
là dell’Uno e dei Molti, in cui sono contenute-affermate e allo stesso tem-
po eccedute-negate, oltre ogni (anche potenziale) differenziazione e op-
posizione, tutte le possibilità dell’Essere e del Non-Essere6. Ovviamente,
l’in-sussistenza di qualsiasi determinazione, incluse quelle universalissime
di essere e non-essere, qui non è difetto, ma eccesso, sovrabbondare di
potenza e possibilità: un sovrabbondare che è il respiro del Questo, un
azione-agire non agente che trascende ogni manifestarsi (str. 2), perché tra-
scende le polarità di causa ed effetto, attivo e passivo, soggetto ed oggetto,
interiore ed esteriore, affermazione e negazione.
In rapporto all’inizio del cosmo lo stato precosmico viene rappresentato
quale condizione di fecondità, quale autofecondarsi che conduce il Meta-
principio a generarsi come Uno, come Principio. Questa autogenerazione
ha luogo mediante un ardore (tápas: cfr. str. 3), un calore-fervore produtti-
vo che, al modo dell’ardore ascetico (anch’esso indicato mediante la parola
tápas)7, può essere caratterizzato come attività tanto di concentrazione-
condensazione quanto di espansione. Primo esito di questa attività è l’as-
soluta tenebra, l’assoluto vuoto, il primigenio Non-Essere, da cui traggono
origine tutte le forme dell’Essere8. Un Non-Essere che è tenebra avvolta da

del cosmo, ovvero l’Uno (cfr. ¸g-Veda X 82, 5-6), viene rappresentato come
prodotto di una generazione (e quindi, implicitamente, di un genitore). A puro
titolo di comparazione sia concesso menzionare la concezione espressa in Tao
tê ching 42, dove il Tao viene presentato come ciò che genera l’Uno, che a sua
volta genera il Due, che a sua volta genera il Tre, da cui vengono generate tutte
le cose.
6 Ecco perché questo stato, e, in particolare, il passaggio-discontinuità fra questo
stato e il principio, non possono essere colti con precisione a partire da nessuna
forma di essere e di conoscenza, neppure divina: anche gli dèi si trovano infatti
al di qua del momento in cui l’universo viene principiato (6). Ciò spiega il tono
radicalmente interrogativo (in senso apofatico piuttosto che scettico) con cui l’in-
no si conclude (6-7). Lo stesso tono pervade l’inno dedicato al dio che si genera
come aureo embrione del cosmo (¸g-Veda X 121), inno in cui il Principio di tutte
le cose appare come trascendente qualsiasi caratterizzazione se ne possa fornire
(traduzioni italiane annotate in Ambrosini 1981, 114-116; Panikkar 2001 [1977],
I, 94-96; Sani 2000, 68-70).
7 Sul significato di tápas cfr. pure le osservazioni contenute in Panikkar 2001
[1977], I, 78-80.
8 Per il Non-Essere come origine dell’Essere cfr. ¸g-Veda X 72, 2 e 3, e le osserva-
zioni al riguardo in Falk 1994, 20-22. Di nuovo a titolo di comparazione si rinvia
a Tao tê ching 40, dove il Non-Essere viene caratterizzato appunto come origine
dell’Essere.
Un esperimento di comparazione: un inno vedico e la protologia platonica 69

tenebra, quindi un vuoto, un Nulla, una Notte9 che, antinomicamente, con-


tiene in sé, non ancora estrinsecata, una originaria Non-Dualità di opposti
(3): la Non-Dualità sussistente fra il puntiforme, sommamente determinato
(ma adimensionale) embrione del Tutto, generato dall’ardore del Metaprin-
cipio, però ancora vuoto (åbhú10) di essere, e, quasi sfera di raggio infini-
to, lo spazio vuoto (tuchyá) prodotto dall’autofecondarsi-concentrarsi del
Metaprincipio (3).
In base al modello biomorfo di cosmogonia presupposto nel nostro in-
no11, l’autofecondarsi e autogenerarsi del Metaprincipio implica il più alto
grado di attività autoriflessa, non essendovi altro al di là del Questo (str.
2). Per fecondarsi il Metaprincipio deve concentrarsi su di sé, e ciò produ-
ce il suo estremo autocondensarsi nell’embrione del cosmo (cfr. ¸g-Veda
X 121, 1), in ciò che è potere di farsi Uno-Principio. A questo autocon-
densarsi corrisponde, ovviamente fuori da ogni successione o separazione,
l’aprirsi del già menzionato, indefinito spazio vuoto, che conterrà in forma
negativa, ovvero nella forma di pura potenzialità, tutte le possibili forme di
essere. Nei confronti di questo spazio il Metaprincipio eserciterà, in qualità
di Uno, la propria attività produttrice di determinazione.
Su questo sfondo il cominciamento appare prodotto, come ormai dovreb-
be risultar chiaro, da una originaria generazione e Non-Dualità di due som-
mi opposti, dal coimplicarsi di Uno-Principio e Nulla12, di embrione cosmi-
co e indefinita-vuota, immanifesta corrente vitale che di quell’embrione è
il ricettacolo. Questa coimplicazione è data dal fatto che, per autogenerarsi
come Uno-Principio, mediante il proprio ardore il Metaprincipio deve farsi
tanto soggetto quanto oggetto, tanto principio formale (embrione) quanto
principio materiale (spazio vuoto-acque primordiali) della propria attività,
ponendo quindi in se stesso la radice delle polarità mediante cui l’Essere
si costituisce. Altrimenti detto, a partire dal proprio incondizionato deter-

9 La Notte è frutto del tápas cosmogonico in ¸g-Veda X 190, 1.


10 Åbhú è il testo del pada-på†ha. Renou 1956, 125, traduce efficacemente questo
luogo quanto mai discusso con «(principe) vide et recouvert de vacuité».
11 Per un sintetico quadro generale riguardo a questo modello di cosmogonia negli
inni vedici cfr. Oberlies 1998, 376-383.
12 Questa principiale compresenza di Uno e Nulla-Vuoto all’origine dell’universo
costituisce, naturalmente non nel senso di una filiazione, un interessante antece-
dente per alcuni modelli di creatio ex nihilo incentrati sulla originarietà di Princi-
pio e Nulla (trascesi da un Metaprincipio) o sulla autocontrazione del Principio:
si vedano gli stimolanti esempi tratti dalla speculazione giudaica, cristiana ed
islamica in Scholem 1996 [1970], 53-89 (che però non istituisce raffronti con la
cosmogonia vedica). Sulle origini della dottrina riguardante la creatio ex nihilo
nella teologia cristiana si veda May 1978.
70 Oltre l’Uno ed i Molti

minarsi, il Metaprincipio si pone tanto come agente determinante, ossia


come embrione che si fa Uno-Principio, quanto come sostrato-spazio som-
mamente indeterminato, ossia come corrente-acqua primordiale: in questo
modo diviene origine dell’Essere e di tutte le sue determinazioni.
Ma perché un agire non agente, un’attività immanifesta, ovvero il re-
spiro senza respiro del Questo, improvvisamente li vediamo manifestarsi
come calore che dà luogo alla generazione dell’Uno e del suo opposto?
La risposta viene data all’inizio della strofe 4: il Metaprincipio si muove
e si concentra come desiderio (kåma), come e[rw"; e questo desiderio (di
automanifestarsi13) diviene seme del pensiero, dell’intelletto-intelligenza
(mánas-mente), vale a dire di un’attività che in quanto tale non può non
farsi radice di una polarità, ovvero di una differenziazione fra soggetto e
oggetto. Ora, ovviamente il Metaprincipio non ha alcun oggetto al di fuori
di se stesso; quindi il suo desiderare-pensare lo porta a concentrarsi su di
sé, a farsi oggetto della propria attività: si manifesta così quell’ardore pro-
duttivo mediante il quale, lo abbiamo già visto (str. 3), il Metaprincipio si
compenetra e feconda; vale a dire si manifesta il fervore-calore mediante il
quale si produce il differenziarsi dell’Ingenerato dall’Uno14.
Nel quadro fin qui tracciato il pensiero si rivela come l’attività ontopoie-
tica che fa del Metaprincipio l’Uno produttore dell’Essere. Il pensiero è ciò
mediante cui l’Indicibile si dice Principio e dice il Tutto; è la radice della
Parola creatrice che genera il Padre dell’universo (¸g-Veda X 125, 7)15:

13 L’idea che l’originario desiderio del Metaprincipio sia legato al volersi manifesta-
re è esplicita già nei Bråhma~a: si vedano gli esempi riportati in Panikkar 2001
[1977], 105-107 e 145-147. Cfr. pure Taittir⁄ya-Upani‚ad II, 6.
14 La distinzione fra Ingenerato (Non-Nato) e Uno è evidente nel già menzionato
¸g-Veda X 82, 6.
15 La Parola creatrice può essere intesa come emanazione del respiro senza respiro
cui si accenna in ¸g-Veda X 129, 2; respiro che, a sua volta, quale primigenia,
ancora non manifesta tendenza alla condensazione, può essere considerato origine
delle acque primordiali. In altri termini, il respiro immanifesto del Metaprincipio
è, come ovviamente implicito nell’immagine, presupposto tanto di un alito (pa-
rola) quanto dell’umido (acqua) derivante da quell’alito. In ¸g-Veda X 125, 7
la Parola si presenta come lo spirare di un cosmico vento che, originatosi nelle
acque primordiali (7), si diffonde per tutto l’universo e abbraccia ogni forma di
essere (7-8, traduzioni italiane annotate in Ambrosini 1981, 120-122; Panikkar
2001 [1977], I, 130-132; Sani 2000, 106-107). In Çatapatha-Bråhma~a X, 5, 3,
1-5, che interpreta ¸g-Veda X 129, l’ardore cosmogonico è frutto della Parola
creatrice che desidera manifestarsi. Per il fuoco, e quindi l’ardere come generato
dalle e nelle acque primordiali, quindi nel sostrato in cui si origina la Parola, cfr.
ad esempio ¸g-Veda X 121, 7 (per la nascita del fuoco dall’acqua si vedano i luo-
ghi menzionati in Oldenberg 1917, 106-111; e Gonda 1960, 68-69). Per l’attività
Un esperimento di comparazione: un inno vedico e la protologia platonica 71

dal primigenio pensiero del Metaprincipio nasce Viçvákarman, il fattore


di tutte le cose, il pantopoiov" che, facendosi mediatore e signore della
Parola cosmopoietica, diviene Poeta-Demiurgo del Tutto (¸g-Veda X 81 e
8216). Il pensiero, in altri termini, è il calore e la luce del fuoco primordiale
che il Metaprincipio emana a partire dal proprio desiderio di automanife-
starsi17: fuoco che feconda le precosmiche acque primordiali, e si genera
come embrione e artefice del Tutto (cfr. ¸g-Veda X 121, 718); fuoco che
diviene cosmico sole, fonte di vita per ogni forma di essere19.

Riassumendo, l’inno fin qui considerato presuppone una ontogonia-co-


smogonia articolata in tre momenti: a) un momento preprincipiale, con un
inconoscibile e indicibile, in tutto e per tutto incondizionato Metaprincipio,
con un Questo che trascende ogni determinazione e realtà, compresi Essere
e Non-Essere, e che viene caratterizzato come attività autodeterminata e
non manifesta (strr. 1-2); b) il momento del principio, in cui, mediante
desiderio e ardore, il Metaprincipio si fa intelligenza autofecondantesi, e
si genera come originaria, non-duale opposizione di Uno e Vuoto-Nulla,
di sommamente determinato e sommamente indeterminato (str. 3-4); c) il
momento della cosmopoiesi, che nel nostro inno resta inesplicato (cfr. strr.
5-7), momento in cui, fattosi mente-intelletto e pensiero, il Metaprincipio

cosmopoietica della Parola si veda prima di tutto l’autocaratterizzazione della


Parola stessa in ¸g-Veda X 125; cfr. inoltre i luoghi indicati in Scharbau 1932,
125-131 e Brown 1968.
16 Traduzioni italiane annotate di ¸g-Veda X 81 si trovano in Ambrosini 1981, 80-
82 e Sani 2000, 66-67. Viçvákarman, il produttore di tutte le cose, è poeta in
¸g-Veda X 81, 1; signore della parola in 81, 8. Per il dio produttore del Tutto
come artigiano-demiurgo cfr. ¸g-Veda I 160, 4 e IV 56, 3 (immagine dell’ar-
tigiano-artista); X 72, 2 e 81, 3 (immagine del fabbro che salda e lega diverse
componenti); 81, 4 (immagine del falegname). Sulle immagini tecnomorfe nella
cosmogonia del ¸g-Veda cfr. Scharbau 1932, 112-117; Oberlies 1998, 373-376.
L’intrinseco legame fra il Demiurgo vedico ed il pensiero è evidente, ad esempio,
in ¸g-Veda X 81, 7; 82, 1-2.
17 Sull’intelligenza e sul pensiero in rapporto all’origine del cosmo si veda Gonda
1983.
18 Sull’identità fra Agní e l’embrione del cosmo cfr. Gonda 1973.
19 In ¸g-Veda X 170, 4 il sole viene presentato come emanante da Viçvákarman
(cfr. anche la traduzione italiana in Ambrosini 1981, 144-145), identificato con il
cosmico embrione in ¸g-Veda X 82, 5-6 (l’irraggiare del sole è prodotto dell’at-
tività di Indra Viçvákarman in VIII 98, 2). Il Fuoco divino viene direttamente
identificato con il sole in ¸g-Veda III 14, 4; VIII 56, 5; 58, 2 (identificazione con
l’Uno che si dispiega nell’universo); X 88, 2-3, 6, 9-14 (cfr. pure Oldenberg 1917,
109 e Gonda 1973).
72 Oltre l’Uno ed i Molti

diviene l’Uno, ossia l’embrione e il Demiurgo del Tutto, dispiegandosi e


manifestandosi in un sostrato originariamente privo di determinazione (nel
Nulla generatosi come opposto rispetto all’Uno)20.
Una comparazione scevra di pregiudizi non può non rilevare le forti
analogie della protologia e della cosmologia platoniche rispetto a due fra i
suddetti momenti, vale a dire rispetto ai momenti b) e c).
Un quadro analogo al momento b) risulta dalle fonti relative all’insegna-
mento di Platone sui(-l) Principi(o). Secondo quell’insegnamento l’Essere
si origina infatti, lo abbiamo visto, dalla principiale Non-Dualità di un
Uno e di una Dualità Indeterminata, Dualità Indeterminata che appare ca-
ratterizzata anche come spazio e vuoto. Inoltre, nella cosmologia platonica
riecheggia la primordiale, indefinita corrente salata evocata in ¸g-Veda
X 129, 3 (salilá): la ritroviamo nell’immagine dell’indefinito mare della
dissomiglianza (to;n th`" ajnomoiovthto" a[peiron … povnton Plat. Pol.
273d6-e1), precosmico sostrato dell’attività esercitata dal Demiurgo.
Il terzo momento della ontogonia-cosmogonia presupposta nel nostro
inno vedico viene richiamato dall’attività del divino Intelletto che in Pla-
tone si fa Demiurgo dell’universo. Un Intelletto che, come l’Uno-Pensiero
del ¸g-Veda, si trova di fronte ad una realtà sommamente indeterminata
(Plat. Tim. 30a2-6; 47e3-53c3; 69b2-c5); un nou`" che, quale sommo mani-
festarsi, quale Idea del Bene (cfr. Resp. 517c1-5), attinge, come il vedico
Viçvákarman, dalla solarità della propria natura, ovvero dal calore (dal
fuoco) del sole-Bene, la potenza e l’attività produttrici del Tutto21, ope-
rando, mediante la propria sapienza (sofiva), la retta armonia fra genere
determinante e genere indeterminato dell’Essere (Phil. 28c1-31a).
Nelle testimonianze riguardanti la filosofia platonica dei(-l) Principi(o),
e così nei dialoghi di Platone, manca del tutto ciò che nell’inno vedico
qui esaminato è momento pre- e metaprincipiale. Ma Platone ci dice che
il cosmo viene generato perché il Demiurgo è Intelligenza buona, Intel-
ligenza che, priva di ogni invidia, e quindi incondizionatamente pronta a
donarsi, vuole rendere ogni cosa simile a sé, al proprio essere buona (Tim.
29d7-30a6). Platone ci fa pure comprendere che il manifestarsi, l’Idea
del Bene, Principio e sostanza d’ogni intelletto-intelligenza-conoscenza-
conoscibile, e quindi origine dell’Essere in ogni sua forma, è il calore e la

20 Per il Principio-Demiurgo vedico come autodispiegato, e quindi autosacrificato


nel Tutto cfr. ¸g-Veda X 81, 1 e 5-6. In X 125, 7-8 è la Parola, generatrice del dio
produttore del cosmo, a dispiegarsi e manifestarsi nell’universo.
21 Per il Bene come radice dell’attività cosmopoietica del nou`" cfr. le chiare osser-
vazioni di Phaedo 97b7-99c6. Riguardo all’identità di Demiurgo, supremo Intel-
letto e supremo Intelligibile (Idea del Bene) in Platone si veda la n. 6 del cap. 1.
Un esperimento di comparazione: un inno vedico e la protologia platonica 73

luce intelligibile da cui emana ogni ente, il calore e la luce che generano
tanto le radiose essenze divine quanto la luce ed il sole sensibili (Resp.
517b7-c5). Per Platone il manifestarsi del Bene è, allora, fuoco di Pensiero
che, desideroso di rivelarsi-donarsi, diviene Sophía, supremo Principio di
consonanza-armonia22, e, producendo sempre la retta mescolanza fra i co-
stituenti dell’Essere, sostanzia la natura d’ogni cosa (Phil. 30a9-c7): fuo-
co di Sapienza che, come la Parola del ¸g-Veda, fa risuonare l’armonia
che essenzia la vita di un Tutto …23 Da dove potrà generarsi quel fuoco,
quella luce, se non dalla luminosa tenebra posta oltre ogni luce, ovvero,
come nella ontogonia-cosmogonia vedica, dalla sfolgorante tenebra di un
solare Metaprincipio? Chi l’accenderà, senza perché, improvvisamente,
se non un Oltre-l’Uno-ed-i-Molti, ardente di farsi embrione d’un cosmo,
d’immag(in)arsi nel fecondo Nulla dal cui abisso si genera l’Uno?

22 Il rapporto tra sofiva e consonanza-armonia è evidente in Resp. 443c9-444a2 e


Leg. 689d4-7.
23 Il nesso fra attività cosmopoietica e rapporti musicali è chiarissimo, ad esempio,
in Tim. 34b10-36d7.
75

9.
DALL’ONTOLOGIA ALL’AGATOLOGIA:
LA CONTEMPLAZIONE CREATRICE COME
SOSTANZA DEL FILOSOFARE PLATONICO

Weisheit ist moralische Wissenschaft


und Kunst
Novalis, Allgemeines Brouillon nr. 277

L’itinerario fin qui percorso ha svelato alcuni tratti del pensiero plato-
nico che, per l’azione di più o meno asfissianti pre-giudizi ermeneutici,
troppo spesso rimangono occultati. Ora, a conclusione di quell’itinerario,
sia concesso focalizzare l’attenzione su quei tratti e caratterizzarli in una
breve sintesi, articolata in una serie di punti, affinché si delinei nella ma-
niera più limpida il concreto volto della filosofia platonica che essi permet-
tono di ritrarre. Un volto che, per molti versi, a qualcuno risulterà degno
di meraviglia.

a) Il filosofare platonico non trae la propria sostanza da una metafisi-


ca o ontologia dell’Uno: è, piuttosto, una agatologia della Non-Dualità1.
Perché, riconducendo al Bene i(l) Principi(o) dell’Essere, la filosofia di
Platone ci stimola a sperimentare, al di là di ogni manifestazione dell’Esse-
re, appunto nell’intuizione del Bene, la Non-Dualità dell’Uno e dei Molti,
dell’identità e della differenza. Eminentemente e immediatamente auto-
manifestativo, autofanico, il Bene pone infatti in se stesso, oltre ogni re-
lazione, e quindi in forma principiale, tanto il proprio Sé, ovvero l’Uno,
quanto la radice dell’Altro da sé, ossia il Non-Uno (i Molti): incondizionato
impulso a comunicarsi-donarsi, e quindi principiale possibilità dell’Altro,
il Bene è, allora, tanto piena affermazione quanto piena negazione di sé, è
Uno-Non-Uno. In altre parole, ponendosi come assoluta apertura all’Al-
tro, in sé il Bene può tanto l’Essere, fondamento d’ogni identità, quanto il
Nulla, fondamento d’ogni differenza e alterità. A questa potenza rinvia la
Non-Dualità di Uno e Dualità Indeterminata su cui è incentrato l’insegna-

1 A partire da una prospettiva diversa da quella della presente ricerca, una recente
valorizzazione del termine agatologia nello studio del pensiero platonico ha avuto
luogo in Delcomminette 2006.
76 Oltre l’Uno ed i Molti

mento protologico di Platone; un insegnamento che non può essere ridotto


ai consueti schemi interpretativi monistici o dualistici, ma che, piuttosto,
sembra provocarci al loro trascendimento.

b) La Non-Dualità costituita dal Bene, e non l’Essere, è prima radice di


ogni determinazione e di ogni ente. Di quella Non-Dualità l’Essere è l’ori-
ginaria Icona. Il rapporto fra Bene ed Essere, sebbene caratterizzato da una
gerarchia protologica, non va però inteso nei termini di una subordinazio-
ne: al di là di ogni immanenza e trascendenza, l’Essere infatti si sostanzia
nel carattere incondizionatamente autofanico del Bene. Detto altrimenti,
l’Essere è il Bene nel suo manifestarsi, la bontà del Bene, ed in quanto tale
è inseparabile dalla Non-Dualità dei(-l) Principi(o). Ne deriva un’antino-
mica coincidentia in alteritate del Bene con la sua primigenia manifesta-
zione, con la sua Idea, il che fa del Bene il sommo Ente, ossia del sommo
Ente l’Idea del Bene. In questo orizzonte l’Uno, la Dualità Indeterminata
e l’Idea del Bene vengono a costituire una tri-unità, a partire dalla quale
si rivela impossibile attribuire alla filosofia platonica una qualsiasi forma
di dualismo fra Assoluto e Mondo, Principio e Manifestazione, Archetipo
ed Icona, Spirito e Materia: Platone è tutto fuorché padre di quelle visioni
dualistiche fin troppo spesso legate al suo nome ed ai supposti limiti del
pensiero europeo.

c) Poiché l’Essere è l’immediato autorivelarsi, l’Idea del Bene, allo-


ra non si potrà più connotare l’ontologia platonica, in una qualsiasi del-
le sue manifestazioni, secondo sclerotizzate, trite formulazioni rinvianti
all’immobilità-astrattezza dei suoi oggetti più elevati. Se, infatti, l’Essere
è Icona del Bene, e se il Bene è, nel modo più incondizionato, tanto po-
tenza (duvnami" Resp. 509b9) produttrice di realtà quanto apertura alla
relazione, di necessità l’Essere avrà un carattere eminentemente dinami-
co, poietico e relazionale. L’ontologia platonica va pertanto riscoperta non
solo come ontologia agatologica, ma anche come ontologia della potenza-
poiesi e della relazione. In quest’ottica l’Idea, l’Intelligibile, suo nucleo,
non ci si presenterà più quale asfittica, più o meno cerebrale astrazione,
priva di qualsiasi sostanza vitale, ma come concreta ipostasi di un’auto-
fanica agatopoiesi e cosmopoiesi, come individualizzato e attivo manife-
starsi della potenza emanante dal Bene, ovvero come soggetto di relazio-
nalità intrinsecamente produttore di realtà. Si comprenderà, a quel punto,
perché Platone caratterizzi il mondo delle Idee in termini squisitamente
relazionali, vale a dire etici, perché lo connoti quale cosmo sostanziato di
giustizia (Resp. 500c2-5), quale universo in cui ogni componente si fa im-
Dall’ontologia all’agatologia 77

mediata manifestazione-icona del Bene. E si comprenderà perché un’onto-


logia autenticamente platonica mai potrà dimenticare che l’Intelligibile, e
la sapienza (sofiva), sostanza della sua vita, si manifestano nella maniera
più piena come attività demiurgica: come attività che, mossa dall’intima
intelligenza del Bene, senza invidia si fa produttrice d’un cosmo (Tim. 29e-
31a1; cfr. Phil. 30a9-c7).

d) In base ai tratti appena caratterizzati, mai la filosofia platonica po-


trà essere ridotta ad un pensiero che implichi una discontinuità-dualità fra
teoresi e prassi2. Il suo obiettivo ultimo, la più alta forma del conoscere,
la sophía, infatti non si esaurisce nella passiva contemplazione di un og-
getto, ma è attivo incontro con l’incondizionata e intrascendibile potenza
del Bene: potenza che, come già notato, non fagocita il soggetto cono-
scente nell’abisso di un oscuro Assoluto, ma senza invidia si comunica a
quel soggetto, rendendolo simile a se stessa, ossia produttore di realtà. Per
questo negli scritti platonici la sophía non può non manifestarsi come vera
e propria contemplazione-scienza creatrice: da un lato essa è, appunto,
scienza del Bene, e quindi scienza che dona all’uomo la piena autocono-
scenza (Alcib. I 133b2-c7), guidandolo al fondamento della sua natura e di
ogni altra natura (Resp. 517b7-c5)3; dall’altro, proprio per il suo implicare
l’esperienza del Bene, essa svela la radice di ogni attività onto- e cosmopo-
ietica, facendosi immediatamente immagine di quella radice. L’autentica
sapienza sarà dunque sempre vivente sinergia fra scienza-autoconoscenza
e produzione d’un cosmo, tanto nell’anima quanto nella vita sociale (Resp.
443c9-444a2). In altri termini, per Platone la sophía sarà sempre un sapere
che, traendo la propria sostanza dalla suprema potenza agatopoietica, im-
mediatamente, senza invidia, si farà generazione di vera virtù (cfr. Symp.
212a2-7), artefice d’icone del Bene. Un sapere che, proprio per la sua es-
senza poietica, Platone non si ritrae dall’assimilare alla sophía dell’Intelli-
genza, del nou`" che governa l’universo (cfr. Phil. 30a9-c7), vale a dire del
sommo Demiurgo. Una scienza che non sarà passivo e sterile accumulo di
dati, ma processo di radicale metamorfosi4; un’attività creatrice che, gene-

2 Per un iniziale approfondimento riguardo all’unità di momento teoretico e mo-


mento pratico nella filosofia di Platone mi permetto di rinviare a Lavecchia 2006,
132-134, 278-284 (con bibliografia alla n. 74).
3 In Phil. 64a1-3 la conoscenza di ciò che è bene per l’uomo e la conoscenza di
ciò che è bene per il Tutto vengono considerate una inscindibile unità; unità che,
ovviamente, trae sostanza dal rapporto con il sommo Bene (cfr. 64a7-65a6).
4 Sulla vera conoscenza come azione di metamorfosi cfr. Lavecchia 2006, 236-
249.
78 Oltre l’Uno ed i Molti

ratasi dall’amore per il Bello-Bene, costruisce un sempre più saldo legame


fra l’umano e il divino (Symp. 202e3-203a6), rendendo l’uomo sempre più
simile agli dèi (cfr. Theaet. 176a5-c)5.

Non la dittatura di un ideale che annienta l’autonomia dell’individuo e


del mondo; non l’improvviso dissolversi di ogni altro nell’algido barbaglio
di un geloso Assoluto, ma una sapienza, una contemplazione che, generan-
dosi nell’incontro con l’Incondizionato, con l’assoluta assenza di invidia,
senza perché si essenzia e manifesta come attività creatrice: questa è la
meta, il tevlo" che ricerca l’amico della sophía, il filo-sofo cui si rivolge
l’insegnamento di Platone. La sostanza della filosofia platonica, allora, non
potrà dimorare in una tirannica, del tutto passiva teoresi dell’Assoluto, che,
alla stregua di ogni riduzionismo, costringa all’insignificanza l’esperienza
dell’Io e la vita dell’universo. La sophía platonica non è infatti un dileguar-
si in un Uno-Uno, di fronte al quale l’Essere e le sue molteplici dimensioni
si annientano nell’inessenzialità. Al contrario, come ci dice Diotima, è at-
tività che, producendo relazioni fra l’umano e il divino, fra il materiale e lo
spirituale, si fa legame che mantiene il Tutto unito a se stesso (cfr. Symp.
202e3-203a6).
Per Platone sapiente non è chi, abbagliato dall’Assoluto, ormai ritiene il
mondo in tutto e per tutto privo di senso. Lo è invece chi, non importa se
in anacoretica solitudine o nell’agone della vita sociale, proprio perché ha
trasceso ogni sfera dell’Essere e ha incontrato il Bene, vuole farsi artefice
di senso riguardo al mondo: chi si fa icona del Bene, Principio dell’univer-
sale legame che sostanzia la vita del Tutto (Phaedo 99c5-6); chi diviene
icona del Demiurgo, del dio che, per eccellenza produttore di legami, mai
vorrà far dissolvere il mondo nell’indefinito pelago dell’inessenza, ma,
quando necessario, sempre sarà pronto ad operare per guarirlo e rigene-
rarlo, per ricostruire i legami, le relazioni che sostanziano la sua vita (cfr.
Pol. 273d4-e4). Insomma, mai la sapienza sarà pregiudiziale fuga dalla
relazionalità: sempre si manifesterà come attività produttrice di relazioni
sostanziate d’armonia (cfr. Resp. 443c9-444a2 e Phil. 30a9-c7). Perché
sophía è la suprema, la più bella forma di consonanza, di armonia (Leg.
689d6-76), l’armonia che, fondata sul cosciente rapporto con il bello e con

5 Per una caratterizzazione complessiva riguardo alla nozione platonica di sophía


sia consentito rimandare a Lavecchia 2007a e Lavecchia 2009, dove vengono
considerate anche le analogie tra la sophía e l’attività del Demiurgo.
6 … hJ kallivsth kai; megivsth tw`n sumfwniw`n megivsth dikaiovtat∆ a]n
levgoito sofiva.
Dall’ontologia all’agatologia 79

il buono (cfr. Leg. 689a5-c3), si fa radice di ogni vera intelligenza (689d4-


57), nella vita sia dell’individuo sia della città.
In quanto scienza produttrice di armonia, in quanto azione creatrice
di relazionalità, l’autentica sophía si rivela vivente immagine della Non-
Dualità costituita dal Bene. Come il Bene, il sapiente platonico non si ar-
roccherà nel solipsismo di un univoco farsi uno8, ma, allo stesso modo di
Socrate, senza invidia (Apol. 33a8 oujdeni; pwvpote ejfqovnhsa) si farà cre-
atore di relazioni, produttore di dialogo con l’altro, ovvero sarà disposto ad
effondere, a donare incondizionatamente il bene che possiede (o{tiper e[cw
ejkkecumevnw" panti; ajndri; levgein Euthyphr. 3d8), divenendo maestro
riguardo alla propria sophía (cfr. Euthyphr. 3c6-d6). Quindi la sua somi-
glianza con gli dèi (cfr. Apol. 31a9-b1) non consisterà in una fredda indif-
ferenza verso il mondo: il sapiente è divino perché la misura cui conforma
la propria vita, la realtà cui si rende simile, sia nelle parole sia nelle azioni,
è la Virtù (Resp. 498e3-49; cfr. 500c2-d3 e 613a7-b1; Theaet. 176a9-b2, b8-
c2; Leg. 716c1-d4), l’attività produttrice di relazioni che immediatamente
si fanno icone del Bene, ovvero sostanza di un mondo retto dalla giustizia
(cfr. Resp. 500c2-501c3).
Consistendo nella manifestazione della virtù, la vita del sapiente, in
qualsiasi contesto e modalità essa si svolga, sempre si essenzierà nel ren-
dere l’altro partecipe del Bene. In altri termini, peculiare non le sarà solo
un movimento anagogico, non le sarà solo l’ascesa-ascesi che conduce alla
contemplazione del Bene. Come più volte detto, nell’esperienza del Bene il
sapiente non incontrerà infatti un solipsistico Uno che ingoia ogni altro, ma
l’incondizionata potenza di un Uno senza invidia aperto all’Essere: incon-
trerà la Non-Dualità di un Uno-Non-Uno che s’inabissa, che discende nella
propria negazione per comunicarsi ad un Altro. Ora, di quell’inabissarsi
la sua vita si farà icona: quindi il suo percorso anagogico non si esaurirà

7 … pw`" ga;r a[n … a[neu sumfwniva" gevnoit∆ a]n fronhvsew" kai; to;
smikrovtaton ei\do"…
8 In Resp. 443c9-444a2 tratto peculiare della sapienza è il rendere l’individuo uno
da molti (443e1); questo però non implica che le molteplici componenti della sua
anima debbano essere annientate dal dominio dell’unica componente in tutto e per
tutto divina: quella componente divina dovrà governarle e trasformarle in maniera
tale da formare, insieme con esse, un uni-molteplice organismo retto dall’armonia
e dalla vera giustizia.
9 In questo luogo il filosofo destinato a governare viene caratterizzato come a[ndra
… ajreth`/ pariswmevnon kai; wJmoiwmevnon mevcri tou` dunatou` televw" e[rgw/
te kai; lovgw/ ktl. Particolarmente notevole è la completa ipostatizzazione
della virtù, qui presentata come archetipo della forma di vita che il filosofo vuole
realizzare.
80 Oltre l’Uno ed i Molti

nel Nulla di un Uno-Uno, ma dal sole del Bene l’autentico sapiente trar-
rà impulso per un altrettanto radicale percorso catagogico, per la discesa
nell’Ade della caverna. Lì, a rischio della vita, tenterà di distogliere i pri-
gionieri dalle ombre della falsa sapienza, di renderli partecipi della luce
irraggiata dal Bene (Resp. 516c4-517a7; cfr. 520c1-e3): perché, come lui,
possano anch’essi aiutare gli dèi a compiere il loro pavgkalon e[rgon (Eu-
thyphr. 13e11-12), la loro grande opera produttrice di Bellezza.
81

10.
METAMORFOSI DI UN’AGATOLOGIA.
FRAMMENTI DI PHILOSOPHIA PERENNITER
PLATONICA

Proinde non duo a se ipsis distantia debemus intelligere deum et


creaturam, sed unum et id ipsum. Nam et creatura in deo est subsi-
stens, et deus in creatura etc. creatur, se ipsum manifestans, invisi-
bilis visibilem se faciens etc. et omnia creans in omnibus creatum, et
factor omnium factus in omnibus etc. et fit in omnibus omnia.
Johannes Scottus Eriugena, Periphyseon (de divisione naturae)
III 678C, p. 85, 2443-2455 Jeauneau

La storia del Platonismo antico non ha rispecchiato l’armonica tensione


fra anagogia e catabasi così peculiare nella filosofia del divino Platone.
Come si è cercato di mostrare, a partire dall’esperienza del Bene Platone
percorre ancora la via di una metafisica della Non-Dualità, di una differen-
za agatologica che conduce a sperimentare un Metaprincipio oltre l’Uno
ed i Molti: una via arcaica almeno quanto alcune espressioni della cosmo-
gonia vedica; un cammino che permette alla filosofia platonica di conferire
un senso principiale alla Negazione, all’Altro dal Principio, e, di conse-
guenza, all’individualità dell’Ente. In quest’ottica la storia del Platonismo
antico può essere vista, senza con ciò voler relativizzare la sua immensa
grandezza, come storia di uno spostamento d’accento: un accento che pre-
sto viene spostato dal Bene all’Uno, trasformando l’agatologia di Plato-
ne nella henologia della tradizione platonica, la differenza agatologica in
una differenza henologica1. Questo spostamento conduce inevitabilmente
ad un sempre più netto prevalere dell’impulso anabatico-contemplativo-
excarnatorio insito nella filosofia di Platone, sempre meno bilanciato da

1 Particolarmente indicative in proposito sono le stimolanti interpretazioni di E. A.


Wyller (cui si deve la locuzione differenza henologica), che da un lato riguardo
alla protologia platonica valorizzano anche il Principio dell’alterità, fino a parlare
di henologia come allo-logia (Wyller 2003, 96 e Wyller 2005, 387), ma dall’altro
identificano il culmine del percorso indicato da Platone, appunto, con un mistero
henologico, e non agatologico: cfr. specialmente Wyller 1960 [2007], 98-105,
110-111, 183-184; Wyller 2003, 92-96; Wyller 2005, 387-408.
82 Oltre l’Uno ed i Molti

una effettiva polarità con l’impulso catabatico-demiurgico-incarnatorio


altrettanto radicalmente insito in quella filosofia2.
Se, come presupposto in modo sempre più consequenziale dai filosofi
neoplatonici, il Principio metaontologico che fonda l’Essere è prima di
tutto l’Uno, anzi l’Uno-Uno, e non il Bene, allora la possibilità dell’altro
rispetto al Principio, e con essa la relazionalità, non possono più avere un
carattere principiale3: esse trovano il proprio fondamento solo al di qua
dell’abisso che, a questo punto, sempre più separa l’Essere da un Princi-
pio sperimentato, in maniera sempre più univoca, come pura trascenden-
za non immanentizzabile. A partire da questa prospettiva necessariamente
l’esperienza del Principio non sarà l’incontro con una metarelazionalità
incondizionatamente aperta alla relazione, ma con un Assoluto in sé uni-
vocamente arelazionale4: perciò il compimento dell’ascesa verso l’Assolu-
to non consisterà più nel principiale fondarsi di un atto generatore (Plat.
Symp. 212a2-7), ossia di una sapienza che immediatamente produce icone
del Bene, ma in una unione di fronte alla quale ogni differenza, e quindi
ogni manifestazione, vengono assorbite nel nulla dell’inessenza e del si-
lenzio5. In altri termini, per un pensiero che si è sempre più decisamente

2 Con ciò non si vuole disconoscere che anche nella filosofia di Platone il rapporto
fra l’impulso ex-carnatorio e l’impulso in-carnatorio sia caratterizzato da una
tendenza a far prevalere il primo. Questa tendenza viene però sempre riequilibrata
dal carattere eminentemente poietico-automanifestativo, e quindi etico, che anche
la forma più alta di esperienza conoscitiva conserva nel pensiero di Platone. In
ogni caso, la suddetta tendenza mai sfocia in quella demonizzazione del corpo
e del corporeo in ogni sua forma spesso attribuita alla filosofia platonica. Basti
rinviare ad un luogo come Plat. Phaedr. 246d1-2, in cui persino agli dèi viene
attribuito il rapporto con un corpo; anche se, ovviamente, si tratta di un corpo
diverso da quello umano, perché è connaturato alla rispettiva anima, ovvero è
piena manifestazione della sua essenza. Un luogo come quello appena menziona-
to implica quindi che l’ideale dell’assimilazione al divino, centro della filosofia
platonica, non conduce all’annientamento di ogni rapporto con la corporeità, ma
presuppone, anche dopo il suo attingimento, il permanere di una dimensione ma-
nifestativa nella vita dell’anima. Su questa dimensione del pensiero platonico cfr.
anche Lavecchia 2006, 261-268, specialmente 262-264.
3 Si vedano anche le lucidissime considerazioni in Beierwaltes 1980, 54.
4 Emblematico risulta, in proposito, Damasc. de princ. 3, I 3, p. 6, 16-17 Westerink,
dove si enuncia come principio generale l’incondizionata superiorità di ciò che
non è coinvolto in una relazione rispetto a ciò che lo è.
5 L’itinerario del Platonismo antico verso la più radicale trascendentizzazione
dell’Assoluto culmina col tardo Neoplatonismo in quella che può essere caratte-
rizzata, appunto, come mistica del silenzio. Emblematico è a questo proposito, an-
che per l’influenza esercitata, in modo diretto o indiretto, sul successivo sviluppo
del Platonismo, il pensiero di Proclo: si veda al riguardo la chiara esposizione in
Metamorfosi di un’agatologia 83

metamorfizzato da agatologia in metafisica dell’Uno, la generazione della


virtù, e quindi la produzione di un cosmo, o, in generale, di cosmicità, ossia
il movimento che conduce lo spirituale a discendere nel sensibile, rimarrà
sempre, in ultima istanza, un’opzione radicalmente e principialmente infe-
riore rispetto all’abbraccio, al farsi uno (alla e{nwsi") con l’Uno-Uno.
Paradossalmente, l’esperienza di un Principio in sé relazionale nel-
la metarelazionalità, di un Principio che, quindi, prima dell’Essere pone
in se stesso una non-dualistica tensione fra unità-identità e molteplicità-
differenza, fra abissale trascendenza e radicale impulso all’immanenza,
questa esperienza che, se sono valide le interpretazioni finora proposte,
dona sostanza e senso alla filosofia di Platone, nella storia del Platonismo
viene recuperata a partire da una corrente spirituale troppo spesso, forse
più a torto che a ragione, caratterizzata come antiplatonica: nel Cristiane-
simo6, nel costante rapporto con l’Oltre-l’Uno-ed-i-Molti della Trinità e del

Abbate 2008, 165-183, 201-204 (con ampia bibliografia). Ma è in Damascio che la


mistica del silenzio attinge la propria espressione più consequenziale. Procedendo
in un percorso inaugurato da Giamblico, Damascio sperimenta l’Assoluto come
Metaprincipio oltre l’Uno, trascendente ogni relazione, compresa, ovviamente,
la relazione di principialità. Più che un superamento della metafisica dell’Uno,
l’esperienza di Damascio sembra però rappresentare una sua radicalizzazione.
Infatti l’Oltre-l’Uno non è tale perché, proprio per la sua assoluta trascenden-
za, paradossalmente implica la possibilità del molteplice, ma perché ancor più
dell’Uno è trascendente rispetto ad ogni rapporto con i Molti. Ne consegue la sua
più totale inconoscibilità e ineffabilità, da onorarsi con il completo silenzio e la
completa ignoranza che ritiene indegna ogni forma di conoscenza (cfr. de princ.
5, I 4, p. 11, 15-16 Westerink; sull’Ineffabile in generale cfr. tutta la trattazione
di de princ. 1-42, I Westerink). Sul Principio ineffabile di Damascio si veda ora
l’ampia indagine in Napoli 2008.
6 Una equilibrata caratterizzazione del rapporto fra Cristianesimo e Platonismo (e,
in generale, pensiero greco) si puo trovare in Beierwaltes 2001, 7-24 (si veda
16, n. 8 e 19, n. 11 per ulteriore bibliografia). Riguardo alla percezione del Cri-
stianesimo come corrente antiplatonica emblematico è, per la sua rilevanza
teoretica, l’esempio di Luigi Pareyson: nell’orizzonte della sua ontologia della
libertà, Pareyson associa il movimento incarnatorio di Dio, elemento sostanziale
in quell’orizzonte, e dato peculiare del Cristianesimo, ad un «radicale antiplato-
nismo del cristianesimo» (Pareyson 2000, 327, dai frammenti sull’escatologia).
Siamo autorizzati, in base a ciò, a caratterizzare il pensiero di Pareyson come più
o meno direttamente o volutamente antiplatonico? A questo riguardo potrebbe ri-
sultare interessante verificare, nonostante le ovvie e importanti differenze, i punti
di contatto fra la protologia non-dualistica di Platone e una filosofia della libertà
così legata ai contenuti del Cristianesimo come quella di Pareyson: una filosofia
incentrata su un autooriginarsi di Dio (come Principio dell’Essere) a partire da un
inizio in cui Dio e il nulla non costituiscono una dualità (cfr. ad esempio Pareyson
2000, 36-37); una filosofia, quindi, in cui Dio non è solo positività, ma (come i(l)
84 Oltre l’Uno ed i Molti

suo manifestarsi, il Platonismo riincontra, in nuova veste, la non-dualità di


affermazione e negazione, di anabasi e catabasi, di trascendenza e imma-
nenza, nonché l’intrinseca relazionalità insita nella protologia di Platone7.
Da questo incontro nascono alcune esperienze conoscitive che, pur senza
rifarsi alle fonti riguardanti l’insegnamento orale di Platone, e al di là del-
le intenzioni dei loro soggetti, ci appaiono come metamorfosi esplicative,
come geniali interpretationes delle prospettive più feconde implicite nella
protologia oggetto di quell’insegnamento. Ecco allora che negli scritti at-
tribuiti a Dionigi Areopagita il Dio-Trinità, non riducibile né all’Uno né ai
Molti8, dimorante tanto oltre ogni identità e differenza9 quanto oltre ogni

Principi(o) di Platone!) contiene in sé tanto la positività quanto la negatività (Pa-


reyson 2000, 80-81). A partire dalla suddetta verifica, forse, si scoprirebbe che il
Platonismo contrapposto da Pareyson al Cristianesimo non necessariamente coin-
cide con il nucleo più profondo del pensiero di Platone: forse si tratta di un’imma-
gine modellata a partire da un determinato Platonismo, ovvero dal Platonismo che
si allontana dall’antinomica protologia agatologica di Platone, e che perciò si fa,
sempre più univocamente, metafisica dell’Uno?
7 A partire da un orizzonte in cui non ci si ritragga dal cogliere nella protologia
platonica i segni di un pensare proletticamente trinitario, risultano emblematiche
le seguenti considerazioni di G. Greshake sul rapporto fra unità e molteplicità
nella teologia trinitaria: «Das trinitarische Gottesverständnis impliziert, daß in
Gott […] Einheit und Vielheit, Identität und Differenz, Positivität und Negativität
gleichwesentlich und gleichursprünglich gegeben sind und sich miteinander ver-
mitteln. Vielheit und Differenz, Heterogenität und Negativität sind als solche also
keine Abstiegs- oder gar Verfallserscheinungen, die erst auf der untergöttlichen
Stufe der “Seinshierarchie” zu finden sind» (Greshake 2001, 219). Può essere
interessante notare come Greshake (per influenza di una interpretazione neopla-
tonica?) inquadri Platone in una prospettiva distante dall’orizzonte sotteso alle
suddette considerazioni, collocando il suo pensiero nel filone di quelle metafisiche
dell’Uno che spiegano il primato del momento unitario nel pensiero occidentale
(Greshake 2001, 61-65, 443-447). Per la teologia trinitaria come riflessione legata
ad una prospettiva che vuole collocarsi oltre l’Uno ed i Molti, ovvero trascendere
l’alternativa fra metafisica dell’Uno e soggettivistica assolutizzazione del mol-
teplice, basti rinviare a Greshake 2001, 60-70, 182-216, 219-225, 443-453. Sti-
molanti spunti riguardo ad una riflessione sulla Trinità che integri pienamente la
relazionalità e la negazione si possono trovare in Coda 1993 (272: «Dio è Trinità,
è Amore: è se stesso essendo l’Altro»); Ganoczy 2001; Greshake 2001 (con ampia
bibliografia); Coda 2003; Donà 2004, 213-244; Coda-Donà 2007.
8 Secondo de divin. nomin. I 11, 648D-649C, pp. 135, 13-136, 12 Suchla Dio è,
antinomicamente, l’Uno oltre l’Uno che si fa Principio di ogni Uno e Molti. Sui
rapporti fra le caratterizzazioni dionisiane del Principio ed il Neoplatonismo, e
sulle peculiarità di quelle caratterizzazioni non riconducibili ad influenze neopla-
toniche, cfr. Beierwaltes 1980, 49-56; Beierwaltes 1985, 211-216; Beierwaltes
2001, 44-84, 90-92, 96-98.
9 Cfr. de divin. nomin. II 4, 641B, p. 127, 7 Suchla, dove riguardo alla Trinità si ri-
Metamorfosi di un’agatologia 85

nozione di unità e trinità10, è il Bene che, in quanto immediatamente auto-


manifestativo, in se stesso, oltre l’Essere e prima dell’Essere, pone l’alte-
rità rispetto a se stesso11: il Dio-Trinità è in sé, quindi, amore estatico (e[sti
de; kai; ejkstatiko;" oJ qei`o" e[rw"12), amore a partire da cui quel Dio
esce da sé e, mediante la propria sovressente, autotrascendentesi (estatica)
potenza, pur rimanendo in se stesso, dalla propria condizione di assoluta
trascendenza discende nella più radicale immanenza, nell’essere in tutte
le cose, facendosi essere di tutte le cose13. Nel Dio-Trinità dionisiano riin-
contriamo dunque, in veste cristiana, il Bene di Platone, che è tanto oltre
l’Essere quanto Ente ed Essere per eccellenza14: riincontriamo l’Uno-Non-
Uno che, trascendendo e allo stesso tempo compenetrando Essere e Non-
Essere15, è Non-Dualità di immanenza e trascendenza, e che perciò può
integralmente donarsi ad un Altro, affermandosi oltre l’abisso, oltre il nulla
del proprio negarsi come Nulla di tutte le cose16. Quest’Uno-Non-Uno è il
Bene superessenziale che, come arditamente afferma Scoto Eriugena17, a

corre all’immagine dell’essere unito mediante la distinzione e dell’essere distinto


mediante l’unione (hJnwmevna th`/ diakrivsei kai; th`/ eJnwvsei diakekrimevna).
10 Si veda de divin. nomin. XIII 3, 980D-981A, p. 229, 6-14 Suchla.
11 Su Dio come Bene si veda l’ampia trattazione in de divin. nomin. IV (per una
introduzione ai suoi motivi fondamentali cfr. Beierwaltes 2001, 71-74, 90-92,
96-98, con ulteriore bibliografia). In de divin. nomin. IX 5, 913B, p. 211, 10-12
Suchla l’alterità posta in Dio viene identificata con la sua sovressenziale molte-
plicità nell’unità (to;n eJniai`on aujtou` poluplasiasmovn, ovviamente posto oltre
l’essere Uno o Molti), a partire dalla quale si produce la sua automanifestazione
nell’Essere. Cfr. Beierwaltes 1980, 51-53.
12 de divin. nomin. IV 13, 712A, p. 158, 19 Suchla. Su questo aspetto degli scritti
dionisiani cfr. Beierwaltes 2001, 73-75 (con ulteriore bibliografia).
13 De divin. nomin. IV 13, 712A-B, p. 159, 9-14 … oJ pavntwn ai[tio" … di∆
uJperbolh;n th`" ejrwtikh`" ajgaqovthto" e[xw eJautou` givnetai … kai; ejk tou`
uJpe;r pavnta kai; pavntwn ejxh/rhmevnou pro;" to; ejn pa`si katavgetai kat∆
ejkstatikh;n uJperouvsion duvnamin ajnekfoivthton eJautou`.
14 Si veda la trattazione di de divin. nomin. V, 816B-825C, pp. 180, 8-190, 2 Suchla.
Su questo tema degli scritti dionisiani cfr. Beierwaltes 1985, 211-216.
15 Cfr. de divin. nomin. V 1, 816B, p. 181, 1-3 hJ tajgaqou` qewnumiva … kai; eij"
ta; o[nta kai; eij" ta; oujk o[nta ejkteivnetai kai; uJpe;r ta; o[nta kai; uJpe;r ta;
oujk o[nta e[stin.
16 Dio è nulla rispetto a tutte le cose, pur essendo tutte le cose: cfr. de divin. nomin.
I 5, 593B, p. 117, 3-4 Suchla; 6, 596B, p. 119, 9 Suchla (pavnta ta; o[nta kai;
oujde;n tw`n o[ntwn); V 8, 824B, p. 187, 12-13 Suchla; VII 3, 872A, p. 198, 7-9
Suchla.
17 Per i rapporti tra il pensiero di Eriugena ed il Platonismo (con particolare riguardo
agli scritti dionisiani) si rinvia a Beierwaltes 1985, 337-367 passim; Beierwaltes
1994 passim.
86 Oltre l’Uno ed i Molti

partire dalla propria semplicità non è separato da nessuna cosa18, e dunque


dimora al di là di ogni cosa, in ogni cosa, e al di qua di ogni cosa19: è un
Bene che, secondo Eriugena, non vive in un rapporto di dualità con l’Es-
sere, perché, eminentemente autopoietico e autofanico, è Creatore che si
crea manifestandosi nella creatura20; è una Unità-Trinità che21, in quanto
somma Bontà, pur permanendo nell’eterno, discende nell’Essere, e nel suo
discendere produce se stessa a partire da se stessa, facendo di se stessa la
materia del Tutto e di tutte le cose una teofania22. Questa Unità-Trinità,
questo Bene oltre l’Uno ed i Molti, rispetto all’Essere è il Nulla che dimo-
ra oltre l’ente e il non-ente, è la trascendente negazione di ogni essenza.
Ma, proprio in quanto somma Bontà, questo Bene non può essere geloso
del proprio trascendere, e quindi, a partire da se stesso e verso se stesso,
discende da quella negazione nell’affermazione dell’essenza del Tutto23:
negando il proprio Nulla, si genera dal nulla come Principio dell’Essere,
ponendo in se stesso l’abisso, il nulla della materia informe, per farsi Sa-
pienza produttrice d’ogni forma24.

… Cosa mai potrà avere a che fare tutto ciò con l’agatologia di Platone?
Certo, nessuno che indaghi la lettera degli scritti dionisiani o eriuge-
niani si imbatterà nella Non-Dualità di Uno e Dualità Indeterminata che
sostanzia l’agatologia di Platone. Allo stesso modo, nessuno che si fermi ai
testi (inclusi quelli riguardanti le cosiddette dottrine non scritte) incontrerà
in Platone il Bene nel suo incondizionato autoprodursi(-generarsi) come

18 Cfr. Johannes Scottus Eriugena, Periphyseon (de divisione naturae) III 677C-D,
p. 83, 2396-2413 Jeauneau.
19 Periphyseon III 677C, p. 83, 2407-2409 Jeauneau super omnem creaturam creator,
et intra omnem creaturam creatus, et infra omnem creaturam subsistens.
20 Periphyseon III 678C, p. 85, 2445-2446 Jeauneau in creatura … creatur, se ipsum
manifestans.
21 Sulla teologia trinitaria di Eriugena si veda Beierwaltes 1994, 204-256.
22 Periphyseon III 678D-679A, p. 85, 2455-2469 Jeauneau … hoc … de summae bo-
nitatis, quae unitas est et trinitas, ineffabili condescensione in ea quae sunt ut sint,
etc. Et de se ipsa se ipsam facit; non enim indiget alterius materiae, quae ipsa non
sit, in qua se ipsam facit. etc. Cfr. ibid. 681A, p. 88, 2546-89, 2558 Jeauneau.
23 Periphyseon III 681B-C, p. 89, 2569-2573 Jeauneau Divina igitur bonitas, quae
propterea nihilum dicitur quoniam ultra omnia quae sunt et quae non sunt in
nulla essentia invenitur, ex negatione omnium essentiarum in affirmationem totius
universitatis essentiae a se ipsa in se ipsam descendit, veluti ex nihilo in aliquid.
Cfr. ibid. 683A-B, p. 91, 2635-92, 2657 Jeauneau. Sul concetto di creazione dal
nulla in Eriugena si veda Beierwaltes 1985, 358-363; Beierwaltes 1994, 115-158
passim; Ansorge 1996, 235-246.
24 Cfr. Periphyseon 681C-D, p. 89, 2576-2583 Jeauneau.
Metamorfosi di un’agatologia 87

Principio dell’Essere e come Ente per eccellenza; o nel suo principiale


porre tanto l’Essere quanto il Nulla mediante la propria metaprincipialità.
Ancor meno una ricerca puramente storico-filologica potrà percepire nella
protologia platonica il risuonare di ontogonie, come quella vedica, ben più
arcaiche dei più arcaici presocratici. E temerario appare, nella stessa pro-
spettiva, il tentativo di chi, non contento d’episodici percorsi dionisiani,
eriugeniani vel simm., s’avventuri a cogliere altre metamorfosi dell’agato-
logia platonica, fino ad immergersi nel periglioso pelago delle grandi filo-
sofie dell’Io. Temerarie suonano, in quella prospettiva, domande come … e
se il Bene di Platone fosse l’incondizionatamente libera sovracoscienza di
un Io25, di un Io che, proprio perché radicalmente libero, pone in se stesso,
con eguale principialità, tanto se stesso quanto il proprio Nulla? Se fosse,
quel Bene, un Io-Inizio, in cui (prolessi della logica hegeliana …) Essere e
Nulla(-Non-Essere) costituiscono una Non-Dualità?
Mai queste e simili domande potranno trovare risposta, sia essa positi-
va o negativa, a partire da una qualsiasi ricerca di fonti. Del resto il loro
senso, qualora se ne voglia riconoscere uno, non risiede nella ricostru-
zione di una più o meno esaustiva Rezeptionsgeschichte dell’agatologia
platonica. Si tratta, piuttosto, di provocare l’attenzione verso omologie
che, indipendentemente da filiazioni più o meno dirette, ad un livello
più profondo sembrano rinviare a concrete esperienze filosofiche, o, me-
glio (sia concesso un termine sempre più fuori moda), spirituali tra loro
affini: affini perché metamorfosi d’un medesimo sapere concernente la
Non-Dualità, il carattere agatologico del Principio. Inevitabilmente ogni
tentativo in questa direzione avrà un carattere sperimentale: partendo, nel

25 In un’ottica di pura comparazione può essere interessante notare che l’esperienza


più o meno chiara della coscienza di un Io, ovvero di un Soggetto, come Principio
dell’universo, Principio trascendente e fondante le polarità che costituiscono l’Es-
sere, è fenomeno ben più arcaico dei grandi filosofi europei dell’Io: limitandosi ad
un ambito temporale anteriore a Platone, e in particolare al pensiero indiano, con
cui la presente ricerca ha già dialogato, basti rinviare a ¸g-Veda X 90 (produzione
del Tutto come autodeterminazione dell’Uomo macrocosmico) e B®hadåra~yaka
Upani‚ad I 4, 1-5 (“Ciò io sono” come momento principiale della cosmogonia).
Per un primo approfondimento cfr. Scharbau 1932, 8-16 e Gonda 1968. Stimo-
lante potrebbe risultare un’indagine sistematica sull’esperienza della soggettività
(tanto microcosmica quanto macrocosmica) nel pensiero di Platone, partendo
dal fatto che l’incontro con il Bene è radice della vera autoconoscenza, e quindi
di un’autentica autocoscienza: per alcuni spunti preliminari cfr. Schwabe 2001
passim; Lavecchia 2006, 179-183, 216-218 (con ulteriore bibliografia), 270-273,
278-284. Per un quadro generale sulla coscienza del soggetto nel mondo classico
resta ancora fondamentale l’ampia trattazione offerta in Mondolfo 1958.
88 Oltre l’Uno ed i Molti

nostro caso, dal filosofare di Platone come esperienza cardinale, e quindi


paradigmatica, si tratta, in breve, di un dissodare, di un coltivare terreni
incolti, tanto procedendo verso l’arcaico quanto esplorando il moderno.
Ecco perché queste divagazioni, necessariamente frammentarie, mi piace
chiuderle rivolgendo l’attenzione a Novalis: al poeta di frammenti filoso-
fici, all’entusiastico lettore di Platone26 che del dissodare, del coltivare
l’incolto fece la ragione del proprio nome. Un poeta per il quale l’Essere
si genera dall’armonia della libertà, dal punto di luce del risonante oscil-
lare (Lichtpunkt des Schwebens) dell’Io: Io che, trascendendo ogni pola-
rità-opposizione, si fa immaginazione produttiva dell’Essere e delle sue
polarità-opposizioni27; Io che, oltre l’Uno ed i Molti, è autentico Principio
relazionale, perché è Unità senza essere limite-barriera-determinazione,
Unità che dona connessione e significato a tutte le cose, e che quindi è
anche Principio della Molteplicità28. Un Principio, l’Io, che per Novalis si
realizza mediante l’uscir fuori da sé (Entäußerung), l’autotrasformarsi
(Selbstveränderung), il non-essere nell’essere e l’essere nel non-essere29:
nella magia30 di un senso morale che è senso per l’universale armonia31,
senso che plasma la vera individualità, il genio, l’individuo capace di farsi
simile ad ogni altra individualità32, di farsi tutto in tutto33. Opera di questo
senso è l’individuo che, manifestando pienamente il proprio Io, realizza
l’ideale di un volere magico, di una volontà che è vera morale e vera
poesia, vera produzione di realtà, perché è realmente libera, capace di

26 Cfr. la lettera di Friedrich Schlegel ad August Wilhelm Schlegel (Gennaio 1792)


riportata in Mähl-Schulz 1975, 571-572.
27 Novalis, Fichte-Studien nr. 555 Frey seyn ist die Tendenz des Ich - das Vermögen
frey zu sein ist die productive Imagination - Harmonie ist die Bedingung ihrer
Tätigkeit - des Schwebens, zwischen Entgegengesetzten. […] Alles Seyn […] ist
nichts als Freysein - Schweben zwischen Extremen […]. Aus diesem Lichtpunkt
des Schwebens strömt alle Realität aus […]. Cfr. anche nr. 556. Gli scritti filosofici
di Novalis vengono citati secondo l’ordine adottato in Samuel-Mähl-Schulz 1981
e 1983. Una traduzione italiana si trova in Moretti-Desideri 1993. Per una stimo-
lante introduzione al concetto novalisiano di Schweben si veda Panno 2007.
28 Cfr. Allgemeines Brouillon nr. 820.
29 Si vedano Fichte-Studien nr. 78 e Allgemeines Brouillon nr. 820.
30 Sulla nozione di magia e idealismo magico in Novalis si veda l’ampia trattazione
in Roder 1997 (con ulteriore bibliografia).
31 Allgemeines Brouillon nr. 61 Wir müssen Magier zu werden suchen, um recht mo-
ralisch seyn zu können. […] der moralische Sinn ist […] der Sinn für Harmonie
[…].
32 Cfr. Allgemeines Brouillon nr. 282.
33 Si veda Vorarbeiten 1798 nr. 248.
Metamorfosi di un’agatologia 89

aprirsi ad ogni cosa, di farsi tutte le cose34: l’ideale di una volontà che
trascende ogni opposizione fra Dio e Natura, reintegrando Io e Mondo
nella dinamica unità e armonia d’una nuova creazione. In questo ideale,
che vuol rendere l’uomo simile al Padre35, par di percepire la vita nova di
un’antica sophía. Vi sembra infatti risuonare quella sapienza che per Pla-
tone è la più bella consonanza-armonia (Leg. 689d6-7): la sapienza che
l’uomo attinge quando si ritrova-riconosce nell’Oltre-l’Uno-ed-i-Molti,
nel punto di luce del Bene, radice dell’Essere, nell’immanente Trascen-
denza che, incondizionato donarsi ad un Altro, si genera come Altro da sé,
principiando-immag(in)ando l’Essere e le sue polarità. Quella sapienza,
sgorgata dalla viva intuizione del Vero-Bene, dall’unione con la somma
Bellezza, è la sophía che, senza invidia, diviene genitrice di autentica virtù
(Symp. 212a2-7): è la poesia d’icone del Bene, l’immaginazione creatrice
del Bello che rende l’uomo simile agli dèi.

34 Allgemeines Brouillon nr. 769 […] Ideal der Alleswollung. Magischer Willen.
Sollte jede freye Wahl abs[olut] poëtisch - moralisch seyn?
35 Vorarbeiten 1798 nr. 115 Einst werden wir seyn, was unser Vater ist.
91

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97

MARCELLO LOSITO

L’ALEF CON ZERO: ‫א‬0

Infatti non c’è dubbio che non possiamo privarci delle grandezze
variabili nel senso dell’infinito potenziale, cosicché si dimostra an-
che la necessità dell’infinito attuale, nel modo seguente: perché una
di queste quantità variabili sia utilizzabile in un’argomentazione
matematica, l’“oggetto” di questa variabilità, a rigore, deve essere
noto in anticipo; tuttavia questo “oggetto” non può essere qualcosa
di variabile, altrimenti verrebbe a mancare qualsiasi fondamento si-
curo a quella argomentazione; l’“oggetto” dunque è un determinato
insieme di valori attualmente infinito. Così un infinito potenziale,
per essere matematicamente utilizzabile in maniera rigorosa, pre-
suppone un infinito attuale.
Georg Cantor*

Inteso come serie convergente ad un valore per quanto grande esso sia
dato, il limite di ogni ars combinatoria equivale al limite di ogni assogget-
tamento dodecafonico della realtà, intesa come assoluta presenza.1
La protologia platonica, nella sua veste primordiale, rappresenta il ten-
tativo più audace di fondere in un’unica matrice la sostanza offerta da una
ontologia formale congiunta ad una materiale.2

*
Georg Cantor, Gesammelte Abhandlungen, Leipzig 1932, pag. 410 (trad. di Alber-
to Giacomelli in Hao Wang, si veda nota 9).
1 Se si considera un qualsiasi insieme di eventi fisici metaforicamente assimilabile
ad un intervallo di ottava, le regole combinatorie di Schönberg consentono una vi-
sualizzazione suggestiva delle potenzialità espressive di tale insieme. Inoltre una
simile lettura metaforica consente di intuire la differenza abissale intercorrente tra
una combinatoria esercitata su un numero finito di elementi ed una esercitata su un
numero infinito, o supposto tale: se la prima convergerà ad un limite, presentando
inevitabilmente una certa monotonia, la seconda divergerà ad infinitum, presen-
tando strutturazioni imprevedibili.
2 Come, di fatto, le millenarie fatiche metafisiche non siano riuscite nell’edifica-
zione di un’ontologia materiale, è un esito ben delineato in Frédéric Nef, L’objet
quelconque: recherches sur l’ontologie de l’objet, Paris 1998 e nell’inesauribile
Enzo Melandri, La linea e il circolo: studio logico-filosofico sull’analogia, Ma-
cerata 2004. Al posto di essa, le ontologie formali, per guadagnare più o meno
debitamente in manegevolezza, hanno dovuto prescindere dalla coriacea resisten-
za opposta dagli eventi individuali ad ogni rinnovato tentativo di classificazione.
98 Oltre l’Uno ed i Molti

La clavis universalis che ne emerge, laddove non riuscita interamente,


diviene, alle volte, uno strumento genuinamente formale per l’accesso ide-
ale alla realtà – ossia rappresenterà una grammatica generativa destituita
di contenuto – mentre, laddove essa si reifica, diviene una combinazione
efficacissima all’accesso non più ideale ad una realtà sperimentata come
presenza – ossia rappresenterà una teoria semantica della realtà.
Il destino di ogni scienza del principio è, in ultima istanza, il trasferi-
mento di contenuto alle strutture formali e sottese, e anche, forse, ipoteti-
che, del principio stesso.

Idoneo ad una indagine sul principio è l’approccio fenomenologico in


senso stretto, nel senso che solamente laddove compaiono singolarità fe-
nomeniche vi è metodo fenomenologico. In mancanza delle prime, il me-
todo diviene mero descrittivismo o ricettario di assonanze in cui nessuna
analogia profonda, o “affinità di sostanza” nella definizione data da Pavel
Florenski, può trovare posto.
Rimane da chiedersi cosa siano le singolarità fenomeniche. In via più o
meno definitiva, esse andrebbero caratterizzate per il presente scopo come
segue: vi è singolarità fenomenica laddove vi è convergenza e complemen-
tarietà di almeno due o più contenuti esplicativi-esperienziali.3

L’ars combinatoria barocca, sebbene a tratti occulta ed esoterica, è stato uno dei
tentativi più titanici teso alla sistematizzazione di un’ontologia materiale il cui
cardine poggiasse sull’identificazione delle signaturae rerum proprie a ciascuna
classe di eventi. Allo stesso tempo assimilabile e differenziantesi rispetto a questo
progetto, la protologia platonica è sì formale, nella ricerca di una matrice gene-
rativa primitiva – da cui appunto il suo essere protologia –, ma è pure materiale,
nel tentativo di delineare le modalità applicative, e non più primitive, di quella
matrice riguardo all’articolarsi dell’essere.
3 Nei testi di Paolo Bozzi (Unità identità causalità: un’introduzione allo studio
della percezione, Bologna 1969; Fenomenologia sperimentale, Bologna 1989), e
in quello di Luigi Burigana (Singolarità della visione: spunti di formalizzazione
nello studio fenomenologico del percepire, Padova 1996) sono ravvisabili i pas-
saggi a partire da cui la definizione di “fenomenologia sperimentale” è congiunta
a quella di “singolarità” percettiva o fenomenica.
Per quanto concerne l’approccio qui utilizzato, esso è d’obbligo per due ragioni:
la prima è che dal punto di vista storiografico vi sono prove di una lettura di Pla-
tone da parte di Cantor, ma non vi sono cenni riguardo ad una possibile analogia
tra la protologia del primo ed i transfiniti del secondo; la seconda ragione è che
l’analogia profonda tra queste due impostazioni, che qui si vorrebbe suggerire,
non pare essere oggetto di una trattazione formalizzabile; ma su quest’ultimo pun-
to si veda anche la nota 9.
L’alef con zero: ‫א‬0 di Marcello Losito 99

α è una parte di a se a=mα (con m intero positivo). Ovvero “il tutto è più
grande della parte”: VIII assioma del primo libro degli Elementi di Eucli-
de.4 Il tutto circoscrive la parte, la parte è inscritta nel tutto: il continuo ed il
discreto, il collettivo ed il partitivo. Ponte, arco teso tra la circonferenza ed
i punti giacenti entro essa è l’ars combinatoria, mentre immagine dei poli
sottoposti a relazione è l’insiemistica.
È come se l’assioma euclideo non fosse un’assioma solamente geome-
trico, bensì la silloge bifronte di un principio congenito(-genetico) alla
classificazione intera del reale: da un lato, in modo visuale, esso viene a
ridurre il tutto ad insiemi; dall’altro, da un punto di vista logico, viene a
ridurre il tutto alla relazione radicale di inclusione. Da qui la matrice di
ogni imago mundi e da qui l’immagine stessa della matrice-insieme, unico
plesso concettuale a presentarsi come uno e molti ad un tempo.5

Permutazioni, disposizioni e combinazioni costituiscono il triplice volto


della combinatoria. Assumono il carattere di semplici e non, ossia con ripe-
tizione assegnata, a seconda che venga rispettata la regola per la quale non
si possono ripetere gli stessi elementi all’interno di ciascuna. Supponendo
che il reale sia dato dalle 21 lettere dell’alfabeto della lingua italiana (n)
si avranno: per n=k la totalità delle permutazioni semplici in cui le lettere,
ciascheduna presa una sola volta per formare parole di n lettere, andranno
ad assemblare parole differenziantisi tra esse per l’ordine manifesto della
disposizione. La potenza combinatoria della permutazione sarà n!, ossia n
fattoriale, che per l’alfabeto italiano diverrebbe 21!=5.11x1019. Mentre per
k≤n si avranno o disposizioni semplici – una parola conterrà esattamen-
te k lettere diverse fra loro, le parole si distingueranno per l’ordine delle
lettere stesse, e la potenza della disposizione sarà il fattoriale decrescente
(n)k=n(n-1)(n-2)…(n-k+1) – oppure combinazioni in cui due parole differi-
ranno ora non per l’ordine, bensì per l’apparizione di una lettera diversa.6

Se ad una fugace, e fallace, impressione la combinatoria potrebbe appa-


rire quale una prestidigitazione numerologica, considerata congiuntamente
alle fondanti connessioni insiemistiche la sua intrinseca e profonda ana-

4 Euclide, Elementi, (a cura di Attilio Frajese e Lamberto Maccioni), Torino 1970,


pagg. 73-5; cfr. anche Logique et connaissance scientifique (a cura di Jean Piaget),
Paris 1967, pagg. 439-64.
5 Per una panoramica d’insieme si veda Paolo Rossi, Clavis universalis, Napoli
1955.
6 Vittorio de Petris su: www.sp.unitis.it/Docenti%20Materiali/…/La%20Combina-
toria.pdf.
100 Oltre l’Uno ed i Molti

logia con una protologia platonica dovrebbe invece ricevere un’aura di


grande suggestione.
Dato un insieme A di un numero finito di n elementi, è possibile costrui-
re un insieme PA, costituito da tutti i sottoinsiemi di A, detto insieme delle
parti di A. Ad esempio, dato un insieme A= (a,b,c,d,e) esistono: un sottoin-
sieme vuoto, un sottoinsieme identità con cinque elementi – denominati
entrambi sottoinsiemi impropri –, cinque sottoinsiemi con un elemento,
dieci sottoinsiemi con due elementi, dieci sottoinsiemi con tre elementi,
cinque sottoinsiemi con quattro elementi – questi sottoinsiemi invece ven-
gono denominati sottoinsiemi propri.
Come si può notare, il numero di sottoinsiemi di k elementi ciascuno,
presi da un insieme di n elementi, è dato dalle combinazioni di n elementi
di classe k. Il totale di tutti i sottoinsiemi – ed è ora che l’analogia profonda
con la protologia platonica assume uno spessore non esclusivamente meta-
forico – è sempre 2ⁿ, ossia i due sottoinsiemi impuri, quello vuoto e quello
identità, elevati alla potenza pari al numero di elementi inclusi nell’insieme
di partenza dato. Due sarebbero, in questa circostanza, gli aspetti salienti
dell’attuale approccio fenomenologico: in primo luogo, la base numerica
della potenza viene a coincidere con la dualità; in secondo luogo, la defi-
nizione di essa avviene per mezzo delle nozioni di classe identità e classe
vuota, ossia di continuo e discreto, o, ancor meglio, dei platonici uno e
dualità indefinita.

Queste considerazioni si applicano ad una analisi del reale discreto, seb-


bene la nozione stessa di insieme è pure garante di una commistione o
complanarità tra la collettività e la partizione. La lettura cantoriana della
monadologia di Leibniz per mezzo dell’insiemistica è, storicamente, un
passo obbligato per focalizzare tale commistione: ma è pure un passo di
completamento e, contemporaneamente, di lacerante revisione dell’assio-
ma VIII di Euclide, revisione proprio nel momento in cui gli elementi di un
insieme vengono considerati di numero infinito e non più finito. In questa
nuova riscrittura dell’assioma “il tutto è più grande della parte” la relazione
intero-parti si svincola dalla semplice inclusione gerarchica per venire as-
soggettata a quella di biiezione o biunivocità, e di potenze d’infinito.
“Due insiemi infiniti, purchè uno incluso nell’altro, possono essere posti
in biunivocità”7: ad esempio, nell’insieme degli interi N, l’insieme infinito
degli n pari è biunivoco rispetto agli interi doppi, anch’essi infiniti, degli n

7 Bernhard Bolzano, Paradoxien des Unendlichen, Leipzig 1851, nell’ottima tradu-


zione di Hourya Sinaceur (Les paradoxes de l’infini, Definizione 20a pagg. 85-6
L’alef con zero: ‫א‬0 di Marcello Losito 101

pari. Tra l’insieme infinito degli N ed i propri sottoinsiemi è possibile isti-


tuire una relazione uno ad uno per cui le parti possono non risultare minori
rispetto all’intero.
Si potrebbe suggerire, dall’angolazione strettamente fenomenologica,
che la singolarità della relazione intero-parti possa costituire un ottimo
strumento discriminatorio tra le teoresi di indubbia affiliazione all’VIII as-
sioma di Euclide e quelle di più incerta ma non assente affiliazione all’as-
sioma bolzaniano-cantoriano.
Platone ebbe sentore di quella singolarità nel Carmide, Proclo e Galileo
ne ebbero pure sentore8, a significare che il decorso teoretico di una simile
revisione “posteuclidea” procedette, in una prospettiva storica, sinusoidal-
mente. Ma è alla luce della rilettura di Lavecchia che alla protologia di Pla-
tone parrebbe più congeniale la trattazione degli insiemi infiniti di stampo
cantoriano, in cui entrambi i principi fungerebbero da base ad una funzione
esponenziale ed infinita. Se, nella teoria dei numeri postcantoriana, ω di-
viene l’immediato superiore “della serie degli interi finiti data”, diverrà
‫א‬ω se sarà il cardinale immediatamente superiore alla serie ‫א‬n. La somma
totale o potenza delle possibili ricombinazioni passerà da 2ω per gli insiemi
finiti a 2‫א‬0 per quelli infiniti, dove il transfinito ‫א‬₀ rappresenta il numero
infinito di interi o, meglio, la serie degli ordinali ω di seconda classe, ‫א‬₁ la
serie degli ordinali ω₁ di terza classe e così via, fino ad ottenere la serie dei

Paris 1993) e Georg Cantor, Beiträge zur Begründung der transfiniten Mengen-
lehre, Mathematische Annalen XLIX, Berlin 1897, pagg. 207-46.
8 Platone, Carmide 168b-c “Così, anche di ciò che è maggiore, noi affermiamo che
ha questa proprietà: di essere maggiore di qualche altra cosa? – Sicuro – Cioè di
qualcosa di più piccolo, se davvero è maggiore. – Necessariamente. – Se, dunque,
trovassimo una grandezza maggiore delle grandezze maggiori e di se stessa, ma
non maggiore di nessuna di quelle di cui le altre sono maggiori; avrebbe necessa-
riamente, se davvero è maggiore di se stessa, d’essere anche minore di sé; o no?
– Per forza, Socrate, rispose – Cosicché, anche, se è doppia degli altri doppi di se
stessa, sarebbe doppia della metà che la costituisce e delle altre metà, perché una
grandezza non può essere doppia d’altro che della metà” (trad. Emidio Martini).
Proclo (In primum Euclidis elementorum librum commentarius, pag. 196 Fried-
lein) annotò che l’insieme dei diametri di un cerchio è due volte minore di quello
dei raggi dei semicerchi, e Galileo Galilei (Discorsi e dimostrazioni matematiche
intorno a due nuove scienze, a cura di Enrico Giusti, Torino 1990, Giornata prima,
pag. 43) dice per bocca di Salviati “Io non veggo che ad altra decisione si possa
venire, che a dire, infiniti essere tutti i numeri, infiniti i quadrati, infinite le loro
radici, né la moltitudine de’ quadrati esser minore di quella di tutti i numeri, né
questa maggior di quella, ed in ultima conclusione, gli attributi di eguale maggio-
re e minore non aver luogo ne gl’infiniti, ma solo nelle quantità terminate.”
102 Oltre l’Uno ed i Molti

numeri cardinali taf ‫א‬₀, ‫א‬₁, ….,‫ א‬ω per cui dovrebbe valere la formula del
continuo c=2‫א‬0, da cui l’ipotesi del continuo 2‫א‬0=‫א‬1 .9
Se tra 2n e 2ω, significanti il computo base delle combinazioni comples-
sive di un dato insieme finito, si riesce a scorgere un’aria di familiarità
anche puramente intuitiva, tra questi ed il 2‫א‬0, significante il computo base
delle combinazioni transfinite di un dato insieme infinito, il passo è breve, e
folgorante. L’oltre l’uno ed i molti, ossia l’esponente ‫א‬₀ applicato alle basi
protologiche platoniche – sostituendo, dunque, al sottoinsieme identità e al
sottoinsieme vuoto rispettivamente l’uno e la dualità indefinita – diverreb-
be ora il primo fattore per la riduplicazione e differenziazione infinita posta
all’origine dell’ontologia di Platone.
In altri termini, sempre da una prospettiva strettamente fenomenologica,
si potrebbe vedere nel 2‫א‬0 di Cantor una feconda sintesi o un’analogia pro-
fonda tra il modus operandi dei due principi platonici e lo sviluppo delle
serie infinite degli insiemi infiniti. I principi sarebbero sottesi ad ogni ma-
nifestarsi dell’essere così come la gerarchizzazione degli insiemi infiniti,
grazie alla cardinalità degli ‫א‬, rappresenterebbe una potente immagine del

9 Una precisazione è d’obbligo per meglio delineare anche i limiti di un approccio


fenomenologico alla presente lettura analogica di tale equazione. Verso il 1870
Cantor aveva sorprendentemente dimostrato che dato un qualunque insieme, esi-
ste sempre un insieme più grande di quello: l’insieme dei sottoinsiemi dell’insie-
me dato, vale a dire ciò che venne denominato l’insieme delle parti dell’insieme
dato. Cantor dunque sapeva che l’insieme dei numeri reali, ossia il continuo della
retta reale, comprende tutti i possibili sottoinsiemi dell’insieme di tutti gli in-
teri. Dal momento che ogni numero intero può essere o non essere incluso in
una qualunque delle infinite posizioni di un numero decimale – numero decimale
componibile da una serie di interi, che sarebbe l’espressione di un numero reale –
ne consegue che il numero di elementi del continuo deve essere due elevato alla
potenza del numero infinito di interi, ovvero: c=2‫א‬0. Questo sta a significare che se,
per gli insiemi finiti, la base dell’esponenziazione sono la classe identità e la clas-
se vuota, per gli insiemi infiniti la base è l’espressione del comparire o meno, nella
serie, dei numeri interi, per cui la lettura fenomenologica deve rivedere, dunque
riformulare, la comparsa degli interi come classe identità, associabile al discreto,
e la non comparsa degli stessi come classe vuota, associabile al continuo.
Per una trattazione esauriente del problema si vedano Edward Huntington, The
continuum and other types of serial order, Cambridge, Mass. 1942; Philip Jou-
rdain (a cura di), Contribution to the founding of the theory of transfinite numbers,
New York 1954; Konrad Knopp, Infinite sequences and series, New York 1956;
Carlo Cellucci (a cura di), Il paradiso di Cantor, Napoli 1978; Dauben Joseph
Warren, Georg Cantor: his mathematics and philosophy of the infinite, Prince-
ton New Jersey 1990; Hao Wang, Dalla matematica alla filosofia, Torino 2002.
Sebbene più divulgativo, rimane magistrale per sintesi e chiarezza Amir Aczel, Il
mistero dell’alef, Milano 2002.
L’alef con zero: ‫א‬0 di Marcello Losito 103

reale inteso come continuum: in entrambi i casi due sarebbero le matrici


operanti, l’uno e la dualità indefinita, ovvero il sottoinsieme identità ed il
sottoinsieme vuoto, matrici elevate alla potenza dell’alef con zero, concre-
to e realissimo cardine garante da un lato del passaggio dalle successioni
finite o convergenti a quelle infinite o divergenti, dall’altro del passaggio
dall’uno di molti – il mero molteplice dunque – all’oltre l’uno di molti –
ossia al fondamento di ogni molteplice.
L’alef con zero, scevro di ogni connotazione misteriosofica, diverrebbe
dunque il segno di quel superamento, mai del tutto esauribile, in e verso
cui i due principi platonici, nella proposta di Lavecchia, sembra trovino, ed
attuino, le proprie più profonde ragioni10: superamento dell’‫א‬0 declinabile
come trascendenza, in quanto oltrepassante la denumerabilità degli insiemi
transfiniti, e superamento dell’‫א‬0 declinabile come immanenza, in quanto
espressione ordinata, ed ordinabile nell’ipotesi cantoriana, nella serie dei
numeri a cardinalità crescente, immagine concreta ed ultima del continuo.

10 Ancora più stringente sarebbe la doppia lettura dell’alef solo considerando che la
cardinalità da esso espressa non è, per Cantor, assimilabile ad alcun insieme. Ciò
significa che essa giace al di fuori della “logica” insiemistica, in uno spazio on-
nicomprensivo – quanto diverrà il dominio V in von Neumann – circoscrivente e
non circoscivibile: attributi, questi ultimi, verosimilemte riferibili pure ai principi
platonici. Per una trattazione del dominio V, o Universo di Neumann, si consiglia
la “Set theory” di Johanna Franklin su: unjobs.org/tags/set-theory.
ASKESIS / Studi di Filosofia antica

– Linda M. Napolitano Valditara, Il sé, l'altro, l'intero. Rileggendo i Dialoghi di


Platone
– S. Lavecchia, Oltre l'uno ed i molti. Bene ed essere nella filosofia di Platone
PERCHÉ ASKESIS?
Gli studi umanistici vivono oggi una situazione di crisi radicale. Sua prima radice
non è tanto la più o meno sistematica erosione della loro sostanza mediante questa
o quella riforma del sistema educativo. Questa crisi sembra piuttosto riguardare
la loro identità e legittimazione etico-sociale. Identità e legittimazione gli studi
umanistici le stanno perdendo in nome di malintesi che hanno condotto i loro
rappresentanti a voler trasporre nel proprio campo atteggiamenti e metodi peculiari
di altri ambiti di ricerca. Trasposizione da cui è derivata una curiosa forma di ascesi,
che si concretizza in una tensione spesso spasmodica verso il distacco dall‘oggetto
di studio e nell‘esercizio di una quasi autofustigatoria modestia d‘intenti. Ne sono
risultati stanco iperspecialismo, ricerca di campi d‘interesse che il meno possibile
integrino in sé le molteplici dimensioni della vita, culto di una frammentologia
staccata da ogni visione d‘insieme: un più o meno asfittico surrogato di vita
contemplativa, di fuga dal mondo, che sempre più, diciamolo chiaramente, rende
esposti a radicali dubbi di legittimità, se non, addirittura, esplicitamente invisi noi
umanisti della post-postmodernità.
Chi, per passione o professione, studia la filosofia antica, si trova a confrontarsi
costantemente con una forma ben diversa di ascesi. Nelle manifestazioni più vitali
del pensiero antico, infatti, la nozione di ascesi, di askesis, lungi dall‘implicare
più o meno giustificate fughe dal mondo, è concreta sperimentazione di processi
conoscitivi che immediatamente si fanno pratiche di trasformazione per la vita
tanto dell‘individuo quanto della società. Un‘ascesi, un‘askesis, dunque, in cui
teoresi, prassi e poiesi costituiscono una inscindibile, vivente unità: l‘unità del
soggetto che, attinta la coscienza della propria vera natura, e con essa la vera
libertà, si fa demiurgo di se stesso e del mondo che lo circonda.
Sulle tracce di questa askesis vuol tentare di porsi la collana qui presentata. E
vuole farlo valorizzando i presupposti metodologici che hanno reso gli studi di
filosofia antica uno dei settori più qualificati della ricerca umanistica: il rapporto
diretto con le fonti greche e latine, sorretto dalla pratica di un metodo filologico
esercitato nel suo senso più pregnante, ovvero teso a cogliere ogni dimensione
della cultura che quelle fonti ha prodotto; l‘attenzione alle forme letterarie ed alle
modalità in cui esse plasmano la comunicazione filosofica; il confronto serrato con
i risultati delle ricerche pregresse, senza preclusioni pregiudiziali verso questo o
quell‘indirizzo interpretativo.
Fondandosi su questi presupposti, e proponendo anche la ristampa di “classici”
della storiografia filosofica, nonché traduzioni commentate di testi greci e latini,
si vogliono privilegiare quei peculiari nuclei tematici a partire da cui la filosofia
antica, nelle sue forme più attente ad una disciplina di metamorfosi del soggetto,
è divenuta suprema matrice di modelli di vita nell‘intera storia della cultura
europea: la conoscenza e cura di sé; la riflessione riguardo alle forme dialogiche
della comunicazione; la relazione fra umano e divino, fra micro- e macrocosmo;
il rapporto fra conoscenza e azione-produzione; l‘attenzione ad una prospettiva
estetica pienamente integrata in un orizzonte gnoseologico ed etico. Proprio a
partire da tali nuclei tematici la filosofia antica può oggi vivere, e già in parte
vive, una vera e propria rinascenza presso il pubblico non accademico. In
modo ora più ora meno fondato alcuni dei suoi aspetti più vitali vengono infatti
riscoperti e concretamente sperimentati come pratiche di trasformazione, come
pratiche filosofiche in cui l‘esercizio del conoscere non vuole arenarsi in una
astratta analisi argomentativa, ma farsi forza plasmatrice dell‘esistenza. In questa
prospettiva Askesis vorrebbe fornire uno stimolo ad una consapevolezza sempre
più approfondita riguardo alle radici della filosofia intesa come forma di vita,
costituendo, almeno nei nostri auspici, anche un ponte fra mondo degli specialisti
e pubblico potenzialmente interessato alle tematiche più vitali del pensiero antico.
Tutto questo affinché l‘askesis degli antichi, fuori da ogni astratto schema, venga
sempre più riscoperta come archetipico esempio di un impulso conoscitivo teso a
compenetrare e modellare ogni dimensione del vivere.

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