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La semiotica si è definita in questi anni attorno ad alcune nozioni chiave

quali quelle di valore, testo, struttura, differenza, interpretazione,


enunciazione, abduzione, enciclopedia, espressione e contenuto, e lo ha
fatto attraverso una serie di prese di posizione che l’hanno mano a mano
allontanata dalla sua originaria vocazione filosofica, per avvicinarla da
un lato alle scienze cognitive e dall’altro alle scienze sociali. Tuttavia,
un’altra “storia” era possibile. Nella convinzione che quelle nozioni fossero
passibili anche di letture diverse, questo libro vuole riaffermare la natura
filosofica della semiotica, tornando a riflettere su tutte le nozioni chiave
attorno a cui si è costruita la disciplina, denunciando una serie di
dimenticanze della teoria “maggiore” e reinterpretando in modo originale
l’approccio strutturalista. In questo modo, una riflessione di tipo filosofico
pare capace di ritrovare al di là, o al di qua, delle forme consolidate,
un’immagine “non-standard” della semiotica, in grado diproporre dei
modelli di analisi che possono rivelarsi preziosi proprio nel confronto con le
scienze cognitive e le scienze sociali. Da qui la costruzione di una semiotica
della complessità, capace di tenere insieme strutturalismo e interpretazione.
Claudio Paolucci insegna Semiotica all’Università di Bologna ed è tutor del
Dottorato di Ricerca in Semiotica dell’Istituto Italiano di Scienze Umane di
Firenze (SUM) e dell’Università di Bologna. Studioso di Peirce e
Hjelmslev, si occupa principalmente di semiotica generale, interpretazione e
teoria dei linguaggi. Ricercatore presso la Scuola Superiore di Studi
Umanistici e il Dipartimento di Comunicazione dell’Università di Bologna,
è redattore della rivista VS e membro del comitato esecutivo della Società
italiana di Filosofia del Linguaggio.
Studi Bompiani
Claudio Paolucci

STRUTTURALISMO
E INTERPRETAZIONE
Ambizioni per una semiotica “minore”

Bompiani
Esemplare depositato nelle forme di cui al Decreto Luogotenenziale n. 660/45, così come integrato e
modificato ai sensi della Legge n. 106/2004 e DPR 252/2006

ISBN 978-88-587-6020-8

© 2010 RCS Libri S.p.A.


Via Mecenate 91-20138 Milano

Prima edizione digitale 2013 da edizione Studi Bompiani giugno 2010

Copertina: Polystudio

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
SOMMARIO

0. Introduzione. Per una semiotica “minore”

1. Verso una semiotica della complessità. Tre riletture “minori” di tre grandi
autori “maggiori”: i classici di Saussure, Hjelmslev e Peirce
1.1. La doppia fondazione della semiotica: i duemila anni di una nuova
disciplina
1.2. Una “nuova sensibilità”
1.3. Una prima “elevazione a minore”: il mantra di Saussure e le due
dimensioni del valore
1.4. Una seconda “elevazione a minore”: l’irriducibile complessità
delle opposizioni partecipative e della frammentazione in
Hjelmslev
1.5. Una terza “elevazione a minore”: il Sinechismo e la Logica dei
Relativi di Peirce
1.6. Un empirismo trascendentale e un modello “escheriano”: la
semiotica interpretativa come sintesi disgiuntiva tra Peirce e
Hjelmslev
1.7. Altre due operazioni “minori”: i) la teoria delle classi in
Hjelmslev; ii) la semiotica interpretativa di Peirce. Ritorno sulla
doppia accezione del valore saussuriano
1.8. Antilogos. Eco, Scruton e ritorno a Saussure: la semiotica come
disciplina monotremica en plein air

2. Gli enunciati: testi, pratiche, culture. Semiotica e fenomenologia


2.1. Una prima differenza: enunciati (testi) ed enunciazione in atto
(pratiche)
2.2. Strutturalismo e semiotica generativa: la costruzione del
paradigma testuale in semiotica
2.3. Strutturalismo, fenomenologia e faneroscopia: semiotica
interpretativa e semiotica generativa
2.4. “Fuori dal testo non c’è salvezza”: una rilettura
2.5. Semiotica delle culture e semiotica del testo. Altre tre riprese
“minori” di tre testi “maggiori”: il “Malocchio della sociologia”
(Fabbri), “Il fissarsi della credenza”, “Come rendere chiare le
nostre idee” (Peirce) e La semiosfera (Lotman)
2.6. Testi, culture e teoria della ratio: “Cinecittà” e la teoria dei modi
di produzione segnica
2.7. Logos, ratio, semiotica e filosofia dell’interpretazione

3. Una nuova teoria della differenza


3.1. Una nuova teoria della differenza adeguata alla descrizione dei
processi enciclopedici a rete
3.2. Logico, prelogico e sublogico
3.3. Contraddizione e incompossibilità
3.4. Termini neutri e termini complessi, entità determinate ed entità
indeterminate
3.5. L’enciclopedia come rete rizomatica. Il liscio e lo striato, il rizoma
e la struttura: un’opposizione partecipativa
3.6. Ritorno sulle relazioni di opposizione: articolazione tra
liscio/striato centro/periferia, valenza e somiglianze di famiglia.
Contraddizioni, opposizioni privative, qualitative e partecipative
3.7. Differenza strutturale e differenza rizomatica: il quadrato
semiotico
3.8. Le antinomie del quadrato semiotico e la sua esplosione
enciclopedica: smascheramenti
3.9. Semi, lessemi, interpretanti: effetti di profondità, piattezza ed
effetti di superficie. L’impossibilità del metalinguaggio e
l’interpretazione antileguminosa enciclopedica
3.10. Conclusioni

4. Semantica e semiotica, espressione e contenuto


4.1. Espressione e contenuto: un problema ben posto?
4.2. Piccola archeologia di una rimozione “minore” in semiotica:
enciclopedia, espressione e contenuto
4.3. La semantica semiotica come semantica enciclopedica: semantica
referenziale, inferenziale e differenziale
4.4. Piano enciclopedico, piani semiotici e continuum: pieghe del
foglio di carta saussuriano
4.5. Metodo semasiologico e metodo onomasiologico: su alcune
insospettabili tassonomie borgesiane in semantica
4.6. Metodo onomasiologico, sema, isotopia e ritaglio del piano
4.7. Sul senso letterale
4.8. Alcune conclusioni prima di ripartire. Per una semantica unificata
4.9. Enciclopedia e soggettività: su di una piccola frase di Calvino. Per
un’“estetica” del senso
4.10. Sulla destituzione di alcuni luoghi comuni esistenti in semantica e
in semiotica: l’ideologia del type e lo schematismo enciclopedico
4.11. Kant, Peirce, Eco e l’ornitorinco: una sintesi disgiuntiva.
Iconismo, schemi e diagrammi
4.12. Il problema della rappresentazione enciclopedica: alberi e rizomi.
Per una rappresentazione enciclopedica non gerarchica. La
metafora

5. Enunciazione ed effetti di soggettività: per una teoria unificata


dell’enunciazione
5.1. La teoria “maggiore” dell’enunciazione semiotica: un ultimo
residuo “referenziale”? Gli embrayeurs e la distinzione
persona/non persona in Benveniste
5.2. Opposizione privativa o opposizione partecipativa? Enunciazione
personale o enunciazione impersonale? Casella vuota o Occupante
senza posto? A partire da una piccola frase di Blanchot
5.3. Verso una teoria “minore”: che cosa succede quando si fonda
l’enunciazione sugli embrayeurs (ioqui-ora)? Ribaltamenti
5.4. L’apparato formale dell’enunciazione e le istanze simulacrali
dell’enunciazione nell’enunciato: casella vuota (assenza
dell’enunciazione) e occupante senza posto (presentificazione
dell’assenza dell’enunciazione)
5.5. Invio, mediazione e delega: l’enunciazione come conversione e
“stare-tra”
5.6. Spostamento sulla teoria del punto di vista e ritorno: discorso
diretto (soggettiva), discorso indiretto (oggettiva), discorso
indiretto libero (semi-soggetiva libera indiretta). Il
concatenamento enunciativo e la modulazione di un punto di vista
attraverso un altro punto di vista
5.7. Enciclopedia, istanza dell’enunciazione ed enunciato:
l’enunciazione “non personale”
5.8. L’occupante senza posto che si muove nell’enciclopedia:
enunciazione e prassi enunciativa
5.9. Semiotica, fenomenologia ed ermeneutica
5.10. Conclusioni

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Avvertenza

I testi di Kant, Peirce, Saussure e Hjelmslev, a cui si fa riferimento


estensivo, sono citati nel testo in funzione delle sigle elencate nei
Riferimenti Bibliografici.
Una semiotica generale credo sia invece ancora un atto filosofico
U. Eco
INTRODUZIONE

Per una semiotica “minore”

Questo libro vuole delineare i tratti di un pensiero “minore” e prendere


posizione per una semiotica “minore”. Tuttavia, “minore” non è usato nel
senso di più piccolo o di meno importante, come se un pensiero minore
fosse un pensiero inferiore rispetto a quella maggiore. “Minore” è invece
usato in due sensi tecnici, entrambi compresenti in questo lavoro: il primo è
quello del linguaggio comune, per cui si dice che un’idea è minore quando
non ha avuto fortuna o impatto rispetto ad altre idee maggiori, ed è stata
così trascurata. In questo libro ci occuperemo di molte trascuratezze interne
alla teoria semiotica maggiore, che non è detto si rivelino però meno
importanti rispetto a ciò su cui si è invece insistito con forza. Il secondo
senso in cui usiamo “minore”, quello più importante, lo si può invece
ricavare comparando il diverso modo in cui si costruisce una maggioranza –
e quindi anche la relativa minoranza – in democrazia e in statistica.
La democrazia costruisce infatti le sue maggioranze in funzione di un
procedimento induttivo che è funzione di un criterio puramente
quantitativo, e cioè contando i singoli elementi uno a uno. Così,
semplificando ma non nell’essenziale, funzionano ad esempio le elezioni.
Tutt’altro modo di procedere è invece quello della statistica, che costruisce
una maggioranza attraverso un metodo che Charles Sanders Peirce
chiamava abduttivo, e cioè “scommettendo” sulla rappresentatività di un
campione all’interno del quale si stabilirà poi la maggioranza stessa. Date
tutte le persone possibili, non possiamo né dobbiamo intervistarle tutte: è
sufficiente sceglierne alcune che rappresentino un tipo prototipico, rispetto
a cui tutte le altre (l’insieme dei silenti che non intervisteremo) saranno
misurate. È la logica del sondaggio: si è sempre inclusi nel 100% degli
italiani e alle volte la si pensa anche come loro. Eppure nessuno ci ha mai
davvero chiesto nulla.
In questo modo, la statistica ci insegna il procedimento che chiameremo
di “elevazione a maggiore”:1 diversi elementi sparsi vengono raccolti sotto
un unico tipo prototipico, che ne rappresenta il campione-parametro,
marcando i tratti comuni che gli elementi eterogenei posseggono. In
statistica, la maggioranza non è funzione di un criterio quantitativo, ma di
un criterio essenzialmente qualitativo che dipende da un’operazione di
elevazione a maggiore.
Pur essendo evidente che possano esistere più zanzare che uomini, ciò nonostante l’uomo
costituisce un metro-campione rispetto al quale gli uomini hanno necessariamente la maggioranza
[sulle zanzare]. La maggioranza non designa una quantità più grande, ma anzitutto questo
campione in rapporto al quale le altre quantità, quali che siano, saranno dette più piccole. Per
esempio, le donne e i bambini, i Negri e gli Indiani saranno minoritari rispetto al campione
costituito dall’Uomo bianco cristiano qualsiasi maschio-adulto-cittadino-americano o europeo
d’oggi. (Deleuze, 1979, p. 108)

Ecco allora quella concezione della “maggioranza” che presiede alla


determinazione del secondo senso in cui in questo lavoro usiamo “minore”:
la definizione di una forma-parametro rispetto alla quale chi devia viene
detto “minoranza”. In alcuni momenti della vita politica, i partiti ad
esempio possono funzionare così, secondo un criterio qualitativo di questo
tipo: la maggioranza è definita dalla mozione del segretario e chi devia
rispetto a questa mozione è la minoranza del partito, sebbene questa
minoranza possa tranquillamente essere quantitativamente superiore a
quella che appoggia il segretario.2
Ma a questo punto tutto può anche capovolgersi. Perchè se la
maggioranza rinvia a una forma-parametro posta, allora ognuno di noi è
anche sempre minoritario, è sempre necessariamente minore nel momento
in cui devia da questo modello. Ecco allora che l’aggettivo “minore” in Per
una semiotica “minore” non qualifica una semiotica che “conta poco”, o
che è più piccola rispetto alla semiotica definita maggiore, bensì una
semiotica deviante rispetto a quelle letture che in una determinata tradizione
prendono il nome di “grandi”, o stabilite. Una semiotica minore non è una
semiotica che conta poco, bensì una semiotica che devia rispetto
all’immagine tipica che va appunto “per la maggiore”.
Come strappare al sistema della semiotica una semiotica minore, e cioè
deviante rispetto al suo modello standard? Come diventare il minore, colui
che abita la periferia, lo straniero nella propria stessa lingua?
A questo proposito, Umberto Eco (1985a, p. 332) definiva la semiotica
generale come “una filosofia della semiosi” e aggiungeva che il suo
“rischio” era quello di “diventare la forma contemporanea della filosofia” e
il suo “dovere” quello di “tentare questo azzardo”. Ben lontana dall’essere
diventata la forma contemporanea della filosofia, la semiotica se ne è man
mano sempre più allontanata, avvicinandosi da un lato alle scienze
cognitive e dall’altro alle scienze sociali. Questo è avvenuto sia
istituzionalmente, dove l’insegnamento di semiotica è di fatto uscito dai
principali corsi di laurea in Filosofia ed è ora insegnato di norma a Scienze
della Comunicazione; che a livello della ricerca, dove il confronto con i
filosofi è sempre meno cercato e praticato, a beneficio di quello con gli
urbanisti, i pubblicitari, gli etnografi e, in generale, con persone portatrici di
un saper fare specifico. Questa serie di spostamenti ha allora fatto sì che,
negli ultimi anni, di semiotica si siano pubblicati innanzi tutto dei manuali e
delle applicazioni concrete ai più svariati oggetti “sociali” (pubblicità,
televisione, comunicazione politica, nuovi media, spazi urbani ecc.) e quasi
nessun saggio di ricerca teoretica di tipo filosofico, o “semiotico-generale”,
come voleva Eco (1984, 1985a).
Si tratta di lavori spesso davvero importanti e questa constatazione non
implica ovviamente alcun tipo di giudizio di valore. Tuttavia, si tratta anche
di un fatto piuttosto sintomatico. Quando una disciplina produce innanzi
tutto manuali e applicazioni concrete di quella sua stessa forma “standard”
presentata nei manuali, essa ha infatti raggiunto una forma che crede tipica,
che può quindi essere istituzionalizzata, rappresentata, insegnata, divulgata
e, soprattutto, applicata in svariati domini. Tuttavia, la costruzione di una
forma tipica è tutt’altro che un’operazione innocente, dal momento che
presuppone tutta una serie di selezioni, filtraggi ed esclusioni di elementi
che non sono considerati degni, per un motivo o per un altro, di entrare a far
parte di questa sua forma tipica. Come speriamo di mostrare in questo libro,
la semiotica trabocca di questi elementi, che definiscono una sorta di
“memoria virtuale” di una disciplina che avrebbe potuto essere molto
diversa da quello che di fatto è diventata.
A questo proposito, opereremo allora una serie di riprese teoretiche di
temi, oggetti teorici, libri e problemi che non hanno contribuito a
determinare l’immagine della teoria semiotica “maggiore”. Su questo punto
la nostra tesi è radicale: questi elementi “minori” hanno una potenza
destabilizzante rispetto alla teoria “standard”. Si tratta infatti di elementi sul
bordo del sistema, devianti rispetto ai modelli “maggiori”. Per questo non
sono stati integrati nella teoria “standard”: non potevano esserlo, dal
momento che, nel momento in cui vengono introdotti, richiedono di
riconfigurare il resto della teoria semiotica attorno a loro, come tenteremo
di fare qui.
È allora come se esistessero due operazioni possibili: da un lato si “eleva
a maggiore”: di una serie di ricerche si fa una Teoria, di una serie di analisi
si fa il Metodo d’analisi, di un serie di eventi si fa la Storia di una
disciplina. Si pretende così di riconoscere e sottolineare ciò che è davvero
importante, ciò che è davvero “maggiore”, ma di fatto si filtra, si seleziona,
si normalizza: si costruisce la forma istituzionale di una disciplina
attraverso la costruzione di un tipo prototipico, che viene posto a campione-
parametro. Ma ecco allora che si può concepire anche l’operazione inversa,
specularmente opposta: in che modo “minorare”, come dicono i matematici
di un elemento che rimane inferiore a tutti i termini di una successione
senza appartenervi necessariamente? In che modo “elevare a minore”, e
cioè deviare dalla forma standard di un elemento o di un rapporto,
restituendo così attualità a una serie di possibilità non realizzate, a una serie
di percorsi alternativi di una storia che avrebbe potuto essere e che invece
non è stata? In che modo sfuggire al sondaggio, al manuale, alla forma
tipica?
Per operare questa serie di operazioni di “elevazioni a minore”, ci
ispiriamo allora ai procedimenti di minorazione di un grande autore teatrale,
che si è sempre voluto “minore” e “parassitario”, facendo proprio di questo
suo essere “minore” la sua stessa grandezza. Tutta l’opera di Carmelo
Bene3 consiste infatti nel partire da un grande autore “maggiore” della
storia teatrale, ad esempio Shakespeare, e operare delle minorazioni capaci
di riconfigurare la struttura maggiore dell’opera attorno ad alcuni elementi
che in precedenza sembravano insignificanti o infinitamente piccoli. Ad
esempio, Bene prende il Romeo e Giulietta, in cui un personaggio che per
Shakespeare è minore, Mercuzio, muore subito. Bene si ostina allora a non
farlo morire, e mostra così come un personaggio che in Shakespeare era
irriducibilmente minore possa assumere una potenza e una capacità di
azione assolutamente impensate, che per Shakespeare non aveva. Mercuzio
si ostina a non morire, non ne vuole sapere di morire subito e lasciare
spazio ai grandi personaggi “maggiori”. A questo punto tutta la grande
opera “maggiore” oscilla, gira su se stessa e si appoggia su questo suo
elemento minore che prima veniva del tutto non considerato. Bene
restituisce così alla storia di Shakespeare ciò che lui chiama “una serie di
varianti”, e cioè una serie di sue possibilità non attualizzate che sono
incompossibili con la grande storia “maggiore”. Questo procedimento di
“elevazione a minore” definisce per noi le condizioni stesse di una
semiotica minore. Riprendere in mano una grande storia o un grande libro
maggiore della semiotica, individuare degli elementi infinitamente piccoli,
che deviano rispetto ai tratti maggiori che la tradizione ha marcato come
“grandi”, e vedere come questi tratti sul bordo del sistema siano capaci di
far riconfigurare attorno a loro i grandi elementi maggiori, che vengono
così visti sotto una nuova luce. La semiotica ha fatto morire troppo presto i
suoi Mercuzio. Eppure sono ancora tutti lì, e li si può andare a riprendere.
Per entrare più nel dettaglio, ecco dove andremo a compiere le nostre
operazioni di “elevazione a minore”, riprendendo elementi dimenticati o
espulsi dalla teoria maggiore, che riassumiamo in una lista di “sparizioni”:

1) La sparizione, esplicitamente voluta e teorizzata, della prima accezione


del valore di Saussure (dimensione trascendente) dalla teoria semiotica
dell’identità. È di fatto questa sparizione a dare vita al paradigma
testuale in semiotica (1.3, 2.2). La reintroduzione di questa tradizione
“minore”, esplicitamente deviante rispetto al modello standard,
permetterà di reintrodurre accanto alla semiotica testuale una semiotica
come logica delle culture (1.8, 2.5).
2) La sparizione delle opposizioni partecipative hjelmsleviane dai
Prolegomena, grande libro “maggiore” della semiotica. Questa
sparizione e il suo recupero a partire da altri libri di Hjelmslev, che sono
stati “minori” per la tradizione semiotica (La Categoria dei casi, “La
struttura generale delle correlazioni linguistiche” e Résumé of a Theory
of Language) permetterà di costruire una nuova teoria dei sistemi semio-
linguistici, la cui forma risulterà piuttosto deviante rispetto a quella
standard (1.4). Vedremo infatti lungo il libro come sia partecipativo il
rapporto che c’è tra: i) la semiotica interpretativa e le altre semiotiche
(3.10), ii) le categorie della “persona” e della “non-persona” nella teoria
linguistica dell’enunciazione (5.2); iii) il rapporto tra espressione e
contenuto all’interno di una teoria relazionale dei piani del linguaggio
(4.2); iv) il rapporto tra spazio liscio (rizoma) e spazio striato (struttura)
all’interno di un reticolo rizomatico di tipo enciclopedico (3.5); v) il
rapporto tra livello prelogico e livello logico all’interno di una teoria
semiotica della differenza di tipo sublogico (3.2, 3.4).
Alcuni grandi oggetti teorici della semiotica, pensati finora in altro
modo, ci paiono così riconfigurarsi in una struttura di tipo partecipativo,
del tutto assente dalla tradizione semiotica “maggiore”.
3) La sparizione della frammentazione hjelmsleviana dai Prolegomena a
favore esclusivo dell’analisi e dell’oggetto che è correlativo all’analisi, e
cioè il testo. Questa sparizione è connessa con quella delle categorie
partecipative, essendo la frammentazione un taglio non conforme a ciò
che Hjelmslev chiama “principio empirico”. La frammentazione (dal
latino fractus, da cui deriva “frattale”) era infatti il tipo di procedura che
Hjelmslev seguiva quando studiava entità non coerenti, non coese e non
chiuse come le lingue, ed è questo procedimento non conforme al
principio empirico che si deve riprendere se si vuole fare un’euristica
semiotica delle culture (cfr. 2.5, 3.1). È allora evidente, e lo mostreremo
nei particolari in 2.1 e 2.2, come questa sparizione sia connessa anche
con quella al punto 1: la semiotica generativa definisce infatti un testo
esattamente attraverso le proprietà di chiusura, coerenza e coesione.
4) La sparizione della Logica dei Relativi e del Sinechismo dal modello
della semiotica di Peirce, da sempre creduto fondato sulla teoria
dell’inferenza dei saggi anti-cartesiani e sulla struttura
soggetto/predicato di “On a New List of categories” (unificazione del
molteplice a unità). Mostreremo invece come Peirce si dichiarerà a un
certo punto totalmente insoddisfatto del modello dell’inferenza, che
considererà inadeguato ai fini di rendere conto del movimen-to
semiotico del pensiero, tanto da fondare una nuova gnoseologia
semiotica su basi faneroscopiche (fenomenologiche) proprio attraverso
la Logica dei Relativi e il Sinechismo (1.5). Trarremo le “concepibili
conseguenze pratiche” da questo fatto, del tutto trascurato nella
tradizione semiotica (2.3, 2.4 e 2.5), e mostreremo in che modo il
concetto di abduzione venga riconfigurato alla luce dei concetti peirciani
di interpretazione, logica delle relazioni e teoria del continuum (1.7).
Questo ci consentirà di formulare una nuova teoria del processo
semiotico (sintagmatica).
5) La sparizione di una semantica differenziale di tipo enciclopedico dalle
teorie semantiche attualmente “maggiori” (4.3). Questa sparizione è
correlativa alla sparizione della prima accezione del valore saussuriano
dalla teoria semiotica strutturale, dal momento che la semiotica ha così
potuto prestare il fianco alle critiche delle semantiche cognitive e
filosofiche, che individuavano la nascita del concetto stesso di semantica
a dizionario con lo strutturalismo, in cui, per definire un termine, bastava
interdefinirlo all’interno di un sistema, conformemente alla sola seconda
accezione del valore in Saussure. Recuperando anche la prima, sarà
allora possibile mettere in evidenza tutte le contraddizioni e i problemi
interni alle semantiche sprovviste di un’adeguata concezione della
differenza, incapaci di pensare alla dimensione semantica anche nella
sua autonomia differenziale di tipo semio-linguistico, che noi pensiamo
come costitutivamente enciclopedica, traduttiva e interpretativa (4.5, 4.6,
4.7 e 4.8).
6) La sparizione della teoria dei modi di produzione segnica del Trattato di
semiotica generale sia dal dibattito sulla costruzione della funzione
semiotica tra espressione e contenuto e sia da una teoria
dell’enunciazione come prassi enunciativa (2.6 e 4.4).
7) La sparizione dell’enciclopedia come codice di correlazione tra
espressione e contenuto, che ha portato a una sostanziale
ontologvizzazione dei piani del linguaggio e alla contemporanea ripresa
di alcune dicotomie metafisiche quali quelle tra il sensibile (espressione)
e l’intelligibile (contenuto) e alla successiva fondazione della funzione
semiotica sulla presa di posizione del corpo (2.6, 4.1 e 4.2).
8) La sparizione della teoria dei diagrammi peirciana da una teoria dello
schematismo semiotico (Peirce identifica esplicitamente schema e
diagramma), così in seguito fondata su un modello “iconico”
(dall’“iconismo primario” al “modello 3D”). Riprendendo la concezione
diagrammatica dell’iconismo di Peirce sarà possibile mostrare
l’euristicità della sua identificazione tra diagramma e schema, al fine di
proporre una concezione semiotica capace di superare alcune problemi
interni alle scienze cognitive (4.11)
9) La sparizione dell’enunciazione impersonale da una teoria
dell’enunciazione fondata invece sulla categoria di “persona” e sugli
embrayeurs. A partire dal riconoscimento della natura tensiva
dell’opposizione tra la persona e la non-persona, sarà possibile costruire
una teoria dell’enunciazione unificata che renda conto in un’unica
“teoria dell’enunciazione impersonale enciclopedica” dei tre problemi
che il termine-ombrello enunciazione è servito finora a coprire: i) un
apparato formale che renda conto delle proprietà del discorso di
manifestare l’atto che lo produce (débrayage/embrayage, tracce
dell’enunciazione nell’enunciato, ecc.); ii) un’istanza di mediazione e
conversione tra sistema e processo; iii) una prassi enunciativa che
coniughi questa stessa conversione con i repertori stabilizzati nell’uso,
che definiscono così quelle formazioni discorsive interne a una data
cultura che determinano il posto della soggettività all’interno delle reti
enciclopediche (capitolo 5).

Di ognuna di queste “dimenticanze” devianti rispetto al sistema standard


della semiotica faremo un capitolo del libro o una sua parte, e ogni capitolo
del libro affronterà un grande tema “maggiore” della semiotica (valore,
teoria del sistema e del processo, enunciati, testi/pratiche/culture, teoria
delle relazioni differenziali, semantica, espressione/contenuto,
enunciazione) a partire dal recupero di questa tradizione “minore”.
È allora assolutamente chiaro come questa opposizione tra “semiotica
maggiore” e “semiotica minore” non sia affatto equipollente a quella tra
semiotica generativa e semiotica interpretativa (cfr. ad esempio punti 4 e 8),
che rappresenta la divisione di scuola principale e più praticata all’interno
della semiotica attuale. Quando elementi minori assumono una potenza di
vita insospettata nella storia maggiore, la storia cambia e nessuna
ripartizione precedente è davvero più come nella sua forma “tipica”. C’è
Mercuzio e non Romeo e Mercuzio non ne vuole sapere di morire subito, da
bravo personaggio “minore”, per lasciare il posto alle grandi ripartizioni
abituali.
Insomma, per costruire questa semiotica “minore”, ci ispiriamo, oltre che
a Carmelo Bene, a quella piccola “rivoluzione silenziosa” che ha avuto
luogo all’interno della matematica sotto il nome di “analisi non-standard”.
Attraverso degli elementi infinitesimali, infinitamente piccoli, rifiutati dalla
teoria matematica maggiore,4 l’analisi non-standard è stata capace di
riconfigurare il grande paradigma che regnava in matematica, senza con
questo rifiutarne le specificità e le innegabili conquiste. Si è trattato infatti
di una “rivoluzione integrativa”, che non mirava alla sostituzione di un
paradigma maggiore con un altro paradigma maggiore. Al contrario,
ponendosi alla periferia del sistema della matematica, e cioè deviando dal
suo modello standard (da qui “analisi non standard”), l’analisi non-standard
è riuscita a rispondere ad alcuni problemi a cui l’analisi standard non
riusciva a rispondere, senza con questo smettere di riuscire a rispondere ai
problemi a cui l’analisi standard forniva invece una soluzione.
Questo è esattamente l’obiettivo di questo lavoro: porsi alla periferia
della semiotica e costruire una semiotica non-standard, una semiotica
“minore”, che devia cioè dal modello standard della semiotica maggiore e
che, proprio per questo, è in grado di rispondere a tutta una serie di
problemi a cui la semiotica standard non è in grado di rispondere, senza con
questo smettere di riuscire a rispondere ai problemi a cui la semiotica
standard forniva invece una soluzione. Per questo tutti i capitoli di questo
libro, senza eccezione alcuna, hanno obiettivi integrativi: i) tenere insieme
le lezioni della semiotica cognitiva di Peirce e dello strutturalismo di
Saussure e Hjelmslev (capitolo 1); ii) tenere insieme semiotica del testo,
semiotica delle pratiche e semiotica delle culture senza che nessuna di
queste tre dimensioni finisca di fatto per annullare le altre, sussumendole
sotto le proprie specificità (capitolo 2); iii) tenere insieme una teoria della
differenza logica di tipo esclusivo con una teoria della differenza prelogica
di tipo partecipativo, al fine di costruire una teoria della differenza
sublogica di tipo enciclopedico, capace di oltrepassare gli steccati tra
semiotica generativa, semiotica interpretativa e semiotica tensiva (capitolo
3); iv) costruire una teoria semantica unificata capace di tenere insieme
semantica referenziale, semantica inferenziale e semantica differenziale
(capitolo 4); v) costruire una teoria dell’enunciazione unificata capace di
tenere insieme i diversi sensi che il termine ombrello “enunciazione” ha di
volta in volta assunto nella teoria semiotica “maggiore” (apparato formale
degli embrayeurs, istanza presupposta dall’enunciato, istanza di
conversione tra livelli, prassi enunciativa, teoria della produzione ecc.).
Alle grandi rivoluzioni maggiori che procedono per “cambiamento di
paradigma”,5 preferiamo le infinitesime torsioni “non-standard”, che,
ponendosi sul bordo del sistema, sono capaci di riconfigurare il sistema a
fini euristici ed esplicativi senza di fatto uscire dal sistema. Una semiotica
“minore” è cioè per noi una semiotica di frontiera tra i domini, là dove una
semiotica “rivoluzionaria” sostituirebbe un nuovo dominio “maggiore”
all’attuale dominio “maggiore”, oltrepassando il punto di frontiera e
operando un cambiamento di paradigma.
Crediamo allora che una semiotica minore e di frontiera, capace di tenere
insieme differenti prospettive, riconoscendo l’esistenza di diverse buone
ragioni, vada per essenza fondata sul concetto semiotico di
“interpretazione”. Era infatti questa la posizione dell’inter-pres, da cui
deriva la parola stessa “interpretazione”, che originariamente designava
proprio colui che veniva usato da garante tra due avversari con il compito di
mediare le loro posizioni, “tenendole insieme”.6 Ed è esattamente questa
posizione di frontiera quella che Peirce assegna alla Terzità
dell’interpretante e al suo essere inter-partes, “rappresentazione
mediatrice” tra differenti parti rispetto a cui essa è “terza” (CP 1.553). Un
interpretante in Peirce è infatti essenzialmente una Terzità, ma la Terzità è
esattamente la categoria mediatrice che definisce uno staretra, un trovarsi
interposto, così che per andare da un Primo a un Secondo occorre
necessariamente passare attraverso la mediazione di un Terzo, che tiene
insieme gli altri elementi rapportandoli l’uno all’altro.
Questa attitudine di confine capace di tenere insieme elementi eterogenei
ci pare allora richiesta dall’oggetto stesso della semiotica, il senso. Se la
semiotica vuole davvero essere disciplina dei sistemi e dei processi di
significazione e comunicazione deve infatti fare i conti con una doppia
difficoltà, a cui è invece spesso sfuggita: i) il senso è un fenomeno
irriducibilmente complesso, e cioè dipendente da una molteplicità n di
parametri spesso in contraddizione tra loro;7 ii) il senso non è qualcosa che
circola esclusivamente all’interno del dominio della semiotica, che può
dunque ascriverselo come suo oggetto, bensì è qualcosa che circola
all’interno di tutti i domini disciplinari appartenenti a una semiosfera, dal
momento che ogni dominio disciplinare si costruisce su tipi autonomi di
indagine, appropriatezza, sensatezza e verità che stabiliscono i propri
sistemi di significazione e comunicazione.8
Il punto i) porta allora alla costruzione di una semiotica della
complessità, irriducibile al principio empirico di Hjelmslev e a quei tratti di
coerenza, chiusura e coesione che sono stati pensati come costituivi della
semiotica del testo (cfr. infra, capitoli 1 e 2). Il punto ii) porta invece alla
costruzione di una semiotica di tipo enciclopedico, capace di riconoscere
che il senso è condizione di possibilità stessa dell’esistenza di un dominio
disciplinare qualsiasi, e non l’oggetto esclusivo della semiotica. Da qui un
corollario fondamentale riguardante il punto ii): se la semiotica vuole
rendere adeguatamente conto dei sistemi e dei processi di significazione e
comunicazione, dovrà sempre vivere in traduzione con un “fuori”, en plein
air, all’aria aperta delle pratiche di significazione interne all’enciclopedia.
Da qui il suo essere una logica delle culture (cfr. Lotman e Uspenskij, 1973;
Eco, 1975). Da qui l’esistenza di una semiotica dell’arte distinta dalle teorie
artistiche, di una semiotica della percezione distinta dalla percettologia, di
una semiotica della musica distinta dalla musicologia, di una semiotica
della letteratura distinta dalle analisi letterarie ecc. La semiotica vive della
traduzione con un “fuori”, perché il suo “dentro” sono l’enciclopedia (cfr.
Eco, 1984) e la semiosfera (cfr. Lotman, 1985), che per definizione sono
sistemi composti da sistemi disciplinari altri ed eterogenei tra loro.
Da qui la nostra tesi più completa:

1) Il senso dipende costitutivamente sia da dimensioni immanenti (strutture


semio-linguistiche) che da dimensioni trascendenti la semiotica
(percezione, cognizione, cultura ecc.).
2) Tutte le dimensioni trascendenti sono a loro volta strutture complesse
che dipendono da parametri molteplici spesso in contraddizione tra di
loro (cfr. Morin, 1986, pp. 36-40).
3) Se la semiotica non desidera relegarsi a pura disciplina immanente,
conforme alla sola seconda dimensione del valore saussuriano,9 e
prestare così il fianco alle critiche che gli sono state rivolte, deve
integrare le variabili al punto 1 e pensarle come costitutive del suo
oggetto (senso). Era ad esempio questa la lezione di Peirce, dove la
semiotica nasceva proprio da una riflessione sulla cognizione connessa a
una teoria della percezione e degli abiti interpretativi interni a una
comunità interpretante.
4) Così facendo, le strutture descrittive della semiotica devono essere
costitutivamente complesse, e cioè capaci di descrivere fenomeni
largamente dipendenti da n variabili potenzialmente in contraddizione e
in continuo divenire, come sono ad esempio le culture o i sistemi sociali.

Per questo una semiotica interpretativa e “minore” è per noi una


semiotica della complessità, capace di tenere insieme sistemi eterogenei,
riconoscendo la natura di diverse buone ragioni (cfr. Morin, 1986 e infra,
1.4 e 1.6).
Quest’attitudine integrativa e di frontiera deve valere allora anche
all’interno della semiotica. Si è infatti spesso equivocato sulla distinzione
tra semiotica generativa e semiotica interpretativa, nel momento in cui le si
è pensate come una semiotica di derivazione strutturalista (quella
generativa) e come una semiotica di derivazione peirciana (quella
interpretativa). Ben lungi dall’essere semplicemente una semiotica di
origine peirciana, la semiotica interpretativa di Eco si è posta infatti fin da
subito come il ben più complesso tentativo di tenere insieme le prospettive
di Peirce e dello strutturalismo (cfr. Eco, 1968, 1971, 1975 e 1997).
Cosa voleva dire cercare, come ho fatto, di mettere insieme la prospettiva strutturalistica di
Hjelmslev e la semiotica cognitivo-interpretativa di Peirce? […] Com’è possibile che le due
prospettive possano coesistere? […In realtà] esse debbono coesistere, perché a volerne scegliere
una sola non si rende ragione del nostro modo di conoscere e di esprimere quello che conosciamo.
[…] L’instabile equilibrio di questa coesistenza non è teoricamente sincretico perché è su questo
equilibrio felicemente instabile che procede la nostra conoscenza. (Eco, 1997, pp. 217-218)

Occorrerà allora partire esattamente da qui: come tenere insieme le


prospettive di Peirce e Hjelmslev in un equilibrio felicemente instabile?
Come tenere insieme strutturalismo e interpretazione? Perché sebbene Eco
ci dica che va fatto, non ci spiega davvero mai come vada fatto. Da qui le
nostre prime operazioni “minori”.
1
Cfr. Bene e Deleuze, 2002, p. 91.
2
Successe così ad esempio dentro Rifondazione Comunista quando Bertinotti decise di togliere la
fiducia al primo governo Prodi. Ma i casi di questo tipo sono ovviamente centinaia.
3
Bene si è sempre definito un “autore minore” e il suo teatro un “teatro minore” (cfr. Bene, 1979).
Le sue stesse opere ad esempio non sono delle opere in più o delle opere altre rispetto a quelle che
“minorano”, bensì delle “opere in meno”. Così ad esempio l’Amleto, chiamato appunto Un Amleto
di meno.
4
Cantor rifiutava esplicitamente gli infinitesimali e la sua fondazione della matematica si fondava
sulla versione del calcolo differenziale data da Cauchy e, soprattutto, da Weierstrass, in cui si
poteva fare analisi dei limiti senza considerare quelle quantità infinitamente piccole che erano
invece alla base stessa del calcolo differenziale nella sua doppia fondazione leibniziano-
newtoniana. L’analisi non-standard è capace di reintegrare tutta questa fondamentale tradizione
deviante, che era stata esclusa dalla grande teoria maggiore (cfr. Robinson, 1966 e Petitot, 1979a).
5
Cfr. Kuhn, 1962.
6
Cfr. Starobinski, 1974, p. 23.
7
È questa la definizione della complessità data da Morin (1986, pp. 36-40).
8
Cfr. Serres, 1968, 1972.
9
Cfr. infra, 1.3 e 2.2.
1. VERSO UNA SEMIOTICA DELLA COMPLESSITÀ.
TRE RILETTURE “MINORI” DI TRE GRANDI AUTORI
“MAGGIORI”: I CLASSICI DI SAUSSURE, HJELMSLEV E
PEIRCE

L’immagine “maggiore” della semiotica è costruita su due libri


“inesistenti” e su un’introduzione divulgativa fatta uscire per motivi di
concorso. Com’è noto, il Corso di linguistica generale di Ferdinand de
Saussure non è infatti stato scritto da Ferdinand de Saussure. I Collected
Papers di Charles Sanders Peirce sono una raccolta tematica in cui i saggi e
gli appunti di lavoro di Peirce sono stati smembrati e ricomposti in funzione
delle intenzioni del curatore, e senza alcuna cura per le argomentazioni
dell’autore. Oltre a questo, la raccolta restituisce solo una parte del pensiero
di Peirce.1 Infine, i Prolegomena to a Theory of Language di Hjelmslev
erano appunto i prolegomena al libro A Theory of Language, che Hjelmslev
stava scrivendo in quegli anni e che circolava in forma manoscritta tra i
membri del Circolo Linguistico di Copenhagen.2 La semiotica stessa in
quanto disciplina, indipendentemente dalle sue declinazioni di scuola, è stata
costruita su questi suoi tre classici “problematici”.
Tuttavia, abbiamo finalmente ora a disposizione i libri e gli scritti che
vengono a rimediare a questa costitutiva “problematicità” dei classici della
disciplina. Gli Scritti inediti di linguistica generale di Saussure, finalmente
autografi, Résumé of a Theory of Language di Hjelmslev, disponibile ora
anche in traduzione italiana,3 e infine i New Elements of Mathematics e i
Writings di Charles Sanders Peirce, ci paiono possedere la forza di restituire
un’immagine della semiotica diversa da quella standard. Proprio per questo,
questo nostro lavoro comincia con una serie di riletture “minori” dei tre
grandi autori maggiori della semiotica. Da qui un primo grande problema
riguardante lo statuto di queste riletture.

1.1. La doppia fondazione della semiotica: i duemila anni di una nuova


disciplina
Lo si è detto: la semiotica ha una storia lunga almeno duemila anni. Per
questo molti semiotici si impegnano a tratteggiarla, a delimitarne i confini, a
individuare dove si sono annodati i fili di quei problemi che ancora oggi
sono al centro della semiotica contemporanea, nel tentativo di pensare una
tensione tale per cui l’indagine storica possa essere in grado di cambiare lo
stato attuale della semiotica e quest’ultimo influenzare poi a sua volta il
futuro della ricerca storica.4 E tuttavia questa impresa deve essere o deve
essere stata simile a quella dell’analista freudiano, se non addirittura a quella
del paziente ormai guarito dalle proprie nevrosi, dal momento che secondo
Eco (1978, 1980a, 1984) la storia della semiotica si presenta innanzi tutto
come storia di un ostracismo, di una rimozione, di una cancellazione
silenziosa. La tesi di Eco è infatti estremamente radicale: i manuali di storia
della filosofia cancellano le semiotiche, le rimuovono, le nascondono in un
limbo silenzioso da cui la pratica semiotica contemporanea deve essere in
grado di andarle a riprendere, facendole così riaffiorare in superficie.
Il problema è allora quello di capire se questo processo di rimozione non
fosse però nell’ordine stesso delle cose, non fosse cioè in qualche misura
inevitabile; e se non sia stata esattamente la doppia fondazione peirciano-
saussuriana della semiotica a mettere in luce la sua stessa storia, a costituirla
in quanto oggetto visibile. E questo con alcune immediate conseguenze.
Certamente è senz’altro possibile indagare le teorie del linguaggio per
ritrovare principi e posizioni avvicinabili o anticipatrici di quelle
contemporanee, così come è altresì possibile che molti dei dibattiti della
storia della filosofia siano infinitamente istruttivi al fine di fare luce sui
problemi contemporanei della semiotica. E senz’altro il misto di ignoranza
del passato e retorica della novità che caratterizza la maggior parte del
paradigma delle scienze cognitive contemporanee5 non può non suscitare un
diffuso senso di fastidio in chi ad esempio non ignora che certe cose “le
avesse dette anche Kant” (cfr. Eco, 1997, capitolo 2).
E tuttavia occorrerà sostenere una tesi radicale che affianca e rilancia
quella proposta da Eco: la semiotica può fare oggi la propria storia e
ricercare oggi le proprie radici in un periodo in cui essa non esisteva come
disciplina istituzionale, solamente perché è la sua stessa doppia fondazione a
ordinare l’archivio della cultura secondo oggetti semiotici rimasti fino ad
allora illeggibili. Letteralmente, è la doppia fondazione della semiotica che
permette di leggere nella storia delle riflessioni sul linguaggio e sul segno
dei problemi semiotici che fino ad allora erano costitutivamente illeggibili e
non semiotici. I problemi pre-fondazionali sul segno, sul linguaggio e sul
significato, che oggi percepiamo come costitutivamente semiotici, in realtà
non lo erano affatto: essi erano cioè problemi sul segno, sul linguaggio, sul
significato, ma non erano problemi semiotici sul segno, sul significato, sul
linguaggio. È infatti solamente la doppia fondazione della semiotica ad
averli resi tali, ridisegnando i confini tra determinati oggetti teorici e facendo
così vedere ciò che prima non era minimamente visibile. È come in
geografia politica: certamente l’Estonia era sempre l’Estonia, ma è stata
solamente la sua fondazione in uno stato indipendente a consentire a noi di
“vedere” l’Estonia dove prima “vedevamo” solamente l’Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche. È solamente la fondazione dell’Estonia
come stato indipendente che ci consente di vedere oggi ciò che già era
Estonia fin dalle origini, senza però esserlo davvero.
Con la consapevolezza che esempi del genere potrebbero proliferare, si
prenda ad esempio il caso di Locke. Certamente “non si può capire Locke se
non si tiene conto del fatto che, come egli dice nell’ultimo capitolo del
Saggio, la sfera dell’intera conoscenza umana si riduce a fisica, etica e
semiotica” (Eco, 1984, X), ma, come nota giustamente Rastier (2003, pp.
90-91):
Locke, primo autore moderno a denominare la semiotica dandone una definizione, concepiva i
segni in modo estremamente tradizionale come semplici strumenti della mente; egli, perciò, si è
limitato a riformulare la tripartizione stoica delle conoscenze in fisica, logica ed etica, in cui la
semiotica era soltanto un nome nuovo per designare una logica che riconosceva l’importanza dei
segni.

Un ben modesto passo in avanti come si vede, e come si vedrà ancor


meglio nel momento in cui individueremo le specificità di un’impresa
semiotica. Ai fini del nostro percorso “minore”, occorrerà allora essere
estremamente prudenti su ogni impresa storiografica, dal momento che
occorre saper cercare qualcosa per poterlo trovare. Noi oggi troviamo dei
problemi semiotici nella storia del pensiero e della cultura solamente perché
li sappiamo cercare, e li sappiamo cercare solamente perché la doppia
fondazione della semiotica come disciplina autonoma ha reso leggibili sotto
un certo rispetto cose che prima non lo erano, ridisegnando così le frontiere e
facendo emergere qualcosa che prima non poteva essere visto.6 Come notava
già Eco (1978, p. 9), affinché la storia del pensiero potesse essere letta in
chiave semiotica, c’era bisogno che si verificasse “una sorta di terremoto
metodologico, una disseminazione interdisciplinare, un improvviso
rivolgimento della curiosità scientifica, un’inversione di tendenza, una nuova
sensibilità, una specie di nuovo Kunstwollen filosofico capace di produrre
una cultura semioticamente orientata”.
Ci pare allora che Rastier (2001, 2003) abbia senz’altro ragione
nell’insistere in diversi punti della sua opera7 sulla costitutiva novità del
paradigma semiotico differenziale, il solo capace di far uscire la semiotica
dal suo rapporto ancillare con la logica, la filosofia, la retorica e la teoria
della conoscenza. Ma questo costitutivo cambiamento di paradigma, che
renderà per la prima volta leggibili problemi logico-filosofici, retorici e
gnoseologici in quanto problemi semiotici, non avverrà però quando la
semiotica si affrancherà da queste discipline per affiancarsi alla linguistica,
alla filologia o all’ermeneutica.8 Al contrario, avverrà quando logica,
filosofia, retorica e teoria della conoscenza diverranno esse stesse parti della
semiotica, in un senso che si tratterà di precisare. E questo avverrà innanzi
tutto e per la prima volta con Peirce e poi nuovamente con l’impresa dello
strutturalismo nel suo complesso. Sarà allora solamente a quel punto che
esisterà una “storia della semiotica”, con problemi e oggetti teorici
specificamente semiotici, e sarà solamente a quel punto che questa storia
diventerà leggibile, e diventerà leggibile come un rimosso, come un grande
tentativo di cancellare qualcosa che in verità non si era mai veramente
manifestato alla coscienza, rimanendo ciò che già era, in una sorta di
inconscio disciplinare.
Perché se per un certo verso il pensiero non aveva mai smesso di fare
semiotica, per un altro verso esso era in grado di prenderne coscienza
solamente durante la sua evoluzione, grazie a una doppia fondazione che
poneva problemi specificamente semiotici. Perché non è mai alle origini che
qualcosa di nuovo può rivelare la propria essenza, ma esso può rivelare ciò
che già era fin dalle origini soltanto a una svolta della propria evoluzione.
Per questo il nostro approccio alle “storie minori” che ci apprestiamo a
raccontare sarà costitutivamente teoretico.

1.2. Una “nuova sensibilità”

Chiediamoci allora innanzi tutto in che cosa consista quel “terremoto


metodologico”, quell’“inversione di tendenza”, quella “nuova sensibilità” di
cui parlava Eco, che è stata capace di condurre a “una specie di nuovo
Kunstwollen filosofico” in grado di “produrre una cultura semioticamente
orientata”. Non ci stupirà affatto ritrovare questo nuovo “atteggiamento”
propriamente semiotico in tutti e tre gli autori che ci apprestiamo a ripensare,
e cioè Saussure, Hjelmslev e Peirce.
Siamo abituati, quasi condizionati nel nostro pensiero, a una certa
distinzione o correlazione tra oggetto e rappresentazione da un lato, e tra
fatto e teoria dall’altro; tra ciò che è dell’ordine dei fatti dell’oggettività e ciò
che è dell’ordine di una loro rappresentazione teorica, indipendentemente
dalla natura percettiva, linguistica, cognitiva, sensibile, sociale, culturale,
mentale o neuronale che viene poi riconosciuta a questa stessa
rappresentazione. Gran parte del mondo scientifico contemporaneo,
dall’epistemologia alla fisica teorica, dalla filosofia analitica alla psicanalisi,
dalle scienze cognitive fino all’ermeneutica filosofica si definiscono spesso
in funzione dei modi di ripartire variamente i rapporti complessi tra questi
due ambiti, di riconoscerne le specificità e le mutue interrelazioni, di
tracciare una serie di frontiere che allo stesso tempo dividono e accomunano
questi due ordini, al fine di determinarne così le differenti relazioni. Alle
volte si invoca il punto di dispersione in cui fatto e teoria si compenetrano e
si uniscono fino a sfumare in lontananza; alle volte il loro confine netto,
aguzzo, tagliente come il filo della differenza che si vuole tracciare tra un
ordine dell’oggettività e l’ordine di una sua rappresentazione. Ad esempio,
da un lato tutta l’ermeneutica contemporanea9 si vuole fondata su di una
differenza fondamentale, chiamata differenza ontologica, che istituisce,
ripartisce e separa un livello ontico di oggettività (l’ente) da un regime
ontologico di luminosità che lo rende visibile (l’essere), e che definisce così
le condizioni di possibilità di ogni sua possibile rappresentazione. Allo
stesso modo, dall’altro lato, in ambiente anglo-sassone è la differente
modulazione dei rapporti complessi tra fatto e teoria a rappresentare lo
snodo teoretico centrale a partire dal quale si dipanano tutta una serie di
posizioni differenziate, tra cui citiamo a titolo di esempio la
sottodeterminazione della teoria rispetto ai fatti in Quine, il costruttivismo
della teoria sul dato fattuale in Goodman, la paradigmaticità della teoria su
ciò che si vede nel fatto in Kuhn, il falsificazionismo della teoria dai fatti in
Popper, l’impurità dei fatti rispetto alla teoria di cui sono sempre carichi in
Feyerabend.
Ora, la semiotica si definisce innanzi tutto per la scoperta di un terzo
ordine situato al di là, o al di qua, di quello dell’oggettività dei fatti e delle
loro rappresentazioni teoriche. Questo nuovo ordine di Terzità si identifica
allora con la scoperta stessa della specificità di un ordine semiotico, al di là
di ogni possibile dualismo tra oggetto e rappresentazione e tra fatto e teoria.
Il rifiuto di confondere questo terzo ordine propriamente semiotico con
quello dell’oggettività dei fatti, con quello di una loro rappresentazione
teorica e con i rapporti complessi che si possono individuare tra questi due
costituenti fondamentali, costituisce allora la dimensione fondamentale da
cui si riconosce il paradigma semiotico nella sua doppia fondazione
peirciano-strutturalista.
Ecco infatti che al di là degli oggetti, dei representamen e dei loro
specifici rapporti di Primità e di Secondità, Peirce individua un terzo livello
propriamente interpretativo formato da grandezze semiotiche, gli
interpretanti, che sono in grado di ridistribuire i rapporti tra gli elementi che
crediamo di poter individuare all’interno degli altri due ordini. Se infatti il
representamen è Uno (ordine della rappresentazione) e l’oggetto Due (ordine
dell’oggettività), il semiotico per Peirce è allora sempre essenzialmente
dell’ordine triadico del Tre:
con semiosi intendo un’azione o influenza che è, o implica, una cooperazione di tre soggetti, il
segno, il suo oggetto e il suo interpretante, tale che questa influenza tri-relativa non si possa in
alcun modo risolvere in rapporti tra coppie. (CP 5.484)

Con questa idea della semiosi come struttura irriducibile a rapporti tra
coppie, Peirce pensa al semiotico come al luogo di una complessità
strutturale irriducibile a qualsiasi tipo di rapporto binario,10 e quindi a
qualsiasi ripartizione tra l’oggetto e i suoi representamina. Peirce mostrerà
in maniera straordinaria questa strutturazione complessa e irriducibile del
semiotico – che sarà stella polare di questo nostro lavoro – nella sua Logica
dei Relativi, in cui dimostrerà come tutte le relazioni monadiche e diadiche,
così come tutte le relazioni di valenza superiore a tre, possano sempre venire
generate a partire dalle triadi. Peirce mostrerà così come non soltanto il
representamen e l’oggetto, ma anche i loro rapporti e le articolazioni tra
questi rapporti vadano pensati come l’effetto di un processo in cui essi si
costituiscono a partire dalla Terzità dell’interpretazione, con la sua struttura
irriducibilmente complessa e di frontiera (cfr. infra, 1.5).
Ancora più radicali sono le cose in Hjelmslev. Al di là delle teorie
linguistiche e dei fatti di linguaggio, Hjelmslev scopre infatti una
dimensione più profonda, un terzo ordine propriamente glossematico,
popolato da un unico elemento che sarà poi possibile ritrovare all’interno di
tutte le unità che costituiscono le teorie linguistiche da un lato e i fatti di
linguaggio dall’altro. Sistema, processo, paradigma, sintagma, forma,
sostanza, materia, espressione, contenuto, semiotica, metasemiotica,
metasemiologia e tutti gli altri oggetti teorici che Hjelmslev ha consegnato
alla semiotica contemporanea non sono altro che puri epifenomeni di
superficie dietro a cui si nasconde un unico oggetto propriamente semiotico:
la classe (cfr. infra, 1.8). La classe è l’elemento della glossematica, tanto che
sebbene si incarni in tutti gli elementi di una teoria del linguaggio e in tutti i
fatti linguistici, essa ne rimane però irriducibile, facendo parte di un terzo
ordine propriamente glossematico mai sovrapponibile a quello dei fatti o
delle teorie.
Qui allora è forse incominciato tutto con la linguistica: al di là della parola
nell’oggettività delle sue parti sonore e al di là delle immagini acustiche, dei
concetti e delle rappresentazioni associate alle parole, il linguista
strutturalista scopriva infatti un elemento del tutto diverso, un “oggetto
strutturale”. Ad esempio, il fonema si manifestava sì in lettere, sillabe e
suoni, senza però derivarne né ridursi a essi, dal momento che ne
rappresentava la condizione stessa di possibilità. Al contempo distinto sia
dalle sostanze sonore che dalle immagini acustiche a cui era associato, il
fonema vi si incarnava, ma in sé esso era definito soltanto dal piano
d’immanenza in cui intratteneva rapporti differenziali con altri fonemi. Al
fonema occorre allora evitare di attribuire una trascendenza che non
possiede, senza però mai smettere di notare i suoi effetti trascendenti, dal
momento che i rapporti tra fonemi propri del piano immanente della struttura
servivano a rendere conto dei cambiamenti esistenti al di fuori della struttura
stessa.11 La relazione “bollo/pollo” ad esempio – sia a livello delle parole
nella loro oggettività espressiva che a livello delle rappresentazioni
semantiche associate alle parole – era l’effetto di un dispiegamento
propriamente strutturale in cui rapporti immanenti tra elementi di un piano
(b VS p) si incarnavano in unità concrete e differenziavano qualcosa su un
altro piano (il fonema era infatti il più piccolo elemento del piano del
significante in grado di produrre differenze sul piano del significato).
Hjelmslev spinge allora quest’attitudine al suo punto più estremo, al punto
limite in cui la stessa trascendenza delle teorie e dei fatti del linguaggio può
essere ritrovata esclusivamente sul punto in cui “immanenza e trascendenza
si uniscono in un’unità superiore sulla base dell’immanenza” (P, p. 136).
Hjelmslev mostra cioè come tutti gli elementi del linguaggio (fatti e teorie)
possano essere generati a partire dall’immanenza di un terzo regno
propriamente glossematico, che è indipendente dall’esperienza linguistica
(arbitrarietà dell’analisi glossematica), ma è allo stesso tempo adeguato a
essa (adeguatezza dell’analisi glossematica). La glossematica hjelmsleviana
è cioè un’originale forma di analisi trascendentale assolutamente sui
generis, in cui ciò che è costitutivo dell’esperienza del linguaggio non è in
alcun modo tratto dall’esperienza del linguaggio (arbitrarietà), ma ne
definisce la condizione stessa di possibilità (adeguatezza). Al termine di
questa analisi, per Hjelmslev tutte le nozioni della teoria linguistica e tutti i
fatti di linguaggio si riveleranno per quel che essi sono in realtà, e cioè
incarnazioni di un unico elemento differenziante propriamente glossematico
che pulsa a ogni livello: la classe. Ritorneremo sul senso profondo di questo
rapporto tra immanenza e trascendenza e su questa analisi trascendentale
propriamente hjelmsleviana (cfr. infra, 1.6 e 1.8).
Occorre però innanzi tutto capire a pieno la portata di questa “nuova
sensibilità” di cui parlava Eco, che darà poi origine alla semiotica, al fine di
capire in cosa essa differenzi la sua epistemologia “da ogni precedente
tentativo di filosofia del linguaggio” (P, p. 14). Al momento, ci pare
semplicemente di avere individuato dei tratti di complessità e di immanenza,
che sono costitutivi di un terzo ordine che è posto al di là, o al di qua, di ogni
possibile rapporto tra l’oggettività dei fatti e le loro rappresentazioni
teoriche. Se è a questo livello che si installa il semiotico, che tipo di “entità”
lo popolano? E quali rapporti queste “entità” intrattengono tra di loro? Quali
sono cioè i “personaggi” di questa nuova “storia” che non racconta fatti né si
occupa di oggetti, né tanto meno delle loro differenti rappresentazioni?

1.3. Una prima “elevazione a minore”: il mantra di Saussure e le due


dimensioni del valore

Dagli Scritti inediti di linguistica generale, ci pare davvero non


fraintendibile quale sia il tema – tra tutti quelli che costituiranno poi il Cours
– che pare stare più a cuore a Ferdinand De Saussure, che di questi Scritti è
davvero l’autore materiale, e non soltanto quello ideale. Tutto il lavoro è
infatti pervaso dalla definizione delle “entità” della nuova scienza
linguistica, problema che negli Écrits ritorna continuamente, come se fosse
un mantra. Per Saussure si tratta infatti della cosa più importante in assoluto,
ed è a questo argomento che tutti i suoi ragionamenti ritornano.
Tutti i punti di vista, però, rinviano – dovrebbero rinviare – se rigorosi, alla risposta a una domanda
preliminare su cosa è un’entità linguistica. Che cosa è che di un’entità fa un’entità della lingua e
che cosa è che di quella entità garantisce l’identità. (De Mauro, 2005, XII)

Per Saussure questa “entità” sarà allora costitutiva di tutti i “sistemi


semiologici”, e non solo di quelli linguistici, e la sua determinazione gli
sembrerà così decisiva per una nuova epistemologia semioticamente
orientata da ritenerla più importante di “tutto ciò che è stato scritto da parte
dei filosofi sul meccanismo fondamentale del rapporto tra il segno e l’idea”
(ELG, p. 50).
A questo proposito, al fine di comprendere a fondo questa “rivoluzione
saussuriana”, che secondo Saussure marca una discontinuità netta tra
un’epistemologia semiotica e “qualsiasi precedente tentativo di filosofia del
linguaggio”, prendiamo in considerazione questo triangolo che Eco (1985b)
illustra in un saggio per noi fondamentale, su cui dovremo ritornare, in cui
vuole mostrare l’eterogeneità delle riflessioni “pre-semiotiche” sul segno e
sul significato (Aristotele,12 gli stoici, Agostino, Abelardo, Okham, Locke,
Frege, Carnap ecc.).
Figura 1. Variazioni sul Peri hermeneias (Eco 1985b, p. 312)

Eco sottolinea come questi triangoli “non parlino tutti della stessa cosa”,
ma mostra anche come a tutti questi triangoli sottostia un medesimo
modello: ci sono degli elementi (il segno, la voce, la cosa, il concetto, la
Bedeutung, l’intelletto, il verbum mentis ecc.) e dei rapporti variabili tra
questi elementi già costituiti per se stessi (rappresentazione, designazione,
manifestazione, denotazione, implicazione ecc.). La semantica e la semiotica
erano cioè basate su questo modello a suo modo “sostanzialista”, in cui ci
sono elementi con una certa identità propria, e dei rapporti variabili tra
questi elementi che vengono declinati secondo modalità e sensibilità
differenti (logiche, cognitive, inferenziali ecc.). Fare semiotica significava
stabilire la natura di questi elementi (le loro proprietà) e il tipo di rapporti
che esistevano tra questi termini già costituiti per se stessi. Il “paesaggio
teorico” che definiva quale tipi di relazioni unissero determinati elementi
con le loro proprietà definiva quella che Eco chiamava la “semiotica
implicita” di questi autori.
Una semiotica del tutto pre-saussuriana tuttavia. Perché, con l’unico
precedente della Logica dei Relativi di Peirce, Saussure sarà il primo a
scardinare dalle fondamenta questo modo di pensare millenario.
In altri domini, se non mi sbaglio, si può parlare dei diversi oggetti considerati se non come di cose
esistenti in se stesse, almeno come di cose che riassumono cose o entità positive qualsiasi […]: ora,
sembra che la scienza del linguaggio sia collocata a parte. […] C’è questo di primordiale e di
inerente alla natura del linguaggio che, da qualunque lato si cerca di attaccarlo, non ci si potrà mai
scoprire degli individui, cioè degli esseri (o delle quantità) determinati in se stessi […] e dotati di
un’esistenza indipendente. Ricordiamoci infatti che tanto per cominciare l’oggetto in linguistica
non esiste, non è determinato in se stesso. (ELG, pp. 14-15 e 71)

Ma che tipo di entità può essere allora un’entità non individuale, non
dotata di un’esistenza indipendente, che non è determinata in sé stessa e che
non è dunque definibile attraverso proprietà?
Saussure (CLG) individuava innanzi tutto una doppia dimensione che era
per lui (e per noi) distintiva dell’intera impresa semiotica nel suo complesso.
Questa doppia dimensione era costitutiva di un elemento che sembrava
dipenderne e che rappresentava “l’entità concreta” della nuova scienza
(CLG, pp. 125-129). Si trattava di una vera e propria scoperta, semplice
quanto decisiva, di cui Saussure non smetteva di sottolineare il carattere
“strano” e “sorprendente” (CLG, p. 130). Questa entità concreta, sebbene
non cessasse di circolare in entrambi i piani della lingua, nei suoni, nei
concetti, nelle immagini acustiche, nelle parole e nelle frasi, non era però
“percepibile immediatamente”, tanto che ci si domandava se fosse
“realmente data”:
La lingua presenta dunque questo carattere strano e stupefacente di non offrire entità percepibili
immediatamente, senza che si possa dubitare tuttavia che esse esistono e che proprio il loro gioco
costituisce la lingua. (CLG, p. 130)
Le entità concrete della lingua per Saussure non sono percepibili
immediatamente, perché sono continuamente ricoperte dall’oggettività dei
fatti linguistici in cui si incarnano (suoni, significati, atti di linguaggio ecc.)
e dalle rappresentazioni teoriche della linguistica che le imprigionano
(concetti, immagini, proposizioni, nomi, aggettivi, casi ecc.). E tuttavia, dice
Saussure, non si identificano con esse, esattamente come il treno Ginevra-
Parigi delle 20.45 non si identifica con la sua locomotiva, i suoi vagoni e il
suo personale (CLG, p. 132). Esse appartengono infatti a un altro ordine, che
è terzo rispetto a tutte queste ripartizioni, in cui l’identità di un elemento è
puramente differenziale ed è effetto di un equilibrio locale attraverso il quale
essa si sorregge e si determina:
Nei sistemi semiologici, come la lingua, in cui gli elementi si tengono reciprocamente in equilibrio
secondo regole determinate, la nozione di identità si confonde con quella di valore e viceversa.
Ecco perché, in definitiva, la nozione di valore ricopre quella di unità, di entità concreta, e di
realtà. (CLG, p. 134)

Ecco in cosa consiste la specificità dei “sistemi semiologici”, ed ecco


quali entità popolano il loro territorio. Al di fuori di questa identificazione
non c’è impresa semiotica: c’è un altro sistema, come dice Saussure. Ma
quale identità ha allora un valore, visto che l’identità delle entità concrete
della semiotica “si confonde con quella di valore”?
Per rispondere a un tale quesito, constatiamo anzitutto che anche fuori dalla lingua tutti i valori
sembrano retti da questo principio paradossale. Essi sono sempre costituiti:

1) da una cosa dissimile suscettibile di essere scambiata con quella di cui si


deve determinare il valore;
2) da cose simili che si possono confrontare con quella di cui è in causa il
valore.
Questi due fattori sono necessari per l’esistenza di un valore. (CLG, p. 140)

Si tratterà allora di affermare in maniera radicale questa paradossalità di


cui parla Saussure: i valori popolano infatti quel terzo ordine immanente che
è proprio del semiotico e lo fanno in una tensione costitutiva che li rimanda
sempre dentro e fuori di sé a un tempo, in una dialettica tra trascendenza e
immanenza che si tratterà di indagare. Un valore per Saussure è infatti
sempre definito da due dimensioni, entrambe puramente differenziali e
relazionali. La prima dimensione in cui consiste un valore risiede infatti
nella sua corrispondenza con delle entità esterne al sistema all’interno del
quale è considerato. Per esempio il valore di un pezzo da cinque franchi è
determinato dal fatto “che lo si può scambiare con una determinata quantità
di una cosa diversa, per esempio con del pane” (CLG, p. 140). La seconda
dimensione consiste invece nelle relazioni che un valore contrae con altri
valori interni al sistema di cui è membro. Per esempio “lo si può confrontare
con un valore similare del medesimo sistema, per esempio un pezzo da un
franco, o con una moneta di un altro sistema (un dollaro)” (CLG, p. 140).
Queste due dimensioni relazionali, una trascendente e l’altra immanente al
sistema considerato, sono entrambe costitutive della nozione stessa di valore:
un valore si dà solamente quando è scambiato con un “fuori” e confrontato
con un “dentro” del sistema di cui è parte, dal momento che solamente in
questo modo un elemento=x diventa un valore. Non si confonderà allora
questa doppia dimensione relazionale del valore col significato13 dal
momento che Saussure è molto esplicito su questo punto (CLG, pp. 140-
141), ma la si confonderà invece senz’altro col semiotico, dal momento che
il valore è “l’entità concreta dei sistemi semiologici” (CLG: 134), il
“personaggio” della loro storia.
Ecco allora quello che succede con delle entità non individuali come sono
quelle della lingua: esse non sono determinate, però sono determinabili e la
loro determinazione avviene sempre attraverso determinazione reciproca
(cfr. infra, 4.3). Questa determinazione reciproca è funzione di una
dimensione trascendente (scambio con il fuori) e di una dimensione
immanente (confronto con il dentro) all’elemento considerato. Saussure
importa così in linguistica il principio costitutivo del calcolo differenziale
leibniziano in matematica: da qui la natura “differenziale” delle unità del
linguaggio e della semiosi (cfr. infra, 1.6).
Ora, a partire da Hjelmslev, la tradizione semiotica strutturalista che ha
poi dato vita all’impresa generativa non ha di fatto saputo cogliere la
relazionalità differenziale costitutiva del valore semiotico anche nella sua
accezione trascendente (prima dimensione) e ha sempre finito per
confonderla col riferimento a un campione-parametro, se non addirittura con
quello a un referente extravaloriale (cfr. infra, 2.2). Il primo a operare questo
misconoscimento è stato senz’altro Hjelmslev (EL, p. 100):
Il paragone con il valore di scambio zoppica su un punto fondamentale: […] il valore di scambio è
definito per il fatto che corrisponde a una quantità determinata di merce, e questo fatto serve a
dargli un fondamento basato su dati naturali, mentre in linguistica i dati naturali sono del tutto
assenti. Il valore economico è per definizione un termine a due facce: non solo ha il ruolo di
costante rispetto alle unità concrete, ma restando identico ha il ruolo di variabile rispetto a una
quantità stabilita di merce che gli serve come riferimento. In linguistica, invece, non c’è nulla che
corrisponda al riferimento.

Lo stesso Rastier (2004) non coglie affatto la differenzialità relazionale


costitutiva dell’accezione trascendente saussuriana e, in una radicalizzazione
dell’idea hjelmsleviana, finisce per sostenere la saggezza della tradizione
generativa nell’averla abbandonata a favore esclusivo della seconda
accezione:
La significazione consiste nel valore “interno”, e questo si accorda con l’abbandono decisivo di
ogni riferimento. Così la differenza tra mutton e sheep consiste nella loro compresenza, e dunque
nella loro ripartizione differenziale […], ma non in una differenza a priori delle loro significazioni
che si baserebbe sulla differenza dei loro referenti. (Rastier, 2004, p. 3)

Ora, questo qualcosa di dissimile con cui un valore può essere scambiato
per costituirsi in quanto valore deve necessariamente essere un referente, un
termine-parametro o qualcosa di simile a una riserva aurea? Non può invece
essere semplicemente un “fuori” rispetto a questi rapporti differenziali che
sono costitutivi della prima accezione, “fuori” con cui essi si scambiano e si
traducono continuamente?
Identificando “identità” e “valore” nella sua doppia accezione, Saussure
sta semplicemente dicendo che, per stabilire l’identità di qualcosa, occorre
sempre confrontarla con altri elementi all’interno del suo sistema, ma anche
tradurla con elementi appartenenti ad altri sistemi. Se si vuole determinare
l’identità semiotica di Umberto Eco, non si devono solamente confrontare le
sue posizioni con quelle di Peirce, Lotman, Hjelmslev e Greimas, ma si deve
anche capire in che modo queste sue posizioni si declinano e si traducono
con quelle di altre discipline eterogenee: sociologia, filosofia, linguistica,
scienze cognitive ecc. Se si vuole determinare l’identità politica del partito
dei Comunisti Italiani, non si devono solo confrontare le loro posizioni nella
topologia politica delle alleanze, da cui si saprà che si oppongono al centro-
destra, si collocano più a sinistra del PD e più a destra di Rifondazione
Comunista; ma si deve anche determinare quali valori della società il partito
dei Comunisti Italiani traduce all’interno dello spazio politico, come la pensa
cioè sulle coppie di fatto, sulle staminali, sulla ricerca, sull’economia, sulla
sicurezza, e cioè su tutti quei valori trascendenti lo spazio politico che un
partito nasce per tradurre e rappresentare all’interno dello spazio politico.
Ma la sicurezza e le staminali sono il referente dei Comunisti Italiani? Le
scienze cognitive e l’antropologia sono il referente di Umberto Eco, nel
senso in cui il gatto è il referente della parola gatto?
Del resto, l’insostenibilità di un’interpretazione referenziale della prima
accezione del valore era del tutto evidente già nell’esempio di Saussure. Il
pane è il referente della moneta? Ed è un dato naturale che resta stabile,
come voleva Hjelmslev? Oppure è semplicemente un elemento appartenente
a un sistema eterogeneo con cui un elemento immanente si traduce e vede
con questo definita la sua identità, e cioè il suo valore (con un pezzo da 5
franchi si compra una determinata quantità di pane, che oggi è molto meno
di quella di una volta)?
Col suo concetto di interpretazione, Peirce avrà molto da insegnarci su
questa “dissimilarità” con cui un valore semiotico può sempre essere
scambiato (cfr. infra, 1.8), ma occorre chiedersi se l’idea costitutiva di una
sua differenzialità relazionale non fosse affermata con estrema chiarezza già
nel Cours saussuriano. Saussure era infatti assolutamente non fraintendibile
nell’affermare che entrambe le accezioni sono necessarie per l’esistenza di
un valore (CLG, p. 140). Ma se questo è vero,
ciò che è vero del valore è vero anche dell’unità […], l’uno e l’altro sono di natura puramente
differenziale. […] Ciò che li caratterizza non è, come si potrebbe chiedere, la loro qualità propria e
positiva, ma semplicemente il fatto che non si confondono tra loro. […] In tutti questi casi
scopriamo, dunque, non idee date preliminarmente, ma valori promananti dal sistema. Quando si
dice che essi corrispondono a dei concetti, si sottintende che questi sono puramente differenziali,
definiti non positivamente mediante il loro contenuto, ma negativamente, mediante il loro rapporto
con gli altri termini del sistema: la loro più esatta caratteristica è di essere ciò che gli altri non
sono. (CLG, pp. 142-147)

Insomma, il valore è un’unità puramente differenziale composta da due


dimensioni a loro volta puramente differenziali: esso è cioè una ratio tra
rationes,14 un rapporto tra rapporti effetto di altri rapporti.
Mi sembra che lo si possa affermare e proporre all’attenzione: non ci si compenetrerà mai
abbastanza dell’essenza puramente negativa, puramente differenziale, di ciascuno degli elementi
del linguaggio ai quali noi accordiamo precipitosamente una esistenza: non ce n’è nessuno, in
nessun ordine, che possegga questa esistenza presupposta – quantunque forse, lo ammetto, siamo
chiamati a riconoscere che senza questa finzione lo spirito si rivelerebbe letteralmente incapace di
controllare una simile somma di differenze in cui non c’è mai, in nessun momento, un punto di
riferimento positivo e fermo. (ELG, pp. 70-71)

La tesi di questo lavoro è allora al contempo semplice e radicale: la


specificità dell’impresa semiotica nel suo complesso consiste nell’affermare
entrambe le accezioni del valore saussuriano. Non è possibile fare semiotica
se non tenendole insieme e non è possibile tenerle insieme se non
affermandole entrambe a un tempo. E non si tratta di un’impresa facile, dal
momento che non è stato mai fatto, a cominciare dalla stessa tradizione
semiotica che si è voluta “strutturalista” (cfr. infra, 2.2).
Per questo prendiamo posizione per un Saussure “minore”, e cioè per un
Saussure deviante rispetto alle letture standard della tradizione post-
saussuriana, che non hanno mai fatto semiotica tenendo insieme le due
dimensioni differenziali che definiscono un valore. Proprio per questo,
esattamente come la nostra tesi, anche la nostra diagnosi è estremamente
semplice:

1) La quasi totalità della tradizione semio-linguistica che è seguita al Cours


saussuriano, e la totalità di quella generativa, ha sempre continuato a
determinare il valore esclusivamente in base a elementi immanenti al
sistema, e ha dunque così assunto il valore solamente nella sua seconda
dimensione costitutiva, ignorando completamente le specificità che sono
proprie della prima accezione. Da qui, ad esempio, l’insistenza
sull’interdefinizione.
2) Tutta la tradizione pre-saussuriana che ha riflettuto sul segno, sul senso e
sul linguaggio ha sempre continuato a scambiare il valore esclusivamente
con elementi trascendenti (il segno, la voce, la cosa, il concetto,
l’intelletto, il verbum mentis ecc.). La stessa identica cosa hanno fatto
pressoché tutti i paradigmi contemporanei successivi a Saussure, come ad
esempio le scienze cognitive o la filosofia analitica del linguaggio. Tutte
queste tradizioni hanno cioè ignorato le specificità che sono proprie
dell’accezione immanente del valore e hanno così finito per negare le
specificità dei sistemi semio-linguistici, al fine di ricondurli a elementi a
loro trascendenti (cognizioni, concetti, condizioni di verità ecc.). Non
solo. Dell’accezione immanente del valore di Saussure le scienze
cognitive hanno fatto uno dei loro bersagli polemici principali,
costruendosi in esplicita e dichiarata chiave anti-strutturalista. Leggendo
Saussure attraverso Hjelmslev, che come abbiamo visto rifiutava la
dimensione trascendente del valore, le scienze cognitive hanno infatti
giustamente imputato alla tradizione strutturalista di essere la vera
responsabile delle semantiche a dizionario, dal momento che per definire
un termine bastava interdefinirlo all’interno di un sistema. Che è
esattamente la posizione degli hjelmsleviani vecchi e nuovi. Ma non è
però quella di Saussure, secondo il quale per definire un termine non
basta affatto interdefinirlo all’interno del proprio sistema, ma occorre
anche sempre scambiarlo e tradurlo al di fuori del suo sistema più
proprio. Se avessero considerate entrambe le dimensioni del valore, le
scienze cognitive non avrebbero certamente potuto prendere lo
strutturalismo come esempio di una semantica dizionariale. Nel capitolo
4 mostreremo come si possa costruire una semantica differenziale e
strutturale che non sia dizionariale, e che si ispiri alle due accezioni del
valore in Saussure. Del resto, le semantiche di Eco, Rastier e De Mauro,
ad esempio, sono costitutivamente differenziali ed enciclopediche.

Tuttavia, proprio perché anche l’accezione trascendente definisce


un’identità differenziale attraverso cui i termini in gioco si determinano
reciprocamente, non è così corretto pensare che quando si sono riportati gli
elementi semiotici (segno, significato ecc.) a entità altre come il concetto,
l’idea o il referente, si sia seguita la prima accezione saussuriana e li si sia
scambiati con valori dissimili. Infatti in nessuno di questi casi il rapporto
risultava essere costitutivo dell’identità dei termini. Al contrario, come nei
triangoli da cui siamo partiti, si trattava per lo più di relazioni variabili di
rappresentazione, designazione, manifestazione, denotazione e implicazione
che si allacciavano secondo modalità e sensibilità differenti (logiche,
cognitive, inferenziali, concettuali) tra termini già costituiti per se stessi. Da
qui la svolta epistemologica radicale di cui è portatore un paradigma
differenziale, che non ha davvero precedenti all’interno di ogni altra
riflessione “presemiotica” sul senso e sul linguaggio.
Poiché non vi è alcuna unità (di qualunque ordine e qualunque natura la si immagini) che poggi su
altra cosa che su differenze, in realtà l’unità è sempre immaginaria, la differenza sola esiste.
Tuttavia siamo costretti a procedere con l’aiuto di unità positive, pena d’essere dal principio
incapaci di controllare la massa dei fatti. Ma è essenziale ricordarsi che queste unità sono un
espediente inevitabile del nostro spirito, e niente di più: appena si pone un’unità, questo viene a
dire che si è convenuto di lasciare da parte il gioco dei rapporti, per prestare momentaneamente
un’esistenza separata a uno solo di essi. (ELG, p. 94)

Saussure rovescia la radicalità con cui Leibniz pensava il rapporto tra


differenziali ed entità positive all’interno del calcolo: non sono i differenziali
a essere “finzioni ben fondate” (così in Leibniz), bensì le entità positive che
corrispondono ai valori di questi rapporti. Come vedremo,15 lo strutturalismo
e l’analisi semiotica sono di fatto l’importazione in teoria del linguaggio
della rivoluzione costitutiva del calcolo differenziale. La svolta saussuriana
costitutiva dall’epistemologia semiotica, che ci pare rappresentare un apax
nella storia del pensiero occidentale sul senso e sul linguaggio, consiste
allora essenzialmente in questo: gli elementi dei sistemi semiotici e
linguistici non hanno alcun tipo di identità che non sia definita per
determinazione reciproca attraverso il loro essere tutto ciò che gli altri non
sono. Dei suoi elementi, così come di tutti gli oggetti che essa indaga, la
semiotica non dà alcuna altra definizione: non cerca un genere e una
differenza specifica, non cerca un concetto, un’essenza o una forma
intelligibile al di là delle apparenze; più profondamente non cerca un quod
quid est che definisca una cosa attraverso ciò senza cui essa non può essere
ciò che è. E non lo fa perché i suoi elementi non posseggono alcun tipo di
proprietà senza le quali non sarebbero ciò che sono: essi infatti propriamente
non sono, dal momento che sono esclusivamente ciò che gli altri non sono. E
gli altri non sono propriamente in due accezioni sempre compresenti: i)
(non) sono elementi appartenenti a uno stesso sistema dell’elemento
considerato (accezione immanente); ii) (non) sono elementi appartenenti a
un sistema diverso rispetto a quello dell’elemento considerato (accezione
trascendente).
La semiotica nasce qui: mai prima e mai dopo.
Niente è, o almeno niente è assolutamente (nel dominio linguistico). (ELG, p. 92)
Nella lingua, come in ogni sistema semiologico, ciò che distingue un segno, ecco tutto ciò che lo
costituisce. La differenza fa il carattere, così come fa il valore e l’unità. (CLG, p. 147)
Sono tentato di dire che questo fatto è più istruttivo da solo di tutto ciò che è stato scritto sulla
lingua da parte dei linguisti e da parte dei filosofi sul meccanismo fondamentale del rapporto tra il
segno e l’idea. (ELG, p. 50)

Proprio perché crediamo alla semiotica, non possiamo non essere almeno
idealmente simpatetici con Saussure su quest’ultimo punto, ma a patto di
operare almeno un distinguo. Dovremo infatti imparare a non confondere la
tripartizione peirciana in segno/oggetto/interpretante con i triangoli pre-
saussuriani sul “rapporto tra il segno e l’idea” da cui siamo partiti,16 a cui
per altro Eco stesso in qualche modo la avvicina. Non solo infatti Peirce non
ha mai fatto un triangolo semiotico in nessuna delle sue decine di migliaia di
pagine manoscritte (per Peirce un triangolo è una “triade degenerata”, e
dunque non è una relazione autenticamente semiotica). Ma soprattutto, in
Peirce la semiosi definisce essenzialmente una relazione triadica irriducibile,
in cui la logica delle relazioni è prima rispetto ai termini di cui definisce la
valenza: “La semantica peirciana è dominata dalla sua logica dei relativi”
(Eco, 1985b, p. 316; cfr. infra, 1.5).
Nella sua forma genuina, la Terzità è la relazione triadica esistente fra un segno, il suo oggetto, e il
pensiero interpretante, esso stesso un segno, relazione considerata come costituente il modo di
essere di un segno. (CP 8.332)
Proprio perché nella sua semiotica la relazione è costitutiva del modo di
essere dei termini, Peirce è stato il primo strutturalista,17 o meglio, gli
strutturalisti sono stati i primi peirciani (cfr. infra, 1.5). In questo modo,
ovunque si ponga la significazione, il senso o il semiotico all’interno dei
triangoli iniziali (in un termine, in alcuni, in tutti, nei rapporti tra alcuni
termini, nei rapporti tra tutti) e qualsiasi natura gli venga poi attribuita
(logica, concettuale, psicologica, cognitiva, mista ecc.), queste questioni non
fanno neppure un passo nella direzione di un’autentica epistemologia
semiotica, dal momento che coinvolgono rapporti che non sono costitutivi
dell’identità dei termini. Dunque, per parafrasare Eco, non solo quei
triangoli da cui siamo partiti “non parlano della stessa cosa”, ma essi non
parlano neppure della “cosa semiotica” così come la impareremo a
conoscere tenendo insieme le prospettive di Peirce e dello strutturalismo.
Possiamo quindi brevemente riassumere i primi risultati di questo nostro
percorso. Al fine di rendere conto del suo oggetto, il senso, la semiotica si
pone al di là, o al di qua, di ogni ripartizione tra l’oggettività dei fatti e le
loro rappresentazioni teoriche. Il “semiotico” definisce infatti un ordine
complesso e immanente che è terzo rispetto a tutte queste ripartizioni, in cui
si incarna senza ridurvisi, esattamente come il treno Ginevra-Parigi delle
20.45 si incarna nei suoi vagoni e nel suo personale, senza però ridursi a
essi. Le entità che popolano questo terzo ordine propriamente semiotico
sono dei valori, e cioè delle entità non individuali e indeterminate, in cui è il
rapporto a essere costitutivo dell’identità dei termini. La determinazione di
questo rapporto, e dunque dell’identità delle entità semiotiche, avviene
localmente in funzione di due dimensioni, una immanente al sistema
considerato e l’altra trascendente a esso.18 Vedremo in modo analitico come
questo possa essere concretamente reso operativo nel capitolo 4.
Tuttavia, occorre fin da subito porsi una domanda fondamentale, che ci
consentirà di proseguire nel nostro viaggio “minore”: che cos’è un “sistema”
e come va pensato, se la determinazione stessa delle entità della semiotica
(valori) dipende costitutivamente dalla sua struttura?

1.4. Una seconda “elevazione a minore”: l’irriducibile complessità delle


opposizioni partecipative e della frammentazione in Hjelmslev

Siamo qui di fronte a un nodo teorico fondamentale, che tocca la forma


che la semiotica ha assunto fino a oggi (struttura “maggiore”) e la forma
deviante rispetto a essa che vorremmo proporre qui (struttura “minore”). La
doppia accezione del valore di Saussure pone l’identità di un elemento
semiotico in funzione di una molteplicità n di sistemi da cui dipende
(sistema immanente e sistemi trascendenti al sistema immanente
considerato). Per prendere sul serio la lezione di Saussure e renderla
operativa, occorre quindi saper pensare un sistema semiotico che sia al suo
interno costitutivamente plurisistemico. Com’è allora possibile pensare a un
sistema che sia a sua volta fatto di sistemi, in una sorta di autosimilarità
frattale? E questa plurisistemicità costitutiva non va forse nella direzione
esattamente opposta a quella presa fino a ora dalla semiotica nel tentativo di
determinare l’identità dei suoi elementi?
Nella tradizione semiotica ci sono stati essenzialmente quattro modelli che
hanno inteso determinare con più precisione ciò che Saussure definiva
genericamente con “sistema”: l’albero, la struttura, la matrice e il rizoma. I
quattro oggetti teorici che rappresentano “emblematicamente” questi
differenti modelli sono la gerarchia di Hjelmslev (P, p. 114), il quadrato
semiotico di Greimas (1970, 1983), la struttura tensiva di Fontanille e
Zilberberg (1998) e l’enciclopedia di Eco (1983, 1984, 2007). Questi quattro
oggetti teorici ci dicono molto sul modo in cui la semiotica ha pensato ai
suoi elementi e al modo in cui ha tentato di definire la loro identità attraverso
la configurazione stessa della sua teoria. I primi due modelli infatti tendono
alla semplicità, gli ultimi due tendono invece alla complessità, ma è
solamente l’enciclopedia rizomatica a essere pensata come un sistema fatto
da altri sistemi (cfr. infra, 3.5). Occupiamoci innanzi tutto dei primi due, al
fine di arrivare agli altri più gradualmente.
La gerarchia arborescente, che per Hjelmslev costituisce la definizione
stessa della semiotica, si fonda sul così detto “principio empirico”, che ha
proprio nella semplicità uno dei suoi tre tratti costitutivi.19 Il quadrato
semiotico di Greimas è invece definito come la struttura elementare della
significazione, tanto che i valori in esso articolati sono consistenti solo in
funzione di un asse semantico o di un’isotopia locale che definisce un
microuniverso semantico (un testo, ad esempio, cfr. infra, 3.8). Entrambi
questi primi due modelli si fondano su di un principio dicotomico di tipo
diadico che definisce la forma di relazione che sarà poi pensata come
costitutiva del sistema in questione (iponimo/iperonimo in Hjelmslev;
contrarietà/contraddizione/implicazione tra coppie di elementi e
congiunzione/disgiunzione tra soggetti e oggetti in Greimas). Questo
particolare modo di pensare alla strutturazione dei valori semiotici è
perfettamente speculare all’abbandono della prima dimensione del valore
saussuriano, che ha contraddistinto l’impresa hjelmsleviana prima e quella
generativa poi (cfr. Zilberberg, 1983 e infra, capitolo 2).
Là dove la prima accezione del valore apre infatti il sistema e l’identità
degli elementi semiotici verso un “fuori” che ne è costitutivo, la semiotica
hjelmsleviana e quella generativa hanno invece sempre cercato di chiudere il
sistema, pensando ad esempio la lingua senza fare riferimento ai sistemi
extralinguistici (Hjelmslev),20 e pensando al senso “in immanenza”,21 e cioè
articolandone i valori semici in funzione di un microuniverso semantico più
profondo della molteplicità che costituisce le manifestazioni lessematiche di
superficie (Greimas).22 Da qui la necessità di abbandonare la prima
dimensione del valore di Saussure. Perché, qualora la si prenda seriamente in
considerazione come si vuole provare a fare qui, l’alterità dei sistemi
eterogenei rispetto a quello considerato nell’analisi viene a costituire
l’identità stessa degli elementi appartenenti al sistema analizzato,
“sporcando” così la purezza dell’interdefinizione, che nella tradizione
strutturale e generativa si è voluta a fondamento della teoria semiotica stessa
(cfr. Fabbri, 1998, 2007).
Facciamo un esempio e consideriamo l’opposizione “uomo/donna”. Se
dobbiamo determinarne il valore semantico, dobbiamo notare come questa
opposizione possa essere pensata tra termini contrari solo occasionalmente,
all’interno del sistema della sessualità e con diverse eccezioni anche al suo
interno, come mostreremo tra breve. Fuori da questo sistema, ad esempio nel
sistema della lingua, l’opposizione non è infatti minimamente tra termini
contrari, perché “uomo” può sempre assumere anche il valore semantico di
“donna”, ad esempio in frasi come “l’uomo è un animale”, in cui ne porta
con sé il valore semantico. L’opposizione uomo/donna può cioè essere messa
in quadrato semiotico23 solo ed esclusivamente all’interno di un asse
semantico ben preciso e chiuso (cfr. infra, 3.2, 3.8). Del resto, la struttura
elementare della significazione (quadrato semiotico) nasce proprio per
articolare una categoria omogenea di taglia “micro”, e cioè ritagliata
localmente su uno sfondo eterogeneo conformemente alla sola accezione
immanente del valore in Saussure. Come si vede, è solo quando si
abbandona la complessità costitutiva dell’ordine del semiotico, a favore
esclusivo dell’accezione immanente del valore, che si ritrovano sistemi
chiusi organizzati per gerarchie arborescenti (Hjelmslev) o strutture
elementari che si sviluppano per dicotomie (Greimas).
E tuttavia, non era proprio Hjelmslev a insegnarci che l’opposizione tra
“uomo” e “donna” non poteva essere un’opposizione tra termini contrari? E
non era sempre Hjelmslev ad aver scoperto nel cuore stesso delle lingue
quell’indeterminatezza e quella complessità che impedivano per essenza di
chiudere i sistemi semio-linguistici? Non era forse proprio Hjelmslev ad
averci insegnato che le lingue e la semiosi non possono funzionare per
gerarchie arborescenti né per forme di relazione immanenti e dicotomiche,
tanto da dover essere aperte alle dimensioni plurali e molteplici di una rete,
per sua stessa essenza complessa e irriducibile al principio empirico?
Bisogna forse credere che Hjelmslev avesse dimenticato tutto questo poco
più di dieci anni dopo? Oppure si lasciava intrappolare in un’altra illusione,
infinitamente più sottile, che colpisce tutti quelli che, abituati a lavorare su
elementi empirici come sono le lingue, incominciano invece a voler
formulare la teoria del linguaggio? E questa illusione hjelmsleviana non
colpiva innanzi tutto all’inizio della sua teoria, ai suoi Prolegomena, quando
le forze dell’analisi non erano consolidate e il libro vero non era stato ancora
scritto?
Non è forse profondissimo il motivo per cui uno Hjelmslev “minore”, che
studiava empiricamente le lingue sulla scia della loro eterogeneità e
complessità, lascia posto a uno Hjelmslev “maggiore”, affascinato dalla
semplicità e dall’omogeneità della teoria del linguaggio? Come rispondeva
infatti lo Hjelmslev “minore”, e cioè lo Hjelmslev deviante dall’immagine
standard che ne abbiamo attualmente, alla domanda “qual è la forma di
organizzazione di un sistema semio-linguistico”, per noi così fondamentale
per il nostro percorso?
Sembrerebbe che un sistema è spesso organizzato sull’opposizione tra un termine preciso da un
lato e tra un termine vago dall’altro. (NE, p. 33) Roth ha scoperto che l’opposizione che si verifica
all’interno di una dimensione grammaticale non è un’opposizione tra un’idea positiva e un’idea
negativa, ma un’opposizione tra un’idea semplice e un’idea complessa. […] Il principio di Roth
può essere generalizzato. La struttura del sistema linguistico non è tale da poter mantenere la
distinzione tra un termine positivo e un termine negativo (è tutt’al più un caso estremamente raro).
L’opposizione reale e universale sussiste tra un termine definito e un termine indefinito. (CC, p.
185-186)

Non si è mai data sufficiente importanza a quest’idea hjelmsleviana e alla


sua definizione di “sistema”. Come mostreremo ora, affermare che un
sistema sia organizzato sull’opposizione tra un termine preciso (intensivo) e
un termine vago (estensivo) significa infatti affermare quattro proprietà
come costitutive di un sistema semiotico, e cioè: i) la potenziale
contraddittorietà e indeterminatezza del sistema; ii) la sua potenziale
apertura; iii) la sua costitutiva complessità; iv) la sua costitutiva non-
diadicità.
Queste quattro proprietà sono certamente “minori”, e cioè devianti rispetto
all’immagine che si ha di un sistema semiotico strutturale classico,24 con i
suoi principi di coerenza, chiusura, coesione e il suo costitutivo binarismo
(si pensi ad esempio al quadrato semiotico). Un’immagine di questa
“devianza” la si può ricavare confrontando proprio i diversi modi di pensare
l’opposizione “uomo/donna”. All’interno del quadrato semiotico della
sessualità, essa è pensata esattamente come un’opposizione tra un termine
positivo e un termine negativo (contrarietà polare). Al contrario, come nota
Hjelmslev, essa è invece un’opposizione tra un termine preciso e un termine
vago, dove “donna” è intensivo (preciso) e “uomo” estensivo (vago).
“Uomo” si oppone infatti a “donna” quando occorre differenziare i maschi
dalle femmine, ma porta con sé anche le donne (termine contrario), le
nondonne (termine contraddittorio) e gli ermafroditi (termine complesso) in
frasi come “l’uomo è un animale intelligente”.25 Per questo, come mostra
Hjelmslev, là dove “donna” è un termine preciso, che concentra la
significazione in una sola zona semantica, “uomo” è invece un termine vago,
che la diffonde sulla totalità della categoria, potendo rappresentare sia il
termine contrario opposto a donna (“uomo”), sia il suo contraddittorio (non-
donna, ad esempio i “trans-gender”), sia il termine complesso
(“ermafrodita”), sia “donna” stesso e sia, infine, l’annullamento di
pertinenza della categoria della sessualità (che Brøndal 1950, in aperto
contrasto con la tradizione semiotica che si è affermata in seguito, chiamava
“termine neutro”).
Hjelmslev sarà allora in grado di mostrare come sia esattamente una
forma di relazione di questo tipo a essere costitutiva di tutti i sistemi
linguistici, dal momento che la si ritrova non solo in tutti i sistemi del genere
e dei casi, ma anche in quelli del tempo, del modo, del numero ecc. (cfr. CC,
p. 185 e infra). Da qui la sua idea, assolutamente decisiva, che un sistema
semio-linguistico abbia una struttura costitutivamente partecipativa, e cioè
che i suoi elementi non posseggano un’identità tale da permettere di definire
delle opposizioni di tipo esclusivo tra termini positivi e negativi (contrarietà,
contraddizione, implicazione ecc.), bensì posseggano un’identità tale per cui
un elemento possa anche sempre partecipare del valore proprio
dell’elemento opposto. Per questo Hjelmslev definisce la forma di relazione
oppositiva che è propria di un sistema semio-linguistico non nella forma
esclusiva “A VS non-A”,26 bensì nella forma partecipativa “A VS A+non-A”,
dove “A” è intensivo e “A+non-A” estensivo.
Com’è evidente, le così dette “opposizioni partecipative” risultano essere:
i) contraddittorie, in quanto un elemento (“A+non-A”: “uomo”) è in
opposizione con una parte di se stesso (“A”: “donna”27); ii) aperte, in quanto
la determinazione del valore semantico che è proprio del termine estensivo
dipende costitutivamente dalla sua determinazione locale (è “maschile”
all’interno di una certa zona del sistema, ma non lo è più fuori da quella
zona); iii) complesse, in quanto l’opposizione non è tra un termine positivo e
uno negativo, con tutti i rapporti che è possibile individuare tra di essi, bensì
tra un termine preciso (intensivo) e un termine vago (estensivo), che può
ricoprire sia il valore del primo, sia il valore contrario a esso, sia entrambi
(termine complesso) e sia la neutralizzazione stessa dell’opposizione in atto
(cfr. NE, p. 40).
Per fare luce adeguatamente sul punto iv) invece, occorrerà lasciare la
parola direttamente a Hjelmslev, che spiega molto bene perché
un’opposizione partecipativa tra un termine intensivo e un termine estensivo
non sia affatto un’opposizione binaria né coinvolga due soli termini. Dopo
un’attenta analisi sul campo, e in polemica proprio col binarismo
strutturalista di Jakobson, Hjelmslev afferma infatti che, per quanto riguarda
casi, tempi, numero, genere, persona e struttura grammaticale, gli sembra
“incontestabile l’esigenza di categorie a tre (e più) termini” (NE, p. 48), di
cui nessuno di questi termini contrae rapporti di marcato/non-marcato, o
relazioni binarie sul tipo di contraddizione/contrarietà (NE, pp. 32-42).
Queste categorie locali di tipo triadico per Hjelmslev si articolano infatti in
un termine positivo e un termine negativo che contraggono tra loro dei
rapporti di contrarietà, e un terzo termine che annulla l’opposizione tra i due,
che Hjelmslev chiama neutro.28
Figura 2. Categorie a tre termini hjelmsleviane (NE, p. 36)

Come nell’esempio di “uomo/donna”, il termine estensivo può allora


occupare tutte e tre queste posizioni semantiche, anche
contemporaneamente. Al contrario di quello che potrebbe sembrare a prima
vista, la coppia intensivo/estensivo è dunque tutt’altro che un’opposizione
binaria tra due termini, dal momento che il termine estensivo nasce
esattamente per coprire un’intera zona semantica la cui molteplicità è
irriducibile a qualsiasi unità così come a qualsiasi tipo di rapporto binario. Il
termine estensivo infatti definisce
un’esitazione capricciosa tra diversi significati racchiusi nei quadri della zona semantica devoluta
alla categoria in questione. C’è un termine [… intensivo] che occupa uno dei casi della zona –
diciamo il caso a. […] C’è poi un altro termine che ha di particolare il suo poter occupare, a
seconda delle circostanze, qualsiasi caso della zona: o, per supplenza, il caso a (cosa che costituirà
una sinonimia occasionale col primo termine), oppure, per contrasto, il caso b che gli è opposto per
contrarietà; oppure il caso c che si intercala tra a e b come parte “neutra” della zona. Bisogna
ovviamente ancora aggiungere: a e b al contempo, oppure a e c, oppure a e b e c, caso estremo in
cui tutta la zona è riempita in modo assolutamente indeciso, e senza che nessuna precisione sia
possibile. Quest’ultima possibilità è da un certo punto di vista la possibilità principale, perché
rinchiude in sé tutte le altre, e perché è quella che si realizza allo stato isolato, fuori dal contesto
(che non vuol dire che non si possa realizzare anche all’interno di certi contesti) – è il valore, per
così dire, “lessicale” di questo termine. Sia dunque:
Il termine I riceverà la denominazione di termine intensivo […], il termine II quella di termine
estensivo. (NE, p. 39-40)

Per Hjelmslev possono allora darsi tanti termini intensivi quali sono i
valori interni al sistema. Allo stesso modo, è del tutto evidente come il
termine estensivo definisca una molteplicità che può assumere di volta in
volta n valori semantici, in funzione della complessità del sistema (in questo
sistema a 3 valori ne può assumere 7). Così come è evidente che la forma di
relazione incarnata nel quadrato semiotico della sessualità corrisponde al
solo caso b, indicato da Hjelmslev tra le interpretazioni possibili del termine
estensivo II, in cui il termine estensivo occupa esclusivamente il valore
semantico polare opposto ad a (contrarietà). La forma di relazione incarnata
nel quadrato semiotico è cioè solo uno tra i casi possibili di un sistema
semio-linguistico. Da qui il nostro obiettivo: complessificare la forma
“maggiore” assunta dalla teoria delle relazioni in semiotica, al fine di evitare
di assumere come struttura generale quello che è solo uno dei casi possibili
di un sistema che è invece costitutivamente molteplice e non diadico (cfr.
infra, capitolo 3).
Non solo. Per Hjelmslev questa molteplicità costitutiva di un sistema
semio-linguistico è ottenibile inizialmente attraverso la relazione tra due
termini opposti in relazione di contrarietà e un terzo termine, che chiama
“neutro”, che serve ad annullare l’opposizione in atto tra i primi due. Con la
sua Logica dei Relativi, Peirce sarà allora in grado di gettare luce su questa
correlazione tra una relazione triadica e una molteplicità irriducibile a
rapporti binari (cfr. infra, 1.5). Peirce mostrerà infatti come una relazione
triadica non sia affatto una relazione a tre termini, ma definisca più
profondamente un sistema a n termini irriducibile a qualsiasi unità così come
a qualsiasi insieme di rapporti binari. Peirce chiamerà semiotici questi
sistemi (da qui la sua definizione della semiosi come rapporto triadico
irriducibile a relazioni tra coppie).
Attraverso Hjelmslev, incominciamo allora a intravedere in maniera più
definita quella che per noi deve essere la natura di ciò che Saussure
chiamava “sistema semiologico”: si tratta di una molteplicità aperta,
complessa e potenzialmente contraddittoria, irriducibile sia all’unità dell’uno
che alle coppie binarie dei due. All’interno di un sistema di questo tipo
esistono delle zone precise (intensive), determinate, delimitabili e definibili,
ma esistono anche delle zone vaghe (estensive), indeterminate, in cui i
confini non sono definiti e in cui è costitutivo della struttura stessa del
sistema di costruire concatenamenti con altri sistemi apparentemente
eterogenei, conformemente alla prima dimensione del valore di Saussure.
Il termine estensivo possiede la facoltà di estendere la sua significazione sull’insieme della zona; il
termine intensivo al contrario si installa definitivamente in una sola casella e non oltrepassa le
frontiere.29 (NE, p. 40)

Quello che è evidente è che questa struttura partecipativa, che per


Hjelmslev è costitutiva di ogni sistema semio-linguistico, è perfettamente
conforme alla doppia accezione del valore in Saussure, nella sua doppia
dimensione immanente e trascendente. “Uomo” si oppone infatti a donna
all’interno del sistema immanente della sessualità (accezione immanente del
valore); ma fuori da quel sistema (accezione trascendente), esso lo porta con
sé e partecipa della sua stessa natura (da qui: “opposizioni partecipative”). Il
valore semantico di “uomo” è così determinato sempre da entrambe le sue
dimensioni che lo costituiscono in quanto valore: i sistemi trascendenti ne
vengono a determinare il valore semantico esattamente come il sistema
immanente, tanto che la messa in quadrato dell’opposizione uomo/donna ne
fa perdere completamente la natura tensiva. Fuori dall’immanenza di
quell’asse semantico locale infatti, un termine può sempre portare con se
anche il termine opposto, e opporsi così a un altro elemento esterno a quello
stesso sistema. Vedremo come questa struttura partecipativa, già presente
diffusamente a livello puramente linguistico, diventerà del tutto inevitabile
quando si considereranno sistemi semiotici ancor più eterogenei quali le
pratiche, la cognizione, le culture, la semantica o, più in generale, il
meccanismo stesso della semiosi (espressione/contenuto).
Non è infatti un caso che Petitot (1979) attribuisca all’enciclopedia
esattamente questa struttura partecipativa in cui delle zone precise
(intensive), determinate e delimitabili, coesistono con delle zone vaghe
(estensive), indeterminate, in cui i confini non sono definiti e in cui è
costitutivo della struttura stessa del sistema di costruire concatenamenti con
altri sistemi.
Si consideri l’organizzazione lessico-semantica di un’opera come l’Enciclopedia. Gli “articoli”
sono raggruppati in “pacchetti” relativamente omogenei che individuano problematiche dai
contorni abbastanza ben definiti. […] Tali temi indicano problematiche “locali” governate sia da
campi semantici locali, cioè da sistemi di concetti e di opposizioni concettuali specifiche, sia da
tecniche regionali, teoriche e pratiche, specifiche e adeguate. Tali campi locali non sono però
indipendenti: essi parzialmente si ricoprono, si “incollano” per generare campi di estensione più
vasta. L’opposizione locale/globale, ad esempio, ricopre in parte le opposizioni centrato/acentrato,
continuo/discreto, universale/particolare, alcune delle quali hanno dato luogo ad altri articoli di
questa stessa Enciclopedia. […] Il problema dell’Enciclopedia come oggetto globale è stato assai
ben formulato da Umberto Eco nell’ambito della semantica strutturale [… al fine di] spiegare “la
competenza socializzata nella vivacità delle sue contraddizioni”. (Petitot, 1979b, pp. 429-432)

Un’enciclopedia è sempre un incollamento di zone precise (intensive), e


cioè di sistemi descrivibili attraverso un sistema di opposizioni locali
specifiche, e di zone vaghe (estensive), in cui i sistemi si sovrappongono, si
compenetrano e gli elementi vedono rimandata la loro identità alla
traduzione con altri sistemi eterogenei governati da altri sistemi di
opposizioni specifiche. Così l’opposizione “locale/globale” nell’esempio di
Petitot. Ecco allora che sia l’enciclopedia come “oggetto testuale che vuole
riflettere l’organizzazione del nostro sapere” (Petitot, 1979b, p. 430), che
l’enciclopedia come “modello semiotico delle logiche della cultura” (Eco,
1984), sono sempre dei sistemi fatti di altri sistemi (porzioni enciclopediche
locali), che possono presentare al loro interno la stessa dialettica
partecipativa tra zone precise e zone vaghe, tra frontiere definite e
annullamenti delle stesse.
Deleuze e Guattari (1980, pp. 663-693) chiamavano spazio striato una
zona precisa ottenuta attraverso la divisione di uno spazio continuo in
domini distinti e delimitabili attraverso un sistema di frontiere. Un esempio
perfetto di spazio striato in linguistica sono le famosissime strutture dello
spazio semantico corrispondenti all’italiano “albero/foresta/bosco” – o alle
differenti strutturazioni linguistiche dei colori – che Hjelmslev delinea nei
Prolegomena.
Figura 3. Spazi striati strutturali

Del resto Petitot (1985, pp. 67-73) e Deleuze (1973) parlavano proprio a
questo proposito dell’“intuizione pura” dello strutturalismo:
Uno “spazio” strutturale è uno spazio suddiviso in domini (posti) da parte di un sistema di
differenze; è uno spazio di coesistenza, di colocalizzazione. […] Facendo uso di un’analogia
geografica, si può dire che un paradigma è una regione D categorizzata scomposta in sotto-regioni
Di grazie a un sistema K di frontiere. Ogni sotto-regione Di è definita dalla sua estensione, cioè
dalla categorizzazione K. È in questo senso che c’è struttura, visto che l’organizzazione globale K
determina, trovandovisi implicitamente presente, le unità locali Di. (Petitot, 1985, pp. 69, 40-41)

A questo tipo di spazio striato, che definisce dei domini “regionali” in


funzione di un determinato sistema di frontiere, Deleuze e Guattari (1980)
affiancavano allora un altro tipo di spazio che, ispirandosi alla terminologia
di Boulez, chiamavano spazio liscio (cfr. infra, 3.5). Per Deleuze e Guattari
uno spazio liscio definisce esattamente la linea di fuga dal sistema di
suddivisioni considerato, l’annullamento delle opposizioni specifiche in atto.
Si stria cioè uno spazio quando lo si divide attraverso un sistema di
frontiere, creando così dei domini stabili che possono essere occupati. Si
liscia invece uno spazio quando, a partire dai domini di uno spazio striato, si
riconfigura il sistema di frontiere che li ha creati, e si esce quindi dalla
precedente ripartizione. Ecco allora che l’idea hjelmsleviana stessa di
“termine estensivo” definisce la possibile “lisciatura” di un sistema locale di
frontiere: nel nostro esempio, il termine estensivo “uomo” esprimeva a
livello linguistico l’annullamento di una frontiera (e di un’opposizione) che
rimaneva invece valida a un altro livello (“uomo/donna” a livello della
sessualità). Per questo Hjelmslev poteva dire che, a differenza di quello
intensivo, il termine estensivo non “si installa definitivamente in una sola
casella” e ha sempre la capacità di “oltrepassare le frontiere” (NE, p. 40).
Così il singolare può indicare la nozione contrariamente opposta al plurale (caso b), ma anche la
stessa nozione che è altrimenti espressa dal plurale (caso a), così come il caso intermedio (caso c)
o qualunque altra combinazione di casi. Allo stesso modo il maschile si oppone al femminile, ma
può al contrario anche rimpiazzarlo, così come ridursi a indicare il genere in un modo più o meno
indeciso. E ancora, il presente può opporsi al preterito o in certi casi rimpiazzarlo o ancora può
lasciare la decisione riguardo al tempo più o meno sospesa. Tutto questo non impedisce che il
singolare sia un numero, che il maschile sia un genere e che il presente sia un tempo. (NE, p. 41)

Con le sue opposizioni partecipative, Hjelmslev ci restituisce insomma


l’immagine di un sistema semio-linguistico che presenta una configurazione
in cui il posto di un elemento tende a invadere quello dell’altro, tanto che le
frontiere sono esclusivamente locali e sono continuamente oltrepassate e
annullate. Il termine estensivo serve infatti esattamente a rendere conto di
questo fenomeno di annullamento locale di una frontiera che funziona
invece a un altro livello. Hjelmslev si rende cioè conto che lo spazio delle
lingue, e con esso quello della semiosi, non è davvero una struttura, e cioè
un continuum suddiviso in domini da parte di un sistema di frontiere, come
lui stesso farà invece credere nei Prolegomena con i suoi famosi esempi
riportati in figura 3. Questo è solo un lato del problema, è cioè soltanto una
componente del sistema. Nelle lingue, infatti, esistono sempre, a ogni livello,
fenomeni di oltrepassamento delle frontiere, in cui gli elementi si
distribuiscono in uno spazio aperto in cui a un livello si oppongono e si
determinano reciprocamente (spazio striato), ma fuori da quel livello escono
dall’opposizione stessa in atto (spazio liscio). Lo spazio liscio è parte di un
sistema semio-linguistico allo stesso titolo dello spazio striato: è cioè
costitutivo dei sistemi semio-linguistici il poter neutralizzare le proprie
strutture locali di frontiere e opposizioni, “spendendo” il sistema in
situazione, facendolo variare, riconfigurandolo e ritracciandolo
continuamente. Un sistema semio-linguistico ha cioè inscritta nella sua
struttura la possibilità stessa della sua variazione.
È allora esattamente questa componente “liscia” del sistema che viene
persa con la sparizione delle opposizioni partecipative dai Prolegomena, a
beneficio esclusivo dello spazio striato della struttura. Ed è esattamente la
tensione tra i due tipi di spazio che siamo in grado di recuperare, prendendo
posizione per uno Hjelmslev “minore”, e cioè deviante dall’immagine della
sua grande opera maggiore.
Ma che cosa significa allora pensare come partecipativa la “struttura
generale delle correlazioni linguistiche” (NE, p. 33)? Che cosa significa
pensare a un “sistema linguistico” come fondato sull’opposizione tra
“termini precisi” (intensivi) che si “installano in una sola zona semantica”
(spazio striato) e “termini vaghi” (estensivi) che “oltrepassano
continuamente le frontiere” tracciate (spazio liscio)? Qual è il nome che
possiamo attribuire a questo sistema, così come Hjelmslev ci insegna a
pensarlo?
Deleuze e Guattari (1980) chiamavano rizoma l’unione di uno spazio
liscio e di uno spazio striato. Non è dunque un caso se, seguendo Petitot, si
era potuta riconoscere una struttura partecipativa come costitutiva
dell’enciclopedia (cfr. infra, 1.6). Se infatti l’enciclopedia è un rizoma,30 e
se un rizoma è l’unione di uno spazio liscio e di uno spazio striato,
l’enciclopedia ha per essenza una natura partecipativa, dal momento che uno
spazio striato definisce una zona precisa (intensiva) ottenuta per divisione di
uno spazio continuo in domini attraverso un sistema di frontiere, là dove uno
spazio liscio definisce l’annullamento stesso di questa divisione, che dà vita
a fenomeni di oltrepassamento delle frontiere (estensivi).
C’è qui la possibilità di distinguere molto chiaramente il rizoma dalla
struttura. La struttura è uno spazio striato o l’unione di più spazi striati,31
come mostrano perfettamente le suddivisioni hjelmsleviane dei Prolegomena
riportate in figura 3. Al contrario, il rizoma è l’unione di almeno uno spazio
liscio e di almeno uno spazio striato, e cioè un “incollamento” di strutture e
di zone vaghe, un “incollamento” di sistemi descrivibili attraverso un
sistema di opposizioni locali precise e determinate (intensive) e di zone in
cui i sistemi invece si sovrappongono, si compenetrano e vedono definita la
loro stessa identità dalla possibilità di un annullamento della loro stessa
struttura su un altro livello (estensive).
Insomma, le opposizioni partecipative servono a Hjelmslev per descrivere
lo spazio della lingua come ciò che oggi chiamiamo rizoma, e cioè come
l’unione di uno spazio liscio e di uno spazio striato. Infatti, a un determinato
livello è possibile strutturare un’opposizione tra elementi (uomo VS donna)
all’interno di un particolare dominio (sessualità) che stria lo spazio della
lingua. Ma l’instabilità di questa frontiera è totale e la lingua prevede sempre
un suo possibile annullamento, con la conseguente ridistribuzione di quello
stesso valore semantico fuori da quella frontiera locale (liscio). Un termine
può certamente essere localizzato in un dominio particolare (e questo stria lo
spazio della lingua), ma la lingua prevede sempre la possibilità che
quell’elemento prenda la linea di fuga da quello stesso dominio e vada a
occupare un’altra zona semantica, assumendo così un altro valore (lisciatura
di uno spazio striato). Il termine estensivo e le opposizioni partecipative
servono allora a rendere conto esattamente di questa struttura partecipativa,
aperta, contraddittoria e non coesa, che è costitutiva delle lingue: un
elemento è sempre simultaneamente opposto ad altri e fuori da questa stessa
opposizione su altri livelli, tanto da partecipare della stessa identità
dell’elemento a cui si opponeva al livello precedente (“uomo” assume anche
il valore semantico di “donna” fuori da una certa struttura oppositiva).
Per questo non vanno confusi sistema e paradigma. Se il paradigma è
infatti il luogo delle opposizioni esclusive “o…o”, esistono dei sistemi
partecipativi in cui l’opposizione non è affatto esclusiva e ha la forma
dell’“e…e”. L’identificazione tra sistema e paradigma (“o…o”) e tra
processo e sintagmatica (“e…e”) è familiare e acquisita in semiotica, ma ci
pare anche radicalmente falsa, dal momento che esprime soltanto un modo
particolare di pensare le relazioni di opposizione che è divenuto “maggiore”
nella nostra tradizione. Ci sono infatti sistemi in cui la struttura oppositiva
non ha forma esclusiva (“o…o”), bensì partecipativa (“e…e”), tanto che per
definire la forma di relazione partecipativa che è costitutiva dei sistemi
semio-linguistici, Hjelmslev scrive proprio “A VS A+non-A”. Una perfetta
“paradigmatica e…e”: A e non-A opposti al termine A, che è esattamente la
forma di relazione dell’opposizione donna/uomo:
donna (A) VS donna+ non-donna (uomo).
A (donna) VS A+non-A (uomo).

Ecco allora uno Hjelmslev “minore”, e cioè deviante rispetto


all’immagine che il suo grande libro maggiore restituisce di lui. Non è un
caso, e ne mostreremo ora le ragioni, che le opposizioni partecipative
spariscano completamente dai Prolegomena, grande libro “maggiore” della
tradizione semiotica. Perché quello che Hjelmslev ha in serbo con le
opposizioni partecipative è qualcosa di ben più sorprendente rispetto a
quanto abbiamo detto finora, e pare andare esattamente nella direzione di
uno Hjelmslev “rizomatico”.
Hjelmslev (NE, p. 41) oppone infatti la propria concezione tensiva delle
correlazioni linguistiche a quella privativa e binaria che era propria di
Jakobson e del suo strutturalismo, affermando con decisione che “al posto di
marcato e non-marcato è intensivo ed estensivo che bisogna dire” (ibid.).
Hjelmslev (ibid.) considera infatti il concetto di “marcatura” come “un
mezzo artificiale introdotto dal teorico al fine di spiegare qualcosa che in
ultima analisi si spiega meglio senza di esso”, e sottolinea in più punti come
il termine estensivo non sia caratterizzato “dall’assenza di qualcosa (come il
termine non marcato), ma dal fatto di poter occupare qualsiasi parte della
zona”. Ecco allora la possibilità di praticare uno strutturalismo “minore”,
tensivo e partecipativo, che si oppone punto per punto all’immagine
maggiore che ne abbiamo in semiotica.
Secondo Jakobson il termine marcato (preciso) indica la presenza di una significazione a, mentre il
termine non-marcato (zero, vago) non indica la presenza di questa significazione a: questo termine
si astiene dall’indicare se a è presente o meno. […] In certe condizioni il termine non-marcato può
servire a indicare l’assenza di a; in delle condizioni differenti esso può servire ad indicare la
presenza di a; grazie a una legge di supplenza. Così il femminile è marcato e il maschile non
marcato; la parola russa è femminile e significa “vitello femmina”; la parola è
maschile e significa semplicemente “vitello”. Ora, quando si utilizza la parola , si tratterà
secondo i casi di un vitello maschio (dunque significato non-a) o di un vitello femmina (dunque
significato a ammesso per la legge di supplenza). […] Le considerazioni di Jakobson ci fanno
vedere in cosa consiste questa mancanza di precisione propria del termine estensivo: si tratta di
un’esitazione capricciosa tra diverse significazioni rinchiuse nei quadri della zona semantica
devoluta alla categoria in questione. […] Non si tratta di assenza, bensì di assenza di significazione
precisa. (NE, p. 39)

Si tratta cioè dell’annullamento locale di una frontiera e di una divisione


che viene invece mantenuta a un altro livello, fenomeno del tutto
irrappresentabile attraverso un’opposizione dicotomica sul tipo di
“presenza/assenza” (marcato VS non-marcato). Il problema di Hjelmslev
(NE, p. 27) è infatti quello di rendere conto della struttura generale dei
sistemi linguistici (casi, numero, genere, gradi di comparazione, articoli,
persone, diatesi, tempi, aspetti e modi), struttura che in nessun caso gli
sembra descrivibile nei termini di una “struttura” nel senso dello
strutturalismo di Jakobson.
Ciascuna delle categorie elencate si compone, ovunque essa esiste, di due o più membri che, per il
fatto stesso di appartenere a una stessa categoria, entrano in un rapporto reciproco che chiameremo
correlazione. Così ci sarà correlazione tra il nominativo, l’accusativo, il genitivo e il dativo,
membri della categoria dei casi; così come tra il singolare e il plurale, membri della categoria del
numero; tra il maschile, il femminile e il neutro, membri della categoria del genere; e così via. È
per il fatto stesso di entrare in correlazione che i membri di una categoria formano sistema e
possono essere definiti come i termini di un sistema. Ciò che importa tenere presente innanzi tutto,
è che una stessa categoria può formare diversi sistemi, a seconda delle lingue in cui si realizza.
Così la categoria dei casi si ritrova invariabilmente in sanscrito, in latino e in tedesco; ma il
sistema dei casi differisce da una lingua all’altra, perché il numero dei casi non è lo stesso e perché
le correlazioni contratte dai casi sono proprie di ciascuna lingua […]. Ciò che vale per i casi vale
per tutte le altre categorie grammaticali allo stesso titolo. Il sistema è dunque la forma specifica
sotto la quale la categoria si realizza in una lingua data; questa forma si definisce attraverso il
numero dei termini e attraverso le correlazioni che essi contraggono tra loro. Il problema della
struttura dei sistemi grammaticali viene dunque ricondotto a quello, più preciso, delle correlazioni
o dei mutui rapporti contratti dai membri di uno stesso sistema. (NE, pp. 27-28)
Tuttavia, sebbene i sistemi linguistici variino da lingua a lingua, attraverso
una lunghissima analisi comparativa, Hjelmslev mostra come la struttura
delle correlazioni linguistiche sia costantemente la stessa per tutti i sistemi
categoriali, tanto da affermare che tale struttura sia la struttura generale delle
correlazioni linguistiche, e cioè la struttura che si ritrova in tutte le lingue
empiricamente conosciute attualmente, tanto da rappresentarne “il principio
generale che governa le diverse realizzazioni”32 (NE, p. 28, cfr. R, Def. 2).
Come detto, questa struttura generale è per Hjelmslev di tipo partecipativo, e
cioè: i) aperta, ii) complessa, iii) potenzialmente contraddittoria, iv)
organizzata sulla tensione tra zone precise (intensive, determinate) e zone
vaghe (estensive, indeterminate) e v) irriducibile a dicotomie di tipo
esclusivo (contrarietà, contraddizioni, opposizioni tra presenza/assenza di
tratti ecc.). Solo una struttura del sistema di questo tipo è infatti in grado di
rendere conto della plasticità degli usi linguistici, che fanno continuamente
sistema solo a patto di non smettere di fuoriuscirne continuamente. E
viceversa:
Bisogna spiegare il fatto incontestabile tale per cui, sebbene sia sottomessa ad alterazioni costanti,
una lingua conservi sempre la facoltà di formare sistema. Si sono considerati come futili i problemi
riguardanti le leggi generali che dirigono questa forza organizzatrice della lingua. Si è voluto
negare l’esistenza stessa di tali leggi. Questo pregiudizio ha impedito un’attitudine empirica. (NE,
p. 31)

Proprio la necessità di sviluppare “un’attitudine empirica”, e cioè una


serie di modelli di analisi a vocazione euristica, porta allora Hjelmslev a
costruire un vero e proprio “Antiporfirio” ante-litteram, in cui Hjelmslev
sembra piuttosto incredibilmente prendere il posto di Eco (1983), nel
muovere a Jakobson le stesse identiche critiche che Eco muoverà poi a lui
stesso, nel momento in cui abbraccerà una semantica dicotomica “a
dizionario”. Più in particolare, Hjelmslev desidera: i) contestare l’idea
strutturalista che i sistemi complessi, a tre o più termini, siano riducibili a
coppie di sistemi dicotomici di tipo binario; ii) mostrare come anche “ogni
sistema a due termini sia organizzato sull’opposizione tra un termine preciso
e un termine vago” (NE, p. 34); iii) sostituire un modello dicotomico “ad
albero” con un modello non-dicotomico “a rete”; iv) mostrare come la
struttura generale dei sistemi semiotici non sia gerarchica, bensì
partecipativa e a rete.
Per quello che riguarda il punto ii) abbiamo già detto, e Hjelmslev mostra
con dovizia di particolari come, nei sistemi semio-linguistici, ogni apparente
opposizione qualitativa polare (maschile VS femminile, singolare VS plurale
ecc.) sia in realtà un’opposizione tra un termine intensivo (preciso) e un
termine estensivo (vago), tanto da riportare questa tabella elencante alcuni
sistemi a due termini propri di differenti lingue:

Per quanto riguarda invece il punto i), Hjelmslev giudica falsa l’idea di
Jakobson secondo cui tutti i sistemi complessi a tre e più termini siano la
somma di relazioni binarie semplici (NE, pp. 38-39). Qui Hjelmslev è
infinitamente vicino a Peirce e alla sua idea, di cui ci occuperemo tra breve,
dell’irriducibilità delle relazioni triadiche e n-adiche a coppie di relazioni
diadiche (semiosi). Al fine di considerare proprio “i sistemi a tre e a più
elementi”, Hjelmslev comincia allora mostrando uno schema della struttura
utilizzata da Jakobson per spiegare il verbo russo, con l’intento di criticarne
il metodo di divisione binario e dicotomico e di sostituirlo.
Nell’illustrare come “il segno : : significhi ‘si suddivide in’” e come “ciò
che per Jakobson è ‘marcato’ sia messo in corsivo (e assuma la prima
posizione nella coppia)”, Hjelmslev (NE, p. 42) commenta:
Questo sistema si compone esclusivamente di coppie correlative, correlazioni a due termini di cui
la struttura è invariabilmente la stessa: ogni coppia comprende un termine marcato e un termine
non-marcato. Il rapporto che riunisce le correlazioni tra loro non è meno semplice: ogni
correlazione assume il suo posto fissato all’interno del sistema come superiore e/o inferiore ad altre
correlazioni. Il sistema è concepito come una gerarchia all’interno della quale ogni correlazione e
ogni coppia correlativa rappresentano un grado ben determinato; e in cui ogni correlazione (salvo
quella che è superiore a tutte) risulta da una suddivisione di uno dei termini compresi nella
correlazione immediatamente superiore. (NE, p. 45)

Un puro albero di Porfirio (cfr. Eco, 1983), in cui gli elementi occupano
posizioni fissate dal sistema e comunicano solo ed esclusivamente con i
propri superiori/inferiori gerarchici (cfr. Rosenstiehl e Petitot, 1974 e
Deleuze e Guattari, 1980, pp. 3-36). Secondo Hjelmslev, la teoria di
Jakobson, così come ogni teoria dicotomica che funziona per
iponimi/iperonimi, definisce cioè un albero in cui è “il principio gerarchico
che presiede a tutto il sistema” e che “non sembra sufficiente per spiegare
veramente i fatti” (NE, p. 46). Ecco allora che, posto di fronte allo stesso
sistema che in seguito lui stesso costruirà attirandosi le critiche di Eco
(1984) e Violi (1997), Hjelmslev si chiede:
Posti davanti a questo sistema gerarchico, così semplice e uniforme, ci si domanda innanzi tutto se
questo sistema non sia veramente sottomesso a nessun altro principio rispetto ai due che si sono
appena indicati: quello del marcato e del non-marcato, e quello del superiore e dell’inferiore. […]
Si sente qui una lacuna e si chiederebbe una dottrina al contempo più ferma e meno meccanica.
(NE, p. 46)

Perchè qual è il difetto di questo sistema gerarchico e arborescente?


Esattamente lo stesso messo in evidenza da Eco (1983) nel suo
“Antiporfirio”:
L’inconveniente consiste nel fatto che una stessa categoria si ritrova in più posti dello schema. Si
tratta di un fatto che serve a compromettere l’idea stessa di una gerarchia di correlazioni. Il genere
grammaticale si trova ad esempio sotto il participio e sotto il preterito; lo si ritrova tuttavia anche
nel nome. E ovunque li si ritrovi, i generi sono in numero di tre, [e non a coppie]. […] Il numero
grammaticale si trova sotto il participio, sotto il preterito, sotto il presente; anche lui si trova inoltre
anche nel nome. […] Si può fare una considerazione analoga per le correlazioni casuali e per la
correlazione predicativa. (NE, p. 46)

Come già mostrava Eco, ogni sistema dicotomico e gerarchico ha bisogno


di iterare le proprie differenze su diversi livelli dell’albero, al fine di rendere
conto della complessità del suo oggetto. Esso mostra così la propria
inadeguatezza, che consiste nel fatto che la sua forma di relazione non è
capace di rendere conto di quella che è costitutiva del suo oggetto.
Sembra dunque inadeguato rappresentarsi il sistema grammaticale come una gerarchia in cui
alcune correlazioni sono subordinate ad altre. Si tratta piuttosto di una rete di categorie che si
incrociano. […] L’idea di una gerarchia, di una stratificazione o di una progressione a senso unico
non è sostenibile. L’immagine di una rete sarà più conforme ai fatti. (NE, pp. 46-47)

Ecco allora qui lo Hjelmslev “rizomatico”. Secondo Hjelmslev,


l’immagine di una rete è infatti conforme ai fatti studiati, dal momento che i
sistemi semio-linguistici: i) non si sviluppano dicotomicamente per
“gerarchia di divisioni e suddivisioni” (NE, p. 47) e ii) non sono uniformi,
coesi né chiusi, dal momento che per definire gli elementi di una categoria
occorre sempre fare riferimento a correlazioni provenienti da categorie
eterogenee (cfr. NE, pp. 46-47).
Hjelmslev non sta infatti semplicemente dicendo che la struttura dei
sistemi semio-linguistici non sembra essere una struttura gerarchica e
dicotomica, ma sta ben più profondamente dicendo che ogni qual volta la si
rappresenta così, questa struttura omogenea esplode e, a ogni livello, si
ritrovano elementi che non sono definiti soltanto dai loro superiori/inferiori
gerarchici, ma anche da correlazioni molto lontane con categorie che non
appartengono al sistema immanente che si sta cercando di definire.
Per vedere fino a che punto le categorie si incrocino tra loro, c’è spazio per notare anche come,
secondo le indicazioni del signor Jakobson, la correlazione iterativo/non-iterativo non si trovi che
nel preterito, che la correlazione passivo/riflessivo sia riservata al participio e che non è che al
singolare che il preterito (e l’aggettivo predicativo) distingue i generi. Ma si potrà dunque dire che
il preterito dispone della correlazione iterativo/non-iterativo e che il singolare dispone della
correlazione dei generi. (NE, pp. 46-47)

Ecco allora che per definire il preterito, membro della categoria del tempo,
occorrerà sempre fare riferimento al singolare, membro della categoria del
numero, al neutro, membro della categoria del genere, e all’iterativo,
membro della categoria dell’aspetto. Allo stesso modo, per definire il
presente, membro della categoria del tempo, occorrerà sempre fare
riferimento alla correlazione personale/impersonale, membro della categoria
della persona, e a quella plurale/singolare, membro della categoria del
numero. E così via per tutti gli elementi di questa e di tutte le altre categorie
linguistiche (cfr. NE, pp. 46-52). Per definire l’identità di un elemento di un
sistema semio-linguistico (ad esempio “preterito”), non basta cioè
interdefinirlo con altri elementi omogenei appartenenti alla stessa categoria
con cui fa sistema (presente, futuro ecc.), ma occorre sempre anche
rimandarlo a elementi eterogenei appartenenti a categorie trascendenti quella
considerata (numero, genere, aspetto ecc.). Tutto questo è perfettamente
conforme alla doppia accezione del valore in Saussure, di cui Hjelmslev è in
grado di fornire una descrizione operativa, e non soltanto esemplificativa,
attraverso la sua analisi per dimensioni:
Nell’analisi per dimensioni si stabiliscono simultaneamente due (o più) sotto-categorie
assolutamente coordinate, mentre nell’analisi per suddivisioni si stabiliscono successivamente due
(o più) sotto-categorie di cui la seconda è subordinata alla prima (e la terza alla seconda, e così
via).
In una parola: nell’analisi per dimensioni le sotto-categorie formano una rete; nell’analisi per
suddivisioni le sotto-categorie formano una gerarchia. Ora, crediamo di aver esposto le ragioni che
conducono a concepire il sistema delle categorie (e delle sotto-categorie) come una rete e non
come una gerarchia. L’analisi per dimensioni è la sola che possa rendere conto del fatto che […] i
membri di una stessa categoria grammaticale sono sullo stesso piano e che ciascuno di questi
membri è, in rapporto agli altri, munito al contempo della stessa indipendenza e della stessa
dipendenza di tutti gli altri membri. È per questo che la nostra scelta cade sull’analisi per
dimensioni e non su quella per suddivisioni proposta dal signor Jakobson. (NE, p. 50)

Ecco esattamente una teoria immanente senza gerarchie, che rappresenta i


rapporti locali tra termini senza far ricorso a un principio dicotomico di tipo
arborescente, ma facendo invece riferimento a un equilibrio strutturale in cui
gli elementi si determinano reciprocamente, secondo le due dimensioni del
valore di Saussure. Si tratta per noi di un punto particolarmente importante,
dal momento che questa “analisi per dimensioni”, che Hjelmslev chiamerà
poi frammentazione, consente di rendere concretamente operativa proprio la
teoria del valore di Saussure nella sua doppia accezione e di connetterla con
l’idea echiana di rete enciclopedica (rizoma).
L’analisi per dimensioni consisterà nel riconoscere, all’interno di una categoria, due o più sotto-
categorie che si incrociano tra loro e si compenetrano. Il rapporto tra queste categorie sarà in linea
di principio lo stesso che si osserva ad esempio tra i casi e i numeri del latino e del russo:

Ciascuna delle sottocategorie costituirà una dimensione della categoria superiore, e ogni membro
della categoria superiore sarà scomponibile in due grandezze rilevanti ciascuna della sua
dimensione.

(NE, p. 49)
La notazione di Hjelmslev è del tutto inadeguata alla forma di relazione
che è supposta esprimere (rete), dal momento che si tratta di una banale
matrice.33 Per questo sarà abbandonata e, in un futuro lavoro, sostituita da un
sistema formale eideticamente adeguato a esprimere un reticolo rizomatico.
Tuttavia, per gli scopi di questo libro, essa ha comunque il merito di
mostrare come “l’entità concreta” della nuova scienza, di cui parlava
Saussure, sia sempre un effetto delle dimensioni eterogenee da cui dipende.
Un’analisi per dimensioni pensa, cioè, l’identità di ogni singolo elemento
semiotico come l’effetto di “due o più sottocategorie che si incrociano e si
compenetrano”, come ad esempio erano il singolare, il neutro e l’iterativo
per il tempo preterito. Ma che cosa sono allora le dimensioni, se l’identità di
un elemento semiotico ne dipende costitutivamente?
In analisi matematica le dimensioni sono le variabili o le coordinate da
cui dipende un fenomeno. Ad esempio, per definire un punto nello spazio a
due dimensioni (piano) occorre precisare due valori che lo individuano; per
definirlo in uno spazio a tre dimensioni (spazio) occorre invece precisarne
tre, e così via. In analisi glossematica è allora la stessa identica cosa: per
definire il tempo preterito, occorre fare riferimento alle dimensioni del
singolare, del neutro e dell’iterativo, sottocategorie membri rispettivamente
delle categorie del numero, del genere e dell’aspetto. Queste sottocategorie
rappresentano esattamente il valore che la categoria in questione assume
nella definizione di un elemento semio-linguistico (nel caso del tempo
preterito nella lingua russa, “singolare”, “neutro” e “iterativo” sono i valori
che le categorie del numero, del genere e dell’aspetto assumono nella sua
definizione). Hjelmslev chiama appunto “dimensioni” queste sottocategorie
che non si danno mai pure né isolate, ma che si compenetrano invece
continuamente. Esse rappresentano localmente le variabili o le coordinate da
cui dipende un fenomeno semiotico.
Nel suo esempio riportato sopra, Hjelmslev ne considera soltanto cinque,
appartenenti a due categorie distinte (casi e numero), ma ovviamente
l’analisi può complessificarsi indefinitamente fino a considerare n
dimensioni. Tuttavia, anche in questo caso minimale, si vede come
un’analisi per dimensioni pensi a un elemento semio-linguistico come al
nodo posto all’incrocio di una rete n di categorie, da cui l’identità
dell’elemento dipende e che presentano ognuna la propria struttura sistemica
di tipo partecipativo. Nell’esempio di Hjelmslev, l’elemento 1 (ac) è il nodo
posto all’incrocio delle categorie dei casi e del numero, i cui sistemi sono di
tipo partecipativo (nominativo e singolare sono termini estensivi, accusativo,
genitivo e plurale sono invece termini intensivi). L’elemento 1 partecipa di
certe dimensioni di una categoria (nominativo) mentre è escluso dalle altre
(accusativo e genitivo). Questa tensione costitutiva tra partecipazione ed
esclusione costituisce il punto centrale dei sistemi a rete quali l’enciclopedia
o il rizoma. Ne forniremo un esempio dettagliato tra breve, in questo stesso
capitolo (cfr. infra, 1.6-1.7).
Riassumendo, con la sua analisi per dimensioni, Hjelmslev ci insegna a
pensare a un sistema semiotico che sia al suo interno costitutivamente
plurisistemico: un “sistema di sistemi”, in una sorta di autosimilarità frattale
(cfr. infra, 1.8). Il modo in cui un’analisi per dimensioni a rete, così come
Hjelmslev ce la presenta, possa essere coniugata con l’idea echiana di rete
enciclopedica, sarà l’oggetto del proseguo del nostro percorso.
Tuttavia, e proprio per specificarne il senso profondo, non possiamo a
questo punto non porci la domanda più fondamentale, e cioè perché tutte
queste idee – e in particolar modo, la coppia intensivo/estensivo – spariscano
dai Prolegomena, grande opera divenuta maggiore nella teoria semiotica.
Ecco infatti l’unica occorrenza che la coppia intensivo/estensivo ha
all’interno dei Prolegomena:
Nelle definizioni formali della teoria non si tratta di cercare di esaurire la natura intensiva degli
oggetti né di delimitarli estensivamente da ogni parte, ma solo di ancorarli in maniera relativa
rispetto ad altri oggetti analogamente definiti. (P, p. 24)

Ritroviamo qui l’idea dei cognitivisti secondo cui il concetto stesso di


dizionario nasce con lo strutturalismo, in cui per definire un termine bastava
interdefinirlo all’interno di un sistema.34 Che è esattamente quello che ci
dice Hjelmslev. Ma Hjelmslev ce lo dice però proprio in riferimento alla
sparizione dei termini tensivi, che invece, come abbiamo visto, non sono
tacciabili né di impresa dizionariale né di struttura arborescente. C’è quindi
un altro strutturalismo, “minore” ma non per questo meno grande, che pulsa
all’interno della teoria stessa degli strutturalisti ed è immune alle critiche
mosse in seguito allo strutturalismo stesso. Ed è proprio questa tradizione
“minore” che vogliamo recuperare.
È allora evidente come questo strutturalismo deviante dalla sua immagine
standard venga neutralizzato nei Prolegomena, perché nei Prolegomena non
occorre dar conto della vita vera delle lingue e delle loro significazioni, ma
occorre invece costruire la teoria del linguaggio e le sue definizioni formali,
il cui principio è innanzi tutto classificatorio, nel senso mostrato da Eco
(2007), e cioè nel senso dell’interdefinizione relazionale dei termini. Nei
Prolegomena si passa dall’esigenza di definire delle cose a quella di
classificarle: l’intento hjelmsleviano non è cioè più di tipo descrittivo,
conformemente al tentativo del linguista di studiare una serie di lingue,
costruendosi gli oggetti teorici adeguati al fine di rendere conto della loro
struttura. Al contrario, nei Prolegomena l’impresa è di tipo logico-
epistemologico, e riguarda la costruzione della teoria del linguaggio
attraverso un’algebra delle relazioni che sia conforme al principio empirico,
che pone la semplicità e la non-contraddittorietà come elementi costitutivi
della teoria.
Perchè esiste un altro motivo per questa sparizione delle opposizioni
partecipative dai Prolegomena, un motivo ancor più profondo, che non è
possibile comprendere se non facendo riferimento a quello che doveva
essere il vero libro hjelmsleviano, di cui i Prolegomena non erano appunto
che i Prolegomena, e cioè Résumé of a Theory of Language.
All’inizio di questo vero e proprio capolavoro “minore” dello
strutturalismo, ignorato per anni a beneficio della sua introduzione informale
e divulgativa, Hjelmslev pone il principio empirico a fondamento della
glossematica:
La descrizione deve essere libera da contraddizioni, esauriente e quanto più semplice possibile. Il
requisito di assenza di contraddizioni ha precedenza su quello di descrizione esauriente. Il requisito
di descrizione esauriente ha precedenza su quello di semplicità. (R, Pr. 1)

A questo punto però, Hjelmslev specifica immediatamente due tipi di


descrizioni possibili, di cui soltanto una è conforme al principio empirico.
L’analisi è infatti “la descrizione di un oggetto in base alla dipendenza
uniforme di altri oggetti da esso e l’uno dall’altro” (R, Def. 3). La
frammentazione è invece la descrizione opposta all’analisi, e cioè “la
descrizione di un oggetto in base alla dipendenza non-uniforme di altri
oggetti da esso e l’uno dall’altro” (R, Def. 4), come avviene esattamente
nelle relazioni partecipative e nell’analisi per dimensioni (rete). “Il termine
comune per analisi e frammentazione è dissezione” (R, Def. 4), ma dissecare
significa “tagliare, recidere”, tanto che in anatomia la dissezione è proprio il
sezionamento e la separazione delle parti e degli organi del corpo a scopo di
descrizione. Ecco allora che la dissezione nel Resumè non è altro che il
taglio di un oggetto considerato come una “totalità ancora indivisa”, al fine
di ritrovare le dipendenze che esso intrattiene con altri oggetti (R, Def. 123).
In Hjelmslev esistono allora due tipi di taglio, due tipi di dissezione, che
danno vita a due processi di descrizione completamente differenti: un taglio
apollineo, l’analisi, che segue le leggi dettate dal principio empirico (e cioè
un taglio esente da contraddizioni, esaustivo e il più semplice possibile), e
una sorta di taglio dionisiaco, la frammentazione, che non segue invece le
buone proporzioni dettate dal principio empirico, non smettendo mai di
ritrovare dappertutto dipendenze non omogenee, tagli contraddittori, aperti e
tutt’altro che semplici. Per Hjelmslev, l’analisi è allora una dissezione che
obbedisce al principio empirico, tanto che “può essere dimostrato che una
dissezione che soddisfi il Principio Empirico deve essere un’analisi” (R, Def.
4).
Da qui la sparizione delle opposizione partecipative. Nei Prolegomena
Hjelmslev sviluppa infatti esclusivamente l’analisi, e non la frammentazione,
che non viene neppure nominata, dal momento che la teoria del linguaggio
deve essere conforme al principio empirico, e cioè deve essere semplice,
coerente ed esaustiva. Per questo Hjelmslev può porre il testo come oggetto
della teoria del linguaggio, dal momento che il testo è l’oggetto che è
sottoposto ad analisi (e non a frammentazione). “Testo” è cioè l’elemento
corrispondente a questo taglio coerente e coeso, tanto che Floch (1990)
definirà un testo proprio attraverso le proprietà di coerenza, chiusura e
coesione (cfr. infra, capitolo 2). La sparizione della frammentazione a
beneficio esclusivo dell’analisi affianca la sparizione delle opposizioni
partecipative dai Prolegomena e dello “spazio liscio” dalla topologia
strutturale: si tratta di tre modi di pensare uno stesso fenomeno di sparizione
di quelle entità dionisiache che sono costitutive di una semiotica “minore”, e
che erano al centro della Categoria dei Casi e del Résumé, in cui
assumevano un ruolo fondamentale. Esattamente come la frammentazione e
le opposizione partecipative, nei Prolegomena anche la semiotica subirà
questa normalizzazione apollinea causata dal principio empirico e non verrà
più pensata come una rete, bensì come una gerarchia, e cioè proprio
attraverso quella forma di relazione che Hjelmslev stesso confutava nella
“Struttura generale delle correlazioni linguistiche”.
Da qui una conseguenza fondamentale riguardante il principio empirico,
che va per noi completamente riformato. Come nota giustamente Galassi
(2009, p. 12):
Il Principio Empirico esplicita un programma procedurale consono all’intero impianto
glossematico e suggerisce il “fare analitico” del semiotico: questo principio enuncia ciò che si
“deve” fare affinché il risultato del procedimento analitico abbia validità, prima teorica e poi
pratica.

Proprio per questo, allo stato attuale dell’evoluzione della disciplina,


riteniamo che esso vada completamente riconfigurato. La descrizione a cui
una metodologia semiotica deve condurre deve essere innanzi tutto
esauriente; quindi dovrà spesso essere complessa, perché complesso è
l’oggetto a cui essa si deve adeguare, e capace di rendere conto della
contraddittorietà degli effetti di senso che si ritroverà a descrivere (cfr. infra,
capitolo 2). Il requisito di descrizione esauriente ha la precedenza su quello
di complessità (se l’oggetto è semplice non c’è alcun bisogno di
complicarlo). Il requisito di descrizione complessa ha la precedenza su
quello di non-contraddittorietà (se per “complessità” si intende la
dipendenza del fenomeno che si deve spiegare da una molteplicità n di
dimensioni, non è detto, anche se può capitare, che queste dimensioni
debbano necessariamente essere in contraddizione tra loro).
È allora esattamente questa riconfigurazione del principio empirico ciò
che intendiamo quando parliamo di una “semiotica della complessità”. Per
questo prendiamo posizione per uno Hjelmslev minore, e cioè per uno
Hjelmslev che pensa il sistema semio-linguistico come una rete
irriducibilmente complessa e analizzabile per dimensioni, e non come una
gerarchia semplice e coerente analizzabile per suddivisioni in funzione del
principio empirico (così nei Prolegomena). Si tratta del modo propriamente
hjelmsleviano di declinare e rilanciare l’eredità strutturalista saussuriana, e le
sue idee di sistema e di valore:
Per concludere, facciamo chiarezza su un punto di principio. Il problema di cui ci siamo occupati
non è un problema semantico, bensì un problema strutturale.35 Non può essere affrontato risalendo
induttivamente dagli atti individuali della parole al fine di disimplicare semplicemente ciò che è
loro comune. Si tratta al contrario di descrivere i fatti di langue, osservandone direttamente le
funzioni. Si sa ora quali sono le principali tra queste funzioni: ci sono da una parte sincretismo e
commutazione, due facce complementari di uno stesso fatto, quello della correlazione; c’è
dall’altra parte il fatto della supplenza, che traduce l’appartenenza di un termine a una stessa
categoria e che serve da indice per decidere quale dei due termini è intensivo e quale è estensivo. È
per questo che se i fatti semantici entrano in queste considerazioni è sotto l’aspetto dei valori, non
sotto quello dei significati. È la forma e non la sostanza che conta. (NE, p. 50)

Com’è evidente, le opposizioni partecipative, la concezione a rete del


sistema semio-linguistico e la sua analisi per dimensioni (frammentazione)
servono a Hjelmslev per rilanciare e declinare un paradigma strutturalista di
tipo valoriale. Per questo ci lascia perplessi l’utilizzo di questi oggetti teorici
hjelmsleviani con l’obiettivo di uscire da uno strutturalismo fondato
sull’idea di valore, al fine di fondarlo su valenze tensive di tipo sensibile. È
esattamente in questo senso che si muovono invece Fontanille e Zilberberg
(1998) in Tension et Signification.
Fin da Semiotica delle Passioni (Greimas e Fontanille, 1991), Fontanille
tentava infatti di ripensare il primato della forma come differenzialità
valoriale, che fin dal Cours saussuriano era stato costitutivo dell’impresa
semiotica nel suo complesso, e che Hjelmslev riafferma con forza proprio a
conclusione della “Struttura generale delle correlazioni linguistiche”. È in
questo senso che già in Semiotica delle passioni, ma più chiaramente in
Tension et signification, la forma semiotica veniva pensata come il puro
effetto di un’interazione tra materia ed energia (conversione eidetica) e il
valore saussuriano come il puro effetto dell’interazione di due valenze di
tipo sensibile: intensiva ed estensiva. Si tratta allora di un semplice caso di
omonimia. Le valenze intensive ed estensive non hanno nulla a che vedere
con i valori tensivi di cui parla Hjelmslev. Fontanille e Zilberberg le
ricavano infatti dalla teoria degli esponenti sul piano dell’espressione
(accenti e intonazione):
Noi cerchiamo di articolare qui una “semantica del continuo” che possa sboccare in una semiotica
del continuo capace di rendere conto del manifestarsi del discontinuo. Sul piano dell’espressione,
le grandezze continue corrispondono a ciò che Hjelmslev chiama gli “esponenti” (accenti e
intonazione), e sono dell’ordine dell’intensità e della quantità, nella misura in cui l’accento e
l’intonazione possono modificare l’altezza e la lunghezza dei fonemi (la loro quantità o
estensione), così come l’energia articolatoria (la loro intensità). (Fontanille e Zilberberg, 1998, p.
14)

“Intensivo” è qui il gradiente di una forza (la sua intensità), “estensivo” è


invece il gradiente di una materia (la sua estensione). Si tratta di unità
sensibili della sostanza dell’espressione (accenti e intonazioni) che
modificano e determinano i fonemi, e cioè le unità della forma
dell’espressione. Del resto è ovvio: è possibile pensare una forma come
l’effetto di una forza (intensità) applicata su una materia (estensione). La
semiotica tensiva di Fontanille e Zilberberg non è allora altro che
l’estensione di questa metafora “fisica” alla teoria del linguaggio. Da qui
l’abbandono dell’idea saussuriana della lingua come forma. Per Fontanille
ogni morfologia va infatti sempre pensata come l’effetto dell’azione di forze
su una materia, così come ogni valore va sempre pensato come l’intersezione
di due gradienti più profondi che lo modulano e lo generano (valenze),
“nella misura in cui la loro associazione e la tensione che da essa emana,
divengono la condizione stessa di emergenza del valore” (Fontanille e
Zilberberg, 1998, p. 15).
In questo modo, il paradigma semiotico si trova completamente ribaltato e
i suoi principi costitutivi (primato della forma sulla sostanza sensibile e
identità come differenzialità valoriale) messi in discussione. A un approccio
maggiore segue così un altro approccio maggiore, che si pone al di fuori dei
principi epistemologici che avevano fondato fino ad allora la disciplina. In
questo modo, la ripresa di un concetto “minore”, qual è quello dei termini
tensivi hjelmsleviani, non dà vita a una semiotica minore, bensì a una nuova
semiotica maggiore che vuole definire un cambiamento di paradigma.
Dal momento che riteniamo i) che una differenzialità valoriale sia prima
rispetto a qualsiasi altra dimensione semiotica, e che ii) una serie di riprese
minori non debbano servire per porsi al di fuori dei principi fondativi della
disciplina, occorre allora fin da subito porre alcune obiezioni radicali a
questa prospettiva tensiva:

- L’opposizione hjelmsleviana tra un termine intensivo e un termine


estensivo ricade pienamente all’interno di un paradigma valoriale di
tipo differenziale (Hjelmslev è estremamente esplicito su questo punto):
essa definisce infatti una forma di relazione di tipo topologico e
relazionale che si instaura tra valori all’interno di una struttura (il
termine intensivo occupa una sola zona, il termine estensivo fluttua tra
le zone e oltrepassa continuamente le frontiere tracciate nello spazio
della categoria).
- Le opposizioni partecipative hjelmsleviane servono, se mai, a superare
il binarismo di certo strutturalismo, al fine di considerare un sistema
complesso a n termini, e non certo a superare lo strutturalismo stesso
(anche su questo punto Hjelmslev è estremamente esplicito).

Al contrario, la struttura tensiva di Fontanille e Zilberberg (1998) non


abbandona in alcun modo il principio dicotomico e binarista costitutivo di
certo strutturalismo “maggiore”, bensì sostituisce semplicemente delle
opposizioni esclusive e discrete con delle correlazioni graduali e continue
(cfr. Fontanille e Zilberberg, 1998, pp. 14-6). Non è un caso che la stessa
chiusura sistemica del quadrato semiotico venga salvaguardata facendo
appello a una seconda isotopia che ne giustifica l’articolazione binaria (cfr.
Fontanille e Zilberberg, 1998, pp. 45-70). E non è un caso che ciò che viene
salvaguardato dell’impostazione hjelmsleviana sia l’unica cosa che di quel
modello va, a nostro parere, abbandonata, e cioè la matrice dicotomica di
tipo binarista (cfr. Fontanille e Zilberberg, 1998, pp. 15, 39).

Figura 4. Struttura tensiva di Fontanille e Zilberberg (1998, p. 15)

Insomma, là dove le opposizioni partecipative servono a Hjelmslev per


uscire dal binarismo all’interno di un paradigma strutturalista di tipo
valoriale, le opposizioni partecipative servono a Fontanille e Zilberberg per
uscire dallo strutturalismo all’interno di un paradigma binarista di tipo
sensibile e anti-morfologico. La distanza non potrebbe essere più grande,
tanto che la ripresa della struttura tensiva che viene fatta in Tension et
signification ci pare del tutto al di fuori dell’orizzonte hjelmsleviano.
Per questo ci pareva di poter dire che soltanto un rizoma enciclopedico
andasse nella direzione di un sistema complesso e non binario a sua volta
composto da altri sistemi, qual è quello conforme alla doppia accezione del
valore saussuriano. Con la sua teoria delle opposizioni partecipative,
Hjelmslev ce ne ha fornito un modello (rete) unito a una metodologia
d’analisi corrispondente a questo modello (analisi per dimensioni o
frammentazione), consegnandoci l’immagine di un sistema semio-linguistico
almeno potenzialmente i) contraddittorio e vago (parzialmente
indeterminato);36 ii) aperto; iii) complesso; iv) irriducibilmente non-diadico.
Ma non sarà allora possibile sottoporre il processo alla stessa operazione
di elevazione a minore che abbiamo visto possibile per il sistema semio-
linguistico? Non è cioè possibile una sintassi processuale di tipo strutturale,
differenziale e valoriale? E questa teoria strutturale del processo non la si
ritroverà proprio là dove non la si aspetta, nella semiotica di quell’autore da
sempre pensato come alternativo al paradigma strutturalista?

1.5. Una terza “elevazione a minore”: il Sinechismo e la Logica dei


Relativi di Peirce

Si è spesso equivocato sulla doppia fondazione della semiotica. Da un lato


si è infatti sostenuto come la semiotica peirciana ponesse una dimensione
logica a fondamento stesso della propria specificità; dall’altro si è invece
opposta a questa concezione logico-faneroscopica della semiotica quella
propria di altre tradizioni, fondate sulla linguistica e l’antropologia, e più in
generale sullo strutturalismo. Questa idea, per noi, non tiene conto in alcun
modo di che cosa siano davvero la logica e la faneroscopia di Peirce. Ci
occuperemo estensivamente della fenomenologia peirciana (faneroscopia)
nel secondo capitolo, mentre indagheremo subito il rapporto esistente tra
Logica e Semiotica. Attraverso il Sinechismo e la Logica dei Relativi, Peirce
introdurrà infatti, per la prima volta in filosofia,37 quegli stessi principi che
costituiranno poi l’essenza stessa dell’impresa strutturale prima e
dell’epistemologia semiotica poi, e cioè: i) l’identità come effetto di un
sistema di relazioni (identità differenziale per determinazione reciproca); ii)
il primato della forma sulla sostanza (natura morfologica degli elementi
semiotici); iii) l’irriducibilità delle Gestalten semio-linguistiche a
combinazioni logiche tra elementi.
Questa immagine del pensiero di Peirce è certamente “minore”, e cioè
deviante rispetto all’immagine standard che ne abbiamo attualmente, ma
definisce anche il senso profondo di una serie di “rivoluzioni” propriamente
peirciane, a nostro parere mai adeguatamente sottolineate nella tradizione
semiotica. La semiotica di Peirce non è infatti minimamente comprensibile
se non la si studia assieme alla Logica dei Relativi e alla teoria del
continuum (sinechismo), di cui costituisce una parte. Questo sarà
esattamente ciò che ci apprestiamo a fare ora, nel tentativo di mostrare: i)
come con “Logica dei Relativi”, Peirce intendesse un’analisi strutturale del
linguaggio e della proposizione;38 ii) come questa analisi strutturale sia
esattamente ciò che, circa ottant’anni dopo, Tesnière (1959) e Greimas
(1983) chiameranno “sintassi attanziale”; iii) come la Logica dei Relativi
cambi radicalmente la concezione peirciana della semiotica,
precedentemente fondata sulla teoria dell’inferenza e sulla struttura
“soggetto-predicato” di “On a New List of Categories”; iv) come questa
Logica dei Relativi rappresenti la condizione di possibilità stessa del
sinechismo peirciano, da cui la semiotica dipende.
In un saggio del 1892 (CP 6.102-6.163), controverso quanto
fondamentale, Peirce insiste infatti sull’idea che i saggi anti-cartesiani del
1867, in cui veniva fondata la semiotica, non fossero altro che la prima parte
di una teoria più ampia, da lui chiamata sinechismo; di cui era finalmente in
grado di delineare le specificità.39 In greco significa “tenere insieme”
o “connettere”,40 e “sinechismo” sta dunque a indicare la dottrina filosofica
del “connettere” o del “rendere continue” delle parti (cfr. MS 945 e CP
7.565). Peirce sostiene allora che il principio fondamentale del sinechismo
afferma che i nostri pensieri sono connessi tra loro nello stesso modo in cui
essi sono connessi ai loro oggetti, e che anche gli oggetti sono connessi tra
loro nello stesso modo in cui lo sono i pensieri e gli oggetti coi pensieri (cfr.
CP 6.277, 6.202). Insomma, col sinechismo Peirce non individua tanto un
principio metafisico, ma una forma di relazione41 che, nel 1867, gli
sembrava di poter identificare invece col principio dell’inferenza valida.
L’inferenza valida infatti era ciò che nei saggi anti-cartesiani connetteva il
pensiero-segno col pensiero-segno successivo (interpretante) e il pensiero-
segno con il suo oggetto. Comprendere il senso di questa identificazione, e
dunque il rapporto tra semiotica e logica in Peirce, è allora possibile alla sola
condizione di comprendere davvero che cosa sia il principio di inferenza
valida.
La pubblicazione degli inediti non lascia ormai più spazio a dubbi:
funzione di unità tra premesse e conclusione in un ragionamento, l’inferenza
valida presenta una struttura divisibile in tre tipi fondamentali (Deduzione,
Induzione e Ipotesi) che unificano ognuno a suo modo le diverse
proposizioni di un argomento (W2, pp. 28-46; CP 5.269-5.277). Nondimeno,
sebbene ogni diverso tipo di ragionamento presenti una propria specificità
peculiare, l’inferenza appartiene tuttavia a un unico genere (CP 5.278), dal
momento che in ogni argomento la conclusione sarà sempre un segno delle
premesse (W2, p. 25; CP 5.279). Quella stessa forma di relazione individuata
dal sinechismo peirciano, e posta così a fondamento della totalità del
pensiero di Peirce, è dunque quella che è propria delle relazioni triadiche di
tipo segnico, relazione altrove chiamata semiosi. È dunque la semioticità a
definire la forma di relazione che caratterizza la struttura propria
dell’inferenza valida, tanto che, all’interno di Deduzione, Ipotesi e
Induzione, la conclusione sarà sempre rispettivamente un simbolo, un’icona
o un indice delle premesse. Proprio in riferimento a questa struttura triadica,
Peirce potrà, allora, sempre affermare la natura semiotica della logica.
Per Peirce la logica non è infatti altro che una parte della semiotica, e
dunque non è minimamente possibile porre la prima a fondamento della
seconda. E questo anche e soprattutto per la natura stessa della logica
peirciana, e della sua Logica dei Relativi in particolare. Quello che la
tradizione semiotica non sembra forse avere compreso fino in fondo è che
con Peirce la logica stessa ha subito una serie di sconvolgimenti radicali.
Non solo Peirce fa infatti precedere lo studio delle inferenze, degli enunciati
e dei loro valori di verità da un’analisi differenziale delle possibili relazioni
che strutturano una topologia della proposizione (cfr. Burch, 1991); ma
questa originalissima forma di logica topologica viene costitutivamente
fondata sulla valenza verbale e sul numero di posti aperti da un nodo attorno
al quale si organizzano le relazioni.
Come vedremo ora, si tratta esattamente dello stesso metodo utilizzato
ottant’anni dopo da Lucien Tesnière, metodo che sarà successivamente posto
a fondamento di una sintassi attanziale di tipo processuale e narrativo da
Algirdas J. Greimas (1970, 1983). Studiare la Logica dei Relativi di Peirce
significa dunque sapere che fondare la semiotica sulla logica non significa
altro che fondarla su di una sintassi attanziale di tipo differenziale, la cui
natura è costitutivamente relazionale e strutturale. La Logica dei Relativi di
Peirce ha ben poco a che vedere con quella di Carnap o Frege, mentre ha
molto a che vedere con quella di Hjelmslev e di Tesnière, tanto che proprio
Tesnière, ottant’anni dopo, si darà come compito quello di scrivere un’opera
che coincida – riga per riga e parola per parola – con quella di Charles
Sanders Peirce.42
Com’è noto, la nozione greimasiana di attante viene infatti dagli Elementi
di sintassi strutturale di Tesnière (1959).43 In quest’opera, Tesnière prende le
distanze da tutta una tradizione logico-filosofica che ha sempre posto la
relazione soggetto-predicato al centro dell’analisi della proposizione:
L’opposizione di soggetto e predicato impedisce di discernere l’equilibrio strutturale della frase,
poiché conduce a isolare come soggetto uno degli attanti, con l’esclusione degli altri, i quali si
trovano ricacciati alla rinfusa nel predicato con il verbo e tutti i circostanti. Ciò significa assegnare
a uno degli elementi della frase un’importanza sproporzionata, che nessun fatto strettamente
linguistico giustifica. […] Al contrario, l’opposizione del soggetto e del predicato, introduce un
fattore di asimmetria, perché ogni attante è su un piano diverso a seconda che sia o no soggetto.
[…] Al contrario, nella frase Alfredo dà il libro a Carlo, Carlo ed anche il libro, pur non agendo
direttamente, tuttavia sono degli attanti allo stesso titolo di Alfredo. (Tesnière, 1959, pp. 73, 76)

Ma ecco allora che “a partire dalla sua Logica dei Relativi del 1870,
Peirce decise di abbandonare quella tradizione logica millenaria che poneva
il rapporto tra soggetto e predicato al centro della proposizione e che aveva
ispirato il suo saggio ‘On a New List of Categories’”:44
noi consideriamo la tendenza del soggetto-nominativo come un abito sfortunato della nostra razza
o piuttosto, forse, come un istinto misterioso, come il prendersi cura delle proprie uova da parte
delle vespe. […] Ma la logica, il cui compito consiste nel determinare le proprietà necessarie dei
segni, non ha alcun motivo di considerare, per esempio, il fatto del dare come più appartenente al
donante piuttosto che al ricevente o al dono. […] In un fatto triadico come A dà B a C non
facciamo alcuna distinzione tra il soggetto nominativo, l’oggetto diretto e l’oggetto indiretto. […]
Se chiamiamo A, B, C, D quattro soggetti della proposizione e “– vende – a – per il prezzo –” un
predicato, rappresentiamo la relazione logica in modo sufficientemente corretto, ma abbandoniamo
la sintassi Ariana. (MS 200, p. 59, MS 308, MS 595, p. 27)

Questo riferimento alla “sintassi ariana” è davvero importante: all’epoca


Peirce stava studiando alcune lingue, e in particolare stava studiando lingue
che non sono fondate sulla struttura “soggetto-predicato”. È allora
esattamente questo confronto a fargli dubitare dell’universalità e
dell’adeguatezza di quel modello gnoseologico che in “On a New List of
Categories” lui stesso aveva fondato proprio sulla struttura soggetto-
predicato.
Ma ritorniamo a Tesnière. Secondo Tesnière (1959, p. 30) è possibile
lasciarsi alle spalle questa millenaria tradizione logico-filosofica fondata
sulla relazione “soggetto-predicato”, che Peirce chiamava “sintassi ariana”,
rivolgendosi a un’analogia chimica.
Dire che una frase del tipo Alfredo parla comporta solo due elementi, equivale ad analizzarla in
maniera superficiale, puramente morfologica, e trascurarne l’elemento essenziale, e cioè il legame
sintattico. Ugualmente avviene in chimica, dove la combinazione di cloro (Cl) e di sodio (Na)
genera un composto, il sale da cucina o cloruro di sodio (NaCl), che è tutta un’altra sostanza e
presenta caratteri completamente differenti tanto dal cloruro quanto dal sodio. (Tesnière, 1959, p.
30)

Siamo qui di fronte a un altro punto di svolta costitutivo dell’approccio


che stiamo delineando: la sostanza è sempre l’effetto di una combinazione di
rapporti, e non qualcosa che possiede in sé delle proprietà che le possono
essere predicate quando essa assume la posizione del soggetto della frase
all’interno di una proposizione (era invece esattamente questa la teoria
peirciana della “New List”). Al contrario, esattamente come gli elementi
chimici presentano una valenza – che consiste nel numero di atomi capaci di
combinarsi con l’elemento considerato al fine di dar vita a un composto –
così differenti tipi di verbi all’interno della proposizione presenteranno
anch’essi una valenza, che consiste nel numero dei posti occupabili da
termini capaci di combinarsi col verbo considerato. Questi termini risultanti
dalla funzione della valenza verbale per Tesnière sono attanti, e in funzione
dell’analogia chimica, il verbo finisce per determinare così un nodo, e cioè
un insieme costituito dal reggente (verbo) e da tutti i subordinati che ne
dipendono (attanti) “e che esso quindi annoda, per così dire in un solo
fascio” (Tesnière, 1959, p. 31).
Ma ecco allora che “esattamente come i chimici del diciannovesimo
secolo imparavano a classificare gli elementi in base alla loro valenza, o
numero dei legami aperti dell’atomo, Peirce classificava i relativi, gli
elementi relazionali di una proposizione, in funzione del numero dei posti
lasciati aperti da un verbo e riempibili attraverso un segno indessicale”:45
Un atomo chimico è del tutto simile a un relativo nell’avere un numero definito di terminazioni
libere o “legami non saturi” i quali corrispondono ai posti vuoti dei relativi. In una molecola
chimica ogni terminazione libera di un atomo è unita con una terminazione libera che si considera
appartenente a qualche altro atomo. […] La proposizione “Giovanni dona Giovanni a Giovanni”
corrisponde nella sua costituzione, come mostrano la figura 1 e la figura 2, precisamente
all’ammoniaca:

Risulta così chiaro che ogni nodo è equivalente a un relativo; e la teoria della valenza viene così
acquisita in logica. (CP 3.469-3.471, cfr. 1.289, 1.346, 3.421, 4.309, 4.561 n.1, 5.469)
I termini relativi non sono dunque altro che pure posizioni definite in
funzione della valenza verbale, tanto che Peirce utilizza spesso una
notazione che li individua come spazi bianchi disseminati dalla struttura
della frase, come ad esempio nel caso del dono: “– gives – to –” (cfr. CP
3.340 e 3.471, MS 595). In questo modo, la Logica dei Relativi non è allora
altro che un’originalissima forma di topologia della proposizione,46 in cui la
classificazione degli elementi viene fatta in funzione del numero dei posti
disponibili all’inserimento di un nuovo termine, capace di combinarsi col
verbo considerato. Questi termini in Tesnière prendono il nome di attanti
(protoattanti in Greimas 1983, attanti posizionali in Fontanille 1998), in
Peirce quello di termini relativi (o correlati).47
Ne si noti, allora, la costitutiva natura differenziale in cui gli elementi non
esistono se non nel loro rapporto con l’altro:
[I termini relativi sono] ombre che si combinano insieme per formare una sostanza! Essi non
esistono. […] Non hanno esistenza nell’universo della quantità. Ma uniti insieme in composti ce
l’hanno. Essi sono come radicali chimici, ognuno dotato di un certo numero di mancanze non
soddisfatte. Quando ognuna di esse viene soddisfatta attraverso l’unione con un’altra, il tutto
completamente saturato possiede un’esistenza nell’universo delle quantità. […] L’applicazione di
questa idea alla logica dà l’esatta logica dei relativi. (NEM, IV, pp. 151-152)

Ecco come Peirce formula, diversi decenni prima degli strutturalisti, l’idea
di un’identità privativa degli elementi semio-linguistici, in cui la sostanza è
l’effetto della forma propria della combinazione tra gli elementi. I relativi
peirciani sono dunque degli attanti, la loro identità è puramente relazionale e
il loro statuto costitutivamente differenziale definisce le condizioni di
possibilità di qualsiasi tipo di processo logico successivo. Viene così
colmato qualsiasi tipo di iato tra una logica semiotica di tipo peirciano e una
differenzialità relazionale di tipo strutturalista. Se non che, quanto meno per
precedenza cronologica, si dovrebbe forse dire esattamente l’opposto: gli
attanti tesnièriani sono dei termini relativi, la loro identità è puramente
relazionale e il loro statuto costitutivamente differenziale definisce le
condizioni di possibilità di qualsiasi tipo di processo narrativo successivo.
Viene così colmato qualsiasi tipo di iato tra una differenzialità relazionale di
tipo strutturalista e una logica semiotica di tipo peirciano.
In CP 4.5, Peirce definisce infatti la novità costitutiva della Logica dei
Relativi in un passaggio dal concetto di classe a quello di sistema48
esattamente speculare a quello che vedremo sostenere da Louis Hjelmslev
nel suo Résumé of a Theory of Language, con differenze esclusivamente
terminologiche (cfr. infra, 1.6 e 1.8):
La logica ordinaria si dà un gran da fare a parlare di generi e specie, o di classi. Ora, una classe è
un insieme di oggetti che comprende ciò che sta uno all’altro in una speciale relazione di
similarità. Ma dove la logica ordinaria parla di classi la logica dei relativi parla di sistemi. Un
sistema è un insieme di oggetti che comprende tutto ciò che sta in rapporto all’altro in un gruppo di
relazioni connesse. (CP 4.5)

Al fine di rendere conto di questi “gruppi di relazioni connesse” che


definiscono un “sistema”, in più punti Peirce fa tutta una serie di esempi di
verbi con valenza varia: ad esempio, “piove” ha valenza 0; “A è un uomo”
valenza 1, “A uccide B” valenza 2 e “A dona B a C” valenza 3. In Tesnière
leggiamo allora la stessa identica cosa: secondo la valenza del verbo, si
avranno predicati a zero attanti (“piove” è considerato un processo “che si
svolge da sé, senza che persone o cose vi partecipino”); a un solo attante (“A
cade”) a due attanti (“A picchia B”) o a tre attanti (“A dona B a C”).49
Le corrispondenze tra i due testi sono così evidenti da non aver bisogno di
essere sottolineate ulteriormente, se non a livello teoretico, dal momento che
entrambi i lavori implicano tre passaggi fondamentali per un’epistemologia
semiotica, e cioè quelli:

1) dalla struttura “soggetto-predicato” alla struttura della “valenza verbale”;


2) da una teoria basata sulla sostanza (di cui si predicano proprietà) a una
teoria basata sulla relazione (di cui la sostanza è un effetto);
3) da un modello fondato sull’“inclusione in classi” di elementi che
posseggono proprietà positive a un modello fondato su di un “sistema di
relazioni interconnesse”, da cui dipende l’identità di termini definiti
differenzialmente.

Proprio in questo senso, ci pareva di poter sostenere l’assurdità di opporre


la semiotica di Peirce a quella strutturalista: come già notava Jakobson
(1963), Peirce è stato il primo degli strutturalisti, o meglio, gli strutturalisti
sono stati i primi peirciani. Mostreremo infatti ora i) come la semiotica
peirciana venga a un certo punto fondata su questa Logica dei Relativi di
tipo strutturale, in cui la relazione è costitutiva dell’identità dei termini; ii)
come la strutturazione peirciana della Logica dei Relativi permetta di
ripensare in maniera euristica proprio quella sintassi processuale
(narratività) che Greimas fondava sulla sintassi attanziale di Tesnière; iii)
come un approccio topologico e relazionale come quello peirciano e
tesnèriano sia stato guardato con grande interesse dagli autori della così detta
“semiotica dinamica”, ispirata ai lavori di René Thom; iv) come, nonostante
alcune assonanze di superficie e la metafora comune della valenza chimica,
la Logica dei Relativi di Peirce e la sintassi attanziale di Tesnière
differiscano profondamente da alcune famosissime pagine logiche di Frege
sulla “chimica dei concetti”.
Come detto, per quanto riguarda il punto i), dopo la fondazione della
Logica dei Relativi, la semiotica per Peirce diventa la parte di una più
generale logica delle relazioni che ha il compito di studiare una relazione
molto particolare chiamata semiosi, e cioè una relazione triadica irriducibile
a rapporti tra coppie, qual è ad esempio quella che si instaura tra un segno,
un oggetto e un interpretante (cfr. CP 5.484). Detto allora che “Correlato”
non è altro che il “termine relativo” di una relazione (cfr. CP 3.466), Peirce
può scrivere:
Un Representamen è il Primo Correlato di una relazione triadica, il Secondo Correlato viene detto
il suo Oggetto, e il possibile Terzo Correlato viene detto il suo Interpretante. Mediante questa
relazione triadica il possibile Interpretante è determinato a essere il Primo Correlato della
medesima relazione triadica con lo stesso Oggetto, e per qualche altro possibile Interpretante. […]
I segni sono i soli representamen che finora sono stati molto studiati. (CP 2.242)

Com’è evidente dunque, segno/oggetto/interpretante non sono altro che i


termini relativi di una relazione triadica, e la semiotica un aspetto
particolare della Logica dei Relativi, e cioè quello che studia le relazioni
triadiche non risolvibili in rapporti tra coppie che coinvolgono tipi particolari
di representamen chiamati segni (Primi Correlati di una relazione triadica).

Leggiamo allora una definizione peirciana della semiotica, tenendo conto


che ci occuperemo più nel dettaglio della semiotica interpretativa di Peirce
in 1.8:
Un REPRESENTAMEN è un soggetto di una relazione triadica con un secondo soggetto, chiamato
il suo OGGETTO, per un terzo soggetto, chiamato il suo interpretante. Questa relazione triadica è
tale che il representamen determina il suo interpretante a stare nella stessa relazione triadica con lo
stesso oggetto per qualche altro interpretante, e così via senza fine. […] La relazione triadica è
genuina in quanto collega insieme i suoi tre membri in un modo che non consiste in alcun
complesso di relazioni diadiche. (CP 1.541; 2.274)

Com’è evidente allora, segno, oggetto e interpretante non sono cose, né


tanto meno sono espressione/contenuto, referente e significato, come si è
spesso detto con troppa facilità, ma sono semplicemente dei soggetti di una
relazioni triadica (correlati), degli attanti la cui identità è puramente
topologica e relazionale, dei posti che possono venire occupati di volta in
volta da elementi variabili; tanto che quello che prima è oggetto può poi
diventare segno e poi interpretante (e viceversa). Un interpretante è un posto
che viene occupato di volta in volta da elementi diversissimi e che assume il
suo senso solo in relazione ad altri due posti che chiamiamo segno e oggetto.
Interpretare è l’operazione che si compie nel momento in cui si dispone di
posti e di posizioni tra i quali gli elementi possono spostarsi, dislocarsi e
ricollocarsi. L’interpretazione è la possibilità semiotica di questo passaggio
(cfr. infra, 1.8).
Perché è senz’altro vero che la semiotica peirciana è una parte della
Logica dei Relativi, ma è altrettanto vero che essa ne è la parte più
fondamentale, dal momento che, nella Logica dei Relativi, Peirce sostiene
tre tesi fondamentali, di cui attualmente sono state date le dimostrazioni
rigorose sulla base della moderna logica matematica.50 Eccole:

- Tutte le relazioni di valenza superiore a tre possono essere ridotte a


combinazioni di triadi.
- Nessuna relazione triadica può essere ridotta a combinazioni di monadi o
diadi.
- Tutte le relazioni monadiche e diadiche possono venire generate a partire
da relazioni triadiche.

Dunque, come dice Peirce, “le triadi sono i relativi primitivi” (CP 3.483),
dal momento che ogni altra relazione logica può sempre derivata dalla
relazione semiotica, e cioè dalla relazione triadica (semiosi). Ecco allora nel
cuore stesso della Logica dei Relativi un’altra relazione di tipo partecipativo
in senso hjelmsleviano: la triade (termine estensivo) è una tra le n differenti
relazioni possibili (termini intensivi), ma essa può assumere il valore proprio
di tutte le altre, dal momento che tutte le relazioni di qualsiasi valenza
potranno sempre venire generate a partire dalle triadi.
Proprio a questo proposito, possiamo ora occuparci del punto ii). Peirce
insiste infatti molto sull’importanza delle relazioni triadiche, e cioè sulle
relazioni di valenza 3, quali quelle sul tipo di “A dona B a C”, e mostra
come questa triadicità sia costitutiva del fenomeno stesso del dono e
irriducibile a somme di rapporti tra coppie.
Una triade rappresenta qualcosa di più di una mera congerie di coppie. Ad esempio: A dà B a C.
Abbiamo qui tre coppie: A cede B, C riceve B, A arricchisce C. Ma questi tre eventi duali
considerati insieme non fanno la triplicità del fatto, che consiste invece in ciò: che A cede B, C
riceve B, A arricchisce C, ma il tutto in un unico atto. (MS 717, cfr. anche CP 8.331)

Questa irriducibilità delle triadi a somme di diadi è del tutto speculare alla
definizione della semiosi come relazione triadica irriducibile a rapporti tra
coppie. Come nota giustamente Gallie (1952, p. 112):
l’irriducibilità delle relazioni triadiche è dovuta al fatto che per esempio un evento del tipo A dà B
a C non può essere scomposto nei due eventi “A rinuncia a B” e “C viene in possesso di B”, perché
una simile relazione di eventi a due termini trascurerebbe la caratteristica unitarietà di intenti che
distingue un atto di cessione da un accidentale mutamento di proprietà. Considerazioni analoghe
valgono per eventi del tipo “A indica B a C”, “A suggerisce B a C” e, più generalmente “A
significa B per C.

Ora, questa scomposizione della triade in coppie di diadi è invece


esattamente quello che succede all’interno della sintassi attanziale di
Greimas, dove la relazione di dono è esattamente quella che risulta dalla
somma delle relazioni diadiche di “rinuncia” e “attribuzione” (cfr. Greimas
1983, p. 35). Una relazione di questo tipo è proprio ciò che riduce il
fenomeno del dono a una serie di relazioni diadiche sul tipo di
congiunzione/disgiunzione tra soggetti e oggetti di valore. Per Greimas
(1983), queste congiunzioni/disgiunzioni sono effetto di un particolare
programma narrativo “che produce una rinuncia e un’attribuzione
solidali”:51
A è in congiunzione con l’oggetto B e C è in disgiunzione con lo stesso oggetto B. Poi A si priva
di B (rinuncia) dandolo a C (attribuzione) ed entra in una relazione di disgiunzione con B, mentre
C ne è ora congiunto.

(A ∩ B ∪ C) → (A ∩ B ∪ C).52

Ecco allora un esempio di riduzione di un rapporto genuinamente triadico


a una serie di rapporti tra coppie, a ulteriore conferma di una tendenza al
binarismo che è costitutiva di un certo strutturalismo e che va per noi
abbandonata. Perché non ha forse ragione Peirce nel dire che in questa
complessa riduzione di una relazione costitutivamente triadica a una serie di
rapporti tra coppie quello che si perde è esattamente il fenomeno del dono?
Perché la mia mano destra non può regalare denaro alla mia mano sinistra? La mia mano destra
può metterlo nella mano sinistra. La mia mano destra può scrivere un atto di donazione e quella
sinistra una ricevuta. Ma le ulteriori conseguenze pratiche di questa azione non sarebbero quelle di
una donazione. Quando la mano sinistra ha preso il denaro dalla destra, ecc., ci si chiederà: “Bene,
e poi?” (Wittgenstein, 1953, § 268)
Non c’è “e poi?” per Greimas. Il dono consiste esattamente in questa sorta
di dare con la mano destra alla mano sinistra. È ben evidente, infatti, come la
situazione descritta da Wittgenstein sia tranquillamente modellizzabile
attraverso una serie di congiunzioni/disgiunzioni tra soggetti e oggetti di
valore, che sono costitutive della definizione Greimasiana. Allo stesso modo,
è evidente come essa non possegga però in alcun modo il significato che è
proprio del dono, bensì se mai quello di una semplice trasformazione di stati.
A partire dalla Logica dei Relativi di Peirce, possiamo dunque formulare in
maniera netta un’obiezione alla sintassi del processo di Greimas: ridurre le
relazioni triadiche a un insieme di relazioni diadiche significa perdere
completamente la possibilità di trattare in maniera adeguata tutte le triadi
non degenerate sul tipo di “A dona B a C”, “A indica B a C”, “A significa B
per C”, che incarnano tra l’altro la forma stessa della semiotica (semiosi).53
Analizziamo più da vicino l’argomentazione attraverso la quale Peirce
confuta una prospettiva sul tipo di quella di Greimas. Il fulcro della tesi di
Peirce è che il concetto di “connessione” (“giunzione” in Greimas) non ha
nulla a che vedere con quello di relazione, che nella sua stessa natura è
irriducibilmente triadico.
La relazione è qualcosa di più di una connessione fra due cose? Non possiamo per esempio
enunciare che A dà B a C senza servirci di alcuna altra espressione relazionale eccetto l’essere una
cosa connessa con un’altra? Proviamo. Abbiamo l’idea generale di donare. Connessa con tale idea
sono le idee generali di donatore, dono, “gratificato di un dono”. Abbiamo anche una particolare
transazione che non è connessa con nessuna idea generale se non attraverso quella di donare.
Abbiamo un primo individuo connesso con questa transazione, nonché con l’idea generale di
donatore. Abbiamo un secondo individuo connesso con questa transazione, nonché con l’idea
generale di “gratificato di un dono”. Abbiamo un soggetto connesso con questa transazione e
anche con l’idea generale di dono. A è la sola ecceità connessa direttamente con il primo
individuo; C la sola ecceità direttamente connessa con il secondo individuo, B la sola ecceità
direttamente connessa con il soggetto. Questo lungo enunciato non esprime il fatto che A doni B a
C?
Al fine di avere una nozione distinta di relazione non basta rispondere semplicemente a questa
domanda, bisogna anche comprendere la ragione della risposta. La mia risposta in proposito sarà
negativa. In primo luogo, se la relazione non fosse altro che la connessione di due cose, tutte le
cose sarebbero connesse. Così, se diciamo che A non è connesso con B, tale non-connessione è
certamente una relazione fra A e B. Inoltre è evidente che due cose qualunque costituiscono una
coppia. Una qualunque cosa, allora, sarebbe parimenti connessa con qualunque altra cosa, se la
connessione fosse tutto quello che vi è nella relazione. […] Ciò ridurrebbe la relazione, considerata
come semplice connessione fra due cose, a nulla, a meno che non si ricorra all’espediente di dire
che la relazione in generale è effettivamente nulla, e che i modi di relazione sono invece qualche
cosa. Tuttavia, se tali modi di relazione sono differenti modi di connessione, la relazione cessa di
essere una semplice connessione. (CP 3.464)
Ora, che cos’è il dono? Esso non consiste nel fatto che A sta gettando B via da sé e C di
conseguenza lo raccoglie. Non è necessario che alcun trasferimento di tipo materiale accada. Il
dono consiste nel fatto che A rende C il proprietario […]. Ma si supponga ora che il dono consista
nel mero fatto che A appoggi B e C conseguentemente lo raccolga. […] Nel fatto che A getti via B
non c’è Terzità. Nel fatto che C prende B non c’è terzità. Ma se si dice che questi due atti
costituiscono un’operazione singola in virtù dell’identità di B. […] allora la si introduce. (CP
8.331)

È evidente il senso dell’argomentazione di Peirce: il dono è un processo


unitario e la sua scomposizione in supposte unità costituenti che presentano
una forma di relazione differente fa inevitabilmente perdere la struttura
costitutiva dell’evento (“il donare”) nella sua processualità. La forma di
relazione (“mode of relation”) è costitutiva dell’identità dell’elemento in
gioco (il dono in questo caso), per cui cambiare forma di relazione significa
inevitabilmente perdere la natura del fenomeno stesso. È chiara qui la natura
costitutivamente strutturale della Logica dei Relativi di Peirce, in cui la
relazione è costitutiva dell’identità dei termini in rapporto. Come nella
sintassi attanziale di Tesnière, una concezione evenemenziale della
proposizione serve a definire eventi che aprono determinate posizioni di
soggetto e definiscono così una rete di relazioni che costituisce l’identità
degli elementi in gioco.
È proprio per questo, e veniamo così al punto iii), che una sintassi
attanziale di tipo strutturale ha potuto costituire uno dei capisaldi di una
semiotica dinamica basata sulla teoria delle catastrofi (cfr. Wildgen, 1982;
Petitot, 1985, 1992; Brandt, 1994 e Victorri, 1996). Gli eventi (il “donare”, il
“correre”, l’“amare” ecc.) sono infatti pensati come punti singolari
corrispondenti a rapporti differenziali tra elementi che si determinano
reciprocamente. La Logica dei Relativi di Peirce e la sintassi attanziale di
Tesnière non presentano affatto una natura logica, bensì una natura
topologica e relazionale di tipo eminentemente strutturale (cfr. Deleuze,
1969 e Petitot, 1985). Per questo ai loro lavori hanno guardato con grande
interesse le semiotiche dinamiche e chi ha cercato di arrivare a “una
matematizzazione non logica del concetto centrale di connessione” (Petitot,
1995, p. 105; cfr. Petitot, 1985). “Relazione” in Peirce e “connessione” in
Tesnière sono nomi che servono a pensare strutture semio-linguistiche
irriducibili e organiche, le cui differenti forme di relazione aprono una serie
di relazioni posizionali che determinano l’identità degli elementi che le
vengono a occupare. I sistemi di connessioni di Tesnière (stemma) e i
Relativi con le loro strutture di correlati in Peirce sono configurazioni
posizionali con le loro differenti forme di relazione (Gestalten posizionali).
Al contrario, ci pare che Greimas non colga davvero a pieno la natura
puramente topologica e morfologica della sintassi attanziale, e la pensi così
come riconducibile a delle operazioni di tipo binario di
congiunzione/disgiunzione tra soggetti e oggetti di valore. La stessa
notazione adottata da Greimas, che fa uso di connettivi di ispirazione
algebrica, rivela la tendenza a ridurre una complessità puramente topologica,
qual è quella che è costitutiva del “piccolo dramma” tesnièriano, a somme di
relazioni diadiche trattabili algebricamente sulla base della categoria della
giunzione.54 Per questo, in alcuni suoi importanti lavori, Petitot (1985, 1992)
ha insistito con forza sulla necessità di interpretare topologicamente e non
algebricamente la nozione di giunzione, al fine di arrivare a una concezione
non logica dei concetti strutturalisti di connessione e determinazione
reciproca (cfr. Petitot, 1995, pp. 105-108).
Allo stesso modo, e veniamo così al punto iv), è proprio per la loro natura
autenticamente strutturale che le teorie semio-linguistiche della valenza
elaborate da Peirce e Tesnière differiscono essenzialmente dall’analoga
“chimica dei concetti” sviluppata a inizio Novecento da Gottlob Frege.
Come Tesnière e Peirce, anche Frege (1891), nel tentativo di lasciarsi alle
spalle la dicotomia soggetto-predicato, fa riferimento all’analogia chimica
dei legami insaturi. Tuttavia, Frege oltrepassa completamente il livello
semio-linguistico, in cui si collocano le riflessioni di Tesnière e Peirce, per
arrivare, attraverso l’enunciato, all’universalità logica del concetto. Ciò che è
insaturo in Frege non è il “tutto strutturale” delle posizioni attanziali
(correlati) aperte dall’evento espresso dal verbo (relativo), bensì il concetto.
Frege identifica infatti il concetto con l’universalizzazione logica di una
funzione matematica e afferma che il concetto è un tipo particolare di
funzione, in quanto tanto una funzione quanto un concetto sono bisognose di
completamento (ergänzungsbedürftig), ovvero necessitano di uno o più
argomenti per essere saturati e assumere un valore. In matematica, infatti, un
argomento “2” è ciò che, combinato con una funzione “2x+x”, consente di
formare un enunciato saturo, e cioè compiuto: “4+2”. È allora soltanto
quando questo avviene che la funzione assume il proprio valore (“6”). Allo
stesso modo, per Frege, considerando il concetto-funzione insaturo “(x) è un
rapace”, risulta evidente che il valore dell’enunciato cambierà a seconda
dell’argomento che lo saturerà (“l’aquila è un rapace”; “il presidente del
consiglio è un rapace”).
La distanza tra le teorie di Tesnière-Peirce e Frege è del tutto evidente: i)
là dove le prime due si pongono a un livello semio-linguistico, la terza si
pone invece a un livello concettuale; ii) là dove le prime due presentano una
configurazione topologica (posizionale), la terza presenta invece una
strutturazione logica (funzionale); iii) là dove nelle prime due è il valore dei
rapporti a definire l’identità dei termini, nella terza è l’identità del termine a
dare valore all’enunciato all’interno di una configurazione in cui i rapporti si
allacciano tra termini già costituiti per se stessi.
Le teorie semio-linguistiche di Peirce e Tesnière e la teoria logico-
concettuale di Frege hanno in comune la metafora della valenza chimica, ma
sono approcci che hanno natura e obiettivi differenti. Non si tratta
ovviamente di dare un giudizio di valore sulle differenti teorie, bensì di
sottolineare soltanto un tratto costitutivo dell’impresa semiotica, su cui
hanno insistito con forza Deleuze (1969) e Petitot (1985): l’impresa
epistemologica dello strutturalismo e della semiotica non è logica e
funzionale, bensì topologica e relazionale. Le strutture della Logica dei
Relativi di Peirce e della sintassi attanziale di Tesnière sono Gestalten
fenomenologiche irriducibili a combinatorie logico-algebriche.
Ma a che cosa serve allora a Peirce questa rivoluzione propriamente
strutturale della logica da lui chiamata Logica dei Relativi? Qual è davvero il
suo senso profondo per la semiotica?
Fin dalla teoria dell’inferenza dei saggi anticartesiani, Peirce poneva a
fondamento della logica una topologia semiotica fondata sulla dimostrazione
delle quattro incapacità e sulla deduzione di alcune sue conseguenze: dal
momento che non abbiamo alcun tipo di capacità di intuizione né di
introspezione, alcun concetto dell’assolutamente inconoscibile e nessuna
capacità di pensare senza segni, al fine di reperire la struttura costitutiva del
pensiero, occorrerà dividerne il flusso continuo e individuare al suo interno
delle posizioni che abbiano tra loro un rapporto che sia costitutivamente
semiotico e triadico (cfr. CP 5.318-5.357). Il problema della semiotica di
Peirce cioè era: dato l’anti-intuizionismo, e cioè dato che “non vi è nessuna
conoscenza assolutamente prima di nessun oggetto, ma la cognizione sorge
sempre da un processo continuo” (CP 5.267), come poter descrivere questo
processo continuo di emersione di una cognizione che si fa presente alla
mente (segno)?55
Ogni pensiero precedente suggerisce qualcosa al pensiero seguente, ovvero è il segno di qualcosa
per quest’ultimo. […] Ma dobbiamo rammentare che, in ogni momento, in aggiunta all’elemento
principale di pensiero, vi sono nella mente centinaia di cose alle quali è concessa soltanto una
piccola frazione di attenzione o coscienza. Dal fatto che sopravvenga come dominante un nuovo
costituente di pensiero, non consegue dunque che il filo di pensiero che il nuovo pensiero ha
rimosso si rompa del tutto. Al contrario, in base al nostro secondo principio, cioè che non vi è
intuizione o cognizione che non sia determinata da cognizioni precedenti, segue che l’irruzione di
una nuova esperienza non è mai un fatto istantaneo, ma è un evento che occupa tempo e che passa
attraverso un processo continuo. Perciò il suo emergere nella coscienza deve probabilmente essere
il coronamento di un processo di crescita. (CP 5. 284)

Il problema di Peirce, e cioè il problema della sua semiotica, era e sarà


sempre quello di descrivere questo processo di emersione di un evento a
partire dal flusso continuo delle cognizioni che rappresentano lo sfondo di
ciò che si fa presente alla mente. È del tutto evidente il radicamento
fenomenologico della semiotica di Peirce, di cui ci occuperemo
estensivamente nel seguente capitolo. Ma se il problema resta costante
durante tutto lo sviluppo del pensiero peirciano, sono le soluzioni che Peirce
tenterà prima e dopo la Logica dei Relativi a differire sostanzialmente. Per il
giovane Peirce, e cioè per il Peirce della “On a New List of Categories” e dei
saggi anti-cartesiani, la soluzione consisterà infatti nella determinazione del
rapporto esistente tra il processo dell’inferenza valida (modello delle
Consequences) e la riduzione del molteplice a unità attraverso la predizione
di una proprietà P di una sostanza S (modello della “New List”). Peirce era
infatti convinto che la cognizione che si fa presente alla coscienza (evento)
fosse la conclusione (segno) inferita a partire dalle sue premesse (sfondo
della cognizione), così che questo processo di sostituzione semiotica potesse
portare a predicare alcune proprietà P di una sostanza S. Queste proprietà
erano infatti in grado di: i) illuminare la sostanza sotto qualche rispetto; ii)
rimandarla contemporaneamente a un pensiero-segno futuro (nuova
cognizione interpretante). In questo modo, la connessione tra l’evento
presente alla coscienza e il suo sfondo poteva essere la stessa connessione
esistente tra le premesse e la conclusione in un ragionamento inferenziale,
tanto che la struttura di questo stesso processo inferenziale verrà a basarsi
costitutivamente su di un modello “soggetto-predicato”:
L’inferenza è dunque di tre specie essenzialmente differenti. Tuttavia appartiene a un unico genere.
Abbiamo visto che non si può legittimamente derivare nessuna conclusione che non sia tale da
poter essere raggiunta per una successione di argomenti che abbiano ognuno due premesse, e che
implichino sempre fatti asseriti.
Ognuna di queste premesse è una proposizione che asserisce che certi oggetti hanno certe
proprietà. Ogni termine di una tale proposizione sta o per certi oggetti oppure per certe proprietà.
La conclusione può essere considerata come una proposizione che si sostituisce a una delle due
premesse, la sostituzione essendo giustificata dal fatto stabilito nell’altra premessa. La conclusione
è per conseguenza derivata da una delle due premesse sostituendo o un nuovo predicato al soggetto
della premessa, oppure un nuovo predicato al predicato della premessa, o anche per mezzo di
ambedue le.sostituzioni. […] La conclusione è denotata dalla formula

S è P. (CP 5.278-5.279)

Com’è evidente, la struttura “soggetto-predicato”, attraverso cui si


predicano proprietà “P” di una sostanza “S”, è posta alla base della teoria
dell’inferenza su cui si fonda la semiotica dei saggi anti-cartesiani. È anzi il
processo di sostituzione di determinate proprietà predicate di un soggetto ciò
che determina il genere comune in grado di ricondurre i tre differenti tipi di
ragionamento all’unità di un unico modello. La teoria dell’inferenza pareva a
Peirce una buona mappa del processo continuo delle cognizioni semiotiche
per due ragioni: i) da un lato definiva uno sviluppo processuale dalle
premesse alla conclusione; ii) dall’altro questo sviluppo processuale
permetteva il concatenamento e la sostituzione di determinati caratteri
(proprietà) predicati di un soggetto (sostanza), sostituzione che poteva
portare a compimento il processo di riduzione del molteplice a unità fondato
nella “New List of Categories”. È cioè soltanto attraverso un modello
inferenziale che una teoria della riduzione del molteplice ad unità può
diventare una completa teoria semiotica della cognizione (CP 5.267-5.268);
ma è solamente a partire dalla struttura “soggetto-predicato” che una teoria
dell’inferenza può venire costruita (CP 5.278-5.279). La teoria dell’inferenza
e la predicazione di proprietà attraverso un modello proposizionale di tipo
“soggetto-predicato” sono irriducibilmente legate, e il secondo rappresenta
la condizione di possibilità della prima.
Tuttavia, non solo questo modello verrà presto abbandonato, ma fin dai
saggi anti-cartesiani, Peirce stesso non sembrava del tutto convinto che il
modello “predicativo” dell’inferenza potesse rappresentare una buona mappa
del processo continuo delle cognizioni semiotiche.
È come se un uomo si rivolgesse a un rilevatore di terreni così: “Lei non fa una vera
rappresentazione del terreno; misura solo lunghezze da un punto all’altro. […] Perciò, fallisce
completamente nel rappresentare la terra”. Il rilevatore, penso, risponderà: “Signore, lei ha provato
che le mie linee non possono costruire la terra, e che, perciò, la mia mappa non è la terra. Non ho
mai preteso che lo fosse. Ma ciò non le impedisce di rappresentare veramente la terra, fino a dove
arriva. Non può, in verità, rappresentare ogni stelo d’erba; ma non rappresenta che non ci sia uno
stelo d’erba dove c’è. Astrarre da una circostanza non è negarla”. […] Ora, questa linea di
obiezione è parallela a quella fatta contro il sillogismo. Si mostra che nessun numero di sillogismi
può costituire la somma totale di qualsiasi azione mentale, comunque ristretta. Questo può essere
liberamente concesso, e tuttavia non ne segue che il sillogismo non rappresenta veramente l’azione
mentale, nella misura in cui professa di rappresentarla. Vi è ragione di credere che l’azione della
mente sia un movimento continuo. Ora, la dottrina incorporata nelle formule sillogistiche (nella
misura in cui si applica davvero alla mente) è che, se prendiamo due posizioni successive occupate
dalla mente in questo movimento, si troverà che hanno certe relazioni. È vero che nessun numero
di successioni di posizioni può costituire un movimento continuo; e questo, suppongo, è ciò che si
intende dicendo che un sillogismo è una formula morta, mentre il pensiero è un processo vivente.
Ma la replica è che il sillogismo non è inteso rappresentare la mente rispetto alla sua vitalità o
inerzia, ma solo rispetto alla relazione dei suoi differenti giudizi riguardanti la stessa cosa. (CP
5.329)

Il problema è che a un certo punto sarà esattamente questa relazione


incarnata nel modello inferenziale del giudizio a sembrare radicalmente
inadeguata a Peirce, tanto da spingerlo a elaborare: i) una nuova teoria delle
relazioni a partire da un differente modo di pensare la struttura della
proposizione (“Logica dei Relativi”) e ii) una nuova teoria dell’emersione di
una cognizione a partire dal flusso continuo della mente (“Sinechismo”
come “legge della mente”). Questi due nuovi modelli verranno a sostituire
rispettivamente la teoria della “New List” e il modello inferenziale delle
“Consequences” (cfr. CP 6.103). Perché non solo è evidente come fin dai
saggi anti-cartesiani il modello dell’inferenza per Peirce fosse valido
soltanto in negativo (esso “non dice che c’è un filo d’erba dove non c’è”),
ma è assolutamente evidente come esso non fosse inteso essere nulla più che
una mappa più o meno grossolana di quel processo continuo della “mente”,
di cui finalmente si è ora in grado di fornire la legge.56
Come pensare allora questo processo di emersione di un evento a partire
dal flusso continuo delle cognizioni che rappresentano lo sfondo di ciò che si
fa presente alla mente (segno)? Come pensare questa “irruzione di una
nuova esperienza” che “non è mai un fatto istantaneo, ma è un evento che
passa attraverso un processo continuo”? Come pensare “il suo emergere
nella coscienza”, che non può essere altro che “il coronamento di un
processo di crescita” (cfr. CP 5.284)?
Per la teoria delle categorie fondata sulla Logica dei Relativi, e cioè su
una teoria evenemenziale della proposizione, un evento è una Primità, e cioè
“l’emergere di qualcosa di nuovo” (CP 6.203). Se non che in Peirce le
Primità “non nascono isolate; perché se lo facessero, niente potrebbe unirle.
Esse nascono in reazione le une con le altre, e dunque in una specie di
esistenza” (CP 6.199). È ancora una volta molto chiaro l’atteggiamento
“strutturale” del Peirce posteriore alla Logica dei Relativi. L’emergere delle
Primità attraverso il loro opporsi le une alle altre (Secondità) per Peirce è un
evento (CP 6.200), e cioè una singolarità, un punto in cui succede qualcosa.
Come emergono allora queste singolarità/Primità che definiscono degli
eventi? Esse non nascono forse esattamente a partire da un flusso continuo di
regolarità che ne rappresenta lo sfondo?
Per Peirce all’interno di una serie regolare si crea una tendenza, anch’essa
assolutamente regolare (CP 6.63), a distinguersene. In questo modo la
spontaneità della Primità, di cui Peirce sottolinea la natura irregolare e
singolare (CP 6.54), non si dimostra essere altro che uno scostamento
infinitesimale dalla legge e dalla regolarità a partire dalla quale si produce
(CP 6.59). Peirce chiama abito, o Terzità, questa stessa regolarità a partire
dalla quale è possibile generare la spontaneità singolare delle Primità nel
loro opporsi le une alle altre (Secondità), e “tale abito si presenta come una
tendenza a generalizzare; come tale è una generalizzazione, cioè un generale,
cioè un continuum o una continuità” (CP. 6.204):
Se supponiamo che […] vi siano scostamenti dalla regolarità fortuiti e quasi insensibili, essi
produrranno, in generale, effetti ugualmente minuscoli. Ma in una condizione estremamente
instabile, ed è questa una caratteristica dell’equilibrio instabile, […] cause estremamente
minuscole possono produrre effetti sorprendentemente ampi. Qui, dunque, gli usuali scostamenti
dalla regolarità saranno seguiti da altri molto grandi, e gli ampi e fortuiti scostamenti dalla legge
così prodotti tenderanno ancor più a spezzare le leggi, supponendo che queste abbiano la natura di
abiti. (CP 6.264)

Cioè in qualche modo la spontaneità stessa dell’evento, la spontaneità


dell’emergere di qualcosa di nuovo (Primità) non è altro che l’abito di una
serie regolare (Terzità) a differenziarsene in determinati punti: il singolare
emerge sempre dal regolare, da cui si distacca in funzione di un effetto di
instabilità. Cento anni dopo, la semiofisica di René Thom verrà costruita
esattamente su questo principio costitutivo del sinechismo di Peirce (cfr.
Thom, 1988), tanto che la vicinanza tra le due teorie è spesso stata
sottolineata e giudicata “stupefacente” (cfr. Salanskis e Sinaceur, 1991).
Va allora sottolineato come il pattern categoriale che emerge dal
sinechismo peirciano (Terzità-Secondità-Primità) rovescia completamente
quello di “On a New List of Categories” (Primità-Secondità-Terzità),
conformemente alla rivoluzione della Logica dei Relativi: le triadi sono i
relativi primitivi, e solamente a partire dalla loro regolarità è possibile
generare diadi (opposizioni) e monadi (eventi). A livello cognitivo-
esperienziale, questo significa che noi percepiamo e ci comportiamo sempre
in base a regolarità esperienziali, ad abiti percettivi e interpretativi condivisi
e regolari; e solamente a partire da essi è possibile generare nuovi eventi,
percezioni, sensazioni e cognizioni che si fanno presenti alla mente (segni).
Ci occuperemo dettagliatamente di questo aspetto nel seguente capitolo, ma
fin da subito sarà utile fare un esempio, ormai divenuto celebre e dibattuto
nella tradizione semiotica.
Prendiamo la sensazione di dolore che emerge dallo scottarsi con la
caffettiera durante la colazione del mattino, su cui Eco (1997, 2007)
costruisce la sua teoria dell’iconismo primario, di cui ci occuperemo nel
capitolo 4. Ovviamente, così come per Eco, anche per Peirce la sensazione
di bruciore della caffettiera è una Primità, e cioè “l’emergere di qualcosa di
nuovo”. Tuttavia, dal momento che le Primità non nascono isolate, la
sensazione di dolore che emerge nell’esempio del caffè mattutino (Primità) è
una qualità che emerge da uno sfondo di abitudini esperienziali (alzarsi la
mattina, prendere la caffettiera, metterla sul fuoco, non mettere il gas troppo
alto, posizionare la caffettiera nel punto giusto: tutta una sintassi di abiti e di
regolarità dell’esperienza quotidiana). Ecco allora che la sensazione di
dolore (Primità) sorge a partire da uno sfondo d’abitudini (Terzità) che non
la implicavano (non è regolare provare dolore nello script della colazione) e
può sorgere solo in opposizione (Secondità) a questo sfondo di abiti. Com’è
evidente, anche a livello cognitivo ritroviamo il pattern della Logica dei
Relativi: sulla base di una serie di regolarità e abitudini che definiscono le
“leggi” della mia colazione del mattino (Terzità), può crearsi una tendenza a
distinguersene, da cui emerge qualcosa di nuovo, qualcosa che la regolarità
del sistema locale non prevede. La Primità è un evento di questo tipo, che
sorge in opposizione (Secondità) a uno sfondo regolare e continuo di Terzità.
Poi essa stessa potrà stabilizzarsi e divenire regolare all’interno di un sistema
nel quale originariamente non lo era.
In questo modo, ogni Primità non è altro che l’interruzione di una serie
regolare e continua (Terzità), da cui emerge opponendovisi (Secondità),
come una figura emerge opponendosi al suo sfondo. Proprio per questo
Peirce poteva dire che le “Consequences” rappresentavano la prima parte
della teoria del sinechismo, dal momento che il modello delle
“Consequences” consisteva proprio nel pensare alla cognizione che si fa
presente alla coscienza come al “coronamento di un processo di crescita”,
che a sua volta “passerà attraverso un processo continuo” (CP 5.284).
L’analisi logica applicata ai fenomeni mentali mostra che c’è una sola legge della mente, vale a
dire, che le idée tendono a diffondersi in modo continuo e influenzarne certe altre che stanno con le
prime in una particolare relazione di influenzabilità. In questo diffondersi esse perdono intensità e
specialmente capacità di influenza sulle altre, ma guadagnano in generalità e si fondono con altre
idee. (CP 6.104)

Ecco allora che questo modello sinechistico diventa il sostituto peirciano


del modello inferenziale delle “Consequences”, di cui è esplicitamente
pensato essere un “miglioramento” (CP 6.103): entrambi assolvono infatti lo
stesso identico compito, e cioè quello di spiegare come si passa da un’idea a
un’altra all’interno di un processo continuo delle cognizioni. È infatti
evidente come il sinechismo peirciano si fondi costitutivamente sulla
rivoluzione della logica dei relativi: non solo infatti la sua teoria delle
categorie ne mima il pattern, ma è proprio la continuità come principio
costitutivo dell’emersione degli eventi a essere connessa a una logica delle
relazioni, e in particolar modo alla Terzità.
La continuità è semplicemente ciò che la generalità diventa all’interno della logica dei relativi. (CP
5.436)
Il principio di continuità è il coronamento della logica dei relativi. Alla luce della logica dei
relativi, il generale deve essere visto esattamente come il continuo. (CP 8, bibliography)
La continuità è pensata essere attraverso la logica delle relazioni nient’altro che un tipo superiore
di ciò che conosciamo sotto il nome di generalità. Si tratta di una generalità relazionale. (CP 6.190)
Vediamo che nessun continuum perfetto può essere definito da una relazione diadica. Ma se
prendiamo al contrario una relazione triadica, e diciamo A è r a B per C, diciamo che procedendo
da A in un senso particolare, diciamo verso destra, raggiungiamo B prima di C; è dunque evidente
che un continuum risulterà essere una specie di linea che ritorna su se stessa senza alcun tipo di
discontinuità qualsivoglia. (RLT, p. 250)

Il sinechismo, anche nella sua forma meno rigorosa, non può sopportare alcun dualismo. Esso non
vuole sterminare la concezione del due […]. Ma il dualismo nel suo vero e più esplicito significato,
come filosofia che taglia le sue analisi con un’accetta, interpretando come elementi ultimi pezzi
irrelati di essere, questo sì è massimamente ostile al sinechismo. (EP2, p. 2)

Ecco allora che, così come tutte le relazioni di qualsiasi valenza potranno
essere generate a partire dalle triadi, così qualsiasi evento potrà essere
generato solamente a partire dalla legge di continuità che definisce “la legge
della mente”, secondo il movimento che abbiamo appena esplicitato.57
La tradizione semiotica ci pare allora aver completamente ignorato le
rivoluzioni peirciane del sinechismo e della Logica dei Relativi, ergendo a
modello unico della sua semiotica quello del giovane Peirce. Da qui
l’importanza eccessiva attribuita alla teoria dell’inferenza, che il Peirce
maturo riformerà e ripenserà completamente (cfr. infra, 1.8), e l’importanza
nulla attribuita invece alla fenomenologia (faneroscopia), alla Logica dei
Relativi e al sinechismo. Tuttavia, è del tutto evidente come, a un certo
punto, Peirce modifichi radicalmente quella concezione della sua semiotica
che è stata invece elevata a modello unico dalla tradizione semiotica
“maggiore”. Peirce rifiuta cioè proprio quello che nel suo modello giovanile
gli pareva invece adeguato, e cioè pensare al pensiero che si fa presente alla
mente (segno) come a un evento che emerge da uno sfondo continuo e
pensare al contempo a questa stessa emersione come al rapporto tra la
conclusione e le premesse di un sillogismo fondato sulla predicazione di
proprietà. L’emersione dell’evento a partire da uno sfondo continuo doveva
allora essere fondata su basi nuove rispetto a quelle che definivano
un’unificazione del molteplice attraverso la predicazione di proprietà P di
una sostanza S (modello della “New List”), secondo una catena inferenziale
che passasse da una predicazione a un’altra (modello delle “Consequences”).
Al fine di delineare i tratti di questa emersione, Peirce farà riferimento
ancora una volta alla logica della proposizione, ma questa volta sarà in grado
di abbandonare la “sintassi ariana” e pensare all’evento che si fa presente
alla coscienza (segno) come a qualcosa sul tipo del “donare”, del “piovere”,
dell’“amare”, del “provare dolore”: eventi molto variabili che aprono delle
posizioni di soggetto che definiscono una rete di relazioni che permette di
determinare l’identità dei “soggetti” coinvolti (correlati). E questo con alcuni
cambiamenti radicali rispetto alla teoria “soggetto-predicato” della “New
List”.

- L’evento espresso nella proposizione infatti non unifica nulla né riduce in


alcun modo una molteplicità data (così nella “New List”), ma fa solo
emergere in primo piano una determinata rete di relazioni a partire da uno
sfondo continuo, rete di relazioni che sola rende possibile
l’individuazione di una sostanza e la rimanda a un’altra rete di relazioni
che la interpreta, definendone l’identità.
- La scoperta della Logica dei Relativi, col primato genetico della Terzità e
la sua contemporanea irriducibilità a monadi e diadi, è infatti la scoperta
di una molteplicità irriducibile a dei semplici rapporti tra coppie così
come alla sintesi di unificazione dell’uno. Perchè con “Primità”,
“Secondità” e “Terzità”, Peirce non vuole affatto dire “1”, “2”, “3”, bensì
“1”, “2”, “più di 2”; perché tutto ciò che è “più di due” è generabile a
partire dal “3”. La scoperta della Terzità è la scoperta di una molteplicità
irriducibile sia all’unità che alla binarietà. “Terzità”, ovvero, “molteplicità
irriducibile all’uno così come alle coppie duali dei due”.

Pare allora assolutamente evidente l’estrema lontananza rispetto al


modello della “New List”, in cui le categorie venivano invece introdotte
proprio per “ridurre il molteplice a unità” attraverso la proposizione. Allo
stesso tempo, la Logica dei Relativi pare invece vicina a certe pagine di
Hjelmslev analizzate in precedenza in cui, attraverso l’introduzione di triadi
relazionali, Hjelmslev introduceva molteplicità a n termini irriducibili a
rapporti binari. Di sicuro, essa definisce un pensiero della complessità, in cui
una molteplicità non deve necessariamente essere ridotta o ricondotta a
unità, bensì deve essere se mai interpretata (cfr. infra, 1.7).
Insomma, con la Logica dei Relativi, è lo stesso pensiero di Peirce a
cambiare statuto e a diventare meno kantiano (le categorie come riduzione
del molteplice a unità) e più strutturalista (le categorie come espressione di
un sistema relazionale di cui si tratta di delineare “la logica”). In questo
modo, la relazione diventa costitutiva dell’identità dei termini, tanto che per
determinare l’identità di qualcosa non è affatto possibile predicarne delle
proprietà (così nella “New List”), bensì occorre definire il sistema
relazionale delle posizioni che quella cosa si trova a occupare all’interno di
un sistema locale definito da un evento (“il dare”, “l’amare”, “il provare
dolore” ecc.).
Non è infatti un caso che il modello categoriale della “New List” parta
dalla sostanza espressa dal soggetto della proposizione e si sviluppi secondo
il movimento 1 (qualità), 2 (relazione) e 3 (rappresentazione); là dove il
modello della Logica dei Relativi parta dall’evento espresso dal verbo e si
sviluppi secondo il movimento 3 (la triade come relativo primitivo), 2
(diade) e 1 (monade). Questa differenza esprime esattamente il passaggio dal
primato della qualità sulla relazione all’interno di un modello sostanzialista
della predicazione di proprietà (qualità); al primato della relazione sulla
qualità all’interno di un modello sistemico, in cui la sostanza è sempre
l’effetto di una combinazione di relazioni.
In “On a New List of Categories”, infatti, Peirce poneva innanzi tutto la
qualità come prima categoria intermedia tra la sostanza e l’essere,
conformemente al modello soggetto-predicato utilizzato. Se la sostanza
corrisponde al soggetto della proposizione e l’essere alla copula, è infatti
innanzi tutto la qualità, che corrisponde al predicato, ciò che consente di
operare la riduzione del molteplice ad unità. La relazione (Secondità) e la
rappresentazione (Terzità) erano infatti categorie successive alla qualità
(Primità) e da essa dipendevano irriducibilmente, tanto che ne potevano
essere prescisse, là dove non era affatto vero il contrario. Nella “New List”
la relazione poteva essere pensata senza la rappresentazione e la qualità
senza la relazione, ma né la rappresentazione (3) né la relazione (2) potevano
essere pensate senza la qualità (1). Per questo, i) il riferimento a un correlato
poteva essere prescisso dal riferimento a un interpretante; ii) il riferimento a
un ground poteva essere prescisso dal riferimento a un correlato; iii) ma né il
riferimento a un interpretante né il riferimento a un correlato potevano essere
prescissi dal riferimento a un ground (cfr. CP 1.545-1.559).
Come detto, nella Logica dei Relativi, Peirce invertirà completamente
questa sintassi che pone le Terzità in funzione delle Secondità ed entrambe
in funzione delle Primità: le triadi saranno i relativi primitivi e a partire dalle
triadi sarà possibile generare diadi e monadi, senza che sia mai possibile fare
invece il contrario.
È davvero strano come la maggioranza dei commentatori del pensiero di
Peirce58 non si sia resa conto di come, solamente pochi anni dopo, la Logica
dei Relativi venisse a stravolgere completamente quel modello inferenziale
basato sulla predicazione di proprietà e sulla riduzione a unità di un
molteplice, che Peirce proponeva tra il 1866 e il 1868. Come speriamo di
aver mostrato, nel momento in cui la semiotica verrà fondata sulla Logica
dei Relativi – e non più sulla teoria dell’inferenza – il modello del segno non
servirà infatti più a ridurre una molteplicità a unità secondo la forma
proposizionale e inferenziale del giudizio (S è P). Al contrario, esso servirà
invece a ricondurla a un’altra molteplicità che la interpreta in funzione della
sua struttura relazionale definita dall’evento espresso da un verbo. La
semiotica di Peirce si trasforma così da inferenziale a evenemenziale, tanto
che le tre categorie che definiscono “tutto ciò che si fa presente alla mente”
(segno) non sono più qualità, fatto e rappresentazione all’interno di un
processo di unificazione di un molteplice (così nella “New List”). Al
contrario, esse diventano evento (Primità), relazione (Secondità) e abito
(Terzità), all’interno di un processo fenomenologico di emersione di un
evento con la sua forma di relazione a partire da uno sfondo di abiti regolari.
Ecco allora che una molteplicità non deve più essere ricondotta a unità, ma
deve invece essere interpretata, e cioè ricondotta all’operazione che si
compie nel momento in cui si dispone di posti e di posizioni tra i quali gli
elementi possono spostarsi, dislocarsi e ricollocarsi.
Questo movimento topologico dell’interpretazione è allora
costitutivamente anti-logico, e cioè irriducibile a quel modello di “inclusione
in classi” che per Peirce definiva la teoria dell’inferenza, e cioè ciò che la
teoria semiotica ha sempre inteso per la “logica” di Peirce. Di un elemento
non si cerca cioè la regola, non si cerca ciò che ne fa il caso di quella regola,
non si cerca il type che lo rende un token,59 ma lo si rimanda invece a un
altro token che lo interpreta sotto un certo rispetto in base ad alcune
regolarità (abiti). La trasformazione della semiotica da inferenziale a
evenemenziale implica il passaggio da un movimento “verticale” del
“portare sotto regole” o “sotto concetti” al movimento processuale di
traduzione di un’occorrenza segnica in un’altra occorrenza segnica che la
interpreta in base a regolarità, e non a regole (cfr. Sini, 2004). Vedremo in
1.7 come Peirce chiamerà interpretazione questo movimento di passaggio da
token a token: il suo esempio prototipico sarà la traduzione, in cui un testo-
occorrenza interpreta un altro testo-occorrenza in base a regolarità
linguistiche ed enciclopediche locali. Il movimento dell’interpretazione
peirciano è costitutivamente trasduttivo e non abduttivo, se per abduzione si
intende il movimento logico che fa di un’occorrenza il caso di una
determinata regola=x all’interno di un modello di riduzione del molteplice a
unità. Era esattamente questo il modello dell’abduzione (ipotesi) dei saggi
anticartesiani:
L’ipotesi può essere definita come un argomento che procede dall’assunzione che un carattere che
è noto implicarne necessariamente un certo numero di altri può essere predicato di ogni oggetto
che ha tutti i caratteri notoriamente implicati da questo carattere. Esattamente come l’induzione
può essere considerata quale inferenza della premessa maggiore di un sillogismo, così l’ipotesi può
essere considerata quale inferenza della premessa minore dalle altre due proposizioni. […] La
funzione di un’ipotesi è di sostituire a un’ampia serie di predicati che non formano alcuna unità un
singolo predicato (o un piccolo numero) che li implica tutti, insieme (forse) a un numero indefinito
di altri predicati. Perciò anche l’ipotesi è una riduzione della molteplicità a unità. (CP 5.276)

Ma, come abbiamo visto, non solo questo modello della riduzione della
molteplicità a unità fondato sulla predicazione verrà presto abbandonato, ma
l’abduzione stessa verrà profondamente riformata da Peirce, al fine di
renderla adeguata al movimento processuale e traduttivo che è proprio
dell’interpretazione. Lavoreremo estensivamente su questo punto in 1.7 e in
4.11. Per il momento, dobbiamo invece trarre le fila da queste nostre tre
letture “minori” e proporre qualche considerazione in positivo.
1.6. Un empirismo trascendentale e un modello “escheriano”: la
semiotica interpretativa come sintesi disgiuntiva tra Peirce e Hjelmslev

Nell’introduzione mostravamo come l’impresa stessa di una semiotica


interpretativa consistesse nel tenere insieme le prospettive di Peirce e
Hjelmslev. Tuttavia, come voleva Eco (1997, pp. 217-218), affinché questa
impresa non fosse costitutivamente sincretica, occorreva a nostro parere
ripensare radicalmente l’immagine standard che le teorie di questi autori
avevano assunto nella tradizione semiotica. È infatti lo Hjelmslev della
“Struttura generale delle correlazioni linguistiche” e del Résumé quello che
può essere tenuto insieme con il Peirce della Logica dei Relativi e del
Sinechismo. Se i) Hjelmslev fosse quello della teoria dizionariale della
forma del contenuto e Peirce quello di “On a New List of Categories”, ii) se
Hjelmslev fosse quello delle opposizioni logico-algebriche dei Prolegomena
e Peirce quello “formalmente” logico-inferenziale, iii) se la semiotica di
Hjelmslev fosse quella binarista fondata sul principio empirico e la semiotica
di Peirce quella “rappresentazionalista” che partiziona metafisicamente un
piano di realtà (oggetti) e un piano di rappresentazioni “illimitate” di questa
stessa realtà (segni e interpretanti), non ci sarebbe per noi alcun tipo di
relazione possibile.60 Per questo la semiotica interpretativa passa – e doveva
passare – da una serie di riletture “minori”, e cioè devianti rispetto
all’immagine standard che la tradizione semiotica ci restituisce dei suoi padri
fondatori. Tuttavia, sebbene ci pare di aver recuperato ora una serie di luoghi
teoretici capaci di restituire un’immagine più euristica dei lavori di Peirce e
Hjelmslev, non abbiamo ancora mostrato il modo in cui sia possibile “tenerli
insieme”. È allora esattamente questo l’obiettivo della seconda parte di
questo capitolo, che proveremo ad affrontare i) a livello metodologico (1.6);
ii) a livello di una teoria dell’enciclopedia (1.6), e infine iii) a livello di una
teoria del valore (1.7). Il centro del nostro problema si sposta quindi ora da
“Peirce” e da “Hjelmslev” all’individuazione dei tratti attraverso i quali sia
possibile “tenerli insieme”, in una sintesi disgiuntiva.

Sono famosi i dualismi hjelmsleviani: espressione/contenuto,


materia/forma, semiotica/metasemiotica, metasemiotica/metasemiologia,
intensivo/estensivo ecc. Lo stesso sistema di definizioni che Hjelmslev mette
in opera nel Résumé, con tutta una ripartizione duale tra definizioni e
principi da un lato e regole e applicazioni dall’altro, testimonia il suo gusto
per i dualismi, per le opposizioni e per le funzioni tra le coppie così
individuate. Ma qual è allora il loro senso? Qual è il senso profondo di
questo gusto propriamente hjelmsleviano per i dualismi? Sempre e soltanto
quello di dividere un misto secondo le articolazioni individuate
arbitrariamente e adeguatamente dalla teoria glossematica. La dissezione
glossematica, sia essa analisi o frammentazione, è allora innanzi tutto un
metodo di divisione, di partizione, un’arte del taglio di ciò che si manifesta
nell’esperienza. Certo, Hjelmslev non ignora che le cose si mescolano nella
realtà: di fatto l’esperienza non ci offre che materie formate, espressioni di
contenuti, termini che concentrano la significazione proprio perché altri la
diffondono sull’intera categoria, ma è la teoria glossematica che deve essere
in grado di dividere questo misto, al fine di distinguere al suo interno quegli
elementi costitutivi che differiscono in natura. Posto di fronte a ciò che di
fatto si manifesta nell’esperienza, il linguista glossematico deve cioè essere
in grado di oltrepassare questi misti verso quelle loro articolazioni che non
esistono che di diritto. Sarà solo a partire da queste articolazioni
propriamente glossematiche che, secondo Hjelmslev, sarà infatti possibile
rendere conto dei fatti e delle teorie linguistiche, così come noi le
conosciamo a partire dall’esperienza (cfr. P, p. 136).
Allo stesso modo sono famose le tripartizioni peirciane:
segno/oggetto/interpretante, deduzione/induzione/abduzione,
Primità/Secondità/Terzità, icona/indice/simbolo ecc. Lo stesso Peirce
sottolinea in più punti il suo gusto per le tripartizioni e per la volontà di
creare isomorfismi triadici e diagrammatici tra le differenti dimensioni del
suo pensiero. Qual è allora il senso di questo gusto “compulsivo” per un
andamento triadico del pensiero che ha Peirce? Qual è il senso di questo
gusto per la mediazione e di questo amore per la categoria del trovarsi-
interposto e dello “stare-tra” (Terzità)? Sempre quello di tenere insieme cose
che si oppongono e che, da un altro punto di vista categoriale (Secondità),
risultano essenzialmente separate. Occorre qui riferirsi proprio alla Logica
dei Relativi. Come detto, a partire dai relativi triadici è possibile generare
qualsiasi altro tipo di relazione, così che per “pensare”, nel suo triplice senso
logico, semiotico e faneroscopico, per Peirce c’è bisogno di strutture formali
di tipo triadico e di niente di più complesso o di più semplice. Una relazione
triadica insomma tiene insieme tutte le altre, che possono venire generate a
partire da un suo dispiegamento. Essa le con-tiene in sé, tanto che tra loro
esse differiscono solamente in grado, essendo tutte effetto del dispiegamento
di una triade. Non è allora un caso se Peirce connette in modo esplicito il suo
gusto per le architetture triadiche con il sinechismo, e cioè con la dottrina
filosofica del connettere o del rendere continue delle parti. Come detto, una
relazione triadica è infatti l’unica attraverso la quale sia possibile definire la
continuità (RLT, p. 250), e la continuità non è altro che un cum tenere, un
tenere assieme cose diverse, riconoscendo che le loro differenze sono
solamente di grado.
Ecco allora un primo punto fermo: il gusto hjelmsleviano per i dualismi ci
insegna a dividere, a reiterare continuamente una medesima funzione di
taglio, al fine di ritrovare delle differenze di natura al di là dei misti che si
danno nell’esperienza; mentre il gusto peirciano per le tripartizioni ci invita
invece a tenere insieme, a produrre sintesi tra cose diversissime, al fine di
ritrovare differenze di grado al di qua di ciò che sembra invece differire in
natura (cfr. infra, 1.7). Del resto, la stessa differenza tra analisi e
interpretazione ci spinge in questa direzione: “analizzare” in Hjelmslev è
sempre dividere, partizionare; là dove “interpretare” in Peirce è sempre
produrre un segno interpretante, e cioè una rappresentazione mediatrice che
tenga insieme la propria prospettiva su un oggetto, connettendola a quella di
un altro segno di cui essa è l’interpretante.
Ma è tutto veramente così semplice? È cioè possibile ripartire in modo
così netto le prospettive che si tratta invece essenzialmente di tenere
insieme? Ecco allora che il nostro obiettivo di fondo ci suggerisce di scavare
più in profondità, al fine di costruire una vera e propria “sintesi disgiuntiva”
tra le due posizioni.
Un primo elemento in grado di spingerci al di là di questa ripartizione
consiste allora essenzialmente in questo: per entrambi si parte innanzi tutto
da un continuum. In Hjelmslev infatti è continuo qualsiasi elemento che sia
precedente a un’analisi glossematica, dal momento che l’analisi consiste
proprio nel fare tagli in questo continuo, dividendolo in coppie di elementi
duali propriamente glossematici che non sono tratti dall’esperienza
(espressione/contenuto, materia/forma ecc.):
Figura 5. Résumé of a Theory of Language. : p. 6

Ma allo stesso modo, anche in Peirce il flusso del pensiero è innanzi tutto
un continuum, ed è innanzi tutto il metodo della filosofia a reperire in questo
flusso continuo delle posizioni che siano in grado di ricostruirlo al di là di
ciò che si manifesta nell’esperienza (cfr. CP 5.329, W1, p. 351). Ecco allora
che per Peirce le posizioni individuate in questo continuum debbono
necessariamente essere tra loro in un rapporto triadico, dal momento che
solamente una relazione triadica è in grado di definire e di produrre un
continuum. In questo modo, anche in Peirce la semiotica inizia innanzi tutto
con una divisione, con una procedura di analisi. Al di là dell’Oggetto
Dinamico che si dà nell’esperienza, Peirce scopre innanzi tutto l’Oggetto
Immediato, che è l’oggetto come esso si manifesta nello spazio semiotico
aperto dalla relazione triadica che tiene insieme segno, oggetto e
interpretante. Al di là del e del suo manifestarsi semioticamente
attraverso segni, oggetti e interpretanti, Peirce scopre innanzi tutto tre
dimensioni costitutive (Primità, Secondità e Terzità) che gli stessi elementi
semiotici incarnano e che definiscono il fenomeno nel suo costitutivo venire
alla presenza. Al di là del flusso continuo del pensiero (CP 5.329) e del darsi
della memoria (CP 6.107-6.111), Peirce scopre innanzi tutto delle posizioni
pure che il movimento della coscienza può occupare e che sono legate tra
loro in un rapporto di premesse/conclusione (CP 5.329). Ecco dunque che
logica e faneroscopia operano sul flusso continuo del pensiero e sullo spazio
di manifestazione del fenomeno le stesse identiche operazioni di divisione
che la semiotica opera sull’Oggetto Dinamico reperendo rapporti tra segni,
oggetti e interpretanti: esse ne individuano dei punti singolari
(premesse/conclusione; Primità/Secondità/Terzità), attraverso i quali essi
possono essere ricostruiti nelle loro forme di relazione al di là, o al di qua, di
ciò che di fatto si dà nell’esperienza.
Sia per Peirce che per Hjelmslev si parte dunque da ciò che di fatto si
manifesta nell’esperienza, lo si taglia in funzione di una serie di tendenze o
direzioni che non sono tratte dall’esperienza, al fine di ricostruire poi ciò che
si manifesta nell’esperienza attraverso queste condizioni pure che non
esistono che di diritto. In questo modo, le semiotiche di Peirce e Hjelmslev
sembrano identificare il loro metodo con una forma di analisi
trascendentale, che a loro modo rimanda a Kant.
Si è infatti spesso equivocato sul termine “trascendentale”. Tuttavia, la
definizione kantiana è estremamente rigorosa:
Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi in generale, non tanto di oggetti quanto del
nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori. […]
Ciò a cui principalmente si mira nella suddivisione di questa scienza è la radicale esclusione di
ogni concetto che contenga in sé qualcosa di empirico, ossia la completa purezza della conoscenza
a priori. (CRP, A 11, B 25; A 15, B 29)

“Trascendentale” è dunque il metodo della conoscenza a priori. I caratteri


dell’a priori sono l’universale e il necessario (CRP, A 2, B 4), ma la
definizione kantiana dell’a priori è: “Indipendente da qualsiasi esperienza”
(CRP, B 3). È infatti possibile che l’a priori si applichi all’esperienza (CRP,
B 1) ed è altresì necessario che esso ne risulti in qualche modo adeguato
(CRP, A 93-94, B 125-127); tuttavia l’a priori non deriva però
dall’esperienza:
l’esperienza ci insegna il modo in cui una cosa è fatta, ma non che essa non può essere fatta
diversamente. […] In secondo luogo, l’esperienza non conferisce mai ai suoi giudizi una
universalità autentica e rigorosa, ma semplicemente una universalità presunta e comparativa (per
induzione) sì che si deve propriamente dire: stando a quanto abbiamo finora osservato, non risulta
alcuna eccezione a questa regola. […] Necessità e rigorosa universalità sono pertanto i segni sicuri
della conoscenza a priori. (CRP, B 4)

La definizione kantiana è dunque derivata: l’a priori si definisce come


“indipendente dall’esperienza” proprio perché l’esperienza non ci dà mai
niente che sia autenticamente universale e necessario. Su questo Kant può
seguire Hume: “non quando constato ‘mille volte ho visto il sole sorgere’,
conosco, ma quando giudico ‘il sole sorgerà domani’, ‘ogni volta che
l’acqua arriva a 100°, comincia necessariamente a bollire’”.61 Secondo Kant
dunque, quando conosciamo diciamo di più di quel che ci è dato, andiamo
oltre i dati empirici dell’esperienza: “la più breve” non è infatti “un
comparativo o il risultato di un’induzione, ma una regola a priori per mezzo
della quale io costruisco una linea come linea retta. Ugualmente, causa non è
il prodotto di un’induzione, ma un concetto a priori attraverso il quale io
riconosco nell’esperienza qualcosa che accade”.62
A priori è dunque quella conoscenza che è indipendente da qualsiasi
esperienza; trascendentale definisce invece il metodo che supera
l’esperienza (fatto) verso quelle condizioni universali e necessarie che la
costituiscono di diritto.
È allora esattamente questo il metodo della glossematica. Non si tratta di
una dottrina né di un insieme di precetti, quanto dell’originalissimo punto di
vista in base al quale la teoria approccia il suo oggetto. Le sue regole
rigorose costituiscono ciò che Hjelmslev chiama la “scientificità” della
linguistica strutturale, che la “distingue immediatamente da ogni precedente
tentativo di filosofia del linguaggio” (P, p. 14).
Ci interessa chiarire la nostra posizione in quanto è diversa da quella della linguistica del passato.
Quest’ultima, nella sua forma tipica, sale, nella formazione dei suoi concetti, dai singoli suoni ai
fonemi (classi di suoni), dai singoli fonemi alle categorie di fonemi, dai vari significati singoli ai
significati generali o basilari, e da questi alle categorie di significati. In linguistica di solito
chiamiamo induttivo questo procedimento. Esso si può definire brevemente come un progresso dal
componente alla classe, non dalla classe al componente. (P, p. 14)

Come Peirce, al fine di poter fondare un’epistemologia autenticamente


semiotica, anche Hjelmslev dovrà uscire dal modello dell’“inclusione in
classi”. E lo farà attraverso una profonda riformulazione del concetto di
classe (cfr. infra, 1.7). Come Kant, al fine di poter fondare una conoscenza
che vuole autenticamente “scientifica”, anche Hjelmslev dovrà uscire
dall’universalità presunta e comparativa ottenuta per induzione
dall’esperienza. L’obiezione hjelmsleviana al procedimento induttivo
riguarda infatti la natura stessa delle classi costruite per induzione, che
rimarranno necessariamente intrise dell’empiria da cui provengono, tanto da
non poter in alcun modo venire utilizzate al di fuori dell’ambito da cui sono
state estratte:
I concetti così ottenuti non sono generali, e non sono perciò generalizzabili al di là di una singola
lingua in uno stadio particolare. […] Nessuno dei concetti grammaticali di classe ottenuti per
induzione […] è suscettibile di una definizione generale: genitivo, perfetto, congiuntivo e passivo
sono cose ben diverse in una lingua, per esempio il latino, e in un’altra, per esempio il greco. Lo
stesso vale, senza eccezioni, per gli altri concetti della linguistica tradizionale. (P, p. 15)

Secondo Hjelmslev, conoscere un oggetto significa dunque sorpassare


necessariamente l’esperienza empirica, perché solo in questo modo sarà
possibile “produrre, in ogni sua applicazione, risultati che siano in accordo
con i cosiddetti dati empirici (reali o presunti)” (P, p. 13).
Se partiamo dai presunti dati empirici, sono proprio questi dati a imporci il procedimento opposto a
quello induttivo. Se a chi compie l’indagine linguistica qualcosa è dato […], ciò è il testo non
ancora analizzato, nella sua integrità indivisa e assoluta. L’unico procedimento possibile […] sarà
un’analisi in cui il testo sia considerato come una classe analizzata in componenti, poi tali
componenti siano considerati come classi analizzate in componenti, e così via fino ad esaurimento
dell’analisi. Questo procedimento si può dunque definire brevemente come una progressione dalla
classe al componente, non dal componente alla classe, come un movimento analitico e
specificante, non sintetico e generalizzante, come l’opposto dell’induzione nel senso tradizionale
della linguistica. (P, pp. 15-16)

Per il metodo glossematico, l’oggetto empirico che si dà nell’esperienza


(testo) deve dunque venire considerato come un tutto divisibile in parti.
Tuttavia, questa scomposizione dell’oggetto empirico nelle sue parti
componenti non dovrà seguirne le articolazioni naturali, ma dovrà procedere
in maniera “arbitraria”, ovvero “indipendentemente da qualsiasi esperienza”
(P, p. 17). I tagli effettuati sull’oggetto dovranno, infatti, seguire
esclusivamente le direzioni suggerite dalla teoria: solamente in questo modo
l’analisi glossematica potrà essere “adeguata”, e cioè “soddisfare le
condizioni di applicazione a un gran numero di dati empirici”.
L’anti-induzionismo hjelmsleviano assume così un senso del tutto
specifico: non partendo dalla classe (oggetto tagliabile) ma dal componente
(oggetto tagliato), la linguistica induttiva non proietta i suoi propri tagli
sull’esperienza linguistica e si limita così a utilizzare gli elementi già tagliati
che ritrova nell’esperienza (componenti). La linguistica induttiva non fa
tagli, ma astrazioni: per questo le è impossibile ritrovare la ragione dei misti,
le articolazioni costitutive di ciò che di fatto si manifesta nell’esperienza.
Arbitrarietà e adeguatezza sono dunque termini correlativi del metodo
glossematico: la teoria non potrà essere adeguata senza essere arbitraria.
Solamente in quanto indipendente da qualsiasi esperienza (arbitrario), il
metodo glossematico potrà infatti essere in grado di renderne conto
(adeguato). Da qui la sua natura trascendentale, che supera ciò che si
manifesta di fatto verso quelle sue articolazioni costitutive che non esistono
che di diritto.
Se infatti ciò che è dato a chi compie l’analisi linguistica è innanzi tutto il
testo come entità processuale e se il testo è innanzi tutto una classe che deve
essere analizzata, ogni analisi comincerà da un’operazione di divisione del
processo tale quale esso è realizzato nella manifestazione (cfr. Zinna, 2003,
p. 22). Tuttavia, ciò che si manifesta in Hjelmslev sono innanzi tutto le
sostanze (cfr. P, p. 63): dalla “sequenza sonora” al “testo”, dalla “frase
pronunciata con un certo accento” all’“evento significativo della mosca che
ronza nella stanza”,63 le sostanze definiscono sempre ciò che di fatto accade
nell’esperienza (cfr. Piotrowski, 1997, p. 158). Se è dunque la sostanza quel
fenomeno empirico che si manifesta di fatto, il metodo glossematico dovrà
allora essere in grado di tagliarlo nelle sue parti componenti che non esistono
che di diritto. Hjelmslev sa infatti perfettamente che l’esperienza non ci offre
altro che misti: ad esempio noi ci rappresentiamo la lingua come un insieme
di suoni e di significati (cfr. EL, p. 15-16) e continuiamo a porre i problemi
del linguaggio in funzione di categorie sostanziali derivate dall’empiria
(genitivo, perfetto ecc.). Tuttavia non è questo il problema più importante:
questa mescolanza non è infatti altro che la nostra esperienza, la nostra
stessa “rappresentazione”. Secondo Hjelmslev, il problema si pone invece
nel momento in cui è la linguistica a non essere in grado di tagliare e
scomporre questo misto nelle sue articolazioni componenti, e di ritrovare
così l’essenza stessa della lingua (pura forma) al di là dell’esperienza
empirica del linguaggio (sostanze).
il nostro metodo […] consiste nel porsi, empiricamente, sul terreno del linguaggio stesso,
delimitando nel modo più netto possibile i fatti linguistici da una parte, quelli non linguistici
dall’altra. (EL, p. 36)

Non saranno allora fatti linguistici le sostanze (ad esempio i suoni, i


caratteri della scrittura o le significazioni); non saranno fatti linguistici
neppure le materie non formate (ad esempio il flusso audioacustico o il
continuum del contenuto); saranno invece fatti linguistici quei reticoli di
relazioni sussistenti tra le unità manifestate empiricamente delle sostanze
(forme):
È una banalità dire, ad esempio, che l’italiano parlato, l’italiano scritto, l’italiano telegrafato
tramite il codice morse, l’italiano trasmesso con le bandierine secondo il codice internazionale
della marina, è in tutti questi casi una sola e medesima lingua e non quattro lingue differenti. Le
unità che la compongono differiscono da un caso all’altro, ma la rete di relazioni sussistenti tra
queste unità resta la stessa, ed è quella che permette di identificare la lingua: conseguentemente
deve essere questa rete l’oggetto principale e lo scopo primo della linguistica, mentre le sue
rappresentazioni concrete o le manifestazioni corrispondenti non hanno niente a che vedere con la
lingua in senso stretto. (EL, p. 16, cfr. P, pp. 110-111)

Ecco quindi per noi la prima parte del metodo della semiotica
interpretativa: partire da ciò che di fatto si manifesta nell’esperienza, al fine
di tagliarlo in n dimensioni che non esistono che di diritto e che sono
costituite da una serie di reticoli di relazioni che rendono possibile il fatto
che si manifesta nell’esperienza. Come detto, queste reti di relazioni
(sistemi) hanno per noi natura partecipativa (cfr. 1.4 e 1.7). Era esattamente
questa “l’analisi per dimensioni” che Hjelmslev proponeva nella “Struttura
generale delle correlazioni linguistiche”: pensare a ciò che si manifesta
nell’esperienza come l’incrocio di n dimensioni che ne costituiscono la rete
di relazioni soggiacente, definendone l’identità.
E tuttavia con una differenza fondamentale rispetto a Kant. Perché se è
vero che occorre superare ciò che di fatto si manifesta nell’esperienza verso
quelle condizioni che non esistono che di diritto, per la semiotica
interpretativa queste condizioni sono quelle però quelle dell’esperienza
reale, e non quelle dell’esperienza possibile. I tagli semiotici riguardano cioè
gli oggetti empirici manifestati e non quelli “manifestabili”. È esattamente
questo che ci spingeva ad allontanarci dallo Hjelmslev dei Prolegomena, che
voleva invece costruire la teoria del linguaggio che spiegasse non solo i testi
e le lingue già manifestati, bensì tutti i testi e tutte le lingue manifestabili in
linea di principio. Per la semiotica, le condizioni trascendentali devono
essere quelle dell’esperienza reale e non quelle dell’esperienza possibile. Da
qui l’attenzione che la semiotica ha sempre prestato alla costruzione del
corpus e, soprattutto, a un’analisi che renda conto del senso già manifestato.
Da qui il carattere generale e fallibile dell’analisi semiotica, che si
differenzia da quello universale e necessario proprio di un’analisi
trascendentale dell’esperienza possibile.
Nel Résumé, Hjelmslev oppone infatti l’universalità alla generalità e
mostra come, là dove un’operazione universale può essere “eseguita su
qualsiasi oggetto sotto tutte le condizioni”, un’operazione generale può
invece “essere eseguita su qualsiasi oggetto sotto certe condizioni, ma non
sotto tutte le condizioni” (R, Def. 1 e 2). Da qui l’ancoraggio al senso già
manifestato che rende soltanto generale l’attività del linguista, che vale solo
in circostanze date. Allo stesso modo, nel sinechismo, Peirce oppone
necessità e fallibilismo e mostra come una teoria semiotica della conoscenza
fondata sull’anti-intuizionismo e sull’interpretazione possa solo tendere alla
necessità, come fine ultimo dell’attività conoscitiva “in the long run”.
Perchè, a ogni singolo stato concreto dell’interpretazione, la “torcia della
verità” che “passa da interpretante a interpretante” può invece fornire
esclusivamente una conoscenza fallibile, che può cioè essere sempre diversa
da come crediamo (con buone ragioni) che sia. Da qui l’ancoraggio al senso
già manifestato che rende solamente fallibile l’attività del semiotico, che
vale solo in circostanze date. Generalità e fallibilismo sono cioè i tratti di ciò
che Eco (1983, pp. 356-359) chiamava la ragionevolezza semiotica, in
opposizioni alla forza universale e necessaria della Ragion Pura e dei
modelli semantici “forti”.
Ma tutto questo sembra comunque non bastare. Si tratta infatti soltanto
della prima parte del metodo, della prima parte della questione. Non basta
infatti individuare quella rete di relazioni che permette di determinare
l’identità di ciò che si manifesta di fatto nell’esperienza, ma si tratta anche di
determinare in quale modo l’oggetto analizzato risponda ai tagli eseguiti
dalla teoria.
Il realismo ingenuo suppone probabilmente che l’analisi consista semplicemente di una divisione
di un certo oggetto in parti, cioè in altri oggetti, e poi di questi in altre parti, cioè ancora in altri
oggetti e così via. Ma anche il realismo ingenuo dovrebbe scegliere fra vari possibili modi di
divisione. Appare ben presto in maniera chiara che ciò che importa non è la divisione di un oggetto
in parti, ma uno svolgimento dell’analisi conforme alle interdipendenze fra queste parti e che ne
renda conto adeguatamente. Solo così l’analisi diviene adeguata, e dal punto di vista di una teoria
metafisica della conoscenza si può dire che rifletta la “natura” dell’oggetto e delle sue parti. (P, p.
26)

Hjelmslev si inserisce così in una tradizione millenaria che va da Platone


fino a Bergson in cui il problema è quello di tagliare l’oggetto in maniera
adeguata.64 Da qui la vera essenza dell’analisi glossematica: ciò che conta
non è tanto l’oggetto con la sua natura né la teoria con le sue suddivisioni,
bensì il loro rapporto, e cioè che la struttura attraverso la quale l’analisi
divide il suo oggetto sia la stessa attraverso la quale quest’ultimo è a sua
volta organizzato.65 Se infatti la rete di relazioni individuata nell’analisi non
è tratta dall’esperienza, come evitare di fondarla su nient’altro che un
arbitrio illimitato? Come evitare che l’“oggetto” sfugga? Come mostrare che
esso risponde adeguatamente ai tagli arbitrari operati inizialmente dalla
teoria, e che dunque questi stessi tagli ne colgono le articolazioni costitutive?
Sperimentando un simile problema, nella Critica della ragion pura, Kant
faceva riferimento a due questioni fondamentali: la questione di fatto (quid
facti) e la questione di diritto (quid juris). Kant si chiedeva innanzi tutto:
qual è il fatto della conoscenza (quid facti)? Il fatto della conoscenza è che
noi possediamo determinate facoltà grazie alle quali giudichiamo: attraverso
le intuizioni gli oggetti ci sono dati (“posti nello spazio e nel tempo”),
attraverso i concetti essi sono pensati (“fissati essere così e non altrimenti”).
Tuttavia, in Kant la questione di fatto è semplicemente l’oggetto della
metafisica. Il fatto che lo spazio e il tempo siano intuizioni pure è appunto
l’oggetto di ciò che Kant chiama “l’esposizione metafisica dello spazio e del
tempo”; il fatto che l’intelletto disponga di concetti puri (categorie) che si
deducono dalle forme del giudizio è invece l’oggetto di ciò che Kant chiama
“la deduzione metafisica dei concetti puri dell’intelletto”. La grande rottura
di Kant nei confronti delle posizioni precedenti alla Critica della ragion
pura (si pensi ad esempio alla posizione humiana) avviene infatti attraverso
la questione di diritto. Secondo Hume noi conosciamo e comprendiamo
grazie a differenti facoltà della natura umana, principi cognitivi
d’associazione che sono propri delle nostre rappresentazioni. Kant trasforma
il problema: sono gli stessi oggetti che si presentano a noi (fenomeni) a
dover obbedire agli stessi principi che regolano il corso delle nostre
rappresentazioni. Sono gli stessi principi che debbono rendere conto sia dei
nostri processi cognitivi sia del fatto che il dato si sottomette a essi.
Per questo alla questione di fatto subentra una questione di livello
superiore: la questione di diritto. Non basta la constatazione di fatto che noi
possediamo determinate facoltà grazie alle quali conosciamo: bisogna ancora
spiegare perché e come il dato che si presenta nell’esperienza sia
necessariamente subordinato agli stessi principi che regolano l’operare delle
nostre facoltà. Per questo all’esposizione metafisica dello spazio e del tempo
segue un’esposizione trascendentale e alla deduzione metafisica delle
categorie una loro deduzione trascendentale. A questo livello,
“trascendentale” designa dunque il principio in base al quale l’esperienza è
necessariamente soggetta agli stessi principi che regolano le nostre
rappresentazioni, tanto che proprio all’interno della deduzione
trascendentale, Kant mostrerà come l’oggettività stessa sia l’effetto di una
costituzione operata dalle nostre facoltà, tanto che l’oggetto empirico che si
manifesta nell’esperienza viene definito come “ciò nel cui concetto è
unificato un molteplice intuitivo” (CRP, B 137).
È allora proprio in questo senso che l’impresa glossematica è all’origine
di una semiotica trascendentale e che il metodo deduttivo che le è proprio
definisce innanzi tutto una deduzione trascendentale. Una “deduzione” in
Hjelmslev non è infatti altro che l’iterazione di una serie di tagli, l’iterazione
di una serie di analisi: “partizione continuata” o “complesso di partizioni”
(R, Def. 17, P, p. 34):
L’esigenza di una descrizione esauriente impedisce che ci si fermi a una singola partizione del
testo; le parti che risultano da una singola partizione devono essere a loro volta assoggettate a
partizione, e così via fino ad esaurimento della partizione. (P, p. 33)

L’esaurimento della partizione si avrà allora quando l’analisi sarà capace


di ritrovare alla fine dei suoi tagli lo stesso oggetto da cui era partita
inizialmente. L’analisi potrà cioè dirsi adeguata quando sarà capace di
generare l’oggetto empirico che si manifesta nell’esperienza attraverso gli
oggetti teorici arbitrari della teoria glossematica.66

Figura 6: La forma dell’analisi glossematica

Se il testo è ciò che è dato al linguista (sostanza), il linguista considererà


allora questo oggetto che si manifesta nell’esperienza (sostanza) come un
oggetto propriamente glossematico, e cioè come una classe analizzabile in
componenti (P, pp. 15-16). Si effettuerà allora un doppio taglio volto a
individuare innanzi tutto le componenti dell’espressione e del contenuto da
un lato (P, pp. 64, 105) e quelle della materia e della forma dall’altro (NW, p.
303).
Conformemente alla deduzione glossematica, queste componenti
dovranno poi venire considerate a loro volta come classi e sottoposte
nuovamente ai tagli dell’analisi (“deduzione”). Espressione e contenuto,
effetto di una prima partizione della manifestazione testuale, potranno infatti
essere suddivise in forma e sostanza e considerate così come classi
analizzate in componenti. La stessa cosa vale allora per materia e forma. Da
una parte infatti la forma è essa stessa tagliata e suddivisa in domini che si
delimitano reciprocamente (componenti), dall’altra la materia è
essenzialmente un oggetto indiviso ma divisibile, un oggetto non ancora
tagliato, ma tagliabile (e cioè una classe) che diventa un componente (e cioè
un oggetto tagliato) una volta che è tagliato dalla forma e reso sostanza: “un
continuo inanalizzato ma analizzabile” (P, p. 60). La proiezione della forma
della lingua sulla superficie indivisa della materia traccerà allora le sue
particolari suddivisioni all’interno della sua massa amorfa, dando così
origine a sostanze di espressione e contenuto (P, p. 62).
Ecco allora come, partendo dalla sostanza del testo, reiterando
continuamente una medesima funzione di taglio, si ritorna nuovamente alla
sostanza attraverso un procedimento progressivo che ritrova sul limite delle
proprie operazioni (livello immanente) lo stesso punto da cui si era partiti, e
cioè quella trascendenza dei fatti di linguaggio che si trattava di ridurre
attraverso l’analisi (cfr. infra, 1.7). È in questo senso che Hjelmslev può dire
che immanenza e trascendenza “si riuniscono in un’unità superiore fondata
sull’immanenza”, nell’istante in cui gli oggetti teorici ottenuti attraverso le
partizioni della teoria si riallacciano, per generare l’oggetto analizzato così
come noi lo conosciamo nell’esperienza (cfr. P, p. 136).
Perché la sostanza che ritroviamo alla fine delle partizioni glossematiche
non è affatto la stessa sostanza dalla quale siamo partiti, dal momento che
ora possiede un’espressione e un contenuto, una materia e una forma, una
forma dell’espressione e una forma del contenuto, con tutte le funzioni
interne a questi stessi elementi. In questo modo, il metodo ha così ritrovato
la “ragione dei misti”, ha ritrovato quelle articolazioni che sono costitutive
del suo oggetto, “adeguandosi” a esse e ritrovando l’oggetto al punto limite
delle sue operazioni di analisi. Per questo, quando si parla ad esempio di una
“sostanza dell’espressione”, non si sta affatto facendo riferimento a un
elemento empirico della manifestazione, bensì a quello stesso oggetto visto
attraverso gli elementi immanenti della glossematica.
Questo stesso processo di ricostruzione trascendentale di un oggetto
empirico al di là, o al di qua, di ciò che si manifesta nell’esperienza, lo
ritroviamo identico in Peirce. E tuttavia con una differenza fondamentale
rispetto a Hjelmslev. A differenza dell’algebrismo hjelmsleviano e del suo
amore per le matematiche discrete,67 il procedimento del sinechismo di
Peirce, come sottolineerà più volte lui stesso e come il diffuso riferimento
alla continuità matematica fa intuire, si ispira essenzialmente all’analisi
infinitesimale.68
Figura 7. Curva e tangenti

Al di là della curva reale che si manifesta nell’esperienza e al di là della


funzione primitiva che rappresenta la curva, i matematici sono infatti in
grado di ricostruire e generare la forma della curva a partire da un insieme n
di rette che di fatto non esistono all’interno della curva (funzione derivata).
La forma della curva può così essere ricostruita arbitrariamente, e con un
margine di errore infinitamente piccolo, calcolando al posto della curva la
tangente che taglia la curva “in due punti coincidenti”, come diceva Leibniz.
Queste rette tangenti non esistono che di diritto (non sono di fatto presenti
all’interno della curva) e la loro identità è definita in uno spazio terzo
(“passaggio al limite”) rispetto a quello della curva reale e della
rappresentazione matematica della curva, in cui gli elementi non hanno
esistenza se non nel loro rapporto con l’altro.
Figura 8: Passaggio al limite: lim Δt/Δv = dt/dv Δυ→0

Al punto limite si verifica infatti un cambiamento di natura della funzione,


perché là dove la funzione primitiva esprime la curva (C), questa nuova
funzione, che è normalmente chiamata “derivata”, esprime invece la
tangente (t).
Era del resto questa l’intuizione di Leibniz ripresa da Peirce69 (cfr. CP
4.151): in un intorno infinitamente piccolo, la tangente che taglia la curva
“in due punti coincidenti” è la curva, pur differendone al contempo in natura,
perché “sono uguali non solo le quantità la cui differenza è nulla, ma anche
quelle la cui differenza è infinitamente piccola, giacché, sebbene questa
differenza non sia assolutamente nulla, essa non è comparabile con le due
quantità considerate” (Leibniz, 1875/90, Vol. II, pp. 202-203; cfr. anche
Leibniz, 1701, p. 350).
Così come i matematici, servendosi di elementi infinitamente piccoli di
fatto non presenti nella curva reale, ricostruiscono la forma della curva
prolungando i suoi punti in rette che si estendono nell’oscurità dietro loro,
così Peirce ricostruisce il continuum dell’esperienza prolungando in un
rapporto triadico taluni suoi punti salienti al di là, o al di qua, della curva che
definisce la loro manifestazione (cfr. ad esempio 6.103-6.111).70 È ad
esempio il pattern di “The Law of Mind”, che viene a integrare e ricomporre
i tagli che l’inferenza faceva sul flusso continuo del pensiero-segno:
In un intervallo infinitesimale noi percepiamo direttamente la sequenza temporale del suo inizio,
mezzo e fine […] come una sensazione immediata. Sopra questo intervallo se ne installa un altro, il
cui inizio è il mezzo del precedente e il cui mezzo ne è la fine. Qui noi abbiamo una percezione
immediata della sequenza temporale del suo inizio, mezzo e fine, o meglio, del secondo, del terzo e
del quarto istante. A partire da queste due percezioni immediate ricaviamo una percezione mediata,
o inferenziale, della relazione dei quattro istanti tra di loro. (CP 6.111)

Da qui la svolta che il sinechismo opera nella teoria del pensierosegno di


Peirce: le idee si determinano le une con le altre in maniera semiotica;
ovvero, data l’idea che è attualmente presente alla mente, essa non è altro
che un segno inferito triadicamente a partire da altri segni precedenti. Ma
questi stati discreti che siamo in grado di individuare nel pensiero, con
momenti distinti di passaggio tra Oggetto Immediato, segno e interpretante,
presuppongono sempre uno sviluppo continuo a partire dal quale vengono
ricostruiti.
Ciò che è presente alla mente in ogni istante ordinario è ciò che è presente alla mente durante un
momento in cui quell’istante occorre. […] Un continuum di questa sensazione, infinitesimale in
durata, ma comunque comprendente parti non numerabili, e anche, sebbene infinitesimale,
interamente illimitato, è immediatamente presente. […] Ne segue, dalla definizione della
continuità, che quando qualsiasi sensazione particolare è presente, un continuum infinitesimale di
tutte le sensazioni che differiscono infinitesimalmente da essa è anch’esso presente. (CP 6.126,
6.132-6.138)

Ecco allora che dividere un continuum al fine di reperirne delle posizioni


pure in relazione triadica è solamente un momento, che deve poi condurre a
una nuova sintesi fondata sulla divisione precedente. Dato il flusso del
pensiero, non è sufficiente dividerlo al fine di individuarne delle posizioni in
rapporto triadico, ma occorre anche ricostruire tutti quegli elementi di
mediazione che ci consentono di passare da una all’altra, al fine di
ricostruire una continuità tra di essi. Peirce ci insegna così a pensare
all’elemento attualmente presente (segno) come a una figura che porta con
sé lo sfondo continuo di tutto ciò che differisce da sé, e che può sempre
essere ricostruito al di là di ciò che si manifesta di fatto nell’esperienza.
Vedremo ora l’importanza fondamentale di questo aspetto, che consiste in
ciò che Peirce chiamerà interpretazione, e cioè la costruzione di una
rappresentazione mediatrice (Terzità) tra n stati che da un altro punto di vista
(Secondità) sembrano essere essenzialmente separati (cfr. infra, 1.7). Ecco
allora esattamente una “sintesi disgiuntiva”, in grado di colocalizzare gli
elementi ottenuti attraverso una prima divisione (disgiunzione),
ricomponendo così un nuovo continuum al di là di ciò che si manifesta
nell’esperienza (sintesi).
L’analisi sola disintegra l’organizzazione che lega gli elementi analizzati, mentre la sintesi sola
occulta la realtà degli elementi costitutivi. […] La conoscenza complessa richiede il dialogo ad
anello ininterrotto di quelle capacità complementari/concorrenti/antagoniste che sono
l’analisi/sintesi. […] Se è vero che le persone in cui l’emisfero sinistro è dominante sono
naturalmente portate all’analisi, all’astrazione, all’ordinamento lineare, mentre quelle in cui è
dominante il destro sono naturalmente portate ai modi globali, sintetici e concreti della
conoscenza, è chiaro che la verità encefaloepistemologica sta nell’ambidestria cerebrale. (Morin,
1986, pp. 101, 203)

È in questa “ambidestria semiotica”, capace di fare alcuni “tiri mancini”


alla sua tradizione maggiore, ciò in cui crediamo debba risiedere il futuro
della disciplina. La semiotica resterà infatti sempre una disciplina parziale se
non ricucirà la sua doppia fondazione, dal momento che la lezione
hjelmsleviana ci insegna l’analisi, mentre quella peirciana ci insegna la
sintesi. Sta solo nella “sintesi disgiuntiva” propriamente interpretativa tra
queste due posizioni, la possibilità per la semiotica di rendere conto della
struttura irriducibilmente complessa del suo “oggetto” (il senso).
Qual è allora il metodo che è proprio di questa sintesi disgiuntiva? Qual è
cioè il procedimento attraverso cui è possibile ritrovare uno spazio in cui le
dimensioni ottenute attraverso una divisione si riallacciano, per generare la
“cosa” così come noi la conosciamo nell’esperienza? Se per Hjelmslev e
Peirce è fecondo studiare le lingue e la semiosi in questo modo, in che
maniera è possibile coniugare la loro lezione con i problemi attuali della
disciplina?
La semiotica di Greimas si è costruita innanzi tutto come un metodo di
analisi, ma non ha mai davvero tematizzato quel livello trascendentale che
era in nuce nelle analisi degli strutturalisti, e di Hjelmslev in particolare,
tanto che già Deleuze (1973, pp. 20-21) notava con grande lucidità come lo
strutturalismo fosse inseparabile da una filosofia trascendentale nuova, di cui
abbiamo provato a ricostruire le specificità. La semiotica di Peirce, la cui
natura trascendentale è evidente in chi si è sempre dichiarato “il più kantiano
dei pensatori”, non ha però mai davvero tematizzato esplicitamente un
livello metodologico che potesse portare a elaborare dei modelli di analisi a
vocazione euristica, che si possono infatti solamente costruire a partire da
Peirce. Per quanto ci riguarda, crediamo che i due aspetti siano in tutto e per
tutto collegati, e cioè che non sia possibile costruire una metodologia di
analisi semiotica a vocazione euristica che abbia come oggetto il senso,
senza che le procedure di analisi rimandino costitutivamente a un’analisi
trascendentale, nell’accezione precisata fin qui. Perchè in che cosa consiste
un metodo? In cosa esso si differenzia dall’esperienza che pretende di
indagare?
Se nell’esperienza succedono cose, eventi, fatti che provocano sensazioni,
emozioni, affezioni; se esperire è innanzi tutto imbattersi in qualcosa lungo il
percorso di una vita,71 il senso di questo stesso imbattersi, il senso di questi
eventi, sensazioni, emozioni non è qualcosa che è necessariamente possibile
ritrovare nell’esperienza, ma è qualcosa che, al contrario, la forma, la ordina,
la struttura, definendone così le condizioni stesse di possibilità. Se
nell’esperienza accadono eventi, la logica di questi eventi è allora qualcosa
che pare trascenderli e sembra inevitabilmente risiedere altrove, nei rapporti
e nelle forme di relazione che è possibile individuare in ciò che struttura
l’esperienza e che, solo, ne costituisce la condizione di possibilità. Peirce e
gli strutturalisti ci insegnano allora che è esclusivamente attraverso un
metodo “trascendentale”, che tiene insieme analisi e sintesi, che è possibile
rintracciare questi rapporti e queste forme di relazione, al fine di rendere
conto di ciò che di fatto si manifesta nell’esperienza. Proviamo allora a
delinearne le specificità.
Sulla base della lezione di Peirce, l’analisi semiotica deve ispirarsi
all’analisi matematica per operare delle differenziazioni e delle integrazioni
qualitative sulla base delle differenziazioni iniziali. Troppo spesso le teorie
del linguaggio si sono ispirate alla logica matematica, quando è invece
dall’analisi matematica che una teoria del linguaggio può importare rigore
ed euristicità.72 Esattamente come i matematici individuano una rete di
rapporti differenziali al di là di ciò che di fatto si dà nell’esperienza e
ricostruiscono lo “spazio” empirico a partire da questa rete di relazioni
individuata in precedenza, occorrerà:

(a) dividere la molteplicità che si dà di fatto in n dimensioni che


differiscono in natura, ritrovando così quelle articolazioni pure che la
costituiscono di diritto (disgiunzione). Si tratta cioè di individuare qui
delle categorie in senso hjelmsleviano (cfr. NE, pp. 27-28, CC e supra,
1.4).
(b) Individuare i sistemi di rapporti differenziali che declinano localmente e
in modo partecipativo le categorie al punto (a). In questo modo è
possibile i) individuare i valori del sistema (in senso saussuriano), ii)
fare la differenza sulla base di questi stessi valori, pensando così a ciò
che si manifesta nell’esperienza come l’incrocio di n dimensioni che ne
costituiscono la rete di relazioni soggiacente, definendone l’identità. Era
questa la lezione hjelmsleviana dell’analisi per dimensioni.
(c) Colocalizzare gli elementi empirici che partecipano allo spazio della
categoria sulla base delle reti di relazioni ottenute attraverso le
procedure ai punti (a) e (b), in modo da ricostruire un nuovo continuum
al di là dei misti che si manifestano nell’esperienza, ritrovando così delle
differenze di grado sulla base delle differenze di natura individuate in
precedenza (sintesi). È così possibile ritrovare “la ragione” dei misti e le
articolazioni costitutive di ciò che si manifesta di fatto.

Ad esempio il misto dell’umanità che convive in società viene di fatto


sempre diviso in persone che possono esercitare la propria libertà e in
persone che ne devono essere private, in funzione delle norme di un sistema
dato (leggi) e delle azioni dei partecipanti al sistema. È un filtraggio locale
che ripartisce i degni e gli indegni, chi possiede il diritto di partecipare alla
vita sociale e chi invece non ce l’ha. Si tratta però, appunto, di una
ripartizione di fatto, di un misto di cui si tratta di rendere conto, se si vuole
spiegare il senso di questa divisione, al fine di comprenderne realmente le
articolazioni. Questo misto dipende infatti da alcune dimensioni pure che
non esistono di fatto in quanto tali, ma che, nondimeno, definiscono le
condizioni stesse di possibilità delle divisioni che si ritrovano
nell’esperienza.
Penso ai nostri costumi giudiziari e penitenziari. A studiarli dal di fuori, si sarebbe tentati di
opporre due tipi di società: quelle che praticano l’antropofagia, e cioè che vedono
nell’assorbimento di certi individui detentori di forze temibili il solo mezzo di neutralizzale e
addirittura di metterle a frutto; e quelle che, come la nostra, adottano ciò che si potrebbe chiamare
l’antropoemia (dal greco émein, vomitare); poste di fronte allo stesso problema, esse hanno scelto
la soluzione inversa, consistente nell’espellere questi esseri temibili al di fuori del corpo sociale
tenendoli temporaneamente o definitivamente isolati, senza contatto con l’umanità, all’interno di
istituzioni destinate a questo uso. (Lévi-Strauss, 1959, p. 419)
Ecco allora che il nostro regime antropoemico esclude dalla società alcuni
suoi partecipanti, là dove il regime antropofago fa partecipare quelli che per
noi sarebbero esclusi.73 E tuttavia questi regimi dell’esclusione e della
partecipazione non esistono che di diritto, dal momento che di fatto non si
danno mai puri. All’interno di ciascun regime l’esclusione e la
partecipazione non sono infatti mai totali, dal momento che anche nelle
nostre società antropoemiche si fanno partecipare gli esclusi a certe
dimensioni della vita sociale (arresti domiciliari, permessi, visite dei
parenti), così come nelle società antropofaghe si escludono dei partecipanti
ad alcune dimensioni delle stesse (riti religiosi). Da qui la natura
costitutivamente partecipativa della loro opposizione, visto che ogni sistema
partecipa localmente dei valori propri del sistema a esso opposto.
“Antropofagia” e “antropoemia” non sono infatti altro che ciò che Hjelmslev
chiamava “categorie”.
Hjelmslev mostrava infatti come un fenomeno complesso si organizzasse
attorno ad alcune sue categorie costitutive che esistevano in tutte le sue
differenti varianti: ad esempio la categoria dei casi esisteva in tutte le lingue,
ma erano però i sistemi dei casi, e cioè le forme di relazione attraverso cui
era organizzata la categoria, a differire da lingua a lingua. Questa distinzione
tra “categoria” e “sistema” la si ritrova nella stragrande maggioranza dei
sistemi complessi (cfr. Morin, 1986), ed è così fruttuosamente trasponibile al
di fuori delle lingue. Per quanto riguarda i costumi giudiziari e penitenziari,
le società sono infatti tutte o antropofaghe o antropoemiche, ma è
radicalmente diverso il modo in cui lo sono. Cioè, hjelmslevianamente, è
radicalmente diverso il singolo sistema che declina localmente la categoria
in una particolare forma di relazione. Occorrerà allora ricostruire la forma di
relazione che è costitutiva di questi sistemi, dal momento che “antropofagia”
e “antropoemia” non sono altro che etichette categoriali che nascondono dei
sistemi relazionali (reti) molto differenziati da società a società. Questi
sistemi determinano: i) dei rapporti differenziali locali che funzionano come
poli interni al sistema (ad esempio “poter vivere in libertà/non poter vivere
in libertà”); ii) dei ruoli corrispondenti ai valori di questi rapporti
(l’incensurato, il ricercato, l’indagato, il carcerato, la persona in attesa di
giudizio, il condannato, l’assolto per prescrizione ecc.); iii) una sintassi
locale immanente al singolo sistema che distribuisce degli “atteggiamenti”
nei confronti degli attori empirici che vengono concretamente a occupare
questi stessi ruoli.
Ad esempio, nel sistema antropoemico italiano, a causa della “custodia
cautelare”, si può essere privati della libertà quando si è ancora
semplicemente “indagati” e la si può riacquistare quando si passa invece al
ruolo di “condannati”, nell’attesa dei due successivi gradi di giudizio. Questa
sintassi antropoemica italiana sembrava del tutto scandalosa e inaccettabile
ai familiari di una ragazza americana indagata per omicidio,74 abituati a un
altro tipo di sistema antropoemico fondato su cauzione, che ripartisce su
ruoli differenti il rapporto differenziale “poter vivere in libertà/non poter
vivere in libertà”. Da qui il diverso valore che “indagato” assume all’interno
dei sistemi antropoemici italiano e americano, dal momento che è diversa la
rete di relazioni che ne definisce l’identità e gli atteggiamenti che il sistema
ha nei confronti di un attore empirico che si ritrova a occupare la posizione
dell’“indagato”. Da qui l’importanza dello studio di questi sistemi
(dimensioni) e della loro forma di relazione locale (determinazione dei valori
dei rapporti interni al sistema), che l’analisi semiotica ci permette di mettere
in luce. Solo in questo modo la teoria può essere adeguata al dato empirico e,
hjelmslevianamente, ciò che è trascendente (gli attori, i tempi, gli oggetti e le
sostanze reali) potrà essere spiegato adeguatamente sulla base delle relazioni
pure individuate “in immanenza”.
I singoli sistemi antropoemici e antropofagi, con le loro differenti forme di
relazione, sono infatti dei reticoli di relazioni che presiedono a ciò che di
fatto succede nelle società, determinando le condizioni dell’esperienza reale
dei suoi partecipanti empirici. Questi sistemi sono irriducibilmente
complessi, e cioè dipendenti da una molteplicità n di parametri eterogenei
che variano da sistema a sistema (cfr. Morin 1986, pp. 36-40). Basta pensare
sempre al caso dell’“indagato” all’interno del sistema antropoemico
americano, in cui la sua possibilità di vivere in libertà viene rimandata dal
sistema del diritto, che viene localmente annullato, a quello dell’economia
(poter pagare/non poter pagare la cauzione), che viene invece reso pertinente
all’interno del dominio dei “costumi giudiziari e penitenziari”. Era del resto
esattamente ciò che ci insegnava Hjelmslev con la sua analisi per
dimensioni, in cui, per definire l’identità di un elemento, occorreva fare
riferimento non solo al suo sistema proprio (ad esempio quello del “tempo”
per il preterito), ma anche a sistemi eterogenei che si incrociavano
localmente col suo (“genere”, “numero”, “aspetto” ecc.). Così è per
l’indagato, elemento di un sistema antropoemico, che vede però definita la
sua identità anche da sistemi eterogenei che si incrociano localmente col suo
(“diritto”, “economia” ecc.).75 L’analisi per dimensioni ci pare insomma un
metodo euristico, capace di rendere conto di quell’estrema interconnessione
dei domini che caratterizza le società, le pratiche e le culture, con le loro
irriducibili complessità.
Proprio a causa di questa complessità, se proviamo a determinare i ruoli
che corrispondono ai valori dei rapporti differenziali interni a un singolo
regime antropoemico, vediamo che è sempre estremamente difficile, quando
non impossibile, determinare delle posizioni che si oppongono per
contraddizione o contrarietà in modo esclusivo.76 Al contrario, i ruoli paiono
disporsi lungo un continuum graduato in cui si distinguono ad esempio gli
esecutori, i mandanti, i collaboratori, i corrotti, i collusi, i ricercati, gli
insospettabili, coloro che la fanno franca, gli assolti per prescrizione, per
insufficienza di prove, gli accusati ingiustamente, gli innocenti, coloro che
non c’entravano nulla, quelli che avevano un alibi, quelli che vivevano a
migliaia di chilometri di distanza ecc. Se prendiamo anche un’opposizione
molto banale, sul tipo “colpevole VS innocente”, esisterà cioè tutta una
modulazione continua degli elementi che sono effetto di questa prima
divisione che “fa la differenza”, e istituisce le dimensioni del rapporto
esclusivamente come poli tra i quali può sempre dispiegarsi una molteplicità
n di stati variamente differenziati.77 Ecco allora che in questo modo i ruoli si
dispongono lungo un continuum che li colocalizza all’interno dello spazio
della categoria, in cui si passa da un polo dell’opposizione all’altro
attraverso tutta una serie di stati intermedi (cfr. infra, 1.7).
Da qui l’importanza della parte del metodo al punto 3): collocare lungo un
continuum gli elementi che il taglio ha consentito di individuare, in modo da
arrivare a una nuova sintesi sulla base delle divisioni eseguite in precedenza.
È qui che si vede la potenza della teoria del sinechismo di Peirce, se
comparata ad altre strutture su cui si è basata fino a ora l’analisi semiotica,
dal momento che essa permette di sostituire una semiotica del continuo a un
certo binarismo strutturalista discretizzante, che si muove per
congiunzione/disgiunzione e negazione/affermazione. Se costruiamo ad
esempio un quadrato semiotico che articola l’opposizione
innocente/colpevole, declinando così un “poter vivere in libertà/non poter
vivere in libertà” proprio di una società antropoemica, vediamo come il
modello preveda il passaggio da un polo dell’opposizione all’altro attraverso
la negazione del primo termine e la contemporanea affermazione del termine
polare opposto.
Del resto le opposizioni interne al quadrato sono di tipo esclusivo e di
ispirazione jakobsoniana, e non di tipo partecipativo e di ispirazione
hjelmsleviana (cfr. infra, 3.2, 3.6 e 3.7). Tuttavia, come abbiamo visto,
esistono n modi differenti di passare da un polo dell’opposizione all’altro e il
quadrato ci restituisce soltanto il momento in cui uno stato viene
contraddetto, e si passa così all’affermazione dello stato opposto. Tutto
quello che c’è “in mezzo”, o è alternativo a questo movimento della
negazione, viene di fatto ignorato.
In alcune pagine di grande fascino, Bergson (1938, 1941) muoveva allora
una serie di critiche a un pensiero del “negativo”, e cioè a un pensiero che
muove da una coppia di termini per negare il primo termine e affermare
successivamente il secondo.78 Bergson mostrava con grande acutezza la
totale astrazione di questo pensiero: “Tale combinazione di due elementi
contraddittori non offrirà né una diversità di gradi né una varietà di forme”
(Bergson 1938, p. 173) e finirà così inevitabilmente “per perdere la
differenza stessa”. Non è infatti un caso che il quadrato non preveda
posizioni semantiche ibride, contraddittorie e fluttuanti che siano diverse
rispetto a quelle dei così detti “termini neutri” e “termini complessi” (cfr.
infra, capitolo 3). Tuttavia, queste posizioni sono del tutto normali ed
enormemente diffuse in sistemi complessi quali sono le lingue, le società e le
culture: un “assolto per prescrizione” ad esempio è un potenziale colpevole
che è trattato come un reale innocente, e che per questo può vivere in libertà.
Il valore semantico incarnato da un “assolto per prescrizione”, posizione
incarnata da attori empirici di grande potere e influenza nella società
antropoemica italiana, presenta una complessità configurazionale che è di
fatto assente tra le posizioni semantiche incarnate dalla struttura elementare
della significazione, che non a caso è infatti (troppo) elementare. Proprio per
questo, esattamente come un albero gerarchico, un quadrato semiotico
presenta una forma di relazione che ci pare inadeguata a rendere conto della
complessità costitutiva del suo oggetto (sistemi di senso). Del resto, la teoria
della differenza incarnata nel quadrato semiotico è di fatto la trasposizione
sul piano del contenuto delle tecniche di analsi che la fonologia strutturale
utilizzava per rendere conto dei rapporti differenziali tra fonemi a livello del
significante dei linguaggi verbali. Da qui la sua forma di relazione esclusiva,
dal momento che la presenza del tratto “labiale” in un fonema esclude la
contemporanea presenza dei tratti opposti, per impossibilità articolatoria. Ci
pare ovvio che il senso e le culture non funzionino come l’apparato
articolatorio, così che la trasposizione delle stesse forme di relazione sul
piano del significato non può che manifestare delle limitazioni evidenti
proprio a livello dei modelli di analisi a vocazione euristica.
Attraverso un metodo della divisione dei misti non lontano da quello che
stiamo presentando qui, Bergson (1938, 1941) tentava allora di giungere a
una teoria della differenza senza negazione, e cioè a una teoria della
differenza che non comprendesse il negativo (negazione di un termine,
affermazione del termine contrario) e che fosse così capace di rendere conto
di quelle molteplicità irriducibili sia all’unità che alle grandi contrarietà e
contraddizioni binarie. Per Bergson (1938) infatti, le strutture fondate sulla
contraddizione,79 sulla contrarietà, sulla negazione, sulla congiunzione e
sulla disgiunzione rappresentano “una rete dalle maglie così grandi da far
passare anche i pesci più grandi”.
Per questo, in semiotica, strutture come la narratività si sono dimostrate
rintracciabili dappertutto, senza essere davvero in grado di fare la differenza.
Si tratta di elementi così generali e astratti da non rappresentare, di fatto,
degli utensili che abbiano reale presa euristica per l’analisi, almeno là dove
si intenda per analisi ciò che l’analisi etimologicamente è, e cioè il
procedimento di divisione che fa la differenza, separando la struttura di una
cosa da quella di un’altra. Oggetti teorici come la narratività o le grandi
opposizioni semiche incarnate nella struttura elementare della significazione
(essere/sembrare, vita/morte, natura/cultura ecc.) hanno semmai permesso di
indifferenziare cose diversissime, perdendo le loro articolazioni distintive
specifiche (cfr. infra, capitolo 2). Per questo, a nostro parere, essi possono
rappresentare un’importantissima teoria antropologica dell’immaginario
umano, in cui alcune pregnanze profonde vengono continuamente
narrativizzate per “dare senso alla vita”, ma non un adeguato strumento di
analisi empirica. Era del resto questa la tesi di Petitot (1985).80 Ciò che più è
mancato alla semiotica generativa è stata la precisione. I suoi oggetti teorici
non sono tagliati a misura della realtà degli oggetti di senso empirici a cui si
dovrebbero hjelmslevianamente adeguare. Sono troppo larghi per essi, come
un vestito svolazzante. Forse per questo stanno su tutto.
Per quanto ci riguarda, crediamo che la semiosi e il senso siano oggetti
costitutivamente complessi, e cioè oggetti che dipendono da parametri
molteplici spesso in contraddizione l’uno con l’altro (cfr. Morin 1986, pp.
36-40). Per questo la semiotica, se vuole poterne rendere conto, deve essere
in grado di proporre un pensiero e dei modelli di analisi costitutivamente
complessi, e cioè adeguati al suo oggetto e alla contraddittorietà dei
parametri da cui esso dipende. Al contrario, ciò che è stato fatto nella
tradizione semiotica “maggiore”, è stato quello di riportare il complesso al
semplice, di ridurlo e di generarlo in modo simulacrale a partire da strutture
dicotomiche. Crediamo sia quanto meno legittima un’altra strada, che stiamo
provando a percorrere: piuttosto che riportare il complesso al semplice, si
tratta di rendere conto di una complessità empirica poco intelligibile
attraverso una complessità semiotica che lo è di più, e che è capace di
spiegare l’empirico, definendone le condizioni di possibilità. Per questo
prendiamo posizione per una semiotica della complessità fondata su di
un’analisi trascendentale del tutto sui generis, come quella che stiamo
provando a elaborare qui.

Figura 9. M. C. Escher, Giorno e notte


Un’incarnazione visiva di quanto stiamo provando a costruire la si può
vedere in Giorno e notte di Escher, in cui si ha il misto non ancora
differenziato (il campo con i suoi domini e le sue divisioni di fatto), le
dimensioni pure (uccelli neri VS uccelli bianchi) e tutta una serie di elementi
di mediazione che fanno passare da un polo dell’opposizione all’altro,
modulando il primo termine (uccello nero) attraverso il secondo, il secondo
attraverso il terzo e così via. La modulazione, ossia una modificazione
continua in cui un elemento si trasforma senza con questo cessare di essere
ciò che è, fino a che non raggiunge un determinato “punto di frontiera”,
sostituisce la coppia “negazione/implicazione” all’interno di un sistema
fondato su di una rete di relazioni di tipo partecipativo. Un’opposizione
polare non è cioè vista come una coppia di contrari in cui la negazione del
primo termine implica l’affermazione del termine opposto, bensì come una
coppia tensiva in cui il primo termine e i successivi possono essere
variamente modulati fino a “raggiungere” il secondo.
Come ci pare di aver mostrato, e come analisi successive mostreranno con
ancora maggior rigore, la distribuzione dei valori all’interno di un sistema –
e in particolar modo all’interno di sistemi complessi quali sono le lingue, le
società e le culture – risponde infatti solo raramente a un sistema elementare
di contraddizioni e contrarietà che si sviluppa per negazioni e affermazioni
di termini interdefiniti. Per questo una semiotica che si vuole efficace dovrà
potenziare il suo apparato descrittivo, in modo da poter descrivere
adeguatamente la complessità di ciò che accade di fatto nell’esperienza (cfr.
infra, capitolo 3).
Del resto, se si segue la lezione hjelmsleviana e si pensa all’identità di ciò
che si manifesta nell’esperienza come l’incrocio di n dimensioni che ne
costituiscono la rete di relazioni soggiacente, diventa molto difficile
strutturarne l’identità in maniera esclusiva e non partecipativa. Infatti, se si
prende una rete di relazioni a rizoma, è possibile vedere come ogni elemento
di un reticolo partecipi ad alcuni suoi concatenamenti e venga escluso da
altri, ma partecipi al contempo a questi altri in maniera mediata, attraverso
gli elementi con cui è connesso e che partecipano invece direttamente a quel
concatenamento da cui il primo elemento risulta escluso.81 Se costruiamo un
reticolo rizomatico in modo peirciano, attraverso iterazioni di relazioni
triadiche, questo fenomeno è molto semplice da vedere:
È interessante notare che mentre un grafo a tre rami non può risultare da grafi a due e a un ramo,
pure combinazioni di grafi ciascuno a tre rami bastano a costruire grafi a più rami:
E l’analisi dimostrerà che ogni relazione tetradica, pentadica, o a più correlati non è altro che un
composito di relazioni triadiche. (CP 1.347)

In questa rete rizomatica minimale costruita da Peirce, complessificabile a


piacere attraverso iterazioni di triadi, l’elemento d in basso a sinistra
partecipa in modo diretto a un concatenamento con l’elemento a sopra di lui
(e con gli altri due nodi senza etichetta disposti da Peirce alla sua sinistra e
in basso), mentre è escluso ad esempio dall’elemento b al centro. Tuttavia,
esso vi partecipa in maniera mediata, attraverso gli elementi con cui è
connesso e che partecipano invece direttamente a quel concatenamento da
cui esso risulta escluso (a in questo caso minimale).
È del resto questa la struttura delle reti sociali. Se si prende un social
network molto famoso come Facebook, si vede come ogni profilo partecipi
in modo diretto delle informazioni riguardanti i suoi amici, con cui è
esplicitamente connesso, e venga invece escluso dalle informazioni di altri
profili, a cui partecipa però in modo mediato attraverso quegli amici che
sono direttamente connessi con questi profili (scritte in bacheca, commenti
ai post degli amici, tag nelle foto ecc.). Del resto è questa un’esperienza
comune e condivisa anche ben prima dei social networks su internet: chi
partecipa alla nostra vita partecipa a essa in maniera diretta, e stabilisce così
un concatenamento diretto con noi, ma vi partecipa sempre anche in maniera
mediata, attraverso le cose e le persone che sono direttamente connesse con
noi e con lui e che rappresentano la mediazione tra noi e lui. Per questo
quando ci si lascia con la fidanzata e si decide di non mantenere i rapporti,
tagliando tutti i concatenamenti diretti con lei (non ci si vede, non ci si
chiama, non si frequentano più gli stessi posti ecc.), è inevitabile che
arrivino sempre i racconti di chi ha visto la nostra ex fare le cose più
improbabili. Sebbene si abbia provato a escluderla dalla nostra vita, lei vi
partecipa comunque in maniera mediata, attraverso le cose e le persone che
sono direttamente connesse con noi e con lei.
Da qui la natura costitutivamente partecipativa di un reticolo rizomatico
(enciclopedia), in cui sempre dei partecipanti sono esclusi e degli esclusi
partecipano in modo mediato a quegli stessi concatenamenti da cui sono
esclusi. Si vede qui una particolarissima dialettica tra locale e globale, che è
costitutiva di ogni reticolo enciclopedico: a livello locale, in funzione di un
determinato taglio, certi elementi sono esclusi da certe connessioni, ma a
livello globale, gli stessi elementi esclusi vi partecipano in maniera mediata.
In questo modo, si ha la possibilità di costruire e rendere euristico un reticolo
enciclopedico in cui a livello locale si ha sempre a che vedere con
concatenamenti limitati che sono funzione della sezione reticolare attivata,82
ma in cui a livello globale si può al contempo sempre colmare lo scarto tra
gli elementi localmente non connessi, attraverso una serie continua di stati
intermedi che ci fanno transitare da un punto a un altro (continuum). Da qui
l’importanza della modulazione e del sinechismo di Peirce, che diventano
ancora più decisivi nel momento in cui si abbandonano semplici coppie di
termini per occuparsi di reti di relazioni complesse, in cui è sempre possibile
passare da un elemento a un altro elemento molto lontano attraverso tutta
una serie di elementi intermedi. Vedremo come Peirce chiamerà
“interpretazione” questa particolarissima forma semiotica di modulazione
continua (cfr. infra, 1.7). Del resto, un metodo di questo tipo, un metodo che
fa sempre partecipare degli esclusi ed esclude sempre dei partecipanti, è
l’unico confacente all’idea di reticolo enciclopedico, che costituisce per noi
una lezione imprescindibile del pensiero di Umberto Eco, oltre che uno
strumento di grande capacità euristica per la semiotica e, più in generale, per
la semantica e l’epistemologia (cfr. infra, capitoli 3, 4 e 5).
In conclusione, crediamo che l’approccio che abbiamo delineato finora
possa essere definito, con un ossimoro che permette di distinguere la
vocazione semiotica, come un empirismo trascendentale. Se i caratteri
dell’a-priori sono l’universale e il necessario all’interno di una teoria delle
condizioni dell’esperienza possibile, un approccio semiotico non è allora mai
a-priori, in quanto parte sempre dal dato empirico che si manifesta
nell’esperienza reale (empirismo). Tuttavia, l’analisi semiotica lo fa al fine
di individuarne quelle articolazioni pure che non esistono che di diritto, che
non sono tratte dall’esperienza, ma che definiscono la condizione di
possibilità del dato empirico e dell’esperienza reale stessa (trascendentale).
La definizione hjelmsleviana della teoria semiotica come “arbitraria”
(indipendente dall’esperienza) e “adeguata” (conforme all’esperienza)
definisce esattamente questa paradossale forma di empirismo trascendentale,
in cui i posti interni a una rete di relazioni hanno più importanza di ciò che li
viene di volta in volta a riempiere. Al di là dell’opposizione tra metodologia
e ontologia (cfr. Eco, 1968), è allora questo ossimorico empirismo
trascendentale che costituisce per noi la razionalità semiotica (cfr. Eco,
1983b e Marsciani, 1990).

1.7. Altre due operazioni “minori”: i) la teoria delle classi in Hjelmslev;


ii) la semiotica interpretativa di Peirce. Ritorno sulla doppia accezione
del valore saussuriano

In 1.2, in riferimento al rapporto tra gli oggetti teorici propriamente


glossematici e gli elementi costitutivi dei fatti e delle teorie del linguaggio,
facevamo accenno al concetto hjelmsleviano di “classe” e al particolare
rapporto tra trascendenza e immanenza che questo presupponeva. In 1.3 e
1.5 vedevamo come la glossematica di Hjelmslev definisse un procedimento
di analisi trascendentale del tutto sui generis: si partiva cioè da ciò che si
manifesta nell’esperienza, lo si tagliava in funzione di alcune dimensioni che
non erano tratte dall’esperienza (immanenti), al fine di ritrovare quei fatti
linguistici e quelle teorie linguistiche (trascendenti) da cui si era
originariamente partiti. Gli oggetti empirici erano così “generati” al di là
della curva dell’esperienza (in immanenza), e pensati come degli effetti
composti dagli oggetti teorici propriamente glossematici, che non esistevano
che di diritto e popolavano un terzo ordine irriducibile sia ai fatti che alle
teorie linguistiche. Era esattamente come nel calcolo differenziale, in cui la
curva che si deve studiare viene generata a partire da rette di fatto non
presenti nell’oggetto di studio (arbitrarie), ma che riescono a definirne la
forma con un margine di errore infinitamente piccolo (adeguate).
Sulla base di quanto detto in 1.6, possiamo ora specificare meglio tutti
questi aspetti, che definiscono il modo in cui Hjelmslev declina in maniera
del tutto originale l’eredità della teoria del valore di Saussure. Perché se è
chiaro il metodo della glossematica, non è però affatto chiaro come
Hjelmslev sia capace di studiare gli oggetti trascendenti attraverso gli
elementi propriamente glossematici. Per continuare il nostro parallelismo col
calcolo differenziale, ci è cioè chiaro il rapporto esistente tra la funzione
primitiva (che definisce la curva) e la funzione derivata (che definisce la
retta tangente alla curva), ma non ci è affatto chiaro il modo in cui
quest’ultima funzione è pensata, e cioè il modo in cui i suoi elementi
contraggono rapporti tra di loro. Da quanto detto, non ci stupirà affatto
vedere che le funzioni tra gli elementi glossematici siano esattamente
funzioni di determinazioni reciproca differenziale, esattamente come quelle
che nel calcolo definiscono la funzione derivata (dy/dx).

Figura 10. Iterazione di una funzione su mille piani

Hjelmslev struttura la sua glossematica in questo modo (figura 3),


attraverso la reiterazione di una stessa funzione su diversi livelli, su mille
piani. Attraverso questa struttura, Hjelmslev consegna alla semiotica
l’eredità di un pensiero di profonda originalità, se comparato al modo in cui
fino a oggi si è fatta teoria, filosofia e analisi del linguaggio (cfr. P, p. 14 e
infra, capitolo 2). La glossematica è infatti popolata da un unico elemento
che si dispiega e che dà luogo a tutti gli oggetti teorici che pensiamo come
costitutivi dell’universo teorico hjelmsleviano: la classe. La classe è il valore
della glossematica, il corrispondente hjelmsleviano dell’“elemento concreto”
di Saussure. È infatti in funzione dei differenti rapporti differenziali tra classi
che viene determinata l’identità di tutti gli elementi della glossematica. Si
tratterà ora di mostrarlo brevemente, partendo da due nozioni hjelmsleviane
famosissime: forma e sostanza.
Hjelmslev definisce forma e sostanza come costante e variabile all’interno
di una relazione di manifestazione (R, Def. 30-31, la sostanza manifesta la
forma), ma la manifestazione per Hjelmslev non è altro che “una selezione
tra gerarchie e tra derivati di differenti gerarchie” (R, Def. 28). Ma che cos’è
allora una gerarchia? La gerarchia per Hjelmslev è “una classe di classi” (R,
Def. 8). Quindi se forma e sostanza sono le costanti e le variabili all’interno
di una manifestazione, se la manifestazione è un rapporto tra gerarchie e se
la gerarchia è una classe, ovviamente anche forma e sostanza sono delle
classi. Ma, allo stesso modo, anche il sistema allora non è altro che una
gerarchia, più precisamente “una gerarchia di correlazioni” (R, Def. 11), così
come il processo non è altro che “una gerarchia di relazioni” (R, Def. 9), e
cioè entrambi sono delle classi (una gerarchia è una classe di classi). Un
paradigma è allora a sua volta “una classe che è un derivato di una
paradigmatica” (R, Def. 36), mentre una catena non è invece altro che “una
classe che è un derivato di una sintagmatica” (R, Def. 34). Una sintagmatica
non è allora altro che un “processo semiotico” (R, Def. 33), e cioè una
gerarchia, e cioè una classe di classi (il processo è una gerarchia); così come
la paradigmatica non è altro che un “sistema semiotico” (R, Def. 35), e cioè
una gerarchia, e cioè una classe di classi (il sistema è una gerarchia). Ma che
cos’è allora la semiotica per Hjelmslev? La semiotica è “una gerarchia (e
cioè una classe di classi) di cui ciascun componente ammette un’analisi
ulteriore in classi definite attraverso relazione reciproca” (R, Def. 24).
Anche la semiotica è una classe (più precisamente, una classe di classi). Ed
espressione e contenuto? Per Hjelmslev un piano è “la componente di una
semiotica” (R, Def. 25), ma la semiotica è appunto una classe di classi le cui
componenti (e cioè i piani dell’espressione e del contenuto) debbono poter
ammettere “un’analisi ulteriore che le consideri come classi definite da
relazione reciproca” (R, Def. 24). E la materia? I commentatori
hjelmsleviani hanno raccontato che non esiste definizione semiotica della
materia, e che la materia è esattamente l’altro dal semiotico, ciò che le lingue
ritagliano e che non ha esistenza semiotica precedente a questo ritagliare. Se
non che, per Hjelmslev la materia è “una classe di variabili che manifesta
almeno due catene all’interno di almeno due sintagmatiche e almeno due
paradigmi all’interno di almeno due paradigmatiche” (R, Def. 37), e
abbiamo visto che cos’è la manifestazione (un rapporto tra classi), che cos’è
una catena (una classe), che cos’è una sintagmatica (una classe di classi), che
cos’è un paradigma (una classe) e che cos’è una paradigmatica (una classe di
classi). Insomma, all’interno di questo terzo ordine propriamente
glossematico è tutto costruito dal dispiegarsi di uno stesso elemento su
diversi livelli (ci sono cose che sono delle classi semplici, altre che sono
delle classi di classi, altre ancora che sono classi in rapporto complesso con
altre classi).
La glossematica è un sistema autosimile in cui ogni elemento è composto
da pezzi di stesso, su diversi livelli. Hjelmslev ritrova così uno spazio di
immanenza pura, in cui ciò che costituisce la struttura della glossematica non
è derivato in alcun modo né dai fatti linguistici né dalle teorie linguistiche,
bensì da un’interdefinizione relazionale di valori propriamente glossematici
(le classi). I fatti e le teorie andranno allora scomposti nell’analisi, al fine di
ritrovarne quell’articolazione immanente che costituisce l’elemento di un
terzo ordine costitutivo di tutti gli oggetti teorici che siamo abituati a pensare
come appartenenti alla teoria hjelmsleviana e al suo oggetto (espressione,
contenuto, forma, sostanza, materia, sistema, processo, semiotica, sintagma e
paradigma ecc.).
A questo punto occorre allora porsi la domanda più fondamentale: che
cos’è una classe per la glossematica? La definizione del Résumé è del tutto
non fraintendibile: una classe “è un oggetto che è sottoposto ad analisi” (R,
Def. 4) e, come detto, l’analisi è uno dei due termini che compongono la
dissezione (R, Def. IV). Ecco allora che nel Resumè la dissezione non è altro
che il taglio di un oggetto considerato come una “totalità ancora indivisa”, al
fine di ritrovare le dipendenze che esso intrattiene con altri oggetti (R, Def.
123). La classe è esattamente questo “oggetto” considerato come “totalità
ancora indivisa”, un oggetto tagliabile, analizzabile, un oggetto che può
venire tagliato in molti modi, in funzione delle direzioni stabilite in modo
arbitrario ed adeguato dalla teoria.
È dunque tagliando, e più precisamente iterando continuamente una
stessa funzione di taglio, che Hjelmslev genera tutti i suoi oggetti teorici. È
come in analisi matematica, in cui l’iterazione continua di una stessa
funzione, sul tipo di Z=(f)Z, dà vita a oggetti autosimili (frattali) in cui un
motivo identico si ripete su scale differenti, su mille piani (cfr. Mandelbrot,
1987). In analisi glossematica è allora la stessa identica cosa: reiterando
continuamente una stessa funzione di taglio, si dà vita ad oggetti autosimili
effetto del dispiegamento di un unico elemento propriamente glossematico,
che è funzione di se stesso e dei tagli che ne definiscono l’identità su
differenti livelli. In questo modo, a ogni singolo passaggio dell’analisi, a
ogni singola iterazione della funzione di taglio, il metodo glossematico è in
grado di vedere con maggiore dettaglio quello che prima era solamente un
misto non ancora analizzato, di cui non si conoscevano affatto le dimensioni
costitutive.
Ecco allora che se l’analisi è un processo di partizione e se la classe è
l’oggetto che è sottoposto a questo processo, la classe assume man mano una
delle sue infinite sembianze solamente in funzione del processo di taglio, che
definisce un livello in cui una determinata classe si trova in un determinato
rapporto con n altre classi. Data l’identità differenziale dei termini che è
costitutiva degli oggetti della glossematica, questo significa che una classe
assume un’identità solo ed esclusivamente in funzione del taglio che la
colocalizza insieme ad altre classi all’interno di un determinato piano
glossematico.
In funzione di un determinato taglio cioè una certa cosa è forma e un’altra
sostanza, una espressione e un contenuto; ma in funzione di un altro taglio le
cose cambiano, e la stessa cosa che prima era ad esempio espressione può
poi diventare contenuto e così via (cfr. Eco, 1990, p. 219):
All’interno di una semiotica le designazioni di piano del contenuto e di piano dell’espressione sono
assegnate arbitrariamente, come nomi distinti per dei piani il cui numero è due e soltanto due. (R,
Def. 163-164)

Quello che è vero per espressione e contenuto è allora vero allo stesso
modo per tutte le altre grandezze della glossematica.
Quello che è impossibile in Hjelmslev infatti è la definizione di una cosa
per proprietà: non si può cioè dare una definizione di un oggetto teorico
propriamente glossematico che permetta di costruire un insieme (una classe)
che includa ed escluda degli elementi in funzione delle proprietà stabilite
dalla definizione. Al contrario, la classe è un elemento che assume il suo
senso e la sua identità esclusivamente in funzione della posizione in cui si
trova all’interno di un determinato taglio. Tutti gli oggetti teorici
glossematici in Hjelmslev sono, infatti, definiti relazionalmente in un piano
d’immanenza puro (sistema) che li àncora relativamente solo in funzione di
quel piano. Su un altro piano le cose cambiano, e quello che era ad esempio
sostanza (e dunque definito relazionalmente in opposizione a forma) può
tranquillamente diventare forma. Ecco allora in cosa consiste propriamente
la liberazione hjelmsleviana che ha luogo con la scoperta di un terzo ordine
propriamente glossematico popolato in perfetta solitudine dalla classe: le
“cose” non sono niente, quello che è sostanza può benissimo essere forma,
quello che è espressione può benissimo essere contenuto e così via. Ciò che
conta è esclusivamente il piano in funzione del quale degli elementi si
interdefiniscono ancorandosi relazionalmente gli uni in rapporto agli altri.
Ciò che conta è esclusivamente il piano che è tagliato in quel modo e non in
un altro, ma che può benissimo essere tagliato in un altro modo, su un
differente livello.
Per questo, con Hjelmslev il concetto di classe subisce una rivoluzione
decisiva rispetto al suo significato logico-matematico (Russell/ Whitehead) o
epistemologico (Popper ad esempio). Una classe in Hjelmslev non è affatto
un insieme costituito da elementi che hanno certe proprietà. Al contrario una
classe è un oggetto che si taglia in molti modi, ed è sempre in funzione del
taglio che àncora relazionalmente le componenti della classe che ogni
componente assume l’identità che ha all’interno di quel piano, e cioè
all’interno di quella determinata classe. In funzione di un altro taglio, le cose
cambiano. Gli oggetti teorici hjelmsleviani (espressione/contenuto;
materia/forma/sostanza) funzionano esattamente come gli oggetti sottoposti
alla loro analisi: come le unità di contenuto (Baum/Holz/Wald ecc.), essi
vedono definita la loro identità in funzione del taglio che le interdefinisce
relazionalmente. “Baum” ad esempio assume il suo senso solamente in
riferimento al taglio che ne delimita l’estensione semantica in funzione degli
altri elementi della lingua (componenti in Hjelmslev); ma in un’altra lingua,
in funzione di un altro taglio, le cose cambiano. Così è per la teoria
glossematica, che è “tagliata” nello stesso modo in cui lo è il suo oggetto. E
del resto se Hjelmslev ci dicesse che cos’è la forma e che cos’è la sostanza,
che cos’è il contenuto e che cos’è l’espressione al di là dei loro reciproci
rapporti, ne darebbe una definizione sostanziale per proprietà e verrebbe
meno al principio fondamentale dello strutturalismo, che è costitutivo anche
di ogni impresa autenticamente semiotica, e cioè quello che dice che le entità
posseggono un’identità puramente relazionale, che è definita per
determinazione reciproca in funzione del taglio che le colocalizza su un
determinato livello.
Con la sua idea di classe, attraverso cui ne coniuga l’eredità, Hjelmslev ci
insegna insomma la potenza propriamente semiotica della seconda
accezione del valore saussuriano, in cui degli elementi puramente
immanenti vedono definita la loro identità esclusivamente in funzione del
sistema che è loro proprio e in cui si determinano reciprocamente.
Tuttavia, come detto in 1.3, Hjelmslev rifiuta con forza la prima
dimensione del valore di Saussure, che resta per noi del tutto fondamentale
per un’impresa semiotica. Dove ritrovare allora le forze proprie della prima
accezione? Dove ritrovare la potenza propria di un “fuori” dal sistema con
cui i valori non cessano di scambiarsi con qualcosa di altro rispetto al piano
in cui si costituiscono nella loro identità differenziale? Dove andare a cercare
una possibile traducibilità che ci consenta di concatenare elementi eterogenei
senza che con questo essi cessino di restare eterogenei? Come operare
insomma questa stretta sintesi disgiuntiva tra le due accezioni del valore
saussuriano?
Il nostro obiettivo di costruire una semiotica capace di tenere insieme le
prospettive di Peirce e Hjelmslev non può che indicare una strada che, come
speriamo di mostrare, è per noi del tutto fruttuosa. La semiotica peirciana, e
in particolare la sua teoria dell’interpretazione, definiscono infatti
esattamente questa teoria differenziale basata su di una logica delle relazioni
(Logica dei Relativi), in cui il valore si traduce continuamente con elementi
esterni al suo sistema più proprio.
Al fine di capire che cosa sia davvero la semiotica interpretativa di Peirce,
facciamo allora un esempio di processo che Peirce chiamerebbe
“interpretativo”, considerando l’undicesimo studio dell’opera 25 di Chopin.
Nel momento in cui la si ascolta da un compact disc, possiamo infatti dire di
aver sentito davvero l’opera 25 di Chopin, oppure non abbiamo piuttosto
avuto a che fare con delle variazioni di pressione dell’energia meccanica che
provocano proporzionali variazioni nei nostri ricettori una volta che
impattano sui nostri timpani? E ancora, possiamo dire di aver davvero
ascoltato l’undicesimo studio dell’opera 25 di Chopin, o non si tratta
piuttosto dell’esecuzione di Van Cliburn dell’undicesimo studio dell’opera
25 di Chopin? O non si tratta invece di una registrazione di una esecuzione
di Van Cliburn (si pensi a quante volte Van Cliburn abbia provato il pezzo,
che è difficilissimo, o a quante altre interpretazioni di altri pianisti esistano)?
Ma in realtà quello che abbiamo sentito è davvero la registrazione di
un’esecuzione di Van Cliburn dell’undicesimo studio dell’opera 25 di
Chopin, oppure non è in realtà altro che una sequenza particolare di simboli
binari immagazzinati in un compact disc e opportunamente trasdotti in
variazioni di energia elettrica prima di venire trasmessi a un amplificatore?
Ma che cos’è allora questa?

Figura 11. Partitura

A suo modo anche la notazione, così come l’esecuzione, la registrazione,


la variazione di pressione dell’energia meccanica, la particolarissima
sequenza di simboli binari in un CD è sotto un certo rispetto l’undicesimo
studio dell’opera 25 di Chopin. “Sotto un certo rispetto”: parola chiave della
semiotica interpretativa di Peirce su cui dovremo ritornare. Ma sotto un certo
rispetto anche il movimento delle dita del pianista che sta eseguendo la
partitura è l’undicesimo studio dell’opera 25 di Chopin: la sequenza dei
movimenti delle dita delle mani dell’esecutore è di fatto unica se comparata
ad altri brani musicali e sarebbe estremamente semplice filmarla e ricostruire
a partire da essa l’intera partitura. Ma se questo è vero, allora sotto un certo
rispetto anche questa immagine è l’undicesimo studio dell’opera 25 di
Chopin:
Figura 12. Diagramma delle battute d’apertura della mano destra dell’opera 25 di Chopin

non rappresentando altro che il differenziale delle altezze della mano destra
del brano rappresentate in un diagramma di flusso, che potrebbe definire
l’input per un software musicale di esecuzione meccanica ispirato alle
schede perforate di Conlon Nancarrow, software che potrebbe benissimo
risuonarci il brano fornendoci un’interpretazione diversa.
“Un’interpretazione diversa”. Di fatto, per Peirce tutti questi passaggi da
un elemento a un elemento eterogeneo che illumina sotto un certo rispetto
uno stesso oggetto sono interpretazioni dell’opera 25. E non solo le due
esecuzioni di Van Cliburn e del software, come si sarebbe tentati di sostenere
in prima istanza secondo l’utilizzo standard del termine “interpretazione”.
Leggiamo allora questo bel passo di Wittgenstein (1918, 4.014):
Il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione musicale, le onde sonore, stanno tutti l’uno
con l’altro in quella interna relazione di raffigurazione che sussiste tra linguaggio e mondo. A essi
tutti è comune la struttura logica.

Si potrebbe allora modificare questo passo e saremmo molto vicini a


catturare lo spirito del pensiero di Peirce: “il disco fonografico, il pensiero
musicale, la notazione musicale, le onde sonore stanno tutti l’uno con l’altro
in quella interna relazione di raffigurazione che sussiste tra segno, oggetto e
interpretante. A essi tutti è comune la struttura semiotica”. Per il momento,
diciamo semplicemente che quelle strutture espressive di cui ci siamo
occupati fino a ora sono tutte in qualche modo forme di manifestazione di
uno stesso oggetto che chiamiamo Opera 25 di Chopin, stanno tutte in
qualche modo al posto dell’Opera 25 e a essa rimandano in funzione di
punti di vista differenti. In Peirce qualcosa che sta al posto di qualcos’altro
sotto un certo rispetto è allora un segno (CP 2.228).
Tuttavia, al fine di comprendere la posizione di Peirce, non è sufficiente
dire che tutte queste forme di manifestazione stanno in qualche modo al
posto dell’Opera 25, occorrerà anche dire che esse stanno tra loro nello
stesso rapporto in cui stanno con l’Opera 25. Come vedremo tra breve, tutti
questi elementi condividono cioè una medesima forma di relazione che li
connette l’uno all’altro e permette di passare da un punto a un altro di questi
sistemi apparentemente così eterogenei. Del resto, proprio attraverso questa
procedura di passaggio che ci ha consentito di partire dal pensiero musicale
di Chopin e arrivare al diagramma di flusso che ne potrebbe generare la
musica, abbiamo avuto a che fare con fenomeni di competenza di un
pianista, di un ingegnere acustico, di un neurofisiologo, di un
programmatore informatico e così via. Con la sua teoria dell’interpretazione,
Peirce ci insegna insomma a tenere insieme questi elementi appartenenti a
sistemi eterogenei: il pensiero musicale di Chopin, la sua notazione in forma
manoscritta, la partitura stampata, l’esecuzione di Van Cliburn, i rapporti di
forza tra le dita delle sue mani nel movimento dell’esecuzione, le variazioni
di pressione atmosferica emesse dai martelletti del pianoforte, la loro
trasduzione in variazione di energia elettrica operata da un microfono, la
registrazione su nastro a bobine, i solchi del disco, la codificazione della
forma d’onda in simboli binari, il loro immagazzinamento in una sequenza
su CD, la ricodificazione in diagramma per piano meccanico, l’esecuzione al
calcolatore, la produzione di energia meccanica ottenuta attraverso il
convertitore analogico/digitale, l’impatto corrispondente sui nostri timpani,
la nostra idea del pensiero musicale di Chopin sono tutte cose che in qualche
modo stanno al posto della stessa cosa, pur differendo al contempo sotto
molti rispetti. Esse si dispongono serialmente lungo un continuum che
definisce una modulazione che ci permette di passare da un punto a un altro
attraverso punti intermedi. Del resto lo avevamo visto in 1.6, in cui
definivamo una serie continua di passaggi che colocalizzava elementi effetto
di un primo filtraggio, in modo da ricostruire così un nuovo continuum, al di
là dei misti che si danno nell’esperienza. Si trattava cioè di prendere un
punto (ad esempio, “pensiero musicale di Chopin”) e un altro punto
eterogeneo relativamente molto lontano (ad esempio, “produzione di energia
meccanica”) e vedere cosa passasse tra di essi, quali elementi di mediazione
partecipavano alla loro unione e quali altri ne venivano invece esclusi.
Peirce ci insegna così a connettere elementi appartenenti a sistemi
eterogenei, di modo che sia sempre possibile passare da un punto a un altro.
Questa configurazione di trasporto e di passaggio (trasduzione) ci consente
allora di definire proprio che cos’è un’interpretazione in Peirce e, com’è
noto, il concetto stesso di “semiotica interpretativa” deriva proprio dalla
nozione peirciana di interpretante.
Partiamo da una definizione, al fine di discuterla poi nei dettagli: la
possibilità semiotica di passaggio da una configurazione di relazioni
incarnata in un segno (primo token) a un’altra configurazione di relazioni
incarnata in un altro segno correlato (secondo token) in Peirce è
un’interpretazione. La rappresentazione mediatrice che consente di passare
da un primo segno a un secondo segno è un segno interpretante.
Una tale rappresentazione mediatrice può essere detta interpretante, perché svolge la funzione di
un interprete, il quale dice che uno straniero dice la stessa cosa che egli stesso dice. (CP 1.553)

In Peirce un’interpretazione non è quindi semplicemente il passaggio da


un punto a un altro, perché un passaggio di questo tipo potrebbe
tranquillamente collegare due cose completamente slegate tra di loro.
Un’interpretazione in Peirce è invece il passaggio da un punto a un altro
attraverso un terzo punto che li pone in rapporto, mediando così
costitutivamente la relazione che si instaura tra di essi. Far ascoltare l’Opera
25 e poi mostrare la partitura a qualcuno che non conosce la musica lo mette
senz’altro nelle condizioni di passare da una cosa all’altra, ma non lo mette
certo nelle condizioni di poter affermare che una è l’interpretazione dell’altra
finché non gli si dice che entrambe esprimono la stessa cosa (gli si poteva far
sentire Webern e mostrare la partitura di Chopin e nessuno avrebbe certo
affermato che l’una era l’interpretazione dell’altra). Un uomo che parla in
una lingua a noi nota accanto a un uomo che parla in una lingua che non
conosciamo non è un interprete (l’interpretante svolge sempre la funzione di
un interprete): dobbiamo sapere in qualche modo che i due stanno dicendo le
stesse cose. La stele di Rosetta non ha dato nessuna interpretazione del
geroglifico finché non si è immaginato che i suoi messaggi potessero avere
lo stesso contenuto.83 L’interpretazione non permette cioè semplicemente di
passare da un elemento a un altro, ma dice che il secondo elemento dice in
qualche modo la stessa cosa detta dal primo elemento sotto un altro rispetto:
per questo svolge la funzione di un interprete. Solo così si ha interpretazione
e un reale accrescimento di conoscenza:84 la nostra conoscenza non aumenta
in nessun modo se noi passiamo da un punto a un altro senza essere passati
attraverso una terza rappresentazione mediatrice che ci mostra il modo in cui
i due elementi sono legati tra loro. Sta esattamente in questo il portato
profondo dell’idea peirciana che la semiotica interpretativa studia la semiosi,
e cioè una relazione genuinamente triadica non risolvibile in un rapporto tra
coppie (cfr. CP 5.484). Per questo era possibile definire l’interpretazione
come la possibilità semiotica di passaggio da un punto a un altro: un
passaggio che sia autenticamente semiotico deve infatti sempre transitare
attraverso un terzo punto che svolge la funzione di un interprete,
l’interpretante.
Mettere insieme differenti soggetti nel modo in cui i segni li rappresentano in quanto collegati tra
loro – è questo il risultato principale della formazione di interpretanti. (NEM III, p. 840)

Del resto era esattamente quello che accadeva in tutti i nostri esempi
precedenti, dove c’era un continuo illuminare uno stesso oggetto sotto
differenti rispetti, passando attraverso nuovi segni in maniera tale da poter
conoscere qualcosa di più. Leggiamo allora una delle definizioni più
complete in assoluto date da Peirce:
Un Segno o Representamen è un Primo che sta in una tale relazione triadica genuina con un
secondo, chiamato il suo Oggetto, da essere capace di determinare un Terzo, chiamato il suo
Interpretante, ad assumere la stessa relazione triadica con l’Oggetto nella quale si trova il Segno o
Representamen stesso con lo stesso Oggetto. La relazione triadica è genuina in quanto collega
insieme i suoi tre membri in un modo che non consiste in alcun complesso di relazioni diadiche.
Questa è la ragione per cui l’Interpretante, o Terzo, non può stare in una mera relazione diadica con
l’Oggetto, ma deve stare con esso Oggetto nella medesima relazione in cui vi sia il Representamen
stesso. […] Il Terzo deve sì stare nella medesima relazione in cui sta il Primo, e quindi deve essere
capace di determinare, come il Segno o Representamen, un Terzo suo proprio; ma, oltre a questo,
deve avere una seconda relazione triadica nella quale il Representamen, o piuttosto la relazione del
Representamen con il suo oggetto, sarà il suo proprio (del Terzo) Oggetto, e deve quindi essere
capace di determinare un Terzo a questa relazione. Tutto questo deve essere ugualmente vero per i
Terzi del Terzo e così via senza fine; e tutto ciò e anche più di ciò è implicato nell’idea corrente di
Segno. (CP 2.274)
Figura 13. Concatenamenti triadici di relativi (semiosi infinita)

Ecco che cos’è un segno in Peirce ed ecco che cos’è un’interpretazione:


c’è un primo concatenamento di oggetto, segno, interpretante (ad esempio,
“pensiero musicale di Chopin/partitura/esecuzione di Van Cliburn”) sul
quale se ne istalla un secondo (ad esempio, “partitura/esecuzione di Van
Cliburn/registrazione”) e poi un terzo e così via all’infinito.
Innanzi tutto va alla tua prima pianta (x) e là osserva attentamente come scorre l’acqua a partire da
questo punto. La pioggia ha dovuto trasportare le sementi lontano. Segui i rigagnoli che l’acqua ha
scavato, così conoscerai la direzione dello scorrimento. Cerca allora la pianta che, in questa
direzione, si trova più lontano dalla tua (z). Tutte quelle che crescono tra queste due ti
appartengono (y). Più tardi, quando queste ultime a loro volta produrranno i loro semi, tu seguendo
il corso delle acque a partire da ciascuna di queste piante, potrai accrescere il tuo territorio”
(Deleuze e Guattari, 1980, p. 15, riferimenti tra parentesi al grafo peirciano nostri).
Figura 14. Logica dei relativi: genesi delle relazioni di valenza superiore a 3 a partire dalle triadi
(CP 3.483-3.484)

Un rizoma (figura 10), sul tipo di quei reticoli di relazioni partecipative


che vedevamo in 1.6. Questa è senz’altro una buona immagine e una
modellizzazione che sapremo far diventare costitutiva del processo di
interpretazione peirciano e del suo modo di fare semiotica (cfr. infra,
capitolo 3): siamo in un punto, ma questo punto ci rimanda a un altro punto
in cui ci possiamo collocare attraverso la mediazione di un terzo punto, e
questo altro punto ci rimanda a un altro punto ancora e così via all’infinito.
Occorrerà allora sottolineare con forza la struttura costitutivamente triadica
del modello di Deleuze e Guattari, in questo eideticamente adeguato a
rendere conto della struttura dell’interpretazione propria della semiotica
interpretativa: da un punto si va al punto più lontano solamente seguendo il
percorso intermedio. È così che si accresce il territorio.
È allora del tutto evidente come la semiotica di Peirce definisca una serie
di posizioni interdefinite la cui natura è topologica e relazionale, e non
logica e sostanziale, tanto che l’esecuzione di Van Cliburn è un interpretante
nel primo concatenamento triadico, è un segno nel secondo ed è un oggetto
nel terzo. Per questo nell’analizzare la semiotica di Peirce nel rapporto con
la sua Logica dei Relativi, potevamo sottolineare come segno, oggetto e
interpretante non fossero affatto delle “cose” dotate di una loro identità
indipendente, né servissero a determinare l’appartenenza a ordini ontologici
differenti.
È invece stata spesso proprio questa l’interpretazione standard della
semiotica di Peirce. La lettura “maggiore” di questa distinzione, da cui non
sono esenti anche alcuni autori che si sono voluti “interpretativi”, è stata
infatti quella di interpretare la triade peirciana sulla base dei triangoli di
Ogden e Richards (1923), che Peirce non ha mai costruito nemmeno una
volta nelle sue migliaia di pagine manoscritte (un triangolo in Peirce è una
triade degenerata, e cioè riducibile a rapporti tra coppie). In questo modo, si
è finito per distinguere un piano di “realtà” (oggetto), un piano di
rappresentazione di questa realtà (representamen o segno) e il movimento
interpretativo infinito e differito della rappresentazione di questa stessa
realtà (l’interpretante come ulteriore segno, l’interpretante come ulteriore
representamen all’interno di un movimento di “semiosi illimitata”).85 Questa
lettura “maggiore” e rappresentazionalista della semiotica di Peirce è allora
completamente al di fuori dell’orizzonte peirciano.86
Segno, oggetto e interpretante sono infatti semplicemente dei funtivi di
una funzione triadica, degli attanti la cui identità è puramente topologica e
relazionale, dei posti che possono venire occupati di volta in volta da
elementi variabili, tanto che quello che prima è oggetto può poi diventare
segno e poi interpretante e viceversa. Segno, oggetto e interpretante non
posseggono né un’identità logica né un’identità sostanziale, bensì
un’identità trasduttiva, in quanto rimandano a interpretanti futuri la
determinazione della loro stessa identità. Per questo secondo Peirce non si
tratta di individui, bensì di possibilia indeterminati che sono determinabili
esclusivamente attraverso determinazione reciproca (cfr. infra, capitolo 3 e
4). Ancora una volta, Peirce è qui vicino al calcolo differenziale e alla
determinazione reciproca degli elementi nella funzione derivata (dy/dx): per
questo, come detto, la sua semiotica non presenta tanto connessioni con la
logica matematica, bensì con l’analisi matematica (cfr. supra, 1.6, NEM
III/2).
Il movimento interpretativo della semiotica di Peirce è definibile
attraverso ciò che Simondon (1964) chiamava trasduzione, e cioè
un’operazione relazionale i cui termini non preesistono alla sua
effettuazione, ma emergono a seguito del processo stesso. La trasduzione
affianca così la classica triade peirciana deduzione/induzione/abduzione:
essa definisce il passaggio dalla forma di relazione incarnata in un
elemento=x, che svolge la funzione di oggetto, alla forma di relazione
incarnata in un elemento=y, che svolge la funzione di segno, fino alla forma
di relazione incarnata in un elemento=z, che svolge la funzione di segno
interpretante (cfr. CP 3.483-3.484). Si tratta di un movimento essenzialmente
anti-logico, se per “logico” si intende la teoria dell’inferenza così com’era
stata formulata da Peirce nei saggi anticartesiani.
Si sono infatti spesso collegate semiosi e abduzione, fondando ad esempio
il passaggio da segno a segno sul movimento dell’inferenza. Tuttavia, in
Peirce è innanzi tutto il movimento della trasduzione, che Peirce chiamerà
poi “diagrammatico”, quello che è invece costitutivo della semiosi.
L’abduzione è infatti costitutiva della semiosi solo ed esclusivamente in
quanto essa stessa presenta al suo interno un movimento trasduttivo
irriducibile alla sua componente logico-inferenziale. A livello logico-
inferenziale, infatti, l’abduzione non fa altro che inferire la premessa minore
di un sillogismo aristotelico “barbara” dalla premessa maggiore e dalla
conclusione, e cioè da un caso e da una regola, e scommette così che quel
determinato caso sia esattamente il caso di quella regola (cfr. W1, pp. 505-
514). Si tratta di un movimento token/type fondato su di un modello di
“inclusione in classi” (quel caso è l’elemento di quell’insieme),87 tanto che
lo si è giustamente potuto accostare al movimento riflettente della facoltà di
giudizio kantiana e al suo “portare sotto regole”, attraverso cui Kant sviluppa
e riformula, nella sua terza critica, i problemi legati allo schematismo (cfr.
Eco, 1997, cap. 2).
Come abbiamo visto, la realtà è che una volta fondata la Logica dei
Relativi, Peirce sostanzialmente abbandonerà questo modello dell’inclusione
in classi (“riportare un caso a una regola”) a favore di un modello strutturale,
e dirà piuttosto esplicitamente che gli schemi sono diagrammi e che tutti i
problemi riguardanti lo schematismo si risolvono “diagrammaticamente”, e
cioè trasduttivamente e non abduttivamente (cfr. infra, 4.11). Ci occuperemo
dell’identificazione peirciana di diagramma e schema in merito ai problemi
di Kant e l’ornitorinco nel capitolo 4, ma fin da subito vanno sottolineate
alcune differenze decisive tra la trasduzione e la triade
deduzione/induzione/abduzione: i) mentre quest’ultima definisce un
movimento type/token (deduzione) o token/type (induzione e abduzione), la
prima definisce un movimento token/token;88 ii) mentre la triade
deduzione/induzione/abduzione è di tipo logico, la trasduzione è invece di
tipo analogico, nel senso in cui si parla appunto di “trasduttori analogici”
(cfr. infra, 4.11). È allora esattamente su processi di tipo analogico e
diagrammatico che per Peirce si accresce la conoscenza. Da qui la
connessione tra trasduzione diagrammatica e semiosi, che mostreremo nei
dettagli nel capitolo 4. Da qui l’idea che l’abduzione sia connessa alla
semiosi e all’interpretazione solo ed esclusivamente in quanto essa stessa
presenta al suo interno un movimento trasduttivo irriducibile a
determinazioni “logiche”.
Si è infatti spesso equivocato sulla natura dell’abduzione peirciana. In CP
8.227, a inizio del Novecento, Peirce dice di aver confuso le tre forme di
inferenza “in qualsiasi cosa stampata prima dell’inizio del secolo” (CP
8.227) e rimprovera a se stesso di aver sempre confuso induzione e
abduzione. Per qualsiasi esperto del pensiero di Peirce, si tratta di
un’affermazione quanto meno straniante, dal momento che, almeno fin dai
saggi anticartesiani, ma già dai Memoranda sul sillogismo aristotelico di un
paio di anni prima, Peirce distingueva benissimo e con grande rigore formale
deduzione, induzione e ipotesi (cfr. W1, pp. 358-514). Che cosa è successo
allora nei primi anni del Novecento da aver rappresentato una svolta per lui
così epocale (cfr. Sebeok e Sebeok, 1983, pp. 42-47)?
In CP 8.228, Peirce rintraccia il motivo della sua confusione tra i tre tipi di
inferenza nel “concetto troppo ristretto è formale” che si ha in logica
dell’inferenza (cfr. CP 5.590, MS 475, 1146).
I logici hanno fallito nel riconoscere la tricotomia [deduzione/induzione/abduzione] perché hanno
sempre avuto un concetto troppo ristretto è formale dell’inferenza (quale necessario ottenimento di
giudizi formulati a partire da premesse). Per questo non hanno riconosciuto l’ipotesi (o, come la
chiamo ora, retroduzione), come un’inferenza. (CP 8.228)

Cioè l’abduzione per Peirce non è un’inferenza in questo senso “formale e


ristretto” che, ricordiamolo, la riportava a un “portare sotto regole”, a uno
scommettere che quello fosse il caso di una determinata regola. L’abduzione
è un’inferenza solo ed esclusivamente in un senso “non formale” e “non
ristretto”, che si tratterà di esplicitare. La cosa è ben più complessa rispetto
all’ovvia considerazione che nell’abduzione il giudizio della conclusione
non deriva necessariamente – ma soltanto probabilmente – dalle premesse,
aspetto che Peirce formulava già molto chiaramente nei saggi anticartesiani
del 1868. Che cosa succede allora all’abduzione a inizio del Novecento? In
che modo essa viene trasformata? Non sarà forse che proprio in questi anni
Peirce scopre un nuovo tipo di ragionamento non riconducibile a criteri
logico-formali né a un “portare sotto regole”, bensì al libero gioco del
ragionamento? E non sarà forse che l’abduzione abbia per essenza rapporti
con questo tipo di ragionamento, che Peirce chiamerà play of musement? Ma
che cos’è allora il play of musement?
II musement è definito da Peirce come il processo con cui si cerca qualche
connessione tra due universi di esperienza (CP 6.455). Questo processo, la
cui trama “è così antitetica rispetto alla vacuità e al sogno”, è, dice Peirce, un
“Puro Gioco privo di regole eccetto la legge della libertà stessa” (CP 6.455-
6.458). La formulazione “legge della libertà” rimanda ovviamente al
sinechismo, di cui Peirce stava delineando le specificità proprio in quegli
anni, in cui anche la libertà e la spontaneità (Primità) nascono da
meccanismi regolari che hanno la natura di una legge o di un abito (Terzità).
Il play of musement consiste dunque nel connettere due differenti ambiti di
esperienza senza che ci sia una regola su cui fondare questa connessione, per
quanto non manchi invece una regolarità che è costitutiva della “legge della
libertà”. Il suo essere un puro gioco che “non ha altro scopo che quello di
mettere da parte tutti gli scopi” (CP 6.458) ci rimanda allora molto
chiaramente alla struttura del giudizio estetico della Critica della capacità di
giudizio di Kant, in cui il giudizio è fondato esattamente su di un libero
gioco tra le facoltà assolutamente privo di regole, ma che non per questo non
esige una sua propria universalità. Si tratta infatti di “un’universalità
soggettiva” che non è valida oggettivamente, come quella fondata su regole,
bensì distributivamente, e cioè “per ognuno singolarmente”.
Questo doppio rimando a Kant ci consente allora di fare chiarezza su cosa
l’abduzione diventa nel momento in cui Peirce la stacca “dal concetto troppo
ristretto e formale di inferenza”. Vedevamo infatti che l’abduzione come
inferenza “ristretta e formale” definisse un movimento simile a quello della
facoltà riflettente di giudizio kantiana, in cui si riporta un caso sotto una
regola, tanto che Eco (1997, p. 74) identificava esplicitamente le due
nozioni. Al contrario, il play of musement peirciano corrisponde a quel
processo in cui si connettono tra di loro cose separate anche molto lontane,
attraverso un libero gioco non riconducibile a regole, processo su cui Kant
fondava il giudizio estetico. Non è certamente un caso se Peirce si sia
sempre definito come “il più kantiano dei pensatori”.
Ecco allora che, nel momento in cui verrà staccata “dal concetto troppo
ristretto e formale di inferenza”, l’abduzione coprirà per Peirce entrambi
questi momenti,89 là dove “in tutte le cose pubblicate prima dell’inizio del
Novecento”, essa era invece identificata esclusivamente col primo. Ben
lungi dall’essere una semplice inferenza logica, essa diventerà infatti una
“strana insalata i cui elementi fondamentali sono la sua infondatezza, la sua
onnipresenza e la sua attendibilità” (MS 692).
È allora del tutto evidente come questa “strana insalata” non possa essere
ridotta a un “portare sotto regole”, per quanto ignote siano queste regole
(così nel giudizio riflettente kantiano). Questo è solo l’aspetto “ristretto e
formale” della questione, da cui l’abduzione ricava il suo carattere di
“attendibilità”, ma non certo quelli di “onnipresenza” e “infondatezza”. Ben
prima e ben più che una figura soltanto logica, l’abduzione è qualcosa
dell’essenza di un misto (“un’insalata”), e di un misto che tiene insieme cose
eterogenee che normalmente vengono tenute separate:
È vero che i differenti elementi dell’ipotesi erano prima nelle nostre menti, ma è l’idea di mettere
insieme ciò che prima non ci eravamo mai neppure sognati di mettere insieme che illumina
bruscamente la nuova suggestione al cospetto della nostra contemplazione. (CP 5.181)

L’abduzione è esattamente il processo di tenere insieme cose che fino


all’atto abduttivo si ritenevano separate. È in questo senso, e non certo in
quello di uno shift intuitivo, che l’abduzione è “un atto di insight
estremamente fallibile” che viene come “un lampo di luce” (CP 5.181): essa
fa vedere connesse cose che prima non lo erano, ne mostra i nessi e ne
individua così l’interpretante, e cioè la rappresentazione mediatrice che
consente di passare da una all’altra. Da qui la sua essenza trasduttiva che la
connette al play of musement, alla semiosi e all’interpretazione.
La verità è che l’intero intreccio della nostra conoscenza è un feltro pressato fatto di pura ipotesi
[…]. Non si può fare neppure il più piccolo avanzamento di conoscenza, oltre la fissità di uno
sguardo vacuo, senza fare a ogni passo un’abduzione. (MS 692)

Dal momento che essa è “Argomento originario” (2.97), in quanto delle


tre forme di ragionamento “è l’unico tipo di argomento che origina una
nuova idea”, con l’abduzione Peirce ci consegna un’idea di “avanzamento
della conoscenza” che consiste nel tenere insieme cose che normalmente
consideravamo separate: il nuovo si fa con brandelli di vecchio tra i quali si
costruisce un concatenamento grazie a un’abduzione. In quanto processo che
definisce la costruzione di commensurabilità tra elementi eterogenei,
l’abduzione è basata quindi sul processo di interpretazione, e cioè sul
processo di passaggio da un elemento a un altro elemento eterogeneo tra cui
si costruisce un concatenamento (ratio90). Il suo effetto è esattamente un
interpretante, e cioè un elemento terzo che tiene insieme due cose che
pensavamo come separate. Come notano giustamente Sebeok e Sebeok
(1983, p. 36):
L’abduzione è un istinto che fa affidamento su percezioni inconsce di connessioni tra aspetti
diversi del mondo.

Possiamo allora connettere la doppia natura logico-analogica


dell’abduzione al movimento dell’interpretazione all’interno
dell’enciclopedia, dal momento che in questo libro sosterremo la natura
essenzialmente enciclopedica del processo semiotico di interpretazione.
Vedevamo come un reticolo enciclopedico fosse un “incollamento” di spazi
striati e spazi lisci, e cioè di sistemi di opposizioni stabili governati da regole
locali (spazi striati) e di sistemi attraverso cui si esce da queste stesse
opposizioni specifiche che regolano un dominio determinato,
riconfigurandone la struttura (spazio liscio). L’abduzione, con la sua duplice
anima logica e trasduttiva, permette di orientarsi all’interno
dell’enciclopedia in entrambi i tipi di “spazi”: i) attraverso il suo “portare
sotto regole”, essa consente di ricondurre tokens a sistemi type con la loro
struttura concettuale e oppositiva; ii) attraverso il suo “connettere elementi
che non ci saremmo mai sognati di connettere”, essa consente di uscire dai
sistemi stabilizzati di opposizioni in atto e costruire nuovi concatenamenti
tra i nodi della rete.
Il processo abduttivo non è quindi soltanto il processo che ci fa passare da
un nodo della rete a un altro all’interno di configurazioni già tracciate
(spazio striato), ma è anche il processo produttivo che fa esplodere la rete in
un nuovo concatenamento tra elementi precedentemente non connessi
(spazio liscio). L’arte di “indovinare nuove connessioni costruendo
un’insalata”, diceva Peirce. Proprio grazie a questa sua doppia anima che
tiene insieme “attendibilità” e “infondatezza”, essa è in grado di rendere
davvero conto dell’“intreccio della nostra conoscenza” (cfr. Morin, 1986, pp.
153-168).
In conclusione, chiediamoci allora qual è il senso profondo di questo
movimento propriamente trasduttivo che Peirce chiama interpretazione.
Come si vede bene dal grafico in figura 9, la semiotica peirciana è fondata su
di una continua reiterazione della stessa funzione triadica che concatena tra
loro elementi interdefiniti. Una prima relazione triadica, poi a partire da essa
un’altra relazione triadica e così via. Attraverso queste infinite iterazioni di
una stessa funzione si accresce il contenuto, si accresce il “territorio di
comprensione”, conosciamo qualcosa di più attraverso il continuo
relazionarsi di qualcosa con qualcosa d’altro che conoscevamo in
precedenza. In Peirce abbiamo insomma una continua reiterazione della
stessa funzione triadica e, a ogni iterazione, raggiungiamo un maggiore
dettaglio nell’interpretazione del nostro oggetto. Accadeva così nei nostri
esempi iniziali, in cui a ogni passaggio eravamo in grado di vedere qualcosa
di più all’interno di una serie di forme di relazione in cui non si cessava di
spostarsi tra gli elementi in gioco. Com’è evidente, questo comporta un
continuo concatenarsi di elementi appartenenti a sistemi anche molto
eterogenei, tra cui si costruisce una commensurabilità locale che li rende
traducibili l’uno con altro. È del resto questa l’essenza stessa
dell’interpretazione peirciana, in cui una prima configurazione di rapporti ne
innesca un’altra che si concatena con essa attraverso la mediazione di una
Terzità – l’interpretante – che dice che ciò che essa dice è la stessa cosa detta
da un altro elemento sotto un altro rispetto (cfr. CP 1.553).
Con la sua teoria dell’interpretazione, Peirce ci insegna la potenza
propriamente semiotica della prima accezione del valore saussuriano, in cui
degli elementi eterogenei si concatenano senza con questo cessare di essere
eterogenei, ma producendo una commensurabilità locale che ne assicura
reciproca traducibilità e possibilità di passaggio da un punto a un altro.
Questa possibilità di passaggio, l’interpretazione, è ottenuta attraverso la
continua iterazione di una stessa funzione triadica, la semiosi, che definisce
nella sua stessa essenza la semiotica interpretativa come disciplina
trasduttiva che concatena elementi eterogenei.

In conclusione di questo nostro ultimo “tenere insieme” le prospettive di


Peirce e Hjelmslev, occorre allora ritornare su un punto fondamentale, che
avevamo visto presente in entrambi i nostri autori, e che dunque interessa
essenzialmente la costruzione di una semiotica interpretativa, nel senso
precisato fin qui. In entrambi i casi abbiamo infatti assistito a una sorta di
ostinata iterazione di una medesima funzione, di “taglio” in Hjelmslev,
“triadica” in Peirce. Attraverso l’iterazione di una medesima funzione di
taglio, Hjelmslev striava infatti lo spazio della glossematica e ne generava
così tutti gli oggetti teorici a partire dal dispiegamento dall’unità indivisa
della classe. Attraverso l’iterazione di una medesima funzione triadica,
Peirce mediava invece tra le opposizioni e le teneva insieme in uno spazio
continuo “liscio”, in cui ogni conflitto era essenzialmente dispiegato a
partire dal dispiegamento della struttura mediatrice dell’interpretazione. Ora,
com’è noto, Deleuze e Guattari definiscono il rizoma, che è esattamente
l’unione di uno spazio liscio e di uno spazio striato, nonché l’oggetto teorico
che modellizza il funzionamento dell’enciclopedia nella semiotica
interpretativa di Umberto Eco, come una molteplicità frattale (cfr. Deleuze e
Guattari 1980, p. 711).
Che cos’è allora un frattale (cfr. figura 3), se è frattale un rizoma
enciclopedico? Innanzi tutto il frattale non è per nulla una metafora, bensì
una funzione che ha una forma di questo tipo: Z=(f)Z (che per Z=Z2+C dà il
classico insieme di Mandelbrot). Che forma è questa? Che tipo di funzione
dà cioè vita agli oggetti frattali? Si tratta di una funzione ricorsiva in cui
vengono continuamente reiterati pezzi di se stessa. Questa procedura
ricorsiva dà allora vita a una delle due caratteristiche fondamentali che
definiscono un frattale, e cioè l’autosimilarità: un frattale è una figura in cui
un motivo identico si ripete su scale differenti, a diversi livelli di risoluzione.
Questo significa che attraverso l’iterazione della funzione si ottengono
figure ricorrenti, che a ogni ingrandimento riveleranno nuovi dettagli (cfr.
Mandelbrot, 1987; Peitgen e Richter, 1987).
Ma ricordiamoci allora Peirce. Come funzionava l’interpretazione in
Peirce? C’era il continuo ripetersi di una stessa funzione triadica e a ogni
stadio di questo ripetersi (partitura, esecuzione, registrazione ecc.)
scoprivamo nuovi dettagli nell’oggetto di cui cercavamo di definire il senso:
a ogni momento in cui reiteravamo la semiosi, illuminavamo cioè lo stesso
oggetto sotto un differente rispetto e ne scoprivamo qualche cosa di più. Ma
che cosa succedeva allora in Hjelmslev? Come funzionavano gli oggetti
della glossematica? Anche in Hjelmslev c’era una continua reiterazione di
una stessa funzione di taglio, che faceva sì che a ogni stadio dell’analisi si
fosse in grado di raggiungere un maggiore dettaglio nella precisione del
metodo glossematico, senza con questo mai uscire dal livello immanente che
gli era proprio. Ed è esattamente questa immanenza pura ciò che interessa a
Deleuze e Guattari (1980, pp. 16-19).

Figura 15. Curva frattale di Von Koch


Nel capitolo sul liscio e lo striato, Deleuze e Guattari introducono infatti
la curva frattale di Von Koch proprio nel tentativo di definire una teoria della
differenza che si opponga da una parte a quella arborescente (Porfirio ad
esempio) e dall’altra a quella strutturale. In entrambe, infatti, un’unità o una
struttura profonda operano “in seno a una dimensione supplementare a
quella del sistema considerato. Ma per l’appunto un rizoma […] non dispone
mai di una dimensione supplementare al numero delle sue linee, e cioè a ciò
che lo percorre o si iscrive in esso: in questo senso è una molteplicità piatta,
per esempio una linea che riempie in quanto tale un piano; lo spazio e ciò
che occupa lo spazio tendono a identificarsi” (Deleuze e Guattari 1980, pp.
11, 712).

Figura 16. Un frattale

Occorrerà allora sottolineare con forza l’importanza capitale di questo


concetto di dimensione frazionaria o di “molteplicità piatta” che riempie in
quanto tale un piano, dal momento che ne vedremo in seguito l’importanza
per la semiotica e la sua teoria della differenza (cfr. infra, capitolo 3). Che
cosa vuol dire infatti che un elemento che si manifesta in un rizoma non è
rimandato a dimensioni supplementari a quelle della sua molteplicità? Come
detto, in matematica le dimensioni sono le variabili o le coordinate da cui
dipende un fenomeno, per cui per definire una retta nel piano, ad esempio, si
ha bisogno di due coordinate, nello spazio di tre, nello spazio-tempo di
quattro e così via: tutte dimensioni superiori rispetto a quella della retta. Il
frattale è allora il primo oggetto matematico in assoluto che non vede
definita la sua identità da qualche cosa che rimanda a un livello che
trascende la propria immanenza.
E però, in questo modo, una logica frattale, e dunque una logica
rizomatica, e dunque una logica interpretativa (hjelmsleviano-peirciana), si
ritrova a incarnare il pericolo più grande per il sapiente platonico, e cioè la
possibilità che egli possa diventare un nemico del logos. Com’è noto,
articolare il logos significa “raccogliere o raccogliersi, ordinare o legare,
dividere e mettere insieme quanto si ap-prende in modo sparso” (Bodei,
1997, p. 75). Logos è infatti la sostantivazione di legein (raccogliere). In
italiano la radice “leg-” si è conservata in legume, ed è sufficiente pensare
proprio alla struttura del legume per capire che cosa significhi articolare il
logos: diversi frutti sparsi che condividono proprietà vengono raccolti sotto
un unico baccello. Si è articolato il logos quando una molteplicità viene
raccolta sotto una dimensione supplementare d’unità che pretende di definire
gli elementi a cui è comune (un’essenza o un type, ad esempio); oppure
quando qualcosa che si manifesta viene rimandato a una dimensione
profonda in cui si troverebbe organizzato “anteriormente alla sua
manifestazione” (Greimas, 1970, p. 168). Nel primo senso si ha un teoria
della differenza essenzialista (“porfiriana”, costruita per genere e differenza
specifica), nel secondo caso una teoria della differenza strutturalista, qual è,
ad esempio, quella che sta alla base della divisione greimasiana del semico e
del lessemico (cfr. infra, 3.9). Non raccogliendo gli oggetti che si
manifestano sotto un baccello comune che li conterebbe e non articolandoli
in una struttura profonda che ne rappresenterebbe una dimensione superiore
o supplementare, un rizoma, in quanto molteplicità frattale, si propone come
un Antilogos (cfr. Risset, 1977).
Ma non è allora forse proprio questa immanenza pura che è propria di un
antilogos ciò che definisce quel terzo ordine al di là dell’oggettività dei fatti
e delle loro rappresentazioni teoriche che è proprio della semiotica
interpretativa? Non è cioè esattamente qualcosa che ha a che vedere con
questo antilogos che definisce il senso profondo di questo nostro percorso
attraverso Peirce e lo strutturalismo?
Per far luce adeguatamente su questo punto, occorrerà allora fare
riferimento a un saggio poco conosciuto in cui Umberto Eco (1982)
rispondeva a certe considerazioni di Roger Scruton (1981), filosofo di
formazione analitica che aveva recensito il suo Lector in Fabula su di una
rivista inglese.
1.8. Antilogos. Eco, Scruton e ritorno a Saussure: la semiotica come
disciplina monotremica en plein air

Incominciamo col leggere le argomentazioni, a nostro parere decisive, di


Eco.
Questo Roger Scruton è un inglese formatosi sulla filosofia analitica, con un senso molto
scientifico della propria disciplina, con un’osservanza molto rigida dei propri paradigmi. A un
certo punto Scruton dice che l’idea di una scienza generale dei segni è radicata in una fallacia. C’è
una scienza dei pesci perché i pesci sono tutti costituiti in modo simile, hanno un’essenza
scopribile, al di là dell’ovvio fatto che ci conduce a etichettarli come tali. I pesci costituiscono un
“genere naturale”: un pesce ha delle proprietà precise, mentre un presidente non è un genere
naturale (si può essere presidente di un banca, di un consiglio, ecc.): è una funzione. Quindi i
generi naturali possono essere oggetto di una scienza, mentre i generi non naturali no. I bottoni,
aggiunge Scruton, non hanno questa essenza e non hanno una identità comune al di là della
funzione che essi rivestono. Vuol dire probabilmente che ci sono bottoni ornamentali, bottoni da
abbottonamento, bottoni d’oro, bottoni d’osso. Non ci può essere una scienza generale della
costituzione dei bottoni. Tutt’al più, se c’è una scienza dei bottoni, è una scienza della loro
funzione.
Non capisco bene questo “tutt’al più”. Trovo abbastanza interessante che si possa fare scienza di
una funzione. Prosegue Scruton: “La parola segno rientra in questo genere, come i bottoni, perché
non riusciamo a trovare niente in comune tra il modo in cui una nuvola può essere segno di
qualcosa e una parola può essere segno di qualcosa”. (Eco, 1982, pp. 141-142; cfr. anche Eco,
1985a)

La semiotica come scienza dei bottoni, la semiotica come scienza di una


funzione. Qual è allora il problema del costituirsi stesso della semiotica in
quanto disciplina e del suo costituirsi proprio in quanto disciplina
interpretativa? Ci sono tutta una serie di oggetti sparsi: bottoni, pesci,
nuvole, parole. Per Scruton allora una disciplina seria e scientifica deve
dividere, ordinare e raccogliere tutti questi elementi sparsi sotto una
dimensione comune, in funzione delle loro differenti proprietà:91 si dà
scienza dei pesci solo perché i pesci sono in qualche modo tutti costituiti in
modo simile. Una scienza sarebbe insomma una “logia”, nel senso in cui
parliamo di biologia come scienza della vita (bios) o di antropologia come
scienza dell’uomo (antropos). Per Scruton insomma una scienza, per essere
tale, dovrebbe essere in grado di articolare un logos (da qui “biologia”,
“antropologia” ecc.), e cioè raccogliere e ordinare in una dimensione
comune ciò che si apprende in modo sparso. Se non che, la semiotica, in
quanto disciplina dei bottoni, in quanto scienza di una funzione, non avrebbe
nessun logos da articolare, dal momento che non riusciamo a trovare niente
di comune “tra il modo in cui una nuvola può essere segno di qualcosa e una
parola può essere segno di qualcosa”. E infatti una semiotica non è una
semiologia, in quanto non ha logos, in quanto non raccoglie i suoi frutti
sparsi sotto una dimensione superiore di baccello che ne sarebbe comune e li
ricondurrebbe a unità. Scienza di funzioni dunque, antilogos: semiotica e
non semiologia.
Ma che cosa vuol dire allora che la semiotica è una scienza di funzioni? E
in che modo il suo essere scienza di funzioni non è in grado di qualificarla
come una “logia”? Per spiegare questo punto cruciale, nel prosieguo del
saggio, Eco si riferisce proprio a Peirce e alla sua teoria del segno. Come
abbiamo visto, in Peirce si ha un segno quando si ha il dispiegarsi di una
forma di relazione triadica i cui elementi non esistono se non nel loro
rapporto con l’altro (“relativi”, “funtivi” in Hjelmslev) e possono venire
riempiti da elementi diversissimi che possono essere propri di discipline
diversissime, quali ad esempio la meteorologia, la sartoria o la linguistica.
Quello che fa la semiotica per Peirce allora è andare a concatenare tutta una
serie di forme di relazione tra elementi sparsi in altre discipline, su altri
piani: da qui la sua essenza interpretativa, visto che l’interpretazione non è
altro che la trasduzione, e cioè il passaggio da un punto a un altro attraverso
punti intermedi. Si prende una forma di relazione che è costitutiva della
logica proposizionale e la si rigioca ad esempio all’interno di una teoria della
percezione (processo che sta alla base ad esempio dei saggi anticartesiani
peirciani e della sua teoria dei grafi esistenziali, cfr. CP 5.264-5.317; CP
4.530-4.452), costruendo così un concatenamento che spiega un fenomeno
attraverso l’altro (e viceversa). Là dove una “logia” definisce un livello
omogeneo comune agli elementi sparsi di cui è scienza, l’interpretazione
semiotica definisce concatenamenti locali tra elementi che non cessano di
rimanere eterogenei, senza che tra loro esista alcun tipo di misura comune
(logos, cfr. infra, 2.6 e 2.7). Essa ne individua semplicemente una forma di
relazione attraverso la quale diventa possibile passare da un punto a un altro.
La semiotica, in quanto disciplina interpretativa, sarebbe allora proprio
questa disciplina che costruisce concatenamenti tra forme di relazione, non
smettendo mai di passare da un punto a un altro, da disciplina a disciplina.
Essa non avrebbe un dentro, ma sarebbe invece immediatamente e
costitutivamente sempre fuori. Essa non avrebbe forse neppure un suo
territorio, ma sarebbe invece costitutivamente tra i territori, trans-disciplina
in continua concatenazione, disciplina di frontiera costituita sempre da pezzi
di altre discipline di cui si concatena una forma di relazione comune.
Diremmo un “ornitorinco disciplinare”, nel senso in cui l’ornitorinco è un
animale fatto di pezzi di altri animali, o forse gli altri animali sono fatti di
pezzi dell’ornitorinco (cfr. Eco, 1997, pp. 208-215). Oggetto teorico principe
di questa attitudine “monotremica” che articola un antilogos è allora
ovviamente proprio il concetto echiano di enciclopedia, che è proprio
costitutivamente costruita da tutto ciò che è possibile tenere assieme:
“libreria delle librerie” (e ne si noti l’autosimilarità frattale).92
Ecco allora che se parliamo della semiotica come di un antilogos
monotremico interpretativo è perché con “antilogos” intendiamo
l’immanenza pura che è propria di un pensiero antileguminoso; con
“monotremico” la solitudine della semiotica nell’albero delle discipline, o
meglio, la sua capacità di far esplodere ogni albero di essenze e di “logie”;93
e con “interpretativo” la sua attitudine costitutivamente trans-disciplinare.
E tuttavia, come notava in più punti Lévi-Strauss, ogni transdisciplinarietà
è impossibile se non si individua un livello in cui si renda possibile il
passaggio da un dominio all’altro. Per la semiotica questo livello non potrà
allora avere niente a che vedere con un “codice universale” capace di
esprimere le proprietà comuni alle strutture specifiche di ciascun fenomeno
(così in Lévi-Strauss), né con un logos capace di raccogliere i suoi oggetti
sparsi sotto una dimensione superiore di baccello. Non solo non siamo così
immodesti da credere che esista qualcosa di comune ai differenti domini
disciplinari e che questo qualcosa consista nelle strutture che i semiotici
descrivono, ma, come detto, la semiotica non ha logos e non può dunque
raccogliere alcuna proprietà comune in una dimensione superiore a quella
della propria immanenza. E tuttavia la semiotica, sebbene non sia in grado di
ritrovare niente di comune alle differenti discipline tra cui media, è però in
grado di farci passare benissimo da una all’altra, interpretando l’una in
funzione delle altre e facendosi così garanzia di tramite tra sistemi
diversissimi. E del resto è sempre questo il modo in cui si conosce qualcosa
di più.
Che cosa c’è di comune ad esempio tra le variazioni di pressione
dell’energia meccanica, l’esecuzione di Van Cliburn, la particolare sequenza
di simboli binari di un compact disc, che sono oggetto rispettivamente della
fisica del suono, della musicologia e dell’ingegneria informatica?
Probabilmente poco o nulla, eppure la teoria dell’interpretazione peirciana ci
permetteva di passare molto naturalmente da un punto ad un altro. E che
cosa c’è in comune tra un chilo di melanzane, l’Espresso con il DVD
allegato, un piatto di pasta in una tavola calda e un cavo Firewire per
Notebook? Probabilmente poco o nulla, eppure la moneta ci permette di
sapere che tutte queste cose costano più o meno la stessa cifra.
La semiotica funzionerebbe allora come la moneta, permettendoci di
istituire tutta una serie di corrispondenze tra oggetti diversissimi in funzione
di un particolare punto di vista, in funzione di un determinato taglio, direbbe
Hjelmslev. Nel suo Filosofia del denaro, Georg Simmel (1900), sviluppando
alcune idee di Marx, pensava infatti alla moneta esattamente come a una
forma di traducibilità tra elementi diversissimi, all’interno di una teoria che
metteva in gioco la mediazione come modalità operativa di vari fenomeni
della realtà. Ecco allora che la semiotica, come disciplina che studia un terzo
ordine di mediazione essenzialmente irriducibile a quelli tra cui media,
sarebbe proprio questa disciplina che garantirebbe una trasducibilità tra
domini differenti, la possibilità di passaggio da un punto a un altro sotto un
determinato punto di vista. Non è allora un caso che Eco (1985b),
nell’opporre un pensiero semiotico alla concezione leguminosa di Scruton,
facesse proprio riferimento a un esempio simile:
Non so come possa cavarsela con l’economia, per cui due braccia di tela, uno staio di grano e una
moneta di rame possono essere considerate equivalenti in quanto ciascuna può essere scambiata
con l’altra. […] Ciò di cui la semiotica generale si occupa non sono né generi naturali né generi
artificiali, né generi funzionali: è un rapporto di mediazione, sono le condizioni sotto le quali
un’attività interpretativa può riconoscere qualsiasi oggetto come una entità semiotica. (Eco, 1985b,
p. 308)

Non c’è niente che ci differenzi sotto nessun rispetto da questa idea
fondamentale di Eco, attraverso la quale la semiotica interpretativa rivendica
l’eredità diretta della teoria del valore saussuriano in entrambe le sue
accezioni: quella trascendente, in cui l’identità di un valore è definita “da
una cosa dissimile suscettibile di essere scambiata con quella di cui si deve
determinare il valore” e quella immanente, in cui essa è definita “da cose
simili che si possono confrontare con quella di cui è in causa il valore”
(Saussure, CLG, p. 140). Al contrario della semiotica generativa, che come
nota giustamente Zilberberg (1988, p. 17) “si è costituita attraverso
l’adozione del secondo principio e l’abbandono non teorizzato del primo”, la
semiotica interpretativa, invece, i) incarna l’accezione immanente all’interno
della sua teoria della differenza, in cui l’identità degli elementi in rapporto è
definita in modo puramente differenziale e relazionale; ii) incarna
l’accezione trascendente con il suo essere principio di trasducibilità tra
domini e tramite tra sistemi diversissimi. Dal momento che per Saussure
entrambe le accezioni sono “necessarie per l’esistenza di un valore” (op. cit.,
p. 140), lasciare nell’ombra del non-teorizzato una delle due dimensioni
significherà necessariamente tradire la rivoluzione stessa dello strutturalismo
incarnata nel concetto saussuriano di valore (cfr. infra, 2.2), concetto che è
alla base dell’impresa semiotica stessa. E del resto non si potrà non
concordare con questo passo di Patrizia Violi (1997, p. 35):
Conoscere l’insieme delle relazioni semantiche che si instaurano fra un termine e tutti gli altri non
equivale affatto a conoscere il significato. […] Perché ciò sia possibile bisogna che il segno sia
interpretato, cioè che si sia già instaurata una relazione fra il segno e qualcos’altro che […]
funzioni da interpretante.

Ecco allora le due dimensioni essenziali che la semiotica incarna nella sua
stessa essenza e non smette mai di tenere insieme: un insieme di elementi
immanenti che si determinano reciprocamente in funzione di un dato taglio
disciplinare (classi in Hjelmslev); la trasduzione (interpretazione) di questi
stessi elementi su altri piani, in funzione di altri tagli che non smettono di
farli passare da un punto a un altro accrescendone e modificandone l’identità
(interpretanti in Peirce). Ecco il modo non banale in cui la semiotica può
tenere insieme la lezione hjelmsleviana e quella peirciana e ritrovare così
l’essenza piena della teoria del valore saussuriano, che è alla base stessa
della nascita della semiotica e, come speriamo di aver dimostrato,
presuppone per essenza un approccio “interpretativo” (hjelmsleviano-
peirciano), e cioè il tentativo di tenere insieme strutturalismo e
interpretazione.94
Ma tutto questo non ha ancora alcuna efficacia se non si è in grado di
capire il senso vero di questa stessa traducibilità, il senso vero di questo
tentativo di istituire una commensurabilità locale tra sistemi eterogenei. A
questo proposito, occorrerà ancora una volta riferirsi al pensiero di Eco. In
più occasioni, Eco ha infatti insistito sul fatto che la sua attività di
romanziere sia nata dall’esigenza di esprimere qualcosa che non si poteva
rappresentare attraverso la struttura del teorizzare. C’era evidentemente la
sensazione che qualcosa non potesse essere espresso, ma non potesse essere
espresso all’interno di quel sistema di espressione, in funzione di quel
determinato taglio disciplinare, direbbe Hjelmslev. L’idea è che la struttura
di quel particolare dominio non fosse adatta all’espressione di quella
particolare esperienza e che ne servissero altre, ma che al di fuori di quel
particolare dominio non si trovassero l’energia creatrice e il vortice
dionisiaco con le sue forze sui cui l’analisi non ha presa; bensì altre
strutture, di forma differente e per questo più adatte a una particolare
espressione. Ecco allora che la dialettica non è tra un inesprimibile e un
espresso, bensì tra un particolare tipo di espressione con le sue potenzialità e
un altro particolare tipo di espressione con altre potenzialità. Se infatti ogni
disciplina esprime attraverso le sue strutture un brandello della nostra
esperienza e del suo senso, essa non viene a dire un indicibile, bensì un
esprimibile che aspetta espressione. Per essenza questo esprimibile si ex-
prime in un dominio particolare, ma non vi si riduce, rimandando la sua
espressione completa a una traducibilità con altri domini, che è costitutiva
della sua stessa essenza (oltre che della semiotica). Era esattamente in questo
senso che in 1.7 parlavamo dell’identità trasduttiva della semiotica di Peirce.
Se l’interpretazione è il passaggio da un punto a un altro, il transitare da
un dominio a un altro connettendoli e facendoci così conoscere qualcosa di
più, lo è perché la dialettica che si dà non riguarda un indeterminato capace
di essere variamente formato, bensì un determinabile e differenti forme di
determinazione. Il determinabile si esprime nelle differenti forme che lo
determinano, ma non vi si riduce, visto che non smette mai di contrapporre
la propria forma a quella stabilita nella determinazione. E tuttavia esso vi si
esprime, non avendo altra forma che quella di ex-primersi in un “altro” che
non smette mai di determinarlo, ma che lo può determinare solamente perché
questo stesso determinabile vi pulsa all’interno. Si direbbe che il fondo sale
alla superficie, ma senza con questo cessare di essere fondo e pulsare
all’interno di tutte le figure che lo esprimono e lo fanno circolare attraverso
segni interpretanti. C’è forse qualcosa di crudele in questa lotta contro un
avversario inafferrabile, in cui ciò che è espresso si oppone a qualcosa a cui
non può opporsi e con cui continua a coniugarsi nel momento stesso in cui se
ne separa. C’è qualcosa di crudele in questa corrispondenza tra un
determinabile già differenziato che continua a differenziarsi nel momento in
cui l’interpretazione lo fa circolare attraverso nuovi interpretanti, e la
struttura che esso continua a opporre alla sua stessa circolazione, in cui
insiste, e al di fuori della quale non ha alcuna esistenza. Ma è allora proprio
in questa dialettica, in questa lotta in cui cerchiamo di distinguerci da
qualcosa da cui non ci possiamo distinguere, ciò in cui consiste l’eredità
della semiotica interpretativa stessa,95 un’eredità che ci consegna alla lotta
contro l’ineffabile e contro le filosofie dello spirito creatore: un’eredità che
ci affida come unica arma la circolazione del senso, la sua interpretabilità, la
sua trasduzione continua in segni interpretanti. Perché ad esempio in Peirce
la semiotica nasceva per far fronte a un doppio rifiuto: quello
dell’inconoscibile come inesprimibile e quello dell’intuizione come esempio
di spiegazione non strutturata (cfr. CP 5.213-5.263; 5.265).
Con la semiotica abbiamo allora perso la facilità di fornire spiegazioni
facendo ricorso a illuminazioni subitanee, shifts non abduttivi, spiriti
creatori, intuizioni eidetiche delle essenze, demiurgie dell’autore o del genio.
Ma con la semiotica abbiamo perso anche la possibilità di decretare il nostro
stesso scacco, facendo appello a qualcosa che sarebbe per sua stessa essenza
un “non so che” che non possiamo far circolare attraverso interpretanti. Con
la semiotica abbiamo perso la possibilità di fare analisi impressive, di
ricorrere alla creazione libera, abbiamo perso la possibilità di pensare che il
poeta crei un mondo, che la scienza non pensi. Ma tutta questa somma di
perdite, questa progressiva aggiunta di sottrazioni costituisce in fondo
qualcosa di positivo nel suo stesso ordine, che è esattamente quel qualcosa
che ci tiene tutti uniti nel momento in cui facciamo semiotica. Questa serie
di perdite, questa continua somma di sottrazioni definisce allora esattamente
quello in cui crediamo, quello che facciamo, ciò che in realtà siamo.
Perché in fondo siamo anche sempre ciò che abbiamo perso.
1
È ad esempio completamente assente la teoria dei diagrammi, su cui fonderemo molte delle nostre
argomentazioni nel capitolo 4, e la gran parte degli scritti tecnici sulla teoria del continuum
(sinechismo), che Peirce considerava il suo capolavoro e di cui la semiotica sarà pensata essere una
parte (cfr. infra, 1.5).
2
La storia del libro e dei rapporti coi suoi prolegomena la si può leggere nell’introduzione di
Whithfield a Résumé of a Theory of Language di Hjelmslev.
3
Va ricordato come la pubblicazione del libro in inglese sia successiva di oltre vent’anni a quella dei
suoi Prolegomena.
4
Cfr. Manetti, 1992, pp. 5-12. In Italia è stato innanzi tutto Eco a coagulare attorno a sé e alla sua
scuola un numero di ricerche sulla storia dei concetti della semiotica. Oltre alle tante tesi di laurea e
di dottorato, si vedano almeno Manetti, 1987; Eco e Marmo (eds.), 1989; Marmo, 1994; Calabrese,
2001.
5
Valga per tutti l’esempio di Lakoff e Johnson (1999) in cui sembra che il “pensiero occidentale” si
identifichi in toto con l’aristotelismo.
6
Cfr. Ronchi, 1996.
7
Cfr. almeno Rastier, 1990; Rastier, 2001 capitolo 1 e Rastier 2003, capitolo 2.
8
È questa la posizione in Rastier, 2001 e 2003.
9
Corrente di pensiero che utilizza un concetto di interpretazione profondamente diverso da quello
della semiotica interpretativa.
10
Cfr. Morin, 1986.
11
Cfr. Deleuze, 1967 e infra, in questo stesso capitolo.
12
Ma su questo punto si veda Lo Piparo, 2003, la cui rilettura di Aristotele è davvero “minore” nel
senso utilizzato qui e rappresenta un antecedente filosofico di “rilettura deviante dello standard”,
che ha rappresentato per noi un’importantissima fonte di ispirazione.
13
Vedremo infatti nel capitolo 4 come il significato comporti sempre degli elementi concettuali
(ordine delle rappresentazioni) e referenziali (ordine dell’oggettività) e tutta una serie di rapporti tra
di essi, ma vedremo altresì come questi elementi andranno però sempre mirati a partire dalla
differenzialità semiotica del valore costitutiva di una semantica enciclopedica.
14
Cfr. infra, 2.6 e 2.7.
15
Cfr. infra, 1.6 e 4.3.
16
Su questo punto non si può allora non dissentire da Rastier (1990), sul resto delle cui tesi invece
concordiamo. Va sottolineato come Rastier sia per altro largamente messo sulla cattiva strada da
alcune letture peirciane di Deledalle, che fa poi prontamente ammenda (in Deledalle, 1990),
sottolineando con forza come in Peirce sia la relazione ad essere “prima e triadica, indecomponibile
e ordinale” rispetto ai termini (op. cit, p. 47).
17
Sulla radicale e rivoluzionaria innovazione della posizione peirciana a proposito della teoria delle
relazioni, sui suoi rapporti teoretici con l’episteme strutturalista e per un dettagliato confronto
rispetto alle principali posizioni tradizionali della storia della filosofia (relazioni reali e di ragione,
logica delle relazioni in Aristotele, nei medioevali, in Leibniz, Locke, Russell e altri) si veda
Descombes, 1996, pp. 185-236. Descombes è uno dei pochissimi commentatori peirciani a notare
con grande lucidità, dopo aver correttamente accostato la posizione di Peirce a quella dello
strutturalismo, come dopo la Logica dei Relativi Peirce abbandoni completamente il realismo
scolastico o scotista, che la stragrande maggioranza dei libri su Peirce pensa invece ancora come
caratterizzante la sua posizione. “Il tratto distintivo della relazione reale peirciana consiste nel fatto
che essa è capace di costituire un sistema degli oggetti che rela. […] È così che Peirce abbandona il
‘realismo scolastico’ degli universali e lo rimpiazza con un realismo delle relazioni prese come
termini poliadici (egli continua pertanto a qualificare la propria posizione come ‘realismo
scolastico’ senza dubbio al fine di poter qualificare come nominaliste le dottrine diverse che
disapprova). In Peirce gli universali non sono più solamente degli universali di rassomiglianza
qualitativa (come la bianchezza delle cose bianche) o formale (come gli esemplari, o tokens, di uno
stesso tipo), essi sono innanzi tutto gli universali di relazione” (Descombes, 1996, p. 214).
Possiamo veramente dire che la Logica dei Relativi corrisponda a un grande rimosso nell’intera
tradizione peirciana, e in special modo in quella semiotica, che non ne ha davvero compreso la
portata rivoluzionaria. Il merito di un libro come quello di Descombes consiste nel saper fare
questa differenza, smettendo di reiterare il luogo comune che la posizione di Peirce sia simile, se
non uguale, a quella di Duns Scoto, cosa che vale a mala pena per “On a new list of categories” e
per i saggi precedenti al 1870. Peirce è il primo degli strutturalisti, o meglio, gli strutturalisti sono i
primi peirciani. Per questo la semiotica interpretativa, come tentativo di tenere insieme le
prospettive di Peirce e dello strutturalismo, è tutt’altro che sincretica se viene fondata sulla Logica
dei Relativi di Peirce. Essa ne è anzi eideticamente adeguata e rappresenta una svolta
dell’evoluzione del pensiero semiotico che non ha precedenti all’interno della storia del pensiero
sul senso e sul linguaggio.
18
Ovviamente il semiotico è “immanente” nei confronti dell’oggettività dei fatti e delle loro
rappresentazioni teoriche, “regni” in cui si incarna e rispetto a cui è “terzo”. Ma questo “terzo
ordine” popolato da valori è al suo interno intrinsecamente complesso e plurisistemico: da qui le
due dimensioni (immanente e trascendente) da cui dipende un valore. Non si confonderanno allora i
due sensi molto diversi di “immanenza” che stiamo utilizzando.
19
Gli altri due tratti che definiscono ciò verso cui tendono analisi e teorie conformi al “principio
empirico” sono la coerenza e l’esaustività.
20
Da qui le critiche che Eco (1975, 1984), Violi (1997) e in seguito tutta la tradizione cognitivista
hanno mosso allo strutturalismo hjelmsleviano e al suo separare le “conoscenze della lingua” dalle
“conoscenze del mondo”, o, più in generale, dalle conoscenze dei sistemi trascendenti la lingua.
21
Com’è evidente la parola “immanenza” in semiotica è irriducibilmente polisemica. Noi la usiamo
in opposizione a “trascendenza” nei due sensi specificati in nota 18, conformemente al suo uso
tradizionale nella tradizione filosofica. Greimas la usa invece in opposizione a “manifestazione”,
per indicare la profondità del livello semico interno al percorso generativo. Questo uso è, almeno
parzialmente, tratto da Hjelmslev.
22
Cfr. infra, capitolo 3.
23
Riportiamo il quadrato semiotico della sessualità nella figura 1 di 3.2.
24
Cfr. ad esempio Eco, 1968.
25
Va sottolineato come non si stia affatto confondendo “manifestazione” e “immanenza”, ma si stia
semplicemente dicendo che una frase quale quella citata attiva in lingua un sistema partecipativo di
opposizioni valoriali, e non un sistema esclusivo. Devo questa preziosa precauzione a Tarcisio
Lancioni, che ringrazio.
26
Dove “non-A” può essere interpretato anche come il polare opposto ad A, “B”. “Non-A” è
semplicemente “ciò che non è A”, “l’assenza di A” (cfr. infra, capitolo 3).
27
Un’altra opposizione partecipativa di questo tipo è, ad esempio, “giorno VS notte”, dove giorno
può opporsi a notte per indicare la parte luminosa della giornata, ma può anche portarne con sé il
valore semantico in frasi come “domani è un altro giorno”. Anche qui “giorno” si oppone a una
parte di se stesso (“notte”).
28
Tra gli innumerevoli casi che enumera, Hjelmslev cita, ad esempio, il sistema dei generi in russo
(in cui il neutro annulla l’opposizione tra il maschile e il femminile) e i rapporti tra prima, seconda
e terza persona che costituiscono il sistema della categoria di “persona”, su cui ritorneremo
estensivamente nel capitolo 5, vista la sua centralità per una teoria dell’enunciazione.
29
Sull’opposizione tra termine intensivo ed estensivo, si vedano almeno Hjelmslev, CC e NE, pp. 27-
66 e Picciarelli, 1999. Una rassegna su questi problemi nella tradizione generativa la si trova
nell’utile lavoro di Lisanti, 2002.
30
Cfr. Eco, 1983, pp. 358-359.
31
Deleuze (1973) mostra molto chiaramente come ci vogliano almeno due spazi striati per costruire
una struttura. L’esempio hjelmsleviano che colocalizza diversi sistemi linguistici (danese, francese
e inglese) con le loro divisioni in domini semantici è ancora una volta un esempio perfetto di ciò
che Petitot chiamava “spazio strutturale”.
32
Hjelmslev non smette di sottolineare in più punti l’ambizione e la forza della sua tesi: “Il nostro
lavoro è senza precedenti. Non soltanto il nostro problema non ha trovato fin qui soluzione: non è
nemmeno stato dissodato. […] Non abbiamo rilevato, nella massa immensa della letteratura
grammaticale che ha visto la luce dall’antichità ai giorni nostri, nessun contributo che sia degno di
attenzione seria. […] Non è sufficiente dire che il problema non è stato studiato: la linguistica
classica non l’ha nemmeno posto. È questo il paradosso della grammatica: anche i problemi più
importanti, i più urgenti, quelli dalla cui soluzione si sarebbero potute trarre le conseguenze più
decisive, non sono nemmeno stati affrontati da una scienza che può vantare una tradizione due
volte millenaria.” (NE, pp. 30-31).
33
Non è infatti diversa da quelle utilizzate da Pottier nella sue famose analisi componenziali di sedie
e poltrone e da Greimas nelle sue tabelle distintive di semi e lessemi (cfr. infra, capitolo 3).
Picciarelli (1999) proponeva una nuova formalizzazione basata sulla teoria delle catastrofi che
reputiamo molto interessante e che riprenderemo in altra sede.
34
Cfr. Gaeta e Nuraghi, 2003.
35
Con “significazione” Hjelmslev intende qui i fatti di sostanza in opposizione a quelli di forma. La
“significazione” riguarda cioè gli atti individuali di parole (sostanziali), la “struttura” riguarda
invece le correlazioni del sistema (formali). Su questo punto Hjelmslev riprende proprio la
distinzione di Saussure, per cui la teoria del valore riguarda i sistemi semiotici, che sono delle
forme, e non quelli semantici, che sono delle sostanze (cfr. De Mauro, 1968 e 2005). È del tutto
evidente come nell’evoluzione della disciplina questa opposizione tra “semantico” e “strutturale”
sia stata neutralizzata, tanto che ora si parla tranquillamente di valori semantici, proprio a indicare
la forma del contenuto. Primo esempio in questo senso è il famoso libro di Greimas Semantica
strutturale, che tiene insieme fin dal titolo i due termini, proprio nel tentativo di costruire una teoria
della forma del contenuto in lingua.
36
Cfr. infra, 3.4.
37
Con l’eccezione forse di Leibniz, che però opera questa rivoluzione propriamente strutturale a
livello di teoria matematica del calcolo differenziale.
38
Facciamo qui riferimento alla sistemazione straordinaria del 1897.
39
Non è infatti un caso che “rifiuto dell’inconoscibile” e “anti-intuizionismo”, cioè due delle quattro
incapacità dimostrate nel 1867 e poste a fondamento della fondazione peirciana della semiotica,
costituiscano poi i primi due principi del sinechismo peirciano.
40
Questo senso si è poi conservato anche in latino: “continuum” è infatti la sostantivizzazione di cum
tenere, tenere insieme, da cui deriva anche il suo significato comune di “ciò che procede senza
interruzione”.
41
“Il sinechismo non è una dottrina metafisica […], è un principio regolativo della logica. […] La
continuità non è nient’altro che la generalità perfetta di una legge di relazione”. (CP 6.172-6.173)
42
Cfr. Borges, 1956, p. 40.
43
Su questo riferimento, si vedano almeno Marsciani e Zinna 1991, pp. 54-57 e Petitot, 1985.
44
Murphey, 1961, p. 298.
45
Parker, 1992, p. 121.
46
Cfr. Burch, 1991.
47
La terminologia peirciana della Logica dei Relativi è molto differenziata e spesso non coerente (cfr.
Fabbrichesi Leo, 1992, pp. 136-137). Peirce distingue ad esempio tra relative, relation, relationship
e relate (CP 3.466). Per quanto ci riguarda, ci atteniamo qui alla sistemazione assolutamente
straordinaria del 1897, in cui un relativo è un rema fondato su una determinata forma di relazione
sul tipo di “– is a lover of –”. In questo caso il rema (o relativo) è diadico (forma di relazione) e i
posti che esso installa in funzione della sua valenza sono i termini relativi, o correlati, del relativo
nella sua forma di relazione. In questo caso il relativo equivarrebbe al piccolo dramma tesnieriano
con la sua valenza verbale e i termini relativi, o correlati, agli attanti (non facciamo qui differenza
tra attanti e circostanti in Tesnière, cfr. Petitot 1985, capitolo 4). (Cfr. MS 544 e CP 3.456-3.552).
48
Sull’importanza decisiva di questo passaggio, che rappresenta un’autentica svolta nel pensiero
peirciano e comporta un abbandono costitutivo della teoria della “New List of Categories” del
1866, si veda Parker, 1992, pp. 52-58. Cfr. anche Ferriani 1986-1987.
49
Cfr. Tesnière, 1959, pp. 79-83.
50
Cfr. Herzberger, 1987 e Burch, 1991.
51
Greimas 1983, p. 35.
52
Il fatto che in relazioni tra Destinante e Destinatario il primo attante si trovi esso stesso congiunto
col suo oggetto nella relazione di dono non cambia ovviamente in nulla l’essenziale (cfr. Greimas,
1983, pp. 40-42).
53
Costantino Marmo (comunicazione personale) faceva notare come già nel XIII secolo, la ripresa
della semiotica di Agostino portasse a fondare la nozione di segno sulla teoria delle relazioni
diadiche, sulla cui base costruire poi quelle di valenza superiore. Gli esempi sono esattamente
quelli che usa Peirce: dare, significare ecc. Le relazioni triadiche, in questo modo, sono spiegate
come doppie relazioni diadiche, esattamente come farà poi Greimas col fenomeno del dono (cfr.
Rosier, 1994). Pare evidente come Peirce conoscesse questa tradizione rispetto alla quale si poneva
in radicale polemica con la sua Logica dei Relativi, che rappresenta senza dubbio alcuno
un’autentica e costitutiva rivoluzione nell’intera storia del pensiero occidentale. E non solo in
semiotica.
54
Lavoreremo estensivamente sul rapporto tra la semiotica di Greimas e la logica in 3.2.
55
Cfr. CP 5.283.
56
Peirce formula per la prima volta la sua teoria del continuum (sinechismo), di cui dice che la
semiotica dei saggi anticartesiani rappresenta la prima parte, proprio in un articolo intitolato “The
Law of Mind”.
57
Zalamea (2003, p. 142) commenta così il rapporto tra Logica dei Relativi e teoria del continuum in
Peirce: “Il dettato di Peirce ‘continuità=generalità via Logica dei Relativi’ è una delle sue più
incredibili intuizioni. A un primo approccio sembra essere del tutto criptico, una specie di ‘motto
occulto’, ma esso può davvero essere considerato come un’ipotesi geniale (abduzione) che
sottolinea l’introduzione di metodi topologici in logica e riassume la prova che molti dei teoremi
fondamentali della Logica dei Relativi non sono altro che corrispondenti teoremi della continuità
all’interno dello spazio topologico uniforme delle classi elementari della logica di primo-ordine”.
Zalamea approfondisce nel suo denso saggio tutti questi aspetti con grande rigore formale.
58
Con alcune notevoli eccezioni, ad esempio Parker, 1992 e Descombes, 1996.
59
Cfr. invece Eco, 1997.
60
E forse anche nessun tipo di interesse a studiare ancora questi autori.
61
Deleuze, 1963, p. 65.
62
Deleuze, 1963, p. 57.
63
Cfr. P, pp. 62-63, 19-21.
64
Cfr. Deleuze 1966 (capitolo 1) e Eco, 1997, p. 39.
65
Da qui la teoria delle dipendenze e delle funzioni che mostrano proprio i diversi modi in cui un
oggetto può essere diviso e analizzato.
66
È ciò che Hjelmslev chiama il livello “meta”, a cui giunge l’analisi glossematica nel momento in
cui è capace di generare l’oggetto trascendente che si manifesta di fatto nell’esperienza attraverso
gli elementi immanenti della teoria. Una metasemiotica e una metasemiologia sono infatti lo studio
della sostanza e della materia attraverso gli elementi immanenti della glossematica al di là, o al di
qua, della loro manifestazione nell’esperienza.
67
Petitot (1985, 1992, 2000) ha fatto dell’algebrismo di Hjelmslev un obiettivo polemico. Marsciani
(1990) ricostruisce molto bene questa tendenza opponendola a un’eredità strutturale di tipo
fenomenologico. La prospettiva di questo lavoro è terza rispetto a queste due vie così ben
individuate da Marsciani.
68
Cfr. NEM III e III/2, CP 6.102-6.163, RLT, ottava lettura, Sagal 1978, Levy 1991, Parker 1992,
Herron 1997.
69
Non sarà superfluo ricordare come il padre di Peirce, Benjamin, fosse non solo il maggiore
matematico americano dell’epoca, ma fosse anche il più grande difensore dell’analisi infinitesimale
leibniziana contro la sua normalizzazione operata dal calcolo dei limiti di Cauchy prima e da
Weierstrass poi. In NEM III, Peirce prende in diversi punti posizione a fianco di Leibniz e del padre
Benjamin.
70
Proprio negli stessi anni Bergson proponeva una metodologia simile. Cfr. Deleuze, 1966, pp. 7-29.
71
Cfr. Banfi, 1926.
72
Cfr. Petitot, 1985 e 1992.
73
Cfr. Fontanille e Zilberberg, 1998, p. 20.
74
Facciamo qui riferimento al caso di Amanda Knox, indagata per l’omicidio di Meredith Kerchner a
Perugia, la cui famiglia si è diffusamente lamentata per le decine di mesi di carcere fatti dalla figlia
semplicemente indagata e in attesa di giudizio.
75
Da qui la sua conformità alla doppia accezione del valore di Saussure, in cui un indagato non è solo
un innocente non ancora condannato e (forse) in attesa di giudizio (ruoli immanenti al sistema dei
“costumi giudiziari e penitenziari” e delle loro opposizioni specifiche), ma anche qualcuno che può
essere privato della libertà a causa di un “sospetto di reato” (e cioè a causa di qualcosa che
appartiene alla dimensione del diritto) e che “può o non può pagare la cauzione” (dimensione
dell’economia).
76
Cfr. Eco 1975, pp. 117-121.
77
Cfr. Melandri, 1968, pp. 374-379.
78
Bergson fa alcune analisi straordinarie di alcune coppie di contrari che sono state al centro della
storia della filosofia: essere/nulla, ordine/disordine ecc. e in tutti questi casi mostra l’insufficienza
del negativo, e cioè del movimento di negazione di un termine positivo che porta all’affermazione
del termine opposto, come succede ad esempio nel quadrato semiotico. A questa idea, Bergson
oppone una concezione partecipativa della differenza, che pone al centro la ripartizione e la
distribuzione delle differenze di grado e delle differenze di natura, all’interno di un metodo di
divisione dei misti, come stiamo cercando di fare qui. Paradigmatica in questo senso è l’analisi
bergoniana dei rapporti tra ordine, disordine (opposizione qualitativa) e assenza di ordine
(opposizione privativa) nell’Evoluzione creatrice (cfr. Bergson 1941, pp. 182195, cfr. anche 223-
244), in cui la teoria della differenza è posta in funzione di un insieme di abiti interpretativi che
definiscono un sistema di attese locale. Le analisi bergsoniane sono tanto famose quanto
dimenticate e a nostro parere rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per qualsiasi
teoria (semiotica) della differenza.
79
Uno degli obiettivi polemici di Bergson era la dialettica hegeliana, che evolveva proprio attraverso
la contraddizione dell’antitesi. Non sarà superfluo notare come anche il quadrato semiotico
“evolve” passando attraverso la negazione del primo termine tramite contraddizione.
80
Si tratta di una delle riletture più affascinanti dell’epistemologia generativa, sulla quale non
possiamo che concordare. Nel mostrare come non possa di fatto proporsi come un’euristica
metodologia di analisi empirica, Petitot (1985, 1992) rilegge la teoria greimasiana del percorso
generativo come una teoria antropologica dell’immaginario umano, dove la narrativizzazione
attanziale di alcune coppie semiche profonde investite timicamente rappresenta la “traduzione”
umana della dialettica animale tra pregnanza e salienza, in cui l’essere umano è in grado di dare
senso al mondo esclusivamente narrativizzando alcune categorie profonde del suo immaginario.
81
Cfr. Serres 1968, 1972; Visetti 1990; Victorri 1997; Hopfield 1982; Nadal 1992; Petitot 1979a.
82
Si veda l’esempio di QWERTY nel capitolo 4.
83
Cfr. Proni, 1990, pp. 83-84.
84
Eco ha sempre insistito con forza su questa caratteristica che è propria di un interpretante: “Il segno
è sempre ciò che mi apre a qualcosa d’altro. Non c’è interpretante che nell’adeguare il segno che
interpreta non ne sposti sia pur di poco i confini […]; quando un termine pare reggersi sulla pura
equivalenza è semplicemente perché ci si trova di fronte a una implicazione catacresizzata o
addormentata” (Eco, 1984, pp. 32 e 36). Del resto, pare evidente da quanto abbiamo detto che
l’interpretazione semiotica non metta mai in gioco l’equivalenza quanto piuttosto la variazione, la
possibilità di accrescere la conoscenza enciclopedica. Di sicuro Chopin non equivale ai rapporti tra
le dita delle mani in una sua esecuzione, di sicuro nessuno di noi si metterebbe a guardare una
sequenza di simboli binari in un CD per ascoltare l’opera 25; tuttavia c’è sempre qualcosa che è in
grado di portarci da ognuna di queste cose a quell’altra.
85
L’espressione “semiosi illimitata” non è di Peirce, che non la usa mai. Per Peirce la semiosi è una
serie infinita che tende a un limite (la credenza). Nella teoria del continuum, una serie infinita che
tende a un limite è profondamente diversa da una serie illimitata e finita. Essendo la semiotica una
parte della teoria del continuum, la precisione terminologica è qui molto importante.
86
Immaginiamo ad esempio di voler far conoscere qualcosa di più sull’ornitorinco che teniamo
nell’altra stanza a qualcuno che non ne abbia mai visti. In questo caso, direbbe Peirce, l’ornitorinco
è il nostro oggetto. Possiamo definirlo come un monotremo (segno che lo illumina sotto un certo
rispetto) e spiegare che un monotremo è un mammifero che fa le uova (segno interpretante) e
mostrare anche immagini e foto dell’ornitorinco (altri interpretanti). Possiamo però benissimo
andare nell’altra stanza e prendere il nostro ornitorinco in carne e ossa e mostrarlo a chi non lo
conosce (“ostensione” del “referente”). Per Peirce in questo caso l’ornitorinco “reale” non è affatto
un oggetto, bensì un segno interpretante. Com’è evidente, la semiotica peirciana non ha nulla a che
vedere con la partizione in un piano di realtà (gli oggetti) e in un piano di “rappresentazioni della
realtà” (i segni e i segni interpretanti). Gli elementi della semiotica di Peirce (oggetto, segno,
interpretante) non posseggono alcuna identità indipendente dalle posizioni reciproche che li
interdefiniscono l’uno in rapporto all’altro. E, come lo strutturalismo, anche la semiotica di Peirce è
inseparabile da una filosofia trascendentale nuova in cui i posti e le posizioni hanno un primato
rispetto agli elementi empirici che li vengono a occupare.
87
Si faccia riferimento al famoso esempio peirciano dei fagioli: a partire da un caso (“fagioli bianchi
sul tavolo”) e da una regola (“tutti i fagioli di quel sacco sono bianchi”) l’abduzione scommette che
quel caso sia esattamente un caso di quella regola (“quei fagioli provengono da quel sacco”).
88
Si ricordi sempre che l’esempio prototipico del movimento interpretativo della trasduzione per
Peirce è la traduzione linguistica: un libro tradotto in un’altra lingua non è certo il type del primo
libro né tanto meno ne è la regola o la classe che lo include. Esso è semplicemente un altro token
che lo interpreta, e cioè lo illumina sotto un certo rispetto, costruendo così commensurabilità tra un
primo sistema (una data lingua x) e un altro sistema eterogeneo (un’altra lingua y).
89
Cfr. Maddalena, 2009, pp. 57-78.
90
Cfr. infra, capitolo 2.
91
Si tratta esattamente di cosa non si doveva fare per Hjelmslev e per il Peirce della Logica dei
Relativi, in cui nessun elemento ha proprietà indipendenti dal sistema relazionale in cui è inserito.
92
Cfr. Eco, 1984, capitolo 2.
93
Cfr. Eco, 1983, 1984 e infra, capitolo 3.
94
Una concezione di questo tipo ci pare completamente impermeabile alle critiche rivolte
all’identificazione di segno linguistico e valore monetario da Rastier (2004).
95
Cfr. Eco, 1984, capitolo 5.
2. GLI ENUNCIATI: TESTI, PRATICHE, CULTURE. SEMIOTICA E
FENOMENOLOGIA

2.1. Una prima differenza: enunciati (testi) ed enunciazione in atto


(pratiche)

Questo capitolo prova ad affrontare un problema spinoso per la semiotica


attuale, e cioè quello del rapporto tra testi e pratiche e, a un altro livello di
pertinenza, quello del rapporto tra semiotica delle culture e semiotica del
testo. Partiremo dal primo problema, che ci condurrà piuttosto naturalmente
al secondo, consentendoci di operare una sintesi tra le differenti posizioni
attualmente in campo, nel tentativo di fare alcune differenze importanti, al
fine di non omogeneizzare elementi che la nostra cultura percepisce come
eterogenei sotto grandi categorie metaforiche, con l’unica ragione di
mantenere una “pertinenza disciplinare” di fatto autosanzionata e mai
davvero riconosciuta al di fuori di un certo modo di fare semiotica.
Proprio per questo, raggruppiamo il problema del rapporto tra testi e
pratiche, che ha identificato il campo problematico di molte polemiche
semiotiche degli ultimi anni, sotto la categoria degli “enunciati”, dal
momento che crediamo sia proprio il rapporto con l’enunciazione a
consentirci di fare una prima differenza euristica, che la teoria semiotica non
può continuare a ignorare. Là dove un testo è infatti un enunciato “già
enunciato”, e cioè l’effetto di un atto enunciativo, una pratica definisce
invece un enunciato molto particolare, e cioè un enunciato nel suo farsi, un
enunciato che si sta costruendo nel mentre lo si fa o lo si analizza. Non è un
caso che “testo” sia un passato, il passato di “tessere”,1 mentre “pratica”
definisca invece qualcosa “al presente”, qualcosa che si fa “nel mentre lo si
fa”. Da qui una prima distinzione, semplice quanto decisiva: i) un testo è
l’effetto di un’enunciazione; ii) una pratica è un’enunciazione in atto.
Entrambi gli elementi possono essere studiati sotto la categoria degli
enunciati, dal momento che entrambi hanno le loro enunciazioni presupposte
da cui dipendono, ma solo nel primo caso essi sono davvero “già enunciati”,
mentre nel secondo si ha a che fare con degli enunciati nel loro farsi. I testi
sono cioè effetto di un débrayage, le pratiche sono strutture semiotiche “in
presa diretta”, in cui il soggetto dell’enunciazione vive assieme ai suoi
delegati (cfr. infra, capitolo 5).
Da qui un’altra differenza fondamentale, che ci pare costitutiva dei due
tipi di enunciati, e che riguarda la loro struttura “temporale”: là dove i testi
hanno un inizio, uno svolgimento e una fine,2 le pratiche hanno innanzi tutto
“un mezzo”, vivono e si fanno a partire dal mezzo, in quanto si strutturano
nel loro farsi. Certamente anche le pratiche hanno un inizio e una fine, ma
questo inizio e questa fine non solo non è di fatto stabilito, ma può essere
costantemente ridefinito e differito dalla pratica stessa.3 Questo sfocia in
un’altra proprietà distintiva: là dove i testi, in quanto effetto di
un’enunciazione che li ha già istanziati, sono chiusi – anche quando sono
“opere aperte” nel senso di Eco (1963) – le pratiche sono costitutivamente
aperte, anche se sono largamente stereotipate e grammaticalizzate, come per
altro sono la maggior parte delle pratiche. Allo stesso modo, la dove un testo
presenta una propria coesione interna che ne è costitutiva, le pratiche per
definizione non ce l’hanno, essendo, in quanto enunciazioni in atto, aperte
alla possibilità di svilupparsi con tutta l’eterogeneità che è costitutiva di una
struttura “in flagranza” (cfr. Violi, 2008). Questo non significa affatto che le
pratiche siano più ricche, più originali e più “interessanti” dei testi: al
contrario, le pratiche sono di norma più fortemente stereotipiche e “banali”.
Le differenze che stiamo facendo non coinvolgono alcun giudizio di valore,
bensì esclusivamente la struttura semiotica che ci pare costitutiva del nostro
oggetto.
Ci pare quindi che la distinzione tra testi e pratiche fosse già in nuce nella
definizione del testo data da Floch (1990), che gli attribuiva le proprietà di
“coerenza, chiusura e coesione”. Le pratiche, come per altro le culture, ci
sembrano non possedere, almeno in linea di principio, esattamente questi tre
tratti distintivi che per Floch erano costitutivi della testualità. Le pratiche e le
culture, così come le lingue, sono insomma aperte alla possibilità di essere
contraddittorie, aperte e tutt’altro che coese.
La serie dei motivi e delle mosse teoretiche tali per cui due oggetti
semiotici così eterogenei come le pratiche e le culture possano essere stati
pensati come dei testi e omogeneizzati sotto il grande termine maggiore
della “semiotica del testo”, ci pare senz’altro degno di essere ripercorso,
discusso e indagato, dal momento che ci consentirà di gettare luce non solo
su alcune mosse “maggiori” che non condividiamo, ma anche sui motivi
profondi per cui riteniamo sia necessario distinguere con forza testi, pratiche
e culture all’interno di una teoria semiotica pensata come una logica delle
culture, come già proponeva Eco (1975) nel Trattato di semiotica generale.

2.2. Strutturalismo e semiotica generativa: la costruzione del paradigma


testuale in semiotica

Al fine di compiere questo percorso, partiamo proprio da dove eravamo


arrivati, e cioè dalle due dimensioni del valore di Saussure, che hanno
costituito il nucleo teoretico fondamentale del nostro primo capitolo. Di
queste due dimensioni costitutive del valore strutturale, la semiotica
generativa, che si è sempre posta come autentico pretendente all’eredità
dello strutturalismo, ha deciso di tenere per se solamente la seconda. Quasi
come se la prima custodisse un dono avvelenato, un’eredità compromettente,
una serie necessaria di rapporti con un “fuori” con cui non si voleva e non si
doveva avere nulla a che fare. Era, del resto, il tentativo di costruire la
semiotica come disciplina autonoma, in un “dentro” disciplinare esclusivo,
in cui si è pensato di poter riconoscere il “semiotico”.
Questa mossa, di fatto fondativa del paradigma generativo,4 ha portato
alla creazione di un unico livello immanente stratificato e gerarchizzato,
discendente diretto dell’accezione immanente saussuriana, in cui i valori si
oppongono e si trasformano attraverso una serie di stadi successivi
organizzati per conversioni gerarchiche. Questa stratificazione immanente dà
allora vita a un percorso generativo che si muove dalla profondità verso la
superficie,5 dalla semantica/sintassi profonda al livello della manifestazione
attraverso una sintassi attanziale intermedia. Il valore si muove e si trasforma
così all’interno di questo “dentro” stratificato da cui non esce mai. È
esattamente questa mossa ad aver dato vita al paradigma “testuale” che, per
anni e forse a tutt’oggi, ha rappresentato e rappresenta l’essenza stessa
dell’analisi semiotica. Esattamente come il valore non esce mai dal “dentro”
semiotico, così il semiotico non esce mai dal “dentro” del testo, perché
“fuori dal testo non c’è salvezza”, come diceva Greimas (1987). La
semiotica generativa si definiva così attraverso la costruzione di un livello
omogeneo stratificato in cui tutto era rapportabile a un’unica forma profonda
incarnata dalla testualità. “Testo” è ciò che diventa un oggetto qualsiasi=x
nel momento stesso in cui l’analisi ne effettua una prensione semiotica. Tutti
gli oggetti riportati nel “dentro” della semiotica si manifestano infatti sub
speciae texto, indipendentemente dalla loro natura eterogenea (cfr. Fabbri e
Montanari, 2004 e infra, 2.4)
Paradossalmente, nel rifiutare la prima accezione del valore saussuriano
per paura di un campione parametro (riserva aurea), la semiotica generativa
finiva per ergere la propria immanenza a campione parametro stesso: tutti gli
elementi del senso circolavano sempre in quanto testi e venivano definiti nel
loro valore in riferimento a una testualità costitutiva che li omogeneizzava.
Bastava un piano dell’espressione e un piano del contenuto a rendere
qualsiasi cosa un testo (cfr. Landowski, 1989; Marrone, 2001).
Insomma, l’evoluzione della semiotica strutturale nella sua declinazione
generativa si è fondata sull’abbandono della teoria saussuriana del valore
nella sua doppia dimensione costitutiva. Più precisamente, la semiotica
generativa ha abbandonato la prima accezione del valore saussuriana,
finendo così per sviluppare una teoria puramente simulacrale della
significazione, dell’enunciazione, del piano del contenuto, delle conversioni
tra i suoi strati e dei passaggi da strato a strato. Questa posizione ha avuto
storicamente i suoi indubbi meriti, che sono innanzi tutto quelli di avere
portato alla definizione di un “dentro” semiotico popolato da oggetti teorici
propri, oltre che quella di aver reso la semiotica una disciplina spendibile,
perché dotata di una propria metodologia e di un proprio oggetto. Ma arrivati
a un certo stadio della sua evoluzione, i meriti stessi del percorso generativo
sembrano oggi limiti evidenti che impediscono forse alla semiotica di
proseguire oltre: ci pare che la vita vera della significazione stia infatti fuori,
en plain air, nelle pratiche concrete di senso di cui la semiotica generativa ha
di fatto voluto costruire delle simulazioni. Da qui la continua insistenza di
Greimas (1970, 1972, 1974, 1983, 1987), in diversi punti della sua opera, sul
carattere costitutivamente simulacrale della sua teoria del percorso
generativo.
Si tratta di ciò che Baudrillard (1976) chiamava “la rivoluzione strutturale
della legge del valore”, che tradisce completamente la lezione dello
strutturalismo saussuriano, che si fondava invece su entrambe le accezioni
del valore semiotico. Baudrillard nota infatti, con grande lucidità, come la
simulazione consista esattamente nell’abbandono dell’accezione
trascendente del valore a favore esclusivo di quella immanente:
Saussure diede due dimensioni dello scambio dei termini della langue, assimilandoli a quelli del
denaro: una moneta deve potersi scambiare contro un bene reale d’un certo valore, e d’altra parte
deve poter essere messa in rapporto con tutti gli altri termini del sistema monetario. […] Una
rivoluzione ha messo fine a questa economia “classica” del valore. Questa rivoluzione consiste nel
fatto che i due aspetti del valore che si sono potuti credere coerenti e legati sono disarticolati, il
valore del primo tipo è annullato a vantaggio del solo gioco strutturale del valore. La dimensione
strutturale si autonomizza […] e si istituisce sulla morte dell’altra. […] È l’altro stadio del valore
che la spazza via, quello della relatività totale, della commutazione generale, combinatoria e
simulazione. Simulazione, nel senso che tutti i segni6 si scambiano ormai tra di loro senza
scambiarsi più con qualcosa di reale (e non si scambiano bene, non si scambiano perfettamente tra
loro che a condizione di non scambiarsi più con qualcosa di reale). (Baudrillard, 1976, pp. 18-19)

Di questo processo generale così ben descritto da Baudrillard a diversi


livelli, l’impresa generativa ha costituito l’incarnazione semiotica. Pura
simulazione del darsi del senso fondata esclusivamente sulla seconda
accezione saussuriana, il percorso generativo ne è la riproduzione
simulacrale, così come simulacrali sono tutte le categorie messe in gioco
dalla teoria (enunciatore, enunciatario, sema, attante, enunciazione ecc.). Ci
limiteremo qui all’esempio prototipico dell’enunciazione, così come è
descritta da Greimas, sapendo benissimo che si potrebbe fare lo stesso per
tutti gli altri oggetti teorici costitutivi della teoria.
In semiotica è impossibile limitarsi a parlare di soggetto tout court: è necessario concepirlo come
facente parte della struttura logico-grammaticale dell’enunciazione, di cui rappresenta l’attante-
soggetto […]. Le alternative sono due: o l’enunciazione è una performance non linguistica che
sfugge, in quanto tale, alla competenza del semiotico, o essa è presente in un modo o nell’altro, ad
esempio come un presupposto implicito nel testo. In quest’ultimo caso, l’enunciazione può essere
simulata nella forma di un enunciato di tipo particolare, cioè come quel tipo di enunciato detto
enunciazione, perché comporta un altro enunciato in funzione del proprio attante-oggetto.
(Greimas, 1972, p. 143)

Questa alternativa greimasiana ci pare inaccettabile: l’enunciazione è


esattamente una performance parzialmente non linguistica (una pratica), ma
non per questo essa sfugge alla competenza del semiotico. Essa sfugge
solamente alla competenza di un’epistemologia semiotica di tipo
simulacrale. Da qui il suo totale disinteresse nei confronti di una teoria
dell’enunciazione come produzione segnica (cfr. Eco, 1975 e infra, 2.6). È
infatti il fare epistemologico stesso della semiotica generativa a essere
puramente simulacrale, non l’enunciazione a essere “non semiotica” se
“produttiva” (performance). Non è infatti un caso che Benveniste (1974, p.
97) la definisse proprio come “l’atto stesso di produrre un enunciato”.
Occorre allora provare a sciogliere questa falsa alternativa, con l’obiettivo
di mostrare che cosa nasconda veramente. Greimas (1970), ed è questo un
tratto distintivo dell’impresa semiotica nel suo complesso a cui crediamo
non si debba rinunciare, pone giustamente l’essenza stessa del fare semiotico
in ciò che in Peirce era l’attività di interpretazione:
La significazione, perciò, non è altro che questa trasposizione d’un piano di linguaggio in un altro,
di un linguaggio in un linguaggio diverso, mentre il senso è semplicemente questa possibilità di
transcodifica. […] Il senso, in quanto forma del senso, può definirsi, a questo punto, come la
possibilità di trasformazione del senso. (Greimas, 1970, pp. 13-15)

E tuttavia, ben lungi dal pensare all’attività dell’interpretazione


(transcodifica nella terminologia di Greimas) come a una pratica en plein
air, in cui i linguaggi si trasducono concatenando forme di relazione tra
elementi eterogenei, Greimas chiude l’attività trasformativa e trasduttiva
della semiotica nel laboratorio chiuso in cui si costruisce un metalinguaggio
artificiale adeguato:
A questo punto, ridotto il problema del senso alla sua dimensione minima, e cioè alla transcodifica
dei significati, se ci accorgiamo che tali transcodifiche vengono fatte naturalmente ma male,
possiamo chiederci se l’attività scientifica in questo campo non debba semplicemente consistere
nell’elaborazione di tecniche di trasposizione tali da permettere di effettuare le transcodifiche
artificialmente ma bene. In definitiva, la descrizione semiotica della significazione non è altro che
la costruzione di un linguaggio artificiale adeguato. (Greimas, 1970, p. 17)

Se il senso si configura come la possibilità stessa delle proprie


trasformazioni, per Greimas la semiotica è la teoria “scientifica” il cui
compito è la costruzione ben fatta di questo metalinguaggio artificiale da
laboratorio che effettui le transcodifiche (interpretazioni) in modo migliore
rispetto a come le si fa “naturalmente”. Da qui il passaggio alla simulazione.
Greimas sa infatti benissimo che di fatto anche il suo percorso generativo
non è altro che un interpretante possibile di un senso che è già sempre dato,
dal momento che “la produzione del senso ha senso solo se è trasformazione
del senso dato” (Greimas, 1970, p. 15). In questo modo, la teoria semiotica
stessa non si ritrova a essere propriamente costruttiva (costruzione di
metalinguaggio), bensì più propriamente ricostruttiva (costruzione di
metalinguaggio adeguata a un senso già sempre dato). Nel loro saggio
sull’epistemologia semiotica generativa, Parret e Ruprecht7 descrivono
allora alla perfezione lo statuto epistemologico di questa impresa
ricostruttiva:
La trasposizione descrittiva è ricostruttiva e non costruttiva. “Ricostruire” significa rimettere a
nuovo ciò che è già costruito: si presuppone o si progetta una struttura già esistente che si “simula”
in seconda battuta.

La semiotica generativa si pone fin da subito come un metalinguaggio di


simulazione simulato bene. Come diceva Baudrillard, lo strutturalismo
conteneva già in sé i germi per portare fino a un’epistemologia della
simulazione. E questo lo si poteva fare abbandonando completamente la
prima accezione saussuriana del valore a favore esclusivo della seconda,
come di fatto è avvenuto. Non si tratta più di descrivere un “oggetto”, bensì
di simulare ricostruttivamente una struttura già data: per questo per la
semiotica generativa il momento di analisi dei dati (testi) e quello della
descrizione teorica delle condizioni della significazione vengono a
coincidere in una stessa attività di simulazione.8 Il percorso generativo è
precisamente questa profonda imbricatura simulativa tra la forma immanente
dell’oggetto (senso) e la sua descrivibilità teorica e metalinguistica. Esso
vuole articolare il metalinguaggio del senso attraverso la costruzione in
laboratorio di una buona simulazione artificiale, che riproduca le
transcodifiche “artificialmente ma bene”.
La realtà invece è che le transcodifiche si fanno, non si riproducono. Si
producono immediatamente nell’attività di interpretazione, non essendo
l’interpretazione altro che la produzione di segni interpretanti “che
transcodificano”, come dice Greimas. Per questo è fondamentale per noi
passare da una fase di riproduzione-simulazione a una fase di produzione
semiotica: da qui l’importanza che attribuiamo alla teoria dei modi di
produzione segnica del Trattato di semiotica generale di Eco (1975, parte 2;
cfr. Valle, 2007 e infra, 2.6). Interpretare è sempre produrre interpretazioni,
non riprodurre transcodifiche. All’“artificialmente ma bene” greimasiano va
sostituito un “realmente ma al meglio” propriamente interpretativo.
L’interpretazione è un processo di produzione che si fa, meglio che si può.
La semiotica funziona come una fabbrica e non come un teatro, o meglio,
funziona come una fabbrica che produce un teatro (cfr. infra, 2.6).
Il problema di Greimas e della semiotica generativa è stato, a nostro
parere, l’attenzione esclusiva per un metalinguaggio appropriato che
funzioni bene, che faccia buone transcodifiche puramente immanenti, in un
dentro laboratoriale interdefinito e controllato che risulti poi adeguato al
livello della manifestazione, di cui si è simulato il percorso. Se al posto di
questa simulazione si fosse fatta opera di trasduzione, si sarebbe seguita la
lezione saussuriana, per cui un valore va sempre scambiato non solamente in
casa, con altri valori simili, ma anche fuori, con valori dissimili da esso.
L’interpretazione non può essere ridotta al solo percorso generativo (è
semmai il percorso generativo a essere un abito interpretativo tra gli altri
possibili) né la prima accezione del valore saussuriano può essere espulsa da
un’epistemologia che si vuole autenticamente strutturalista.
È allora proprio questa espulsione a causare tutta una serie di irrigidimenti
che accompagnano le nozioni stesse elaborate dalla semiotica generativa,
fino alla sua più recente declinazione tensiva. Ogni oggetto teorico della
semiotica così pensata viene infatti definito solamente in funzione della
teoria semiotica stessa (interdefinizione relazionale dei termini conforme
all’accezione immanente del valore), e ne viene così neutralizzato ogni
rapporto col “fuori” enciclopedico. È del resto questa una dimensione
fondamentale dell’idea stessa di metalinguaggio (cfr. Eco, 1983, pp. 52-57),
in cui si costruisce un linguaggio artificiale L, capace di rendere conto di un
oggetto che si simula in un mondo-modello, conformemente a quanto ci
diceva Greimas sul “metalinguaggio adeguato” (percorso generativo), che
simula le “transcodifiche” (interpretazioni) “artificialmente ma bene”.9 Ma
questo porta a tutta una serie di conseguenze a nostro parere davvero
problematiche.
Facciamo un esempio, che traiamo da Jacques Fontanille (2004), e
interroghiamoci sullo statuto che è possibile riconoscere ad alcuni oggetti
teorici quali “materia”, “energia” e “corpo”, sapendo che questo varrebbe
ugualmente per altri tipi di nozioni proprie della semiotica di derivazione
generativa. Che cosa sono queste materia ed energia? Che cosa sono queste
forze che si stabilizzano in forme (cfr. Fontanille, 2004)?
Sono dei puri simulacri che hanno perso qualsiasi tipo di riferimento con
la realtà enciclopedica da cui provengono. L’algebra dei sistemi non lineari,
la fisica einsteiniana, la psicanalisi e la biologia molecolare più volte
richiamate ed evocate non sono più il compagno di viaggio di una semiotica
en plein air, che concatena valori traducibili in vista di una prospettiva
interdisciplinare unificata, come era stata – ultimo grande esempio – lo
strutturalismo. Al contrario, si tratta di metafore matematiche, fisiche o
psicanalitiche (l’energia, la materia ecc.) che vogliono definire degli oggetti
teorici propriamente semiotici. Ecco la costruzione di un puro simulacro e lo
sfaldamento della semiotica nella prospettiva di una simulazione pura
slegata da ogni “fuori” epistemologico. Quella materia non è la materia che
conosciamo enciclopedicamente, ma è “una materia semiotica”, pura
grandezza (valore) interna alla teoria. Quel corpo non è il corpo che
conosciamo enciclopedicamente, ma è “una corpo semiotico”, anch’esso
grandezza puramente interna alla teoria. Il corpo semiotico non ha infatti
propriamente un corpo: non ha muscoli, non ha neuroni, non ha cervello,
non ha nervi. Si dirà allora che è un corpo “semiotizzato”, che è una strategia
che ha come fine quello di non rapportare lo statuto di una grandezza che si
vuole “semiotica” a quello che si sa enciclopedicamente su di essa, perché
un certo tipo di semiotica propriamente non sa niente prima dell’apparizione
del suo metalinguaggio in cui si interdefiniscono i termini tra loro.
È del resto questa l’essenza stessa della distinzione tra Dizionario e
Enciclopedia che, al di là delle reciproche critiche incrociate di Greimas
(1983, p. 120) e di Eco (1983; 1984), di fatto non sempre ben dirette,10
rappresenta ancora a nostro parere un importante discrimine tra un approccio
generativo e uno interpretativo alla semiotica. Là dove un Dizionario per
Greimas11 è un dispositivo in cui i termini si interdefiniscono tra loro in un
“dentro” disciplinare omogeneo (l’identità di un elemento definito
dizionarialmente non è altro che “ciò che gli altri non sono”); l’Enciclopedia
invece non rimanda soltanto all’interdefinizione relazionale dei termini, ma
anche alla traduzione di questi stessi elementi interdefiniti con un fuori
disciplinare, e cioè con gli oggetti teorici che sono costitutivi di altri domini
disciplinari non-semiotici.
Da qui la natura integrativa che è per noi propria di una semiotica
interpretativa, e che sarà ancor più chiara nel seguente capitolo: la
differenzialità immanente ai valori semiotici è per noi un principio
assolutamente irrinunciabile per un approccio semiotico, ma deve essere una
differenzialità enciclopedica continuamente in traduzione con un fuori.12
Noi supportiamo cioè completamente l’interdefinizione differenziale dei
termini, secondo la seconda accezione del valore saussuriano così ben
declinata nei dizionari greimasiani, ma sosteniamo anche la necessità di
affiancare questa idea alla prima accezione del valore, cioè quella che rende
commensurabile un concetto costruito localmente in funzione di un
determinato taglio disciplinare ad altri concetti – magari imparentati per
somiglianza di famiglia – ma costruiti localmente secondo altri tagli
disciplinari. Si deve cioè poter passare da un taglio all’altro costruendo
commensurabilità locali attraverso la costruzione di un concatenamento
interpretativo, là dove la semiotica generativo-tensiva chiude il valore
saussuriano nella sua unica prima accezione, chiudendo così al contempo la
disciplina nel suo metalinguaggio artificiale interno.
Dimenticandosi della prima accezione saussuriana del valore, la semiotica
si è di fatto trincerata in un dentro metalinguistico puro incarnato nella
parola “semiotizzato”, che non significa altro che questo chiudere la finestra
a un fuori. È un corpo, ma è un corpo “semiotizzato”; è una materia, ma è
una materia “semiotizzata”; è un’immanenza, ma è un’immanenza
“semiotizzata”. Non si vuol dire altro che “è quello che noi decidiamo che
sia”, stabilendo per interdefinizione il suo valore semantico in rapporto ad
altre grandezze semiotiche.
Quando io uso una parola […] questa significa esattamente quello che decido io… né più né meno.
(Carroll, 1978, p. 203)

“Semiotizzato” coniuga allora uno stile “alla Humpty Dumpty” con una
dubbia forma di eclettismo, in cui ci si autorizza a prendere categorie da altre
discipline senza dover necessariamente portare il peso di una loro
importazione, finendo così per non rispondere davvero del loro utilizzo. Non
ci pare questa la direzione giusta in cui declinare specificità semiotica e
interdisciplinarietà.
In conclusione, ci pare che il percorso generativo di Greimas sia stato per
la semiotica ciò che Lotman (1985) chiamava un fenomeno di omeostasi
interno a una logica della cultura. Secondo Lotman infatti, all’interno di una
cultura o di un dominio disciplinare esistono meccanismi che garantiscono
l’equilibrio di un sistema, mettendo un freno a un suo sviluppo troppo
accelerato. All’interno dello sviluppo della semiotica, il percorso generativo
greimasiano, con la sua struttura gerarchica stratificata e le sue regole di
conversione da un livello all’altro, ha rappresentato esattamente un
meccanismo omeostatico di questo tipo, dando vita a un modello
interdefinito, controllato e applicabile empiricamente che ha rappresentato la
forma “maggiore” della semiotica. Secondo Lotman infatti, nel momento in
cui lo sviluppo di un sistema procede troppo rapidamente, il sistema tende ad
auto-organizzarsi, in quanto la varietà interna al sistema minaccia il sistema
stesso. Nello sviluppo della semiotica, il percorso generativo ha
rappresentato esattamente questo tentativo di auto-organizzazione del
sistema, in una fase in cui la disciplina era giovane e in fermento. E in
questo ha senz’altro avuto un grande merito. Come nota Salvestroni (1985,
p. 32), “sono infatti le metadescrizioni a riordinare ciò che ha acquistato
un’indeterminatezza eccessiva”. Tuttavia, così come Lotman sottolineava il
pericolo di voler vedere nella metadescrizione il reale tessuto della cultura,
così noi sottolineiamo il pericolo di vedere nel percorso generativo il reale
tessuto della semiosi. Altri modelli sono infatti possibili e ci pare siano più
adeguati a descrivere una logica delle culture. Se infatti il percorso
generativo si pone a un livello “meta”, disposto per strati gerarchici di
profondità, il processo semiosico che pare caratterizzare una logica delle
culture sembra invece essere di tipo traduttivo e non gerarchico, tanto che la
forma di relazione tra gli elementi pare delineare una pura “piattezza”, in cui
gli interpretanti appartengono allo stesso livello immanente degli elementi
che interpretano (cfr. infra, 3.9). Lotman non smetteva di sottolineare questa
differenza:
Nella realtà della semiosfera le gerarchie dei linguaggi e dei testi di solito vengono meno: essi
interagiscono come se si trovassero a un solo livello. I testi appaiono immersi in linguaggi a essi
non correlati e possono mancare i codici capaci di decodificarli. (Lotman, 1985, pp. 63-64)

Ben lungi dall’essere erede diretta della semiotica strutturale, la semiotica


generativa ci pare insomma deformarne la lezione a beneficio di
un’epistemologia simulativa fondata su di un “metalinguaggio artificiale
adeguato” (percorso generativo), che ha definito in questi ultimi trent’anni la
forma “maggiore” della semiotica. Per questo una semiotica “minore”, che si
vuole “interpretativa” nel senso del tenere insieme le prospettive di Peirce,
Saussure e Hjelmslev, si candida per noi a rivendicare l’eredità più propria
dello strutturalismo, in un senso profondo che si tratterà ora di mettere in
luce.

2.3. Strutturalismo, fenomenologia e faneroscopia: semiotica


interpretativa e semiotica generativa

In un saggio che è a fondamento dell’intera epistemologia strutturale,


Gilles Deleuze (1973) individuava innanzi tutto un primo criterio molto
generale da cui si riconosceva lo strutturalismo. Nel porre all’origine dello
strutturalismo la linguistica, non soltanto Saussure, ma anche la scuola di
Mosca e quella di Praga, Deleuze si affrettava infatti a precisare che se in
seguito lo strutturalismo si estende ad altri domini disciplinari quali la
psicoanalisi (con Lacan), l’antropologia (con Lévi-Strauss), l’epistemologia
(con Foucault) o la critica letteraria (con Barthes), non è affatto per
importare metodi equivalenti a quelli che hanno dato buoni risultati
nell’analisi del linguaggio, ma è invece essenzialmente per un problema
costitutivo della stessa epistemologia strutturale, e più precisamente per un
problema di oggetto e di sguardo, e cioè per un problema che riguarda ciò
che una disciplina “vede” nel momento in cui “guarda” qualcosa, ciò che sa
“riconoscere” nelle cose che “guarda”.
È giusto porre la linguistica all’origine dello strutturalismo. […] E se lo strutturalismo si estende in
seguito ad altri campi, questa volta non si tratta più di analogia: non è semplicemente per
instaurare metodi “equivalenti” a quelli che hanno dapprima funzionato nell’analisi del linguaggio.
In realtà non c’è struttura se non di ciò che è linguaggio, fosse pure un linguaggio esoterico o
addirittura non verbale. Non c’è una struttura dell’inconscio se non nella misura in cui l’inconscio
parla ed è linguaggio. Non c’è una struttura dei corpi se non nella misura in cui si ritiene che i
corpi parlino con un linguaggio che è quello dei sintomi. Le cose stesse hanno una struttura solo
nella misura in cui tengono un discorso silenzioso, che è il linguaggio dei segni. (Deleuze, 1973, p.
12)

Questa idea non ha allora niente a che vedere col linguocentrismo


barthesiano né con l’idea lotmaniana del linguaggio come sistema
modellizzante primario, che ponevano entrambe al centro di ogni sistema
semiotico il modello del linguaggio verbale. Si tratta qui di tutt’altro.
Deleuze non sta affatto dicendo che ogni struttura deve fondarsi sul modello
del linguaggio e che anche i sistemi non linguistici devono basarsi sulla
struttura di quelli linguistici. Deleuze sta invece dicendo che non esiste
struttura se non di ciò che è linguaggio, e che dunque ogni linguaggio è
essenzialmente una struttura e che dunque una struttura per sua stessa
essenza “parla”, e cioè possiede un’essenza discorsiva, e non percettiva o
presentativa. È il suo metodo per uscire dalla fenomenologia attraverso la
semiotica strutturale (cfr. Deleuze, 1968 e 1984, capitolo 3). È il suo metodo
per uscire
dall’approccio che parte dall’esperienza originaria, fondamentale complicità con il mondo che
darebbe luogo alla nostra possibilità di parlarne e costituirebbe il visibile come base
dell’enunciabile (la fenomenologia, il “Mondo parla”, come se le cose visibili mormorassero già
un senso che il nostro linguaggio dovrebbe soltanto risvegliare, o come se il linguaggio si
appoggiasse a un silenzio espressivo). (Deleuze, 1984, p. 62)

Uscire dalla fenomenologia. Uscire dal “mondo parla” di Merleau-Ponty:


ecco la prima fondamentale parola d’ordine di un’epistemologia a
fondamento strutturalista. Tutte le volte che si sostiene un primato del livello
percettivo, e dunque del “visibile” sul “dicibile”, del “percettivo” sul
“discorsivo”, della “percezione” sul “linguaggio”, si rimanda infatti a
un’impostazione costitutivamente fenomenologica. Come nota con grande
lucidità Visetti (2004, p. 5):
il primato della percezione non può che significare il primato di un senso percettivo di cui la
descrizione condiziona evidentemente la possibilità di riconoscere altrove, su altri terreni, le
“stesse” modalità di costituzione: tesi che ha per correlato che ci si situi all’interno di un quadro
dove la fenomenologia giochi il ruolo di una transizione o di una mediazione dalla quale non ci si
può affrancare.
Ecco allora che lo strutturalismo, che è costitutivamente fondato sul
primato del “discorsivo” sul “percettivo”, del “dire” sul “mostrare”, del
“ripresentare” sul “presentare”, della “ratio” sul “logos”, si pone per sua
essenza al di fuori di una tradizione fenomenologica. Non è un caso che i
grandi post-strutturalisti francesi, da Deleuze a Foucault fino a Derrida,
utilizzassero lo strutturalismo proprio in forte chiave anti-fenomenologica, al
fine di superare le posizioni di Merleau-Ponty e del primo Sartre, maîtres à
penser di una generazione filosofica con cui erano in aperta polemica.
Infatti per Husserl, come per Merleau-Ponty, esiste un momento pre-
categoriale essenzialmente percettivo ed esperienziale, che è posto a
fondamento del senso e di ogni attività cognitiva di ordine superiore. La
fenomenologia di Husserl, Heidegger e Merleau-Ponty è fondata su di una
costitutiva “forma di visibilità” incarnata nell’intenzionalità fenomenologica
che vede l’oggetto nel suo manifestarsi. Si pensi, ad esempio, all’uso
intensivo che viene fatto della metafora della luce, che rende visibile l’ente
nel suo venire alla presenza. Ecco allora che quando Deleuze ci dice che non
c’è struttura se non di ciò che è linguaggio sta innanzi tutto affermando il
primato della discorsività del “dire” sulla visibilità del “mostrare”, il primato
categoriale della struttura sulla complicità fenomenologica tra corpo e
mondo che costituirebbe un “visibile” sensibile e percettivo posto a
fondamento dell’enunciabile. Si tratta del rovesciamento del primato della
percezione sulle altre attività cognitive di ordine superiore. Questa
posizione, oggi largamente “minore” non solo in semiotica,13 ma anche in
semantica14 e in scienze cognitive,15 era allora esattamente quella sostenuta
da Peirce nel saggio “Some consequences of four incapacities”, in cui la
semiotica veniva fondata proprio sul rovesciamento del primato dell’estesico
rispetto al logico, del “percettivo” rispetto al “discorsivo”, del
“presentativo” rispetto al “ripresentativo”. La mossa centrale del saggio di
Peirce era infatti quella di “ridurre tutti i generi di azione mentale a un’unica
classe di modificazioni di coscienza”, rappresentata dall’inferenza valida
(cfr. CP 5.264-317): Peirce era in grado di ritrovare così, al di là della
possibile immediatezza dell’emozione, della percezione, del sentimento e
della sensazione, un’unica forma di relazione che era costitutivamente
logica, e cioè semiotica, visto che per Peirce la logica non era altro che una
parte della semiotica.
Come detto (cfr. supra, 1.5), si è allora spesso equivocato sul rapporto tra
logica e semiotica in Peirce, visto che lo si è spesso “accusato” di fondare la
seconda sulla prima. È vero esattamente il contrario. È proprio perché la
logica ha una forma semiotica che l’estesico e il percettivo possono essere
ricondotti a un modello inferenziale di tipo logico, e cioè semiotico. Era il
modo di Peirce di dire una cosa che molti hanno cominciato a dire solamente
molti anni dopo, e cioè che c’è semiosi anche nella percezione, e che dunque
il semiotico orienta i nostri processi percettivi ed estesici fin dalle prime
impressioni sensibili, in cui si annida e che informa attraverso le sue
singolarità. Tuttavia, il modo in cui Peirce diceva che c’è semiosi fin dalla
percezione era completamente diverso rispetto al modo in cui lo si è detto
dopo. È ormai infatti un luogo comune16 insistere sul radicamento
percettivo, e più generalmente senso-motorio e cinestetico, di ogni effetto di
senso, in modo da costruire così una continuità che leghi percezione e
linguaggio, fondando così la semiosi su di una sintassi fenomenologica del
sensibile. La posizione di Peirce era invece profondamente diversa: se esiste
una continuità tra qualsiasi tipo di attività cognitiva – percezione e
linguaggio compresi – è perché tutte presentano una medesima forma di
relazione che in sé è costitutivamente semiotica, tanto che la semiotica è
esattamente lo studio di questa particolare forma di relazione. Con i suoi
saggi anti-cartesiani del 1868, Peirce non stava cioè semplicemente dicendo
che c’è significato anche nella percezione, stava ben più profondamente
dicendo che l’universo del sensibile e del percettivo (estesico) funziona nello
stesso identico modo in cui funziona quello del “concettuale” (logico).
Questo “stesso identico modo” è il semiotico, che è essenzialmente
categoriale, così che la semiotica è una disciplina che intesse rapporti con la
logica delle relazioni e la faneroscopia, e non con il corpo e la
fenomenologia.
Esistono allora tutta una serie di rapporti di cui intravediamo il legame
profondo, ma che non riusciamo ancora a cogliere nella loro trama effettiva:
perché un primato del “dicibile” sul “visibile”, del “discorsivo” sul
“percettivo”, è qualcosa che lega lo strutturalismo con una faneroscopia
peirciana piuttosto che con una fenomenologia di tipo husserliano/merleau-
pontyano? E perché questo ha necessariamente a che vedere con i rapporti
tra semiosi e presentazione del fenomeno che si manifesta nell’esperienza?
Perché l’epistemologia strutturalista e quella fenomenologica ci sembrano
incompatibili? E perché questo primato del “dicibile” sul “visibile”, unito a
un determinato approccio al fenomeno (faneròn), è qualcosa che pare per
essenza avere a che fare con la semiotica interpretativa, e col suo costitutivo
tentativo di tenere insieme le prospettive di Peirce e dello strutturalismo? Se
sia Peirce che gli strutturalisti sostengono un primato del dicibile sul visibile
e se entrambi negano così un approccio fenomenologico, lo fanno per
proporre cosa? Per andare in quale direzione? Per operare quale tipo di
svolta propriamente semiotica?
Fin dalla sua doppia fondazione, la semiotica ha posto al centro dei propri
interessi il rapporto tra “dicibile” e “visibile”, tra forme di dicibilità e forme
di visibilità. Era in qualche modo il suo stesso destino, visto che la radice
indo-europea della parola “segno” – sak – significa al contempo sia “dire”
che “mostrare”.17 La semiotica moderna, nella sua doppia anima
interpretativa e strutturale, nasce esattamente dall’articolazione e dalla
declinazione di queste due dimensioni etimologiche costitutive del suo
oggetto. Più precisamente, la semiotica moderna ha fondato la sua stessa
impresa epistemologica sotto il segno del primato del “dicibile” sul
“visibile”, del “dire” sul “mostrare”, in forte chiave anti-fenomenologica e
con l’obiettivo di riformare dalle fondamenta proprio una teoria del
fenomeno. Non si tratta quindi di “uscire dalla fenomenologia”, bensì più
propriamente di uscire da un certo tipo di fenomenologia, al fine di
costruirne un’altra fondata su basi semiotiche (faneroscopia).
Fin dalla prima riga del primo dei suoi saggi anti-cartesiani, Peirce
opponeva infatti un modello percettivo in presenza, fondato sulla
“contemplazione semplice” di una cognizione, a un modello inferenziale in
assenza di oggetto, che pensava invece alla cognizione come all’effetto di
“cognizioni precedenti” estratte a partire da un “ragionamento da segni” (CP
5.213). Peirce si chiedeva allora se fosse davvero possibile trarre una
cognizione direttamente dall’oggetto che si manifestava per uno sguardo che
lo “vede”, senza che cognizioni precedenti di tipo semiotico intervenissero
nella strutturazione fenomenologica di questa stessa contemplazione.
Attraverso numerosi esempi, Peirce negava questa possibilità, facendone una
delle sue famose quattro incapacità (anti-intuizionismo): il testimone di
tribunale non sa davvero distinguere se ciò che dice è ciò che ha visto o ciò
che ha inferito a partire da ciò che ha visto (CP 5.216), la terza dimensione
dello spazio e la continuità del campo percettivo non sono viste, ma apprese,
inferite e ricostruite (CP 5.219-223) ecc. Se ciò che si manifesta è dunque un
segno, nel senso del “mostrare” etimologico (e cioè qualcosa che viene alla
presenza sotto un certo rispetto), questo segno non può mostrare né far
conoscere nulla senza che intervengano delle cognizioni precedenti in
assenza di oggetto, che rendono possibile il manifestarsi stesso del
fenomeno. Non c’è cioè niente che si fa presente immediatamente alla mente
e che possiamo cogliere in presenza abbracciandolo in un unico sguardo, con
gli “occhi” di una coscienza intenzionale.
Peirce specificava ulteriormente questa sua posizione in riferimento alla
teoria di Kant, che univa esattamente un momento “presentativo-
osservativo” legato a una rappresentazione immediatamente connessa col
suo oggetto (intuizione estetica) e un momento “ripresentativo-discorsivo”
legato a una rappresentazione mediatamente connessa con lo stesso
(concetto logico).
L’intera filosofia di Kant si fonda sulla sua logica. Kant assegna il nome di logica alla parte più
grande della sua Critica della Ragion Pura, e il fatto che egli non estenda quel nome all’intero
lavoro è un risultato del grande errore della sua teoria logica. Questo errore più grande era allo
stesso tempo [ai suoi occhi] il più grande merito della sua dottrina: esso consiste nella netta
separazione tra processi intuitivi e discorsivi della mente. […] Kant tracciò una linea troppo netta
tra le operazioni di osservazione e quelle di ragionamento. Si consentiva di assumere l’abitudine di
pensare che quest’ultimo cominci soltanto quando le prime sono complete. […] La sua dottrina
dello schema può soltanto essere stata un pensiero successivo, un’addizione al suo sistema venuta
dopo il suo completamento sostanziale. Perché se gli schemi fossero stati considerati in tempo
utile, essi avrebbero scavalcato l’intero suo lavoro. (CP 1.35)18

È facile capire che cosa Peirce intenda qui con schema: si tratta di un
oggetto teorico che unisce in sé le caratteristiche proprie di estetico e logico
(così in Kant una “determinazione di tempo”): ad esempio un insieme di
relazioni osservabili (estetiche) che incarnano o realizzano un insieme di
relazioni puramente logiche (semiotico-inferenziali).19 Peirce non esita
allora ad affermare che, qualora un oggetto teorico di questo tipo non fosse
stato una sorta di ripensamento tardivo, esso avrebbe senz’altro messo in
crisi il vero cardine della dottrina kantiana, e cioè la differenza di natura
istituita tra “estetico” e “logico”, tra “osservativo” e “discorsivo”. Ora,
Peirce è da sempre considerato il padre di questa stessa rappresentazione,
che si presenta tra l’altro come l’elemento costitutivo della sua concezione
della logica come semiotica. Ricordiamo infatti come “logica” per Peirce sia
un altro nome per “semiotica”, tanto che Peirce avrebbe tranquillamente
potuto dire che l’errore di Kant è stato quello di non aver chiamato
“Semiotica” l’intera Critica della ragion pura. Capiremo tra breve in che
senso. Qual è allora questo grande errore che ha impedito a Kant di chiamare
“logica” o “semiotica” l’intera Critica della Ragion Pura?
In Kant esistono due tipi di rappresentazioni (Vorstellung) che
differiscono in natura: le intuizioni, o rappresentazioni immediatamente
connesse coi loro oggetti che li presentano in modo diretto; e i concetti, o
rappresentazioni mediatamente connesse coi loro oggetti che li ripresentano
solamente attraverso la mediazione di un’altra rappresentazione, sia essa un
altro concetto o un’intuizione. In Kant le rappresentazioni immediate sono
estetiche (“percettivo-sensibili”) e quelle mediate sono logiche (“discorsive”,
come dice lui stesso). L’unione di almeno una rappresentazione immediata
con una rappresentazione mediata in Kant dà vita al fenomeno: essa presenta
cioè l’oggetto empirico nel suo venire alla presenza, “oggetto empirico nel
suo venire alla presenza” che è infatti “ciò nel cui concetto viene unificato
un molteplice intuitivo” (CRP, B137). Com’è evidente, allora, in Kant
esistono delle rappresentazioni non logiche, e cioè estetiche: le intuizioni.
L’estesico, il sensibile, il percettivo sono per Kant qualcosa di
costitutivamente non-logico, bensì di intuitivo, e dunque di direttamente
connesso con il proprio oggetto.
Ora, nei saggi anticartesiani, Peirce mostrerà che le intuizioni non esistono
e che tutte le rappresentazioni risultano in ultima analisi essere
rappresentazioni mediate non immediatamente connesse ai loro oggetti. In
questo modo, tutte le rappresentazioni – comprese quelle estetiche
(percezioni, emozioni, sentimenti) – posseggono una forma logica, e cioè
una forma discorsiva, mediata, in cui qualcosa è presentato sempre
attraverso qualcos’altro.20 Per Peirce, dunque, ogni rappresentazione è
sempre una rappresentazione di rappresentazione, e cioè una
rappresentazione mediata, indipendentemente dalla sua natura sensibile o
non-sensibile. Ma qual è allora il nome che Peirce attribuisce a queste
rappresentazioni mediate, che sono le uniche esistenti e che uniscono sotto di
loro anche ciò che per Kant era invece appartenente all’ordine presentativo e
osservativo della rappresentazione immediata?
Io non utilizzo la parola rappresentazione (Representation) come una traduzione del tedesco
Vorstellung, che è il termine generale per ogni prodotto delle nostre capacità cognitive.
Rappresentazione non è una traduzione perfetta di quel termine, perché sembra necessariamente
implicare un riferimento mediato al suo oggetto, cosa che Vorstellung non fa. Tuttavia, io non
limiterei il termine né a ciò che è mediato né a ciò che è mentale, ma lo vorrei usare nel suo senso
più ampio, che è anche quello usuale ed etimologico, e cioè come qualsiasi cosa che si suppone
stare al posto di qualcos’altro. (W1, p. 257)

Molto semplicemente, una rappresentazione è un representamen e i


representamen sono sempre rappresentazioni mediate, e cioè discorsive,
indipendentemente dalla loro natura logica o estetica. Ovviamente, i
representamen sono anche rappresentazioni semiotiche, dal momento che
non sono altro che segni. Ecco allora il modo in cui Peirce può conciliare
una continuità tra osservativo e discorsivo, tra “estetico” e “logico”, senza
con questo rinunciare al primato del discorsivo né alla struttura semiotica
costitutiva di entrambi. Per questo, se Kant non avesse continuato a
distinguere troppo nettamente tra momento osservativo e momento
discorsivo, e a pensare che esistono dei fenomeni sensibili non logici (non
semiotici, intuitivi), avrebbe tranquillamente potuto chiamare Logica la
totalità della sua Critica della Ragion Pura. O meglio, l’avrebbe forse potuta
chiamare Semiotica, nel momento in cui si fosse reso conto che i segni, così
come sono intesi da Peirce, sono esattamente degli “schemi”, e cioè degli
elementi che posseggono sia proprietà osservative (estetiche) che discorsive
(logiche).
In “Some Consequences of Four Incapacities”, Peirce trarrà allora le
conseguenze di tutte queste sue mosse. Esattamente come sono sempre
rappresentazioni mediate, i representamen sono infatti anche sempre
fenomeni che si fanno presenti alla mente, e anche questo indipendentemente
dalla loro natura estesica o logica.
Ogni qual volta pensiamo abbiamo presente alla coscienza un sentimento, un’immagine, un
concetto o un’altra rappresentazione che serve da segno. Ma ogni cosa che sia presente a noi è una
manifestazione fenomenica di noi stessi. Questo non impedisce che essa sia un fenomeno di
qualche cosa esterna a noi, proprio come un arcobaleno è contemporaneamente una manifestazione
sia del sole che della pioggia. (CP 5.283)

Se tutto ciò che può manifestarsi è dunque un segno, se tutto ciò che può
venire alla presenza – sia esso una percezione, un sentimento o un concetto –
deve per forza presentare una struttura semiotica, questo vuol dire che per
venire alla presenza qualcosa deve necessariamente presentarsi attraverso
representamen. Ma se tutti i fenomeni sono segni, in che modo allora un
representamen è in grado di presentare qualcosa? In che modo esso è cioè in
grado di assumere questa costitutiva funzione fenomenologica che la
posizione peirciana sembra attribuirgli?
La semiotica di Peirce ci insegna che un representamen può presentare un
oggetto solamente attraverso la mediazione di un altro representamen che lo
ripresenti sotto un altro rispetto. Un representamen può cioè presentare
qualcosa e farlo emergere in quanto fenomeno solamente rimandandolo a
un’altra rappresentazione mediatrice che “dice che qualcun altro dice la
stessa cosa che egli stesso dice” (cfr. CP 1.553). Perché qualcosa possa
essere manifestato nella sua presenza e illuminato sotto un certo rispetto
(forma di visibilità), occorre cioè che esso sia rimandato ad altri segni
interpretanti, e cioè a conoscenze precedenti o successive in assenza di
oggetto che dicono che quell’oggetto è “così e così” (forma di dicibilità),
anche qualora questo non sia vero.
Da qui la strutturazione semiotica della fenomenologia di Peirce
(faneroscopia): ciò che si fa presente alla coscienza può farsi presente
solamente ripresentandosi attraverso representamen. Un representamen può
cioè presentare un oggetto, e farlo emergere così in quanto fenomeno,
solamente ripresentandolo attraverso un segno interpretante, che in sé
possiede un’essenza costitutivamente discorsiva (esso “dice”). Ed è
esattamente attraverso questa essenza discorsiva che proietta sull’oggetto
una serie di conoscenze precedenti ottenute in sua assenza (interpretanti),
che il segno è in grado di illuminare il suo oggetto sotto un certo rispetto.
Ogni presentazione passa sempre attraverso ripresentazioni interpretanti. Il
celebre anti-intuizionismo peirciano consiste allora esattamente in questo:
ogni presentazione è sempre una ripresentazione (o presentazione mediata),
dal momento che non esistono presentazioni pure, o presentazioni
immediatamente connesse con il loro oggetto, come sono ad esempio le
intuizioni. Ecco perché la fenomenologia, che si occupa di presentazioni, fa
invece sempre riferimento a intuizioni, sensibili o categoriali che siano. A
differenza della coscienza intenzionale fenomenologica, che vede l’oggetto
nel suo presentarsi, l’intenzionalità semiotica può illuminare l’oggetto solo
rimandandolo a un’ulteriore ripresentazione, che ha luogo attraverso una
rappresentazione mediatrice che dice qualcosa sul modo in cui il segno rende
visibile il suo oggetto. La natura interpretativa della semiotica per Peirce è
per essenza “discorsiva” e non “osservativa”, “ripresentativa” e non
“presentativa”: là dove la fenomenologia husserliano-heideggeriana vede, la
faneroscopia semiotica peirciana dice, ed è solamente attraverso la forma di
un dire che essa può mostrare qualcosa.
Questa rivoluzione semiotica, questa trasformazione propriamente
semiotica della fenomenologia che definisce ciò che si presenta attraverso la
struttura semiotica di ciò che si ripresenta attraverso representamen,
determina allora innanzi tutto un primato del “dicibile”21 sul “visibile”. Per
manifestarsi e per venire alla presenza, i fenomeni devono per essenza
rimandare a un terzo elemento, l’interpretante, che per essenza possiede una
natura discorsiva: è perché l’interpretante dice qualcosa sul suo oggetto che
il primo segno lo può mostrare attraverso la mediazione di questo dire, e
mai direttamente nella visione non mediata di un’intuizione (primato della
Terzità). Ecco allora il modo in cui un representamen, e cioè una struttura
semiotica, incarna in sé sia un momento discorsivo sia un momento
osservativo che lo rende equivalente a uno schema kantiano: i segni
interpretanti hanno innanzi tutto una struttura discorsiva (essi “dicono”) e
attraverso questa stessa struttura discorsiva fanno vedere. E questo con
un’altra importante conseguenza nei confronti del rapporto tra faneroscopia
e fenomenologia.
Sebbene sia Peirce che Husserl, Heidegger e Merleau-Ponty22 parlino di
“scienza dei fenomeni” e diano la stessa definizione della disciplina, la
fenomenologia peirciana è infatti profondamente diversa da quella di
Husserl, Heidegger e Merleau-Ponty. Per tutti e quattro questi autori la
fenomenologia studia infatti il fenomeno nel suo manifestarsi e nel suo
venire alla presenza, ma è profondamente diverso il modo in cui questo
stesso “manifestarsi” e “venire alla presenza” viene pensato. Là dove la
fenomenologia europea è infatti fondata su di un “lasciar vedere da se stesso
ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso” (Heidegger, 1927,
p. 55), la faneroscopia peirciana risulta invece fondata su di un rapporto
complesso tra forme di visibilità e forme di dicibilità: qualcosa si fa presente
e può essere visto sotto un certo rispetto, solo a patto di essere rimandato alla
forma di dicibilità di un altro segno interpretante, che dice qualcosa su di
esso, anche qualora questo non sia vero. Ben lontano dall’essere un “ritorno
alle cose stesse”, la fenomenologia di Peirce è l’istituzione di uno spazio
aperto di mascheramento che apre a un costitutivo gioco di credenziali, in
cui ciò che si manifesta dice di essere una cosa, ma può benissimo mentire.
Da qui la sua strutturazione semiotica, dal momento che la semiotica studia
“tutto quello che può venire utilizzato per mentire” (Eco, 1975, p. 17).
Se dunque la fenomenologia opera per presentazioni attraverso intuizioni,
che sono rappresentazioni direttamente connesse col loro oggetto che
rendono visibile nella sua verità (nel suo venire alla presenza, nel suo farsi
non nascosto, a-letheia); ecco invece che la faneroscopia opera per
ripresentazioni attraverso representamen, che sono rappresentazioni
mediatamente connesse coi loro oggetti e che possono sempre venire
utilizzate per mentire. Ciò che si manifesta nella faneroscopia peirciana è
sempre un segno, e un segno nasconde il suo oggetto prendendone il posto e
rimandandolo a un altro segno che su quell’oggetto assente dice delle cose,
anche se niente ci offre la garanzia che sia effettivamente così (cfr. Eco,
1975, p. 17). Su questo, la distanza tra filosofia e semiotica, tra
fenomenologia e faneroscopia, non potrebbe essere più grande.
Scienza dei fenomeni significa: un afferramento dei propri oggetti tale che tutto ciò che intorno ad
essi è in discussione, sia mostrato e dimostrato direttamente. (Heidegger, 1927, p. 55)

Ecco esattamente cosa non può essere una scienza dei fenomeni per
Peirce. Non solo per Peirce non esistono infatti manifestazioni dirette, dal
momento che tutte le rappresentazioni sono rappresentazioni mediate
(segni); ma, oltre a ciò, niente si può mostrare senza che ci sia stato un
“dire” interpretante che ne rappresenta la condizione stessa di possibilità.
Assolutamente rivelatore della differenza di natura tra fenomenologia e
faneroscopia è in questo senso il rimaneggiamento del concetto di “discorso”
operato in Essere e tempo da Heidegger. Nel tentativo di illustrare il senso
della “logia” della fenomenologia, Heidegger (1927, p. 51) afferma infatti
che, sebbene sia parola polisemica per eccellenza, “il significato
fondamentale di logos è quello di discorso”, e che tutte le ulteriori traduzioni
del termine con “ragione”, “giudizio”, “concetto”, “relazione” ecc. “coprono
costantemente il significato autentico di discorso, che non è poi tanto
oscuro” (Heidegger, 1927, p. 52). Qual è allora il significato autentico di
“discorso”, se “discorso (logos)” rappresenta la “logia” della
fenomenologia?
Logos, in quanto discorso, significa qualcosa come render manifesto ciò di cui nel discorso “si
discorre”. […] Il logos lascia vedere qualcosa e precisamente ciò su cui il discorso verte; e lo lascia
vedere per coloro che discorrono (medio) o per coloro che discorrono tra loro. Il discorso “lascia
vedere”, cioè a partire da ciò stesso di cui si discorre. […] Questa è la struttura del logos, […] e
cioè il lasciar vedere mostrando. (Heidegger, 1927, pp. 52-53)

Ecco che cos’è un discorso per la fenomenologia: un “far vedere”, un


“mostrare”, una forma di visibilità che si annida all’interno di qualsiasi
forma di dicibilità e la rende possibile. È la posizione opposta a quella di
Peirce. Ecco allora ancora una volta che si tratta di insistere su di un punto
fondamentale: antilogos, faneroscopia e non fenomenologia. Non solo il
logos comportava infatti una dimensione superiore in cui si raccoglievano e
omogeneizzavano elementi che possedevano proprietà in comune
(“elevazione a maggiore”); ma esso pare comportare ora anche il primato del
“mostrare” sul “dire”, del “visibile” fenomenologico sul “dicibile”
faneroscopico. Da qui la nostra presa di posizione antifenomenologica a
fianco dell’espistemologia di Peirce e dello strutturalismo: Antilogos,
semiotica faneroscopica e non semiologia fenomenologica.
Si tratta del modo propriamente faneroscopico e interpretativo di
riprendere la grande lezione dello strutturalismo di cui ci parlava Deleuze
(1973): non c’è struttura se non di ciò che è linguaggio, perché ogni
linguaggio è essenzialmente una struttura e una struttura per sua stessa
essenza “parla”, e cioè possiede un’essenza discorsiva, e non percettiva o
presentativa. Esattamente come l’interpretante peirciano. Ecco a cosa ci
porta il primato del “dicibile” sul “visibile”, del faneroscopico sul
fenomenologico, dei processi cognitivi di ordine superiore sui processi
percettivi. È un altro aspetto del tenere insieme le prospettive di Peirce e
dello strutturalismo, il modo non banale di accoppiare in un equilibrio
felicemente instabile strutturalismo e faneroscopia.
Che cosa succede invece quando si accoppiano strutturalismo e
fenomenologia? Che cosa succede quando la struttura parla solo perché sono
“le cose” che parlano attraverso di essa? Che cosa succede cioè quando la
semiotica “parla” perché è la fondamentale complicità tra corpo e mondo
che dà luogo alla sua stessa possibilità di parlare, costituendo il visibile
come base stessa dell’enunciabile?
In Merleau-Ponty (1964, p. 204) le cose parlano perché esiste
un’esperienza precategoriale in cui si assiste alla “nascita del senso o un
senso selvaggio, un’espressione dell’esperienza attraverso l’esperienza che
chiarifica il dominio speciale del linguaggio”. È allora solamente perché
esiste questo spazio di presentazione pura che il senso si ritrova a essere:
L’integrale di tutte le differenziazioni […] in cui tutto il paesaggio è occupato dalle parole come
attraverso un’invasione che lo rende nient’altro che una variante della parola […]. Come dice
Valery, il linguaggio è tutto, dal momento che esso non è la voce di nessuno, perché esso è la voce
stessa delle cose, delle onde, dei boschi. (Merleau-Ponty, 1964, 203-204)

Là dove Deleuze ci diceva che ogni esperienza è una lingua, Merleau-


Ponty ci dice che ogni lingua è un’esperienza, selvaggiamente originaria e
precategoriale. Là dove Deleuze ci diceva che l’esperienza nasce solo grazie
al senso (al linguaggio, alla struttura), fondando così la condizione di
possibilità di qualsiasi esperienza su processi semiotici, Merleau-Ponty ci
dice invece che il senso nasce grazie all’esperienza, un’esperienza originaria
e selvaggia posta a fondamento stesso del senso. Là dove lo strutturalismo ci
dice che il senso si dà attraverso rapporti differenziali, Merleau-Ponty ci dice
invece che esso è l’integrale di tutte le differenziazioni, e cioè il
procedimento esattamente opposto che risolve e annulla le differenze
riducendole a varianti. È noto infatti come in matematica i rapporti
differenziali tra elementi in determinazione reciproca vengano risolti
attraverso l’integrale che definisce la curva nelle loro vicinanze: l’integrale
non è altro che il procedimento opposto e risolutivo di ogni differenziazione,
risolve le differenze e fa sparire i rapporti di determinazione reciproca tra gli
elementi differenziali.
È abbastanza stupefacente come la semiotica che si è voluta strutturale
non abbia mai smesso di ispirarsi a Merleau-Ponty e ai principi della sua
fenomenologia, completamente in contraddizione con quelli dello
strutturalismo. Non è allora un caso se a ispirarsi esplicitamente a Merleau-
Ponty sia proprio quella semiotica che tende a ridurre la centralità della
differenza e dei valori differenziali all’interno della propria epistemologia, al
fine di fondarla su valenze tensive.23 Questa semiotica pone infatti con forza
il primato della percezione e del sensibile; posizione che non è quella dello
strutturalismo né della semiotica di Peirce.
Si noti tra l’altro nel testo di Merleau-Ponty questo singolare riferimento
alla voce delle cose. Già Derrida (1967b) notava infatti come ogni
fenomenologia custodisse al suo interno un rapporto privilegiato tra la voce
e il fenomeno, dal momento che entrambe si fondavano sulla medesima
garanzia a sé propria di una presenza che continuamente cercavano e non
smettevano di ritrovare. A questo accoppiamento propriamente
fenomenologico, Derrida (1967a) opponeva allora un concetto sui generis di
scrittura presentata come traccia, e cioè come un segno che sta al posto di un
impressore inesistente o comunque sempre assente, e notava molto
giustamente come la faneroscopia peirciana non avesse nulla a che vedere
con il fenomeno della fenomenologia, quanto piuttosto con questa assenza
semiotica che viene alla presenza in quanto rimando ad altro.24 In questo
modo, la faneroscopia peirciana definisce molto nettamente l’impossibilità
di una presentazione selvaggiamente originaria, che non sia già differita in
una struttura relazionale e differenziale (in Peirce ogni presentazione è
sempre differita verso la luce propria di un altro segno interpretante e
rimandata a esso).
In Merleau-Ponty è infatti solamente perché esiste uno spazio di
presentazione precategoriale, in cui le cose emergono selvaggiamente senza
doversi necessariamente ripresentare attraverso interpretanti, che esse hanno
una voce e parlano. Al contrario, in Peirce nulla emerge precategorialmente:
ogni fenomeno è sempre l’incarnazione di tutte e tre le categorie
faneroscopiche e nulla è in grado di presentarsi senza ripresentarsi attraverso
la mediazione di un interpretante, che dice che ciò che esso dice è la stessa
cosa detta da qualcun altro sotto un altro rispetto. Le due posizioni non
potrebbero essere più distanti: per la fenomenologia è perché le cose si
presentano attraverso un’esperienza precategoriale che esse hanno voce e
“parlano”; al contrario, per la faneroscopia è perché gli oggetti si
ripresentano attraverso un dire che essi possono venire alla presenza ed
essere “visti”.
Ecco allora che l’unione dello strutturalismo e della faneroscopia
semiotica peirciana dà vita al paradigma interpretativo in semiotica, mentre
l’unione dello strutturalismo e della fenomenologia dà vita all’opzione
generativa.
La semiotica generativa è infatti molto evidentemente attraversata da parte
a parte da una doppia anima: una puramente posizionale e differenziale di
origine strutturalista e l’altra presentativa e fenomenologica. Questa tensione
irrisolta permea in modo costitutivo l’intera opera di Greimas, in cui
convivono fianco a fianco un’eredità saussuriano-hjelmsleviana di tipo
differenziale e un’eredità merleau-pontyana di tipo integrale e
fenomenologico.25 La nostra posizione a riguardo è allora molto chiara:
l’eredità dello strutturalismo, a cui la semiotica non può e non deve
rinunciare, è quella differenziale-posizionale; la sua ibridazione con la
fenomenologia di stampo husserliano/merleaupontyano porta a un
costitutivo tradimento dell’essenza stessa dello strutturalismo, conducendo
da un lato al completo abbandono della prima accezione saussuriana del
valore (accezione trascendente) e dall’altro, nelle esperienze post-
greimasiane, al contemporaneo ribaltamento del primato tra percettivo e
discorsivo, che aveva informato fin dalle origini l’impresa epistemologica
dello strutturalismo (cfr. ad esempio Greimas e Fontanille, 1991, Fontanille e
Zilberberg, 1998).

2.4. “Fuori dal testo non c’è salvezza”: una rilettura

Ci pare allora evidente come sia esattamente questa ibridazione tra


strutturalismo e fenomenologia ad aver dato vita al paradigma testuale
costitutivo dell’impresa della semiotica generativa, dal momento che essa ha
assunto l’idea deleuziana discussa all’inizio del precedente paragrafo nella
sua declinazione merleau-pontyana, finendo così semplicemente per
sostituire la parola “testo” a quella “linguaggio”. Ecco allora che non esiste
semiotica se non di ciò che è testo, fosse pure un testo esoterico, oggettuale,
sociale o non verbale. Non esiste una semiotica degli oggetti se non nella
misura in cui gli oggetti parlano e sono testi. Non esiste una semiotica delle
pratiche sociali se non nella misura in cui si ritiene che esse possano essere
lette in quanto testi. Non esiste una semiotica delle arti se non nella misura
in cui si ritiene che esse parlino un linguaggio che è quello del visibile e
possano a loro volta essere trattate come testi. Non esiste semiotica se non di
ciò che è testo, dal momento che “fuori dal testo non c’è salvezza”, come
diceva Greimas.
Ma che cos’è allora un “testo” per questa tradizione, se non esiste
semiotica se non di ciò che è testo? Conformemente al suo tentativo di
coniugare strutturalismo e fenomenologia europea, l’approccio generativo è
allora posto di fronte a due concezioni molto differenti della nozione di
“testo”. Da un lato, per lo strutturalismo – e per Hjelmslev in particolare – il
testo è infatti l’oggetto della teoria linguistica (cfr. P, p. 19):
Gli oggetti che interessano la teoria linguistica sono testi. […] La teoria linguistica parte dal testo
come proprio dato e cerca di suggerire una descrizione coerente ed esauriente di tale testo
attraverso un’analisi. (P, pp. 19, 25)

Per Hjelmslev il testo è così un elemento della manifestazione,26 un


oggetto a cui ci si deve adeguare nell’analisi, il dato che la teoria deve
descrivere e spiegare (cfr. P, pp. 18-27). Al contrario, e conformemente alla
sua anima fenomenologica, per la semiotica generativa “testo” ha però anche
un’altra accezione, che è probabilmente quella più celebre. Nella voce
“Testo” del primo Dizionario, Greimas e Courtés (1979) lo pensavano infatti
come l’effetto dello sguardo semiotico che lo costruiva, essendo “il testo
costituito unicamente dagli elementi semiotici conformi al progetto
semiotico della descrizione”. In questa prospettiva, “testo” diventa cioè il
correlato di un progetto di descrizione, nel caso specifico, il correlato di ciò
che viene descritto attraverso il percorso generativo, e assume così una
posizione similare a quella che il noema aveva nella fenomenologia di
Husserl (1913). Esattamente come il noema era infatti il correlato
intenzionale di un atto di coscienza, ed era così costituito dall’atto di noesi
che lo poneva, senza con questo confondersi con alcun tipo di oggetto
empirico,27 così il testo diventa il correlato oggettuale di un progetto teorico
di descrizione, senza confondersi con alcun tipo di oggetto empirico a livello
della manifestazione. Non è un caso che Greimas lo definisse come “una
rappresentazione semantica del discorso […] indifferente ai modi semiotici
di manifestazione”, e cioè una forma trasponibile a qualsivoglia oggetto
empirico che presenti quei tratti che lo sguardo semiotico gli attribuisce, e
cioè quelli “conformi al suo progetto teorico di descrizione” (chiusura,
coerenza, coesione, molteplicità di livelli, articolazione narrativa)28.
Secondo la semiotica del testo, il testo non è più una cosa, un oggetto empirico, ma un modello
teorico usato come strumento di descrizione. […] Quindi, trasmissioni televisive, annunci e spot
pubblicitari, film, oggetti tecnologici, ma anche conversazioni orali, strategie militari o di
marketing, stazioni della metropolitana, edifici, intere città, quindi, non sono testi dal punto di
vista empirico; ma vanno comunque studiati dal punto di vista metodologico come se lo fossero,
dato che è possibile riscontrare in essi le medesime proprietà formali dei testi propriamente detti.
(Marrone, 2007, p. 240)

Per questo nella tradizione generativa sono stati studiati come testi un
romanzo, una zuppa al pesto, la degustazione di un sigaro, la città, il dialogo
tra le culture, l’avarizia, le strategie di mercato, la generosità, il design, più
miti antichi, la pubblicità del detersivo, Proust.
Già Marrone (2007, pp. 239-240) notava allora molto giustamente questo
doppio statuto della nozione di testo, e parlava di testo come oggetto per ciò
che noi chiamiamo “accezione strutturale”, e di testo come modello per ciò
che noi chiamiamo “accezione fenomenologica”. L’epistemologia generativa
oscilla allora tra queste due accezioni, e la sua stessa posizione teorica
consiste di fatto in questo sincretismo. Come detto, i) Greimas usa infatti
“testo” in senso “fenomenologico”29 nel Dizionario del 1979, ii) ma usa
“testo” in senso strutturalista (hjelmsleviano) quando in Maupassant
paragona i testi ai selvaggi a cui il semiotico tenta di adeguarsi nell’analisi
(cfr. Greimas, 1976). Infine, iii) usa “testo” in entrambi i sensi nel famoso
passo in cui formula lo slogan “fuori dal testo non c’è salvezza”. Vale allora
senz’altro la pena di rileggere questo luogo semiotico così estensivamente
citato, ma mai davvero discusso nelle sue articolazioni problematiche. Non
ci stupiremo nel vedere come “fuori dal testo non c’è salvezza” definisca
esattamente il rapporto di Greimas con la fenomenologia di Merleau-Ponty a
partire dall’accezione hjelmsleviana del testo. Leggiamo allora la prima
parte della citazione:
La prima formazione che ho ricevuto è stata quella di filologo […]. Questo vuol dire che io ho il
rispetto del testo, il rispetto del riferimento, del pensiero dell’altro. Questa influenza è ugualmente
importante per ciò che concerne le pratiche testuali. Il preliminare di ogni analisi semiotica è la
filologia, la preparazione filologica del testo. Si tratta di un sottointeso inevitabile. Occorre sapere
che cos’è un testo, sia che si sia storici, linguisti o logici: il testo è il punto di partenza e il punto di
ancoraggio delle nostre elucubrazioni, se così si può dire, le giustifica e le fonda. In seguito, a
livello della descrizione, ci si allontana certamente dal testo, ma è l’unico rapporto che abbiamo
con il nostro reale, differente dal reale matematico, dal reale naturale ecc. (Greimas, 1987, p. 148,
corsivi di Greimas)

Si vede molto bene come “testo” sia qui inteso in senso hjelmsleviano,
come elemento a cui ci si deve adeguare nell’analisi. Il testo è il reale del
semiotico, e lo è nel senso della filologia, e cioè nel senso che identifica il
rispetto del testo con il rispetto dell’altro, del riferimento e del pensiero
altrui. L’analisi si potrà poi allontanare da questo testo filologicamente
inteso (potrà cioè essere hjelmslevianamente arbitraria, e cioè “indipendente
dall’esperienza”), ma dovrà sempre mantenere con questo reale testuale un
rapporto di adeguazione, e cioè di rispetto del testo inteso come
manifestazione del pensiero dell’altro.
In seguito invece, rispondendo proprio a una domanda sulla
fenomenologia, Greimas giunge alla sua famosa formulazione “fuori dal
testo non c’è salvezza”, usando “testo” in un senso molto diverso da quello
appena riportato:
Per quel che mi riguarda, il modello figurativo che mi ha guidato l’ho trovato nella prima opera di
Merleau-Ponty: è il cubo. Che cos’è il cubo? In una trasposizione nella geometria dell’immagine
credo sia un po’ ciò che la cera era per Cartesio. Potete guardarlo da tutti i lati, tutte le volte si
tratta di un’apparenza differente, ma il cubo, in quanto tale, resta sempre identico. Ecco una buona
definizione del discorso in quanto oggetto autonomo: “Fuori dal testo non c’è salvezza!”. Si tratta
di una definizione che ci consente di parlare del discorso indipendentemente dalle variabili che
costituiscono l’emittente e il ricevente. C’è sempre il testo, come il cubo: c’è la struttura testuale o
narrativa come un’invariante sulla quale si possono fondare le nostre analisi. Non si tratta di
ridurre questa invariante, come si fa troppo spesso, sia al soggetto dell’enunciazione sia
all’enunciatario, come nell’estetica di Jauss ad esempio: non si riconduce tutto al produttore o al
lettore. No, tra i due c’è l’oggetto. Si può velare il suo ruolo ma ciò non impedisce che gli oggetti
semiotici esistano: è stato questo il punto di partenza che mi ha obbligato a introdurre il concetto di
esistenza semiotica, un po’ come c’è la realtà degli oggetti matematici. Penso che la semiotica può
immaginare l’esistenza di questi simulacri, di queste costruzioni di oggetti che possono essere
definiti semioticamente e di cui il tipo di esistenza permette, detto altrimenti, di evacuare il
problema dell’essere, i problemi ontologici. (Greimas, 1987, pp. 155-156)

Come non è forse così evidente a una prima lettura, “testo” è qui usato in
un senso molto diverso da quello precedente. Sebbene infatti, qualora si
volesse tradurlo nei termini fenomenologici accennati a inizio passo da
Greimas, si sarebbe inizialmente tentati di identificare il testo con
l’oggetto=x che è supporto di tutti i suoi “adombramenti” (gli sguardi
prospettici) – “unica e medesima determinabile x”30 – non è affatto questo il
senso di ciò che intende Greimas. L’esempio fenomenologico del cubo serve
infatti a Greimas a differenziare l’approccio semiotico da quello di altre
scienze umane, che fondano sull’emittente e sul ricevente le loro analisi. Al
di là del lettore (empirico) e del produttore (dogmatico), per Greimas c’è il
testo con le sue strutture semiotiche. Da qui la sua critica a Jauss. La mossa
di Greimas è, insomma, del tutto identica a quella che Paolo Fabbri (1973)
compiva più di dieci anni prima nel suo saggio sul Malocchio della
Sociologia (cfr. infra, 2.5): uscire dall’empiria dell’emittente e del ricevente
per concentrarsi innanzi tutto sulla semantica del testo. Questa è la
specificità della semiotica per Greimas. Ed è solo ed esclusivamente in
questo senso che il testo funziona come “cubo che resta identico”: esso è
cioè invariante rispetto alle differenti prospettive che l’emittente e il
ricevente empirici possono avere su di esso, ma in sé, esso non è affatto un
oggetto empirico, un oggetto reale o un oggetto=x. Al contrario, il testo per
Greimas è un simulacro, e cioè un “oggetto come appare”, una
“costruzione”, che è il correlato del progetto teorico della descrizione, tanto
che ciò che costituisce la sua “invarianza” sono esattamente la sua struttura
e la sua articolazione narrativa, e cioè proprio i livelli più profondi del
percorso generativo del senso. Si tratta dell’accezione del “testo come
modello” messa in evidenza da Marrone (2007), tanto che Greimas stesso
insiste sul suo carattere di “costruzione”.
Tuttavia purtroppo non si può avere tutto. O il testo è il correlato
oggettuale conforme al progetto teorico della descrizione (côté
fenomenologico) oppure è un elemento della manifestazione a cui ci si deve
hjelsmlevianamente adeguare nell’analisi (côté strutturalista). Greimas
oscillava continuamente tra le due posizioni e la sua epistemologia sincretica
marcava di volta in volta un senso piuttosto che l’altro, in funzione
dell’obiettivo locale che si voleva conseguire. Era del resto l’unica via
possibile per compiere una doppia mossa epistemologica, che è a
fondamento dell’intera epistemologia generativa: da un lato si trattava di
costruire la semiotica come una disciplina scientifica dotata di una sua
oggettività propria (i “testi-selvaggi”); dall’altro si trattava di poter estendere
questa oggettività ad ambiti che la nostra cultura normalmente non
caratterizza come testi; così che il testo doveva diventare un oggetto
costruito effetto di uno sguardo costituente (quello del semiotico). Da qui la
polisemia irriducibile del concetto:
Sembra, dunque, che per Greimas il testo sia al contempo il tutto (l’oggetto semiotico costruito in
funzione della pertinenza che ci si dà nel progetto descrittivo) e una sua parte (la manifestazione
espressiva concreta, la “fine” del percorso generativo del senso, risultato di un tardivo matrimonio
fra il piano del contenuto e il piano dell’espressione). (Marrone, 2007, p. 241)
Al fine di uscire da questa impasse, Marrone (2007) tentava allora di
fornirne una lettura coerente di questi luoghi greimasiani, marcandone con
forza il côté fenomenologico (testo come correlato del principio teorico della
descrizione “in immanenza”), a discapito di quello hjelmsleviano (testo
come elemento della manifestazione a cui ci si deve adeguare), e leggendo il
secondo in funzione del primo. In questo modo, Marrone assume come
propria della semiotica l’accezione “fenomenologica” del testo, e cioè quella
di modello:
Così come il cubo paradossale di Merleau-Ponty non sta nella sua appercezione immediata ma
nella sintesi cognitiva che ne può venir fatta a posteriori (après coup), di modo che esso
progressivamente però diviene oggetto di percezione possibile, egualmente il testo è per il
semiologo un oggetto paradossale: viene progressivamente costruito come punto di partenza, sta
alla fine solo in virtù dell’essersi già dall’inizio ancorati a esso. È grazie alle molteplici pertinenze
con le quali viene parzialmente messo a fuoco (i livelli del percorso generativo) che il testo si
conferma essere, alla fine, l’oggetto sottoposto già dall’inizio ad analisi. (Marrone, 2007, p. 245)

Questa prospettiva modellistica radicale sostenuta da Marrone si distacca


però molto nettamente sia dalla fenomenologia di Husserl, sia da quella di
Merleau-Ponty, sia dalla ripresa che Greimas stesso ne fa, dal momento che
l’oggetto costruito dal progetto teorico della descrizione è l’oggetto
empirico stesso (e non il suo “noema” o il suo “simulacro”), tanto che
Marrone (2007, p. 246) parla esplicitamente di “empiria costruita”. La mossa
non è allora senza conseguenze, che possono essere esplicitate proprio in un
confronto con la fenomenologia.
La fenomenologia partiva infatti innanzi tutto con una messa in parentesi
della tesi naturale, e cioè con quella riduzione fenomenologica che metteva
tra parentesi qualsiasi tipo di empiricità, che diventava così del tutto non
pertinente: il fenomeno era così certamente costruito dall’atto che lo poneva,
ma senza con questo confondersi con alcun tipo di oggetto empirico, la cui
pertinenza era infatti “messa in parentesi”. Al contrario, la posizione di
Marrone si configura come una fenomenologia senza riduzione
fenomenologica, dal momento che è lo stesso dato empirico, e non un
correlato oggettuale del progetto di descrizione, a essere costruito dal
processo di descrizione:
L’oggetto che la semiotica pone al suo cosiddetto “livello empirico” non ha nulla di banalmente
empirico: non è mai dato come tale, ma viene prima costruito e poi posto come se fosse un dato.
(Marrone, 2007, p. 246)
Questa idea di una disciplina che costruisce e poi “pone come se fosse un
dato” il proprio oggetto costruito definisce di fatto una fenomenologia senza
riduzione fenomenologica e corre così a larghi passi verso l’idealismo, in cui
l’oggetto della disciplina (testo) non è nulla al di fuori del senso che gli
viene conferito dal progetto teorico della disciplina stessa (l’oggetto è posto
dal progetto teorico di descrizione, ma l’oggetto “posto” è lo stesso
dell’oggetto “scoperto”, l’oggetto “costruito” è lo stesso dell’oggetto
“empirico”). Per questo, pur condividendo senz’altro la necessità di Marrone
(2007) di uscire dall’impasse tra testo come modello (côtè fenomenologico)
e testo come elemento della manifestazione (côtè strutturalista), non può
essere questa la nostra strada.
La nostra proposta è allora alternativa e speriamo anche estremamente
chiara, conformemente al progetto epistemologico che stiamo costruendo, e
si pone quindi a fianco dell’eredità dello strutturalismo. “Testo” è un
oggetto,31 un elemento della manifestazione (non dell’immanenza) che
circola con uno statuto enciclopedico che è differente rispetto a quello delle
pratiche, delle norme, degli usi e delle culture. In quanto tale, esso definisce
qualcosa a cui ci si deve hjelmslevianamente adeguare nell’analisi, e non il
correlato di un progetto teorico di descrizione. Si prende così posizione per il
lato strutturalista della semiotica a discapito di quello fenomenologico,
conformemente all’idea di un’incompatibilità tra le due epistemologie, che
speriamo di aver mostrato. Tuttavia, il pensare al testo come a un elemento
della manifestazione non significa affatto svuotarne il senso
fenomenologico, e abbracciare così una forma di positivismo, bensì significa
solo sostituirlo con quello faneroscopico: il “testo” è qualcosa che si
manifesta,32 che viene alla presenza sotto un certo rispetto, in funzione di un
determinato punto di vista che è, per noi, di tipo enciclopedico. Sono “testi”
quegli oggetti semiotici che in una determinata cultura circolano con quello
statuto e sono “letti” in quanto testi dalla comunità interpretante, “sotto il
rispetto” della testualità (cfr. CP 5.311).
Per questo il pensare al testo come a un elemento della manifestazione (e
non dell’immanenza) non porta affatto a una sua ontologizzazione, né tanto
meno al pensarlo come a un banale “dato” (positum). Su questo non
possiamo essere hjelmsleviani.33 Per la prospettiva che stiamo proponendo,
ciò che si manifesta è sempre il correlato di una faneroscopia semiotica di
tipo peirciano e di una logica enciclopedica delle culture, e il testo, in quanto
elemento della manifestazione, non fa alcun tipo di eccezione. Lo statuto
enciclopedico di “testo”, per noi diverso da quello di “pratica”, di “norma” o
di “cultura”, è infatti esso stesso l’effetto di un processo di costruzione
storico-culturale che coinvolge l’enciclopedia di una data cultura. Genette
(1993) ad esempio ha mostrato come il libro abbia impiegato diverso tempo
prima di assumere lo statuto di oggetto-testo all’interno della cultura
occidentale. Stoichita (1993) ha mostrato la stessa cosa a proposito del
quadro artistico dotato di cornice. In questo senso, i testi sono senz’altro
costruiti, ma non certo dal progetto teorico della descrizione, che anzi deve
hjelmslevianamente adeguarsi ai suoi oggetti, nel tentativo di descrivere
efficacemente le strutture semiotiche costitutive di elementi che circolano
con uno statuto enciclopedico molto differente tra di loro. La comunità
enciclopedica interpretante sostituisce il progetto teorico di descrizione e il
testo diventa così un elemento della manifestazione, in senso faneroscopico
(ciò che per una data comunità interpretante si manifesta sotto il rispetto
della testualità).
Questa impostazione faneroscopica ed enciclopedica permette allora di
evitare di cadere in una fenomenologia senza riduzione fenomenologica,
senza con questo ritornare a una concezione ingenua del testo come oggetto
dato, principio supremo del positivismo (così in Hjelmslev).
Ci è possibile a questo punto formulare con maggiore precisione il nostro
problema e provare a fornire delle riposte, riprendendo in mano quell’elenco
piuttosto cacofonico di “testi” a cui accennavamo in questo paragrafo. La
semiotica “maggiore”, e cioè la semiotica che su questi problemi ha posto la
sua impresa sotto l’egida del “fuori dal testo non c’è salvezza”, ha portato a
omogeneizzare sotto gli stessi oggetti teorici cose radicalmente eterogenee
come un romanzo, una zuppa al pesto, la degustazione di un sigaro, la città,
il dialogo tra le culture, l’avarizia, le strategie di mercato, la generosità, il
design, più miti antichi, la pubblicità del detersivo e la Recherche di Proust.
Un’osservazione di semplice buon senso è che questi oggetti culturali non
sono ciò che la nostra enciclopedia considera normalmente come testi. Ma,
se questo è vero, eccoci allora di fronte al nostro problema. Per un approccio
che tiene insieme strutturalismo e interpretazione, come quello che stiamo
cercando di costruire qui, la semiotica è esattamente la disciplina delle
logiche enciclopediche della cultura, per cui il problema della semiotica
sarebbe quello di capire quali sono le regole di produzione di senso che
regolano le formazioni discorsive di una cultura in cui la città, Proust e la
degustazione di un sigaro sono percepiti come strutturalmente differenti; e
non perché una particolare categoria di persone (i semiotici) li percepiscano
tutte in quanto testi.
Il problema è di una profondità abissale, ed è esprimibile sostituendo la
parola “cultura” a quella “natura” in un celebre passo di Wittgenstein:
Si crede di stare continuamente seguendo la cultura, e in realtà non si seguono che i contorni della
forma attraverso cui la guardiamo. Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne
fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio e questo sembrava ripetercela inesorabilmente.
(Wittgenstein, 1953, §§ 114-115)

Siamo per caso imprigionati in un metalinguaggio semiotico che pretende


di fornire coerenza e omogeneità a cose che radicalmente non ce l’hanno, o
ce l’hanno solo in parte? E con questo non si sta forse perdendo di vista
l’oggetto stesso della semiotica, che sono esattamente le logiche
enciclopediche della semiosfera con le loro regole di produzione di senso
che regolano le formazioni discorsive di una data cultura? La formulazione
“regole di produzione di senso che regolano le formazioni discorsive di una
data cultura” è di Paolo Fabbri (1973). Ci ritorneremo.
Già a questo livello, è però evidente come il nostro problema sia
riformulabile proprio nei termini di una semiotica enciclopedica delle
culture: all’interno di una semiosfera, e cioè all’interno di una data
enciclopedia, c’è una sottoclasse sociolettale che percepisce omogeneità e
coerenza là dove altri vedono differenze ed eterogeneità. Ecco allora che se
un certo tipo di semiotica vuole trattare l’avarizia, la cultura, la pubblicità
del detersivo e la città di Bologna come dei testi deve mostrare l’euristicità
di questo approccio, deve cioè mostrare che esiste una vera necessità di
sospendere una normale logica enciclopedica della cultura; e cioè quegli
abiti interpretativi attraverso cui diamo senso ai nostri oggetti culturali.
Quello che proveremo a mostrare ora non è tanto che questa necessità non
ci sia, ma che il paradigma “testuale” la assume come un dato e non come un
problema; mentre è evidente, sia nella semiotica di Lotman che in quella di
Peirce, a cui ci ispireremo, come sia esattamente la sospensione degli abiti
interpretativi ciò che costituisce il problema stesso di una semiotica delle
culture, essendo ciò che si deve spiegare se si vuole rendere conto dei
movimenti esplosivi e traduttivi della semiosfera (in Lotman) o dei nuovi
processi attraverso cui si fissano le credenze (in Peirce). Cioè, è interessante
vedere se un approccio di tipo testuale è in grado di spiegare quelle “regole
di produzione di senso che regolano le formazioni discorsive di una data
cultura”; o se semplicemente non se ne occupa, relegando anzi questo
problema a quello che in semiotica non si deve fare.
Lavoreremo insomma sul pigro pragmaticista che è in noi (cfr. CP 5.388-
5.435, Dewey, 1922, p. 34), che tende a dare senso al nuovo senso in base al
vecchio senso enciclopedico già disambiguato (cfr. Eco, 1979); che si lascia
installare dai testi, dalle pratiche e dalle culture all’interno dei piani
enciclopedici che frequenta abitualmente (cfr. infra, capitolo 4); e che
soltanto nel mezzo di questo processo, quando le sue forze sono consolidate,
riesce a sospendere questi abiti e questi stereotipi enciclopedici che
rappresentano lo sfondo della sua percezione del senso.
Come fare allora a raggiungere questo obiettivo attraverso una specificità
semiotica alternativa a quella della metafora testuale, specificità che ci
consenta di individuare un livello proprio dell’approccio semiotico
nell’ambito delle altre scienze sociali?

2.5. Semiotica delle culture e semiotica del testo. Altre tre riprese
“minori” di tre testi “maggiori”: il “Malocchio della sociologia”
(Fabbri), “Il fissarsi della credenza” e “Come rendere chiare le nostre
idee” (Peirce), La semiosfera (Lotman)

A questo proposito, occorrerà provare a riprendere ancora una volta il


vecchio treno saussuriano, quello Ginevra-Parigi delle 20.45 (cfr. supra,
1.3), per vedere come sia possibile attraversare i segni nella vita sociale al
fine di individuare quegli abiti interpretativi e quelle regole di produzione di
senso che regolano le formazioni discorsive di una data cultura. Nel porre
l’identificazione tra i sistemi semiologici e i sistemi in cui l’identità si
confonde con la nozione di valore, Saussure (CLG) ci forniva infatti i mezzi
necessari per confrontare l’approccio semiotico con altri approcci, e cioè con
quelli in cui la nozione di “identità” non si confonde con quella di “valore”.
Leggiamo allora questo passo di Alessandro Duranti (2000):
L’antropologia del linguaggio cerca di realizzare descrizioni, basate su dati etnografici, di strutture
linguistiche usate da gente reale, in un tempo e in uno spazio reali. Ciò significa che l’antropologia
del linguaggio considera i propri oggetti di studio anzitutto come degli attori sociali: essi sono
membri di specifiche, complesse comunità, ciascuna organizzata in un gran numero di istituzioni
sociali e mediante una rete di aspettative, credenze e valori morali relativi al mondo che si
intersecano pur senza necessariamente sovrapporsi. (Duranti, 2000, p. 14)
Ora, questo atteggiamento, che l’antropologia del linguaggio condivide
con la maggior parte delle scienze sociali, sociologia in primis, è
radicalmente non-semiotico e piuttosto incompatibile con una epistemologia
semiotica, tanto che Duranti non potrebbe salire sul treno Ginevra-Parigi
delle 20.45, visto che lo “confonde” con i suoi vagoni e con il suo
personale34. Perché, come era chiaro fin dal Trattato di semiotica generale,
il compito della semiotica era esattamente quello di porre tra parentesi
queste entità reali (gente reale, tempi e spazi reali) e lasciare così
“intravedere una sorta di paesaggio molecolare in cui quelle che la
percezione quotidiana ci presenta come forme conchiuse sono in realtà il
risultato transitorio di aggregazioni chimiche e le cosiddette ‘cose’ sono
l’apparenza superficiale di una rete soggiacente di unità più microscopiche”
(Eco, 1975, p. 74). Era la particolarissima forma di “riduzione
fenomenologica” costitutiva della semiotica: al di là, o al di qua, della gente
reale e delle cose reali, la semiotica ritrovava una dimensione più profonda,
in cui l’identità di un elemento era definita esclusivamente dalla rete
soggiacente dei rapporti in cui questo elemento era preso. Proprio su questo
punto fondamentale insisteva con grande forza Deleuze (1973), quando
diceva che lo strutturalismo è inseparabile da una filosofia trascendentale
nuova, in cui i posti e le relazioni sono più importanti degli elementi reali
che li vengono di volta in volta a occupare (la “gente reale” e gli “spazi e
tempi reali” di cui parlava invece Duranti).
Ma era del resto questa la via indicata anche da Fabbri (1973) nel suo
saggio sul Malocchio della sociologia, che definiva in questo modo le
specificità di un approccio semiotico alle logiche della cultura:
Porre in evidenza i problemi della cultura […] significa dislocare verso il testo e il suo senso
l’attenzione delle scienze umane; spogliare sullo schema Emittente-Messaggio-Ricevente, L’E
(dogmatico) e il R (empirico) dalla qualità soggettivistica di conservatori ideali e stabili
dell’informazione. Il messaggio-oggetto, come insieme di testi che forma una cultura, è il
depositario dell’informazione e in questo senso un’analisi semiotica della cultura è coerente alla
decostruzione dell’episteme individualistica e razionalistica delle scienze sociali. (Fabbri, 1973, p.
68)

Se per “sociosemiotica” si intende quell’approccio semiotico che pensa


alla cultura come insieme di testi e al testo come oggetto stesso di una
semiotica della cultura e delle scienze sociali (cfr. Landowski, 1989),
occorre sottolineare fin da subito come il punto di partenza di questo
paradigma sia proprio questo saggio di Fabbri,35 e non certo il lavoro di
Greimas, che aveva una posizione molto differente (cfr. Greimas, 1976 e
infra). Ma indipendentemente da questo aspetto del problema, su cui
ritorneremo tra breve, ciò che occorre sottolineare a questo livello è
l’importanza decisiva della mossa di Fabbri nel definire una specificità
semiotica nei confronti delle altre scienze sociali. Emittente e ricevente
vanno spogliati del loro aspetto “reale” (la “gente reale” di Duranti) perché
“i soggetti costituiscono la loro identità e presenza nell’operazione
significante, e qui gli oggetti-testi sono costituiti e trasformati” (Fabbri,
1973, p. 63). Per questo occorre
una scienza delle formazioni semiotiche discorsive che articolano le ideologie e le scienze d’una
cultura data. Le sono indispensabili quindi la conoscenza regolata (i) dei contenuti e (ii) delle
regole di produzione di senso che articolano l’universo discorsivo di una cultura. Questo modello è
il denominatore comune al sociologo e al semiotico. (Fabbri, 1973, p. 60)

Il principio (i) nella prospettiva di Fabbri è estremamente chiaro: se porre


in evidenza i problemi della cultura significa concentrarsi sul messaggio-
testo, occorre una semantica del testo che sia in grado di rendere conto dei
suoi contenuti. Per Fabbri ovviamente la semiotica generativa è questa
semantica, tanto che gli autori citati a proposito sono esattamente Benveniste
e Greimas (cfr. Fabbri, 1973, p. 60). Su che cosa siano invece le “regole di
produzione di senso che articolano l’universo discorsivo di una cultura”, la
semiotica, o almeno quella generativa, ha forse detto e fatto meno, tanto che,
a differenza del punto i), Fabbri non cita a questo proposito dei semiotici,
bensì autori quali Lamb e Halliday. E tuttavia il principio ii) resta centrale,
tanto che Fabbri dice appunto che è “l’indispensabile denominatore comune
al sociologo e al semiotico, sia che lo sguardo vada dal linguaggio alla
società o dalla società al linguaggio”.
Ora, ben più che la semantica del testo, crediamo siano proprio queste
regole di produzione di senso che all’interno di una data cultura articolano le
sue formazioni discorsive a rappresentare l’oggetto stesso di una semiotica
delle culture. Occorrerà allora vedere qual è stato il loro destino all’interno
della tradizione semiotica “maggiore” e perché, trent’anni dopo il Malocchio
della Sociologia, non solo il loro studio finisca per scomparire
completamente senza lasciare traccia all’interno di un approccio generativo e
sociosemiotico, ma diventi esattamente quello che non si deve fare in
semiotica. Chiediamoci allora come mai, allo stato attuale della disciplina, il
punto i) del Malocchio della sociologia (la semantica del testo) sembri aver
completamente fagocitato il punto ii) (le regole di produzione di senso che
articolano le formazioni discorsive di una cultura).
Leggiamo allora l’introduzione di Fabbri e Marrone (2000) a Semiotica in
nuce, il cui obiettivo è esattamente quello di sostituire la sola analisi testuale
a quelle regole di produzione che all’interno di una certa cultura articolano la
nostra percezione del senso:
Per fare analisi testuale non tutti i metodi vanno bene. Piuttosto che avvicinarsi al testo con modelli
fra di loro incomparabili o con categorie interpretative eteroclite, è necessario che il metodo usato
venga passato al vaglio di una teoria che faccia interagire modelli e categorie, interdefinendoli tra
di loro. […] L’analisi, in altre parole, non è fine a se stessa, né tanto meno serve a esibire le derive
di un’ermeneutica più o meno mascherata. Essa mira se mai alla teoria generale del senso e della
significazione. Da qui un celebre paragone: come l’etnologo, di fronte alle culture altre, è portato a
mettere in discussione se stesso e le proprie categorie interpretative, così il semiologo, di fronte al
testo, deve saper abbandonare i propri sguardi stereotipi in nome di più efficaci strumenti di
descrizione e di comprensione. (Fabbri e Marrone, 2000, p. 9, corsivi di Fabbri e Marrone)

Ora, su questo punto aveva lavorato molto Charles Sanders Peirce. Se i


nostri sguardi stereotipi, se i nostri abiti interpretativi, se quelle regole di
produzione che articolano le formazioni discorsive della nostra cultura
fossero qualcosa che si può mettere in discussione con una massima o con
un metodo, allora non sarebbero affatto tali:
Dobbiamo sempre cominciare con tutti i pregiudizi che agiscono in noi nel momento in cui
intraprendiamo lo studio. Questi pregiudizi non li possiamo eliminare con una massima, poiché
sono tali che non ci è mai venuto in mente di poterli mettere in discussione. […] Si tratta dunque di
un preliminare altrettanto inutile quanto andare prima al polo Nord per raggiungere lungo un
meridiano Costantinopoli, anziché prendere la via diretta. (CP 5.265, cfr. anche 5.376)

Il problema è che un semiotico non è in una situazione diversa da quella in


cui si trovano un artista o uno scrittore. Per un artista la tela non è mai vuota,
per uno scrittore la pagina non è mai bianca, ma sia la tela che la pagina
sono sempre costitutivamente troppo piene del già detto, del già dipinto, dei
cliché, degli stereotipi, degli abiti interpretativi, delle sintassi procedurali e
cioè di tutte quelle regole di produzione che articolano le formazioni
discorsive di una data cultura o di un suo dominio disciplinare. Quando
artisti come Cézanne36 o Francis Bacon37 dicono che il problema
dell’enunciazione pittorica è quello di sfuggire ai cliché, lo dicono perché
l’enunciazione che deve riempire la tela o scrivere la pagina ha sempre a che
vedere con degli stereotipi che definiscono il momento stesso in cui ci si
trova a operare: proprio in quanto vuota, la tela è sempre costitutivamente
troppo piena, traboccante di “già detto” proprio nel suo essere vuota. Per un
semiotico la situazione non è affatto diversa, tanto che il metodo fa fare
l’analisi esattamente come il metodo insegna: ecco un esempio di abito
interpretativo da cui non ci si può liberare con l’applicazione de “il metodo”,
“il metodo stesso”. Il metodo semiotico di analisi testuale non è infatti altro
che un abito interpretativo particolarmente grammaticalizzato con cui
chiunque entri nella koinè semiotica e nel suo dominio disciplinare deve
confrontarsi nel momento stesso in cui comincia un’analisi. Si tratta di un
“cliché” che riempie la pagina bianca del semiotico proprio nel suo essere
bianca, esattamente come il “già dipinto” riempie la tela vuota del pittore
proprio nel suo essere vuota.
Ma se questo è vero, che cosa sono allora questi “stereotipi”, questi
“cliché” e questi “già detto”? In Semiotica e filosofia del linguaggio, Eco
(1984) non definiva forse l’enciclopedia proprio come “l’insieme del già
detto”, la “libreria delle librerie”, “l’insieme registrato di tutte le
interpretazioni”? Non è forse l’enciclopedia ciò che riempie la pagina dello
scrittore prima della sua enunciazione e costringe l’artista, esattamente come
il semiotico,38 a procedere per togliere, per aggiunta di sottrazioni? Quando
Francis Bacon (1993) dice che esiste tutto un lavoro preparatorio della
pittura prima del dipingere che la libera dai cliché, e che un quadro deve
sempre passare attraverso una serie di atti involontari quali il gettare del
colore sulla tela, fare dei segni che non significano niente, spazzolare una
parte, fare delle cancellazioni casuali ecc., lo dice perché il pittore non deve
mai riempire una superficie bianca, bensì deve svuotare, sgombrare, ripulire
la tela39 da quegli stereotipi enciclopedici che vi pulsano dentro. Per questo
il quadro è già lì, nelle virtualità enciclopediche della cultura, e l’artista
procede per togliere, esattamente come Michelangelo col blocco di marmo.
Nel momento in cui si sostituisce il concetto di enciclopedia alla langue
saussuriana, ogni atto di enunciazione che ci fa passare dal sistema
dell’enciclopedia all’enunciato (parole) è di fatto un’aggiunta di sottrazioni
che attualizza un virtuale enciclopedico con i suoi stereotipi, i suoi cliché e il
suo traboccante “già detto”, per quanto tenti di deviare più o meno da essi.
Ci pare allora che la semiotica della cultura debba occuparsi di queste
virtualità enciclopediche che rendono la pagina bianca sempre
costitutivamente troppo piena proprio nel suo essere bianca. In riferimento
al modello classico della comunicazione ripreso da Fabbri (1973), rispetto
all’emittente e al destinatario da un lato (la “gente reale” in “spazi/tempi
reali” di Duranti) e al messaggio-testo dall’altro; una semiotica delle culture
deve occuparsi di questo virtuale stereotipico di tipo enciclopedico che
precede l’atto stesso di enunciazione e lo fa funzionare, là dove il testo è
invece semplicemente il risultato di questo atto di enunciazione (cfr. supra,
2.1). Concordiamo cioè con Geertz (1987) quando sostiene che:
Il concetto di cultura che adottiamo è essenzialmente di tipo semiotico. Ritenendo, insieme con
Max Weber, che l’uomo è un animale impigliato nelle reti di significati che lui stesso ha tessuto,
credo che la cultura consista in queste reti e che perciò la loro analisi non sia innanzi tutto una
scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato.
(Geertz, 1987, p. 41)

Ecco allora che liberarsi dagli stereotipi vuol dire provare a liberarsi dalle
reti della semiotica della cultura attraverso il metodo dell’analisi testuale.
Liberarsi dagli stereotipi significa pensare di poter uscire dalle reti
enciclopediche e dalla semiosfera che noi stessi abbiamo tessuto applicando
il metodo ipotetico-deduttivo dell’analisi del testo. Bisogna allora vedere se,
contrariamente a quanto pensava Peirce, questo sia possibile. E cioè bisogna
vedere se sia possibile interpretare l’enciclopedia o la semiosfera come un
insieme di testi, come proponeva ad esempio Paolo Fabbri. Leggiamo allora
sempre Fabbri e Marrone (2000, p. 8):
Un’analisi empirica ha bisogno di un preciso metodo che trasformi la primitiva percezione di una
qualche presenza del senso in un vero e proprio testo. L’analisi semiotica da questo punto di vista è
analisi testuale […] e la nozione di testo non comprende soltanto i testi propriamente detti, ma più
in generale qualsiasi porzione di realtà significante che può venire studiata dalla metodologia
semiotica, acquisendo quei tratti formali di chiusura, coerenza, coesione, articolazione narrativa
ecc. che si riscontrano con maggiore facilità nei testi propriamente detti (ma che a ben guardare li
eccedono). (Fabbri e Marrone, 2000, pp. 8-9)

La posizione di Fabbri e Marrone è estremamente chiara. Il testo non è un


oggetto empirico, bensì qualsiasi porzione di realtà significante che viene
studiata dalla semiotica e che, proprio nel momento in cui viene studiata
dalla semiotica, assume i tratti di chiusura, coerenza, coesione e
articolazione narrativa. Ora, l’enciclopedia, così com’è descritta da Umberto
Eco, e la semiosfera, così com’è descritta da Lotman, non posseggono
nessuno dei tratti che per Fabbri e Marrone – e per Floch prima di loro –
costituiscono un testo. Com’è noto, Eco (1983, 1984, 2007) insiste infatti in
più punti:

i) sulla contraddittorietà dell’enciclopedia (non-coerenza), sul suo


ammettere e incitare al contempo “se p allora q” e “se p allora non-q”;
ii) sull’apertura dell’enciclopedia, sul suo non avere né inizio né fine
definiti, tanto che a ogni istante della semiosi essa assume al suo interno
nuove interpretazioni che non smette di registrare e che ne modificano
incessantemente la struttura (proprio a questo proposito Eco insiste
sull’impossibilità di una descrizione globale del reticolo enciclopedico,
sia per il fatto che questa stessa descrizione l’avrebbe già cambiata, sia
per il fatto che è del tutto impossibile ottenere un punto di vista non
miope ed esterno su di esso);
iii) sulla sua costituiva non-coesione, dal momento che la padronanza dei
contenuti enciclopedici cambia a seconda della classe sociolettale, della
cultura, dell’individuo ecc.40

Lotman (1985) non è allora meno esplicito a proposito della semiosfera:41


I sistemi di grande complessità che costituiscono l’oggetto delle scienze umane – storia, arte, la
vita dell’uomo come unità di processi biologici e sociali – si distinguono per il dinamismo, la
fluidità e la contraddittorietà dell’organizzazione interiore. È proprio su questo aspetto dell’oggetto
studiato che richiamano di solito l’attenzione gli avversari dei metodi semiotico-strutturali,
parlando di una loro inapplicabilità alle scienze umane. (Lotman, 1985, p. 87)

Aperte, non coese e contraddittorie, semiosfera ed enciclopedia


presentano dei tratti costitutivi opposti a quelli che per la semiotica
strutturale costituiscono il testo (chiusura, coesione e coerenza). Non ci pare
allora comprensibile perché uno sguardo semiotico debba costituire il
proprio oggetto conformemente ai tratti di un progetto di descrizione
completamente incompossibile con la struttura dell’oggetto stesso. In questo
si perde completamente il principio hjelmsleviano di adeguazione (l’oggetto
non risponde ai tagli della teoria), che resta a nostro avviso un principio
fondamentale dell’epistemologia semiotica. Non è invece un caso se per
Greimas (1987) questo stesso principio fosse invece sacrificabile a beneficio
di quello di coerenza della teoria:
Il presupposto concettuale che rivendico è, essenzialmente, la coerenza interna come criterio di
verità, non l’adeguamento agli oggetti. (Greimas, 1987, p. 153)

Per quanto ci riguarda, riteniamo invece ci serva una teoria adeguata a


spiegare forme semantiche ed effetti di senso del tutto non coerenti (cfr.
infra, capitolo 3), e non una teoria coerente che si autoritrovi
inadeguatamente in oggetti che non rispondono alle stesse logiche.
Tuttavia, su questo punto la posizione di Greimas era profondamente
diversa da quella di chi ha pensato essere fecondo il pensare alla cultura
come “testo”, o come insieme di testi.
Se può affascinare l’idea di concepire la cultura come la totalità dei messaggi ricevuti da una
società e quindi di considerarla come un testo infinito, non è per la verità chiaro dove possa
condurre una partenza così ricca di promesse, anche solo a tener conto dell’assenza di criteri
intrinseci alla segmentazione di questo testo. Ecco perché la tipologia culturale di Lotman […]
parte dalla problematica della semiosi e cerca poi di definire variabili culturali che apparterrebbero
di diritto a ciascuna comunità e/o a ciascuno stadio culturale. Così facendo, le culture si
definiscono un po’ alla maniera delle epistemi di Michel Foucault, dove contano gli
“atteggiamenti” che queste adottano nei confronti dei propri segni, e non in relazione ai testi
culturali né, ancor meno, com’era presumibile, riportando i testi ai codici di comunicazione che
sono stati usati. (Greimas, 1976, pp. 41-42)

Su questo non possiamo non essere greimasiani, tanto che Semiotica e


scienze sociali ci pare un libro infinitamente più ricco rispetto a quelli su cui
si è costruita l’immagine “maggiore” della semiotica generativa (il
Dizionario del 1979 e il Maupassant su tutti). Greimas indica infatti una
strada, che è quella di Lotman e di Foucault, che la sua scuola non ha
seguito, ma che proveremo a seguire noi, e cioè: i) partire dalla semiosi; ii)
individuare quelle variabili culturali che appartengono di diritto a ciascuna
comunità, sebbene ciascuna comunità le declini poi a suo modo; iii) definire
così le culture in funzione degli atteggiamenti che queste adottano nei
confronti dei propri segni.
A ulteriore conferma che le divisioni di scuola non sono sempre dove le si
cerca, era allora esattamente questa la via seguita dal primo inventore di una
sociosemiotica non testuale, sebbene la tradizione semiotica “maggiore” si
sia poi di fatto dimenticata di questa sua invenzione. Era cioè questa la via
seguita da Charles Sanders Peirce nei suoi scritti “Il fissarsi della credenza”
e “Come rendere chiare le nostre idee”, in cui Peirce metteva a punto la sua
“dottrina sociale della logica”, e cioè la sua dottrina sociale della semiotica,
visto che, come detto, per Peirce la logica non è altro che una parte della
semiotica.
Come suggerito da Greimas, Peirce parte infatti dalla semiosi e ne
individua due proprietà strutturali, che sono a nostro parere decisive per una
semiotica delle culture fondata su di una teoria dell’interpretazione: i) il
movimento interpretativo della semiosi che transita da oggetto a segno a
interpretante tende sempre a una sua stabilizzazione, tende sempre al suo
acquietarsi in riposo: se il pensiero-segno è “un filo di melodia”, il suo
sviluppo tende cioè sempre alla “semicadenza che chiude una frase
musicale” (credenza). Questa stabilizzazione della semiosi installa una
tendenza regolare ad agire in modo regolare nel futuro, che Peirce chiama
abito42 (CP 5.397-5.398); ii) ogni “pensiero in movimento”, e cioè ogni
interpretazione, parte sempre da uno sfondo di abiti regolari su cui si staglia
come una figura che emerge dal suo fondo, tanto che Peirce si spinge a dire
che l’abito è il “principio-guida” di ogni inferenza che ci fa passare da un
segno a un suo segno interpretante (CP 5.367).
Quello che ci determina a trarre, da premesse date, un’inferenza piuttosto che un’altra è un certo
abito mentale, o costituzionale, o acquisito. L’abito è buono o non lo è, a seconda che produca o
non produca conclusioni vere da premesse vere; e un’inferenza è considerata valida o invalida, a
prescindere dalla verità o dalla falsità specifica delle sue conclusioni, a seconda che l’abito che la
determina sia tale da produrre o da non produrre, in generale, conclusioni vere. Il particolare abito
mentale che governa questa o quella inferenza può essere formulato in una proposizione la cui
verità dipende dalla validità delle inferenze che l’abito determina; e una tale formula è chiamata
principio-guida di inferenza. (CP 5.367)

Insomma, l’interpretazione sorge dalle regolarità di abiti stabilizzati e a


essi ritorna, come una figura che si staglia dal suo sfondo al fine di
modulare questo stesso sfondo. L’inferenza stessa, che regola il passaggio
dai segni agli interpretanti, dipende costitutivamente dall’abito che ne
costituisce il principio-guida.
Dopo la fondazione della semiotica con i saggi anticartesiani del 1968 e
dopo quella della “sintassi attanziale” con la Logica dei Relativi, il
pragmatismo serve insomma a Peirce per costruire una teoria sociosemiotica
della sintassi processuale della semiosi, che ha come compito quello di
portare a una teoria generale della formazione di abiti, o regolarità, e della
trasformazione di queste stesse regolarità che presiedono i) al movimento
dell’interpretazione (abiti interpretativi), ii) alle inferenze che lo regolano
(abito come principio-guida dell’inferenza) e iii) all’azione che ne deriva
(abiti di azione). Si tratta della famosa teoria del fissarsi della credenza, che
sfocia in una teoria semantica pragmatista che individua il significato con le
regolarità dell’abito:43 una teoria di fatto mai ripresa in sociosemiotica e che
è tesa a individuare esattamente la struttura generale di quelle variabili
culturali che appartengono a ogni comunità, sebbene ogni comunità le
declini poi a suo modo (cfr. Greimas, 1976, p. 41-42).
Peirce dice infatti che i) la vera funzione del flusso della semiosi è quella
di installare abiti di azione, e che ii) i concatenamenti delle nostre azioni –
quei concatenamenti di azioni/passioni che in altre tradizioni semiotiche
vengono chiamati narratività44 – sono sempre funzione degli abiti che
presiedono alla serie narrativa delle azioni. Con la sua teoria pragmatista,
Peirce elabora cioè una teoria semantica tesa a rendere conto di quella
dinamica processuale della semiosi che presiede a una logica narrativa.
Questa dinamica processuale consiste allora nell’unione di uno stato stabile,
che Peirce chiama “credenza” e che tende a non essere messa in questione,
presiedendo così ai concatenamenti delle azioni, e di uno uno stato instabile,
che Peirce chiama “dubbio”, che tende invece alla sua stessa stabilizzazione.
Questi stati sono timicamente investiti: euforica la credenza, disforico il
dubbio. Il passaggio dall’instabilità alla stabilità è la famosa inquiry
peirciana (CP 5.374).
Il dubbio è uno stato di irrequietezza e di insoddisfazione per uscire dal quale lottiamo per passare
allo stato di credenza; mentre quest’ultimo è uno stato calmo e soddisfacente che non desideriamo
evitare o cambiare per credere in qualcosa d’altro. Al contrario, noi ci aggrappiamo tenacemente
non meramente al credere, ma a credere proprio ciò che crediamo. (CP 5.372)

Ecco esattamente il “pigro pragmaticista”. Per Peirce esiste una tendenza


a “proseguire nel proprio essere” che definisce l’atteggiamento che le
comunità hanno nei confronti dei propri segni e che è posto al di là, o al di
qua, di ogni filosofica “ricerca della verità”:
Si potrebbe supporre che questo non basti, e che noi andiamo in cerca non meramente di
un’opinione, ma di un’opinione vera. Ma se mettete alla prova questa supposizione la troverete
senza fondamento: infatti, appena raggiungete una salda credenza siete pienamente soddisfatti, sia
che la credenza sia vera, oppure falsa. […] Possiamo al massimo sostenere che andiamo in cerca di
una credenza che crederemo vera. Ma sostenerla è una mera tautologia: infatti, di ognuna delle
nostre credenze crediamo che sia vera. (CP 5.375)

Si ritrovano anche qui quei tratti di “teoria della menzogna” che


caratterizzano sempre un approccio semiotico, tanto che per Peirce diventa
del tutto fondamentale reperire un “metodo scientifico” di fissare le
credenze, dal momento che noi tendiamo sempre a “credere ciò che
crediamo” e a comportarci di conseguenza, indipendentemente dalla sua
verità. Allo stesso tempo, pare del tutto fondamentale questo continuo
riferimento peirciano a un “noi”. In questi saggi, Peirce è infatti
estremamente esplicito nell’affermare che le nostre azioni e il nostro dare
senso al mondo sono funzione di abiti di condotta instaurati da una serie di
credenze che hanno nella comunità il loro vero garante; così che il vero
problema della sociosemiotica diventa il modo in cui si transita da un abito a
un altro all’interno di una determinata comunità.
Si trova qui un’altra forma di distanza con la fenomenologia continentale:
Husserl arriva soltanto molto tardi al problema dell’intersoggettività e della
“comunità delle monadi”,45 e ci arriva proprio a partire da una soggettività
trascendentale fondata sulla correlazione noesi-noema, che deve essere
riconosciuta anche agli alter ego. Al contrario, Peirce fonda la sua
fenomenologia sulla trascendentalità non del soggetto, bensì della comunità,
tanto da definire il “reale” come l’oggetto di una credenza vera che la
comunità continuerà a riaffermare in the long run (CP 5.407-5.408). Per
questo Apel (1967, 1982, 1991) ha potuto parlare a proposito del pensiero di
Peirce di una filosofia trascendentale senza soggetto, in cui ciò che è
condizione di possibilità del fenomeno nel suo venire alla presenza è la
comunità semiotica.
Se non ci facciamo eremiti, influenzeremo necessariamente le nostre reciproche opinioni, cosicché
il problema diventa quello del modo di fissare le credenze, non solamente nell’individuo, ma nella
comunità. (CP 5.378)

Non si è infatti mai sufficientemente sottolineato come “dubbio” e


“credenza” siano termini formali, puramente tecnici, usati per rendere conto
di un dispiegamento processuale qualsivoglia della semiosi, e non termini
che rimandano a un procedimento personale introspettivo o “mentale” che
coinvolge lo stato interno del soggetto, indipendentemente dalla sua natura
psicologica, trascendentale o fenomenologica. Questo è ben evidente dalle
parole stesse di Peirce:
Abbiamo detto che l’azione del pensiero è stimolata dall’irritazione del dubbio e cessa quando la
credenza viene raggiunta; cosicché la sola funzione del pensiero è produrre la credenza. Tutte
queste parole, tuttavia, sono troppo forti per lo scopo che mi sono posto; è come se avessi descritto
i fenomeni come appaiono sotto un microscopio mentale. (CP 5.394) Ogni mio riferimento a “una
persona” è una mancia a Cerbero, perché non ho più molte speranze che la mia vera concezione
venga compresa. (LW 80-81)
Dubbio e credenza, nell’uso comune dei termini, si riferiscono a discussioni religiose o ad altre di
ugual peso. Ma io le uso qui per designare l’inizio di qualsiasi questione, grande o piccola, e la
relativa soluzione. (CP 5.394)

Del resto, su questo punto Peirce era stato estremamente esplicito fin dai
saggi anticartesiani: “non abbiamo nessun potere di introspezione, ma ogni
conoscenza del mondo interno è derivata per ragionamento ipotetico dalla
nostra conoscenza dei fatti esterni” (CP 5.265). Per questo “non abbiamo
nessun potere di pensare senza segni” (CP 5.265). Il pensiero per Peirce è
insomma tutt’altro che semplicemente “mentale” o “cognitivo”,
coinvolgendo tutti quei fenomeni che possono essere ricondotti alla forma
della semiotica (cfr. CP 5.266-5.2675.268 e 5.283). Proprio per questa sua
natura, Peirce potrà dire che c’è pensiero nei movimenti delle api e nelle
trasformazioni morfologiche dei cristalli.46 E proprio per questa sua
concezione essenzialmente semiotica e faneroscopica del pensiero, in cui
“occorre liberare il segno dai suoi legami con la mente” (CP 5.492), Peirce
sta sempre più venendo posto al centro di quelle tendenze contemporanee
interne alle scienze cognitive che vanno sotto il nome di “mente estesa” o
“cognizione distribuita”, che considerano il pensiero e la cognizione non più
come localizzati nella mente (cognition) o nel corpo (embodied cognition),
bensì come distribuiti all’interno di reti enciclopediche di umani e non-
umani, da cui il pensiero emerge come un processo mediato, effetto di una
pluralità di istanze che rendono l’individuo il nodo di una rete, e non il suo
centro organizzatore (cfr. Clark, 2008, Gallagher, 2008, Latour, 2005).47
Ecco allora che all’interno di questa logica puramente semiotica del
pensiero e della cognizione, “dubbio” e “credenza” non sono altro che i
nomi per un momento incoativo e per un momento terminativo dello
sviluppo processuale di un “pensiero in movimento”, e cioè i nomi per
l’inizio instabile e la successiva stabilizzazione di quel processo semiotico
che presiede all’azione e che si stabilizzerà in un abito.
Conosciamo allora il momento incoativo e quello terminativo di questo
processo (“dubbio” e “credenza”), ma non conosciamo cosa sta in mezzo tra
di essi, cose c’è sulla frontiera di passaggio, che cosa li connette l’uno
all’altro. Il pensiero vuole acquietarsi in uno stato di credenza, vuole cioè
stabilizzarsi perché il suo momento incoativo è strutturalmente instabile
(dubbio). Che cosa succede nel mezzo? Che cosa succede cioè nel momento
di passaggio in cui non si è più in uno stato dubbio ma non si è ancora in uno
stato di credenza, ma si è essenzialmente “tra”?
Peirce ha a lungo lavorato su questo punto, tanto che era esattamente
questa posizione di frontiera quella che assegnava alla semiotica, dal
momento che la semiotica studiava la semiosi, ma la semiosi non era altro
che un rapporto triadico irriducibile a qualsiasi relazione tra coppie, e la
Terzità – che era costitutiva del semiotico – consisteva proprio in
quell’elemento di mediazione la cui posizione definiva un “trovarsi
interposto”, uno “stare-tra” tale per cui per passare da un Primo a un
Secondo occorreva sempre transitare attraverso la mediazione di un Terzo.
Da qui anche la natura costitutivamente interpretativa del “semiotico”, dal
momento che “interpretazione” definisce esattamente un essere inter partes,
sul confine tra le differenti parti rispetto a cui si è terzi. Quando Peirce
terminerà poi il suo sistema di Logica delle Relazioni, su questo punto
rilancerà la posta, fino a dimostrare con forza il primato genetico della
Terzità, tanto che tutte le altre relazioni, di qualsiasi valenza esse siano,
potranno sempre venire generate a partire dalle triadi. Cioè in qualche modo
per Peirce l’essenza di ogni rapporto è leggibile solamente a partire dal
mezzo, dal confine, dalla mediazione che si ha tra due o più sistemi
eterogenei. Ma potrebbe forse essere altrimenti?
Si sa infatti che le cose e le persone sono sempre costrette a nascondersi, sono sempre determinate
a nascondersi quando cominciano. Come potrebbe essere diversamente? Esse sorgono in un
insieme che ancora non le implicava, e devono evidenziare i caratteri comuni che conservano con
l’insieme, per non essere rigettate. L’essenza di una cosa non appare mai all’inizio, ma in mezzo,
nel corso del loro sviluppo, quando le sue forze sono consolidate. (Deleuze, 1983, p. 15)

Ecco esattamente l’emersione di qualcosa all’interno di un sistema


regolare che fa da sfondo con i suoi abiti consolidati a questa stessa
emersione. Come sorgono allora le cose in un insieme che ancora non le
implicava? Perché l’essenza di qualcosa si vede sempre a partire dal mezzo,
dalle Terzità di frontiera? Che cosa sono infatti più profondamente queste
Terzità?
Quando Peirce riprenderà il suo pragmatismo a inizio Novecento, lo farà
esattamente per rispondere a questo problema. Lo vedevamo in 1.5: Peirce
chiamava infatti Primità “l’emergere di qualcosa di nuovo” e mostrava come
all’interno di una serie regolare si creasse una tendenza, anch’essa
assolutamente regolare, a distinguersene (CP 6.63). Peirce chiamava abito, o
Terzità, questa stessa regolarità a partire dalla quale era possibile generare la
spontaneità singolare delle Primità nel loro opporsi le une alle altre
(Secondità). Cioè in qualche modo la spontaneità stessa dell’evento,
dell’emergere di qualcosa di nuovo (Primità) non è altro che l’abito di una
serie regolare (Terzità) a differenziarsene in determinati punti: il singolare
emerge sempre dal regolare da cui si distacca in funzione di un effetto di
instabilità, qual è ad esempio quello causato dal dubbio per una credenza
stabilizzata e abituale. Per questo per Peirce, sul confine tra un sistema e un
altro, quando si esce da un abito al fine di modificarlo o di entrare in un altro
sistema, non si ritrova mai l’esperienza selvaggia48 o la spontaneità
dell’evento puro, bensì altri abiti, altri stereotipi enciclopedici che fanno da
sfondo a qualsiasi processo semiosico.
È chiaro che nient’altro che un principio di abito, esso stesso dovuto alla crescita per azione
dell’abito di una tendenza casuale infinitesimale verso l’assunzione di abito, è il solo ponte che può
superare l’abisso tra la mescolanza casuale del caos e il cosmo dell’ordine della legge. (CP 6.262)

Ecco cosa succede “nel mezzo”, sulla frontiera di passaggio da uno stato
di dubbio a uno stato di credenza, quando non si più nel vecchio sistema ma
non si è ancora nel nuovo. In Peirce le Terzità non sono altro che abiti (CP
6.204-6.205-6.206), così è esattamente l’abito (Terzità) che regola il
passaggio dall’instabilità del pensiero in movimento (dubbio) alla sua
stabilizzazione nel pensiero in riposo (nuova credenza). Uscire da una
credenza e da un abito interpretativo non significa mai ritrovare la
spontaneità dell’esperienza o della singolarità pura, bensì significa sempre
trovare altri abiti, altre regolarità che guidano la formazione di una nuova
regolarità in via di stabilizzazione e che fanno da sfondo alla percezione
stessa di un evento singolare. Per questo “saper abbandonare i propri sguardi
stereotipi in nome di più efficaci strumenti di descrizione e di
comprensione”, come volevano Fabbri e Marrone, non significa altro che
uscire da un abito interpretativo per entrare in un altro abito interpretativo
attraverso altri abiti appresi (lo stesso percorso generativo non è altro che un
abito interpretativo particolarmente grammaticalizzato). Per questo una
semiotica delle culture adeguata presta attenzione innanzi tutto a queste
regolarità enciclopediche che presiedono alla produzione del senso e che
articolano l’universo discorsivo di una data cultura, e non cerca affatto di
liberarsene attraverso una massima o un metodo. Se mai vi ci “abita dentro”,
con intenti descrittivi e interpretativi. Perché sono esattamente questi abiti
interpretativi che regolano “l’atteggiamento che le culture hanno nei
confronti dei loro segni”, come diceva Greimas (1976). Per fare luce
adeguatamente su questo punto fondamentale, occorrerà allora fare
riferimento a un autore della semiotica che, come Peirce, ha molto lavorato
su questo problema, e cioè Lotman:
L’introduzione di strutture culturali estranee nel mondo interno di una cultura comporta la
creazione di una lingua comune e questo, a sua volta, richiede l’interiorizzazione di queste
strutture. La cultura deve cioè interiorizzare la cultura esterna al suo mondo. Questo processo è
sempre contraddittorio [… ed è] legato alla perdita di certe proprietà dell’oggetto esterno
riprodotto, e spesso quelle che sono più valide come stimolatori. Facciamo un esempio. Il
fenomeno poetico di Puškin era considerato dalla letteratura e dai lettori del secondo decennio
dell’800 straordinario e innovatore. L’assimilazione di questo fenomeno rese necessaria la
creazione […] dell’“immagine di Puškin”. […] Questa immagine ha interpretato e “tradotto” il
mondo di Puškin facilitandone la comprensione e nello stesso tempo lo ha semplificato,
eliminando tutto ciò che era nuovo, dinamico e che non rientrava nei suoi schemi, generando così
l’incomprensione. […] Nello stesso tempo, questa immagine ha influito sul comportamento e
sull’attività creativa del vero Puškin, spingendolo a comportarsi “come Puškin”. (Lotman, 1985,
pp. 124-125)

Ecco esattamente un sistema che “legge” l’altro attraverso i propri abiti


interpretativi e che lo gestisce in funzione di una traduzione che sia
commensurabile con le logiche del proprio sistema. Ed ecco esattamente
qualcuno che nascendo in un sistema che non lo implicava è costretto a
magnificare i tratti comuni che condivide col sistema, comportandosi “come
Puškin”, e cioè come l’immagine che il sistema aveva di lui, per non essere
rigettato. È una sorta di normalizzazione del diverso attraverso una sua
coniugazione con logiche che gli sono “altre”, e che rappresentano
esattamente quelle regole di produzione di senso che articolano le
formazioni discorsive di una data cultura. C’è allora qualcosa di crudele in
questo rapporto con un’alterità con cui vogliamo rapportarci, ma con cui non
possiamo rapportarci non essendo commensurabile alla nostra e ai nostri
abiti, e che quindi possiamo esprimere solamente riconducendola a qualcosa
che siamo in grado di trattare con i nostri elementi e attraverso i nostri abiti.
C’è qui in nuce la crudeltà attuale del rapporto tra le culture,
l’incommensurabilità della traduzione, la difficoltà del negoziato, la latenza
del conflitto e dello scontro. Ci ritroviamo cioè di fronte a una situazione
assolutamente peculiare ed estremamente generalizzata, in cui un sistema,
posto di fronte a qualcosa di radicalmente altro che le sue regole e la sua
configurazione non prevedono, è costretto in qualche modo a leggere questo
“altro” attraverso le sue categorie e i suoi stereotipi, attraverso i suoi abiti
interpretativi. È solo in questo modo che riesce a tradurlo nel suo mondo.
Ottenendo in questo modo un doppio effetto: da un lato la commensurabilità
con il proprio sistema, e dall’altro l’annullamento della specificità di questo
altro. Ecco allora perché l’essenza delle cose si vede solamente a partire dal
mezzo, dalle Terzità di frontiera, perché nell’atto di costruzione di
commensurabilità l’essenza dell’altro è assimilata al proprio, e occorre che
questo procedimento di assimilazione dell’alterità sia compiuto perché le
forze del diverso possano consolidarsi e dispiegarsi a piena essenza.
Di norma è allora questa sintassi processuale ciò che regola le
trasformazioni di valori all’interno di una logica della cultura, e presiede a
ciò che Greimas chiamava “l’atteggiamento che le comunità hanno nei
confronti dei loro segni”. Si tratta di un atteggiamento che è spesso
assolutamente contraddittorio e di confine – nel senso spiegato in precedenza
– dal momento che tende a dare senso al nuovo senso in base al vecchio
senso abitudinario che regola il sistema precedente. Ecco allora che lo
sviluppo processuale interno ai sistemi culturali si ritrova per essenza in
situazioni di confine, in cui non si è più all’interno del vecchio sistema e non
si è ancora all’interno del nuovo, ma si è essenzialmente “tra”. E il modo in
cui il sistema gestisce l’alterità in situazioni come questa è a regime
esattamente quello mostrato da Lotman e da Peirce. Facciamo un ulteriore
esempio, solo apparentemente “leggero”.
In una vecchia bustina di Minerva, in cui si interrogava sullo strano gusto
contemporaneo per gli ossimori e le contraddizioni, Umberto Eco notava che
nel programma della coalizione di centro-sinistra italiana (“Ulivo” all’epoca)
c’era l’istituzione del “servizio civile volontario obbligatorio”. Questa
“volontarietà obbligata”, che il servizio civile assume all’interno della
semiosfera, ci consente allora di gettare luce proprio sul rapporto che c’è tra
percezione semantica, logiche della cultura e abiti interpretativi, e di
esplicitare ulteriormente quell’atteggiamento che di norma le culture hanno
nei confronti dei propri segni. La prima tentazione sarebbe quella di
risolvere la formulazione ossimorica: se una cosa è volontaria non può
essere obbligatoria. Solo che non c’è assolutamente niente nel testo del
programma dell’Ulivo che consenta di risolvere la contraddizione, rendendo
coerente questa formulazione, bensì c’è moltissimo fuori dal testo, e cioè
nelle logiche della cultura, che ci consente di rendere conto di questa
contraddittorietà incoerente che non dobbiamo affatto risolvere, bensì
descrivere nella sua contraddittorietà. Come si arriva infatti a questa
formulazione?
Per lunghi anni in Italia il servizio civile è stato volontario, perché
obbligatorio era quello militare, contro cui volontariamente si obiettava.
Tuttavia, a prestare servizio civile non ci si andava proprio volontariamente,
ci si andava perché si eri obbligati a fare il militare e, tra le due alternative,
molti ragazzi sceglievano di prestare un servizio non-militare. Quando poi
anche il militare è diventato volontario, il servizio civile ha perso il suo
carattere di “volontarietà obbligata” ed è diventato totalmente volontario,
esattamente come il servizio militare. Ora, nel momento in cui l’Ulivo vuole
lasciare non-obbligatorio il militare e rendere obbligatorio il servizio civile,
ecco manifestarsi questa strana formulazione di “servizio civile volontario
obbligatorio”, che si chiama così proprio perché mantiene memoria delle
vecchie relazioni semantiche in cui era in alternativa al militare. Si tendono a
riconfigurare gli oggetti culturali in funzione del sistema che era per noi
abituale, e cioè in funzione del vecchio abito interpretativo. È il pigro
pragmatista che è in noi a interpretare. Da qui l’idea del servizio civile
volontario obbligatorio, che definisce un ossimoro non coerente che
funziona esattamente come in Puškin: il sistema produce senso in base alla
sua vecchia struttura e solo in seguito, quando le sue forze sono consolidate,
è in grado di abbandonare il vecchio abito.
Come nota giustamente Lotman, la trasformazione e l’evoluzione delle
forme culturali e l’introduzione di strutture culturali estranee nel mondo
interno di una cultura definiscono dei processi assolutamente aperti e
contraddittori, totalmente irriducibili ai tratti di coerenza, chiusura e
coesione che costituiscono la testualità. Per questo riteniamo che lo studio di
questi nuovi oggetti della manifestazione dovrà portare a una semiotica non
più fondata sulla semantica del testo, bensì su di una logica delle culture
fondata sullo studio i) degli abiti interpretativi, ii) del rapporto tra regolare e
singolare che questi presuppongono, iii) delle pratiche interne ai sistemi
culturali, iv) delle trasformazioni strutturali di questi stessi sistemi e, infine,
v) del rapporto che si instaura tra sistemi eterogenei all’interno di una
semiosfera.

2.6. Testi, culture e teoria della ratio: “Cinecittà” e la teoria dei modi di
produzione segnica

Possiamo allora riprendere in mano i nodi del nostro problema. Quando ci


si trova di fronte alle logiche delle culture, ci si trova di fronte a fenomeni
spesso contraddittori, aperti, non coesi e la cui articolazione narrativa è
funzione degli abiti e degli stereotipi che fanno da sfondo alla percezione di
ogni fenomeno all’interno di un dato sistema, così come alla sua
trasformazione e alla sua traduzione nelle logiche di un altro sistema. In una
situazione del genere, così ben messa in evidenza da Lotman (1985), il
problema principale è allora quello di far comunicare sistemi e abiti con altri
sistemi e altri abiti, costruendo così commensurabilità locali tra regolarità e
singolarità, tra sistemi eterogenei che non cessano di restare eterogenei.
Un’adeguata teoria semiotica delle culture deve allora saper rendere conto
proprio di questo procedimento di costruzione di commensurabilità locali
tra sistemi eterogenei, che non cessano di tradursi pur restando eterogenei,
là dove un approccio testuale alle logiche delle culture pareva invece portare
a omogeneizzare sotto la macrocategoria “maggiore” di testo una serie di
elementi molto eterogenei quali i testi “propriamente detti”, le pratiche, gli
oggetti, i corpi, il cibo, le relazioni sociali, le culture ecc.
Si tratta, a ben guardare, anche e soprattutto di un problema di sviluppo
storico della disciplina, che nasce davvero a partire dallo studio dei “testi” in
senso stretto. Se in principio la metodologia originariamente elaborata da
Greimas si applicava infatti ai racconti, ai miti e ad altri ambiti disciplinari
piuttosto circoscritti; si è poi deciso di operare un’estensione verso nuovi
campi d’indagine, ma di norma lo si è fatto senza che questi nuovi oggetti a
cui ci si doveva hjelmslevianamente adeguare venissero considerati come
una fonte di possibile problematizzazione degli oggetti teorici della teoria,
continuando invece semplicemente a leggere quello che la teoria consentiva
di leggere (strutture profonde, articolazione narrativa, trasformazioni
valoriali modalizzate ecc.). E “leggere” va qui inteso in senso letterale, dal
momento che tutti questi nuovi ambiti di analisi (oggetti, cibo, relazioni
sociali, pratiche, spazi, culture ecc.) non erano altro che nuovi “testi” e
venivano considerati in quanto tali. Si tratta del passaggio, sottile quanto
decisivo, dall’estensione virtuosa di una stessa metodologia d’analisi a nuovi
ambiti disciplinari, all’estensione cancerosa di una semplice metafora che
finisce per rendere visibile negli oggetti analizzati soltanto quello che si è in
grado di cercare. Era del resto l’effetto di una epistemologia che ha portato,
nel momento in cui sembrava funzionare nella pratica, non tanto al tentativo
di potenziamento delle categorie esplicative della disciplina in funzione dei
nuovi oggetti di analisi, quanto piuttosto a una visione di questi stessi nuovi
oggetti in quanto testi, e di conseguenza a un allargamento smisurato del
concetto stesso di testo, a cui non ci sembra oggi di poter riconoscere uno
statuto che sia poco più che metaforico. Si veda ad esempio l’estensione
smodata assunta dalla nozione di testo nella sociosemiotica di Landowski
(1989):
Il reale che la sociosemiotica si assegna come oggetto, identificato con le condizioni socialmente
costruite dalla capacità di significare dei nostri discorsi e delle nostre azioni, non è per lei null’altro
che un’ulteriore forma testuale. (Landowski, 1989, p. 278)

Questa idea del reale come testo49 è allora tutt’altro che costitutiva
esclusivamente di un approccio generativo alla semiotica, ma rappresenta
anzi una tentazione trasversale alle cui sirene molti non hanno saputo
resistere. Rastier (2001) nota infatti come una semiotica puramente
inferenziale, costitutiva di quello che Ginzburg (1983) avrebbe chiamato un
“paradigma indiziario”,50 sia fin dalle origini tentata di abbracciare un
paradigma testuale e la sua metafora del mondo come testo. Nell’inferenza
un relatum è antecedente, l’altro conseguente – temporalmente, casualmente o in qualsiasi altra
maniera. Si dirà dunque che il primo è segno dell’altro, come una nuvola è segno di pioggia. […]
In generale, la tradizione non differenzia, per ciò che concerne l’inferenza, l’interpretazione del
mondo e l’interpretazione del testo. (Rastier, 2001, p. 84)

Ecco allora che in Semiotica e interpretazione, Pisanty e Pellerey (2004,


p. 67) possono ad esempio sostenere come “in base a questa accezione
allargata, un testo è ogni porzione di mondo sensibile sulla quale qualcuno
decide di esercitare la propria attività interpretativa. In un certo senso, tutto il
mondo fisico è un grande testo da interpretare: il compito istituzionale degli
scienziati è per l’appunto di leggere i fenomeni naturali come se fossero i
segni visibili di una serie di leggi fisiche da scoprire. Un testo è insomma
una qualunque occorrenza espressiva che qualcuno decide di interpretare
come il segno di un contenuto ancora da stabilire”.51
Ancora una volta, la distinzione tra “semiotica maggiore” e “semiotica
minore” non è affatto equipollente a quella tra “semiotica generativa” e
“semiotica interpretativa”. Come si vede, diversi autori di formazione
differente arrivano da strade diverse a un’unica grande metafora del “ritaglio
semiotico del mondo” e della sua conseguente trasformazione espressiva in
un testo, con tutti i problemi che questa concezione “maggiore” comporta. E
cioè: i) l’identificazione di piano dell’espressione e mondo sensibile (ad
esempio il “mondo intelligibile” non è un testo, è un contenuto), ii) il
distaccamento del testo dal piano della manifestazione e dallo statuto
culturale che lo definisce, per cui nel momento in cui l’attività interpretativa
propria del semiotico si esercita sul “reale”, essa lo trasforma in testo,
indipendentemente dal “supporto” che lo incarna (la “zuppa al pesto” come
testo, ad esempio). Un testo è così una qualsiasi porzione del reale correlata
a un contenuto, così che per Marrone (2001) basta ad esempio individuare
un piano dell’espressione e un piano del contenuto per rendere qualsiasi cosa
un testo.
A questo statuto simulacrale di una semiotica come disciplina dei testi,
opponiamo allora l’idea di una semiotica come fabbrica, come teoria
incarnata dei modi di produzione di funzioni semiotiche interpretanti. Al fine
di introdurre le specificità di questo punto di vista e di confrontarlo con
quello testuale, prendiamo ad esempio un oggetto di analisi concreto che non
è un testo in senso stretto, ma che è stato studiato come tale, e cioè la
materia.
In un saggio molto noto e citatissimo, Françoise Bastide (1987) ha infatti
interpretato la materia come testo, autonomizzandone l’oggettività dal livello
della manifestazione e rendendola così il correlato del progetto teorico di
descrizione che la legge (percorso generativo), conformemente
all’epistemologia formulata da Greimas e Courtés (1979) e discussa in 2.4.
Corrispondentemente alla stratificazione propria del percorso generativo,
Bastide individuava cioè i) dei rapporti differenziali tra valori semici
profondi, articolati in una struttura elementare; ii) la loro narrativizzazione
sul piano sintagmatico che fa corrispondere dei programmi narrativi ai valori
di questi rapporti (congiunzioni/disgiunzioni tra soggetti e oggetti di valore)
e infine iii) il rivestimento figurativo di questi rapporti. Secondo Bastide
(1987) la materia era infatti analizzabile in quattro categorie differenzianti
profonde (amorfo/strutturato, compatto/discreto, espanso/concentrato e
semplice/composto), che a livello sintagmatico venivano narrativizzate come
poli di un processo di trasformazione di valori a cui presiede una sintassi
delle operazioni. Bastide pensava ad esempio a “l’incollare” e al “far
asciugare” come a un passaggio dall’amorfo allo strutturato; allo “sbucciare”
e al “tagliare” come passaggio inverso; allo “scaldare” e al “frantumare”
come passaggi rispettivamente dal discreto al compatto e dal compatto al
discreto e così via. Infine, per quanto riguarda il punto iii), tutte queste
operazioni venivano considerate come “una possibile manifestazione
figurativa di un programma di selezione [… in cui] un cambiamento di
forma appare come il rivestimento figurativo dinamizzato di una categoria”,
all’interno di un più generale tentativo di “ridurre le trasformazioni ad
alcune operazioni elementari astratte” (Bastide, 1987, pp. 350, 345).
Il saggio è di fatto una filiazione diretta della metodologia di analisi della
zuppa al pesto di Greimas (1983, p. 151-164), e non è neppure
particolarmente problematico per il tipo di categorie che mette in gioco.
Quello che è invece problematico è cosa è in grado di vedere ed esplicitare
una metodologia di questo genere. Occorre infatti chiedersi se con
un’impostazione semiotica di questo tipo non si finisca inevitabilmente per
perdere esattamente ciò che è essenziale riguardo alla materia. Come già
notava Festi (2003) infatti:
Rispetto all’impostazione greimasiana tradizionale [… passa la stessa differenza che] c’è tra un
semiologo che studi i discorsi degli enologi al fine di categorizzare il mondo dei vini in
opposizioni del tipo vino strutturato VS vino non strutturato (categorie di una semiotica del mondo
naturale secondo Greimas) e un semiologo che si impratichisca invece in degustazione e cerchi di
capire quali sensazioni vadano indicizzate e riconosciute per dichiarare se quel vino è o meno
strutturato, imparando lui stesso a riconoscerlo. La seconda opzione, potenzialmente semiotica
quanto la prima, considererebbe rilevante il processo di negoziazione tra sensazioni e
categorizzazione attesa, cioè tematizzerebbe un piano generativo dell’espressione con una
componente morfo-sintattica. (Festi, 2003, p. 192)
Una semiotica della materia che sia veramente in grado di tematizzare ciò
che è essenziale in un confronto coi materiali si articola allora proprio
secondo questa seconda opzione, che le consente di non bypassare
completamente la dimensione sensibile in cui il corpo stesso della materia si
fa espressione, coniugandosi con una corporeità “altra” ed eterogenea in
vista dell’articolazione di contenuti semantici. Ritroviamo qui a proposito
del sensibile lo stesso problema che ritrovavamo a proposito delle dinamiche
culturali e delle loro traduzioni tra sistemi: per accedere al piano del
contenuto, si deve infatti innanzi tutto disimplicare il modo in cui un
substrato materiale si fa espressione semiotizzandosi, e questa possibile
disimplicazione passa per essenza attraverso la costituzione di una possibile
commensurabilità tra singolarità materiali, in cui gli abiti acquisiti devono
essere messi in discussione, modulati e trasformati in altri abiti. Io non
imparo a nuotare riproducendo sulla sabbia i movimenti del maestro di nuoto
o chiedendogli che cosa devo fare, ma imparo quando immergo
tentativamente la materia del mio corpo all’interno della materia di una
corporeità “altra” a cui mi apro in un incontro, quando il mio corpo combina
alcuni suoi punti singolari con i moti principali dell’onda.52 Io non imparo a
essere un buon sommelier studiando la categorizzazione testuale dei vini, ma
imparo quando la materia della mia lingua diviene commensurabile alla
materia del vino e ne indicizza dei formanti candidati a divenire
l’espressione di un contenuto possibile (ad esempio “vino strutturato”). In
entrambi i casi il mio corpo deve finire con il riuscire ad abitare il corpo
dell’altro, adattandosi localmente alle sue singolarità significanti.53 In
entrambi i casi il mio corpo deve riuscire a uscire dai suoi abiti attuali, al
fine di coniugare le sue specificità con un sistema “altro” e stabilizzare così
nuovi abiti propri.
Si tratta allora di insistere sulla nozione capitale di singolarità che, come
dice Deleuze (1973), è al centro di tutti i campi in cui c’è struttura:54 la
singolarità è un punto in cui succede qualcosa che corrisponde ai valori dei
rapporti differenziali, in entrambe le dimensioni costitutive del valore. In
funzione del valore di un rapporto, si hanno punti corrispondenti, e cioè
“punti in cui succede qualcosa” (singolarità) e “punti in cui non succede
nulla”, ma che – come mostrava Peirce – presiedono a tutti gli avvenimenti
singolari e li rendono possibili (regolarità). Per Deleuze è esattamente questa
concezione della struttura, con la sua dialettica tra singolare e regolare, che
permette di uscire dal primato del sensibile e del percettivo di ispirazione
fenomenologica, dal momento che, come vedremo ora, è la nozione stessa di
singolarità che presiede al dispiegamento del sensibile nella funzione
semiotica e consente di rendere conto del modo in cui un substrato materiale
si fa espressione semiotizzandosi.
Come nota giustamente Fontanille infatti:
Per accedere al piano del contenuto si deve innanzi tutto […] disimplicare la maniera in cui le
figure dell’espressione prendono forma a partire dal substrato materiale delle iscrizioni e dal gesto
che ve le ha inscritte […]. La semiotica strutturale classica non ha certo ignorato questa
dimensione; procedeva infatti alla segmentazione dei testi e delle immagini proprio per tentare di
isolare le figure del piano dell’espressione. Tuttavia, lo faceva mettendo tra parentesi il carattere
corporale sia del substrato materiale d’iscrizione sia del gesto d’enunciazione. L’immagine era
segmentata in nome di un principio di pertinenza visiva, mentre il principio dell’impronta avrebbe
costretto per esempio a differenziare le impronte fotografiche (il cui vettore è un corpo luminoso)
da quelle pittoriche (il cui vettore è un corpo in movimento). La semiotica dell’impronta presta
attenzione al modus operandi della produzione testuale, così come a quello dell’interpretazione,
dal momento che mette in gioco l’ipotesi che l’interpretazione sia un’esperienza che consiste nel
ritrovare le forme di un’altra esperienza di cui non resta che l’impronta. (Fontanille, 2004, pp.
415-416)

Ora, una semiotica che prestava attenzione al modus operandi della


produzione testuale e in cui l’interpretazione non era altro che la produzione
di segni interpretanti in funzione dei “vari modi in cui si producono
materialmente oggetti destinati alla funzione segnica”,55 costituiva il
paragrafo 3.6 del Trattato di semiotica generale di Umberto Eco, sotto il
titolo piuttosto programmatico di Teoria dei modi di produzione segnica.
Come già notava Valle (2007):
Quella esposta nel capitolo 3.6 del Trattato pare allora essere non una teoria dell’espressione sub
specie materiae ma piuttosto una teoria della materia sub specie expressionis: essa descrive le
modalità per cui la materia può assumere la funzione di espressione, classificando “tipi di attività
produttiva che, per reciproca interazione, possono dar adito a diverse funzioni segniche” (Eco,
1975, p. 289). (Valle, 2007, pp. 369-370)

In che modo allora una teoria echiana dei modi di produzione segnica può
rendere conto del modo in cui un substrato materiale si fa espressione,
rendendo così conto della costituzione di una possibile commensurabilità tra
singolarità materiali, in cui gli abiti acquisiti devono essere messi in
discussione, modulati e trasformati in altri abiti?
Partiamo allora proprio dai materiali. Anche nel caso in cui ci arrivino
grezzi e non lavorati, i materiali da un lato si presentano sempre con una loro
forma propria, e dall’altro presentano sempre delle singolarità, e cioè dei
punti in cui succede qualcosa alla loro stessa materialità. Ad esempio l’acqua
ha due singolarità a 0 e 100 gradi in cui cambia il suo statuto stesso di
materiale passando a stati di fase differenti (da materiale liquido diventa
materiale solido – a 0 gradi – da materiale liquido diventa materiale gassoso
– a 100 gradi –) e ha altresì una serie di ulteriori singolarità riguardanti ad
esempio la sua composizione chimica come combinazione di idrogeno e
ossigeno.
Ora, il problema della semiotica è come questi substrati materiali dotati di
singolarità fisiche possano diventare degli attanti materiali dotati di
singolarità semiotiche, cioè dotati di punti in cui succede qualcosa non dal
lato delle loro trasformazioni materiali (ad esempio l’acqua che bolle trova a
100 gradi un punto in cui succede qualcosa dal punto di vista fisico), bensì
da quello della differenziazione del senso nella costruzione della funzione
semiotica. Il problema è cioè capire come delle figure materiali differenzino
qualcosa sul piano del contenuto, differenziandosi a loro volta esse stesse al
fine di divenire-espressioni di certi contenuti mirati. Come nell’esempio del
sommelier, occorre mettere in gioco le materie del corpo e degli oggetti al
fine di indicizzarne delle porzioni candidate a divenire espressioni di un
determinato contenuto (ad esempio “vino strutturato”).
Si tratta cioè del problema opposto a quello della costruzione di un
linguaggio plastico a partire dalla sospensione di contenuti figurativi. Non si
tratta infatti di capire come degli elementi plastici possano costituire un
piano dell’espressione “altro” e veicolare così contenuti non figurativi, bensì
si tratta di capire come un substrato materiale possa essere commensurabile
a un piano del contenuto ancora solamente mirato e differenziarsi esso stesso
al fine di costituirne l’espressione all’interno di una funzione semiotica. Ora,
questo problema di commensurabilità, messo in luce per la prima volta da
Umberto Eco nella teoria dei modi di produzione segnica, è il problema della
ratio (cfr. Eco, 1975, p.246-248). Ratio, che è la traduzione latina del greco
logos, significa infatti rapporto, ma lo significa in un senso molto
particolare. Un rapporto riconducibile a ratio definisce infatti un tipo
particolare di relazione che presuppone una commensurabilità tra gli
elementi considerati, tanto che, ad esempio in matematica, i numeri
irrazionali, e cioè quelli non riconducibili a ratio, definiscono sì dei rapporti,
ma dei rapporti che sono paradossalmente dei non-rapporti, dal momento
che si instaurano tra elementi che non sono commensurabili tra di loro (il
lato e la diagonale del quadrato, il diametro e la circonferenza del cerchio,
l’apotema e il lato di un poligono regolare ecc.). A proposito della scoperta
pitagorica dell’irrazionalità infatti, Odifreddi (2003) scrive:
La teoria pitagorica era dunque una professione di fede nel “rapporto”, che in greco veniva
indicato con logos e in latino con ratio. Ciò che noi oggi chiamiamo ragione era dunque, in
origine, semplicemente un rapporto numerico, e questo significato si è mantenuto fino ai nostri
giorni, sia in matematica che nel linguaggio comune, ad esempio in “ragione di una progressione”
e in “ragioneria”. I pitagorici erano dunque dei letterali razionalisti, e la scoperta della
“irrazionalità” del rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato fu per loro la fine di un sogno,
la dimostrazione che il mondo non era razionale, nel senso di “rapportabile” o “commensurabile”.
(Odifreddi, 2003, pp. 30-31)

Ecco allora che un rapporto non riconducibile a ratio definisce l’essenza


stessa di una “non-proporzione”, e cioè un rapporto incommensurabile tra gli
elementi in relazione tra cui non esiste alcun tipo di misura comune
(logos).56 È come se gli elementi si accordassero solo all’interno di una
tensione, di un non-accordo, di una dolorosa lacerazione. Vi è sì accordo, ma
accordo discordante, armonia nel dolore di una non-proporzione che per
essenza rende essa stessa possibile una proporzione, tanto che la ratio
sembra essere qualcosa che emerge sempre da una non-ratio in cui è
possibile ripiombare, nel momento in cui il rapporto smetta di essere
commensurabile e si esca da un determinato sistema attestato. Era del resto
questo il caso di Puškin studiato da Lotman (1985), in cui un fenomeno
straordinariamente originale e innovatore non era commensurabile con le
logiche e gli abiti interpretativi che erano propri del sistema in cui nasceva,
con cui non esisteva alcun tipo di misura comune (logos).
Per la teoria dei modi di produzione segnica di Eco (1975, 246248),
esistono allora due tipi di ratio in semiotica: la ratio è facilis nel momento in
cui un’occorrenza espressiva si accorda a un tipo espressivo preesistente; la
ratio è invece difficilis quando non esiste un tipo dell’espressione preformato
e l’occorrenza espressiva viene direttamente correlata al proprio contenuto.
Si ha ratio facilis quando un’occorrenza espressiva si accorda al proprio tipo espressivo, qual è
stato istituzionalizzato da un sistema dell’espressione.
Si ha ratio difficilis quando un’occorrenza espressiva è direttamente accordata al proprio
contenuto, sia perché non esiste tipo espressivo preformato, sia perché il tipo espressivo è già
identico al tipo del contenuto. In altre parole, si ha ratio difficilis quando il tipo espressivo coincide
col semema veicolato dall’occorrenza espressiva. (Eco, 1975, p. 246)57

Porre all’insegna di una ratio una teoria della produzione segnica significa
dunque fondarla su di una commensurabilità innanzi tutto tra tipo e
occorrenza espressiva (casi di ratio facilis) e poi, in ultima analisi, tra
espressione e contenuto tout court (casi di ratio difficilis). Tuttavia
quest’operazione, questa commensurabilità, se pare piuttosto naturale e
giustificabile in casi di ratio facilis quali quelli della produzione linguistica –
in cui si dà vita a un’occorrenza espressiva in funzione di un tipo preformato
– sembra invece diventare molto più problematica in casi quali quello di
Puškin o, in misura ancora maggiore, in quelli dell’apprendimento del
nuotatore o dell’indicizzazione della materia sensibile nel sommelier. È
infatti esattamente una possibile commensurabilità che è in gioco e che
costituisce la posta stessa di questo tipo di esperienze. Sono infatti la materia
della mia lingua e la materia del vino a dover divenire commensurabili
nell’incontro con un altro da me che io non conosco e che sto infatti
cercando di imparare a gestire (e non è affatto detto che io ce la faccia,
infatti non tutti siamo dei bravi sommelier). È esattamente la materia della
mia lingua a contatto con l’alterità della materia del vino a doversi
semiotizzare al fine di indicizzare formanti corporali (“sensazioni gustative”
ad esempio) che si candidino a divenire espressioni commensurabili per un
determinato contenuto (“vino strutturato”, ad esempio). Ed è esattamente su
questa possibile commensurabilità tra la materia del mio corpo e la materia
dell’oggetto, e in seguito tra la materia indicizzata come possibile
espressione di un possibile contenuto, che si fonda la possibilità stessa della
costruzione di una funzione semiotica. Nella produzione segnica, la ratio è
infatti spesso un qualcosa che va costruito localmente e che non si ritrova
disponibile in un tipo preformato.
È allora questa condizione di commensurabilità fallibile e tentativa ciò di
cui la teoria echiana dei modi di produzione segnica riesce a rendere conto:
in quanto teoria della materia sub speciae expressionis, essa descrive infatti
le modalità per cui la materia può assumere la funzione di espressione,
classificando tipi di attività produttiva che possono dar vita a diverse
funzioni segniche in vista di un contenuto mirato. È infatti solamente una
volta introdotto il problema della materia che Eco (1975) può discutere le
quattro dimensioni della tipologia: i) il “lavoro fisico per produrre
l’espressione”, ii) il “rapporto tipo-occorrenza”, iii) il “continuum da
formare” e iv) il “modo di articolazione” (cfr. Eco, 1975, p. 289 e Valle,
2007, pp. 370-401). Ecco allora che la teoria dei modi di produzione segnica
del Trattato di semiotica generale è una teoria capace di problematizzare
proprio quel rapporto tra espressione e contenuto che in altre tradizioni è
pensato come condizione minimale per l’esistenza della testualità,
mostrando come esso sia sempre un effetto che è posto in funzione di
differenti rapporti di commensurabilità (ratio).
Il concetto di ratio diventa allora capitale per una semiotica che desideri
uscire dalle impasses di una prospettiva puramente testuale, che parte dal
rapporto espressione/contenuto quando è invece questo stesso rapporto che
fa problema e che va costruito localmente nell’analisi. La ratio interviene
infatti in almeno tre fasi distinte di questa stessa costruzione (modo di
produzione segnica), di cui la funzione semiotica è sempre un effetto: i) tra
soma e soma, ad esempio nell’apprendimento del nuotatore o nella pratica di
degustazione del vino come incontro tra singolarità materiali, punti singolari
somatici che occorre rendere commensurabili nell’incontro con una
materialità “altra”; ii) tra sema e soma, nella pertinentizzazione di una
materia corporale che deve essere indicizzata al fine di divenire l’espressione
di un contenuto semico mirato (problema di quali sono le sensazioni che
possono divenire espressione del contenuto “vino strutturato”); iii) tra
espressione e contenuto, nella produzione segnica che installa la funzione tra
le due facce del foglio di carta saussuriano, oramai irriducibilmente ispessito
nella polpa stessa della materia.
È allora ben visibile come il problema non sia quello di riconoscere un
insieme di opposizioni semantiche testualizzate o un insieme di “effetti di
senso materiali”, bensì quello di costruire una o più funzioni semiotiche che
rendano conto dell’adeguamento della materia del corpo alla materia
dell’oggetto, della coniugazione delle reciproche singolarità al fine di
instaurare una ratio, e cioè una commensurabilità tra soma e soma, tra sema
e soma e tra espressione e contenuto. Questa commensurabilità si incarna
allora in una materia che si fa espressione, semiotizzandosi in funzione di un
contenuto mirato con cui si instaura una commensurabilità che non esiste
prima dell’istituzione di una ratio. Commensurabilità tra le singolarità
materiali dunque, come nell’esempio del nuotatore o di chi tenta di
impratichirsi nella degustazione del vino, ma anche commensurabilità tra
sema e soma, nel momento in cui si scommette che le singolarità materiali
precedentemente indicizzate differenzino qualcosa sul piano del contenuto,
differenziandosi a loro volta loro esse stesse al fine di divenire-espressioni di
certi contenuti mirati. E infine, commensurabilità tra espressione e contenuto
all’interno della produzione della funzione semiotica, in cui la prassi
enunciativa lavora per produrre senso sempre contemporaneamente sui due
piani, in una semiosi che funziona ora come una fabbrica che produce senso
e non più come un teatro che lo mette in scena leggendolo nei testi.
Perchè l’immagine della semiotica che si ha dal Trattato di semiotica
generale è quella di una fabbrica in cui si producono segni, e non quella di
un teatro in cui si mettono in scena discorsi simulacrali coi loro effetti di
senso. La semiotica funziona come una fabbrica, o meglio, come una
fabbrica che produce rappresentazioni che possono sempre venire utilizzate
per mentire. È una specie di Hollywood: è Cinecittà. E il Trattato manifesta
il gusto sottile per lo svelamento del suo meccanismo,58 per la teoria dei suoi
modi di produzione. Con alcune importanti conseguenze.
Perchè se la semiotica come disciplina dei testi si è sempre occupata della
simulacralità degli effetti di senso a livello dell’enunciato, finendo per
pensare all’enunciazione come alla posizione vuota ricostruita a partire dalle
sue tracce; quello che la teoria dei modi di produzione insegna a fare è di
pensare le pratiche semiotiche che producono i simulacri e i loro effetti di
senso, finendo per pensare alla prassi enunciativa come a una fabbrica di
funzioni semiotiche interpretanti che possono sempre venire utilizzate per
mentire (cfr. infra, capitolo 5). All’interno di Cinecittà è come se l’operatore
disobbedisse al regista e allargasse sempre più il proprio sguardo fino a
mostrare non più la scena, bensì la messa in scena colta in flagranza con
tutte le persone che la producono in atto (enunciazione in atto): non vediamo
più soltanto la scena simulacrale, ma il processo di produzione che la mette
in scena e dentro cui pulsano le logiche stesse della cultura e dei suoi
rapporti di produzione sociale (il cameraman, la costumista, la produzione
ecc.). Sono allora esattamente queste logiche della cultura che pulsano
all’interno del meccanismo della messa in scena simulacrale che secondo il
Trattato si tratta innanzi tutto di descrivere semioticamente, e i testi non
sono altro che oggetti culturali che circolano all’interno della rete semiotica
dell’enciclopedia con un preciso statuto, che è differente da quello delle
pratiche, delle norme e delle culture.
Da qui: i) il primato delle logiche delle cultura sulle logiche del testo, ii)
l’irriducibilità delle logiche della cultura alle logiche testuali, iii) la
determinazione del globale enciclopedico sul locale testuale, tratti che
contraddistinguono un approccio interpretativo che pensa a un testo come a
nient’altro che a un brandello di enciclopedia, a un brandello della
semiosfera, com’era già chiaro ad esempio in Lotman (1985). Recuperando
il senso etimologico della parola, Lotman definiva infatti un testo come
nient’altro che una rete intrecciata:
Poiché la stessa parola “testo” richiama etimologicamente l’intrecciarsi dei fili della tela, si può
dire che con l’interpretazione del testo come meccanismo eterogeneo, diviso in una gerarchia di
testi nei testi, restituiamo al concetto di “testo” il suo significato di partenza. (Lotman, 1985, p.
265)

Questa definizione lotmaniana, che condividiamo e facciamo nostra, ha


tutt’altro che un’efficacia puramente terminologica, dal momento che
consente di porre il testo in funzione di una semiotica delle culture, e non
viceversa. Ecco allora che per noi “testo” non è altro che un tessuto interno
all’enciclopedia (un suo “spazio striato”, cfr. infra, capitolo 3), che
all’enciclopedia rimanda in modo costitutivo. In questo modo, come
sottolineava Lotman nell’introduzione a La Semiosfera:
Il centro della semiotica si sposta al mondo semiotico come tale, alla semiosfera. Il materiale della
semiotica non è costituito dalle parole, dalle frasi o dai testi, ma dalla cultura come tale. (Lotman,
1985, p. 51)

Crediamo allora che l’impresa semiotica che ci aspetta nel futuro consista
innanzi tutto nella costruzione di questa logica delle culture, che sia in grado
di produrre modelli di descrizione e interpretazioni euristici, così come è
stato fatto fino a ora per la semiotica testuale. E crediamo anche che questi
modelli non possano essere costruiti a immagine di quelli della semiotica del
testo, perché profondamente diversi sono i tratti strutturali che sono
costitutivi di due oggetti che, fuor di metafora, restano piuttosto
evidentemente eterogenei. Proveremo a trarre alcune conseguenze concrete
di questo aspetto nel seguente capitolo, in cui metteremo a punto la parte
metodologica e modellistica degli strumenti semiotici di descrizione (cfr.
infra, capitolo 3).

2.7. Logos, ratio, semiotica e filosofia dell’interpretazione

Quanto detto ci consente allora di trarre una prima serie di conclusioni che
riteniamo importanti. Abbiamo visto come la ratio, oggetto teorico
fondamentale che definisce una commensurabilità locale tra sistemi
eterogenei, fosse la traduzione latina del greco logos. Pare allora evidente
che nella traduzione di logos con ratio alcuni tratti semantici, quali quelli di
“rapporto” e di “ragione”, vengano mantenuti, ma ne si perdano invece altri,
quali ad esempio quelli di “raccogliere” e “mostrare”. A dispetto di chi crede
che certe lingue siano più “filosofiche” di altre, questa perdita traduttiva è
assolutamente fondamentale per un’epistemologia semiotica “minore”, che
si fonda esattamente su di una teoria rigorosa dei rapporti e dei nonrapporti
(identità differenziale), ma che non raccoglie i suoi elementi sotto una
dimensione comune (legein), né fa appello a una costitutiva “visibilità”
fenomenologica e percettiva della propria ragione, che è invece innanzi tutto
ed essenzialmente discorsiva e faneroscopica (un “dire”).
Il logos raccoglie infatti elementi sparsi già costituiti per se stessi sotto un
baccello comune (classe, categoria, type, insieme, testo, ragionamento ecc.)
e li mostra presentandoli. Tutt’altra cosa si verifica invece con una ratio,
intesa come rapporto diagrammatico tra forme di relazione tra cui si instaura
una commensurabilità. Si prenda ad esempio una analogia, o proportio, sul
tipo di a:b=b:c. Essa si definisce come uguaglianza di due rapporti, di due
rationes, ma questa uguaglianza non definisce affatto un’identità, come ad
esempio nella formula a=b, bensì uno “stare a” essenzialmente discorsivo
che dice che il primo rapporto sta al secondo esattamente come i termini
interni a ciascun rapporto stanno gli uni nei confronti degli altri. Una
proporzione è sempre un’iterazione frattale di rapporti, una ratio di rationes.
Inoltre, là dove il logos raccoglie elementi già costituiti per se stessi, ciò non
avviene invece minimamente in una proporzione tra rationes, dove
l’uguaglianza in gioco è tra rapporti e non tra cose, in uno spirito
eminentemente strutturale. Secondo la definizione di Nicomaco:
Proporzione in senso proprio è dunque equazione di due o più rapporti, ma più comunemente di
due o più relazioni, sebbene non subordinate allo stesso rapporto, ma alla differenza, o a qualcosa
di diverso. Rapporto è dunque relazione di due termini tra loro, mentre la proporzione è sintesi di
tali rapporti.59

Una sintesi subordinata alla differenza: una sintesi disgiuntiva appunto.


Una proporzionalità di questo tipo è quindi una ratio tra due rationes, e cioè
un rapporto di rapporti, secondo una costitutiva e strutturale autosimilarità.
Si vede allora bene come il concetto stesso di interpretazione peirciana,
che poniamo al centro di questo lavoro, si avvicina molto a ciò che Melandri
chiamava ratio analogica. Con una lucidità dei cui nulli effetti ci si può
solamente meravigliare,60 Melandri (1968, p. 312) sosteneva infatti che tutte
le analogie sono metafore, anche se non tutte le metafore sono “concetti
analogici”. Melandri si rifà alla definizione di Aristotele che definisce la
metafora come spostamento di significato e dice che i concetti analogici
corrispondono all’epiphora, o traslazione attraverso analogia. Detto che per
noi tutte le interpretazioni, e non solo le metafore, sono spostamenti di
significato, ciò che davvero avvicina l’analogia all’interpretazione peirciana
è che i concetti analogici vengono a dipendere dalla proporzione in cui sono
inseriti, esattamente come i segni interpretanti peirciani dipendono dalla
forma di relazione di cui sono elementi (termini relativi). Inoltre, e si tratta
di un punto fondamentale, nessun elemento in queste forme di relazione ha
un significato né un’identità indipendenti: nella proporzione analogica il
significato di a dipende da quello di b, c e d, oltre che dalla forma
proporzionale dell’intera predicazione, mentre nell’interpretazione peirciana
il significato di un segno dipende da quello del suo oggetto, del suo
interpretante e della forma di relazione triadica che li tiene insieme e
consente di passare da uno all’altro. Più in generale, è questo fondamentale
concetto di trasporto, di spostamento, di epiphora in funzione di una forma
di relazione, ciò che definisce costitutivamente l’idea peirciana di
interpretazione (cfr. Serres, 1972). Del resto, come notava Starobinski
(1974):
Stando agli storici della lingua, la parola interpres designa in origine colui che media una
transazione, colui i cui buoni uffici sono necessari perché un oggetto possa cambiare di mano […].
L’interpres assicura dunque un passaggio; contemporaneamente sta attento a riconoscere l’esatto
valore dell’oggetto trasmesso, e assiste alla trasmissione in modo da constatare che l’oggetto passi
da una mano a un’altra nella sua integrità. (Starobinski, 1974, p. 23)

L’interpretante è allora esattamente un interpres che, sulla base di una


determinata forma di relazione, consente di passare da una determinata
configurazione di valori a un’altra attraverso tutta una serie di mediazioni
intermedie.

Possiamo allora dire che là dove la semiotica “maggiore” si è sviluppata


definendo un livello omogeneo in cui gli elementi propriamente semiotici si
scambiavano solamente con elementi simili interni al proprio sistema, in
funzione della seconda accezione del valore saussuriano; ciò che il concetto
stesso di ratio ci insegna è l’istituzione di commensurabilità locali in cui i
valori semiotici divengono tali solamente scambiandosi anche con un fuori,
con cui si determinano reciprocamente in modo privativo e differenziale. È
solamente in questo modo che essi divengono dei valori semiotici. Questo
comporta allora una differenza costitutiva proprio nel modo di prestare
attenzione a ciò che Fontanille (2004) definiva il modus operandi della
produzione testuale, oltre che nel modo in cui una semiotica “minore” tratta i
differenti oggetti che il paradigma testualista omogeneizzava tutti sotto il
concetto di “testo”. Leggiamo allora questo bel passo di Paolo Fabbri (1998,
pp. 101, 104):
La vecchia semiotica divideva i vari linguaggi secondo i vari canali, le varie sostanze
dell’espressione: c’erano dunque il segno visivo, il segno acustico, il segno cinematografico, il
segno televisivo, il segno gestuale ecc. Il problema della semiotica attuale è invece quello di
sostituire a queste divisioni per sostanze delle divisioni per forme organizzative, per diagrammi
comuni. […] Faccio l’esempio […] della spazialità. È molto probabile che i modelli fondamentali
del linguaggio siano di tipo spaziale […]. Non è possibile confrontare parole e sillabe, da un lato,
con architravi e colonne, dall’altro; è possibile invece paragonare le forme spaziali usate dalla
semantica linguistica con quelle prese in carico dalla semantica architettonica. In questo modo,
architettura e linguaggio diventano traducibili.

Là dove la semiotica dell’impronta fontanilliana si proponeva per esempio


di “differenziare le impronte fotografiche (il cui vettore è un corpo
luminoso) da quelle pittoriche (il cui vettore è un corpo in movimento)”;61
con questa sua importante idea Fabbri pone al centro stesso della “nuova
semiotica” l’interpretazione come costruzione di commensurabilità locali
tra elementi eterogenei appartenenti a domini differenti. Questa centralità
della trasduzione, del trasporto tra un dominio e un altro, significa innanzi
tutto prendere finalmente in considerazione il processo genetico di
traducibilità, o di instaurazione di commensurabilità (ratio). È infatti
esclusivamente il porre al centro questo processo che porta a una distinzione
dei sistemi semiotici non più fondata su divisioni per sostanze, bensì su
diagrammi, e cioè su forme di relazione comuni che concatenano sistemi
eterogenei che non cessano di restare eterogenei, pur venendo localmente
tradotti l’uno nell’altro (linguaggio/architettura secondo l’esempio di
Fabbri). Si vede allora come sia questa stessa dialettica che pone al centro la
costruzione di commensurabilità (ratio) quella che ritroviamo sia i)
all’interno di una sintassi del sensibile che si fa espressione, sia ii)
all’interno delle dinamiche culturali di gestione dell’altro (Puškin), sia iii)
all’interno dei rapporti traduttivi tra i domini disciplinari che articolano le
logiche delle culture.
La teoria non è allora diversa dal suo oggetto. Ciascun dominio
disciplinare, ciascun oggetto d’analisi, ciascuna pratica presenta infatti
sempre delle singolarità proprie, che la differenziano rispetto a quelle che
sono proprie di un altro dominio. Su questo punto Peirce ci pareva allora
rilanciare la posta, nel momento in cui mostrava come le singolarità fossero
sempre funzione delle regolarità, e cioè degli abiti che costituiscono lo
sfondo su cui si stagliano e a cui ritornano. Una semiotica adeguata al suo
oggetto sarà allora una semiotica in grado di curvare le proprie singolarità e i
propri abiti interpretativi sulle specificità costitutive dell’oggetto di cui si
occupa, al fine di aprirsi a un incontro, come il nuotatore apre i punti
sensibili del suo corpo al movimento dell’onda che sopraggiunge. Al
contrario, la semiotica ha storicamente operato una serie di operazioni di
prelevamento sull’oggetto che trattava, al fine di omogeneizzarne la
molteplicità alle singolarità del paradigma testuale, riportandone le
specificità nel laboratorio chiuso in cui si operavano le transcodifiche
“artificialmente, ma bene”. Proprio per questo ha sempre individuato
dappertutto strutture narrative, semi profondi, articolazioni figurative e
formanti plastici, finendo di fatto per ritrovare un’“universalità semiotica”
che non era affatto inscritta nell’oggetto, bensì nello sguardo che lo leggeva.
A questa omogeneizzazione fondata sul tentativo di ritrovare elementi
comuni (chiusura, coerenza, coesione, articolazione narrativa ecc.) nei suoi
oggetti di analisi (logos), opponiamo allora la costruzione di una
commensurabilità locale (ratio), che traduce elementi eterogenei da un
dominio a un altro, piegando le singolarità stesse del proprio approccio a
quelle degli oggetti a cui ci si apre a un incontro. Non procedere così è
l’equivalente dell’essere convinti di poter imparare a nuotare simulando
movimenti e bracciate sulla sabbia, non facendo di fatto nessun movimento
in avanti, ma simulando benissimo quello che succederebbe se le cose
andassero invece proprio così come le si sta eseguendo, “artificialmente ma
bene”. Com’è noto, la simulazione delle bracciate col maestro è infatti
soltanto la prima delle fasi attraverso cui il bambino impara a nuotare. I
nostri maestri ci hanno lasciato qui. Crediamo sia ora venuto il momento di
“immergersi”, nella speranza di non “annegare”, ma di imparare a coniugare
gli abiti interpretativi della semiotica con i nuovi oggetti di analisi che la
disciplina si trova sempre più ad affrontare.
L’impresa della semiotica non consiste affatto nella costruzione di un
metalinguaggio del senso da offrire alle altre discipline, come voleva
Greimas (1970), bensì consiste nel concatenare linguaggi “altri” e nel
garantirne una traducibilità e una commensurabilità locale, che è quella
propria dell’interpres. Data la molteplicità eterogenea della “vita della
significazione”, la semiotica non riporta questa molteplicità all’unità
omogenea delle sue categorie, bensì costruisce concatenamenti locali che
consentono di tradurre da un dominio disciplinare a un altro. È soltanto in
questo modo che essa può svolgere in seno alle scienze umane il ruolo che
Hjelmslev attribuiva alla lingua, e cioè quello di assicurare la traducibilità
tra gli altri sistemi.62 Ma assicurare la traducibilità tra sistemi “altri” implica
costruire commensurabilità locali trasducendo elementi eterogenei da un
dominio a un altro, in funzione della prima accezione del valore saussuriano.
Assicurare la traducibilità tra sistemi altri, federare le scienze della cultura
come vuole ad esempio Rastier (2003), implica per essenza questa sintesi
disgiuntiva dell’eterogeneo (ratio), in cui i valori si scambiano sempre con
un “fuori”, e non un riportare la molteplicità viva delle pratiche della
significazione in un dentro omogeneo in cui raccoglierne le proprietà comuni
(logos).
Oltre a ciò, l’idea che esistano anche rapporti non riconducibili a ratio, e
cioè che ci si apra sempre anche a incontri con ciò con cui non si è
commensurabili, tentando così di costruire “un’armonia nella dissonanza”,
definisce per noi l’essenza stessa dell’idea che Eco cercava di formulare già
nel Trattato di semiotica generale col suo concetto di ratio difficilis:63 la
commensurabilità è sempre tentativa e va innanzi tutto costruita localmente
di volta in volta a partire da rapporti irrazionali, e cioè incommensurabili.
Come vedremo (cfr. infra, capitolo 3), questa incommensurabilità, che è
propria di entità non riconducibili a ratio, avrà a che fare con ciò che Peirce
chiamava le entità indeterminate, che sono entità non soggette ai principi di
identità elementare (non contraddizione, terzo escluso ecc.). Tra queste
entità ontologicamente “non rispettabili”, come diceva Quine, non avremo
dunque mai correlazioni, ma sempre innanzi tutto reciproca
incommensurabilità. Entità di questo tipo saranno ad esempio i significati, o
gli infinitesimi in rapporto differenziale (cfr. infra, capitolo 4).
Nella nostra cultura la scoperta degli irrazionali, e cioè la scoperta delle
entità non riconducibili a ratio, è equivalsa alla dimostrazione che esistono
rapporti non determinabili in maniera univoca in base al principio d’identità.
Era la dimostrazione di Aristotele:64 se il lato del quadrato fosse
commensurabile con la diagonale, lo stesso numero dovrebbe essere al
contempo “sia pari che dispari” o “né pari né dispari”, e dunque non
soddisferebbe il principio di identità elementare. Esso infatti i) non
esprimerebbe rapporti definibili in maniera univoca e ii) determinerebbe
entità che vanno così sempre in tutte le direzioni a un tempo. Vedremo
meglio in seguito come entità “non rispettabili” di questo tipo siano tuttavia
perfettamente possibili e posseggano semplicemente quel modo di esistenza
che nel primo capitolo avevamo visto definire l’essenza stessa degli elementi
di una struttura, che, per la loro identità puramente differenziale, non sono
riconducibili al principio d’identità.
Non sarà allora superfluo sottolineare come le autosimilarità frattali, che
avevamo visto definire sia il dispiegarsi della classe all’interno della
glossematica hjelmsleviana che il dispiegarsi dell’interpretazione all’interno
della semiotica di Peirce, siano tutte entità effetto di rapporti irrazionali, e
come anche le ramificazioni triadiche siano costitutivamente frattali e
irrazionali. Ecco ad esempio il caso studiato da Livio (2002) riguardante il
rapporto aureo (golden ratio):
La caratteristica principale di molti frattali è la ramificazione. Esaminiamo un modello molto
semplificato di questo comunissimo fenomeno. Partiamo da un fusto di lunghezza unitaria, che si
biforca in due rami di lunghezza ½ che formano un angolo di 120° (figura 105). Ciascun ramo
allora si divide allo stesso modo, in un processo che possiamo immaginare illimitato. Invece del
fattore di riduzione uguale a ½, avremmo potuto utilizzarne uno un po’ maggiore (per esempio
0,6). In tal caso gli spazi tra le diramazioni si sarebbero progressivamente ridotti, fino alla
sovrapposizione. In molti sistemi (un sistema di drenaggio, l’apparato circolatorio) potremmo aver
bisogno di conoscere precisamente quale sia il fattore di riduzione a partire dal quale le
diramazioni si toccano, e oltre il quale cominciano a sovrapporsi come mostrato nella figura 106.

(figura 105 e figura 106)

Sorprendentemente tale fattore di riduzione corrisponde a 0,618… [e cioè al rapporto irrazionale


aureo…]. Si parla in questo caso di albero aureo, la cui dimensione è pari a circa 1,4404. Dopo le
prime iterazioni, l’albero aureo e analoghi frattali costituiti da semplici linee non possono più
essere distinti ad occhio nudo nei particolari. (Livio, 2002, p. 322)

Pare evidente come in questo processo, assolutamente speculare a quello


delle genesi delle relazioni n-adiche a partire dalle triadi di Peirce, si
prosegua per iterazione di uno stesso rapporto fino al punto di dispersione in
cui gli elementi si fondono gli uni dentro agli altri in un divenire comune.
L’“albero” frattale così ottenuto è tutto tranne che un albero, dal momento
che è una molteplicità autosimile che si ramifica costantemente, e cioè un
rizoma. Lavoreremo in modo estensivo su questo aspetto nel successivo
capitolo, dal momento che ci consentirà di precisare ancora meglio la
struttura costitutiva dell’enciclopedia.
1
Cfr. Devoto, 1966.
2
Cfr. Marsciani, 2007, pp. 9-15.
3
Si vedano ad esempio le pratiche di “inizio costantemente ritardato” dei riti di Candomblé a Bahia.
4
Cfr. Zilberberg, 1983 e AA. VV., 1985.
5
Oltre alla totalità dell’opera di Greimas, si vedano almeno Petitot, 1985; Marsciani, 1990; Bertrand,
2000 e Pozzato, 2002.
6
Possiamo qui tranquillamente soprassedere sull’utilizzo baudrillardiano del termine “segno”, là
dove un semiotico utilizzerebbe invece “valore”: il senso del suo discorso è comunque chiaro.
7
In AA.VV., 1985, p. XXIX.
8
Cfr. Marsciani, 1990, capitolo 4.
9
Cfr. Greimas, 1970, p. 17.
10
Greimas (1983, p. 120) taccia il concetto di enciclopedia di Eco di essere un concetto confuso che
rimanda ad altre discipline la propria ignoranza semiotica, ma con questo pare ignorare le strategie
di ritaglio delle sezioni enciclopediche parziali che connettono un pensiero enciclopedico alla teoria
degli abiti interpretativi e ne fanno così uno strumento irrinunciabile per la semantica e la
semiotica. Specularmente Eco, nell’esigenza di criticare una semantica a dizionario fondata
sull’interdefinizione, non sottolinea sempre con la forza necessaria la svolta epistemologica che
l’accezione immanente del valore saussuriano rappresenta per una semantica semiotica (cfr. infra,
4.3), cosa che invece Greimas fa spesso magistralmente.
11
Com’è noto, Greimas affida a due Dizionari l’esposizione ragionata della sua teoria del linguaggio
(Greimas e Courtés, 1979 e 1986).
12
Specificheremo più approfonditamente la natura di questo “fuori” enciclopedico nel capitolo 4.
13
Greimas e Fontanille, 1991; Petitot, 1992 e 2003; Fontanille, 1998; Fontanille e Zilberberg, 1998
sostengono ad esempio tutti la posizione esattamente opposta e fondano le loro semiotiche sul
primato della percezione.
14
Si veda ad esempio Cadiot e Visetti, 2001.
15
L’esempio principale è ovviamente Lakoff, 1987 (Lakoff e Johnson, 1998). Ma si veda come
questa posizione sia largamente condivisa in quell’ambito disciplinare (Gaeta e Nuraghi, 2003).
16
Talmy, Langacker, Lakoff, Petitot e Fontanille sono i nomi di riferimento tra quelli in qualche
modo vicini a un approccio semiotico.
17
Cfr. Pianigiani, 1907, “Segno”.
18
Eco (1997, p. 50) nota giustamente come questo passo peirciano sembri “un programma di ricerca,
l’individuazione di una breccia attraverso la quale si dovrebbe arrivare a un kantismo non
trascendentale”. E però nel 1885, quando Peirce scrive, questa ricerca non è assolutamente di là da
venire, bensì è già stata portata a termine con successo nell’arco di tempo che va dal 1861 ai tre
saggi cognitivi del 1868.
19
Peirce chiamerà poi diagramma quel tipo di rappresentazione in grado di incarnare elementi logici
in evidenze estetiche (percettivo-sensoriali), e in più punti mostrerà proprio come il diagramma non
sia in realtà altro che uno schema (ad esempio CP 2.778, 2.385, NEM IV, pp. 313-319 e MS 293).
Sul diagramma come schema, una delle nozioni più importanti di Peirce, cfr. infra, 4.11, con
particolare riferimento alla teoria di Eco formulata in Kant e l’ornitorinco.
20
“Logico” in Peirce vuol dire innanzi tutto questo: il sillogismo presenta infatti questa stessa forma
di relazione mediata in cui si va da una premessa a una conclusione solamente attraverso la
mediazione di un’altra premessa, e mai in modo diretto. Stessa cosa in Logica dei Relativi, dove la
mediazione della triade è prima rispetto ai rapporti di Primità e Secondità, da cui non può essere
derivata.
21
Nel senso della ripresentazione interpretante, non certo nel senso del “linguaggio verbale”.
22
Pur sapendo bene che esistono differenze anche profonde tra la fenomenologia di Husserl, quella di
Heidegger e quella di Merleau-Ponty, trattiamo “in continuità” le posizioni di questi tre autori, dal
momento che ci stiamo occupando di punti caratterizzanti che ci paiono presenti in tutti e tre questi
approcci. Si direbbe che si tratta di quegli aspetti che “fanno di una fenomenologia una
fenomenologia”, indipendentemente dalle sue differenti declinazioni. Il nostro obiettivo è allora
quello di mostrare come un’altra scienza dei fenomeni sia possibile, e come questa “nuova
fenomenologia” abbia natura semiotica e faneroscopica nel senso di Peirce. Essendo questo un
libro di semiotica, non ci addentriamo troppo nello specifico in questioni filosofiche tecniche, che
sarebbero al di là della pertinenza disciplinare scelta.
23
Cfr. Fontanille e Zilberberg, 1998, in particolare le voci “Valence” e “Valeur”.
24
E nel criticare la lettura derridiana di Peirce, Eco (1990) stesso non aveva assolutamente nulla da
ridire su questo punto fondamentale così lucidamente rilevato da Derrida.
25
Alcuni lavori recenti sembrano marcare con ancora più forza rispetto a Greimas il côté
fenomenologico. Cfr. almeno Fontanille, 2004; Marrone, 2005 e Basso Fossali, 2008.
26
E intendiamo “manifestazione” non solo in senso generativo, ma anche e soprattutto in senso
faneroscopico: il “testo” è qualcosa che si manifesta, che viene alla presenza sotto un certo rispetto
(cfr. infra).
27
L’esempio di Husserl (1913, p. 282), famosissimo, è quello dell’albero: “L’albero inteso ut sic può
bruciare, dissolversi nei suoi elementi chimici, ecc. Ma il senso – il senso di questa percezione, cioè
qualcosa che appartiene necessariamente alla sua essenza – non può bruciare, non ha elementi
chimici, forze, proprietà reali”.
28
Sono questi i tratti indicati ad esempio da Fabbri e Marrone, 2000, pp. 8-9 e precedentemente
anche da Floch, 1990.
29
Virgolettiamo fenomenologico perché, nonostante l’omologia evidente e l’ispirazione merleau-
pontyana, le riflessioni della semiotica generativa non posseggono il rigore e l’attenzione che
innerva invece le riflessioni husserliane connesse ai problemi della correlazione “noesi-noema” e a
quello della messa in parentesi della “tesi naturale”. Per quanto ci riguarda, auspichiamo che la
semiotica possa ritornare a un maggior rigore filosofico nella costituzione dei propri oggetti teorici.
30
Husserl, 1913, p. 423.
31
Nel senso di Marrone, 2007.
32
In questo senso è un elemento della “manifestazione”.
33
Su questo punto, la stessa posizione di Hjelmslev nei Prolegomena ci pare eccessivamente
influenzata dal positivismo di Carnap (1928), che sostituiamo con una posizione faneroscopica di
tipo peirciano.
34
Ovviamente, sia chiaro, Duranti è un antropologo e non un semiotico. Stiamo solamente operando
un confronto tra approcci differenti, al fine di far emergere la specificità di quello semiotico.
35
Cfr. Pozzato, 1999.
36
Cfr. Lawrence, 1991, pp. 99-106.
37
Cfr. Bacon, 1993.
38
Cfr. Eco, 2007, capitolo 1.
39
Cfr. Deleuze, 1981, p. 157.
40
In una recente trasmissione di provini per un famoso reality show, le risposte alla domanda: “Qual
è il tuo tallone d’Achille?” variavano da “mi hanno sempre detto gli occhi” a “come frase, ‘vivi e
lascia vivere’”, fino a “ho appena fatto le visite ortopediche ed è tutto ok”. Evidentemente il
contenuto enciclopedico della vulnerabilità di Achille, topos stereotipico della nostra cultura fino a
essere diventato proverbiale, non solo era ignorato, ma era variamente interpretato e frainteso in
funzione della pratica attivata e dell’appartenenza sociolettale in gioco.
41
Sulle idee di sfera e di rete, cfr. Volli, 2008.
42
L’abito per Peirce è infatti “una tendenza ad agire in modo simile in circostanze simili nel futuro”:
un pattern regolare che si ripete in modo regolare (cfr. Sini, 2004).
43
“Per sviluppare il significato di qualsiasi cosa, dobbiamo semplicemente determinare quali abiti
produce, perché ciò che una cosa significa è semplicemente l’abito che essa comporta” (CP 5.400).
44
Cfr. Fabbri, 1998, a cui si deve la definizione della narratività come “concatenamenti di
azioni/passioni”.
45
La stessa espressione “comunità delle monadi” è quanto meno sintomatica dell’approccio
husserliano al problema.
46
Per gli abiti vale esattamente la stessa cosa: “L’abito non è in alcun modo esclusivamente un fatto
mentale. Empiricamente troviamo che certe piante assumono abiti. Il corso d’acqua che si erode da
solo sta formando un abito” (CP 5.492). Su questo punto, si veda Eco, 1979, capitolo 2.
47
Sui rapporti tra semiotica e cognizione distribuita, si veda il numero doppio di VS 112-113,
dedicato all’idea di Mente Esterna.
48
Cfr. invece Merleau-Ponty, 1945 e 1963.
49
Cfr. Lotman e Uspenskij, 1973.
50
Per un accostamento tra le idee di Ginzburg e quelle di Peirce, si veda Fabbrichesi Leo, 2004.
51
Ci pare che la semiotica di Eco, sebbene abbia certamente tenuto insieme testo e mondo all’interno
di un paradigma semiotico inferenziale, non sia mai stata neppure lontanamente sfiorata da questa
idea, neppure quando la affrontava direttamente, come nei Limiti dell’interpretazione. Di sicuro il
suo approccio generale è esattamente quello opposto: si veda più avanti la teoria dei modi di
produzione segnica del Trattato di semiotica generale.
52
Cfr. Deleuze, 1967, p. 44.
53
Cfr. Fontanille, 2004, p. 214.
54
In tutti i campi in cui c’è struttura ad eccezione della semiotica, dal momento che proprio la
semiotica che si è voluta strutturale ha abbandonato completamente il momento della costruzione
della funzione semiotica a partire dalla coniugazione di singolarità, al fine di operare
un’omogeneizzazione dei problemi semiotici sotto il concetto-ombrello di “testo”. Con alcune
notevoli eccezioni, ovviamente (cfr. Petitot, 1977, 1985 e 1992 e, con una posizione più ibrida di
ispirazione fenomenologica, ma non senza sensibilità al problema, Fontanille e Zilberberg, 1998).
55
Eco, 1975, quarta di copertina.
56
Una delle prime scoperte nella nostra cultura di un rapporto irrazionale, e cioè non riconducibile
alla commensurabilità della ratio, è stata quella del rapporto aureo (golden ratio), e cioè di un
rapporto che ha costituito per secoli l’essenza stessa dei canoni di proporzione e di bellezza
classica. Ecco infatti che il rapporto aureo è lo stesso che c’è tra l’ombelico e i piedi e l’ombelico e
la testa nell’uomo, rapporto perfettamente rappresentato nel Diadùmeno di Policleto e in seguito
nell’Uomo di Vitruvio di Leonardo e, spazialmente, nella struttura del Partenone di Atene o in
quella della Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca (ma gli esempi potrebbero ovviamente
proliferare, cfr. ad esempio Livio, 2002). È davvero curioso che l’ideale stesso di proporzione che
ha accompagnato tutta l’estetica classica sia in realtà l’essenza stessa di una non-proporzione, e
cioè di un rapporto incommensurabile tra gli elementi in rapporto tra cui non esiste alcun tipo di
misura comune (logos).
57
Il rapporto di ratio in Eco (1975) è un rapporto tra tipo e occorrenza. Non possiamo seguire Eco su
questo punto, dal momento che la ripartizione tipo/occorrenza sembra funzionare pressoché
esclusivamente per il piano dell’espressione del linguaggio verbale e sistemi semiotici similari,
mentre non pare una distinzione adeguata a rendere conto di ciò che accade ad esempio per
linguaggi di tipo visivo o sincretico, dove l’esistenza di un type dell’espressione appare quanto
meno dubbia, né tanto meno sembra adeguata a descrivere ciò che accade sul piano del contenuto
(cfr. infra, 4.10). Per noi la ratio si instaura innanzi tutto tra singolarità nell’istituzione di un
rapporto di commensurabilità.
58
Da qui anche tutta la parte sulla “critica dell’ideologia”. Cfr. Eco, 1975, pp. 359-371 e infra,
capitolo 5.
59
Iamblichus, 1894, p. 120.
60
E il fatto che una delle poche autentiche comprensioni della portata di quel libro venga proprio da
ambiente semiotico, e più in particolare da Umberto Eco, che l’aveva recensito e poi
estensivamente citato nella Struttura assente, non può non farci più che piacere.
61
Fontanille, 2004, p. 416.
62
Cfr. Fontanille e Zilberberg, 1998.
63
Si veda la discussione su “Galassie espressive e nebulose di contenuto” (Eco, 1975, pp. 251-254).
64
Analitici Primi, I, XXIII, 41a.
3. UNA NUOVA TEORIA DELLA DIFFERENZA

3.1. Una nuova teoria della differenza adeguata alla descrizione dei
processi enciclopedici a rete

In questo capitolo proveremo a costruire una teoria della differenza


enciclopedica capace di restituire dei modelli semiotici di descrizione a
vocazione euristica. Come abbiamo visto nel precedente capitolo, ben lungi
dall’essere l’effetto di un dualismo manicheo che vuole proporsi in una
sedicente “rivoluzione epistemologica”, l’insistenza sull’irriducibilità alla
forma testuale delle pratiche e delle culture significa infatti insistere innanzi
tutto sulla necessità di elaborare nuovi modelli di analisi semiotica. Se c’è una
cosa che non si può quindi dire è che l’opposizione tra testi e pratiche sia “un
problema rompicapo a cui il Dizionario di Greimas del 1979 ha già
ampiamente risposto” (Fabbri, 2007, p. IX), perché l’insistenza sulla necessità
di abbandonare una semiotica del testo a favore di una semiotica delle pratiche
e delle culture significa affermare innanzi tutto la necessità di allontanarsi
proprio dai modelli di analisi formulati in quel libro. L’epistemologia non è
dunque il fulcro della questione: il problema è di fatto la costruzione di modelli
di analisi a vocazione euristica. Nelle logiche della culture e delle loro pratiche
interne, assistiamo continuamente a fenomeni i cui effetti di senso non sono
riconducibili alle forme semantiche che una semiotica del testo ci ha fornito
per analizzarli. La forza con cui nel secondo capitolo si è provato a
differenziare una semiotica del testo da una semiotica delle pratiche e delle
culture ha allora riguardato esclusivamente il principio hjelmsleviano di
“adeguazione” della teoria ai suoi oggetti di analisi: le pratiche e le culture ci
forniscono continuamente oggetti di analisi i cui effetti di senso sono
contraddittori, aperti e non coesi, e cioè irriducibili ai tratti che per un
approccio generativo costituiscono la testualità (coerenza, chiusura e
coesione). Al fine di studiarli adeguatamente, occorre quindi affiancare a una
semantica del testo, qual è quella interna al percorso generativo di Greimas,
una semantica di tipo differente, che sia capace di fornire modelli di
descrizione adeguati a un oggetto la cui forma di relazione è del tutto
irriducibile non solo ai tratti costitutivi della testualità, ma anche e soprattutto
agli effetti di senso che siamo abituati a descrivere attraverso un’analisi semica
di tipo differenziale fondata sul quadrato semiotico. L’obiettivo è quindi
integrativo, e non mira affatto a una Aufhebung dell’esistente, quanto piuttosto
a un ampliamento degli utensili metodologici e modellistici che ci consentano
di potenziare la forza esplicativa e applicativa della semiotica, che troppo
spesso ritrova le stesse cose dappertutto. Si tratta anche in questo caso di una
semiotica “minore”, e cioè di una semiotica deviante dalla sua forma standard,
che consente di potenziarla a fini integrativi ed euristici.
Questa nuova teoria della differenza, capace di integrare nuovi modelli
semiotici di descrizione a quelli che hanno avuto nella semiotica del testo la
loro forma “maggiore”, deve allora essere per noi di tipo enciclopedico.
Questo pone immediatamente un problema fondamentale, lucidamente messo
in evidenza proprio da Greimas, a cui vogliamo provare a dare risposta in
questo capitolo:
Alcuni designano questo universo del sapere, un po’ rapidamente, come enciclopedia: in effetti una
simile designazione non ci dice niente sul modo di organizzazione di questo universo, dato che
l’enciclopedia si caratterizza proprio in base all’assenza di ogni ordine intrinseco. (Greimas, 1983, p.
120)

La critica di Greimas è tutt’altro che mal diretta, almeno se interpretata in un


determinato senso. Se infatti Greimas, in evidente polemica con un Eco
neppure esplicitamente citato, sta dicendo che la semiotica interpretativa non
ha mai davvero fornito una descrizione concreta ed esplicita del suo oggetto
teorico principale, e cioè dell’enciclopedia, sta dicendo una cosa tutt’altro che
inesatta. Non è infatti un caso, su cui noi stessi ci soffermeremo nel capitolo 4,
che quando Eco attiva concretamente la nozione nell’analisi, si rifà quasi
sempre a forme di relazione locali di tipo arborescente e gerarchico, che
dovrebbero essere in contrasto con la struttura stessa dell’enciclopedia
(l’enciclopedia non è un albero gerarchico). Tuttavia con almeno due
eccezioni: nel saggio “L’Antiporfirio”, Eco (1983) fornisce tutta una serie di
indicazioni concrete sulla struttura dell’enciclopedia, che poi spariscono nella
versione dello stesso saggio pubblicata in Semiotica e filosofia del linguaggio.1
Inoltre Eco (1983, 1984, 2007) identifica in più punti la struttura
dell’enciclopedia con quella del rizoma e, se ci rivolgiamo al modello
presentato in Deleuze e Guattari (1980, capitoli 1 e 14), le riserve di Greimas
cadono, dal momento che i tratti dell’organizzazione costitutiva di un rizoma
non solo sono del tutto espliciti, ma sono presentati con estremo rigore facendo
riferimento: i) a dei principi strutturali di organizzazione; ii) a una serie di
modelli concreti (tecnologico, marittimo, matematico ecc.).
Proprio queste due eccezioni rappresenteranno allora il punto di partenza di
questo nostro tentativo di esplicitare concretamente la struttura
dell’enciclopedia e della sua organizzazione interna, con l’obiettivo di fornire
dei modelli fondati su forme di relazione hjelmslevianamente adeguate a
oggetti di analisi non riducibili alle forme semiotiche della testualità. In breve,
proporremo qui i tratti distintivi di ciò che Hjelmslev chiamava
“frammentazione”, e cioè un’analisi non conforme al principio empirico.
A questo proposito, va invece affrontata subito un’altra possibile lettura del
passo di Greimas da cui siamo partiti. Se quando Greimas dice che
“l’enciclopedia si caratterizza proprio in base all’assenza di ogni ordine
intrinseco”, vuole suggerire che l’enciclopedia dovrebbe avere un “ordine
ordinato”, e cioè un ordine stratificato, gerarchizzato, coerente e coeso, come
quello che lui stesso ha sempre tentato di costruire per la sua teoria, di fatto
pare mancare proprio l’essenza della questione. L’organizzazione interna
dell’enciclopedia ha infatti come tratto costitutivo della sua stessa
organizzazione interna proprio quello di non possedere un’organizzazione
interna “ordinata”, e cioè gerarchizzata, coerente, coesa e chiusa. Un “ordine”
non gerarchico, contraddittorio e aperto, qual è quello costitutivo
dell’enciclopedia, non è certamente un “ordine ordinato”, ma non per questo
non presenta una configurazione interna descrivibile. È come in musica, dove
l’armonia, e cioè il principio di relazione tra le parti del sistema, può benissimo
essere dissonante e “non-armonica”, nel senso in cui si dice ad esempio che si
“vive in armonia” o che si costituisce “un’unità armonica tra le parti”. Ma non
per questo un’armonia dissonante di questo tipo non presenta una
configurazione e un ordine descrivibili. Si tratta appunto di “un’armonia
dissonante”, di un’armonia nel dolore che tiene insieme elementi che
all’interno di altri sistemi sono considerati incompossibili tra loro. Vedremo
ora come sia esattamente questo tenere insieme elementi che in altri sistemi
sono pensati come incompossibili a costituire una delle caratteristiche
principali dell’enciclopedia, quella capace di rendere conto della costitutiva
contraddittorietà dello spazio semantico e dell’universo del sapere, su cui Eco
(1975, 1983, 1984, 2007) ha spesso insistito.
Insomma, l’enciclopedia presenta un’organizzazione interna deviante
rispetto ai tratti che costituiscono la testualità e la dissezione che ne
corrisponde (analisi). I suoi tratti sono infatti conformi a quelli che
costituiscono le culture e le pratiche a esse interne, a cui corrisponde un altro
tipo di dissezione, non conforme al principio empirico hjelmsleviano
(frammentazione).
Procederemo allora seguendo due strade. Da un lato mostreremo in che
modo sia possibile costruire una teoria della differenza propriamente
enciclopedica, specificando così una serie di forme di relazione differenziali
che non hanno trovato posto nelle analisi semiotiche “maggiori”. Dall’altro,
secondo l’obiettivo integrativo che ci siamo prefissi, mostreremo come
l’enciclopedia sia capace di tenere insieme al suo interno sia i tratti costitutivi
di un’analisi semiotica “maggiore”, conforme ai tratti costitutivi della testualità
e al principio empirico, sia i tratti costitutivi di un’analisi semiotica deviante
da quella maggiore, e conforme cioè ai tratti costitutivi delle pratiche e delle
culture (frammentazione). Del resto, all’interno dell’enciclopedia circolano
senz’altro anche dei testi, e una teoria delle differenza enciclopedica è per noi
costitutiva anche di un’analisi testuale.

3.2. Logico, prelogico e sublogico

L’organizzazione differenziale “maggiore” della teoria semiotica è quella


incarnata nel quadrato semiotico. Per Greimas il quadrato semiotico è infatti la
struttura stessa, il modo in cui la semiotica de clina l’eredità dello
strutturalismo e della differenzialità costitutiva dei suoi elementi.

Figura 1. Quadrato semiotica della sessualità

Tuttavia, se prendiamo in considerazione questo quadrato semiotico


famosissimo, quello della sessualità, possiamo mostrare come tutte le relazioni
semantiche che vi sono rappresentate sono di fatto contingenti. Il quadrato
semiotico è cioè tutt’altro che “la rappresentazione visiva dell’articolazione
logica di una categoria semantica qualunque”,2 come voleva Greimas. Esso è
invece una rappresentazione possibile di una articolazione logica di una
categoria molto locale e circoscritta, che presenta una forma coerente, coesa e
chiusa. Se ne danno n altre. Si danno cioè n altre rappresentazioni di n altre
articolazioni logiche di una categoria semantica qualunque. Non solo. Nel
momento in cui ci si sposta da strutture coerenti, coese e chiuse quali sono i
testi a strutture contraddittorie, aperte e sfaccettate quali sono le pratiche, le
lingue e le culture, si nota come queste relazioni interne al quadrato semiotico
risultino di fatto del tutto inconsistenti. Per questo la proliferazione dei
quadrati nelle analisi semiotiche è tutt’altro che un segno della loro euristicità,
bensì è semplicemente il segno di un’analisi che accosta un oggetto con le
categorie che contingentemente possiede e si autoritrova, mancando così
completamente il principio hjelmsleviano di adeguazione della teoria.
Per quanto riguarda la relazione differenziale di contrarietà, abbiamo già
detto nel capitolo 1. Ben lungi dall’essere un’opposizione polare tra termini
contrari, all’interno delle lingue, e cioè all’interno di strutture contraddittorie,
aperte e non coese, essa è invece un’opposizione partecipativa tra un termine
intensivo e un termine estensivo. Proprio a partire da questo, eravamo in grado
di mostrare la natura costitutivamente partecipativa di un reticolo
enciclopedico (cfr. supra, 1.6), in cui sempre degli esclusi partecipano in modo
mediato all’opposizione in atto.
Da qui un ulteriore aspetto fondamentale, su cui già Hjelmslev insisteva con
grande forza. Strutture partecipative come quelle costitutive delle lingue (e
dell’enciclopedia) non possono essere ricondotte a principi di tipo logico-
matematico. La loro essenza è morfologica (si tratta infatti della forma del
contenuto) e, come già notava Husserl (1913, pp. 235-236), le essenze
morfologiche sono costitutivamente vaghe, anesatte. Da qui la necessità di
costruire una “semantica del vago” e dell’“anesatto”, che renda conto proprio
di opposizioni di tipo partecipativo tra termini precisi e termini vaghi.3 Già
Hjelmslev, insistendo proprio su questa struttura non-logica del vago, notava
benissimo cosa succedeva nel momento in cui si riportavano delle strutture
partecipative a una forma di relazione di tipo logico:
Questo ci sembra importante. Le correlazioni linguistiche sono molto spesso delle opposizioni vaghe
e imprecise e, di conseguenza, sarebbe falso il volere ricondurle a un principio rigoroso di tipo
logico-matematico. Nelle correlazioni morfematiche ordinarie non si tratta di un’opposizione tra a e
non-a; si tratta il più delle volte di un’opposizione, più confusa, tra un termine preciso e un termine
vago. […] Nel momento in cui un’opposizione linguistica sarà trasformata all’interno di un sistema
logico a due termini […], la trasformazione non potrà compiersi che trasformando l’opposizione tra il
termine preciso e il termine vago in un’opposizione tra termini contrari o tra termini contraddittori.
(NE, pp. 34-35)

Questa riduzione della “dionisicità” linguistica, con la sua struttura


costitutivamente partecipativa, a uno stock di relazioni di altro tipo, non solo è
operata dallo stesso Hjelmslev nel suo libro “maggiore”, in cui l’algebrismo
logico-matematico diviene il modello stesso della “scientificità” dell’impresa
teorica, ma viene reiterata in altre forme non-logiche all’interno della
tradizione semiotica che si è voluta strutturalista, ma che lo è stata ispirandosi
esclusivamente ai Prolegomena. Il simbolo di questa iterazione è proprio
rappresentato dal quadrato semiotico, dove un’opposizione partecipativa viene
ridotta, come previsto per altro dallo stesso Hjelmslev, a un’opposizione tra
termini contrari.
Diventa allora di fondamentale importanza chiarire lo statuto che il termine
“logico” assume all’interno di una teoria della differenza di tipo semiotico.
Greimas, infatti, dice al contempo che i) il quadrato semiotico è la
rappresentazione visiva dell’articolazione logica di una categoria; e che ii) le
relazioni incarnate nel quadrato semiotico non sono di tipo logico.4 “Logico” è
qui usato in due sensi differenti: le relazioni del quadrato non sono di tipo
logico, come ad esempio sono invece quelle incarnate nei quadrati di tipo
aristotelico, perché il quadrato articola dei semi in rapporto differenziale, e
cioè delle unità della forma del contenuto in cui il rapporto è costitutivo
dell’identità dei termini. Tuttavia, i rapporti differenziali non-logici interni al
quadrato definiscono l’articolazione logica di una categoria in un altro senso,
che si tratta di precisare.
L’ambiguità nasce dalla sovrapposizione tra linguistica e logica e, più
precisamente, tra relazioni semio-linguistiche e relazioni logiche. Come
vedremo ora, questa sovrapposizione mantiene una sua opportunità nella
comprensione delle relazioni semiotiche, ma, se non viene chiarita, porta a
tutta una serie di forzature nell’assegnare alle strutture della significazione uno
statuto logico. Già Hjelmslev accostava alcune funzioni linguistiche quali la
determinazione, l’interdipendenza, la relazione e la correlazione a strumenti
logici quali l’implicazione, l’equivalenza, la congiunzione e la disgiunzione, e
stabiliva ad esempio un’analogia tra la funzione di determinazione, che
stabilisce il rapporto tra una costante e una variabile all’interno delle lingue, e
la relazione tra condizione necessaria e sufficiente così com’è prevista
nell’implicazione logica. Greimas opera tutta una serie di accostamenti simili
riguardanti le relazioni di contrarietà, contraddizione e implicazione del
quadrato semiotico e i programmi narrativi di congiunzione e disgiunzione: gli
stessi nomi scelti per le sue relazioni semiotiche sono identici a quelli
provenienti dalla logica, e non si tratta di una scelta casuale, anche se, con il
senno del poi, non la si può certo definire felice.
Perché l’analogia non deve sfociare in identità:5 nel calcolo dei predicati,
come in quello delle proposizioni, che sono alla base di ogni logica
formalizzata, le costanti logiche sono infatti simboli sincatego-rematici con
valore di connettivi sintattici, il cui unico aspetto semantico è dato dalla tavola
di verità corrispondente a ciascun connettivo. Non solo il valore vero-
funzionale dei connettivi non è adeguato alla struttura semantica che è
costituiva delle relazioni semio-linguistiche, ma è i) la struttura dei sistemi
semio-linguistici a essere irriducibile a forme di relazione di tipo logico, ed è
ii) la nozione stessa di valore a differire in natura da una sua interpretazione
vero-funzionale, dal momento che essa rimanda alla natura posizionale, e cioè
topologica e relazionale, che il concetto di valore aveva in Saussure (cfr.
supra, 1.3).
Proprio Hjelmslev, e cioè il linguista e semiotico da sempre più attento ai
rapporti con la logica, ci consente di fare chiarezza su questi due punti
fondamentali e svelare così il senso stesso del nostro percorso.
1°. Il sistema linguistico non è costruito come un sistema logico-matematico di opposizioni tra
termini positivi e termini negativi. Il sistema linguistico è libero in rapporto al sistema logico che gli
corrisponde. Esso può essere orientato differentemente sull’asse del sistema logico, e le opposizioni
che contrae sono sottomesse alla legge di partecipazione: non vi è opposizione tra A e non-A, vi sono
opposizioni tra A da una parte e A+non-A dall’altra. La scoperta non ha nulla di sorprendente poiché
dalle ricerche di Lévy-Bruhl sappiamo che il linguaggio porta l’impronta di una mentalità prelogica.6
2°. Il principio che governa la struttura del sistema è di ordine estensionale e non di ordine
intensionale. I termini del sistema […] sono ordinati secondo l’estensione rispettiva dei concetti
espressi e non secondo il contenuto di tali concetti. (CC, p. 188, corsivi di Hjelmslev)

Occupiamoci innanzi tutto del punto 1°. Hjelmslev mostra con grande forza
l’irriducibilità dei sistemi semio-linguistici ai sistemi logici, dal momento che i
primi presentano una forma di relazione partecipativa (A VS A+non-A) e non
esclusiva (A VS non-A), qual è quella che caratterizza invece i sistemi logici.
Per questo, per Hjelmslev i sistemi semio-linguistici sono prelogici. Tuttavia,
l’opposizione hjelmsleviana tra prelogica (partecipativa) e logica (esclusiva) è
tutt’altro che manichea. Le due dimensioni possono infatti essere concepite
come diramazioni di un unico sistema di base, che Hjelmslev chiama
sublogico, che accoglie l’intero campo delle forme di relazione (partecipative
ed esclusive), che si realizzano poi diversamente in ciascuno dei sistemi
derivati:
Il principio strutturale che governa il sistema linguistico […] è prelogico per definizione. La relazione
tra due oggetti può essere concepita attraverso un sistema di opposizioni logico-matematiche o
attraverso un sistema di opposizioni partecipative. Ora, soltanto l’ultimo tipo di sistema ricopre i fatti
del linguaggio e ne permette l’immediata descrizione. Sarebbe tuttavia possibile ricondurre il sistema
della logica formale e quello della lingua a un principio comune che potremmo chiamare sistema
sublogico. Il sistema sublogico sta alla base del sistema logico e del sistema prelogico allo stesso
tempo. (CC, p. 214)

Dal momento che nelle lingue si trovano concretizzate anche opposizioni di


tipo esclusivo, i sistemi semio-linguistici per Hjelmslev partecipano allo stesso
tempo del logico e del prelogico, venendo a corrispondere con l’intero sistema
sublogico. La stessa opposizione tra logico e prelogico è infatti di tipo
partecipativo, dal momento che il sistema prelogico (partecipativo) è in grado
di includere al suo interno un sistema logico (esclusivo).
Dal momento che la partecipazione abbraccia l’esclusione come una variante possibile, e non
inversamente, ogni opposizione manifestata nell’uso tra due elementi del sistema va interpretata come
una partecipazione possibile ammessa dalla lingua. (SOL, p. 242)

Del resto, si ricorderà come il termine estensivo all’interno di


un’opposizione partecipativa A VS A+non-A potesse anche assumere soltanto
il valore “non-A”, dando così vita a un caso esclusivo come “variante
possibile” di un sistema partecipativo. Proprio per questo sostenevamo (cfr.
supra, 1.4) come la forma di relazione incarnata nel quadrato semiotico fosse
soltanto uno dei casi possibili di un sistema partecipativo.
Ecco allora che i sistemi semio-linguistici non sono solamente prelogici,
bensì più propriamente sublogici, e cioè prelogici+logici. Ma gli stessi sistemi
prelogici rendono conto al proprio interno di opposizioni esclusive di tipo
logico, là dove non è invece vero il contrario. È allora proprio perché un
sistema partecipativo (prelogico) abbraccia al suo interno anche un sistema
esclusivo (logico), che Hjelmslev può dire al contempo che i sistemi semio-
linguistici sono prelogici (partecipativi) e che i sistemi semio-linguistici sono
sublogici (partecipativi e esclusivi), con un’ambiguità che è tale soltanto se
non si capisce la natura tensiva della correlazione. Là dove “logico” è infatti un
termine intensivo (A), “prelogico” è invece un termine estensivo che vale sia
come termine opposto a logico (valore “non-A”) che come totalità della
categoria stessa (valore “A+non-A”). Al fine di definire senza vaghezza questo
suo secondo valore, in alcuni punti Hjelmslev decide allora di lessicalizzare
diversamente l’universo prelogico chiamandolo sublogico. Per quanto ci
riguarda, faremo nostra questa sua decisione, continuando a tenere presente
però che “sublogico” non è altro che il nome che un sistema prelogico assume
nel momento in cui si considera la sua capacità di rendere conto sia di strutture
partecipative che di strutture esclusive.
Ecco ancora una volta il manifestarsi di una prospettiva integrativa
attraverso la costruzione di una continuità sulla base di una divisione
precedente: non si tratta di costruire opposizioni esclusive rifiutando ed
escludendo dimensioni importanti, quali sono ad esempio quelle proprie
dell’universo del logico, bensì di integrare gli approcci, facendo sempre
partecipare quelli che a prima vista sembrerebbero esclusi (cfr. supra, 1.6). È
per noi l’approccio stesso di una semiotica che si vuole interpretativa e
complessa, che parte sempre dal riconoscimento di diverse buone ragioni.
Possiamo a questo punto occuparci del punto 2°, in cui Hjelmslev diceva
che un sistema semio-linguistico è fondato su un principio di ordine
estensionale. L’estensionalità che è propria dei sistemi sublogici, come sono i
sistemi semio-linguistici, non ha allora nulla a che vedere con l’estensionalità
che è propria dei sistemi logici. Secondo Carnap (1928, 1947) infatti, che
Hjelmslev conosceva e di cui a un certo punto condividerà il percorso di
pensiero,7 l’estensione di un’espressione è ciò a cui quell’espressione si
riferisce. Al contrario, per Hjelmslev l’estensione propria dei sistemi prelogici
e sublogici è un’estensione “spaziale” di tipo topologico, che rimanda alla
nozione di valore in Saussure:
La definizione estensionale è una definizione di valore e dipende esclusivamente dal numero e dal
carattere dei termini con i quali il termine preso in considerazione entra in opposizione. È quindi del
tutto evidente che in un sistema a quattro termini le definizioni saranno diverse che in un sistema a
due termini, sebbene i fatti intensionali siano in parte gli stessi. (CC, pp. 205-206)
La definizione di un caso è determinata dagli altri casi che entrano nel sistema e dal valore
differenziale rispetto a questi altri casi, che costituisce un fatto estensionale. (CC, pp. 188-189)

Nei sistemi sublogici l’estensione non rimanda al riferimento, ma al valore


differenziale: per questo la sua natura non è logica, bensì topologica. Per
questo, per Hjelmslev, sistemi semio-linguistici come i casi si studiano facendo
riferimento al modo in cui essi si determinano reciprocamente, occupando
ciascuno dei domini di una zona interna alla categoria in questione.
Attenendosi al punto di vista intensionale, sarebbe impossibile stilare un elenco universale dei
concetti casuali. […] Ciò che in latino viene chiamato dativo è tutt’altra cosa rispetto a ciò che in
greco porta lo stesso nome: l’ablativo del sanscrito non è l’ablativo del latino. […] Ogni segno
linguistico è definito dal punto di vista estensionale dal suo valore, dal punto di vista intensionale dal
suo significato. A uno stesso significato possono corrispondere valori differenti; ciò che dal punto di
vista intensionale è un unico e medesimo caso, dal punto di vista estensionale è suscettibile di
numerose definizioni differenti. […]
Ciò che costituisce le opposizioni all’interno del sistema non è il rapporto intensionale che si verifica
tra i casi in questione, ma è il loro rapporto estensionale. (CC, pp. 188-189)
Chiarito che “estensionale” ha un senso topologico, ecco dunque un tratto
costitutivo dei sistemi sublogici: i suoi elementi non hanno né designazione
estrinseca né significazione intrinseca, bensì un senso che è esclusivamente di
posizione. L’identità di un elemento di un sistema sublogico è definita da un
valore strutturale, a differenza di qualsiasi altro.
Distinto dal reale e dall’immaginario, non può definirsi né sulla base di realtà preesistenti cui
rinvierebbe e che designerebbe, né sulla base di contenuti immaginari o concettuali che implicherebbe
e che gli conferirebbero un significato. Gli elementi di una struttura non hanno né designazione
estrinseca né significato intrinseco. Come ricorda in modo rigoroso Lévi-Strauss, essi non hanno
null’altro che un senso: un senso che è necessariamente e unicamente di “posizione”. Non si tratta di
un posto in un’estensione reale, né di luoghi in estensioni immaginarie, bensì di posti e di luoghi in
uno spazio puramente strutturale, ossia topologico. (Deleuze, 1973, p. 19)
[Nei sistemi strutturali] non si ha a che fare con “idee” o entità psichiche, e nemmeno con oggetti o
referenti: sono in gioco puri valori emananti dal sistema. I valori sono identificati con ciò che stiamo
chiamando unità culturali, ma sono definibili in termini di pure differenze. Essi non sono neppure
definiti in termini intensionali ma nei termini della loro opposizione ad altre unità del sistema e della
posizione che occupano nel sistema. (Eco, 1975, p. 109)

Possiamo a questo punto rispondere alla nostra domanda iniziale e mostrare


in che cosa le relazioni greimasiane siano logiche e in che cosa invece non lo
siano: i) sono logiche perché sono di tipo esclusivo e non partecipativo; ii) non
sono logiche perché il loro valore è topologico e relazionale e non logico e
vero-funzionale. D’ora in avanti, useremo quindi “logico” nel senso i), a
indicare delle opposizioni semio-linguistiche di tipo esclusivo, mentre
utilizzeremo “logico-formale” per riferirci al senso ii).
Il nostro obiettivo è infatti quello di specificare la struttura prelogica delle
relazioni differenziali semio-linguistiche (3.2, 3.3 e 3.4), da sempre ignorata
nella tradizione semiotica “maggiore”, al fine di integrarla con la loro
articolazione logica (esclusiva) già studiata da Greimas (3.7, 3.8 e 3.9) e
restituire così una visione generale dell’universo sublogico della relazioni
differenziali semio-linguistiche (3.5, 3.6 e 3.10).
Per la stessa ragione al punto ii), è estremamente importante non riportare le
riflessioni che seguiranno a sistemi e modelli di tipo logico-formale, dal
momento che l’eidos dei sistemi semio-linguistici ne differisce in natura, non
essendo di tipo logico, bensì di tipo topologico e morfologico.
Vi è uno scarto irriducibile tra l’eidetica strutturale e la formalità logica. […] La categorialità
strutturale rinvia a un’intuizione topologica e a una sorta di morfologia elementare. Le relazioni sono
delle relazioni significanti che riguardano la forma del contenuto. […] Ogni struttura è, dapprima e
innanzi tutto, un sistema strutturalmente stabile e (auto) regolato di connessioni tra valori posizionali
ed esiste solo in quanto tale. Questo dato di fatto determinante – questo “a priori” – deve presiedere a
nostro avviso a qualunque volontà di teorizzazione in materia. […] Ora, i formalismi di tipo logico
(logica formale elementare, logiche modali e intensionali, logica combinatoria, algebra delle relazioni,
automi, categorie, tópoi ecc.) sono quindi inadatti a priori alla formalizzazione strutturale. (Petitot,
1985, pp. 63-64)

3.3. Contraddizione e incompossibilità

Su questa base, possiamo ritornare alle relazioni differenziali interne al


quadrato e occuparci di quella di contraddizione. Lo statuto di questa relazione
è costitutivamente ambiguo, perché Greimas la usa sincreticamente in almeno
due sensi differenti: i) come opposizione privativa (dove “non-A” è l’assenza
del tratto A); ii) come contraddizione (dove “non-A” è la negazione del
termine A). Se davvero il quadrato avesse un’essenza non logico-formale
(“non-logica” nel senso ii) di cui sopra), il secondo uso sarebbe di fatto
impossibile, perché “A” non potrebbe mai essere un termine che viene negato,
dal momento che è la sua stessa identità di termine a dipendere dal rapporto
con “non-A”, che non potrebbe quindi mai esserne la negazione, bensì la
determinazione della sua identità. Risolveremo questo problema in seguito,
quando ci occuperemo più da vicino della forma di relazione del quadrato
semiotico. Interpretiamo ora questa relazione come una normale
contraddizione e vediamo di capire quale statuto essa possa assumere
all’interno di un universo differenziale di tipo prelogico, in senso
hjelmsleviano.
Ora, Leibniz aveva a lungo lavorato proprio su di una reinterpretazione del
concetto logico di contraddizione in una direzione che è a nostro parere
perfetta per una semiotica di tipo enciclopedico. Deleuze (1988) riassume così
il portato di questa rivoluzione leibniziana e la sua reinterpretazione della
relazione di contraddizione:
Adamo ha peccato, ma il suo contrario, ossia Adamo non peccatore, non è impossibile o
contraddittorio in sé, come lo sarebbe “2+2 non fa 4”. […] In effetti, tra i due Adami – Adamo
peccatore e Adamo non peccatore – esiste un rapporto di contraddizione. Ma bisogna far intervenire
un altro tipo di relazione per capire perché Adamo non peccatore non sia contraddittorio in sé.
Quest’altra relazione non si instaura tra i due Adami, ma tra Adamo non peccatore e il mondo in cui
Adamo ha peccato. […] E deve esistere allora un rapporto di esclusione originale tra Adamo non
peccatore e il mondo in cui Adamo ha peccato. Adamo non peccatore include insomma un altro
mondo. E tra i due mondi vi è un rapporto diverso da quello di contraddizione (benché vi sia
contraddizione locale tra i soggetti che lo compongono, presi a due a due). […] Questo nuovo
rapporto Leibniz lo chiama “incompossibilità” e lo definisce un grande mistero nascosto
nell’intelletto di Dio. […] Couturat e Gueroult ritengono che l’incompossibilità implichi una
negazione o un’opposizione, cosa inaccettabile agli occhi di Leibniz. […] Per quanto ci riguarda, ci
sembra invece che l’incompossibilità sia per Leibniz una relazione originale irriducibile a qualsiasi
forma di contraddizione. È una differenza, e non una negazione. (Deleuze, 1988, pp. 98-99)
Ecco esattamente lo statuto che a nostro parere la relazione di
contraddizione assume all’interno di un sistema prelogico qual è quello proprio
dell’enciclopedia: i) una differenza e non una negazione; ii)
un’incompossibilità tra mondi e non una contraddizione tra termini. Perché
allora questa incompossibilità tra mondi ci pare molto più adeguata di una
semplice relazione di contraddizione per l’universo semiotico del senso e per
la sua struttura enciclopedica?
Com’è noto, la teoria dei mondi possibili è stata non solo utilizzata in logica
modale e in semiotica narrativa, costituendo uno dei più importanti punti di
dibattito tra semiotica e filosofia analitica del linguaggio (cfr. Santambrogio,
1992), ma ha rappresentato in fisica il tentativo più importante di coniugare
relatività e meccanica quantistica. “L’interpretazione a molti mondi” di Everett
(1957)8 sostiene infatti che a ogni atto di misurazione di un sistema fisico –
misurazione che determina la natura del sistema stesso (meccanica dei quanti)
– corrisponde il suo scindersi in una miriade di mondi paralleli incompossibili
tra loro, uno per ogni possibile risultato del processo di misurazione. Questi
mondi coesistono, come nel Giardino dei sentieri che si biforcano di Borges
(1956), così che l’insieme “sistema fisico-osservatore” conterrebbe un’enorme
serie di ramificazioni in diverse “realtà percepite” che sono state chiamate
appunto “Molti Mondi”. L’insieme “sistema fisico-osservatore” è cioè per
Everett un rizoma che si ramifica in mondi alternativi incompossibili tra loro,
che dipendono dal processo di misurazione dell’osservatore.
Ora, per quando ci riguarda, non sappiamo ovviamente se il mondo fisico
funzioni davvero nel modo descritto da Everett, di sicuro ci pare però che
quello del senso funzioni esattamente in questa maniera. Non è infatti un caso
che nell’Antiporfirio, Eco presenti l’enciclopedia esattamente in questo modo,
e cioè come un “giardino dei sentieri che si biforcano” di Borges (rizoma). In
quanto “insieme registrato del già detto”, “libreria delle librerie”, “grande
archivio audiovisivo della cultura”, l’enciclopedia contiene infatti al suo
interno versioni del mondo incompossibili tra loro, interpretazioni che dicono
“A” e interpretazioni che dicono “non-A” su di uno stesso oggetto. Per questo
l’enciclopedia è un oggetto teorico eideticamente adeguato al senso, e cioè
all’oggetto della semiotica, dal momento che la semiotica non deve di fatto
spiegare il mondo, bensì i sensi e le versioni che ne vengono date, che possono
benissimo essere contraddittorie tra loro. La semiotica non studia cioè “le
cose”, ma le n versioni possibili che se ne possono dare, e queste versioni
possono benissimo essere incompossibili tra loro.
Non occorre davvero fare grandi esempi in questo senso, basta
semplicemente pensare a come lo stesso evento sia ricostruito da un giornale di
sinistra in un modo completamente incompossibile con la ricostruzione dello
stesso evento data da un giornale di destra, o a come le stesse teorie
scientifiche siano spesso in contraddizione locale, tanto che ci sono interi
domini del sapere che restituiscono versioni di “mondi” incompossibili tra
loro.9 Queste versioni incompossibili coesistono allora nello spazio aperto
dell’enciclopedia in quanto “libreria delle librerie”, la cui struttura è
esattamente quella di un rizoma che si ramifica in mondi alternativi
incompossibili tra loro, che dipendono da quel processo di “misurazione
dell’osservatore” che si è altrove chiamato interpretazione.
In conclusione, in un universo di senso di tipo prelogico, i) la relazioni
differenziale di incompossibilità tra mondi sostituisce quella di contraddizione
tra termini e ii) la coesistenza di mondi incompossibili definisce ciò che Eco
chiamava la “contraddittorietà dell’enciclopedia”, forma di relazione capace di
rendere conto dell’irriducibile compresenza di versioni alternative e
incompossibili di uno stesso elemento=x e dei suoi effetti di senso.

3.4. Termini neutri e termini complessi, entità determinate ed entità


indeterminate

Al fine di comprendere il modo in cui i così detti “meta termini”, e cioè il


“termine complesso” (ermafrodita) e il “termine neutro” (angelo), possano
essere interpretati all’interno di un universo prelogico, è necessario integrare
ancora una volta la prospettiva di Hjelmslev con quella di Peirce. Hjelmslev
mostrava infatti come i sistemi prelogici fossero di tipo partecipativo, e cioè
fossero fondati su una o più opposizioni tra zone precise (intensive) e zone
vaghe (estensive). Peirce è in grado di rilanciare questa distinzione con la sua
teoria delle entità determinate e indeterminate.
In alcuni suoi saggi fondamentali, Peirce fa innanzi tutto questo esempio e
dice: ammettiamo che il mio pennino sia guasto e mi cada una macchia
d’inchiostro su un foglio. Se io recinto la zona macchiata creo una sorta di
micromondo che è comunque enormemente più ricco di quello normalmente
indagato dalla nostra logica.10
Figura 2. La macchia d’inchiostro peirciana (CP 4.127)

Siano infatti P le proprietà divenute predicabili dopo la sgocciolatura


d’inchiostro sul foglio di carta e siano invece S gli stati di cose, o punti, propri
del micromondo M. “Per ogni punto dell’area recintata” (CP 4.127), S potrà
allora essere P (“macchiato”), non-P (“non-macchiato”), oppure S potrà non
essere “suscettibile né della determinazione P, né della determinazione non-P”
(MS 399, p. 344r). All’interno dell’area recintata esisteranno dunque degli stati
di cose incapaci di assumere qualsiasi tipo di forma determinata. In questo
modo, la predicazione della proprietà P potrà essere vera, potrà essere falsa,
oppure “non sarà di principio possibile determinare se il predicato P possa
essere vero o falso quando viene applicato a certi tipi di stati di cose”.11
Quest’ultima possibilità definisce allora le caratteristiche proprie di uno stato
di cose indecidibile, in quanto incapace di divenire oggetto di predicazione di
qualsiasi tipo di proprietà determinata: “in questo modo, se c’è una macchia su
un foglio, allora ogni punto del foglio è non-macchiato o macchiato. Tuttavia
ci sono punti sulla linea di frontiera e questi punti non sono suscettibili né di
essere non-macchiati né di essere macchiati” (MS 399, cfr. anche CP 4.127).
Esiste dunque una linea di confine del tutto priva di qualità determinate, una
linea di frontiera sulla quale è impossibile decidere che viola il principio logico
secondo cui “non si dà un terzo”. È infatti noto come il principio del terzo
escluso neghi la possibilità di un valore intermedio tra il vero e il falso.
Tuttavia, se sui punti di frontiera non è però possibile decidere, ci troviamo
proprio sul limite tra il vero e il falso, sul confine tra i valori in rapporto, tanto
che secondo Peirce il principio del terzo escluso deve venire sospeso, dal
momento che, data la proposizione “S è P”, essa non risulterà mai essere né
vera (V) né falsa (F), ma indecidibile (L).
Tutto questo non è però sufficiente. Peirce si chiede infatti anche che cosa
succede qualora si desideri poter sempre decidere, che cosa succede cioè
qualora si desideri determinare ulteriormente lo stato di cose al punto di
frontiera. In più punti (CP 5.336, 4.127), Peirce è allora molto chiaro: i punti
sulla frontiera tra la zona macchiata e quella non macchiata sono al contempo
“macchiati e non-macchiati” (“P e non-P”); per cui, data la proposizione “S è
P”, essa risulterà essere sempre “vera e falsa” a un tempo, in una violazione del
principio di non-contraddizione. I punti di frontiera non sono dunque soggetti a
entrambi i principi regolatori che sono propri di una logica “classica”. Sui
punti-limite non solo non siamo su nessuna delle due zone in rapporto, ma
siamo anche sempre su entrambe a un tempo: “In breve il principio del terzo
escluso, o quello di non-contraddizione, devono essere considerati come violati
qui” (NEM III, p. 747).
Proprio al fine di trattare adeguatamente tali entità, Peirce sviluppò un
sistema di logica triadica, che introduceva un valore-limite tra il vero e il falso
e un principio di indecidibilità.
La logica triadica è quella logica che, sebbene non rifiuti interamente il principio del terzo escluso che
rimane comunque valido per entità determinate, nondimeno riconosce che, data la proposizione “S è
P”, essa potrà essere vera, potrà essere falsa, oppure questa proposizione potrà possedere un’inferiore
modalità d’essere tale che essa non possa mai essere né “determinatamente-P”, né “determinatamente
non-P”, ma solamente il limite tra P e non-P. Siano V, F e L i valori propri di questo sistema, V e F
corrispondono al vero e al falso. L è un valore limite tra il vero e il falso. (MS 399)

Come nota giustamente Parker (1992, p. 136): “Di un sistema di questo tipo
c’è bisogno in ogni analisi che abbia a che fare con entità oggettivamente
indeterminate quali potenzialità, possibilità, continuità, universali o qualsiasi
altro tipo di generali”.12
Quell’“oggettivamente indeterminate” incarna allora l’essenza stessa del
realismo peirciano, che consiste proprio nell’affermare la realtà delle entità
indeterminate.
La Potenzialità (o la possibilità reale) è l’assenza di Determinazione (nell’usuale senso lato) non in un
senso meramente negativo, bensì in quanto capacità positiva di essere Affermata e Negata; non uno
stato d’ignoranza, uno stato d’essere. (MS 277)

In più punti, Peirce mostra infatti come l’indeterminato possa assumere la


forma logica della generalità, quella metafisica della possibilità e quella
matematica della continuità. Queste tre differenti determinazioni non sono
dunque entità ontologicamente distinte, ma sono piuttosto come gli attributi, o
le forme di manifestazione, di una stessa “modalità d’essere, tale che essa non
possa mai essere ‘determinatamente-P’ né ‘determinatamente non-P’” (MS
399). L’indeterminato possiede dunque il modo di essere della possibilità, la
forma logica della generalità e la struttura matematico-topologica del continuo
(cfr. NEM III, pp. XV-XVIII, cfr. anche Putnam, 1991, pp. 49-54). Secondo
Peirce tutte queste modalità d’essere sono infatti perfettamente reali, anche se
non sono affatto attuali né tanto meno esistenti. Infatti, proprio in quanto “la
realtà e l’esistenza differiscono” (CP 6.349), Peirce riserva ai termini contrari
di individualità (VS generalità), attualità (VS possibilità) e discretezza (VS
continuità) il compito di strutturare l’esistenza, definendone così gli attributi o
le forme di manifestazione.
Per Peirce qualcosa è esistente solo se è un’attualità (qualcosa di attualizzato) e qualcosa è attuale
solo se è totalmente determinata, ossia se è un’entità individuale. Tutto l’esistente è attuale e
individuale e viceversa. (Mameli, 1995, pp. 238-239)
Soltanto ciò che è discreto e indipendente esiste attualmente; e solamente ciò che esiste attualmente è
soggetto senza condizioni ai principi di contraddizione e terzo escluso. (Noble, 1989, p. 161)

Da una parte troviamo dunque le entità indeterminate, reali, regolate dai


nuovi utensili introdotti dalla logica triadica (valore di verità indeterminato e
principio di indecidibilità). Queste entità hanno il modo di essere della
possibilità, la forma logica della generalità e la struttura matematica del
continuo. Dall’altra parte troviamo invece le entità determinate, esistenti,
regolate dai principi di non contraddizione e terzo escluso. Queste entità hanno
il modo di essere dell’attualità, la forma logica dell’individualità e la struttura
matematica del discreto.
Per lungo tempo ho avuto la sensazione dell’esistenza di un serio difetto all’interno della logica
esistente, dal momento che essa non si prende cura del limite tra due regioni. Io non sostengo che il
principio del terzo escluso sia completamente falso, ma sostengo però che all’interno di qualsiasi
campo di pensiero esisterà sempre un terreno intermedio tra l’asserzione positiva e la negazione
positiva che è reale come queste ultime anche se lo è in modo differente. Sono solo i matematici a
rendersi conto di questo aspetto, visto che indagano questo limite come se fosse una cava di concetti
potentissimi. (Lettera a William James, 26.02.1909, pp. 21-22)

Per Peirce le entità indeterminate non sono dunque tali perché noi non siamo
ancora in grado di assegnare loro un preciso valore di verità: in questo caso
l’indeterminato dipenderebbe semplicemente da un certo stato della nostra
conoscenza. Al contrario, l’indeterminatezza è una parte costitutiva dei sistemi
semiotici:13 dato qualsiasi sistema a n termini, per Peirce esisteranno cioè
sempre delle zone indeterminate interne al sistema che non potranno essere
trattate con la logica che è propria delle altre parti del sistema, dal momento
che esse differiscono in natura rispetto a quelle determinate (Peirce parlava a
questo proposito di “un’inferiore modalità d’essere”). Per questo qualsiasi
logica diadica che proceda in maniera binaria non sarà per sua stessa essenza
in grado di trattare adeguatamente delle entità di questo tipo. Per questo per
Peirce i sistemi semiotici sono costitutivamente triadici, perché un sistema
triadico può invece rendere conto anche delle entità determinate, oltre che di
quelle indeterminate. L’indeterminato è cioè in qualche modo interno al
sistema, ma non risponde alla sua logica, un po’ come i casseurs delle periferie
sono interni alla città, ma non rispondono alle sue leggi e alle sue regole. È la
periferia del sistema, il limite del sistema, il bordo del sistema attraverso il
quale si esce dal sistema stesso.
Ecco allora che per Peirce all’interno di qualsiasi sistema esisteranno sempre
delle zone “di frontiera” di questo tipo (indeterminate), che lui chiama Terzità.
È il modo propriamente peirciano per farci rilanciare “alla Peirce”14 l’idea
hjelmsleviana: come per Hjelmslev qualsiasi sistema semio-linguistico è
organizzato sull’opposizione tra zone precise e zone vaghe, occupate da
termini intensivi ed estensivi, così per Peirce qualsiasi sistema semiotico è
organizzato sulla dialettica tra zone determinate e zone indeterminate, di cui
solo le prime sono riconducibili ai principi classici della logica (terzo escluso e
non-contraddizione).
Possiamo a questo punto ritornare al problema dei termini neutri e dei
termini complessi, perché proprio il quadrato di Greimas è un sistema
semiotico che manifesta benissimo i) la compresenza di entità determinate e
indeterminate nel senso di Peirce, ii) il differente modo in cui queste entità
vengono trattate all’interno di una teoria prelogica di tipo triadico e
interpretativo (peirciano-hjelmsleviana) e in una teoria strutturale diadica e
logica (nel senso di “fondata su opposizioni di tipo esclusivo”, come precisato
in 3.2).
Il quadrato articola infatti un’opposizione qualitativa tra termini polari
“maschile VS femminile”, la sua negazione che genera i rispettivi termini
contraddittori (“non-maschile” e “non-femminile”) e qualcosa d’altro di molto
particolare, che è terzo rispetto a tutte queste opposizioni semantiche.
L’opposizione tra i termini determinati all’interno di un sistema locale
(“maschile”, “femminile”, “non-maschile”, “non-femminile”) genera infatti
delle posizioni paradossali, ma non per questo non reali, che si pongono al
limite dell’opposizione stessa, sulla frontiera del sistema. L’unione del
maschile e del femminile genera ad esempio l’ermafrodita, che è qualcosa che
ha in sé i tratti sia del maschile che del femminile; mentre l’unione del non-
maschile e del nonfemminile genera invece l’angelo, che non è né maschile né
femminile.
Eccoci allora esattamente di fronte a quello che diceva Peirce. Dato un
sistema semiotico, esisteranno sempre delle zone intermedie che non sono
trattabili diadicamente e che non sono soggette ai principi di non-
contraddizione e terzo escluso: l’ermafrodita è sia maschile che femminile (in
una violazione del principio di non-contraddizione); l’angelo non è né
maschile né femminile (in una violazione di quello di terzo escluso).
Ermafrodita e angelo sono il limite della categoria della sessualità, il bordo
del sistema che risponde a una logica altra rispetto a quella che regola le sue
rispettive forme determinate (“maschile” e “femminile” in questo caso).
Non è tuttavia questo il modo in cui questi termini “speciali” sono
interpretati all’interno della logica del quadrato semiotico. Peirce pone infatti
una differenza di natura tra l’indeterminato e il determinato, tra le relazioni
triadiche e le relazioni diadiche e, come abbiamo detto, è possibile generare
relazioni diadiche a partire da relazioni triadiche, ma non è però possibile fare
il contrario. Ora, in Greimas è esattamente l’opposto: i termini “triadici”
(termine neutro e termine complesso) vengono invece generati a partire dalle
relazioni diadiche che sono costitutive del quadrato semiotico. E questo con
alcune importanti conseguenze. Come spiegano benissimo Marsciani e Zinna:
Quale statuto dobbiamo assegnare, nel caso del micro-universo semantico della sessualità, a termini
come “Ermafrodita” e “Angelo”? Essi non paiono determinati dallo stesso piano relazionale dei
termini come “Uomo” o “Donna”; non sembrano cioè partecipare direttamente delle relazioni di
contraddizione e contrarietà, bensì di una sorta di dimensione superiore. Ora, si dirà, “Ermafrodita” è
un termine complesso e “Angelo” un termine neutro; altrimenti detto, essi rappresentano gli
investimenti semantici dell’asse dei contrari, nel primo caso, e dell’asse dei subcontrari nel secondo;
in altre parole ancora, “Ermafrodita” è la denominazione specifica che in quel determinato universo
semantico viene ad assumere la categoria stessa (la /sessualità/) e “Angelo” la denominazione
attribuita alla stessa categoria in quanto negata. […] Poiché la categoria semantica è sempre il luogo
della sintesi tra una “congiunzione” e una “disgiunzione” dei termini semici che la articolano, tra un
loro partecipare della stessa natura e dimensione e un loro opporsi in quanto contrari, l’investimento
semantico della categoria in quanto tale, tramite la produzione di un termine complesso, consente la
manifestazione di questa stessa duplicità, consente cioè al discorso di significare la copresenza e la
simultaneità di due termini contrari senza uscire per questo dall’orizzonte paradigmatico riconosciuto
o posto, senza perdere insomma la possibilità strutturale di attribuire valore semiotico a quella
determinata occorrenza: “Ermafrodita” viene compreso e descritto come inserito nello stesso quadro
sistematico cui partecipano anche “Uomo” e “Donna” e da questo stesso quadro il suo valore
semantico viene determinato. Le stesse considerazioni vanno fatte per quanto riguarda il termine
neutro. (Marsciani e Zinna, 1991, p. 50, corsivi nostri)

Si prenda questa teoria dove i termini indeterminati possono venire generati


a partire da quelli determinati senza uscire da uno stesso quadro sistematico, la
si rovesci, e si otterrà la posizione peirciana. Peirce credeva infatti che queste
posizioni “terze”, sulla frontiera tra le posizioni semantiche polari, non siano
affatto inserite “nello stesso quadro sistematico cui partecipano anche ‘uomo’ e
‘donna’”, bensì rappresentino la linea di fuga attraverso la quale si esce
dall’opposizione stessa e la si rende non pertinente, uscendo “dall’orizzonte
paradigmatico riconosciuto o posto” che appartiene alla categoria. Peirce aveva
un bellissimo modo di esprimere questo concetto quando diceva che il termine
terzo tra i due in opposizione non solo non era riducibile alla stessa logica che
era propria degli altri (irriducibilità delle triadi a coppie di diadi), ma
rappresentava sempre una ramificazione che faceva uscire dal sistema: “ecco
allora ciò che intendiamo con l’irriducibilità del Terzo, o mediazione, o
ramificazione” (CP 1.347).
Ben lungi dall’essere la compresenza dei tratti differenziali in rapporto,
ermafrodita e angelo rappresentano il punto in cui quella differenza si annulla
e quel tipo di rapporto non è più pertinente. Essi sono cioè il limite della
categoria della sessualità, il bordo del sistema attraverso cui si esce dal
sistema, che viene così reso non pertinente. E il linguaggio ad esempio ce lo
insegna: quando si dice che “si sta parlando del sesso degli angeli”, si vuole
dire che la categoria della sessualità non è pertinente per l’elemento
considerato. In un mondo di tutti ermafroditi, la differenza tra maschile e
femminile verrebbe annullata, non esisterebbe più e non sarebbe per nulla
pertinente.
Per questo un linguista troppo spesso dimenticato, a cui ci ispiriamo per la
nostra concezione prelogica delle posizioni neutre e complesse, e cioè Brøndal,
pensava al termine neutro come contrapposto all’articolazione stessa della
categoria lungo l’asse della polarità, e definiva la forma neutra in questi
termini:
Forma che non è né positiva né negativa, e la definizione della quale suppone dunque il non impiego
della specie di relazione in questione. Che un complesso di relazioni (per esempio la definizione di
una preposizione) sia non simmetrico15 vuol dunque dire che la specie relazionale di simmetria, o
l’opposizione simmetrico/asimmetrico, non va qui considerata. (Brøndal, 1950, p. 71)

La neutralizzazione, così come la complessificazione, rappresenta la linea di


fuga dall’opposizione in atto, la sospensione della sua stessa pertinenza. Per
questo posizioni quali quelle dell’ermafrodita e dell’angelo rappresentano “per
eccellenza il germe e il luogo delle decisioni rivoluzionarie, la coesistenza o
l’inseparabilità di ciò che il sistema coniuga e di quel che non cessa di
sfuggirgli seguendo linee di fuga anch’esse connettibili”.16 Su queste posizioni
di frontiera si esce cioè dal sistema pur restandone in qualche modo connessi.
“Termine neutro” e “termine complesso” sono allora i nomi che caratterizzano
solamente ciò che il sistema riesce a coniugare di questo tipo di entità, mentre
lasciano completamente nell’ombra ciò che al sistema non cessa di sfuggire
seguendo la linea di fuga dal sistema stesso, ma che si può comunque indagare
in maniera rigorosa su un altro livello, e cioè su quel livello triadico che è
proprio delle entità indeterminate di confine.
La posizione semantica dell’ermafrodita ad esempio non definisce infatti
una semplice compresenza dei tratti del maschile e del femminile, bensì il
punto di annullamento della loro stessa differenza, che consente di uscire dalla
categoria della sessualità. Il brunch (breakfast+lunch) non è l’unione della
colazione e del pranzo, né presenta affatto entrambi i tratti distintivi
dell’opposizione semica in gioco, tanto che non consiste affatto nel fare e la
colazione e il pranzo. Il brunch è invece la linea di fuga dalla normale sintassi
dei pasti, tanto che tiene insieme cose molto eterogenee tipo “cappuccino più
hamburger” o “latte macchiato più hot dog” e, almeno tra i giovani, viene di
norma fatto dopo serate alcoliche in cui ci si alza molto tardi al mattino. Si
direbbe che tra i due termini polari si costruisce un concatenamento, e cioè una
relazione differenziale in cui scompare la discernibilità dei termini in rapporto,
all’interno di un sistema che cambia parzialmente di natura nel momento in cui
ibrida le sue ripartizioni (cfr. infra, 3.5)
Ecco esattamente delle entità di confine che rappresentano un terzo termine
tra le opposizioni in atto. Queste entità sono interne al sistema (l’ermafrodita è
l’unione del maschile e del femminile), ma non rispondono alla stessa logica
che regola la categoria, tanto che servono esattamente a neutralizzarne la
pertinenza, a uscire dalla categoria. Per questo le Terzità non sono riducibili
alla stessa logica che era propria delle entità determinate, non possono venire
generate a partire dai termini determinati da cui differiscono in natura e
rappresentano una ramificazione che fa uscire dal sistema. Al contrario, tutte le
teorie diadiche generano i termini indeterminati a partire dai termini
determinati e non riconoscono una differenza di natura all’indeterminato, che
viene definito sempre a partire dai termini determinati.
Secondo Peirce infatti, i punti di frontiera che definiscono il limite tra la
zona macchiata (P) e quella non macchiata (non-P) non mescolano né
annullano le proprietà P in rapporto, ma sono piuttosto come la sospensione
della loro differenza, che le fa comunicare in un luogo altro, che Peirce chiama
“limite”, rispetto a quello delle loro relative forme determinate (“P” e “non-
P”). Utilizzando la terminologia hjelmsleviana al di là degli orizzonti
hjelmsleviani, potremmo dire che l’indeterminato è prelogico, nel senso di
“irriducibile ai principi della logica classica”. Di sicuro, per Peirce raggiungere
i punti-frontiera è come passare da un lato all’altro dello specchio: il salto è
qualitativo e comporta una differenza di natura irriducibile alle precedenti
determinazioni logiche.
Cerchiamo allora di capire perché le entità indeterminate individuate da
Peirce – generalità, possibilità, continuità – non siano soggette ai principi
diadici della logica classica, bensì rimandino a una logica “altra” che ne
differisce in natura. Per la generalità è molto semplice. Un uomo in generale è
alto 1 metro e 83? È indecidibile, può esserlo, e infatti la generalità possiede il
modo di essere della possibilità. Al contrario io, che sono un individuo
particolare ed esisto attualmente, sono alto 1,83m; per cui, data la proposizione
“S è P” (Claudio Paolucci è alto 1,83m), essa avrà un valore di verità
determinato (in questo caso: “vero”). Per la possibilità è esattamente la stessa
cosa:
Le possibilità non sono soggette al principio di non-contraddizione, dal momento che ciò che può
essere può anche non essere. (CP 4.640)
Se qualcuno dice “può piovere domani”, noi dobbiamo intendere “possibilmente pioverà e
possibilmente non pioverà”. È indeterminato quale delle due affermazioni sia vera. La possibilità è
sempre indeterminata. (Noble, 1989, pp. 168-169, cfr. anche CP 6.182)

Come già notava Quine (1953, p. 5):


Prendiamo, per esempio, il possibile signore grasso nel vano di quella porta; e, ancora, il possibile
signore calvo nello stesso vano della stessa porta. Sono lo stesso possibile signore, o due diversi
signori possibili? Come lo si può decidere? Quanti signori possibili ci sono nel vano di quella porta?
Ce ne sono più di possibili magri o di possibili grassi? Quanti di essi sono uguali? E se fossero uguali
si ridurrebbero a uno solo? Possono mai essere uguali due cose possibili? E questo equivale forse a
dire che è impossibile che due cose siano uguali? O, per finire, il concetto di identità è semplicemente
inapplicabile a dei possibili non realizzati? Ma che significato potrebbe avere parlare di entità di cui
non si può dire sensatamente che siano identiche a se stesse e distinte l’una dall’altra?

Gli elementi indeterminati nel senso di Peirce sono dunque elementi senza
identità, di cui si può dire che sono e non sono allo stesso tempo:
È dunque assurdo parlare di un’identità delle cose possibili. Una possibilità, essendo essenzialmente
generale nella sua natura, non possiede un’identità individuale, o meglio, come normalmente si dice
nella terminologia della logica, non possiede un’identità numerica. (NEM IV, p. 7, cfr. p. 328)

Come noterà poi anche Quine, sebbene con intenti del tutto opposti a quelli
di Peirce,17 entità che posseggono il modo di essere della possibilità non sono
identiche a se stesse né distinte l’una dall’altra, per questo non sono neppure
numericamente individuabili. Si tratta cioè di elementi che non posseggono
identità individuale, in quanto non sono neppure individui distinti.
Quando diciamo che tra tutti i possibili lanci di un paio di dadi una trentaseiesima parte darà 6 come
risultato, l’insieme dei possibili lanci che non sono stati effettuati è un insieme in cui le unità
individuali non hanno identità distinta. […] Il possibile è necessariamente generale e nessun numero
di specificazioni può ridurre una classe generale di possibilità a un caso individuale. È solamente
l’attualità, la forza dell’esistenza, che fa esplodere la fluidità del generale e produce un’unità discreta.
[…] È dunque impossibile designare in maniera definita un singolo lancio possibile, e questa
impossibilità non deriva da una nostra incapacità, ma dal fatto che nella loro stessa natura questi lanci
non sono individualmente distinti. (CP 4.172)

Che cosa si deve intendere infatti per “individuo distinto (o discreto)”?


Con individuo io intendo un soggetto del quale ogni predicato sia sempre universalmente vero o
universalmente falso. (NEM III/2: 773) Gli individui devono essere considerati come determinati
sotto ogni rispetto, in maniera tale che il principio del terzo escluso vi si applichi sempre. (NEM III,
p. 763)

A differenza della possibilità, che potrà in ogni caso essere contraddittoria o


indecidibile, l’individualità, in quanto determinata sotto ogni rispetto, sarà
invece sempre identica a se stessa. Per questo sarà sempre individuabile senza
alcuna ambiguità: “un individuo, in quanto attualmente determinato sotto ogni
rispetto, è un termine discreto nella sua stessa natura. Esso possiede una
definitezza d’essere che lo distingue da ogni altra unità” (MS 137).
In CP 3.611, Peirce nota infatti come il termine latino individuum compaia
per la prima volta nel lessico della logica in una traduzione boeziana del greco
atomon, l’indivisibile, ovvero ciò che non può essere ulteriormente ridotto
attraverso un procedimento di analisi (cfr. anche CP 3.94). Un individuo è
dunque un in-dividuum, qualcosa di non-diviso, di uno in se stesso, ed è
proprio questa sua struttura atomica a renderlo un elemento essenzialmente
discreto, e cioè distinto da ogni altro ente che pur partecipi della sua stessa
natura. In matematica, il punto è ad esempio un elemento primitivo di questo
tipo: indiviso in se stesso in quanto unità atomica adimensionale, il punto è
infatti al contempo diviso da ogni altro punto, in quanto sempre individuabile
attraverso un sistema di quantità assegnabili quali sono ad esempio i numeri
reali. Proprio in questo senso, Peirce poteva sostenere come la possibilità, che
manca completamente di distinzione individuale, fosse sempre irriducibile al
numero.
Queste considerazioni ci conducono ovviamente alla teoria del continuum di
Peirce, suo esempio preferito di entità indeterminata. Per Peirce:
Il continuum non è un insieme di individui. Se noi applichiamo questo principio alla circonferenza di
un cerchio, non ci sono punti su quella circonferenza. Ci sono solamente dei posti a partire dai quali è
possibile tracciare dei punti. Ogni punto tracciato su un continuum ne spezza la continuità, perché un
punto è una parte che non è a sua volta composta da parti. (NEM III, p. 748)
La vera continuità è, logicamente parlando, assolutamente incompatibile con una designazione
individuale delle sua unità. In un continuum nessun punto ha un’identità individuale. (CP 4.219-
4.220)

Esattamente come il possibile, anche il continuum non è allora composto da


individui distinti. Non è allora un caso se l’elemento componente di una
struttura continua non sia affatto il punto, bensì proprio la possibilità:
In una linea continua non ci sono punti. Questi punti sono pure possibilità. (NEM III, p. 388)
Una linea continua non contiene punti o se volete, dobbiamo dire che questi punti non sono soggetti al
principio del terzo escluso. Il principio del terzo escluso si applica solamente a un individuo, ma i
posti di un continuum, essendo semplici possibilità senza esistenza attuale, non sono degli individui.
(CP 6.168)
Proprio per questo, in alcuni suoi saggi fondamentali e nella corrispondenza
con Georg Cantor, Peirce (NEM III e III/2) utilizzerà il termine molteplicità
per indicare gli “insiemi” continui e indeterminati, irriducibili al numero e
composti da quantità infinitesimali, mentre utilizzerà il termine insieme
(collection18) per riferirsi agli insiemi i cui elementi sono determinati.19
Proprio in una lettera a Cantor, con cui era in polemica, Peirce scrive:
È scorretto parlare di tre oggetti possibili come di un insieme. Perché queste tre possibilità non sono
distinte l’una dall’altra. Nessun tipo di definizione attuale, nessun tipo di definizione possibile, nessun
tipo di forza, nessun fatto di esistenza le separa nettamente l’una dall’altra. Non nego che esista
un’idea sul tipo di “tutti gli angeli”, considerata non distributivamente, come dicono i logici, bensì
collettivamente. Dico soltanto che, nel senso definito sopra, essi non sono un insieme, […] perché
mere possibilità non posseggono un’identità distinta. (NEM III/2, p. 776)
Quando si passa a mere possibilità, gli individui si fondono insieme. (CP 4.172)

Peirce ha a lungo lavorato su una teoria delle molteplicità continue e


indeterminate, fondata sul concetto di infinitesimo e di limite, al fine di
proporre una teoria degli insiemi e delle cardinalità alternativa a quella di
Cantor. Ignorata per anni come molti altri aspetti del pensiero di Peirce, questa
parte del suo lavoro è stata poi ripresa circa sessant’anni dopo dall’analisi non-
standard successiva al lavoro di Robinson (1966). Non possiamo occuparcene
però in questa sede. Per i nostri scopi, ci pare però che con la sua teoria
dell’indeterminato, Peirce ci consenta di aggiungere nuove importanti elementi
a una teoria prelogica della differenza, che vogliamo peirciano-hjelmsleviana.
Utilizzando proprio le distinzioni hjelmsleviane introdotte in precedenza,
possiamo allora provare a riassumere in una tabella il senso di questo nostro
percorso peirciano.

Prelogico(logica Generalità e Possibilità Continuità Indeterminato


triadica) Possibilità e attualità e e determinato
Sublogico discretezza
Logico(logica Individualità Attualità Discretezza Determinato
diadica)

Sottolineata la natura partecipativa dell’opposizione tra logica diadica (A) e


logica triadica (A+non-A), occorrerà sottolineare ovviamente come, se riferita
al rapporto tra logica diadica e logica triadica di Peirce, l’opposizione
hjelmsleviana tra logico e prelogico assuma un senso leggermente diverso
rispetto a quello che aveva in Hjelmslev, in cui serviva a differenziare le
opposizioni esclusive da quelle partecipative. Tuttavia, ci sentiamo comunque
di utilizzarla, conformemente al nostro intento di tenere insieme le prospettive
di Peirce e Hjelmslev. Va quindi ovviamente tenuto presente che con
“prelogico” in Peirce si intende una logica triadica che non risponde in toto ai
principi logici di non-contraddizione e terzo escluso, e che ha come obiettivo
quello di rendere conto delle entità indeterminate. Tuttavia, il rapporto tra
triadico e diadico in Peirce è lo stesso che c’è tra prelogico e logico in
Hjelmslev almeno su un punto del tutto fondamentale: attraverso una logica
triadica si può rendere conto di tutto quello di cui si può rendere conto
attraverso una logica diadica (mentre non è vero il contrario); attraverso
sistemi prelogici (partecipativi) si può rendere conto di tutto quello di cui si
può rendere conto attraverso sistemi logici (esclusivi), dal momento che le
opposizioni esclusive A VS non-A sono previste da un sistema partecipativo di
opposizioni A VS A+non-A (mentre non è vero il contrario). Proprio per
questo, prendere posizione per una semiotica prelogica e triadica,
conformemente alle lezioni di Hjelmslev e Peirce, significa assumere un
approccio integrativo di tipo sublogico, al di là di ogni divisione di “scuola”.
In questo senso, al fine di tenere insieme livello prelogico (partecipativo) e
livello logico (esclusivo), ci pare doveroso tentare una sintesi tra le due grandi
anime della teoria della differenza strutturale, e cioè quella logica di Jakobson
e quella prelogica di Hjelmslev. Questa sintesi è di fatto necessaria a causa
della particolare natura delle opposizioni differenziali di tipo semio-linguistico,
in cui la relazione non avviene tra elementi con una loro identità, bensì è
costitutiva dell’identità degli elementi stessi (cfr. supra, 1.2). Ci pare allora che
una relazione di determinazione reciproca, costitutiva dell’identità dei termini
in rapporto, presenti al suo interno sia un momento privativo (esclusivo) che
un momento tensivo (partecipativo).
Come notavamo in 1.4 infatti, là dove per Jakobson l’opposizione
fondamentale dei sistemi semio-linguistici era quella esclusiva tra la presenza
di un tratto (termine marcato: “A”) e l’assenza di questo stesso tratto (termine
non-marcato: “non-A”),20 per Hjelmslev l’opposizione fondamentale era
invece quella partecipativa tra un termine preciso, che concentra su di sé la
significazione (termine intensivo: “A”), e un termine vago, che la diffonde
sulla totalità della categoria e che quindi partecipa anche del valore proprio
del primo termine (termine estensivo: “A+non-A”). Se una relazione
differenziale di tipo semio-linguistico fosse una relazione estrinseca alla
costruzione dell’identità dei termini stessi, si potrebbe senz’altro – qualora lo si
ritenesse utile – costruire un dualismo manicheo tra queste due differenti
concezioni. Tuttavia, dal momento che il rapporto è qui costitutivo dell’identità
dei termini – secondo la lezione saussuriana – questo non è affatto possibile,
visto che una relazione di questo tipo è costitutivamente sublogica, e cioè sia
privativa che partecipativa. Questo fatto era già del tutto evidente in fonologia
strutturale, in cui le opposizioni a livello dei tratti distintivi servivano poi a
definire l’identità dei fonemi in cui si incarnavano. In questo modo, la
presenza di un tratto distintivo in un fonema (“A”) implicava da un lato la
contemporanea assenza dei tratti opposti (“non-A”), ma allo stesso tempo la
doveva portare con sé (“A+non-A”), dal momento che la sua identità di
fonema non era definita da altro che da questa differenza con ciò che restava
assente. E del resto è ovvio: se la mia identità è definita da tutto ciò che io non
sono, la mia presenza qui porta con sé questo altro da me, dal momento che
esso definisce la mia identità. E tuttavia lo porta con sé in quanto assente, in
quanto qualcosa su cui la mia presenza si staglia e si oppone, al fine di
distinguersi da un qualcosa da cui non mi posso distinguere, dal momento che
esso pulsa dentro di me e definisce la mia identità.
In luogo di una cosa che si distingue da un’altra, immaginiamo qualcosa che si distingue, e tuttavia
ciò da cui si distingue non si distingua da essa. Il lampo per esempio si distingue dal cielo nero, ma
deve portarlo con sé, come se si distinguesse da ciò che non si distingue. Si direbbe che il fondo sale
alla superficie, senza cessare di essere fondo. C’è qualcosa di crudele […] in questa lotta contro un
avversario inafferrabile, in cui il distinto si oppone a qualcosa che non può da esso distinguersi, e che
continua a coniugarsi con ciò che da esso si separa. (Deleuze, 1968, p. 53)

Come già notavano Fontanille e Zilberberg (1998, p. 31) a proposito del


passo citato, “Deleuze inaugura la sua riflessione sulla differenza con delle
osservazioni sorprendentemente prossime alla concezione gestaltista della
percezione”.
Figura 3. Candelabro o volti umani?

Ecco qualcosa che si distingue, ma ciò da cui si distingue non può


distinguersi da esso, in quanto ne determina l’identità. Ecco qualcosa che
continua necessariamente a coniugarsi con ciò da cui si separa, perché è solo
questo rapporto con questo suo “altro” a determinare ciò che esso è. Ecco
qualcosa che deve portare con sé il suo fondo per costituirsi in quanto figura,
perché è solo il rapporto con questo fondo a renderlo tale. Ecco qualcosa che
presentifica un’assenza in quanto assente, qualcosa che presentifica un’assenza
lasciandola essere nella sua assenza, perché è proprio questa stessa assenza a
definire ciò che è presente. Il fondo deve infatti venire alla presenza insieme
alla figura, ma lo deve fare in quanto altro dalla figura, e cioè in quanto figura
assente. Il fondo deve essere presente nella sua assenza, dal momento che, ed
è un principio fondamentale della teoria della Gestalt, non è possibile percepire
le due figure insieme allo stesso tempo: o si vede il candelabro, e allora i volti
divengono assenti e vengono ricacciati sullo sfondo, oppure si vedono i volti,
ed è allora il candelabro a essere ricacciato indietro, nella dimensione
dell’assenza presentificata. Candelabro e volti insomma si determinano
reciprocamente: essi non sono niente in sé stessi, ma esistono solamente nel
loro rapporto con l’altro.
Un fenomeno simile si ha nel calcolo differenziale in matematica, nel
rapporto che esiste tra la funzione primitiva e quella derivata (cfr. figura 8, in
1.6). Al punto limite di un rapporto incrementale infatti, succede che gli
elementi della funzione che definisce la curva (∆v e ∆t in questo caso) perdono
la loro indipendenza e si uniscono in un nuovo rapporto “in cui non hanno
esistenza se non nella loro relazione con l’altro” (NEM III, p. 95), tanto che
non è più possibile individuare una variabile indipendente. In questo nuovo
rapporto che definisce la tangente t, i termini dv e dt sono completamente
indeterminati in quanto tali. Dv non è infatti niente in rapporto a v, dt in
rapporto a t; ma essi sono perfettamente determinabili l’uno in rapporto
all’altro, e questa loro determinabilità è dell’ordine di un’effettiva
determinazione reciproca, in cui ogni termine non esiste se non nel suo
rapporto con l’altro. Non per nulla i termini dv e dt in matematica si chiamano
proprio differenziali.
Lo si vede allora molto bene in figura 3: candelabro e volti sono
determinabili e distinguibili solo nel loro rapporto con l’altro. Essi si
determinano reciprocamente: ognuno di essi è ciò che l’altro non è, e non è
niente al di fuori di questo rapporto. Quando si percepiscono i volti, il
candelabro partecipa quindi all’identità della figura (dimensione
partecipativa), ma vi partecipa in quanto figura assente (dimensione privativa),
e cioè in quanto fondo vago. Il rapporto tra il lampo e il cielo nero, così come
quello tra il candelabro e i volti, può essere senz’altro interpretabile come
un’opposizione tra un termine preciso (la figura) e un termine vago (il
fondo),21 ma proprio perché all’interno di una relazione di questo tipo il
termine preciso si distingue da qualcosa che ne definisce l’identità, esso è
sempre necessariamente costretto a portare con sé il fondo, presentificandone
così l’assenza attraverso la sua stessa presenza (privatività).
Ecco allora che questa determinazione reciproca del candelabro e dei volti,
del lampo e del cielo nero, di dv e di dt presenta costitutivamente una doppia
natura intensiva e privativa, che definisce l’essenza stessa di questo tipo di
rapporto: ogni elemento (A) porta con sé il suo “altro” opposto, che partecipa
così alla sua identità (A+non-A), ma vi partecipa in quanto assente (non-A),
perché è solo questo rapporto con ciò che esso non è a definirne l’identità.
Siamo così riportati all’idea saussuriana che è all’origine dell’intera
avventura strutturalista:
Gli elementi di un sistema semiologico [… sono] puramente differenziali, definiti non positivamente
mediante il loro contenuto, ma negativamente, mediante il loro rapporto con gli altri termini del
sistema. La loro più esatta caratteristica è di essere ciò che gli altri non sono. (CLG, p. 142)

Da qui la natura “specialissima” dei “sistemi semiologici” (cfr. ELG, pp. 14-
15, 50, 71, 92-94; CLG, pp. 134, 147), che funzionano come i sistemi
differenziali in matematica, in cui si passa dall’indeterminato (dv, dt) al
determinato (valori di dv e dt) attraverso determinazione reciproca (dv/dt). Da
qui la loro natura sublogica. In un rapporto di determinazione reciproca di tipo
saussuriano infatti, un termine è un posto (A) a differenza di qualsiasi altro
(non-A), per cui la sua presenza porta con sé la contemporanea assenza di tutto
ciò che esso non è (A+non-A),22 dal momento che è proprio questa assenza a
costituirne l’identità. Opposizione partecipativa e opposizione privativa
contribuiscono insieme a definire l’identità stessa della differenza per
determinazione reciproca, che è propria della natura topologica e relazionale
dei sistemi semio-linguistici.
Al fine di rendere conto di questo rapporto, introduciamo quindi la
notazione “A VS (A)+non-A”, che opera una sintesi della struttura
partecipativa hjelmsleviana (“A VS A+non-A”) e di quella privativa
jakobsoniana (“A VS non-A”). A VS (A)+non-A definisce la forma di relazione
propria del livello sublogico, che è costitutivo di tutte le relazioni differenziali
proprie dei sistemi semio-linguistici, nel momento in cui esse sono delle
relazioni di determinazione reciproca, e cioè costitutive dell’identità dei
termini. Questa forma di relazione si specifica poi nella forma A VS A+non-A,
dando vita al livello prelogico hjelmsleviano (partecipativo), e nella forma A
VS non-A, dando vita al livello logico jakobsoniano (esclusivo).
L’insistenza sul livello sublogico è per noi particolarmente importante, dal
momento che, come notava lo stesso Hjelmslev, nei sistemi semio-linguistici si
danno anche opposizioni logiche di tipo esclusivo. Se quindi non ci sembra
opportuno limitare una teoria della differenza semio-linguistica al solo livello
logico (esclusivo), come fanno ad esempio Greimas e Jakobson, ci sembra
altrettanto inopportuno non riconoscere l’esistenza locale di fenomeni che
presentano una forma di relazione di tipo esclusivo. Tuttavia, proprio al fine di
costruire una teoria della differenza che renda conto del livello sublogico,
occorrerà a questo punto specificare i tratti costitutivi di un’enciclopedia come
rizoma, che del livello sublogico – capace di tenere insieme livello logico e
prelogico – è l’oggetto teorico costitutivo.

3.5. L’enciclopedia come rete rizomatica. Il liscio e lo striato, il rizoma e la


struttura: un’opposizione partecipativa

L’identificazione tra enciclopedia e rizoma è netta e esplicita in Eco (1983,


pp. 358-359), ed è ripresa successivamente in diversi punti (cfr. Eco, 1984,
1990, 2007). In 1.4 mostravamo come il rizoma venisse definito come l’unione
di uno o più spazi striati con uno o più spazi lisci, e cioè come un
“incollamento” di sistemi descrivibili attraverso un sistema di opposizioni
locali precise e determinate (spazi striati) e di zone in cui il rapporto tra i
sistemi e le strutture era invece indeterminato, vago e poteva definirsi in
differenti maniere, contemplando sempre la possibilità dell’annullamento di
una struttura “striata” su un altro livello (spazi lisci).
Allo stesso modo, avevamo visto come una struttura nel senso dello
strutturalismo fosse uno spazio continuo suddiviso in domini attraverso un
sistema di frontiere, in cui l’organizzazione globale determinava il valore delle
unità locali. Questo dividere uno spazio continuo in domini attraverso un
sistema di frontiere significa allora esattamente striare questo spazio,
suddividerlo attraverso un sistema “agrimensorio”, qual era ad esempio quello
hjelmsleviano. Ma non è allora forse possibile anche l’operazione inversa?
Non è forse possibile lisciare uno spazio striato?
Uno spazio di tipo strutturale non è altro che uno spazio gerarchizzato,
arborificato, tagliato e diviso in relazioni di dominanza gerarchica che non
smettono di striarlo dappertutto. Deve allora essere possibile anche il
procedimento inverso, il procedimento sinechista di ispirazione peirciana che
riporta lo striato sul liscio, reintroduce continuità eterogenee e non gerarchiche
e riconnette ciò che è stato in precedenza tagliato attraverso l’analisi. Se la
grande impresa hjelmsleviana è stata quella di insegnare come ottenere lo
striato dal liscio, dividendo, partizionando e tagliando, la grande impresa
peirciana consiste invece nel riportare lo striato sul liscio, tenendo insieme,
connettendo e rendendo continuo ciò che è stato previamente diviso. L’unione
di questi due procedimenti era ciò che chiamavamo “sintesi disgiuntiva”, e
ponevamo a metodo di una semiotica interpretativa capace di tenere insieme le
prospettive di Peirce e Hjelmslev (cfr. supra, 1.6). Questo principio lo
ritroviamo allora qui, all’interno della distinzione tra spazi lisci e spazi striati,
su cui occorre fare luce.
Ben più che a un dualismo, la coppia liscio/striato ci riporta infatti a un
problema di articolazione e di metodo: lisciare lo spazio striato là dove lo
strutturalismo striava uno spazio liscio. Com’è evidente, una semiotica
interpretativa fondata sulla nozione di rizoma enciclopedico non è
minimamente in opposizione con una semiotica strutturale, né è alternativa
all’epistemologia dello strutturalismo: essa ne incarna se mai il
“procedimento” complementare, che la semiotica strutturale ha troppo spesso
trascurato. Là dove lo strutturalismo stria il liscio definendo dominanze
gerarchiche e domini separati da un sistema di frontiere, il rizoma
enciclopedico liscia lo striato reintroducendo una continuità al di là, o al di
qua, delle separazioni introdotte nell’analisi.
Ancora una volta, si tratta di tenere assieme strutturalismo e interpretazione:
un rizoma è sempre un misto, una molteplicità, l’unione di uno spazio liscio e
di uno spazio striato. Il problema è allora quello di dividere questo misto
individuandone le articolazioni pure, partizionando così ciò che di fatto si dà
nell’esperienza. Deleuze e Guattari (1980, p. 693) non lasciano infatti spazio a
dubbi:
Lo spazio liscio e lo spazio striato – lo spazio nomade e lo spazio sedentario […]. A volte possiamo
notare un’opposizione semplice tra i due tipi di spazio. Altre volte dobbiamo indicare una differenza
molto più complessa, per cui i termini successivi delle opposizioni considerate non coincidono del
tutto. Altre volte ancora dobbiamo ricordare che i due spazi esistono in realtà solamente per i loro
incroci reciproci: lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato, lo
spazio striato è costantemente trasferito, restituito a uno spazio liscio. In un caso, si organizza perfino
il deserto; nell’altro caso il deserto vince e cresce; e le due cose insieme. Ora gli incroci di fatto non
impediscono la distinzione astratta tra i due spazi […]: la distinzione di diritto determina le forme di
questo o quell’incrocio di fatto e del senso di tale incrocio (è uno spazio liscio che è catturato, avvolto
in uno spazio striato, è uno spazio striato che si dissolve in uno spazio liscio?). C’è dunque un insieme
di problemi simultanei: le opposizioni semplici tra i due spazi; le differenze complesse; gli incroci di
fatto e i passaggi dall’uno all’altro.

“Striato” e “liscio” non sono allora che condizioni pure che non esistono che
di diritto, ma che di fatto sono continuamente compresenti. Per questo, i) è
sempre possibile passare da un tipo di spazio all’altro “escherianamente”, cioè
attraverso una serie di modulazioni che trasformano lo striato in liscio (e
viceversa). Per questo, ii) Eco (1983, 1984) ha almeno parzialmente ragione
quando afferma che un rizoma enciclopedico può essere interpretato
localmente come un albero, e che anche la rappresentazione locale di un
rizoma può essere parzialmente arborescente (ma su questo punto, cfr. infra,
4.12). Tuttavia, non crediamo sia possibile limitarsi esclusivamente all’aspetto
striato del rizoma, dal momento che occorre sempre tener presente anche
l’altra dimensione che ne è costitutiva (spazio liscio), al fine di renderla
finalmente produttiva nell’analisi semiotica. Tanto più che Deleuze e Guattari
(1980, p. 19) ci insegnano che all’interno di un rizoma è il liscio a possedere
un primato: “È una questione di metodo: reinnestare i calchi sulla carta,
riportare le radici o gli alberi a un rizoma”.
Si vede allora come “rizoma” sia spesso usato da Deleuze e Guattari come
termine coestensivo di “liscio”, in opposizione alle molteplicità arborescenti e
gerarchiche che sarebbero “striate” o “strutturali”. Del resto, l’opposizione tra i
due tipi di spazio è radicalmente partecipativa: “liscio” è il termine estensivo
che vale come polo dell’opposizione e come totalità del rizoma stesso;
“striato” è il termine intensivo che concentra la significazione esclusivamente
su quelle parti del rizoma che presentano un’organizzazione gerarchica,
arborescente o strutturale. Vedremo infatti tra breve come uno spazio liscio
contenga al suo interno una molteplicità n di spazi striati (arborescenze,
strutture ecc.), che connette in modo del tutto sui generis. Ecco allora che un
rizoma è innanzi tutto e propriamente uno spazio liscio, anche se questo non
impedisce che localmente esso si trovi striato, gerarchizzato e arborificato.
Tuttavia, occorre innanzi tutto capire in che cosa il liscio si differenzi dallo
striato, dal momento che le teorie della differenza di tipo arborescente e
strutturale hanno sempre e soltanto dispiegato la dimensione “striata” della
differenza, trascurando completamente quella “liscia”, che ci pare
rappresentare dunque un’autentica novità che è propria di una teoria rizomatica
e interpretativa di tipo enciclopedico. Ora,
si conferma una certa idea della striatura: due serie parallele, che si incrociano perpendicolarmente: le
une, verticali, svolgono il ruolo di fisse e di costanti, le altre, orizzontali, il luogo di variabili. Molto
grossolanamente, è il caso dell’ordito e della trama, dell’armonia e della melodia, della longitudine e
della latitudine. Più l’incrocio è regolare, più la striatura è fitta, più lo spazio tende a divenire
omogeneo: in questo senso l’omogeneità ci è sembrata essere fin dall’inizio non il carattere dello
spazio liscio, ma, proprio al contrario, il risultato estremo della striatura o la forma-limite di uno
spazio striato da ogni parte, in ogni direzione. […] In ogni modello, infatti, il liscio ci è parso
appartenere a una eterogeneità di base: feltro o patchwork e non tessitura, valori ritmici e non
armonia-melodia, spazio riemanniano e non euclideo, variazione continua che supera ogni ripartizione
delle costanti e delle variabili, liberazione di una linea che non passa tra due punti. (Deleuze e
Guattari, 1980, p. 713)

Se “striare” è il procedimento del dividere, del quadrettare, del costruire


griglie omogenee ripartendo costanti e variabili, “lisciare” è il procedimento
del tenere assieme, dello spostare le frontiere facendo variare in modo continuo
le precedenti ripartizioni, al fine di costruire nuovi percorsi attraverso il
dispiegamento degli elementi in uno spazio aperto. Ecco allora che se nel
Politico Platone poteva assumere il modello della tessitura come paradigma
della “scienza sovrana”, e cioè l’arte di governare gli uomini, era perché la
tessitura stessa è tutta un’arte del ripartire le costanti e le variabili, i confini e i
domini, gli incroci e gli intrecci. È perché il tessuto crea tutta una trama striata
in cui ciascun componente ha il suo posto delimitato all’interno di un sistema
che ripartisce ciò che è fisso e ciò che è mobile, che esso poteva essere eretto a
modello di controllo e di gestione. Di sicuro, Platone non avrebbe potuto
pensare di governare gli uomini secondo il modello liscio del patchwork,
collezione amorfa di pezzi giustapposti il cui collegamento può farsi in
un’infinità di modi, in funzione della pratica di cucito che stabilisce localmente
il collegamento tra i pezzi sparsi.
È allora proprio questa la principale differenza tra uno spazio liscio e uno
spazio striato: là dove in uno spazio striato la forma dello spazio è determinata
dal sistema globale di frontiere che ha definito i domini, assegnando così un
posto a chi li viene a occupare, in uno spazio liscio la forma dello spazio
dipende invece dall’istanza che percorre localmente lo spazio.
Nello spazio striato si chiude una superficie e la si “ripartisce” secondo intervalli determinati, in
funzione di tagli assegnati; nel liscio ci si “distribuisce” su uno spazio aperto, seguendo delle
frequenze e lungo dei percorsi. (Deleuze e Guattari, 1980, p. 702)

Ripartire una superficie secondo intervalli determinati è allora una cosa


molto diversa dal distribuire degli elementi in uno spazio aperto: nel primo
caso si tratta ad esempio di dividere un terreno in domini e assegnare questi
domini ai coloni; nel secondo caso di distribuire degli animali in uno spazio
aperto, prato o fianco di montagna. Da un lato c’è la terra striata del coltivatore
sedentario con il suo dominio di terreno diviso da quello di altri coltivatori
sedentari; dall’altro c’è il suolo liscio dell’allevatore nomade che “si
distribuisce su uno spazio aperto”, seguendo le frequenze delle stagioni e
tracciando i propri percorsi in funzione dei venti e dei terreni.
Deleuze e Guattari (1980, capitolo 14) ritrovano allora questa ripartizione in
tutti i loro modelli. Ad esempio nel modello della città, “spazio striato per
eccellenza”, organizzato politicamente e urbanisticamente, continue lisciature
vengono indotte dai cittadini che disobbediscono alla ripartizione prestabilita
dello spazio, e lo “usano” nei loro attraversamenti creando i loro propri
percorsi (cfr. De Certeau, 1990). Allo stesso modo, nel modello del viaggio, a
un viaggio “striato” e organizzato, che ha come obiettivo quello di andare da
un punto a un altro, si oppone un viaggio “nel mezzo”, in cui ciò che importa
non sono i punti di partenza e di arrivo, bensì il percorso in cui il viaggiatore
costruisce egli stesso i propri concatenamenti tra posti anche molto eterogenei.
Stessa cosa nell’opposizione tra il tessuto e il feltro, tra il ricamo e il
patchwork (modello tecnologico), tra le molteplicità metriche e quelle non-
metriche (modello matematico), tra lo spazio visivo e lo spazio prensivo
(modello estetico) e tra i valori ritmici e quelli armonici (modello musicale), da
cui deriva la terminologia stessa di “liscio” e “striato”, coniata originariamente
da Pierre Boulez (1987, p. 95) per distinguere uno spazio-tempo in cui “ci si
insedia senza contare” (liscio), da uno in cui “bisogna contare per insediarvisi”
(striato).23
Tutte queste opposizioni, come vedremo tra breve, rimandano a quella più
fondamentale che si instaura tra gli spazi euclidei e gli spazi riemanniani, che
rappresenta il vero fulcro della distinzione tra spazio striato e spazio liscio, ed
è centrale per la sua declinazione semiotico-enciclopedica.
Prima di affrontare questo punto, occorre però soffermarsi su un’altra
differenza fondamentale tra liscio e striato, che possiamo estrarre dal “modello
marittimo”. Deleuze e Guattari (1980, p. 700) definiscono infatti il mare e la
navigazione marittima come “lo spazio liscio per eccellenza”. E tuttavia,
proprio il mare è lo spazio “che si è trovato prima di tutti messo a confronto
con le esigenze di una striatura sempre più rigida”.24 Storicamente, questa
striatura è allora stata ottenuta innanzi tutto astronomicamente e poi
geograficamente: in primo luogo in funzione del punto, effetto di un insieme di
calcoli che si effettuano a partire da un’osservazione degli astri e del sole; in
secondo luogo in funzione della carta, che incrocia meridiani e paralleli,
longitudini e latitudini, quadrettando così le regioni e i domini conosciuti e
sconosciuti. Ma questa striatura si stabilisce allora solamente
progressivamente:
Perché, prima della localizzazione molto tardiva delle longitudini, c’è tutta una navigazione nomade,
empirica e complessa, che fa intervenire i venti, i rumori, i colori e i suoni del mare; poi una
navigazione direzionale, preastronomica e già astronomica, che procede con una geometria operativa,
opera ancora solamente per latitudine, senza possibilità di “fare il punto”, dispone solo di portolani e
non di vere carte. (Deleuze e Guattari, 1980, p. 700)

Ecco allora tutta una navigazione liscia, in funzione delle condizioni locali
mutevoli da viaggio a viaggio, e in funzione di una percezione globale del
sistema solamente regolativa e vaga, che doveva essere assestata di volta in
volta e adattata a condizioni locali in continua trasformazione. Ecco allora che
uno spazio liscio rizomatico definisce esattamente questo tipo particolare di
punto di vista, miope e congetturale.
In una struttura rizomatica priva di esterno, ogni visione (ogni prospettiva su di essa) proviene sempre
da un suo punto interno e, come suggerisce Rosenstiehl, esso è un algoritmo miope, ogni descrizione
locale tende a una mera ipotesi circa la globalità, nel rizoma la cecità è l’unica possibilità di visione, e
pensare significa muoversi a tentoni, e cioè congetturalmente. (Eco, 1983, p. 359)

I percorsi in uno spazio rizomatico liscio non dispongono né di una mappa


né di una visione globale d’insieme, per cui si affidano esclusivamente
all’informazione locale e in trasformazione continua che proviene dagli
elementi vicini, con cui costruiscono un concatenamento:
Un concatenamento è precisamente questa crescita delle dimensioni in una molteplicità che cambia
necessariamente natura man mano che aumenta le sue connessioni. Nel rizoma non ci sono punti o
posizioni come se ne trovano in una struttura […]. Non ci sono che linee. (Deleuze e Guattari, 1980,
p. 10)

Ben lungi dall’essere determinati dalla configurazione globale che definisce


i domini dello spazio, i posti in uno spazio rizomatico sono effetto dei
concatenamenti locali interni al rizoma, e dipendono così dalle istanze che si
distribuiscono localmente nello spazio aperto. Questo determina un’importante
conseguenza riguardo l’identità stessa degli elementi di uno spazio rizomatico.
Abbiamo visto come nei sistemi semio-linguistici l’identità si identifichi con la
nozione di valore e come il valore abbia un’essenza “estensionale”, in senso
hjelmsleviano, e cioè topologica e relazionale (il valore di un elemento è un
posto, a differenza di qualsiasi altro). Ecco allora che all’interno di uno spazio
striato, il valore di un elemento dipende dalla configurazione globale che ha
suddiviso lo spazio in domini attraverso un sistema di frontiere, mentre
all’interno di uno spazio liscio, esso dipende invece dai concatenamenti locali
che un elemento costruisce con altri elementi.
Nel loro classico articolo sui sistemi acentrati, che sta alla base del concetto
stesso di rizoma,25 Rosenstiehl e Petitot (1974) descrivono in questo modo la
situazione che è propria degli spazi lisci:
Si possono immaginare degli automi dotati di γ braccia (automi di valenza γ) liberati nell’universo del
grafo che connettono le loro braccia a caso ad altri automi dello stesso tipo, per costituire una rete. Si
dice che un automa “legge” attraverso un braccio lo stato del braccio che gli è eventualmente
connesso. (Rosenstiehl e Petitot, 1974, p. 55)

Questa lettura tattile, assolutamente isomorfa a quella di chi esplora un


labirinto nodo per nodo, è un ottimo esempio di orientamento da parte di un
elemento che non possiede alcun tipo di visione dall’alto del sistema. Un
elemento rizomatico deve infatti continuamente costruirsi una visione locale,
che è funzione dell’interazione con i suoi elementi vicini, interazione
attraverso la quale acquista una visione parziale dello spazio in cui si muove,
“leggendone” l’informazione locale (navigazione nomade liscia). Questa
lettura tattile è formalizzabile attraverso un algoritmo miope in continuo
divenire,26 in cui gli elementi operano “regolando il loro cammino sulle
informazioni che ricevono dai loro ‘vicini’” (Rosenstiehl e Petitot, 1974, p.
50). Si tratta ad esempio del modo in cui le formiche costruiscono i formicai,
non esistendo un progetto globale del formicaio né un “architetto formica”.27
Per questo gli spazi lisci, a differenza di quelli striati, sono acentrati e non-
gerarchici, dal momento che nessuna istanza globale determina il posto e il
funzionamento delle unità locali.28
Sono esattamente questi i tratti costitutivi di uno spazio liscio:
Lo spazio liscio non presenta omogeneità se non fra punti infinitamente vicini e il raccordo delle
vicinanze avviene indipendentemente da ogni via determinata. È uno spazio di contatto, di piccole
azioni di contatto, tattile o manuale, piuttosto che visivo come quello striato di Euclide. Lo spazio
liscio è un campo senza condotti né canali. Un campo, uno spazio liscio eterogeneo, sposa un tipo
molto particolare di molteplicità: le molteplicità non metriche, acentrate, rizomatiche, che occupano
lo spazio senza “contarlo” e che non è possibile “esplorare se non camminandovi sopra”. Queste
molteplicità non rispondono alla condizione visiva di poter essere osservate da un punto dello spazio
esterno. (Deleuze e Guattari, 1980, p. 542)

Questa esplorazione “dall’interno”, questa “esplorazione tattile” di una


molteplicità non metrica, è esattamente identica a quella che Eco pensava
come costitutiva del movimento dell’interpretazione all’interno
del’enciclopedia, in cui a ogni incrocio si ha soltanto una competenza locale
del sistema e “un’immagine regolatrice e ipotetica che concerne la sua struttura
globale (inconoscibile)” (Eco, 1983, p. 358).
Ecco allora che a tutte queste ripartizioni tra uno spazio striato e uno spazio
liscio sottende un’unica idea costitutiva, che è quella della differenza tra gli
spazi euclidei (striati) e gli spazi di Riemann (lisci). Abbiamo infatti visto
come “liscio” definisca uno spazio di contatto assolutamente eterogeneo, in cui
l’omogeneità è propria solamente dei frammenti locali di questo spazio (punti
infinitamente vicini), ma la connessione tra questi frammenti locali non è
definita in partenza, e si determina di volta in volta in funzione dell’istanza che
percorre lo spazio. Ecco esattamente uno spazio di Riemann: patchwork
amorfo di frammenti non cuciti tra loro, in cui la cucitura, la trama e l’ordito
sono sempre l’effetto del percorso interpretativo che li connette. Spiegheremo
allora questo punto fondamentale con un esempio.29
Se parcheggio la macchina in un grande parcheggio vuoto a ferragosto, nel
momento in cui la andrò a riprendere, tenderò a percorrere un tragitto in linea
retta. Se invece la parcheggio d’inverno e il parcheggio è per metà coperto di
neve, il mio percorso non sarà affatto in linea retta, ma tenderà a percorrere più
spazio nella parte pulita e meno in mezzo alla neve. Ecco che Riemann spiega
questo fenomeno dicendo che la neve e l’asfalto inducono metriche diverse
nello spazio, quindi il percorso più breve che collega due punti (me e la mia
macchina) non è più una retta, bensì una linea spezzata (più lunga nel pulito e
più breve nella neve). Là dove uno spazio striato (metrico ed euclideo) è
omogeneo e uno stesso concetto di misura vale per tutti i suoi punti, uno spazio
liscio (riemanniano) è radicalmente eterogeneo: le sue metriche sono infatti
esclusivamente locali e differiscono per una parte e per una parte altra dello
stesso spazio. Uno spazio di Riemann è allora esattamente questa collezione
amorfa di metriche locali eterogenee: un patchwork.
Proprio per questo il concetto che sta alla base della geometria riemanniana
è quello di tensore metrico. Il fatto che il tensore metrico sia “una forma
quadratica definita positiva” interessa forse non tutti i lettori di questo libro, ed
è quindi senz’altro più interessante definire cosa fa. Un tensore metrico induce
dei pesi e delle direzioni locali in ogni punto dello spazio. Con l’esempio del
parcheggio abbiamo allora tenuto conto esclusivamente di quella parte della
metrica che abbiamo definito “peso”: la parte innevata ha un peso differente
rispetto all’altra, e per questo un percorso che vuole minimizzare la distanza
tende a evitarla. Che cosa sono invece le direzioni? Ammettiamo di voler
attraversare un fiume: il percorso “più breve” per attraversarlo sarà diverso a
seconda che la corrente vada in una direzione o in un’altra. La metrica di uno
spazio di Riemann contiene allora anche l’informazione “direzionale” della
corrente. In generale, la metrica può variare punto per punto nello spazio e il
modo di percorrenza varierà in modo corrispondente a questa eterogeneità
costitutiva che è propria di uno spazio liscio. La struttura del colonnato di
Piazza San Pietro a Roma definisce uno spazio striato, ma la distribuzione
delle persone all’interno della piazza la domenica mattina è liscia, e varia col
variare della quantità di persone che mano a mano la riempiono (e
indipendentemente da quello che ascolteranno). In spazi di questo tipo
l’orientamento è sempre congetturale e il procedere al suo interno deve sempre
tenere conto di condizioni locali eterogenee e in continua trasformazione (la
folla, lo spazio, la corrente, il flusso ecc.).
Gli spazi di Riemann sono sprovvisti di ogni specie di omogeneità. Ognuno di essi è caratterizzato
dalla forma dell’espressione che definisce il quadrato della distanza di due punti infinitamente vicini
[…]. Ne risulta che due osservatori vicini possono individuare in uno spazio di Riemann i punti che
sono nella loro vicinanza immediata, ma non possono, senza che instauri una nuova convenzione,
reperirsi l’uno in rapporto all’altro. Ogni vicinanza è dunque come un piccolo pezzo di spazio
euclideo, ma il collegamento di una vicinanza alla vicinanza successiva non è definito e può
costituirsi in una infinità di maniere. Il più generale spazio di Riemann si presenta così come una
collezione amorfa di frammenti giustapposti senza essere collegati gli uni agli altri. (Lautman, 1938,
pp. 23, 34; cfr. anche Lautman, 1976)

Ecco allora qual è il problema più generale degli spazi riemanniani, e cioè
quello dell’instaurarsi di una ratio (cfr. Eco, 1975). Uno spazio di Riemann, in
quanto collezione amorfa di frammenti giustapposti, è composto da strutture
striate solamente a livello locale (cellule o, come dice Lautman, frammenti).
Tuttavia, il rapporto tra i singoli frammenti non è dato: essi non hanno
letteralmente alcun tipo di rapporto, il loro rapporto è propriamente un non-
rapporto in cui le grandezze sono incommensurabili e non presentano
proprietà in comune. Ogni cellula, ogni sezione locale, è come un piccolo
pezzo di spazio euclideo (spazio striato), ma il collegamento da una sezione
locale a un’altra non è definito e può costituirsi in un’infinità di maniere
(spazio liscio). È appunto come in un patchwork, in cui i diversi frammenti di
stoffa possono essere cuciti tra loro in un’infinità di maniere. Lautman (1977)
ci insegna allora che affinché il concatenamento tra strutture sia costruito,
occorre lo stabilirsi di una nuova convenzione che installi localmente una
commensurabilità locale tra frammenti (ratio) che non hanno necessariamente
delle proprietà in comune (logos).
Ecco allora che se l’enciclopedia è un rizoma, se un rizoma è uno spazio
liscio e se uno spazio liscio è uno spazio di Riemann, uno spazio riemanniano
si rivela essere un modello perfetto dell’enciclopedia e delle pratiche
interpretative che si svolgono al suo interno. Da un lato, conformemente alla
natura partecipativa dell’opposizione tra liscio e striato, uno spazio liscio, in
quanto collezione amorfa di frammenti giustapposti, è sempre composto da
spazi striati locali (arborescenze, strutture ecc.). Ogni cellula, ogni sezione
locale dell’enciclopedia, è come un piccolo pezzo di struttura nel senso dello
strutturalismo o come un’arborescenza locale (cfr. Eco, 1983, 1984). Tuttavia,
il collegamento da una struttura locale a un’altra non è definito a priori e può
costituirsi in un’infinità di maniere, in funzione della pratica interpretativa che
percorre e “cuce” lo spazio dell’enciclopedia.
L’enciclopedia è dominata dal principio peirciano della interpretazione. […] Ogni suo punto può
essere connesso con qualsiasi altro punto, e il processo di connessione è anche un processo continuo
di correzione delle connessioni. […] Quindi chi vi viaggia deve anche imparare a correggere di
continuo l’immagine che si fa di esso, sia essa una concreta immagine di una sua sezione (locale), sia
essa l’immagine regolatrice e ipotetica che concerne la sua struttura globale (inconoscibile). (Eco,
1983, pp. 356-358)

Si vede allora bene come uno spazio riemanniano definisca un modello


adeguato dell’interpretazione come trasduzione semiotica, su cui lavoravamo
nel primo capitolo a proposito del rapporto tra musement e abduzione: non solo
l’orientamento della pratica interpretativa è sempre congetturale e il procedere
al suo interno deve sempre tenere conto di condizioni locali eterogenee e in
continua trasformazione, ma il concatenamento che permette di passare da un
frammento (dominio) a un altro installando una ratio è sempre
costitutivamente locale.
Una rappresentazione enciclopedica non è mai globale ma sempre locale, viene fornita in occasione di
determinate circostanze, costituisce una prospettiva limitata sull’attività semiotica. Se il modello
enciclopedico provvede algoritmi, questi algoritmi non possono essere che miopi, come quelli che
consentono di percorrere un labirinto. (Eco, 1983, p. 356)

Non è allora un caso che le pratiche interpretative interne all’enciclopedia,


così come sono descritte da Eco (1983), presentino esattamente quei tratti che
sono costitutivi dei percorsi all’interno degli spazi riemanniani. Esse sono
infatti: i) congetturali; ii) costrette sempre a tener conto di condizioni locali
eterogenee e in continua trasformazione; iii) dotate di una visione
esclusivamente locale sull’insieme dello spazio enciclopedico (algoritmo
miope).
In una struttura rizomatica priva di esterno, ogni visione (ogni prospettiva su di essa) proviene sempre
da un suo punto interno e, come suggerisce Rosenstiehl, esso è un algoritmo miope: ogni descrizione
locale tende a una mera ipotesi circa la globalità, nel rizoma la cecità è l’unica possibilità di visione, e
pensare significa muoversi a tentoni, e cioè congetturalmente. […] Il pensiero dell’eniclopedia è
congetturale e contestuale. (Eco, 1983, pp. 359-360)
Un pensiero semantico a enciclopedia […] sottomette le leggi della significazione alla determinazione
continua dei contesti e delle circostanze. Una semantica a enciclopedia non rifiuta di fornire regole
per la generazione e l’interpretazione delle espressioni di una lingua, ma queste regole sono orientate
ai contesti, e la semantica incorpora la pragmatica. (Eco, 1983, p. 356)

Da qui una conseguenza fondamentale. Se l’enciclopedia è un rizoma, e se il


rizoma è innanzi tutto uno spazio riemanniano liscio, in cui la connessione tra
gli elementi si fa di volta in volta in funzione del percorso che si inscrive in
essa, si fa strada l’idea che l’enciclopedia sia sempre uno spazio continuo che è
sede di movimento (interpretazioni in senso peirciano) e di scambi ininterrotti
(concatenamenti): un grande mare che si divide in oceani e mari differenti solo
localmente, in funzione del territorio con cui si trova ad avere a che fare
(dominio) e della pratica che lo ritaglia di volta in volta percorrendolo. Uno
spazio che non ha dimensione supplementare al numero delle sua linee
(frattale) e che cambia di natura ogni volta che lo si ritaglia, determinando così
l’identità stessa dei suoi elementi (cfr. infra, capitolo 4).
Questo continuum è la sede dei movimenti e degli scambi: metodi, modelli, risultati circolano
incessantemente nel suo seno, esportati o importati da ogni luogo in ogni altro luogo in maniera
incessante, secondo delle linee di percorso spesso regolate, alle volte capricciose: reticolo o rete nel
mare. (Serres, 1972, p. 10)

L’enciclopedia non è una rete, ma è un continuum in cui sono i percorsi


interpretativi a definire una rete. La rete è cioè il tracciato delle pratiche e dei
passaggi che “cuciono” i frammenti dell’enciclopedia tra loro. L’enciclopedia è
ciò che definisce le condizioni stesse della possibilità di questi passaggi e di
queste pratiche (interpretazioni) e ne porta inscritti al suo interno i segni,
definendosi come superficie di iscrizione delle pratiche interpretative che essa
stessa rende possibili: “insieme registrato di tutte le interpretazioni”, “libreria
delle librerie”, rete o striatura sul grande mare liscio. Rizoma.
Del resto, già D’Alembert, nella sua introduzione all’Encyclopédie,
rappresentava lo spazio del sapere come uno spazio liscio, patchwork di
eterogeneità (diverse branche del sapere) il cui collegamento è locale ed è
funzione dell’istanza che percorre lo spazio dell’enciclopedia.
Il sistema generale delle scienze e delle arti è una specie di labirinto, di cammino tortuoso che lo
spirito affronta senza troppo conoscere la strada da seguire. […] Il sistema delle nostre conoscenze è
composto di diverse branche, di cui molte hanno uno stesso punto di riunione; e poiché partendo da
questo punto non è impossibile imboccare contemporaneamente tutte le vie, la determinazione della
scelta risale alla natura dei diversi spiriti. Ma questo disordine, per quanto filosofico sia per la mente,
sfigurerebbe, o almeno annienterebbe del tutto un albero enciclopedico nel quale lo si volesse
rappresentare.

Com’è evidente, D’Alembert pensa all’enciclopedia secondo una


configurazione riemanniana. Tuttavia, dal momento che una tale
configurazione riemanianna “annienterebbe del tutto un albero enciclopedico
nel quale la si volesse rappresentare”, D’Alembert stria immediatamente lo
spazio liscio dell’enciclopedia attribuendo al filosofo o all’enciclopedista uno
sguardo dall’alto “a volo d’uccello” – specularmente opposto all’algoritmo
miope proprio degli spazi lisci – in grado di quadrettare la superficie,
gerarchizzando e arborificandone le interconnessioni molteplici.
L’ordine enciclopedico delle nostre conoscenze consiste nel riunirle nel più breve spazio possibile, e
nel porre, per così dire, il filosofo al di sopra di questo vasto labirinto, in un punto di vista molto
elevato da dove gli sia possibile scorgere contemporaneamente le scienze e le arti principali; vedere
con un sol colpo d’occhio gli oggetti delle sue speculazioni e le operazioni che può fare su questi
oggetti; distinguere le branche generali delle conoscenze umane, i punti che le separano o le
accomunano, e intravedere persino, a volte, le vie segrete che le riuniscono. È una specie di
mappamondo che deve mostrare i principali paesi, la loro posizione e le loro vicendevoli dipendenze,
il cammino in linea retta che v’è dall’uno all’altro; cammino spesso interrotto da mille ostacoli, che
non possono essere noti in ciascun paese che gli abitanti e ai viaggiatori, e che non potrebbero essere
mostrati che in carte particolari molto minute. Queste carte particolari saranno i diversi articoli della
Enciclopedia, e l’albero o sistema figurato ne sarà il mappamondo.

E tuttavia, proprio nell’Encyclopédie, alla voce “Cosmologia”, troviamo


scritto:
Gli esseri sono connessi gli uni agli altri da una catena in cui noi percepiamo alcune parti come
continue, per quanto nella maggior parte dei casi la continuità ci sfugga. […] L’arte del filosofo
consiste nell’aggiungere nuovi anelli alle parti separate, per ridurre quanto possibile la distanza tra di
essi. Ma non dobbiamo lusingarci di credere che non resteranno ancora in molti punti lacune.

Rispetto all’introduzione di D’Alembert, il ruolo del filosofo viene qui


completamente ribaltato, tanto che il suo compito sembra essere quello di
costruire uno spazio liscio, in cui il filosofo enciclopedista sia costitutivamente
un sinechista, e riduca così la distanza tra le parti separate. Cioè il compito
dell’enciclopedista è qui tutt’altro che quello di costruire l’albero
dell’enciclopedia striandone lo spazio liscio, ma è se mai quello di seguire il
sinechismo della conoscenza, connettere, costruire concatenamenti che
avvicinino quello che ci pare separato attraverso la costruzione di anelli
intermedi.
Quest’idea, che ha origine in Leibniz e forse ancora prima nella teoria del
continuum di Aristotele, passa (tra gli altri) attraverso Diderot, Peirce e Goethe
e arriva fino alle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer di Wittgenstein, e alla sua
nozione fondamentale di “rappresentazione perspicua”, che consiste
esattamente nel “vedere le connessioni” tra elementi lontani.
Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un’importanza fondamentale. Esso designa la
nostra forma di rappresentazione, il modo in cui vediamo le cose. […] Tale rappresentazione
perspicua media la comprensione, che consiste appunto nel “vedere le connessioni”. Di qui
l’importanza di trovare anelli intermedi”. (Wittgenstein, 1967, p. 29)

Nella Grammatica filosofica, Wittgenstein connette l’idea degli “anelli


intermedi” alla nozione di somiglianza di famiglia.
Un’affinità tra oggetti non necessariamente è un possesso comune di una proprietà o di una parte
costitutiva. Può darsi che colleghi i membri come anelli di una catena, cosicché un membro è
imparentato con l’altro tramite membri intermedi; e può darsi che due membri tra loro vicini abbiano
in comune certi tratti, siano simili l’uno all’altro, mentre membri più lontani non hanno più nulla in
comune tra loro, e tuttavia appartengono alla medesima famiglia. Anzi: non necessariamente un tratto
comune a tutti i membri della famiglia è proprio quello che ne definisce il concetto. (Wittgenstein,
1969, § 35)

Si vede qui la natura antilogica dell’idea di Wittgenstein, nel senso in cui la


definivamo a proposito di Scruton (cfr. supra, 1.8): si transita da un elemento a
un altro elemento lontano attraverso anelli intermedi, senza che gli elementi
debbano possedere delle proprietà comuni capaci di raccoglierli sotto una
dimensione superiore. Esattamente come negli spazi di Riemann. Peirce
chiamava interpretanti queste rappresentazioni mediatrici (anelli intermedi)
che consentivano di passare da un punto a un altro (cfr. supra, 1.7), così che
l’interpretazione ci pare esattamente il procedimento di costruzione di una rete
che connette quei frammenti eterogenei di uno spazio liscio (enciclopedia) il
cui ordine ci sfugge:
Il progetto di una competenza enciclopedica è governato da una metafisica (molto influente) che si
può esprimere attraverso la metafora del labirinto (che a propria volta rinvia al modello topologico
della rete polidimensionale). […] L’enciclopedia non fornisce un modello completo di razionalità
(non rispecchia in modo univoco un universo ordinato) ma fornisce regole di ragionevolezza, cioè
regole per contrattare ad ogni passo le condizioni che ci consentono di […] rendere ragione – secondo
qualche criterio provvisorio di ordine – di un mondo disordinato (o i cui criteri di ordine ci sfuggono).
(Eco, 1983, pp. 356-357)

Come nota giustamente Rossella Fabbrichesi:


L’idea di un universo come rete composta da fibre infinite, innervata da una trama di rapporti
impercettibilmente prossimi l’un l’altro […] i cui fili vanno costantemente districati e costantemente
ricongiunti la dobbiamo a Leibniz, ed egli la consegna a una tradizione che riprenderà in altri contesti
le sue intuizioni, senza però attribuire al principio di continuità l’importanza che merita (Fabbrichesi
Leo e Leoni, 2005, p. 32).

Per quanto ci riguarda, conformemente alla lezione peirciana, il principio di


continuità deve invece essere posto a fondamento della costruzione di un
reticolo semiotico nell’enciclopedia attraverso la pratica dell’interpretazione,
dal momento che l’idea stessa di interpretazione, così com’è formulata da
Peirce, non è altro che un modo propriamente semiotico di declinare la legge di
continuità che Leibniz formulava nel 1687:
Nelle cose che coesistono si può trovare la continuità, benché l’immaginazione non percepisca che
salti. […] Se si considera la figura esterna delle parabole, delle ellissi e delle iperboli, si è portati a
credere che c’è un’interruzione immensa da una specie di curva all’altra. Nondimeno noi sappiamo
che sono così intimamente congiunte che è possibile introdurre tra di esse qualche specie intermedia
che ci può far passare dall’una all’altra, per mezzo delle differenze più impercettibili. (Leibniz 1967,
II, pp. 756-6)
La legge di continuità comporta che dal piccolo al grande e dal grande al piccolo si passa sempre
attraverso un termine medio, così nei gradi come nelle parti. (Leibniz, 1967, II, p. 176)

Ecco esattamente l’idea di interpretazione di Peirce, in cui si passa da un


punto a un altro attraverso un terzo punto mediatore che li pone in rapporto,
l’interpretante (cfr. supra, 1.7). Da qui l’intima connessione tra teoria del
continuum e semiotica interpretativa, che Peirce ha sempre sostenuto facendo
leva proprio sull’intima connessione tra la Terzità propria di un termine medio
(interpretante) e la legge di continuità come “legge della mente”, che Peirce
pensava come costitutiva del movimento triadico del pensiero-segno (cfr. CP
6.102-6.163).
Da qui deriva la nostra concezione dell’interpretazione, ispirata alla legge di
continuità. Da qui, infine, deriva il compito del filosofo enciclopedista, che noi
chiamiamo semiotico, che non è solo quello di sezionare e dividere lo spazio
dell’enciclopedia a scopo di descrizione e di studio, come voleva D’Alembert,
ma è ben più profondamente quello di connettere ciò che è separato, al fine di
districare e connettere quei fili che costituiscono una trama di rapporti non
immediatamente percepibile a prima vista. Per questo, tra le due anime
costitutive della semiotica interpretativa, quella analitica hjelmsleviana e
quella sinechistica peirciana, è per noi la seconda ad avere un primato, sebbene
essa possa fondarsi solo ed esclusivamente su una precedente operazione di
analisi (cfr. supra, 1.6).
Del resto, il primato dell’interpretazione sull’analisi rima il corrispondente
primato del liscio sullo striato all’interno dell’enciclopedia rizomatica, che è
per noi il luogo di esercizio dell’attività di quel filosofo enciclopedista che
chiamiamo semiotico. Non è allora un caso se anche Lotman insista con forza
su questo primato:
L’universo semiotico può essere considerato come un insieme di testi e di linguaggi separati l’uno
dall’altro. In questo caso, tutto l’edificio apparirà formato da singoli mattoni. E però più feconda
l’impostazione opposta. Tutto lo spazio semiotico si può considerare infatti come un unico
meccanismo (se non organismo). Ad avere un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone,
ma “il grande sistema” chiamato semiosfera. La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del
quale non è possibile l’esistenza della semiosi.
Se si mettono insieme più bistecche non si ottiene un vitello, mentre tagliando un vitello si possono
avere bistecche. Allo stesso modo, sommando una serie di atti semiotici particolari, non si otterrà
l’universo semiotico. Al contrario, soltanto l’esistenza di questo universo – ovvero la semiosfera – fa
diventare realtà il singolo atto segnico. (Lotman, 1985, p. 58)
Si può supporre che sistemi costituiti da elementi chiaramente separati l’uno dall’altro e
funzionalmente univoci non esistano nella realtà, in una condizione di isolamento. La loro divisione
in parti è solo una necessità euristica. Nessuna di esse, presa separatamente, è in grado di funzionare
realmente. Lo fa soltanto se è immersa in un continuum semiotico pieno di informazioni di tipo
diverso collocato a vari livelli di organizzazione. Chiamerò questo continuum semiosfera, in analogia
con il concetto di biosfera. (Lotman, 1985, p. 56)

Noi lo chiamiamo enciclopedia. L’enciclopedia è un continuum rizomatico


liscio su cui il percorso, l’interpretazione e le pratiche inscrivono una rete, che
ne stria localmente la superficie. A partire da questa unione di spazi lisci e di
spazi striati, altre interpretazioni/percorsi/pratiche si installano localmente per
percorsi di striatura e lisciatura ricorsivi.

3.6. Ritorno sulle relazioni di opposizione: articolazione tra liscio/striato


centro/periferia, valenza e somiglianze di famiglia. Contraddizioni,
opposizioni privative, qualitative e partecipative

Possiamo a questo punto ritornare sulle relazioni differenziali costitutive dei


sistemi semio-linguistici, al fine di integrare i risultati ottenuti nel precedente
paragrafo. Più in particolare:

1) Integreremo la nostra trattazione di una teoria sublogica ed enciclopedica


della differenza, introducendo una serie di relazioni differenziali proprie dei
sistemi semio-linguistici che sono fino a ora rimaste escluse dal nostro
percorso.
2) Ritorneremo sul livello logico delle relazioni differenziali, al fine di operare
alcune precisazioni importanti sulla forma di relazione esclusiva A VS non-
A. Queste precisazioni ci consentiranno di occuparci poi, nel resto del
capitolo, dell’ultima relazione differenziale articolata nel quadrato
semiotico di Greimas, l’implicazione, al fine di concludere il nostro
percorso “minore” interno al grande simbolo “maggiore” di una teoria
semiotica della differenza.

Per quanto riguarda il punto 1), in 3.4 vedevamo come il livello sublogico
presentasse una forma di relazione sul tipo di A VS (A)+non-A, capace di
tenere insieme il livello prelogico (partecipativo) e quello logico (esclusivo).
Al fine di rendere esaustiva la nostra trattazione, occorrerà allora introdurre
altri tre tipi di relazioni molto studiati in altri ambiti disciplinari, che possono
essere localmente euristici per descrivere gli effetti di senso dei fenomeni che
si verificano all’interno di un rizoma enciclopedico. Ce ne occupiamo solo a
questo punto del nostro percorso, dal momento che l’opposizione tra liscio e
striato, oltre a quanto detto sul sinechismo e l’interpretazione enciclopedica,
consentono di rendere più chiaro lo statuto che queste forme di relazione
assumono nel momento in cui vengono introdotte all’interno dei sistemi semio-
linguistici di tipo enciclopedico.
Ci poniamo quindi qui a livello sublogico, dal momento che non solo
un’enciclopedia rizomatica è per essenza il luogo di sintesi dei livelli logico e
prelogico, ma perché è l’opposizione stessa tra liscio e striato a presiedere alla
ripartizione tra livello prelogico e livello logico. Le relazioni esclusive di tipo
strutturale sono infatti effetto della divisione di un continuum in domini da
parte di un sistema di frontiere (spazio striato), mentre la lisciatura di questo
stesso spazio porta con sé tutta una serie di rapporti tensivi, modulativi e
continui. L’opposizione tra liscio e striato appartiene quindi costitutivamente al
livello sublogico e l’enciclopedia rizomatica, come unione di spazi lisci e spazi
striati, è l’oggetto teorico principale che presiede a una teoria della differenza
di tipo sublogico. Al fine di renderla almeno parzialmente esaustiva, possiamo
allora introdurre a questo punto: i) le somiglianze di famiglia; ii) le relazioni
centro-periferia; iii) le valenze.

i) Le somiglianze di famiglia, sul tipo di quelle studiate da Wittgenstein e a


cui accennavamo in 3.5, definiscono gli “anelli intermedi di una catena”,
come dice lo stesso Wittgenstein. In questo la loro forma di relazione è
vicina alla configurazione “escheriana” della modulazione, che studiavamo
in 1.6, e all’idea dell’interpretazione in Peirce, in cui si va da un elemento
a un altro elemento anche molto distante nello spazio enciclopedico
attraverso tutta una serie di elementi intermedi. All’interno di una teoria
semiotica della differenza, le somiglianze di famiglia definiscono una serie
di stati modulativi di un’opposizione o di una relazione, e presentano una
struttura mediatrice di tipo continuo nel senso della legge di continuità
leibniziana, in cui “dal piccolo al grande e dal grande al piccolo si passa
sempre attraverso un termine medio”. Un’interpretazione semiotica di
questo movimento è data proprio da Eco (1982, p. 142) in riferimento alla
sua polemica con Roger Scruton ricostruita in 1.8:
Pensate a un oggetto alfa che ha le proprietà A B C, poi un oggetto beta con proprietà B C D
(quindi due proprietà in comune con alfa) e ancora un oggetto gamma con proprietà C D E (due
proprietà in comune con beta) e infine un oggetto delta che ha le proprietà D E F (due proprietà
ancora in comune con gamma). Stabiliamo tra questi oggetti una somiglianza di famiglia. Eppure
non c’è niente in comune con alfa e delta. Tuttavia ci deve essere qualcosa che li lega. I giochi
sono fenomeni sottomessi a somiglianze di famiglia. Per questo destano la nostra meraviglia e per
questo c’è una filosofia del gioco. I bottoni hanno probabilmente delle somiglianze di famiglia.
Allora rispondo a Roger Scruton che forse sarebbe bene fare una filosofia dei bottoni. È male che
non sia stata tentata, ed è male che lui spenda il meglio del suo tempo sui pesci. (Eco, 1982, p.
142)

ii) Le opposizioni tra centro e periferia, molto studiate in semiotica, ad


esempio da Lotman (1985), definiscono un tipo di opposizione diverso
rispetto alle somiglianze di famiglia wittgensteiniane, a cui sono invece
state spesso frettolosamente accostate.30 La forma di relazione che
definisce un’opposizione di questo tipo presenta infatti una struttura
infinitamente più gerarchizzata rispetto a quella che è costitutiva di una
somiglianza di famiglia. In un’opposizione di questo tipo, un elemento
funziona infatti da centro organizzatore e soltanto a partire da esso si
organizza un continuum graduato, definito in funzione dell’elemento
centrale. A differenza delle somiglianze di famiglia, la graduazione
modulativa è cioè costitutivamente gerarchizzata, in quanto si organizza
attorno a un centro che definisce la “capitale” della regione considerata
(così ad esempio nella teoria dei prototipi31).
In questo modo, l’opposizione tra centro-periferia presuppone il ritaglio di
un dominio, e quindi la precedente striatura di uno spazio attraverso un
sistema di frontiere, così che il rapporto “modulativo” tra centro e periferia
risulta essere interno a un dominio e dipendente da una striatura
precedente, che ha definito quel dominio ritagliando una sezione
enciclopedica parziale. Al contrario, una somiglianza di famiglia può
essere costitutivamente “trans-dominiale”, e anzi, serve spesso a connettere
domini anche molto eterogenei tra loro attraverso tutta una serie di “anelli
intermedi”. È in questo senso che Wittgenstein (1967) la connetteva ad
esempio all’idea di “rappresentazione perspicua”. Insomma, là dove una
relazione centro-periferia presuppone la striatura di uno spazio liscio, una
somiglianza di famiglia serve spesso a lisciare uno spazio striato,
connettendo elementi anche molto lontani dello spazio enciclopedico.
iii) Una relazione differenziale di valenza, sul tipo di quelle già incontrate in
1.5 nella Logica dei Relativi di Peirce e nella Sintassi attanziale di
Tesnière, definisce un sistema costituito da un nucleo e da un numero
variabile di posizioni installate dal nucleo e che dal nucleo dipendono. Si
tratta di una relazione fortemente gerarchizzata, in cui le posizioni
dipendono nella loro stessa esistenza dal nucleo della relazione. Non si
confonderà questa relazione con una relazione centro-periferia, a cui è
certamente vicina, ma in cui il legame tra gli elementi è molto più debole.
Le posizioni attanziali non definiscono infatti la periferia del verbo come
centro organizzatore, ma sono l’effetto del suo dispiegamento e sono
determinate dalla sua struttura. Al contrario, la struttura della periferia
non è certo determinata da quella del centro (una banlieu non è certo
determinata dalla struttura dei boulevards dei campi elisi, almeno non nel
senso in cui il donante, il dono e il ricevente sono determinati dalla
struttura del “donare”).
La valenza caratterizza il luogo tensivo e il numero dei legami che uniscono un nucleo e le sue
periferiche, che sono definite attraverso l’attrazione che esercita su di esse il nucleo e attraverso la
“potenza di attrazione” del nucleo stesso, riconoscibile dal numero di periferiche che è in grado di
“tenere insieme” sotto la sua dipendenza, […] producendo globalmente un effetto di coesione.
(Fontanille e Zilberberg, 1998, p. 11)

L’insediamento di un governo politico definisce ad esempio una serie di


relazioni gerarchizzate di valenza dipendenti le une dalle altre:
l’insediamento di un presidente del consiglio apre una serie di posizioni
che da lui dipendono e che lui stesso ha la possibilità di dimissionare
(ministri). Queste posizioni aprono a loro volta delle sotto-relazioni di
valenza che dipendono in maniera mediata dal centro di organizzatore
primario (presidente del consiglio) e in maniera diretta dai suoi ministri
(sottosegretari) e così via. La struttura locale di uno spazio politico potrà
largamente determinare la forza coesiva del suo centro organizzatore: ad
esempio, un nuovo governo vorrà fare una squadra di ministri di valenza
bassa per differenziarsi dal governo precedente che aveva moltiplicato
ministri e sottosegretari, a causa delle esigenze di visibilità delle singole
parti della propria coalizione. In questo modo, è del tutto evidente come la
valenza di una relazione differenziale dipenda dalla struttura del sistema
in cui si inserisce: la valenza di “donare” dipende dalla struttura della
lingua, esattamente come la valenza di un governo dipende da quella dello
spazio politico in cui si trova localmente a operare. È allora spesso
proprio attraverso l’istituzione di valenze che nei sistemi culturali si
ottengono degli spazi striati fortemente gerarchizzati.

Possiamo a questo punto occuparci del nostro punto 2) e fornire alcune


precisazioni finali a proposito delle relazioni differenziali di tipo esclusivo,
precisando una cosa fondamentale a cui facevamo accenno in 3.3. La forma
esclusiva “A VS non-A”, che è propria dei sistemi semio-linguistici, è infatti
interpretabile in almeno due modi: i) come opposizione privativa; ii) come
contraddizione.
Come detto, una relazione di contraddizione strutturalista di tipo semio-
linguistico non può allora essere logico-formale, dal momento che le relazioni
nello strutturalismo sono di tipo topologico e morfologico e sono costitutive
dell’identità dei termini.32 Tuttavia, occorre prestare estrema attenzione a non
confondere questo tipo particolare di relazione con delle opposizioni privative,
quali sono quelle descritte ad esempio nella fonologia di Jakobson. Infatti, là
dove un’opposizione privativa definisce l’assenza di un tratto (“nonsonoro” è
l’assenza del tratto sonoro all’interno di un fonema), una contraddizione
definisce invece l’affermazione di un tratto negato, che è tutt’altra cosa.
Lavoreremo meglio su questo punto nei successivi paragrafi (cfr. infra, 3.7-
3.8).
Oltre a ciò, va anche notato come in diversi punti, primo fra tutti nel famoso
elenco dei tratti distintivi fonologici, Jakobson (1963) fornisca un’altra
interpretazione della forma logica dell’opposizione esclusiva A VS non-A,
specificando il termine non-A come un termine polare qualitativamente
opposto ad A. Queste opposizioni qualitative tra termini polari hanno allora
una forma di relazione leggermente diversa (“A VS B”), ma fanno parte della
stessa concezione esclusiva della differenza (“logica” in senso hjelmsleviano):
sullo sfondo di un medesimo asse, si oppongono due termini pieni, e cioè
definiti ognuno attraverso un tratto. È un caso di questo tipo l’opposizione di
Jakobson tra “bilabiale” e “labiodentale”, che oppone due tratti differenti sullo
sfondo di un tratto comune (labialità). Avevamo allora visto come, all’interno
di un sistema prelogico, le opposizioni qualitative sul tipo di “A VS B”
venissero invece spesso interpretate come delle opposizioni tra un termine
preciso (intensivo) e un termine fluttuante e vago (estensivo), là dove in un
universo logico esse venissero invece interpretate come opposizioni tra due
termini precisi, definiti ognuno attraverso la presenza di un tratto. Non
insistiamo oltre su questo punto.
Per ciò che concerne i nostri obiettivi, occorre allora sottolineare come
Jakobson specifichi tre diversi modi di pensare la forma esclusiva
dell’opposizione logica A VS non-A all’interno dei sistemi semio-linguistici: se
non-A è infatti “ciò che non è A”, esso può essere interpretato alternativamente
come i) l’assenza di A (opposizione privativa), ii) la negazione di A
(contraddizione); iii) il polare B opposto qualitativamente ad A (opposizione
qualitativa).
Ora, la semiotica generativa, e in particolare Greimas, ha sempre sostenuto
che le relazioni che venivano individuate a livello semico e successivamente
articolate in quadrato semiotico sugli assi dei contrari e dei contraddittori erano
delle opposizioni qualitative sul tipo di “bilabiale VS labiodentale” (A VS B) e
delle opposizioni privative sul tipo di “sonoro/non-sonoro” (A VS non-A):
Con l’aiuto del quadrato si tratta di dotare la semiotica della definizione minimale del concetto di
struttura includendo in una maniera o nell’altra almeno le due principali relazioni: contraddizione e
contrarietà, opposizioni privative e qualitative. (Greimas, 1981, p. 44)

Occorrerà allora insistere su questo “in una maniera o nell’altra”, perché


vedremo come, all’interno del quadrato semiotico, Greimas non solo assuma
sincreticamente tutti e tre i sensi individuati qui sopra (e non solo i due
dichiarati), ma operi anche tutta una serie di torsioni al fine di “far tornare” la
teoria del percorso generativo, anche a costo di rendere inconsistenti le
relazioni differenziali articolate, e dunque il concetto di struttura che dovrebbe
invece essere alla base stessa della teoria.
Tuttavia, per noi questo non è affatto un problema, bensì è la forza inconscia
della teoria greimasiana stessa, dal momento che ci permetterà di mostrare
come, nella sua formulazione canonica, il quadrato semiotico non sia affatto
una struttura nel senso di un insieme chiuso di relazioni ordinate di tipo
esclusivo, ma sia invece fin da subito una rete rizomatica. Questo ci permetterà
di tenere insieme le semiotiche di Hjelmslev, Eco e Greimas sotto un’unica
concezione generale della differenza e dei rapporti differenziali di tipo
sublogico.

3.7. Differenza strutturale e differenza rizomatica: il quadrato semiotico

Possiamo a questo punto occuparci più da vicino della forma di relazione


incarnata nel quadrato semiotico di Greimas, che rappresenta l’essenza stessa
di una teoria semiotica della differenza di tipo strutturale. Come nota
giustamente Landowski (1982, 65):
Incarnazione del postulato saussuriano secondo cui non esiste significazione che non sia produzione e
riconoscimento di scarti differenziali, la teoria semantica proposta da Greimas si presenta a livello più
generale, come il risultato di una riflessione non filosofica sulla differenza, questo “niente” che fonda
tutto, o quanto meno tutto ciò che significa. […] Si tratta di una teoria della relazione. Ciò che si è
deciso di chiamare quadrato semiotico ne è l’espressione.

In quanto “teoria della relazione” basata su “scarti differenziali”, il quadrato


semiotico sembra a prima vista essere l’effetto del tentativo di implementare a
livello del contenuto le stesse tecniche d’analisi che la fonologia strutturale
utilizzava per il piano dell’espressione (cfr. Greimas, 1970, pp. 40-43; 1967,
pp. 37-51). Ma è davvero così?
Roman Jakobson, uno dei promotori dell’analisi linguistica in base a tratti distintivi, stabilisce una
netta distinzione fra due tipi di opposizione che consentono di considerare come distintivi i termini di
una relazione. Da un lato, ci possiamo trovare di fronte a una relazione del tipo:
a vs non a
ove a sarà considerato come marcato in quanto possiede un tratto distintivo in più, di cui non a, che è
il termine non marcato, è sprovvisto. Tutt’altra relazione si stabilisce invece tra:
a vs –a
ove –a è la negazione di a. (Greimas, 1970, p. 136)

Com’è evidente, è a Jakobson e alla sua concezione logica ed esclusiva delle


relazioni differenziali che il quadrato semiotico deve la sua ispirazione (cfr.
Nef, 1976 e Utaker, 1974). Ma è altrettanto evidente che, là dove si è abituati a
rintracciare nel quadrato delle opposizioni qualitative (contrari) e privative
(contraddittori), questa distinzione greimasiana rimanda invece alla distinzione
tra opposizione privativa e contraddizione specificata in 3.6. Come nota
giustamente Utaker (1974, p. 83) infatti: “la relazione di contrarietà tra S1 ed
S2 può essere interpretata sia come una opposizione qualitativa sia come
un’opposizione privativa”, e si veda infatti come il quadrato semiotico viene
presentato nella sua formulazione originaria nel Dizionario di Greimas e
Courtés (1979), in cui viene introdotto proprio in riferimento alla fonologia di
Jakobson:

Figura 4. Greimas e Courtes, 1979: “Quadrato semiotico”

Sull’asse dei contrari abbiamo qui un’opposizione privativa sul tipo di


marcato/non marcato, mentre sull’asse dei contraddittori abbiamo la negazione
di un termine, ovvero una contraddizione. E tuttavia, se Greimas insiste col
riferirsi a Jakobson (1963), lo fa sempre in modo vago, dal momento che la
lista jakobsoniana dei tratti distintivi, a cui i semi dovrebbero corrispondere sul
piano del contenuto, mette invece in gioco dodici opposizioni binarie che sono
al contempo qualitative e privative.
Al fine di fare chiarezza sul rapporto tra semi e tratti distintivi e sulle loro
specifiche forme di relazione, prendiamo allora in esame proprio la fonologia
di Jakobson.33 Com’è noto, e come accennavamo in 3.4, in Jakobson un
fonema è definito dalle differenze che esso intrattiene con altri fonemi, e sono
proprio queste differenze a essere formulate nei termini di opposizioni
qualitative e privative tra tratti distintivi. Questo rende immediatamente
evidente la compresenza di due livelli distinti all’interno della teoria
jakobsoniana. A livello dei tratti distintivi, le opposizioni non si escludono l’un
l’altra, ma si interdefiniscono attraverso determinazione reciproca; mentre
quando un tratto entra nella definizione di un fonema, esso immediatamente
esclude la presenza del suo opposto. Ma allo stesso modo, il tratto escluso
partecipa alla definizione dell’identità del fonema attraverso la sua stessa
assenza: un fonema è sempre allo stesso tempo ad esempio “vocalico” e “non-
consonantico” (cfr. supra, 3.4).

Figura 5. Quadrato di tipo fonologico

Questo quadrato è consistente: ci dice che la presenza del tratto vocalico


implica la contemporanea assenza di quello consonantico (e cioè implica “non-
consonantico”), che l’opposizione consonantico/non-consonantico è privativa
(presenza/assenza del tratto consonantico) e che le relazioni tra le qualità polari
possono complessificarsi e dare vita a ulteriori posizioni neutre e complesse
(liquide e legamenti). E però questo quadrato non è un quadrato. O meglio,
non è un quadrato semiotico greimasiano, dal momento che Greimas non
formula mai un quadrato che presenta una forma di relazione di questo genere.
Nel quadrato semiotico l’implicazione va infatti nella direzione esattamente
opposta. Non è cioè S1 a implicare non-S2 (la presenza del tratto vocalico
implica la contemporanea assenza di quello consonantico), bensì non-S2 a
implicare S1, che è tutt’altra cosa.
Il problema però è che entrambi i quadrati formulati da Greimas sono
inconsistenti. Partiamo dal primo del Dizionario.
Se si tiene insieme un rapporto tra assi, schemi e deissi opponendo due
qualità polari A e B, come avevamo visto in Jakobson, possiamo senz’altro
dire che la presenza di A implica l’assenza di B (e cioè “non-B”), ma se si fa la
stessa operazione opponendo due qualità non polari, come fa Greimas nella
prima formulazione del Dizionario, ci troviamo in una situazione di questo
tipo:

Figura 6. Primi problemi dell’implicazione: tautologie

Qui l’implicazione diventa semplicemente tautologica: non-B implica


l’assenza del suo opposto, e cioè quella di B, non-B implica non-B. Andrà
allora anche notato come in questo caso l’orientamento dell’implicazione non
sia pertinente: una tautologia viene prodotta sempre.
Il quadrato, in questa prima formulazione del Dizionario, non è allora altro
che una macchina che produce tautologie. Tuttavia, se si fa riferimento a
Semantica Strutturale (Greimas, 1967, p. 43; cfr. Nef, 1976, p. 14), sembra che
con la notazione “non S1” (o “non-A”), Greimas non indichi sempre un
termine non marcato, ma oscilli tra quest’ultimo e l’idea di un altro sema
diverso da S1 (per questo “non-S1”) ma appartenente allo stesso asse
semantico S. Cioè con non-S1 (o non-A), Greimas intende la terza
interpretazione possibile della forma esclusiva “A VS non-A” data da
Jakobson, e cioè quella che interpreta “non-A” come polare opposto “B”.
Tuttavia, se la prima formulazione del Dizionario faceva sì che la relazione
d’implicazione del quadrato conducesse a una tautologia, la formulazione che
pone sull’asse dei contrari quella che in Jakobson era un’opposizione
qualitativa tra termini polari sortisce effetti a loro modo peggiori. Seguiamo
infatti sempre il Dizionario. Dopo avere illustrato il funzionamento del
quadrato e averne fornito la tassonomia delle relazioni, Greimas e Courtés
(1979, p. 276) scrivono:
Niente impedisce una rappresentazione in quadrato di queste categorie:

È evidente che la negazione della negazione equivale all’asserzione.

È evidente?
Se io non nego una cosa non vuole necessariamente dire che io l’affermi:
potrei benissimo essere dubitativo, sospendere il giudizio, affermare
l’indecidibilità, lasciare la porta aperta alla possibilità che le cose stiano
effettivamente in quel modo, ma che stiano anche in modo diverso. Non c’è
niente nel contenuto semico di una “non-negazione” che implichi
necessariamente un’asserzione, o peggio, che equivalga a essa. E tuttavia
Greimas invece insiste a dire che è così, e anzi cerca di far credere che sia
addirittura ovvio che sia così. Ovviamente la lessicalizzazione particolare
adottata (“asserzione/negazione”) non è dirimente: “non povero” ad esempio
non implica “ricco” né tanto meno equivale a esso, dal momento che il
contenuto semico di non-povero può benissimo implicare una persona
benestante, uno che se la cava, uno che alla fine della giornata ha sempre il suo
piatto di minestra in tavola. Che lo statuto della relazione di implicazione
interna al quadrato semiotico fosse di fatto mal fondato, era già stato notato fin
dal 1983 da Bernard Pottier:
È la complementarietà (piuttosto che la contrarietà) a coprire il dominio semantico fondamentale […].
Tuttavia ciò che non è P non è affatto forzatamente Q. Ciò che è “non-caldo” può essere benissimo
freddo, così come tiepido, atermico o quant’altro. Questo fatto distrugge l’implicazione della deissi.
(Pottier, 1983, p. 17)

Insomma, Greimas dice che la negazione di un termine del quadrato implica


il suo contrario, ma non c’è niente nel quadrato che mostri questo fatto. Se noi
guardiamo quello che si vede all’interno del quadrato, vediamo che il quadrato
funziona in modo estremamente deviante rispetto alla sua formulazione
standard. L’interpretazione “maggiore” dell’articolazione logica di una
categoria semantica incarnata in un quadrato semiotico sostiene infatti che:

i) Il quadrato semiotico articola sul piano del contenuto delle grandezze


corrispondenti ai tratti distintivi del piano dell’espressione, e lo fa
mettendo in forma delle opposizioni semiche sul tipo di quelle qualitative
(vocalico/consonantico) e privative (vocalico/non-vocalico) della fonologia
strutturale.
ii) A partire da queste ultime il quadrato è in grado di generare una doppia
implicazione che va dal termine negato al suo contrario.

Al contrario, si tratterà di intraprendere un percorso “minore” capace di


mostrare i quattro punti seguenti:

i) L’unica forma di relazione consistente in cui una struttura elementare della


significazione come il quadrato semiotico può tenere insieme opposizioni
privative e qualitative comporta che la relazione di implicazione (deissi)
sia orientata in modo opposto a quello stabilito da Greimas.
ii) Greimas, per esigenze interne alla teoria e per motivi empirici di analisi
non può orientare il quadrato nell’unico modo che lo renderebbe
consistente, ed è così costretto a cadere nelle aporie dell’implicazione
(paradosso della “negazione della negazione”).
iii) Se orientato greimasianamente, il quadrato semiotico cambia statuto: più
in particolare gli schemi non articolano più un’opposizione privativa
(presenza/assenza di un tratto semico) bensì una contraddizione sui generis
(“affermazione di un tratto semico negato”).
iv) Un quadrato semiotico composto dall’unione di un’opposizione qualitativa
sugli assi e di una contraddizione sugli schemi che viene orientato
greimasianamente non è un quadrato, esplode e si trasforma in qualcosa di
irriducibilmente altro, che rappresenta l’oggetto teorico principale di
un’articolazione sublogica della differenza.
Sul primo punto abbiamo in qualche modo già detto. Un quadrato
consistente che tenga insieme assi, schemi e deissi, articolando un’opposizione
qualitativa e un’opposizione privativa, può presentare soltanto una forma di
relazione sul tipo di quella da noi costruita sulla base della fonologia
jakobsoniana (cfr. figura 5), in cui l’implicazione è orientata dall’alto in basso.
È cioè ad esempio la presenza del sema “affermazione” (S1) a implicare
l’assenza del suo opposto “negazione” (non-S2): essendo così “negazione/non-
negazione” un’opposizione privativa (presenza/assenza del sema “negazione”)
e “affermazione/negazione” un’opposizione qualitativa. Orientare la deissi in
senso inverso significa prestare il fianco alle obiezioni di Pottier, e condannarsi
ad affermazioni insostenibili come “è evidente che la negazione della
negazione equivale all’asserzione” (Greimas e Courtes, 1979, p. 276). Se non
che, con nessuna influenza sulla semiotica generativa e sulle analisi testuali
che ne sono seguite, chi aveva una percezione quanto meno “oscura e
indistinta” di questo fatto era proprio lo stesso Greimas, unitamente a François
Rastier.
La prima formulazione del quadrato semiotico non è infatti di Greimas, ma è
scritta a quattro mani proprio con Rastier ed esposta in un saggio del 1968
intitolato Interazione delle costrizioni semiotiche. In una nota a piè di pagina,
dopo aver introdotto la relazione di implicazione, Greimas e Rastier scrivono:
Se l’esistenza di questo tipo di relazione appare indiscutibile, non è ancora risolto invece il problema
del suo orientamento (S1→non-S2, oppure non-S2→S1). Non vi indugeremo comunque, dato che la
soluzione di esso non è richiesta dal seguito della dimostrazione. (Greimas, 1970, p. 145)

Ecco la prova provata che “non negare” non significa necessariamente


“affermare”: in una sorta di mise en abyme, Greimas e Rastier non negano che
l’orientamento del quadrato potrebbe essere quello che Greimas considererà in
seguito come acquisito, ma non negandolo non necessariamente lo affermano
(e infatti dicono che non lo sanno), tanto che decidono proprio di sospendere il
giudizio. Non è infatti un caso che, due pagine dopo, la relazione di
implicazione sia descritta in questo modo:
Una relazione di implicazione è stabilita fra S1 e non-S2 da un lato, Non-S2 e S1 dall’altro; S2
implica non-S1; S1 implica non-S2, o inversamente. (Greimas, 1970, p. 147)

Come “o inversamente”?
Al fine di far luce adeguatamente su questo aspetto, va allora sottolineato un
punto fondamentale della questione. Se Greimas insiste tanto su di un
orientamento delle relazioni del quadrato insostenibile a livello di una teoria
delle relazioni, è perché solo in questo modo può convertirne i valori semici in
una dimensione sintagmatica di cui si farà carico una sintassi attanziale di
tipo narrativo. A livello profondo della teoria greimasiana infatti, si possono
individuare due componenti: una morfologia che si occupa delle relazioni
costitutive tra semi; una sintassi che trasforma le relazioni tassonomiche del
quadrato in operazioni su valori. Questa seconda componente interna alla
logica del quadrato è la chiave di tutto il percorso generativo, dal momento che
è attraverso di essa che i valori dei rapporti differenziali costitutivi del
quadrato vengono narrativizzati in operazioni di affermazione/negazione dei
termini stessi. È poi soltanto attraverso questa “preconversione narrativa” che
dei rapporti di congiunzione/disgiunzione tra soggetti e oggetti di valore
potranno corrispondere a livello sintagmatico ai termini individuati all’interno
del quadrato semiotico.34
Come nota lo stesso Greimas: “La narratività a livello profondo può essere
concepita come una serie di operazioni logiche orientate che si esercitano
all’interno del percorso previsto dal quadrato semiotico” (Greimas, 1976, p.
22). A livello di sintassi attanziale, a queste operazioni di
affermazione/negazione corrisponderanno allora programmi narrativi, e cioè
congiunzioni/disgiunzioni tra soggetti e oggetti di valore.

images

Figura 7. Conversione dei valori semici in singolarità narrative (tratto da Pozzato, 2001, p. 62)

È allora proprio questa necessità interna alla teoria greimasiana di far


corrispondere posizioni nel quadrato e programmi narrativi a cambiare
completamente lo statuto della relazione di contraddizione e l’orientamento di
quella di implicazione:
È possibile stabilire un reticolo di equivalenze fra le relazioni fondamentali costitutive del modello
tassonomico e le proiezioni di queste medesime, o operazioni, le quali vertono stavolta su termini già
stabiliti di questa medesima morfologia elementare; operazioni la cui regolamentazione costituirebbe
la sintassi. La contraddizione, in quanto relazione, serve così a livello della tassonomia alla
costituzione di schemi binari; in quanto operazione di contraddizione, consisterà invece a livello
sintattico, nel negare uno dei termini dello schema e nell’affermare contemporaneamente il termine
contraddittorio. Una operazione del genere, quando si effettui su termini già investiti quanto a valori,
comporta come risultato la trasformazione dei contenuti: essa infatti nega i contenuti posti e fa
emergere in loro vece nuovi contenuti asseriti. (Greimas, 1970, p. 175)

Ecco allora il modo in cui all’interno del quadrato un’opposizione privativa


sparisce completamente senza lasciare traccia. Greimas non parla infatti più di
presenza/assenza di un tratto, bensì di negazione di un termine e di
affermazione del termine contraddittorio, che è tutt’altra cosa. Questo
cambiamento di statuto della relazione definita dagli schemi è allora l’effetto
dell’inversione dell’orientamento delle relazioni interne al quadrato. Nel
momento in cui il quadrato viene infatti narrativizzato al fine di affermare o di
negare dei valori che saranno poi incarnati a livello di sintassi attanziale, non-
S2 non si ritrova più ad essere l’assenza del termine S2, bensì l’affermazione
della sua negazione. E si tratta di tutt’altro che di un cambiamento astratto: la
mia presenza qui implica infatti la mia contemporanea assenza da tutto ciò che
non è il mio tavolo di lavoro (e questo presiede a un’opposizione privativa),
ma sono pochissimi, se ce ne sono, i posti in cui questa mia assenza è
effettivamente notata e affermata come un valore (quante persone presenti in
tutti i posti del mondo in cui io non sono adesso staranno pensando “non c’è
Claudio”?). L’esempio rende immediatamente visibile la differenza esistente
tra l’assenza di un tratto e l’affermazione di un tratto negato, tra “non-
marcatura” e “marcatura di un non”, e Greimas è estremamente esplicito
nell’affermare che la contraddizione del quadrato nega uno dei termini dello
schema e afferma contemporaneamente il termine contraddittorio, dando così
vita a una trasformazione dei valori. Affermazione di un tratto negato.
Le operazioni sintattiche sono orientate. […] La conoscenza delle proprietà relazionali della struttura
elementare […] prescrive quanto segue: l’operazione di contraddizione che, negando ad esempio il
termine S1, pone contemporaneamente il termine non-S1 [e si presti attenzione al fatto che non-S1 è
diventato un termine, non l’assenza del termine opposto], dovrà essere seguita da una nuova
operazione di presupposizione la quale fa emergere, e congiunge al termine S1, il nuovo termine S2.
Le operazioni sintattiche sono perciò non soltanto orientate, ma anche organizzate in serie logiche.
(Greimas, 1970, pp. 175-176)

La “serialità logica” di cui parla Greimas testimonia non solo la natura


esclusiva della sua teoria della differenza, ma anche la necessità di connettere
le forme di relazione tra semi al dispiegamento sintagmatico di una teoria che
fa corrispondere affermazioni/negazioni di valori semici a
congiunzioni/disgiunzioni tra soggetti e oggetti di valore.
Se si considera la narratività nella sua prospettiva sintagmatica in cui ogni programma narrativo
appare come un processo fatto di acquisizioni e di perdite di valori, di arricchimenti e di
impoverimenti dei soggetti, ci si rende conto che ogni passo avanti fatto sull’asse sintagmatico
corrisponde a uno spostamento topologico sull’asse paradigmatico e si definisce attraverso di esso.
[…] L’ordinamento dei percorsi paradigmatici determina così la direzione del percorso sintagmatico e
viceversa. (Greimas, 1976, p. 26)

E proprio questo fatto, unitamente a una serie di analisi di racconti e di miti


che si sviluppavano secondo quella forma, ad aver indotto Greimas a
presentare il quadrato nella forma del “percorso a otto” presentato in figura 7.
Peccato che però questa triplice necessità di i) adeguare la teoria all’analisi, ii)
proiettare il paradigmatico sul sintagmatico; iii) conservare categorie che
funzionavano per il piano dell’espressione applicandole a oggetti di tutt’altra
natura come sono i racconti e i miti, finisca per rendere il quadrato di figura 7
completamente inconsistente.
Insomma, non è affatto vero che il quadrato semiotico sia l’effetto della
trasposizione sul piano del contenuto dei metodi di analisi della fonologia
strutturale: il quadrato è un oggetto teorico spurio, che è effetto della necessità
di conciliare esigenze interne alla teoria del percorso generativo (conversione
del paradigmatico in sintagmatico), procedure di analisi empirica e istanze ad
hoc di quadratura del cerchio (o di cerchiatura del quadrato, se si preferisce).
Nel momento in cui viene importata dalla fonologia, la teoria logica della
differenza strutturale (esclusiva) è costretta a subire tutta una serie di
rimaneggiamenti che demoliscono l’assioma di partenza, e cioè l’isomorfismo
tra piano dell’espressione e piano del contenuto, e ne modificano lo statuto.
Infatti, come vedremo adesso, nel momento in cui l’implicazione è orientata
alla rovescia e la “marcatura di un non” prende il posto di un’opposizione
privativa, i punti e le posizioni sul quadrato esplodono in una rete non
gerarchizzabile di concatenamenti reticolari.

3.8. Le antinomie del quadrato semiotico e la sua esplosione enciclopedica:


smascheramenti

Pottier (1983) mostrava come fosse l’implicazione il punto debole del


quadrato semiotico. La relazione di implicazione non pare infatti in grado di
svolgere adeguatamente il ruolo che Greimas le assegnava, e cioè quello di
generare il sema S1 a partire dalla negazione del sema S2. Non è infatti
assolutamente detto che non-S2 implichi S1: non-S2 può implicare S3, S4, S5,
Sn: è cioè infinita la molteplicità di elementi che possono essere implicati da
non-S2. La debolezza dell’implicazione è tanto più evidente se si considera che
ciò che in teoria potrebbe farle svolgere correttamente il suo compito è invece
completamente dipendente dalla sua stessa dinamica. Si potrebbe infatti
pensare che l’implicazione debba funzionare secondo un’isotopia che definisce
una categoria semantica, tale che solamente al suo interno l’implicazione possa
ritrovarsi in grado di richiudere il termine contraddittorio su quello contrario. E
invece è esattamente il contrario. È cioè l’appartenenza a una medesima
categoria semantica a essere funzione delle dinamiche dell’implicazione, dal
momento che se e solo se una doppia implicazione a partire dai termini
contraddittori risulta in grado di generare i termini contrari, allora questi ultimi
possono essere detti appartenere a una stessa categoria semantica:35
Effettuata sui termini contraddittori (non S1 e non S2), l’operazione di asserzione può presentarsi
come una implicazione e far apparire i due termini primitivi come dei presupposti dei termini asseriti
(non S2 implica S1; non S1 implica S2). Se e soltanto se questa doppia asserzione ha per effetto di
produrre queste due implicazioni parallele, si è in diritto di dire che i due termini primitivi presupposti
sono i termini di una sola e medesima categoria e che l’asse semantico scelto è costitutivo di una
categoria semantica. Al contrario, se non S1 non implica S2 e se non S2 non implica S1, i termini
primitivi S1 e S2, con i loro contraddittori, appartengono a due categorie semantiche differenti.
(Greimas e Courtés, 1979, 275-276)

Non è dunque affatto vero che il funzionamento dell’implicazione sia


funzione di una categoria o di un asse semantico dedotti da un’isotopia: è se
mai vero il contrario, sebbene il quadrato sia stato per lo più utilizzato in
questo primo senso, secondo quella tacita consuetudine secondo la quale, se è
possibile far funzionare lo stesso ciò che di fatto non funziona, è sempre bene
non domandarsi il perché esso non funzioni.
Senza ricorrere a istanze ad hoc, uscendo fuori dal quadrato, non c’è cioè
niente nella sua struttura costitutiva che sia in grado di garantire la correttezza
della genesi delle relazioni che vuole generare. All’interno di un quadrato
semiotico, la contraddizione apre indefinitamente la categoria, ma
l’implicazione non è però più affatto in grado di richiuderla sul termine
contrario, come vorrebbe invece Greimas. Come nota giustamente Fontanille
infatti, il termine contraddittorio non-S2 non è affatto
impreciso, bensì presenta un valore generico: in questo modo, la negazione che lo fa apparire
all’interno del discorso dona libero corso a tutti i termini possibili della categoria: non si tratta di un
vaso vuoto, ma di un vaso di Pandora. (Fontanille, 1998, p. 53)

Ormai abbiamo aperto il vaso e ci siamo resi conto che l’implicazione non è
in grado di richiuderlo: si tratta soltanto di vedere cosa ne viene fuori.
La situazione ci pare così radicale da non consentire di conservare la
chiusura relativa del quadrato attraverso un espediente bi-isotopico che
raddoppi le relazioni logico-discorsive proprie della categoria, costituendole in
funzione di un’ulteriore correlazione che le associ ad almeno un’altra
dimensione semantica. È questa ad esempio la strada tentata da Fontanille e
Zilberberg (1998, pp. 51-59) al fine di conservare una chiusura relativa che
protegga il quadrato dalle pericolose intemperie di un “fuori”. Il loro esempio è
allora proprio tratto da Pottier, e si pone come obiettivo quello di emendare il
quadrato dalle obiezioni ricordate qui sopra attraverso l’associazione di una
dimensione povertà/ricchezza a un’altra dimensione costituita in funzione di
un’ulteriore isotopia, quale ad esempio “poter fare/non poter fare”:
I misteri dell’implicazione-asserzione, che “chiude” il percorso sul quadrato, potrebbero essere risolti
se si ammettesse che non si dà categoria semplice o isolabile, soprattutto nel discorso, e che la
riduzione finale imposta attraverso l’implicazione è di fatto guidata da una mira appartenente a
un’altra dimensione correlata alla prima. […] Una grandezza, per esempio la “povertà”, sceglie una
grandezza appartenente a un’altra dimensione, ad esempio “l’umiltà”, e, a partire da questo, crea la
possibilità di una differenza con le altre grandezze della sua stessa dimensione; in effetti,
l’opposizione tra “povertà” e “ricchezza” non è che di grado finché la correlazione con la dimensione
“umiltà-orgoglio” non gli ha procurato il suo valore e il suo orientamento. […] In un certo modo si
cambia di valore senza con questo uscire dal sistema. (Fontanille e Zilberberg, 1998, pp. 51, 56)

Com’è evidente, si tratta di un estremo tentativo di controllare i problemi


dell’implicazione all’interno del sistema, al fine di conservarne da un lato una
chiusura quanto meno relativa e dall’altro il funzionamento binario. Il
problema è che con l’implicazione e col quadrato semiotico le cose ci paiono
ben più radicali: non c’è niente che impedisca l’esplosione dei semi che esso
articola in una molteplicità n di differenze, che rivelano la vera natura di un
oggetto teorico che vive costitutivamente fuori da un sistema diadico di tipo
esclusivo.
Abbiamo detto: non è assolutamente detto che non-S2 implichi S1: non-S2
può implicare S3, S4, S5, Sn: è infinita la molteplicità di elementi che possono
essere implicati da non-S2; è infinita, o quanto meno indefinita, la molteplicità
dei punti e delle posizioni che possono essere raggiunti a partire da “non-S2”.
Nel quadrato semiotico, il percorso che parte da non-S2 non porta a S1, ma
porta dappertutto tranne che a S2: c’è un percorso negato (S2) e una
molteplicità n di percorsi possibili compossibili tra loro.
Figura 8. Prima ramificazione del quadrato

E non solo. Perché che cos’è in realtà “non-S2”? Courtés nota in più punti
che l’asse non-S dei subcontrari non è propriamente parlando un asse
semantico, dal momento che il sema “non-S” è interpretato come assenza
“assoluta del senso”, tanto che in alcune formulazioni di Greimas quest’asse
sparisce proprio (cfr. Greimas, 1970, p. 170, in figura 7). Tuttavia, anche
ammesso che gli schemi siano due opposizioni privative (ma come abbiamo
visto non lo sono) e che l’asse dei subcontrari congiunga in questo modo due
assenze, non si capisce in quale modo Courtés e Greimas possano sostenere la
tesi dell’assenza assoluta del senso. L’unione di due negazioni, la congiunzione
di due assenze, dà infatti sempre qualcosa di intrinsecamente presente e
positivo. Si prenda ad esempio il caso più semplice, che è quello della
matematica, in cui - x - = +. E del resto è ovvio, l’assenza di un’assenza è
sempre qualcosa di intrinsecamente presente e positivo (è un’assenza assente, e
cioè qualcosa di presente).36 Per questo l’asse dei subcontrari può essere tutto
tranne che l’assenza assoluta del senso: è anzi il luogo più affollato in assoluto.
L’asse dei subcontrari è tutto, tranne che S1 ed S2: è tutto il resto. Tutt’altro
che luogo dell’assenza, è il luogo della pienezza traboccante, il luogo
dell’affollamento nelle ore di punta.
Che cos’è dunque non-S2? “Non-S2” è tutto (tranne S2): è la totalità della
categoria S rappresentata in modo del tutto vago e impreciso. Non-S2 non è un
punto, una zona precisa, ma una nebulosa indeterminata – una zona vaga – o
meglio, “l’affermazione della negazione di un tratto”, e cioè tutto ciò che quel
tratto non è. Per questo la sua modellizzazione non è un punto, ma se mai tutto
il piano tranne il punto negato; o meglio, una linea che riempie in quanto tale
un piano: un concatenamento che da un punto interno al piano tocca tutti gli
altri punti secondo quella tendenza estensiva a oltrepassare le frontiere di cui
parlava Hjelmslev a proposito delle opposizioni partecipative. Anche qui, ben
lungi dal ritrovarci con un’opposizione binaria di tipo esclusivo, ci ritroviamo
invece di fronte a una molteplicità n di percorsi che si ramificano e si diramano
a partire dal punto S2.

Figura 9. Seconda ramificazione del quadrato

E non solo. Se “non-S2” non ha struttura puntuale e ci si trova in non-S2, ci


si trova in qualche parte determinata o si è invece sempre dappertutto, su mille
piani, su zone vaghe e indeterminate? Che cos’hanno in comune Giovanna
d’Arco, la polvere da sparo, alcuni bambini russi, Claudio Paolucci, la pecora
Dolly, gli scritti di Newton sulla legge di gravitazione universale, i film di
David Lynch, il vendicatore tossico, chi legge questo libro, Cesare Previti e i
differenziali di Leibniz? Tra le tante altre cose, quello di non aver fatto la
Seconda guerra punica. Ecco, “presente nella Seconda guerra punica” era S2,
in cui, sulla base di un isotopia o di un testo, si potevano opporre i presenti
nella Seconda guerra punica (S2) ai presenti nella Prima guerra punica (S1)
sulla base di un asse semantico comune “presenza nelle guerre puniche”. Un
“vaso di Pandora”, diceva giustamente Fontanille.
Ci ritroviamo insomma in una situazione di questo tipo, in cui non ci sono
che linee di concatenamento e in cui ogni punto può essere connesso con
qualsiasi altro (eccetto uno), tanto che le linee di concatenamento tendono a
occupare in quanto tali il piano.

Figura 10. Costruzione di una rete enciclopedica ricorsiva e interconnessa a partire dal quadrato

Ben lungi dal defi nire un insieme di relazioni binarie ed esclusive, il


quadrato semiotico defi nisce una molteplicità n di percorsi interconnessi tra
loro che defi niscono la forma di una rete. Il quadrato semiotico in realtà non è
un quadrato, ma un rizoma semiotico, un’enciclopedia parzialmente arborifi
cata (c’è un percorso negato, che è “non-S2/S2”). Se lo guardiamo nella forma
delle sue relazioni, il quadrato esplode in un pulviscolo di differenze, in un
concatenamento di linee che possono sempre generare nuove linee e nuovi
percorsi in ogni momento. Nell’orientamento scelto da Greimas, con una
contraddizione che apre indefi nitamente la categoria e un’implicazione che
non riesce più a richiuderla se non uscendo a sua volta dal quadrato, il
quadrato è fin da principio un rizoma semiotico, un’enciclopedia, una rete
ricorsiva e interconnessa.

3.9. Semi, lessemi, interpretanti: effetti di profondità, piattezza ed effetti di


superficie. L’impossibilità del metalinguaggio e l’interpretazione
antileguminosa enciclopedica
Che cosa sono infatti in realtà i semi articolati in un quadrato semiotico? Se
la stessa struttura che li articola è in realtà fin da subito qualcos’altro, è quanto
meno possibile che anche gli elementi articolati presentino una natura
differente, esattamente come nell’Anti-porfirio di Eco (1983) generi e specie si
dimostravano essere qualcosa di molto differente. Come già notava Brandt
(1976, 150-152) infatti, il raddoppiamento greimasiano tra un livello semico
profondo e un livello lessematico di superficie sembra essere completamente
fittizio, e più precisamente sembra essere un effetto ottico costruito attraverso
una strategia retorica.
Prendiamo ad esempio la famosa analisi semica del lessema “testa” in
Semantica Strutturale: cos’altro sono “sferoidità + superatività” se non
interpretanti dello stesso lessema, e cioè degli altri segni lessematici che lo
illuminano sotto un certo rispetto? Di fatto anche il quadrato semiotico che li
articola è un interpretante, un “grafo esistenziale”, dal momento che esso non
fa altro che tradurre in un diagramma la stessa forma di relazione che siamo
convinti di rintracciare nel “testo” analizzato. Di fatto, è estremamente
semplice scoprire in che modo Greimas ottenga questo effetto ottico di
profondità semica, che maschera un processo di analisi che non è altro che
un’interpretazione, e cioè una produzione di segni interpretanti. Si tratta infatti
di una strategia del tutto speculare a quella attraverso cui Platone otteneva
linguisticamente un effetto di profondità metafisica.
Roberto Dionigi37 faceva spesso notare come il platonismo ottenesse un
effetto metafisico attraverso una particolare tecnica retorica che produceva
sostantivi astratti per spiegare cose. Non si utilizzano cioè più degli aggettivi
come “bello”, “buono”, “vero”, bensì dei sostantivi astratti come “bellezza”,
“bontà” e “verità”: sostantivizzazioni proiettate a un livello più profondo, di
cui le cose “in superficie” sono supposte partecipare. Greimas si serve dello
stesso identico stratagemma enunciativo per scavare la differenza tra livello
semico profondo e livello lessematico di superficie. Non dice, come farebbe
Peirce, che il lessema testa è interpretabile in quanto sferoide e superativo, ma
dice che incarna “sferoidità” e “superatività”. In Semantica Strutturale i
lessemi sono infatti sempre qualcosa del tipo di “alto, basso, poltrona, testa,
cane, commissario”, mentre i semi sono sempre qualcosa del tipo di
“spazialità, dimensionalità, verticalità, orizzontalità, estremità, anteriorità,
continuità” ecc.
Figura 11. Greimas, Semantica strutturale, 58

È questa la strategia retorico-testuale di Greimas (1966) per conferire al


livello semico un effetto di profondità: non “verticale”, ma “verticalità”; non
“dimensionale”, ma “dimensionalità”, non bello ma “bellezza”, sono tutti
aggettivi sostantivizzati. È in questo modo che Greimas riesce a marcare la
differenza tra livello semico e livello lessematico, tra livello profondo e livello
di superficie: un platonismo semiologico.
Tuttavia, credo che si debba incominciare a trattare i semi per quello che
sono in realtà, e cioè interpretanti, e cioè altri lessemi della lingua oggetto che
interpretano i primi lessemi conferendogli un effetto di profondità. Articolando
il logos che raccoglie i frutti sparsi del lessemico nella dimensione superiore
del semico, Greimas ci toglie le parole e ce le trasforma in unità differenziatici
che noi crediamo dare forma ai testi. Sempre una dimensione leguminosa di
baccello presiede a questa proiezione del semico nel lessemico, a questa
definizione delle entità superificiali attraverso dimensioni superiori supposte
profonde. Alla zuppa di legumi greimasiana,38 opponiamo allora l’antilogos
dell’interpretazione peirciana: non solo l’interpretazione è sempre composta da
pezzi di se stessa, ma il suo processo rizomatico non trascende mai la
superficie piatta che riempie: flatlandia.
Interpretare significa sempre usare altri segni appartenenti a un medesimo
livello rispetto a quelli che devono essere spiegati: gli interpretanti non sono
essenze né sono semi, è cioè non rimandano a una supposta dimensione
profonda da cui il senso di superficie dipenderebbe e sarebbe definito. Per
questo gli interpretanti hanno dimensione frattale, perché cade qualsiasi
distinzione tra linguaoggetto e metalinguaggio teorico della semantica, tra
livello superficiale dei lessemi e livello profondo dei semi che ne dovrebbero
raccogliere il senso profondo (legein), articolando il loro logos. I semi non
sono altro che altri lessemi di cui si postula una natura profonda inesistente
attraverso una tecnica retorica. I semi non sono altro che interpretanti dei
lessemi, così come i lessemi possono sempre essere interpretanti dei semi: non
c’è nessun tipo di gerarchia tra i due livelli e l’albero strutturale esplode in un
pulviscolo non gerarchizzato di interpretanti, che si dispongono all’interno di
uno stesso livello. Come nota giustamente Umberto Eco:
Cade la distinzione tra lingua e metalinguaggio teorico della semantica […] perché è impossibile
costruire un metalinguaggio che [… non] esploda, e nell’esplodere riveli che i propri costrutti teorici
altro non erano che termini del linguaggio oggetto dato. Gli universali semantici […] sono puri nomi
della lingua naturale. Come tali vanno interpretati, e possono essere interpretati attraverso differenze,
le quali ontologicamente sono qualia assunti come sintomi, indizi, segni. (Eco, 1983, p. 75, cfr. anche
Eco, 1975, pp. 173-174)

Il principio peirciano di interpretazione spiega elementi attraverso altri


elementi della stessa natura appartenenti allo stesso livello non-gerarchico
(enciclopedia), in un processo di slittamento del senso che non richiama nessun
tipo di profondità, bensì una pura piattezza. Lo vedevamo nel capitolo 1:
interpretare non significa riportare tokens a types, bensì tradurre tokens
attraverso altri tokens, rimandandoli ad altri elementi enciclopedici immanenti
che funzionano da interpretanti. Il senso si spiega sempre in una dimensione di
pura piattezza, attraverso altri segni che interpretano il primo segno sotto
differenti rispetti. Il senso si spiega sempre con altro senso, in una sorta di
autosimilarità frattale.
Del resto, anche un sema non è in fondo altro che un ulteriore lessema che
interpreta il primo lessema in funzione di un certo rispetto o capacità:
Certo si affermerà che come per i tratti distintivi fonologici, la natura e la funzione dei semi sono
puramente formali, distintive, relazionali e non sostanziali, che il sema è un elemento atomico e
autonomo, che deve la sua esistenza solo allo scarto differenziale che l’oppone ad altri semi e che è
solo una posizione in una rete […]. Ma in mancanza di oggettivazione della loro forma relazionale si
possono definire i semi solo nominandoli attraverso nuove unità sostanziali (arbitrariamente ritenute
metalinguistiche anche se appartengono al linguaggio oggetto) alle quali bisogna di nuovo applicare
l’analisi semica. (Petitot, 1985, p. 239)
E così via all’infinito. La falsa profondità dei semi va dunque ridisposta in
superficie e il sema va ricominciato a essere chiamato per quello che è in
realtà: un interpretante del primo lessema supposto profondo solo perché
metalinguistico. Come diceva giustamente Brandt, lo spazio greimasiano è
fondato sulla pretesa che i semi siano già qualcosa prima di essere lessemi (“in
lingua”39 o nelle dimensioni profonde del percorso generativo), mentre in
realtà i semi sono semi solo dopo essere stati estratti dai lessemi, e lo
diventano attraverso una tecnica retorica di platonismo semiologico che crea
un effetto di profondità gerarchica del tutto fittizio.
Se non che, la logica frattale, l’interpretazione di Peirce, lo spazio
rizomatico liscio, le relazioni sublogiche non binarie e i sistemi non gerarchici
ci insegnano la bellezza di Flatlandia (cfr. Peitgen e Richter, 1987), la bellezza
delle molteplicità piatte che si interpretano le une con le altre sotto differenti
rispetti (un lessema può diventare sema di un altro lessema e un sema lessema
di un altro sema); molteplicità che si dispongono in un piano (plateau) che non
ha dimensione supplementare rispetto a quella degli elementi che si
concatenano in esso. È soltanto a partire da questo spazio sublogico che gli
elementi differenziali possono poi allacciare relazioni prelogiche e logiche, ma
il funzionamento di entrambi questi sistemi dipende dalla natura rizomatica ed
enciclopedica della semiosi e dal principio peirciano dell’interpretazione, che,
come abbiamo visto, sono all’opera anche là dove si cerca di mascherarli al
fine di costruire un effetto logico di “scientificità” profonda.

3.10. Conclusioni

Al di là delle polemiche locali, come speriamo sia evidente, il nostro


tentativo è di fatto integrativo e costruttivo: costruire una semiotica più
“potente” che sia in grado di affiancare al livello logico studiato da Jakobson e
Greimas, una teoria della differenza capace di rendere conto anche di quel
livello prelogico su cui insisteva con forza Hjelmslev, al fine di integrare le due
prospettive in una teoria sublogica di tipo enciclopedico e rizomatico. Questa
teoria semiotica è per noi di tipo interpretativo, non solo per la centralità che
attribuiamo alla componente “sinechistica” di una teoria enciclopedica della
differenza, ma anche perché la semiotica interpretativa è fin da subito
portatrice di un tentativo integratore delle prospettive di Peirce e dello
strutturalismo.
Abbiamo infatti visto innanzi tutto cosa differenziava la semiotica dalla non-
semiotica: c’è semiotica solo dove il rapporto è costitutivo dell’identità dei
termini e l’identità di un elemento è funzione della rete di relazioni che
quell’elemento allaccia sia con altri elementi interni al suo sistema proprio
(seconda accezione del valore in Saussure), sia con elementi esterni al sistema
considerato (prima accezione del valore in Saussure). L’identità degli elementi
dei sistemi semiolinguistici, indipendentemente dalla loro natura logica o
prelogica, avviene cioè per determinazione reciproca differenziale. La forma di
relazione di questa determinazione reciproca differenziale, in cui l’identità di
un elemento (A) è definita per opposizione e differenza a tutto ciò che esso non
è (A VS (A)+non-A), è quella propria del livello sublogico, capace di tenere
insieme il livello prelogico (partecipativo) e quello logico (esclusivo).
A loro volta, il livello prelogico, dalla forma A VS A+non-A, definiva una
molteplicità n di relazioni possibili capaci di esprimere la totalità dei rapporti
differenziali costitutivi del livello logico; là dove il livello logico, dalla forma
A VS non-A, declinava la sua forma di relazione esclusiva in almeno tre
relazioni differenziali molto differenti: l’opposizione privativa, la
contraddizione e l’opposizione qualitativa. Queste tre relazioni erano poi
reinterpretate da Greimas all’interno del quadrato semiotico.

Tuttavia, la povertà costitutiva delle relazioni del livello logico, che,


ricordiamolo, nasceva e serviva per definire esclusivamente un inventario dei
tratti distintivi sul piano dell’espressione delle lingue naturali, imponeva a
nostro parere un ampiamento della prospettiva, che abbiamo tentato in questo
capitolo. Nel momento in cui ci si sposta sul piano del contenuto e si vogliono
considerare sistemi complessi quali le lingue, le pratiche e le culture,
l’insufficienza delle relazioni differenziali del livello logico si manifesta
dappertutto e dà vita a una serie di analisi che autoritrovano soltanto la povertà
delle proprie categorie differenziali. Da qui la necessità di integrare altri livelli
che arricchiscono con le loro forme di relazione una teoria semiotica della
differenza: opposizioni partecipative, modulazioni, somiglianze di famiglia,
incompossibilità, presentificazioni dell’assenza, spazi lisci, relazioni triadiche
non sono altro che i nomi che declinano un tentativo di ampliamento dei
modelli semiotici di analisi a vocazione euristica. Perché l’identità degli
elementi semiotici è anche sempre “catturata” all’interno di reti di relazioni
differenziali di questo tipo. Da qui un’importante conseguenza.
Là dove Greimas e Jakobson pensavano la rete di relazioni differenziali
come una struttura che definiva “l’articolazione logica di una categoria
semantica qualunque”, noi la pensiamo invece come un rizoma che ne
definisce l’articolazione sublogica di tipo enciclopedico. È questa la
configurazione che per noi è propria di quel terzo regno tra l’oggettività dei
fatti e le loro rappresentazioni teoriche che Deleuze (1973) chiamava
“simbolico”, e che per noi è invece il “semiotico” (cfr. supra, 1.2). Da qui
l’introduzione di altri tipi di relazioni differenziali completamente obliate dalla
semiotica generativa, che riportiamo in questa tabella conclusiva.

Semiotica Paradigmatico Sintagmatico


Interpretativa Semiotica Contrarietà Narratività
(Sublogico) generativa Contraddizioni (concatenazioni di
AVS(A)+non- (logico) AVS non- Subcontrarietà azioni/passioni
A A Implicazioni attraverso punti
Complessi/neutri singolari pensati come
Dissezione Analisi Relazioni diadiche congiunzioni/
disgiunzioni tra
Rizoma Spazio striato soggetti e oggetti di
valore).
Centro/periferia Trasformazioni
Valenza discontinue
Somiglianze di
Semiotica Opposizioni Modulazioni
famiglia
interpretativa partecipative Dialettica tra punti
(prelogico) AVS Incompossibilità regolari e punti
A+non-A Presentificazioni singolari
dell’assenza Trasformazioni
Frammentazione Concatenamenti continue
Relazioni triadiche
Spazio liscio
Come si vede, il grande dualismo “maggiore” tra le due principali scuole
semiotiche (interpretativa e generativa) non ha per noi molto senso. Ponendosi
a livello sublogico, la semiotica interpretativa tiene insieme le altre semiotiche
in un progetto che vogliamo integrato. Essa vale come un tipo particolare di
semiotica e come totalità della semiotica stessa, come il più classico dei
termini estensivi. Questo ovviamente non implica alcun tipo di giudizio di
valore, bensì la semplice articolazione categoriale del territorio della semiotica
a livello di una teoria della differenza. Semplicemente, la semiotica generativa,
di ispirazione jakobsoniana, ha indagato il livello logico (esclusivo) delle
relazioni differenziali e lì ha mietuto i suoi indiscutibili successi, trovando la
propria dimensione e il proprio dominio. Stessa cosa si può dire della
semiotica tensiva di Fontanille e Zilberberg (1998), che non collochiamo nella
casella del prelogico soltanto perché il loro progetto epistemologico ci pare al
di fuori dell’orizzonte saussuriano-hjelmsleviano (cfr. supra, 1.4), a cui il
prelogico invece indiscutibilmente appartiene. Da qui la nostra formulazione di
una semiotica tensiva, o meglio, partecipativa, di tipo interpretativo. La
semiotica generativa di Greimas si è posta come termine intensivo all’interno
del dominio del logico; la semiotica tensiva di Fontanille e Zilberberg ha
provato ad articolare a suo modo il dominio del prelogico. Conformemente alla
sua attitudine integrativa che tiene insieme strutturalismo e interpretazione, la
semiotica interpretativa si pone invece a livello sublogico e si distribuisce nello
spazio aperto della categoria.
In conclusione, in questo capitolo abbiamo visto come ogni grandezza
semiotica intrattenga delle relazioni di “vicinato”, più o meno conflittuali,
oppositive, modulative e tensive con altre grandezze appartenenti al suo stesso
sistema (accezione immanente del valore in Saussure) e a sistemi a essa
eterogenei (accezione trascendente del valore). Abbiamo visto anche come
questa rete di relazioni definisca l’identità stessa di una grandezza semiotica.
Abbiamo altresì introdotto alcune forme di relazione costitutive di queste
stesse reti di relazioni.
Tuttavia, i risultati fin qui ottenuti restano ancora esclusivamente a livello
dei modelli descrittivi e vanno dunque resi operativi. Infatti, è in funzione di
quale criterio di pertinenza che è possibile definire una rete di relazioni con la
sua particolare forma? In funzione di quale “taglio” dell’analisi è possibile
individuare un particolare rapporto differenziale tra i termini in gioco? Come si
individua cioè un sistema proprio di una grandezza semiotica e, di
conseguenza, una serie di sistemi trascendenti a essa con cui essa stessa si
traduce? Arrivati a questo punto, la nostra semiotica delle relazioni
differenziali deve necessariamente prolungarsi in una semantica di queste
stesse relazioni. Al fine di fare questo, è allora necessario partire da un grande
problema “maggiore” della semiotica contemporanea, da cui vedremo
dipendere la semantica stessa, e cioè il problema del rapporto tra espressione e
contenuto.
1
Eco (comunicazione personale) ricostruisce così la storia del saggio: la prima stesura risale al 1979 per
l’Enciclopedia Einaudi (voce “Significato”) ed è la stessa ripubblicata con variazione minime in Eco,
1984. Nel 1983, su richiesta dei curatori del volume Il pensiero debole, Eco riprende parte del saggio a
cui aggiunge il primo e l’ultimo paragrafo pubblicati in Eco, 1983. Queste due aggiunte “minori” sul
metalinguaggio e la struttura dell’enciclopedia, poi “cancellate” in Semiotica e filosofia del linguaggio,
sono per noi del tutto fondamentali e costituiscono il punto di partenza delle riflessioni che qui
pubblichiamo.
2
Greimas e Courtés, 1979.
3
Cfr. Fabbrichesi e Leoni, 2005 e infra, 3.4.
4
Cfr. Greimas, 1976 e 1981.
5
Cfr. Lisanti, 2002, pp. 62-66. Lisanti mostra molto bene l’eccedenza delle funzioni semio-linguistiche
di determinazione, interdipendenza, relazione e correlazione agli analoghi logici di implicazione,
equivalenza, congiunzione e disgiunzione.
6
Hjelmslev cita esplicitamente Lévy-Bruhl e Roth come precursori delle sue idee. Tuttavia, Togeby
(1965-1966, p. 74) faceva notare come già nel 1894, il grammatico e logico Theodor Kalepky avesse
scoperto e formulato il principio delle opposizioni partecipative. Non è dato sapere se Hjelmslev
conoscesse l’opera di Kalepky, quindi nessuna connessione esplicita può essere fatta in questo senso.
7
Cfr. EL, pp. 15-33.
8
Cfr. anche De Witt e Graham, 1973.
9
Gli esempi possono proliferare in tutti i domini, a conferma di come il senso possa sempre assumere
questa forma di relazione che stiamo cercando di descrivere attraverso la relazione differenziale di
incompossibilità. Si pensi ad esempio a un cinema come quello di David Lynch, che fonda i propri
effetti di spaesamento sullo spettatore proprio attraverso strutture narrative tese a disegnare mondi
incompossibili tra loro, i cui elementi si contraddicono localmente. Oppure a come la recente
costruzione del Partito Democratico italiano abbia avuto come obiettivo quello di tenere insieme in un
unico partito tradizioni politiche nate per rappresentare valori del tutto incompossibili, tanto che a
tutt’oggi non abbiamo ancora capito se il PD sia “a favore” o “non-a-favore” dei DICO. Gli stessi testi
letterari costruiscono incompossibilità compresenti, come già mostrava Eco (1979) a proposito del
Drame bien parisien di Allais. Tre semplici esempi, tra gli infiniti che si potrebbero fare, di come gli
effetti di senso possano disegnare esattamente questa struttura di incompossibilità tra mondi, che
un’analisi semiotica di tipo non-testuale ed enciclopedico deve essere in grado di modellizzare
adeguatamente. Del resto nell’introduzione partivamo proprio da qui, dal momento che il teatro di
Carmelo Bene si fondava proprio sulla costruzione di una “storia minore” incompossibile con la
“storia maggiore” che parassitava.
10
Anche la logica fa riferimento al concetto di valore. L’idea logica di valore differisce certamente in
natura rispetto al valore differenziale saussuriano, ed era questo un punto su cui vedevamo insistere
Hjelmslev, ma anche una semantica verofunzionale, ha bisogno di fare riferimento a valori e istituire
una ripartizione valoriale tra elementi del proprio dominio, per quanto ancorati alla nozione di verità.
11
Parker, 1992, p. 138.
12
Cfr. anche Fish e Turquette, 1966, p. 79.
13
Peirce parla di “campi di pensiero”: ovviamente l’identificazione tra pensiero e segno in Peirce è
esplicita fin dai saggi anti-cartesiani del 1868 e non verrà mai abbandonata.
14
Ovviamente si tratta di una nostra mossa teoretica: Peirce scrive prima di Hjelmslev. Per questo
diciamo “alla Peirce”.
15
Noi diremmo meglio “non simmetrico e non asimmetrico”, per evitare confusioni col termine
contraddittorio.
16
Deleuze e Guattari, 1980, p. 692.
17
Quine nega infatti senso alla possibilità, perché ritiene richieda assunzioni metafisiche che non è
disposto a sottoscrivere, e il suo argomento mira a squalificare la possibilità, squalificando intanto
l’idea di entità solo possibili.
18
Peirce traduce con “collection” il termine cantoriano “Menge”, normalmente reso in inglese con “set”
e in italiano con “insieme”.
19
Ancora una volta, i problemi di Peirce presentano importanti tangenze con alcune riflessioni analoghe
di Husserl. La distinzione tra le molteplicità indeterminate, irriducibili al numero, e quelle determinate
è vicina alla teoria degli aggregati di Husserl (1891), in cui fra molteplicità e numero vi è distinzione
in funzione proprio della natura indeterminata o determinata dell’aggregato. Tuttavia, là dove gli
elementi degli aggregati in Husserl devono essere distinti, così non è in Peirce, dove le molteplicità
indeterminate non presentano una distinzione tra gli elementi. Da qui la connessione tra la teoria
peirciana dell’indeterminato e la sua teoria del continuum, che ne rappresenta un punto di forza più
volte sottolineato nella letteratura secondaria (cfr. Parker, 1992). Inoltre, là dove in Husserl la teoria
degli aggregati è studiata in funzione dell’operazione psicologico-fenomenologica che viene
denominata “collegamento collettivo” (kollektive Verbindung), in Peirce la teoria dell’indeterminato ha
una natura semiotica. Si ritrova ancora una volta qui una divaricazione tra fenomenologia e
faneroscopia: mentre la prima prova a rendere conto del semiotico attraverso il pensiero, la seconda
prova a rendere conto del pensiero attraverso il semiotico.
20
Esempio classico è l’opposizione “sonoro VS non-sonoro” a livello dei tratti distintivi, per cui un
tratto come “sonoro” definisce un fonema nello stesso identico modo in cui il tratto “non-sonoro” può
definirne un altro che ne è privo (da qui privatività). Va detto che la nozione di privatività ha lasciato
sempre più il posto a quella di marcatura: tra i termini di un’opposizione privativa si considera allora
che la presenza di un tratto marca un termine, là dove il termine che ne è privo viene considerato come
non-marcato (cfr. Belardi, 1970). In un’opposizione privativa, “non-sonoro” significa quindi “assenza
del tratto ‘sonoro’”.
21
E questo indipendentemente dal fatto che questo rapporto sia reversibile (così nel candelabro e nei
differenziali) oppure no (così nel lampo e nel cielo nero).
22
Cfr. Petitot, 1977 e 1985, pp. 67-73.
23
Cfr. Deleuze e Guattari, 1980, capitolo 14.
24
Deleuze e Guattari, 1980, p. 700.
25
Cfr. Deleuze e Guattari, 1980, capitolo 1.
26
Cfr. Rosenstiehl 1979, 1980.
27
Cfr. Rosenstiehl e Petitot, 1974, sul “teorema del plotone di esecuzione”, e Deleuze e Guattari, 1980,
capitolo 1.
28
Vedremo nel seguente capitolo come, almeno in linea di principio, il significato funzioni esattamente
secondo un sistema di questo tipo, conformemente alla sua natura enciclopedica, e cioè rizomatica.
29
Devo queste riflessioni alla collaborazione e all’amicizia con Alessandro Sarti del Dipartimento di
Ingegneria dell’Università di Bologna, strano esempio di matematico dotato di amore per le
molteplicità lisce, oltre che uno dei massimi esperti internazionali degli spazi riemanniani. Ai colloqui
con lui al CREA di Parigi, assieme a Jean Petitot, devo molte illuminazioni che ho probabilmente
“normalizzato” in queste pagine, oltre che la vittoria di un progetto strategico di ateneo sulla
neuromatematica della cognizione visiva, che ha coinvolto grazie a Federico Montanari entrambi i
nostri dipartimenti ed entrambe le nostre discipline. Personalmente, presento alcuni risultati di questa
collaborazione in 4.11.
30
Cfr. Lakoff, 1987 e Marconi, 2001.
31
Cfr. Violi, 1997.
32
Insistendo sempre con decisione sulla differenza di natura tra le relazioni strutturali e quelle logico-
formali, Greimas si è sempre rifiutato di rispondere a qualsiasi obiezione che venisse mossa a lui e al
quadrato semiotico a partire da ambiti logico-formali, indipendentemente dal fatto che queste
obiezioni siano state formulate con l’intervento dei quadrati aristotelici, della logica formale o
matematica, dell’algebra di Boole o degli esagoni di Blanchè. Una panoramica su questo dibattito la si
può ritrovare in Nef, 1976. Petitot (1977, 1985, 1992) ha poi incontrovertibilmente mostrato la natura
non logico-formale del quadrato semiotico e delle opposizioni strutturali, mettendo così
definitivamente fine a un dibattito che riemerge timidamente oggi solo a causa dell’ignoranza di chi
mescola inavvertitamente le due epistemologie.
33
Seguiamo qui Utaker, 1974.
34
Cfr. Petitot, 1982 e Pozzato, 2001, p. 62.
35
Cambiamo nella citazione che segue la notazione dei termini contrari “A” e “non-A” con la più
diffusa “S1” ed “S2”.
36
In questo senso è assolutamente priva di problemi un’idea saussuriana che ha da sempre posto
interrogativi abissali ai linguisti e su cui si sono spesi fiumi d’inchiostro. Saussure (CLG, p. 146),
dopo aver sostenuto che i due piani del linguaggio sono puramente differenziali, e cioè definiti in
modo puramente privativo e negativo da differenze senza termini positivi, sostiene infatti che “benchè
il significato e il significante siano, ciascuno preso a parte, puramente differenziali e negativi, la loro
combinazione è un fatto positivo”, così che il segno risulta sempre essere qualcosa di positivo nel suo
ordine prodotto di due cose negative. È appunto del tutto normale che sia così: – x – dà sempre +
come risultato.
37
Comunicazione personale. Al genio di Dionigi, alle mille cose che mi ha insegnato nei suoi corsi di
Filosofi a Teoretica e alle mille cose che mi ha pagato al Roxy Bar, va sempre il mio pensiero e il mio
rimpianto. Credo che quella mattina in cui lo aspettavamo in aula soltanto per vedere arrivare il bidello
che ci comunicava la sua morte è stata per tutti quelli che c’erano un lutto intellettuale e personale non
ancora colmato. La sua avversione per la semiotica è stata a mio parere (probabilmente) la sua unica
brutta idea.
38
Nella zuppa al pesto di Greimas ci sono un chilo di fagioli freschi ancora da sgusciare e 350 grammi
di fagiolini: non sono pochi. (cfr. Greimas, 1983, p. 151)
39
Così in Semantica strutturale.
4. SEMANTICA E SEMIOTICA, ESPRESSIONE E CONTENUTO

4.1. Espressione e contenuto: un problema ben posto?

La distinzione tra espressione e contenuto è così basilare per la semiotica


che la si vede così vicina da sembrare trasparente, accertata, di sicuro
necessaria. Ma non sono forse proprio le cose troppo vicine quelle che non si
è in grado di vedere affatto? Non è forse una mano davanti agli occhi la cosa
che gli è più vicina in assoluto, ma il suo effetto è esattamente quello di
impedire la visione? Non occorrerà innanzi tutto distanziarci da questa
vicinanza del rapporto espressione/contenuto, da questa prossimità di una
distinzione così “maggiore” da sembrare attestata, quotidiana e familiare?
Per altro, come è noto, la semiotica di Peirce ad esempio funziona senza
alcun bisogno di introdurre i concetti di espressione e contenuto. Non che
Peirce non veda il problema di fondo che presiede a questa stessa
distinzione, tutt’altro: semplicemente, per renderne conto, taglia la sua
semiotica in altri modi, in funzione di altre distinzioni. Questo non vuol dire
affatto che la distinzione tra i due piani sia inutile e vada abbandonata,
tutt’altro: vuole semplicemente dire che la distinzione tra espressione e
contenuto non è affatto così scontata come appare a prima vista. E questo
anche all’interno dell’episteme strutturalista.
Dell’espressione e del contenuto si è infatti sottolineato il carattere
funzionale e relazionale, il loro costituire innanzi tutto una funzione
semiotica, il loro essere recto e verso di un medesimo foglio di carta senza
spessore. E tuttavia, sebbene già Saussure pensasse alle funzioni come a dei
rapporti di differenza senza termini positivi, la tradizione semiotica ci ha
spesso fornito definizioni di cosa sono l’espressione e il contenuto. Vedremo
in questo capitolo, ma già la nostra posizione è stata accennata in maniera
piuttosto chiara in precedenza, che le cose semiotiche propriamente non
sono, dal momento che esse posseggono un’identità puramente privativa che
le rende ciò che Quine (1953) avrebbe definito degli “enti non rispettabili”.
E tuttavia, dell’espressione e del contenuto si è invece voluto costruire una
“rispettabilità” che essi propriamente non posseggono: si è cioè voluto
assegnare loro un quod quid est che dice che cosa essi sono,
indipendentemente dal loro rapporto. E in questo senso allora i problemi
venivano essenzialmente dal contenuto, entità a suo modo sfuggente perché
dotata di una “materialità solamente astratta” (cfr. Petitot, 19851). Perché
con l’espressione ci si sentiva invece rassicurati, dal momento che le
espressioni sono fisiche, sono sensibili, sono concrete, sono tangibili.
“Sono”, semplicemente.
Ci pare allora interessante riflettere su queste considerazioni di Derrida
(1967, p. 31).
La differenza tra significato e significante appartiene in modo profondo e implicito alla totalità
della grande epoca ricoperta dalla storia della metafisica […]. Questa appartenenza è essenziale ed
irriducibile: non si può mantenere la comodità o la “verità scientifica” dell’opposizione stoica e poi
medioevale tra signans e signatum, senza ricondurre a sé anche tutte le sue radici metafisico-
teologiche. A queste radici non aderisce soltanto – ed è già molto – la distinzione tra il sensibile e
l’intelligibile, con tutto ciò che essa comporta, cioè la metafisica nella sua totalità. E questa
distinzione è generalmente accettata, come qualcosa che va da sé, dai più vigilanti dei linguisti e
dei semiologi, proprio da coloro che pensano che la scientificità del loro lavoro inizi dove finisce
la metafisica.

Era questa del resto la posizione prima di Jakobson e poi di parte della
scuola generativa. Dall’ultimo Greimas fino a Fontanille, passando per la
mediazione decisiva di Floch (1985, 1995), la semiotica non ha di fatto
voluto mettere in discussione questa ripartizione, tanto che la distinzione tra
l’espressione come qualcosa di sensibile o concreto e il contenuto come
qualcosa di intelligibile – o comunque di “non-sensibile” – è riaffermata
continuamente,2 fino alla sua più recente sistemazione fontanilliana che ne
fa l’effetto dalla posizione del corpo proprio (cfr. Fontanille, 1998, 2004).
Ecco infatti che per Jakobson
il linguaggio, come è stato dimostrato chiaramente dal moderno pensiero strutturale, è un sistema
di segni e la linguistica è parte integrante della scienza dei segni o semiotica (la sémiologie di
Saussure). La definizione medievale del segno: aliquid stat pro aliquo, è stata ripresa e
riconosciuta ancora valida e feconda. Così il tratto caratteristico costitutivo di ogni segno in
generale e di ogni segno linguistico in particolare è il suo carattere duplice; ogni unità linguistica è
bipartita e coinvolge due aspetti: il sensibile e l’intelligibile, o, in altre parole, il signans o
significante (il signifiant di Saussure) e il signatum o significato (signifié). Questi due elementi
costitutivi del segno linguistico – del segno in generale – si presuppongono e si richiamano l’un
l’altro. (Jakobson, 1963, p. 162)

Tuttavia, attraverso il pensiero di Hjelmslev, la tradizione semiotica ha


indicato anche una strada alternativa a quella della linea Jakobson-Floch-
Fontanille, con la loro distinzione tra sensibile e intelligibile, che fonda i
piani della semiotica attraverso una partizione ontologica così lucidamente
messa in evidenza da Derrida. La posizione radicale di Hjelmslev, spesso
fraintesa e riportata su quella saussuriano-jakobsoniana in una frettolosa
voglia di traduzione tra paradigmi, è stata effetto di un’urbanizzazione che
l’ha privata della sua forza “minore”, e cioè deviante rispetto alle posizioni
di cui sopra, che è in grado di condurre la semiotica fuori dalle secche
dell’ontologia.
Si è infatti spesso equivocato sulla distinzione tra espressione e contenuto.
Questi equivoci riguardano una doppia identificazione, che pare
problematica, tra “espressione/contenuto” e “fonologico/semantico” da un
lato, e tra “espressione/contenuto” e “significante/significato” dall’altro.
Queste due coppie non sembrano invece così sovrapponibili: l’espressione
non è il fonologico così come il contenuto non è il semantico, e
analogamente, l’espressione non è il significante né il contenuto è il
significato, a dispetto di un’identificazione che è diventata ormai un luogo
comune all’interno della tradizione semiotica “maggiore”. Infatti, mentre da
un lato per Hjelmslev la divisione tra i due piani era costitutiva di qualsiasi
sistema semiotico, dall’altro, la coppia saussuriana – in cui l’identificazione
del semantico con il piano del significato era esplicita fin dal nome scelto –
era invece introdotta all’interno di un libro che si intitola Corso di linguistica
generale, al fine di rendere conto di una divisione puramente interna al
linguaggio verbale, che era l’oggetto di studio di Saussure. La trasposizione
ad altre semiotiche di una distinzione pensata esplicitamente a livello della
lingua naturale e tesa a identificare la struttura dell’immagine acustica
(significante) e quella del concetto (significato) è tutt’altro che una mossa
evidente. E questo a cominciare dalla teoria hjelmsleviana stessa, dove
questa identificazione infatti non avviene. Non è infatti un caso che
Hjelmslev (1943, p. 85) parli molto esplicitamente delle sua Glossematica
come di una linguistica “la cui scienza dell’espressione non è una fonetica e
la cui scienza del contenuto non è una semantica”. Il motivo per cui questo
quanto mai esplicito monito hjelmsleviano sia rimasto pressoché
completamente inascoltato nella tradizione semiotica “maggiore” è
senz’altro questione degna di approfondimento.
È infatti già stato notato3 come il paragrafo 13 dei Prolegomena, in cui
Hjelmslev reintroduce una vicinanza tra espressione/contenuto e
fonetica4/semantica, sia completamente in contrasto con le precedenti
argomentazioni dei Prolegomena e con il loro metodo analitico-deduttivo,
tanto da rappresentarne una sostanzializzazione che è effetto della volontà di
reintrodurre ad hoc proprio quel motivo saussuriano che identificava il
significante con l’immagine acustica (fonologico) e il significato con il
concetto (semantico). Va allora ancora una volta ricordato come i
Prolegomena fossero una semplice introduzione divulgativa, tanto che in
Résumé of a Theory of Language questa reintroduzione ad hoc non si
verifica e la struttura della funzione tra i piani assolve a ciò che, già nei
Prolegomena, Hjelmslev definiva come il compito principale della
linguistica:
La linguistica deve dunque vedere il proprio compito principale nell’edificazione di una scienza
dell’espressione e di una scienza del contenuto su una base interna e funzionale; essa deve
costruire la scienza dell’espressione senza ricorrere a premesse fonetiche o fenomenologiche, e la
scienza del contenuto senza ricorrere a premesse ontologiche o fenomenologiche […]. Tale
linguistica, in quanto si distingue dalla linguistica tradizionale, sarebbe una linguistica la cui
scienza dell’espressione non è una fonetica e la cui scienza del contenuto non è una semantica.
(Hjelmslev 1943, p. 85)

Perché di fatto il luogo hielmsleviano della definizione di espressione e


contenuto è il luogo di un’assenza pura.5 Hjelmslev infatti non può dire che
cosa sono espressione e contenuto, dal momento che espressione e contenuto
propriamente non sono, essendo la loro identità definita in modo puramente
privativo e differenziale, per determinazione reciproca degli elementi interni
al sistema semiotico considerato. Se quindi Hjelmslev identificasse
l’espressione con il fonologico e il contenuto con il semantico ne darebbe
una definizione sostanziale per proprietà (“l’espressione è qualcosa”, “il
contenuto è qualcos’altro”) e verrebbe meno al principio costitutivo stesso
dello strutturalismo, che assegna l’identità di una grandezza semiotica in
funzione esclusiva del suo rapporto con altre grandezze.
All’interno di una semiotica le designazioni di piano del contenuto e di piano dell’espressione sono
assegnate arbitrariamente, come nomi distinti per dei piani il cui numero è due e soltanto due. (R,
Def. 163-164)
La loro definizione funzionale non fornisce nessuna giustificazione per chiamare l’una piuttosto
che l’altra di queste entità espressione o contenuto. Esse sono definite soltanto dalla loro reciproca
solidarietà, e nessuna di esse può essere identificata altrimenti. Esse sono definite solo in maniera
oppositiva e relativa, come funtivi reciprocamente opposti di una medesima funzione. (P, 65; cfr.
R, Def. 163-164)

Questa posizione hjelmsleviana non significa che espressione e contenuto


siano nozioni vuote, ma vuol dire che esse possono essere determinate solo
localmente, in funzione del sistema di rapporti da cui dipendono
costitutivamente. Ad esempio, su un piano percettivo, “bacche rosse” è un
elemento del contenuto, in quanto definisce il riempimento semantico di una
serie di formanti morfologici che ne rappresentano l’espressione; mentre su
un piano cinematografico (ad esempio nel film The Village), essa è invece
un’espressione, che rimanda a un contenuto chiave per la comprensione
profonda del film (cfr. Ferraro, 2007). Da qui l’euristicità della posizione
differenziale pura hjelmsleviana: con Hjelmslev si parte cioè sempre e
soltanto dalla funzione, dal tra di confine che pone i termini in rapporto, e
non è in nessun caso possibile uscire da questa stessa funzione. Quando la
semiotica ci dice allora che cosa sono espressione e contenuto, al di là del
loro rapporto funzionale (il fonologico, il semantico, il sensibile ecc.), cade
di fatto in quell’ontologia metafisica di cui parlava Derrida. Come tutte le
altre entità semiotiche, espressione e contenuto non posseggono un’essenza,
un quod quid est senza il quale non sarebbero ciò che sono, dal momento che
esse sono esattamente ciò che le altre non sono, ed è solamente questo
rapporto privativo e differenziale a definirne l’identità.
Si capisce allora molto bene qual è stata l’evoluzione della riflessione
semiotica su questo aspetto: là dove si sarebbe dovuto dire che espressione e
contenuto non esistono se non nel loro rapporto con l’altro in cui si
determinano reciprocamente, si è invece detto che espressione e contenuto si
presuppongono reciprocamente e si richiamano l’un l’altra. Nel primo caso il
rapporto è costitutivo dei termini, nel secondo esso definisce una semplice
presupposizione reciproca di termini già costituiti per se stessi.6 Quando la
determinazione reciproca si fa presupposizione reciproca, la definizione
dell’identità passa da semiotica a ontologica e di un termine si pretende di
dire che cosa esso è, contravvenendo così al principio fondamentale dello
strutturalismo.7 Più in generale, se non si è avuto alcun problema a pensare
la differenzialità come principio costitutivo dell’identità degli elementi
semiotici interni ai singoli piani (figure, fonemi, semi, tratti distintivi ecc.),
non si è invece mai esteso questo stesso principio anche alla funzione
semiotica, prestando così il fianco alle critiche derridiane e finendo per
identificare i due piani con il “fonologico” e con il “semantico”.
Che questa identificazione non sia possibile è dimostrato per altro dagli
stessi concetti di semiotiche “meta” (in Hjelmslev) e di “interpretazione” (in
Eco), che sarebbero totalmente autocontraddittori qualora si operasse
un’identificazione tra il piano del contenuto e il significato. Le semiotiche
“meta” in Hjelmslev sono infatti semiotiche in cui un piano, sia esso quello
dell’espressione o quello del contenuto, è a sua vota una semiotica, tanto
che, ad esempio nel modello della connotazione,8 il piano del’espressione di
una funzione consiste nell’unione di una funzione semiotica precedente.

E C
E C

Si identifichi allora il piano del contenuto con il semantico: è evidente


come in una semiotica “meta” il semantico entri a far parte del piano
dell’espressione di una nuova funzione semiotica, mettendo così in crisi
l’identificazione tra “semantico” e “piano del contenuto”, dal momento che
il significato diventa ora parte del piano dell’espressione di una funzione
semiotica interpretante. Era del resto questo il modello dell’interpretazione
elaborato dalla semiotica di Eco: fin dai tempi del Trattato di semiotica
generale, Eco parlava infatti esplicitamente di reversibilità totale dei due
piani (Eco, 1975, p. 38); fino ad affermare, qualche anno dopo, che “ogni
contenuto può diventare a sua volta l’espressione di un contenuto ulteriore, e
che sia l’espressione che il contenuto possono ribaltarsi scambiandosi i
luoghi.” (Eco, 1990, p. 219). Risulta così impossibile identificare i termini di
una funzione semiotica con il “fonologico” (espressione) e il “semantico”
(contenuto), dal momento che i piani sono sempre ribaltabili e il semantico
può benissimo assumere il ruolo di piano dell’espressione. “Significato” e
“contenuto” non sono nozioni equipollenti, ed è quindi euristico mantenerle
distinte.
Perché la questione non è infatti senza rilevanza applicativa, dal momento
che pare mettere in discussione un assunto per nulla tacito all’interno di una
determinata tradizione semiotica “maggiore”, e cioè l’idea che l’analisi
debba partire dal piano dell’espressione, al fine di correlarvi un contenuto.
Se però, hjelmslevianamente, l’espressione è individuabile soltanto in
funzione del sistema dei rapporti che definisce qualcosa in quanto
espressione e qualcosa in quanto contenuto, pare evidente che, ben prima
dell’espressione, occorra identificare e determinare proprio quel sistema di
rapporti che permette di attribuire a qualcosa=x il ruolo di espressione. Era
del resto questa la teoria delle ratio del Trattato di semiotica generale, e in
particolare quella della ratio difficilis, in cui era solo in funzione del
rapporto (ratio) tra le grandezze semiotiche considerate che qualcosa poteva
costruirsi in quanto espressione di un determinato contenuto (si vedano ad
esempio i casi di “invenzione di codice” in Eco 1975).
Facciamo allora un esempio e chiediamoci dove stia il problema per la
semiotica in questo noto passo di Borges, in cui Pierre Menard, poeta minore
dell’800, cerca di riscrivere il Don Chisciotte di Cervantes, copiandolo
“parola per parola e riga per riga” a distanza di secoli:9
Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz’altro rivelatore. Il primo per
esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):

La verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato,
esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.

Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ingenio lego di Cervantes, quest’enumerazione è un mero
elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:

La verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato,
esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.

La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non
vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che
avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. (Borges, 1956, pp. 44-5)

È noto come sia anche “vivido il contrasto tra gli stili”, e come “lo stile
arcaizzante di Menard resti straniero e non senza qualche affettazione. Non
così quello del precursore”, che sembra invece “maneggiare con
disinvoltura” la lingua corrente della propria epoca.
Come spiegare allora questo rapporto del tutto peculiare tra espressione e
contenuto? Come dar conto di questa “unica versione di due storie
differenti”?10 Che tipo di funzione semiotica ha cioè costruito Borges con la
sua finzione?
Se l’espressione fosse qualcosa di sensibile e di riconoscibile per se stessa,
essa sarebbe identica in entrambi gli esempi citati, mentre se essa fosse
invece funtivo esclusivo della sua funzione con il contenuto, saremmo
invece di fronte a espressioni differenti, dal momento che la correlazione tra
espressione e contenuto cambia molto nettamente nella finzione borgesiana,
tanto che è esattamente su questo cambiamento che si fonda la sua stessa
mossa provocatoria. L’esempio borgesiano gioca insomma proprio sulla
disgiunzione tra sostanza sensibile (che rimane identica) e piano
dell’espressione (che cambia invece nei due casi), mostrando così
l’euristicità della posizione relazionale pura, che Hjelmslev sostiene senza
alcun possibile fraintendimento:
una funzione è inconcepibile senza i suoi terminali, e i terminali sono solo punti finali per la
funzione e quindi inconcepibili senza di essa. Se la stessa entità contrae successivamente funzioni
diverse, e può quindi apparire selezionata da esse, si tratta, in ogni singolo caso, non di un
medesimo funtivo, ma di funtivi diversi, oggetti diversi a seconda del punto di vista, cioè della
funzione che si prende in considerazione. (P, p. 53)

Se la funzione cambia, cambiano cioè i funtivi che ne sono determinati: da


qui l’impossibilità di identificare “sensibile” e “piano dell’espressione”,
visto che nell’esempio borgesiano il primo rimane stabile, pur cambiando
radicalmente il suo rapporto con il contenuto.
Per sgombrare il campo, proviamo allora ad ammettere che l’espressione
sia innanzi tutto qualcosa di sensibile. Nel caso del Pierre Menard ci
troveremmo di fronte a una stessa espressione che veicola due contenuti
differenti. La finzione borgesiana sarebbe cioè simile a un caso di
omonimia,11 in cui due diversi contenuti sono correlati a un medesimo
significante. Noi riconosceremmo innanzi tutto una “stessità” di espressione,
che è qualcosa di almeno parzialmente autonomo, in quanto riconoscibile
per sé stesso, e il nostro problema di semiotici sarebbe quello di capire quali
contenuti essa veicola, quali differenti contenuti essa esprime. E qui sta
esattamente il punto. Per definire questo rapporto all’interno di un pensiero
dell’espressione di questo tipo, saremo sempre costretti a uscire dal rapporto
espressione/contenuto e considerare perché una stessa espressione, e cioè
una sua copia perfetta, possa esprimere cose diverse. All’interno di un
pensiero dell’espressione di questo tipo cioè, per capire su che cosa si fonda
la funzione semiotica, saremo sempre costretti a considerare che cosa fa sì
che in un caso la verità della storia documenti il fatto mentre nell’altro ne sia
origine, là dove è invece esattamente la funzione semiotica ciò che ci
consente di capire perché sia così (cfr. infra, 4.2).12 Nel primo caso la
funzione semiotica è un problema che va spiegato, nel secondo è uno
strumento euristico di spiegazione.
Se l’espressione e il contenuto sono qualcosa al di là della loro stessa
funzione, questa funzione rimane un fatto essenzialmente misterioso che non
spiega nulla, ma che ha invece bisogno di essere spiegato. Il semiotico
costruisce così categorie completamente inessenziali, quali quella di
“funzione semiotica”, a cui supplisce poi nella pratica facendo vedere lui in
che modo l’espressione si correla al contenuto e in che modo qualcosa di
sensibile esprime uno o più “significati”. Pensata così la funzione semiotica
non serve a nulla. L’espressione diventa un dato (un “testo-opera” ad
esempio) e tutto il lavoro semiotico sta dalla parte del contenuto. I testi
fanno cioè problema perché sono posti (positum), ed effettivamente, nel
momento in cui si è allargato il concetto di testo dal linguaggio verbale a
semiotiche di tipo visivo o sincretico, si è esattamente provato a pensare il
“mondo sensibile” come un testo, e cioè come un’espressione a cui il
semiotico correlava un contenuto. Il sensibile faceva problema e il
semiologo lo risolveva correlando un contenuto a questa espressione.
La semiotica assume il testo in primis come macroconfigurazione espressiva statistica, che essa
lavora secondo il modello dell’estrazione, per il quale si tratta appunto di estrarre il “contenuto” da
un “contenitore”. […] Così se pure si dice che espressione e contenuto si diano in solidarietà, si
muove sempre dalla prima verso il secondo. (Valle, 2003, p. 33)

Ma questo svuota completamente la funzione semiotica di ogni potere


euristico e la rende un problema da spiegare di volta in volta nell’analisi. A
cosa serve allora una funzione semiotica che ha costantemente bisogno di
essere spiegata, che non spiega nulla e che partiziona metafisicamente un
piano del sensibile e un piano dell’intelligibile?
Una teoria che pone l’espressione come qualcosa di sensibile, che è
individuabile al di fuori del suo rapporto con il contenuto, è esattamente una
teoria fondata su di una costitutiva e irresolubile problematicità della
funzione semiotica, dal momento che occorre sempre uscire dal rapporto
funzionale per capire come possa funzionare la funzione stessa. C’è qui la
stessa fallacia che coinvolge la quasi totalità delle analisi semantiche sulla
polisemia e l’omonimia, e cioè il fondarsi dell’analisi su di un metodo
semasiologico,13 e cioè su un metodo che parte innanzi tutto dalla stabilità
(solamente apparente) del piano dell’espressione, al posto di considerare
invece immediatamente la funzione semiotica. Proprio perché l’espressione
sensibile è portatrice di un’opacità costitutiva che richiede senso, si parte da
essa, e il problema diventa i) la sua correlazione a un contenuto, ii) come
avviene questa correlazione e ii) qual è il contenuto di quella espressione. In
questo modo, la funzione semiotica diventa un problema costante e non un
principio di soluzione. Un metodo semasiologico è ad esempio quello dei
dizionari lessicografici: si catalogano i lemmi partendo dall’“espressione”, e
in funzione di essa, si classificano poi i significati. Da qui tutti i problemi di
polisemia, omonimia, sinonimia ecc. Nel momento in cui identificava
“testo” e “mondo sensibile” da un lato e “sensibile” e “piano
dell’espressione” dall’altro, un certo paradigma testuale, niente affatto
identificabile con la semiotica generativa, ha rappresentato una sorta di
lessicografia della semiotica. Esso ne era l’analogo speculare, perché partiva
dai testi come espressioni sensibili o pezzi di mondo (mondo come testo) e il
problema era quello di correlarvi un contenuto.
Per quanto ci riguarda, riteniamo allora sbagliato il metodo: è cioè il
problema a essere impostato male, dal momento che, in un approccio di
questo tipo, l’espressione si erge sempre a trompe-l’oeil della funzione
semiotica che la determina, ma che essa nasconde, come la mano davanti
agli occhi che ci impedisce di vedere.
Ecco allora che ci serve un metodo che si fondi sulla funzione semiotica e
la usi per spiegare cose, evitando qualsiasi partizione ontologico-metafisica e
qualsiasi idea del “mondo come testo” o del “sensibile come espressione”.
Un metodo che dalla funzione semiotica non esca mai per individuare
espressioni e contenuti, ma sappia invece produttivamente abitarci
all’interno conoscendo solamente espressioni di contenuti. Quale?

4.2. Piccola archeologia di una rimozione “minore” in semiotica:


enciclopedia, espressione e contenuto

Rileggere oggi il Trattato di semiotica generale di Eco (1975) significa


avere in molti punti la netta sensazione di trovarsi di fronte a un fenomeno di
“rimozione collettiva”. Qual è infatti il posto che viene assegnato alla
funzione semiotica? Qual è il posto proprio del rapporto di correlazione tra
espressione e contenuto? Qual è cioè la posizione che viene assegnata a
questa distinzione semiotica fondamentale?
I termini del così detto metalinguaggio teorico sono spesso tutt’altro che
innocenti, sebbene altrettanto spesso si cerchi di affermare il contrario. Di
sicuro non li si sceglie mai a caso. Con grande acutezza, Fontanille (2004,
pp. 224-225) nota allora che
si scorge benissimo come le nozioni di “contenuto” e di “espressione” possano davvero rinviare a
una metafora implicita dell’involucro: involucro che “contiene” i contenuti-significati e “lascia
uscire” delle espressioni-significanti. Questo involucro, tuttavia, in quanto “contenente”, è
totalmente occultato nel pensiero linguistico e semiotico. Astrattamente rappresentato, in
Hjelmslev e in Saussure, da un tratto orizzontale che rela i due piani del linguaggio, l’involucro
viene di fatto rimpiazzato dalla nozione di “presupposizione reciproca” (o “relazione di necessità”)
nelle argomentazioni dei due linguisti. La figura dell’“interfaccia” viene tuttavia suggerita nella
metafora saussuriana del “recto” e del “verso”.

Al contrario, la semiotica interpretativa ha sempre costitutivamente


pensato questo involucro di frontiera, questo inviluppo di interfaccia tra
espressione e contenuto, fino a farne il simbolo stesso della propria
specificità. Non solo Eco (1975, p. 38; 1990, p. 219) ha infatti sempre
sostenuto una relazione puramente funzionale del rapporto tra espressione e
contenuto, ma fin dal Trattato di semiotica generale ha anche sempre
pensato all’enciclopedia come al codice di correlazione tra espressione e
contenuto, e non come al sistema del contenuto, che sarebbe invece ciò che
Eco (1975, pp. 56, 76) chiamerebbe un S-codice. Ecco allora che se
“l’enciclopedia nasce nel Trattato come estensione pragmatica del concetto
semantico di codice”:14
Chiameremo codice in senso proprio la regola che associa gli elementi di un s-codice agli elementi
di un altro s-codice. […] Gli s-codici sono in realtà dei sistemi o delle strutture. […] Quando un
codice associa gli elementi di un sistema veicolante agli elementi di un sistema veicolato, il primo
diventa l’espressione del secondo, il quale a sua volta diventa il contenuto del primo. […] Pertanto
un codice stabilisce la correlazione di un piano dell’espressione (nel suo aspetto puramente
formale e sistematico) con un piano del contenuto (nel suo aspetto puramente formale e
sistematico). […] La semiotica fa così intravedere una sorta di paesaggio molecolare in cui quelle
che la percezione quotidiana ci presenta come forme conchiuse sono in realtà il risultato transitorio
di aggregazioni chimiche e le cosiddette “cose” sono l’apparenza superficiale di una rete
soggiacente di unità più microscopiche. […] Ciò che è stato detto “il codice” è un complesso
reticolo di sottocodici […]. Si dovrebbe chiamarlo ipercodice (così come si parla di ipercubo) che
riunisce vari sottocodici, alcuni dei quali forti e stabili, altri più deboli e transitori. (Eco, 1975, pp.
56, 74, 77, 179)

Per Eco è l’enciclopedia a istituire la correlazione semiotica e a definire


così qualcosa come espressione e qualcos’altro come contenuto: fin dal
Trattato l’enciclopedia è cioè la forma della semiotica, non della semantica.
In questo modo, per ritornare al nostro problema borgesiano, se
l’enciclopedia è l’ipercodice di correlazione tra espressione e contenuto che
definisce la funzione semiotica, è esattamente attraverso di essa che noi
siamo in grado di scoprire i differenti rapporti tra fatto e storia che rendono il
testo di Menard “infinitamente più ricco” di quello di Cervantes. Proprio
perché nell’enciclopedia del XIX secolo i rapporti tra fatti e storia erano
cambiati, la stessa frase finiva per essere espressione di contenuti molto
differenti. È allora, proprio perché è l’enciclopedia a determinare la funzione
semiotica, e quindi il rapporto tra espressione e contenuto di cui è
“ipercodice” di correlazione, che questa stessa funzione diventa uno
strumento euristico di spiegazione, e non una nozione problematica di cui
rendere conto di volta in volta nell’analisi.
Tuttavia, questa idea di Eco rappresenta un vero e proprio rimosso di tutta
la tradizione che è seguita al Trattato e che su di esso si è formata, dal
momento che l’enciclopedia è stata per anni pensata per lo più come il
sistema del contenuto, lasciando completamente cadere l’idea di
correlazione e il suo essere innanzi tutto un’istanza di frontiera tra
espressione e contenuto. Ancora oggi è infatti diffusa l’idea che se lo
strutturalismo ci ha insegnato che l’espressione funziona come una struttura,
come un S-codice, il contributo di Eco è stato invece quello di mostrare
come sul piano del contenuto non si potesse operare nello stesso modo, e che
occorresse quindi pensare a un’organizzazione enciclopedica a modello Q
che rompesse definitivamente con l’approccio hjelmsleviano, che rimaneva
invece valido per il piano dell’espressione. Come abbiamo visto, l’idea di
Eco è invece ben più complessa, dal momento che l’enciclopedia è innanzi
tutto l’ipercodice di correlazione tra espressione e contenuto, e non la forma
dell’organizzazione propria del piano del contenuto.
Occorre allora senz’altro chiedersi se non esista una motivazione ben
fondata per questa identificazione dell’enciclopedia con il sistema del
contenuto. Non esiste cioè alcun motivo produttivo per cui si sia pensato
all’enciclopedia come al sistema del contenuto, piuttosto che a ciò che
presiede alla sua correlazione con l’espressione? Non siamo forse qui di
fronte proprio a un altro misto mal tagliato, in cui si separa qualcosa che va
invece tenuto insieme?
Presentiamo innanzi tutto la nostra proposta, al fine di mostrarne poi la
fecondità: pensare un rapporto che sia autenticamente differenziale tra
espressione e contenuto significa pensare la loro relazione come a un
rapporto partecipativo tra i due piani, in cui il contenuto è termine estensivo
e l’espressione è termine intensivo. Utilizzando la notazione di Hjelmslev,
possiamo rappresentare in questo modo un rapporto differenziale puramente
funzionale tra i due piani della semiotica:
Figura 1. Termini tensivi hjelmsleviani (NE, p. 41)

Come si vede, all’interno di questa relazione differenziale tra i due piani,


il contenuto (“termine II”: estensivo) può occupare posizioni del rapporto
eccedenti la zona di competenza del piano dell’espressione (“termine I”:
zone b e c), ma può anche occupare, attraverso ciò che Hjelmslev chiamava
una “legge di supplenza”, la posizione stessa dell’espressione (intensivo).
Questo rende perfettamente conto di tutti i casi di ribaltabilità dei piani,
interpretazione, connotazione e semiotiche “meta”, in cui il piano del
contenuto entra a far parte dell’espressione di una funzione semiotica.
Inoltre, la zona neutra del rapporto c è particolarmente adatta a esprimere
tutti quei casi di motivazione o indecidibilità tra i piani, che sono costitutivi
di molte relazioni “eretiche” tra espressione e contenuto: fonosimbolismo,
intonazione ironica, interazione orale ecc. (cfr. Violi, 2006; Lorusso 2006 e
Pozzato 2007). La zona neutra dell’opposizione tra i piani è infatti
particolarmente marcata proprio in quei casi che tagliano trasversalmente la
distinzione stessa tra espressione e contenuto, come ad esempio il
semisimbolismo tra categorie plastiche e categorie figurative nell’analisi
semiotica del visivo, categorie che non possono essere assegnate nettamente
l’una al piano dell’espressione e l’altra al piano del contenuto (il plastico non
è l’espressione così come il figurativo non è il contenuto).15
Ritornando alla forma di relazione costitutiva di un rapporto puramente
differenziale tra i piani di una semiotica, essa ci sembra più propriamente
presentare la struttura A VS (A)+non-A propria del livello sublogico di una
teoria semiotica della differenza (cfr. supra, 3.4). Se il termine estensivo
definisce infatti un fondo su cui quello intensivo concentra la significazione
in una zona precisa, l’espressione concentra allora su di sé la significazione
(è quello che si intende quando si dice che è l’espressione che “veicola un
contenuto”) e allo stesso tempo presentifica l’assenza del piano del
contenuto (è quello che si dice quando si dice che l’espressione è un segno
del contenuto, cioè sta al posto di un contenuto che resta assente).16
L’espressione (figura) emerge dal contenuto (fondo), dal momento che noi
usiamo segni come espressioni innanzi tutto per esprimere un contenuto, e
non per costruire delle formule ben formate o dei segni non distintivi senza
significato. Tuttavia, essa vi emerge come qualcosa che si distingue da
qualcosa da cui essa non può a sua volta distinguersi, dal momento che il
rapporto tra i piani è sempre costitutivo dell’identità dei termini
(determinazione reciproca). Da qui la totale funzionalità della loro
correlazione e la determinazione reciproca dei due funtivi (E/C). Da qui il
fatto che uno stesso elemento testuale, ad esempio una serie di bacche rosse,
può essere sia espressione sia contenuto. Conformemente alla teoria echiana,
è cioè solamente la sezione enciclopedica parziale che viene ritagliata
nell’analisi a stabilire che cosa sia espressione e cosa contenuto, ma nel
momento in cui un piano di pertinenza viene stabilito, l’espressione ha
sempre il compito di concentrare su di sé la significazione (intensivo),
presentificando l’assenza del contenuto (estensivo), stando così al posto di
un contenuto che resta assente, ma che è reso presente nella sua assenza
dall’espressione.
Ecco allora che se qualsiasi elemento può diventare espressione e può
essere espresso in quanto contenuto, la differenza tra i due piani non è
minimamente di sostanza, bensì esclusivamente di funzione: è espressione
quell’oggetto che all’interno di una determinata sezione enciclopedia
parziale assume la funzione di esprimere un contenuto; è contenuto
quell’elemento che è espresso dall’espressione. In funzione di piani
enciclopedici diversi (“percettivo” e “cinematografico”), questo elemento
può essere lo stesso (ad esempio “le bacche rosse”).
Ci pare allora che l’idea hjelmsleviana di un “taglio che crea i piani”, o
quella saussuriana del “recto e del verso del foglio di carta”, non diano una
buona immagine del rapporto tra espressione e contenuto, perché
restituiscono quella di due domini, per quanto inseparabili. Al contrario, il
dominio è unico, ed è rappresentato dalla sezione enciclopedica parziale
pertinentizzata nell’analisi, all’interno della quale la distinzione tra i due
piani è soltanto funzionale: gli stessi “oggetti” possono sempre essere sia
espressione che contenuto. Da qui l’idea echiana che la semiotica restituisca
un paesaggio molecolare in cui le così dette “cose” non sono altro che
“l’apparenza superficiale di una rete soggiacente di unità più
microscopiche”, che è una buona immagine del rapporto esistente tra
espressione e contenuto.
Perchè Hjelmslev ha torto nel pensare al doppio taglio contemporaneo sul
recto e sul verso di un medesimo foglio come alla distinzione semiotica più
fondamentale. Espressione e contenuto infatti sono individuabili solo ed
esclusivamente in funzione della sezione enciclopedica parziale che
stabilisce “che cosa esprime che cosa”. Ed è questo il ritaglio fondamentale,
la prima operazione semiotica in assoluto. Ben prima di poter determinare
che cosa è espressione e contenuto, bisogna determinare qual è la sezione
enciclopedica parziale che funziona da piano di pertinenza: solo e soltanto al
suo interno è infatti possibile individuare delle funzioni semiotiche.
Per questo è impossibile partire dall’espressione: la presunta primità
dell’espressione nasce infatti da un equivoco su ciò che si intende per
“espressione”, che viene a essere identificata con la manifestazione, e cioè
con una serie di unità sostanziali e positive che verrebbero a identificare che
cosa l’espressione è. Al contrario, l’individuazione stessa di qualcosa come
espressione presuppone già sempre l’articolazione di un contenuto e la
strutturazione di una funzione segnica. Per questo si parte sempre dal ritaglio
della sezione enciclopedica parziale, visto che è solamente al suo interno e in
funzione del suo piano di pertinenza che è possibile designare che cosa è
espressione e che cosa è contenuto. E la sezione enciclopedica parziale viene
ritagliata innanzi tutto a partire da ipotesi sul contenuto, perché noi usiamo
segni per esprimere un contenuto e non per produrre formule ben formate sul
piano dell’espressione.
È allora proprio per questo che l’enciclopedia è stata fecondamente
pensata come il piano del contenuto, sebbene essa sia invece propriamente la
funzione di confine tra espressione e contenuto: ogni cultura infatti non solo
organizza un sistema del contenuto, ma iscrive in sé una sua parte propria
che è in grado di esprimere questa stessa organizzazione. È compito del
sistema culturale quello di organizzare una sua parte propria che lo ex-prima,
manifestandolo attraverso una funzione semiotica. Il piano dell’espressione
svolge esattamente questo compito e l’enciclopedia, in quanto libreria delle
librerie, tiene traccia di questa organizzazione. Com’è evidente, il rapporto
tra i piani è di tipo radicalmente partecipativo, e un’opposizione
partecipativa è l’unica forma di relazione in grado di rendere conto di un
rapporto tra elementi che non appartengono a differenti domini (espressione
e contenuto), bensì a un unico dominio (la sezione enciclopedica parziale),
all’interno del quale la loro distinzione è puramente funzionale. Espressione
e contenuto sono valori assunti da determinati elementi all’interno dello
spazio di una sezione enciclopedica parziale, tanto che i piani possono
sempre ribaltarsi e scambiarsi i ruoli (cfr. Eco, 1990). Non solo. Il rapporto
tra i due piani può essere localmente molto diverso, tanto che è sempre di
estrema importanza determinare il valore proprio del termine estensivo, dal
momento che esso può insistere sulla zona neutra (ironia, semisimbolismo
ecc.), strutturarsi su valori opposti e nettamente distinti rispetto a quelli
propri dell’espressione (casi di ratio facilis) oppure tendere a oltrepassare le
frontiere e a “invadere” la zona propria del piano stesso dell’espressione
(semiotiche meta, interpretazioni, ratio difficilis ecc.).
Insomma, l’espressione non è minimamente dell’ordine del materiale o
del sensibile né il contenuto di quello dello spirituale (o del culturale) e
dell’intelligibile, bensì l’espressione è semplicemente dell’ordine
dell’esprimere e il contenuto dell’ordine dell’espresso. La semiotica avrebbe
allora potuto trovare un modello adeguato al suo problema dell’espressione
nella più grande filosofia dell’espressione mai formulata. Nella filosofia di
Spinoza infatti, gli attributi esprimono la sostanza, che si ex-prime negli
attributi che la esprimono. Allo stesso modo, il contenuto si ex-prime
nell’espressione, non avendo l’espressione altra funzione che quella di
esprimere un contenuto, come sottolinea in più punti Hjelmslev. Tuttavia, in
Spinoza la sostanza si trova espressa negli attributi, ma gli attributi possono
a loro volta esprimersi nei modi e il rapporto tra i modi e la sostanza è a sua
volta un rapporto espressivo, di espressione mediata dagli attributi in una
sorta di autosimilarità frattale: espressione dell’espressione.17 La stessa cosa
succede allora anche per la funzione semiotica, in cui un contenuto che si
esprime in un’espressione può a sua volta diventare espressione di un nuovo
contenuto, ad esempio in questo bell’esempio di Fontanille sui gradi di
maturazione di un frutto:
Se, per esempio, osservo che i cambiamenti di colore di un frutto possono essere messi in relazione
con i suoi gradi di maturazione, i primi apparterranno al piano dell’espressione, e i secondi al piano
del contenuto. Ma posso anche benissimo mettere in relazione gli stessi gradi di maturazione con
una della dimensioni del tempo, la durata: e questa volta i gradi di maturazione appartengono al
piano dell’espressione e il tempo al piano del contenuto. (Fontanille, 1998, p. 33)

Si vedono qui i) la dipendenza dell’attribuzione delle funzioni di


“espressione” e “contenuto” dal piano di pertinenza considerato e ii) la
completa deontologizzazione della funzione semiotica, a favore di una sua
strutturazione puramente relazionale di ispirazione hjelmsleviana, che si
reitera frattalmente in una radicale autosimilarità. Inoltre, non solo si assiste
al principio di ribaltabilità dei piani, in cui espressione e contenuto possono
sempre scambiarsi i ruoli,18 ma nel momento in cui un contenuto diventa
l’espressione di un altro contenuto, si assiste a ciò che è davvero importante,
e cioè non tanto individuare la funzione semiotica, bensì individuarne n, di
modo che sia sempre possibile far funzionare l’interpretazione attraverso cui
“conoscere qualcosa di più” (cfr. Eco, 1990, pp. 326-329).
La reversibilità tra espressione e contenuto sostenuta da Eco infatti non è
solamente un modo per mantenere la pura funzionalità hjelmsleviana del
rapporto tra i piani, ma è innanzi tutto un modo per moltiplicare le serie,
poiché è in gioco non più una funzione binaria (E/C), bensì un
concatenamento interpretativo che è già potenzialmente multiplo
(E/C/E/Cn).19 La reversibilità funzionale definisce cioè innanzi tutto
l’emergere del primato dell’interpretazione sull’analisi, della semiosi infinita
peirciana sulle singole funzioni semiotiche. Se partendo dall’espressione il
problema è sempre quello di correlarvi un contenuto e definire così la
funzione semiotica; partendo dall’enciclopedia questo binarismo si spezza, e
l’analisi individua sempre una serie di interpretazioni, una serie n di funzioni
semiotiche che viaggiano su diversi livelli enciclopedici. In questo senso, il
rapporto espressione/contenuto è molto più dell’ordine di una miccia che
innesca percorsi che dell’ordine del rapporto semiotico più fondamentale (il
primo a dover essere determinato), come voleva invece Hjelmslev. Esso
risponde essenzialmente e innanzi tutto a un’unica domanda, per quanto
indiscutibilmente centrale: come si innesca la rete? Dove far partire
l’interpretazione? Da dove cominciare il processo di estrazione di funzioni
semiotiche in cui, a partire dal contenuto enciclopedico, si esprime altro
contenuto attraverso espressioni?
La funzione semiotica è miccia che lascia il posto a ciò che conta
veramente: l’interpretazione, la trasduzione, il seguire il percorso. Come
vedremo (cfr. infra, 4.4) questo consentirà di tenere insieme in modo non
sincretico le nozioni strutturalista (rapporto tra espressione e contenuto) e
peirciana (relazione triadica irriducibile a un rapporto tra coppie) di semiosi,
mantenendo così vivo l’insegnamento della semiotica interpretativa di Eco.
Riassumendo: i) se dobbiamo rendere conto di fenomeni in cui il
contenuto diventa parte del piano dell’espressione (semiotiche “meta”,
interpretazione, ribaltabilità dei piani, connotazione ecc.), dobbiamo
riconoscere la natura non solo relazionale, bensì radicalmente sublogica e
partecipativa del rapporto tra espressione e contenuto, in cui,
hjelmslevianamente, il contenuto può assumere la funzione di espressione
attraverso una “legge di supplenza”. In questo modo, data la struttura
differenziale del rapporto, ii) la determinazione di qualcosa in quanto
espressione e di qualcos’altro in quanto contenuto è funzione del ritaglio
della sezione enciclopedica parziale che serve da piano di pertinenza, e cioè
del rapporto locale (ratio) inscritto nell’enciclopedia, che determina
l’identità dei termini in rapporto. Come detto, questo avviene perché iii) ogni
cultura non solo organizza un suo sistema del contenuto, ma iscrive in sé una
sua parte propria che è in grado di esprimere questa stessa organizzazione.
L’enciclopedia tiene allora traccia di questa iscrizione che stabilisce la
funzione semiotica, come voleva Eco quando pensava all’enciclopedia come
al codice di correlazione tra espressione e contenuto. In questo modo, il
campo enciclopedico dell’espressione e del contenuto è un grande deus sive
cultura in cui ciascun elemento può sempre assumere la funzione sia di
espressione (ed esprimere dunque così un contenuto) che di contenuto
(trovandosi così espresso da qualcos’altro). È una teoria del’ex-pressione
quella che è in gioco, in cui la grande differenza con lo spinozismo consiste
nel fatto che l’universo semiotico è sempre reversibile e non gerarchico, a
differenza di quello del deus sive natura, in cui la sostanza è posta in cima
alla gerarchia e si esprime ad albero negli attributi e nei modi. Si può sempre
entrare dappertutto nella funzione semiotica (un rizoma ha molteplici
entrate), e il punto d’ingresso dipende sempre in maniera sensibile dal piano
enciclopedico che viene ritagliato localmente.
L’espressione e il contenuto, ciò che esprime e ciò che è espresso, sono
sempre funzione dell’enciclopedia, come già voleva Eco nel Trattato di
semiotica generale. Il problema è allora essenzialmente come individuarli
concretamente nella pratica, e cioè come sia possibile costruire
concretamente una metodologia semiotica in grado di costruire funzioni tra
espressione e contenuto a partire dall’enciclopedia. Questo ci consentirà di
mostrare l’euristicità di un approccio semiotico alla semantica.

4.3. La semantica semiotica come semantica enciclopedica: semantica


referenziale, inferenziale e differenziale

Nella sua essenza l’enciclopedia, così come è descritta da Umberto Eco in


diversi punti della sua opera, presenta una doppia anima che ne è costitutiva.
A livello globale, essa è l’insieme di tutte le occorrenze (delle occorrenze,
non dei tipi), “libreria delle librerie”, grande “archivio del già detto”,
“insieme registrato di tutte le interpretazioni” (Eco, 1984, p. 108). Ma a
livello locale, essa si presenta in sezioni che forniscono istruzioni per
semantizzare20 un’espressione e attivare l’interpretazione in base e
regolarità stabilizzate (a regolarità, non a regole). Per essere attivata
concretamente, l’enciclopedia può solamente essere ritagliata, ma ogni
ritaglio locale serve a stabilizzare e regolarizzare la semantizzazione
attraverso un modello esplicativo che a livello globale è invece
costitutivamente instabile, dal momento che, come notava già Eco (1984, p.
109), esso è già immediatamente diverso nel momento in cui lo si è
descritto. È allora questa sua doppia natura di modello globale instabile
costituito da cuciture locali stabili che definiscono regolarità (patchwork)
che costituisce la grandezza dell’oggetto teorico e la sua euristicità per la
semantica. Ritroviamo qui quella dialettica tra locale e globale che era
costitutiva della natura partecipativa di una rete rizomatica (cfr. supra, 1.6).
Data la corrispondenza tra enciclopedia e rizoma stabilita da Eco (1983,
1984), chiamiamo piano una porzione locale di enciclopedia, un suo ritaglio.
“Piano” è la traduzione del francese plateau, da cui Mille Plateaux di
Deleuze e Guattari (1980): Mille Piani. In questo senso, un “piano” non è un
piano in senso matematico, bensì è una molteplicità frattale di dimensione
essenzialmente frazionaria (cfr. Deleuze e Guattari, 1980, capitolo 14).
Chiamiamo piano qualsiasi molteplicità connettibile ad altre per steli sotterranei superficiali, in
modo da formare ed estendere un rizoma. (Deleuze e Guattari, 1980, p. 31)

Che cos’è allora un piano? Che cos’è questo elemento fondamentale che
presiede alla stabilizzazione del senso e all’attivazione dell’interpretazione?
Un piano è una sezione enciclopedica parziale in cui degli elementi del
contenuto si determinano reciprocamente su base locale. Esso presiede alla
stabilizzazione del senso in quanto i suoi elementi si determinano cioè
reciprocamente in base a rapporti di regolarità. Formalmente, un piano è una
cellula striata in uno spazio liscio rizomatico, il brandello locale di un
patchwork, il frammento di uno spazio di Riemann (cfr. supra, 3.5). I
rapporti differenziali tra gli elementi di un piano fanno si che la
semantizzazione sia costruita in un certo modo e vengano attivati determinati
interpretanti. Insistiamo su questo punto, che, come abbiamo visto nel
capitolo 1, è fondamentale per una semiotica interpretativa.
Hjelmslevianamente, degli elementi si determinano reciprocamente su un
determinato piano, in funzione di un determinato taglio enciclopedico, e la
ripartizione di questi rapporti differenziali che determinano l’identità degli
elementi in gioco presiede alla generazione degli interpretanti nel momento
in cui ci si è installati all’interno di quel piano. Ad esempio, in Semiotica e
filosofia del linguaggio, Eco (1984) mostra come la natura dell’espressione
“dare una lezione” muti a livello di contenuto da “vincere magistralmente” a
“somministrare una punizione” nel passaggio da un piano sportivo a un
piano educativo. Su di un piano sportivo questa unità di contenuto si
determina in funzione di altri elementi appartenenti a quel dato taglio
(“subire una sconfitta”, “vincere rubando”, “vincere meritando”, “perdere di
poco” ecc.) e dà così vita a un certo tipo di interpretanti (“vincere
magistralmente” appunto). Ma su un altro piano le cose cambiano, così che
l’identità di “dare una lezione” si determina all’interno di un’altra
ripartizione di rapporti e di punti (“tenere un corso”, “premiare qualcuno”,
“imporre una condotta a qualcuno”, “essere tolleranti” ecc.) e dà così vita a
un altro tipo di segni interpretanti (“somministrare una punizione” appunto).
Tuttavia “dare una lezione” non è niente in sé: la sua identità è definita
solamente dagli altri elementi con cui si determina reciprocamente
all’interno di un dato piano. Fuori da quel piano, all’interno di un altro
universo di discorso in cui quell’elemento contrae rapporti con altri elementi
con cui si determina reciprocamente, le cose cambiano. Non esiste alcuna
unità di contenuto che sia stabile per tutti i piani in cui può entrare, dal
momento che nessuna unità di contenuto possiede un’identità indipendente
dai rapporti in cui entra e dagli interpretanti in cui viene trasdotta. Si tratta di
valori, e saussurianamente l’identità di un valore è definita esclusivamente
da elementi simili con cui si determina reciprocamente (elementi di uno
stesso piano) e da elementi dissimili con cui può venire scambiata (altri
elementi di altri piani). L’unica cosa che rimane stabile e si erge a trompe-
l’oeil, ingannando spesso gli studiosi di semantica, è l’espressione; ma non
solo l’identità di un’espressione è sempre funzione del piano del contenuto
con cui è in rapporto, ma più fondamentalmente l’espressione, dal punto di
vista della sua semantizzazione, ha un’unica e sola potenzialità: quella di
installarci immediatamente all’interno di piani enciclopedici.
Perché quello che succede in un rizoma enciclopedico è davvero curioso,
dal momento che anche una e una sola espressione potenzialmente senza
senso possiede sempre la possibilità di installarci e disseminarci
immediatamente su mille piani. Ad esempio, la particolare sequenza di tasti
sulla tastiera del mio computer, QWERTY, è un’espressione, ma il suo
contenuto dipende dal piano su cui avviene la semantizzazione su base
locale: esso è ad esempio nullo su un piano linguistico (QWERTY non vuol
dire nulla in italiano), costituisce l’enunciato dell’ordine alfabetico adottato
dalle tastiere italiane da notebook se attivato in un manuale di dattilografia,
costituisce l’oggetto agognato e rimpianto di una romantica Sehnsucht
quando si lavora a Parigi sulle tastiere francesi AZERT, costituisce l’esempio
del funzionamento di una semantizzazione enciclopedica su mille piani se
enunciato in un libro di semiotica.
In un rizoma enciclopedico, anche restando accoccolati, fermi su di una
sola espressione, non smettiamo mai di saltare da un livello a un altro. Per
questo siamo sempre potenzialmente moltiplicati, acentrati, dislocati: anche
appollaiati, immobili su di un’unica espressione, siamo già sempre su mille
piani enciclopedici. Quello con cui abbiamo a che vedere qui non è affatto
una struttura graduale tipica o prototipica sensibile al contesto, bensì
qualcosa in cui non si smette mai di saltare da un livello a un altro, in
funzione di determinate condizioni iniziali che influiscono in maniera
decisiva sulla struttura del sistema. È infatti soltanto nel momento in cui
l’intorno enciclopedico associato all’espressione (contesto, co-testo,
condizione di enunciazione ecc.) permette di individuare un piano adeguato
all’espressione che la semantizzazione ha luogo, dal momento che su quel
piano degli elementi si determinano reciprocamente su base locale, e
l’espressione non solo viene stabilizzata nel suo rapporto semiosico con il
contenuto, ma viene costituita in quanto espressione attraverso la costruzione
della funzione semiotica (cfr. infra, 4.4).
Occorre sottolineare però che non si sta dicendo che la semantizzazione
dipende dal contesto, dal co-testo e dalle condizioni di enunciazione. Al
contrario, si sta invece dicendo che questi elementi attivano piani in
funzione delle condizioni iniziali del sistema, e che la semantizzazione
dipende esclusivamente dal modo in cui degli elementi di contenuto si
determinano reciprocamente in quei determinati piani, in funzione di quel
dato taglio, direbbe Hjelmslev. Degli elementi si determinano
reciprocamente su base locale, l’interpretazione ne segue i percorsi possibili
su altri piani, in funzione di determinati tagli: è il nostro modo di tenere
insieme le prospettive di Hjelmslev e Peirce all’interno di una teoria del
valore semantico di tipo enciclopedico (cfr. supra, 1.7). L’enunciazione, il
contesto e il co-testo hanno come funzione quella di attivare il piano in cui
degli elementi si determinano reciprocamente e di far seguire il percorso che
è possibile intraprendere a partire da quel determinato piano
(interpretazione). Ma la semantizzazione è immanente e dipende dai rapporti
differenziali che si stabiliscono su base locale tra elementi semiotici.
La correlazione di due fonemi con correlazione di “significazioni” differenti è uguale
semplicemente al loro valore reciproco. È qui che si comincia a intravedere l’identità della
significazione e del valore. […] Noi non stabiliremo alcuna differenza seria tra i termini valore,
senso, significazione, funzione o impiego d’una forma, e nemmeno con l’idea come contenuto di
una forma: questi termini sono sinonimi. Occorre riconoscere tuttavia che valore esprime meglio di
ogni altra parola l’essenza della lingua. […] Il senso di ciascuna forma, in particolare, è la stessa
cosa che la differenza delle forme tra loro. Senso = valore differente. (ELG, pp. 18, 21-23)

Ci sembra allora questa la vera “attualità del saussurismo”,21 che


differenzia una semantica semiotica da ogni precedente tentativo di filosofia
del linguaggio. Nella voce “Word Meaning” della Cambridge Encyclopaedia
of the Language Sciences, al fine di illustrare gli approcci contemporanei
“maggiori” al significato, Vyvyan Evans (2007) presenta come
“generalmente accettata” questa idea:
Il significato convenzionale associato a una parola è spesso pensato più tecnicamente come una
rappresentazione semantica, un’unità semantica o un concetto lessicale. Nella linguistica moderna
cioè, i significati delle parole sono pensati essere delle entità concettuali, e cioè, sono pensati come
delle unità mentali, accoppiate a forme realizzabili foneticamente, e immagazzinate nella memoria
a lungo termine.

La mossa centrale di un approccio semiotico al significato, qual è quello


che stiamo proponendo qui, è allora una mossa orgogliosamente minore e
per nulla conforme alla “linguistica moderna”, dal momento che consiste nel
riconoscere la specificità del livello semantico, affrancandolo da qualsiasi
tipo di riduzione al concetto, sia nella sua declinazione logica, sia nella sua
declinazione cognitiva. La riduzione del “semantico” al “concetto”, nella sua
triplice declinazione logica, gnoseologica e psicologica, è alla base non solo
della “linguistica moderna” di cui parla Evans, ma anche della versione
“classica” della semantica cognitiva degli anni ’80 e ’90 (Rosch, Lakoff,
Talmy, Langacker ecc.). Come scrive ad esempio Jackendoff in Semantics
and Cognition:
Esiste un unico livello di rappresentazione, la struttura concettuale, all’interno della quale le
informazioni linguistiche, sensoriali e motrici sono compatibili. […] Per questo studiare semantica
è studiare psicologia cognitiva. (Jackendoff, 1983, p. 19)

Il rifiuto di confondere o ridurre l’ordine del semantico a quello dei


concetti logici, gnoseologici o psicologici costituisce allora una dimensione
fondamentale da cui si riconosce una semantica semiotica di tipo
enciclopedico.
I segni esistenti evocano […] attraverso il semplice fatto della loro presenza e dello stato sempre
accidentale delle loro DIFFERENZE in ciascun momento della lingua, un numero eguale non di
concetti, ma di valori opposti per il nostro spirito. (ELG, p. 100)

Per quanto ci riguarda, occorrerà allora definire il significato di un


significante senza fare riferimento ad altri ordini di realtà, quali i concetti, i
referenti e i differenti rapporti che è possibile individuare tra questi elementi
(condizioni di verità, simbolizzazione, categorizzazione, condizioni
pragmatiche di enunciazione ecc.), bensì occorrerà definire il significato di
un significante in rapporto a realtà del medesimo ordine, in funzione delle
differenze con altri significati, o meglio, con altri valori semantici. Da qui la
centralità di un approccio differenziale alla semantica e la corrispondente
costruzione di una teoria immanente al di là, o al di qua, di ogni sua
possibile riduzione al concetto o ad altri livelli di “realtà”.
Connettere il significato con elementi altri da sé, quali ad esempio il
concetto o il referente, non è una mossa del tutto sbagliata, dal momento che
il significato ha sicuramente a che vedere con il “concetto” o con il
“referente”; ma lo è se essa pretende di esaurire tutta la semantica, come ha
spesso fatto fino a ora. Il concetto saussuriano di valore, che è fondativo
dell’episteme semiotica e centrale per una teoria del significato, possiede
sempre una doppia anima che rende necessario il confrontare qualcosa sia
con elementi dissimili, sia con elementi simili. Alla gran parte della
tradizione semantica occidentale si può allora rimproverare la mossa
esattamente opposta a quella che rimproveravamo alla semiotica generativa
nel secondo capitolo, e cioè il suo aver scambiato i valori semantici
esclusivamente con elementi trascendenti e dissimili rispetto al sistema
semantico, trascurando così completamente la seconda accezione del valore
saussuriano, che è costitutiva, assieme alla prima, di una semantica
differenziale.
La gran parte della tradizione semantica occidentale si è infatti
normalmente occupata di un segno isolato classificato innanzi tutto in
funzione del suo significante,22 a partire dal quale si individuavano i
differenti significati (senso letterale, significato primo, significato secondo,
accezioni) associandoli, e spesso riducendoli, a una rappresentazione
mentale, concettuale o cognitiva e/o a un referente, secondo la classica triade
aristotelica del Peri hermeneias e alle sue infinite variazioni a cui facevamo
accenno nel capitolo 1. In questo modo, il significato è sempre cresciuto
soltanto frequentando elementi diversi da lui, quando invece lo si sarebbe
dovuto associare ad altri significati, e alle differenze che esso intrattiene con
loro. Non ci si stupirà allora dell’essenza costitutivamente problematica del
significato: sarebbe come far crescere un bambino insieme a lupi e marziani,
stupendosi poi del fatto che il bambino manifesta evidenti segni di
problematicità. Con il significato si è fatto esattamente questo: lo si è sempre
associato a elementi che non posseggono la sua stessa natura (concetti,
referenti), invece di farlo crescere con elementi simili dai quali il singolo
significato si differenzia vivendoci assieme, esattamente come un bambino si
differenzia dai suoi stessi compagni vivendoci assieme in classe o in
famiglia. Da qui la sua costitutiva essenza problematica, di cui la vera cosa
sorprendente è che ci si stupisca.
Tenuto conto della doppia accezione saussuriana del valore, è allora
assolutamente evidente che i poli referenziale e concettuale non vadano
certamente esclusi da una teoria semantica di tipo semiotico, ma vadano
però mirati a partire dalle specificità di un paradigma differenziale,
all’interno di un progetto semantico unificato.
Occorre allora insistere con forza su questo punto: il senso non è mai
costituito esclusivamente dalle condizioni di riferimento a oggetti né dalle
possibili inferenze tra concetti, bensì anche e innanzi tutto dalla differenze
tra elementi immanenti che si determinano reciprocamente su base locale.
Per questo a una semantica referenziale e a una semantica inferenziale va
innanzi tutto affiancata (non sostituita) una semantica che sia
costitutivamente e centralmente differenziale. L’autentica svolta
epistemologica operata prima da Saussure e poi da Hjelmslev, spesso non
adeguatamente compresa in semantica, è stata quella di definire il significato
in funzione dei rapporti differenziali tra elementi che si determinano
reciprocamente all’interno di un determinato sistema. Questo “sistema” per
Saussure era quello della lingua, ma, come abbiamo visto, esso può
benissimo essere qualsiasi altro tipo di sistema locale di tipo enciclopedico
(“piano”): una semantica differenziale può benissimo essere enciclopedica e
non dizionariale o intralinguistica, e può benissimo assumere come proprio
livello di pertinenza quello del testo o quello di una pratica (cfr. Allwood,
2003; Rastier, 2003). Non va dunque confuso il principio differenziale di
determinazione reciproca dei valori semantici all’interno di un sistema con la
taglia che è propria del sistema (cfr. EL, p. 111), né tanto meno con
l’intralinguisticità di una semantica differenziale, come troppo spesso si è
fatto in semantica cognitiva, costruendo così l’immagine di un nemico
inesistente.
Tuttavia, per quanto ci riguarda, riconoscere questa immanenza che è
propria di un terzo ordine propriamente semantico irriducibile e al livello
logico-referenziale e al livello concettual-inferenziale, non significa
minimamente fondare la semantica su di un’ontologia ad hoc, né tanto meno
su di un ordine di realtà sui generis. Al contrario, il valore semantico di un
termine è essenzialmente qualcosa di relazionale e privativo, che è definito
nella sua stessa essenza da ciò che Peirce chiamava Terzità. Ora, la Terzità
peirciana è esattamente la categoria della relazione, della mediazione, del
trovarsi-interposto, per cui si può andare da un primo a un secondo
solamente passando attraverso la mediazione di un terzo. “Terzo è il concetto
di mediazione attraverso il quale un Primo e un Secondo sono posti in
rapporto” (CP 6.32). Questa dimensione relazionale di mediazione non crea
dunque un ulteriore “mondo”, ma rappresenta solamente la mediazione tra i
due tra i quali si interpone, definendo nel nostro caso la condizione di
possibilità e del riferimento a oggetti e delle inferenze tra concetti. Ed è
proprio per questo che questo terzo livello differenziale non possiede
minimamente una quiddità, un’essenza, un quod quid est aristotelico o
scolastico. La quiddità infatti definisce la cosa attraverso il suo essere ciò
che non può non essere. Al contrario, un valore semiotico in senso
saussuriano definisce un termine attraverso il suo essere tutto ciò che gli
altri non sono, che è ben altra cosa (cfr. Rastier, 2001, p. 239). Ecco allora
perché Peirce poteva sostenere in diversi punti della sua opera come ciò che
era dell’ordine della Terzità non solo non avesse un’essenza, ma non avesse
neppure un’esistenza, sebbene fosse allo stesso tempo perfettamente reale
nella sua identità indeterminata e relazionale.
È allora nota una bella e condivisibile idea di Quine secondo la quale i
significati non sono specie di enti, dal momento che non presentano
un’identità definita che consentirebbe di discernere quando due enunciati
posseggono ad esempio lo stesso significato. Come per Peirce, per Quine i
significati non presentano condizioni d’identità determinata che li
renderebbero “enti rispettabili”.23 Ma è allora esattamente questa
indeterminatezza, che si prolunga poi nella determinabilità di elementi che si
determinano reciprocamente, a costituire la specificità del livello semantico,
nello stesso identico modo in cui essa costituisce la specificità del calcolo
differenziale. I differenziali infinitesimali sono infatti completamente
indeterminati in quanto tali (dv, dt), ma essi sono perfettamente
determinabili gli uni in rapporto agli altri (dv/dt), e questa loro
determinabilità è dell’ordine di un’effettiva determinazione reciproca (valori
di dv e di dt). L’ordine del “semantico” funziona allora nella stessa identica
maniera. Il senso è infatti sempre qualcosa di essenzialmente indeterminato
in prima istanza, tanto che ogni espressione può sempre disseminarci su
mille piani enciclopedici (ad esempio: QWERTY), ma questa
indeterminatezza non gli impedisce però di prolungarsi in una
determinabilità dei suoi elementi in funzione dei generi, delle norme e delle
pratiche (piani) in cui è istanziato (ad esempio il genere letterario dei
manuali di dattilografia, il sistema dei valori linguistici, quello della pratica
di scrivere su un computer francese ecc.). All’interno di questi microsistemi,
i percorsi semantici sono allora dell’ordine di un’effettiva determinazione
reciproca di valori differenziali (ad esempio QWERTY VS AZERT – e cioè
l’ordine dei tasti delle macchine da scrivere francesi – e questo VS l’abito
mentale di cercare le lettere là dove non sono): tutto un microsistema di
valori semantici. Proprio in questo senso, è allora possibile riprendere la
teoria semiotica dei modi di esistenza di Greimas e Fontanille (1991) e
coniugarla a livello semantico con la teoria dell’indeterminato di Peirce
presentata in 3.4: i) la determinazione di un effetto di senso nell’analisi parte
sempre da uno stato potenzializzato di tipo indeterminato, ii) sulla base del
ritaglio del piano enciclopedico, in funzione di abiti interpretativi, questo
indeterminato diventa determinabile (virtualizzato); iii) la determinazione
reciproca degli elementi semantici definisce uno stato attualizzato che iv)
l’interpretazione realizza specificandola attraverso interpretanti, rendendo
così conto dell’effetto di senso (stato realizzato).
Ci pare allora che la semantica filosofica, da Frege a Russell, da Tarski a
Davidson, da Carnap a Quine e Dummett, si sia sempre troppo ispirata alla
logica matematica e alle sue condizioni di verità, mentre avrebbe forse
dovuto ispirarsi anche all’analisi matematica e alla sua ripartizione di
rapporti e di punti corrispondenti ai valori di questi rapporti, che è tutt’altra
cosa. La differenzialità del significato, la sua identità differenziale, è a nostro
parere il grande elemento assente nella grande tradizione della filosofia del
linguaggio, ed è esattamente ciò in cui consiste la risposta della semiotica
alle osservazioni di Quine sullo statuto del significato. Speriamo che in un
futuro si possa riaprire un dialogo tra filosofia analitica e semiotica, magari
partendo proprio dal rapporto tra logica matematica e analisi matematica da
un lato, e da quello tra Peirce e Quine dall’altro, che, come abbiamo visto,
partivano spesso da problemi simili per proporre poi soluzioni
diametralmente opposte.24
In ogni caso, pare evidente l’importanza fondamentale assunta dal
concetto di piano, o sezione enciclopedica parziale, nell’economia generale
di una semantica semiotica, dal momento che è in funzione del suo ritaglio
che degli elementi in principio essenzialmente indeterminati si determinano
reciprocamente, definendo così il valore semantico proprio del loro rapporto
differenziale. E tuttavia il concetto di piano, o di sezione enciclopedica
parziale, svolge almeno un’altra funzione essenziale, e la svolge proprio
nella determinazione della funzione segnica e della distinzione dei due piani
della semiotica.

4.4. Piano enciclopedico, piani semiotici e continuum: pieghe del foglio


di carta saussuriano

A prima vista, potrebbe sembrare che il denominare “piano” una sezione


locale di enciclopedia porti a un’indesiderabile confusione terminologica tra
il concetto di sezione enciclopedica parziale e i piani della funzione
semiotica (espressione e contenuto). In realtà, vedremo ora come questa
apparente confusione sia invece tutt’altro che tale.
Abbiamo infatti visto come espressione e contenuto siano strutturati come
S-codici, e cioè come sistemi o strutture (cfr. Eco, 1975, pp. 57-61, 76-81), e
come tra i due S-codici occorra mantenere: i) una distinzione nominale
(localmente i piani sono distinguibili, ma non ci sono “cose” che
appartengono di diritto all’espressione o al contenuto); ii) una relazione
funzionale (i due piani esistono e sono determinabili solamente l’uno in
funzione dell’altro); iii) una (in)distinzione reale (i due funtivi non
appartengono a due domini separati e sono individuabili solamente in
funzione della sezione enciclopedica parziale ritagliata come piano di
pertinenza). È solo a questo punto che è possibile determinare la relazione di
“espressione di un contenuto” propriamente detta, in cui delle figure
materiali25 differenziano qualcosa sul piano del contenuto, differenziandosi a
loro volta esse stesse al fine di divenire-espressioni di certi contenuti mirati.
Da qui la sintassi costitutiva della determinazione della funzione semiotica
tra espressione e contenuto: i) ritaglio del piano enciclopedico; ii)
determinazione di alcune figure in formanti dell’espressione26 sulla base di
questo piano di pertinenza; iii) funzione di espressione di un contenuto, in
cui, sulla base della pertinenza enciclopedica selezionata, alcune figure
costituiscono il piano dell’espressione di un contenuto mirato. Nell’esempio
del sommelier (cfr. supra, 2.6), in funzione della pratica di degustazione del
vino, venivano indicizzate alcune figure materiali (“sensazioni gustative”)
che diventano i formanti dell’espressione capaci di veicolare un determinato
contenuto mirato (“vino strutturato” ad esempio).
Com’è evidente, come in ogni funzione, si determina qui un rapporto tra
un dominio (espressione) e un codominio (il contenuto), in cui si passa dal
primo al secondo sulla base della pertinenza stabilita dalla sezione
enciclopedica parziale. In questo modo, se il dominio è 1 e il codominio è 2,
per andare da un primo a un secondo occorrerà necessariamente passare-
attraverso la mediazione di un terzo e questo terzo che permette di esprimere
dei contenuti non è allora un s-codice o una struttura, bensì un’enciclopedia
(un rizoma). Si ritrova a questo livello il principio costitutivo della Logica
dei Relativi di Peirce:27 le relazioni diadiche e monadiche, come quelle che
si instaurano tra i due piani del linguaggio, sono sempre l’effetto del
dispiegamento di una relazione triadica. Una relazione triadica ha forma
rizomatica (ramificazione), e questa è esattamente la forma propria
dell’enciclopedia (modello Q): ritagliare l’enciclopedia in porzioni locali
(piani) è allora esattamente generare espressioni e contenuti. Produrre una
funzione semiotica significa infatti innanzi tutto determinare il piano
enciclopedico di pertinenza all’interno della quale essa assume senso. Come
abbiamo infatti visto, senza un riferimento alla sezione enciclopedica di
pertinenza non è possibile stabilire né se un determinato elemento appartiene
all’espressione o al contenuto (“bacche rosse”) né quale sia il contenuto di
una determinata espressione (QWERTY). Come nell’esempio di Borges, è
solamente in funzione della Terzità enciclopedica che la funzione diadica
E/C assume senso e identità.
Hjelmslev ci ha insomma detto molte cose sulle dipendenze interne ai
singoli piani, ma non ci ha davvero mai spiegato la funzione che li unisce, la
barra tra E e C, la semiosi. Dire che essa è l’effetto di un taglio arbitrario e
adeguato è già dire qualcosa, ma non è dire l’essenziale. Occorre altresì
mostrare la struttura di questa forma di relazione che tiene insieme i due
piani e che è possibile tagliare e ritagliare nell’analisi, al fine di individuare i
funtivi di espressione e contenuto. È allora possibile fare questo attraverso la
teoria dell’enciclopedia e dei modi di produzione segnica di Eco (1975).
Nella teoria dei modi di produzione segnica, Eco poneva infatti l’identità
di espressione e contenuto in funzione del rapporto (ratio) che veniva a
instaurarsi tra di essi e classificava i differenti tipi di ratio sulla base di
differenti piani di pertinenza enciclopedica (“linguistico”, “percettivo”,
“artistico” ecc.). Era il suo modo di mettere all’opera concretamente l’idea
precedentemente formulata a livello di teoria dei codici, in cui ciò che ora
chiamiamo enciclopedia era il codice di correlazione tra espressione e
contenuto, e cioè il codice che consente di associare all’espressione “dare
una lezione” il contenuto “vincere magistralmente”, e non quello di “tenere
un corso”, che rimane comunque virtuale ed esprimibile in funzione di un
altro piano enciclopedico. Ecco allora che se una funzione semiotica è
determinabile attraverso l’instaurazione di una ratio tra i due piani, il
principio di relazione tra unità che determina questa ratio è l’enciclopedia: a
nuovi piani enciclopedici ritagliati nell’analisi corrispondono nuovi piani
della semiotica (E/C).
E questo con alcune importanti conseguenze. Se l’enciclopedia è infatti la
forma della semiosi (correlazione tra espressione e contenuto) e se essa è una
rete di interpretanti, ecco che ogni funzione semiotica è innanzi tutto ed
essenzialmente una prima funzione interpretativa, che non individua un
semplice rapporto diadico tra espressione e contenuto, ma individua innanzi
tutto il piano all’interno del quale questo rapporto può dare vita a percorsi
interpretativi che lo possono complessificare, arricchire, ribaltare e
invalidare. Come abbiamo visto, infatti, al di fuori di un determinato piano
enciclopedico, la stessa unità può diventare espressione di un altro contenuto
(QWERTY), oppure ciò che è contenuto può a sua volta diventare
espressione di un contenuto ulteriore (e viceversa), ribaltando localmente la
gerarchia e ricostruendone un’altra su un altro piano, in funzione di
differenti valori semiotici.28 Il piano enciclopedico è una struttura di
complessità maggiore rispetto alla funzione espressione/contenuto, ed è
solamente in funzione del primo che si può stabilire la seconda. Ritroviamo
qui quel primato del complesso sul semplice su cui abbiamo insistito e che a
questo livello permette di ricucire la differenza tra “semiosi” intesa in senso
strutturalista (rapporto tra espressione e contenuto) e “semiosi” intesa in
senso peirciano (relazione triadica irriducibile a ogni rapporto tra coppie che
definisce una ramificazione). La funzione tra espressione e contenuto passa
infatti sempre attraverso un terzo elemento che stabilisce la correlazione (il
piano enciclopedico), individuando sempre un concatenamento di
interpretanti alla luce del quale un rapporto E/C può essere stabilito, e
successivamente complessificato e ribaltato. L’enciclopedia è il terzo
termine tra espressione e contenuto che istituisce la semiosi come rapporto
irriducibilmente triadico: il “codice di correlazione”, come voleva Eco nel
Trattato, la barra di frontiera tra E e C di cui parlava Fontanille (2004).
Quello che vale per la semiosi, vale allora ovviamente anche per il concetto
di segno, che per entrambe le tradizioni è l’effetto del rapporto di semiosi
(funzione semiotica per lo strutturalismo, relazione irriducibilmente triadica
per Peirce).
A questo proposito, possiamo allora ritornare al foglio di carta
saussuriano. Ferraris (1997, p. 330) nota come nel piegare un foglio si
determinano in prima battuta due piani per il tramite di una frontiera
provvisoria tra di essi, “mediazione che anticipa ciò che media”, perché li
costituisce in quanto piani. Tra i piani del linguaggio, il piano enciclopedico
è esattamente questa frontiera provvisoria che li costituisce in quanto piani,
barra di mediazione che anticipa ciò che media. Ecco allora che l’istituzione
di una funzione semiotica è innanzi tutto una “piegatura enciclopedica”,
attraverso cui si determinano espressione e contenuto come parti di un
medesimo foglio (così in Saussure), che è per noi quello dell’enciclopedia.
L’istituzione di una funzione semiotica è così un ritaglio interno
all’enciclopedia che istituisce i piani a partire dalla frontiera-piega. Il
proseguire della semiosi, il ribaltarsi continuo dei ruoli tra espressione e
contenuto, il divenire-espressione di ciò che è contenuto non è allora altro
che una specie di “origami”, in cui si continua senza posa a piegare la carta,
la stoffa o il tessuto.
Ecco allora che il rapporto tra espressione e contenuto non è tanto quello
tra il recto e il verso di un foglio di carta senza spessore, bensì quello tra i
due lati di un unico foglio piegato, in cui la frontiera di piegatura che li
costituisce in quanti lati è costituita dall’enciclopedia, e più in particolare dal
ritaglio locale dell’enciclopedia che viene attivato nell’analisi.
Conformemente a quanto presentato in 3.5, l’enciclopedia è per noi un
continuum in cui l’interpretazione inscrive delle correlazioni tra espressione
e contenuto. In questo modo, almeno sotto un certo punto di vista, Eco
(1984) aveva senz’altro ragione a rappresentare il rapporto tra continuum,
espressione e contenuto senza differenziare continuum dell’espressione e
continuum del contenuto, ma pensando ai piani di una semiotica come
interni a un’unica continuità.

Figura 2. Continuum e piani di una funzione semiotica in Eco (1984)

Questo continuum è per noi l’enciclopedia e i sistemi di espressione e


contenuto hanno senso soltanto in funzione dello sfondo enciclopedico su
cui si inscrivono, dal momento che articolano sempre sia conoscenze della
“lingua” sia conoscenze enciclopediche del mondo. Del resto, il pensiero è
tutt’altro che una “massa amorfa” (la pagina non è mai bianca, la tela non è
mai vuota), e anche le lingue articolano sempre sistemi encicplopedici che
rappresentano lo sfondo della nostra percezione del mondo. In questo modo,
il rapporto tra espressione/contenuto è per noi un rapporto esclusivamente
funzionale di tipo partecipativo tra unità enciclopediche pertinentizzate in
quanto espressioni (termine intensivo) di contenuti (termine estensivo),
rapporto che presenta al suo interno anche una componente privativa, dal
momento l’espressione è sempre il termine presente che rimanda al
contenuto come termine assente. L’identificazione di sensibile e intelligibile
con espressione e contenuto, che ha rappresentato quell’ontologizzazione
della funzione semiotica così ben messa in evidenza da Derrida, viene così
riformulata nei termini di una relazione privativa tra presenza/assenza, dove
l’espressione è il termine marcato. È allora in funzione di questa stessa
relazione che un’espressione può stare al posto del suo contenuto in funzione
di un interpretante, come ha sostenuto Eco in più punti della sua opera.
Riportando il rapporto espressione/contenuto alla sua doppia dimensione
strutturale tensivo/privativa (cfr. supra, 3.6), è allora possibile coniugare la
descrizione peirciana della semiosi come rapporto tra
segno/oggetto/interpretante (“qualcosa che per qualcuno sta al posto di
qualcos’altro”) con quella strutturalista tra significante e significato, come
voleva Eco (1975, 1984) quando diceva che un’espressione sta al posto di un
contenuto. Ecco manifestarsi ancora una volta l’essenza stessa della
semiotica interpretativa come un tenere-insieme le prospettive di Peirce e
Hjelmslev. Tuttavia, questo tenere-insieme può essere sensato solo ed
esclusivamente se si insiste sul carattere puramente relazionale che è proprio
sia degli oggetti teorici peirciani (segno/oggetto/interpretante sono relativi, e
cioè attanti), sia del rapporto hjelmsleviano tra espressione e contenuto. Se
invece l’espressione è qualcosa di sensibile e il contenuto qualcosa di
intelligibile; se invece l’oggetto è qualcosa di reale e il segno e
l’interpretante qualcosa di ideale, di mentale, di “rappresentazionale” o
qualsiasi altra cosa si voglia, allora questo tenere-insieme è puramente
sincretico e assolutamente insostenibile.
In conclusione, ci pare allora che il rapporto tra il continuum
enciclopedico ritagliato localmente e i piani della semiotica individui una
gerarchia di tagli che invalida il primato semiotico della divisione in
espressione/contenuto sostenuto da Hjelmslev. Il primo taglio della funzione
semiotica non è infatti quello che individua l’espressione e il contenuto (cfr.
R, pp. 94-101), bensì è quello che individua localmente la porzione di
enciclopedia pertinente. È solamente in funzione di questo taglio
enciclopedico che è poi possibile individuare la funzione semiotica, e
distinguere ciò che è dell’ordine dell’espressione e ciò che è dell’ordine del
contenuto. Il fatto che all’interno di questa funzione il contenuto sia termine
estensivo significa per noi che il contenuto possiede sempre un primato e
che il piano enciclopedico e la ratio tra i due piani si stabiliscono sempre in
funzione di un contenuto mirato. Questo caratterizza l’impresa semiotica
nella sua stessa essenza e la differenzia da altri tentativi di teoria del
linguaggio: si usa il linguaggio sempre e soltanto per esprimere un
contenuto, non per articolare una formula ben formata sul piano
dell’espressione, esattamente come ci si siede perché si è stanchi, e non
perché ci si piegano le ginocchia.

4.5. Metodo semasiologico e metodo onomasiologico: su alcune


insospettabili tassonomie borgesiane in semantica

Se è dunque sempre il contenuto a possedere un primato, e se è sempre e


soltanto a partire dal contenuto enciclopedico che è possibile determinare
l’identità dei valori semantici e la funzione che collega espressione e
contenuto, pare evidente come una semantica semiotica di tipo enciclopedico
debba costitutivamente fondarsi su di un metodo onomasiologico. Siamo
inoltre convinti che la stragrande maggioranza dei problemi di analisi
semantica, quali ad esempio quelli della polisemia, del senso letterale, del
nucleo semico “in lingua”, del significato primo e delle accezioni derivate
siano effetto della mancata adozione di un metodo onomasiologico a favore
di uno semasiologico.29
Un metodo semasiologico infatti mira il contenuto (sema) a partire
dall’espressione, di norma ridotta alla sua sostanza grafica o sensibile. Un
metodo onomasiologico invece arriva al nome (onoma), e cioè
all’espressione, solamente a partire dalla strutturazione del piano
enciclopedico del contenuto, con la sua costitutiva ripartizione locale di
valori semantici. Ecco allora che il metodo tradizionale, che da secoli tarla la
quasi totalità della semantica con i suoi effetti trompe-l’oeil, è ovviamente
quello semasiologico, che è ad esempio il metodo impiegato dai lessicografi
nella costruzione dei vocabolari: a ogni significante si associa l’insieme dei
significati che è suscettibile di assumere e si cerca in questo modo di
strutturarne l’inventario. Tuttavia, come nota giustamente Rastier:
Le significazioni associate a uno stesso significante non hanno necessariamente degli elementi in
comune (si parla allora di omonimia); e quando ce li hanno (si parla allora di polisemia), esse non
si incontrano negli stessi contesti, non hanno la medesima storia, non appartengono generalmente
al medesimo livello della lingua ecc. […] Quando si occupa di polisemia, il metodo semasiologico
conduce spesso, al fine di poter strutturare l’inventario delle accezioni, a conservare il pregiudizio
metafisico che ogni parola avrebbe un senso principale, naturale o comune, da cui deriverebbero
tutti gli altri. La nozione di senso prototipico è il risultato di questa tradizione. (Rastier, Cavazza e
Abeillé, 1994, p. 45)

La realtà è che i problemi a cui conduce un metodo semasiologico in


semantica sono ben più profondi di quelli, per altro già fondamentali, messi
in luce da Rastier. Il problema di questo approccio tradizionale ormai
millenario è che esso è diventato assolutamente normale in analisi
semantica, finendo così per oscurare attraverso la sua continua iterazione la
sua stessa problematicità. L’assurdità di una classificazione semasiologica è
infatti celata dal fatto che essa ci sembra ormai assolutamente naturale, ma
questa sua “naturalità” ci impedisce forse di vedere come ad esempio i
dizionari siano macchine che costruiscono a tutti i livelli categorie che non
hanno nulla da invidiare a quella attribuita da Borges a un’enciclopedia
cinese, secondo cui gli animali si dividerebbero in: (1) appartenenti
all’imperatore; (2) imbalsamati; (3) addomesticati; (4) maialini di latte; (5)
sirene; (6) favolosi; (7) cani in libertà; (8) inclusi nella presente
classificazione; (9) che si agitano follemente; (10) innumerevoli; (11)
disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello; (12) et caetera; (13)
che fanno l’amore; (14) che da lontano sembrano mosche.30
I dizionari sono pieni di classificazioni forse meno fini, ma sicuramente
ancora più devianti di quella borgesiana, che riuniscono ad esempio (1)
mammiferi domestici con pelo più o meno folto; (2) denti di arresto in vari
meccanismi meccanici; (3) curve di fuga in cui il punto M si muove con
velocità scalare costante verso il punto P; (4) organi che percuotono
l’innesco determinando lo sparo delle armi da fuoco portatili; (5)
costellazioni astrali vicino a Orione; (5) varianti del turco-mongolo khan; (6)
nottolini.
O ancora: (1) intrecci di uno o più tratti di corda; (2) vincoli tra due
persone; (3) nomi delle sezioni delle parti caratteristiche di un infisso; (4)
intoppi; (5) punti doppi di una curva piana in cui le tangenti sono reali e
distinte; (6) intrecci di fatti e vicende; (7) formazioni circoscritte di
consistenza diversa da quella dei tessuti circostanti, dolenti o no; (8) punti
particolarmente essenziali di un’argomentazione; (9) gruppi di cellule della
blastocisti (9) zone d’incontro di due rilievi montuosi; (10) unità di misura
della velocità di una nave o di un aeromobile; (11) ciascuno dei due punti in
cui l’orbita di un pianeta taglia l’eclittica; (12) rigonfiamenti tuberosi.31
È evidente che tra tutte queste cose si possano sempre trovare infinite
proprietà in comune (ad esempio nessuna faceva ricevimento nel mio studio
di Bologna l’8 Marzo 2010); allo stesso modo, è assolutamente evidente
come Borges avrebbe potuto ottenere un effetto simile alla sua meravigliosa
classificazione semplicemente aprendo a caso un vocabolario.
Qual è allora il problema fondamentale che si nasconde dietro a queste
classificazioni stranianti? Perché l’obiettivo polemico non sono ovviamente i
dizionari, che non possono funzionare che così, bensì l’estensione del
metodo lessicografico alla semantica. A nostro parere, il problema è ancora
una volta quello della divisione e della sintesi: un metodo semasiologico
tiene infatti insieme cose che vanno invece separate e ripartite in funzione
del piano enciclopedico all’interno del quale esse vedono definite la loro
identità. Ed è esattamente questo il modo di procedere del metodo
onomasiologico, che è per noi costitutivo di una semantica enciclopedica.
Un metodo semasiologico infatti si scontra con il fatto che i diversi
significati di un’espressione non appartengono né agli stessi piani
enciclopedici né agli stessi domini disciplinari; così che il loro valore
semantico è completamente differente, perché differenti sono gli elementi
con cui essi si determinano reciprocamente. Ecco allora che per rendere
conto di questo fatto, che è assolutamente naturale e costitutivo per un
approccio onomasiologico, un metodo semasiologico si ritrova invece ad
affrontare il suo problema più abissale (ma che è abissale esclusivamente
perché mal posto), e cioè il problema della polisemia. La polisemia diventa
infatti il centro delle preoccupazioni di tutte le teorie semasiologiche e
diviene così oggetto di attenzione di una serie innumerevole di studi che non
fanno altro che reiterare ad libitum lo stesso identico errore. Infatti, come
nota giustamente Rastier: “L’importanza decisiva accordata al problema
della polisemia è senza dubbio un artefatto del metodo semasiologico
tradizionale adottato dalle semantiche cognitive”,32 e questo artefatto finisce
in ultima analisi per rendere il problema stesso di impossibile soluzione.
A questo proposito, vale senz’altro la pena di soffermarsi sul più
“avanzato” oggetto teorico messo a punto al fine di risolvere il problema
della polisemia all’interno del paradigma semasiologico, e cioè sulla nozione
di prototipo.33 Per un approccio semasiologico di questo tipo infatti,
all’interno di una configurazione semantica, un senso sarebbe il prototipo
degli altri, che ne deriverebbero in un passaggio dal centro alla periferia
della microstruttura indagata. Nella sua analisi di “ring” ad esempio,
Langacker (1987) pone arbitrariamente il senso “pezzo circolare di
gioielleria portato al dito” come senso prototipico dal quale dovrebbero poi
derivare tutti gli altri.34 Spostandosi dal centro (prototipo) alla periferia (altri
sensi) di questo tassema semantico fondato esclusivamente sul trompe-l’oeil
dell’espressione, Langacker riesce allora a dar conto benissimo del piercing
al naso (“portato al naso”) e dell’arena (entità circolare), ma non riesce
proprio a rendere conto del ring di boxe, che non si porta da nessuna parte e
non è circolare.

Figura 3. Analisi di ring di Langacker (1987). Alcuni sensi sono “schematici” per gli altri (freccia
non tratteggiata); altri rappresentano invece delle estensioni di altri sensi (freccia tratteggiata)
Di fatto ring era anche un caso semplice. Passare dall’intreccio della corda
al gruppo di cellule dei blastocisti fino all’unità di misura della velocità delle
navi sarebbe infinitamente più complesso (nodo). Ma tant’è: anche in un
esempio semplice e scelto ad hoc, i problemi proliferano, e proliferano per
essenza, dal momento che sono infatti il problema di fondo e il metodo
attraverso il quale lo si affronta a essere impostati male.
Ci pare infatti evidente che quello che le teorie semantiche considerate
trattano sotto il nome di prototipo, pur con tutte le sue specificità, è in fondo
qualcosa che differisce solamente in grado da quello che in precedenza
andava sotto il nome di “senso letterale”, “accezione primaria”, “nucleo
semico”, “senso principale” ecc. Ci occuperemo tra breve del problema del
senso letterale, di cui forniremo una riformulazione costitutivamente
onomasiologia, che ci consenta finalmente di uscire da tutte queste impasses.
Ma va allora notato fin da subito come, ben più che sul problema dei
primitivi semantici, dei prototipi, dei nuclei semici e dei modelli dinamici, le
analisi di Katz e Fodor (1963) su “bachelor”, quella di Langacker (1987) su
“ring”, quella di Lakoff (1987) su “over”, quella di Fillmore (1982) su
“write” e quella di Victorri (1997) su “encore” (per citare solo le più
celebri), si fondano tutte sul medesimo problema, che è quello dell’adozione
di un metodo semasiologico, che crea costantemente a tutti, e nella stessa
identica forma, problemi di polisemia, di senso derivato, di senso
prototipico, di estensione, di deformazione contestuale, di gerarchizzazione
delle accezioni ecc.
Queste teorie cercano continuamente di ridurre a unità coerenti quelle che
sono soltanto delle categorizzazioni contingenti, perché dovute
esclusivamente al trompe-l’oeil dell’espressione. Come diceva giustamente
Wittgenstein:
Si crede di star continuamente seguendo la natura, ma in realtà non si seguono che i contorni della
forma attraverso cui la guardiamo. Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne
fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente.
(Wittgenstein, 1953: §114-115)

Per parafrasare Wittgenstein allora, la semiotica, con la sua semantica


enciclopedica e differenziale, è in fondo “una battaglia contro
l’incantamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio”:35 il
metodo semasiologico non è infatti altro che un artificio di comodo che resta
senz’altro valido nella stesura dei vocabolari, ma che, all’interno di una
teoria semantica che si voglia esplicativa e consistente, crea più problemi
(infiniti) di quelli che risolve (quasi nessuno). Che la semantica si fondi
sull’artificio di comodo che usano i lessicografi nella stesura di un
dizionario, e che non ci si renda normalmente conto dell’assoluta
problematicità di questa scelta, significa per noi la necessità di marcare con
forza come l’analisi semantica, se davvero vuole dire qualcosa di più dei
vocabolari, non può davvero adottare lo stesso metodo che serve
indifferentemente alla stesura del Ragazzini per le scuole elementari e al
Treccani in dieci tomi.
Analizzare e interpretare sono cose ben diverse dall’inventariare (cfr. Eco,
2007), e un’analisi adeguata non può per essenza fondarsi su di un metodo
tassonomico, che è costitutivamente non-esplicativo, bensì puramente
descrittivo (ed è infatti stato costruito in funzione di quell’obiettivo). Ci pare
allora che analisi semantica e interpretazione trarranno grande beneficio da
un approccio che differisca in natura da quello semasiologico. Come
abbiamo visto nell’analisi di QWERTY, infatti, una semantica semiotica di
tipo enciclopedico e differenziale adotta un metodo costitutivamente
onomasiologico, in cui i valori semantici sono cioè analizzati in funzione del
loro determinarsi reciprocamente all’interno di un piano enciclopedico
locale. È in funzione dei rapporti differenziali che su base locale definiscono
l’identità di un valore di contenuto che è infatti possibile instaurare una
funzione semiotica che sia in grado di collegare un contenuto a
un’espressione. Un metodo di questo tipo parte cioè sempre dal piano del
contenuto, e solamente in funzione del ritaglio della sezione enciclopedica
parziale è in grado di definire l’identità dei valori semantici, e, in funzione di
essa, di determinare poi la funzione semiotica arrivando così al significante
(onoma).
Va altresì sottolineato come in un approccio onomasiologico, come quello
che stiamo proponendo qui, l’identità di un valore semantico sia determinata
dai rapporti differenziali che esso allaccia con valori semantici altri interni al
piano considerato, là dove un metodo semasiologico finisce invece per
definire il senso di un termine in rapporto ai suoi altri sensi (“senso primo-
accezioni”, “prototipo-sensi periferici” ecc.), prendendo sempre le mosse
dalla stabilità puramente ingannevole del significante. L’analisi di
Langacker, con le sue derivazioni dei sensi periferici a partire dal senso
prototipico dell’espressione ring, ne era senz’altro un esempio. Il piano
dell’espressione è stato per secoli il trompe-l’oeil che ha ingannato la
stragrande maggioranza degli studiosi di semantica, rendendoli prigionieri di
un effetto ottico che non solo copriva propriamente il problema, ma ne
creava infiniti altri, che erano effetto della stessa metodologia adottata.
Oltre che dal metodo semasiologico, le ambiguità di omonimia e
polisemia nascono infatti dalla confusione tra il livello potenziale
(indeterminato) e il livello attuale (determinato) del significato. Gli effetti di
senso, determinati in funzione del piano enciclopedico parziale, sono a
regime senza ambiguità, e quando un’ambiguità c’è, o è un effetto di senso
mirato, oppure è più o meno facilmente scioglibile interpretando il lessema
su altri piani enciclopedici, e cioè sotto altri rispetti che illuminano questa
prima stabilizzazione tentativa e la arricchiscono. Le ambiguità costitutive di
omonimia e polisemia sono per la stragrande maggioranza potenzialità non
attualizzate ammesse dalla struttura del linguaggio che vengono analizzate in
quanto tali, senza considerare le restrizioni contestuali che un piano
enciclopedico determina e all’interno del quale soltanto si trova un
significato. Non esistono significati fuori dai piani enciclopedici: si tratta di
artefatti degli analisti che confondono il livello indeterminato del significato
(dy; dx), che resta sempre e soltanto potenziale, con il livello determinato
degli effetti di senso, in cui il significato diviene determinabile attraverso
determinazione reciproca (dy/dx), attualizzandosi in funzione di uno o più
piani enciclopedici (valori di dy e dx).
Ambiguità e polisemia sono viste come possibilità strutturali non-attuali che esistono solamente
quando noi, come analisti o parlanti, ignoriamo alcune delle restrizione contestuali sul significato.
(Allwood, 2003, p. 61)36

Del resto Peirce ce lo mostrava: l’indeterminato in quanto potenziale e il


determinato in quanto attuale differiscono in natura. La stragrande
maggioranza dei problemi della semantica considerati, provengono
dall’applicazione al primo di tecniche e strutture che hanno senso solo a
livello del secondo. L’indeterminato è per essenza potenziale, vago e
indecidibile, ma il significato ha questa natura esclusiva solo negli artefatti
degli analisti.

4.6. Metodo onomasiologico, sema, isotopia e ritaglio del piano

Possiamo a questo punto riprendere in chiave onomasiologia due concetti


della semiotica di Greimas, che riteniamo assolutamente indispensabili per la
semantica. Se è dal contenuto che bisogna partire all’interno di un metodo
che si vuole onomasiologico, chiamiamo allora sema un valore differenziale
non immediatamente lessicalizzato nel testo o nella pratica significativa, ma
che presiede alla lessicalizzazione stessa. Definiamo cioè “sema” un
interpretante non immediatamente manifestato nel testo e che coagula
attorno a sé, e a partire da sé, un insieme convergente di altri semi
interpretanti. Un sema non è affatto un’unità profonda rispetto ai lessemi di
superficie (così in Greimas), esso è un’unità di valore non lessicalizzata, ma
che presiede alla lessicalizzazione. Più precisamente, un sema è
semplicemente un elemento non immediatamente presente, ma presentificato
dal testo proprio in quanto non immediatamente presente. Un sema è la
presentificazione di un’assenza testuale, e in quanto tale è l’effetto di una
relazione differenziale tra il suo contenuto semantico e gli interpretanti
testuali che ne presentificano l’assenza, che lo attualizzano cioè in quanto
assente, in quanto pura presenza virtuale che presiede al dispiegarsi del
senso. In sé dunque un sema non solo non è un’unità profonda, ma non è
neppure qualcosa di nascosto in un doppio fondo metafisico. Al contrario
esso è presente nel testo o nella pratica, ma è presente proprio in quanto
assente.37 Un sema è la presentificazione di un’assenza semantica.
Un sema di questo tipo è allora tale proprio in quanto è germinativo del
senso: puro effetto dei lessemi testuali, puro interpretante presentificato nella
sua assenza da ciò che è invece effettivamente presente, un sema è sempre
principio di (dis)seminazione a partire dal quale si intraprende il percorso
dell’interpretazione. I semi, in un testo o in una pratica, sono sempre punti
singolari attorno ai quali si coagula il senso. Dei semi sono disseminati
localmente, attorno a essi si irradia il percorso semantico (isotopia).
Che cos’è allora una isotopia?38 Una isotopia è una disseminazione nello
stesso luogo (iso-topos), una disseminazione che conduce nello stesso posto,
un percorso semantico in cui i semi sembrano andare in quella stessa
direzione. Più precisamente, un’isotopia è una disseminazione che getta i
semi tutti in uno stesso identico (iso) piano enciclopedico (topos), indicando
così la direzione in cui tagliarlo in vista della semantizzazione. Ben più che
l’iterazione di uno stesso sema o una ridondanza semica, l’isotopia è questa
disseminazione che indica uno stesso piano, all’interno del quale
semantizzare l’espressione. Nel momento in cui si individua un’isotopia, si è
immediatamente disseminati all’interno di uno stesso luogo (iso-topos),
all’interno cioè di uno o di più piani enciclopedici interconnessi e
concatenati tra loro.
Occorrerà allora precisare meglio il modo in cui sema e isotopia sono
caratterizzati in una semantica enciclopedica di tipo interpretativo. In quanto
è semplicemente un tipo particolare di interpretante non immediatamente
lessicalizzato, un sema, come tutti gli interpretanti, è definito da una
relazione triadica: in quanto tale, esso è tutt’altro che un’unità minima o
atomica; al contrario, esso è invece una ramificazione minimale, la molecola
narrativa più piccola. Così come esso è definito in Greimas, come unità del
piano del contenuto corrispondente a ciò che sono i tratti distintivi sul piano
dell’espressione, il sema era invece un’unità propria del livello
paradigmatico che si trovava inscritta all’interno di una struttura elementare
e solo successivamente dinamizzata, a livello prima protonarrativo e poi
attanziale. Al contrario, il sema interpretante, in quanto disseminazione
triadica, è immediatamente una posizione attanziale sull’asse del processo
che si dirama a rizoma seguendo un percorso isotopico che lo dissemina in
uno stesso luogo (iso-topia). Il passaggio da una logica diadica a una logica
triadica ci pare faccia esplodere l’unità paradigmatica del sema e lo
dissemini al vento dell’isotopia. Ben lungi dall’essere una pura ridondanza,
l’isotopia è innanzi tutto percorso di disseminazione che getta i semi in una
direzione piuttosto che in un’altra, come il vento che guida le onde del mare
a piegarsi in una certa direzione piuttosto che in un’altra.
Ciò che la lettura e l’analisi possono fare, ciò che l’interpretazione può
architettare, è allora utilizzare questo vento per seguire i semi nel percorso
tracciato dalle isotopie, come se la lettura fosse un vascello che dispiega le
sue vele per andare in una certa direzione, in funzione del vento che si
ritrova ad affrontare. Tuttavia, se l’isotopia dissemina i semi in uno stesso
luogo e ci indica così la direzione in cui ritagliare la sezione enciclopedica
parziale (piano) all’interno della quale gli elementi semantici assumono un
valore, in base a cosa avviene questo stesso ritaglio? In base a cosa si ritaglia
cioè un piano enciclopedico?
“Innanzi tutto e per lo più”,39 un piano si ritaglia in base a regole di
genere, norme, stereotipi culturali, situazioni condivise, abiti interpretativi.
Si tratta in fondo della componente pragmaticista della semiotica (cfr. supra,
2.5). Noi semantizziamo, o meglio, tendiamo a semantizzare
immediatamente in base a piani stereotipici, a universi di discorso codificati
e ipercodificati che sono propri della nostra enciclopedia. È il pigro
pragmaticista che è in noi che domina “innanzi tutto e per lo più” i nostri
primi tentativi di semantizzazione: per economia di lavoro, tendiamo a dare
senso al nuovo senso in base al vecchio senso già disambiguato. Ci lasciamo
cioè installare dai testi e dalle pratiche di significazione sui piani che
frequentiamo abitualmente e che non smettiamo di ritagliare come tutti.
Peircianamente, siamo guidati alla scelta degli interpretanti opportuni per
quel testo esattamente dagli abiti che ci sono più congegnali. È allora ovvio
che di diritto in un rizoma si possa andare da qualsiasi punto a qualsiasi
altro, ma il fatto che un piano sia ritagliato innanzi tutto in funzione di regole
di genere, stabilizzazioni condivise e codificazioni più o meno stereotipiche
definisce un insieme di concatenamenti di senso da cui si parte normalmente
per poi andare avanti nell’interpretazione.
I testi e le pratiche di significazione ci installano cioè in funzione delle
loro isotopie innanzi tutto all’interno di piani stabili in cui ci sentiamo a
casa nostra, e in cui dobbiamo fare l’esperienza dell’impiccio e del
contrattempo per uscire e cominciare a “viaggiare a rizoma”. I nostri abiti
interpretativi ci inducono a semantizzare il testo in base a regole ben precise,
che il pigro pragmaticista che è in noi trova nelle regole di genere, negli
stereotipi e nei cliché che frequenta abitualmente. Noi tendiamo a dare senso
installandoci immediatamente all’interno di questi piani abituali, e sono
proprio le regole di genere, gli stereotipi e i cliché a determinare anche quel
nostro sistema di attese che ci guiderà poi nell’interpretazione futura. Spesso
i testi giocano con questi nostri sistemi di attese, che essi stessi
contribuiscono a creare, e dopo averci installato su determinati piani che ci
inducono ad aspettare qualcosa, negano queste nostre aspettative e ci fanno
fare l’esperienza dell’impiccio e del contrattempo, non facendoci più sentire
“a casa nostra”.40
In questo modo, l’interpretazione è costretta a uscire dal piano in cui si era
installata, per riconfigurare i valori semantici in funzione dei nuovi piani in
cui il testo ci dissemina attraverso le sue nuove isotopie. Attraverso
l’esperienza dell’impiccio usciamo dai piani in cui ci eravamo installati e
cominciamo a far lavorare l’interpretazione e a connettere così elementi
eterogenei, nel tentativo di riconfigurare tentativamente un minimo di
coerenza che ci consenta di ritornare a “casa nostra”, anche e soprattutto
quando questo non avviene.

4.7. Sul senso letterale


Lo si è detto: un’enciclopedia è un rizoma e un rizoma ha molteplici
entrate. Ma proprio perché un rizoma possa dispiegarsi nella pratica è
senz’altro necessario che si cominci da qualche parte, che si scelga una tra le
molteplici entrate possibili. Ecco allora che l’enciclopedia deve sempre
essere ritagliata localmente in piani, e il fatto che un piano venga attivato in
funzione di regole di genere, stabilizzazioni condivise e codificazioni più o
meno stereotipiche, definisce un “insieme di senso” da cui si parte innanzi
tutto e per lo più, per poi andare avanti nell’interpretazione. Da qui la
problematica del senso letterale come senso di partenza, o di base, su cui si
tratterà innanzi tutto di fare chiarezza.
Se ogni piano stabilizza un espressione e definisce il senso di partenza a
partire dal quale si farà funzionare l’interpretazione, in questo senso un
piano è anche il responsabile del senso letterale: a suo modo è il senso
letterale. Ma il senso letterale in questa prospettiva diventa qualcosa di molto
variabile e legato alla semantizzazione in situazione e ai contesti locali che
lo attivano, in funzione di un metodo che si vuole radicalmente
onomasiologico. Ci piacerà allora chiamarlo senso alfabetico, o senso di
partenza, nel senso in cui un alfabeto è un “alfabeta”, e cioè le prime due
lettere del sistema considerato. Un piano, in quanto senso alfabetico, è la
prima semantizzazione da cui si parte. E in una semantica semiotica di tipo
interpretativo, questo senso alfabeta è sempre legato a stereotipi di universo
di discorso, di genere, di pratica, di costruzione testuale. Un pragmaticista
potrebbe parlare a questo proposito di “comfort interpretativo”, in un senso
simile a quello in cui si è potuto parlare di comfort narrativo:41 noi
interpretiamo cioè innanzi tutto in base a criteri di economia che tendono a
non raggiungere i punti di frontiera in cui il senso alfabetico diviene altro da
sé.
Tuttavia, se questo senso alfabetico svolge la funzione che è propria del
senso letterale, ci è allora possibile fare alcune precisazioni che ci paiono
importanti. Il senso letterale è infatti sempre l’effetto di una costruzione
interpretativa: è un risultato, un prodotto. Ed è solamente in quanto prodotto
che esso può essere il punto di partenza dell’interpretazione, perché prima si
stabilisce il piano ritagliando l’enciclopedia e poi a partire dal piano si può
stabilire il senso letterale, che varia sempre in funzione di questo ritaglio
locale. Il senso letterale è così sempre un effetto. E lo è in due sensi, uno che
si tratta di mantenere e l’altro che si tratta invece di abbandonare: i) è
l’effetto di una pratica di gerarchizzazione; ii) è l’effetto di un metodo
semasiologico. Ciò che chiamiamo senso alfabetico, e che proponiamo di
sostituire al concetto di senso letterale, è invece l’effetto di una pratica di
gerarchizzazione che è funzione di un metodo onomasiologico, l’unico
veramente adeguato a una semantica semiotica di tipo enciclopedico. Al
contrario, ciò che si è sempre chiamato senso letterale era invece l’effetto di
una pratica di gerarchizzazione che era funzione di un metodo
semasiologico, che si tratta invece di abbandonare assieme al metodo
semasiologico stesso.
Infatti, la nozione di senso letterale serve in lessicografia a gerarchizzare
le significazioni e le accezioni a partire dal piano dell’espressione. Ed è in
questa stessa veste che essa viene spesso utilizzata in semantica
verocondizionale e in semantica cognitiva. Ora, il problema costitutivo della
distinzione tra senso letterale e senso derivato, tra senso primo e accezioni è
esattamente quello su cui si fonda la divisione stessa, e cioè le condizioni di
gerarchizzazione. Ci sono buone ragioni per affermare che nessuna teoria
semantica sia mai stata in grado di proporre un metodo chiaro per
individuare in modo altrettanto chiaro il senso letterale, che è così rimasta
una delle nozioni più enigmatiche dell’intera storia delle teorie sul
significato. Il senso letterale è infatti sempre presentato come un’evidenza,
perché, si dice, altrimenti non se ne potrebbero comprendere le deviazioni,
ma questa evidenza è così poco evidente che non si è mai riusciti a fornire
un criterio che consenta di individuarla, descriverla e giustificarla. Se
davvero esistesse un’idea forte di senso letterale, essa dovrebbe imporsi con
assoluta evidenza, cosa che empiricamente è di fatto ben lontana dall’essere
vera.
Su questo punto la nostra proposta è chiara: un senso letterale, o
alfabetico, esiste ed esso è il significato primo di una gerarchia semantica,
ma questa stessa gerarchizzazione, di cui il senso letterale è un effetto, è
esclusivamente locale e dipende dal piano in cui si ritaglia l’enciclopedia, e
quindi dalle condizioni di enunciazione, dai generi, dai paradigmi, dalle
forme di vita e dalle pratiche di cui è funzione. È ad esempio solamente
all’interno di quel particolare paradigma che è la filosofia analitica del
linguaggio, che il senso letterale si avvicina, e, in alcune posizioni, si
identifica con quello referenziale. All’interno di questo particolare piano, i
valori semantici si gerarchizzano in quel determinato modo, ma fuori da quel
piano, in funzione di un altro taglio disciplinare, le cose cambiano.42
Per questo una semantica semiotica deve, a nostro parere, saper tenere
conto anche delle situazioni epistemologiche che contribuiscono a creare i
piani che presiedono alla semantizzazione.
L’idea di un senso letterale in lingua valido per tutti i piani enciclopedici,
che è di fatto l’idea con cui si individua la nozione di senso letterale, non fa
allora altro che tentare di individuare un “Ur-piano” che esiste soltanto
all’interno di una determinata pratica teorica; con l’effetto che la nozione che
esce fuori da questa Ur-gerarchizzazione non solo è confusa e difficilmente
identificabile, ma finisce di fatto per ignorare l’effettivo funzionamento del
significato. Come detto, i sostenitori di una teoria del senso letterale in
lingua non fanno infatti altro che replicare la fallacia lessicografica, con
l’aggravante di credere che quella che è soltanto una convenzione di comodo
all’interno di una pratica ben precisa, qual è quella dello “scrivere un
vocabolario”, sia invece il funzionamento effettivo del significato. Tuttavia,
questo non vuol assolutamente dire che il senso letterale, o senso
gerarchicamente primo, non esista; bensì vuole dire che il senso supposto
letterale deve essere costruito, come tutti gli altri sensi supposti derivati, dal
momento che esso non è altro che l’effetto di una gerarchizzazione, che in sé
è costitutivamente locale.
Il problema è allora quello di vedere come sia costruita questa stessa
gerarchizzazione che ripartisce il letterale e il figurato, il proprio e il
metaforico, il senso primo e le accezioni. Il senso letterale in lingua, con tutti
i fiumi d’inchiostro che ha fatto spendere, di fatto è l’effetto di un problema
impostato male, causato da una ripartizione che divide i significati partendo
dalle espressioni e non dai piani enciclopedici, all’interno di pratiche di
analisi che si occupano esclusivamente di parole e di frasi, e che solo molto
raramente allargano la loro attenzione ai testi, alle pratiche, alle abitudini
interpretative e alle regole di genere.
Al contrario, un senso alfabetico è frutto di una costitutiva prospettiva
onomasiologica, in funzione della quale il senso primo da cui si parte
nell’interpretazione è sempre e soltanto funzione del piano enciclopedico
ritagliato in cui ci si installa “innanzi tutto e per lo più”. È all’interno di quel
dato piano che i valori semantici possono gerarchizzarsi in funzione dei
rapporti differenziali attraverso cui si determinano reciprocamente. Ma fuori
da quel piano, fuori da quella determinata sezione enciclopedica, ciò che è
letterale può sempre diventare derivato, ciò che è proprio può sempre
diventare metaforico, ciò che prototipico può sempre diventare periferico.
Per questo riteniamo la denominazione di “senso alfabetico” molto più
appropriata di quella di “senso letterale”.
È allora sempre solamente in funzione del piano enciclopedico ritagliato e
del senso alfabetico che ne è funzione che è possibile riprendere il concetto
echiano di Contenuto Nucleare (Eco, 1997, capitolo 3 e 2003, pp. 87-91). È
infatti solamente una volta ritagliato il piano in cui degli elementi si
determinano reciprocamente che è possibile stabilire nozioni quali
nucleo/esterno, centro/periferia ecc. Se il Contenuto Nucleare, inteso come
insieme di “nozioni minime e requisiti elementari per poter riconoscere un
dato oggetto o capire un dato concetto e capire l’espressione linguistica
corrispondente”,43 fosse invece ricostruibile in linea di principio e
indipendentemente da un precedente ritaglio locale del piano enciclopedico,
esso si identificherebbe coi nuclei semici o coi sensi prototipici, con cui il
concetto echiano esibisce una pericolosa somiglianza, quanto meno a livello
nominale.
Ogni possibilità di individuare un nucleo semantico è sempre funzione del
piano ritagliato e non viceversa, e in linea di principio non esiste alcun piano
che abbia un privilegio ontologico o valido a priori rispetto agli altri,
neppure quello percettivo che presiede al riconoscimento; che assume oggi
un sorta di dominanza gerarchica solamente in funzione dei moderni studi di
semantica, epistemologia e scienze cognitive, che pongono la percezione e il
riconoscimento a fondamento e a modello di altri piani. Foucaultianamente,
questa gerarchia è l’effetto di un’episteme del nostro tempo, locale e
contingente, che dà vita a una gerarchizzazione tra altre possibili.
In effetti, se il contenuto nucleare di un elemento fosse qualcosa di fissato
in lingua, il suo significato risulterebbe tranquillamente impenetrabile ai
piani enciclopedici in cui si dà, e anzi contribuirebbe a costituirne un
nocciolo semico comune e invariante. Per una semantica semiotica di tipo
enciclopedico, che si chiami questo contenuto nucleare in lingua “prototipo”,
“core-meaning”, “significato-type”, “nucleo semico”, “senso letterale” o
“significato in potenza” non cambia davvero l’essenziale. Al contrario, se,
come crediamo, la lingua (langue) non è altro che la somma relativa delle
regolarità semantiche localmente osservabili eretta a modello ipotetico e
tentativo, ecco allora che il contenuto nucleare non è altro che l’utilizzo più
regolare e condiviso rilevato all’interno di un determinato piano, in
funzione del suo ritaglio nella pratica. Ci pare allora che il concetto echiano
di Contenuto Nucleare sia usato per lo più in questa seconda accezione, e si
distingua così completamente da ogni altro tentativo di semantica
“nucleare”.
Tuttavia, nonostante la nostra insistenza sul senso alfabetico, restiamo
fermamente convinti che anche in semantica la vera essenza delle cose, ciò
per cui esse si differenziano dalle altre, non si scopre mai all’inizio, all’alfa-
beta delle loro proprietà, bensì sempre a partire dal mezzo, nel momento in
cui ci si libera cioè dal comfort interpretativo in base al quale ritagliamo i
piani come tutti.
Ecco allora che il problema del letterale e del figurato, del proprio e del
metaforico, del nucleare e del periferico è sempre il problema del prima e del
dopo, dell’inizio e del mezzo, dell’alfa-beta e del prosieguo della serie
interpretativa. Più in generale, un senso alfabetico viene a rispondere
dell’instabilità semantica connessa all’indeterminatezza del significato fuori
da un piano enciclopedico locale e rende conto di una sua prima
stabilizzazione tentativa. Va quindi sottolineato che l’essenziale è quello che
viene dopo questo primo momento, quello che parte dal mezzo, quando i
motori dell’interpretazione sono attivati e si segue il senso su mille piani, in
funzioni di differenti concatenamenti. Ma seguire il percorso, prolungare i
rapporti differenziali su altri piani, in funzione di differenti concatenamenti e
ritagli, implica sempre che si debba entrare da qualche parte. Ecco allora che
lo studio di questo senso alfabetico, di questo senso in cui si entra in base a
norme, generi, stereotipi e regolarità stabilizzate è assolutamente
fondamentale, anche se, come sostiene ad esempio Violi (2004b), esso non
costituisce nulla più di un’etnografia semiotica della cultura, che, per quanto
importante, non può pretendere di esaurire la semantica o di costituirne un
modello. Infatti, esattamente come l’alfabeto serve per costruire parole,
questo senso alfabetico serve per costruire interpretazioni e attivare il motore
della semiosi.
Ci pare allora evidente come il riconoscimento della specificità di un
livello semantico e della sua articolazione differenziale ed enciclopedica
consenta di compiere tutta una serie di progressi a nostro parere importanti
per l’analisi semantica, e consenta altresì di liberarsi da tutta una serie di
problemi mal posti che hanno caratterizzato molti approcci al significato.
Occorrerà allora senz’altro occuparci brevemente di un altro di questi
problemi, che è quello della possibilità di fornire una formalizzazione
rigorosa e adeguata alle specificità del fenomeno semantico, con l’intento di
proporre poi qualche conclusione in positivo.
4.8. Alcune conclusioni prima di ripartire. Per una semantica unificata

Soprattutto in ambito cognitivo, ma non solo, si è assistito in questi ultimi


anni alla moltiplicazione delle rappresentazioni iconiche del senso
linguistico: la scelta di questo metalinguaggio grafico non solo è
subliminalmente legata alla tradizione occidentale e alla sua supremazia del
theorein e della visione come metafora della conoscenza, ma ci pare di fatto
priva di ogni corrispondenza tra la struttura della rappresentazione scelta e
quella dell’oggetto modellizzato, tanto che in nessun modo questo tipo di
rappresentazioni sembrano presentarsi come delle formalizzazioni
epistemologicamente consistenti.

Figura 4. Spazio di blending in Fauconnier e Turner (2002).

I grafi degli spazi mentali di Turner e Fauconnier ad esempio sono segni


che non condividono minimamente la stessa forma di relazione che è
incarnata negli oggetti che pretendono di modellizzare, tanto che questa
traduzione visiva risulta essere niente più che un disegno che spiega in modo
del tutto informale che cosa si voleva dire. Questa scelta interpretativa è
tanto più dubbia e inadeguata se davvero a queste rappresentazioni visive
soggiace l’ipotesi, centrale in semantica cognitiva, che lo spazio cognitivo
sia un dispiegamento astratto dello spazio percettivo incarnato. Ammesso e
non concesso che questo sia vero, occorrerà tanto più che la
rappresentazione visiva utilizzata sia dello stesso genere di quelle che si
sono dimostrate essere ottime modellizzazioni del funzionamento percettivo.
I modelli matematici della percezione stanno vivendo un periodo di grande
vigore euristico e si sono dimostrati in più punti capaci di risultati realmente
straordinari:44 nel seguito di questo capitolo, vedremo ad esempio il caso
delle percezioni allucinatorie. Una rappresentazione diagrammatica e
matematica del significato dovrà allora utilmente rivolgersi a modelli
compatibili e dello stesso genere di quelli che hanno dato così bella prova di
sé in ambiti che si vogliono strettamente legati alla significazione, quali
l’elaborazione percettiva elaborata attraverso le architetture funzionali
implementate neurofisiologicamente.
Non è allora un caso che questi modelli siano proprio gli stessi che sono
derivati dalla teoria delle singolarità del calcolo differenziale. Del resto, se il
significato ha la stessa natura delle variabili in rapporto differenziale, il suo
dispiegarsi nella testualità, nella lingua e nelle pratiche può correre
“parallelo” al dispiegarsi del calcolo differenziale e della sua teoria delle
singolarità.
Se dunque l’euristicità del postulare un livello semantico enciclopedico e
differenziale slegato da ogni sua possibile riduzione al concetto logico e
cognitivo pare evidente a tutti i livelli della teoria semantica, occorrerà a
questo punto porsi senz’altro anche la domanda opposta. Che cosa
guadagniamo infatti dalla riduzione del semantico al concetto nella sua
doppia articolazione logica e cognitiva? Che cosa guadagniamo cioè dal
fondere la semantica con queste altre discipline e ridurla a esse? Che cosa
guadagniamo dal riconoscere solamente una semantica referenziale e una
semantica inferenziale? Che cosa guadagniamo cioè dal non riconoscere un
livello immanente in cui il significato vive cresce e si dispiega anche in
funzione dei rapporti coi suoi elementi simili?45
Facciamo un esempio, un semplice caso di antanaclasi: “la banana è la
banana”.
Per una semantica verocondizionale una frase di questo tipo è una
tautologia, e in una teoria semantica delle condizioni di verità le tautologie
sono semanticamente sterili, anche se probabilmente nessuno di noi
negherebbe che enunciati di questo tipo siano spesso semanticamente molto
produttivi. Per una semantica cognitiva classica degli anni ’80 e ’90, il
concetto di banana è ovviamente quello di banana, e se “banana” compare al
posto del soggetto o in quello del complemento oggetto è una differenza che
non fa la differenza. Anche perché altrimenti si avrebbe il concetto di
banana-soggetto, il concetto di banana-complemento oggetto, il concetto di
banana-dativo (“a banana”), il concetto di banana-vocativo (“o banana”) ecc.
Il problema che una semantica che si vuole veramente tale deve essere in
grado di affrontare adeguatamente è quello della differenza tra le due
occorrenze del termine banana. Se la prima è effettivamente una banana, il
valore semantico della seconda è semplicemente “qualcosa di unico” (o
tutt’al più: “qualcosa di speciale”) e non ha niente a che vedere con il valore
semantico della prima occorrenza. Si tratta di una pura posizione all’interno
di un determinato piano differenziale, di un valore all’interno di un
determinato taglio enciclopedico, tanto che lo stesso valore semantico può
essere assunto ad esempio da “cinema” nella frase “il cinema è il cinema”, o
da “ornitorinco” nella frase “l’ornitorinco è l’ornitorinco”. Strana categoria
davvero quella del cinema, della banana e dell’ornitorinco: sarebbe anzi
interessante provare a costruirne il prototipo. E anche qualora si volesse
costruire la categoria delle cose che sono “qualcosa di unico”, sarebbe molto
difficile trovare il prototipo tra il cinema, la banana e l’ornitorinco. È più
prototipico il cinema o la banana? È posizionato in modo più centrale
l’ornitorinco rispetto alla banana, e in che modo il cinema si irradia invece
verso la periferia?
Com’è evidente, queste teorie cognitive hanno il loro senso
esclusivamente per piani enciclopedici locali molto particolari, come ad
esempio i natural kinds o i colori, ma non hanno spesso valore euristico per
una semantica del linguaggio verbale, oltre che per una semantica semiotica
che sappia considerare il ruolo centrale svolto nella semantizzazione dai
testi, dalle pratiche e dai generi. Non solo, in casi come questo è proprio più
in generale il rimando al concetto a sembrare inutile: non c’è cioè niente di
ciò che possiamo sapere sulle banane che ci possa aiutare a capire e
disambiguare il significato della seconda occorrenza in frasi come “la
banana è la banana”. La descrizione di questo meccanismo è un problema
essenzialmente semio-linguistico, di teoria dei casi e di semantizzazione
differenziale del linguaggio in base a pratiche istituite e a condizioni di
enunciazione.46 L’euristicità di integrare un approccio semio-linguistico con
una semantica cognitiva può essere vista all’opera in autori quali Allwood
(2003) e Evans (2006), in cui una grammatica dei casi e un livello puramente
linguistico47 sono mostrati essere irriducibili al concetto e fondativi nei
confronti di una semantica cognitivamente orientata. Simili lavori mostrano
a nostro parere l’euristicità di un approccio semantico unificato, capace di
integrare prospettive differenti senza cancellare frontiere che restano
cruciali, come fa invece ad esempio Jackendoff identificando semantica e
psicologia cognitiva, finendo così per schiacciare un livello sull’altro.
Ci pare allora che una semantica unificata posta sotto l’egida di una teoria
enciclopedica di tipo differenziale sia una buona opzione per rendere conto
adeguatamente di ciò che di fatto si dà nell’esperienza concreta del
linguaggio, al di là degli artifici degli analisti. Del resto, la stessa Eleonor
Rosch (1999) ha finito per ripensare radicalmente le nozioni di “concetto” e
di “prototipo”, sostenendo con forza la necessità di staccarle dall’approccio
del cognitivismo, al fine di legarle a una teoria semantica differenziale di
tipo enciclopedico basata sul principio peirciano di interpretanza:
I concetti si danno soltanto come parti di una rete di significato costituita sia da altri concetti che
da attività di vita interrelate. Pensate al concetto di “grande”; possiede un significato soltanto in
relazione a “piccolo”. Inoltre, noi sappiamo che una grande pulce è più piccola di un piccolo
elefante. Chi costruisce gli odierni sistemi di intelligenza artificiale […] sa che insegnare a una
macchina il significato di una parola significa necessariamente insegnarle anche il significato di
molte altre parole; la stessa cosa vale per queste altre parole: un’esplosione esponenziale che può
solo essere limitata attraverso mezzi artificiali. E le parole da sole non sono abbastanza. […]
Insegnare il significato di una parola significa anche insegnare alla macchina molti fatti, la parte
enciclopedica del problema. […] E i fatti, come le parole, richiedono innumerevoli altri fatti.
(Rosch, 1999, p. 70)

Differenzialità, enciclopedia e interpretabilità, e cioè i cardini di una


semantica semiotica, stanno entrando dalla porta principale anche all’interno
della così detta “semantica cognitiva”. Perché le cose stanno cambiando
all’interno di quel vasto campo disciplinare che va oggi sotto il termine-
ombrello di “scienze cognitive”. Dal momento che la cognizione è ora
concepita come distribuita in reti di “umani e non-umani” (cfr. Hutchins,
2001; Latour, 2000; Gallagher, 2008; Clark, 2008), il significato non
appartiene più a un livello concettuale tradizionalmente inteso, bensì si
ritrova invece disseminato all’interno di reti di conoscenze enciclopediche
attivate in funzione del contesto specifico, da cui l’elemento considerato si
trova determinato (cfr. Allwood, 2003; Evans, 2006). Questa prospettiva non
solo è perfettamente compatibile, ma si sovrappone in più punti con il modo
in cui una semantica enciclopedica è stata pensata all’interno della tradizione
semiotica (cfr. Eco, 1984 e 2007; Violi, 1997).
Allo stesso tempo, alcuni recenti lavori di Brandt (2005) su significato,
metafora e semiotica cognitiva ci paiono fondati sul tentativo di reintegrare
un livello semio-linguistico che affianchi e specifici i livelli mentali e
concettuali (cfr. la nozione di “spazio semiotico” e l’attenzione dedicata alla
linguistica dell’enunciazione in Brandt and Brandt, 2005). In questo modo, i
lavori ormai classici di Lakoff e Johnson (1980) e Fauconnier e Turner
(2002) si ritrovano arricchiti dalle specificità di quel livello semio-
linguistico che nelle teorie cognitive classiche era ridotto a interazioni tra
“spazi mentali” di tipo puramente concettuale.48
Perché, contrariamente a quanto sostenuto da Jackendoff, la semantica
non può essere studiata a un unico livello. Il significato non è mai costituito
da un unico sistema, bensì da una molteplicità di istanze regolatrici in
interazione costante che evolvono secondo tempi e modi differenti e che
rappresentano le dimensioni stesse del senso: cognitiva, referenziale,
testuale, discorsiva, inferenziale, legata ai generi, alle pratiche e agli abiti
interpretativi ecc. Per questo non è minimamente possibile ridurre il
semantico al concettuale e slogan come quello di Jackendoff (1983)
considerato in 4.3 sono semplicemente l’incarnazione del provincialismo,49
e cioè l’assunzione di una prospettiva parziale a fatto generale costitutivo di
tutte le dimensioni che si pretende di spiegare. Ecco allora che una
semantica semiotica si pone innanzi tutto come un progetto di semantica
unificata che tiene insieme e connette semantica cognitiva, semantica logica,
semantica inferenziale, semantica referenziale e teoria semiotica dei generi,
dei testi e delle pratiche: un progetto che prova una sintesi tra dimensioni
che rimangono comunque distinte sotto l’egida di una semantica
differenziale di tipo enciclopedico.
Si è allora spesso equivocato sulla semantica semiotica di tipo
interpretativo. Il fatto che Eco (1984) presentasse l’enciclopedia come una
sorta di mappa borgesiana grande come l’impero avrebbe già dovuto far
sorgere il sospetto che un progetto semantico unificato fosse molto più la
dimensione costitutiva della semantica interpretativa rispetto alle ristrettezze
di una semantica puramente e poveramente inferenziale, con cui la si è
invece spesso identificata.50 La teoria dell’inferenza è infatti soltanto una
delle dimensioni della semantica e non può certo pretendere di esaurirla, né
questa pretesa si trova mai in Eco, che quando si è concretamente impegnato
nell’analisi, come nel caso del saggio sulla metafora di Semiotica e filosofia
del linguaggio, ha messo all’opera proprio un’analisi semica di tipo
differenziale a struttura enciclopedica e interpretativa, in cui i tratti semici
individuati erano cioè degli interpretanti del contenuto del lessema
immanenti ai percorsi semantici, senza essere con questo dei primitivi
atomici o dei semi metalinguistici di natura profonda. Si veda allora ad
esempio la voce “Codice” (Eco, 1984, capitolo 5), dove l’inferenza ipotetica
diventa semplicemente la forma logica che è propria del passaggio da un
interpretante a un altro, e non certo la dimensione costitutiva dell’analisi
semantica.
Non possiamo allora non concordare su questa posizione: l’inferenza è
una componente fondamentale di una teoria semantica, ma non può essa
stessa pretendere di esaurirla e di porsi come tutta la semantica. La
differenza precede sempre, e uno dei compiti principali dell’inferenza nella
semantizzazione di un testo o di una pratica è proprio quello di fare la
differenza, di riconoscerla e di saperla mettere a frutto in modo produttivo.
“Se p allora q” è la forma vuota di uno schema fondamentale che è solo la
differenza a saper riempire di volta in volta nella pratica, nell’analisi e
nell’interpretazione.

4.9. Enciclopedia e soggettività: su di una piccola frase di Calvino. Per


un’“estetica” del senso

Resta evidente per noi che il ritaglio del piano che presiede alla
semantizzazione e al dispiegarsi del senso resta sempre funzione dei punti di
vista interni all’enciclopedia. L’enciclopedia è infatti continuamente solcata
dalle pratiche che ritagliano piani, danno senso in funzione di essi e attivano
l’interpretazione connettendo piani differenti in funzioni di differenti
specificità. Ciò che una semantica semiotica di tipo enciclopedico deve saper
fare è allora i) tratteggiare le regolarità che presiedono a queste pratiche di
analisi (ritaglio del piano) e interpretazione (connessione di piani eterogenei
e ramificazione degli stessi); ii) saper riconoscere il ruolo che la soggettività
e le forme di vita hanno all’interno della vita stessa del senso.
Per quanto ci riguarda, quest’ultimo rapporto è suggerito all’interno di una
frase di Calvino, a partire dalla quale costruiremo una teoria della
soggettività semiotica nel capitolo 5, ma che si tratterà di far fruttare a livello
della semantica fin da subito. Calvino si chiedeva, e per noi si tratterà di
provare a declinare una risposta affermativa, se per caso ciò che abbiamo in
comune non è forse ciò che è dato a ciascuno come qualcosa di
esclusivamente suo.
Questa frase sembra avere il potere di smontare per noi tutta una serie di
topoi così diffusi in ambito semio-linguistico da apparire come ovvi. Che il
significato sia qualcosa di generale, che la gestione del senso sia un continuo
portare sotto regole le occorrenze che incontriamo, che la semantizzazione
funzioni per invarianti e per scarti rispetto a queste invarianti, che il
significato sia qualcosa di pubblico e di esterno e la soggettività che presiede
alla nostra esperienza qualcosa di privato e di interno sono luoghi comuni da
cui occorre incominciare a liberarsi.
All’unità collettiva di concetti quali type, nucleo semico in lingua,
prototipo semantico e significato generale, opponiamo allora l’unità
distributiva calviniana, perché nel momento in cui gestiamo il senso nei
testi, nelle pratiche e nell’esperienza non abbiamo mai a che fare con
qualcosa che è valido allo stesso modo per tutti, bensì con qualcosa che
esige di essere valido per ciascuno singolarmente. Questo qualcosa di
comune, questo qualcosa che esige di essere valido per ciascuno
singolarmente, è allora qualcosa che è dato a ognuno come qualcosa di
esclusivamente suo. Se non siamo capaci di pensare questa unità
distributiva, questo ossimoro fondante la significazione, non potremo allora
evitare di porci all’interno di una tradizione così diffusa da non essere
localizzabile in un singolo obiettivo polemico e che, per quanto ci riguarda,
andremo innanzi tutto a individuare sotto il nome di “ideologia del type”
(cfr. Violi, 2003b).
Si tratta in fondo di applicare al senso la stessa “rivoluzione” che era
costitutiva della terza Critica kantiana. Al di là degli a priori categoriali,
delle idee della ragione e dei reciproci rapporti di legislazione che essi
determinavano tra le differenti facoltà, nella Critica della capacità di
giudizio Kant ritrovava infatti una terza dimensione a essi irriducibile, che
pur fondandosi esclusivamente sul sentimento proprio a ciascuno, risultava
per sua stessa essenza comunicabile, ed esigeva anzi il consenso di ognuno,
nel suo fare appello a una sorta di “senso comune estetico” (Gemeinsinn): un
con-diviso sentimento.51 In Kant, questa terza dimensione propriamente
estetica risultava dunque definita non da un’universalità oggettiva, fondata
su di un concetto o su una regola, bensì su di un’universalità sui generis:
un’universalità distributiva sempre data a ciascuno come qualcosa di
esclusivamente suo. Ecco allora che per noi risulterà fondamentale pensare
al senso come a qualcosa di fondato esattamente su questo con-senso52 in
cui, come diceva Calvino, ciò che abbiamo in comune è proprio ciò che è
dato a ciascuno come qualcosa di esclusivamente suo: la semiotica come
estetica del senso, in questa sua accezione critica.
La mossa teorica principale consisterà allora in questo: smascherare la
falsa opposizione tra singolare e generale, così diffusa nella semantica
contemporanea, e sostituirla con quella tra singolare e regolare, che è tutto
ciò che ci serve per attivare i motori di una rappresentazione enciclopedica
che sia slegata da un’arborescenza di comodo, al fine di renderla
euristicamente efficace nell’analisi. Il nostro terreno empirico di indagine,
esemplificativo, ma estremamente rivelatore, sarà allora a questo proposito
la metafora.

4.10. Sulla destituzione di alcuni luoghi comuni esistenti in semantica e


in semiotica: l’ideologia del type e lo schematismo enciclopedico

Occorrerà allora chiedersi innanzi tutto che fine faccia il concetto di type
all’interno di questa prospettiva enciclopedica radicale, visto che l’abbiamo
eretto a nemico “prototipico” di una serie di approcci che riteniamo non
produttivi per la semantica, e soprattutto per una semantica semiotica di tipo
enciclopedico.
Tutte le volte che si è fatto riferimento al concetto di type sul piano del
contenuto, nelle differenti declinazioni che la nozione ha assunto in
differenti teorie, l’unica cosa che serviva davvero per semantizzare qualcosa
erano le idee di stabilizzazione e di regolarità. Tuttavia, i) la stabilizzazione
non è mai qualcosa dell’ordine di una matrice in grado di generare
occorrenze, né di una classe a cui le riconduciamo e ii) la regolarità non è
mai dell’ordine di uno schema che serve da regola determinante o riflettente
l’abduzione che la ricerca. Stabilizzazione e regolarità sono infatti qualcosa
di essenzialmente locale, che varia in funzione delle condizioni di
enunciazione, di contesto e di riferimento. Occorrerà allora provare a
radicalizzare la verità di questo paradosso soltanto apparente: la
stabilizzazione è per essenza variabile e la regolarità è per essenza non
regolarizzabile. Noi stabilizziamo infatti i significati in funzione di piani
differenti che si intersecano e che dipendono sempre i) dalle situazioni in
atto, ii) dalle competenze in gioco e iii) dalla dinamica locale degli stereotipi
e delle costruzioni semantiche attivate. A livello semantico l’occorrenza
attiva stabilizzazioni,53 e cioè non attiva il suo type (la classe tipica a cui
appartiene o il suo proto-tipo), bensì piani locali che sono dati a ciascuno
come qualcosa di esclusivamente suo, e che rappresentano delle sezioni
enciclopediche parziali che vengono messe a frutto nella pratica.
È l’enciclopedia ritagliata localmente che sul piano del contenuto svolge
la funzione che fino a oggi si è sempre assegnata al concetto di type, ma
l’enciclopedia svolge questa funzione localmente in base a regolarità, e non
in base a regole che sono proprie di un significato generale. Perché se un
evento semantico è sempre per essenza una singolarità, e cioè un punto
significativo in cui succede qualcosa, “singolare” non si oppone però a
“generale”, bensì a “regolare”. In semantica, pensare che esistano dei
significati generali significa infatti ritornare ai tentativi di “nuclei semici” sul
tipo di quelli ipotizzati da Greimas (1966) in Semantica Strutturale, e cioè di
nuclei indipendenti dai piani in cui vengono disseminati. Al contrario, se non
esistono delle generalità, esistono però delle regolarità, e cioè dei piani di
stabilizzazione all’interno dei quali un elemento è semantizzato “innanzi
tutto e per lo più”. Ma questi piani sono tutt’altro che generali, bensì sono
sezioni enciclopediche locali che vengono ritagliate di volta in volta nella
pratica. Per quanto ci riguarda, consiste proprio in questo la grandezza del
modello enciclopedico, ed è esattamente questo modello che Eco stesso pare
abbandonare in Kant e l’ornitorinco, abbracciando invece una forma di
tipizzazione fondata sul “portare sotto regole”, date o costruite che siano
queste regole.
Kant e l’ornitorinco pare un libro molto influenzato dalla semantica
cognitiva e la semantica cognitiva, almeno nella sua versione “classica”, si
distacca da una prospettiva autenticamente interpretativa, – qual è quella
sviluppata da Eco stesso – in almeno due punti fondamentali: i) essa pone la
percezione a fondamento degli altri processi semiosici; ii) fa largo uso del
concetto kantiano di schema, in un senso che lo connette da un lato ai
concetti di type e di regola e dall’altro al primato stesso della percezione. Per
quanto ci riguarda, occorre invece tenere ferma l’idea che sia l’enciclopedia
a svolgere il ruolo che le teorie cognitive assegnano al concetto di schema,
nelle sue varie declinazioni e che questo ruolo sia svolto in base a regolarità
e non a regole. È il concetto di “portare sotto regole”, spesso collettive, che
miriamo in modo polemico; dal momento che siamo convinti che la
semantizzazione sul piano del contenuto funzioni in modo molto più
sfumato, e cioè in base a regolarità che sono date a ciascuno come qualcosa
di esclusivamente suo, in un’unità che è innanzi tutto distributiva e non
collettiva.
Proveremo allora a fare appello al WWF della semiotica per salvare
l’ornitorinco, al fine di riportarlo nel suo habitat interpretativo del Trattato
di semiotica generale e di Semiotica e filosofia del linguaggio, in cui esso
possa trovare la sua dimensione più propria, che non è per noi quella delle
configurazioni cognitive di Kant e l’ornitorinco. Questo implica tre corollari
fondamentali.

i) A livello semantico il modello kantiano euristico è quello del giudizio


estetico e non quello dello schematismo dei concetti empirici, così
invece largamente ripreso in semantica cognitiva.
ii) L’abbandono della teoria dello schematismo e del suo “portare sotto
concetti” ci consentirà di abbandonare quella centralità attribuita al
concetto dalla semantica cognitiva classica e ci condurrà verso una
visione autenticamente semiotica della cognizione, qual è quella
proposta originariamente da Peirce e che sta ora diventando sempre più
centrale anche all’interno delle così dette “scienze cognitive”.
All’interno di quella galassia di studi che va ora sotto i nomi di
“Cognizione distribuita” o “Mente estesa” infatti, il concetto non è
affatto un’unità mentale né la mente un’entità personale appartenente
all’individuo. In questo modo, non solo qualsiasi opposizione tra interno
ed esterno viene resa non pertinente, ma la cognizione viene così pensata
come un’interazione tra dimensioni differenti appartenenti a livelli
differenti (attenzione, emozione, percezione, linguaggio, pratiche, abiti
interpretativi ecc.) che condividono una serie di strutture comuni, che
per Peirce erano di tipo semiotico.
iii) Proveremo allora a fornire un esempio di questa interazione tra
dimensioni differenti che presentano una forma di relazione comune
(diagrammaticità), che ci consentirà tra l’altro di ripensare le nozioni
echiane di “semiosi naturale” e di “soglia inferiore della semiotica”.

4.11. Kant, Peirce, Eco e l’ornitorinco: una sintesi disgiuntiva. Iconismo,


schemi e diagrammi

In quanto splendido esemplare di “design animale” fatto di pezzi di altri


animali, l’ornitorinco ci avrebbe senz’altro permesso di rimanere immobili,
appollaiati su di lui, senza con questo mai smettere di saltare
ininterrottamente su mille piani, passando cioè continuamente da un livello
all’altro dell’albero delle specie e facendolo così ramificare a rizoma.
Come si poteva mettere insieme il becco e le zampe palmate con il pelo e la coda da castoro, o
l’idea di castoro con quella di un animale oviparo, come si poteva vedere un uccello là dove
appariva un quadrupede, e un quadrupede là dove appariva un uccello? (Eco, 1997, p. 72)

Com’è evidente, fondendo in sé tratti ovipari, mammiferi, anfibi,


quadrupedi ecc., l’ornitorinco incarna al suo interno ciò che in altre specie è
invece stabile e regolarizzato su classi normalmente opposte: per questo non
può essere classificato in nessuno dei tipi preesistenti. L’ornitorinco
neutralizza ogni rapporto stabilito tra generi e specie distinte, facendoli
esplodere in un concatenamento comune che esso incarna. A suo modo,
anche l’ornitorinco è una ratio tra rationes, e cioè qualcosa che stabilisce
una commensurabilità (ratio) tra rapporti (rationes) che su altri livelli si
oppongono invece in modo arborescente e binario (mammifero VS oviparo;
uccello VS quadrupede ecc.). L’ornitorinco è ciò che con Peirce si potrebbe
chiamare una “Terzità animale”, che fa cioè ramificare le opposizioni che
annulla in sé e tra cui media (cfr. supra, 3.4), non cessando di ripartirle su
entrambi i lati a un tempo (l’ornitorinco è oviparo e mammifero, è uccello e
quadrupede ecc.). Esattamente come una linea di frontiera, esso fonde in sé
le differenze tra gli elementi in rapporto annullandole, ma allo stesso tempo
opera una mediazione tra questi stessi elementi, connettendoli l’uno all’altro
e rendendoli rapportabili in una stretta “sintesi disgiuntiva”.
In Kant e l’ornitorinco di questo animale di confine si è invece cercata la
regola, e la si è cercata proprio là dove la regola non c’era, chiamando in
causa lo schematismo kantiano e la sua facoltà riflettente di giudizio, che a
differenza di quella determinante non riporta sotto regole, ma addirittura le
costruisce per poter interpretare (cfr. Eco, 1997, p. 78).
Mostreremo adesso non solo come le mosse teoriche principali di Kant e
l’ornitorinco non fossero inevitabili, ma come proprio l’affrontare quegli
stessi problemi alla luce di Peirce e della Terza Critica kantiana avrebbe
dovuto riportare ai problemi dell’interpretazione, e non a una progressiva
tipizzazione sia della percezione che del piano del contenuto, tipizzazioni
entrambe incentrate sul “costruire regole” o sul “portare sotto regole”. A
nostro parere, la facoltà riflettente di giudizio kantiana deve essere
considerata come un obiettivo polemico per una teoria del contenuto, dal
momento che essa non smette di cercare e costruire regole là dove ci sono
solamente delle regolarità.
È allora noto il problema centrale del libro. Come interpretare, anche
percettivamente, l’ornitorinco? Come costruire il percetto di un elemento di
cui non ho ancora il concetto? Come rendere conto di ciò che fanno i
tassonomi di fronte all’ornitorinco o Marco Polo di fronte al rinoceronte?
Come rendere conto cioè di quel bricolage di unità culturali che si mette
all’opera nel tentativo di adattare uno schema a un contenuto percettivo
ancora ignoto, e poi, sulla base di quest’ultimo, riadattare il concetto al
contenuto percettivo stesso (Marco Polo interpreta il rinoceronte come un
“unicorno sgraziato e scuro” e sulla base della nuova percezione riadatta poi
il concetto di unicorno)?
Se si può sostenere che nel riconoscimento del noto intervengono processi semiosici, perché si
tratta appunto di riportare dei dati sensibili a un modello concettuale e semantico, il problema a
lungo discusso, è quanto un processo semiosico intervenga nella comprensione del fenomeno
ignoto. (Eco, 1997, p. 44)

Le argomentazioni di Eco sono famosissime. Riassumo brevemente


solamente quei due punti problematici che, anche alle luce di alcune ricerche
attuali, mi pare sia necessario problematizzare:

i) Per Eco la costruzione del senso percettivo è fondata su di un


procedimento di “portare sotto regole”, di “portare sotto concetti” (da
qui tutta la ripresa che Eco fa dello schematismo kantiano): il percetto
definisce un token che al fine di essere interpretato è necessario riportare
a un type generale. Nelle parole di Eco (1997: 78), occorre costruire una
regola per poter interpretare il fenomeno percettivo, “più che osservare
(e da lì produrre schemi), si producono schemi per poter osservare”.
Questo processo di “portare sotto regole” vale allora sia in casi in cui il
concetto empirico è dato (casi che Eco assimila a quelli di giudizio
determinante in Kant) sia in casi in cui invece esso deve essere costruito
a partire dall’occorrenza sensibile (casi che Eco assimila a quelli di
giudizio riflettente in Kant: il rinoceronte di Marco Polo e l’ornitorinco
dei tassonomi appartengono a questa seconda tipologia).
ii) In entrambi questi casi, per rendere possibile quanto detto al punto i),
per Eco è sempre necessario un terzo termine mediatore che consenta da
un lato di “rappresentare un’immagine conformemente a un certo
concetto” (Eco, 1997, p. 65), e dall’altro di costruire il concetto o la
regola che possa servire per interpretare un’immagine ancora ignota
(come nel caso del rinoceronte o dell’ornitorinco). Per i concetti empirici
quali “uomo”, “ornitorinco” o “rinoceronte”, questo terzo termine
mediatore tra sensibilità e intelletto, che in Kant era appunto lo schema,
per Eco ha una natura morfologica.
Se pure lo schema del circolo non è un’immagine ma una regola per costruire eventualmente
l’immagine, pur tuttavia nel concetto empirico di piatto dovrebbe trovare posto in qualche modo la
costruibilità della sua forma, e proprio in senso visivo.

Si deve concludere che quando Kant pensa allo schema del cane sta pensando a qualcosa di molto
affi ne a quello che, nell’ambito delle attuali scienze cognitive, David Marr e Nishishara (1978)
hanno chiamato un 3D model, e che rappresentano come in figura 2.2:

Nel giudizio percettivo si applica il modello 3d al molteplice dell’esperienza, e si distingue un x


come un uomo, e non come cane. (Eco, 1997, pp. 68-69)

Entrambi questi punti sono a mio parere problematici e possono essere


ripensati. Uno schema type/token fondato su di un “portare sotto concetti” e
sulla nozione kantiana di schema mi pare infatti del tutto inadeguato al fine
di rendere conto dell’emersione faneroscopica del senso percettivo. Allo
stesso tempo, ii) il morfologico non pare affatto essere qualcosa di
localizzabile a livello dello schematismo, e cioè tra l’intuizione e il concetto,
come vuole invece Eco, bensì pare invece essere un fenomeno emergente
che è effetto di un processo di emersione fenomenologica di strutture
macroscopiche di tipo gestaltico a partire dalla fisica microscopica dei
substrati percettivi (cfr. Sarti, Citti e Petitot, 2008). In questo modo,
all’interno dell’architettura semiotico-filosofica di Eco, il morfologico deve
se mai essere collocato a livello di ciò che Eco chiama iconismo primario, e
che in Kant e l’ornitorinco colloca al di sotto della soglia inferiore della
semiotica (cfr. Petitot, 2001, ma cfr. anche Eco, 2007, pp. 463-484).
Perché quello che pare mancare alla semiotica della percezione di Kant e
l’ornitorinco è ciò che Liliana Albertazzi (2003) ha definito una “teoria della
presentazione” del fenomeno che consideri “la genesi semiotica di diverse
entità rappresentative nella costruzione dello stesso oggetto”:
Ciò che manca è un’ontologia che sviluppi la struttura dei livelli di emergenza della realtà
fenomenologica e non si limiti a essere semplicemente una teoria delle descrizioni. (Albertazzi,
2003, p. 131)

Mi pare allora che tutta una serie di studi recenti che tentano di coniugare
semiotica della percezione, fenomenologia e neurogeometria della visione ci
forniscano esattamente questa teoria dei “livelli di emergenza della realtà
fenomenologica”, questa “genesi semiotica” in cui “sulla base di fenomeni
di interazione e di comportamenti collettivi coordinati (cooperazioni e
conflitti) situati a un livello intermedio (“mesoscopico”), delle unità di
piccola scala (“microscopiche”) possano organizzarsi in strutture emergenti
di grande scala (“macroscopiche”)” (Petitot, 2006, pp. 104-105). Sono allora
proprio queste strutture emergenti di grande scala che emergono da unità
micro che definiscono il regno del morfologico.
In questo modo, quella che possediamo oggi è un’immagine del tutto
diversa di quel livello che Eco ha per lungo tempo chiamato “semiosi
naturale”, collocandola prima al di sotto della soglia inferiore della semiotica
e cercando di renderne poi conto con l’idea di iconismo primario. La semiosi
naturale non funziona cioè per stimolo-risposta né tanto meno per iconismo
primario, bensì funziona per strutturazione dei livelli di emergenza della
realtà fenomenologica, in cui morfologie percettive strutturalmente stabili
emergono dalla fisica microscopica dei substrati senza ridursi a essi. Al
contrario, è proprio basando la sua idea di “semiosi naturale” su dei processi
di iconismo primario, e cioè di stimolo-risposta, che Eco si ritrova costretto a
localizzare poi il morfologico nello schema, tra il percetto e il concetto, tra il
molteplice sensibile e la sua strutturazione categoriale.
Vediamo allora le cose più da vicino, seguendo le argomentazioni di Eco
su questo punto. Al fine di arrivare ad attribuire allo schema dei concetti
empirici una natura morfologica, Eco (1997, p. 50) parte da un’idea
straordinaria di Peirce, notando come Peirce affermi “senza esitazione” che
lo schema kantiano sia per lui un diagramma (cfr. supra, 2.3). Tuttavia, Eco
non pare disposto ad accogliere fino in fondo questa idea peirciana,
estendendola così dal dominio degli schemi a priori kantiani all’intero
dominio del funzionamento enciclopedico del piano del contenuto, mossa
che lo avrebbe invece portato ad abbandonare l’idea del “portare sotto
regole” (date o costruite che siano queste regole). Nondimeno, proprio per
spiegare che cosa sia lo schema kantiano, Eco fa riferimento proprio al
concetto di diagramma, quali ad esempio i flow chart dei calcolatori:
Forse per capire meglio il concetto di schema occorre rifarsi a quello che, quando dobbiamo far
lavorare un computer, ci viene proposto come flow chart o diagramma di flusso. La macchina è
capace di “pensare” in termini di IF… THEN GO TO […]. Il diagramma di flusso ci rende
evidenti i passi che la macchina deve compiere e che dobbiamo ordinarle di compiere: data una
operazione, a un certo snodo del processo si produce un’alternativa possibile, data la risposta che si
verifica occorre fare una scelta, data la nuova risposta occorre ritornare a uno snodo superiore del
diagramma, o procedere oltre, e così via. Il diagramma ha qualcosa che può essere intuito in
termini spaziali ma nel contempo è sostanzialmente basato su un discorso temporale (il flusso),
proprio nel senso in cui Kant ricorda che gli schemi si basano fondamentalmente sul tempo. (Eco,
1997, pp. 65-66)

Ecco il modo in cui Peirce trasforma il concetto kantiano di schematismo


(portare sotto regole) nella pura processualità enciclopedica di una semiosi
diagrammatica. Là dove un diagramma funziona infatti in modo
“orizzontale”, concatenando localmente elementi del flusso che si
sviluppano a rizoma per snodi successivi (“IF… THEN GO TO”, “IF…
THEN GO TO” ecc.), uno schema inteso come un “portare sotto regole”
funziona invece in modo “verticale”, sussumendo una molteplicità di
elementi sotto un’unità superiore (la “sussunzione di un molteplice sotto un
concetto” nello schematismo di Kant, ad esempio). Come ogni type
variamente declinato, lo schema è cioè leguminoso, nel senso precisato in
1.8. Occorrerà altresì notare come il modello diagrammatico sia un
bellissimo modello locale di semantica enciclopedica a istruzioni, fondato
com’è su selezioni contestuali e sulla forma logica processuale
dell’abduzione: “IF… THEN GO TO” (cfr. Eco, 1975, pp. 152-182).
In questo modo, Eco avrebbe senz’altro potuto trovare nel concetto di
diagramma la perfetta fusione tra la sua concezione semantica a enciclopedia
e il problema dello schematismo, di cui si stava occupando in Kant e
l’ornitorinco: da una parte avrebbe così potuto risolvere i problemi del
modello enciclopedico attraverso il concetto peirciano di diagramma, e
dall’altra avrebbe invece potuto spiegare i problemi dello schematismo
attraverso le sue vecchie idee di interpretazione enciclopedica. Tuttavia,
influenzato da Kant e da David Marr, in Kant e l’ornitorinco Eco continua a
non prendere sul serio l’idea peirciana che lo schema non sia altro che un
diagramma, e che dunque lo schematismo kantiano si riduca a un tipo
particolare di processo semiotico di interpretazione, tanto che dice che “si
tratta di un dispositivo logico troppo astratto, dato che può servirci sia per
fare un calcolo che per disegnare una figura geometrica”. Perché? E
soprattutto perché è esattamente questo rifiuto a essere fondato su di
un’errata concezione del livello morfologico, che porterà Eco a porlo a
livello dello schematismo e a pensare così alla “semiosi naturale” sulla base
di un inadeguato meccanismo di stimolo-risposta?
Se Eco ascoltasse Peirce, potrebbe liberarsi di un’idea che permea gran
parte della sua opera e che è anche al centro delle nostre polemiche, e cioè
che interpretare sia spesso un portare sotto regole, un ricondurre tokens a
types, indipendentemente dal fatto che questi types siano dati (il cane) o
ancora da costruire (l’ornitorinco). Tuttavia Eco continua a cercare lo
schema dell’ornitorinco, forse per onorare quella famosa “cambiale degli
anni giovanili della scuola” (cfr. Eco, 1997, Introduzione).
Procediamo con ordine. Che cos’è un diagramma in Peirce, visto che per
Peirce un diagramma è uno schema? Eco nota molto giustamente come lo
schema in Kant non sia affatto un’immagine, bensì qualcosa che ha a che
vedere con il concetto wittgensteiniano di Bild,54 in funzione del quale una
proposizione condivide una medesima forma di relazione con il fatto che
rappresenta, pur differendone al contempo in natura. È esattamente questa
idea che sta alla base della concezione peirciana del diagramma, tanto che
proprio alla fine della discussione sullo schematismo, Eco riporta proprio il
diagramma peirciano della frase “every mother loves some child of hers”.
Figura 5. Diagramma peirciano della proposizione “every mother loves some child of hers”

Al fine di spiegare che cosa sia un digramma, Peirce fa allora l’esempio


della seconda equazione dell’ottica, che spiega quel fenomeno tale per cui il
rapporto tra i fuochi di una lente richiede una certa distanza affinché si possa
vedere qualche cosa di più rispetto a quanto si era in grado di fare a occhio
nudo.

Figura 6. Grafico dell’equazione peirciana.

Siano f1 e f2 le distanze di due fuochi di una lente dalla lente stessa. Allora

l/f1 + 1/f2 = 1/f0

Questa equazione è un diagramma della forma della relazione tra le due distanze focali e la
distanza focale principale. Le convenzioni dell’algebra […] congiuntamente con la scrittura
dell’equazione stabiliscono una relazione fra le sole lettere f1, f2, f0 prescindendo dalla loro virtù di
significare. Ma la forma di questa relazione si identifica con la forma della relazione che sussiste
fra le tre distanze focali che queste lettere denotano. E questa è una verità assolutamente fuori
discussione. Così, questo diagramma algebrico presenta alla nostra osservazione lo stesso identico
oggetto della ricerca matematica: cioè la Forma della media armonica che l’equazione aiuta a
studiare. […] Nei diagrammi l’oggetto dell’investigazione è la forma di una relazione e questa
forma è esattamente la stessa che sussiste tra le […] parti corrispondenti del diagramma. (CP
4.530)

Si tratta di un esempio di fondamentale importanza: Peirce dice che


l’oggetto fisico, le lettere dell’equazione algebrica e il grafico corrispondente
incarnano tutti una medesima forma di relazione, che è quella che sussiste
tra le distanze focali. Questa forma di relazione è identica a quella che
sussiste tra le parti del diagramma: tutte incarnano lo stesso rapporto, che è
quello che prescrive che affinché si possa avere ingrandimento, occorre che
tra l’occhio e la lente e tra la lente e l’oggetto osservato si debba conservare
una determinata distanza. Il diagramma esprime così sensibilmente
(percettivamente nel grafico, fisicamente nella lente) le stesse relazioni
logiche che sono presenti all’interno del suo oggetto, rendendole così
osservabili e manipolabili sperimentalmente. Per questo è uno schema, dal
momento che, come nota giustamente Eco (1997, p. 68), uno schema in Kant
non consiste affatto in un’immagine, bensì in delle relazioni estesiche
(spazio-temporali in Kant) che incarnano o realizzano delle relazioni
puramente logiche (concettuali in Kant).55
Tuttavia, questo passaggio diagrammatico da una forma di relazione
incarnata in un segno a una stessa forma di relazione incarnata in un altro
segno interpretante, per Peirce non è dell’ordine di una messa in codice, e
cioè di un isomorfismo (di una corrispondenza 1:1); bensì comporta sempre
un fenomeno di trasduzione, e cioè di passaggio da un dominio a un altro
dominio eterogeneo che provoca un incremento di senso: grafico, equazione
e lente ci spiegano tutte in qualche modo la stessa cosa, ma ce la spiegano
sotto un altro rispetto, contribuendo così ad accrescere la nostra conoscenza.
Per spiegare allora che cosa sia una trasduzione in questo senso molto
particolare, possiamo senz’altro rivolgerci ai così detti trasduttori analogici,
quali ad esempio le membrane dei microfoni. In situazione di trasduzione
analogica, l’energia meccanica prodotta dalla voce di chi parla o canta
attraverso il microfono viene trasformata in energia elettrica attraverso la sua
membrana. In questo caso, si dice che la variazione di pressione atmosferica
prodotta dalla voce (la sua forma d’onda) è l’analogo del segnale elettrico in
uscita dal diaframma del microfono. Nello stesso senso, le relazioni che
possiamo osservare all’interno di un diagramma sono l’analogo delle
relazioni che il diagramma incarna.
Ecco allora che se insistiamo sull’analogicità del diagramma, non lo
facciamo certo per riproporre la vecchia opposizione tra l’analogico in
quanto motivato e il digitale in quanto convenzionale, che è esattamente ciò
che un pensiero diagrammatico consente di lasciare alle spalle,56 ma è nel
senso dei trasduttori analogici. Perché qual è l’essenza di un trasduttore
analogico che rappresenta anche la caratteristica costitutiva di tutti i
diagrammi peirciani? Un trasduttore serve innanzi tutto a rendere possibile il
passaggio da un sistema a un altro sistema radicalmente eterogeneo. Ne
costruisce una commensurabilità, consentendo di porre in rapporto ciò che
senza il trasduttore non potrebbe essere rapportabile (che è esattamente il
problema dello schematismo kantiano tra l’intuizione e il concetto). Un
trasduttore istituisce allora questa commensurabilità mantenendo nel sistema
di arrivo esclusivamente la forma delle relazioni che è costitutiva del sistema
di partenza, definendo così un rapporto che mantiene inalterata la forma di
relazione. È allora esattamente questa la caratteristica che per Peirce è
costitutiva del diagramma:
diagrammi sono quelle ipoicone che rappresentano le relazioni […] delle parti di una cosa per
mezzo di relazioni analoghe fra le loro proprie parti. (CP 2.277)

Per questo Peirce disancora completamente la nozione di diagramma da


quella ingenua di somiglianza:
fra il diagramma e l’oggetto non c’è alcuna rassomiglianza sensoriale, ma solo un’analogia fra le
relazioni delle loro parti. (CP 2.279)

Esattamente come un trasduttore analogico, un diagramma istituisce


commensurabilità tra sistemi eterogenei esclusivamente attraverso rapporti
di rapporti. La sua operatività è completamente slegata da qualsiasi analogia
figurativa. Lo si vede bene nel diagramma della proposizione riportato da
Eco: il diagramma incarna infatti delle relazioni logiche in tokens osservabili
e manipolabili sensibilmente, e per questo svolge la funzione di uno schema,
ma non assomiglia alla proposizione, di cui conserva soltanto la stessa forma
di relazione.57 E tuttavia il diagramma interpreta la proposizione, e cioè la
illumina sotto un certo rispetto, mettendone in evidenza la struttura e
consentendoci di manipolare sensibilmente la sua forma logica (che è
l’operazione che è alla base della famosa teoria peirciana dei grafi
esistenziali). Com’è evidente, questo movimento diagrammatico in cui una
stessa forma di relazione incarnata in un segno viene trasdotta in un altro
elemento che ne differisce in natura attraverso elementi intermedi, non è
altro che il processo d’interpretazione come lo avevamo definito in 1.7, tanto
che in più punti dicevamo che l’interpretazione era una trasduzione. Ecco
allora che lo schematismo non è altro che una specie del genere
“interpretazione”, e più precisamente, dice Peirce, un’interpretazione in cui
nel passaggio si conserva la forma di relazione incarnata nei segni in
rapporto (diagrammaticità).
Com’è evidente, questo schematismo diagrammatico non solo è
completamente slegato da qualsiasi analogia figurativa tra lo schema e il suo
oggetto, a cui Eco invece lo legava pensandolo sulla base del modello 3D di
David Marr, ma il suo dispiegamento processuale e interpretativo non ha
niente a che vedere con un portare sotto regole, con il condurre delle
occorrenze date a un tipo. Al contrario, si tratta di un movimento processuale
in cui il diagramma consente di passare da un elemento a un altro attraverso
una trasformazione che conserva la forma di relazione.58 Come nota
giustamente Eco nella sua analogia con il diagramma di flusso: Si tratta di
pensare in termini di IF… THEN GO TO […]; a un certo snodo del processo
si produce un’alternativa possibile, data la risposta che si verifica occorre
fare una scelta, data la nuova risposta occorre ritornare a uno snodo
superiore del diagramma, o procedere oltre e così via”. Che è esattamente
ciò che fa Marco Polo di fronte al rinoceronte: SE “è un unicorno”
ALLORA “gli unicorni non sono bianchi”, SE “gli unicorni non sono
bianchi” ALLORA “devo riconfigurare il concetto di unicorno sulla base di
una nuova forma di relazione che lo adatti ad animali scuri e sgraziati”.
Com’è evidente, un procedimento che spiega benissimo il modo in cui
Marco Polo adatta un concetto empirico al molteplice sensibile percettivo,
facendo bricolage con le sue unità enciclopediche e riadattandone il
significato alla morfologia percettiva, che è esattamente quello che Eco si
proponeva di spiegare con il suo ricorso allo schematismo in Kant e
l’ornitorinco.
E tuttavia, se Eco sembra disposto ad abbracciare un processo
diagrammatico a Flow Chart per la kantiana applicazione delle categorie al
molteplice dell’intuizione sensibile, non sembra però disposto a farlo per i
concetti empirici, quali ad esempio “rinoceronte”, “uomo” o “unicorno”.
Perché è chiaro che quella bella analogia con il diagramma di flusso, che poteva servire a capire
come procede la costruzione schematica del triangolo, funziona assai meno per il cane. È certo che
un computer sa costruire l’immagine di un cane, se gli si provvedono gli algoritmi adatti: ma non è
che esaminando il diagramma di flusso per la costruzione del cane, chi non abbia mai visto cani ne
possa avere un’immagine mentale (qualsiasi cosa sia un’immagine mentale). (Eco, 1997, p. 68)

Ma è davvero così?
Occorrerà allora anticipare fin da subito che il procedimento pare invece
essere esattamente lo stesso, e che quindi anche nella semantizzazione di
un’espressione non si ricorra mai a tipi generali o a un portare sotto regole,
bensì non si facciano altro che delle interpretazioni di tipo diagrammatico in
senso peirciano, interpretazioni che sono regolate dall’intertestualità
enciclopedica e che hanno dunque una specificità costitutivamente
semiotica. Peircianamente, l’analogia con il diagramma va cioè bene sia per
gli schemi a priori che per gli schemi empirici, oltre che per i casi dove lo
schema deve essere costruito ex-novo.
Tutta l’argomentazione attraverso cui Eco motiva il suo rifiuto di questa
idea peirciana è infatti incentrata sulla problematica della visione, e cioè
sull’idea che, dato un diagramma (ad esempio un Flow Chart o l’equazione
algebrica peirciana), chi non abbia mai visto qualcosa non sia in grado di
costruirsene l’immagine mentale, non sia cioè in grado di vedere qualcosa
che assomigli a un cane, a un uomo o a un ornitorinco. In questo modo, per
Eco, per i concetti empirici lo schema sarebbe piuttosto qualcosa di
somigliante a un modello 3D, quale quello proposto da David Marr, vedendo
il quale invece io potrei derivare un’immagine mentale.
Ora, l’impressione è che l’argomentazione di Eco rimanga inviluppata in
una delle più antiche metafore del pensiero occidentale, e cioè quella della
visione (cfr. Eco, 1997, p. 81). Dire che non possiamo vedere il cane
guardandone il diagramma “è come dire che non possiamo vedere una
proposizione guardando un codice Maya: semplicemente non sappiamo che
cosa cercare” (Rorty, 1979, p. 26), non essendo ancora in grado di
inquadrare ciò che vediamo in un sistema semiotico interpretante. Qualora si
mostri un codice Maya a qualcuno che non conosce la lingua Maya, questo
qualcuno vedrà degli scarabocchi, e cioè produrrà un determinato
interpretante in funzione delle sue competenze enciclopediche; ma se poi il
nostro “qualcuno” finirà per imparare il Maya, allora vedrà un codice Maya,
avendo acquisito la capacità di ritagliare l’enciclopedia in modo adeguato
definendone il piano. È una questione di competenza e di interpretazione,
come vedremo.
Perché se io vedo una cosa simile al diagramma della proposizione di
Peirce non vedo un cane, o non vedo la Gioconda? Perché se io vedessi un
codice di pixelizzazione attraverso cui un computer è in grado di riprodurre
sullo schermo l’immagine della Gioconda non vedrei la Gioconda? E se mi
drogo, ad esempio, cosa vedo?
In un articolo ormai famosissimo, Bresloff, Cowan, Golubitsky, Thomas e
Wiener (2001) hanno spiegato il funzionamento di alcune allucinazioni
visive molto famose utilizzando semplicemente l’architettura funzionale
della corteccia striata. I nostri autori vogliono cioè spiegare il funzionamento
di certe immagini mentali percepite in maniera particolarmente vivida e
condivisa in seguito all’esposizione a luce violenta intermittente o a una
forte pressione sui globi oculari, immagini registrate in soggetti che hanno
assunto sostanze come la mescalina, l’LSD, la cannabis o la ketamina.
Questi soggetti vedono tutti alcune forme tipiche: strutture a imbuto, spirali,
alveari d’api, tele di ragno; forme in gran parte classificate già nel 1928 dal
neuropsicologo Heinrich Klüver e immortalate in alcune copertine
famosissime dei dischi di gruppi appartenenti al periodo psichedelico quali
Grateful Dead, Quicksilver Messenger Service o nel bootleg live dei Pink
Floyd Around The Mystic.

Figura 8. Pink Floyd, Around the Mystic.

Ecco allora i disegni dei soggetti sottoposti a mescalina, acidi e LSD


raccolti da Klüver, allievo di Max Wertheimer e primo grande importatore
della psicologia della Gestalt negli Stati Uniti:
Figura 9. Disegni dei pazienti raccolti da Klüver.

Occorrerà allora sottolineare la radicalità di questa situazione: non solo


non c’è un tipo preesistente di queste immagini allucinate (per cui ci
troviamo nelle classiche situazioni kantiano-echiane di giudizio riflettente o
di percezione di un ornitorinco), ma non esiste neppure uno stimolo esterno
che le provoca, tanto che in più punti viene messa in relazione questa
situazione con alcuni esempi di percezione amodale tratti dalla teoria della
Gestalt, in cui si assiste all’emergenza di proprietà morfologiche non
presenti nello stimolo, come sono i contorni illusori delle figure geometriche
in questi esempi dei pac-man di Kanizsa (1980).
Figura 10. Contorni illusori di Kanizsa (1980).

Che cosa succede allora in questa situazione ancor più radicale della
percezione di un ornitorinco?
Se si generalizzano le classiche equazioni di Hopfield delle reti neurali
all’interno di uno spazio fibrato π che parametrizza l’attività neuronale e le
connessioni sinaptiche dell’area corticale V1, otteniamo rispettivamente i)
per uno spazio e un tempo discreto, ii) per un tempo continuo e uno spazio
discreto, iii) per un tempo e uno spazio continuo, le seguenti equazioni
differenziali ordinarie e alle derivate parziali:
Figura 11. Equazioni differenziali ordinarie e alle derivate parziali (da Bresloff, Cowan,
Golubitsky, Thomas e Wiener, 2001).

Utilizzando queste ultime, gli autori mostrano come si possa codificare


l’architettura funzionale della corteccia V1 con la struttura di contatto
all’interno dei pesi sinaptici. Il punto centrale è l’analisi spettrale delle
equazioni differenziali alle derivate parziali: essa mostra che lo stato iniziale
z, che è banalmente stabile in condizioni normali (non c’è input
allucinogeno), può comunque divenire instabile e biforcare per certi valori
critici (credo che il lettore stia materializzando l’esperienza di quando non si
sa cosa cercare di fronte a un interpretante…). Ciò significa che l’eccitabilità
dell’area corticale V1 aumenta a causa dell’azione degli allucinogeni sui
noccioli che secernono la serotonina e la noradrenalina. Le nuove soluzioni
stabili emergono da fenomeni di rottura di simmetria e presentano dei
pattern spaziali estremamente strutturati. L’analisi spettrale delle equazioni
differenziali alle derivate parziali è estremamente tecnica e non occorre
riportarla, ma il suo risultato è l’equazione riportata sopra di cui si possono
calcolare delle soluzioni utilizzando degli sviluppi in serie di Fourier.
Tenendo conto che la funzione della retina sullo strato corticale V1 è
modellizzata attraverso questo logaritmo: Log [(z+0.333)/(z+6.66)]; ecco
allora il grafico della nostra funzione:
Figura 12. Modelli matematici delle allucinazioni da LSD e mescalina

che ci rivela come le allucinazioni da LSD siano semplicemente delle


proiezioni percettive della neurogeometria della corteccia V1. Qualcosa che
credo si debba definire assolutamente spettacolare, se paragonata ai disegni
dei pazienti drogati.
Ecco allora esattamente una proiezione da un insieme diagrammatico
ancor meno “iconico” di quelli di Peirce a delle immagini mentali. A partire
da un LSD noi vediamo le allucinazioni corrispondenti, esattamente come il
cervello le vede a partire da un pattern neuronale. In assenza di type e in
assenza di stimoli esterni. Il cervello è cioè in grado di formarsi l’immagine
mentale a partire da alcuni patterns: noi no, ma semplicemente perché non
sappiamo cosa cercare (il cervello lo sa). Ecco allora che l’impossibilità di
formare immagini mentali a partire da diagrammi non è affatto un buon
controargomento contro la possibilità di estendere anche ai concetti empirici
una concezione diagrammatica dello schematismo.
Semplicemente, quando noi vediamo un insieme di equazioni non
riusciamo a passare all’allucinazione corrispondente, a differenza ad
esempio del computer che ce la fa benissimo e di molti matematici che, a
differenza di noi, quando “vedono” questa formula f(x)=x3 – 3x, “vedono”
anche immediatamente il grafico corrispondente:

Figura 13. Grafico della funzione f(x)=x3 – 3x

o di molti musicisti, che quando “vedono” uno spartito “sentono” la


musica, sempre secondo queste brutte metafore sensoriali. Matematici e
musicisti sanno cioè cosa cercare, ne hanno acquisito l’abito direbbe Peirce,
e per questo possono passare dal diagramma all’immagine mentale,
qualsiasi cosa sia un’immagine mentale. Il problema con il diagramma di
flusso di Peirce discusso da Eco è che noi non sappiamo cosa cercare: ecco
perché non siamo in grado di costruirci l’immagine mentale. Peircianamente,
non siamo cioè in grado di costruire un segno interpretante che differisca in
natura dal primo segno, ma che incarni la stessa forma di relazione sotto un
altro rispetto (equazione/grafico ad esempio). Peircianamente, non siamo
cioè in grado di far proseguire la semiosi, costruendo un diagramma che
traduca il primo segno in un altro segno interpretante: non siamo cioè in
grado di passare da un punto a un altro di questi domini eterogenei. Non
siamo in grado di costruire una ratio tra di essi, così che restano
incommensurabili. L’interpretazione si blocca, ma si blocca perché non
sappiamo cosa cercare. Qualora lo sapessimo non si bloccherebbe. Il
cervello ad esempio non si blocca, e a partire da cose anche molto più
astratte e meno “iconiche” del diagramma peirciano (l’LSD) sa costruirsi
l’immagine mentale e “vedere” delle cose che noi non vediamo.
Semplicemente, sa cosa cercare, sa costruirsi l’interpretante appropriato, sa
far proseguire la semiosi.
Perché, e qui sta il punto, il morfologico è l’effetto di un processo di
emersione fenomenologica di strutture macroscopiche e strutturalmente
stabili a partire dalla fisica microscopica dei substrati, per questo non può
essere confuso con un’analogia figurativa, ancor peggio se localizzata a
livello dello schema, tra l’intuizione e il concetto, com’è il modello 3D per
Eco.
Il morfologico emerge in quel processo continuo di cui parlava Peirce, in
cui a partire dall’Oggetto Dinamico “le sensazioni appaiono come
interpretazioni di stimoli, le percezioni come interpretazioni di sensazioni e i
giudizi percettivi come interpretazioni di percezioni” (Eco, 1997, p. 79). Per
questo va studiato all’interno di una teoria della struttura dei livelli di
emergenza della realtà fenomenologica, in cui “sulla base di fenomeni di
interazione e di comportamenti collettivi coordinati (cooperazione e
conflitti), […] delle unità di piccola scala (“microscopiche”) possono
organizzarsi in strutture emergenti di grande scala (“macroscopiche”)”
(Petitot, 2006, pp. 104-105). Esattamente come ci ha mostrato il gruppo di
lavoro di Bresloff. Per questo il procedimento di passaggio dall’Oggetto
Dinamico alle morfologie non può essere pensato sulla base dell’iconismo
primario né il morfologico può essere situato a livello dello schema dei
concetti empirici.
E questo con alcune conseguenze riguardo alla schematismo. Ci pare che
Peirce avesse ragione quando identificava schemi e diagrammi, dicendo che
qualora Kant avesse studiato il ragionamento diagrammatico non avrebbe
avuto bisogno degli schemi (cfr. supra, 2.3). A tutti i livelli, lo schematismo
si riconduce sempre a un processo semiotico di interpretazione, in cui si
passa da elementi ad altri elementi eterogenei che differiscono in natura
(intuizione e concetto ad esempio in Kant), e non a un riportare qualcosa
sotto regole o sotto tipi generali. Pare allora che Eco abbia bisogno di
differenziare una concezione dello schematismo puramente diagrammatica
(così in Peirce) da una concezione dello schematismo costruita per tipi
cognitivi solamente perché basa la sua argomentazione sulla metafora della
visione. Ma come detto, noi non “vediamo” l’immagine mentale a partire da
un diagramma o da un gruppo di equazioni semplicemente perché non
sappiamo cosa cercare; semplicemente perché, peircianamente, non siamo in
grado di far proseguire la semiosi.
Pensare allo schematismo in modo peirciano, e identificare così schema e
diagramma, ci libera allora da ogni necessità di postulare tipi del contenuto e
processi come il “portare sotto regole”, magari a modello 3D. Del resto, è
evidente come nell’analisi di Bresloff le strutture allucinate siano fortemente
tipiche e grammaticalizzate, ma non certo perché durante un’esperienza
lisergica qualcuno sotto acido porta le sue allucinazioni sotto concetti e
ricerca il tipo delle sue immagini, applicando al molteplice sensibile il
modello 3D di David Marr. La questione è ben più complessa e va infatti
posta a un altro livello.
Perché anche qualora si dimostrasse che il gruppo di lavoro di Bresloff
abbia torto, il problema per la semiotica non cambierebbe comunque. Per la
semiotica infatti non importa cosa accade di fatto nel cervello, dal momento
che qualsiasi cosa vi accada di fatto non pare minimamente in grado di
spostare la questione centrale, né tanto meno di risolverla. A questo
proposito, concordiamo infatti con Rorty (1979, pp. 26-7) quando afferma,
in polemica con Leibniz, che se il cervello fosse ingrandito fino alle
dimensioni di una fabbrica e noi conoscessimo un numero sufficiente di
correlazioni neuronali, vedremmo davvero i pensieri, nel senso che la nostra
visione ci rivelerebbe quali pensieri pensa in quel momento il proprietario
del cervello. Il problema è infatti esattamente lo stesso che si ritrovava a
proposito del codice Maya: nel momento in cui abbiamo sufficiente
informazione sulla corrispondenza tra pensieri e stati neuronali, siamo
tranquillamente in grado di passare da uno all’altro e leggere la forma di
relazione incarnata in un primo segno (pattern neuronale) come
l’interpretante diagrammatico di una stessa forma di relazione incarnata in
un altro segno interpretante che ne differisce in natura (pensiero).
Come è evidente allora, nessuna ipotetica riduzione del mentale al
neuronale, del passionale o del semantico alla sua base materiale,
computazionale o fisica metterebbe in discussione l’esistenza di una
pertinenza propria di un’indagine che sia costitutivamente semiotica.
Avremmo infatti esattamente lo stesso problema che abbiamo adesso
(passaggio da un interpretante all’altro) visto sotto un altro rispetto, con altri
attori in gioco. Avremmo cioè sempre un’espressione (il pattern mentale) di
cui si cerca un contenuto correlato (i pensieri); avremmo sempre una prima
forma di relazione (il pattern mentale) di cui si cerca l’interpretante
diagrammatico corrispondente (quello che conserva cioè la stessa forma di
relazione). La semiotica è qui, nelle possibilità di passaggio da un punto a
un altro (interpretazione) e nella possibilità di concatenare diagrammi
comuni tra elementi eterogenei (prima accezione del valore saussuriano). Se
arrivassimo un giorno a possedere un insieme di conoscenze così esaustive
da ottenere una mappatura completa degli accadimenti neuronali che ci
consentano di sostituire espressioni quali “ho caldo” con espressioni quali
“ho le mie C fibre eccitate”, avremmo lo stesso identico problema semiotico
che abbiamo adesso.
In questo modo, se l’idea del portare sotto regole che costituiscono type
che presiedono al riconoscimento delle occorrenze è problematica addirittura
sul piano della percezione, dove a prima vista sembra naturale e ben fondata,
lo è tanto più se ci rivolgiamo al piano del contenuto tout court. E del resto
si tratta semplicemente di essere peirciani fino in fondo e di pensare che tra
percezione e semiosi di livello superiore non ci sia affatto differenza di
natura, bensì una continuità garantita dalla manifestazione della medesima
struttura semiotica, che per noi, così come era per Peirce, è quella
dell’interpretazione.
Come abbiamo infatti visto, il fatto che non si porti sotto regole non vuol
ovviamente dire che non esistano regolarità. Vuole semplicemente dire che
le regolarità propriamente semantiche non sono definibili nei termini di
regole a cui si riconduce un caso o di tipi a cui si riconduce un’occorrenza.
La realtà è che la gestione del senso e la semantizzazione non differiscono in
natura da situazioni in cui si apprende un sistema semantico senza
conoscerne ancora le regole, e in cui si è quindi impossibilitati a ricondurre a
esse gli elementi in cui ci si imbatte. In riferimento ad alcuni studi di
psicolinguistica, e in particolar modo a quelli di Tommasello, Violi (2003b)
sosteneva allora una continuità costitutiva tra procedimenti di apprendimento
e di uso del già appreso:
In una simile prospettiva apprendimento e uso “acquisito” risultano fortemente apparentati. In
entrambi i casi non sono tanto i significati generali a fondare l’uso, ma piuttosto l’uso a consentire
le successive (sempre parziali) generalizzazioni. Se il bambino non possiede uno schema generale
type, nemmeno per l’adulto è possibile ipotizzare una competenza completa e sistematica. Da
questo punto di vista adulto e bambino si trovano in condizioni simili, a indiretta riprova che non è
necessario presupporre un preesistente schema per poter comunicare. (Violi, 2003a, p. 319)

Ecco allora che se il modello dell’uso del linguaggio non differisce in


natura da quello del suo apprendimento iniziale nel bambino, ci troviamo ad
avere a che fare con qualcosa che non solo non presenta regole generali, ma
che ha continuamente a che vedere con occorrenze di cui non si cerca un
tipo, bensì un semplice assestamento stabilizzato. Kantianamente, si tratta
della differenza tra un modello incentrato sulla capacità di giudicare, che
riporta abduttivamente sotto regole costruite (giudizio riflettente) o
determina deduttivamente in funzione di regole date (giudizio determinante);
e un modello incentrato invece sulla struttura del giudizio estetico, in cui
prevale il libero gioco armonico tra elementi fondati su di un con-senso, che
determina non più un’universalità oggettiva, e cioè un’universalità basata su
regole, bensì un’unità distributiva che è sempre data a ciascuno come
qualcosa di esclusivamente suo. Siamo allora convinti che il piano del
contenuto funzioni in questa seconda maniera, e per questo parliamo della
semantica semiotica come di un’estetica del senso, in senso critico. Non si
cerca il type per l’opera d’arte, non si cerca la regola per l’oggetto estetico: li
si semantizza sempre localmente in quanto occorrenze, tanto che le copie,
anche quelle perfette, sono ad esempio valorizzate sempre in modo diverso
rispetto agli originali.
È allora certamente sintomatico che, in Kant e l’ornitorinco, Eco compia
invece il procedimento opposto, e riporti il “culturale” sul “naturale”, il
“libero gioco” che è proprio dei giudizi estetici e degli oggetti artistici sul
“portare sotto regole”:
è vero che una sedia, come oggetto dell’arte, potrebbe essere giudicata solo come bella, puro
esempio di finalità senza scopo e universalità senza concetto, fonte di piacere senza interesse,
risultato di un libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto. Ma a questo punto ci vuole poco
ad aggiungere una regola e uno scopo là dove abbiamo cercato di astrarne, e la sedia verrà vista
secondo l’intenzione di chi l’ha concepita come oggetto funzionale […], organicamente strutturata
in modo che ogni sua parte sostenga il tutto. (Eco, 1997, p. 85)
A questo proposito, basterà allora aver mostrato che sebbene “ci volesse
poco”, non era affatto necessario aggiungere una regola per spiegare quello
che ci si prefiggeva di spiegare in Kant e l’ornitorinco.

4.12. Il problema della rappresentazione enciclopedica: alberi e rizomi.


Per una rappresentazione enciclopedica non gerarchica. La metafora

Come abbiamo detto, dal momento che il significato è per essenza


qualcosa di locale, che è funzione delle pratiche che tracciano una rete nel
grande mare liscio, un’enciclopedia, per funzionare concretamente e
presiedere così alla stabilizzazione dell’indeterminatezza costitutiva del
senso (dy, dx), deve sempre essere ritagliata localmente. A questo proposito,
il problema essenziale della semiotica interpretativa, così come essa è stata
formulata da Umberto Eco, è che ogni porzione di enciclopedia che viene
ritagliata nella pratica è stata sempre rappresentata come un albero. Tuttavia,
questa mossa, apparentemente trasparente, non è senza conseguenze, dal
momento che una struttura arborescente presenta una forma di relazione
molto precisa, quella gerarchica tra iponimi e iperonimi, che per essenza non
è in grado di spiegare tutta una serie di fenomeni semantici fondamentali,
quali ad esempio quelli della metafora o della polisemia. Ritroviamo qui,
all’interno della semiotica interpretativa di Eco, gli stessi problemi
riguardanti le forme di relazione differenziali che discutevamo a proposito
della concezione esclusiva della differenza che era propria della semiotica
generativa (cfr. supra, capitolo 3).
Uno dei punti cruciali su cui si giocherà la fortuna della semiotica negli
anni a venire, soprattutto nella sua applicazione ai testi e alle pratiche di
significazione, consisterà per quel che ci riguarda nel saper fornire delle
rappresentazioni enciclopediche locali che non presentino una forma
arborescente, dal momento che la maggior parte dei fenomeni di senso non
presenta una struttura gerarchica a iponimi/iperonimi, ma mette in gioco
spesso e volentieri forme di relazioni di altro tipo, quali sono ad esempio le
opposizioni tra termini tensivi, le incompossibilità ecc. Il nostro studio nel
capitolo 3 voleva essere proprio un contributo in questo senso.
Mostreremo allora adesso, al fine di mettere in luce la portata decisiva di
una rappresentazione adeguata delle sezioni enciclopediche locali, come un
fenomeno come quello della metafora non sia per essenza rappresentabile in
forma arborescente, e lo faremo lavorando proprio sul saggio di Eco (1984)
di Semiotica e Filosofia del Linguaggio, dove il “nodo metaforico” viene
colto alla perfezione nella sua specificità di fenomeno di condensazione, ma
viene poi ricondotto a un meccanismo gerarchico di doppia sineddoche,
all’interno di una rappresentazione arborescente che ne fa in qualche modo
perdere la specificità. Proporremo altresì una nuova formalizzazione, che
lasceremo però a livello qualitativo, dal momento che progettiamo un lavoro
dedicato esplicitamente a questi problemi in futuro.
Nel saggio sulla metafora di Semiotica e filosofia del linguaggio, Eco
mette in opera una doppia critica assolutamente ben diretta da una parte alla
teoria della proporzione aristotelica e dall’altra alle teorie contemporanee
delle transfert features (Weinrich, 1972; Levin 1977). Le due critiche sono
in effetti collegate. Ad Aristotele infatti Eco rimprovera l’astrattezza e
l’infinita riempibilità del suo schema analogico, che non sembra
minimamente rappresentare una spiegazione del nodo metaforico, dal
momento che il problema è proprio quello di capire in che cosa consista
questa proporzione, cosa si elimini e cosa si conservi nell’analogia, e in che
modo i termini messi in rapporto si sovrappongano e tuttavia si distinguano
(cfr. Eco, 1984, p. 162). Ed ecco allora che le teorie delle transfert features
risultano essere allo stesso modo insufficienti, dal momento che non basta
dire che in espressioni quali “quella fanciulla è un giunco” quest’ultimo
acquisti una proprietà “umana” e la fanciulla ne acquisti invece una vegetale,
visto che “per il fatto stesso di essere comparate esse evidenziano anche le
proprietà che hanno in opposizione” (Eco, 1984, p. 154), in un perfetto
fenomeno di “sintesi disgiuntiva”.
Cosa unisce Dioniso e Ares? […] Mirabile ossimoro: la loro diversità. Dio della gioia e dei riti
pacifici Dioniso, dio della morte e della guerra Ares.Dunque un gioco di somiglianze che
interagisce con un gioco di dissomiglianze. Simili coppa e scudo perché entrambi rotondi, dissimili
per la loro funzione; simili Ares e Dioniso perché entrambi dèi, dissimili per il loro rispettivo
dominio d’azione. (Eco 1984, pp. 156-157)

Queste critiche di Eco non solo sono ben poste, ma sono assolutamente
decisive: la metafora è per essenza un fenomeno semantico che tiene insieme
e colocalizza al suo interno fenomeni di fusione e di opposizione semica.
Alcuni semi si sovrappongono, ma si sovrappongono perché altri si
oppongono: la metafora è questa sovrapposizione oppositiva che colocalizza
fenomeni di fusione insieme a fenomeni di opposizione semica (cfr. Eco,
1984, pp. 178, 154). Entrambe le dimensioni di sovrapposizione (fusione) e
opposizione sono costitutive del nodo metaforico, e una teoria adeguata non
può esimersi dal renderne conto.
Al fine di renderne conto, Eco propone allora una teoria che manifesta
un’impostazione freudiana di tipo topologico. Non solo il nodo metaforico è
infatti esplicitamente pensato e definito come un fenomeno di condensazione
(paragrafo 8), ma le stesse sineddoche e metonimia, in quanto sostituzioni
del semema con il sema (“Bere una bottiglia” per “bere del vino”) o del
sema con il semema (“Piangi o Gerusalemme” per “pianga il popolo
d’Israele”), vengono pensate come fenomeni di spostamento. E “come sullo
spostamento si opera la condensazione, così su questi scambi metonimici si
opera la metafora” (Eco, 1984, p. 179; cfr. anche 183).
E tuttavia questa mossa apre due ordini di problemi. Da una parte,
sebbene Eco noti in più punti che la maggior parte dei rapporti metaforici
“non sia affatto riconducibile a un albero di Porfirio a meno di non compiere
equilibrismi insiemistici” (Eco, 1984, p. 156), è però proprio su degli
equilibrismi di questo tipo che viene poi edificata la modellizzazione
effettiva della teoria. Dall’altra, ed è una riduzione assolutamente speculare,
se la metafora corrisponde a un fenomeno di condensazione, e sineddoche e
metonimia corrispondono a fenomeni di spostamento; sembra però esserci
una differenza di natura tra questi due ordini di fenomeni, differenza che
viene invece negata nel momento in cui si riduce la condensazione a
qualcosa che si opera su scambi di spostamento (Eco, 1984, p. 179) e la
metafora all’“effetto di una doppia metonimia verificata da una doppia
sineddoche” (Eco, 1984, p. 191).
Il metodo echiano di analisi della metafora è famosissimo e non occorre
indugiare più di tanto: data una doppia analisi semica dei sememi
metaforizzante e metaforizzato (doppia metonimia), si costruisce un albero
di Porfirio ad hoc in cui i semi comuni si incontrano in un nodo
relativamente alto e quelli in contrasto si oppongono su un nodo più basso, e
si verifica così la possibilità di sostituire un semema con un altro attraverso
una doppia sineddoche che interessa sia il veicolo che il tenore (cfr. Eco,
1984, pp. 190-192). Ecco qui ad esempio la rappresentazione semica della
metafora borgesiana della panca come “albero da sedere” fornita in
Semiotica e filosofia del linguaggio.
Figura 14. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio: p. 185

Se non che, con una rappresentazione di questo tipo, quello che sembra
perdersi è esattamente il fenomeno di condensazione, che avevamo visto
definire l’essenza stessa della metafora. Che cos’è infatti la condensazione?
In che cosa consiste questo meccanismo di origine freudiana che rappresenta
il vero e proprio “nodo metaforico”?
La condensazione è un fenomeno analogo a quelli delle transizioni di fase,
tanto che in Freud essa definisce proprio un punto di fusione. In fisica infatti,
la condensazione è il passaggio di una sostanza dallo stato gassoso a quello
liquido per compressione o raffreddamento, l’inverso cioè dell’ebollizione.
Ad esempio, nel passaggio da una temperatura superiore a 100 gradi a una
inferiore, nel punto di frontiera di 100 gradi si ha il fenomeno di
condensazione, in cui stato liquido e stato gassoso si fondono l’uno con
l’altro nel passaggio da un momento al momento successivo, tanto che in
psicanalisi la condensazione è proprio il processo inconscio di fusione di più
elementi ideativi mediante il quale un solo contenuto manifesto contiene in
sé diversi pensieri latenti che pulsano al suo interno. Si immagini allora il
processo di un elemento x che si annulla o che diviene altro da sé:
chiamiamo dx l’istante in cui x si annulla o cambia identità, non essendo più
x ma non essendo ancora y o 0: dx è allora il momento della condensazione
metaforica. La condensazione popola dunque essenzialmente questa regione
di confine tra x e y, non essendo “più” e non essendo “ancora”, ma essendo
essenzialmente “tra”.
Momento di instabilità in cui si passa da uno stato gassoso a uno stato
liquido, momento di ambivalenza in cui non si sa bene in quale stato ci si
trovi, momento di ambiguità in cui due elementi vedono sospesa la loro
identità e divengono altro da sé senza con questo smettere di restare ciò che
sono: ecco il momento della condensazione. Ed Eco lo descrive in maniera
perfetta proprio in Semiotica e filosofia del linguaggio:
Ma rimane qualcosa di ambiguo: fanciulla e fiore, palpito vegetale che diventa palpito carnale,
rugiada che si fa occhio umido, petalo e bocca. La rosa vive un mattino perché si chiude a sera ma
il giorno dopo rinasce. La fanciulla muore e non rinasce […]. Si deve rivedere ciò che si sa circa la
morte degli umani? Si rinasce? O si deve rivedere ciò che si sa circa la morte dei fiori? La rosa che
rinasce domani è la stessa di quella di ieri o quella di ieri rimane quella che non fu colta? L’effetto
di condensazione sbava, […] non si sa più chi acquisti cosa e chi invece perda qualcos’altro. […]
Come la metafora comincia ad essere compresa, lo scudo ad esempio diventa una coppa ma questa
coppa, pur rimanendo rotonda e concava (seppure in modo diverso dallo scudo) perde la proprietà
di essere colma di vino. Oppure, al contrario, si forma una immagine in cui Ares possiede uno
scudo che si arricchisce della proprietà di essere pieno di vino. In altri termini, due immagini si
sovrappongono, due cose divengono diverse da se stesse, eppure riconoscibili, ne nasce un
ircocervo visivo (oltre che concettuale). (Eco, 1984, pp. 190, 154, 157)

Splendido analogo dello Snark di Lewis Carroll (snake e shark), o del


brunch di 3.4 (breakfast e lunch), ecco allora che in quanto animale che
partecipa della natura del capro e del cervo, l’ircocervo è esattamente questa
figura del misto in cui è sospesa l’identità dei termini in rapporto, la ratio tra
le due differenti rationes che si instaurano tra cervo e capro. Figure ambigue,
punto di fusione in cui si rimane riconoscibili, divenire altro da sé senza con
questo cessare di rimanere sé stessi: ecco un buonissimo esempio di
condensazione percettiva, un ircocervo visivo appunto, un brunch gestaltico.

Figura 15. Un ircocervo visivo


Com’è ben evidente, uno stesso insieme di tratti può essere qui il formante
sia di una vecchia signora che di una fanciulla elegante e l’instabile
bistabilità di questa situazione fa sì che si possa passare molto facilmente da
un fenomeno all’altro. Non per nulla Rastier (2003) paragonava la metafora
proprio a certi fenomeni gestaltici di percezione di forme ambigue. E qui sta
allora il nostro punto: questa condensazione, questo ircocervo visivo è un
punto di fusione, un concatenamento in cui si ha un divenire-altro di
qualcosa che resta se stesso, in cui degli elementi distinti si fondono proprio
nel momento in cui rimane qualcosa che li separa. Questo fenomeno di
sintesi disgiuntiva non è allora per essenza descrivibile in termini gerarchici
o arborescenti. Al contrario, esso definisce un punto di fusione
strutturalmente instabile e un insieme di opposizioni stabilizzate
compresenti, colocalizzate all’interno di un medesimo spazio. Uno spazio di
questo tipo, uno spazio che è cioè in grado di colocalizzare configurazioni
semantiche “lisce”, quali la sospensione dell’opposizione gerarchica
nell’ircocervo, assieme a opposizioni striate di tipo oppositivo e
arborescente, è per noi uno spazio essenzialmente rizomatico, e cioè l’unione
di uno spazio liscio e di uno spazio striato, in cui il liscio possiede un
primato. È allora solamente uno spazio di questo tipo a costituire una
rappresentazione adeguata dell’enciclopedia echiana e del darsi del senso
che essa regola.
Perchè la condensazione come punto di fusione semica che coniuga ciò
che per altri versi rimane separato non ha nulla a che vedere con un
superiore gerarchico in un albero di Porfirio. La fusione crea la scomparsa
dell’indipendenza dei termini in rapporto, crea una zona di dispersione in cui
scompare la loro discernibilità, là dove un nodo arborescente superiore è
semplicemente l’iperonimo che coordina due elementi assolutamente
immutati nella loro identità distinta. E del resto non diciamo certo che il
passaggio da uno stato gassoso a uno stato liquido (condensazione) li riporti
sotto un genere comune, bensì diciamo che ne muta l’identità, li fa transitare
da uno stato a un altro, li fa divenire-altro da sé creando un ircocervo,
un’ibridazione, un punto di fusione appunto.
Non solo. I modelli arborescenti sono costituiti in modo che un elemento
non riceva le sue informazioni se non da un’entità gerarchica superiore o
inferiore e comunichi esclusivamente con i suoi iponimi e iperonimi. Al
contrario, nella metafora si crea un effetto di irradiamento semico, in cui i
semi che si fondono nei sememi e quelli che se ne oppongono creano un più
globale effetto di risonanza in cui potenzialmente ci si può perdere, e cioè in
cui si possono perdere le posizioni e le ripartizioni abituali tra gli elementi
semiotici di una cultura. Da qui gli effetti di spaesamento di fronte alla
comparazione metaforica tra un gregge di pecore e i denti di una fanciulla,59
da qui la più generale funzione conoscitiva della metafora. Un sistema
gerarchico di tipo arborescente per essenza non può rendere conto di un
effetto di questo tipo, e anzi, se mai, più che spiegare la metafora esso la
risolve, e la risolve in una soluzione gerarchica ordinata che urbanizza il
processo e ce ne fa perdere l’essenziale (e cioè la condensazione, l’ircocervo
visivo). Ma risolvere non vuol dire affatto spiegare: io non spiego un gioco
se ne fornisco le soluzioni, bensì lo spiego se metto qualcuno nelle
condizioni di saperci giocare, e magari di perdere. Le soluzioni tolgono anzi
spesso il piacere stesso del gioco.
Ecco allora che da una parte la metafora si fonda su di un fenomeno di
fusione tra semi che, come notava alla perfezione Eco, provoca un
corrispondente effetto di messa in parentesi della discernibilità dei sememi
sotto un certo rispetto. Dall’altra, essa si fonda invece sul contrasto tra altri
semi in opposizione che fa sì che i sememi restino comunque se stessi e
rimangano così riconoscibili. Per essenza la metafora è cioè un fenomeno di
sintesi disgiuntiva: qualcosa che fonde insieme (sintesi) ciò che per altri
versi tiene separato (disgiuntiva). Per rappresentare adeguatamente il
fenomeno della metafora, occorre dunque un modello semantico che
colocalizzi fenomeni di fusione semica (condensazione) e di contemporanea
opposizione semica.
Possiamo allora fornire innanzi tutto una definizione di metafora a partire
da una prospettiva semiotica, qual è quella che stiamo sostenendo qui: la
metafora è un fenomeno che presenta la forma di relazione di una sintesi
disgiuntiva, dal momento che essa tiene insieme e colocalizza fenomeni
semantici di fusione semica (blending) e fenomeni semantici di opposizione
semica. Questa colocalizzazione crea degli effetti semantici tensivi di
condensazione (ircocervi) provocati dall’irradiazione di ciò che viene
assimilato e di ciò che non lo è, dal contrasto tra la fusione di semi irradiabili
e l’opposizione di semi discordanti.
Ecco allora una modellizzazione matematica adeguata delle due metafore
borgesiane analizzate da Eco in Semiotica e filosofia del linguaggio:
Figura 16. La metafora. Un modello matematico di tipo rizomatico ed enciclopedico.

In comparazione all’albero di Porfirio utilizzato da Eco, “legno lavorato”


e “legno non lavorato” si danno qui localmente come punti singolari
strutturalmente stabili (attrattori), capitali di quella microregione semantica.
Gli elementi appartenenti alla stessa microregione (panca/sedia/nave per i
lavorati e alberi/arbusti per i non lavorati), che in Eco sono rappresentati
come iponimi in un albero di Porfirio, sono qui invece punti regolari
distribuiti tensivamente all’interno del microspazio semantico continuo
ritagliato localmente nell’enciclopedia. Si ritrova qui realizzata, e con la
possibilità di venire formalizzata, la sintesi tra un’analisi semica di tipo
strutturalista, una rappresentazione enciclopedica locale non più
arborescente, un modello tensivo fondato sulla continuità, una semantica
prototipica che considera le singolarità strutturalmente stabili (attrattori)
come prototipi di una microcategoria, e infine una concezione
morfodinamica di tipo catastrofista thomiano. Thom chiama uno “spazio” di
questo tipo il dispiegamento universale, mirabile fenomeno di origami e di
piegatura, della funzione f(x)=x4.
Come vedremo in un futuro lavoro, una rappresentazione di questo tipo
permetterà i) di formalizzare tutte le relazioni differenziali di opposizione
presentate nel capitolo 3; ii) di correggere gli errori e i problemi del quadrato
semiotico, iii) di liberarci delle curve informali di Fontanille e Zilberberg o
dagli spazi di blending delle scienze cognitive, mantenendo al contempo la
priorità di un modello tensivo del continuum, e iv) di rappresentare porzioni
locali di enciclopedia in modo finalmente non arborescente. Quello che ci
pare euristico di questi modelli tratti dalla teoria delle singolarità è il loro
statuto formale, che li rende rappresentazioni adeguate ai loro oggetti, e non
semplici disegni informali che popolano la stragrande maggioranza della
semiotica (quadrato semiotico, curve e disegni di varia specie ecc.), della
linguistica (diagrammi elementari dei frames, rappresentazioni topologiche
non formalizzate) e della semantica cognitiva (spazi di blending, pseudoreti
ecc.).
Uno spazio di questo tipo infatti è uno spazio che colocalizza una
irradiazione tensiva di semi profondamente eterogenea, in cui si hanno punti
di fusione semica (zona liscia di condensazione) e punti di opposizioni tra
semi (zona striata di dominanza e opposizioni qualitative). Si può allora
senz’altro dire che uno spazio di questo tipo sia un buon esemplare di spazio
metaforico, dal momento che rende conto e rappresenta ciò che costituisce
l’essenza stessa della metafora, e cioè gli effetti semantici tensivi provocati
dall’assimilato e dall’inassimilabile, dalla sintesi disgiuntiva tra la fusione di
semi irradiabili e l’opposizione di semi antagonisti che crea degli effetti
semiotici di risonanza e di ircocervo visivo. Ecco allora che l’intorno del
punto (δ), in cui si colocalizzano zone di condensazione e zone oppositive di
spostamento, rappresenta esattamente ciò che Eco individuava come
l’essenza stessa della metafora e chiamava “nodo metaforico”: il punto delta,
l’effetto-delta come sintesi disgiuntiva di condensazione e spostamento.
Proprio per questo, riteniamo che quanto si è fatto in questo capitolo a
proposito delle nozioni di schema e di rappresentazione enciclopedica vada
esattamente nella direzione tracciata da Eco, e ci vada proprio nel momento
in cui se ne separa in alcuni punti per correggere alcuni problemi, in una
costitutiva sintesi disgiuntiva con il suo pensiero e la sua lezione.
1
È proprio perché la materia del contenuto, a differenza di quella dell’espressione, non è una materia
fisica, che una Fisica del senso qual è quella pensata da Petitot deve fare ricorso a una fondazione
trascendentale, secondo la quale la geometria utilizzata per modellizzare la forma del senso
rappresenti uno schema in senso kantiano, e permetta così di determinare una materia estetica
completamente ideale, anestetica, non “materiale” (cfr. Petitot, 1985, pp. 311-327; 1991; 1992,
capitoli 1 e 2).
2
Su questi problemi, si vedano Valle, 2003 e 2004, capitolo 1.
3
Cfr. Brandt, 2002.
4
Non è qui pertinente la distinzione tra fonetica e fonologia, e cioè tra livello etic e livello emic, che
in Hjelmslev corrisponde se mai alla distinzione tra sostanza dell’espressione e forma
dell’espressione. Il problema si pone su un altro livello. Si può quindi sostituire “fonologico” al
posto di “fonetico” e la questione non cambia minimamente, dal momento che riguarda la natura e
il rapporto tra i due piani e non quella che riguarda gli strati del linguaggio interni ai singoli piani.
5
Cfr. Valle, 2003, p. 14.
6
Chiaramente anche Hjelmslev parla di presupposizione tra i piani di una semiotica, ma è ovvio
come elementi che si determinano reciprocamente si presuppongano anche reciprocamente, mentre
non è affatto vero il contrario. La presupposizionalità è condizione necessaria ma non sufficiente
della funzione semiotica, dal momento che essa non implica la differenzialità e la determinazione
reciproca. Si tratta quindi di un criterio troppo debole.
7
In questo senso lo strutturalismo e l’epistemologia semiotica sono vicini a certe riflessioni di
Antonio Banfi (1926) sulla necessaria sospensione della domanda “che cos’è?”, sviluppate poi in
ambito essenzialmente estetico dalla scuola di Luciano Anceschi.
8
Cfr. Traini, 2001.
9
Borges, 1956, p. 44.
10
Cfr. Genette, 1994 e Fabbri, 2000, p. 272.
11
O, se si vuole, di polisemia.
12
È cioè attraverso la funzione semiotica che noi dobbiamo poter conoscere i rapporti tra verità e
storia e non viceversa.
13
Sulla differenza tra metodo semasiologico e metodo onomasiologico si veda Rastier, Cavazza e
Abèille, 1994, pp. 44-45, ma cfr. infra, in questo stesso capitolo.
14
Cosenza, 1992, p. 115.
15
Su questo punto, cfr. almeno Floch, 1990; Basso, 2003; Corrain, 2004; Calabrese, 2005 e Pozzato,
2007.
16
Cfr. Eco, 1975 e Traini, 2006.
17
“Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi,
ciascuno dei quali esprime un’eterna e infinita essenza (ET, I, 6). […] Qualunque cosa esiste
esprime in un modo certo e determinato la natura, ossia l’essenza di Dio (ET, I, 36)”. Deleuze
(1968b, p. 9) commenta così questa reiterazione frattale dell’espressione in Spinoza: “Anche il
modo è espressivo. Si deve quindi distinguere un secondo livello dell’espressione, una sorta di
espressione dell’espressione. La sostanza si esprime in primo luogo negli attributi, ed ogni attributo
esprime un’essenza. Ma, in secondo luogo, anche gli attributi si esprimono: si esprimono nei modi
che ne dipendono, e ciascun modo esprime una modificazione”.
18
“Nella semiosi ogni contenuto può diventare a sua volta espressione di un contenuto ulteriore. […]
L’espressione e il contenuto possono ribaltarsi scambiandosi i ruoli” (Eco, 1990, p. 219).
19
Cfr. Valle, 2003, p. 35.
20
Con “semantizzare”, intendiamo “dare senso a”, “stabilire il significato di” un’espressione.
21
Cfr. Greimas, 1956.
22
Metodo lessicografico. È la distinzione che facciamo, seguendo Rastier (2001; Rastier, Cavazza e
Abeillé 1994), tra metodo semasiologico e metodo onomasiologico, che riteniamo una fallacia
costitutiva della semantica, che è stata sempre ingannata dal piano dell’espressione posto a trompe-
l’oeil.
23
“Senza identità, niente entità” (Santambrogio, 1991, p. 199).
24
Si vedano non solo le riflessioni sul significato e sui possibilia, ma anche quelle sulla logica delle
relazioni, ricostruite magistralmente da Burch (1991). Sui commenti di Quine al lavoro di Peirce si
veda Zalamea 2003. Nella tradizione analitica è stato invece Putnam a studiare con grande rigore la
teoria del continuum e la logica di Peirce connessa al sinechismo, tanto da scrivere l’introduzione
alla pubblicazione delle fondamentali Harvard Lectures peirciane del 1898, rimaste fino ad allora
in gran parte inedite (cfr. Putnam, 1991).
25
Intendiamo “materiale” in senso hjelmsleviano, dove la materia è il “non ancora semiotizzato’, il
“non ancora tagliato”.
26
Un “formante” è una figura capace di differenziare qualcosa sul piano del contenuto, all’interno
della sezione enciclopedica locale selezionata.
27
Cfr. supra, capitolo 1.
28
Un rizoma può sempre essere spezzato in un certo punto, ribaltato, e poi riprendere seguendo una
delle sue linee (cfr. Deleuze e Guattari, 1980, pp. 12-13).
29
La terminologia e la distinzione tra “semasiologico” e “onomasiologico”, nel senso in cui la
utilizziamo qui, deriva da Rastier (1987, 2001). L’esposizione per noi più convincente delle sue
posizioni la si trova in Rastier, Cavazza e Abeillé, 1994, pp. 45-46.
30
Per una serie di commenti a questa classificazione si veda Foucault, 1966.
31
Categorie borgesiane tratta dalle voci “cane” e “nodo” del Vocabolario della lingua italiana
Treccani.
32
Rastier, Cavazza e Abeillé, 1994, p. 46.
33
Sulla nozione di prototipo si vedano Violi, 1997 e Gaeta e Nuraghi, 2003. Le applicazioni più
importanti del concetto alla semantica si trovano in Lakoff, 1987 e Langacker, 1987. Per alcune
discussioni a partire da una prospettiva semiotica cfr. Eco, 1997 e Rastier, 2001.
34
È importante notare come nella versione classica della semantica cognitiva, il senso prototipico sia
spesso individuato con un senso di tipo eminentemente referenziale. Anche questo è un aspetto del
tutto problematico. Su questi temi, si vedano ad esempio Marconi, 1991 e 2001 e Rastier, 2001.
35
Wittgenstein, 1953, §109.
36
All’interno di un paradigma di semantica cognitiva, le critiche alle nozioni di omonomia e
polisemia e, più in generale, le posizioni di Allwood (2003) spiccano per lucidità, euristicità e
vicinanza a un approccio semiotico di tipo enciclopedico. L’idea stessa di “potenziale semantico”
come “totalità di tutta l’informazione che gli usi individuali, o, a livello sociale, quelli di una
comunità linguistica hanno veicolato attraverso di essa”, si identifica di fatto con l’idea echiana di
enciclopedia, tanto che il potenziale semantico si colloca a livello dell’uso e “non è il risultato di un
tentativo di trovare un significato-type valido a livello generale per una parola”. L’unico punto
problematico, su cui ci distanziamo dalle analisi di Allwood, è il suo rimanere legato a un
approccio di tipo ancora semasiologico.
37
Dicevamo prima che non era immediatamente presente perché la sua presenza è tale solo per
interpretazione: è cioè una presenza mediata.
38
Sul concetto di isotopia, assolutamente fondamentale in semiotica e in semantica, si veda la
formulazione originaria in Greimas (1967) e le voci del Dizionario (Greimas e Courtés, 1979), con
particolare attenzione a quelle sul tema e sull’isotopia tematica. Si veda poi la ripresa fatta da Eco
(1979) con la sua tipologia. Lo studio più approfondito sul concetto di isotopia è però senz’altro
quello di Rastier (1987). La riattivazione del concetto che si propone qui non si fonda però su
nessuna di queste posizioni, pur essendo stata ispirata da alcuni suggerimenti contenuti nelle voci
Tema e Tematizzazione di Greimas e Courtés, 1979.
39
Cfr. Heidegger 1927.
40
Cfr. Eco, 1979, in particolare l’analisi di Allais.
41
Cfr. Basso, 2003.
42
Se ad esempio si prende la semantica interpretativa di Rastier, i criteri di gerarchizzazione sono
completamente differenti.
43
Eco, 2003, p. 89.
44
Cfr. ad esempio Bresloff, Cowan, Golubitsky, Thomas e Wiener, 2001; Petitot, 2003.
45
Devo alcune precauzione importanti a proposito delle riflessioni che seguono alle mie
conversazioni con Riccardo Fusaroli, che ringrazio con affetto.
46
Il senso della frase varierà infatti fortemente se la si trova in un manuale di logica o la si sente
pronunciare a una cena tra amici.
47
Evans (2006) sostiene che il significato di una parola è costituito da un livello strutturale semantico
di tipo puramente linguistico, chiamato concetto lessicale, e da un livello di rappresentazioni
enciclopediche non-linguistiche, chiamato modello cognitivo.
48
Per un originale confronto tra semiotica e filosofia della mente, si veda Gambarara, 2006.
49
Cfr. Rastier 2001, p. 74.
50
Cfr. ad esempio Rastier, 2001, capitolo 3 e Rastier, Cavazza e Abeillé, 1994: capitolo 3.
51
Cfr. Garroni, 1986.
52
Gemeinsinn.
53
Se possiamo ancora chiamarla così, visto che è un’occorrenza senza type.
54
Cfr. Lo Piparo, 1998.
55
Cfr. Eco, 1997, p. 68 e Deleuze, 1963, p. 73.
56
Si prenda ad esempio il diagramma peirciano della proposizione riportato in figura 5: un’immagine
logica di questo tipo è completamente neutra rispetto all’opposizione tra arbitrario e motivato, dal
momento che i rapporti tra le parti del diagramma sono motivati dalla forma di relazione espressa
dalla proposizione, ma è soltanto in funzione della regola convenzionale del grafo che essi vengono
espressi.
57
Allo stesso modo l’energia meccanica non somiglia per nulla all’energia elettrica e ne differisce in
natura, ma non per questo un trasduttore non è in grado di rendere possibile che le loro variazioni
siano proporzionali, che esista “un’analogia fra le relazioni delle loro parti”, come dice Peirce.
58
L’importanza decisiva di un pensiero diagrammatico fondato sull’enciclopedia è stata messa in luce
dopo Peirce nell’ambito delle scienze sperimentali da Ernst Mach sotto il nome di principio di
analogia euristica. Secondo Mach (1920, pp. 220-231) un’analogia euristicamente valida sarebbe
una forma di relazione tra due diversi sistemi (concettuali o di altro tipo) in cui risulta evidente sia
la diversità qualitativa, o addirittura assoluta, tra i sistemi considerati in base al riferimento; sia
l’isomorfismo, o quanto meno un’omogeneità relazionale, che sussiste tra di essi se considerati in
base alla struttura o comparativamente. È un fatto di questo tipo per esempio che il concetto di
corrente elettrica sia stato ricavato per analogia euristica da quello diagrammaticamente omologo di
idrodinamica. E che tale concetto rappresenti molto più che una semplice somiglianza, è dimostrato
dal fatto che certe leggi sono ambivalenti, interpretabili cioè e in termini di idrodinamica e in
termini di elettrodinamica (è il caso ad esempio della legge di Ohm sull’intensità della corrente
elettrica I = V/R. Lo stesso rapporto, la stessa forma di relazione, vale per una corrente idraulica
facendo le apposite sostituzioni delle grandezze). È interessante notare come in base a questa
concezione autenticamente diagrammatica, Mach arrivi a un vero e proprio strutturalismo anti-
causalista in fisica. Sottolineando come “nella ricerca scientifica importi solamente la connessione
dei fenomeni”, Mach non ritiene che la scienza debba cercarne le “cause”, dal momento che
l’esperienza non ci presenta quel carattere di necessità che è implicito nel concetto di causa.
Applicando alla fisica il concetto di “funzione”, ormai fondamentale in matematica, secondo Mach
è opportuno parlare di “nessi funzionali”, di connessioni relazionali su cui si fonda l’essenza stessa
sia dello scoprire che dell’esperienza scoperta e modellizzata.
59
Cfr. Eco, 1984, pp. 162-163.
5. ENUNCIAZIONE ED EFFETTI DI SOGGETTIVITÀ: PER UNA
TEORIA UNIFICATA DELL’ENUNCIAZIONE

Quando la scienza, l’arte, la letteratura, e la filosofia sono semplici manifestazioni


della personalità, e sono a un livello tale da raggiungere gloriosi e bizzarri obiettivi,
rendono il nome di un uomo vivo per centinaia di anni. Ma sopra questo livello,
molto al di sopra, separati da un abisso, si trova il livello dove le cose più alte sono
ottenute. Queste cose sono essenzialmente anonime.

Un’opera ha un autore, e tuttavia, se essa è perfetta, possiede qualcosa di


essenzialmente anonimo.

Simone Weil

Vorrei cominciare questo ultimo capitolo con una storia, che si ripete
sempre uguale decine di volte al giorno da quando esistono i telefonini. Una
ragazza e un ragazzo si incontrano in una discoteca, in un pub o in qualsiasi
altro luogo, parlano un po’, condividendo qualcosa delle loro vite: quando è
il momento di andarsene, il ragazzo, interessato alla ragazza, le chiede il
numero di telefono. La ragazza, forse non così interessata, glielo dà
comunque, forse per gentilezza, forse per incertezza. L’indomani, il ragazzo
le manda un sms il cui contenuto è meno importante della sua volontà di
“stabilire un contatto”: la ragazza, semplicemente, non risponde. Attraverso
il suo non fare assolutamente nulla, lei marca il suo rifiuto, marca il suo
“no”, e la sua mancata risposta fa sì che il ragazzo che ha inviato l’sms
pensi intensamente a lei, presentificando la sua assenza, e cioè marcando il
fatto che lei (per lui) non c’è.
Apriamo allora questo ultimo capitolo sull’enunciazione con questo
racconto perché la nostra tesi, che si tratterà di dimostrare, è molto chiara:
l’enunciazione è una specie del genere “interpretazione”, e più in
particolare quel tipo di interpretazione che ha a che vedere con la
presentificazione di un’assenza. Questa nostra distinzione, come sempre in
questo libro e conformemente ai principi della semiotica interpretativa, non
intende affatto proporre un’opposizione tra semiotica strutturale e
generativa (in cui si è elaborata una teoria dell’enunciazione) e semiotica
interpretativa (in cui si è elaborata una teoria dell’interpretazione), col fine
di porre poi l’una in funzione dell’altra. Al contrario, il nostro obiettivo è
esattamente quello di oltrepassare questa opposizione costruendo una teoria
dell’enunciazione unificata, che sappia tenere insieme in un’unica
elaborazione i differenti territori che il termineombrello “enunciazione” si è
di volta in volta ritrovato a coprire, e cioè: i) il rapporto tra l’enunciato e la
sua istanza presupposta che vi lascia tracce o marche, in quella che si è
potuta chiamare la teoria semiotica “dell’apparato formale
dell’enunciazione”; ii) l’atto di mediazione che opera una conversione della
lingua in discorso (Benveniste), del semionarrativo in discorsivo (Greimas);
del codice/enciclopedia in funzione segnica (Eco); iii) la coniugazione di
questa stessa conversione con l’esercizio in atto della lingua (o, più in
generale, del “sistema semiotico”), che la reimmette all’interno della vita
sociale, della cultura e della storia con i loro repertori sedimentati dall’uso
(prassi enunciativa).
Anche in questo caso, la mossa è conforme alla mossa epistemologica
proposta nel capitolo 1: i) dividere i misti mal formati che tengono insieme
cose molto eterogenee sotto concetti-ombrello qual è quello di
“enunciazione”, al fine di “fare la differenza” (analisi); ii) tenere insieme gli
elementi individuati attraverso i tagli al punto i) in una teoria unificata, che
sappia rendere conto in modo non sincretico dei problemi semiotici che
sono costitutivi delle nozioni individuate.
Al fine di fare questo, una sintesi tra le prospettive di Peirce e dello
strutturalismo ci pare ancora una volta indispensabile, come messo in
evidenza da Bruno Latour (1999, pp. 64-65), che definiva l’enunciazione
come “l’insieme degli atti di mediazione” che definiscono “la presenza
degli assenti”. Per Latour cioè, l’enunciazione consiste nell’atto di invio di
un nunzio, di un messaggero – l’enunciato – a cui si delega la parola, e che
parla quindi al posto dell’istanza dell’enunciazione che lo ha inviato (ex-
nuncius). Per questo, per Latour (1999, p. 65) l’enunciazione finisce per
definire esattamente “l’insieme degli elementi assenti, la cui presenza è
nondimeno presupposta dal discorso […] al fine di dare senso
all’enunciato”, e cioè al discorso del nunzio inviato.
La formulazione di Latour, a cui ci ispireremo inizialmente, pone quindi
al centro della teoria dell’enunciazione da un lato le nozioni propriamente
interpretative di mediazione e di delega,1 e dall’altro il rapporto tra presenza
e assenza. Essa si pone come obiettivo quello di “abbandonare le soluzioni
tradizionali di Benveniste e Greimas”, senza con questo “tradire il progetto
di Greimas”. In questo modo, la teoria latouriana si pone senz’altro al di là
dell’opposizione standard tra semiotica generativa e semiotica
interpretativa, ma non si pone di certo al di là dell’opposizione più
fondamentale tra “semiotica standard” e “semiotica non-standard”, dal
momento che non è certamente nei termini di Latour che si è pensato
all’enunciazione nella teoria semiotica “maggiore”.
Tuttavia, dal momento che l’obiettivo di Latour (1999, p. 65) è quello di
“abbandonare la semiotica” a favore di una “piccola filosofia
dell’enunciazione”, occorrerà senz’altro affiancare alla sua strada “minore”
la nostra, che vogliamo invece costitutivamente semiotica.

5.1. La teoria “maggiore” dell’enunciazione semiotica: un ultimo


residuo “referenziale”? Gli embrayeurs e la distinzione persona/non
persona in Benveniste

Si è spesso insistito sull’origine differenziale, strutturale e immanente


delle categorie della semiotica, e di quelle della semiotica generativa in
particolare. Tuttavia, la teoria dell’enunciazione “maggiore”, e cioè quella
che ha la sua origine in Benveniste e la sua sistemazione principale in
Greimas, ci pare faccia radicalmente eccezione, essendo tutta fondata non
sull’immanenza delle forme linguistiche, bensì sulla trascendenza “eretica”
di certe categorie particolari, che sembravano spiegabili solamente a patto
di uscire dalla lingua e considerare la situazione concreta di discorso, cioè
quella situazione in cui il linguaggio è messo in atto da parlanti concreti
(attori). Jakobson chiamava shifters (commutatori), o embrayeurs (da cui
débrayage/embrayage), queste categorie specialissime il cui significato
sembrava poter essere determinato soltanto facendo riferimento alla
concreta situazione di comunicazione tra un emittente e un ricevente. Ci
pare allora davvero strana questa sospensione dei principi costitutivi dello
strutturalismo (cfr. supra, 2.5) che viene operata nel cuore stesso del
sistema della semiotica, nel suo posto più in bella vista. Del resto, non è un
caso che la teoria dell’enunciazione abbia potuto essere giustamente
interpretata come una “breccia nello strutturalismo”,2 e che si sia potuto a
un certo punto parlare di “svolta enunciativa” della semiotica strutturale.
Questo “tarlo” nell’epistemologia stessa della disciplina, che ha portato a
fondare la teoria dell’enunciazione sugli embrayeurs, rappresenta per noi
una sorta di buco nero attorno al quale la maggior parte delle riflessioni
sull’enunciazione hanno preso forma, e non ci pare per nulla né
indispensabile né tanto meno auspicabile. Per questo, proveremo a costruire
una teoria dell’enunciazione non fondata sugli embrayeurs, e cioè non
fondata su di una “personologia” semiolinguistica, dal momento che non ci
convince affatto la mossa di fondare l’“io-tu” che definisce la “persona”
opposta alla “non-persona” (“egli”), sugli ’“io e te” attoriali che parlano in
presenza nella situazione dialogica di discorso in atto.3 Le “forme
linguistiche”, così stranamente trascurate da Benveniste a favore di un loro
ancoraggio alla situazione di discorso, ci restituiranno un’altra forma di
relazione costitutiva dell’opposizione tra la “persona” e la “non-persona”,
conformemente all’epistemologia differenziale della semiotica, a cui non ci
sentiamo affatto di rinunciare nemmeno a livello di teoria
dell’enunciazione.
È infatti noto come l’opposizione benvenistiana tra la “persona” (iotu) e
la “non-persona” (egli), si basi su “alcune categorie (come i pronomi
personali, i deittici, gli indicatori della temporalità) il cui statuto linguistico
non può essere spiegato se non viene fatto riferimento alla situazione di
enunciazione, cioè a quella situazione a cui il parlante, attraverso un atto
individuale, si appropria della lingua, mettendola in funzionamento e al
contempo enunciandosi come soggetto” (Manetti, 1998, p. 11, cfr. p. 18).
Per Benveniste infatti, queste categorie hanno certamente una forma
linguistica, ma non hanno nella lingua il loro statuto pieno, tanto che, a
differenza di altri segni, esse “esistono soltanto nelle situazioni concrete di
enunciazione” (Manetti, 1998, p. 18).4
Al fine di renderne conto allora, Benveniste non si rivolge affatto alla
loro posizione nel linguaggio, ma assume a modello la concreta situazione
allocutiva a partire dalla quale l’“io-tu” (persona) differisce dall’“egli”
(non-persona), in quanto: i) “non ha una referenza oggettiva e costante, ma
ne assume una ogni volta differente in ciascuna delle situazioni di discorso
in cui un individuo si designa come io”5 (non così l’“egli”); ii) definisce un
insieme di riferimenti ogni volta unici e invertibili in un’altra situazione di
discorso6 (non così l’”egli”); iii) innesca un sistema di riferimenti interni al
linguaggio e alla situazione di discorso (là dove la terza persona invece “è il
solo genere di enunciazione possibile per le situazioni di discorso che non
devono rimandare a se stesse”).7
Davvero strana questa classificazione tutta basata sul comportamento
della referenza per un linguista che si è voluto saussuriano. E davvero
strano come Benveniste non esiti a ritrovare questa stessa ripartizione,
basata esclusivamente sul comportamento del riferimento in situazioni
allocutive concrete, anche all’interno delle forme linguistiche, non senza
forzature evidenti che gli attireranno le critiche dei linguisti e, nel nostro
piccolo, anche le nostre (cfr. infra, 5. 2-5. 3):
Per i grammatici arabi, la prima persona è “colui che parla”; la seconda “colui al quale si
rivolge”; ma la terza è “colui che è assente”. Queste denominazioni implicano un’esatta nozione
dei rapporti tra le persone, esatta soprattutto in quanto rivela la disparità tra la terza persona e le
prime due. Al contrario di quanto la nostra terminologia porterebbe a credere, esse non sono
omogenee. […] “Io” designa chi parla e implica nello stesso tempo un enunciato sul conto di
“io”: dicendo “io” non posso non parlare di me. Nella seconda persona, “tu” è necessariamente
designato da “io” e non può essere pensato al di fuori di una situazione posta a partire da “io”.
[…] Per la terza persona è sì enunciato un predicato, ma soltanto al di fuori dell’“io-tu”; questa
forma è così tenuta fuori dalla relazione con la quale si specificano “io” e “tu”. Di conseguenza,
viene posta in dubbio la legittimità di questa forma in quanto “persona”. […] Infatti, essa serve
sempre quando la persona non è designata e specialmente nell’espressione chiamata impersonale.
[…] La “terza persona” non è una “persona”; è anzi la forma verbale che ha la funzione di
esprimere la non-persona. È proprio l’”assente” di cui parlavano i grammatici arabi. (Benveniste,
1966, pp. 272-274)

Si vede molto bene come Benveniste pensi ai rapporti tra l’“io-tu” e


l’“egli” sulla base di un’opposizione privativa di tipo esclusivo (presenza
VS assenza della persona), e, allo stesso tempo, si vede molto bene come
questa opposizione privativa sia fondata esclusivamente su di un modello
allocutivo “in presenza”. Benveniste parte cioè dalla situazione dialogica in
presenza che definisce la ripartizione dell’io-tu e dell’egli, e da lì –
complice il fatto che nella maggior parte delle lingue l’impersonale è
espresso dalla forma della terza persona – omogeneizza terza persona e
impersonale sotto la forma della “non-persona” (assenza della persona). Ci
proponiamo allora, conformemente all’epistemologia semiotica, di tentare il
procedimento esattamente opposto, e cioè i) partire dalle forme linguistiche;
ii) determinare la forma di relazione costitutiva del rapporto tra persona e
non-persona; iii) arrivare sulla base di questa forma di relazione strutturale
alla situazione concreta di discorso “in presenza” (cfr. infra, 5. 2-5. 3), al
fine di non confondere il treno Ginevra-Parigi con i suoi vagoni e il suo
personale.
Perché se Benveniste si rivolgesse alle forme linguistiche, e non alla
situazione dialogica del discorso in atto, si renderebbe conto di come
l’opposizione tra “io-tu” e “egli” sia invece un’opposizione partecipativa
sul tipo di:
A VS A+non-A (presenza della persona VS presenza della persona + assenza della persona).

E non un’opposizione privativa sul tipo di:

A VS non-A (presenza VS assenza della persona)

com’è invece quella che lui pone.


In tutte le lingue infatti, “egli” definisce sia la forma della terza persona
che quella dell’impersonale. Per questo, se ci rivolgiamo alle forme
linguistiche come non fa Benveniste, l’opposizione fondativa della
linguistica dell’enunciazione non è affatto un’opposizione privativa che
oppone la “persona” (io-tu) alla “non-persona” (egli), bensì un’opposizione
partecipativa che oppone la “persona” (io-tu) alla “persona+la non-
persona” (egli). Perché è senz’altro bene non omogeneizzare le tre persone
linguistiche tra loro, come fa Benveniste con grande insistenza al fine di
differenziare l’io-tu dall’egli, ma è altrettanto bene non omogeneizzare
neppure in senso opposto, come invece fa Benveniste relegando l’“egli” dal
lato esclusivo della “non-persona”. Nelle lingue l’“egli” funziona infatti
alternativamente sia come una persona che come una non-persona
(l’impersonale), per questo la sua opposizione a “io-tu” ha una forma
partecipativa del tipo “A VS A+non-A”, e non una forma privativa e
dicotomica del tipo “A VS non-A”. Mostreremo con dovizia di particolari
in seguito questo nostro punto.
Al momento, occorre però fare subito una doppia constatazione:
l’opposizione tra la persona e la non-persona e tutta la teoria
dell’enunciazione fondata sugli embrayeurs che ne segue, si definisce: i) in
funzione delle situazioni concrete di enunciazione che trascendono le forme
linguistiche, che per Benveniste appartengono infatti alla dimensione del
discorso e non a quella della lingua; ii) in riferimento a una situazione di
discorso orale formulato in presenza (io-qui-ora) da parte di “individui”,
tanto che già ne “Le relazioni di tempo nel verbo francese”, Benveniste
(1966, p. 287) definiva il discorso proprio come “ogni enunciazione che
presuppone un parlante e un ascoltatore, e l’intenzione nel primo, di
influenzare in qualche modo il secondo”.8
È allora soltanto perché Benveniste pensa a una situazione che trascende
le forme linguistiche (discorso) che l’opposizione tra la persona (io-tu) e la
non-persona (egli) assume una forma privativa.
Queste mosse hanno allora un triplice effetto sulla teoria semiotica
dell’enunciazione che ne è seguita e che si è fondata proprio su questi studi
di Benveniste. Esse infatti: i) costruiscono la differenza tra l’enunciazione e
l’enunciato sulla base della differenza tra la categoria della persona (io-tu) e
quella della non-persona (egli). In Greimas infatti il débrayage è
enunciazionale quando installa nel testo l’“io-tu” (persona), mentre è
enunciativo quando installa nel testo l’“egli” (non-persona);9 ii)
identificano in modo esclusivo l’istanza dell’enunciazione con le categorie
della “persona” e della “presenza” (io-qui-ora); iii) localizzano la
soggettività linguistica in un tipo molto particolare di categorie semiotiche,
e cioè quelle che rinviano a un ancoraggio extra-linguistico e che non sono
interamente interpretabili all’interno del sistema della lingua.
L’enunciazione appare così funzione diretta degli embrayeurs.
Questa, da Benveniste fino alle più recenti radicalizzazioni di Fondtanille
(2004), è la grande teoria “maggiore” dell’enunciazione semiolinguistica.
Tuttavia, un’altra tradizione non ha mai smesso di scorrere parallela, e a suo
modo laterale, accanto a questa tradizione maggiore, facendo riecheggiare
di volta in volta le ragioni di “un’enunciazione impersonale” (Metz, 1991,
Foucault, 1969), in cui: i) il rapporto tra l’enunciazione e l’enunciato viene
fondato su di una logica delle relazioni di tipo evenemenziale (cfr. supra,
1.5); ii) le posizioni dell’istanza dell’enunciazione sono funzione degli
eventi che le distribuiscono fuori e dentro l’enunciato (Maturana e Varela,
1984); iii) la soggettività semiotica non è mai localizzata in categorie
particolari quali gli embrayeurs, ma è invece sempre diffusa dappertutto, ad
esempio negli avverbi10 o sui mille piani enciclopedici di cui è funzione
derivata (Eco, 1975, 1984).
Nell’illustrare questa “soggettività diffusa e pervasiva”, che non ha
luoghi in cui “possa essere identificata in modo univoco né categorie
linguistiche privilegiate a esprimerla”, Patrizia Violi (2007) commentava:
A ben vedere questa è un’affermazione piuttosto rivoluzionaria. Tutta la teoria dell’enunciazione
di stampo linguistico, da Benveniste in avanti, ci ha abituato a pensare la soggettività linguistica
come centrata su e ancorata ad alcune categorie particolari: il sistema dei pronomi, che articola le
categorie di persona e non persona, quello del tempo verbale, le espressioni deittiche di tempo e
di luogo. Credo che questa visione molto restrittiva della soggettività nel linguaggio dipendesse in
ultima istanza da una soggiacente e implicita teoria del rapporto fra lingua e contesto, individuato
in modo diretto e aproblematico con il contesto extralinguistico e visto come lo sfondo necessario
per la disambiguazione delle espressioni non interamente interpretabili all’interno del solo
sistema linguistico. Sono così solo le categorie esplicitamente indessicali a veicolare la
soggettività nel linguaggio, in quanto rinvianti a un “ancoraggio” extra-linguistico, mentre le
categorie che appaiono come interamente interpretabili all’interno del sistema della lingua (nome,
verbo, ma anche aggettivo e avverbio) si presentano come oggettivate. La soggettività appare, in
questo quadro, funzione diretta dell’indessicalità.

Come prendere allora la linea di fuga da questa teoria maggiore? Come


far risuonare gli echi di una teoria “minore”, e cioè di una teoria deviante
rispetto a questo modello, che non ha mai smesso di affiancarlo e di
scavarlo dall’interno?

5.2. Opposizione privativa o opposizione partecipativa? Enunciazione


personale o enunciazione impersonale? Casella vuota o Occupante
senza posto? A partire da un piccola frase di Blanchot11

Al fine di fare questo, vorrei partire da una frase di Maurice Blanchot,


che può rappresentare per noi lo spunto per un pensiero “altro”
dell’enunciazione, “minore” rispetto alla teoria standard e alla sua
distinzione tra persona e non-persona.
Non mi basta dunque scrivere “io sono infelice” finché non scrivo altro. Finché mi limito a
scrivere solamente “io sono infelice” sono troppo vicino a me stesso, troppo vicino alla mia
infelicità perché questa infelicità diventi davvero mia, e non sono ancora davvero infelice. È
soltanto nel momento in cui arrivo a questa strana sostituzione, “egli è infelice” (il est
malheureux) che questa infelicità diventa mia sul modo del linguaggio, che il linguaggio inizia a
costituirsi in linguaggio infelice per me, a schizzare e proiettare lentamente il mondo
dell’infelicità come esso si realizza in sé. Allora forse mi sentirò in causa, e il mio dolore si
manifesterà per questo mondo da cui è assente.

Va innanzi tutto sottolineato il modo in cui per Blanchot il dolore si


manifesterà “sul modo del linguaggio”: esso si manifesterà “in quanto
assente”, si farà presente in quanto assente. Capiremo come e perché più
avanti. Tuttavia, questo sarà possibile esclusivamente in seguito a una
misteriosa sostituzione dell’“io” con l’“egli”, che si tratterà di analizzare fin
da subito, al fine di portarne alla luce il portato semiotico. Secondo
Blanchot infatti, finché dico soltanto “io sono infelice” resto troppo vicino a
me stesso perché la mia infelicità possa essere davvero mia: è come una
mano davanti agli occhi, che è la cosa più vicina in assoluto, ma non la si
vede, e anzi, impedisce di vedere. Così è per un’infelicità fondata sull’io,
qui e ora, sulla “mia felicità”. Per Blanchot, e per noi con lui, è allora
solamente quando dico “egli è infelice” che questa infelicità diventa
veramente mia. È allora evidente che se per la semiotica l’identità di un
elemento consiste nella rete di relazioni in cui è preso, non abbiamo nessun
problema a capire che l’infelicità diventa mia solo ed esclusivamente nel
momento in cui è presa in un rapporto che la trascende. L’infelicità è cioè
mia solo ed esclusivamente quando è posta in funzione di un’alterità che
definisce la sua stessa identità, esattamente come l’individualità è tale
quando è presa in un rapporto che la definisce nelle sue stesse forme più
profonde e soggettive. Questo consentirà di porre fin da subito un problema
su cui ritorneremo in seguito (cfr. infra, 5.6), e cioè quello della singolarità
individuale.
Se non che, la frase di Blanchot consente di fare un ulteriore passo
avanti, assolutamente decisivo, proprio in direzione di quanto affermato in
precedenza sull’opposizione tra la persona e la non-persona all’interno della
teoria dell’enunciazione, passo avanti che non è comprensibile se non si
capisce la differenza esistente tra il francese e l’italiano. Che cosa vuol dire
infatti “il est malhereux” (egli è infelice)? Qual è il senso profondo di
questa misteriosa sostituzione blanchotiana?
Come detto, alla terza persona il francese, come l’italiano e molte altre
lingue, ha sia la forma della terza persona che quella dell’impersonale, ma il
francese, come ad esempio l’inglese, la esprime anteponendo il pronome
personale “il” alla frase impersonale, in una “personalità
dell’impersonalità” propriamente partecipativa: “il pleut”, “it rains”, “it
happens” (“piove”, “capita”). Ecco allora che Blanchot gioca proprio
sull’indecidibilità che questa “personalità dell’impersonalità” propriamente
partecipativa assume in certe circostanze: “il est malheurex”, e cioè “egli è
infelice”, ma anche “SI è infelici”.
Da qui il senso profondo della sostituzione di Blanchot, per noi
assolutamente decisiva per la teoria dell’enunciazione in semiotica:
Blanchot parte dalla struttura della persona io-tu (je suis malheureux) alla
quale oppone un egli pronome personale di cui l’io-tu sono funzione
(l’infelicità è mia solo ed esclusivamente quando si distacca da un “io”
verso un “egli” attraverso cui il linguaggio inizia a costituirsi in linguaggio
infelice per me), ma questo “egli” non è la forma della terza persona, bensì
la forma più profonda dell’impersonale: “il est malhereux”, “SI è infelici”.
C’è un avvenimento dell’infelicità che arriva secondo le modalità
dell’”il” impersonale, e che distribuisce delle posizioni di soggetto in cui il
mio posto, la mia infelicità, è data in funzione del posto di quella che non
mi riguarda, di quell’infelicità che non mi implica. Come abbiamo visto, è
esattamente questa la struttura della Logica dei Relativi di Peirce, in cui un
evento distribuisce dei posti secondo la modalità dell’impersonale: “_
rains”, “_ happens”, “_ runs”, “_ loves _ “_ gives _ to _”: il piovere,
l’accadere, il correre, l’amare, il donare; eventi variabili che definiscono
delle posizioni di soggetto.
Ecco allora che per Blanchot l’evento è primo rispetto ai soggetti molto
variabili che lo vengono a effettuare, occupando le posizioni attanziali
aperte dall’avvenimento. Secondo una bella formula di Busquet: “La mia
ferita esisteva prima di me: io mi limito a incarnarla”. E quando la ferita
arriva, essa definisce un evento di cui io sono parte e che mi assegna un
posto, un ruolo e degli atteggiamenti (cfr. supra, 1.6). Come diceva
Blanchot, la sofferenza arriva secondo le modalità di un evento, ed è la mia
sofferenza solamente quando arriva secondo le modalità di un evento
impersonale, di un “il” impersonale. “Piove”. Ed è solamente quando piove
che può piovere anche per me. “Si è infelici”. Ed è solamente quando si è
infelici che l’infelicità può essere anche la mia infelicità.
Ecco allora che Blanchot, conformemente a una tradizione che va dagli
stoici fino a Tesnière, individua una tensione interna al linguaggio che ci fa
passare dal pronome personale “io-tu” alla terza persona “egli”, dove l’egli
supera l’io-tu e lo rende possibile. E poi una tensione che ci fa passare
dall’egli pronome di terza persona a un altro egli molto più profondo e
misterioso, perché questo “egli” non designa più nessuna persona detta
terza. È una tensione verso la periferia: non si organizza più il linguaggio in
funzione dei centri di enunciazione (io-qui-ora), ma si trascina tutto il
linguaggio, tutta la semiotica, verso la periferia propria di un impersonale
diffuso e disseminato (cfr. Eco, 1984, Foucault, 1969).
Tutto l’opposto accade invece per Benveniste, da cui trae ispirazione la
teoria dell’enunciazione di Greimas. L’impresa di Benveniste è infatti
quella di centrare il linguaggio su alcuni suoi elementi particolari, gli
embrayeurs (pronomi personali, deittici, indicatori della temporalità) e,
all’interno degli embrayeurs, su quelli che esprimono la persona, e cioè
sulla coppia “io-tu”, di cui ad esempio i deittici e gli indicatori della
temporalità sono funzione (cfr. Benveniste, 1966, pp. 303-304 e Manetti,
2008, cap. 1). Più in particolare, per Benveniste si tratta innanzi tutto di
estrarre dai pronomi personali in generale una forma espressa in tutte le
lingue che è irriducibile a qualunque altra formula (“io-tu”). Da questa
forma irriducibile chiamata “persona” deriverebbero l’io e il tu che noi
impieghiamo quotidianamente, e solo in seguito l’egli come forma della
“non-persona”.
La terza persona è la forma del paradigma verbale o pronominale che non rimanda a una persona,
poiché si riferisce a un oggetto posto fuori dall’allocuzione. Ma essa esiste e si caratterizza solo in
opposizione alla persona io del parlante che, enunciandola, la situa come “non-persona”. È questo
il suo status. La forma egli… trae il suo valore dal fatto di fare necessariamente parte di un
discorso enunciato da “io”. (Benveniste, 1966, pp. 318-319, cfr. anche pp. 272-276)12

A partire da questa distinzione “persona VS non-persona”, Benveniste


attribuisce poi a certe forme di io (je) una forma irriducibile a quella di
qualsiasi altra, e cioè irriducibile sia all’“egli”, sia agli altri usi correnti che
noi facciamo di “io” e “tu”, che derivano tutti da questo “io” speciale più
profondo di qualsiasi “io” empirico. Lo schema è molto diverso da quello di
Blanchot, specularmente opposto: si tratta di una tensione che ci fa passare
dagli embrayeurs in generale all’opposizione “persona (io-tu) VS non-
persona (egli)”; e in seguito ad una forma di “io” più profonda di qualsiasi
“io”, da cui deriverebbero sia il “tu” che l’“egli”, oltre che certe forme di
“io” stesse.
Qual è allora questo “io” più profondo di qualsiasi “io”, così come di
qualsiasi “tu” e di qualsiasi “egli”?
Benveniste (1966, p. 316) distingue un uso normale dell’io che non è
differente da quello dell’egli. I suoi esempi sono “io mangio, tu mangi, egli
mangia”, o “io soffro, tu soffri, egli soffre”: in tutti questi casi l’uso di “io”
non è minimamente diverso da quello di “egli”, e Benveniste si rende
perfettamente conto di come all’interno delle forme linguistiche ci siano
momenti in cui l’opposizione “io-tu VS egli” non ha alcun tipo di ragione
di esistere, dal momento che la non-persona (egli) funziona esattamente
come la persona (io-tu). Tuttavia, come detto, il fondamento
dell’opposizione benvenistiana non risiede nelle forme linguistiche e nel
funzionamento della lingua, bensì nel riferimento alla situazione di discorso
che le trascende, in cui il soggetto “si appropria dell’intera lingua
designandosi come io” (Benveniste, 1966, p. 314). Proprio per questo, e
non senza attirarsi le giuste critiche dei linguisti, Benveniste sorvola
velocemente sui casi in cui all’interno del linguaggio l’opposizione tra “io”
ed “egli” è neutralizzata e infondata, per concentrarsi solo su quelli in cui
“io” funziona diversamente da “egli”. È infatti assolutamente evidente
come, avendo fondato l’opposizione tra persona e non-persona su basi
trascendenti le forme linguistiche, Benveniste cerchi di ritrovarla anche
all’interno delle forme linguistiche, trascurando o giudicando come poco
importanti i casi in cui l’opposizione stessa è neutralizzata, e “io” funziona
esattamente come “egli” (io/egli mangio/a; io/egli faccio/fa una passeggiata
ecc.).
Ecco infatti che Benveniste riesce a individuare nel linguaggio un uso
speciale dell’io irriducibile a quello di qualsiasi “non-persona” (egli), uso
che gli consente di riaffermare la sua teoria dicotomica della persona e della
non-persona. L’esempio che fa Benveniste (1966, p. 319) è quello di je jure
o di je promets (“lo giuro”, “lo prometto”): certo, il giuramento e la
promessa possono essere falsi, nel senso che potrò sempre non mantenerli,
ma nel momento in cui dico “io prometto” di fatto sto promettendo, mentre
se dico “io cammino” non necessariamente sto camminando. Questo
funzionamento di “io prometto” non è allora affatto lo stesso con la terza
persona “egli”: se infatti dico “egli promette”, non faccio di fatto
promettere nulla all’egli a cui mi sto rivolgendo.
“Giurare” consiste appunto nell’enunciazione je jure, dalla quale l’Ego è vincolato.
L’enunciazione je jure è l’atto stesso che mi impegna, non la descrizione dell’atto che compio.
Quando dico je promets, je garantis, prometto e garantisco effettivamente. […] L’enunciazione si
identifica con l’atto stesso. Ma questa condizione non è data nel senso del verbo, è la
“soggettività” del discorso che la rende possibile. Si vedrà la differenza sostituendo je jure, “io
giuro”, con il jure, “egli giura”. Mentre je jure è un impegno, il jure non è che una descrizione,
sullo stesso piano di il court, il fume, “egli corre, egli fuma”. (Benveniste, 1966, p. 319)

Insomma, con la forma più profonda dell’io, Benveniste intende dire che
ci sono usi nei quali io faccio qualcosa dicendo io, ad esempio “promettere”
e “giurare”. Da qui il famoso libro di Austin Come fare cose con le parole,
che Benveniste stesso commenta analiticamente13 e in cui, riproponendo
esattamente gli stessi esempi di Benveniste (“io prometto” ecc.), Austin
(1975) parla di speech-act,14 intendendo con questo un atto che non rinvia a
nulla di esterno che all’atto di linguaggio in cui una cosa è fatto mentre
viene detta.
Com’è evidente, si tratta dello stesso aspetto sottolineato dalla
suireferenzialità benvenistiana, in cui si insisteva sul fatto che l’io, il qui e
l’ora si definissero solo in rapporto alla situazione di discorso in cui sono
prodotti, e a nulla di esterno a essa, come ad esempio fanno invece nomi
come “albero” (cfr. Benveniste, 1966, pp. 314-316).
Una ulteriore dicotomia che serve a distinguere i pronomi personali dalla stragrande maggioranza
degli altri segni (tutti, a eccezione di quelli aventi funzione deittica) è l’opposizione
interno/esterno. I pronomi innescano un sistema di riferimenti interni al linguaggio; al contrario,
nel caso dei termini nominali, il riferimento che viene innescato è esterno e, quel che conta di più,
costante: la parola “albero” rimanda a qualcosa di esterno e tale riferimento è appunto lo stesso
nelle diverse situazioni di discorso. (Manetti, 1998, p. 12-13)

Se non che, quest’analisi benvenistiana di “io prometto”, con tutta la sua


insistenza su di una forma di “io” irriducibile a quella di altri “io”, non può
non stonare alle orecchie di un semiotico interpretativo, che pone il
soggetto in immanenza rispetto ai piani enciclopedici in cui si installa (cfr.
infra, 5.8) e pensa alla situazione di discorso, su cui insiste tanto
Benveniste, come a un semplice piano enciclopedico tra gli altri (esterno
alla lingua, ma di sicuro non all’enciclopedia). Perché infatti non è neppure
vero che quando dico “io prometto” io faccia qualcosa dicendolo, dal
momento che mentre scrivo questo libro o mentre faccio lezione ai miei
studenti, io dico in continuazione “io prometto” senza di fatto promettere
nulla, ma semplicemente facendo un esempio delle teoria di Austin e
Benveniste. Analizzare l’enunciato “io prometto” secondo la teoria
foucaultiana dell’Archeologia del sapere, porterebbe ad esempio a vedere
come le formazioni discorsive siano nei due casi profondamente differenti,
sebbene la frase rimanga identica nella sua materialità espressiva. Come
vedevamo nel capitolo 4, è cioè il piano ritagliato – la sezione enciclopedica
parziale – l’elemento attorno al quale si organizzano il linguaggio e il
significato. È cioè attorno al piano enciclopedico locale che la semiosi, la
lingua e il significato si determinano. “Io giuro” funziona esattamente come
QWERTY: definisce uno speech act se enunciato in un’aula di tribunale,
definisce l’esempio di una linguistica dell’enunciazione se enunciato in un
manuale di semiotica; definisce invece l’obiettivo polemico di una teoria
unificata dell’enunciazione se enunciato in un libro di semiotica “minore”.
È cioè in funzione del piano enciclopedico ritagliato che l’espressione “io
prometto” assume un qualsiasi senso, che dipende costitutivamente dal suo
ritaglio nell’analisi, e cioè dalla formazione discorsiva in cui nasce
enciclopedicamente. La “situazione di discorso”, su cui tanto insiste
Benveniste, non è allora altro che un piano enciclopedico tra gli altri, in cui
“io prometto” assume un senso locale che è diverso da quello che assume
all’interno di altri piani. Per questo non ha alcun tipo di primato su altri
piani enciclopedici possibili.
E non solo. Perchè, e ritorniamo con questo al nostro discorso
sull’enunciazione, va notato come in tutti questi casi sul tipo di “io
prometto” e “io giuro”, il “tu” funzioni esattamente come l’“egli” e non
come l’“io” (con “tu giuri” non faccio giurare assolutamente nulla a un
ipotetico “tu”). Questo mostra come, a livello delle forme linguistiche,
l’opposizione tra la persona e la non-persona sia molto più sfumata di quel
che vuole Benveniste, che la può pensare come un’opposizione dicotomica
di tipo privativo considerando esclusivamente il riferimento alla situazione
di discorso che trascende le forme linguistiche. Se invece consideriamo
l’uso dei pronomi nel linguaggio, vediamo molto evidentemente come ci
siano sempre dei casi in cui l’io funziona come il tu opposto all’egli
(persona VS non-persona), ma ci siano anche sempre dei casi in cui l’io
funziona esattamente come il tu e come l’egli (“mangiare”, “soffrire” ecc.),
esattamente come ci sono dei casi in cui l’io funziona diversamente dal tu,
che funziona invece come l’egli (“promettere”, “giurare” ecc.). Per questo
la teoria benvenistiana è ideologica nel senso definito da Eco (1975, p.
363), e cioè è una teoria che seleziona volutamente solamente alcuni dei
significati che è possibile attribuire a un determinato elemento, lasciando
sullo sfondo altri significati ugualmente predicabili, che non sono però
funzionali all’obiettivo che si vuole raggiungere. Da qui la nostra critica
semiotica della sua ideologia, che ci pare aprire un’altra strada possibile per
la teoria dell’enunciazione, che è per noi quella tracciata da Blanchot.
Infatti, là dove Benveniste continua a centrare l’enunciazione attorno ai
pronomi personali, e attraverso questi attorno all’io linguistico, che
rappresenta un centro antropomorfico fortissimo (la “persona” come
centro), Blanchot insinua invece una tensione opposta, che spinge
l’enunciazione verso una linea di fuga in cui si esce dalla persona verso un
“egli” impersonale più profondo di qualsiasi “io”. Ma che cos’è allora
questo “egli” impersonale su cui fondare l’enunciazione? E che cosa
succede quando si centra invece l’enunciazione sugli embrayeurs, sugli “io-
qui-ora”? Che cosa succede cioè quando si centrano le forme linguistiche
sull’io in quanto istanza dell’enunciazione? Che cos’è che disturba nel
funzionamento di “io”, così come in quello di “qui” e in quello di “ora”?

5.3. Verso una teoria “minore”: che cosa succede quando si fonda
l’enunciazione sugli embrayeurs (io-qui-ora)? Ribaltamenti
Benveniste (1966) nota come “io” non abbia un designato costante che
sia esterno alla situazione di discorso, neppure in un mondo possibile (come
ad esempio “unicorno”) o in un’idea platonica (come ad esempio
“giustizia”). Si dirà forse che il designato di “io” sono io, ma che cos’è
allora “io”? Io sono io, tu, lei, lei, lui ecc.: “io” dipende dalle condizioni
iniziali di enunciazione, “io” designa semplicemente chi dice “io”. Proprio
per questo Benveniste può dire che l’io è sui-referenziale: si riferisce cioè a
se stesso, e non a uno stato di cose o a una persona che designerebbe
esternamente alla situazione di discorso. Non è infatti un caso che per
Benveniste sia la persona a nascere con l’io linguistico, così che l’io
linguistico non può certamente essere spiegato facendo riferimento alla
persona. In breve, là dove il designato di un segno linguistico possiede
un’esistenza indipendente dal segno linguistico, “io” invece non ce l’ha.
Succede forse qualcosa di diverso con “qui”? Come diceva Campanile in
Giovanotti, non esageriamo! citato da Eco (1998, p. 67):
“La stessa frase, detta in Inghilterra significa una cosa, detta in America ne significa un’altra.”
“Tu cerchi di trarmi in inganno.”
“Te lo giuro. La frase ‘Io sto qui’ detta in Inghilterra significa ‘Io sto in Inghilterra;’ detta in
America significa ‘io sto in America’.”
“È stranissimo.”

“Qui” vuol dire “Inghilterra” se è enunciato in Inghilterra, ma “America”


se enunciato in America. Come “io”, anche “qui” dipende cioè dalle
condizioni iniziali di enunciazione: si tratta di ciò che i matematici
chiamerebbero un “segno caotico”, e cioè un segno il cui funzionamento
dipende in maniera sensibile dalle condizioni iniziali del sistema, in questo
caso dalle condizioni di enunciazione. In questo modo “io” e “qui” non
sono concetti collettivi, ma sono invece concetti essenzialmente distributivi,
che rinviano cioè in maniera sensibile a chi dice “io” e “qui” (sistema
caotico): io dico “qui” e dico “io”; lei dice “qui” e dice “io”, ma io non sono
lei né sono nel posto in cui è lei. In questo modo, l’io non è definibile nel
modo classico della definizione, per genere e differenza specifica: non c’è
infatti alcuna essenza dell’io, l’io rimanda a chi localmente dice io.
Ma ecco allora che incominciamo a capire l’assoluta paradossalità
dell’impresa di chi vuole fondare l’enunciazione semiotica sull’io-quiora.
Iniziamo cioè a capire la paradossalità in cui cade, senza accorgersene, chi
pretende di centrare la lingua e la semiotica sugli embrayeurs. Credendo di
porre l’enunciazione nel posto più vicino e familiare, “ioqui-di”, sia che
esso sia di natura sensibile (così in Fontanille), linguistica (così in
Benveniste) o semiotica (così in Greimas), Benveniste, Greimas e
Fontanille la pongono di fatto, loro malgrado, sempre dappertutto,
disseminata in ogni luogo, perché io-qui e ora è di ogni momento dello
spazio, di ogni momento del tempo, di ogni persona. È cioè di ogni luogo
dello spazio che dico “qui”; è di ogni momento del tempo che dico “ora”, è
di ogni persona che dico “io”. Nel momento in cui credo di cogliere il più
soggettivo, il più sensibile, il più vicino e il più familiare, non colgo altro
che la rete di relazioni più generale e astratta che li cattura, ed è solamente
in funzione di questa rete di relazioni che qualsiasi io-qui-ora può essere
definito. Ma non è allora forse esattamente in questo modo che funzionano i
débrayage e gli embrayage? Non è forse esattamente e solamente in questo
modo che è possibile tracciare le coordinate per stabilire dei luoghi, degli
spazi e dei tempi dell’enunciazione?
Facciamo un esempio, tratto da un normalissimo testo giornalistico,15
senza alcun tipo di situazione enunciativa particolare o di difficile
disambiguazione (i numeri tra parentesi marcano i cambiamenti
enunciazionali che si tratterà di descrivere):

(1) Pensai che sarei morto ogni giorno durante quel viaggio. Il viaggio finì.
Io non morii e tornai a casa. Quando tornai a casa un fotografo del
National Geographic mi telefonò e disse:
(2) “Ho visto una delle foto che lei ha pubblicato. È un materiale
fantastico.”
(3) Io dissi: “Sono Neville Coleman,” e lui disse: “Ah sì.”
Io pensai: “Dunque le mie foto sono così buone! Forse posso fare ciò che
voglio fare attraverso le foto”.

Proviamo ad analizzare le strutture dell’enunciazione di questo passo. (1)


definisce il più classico dei débrayage enunciazionali, che installa nel testo
l’“io-tu” a partire dal distacco di spazi, tempi e persone dell’enunciazione.
(2) definisce un ulteriore débrayage enunciazionale interno al testo
(enunciazione enunciata), che installa un altro “io-tu” che definisce spazi,
tempi e persone dell’enunciazione che sono “altri” rispetto a (1). Lo statuto
di (3: “Io dissi”) è invece costitutivamente problematico: esso può infatti
essere al contempo un embrayage, se riferito a (1), e un ulteriore débrayage
enunciazionale se riferito a (2). E cioè, se rapportato a (1) esso definisce un
ritorno a quei tempi, spazi e persone dell’enunciazione; mentre se
rapportato a (2), esso definisce invece un nuovo distacco, e cioè un ulteriore
disinnesco di uno spazio “altro” che installa nel testo un “io-tu”.
La contraddizione non è scioglibile, ma anzi, è assolutamente naturale,
dal momento che definisce il normale funzionamento degli embrayeurs (è
di ogni punto dello spazio che dico “qui”, è di ogni momento del tempo che
dico “ora”, è di ogni persona che dico “io”), così che è soltanto in funzione
delle rete di relazioni considerata che può essere definito qualsiasi “io-qui-
ora”, e stabilita di conseguenza l’operazione di dé/embrayage. Detto più
precisamente, lo stesso identico sintagma in funzione di un determinato
rapporto definisce un débrayage enunciazionale, ma in funzione di un altro
rapporto definisce invece un embrayage. Del resto, questo non crea a noi
alcun tipo di problema, dal momento che definisce esattamente il
funzionamento di un reticolo enciclopedico di tipo rizomatico, come
l’avevamo definito in 1.4 e 1.6, in cui in funzione di un determinato
concatenamento una cosa assumeva un senso e si opponeva a qualcos’altro,
ma fuori da quel concatenamento, in funzione di un altro rapporto, quella
stessa cosa assumeva tutto un altro senso e poteva portare con sé in maniera
mediata anche l’elemento a cui si opponeva in precedenza (cfr. supra, 1.6).
Si noti allora la struttura totalmente partecipativa che è costitutiva delle
determinazioni degli embrayeurs dell’enunciazione, perfettamente
conforme alla struttura partecipativa che vedevamo essere costitutiva
dell’opposizione della persona alla non-persona, nel momento in cui
consideravamo le forme linguistiche.
Ci pare allora che interrogando gli embrayeurs all’interno delle forme
linguistiche, da un lato riportiamo a camminare sui piedi ciò che
camminava sulla testa (la teoria dell’enunciazione), e dall’altro ci rendiamo
conto che “io-qui-ora” sono luoghi vuoti solo dal punto di vista della teoria
del discorso di Benveniste, perché dal punto di vista linguistico essi sono
invece dei luoghi sempre troppo pieni, dei luoghi senza posto proprio e
costitutivamente traboccanti di qualsiasi posto gli si possa assegnare.
Greimas stesso dice molto bene: “Il luogo che si può chiamare l’“ego, hic
et nunc” è, prima della sua articolazione, semioticamente vuoto e
semanticamente (in quanto deposito di senso) troppo pieno” (Greimas e
Courtés, 1979: Enunciazione).
Per questo, è nel momento stesso in cui si pone l’enunciazione sotto
l’egida dell’io-qui-ora, che la si pone sempre dappertutto e in nessun luogo,
ora e in nessun tempo. E cioè la si pone dove? Dove essa è sempre stata e
dove essa deve stare per un’epistemologia semiotica, e cioè nella rete di
relazioni in cui è presa e che, sola, ne definisce l’identità. Per questo non ci
stupivamo affatto che il meccanismo del débrayage/embrayage funzionasse
nello stesso identico modo del rizoma enciclopedico, definendo la propria
identità in funzione del concatenamento in cui è preso, come avevamo visto
nell’esempio del testo giornalistico. Facendo attenzione a non confondere
“soggetto” e “istanza dell’enunciazione”, che sono due cose profondamente
diverse (cfr. infra, 5.4), possiamo allora introdurre una nuova importante
determinazione:
Siamo, come soggetti, ciò che la forma del mondo prodotta dai segni ci fa essere. […] Solo la
mappa della semiosi, come si definisce a un dato stadio della vicenda storica (con la bava e i
detriti della semiosi precedente che si trascina dietro), ci dice chi siamo e cosa (o come)
pensiamo. La scienza dei segni è la scienza di come si costituisce storicamente il soggetto. (Eco,
1984, p. 54)

Ecco allora qual è l’“egli” più profondo di qualsiasi “egli” che non rinvia
più ad alcuna persona detta terza, di cui ci parlava Blanchot: è la rete di
relazioni enciclopedica di cui il soggetto non è altro che una parte, “bava e
detriti della semiosi”, come dice Eco. È solamente in funzione di questa rete
di relazioni che è possibile determinare lo statuto delle categorie della
“persona”. Proprio per questo, lasciando da parte ancora per un momento la
questione del soggetto per concentrarsi esclusivamente sull’apparato
formale dell’enunciazione, non ci stupivamo affatto che il funzionamento di
frasi come “io giuro”, che per Benveniste definivano l’essenza stessa dell’io
linguistico, dipendesse invece totalmente dalla sezione enciclopedica che
veniva ritagliata localmente. L’“io” e il suo funzionamento sono sempre
funzione di un “egli” impersonale enciclopedico che lo rende possibile e ne
determina l’identità. È solo in funzione di una determinata sezione
enciclopedica che enunciando “io giuro” io faccio qualcosa con le parole. In
funzione di altre sezioni, non faccio invece assolutamente nulla.
In questo modo, ci pare fecondo pensare che l’enunciazione non si
organizzi attorno a un centro di tipo personale (io-tu), ma si appiattisca
invece in direzione di un bordo esterno alla “persona”, di cui la “persona”
non rappresenta altro che la bava e i detriti. L’enciclopedia è questo “terzo”,
questo “egli” che non appartiene più a nessuna persona, ma che è dato a
ciascuno come qualcosa di esclusivamente suo (cfr. supra, 4.9). In questo
modo, la tendenza benvenistiana a centrare l’enunciazione sugli embrayeurs
si trova completamente ribaltata:
L’enunciazione strutturale è proferita a partire da un luogo senza accredito, da un luogo qui-
altrove. […] Questo luogo mobile dell’enunciazione strutturale è il luogo stesso della mia
situazione all’interno di qualsiasi reticolo comunicante, dove, attraverso il flusso che ricevo ed
emetto, io sono indefinitamente qui e altrove; non sono un punto fissato qui e ora, abito una
molteplicità di spazi, vivo una molteplicità di tempi, sempre altri e sempre gli stessi. […] Questo
vuol dire che il luogo di chi pensa, sia che rifletta la teoria o cerchi di vedere il mondo, non è qui
e ora […] ma è, al contempo, mobile come Ulisse e immobile come i mille fili di Arianna.
(Serres, 1972, p. 150)

Del resto è esattamente quello che vedevamo a proposito del testo


giornalistico: in funzione di una determinata rete di relazioni, uno stesso
elemento è alternativamente un débrayage enunciazionale e un embrayage.
E lo è per essenza, in quanto è esattamente fissando l’enunciazione in un io-
qui-ora che la si dissemina sempre nel reticolo enciclopedico in cui è presa.
Definire l’identità attraverso una rete di relazioni, come viene fatto in
semiotica, significa l’impossibilità di ridurre l’enunciazione alle categorie
esclusive dell’io, qui e ora; o meglio, è esattamente riconducendo
l’enunciazione alle categorie dell’io, qui e ora che la si riporta nell’“ogni-
luogo” enciclopedico in cui è sempre disseminata, presa in uno spazio di cui
bisogna di volta in volta determinare localmente le relazioni, al fine di
definirne l’identità.
Abbiamo allora finalmente la possibilità di riunire le due anime del
rapporto tra enunciazione ed enciclopedia che abbiamo delineato in questo
volume: “l’egli” come evento impersonale irriducibile a qualsiasi forma di
persona e l’enunciazione come pratica di un soggetto interno
all’enciclopedia che “aggiunge sottrazioni” (cfr. supra, capitolo 2).
Avevamo infatti visto come con questo “egli”, Blanchot si riferisse a quelle
espressioni tipicamente francesi e inglesi, che noi non possediamo uguali in
italiano: “il pleut, it rains; il arrive; it happens” (piove, capita), e che questi
“egli” impersonali erano degli avvenimenti, degli eventi, e cioè delle
singolarità, dei punti in cui succede qualcosa. Era allora esattamente questo
il modo in cui pensavamo all’enciclopedia: insieme degli eventi semiotici,
insieme delle singolarità semiotiche della cultura (occorrenze
interpretative). Avevamo infatti visto (cfr. supra, capitoli 1 e 4) come Eco
definisse l’enciclopedia come l’insieme registrato di tutte le interpretazioni,
la libreria delle librerie degli avvenimenti semiotici. In quanto tale, essa
definiva l’insieme degli enunciati già enunciati che rappresentavano lo
sfondo di ogni possibile futura enunciazione. Una logica enciclopedica
definisce così una logica di tipo “evenemenziale”, che apre al proprio
interno posizioni enunciative diffuse, e non una logica di tipo “personale”,
in cui l’enunciazione è legata a categorie di tipo deittico. È infatti l’evento a
essere primo rispetto alle “persone” che lo vengono a occupare.
Esattamente come è perché “piove” che può piovere per me, è perché esiste
un repertorio enciclopedico di “già detto” che io posso dire qualcosa ed
enunciare, portando così a compimento le virtualità enciclopediche e
definendo la mia parola rispetto a esse. Come l’infelicità per Blanchot, un
enunciato è davvero mio solo in funzione di altri enunciati già enunciati
contenuti nell’enciclopedia. Sono solo questi ultimi che aprono delle
posizioni enunciative di soggetto rispetto alle quali la mia enunciazione si
definisce e trova la sua stessa condizione di possibilità.
Come si vede, se portato alle sue concepibili conseguenze, il discorso
sugli embrayeurs che definiscono l’apparato formale dell’enunciazione
sfocia molto naturalmente nel problema della prassi enunciativa, e cioè nel
rapporto che esiste tra un’istanza dell’enunciazione che è parte di un
reticolo enciclopedico e l’insieme dei testi, dei generi e delle forme
enunciate di una cultura in cui pulsa la storia della prassi e dell’uso.
Non è infatti un caso che il più benvenistiano dei semiotici, Jacques
Fontanille, insista con forza sulla coniugazione dell’atto di enunciazione
con la prassi enunciativa. Se a livello di apparato formale
dell’enunciazione, infatti, Fontanille insiste sulla necessità di incarnare le
forme vuote dell’io-qui-ora in istanze concrete dotate di corpo, proprio per
sfuggire alla “disseminazione senza posto proprio” causata dagli
embrayeurs, è soltanto a livello della prassi enunciativa che, per il
semiologo francese, l’enunciazione prende davvero forma in quanto atto
discorsivo. Per Fontanille (1998, p. 102) infatti, là dove un atto di
enunciazione è isolato e rimanda al sensibile corporale e alla percezione, il
discorso è invece sempre un effetto di enunciazioni concatenate e incassate
le une dentro le altre, che vengono chiamate appunto prassi enunciative. In
questo modo, là dove l’atto enunciativo ha a che vedere con l’enunciazione
in atto, e cioè con l’atto di appropriazione nel discorso dell’io-qui-ora degli
embrayeurs, la prassi enunciativa ha invece a che vedere col discorso
enunciato, e ne è l’istanza correlativa.
Quando parliamo di “atto primo”, di “presa di posizione originaria”, non è che in rapporto
all’irriducibile singolarità della presenza attuale. Ma nulla tiene davvero mai il “primo” discorso:
l’attività discorsiva è sempre presa in una catena, e cioè in uno spessore di altri discorsi ai quali
non cessa di riferirsi. Ogni discorso-occorrenza è esso stesso occasione per una moltitudine di atti
di linguaggio, concatenati e sovrapposti gli uni con gli altri. Occorre in qualche modo passare
allora dall’atto di enunciazione alla prassi enunciativa: la prassi è allora esattamente questo
insieme aperto di enunciazioni concatenate e sovrapposte, in senso alla quale sfuma ogni
enunciazione singolare. (Fontanille, 1998, p. 102)

E del resto sarebbe dovuto essere evidente fin da subito, almeno nel
momento in cui all’interno della tradizione semiotica lo statuto dell’istanza
dell’enunciazione transitava dalla linguistica del discorso di Benveniste alla
sua riformulazione semiotica di “istanza presupposta dall’enunciato”: un
enunciato, infatti, di qualsiasi natura esso sia, sedimenta al suo interno sia
grandezze provenienti dal sistema sia grandezze provenienti dall’uso. Per
questo l’enunciazione, in quanto sua istanza presupposta, deve al contempo
poter convertire il sistema in discorso e coniugare questa stessa conversione
con l’esercizio in atto del sistema, e cioè con l’insieme dei generi e dei tipi
del discorso, i repertori e le enciclopedie delle forme proprie di una cultura,
in cui pulsa la storia della prassi e dell’uso. In questo modo, ed è questa la
nostra proposta, là dove l’enunciazione è un’istanza semiotica logicamente
presupposta dall’esistenza dell’enunciato, in cui lascia marche o tracce, la
prassi enunciativa è un’istanza semiotica logicamente presupposta
dall’enciclopedia, in cui lascia “bava e detriti” (cfr. Eco, 1984). Proprio per
questo Eco può dire che la teoria dei modi di produzione mette in atto il
codice, e cioè l’enciclopedia e le sue logiche semiosferiche della cultura:
enunciazione in atto. Proprio per questo ci è sempre sembrato di poter dire
che quello che in semiotica va sotto il nome di prassi enunciativa e viene
pensato piuttosto impropriamente sotto il termine-ombrello di
“enunciazione”, non è altro che una teoria dei modi di produzione semiotici
(cfr. Valle, 2007).
Ritorneremo allora su questo punto, al fine di determinare il rapporto che
lega soggetto e reticoli enciclopedici (cfr. infra, 5.6), e proveremo a mettere
a frutto questo accenno fontanilliano a un concatenamento enunciativo in
cui sfuma ogni enunciazione singolare. Questo ci consentirà di rispondere
con una posizione chiara a quello che Violi (2007, p. 197) ha chiamato il
“residuo inespresso” di ogni teoria semiotica dell’enunciazione e della
soggettività, e cioè “la specificità dell’esperienza singolare” e “le forme
della soggettività individuale”, che “possono essere colte sempre e soltanto
attraverso […] la rete di relazioni differenziali che istituisce gli individui in
quanto singolarità”. Mostreremo allora come una teoria dell’enunciazione
unificata, come quella che stiamo proponendo qui, sia in grado di
rispondere in maniera chiara anche su questo punto, definendo una prassi
enunciativa non-personale (non-benvenistiana) fondata sul SI (cfr. infra,
5.6-5.7).
Ma occorrerà procedere con ordine e occuparci innanzi tutto
dell’apparato formale dell’enunciazione, che subisce tutta una serie di
importanti mutamenti nel momento in cui si passa dalla linguistica del
discorso di Benveniste alla teoria semiotica di Greimas, in cui
l’enunciazione diventa l’istanza presupposta dell’enunciato in cui lascia
tracce o marche. In questa prospettiva, l’enunciazione non è allora affatto
l’atto che produce il discorso, bensì la proprietà del discorso di manifestare
l’atto che lo produce.16 Partiamo da qui. Pronti per affrontare un lungo
viaggio.

5.4. L’apparato formale dell’enunciazione e le istanze simulacrali


dell’enunciazione nell’enunciato: casella vuota (assenza
dell’enunciazione) e occupante senza posto (presentificazione
dell’assenza dell’enunciazione)
L’enunciazione è la ricerca degli assenti la cui presenza è necessaria al senso, presenza segnata
direttamente o indirettamente nei messaggi o nei messaggeri enunciati. È quindi possibile avere
un linguaggio preciso che parta dalle tracce, marche e inscrizioni degli assenti nel messaggio o
nel messaggero, e che induca o deduca esattamente il movimento degli assenti che bisogna
raccogliere attorno al messaggio o al messaggero per dargli un senso, un movimento, un
passaggio trasferimento e farlo stare, restare, nella presenza. (Latour 1999, p. 77)

Tra le tante suggestioni presenti in questo passo, bisogna innanzi tutto


sottolineare il ruolo che è proprio delle istanze simulacrali
dell’enunciazione presentifcate nell’enunciato: esse sono delle
presentificazioni dell’assenza, nel senso che esse presentificano in modo
vicario un’enunciazione che resta ostinatamente assente. Hanno cioè il
ruolo dell’sms ricevuto a cui si è deciso di non rispondere da cui eravamo
partiti. I simulacri dell’enunciazione sono cioè termini effettivamente
presenti nel testo, mentre l’enunciazione resta sempre inevitabilmente
presente in quanto assente, esattamente come la persona che non ha
risposto al messaggio, la cui assenza è presente nella forma più intensa al
ragazzo rifiutato, che “pensa intensamente a lei”. Quella dell’enunciazione
è cioè un’assenza marcata dalle tracce nell’enunciato, un’assenza
presentificata dall’enunciato stesso, non una semplice “assenza” (cfr. supra,
3.7). È allora proprio perché questa assenza è marcata negli enunciati e resa
presente simulacralmente, che per Latour è possibile “indurne o dedurne il
movimento”. Allo stesso modo, è perché la presenza dei soggetti
dell’enunciazione, e cioè la presenza degli assenti, è essenziale al senso, che
un testo ne costruisce sempre dei simulacri che fanno funzionare tutto:
Lettore Modello e Autore Modello, enunciatore e enunciatario ecc.
Ecco allora che l’iscrizione di un simulacro dell’enunciazione all’interno
dell’enunciato è semplicemente uno dei tanti modi per presentificarne
l’assenza attraverso la costruzione di un delegato; tanto che, per la
semiotica, in ogni testo si avrà sempre un lettore empirico atto a costruire e
ricostruire i suoi stessi simulacri al fine di far circolare il senso del testo
(cfr. Eco, 1979). Si hanno cioè dei simulacri dell’enunciazione
nell’enunciato che presentificano l’assenza stessa di chi è in qualche modo
presente (il lettore), oltre che di chi è assente (l’autore). Il lettore empirico
gioca con la sua stessa assenza presentificata nel testo che lo iscrive in
quanto simulacro. Stessa cosa fa, specularmente, l’autore empirico.
Ecco allora che si tratta di sottolineare un primo punto fondamentale. Il
rapporto tra l’enunciato e l’enunciazione è quello proprio della
presentificazione di un’assenza: l’enunciato presenta dei simulacri e delle
marche dell’enunciazione che sono effettivamente presenti, e attraverso
questa presenza presentifica il soggetto dell’enunciazione, ma lo
presentifica in quanto assente, donandogli una presenza all’interno
dell’enunciato solamente nella forma dell’assenza presentificata (marcata).
Come il lampo si differenzia dal cielo nero portandoselo dietro, così
l’enunciato si differenzia dall’enunciazione, ma portandosela dietro, nei
termini dell’assenza presentificata dalle tracce dell’enunciazione
nell’enunciato.
La semiotica maggiore non è mai riuscita a costituire una teoria rigorosa
della presentificazione dell’assenza, tanto che Petitot (1977a, p. 386) notava
come “una tale interpretazione ecceda la semiotica strutturale”. Non quella
“minore” che vogliamo capace di tenere insieme strutturalismo e
interpretazione però. Avevamo infatti visto tutti i problemi incontrati da
Greimas con il problema dell’opposizione privativa e della
presentificazione dell’assenza all’interno del quadrato semiotico (cfr. supra,
3.7): ritrovarli per intero nel cuore stesso di una teoria dell’enunciazione
non fa altro che aumentare la necessità di definirne lo statuto formale.
Ora, abbiamo visto come un’opposizione privativa fosse un’opposizione
tra la presenza e l’assenza di un elemento, per cui l’assenza di un tratto in
un fonema lo rendeva ad esempio non-marcato. In questo modo,
l’opposizione privativa presentava sempre uno statuto molto particolare, dal
momento che il termine presente valeva al contempo per se stesso e per
l’opposizione tutta intera. Nelle parole di Petitot: “Esso è a un tempo ciò
che fa uno e ciò che fa differenza”.17 Una teoria dell’enunciazione basata
sulla forma dell’opposizione privativa si limita dunque a indurre, a partire
dagli elementi presenti nell’enunciato, le posizioni assenti
dell’enunciazione, ed è esattamente quello la teoria greimasiana classica si
prometteva di fare.18
Per esempio, quando avete visto un film partecipando alla serie di punti di vista attraverso cui lo
avete guardato, alla fine siete in grado di ricostruire la casella vuota del suo enunciatore, per
presupposizione progressiva di tutti i punti di vista e delle loro trasformazioni che sono avvenute
durante la “diegesi”. Cioè, non dite che c’è un enunciatore del film – il regista – che è una pura
tautologia; dite che – ricostruendo l’insieme dei punti di vista presenti dentro la storia – è
possibile riempire la casella vuota che chiamiamo l’enunciatore. (Fabbri, 1998, p. 102)

Tutt’altra cosa avviene invece con la presentificazione di un’assenza. Se


l’assenza di un tratto definisce un termine come non-marcato, la
presentificazione della sua assenza definisce la marcatura di un “non”. Si
tratta della stessa differenza che c’è tra il “valore di un’assenza” e il “valore
della presentificazione di un’assenza”: nessuno nota in un uomo la
mancanza di un terzo braccio (valore dell’assenza), mentre tutti notano la
mancanza di una delle due braccia, tanto che se mi tagliassi un braccio ed
entrassi in università, in molti presentificherebbero quest’assenza e mi
chiederebbero che cosa ho fatto al braccio. Ecco allora che un conto è
l’assenza di un termine (non-marcatura) e un conto è la presentificazione
della sua assenza (marcatura di un “non”).
Ora, se l’assenza di un termine è qualcosa che non abbiamo alcun
problema a pensare in modo intelligibile, la presentificazione della sua
assenza è qualcosa di ben più complesso, che presenta un’eccedenza
costitutiva sia rispetto a ciò che è presente (le tracce dell’enunciazione
nell’enunciato) sia rispetto a ciò che è assente (l’enunciazione). Avevamo
infatti visto come all’interno di un’opposizione privativa di tipo strutturale,
l’assenza di un elemento fosse un luogo senza determinazione, un luogo
vuoto, un luogo bianco, tanto che la posizione dell’enunciazione nella teoria
greimasiana era identificata esattamente con la casella vuota.19 Al contrario,
la presentificazione di un’assenza, che definisce il processo e il momento in
cui qualcosa è presentificato, ma è presentificato in quanto assente,
definisce qualcosa come un occupante senza posto. Come nel gioco dei
quattro cantoni, c’è sempre un elemento che manca al suo posto, perché
non ha esso stesso un posto proprio. Per quanto ci riguarda, e lo
mostreremo, crediamo sia allora in questa eccedenza costitutiva, in questa
eccedenza sempre spostata rispetto a qualsiasi posto che gli possiamo
assegnare, ciò in cui consiste l’essenza stessa da un lato dell’istanza
dell’enunciazione e dall’altro della “soggettività semiotica”.
Il grande errore delle teorie strutturaliste e post-strutturaliste (Deleuze,
Foucault, Lacan) è stato quello di identificare il soggetto con la casella
vuota: al contrario il soggetto è sempre qualcosa come un occupante senza
posto, occupante che manca costitutivamente al suo posto perché non ha un
posto proprio. Il soggetto non è mai vuoto, se no non si spiegherebbe come
sia in grado di muoversi nell’enciclopedia o di fare inferenze, esso è se mai
sempre costitutivamente troppo pieno: per questo esso è sempre
disseminato e diffuso nella bava e nei detriti della semiosi. A un altro livello
di pertinenza, anche l’istanza dell’enunciazione (io-qui-ora) non è mai
vuota, ma è sempre costitutivamente troppo piena, perché è di ogni punto
dello spazio che dico “qui”, è di ogni momento del tempo che dico “ora” ed
è di ogni persona che dico “io”.
Stiamo in fondo dicendo una cosa estremamente semplice, a suo modo
speculare a quella che abbiamo detto a proposito dell’opposizione tra la
persona e la non-persona in Benveniste: a livello dell’apparato formale
dell’enunciazione, l’opposizione tra enunciato e enunciazione non è affatto
un’opposizione privativa tra un termine marcato (le tracce
dell’enunciazione presenti nell’enunciato) e un termine non-marcato
(l’enunciazione in quanto istanza assente); bensì è un’opposizione tra due
termini marcati, uno marcato in quanto presente (le tracce
dell’enunciazione nell’enunciato) e uno marcato in quanto assente
(l’enunciazione). Là dove l’opposizione tra la presenza e l’assenza di un
termine definiva l’istanza dell’enunciazione come “casella vuota”,
l’opposizione tra la presenza di un termine e la presentificazione della sua
assenza definisce invece l’istanza dell’enunciazione come un “occupante
senza posto”.
Per questo crediamo che una semiotica che voglia dire qualcosa di
adeguato a livello dei modelli descrittivi del senso debba fondarsi su di
un’adeguata teoria delle relazioni di opposizione tra valori, perché ci pare
che sia proprio a questo livello che la semiotica attualmente “maggiore”
presenti alcuni evidenti problemi. Pensare al rapporto tra enunciato ed
enunciazione come a un’opposizione privativa tra un termine presente e un
termine assente significa fare come in quel film di Buñuel in cui tutti i
poliziotti si disseminano per la città a cercare “questa ragazza”, che è invece
lì al commissariato assieme a loro.
Ci pare allora che, a questo livello dell’analisi, il nostro percorso abbia
portato a due risultati – speriamo – tanto semplici quanto significativi, che
sono entrambi riconducibili a una base comune: il rapporto che c’è tra la
persona e la non-persona in Benveniste e quello che c’è tra l’enunciato e
l’enunciazione in Greimas non sono affatto due rapporti privativi, sul tipo di
“A VS non-A”,20 in cui la relazione è tra la presenza (la persona, le tracce
nell’enunciato) e l’assenza di qualcosa (la non-persona, l’enunciazione). Al
contrario, si tratta di due rapporti molto diversi, che fanno riferimento a due
forme di relazione profondamente differenti rispetto a quelle individuate da
Benveniste e da Greimas: i) il primo è infatti un’opposizione partecipativa
tra la “persona” e la “persona + la non persona” (“A VS A+non-A”); ii) il
secondo è invece un rapporto tra due termini marcati, e cioè tra due termini
presenti, di cui uno è “presente in quanto presente” e l’altro è “presente in
quanto assente” (presentificazione dell’assenza).
Come possiamo allora costruire questa teoria unificata dell’enunciazione
“impersonale” a partire da questi nostri primi risultati, se il termine stesso
“enunciazione” non è in fondo altro che un ennesimo termine ombrello? Va
infatti sottolineato come in semiotica “enunciazione” voglia dire ben di più
della i) personologia linguistica e del suo apparato formale ricostruibile a
partire dalle tracce nell’enunciato; tanto che esso ha a che vedere con
almeno due altri livelli, e cioè con quello della ii) conversione del sistema
in processo (produzione del discorso enunciato21) e con quello della iii)
prassi enunciativa, che coniuga questa stessa conversione con l’uso, e cioè
con quei repertori stabilizzati che definiscono le formazioni discorsive di
una data cultura.
Occorrerà allora vedere se quanto detto fino a ora ci consentirà di
costruire una teoria dell’enunciazione unificata che permetta al contempo di
fare la differenza tra tutti questi ambiti, senza farli collassare l’uno dentro
l’altro, come spesso si è fatto in semiotica, confondendo ad esempio gli
attori sociali con gli individui, gli individui con le persone e le persone con i
soggetti dell’enunciazione; oppure l’istanza dell’enunciazione (“io-tu”) con
il soggetto, i soggetti con gli individui che producono atti concreti (“io e
te”) e questi concreti atti di produzione semiotica con l’enunciazione.
Dell’apparato formale dell’enunciazione al punto i) ci siamo già
occupati. Al fine di coniugare i risultati ottenuti a questo livello dell’analisi
con il nostro nuovo obiettivo, ci muoveremo in questo modo:

1) Lavoreremo in prima istanza sull’aspetto della conversione al punto ii) e


sulla posizione di mediazione che l’enunciazione ha sempre occupato
nella teoria semiotica (cfr. infra, 5.5). Così facendo, vedremo come
l’enunciazione sia studiabile euristicamente all’interno di una più
generale teoria della mediazione, secondo i suggerimenti di Latour e
Peirce, ovvero come una specie del genere interpretazione, che abbiamo
visto rappresentare esattamente questa teoria generale della mediazione.
2) Ispirandoci a Peirce, ci muoveremo in modo diagrammatico (cfr. supra,
4.11), e cioè, cominciando dal problema della conversione e del rapporto
esistente tra il sistema, l’enunciato e l’istanza dell’enunciazione che
converte l’uno nell’altro, cercheremo di ritrovare una particolare forma
di relazione che ci pare costitutiva sia dell’enunciazione che
dell’interpretazione. Troveremo questa forma di relazione studiando il
discorso indiretto libero (cfr. infra, 5.6).
3) Ritorneremo a questo punto al problema dell’enunciazione, provando a
spiegare la forma di relazione costitutiva dell’enunciazione attraverso la
forma di relazione individuata al punto 2. Proveremo a dire con questo
una cosa molto semplice, ma forse non così superficiale, e cioè che il
rapporto che nell’atto di enunciazione si stabilisce tra il sistema,
l’istanza dell’enunciazione e l’enunciato ha la forma di un
concatenamento enunciativo in cui un punto di vista ne modula un altro.
4) Da qui potremo rispondere ai problemi della prassi enunciativa e della
soggettività individuale, e proporremo l’idea che una teoria semiotica
dell’enunciazione propriamente formulata sia una teoria
dell’enunciazione trans-personale, che definisce la soggettività
semiotica come una “semi-soggettività indiretta libera”, in un senso che
si tratterà ovviamente di precisare (cfr. infra, 5.7).
5) Ci occuperemo infine del problema della prassi enunciativa (cfr. infra,
5.8) e confronteremo la posizione della semiotica con quella della
fenomenologia e dell’ermeneutica (cfr. infra, 5.9).
5.5. Invio, mediazione e delega: l’enunciazione come conversione e
“stare-tra”

L’enunciazione è contemporaneamente sempre un atto di invio, di


mediazione e di delega (cfr. Latour, 1999, p. 65). Essa è un atto di invio,
perché enunciando si affida letteralmente a qualcuno o a qualcosa
(l’enunciato) il compito di parlare per noi, di portare la nostra parola a
qualcun altro in qualche altro luogo (non-io/non-qui/non-ora), anche e
soprattutto quando noi non ci siamo o non ci saremo. In questo modo,
l’enunciato svolge un compito per l’istanza dell’enunciazione di cui esso è
il delegato, ed enunciare significa anche etimologicamente “inviare un
nunzio” (ex-nuncius), a cui si delega la nostra parola (l’enunciato).
L’enunciazione è altresì anche un atto di mediazione, perché è
esattamente questa la posizione che la semiotica gli ha assegnato:
l’enunciazione ha infatti sempre funzionato come tramite tra elementi tra
cui media e che contribuisce a creare, convertendo delle virtualità in
attualità. Storicamente questo tramite è stato tra langue e parole in
Benveniste (1966), tra discorso proprio e discorso d’altri in Bachtin (1929),
tra dimensione semio-narrativa e dimensione discorsiva in Greimas (1976,
1984, Greimas e Courtés, 1979), tra tipo e occorrenza prodotta attraverso un
lavoro di allestimento semiotico in Eco (1975). In tutti questi casi l’istanza
dell’enunciazione è sempre stata vista come uno stare-tra costitutivo.
L’enunciazione è infine anche un atto di delega, perché affida
all’enunciato il compito essenziale di dire quello che si vuole dire, di dire
qualcosa al posto di qualcuno, tanto che è inscritto nel funzionamento
stesso dell’enunciazione quello di restare assente anche qualora essa sia
presente, tornando così sempre in altra forma, e cioè sempre in quella di un
altro “testo”, di un altro enunciato.
Il romanziere “in carne e ossa” non è l’enunciatore del suo romanzo. È un personaggio di un altro
racconto, per esempio quello di uno storico, di un critico letterario, di un giornalista venuto a
intervistarlo. Appena incominciamo a nominare l’enunciatore, a designarlo, a dargli un tempo, un
luogo e un volto, cominciamo un racconto, detto altrimenti, débrayamo a partire
dall’enunciazione verso l’enunciato. Passiamo dall’enunciazione marcata all’enunciazione iscritta
o installata nel racconto. Queste assenze sono dunque allo stesso tempo innominabili e marcate e
benché non possano essere colte direttamente sono ugualmente reperibili. (Latour, 1999, pp. 64-
65)

Quest’ultima caratteristica costituisce l’essenza stessa della possibilità di


una semiotica testuale, in cui le logiche del testo possono essere interrogate
in assenza di ogni trascendenza enunciativa, assenza la cui presenza è
nondimeno presupposta dall’enunciato, grazie alle marche
dell’enunciazione inscritte in esso che costituiscono una dimensione
essenziale del suo senso.
Invio, mediazione e delega: ecco che cos’è l’attività di enunciazione al di
là del suo apparato formale, del quale ci siamo occupati fino a ora. E-
nunciare: inviare un nunzio, un messaggero, un delegato che parli per noi
con qualcuno altro, mediando la nostra parola, trasformandola attraverso la
sua e “rendondola manifesta” dietro di essa. Com’è evidente, questa
procedura di passaggio presenta tutte le caratteristiche che sono proprie del
segno interpretante peirciano come l’avevamo definito, e suggerisce dunque
di trattare l’enunciazione come un tipo particolare di interpretazione in cui
si invia un nunzio, che dice che quello che esso dice è la stessa cosa detta da
qualcun altro (l’istanza dell’enunciazione). Questo qualcun altro (istanza
dell’enunciazione) resta allora inevitabilmente assente, ma presente a suo
modo nel discorso del nunzio (enunciato), che ripresenta il discorso
dell’enunciazione attraverso se stesso, presentificando così al contempo
l’assenza dell’istanza dell’enunciazione.
C’è cioè qualcosa (il nunzio, l’enunziato) che si presenta al posto del suo
inviante e dice al suo posto ciò che esso potrebbe o dovrebbe dire, ciò che
conviene o converrebbe alla situazione. In altre parole, in quel “discorso”
particolarissimo che è l’enunciazione, l’enunciato (il nunzio che prende la
parola) è il discorso dell’enunciazione (di colui che invia il nunzio): sta al
posto di esso, anche quando un attore concreto è lì in presenza assieme al
suo enunciato, come nel discorso orale.
Si tratta a ben guardare di un’impossibilità: l’impossibilità di separare il
nostro punto di vista, la nostra posizione, da quello del nunzio inviato a
rappresentarci, pur essendoci per altro verso costitutivamente separati da
lui (ci siamo “debrayati”, direbbe Greimas). Ci distacchiamo dal nostro
enunziato (débrayage), ma ce ne distacchiamo come da un qualcosa da cui
non ci possiamo distaccare, dal momento che questo “qualcosa” definisce
totalmente l’identità del nostro dire e porta al suo interno le nostre tracce.
Come il lampo si differenzia dal cielo nero portandoselo dietro, così
l’enunciato si differenzia dall’enunciazione, ma portandosela dietro, nei
termini e nella misura dell’assenza presentificata dalle tracce
dell’enunciazione nell’enunciato.
La semiotica ha in qualche modo sempre praticato questa posizione, che
è l’unica possibile se si vuole salvaguardare al contempo: i) la possibilità di
un’analisi dei nunzi dell’enunciato indipendente dalla posizione di chi li ha
inviati; ii) la possibilità che essi possano però portare con loro la garanzia
che il loro stesso detto possa portare al “rispetto giuridico del detto
altrui”,22 affrancandolo così dall’arbitrio illimitato delle letture. Nella
semiotica di Eco, ad esempio, queste due opzioni appartengono
rispettivamente alla superiorità sull’intentio auctoris del rapporto tra
intentio operis e intentio lectoris (cfr. Eco, 1979 e 1990) e ai limiti
costitutivi dell’interpretazione nel suo rapporto col “fatto” del testo (cfr.
Eco, 1990 e 2003).
Incominciamo allora a intravedere l’euristicità del pensare al rapporto tra
enunciato e enunciazione come a un rapporto tra due termini marcati, uno
marcato in quanto presente (l’enunciato) e l’altro marcato in quanto assente
(l’enunciazione), così come incominciamo a intravedere l’euristicità della
posizione di Latour. Nel definire infatti l’enunciazione come un atto di
invio, di mediazione e di delega, Latour (1999, pp. 65-66) riconduceva la
forma più generale dell’enunciazione (“e-nunciare”, “inviare un nunzio”) al
“passaggio”, “come nei giochi di palla”, in cui qualcuno passa qualcosa a
qualcun’altro (in questo caso, si passa la propria “parola” all’enunciato).23
Ora, non solo questo passaggio è l’atto semiosico del dare peirciano, che
definisce la forma di relazione stessa della relazione triadica propriamente
semiosica (A dà B a C);24 ma Latour nomina tutta una serie di attività che
presentano esattamente la medesima forma di relazione:
La trasformazione, la sostituzione, la traduzione, la delega, la significazione, l’invio,
l’embrayage, la rappresentazione di A attraverso B. Tutti questi termini sono equivalenti, vale a
dire designano a loro modo il movimento di passaggio che mantiene in presenza. Lo stesso, ossia
il mantenimento nella presenza, è ottenuto solo in virtù dell’altro, ossia dell’invio. (Latour, 1999,
p. 66)

La posizione di Latour è molto chiara, oltre che di grande fascino:


“enunciare” significa inviare un nunzio a cui passiamo la parola
(l’enunciato) – come nei “giochi di palla” – ma questo stesso passaggio ha
come effetto quello di “mantenerci in presenza”, dal momento che
l’enunciato parla per noi e ci rende presenti anche quando siamo assenti
(presentificazione dell’assenza). Questo suggerimento latouriano fa molto
naturalmente venire in mente un passo di Peirce sul “soggetto”, citatissimo
dai commentatori, ma forse davvero mai compreso a fondo, che potremmo
“tradurre” nei termini di una teoria dell’enunciazione dicendo che Peirce vi
afferma che “l’enunciazione è un segno dell’enunciato” (un segno, non una
parte o un pezzo dell’enunciato).
Per provare a rendere euristico questo passo di Peirce all’interno dei
nostri problemi, dobbiamo tenere presente quanto detto in precedenza, e
cioè che l’enunciazione ha sempre funzionato come un’istanza di
mediazione che opera una conversione, ed è sempre stata vista come uno
“stare-tra” costitutivo. Teniamo in considerazione la definizione più
generale interna al paradigma strutturale e generativo, e cioè quella
dell’enunciazione come “un’istanza di mediazione che converte il sistema
in processo, producendo il discorso a partire dalla categoria della persona
(io-qui-ora), da cui originariamente ci si débraya”. Vediamo allora cosa fa
Peirce con una nozione di questo genere:
L’uomo fa la parola e la parola non significa niente di più di quello che l’uomo le ha fatto
significare, e significare solo per un uomo. Ma poiché l’uomo può pensare solo per mezzo di
parole o di altri simboli esterni, questi potrebbero volgersi a dire: “Tu non significhi niente che
non ti abbiamo insegnato noi, e quindi significhi solo in quanto indirizzi qualche parola come
l’interpretante del tuo pensiero”. Di fatto dunque gli uomini e le parole si educano
reciprocamente: ogni accrescimento di informazione in un uomo comporta – ed è comportato da –
un corrispondente accrescimento d’informazione di una parola. […] L’elettricità non significa
forse di più ora di quanto significava ai tempi di Franklin? (CP 5.313)

Con Peirce si ha un completo ribaltamento della prospettiva (i segni si


volgono indietro e “fanno dire”): non sono più le strutture dell’enunciazione
ad essere proiettate fuori di sé, bensì quelle dell’interpretazione, per cui non
avremo più delle tracce dell’enunciazione nell’enunciato, ma delle posizioni
di soggetto all’interno del movimento semiosico. Tutto un “piccolo
dramma”, come diceva Tesnière. Quello che è sempre e originariamente
débrayato in Peirce è il segno, che proietta la propria forma di relazione nel
discorso e definisce delle posizioni di soggetto che verranno di volta in
volta variamente occupate. È solamente a partire da questo dispiegamento
interpretativo originario che si può avere enunciazione. In Peirce l’unica
istanza di mediazione possibile è il segno, che è sempre uno “stare-tra”,
“arcobaleno tra il sole e la pioggia”: per questo l’istanza dell’enunciazione è
sempre un effetto, una posizione, un segno tra altri segni, e va dunque
sempre indagata come tale all’interno di una più generale teoria
dell’interpretazione, di cui costituisce una parte.
Si è spesso detto che ogni enunciato nasce da un débrayage originario,
che disinnesca le categorie del qui, dell’io e dell’ora dall’istanza
dell’enunciazione: questa teoria antropocentrica sostituisce un “buon dio”
(il “soggetto”) a dei movimenti ben più complessi, che sono di tipo
enciclopedico e interpretativo (la pagina non è mai bianca, la tela non è mai
vuota, cfr. supra, capitolo 2), tanto che già Latour (1999) mostrava come
questo sistema non fosse altro che uno solo dei regimi di enunciazione, una
sola tra le differenti forme di passaggio possibili. Per quanto ci riguarda,
chiameremo “interpretazione” questa forma di passaggio più generale in cui
si invia un nunzio, in cui ci si e-nuncia attraverso tutta una serie di delegati,
occupando così delle posizioni di soggetto attraverso la produzione di segni
interpretanti enunciati. Per questo per noi l’enunciazione è una specie del
genere interpretazione, e cioè un tipo particolare di interpretazione che ha a
che vedere con la presentificazione dell’assenza.
Fondare la teoria dell’enunciazione sugli embrayeurs, e poi pensare alla
conversione del sistema in processo sui débrayage a partire dalle categorie
della persona, significa centrare tutto il linguaggio e tutta la semiosi sulle
“persone”, nella doppia accezione formale (io-tu) e attanziale (soggetti)
della parola. Ma questo, e Tesnière (1959, p. 76) ce lo insegnava, impedisce
di discernere “l’equilibrio strutturale” dell’atto di enunciazione, poiché
conduce a isolare come soggetto uno solo degli attanti (l’istanza
dell’enunciazione), ricacciando sullo sfondo tutti gli altri elementi coinvolti
nell’atto di enunciazione stesso.
Al contrario, fondare l’enunciazione sugli eventi impersonali che aprono
delle posizioni di soggetto significa pensare in modo autenticamente
semiotico, e cioè differenziale e relazionale, anche la teoria
dell’enunciazione, evitando così di attribuire alla categoria della “persona”
un’importanza eccessiva. Quello che stiamo dicendo è allora estremamente
semplice: la teoria dell’enunciazione va fondata sullo stesso modello
attanziale e strutturale (Logica dei Relativi) sul quale si è fondata la teoria
dell’enunciato. Al contrario, Greimas riprende da Tesnière tutta la sintassi
attanziale, e su di essa fonda le logiche dell’enunciato (narratività), ma per
quello che riguarda l’enunciazione si rivolge invece a Benveniste e alla
teoria degli embrayeurs, tradendo così le sue stesse basi epistemologiche.
Ecco allora che Peirce ci suggerisce il procedimento opposto, e cioè fondare
la teoria dell’enunciazione sulla stessa teoria evenemenziale su cui si
fondava la teoria della frase a livello dell’enunciato. In questo modo,
l’istanza dell’enunciazione è parte di un sistema più ampio fondato su di
una logica degli eventi che stabilisce delle posizioni di soggetto, che si
possono assumere e fare proprie installandosi in un relativo. L’istanza
dell’enunciazione non ha alcun tipo di primato sulle istanze di altro tipo:
essa va studiata in immanenza, all’interno della rete di relazioni che gli
assegna un posto e che ne definisce l’identità. Non fare così, significa per
noi porsi al di fuori dei principi stessi della disciplina. Per questo la
“breccia nello strutturalismo” rappresentata dalla linguistica
dell’enunciazione di Benveniste e dalla sua “personologia” va per noi
senz’altro abbandonata.
Qual è allora la struttura relazionale che definisce l’identità
dell’enunciazione? Qual è la logica delle relazioni da cui dipende? Qual è
cioè il “piccolo dramma” che definisce la sua posizione rispetto ad altre
posizioni su cui non ha alcuna preminenza gerarchica?
Se l’enunciazione è l’istanza che converte il sistema (virtuale) in
processo (discorso), per quanto ci riguarda, l’enunciazione vede definita la
sua posizione in rapporto da un lato all’enciclopedia, che per noi sostituisce
qualsiasi altro sistema semiotico che l’enunciazione è supposto “convertire”
(langue, semio-narrativo ecc.); e dall’altro dall’enunciato, che l’atto di
enunciazione produce attraverso una prassi. Questa è la struttura relazionale
che definisce l’enunciazione, e l’istanza dell’enunciazione sarà definita solo
ed esclusivamente dalla configurazione di rapporti che la immerge
nell’enciclopedia da un lato, e dalla configurazione di rapporti che definisce
il modo in cui essa trasforma le virtualità enciclopediche in enunciati
dall’altro.
Per questo un’adeguata teoria dell’enunciazione dovrà determinare i) il
modo in cui l’istanza dell’enunciazione è parte dell’enciclopedia; ii) il
modo in cui la converte in enunciati; iii) il modo in cui essa coniuga questa
stessa conversione con i repertori stereotipici in cui pulsa lo storia della
prassi e dell’uso (prassi enunciativa).
A questo proposito, una teoria interpretativa dell’enunciazione è allora
senz’altro facilitata, dal momento che, nel momento in cui si pone
l’enciclopedia al posto di qualsiasi altro sistema supposto, ii) coincide con
iii), rendendo di fatto inutile il raddoppiamento tra teoria dell’enunciazione
e teoria della prassi enunciativa.25
L’enciclopedia possiede infatti uno statuto semiotico del tutto
paradossale: se il sistema della lingua è infatti virtuale e la vita sociale, la
storia e la cultura sedimentate dall’uso completamente realizzati,
l’enciclopedia è invece al contempo completamente virtuale e
completamente realizzata. Da un lato, in quanto “libreria delle librerie”,
“insieme registrato di tutte le interpretazioni”, essa è infatti completamente
realizzata, non essendo altro che il grande archivio del “già-detto”, di tutti
gli enunciati già enunciati. Dall’altro lato, in quanto condizione di
possibilità di qualsiasi semiosi, essa è completamente virtuale e rappresenta
lo sfondo di qualsiasi enunciazione. Insieme degli enunciati che
rappresenta lo sfondo delle enunciazioni, l’enciclopedia tiene per essenza
insieme sistema e uso, rappresentando così l’incarnazione perfetta di quella
rete di significati che l’uomo stesso ha tessuto (enunciati), ma in cui rimane
inevitabilmente impigliato (sfondo e condizione di possibilità delle
enunciazioni), di cui parlava Max Weber.26
Ecco allora che, al fine di mostrare il rapporto che esiste tra i tre “attori”
dell’enunciazione (enciclopedia, istanza dell’enunciazione, enunciato),
potremo procedere in due tappe, cominciando innanzi tutto dal determinare
qual è il rapporto che esiste tra l’enciclopedia e l’istanza che la converte in
enunciato. Al fine di fare questo, come detto, ci muoveremo in maniera
diagrammatica e faremo riferimento, con puri fini metodologici e tattici,
alla teoria del punto di vista.

5.6. Spostamento sulla teoria del punto di vista e ritorno: discorso


diretto (soggettiva), discorso indiretto (oggettiva), discorso indiretto
libero (semi-soggetiva libera indiretta). Il concatenamento enunciativo
e la modulazione di un punto di vista attraverso un altro punto di vista

In Empirismo eretico, Pasolini si interrogava sullo statuto dell’immagine


semi-soggettiva, che Mitry (1963, 1964) definiva come un “essere-insieme”
della macchina da presa con i personaggi, “essere-insieme” in cui il punto
di vista non si confonde con quello dell’attore dell’enunciato (immagine
soggettiva) senza per altro esserne al di fuori (immagine oggettiva). Si tratta
di un’immagine molto particolare, in cui l’occhio della cinepresa è con i
personaggi, si sposta e vive assieme a loro. Gli esempi di Pasolini
riguardano ad esempio personaggi che vengono seguiti, osservati, pedinati;
tanto che la macchina da presa sembra spendere la sua stessa quotidianità
insieme a loro, quasi camminasse alle loro spalle e manifestasse il gusto di
“farsi sentire”: punto di vista anonimo e indagatore di qualcuno che si
muove tra i personaggi, in un costitutivo “essere-insieme”. Un altro
esempio di Pasolini, specularmente opposto, è quello dell’inquadratura
fissa, in cui la macchina da presa smette di seguire ciò che si succede sul
piano dell’enunciato e resta immobile, lasciando così alle dinamiche
dell’enunciato stesso il compito di decidere ciò che diventerà visibile e
verrà inquadrato. Tuttavia, anche in questo caso, e proprio per il suo non
fare assolutamente nulla, la cinepresa “si fa sentire”, marca se stessa, fa
avvertire la sua presenza, tanto che noi avvertiamo che essa è lì assieme ai
suoi personaggi, anche se di fatto è l’unica cosa che non c’è e che non
vediamo. È esattamente come nel caso dell’sms da cui siamo partiti: la
ragazza non faceva assolutamente nulla, non rispondeva al messaggio, ma
proprio questo suo non fare assolutamente nulla la marcava, la faceva
sentire, presentificava la sua assenza, e qualcuno avvertiva che in qualche
modo “era lì”, anche se era lì in quanto assente.
Ecco allora che lo statuto di questo “essere-insieme” di macchina da
presa e attori dell’enunciato, di cui parlava Mitry, si dimostra
particolarmente problematico proprio dal punto di vista di una teoria del
punto di vista, dal momento che un’immagine semi-soggettiva non sembra
possedere alcun tipo di equivalente nella percezione naturale (cfr. Deleuze,
1983, p. 92). Proprio per questo, e al fine di renderne conto, Pasolini (1972,
pp. 176-177) faceva allora riferimento a un’analogia linguistica, e diceva
che se si può dire che un’immagine “soggettiva” è un “discorso diretto” e
che un’immagine “oggettiva” è un “discorso indiretto”, allora un’immagine
“semi-soggettiva” è un “discorso libero indiretto”.
Il suggerimento di Pasolini è quanto mai interessante: effettivamente in
una “soggettiva” il punto di vista è interno all’enunciato e l’enunciatore in
qualche modo “apre le virgolette”, lasciando la parola a quello che vede
l’attore del suo enunciato. Al contrario, in una “oggettiva” il punto di vista è
del tutto esterno all’enunciato e l’enunciatore non lascia spazio alcuno ai
punti di vista dei suoi delegati. Che cosa succede allora nel caso della semi-
soggettiva, in cui il punto di vista non è né interno all’enunciato né esterno
a esso, ma piuttosto “con” esso, in un costitutivo “essere-insieme” che
finisce per presentificare l’assenza dell’enunciatore? In altre parole, che
cos’è un discorso indiretto libero?
Facciamo innanzi tutto un esempio: “si avvicinava lentamente alla
finestra: domani era Lunedì”. Ecco esattamente un discorso libero indiretto.
Chi parla qui? Dov’è possibile assegnare il punto di vista? Si vede molto
bene come ci sia un narratore che in qualche modo “segue” il suo
personaggio, lo vede vedere e a un certo punto sembra lasciargli la parola,
ma senza farlo completamente (“domani era Lunedì”).
Le loro voci si fondono e si ricoprono l’un l’altra […]. Ne risulta un fenomeno che non si può
praticamente distinguere più dal discorso indiretto libero. (Bachtin, 1929, p. 191)

A differenza del discorso indiretto e di quello diretto, le cui forme sono


condizionate da un verbo introduttivo (“dice”, “pensò che” ecc.), che fa sì
che il soggetto dell’enunciazione scarichi sul personaggio la responsabilità
di ciò che è detto; nel discorso indiretto libero, grazie all’omissione del
verbo introduttivo, l’autore presenta l’enunciazione del personaggio come
se lui stesso la prendesse in carico, creando una zona di indiscernibilità tra i
due punti di vista, e sospendendo così localmente il débrayage. Come già
notavano Lerch e Bachtin,27 questo non sarebbe minimamente possibile se
lo scrittore, o chi per lui, non si identificasse completamente col
personaggio e si diluisse in esso, pur rimanendone al contempo distinto. Si
tratta esattamente della stessa impossibilità che sottolineavamo in
precedenza a un altro livello, e cioè a livello del rapporto tra enunciazione e
enunciato (cfr. supra, 5.4): l’impossibilità di separare il proprio punto di
vista da quello del nunzio inviato a rappresentarci, pur essendoci per altro
verso costitutivamente separati da lui.
Nel discorso indiretto libero c’è cioè sempre un punto di vista che non
lascia completamente spazio a un altro punto di vista, ma lo modula
attraverso il proprio, lo modifica attraverso il proprio. Cioè, nel discorso
libero indiretto “io non dico che lui ha detto”, e non dico neppure “lui ha
detto, due punti aperte le virgolette”, ma “dico che quello che lui dice è la
stessa cosa che dico io”. Si tratta di un’enunciazione (quella del
personaggio alla finestra) presa in un enunciato (quello formulato al
narratore) che dipende a sua volta da un’altra enunciazione (sempre quella
del narratore). Si tratta cioè di un concatenamento enunciativo, e cioè di un
rapporto in cui scompare la discernibilità dei termini in rapporto (cfr. supra,
3.4), in cui non si può assegnare nettamente il punto di vista.
Ora, si prenda la definizione dell’interpretante di Peirce: l’interpretante
svolge la funzione di un interprete, il quale “dice che qualcun altro dice la
stessa cosa che egli stesso dice”. Ecco esattamente una formulazione che
presiede a un discorso libero indiretto. Si tratta di un’enunciazione (quella
dello straniero nell’esempio di Peirce) presa in un enunciato (quello
formulato dal traduttore) che dipende a sua volta da un’altra enunciazione
(quella dell’interprete traduttore nell’esempio di Peirce): un
concatenamento enunciativo che definisce un “essere-insieme” di due punti
di vista di cui uno modula l’altro.28 Ad esempio al cinema, un personaggio
agisce e vede la situazione in funzione del proprio punto di vista, ma nello
stesso tempo la cinepresa lo vede vedere e vede il suo stesso mondo sotto
qualche altro rispetto, non restituendo così semplicemente la visione del
personaggio e del suo mondo, bensì affiancandone un’altra che la modula e
in cui la prima si trasforma e si riflette. Questa forma particolarissima di
concatenamento enunciativo, che nella forma del discorso libero indiretto
ha sempre posto problemi ai grammatici e ai linguisti, definisce dunque
l’interpretazione peirciana come modulazione di un punto di vista
attraverso un altro punto di vista. È infatti esattamente questa la funzione
dell’interpretante: vedere il mondo del primo segno da un altro punto di
vista, illuminandolo sotto un altro rispetto e modulando così la prospettiva
gettata sull’oggetto dal primo segno, dicendo che esso dice la stessa cosa
che esso stesso dice, sotto un altro rispetto.
L’esempio preferito di Pasolini di una soggettiva libera indiretta,
bellissimo, è quello di Deserto rosso di Antonioni, e in particolar modo
quello della scena in cui Monica Vitti, nevrotica che ha già tentato il
suicidio, cerca di proteggere compagno e amante dal contaminarsi, venendo
a contatto con una barca infetta approdata nel porto in cui tutti si trovano. A
quel punto Antonioni inquadra la Vitti che corre e si ferma nella nebbia, poi
passa in soggettiva restituendoci la visione della nevrotica che osserva gli
amici immobili tra la nebbia. A quel punto ritorna in oggettiva, e mostra la
Vitti avvicinarsi ai compagni prima inquadrati in soggettiva. A questo punto
accade quello che sembra essere un ritorno in soggettiva, in un’inquadratura
speculare alla precedente, ma che non può essere una soggettiva, perché i
compagni della Vitti sono infinitamente più lontani nonostante lei si sia nel
frattempo avvicinata, tanto che tutto il gruppo finisce poi per sfumare in
lontananza nella nebbia.
L’enunciatore non ha cioè lasciato la parola all’attore del suo enunciato,
ma non ha neppure costruito un’oggettiva (tanto che ci dà l’idea di una
soggettiva), ma ne ha modulato il punto di vista attraverso il proprio.
Secondo Pasolini allora può esistere un “cinema di poesia” solo ed
esclusivamente perché esiste la tecnica della soggettiva libera indiretta.
Questa sua osservazione è solo apparentemente laterale per i nostri scopi.
Infatti, Pasolini chiama “cinema di prosa” un cinema narrativo, che si
sviluppa per concatenamenti di azioni/passioni e trasformazioni locali di
valori. Per Pasolini si ha invece cinema di poesia quando nessuno è più
interessato alla prosa, e cioè alla narrazione degli eventi che succedono sul
piano dell’enunciato, bensì quando accade che il regista si rende narrante
attraverso i propri personaggi. Si ha cioè un cinema di poesia quando
l’enunciato è un pretesto per parlare di se stessi, quando cioè la storia è un
pretesto per marcare il soggetto dell’enunciazione, quando i personaggi
dell’enunciato sono soltanto un pretesto per marcare noi stessi e parlare di
noi, presentificando la nostra assenza dall’enunciato. Pasolini dice che con
Deserto Rosso Antonioni “sostituisce alla visione di una nevrotica la
propria visione delirante di estetismo”, e che quella scena in soggettiva
apparente non è altro che il pretesto per fare delle belle immagini, del
cinema d’autore, dei bei fade-out di qualcuno che sfuma nella nebbia.
Che statuto semiotico possiede allora il discorso indiretto libero se da un
lato i) il discorso indiretto libero ci pare avere la forma dell’interpretazione
peirciana; e dall’altro ii) ci pareva di poter studiare l’enunciazione come un
tipo particolare di interpretazione in cui ci si e-nuncia, e cioè si invia un
nunzio di noi stessi (l’enunciato) che parla per noi stessi (un messaggero, un
interprete)?
Paolo Fabbri (1998, pp. 104-105), esattamente come Bally (1913), e
facendo propria l’identificazione pasoliniana tra immagine
soggettiva/discorso diretto e immagine oggettiva/discorso indiretto, pensa al
libero indiretto come a una forma di frontiera che definisce il passaggio tra
il discorso diretto (immagine soggettiva) e il discorso indiretto (immagine
oggettiva): un divenire-diretto del discorso indiretto e un divenire-indiretto
di quello diretto. Il suo esempio, davvero molto bello, è quello di Prova
d’orchestra di Fellini:
A un certo punto del film c’è un personaggio, il direttore d’orchestra, visto di spalle. Ben presto,
però, lo spettatore si accorge che l’inquadratura mediante cui questo personaggio viene visto è
una soggettiva: il punto di vista, infatti, sta all’altezza di uno sguardo che segue i movimenti del
direttore, che si muove come si muove lui. Sin qui l’assegnazione è chiara: possiamo tradurlo in
termini linguistici perfetti. Accade però, poco dopo, che la macchina da presa superi il
personaggio inquadrato che cammina davanti a lei, sino a porsi essa stessa dinanzi a lui. In altri
termini la camera ha superato il personaggio che prima si vedeva di spalle, e con un lento
movimento progressivo arriva sino al punto da inquadrarlo di fronte. Ma, ricordiamoci, eravamo
in soggettiva, una soggettiva che però, grazie al movimento lento e continuo della camera, finisce
per diventare – senza nessuno stacco – oggettiva. Il personaggio visto di fronte è inquadrato, per
così dire, oggettivamente. Che cosa è successo? Mentre la camera faceva il giro, chi stava
effettivamente guardando? Quale categoria del linguaggio verbale è capace di rendere, cioè di
tradurre, quel momento intermedio […] in cui la ripresa non è ancora diventata impersonale ma
già non è più soggettiva? […] Potremmo dire, con Deleuze, che si tratta di uno stile indiretto
libero. (Fabbri, 1998, pp. 104-105)

Si prenda un momento in cui si è in soggettiva e un momento in cui si è


in oggettiva: il momento in cui non si è “più” in soggettiva e non si è
“ancora” in oggettiva è il momento della soggettiva libera indiretta. Si tratta
del momento in cui si passa da un’immagine soggettiva a un’immagine
oggettiva attraverso un concatenamento enunciativo in cui un punto di vista
ne modula un altro: “traduzione” intersemiotica del libero indiretto
linguistico. Il libero indiretto è cioè una sintesi disgiuntiva tra due punti di
vista, in cui non si è “più” e non si “ancora”, ma si è essenzialmente tra uno
stato e un altro, di cui si concatenano elementi eterogenei, installando una
ratio locale.29 Tuttavia, dopo aver sostenuto l’identificazione pasoliniana,
Fabbri resta stranamente dubitativo sulla traduzione intersemiotica della
soggettiva indiretta libera nel discorso indiretto libero, e ancor più strana è
la sua argomentazione del suo stato di dubbio:
Lo stile indiretto libero, in fondo, è proprio ciò che si invoca quando, nei testi linguistici, non
sappiamo come spiegare grammaticalmente certi tipi di organizzazioni enunciative. Lo stile
indiretto libero è uno dei problemi irrisolti della grammaticalità e della stilistica, non una
soluzione conosciuta. (Fabbri, 1998, p. 106)

Su questo non si può essere d’accordo. Lo stile indiretto libero è tutt’altro


che un termine-jolly o un concetto confuso attraverso la cui invocazione si
tenta di nominare ciò che non siamo in grado di spiegare. Al contrario, esso
presenta uno statuto perfettamente definito di cui la linguistica e la
narratologia hanno già saputo offrire una fenomenologia ricchissima, in cui
le organizzazioni enunciative che sono proprie dell’indiretto libero sono
quanto mai rigorose. Si tratterà allora di vederne il funzionamento.
Banfield (1982) ad esempio è in grado di mostrare con grande rigore
all’interno di una grammatica formale in cosa consista questa sintesi
disgiuntiva del punto di vista che è propria del discorso indiretto libero, e in
che modo esso operi un’originalissima fusione dei due “stili” tra cui
media,30 tenendoli insieme proprio nel momento in cui li ripartisce e li
separa. Ecco allora ad esempio che il discorso indiretto libero condivide
alcune caratteristiche del discorso diretto assenti in quello indiretto, quali ad
esempio l’inversione nelle domande rappresentate, la presenza di avverbi
direzionali preposti, esclamazioni, ripetizioni, esitazioni e frasi incomplete.
- Where were her paints, she wondered? Her paints, yes (Woolf, To the Lighthouse).
- For they might be parted for hundreds of years, she and Peter (Woolf, Mrs. Dalloway).
- Yes, this was love, this ridiculous bouncing of the buttocks (Lawrence, Lady Chatterley’s Lover)
- No wonder! Miss Brill nearly laughed out loud (Mansfield, Miss Brill).

Il carattere non subordinato che rende appunto libero il discorso libero


indiretto consente altresì di differenziarlo dal discorso indiretto su un altro
punto, dal momento che, a differenza di quest’ultimo, il discorso indiretto
libero consente agli elementi che esprimono la soggettività di apparire nel
discorso:
Gli elementi soggettivi che appaiono [nel discorso indiretto libero] sono attribuiti al referente di
un pronome in terza persona, ciò spiega perché questo stile è stato chiamato dalla critica letteraria
“punto di vista in terza persona”. In altre parole […], il punto di vista non è quello del parlante
che cita, ma piuttosto tutti gli elementi soggettivi sono espressioni del giudizio di una qualche
terza persona che è coreferenziale al soggetto della proposizione incidentale parentetica (e cioè
del verbo di coscienza o comunicazione). (Violi, 1986, p. 366)

Ecco ancora una volta il manifestarsi di una terza persona, “il”, che è
coreferenziale al soggetto della proposizione e ne prende in carico il
giudizio, in un concatenamento enunciativo in cui un punto di vista ne
modula un altro. Come nella soggettiva libera indiretta pasoliniana, un
personaggio vede il mondo con i suoi occhi e lo presenta sotto un certo
rispetto, ma qualcos’altro lo vede vedere e modula il suo punto di vista
attraverso il proprio, in cui il primo punto di vista si trasforma e si riflette.
Così come si distacca dal discorso indiretto, il discorso indiretto libero si
distacca però al contempo anche da quello diretto, differendone in modo
sostanziale in diversi punti, ad esempio nell’uso dei deittici temporali e nel
rapporto tra il “Sé” della frase citata e il soggetto parentetico.
[Nel discorso indiretto libero] i deittici non sono contemporanei con il tempo presente e il tempo
futuro, né essi si riferiscono al tempo proprio dell’atto di discorso del parlante – come succede col
discorso diretto – essi paiono invece connessi con un passato, che è il passato della coscienza
(“Domani era Lunedì”). Nelle parole di Banfield, “si tratta del momento dell’atto di coscienza,
del momento in cui il Sé sta pensando, del momento del cogito”. (Violi, 1986, p. 366)

Che tipo di concezione della soggettività emerge allora da questa idea di


discorso indiretto libero, se ci pare che la forma di relazione costituitiva di
questa particolare tecnica possa essere usata a un altro livello per chiarirci
lo statuto dell’istanza dell’enunciazione nel suo doppio rapporto con
l’enciclopedia da un lato e l’enunciato dall’altro? Banfield (1982) nota con
estrema acutezza come, a livello storico, il discorso libero indiretto nasca
apparentemente senza alcun tipo di transizione o adattamento allo stile:
diversi autori sconosciuti l’uno all’altro incominciano a utilizzare la stessa
tecnica nello stesso periodo, e i lettori sembrano immediatamente in grado
di interpretare questa forma così poco familiare in modo corretto. Questo
avviene tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo e la Banfield, citando
tra gli altri Lacan e Foucault, suggerisce l’ipotesi che questo fatto abbia
qualcosa a che vedere con la costruzione stessa della soggettività moderna,
e più in particolare con il cogito, di cui l’indiretto libero sembra
rappresentare perfettamente lo “stile”. Deleuze (1983, pp. 93-94) è allora in
grado di far luce adeguatamente su questo punto e di mostrare come il
discorso indiretto libero presenti infatti esattamente la stessa forma di
relazione che è costitutiva del cogito, costituendone un “diagramma” in
senso peirciano:
Questo sdoppiamento o questa differenziazione del soggetto nel linguaggio non si ritrova forse
nel pensiero e nell’arte? È il Cogito: un soggetto empirico non può venire al mondo senza
riflettersi nello stesso tempo in un soggetto trascendentale che lo pensi, e nel quale si pensi. È il
cogito dell’arte: non vi è soggetto che agisca senza un altro che lo guardi agire, e che lo colga in
quanto agito, assumendo la libertà di cui lo priva. Da cui due differenti io di cui uno, cosciente
della propria libertà, si erge a spettatore indipendente di una scena che l’altro reciterebbe. […] Ma
tale sdoppiamento non giunge mai fino al limite. È piuttosto un’oscillazione della persona tra due
punti di vista su se stessa, un va e vieni dello spirito, un essere-insieme. (Deleuze, 1983, pp. 93-
94)

Qualcosa di terribilmente vicino a quello che avviene in Prova


d’orchestra, com’è evidente: uno spettatore indipendente senza nessuno
sguardo investito nella ripresa che assiste a una scena che l’altro recita in
soggettiva, in una disgiunzione che non si compie, ma che oscilla
continuamente in un momento intermedio di “va e vieni”, in cui non si è più
in soggettiva e non si è ancora in oggettiva, ma si è essenzialmente tra
un’immagine soggettiva e un’immagine oggettiva, in un costitutivo essere-
insieme.
Il discorso libero indiretto ci restituisce quindi una soggettività lacerata,
in cui qualcuno vede il mondo, ma qualcun altro lo vede vedere e modula il
suo punto di vista attraverso il proprio, assumendo la libertà di cui priva il
primo soggetto, senza rendere del tutto evidente questa sostituzione. Il
punto di vista rimane inassegnabile in maniera netta e la modulazione
propria di un concatenamento enunciativo prende il posto dei
dé/embrayage.
Possiamo allora ritornare al problema dell’enunciazione e mettere a frutto
quello che abbiamo scoperto attraverso questo viaggio nella teoria del punto
di vista. Abbiamo infatti visto come esistono delle particolari forme di
concatenamento enunciativo in cui un punto di vista non si sostituisce a un
altro, ma lo modula, lo trasforma, lo modifica. Abbiamo altresì visto come
questa forma di relazione fosse costitutiva dell’interpretazione in Peirce: si
tratta infatti di un’enunciazione (quella dello straniero che parla) presa in un
enunciato (quello formulato dal traduttore) che dipende a sua volta da
un’altra enunciazione (sempre quella del traduttore). Non sarà allora
esattamente questo concatenamento enunciativo in cui un punto di vista
modula quello di un altro a definire il rapporto esistente tra enciclopedia,
enunciato e istanza dell’enunciazione?

5.7. Enciclopedia, istanza dell’enunciazione ed enunciato:


l’enunciazione “non personale”

Possiamo a questo punto ritornare sulla struttura attanziale e relazionale


che avevamo visto definire l’enunciazione nei suoi rapporti con
l’enciclopedia (sistema/uso) e l’enunciato. Blanchot ci insegnava un
movimento in cui ciò che è mio e mi definisce in quanto soggetto (“la mia
infelicità”) dipende costitutivamente dalla felicità di un “altro”, dove questo
“altro” non definisce più nessuna supposta persona detta terza, bensì la
forma impersonale dell’evento, del già detto, dei cliché, di tutti gli enunciati
già enunciati contenuti nell’enciclopedia. Si tratta di un punto di vista
“impersonale” enciclopedico, che l’istanza dell’enunciazione deve
convertire in enunciato, modulando questo punto di vista enciclopedico
attraverso il proprio. Enunciare non significa altro che modulare il punto di
vista di qualcun altro (un “già detto”, un “abito interpretativo”, un “cliché”,
una “grande opera” ecc.) che noi facciamo proprio modificandolo attraverso
il nostro stesso punto di vista. Enunciare significa modulare l’enciclopedia
attraverso il nostro sguardo e inviare un nunzio di noi stessi che parla di noi.
La pagina non è mai bianca, la tela non è mai vuota ed enunciare significa
istituire un concatenamento enciclopedico in cui il nostro enunciato è
l’effetto della coniugazione di una voce “personale” con una voce
“impersonale”.
L’enciclopedia è allora questa voce impersonale, questo “IL” che noi
moduliamo, questa voce che noi concateniamo alla nostra come Antonioni
concatena la sua a quella di Monica Vitti. Enunciare è questa sorta di
concatenamento enunciativo in cui moduliamo il punto di vista di un “altro”
enciclopedico, “IL”, attraverso il nostro punto di vista. Per questo enunciare
significa sempre costruire un’enunciazione (quella del già detto
enciclopedico) presa in un enunciato (quello formulato dall’istanza
dell’enunciazione) che dipende a sua volta da un’altra enunciazione (quella
dell’istanza dell’enunciazione). Per questo l’enunciazione è una specie del
genere interpretazione in cui si invia un nunzio che parla per noi stessi,
nunzio che dice che ciò che lui dice è la stessa cosa che noi stessi diciamo
(interpretante). Enunciare significa portare a compimento l’enciclopedia,
modularne il punto di vista attraverso il nostro e con questo modificarlo,
stravolgerlo, anche distruggerlo.
Ci pare allora questo il senso profondo di questo nostro percorso: a
partire da Blanchot vedevamo come si potesse costruire una teoria
dell’enunciazione unificata non più fondata sulle “persone” e sugli “io-qui-
ora” che ne sono correlativi, bensì sulla rete di relazioni attanziali che
regola il rapporto tra le virtualità enciclopediche e le istanze che si
muovono al loro interno e se ne appropriano, dando così vita a enunciati. Si
trattava di una teoria dell’enunciazione impersonale (non fondata sulla
categoria di persona), che ci restituiva una concezione della soggettività che
definivamo “libera e indiretta”. Per questo partivamo da una teoria dei punti
di vista, e a partire da questa eravamo in grado di capire quale fosse la
forma di relazione costitutiva di un discorso indiretto libero. Questo
ovviamente non voleva affatto dire che tutte le enunciazioni hanno la forma
dell’indiretto libero (vediamo ovviamente che esistono anche “oggettive” e
“soggettive”, “discorsi diretti” e “discorsi indiretti”), ma voleva dire una
cosa ben più semplice, ma forse anche più profonda e importante, e cioè che
la forma dell’indiretto libero, ossia la modulazione di un punto di vista
attraverso un altro punto di vista, era la stessa forma che definiva il rapporto
tra le virtualità enciclopediche impersonali (l’IL) e i soggetti che se ne
appropriano. Avevamo cioè cambiato di livello e non ci ponevamo più a
livello di una teoria del punto di vista interno all’enunciato, bensì a livello
del rapporto tra soggetto ed enciclopedia, e cioè a livello della descrizione
di quell’“occupante senza posto” la cui assenza è presentificata
nell’enunciato.
Ci pare allora di poter riconoscere questo rapporto nella modulazione di
un punto di vista (quello delle virtualità enciclopediche) da parte di un
altro punto di vista (quello del soggetto), che definisce un concatenamento
enunciativo in cui un’enunciazione impersonale (gli abiti enciclopedici, i
cliché, gli stereotipi, le pagine sempre traboccanti proprio nel loro essere
bianche) è presa in un enunciato (quello dell’istanza dell’enunciazione), che
dipende a sua volta da un’altra enunciazione (quella del soggetto
dell’enunciazione).
Il discorso indiretto libero ci permetteva insomma di scoprire la forma di
relazione propria di quell’istanza dell’enunciazione, che prima era soltanto
formale (occupante senza posto), a livello della seconda anima della teoria
dell’enunciazione, e cioè di quella che pensa il soggetto dell’enunciazione
come un’istanza di mediazione tra virtualità (per noi enciclopediche) e
attualità realizzate nell’enunciato. Perché un conto è occuparsi del rapporto
tra l’enunciato e l’istanza dell’enunciazione in quanto ricostruita a partire
dalle sue tracce nell’enunciato, e un conto è occuparsi del rapporto tra
l’istanza dell’enunciazione e le virtualità enciclopediche (sistema) che
devono essere convertite in enunciati (processo) attraverso di essa. A
proposito di questo ultimo punto, ci sembrava di poter dire che gli enunciati
non provengono affatto da un “IO”, da un soggetto dell’enunciazione che se
li attribuisce débrayandosi, ma provengono invece da un “IL” impersonale
e enciclopedico, un SI parla, di cui il soggetto dell’enunciazione è parte e i
cui enunciati non sono altro che la modulazione di un punto di vista
enciclopedico preesistente attraverso un nuovo punto di vista
(concatenamento enunciativo).
Ci pare allora che Michel Foucault si sia spinto molto avanti in questa
teoria dell’enunciazione come la stiamo proponendo qui, mostrandone in
diversi punti l’euristicità nell’analisi, come noi stessi ci proponiamo di fare
in un prossimo lavoro.
Ci sono qui delle possibilità di scoprire nuove differenze tra l’enunciato da una parte e, dall’altra,
le parole, le frasi o le proposizioni. Le frasi rinviano infatti a un cosiddetto soggetto di
enunciazione che sembra avere il potere di far iniziare il discorso: si tratta dell’IO in quanto
persona linguistica irriducibile all’EGLI, anche quando non sia formulato esplicitamente; dell’IO
in quanto articolatore e autoreferenziale. La frase viene dunque analizzata dal duplice punto di
vista della costante intrinseca (la forma dell’IO) e delle variabili intrinseche (perché colui che
dice Io viene a riempire la forma). Completamente diverso è il caso dell’enunciato: quest’ultimo
non rinvia a una forma unica, ma a delle posizioni intrinseche estremamente variabili che fanno
parte dell’enunciato stesso. […] Uno stesso enunciato può quindi occupare più posizioni, più
posti di soggetto […]. Ma tutte queste posizioni non sono le figure di un IO primordiale da cui
deriverebbe l’enunciato: esse derivano, al contrario, dall’enunciato stesso, e a questo titolo sono i
modi di una “non-persona”, di un “EGLI” o di un “SI” – “Egli parla”, “Si parla” – che si specifica
a seconda della famiglia di enunciati. Foucault si collega così a Blanchot che denuncia ogni
“personologia” linguistica, e colloca i posti di soggetto nello spessore di un mormorio anonimo.
Foucault vuole prendere posto in questo mormorio senza cominciamento né fine, là dove gli
enunciati gliene assegnano uno. E si tratta forse dei suoi enunciati più appassionanti. (Deleuze,
1984, pp. 17-18)

Fondare l’enunciazione sul “SI parla” proprio di un “libero indiretto”,


non vuol dire assolutamente riproporre le vecchie e ingenue teorie secondo
cui saremmo parlati dalle lingue o dai sistemi di segni. Prendiamo infatti in
considerazione proprio questa polverosa diatriba sul fatto se siamo noi o se
invece sia la lingua (o il sistema semiotico) a parlare. Nel primo caso
sarebbe come un discorso diretto: saremmo cioè noi a esprimerci, e il nostro
parlare sarebbe sempre come in un virgolettato e avrebbe sempre
l’autenticità della parola in prima persona. Al contrario, se fosse la lingua a
parlare, il nostro discorso sarebbe sempre un discorso indiretto, o meglio,
un discorso indiretto mascherato da discorso diretto, in cui noi diremmo
qualcosa che è in realtà il discorso di un altro (della lingua ad esempio). Ma
in una prospettiva interpretativa qual è quella che stiamo sostenendo qui,
l’enunciazione non presenta la forma di relazione31 né di un discorso diretto
né di un discorso indiretto, bensì quella di un discorso libero indiretto, in
cui un punto di vista ne modula un altro all’interno di un concatenamento
enunciativo, in cui la soggettività semiotica non è mai qualcosa di distinto
dalla bava e dai detriti della semiosi in cui essa si trasforma e si riflette.
Occupante senza posto, posizione mobile disseminata nei piani
enciclopedici, il “soggetto” dell’enunciazione non parla né è parlato, ma è
sempre costitutivamente preso in un concatenamento enunciativo da cui
dipende la possibilità stessa della sua parola. È la struttura stessa
dell’enunciazione che consiste nel modulare una voce enciclopedica altra
attraverso la mia voce. Enunciare è a suo modo sempre come scrivere un
saggio, in cui l’enunciazione è personale esclusivamente perché è
costitutivamente trans-personale, nel suo procedere modulando voci d’altri,
citate e non citate in bibliografia, ma più profondamente concatenate alla
nostra in modo libero e indiretto.
Da qui quello sdoppiamento costitutivo che pulsa all’interno di ogni
enunciato tra un’enunciazione impersonale (quella enciclopedica) e
un’enunciazione personale che trasforma l’enunciazione impersonale
enciclopedica, modulandone il punto di vista attraverso il proprio.
L’enciclopedia ci restituisce una totalità virtuale di contraddizioni
incompossibili: al suo interno noi tracciamo un percorso, aggiungendo
sottrazioni, nel tentativo di seguire una strada che narcotizza alcune di
queste virtualità e ne attualizza delle altre. Perché il “SI parla” costitutivo di
un concatenamento enunciativo non è affatto la forma dell’impersonale
(“l’enciclopedia parla”) né quella del personale (“io parlo”), bensì è più
profondamente la struttura costitutiva del trans-personale, in cui
l’oggettività e l’intersoggettività costituiscono la struttura stessa della
soggettività.
È allora esattamente in questo concatenamento enunciativo in cui
all’interno di una medesima costruzione (enunciato) risuonano voci
differenti che consiste il SI parla, l’“ON parle”, tanto che la forma utilizzata
da Bachtin per nominare il libero indiretto si ricalca sul nome tedesco,
“Uneigentliche direkte Rede”, e cioè discorso diretto non personale (cfr. pp.
194 e 199). “Non personale”, non “impersonale”, che è tutt’altra cosa. Il
“SI” non è infatti affatto il modo dell’impersonale così come non è quello
del personale, bensì, come lo definiva Heidegger (1927, p. 148), è quello
del “con-essere” e del “con-esserci”. “SI parla”, come si parla in un libro, in
cui il nome dell’autore è l’avatar delle idee della bibliografia, modulate in
un costitutivo “essere-insieme” (semi-soggettività indiretta libera).
Questa struttura trans-personale dell’enunciazione ci porta allora di
fronte al problema della prassi enunciativa, che è esattamente
“quell’insieme aperto di enunciazioni concatenate e sovrapposte, in seno al
quale sfuma ogni enunciazione singolare” (Fontanille, 1998, p. 102). A
questo proposito, crediamo che il modello benvenisteano-greimasiano
dell’enunciazione, fondato sulla categoria di “persona”, risulti davvero
radicalmente inadeguato, dal momento che non nasce affatto per rendere
conto di questo problema. Al fine di far luce su questo punto, e di
presentare così la nostra proposta, proveremo a proseguire nella nostra
isotopia diagrammatica e replicare la mossa fatta in precedenza,
rivolgendosi all’allargamento dell’idea di soggettività libera indiretta che
Pasolini fa a livello di una semiotica della cultura, e più precisamente a
livello del rapporto tra soggettività e forme enciclopediche sedimentate
nell’uso.

5.8. L’occupante senza posto che si muove nell’enciclopedia:


enunciazione e prassi enunciativa
Fin dall’inizio del suo “Intervento sul discorso libero indiretto”, Pasolini
(1972, pp. 82-83) nota infatti come ci siano “dei libri che sono per intero
dei discorsi liberi indiretti. Ossia: il frequentissimo uso dell’imperfetto
implica uno scrittore-narrante che a un certo momento, per un misterioso
bisogno di intercomunicabilità col suo personaggio, […] crea la condizione
stilistica necessaria per rendersi narrante attraverso il suo personaggio”. In
questo modo, Pasolini può definire il discorso libero indiretto come “una
forma grammaticale che serve a parlare attraverso il parlante – e subirne o
accettarne quindi la modifica psicologica e sociologica” (Pasolini, 1972, p.
81). Tuttavia, il vero intento di Pasolini, che è anche ciò che ci interessa qui,
è quello di staccare il discorso indiretto libero da una specifica forma del
discorso interna a una teoria del punto di vista, al fine di individuarne una
forma di relazione generale che possa valere a un livello semiotico
generale. L’esempio di Pasolini è infatti quello di Dante, nella cui opera non
si trovano affatto discorsi liberi indiretti nel senso tecnico del termine. E si
tratta di un esempio a cui occorre prestare estrema attenzione:
Non è certo Dante, nel suo contesto sia sociale che poetico, a usare delle parolacce o comunque
delle allocuzioni vivaci (“squadrare le fiche”, “fare del culo trombetta” ecc.): ma nell’atto in cui
Dante rappresenta figure del mondo equivoco, ecco che senza “viverlo” egli costruisce una specie
di Libero Indiretto, lessicale più che grammaticale, […] incastonandolo sempre nel tessuto
linguistico dominante, che non ammetterebbe intromissioni altrui. […] Dante si è valso di
materiali linguistici gergali. Che certamente egli stesso non usava, né nella sua cerchia sociale, né
in quanto poeta. L’uso è dunque mimetico, e se non si tratta di una vera e propria mimesis vissuta
grammaticalmente, è certamente una sorta di emblematico Libero Indiretto, di cui c’è la
condizione stilistica, non quella grammaticale poi divenuta comune: essa è piuttosto lessicale.
(Pasolini, 1972, p. 86)

Che cos’è allora il libero indiretto in questa prospettiva in cui esso


“presta la sua interna struttura pressoché a ogni forma narrativa” (Pasolini,
1972, p. 92)? È una sorta di incursione in un sistema parzialmente altro, in
cui qualcosa si distacca da se stesso (débrayage) per calarsi in un sistema
che gli è meno proprio e ritornare poi indietro col suo bottino, creando così
un effetto di indiscernibilità in cui due voci risuonano insieme, pur
rimanendo al contempo distinte. Pasolini nota giustamente che non è Dante
a parlare, ma è un altro: è un altro che parla attraverso Dante, e Dante esce
da se stesso verso questo altro, concatenandone la parola alla propria in un
costitutivo essere-insieme, in cui un punto di vista modula quello dell’altro.
Pasolini (1972, p. 88) fa l’esempio di Gadda, che partiva dalla lingua alta
“per le sue incursioni, le sue mimesis negli strati bassi della lingua, nelle
sottolingue dialettale o dialettizzate […] ed era alla lingua alta che ritornava
con il suo bottino”, operando così una “contaminazione, un urto tra due
anime, talvolta profondamente diverse” (p. 92). Proprio in quanto
“contaminazione-urto”, un Libero Indiretto per Pasolini è anche il
procedimento della pop-art in cui l’artista mescola al disegno e al colore
oggetti quotidiani, collages e giornali, riportandoli indietro in un’opera
“alta”.
Nella pittura è ormai tradizionale la presenza di un Libero Indiretto sia pure fortemente
contaminatorio: la tradizione si è formata con le avanguardie pittoriche del primo Novecento
(collages di giornali e altri oggetti mescolati con la tecnica tradizionalmente pittorica del disegno
e del colore), e ora esplode specialmente con la pop-art: l’oggetto cui ricorre il pittore per
arricchire il suo testo è simile al lacerto parlato, che un autore riferisca, registrato, in un contesto
altamente espressivo di scrittura letteraria. […] Nel centro di un discorso complesso e squisito
vediamo “schiaffato” un pezzo brutale di realtà parlata, sia piccolo-borghese che popolare. […]
Su tale materia colta, si opera violentemente e brutalmente una dilacerazione, una falla, da cui
irrompe l’altra materia, quella che compone l’oggettività sfuggita all’intellettuale-poeta.
(Pasolini, 1972, 94-95)

Non si tratta semplicemente di un débrayage dal disegno/colore (pittore)


verso l’oggetto, e poi di un ritorno dall’oggetto al disegno/colore
(embrayage), ma sempre di un andare in entrambe le direzioni a un tempo:
un divenire-oggetto del disegno/colore e un divenire-disegno/colore
dell’oggetto, un divenire-arte del quotidiano e un divenire-quotidiano
dell’arte. Il pittore è sempre allo stesso tempo parte dei due mondi, sebbene
uno gli sia più proprio. Ecco allora che i due sistemi si fondono, pur
rimanendo allo stesso tempo distinti: l’arte accoglie in sé gli oggetti
quotidiani senza con questo cessare di essere arte, così come gli oggetti
quotidiani diventano parti dell’oggetto artistico senza con questo cessare di
essere ciò che sono, in un costitutivo essere-insieme. È esattamente in
questo senso che il soggetto della prassi enunciativa deve sempre instaurare
una ratio tra un dominio enciclopedico che gli è più proprio e un dominio
enciclopedico che gli è meno proprio, facendo irrompere una materia
“altra” all’interno della prima, senza che con questo essa cessi di essere ciò
che è.
Occorre allora soffermarsi su questo particolarissimo “débrayage” che è
proprio dell’indiretto libero a livello della prassi enunciativa, che ci pare
assolutamente degno di interesse. Il soggetto della prassi enunciativa è
sempre già parte di un sistema che gli è proprio e che localmente ne
definisce l’identità enunciativa (“sistema sociale-poetico di Dante”, “lingua
alta di Gadda” di cui parla Pasolini ad esempio). Per questo egli è sempre
già fuori, è sempre già disinnescato ben prima di débrayarsi.
Questo ci consente di fare chiarezza su un punto che riteniamo
particolarmente importante. A livello di una teoria della prassi enunciativa,
l’istanza dell’enunciazione non può mai essere definita da un “io-qui-ora”
che definisce la categoria della persona con la sua presenza a se stessa. Per
questo la teoria dell’enunciazione della semiotica generativa, che nasceva
per rendere conto innanzi tutto dell’apparato formale dell’enunciazione, non
può essere utilizzata al fine di costruire una teoria dell’enunciazione
unificata, capace di rendere conto di tutti gli aspetti del fenomeno semiotico
dell’enunciazione. Nel momento in cui si passa dall’enunciazione alla
prassi enunciativa infatti, l’istanza dell’enunciazione, immersa nei reticoli
enciclopedici in cui rimane imbrigliata, è sempre costitutivamente
disseminata su mille piani, che concatena l’uno in rapporto all’altro
nell’atto di enunciazione. Per questo il suo statuto non può mai essere
quello di un “io-qui-ora”. La semiotica generativa, con tutte le sue giuste
attenzioni al “non ricadere in quell’ontologia del soggetto di cui la
semiotica si è liberata a fatica”,32 non fa però altro che assumere per il suo
soggetto dell’enunciazione la posizione “maggiore” dell’ontologia
occidentale, e cioè “la presenza del soggetto a se stesso”,33 ignorando così
completamente quella dimensione e-statica (protensivo/ritensiva) di
progetto che ne costituisce la specificità più propria, e che schiva sempre la
“semplice presenza” (cfr. Heidegger, 1927). Strana posizione davvero
quella di chi non vuole fare dell’ontologia e, allo stesso tempo, assume
l’ontologia che il nostro linguaggio ci ripete costantemente.
Non è allora un caso che la nozione di presenza a se stessi, che nella
tradizione greimasiana definiva il soggetto dell’enunciazione, finisca per
diventare in Fontanille (1998, pp. 92-93) il principio stesso di produzione
della semiosi:
Dal punto di vista del discorso è l’atto di enunciazione che produce la funzione semiotica. […] Il
primo atto è dunque quello della presa di posizione: enunciando, l’istanza del discorso enuncia la
sua propria posizione; essa è allora dotata di una presenza (tra le altre, di un presente) che servirà
da riferimento all’insieme delle altre operazioni. […] Il termine “brayage” è costruito a partire dai
suoi derivati più conosciuti: il débrayage e l’embrayage. Una volta che la prima presa di
posizione è compiuta […] altre posizioni potranno essere conosciute e messe in relazione con la
prima. (Fontanille, 1998, pp. 92-93)
Evidentissima in Fontanille la decisione di fondare tutta la semiotica
sull’istanza dell’enunciazione come centro di organizzazione, che servirà
poi da riferimento a tutte le altre operazioni semiotiche. Così com’è
evidente la decisione di pensare all’istanza dell’enunciazione sulla base
della sua semplice presenza, conformemente alla mossa “dialogica”
benvenistiana. Non solo. Si nota qui, ancora una volta, la differenza
costitutiva tra una fenomenologia di origine merleu-pontyana e una
faneroscopia peirciana: se per entrambe il problema è quello di rendere
presente, di “presentare”, la faneroscopia peirciana ci mostra come questo
rendere presente sia possibile solo ripresentando, tanto che la presenza a se
stessi e il presente, propri del soggetto dell’enunciazione, sono sempre
funzione di una ripresentazione triadica e interpretativa che, sola, rende
possibile ogni presente (cfr. supra, capitolo 2). Da qui l’idea peirciana
dell’uomo-segno, in cui neppure l’istanza dell’enunciazione sfugge alla
legge ripresentativa del representamen fondata su di una Logica dei
Relativi, in cui è la relazione a definire l’identità dei termini.
Non è allora un caso che un’istanza dell’enunciazione fondata su di una
“presenza” d’ispirazione fenomenologica non potrà che essere basata sul
primato della percezione e del sensibile, come avevamo già ampiamente
sottolineato nel delineare in precedenza la radicale differenza tra
fenomenologia e faneroscopia peirciana.
Merleau-Ponty precisa: “Percepire vuol dire rendere presente qualcosa con l’aiuto del corpo”. Se
a nostra volta noi affermiamo: “Enunciare vuol dire rendere presente qualcosa con l’aiuto del
linguaggio”, non facciamo altro che prolungare l’assioma fenomenologico e farne un assioma
semiotico. […] Il primo atto di linguaggio consiste nel “rendere presente” […]. L’operatore di
questo atto è dunque il corpo proprio, un corpo senziente che è la prima forma che prende
l’attante dell’enunciazione. (Fontanille, 1998, 92-93)

Questa posizione, che pensa all’istanza dell’enunciazione come fondata


sulla presenza del corpo e sul primato del sensibile, verrà poi ancor più
radicalizzata in Figure del corpo, dove la posizione del brayage verrà presa
dal Me-Carne, e cioè da un’istanza corporea concreta che è davvero
qualcuno di sensibile (io) in un certo punto (qui) a un certo momento (ora).
A partire dai débrayage di questa istanza del Me-Carne, che è
concretamente “io, qui e ora”, verranno poi ricavate le altre due istanze che
definiscono la posizione dell’enunciazione in Fontanille 2004 (Sé-ipse e Sé-
idem, come istanze delle “mire” e delle “prensioni”).
È allora ben evidente come la teoria di Fontanille porti a compimento con
una coerenza radicale quella decisione, che stiamo criticando, di fondare
tutto il linguaggio e la semiosi attorno al centro organizzatore rappresentato
dall’istanza dell’enunciazione (Greimas) e dalla “persona” (Benveniste).
Ritroviamo in fondo qui il gesto originario di Benveniste, che pensava alla
linguistica dell’enunciazione a partire da attori concreti in situazione
dialogica di discorso in presenza, che si è dovuto necessariamente
oltrepassare per poter fondare una teoria dell’enunciazione unificata che
sappia rendere conto anche dei rapporti esistenti tra i repertori enciclopedici
sedimentati dall’uso e quell’istanza semiotica che ne rappresenta “la bava e
i detriti”, come diceva Eco (prassi enunciativa).
Perché la realtà è che ogni soggetto della prassi enunciativa è già sempre
débrayato ben prima del suo atto di enunciazione: esso è disseminato pro-
gettualmente nelle pratiche, nei testi e nei repertori enciclopedici
sedimentati dall’uso. Mobile, egli è già sempre protensivamente (non-ora)
disseminato all’interno di piani enciclopedici (non-qui) che ne definiscono
l’identità (non-io): esso “non è concepito come un’istanza-fonte dotata di
un’esistenza propria anteriore al débrayage”, perché esso è già sempre
originariamente débrayato all’interno di mille piani enciclopedici, e non
esiste semioticamente al di fuori di essi. Per questo soggetto disseminato su
mille piani enciclopedici, di cui alcuni sono più familiari di altri, enunciare
significa operare quella mimesis tra piani enciclopedici eterogenei di cui ci
parlava Pasolini, installare quella ratio tra il più e il meno proprio, come
negli esempi di Dante e di Gadda. Ben lungi dal disinnescarsi da se stesso,
il soggetto della prassi enunciativa parte da questa situazione proiettiva in
cui esso è sempre originariamente débrayato in almeno due sistemi e ne
opera una mimesis, concatenando un dominio all’altro.
Occuparsi del soggetto della prassi enunciativa significa scoprire in esso
una soggettività semiotica che non è quella della presenza a se stessi (io,
qui, ora) e del suo continuo disinnesco nell’enunciato, bensì quella di un
distacco originario che è già sempre pro-gettato nell’enciclopedia. Sempre
spostato rispetto a se stesso, sempre disseminato nei piani con cui si
determina reciprocamente, il soggetto manca sempre al suo posto, come il
libro fuori posto in una biblioteca. Michel Serres (1972, 134-135) ci
fornisce allora una bella descrizione di questo soggetto semiotico,
occupante senza posto nel reticolo enciclopedico che non cessa di
concatenare in un “libero indiretto”.
Non ci sono poli nella mia direzione, non ci sono che stazioni diffuse, sono senza sosta sia qui che
altrove. Il ritorno alla mia situazione è il riassunto dell’erranza, e non la sua liberazione. È non
lasciando più Dublino che Ulisse diventa il doppio di Dedalo. […] Questo vuol dire che il luogo
di chi pensa, sia che rifletta la teoria o cerchi di vedere il mondo, non è qui e ora [… ] ma è, al
contempo, mobile come Ulisse e immobile come i mille fili di Arianna. Chi pensa erra e tesse la
sua erranza, non essendo mai accreditato, essendo sempre in riposo e in movimento, relativo e
assoluto; relativo in rapporto ai reticoli che intercetta, compresi quelli che costituisce, cosciente e
vivente all’interno del mondo delle interferenze. Ma relativo, infine, come monade eco di mille
voci […] Liberarsi della fissità è la prima questione. (Serres, 1972, pp. 134-135)

Liberarsi dalla fissità dell’“io-qui-ora” per pensare ogni atto di


enunciazione come l’eco singolare di mille voci enciclopediche. La
soggettività semiotica costitutiva della prassi enunciativa vive dei reticoli in
cui è intercettata e che traccia con il proprio percorso, ma questo percorso è
sempre il risuonare di mille voci, in cui ogni enunciazione è la modulazione
di un precedente punto di vista enciclopedico.
Chi enuncia (il soggetto della prassi enunciativa), cosa enuncia
(l’enunciato) e a partire da cosa lo enuncia (le virtualità enciclopediche
nella loro costitutiva intersoggettività) non sono sistemi distinti di cui il
soggetto dell’enunciazione opererebbe una mediazione o una costituzione
(così nella semiotica del corpo). Al contrario, si tratta di un unico sistema
eterogeneo di cui il soggetto dell’enunciazione è parte e da cui, a ogni atto
di enunciazione, cerca di distinguersi come da un qualcosa da cui non può
distinguersi, dal momento che questo qualcosa ne definisce l’identità. Come
il lampo si differenzia dal cielo nero portandoselo dietro, così l’enunciato si
differenzia dall’enunciazione, ma portandosela dietro, nei termini e nella
misura dell’assenza presentificata dalle tracce dell’enunciazione
nell’enunciato. Come il lampo si differenzia dal cielo nero portandoselo
dietro, così la prassi enunciativa si differenzia dal rizoma enciclopedico, ma
portandoselo dietro, esprimendolo in un concatenamento enunciativo in cui
le voci risuonano e si fondono insieme, pur rimanendo al contempo distinte.
Sintesi disgiuntiva dell’enunciazione e dell’enunciato (apparato formale
dell’enunciazione), dell’enciclopedia e della soggettività (prassi
enunciativa).

5.9. Semiotica, fenomenologia ed ermeneutica

Ci è parso allora in diversi punti che una teoria semiotica


dell’enunciazione manifestasse alcune tangenze con una serie di
problematiche che sono al centro della riflessione filosofica ed
epistemologica contemporanea. Crediamo che la semiotica abbia il dovere
di confrontarsi con queste posizioni, a partire dalle proprie specificità. Per
quanto ci riguarda, noi insistiamo molto sulla determinazione reciproca che
è costitutiva degli attanti del “piccolo dramma” dell’enunciazione (sistema
enciclopedico, istanza dell’enunciazione, enunciato), dal momento che non
crediamo affatto che si tratti di sistemi distinti, bensì piuttosto di un unico
sistema eterogeneo (l’enciclopedia è l’insieme degli enunciati, l’istanza
dell’enunciazione è una parte dell’enciclopedia, l’enunciato è il prodotto
dell’istanza dell’enunciazione ecc.). Per questo insistiamo sull’idea di
concatenamento enunciativo, in cui scompare la discernibilità dei termini in
rapporto. Per questo insistiamo al contempo sulla struttura trans-personale
del “SI parla”, in cui l’oggettività e l’intersoggettività costituiscono la
struttura stessa della soggettività. Enunciare non è infatti l’effetto di un
unico punto di vista (quello del “soggetto”), bensì è sempre l’effetto di un
concatenamento enunciativo in cui un punto di vista (il nostro) ne modula
un altro (quello dell’enciclopedia), in cui questo “altro” si trasforma e si
riflette.
Questa posizione si differenzia allora da quella sostenuta ad esempio da
Fontanille e, prima di lui, dalla fenomenologia. La fenomenologia ha infatti
sempre pensato all’alterità come alla struttura correlativa della soggettività,
ma non è mai andata nella direzione radicale di una costitutiva
determinazione reciproca dei due elementi, all’interno di una concezione
differenziale della soggettività, e più in generale dell’identità. Questo non
solo si evince da tutti i problemi husserliani della costituzione dell’altro,
che tagliano da parte a parte le Meditazioni Cartesiane e la Crisi delle
scienze europee,34 ma questa posizione è tanto più evidente proprio
nell’analitica esistenziale di Essere e tempo di Heidegger, dove la mondità
del mondo è una parte dell’esistenza stessa, il CI dell’esserci. Nella
fenomenologia ermeneutica precedente alla svolta heideggeriana della
Kehre, è cioè sempre il soggetto a gettare la sua luce sul mondo, che in
Essere e tempo è ad esempio una struttura correlativa dell’esistenza stessa:
un “esistenziale”, come dice Heidegger. Non è infatti un caso che il “SI”,
che rappresenta per noi la struttura stessa della soggettività, venga definito
in Essere e tempo come “la dimensione inautentica dell’esistenza”.
A partire da un ambito semiotico, sono allora venute alcune critiche, a
nostro parere decisive, a questa impostazione fenomenologico-ermeneutica,
la cui scarsa eco è di fatto la manifestazione dell’assoluta mancanza di un
dialogo vero e costruttivo tra semiotica e filosofia. Abbiamo già esposto in
maniera dettagliata le differenze tra la faneroscopia semiotica di Peirce e la
fenomenologia di ispirazione heideggeriano/merleau-pontyana (cfr. supra,
capitolo 2). Vogliamo ora insistere sulle argomentazioni che Eco mette in
opera nel capitolo 1 di Kant e l’ornitorinco.
Eco (1997, pp. 16-20) si concentra sul concetto heideggeriano di
differenza ontologica, così come esso viene formulato innanzi tutto in
Essere e tempo e negli scritti precedenti alla Kehre, e sostiene con forza che
nel momento in cui si riconosce la costitutiva semioticità del nostro
rapporto con gli enti, non c’è alcun bisogno di duplicare essere ed ente (p.
17). Com’è noto, l’essere in Heidegger è la luce che rende visibile l’ente,
l’apertura luminosa in cui l’ente viene alla presenza sotto un certo rispetto,
in cui esso emerge in quanto fenomeno. L’idea di Eco, di origine
aristotelica, è allora che l’essere sia un effetto di linguaggio, e che dunque
sia il linguaggio a gettare la sua luce sull’ente e a renderlo visibile; tanto
che, nel discutere l’Analitica esistenziale heideggeriana, Eco nota come,
posti davanti all’essere-per-la-morte, l’angoscia ci fa sentire spaesati
nell’ente e ci toglie la parola: “Senza parola non c’è più ente” (Eco, 1997, p.
16). Eco si pone così sulla scia peirciana, in cui è il segno interpretante a
gettare la sua luce sull’oggetto, rendendolo così visibile, e questa luce è
essenzialmente discorsiva (un “dire”), tanto che senza il dire che è proprio
dell’interpretante non c’è ente, visto che non c’è luce che lo rende visibile e
lo manifesta in quanto fenomeno. Eco nota allora giustamente come, per il
primo Heidegger, “l’essere si manifesta solo nel e per il Dasein. Per cui non
si può parlare dell’essere se non in riferimento a noi in quanto siamo gettati
nel mondo” (Eco, 1997, p. 16).
In Essere e tempo infatti, l’Esserci (Dasein) è costretto ad affidare la
scoperta preliminare del mondo alla propria semplice e prelogica situazione
emotiva, che insieme alla comprensione, costituisce i due cooriginari modi
dell’essere del CI, che nell’analitica esistenziale rivendicano il primato
dell’affettivo (e dunque dell’estetico) nella strutturazione dell’apertura in
cui l’Esserci consiste. L’estetico è la forma stessa dell’Esserci, in quanto
affettività consistente in una “conoscenza” che non è più puramente logico-
teoretica. In questo modo, l’estetico struttura ed esaurisce l’esistenza
(comprensione situata) e il suo sapersi mano a mano (interpretazione). Si
vede ancora una volta il primato del “sensibile” e del “percettivo”
(dell’“estetico” in senso lato), che è costitutivo di tutte le teorie di
impostazione fenomenologica, pur variamente declinate. Correlativamente,
la comprensione è per Heidegger ciò che è comunemente conosciuto come
progetto, come “poter-essere proprio dell’Esserci”, ed è essa stessa sempre
“emotivamente situata e, come tale, abbandonata esistenzialmente
all’essere-gettato”.35
Comprensione e situazione emotiva, in quanto modi dell’essere del CI
(apertura), riguardano la costituzione dell’essere-nel-mondo, e anzi aprono
proprio la mondità del mondo come totalità di significati. L’essere dell’ente
intramondano che vi si incontra non è il suo essere puramente presente (così
ad esempio in Fontanille), ma la sua utilizzabilità, la cui costituzione di
“mezzo-per” consiste nel rimando, e cioè in una struttura costitutivamente
semiotica. L’ente è infatti scoperto nel progetto dell’Esserci come qualcosa
che ha presso qualcos’altro il suo appagamento: ad esempio il martello
trova la sua appagatività nel martellare, questo nel costruire e quest’ultimo
nel riparo dalle intemperie che appare invece come “l’in-vista-di”, ossia
come la stessa progettualità dell’Esserci che aveva in precedenza scoperto
l’ente. Ma “quale appagatività sussista con un utilizzabile, è determinabile
solo nell’ambito di una totalità di appagatività”,36 ossia il presso-che-cosa
trovi appagatività ad esempio il martellare, è scopribile solo essendo in
qualche modo già intimi con la totalità delle relazioni, dei rimandi e dei
significati che costituiscono il mondo (circolo ermeneutico).
Quello che è interessante allora è che il mondo per Heidegger ha una
struttura costitutivamente semiotica e strutturale, essendo appunto una
totalità di relazioni, rimandi e significati (significatività). Questo mondo
semiotico è allora aperto dall’Esserci attraverso una comprensione del
senso, alla quale esso affida l’originaria scoperta della totalità dei significati
e dunque, più in generale, della luce dell’essere in cui è gettato. Si vede
allora bene come il senso sia sempre interrogato a partire dalla soggettività
costitutiva dell’Esserci, e come il semiotico sia sempre un effetto, e più
precisamente un effetto della luce gettata dall’apertura stessa dell’Esserci,
in cui esso stesso è gettato. In Heidegger la semiotica diviene possibile
perché il soggetto interroga il senso e vi getta la sua luce. Questa è ad
esempio la posizione di chi in semiotica si ispira oggi alla fenomenologia
(cfr. Fontanille, 2004, Basso, 2003). Ma non è la nostra però. Né era ad
esempio quella di Peirce.
In Peirce infatti è il semiotico – e non il soggetto (Esserci) – ad aprire il
campo di manifestazione in cui l’oggetto (l’ente) può apparire facendosi
fenomeno, e cioè segno (tutti i fenomeni sono segni in Peirce). La luce che
illumina l’ente è allora innanzi tutto propria del segno che illumina
l’oggetto sotto un certo rispetto, e non del soggetto. In questo modo, se
l’essere è la luce che rende visibile l’ente, questa stessa luce in Peirce è
assolutamente già interna al segno interpretante che lo manifesta. Per questo
la differenza ontologica tra essere ed ente, in una prospettiva semiotica, è un
raddoppiamento inutile non dell’ente, bensì del segno interpretante. Il
segno interpretante è già in sé una forma di luminosità che lascia sussistere i
sui oggetti solo come bagliori, luccichii, scintillii. Il segno possiede sempre
in sé la sua prospetticità e non la deve chiedere al soggetto, che non fa anzi
altro che modularla in un “libero indiretto”. Diremo insomma che il rizoma
enciclopedico ha già in sé la sua luce, la sua forma di luminosità che
proviene sempre da un suo punto interno, e non dalla trascendenza e-statica
del Dasein. Come dicevano Maturana e Varela (1984, p. 19), in un senso
molto vicino a quanto sostenuto qui, “l’osservatore interno al sistema è il
sistema stesso”.
Come voleva Eco (1997), da un punto di vista peirciano, il concetto
heideggeriano di “differenza ontologica” sembra allora diventare del tutto
superfluo. Se l’essere è la luce che rende visibile l’ente, il Sein
heideggeriano non è infatti altro che un raddoppiamento inutile non
dell’Oggetto Dinamico, ma dell’Oggetto Immediato; non della “cosa”, ma
della struttura semiotica che la “dice”; non dell’ente, ma del segno
interpretante. Proprio in questo senso Eco (1997, p. 17) poteva mettere in
discussione il raddoppiamento heideggeriano di essere ed ente e affermare
che “se l’esserci è l’ente che riconosce pienamente la natura semiosica del
suo rapporto con gli enti, non è necessario duplicare Seiende e Sein”.
Si è allora spesso equivocato sulla svolta heideggeriana, che rappresenta
invece esattamente una destituzione semiotica di tipo “peirciano” e
“interpretativo” del primato della soggettività e del corrispondente
asservimento a essa dell’alterità. Con la Kehre, Heidegger intende infatti
ribaltare questa posizione, che era anche la sua in Essere e tempo, mettere in
discussione proprio la sua stessa attribuzione della luce dell’essere
all’apertura della soggettività dell’Esserci, pensando in questo modo la
differenza in quanto differenza. Heidegger si fa con questo veramente
vicino a Peirce e a un’epistemologia costitutivamente semiotica, qual è
quella che si è sostenuta qui (cfr. supra, capitoli 1 e 3).
Secondo l’Heiddegger della Kehre, infatti, “la differenza ontologica è il
non tra ente ed essere”,37 l’affermazione di un tratto negato. Tuttavia,
questo “non” non rinvia mai al negativo o a una relazione oppositiva di
contraddizione, bensì alla differenza: “ciò che non è mai né in nessuna parte
un essente non si rivela come il Se-differenziante di ogni essente?”.38 Ecco
allora che questo Sé-differenziante non definisce un centro di comparazione
tra due termini tenuti a differire (l’essere e l’ente), bensì è il “tra” stesso, la
“piega”, la “differenza”, “Zwiefalt”, in cui due voci risuonano in una stessa
voce in cui si fondono, pur rimanendo al contempo distinte:
Lo stesso e l’uguale non si sovrappongono. L’uguale si applica sempre al senza-differenza, al fine
che tutto si accordi in esso. Lo stesso invece è appartenenza reciproca del differente a partire dalla
congiunzione operata dalla differenza. Non si può dire lo stesso se non quando la differenza è
pensata. […] Lo stesso esclude ogni fretta nel risolvere le differenze nell’uguale. Lo stesso
compone il differente in un’unione originaria. L’uguale invece si disperde nella scialba unità
dell’uno semplicemente uniforme. (Heidegger, 1954, p. 129)

Ecco che lo “stesso” heideggeriano incarna quella medesima “stessità” di


cui parlavano Leibniz e Peirce a proposito del punto-piega nel calcolo
differenziale, quando dicevano che in un intorno infinitamente piccolo la
retta si identifica con la curva, è lo stesso della curva, pur differendone al
contempo in natura.39 Ecco allora perché Heidegger dice che la differenza è
la Piega, Zwiefalt, Piega-tra-due, che è costitutiva dell’essere e della
maniera in cui l’essere costituisce l’essente. L’essere è effettivamente
differenza (dy/dx): da qui l’espressione “differenza ontologica”.
Heidegger riconosce in più punti come in Essere e tempo e negli altri
suoi scritti precedenti alla Kehre questa differenza, questo tra, questo
“punto-piega”, questa istanza di mediazione differenziante (Terzità) non
veniva pensata in sé, ma veniva invece trovata “nella trascendenza
dell’essere-qui proprio dell’Esserci”, e cioè veniva posta in funzione del
“soggetto”.40 Rendere immanente questa trascendenza, consegnando il
senso alla differenza e non all’Esserci, è esattamente ciò in cui consiste la
portata rivoluzionaria della Kehre, che stacca il secondo Heidegger dalla
fenomenologia husserliano/merleau-pontyana e lo rende vicino alla
semiotica di Peirce e allo strutturalismo. La luce si fa immanente al suo
stesso rapporto con l’ente senza passare attraverso la mediazione
dell’Esserci, esattamente come in Peirce è l’interpretante e non l’uomo a
gettare la sua luce sui singoli oggetti che illumina sotto un certo rispetto,
rimandandoli sempre alla differenza costitutiva con un’altra
rappresentazione interpretante, che dice che ciò che essa dice è la stessa
cosa detta dal primo interpretante sotto un altro rispetto.
Ecco un’incarnazione di stessità e differenza nello spirito in cui ne
parlava Heidegger, quando diceva, nel brano riportato qui sopra, che è
soltanto quando la differenza è pensata che si può dire lo stesso, che si può
dire cioè la stessa cosa. E l’accento va posto sul “dire” esattamente come
sullo “stesso”. Consegnare la luce che rende visibile l’oggetto
all’interpretante e non all’uomo, consegnare la luce che rende visibile l’ente
alla differenza e non all’Esserci, ecco la svolta di Heidegger (Kehre):
Se l’essere stesso può illuminare nella sua verità la differenza che esso preserva in sé dell’essere e
dell’ente, può farlo soltanto quando la differenza si manifesta a sua volta specialmente.
(Heidegger, 1954, p. 50)

Per quanto ci riguarda, concordiamo perfettamente con Eco sul fatto che
gnoseologicamente la differenza ontologica sia un raddoppiamento inutile
non dell’ente, ma dell’interpretante. Allo stesso modo, ci rendiamo però
conto di come, con il rapporto tra essere ed ente, Heidegger ci insegni a
staccare l’alterità dal giogo della soggettività, che ne è invece costituita. Per
questo una semiotica interpretativa di ispirazione peirciana, se deve
mantenere un rapporto con la fenomenologia, deve farlo esclusivamente in
funzione della svolta heideggeriana, e non certo con chi quella svolta non
l’ha mai recepita, come ad esempio Merleau-Ponty.

5.10. Conclusioni

Si è spesso detto: ogni testo nasce da un débrayage originario che


disinnesca le categorie del qui, dell’io e dell’ora dal soggetto
dell’enunciazione. Questa teoria ci sembra sostituire un centro
organizzatore personale (nel senso della categoria della “persona”) e
antropocentrico a dei movimenti ben più complessi, tanto che già Latour
(1999) mostrava come questo sistema non fosse altro che uno solo dei
regimi di enunciazione, una sola tra le differenti forme di passaggio
possibili. Per quanto ci riguarda, chiamavamo “interpretazione” questa
forma di passaggio più generale in cui si invia un nunzio, in cui ci si e-
nuncia attraverso tutta una serie di delegati. Ecco allora che ogni testo,
come ogni e-nunciazione, nasce da un concatenamento in cui l’istanza
dell’enunciazione si installa in una posizione di soggetto interna
all’enciclopedia, che modula attraverso il suo punto di vista, non cessando
di istituire una mimesis tra sistemi enciclopedici eterogenei. “Enunciare”
significa più profondamente e-nunciarsi, inviare il nunzio di noi stessi
attraverso cui “SI parla”, in un’enunciazione che è presa in un enunciato
che dipende a sua volta da un’altra enunciazione.
È questo concatenamento enunciativo, è questo mormorio anonimo di un
“SI parla” che non è mai né personale né impersonale, ma sempre
costitutivamente trans-personale (“con-esserci”), ciò che definisce l’essenza
stessa del nostro inviare dei nunzi. Perché noi enunciamo per differenziarci
come tutti, per affermare la nostra unicità rispetto a qualcosa da cui ci
distinguiamo, ma da cui ci distinguiamo come qualcosa da cui non ci
possiamo distinguere, dal momento che questo “altro” costituisce la nostra
stessa identità. È allora questo mormorio trans-personale del “SI parla” ciò
che costituisce quell’alterità che definisce la soggettività stessa, a dispetto
di chi desiderava centrare la soggettività del linguaggio sulla categoria
formale (Benveniste) e sostanziale (Fontanille) della “persona”. Come
diceva Calvino, tutto quello che abbiamo in comune è ciò che è dato a
ciascuno come qualcosa di esclusivamente suo. Perché nel momento in cui
ci interroghiamo sul senso e sulle sue dinamiche, abbiamo sempre a che
fare con qualcosa che è per sua stessa essenza “interamente personale e
interamente pubblico, con qualcosa in cui il massimo dell’individualità va
insieme al massimo della condivisione, con qualcosa che deve essere
fondato su di una prospettiva in cui l’alterità risulta essere non soltanto una
dimensione dell’intersoggettività, bensì il fondamento costitutivo della
soggettività stessa” (Violi, 2004a).
Per questo il discorso libero indiretto è per noi un vero e proprio avatar
della soggettività semiotica: in esso si parla attraverso qualcun altro, in un
concatenamento enunciativo in cui risuonano gli accenti di più voci, che si
fondono insieme pur rimanendo distinte. Per questo non ci siamo citati mai:
sarebbe stato come citare un altro; mentre citare gli altri è sempre un po’
come citare noi stessi, quello che siamo divenuti concatenando la loro
parola alla nostra. Ecco perché le bibliografie sono sempre una parte
costitutiva degli autori, di noi e dei nostri libri, la parte più importante del
nostro lavoro in cui il nostro nome spicca e spiccherà sempre per la propria
assenza, presentifi-cando così l’assenza di un soggetto dell’enunciazione
che non è altro che questa stessa assenza, che installa nunzi e delegati
attraverso cui parla, attraverso cui “SI parla”.
Non sappiamo se il libro possa essere “immagine del mondo”, come da
topos della nostra cultura. Di sicuro esso è immagine della sua stessa
enunciazione, in cui il nome dell’autore è l’avatar delle idee della
bibliografia che vengono citate e non citate, ma che, anche quando non
sono citate in un discorso diretto o riportate in un discorso indiretto, sono
sempre concatenate alle nostre, che le esprimono modulandole in modo
libero e indiretto. Il già detto enciclopedico pulsa sempre nella nostra
parola, anche quando è formalmente assente dal discorso di un autore che
ha tentato di cancellarne le tracce. “SI parla”, come fanno tutti.
Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura
e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla “gran massa” come ci si tiene lontani,
troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso. (Heidegger, 1927, p. 163)

Si è sempre amato questo passo, che ben lungi dal definire “un’esistenza
inautentica”, definisce quel livello dove le cose più alte sono ottenute, quel
livello separato da un abisso rispetto al punto in cui la scienza, l’arte, la
letteratura e la filosofia sono semplici manifestazioni della personalità,
semplici manifestazioni della categoria della “persona”. Queste cose non
sono né personali né impersonali, ma sempre costitutivamente trans-
personali. Come diceva Simone Weil, esse “sono essenzialmente anonime”.
Per questo la bibliografia ci definisce nella nostra stessa identità.
1
L’interpretante per Peirce è proprio una “rappresentazione mediatrice” a cui “si delega la parola”,
come ad esempio il traduttore per l’autore (cfr. CP, 1).
2
Cfr. Manetti, 1998, p. 40.
3
Non è infatti un caso che i più “benvenistiani” tra i semiotici, e cioè Coquet (1997) e Fontanille
(1998 e 2004), abbiano poi radicalizzato questa situazione “in presenza” che presiede alla
definizione della persona linguistica, incarnandola in una corporeità semiotica che è veramente
“io-qui-ora” (“Me-Carne” in Fontanille, 2004). In questo modo, si è voluta fondare una teoria
semiotica dell’enunciazione fondata sulla presenza del corpo, il cui essere “io-qui-ora” definisce
esattamente un “campo di presenza” sensibile e “in atto”, radicalizzando così la posizione
benvenistiana. Per quanto ci riguarda, crediamo che la teoria dell’enunciazione debba prendere
un’altra direzione e non possa non prenderla, se solo si traggono le concepibili conseguenze
pratiche dei suoi presupposti.
4
Nei termini benvenistiani, che non riprendiamo qui per evitare confusioni con l’uso che degli
stessi termini si fa attualmente in semiotica, gli embrayeurs hanno cioè innanzi tutto (anche se non
in modo esclusivo) uno statuto “semantico”, e non uno statuto “semiotico”. Benveniste definisce
infatti “semiotico” il modo di significare proprio del segno all’interno delle forme linguistiche, e
indipendentemente da una situazione extralinguistica particolare; mentre definisce “semantico”
quel modo di significare che fa riferimento “sia alle situazioni particolari di discorso, sia
all’attitudine del locutore” (Manetti, 1998, p. 17, cfr. pp. 16-18). La teoria dell’enunciazione
“maggiore” è fondata allora sul livello semantico nel senso di Benveniste, noi proveremo invece a
fondarla sul livello semiotico.
5
Manetti, 1998, p. 12, cfr. anche p. 19.
6
Cfr. Manetti, 1998, pp. 19-23.
7
Benveniste, 1966, p. 306.
8
Cfr. Manetti, 1998, p. 30.
9
Manetti (1998, p. 61) nota giustamente come Greimas in qualche modo rompa con una tradizione
esclusivamente linguistica che aveva “in mente sostanzialmente la situazione comunicativa che si
verifica nel rapporto faccia a faccia”. Tuttavia, va senz’altro notata anche la continuità che lega i
due autori, dal momento che Greimas mantiene del tutto inalterata la distinzione benve-nistiana tra
persona (io-tu) e non-persona (egli), che semplicemente traspone a livello simulacrale nella
distinzione tra enunciazione ed enunciato, che, a livello dell’enunciazione enunciata, gli permette
di distinguere i due differenti débrayage, quello enunciazionale (io-tu) e quello enunciativo (egli).
10
Cfr. Violi, 2007.
11
Questo paragrafo è ispirato da una lezione di Gilles Deleuze sul pronome “Je”, mandata in onda
da Fuori Orario su Raitre in orari veramente “minori”.
12
Va ancora una volta sottolineata la radicalità con la quale Benveniste espelle l’“egli” dalla persona
e lo relega alla forma della “non-persona”, secondo un principio dicotomico di tipo esclusivo
(“presenza VS assenza della persona”) e a dispetto della denominazione interna alle forme
linguistiche stesse, dove l’egli è sempre anche la forma della terza persona, oltre che quella della
non-persona (impersonale). È altresì assolutamente come evidente come questa espulsione sia
fondata sulla situazione comunicativa in presenza del “parlare a qualcuno” (allocuzione), in cui
l’egli fa parte di un discorso enunciato da un io dell’enunciazione.
13
Cfr. Benveniste, 1966, pp. 321-331.
14
Cfr. Leonardi, 1991.
15
Devo a Patrizia Violi (comunicazione personale) l’avermi fatto riflettere su questo esempio, e ai
seminari interni dei semiotici dell’Università di Bologna l’avermi stimolato a provare a elaborare
una teoria che ne potesse rendere conto. Ringrazio quindi, oltre Patrizia Violi, Giovanna Cosenza,
Cristina Demaria, Anna Maria Lorusso, Maria Pia Pozzato e Costantino Marmo.
16
Cfr. Fontanille, 1998, pp. 269-70.
17
Non si confonderà questo statuto proprio dell’opposizione privativa con quello proprio di un
termine estensivo, che non mette affatto in gioco la presenza e l’assenza di uno stesso termine,
bensì se mai la sua presenza e l’assenza del termine intensivo opposto, nel momento in cui esso ne
ricopre la zona e si estende sulla totalità della categoria. Proprio per questo ci pareva che
Hjelmslev avesse senz’altro ragione nella sua polemica con Jakobson, e che opposizioni sul tipo
di “uomo-donna” fossero delle opposizioni partecipative tra termini tensivi, e non delle
opposizioni sul tipo di “marcato VS non-marcato”.
18
Cfr. ad esempio Greimas, 1976 e Bertrand, 2000.
19
Cfr. Deleuze, 1967, 1969, Petitot, 1991, Marsciani, 1991: “Il soggetto è sempre ciò che segue la
casella vuota”.
20
Come detto, le teoria greimasiana dell’apparato formale dell’enunciazione viene esattamente dalla
distinzione tra la persona che definisce l’enunciazione (io-tu) e la non-persona che definisce
l’enunciato (egli), tanto che il débrayage è enunciazionale, quando installa nel testo l’io-tu; ed
enunciativo quando installa nel testo l’egli. Non è quindi un caso che la forma di relazione che
definisce il rapporto tra enunciazione ed enunciato in Greimas sia la stessa che definisce il
rapporto tra la persona e la non-persona in Beneveniste (opposizione privativa).
21
L’identificazione tra “enunciazione” e “produzione dell’enunciato” è di Benveniste.
“L’enunciazione è l’atto stesso di produrre un enunciato” (Benveniste, 1974, p. 97).
22
Eco, 2003, p. 20, cfr. Basso, 2000, p. 215.
23
Uno dei principali meriti del bel saggio di Latour (1999) sull’enunciazione ci pare quello di aver
mostrato come il regime enunciazionale individuato da Greimas, e cioè il disinnesco a partire da
un débrayage che proietta fuori di sé le categorie di un non-io, un non-qui e un non-ora a partire
dalle cui marche nell’enunciato è poi possibile risalire alle posizioni dell’enunciazione, non sia
altro che uno dei regimi dell’enunciazione (p. 72). Il passaggio dall’enunciazione all’enunciato è
insomma solamente una delle forme di passaggio sotto cui in generale è possibile definire
l’enunciazione, forma di cui si deve dar conto, ma che va indagata a un livello ben più generale,
che è per noi quello dell’interpretazione.
24
Nel capitolo 1 definivamo infatti l’interpretazione peirciana proprio come la “possibilità di
passaggio”.
25
Per questo ci è sempre sembrato che molti dei problemi che la semiotica poneva sotto il termine-
ombrello “enunciazione”, riguardassero invece una teoria dei modi di produzione (cfr. Eco, 1975,
parte 2).
26
Cfr. Geertz, 1987, p. 41.
27
Cfr. Bachtin, 1929, 206-207.
28
Ovviamente la formulazione peirciana non è un libero indiretto a livello discorsivo della frase (cfr.
Banfield, 1982), ma la sua forma di relazione è la stessa presentata nella teoria generale di
Pasolini di Empirismo eretico, sia a livello linguistico (pp. 81-103) sia a livello cinematografico
(pp. 167-187), ed è a questa teoria generale per cui “ci sono dei libri che sono per intero dei
discorsi liberi indiretti” (p. 82) ciò a cui ci rifacciamo qui.
29
Metafora e discorso libero indiretto sono entrambi due fenomeni di sintesi disgiuntiva, ma lo sono
in modo profondamente diverso: là dove la metafora opera una omogeneizzazione instabile e
parziale del sistema in atto, colocalizzando semi eterogenei e fondendone alcuni, il discorso libero
indiretto concatena sistemi che restano comunque eterogenei. Si più dire che la metafora opera
una lisciatura del rizoma locale in cui opera, mentre il discorso libero indiretto ne effettua una
striatura, partendo da un’instabilità costitutiva propria del momento dell’enunciazione e operando
per stabilizzazione. Al contrario, la metafora parte da sistemi almeno parzialmente stabilizzati e ne
tenta una fusione locale e parziale, colocalizzando semi eterogenei e dando così vita a un effetto di
condensazione che crea una instabilità costitutiva nel sistema. E del resto se l’enunciazione serve
proprio a stabilizzare l’indefinita molteplicità di virtualità espressive di un sistema locale, la
metafora serve invece proprio a rimetterlo in discussione, a rendere instabile anche le parti più
grammaticalizzate e definite.
30
Le analisi di Banfield si situano a un livello micro di costruzione linguistica della soggettività
interna alla frase. Il suo concetto di “stile” non ha pertanto nulla a che vedere con ciò che
normalmente si chiama “stile di un autore”.
31
Che, insistiamo, è molto diverso dal dire che ogni enunciazione è un discorso libero indiretto.
32
Greimas, 1972, p. 144.
33
Bertrand, 2000, p. 60. Nella prospettiva greimasiana, il débrayage rompe quell’inerenza del
soggetto a se stesso espressa ad esempio nell’atteggiamento passionale ed emotivo, tanto che
Greimas (1974) può affermare che il débrayage, come istanziazione di un “egli” e proiezione di
un distacco da una presenza a se stesso, “è forse, insieme al cavallo, una delle grandi conquiste
dell’uomo”. Si veda anche Coquet, 1997, dove la presenza del soggetto a se stesso è radicata nella
presenza sensibile del corpo, così che l’atto di enunciazione di cui il soggetto si fa carico è frutto
di un atto cognitivo di distacco che corrisponde alle operazioni di débrayage.
34
Nella Crisi Husserl presenta la sua filosofia come una forma di disvelamento, che trae la propria
ragione d’essere dal bisogno di ritrovamento dell’istanza soggettiva che è fonte di senso per ogni
oggettività costituita.
35
Heidegger, 1927, p. 98.
36
Heidegger, 1927, p. 113.
37
Heidegger, 1928, p. 623; cfr. anche Heidegger, 1976, pp. 63-64, 72.
38
Heidegger, 1931, Poscritto.
39
Con buona pace della non brillantissima idea heideggeriana che “la scienza non pensa”.
40
Heidegger, 1928, p. 636. “La differenza ontico-ontologica e il suo fondamento nella trascendenza
del Dasein non sarebbero assolutamente originari. La differenza tout court sarebbe più
‘originaria’” (Derrida, 1967a, p. 44).
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