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STRUTTURALISMO
E INTERPRETAZIONE
Ambizioni per una semiotica “minore”
Bompiani
Esemplare depositato nelle forme di cui al Decreto Luogotenenziale n. 660/45, così come integrato e
modificato ai sensi della Legge n. 106/2004 e DPR 252/2006
ISBN 978-88-587-6020-8
Copertina: Polystudio
1. Verso una semiotica della complessità. Tre riletture “minori” di tre grandi
autori “maggiori”: i classici di Saussure, Hjelmslev e Peirce
1.1. La doppia fondazione della semiotica: i duemila anni di una nuova
disciplina
1.2. Una “nuova sensibilità”
1.3. Una prima “elevazione a minore”: il mantra di Saussure e le due
dimensioni del valore
1.4. Una seconda “elevazione a minore”: l’irriducibile complessità
delle opposizioni partecipative e della frammentazione in
Hjelmslev
1.5. Una terza “elevazione a minore”: il Sinechismo e la Logica dei
Relativi di Peirce
1.6. Un empirismo trascendentale e un modello “escheriano”: la
semiotica interpretativa come sintesi disgiuntiva tra Peirce e
Hjelmslev
1.7. Altre due operazioni “minori”: i) la teoria delle classi in
Hjelmslev; ii) la semiotica interpretativa di Peirce. Ritorno sulla
doppia accezione del valore saussuriano
1.8. Antilogos. Eco, Scruton e ritorno a Saussure: la semiotica come
disciplina monotremica en plein air
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Avvertenza
Con questa idea della semiosi come struttura irriducibile a rapporti tra
coppie, Peirce pensa al semiotico come al luogo di una complessità
strutturale irriducibile a qualsiasi tipo di rapporto binario,10 e quindi a
qualsiasi ripartizione tra l’oggetto e i suoi representamina. Peirce mostrerà
in maniera straordinaria questa strutturazione complessa e irriducibile del
semiotico – che sarà stella polare di questo nostro lavoro – nella sua Logica
dei Relativi, in cui dimostrerà come tutte le relazioni monadiche e diadiche,
così come tutte le relazioni di valenza superiore a tre, possano sempre venire
generate a partire dalle triadi. Peirce mostrerà così come non soltanto il
representamen e l’oggetto, ma anche i loro rapporti e le articolazioni tra
questi rapporti vadano pensati come l’effetto di un processo in cui essi si
costituiscono a partire dalla Terzità dell’interpretazione, con la sua struttura
irriducibilmente complessa e di frontiera (cfr. infra, 1.5).
Ancora più radicali sono le cose in Hjelmslev. Al di là delle teorie
linguistiche e dei fatti di linguaggio, Hjelmslev scopre infatti una
dimensione più profonda, un terzo ordine propriamente glossematico,
popolato da un unico elemento che sarà poi possibile ritrovare all’interno di
tutte le unità che costituiscono le teorie linguistiche da un lato e i fatti di
linguaggio dall’altro. Sistema, processo, paradigma, sintagma, forma,
sostanza, materia, espressione, contenuto, semiotica, metasemiotica,
metasemiologia e tutti gli altri oggetti teorici che Hjelmslev ha consegnato
alla semiotica contemporanea non sono altro che puri epifenomeni di
superficie dietro a cui si nasconde un unico oggetto propriamente semiotico:
la classe (cfr. infra, 1.8). La classe è l’elemento della glossematica, tanto che
sebbene si incarni in tutti gli elementi di una teoria del linguaggio e in tutti i
fatti linguistici, essa ne rimane però irriducibile, facendo parte di un terzo
ordine propriamente glossematico mai sovrapponibile a quello dei fatti o
delle teorie.
Qui allora è forse incominciato tutto con la linguistica: al di là della parola
nell’oggettività delle sue parti sonore e al di là delle immagini acustiche, dei
concetti e delle rappresentazioni associate alle parole, il linguista
strutturalista scopriva infatti un elemento del tutto diverso, un “oggetto
strutturale”. Ad esempio, il fonema si manifestava sì in lettere, sillabe e
suoni, senza però derivarne né ridursi a essi, dal momento che ne
rappresentava la condizione stessa di possibilità. Al contempo distinto sia
dalle sostanze sonore che dalle immagini acustiche a cui era associato, il
fonema vi si incarnava, ma in sé esso era definito soltanto dal piano
d’immanenza in cui intratteneva rapporti differenziali con altri fonemi. Al
fonema occorre allora evitare di attribuire una trascendenza che non
possiede, senza però mai smettere di notare i suoi effetti trascendenti, dal
momento che i rapporti tra fonemi propri del piano immanente della struttura
servivano a rendere conto dei cambiamenti esistenti al di fuori della struttura
stessa.11 La relazione “bollo/pollo” ad esempio – sia a livello delle parole
nella loro oggettività espressiva che a livello delle rappresentazioni
semantiche associate alle parole – era l’effetto di un dispiegamento
propriamente strutturale in cui rapporti immanenti tra elementi di un piano
(b VS p) si incarnavano in unità concrete e differenziavano qualcosa su un
altro piano (il fonema era infatti il più piccolo elemento del piano del
significante in grado di produrre differenze sul piano del significato).
Hjelmslev spinge allora quest’attitudine al suo punto più estremo, al punto
limite in cui la stessa trascendenza delle teorie e dei fatti del linguaggio può
essere ritrovata esclusivamente sul punto in cui “immanenza e trascendenza
si uniscono in un’unità superiore sulla base dell’immanenza” (P, p. 136).
Hjelmslev mostra cioè come tutti gli elementi del linguaggio (fatti e teorie)
possano essere generati a partire dall’immanenza di un terzo regno
propriamente glossematico, che è indipendente dall’esperienza linguistica
(arbitrarietà dell’analisi glossematica), ma è allo stesso tempo adeguato a
essa (adeguatezza dell’analisi glossematica). La glossematica hjelmsleviana
è cioè un’originale forma di analisi trascendentale assolutamente sui
generis, in cui ciò che è costitutivo dell’esperienza del linguaggio non è in
alcun modo tratto dall’esperienza del linguaggio (arbitrarietà), ma ne
definisce la condizione stessa di possibilità (adeguatezza). Al termine di
questa analisi, per Hjelmslev tutte le nozioni della teoria linguistica e tutti i
fatti di linguaggio si riveleranno per quel che essi sono in realtà, e cioè
incarnazioni di un unico elemento differenziante propriamente glossematico
che pulsa a ogni livello: la classe. Ritorneremo sul senso profondo di questo
rapporto tra immanenza e trascendenza e su questa analisi trascendentale
propriamente hjelmsleviana (cfr. infra, 1.6 e 1.8).
Occorre però innanzi tutto capire a pieno la portata di questa “nuova
sensibilità” di cui parlava Eco, che darà poi origine alla semiotica, al fine di
capire in cosa essa differenzi la sua epistemologia “da ogni precedente
tentativo di filosofia del linguaggio” (P, p. 14). Al momento, ci pare
semplicemente di avere individuato dei tratti di complessità e di immanenza,
che sono costitutivi di un terzo ordine che è posto al di là, o al di qua, di ogni
possibile rapporto tra l’oggettività dei fatti e le loro rappresentazioni
teoriche. Se è a questo livello che si installa il semiotico, che tipo di “entità”
lo popolano? E quali rapporti queste “entità” intrattengono tra di loro? Quali
sono cioè i “personaggi” di questa nuova “storia” che non racconta fatti né si
occupa di oggetti, né tanto meno delle loro differenti rappresentazioni?
Eco sottolinea come questi triangoli “non parlino tutti della stessa cosa”,
ma mostra anche come a tutti questi triangoli sottostia un medesimo
modello: ci sono degli elementi (il segno, la voce, la cosa, il concetto, la
Bedeutung, l’intelletto, il verbum mentis ecc.) e dei rapporti variabili tra
questi elementi già costituiti per se stessi (rappresentazione, designazione,
manifestazione, denotazione, implicazione ecc.). La semantica e la semiotica
erano cioè basate su questo modello a suo modo “sostanzialista”, in cui ci
sono elementi con una certa identità propria, e dei rapporti variabili tra
questi elementi che vengono declinati secondo modalità e sensibilità
differenti (logiche, cognitive, inferenziali ecc.). Fare semiotica significava
stabilire la natura di questi elementi (le loro proprietà) e il tipo di rapporti
che esistevano tra questi termini già costituiti per se stessi. Il “paesaggio
teorico” che definiva quale tipi di relazioni unissero determinati elementi
con le loro proprietà definiva quella che Eco chiamava la “semiotica
implicita” di questi autori.
Una semiotica del tutto pre-saussuriana tuttavia. Perché, con l’unico
precedente della Logica dei Relativi di Peirce, Saussure sarà il primo a
scardinare dalle fondamenta questo modo di pensare millenario.
In altri domini, se non mi sbaglio, si può parlare dei diversi oggetti considerati se non come di cose
esistenti in se stesse, almeno come di cose che riassumono cose o entità positive qualsiasi […]: ora,
sembra che la scienza del linguaggio sia collocata a parte. […] C’è questo di primordiale e di
inerente alla natura del linguaggio che, da qualunque lato si cerca di attaccarlo, non ci si potrà mai
scoprire degli individui, cioè degli esseri (o delle quantità) determinati in se stessi […] e dotati di
un’esistenza indipendente. Ricordiamoci infatti che tanto per cominciare l’oggetto in linguistica
non esiste, non è determinato in se stesso. (ELG, pp. 14-15 e 71)
Ma che tipo di entità può essere allora un’entità non individuale, non
dotata di un’esistenza indipendente, che non è determinata in sé stessa e che
non è dunque definibile attraverso proprietà?
Saussure (CLG) individuava innanzi tutto una doppia dimensione che era
per lui (e per noi) distintiva dell’intera impresa semiotica nel suo complesso.
Questa doppia dimensione era costitutiva di un elemento che sembrava
dipenderne e che rappresentava “l’entità concreta” della nuova scienza
(CLG, pp. 125-129). Si trattava di una vera e propria scoperta, semplice
quanto decisiva, di cui Saussure non smetteva di sottolineare il carattere
“strano” e “sorprendente” (CLG, p. 130). Questa entità concreta, sebbene
non cessasse di circolare in entrambi i piani della lingua, nei suoni, nei
concetti, nelle immagini acustiche, nelle parole e nelle frasi, non era però
“percepibile immediatamente”, tanto che ci si domandava se fosse
“realmente data”:
La lingua presenta dunque questo carattere strano e stupefacente di non offrire entità percepibili
immediatamente, senza che si possa dubitare tuttavia che esse esistono e che proprio il loro gioco
costituisce la lingua. (CLG, p. 130)
Le entità concrete della lingua per Saussure non sono percepibili
immediatamente, perché sono continuamente ricoperte dall’oggettività dei
fatti linguistici in cui si incarnano (suoni, significati, atti di linguaggio ecc.)
e dalle rappresentazioni teoriche della linguistica che le imprigionano
(concetti, immagini, proposizioni, nomi, aggettivi, casi ecc.). E tuttavia, dice
Saussure, non si identificano con esse, esattamente come il treno Ginevra-
Parigi delle 20.45 non si identifica con la sua locomotiva, i suoi vagoni e il
suo personale (CLG, p. 132). Esse appartengono infatti a un altro ordine, che
è terzo rispetto a tutte queste ripartizioni, in cui l’identità di un elemento è
puramente differenziale ed è effetto di un equilibrio locale attraverso il quale
essa si sorregge e si determina:
Nei sistemi semiologici, come la lingua, in cui gli elementi si tengono reciprocamente in equilibrio
secondo regole determinate, la nozione di identità si confonde con quella di valore e viceversa.
Ecco perché, in definitiva, la nozione di valore ricopre quella di unità, di entità concreta, e di
realtà. (CLG, p. 134)
Ora, questo qualcosa di dissimile con cui un valore può essere scambiato
per costituirsi in quanto valore deve necessariamente essere un referente, un
termine-parametro o qualcosa di simile a una riserva aurea? Non può invece
essere semplicemente un “fuori” rispetto a questi rapporti differenziali che
sono costitutivi della prima accezione, “fuori” con cui essi si scambiano e si
traducono continuamente?
Identificando “identità” e “valore” nella sua doppia accezione, Saussure
sta semplicemente dicendo che, per stabilire l’identità di qualcosa, occorre
sempre confrontarla con altri elementi all’interno del suo sistema, ma anche
tradurla con elementi appartenenti ad altri sistemi. Se si vuole determinare
l’identità semiotica di Umberto Eco, non si devono solamente confrontare le
sue posizioni con quelle di Peirce, Lotman, Hjelmslev e Greimas, ma si deve
anche capire in che modo queste sue posizioni si declinano e si traducono
con quelle di altre discipline eterogenee: sociologia, filosofia, linguistica,
scienze cognitive ecc. Se si vuole determinare l’identità politica del partito
dei Comunisti Italiani, non si devono solo confrontare le loro posizioni nella
topologia politica delle alleanze, da cui si saprà che si oppongono al centro-
destra, si collocano più a sinistra del PD e più a destra di Rifondazione
Comunista; ma si deve anche determinare quali valori della società il partito
dei Comunisti Italiani traduce all’interno dello spazio politico, come la pensa
cioè sulle coppie di fatto, sulle staminali, sulla ricerca, sull’economia, sulla
sicurezza, e cioè su tutti quei valori trascendenti lo spazio politico che un
partito nasce per tradurre e rappresentare all’interno dello spazio politico.
Ma la sicurezza e le staminali sono il referente dei Comunisti Italiani? Le
scienze cognitive e l’antropologia sono il referente di Umberto Eco, nel
senso in cui il gatto è il referente della parola gatto?
Del resto, l’insostenibilità di un’interpretazione referenziale della prima
accezione del valore era del tutto evidente già nell’esempio di Saussure. Il
pane è il referente della moneta? Ed è un dato naturale che resta stabile,
come voleva Hjelmslev? Oppure è semplicemente un elemento appartenente
a un sistema eterogeneo con cui un elemento immanente si traduce e vede
con questo definita la sua identità, e cioè il suo valore (con un pezzo da 5
franchi si compra una determinata quantità di pane, che oggi è molto meno
di quella di una volta)?
Col suo concetto di interpretazione, Peirce avrà molto da insegnarci su
questa “dissimilarità” con cui un valore semiotico può sempre essere
scambiato (cfr. infra, 1.8), ma occorre chiedersi se l’idea costitutiva di una
sua differenzialità relazionale non fosse affermata con estrema chiarezza già
nel Cours saussuriano. Saussure era infatti assolutamente non fraintendibile
nell’affermare che entrambe le accezioni sono necessarie per l’esistenza di
un valore (CLG, p. 140). Ma se questo è vero,
ciò che è vero del valore è vero anche dell’unità […], l’uno e l’altro sono di natura puramente
differenziale. […] Ciò che li caratterizza non è, come si potrebbe chiedere, la loro qualità propria e
positiva, ma semplicemente il fatto che non si confondono tra loro. […] In tutti questi casi
scopriamo, dunque, non idee date preliminarmente, ma valori promananti dal sistema. Quando si
dice che essi corrispondono a dei concetti, si sottintende che questi sono puramente differenziali,
definiti non positivamente mediante il loro contenuto, ma negativamente, mediante il loro rapporto
con gli altri termini del sistema: la loro più esatta caratteristica è di essere ciò che gli altri non
sono. (CLG, pp. 142-147)
Proprio perché crediamo alla semiotica, non possiamo non essere almeno
idealmente simpatetici con Saussure su quest’ultimo punto, ma a patto di
operare almeno un distinguo. Dovremo infatti imparare a non confondere la
tripartizione peirciana in segno/oggetto/interpretante con i triangoli pre-
saussuriani sul “rapporto tra il segno e l’idea” da cui siamo partiti,16 a cui
per altro Eco stesso in qualche modo la avvicina. Non solo infatti Peirce non
ha mai fatto un triangolo semiotico in nessuna delle sue decine di migliaia di
pagine manoscritte (per Peirce un triangolo è una “triade degenerata”, e
dunque non è una relazione autenticamente semiotica). Ma soprattutto, in
Peirce la semiosi definisce essenzialmente una relazione triadica irriducibile,
in cui la logica delle relazioni è prima rispetto ai termini di cui definisce la
valenza: “La semantica peirciana è dominata dalla sua logica dei relativi”
(Eco, 1985b, p. 316; cfr. infra, 1.5).
Nella sua forma genuina, la Terzità è la relazione triadica esistente fra un segno, il suo oggetto, e il
pensiero interpretante, esso stesso un segno, relazione considerata come costituente il modo di
essere di un segno. (CP 8.332)
Proprio perché nella sua semiotica la relazione è costitutiva del modo di
essere dei termini, Peirce è stato il primo strutturalista,17 o meglio, gli
strutturalisti sono stati i primi peirciani (cfr. infra, 1.5). In questo modo,
ovunque si ponga la significazione, il senso o il semiotico all’interno dei
triangoli iniziali (in un termine, in alcuni, in tutti, nei rapporti tra alcuni
termini, nei rapporti tra tutti) e qualsiasi natura gli venga poi attribuita
(logica, concettuale, psicologica, cognitiva, mista ecc.), queste questioni non
fanno neppure un passo nella direzione di un’autentica epistemologia
semiotica, dal momento che coinvolgono rapporti che non sono costitutivi
dell’identità dei termini. Dunque, per parafrasare Eco, non solo quei
triangoli da cui siamo partiti “non parlano della stessa cosa”, ma essi non
parlano neppure della “cosa semiotica” così come la impareremo a
conoscere tenendo insieme le prospettive di Peirce e dello strutturalismo.
Possiamo quindi brevemente riassumere i primi risultati di questo nostro
percorso. Al fine di rendere conto del suo oggetto, il senso, la semiotica si
pone al di là, o al di qua, di ogni ripartizione tra l’oggettività dei fatti e le
loro rappresentazioni teoriche. Il “semiotico” definisce infatti un ordine
complesso e immanente che è terzo rispetto a tutte queste ripartizioni, in cui
si incarna senza ridurvisi, esattamente come il treno Ginevra-Parigi delle
20.45 si incarna nei suoi vagoni e nel suo personale, senza però ridursi a
essi. Le entità che popolano questo terzo ordine propriamente semiotico
sono dei valori, e cioè delle entità non individuali e indeterminate, in cui è il
rapporto a essere costitutivo dell’identità dei termini. La determinazione di
questo rapporto, e dunque dell’identità delle entità semiotiche, avviene
localmente in funzione di due dimensioni, una immanente al sistema
considerato e l’altra trascendente a esso.18 Vedremo in modo analitico come
questo possa essere concretamente reso operativo nel capitolo 4.
Tuttavia, occorre fin da subito porsi una domanda fondamentale, che ci
consentirà di proseguire nel nostro viaggio “minore”: che cos’è un “sistema”
e come va pensato, se la determinazione stessa delle entità della semiotica
(valori) dipende costitutivamente dalla sua struttura?
Per Hjelmslev possono allora darsi tanti termini intensivi quali sono i
valori interni al sistema. Allo stesso modo, è del tutto evidente come il
termine estensivo definisca una molteplicità che può assumere di volta in
volta n valori semantici, in funzione della complessità del sistema (in questo
sistema a 3 valori ne può assumere 7). Così come è evidente che la forma di
relazione incarnata nel quadrato semiotico della sessualità corrisponde al
solo caso b, indicato da Hjelmslev tra le interpretazioni possibili del termine
estensivo II, in cui il termine estensivo occupa esclusivamente il valore
semantico polare opposto ad a (contrarietà). La forma di relazione incarnata
nel quadrato semiotico è cioè solo uno tra i casi possibili di un sistema
semio-linguistico. Da qui il nostro obiettivo: complessificare la forma
“maggiore” assunta dalla teoria delle relazioni in semiotica, al fine di evitare
di assumere come struttura generale quello che è solo uno dei casi possibili
di un sistema che è invece costitutivamente molteplice e non diadico (cfr.
infra, capitolo 3).
Non solo. Per Hjelmslev questa molteplicità costitutiva di un sistema
semio-linguistico è ottenibile inizialmente attraverso la relazione tra due
termini opposti in relazione di contrarietà e un terzo termine, che chiama
“neutro”, che serve ad annullare l’opposizione in atto tra i primi due. Con la
sua Logica dei Relativi, Peirce sarà allora in grado di gettare luce su questa
correlazione tra una relazione triadica e una molteplicità irriducibile a
rapporti binari (cfr. infra, 1.5). Peirce mostrerà infatti come una relazione
triadica non sia affatto una relazione a tre termini, ma definisca più
profondamente un sistema a n termini irriducibile a qualsiasi unità così come
a qualsiasi insieme di rapporti binari. Peirce chiamerà semiotici questi
sistemi (da qui la sua definizione della semiosi come rapporto triadico
irriducibile a relazioni tra coppie).
Attraverso Hjelmslev, incominciamo allora a intravedere in maniera più
definita quella che per noi deve essere la natura di ciò che Saussure
chiamava “sistema semiologico”: si tratta di una molteplicità aperta,
complessa e potenzialmente contraddittoria, irriducibile sia all’unità dell’uno
che alle coppie binarie dei due. All’interno di un sistema di questo tipo
esistono delle zone precise (intensive), determinate, delimitabili e definibili,
ma esistono anche delle zone vaghe (estensive), indeterminate, in cui i
confini non sono definiti e in cui è costitutivo della struttura stessa del
sistema di costruire concatenamenti con altri sistemi apparentemente
eterogenei, conformemente alla prima dimensione del valore di Saussure.
Il termine estensivo possiede la facoltà di estendere la sua significazione sull’insieme della zona; il
termine intensivo al contrario si installa definitivamente in una sola casella e non oltrepassa le
frontiere.29 (NE, p. 40)
Del resto Petitot (1985, pp. 67-73) e Deleuze (1973) parlavano proprio a
questo proposito dell’“intuizione pura” dello strutturalismo:
Uno “spazio” strutturale è uno spazio suddiviso in domini (posti) da parte di un sistema di
differenze; è uno spazio di coesistenza, di colocalizzazione. […] Facendo uso di un’analogia
geografica, si può dire che un paradigma è una regione D categorizzata scomposta in sotto-regioni
Di grazie a un sistema K di frontiere. Ogni sotto-regione Di è definita dalla sua estensione, cioè
dalla categorizzazione K. È in questo senso che c’è struttura, visto che l’organizzazione globale K
determina, trovandovisi implicitamente presente, le unità locali Di. (Petitot, 1985, pp. 69, 40-41)
Per quanto riguarda invece il punto i), Hjelmslev giudica falsa l’idea di
Jakobson secondo cui tutti i sistemi complessi a tre e più termini siano la
somma di relazioni binarie semplici (NE, pp. 38-39). Qui Hjelmslev è
infinitamente vicino a Peirce e alla sua idea, di cui ci occuperemo tra breve,
dell’irriducibilità delle relazioni triadiche e n-adiche a coppie di relazioni
diadiche (semiosi). Al fine di considerare proprio “i sistemi a tre e a più
elementi”, Hjelmslev comincia allora mostrando uno schema della struttura
utilizzata da Jakobson per spiegare il verbo russo, con l’intento di criticarne
il metodo di divisione binario e dicotomico e di sostituirlo.
Nell’illustrare come “il segno : : significhi ‘si suddivide in’” e come “ciò
che per Jakobson è ‘marcato’ sia messo in corsivo (e assuma la prima
posizione nella coppia)”, Hjelmslev (NE, p. 42) commenta:
Questo sistema si compone esclusivamente di coppie correlative, correlazioni a due termini di cui
la struttura è invariabilmente la stessa: ogni coppia comprende un termine marcato e un termine
non-marcato. Il rapporto che riunisce le correlazioni tra loro non è meno semplice: ogni
correlazione assume il suo posto fissato all’interno del sistema come superiore e/o inferiore ad altre
correlazioni. Il sistema è concepito come una gerarchia all’interno della quale ogni correlazione e
ogni coppia correlativa rappresentano un grado ben determinato; e in cui ogni correlazione (salvo
quella che è superiore a tutte) risulta da una suddivisione di uno dei termini compresi nella
correlazione immediatamente superiore. (NE, p. 45)
Un puro albero di Porfirio (cfr. Eco, 1983), in cui gli elementi occupano
posizioni fissate dal sistema e comunicano solo ed esclusivamente con i
propri superiori/inferiori gerarchici (cfr. Rosenstiehl e Petitot, 1974 e
Deleuze e Guattari, 1980, pp. 3-36). Secondo Hjelmslev, la teoria di
Jakobson, così come ogni teoria dicotomica che funziona per
iponimi/iperonimi, definisce cioè un albero in cui è “il principio gerarchico
che presiede a tutto il sistema” e che “non sembra sufficiente per spiegare
veramente i fatti” (NE, p. 46). Ecco allora che, posto di fronte allo stesso
sistema che in seguito lui stesso costruirà attirandosi le critiche di Eco
(1984) e Violi (1997), Hjelmslev si chiede:
Posti davanti a questo sistema gerarchico, così semplice e uniforme, ci si domanda innanzi tutto se
questo sistema non sia veramente sottomesso a nessun altro principio rispetto ai due che si sono
appena indicati: quello del marcato e del non-marcato, e quello del superiore e dell’inferiore. […]
Si sente qui una lacuna e si chiederebbe una dottrina al contempo più ferma e meno meccanica.
(NE, p. 46)
Ecco allora che per definire il preterito, membro della categoria del tempo,
occorrerà sempre fare riferimento al singolare, membro della categoria del
numero, al neutro, membro della categoria del genere, e all’iterativo,
membro della categoria dell’aspetto. Allo stesso modo, per definire il
presente, membro della categoria del tempo, occorrerà sempre fare
riferimento alla correlazione personale/impersonale, membro della categoria
della persona, e a quella plurale/singolare, membro della categoria del
numero. E così via per tutti gli elementi di questa e di tutte le altre categorie
linguistiche (cfr. NE, pp. 46-52). Per definire l’identità di un elemento di un
sistema semio-linguistico (ad esempio “preterito”), non basta cioè
interdefinirlo con altri elementi omogenei appartenenti alla stessa categoria
con cui fa sistema (presente, futuro ecc.), ma occorre sempre anche
rimandarlo a elementi eterogenei appartenenti a categorie trascendenti quella
considerata (numero, genere, aspetto ecc.). Tutto questo è perfettamente
conforme alla doppia accezione del valore in Saussure, di cui Hjelmslev è in
grado di fornire una descrizione operativa, e non soltanto esemplificativa,
attraverso la sua analisi per dimensioni:
Nell’analisi per dimensioni si stabiliscono simultaneamente due (o più) sotto-categorie
assolutamente coordinate, mentre nell’analisi per suddivisioni si stabiliscono successivamente due
(o più) sotto-categorie di cui la seconda è subordinata alla prima (e la terza alla seconda, e così
via).
In una parola: nell’analisi per dimensioni le sotto-categorie formano una rete; nell’analisi per
suddivisioni le sotto-categorie formano una gerarchia. Ora, crediamo di aver esposto le ragioni che
conducono a concepire il sistema delle categorie (e delle sotto-categorie) come una rete e non
come una gerarchia. L’analisi per dimensioni è la sola che possa rendere conto del fatto che […] i
membri di una stessa categoria grammaticale sono sullo stesso piano e che ciascuno di questi
membri è, in rapporto agli altri, munito al contempo della stessa indipendenza e della stessa
dipendenza di tutti gli altri membri. È per questo che la nostra scelta cade sull’analisi per
dimensioni e non su quella per suddivisioni proposta dal signor Jakobson. (NE, p. 50)
Ciascuna delle sottocategorie costituirà una dimensione della categoria superiore, e ogni membro
della categoria superiore sarà scomponibile in due grandezze rilevanti ciascuna della sua
dimensione.
(NE, p. 49)
La notazione di Hjelmslev è del tutto inadeguata alla forma di relazione
che è supposta esprimere (rete), dal momento che si tratta di una banale
matrice.33 Per questo sarà abbandonata e, in un futuro lavoro, sostituita da un
sistema formale eideticamente adeguato a esprimere un reticolo rizomatico.
Tuttavia, per gli scopi di questo libro, essa ha comunque il merito di
mostrare come “l’entità concreta” della nuova scienza, di cui parlava
Saussure, sia sempre un effetto delle dimensioni eterogenee da cui dipende.
Un’analisi per dimensioni pensa, cioè, l’identità di ogni singolo elemento
semiotico come l’effetto di “due o più sottocategorie che si incrociano e si
compenetrano”, come ad esempio erano il singolare, il neutro e l’iterativo
per il tempo preterito. Ma che cosa sono allora le dimensioni, se l’identità di
un elemento semiotico ne dipende costitutivamente?
In analisi matematica le dimensioni sono le variabili o le coordinate da
cui dipende un fenomeno. Ad esempio, per definire un punto nello spazio a
due dimensioni (piano) occorre precisare due valori che lo individuano; per
definirlo in uno spazio a tre dimensioni (spazio) occorre invece precisarne
tre, e così via. In analisi glossematica è allora la stessa identica cosa: per
definire il tempo preterito, occorre fare riferimento alle dimensioni del
singolare, del neutro e dell’iterativo, sottocategorie membri rispettivamente
delle categorie del numero, del genere e dell’aspetto. Queste sottocategorie
rappresentano esattamente il valore che la categoria in questione assume
nella definizione di un elemento semio-linguistico (nel caso del tempo
preterito nella lingua russa, “singolare”, “neutro” e “iterativo” sono i valori
che le categorie del numero, del genere e dell’aspetto assumono nella sua
definizione). Hjelmslev chiama appunto “dimensioni” queste sottocategorie
che non si danno mai pure né isolate, ma che si compenetrano invece
continuamente. Esse rappresentano localmente le variabili o le coordinate da
cui dipende un fenomeno semiotico.
Nel suo esempio riportato sopra, Hjelmslev ne considera soltanto cinque,
appartenenti a due categorie distinte (casi e numero), ma ovviamente
l’analisi può complessificarsi indefinitamente fino a considerare n
dimensioni. Tuttavia, anche in questo caso minimale, si vede come
un’analisi per dimensioni pensi a un elemento semio-linguistico come al
nodo posto all’incrocio di una rete n di categorie, da cui l’identità
dell’elemento dipende e che presentano ognuna la propria struttura sistemica
di tipo partecipativo. Nell’esempio di Hjelmslev, l’elemento 1 (ac) è il nodo
posto all’incrocio delle categorie dei casi e del numero, i cui sistemi sono di
tipo partecipativo (nominativo e singolare sono termini estensivi, accusativo,
genitivo e plurale sono invece termini intensivi). L’elemento 1 partecipa di
certe dimensioni di una categoria (nominativo) mentre è escluso dalle altre
(accusativo e genitivo). Questa tensione costitutiva tra partecipazione ed
esclusione costituisce il punto centrale dei sistemi a rete quali l’enciclopedia
o il rizoma. Ne forniremo un esempio dettagliato tra breve, in questo stesso
capitolo (cfr. infra, 1.6-1.7).
Riassumendo, con la sua analisi per dimensioni, Hjelmslev ci insegna a
pensare a un sistema semiotico che sia al suo interno costitutivamente
plurisistemico: un “sistema di sistemi”, in una sorta di autosimilarità frattale
(cfr. infra, 1.8). Il modo in cui un’analisi per dimensioni a rete, così come
Hjelmslev ce la presenta, possa essere coniugata con l’idea echiana di rete
enciclopedica, sarà l’oggetto del proseguo del nostro percorso.
Tuttavia, e proprio per specificarne il senso profondo, non possiamo a
questo punto non porci la domanda più fondamentale, e cioè perché tutte
queste idee – e in particolar modo, la coppia intensivo/estensivo – spariscano
dai Prolegomena, grande opera divenuta maggiore nella teoria semiotica.
Ecco infatti l’unica occorrenza che la coppia intensivo/estensivo ha
all’interno dei Prolegomena:
Nelle definizioni formali della teoria non si tratta di cercare di esaurire la natura intensiva degli
oggetti né di delimitarli estensivamente da ogni parte, ma solo di ancorarli in maniera relativa
rispetto ad altri oggetti analogamente definiti. (P, p. 24)
Ma ecco allora che “a partire dalla sua Logica dei Relativi del 1870,
Peirce decise di abbandonare quella tradizione logica millenaria che poneva
il rapporto tra soggetto e predicato al centro della proposizione e che aveva
ispirato il suo saggio ‘On a New List of Categories’”:44
noi consideriamo la tendenza del soggetto-nominativo come un abito sfortunato della nostra razza
o piuttosto, forse, come un istinto misterioso, come il prendersi cura delle proprie uova da parte
delle vespe. […] Ma la logica, il cui compito consiste nel determinare le proprietà necessarie dei
segni, non ha alcun motivo di considerare, per esempio, il fatto del dare come più appartenente al
donante piuttosto che al ricevente o al dono. […] In un fatto triadico come A dà B a C non
facciamo alcuna distinzione tra il soggetto nominativo, l’oggetto diretto e l’oggetto indiretto. […]
Se chiamiamo A, B, C, D quattro soggetti della proposizione e “– vende – a – per il prezzo –” un
predicato, rappresentiamo la relazione logica in modo sufficientemente corretto, ma abbandoniamo
la sintassi Ariana. (MS 200, p. 59, MS 308, MS 595, p. 27)
Risulta così chiaro che ogni nodo è equivalente a un relativo; e la teoria della valenza viene così
acquisita in logica. (CP 3.469-3.471, cfr. 1.289, 1.346, 3.421, 4.309, 4.561 n.1, 5.469)
I termini relativi non sono dunque altro che pure posizioni definite in
funzione della valenza verbale, tanto che Peirce utilizza spesso una
notazione che li individua come spazi bianchi disseminati dalla struttura
della frase, come ad esempio nel caso del dono: “– gives – to –” (cfr. CP
3.340 e 3.471, MS 595). In questo modo, la Logica dei Relativi non è allora
altro che un’originalissima forma di topologia della proposizione,46 in cui la
classificazione degli elementi viene fatta in funzione del numero dei posti
disponibili all’inserimento di un nuovo termine, capace di combinarsi col
verbo considerato. Questi termini in Tesnière prendono il nome di attanti
(protoattanti in Greimas 1983, attanti posizionali in Fontanille 1998), in
Peirce quello di termini relativi (o correlati).47
Ne si noti, allora, la costitutiva natura differenziale in cui gli elementi non
esistono se non nel loro rapporto con l’altro:
[I termini relativi sono] ombre che si combinano insieme per formare una sostanza! Essi non
esistono. […] Non hanno esistenza nell’universo della quantità. Ma uniti insieme in composti ce
l’hanno. Essi sono come radicali chimici, ognuno dotato di un certo numero di mancanze non
soddisfatte. Quando ognuna di esse viene soddisfatta attraverso l’unione con un’altra, il tutto
completamente saturato possiede un’esistenza nell’universo delle quantità. […] L’applicazione di
questa idea alla logica dà l’esatta logica dei relativi. (NEM, IV, pp. 151-152)
Ecco come Peirce formula, diversi decenni prima degli strutturalisti, l’idea
di un’identità privativa degli elementi semio-linguistici, in cui la sostanza è
l’effetto della forma propria della combinazione tra gli elementi. I relativi
peirciani sono dunque degli attanti, la loro identità è puramente relazionale e
il loro statuto costitutivamente differenziale definisce le condizioni di
possibilità di qualsiasi tipo di processo logico successivo. Viene così
colmato qualsiasi tipo di iato tra una logica semiotica di tipo peirciano e una
differenzialità relazionale di tipo strutturalista. Se non che, quanto meno per
precedenza cronologica, si dovrebbe forse dire esattamente l’opposto: gli
attanti tesnièriani sono dei termini relativi, la loro identità è puramente
relazionale e il loro statuto costitutivamente differenziale definisce le
condizioni di possibilità di qualsiasi tipo di processo narrativo successivo.
Viene così colmato qualsiasi tipo di iato tra una differenzialità relazionale di
tipo strutturalista e una logica semiotica di tipo peirciano.
In CP 4.5, Peirce definisce infatti la novità costitutiva della Logica dei
Relativi in un passaggio dal concetto di classe a quello di sistema48
esattamente speculare a quello che vedremo sostenere da Louis Hjelmslev
nel suo Résumé of a Theory of Language, con differenze esclusivamente
terminologiche (cfr. infra, 1.6 e 1.8):
La logica ordinaria si dà un gran da fare a parlare di generi e specie, o di classi. Ora, una classe è
un insieme di oggetti che comprende ciò che sta uno all’altro in una speciale relazione di
similarità. Ma dove la logica ordinaria parla di classi la logica dei relativi parla di sistemi. Un
sistema è un insieme di oggetti che comprende tutto ciò che sta in rapporto all’altro in un gruppo di
relazioni connesse. (CP 4.5)
Dunque, come dice Peirce, “le triadi sono i relativi primitivi” (CP 3.483),
dal momento che ogni altra relazione logica può sempre derivata dalla
relazione semiotica, e cioè dalla relazione triadica (semiosi). Ecco allora nel
cuore stesso della Logica dei Relativi un’altra relazione di tipo partecipativo
in senso hjelmsleviano: la triade (termine estensivo) è una tra le n differenti
relazioni possibili (termini intensivi), ma essa può assumere il valore proprio
di tutte le altre, dal momento che tutte le relazioni di qualsiasi valenza
potranno sempre venire generate a partire dalle triadi.
Proprio a questo proposito, possiamo ora occuparci del punto ii). Peirce
insiste infatti molto sull’importanza delle relazioni triadiche, e cioè sulle
relazioni di valenza 3, quali quelle sul tipo di “A dona B a C”, e mostra
come questa triadicità sia costitutiva del fenomeno stesso del dono e
irriducibile a somme di rapporti tra coppie.
Una triade rappresenta qualcosa di più di una mera congerie di coppie. Ad esempio: A dà B a C.
Abbiamo qui tre coppie: A cede B, C riceve B, A arricchisce C. Ma questi tre eventi duali
considerati insieme non fanno la triplicità del fatto, che consiste invece in ciò: che A cede B, C
riceve B, A arricchisce C, ma il tutto in un unico atto. (MS 717, cfr. anche CP 8.331)
Questa irriducibilità delle triadi a somme di diadi è del tutto speculare alla
definizione della semiosi come relazione triadica irriducibile a rapporti tra
coppie. Come nota giustamente Gallie (1952, p. 112):
l’irriducibilità delle relazioni triadiche è dovuta al fatto che per esempio un evento del tipo A dà B
a C non può essere scomposto nei due eventi “A rinuncia a B” e “C viene in possesso di B”, perché
una simile relazione di eventi a due termini trascurerebbe la caratteristica unitarietà di intenti che
distingue un atto di cessione da un accidentale mutamento di proprietà. Considerazioni analoghe
valgono per eventi del tipo “A indica B a C”, “A suggerisce B a C” e, più generalmente “A
significa B per C.
(A ∩ B ∪ C) → (A ∩ B ∪ C).52
S è P. (CP 5.278-5.279)
Il sinechismo, anche nella sua forma meno rigorosa, non può sopportare alcun dualismo. Esso non
vuole sterminare la concezione del due […]. Ma il dualismo nel suo vero e più esplicito significato,
come filosofia che taglia le sue analisi con un’accetta, interpretando come elementi ultimi pezzi
irrelati di essere, questo sì è massimamente ostile al sinechismo. (EP2, p. 2)
Ecco allora che, così come tutte le relazioni di qualsiasi valenza potranno
essere generate a partire dalle triadi, così qualsiasi evento potrà essere
generato solamente a partire dalla legge di continuità che definisce “la legge
della mente”, secondo il movimento che abbiamo appena esplicitato.57
La tradizione semiotica ci pare allora aver completamente ignorato le
rivoluzioni peirciane del sinechismo e della Logica dei Relativi, ergendo a
modello unico della sua semiotica quello del giovane Peirce. Da qui
l’importanza eccessiva attribuita alla teoria dell’inferenza, che il Peirce
maturo riformerà e ripenserà completamente (cfr. infra, 1.8), e l’importanza
nulla attribuita invece alla fenomenologia (faneroscopia), alla Logica dei
Relativi e al sinechismo. Tuttavia, è del tutto evidente come, a un certo
punto, Peirce modifichi radicalmente quella concezione della sua semiotica
che è stata invece elevata a modello unico dalla tradizione semiotica
“maggiore”. Peirce rifiuta cioè proprio quello che nel suo modello giovanile
gli pareva invece adeguato, e cioè pensare al pensiero che si fa presente alla
mente (segno) come a un evento che emerge da uno sfondo continuo e
pensare al contempo a questa stessa emersione come al rapporto tra la
conclusione e le premesse di un sillogismo fondato sulla predicazione di
proprietà. L’emersione dell’evento a partire da uno sfondo continuo doveva
allora essere fondata su basi nuove rispetto a quelle che definivano
un’unificazione del molteplice attraverso la predicazione di proprietà P di
una sostanza S (modello della “New List”), secondo una catena inferenziale
che passasse da una predicazione a un’altra (modello delle “Consequences”).
Al fine di delineare i tratti di questa emersione, Peirce farà riferimento
ancora una volta alla logica della proposizione, ma questa volta sarà in grado
di abbandonare la “sintassi ariana” e pensare all’evento che si fa presente
alla coscienza (segno) come a qualcosa sul tipo del “donare”, del “piovere”,
dell’“amare”, del “provare dolore”: eventi molto variabili che aprono delle
posizioni di soggetto che definiscono una rete di relazioni che permette di
determinare l’identità dei “soggetti” coinvolti (correlati). E questo con alcuni
cambiamenti radicali rispetto alla teoria “soggetto-predicato” della “New
List”.
Ma, come abbiamo visto, non solo questo modello della riduzione della
molteplicità a unità fondato sulla predicazione verrà presto abbandonato, ma
l’abduzione stessa verrà profondamente riformata da Peirce, al fine di
renderla adeguata al movimento processuale e traduttivo che è proprio
dell’interpretazione. Lavoreremo estensivamente su questo punto in 1.7 e in
4.11. Per il momento, dobbiamo invece trarre le fila da queste nostre tre
letture “minori” e proporre qualche considerazione in positivo.
1.6. Un empirismo trascendentale e un modello “escheriano”: la
semiotica interpretativa come sintesi disgiuntiva tra Peirce e Hjelmslev
Ma allo stesso modo, anche in Peirce il flusso del pensiero è innanzi tutto
un continuum, ed è innanzi tutto il metodo della filosofia a reperire in questo
flusso continuo delle posizioni che siano in grado di ricostruirlo al di là di
ciò che si manifesta nell’esperienza (cfr. CP 5.329, W1, p. 351). Ecco allora
che per Peirce le posizioni individuate in questo continuum debbono
necessariamente essere tra loro in un rapporto triadico, dal momento che
solamente una relazione triadica è in grado di definire e di produrre un
continuum. In questo modo, anche in Peirce la semiotica inizia innanzi tutto
con una divisione, con una procedura di analisi. Al di là dell’Oggetto
Dinamico che si dà nell’esperienza, Peirce scopre innanzi tutto l’Oggetto
Immediato, che è l’oggetto come esso si manifesta nello spazio semiotico
aperto dalla relazione triadica che tiene insieme segno, oggetto e
interpretante. Al di là del e del suo manifestarsi semioticamente
attraverso segni, oggetti e interpretanti, Peirce scopre innanzi tutto tre
dimensioni costitutive (Primità, Secondità e Terzità) che gli stessi elementi
semiotici incarnano e che definiscono il fenomeno nel suo costitutivo venire
alla presenza. Al di là del flusso continuo del pensiero (CP 5.329) e del darsi
della memoria (CP 6.107-6.111), Peirce scopre innanzi tutto delle posizioni
pure che il movimento della coscienza può occupare e che sono legate tra
loro in un rapporto di premesse/conclusione (CP 5.329). Ecco dunque che
logica e faneroscopia operano sul flusso continuo del pensiero e sullo spazio
di manifestazione del fenomeno le stesse identiche operazioni di divisione
che la semiotica opera sull’Oggetto Dinamico reperendo rapporti tra segni,
oggetti e interpretanti: esse ne individuano dei punti singolari
(premesse/conclusione; Primità/Secondità/Terzità), attraverso i quali essi
possono essere ricostruiti nelle loro forme di relazione al di là, o al di qua, di
ciò che di fatto si dà nell’esperienza.
Sia per Peirce che per Hjelmslev si parte dunque da ciò che di fatto si
manifesta nell’esperienza, lo si taglia in funzione di una serie di tendenze o
direzioni che non sono tratte dall’esperienza, al fine di ricostruire poi ciò che
si manifesta nell’esperienza attraverso queste condizioni pure che non
esistono che di diritto. In questo modo, le semiotiche di Peirce e Hjelmslev
sembrano identificare il loro metodo con una forma di analisi
trascendentale, che a loro modo rimanda a Kant.
Si è infatti spesso equivocato sul termine “trascendentale”. Tuttavia, la
definizione kantiana è estremamente rigorosa:
Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi in generale, non tanto di oggetti quanto del
nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori. […]
Ciò a cui principalmente si mira nella suddivisione di questa scienza è la radicale esclusione di
ogni concetto che contenga in sé qualcosa di empirico, ossia la completa purezza della conoscenza
a priori. (CRP, A 11, B 25; A 15, B 29)
Ecco quindi per noi la prima parte del metodo della semiotica
interpretativa: partire da ciò che di fatto si manifesta nell’esperienza, al fine
di tagliarlo in n dimensioni che non esistono che di diritto e che sono
costituite da una serie di reticoli di relazioni che rendono possibile il fatto
che si manifesta nell’esperienza. Come detto, queste reti di relazioni
(sistemi) hanno per noi natura partecipativa (cfr. 1.4 e 1.7). Era esattamente
questa “l’analisi per dimensioni” che Hjelmslev proponeva nella “Struttura
generale delle correlazioni linguistiche”: pensare a ciò che si manifesta
nell’esperienza come l’incrocio di n dimensioni che ne costituiscono la rete
di relazioni soggiacente, definendone l’identità.
E tuttavia con una differenza fondamentale rispetto a Kant. Perché se è
vero che occorre superare ciò che di fatto si manifesta nell’esperienza verso
quelle condizioni che non esistono che di diritto, per la semiotica
interpretativa queste condizioni sono quelle però quelle dell’esperienza
reale, e non quelle dell’esperienza possibile. I tagli semiotici riguardano cioè
gli oggetti empirici manifestati e non quelli “manifestabili”. È esattamente
questo che ci spingeva ad allontanarci dallo Hjelmslev dei Prolegomena, che
voleva invece costruire la teoria del linguaggio che spiegasse non solo i testi
e le lingue già manifestati, bensì tutti i testi e tutte le lingue manifestabili in
linea di principio. Per la semiotica, le condizioni trascendentali devono
essere quelle dell’esperienza reale e non quelle dell’esperienza possibile. Da
qui l’attenzione che la semiotica ha sempre prestato alla costruzione del
corpus e, soprattutto, a un’analisi che renda conto del senso già manifestato.
Da qui il carattere generale e fallibile dell’analisi semiotica, che si
differenzia da quello universale e necessario proprio di un’analisi
trascendentale dell’esperienza possibile.
Nel Résumé, Hjelmslev oppone infatti l’universalità alla generalità e
mostra come, là dove un’operazione universale può essere “eseguita su
qualsiasi oggetto sotto tutte le condizioni”, un’operazione generale può
invece “essere eseguita su qualsiasi oggetto sotto certe condizioni, ma non
sotto tutte le condizioni” (R, Def. 1 e 2). Da qui l’ancoraggio al senso già
manifestato che rende soltanto generale l’attività del linguista, che vale solo
in circostanze date. Allo stesso modo, nel sinechismo, Peirce oppone
necessità e fallibilismo e mostra come una teoria semiotica della conoscenza
fondata sull’anti-intuizionismo e sull’interpretazione possa solo tendere alla
necessità, come fine ultimo dell’attività conoscitiva “in the long run”.
Perchè, a ogni singolo stato concreto dell’interpretazione, la “torcia della
verità” che “passa da interpretante a interpretante” può invece fornire
esclusivamente una conoscenza fallibile, che può cioè essere sempre diversa
da come crediamo (con buone ragioni) che sia. Da qui l’ancoraggio al senso
già manifestato che rende solamente fallibile l’attività del semiotico, che
vale solo in circostanze date. Generalità e fallibilismo sono cioè i tratti di ciò
che Eco (1983, pp. 356-359) chiamava la ragionevolezza semiotica, in
opposizioni alla forza universale e necessaria della Ragion Pura e dei
modelli semantici “forti”.
Ma tutto questo sembra comunque non bastare. Si tratta infatti soltanto
della prima parte del metodo, della prima parte della questione. Non basta
infatti individuare quella rete di relazioni che permette di determinare
l’identità di ciò che si manifesta di fatto nell’esperienza, ma si tratta anche di
determinare in quale modo l’oggetto analizzato risponda ai tagli eseguiti
dalla teoria.
Il realismo ingenuo suppone probabilmente che l’analisi consista semplicemente di una divisione
di un certo oggetto in parti, cioè in altri oggetti, e poi di questi in altre parti, cioè ancora in altri
oggetti e così via. Ma anche il realismo ingenuo dovrebbe scegliere fra vari possibili modi di
divisione. Appare ben presto in maniera chiara che ciò che importa non è la divisione di un oggetto
in parti, ma uno svolgimento dell’analisi conforme alle interdipendenze fra queste parti e che ne
renda conto adeguatamente. Solo così l’analisi diviene adeguata, e dal punto di vista di una teoria
metafisica della conoscenza si può dire che rifletta la “natura” dell’oggetto e delle sue parti. (P, p.
26)
Quello che è vero per espressione e contenuto è allora vero allo stesso
modo per tutte le altre grandezze della glossematica.
Quello che è impossibile in Hjelmslev infatti è la definizione di una cosa
per proprietà: non si può cioè dare una definizione di un oggetto teorico
propriamente glossematico che permetta di costruire un insieme (una classe)
che includa ed escluda degli elementi in funzione delle proprietà stabilite
dalla definizione. Al contrario, la classe è un elemento che assume il suo
senso e la sua identità esclusivamente in funzione della posizione in cui si
trova all’interno di un determinato taglio. Tutti gli oggetti teorici
glossematici in Hjelmslev sono, infatti, definiti relazionalmente in un piano
d’immanenza puro (sistema) che li àncora relativamente solo in funzione di
quel piano. Su un altro piano le cose cambiano, e quello che era ad esempio
sostanza (e dunque definito relazionalmente in opposizione a forma) può
tranquillamente diventare forma. Ecco allora in cosa consiste propriamente
la liberazione hjelmsleviana che ha luogo con la scoperta di un terzo ordine
propriamente glossematico popolato in perfetta solitudine dalla classe: le
“cose” non sono niente, quello che è sostanza può benissimo essere forma,
quello che è espressione può benissimo essere contenuto e così via. Ciò che
conta è esclusivamente il piano in funzione del quale degli elementi si
interdefiniscono ancorandosi relazionalmente gli uni in rapporto agli altri.
Ciò che conta è esclusivamente il piano che è tagliato in quel modo e non in
un altro, ma che può benissimo essere tagliato in un altro modo, su un
differente livello.
Per questo, con Hjelmslev il concetto di classe subisce una rivoluzione
decisiva rispetto al suo significato logico-matematico (Russell/ Whitehead) o
epistemologico (Popper ad esempio). Una classe in Hjelmslev non è affatto
un insieme costituito da elementi che hanno certe proprietà. Al contrario una
classe è un oggetto che si taglia in molti modi, ed è sempre in funzione del
taglio che àncora relazionalmente le componenti della classe che ogni
componente assume l’identità che ha all’interno di quel piano, e cioè
all’interno di quella determinata classe. In funzione di un altro taglio, le cose
cambiano. Gli oggetti teorici hjelmsleviani (espressione/contenuto;
materia/forma/sostanza) funzionano esattamente come gli oggetti sottoposti
alla loro analisi: come le unità di contenuto (Baum/Holz/Wald ecc.), essi
vedono definita la loro identità in funzione del taglio che le interdefinisce
relazionalmente. “Baum” ad esempio assume il suo senso solamente in
riferimento al taglio che ne delimita l’estensione semantica in funzione degli
altri elementi della lingua (componenti in Hjelmslev); ma in un’altra lingua,
in funzione di un altro taglio, le cose cambiano. Così è per la teoria
glossematica, che è “tagliata” nello stesso modo in cui lo è il suo oggetto. E
del resto se Hjelmslev ci dicesse che cos’è la forma e che cos’è la sostanza,
che cos’è il contenuto e che cos’è l’espressione al di là dei loro reciproci
rapporti, ne darebbe una definizione sostanziale per proprietà e verrebbe
meno al principio fondamentale dello strutturalismo, che è costitutivo anche
di ogni impresa autenticamente semiotica, e cioè quello che dice che le entità
posseggono un’identità puramente relazionale, che è definita per
determinazione reciproca in funzione del taglio che le colocalizza su un
determinato livello.
Con la sua idea di classe, attraverso cui ne coniuga l’eredità, Hjelmslev ci
insegna insomma la potenza propriamente semiotica della seconda
accezione del valore saussuriano, in cui degli elementi puramente
immanenti vedono definita la loro identità esclusivamente in funzione del
sistema che è loro proprio e in cui si determinano reciprocamente.
Tuttavia, come detto in 1.3, Hjelmslev rifiuta con forza la prima
dimensione del valore di Saussure, che resta per noi del tutto fondamentale
per un’impresa semiotica. Dove ritrovare allora le forze proprie della prima
accezione? Dove ritrovare la potenza propria di un “fuori” dal sistema con
cui i valori non cessano di scambiarsi con qualcosa di altro rispetto al piano
in cui si costituiscono nella loro identità differenziale? Dove andare a cercare
una possibile traducibilità che ci consenta di concatenare elementi eterogenei
senza che con questo essi cessino di restare eterogenei? Come operare
insomma questa stretta sintesi disgiuntiva tra le due accezioni del valore
saussuriano?
Il nostro obiettivo di costruire una semiotica capace di tenere insieme le
prospettive di Peirce e Hjelmslev non può che indicare una strada che, come
speriamo di mostrare, è per noi del tutto fruttuosa. La semiotica peirciana, e
in particolare la sua teoria dell’interpretazione, definiscono infatti
esattamente questa teoria differenziale basata su di una logica delle relazioni
(Logica dei Relativi), in cui il valore si traduce continuamente con elementi
esterni al suo sistema più proprio.
Al fine di capire che cosa sia davvero la semiotica interpretativa di Peirce,
facciamo allora un esempio di processo che Peirce chiamerebbe
“interpretativo”, considerando l’undicesimo studio dell’opera 25 di Chopin.
Nel momento in cui la si ascolta da un compact disc, possiamo infatti dire di
aver sentito davvero l’opera 25 di Chopin, oppure non abbiamo piuttosto
avuto a che fare con delle variazioni di pressione dell’energia meccanica che
provocano proporzionali variazioni nei nostri ricettori una volta che
impattano sui nostri timpani? E ancora, possiamo dire di aver davvero
ascoltato l’undicesimo studio dell’opera 25 di Chopin, o non si tratta
piuttosto dell’esecuzione di Van Cliburn dell’undicesimo studio dell’opera
25 di Chopin? O non si tratta invece di una registrazione di una esecuzione
di Van Cliburn (si pensi a quante volte Van Cliburn abbia provato il pezzo,
che è difficilissimo, o a quante altre interpretazioni di altri pianisti esistano)?
Ma in realtà quello che abbiamo sentito è davvero la registrazione di
un’esecuzione di Van Cliburn dell’undicesimo studio dell’opera 25 di
Chopin, oppure non è in realtà altro che una sequenza particolare di simboli
binari immagazzinati in un compact disc e opportunamente trasdotti in
variazioni di energia elettrica prima di venire trasmessi a un amplificatore?
Ma che cos’è allora questa?
non rappresentando altro che il differenziale delle altezze della mano destra
del brano rappresentate in un diagramma di flusso, che potrebbe definire
l’input per un software musicale di esecuzione meccanica ispirato alle
schede perforate di Conlon Nancarrow, software che potrebbe benissimo
risuonarci il brano fornendoci un’interpretazione diversa.
“Un’interpretazione diversa”. Di fatto, per Peirce tutti questi passaggi da
un elemento a un elemento eterogeneo che illumina sotto un certo rispetto
uno stesso oggetto sono interpretazioni dell’opera 25. E non solo le due
esecuzioni di Van Cliburn e del software, come si sarebbe tentati di sostenere
in prima istanza secondo l’utilizzo standard del termine “interpretazione”.
Leggiamo allora questo bel passo di Wittgenstein (1918, 4.014):
Il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione musicale, le onde sonore, stanno tutti l’uno
con l’altro in quella interna relazione di raffigurazione che sussiste tra linguaggio e mondo. A essi
tutti è comune la struttura logica.
Del resto era esattamente quello che accadeva in tutti i nostri esempi
precedenti, dove c’era un continuo illuminare uno stesso oggetto sotto
differenti rispetti, passando attraverso nuovi segni in maniera tale da poter
conoscere qualcosa di più. Leggiamo allora una delle definizioni più
complete in assoluto date da Peirce:
Un Segno o Representamen è un Primo che sta in una tale relazione triadica genuina con un
secondo, chiamato il suo Oggetto, da essere capace di determinare un Terzo, chiamato il suo
Interpretante, ad assumere la stessa relazione triadica con l’Oggetto nella quale si trova il Segno o
Representamen stesso con lo stesso Oggetto. La relazione triadica è genuina in quanto collega
insieme i suoi tre membri in un modo che non consiste in alcun complesso di relazioni diadiche.
Questa è la ragione per cui l’Interpretante, o Terzo, non può stare in una mera relazione diadica con
l’Oggetto, ma deve stare con esso Oggetto nella medesima relazione in cui vi sia il Representamen
stesso. […] Il Terzo deve sì stare nella medesima relazione in cui sta il Primo, e quindi deve essere
capace di determinare, come il Segno o Representamen, un Terzo suo proprio; ma, oltre a questo,
deve avere una seconda relazione triadica nella quale il Representamen, o piuttosto la relazione del
Representamen con il suo oggetto, sarà il suo proprio (del Terzo) Oggetto, e deve quindi essere
capace di determinare un Terzo a questa relazione. Tutto questo deve essere ugualmente vero per i
Terzi del Terzo e così via senza fine; e tutto ciò e anche più di ciò è implicato nell’idea corrente di
Segno. (CP 2.274)
Figura 13. Concatenamenti triadici di relativi (semiosi infinita)
Non c’è niente che ci differenzi sotto nessun rispetto da questa idea
fondamentale di Eco, attraverso la quale la semiotica interpretativa rivendica
l’eredità diretta della teoria del valore saussuriano in entrambe le sue
accezioni: quella trascendente, in cui l’identità di un valore è definita “da
una cosa dissimile suscettibile di essere scambiata con quella di cui si deve
determinare il valore” e quella immanente, in cui essa è definita “da cose
simili che si possono confrontare con quella di cui è in causa il valore”
(Saussure, CLG, p. 140). Al contrario della semiotica generativa, che come
nota giustamente Zilberberg (1988, p. 17) “si è costituita attraverso
l’adozione del secondo principio e l’abbandono non teorizzato del primo”, la
semiotica interpretativa, invece, i) incarna l’accezione immanente all’interno
della sua teoria della differenza, in cui l’identità degli elementi in rapporto è
definita in modo puramente differenziale e relazionale; ii) incarna
l’accezione trascendente con il suo essere principio di trasducibilità tra
domini e tramite tra sistemi diversissimi. Dal momento che per Saussure
entrambe le accezioni sono “necessarie per l’esistenza di un valore” (op. cit.,
p. 140), lasciare nell’ombra del non-teorizzato una delle due dimensioni
significherà necessariamente tradire la rivoluzione stessa dello strutturalismo
incarnata nel concetto saussuriano di valore (cfr. infra, 2.2), concetto che è
alla base dell’impresa semiotica stessa. E del resto non si potrà non
concordare con questo passo di Patrizia Violi (1997, p. 35):
Conoscere l’insieme delle relazioni semantiche che si instaurano fra un termine e tutti gli altri non
equivale affatto a conoscere il significato. […] Perché ciò sia possibile bisogna che il segno sia
interpretato, cioè che si sia già instaurata una relazione fra il segno e qualcos’altro che […]
funzioni da interpretante.
Ecco allora le due dimensioni essenziali che la semiotica incarna nella sua
stessa essenza e non smette mai di tenere insieme: un insieme di elementi
immanenti che si determinano reciprocamente in funzione di un dato taglio
disciplinare (classi in Hjelmslev); la trasduzione (interpretazione) di questi
stessi elementi su altri piani, in funzione di altri tagli che non smettono di
farli passare da un punto a un altro accrescendone e modificandone l’identità
(interpretanti in Peirce). Ecco il modo non banale in cui la semiotica può
tenere insieme la lezione hjelmsleviana e quella peirciana e ritrovare così
l’essenza piena della teoria del valore saussuriano, che è alla base stessa
della nascita della semiotica e, come speriamo di aver dimostrato,
presuppone per essenza un approccio “interpretativo” (hjelmsleviano-
peirciano), e cioè il tentativo di tenere insieme strutturalismo e
interpretazione.94
Ma tutto questo non ha ancora alcuna efficacia se non si è in grado di
capire il senso vero di questa stessa traducibilità, il senso vero di questo
tentativo di istituire una commensurabilità locale tra sistemi eterogenei. A
questo proposito, occorrerà ancora una volta riferirsi al pensiero di Eco. In
più occasioni, Eco ha infatti insistito sul fatto che la sua attività di
romanziere sia nata dall’esigenza di esprimere qualcosa che non si poteva
rappresentare attraverso la struttura del teorizzare. C’era evidentemente la
sensazione che qualcosa non potesse essere espresso, ma non potesse essere
espresso all’interno di quel sistema di espressione, in funzione di quel
determinato taglio disciplinare, direbbe Hjelmslev. L’idea è che la struttura
di quel particolare dominio non fosse adatta all’espressione di quella
particolare esperienza e che ne servissero altre, ma che al di fuori di quel
particolare dominio non si trovassero l’energia creatrice e il vortice
dionisiaco con le sue forze sui cui l’analisi non ha presa; bensì altre
strutture, di forma differente e per questo più adatte a una particolare
espressione. Ecco allora che la dialettica non è tra un inesprimibile e un
espresso, bensì tra un particolare tipo di espressione con le sue potenzialità e
un altro particolare tipo di espressione con altre potenzialità. Se infatti ogni
disciplina esprime attraverso le sue strutture un brandello della nostra
esperienza e del suo senso, essa non viene a dire un indicibile, bensì un
esprimibile che aspetta espressione. Per essenza questo esprimibile si ex-
prime in un dominio particolare, ma non vi si riduce, rimandando la sua
espressione completa a una traducibilità con altri domini, che è costitutiva
della sua stessa essenza (oltre che della semiotica). Era esattamente in questo
senso che in 1.7 parlavamo dell’identità trasduttiva della semiotica di Peirce.
Se l’interpretazione è il passaggio da un punto a un altro, il transitare da
un dominio a un altro connettendoli e facendoci così conoscere qualcosa di
più, lo è perché la dialettica che si dà non riguarda un indeterminato capace
di essere variamente formato, bensì un determinabile e differenti forme di
determinazione. Il determinabile si esprime nelle differenti forme che lo
determinano, ma non vi si riduce, visto che non smette mai di contrapporre
la propria forma a quella stabilita nella determinazione. E tuttavia esso vi si
esprime, non avendo altra forma che quella di ex-primersi in un “altro” che
non smette mai di determinarlo, ma che lo può determinare solamente perché
questo stesso determinabile vi pulsa all’interno. Si direbbe che il fondo sale
alla superficie, ma senza con questo cessare di essere fondo e pulsare
all’interno di tutte le figure che lo esprimono e lo fanno circolare attraverso
segni interpretanti. C’è forse qualcosa di crudele in questa lotta contro un
avversario inafferrabile, in cui ciò che è espresso si oppone a qualcosa a cui
non può opporsi e con cui continua a coniugarsi nel momento stesso in cui se
ne separa. C’è qualcosa di crudele in questa corrispondenza tra un
determinabile già differenziato che continua a differenziarsi nel momento in
cui l’interpretazione lo fa circolare attraverso nuovi interpretanti, e la
struttura che esso continua a opporre alla sua stessa circolazione, in cui
insiste, e al di fuori della quale non ha alcuna esistenza. Ma è allora proprio
in questa dialettica, in questa lotta in cui cerchiamo di distinguerci da
qualcosa da cui non ci possiamo distinguere, ciò in cui consiste l’eredità
della semiotica interpretativa stessa,95 un’eredità che ci consegna alla lotta
contro l’ineffabile e contro le filosofie dello spirito creatore: un’eredità che
ci affida come unica arma la circolazione del senso, la sua interpretabilità, la
sua trasduzione continua in segni interpretanti. Perché ad esempio in Peirce
la semiotica nasceva per far fronte a un doppio rifiuto: quello
dell’inconoscibile come inesprimibile e quello dell’intuizione come esempio
di spiegazione non strutturata (cfr. CP 5.213-5.263; 5.265).
Con la semiotica abbiamo allora perso la facilità di fornire spiegazioni
facendo ricorso a illuminazioni subitanee, shifts non abduttivi, spiriti
creatori, intuizioni eidetiche delle essenze, demiurgie dell’autore o del genio.
Ma con la semiotica abbiamo perso anche la possibilità di decretare il nostro
stesso scacco, facendo appello a qualcosa che sarebbe per sua stessa essenza
un “non so che” che non possiamo far circolare attraverso interpretanti. Con
la semiotica abbiamo perso la possibilità di fare analisi impressive, di
ricorrere alla creazione libera, abbiamo perso la possibilità di pensare che il
poeta crei un mondo, che la scienza non pensi. Ma tutta questa somma di
perdite, questa progressiva aggiunta di sottrazioni costituisce in fondo
qualcosa di positivo nel suo stesso ordine, che è esattamente quel qualcosa
che ci tiene tutti uniti nel momento in cui facciamo semiotica. Questa serie
di perdite, questa continua somma di sottrazioni definisce allora esattamente
quello in cui crediamo, quello che facciamo, ciò che in realtà siamo.
Perché in fondo siamo anche sempre ciò che abbiamo perso.
1
È ad esempio completamente assente la teoria dei diagrammi, su cui fonderemo molte delle nostre
argomentazioni nel capitolo 4, e la gran parte degli scritti tecnici sulla teoria del continuum
(sinechismo), che Peirce considerava il suo capolavoro e di cui la semiotica sarà pensata essere una
parte (cfr. infra, 1.5).
2
La storia del libro e dei rapporti coi suoi prolegomena la si può leggere nell’introduzione di
Whithfield a Résumé of a Theory of Language di Hjelmslev.
3
Va ricordato come la pubblicazione del libro in inglese sia successiva di oltre vent’anni a quella dei
suoi Prolegomena.
4
Cfr. Manetti, 1992, pp. 5-12. In Italia è stato innanzi tutto Eco a coagulare attorno a sé e alla sua
scuola un numero di ricerche sulla storia dei concetti della semiotica. Oltre alle tante tesi di laurea e
di dottorato, si vedano almeno Manetti, 1987; Eco e Marmo (eds.), 1989; Marmo, 1994; Calabrese,
2001.
5
Valga per tutti l’esempio di Lakoff e Johnson (1999) in cui sembra che il “pensiero occidentale” si
identifichi in toto con l’aristotelismo.
6
Cfr. Ronchi, 1996.
7
Cfr. almeno Rastier, 1990; Rastier, 2001 capitolo 1 e Rastier 2003, capitolo 2.
8
È questa la posizione in Rastier, 2001 e 2003.
9
Corrente di pensiero che utilizza un concetto di interpretazione profondamente diverso da quello
della semiotica interpretativa.
10
Cfr. Morin, 1986.
11
Cfr. Deleuze, 1967 e infra, in questo stesso capitolo.
12
Ma su questo punto si veda Lo Piparo, 2003, la cui rilettura di Aristotele è davvero “minore” nel
senso utilizzato qui e rappresenta un antecedente filosofico di “rilettura deviante dello standard”,
che ha rappresentato per noi un’importantissima fonte di ispirazione.
13
Vedremo infatti nel capitolo 4 come il significato comporti sempre degli elementi concettuali
(ordine delle rappresentazioni) e referenziali (ordine dell’oggettività) e tutta una serie di rapporti tra
di essi, ma vedremo altresì come questi elementi andranno però sempre mirati a partire dalla
differenzialità semiotica del valore costitutiva di una semantica enciclopedica.
14
Cfr. infra, 2.6 e 2.7.
15
Cfr. infra, 1.6 e 4.3.
16
Su questo punto non si può allora non dissentire da Rastier (1990), sul resto delle cui tesi invece
concordiamo. Va sottolineato come Rastier sia per altro largamente messo sulla cattiva strada da
alcune letture peirciane di Deledalle, che fa poi prontamente ammenda (in Deledalle, 1990),
sottolineando con forza come in Peirce sia la relazione ad essere “prima e triadica, indecomponibile
e ordinale” rispetto ai termini (op. cit, p. 47).
17
Sulla radicale e rivoluzionaria innovazione della posizione peirciana a proposito della teoria delle
relazioni, sui suoi rapporti teoretici con l’episteme strutturalista e per un dettagliato confronto
rispetto alle principali posizioni tradizionali della storia della filosofia (relazioni reali e di ragione,
logica delle relazioni in Aristotele, nei medioevali, in Leibniz, Locke, Russell e altri) si veda
Descombes, 1996, pp. 185-236. Descombes è uno dei pochissimi commentatori peirciani a notare
con grande lucidità, dopo aver correttamente accostato la posizione di Peirce a quella dello
strutturalismo, come dopo la Logica dei Relativi Peirce abbandoni completamente il realismo
scolastico o scotista, che la stragrande maggioranza dei libri su Peirce pensa invece ancora come
caratterizzante la sua posizione. “Il tratto distintivo della relazione reale peirciana consiste nel fatto
che essa è capace di costituire un sistema degli oggetti che rela. […] È così che Peirce abbandona il
‘realismo scolastico’ degli universali e lo rimpiazza con un realismo delle relazioni prese come
termini poliadici (egli continua pertanto a qualificare la propria posizione come ‘realismo
scolastico’ senza dubbio al fine di poter qualificare come nominaliste le dottrine diverse che
disapprova). In Peirce gli universali non sono più solamente degli universali di rassomiglianza
qualitativa (come la bianchezza delle cose bianche) o formale (come gli esemplari, o tokens, di uno
stesso tipo), essi sono innanzi tutto gli universali di relazione” (Descombes, 1996, p. 214).
Possiamo veramente dire che la Logica dei Relativi corrisponda a un grande rimosso nell’intera
tradizione peirciana, e in special modo in quella semiotica, che non ne ha davvero compreso la
portata rivoluzionaria. Il merito di un libro come quello di Descombes consiste nel saper fare
questa differenza, smettendo di reiterare il luogo comune che la posizione di Peirce sia simile, se
non uguale, a quella di Duns Scoto, cosa che vale a mala pena per “On a new list of categories” e
per i saggi precedenti al 1870. Peirce è il primo degli strutturalisti, o meglio, gli strutturalisti sono i
primi peirciani. Per questo la semiotica interpretativa, come tentativo di tenere insieme le
prospettive di Peirce e dello strutturalismo, è tutt’altro che sincretica se viene fondata sulla Logica
dei Relativi di Peirce. Essa ne è anzi eideticamente adeguata e rappresenta una svolta
dell’evoluzione del pensiero semiotico che non ha precedenti all’interno della storia del pensiero
sul senso e sul linguaggio.
18
Ovviamente il semiotico è “immanente” nei confronti dell’oggettività dei fatti e delle loro
rappresentazioni teoriche, “regni” in cui si incarna e rispetto a cui è “terzo”. Ma questo “terzo
ordine” popolato da valori è al suo interno intrinsecamente complesso e plurisistemico: da qui le
due dimensioni (immanente e trascendente) da cui dipende un valore. Non si confonderanno allora i
due sensi molto diversi di “immanenza” che stiamo utilizzando.
19
Gli altri due tratti che definiscono ciò verso cui tendono analisi e teorie conformi al “principio
empirico” sono la coerenza e l’esaustività.
20
Da qui le critiche che Eco (1975, 1984), Violi (1997) e in seguito tutta la tradizione cognitivista
hanno mosso allo strutturalismo hjelmsleviano e al suo separare le “conoscenze della lingua” dalle
“conoscenze del mondo”, o, più in generale, dalle conoscenze dei sistemi trascendenti la lingua.
21
Com’è evidente la parola “immanenza” in semiotica è irriducibilmente polisemica. Noi la usiamo
in opposizione a “trascendenza” nei due sensi specificati in nota 18, conformemente al suo uso
tradizionale nella tradizione filosofica. Greimas la usa invece in opposizione a “manifestazione”,
per indicare la profondità del livello semico interno al percorso generativo. Questo uso è, almeno
parzialmente, tratto da Hjelmslev.
22
Cfr. infra, capitolo 3.
23
Riportiamo il quadrato semiotico della sessualità nella figura 1 di 3.2.
24
Cfr. ad esempio Eco, 1968.
25
Va sottolineato come non si stia affatto confondendo “manifestazione” e “immanenza”, ma si stia
semplicemente dicendo che una frase quale quella citata attiva in lingua un sistema partecipativo di
opposizioni valoriali, e non un sistema esclusivo. Devo questa preziosa precauzione a Tarcisio
Lancioni, che ringrazio.
26
Dove “non-A” può essere interpretato anche come il polare opposto ad A, “B”. “Non-A” è
semplicemente “ciò che non è A”, “l’assenza di A” (cfr. infra, capitolo 3).
27
Un’altra opposizione partecipativa di questo tipo è, ad esempio, “giorno VS notte”, dove giorno
può opporsi a notte per indicare la parte luminosa della giornata, ma può anche portarne con sé il
valore semantico in frasi come “domani è un altro giorno”. Anche qui “giorno” si oppone a una
parte di se stesso (“notte”).
28
Tra gli innumerevoli casi che enumera, Hjelmslev cita, ad esempio, il sistema dei generi in russo
(in cui il neutro annulla l’opposizione tra il maschile e il femminile) e i rapporti tra prima, seconda
e terza persona che costituiscono il sistema della categoria di “persona”, su cui ritorneremo
estensivamente nel capitolo 5, vista la sua centralità per una teoria dell’enunciazione.
29
Sull’opposizione tra termine intensivo ed estensivo, si vedano almeno Hjelmslev, CC e NE, pp. 27-
66 e Picciarelli, 1999. Una rassegna su questi problemi nella tradizione generativa la si trova
nell’utile lavoro di Lisanti, 2002.
30
Cfr. Eco, 1983, pp. 358-359.
31
Deleuze (1973) mostra molto chiaramente come ci vogliano almeno due spazi striati per costruire
una struttura. L’esempio hjelmsleviano che colocalizza diversi sistemi linguistici (danese, francese
e inglese) con le loro divisioni in domini semantici è ancora una volta un esempio perfetto di ciò
che Petitot chiamava “spazio strutturale”.
32
Hjelmslev non smette di sottolineare in più punti l’ambizione e la forza della sua tesi: “Il nostro
lavoro è senza precedenti. Non soltanto il nostro problema non ha trovato fin qui soluzione: non è
nemmeno stato dissodato. […] Non abbiamo rilevato, nella massa immensa della letteratura
grammaticale che ha visto la luce dall’antichità ai giorni nostri, nessun contributo che sia degno di
attenzione seria. […] Non è sufficiente dire che il problema non è stato studiato: la linguistica
classica non l’ha nemmeno posto. È questo il paradosso della grammatica: anche i problemi più
importanti, i più urgenti, quelli dalla cui soluzione si sarebbero potute trarre le conseguenze più
decisive, non sono nemmeno stati affrontati da una scienza che può vantare una tradizione due
volte millenaria.” (NE, pp. 30-31).
33
Non è infatti diversa da quelle utilizzate da Pottier nella sue famose analisi componenziali di sedie
e poltrone e da Greimas nelle sue tabelle distintive di semi e lessemi (cfr. infra, capitolo 3).
Picciarelli (1999) proponeva una nuova formalizzazione basata sulla teoria delle catastrofi che
reputiamo molto interessante e che riprenderemo in altra sede.
34
Cfr. Gaeta e Nuraghi, 2003.
35
Con “significazione” Hjelmslev intende qui i fatti di sostanza in opposizione a quelli di forma. La
“significazione” riguarda cioè gli atti individuali di parole (sostanziali), la “struttura” riguarda
invece le correlazioni del sistema (formali). Su questo punto Hjelmslev riprende proprio la
distinzione di Saussure, per cui la teoria del valore riguarda i sistemi semiotici, che sono delle
forme, e non quelli semantici, che sono delle sostanze (cfr. De Mauro, 1968 e 2005). È del tutto
evidente come nell’evoluzione della disciplina questa opposizione tra “semantico” e “strutturale”
sia stata neutralizzata, tanto che ora si parla tranquillamente di valori semantici, proprio a indicare
la forma del contenuto. Primo esempio in questo senso è il famoso libro di Greimas Semantica
strutturale, che tiene insieme fin dal titolo i due termini, proprio nel tentativo di costruire una teoria
della forma del contenuto in lingua.
36
Cfr. infra, 3.4.
37
Con l’eccezione forse di Leibniz, che però opera questa rivoluzione propriamente strutturale a
livello di teoria matematica del calcolo differenziale.
38
Facciamo qui riferimento alla sistemazione straordinaria del 1897.
39
Non è infatti un caso che “rifiuto dell’inconoscibile” e “anti-intuizionismo”, cioè due delle quattro
incapacità dimostrate nel 1867 e poste a fondamento della fondazione peirciana della semiotica,
costituiscano poi i primi due principi del sinechismo peirciano.
40
Questo senso si è poi conservato anche in latino: “continuum” è infatti la sostantivizzazione di cum
tenere, tenere insieme, da cui deriva anche il suo significato comune di “ciò che procede senza
interruzione”.
41
“Il sinechismo non è una dottrina metafisica […], è un principio regolativo della logica. […] La
continuità non è nient’altro che la generalità perfetta di una legge di relazione”. (CP 6.172-6.173)
42
Cfr. Borges, 1956, p. 40.
43
Su questo riferimento, si vedano almeno Marsciani e Zinna 1991, pp. 54-57 e Petitot, 1985.
44
Murphey, 1961, p. 298.
45
Parker, 1992, p. 121.
46
Cfr. Burch, 1991.
47
La terminologia peirciana della Logica dei Relativi è molto differenziata e spesso non coerente (cfr.
Fabbrichesi Leo, 1992, pp. 136-137). Peirce distingue ad esempio tra relative, relation, relationship
e relate (CP 3.466). Per quanto ci riguarda, ci atteniamo qui alla sistemazione assolutamente
straordinaria del 1897, in cui un relativo è un rema fondato su una determinata forma di relazione
sul tipo di “– is a lover of –”. In questo caso il rema (o relativo) è diadico (forma di relazione) e i
posti che esso installa in funzione della sua valenza sono i termini relativi, o correlati, del relativo
nella sua forma di relazione. In questo caso il relativo equivarrebbe al piccolo dramma tesnieriano
con la sua valenza verbale e i termini relativi, o correlati, agli attanti (non facciamo qui differenza
tra attanti e circostanti in Tesnière, cfr. Petitot 1985, capitolo 4). (Cfr. MS 544 e CP 3.456-3.552).
48
Sull’importanza decisiva di questo passaggio, che rappresenta un’autentica svolta nel pensiero
peirciano e comporta un abbandono costitutivo della teoria della “New List of Categories” del
1866, si veda Parker, 1992, pp. 52-58. Cfr. anche Ferriani 1986-1987.
49
Cfr. Tesnière, 1959, pp. 79-83.
50
Cfr. Herzberger, 1987 e Burch, 1991.
51
Greimas 1983, p. 35.
52
Il fatto che in relazioni tra Destinante e Destinatario il primo attante si trovi esso stesso congiunto
col suo oggetto nella relazione di dono non cambia ovviamente in nulla l’essenziale (cfr. Greimas,
1983, pp. 40-42).
53
Costantino Marmo (comunicazione personale) faceva notare come già nel XIII secolo, la ripresa
della semiotica di Agostino portasse a fondare la nozione di segno sulla teoria delle relazioni
diadiche, sulla cui base costruire poi quelle di valenza superiore. Gli esempi sono esattamente
quelli che usa Peirce: dare, significare ecc. Le relazioni triadiche, in questo modo, sono spiegate
come doppie relazioni diadiche, esattamente come farà poi Greimas col fenomeno del dono (cfr.
Rosier, 1994). Pare evidente come Peirce conoscesse questa tradizione rispetto alla quale si poneva
in radicale polemica con la sua Logica dei Relativi, che rappresenta senza dubbio alcuno
un’autentica e costitutiva rivoluzione nell’intera storia del pensiero occidentale. E non solo in
semiotica.
54
Lavoreremo estensivamente sul rapporto tra la semiotica di Greimas e la logica in 3.2.
55
Cfr. CP 5.283.
56
Peirce formula per la prima volta la sua teoria del continuum (sinechismo), di cui dice che la
semiotica dei saggi anticartesiani rappresenta la prima parte, proprio in un articolo intitolato “The
Law of Mind”.
57
Zalamea (2003, p. 142) commenta così il rapporto tra Logica dei Relativi e teoria del continuum in
Peirce: “Il dettato di Peirce ‘continuità=generalità via Logica dei Relativi’ è una delle sue più
incredibili intuizioni. A un primo approccio sembra essere del tutto criptico, una specie di ‘motto
occulto’, ma esso può davvero essere considerato come un’ipotesi geniale (abduzione) che
sottolinea l’introduzione di metodi topologici in logica e riassume la prova che molti dei teoremi
fondamentali della Logica dei Relativi non sono altro che corrispondenti teoremi della continuità
all’interno dello spazio topologico uniforme delle classi elementari della logica di primo-ordine”.
Zalamea approfondisce nel suo denso saggio tutti questi aspetti con grande rigore formale.
58
Con alcune notevoli eccezioni, ad esempio Parker, 1992 e Descombes, 1996.
59
Cfr. invece Eco, 1997.
60
E forse anche nessun tipo di interesse a studiare ancora questi autori.
61
Deleuze, 1963, p. 65.
62
Deleuze, 1963, p. 57.
63
Cfr. P, pp. 62-63, 19-21.
64
Cfr. Deleuze 1966 (capitolo 1) e Eco, 1997, p. 39.
65
Da qui la teoria delle dipendenze e delle funzioni che mostrano proprio i diversi modi in cui un
oggetto può essere diviso e analizzato.
66
È ciò che Hjelmslev chiama il livello “meta”, a cui giunge l’analisi glossematica nel momento in
cui è capace di generare l’oggetto trascendente che si manifesta di fatto nell’esperienza attraverso
gli elementi immanenti della teoria. Una metasemiotica e una metasemiologia sono infatti lo studio
della sostanza e della materia attraverso gli elementi immanenti della glossematica al di là, o al di
qua, della loro manifestazione nell’esperienza.
67
Petitot (1985, 1992, 2000) ha fatto dell’algebrismo di Hjelmslev un obiettivo polemico. Marsciani
(1990) ricostruisce molto bene questa tendenza opponendola a un’eredità strutturale di tipo
fenomenologico. La prospettiva di questo lavoro è terza rispetto a queste due vie così ben
individuate da Marsciani.
68
Cfr. NEM III e III/2, CP 6.102-6.163, RLT, ottava lettura, Sagal 1978, Levy 1991, Parker 1992,
Herron 1997.
69
Non sarà superfluo ricordare come il padre di Peirce, Benjamin, fosse non solo il maggiore
matematico americano dell’epoca, ma fosse anche il più grande difensore dell’analisi infinitesimale
leibniziana contro la sua normalizzazione operata dal calcolo dei limiti di Cauchy prima e da
Weierstrass poi. In NEM III, Peirce prende in diversi punti posizione a fianco di Leibniz e del padre
Benjamin.
70
Proprio negli stessi anni Bergson proponeva una metodologia simile. Cfr. Deleuze, 1966, pp. 7-29.
71
Cfr. Banfi, 1926.
72
Cfr. Petitot, 1985 e 1992.
73
Cfr. Fontanille e Zilberberg, 1998, p. 20.
74
Facciamo qui riferimento al caso di Amanda Knox, indagata per l’omicidio di Meredith Kerchner a
Perugia, la cui famiglia si è diffusamente lamentata per le decine di mesi di carcere fatti dalla figlia
semplicemente indagata e in attesa di giudizio.
75
Da qui la sua conformità alla doppia accezione del valore di Saussure, in cui un indagato non è solo
un innocente non ancora condannato e (forse) in attesa di giudizio (ruoli immanenti al sistema dei
“costumi giudiziari e penitenziari” e delle loro opposizioni specifiche), ma anche qualcuno che può
essere privato della libertà a causa di un “sospetto di reato” (e cioè a causa di qualcosa che
appartiene alla dimensione del diritto) e che “può o non può pagare la cauzione” (dimensione
dell’economia).
76
Cfr. Eco 1975, pp. 117-121.
77
Cfr. Melandri, 1968, pp. 374-379.
78
Bergson fa alcune analisi straordinarie di alcune coppie di contrari che sono state al centro della
storia della filosofia: essere/nulla, ordine/disordine ecc. e in tutti questi casi mostra l’insufficienza
del negativo, e cioè del movimento di negazione di un termine positivo che porta all’affermazione
del termine opposto, come succede ad esempio nel quadrato semiotico. A questa idea, Bergson
oppone una concezione partecipativa della differenza, che pone al centro la ripartizione e la
distribuzione delle differenze di grado e delle differenze di natura, all’interno di un metodo di
divisione dei misti, come stiamo cercando di fare qui. Paradigmatica in questo senso è l’analisi
bergoniana dei rapporti tra ordine, disordine (opposizione qualitativa) e assenza di ordine
(opposizione privativa) nell’Evoluzione creatrice (cfr. Bergson 1941, pp. 182195, cfr. anche 223-
244), in cui la teoria della differenza è posta in funzione di un insieme di abiti interpretativi che
definiscono un sistema di attese locale. Le analisi bergsoniane sono tanto famose quanto
dimenticate e a nostro parere rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per qualsiasi
teoria (semiotica) della differenza.
79
Uno degli obiettivi polemici di Bergson era la dialettica hegeliana, che evolveva proprio attraverso
la contraddizione dell’antitesi. Non sarà superfluo notare come anche il quadrato semiotico
“evolve” passando attraverso la negazione del primo termine tramite contraddizione.
80
Si tratta di una delle riletture più affascinanti dell’epistemologia generativa, sulla quale non
possiamo che concordare. Nel mostrare come non possa di fatto proporsi come un’euristica
metodologia di analisi empirica, Petitot (1985, 1992) rilegge la teoria greimasiana del percorso
generativo come una teoria antropologica dell’immaginario umano, dove la narrativizzazione
attanziale di alcune coppie semiche profonde investite timicamente rappresenta la “traduzione”
umana della dialettica animale tra pregnanza e salienza, in cui l’essere umano è in grado di dare
senso al mondo esclusivamente narrativizzando alcune categorie profonde del suo immaginario.
81
Cfr. Serres 1968, 1972; Visetti 1990; Victorri 1997; Hopfield 1982; Nadal 1992; Petitot 1979a.
82
Si veda l’esempio di QWERTY nel capitolo 4.
83
Cfr. Proni, 1990, pp. 83-84.
84
Eco ha sempre insistito con forza su questa caratteristica che è propria di un interpretante: “Il segno
è sempre ciò che mi apre a qualcosa d’altro. Non c’è interpretante che nell’adeguare il segno che
interpreta non ne sposti sia pur di poco i confini […]; quando un termine pare reggersi sulla pura
equivalenza è semplicemente perché ci si trova di fronte a una implicazione catacresizzata o
addormentata” (Eco, 1984, pp. 32 e 36). Del resto, pare evidente da quanto abbiamo detto che
l’interpretazione semiotica non metta mai in gioco l’equivalenza quanto piuttosto la variazione, la
possibilità di accrescere la conoscenza enciclopedica. Di sicuro Chopin non equivale ai rapporti tra
le dita delle mani in una sua esecuzione, di sicuro nessuno di noi si metterebbe a guardare una
sequenza di simboli binari in un CD per ascoltare l’opera 25; tuttavia c’è sempre qualcosa che è in
grado di portarci da ognuna di queste cose a quell’altra.
85
L’espressione “semiosi illimitata” non è di Peirce, che non la usa mai. Per Peirce la semiosi è una
serie infinita che tende a un limite (la credenza). Nella teoria del continuum, una serie infinita che
tende a un limite è profondamente diversa da una serie illimitata e finita. Essendo la semiotica una
parte della teoria del continuum, la precisione terminologica è qui molto importante.
86
Immaginiamo ad esempio di voler far conoscere qualcosa di più sull’ornitorinco che teniamo
nell’altra stanza a qualcuno che non ne abbia mai visti. In questo caso, direbbe Peirce, l’ornitorinco
è il nostro oggetto. Possiamo definirlo come un monotremo (segno che lo illumina sotto un certo
rispetto) e spiegare che un monotremo è un mammifero che fa le uova (segno interpretante) e
mostrare anche immagini e foto dell’ornitorinco (altri interpretanti). Possiamo però benissimo
andare nell’altra stanza e prendere il nostro ornitorinco in carne e ossa e mostrarlo a chi non lo
conosce (“ostensione” del “referente”). Per Peirce in questo caso l’ornitorinco “reale” non è affatto
un oggetto, bensì un segno interpretante. Com’è evidente, la semiotica peirciana non ha nulla a che
vedere con la partizione in un piano di realtà (gli oggetti) e in un piano di “rappresentazioni della
realtà” (i segni e i segni interpretanti). Gli elementi della semiotica di Peirce (oggetto, segno,
interpretante) non posseggono alcuna identità indipendente dalle posizioni reciproche che li
interdefiniscono l’uno in rapporto all’altro. E, come lo strutturalismo, anche la semiotica di Peirce è
inseparabile da una filosofia trascendentale nuova in cui i posti e le posizioni hanno un primato
rispetto agli elementi empirici che li vengono a occupare.
87
Si faccia riferimento al famoso esempio peirciano dei fagioli: a partire da un caso (“fagioli bianchi
sul tavolo”) e da una regola (“tutti i fagioli di quel sacco sono bianchi”) l’abduzione scommette che
quel caso sia esattamente un caso di quella regola (“quei fagioli provengono da quel sacco”).
88
Si ricordi sempre che l’esempio prototipico del movimento interpretativo della trasduzione per
Peirce è la traduzione linguistica: un libro tradotto in un’altra lingua non è certo il type del primo
libro né tanto meno ne è la regola o la classe che lo include. Esso è semplicemente un altro token
che lo interpreta, e cioè lo illumina sotto un certo rispetto, costruendo così commensurabilità tra un
primo sistema (una data lingua x) e un altro sistema eterogeneo (un’altra lingua y).
89
Cfr. Maddalena, 2009, pp. 57-78.
90
Cfr. infra, capitolo 2.
91
Si tratta esattamente di cosa non si doveva fare per Hjelmslev e per il Peirce della Logica dei
Relativi, in cui nessun elemento ha proprietà indipendenti dal sistema relazionale in cui è inserito.
92
Cfr. Eco, 1984, capitolo 2.
93
Cfr. Eco, 1983, 1984 e infra, capitolo 3.
94
Una concezione di questo tipo ci pare completamente impermeabile alle critiche rivolte
all’identificazione di segno linguistico e valore monetario da Rastier (2004).
95
Cfr. Eco, 1984, capitolo 5.
2. GLI ENUNCIATI: TESTI, PRATICHE, CULTURE. SEMIOTICA E
FENOMENOLOGIA
“Semiotizzato” coniuga allora uno stile “alla Humpty Dumpty” con una
dubbia forma di eclettismo, in cui ci si autorizza a prendere categorie da altre
discipline senza dover necessariamente portare il peso di una loro
importazione, finendo così per non rispondere davvero del loro utilizzo. Non
ci pare questa la direzione giusta in cui declinare specificità semiotica e
interdisciplinarietà.
In conclusione, ci pare che il percorso generativo di Greimas sia stato per
la semiotica ciò che Lotman (1985) chiamava un fenomeno di omeostasi
interno a una logica della cultura. Secondo Lotman infatti, all’interno di una
cultura o di un dominio disciplinare esistono meccanismi che garantiscono
l’equilibrio di un sistema, mettendo un freno a un suo sviluppo troppo
accelerato. All’interno dello sviluppo della semiotica, il percorso generativo
greimasiano, con la sua struttura gerarchica stratificata e le sue regole di
conversione da un livello all’altro, ha rappresentato esattamente un
meccanismo omeostatico di questo tipo, dando vita a un modello
interdefinito, controllato e applicabile empiricamente che ha rappresentato la
forma “maggiore” della semiotica. Secondo Lotman infatti, nel momento in
cui lo sviluppo di un sistema procede troppo rapidamente, il sistema tende ad
auto-organizzarsi, in quanto la varietà interna al sistema minaccia il sistema
stesso. Nello sviluppo della semiotica, il percorso generativo ha
rappresentato esattamente questo tentativo di auto-organizzazione del
sistema, in una fase in cui la disciplina era giovane e in fermento. E in
questo ha senz’altro avuto un grande merito. Come nota Salvestroni (1985,
p. 32), “sono infatti le metadescrizioni a riordinare ciò che ha acquistato
un’indeterminatezza eccessiva”. Tuttavia, così come Lotman sottolineava il
pericolo di voler vedere nella metadescrizione il reale tessuto della cultura,
così noi sottolineiamo il pericolo di vedere nel percorso generativo il reale
tessuto della semiosi. Altri modelli sono infatti possibili e ci pare siano più
adeguati a descrivere una logica delle culture. Se infatti il percorso
generativo si pone a un livello “meta”, disposto per strati gerarchici di
profondità, il processo semiosico che pare caratterizzare una logica delle
culture sembra invece essere di tipo traduttivo e non gerarchico, tanto che la
forma di relazione tra gli elementi pare delineare una pura “piattezza”, in cui
gli interpretanti appartengono allo stesso livello immanente degli elementi
che interpretano (cfr. infra, 3.9). Lotman non smetteva di sottolineare questa
differenza:
Nella realtà della semiosfera le gerarchie dei linguaggi e dei testi di solito vengono meno: essi
interagiscono come se si trovassero a un solo livello. I testi appaiono immersi in linguaggi a essi
non correlati e possono mancare i codici capaci di decodificarli. (Lotman, 1985, pp. 63-64)
È facile capire che cosa Peirce intenda qui con schema: si tratta di un
oggetto teorico che unisce in sé le caratteristiche proprie di estetico e logico
(così in Kant una “determinazione di tempo”): ad esempio un insieme di
relazioni osservabili (estetiche) che incarnano o realizzano un insieme di
relazioni puramente logiche (semiotico-inferenziali).19 Peirce non esita
allora ad affermare che, qualora un oggetto teorico di questo tipo non fosse
stato una sorta di ripensamento tardivo, esso avrebbe senz’altro messo in
crisi il vero cardine della dottrina kantiana, e cioè la differenza di natura
istituita tra “estetico” e “logico”, tra “osservativo” e “discorsivo”. Ora,
Peirce è da sempre considerato il padre di questa stessa rappresentazione,
che si presenta tra l’altro come l’elemento costitutivo della sua concezione
della logica come semiotica. Ricordiamo infatti come “logica” per Peirce sia
un altro nome per “semiotica”, tanto che Peirce avrebbe tranquillamente
potuto dire che l’errore di Kant è stato quello di non aver chiamato
“Semiotica” l’intera Critica della ragion pura. Capiremo tra breve in che
senso. Qual è allora questo grande errore che ha impedito a Kant di chiamare
“logica” o “semiotica” l’intera Critica della Ragion Pura?
In Kant esistono due tipi di rappresentazioni (Vorstellung) che
differiscono in natura: le intuizioni, o rappresentazioni immediatamente
connesse coi loro oggetti che li presentano in modo diretto; e i concetti, o
rappresentazioni mediatamente connesse coi loro oggetti che li ripresentano
solamente attraverso la mediazione di un’altra rappresentazione, sia essa un
altro concetto o un’intuizione. In Kant le rappresentazioni immediate sono
estetiche (“percettivo-sensibili”) e quelle mediate sono logiche (“discorsive”,
come dice lui stesso). L’unione di almeno una rappresentazione immediata
con una rappresentazione mediata in Kant dà vita al fenomeno: essa presenta
cioè l’oggetto empirico nel suo venire alla presenza, “oggetto empirico nel
suo venire alla presenza” che è infatti “ciò nel cui concetto viene unificato
un molteplice intuitivo” (CRP, B137). Com’è evidente, allora, in Kant
esistono delle rappresentazioni non logiche, e cioè estetiche: le intuizioni.
L’estesico, il sensibile, il percettivo sono per Kant qualcosa di
costitutivamente non-logico, bensì di intuitivo, e dunque di direttamente
connesso con il proprio oggetto.
Ora, nei saggi anticartesiani, Peirce mostrerà che le intuizioni non esistono
e che tutte le rappresentazioni risultano in ultima analisi essere
rappresentazioni mediate non immediatamente connesse ai loro oggetti. In
questo modo, tutte le rappresentazioni – comprese quelle estetiche
(percezioni, emozioni, sentimenti) – posseggono una forma logica, e cioè
una forma discorsiva, mediata, in cui qualcosa è presentato sempre
attraverso qualcos’altro.20 Per Peirce, dunque, ogni rappresentazione è
sempre una rappresentazione di rappresentazione, e cioè una
rappresentazione mediata, indipendentemente dalla sua natura sensibile o
non-sensibile. Ma qual è allora il nome che Peirce attribuisce a queste
rappresentazioni mediate, che sono le uniche esistenti e che uniscono sotto di
loro anche ciò che per Kant era invece appartenente all’ordine presentativo e
osservativo della rappresentazione immediata?
Io non utilizzo la parola rappresentazione (Representation) come una traduzione del tedesco
Vorstellung, che è il termine generale per ogni prodotto delle nostre capacità cognitive.
Rappresentazione non è una traduzione perfetta di quel termine, perché sembra necessariamente
implicare un riferimento mediato al suo oggetto, cosa che Vorstellung non fa. Tuttavia, io non
limiterei il termine né a ciò che è mediato né a ciò che è mentale, ma lo vorrei usare nel suo senso
più ampio, che è anche quello usuale ed etimologico, e cioè come qualsiasi cosa che si suppone
stare al posto di qualcos’altro. (W1, p. 257)
Se tutto ciò che può manifestarsi è dunque un segno, se tutto ciò che può
venire alla presenza – sia esso una percezione, un sentimento o un concetto –
deve per forza presentare una struttura semiotica, questo vuol dire che per
venire alla presenza qualcosa deve necessariamente presentarsi attraverso
representamen. Ma se tutti i fenomeni sono segni, in che modo allora un
representamen è in grado di presentare qualcosa? In che modo esso è cioè in
grado di assumere questa costitutiva funzione fenomenologica che la
posizione peirciana sembra attribuirgli?
La semiotica di Peirce ci insegna che un representamen può presentare un
oggetto solamente attraverso la mediazione di un altro representamen che lo
ripresenti sotto un altro rispetto. Un representamen può cioè presentare
qualcosa e farlo emergere in quanto fenomeno solamente rimandandolo a
un’altra rappresentazione mediatrice che “dice che qualcun altro dice la
stessa cosa che egli stesso dice” (cfr. CP 1.553). Perché qualcosa possa
essere manifestato nella sua presenza e illuminato sotto un certo rispetto
(forma di visibilità), occorre cioè che esso sia rimandato ad altri segni
interpretanti, e cioè a conoscenze precedenti o successive in assenza di
oggetto che dicono che quell’oggetto è “così e così” (forma di dicibilità),
anche qualora questo non sia vero.
Da qui la strutturazione semiotica della fenomenologia di Peirce
(faneroscopia): ciò che si fa presente alla coscienza può farsi presente
solamente ripresentandosi attraverso representamen. Un representamen può
cioè presentare un oggetto, e farlo emergere così in quanto fenomeno,
solamente ripresentandolo attraverso un segno interpretante, che in sé
possiede un’essenza costitutivamente discorsiva (esso “dice”). Ed è
esattamente attraverso questa essenza discorsiva che proietta sull’oggetto
una serie di conoscenze precedenti ottenute in sua assenza (interpretanti),
che il segno è in grado di illuminare il suo oggetto sotto un certo rispetto.
Ogni presentazione passa sempre attraverso ripresentazioni interpretanti. Il
celebre anti-intuizionismo peirciano consiste allora esattamente in questo:
ogni presentazione è sempre una ripresentazione (o presentazione mediata),
dal momento che non esistono presentazioni pure, o presentazioni
immediatamente connesse con il loro oggetto, come sono ad esempio le
intuizioni. Ecco perché la fenomenologia, che si occupa di presentazioni, fa
invece sempre riferimento a intuizioni, sensibili o categoriali che siano. A
differenza della coscienza intenzionale fenomenologica, che vede l’oggetto
nel suo presentarsi, l’intenzionalità semiotica può illuminare l’oggetto solo
rimandandolo a un’ulteriore ripresentazione, che ha luogo attraverso una
rappresentazione mediatrice che dice qualcosa sul modo in cui il segno rende
visibile il suo oggetto. La natura interpretativa della semiotica per Peirce è
per essenza “discorsiva” e non “osservativa”, “ripresentativa” e non
“presentativa”: là dove la fenomenologia husserliano-heideggeriana vede, la
faneroscopia semiotica peirciana dice, ed è solamente attraverso la forma di
un dire che essa può mostrare qualcosa.
Questa rivoluzione semiotica, questa trasformazione propriamente
semiotica della fenomenologia che definisce ciò che si presenta attraverso la
struttura semiotica di ciò che si ripresenta attraverso representamen,
determina allora innanzi tutto un primato del “dicibile”21 sul “visibile”. Per
manifestarsi e per venire alla presenza, i fenomeni devono per essenza
rimandare a un terzo elemento, l’interpretante, che per essenza possiede una
natura discorsiva: è perché l’interpretante dice qualcosa sul suo oggetto che
il primo segno lo può mostrare attraverso la mediazione di questo dire, e
mai direttamente nella visione non mediata di un’intuizione (primato della
Terzità). Ecco allora il modo in cui un representamen, e cioè una struttura
semiotica, incarna in sé sia un momento discorsivo sia un momento
osservativo che lo rende equivalente a uno schema kantiano: i segni
interpretanti hanno innanzi tutto una struttura discorsiva (essi “dicono”) e
attraverso questa stessa struttura discorsiva fanno vedere. E questo con
un’altra importante conseguenza nei confronti del rapporto tra faneroscopia
e fenomenologia.
Sebbene sia Peirce che Husserl, Heidegger e Merleau-Ponty22 parlino di
“scienza dei fenomeni” e diano la stessa definizione della disciplina, la
fenomenologia peirciana è infatti profondamente diversa da quella di
Husserl, Heidegger e Merleau-Ponty. Per tutti e quattro questi autori la
fenomenologia studia infatti il fenomeno nel suo manifestarsi e nel suo
venire alla presenza, ma è profondamente diverso il modo in cui questo
stesso “manifestarsi” e “venire alla presenza” viene pensato. Là dove la
fenomenologia europea è infatti fondata su di un “lasciar vedere da se stesso
ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso” (Heidegger, 1927,
p. 55), la faneroscopia peirciana risulta invece fondata su di un rapporto
complesso tra forme di visibilità e forme di dicibilità: qualcosa si fa presente
e può essere visto sotto un certo rispetto, solo a patto di essere rimandato alla
forma di dicibilità di un altro segno interpretante, che dice qualcosa su di
esso, anche qualora questo non sia vero. Ben lontano dall’essere un “ritorno
alle cose stesse”, la fenomenologia di Peirce è l’istituzione di uno spazio
aperto di mascheramento che apre a un costitutivo gioco di credenziali, in
cui ciò che si manifesta dice di essere una cosa, ma può benissimo mentire.
Da qui la sua strutturazione semiotica, dal momento che la semiotica studia
“tutto quello che può venire utilizzato per mentire” (Eco, 1975, p. 17).
Se dunque la fenomenologia opera per presentazioni attraverso intuizioni,
che sono rappresentazioni direttamente connesse col loro oggetto che
rendono visibile nella sua verità (nel suo venire alla presenza, nel suo farsi
non nascosto, a-letheia); ecco invece che la faneroscopia opera per
ripresentazioni attraverso representamen, che sono rappresentazioni
mediatamente connesse coi loro oggetti e che possono sempre venire
utilizzate per mentire. Ciò che si manifesta nella faneroscopia peirciana è
sempre un segno, e un segno nasconde il suo oggetto prendendone il posto e
rimandandolo a un altro segno che su quell’oggetto assente dice delle cose,
anche se niente ci offre la garanzia che sia effettivamente così (cfr. Eco,
1975, p. 17). Su questo, la distanza tra filosofia e semiotica, tra
fenomenologia e faneroscopia, non potrebbe essere più grande.
Scienza dei fenomeni significa: un afferramento dei propri oggetti tale che tutto ciò che intorno ad
essi è in discussione, sia mostrato e dimostrato direttamente. (Heidegger, 1927, p. 55)
Ecco esattamente cosa non può essere una scienza dei fenomeni per
Peirce. Non solo per Peirce non esistono infatti manifestazioni dirette, dal
momento che tutte le rappresentazioni sono rappresentazioni mediate
(segni); ma, oltre a ciò, niente si può mostrare senza che ci sia stato un
“dire” interpretante che ne rappresenta la condizione stessa di possibilità.
Assolutamente rivelatore della differenza di natura tra fenomenologia e
faneroscopia è in questo senso il rimaneggiamento del concetto di “discorso”
operato in Essere e tempo da Heidegger. Nel tentativo di illustrare il senso
della “logia” della fenomenologia, Heidegger (1927, p. 51) afferma infatti
che, sebbene sia parola polisemica per eccellenza, “il significato
fondamentale di logos è quello di discorso”, e che tutte le ulteriori traduzioni
del termine con “ragione”, “giudizio”, “concetto”, “relazione” ecc. “coprono
costantemente il significato autentico di discorso, che non è poi tanto
oscuro” (Heidegger, 1927, p. 52). Qual è allora il significato autentico di
“discorso”, se “discorso (logos)” rappresenta la “logia” della
fenomenologia?
Logos, in quanto discorso, significa qualcosa come render manifesto ciò di cui nel discorso “si
discorre”. […] Il logos lascia vedere qualcosa e precisamente ciò su cui il discorso verte; e lo lascia
vedere per coloro che discorrono (medio) o per coloro che discorrono tra loro. Il discorso “lascia
vedere”, cioè a partire da ciò stesso di cui si discorre. […] Questa è la struttura del logos, […] e
cioè il lasciar vedere mostrando. (Heidegger, 1927, pp. 52-53)
Per questo nella tradizione generativa sono stati studiati come testi un
romanzo, una zuppa al pesto, la degustazione di un sigaro, la città, il dialogo
tra le culture, l’avarizia, le strategie di mercato, la generosità, il design, più
miti antichi, la pubblicità del detersivo, Proust.
Già Marrone (2007, pp. 239-240) notava allora molto giustamente questo
doppio statuto della nozione di testo, e parlava di testo come oggetto per ciò
che noi chiamiamo “accezione strutturale”, e di testo come modello per ciò
che noi chiamiamo “accezione fenomenologica”. L’epistemologia generativa
oscilla allora tra queste due accezioni, e la sua stessa posizione teorica
consiste di fatto in questo sincretismo. Come detto, i) Greimas usa infatti
“testo” in senso “fenomenologico”29 nel Dizionario del 1979, ii) ma usa
“testo” in senso strutturalista (hjelmsleviano) quando in Maupassant
paragona i testi ai selvaggi a cui il semiotico tenta di adeguarsi nell’analisi
(cfr. Greimas, 1976). Infine, iii) usa “testo” in entrambi i sensi nel famoso
passo in cui formula lo slogan “fuori dal testo non c’è salvezza”. Vale allora
senz’altro la pena di rileggere questo luogo semiotico così estensivamente
citato, ma mai davvero discusso nelle sue articolazioni problematiche. Non
ci stupiremo nel vedere come “fuori dal testo non c’è salvezza” definisca
esattamente il rapporto di Greimas con la fenomenologia di Merleau-Ponty a
partire dall’accezione hjelmsleviana del testo. Leggiamo allora la prima
parte della citazione:
La prima formazione che ho ricevuto è stata quella di filologo […]. Questo vuol dire che io ho il
rispetto del testo, il rispetto del riferimento, del pensiero dell’altro. Questa influenza è ugualmente
importante per ciò che concerne le pratiche testuali. Il preliminare di ogni analisi semiotica è la
filologia, la preparazione filologica del testo. Si tratta di un sottointeso inevitabile. Occorre sapere
che cos’è un testo, sia che si sia storici, linguisti o logici: il testo è il punto di partenza e il punto di
ancoraggio delle nostre elucubrazioni, se così si può dire, le giustifica e le fonda. In seguito, a
livello della descrizione, ci si allontana certamente dal testo, ma è l’unico rapporto che abbiamo
con il nostro reale, differente dal reale matematico, dal reale naturale ecc. (Greimas, 1987, p. 148,
corsivi di Greimas)
Si vede molto bene come “testo” sia qui inteso in senso hjelmsleviano,
come elemento a cui ci si deve adeguare nell’analisi. Il testo è il reale del
semiotico, e lo è nel senso della filologia, e cioè nel senso che identifica il
rispetto del testo con il rispetto dell’altro, del riferimento e del pensiero
altrui. L’analisi si potrà poi allontanare da questo testo filologicamente
inteso (potrà cioè essere hjelmslevianamente arbitraria, e cioè “indipendente
dall’esperienza”), ma dovrà sempre mantenere con questo reale testuale un
rapporto di adeguazione, e cioè di rispetto del testo inteso come
manifestazione del pensiero dell’altro.
In seguito invece, rispondendo proprio a una domanda sulla
fenomenologia, Greimas giunge alla sua famosa formulazione “fuori dal
testo non c’è salvezza”, usando “testo” in un senso molto diverso da quello
appena riportato:
Per quel che mi riguarda, il modello figurativo che mi ha guidato l’ho trovato nella prima opera di
Merleau-Ponty: è il cubo. Che cos’è il cubo? In una trasposizione nella geometria dell’immagine
credo sia un po’ ciò che la cera era per Cartesio. Potete guardarlo da tutti i lati, tutte le volte si
tratta di un’apparenza differente, ma il cubo, in quanto tale, resta sempre identico. Ecco una buona
definizione del discorso in quanto oggetto autonomo: “Fuori dal testo non c’è salvezza!”. Si tratta
di una definizione che ci consente di parlare del discorso indipendentemente dalle variabili che
costituiscono l’emittente e il ricevente. C’è sempre il testo, come il cubo: c’è la struttura testuale o
narrativa come un’invariante sulla quale si possono fondare le nostre analisi. Non si tratta di
ridurre questa invariante, come si fa troppo spesso, sia al soggetto dell’enunciazione sia
all’enunciatario, come nell’estetica di Jauss ad esempio: non si riconduce tutto al produttore o al
lettore. No, tra i due c’è l’oggetto. Si può velare il suo ruolo ma ciò non impedisce che gli oggetti
semiotici esistano: è stato questo il punto di partenza che mi ha obbligato a introdurre il concetto di
esistenza semiotica, un po’ come c’è la realtà degli oggetti matematici. Penso che la semiotica può
immaginare l’esistenza di questi simulacri, di queste costruzioni di oggetti che possono essere
definiti semioticamente e di cui il tipo di esistenza permette, detto altrimenti, di evacuare il
problema dell’essere, i problemi ontologici. (Greimas, 1987, pp. 155-156)
Come non è forse così evidente a una prima lettura, “testo” è qui usato in
un senso molto diverso da quello precedente. Sebbene infatti, qualora si
volesse tradurlo nei termini fenomenologici accennati a inizio passo da
Greimas, si sarebbe inizialmente tentati di identificare il testo con
l’oggetto=x che è supporto di tutti i suoi “adombramenti” (gli sguardi
prospettici) – “unica e medesima determinabile x”30 – non è affatto questo il
senso di ciò che intende Greimas. L’esempio fenomenologico del cubo serve
infatti a Greimas a differenziare l’approccio semiotico da quello di altre
scienze umane, che fondano sull’emittente e sul ricevente le loro analisi. Al
di là del lettore (empirico) e del produttore (dogmatico), per Greimas c’è il
testo con le sue strutture semiotiche. Da qui la sua critica a Jauss. La mossa
di Greimas è, insomma, del tutto identica a quella che Paolo Fabbri (1973)
compiva più di dieci anni prima nel suo saggio sul Malocchio della
Sociologia (cfr. infra, 2.5): uscire dall’empiria dell’emittente e del ricevente
per concentrarsi innanzi tutto sulla semantica del testo. Questa è la
specificità della semiotica per Greimas. Ed è solo ed esclusivamente in
questo senso che il testo funziona come “cubo che resta identico”: esso è
cioè invariante rispetto alle differenti prospettive che l’emittente e il
ricevente empirici possono avere su di esso, ma in sé, esso non è affatto un
oggetto empirico, un oggetto reale o un oggetto=x. Al contrario, il testo per
Greimas è un simulacro, e cioè un “oggetto come appare”, una
“costruzione”, che è il correlato del progetto teorico della descrizione, tanto
che ciò che costituisce la sua “invarianza” sono esattamente la sua struttura
e la sua articolazione narrativa, e cioè proprio i livelli più profondi del
percorso generativo del senso. Si tratta dell’accezione del “testo come
modello” messa in evidenza da Marrone (2007), tanto che Greimas stesso
insiste sul suo carattere di “costruzione”.
Tuttavia purtroppo non si può avere tutto. O il testo è il correlato
oggettuale conforme al progetto teorico della descrizione (côté
fenomenologico) oppure è un elemento della manifestazione a cui ci si deve
hjelsmlevianamente adeguare nell’analisi (côté strutturalista). Greimas
oscillava continuamente tra le due posizioni e la sua epistemologia sincretica
marcava di volta in volta un senso piuttosto che l’altro, in funzione
dell’obiettivo locale che si voleva conseguire. Era del resto l’unica via
possibile per compiere una doppia mossa epistemologica, che è a
fondamento dell’intera epistemologia generativa: da un lato si trattava di
costruire la semiotica come una disciplina scientifica dotata di una sua
oggettività propria (i “testi-selvaggi”); dall’altro si trattava di poter estendere
questa oggettività ad ambiti che la nostra cultura normalmente non
caratterizza come testi; così che il testo doveva diventare un oggetto
costruito effetto di uno sguardo costituente (quello del semiotico). Da qui la
polisemia irriducibile del concetto:
Sembra, dunque, che per Greimas il testo sia al contempo il tutto (l’oggetto semiotico costruito in
funzione della pertinenza che ci si dà nel progetto descrittivo) e una sua parte (la manifestazione
espressiva concreta, la “fine” del percorso generativo del senso, risultato di un tardivo matrimonio
fra il piano del contenuto e il piano dell’espressione). (Marrone, 2007, p. 241)
Al fine di uscire da questa impasse, Marrone (2007) tentava allora di
fornirne una lettura coerente di questi luoghi greimasiani, marcandone con
forza il côté fenomenologico (testo come correlato del principio teorico della
descrizione “in immanenza”), a discapito di quello hjelmsleviano (testo
come elemento della manifestazione a cui ci si deve adeguare), e leggendo il
secondo in funzione del primo. In questo modo, Marrone assume come
propria della semiotica l’accezione “fenomenologica” del testo, e cioè quella
di modello:
Così come il cubo paradossale di Merleau-Ponty non sta nella sua appercezione immediata ma
nella sintesi cognitiva che ne può venir fatta a posteriori (après coup), di modo che esso
progressivamente però diviene oggetto di percezione possibile, egualmente il testo è per il
semiologo un oggetto paradossale: viene progressivamente costruito come punto di partenza, sta
alla fine solo in virtù dell’essersi già dall’inizio ancorati a esso. È grazie alle molteplici pertinenze
con le quali viene parzialmente messo a fuoco (i livelli del percorso generativo) che il testo si
conferma essere, alla fine, l’oggetto sottoposto già dall’inizio ad analisi. (Marrone, 2007, p. 245)
2.5. Semiotica delle culture e semiotica del testo. Altre tre riprese
“minori” di tre testi “maggiori”: il “Malocchio della sociologia”
(Fabbri), “Il fissarsi della credenza” e “Come rendere chiare le nostre
idee” (Peirce), La semiosfera (Lotman)
Ecco allora che liberarsi dagli stereotipi vuol dire provare a liberarsi dalle
reti della semiotica della cultura attraverso il metodo dell’analisi testuale.
Liberarsi dagli stereotipi significa pensare di poter uscire dalle reti
enciclopediche e dalla semiosfera che noi stessi abbiamo tessuto applicando
il metodo ipotetico-deduttivo dell’analisi del testo. Bisogna allora vedere se,
contrariamente a quanto pensava Peirce, questo sia possibile. E cioè bisogna
vedere se sia possibile interpretare l’enciclopedia o la semiosfera come un
insieme di testi, come proponeva ad esempio Paolo Fabbri. Leggiamo allora
sempre Fabbri e Marrone (2000, p. 8):
Un’analisi empirica ha bisogno di un preciso metodo che trasformi la primitiva percezione di una
qualche presenza del senso in un vero e proprio testo. L’analisi semiotica da questo punto di vista è
analisi testuale […] e la nozione di testo non comprende soltanto i testi propriamente detti, ma più
in generale qualsiasi porzione di realtà significante che può venire studiata dalla metodologia
semiotica, acquisendo quei tratti formali di chiusura, coerenza, coesione, articolazione narrativa
ecc. che si riscontrano con maggiore facilità nei testi propriamente detti (ma che a ben guardare li
eccedono). (Fabbri e Marrone, 2000, pp. 8-9)
Del resto, su questo punto Peirce era stato estremamente esplicito fin dai
saggi anticartesiani: “non abbiamo nessun potere di introspezione, ma ogni
conoscenza del mondo interno è derivata per ragionamento ipotetico dalla
nostra conoscenza dei fatti esterni” (CP 5.265). Per questo “non abbiamo
nessun potere di pensare senza segni” (CP 5.265). Il pensiero per Peirce è
insomma tutt’altro che semplicemente “mentale” o “cognitivo”,
coinvolgendo tutti quei fenomeni che possono essere ricondotti alla forma
della semiotica (cfr. CP 5.266-5.2675.268 e 5.283). Proprio per questa sua
natura, Peirce potrà dire che c’è pensiero nei movimenti delle api e nelle
trasformazioni morfologiche dei cristalli.46 E proprio per questa sua
concezione essenzialmente semiotica e faneroscopica del pensiero, in cui
“occorre liberare il segno dai suoi legami con la mente” (CP 5.492), Peirce
sta sempre più venendo posto al centro di quelle tendenze contemporanee
interne alle scienze cognitive che vanno sotto il nome di “mente estesa” o
“cognizione distribuita”, che considerano il pensiero e la cognizione non più
come localizzati nella mente (cognition) o nel corpo (embodied cognition),
bensì come distribuiti all’interno di reti enciclopediche di umani e non-
umani, da cui il pensiero emerge come un processo mediato, effetto di una
pluralità di istanze che rendono l’individuo il nodo di una rete, e non il suo
centro organizzatore (cfr. Clark, 2008, Gallagher, 2008, Latour, 2005).47
Ecco allora che all’interno di questa logica puramente semiotica del
pensiero e della cognizione, “dubbio” e “credenza” non sono altro che i
nomi per un momento incoativo e per un momento terminativo dello
sviluppo processuale di un “pensiero in movimento”, e cioè i nomi per
l’inizio instabile e la successiva stabilizzazione di quel processo semiotico
che presiede all’azione e che si stabilizzerà in un abito.
Conosciamo allora il momento incoativo e quello terminativo di questo
processo (“dubbio” e “credenza”), ma non conosciamo cosa sta in mezzo tra
di essi, cose c’è sulla frontiera di passaggio, che cosa li connette l’uno
all’altro. Il pensiero vuole acquietarsi in uno stato di credenza, vuole cioè
stabilizzarsi perché il suo momento incoativo è strutturalmente instabile
(dubbio). Che cosa succede nel mezzo? Che cosa succede cioè nel momento
di passaggio in cui non si è più in uno stato dubbio ma non si è ancora in uno
stato di credenza, ma si è essenzialmente “tra”?
Peirce ha a lungo lavorato su questo punto, tanto che era esattamente
questa posizione di frontiera quella che assegnava alla semiotica, dal
momento che la semiotica studiava la semiosi, ma la semiosi non era altro
che un rapporto triadico irriducibile a qualsiasi relazione tra coppie, e la
Terzità – che era costitutiva del semiotico – consisteva proprio in
quell’elemento di mediazione la cui posizione definiva un “trovarsi
interposto”, uno “stare-tra” tale per cui per passare da un Primo a un
Secondo occorreva sempre transitare attraverso la mediazione di un Terzo.
Da qui anche la natura costitutivamente interpretativa del “semiotico”, dal
momento che “interpretazione” definisce esattamente un essere inter partes,
sul confine tra le differenti parti rispetto a cui si è terzi. Quando Peirce
terminerà poi il suo sistema di Logica delle Relazioni, su questo punto
rilancerà la posta, fino a dimostrare con forza il primato genetico della
Terzità, tanto che tutte le altre relazioni, di qualsiasi valenza esse siano,
potranno sempre venire generate a partire dalle triadi. Cioè in qualche modo
per Peirce l’essenza di ogni rapporto è leggibile solamente a partire dal
mezzo, dal confine, dalla mediazione che si ha tra due o più sistemi
eterogenei. Ma potrebbe forse essere altrimenti?
Si sa infatti che le cose e le persone sono sempre costrette a nascondersi, sono sempre determinate
a nascondersi quando cominciano. Come potrebbe essere diversamente? Esse sorgono in un
insieme che ancora non le implicava, e devono evidenziare i caratteri comuni che conservano con
l’insieme, per non essere rigettate. L’essenza di una cosa non appare mai all’inizio, ma in mezzo,
nel corso del loro sviluppo, quando le sue forze sono consolidate. (Deleuze, 1983, p. 15)
Ecco cosa succede “nel mezzo”, sulla frontiera di passaggio da uno stato
di dubbio a uno stato di credenza, quando non si più nel vecchio sistema ma
non si è ancora nel nuovo. In Peirce le Terzità non sono altro che abiti (CP
6.204-6.205-6.206), così è esattamente l’abito (Terzità) che regola il
passaggio dall’instabilità del pensiero in movimento (dubbio) alla sua
stabilizzazione nel pensiero in riposo (nuova credenza). Uscire da una
credenza e da un abito interpretativo non significa mai ritrovare la
spontaneità dell’esperienza o della singolarità pura, bensì significa sempre
trovare altri abiti, altre regolarità che guidano la formazione di una nuova
regolarità in via di stabilizzazione e che fanno da sfondo alla percezione
stessa di un evento singolare. Per questo “saper abbandonare i propri sguardi
stereotipi in nome di più efficaci strumenti di descrizione e di
comprensione”, come volevano Fabbri e Marrone, non significa altro che
uscire da un abito interpretativo per entrare in un altro abito interpretativo
attraverso altri abiti appresi (lo stesso percorso generativo non è altro che un
abito interpretativo particolarmente grammaticalizzato). Per questo una
semiotica delle culture adeguata presta attenzione innanzi tutto a queste
regolarità enciclopediche che presiedono alla produzione del senso e che
articolano l’universo discorsivo di una data cultura, e non cerca affatto di
liberarsene attraverso una massima o un metodo. Se mai vi ci “abita dentro”,
con intenti descrittivi e interpretativi. Perché sono esattamente questi abiti
interpretativi che regolano “l’atteggiamento che le culture hanno nei
confronti dei loro segni”, come diceva Greimas (1976). Per fare luce
adeguatamente su questo punto fondamentale, occorrerà allora fare
riferimento a un autore della semiotica che, come Peirce, ha molto lavorato
su questo problema, e cioè Lotman:
L’introduzione di strutture culturali estranee nel mondo interno di una cultura comporta la
creazione di una lingua comune e questo, a sua volta, richiede l’interiorizzazione di queste
strutture. La cultura deve cioè interiorizzare la cultura esterna al suo mondo. Questo processo è
sempre contraddittorio [… ed è] legato alla perdita di certe proprietà dell’oggetto esterno
riprodotto, e spesso quelle che sono più valide come stimolatori. Facciamo un esempio. Il
fenomeno poetico di Puškin era considerato dalla letteratura e dai lettori del secondo decennio
dell’800 straordinario e innovatore. L’assimilazione di questo fenomeno rese necessaria la
creazione […] dell’“immagine di Puškin”. […] Questa immagine ha interpretato e “tradotto” il
mondo di Puškin facilitandone la comprensione e nello stesso tempo lo ha semplificato,
eliminando tutto ciò che era nuovo, dinamico e che non rientrava nei suoi schemi, generando così
l’incomprensione. […] Nello stesso tempo, questa immagine ha influito sul comportamento e
sull’attività creativa del vero Puškin, spingendolo a comportarsi “come Puškin”. (Lotman, 1985,
pp. 124-125)
2.6. Testi, culture e teoria della ratio: “Cinecittà” e la teoria dei modi di
produzione segnica
Questa idea del reale come testo49 è allora tutt’altro che costitutiva
esclusivamente di un approccio generativo alla semiotica, ma rappresenta
anzi una tentazione trasversale alle cui sirene molti non hanno saputo
resistere. Rastier (2001) nota infatti come una semiotica puramente
inferenziale, costitutiva di quello che Ginzburg (1983) avrebbe chiamato un
“paradigma indiziario”,50 sia fin dalle origini tentata di abbracciare un
paradigma testuale e la sua metafora del mondo come testo. Nell’inferenza
un relatum è antecedente, l’altro conseguente – temporalmente, casualmente o in qualsiasi altra
maniera. Si dirà dunque che il primo è segno dell’altro, come una nuvola è segno di pioggia. […]
In generale, la tradizione non differenzia, per ciò che concerne l’inferenza, l’interpretazione del
mondo e l’interpretazione del testo. (Rastier, 2001, p. 84)
In che modo allora una teoria echiana dei modi di produzione segnica può
rendere conto del modo in cui un substrato materiale si fa espressione,
rendendo così conto della costituzione di una possibile commensurabilità tra
singolarità materiali, in cui gli abiti acquisiti devono essere messi in
discussione, modulati e trasformati in altri abiti?
Partiamo allora proprio dai materiali. Anche nel caso in cui ci arrivino
grezzi e non lavorati, i materiali da un lato si presentano sempre con una loro
forma propria, e dall’altro presentano sempre delle singolarità, e cioè dei
punti in cui succede qualcosa alla loro stessa materialità. Ad esempio l’acqua
ha due singolarità a 0 e 100 gradi in cui cambia il suo statuto stesso di
materiale passando a stati di fase differenti (da materiale liquido diventa
materiale solido – a 0 gradi – da materiale liquido diventa materiale gassoso
– a 100 gradi –) e ha altresì una serie di ulteriori singolarità riguardanti ad
esempio la sua composizione chimica come combinazione di idrogeno e
ossigeno.
Ora, il problema della semiotica è come questi substrati materiali dotati di
singolarità fisiche possano diventare degli attanti materiali dotati di
singolarità semiotiche, cioè dotati di punti in cui succede qualcosa non dal
lato delle loro trasformazioni materiali (ad esempio l’acqua che bolle trova a
100 gradi un punto in cui succede qualcosa dal punto di vista fisico), bensì
da quello della differenziazione del senso nella costruzione della funzione
semiotica. Il problema è cioè capire come delle figure materiali differenzino
qualcosa sul piano del contenuto, differenziandosi a loro volta esse stesse al
fine di divenire-espressioni di certi contenuti mirati. Come nell’esempio del
sommelier, occorre mettere in gioco le materie del corpo e degli oggetti al
fine di indicizzarne delle porzioni candidate a divenire espressioni di un
determinato contenuto (ad esempio “vino strutturato”).
Si tratta cioè del problema opposto a quello della costruzione di un
linguaggio plastico a partire dalla sospensione di contenuti figurativi. Non si
tratta infatti di capire come degli elementi plastici possano costituire un
piano dell’espressione “altro” e veicolare così contenuti non figurativi, bensì
si tratta di capire come un substrato materiale possa essere commensurabile
a un piano del contenuto ancora solamente mirato e differenziarsi esso stesso
al fine di costituirne l’espressione all’interno di una funzione semiotica. Ora,
questo problema di commensurabilità, messo in luce per la prima volta da
Umberto Eco nella teoria dei modi di produzione segnica, è il problema della
ratio (cfr. Eco, 1975, p.246-248). Ratio, che è la traduzione latina del greco
logos, significa infatti rapporto, ma lo significa in un senso molto
particolare. Un rapporto riconducibile a ratio definisce infatti un tipo
particolare di relazione che presuppone una commensurabilità tra gli
elementi considerati, tanto che, ad esempio in matematica, i numeri
irrazionali, e cioè quelli non riconducibili a ratio, definiscono sì dei rapporti,
ma dei rapporti che sono paradossalmente dei non-rapporti, dal momento
che si instaurano tra elementi che non sono commensurabili tra di loro (il
lato e la diagonale del quadrato, il diametro e la circonferenza del cerchio,
l’apotema e il lato di un poligono regolare ecc.). A proposito della scoperta
pitagorica dell’irrazionalità infatti, Odifreddi (2003) scrive:
La teoria pitagorica era dunque una professione di fede nel “rapporto”, che in greco veniva
indicato con logos e in latino con ratio. Ciò che noi oggi chiamiamo ragione era dunque, in
origine, semplicemente un rapporto numerico, e questo significato si è mantenuto fino ai nostri
giorni, sia in matematica che nel linguaggio comune, ad esempio in “ragione di una progressione”
e in “ragioneria”. I pitagorici erano dunque dei letterali razionalisti, e la scoperta della
“irrazionalità” del rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato fu per loro la fine di un sogno,
la dimostrazione che il mondo non era razionale, nel senso di “rapportabile” o “commensurabile”.
(Odifreddi, 2003, pp. 30-31)
Porre all’insegna di una ratio una teoria della produzione segnica significa
dunque fondarla su di una commensurabilità innanzi tutto tra tipo e
occorrenza espressiva (casi di ratio facilis) e poi, in ultima analisi, tra
espressione e contenuto tout court (casi di ratio difficilis). Tuttavia
quest’operazione, questa commensurabilità, se pare piuttosto naturale e
giustificabile in casi di ratio facilis quali quelli della produzione linguistica –
in cui si dà vita a un’occorrenza espressiva in funzione di un tipo preformato
– sembra invece diventare molto più problematica in casi quali quello di
Puškin o, in misura ancora maggiore, in quelli dell’apprendimento del
nuotatore o dell’indicizzazione della materia sensibile nel sommelier. È
infatti esattamente una possibile commensurabilità che è in gioco e che
costituisce la posta stessa di questo tipo di esperienze. Sono infatti la materia
della mia lingua e la materia del vino a dover divenire commensurabili
nell’incontro con un altro da me che io non conosco e che sto infatti
cercando di imparare a gestire (e non è affatto detto che io ce la faccia,
infatti non tutti siamo dei bravi sommelier). È esattamente la materia della
mia lingua a contatto con l’alterità della materia del vino a doversi
semiotizzare al fine di indicizzare formanti corporali (“sensazioni gustative”
ad esempio) che si candidino a divenire espressioni commensurabili per un
determinato contenuto (“vino strutturato”, ad esempio). Ed è esattamente su
questa possibile commensurabilità tra la materia del mio corpo e la materia
dell’oggetto, e in seguito tra la materia indicizzata come possibile
espressione di un possibile contenuto, che si fonda la possibilità stessa della
costruzione di una funzione semiotica. Nella produzione segnica, la ratio è
infatti spesso un qualcosa che va costruito localmente e che non si ritrova
disponibile in un tipo preformato.
È allora questa condizione di commensurabilità fallibile e tentativa ciò di
cui la teoria echiana dei modi di produzione segnica riesce a rendere conto:
in quanto teoria della materia sub speciae expressionis, essa descrive infatti
le modalità per cui la materia può assumere la funzione di espressione,
classificando tipi di attività produttiva che possono dar vita a diverse
funzioni segniche in vista di un contenuto mirato. È infatti solamente una
volta introdotto il problema della materia che Eco (1975) può discutere le
quattro dimensioni della tipologia: i) il “lavoro fisico per produrre
l’espressione”, ii) il “rapporto tipo-occorrenza”, iii) il “continuum da
formare” e iv) il “modo di articolazione” (cfr. Eco, 1975, p. 289 e Valle,
2007, pp. 370-401). Ecco allora che la teoria dei modi di produzione segnica
del Trattato di semiotica generale è una teoria capace di problematizzare
proprio quel rapporto tra espressione e contenuto che in altre tradizioni è
pensato come condizione minimale per l’esistenza della testualità,
mostrando come esso sia sempre un effetto che è posto in funzione di
differenti rapporti di commensurabilità (ratio).
Il concetto di ratio diventa allora capitale per una semiotica che desideri
uscire dalle impasses di una prospettiva puramente testuale, che parte dal
rapporto espressione/contenuto quando è invece questo stesso rapporto che
fa problema e che va costruito localmente nell’analisi. La ratio interviene
infatti in almeno tre fasi distinte di questa stessa costruzione (modo di
produzione segnica), di cui la funzione semiotica è sempre un effetto: i) tra
soma e soma, ad esempio nell’apprendimento del nuotatore o nella pratica di
degustazione del vino come incontro tra singolarità materiali, punti singolari
somatici che occorre rendere commensurabili nell’incontro con una
materialità “altra”; ii) tra sema e soma, nella pertinentizzazione di una
materia corporale che deve essere indicizzata al fine di divenire l’espressione
di un contenuto semico mirato (problema di quali sono le sensazioni che
possono divenire espressione del contenuto “vino strutturato”); iii) tra
espressione e contenuto, nella produzione segnica che installa la funzione tra
le due facce del foglio di carta saussuriano, oramai irriducibilmente ispessito
nella polpa stessa della materia.
È allora ben visibile come il problema non sia quello di riconoscere un
insieme di opposizioni semantiche testualizzate o un insieme di “effetti di
senso materiali”, bensì quello di costruire una o più funzioni semiotiche che
rendano conto dell’adeguamento della materia del corpo alla materia
dell’oggetto, della coniugazione delle reciproche singolarità al fine di
instaurare una ratio, e cioè una commensurabilità tra soma e soma, tra sema
e soma e tra espressione e contenuto. Questa commensurabilità si incarna
allora in una materia che si fa espressione, semiotizzandosi in funzione di un
contenuto mirato con cui si instaura una commensurabilità che non esiste
prima dell’istituzione di una ratio. Commensurabilità tra le singolarità
materiali dunque, come nell’esempio del nuotatore o di chi tenta di
impratichirsi nella degustazione del vino, ma anche commensurabilità tra
sema e soma, nel momento in cui si scommette che le singolarità materiali
precedentemente indicizzate differenzino qualcosa sul piano del contenuto,
differenziandosi a loro volta loro esse stesse al fine di divenire-espressioni di
certi contenuti mirati. E infine, commensurabilità tra espressione e contenuto
all’interno della produzione della funzione semiotica, in cui la prassi
enunciativa lavora per produrre senso sempre contemporaneamente sui due
piani, in una semiosi che funziona ora come una fabbrica che produce senso
e non più come un teatro che lo mette in scena leggendolo nei testi.
Perchè l’immagine della semiotica che si ha dal Trattato di semiotica
generale è quella di una fabbrica in cui si producono segni, e non quella di
un teatro in cui si mettono in scena discorsi simulacrali coi loro effetti di
senso. La semiotica funziona come una fabbrica, o meglio, come una
fabbrica che produce rappresentazioni che possono sempre venire utilizzate
per mentire. È una specie di Hollywood: è Cinecittà. E il Trattato manifesta
il gusto sottile per lo svelamento del suo meccanismo,58 per la teoria dei suoi
modi di produzione. Con alcune importanti conseguenze.
Perchè se la semiotica come disciplina dei testi si è sempre occupata della
simulacralità degli effetti di senso a livello dell’enunciato, finendo per
pensare all’enunciazione come alla posizione vuota ricostruita a partire dalle
sue tracce; quello che la teoria dei modi di produzione insegna a fare è di
pensare le pratiche semiotiche che producono i simulacri e i loro effetti di
senso, finendo per pensare alla prassi enunciativa come a una fabbrica di
funzioni semiotiche interpretanti che possono sempre venire utilizzate per
mentire (cfr. infra, capitolo 5). All’interno di Cinecittà è come se l’operatore
disobbedisse al regista e allargasse sempre più il proprio sguardo fino a
mostrare non più la scena, bensì la messa in scena colta in flagranza con
tutte le persone che la producono in atto (enunciazione in atto): non vediamo
più soltanto la scena simulacrale, ma il processo di produzione che la mette
in scena e dentro cui pulsano le logiche stesse della cultura e dei suoi
rapporti di produzione sociale (il cameraman, la costumista, la produzione
ecc.). Sono allora esattamente queste logiche della cultura che pulsano
all’interno del meccanismo della messa in scena simulacrale che secondo il
Trattato si tratta innanzi tutto di descrivere semioticamente, e i testi non
sono altro che oggetti culturali che circolano all’interno della rete semiotica
dell’enciclopedia con un preciso statuto, che è differente da quello delle
pratiche, delle norme e delle culture.
Da qui: i) il primato delle logiche delle cultura sulle logiche del testo, ii)
l’irriducibilità delle logiche della cultura alle logiche testuali, iii) la
determinazione del globale enciclopedico sul locale testuale, tratti che
contraddistinguono un approccio interpretativo che pensa a un testo come a
nient’altro che a un brandello di enciclopedia, a un brandello della
semiosfera, com’era già chiaro ad esempio in Lotman (1985). Recuperando
il senso etimologico della parola, Lotman definiva infatti un testo come
nient’altro che una rete intrecciata:
Poiché la stessa parola “testo” richiama etimologicamente l’intrecciarsi dei fili della tela, si può
dire che con l’interpretazione del testo come meccanismo eterogeneo, diviso in una gerarchia di
testi nei testi, restituiamo al concetto di “testo” il suo significato di partenza. (Lotman, 1985, p.
265)
Crediamo allora che l’impresa semiotica che ci aspetta nel futuro consista
innanzi tutto nella costruzione di questa logica delle culture, che sia in grado
di produrre modelli di descrizione e interpretazioni euristici, così come è
stato fatto fino a ora per la semiotica testuale. E crediamo anche che questi
modelli non possano essere costruiti a immagine di quelli della semiotica del
testo, perché profondamente diversi sono i tratti strutturali che sono
costitutivi di due oggetti che, fuor di metafora, restano piuttosto
evidentemente eterogenei. Proveremo a trarre alcune conseguenze concrete
di questo aspetto nel seguente capitolo, in cui metteremo a punto la parte
metodologica e modellistica degli strumenti semiotici di descrizione (cfr.
infra, capitolo 3).
Quanto detto ci consente allora di trarre una prima serie di conclusioni che
riteniamo importanti. Abbiamo visto come la ratio, oggetto teorico
fondamentale che definisce una commensurabilità locale tra sistemi
eterogenei, fosse la traduzione latina del greco logos. Pare allora evidente
che nella traduzione di logos con ratio alcuni tratti semantici, quali quelli di
“rapporto” e di “ragione”, vengano mantenuti, ma ne si perdano invece altri,
quali ad esempio quelli di “raccogliere” e “mostrare”. A dispetto di chi crede
che certe lingue siano più “filosofiche” di altre, questa perdita traduttiva è
assolutamente fondamentale per un’epistemologia semiotica “minore”, che
si fonda esattamente su di una teoria rigorosa dei rapporti e dei nonrapporti
(identità differenziale), ma che non raccoglie i suoi elementi sotto una
dimensione comune (legein), né fa appello a una costitutiva “visibilità”
fenomenologica e percettiva della propria ragione, che è invece innanzi tutto
ed essenzialmente discorsiva e faneroscopica (un “dire”).
Il logos raccoglie infatti elementi sparsi già costituiti per se stessi sotto un
baccello comune (classe, categoria, type, insieme, testo, ragionamento ecc.)
e li mostra presentandoli. Tutt’altra cosa si verifica invece con una ratio,
intesa come rapporto diagrammatico tra forme di relazione tra cui si instaura
una commensurabilità. Si prenda ad esempio una analogia, o proportio, sul
tipo di a:b=b:c. Essa si definisce come uguaglianza di due rapporti, di due
rationes, ma questa uguaglianza non definisce affatto un’identità, come ad
esempio nella formula a=b, bensì uno “stare a” essenzialmente discorsivo
che dice che il primo rapporto sta al secondo esattamente come i termini
interni a ciascun rapporto stanno gli uni nei confronti degli altri. Una
proporzione è sempre un’iterazione frattale di rapporti, una ratio di rationes.
Inoltre, là dove il logos raccoglie elementi già costituiti per se stessi, ciò non
avviene invece minimamente in una proporzione tra rationes, dove
l’uguaglianza in gioco è tra rapporti e non tra cose, in uno spirito
eminentemente strutturale. Secondo la definizione di Nicomaco:
Proporzione in senso proprio è dunque equazione di due o più rapporti, ma più comunemente di
due o più relazioni, sebbene non subordinate allo stesso rapporto, ma alla differenza, o a qualcosa
di diverso. Rapporto è dunque relazione di due termini tra loro, mentre la proporzione è sintesi di
tali rapporti.59
3.1. Una nuova teoria della differenza adeguata alla descrizione dei
processi enciclopedici a rete
Occupiamoci innanzi tutto del punto 1°. Hjelmslev mostra con grande forza
l’irriducibilità dei sistemi semio-linguistici ai sistemi logici, dal momento che i
primi presentano una forma di relazione partecipativa (A VS A+non-A) e non
esclusiva (A VS non-A), qual è quella che caratterizza invece i sistemi logici.
Per questo, per Hjelmslev i sistemi semio-linguistici sono prelogici. Tuttavia,
l’opposizione hjelmsleviana tra prelogica (partecipativa) e logica (esclusiva) è
tutt’altro che manichea. Le due dimensioni possono infatti essere concepite
come diramazioni di un unico sistema di base, che Hjelmslev chiama
sublogico, che accoglie l’intero campo delle forme di relazione (partecipative
ed esclusive), che si realizzano poi diversamente in ciascuno dei sistemi
derivati:
Il principio strutturale che governa il sistema linguistico […] è prelogico per definizione. La relazione
tra due oggetti può essere concepita attraverso un sistema di opposizioni logico-matematiche o
attraverso un sistema di opposizioni partecipative. Ora, soltanto l’ultimo tipo di sistema ricopre i fatti
del linguaggio e ne permette l’immediata descrizione. Sarebbe tuttavia possibile ricondurre il sistema
della logica formale e quello della lingua a un principio comune che potremmo chiamare sistema
sublogico. Il sistema sublogico sta alla base del sistema logico e del sistema prelogico allo stesso
tempo. (CC, p. 214)
Come nota giustamente Parker (1992, p. 136): “Di un sistema di questo tipo
c’è bisogno in ogni analisi che abbia a che fare con entità oggettivamente
indeterminate quali potenzialità, possibilità, continuità, universali o qualsiasi
altro tipo di generali”.12
Quell’“oggettivamente indeterminate” incarna allora l’essenza stessa del
realismo peirciano, che consiste proprio nell’affermare la realtà delle entità
indeterminate.
La Potenzialità (o la possibilità reale) è l’assenza di Determinazione (nell’usuale senso lato) non in un
senso meramente negativo, bensì in quanto capacità positiva di essere Affermata e Negata; non uno
stato d’ignoranza, uno stato d’essere. (MS 277)
Per Peirce le entità indeterminate non sono dunque tali perché noi non siamo
ancora in grado di assegnare loro un preciso valore di verità: in questo caso
l’indeterminato dipenderebbe semplicemente da un certo stato della nostra
conoscenza. Al contrario, l’indeterminatezza è una parte costitutiva dei sistemi
semiotici:13 dato qualsiasi sistema a n termini, per Peirce esisteranno cioè
sempre delle zone indeterminate interne al sistema che non potranno essere
trattate con la logica che è propria delle altre parti del sistema, dal momento
che esse differiscono in natura rispetto a quelle determinate (Peirce parlava a
questo proposito di “un’inferiore modalità d’essere”). Per questo qualsiasi
logica diadica che proceda in maniera binaria non sarà per sua stessa essenza
in grado di trattare adeguatamente delle entità di questo tipo. Per questo per
Peirce i sistemi semiotici sono costitutivamente triadici, perché un sistema
triadico può invece rendere conto anche delle entità determinate, oltre che di
quelle indeterminate. L’indeterminato è cioè in qualche modo interno al
sistema, ma non risponde alla sua logica, un po’ come i casseurs delle periferie
sono interni alla città, ma non rispondono alle sue leggi e alle sue regole. È la
periferia del sistema, il limite del sistema, il bordo del sistema attraverso il
quale si esce dal sistema stesso.
Ecco allora che per Peirce all’interno di qualsiasi sistema esisteranno sempre
delle zone “di frontiera” di questo tipo (indeterminate), che lui chiama Terzità.
È il modo propriamente peirciano per farci rilanciare “alla Peirce”14 l’idea
hjelmsleviana: come per Hjelmslev qualsiasi sistema semio-linguistico è
organizzato sull’opposizione tra zone precise e zone vaghe, occupate da
termini intensivi ed estensivi, così per Peirce qualsiasi sistema semiotico è
organizzato sulla dialettica tra zone determinate e zone indeterminate, di cui
solo le prime sono riconducibili ai principi classici della logica (terzo escluso e
non-contraddizione).
Possiamo a questo punto ritornare al problema dei termini neutri e dei
termini complessi, perché proprio il quadrato di Greimas è un sistema
semiotico che manifesta benissimo i) la compresenza di entità determinate e
indeterminate nel senso di Peirce, ii) il differente modo in cui queste entità
vengono trattate all’interno di una teoria prelogica di tipo triadico e
interpretativo (peirciano-hjelmsleviana) e in una teoria strutturale diadica e
logica (nel senso di “fondata su opposizioni di tipo esclusivo”, come precisato
in 3.2).
Il quadrato articola infatti un’opposizione qualitativa tra termini polari
“maschile VS femminile”, la sua negazione che genera i rispettivi termini
contraddittori (“non-maschile” e “non-femminile”) e qualcosa d’altro di molto
particolare, che è terzo rispetto a tutte queste opposizioni semantiche.
L’opposizione tra i termini determinati all’interno di un sistema locale
(“maschile”, “femminile”, “non-maschile”, “non-femminile”) genera infatti
delle posizioni paradossali, ma non per questo non reali, che si pongono al
limite dell’opposizione stessa, sulla frontiera del sistema. L’unione del
maschile e del femminile genera ad esempio l’ermafrodita, che è qualcosa che
ha in sé i tratti sia del maschile che del femminile; mentre l’unione del non-
maschile e del nonfemminile genera invece l’angelo, che non è né maschile né
femminile.
Eccoci allora esattamente di fronte a quello che diceva Peirce. Dato un
sistema semiotico, esisteranno sempre delle zone intermedie che non sono
trattabili diadicamente e che non sono soggette ai principi di non-
contraddizione e terzo escluso: l’ermafrodita è sia maschile che femminile (in
una violazione del principio di non-contraddizione); l’angelo non è né
maschile né femminile (in una violazione di quello di terzo escluso).
Ermafrodita e angelo sono il limite della categoria della sessualità, il bordo
del sistema che risponde a una logica altra rispetto a quella che regola le sue
rispettive forme determinate (“maschile” e “femminile” in questo caso).
Non è tuttavia questo il modo in cui questi termini “speciali” sono
interpretati all’interno della logica del quadrato semiotico. Peirce pone infatti
una differenza di natura tra l’indeterminato e il determinato, tra le relazioni
triadiche e le relazioni diadiche e, come abbiamo detto, è possibile generare
relazioni diadiche a partire da relazioni triadiche, ma non è però possibile fare
il contrario. Ora, in Greimas è esattamente l’opposto: i termini “triadici”
(termine neutro e termine complesso) vengono invece generati a partire dalle
relazioni diadiche che sono costitutive del quadrato semiotico. E questo con
alcune importanti conseguenze. Come spiegano benissimo Marsciani e Zinna:
Quale statuto dobbiamo assegnare, nel caso del micro-universo semantico della sessualità, a termini
come “Ermafrodita” e “Angelo”? Essi non paiono determinati dallo stesso piano relazionale dei
termini come “Uomo” o “Donna”; non sembrano cioè partecipare direttamente delle relazioni di
contraddizione e contrarietà, bensì di una sorta di dimensione superiore. Ora, si dirà, “Ermafrodita” è
un termine complesso e “Angelo” un termine neutro; altrimenti detto, essi rappresentano gli
investimenti semantici dell’asse dei contrari, nel primo caso, e dell’asse dei subcontrari nel secondo;
in altre parole ancora, “Ermafrodita” è la denominazione specifica che in quel determinato universo
semantico viene ad assumere la categoria stessa (la /sessualità/) e “Angelo” la denominazione
attribuita alla stessa categoria in quanto negata. […] Poiché la categoria semantica è sempre il luogo
della sintesi tra una “congiunzione” e una “disgiunzione” dei termini semici che la articolano, tra un
loro partecipare della stessa natura e dimensione e un loro opporsi in quanto contrari, l’investimento
semantico della categoria in quanto tale, tramite la produzione di un termine complesso, consente la
manifestazione di questa stessa duplicità, consente cioè al discorso di significare la copresenza e la
simultaneità di due termini contrari senza uscire per questo dall’orizzonte paradigmatico riconosciuto
o posto, senza perdere insomma la possibilità strutturale di attribuire valore semiotico a quella
determinata occorrenza: “Ermafrodita” viene compreso e descritto come inserito nello stesso quadro
sistematico cui partecipano anche “Uomo” e “Donna” e da questo stesso quadro il suo valore
semantico viene determinato. Le stesse considerazioni vanno fatte per quanto riguarda il termine
neutro. (Marsciani e Zinna, 1991, p. 50, corsivi nostri)
Gli elementi indeterminati nel senso di Peirce sono dunque elementi senza
identità, di cui si può dire che sono e non sono allo stesso tempo:
È dunque assurdo parlare di un’identità delle cose possibili. Una possibilità, essendo essenzialmente
generale nella sua natura, non possiede un’identità individuale, o meglio, come normalmente si dice
nella terminologia della logica, non possiede un’identità numerica. (NEM IV, p. 7, cfr. p. 328)
Come noterà poi anche Quine, sebbene con intenti del tutto opposti a quelli
di Peirce,17 entità che posseggono il modo di essere della possibilità non sono
identiche a se stesse né distinte l’una dall’altra, per questo non sono neppure
numericamente individuabili. Si tratta cioè di elementi che non posseggono
identità individuale, in quanto non sono neppure individui distinti.
Quando diciamo che tra tutti i possibili lanci di un paio di dadi una trentaseiesima parte darà 6 come
risultato, l’insieme dei possibili lanci che non sono stati effettuati è un insieme in cui le unità
individuali non hanno identità distinta. […] Il possibile è necessariamente generale e nessun numero
di specificazioni può ridurre una classe generale di possibilità a un caso individuale. È solamente
l’attualità, la forza dell’esistenza, che fa esplodere la fluidità del generale e produce un’unità discreta.
[…] È dunque impossibile designare in maniera definita un singolo lancio possibile, e questa
impossibilità non deriva da una nostra incapacità, ma dal fatto che nella loro stessa natura questi lanci
non sono individualmente distinti. (CP 4.172)
Da qui la natura “specialissima” dei “sistemi semiologici” (cfr. ELG, pp. 14-
15, 50, 71, 92-94; CLG, pp. 134, 147), che funzionano come i sistemi
differenziali in matematica, in cui si passa dall’indeterminato (dv, dt) al
determinato (valori di dv e dt) attraverso determinazione reciproca (dv/dt). Da
qui la loro natura sublogica. In un rapporto di determinazione reciproca di tipo
saussuriano infatti, un termine è un posto (A) a differenza di qualsiasi altro
(non-A), per cui la sua presenza porta con sé la contemporanea assenza di tutto
ciò che esso non è (A+non-A),22 dal momento che è proprio questa assenza a
costituirne l’identità. Opposizione partecipativa e opposizione privativa
contribuiscono insieme a definire l’identità stessa della differenza per
determinazione reciproca, che è propria della natura topologica e relazionale
dei sistemi semio-linguistici.
Al fine di rendere conto di questo rapporto, introduciamo quindi la
notazione “A VS (A)+non-A”, che opera una sintesi della struttura
partecipativa hjelmsleviana (“A VS A+non-A”) e di quella privativa
jakobsoniana (“A VS non-A”). A VS (A)+non-A definisce la forma di relazione
propria del livello sublogico, che è costitutivo di tutte le relazioni differenziali
proprie dei sistemi semio-linguistici, nel momento in cui esse sono delle
relazioni di determinazione reciproca, e cioè costitutive dell’identità dei
termini. Questa forma di relazione si specifica poi nella forma A VS A+non-A,
dando vita al livello prelogico hjelmsleviano (partecipativo), e nella forma A
VS non-A, dando vita al livello logico jakobsoniano (esclusivo).
L’insistenza sul livello sublogico è per noi particolarmente importante, dal
momento che, come notava lo stesso Hjelmslev, nei sistemi semio-linguistici si
danno anche opposizioni logiche di tipo esclusivo. Se quindi non ci sembra
opportuno limitare una teoria della differenza semio-linguistica al solo livello
logico (esclusivo), come fanno ad esempio Greimas e Jakobson, ci sembra
altrettanto inopportuno non riconoscere l’esistenza locale di fenomeni che
presentano una forma di relazione di tipo esclusivo. Tuttavia, proprio al fine di
costruire una teoria della differenza che renda conto del livello sublogico,
occorrerà a questo punto specificare i tratti costitutivi di un’enciclopedia come
rizoma, che del livello sublogico – capace di tenere insieme livello logico e
prelogico – è l’oggetto teorico costitutivo.
“Striato” e “liscio” non sono allora che condizioni pure che non esistono che
di diritto, ma che di fatto sono continuamente compresenti. Per questo, i) è
sempre possibile passare da un tipo di spazio all’altro “escherianamente”, cioè
attraverso una serie di modulazioni che trasformano lo striato in liscio (e
viceversa). Per questo, ii) Eco (1983, 1984) ha almeno parzialmente ragione
quando afferma che un rizoma enciclopedico può essere interpretato
localmente come un albero, e che anche la rappresentazione locale di un
rizoma può essere parzialmente arborescente (ma su questo punto, cfr. infra,
4.12). Tuttavia, non crediamo sia possibile limitarsi esclusivamente all’aspetto
striato del rizoma, dal momento che occorre sempre tener presente anche
l’altra dimensione che ne è costitutiva (spazio liscio), al fine di renderla
finalmente produttiva nell’analisi semiotica. Tanto più che Deleuze e Guattari
(1980, p. 19) ci insegnano che all’interno di un rizoma è il liscio a possedere
un primato: “È una questione di metodo: reinnestare i calchi sulla carta,
riportare le radici o gli alberi a un rizoma”.
Si vede allora come “rizoma” sia spesso usato da Deleuze e Guattari come
termine coestensivo di “liscio”, in opposizione alle molteplicità arborescenti e
gerarchiche che sarebbero “striate” o “strutturali”. Del resto, l’opposizione tra i
due tipi di spazio è radicalmente partecipativa: “liscio” è il termine estensivo
che vale come polo dell’opposizione e come totalità del rizoma stesso;
“striato” è il termine intensivo che concentra la significazione esclusivamente
su quelle parti del rizoma che presentano un’organizzazione gerarchica,
arborescente o strutturale. Vedremo infatti tra breve come uno spazio liscio
contenga al suo interno una molteplicità n di spazi striati (arborescenze,
strutture ecc.), che connette in modo del tutto sui generis. Ecco allora che un
rizoma è innanzi tutto e propriamente uno spazio liscio, anche se questo non
impedisce che localmente esso si trovi striato, gerarchizzato e arborificato.
Tuttavia, occorre innanzi tutto capire in che cosa il liscio si differenzi dallo
striato, dal momento che le teorie della differenza di tipo arborescente e
strutturale hanno sempre e soltanto dispiegato la dimensione “striata” della
differenza, trascurando completamente quella “liscia”, che ci pare
rappresentare dunque un’autentica novità che è propria di una teoria rizomatica
e interpretativa di tipo enciclopedico. Ora,
si conferma una certa idea della striatura: due serie parallele, che si incrociano perpendicolarmente: le
une, verticali, svolgono il ruolo di fisse e di costanti, le altre, orizzontali, il luogo di variabili. Molto
grossolanamente, è il caso dell’ordito e della trama, dell’armonia e della melodia, della longitudine e
della latitudine. Più l’incrocio è regolare, più la striatura è fitta, più lo spazio tende a divenire
omogeneo: in questo senso l’omogeneità ci è sembrata essere fin dall’inizio non il carattere dello
spazio liscio, ma, proprio al contrario, il risultato estremo della striatura o la forma-limite di uno
spazio striato da ogni parte, in ogni direzione. […] In ogni modello, infatti, il liscio ci è parso
appartenere a una eterogeneità di base: feltro o patchwork e non tessitura, valori ritmici e non
armonia-melodia, spazio riemanniano e non euclideo, variazione continua che supera ogni ripartizione
delle costanti e delle variabili, liberazione di una linea che non passa tra due punti. (Deleuze e
Guattari, 1980, p. 713)
Ecco allora tutta una navigazione liscia, in funzione delle condizioni locali
mutevoli da viaggio a viaggio, e in funzione di una percezione globale del
sistema solamente regolativa e vaga, che doveva essere assestata di volta in
volta e adattata a condizioni locali in continua trasformazione. Ecco allora che
uno spazio liscio rizomatico definisce esattamente questo tipo particolare di
punto di vista, miope e congetturale.
In una struttura rizomatica priva di esterno, ogni visione (ogni prospettiva su di essa) proviene sempre
da un suo punto interno e, come suggerisce Rosenstiehl, esso è un algoritmo miope, ogni descrizione
locale tende a una mera ipotesi circa la globalità, nel rizoma la cecità è l’unica possibilità di visione, e
pensare significa muoversi a tentoni, e cioè congetturalmente. (Eco, 1983, p. 359)
Ecco allora qual è il problema più generale degli spazi riemanniani, e cioè
quello dell’instaurarsi di una ratio (cfr. Eco, 1975). Uno spazio di Riemann, in
quanto collezione amorfa di frammenti giustapposti, è composto da strutture
striate solamente a livello locale (cellule o, come dice Lautman, frammenti).
Tuttavia, il rapporto tra i singoli frammenti non è dato: essi non hanno
letteralmente alcun tipo di rapporto, il loro rapporto è propriamente un non-
rapporto in cui le grandezze sono incommensurabili e non presentano
proprietà in comune. Ogni cellula, ogni sezione locale, è come un piccolo
pezzo di spazio euclideo (spazio striato), ma il collegamento da una sezione
locale a un’altra non è definito e può costituirsi in un’infinità di maniere
(spazio liscio). È appunto come in un patchwork, in cui i diversi frammenti di
stoffa possono essere cuciti tra loro in un’infinità di maniere. Lautman (1977)
ci insegna allora che affinché il concatenamento tra strutture sia costruito,
occorre lo stabilirsi di una nuova convenzione che installi localmente una
commensurabilità locale tra frammenti (ratio) che non hanno necessariamente
delle proprietà in comune (logos).
Ecco allora che se l’enciclopedia è un rizoma, se un rizoma è uno spazio
liscio e se uno spazio liscio è uno spazio di Riemann, uno spazio riemanniano
si rivela essere un modello perfetto dell’enciclopedia e delle pratiche
interpretative che si svolgono al suo interno. Da un lato, conformemente alla
natura partecipativa dell’opposizione tra liscio e striato, uno spazio liscio, in
quanto collezione amorfa di frammenti giustapposti, è sempre composto da
spazi striati locali (arborescenze, strutture ecc.). Ogni cellula, ogni sezione
locale dell’enciclopedia, è come un piccolo pezzo di struttura nel senso dello
strutturalismo o come un’arborescenza locale (cfr. Eco, 1983, 1984). Tuttavia,
il collegamento da una struttura locale a un’altra non è definito a priori e può
costituirsi in un’infinità di maniere, in funzione della pratica interpretativa che
percorre e “cuce” lo spazio dell’enciclopedia.
L’enciclopedia è dominata dal principio peirciano della interpretazione. […] Ogni suo punto può
essere connesso con qualsiasi altro punto, e il processo di connessione è anche un processo continuo
di correzione delle connessioni. […] Quindi chi vi viaggia deve anche imparare a correggere di
continuo l’immagine che si fa di esso, sia essa una concreta immagine di una sua sezione (locale), sia
essa l’immagine regolatrice e ipotetica che concerne la sua struttura globale (inconoscibile). (Eco,
1983, pp. 356-358)
Per quanto riguarda il punto 1), in 3.4 vedevamo come il livello sublogico
presentasse una forma di relazione sul tipo di A VS (A)+non-A, capace di
tenere insieme il livello prelogico (partecipativo) e quello logico (esclusivo).
Al fine di rendere esaustiva la nostra trattazione, occorrerà allora introdurre
altri tre tipi di relazioni molto studiati in altri ambiti disciplinari, che possono
essere localmente euristici per descrivere gli effetti di senso dei fenomeni che
si verificano all’interno di un rizoma enciclopedico. Ce ne occupiamo solo a
questo punto del nostro percorso, dal momento che l’opposizione tra liscio e
striato, oltre a quanto detto sul sinechismo e l’interpretazione enciclopedica,
consentono di rendere più chiaro lo statuto che queste forme di relazione
assumono nel momento in cui vengono introdotte all’interno dei sistemi semio-
linguistici di tipo enciclopedico.
Ci poniamo quindi qui a livello sublogico, dal momento che non solo
un’enciclopedia rizomatica è per essenza il luogo di sintesi dei livelli logico e
prelogico, ma perché è l’opposizione stessa tra liscio e striato a presiedere alla
ripartizione tra livello prelogico e livello logico. Le relazioni esclusive di tipo
strutturale sono infatti effetto della divisione di un continuum in domini da
parte di un sistema di frontiere (spazio striato), mentre la lisciatura di questo
stesso spazio porta con sé tutta una serie di rapporti tensivi, modulativi e
continui. L’opposizione tra liscio e striato appartiene quindi costitutivamente al
livello sublogico e l’enciclopedia rizomatica, come unione di spazi lisci e spazi
striati, è l’oggetto teorico principale che presiede a una teoria della differenza
di tipo sublogico. Al fine di renderla almeno parzialmente esaustiva, possiamo
allora introdurre a questo punto: i) le somiglianze di famiglia; ii) le relazioni
centro-periferia; iii) le valenze.
È evidente?
Se io non nego una cosa non vuole necessariamente dire che io l’affermi:
potrei benissimo essere dubitativo, sospendere il giudizio, affermare
l’indecidibilità, lasciare la porta aperta alla possibilità che le cose stiano
effettivamente in quel modo, ma che stiano anche in modo diverso. Non c’è
niente nel contenuto semico di una “non-negazione” che implichi
necessariamente un’asserzione, o peggio, che equivalga a essa. E tuttavia
Greimas invece insiste a dire che è così, e anzi cerca di far credere che sia
addirittura ovvio che sia così. Ovviamente la lessicalizzazione particolare
adottata (“asserzione/negazione”) non è dirimente: “non povero” ad esempio
non implica “ricco” né tanto meno equivale a esso, dal momento che il
contenuto semico di non-povero può benissimo implicare una persona
benestante, uno che se la cava, uno che alla fine della giornata ha sempre il suo
piatto di minestra in tavola. Che lo statuto della relazione di implicazione
interna al quadrato semiotico fosse di fatto mal fondato, era già stato notato fin
dal 1983 da Bernard Pottier:
È la complementarietà (piuttosto che la contrarietà) a coprire il dominio semantico fondamentale […].
Tuttavia ciò che non è P non è affatto forzatamente Q. Ciò che è “non-caldo” può essere benissimo
freddo, così come tiepido, atermico o quant’altro. Questo fatto distrugge l’implicazione della deissi.
(Pottier, 1983, p. 17)
Come “o inversamente”?
Al fine di far luce adeguatamente su questo aspetto, va allora sottolineato un
punto fondamentale della questione. Se Greimas insiste tanto su di un
orientamento delle relazioni del quadrato insostenibile a livello di una teoria
delle relazioni, è perché solo in questo modo può convertirne i valori semici in
una dimensione sintagmatica di cui si farà carico una sintassi attanziale di
tipo narrativo. A livello profondo della teoria greimasiana infatti, si possono
individuare due componenti: una morfologia che si occupa delle relazioni
costitutive tra semi; una sintassi che trasforma le relazioni tassonomiche del
quadrato in operazioni su valori. Questa seconda componente interna alla
logica del quadrato è la chiave di tutto il percorso generativo, dal momento che
è attraverso di essa che i valori dei rapporti differenziali costitutivi del
quadrato vengono narrativizzati in operazioni di affermazione/negazione dei
termini stessi. È poi soltanto attraverso questa “preconversione narrativa” che
dei rapporti di congiunzione/disgiunzione tra soggetti e oggetti di valore
potranno corrispondere a livello sintagmatico ai termini individuati all’interno
del quadrato semiotico.34
Come nota lo stesso Greimas: “La narratività a livello profondo può essere
concepita come una serie di operazioni logiche orientate che si esercitano
all’interno del percorso previsto dal quadrato semiotico” (Greimas, 1976, p.
22). A livello di sintassi attanziale, a queste operazioni di
affermazione/negazione corrisponderanno allora programmi narrativi, e cioè
congiunzioni/disgiunzioni tra soggetti e oggetti di valore.
images
Figura 7. Conversione dei valori semici in singolarità narrative (tratto da Pozzato, 2001, p. 62)
Ormai abbiamo aperto il vaso e ci siamo resi conto che l’implicazione non è
in grado di richiuderlo: si tratta soltanto di vedere cosa ne viene fuori.
La situazione ci pare così radicale da non consentire di conservare la
chiusura relativa del quadrato attraverso un espediente bi-isotopico che
raddoppi le relazioni logico-discorsive proprie della categoria, costituendole in
funzione di un’ulteriore correlazione che le associ ad almeno un’altra
dimensione semantica. È questa ad esempio la strada tentata da Fontanille e
Zilberberg (1998, pp. 51-59) al fine di conservare una chiusura relativa che
protegga il quadrato dalle pericolose intemperie di un “fuori”. Il loro esempio è
allora proprio tratto da Pottier, e si pone come obiettivo quello di emendare il
quadrato dalle obiezioni ricordate qui sopra attraverso l’associazione di una
dimensione povertà/ricchezza a un’altra dimensione costituita in funzione di
un’ulteriore isotopia, quale ad esempio “poter fare/non poter fare”:
I misteri dell’implicazione-asserzione, che “chiude” il percorso sul quadrato, potrebbero essere risolti
se si ammettesse che non si dà categoria semplice o isolabile, soprattutto nel discorso, e che la
riduzione finale imposta attraverso l’implicazione è di fatto guidata da una mira appartenente a
un’altra dimensione correlata alla prima. […] Una grandezza, per esempio la “povertà”, sceglie una
grandezza appartenente a un’altra dimensione, ad esempio “l’umiltà”, e, a partire da questo, crea la
possibilità di una differenza con le altre grandezze della sua stessa dimensione; in effetti,
l’opposizione tra “povertà” e “ricchezza” non è che di grado finché la correlazione con la dimensione
“umiltà-orgoglio” non gli ha procurato il suo valore e il suo orientamento. […] In un certo modo si
cambia di valore senza con questo uscire dal sistema. (Fontanille e Zilberberg, 1998, pp. 51, 56)
E non solo. Perché che cos’è in realtà “non-S2”? Courtés nota in più punti
che l’asse non-S dei subcontrari non è propriamente parlando un asse
semantico, dal momento che il sema “non-S” è interpretato come assenza
“assoluta del senso”, tanto che in alcune formulazioni di Greimas quest’asse
sparisce proprio (cfr. Greimas, 1970, p. 170, in figura 7). Tuttavia, anche
ammesso che gli schemi siano due opposizioni privative (ma come abbiamo
visto non lo sono) e che l’asse dei subcontrari congiunga in questo modo due
assenze, non si capisce in quale modo Courtés e Greimas possano sostenere la
tesi dell’assenza assoluta del senso. L’unione di due negazioni, la congiunzione
di due assenze, dà infatti sempre qualcosa di intrinsecamente presente e
positivo. Si prenda ad esempio il caso più semplice, che è quello della
matematica, in cui - x - = +. E del resto è ovvio, l’assenza di un’assenza è
sempre qualcosa di intrinsecamente presente e positivo (è un’assenza assente, e
cioè qualcosa di presente).36 Per questo l’asse dei subcontrari può essere tutto
tranne che l’assenza assoluta del senso: è anzi il luogo più affollato in assoluto.
L’asse dei subcontrari è tutto, tranne che S1 ed S2: è tutto il resto. Tutt’altro
che luogo dell’assenza, è il luogo della pienezza traboccante, il luogo
dell’affollamento nelle ore di punta.
Che cos’è dunque non-S2? “Non-S2” è tutto (tranne S2): è la totalità della
categoria S rappresentata in modo del tutto vago e impreciso. Non-S2 non è un
punto, una zona precisa, ma una nebulosa indeterminata – una zona vaga – o
meglio, “l’affermazione della negazione di un tratto”, e cioè tutto ciò che quel
tratto non è. Per questo la sua modellizzazione non è un punto, ma se mai tutto
il piano tranne il punto negato; o meglio, una linea che riempie in quanto tale
un piano: un concatenamento che da un punto interno al piano tocca tutti gli
altri punti secondo quella tendenza estensiva a oltrepassare le frontiere di cui
parlava Hjelmslev a proposito delle opposizioni partecipative. Anche qui, ben
lungi dal ritrovarci con un’opposizione binaria di tipo esclusivo, ci ritroviamo
invece di fronte a una molteplicità n di percorsi che si ramificano e si diramano
a partire dal punto S2.
Figura 10. Costruzione di una rete enciclopedica ricorsiva e interconnessa a partire dal quadrato
3.10. Conclusioni
Era questa del resto la posizione prima di Jakobson e poi di parte della
scuola generativa. Dall’ultimo Greimas fino a Fontanille, passando per la
mediazione decisiva di Floch (1985, 1995), la semiotica non ha di fatto
voluto mettere in discussione questa ripartizione, tanto che la distinzione tra
l’espressione come qualcosa di sensibile o concreto e il contenuto come
qualcosa di intelligibile – o comunque di “non-sensibile” – è riaffermata
continuamente,2 fino alla sua più recente sistemazione fontanilliana che ne
fa l’effetto dalla posizione del corpo proprio (cfr. Fontanille, 1998, 2004).
Ecco infatti che per Jakobson
il linguaggio, come è stato dimostrato chiaramente dal moderno pensiero strutturale, è un sistema
di segni e la linguistica è parte integrante della scienza dei segni o semiotica (la sémiologie di
Saussure). La definizione medievale del segno: aliquid stat pro aliquo, è stata ripresa e
riconosciuta ancora valida e feconda. Così il tratto caratteristico costitutivo di ogni segno in
generale e di ogni segno linguistico in particolare è il suo carattere duplice; ogni unità linguistica è
bipartita e coinvolge due aspetti: il sensibile e l’intelligibile, o, in altre parole, il signans o
significante (il signifiant di Saussure) e il signatum o significato (signifié). Questi due elementi
costitutivi del segno linguistico – del segno in generale – si presuppongono e si richiamano l’un
l’altro. (Jakobson, 1963, p. 162)
E C
E C
La verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato,
esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.
Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ingenio lego di Cervantes, quest’enumerazione è un mero
elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:
La verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato,
esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.
La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non
vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che
avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. (Borges, 1956, pp. 44-5)
È noto come sia anche “vivido il contrasto tra gli stili”, e come “lo stile
arcaizzante di Menard resti straniero e non senza qualche affettazione. Non
così quello del precursore”, che sembra invece “maneggiare con
disinvoltura” la lingua corrente della propria epoca.
Come spiegare allora questo rapporto del tutto peculiare tra espressione e
contenuto? Come dar conto di questa “unica versione di due storie
differenti”?10 Che tipo di funzione semiotica ha cioè costruito Borges con la
sua finzione?
Se l’espressione fosse qualcosa di sensibile e di riconoscibile per se stessa,
essa sarebbe identica in entrambi gli esempi citati, mentre se essa fosse
invece funtivo esclusivo della sua funzione con il contenuto, saremmo
invece di fronte a espressioni differenti, dal momento che la correlazione tra
espressione e contenuto cambia molto nettamente nella finzione borgesiana,
tanto che è esattamente su questo cambiamento che si fonda la sua stessa
mossa provocatoria. L’esempio borgesiano gioca insomma proprio sulla
disgiunzione tra sostanza sensibile (che rimane identica) e piano
dell’espressione (che cambia invece nei due casi), mostrando così
l’euristicità della posizione relazionale pura, che Hjelmslev sostiene senza
alcun possibile fraintendimento:
una funzione è inconcepibile senza i suoi terminali, e i terminali sono solo punti finali per la
funzione e quindi inconcepibili senza di essa. Se la stessa entità contrae successivamente funzioni
diverse, e può quindi apparire selezionata da esse, si tratta, in ogni singolo caso, non di un
medesimo funtivo, ma di funtivi diversi, oggetti diversi a seconda del punto di vista, cioè della
funzione che si prende in considerazione. (P, p. 53)
Che cos’è allora un piano? Che cos’è questo elemento fondamentale che
presiede alla stabilizzazione del senso e all’attivazione dell’interpretazione?
Un piano è una sezione enciclopedica parziale in cui degli elementi del
contenuto si determinano reciprocamente su base locale. Esso presiede alla
stabilizzazione del senso in quanto i suoi elementi si determinano cioè
reciprocamente in base a rapporti di regolarità. Formalmente, un piano è una
cellula striata in uno spazio liscio rizomatico, il brandello locale di un
patchwork, il frammento di uno spazio di Riemann (cfr. supra, 3.5). I
rapporti differenziali tra gli elementi di un piano fanno si che la
semantizzazione sia costruita in un certo modo e vengano attivati determinati
interpretanti. Insistiamo su questo punto, che, come abbiamo visto nel
capitolo 1, è fondamentale per una semiotica interpretativa.
Hjelmslevianamente, degli elementi si determinano reciprocamente su un
determinato piano, in funzione di un determinato taglio enciclopedico, e la
ripartizione di questi rapporti differenziali che determinano l’identità degli
elementi in gioco presiede alla generazione degli interpretanti nel momento
in cui ci si è installati all’interno di quel piano. Ad esempio, in Semiotica e
filosofia del linguaggio, Eco (1984) mostra come la natura dell’espressione
“dare una lezione” muti a livello di contenuto da “vincere magistralmente” a
“somministrare una punizione” nel passaggio da un piano sportivo a un
piano educativo. Su di un piano sportivo questa unità di contenuto si
determina in funzione di altri elementi appartenenti a quel dato taglio
(“subire una sconfitta”, “vincere rubando”, “vincere meritando”, “perdere di
poco” ecc.) e dà così vita a un certo tipo di interpretanti (“vincere
magistralmente” appunto). Ma su un altro piano le cose cambiano, così che
l’identità di “dare una lezione” si determina all’interno di un’altra
ripartizione di rapporti e di punti (“tenere un corso”, “premiare qualcuno”,
“imporre una condotta a qualcuno”, “essere tolleranti” ecc.) e dà così vita a
un altro tipo di segni interpretanti (“somministrare una punizione” appunto).
Tuttavia “dare una lezione” non è niente in sé: la sua identità è definita
solamente dagli altri elementi con cui si determina reciprocamente
all’interno di un dato piano. Fuori da quel piano, all’interno di un altro
universo di discorso in cui quell’elemento contrae rapporti con altri elementi
con cui si determina reciprocamente, le cose cambiano. Non esiste alcuna
unità di contenuto che sia stabile per tutti i piani in cui può entrare, dal
momento che nessuna unità di contenuto possiede un’identità indipendente
dai rapporti in cui entra e dagli interpretanti in cui viene trasdotta. Si tratta di
valori, e saussurianamente l’identità di un valore è definita esclusivamente
da elementi simili con cui si determina reciprocamente (elementi di uno
stesso piano) e da elementi dissimili con cui può venire scambiata (altri
elementi di altri piani). L’unica cosa che rimane stabile e si erge a trompe-
l’oeil, ingannando spesso gli studiosi di semantica, è l’espressione; ma non
solo l’identità di un’espressione è sempre funzione del piano del contenuto
con cui è in rapporto, ma più fondamentalmente l’espressione, dal punto di
vista della sua semantizzazione, ha un’unica e sola potenzialità: quella di
installarci immediatamente all’interno di piani enciclopedici.
Perché quello che succede in un rizoma enciclopedico è davvero curioso,
dal momento che anche una e una sola espressione potenzialmente senza
senso possiede sempre la possibilità di installarci e disseminarci
immediatamente su mille piani. Ad esempio, la particolare sequenza di tasti
sulla tastiera del mio computer, QWERTY, è un’espressione, ma il suo
contenuto dipende dal piano su cui avviene la semantizzazione su base
locale: esso è ad esempio nullo su un piano linguistico (QWERTY non vuol
dire nulla in italiano), costituisce l’enunciato dell’ordine alfabetico adottato
dalle tastiere italiane da notebook se attivato in un manuale di dattilografia,
costituisce l’oggetto agognato e rimpianto di una romantica Sehnsucht
quando si lavora a Parigi sulle tastiere francesi AZERT, costituisce l’esempio
del funzionamento di una semantizzazione enciclopedica su mille piani se
enunciato in un libro di semiotica.
In un rizoma enciclopedico, anche restando accoccolati, fermi su di una
sola espressione, non smettiamo mai di saltare da un livello a un altro. Per
questo siamo sempre potenzialmente moltiplicati, acentrati, dislocati: anche
appollaiati, immobili su di un’unica espressione, siamo già sempre su mille
piani enciclopedici. Quello con cui abbiamo a che vedere qui non è affatto
una struttura graduale tipica o prototipica sensibile al contesto, bensì
qualcosa in cui non si smette mai di saltare da un livello a un altro, in
funzione di determinate condizioni iniziali che influiscono in maniera
decisiva sulla struttura del sistema. È infatti soltanto nel momento in cui
l’intorno enciclopedico associato all’espressione (contesto, co-testo,
condizione di enunciazione ecc.) permette di individuare un piano adeguato
all’espressione che la semantizzazione ha luogo, dal momento che su quel
piano degli elementi si determinano reciprocamente su base locale, e
l’espressione non solo viene stabilizzata nel suo rapporto semiosico con il
contenuto, ma viene costituita in quanto espressione attraverso la costruzione
della funzione semiotica (cfr. infra, 4.4).
Occorre sottolineare però che non si sta dicendo che la semantizzazione
dipende dal contesto, dal co-testo e dalle condizioni di enunciazione. Al
contrario, si sta invece dicendo che questi elementi attivano piani in
funzione delle condizioni iniziali del sistema, e che la semantizzazione
dipende esclusivamente dal modo in cui degli elementi di contenuto si
determinano reciprocamente in quei determinati piani, in funzione di quel
dato taglio, direbbe Hjelmslev. Degli elementi si determinano
reciprocamente su base locale, l’interpretazione ne segue i percorsi possibili
su altri piani, in funzione di determinati tagli: è il nostro modo di tenere
insieme le prospettive di Hjelmslev e Peirce all’interno di una teoria del
valore semantico di tipo enciclopedico (cfr. supra, 1.7). L’enunciazione, il
contesto e il co-testo hanno come funzione quella di attivare il piano in cui
degli elementi si determinano reciprocamente e di far seguire il percorso che
è possibile intraprendere a partire da quel determinato piano
(interpretazione). Ma la semantizzazione è immanente e dipende dai rapporti
differenziali che si stabiliscono su base locale tra elementi semiotici.
La correlazione di due fonemi con correlazione di “significazioni” differenti è uguale
semplicemente al loro valore reciproco. È qui che si comincia a intravedere l’identità della
significazione e del valore. […] Noi non stabiliremo alcuna differenza seria tra i termini valore,
senso, significazione, funzione o impiego d’una forma, e nemmeno con l’idea come contenuto di
una forma: questi termini sono sinonimi. Occorre riconoscere tuttavia che valore esprime meglio di
ogni altra parola l’essenza della lingua. […] Il senso di ciascuna forma, in particolare, è la stessa
cosa che la differenza delle forme tra loro. Senso = valore differente. (ELG, pp. 18, 21-23)
Figura 3. Analisi di ring di Langacker (1987). Alcuni sensi sono “schematici” per gli altri (freccia
non tratteggiata); altri rappresentano invece delle estensioni di altri sensi (freccia tratteggiata)
Di fatto ring era anche un caso semplice. Passare dall’intreccio della corda
al gruppo di cellule dei blastocisti fino all’unità di misura della velocità delle
navi sarebbe infinitamente più complesso (nodo). Ma tant’è: anche in un
esempio semplice e scelto ad hoc, i problemi proliferano, e proliferano per
essenza, dal momento che sono infatti il problema di fondo e il metodo
attraverso il quale lo si affronta a essere impostati male.
Ci pare infatti evidente che quello che le teorie semantiche considerate
trattano sotto il nome di prototipo, pur con tutte le sue specificità, è in fondo
qualcosa che differisce solamente in grado da quello che in precedenza
andava sotto il nome di “senso letterale”, “accezione primaria”, “nucleo
semico”, “senso principale” ecc. Ci occuperemo tra breve del problema del
senso letterale, di cui forniremo una riformulazione costitutivamente
onomasiologia, che ci consenta finalmente di uscire da tutte queste impasses.
Ma va allora notato fin da subito come, ben più che sul problema dei
primitivi semantici, dei prototipi, dei nuclei semici e dei modelli dinamici, le
analisi di Katz e Fodor (1963) su “bachelor”, quella di Langacker (1987) su
“ring”, quella di Lakoff (1987) su “over”, quella di Fillmore (1982) su
“write” e quella di Victorri (1997) su “encore” (per citare solo le più
celebri), si fondano tutte sul medesimo problema, che è quello dell’adozione
di un metodo semasiologico, che crea costantemente a tutti, e nella stessa
identica forma, problemi di polisemia, di senso derivato, di senso
prototipico, di estensione, di deformazione contestuale, di gerarchizzazione
delle accezioni ecc.
Queste teorie cercano continuamente di ridurre a unità coerenti quelle che
sono soltanto delle categorizzazioni contingenti, perché dovute
esclusivamente al trompe-l’oeil dell’espressione. Come diceva giustamente
Wittgenstein:
Si crede di star continuamente seguendo la natura, ma in realtà non si seguono che i contorni della
forma attraverso cui la guardiamo. Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne
fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente.
(Wittgenstein, 1953: §114-115)
Resta evidente per noi che il ritaglio del piano che presiede alla
semantizzazione e al dispiegarsi del senso resta sempre funzione dei punti di
vista interni all’enciclopedia. L’enciclopedia è infatti continuamente solcata
dalle pratiche che ritagliano piani, danno senso in funzione di essi e attivano
l’interpretazione connettendo piani differenti in funzioni di differenti
specificità. Ciò che una semantica semiotica di tipo enciclopedico deve saper
fare è allora i) tratteggiare le regolarità che presiedono a queste pratiche di
analisi (ritaglio del piano) e interpretazione (connessione di piani eterogenei
e ramificazione degli stessi); ii) saper riconoscere il ruolo che la soggettività
e le forme di vita hanno all’interno della vita stessa del senso.
Per quanto ci riguarda, quest’ultimo rapporto è suggerito all’interno di una
frase di Calvino, a partire dalla quale costruiremo una teoria della
soggettività semiotica nel capitolo 5, ma che si tratterà di far fruttare a livello
della semantica fin da subito. Calvino si chiedeva, e per noi si tratterà di
provare a declinare una risposta affermativa, se per caso ciò che abbiamo in
comune non è forse ciò che è dato a ciascuno come qualcosa di
esclusivamente suo.
Questa frase sembra avere il potere di smontare per noi tutta una serie di
topoi così diffusi in ambito semio-linguistico da apparire come ovvi. Che il
significato sia qualcosa di generale, che la gestione del senso sia un continuo
portare sotto regole le occorrenze che incontriamo, che la semantizzazione
funzioni per invarianti e per scarti rispetto a queste invarianti, che il
significato sia qualcosa di pubblico e di esterno e la soggettività che presiede
alla nostra esperienza qualcosa di privato e di interno sono luoghi comuni da
cui occorre incominciare a liberarsi.
All’unità collettiva di concetti quali type, nucleo semico in lingua,
prototipo semantico e significato generale, opponiamo allora l’unità
distributiva calviniana, perché nel momento in cui gestiamo il senso nei
testi, nelle pratiche e nell’esperienza non abbiamo mai a che fare con
qualcosa che è valido allo stesso modo per tutti, bensì con qualcosa che
esige di essere valido per ciascuno singolarmente. Questo qualcosa di
comune, questo qualcosa che esige di essere valido per ciascuno
singolarmente, è allora qualcosa che è dato a ognuno come qualcosa di
esclusivamente suo. Se non siamo capaci di pensare questa unità
distributiva, questo ossimoro fondante la significazione, non potremo allora
evitare di porci all’interno di una tradizione così diffusa da non essere
localizzabile in un singolo obiettivo polemico e che, per quanto ci riguarda,
andremo innanzi tutto a individuare sotto il nome di “ideologia del type”
(cfr. Violi, 2003b).
Si tratta in fondo di applicare al senso la stessa “rivoluzione” che era
costitutiva della terza Critica kantiana. Al di là degli a priori categoriali,
delle idee della ragione e dei reciproci rapporti di legislazione che essi
determinavano tra le differenti facoltà, nella Critica della capacità di
giudizio Kant ritrovava infatti una terza dimensione a essi irriducibile, che
pur fondandosi esclusivamente sul sentimento proprio a ciascuno, risultava
per sua stessa essenza comunicabile, ed esigeva anzi il consenso di ognuno,
nel suo fare appello a una sorta di “senso comune estetico” (Gemeinsinn): un
con-diviso sentimento.51 In Kant, questa terza dimensione propriamente
estetica risultava dunque definita non da un’universalità oggettiva, fondata
su di un concetto o su una regola, bensì su di un’universalità sui generis:
un’universalità distributiva sempre data a ciascuno come qualcosa di
esclusivamente suo. Ecco allora che per noi risulterà fondamentale pensare
al senso come a qualcosa di fondato esattamente su questo con-senso52 in
cui, come diceva Calvino, ciò che abbiamo in comune è proprio ciò che è
dato a ciascuno come qualcosa di esclusivamente suo: la semiotica come
estetica del senso, in questa sua accezione critica.
La mossa teorica principale consisterà allora in questo: smascherare la
falsa opposizione tra singolare e generale, così diffusa nella semantica
contemporanea, e sostituirla con quella tra singolare e regolare, che è tutto
ciò che ci serve per attivare i motori di una rappresentazione enciclopedica
che sia slegata da un’arborescenza di comodo, al fine di renderla
euristicamente efficace nell’analisi. Il nostro terreno empirico di indagine,
esemplificativo, ma estremamente rivelatore, sarà allora a questo proposito
la metafora.
Occorrerà allora chiedersi innanzi tutto che fine faccia il concetto di type
all’interno di questa prospettiva enciclopedica radicale, visto che l’abbiamo
eretto a nemico “prototipico” di una serie di approcci che riteniamo non
produttivi per la semantica, e soprattutto per una semantica semiotica di tipo
enciclopedico.
Tutte le volte che si è fatto riferimento al concetto di type sul piano del
contenuto, nelle differenti declinazioni che la nozione ha assunto in
differenti teorie, l’unica cosa che serviva davvero per semantizzare qualcosa
erano le idee di stabilizzazione e di regolarità. Tuttavia, i) la stabilizzazione
non è mai qualcosa dell’ordine di una matrice in grado di generare
occorrenze, né di una classe a cui le riconduciamo e ii) la regolarità non è
mai dell’ordine di uno schema che serve da regola determinante o riflettente
l’abduzione che la ricerca. Stabilizzazione e regolarità sono infatti qualcosa
di essenzialmente locale, che varia in funzione delle condizioni di
enunciazione, di contesto e di riferimento. Occorrerà allora provare a
radicalizzare la verità di questo paradosso soltanto apparente: la
stabilizzazione è per essenza variabile e la regolarità è per essenza non
regolarizzabile. Noi stabilizziamo infatti i significati in funzione di piani
differenti che si intersecano e che dipendono sempre i) dalle situazioni in
atto, ii) dalle competenze in gioco e iii) dalla dinamica locale degli stereotipi
e delle costruzioni semantiche attivate. A livello semantico l’occorrenza
attiva stabilizzazioni,53 e cioè non attiva il suo type (la classe tipica a cui
appartiene o il suo proto-tipo), bensì piani locali che sono dati a ciascuno
come qualcosa di esclusivamente suo, e che rappresentano delle sezioni
enciclopediche parziali che vengono messe a frutto nella pratica.
È l’enciclopedia ritagliata localmente che sul piano del contenuto svolge
la funzione che fino a oggi si è sempre assegnata al concetto di type, ma
l’enciclopedia svolge questa funzione localmente in base a regolarità, e non
in base a regole che sono proprie di un significato generale. Perché se un
evento semantico è sempre per essenza una singolarità, e cioè un punto
significativo in cui succede qualcosa, “singolare” non si oppone però a
“generale”, bensì a “regolare”. In semantica, pensare che esistano dei
significati generali significa infatti ritornare ai tentativi di “nuclei semici” sul
tipo di quelli ipotizzati da Greimas (1966) in Semantica Strutturale, e cioè di
nuclei indipendenti dai piani in cui vengono disseminati. Al contrario, se non
esistono delle generalità, esistono però delle regolarità, e cioè dei piani di
stabilizzazione all’interno dei quali un elemento è semantizzato “innanzi
tutto e per lo più”. Ma questi piani sono tutt’altro che generali, bensì sono
sezioni enciclopediche locali che vengono ritagliate di volta in volta nella
pratica. Per quanto ci riguarda, consiste proprio in questo la grandezza del
modello enciclopedico, ed è esattamente questo modello che Eco stesso pare
abbandonare in Kant e l’ornitorinco, abbracciando invece una forma di
tipizzazione fondata sul “portare sotto regole”, date o costruite che siano
queste regole.
Kant e l’ornitorinco pare un libro molto influenzato dalla semantica
cognitiva e la semantica cognitiva, almeno nella sua versione “classica”, si
distacca da una prospettiva autenticamente interpretativa, – qual è quella
sviluppata da Eco stesso – in almeno due punti fondamentali: i) essa pone la
percezione a fondamento degli altri processi semiosici; ii) fa largo uso del
concetto kantiano di schema, in un senso che lo connette da un lato ai
concetti di type e di regola e dall’altro al primato stesso della percezione. Per
quanto ci riguarda, occorre invece tenere ferma l’idea che sia l’enciclopedia
a svolgere il ruolo che le teorie cognitive assegnano al concetto di schema,
nelle sue varie declinazioni e che questo ruolo sia svolto in base a regolarità
e non a regole. È il concetto di “portare sotto regole”, spesso collettive, che
miriamo in modo polemico; dal momento che siamo convinti che la
semantizzazione sul piano del contenuto funzioni in modo molto più
sfumato, e cioè in base a regolarità che sono date a ciascuno come qualcosa
di esclusivamente suo, in un’unità che è innanzi tutto distributiva e non
collettiva.
Proveremo allora a fare appello al WWF della semiotica per salvare
l’ornitorinco, al fine di riportarlo nel suo habitat interpretativo del Trattato
di semiotica generale e di Semiotica e filosofia del linguaggio, in cui esso
possa trovare la sua dimensione più propria, che non è per noi quella delle
configurazioni cognitive di Kant e l’ornitorinco. Questo implica tre corollari
fondamentali.
Si deve concludere che quando Kant pensa allo schema del cane sta pensando a qualcosa di molto
affi ne a quello che, nell’ambito delle attuali scienze cognitive, David Marr e Nishishara (1978)
hanno chiamato un 3D model, e che rappresentano come in figura 2.2:
Mi pare allora che tutta una serie di studi recenti che tentano di coniugare
semiotica della percezione, fenomenologia e neurogeometria della visione ci
forniscano esattamente questa teoria dei “livelli di emergenza della realtà
fenomenologica”, questa “genesi semiotica” in cui “sulla base di fenomeni
di interazione e di comportamenti collettivi coordinati (cooperazioni e
conflitti) situati a un livello intermedio (“mesoscopico”), delle unità di
piccola scala (“microscopiche”) possano organizzarsi in strutture emergenti
di grande scala (“macroscopiche”)” (Petitot, 2006, pp. 104-105). Sono allora
proprio queste strutture emergenti di grande scala che emergono da unità
micro che definiscono il regno del morfologico.
In questo modo, quella che possediamo oggi è un’immagine del tutto
diversa di quel livello che Eco ha per lungo tempo chiamato “semiosi
naturale”, collocandola prima al di sotto della soglia inferiore della semiotica
e cercando di renderne poi conto con l’idea di iconismo primario. La semiosi
naturale non funziona cioè per stimolo-risposta né tanto meno per iconismo
primario, bensì funziona per strutturazione dei livelli di emergenza della
realtà fenomenologica, in cui morfologie percettive strutturalmente stabili
emergono dalla fisica microscopica dei substrati senza ridursi a essi. Al
contrario, è proprio basando la sua idea di “semiosi naturale” su dei processi
di iconismo primario, e cioè di stimolo-risposta, che Eco si ritrova costretto a
localizzare poi il morfologico nello schema, tra il percetto e il concetto, tra il
molteplice sensibile e la sua strutturazione categoriale.
Vediamo allora le cose più da vicino, seguendo le argomentazioni di Eco
su questo punto. Al fine di arrivare ad attribuire allo schema dei concetti
empirici una natura morfologica, Eco (1997, p. 50) parte da un’idea
straordinaria di Peirce, notando come Peirce affermi “senza esitazione” che
lo schema kantiano sia per lui un diagramma (cfr. supra, 2.3). Tuttavia, Eco
non pare disposto ad accogliere fino in fondo questa idea peirciana,
estendendola così dal dominio degli schemi a priori kantiani all’intero
dominio del funzionamento enciclopedico del piano del contenuto, mossa
che lo avrebbe invece portato ad abbandonare l’idea del “portare sotto
regole” (date o costruite che siano queste regole). Nondimeno, proprio per
spiegare che cosa sia lo schema kantiano, Eco fa riferimento proprio al
concetto di diagramma, quali ad esempio i flow chart dei calcolatori:
Forse per capire meglio il concetto di schema occorre rifarsi a quello che, quando dobbiamo far
lavorare un computer, ci viene proposto come flow chart o diagramma di flusso. La macchina è
capace di “pensare” in termini di IF… THEN GO TO […]. Il diagramma di flusso ci rende
evidenti i passi che la macchina deve compiere e che dobbiamo ordinarle di compiere: data una
operazione, a un certo snodo del processo si produce un’alternativa possibile, data la risposta che si
verifica occorre fare una scelta, data la nuova risposta occorre ritornare a uno snodo superiore del
diagramma, o procedere oltre, e così via. Il diagramma ha qualcosa che può essere intuito in
termini spaziali ma nel contempo è sostanzialmente basato su un discorso temporale (il flusso),
proprio nel senso in cui Kant ricorda che gli schemi si basano fondamentalmente sul tempo. (Eco,
1997, pp. 65-66)
Siano f1 e f2 le distanze di due fuochi di una lente dalla lente stessa. Allora
Questa equazione è un diagramma della forma della relazione tra le due distanze focali e la
distanza focale principale. Le convenzioni dell’algebra […] congiuntamente con la scrittura
dell’equazione stabiliscono una relazione fra le sole lettere f1, f2, f0 prescindendo dalla loro virtù di
significare. Ma la forma di questa relazione si identifica con la forma della relazione che sussiste
fra le tre distanze focali che queste lettere denotano. E questa è una verità assolutamente fuori
discussione. Così, questo diagramma algebrico presenta alla nostra osservazione lo stesso identico
oggetto della ricerca matematica: cioè la Forma della media armonica che l’equazione aiuta a
studiare. […] Nei diagrammi l’oggetto dell’investigazione è la forma di una relazione e questa
forma è esattamente la stessa che sussiste tra le […] parti corrispondenti del diagramma. (CP
4.530)
Ma è davvero così?
Occorrerà allora anticipare fin da subito che il procedimento pare invece
essere esattamente lo stesso, e che quindi anche nella semantizzazione di
un’espressione non si ricorra mai a tipi generali o a un portare sotto regole,
bensì non si facciano altro che delle interpretazioni di tipo diagrammatico in
senso peirciano, interpretazioni che sono regolate dall’intertestualità
enciclopedica e che hanno dunque una specificità costitutivamente
semiotica. Peircianamente, l’analogia con il diagramma va cioè bene sia per
gli schemi a priori che per gli schemi empirici, oltre che per i casi dove lo
schema deve essere costruito ex-novo.
Tutta l’argomentazione attraverso cui Eco motiva il suo rifiuto di questa
idea peirciana è infatti incentrata sulla problematica della visione, e cioè
sull’idea che, dato un diagramma (ad esempio un Flow Chart o l’equazione
algebrica peirciana), chi non abbia mai visto qualcosa non sia in grado di
costruirsene l’immagine mentale, non sia cioè in grado di vedere qualcosa
che assomigli a un cane, a un uomo o a un ornitorinco. In questo modo, per
Eco, per i concetti empirici lo schema sarebbe piuttosto qualcosa di
somigliante a un modello 3D, quale quello proposto da David Marr, vedendo
il quale invece io potrei derivare un’immagine mentale.
Ora, l’impressione è che l’argomentazione di Eco rimanga inviluppata in
una delle più antiche metafore del pensiero occidentale, e cioè quella della
visione (cfr. Eco, 1997, p. 81). Dire che non possiamo vedere il cane
guardandone il diagramma “è come dire che non possiamo vedere una
proposizione guardando un codice Maya: semplicemente non sappiamo che
cosa cercare” (Rorty, 1979, p. 26), non essendo ancora in grado di
inquadrare ciò che vediamo in un sistema semiotico interpretante. Qualora si
mostri un codice Maya a qualcuno che non conosce la lingua Maya, questo
qualcuno vedrà degli scarabocchi, e cioè produrrà un determinato
interpretante in funzione delle sue competenze enciclopediche; ma se poi il
nostro “qualcuno” finirà per imparare il Maya, allora vedrà un codice Maya,
avendo acquisito la capacità di ritagliare l’enciclopedia in modo adeguato
definendone il piano. È una questione di competenza e di interpretazione,
come vedremo.
Perché se io vedo una cosa simile al diagramma della proposizione di
Peirce non vedo un cane, o non vedo la Gioconda? Perché se io vedessi un
codice di pixelizzazione attraverso cui un computer è in grado di riprodurre
sullo schermo l’immagine della Gioconda non vedrei la Gioconda? E se mi
drogo, ad esempio, cosa vedo?
In un articolo ormai famosissimo, Bresloff, Cowan, Golubitsky, Thomas e
Wiener (2001) hanno spiegato il funzionamento di alcune allucinazioni
visive molto famose utilizzando semplicemente l’architettura funzionale
della corteccia striata. I nostri autori vogliono cioè spiegare il funzionamento
di certe immagini mentali percepite in maniera particolarmente vivida e
condivisa in seguito all’esposizione a luce violenta intermittente o a una
forte pressione sui globi oculari, immagini registrate in soggetti che hanno
assunto sostanze come la mescalina, l’LSD, la cannabis o la ketamina.
Questi soggetti vedono tutti alcune forme tipiche: strutture a imbuto, spirali,
alveari d’api, tele di ragno; forme in gran parte classificate già nel 1928 dal
neuropsicologo Heinrich Klüver e immortalate in alcune copertine
famosissime dei dischi di gruppi appartenenti al periodo psichedelico quali
Grateful Dead, Quicksilver Messenger Service o nel bootleg live dei Pink
Floyd Around The Mystic.
Che cosa succede allora in questa situazione ancor più radicale della
percezione di un ornitorinco?
Se si generalizzano le classiche equazioni di Hopfield delle reti neurali
all’interno di uno spazio fibrato π che parametrizza l’attività neuronale e le
connessioni sinaptiche dell’area corticale V1, otteniamo rispettivamente i)
per uno spazio e un tempo discreto, ii) per un tempo continuo e uno spazio
discreto, iii) per un tempo e uno spazio continuo, le seguenti equazioni
differenziali ordinarie e alle derivate parziali:
Figura 11. Equazioni differenziali ordinarie e alle derivate parziali (da Bresloff, Cowan,
Golubitsky, Thomas e Wiener, 2001).
Queste critiche di Eco non solo sono ben poste, ma sono assolutamente
decisive: la metafora è per essenza un fenomeno semantico che tiene insieme
e colocalizza al suo interno fenomeni di fusione e di opposizione semica.
Alcuni semi si sovrappongono, ma si sovrappongono perché altri si
oppongono: la metafora è questa sovrapposizione oppositiva che colocalizza
fenomeni di fusione insieme a fenomeni di opposizione semica (cfr. Eco,
1984, pp. 178, 154). Entrambe le dimensioni di sovrapposizione (fusione) e
opposizione sono costitutive del nodo metaforico, e una teoria adeguata non
può esimersi dal renderne conto.
Al fine di renderne conto, Eco propone allora una teoria che manifesta
un’impostazione freudiana di tipo topologico. Non solo il nodo metaforico è
infatti esplicitamente pensato e definito come un fenomeno di condensazione
(paragrafo 8), ma le stesse sineddoche e metonimia, in quanto sostituzioni
del semema con il sema (“Bere una bottiglia” per “bere del vino”) o del
sema con il semema (“Piangi o Gerusalemme” per “pianga il popolo
d’Israele”), vengono pensate come fenomeni di spostamento. E “come sullo
spostamento si opera la condensazione, così su questi scambi metonimici si
opera la metafora” (Eco, 1984, p. 179; cfr. anche 183).
E tuttavia questa mossa apre due ordini di problemi. Da una parte,
sebbene Eco noti in più punti che la maggior parte dei rapporti metaforici
“non sia affatto riconducibile a un albero di Porfirio a meno di non compiere
equilibrismi insiemistici” (Eco, 1984, p. 156), è però proprio su degli
equilibrismi di questo tipo che viene poi edificata la modellizzazione
effettiva della teoria. Dall’altra, ed è una riduzione assolutamente speculare,
se la metafora corrisponde a un fenomeno di condensazione, e sineddoche e
metonimia corrispondono a fenomeni di spostamento; sembra però esserci
una differenza di natura tra questi due ordini di fenomeni, differenza che
viene invece negata nel momento in cui si riduce la condensazione a
qualcosa che si opera su scambi di spostamento (Eco, 1984, p. 179) e la
metafora all’“effetto di una doppia metonimia verificata da una doppia
sineddoche” (Eco, 1984, p. 191).
Il metodo echiano di analisi della metafora è famosissimo e non occorre
indugiare più di tanto: data una doppia analisi semica dei sememi
metaforizzante e metaforizzato (doppia metonimia), si costruisce un albero
di Porfirio ad hoc in cui i semi comuni si incontrano in un nodo
relativamente alto e quelli in contrasto si oppongono su un nodo più basso, e
si verifica così la possibilità di sostituire un semema con un altro attraverso
una doppia sineddoche che interessa sia il veicolo che il tenore (cfr. Eco,
1984, pp. 190-192). Ecco qui ad esempio la rappresentazione semica della
metafora borgesiana della panca come “albero da sedere” fornita in
Semiotica e filosofia del linguaggio.
Figura 14. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio: p. 185
Se non che, con una rappresentazione di questo tipo, quello che sembra
perdersi è esattamente il fenomeno di condensazione, che avevamo visto
definire l’essenza stessa della metafora. Che cos’è infatti la condensazione?
In che cosa consiste questo meccanismo di origine freudiana che rappresenta
il vero e proprio “nodo metaforico”?
La condensazione è un fenomeno analogo a quelli delle transizioni di fase,
tanto che in Freud essa definisce proprio un punto di fusione. In fisica infatti,
la condensazione è il passaggio di una sostanza dallo stato gassoso a quello
liquido per compressione o raffreddamento, l’inverso cioè dell’ebollizione.
Ad esempio, nel passaggio da una temperatura superiore a 100 gradi a una
inferiore, nel punto di frontiera di 100 gradi si ha il fenomeno di
condensazione, in cui stato liquido e stato gassoso si fondono l’uno con
l’altro nel passaggio da un momento al momento successivo, tanto che in
psicanalisi la condensazione è proprio il processo inconscio di fusione di più
elementi ideativi mediante il quale un solo contenuto manifesto contiene in
sé diversi pensieri latenti che pulsano al suo interno. Si immagini allora il
processo di un elemento x che si annulla o che diviene altro da sé:
chiamiamo dx l’istante in cui x si annulla o cambia identità, non essendo più
x ma non essendo ancora y o 0: dx è allora il momento della condensazione
metaforica. La condensazione popola dunque essenzialmente questa regione
di confine tra x e y, non essendo “più” e non essendo “ancora”, ma essendo
essenzialmente “tra”.
Momento di instabilità in cui si passa da uno stato gassoso a uno stato
liquido, momento di ambivalenza in cui non si sa bene in quale stato ci si
trovi, momento di ambiguità in cui due elementi vedono sospesa la loro
identità e divengono altro da sé senza con questo smettere di restare ciò che
sono: ecco il momento della condensazione. Ed Eco lo descrive in maniera
perfetta proprio in Semiotica e filosofia del linguaggio:
Ma rimane qualcosa di ambiguo: fanciulla e fiore, palpito vegetale che diventa palpito carnale,
rugiada che si fa occhio umido, petalo e bocca. La rosa vive un mattino perché si chiude a sera ma
il giorno dopo rinasce. La fanciulla muore e non rinasce […]. Si deve rivedere ciò che si sa circa la
morte degli umani? Si rinasce? O si deve rivedere ciò che si sa circa la morte dei fiori? La rosa che
rinasce domani è la stessa di quella di ieri o quella di ieri rimane quella che non fu colta? L’effetto
di condensazione sbava, […] non si sa più chi acquisti cosa e chi invece perda qualcos’altro. […]
Come la metafora comincia ad essere compresa, lo scudo ad esempio diventa una coppa ma questa
coppa, pur rimanendo rotonda e concava (seppure in modo diverso dallo scudo) perde la proprietà
di essere colma di vino. Oppure, al contrario, si forma una immagine in cui Ares possiede uno
scudo che si arricchisce della proprietà di essere pieno di vino. In altri termini, due immagini si
sovrappongono, due cose divengono diverse da se stesse, eppure riconoscibili, ne nasce un
ircocervo visivo (oltre che concettuale). (Eco, 1984, pp. 190, 154, 157)
Simone Weil
Vorrei cominciare questo ultimo capitolo con una storia, che si ripete
sempre uguale decine di volte al giorno da quando esistono i telefonini. Una
ragazza e un ragazzo si incontrano in una discoteca, in un pub o in qualsiasi
altro luogo, parlano un po’, condividendo qualcosa delle loro vite: quando è
il momento di andarsene, il ragazzo, interessato alla ragazza, le chiede il
numero di telefono. La ragazza, forse non così interessata, glielo dà
comunque, forse per gentilezza, forse per incertezza. L’indomani, il ragazzo
le manda un sms il cui contenuto è meno importante della sua volontà di
“stabilire un contatto”: la ragazza, semplicemente, non risponde. Attraverso
il suo non fare assolutamente nulla, lei marca il suo rifiuto, marca il suo
“no”, e la sua mancata risposta fa sì che il ragazzo che ha inviato l’sms
pensi intensamente a lei, presentificando la sua assenza, e cioè marcando il
fatto che lei (per lui) non c’è.
Apriamo allora questo ultimo capitolo sull’enunciazione con questo
racconto perché la nostra tesi, che si tratterà di dimostrare, è molto chiara:
l’enunciazione è una specie del genere “interpretazione”, e più in
particolare quel tipo di interpretazione che ha a che vedere con la
presentificazione di un’assenza. Questa nostra distinzione, come sempre in
questo libro e conformemente ai principi della semiotica interpretativa, non
intende affatto proporre un’opposizione tra semiotica strutturale e
generativa (in cui si è elaborata una teoria dell’enunciazione) e semiotica
interpretativa (in cui si è elaborata una teoria dell’interpretazione), col fine
di porre poi l’una in funzione dell’altra. Al contrario, il nostro obiettivo è
esattamente quello di oltrepassare questa opposizione costruendo una teoria
dell’enunciazione unificata, che sappia tenere insieme in un’unica
elaborazione i differenti territori che il termineombrello “enunciazione” si è
di volta in volta ritrovato a coprire, e cioè: i) il rapporto tra l’enunciato e la
sua istanza presupposta che vi lascia tracce o marche, in quella che si è
potuta chiamare la teoria semiotica “dell’apparato formale
dell’enunciazione”; ii) l’atto di mediazione che opera una conversione della
lingua in discorso (Benveniste), del semionarrativo in discorsivo (Greimas);
del codice/enciclopedia in funzione segnica (Eco); iii) la coniugazione di
questa stessa conversione con l’esercizio in atto della lingua (o, più in
generale, del “sistema semiotico”), che la reimmette all’interno della vita
sociale, della cultura e della storia con i loro repertori sedimentati dall’uso
(prassi enunciativa).
Anche in questo caso, la mossa è conforme alla mossa epistemologica
proposta nel capitolo 1: i) dividere i misti mal formati che tengono insieme
cose molto eterogenee sotto concetti-ombrello qual è quello di
“enunciazione”, al fine di “fare la differenza” (analisi); ii) tenere insieme gli
elementi individuati attraverso i tagli al punto i) in una teoria unificata, che
sappia rendere conto in modo non sincretico dei problemi semiotici che
sono costitutivi delle nozioni individuate.
Al fine di fare questo, una sintesi tra le prospettive di Peirce e dello
strutturalismo ci pare ancora una volta indispensabile, come messo in
evidenza da Bruno Latour (1999, pp. 64-65), che definiva l’enunciazione
come “l’insieme degli atti di mediazione” che definiscono “la presenza
degli assenti”. Per Latour cioè, l’enunciazione consiste nell’atto di invio di
un nunzio, di un messaggero – l’enunciato – a cui si delega la parola, e che
parla quindi al posto dell’istanza dell’enunciazione che lo ha inviato (ex-
nuncius). Per questo, per Latour (1999, p. 65) l’enunciazione finisce per
definire esattamente “l’insieme degli elementi assenti, la cui presenza è
nondimeno presupposta dal discorso […] al fine di dare senso
all’enunciato”, e cioè al discorso del nunzio inviato.
La formulazione di Latour, a cui ci ispireremo inizialmente, pone quindi
al centro della teoria dell’enunciazione da un lato le nozioni propriamente
interpretative di mediazione e di delega,1 e dall’altro il rapporto tra presenza
e assenza. Essa si pone come obiettivo quello di “abbandonare le soluzioni
tradizionali di Benveniste e Greimas”, senza con questo “tradire il progetto
di Greimas”. In questo modo, la teoria latouriana si pone senz’altro al di là
dell’opposizione standard tra semiotica generativa e semiotica
interpretativa, ma non si pone di certo al di là dell’opposizione più
fondamentale tra “semiotica standard” e “semiotica non-standard”, dal
momento che non è certamente nei termini di Latour che si è pensato
all’enunciazione nella teoria semiotica “maggiore”.
Tuttavia, dal momento che l’obiettivo di Latour (1999, p. 65) è quello di
“abbandonare la semiotica” a favore di una “piccola filosofia
dell’enunciazione”, occorrerà senz’altro affiancare alla sua strada “minore”
la nostra, che vogliamo invece costitutivamente semiotica.
Insomma, con la forma più profonda dell’io, Benveniste intende dire che
ci sono usi nei quali io faccio qualcosa dicendo io, ad esempio “promettere”
e “giurare”. Da qui il famoso libro di Austin Come fare cose con le parole,
che Benveniste stesso commenta analiticamente13 e in cui, riproponendo
esattamente gli stessi esempi di Benveniste (“io prometto” ecc.), Austin
(1975) parla di speech-act,14 intendendo con questo un atto che non rinvia a
nulla di esterno che all’atto di linguaggio in cui una cosa è fatto mentre
viene detta.
Com’è evidente, si tratta dello stesso aspetto sottolineato dalla
suireferenzialità benvenistiana, in cui si insisteva sul fatto che l’io, il qui e
l’ora si definissero solo in rapporto alla situazione di discorso in cui sono
prodotti, e a nulla di esterno a essa, come ad esempio fanno invece nomi
come “albero” (cfr. Benveniste, 1966, pp. 314-316).
Una ulteriore dicotomia che serve a distinguere i pronomi personali dalla stragrande maggioranza
degli altri segni (tutti, a eccezione di quelli aventi funzione deittica) è l’opposizione
interno/esterno. I pronomi innescano un sistema di riferimenti interni al linguaggio; al contrario,
nel caso dei termini nominali, il riferimento che viene innescato è esterno e, quel che conta di più,
costante: la parola “albero” rimanda a qualcosa di esterno e tale riferimento è appunto lo stesso
nelle diverse situazioni di discorso. (Manetti, 1998, p. 12-13)
5.3. Verso una teoria “minore”: che cosa succede quando si fonda
l’enunciazione sugli embrayeurs (io-qui-ora)? Ribaltamenti
Benveniste (1966) nota come “io” non abbia un designato costante che
sia esterno alla situazione di discorso, neppure in un mondo possibile (come
ad esempio “unicorno”) o in un’idea platonica (come ad esempio
“giustizia”). Si dirà forse che il designato di “io” sono io, ma che cos’è
allora “io”? Io sono io, tu, lei, lei, lui ecc.: “io” dipende dalle condizioni
iniziali di enunciazione, “io” designa semplicemente chi dice “io”. Proprio
per questo Benveniste può dire che l’io è sui-referenziale: si riferisce cioè a
se stesso, e non a uno stato di cose o a una persona che designerebbe
esternamente alla situazione di discorso. Non è infatti un caso che per
Benveniste sia la persona a nascere con l’io linguistico, così che l’io
linguistico non può certamente essere spiegato facendo riferimento alla
persona. In breve, là dove il designato di un segno linguistico possiede
un’esistenza indipendente dal segno linguistico, “io” invece non ce l’ha.
Succede forse qualcosa di diverso con “qui”? Come diceva Campanile in
Giovanotti, non esageriamo! citato da Eco (1998, p. 67):
“La stessa frase, detta in Inghilterra significa una cosa, detta in America ne significa un’altra.”
“Tu cerchi di trarmi in inganno.”
“Te lo giuro. La frase ‘Io sto qui’ detta in Inghilterra significa ‘Io sto in Inghilterra;’ detta in
America significa ‘io sto in America’.”
“È stranissimo.”
(1) Pensai che sarei morto ogni giorno durante quel viaggio. Il viaggio finì.
Io non morii e tornai a casa. Quando tornai a casa un fotografo del
National Geographic mi telefonò e disse:
(2) “Ho visto una delle foto che lei ha pubblicato. È un materiale
fantastico.”
(3) Io dissi: “Sono Neville Coleman,” e lui disse: “Ah sì.”
Io pensai: “Dunque le mie foto sono così buone! Forse posso fare ciò che
voglio fare attraverso le foto”.
Ecco allora qual è l’“egli” più profondo di qualsiasi “egli” che non rinvia
più ad alcuna persona detta terza, di cui ci parlava Blanchot: è la rete di
relazioni enciclopedica di cui il soggetto non è altro che una parte, “bava e
detriti della semiosi”, come dice Eco. È solamente in funzione di questa rete
di relazioni che è possibile determinare lo statuto delle categorie della
“persona”. Proprio per questo, lasciando da parte ancora per un momento la
questione del soggetto per concentrarsi esclusivamente sull’apparato
formale dell’enunciazione, non ci stupivamo affatto che il funzionamento di
frasi come “io giuro”, che per Benveniste definivano l’essenza stessa dell’io
linguistico, dipendesse invece totalmente dalla sezione enciclopedica che
veniva ritagliata localmente. L’“io” e il suo funzionamento sono sempre
funzione di un “egli” impersonale enciclopedico che lo rende possibile e ne
determina l’identità. È solo in funzione di una determinata sezione
enciclopedica che enunciando “io giuro” io faccio qualcosa con le parole. In
funzione di altre sezioni, non faccio invece assolutamente nulla.
In questo modo, ci pare fecondo pensare che l’enunciazione non si
organizzi attorno a un centro di tipo personale (io-tu), ma si appiattisca
invece in direzione di un bordo esterno alla “persona”, di cui la “persona”
non rappresenta altro che la bava e i detriti. L’enciclopedia è questo “terzo”,
questo “egli” che non appartiene più a nessuna persona, ma che è dato a
ciascuno come qualcosa di esclusivamente suo (cfr. supra, 4.9). In questo
modo, la tendenza benvenistiana a centrare l’enunciazione sugli embrayeurs
si trova completamente ribaltata:
L’enunciazione strutturale è proferita a partire da un luogo senza accredito, da un luogo qui-
altrove. […] Questo luogo mobile dell’enunciazione strutturale è il luogo stesso della mia
situazione all’interno di qualsiasi reticolo comunicante, dove, attraverso il flusso che ricevo ed
emetto, io sono indefinitamente qui e altrove; non sono un punto fissato qui e ora, abito una
molteplicità di spazi, vivo una molteplicità di tempi, sempre altri e sempre gli stessi. […] Questo
vuol dire che il luogo di chi pensa, sia che rifletta la teoria o cerchi di vedere il mondo, non è qui
e ora […] ma è, al contempo, mobile come Ulisse e immobile come i mille fili di Arianna.
(Serres, 1972, p. 150)
E del resto sarebbe dovuto essere evidente fin da subito, almeno nel
momento in cui all’interno della tradizione semiotica lo statuto dell’istanza
dell’enunciazione transitava dalla linguistica del discorso di Benveniste alla
sua riformulazione semiotica di “istanza presupposta dall’enunciato”: un
enunciato, infatti, di qualsiasi natura esso sia, sedimenta al suo interno sia
grandezze provenienti dal sistema sia grandezze provenienti dall’uso. Per
questo l’enunciazione, in quanto sua istanza presupposta, deve al contempo
poter convertire il sistema in discorso e coniugare questa stessa conversione
con l’esercizio in atto del sistema, e cioè con l’insieme dei generi e dei tipi
del discorso, i repertori e le enciclopedie delle forme proprie di una cultura,
in cui pulsa la storia della prassi e dell’uso. In questo modo, ed è questa la
nostra proposta, là dove l’enunciazione è un’istanza semiotica logicamente
presupposta dall’esistenza dell’enunciato, in cui lascia marche o tracce, la
prassi enunciativa è un’istanza semiotica logicamente presupposta
dall’enciclopedia, in cui lascia “bava e detriti” (cfr. Eco, 1984). Proprio per
questo Eco può dire che la teoria dei modi di produzione mette in atto il
codice, e cioè l’enciclopedia e le sue logiche semiosferiche della cultura:
enunciazione in atto. Proprio per questo ci è sempre sembrato di poter dire
che quello che in semiotica va sotto il nome di prassi enunciativa e viene
pensato piuttosto impropriamente sotto il termine-ombrello di
“enunciazione”, non è altro che una teoria dei modi di produzione semiotici
(cfr. Valle, 2007).
Ritorneremo allora su questo punto, al fine di determinare il rapporto che
lega soggetto e reticoli enciclopedici (cfr. infra, 5.6), e proveremo a mettere
a frutto questo accenno fontanilliano a un concatenamento enunciativo in
cui sfuma ogni enunciazione singolare. Questo ci consentirà di rispondere
con una posizione chiara a quello che Violi (2007, p. 197) ha chiamato il
“residuo inespresso” di ogni teoria semiotica dell’enunciazione e della
soggettività, e cioè “la specificità dell’esperienza singolare” e “le forme
della soggettività individuale”, che “possono essere colte sempre e soltanto
attraverso […] la rete di relazioni differenziali che istituisce gli individui in
quanto singolarità”. Mostreremo allora come una teoria dell’enunciazione
unificata, come quella che stiamo proponendo qui, sia in grado di
rispondere in maniera chiara anche su questo punto, definendo una prassi
enunciativa non-personale (non-benvenistiana) fondata sul SI (cfr. infra,
5.6-5.7).
Ma occorrerà procedere con ordine e occuparci innanzi tutto
dell’apparato formale dell’enunciazione, che subisce tutta una serie di
importanti mutamenti nel momento in cui si passa dalla linguistica del
discorso di Benveniste alla teoria semiotica di Greimas, in cui
l’enunciazione diventa l’istanza presupposta dell’enunciato in cui lascia
tracce o marche. In questa prospettiva, l’enunciazione non è allora affatto
l’atto che produce il discorso, bensì la proprietà del discorso di manifestare
l’atto che lo produce.16 Partiamo da qui. Pronti per affrontare un lungo
viaggio.
Ecco ancora una volta il manifestarsi di una terza persona, “il”, che è
coreferenziale al soggetto della proposizione e ne prende in carico il
giudizio, in un concatenamento enunciativo in cui un punto di vista ne
modula un altro. Come nella soggettiva libera indiretta pasoliniana, un
personaggio vede il mondo con i suoi occhi e lo presenta sotto un certo
rispetto, ma qualcos’altro lo vede vedere e modula il suo punto di vista
attraverso il proprio, in cui il primo punto di vista si trasforma e si riflette.
Così come si distacca dal discorso indiretto, il discorso indiretto libero si
distacca però al contempo anche da quello diretto, differendone in modo
sostanziale in diversi punti, ad esempio nell’uso dei deittici temporali e nel
rapporto tra il “Sé” della frase citata e il soggetto parentetico.
[Nel discorso indiretto libero] i deittici non sono contemporanei con il tempo presente e il tempo
futuro, né essi si riferiscono al tempo proprio dell’atto di discorso del parlante – come succede col
discorso diretto – essi paiono invece connessi con un passato, che è il passato della coscienza
(“Domani era Lunedì”). Nelle parole di Banfield, “si tratta del momento dell’atto di coscienza,
del momento in cui il Sé sta pensando, del momento del cogito”. (Violi, 1986, p. 366)
Per quanto ci riguarda, concordiamo perfettamente con Eco sul fatto che
gnoseologicamente la differenza ontologica sia un raddoppiamento inutile
non dell’ente, ma dell’interpretante. Allo stesso modo, ci rendiamo però
conto di come, con il rapporto tra essere ed ente, Heidegger ci insegni a
staccare l’alterità dal giogo della soggettività, che ne è invece costituita. Per
questo una semiotica interpretativa di ispirazione peirciana, se deve
mantenere un rapporto con la fenomenologia, deve farlo esclusivamente in
funzione della svolta heideggeriana, e non certo con chi quella svolta non
l’ha mai recepita, come ad esempio Merleau-Ponty.
5.10. Conclusioni
Si è sempre amato questo passo, che ben lungi dal definire “un’esistenza
inautentica”, definisce quel livello dove le cose più alte sono ottenute, quel
livello separato da un abisso rispetto al punto in cui la scienza, l’arte, la
letteratura e la filosofia sono semplici manifestazioni della personalità,
semplici manifestazioni della categoria della “persona”. Queste cose non
sono né personali né impersonali, ma sempre costitutivamente trans-
personali. Come diceva Simone Weil, esse “sono essenzialmente anonime”.
Per questo la bibliografia ci definisce nella nostra stessa identità.
1
L’interpretante per Peirce è proprio una “rappresentazione mediatrice” a cui “si delega la parola”,
come ad esempio il traduttore per l’autore (cfr. CP, 1).
2
Cfr. Manetti, 1998, p. 40.
3
Non è infatti un caso che i più “benvenistiani” tra i semiotici, e cioè Coquet (1997) e Fontanille
(1998 e 2004), abbiano poi radicalizzato questa situazione “in presenza” che presiede alla
definizione della persona linguistica, incarnandola in una corporeità semiotica che è veramente
“io-qui-ora” (“Me-Carne” in Fontanille, 2004). In questo modo, si è voluta fondare una teoria
semiotica dell’enunciazione fondata sulla presenza del corpo, il cui essere “io-qui-ora” definisce
esattamente un “campo di presenza” sensibile e “in atto”, radicalizzando così la posizione
benvenistiana. Per quanto ci riguarda, crediamo che la teoria dell’enunciazione debba prendere
un’altra direzione e non possa non prenderla, se solo si traggono le concepibili conseguenze
pratiche dei suoi presupposti.
4
Nei termini benvenistiani, che non riprendiamo qui per evitare confusioni con l’uso che degli
stessi termini si fa attualmente in semiotica, gli embrayeurs hanno cioè innanzi tutto (anche se non
in modo esclusivo) uno statuto “semantico”, e non uno statuto “semiotico”. Benveniste definisce
infatti “semiotico” il modo di significare proprio del segno all’interno delle forme linguistiche, e
indipendentemente da una situazione extralinguistica particolare; mentre definisce “semantico”
quel modo di significare che fa riferimento “sia alle situazioni particolari di discorso, sia
all’attitudine del locutore” (Manetti, 1998, p. 17, cfr. pp. 16-18). La teoria dell’enunciazione
“maggiore” è fondata allora sul livello semantico nel senso di Benveniste, noi proveremo invece a
fondarla sul livello semiotico.
5
Manetti, 1998, p. 12, cfr. anche p. 19.
6
Cfr. Manetti, 1998, pp. 19-23.
7
Benveniste, 1966, p. 306.
8
Cfr. Manetti, 1998, p. 30.
9
Manetti (1998, p. 61) nota giustamente come Greimas in qualche modo rompa con una tradizione
esclusivamente linguistica che aveva “in mente sostanzialmente la situazione comunicativa che si
verifica nel rapporto faccia a faccia”. Tuttavia, va senz’altro notata anche la continuità che lega i
due autori, dal momento che Greimas mantiene del tutto inalterata la distinzione benve-nistiana tra
persona (io-tu) e non-persona (egli), che semplicemente traspone a livello simulacrale nella
distinzione tra enunciazione ed enunciato, che, a livello dell’enunciazione enunciata, gli permette
di distinguere i due differenti débrayage, quello enunciazionale (io-tu) e quello enunciativo (egli).
10
Cfr. Violi, 2007.
11
Questo paragrafo è ispirato da una lezione di Gilles Deleuze sul pronome “Je”, mandata in onda
da Fuori Orario su Raitre in orari veramente “minori”.
12
Va ancora una volta sottolineata la radicalità con la quale Benveniste espelle l’“egli” dalla persona
e lo relega alla forma della “non-persona”, secondo un principio dicotomico di tipo esclusivo
(“presenza VS assenza della persona”) e a dispetto della denominazione interna alle forme
linguistiche stesse, dove l’egli è sempre anche la forma della terza persona, oltre che quella della
non-persona (impersonale). È altresì assolutamente come evidente come questa espulsione sia
fondata sulla situazione comunicativa in presenza del “parlare a qualcuno” (allocuzione), in cui
l’egli fa parte di un discorso enunciato da un io dell’enunciazione.
13
Cfr. Benveniste, 1966, pp. 321-331.
14
Cfr. Leonardi, 1991.
15
Devo a Patrizia Violi (comunicazione personale) l’avermi fatto riflettere su questo esempio, e ai
seminari interni dei semiotici dell’Università di Bologna l’avermi stimolato a provare a elaborare
una teoria che ne potesse rendere conto. Ringrazio quindi, oltre Patrizia Violi, Giovanna Cosenza,
Cristina Demaria, Anna Maria Lorusso, Maria Pia Pozzato e Costantino Marmo.
16
Cfr. Fontanille, 1998, pp. 269-70.
17
Non si confonderà questo statuto proprio dell’opposizione privativa con quello proprio di un
termine estensivo, che non mette affatto in gioco la presenza e l’assenza di uno stesso termine,
bensì se mai la sua presenza e l’assenza del termine intensivo opposto, nel momento in cui esso ne
ricopre la zona e si estende sulla totalità della categoria. Proprio per questo ci pareva che
Hjelmslev avesse senz’altro ragione nella sua polemica con Jakobson, e che opposizioni sul tipo
di “uomo-donna” fossero delle opposizioni partecipative tra termini tensivi, e non delle
opposizioni sul tipo di “marcato VS non-marcato”.
18
Cfr. ad esempio Greimas, 1976 e Bertrand, 2000.
19
Cfr. Deleuze, 1967, 1969, Petitot, 1991, Marsciani, 1991: “Il soggetto è sempre ciò che segue la
casella vuota”.
20
Come detto, le teoria greimasiana dell’apparato formale dell’enunciazione viene esattamente dalla
distinzione tra la persona che definisce l’enunciazione (io-tu) e la non-persona che definisce
l’enunciato (egli), tanto che il débrayage è enunciazionale, quando installa nel testo l’io-tu; ed
enunciativo quando installa nel testo l’egli. Non è quindi un caso che la forma di relazione che
definisce il rapporto tra enunciazione ed enunciato in Greimas sia la stessa che definisce il
rapporto tra la persona e la non-persona in Beneveniste (opposizione privativa).
21
L’identificazione tra “enunciazione” e “produzione dell’enunciato” è di Benveniste.
“L’enunciazione è l’atto stesso di produrre un enunciato” (Benveniste, 1974, p. 97).
22
Eco, 2003, p. 20, cfr. Basso, 2000, p. 215.
23
Uno dei principali meriti del bel saggio di Latour (1999) sull’enunciazione ci pare quello di aver
mostrato come il regime enunciazionale individuato da Greimas, e cioè il disinnesco a partire da
un débrayage che proietta fuori di sé le categorie di un non-io, un non-qui e un non-ora a partire
dalle cui marche nell’enunciato è poi possibile risalire alle posizioni dell’enunciazione, non sia
altro che uno dei regimi dell’enunciazione (p. 72). Il passaggio dall’enunciazione all’enunciato è
insomma solamente una delle forme di passaggio sotto cui in generale è possibile definire
l’enunciazione, forma di cui si deve dar conto, ma che va indagata a un livello ben più generale,
che è per noi quello dell’interpretazione.
24
Nel capitolo 1 definivamo infatti l’interpretazione peirciana proprio come la “possibilità di
passaggio”.
25
Per questo ci è sempre sembrato che molti dei problemi che la semiotica poneva sotto il termine-
ombrello “enunciazione”, riguardassero invece una teoria dei modi di produzione (cfr. Eco, 1975,
parte 2).
26
Cfr. Geertz, 1987, p. 41.
27
Cfr. Bachtin, 1929, 206-207.
28
Ovviamente la formulazione peirciana non è un libero indiretto a livello discorsivo della frase (cfr.
Banfield, 1982), ma la sua forma di relazione è la stessa presentata nella teoria generale di
Pasolini di Empirismo eretico, sia a livello linguistico (pp. 81-103) sia a livello cinematografico
(pp. 167-187), ed è a questa teoria generale per cui “ci sono dei libri che sono per intero dei
discorsi liberi indiretti” (p. 82) ciò a cui ci rifacciamo qui.
29
Metafora e discorso libero indiretto sono entrambi due fenomeni di sintesi disgiuntiva, ma lo sono
in modo profondamente diverso: là dove la metafora opera una omogeneizzazione instabile e
parziale del sistema in atto, colocalizzando semi eterogenei e fondendone alcuni, il discorso libero
indiretto concatena sistemi che restano comunque eterogenei. Si più dire che la metafora opera
una lisciatura del rizoma locale in cui opera, mentre il discorso libero indiretto ne effettua una
striatura, partendo da un’instabilità costitutiva propria del momento dell’enunciazione e operando
per stabilizzazione. Al contrario, la metafora parte da sistemi almeno parzialmente stabilizzati e ne
tenta una fusione locale e parziale, colocalizzando semi eterogenei e dando così vita a un effetto di
condensazione che crea una instabilità costitutiva nel sistema. E del resto se l’enunciazione serve
proprio a stabilizzare l’indefinita molteplicità di virtualità espressive di un sistema locale, la
metafora serve invece proprio a rimetterlo in discussione, a rendere instabile anche le parti più
grammaticalizzate e definite.
30
Le analisi di Banfield si situano a un livello micro di costruzione linguistica della soggettività
interna alla frase. Il suo concetto di “stile” non ha pertanto nulla a che vedere con ciò che
normalmente si chiama “stile di un autore”.
31
Che, insistiamo, è molto diverso dal dire che ogni enunciazione è un discorso libero indiretto.
32
Greimas, 1972, p. 144.
33
Bertrand, 2000, p. 60. Nella prospettiva greimasiana, il débrayage rompe quell’inerenza del
soggetto a se stesso espressa ad esempio nell’atteggiamento passionale ed emotivo, tanto che
Greimas (1974) può affermare che il débrayage, come istanziazione di un “egli” e proiezione di
un distacco da una presenza a se stesso, “è forse, insieme al cavallo, una delle grandi conquiste
dell’uomo”. Si veda anche Coquet, 1997, dove la presenza del soggetto a se stesso è radicata nella
presenza sensibile del corpo, così che l’atto di enunciazione di cui il soggetto si fa carico è frutto
di un atto cognitivo di distacco che corrisponde alle operazioni di débrayage.
34
Nella Crisi Husserl presenta la sua filosofia come una forma di disvelamento, che trae la propria
ragione d’essere dal bisogno di ritrovamento dell’istanza soggettiva che è fonte di senso per ogni
oggettività costituita.
35
Heidegger, 1927, p. 98.
36
Heidegger, 1927, p. 113.
37
Heidegger, 1928, p. 623; cfr. anche Heidegger, 1976, pp. 63-64, 72.
38
Heidegger, 1931, Poscritto.
39
Con buona pace della non brillantissima idea heideggeriana che “la scienza non pensa”.
40
Heidegger, 1928, p. 636. “La differenza ontico-ontologica e il suo fondamento nella trascendenza
del Dasein non sarebbero assolutamente originari. La differenza tout court sarebbe più
‘originaria’” (Derrida, 1967a, p. 44).
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