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MIMESIS / ASKESIS / STUDI DI FILOSOFIA ANTICA

N. 11

Collana diretta da Salvatore Lavecchia (Università di Udine)


e Linda M. Napolitano Valditara (Università di Verona)

Comitato scientifico
Michele Abbate (Università di Salerno)
Enrico Berti (Professore Emerito, Università di Padova)
Elisabetta Cattanei (Università di Cagliari)
Fulvia De Luise (Università di Trento)
Maurizio Migliori (Università di Macerata)
Thomas A. Szlezák (Professore Emerito, Università di Tübingen)
IMMAGINI DELLA LUCE
Dimensioni di una metafora
assoluta
a cura di
Salvatore Lavecchia

MIMESIS
La pubblicazione di questo volume è stata finanziata medianti i fondi assegnati
dal Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Udine al PRID 2015 dal
titolo Immagini della luce. Percorsi filosofici e letterari.

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it

Collana: Askesis, n. 11
Isbn: 9788857561370

© 2019 – MIM EDIZIONI SRL


Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE

Premessa
Luce come immaginalità
di Salvatore Lavecchia 7

La luce in Pindaro: una metafora strutturale


di Elena Fabbro 13

Alla ricerca della sfera di luce.


Parmenide, Platone, Plotino
di Salvatore Lavecchia 57

Il ‘lume spurio’ della luna:


su metafore e immagini della luce
nel De rerum natura di Lucrezio
di Marco Fucecchi 73

La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione


nel De luce di Roberto Grossatesta
di Cecilia Panti 97

Fiat Verbum, Fiat Lux


Il Prologo giovanneo come ritrattazione protologica
del battesimo di Gesù e presentazione dell’incarnazione
al Giordano
di Gaetano Lettieri 123

Autori 251
Salvatore Lavecchia
Premessa
LUCE COME IMMAGINALITÀ

Perché parlare di immagini della luce? Come si può, infatti, integrare in


una dinamica immaginale una realtà che nella non-località, ovvero nella
trasparenza e, dunque, nel non poter essere racchiusa in una forma, mani-
festa le sue più proprie peculiarità?
L’orizzonte teorico che mi ha spinto a scegliere il titolo Immagini della
luce è connesso alla filosofia di Plotino, in particolare a come Plotino ca-
ratterizza la vita intelligibile.
Nel caratterizzare la vita del mondo intelligibile quale origine ed arche-
tipo di ogni bellezza, Plotino rinvia alla reciproca ed integrale trasparenza
degli enti intelligibili come qualità di cui quel mondo si sostanzia (Enneade
V 8 (31), 4, 4-11): poiché la luce intelligibile è totalmente trasparente a se
stessa, quegli enti, che di luce intelligibile si essenziano, sono l’uno all’al-
tro totalmente trasparenti. Dunque, nell’essere se stesso, ossia nella piena
coscienza di sé – per l’ente intelligibile mai scissa dal suo essere –, ogni
ente intelligibile istantaneamente, e mantenendo eternamente la propria
specifica individualità, manifesta non solo se stesso, ma, fin nel proprio
intimo, ogni altro ente intelligibile e la totalità del mondo intelligibile, così
che nel mondo intelligibile individuale ed universale formano un’istanta-
nea unità. In altri termini: ogni ente intelligibile nell’essere se stesso istan-
taneamente ed eternamente manifesta ed è per ogni altro ente intelligibile
un’integralmente veridica immagine di sé; dove immagine qui non signifi-
ca velame, filtro o, peggio, oscuramento del proprio essere, ma garanzia di
relazione incondizionatamente trasparente, nella quale tanto l’individualità
dei termini coinvolti quanto la loro piena relazionaltà, nonché l’organica
totalità che tale relazionalità genera, insieme si co-generano e preservano.
Non sorprende, dunque, che Plotino stesso indichi l’iconicità quale carat-
tere essenziante gli intelligibili, paragonandoli ai geroglifici egizi (Enn. V
8, 5, 21-22 e 6). Intrinsecamente epifanica e, perciò, immaginale è la loro
natura, e ciò proprio perché è istantanea ed integrale trasparenza, vale a
dire trasparenza a se stessa di una luce trascendente spazio e tempo. E que-
8 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

sta trasparenza non dobbiamo rappresentarcela quale inerziale, automatica


condizione. Ogni ente intelligibile è, infatti, non solo piena autocoscienza,
ma anche, ed in inscindibile identità con essa, attività eminentemente ge-
nerativa/produttiva (Enn. V 8 (31), 7): l’autocoscienza degli intelligibili
non si manifesta, insomma, nelle medesime modalità della nostra – pur
essendole la nostra affine, ovvero segno, per Plotino, del nostro essere di-
vini –, ma è in sé volontà infinitamente generativa di essere e di relazione,
ovvero immaginalità, mediante la quale ogni intelligibile – potremmo dire
– proprio nell’immediatezza dell’essere cosciente di sé vuole generarsi e
comunicarsi pienamente ad altro, ossia vuol farsi trasparente immagine di
sé. Non stupisce, allora, che Plotino caratterizzi il mondo intelligibile sia
come istantanea ed eterna unità di identico e altro (VI 7 (38), 13) sia come
una realtà tutta volti che irraggia volti viventi (VI 7 (38), 15, 25-26). E
sono, queste, caratterizzazioni che, di nuovo, rinviano ad una intrinseca
e radicalmente trasparente immaginalità, vale a dire alla trasparenza a se
stessa della luce intelligibile, della luce spirituale: di quella luce che, origi-
ne di ogni luce, per Plotino è sostanza tanto della suprema forma di autoco-
scienza – l’autocoscienza degli intelligibili – quanto della generatività che
dona vita ad ogni forma di essere, rendendo, così, ogni forma di essere, in
misura più o meno elevata, appunto, immagine della luce.
Autocoscienza originaria quale generativa trasparenza e, allo stesso
tempo, intrinseca immaginalità di una luce trascendente spazio e tempo
... Forse proprio questo orizzonte plotiniano può farci scoprire il perché la
luce, come efficacemente evidenziato da Hans Blumemberg, sia metafora
assoluta del vero, ossia immagine del vero non sostituibile mediante una
qualsiasi caratterizzazione o discorsivizzazione: forse perché il vero per noi
più vero, in quanto esseri umani – se vogliamo percepire e pensare senza
pregiudizi –, è proprio l’autocoscienza, l’autotrasparenza dell’io, ossia la
realtà che Fichte, non a caso, ha percepito quale immaginalità originaria,
indicandola, di conseguenza, quale archetipo di ogni dinamica immagina-
tiva/immaginale e di ogni immagine.

Anche se i contributi raccolti in questo volume – nati da un incontro


di studio da me organizzato nel 2015 presso l’Università di Udine – non
si concentrano sulla luce quale immagine dell’autocoscienza, o sull’auto-
coscienza quale immagine della luce, ed anche se solo parzialmente sono
integrabili nell’orizzonte teorico evocato con riferimento a Plotino, essi
comunque esplorano prospettive al cui interno la luce può essere caratteriz-
zata quale metafora assoluta del vero, vale a dire di ciò che alla coscienza
appare intrinsecamente legato a qualità come la trasparenza e la generati-
S. Lavecchia - Luce come immaginalità 9

vità. Tutti i suddetti contributi si incontrano, insomma, nell’esplorare una


o più dimensioni di quella metafora, vale a dire una o più sue immagini:
immagini della luce.
La prima tappa dell’esplorazione, presentata da Elena Fabbro, è dedicata
a Pindaro, ossia a quello che può essere percepito come il poeta della luce
all’interno della letteratura greca arcaica e classica. L’ampio e ricco con-
tributo qui proposto offre una disamina esaustiva dei materiali concernenti
le immagini della luce nella poesia pindarica; materiali la cui pervasività,
organicità e poliedricità rinvia ad una vera e propria antropologia fotistica,
nell’orizzonte della quale la vita degli esseri umani, in ogni dimensione,
assume forma armonica e senso solo – come mostrano i versi-manifesto di
Pitica VIII 95-97 – nella relazione con l’epifania della luce divina.
Nel mio contributo proprio un’immagine della luce divina, ossia della
luce intelligibile, viene esplicitata riguardo alla sua dinamica concettuale
ed al suo rapporto con tre figure cardinali nella storia della filosofia – Par-
menide, Platone, Plotino –: la sfera di luce intelligibile, efficace immagine
dell’unità di essere e coscienza, singolarità e pluralità peculiare del mondo
divino, viene valorizzata nel suo rinviare ad un orizzonte di pensiero capa-
ce di trascendere ogni dualismo tra realtà divina e realtà fisica, tra coscien-
za spirituale e coscienza fenomenica.
Sebbene a partire da premesse distanti rispetto a quelle della metafisi-
ca della luce parmenidea e platonico-plotiniana, il trascendimento di ogni
dualismo è aspirazione del grande poeta filosofo cui è dedicato il contributo
di Marco Fucecchi: in Lucrezio le immagini della luce sono uno strumento
efficace per rinviare a questo trascendimento, nel quale, come mostra la
feconda analisi dedicata all’immagine della luce lunare, è coinvolto anche
il rapporto tra poesia e filosofia, non intese come modalità di comunicazio-
ne fra loro contraddittorie, ma come due tappe, rispondenti a due livelli di
percezione, nell’ascesa verso la sublime luce della verità.
La dinamica secondo cui la sublime luce della verità – la luce di Dio,
creatore di tutte le cose – si manifesta fino a divenire luce fisica stimola
le ardite riflessioni di Roberto Grossatesta concernenti la moltiplicazione
infinita della luce. La complessa modalità di quelle riflessioni viene pro-
duttivamente esplicitata nel contributo di Cecilia Panti, capace di mostrare
come l’opera di Grossatesta, in modo paradigmatico, costituisca un ponte
che connette la metafisica della luce del mondo antico e medievale con la
moderna filosofia/scienza della natura.
L’itinerario percorso in questo volume si chiude con una vera e propria
monografia sul Prologo giovanneo, presentata da Gaetano Lettieri. Nato
da alcuni spunti estemporanei emersi durante l’incontro di studio udinese
10 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

del 2015, il contributo qui proposto ha pian piano assunto il carattere di


un’affascinante, organica e originale reinterpretazione di quella che, alme-
no in un orizzonte europeo, è forse la più celebre testimonianza di una teo-
logia della luce: il Prologo giovanneo, qui riletto come reinterpretazione
antropologica del Fiat lux della Genesi, supera il trauma della crocifissione
retroproiettando l’incarnazione del Cristo al Giordano nel Principio, disve-
lando così la natura relazionale, incondizionatamente donativa, amorosa-
mente estatica di Dio; dunque il principio ontologico-creativo ed il princi-
pio escatologico-apocalittico si riflettono l’uno nell’altro, manifestando il
Logos di Luce che, quale eterna apocalisse del Padre, “da sempre viene dal
Padre e da sempre torna nel suo seno, per scrutarne e rivelarne il mistero”
mediante la propria abissale discesa. Si tratta, dunque, di un approccio er-
meneutico quanto mai complesso, che, per acquisire la dovuta attendibilità,
implica una rilettura integrale dell’orizzonte neotestamentario, nonché un
confronto serrato con la letteratura relativa ai temi trattati. All’irrinunciabi-
lità di questa rilettura e di questo confronto è dovuta l’ampiezza assunta dal
contributo che qui si presenta, ovvero la sua asimmetria rispetto agli altri
contribut (anche riguardo ai criteri redazionali). Un’asimmetria a cui non si
è voluto rinunciare, pena il rifiutarsi di percepire la dimensione più positiva
degli incontri di studio, ossia di ogni incontro inteso come attività di auten-
tica ricerca: la feconda, generativa imponderabilità dei risultati, nel nostro
presente così spesso penalizzata da sempre più assurde richieste di antici-
pazione riguardo agli esiti di un percorso. Un omaggio a questa imponde-
rabilità vuol essere anche la collocazione di questo contributo fuori da ogni
sequenza cronologica rispetto ai momenti trattati negli altri, a chiusura
dell’itinerario intrapreso in questo volume: un omaggio alla fecondità del
voler percepire fin nelle sue dimensioni più intime l’inesauribile densità ed
intensità che anche una sola immagine della luce può volerci comunicare.

Un itinerario come quello tracciato in questo volume non aspira ad una


qualche – in questo campo del tutto utopistica – esaustività, ma solo a for-
nire stimoli il più possibile fecondi ad una ricerca che voglia avventurarsi
in un tema sconfinato quale la storia delle immagini della luce. La biblio-
grafia che segue queste pagine introduttive vuole dare solo una prima, non
più che superficiale impressione di quanto vasti siano gli orizzonti di tale
ricerca. I contributi presentati in questo volume realizzeranno il proprio
scopo se riusciranno a far comprendere che quegli orizzonti riguardano di-
mensioni centrali non solo nella storia delle idee, ma anche in un armonico
autopercepirsi di chi vive la condizione umana.
S. Lavecchia - Luce come immaginalità 11

Bibliografia

S. Aalen, Die Begriffe “Licht” und “Finsternis” im Alten Testament, Spätjudentum


und Rabbinertum, Oslo 1951.
A. Abécassis, La lumière dans la pensée juive, Paris 1988.
M. Ariani, Lux inaccessibilis. Metafore e teologia della luce nel Paradiso di Dante,
Roma 2010.
C. Baeumker, Witelo. Ein Philosoph und Naturforscher des XIII Jahrhunderts,
Münster 1908, 357-514 (con ricca raccolta di materiali).
W. Beierwaltes, Lux Intelligibilis. Untersuchungen zur Lichtmetaphysik der Grie-
chen, München 1957 (con buona panoramica della bibliografia precedente).
W. Beierwaltes, Plotins Metaphysik des Lichtes, in C. Zintzen (hrsg.), Die Philoso-
phie des Neuplatonismus, Darmstadt 1977, 75-117.
W. Beierwaltes-C. von Bormann, Art. Licht, Historisches Wörterbuch der Philoso-
phie, Bd. 5, Basel 1980, 282-289.
H. Blumenberg, Licht als Metapher der Wahrheit. Im Vorfeld der philosophi-
schen Begriffsbildung, Studium Generale 10 (1957), 432-447 (anche in H. Blu-
menberg, Ästhetische und metaphorologische Schriften, Frankfurt a. M. 2001,
139-171).
C. Bohlmann-Th. Fink-Ph. Weiss (hrsg.), Lichtgefüge des 17. Jahrhunderts. Rem-
brandt und Vermeer-Leibniz und Spinoza, München 2008.
D. Bremer, Licht als universales Darstellungsmedium, Archiv für Begriffsge-
schichte 18 (1974), 185-206.
R. Bultmann, Zur Geschichte der Lichtsymbolik im Altertum, Philologus 97 (1948),
1-36.
H. Busche, Monade und Licht. Die geheime Verbindung von Physik und Metaphy-
sik bei Leibniz, in Bohlmann-Fink-Weiss, 125-162.
A. Carrera, La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a Calvi-
no, Milano 2010.
M.M. Davy-A. Abécassis-M. Mokri-J.P. Renneteau, Le thème de la lumière dans le
Judaisme, le Christianisme et l’Islam, Paris 1976.
M.M. Davy-J.P. Renneteau, La lumière dans le Christianisme, Paris 1989.
K. Goldammer, Licht-Symbolik in philosophischer Weltanschauung, Mystik und
Theosophie vom 15. bis zum 17. Jahrhundert, Studium Generale 13 (1960),
670-682.
K. Hedwig, German Idealism in the Context of Light Metaphysics, Idealistic Stu-
dies 2 (1972), 16-38.
K. Hedwig, Sphaera Lucis. Studien zur Intelligibilität des Seienden im Kontext der
mittelalterlichen Lichtspekulation, Münster 1980 (con ricchissima raccolta di
materiali e buona panoramica della bibliografia precedente).
B. Kern: Das altägyptische Licht- und Lebensgottmotiv und sein Fortwirken in
israelitisch/jüdischen und frühchristlichen Traditionen. Eine religionsphäno-
menologische Untersuchung, Berlin 2006.
S. Lavecchia, Das ich und das Gute. Ansätze einer Licht-Philosophie in Anknüp-
fung an Novalis und Platon, Perspektiven der Philosophie 40 (2014), 9-46.
12 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Th. Leinkauf, Licht als unendlicher Selbstbezug und als Prinzip von Differenz. Zur
Wirkungsgeschichte der spekulativen Licht-Metaphorik und zur Bedeutung des
Begriffes Licht in der Philosophie des Deutschen Idealismus, Archiv für Begrif-
fsgeschichte 38 (1995), 150-177.
Th. Leinkauf, Die Implikation des Begriffs Licht in der frühen Neuzeit, in Bohl-
mann-Fink-Weiss, 91-110.
S. Petrosino, Piccola metafisica della luce, Milano 2004.
J. Ratzinger, Licht und Erleuchtung. Erwägungen zu Stellung und Entwicklung
des Themas in der abendländischen Geistesgeschichte, Studium Generale 13
(1960), 368-378.
U. Rösler, Licht und Leuchten im Rigveda. Untersuchungen zum Wortfeld des
Leuchtens und zur Bedeutung des Lichts, Swisttal-Odendorf 1997.
W. Scheuermann-Peilicke, Licht und Liebe. Lichtmetapher und Metaphysik bei
Marsilio Ficino, Hildesheim 2000.
A. Vasiliu, Du Diaphane. Image, milieu, lumière dans la pensée antique et médié-
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J. Walbridge, The Science of Mystic Lights. Qutb al-Dîn Shîrâzî and the Illumina-
tionist Tradition in Islamic Philosophy, Cambridge, Mass. 1992.
Elena Fabbro
LA LUCE:
METAFORA STRUTTURALE IN PINDARO

Hör’ ich das Licht?


R. Wagner, Tristan und Isolde, atto III

Associare valenze simboliche ai termini che indicano la luce è un tratto


antropologico che ha diffusione illimitata sia nel tempo che nello spazio.
La sua origine discende presumibilmente dall’uso lessicalizzato che molte
lingue – tra cui quella che ci riguarda, il greco – fanno di espressioni come
“vedere la luce”, “essere nella luce” come semanticamente sovrapponibi-
li a “vivere”1 (nonché di “venire alla luce” come “nascere”). Per queste
espressioni non si può parlare di linguaggio metaforico, al massimo di una
estensione per sineddoche che delega una sola percezione sensoriale, quel-
la della vista, a rappresentare l’insieme delle funzioni vitali che realizzano
la presenza dell’uomo nel mondo. Ma una volta che in essa si polarizzi
l’enorme forza del narcisismo originario, diventa agevole comprendere la
metafora che assimila alla luce e spiega attraverso la luce qualunque posi-
tività e qualunque valore dell’esistenza2.
Un passo dei Persiani di Eschilo (vv. 299-301) illustra molto effica-
cemente la transizione dal proprium al metaforico. Ricevuta la disastrosa
notizia della sconfitta di Salamina, la regina Atossa chiede, velando nel ri-
tegno l’amore materno (τίς οὐ τέθνηκε […]; v. 296): la risposta è squillante
e non stupisce che ricorra al familiare uso della reduplicazione:

Ξέρξης μὲν αὐτὸς ζῇ τε καὶ ϕάος βλέπει (v. 299)


«Lui, Serse, è vivo e vede la luce».

1 E.g. Hom. Il. V 120, XVIII 61; Hes. Op. 155; Sapph. fr. 56,1V.; Soph. Phil. 662-
664; Eur. Alc. 18.
2 Sulla pervasività dell’imagery solare nel linguaggio vd. Mugler 1960, 57-59 e
Hoey, 133-137.
14 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Ribatte la regina:

ἐμοῖς μὲν εἶπας δώμασιν ϕάος μέγα


καὶ λευκὸν ἦμαρ νυκτὸς ἐκ μελαγχίμου (vv. 300-301)
«Una grande luce è quella che tu hai annunciato alla mia casa,
un giorno candido che sorge dalla notte nera»3.

La sopravvivenza del monarca, dato fattuale, si carica delle connotazio-


ni di gioia, salvezza, speranza nella prospettiva familiare e politica.

Nella poetica di Pindaro, il tema della visione e della luce si intreccia a nu-
merose matrici metaforiche dell’epinicio, contribuendo a costruire e model-
lare altri campi semici tipici della poesia eulogistica, come quelli di gloria,
di ricchezza e di eccellenza e armonia4. Le evocazioni visuali percorrono sia
le unità mitiche e le affermazioni gnomiche sia le sezioni prettamente eulo-
gistiche, e sono intese ad accrescere gli effetti spettacolari del rituale esecu-
tivo dell’epinicio contribuendo, insieme alle immagini acustiche, a produrre
nel pubblico un compatto sistema di immagini e idee mentali. Nell’imagery
della luce l’espressione poetica interferisce infatti con le componenti visuali
dell’hic e del nunc celebrativo, riverberandone spesso deitticamente i dettagli
e acquista efficacia nella sintonia con le altre componenti della performance,
canto, musica, danza, costruendo una pragmatica della visione spettacolare5.
In questo lavoro si tenterà di illustrare, attraverso un vaglio sistematico
dei passi, come le metafore della luce e il linguaggio della visione si arti-
colino assumendo un ruolo unitario nella produzione pindarica: in quanto è
all’origine della visibilità, la luce si prende carico di configurare, garantire,
avvalorare il reale attraverso un sistema di percezioni condivise perfetta-
mente rispondenti nei loro contenuti ai valori della cultura aristocratica
celebrati nell’epinicio6.

3 Per l’opposizione cfr. Pind. fr. 108b Sn.-M. (infra p. 15)


4 Già Gildersleeve, XXXVI osservava che Pindaro «drains dry the Greek vocabu-
lary of words for light and bright, shine and shimmer, glitter and glister, ray and
radiance, flame and flare and flash, gleam and glow, burn and blaze».
5 Sulla cui definizione rimando a Briand 2016, 238- 240.
6 La struttura e l’efficacia della poetica visuale nel linguaggio, nella poesia e nell’e-
stetica pindarica sono discussi in Gundert, 11-29; Mugler 1960; Bremer 1976, 280-
310; Ciani, che offre anche una ricca campionatura di passi; Nünlist 11-29; Adorjáni
2011, 78-80, 172-196. Sull’intersezione tra metafore visive e cultura materiale dopo
Steiner 1986, 52-65; Steiner 1998 e 2001; vd. ora Fearn, 3-13, in part. 9: «this ap-
proach to issues of visuality and literary referentiality directly links lyric ‘eyes’ and
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 15

1. La luce divina

Una doppia immagine visuale segna in Paean. XII, 14-16 (=fr. 52m Sn.-
M.) la nascita di Apollo e Artemide che se è, come per ogni bambino, un
venire alla luce7 (cfr. e.g. Hom. Il. XVI 187-188 e XIX 118), per i due
neonati divini coincide con l’epifania della loro natura divina8:

ἔλαμψαν δ’ ἀελίου δέμας ὅπω̣[ς 9


ἀγλαὸν ἐς ϕάος ἰόντες δίδυμοι
παῖδες

«quando brillarono come il sole


venendo alla splendente luce
i figli gemelli».10

È facoltà del dio suscitare dalla nera notte la luce intatta e con una nube
di tenebra oscura celare il puro splendore del giorno (θεῷ δὲ δυνατὸν
μελαίνας / ἐκ νυκτὸς ἀμίαντον ὄρσαι ϕάος, / κελαινεϕέϊ δὲ σκότει /
καλύψαι σέλας καθαρόν / ἁμέρας fr. 108b 2 Sn.-M.). Ma se, al di là della
densità delle immagini, l’assenza di contesto del frammento contribuisce
a mantenere indeterminato il valore dell’espressione, si può cogliere una

lyric ‘I’s - that is connects the extreme positional complexity of poetic voice with
the constructability of relations with and attitudes to the material world».
7 Cfr. e.g. Hom. Il. XIX 103-104; Nem. 1, 35-36 per la nascita di Eracle e Ificle
(θαητὰν ἐς αἴγλαν […] μόλεν) e Ol. 6, 43-44 ἦλθεν […] ἐς ϕάος αὐτίκα, ove
nell’epifanica nascita dell’eroe Iamo, divino antenato del laudandus, Agesia di
Siracusa, si fondono metafora e materialità realistica dell’atto (vd. Adorjáni 2014,
193-194 a cui si rinvia per un’analisi degli effetti luministici e visivi che si di-
spiegano per l’intero epinicio). Un significativo traslato simbolico di questa defi-
nizione della nascita figura in Isth. 6, 62, dove gli Psalichiadi ovvero Phylakidas,
il laudandus, insieme a Pytheas ed Euthymenes con le loro tre vittorie a Nemea
e due all’Istmo, hanno «tratto alla luce» (ἀνὰ δ᾽ἄγαγον ἐς φάος: «d.h. ins Leben
gerufen» chiosa con esattezza Thummer 1969, 109) la «sorte di inni» (μοῖραν
ὕμνων), prerogativa loro riservata dal destino e dunque voluta dagli dei.
8 «Pindar is mobilizing a fairly conventional trope to animate a religious ideology
that connects Apollo to the sun and light» Maslov, 161.
9 Sulla incerta lettura ὅπω̣[ς, proposta indipendentemente da Maas e Wilamowitz,
pur con diversa interpretazione del passo vd. Bona, 245.
10 Il testo di riferimento per i passi pindarici è quello di Snell-Maehler 19878 e 19854.
La traduzioni sono di Gentili per quanto riguarda le Olimpiche e le Pitiche, di
Privitera per le Istmiche, mie per le Nemee e i frammenti.
16 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

certa consonanza con la celebre chiusa della Pitica VIII11, tradizionalmente


considerata l’ultimo epinicio composto da Pindaro nel 446, che consegna
nella seconda parte riflessioni di grande intensità sulla precarietà e i limiti
imposti all’azione umana dall’impenetrabile volontà divina. Solo grazie a
un bagliore irradiato dalla divinità (αἴγλα διόσδοτος) all’esistenza umana,
stretta in una mutevole precarietà quotidiana (ἐπάμεροι), è accordata la
gioia che rende dolce la vita12. Se l’uomo non è toccato dal raggio divino,
non si fa conoscere nella sua vera essenza e mostra solo l’ombra ovvero il
polo negativo e oscuro (σκιά) della sua vita13:

ἐπάμεροι· τί δέ τις; τί δ᾽οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ


ἄνθρωπος. ἀλλ᾿ ὅταν αἴγλα διόσδοτος ἔλθῃ,
λαμπρὸν ϕέγγος ἔπεστιν ἀνδρῶν καὶ μείλιχος αἰών. (vv. 95-97)

«Creature d’un giorno,


che cosa è mai qualcuno
che cosa è mai nessuno?
Sogno di un’ombra l’uomo.
Ma quando un bagliore discende dal dio,
fulgida luce risplende sugli uomini
e dolce è la vita».

È stato notato come nella costellazione semantica della luce anche le


scelte lessicali operate provvedono a distinguere due diversi tipi di luce
nel mondo divino e umano: αἴγλα è una luce metaforica, continua e diretta,
diversa dall’illuminazione solare e associata all’eternità e allo splendore
divino che penetra e trasfigura l’umbratile vita umana spostandosi da uomo
a uomo quando lo decreta il fato14, mentre ϕέγγος, un termine più emozio-
nale, è luminosità che circonfonde il vincitore15.
Al principio divino della luce che governa con la sua azione la realtà
umana è dedicata la maestosa apostrofe innica a esordio della quinta Istmi-
ca, assai singolare per le sue peculiarità esemplificative (vv. 1-10)16:

11 Vd. Ciani, 23-24


12 Sull’incolmabile distanza tra infinita potenza degli dei e fragilità della vita umana
variamente declinata nel contesto eulogistico cfr. e.g. Nem. 6, 1-7.
13 Sul nesso ridotto ben presto a sentenza vd. ora l’interpretazione di Cantore, 51-54.
14 Segal 1976, 74.
15 Lyde 1935, 34-44.
16 Van Otterlo, 154; Thummer, 1969, 83ss. Per altri esempi di prooimia innodici in
cui è invocata una divinità o un principio divino, le cui prerogative costituiscono
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 17

Μᾶτερ ’Αελίου πολυώνυμε Θεία,


σέο ἕκατι καὶ μεγασθενῆ νόμισαν
χρυσὸν ἄνθρωποι περιώσιον ἄλλων·
καὶ γὰρ ἐριζόμεναι
νᾶες ἐν πόντῳ καὶ <ὑϕ᾿> ἅρμασιν ἵπποι 5
διὰ τεάν, ὤνασσα, τιμὰν ὠκυδινά-
τοις ἐν ἁμίλλαισι θαυμασταὶ πέλονται,
ἔν τ᾽ ἀγωνίοις ἀέθλοισι ποθεινόν
κλέος ἔπραξεν, ὅντιν᾿ ἀθρόοι στέϕανοι
χερσὶ νικάσαντ᾿ ἀνέδησαν ἔθειραν
ἢ ταχυτᾶτι ποδῶν.

«Madre del Sole, Theia dai molti nomi,


grazie a te gli uomini stimano
anche l’oro possente più di ogni altra cosa17:
così anche le navi
che gareggiano in mare e le cavalle coi carri
per l’onore concesso da te, o sovrana, sono mirabili
nel turbine delle manovre,
e nelle gare agonali ottiene
la fama agognata chi le fitte corone
cinsero al capo per avere con le mani egli vinto
o con la prestanza dei piedi».

Theia figura in Esiodo (Theog. 135 e 371-374) come divinità cosmica


originaria, della generazione dei Titani, figlia di Urano e Gaia, che generò
al fratello Iperione tre figli, Helios, Selene ed Eos18. Seguendo una forma di

un ampio sfondo per il peculiare risultato dell’hic e del nunc, vd. Race, 81.
17 Come ha osservato Wilamowitz (201, n. 1 «steht γάρ die Anrufung begründend;
erst beim zweiten Gliede, weil der Dichter dies von vornherein im Sinne hat»; vd.
anche Privitera 1982, 189), il nesso καὶ γάρ dà ragione dell’invocazione a Theia,
senza connettere oro con triremi e carri; Wüst 243: «Grundsätzlich und überall,
bei Pindar καὶ γάρ gibt nicht einen Grund, einen Kausalzusammenhang, sondern
einen Beleg, ein Beispiel für einer allgemeineren Tatbestand».
18 La matrice esiodea è richiamata in Julian. Or. 11 136c (Hymn. Sol. Reg. 11) per
sottolineare come il mondo intelligibile, esteso fino agli astri, partecipi della so-
stanza divina: «E Theia non sta a indicare il più divino degli esseri?».
18 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

pensiero che struttura il modello esiodeo19, Pindaro mostra di privilegiare


nelle metafore genealogiche i termini di parentela femminili20.
Secondo lo schema convenzionale dell’inno cletico, all’epiclesi se-
guono genealogia e aretai della divinità: come divinità cosmica, a The-
ia è riservata la menzione della propria generazione («madre del Sole»)
piuttosto che degli ascendenti21, perché con un nome dal significato così
incerto, “Divina” o “Luminosa”22, coincide – come nel caso di divinità
corrispondenti a fenomeni naturali, forze dinamiche o potenze normati-
ve – una personalità e una natura che si esplica nella sua discendenza23.
Nomi, epiteti e personalità della discendenza forniscono infatti nell’assio-
logia genealogica le modalità rappresentative dell’essenza di una divini-
tà24. L’epiclesi πολυώνυμε («dai molti epiteti», «dai molti titoli di culto»)25,
marca al contempo l’elusività dei suoi tratti e la sua potenza: è prerogativa
infatti delle divinità più importanti la varietà e il numero di designazioni
utilizzate per lodarle e invocarle, perché interferiscono in molti aspetti del-
la vita umana o perché sono venerate in molti luoghi26.

19 La prevalenza dell’elemento femminile nella creazione delle entità divine in


Esiodo è stata segnalata da West 34-35. Per la relazione nel pantheon esiodeo tra
concetti astratti e pensiero religioso vd. Maslov, 128 e in generale 119-120.
20 Vd. in proposito i dati forniti da Maslov, 151: e.g. il termine μάτηρ conosce 11
occorrenze metaforiche vs le 4 di πατήρ. Per la loro collocazione incipitaria vd.
ibid. 310 e Burnett 2005, 93-94.
21 Cfr. Soph. fr. 752 Radt (Helios); Eur. Hec. 70-71 (Chthon); fr. 182a Kn. (Gaia e Aither).
22 Resta elusivo l’etimo di questo «leerer Name» (Wilamowitz, 201). Il principio
genealogico nella determinazione dell’essenza la connetterebbe a θέα intesa come
«Schau, Sehmöglichkeit, Licht», anche se la definizione dei suoi poteri indirizza
piuttosto a intenderla come «die Göttliche» (Bremer 1975, 86-87; Bremer 1976,
256-257), vd. pure Snell 1946, 191; diversamente e.g.Thummer 1968, 66 e 107
«die Göttin des Glanzes». Wilamowitz, 202 la intende come una luce divina che
promana dall’uomo stesso al culmine dell’azione e del successo.
23 Philippson, 7 «Das Genos faßt [...] eine Vielheit von Gliedern im Längsschnitt wie
im Querschnitt eines zeitlichen Ablaufes als Einheit zusammenn. Diese Einheit ist
bedingt durch die zu dem ursprünglichen Begriff des Genos gehörende Tatsache
[...] daß der erste Ahnherr in allen Nachfahren fortlebt».
24 Che la proprietà transizionale delle metafore genealogiche pindariche operi sullo
sfondo di connessioni assiologiche esiodee è sottolineato anche da Dornseiff, 51
«Pindar dichtet für einen Adel und ist aus dem Lande Hesiods, der die genealogi-
schen Anfange der Theologie gibt»; vd. anche Maslov, 135.
25 L’epiteto segnalerebbe «die Vielfalt der Sachbezüge, mit denen sie das Wirkliche an
ihren Geltungsbereich bindet» Bremer 1976, 256. Bowra, 87 e Thummer 1968, 177
richiamano per l’epiteto πολυώνυμε il significato di «famosa», che tuttavia si addice
piuttosto a cose; cfr. Hes. Theog. 785 (acqua); Pyth. 1, 17 e [Hes.] fr. 388 M.-W. (antro).
Per Farnell 1932, 364 il suo potere può celarsi sotto altri nomi di più note divinità.
26 Cassola, 468.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 19

L’invocazione si apre infine su ampi orizzonti nel riconoscimento della


sfera di competenze e attività di Theia, in molte forme e in ambiti di azione
pertinenti ai valori fondamentali del mondo aristocratico. In quanto poten-
za divina di luce, Theia è il principio grazie al quale le nobili azioni trova-
no palesamento e misura della propria qualità: «è la luce che manifesta il
valore delle cose e conferisce ad ognuna il suo pregio»27.
L’efficacia di Theia si espande sull’oro che grazie a lei (σέο ἕκατι) è tenuto
in gran stima come simbolo di quanto è più prezioso e incorruttibile per l’uo-
mo: anche l’oro, «il più onorato tra i beni» (κτεάνων δὲ χρυσὸς αἰδοιέστατος,
Ol. 3, 42), che brilla su ogni esaltante ricchezza (Ol. 1, 1-2), deve essere po-
sto in condizione di risplendere affinché lo si possa apprezzare28. Ma la luce
rivela anche lo sfarzo e il prestigio di attività umane, quali l’utilizzo delle
navi impegnate in esercitazioni 29 o le gare equestri30 e soprattutto la fama
agonale, che non potrebbero rivelare la loro eccellenza senza essere toccati
da Theia. Grazie al suo specifico dominio (διὰ τεάν […] τιμάν)31 risplende
illuminata dallo splendore divino la gloria del vincitore negli agoni32, quel

27 Privitera 1982, 74-75; vd. anche Bremer 1976, 257-258.


28 Attraverso la matrice genealogica anche l’oro è inteso come divino, in quanto
perfetto e incorruttibile, non intaccato da tarlo o ruggine: fr. 222, 1-2 Sn.-M. (Διὸς
παῖς ὁ χρυσός· / κεῖνον οὐ σὴς οὐδὲ κὶς δάπτει). La gloria ottenuta con la vittoria
offre un parallelo concettuale con il possesso più stimato tra i mortali, in quanto
vera immagine del divino (Maslov, 127). Per la valenza del fulgore dell’oro e la
sua associazione metonimica con il sole vd. Gerber 1982, 10 e 18-19; in generale
Duchemin 1955, 193-197.
29 Le ἅμιλλαι di navi e cavalli venivano collocate da Farnell (1932, 364; cfr. anche
Gianotti, 7) nello stesso contesto atletico dei versi seguenti; Thummer 1969, 87
(ma vd. anche Newmann-Newmann, 128-129) pensa invece, più attendibilmen-
te, ad operazioni di guerra per cui viene utilizzato un linguaggio affine a quello
degli agoni; per Burnett (2005, 98) si innescherebbe in questo riferimento una
traiettoria eulogistica culminante nella lode dei marinai egineti che indirizzarono
(ὀρθωθεῖσα) le sorti della recente battaglia di Salamina (vv. 48-50), Una spiega-
zione intermedia è proposta da Privitera (1982, 189), propenso a credere che con
ἐριζόμεναι / νᾶες ἐν πόντῳ (vv. 4-5) si intendano piuttosto manovre militari di
addestramento, adducendo persuasivi esempi erodotei (VII 44 e 196).
30 Oro, navi, cavalli come elementi di eccellenza in un modulo di Priamel risultano
accostati anche in fr. 221, cfr. 234 Sn.-M. Giova ricordare come in Sapph. fr. 16,
1-3 V. il paradigma del κάλλιστον sia affidato secondo la comune opinione a una
schiera di cavalieri, di fanti o di navi.
31 «Die Wirkungssphäre der Theia ist im Begriff der τιμά vorgezeichnet, der mit
der Wirkung und Geltung zugleich den Preis und die Ehre der göttlichen Macht
umfaßt» Bremer 1975, 87.
32 Così nell’incipit della Nemea settima (vv. 1-4) Pindaro invoca Eileithyia come
la dea senza il cui aiuto non vedremmo la luce, le tenebre e la giovinezza, senza
20 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

valore che agli uomini è assegnato dagli dei (κρίνεται δ᾿ἀλκὰ διὰ δαίμονας
ἀνδρῶν v. 11) e che, rivelato, suscita apprezzamento e fama.
In questa struttura a Priamel, Pindaro si sforza di cogliere il divino nel
principio che è responsabile del valore delle cose più preziose, soprattutto
nella realtà in cui si muovono gli atleti, identificandolo nella luce solare.
Qualunque valenza si attribuisca alla figura di Theia, il legame analogico
tra genitrice e prole, caratteristico di entità pertinenti al mondo fisico, assi-
cura attraverso la menzione genealogica una continuità di caratterizzazio-
ne: tutta la luce di questo mondo proviene in ultima analisi da Theia, la luce
che tutto vede e rende visibile il tutto33.

Una sfera di efficacia così vasta e generale – e forse anche l’elusività del
suo nome, che può suggerire l’universalità del divino – ha indotto Fränkel
(19693, 554-557)34 a una lettura enormemente suggestiva: alla ricerca di
un’ἀρχή35, di un principio fondativo unificatore Pindaro approderebbe, se
non a un’innovazione, ad un’evoluzione in campo teologico-speculativo,
sullo sfondo probabilmente di spunti eraclitei36. In Theia si proietterebbe una
prima formulazione di una nozione astratta di divinità, dell’unità organica di
“tutto ciò che ha valore”, la potenza che indirizza le dinamiche di ogni esi-
stenza umana: «so wird Theia […], als die Werthaftigkeit selbst proklamiert,
das heißt als die Potenz welche auf jedem Gebiet den Wert als etwas Gülti-
ges und Verbindliches schafft und einsetzt»37. In questa astrazione religiosa
troverebbe in filigrana anticipazione la dottrina platonica delle idee, e in par-

cui non vivremmo (ἄνευ σέθεν /οὐ ϕάος, οὐ μέλαιναν δρακέντες εὐϕρόναν / τεὰν
ἀδελϕεὰν ἐλάχομεν ἀγλαόγυιον Ἥβαν).
33 Cfr. Aesch. Choe. 985. La luce del sole è invocata come πολύσκοπε in Paean. ΙΧ,
1 (=fr. 52k Sn.-M.), ma cfr. già Hom. Il. III 277, Od. XI 109 e XII 323. Secondo le
teorie greche di ottica, se la luce esterna era indispensabile perché si costituisse il
fenomeno della visione (cfr. Plat. Tim. 45b 6-d2), il paradigma solare si rivelò un
modello ricco di implicazioni in un suggestivo scambio funzionale tra l’occhio e il
sole: come il sole l’occhio splende, come l’occhio il sole vede (Rizzini, 132-133,
ma vd. anche infra pp. 47-49).
34 Vd. anche Fränkel 1927, 63.
35 Così Gündert, 11, riprendendo un’espressione di Schadewaldt 1928, 270, n. 1.
L’abilità pindarica di creare nelle astrazioni religiose immagini-concetto precor-
rendo le idee platoniche è sottolineata anche da Becker, 50.
36 Fränkel 1960, 282, n. 2 e 161. Nestle, 163-165, sottolinea piuttosto i paralleli co-
smologici orfici nella modellizzazione di alcune ipostasi divine pindariche, come
Chronos, Nomos e Theia.
37 Fränkel 19693, 556. Analogamente Bremer 1975, 89: «als “die Göttliche”
schlechthin bzw. “die Göttlichkeit”, “die Gottheit” stellt sie das allgemeine Prinzip
τὸ θεῖον in einer besonderen Person dar». Si tratta di una operazione concettuale
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 21

ticolare l’idea del Bene, discussa nel VI libro della Repubblica: Socrate per
sottrarsi alla richiesta di una trattazione diretta dell’idea del Bene propone di
sostituirla con l’esposizione della «prole del Bene» (ἔκγονος τε τοῦ ἀγαθοῦ
[…] καὶ ὁμοιότατος ἐκείνῳ), il Sole, ossia la realtà che nel mondo sensibile
risulta funzionalmente analoga al Bene (506e 2-507a 5). L’analogia riguarda
i ‘sovrani’ dei due ordini, il Bene al vertice dell’ambito noetico e il Sole che
occupa la medesima posizione nella sfera sensibile38. Un ulteriore spunto per
la relazione analogica tra i due ordini ontologici è introdotto ancora da una
matrice genealogica: l’idea del Bene «è la causa universale di tutto ciò che
è buono e bello – e precisamente, nel mondo sensibile, essa genera la luce
e il signore della luce (ϕῶς καὶ τὸν τούτου κύριον τεκοῦσα Resp. VII, 517c
4)39. Questa teoria ha riscosso molto credito40, ma non sembra incardinata a
sufficienza nei testi: non in quello di Pindaro, dove risulterebbe troppo ardito
lo slittamento dalla pluralità di competenze (πολυώνυμε) – per di di più vei-
colata da un termine altamente ritualizzato e diffuso nella tradizione cultuale
– all’universalità assiologica41, né in quello di Platone che, a differenza di
quanto suggerisce Fränkel, non parla di una «Mutter der Sonne (des Helios)»
(19693, 556): l’espressione ἔκγονος τοῦ ἀγαθοῦ designa una genealogia tutta
concettuale e astratta, polarizzata sulla polisemia scherzosa di τόκος “parto”,
ma anche “frutto” o “interesse” del capitale che si dovrebbe ricavare dalla
discussione.

2. Luce e ricchezza

Tra le positività mediate dalla metaforica della luce e in grado di confe-


rire eminenza sociale ha grande rilievo la ricchezza: simboli correlati come
l’oro e gli accenni alla venalità del canto, variamente combinati, trovano
piena giustificazione all’interno della struttura dell’epinicio per introdurre

in cui si dispiegano «“religious” and “poetic” categories in ways that do not admit
of easy separation» Maslov, 127.
38 Rosen, 258-267; vd. anche Calabi, 327-336.
39 Resp. 517b 7-c 4 τὰ δ᾿οὖν ἐμοὶ ϕαινόμενα οὕτω ϕαίνεται, ἐν τῷ γνωστῷ τελευταία ἡ
τοῦ ἀγαθοῦ ἰδέα καὶ μόγις ὁρᾶσθαι, ὀϕθεῖσα δὲ συλλογιστέα εἶναι ὡς ἄρα πᾶσι πάντων
αὕτη ὀρθῶν τε καὶ καλῶν αἰτία, ἔν τε ὁρατῷ ϕῶς καὶ τὸν τούτου κύριον τεκοῦσα, ἔν
τε νοητῷ αὐτὴ κυρία ἀλήθειαν καὶ νοῦν παρασχομένη. Per il legame genealogico tra
Helios e l’idea del bene sulla base del richiamo pindarico vd. Luther, 491.
40 Vd. Bremer 1975, in part. 89-90; Bremer 1976, 255-257; Schadewaldt 1973, 361.
41 Passaggio giustificato da Fränkel con l’argomento che il poeta non avrebbe avuto
a disposizione nessuno «zusammenfassender Ausdruck» (19693, 555) per indicare
il valore in generale.
22 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

motivi convenzionali, come l’ospitalità e la liberalità del vincitore che ha


commissionato l’epinicio42.
Nell’Olimpica seconda, composta per la vittoria di Terone di Agrigento
con il carro nel 476, la trama compositiva, ampia e solenne, attesa l’impor-
tanza della gara e la personalità del committente, si colloca su uno sfondo
complesso e fluido di vicende passate, convogliate da riflessioni sulla mu-
tevolezza della sorte e sull’alterna vicenda di gioie e dolori propria dell’e-
sistenza umana. Un passaggio gnomico, dall’allure in qualche modo con-
solatoria, ricorda che la vittoria negli agoni libera l’uomo dall’ossessione
verso il raggiungimento del successo (vv. 51-52). E se associata all’ἀρετά,
termine che denota correntemente in Pindaro talento ed eccellenza morale
e fisica43, la ricchezza offre occasioni per appagare le proprie ambizioni44,
effondendo la sua luminosità metaforicamente come una stella luminosa
proietta il suo raggio in cielo (vv. 53-56)45:

ὁ μὰν πλοῦτος ἀρεταῖς δεδαιδαλμένος


ϕέρει τῶν τε καὶ τῶν
καιρὸν βαθεῖαν ὑπέχων μέριμναν †ἀγροτέραν46,
ἀστὴρ ἀρίζηλος, ἐτυμώτατον
ἀνδρὶ ϕέγγος47.

«La ricchezza ornata di virtù


apporta occasioni diverse
suscitando profonda ambizione
cacciatrice di successi,
stella splendente, verissima luce per l’uomo».

42 In proposito vd. le considerazioni di Gianotti, 10-17.


43 Sulle matrici metaforiche che compongono la costellazione semantica dell’eccel-
lenza vd. in dettaglio Briand 2003, 206-210.
44 Cfr. vv. 10-11 e Pyth. 5, 1-4 (su cui vd. Hubbard 1985, 124-126). La lode della ricchez-
za dei vincitori trova piena giustificazione, oltre che nella liberalità del laudandus,
nelle spese (δαπάναι) profuse dagli atleti soprattutto per i successi equestri che richie-
devano in particolare grandi mezzi finanziari (Plut. Ages. 20, 1; vd. Gardiner, 466).
45 Theunissen, 223-224.
46 Si tratta di un verso di controversa esegesi, ma sembra certo che il «pensiero pro-
fondo sempre a caccia del successo» sia da intendere positivamente come «ambi-
zione»; vd. le osservazioni di Catenacci in Gentili 2013, 399-400, e di Lehnus, 44.
47 Cfr. Pyth. 4, 255 ove i raggi della prosperità (ἀκτῖνας (codd., ἀκτῖνος Hermann,
recc. S.-M.) ὄλβου) alludono metaforicamente secondo Scholl. ad 453a-c (II 160
Dr.) al seme di Euphemos, l’origine della stirpe e dunque della fortuna dei Battiadi.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 23

La ricchezza espande il suo fulgore come un astro48, un fulgente principio


di indirizzo etico in una vita tesa all’impegno di giustizia49, proiettando il
suo raggio nello spazio come espressione della virtù umana50. Enfaticamente
posta in una massima descrittiva all’inizio del terzo epodo51, l’imagery visiva
combina gli elementi semantici, estetici ed etici, di luce e verità (ἐτυμώτατον
ἀνδρὶ ϕέγγος), risultando funzionale all’argomentazione eulogistica che per
il successo agonistico, oltre alle virtù innate (vv. 10-11), richiede la generosa
e liberale profusione di beni materiali da parte dei nobili atleti52.
E se l’ἀρετά per Pindaro preesiste naturalmente al riconoscimento so-
ciale, la ricchezza non ha intrinseco valore come realtà economica o come
calcolo monetario, ma esiste solo come mezzo di riconoscimento da esibire
allo sguardo e al rispetto pubblico53. Come ogni altro bene elargito dagli
dei non è in sé ragione di lode, se non esibita in un giusto uso dei beni ma-
teriali con saggezza e senza eccessi54, in intrattenimenti liberali e spese per
l’attività atletica. Ma è degna di rispetto soprattutto per la sua capacità di
promuovere e sostenere attraverso il canto di lode la fama imperitura che

48 Numerosi dettagli visuali che rimandano ancora alla ricchezza si espandono nell’ex-
cursus escatologico delle successive strofe e antistrofe nella vivida descrizione dell’I-
sola dei Beati, dove si gode di una perpetua luce del sole (o di un perenne equinozio)
(vv. 61-62): negli alberi fulgidi (ἀγλαῶν), nei fiori d’oro, metallo che sfavilla di luce
(φλέγει) e simboleggia ricchezza e immortalità, sembrano materializzarsi i valori so-
ciali e morali lodati nella gnome (vv. 53-56); vd. Briand 2016, 243. Nelle immagini
che compongono il mondo ultraterreno tuttavia «a more mysterious and more elusive
light, no longer of a “star” in the sky, glows in a supernatural realm (72), and kingship
and authority are beyond human control (75-77)» Segal 1986, 126-127. Sull’esegesi
del controverso passo vd. anche Catenacci in Gentili 2013, 403.
49 Che la ricchezza e il suo buon uso costituisca, associata all’aretà personale, la
condizione fondamentale per le ambizioni di successo dell’ἀγαθός è enunciato
anche in Pyth. 5, 1-2, Isth. 3, 1-3. Gli Scholl. ad 96a, f (I 85-86 Dr.) citano a
confronto anche Sapph. fr. 148 V. e Callim. Hymn. 1, 94-96; vd. Parry, 368-379.
50 Vd. Kurke, 184-185.
51 «The general maxim, the efficiency of which relies upon the poetic performance,
resorts to strong visual images to make the audience reflect on ethical issues»
Briand 2016, 243.
52 Per una prima ricognizione lessicale vd. Slater 1969a, s.vv. ἀφνεός, δαπάνα,
κτέανον e πλοῦτος e più in generale per i motivi correlati alla liberalità del
laudandus vd. Pavese 1997, 286, 322, 324, 352.
53 Woodbury, 537-538; Kurke, 181-187, opera un confronto con il discorso tucidi-
deo di Alcibiade in difesa della megaloprepeia (VI 16, 3-6) ove vengono parimen-
ti utilizzate metafore relative al campo semantico della luce.
54 Cfr. e.g. Pyth. 2, 56.
24 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

ne deriva. Se impiegata nobilmente in un modo consapevole del futuro la


ricchezza è vera luce per l’uomo (cfr. Nem. 1, 31-32, Isth. 1, 67-68)55.

3. La luce della vittoria militare

Segno tangibile del favore divino, la luce si spande dall’alto su chi ha


compiuto nobili imprese guerriere, come nel Paean. II (fr. 52b S.-M.), in-
nervato fittamente di vicende locali legate alla colonizzazione e in parti-
colare al costante impegno bellico che gli Abderiti, destinatari del peana,
ebbero a sostenere contro gli indigeni traci. Vengono rievocate le varie
battaglie susseguitesi con esiti incerti fino alla decisiva vittoria che riscattò
una infelice situazione precedente56: presso il monte Melanfillo, il massic-
cio dai fitti boschi di “nere foglie”, secondo l’etimologia57, essi furono rag-
giunti dalla luce, metafora della gloria o della vittoria stessa (vv. 66-70)58:

ὁ δὲ καλόν τι πονή[σ]αις
εὐαγορίαισι ϕλέγει·
κείνοις δ᾿ὑπέρτατον ἦλθε ϕέγγος
ἄντα δ[υ]σμενέων Μελαμ-
ϕύλλου προπάροιθεν.

«Chi compie nobili fatiche


si illumina di lodi:
a loro giunse la luce
suprema presso al Melanfillo
contro ai nemici».

55 Hubbard 1985, 158-162. Ma se πλοῦτος connota anche «l’insieme delle risorse


che caratterizzano la valentia del soggetto» Privitera 1982, 155 (vd. Thummer
1969, 34), anche il canto è in sé una ricchezza (e.g. Pyth. 3, 110; 6,8; Nem. 1, 31)
che deve essere spesa liberalmente dal poeta in un mutuo rapporto di obbligazione
(Ol. 10, 7-12).
56 In dettaglio vd. Radt, 58-65.
57 Incerto se si tratti di un toponimo identificato con un monte tracio da Plin. NH IV
11, 50 o di un ricercato contrasto cromatico con φέγγος (vd. Norwood, 93).
58 Così Radt, 61 «der Sieg und damit verbundene Ruhm»; Bremer 1976, 281 (sulla
base del confronto con Ol. 1, 23, 97ss., Nem. 3, 83-84, Nem. 9, 41-42); Führer,
63, n. 132. Per Hampe, 139-140, il contesto, che alluderebbe a un aiuto divino
(δ᾽ἔπειτα θεοὶ συνετέλεσσα[ν v. 65), e il nesso con ὑπέρτατον suggeriscono per
ϕέγγος piuttosto il senso di «Rettung», di «Heil für die Kämpfer».
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 25

4. La luce dell’impresa atletica

Nel contesto agonistico la luce viene naturalmente assimilata all’eccel-


lenza atletica (ἀρετά) o alla conseguente vittoria e alla sua dimensione di
rappresentazione pubblica. E se nella poetica pindarica il trionfo agonale
è sempre ottenuto grazie al vario combinarsi della protezione divina con
altri due elementi, l’indole innata (φυά) e la capacità di sopportare travagli
e fatiche (πόνοι, μόχθοι)59, affinando con diuturno esercizio le capacità na-
turali, lo splendore della luce si posa, caricandosi di infinite sfumature, sui
singoli elementi – forza, valore individuale, ricchezza, potenza, felicità – di
cui si compone l’ἀρετά.
La metafora della luce si applica alla gioia per il successo in Ol. 10,
22-23:

ἄπονον δ᾿ἔλαβον χάρμα παῦροί τινες,


ἔργων πρὸ πάντων βιότῳ ϕάος.

«Pochi senza fatica conseguono la gioia,


più di ogni altra impresa luce della vita».

L’immagine visuale (ϕάος) con cui si chiude la scansione gnomi-


ca metaforizza la prodigiosa fama del vincitore (πελώριον [...] κλέος v.
21), Agesidamo di Locri, fungendo da cerniera tra la parte rituale della
performance celebrativa e il mito che illustra la fondazione dei giochi
olimpici, tra presente e passato mitico60.
La fama, vale a dire la riconoscibilità sociale, è il concetto cardine di
questa rappresentazione. Il verbo λάμπω che denota, con valore proprio,
lo splendere del sole (cfr. Paean. XII, 14 [fr. 52m Sn.-M.], Thr. VII, 1 [fr.
129 Sn.-M.], fr. 356 Sn.-M.) ricorre costantemente in relazione al κλέος,
che promana metaforicamente dall’eccellenza stessa: la fama che ancora
circonda le imprese degli Eacidi, egineti come il laudandus Aristocli-
de, è una luce pura continua che da lì, salda, si spande ancora lontano,
superando i limiti spazio-temporali (τηλαυγὲς ἄραρε61 ϕέγγος Αἰακιδᾶν

59 Vd. Gianotti, 17-18.


60 Briand 2016, 249.
61 Il perfetto del verbo, dal senso generale «to be fixed», è usato, come in Nem. 5,
44, in senso assoluto, ma con αὐτόθεν inteso come indiretto complemento ogget-
to «may evoke associations of the fame being stable, not easily broken down»
(Pfeijffer 1999, 370).
26 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

αὐτόθεν62 Nem. 3, 64). L’aggettivo τηλαυγής «visibile a grande distanza»


è costantemente associato a termini relativi alla luce (cfr. φάος Pyth. 3,
75; Nem. 3, 64) e se il primo elemento (τηλ- <τῆλε) del composto denota
generalmente la diffusione spaziale, non gli è estranea una dimensione
temporale grazie all’effetto totalizzante della luce della fama (cfr. Nem.
6, 48-49 τηλόθεν)63.
In una metafora visiva si articola l’assimilazione, in perfetto andamento
anulare intorno alla ricchissima sezione mitica (vv. 25-95) che innerva la
prima Olimpica, tra la fama procurata a Ierone (Ol. 1, 23-24 λάμπει / δέ οἱ
κλέος) dai successi ai giochi, associati al sole (Ol. 1, 5-7), e la fama di Pe-
lope che ora gode di onori eroici e rifulge di lontano (τὸ δὲ κλέος / τηλόθεν
δέδορκεν64, vv. 93-94) nelle corse dei giochi65. Grazie alle connotazioni qui
risemantizzate del verbo, la fama di Pelope è intesa come una sorgente di
luce66, come un sole67.

62 Sull’ambiguo deittico risolutive le considerazioni di Privitera 1977, 267: «la glo-


ria, militare o atletica, fiorisce e resta dove è stata conseguita, ed emana da lì la sua
luce». Sulla scia di Schadewaldt 1928, 313, n. 2; Pfeijffer 1999, 369-370 è incline
a intenderlo invece come un riferimento al contesto della performance dell’epi-
nicio, cioè Egina; contra Slater (1969a, 82 s.v.) lo connette all’ultima indicazione
locativa della sezione mitica, ovvero Troia (v. 60).
63 Vd. Adorjáni 2014, 123-124; Pfeijffer 1999, 370. I composti di τῆλε- del resto
sono estremamente comuni con espressioni che denotano luminosità (Mugler
1960, 50-51). A proposito di τηλόθεν vd. l’osservazione di Mezger, 93: «der
Grieche bezeichnet Entfernungen nicht wie wir vom Standpunkt des Messenden
aus, sondern von dem diesem entgegengesetzen».
64 Il perfetto intransitivo del verbo con valore di presente è caratteristico in Pindaro
in relazione a verbi che implicano vista, odorato o olfatto («a perceptual perfect»
Gildersleeve, 137).
65 Rispondenza sottolineata anche dal chiasmo λάμπει κλέος – κλέος δέδορκε (Ger-
ber 1982, 145).
66 Come ricorda Snell (19635, 20-22), il verbo δέρκομαι “guardare” nella lingua
omerica indica non tanto la semplice percezione dell’oggetto quanto la fissità e
l’acutezza dell’occhio che si posa su un oggetto; ad es. lo sguardo dell’aquila
(Hom. Il. XVII 675). A questo significato è legata l’accezione intransitiva di “bril-
lare” (e.g. Hom. Od. XIX 446) presente in Pindaro in riferimento alla gloria: cfr.
anche Nem. 3, 83-84 ἀεθλοϕόρου λήματος ἕνεκεν / Νεμέας ’Επιδαυρόθεν τ᾿ἄπο
καὶ Μεγάρων δέδορκεν ϕάος e Nem. 9, 41-42 δέδορκεν /παιδὶ τοῦθ’ ‘Αγησιδάμου
ϕέγγος ἐν ἁλικίᾳ πρώτᾳ·; vd. Bonelli, 61-62.
67 Talora connota l’azione del sole che ‘vede’ grazie all’irraggiamento della sua luce
(vd. Mugler 1960, 67-68). Per il rapporto di causa ed effetto anche funzionale tra
luminosità e percezione visiva vd. Rizzini, 132-133.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 27

In virtù della fama che le rifrange nel tempo, le imprese diventano una
sorgente luminosa in grado di intraprendere un percorso inverso rispetto al
raggio solare, innalzandosi fino al cielo (fr. 227 Sn.-M.):

...νέων δὲ μέριμναι σὺν πόνοις εἱλισσόμεναι


δόξαν εὑρίσκοντι· λάμπει68 δὲ χρόνῳ
ἔργα μετ᾿αἰθέρ᾿<ἀερ>θέντα69

«le ambizioni dei giovani, esercitate con fatica,


trovano la fama: splendono nel tempo
le imprese, sollevate al cielo».

L’eroe stesso in virtù delle numerose imprese irradia luce (fr. 172, 1-3
Sn.-M.):

Πηλέος ἀντιθέου
μόχθοις νεότας ἐπέλαμψεν
μυρίοις·

«brillò di infinite imprese la giovinezza


di Peleo simile a un dio»

Nella prima Istmica la lode di Erodoto, vincitore con il carro, è associata a


quella di due aurighi eccellenti, lo spartano Castore e il tebano Iolao, che per
contiguità metonimica sono presentati come atleti fortissimi in molte specia-
lità, figure speculari al laudandus sul piano agonistico (vv. 16-25). Nella de-
scrizione delle loro imprese la luce risulta l’elemento dominante (vv. 22-25)70:

λάμπει δὲ σαϕὴς ἀρετά 71


ἔν τε γυμνοῖσι σταδίοις σϕίσιν ἔν
τ᾿ἀσπιδοδούποισιν ὁπλίταις δρόμοις,

68 Ove con λάμπει, «the standard verb to describe the sun’s shining» (Gerber 1982,
50 ad Ol. 1, 23), si innesca un cortocircuito tra fama che si spande ovunque e luce
celeste.
69 Restituito felicemente da Boeckh, ἀερθέντα connota l’esaltazione poetica nel suo
slancio verso il cielo (cfr. Isth. 1, 64 e Nem. 8, 40-42 ἀΐσσει δ’ ἀρετά, […] / <ἐν>
σοϕοῖς ἀνδρῶν ἀερθεῖσ’ ἐν δικαίοις τε πρὸς ὑγρόν / αἰθέρα).
70 «I premi dei due eroi sono d’oro, il loro valore risplende, essi compaiono in patria con
la corona sul capo (v. 20 χρυσοῦ, v. 22 λάμπει, v. 29 ἔφανεν)» Privitera 1982, 14.
71 Per il presente λάμπει «das wohl auf die Fortwirkung des Sieges hindeuten soll»
vd. Thummer 1969, 17.
28 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

οἷά τε χερσὶν ἀκοντίζοντες αἰχμαῖς


καὶ λιθίνοις ὁπότ᾿ἐν δίσκοις ἵεν.

«chiaro ad essi il valore


risplende negli stadi percorsi ignudi
e nelle corse oplitiche sonanti di scudi,
e così nelle mani, tirando con l’asta
e quando lanciavano i dischi di pietra».

In Ol. 13. 36 un’immagine folgorante, αἴγλα ποδῶν «il lampo dei


piedi»72, scolpisce il passato glorioso e le plurime vittorie di Tessalo, padre
del laudandus (vv. 35-40).
Il procedimento espressivo risulta più evidente in Pyth. 11, 41-50. L’e-
saltazione della vittoria del tebano Trasideo è associata a quella per il padre
Pitonico: di essi risplendono la letizia e la fama (τῶν εὐϕροσύνα τε καὶ
δόξ᾿ἐπιϕλέγει v. 45) per i numerosi successi conquistati in varie specialità
(vv. 46-50):

τὰ μὲν <ἐν> ἅρμασι καλλίνικοι πάλαι


’Ολυμπίᾳ τ᾿ἀγώνων πολυϕάτων
ἔσχον θοὰν ἀκτῖνα σὺν ἵπποις73,
Πυθοῖ τε γυμνὸν ἐπὶ στάδιον καταβάντες ἤλεγξαν
‘Ελλανίδα στρατιὰν
ὠκύτατι.

«Un tempo vittoriosi col carro


e poi in Olimpia coi cavalli ottennero
il rapido raggio degli agoni famosi
e scesi in Pito per la corsa senz’armi
col piede veloce umiliarono
l’intera turba dei concorrenti greci».

72 Su tale tipologia metaforica, «where the explaining is done by the tenor, the defi-
ning genitive», vd. Silk, 116.
73 Non credo si tratti di un’ipallage, come suggerito nel commento di Giannini in
Gentili 1995, 662 («il raggio di luce […] è definito veloce per la presenza del
seguente ἵπποις»): non sfuggiva alla poesia greca (cfr. Hom. Il. X 153-154 e XI
44-45; Pyth. 3, 75 τηλαυγέστερον […] ϕάος e Nem. 3, 64 τηλαυγὲς […] ϕέγγος)
l’istantaneità con cui procede la luce e il suo irraggiamento a grande distanza (vd.
Mugler 1960, 50).
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 29

Nel corpo sintetico della metafora «il raggio degli agoni» o «il raggio
delle imprese» (ἐργμάτων ἀκτὶς καλῶν (Isth. 4, 42) richiama un elemento
essenziale nella rappresentazione poetica arcaica della visione, il modello
emissivo, che consiste nell’attribuire una luce propria agli oggetti toccati
dai raggi del sole74. Come si evince da Omero, che non sembra riconoscere
la natura della luce riflessa, dalla superficie levigata degli oggetti stessi (ad
es. lo scudo e l’elmo di Diomede, Il. V 4) scaturiscono raggi che si proiet-
tano verso il flusso di fuoco che si muove dall’occhio75.

5. Luce e virtù politico-sociali

Talora il campo della luce si espande all’eulogia della città del laudan-
dus, ai suoi valori e alla sua costituzione politica. La decima Nemea si apre
con un’invocazione alle Muse a cantare in occasione delle Eree, le feste di
Era argiva, la città di Argo76 per le virtù dei suoi cittadini che splendono
come innumerevoli fuochi (vv. 2-3):

ϕλέγεται δ᾿ἀρεταῖς
μυρίαις ἔργων θρασέων ἕνεκεν

«si infiamma di innumerevoli


virtù a causa delle ardite imprese».

Il verbo φλέγω, che appartiene alla costellazione semantica con cui il


poeta connota il fulgore della fama77, con i suoi composti sembra conser-
vare qui e in altri passi (e.g. Ol. 2, 72; 9, 21-2278, Nem. 6, 38, Paean. II, 67
(=fr. 52b Sn.-M.) nella sua funzione metaforica il valore proprio omerico

74 Di matrice empedoclea (31 A fr. 92 D.-K.), discusso in Plat. Men. 76c 7-d 5 (vd.
Mugler 1964, 315-316, Merker, 28-38), il modello emissivo ionico trova sistema-
zione teorica nel racconto mitico del Timeo (45b 2-6) dove il processo visivo è
rappresentato come incontro e combinazione tra flusso visivo e luce diurna (su cui
vd. infra).
75 Il poeta applica infatti alla luce riflessa le stesse espressioni verbali, ad es.
ἀπολάμπειν, che alla luce proveniente da una fonte diretta. La notazione del
fulgore è molto spesso accompagnata da un paragone nel quale il poeta insiste
sull’identità della luce riflessa e della luce diretta (Mugler 1960, 52, 59-60).
76 Sulla funzionalità politica della sezione mitica scelta per l’eulogia del vincitore
argivo Theaios vd. Hornblower, 127-128, 204-206.
77 Thummer 1969, 120.
78 In Ol. 9, 22 è l’ardore dei canti del poeta a infiammare la città (vd. supra).
30 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

di “ardere”, “bruciare” in riferimento a una fonte autonoma di luce, come


il fuoco, non continua ma intermittente e puntuale (cfr. e.g. Il. II 455, XXI
13 e 365, XXII 512)79.
Altri valori rilevanti, pertinenti alla convivenza politica, sono coinvolti
talora nella metafora della luce: in Nem. 4, 11-13 la giustizia, intesa come
garante delle relazioni ospitali:

δέξαιτο δ᾿Αἰακιδᾶν
ἠύπυργον ἕδος, δίκᾳ80 ξεναρκέϊ κοινόν
ϕέγγος81.

«lo accolga (scil. il canto) la sede degli Eacidi,


ben fortificata, luce comune
grazie alla sua giustizia a difesa degli stranieri».

Il poeta chiede che la città di Egina, sede degli Eacidi, accolga il suo
canto di lode per il vincitore Timasarco. Nella lode della città, faro di giu-
stizia per gli stranieri82, l’imagery della luce veicola e contrario il ricordo
del padre Timocrito la cui scomparsa è espressa metonimicamente attraver-
so ἁλίῳ […] ἐθάλπετο (vv. 13-14).
Nel fr. 109 Sn.-M., un iporchema commissionato dai Tebani in un
contesto politico turbato, secondo le fonti83, da profonde tensioni interne

79 Vd. Bremer 1976, 237, 245, 247, 264. Ciani, 148, assimila invece φλέγω a λάμπω
«in una identica funzione […] di simboleggiare la luce positiva e continua, il puro
splendore della forma».
80 Il dativo δίκᾳ può essere interpretato come strumentale «shedding a light on all
mankind because of its justice» (vd. pure Slater 1969a, 133), oppure come dati-
vo possessivo «”shedding the light of Justice” = “the light that belongs to Justi-
ce”» Farnell 1932, 264. Figueira, 324-326 vi legge un’allusione a una specifica
struttura giuridica eginetica, mentre de Ste Croix, 380, lo intende come un tratto
eulogistico comune nelle odi eginetiche, «the friendliness and justice shown by
the Aeginetians to ξένοι» (cfr. Isth. 9, 5-6, Nem. 4, 12, Paean. VI, 131 (=fr. 52f
Sn.-M.).
81 Isolata l’esegesi di Kurke, 197 che intende, il canto stesso come «a ”common
light” […] for the entire city».
82 «Aegina’s light is koinon (rather than idion) only because of the island’s hospitality
to strangers» Hubbard 1985, 77 n. 16 e 2001, 394, dove si sottolinea l’aspetto
promozionale per i commerci dell’isola sotteso all’immagine.
83 I primi due versi secondo Polibio IV 31, 5-6 (cfr. Const. Porph. De sententiis
126 Boissevain, forse da Eforo: Wilamowitz, 193), fonte insieme a Stob. Anthol.
4, 16, 6 (4, 395 W.-H.) del frammento, dovevano suggerire un atteggiamento di
prudente conciliazione, ovvero un atteggiamento medizzante (Wilamowitz, 194).
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 31

(στάσιν) che dovettero agitare Tebe nell’imminenza delle guerre persiane


tra un’aristocrazia di orientamento filopersiano e un’opposizione favore-
vole a schierarsi con la coalizione delle città greche, si invita a ricercare
l’ordine politico promosso da Hesychia come luce stessa per la città84. Se
pure in un contesto non caratterizzante è possibile assimilare il significato
di ϕάος al senso traslato, ricorrente nell’Iliade (e.g. XVI 95, XXI 538) di
“salvezza” in battaglia o in altre circostanze drammatiche:

τὸ κοινόν τις ἀστῶν ἐν εὐδίᾳ85


τιθεὶς ἐρευνασάτω μεγαλάνορος ‘Ησυχίας
τὸ ϕαιδρὸν ϕάος,
στάσιν ἀπὸ πραπίδος ἐπίκοτον ἀνελών,
πενίας δότειραν, ἐχθρὰν κουροτρόϕον

«la comunità dei cittadini in pace ponendo


si cerchi la luce fulgente della magnanima
Tranquillità, cacciando dal cuore la discordia
rabbiosa, dispensatrice di povertà, odiosa nutrice di figli».

L’appello a Hesychia86, entità divina ancora personificata in Ol.


4,16, ricorre in Pyth. 8, 1 come figlia di Δίκα87, garante della prosperità

Ma a proposito di questa interpretazione che continua a godere di un certo credito


(Bowra, 110-111 e altri citati in Gehrke, 165 con n. 5), vd. le riserve di Farnell
1932, 439 e Walbank, 478-479.
84 Per un’analisi delle connotazioni prevalentemente astratte di ϕάος vd. Ciani, 21-
24, 171.
85 Edmunds, 31, l’intende come «fine weather» in opposizione alla tempesta (cfr.
Pyth. 5, 10 e Isth. 7, 38) rappresentata dalla στάσις.
86 Secondo Pfeijffer 1999, 472, tale personificazione di «political tranquillity» può
costituire un’invenzione pindarica: «A symbolic dedication of the victory to an ad
hoc personified moral concept would be a bold deviation from the tradition».
87 Sulle connotazioni aristocratiche e conservatrici implicite nel rapporto genealogico
Hesychia-Dika, vd. Pfeijffer 1995, 159: «Pindar in fact states that political
tranquillity depends upon the recognition of Δίκα, i.e., upon the maintenance or
the restoration of a division of power and property that has been agreed upon». La
vittoria di Aristomene si pone nel solco della gloriosa storia dei successi atletici e
militari di Egina, isola dorica per eccellenza (Ol. 8, 30, Pyth. 8, 20, Isth. 9,3, Nem.
3, 3); vd. Edmunds, 22-24. Giova ricordare che Eunomia, non menzionata qui
esplicitamente, ma in stretto rapporto genealogico con Dike e Eirene (Hes. Theog.
902, Pind. Ol. 13,6ss.) – è una virtù politica associata agli ideali delle città doriche
(cfr. Thuc. I 18,1), «the catchword of the aristocratic Dorian city» Edmunds 26.
Per un’analisi delle allusioni nell’epinicio alla situazione politica interna di Egina
e alle sue turbolente relazioni con Atene vd. Pfeijffer 1999, 431-434, 467-490.
32 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

(μεγιστόπολις v. 2) in un’invocazione che richiama i moduli dell’inno cle-


tico con la definizione convenzionale dei suoi domini (le chiavi della pace
e della guerra). Il grande rilievo che le viene assicurato – a lei è infatti
dedicato l’onore della vittoria del lottatore egineta Aristomene e l’invito ad
accoglierlo (vv. 4-5) –chiarisce il suo valore di idea politica88, come spirito
di civile concordia in grado di rendere grande il potere di una città (è defi-
nita φιλόπολις in Ol. 4, 16).
Nell’iporchema l’invito a cercare la concordia all’interno della polis, con-
trastando situazioni di conflitto interno, risponde a un’istanza politica tradizio-
nalmente cara ai ceti aristocratici89. In termini polari rispetto alla tranquillità
politica che rende prospera la città (μεγιστόπολις Pyth. 8, 2) ed è benigna
per i cittadini (φιλόφρων Pyth. 8, 1), la στάσις, producendo povertà90, nutre
i cittadini di rancori e dissidi (ἐχθρὰ κουροτρόϕος, felice ossimoro, a v. 5)91.

6. La luce del canto

Abbiamo rilevato come l’imagery luminosa offra un esempio della densa


concretezza della costruzione pindarica che trasforma dati fattuali – occasio-
ne e celebrazione della vittoria, il suo contesto, le vittorie degli antenati – in
veicoli simbolici per «the sense of something far more deeply interfused»92.
Ma questo complesso metaforico convive e si interseca con un’idea contigua
ma ben distinta e di rilevanza essenziale per le responsabilità sistemiche che
assume: l’idea cioè che a emettere luce siano non solo le qualità o le imprese
lodate, ma precisamente il canto che le loda. E al canto poetico sembra affi-
data la prerogativa propria di Theia, di comunicare la sostanza e la verità del-
le cose. Armato degli archi delle Muse, definite ἑκαταβόλων «lungisaettanti»

88 Su cui vd. Pfeijffer 1999, 426 e 467. Ma come opportunamente rimarca Fearn,
209 n. 96 «in the case of epinician poetry, consideration of hesychia as a political
ideal not as yet perhaps achieved is projected onto audiences and consumers who
cannot, explicity, overlap entirely with the members of the political community
that the poem is concerned to both celebrate and discuss».
89 Vd. Edmunds, 31-33; Carter, 42-47.
90 Su cui vd. Davison, 16; cfr. Ol. 13, 7 in cui Εἰρήνα e Δίκα sono definite ταμίαι
ἀνδράσι πλούτου.
91 Per la contrapposizione ἡσυχίη / στάσις in una situazione politica tesa e instabile
cfr. Theogn. 39-52. In Aristoph. Av. 1321-1322 la lode del coro ad Hesychia
(ἀγανόφρονος Ἡσυχίας / εὐήμερον πρόσωπον) è in contrappunto tonale con la
frenetica attività di approvvigionamento e selezione di ali che animava la scena.
Per il suo ruolo di mediazione tra tensioni polari vd. Hubbard 1985, 84-85.
92 Segal 1967, 436.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 33

(Ol. 9, 5) per la loro ampia potenza comunicativa, o incedendo sul carro al


loro fianco (Ol. 9, 80-83), Pindaro si presenta come il cantore di tutto quanto
innalza la condizione umana, perché sa cogliere «con l’occhio intento del
poeta consapevole della propria arte, i riflessi dello splendore divino anche
nelle cose di questo mondo»93. Con questo gesto riflessivo e metalinguistico
Pindaro trasforma il dato antropologico nell’autocoscienza della propria ec-
cellenza poetica che, tematicamente insistita, diventa una sorta di manifesto
della rilevanza sociale della poesia94.
A questa rivendicazione si associa indissolubilmente una forma espres-
siva deputata: se infatti, in ciascuna delle varianti esperite dall’inesauribile
ricchezza compositiva di Pindaro, si afferma che “il canto risplende”, la
locuzione richiama quella figura rara e preziosa che è la sinestesia, l’inter-
sezione fra i dati visivi e quelli acustici95. Significativamente emergono in
Pindaro numerosi slittamenti analogici tra i campi sensoriali, in cui luce e
bagliore rappresentano la potenza e l’efficacia del canto. Tali evocazioni
sinestetiche assumono carattere tematico, a prescindere dall’aspetto più o
meno esplicito in ciascuno dei passi che prenderò in considerazione96.
In una mutua collaborazione tra poeta e divinità, Apollo nella ottava Pi-
tica (vv. 67-69) è invocato a volgere lo sguardo con benevolenza a quanto
il poeta di volta in volta va percorrendo con il suo canto97. Significativa-
mente il favore divino sui destini della famiglia del laudandus che il poeta
chiede, in forma di augurio, al padre Senarce è espresso da un termine, ὄπις

93 Gianotti, 38.
94 Sulla autoconsapevolezza artistica di Pindaro vd. ancora utili le osservazioni di
Gundert, passim.
95 Vd. Stanford, 47-62; Tarrant, 183-184, con esempi non tutti persuasivi: ad es. (p.
182) Hom. Od. VIII 499 φαῖνε δ᾽ἀοιδήν, ove φαίνω vale “esibire”, non necessa-
riamente alla vista; (p. 184) in Soph. El. 1410 ἰδοὺ μάλ᾽αὖ θροεῖ τις, manifesta-
mente ἰδού è lessicalizzato nel senso di «ecco».
96 Qualche dubbio si può conservare per Ol. 4, 9-10, dove nell’invito a Zeus ad accogliere,
anche in virtù del fascino della vittoria e della poesia, personifιcato dalle Cariti, «questo
corteggio, durevolissima luce di possenti virtù» sembrano rimarcati piuttosto gli aspetti
spettacolari dell’hic e del nunc celebrativo (δέξαι Χαρίτων θ᾿ ἕκατι τόνδε κῶμον, /
χρονιώτατον ϕάος εὐρυσθενέων ἀρετᾶν). Così anche in Nem. 6, 34-38 l’imagery della
luce è associata a una vittoria lontana nel tempo e al κῶμος che la celebrava nel giorno
e nel luogo stesso («e invero nella divina Pito, Callia, sangue di questa progenie, legati
i pugni alle cinghie, vinse un giorno, piacendo ai figli di Leto dalla chioma d’oro e la
sera presso Castalia brillò nel clamore delle Grazie» (καὶ γὰρ ἐν ἀγαθέᾳ / χεῖρας ἱμάντι
δεθεὶς Πυθῶνι κράτησεν ἀπὸ ταύτας αἷμα πάτρας / χρυσαλακάτου ποτὲ Καλλίας ἁδών
/ ἔρνεσι Λατοῦς, παρὰ Κασταλίαν τε Χαρίτων / ἑσπέριος ὁμάδῳ ϕλέγεν).
97 Del passo, uno dei più incerti e tormentati dell’esegesi pindarica, accolgo l’inter-
pretazione di Giannini in Gentili 1995, 578-580.
34 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

(vv. 71-72), che, se nell’uso significa “riguardo”, “rispetto” sottende qui


un’eco dell’originario significato di “sguardo”, rilanciando così implicita-
mente l’idea dello sguardo divino che il poeta aveva richiesto sul proprio
canto (βλέπειν v. 68)98.
Nella prima Nemea dedicata alla vittoria equestre del siracusano Cro-
mio99 la Musa è invocata a infondere splendore sulla Sicilia (vv. 11-13):

μεγάλων δ᾿ἀέθλων
Μοῖσα μεμνᾶσθαι ϕιλεῖ.
σπεῖρέ νυν100 ἀγλαΐαν101
τινὰ102 νάσῳ, τὰν ’Ολύμπου δεσπότας
Ζεὺς ἔδωκεν Φερσεϕόνᾳ

«La Musa ama


ricordare le grandi imprese.
Semina dunque splendore sull’isola
che Zeus, signore dell’Olimpo
donò a Persefone».

In Pyth. 5, 45-49 e in Isth. 7, 23 si rispecchiano due immagini visive


contigue a connotare l’irraggiamento del vincitore rispettivamente da parte
delle Càriti e delle Muse in virtù della diffusione del canto di lode103:

’Αλεξιβιάδα, σὲ δ᾿ ἠΰκομοι ϕλέγοντι Χάριτες.


μακάριος, ὃς ἔχεις
καὶ πεδὰ μέγαν κάματον
λόγων ϕερτάτων
μναμήϊ᾿(α)·

98 Vd. Giannini, ibid. Per la nozione di ‘vedere’ implicita in ὅπις vd. Chantraine,
DELG s.v. (II 808); Slater 1969a, 385 s.v.; Bremer 1976, 238; Burkert, 197-203.
99 Sul problema della patria di Cromio e dell’inscriptio dell’epinicio vd. Braswell, 25-27.
100 Quanto all’uso dell’imperativo indirizzato a una divinità in incipit e in asindeto
vd. Weilbach, 27-28.
101 Talora personificata (Hes. Theog. 909; Pind. Ol. 14, 13) e a fianco della Musa in
fr. 199, 3 Sn.-M., sembra qui denotare il fulgore festoso elargito dalla Musa (cfr.
Pyth. 1,2, Nem. 9, 31-32); vd. Braswell, 41.
102 Il pronome indefinito qui attutisce la metafora con sfumatura «quasi-apologetic»
Carey, 108.
103 Per l’intercambiabilità delle loro funzioni in ambito poetico vd. Giannini in Gen-
tili 1995, 525.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 35

«Figlio di Alessibio104,
t’irradiano di luce
le Grazie dalla bella chioma.
Te beato che pure
dopo grande travaglio
hai monumento di altissime parole»

ϕλέγεται δὲ ἰοπλόκοισι Μοίσαις105

dalle Muse coi capelli viola egli è aureolato.

Nel complesso sistema della lode il poeta è parte attiva della festa:
nell’incipit della quarta Olimpica è invitato come testimone delle altissime
imprese (ὑψηλοτάτων μάρτυρ᾿ ἀέθλων v. 3) fornendo con il suo canto al
corteo festoso che accompagna il vincitore una luce, un’aura di gloria che
dura nel tempo (vv. 8-10):

Οὐλυμπιονίκαν
δέξαι Χαρίτων θ᾿ ἕκατι τόνδε κῶμον,
χρονιώτατον106 ϕάος εὐρυσθενέων ἀρετᾶν107.

«Accogli [scil. Zeus] in virtù delle Càriti


e per la vittoria olimpica questo corteggio,
durevolissima luce di possenti virtù».

In Pyth. 9, 89a-92, un passo che dal punto di vista tecnico-compositivo


funge da preparazione alla lode, il cantore illustra come nel favore delle
Grazie (cfr. ἀγαναῖς χαρίτεσσιν Isth. 3, 8) trovi ispirazione profonda per la
luce della poesia.

104 L’allocuzione è propriamente indirizzata a Carroto, l’auriga di Arcesilao di Cire-


ne, che nell’epinicio ha lo stesso rilievo del committente.
105 Alla sfera sacrale rimandano nei due passi gli epiteti relativi alla chioma, ἠΰκομοι
e ἰόπλοκοι. Quest’ultimo è attributo anche di Saffo nella nota apostrofe alcaica
(fr. 384 V.). Per i problemi testuali di Isth. 7, 23, variamente risolti dagli editori
moderni, vd. Privitera 1982, 219-220.
106 Per il senso del superlativo, in bilico tra «durevolissima» (luce), come inteso da
Schol. ad 16a (I 133 Dr.), cfr. Pyth. 3, 115 e Nem. 4, 6) e l’avverbiale «alla fine»
vd. Lomiento in Gentili 2013, 435.
107 «The “light” refers specially to Pindar’s poetry sung by the Komos, that will per-
petuate the memory of the victory» Farnell 1932, 33.
36 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Χαρίτων κελαδεννᾶν
μή με λίποι καθαρὸν ϕέγγος. Αἰγίνᾳ τε γάρ
ϕαμὶ Νίσου τ᾿ ἐν λόϕῳ τρὶς
δὴ πόλιν τάνδ᾿εὐκλεΐξαι,
σιγαλὸν ἀμαχανίαν ἔργῳ ϕυγών.

«Non mi abbandoni la pura luce


delle Grazie melodiose.
Poi che in Egina e sul colle di Niso
affermo che questa città
tre volte ho reso celebre
fuggendo con l’opera la tacita impotenza».

Le Grazie (Càriti), dee della gioia e dello splendore108 sono ispiratrici di


poesia (Pyth. 9,3ss., Nem. 4,6-8, Isth. 8, 16-16a), al fianco del poeta nel-
la celebrazione dell’aretà atletica (Nem. 9, 54-55), talora personificazione
stessa dei canti di lode come omaggio dovuto (Nem. 5, 54, Isth. 3, 8; 5, 21;
6, 63-64) ma specularmente, in quanto dee della rigogliosa vitalità, sono
artefici della vittoria agonale (Ol. 2, 50-51, Nem. 5, 52-54), dispensatri-
ci della gioia che ne consegue (Ol. 6, 76) e alleate dell’atleta: Senocrate
in Isth. 2, 19 aveva gareggiato «stretto alle Cariti illustri degli Eretteidi»
(κλειναῖς <τ᾿> Ἐρεχθειδᾶν Χαρίτεσσιν ἀραρώς)109.
In un intervento in prima persona l’‛io’ narrante del coro110, qui identifi-
cabile con il vincitore stesso111, Telesicrate, chiede di essere inondato dalla
luce delle melodiose Càriti, ovvero si augura di essere celebrato in canti
di lode, affermando di avere, grazie alle altre vittorie conseguite a Egina

108 Vd. Gianotti, 68-80. Con i nomi di Aglaia (Splendore), Euphrosyne (Gioia) e Tha-
lia (Abbondanza) erano venerate con antico culto in Beozia (Ol. 14, 13-15; cfr.
Hes. Theog. 909). Esiodo stesso, associandole alle Muse (Theog. 64), istituisce la
loro stretta relazione con la sfera poetica che ricorre in Sapph. fr. 44 A b, 5-6 e 128
V. e si definisce stabilmente in Theogn. 15-16.
109 Vd. Privitera 1982, 161.
110 Sul vischioso problema dell’identità dell’‘io’ narrante e della sua funzione «poli-
valente» rimando in generale alle considerazioni di Gentili, in Gentili 1995, 237,
vd. anche Fränkel 19693, 543 n. 12.
111 Vd. più diffusamente Gentili in Gentili 1995, 237-238.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 37

e Megara, reso illustre Cirene112, la sua città, con la sua impresa (ἔργῳ)113.
Alla luce delle Càriti si oppone la mancanza di discorsi di lode, il silenzio
impotente (σιγαλὸν ἀμαχανίαν v. 92)114 che condanna anche il vincitore
all’oscurità, secondo uno schema polare ben attestato in altri passi (vd. in-
fra) 115. L’antitesi sviluppa una nuova forma di sinestesia, anticipata dall’af-
fermazione che è tale la gloria di Eracle (e della sua città natale Tebe) che
solo un uomo muto (κωφός v. 86) può non celebrarlo116.
Il passo è molto tormentato e discusso dal punto di vista testuale: alcuni
critici identificano invece la persona loquens con il poeta117, interpretazio-
ne in sé non inverosimile perché l’auspicio Χαρίτων κελαδεννᾶν / μή με
λίποι καθαρὸν ϕέγγος potrebbe essere inteso come richiamo al sodalizio tra
il poeta e le divinità protettrici. Ma se certo non si può attribuire al poeta
la gloria di aver reso illustre la città coi fatti, sarebbe necessario postulare
un brusco cambio di soggetto oppure emendare il tràdito εὐκλεΐξαι118 in
εὐκλεΐξας (Hermann) o εὐκλεΐξε (Pauw).
Né il valore né la lode possono essere taciuti e lo stretto e obbligato
denominatore che accomuna aretà e canto119 provvede a esplicitare anche

112 Il verbo εὐκλεΐζω nel senso di “recare gloria” ricorre in Bacch. 6, 16 Sn.-M. a
proposito di un atleta che ha reso celebre la sua città (cfr. AP XIII 14, 2) e in Tyrt.
12, 24 W. per virtù belliche.
113 Per l’espressione ἔργον in riferimento all’impresa atletica cfr. Ol. 5, 16; 7, 84; 8,
19, Pyth. 8, 80, Isth. 3, 7; 5, 23, Nem. 8, 49 (vd. Burton, 52 n. 2).
114 Lo Schol. ad l. (II 236 Dr.), che cita il fr. 229, 1 Sn.-M. (νικώμενοι γὰρ ἄνδρες
ἀγρυξίᾳ δέδενται «infatti i vinti sono incatenati al silenzio»), riferisce il nesso
al profondo silenzio che avvolge gli sconfitti; di converso, con un procedimento
polare, illustrato da Fränkel 19693, 510, n. 18, il vincitore con il suo successo
ha offerto abbondanti opportunità di canto al poeta (Isth. 4, 2 εὐμαχανίαν [...]
ἔφανας, cfr. Paean. VIIb, 15-17 [=fr. 52h Sn-M.]); vd. anche Burton, 53. E se
tecnicamente μαχανά connota l’atto creativo (vd. Péron 1976, 69-71 e Hubbard
1991, 19 che ascrivono l’ἀμαχανία a Pindaro; contra Carey 1981, 95), l’intera
espressione risulta appropriata sul piano metaforico anche per il vincitore così da
costituire una «almost mystical identification of song with action whereby [...]
poet and victor share personae» Nash, 87.
115 Indicativa al riguardo la lista dei passi scelti da Lloyd 1966, 43 ad esemplificare l’anti-
nomia tra luce e oscurità, ricorrente anche nelle opposizioni pitagoriche: cinque passi
di Pindaro, due di Eschilo e uno di Euripide (quest’ultimo in verità non pertinente: in
Iph. Aul. 439, φῶς [... ]τόδ’(ε) significa «questo giorno» vd. Ciani 1974, 48, n. 79).
116 Sulla mutua correlazione del termine con σιγαλόν v. 92, parimenti in incipit di
verso, vd. Nash, 81-87.
117 Wilamowitz, 265; Farnell 1932, 207-208; Slater 1969a, 194; Hubbard 1991, 23-
24; MacLachlan, 115.
118 Per una completa dossografia vd. e.g. Péron 1976, 67-70.
119 Sul «Sieg-Lied Motiv» rimando alle fondamentali pagine di Schadewaldt 1928, 277ss.
38 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

la specularità funzionale tra poeta e celebrato120. La gloria del successo,


affidata al ricordo, tramonta con esso se non è intercettata nella sua tra-
iettoria dal canto del poeta (Isth. 7, 16-19), che deve ridestare la memoria
delle antiche glorie del casato del committente, strappandole all’oblio e
al silenzio, anche se cantate in passato da altri poeti (Isth. 4, 23-27). In
tale prospettiva, se l’impresa del laudandus si staglia sullo sfondo dei
successi familiari, anche il poeta si confronta idealmente con i suoi pre-
decessori121.
Nella chiusa della Istmica seconda, commissionata da Trasibulo per ce-
lebrare la vittoria con la quadriga del padre Senocrate nel frattempo ormai
morto (vv. 43-46), Pindaro apostrofa in terza persona il figlio, latore dell’o-
de, invitandolo a non tacere il valore paterno né il canto che lo celebra, per
sfuggire così all’oblio a cui lo vorrebbero condannare gli invidiosi:

μή νυν, ὅτι ϕθονεραὶ


θνατῶν ϕρένας ἀμϕικρέμανται ἐλπίδες,
μήτ᾿ἀρετάν ποτε σιγάτω πατρῴαν,
μηδὲ τούσδ᾿ ὕμνους· ἐπεί τοι
οὐκ ἐλινύσοντας αὐτοὺς ἐργασάμαν.

«Mai, perché incombono


invidiose speranze122 nelle menti ai mortali,
egli taccia il valore paterno
o questi inni: perché
non li ho fatti per essere immobili».

Così in Nem. 6, 29-30 si sviluppa l’idea che la poesia perduri anche


quando coloro che ne furono oggetto sono passati (παροιχομένων γὰρ
ἀνέρων, / ἀοιδαὶ καὶ λόγοι τὰ καλά σϕιν ἔργ᾿ἐκόμισαν).
In Nem. 3, 83-84, sul vincitore rifulge la luce della fama grazie alla sua
determinazione e al favore di una Musa, Clio:

120 Variamente ricorrente anche in altri epinici, il rapporto analogico tra vincitore e
poeta si rivela il motivo organizzatore di un’ampia parte della Nemea III attraver-
so una successione coerente di elementi correlati, su cui vd. Privitera 1977.
121 Loscalzo, 76-77; Privitera 1982, XIX-XX.
122 Quanto ai tentativi di ancorare le «invidiose speranze» alle vicende degli Emme-
nidi cui apparteneva Senocrate (e.g. Farnell 1930, 247-248), vd. Privitera 1982,
165, che rinvia opportunamente a moduli eulogistici intesi a marcare la superiorità
del celebrato.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 39

τίν γε μέν, εὐθρόνου Κλεοῦς ἐθελοί-


σας, ἀεθλοϕόρου λήματος ἕνεκεν
Νεμέας Ἐπιδαυρόθεν τ᾿ἄπο καὶ Μεγάρων δέδορκεν
ϕάος123.

«a te, per volere di Clio dal bel trono124


e per la volontà che i premi conquista
da Nemea, da Epidauro e da Megara rifulge la luce».

Nella nona Olimpica, un’ode segnata da una potente consapevolezza


artistica (vv. 5-6, 12), il poeta125 fonde la metafora visiva della luce con
l’esaltazione della propria attività poetica (vv. 21-27):

ἐγὼ δέ τοι ϕίλαν πόλιν


μαλεραῖς ἐπιϕλέγων ἀοιδαῖς126,
καὶ ἀγάνορος ἵππου
θᾶσσον καὶ ναὸς ὑποπτέρου παντᾷ
ἀγγελίαν πέμψω ταύταν,
εἰ σύν τινι μοιριδίῳ παλάμᾳ
ἐξαίρετον Χαρίτων νέμομαι κᾶπον·

«Infiammando la città che mi è cara


con l’ardore dei canti
più rapido di un superbo corsiero
e di un alato naviglio
manderò ovunque questo messaggio,

123 Per il modulo espressivo cfr. Nem. 9, 41-42 δέδορκεν / παιδὶ τοῦθ᾿ Ἁγησιδάμου
ϕέγγος. Per Bury, 180, il termine φέγγος rimanda costantemente a un «technical,
mystical sense», contra Radt, 65.
124 L’intervento di Clio nella vittoria del pancratiaste Aristoclide è innescato da un gio-
co etimologico notato già da Bury, 48: «that Aristoclides is possessed of the valour
that wins renown (κλέος) his very name (Ἀριστο-κλείδας) is a sign, and for the same
reason he is the favourite of Clio (Κλειώ, who sings τὰ κλέα ἀνδρῶν)».
125 «Emphatically proposed ἐγώ introduces a passage in which the poet makes state-
ments about his own poetic conduct» Pfeijffer 1999, 399.
126 Incapsulato nella sinestesia visivo-acustica μαλεραῖς ἀοιδαῖς (cfr. Bacch. fr. 4,
80 Sn.-M. παιδικοί θ’ ὕμνοι φλέγονται), qui μαλερός conserva eco della valenza
omerica che connotava la furia devastante dell’incendio (Il. IX 242, XX 316, XXI
375). L’immagine visiva della fiamma ardente e irresistibile, eco di un fossilizzato
uso epico, è piegata a illustrare l’energia dinamica del proprio impegno poetico
(Gerber 2002, 30).
40 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

se per mano della sorte coltivo


l’eletto giardino delle Càriti».

Eccellendo nell’arte poetica grazie all’aiuto divino (vv. 26-27), egli si


appresta a comporre un canto di fiammeggiante splendore che farà brillare
la città di Opunte, segnalando e diffondendo fin da lontano la notizia della
vittoria del laudandus. L’idea che il poeta “avvolge nella luce” l’oggetto
del suo canto è qui articolata in una più dinamica metafora della poesia-
fuoco127, che ricorre anche in Paean. XVIII, 4-5 (=fr. 52s Sn.-M.):

....].ν᾿ἀμϕὶ πόλιν ϕλεγε[128


....]ν ὕμνων σέλας129 ἐξ ἀκαμα̣ν̣[το…

«divampa per la città


il bagliore degli inni dall’infaticabile…»

Una rilevante attestazione della propria eccellenza poetica ricorre nella


terza Pitica (vv. 73-76), indirizzata al committente Ierone a consolazione
della grave malattia da cui era afflitto130. Se Chirone fosse ancora in vita
e il poeta potesse persuaderlo con i suoi dolci canti a offrire al sovrano un
medico di stirpe divina, Asclepio o Apollo stesso, egli sarebbe approdato a
Siracusa recando con sè in dono la divina salute131 e il canto di lode, giun-
gendo come luce più fulgente del sole132.

127 «Die Vorstellung, daß der Dichter sein Lied bzw. dessen Gegenstand ‘ins Licht
taucht’, kehrt bei Pindar in Form der spezifischeren und ‘dynamischeren’ Feuer-
Vergleichung wieder: Der Dichter ‘zündet an’» Nünlist, 164-165.
128 È incerto se qui attribuire a φλέγω valore intransitivo o meno. Una preziosa si-
nestesia acustico-visiva di senso transitivo è in Aesch. Pers. 395 σάλπιγξ δ᾽ἀϋτῇ
πάντ᾽ἐκεῖν᾽ἐπέφλεγεν.
129 Conformemente all’uso omerico, σέλας ricorre in Pindaro in riferimento all’e-
nergia distruttrice del fuoco (Pyth. 3, 39 e Paean. VI, 97-98 [fr. 52f Sn.-M.]
σέλας αἰθομένου / πυρός) o alla luce diffusa del giorno (fr. 108b, 4-5 Sn.-M.).
Come in Paean. XX, 13 (= fr. 52u Sn.-M.), ove denota il bagliore degli occhi di
Eracle nella lotta con i due serpenti inviati da Era, lo splendore emanato dagli
inni può qui parimenti evocare una manifestazione di potenza irresistibile di
origine divina (vd. Slater 1991a, 464; Ciani, 27, n. 28).
130 Schol. ad 117 (II 78 Dr.).
131 Per l’epiteto χρυσέα che assimila ὑγίεια a una divinità vd. Gentili in Gentili 1995,
416-417.
132 Per l’identificazione con il sole cfr. Schol. ad 134a-b (II 80 Dr.).
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 41

εἰ κατέβαν ὑγίειαν ἄγων χρυσέαν


κῶμόν τ᾿ ἀέθλων Πυθίων αἴγλαν στεϕάνοις,
τοὺς ἀριστεύων Φερένικος ἕλεν Κίρρᾳ ποτέ,
ἀστέρος οὐρανίου
ϕαμὶ τηλαυγέστερον κείνῳ ϕάος133
ἐξικόμαν κε βαθὺν πόντον περάσαις.

«Se gli avessi recato, all’approdo,


un duplice dono,
l’aurea salute e il canto di lode,
ch’è lustro per i serti dei pitici agoni
che un giorno Ferenìco ottenne
nei giochi di Cirra,
dico, a lui sarei giunto
luce lungisplendente più di un astro nel cielo,
varcato il profondo mare».

Nell’interazione di due elementi dello stesso campo semico, ἀστέρος


οὐρανίου come veicolo e τηλαυγέστερον come tenore metaforico134, il poeta
identifica implicitamente l’invio del proprio canto a una luce (ϕάος) che appor-
ta salute, salvezza. E se pure egli non è in grado di produrre le condizioni per
la guarigione di Ierone, affidata nei versi seguenti (vv. 77-78) ad una preghiera
a Cibele, la giustapposizione di salute e canto investe la poesia di una funzione
paragonabile a quella della professione medica, qui impersonata da Chirone.
In termini di poetica, meritano attenzione due epinici in cui lo stesso tema
assume un ruolo strategico, orientandone la significazione globale: la IV
Istmica e la VII Nemea che non casualmente rendono omaggio a Omero.
La IV Istmica celebra la vittoria nella quadriga del tebano Melisso della
famiglia dei Cleonimidi, che aveva perso quattro dei suoi componenti in
battaglia (vv. 17-17b) e poteva annoverare solo vittorie minori ad Atene e
Sicione, ormai dimenticate: la vittoria col carro è dal poeta intesa come un
riscatto e quasi una resurrezione, il succedere della primavera al lungo buio
dell’inverno (vv. 19-24):

133 Incastonato in un’elaborata allegoria architettonica, in Ol. 6, 3-4 anche il proemio


di un canto d’encomio è inteso come una facciata che da lungi splende (ἀρχομένου
δ᾿ ἔργου πρόσωπον / χρὴ θέμεν τηλαυγές); su cui vd. Hutchinson 377.
134 Silk, 116. Per ϕάος come metafora di salvezza proveniente anche da agente uma-
no cfr. e.g. Hom. Il. VIII 282 βάλλ᾽οὕτως, αἴ κέν τι φόως Δαναοῖσι γένηαι. Per
altri esempi vd. ibid. 93, n. 21.
42 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

ὁ κινητὴρ δὲ γᾶς ’Ογχηστὸν οἰκέων


καὶ γέϕυραν ποντιάδα πρὸ Κορίνθου τειχέων,
τόνδε πορὼν γενεᾷ θαυμαστὸν ὕμνον
ἐκ λεχέων ἀνάγει ϕάμαν παλαιάν
εὐκλέων ἔργων· ἐν ὕπνῳ
γὰρ πέσεν· ἀλλ᾿ἀνεγειρομένα χρῶτα λάμπει,
’Αοσϕόρος θαητὸς ὣς ἄστροις ἐν ἄλλοις·

«L’agitatore della Terra,


che abita Onchesto
e il marittimo Istmo davanti alle mura corinzie,
largendo alla stirpe quest’inno mirabile
rialza dal letto la fama antica
delle gesta gloriose: ché era caduta
nel sonno. E svegliata risplende in volto
come tra le altre stelle Lucifero meravigliosa».

Con l’avallo divino di Poseidone, cui i giochi sono dedicati, il canto ha il


potere di risvegliare il ricordo di imprese gloriose, cadute nell’oblio come in
un sonno135, facendole brillare luminose quanto, tra gli tutti astri, Venere, la
stella del mattino. La similitudine conosce un precedente omerico in Il. XXII
317-318, ove è la punta della lancia di Achille a risplendere, come nel cuore
della notte tra le altre stelle avanza Espero, l’astro κάλλιστος ἐν οὐρανῷ136.
Su chi non si cimenta nei giochi incombono silenzio e oscurità, ma an-
che la sorte (τύχα) di chi partecipa resta oscura fino all’esito finale e talora
concede a chi vale meno di sopraffare con l’abilità il più forte (vv. 31-35).
Per giustificare verosimilmente un precedente insuccesso agonale del lau-
dandus, la scelta del paradigma mitico si orienta sulla sorte di Aiace, vitti-
ma della sfortuna, sconfitto da Odisseo nel giudizio delle armi. La sua fine
ingloriosa, sopraggiunta a tarda notte137 (ἴστε μάν / Αἴαντος ἀλκάν, ϕοίνιον
τὰν ὀψίᾳ / ἐν νυκτὶ ταμὼν περὶ ᾧ ϕασγάνῳ vv. 35-36), è qui evocata allo

135 La consapevolezza che gli uomini restano immemori della gloria antica se non
rinnovata nel canto è espressa anche in Isth. 7, 16-21; vd. Gianotti 1975, 75, 105.
Degno di nota è che le imprese sono consegnate al sonno (ἀλλὰ παλαιὰ γάρ / εὕδει
χάρις vv. 16-17) e non alla morte, «proprio perché la parola del poeta può avere
valore retroattivo, ridestando la memoria anche di azioni compiute in un remoto
passato» (Loscalzo, 81, n. 176).
136 Lucifero ad Espero erano considerate eminentemente splendenti Arist. Eth. Nic.
1129b 28. Già in Parmenide (28 A 1,16 D.-K.) era stata accertata la loro identità
vd. Privitera 1982, 176.
137 Il dettaglio temporale coincide con Aethiop. fr. 5 Bern.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 43

scopo di affermare a fortiori il potere della poesia, il paradosso per cui essa
è in grado anche di riscattare gli insuccessi (vv. 37-45):

ἀλλ᾿ Ὃμηρός τοι τετίμακεν δι᾿ἀνθρώπων, ὃς αὐτοῦ


πᾶσαν ὀρθώσαις ἀρετὰν κατὰ ῥάβδον ἔϕρασεν
θεσπεσίων ἐπέων λοιποῖς ἀθύρειν.
τοῦτο γὰρ ἀθάνατον ϕωνᾶεν ἕρπει,
εἴ τις εὖ εἴπῃ τι· καὶ πάγ-
καρπον ἐπὶ χθόνα καὶ διὰ πόντον βέβακεν
ἐργμάτων ἀκτὶς καλῶν ἄσβεστος αἰεί.
προϕρόνων Μοισᾶν τύχοιμεν,
κεῖνον ἅψαι πυρσὸν ὕμνων
καὶ Μελίσσῳ, παγκρατίου στεϕάνωμ᾿ ἐπάξιον,
ἔρνεϊ Τελεσιάδα.

«Ma Omero gli ha reso l’onore tra gli uomini,


ed esaltandone tutto il valore insegnò a cantarlo
ai posteri sullo scettro dei versi divini.
Perché se uno dice bene una lode
essa avanza risuonando immortale: sulla terra
fruttosa e sul mare va
il raggio delle imprese gloriose, inestinguibile sempre138.
Che dalle Muse benevole io ottenga
di accendere quella fiamma di inni
anche in onore di Melisso, virgulto di Telesiade, qual degna
corona al pancrazio».

Grazie alla sua poesia Omero ha innalzato (ὀρθώσαις) rendendolo evidente


ai posteri il valore di Aiace. Cantata da un valente poeta, la lode avanza diffon-
dendosi nel tempo (ἀθάνατον ϕωνᾶεν ἕρπει (v. 40) e la gloria delle imprese,
assimilata ad un raggio solare, si espande per terra e per mare nella totalità del-
lo spazio (πάγκαρπον ἐπὶ χθόνα καὶ διὰ πόντον v. 41) risultando così inestin-
guibile139. Veicolata dal canto, la fama trova concreta espressione nell’imagery

138 Questi versi hanno qualche consonanza con Bacch. 13, 175-181 Sn.-M., dove la
luce riflessa della vittoria (πυρσὸν ὣς [...] / φαίνων vv. 82-83) è evocata in contra-
sto polare con la notte (v. 175); vd. Köhnken, 113-114, e Bremer 1976, 253.
139 La totalità sensoriale implicita in ϕωνᾶεν e ἀκτὶς […] ἄσβεστος risponde agli
aspetti di cui si compone la gloria come «Zusammenhang von Ansicht und An-
sehen», di δόξα e κλέος (Bremer 1976, 252).
44 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

visuale come diffusione di una luce che, oltre gli assi spazio-temporali140, si
profila come materializzazione simbolica della poesia stessa141.
In questa traiettoria, instaurando uno speculare parallelismo tra Omero
e sé e tra Aiace e il laudandus, il poeta si augura di poter accendere anche
per Melisso quella fiaccola ardente di canti (πυρσὸν ὕμνων) sì da riparare –
come il canto di Omero con Aiace – a una ingiusta sconfitta subìta, offren-
dola come «degna corona del pancrazio», sostituto dell’onore negatogli142.
La stretta relazione tra impresa valorosa e canto riceve un’articolazio-
ne più sistematica assurgendo a canone poetico di validità universale nella
Nemea VII, composta per la vittoria nel pentathlon dei ragazzi di Sogenes
di Egina. Dopo l’invocazione incipitaria a Eileithyia, divinità che assiste
le nascite e promuove la vita (ἄνευ σέθεν οὐ ϕάος, οὐ μέλαιναν δρακέντες
εὐφρόναν vv. 2-3)143 e la presentazione del vincitore, il poeta afferma solen-
nemente la necessità della poesia per ricordare le grandi imprese (vv. 11-16):

εἰ δὲ τύχῃ τις ἔρδων, μελίϕρον᾿αἰτίαν


ῥοαῖσι Μοισᾶν ἐνέβαλε· ταὶ μεγάλαι γὰρ ἀλκαί
σκότον πολὺν ὕμνων ἔχοντι δεόμεναι144.
ἔργοις δὲ καλοῖς ἔσοπτρον ἴσαμεν ἑνὶ σὺν τρόπῳ,
εἰ Μναμοσύνας ἕκατι λιπαράμπυκος
εὕρηται ἄποινα μόχθων κλυταῖς ἐπέων ἀοιδαῖς.

«Chi ha successo nell’azione dà un dolce motivo


alle correnti delle Muse: le grandi gesta infatti
hanno molta oscurità, se sono prive degli inni.
Conosciamo in un solo modo uno specchio per le azioni illustri
se, grazie a Mnemosyne dallo splendente velo,
si trova un compenso alle fatiche nelle parole gloriose del canto145.

140 Cfr. e.g. Hom. Il. VII 451, Sapph. fr. 65, 8-9 V.
141 Per l’associazione tra poesia e astro solare, paradigmaticamente eterno, cfr. anche
Theogn. 251-252; Simon. fr. 581, 3 P.
142 Sulla struttura densamente metaforica dei vv. 19-45 vd. Privitera 1982, 181.
143 Le ragioni dell’invocazione a Eileithyia sono delineate in Schol. ad 1a (III 116-
117 Dr.). Per un riepilogo delle posizioni critiche vd. Carey, 137-138; Most 134-
140 e ora Burnett, 186-188, con nuovi spunti esegetici.
144 Sul dovere poetico della lode e sulle sue articolazioni vd. e.g. Gianotti, 18ss., e
Kurke, 97-103.
145 Cfr. Isth. 5, 53-58: le spese e le fatiche sostenute dagli Psalichiadi grazie al canto
non sono rimaste cieche ovvero senza gloria; per altri passi vd. Willcock, 15-16, e
in generale Kurke, 163-194.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 45

Si intrecciano nel passo due delle più comuni metafore poetologiche di


Pindaro: l’acqua e la luce, sottesa nell’antitesi tra oscurità (σκότον) dell’o-
blio vs specchio (ἔσοπτρον) e lucente velo (λιπαράμπυκος) di Memoria,
madre delle Muse, qui proiezione sul piano della diacronia di ciò che rap-
presentano lode, ammirazione e fama sul piano sincronico. Entrambe le
metafore sono orientate a sintetizzare coerentemente la poetica propria
della poesia encomiastica: l’acqua nel suo perenne fluire è simbolo d’i-
spirazione poetica ma anche di immortalità146 così come il canto, spec-
chio che riflette un’immagine fedele delle imprese illustri, è dispensatore e
propagatore di verità e immortalità, giacché assicura ai valorosi una fama
più grande delle sofferenze, com’è accaduto a Odisseo in virtù dei versi
di Omero (vv. 20-21)147. Attraverso la successione di punti correlati che
intrecciano inestricabilmente due livelli di senso, atletico ed estetico-mo-
rale148, il discorso converge verso l’affermazione che la fama è espansa e al
contempo potenziata dal canto che la rende eterna, compenso alle fatiche e
unica garanzia di sopravvivenza (cfr. Isth. 1, 47-51 e 5, 26-28).

7. Luce-lode vs buio-invidia/biasimo

L’epinicio pindarico è stato definito «an art of chiaroscuro» perché la


luce della lode conosce la possibilità di essere oscurata dall’assenza di
lode149. Come si è avuto occasione di constatare, il paradigma impresa-
luce-canto è spesso declinato al negativo: le azioni illustri non devono gia-
cere nascoste nel silenzio, cfr. Nem. 9, 6-7 (ἔστι δέ τις λόγος ἀνθρώπων,
τετελεσμένον ἐσλόν / μὴ χαμαὶ σιγᾷ καλύψαι), poiché la poesia (Μοῖσα)
ama rievocare le grandi imprese sportive (Nem. 1, 11-12). Quanti non si
cimentano partecipando alle gare o quanti non attingono con successo al
supremo traguardo (τέλος ἄκρον Isth. 4, 32) sono condannati all’anonima-
to (τῶν ἀπειράτων γὰρ ἄγνωστοι σιωπαί150, ibid. v. 30).

146 Vd. Gianotti, 110-115, e un’ampia documentazione in Péron 1974, 234ss.


147 Il confronto fra esistenza e mediazione poetica, con echi tipicamente omerici (Il. VI,
357-358, Od. VIII, 579-580), ricorre in Eur. Tr. 1242-1245 nel discorso di Ecuba
che si consola delle sue sventure con l’argomento che se gli dei non avessero voluto
la distruzione di Troia «saremmo oscuri (ἀφανεῖς ἂν ὄντες) e non verremmo cele-
brati, procurando motivo di canto alle Muse dei posteri» (vd. Paduano, 642).
148 Su cui vd. Segal 1967, in part. 442-450.
149 Hamilton, 77.
150 Sulla valenza «concrétisante» del plurale nel caso di termini astratti vd. Hummel, 53.
46 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Entro questa logica binaria, come l’oscurità permette alla luce di essere
percepita come tale, così la sconfitta, come mancanza di possibile vittoria,
consente alla vittoria di essere intesa come tale151. Di conseguenza il focus
encomiastico oscilla tra i due poli della luce e dell’oscurità con cui è rap-
presentata la sconfitta come assenza dello splendore diffuso dalla lode. Di
converso quest’ultimo è descritto esplicitamente come una vittoria della
poesia sull’oscurità e sull’invidia (φθόνος) che aspira a inghiottirlo. L’ana-
logia tra compito encomiastico e gesto atletico è illustrata in uno scorcio
della quarta Nemea, dedicata al lottatore egineta Timasarco (vv. 37-41)152:

σϕόδρα δόξομεν
δαΐων ὑπέρτεροι ἐν ϕάει καταβαίνειν·
ϕθονερὰ δ᾿ἆλλος ἀνὴρ153 βλέπων
γνώμαν κενεὰν σκότῳ κυλίνδει
χαμαὶ πετοῖσαν154.

«Più grandi dei nemici usciremo alla luce.


Un altro dallo sguardo invidioso
rotola nel buio un pensiero vuoto
che cade a terra».

Dopo la sezione gnomica (vv. 30-32), la preparazione alla lode della pa-
tria del vincitore è articolata in una complessa metafora mutuata dalla lotta,
specialità di Timasarco: come gli avversari lottano per ostacolare la vitto-
ria altrui, così gli invidiosi aspirano a negare al vincitore il suo successo.
Funzionale alla retorica eulogistica è l’analogia che assimila il laudandus
al poeta che parimenti avrà la meglio sugli avversari facendoli rotolare a
terra: come il successo atletico (Pyth. 7, 19; 11, 29, Nem. 1, 24), anche la
parola di lode attira il biasimo degli invidiosi155.

151 Hamilton 77.


152 Su cui vd. anche supra p. 37.
153 Quanto alla genericità sul piano referenziale di ἄλλος ἀνήρ e del confronto pole-
mico, interpretato dagli scolii con eccesso di biografismo, vd. Hubbard 1985, 144,
79-80; Burnett, 125, n. 7.
154 Il pensiero vuoto dell’invidioso metaforizza l’impotenza dell’intelletto, «a cha-
racteristic flaw of the φθονεροί» Bulman, 65 e 24-25. Per la metafora cfr. Ol. 9,
12 e Pyth. 4, 98.
155 Per il nesso tra lode elargita e biasimo/invidia cfr. Pyth. 1, 81-86, con commento
di Cingano in Gentili 1995, 358; e fr. 181 Sn.-M. ὁ γὰρ ἐξ οἴκου ποτὶ μῶμον
ἔπαινος κίρναται.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 47

Le categorie della lode e del biasimo, che notoriamente corrispondono


a due funzioni strutturali della poesia arcaica156, nel canto pindarico si di-
spongono intrecciandosi con la metafora della luce come coerenti polarità
concettuali157: luce/lode vs oscurità/biasimo-assenza di lode. La vita umana
corre tra questi due cardini, luce della lode e oscurità del silenzio158, che nella
settima Nemea vv. 61-63 sono esemplati in una sinestesia visivo-uditiva:

ξεῖνός εἰμι159· σκοτεινὸν ἀπέχων ψόγον,


ὕδατος ὥτε ῥοὰς ϕίλον ἐς ἄνδρ᾿ἄγων
κλέος ἐτήτυμον αἰνέσω·
ποτίϕορος δ᾿ἀγαθοῖσι μισθὸς οὗτος.

« Sono tuo ospite; astenendomi dal biasimo tenebroso


loderò la sua gloria secondo verità
come traendo correnti d’acqua per l’amico:
questo è il premio che si addice agli uomini nobili».

Per riaffermare l’importanza della poesia nella conservazione della verità


riguardo alle grandi imprese, il campo semico visualizza ancora le immagini
dell’acqua e della luce (vd. supra) che percorrono l’intero epinicio articolando-
ne coerentemente la struttura per antitesi (vv. 3-4, 11-15, 23b-24, 25, 61-76)160.
Sottolineando il suo rapporto di ospitalità con il committente161, qui l’‛io’ po-
etico afferma di astenersi dall’invidia162, e conseguentemente dalla parola ma-

156 Vd. Detienne, 10-13; Nagy, 222-224; Gentili 1989, 141-151. Sulle varie gradazio-
ni e sfumature dello ψόγος in rapporto all’oggetto del discorso vd. Kirkwood.
157 Comuni nel pensiero arcaico, vd. Crotty, 2 e in generale Lloyd, 42ss.
158 L’opposizione è variamente articolata in Ol. 1, 82-84 (τά κέ τις ἀνώνυμον / γῆρας ἐν
σκότῳ καθήμενος ἕψοι μάταν, / ἁπάντων καλῶν ἄμμορος;) e Nem. 7, 12-13 σκότος
vs Μναμοσύνα. Commissionando l’epinicio, Ierone è consapevole di «non tenere
celata turrita ricchezza sotto il nero manto dell’oblio» Bacch. 3, 13-14 Sn.-M.
159 Sul problema del ‘poetic ‘I’’, oggetto di inesauste dispute, vischioso soprattutto in
quest’ode che lo vede combinato in plurime modulazioni (vv. 20, 61, 66, 85, 102),
rimando tra gli altri a D’Alessio e Currie (con ampia discussione dello status quae-
stionis), che ipotizza qui un’oscillazione tra il poeta tebano (v. 61) e il coro eginetico
(v. 85): vd. in part. 247-248, 273-274. Sull’allure gnomica del passo in cui l’ ‘io’
gnomico ha funzione di sostenere la sincerità della lode vd. Pavese 1978, 676.
160 Vd. Bury, 116-117; Schadewaldt 1928, 299, e in dettaglio ancora Segal 1967,
450-456.
161 Per la relazione di ξενία o di φιλία tra laudandus e committente vd. Gianotti, 14;
Kurke, 86, 100.
162 Che coglie invece i concittadini, secondo gli Scholl. ad 89b 7-12; c (III 128 Dr.).
48 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

levola (cfr. Ol. 6, 74-76) che consisterebbe nello sminuire l’importanza della
vittoria (Schol. ad 124b ὡς μηδενὸς ἀξιολόγου τετυχηκότας, I 181 Dr.)163.
Il biasimo è definito oscuro, σκοτεινός (cfr. vv. 12-13), perché l’eccellenza
nella sfera dell’azione corre il rischio, se non riceve eco nella sfera poetica, di
essere privata di ogni possibilità di sopravvivenza e dunque di luce164.

8. Il raggio visuale e il sole

È comunemente riconosciuto il fatto che la poesia di Pindaro è forte-


mente orientata verso il concreto165. Anche la metaforica della luce costi-
tuisce un esempio della concretezza della costruzione pindarica della real-
tà166. Nella complessa imagery di luce/buio che domina la settima Nemea è
rilevante che l’‘io’ poetico definisca il proprio sguardo tra i cittadini come
«brillante» (ὄμματι δέρκομαι λαμπρόν, v. 66)167. Con l’associazione pa-
radigmatica tra occhio e luminosità acquista evidenza sensoriale una ri-
flessione della percezione visiva che, muovendo da Empedocle168 , trovò
precisa articolazione teorica nel Timeo (45b 2-6)169. Luce e visione erano
un’attività dinamica per il pensiero greco, arcaico e classico. La facoltà
percettiva è identificata con il fuoco presente nell’organo della vista e il
processo visivo opera come proiezione del fuoco interno nel nostro corpo
e affine alla luce esterna, che viene filtrato dal centro dell’occhio, così da
lasciare fluire verso l’esterno solo la parte più pura e compatta. La visione è
spiegata come una emissione di tale fuoco o «flusso visivo» (τὸ τῆς ὄψεως

163 Atteso il fondamento divino del successo, «to praise it is to confirm the divine
order, just as to criticize it is to blame not only the successful man, but also the
gods themselves who have made him successful» Most, 88.
164 «As an encomiast, he [scil. Pindaro] explicitly must counter the forces that work
against his praise, and yet it is precisely these counterforces, as manifestations of
darkness, that alone ensure the viability of the praise’s light» Hamilton, 80; vd.
anche Arrighetti, 103-104.
165 Schadewaldt 1928, 306-308; Fränkel 19693, 552-554, 564-565.
166 «Pindar’s poetry wants to be all that the sculptural and architectural arts are and
more: palpable, visible, hard, substantial, shiny, reflective and reflexive all at
once» Porter, 13.
167 Nem. 7, 65-67 «confido nell’ospitalità e tra i cittadini / guardo con occhio lumino-
so, senza superbia, / immune da ogni violenza».
168 Emped. 31 A 86,18-19; 90; 91; B 84 D.-K. (cfr. Leuc. 67 A 29 D.-K.; Democr. 68
A 135, 50 D.-K., Alcm. 24 A 5 D.-K.).
169 Su cui vd. anche supra, p. 28.
E. Fabbro - La luce: metafora strutturale in Pindaro 49

ῥεῦμα) che si fonde e combina con la «luce diurna» (μεθημερινὸν φῶς)170.


In tal modo l’occhio, promanando raggi che si proiettano sugli oggetti, può
essere effettivamente considerato sede e fonte di luminosità, che della vista
diventa caratteristica antonomastica171: un riflesso di tale rappresentazione
sembra annidarsi nella metafora μὴ κρύπτειν ϕάος / ὀμμάτων (Nem. 10, 40-
41)172. Lo sfondo pertiene certo alle credenze popolari ma testimonia anche
una continuità tra modelli poetici e scientifici coevi della visione.
La riflessione platonica sui processi visivi si sviluppa anche nella Re-
pubblica dove si istituisce un’analogia tra il sole e l’occhio che riceve la
sua facoltà «da esso dispensata come un afflusso» (ἐκ τούτου ταμιευομένην
ὥσπερ ἐπίρρυτον 508b 6-7). L’occhio (o la vista) non sono il sole ma pos-
sono essere considerati «il più solare degli organi» (ἡλιοειδέστατον […]
τῶν περὶ τὰς αἰσθήσεις ὀργάνων b 3-4)173. Se la luce è l’elemento essenzia-
le per innescare il processo visivo, di converso l’astro solare può riflettere
sull’organo della vista il proprio potere: un’implicazione di questo fecondo
gioco di specchi sembra condensata in un esordio innico di alta caratura,
in cui la luce solare viene invocata come «madre degli occhi». Si tratta di
un peana commissionato dai Tebani (Paean. ΙΧ =fr. 52k Sn.-M.) in onore
di Apollo e dell’eroe Teneros, ed eseguito nel santuario dell’Ismenion in
occasione di un’eclisse – forse quella totale verificatasi il 30 aprile 463174 –
che getta gli uomini in angoscia impotente:

’Ακτὶς ἀελίου, τί πολύσκοπε μήσεαι,


ὦ μᾶτερ ὀμμάτων, ἄστρον ὑπέρτατον
ἐν ἁμέρᾳ κλεπτόμενον; (vv. 1-3)

«Raggio del sole, cosa hai pensato, tu che tutto vedi,


madre degli occhi, astro eccelso,
sottratto in pieno giorno alla vista?»

La metafora prende avvio ancora da una tangenza tra i campi semantici


della visione e della luce: il raggio solare, paradigma della vista umana, gene-
ra e «‟nutre” la lucentezza dell’occhio che a sua volta emette raggi come un

170 Plat. Tim. 45c 3, ma cfr. anche 45b 6-d 2; sulla teoria platonica della visione vd. in
particolare Taylor, 276-282.
171 Vd. Rizzini, 129, e in generale 128-144.
172 Cfr. Aesch. Pers. 150-151 e Soph. Oed.R. 1483 ove τὰ πρόσθε λαμπρὰ […]
ὄμματα sono definiti con nostalgia i propri occhi da Edipo appena accecatosi.
173 Vd. Mugler 1960, 60; Longo, 164-167.
174 Rutherford, 192-193.
50 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

piccolo sole». Nello scambio degli attributi tra astro e occhio, figure metafo-
riche vicendevoli, si profila la percezione di una somiglianza qualitativa ma
anche funzionale: come il sole l’occhio splende, come l’occhio il sole vede
in un circolo virtuoso tra percezione e realtà175. E l’assimilazione originaria
dell’occhio al sole è implicitamente sottesa dall’uso di ἀκτίς (propriamente il
raggio solare) per indicare il raggio visivo, ad esempio nell’encomio dedicato
a Teosseno di Tenedo in cui la potenza seduttiva del suo sguardo promana da
raggi che si propagano scintillanti dai suoi occhi (τὰς δὲ Θεοξένου ἀκτῖνας
πρὸς ὄσσων / μαρμαριθοίσας (fr. 123, 2-3 Sn.-M.).

La ricognizione dei passi pindarici ci ha indotto a constatare non solo l’ampia


diffusione del tema, dispiegato in densa concretezza visiva, ma la compattezza
delle strutture espressive e assiologiche che presiedono al suo trattamento, pure
articolandolo in un ampio ventaglio di variazioni, quali produttive di corto-
circuiti immaginativi, quali all’opposto aderenti alla realtà contestuale: così
il concetto che può considerarsi basilare, l’origine divina della luce, nell’ot-
tava Pitica irrompe a riscattare, mediante la vertiginosa antitesi «il sogno di
un’ombra», la precarietà dell’esistenza umana, nella quinta Istmica invece si
assesta attingendo ai termini tradizionali della teogonia esiodea.
L’utilizzo della metafora della luce a definire diversi settori della vita
sociale dell’uomo, quale significante ad esempio della giustizia, della ric-
chezza, del valore militare, costruisce efficacemente il quadro di una so-
cietà compatta, scevra di conflitti; ma il massimo potere rappresentativo
è assegnato alla valentìa atletica, generatrice dell’epinicio, e al medium
poetico che la ‘illumina’ consegnandola alla memoria futura.

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Salvatore Lavecchia
ALLA RICERCA DELLA SFERA DI LUCE
Parmenide, Platone, Plotino

La sfera di luce intelligibile è una delle immagini concettualmente più inte-


ressanti e più intensamente presenti nei contesti speculativi in cui il Principio
di tutte le cose viene percepito quale coscienza eminentemente manifestativa1:
quale originario centro generatore della luce intelligibile, intesa come essenza
dell’Essere. Eppure, nonostante la sua pregnanza e rilevanza nella metafisi-
ca della luce, finora, tanto nelle fonti che la presuppungono quanto negli stu-
di concernenti la metafisica della luce, la suddetta immagine non è mai stata
esplicitata nella sua dinamica concettuale. In questo quadro le pagine seguenti
si propongono da un lato di colmare questa lacuna2, dall’altro di mostrare come
la sfera di luce intelligibile fosse un’immagine già presupposta in tre figure
chiave della filosofia antica, ossia in Parmenide, Platone e Plotino. Di conse-
guenza, il presente lavoro sarà suddiviso in una sezione dedicata all’esplica-
zione concettuale della sfera di luce ed in tre sezioni dedicate a valorizzare la
presenza di quest’immagine nei tre filosofi appena indicati.

1. La sfera in cui ogni punto è centro. Dalla luce intelligibile alla luce fisica

La sfera di luce intelligibile presuppone, come ovvio, un originario cen-


tro generatore della sua luce. Un centro la cui attività generativa e manife-
stativa, in quanto attività intelligibile, da un lato, ovviamente, trascenderà
lo spazio e il tempo, dall’altro sarà caratterizzata dall’essere infinita, in-

1 Per un ricco quadro storico riguardo a questa immagine si veda Hedwig. Sull’im-
magine della sfera come illustrazione di dinamiche metafisiche resta ancora valida
la trattazione di Mahnke; ma si veda ora anche la bella costellazione di contributi
in Totaro-Valente, con amplissima bibliografia.
2 Una esplicazione della sfera di luce intelligibile secondo le linee tracciate nelle
pagine seguenti l’ho già proposta in Lavecchia 2014a; Lavecchia 2014b; Lavec-
chia 2015a, 42-48. In questi contributi l’esplicazione si estende fino a quella che
potrebbe essere indicata come deduzione del centro di coscienzialità fenomenica,
ovvero dell’io fenomenico, dalla sfera intelligibile.
58 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

condizionata: espansione, esteriorizzazione infinita. Si tratta, dunque, di un


centro che, al di là dello spazio e del tempo e, perciò, istantaneamente ed
eternamente, genera una sfera di luce infinita; dove l’istantaneità implica
unità piena, vale a dire assenza di successione, fra centro e sfera infinita
generata dal centro. In altri termini, il centro di luce originario è tale perché
è immediatamente sfera infinita, senza, pertanto, che la sfera si collochi in
una dimensione distinta rispetto al centro. Il centro, insomma, non è pensa-
bile senza la sfera infinita, e, naturalmente, viceversa3.
Ora, accadendo oltre lo spazio e il tempo, l’espansione, l’esteriorizza-
zione, la manifestatività infinita del centro originario non implicherà alcuna
rarefazione della luce; senza spazio e tempo, infatti, non può sussistere una
distanza rispetto a quel centro. Esteriorizzandosi all’infinito la luce di quel
centro rimane, allora, infinitamente concentrata, interiorizzata. All’infini-
to la sua esteriorizzazione sarà, quindi, istantanea unità con un’interioriz-
zazione infinita. In altre parole, nella luce intelligibile l’esteriorizzazione
all’infinito di un originario centro istantaneamente si rovescia, manifestan-
dosi istantaneamente, appunto, come concentrazione, interiorizzazione,
ovvero – trattandosi di una esteriorizzazione non unidirezionale, ma on-
nidirezionale, ossia sferica – come pluralità di punti o, detto altrimenti,
come superficie della sfera generata dal suddetto centro. Ricorrendo ad
una nozione matematica si potrebbe dire: nella luce intelligibile il limi-
te dell’esteriorizzarsi all’infinito da parte di un centro originario non sarà
un’indefinita infinità nella sfera che quel centro istantaneamente genera;
sarà, invece, l’infinita molteplicità dei punti costituenti la circonferenza, la
superficie di quella sfera. I punti che costituiscono la circonferenza, a loro
volta, non saranno rispecchiamenti, riflessi del centro originario, come se
fossero proiezioni immanenti ad uno spazio euclideo. Perché nella luce in-
telligibile, come appena visto, esteriorizzazione e interiorizzazione – ossia
sfera e punto – sono un’istantanea unità: la loro istantanea unità generata

3 L’immediata unità di punto e sfera infinita nella luce intelligibile viene esplicita-
mente evidenziata per la prima volta, per quanto ne so, da Roberto Grossatesta:
cfr. Hexaemeron 97, 26-98, 5 Dales-Gieben; De Luce 76, 2-4 e 77, 28-30 Panti.
Comunque, in nessun luogo della sua opera Grossetesta esplicita o caratterizza la
dinamica oggetto delle riflessioni proposte in queste pagine. Come mostra chia-
ramente il contributo di Cecilia Panti pubblicato in questo volume, l’esplicazione
di Grossatesta concernente il manifestarsi della luce fisica a partire dalla luce
intelligibile presenta alcuni presupposti eterogenei rispetto all’esplicazione qui
offerta. Riguardo alla filosofia della luce di Grossatesta in generale basti rinviare a
Hedwig, 118-150; Saccaro Battisti; Panti 1999; Oliver; Agnoli; Panti 2011, 1-36;
nonché all’ulteriore bibliografia cui rinvia Cecilia Panti nel suo contributo interno
a questo volume.
S. Lavecchia - Alla ricerca della sfera di luce 59

dall’infinita manifestatività del centro originario. In altri termini, dall’in-


finito di quella manifestatività i punti della circonferenza istantaneamente
manifesteranno la propria unità col centro originario. Ed in questa unità
– unità di centro e periferia trascendente spazio e tempo – i punti – centri
d’interiorità – che si manifestano dall’infinito saranno istantaneo ed eterno
incontro con l’originario centro di luce. Incontro che non potrà essere as-
sorbimento di quei punti, della loro autonomia e interiorità, da parte di quel
centro. Quell’incontro, infatti, è l’infinito esteriorizzarsi di quel centro, che
è quel centro proprio perché istantaneamente, eternamente ed inesauribil-
mente si genera, ossia si esteriorizza quale infinita sfera di luce spirituale,
intelligibile: appunto quale infinità che istantaneamente ed eternamente si
essenzia nell’incontro fra centri d’interiorità, vale a dire fra autonomi cen-
tri di luce.
Riassumendo: la sfera di luce intelligibile manifesta una dinamica unità
in cui ogni punto della circonferenza è centro e la circonferenza trascende
ogni localizzabilità. Unità in cui la sfera non contiene altri punti se non
quelli che costituiscono la circonferenza. Fuori da spazio e tempo, infatti,
nulla sussiste fra il centro e la circonferenza, perché istantaneamente il
centro si genera come circonferenza, e ogni punto della circonferenza è
istantanea trasparenza del centro; trasparenza in cui, trascendendo spazio
e tempo, ogni punto della sfera, nell’essere trasparenza di sé e del centro
originario, è trasparenza e unità di tutti gli altri punti, ovvero della sfera
nella sua totalità. A questa unità rinvia per la prima volta in modo esplici-
to il Liber XXIV Philosophorum (XI-XII secolo), nel quale il Principio di
tutte le cose, Dio, viene caratterizzato, appunto, come sfera infinita in cui il
centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo (sphaera infinita cuius
centrum est ubique, circumferentia nusquam4). A questa caratterizzazione
nel Liber non è connesso alcun riferimento alla luce intelligibile, ovvero a
Dio come suo originario centro generatore. Per essere coerente, vale a dire
pienamente comprensibile, l’immagine che essa presuppone richiede, però,
tale riferimento. Infatti, senza l’intrinseca, istantanea dinamicità risultante
dall’essere un centro di luce intelligibile, il centro della sfera infinita, così
come la sfera infinita in generale, non possono essere percepiti evitando
una qualche spazializzazione o fisicizzazione; ma ogni spazializzazione o
fisicizzazione rende assurda l’immagine proposta nel Liber, vale a dire l’u-
nità di centro e periferia a cui esso rinvia, costringendo ad intenderla quale

4 Liber XXIV Philosophorum II, da cui deriva XVIII, ovvero che Dio è una sfera
in cui tante sono le circonferenze quanti i punti. Su questa immagine del Liber
e sulla sua ricezione basti qui rinviare a Lucentini 1999, 30-37; Lucentini 2012;
Beccarisi.
60 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

coincidenza, ed implicando, perciò, in fondo, un riassorbimento nel centro


di ogni altra componente della sfera. L’unità che manifesta la sfera di luce
intelligibile mostra, invece, carattere contrario a quello, eminentemente
statico, di una coincidenza. Trascendendo spazio e tempo, ed escludendo,
quindi, come già detto, la frapposizione di qualcosa tra le componenti della
sfera, tale unità dinamicamente salvaguarda l’autonomia di quelle compo-
nenti, perché è, intrinsecamente, periodicità, ritmicità trascendente spazio
e tempo: armonia dinamica e istantanea fra le componenti della sfera, da
intendersi come un respiro, un pulsare che non ha manifestazione fisica, ed
in cui la coscienza, l’autentica interiorità di ogni componente, è istantanea,
attiva e piena manifestazione dell’essere, dell’esteriorizzarsi di tutte le al-
tre e della loro totalità. In altre parole, nella sfera di luce intelligibile l’inte-
riorità, la coscienza di ogni componente, nell’essere centro di luce, cogene-
ra nel proprio esteriorizzarsi, nel proprio essere, l’esteriorizzarsi, l’essere
di ogni altra componente, ossia è trasparenza della sua interiorità, della
sua coscienza nel suo infinito esteriorizzarsi. Ne deriva quella istantanea e
dinamica unità di essere e coscienza percepita, fin dalle origini dell’onto-
logia, come essenziante il mondo divino, o mondo spirituale/intelligibile.
Ma come si può giungere dalla primigenia sfera di luce intelligibile,
immagine che ritrae l’originario ed archetipico manifestarsi dell’Essere,
al generarsi della realtà fisica/corporea? Ovvero come si può esplicare il
generarsi della luce fisica a partire dalla sfera di luce intelligibile?
Per dare una risposta occorre approfondire ulteriormente l’immagine fin
qui caratterizzata, soffermandosi sui punti (centri di luce) che costituiscono
la sfera intelligibile, e che non sono il centro originario, ma la sua istanta-
nea manifestazione e trasparenza. Adesso non dovremo concentrarci, dun-
que, sull’irraggiarsi dell’originario centro di luce, vale a dire sulla sfera che
quel centro istantaneamente genera, ma sull’infinito impulso a irraggiarsi
peculiare di ogni punto della sfera che non sia quel centro: sull’impulso
manifestativo dei punti che formano la circonferenza della sfera. Ora, pur
essendo infinito, quell’impulso si manifesta determinato dall’identità dei
centri di coscienza/luce che lo generano: dal fatto che essi non sussistereb-
bero se non originati dal centro originario. Se, infatti, l’originario centro ed
il suo manifestarsi ha in se stesso la propria origine, gli altri punti (centri
di luce) ed il loro manifestarsi hanno, invece, in quel centro la propria
radice. Nel momento in cui gli altri punti (centri di luce) irraggiano la pro-
pria luce per generare una realtà altra rispetto alla sfera intelligibile, quella
luce non è, allora, immediatamente originaria: il suo irraggiarsi è mediato
dalla relazione col centro originario e, quindi, determinato da una identità,
ossia dal non poter generarsi senza relazione col centro originario. Mentre,
S. Lavecchia - Alla ricerca della sfera di luce 61

allora, l’incondizionato esteriorizzarsi del centro originario, trascendendo


ogni identità, è istantanea unità col proprio contrario, ovvero, come abbia-
mo visto, unità di infinito esteriorizzarsi e infinito interiorizzarsi, di essere
e coscienza, l’infinito esteriorizzarsi degli altri punti (centri di luce) della
sfera, essendo determinato dalla propria identità, rimarrà condizionato da
quell’identità, ossia dal proprio essere un esteriorizzarsi: all’infinito rimar-
rà, quindi, un esteriorizzarsi. In termini matematici potremmo dire: all’infi-
nito il suo limite non sarà, come nel caso del centro originario, l’istantaneo
manifestarsi dell’unità col suo contrario, ossia un infinito interiorizzarsi,
ma un infinito potenziarsi e univocizzarsi della sua esteriorizzazione ov-
vero un infinito esteriorizzarsi. In altri termini, all’infinito l’esteriorizzarsi
della luce generata dai centri di luce intelligibile non originari implica un
rovesciarsi dell’intelligibile, dello spirituale nel fisico, dell’alterità nella
separazione: il generarsi della luce fisica e, insieme con essa, non solo
dell’ombra e dei colori, ma anche della tenebra; vale a dire il separarsi
di essere e coscienza, ossia il generarsi d’uno spazio in(de)finito non più
semplicemente opposto, ma contraddittorio rispetto alla coscienza che lo
sperimenta, e che non lo riesce ad abbracciare istantaneamente ed integral-
mente.
In questa prospettiva risulta evidente come la sfera di luce intelligibile
sia immagine che illustra bene la prospettiva non dualistica della metafisi-
ca da cui trae origine: una metafisica in cui la corporeità, la fisicità, non è
frutto di un Principio della tenebra diverso da quello della luce, ma di una
dinamica manifestativa originata da un unico Principio, alla cui manife-
statività incondizionata – della quale la sfera intelligibile è immagine – è
legato, sebbene in modo mediato, il generarsi di una dimensione corporea
o fisica dell’essere.

Nel quadro finora delineato può essere interessante porsi sulle tracce
della sfera di luce intelligibile in relazione a tre grandi figure che hanno
affermato con forza l’intrinseca unità di essere e coscienza riguardo all’o-
riginario manifestarsi dell’Essere – unità di cui quella sfera è icastica im-
magine –: Parmenide, Platone, Plotino. Il loro legame con la sfera di luce
intelligibile potrà rendere quell’unità più immaginabile, più percepibile,
contribuendo, così, alla comprensibilità di una dimensione essenziale nella
loro filosofia e, per questo, quanto mai rilevante per la storia della cultura
europea e non solo.
Qui ci si concentrerà solo sull’aspetto della sfera di luce appena men-
zionato, ossia sul suo rinviare ad un’istantanea unità di essere e coscienza.
Per non appensantire troppo la presente trattazione, non si approfondirà in
62 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

modo simile il possibile rapporto dei suddetti tre filosofi con una deduzione
della corporeità/fisicità a partire dalla sfera di luce intelligibile; al riguardo
ci si limiterà a rinviare nel luogo opportuno ad altri contesti nei quali chi
scrive ha condotto quell’approfondimento.

2. Parmenide: l’Essere come sfera

Come noto, Parmenide qualifica l’Essere come realtà che, implicante


un limite, può essere caratterizzata come una sfera: Parm. 28 B 8, 42-43
Diels-Kranz αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί / πάντοθεν,
εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ (...)5. Poiché è caratterizzato da un
supremo limite, l’Essere è compiuto a partire da tutte le direzioni, ovvero è
simile al volume, appunto, di una sfera. L’Essere è, di conseguenza, identi-
co a se stesso a partire da ogni punto, vale a dire è tale da incontrare i propri
limiti secondo una modalità costante (ibid., 49 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς
ἐν πείρασι κύρει); e poiché non è originato, generato o principiato, vale a
dire trascende passato e futuro (ibid., 5-7, 9-11, 20-21, 27), esso è imme-
diatamente la propria totalità, unità e continuità (ibid., 5-6 νῦν ἔστιν ὁμοῦ
πᾶν, / ἕν, συνεχές; cfr. 9-11), ossia la propria immediata relazione e unione
con se stesso: nella totale pienezza di sé, congiunto a se stesso a partire
dal fatto che è (ibid., 23-25 πᾶν δ᾽ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. / τῷ ξυνεχὲς πᾶν
ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει6).
In questo orizzonte la sfera dell’Essere sembra dover intendersi come
dinamica pluralità infinita. Pluralità presupposta dalle nozioni di continui-
tà, omogeneità, totalità e autorelazionalità, nonché dal rinvio alla onnidire-
zionalità dell’Essere. Infinita, questa pluralità, ovviamente non nel senso di
un infinito potenziale, ma nel senso di un infinito attuale, concetto del tutto
armonico con la nozione di limite presupposta da Parmenide. Attuale, que-
sto infinito, perché eternamente ed istantaneamente presente a sé, in quanto
trascendente ogni inizio, ogni tempo e ogni spazio. La natura della pluralità
infinita a cui ci stiamo riferendo è, dunque, comprensibile nel modo più
pieno riferendosi all’infinità attuale della sfera di luce intelligibile; infinità
tale da armonizzare fra loro le nozioni di unità, pluralità e continuità senza

5 La sfericità del Principio (il Dio) è già affermata in Senocrate: si vedano i luoghi
menzionati in Diels-Kranz 1952, s.v. σφαιροειδής.
6 Interpreto il secondo colon del verso 25 nel modo seguente: “poiché, infatti, è, è
congiunto a se stesso in quanto (nella sua qualità di) essente”, ad evidenziare che
nell’Essere il fatto di essere in sé implica immediatamente l’unità (come ovvio
cosciente) dell’essente con se stesso.
S. Lavecchia - Alla ricerca della sfera di luce 63

cadere in qualche forma di spazializzazione, ovvero senza costringere a


pensare una coincidenza. Del resto, che l’Essere si sostanzi di luce, e di una
luce trascendente il tempo e, dunque, sovrasensibile, lo mostra l’incipit del
poema parmenideo, caratterizzando il viaggio di Parmenide come viaggio,
appunto, verso la luce (Parm. 28 B 1, 10 Diels-Kranz), nonché verso una
meta che trascende i confini di giorno e notte (ibid., 11), vale a dire ogni
nozione di tempo (e, quindi, anche di spazio).
A partire da queste premesse, ovvero da un rapporto fra l’Essere e la sfe-
ra di luce intelligibile, l’ontologia di Parmenide sembrerebbe ben distante
da quel rigido, statico ed univoco monismo che sovente le viene attribuito.
Lungi dal manifestarsi esclusivamente come Uno, in questa prospettiva
l’Essere parmenideo, infatti, si rivelerebbe realtà intrinsecamente e dina-
micamente uni-molteplice7. La sfera di luce intelligibile consentirebbe,
inoltre, di comprendere fino in fondo quella unità di essere e coscienza che
Parmenide sperimenta come peculiare della suprema realtà (28 B 3 Diels-
Kranz): intrinseca unità di interiorità ed esteriorità, nella quale quella realtà
si essenzia come archetipo e sostanza della Verità, della ἀλήθεια (cfr. 28
B 1, 29 Diels-Kranz), vale a dire come totale assenza di nascondimento.

7 Per l’interpretazione della sfera parmenidea come rinviante all’unità dinamica


dell’Essere, interpretazione già avanzata in numerose autorevoli sedi, basti rinviare
ai contributi menzionati in Ruggiu, 309, n. 506. Ruggiu, p. 310 richiama l’analogia
platonica fra il Bene e il sole, nonché la metafisica plotiniana dell’Uno. Riguardo ad
una prospettiva di monismo pluralistico concordo con numerosi contributi all’ese-
gesi di Parmenide: basti rinviare a Untersteiner e Curd (nei quali comunque manca
ogni riferimento alla possibilità di integrare la sfera di luce nell’interpretazione di
Parmenide). Condivido, dunque, le interpretazioni neoplatoniche dell’ontologia
parmenidea, secondo le quali l’Essere di Parmenide non può essere identificato
con un assolutamente Uno (riguardo a queste interpretazioni si veda l’esemplare
trattazione in Abbate, 115-253). Contro questa identificazione vanno, secondo me,
alcune nozioni applicate da Parmenide all’Essere, come quella di sfera, di conti-
nuità e di integrità (cfr. il molto probabile οὐλομελές in fr. 8, 4), che – a meno
di voler ammettere incongruenze concettuali da parte di Parmenide – in se stesse
implicano una qualche forma di pluralità, per quanto questa pluralità possa essere
trascesa dall’unità, ovvero pienamente integrata in essa. Non credo sia opportuno
interpretare οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν di fr. 8, 23 come esclusione di ogni differenza/
alterità (così Abbate, 22-25; cfr. in generale la splendida difesa di una interpretazio-
ne dell’ontologia parmenidea come monismo assoluto in Abbate, 3-76): qui Parme-
nide, in armonia con quanto affermato riguardo all’assoluta continuità dell’Essere,
vuole semplicemente evidenziare la non divisibilità dell’Essere, ossia il fatto che
riguardo all’Essere non può valere alcun concetto di separazione in parti. Questo,
però, non implica necessariamente l’esclusione di una qualsiasi pluralità: proprio
l’esplicazione della sfera di luce proposta sopra (§ 1) mostra come sia possibile
armonizzare pluralità e unità, senza che ciò, appunto, presupponga separazione.
64 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

3. Platone: il Bene come origine della luce intelligibile e della luce fisica

Se in Parmenide l’Essere è intrascendibile Verità, non-nascondimento


di sé, in Platone il non-nascondimento, la Verità dell’Essere si manifesta,
nell’analogia fra il Bene e il sole (Resp. 506d8-509c), come non-nascondi-
mento di un’Origine che quella Verità comunque trascende, pur riversan-
dosi incondizionatamente in essa. Un’Origine che Platone identifica con il
supremo Bene trascendente ogni forma di essere, e, perciò, di verità (Resp.
508e6-509b10), vale a dire con una coscienza percepita come intrinseca-
mente ed eminentemente donativa, manifestativa8. Donatività a cui chia-
ramente rinvia l’unico luogo degli scritti platonici, Timeo 29e-30a, in cui
l’essere buono viene esplicitamente caratterizzato: il Demiurgo ha voluto
generare il cosmo visibile perché è buono, ossia perché in chi è buono è
assente ogni gelosa invidia; perciò il Demiurgo ha voluto che ogni cosa
gli fosse il più possibile simile, ovvero buona. In base a quanto detto in
questo luogo, l’essere buono è, dunque, coscienza intrinsecamente e del
tutto liberamente caratterizzata dal volersi comunicare, ossia, appunto, ma-
nifestare, donare ad un altro. L’essere buono è, in altre parole, eminente-
mente, incondizionatamente e, quindi, gratuitamente, diffusivum sui, vale
a dire, in quanto del tutto privo di gelosa invidia, si riversa senza residui
nel proprio donarsi e manifestarsi: è, allora, in quanto tale, radicale non-
nascondimento, ἀλήθεια, ossia verità, intesa come piena e dinamica iden-
tità di coscienza ed essere, interiorità e manifestativa esteriorità. E proprio
di questo radicale non-nascondimento, di questa eminente manifestatività
l’analogia platonica fra il Bene e il sole presenta un’efficace illustrazione9.
Caratterizzando il Bene come analogo del sole Platone, infatti, lo rivela
inscindibile dal manifestarsi mediante l’Essere, ossia dal non-nascondersi,
dalla propria Verità/ἀλήθεια, così come il sole è inscindibile dal proprio
manifestarsi mediante la luce10. Lo rivela, quindi, come originario centro
di luce, ovviamente di luce intelligibile, trascendente spazio e tempo. Luce
che Platone certamente non intende quale metafora derivata dall’esperien-

8 Sulle implicazioni teoriche della centralità del Bene come Origine nella filoso-
fia di Platone – finora poco o per nulla valorizzate dagli interpreti –, nonché sui
luoghi e sugli aspetti dell’opera platonica discussi in queste pagine, per qualsiasi
ulteriore approfondimento mi permetto di rinviare a Lavecchia 2005; Lavecchia
2006, 110-118, 212-223, 278-284; Lavecchia 2010; Lavecchia 2012, Lavecchia
2015a; Lavecchia 2015b.
9 In questo orizzonte ho tentato un’interpretazione complessiva dell’analogia fra il
Bene e il sole in Lavecchia 2015a, 37-55.
10 Ecco perché in 508d4-6 si rinvia chiaramente alla analogia fra Essere/Verità e luce
del sole.
S. Lavecchia - Alla ricerca della sfera di luce 65

za della luce fisica. Proprio nell’analogia fra il Bene e il sole si afferma,


infatti, che il Bene è origine non solo delle realtà intelligibili, ma anche
del sole e della luce fisici (Resp. 508b11-13 e 517c3). Se, allora, di meta-
fora è lecito parlare, metafora, immagine si rivela, in questo orizzonte, la
luce fisica, della quale la luce intelligibile, la Luce della Verità, del non-
nascondersi del Bene, è archetipo. Qui la luce fisica può essere ritenuta,
insomma – riprendendo la formulazione di Blumenberg valorizzata nella
Premessa a questo volume –, metafora assoluta del vero: assoluta perché
concretamente generata dal proprio archetipo a partire dall’autenticità del
suo manifestarsi, vale a dire non generata a partire da una qualche attività
rappresentativa che a quell’archetipo cerchi di approssimarsi. L’essere ori-
ginario centro di luce da parte del Bene va inteso, quindi, con la massima
pregnanza, ossia come essere archetipo di ogni centro di luce e di ogni
luce, tanto intelligibile quanto visibile11. A partire da questa premessa la
sfera di luce intelligibile si rivela intrinseca nell’analogia platonica12, seb-
bene nessun luogo di quella analogia rinvii esplicitamente ad essa13.

11 Dunque si possono estendere a Platone le seguenti considerazioni riassuntive di


Werner Beierwaltes concernenti la filosofia della luce di Plotino: «Wenn gesagt
wird, dass das Denken Licht sei (...), so ist dies im eigentlichen Sinne zu ver-
stehen, da das intelligible Licht Prinzip des sinnenfälligen Lichtes ist und somit
als Grund die Licht-Analogie allererst ermöglicht» (Beierwaltes 1977, 87). Per
una trattazione introduttiva riguardo alla filosofia della luce in Platone si veda,
nella medesima prospettiva, l’ancora esemplare Beierwaltes 1957, 37-98.
12 Per un’esplicazione della sfera di luce intelligibile in rapporto alla luce fisica e
alla coscienza fenomenica nel quadro dell’analogia platonica fra il Bene e il sole
si veda Lavecchia 2015a, 63-71.
13 L’assenza di riferimenti espliciti non può essere usata come argomento contro le
riflessioni qui presentate. La sfera di luce intelligibile potrebbe, infatti, apparte-
nere a quelle molte cose che l’esposizione dell’analogia fra il Bene e il sole vo-
lutamente tralascia: cfr. il chiarissimo συχνά γε ἀπολείπω che Socrate pronuncia
in 509c7 e ribadisce in 509c9. Certamente nell’interpretazione dell’analogia fra il
Bene e il sole si può decidere di astenersi dall’integrare le lacune che l’esposizio-
ne lascia aperte. Ciò, però, impedisce di comprendere perché Platone caratterizzi
da un lato la manifestazione noetica del Bene non solo come essere intelligibile,
ma anche come intelletto (508b12-c2), dall’altro il manifestarsi del sole non solo
come oggettività della luce, ma anche come soggettività del vedere (508b6-c2).
Entrambe queste caratterizzazioni presuppongono, infatti, un rovesciarsi di una
esteriorizzazione (quella del Bene e del sole) in una interiorizzazione (quella
dell’intelletto, ovvero della coscienza, e quella dell’attività visiva); e nel caso del-
la manifestazione noetica del Bene tale rovesciarsi, poiché avviene oltre tempo e
spazio, non può non essere istantaneo, vale a dire non può non essere istantanea
unità di esteriorizzazione e interiorizzazione, e, quindi, corrispondere alla dinami-
ca evidenziata sopra riguardo alla sfera di luce.
66 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Se, dunque, il Bene di Platone è originario centro di una sfera di luce


intelligibile, la sua manifestazione intelligibile presenterà i caratteri sopra
evidenziati (§ 1) riguardo a quella sfera: sarà, dunque, come già accennato,
unità di interiorità ed esteriorità, vale a dire unità di intelletto e intelligi-
bile, ossia di coscienza ed essere. Ed appunto a questa unità rinvia – ades-
so possiamo dire: non casualmente – un luogo chiave dell’analogia fra il
Bene e il sole, vale a dire quello dove, proprio affermando la pregnanza
dell’analogia fra realtà intelligibile e realtà visibile, Platone specifica che
il sole, generato dal Bene quale suo analogo, è nel mondo visibile rispet-
to alla vista e alle cose visibili ciò che il Bene nel mondo intelligibile è
rispetto all’intelletto e alle realtà intelligibili (Resp. 508b12-c214). In al-
tre parole, la manifestazione, il non-nascondimento del Bene nel mondo
intelligibile, nel mondo delle Idee, non consiste in un essere esclusiva-
mente oggettivo, ma anche, e sullo stesso piano, in una coscienza, in un
intelletto che coscientemente vive e manifesta la piena e immediata unità
con quell’essere. In tale prospettiva – ovvero se identificato con la sfera
generata dal Bene quale originario centro di luce intelligibile – il mondo
delle Idee non si rivelerebbe un mondo di universali astratti e slegati dalla
coscienza, ma una plurale e dinamica unità, vale a dire un’armonia istan-
tanea ed eterna – perché trascendente spazio e tempo – di coscienze noeti-
che15: un dinamico e armonico sistema, un κόσμος di relazioni generato dal
Bene, ovvero quell’archetipo di ogni giustizia e, dunque, di ogni relazione
e comunità autenticamente armonica, con cui Platone lo identifica poco
prima dell’analogia fra il Bene e il sole (cfr. Resp. 500c3-5 οὔτ᾽ ἀδικοῦντα
οὔτ᾽ἀδικούμενα ὑπ᾽ἀλλήλων, κόσμῳ δὲ πάντα καὶ κατὰ λόγον ἔχοντα)16.
La sfera di luce intelligibile, infatti, corrisponderebbe pienamente a questo
carattere del mondo delle Idee. Le relazioni che essa genera sono, infatti,
tali per cui, come abbiamo visto (§ 1), ogni sua componente ad un tempo
manifesta pienamente se stessa, tutte le altre, e la totalità della sfera, senza,
pertanto, prevaricare le altre o la totalità mediante il proprio manifestarsi.
Se prendiamo sul serio fino in fondo l’immagine del Bene come ori-
ginario centro di luce intelligibile, e la esplicitiamo come sfera di luce,
possiamo comprendere, dunque, il carattere intrinsecamente etico dell’on-

14 Τοῦτον τοίνυν (...) φάναι με λέγειν τὸν τοῦ ἀγαθοῦ ἔκγονον, ὃν τἀγαθὸν
ἐγέννησεν ἀνάλογον ἑαυτῷ, ὅτιπερ αὐτὸ ἐν τῷ νοητῷ τόπῳ πρός τε νοῦν καὶ
τὰ νοούμενα, τοῦτο τοῦτον ἐν τῷ ὁρατῷ πρός τε ὄψιν καὶ τὰ ὁρώμενα.
15 Sul rapporto fra mondo intelligibile e coscienza nella filosofia di Platone basti
rinviare a Hager, 5-156 ed all’ampia e convincente trattazione in Schwabe.
16 Per un approfondimento riguardo a questa dimensione del mondo delle Idee mi
permetto di rinviare a Lavecchia 2015a, 56-71.
S. Lavecchia - Alla ricerca della sfera di luce 67

tologia platonica; dove autenticamente etico è ciò che, oltre ogni norma e
fine, senza gelosa invidia, come fa il Demiurgo (Tim. 29e-30a), manifesta
il gratuito e, quindi, infinito comunicarsi dell’essere buono: infinita tra-
sparenza di una coscienza che nell’essere se stessa è, in modo del tutto
libero e donativo, senza residui, trasparenza di una comunità di coscienze
reciprocamente trasparenti.

4. Plotino: la trasparenza della sfera di luce intelligibile

Proprio la trasparenza reciproca è la peculiarità che Plotino maggiormen-


te evidenzia nella sua caratterizzazione più esplicita concernente il mondo
intelligibile – una caratterizzazione che non ha eguali, in tutto il pensiero
antico, per chiarezza e profondità –: Enn. V 8 (31), 4, 4-11. In questo luo-
go il mondo intelligibile viene caratterizzato come realtà in cui tutti gli enti
sono trasparenti (διαφανῆ πάντα), data l’assenza di qualcosa di oscuro o re-
sistente di fronte al loro manifestarsi (σκοτεινὸν οὐδὲ ἀντίτυπον οὐδέν). Di
conseguenza lì ognuno è pienamente manifesto per ogni altro fin nella sua
interiorità, e tutte le cose sono pienamente manifeste per ognuno (πᾶς παντὶ
φανερὸς εἰς τὸ εἴσω καὶ πάντα). E ciò avviene perché la luce è pienamente
manifesta, trasparente, rispetto alla luce, ovvero rispetto a se stessa (φῶς γὰρ
φωτί). Ne deriva che nel mondo intelligibile ognuno ha in sé tutte le cose
(ἔχει πᾶς πάντα ἐν αὑτῷ) e nell’altro vede tutte le cose (ὁρᾷ ἐν ἄλλῳ πάντα),
così che tutte le cose sono ovunque, ogni cosa è ogni cosa e ciascuna cosa è
ogni cosa (πανταχοῦ πάντα καὶ πᾶν πᾶν καὶ ἕκαστον πᾶν): lì il sole è tutti gli
astri, e ogni astro è, a sua volta, il sole e tutti gli altri astri (ἥλιος ἐκεῖ πάντα
ἄστρα, καὶ ἕκαστον ἥλιος αὖ καὶ πάντα). Eppure questo non implica l’assor-
bimento di ogni differenza: lì in ogni ente si distingue un carattere diverso,
anche se quel carattere manifesta tutte le cose (ἐξέχει δ᾽ἐν ἑκάστῳ ἄλλο,
ἐμφαίνει δὲ καὶ πάντα). In altri termini: lì ciascuna cosa è sempre generata
dalla totalità, e allo stesso tempo è quella cosa e la totalità (ἐκεῖ δὲ ἐξ ὅλου
ἀεὶ ἕκαστον καὶ ἅμα ἕκαστον καὶ ὅλον, ibid. 23).
Il quadro appena delineato viene ricondotto da Plotino stesso, come abbia-
mo appena visto, all’autotrasparenza della luce intelligibile, ovvero al fatto che
quella luce è pienamente manifesta a se stessa. Il mondo intelligibile è, dun-
que, in piena continuità con Platone, mondo di luce sovrasensibile17. E, come
mostra l’immagine del sole e degli astri, in questo mondo ogni ente può essere

17 Per un quadro generale riguardo alla metafisica plotiniana della luce resta fonda-
mentale Beierwaltes 1977.
68 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

percepito come un centro di luce (ovviamente intelligibile). Sebbene Plotino


non lo espliciti, ci troviamo, allora, di fronte all’immagine della sfera di luce
intelligibile, alla quale ci riporta il modo in cui Plotino, con insuperata efficacia,
rappresenta la trasparenza reciproca degli intelligibili: trasparenza in cui – in
piena armonia con quanto esplicitato sopra (cfr. § 1) riguardo alla sfera di luce
intelligibile –, nel manifestare pienamente se stessa, l’individualità di ogni ente
è piena manifestazione tanto dell’individualità di ogni altro ente quanto della
totalità a cui quell’ente appartiene. Che Plotino prendesse in considerazione
l’immagine della sfera di luce lo mostra, del resto, proprio Enn. V 8 (31)18. In
V 8, 9, 8-27 egli propone, infatti, il seguente esercizio di visualizzazione: come
primo passo l’anima deve rappresentarsi una sfera luminosa contenente tutte
le cose (8-10); succesivamente, mantenendo ferma questa rappresentazione,
deve assumerne un’altra da cui siano state eliminate la massa, ogni nozione di
luogo e rappresentazione di materia, ma senza che la sfera diventi più piccola
rispetto a quella rappresentata all’inizio dell’esercizio (10-14); infine deve in-
vocare il dio che ha prodotto la realtà visibile, affinché discenda e si manifesti
nella sfera priva di ogni rapporto con la materialità, portando con sé un cosmo
che, quale realtà intelligibile, è identità di ogni ente con tutti gli enti (14-27)19.
Un’identità non indifferenziata, ma nella quale, pur trovandosi tutti gli enti
insieme, ognuno si trova, distinto dagli altri, in un luogo trascendente spazio e
tempo, e per questo non separato da alcun intervallo rispetto agli altri (ὁμοῦ δέ
εἰσι καὶ ἕκαστος χωρὶς αὖ ἐν στάσει ἀδιαστάτῳ 19-20). Il che rinvia a quella
unità plurale che, appunto, fin dall’inizio delle nostre riflessioni si è rivelata
intrinseca nella sfera di luce intelligibile.
Rispetto agli altri contesti in cui Plotino ricorre all’immagine del cerchio
o della sfera per illustrare dinamiche peculiari del rapporto fra un’origine
e la sua manifestazione, Enn. V 8 presenta un livello di raffinatezza teorica

18 Sull’immagine del cerchio e della sfera nell’opera di Plotino si veda l’elenco dei
relativi luoghi in Ferwerda, 28-35, la trattazione generale in Rappe, nonché le
ottime messe a punto in Tornau, 370-376 e Chiaradonna. In nessuno dei contributi
appena menzionati viene esplicitata la dinamica concettuale esposta in queste pa-
gine riguardo alla sfera di luce intelligibile. Per una esplicitazione del rapporto tra
la sfera di luce intelligibile e la luce fisica riguardo a Plotino cfr. Lavecchia 2017,
7-8.
19 Su questo esercizio di visualizzazione si veda Rappe, 165-168. In questo contesto
si può richiamare Enn. VI 7 (38), 15, 25-26. Qui il supremo Intelletto, ovvero il
mondo intelligibile, viene paragonato ad una sfera o ad una sorta di oggetto tutto-
volti, raggiante di volti viventi (παμπρόσωπόν τι χρῆμα λάμπον ζῶσι προσώποις).
Il secondo paragone riporta alla sfera di luce intelligibile: ogni volto può essere
inteso come centro di luce, nonché come rinvio al fatto che per Plotino gli enti
intelligibili sono individuali centri di coscienza.
S. Lavecchia - Alla ricerca della sfera di luce 69

sensibilmente più elevato, finora non valorizzato dagli interpreti in relazio-


ne all’immagine della sfera di luce intelligibile. Negli altri contesti, infatti,
Plotino non trascende del tutto un procedere spazializzante, come mostra
in modo esemplare Enn. VI 5 (23), 5, dove non si rinuncia alla nozione di
raggio – che in sé non può non implicare un tra – per illustrare la relazione
dell’Uno con gli enti intelligibili, pur evidenziando che, data l’assenza di
qualsiasi intervallo, i raggi non sono fra loro separati, e che gli enti intelli-
gibili sono come dei centri uniti in un unico centro, senza che quel centro
assorba in sé gli altri centri (ibid., 8 segg.). Invece in Enn. V 8, 4 e 9 ogni
concessione ad immagini spazializzanti è assente, così che si eliminano le
inevitabili aporie concettuali intrinseche nel ricorso a quel genere di im-
magini. Aporie derivanti dall’inevitabile scarto fra un procedere, appun-
to, spazializzante, ovvero fra l’immagine illustrante e la dinamica identità
degli opposti che Plotino vuole affermare riguardo al mondo intelligibile.
L’immagine della sfera di luce intelligibile, con l’istantanea trasparenza
reciproca delle sue componenti, ha proprio il vantaggio di non manifestare
questo scarto, essendo pienamente congruente con quella dinamica iden-
tità. Paradossalmente, tanto Plotino quanto la successiva metafisica della
luce – anche nei momenti in cui ricorrerà all’immagine della sfera intelli-
gibile – prediligeranno sempre il ricorso a nozioni spazializzanti, per cui
contesti come quelli di Enn. V 8, 4 e 9 non verranno mai valorizzati – e
ancora oggi non vengono valorizzati – nelle loro potenzialità esplicative
riguardo alla sfera di luce intelligibile. Ne deriverà una metafisica della
luce intelligibile le cui immagini resteranno prigioniere di nozioni come
quella di raggio e di rispecchiamento, inevitabili se non ci si emancipa
dall’immaginazione spazializzante di una distanza/separazione rispetto ad
una realtà che, invece, non conosce distanza/separazione. Immagini che,
dunque, si mostreranno inadeguate a caratterizzare in modo congruente la
vita del mondo intelligibile proprio in base a quelle caratteristiche che gli
stessi grandi metafisici della luce, quali Plotino, le attribuiscono nelle loro
elaborazioni concettuali. Una vita in cui alterità non implica separazione e,
quindi, proiezione dell’Origine in enti che siano, appunto, distanti da essa,
e che, allora, potranno solo essere un suo rispecchiamento, quasi riprodu-
zione della sua identità. Una vita che, al contrario, è archetipico cosmo di
centri di luce, in cui ogni centro è l’Origine, ossia l’originario centro di
luce, nel suo infinito donarsi come luogo per l’incondizionato manifestar-
si di altri, autenticamente autonomi centri di luce: non rispecchiamento,
ma istantanea, eterna ritmicità e armonia, dove uno e molti, individuale e
universale, identico e altro, soggetto e oggetto, coscienza ed essere, eterna-
mente si cogenerano nell’inesauribile e gratuita generatività dell’Origine;
70 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

dialogo in cui i dialoganti liberamente si donano la propria reciproca tra-


sparenza e la trasparenza del tutto, manifestandosi quale archetipo di ogni
armonica comunità. Un dialogo di cui la sfera di luce è – come si spera
di aver potuto mostrare in questa pagine – fino in fondo fedele, veridica
icona, stimolando il pensiero e l’immaginazione a varcare la soglia che
separa dall’esperienza sovrasensibile: assolvendo, dunque, in modo pieno,
al compito più alto che – in continuità con una tradizione più antica – già
Platone20 assegna al pensare e percepire generati dalla geometria, ovvero,
in generale, dalla matematica21.

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20 Per una prima introduzione alla prospettiva metafisica in cui Platone colloca l’e-
sercizio della matematica resta fondamentale la trattazione offerta in Cattanei,
passim (con amplissima bibliografia).
21 Per questa funzione della matematica nel Neoplatonismo cfr. Kordig.
S. Lavecchia - Alla ricerca della sfera di luce 71

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Marco Fucecchi
IL ‘LUME SPURIO’ DELLA LUNA:
SU METAFORE E IMMAGINI DELLA LUCE
NEL DE RERUM NATURA DI LUCREZIO

1. La poesia ‘visiva’ (e visionaria) di Lucrezio.

Una caratteristica fondamentale della poetica, e in particolare della stra-


tegia argomentativa, del De rerum natura è, com’è ben noto, la spiccata
qualità visiva e visionaria. L’impiego ricorrente di immagini e compara-
zioni in serie, talora anche riconducibili ad un soggetto unico, ma declinate
in modo diverso secondo il contesto di riferimento, contribuisce a creare il
tessuto connettivo del poema, e a stabilire relazioni di senso tra le sue varie
parti1. Queste parti risultano strettamente collegate tra loro proprio gra-
zie alla potenza evocativa e alla memorabilità delle immagini di cui sono
popolate: immagini che – insieme ad altri fattori (come lo stesso impiego
di un peculiare tipo di dizione epica ‘formulare’) – collaborano a favorire
la penetrazione del messaggio presso il lettore e garantiscono l’efficacia
didascalica del testo.
L’uso costante ed esplicito dell’immagine come momento qualificante
dell’argomentazione influisce anche sulla lingua del poema, che deve gran
parte della sua forza icastica ad un notevole spessore metaforico e alla
propria capacità mimetica, affidata al fonosimbolismo (puns e giochi ver-
bali) e alla ricerca di effetti retorici (figure di parola, paretimologie ecc.):
una lingua dove spesso le parole sembrano letteralmente corrispondere alle
cose; o meglio, una lingua ‘fatta’ delle cose di cui parla, dove la struttura
stessa di quegli aggregati che chiamiamo ‘parole’ rispecchia la composi-
zione atomica degli enti naturali che essi servono a identificare2.

1 Si tratta del fenomeno che David West, in un contributo celeberrimo (West 1969),
ha definito “fluidity of imagery”. La qualità ‘visiva’ dell’opera di Lucrezio è an-
che alla radice di altri tratti costitutivi della poetica del De rerum natura, come il
ricorso sistematico all’analogia (cfr. Schrijvers 1978 e Schiesaro 1990).
2 Capita – osserva il poeta in un passo meritatamente famoso (Lucr. 1,897-914) –
che in un bosco, dallo sfregamento reciproco di rami di alberi agitati dal vento,
possano scaturire scintille che producono fiamme. Da ciò non si può, tuttavia,
74 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

2. Immagini della luce e immagini di luce: metafora culturale e metafo-


ra naturale.

L’immagine della luce è senza dubbio una di quelle che ricorrono con
maggiore frequenza nel vasto repertorio del poema lucreziano, in conside-
razione della molteplicità di fenomeni naturali e culturali che ne implicano
la presenza (dall’illuminazione solare alla scoperta del fuoco). Perciò il
campo iconografico che ha per oggetto la luce si rivela uno fra i più artico-
lati e ricchi di valenze e potenzialità metaforiche.
In primo luogo, va detto che Lucrezio definisce ‘luminosa’ la sua stessa
poesia, perché il messaggio che essa trasmette mira ad illuminare la verità
e a liberare le menti umane dall’oscura oppressione della religio. Il poeta
manifesta più volte sicura coscienza della novità e della grandezza di que-
sta sua impresa, che egli definisce mediante una serie di immagini culmi-
nanti proprio nell’opposizione luce-tenebra (Lucr. 1,926-34):

avia Pieridum peragro loca nullius ante


trita solo. iuvat integros accedere fontis
atque haurire iuvatque novos decerpere flores
insignemque meo capiti petere inde coronam,
unde prius nulli velarint tempora Musae; 930
primum quod magnis doceo de rebus et artis
religionum animum nodis exsolvere pergo,
deinde quod obscura de re tam lucida pango
carmina musaeo contingens cuncta lepore.3

I lucida carmina sono dunque carmi luminosi, che risplendono di luce


e che irradiano luce, anche perché sono letteralmente ‘fatti di luce’4. Un’e-

dedurre che nel legno sia già presente, in atto, il fuoco (901 scilicet et non est
lignis tamen insitus ignis): sono, piuttosto, i semi di calore del legno (902 semina
... ardoris) che, una volta sollecitati dall’agente atmosferico, entrano in reazione
tra loro. La paronomasia lignis ... ignis sta lì a dimostrare che qualcosa di analogo
si verifica a livello linguistico: la prima parola ‘contiene’ la seconda, ma soltan-
to l’azione di un intervento esterno può colmare il gap semantico che le separa,
rendendo possibile una loro forma di interazione. Per quanto riguarda la ricerca
fonosimbolica in Lucrezio è ancora utile Friedländer 1941.
3 A testimonianza del carattere formulare, che richiama la maniera dei poemi ome-
rici e legittima la sua adesione all’originaria matrice del genere epico, l’intero
blocco composto dai vv. 926-50a del libro I si trova ripetuto all’inizio del libro IV
(vv. 1-25a), che inaugura la seconda metà del De rerum natura.
4 Di questa problematica, nonché del rapporto fra i lucida carmina lucreziani e la
σαφήνεια epicurea, si occupa la monografia di Milanese 1989.
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 75

spressione così ‘brillante’ risulta efficace poiché riesce a sommare in sé,


appunto, un aspetto sostanziale (la poesia fatta di luce), un aspetto descrit-
tivo (la poesia luminosa), e infine un aspetto causativo che condensa l’ef-
fetto prodotto sulla realtà (la poesia che illumina tutto ciò che la circonda).
Il fascino singolare della poesia ‘visiva’ e ‘visionaria’ scaturisce dalla re-
ciproca integrazione e compenetrazione di valore letterale e metaforico: la
figura acquista concretezza e diventa realtà.
Il passo appena citato insiste molto anche sulla difficoltà dell’operazio-
ne intrapresa dal poeta, dovuta soprattutto alla natura impervia e ostica,
misteriosa e oscura, della materia trattata. Ed è proprio l’oscurità della ma-
teria a dover essere illustrata dalla luce della poesia. Sarà quest’ultima che
– come la dolcezza del miele delle Muse – potrà efficacemente mediare e
rendere comprensibili dei contenuti altrimenti difficili da mandar giù e da
digerire per l’uomo comune. Spesso, infatti, la ratio appare tristis a coloro
che non sono specialisti, e soltanto le qualità intrinseche della poesia, come
dolcezza e splendore, possono renderla gradevole e contribuire a diffonder-
la fra gli uomini. La luce della poesia è, dunque, un fattore insostituibile
nel favorire il propagarsi della conoscenza, poiché riesce a dare una forma
leggibile a ciò che appare come informe, a delineare i contorni delle cose
sconfiggendo l’oscurità che le avvolge: l’oscurità che spesso si rivela con-
dizione intrinseca, oggettiva, della natura, ma che caratterizza anche le sco-
perte e le rivelazioni strabilianti dei Greci (gli obscura reperta Graiorum),
ovvero le acquisizioni dei loro scienziati e filosofi (1,136-45):

nec me animi fallit Graiorum obscura reperta


difficile inlustrare Latinis versibus esse,
multa novis verbis praesertim cum sit agendum
propter egestatem linguae et rerum novitatem;
sed tua me virtus tamen et sperata voluptas 140
suavis amicitiae quemvis efferre laborem
suadet et inducit noctes vigilare serenas
quaerentem dictis quibus et quo carmine demum
clara tuae possim praepandere lumina menti,
res quibus occultas penitus convisere possis.5

5 Cfr. 922 nec me animi fallit quam sint obscura. Per quanto riguarda l’identificazio-
ne della fisica come quella parte della filosofia (tripartita in fisica, logica-dialettica
ed etica) che si occupa dei ‘misteri della natura’, cfr. Cic. de orat. 1,68 philoso-
phia in tris partis est tributa, in naturae obscuritatem, in disserendi subtilitatem,
in vitam atque mores, e 3,124.
76 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

La luce può emanare da un discorso ‘chiaro’ e intellegibile, dalla sem-


plicità referenziale, da un’argomentazione serrata, alla portata di tutti (o
quasi), e dall’uso di una lingua familiare (il latino che, al pari di Cicerone,
Lucrezio cerca di dotare di un lessico filosofico adeguato). Questa luce si
contrappone al criptico messaggio di filosofi più o meno antichi, come Era-
clito e gli Stoici. Noti per il sistematico ricorso all’allegoria e l’inclinazio-
ne a travestire la realtà dietro parole contorte (1,641-2), costoro sembrano
preoccupati di suscitare ammirazione con il ritmo e la musicalità delle loro
sentenze piuttosto che mirare alla chiarezza dei concetti che espongono.
Così essi riescono a incantare coloro che all’immediatezza del senso pre-
feriscono il piacere uditivo, anche a costo di provare a digerire astrusità
incomprensibili (1,638-44):

Heraclitus init quorum dux proelia primus,


clarus <ob> obscuram linguam magis inter inanis
quamde gravis inter Graios, qui vera requirunt; 640
omnia enim stolidi magis admirantur amantque,
inversis quae sub verbis latitantia cernunt,
veraque constituunt quae belle tangere possunt
auris et lepido quae sunt fucata sonore.

D’altra parte, la necessità di rendere accessibili le oscure leggi di na-


tura senza complicare ulteriormente il compito dei lettori6 non significa
di per sé una completa indifferenza verso le attrattive della forma in cui
questi elevati (e, non di rado, oggettivamente difficili) contenuti vengono
espressi. La poesia ‘che illumina’ non può essere, cioè, sciatta e priva di
qualità estetiche. Pur avendo come principio-guida la chiarezza, l’epicureo
Lucrezio sembra condividere le accuse mosse da un anti-epicureo quale
Cicerone nei confronti di certi seguaci romani del maestro del Giardino,
come il noto Amafinio7. Se Cicerone sostiene che, al pari di un oratore
valente, anche il poeta può parlare eloquentissime e ornatissime di filosofia
e di scienza, pur senza esserne necessariamente specialista, come dimostra-

6 Un’esigenza, quest’ultima, recepita dallo stesso Cicerone, che la esprime per boc-
ca di uno dei protagonisti del suo De oratore, Antonio: in philosophos vestros si
quando incidi, deceptus indicibus librorum, qui sunt fere inscripti de rebus notis
et inlustribus, de virtute, de iustitia, de honestate, de voluptate, verbum prorsus
nullum intellego; ita sunt angustis et concisis disputationibus inligati (Cic. de
orat. 2,61).
7 E.g. Cic. Tusc. 4,7; fam. 15,9,2.
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 77

no gli esempi di Arato e Nicandro8, anche Lucrezio – che peraltro segue il


modello di poeti-filosofi presocratici come Empedocle più che quello dei
poeti eruditi alessandrini – esalta le qualità psicagogiche della poesia come
mezzo di comunicazione ‘sublime’9.
Ed è proprio l’enfasi conferita alla funzione liberatrice della poesia in
quanto veicolo (comprensibile e universalmente fruibile) di verità che pro-
duce immagini potenti come quella di Epicuro, il prometeico ‘titano’ che
combatte i mostri della religio: un vero eroe civilizzatore (al pari di Ercole)
e ‘apportatore di luce’ all’umanità intera, che viene più volte evocato nei
proemi del De rerum natura:

o tenebris tantis tam clarum extollere lumen


qui primus potuisti inlustrans commoda vitae,
te sequor, o Graiae gentis decus, inque tuis nunc
ficta pedum pono pressis vestigia signis (3,1-4)

deus ille fuit, deus, inclyte Memmi,


qui princeps vitae rationem invenit eam quae
nunc appellatur sapientia, quique per artem
fluctibus et tantis vitam tantisque tenebris
in tam tranquillo et tam clara luce locavit. (5,8-12)

Se c’è insomma una luce che splende più di quella del sole, è quella
della ragione. Ma si tratta di una luce che ha bisogno di essere, in qualche
modo, ‘mediata’ per essere tollerata e recepita dall’uomo. E la poesia si
rivela un filtro efficace e in grado, appunto, di mediarne i contenuti, spesso
difficili e oscuri, grazie alle sue intrinseche qualità ‘creative’ (immagini,
metafore ecc.). Non a caso un tema ricorrente nella riflessione metapoeti-
ca di Lucrezio sulla funzione didattica della letteratura (e della poesia in
particolare) è quello per cui la luce, come la conoscenza, si trasmette da un
corpo all’altro (1,1114-7):

haec sic pernosces parva perductus opella;

8 Cic. de orat. 1,98, che riconosce tuttavia anche elementi di differenziazione: il


poeta ha più libertà nell’uso di parole e figure rispetto all’oratore, ma quest’ultimo
non deve uniformarsi alle costrizioni del metro.
9 Sul contributo di Empedocle e, in particolare, sulla sua importanza come modello
di Lucrezio nell’uso poetico-cognitivo delle metafore, cfr. ora Garani 2007, 151-
220. Sulla nozione di ‘sublime’ come modalità stilistico-espressiva e obiettivo
primario della strategia messa in atto dal De rerum natura nei confronti del suo
lettore ideale (anch’egli incoraggiato a farsi ‘sublime’), cfr. soprattutto Conte
1990, 7-47.
78 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

namque alid ex alio clarescet nec tibi caeca


nox iter eripiet, quin ultima naturai
pervideas: ita res accendent lumina rebus.

La luce (anche quella del sapere, naturalmente) ha il potere di irradiar-


si da un corpo all’altro, e può dissipare le tenebre paurose dell’ignoranza
come non possono fare neppure i lucida tela diei (1,146 ss. ecc.). Certo,
ogni conquista della conoscenza presuppone un percorso graduale, fatto di
piccoli passi (pedetemptim); alla fine però, piano piano (paulatim), il chia-
rore della luce si diffonde e prende il sopravvento sulle tenebre (5,1454-7):

sic unum quicquid paulatim protrahit aetas


in medium ratioque in luminis erigit oras;
namque alid ex alio clarescere corde videbant,
artibus ad summum donec venere cacumen.

Ma la luce deve sostenere una battaglia aspra, che conosce fasi alterne:
una battaglia che contempla avanzate trionfali, ma anche degli indietreg-
giamenti repentini. Talora, infatti, neanche la conoscenza e l’essere con-
sapevoli di ciò che si sa bastano a farci scordare le paure più istintive e i
timori relativi al presente e al futuro. Insomma, si potrebbe dire che, pur
avendo la luce a portata di mano, siamo come dei bambini che continuano
ad aver paura del buio (2,55-61 = 3,87-93 = 6,35-41):

nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis


in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
interdum, nihilo quae sunt metuenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei 60
discutiant, sed naturae species ratioque.

Oppure, peggio ancora, ci lasciamo abbagliare dalla luminosità e dallo


splendore illusorio di ricchezza, potenza e lusso: beni effimeri e non na-
turali, che vengono da noi esaltati soltanto perché un ‘abbaglio culturale’
ci impedisce di scorgerne tutta la vanità. Così perdiamo di vista ciò che
davvero (e soltanto) è in grado di liberarci dalle tenebre, ovvero la luce del-
la conoscenza, e continuiamo a brancolare nel buio. La perdurante (quasi
fisiologica) incapacità della natura umana di affrancarsi dai timori del pre-
sente e del futuro si associa, dunque, in un sodalizio pericoloso, alla pre-
disposizione di molti individui a lasciarsi accecare da falsi splendori: tutto
questo rende necessario l’intervento di mediatori di conoscenza, di fattori
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 79

che permettano al maggior numero possibile di esseri umani di raggiungere


gradualmente la piena coscienza della verità.

3. Materialità della luce, tramite e oggetto di conoscenza

L’impiego di metafore e comparazioni relative alla luce, dicevo, non è


tuttavia esclusivamente finalizzato a sottolinearne l’ampio spettro di refe-
renti culturali (luce come analogo della ragione, della conoscenza ecc.). Nel
poema lucreziano – per lo stesso motivo appena evidenziato, cioè per la ne-
cessità di illustrare concetti e nozioni ‘difficili’ – il tropo viene utilizzato non
di rado per definire, della luce stessa, anche le proprietà e le caratteristiche
naturali, nonché le qualità fisiche fondamentali: prima fra tutte la corporeità,
la consistenza materiale, peraltro connotata da tratti di specificità rispetto
agli altri corpi. Spesso, come vedremo, sono proprio le immagini a fornire
indirettamente degli elementi di classificazione in tal senso. Diciamo me-
glio: sono le immagini stesse che – complice la ‘proprietà transitiva’ della
conoscenza a cui ho accennato poco fa (e.g. 5,1456 alid ex alio clarescere)
– permettono al lettore di avvicinarsi concretamente alla nozione della ma-
terialità della luce, che è paragonata ora a una corrente d’acqua, ora invece
all’azione di una frusta, al disperdersi sporadico di semi ecc.
La luce è un mezzo fondamentale attraverso cui la realtà viene percepita
dai nostri sensi: è soltanto in presenza di luce che si può apprezzare, per es.,
il movimento che dalle invisibili particelle elementari si trasmette a corpi
minuscoli che riusciamo a scorgere con i nostri occhi, mentre si agitano nella
luce. Ed è grazie alla luce che possiamo, perciò, apprezzare anche il movi-
mento degli atomi della materia tenue e diafana di cui sono costituiti i raggi
del sole, gli splendida lumina solis (2,108), e l’aria, l’aer rarus (2,107): allo
stesso modo in cui, quando un raggio di sole penetra in una stanza dalla fi-
nestra, vediamo scontrarsi nell’aria tanti granelli di polvere, minuta corpora
che imitano l’eterna ‘lotta’ degli atomi nel vuoto (2,114-22):

contemplator enim, cum solis lumina cumque


inserti fundunt radii per opaca domorum:
multa minuta modis multis per inane videbis
corpora misceri radiorum lumine in ipso
et velut aeterno certamine proelia pugnas
edere turmatim certantia nec dare pausam,
conciliis et discidiis exercita crebris; 120
conicere ut possis ex hoc, primordia rerum
quale sit in magno iactari semper inani.
80 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Da un assunto analogo il poeta muove, quindi, per esprimere il concetto


secondo cui la luce è condizione essenziale all’atto della percezione. Tanto
che, al fine di rappresentarne la varietà di termini comparativi ‘possibili’
in natura, egli arriva a concepire un ‘fascio metaforico’, un vero e proprio
campionario di metafore della luce, che ritroviamo poi disseminate in altri
luoghi del poema (2,138-56):

sic a principiis ascendit motus et exit


paulatim nostros ad sensus, ut moveantur
illa quoque, in solis quae lumine cernere quimus 140
nec quibus id faciant plagis apparet aperte.
nunc quae mobilitas sit reddita materiai
corporibus, paucis licet hinc cognoscere, Memmi.
primum aurora novo cum spargit lumine terras
et variae volucres nemora avia pervolitantes
aera per tenerum liquidis loca vocibus opplent,
quam subito soleat sol ortus tempore tali
convestire sua perfundens omnia luce,
omnibus in promptu manifestumque esse videmus.
at vapor is, quem sol mittit, lumenque serenum 150
non per inane meat vacuum; quo tardius ire
cogitur, aerias quasi dum diverberat undas;
nec singillatim corpuscula quaeque vaporis
sed complexa meant inter se conque globata;
qua propter simul inter se retrahuntur et extra
officiuntur, uti cogantur tardius ire.

Lucrezio utilizza di preferenza la metafora del ‘liquido’ per illustrare il


movimento della luce solare che si irradia verso la terra e si riversa su di
essa rendendo, appunto, visibili le cose (in part. 148, il sole... sua perfun-
dens omnia luce)10. Ma proprio spargit di 2,144 potrebbe anticipare anche
un corrispettivo iconografico ulteriore, quello della ‘semina’, che torna ad
affacciarsi soltanto qualche decina di versi dopo (2,210-1 sol etiam <cae-
li> de vertice dissipat omnis / ardorem in partis et lumine conserit arva).
Invece l’immagine della luce che aerias ... diverberat undas (2,152) è pro-
lettica di una rappresentazione potente dell’impatto fisico del calore del
sole che ricorre più volte in libri successivi, come e.g. 5,483-5, dove i raggi

10 Cfr. Fowler 2002 ad l. e quindi 5,275-6 semper enim, quodcumque fluit de rebus,
id omne / aëris in magnum fertur mare … e 281-3 largus item liquidi fons luminis,
aetherius sol, / inrigat adsidue caelum candore recenti / suppeditatque novo con-
festim lumine lumen.
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 81

solari ‘fustigano’ la terra: … aetheris aestus / et radii solis cogebant un-


dique terram / verberibus crebris extrema ad limina in artum11.
Come si vede, una metafora ne induce altre: il cosiddetto fascio metaforico
esprime l’articolazione complessa della realtà, dove alcuni fenomeni ne illu-
strano altri, in una catena di elementi interdipendenti, che potrebbe vagamente
ricordare i corpuscoli del fluido luminoso che non si spostano scollegati – sin-
gillatim – ma anzi sono intrecciati e aggruppati fra loro (2,154-5).
A questo punto è possibile apprezzare almeno in modo relativo la ‘li-
quidità’ della luce solare, paragonando il suo flusso ad altri analoghi flussi
di materia diversa. In primis quello dell’acqua, che è più lento (2,388-90):

praeterea lumen per cornum transit, at imber


respuitur. quare, nisi luminis illa minora
corpora sunt quam de quibus est liquor almus aquarum? 390

In secondo luogo quello, viceversa più veloce, dei simulacra, ovvero le


immagini stesse dei corpi che staccandosi da questi affluiscono verso gli
organi di senso:

at quae sunt solida primordia simplicitate,


cum per inane meant vacuum nec res remoratur
ulla foris atque ipsa suis e partibus unum,
unum, in quem coepere, locum conixa feruntur, 160
debent nimirum praecellere mobilitate
et multo citius ferri quam lumina solis
multiplexque loci spatium transcurrere eodem
tempore quo solis pervolgant fulgura caelum. (2,157-64)

quone vides citius debere et longius ire (scil. simulacra)


multiplexque loci spatium transcurrere eodem
tempore quo solis pervulgant lumina caelum? (4,206-8)

La preoccupazione di rappresentare icasticamente la realtà non è, dun-


que, mai disgiunta in Lucrezio dalla tendenza a relativizzare la consistenza
dei singoli corpi mediante il confronto con altri e la creazione implicita di
una sorta di scala di gradazioni.
Ma la luce, abbiamo detto, possiede una qualità che la contraddistingue
dal resto della materia. La luce (è materia che) ‘crea’ la realtà, come vedia-
mo per es. nel caso dei colori (2,795-809):

11 Cfr. anche 4,183 ss. e 5,281 ss.


82 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

praeterea quoniam nequeunt sine luce colores


esse neque in lucem existunt primordia rerum,
scire licet quam sint nullo velata colore.
qualis enim caecis poterit color esse tenebris?
lumine quin ipso mutatur propterea quod
recta aut obliqua percussus luce refulget; 800
pluma columbarum quo pacto in sole videtur,
quae sita cervices circum collumque coronat;
namque alias fit uti claro sit rubra pyropo,
interdum quodam sensu fit uti videatur
inter caeruleum viridis miscere zmaragdos.
caudaque pavonis, larga cum luce repleta est,
consimili mutat ratione obversa colores;
qui quoniam quodam gignuntur luminis ictu,
scire licet, sine eo fieri non posse putandum est.

La luce ‘crea’ letteralmente i colori, che non possono sussistere in assenza


di essa; le particelle elementari, gli atomi, che non sono visibili alla luce, non
si distinguono per il colore. Non per questo, ovviamente, non sono reali: ma
la loro verità può essere colta solo grazie alla mediazione indispensabile di
ciò che si vede (e che dunque possiede colore perché ricade sotto la luce).

4. Metafora e mito: forme ‘naturali’ (e materiali) della cultura.

Le percezioni e i dati sensoriali, com’è noto, non sono fallaci, ma de-


vono essere interpretati in modo corretto. Gli occhi possono vedere dove
stanno luce ed ombra, bensì comprenderne la natura e le cause dei movi-
menti non è compito loro, ma della ragione (4,384-5 hoc animi demum
ratio discernere debet, / nec possunt oculi naturam noscere rerum): perciò
non dobbiamo imputare agli occhi qualcosa che dipende dalla mente (386
proinde animi vitium hoc oculis adfingere noli). La ragione ha bisogno
della luce per interpretare i dati sensoriali: anche in natura vediamo dal
buio ciò che è illuminato dalla luce, e non il contrario (4,337 ss.), e ciò che
irradia luce ci colpisce ovviamente meglio dei simulacri di quei corpi che
non fanno luce e i cui contorni pertanto sfumano nell’indistinzione12.
A posteriori, dopo l’interpretazione razionale dei dati sensoriali, l’ela-
borazione di immagini, di metafore, ci dà, insomma, l’opportunità di con-
densare un’acquisizione, un concetto, in qualcosa di visibile. Ci permette

12 L’esempio forse più famoso è quello delle torri quadrate di 4,353 ss. Sulla spiega-
zione lucreziana del fenomeno dico ancora qualcosa più oltre, in testo e alla n. 19.
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 83

di ‘vedere’ e di comprendere sinteticamente ciò che ci dicono i sensi, e


forse anche di ‘vedere oltre’, di vedere meglio, più a fondo, spingendoci a
formulare – per analogia – ipotesi concrete (conicere) su realtà altrimenti
inattingibili al senso comune: come per es. i continui incontri e scontri de-
gli atomi nel vuoto, i loro aggregati e i discidia. Immagini e metafore fini-
scono per integrare la nostra conoscenza, rivelando affinità insospettabili,
consonanze segrete tra gli elementi e gli agenti della natura.
Anche la cultura, che si manifesta attraverso il mezzo linguistico, si
può, dunque, considerare alla stregua di una ‘luce’ che della natura riesce
a svelare gli aspetti più difficilmente attingibili, senza sovrapporsi ad essa,
bensì permettendole di dispiegare le sue potenzialità: così come la luce,
che crea la realtà, è potenza e al tempo stesso ‘atto’ della natura. Mi pare
importante segnalare fin d’ora un aspetto della questione che risulta cru-
ciale nel cercare di comprendere alcuni presupposti ideologici (e ricadute
epistemologiche) del poema di Lucrezio: la cultura riflette la natura, perché
essa stessa è un prodotto ‘materiale’, causato e in qualche modo ‘informa-
to’ dalla natura13.
Ingrediente basilare della poesia, la metafora linguistica è quindi un pro-
dotto culturale che ambisce a possedere valore euristico, perché ha il pregio
di andare oltre la realtà visibile e ci permette di scoprire aspetti altrimenti
difficili da cogliere nella stessa realtà naturale per mezzo dei sensi. Un po’
come il mito, che potremmo considerare una metafora ‘contenutistica’. Il
mito rappresenta un oggetto problematico, ma anche uno strumento di cui
Lucrezio valorizza a più riprese la funzione evocativa (e metaforica), senza
mai appoggiarvisi in modo ostentato, e tantomeno – è ovvio – in modo
fideistico e ‘religioso’. Oltre ai numerosi casi di uso (anche implicito) del
mito nel De rerum natura passati in rassegna da Monica Gale14, vorrei qui
soffermarmi un attimo sul mito di Fetonte, un esempio di favola antica che
viene esplicitamente scartata nel suo valore letterale, per essere comunque
indirettamente recuperata a fini esemplificativi, in forma appunto di ‘me-
tafora implicita’. La vicenda di Fetonte è riferita in appendice alla sezione
sulla contesa fra gli elementi primordiali della natura (in particolare quella
fra acqua e fuoco): e, come le altre, anche questa fabula viene alla fine
ricondotta dal narratore, mediante un esplicito avvertimento, alla funzione

13 L’affinità sostanziale fra lettere e atomi, e la conseguente concezione del linguag-


gio come aggregato ‘atomico’, costituiscono un esempio significativo di questo
(vedi sopra e n. 2).
14 Cfr. in part. Gale 1994, fondamentale per capire la scelta di Lucrezio (in contro-
tendenza rispetto ad Epicuro) di utilizzare la poesia e di rendere perfino il mito
funzionale all’illustrazione di verità scientifiche.
84 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

meramente ausiliaria di dulce poetico, di ornamento adatto a favorire la


somministrazione della verità scientifica (5,396-406):

ignis enim superavit et ambiens multa perussit,


avia cum Phaethonta rapax vis solis equorum
aethere raptavit toto terrasque per omnis.
at pater omnipotens ira tum percitus acri
magnanimum Phaethonta repenti fulminis ictu 400
deturbavit equis in terram, Solque cadenti
obvius aeternam succepit lampada mundi
disiectosque redegit equos iunxitque trementis,
inde suum per iter recreavit cuncta gubernans,
scilicet ut veteres Graium cecinere poetae.
quod procul a vera nimis est ratione repulsum.

Tracce del mito, o quantomeno della nozione favolosa del carro del
Sole, sembrano tuttavia riaffacciarsi indirettamente anche poco dopo, nel-
la breve descrizione del tramonto: soprattutto quando viene rappresentata
l’immagine dei fuochi (ignis) del sole stanchi e spossati dal lungo viaggio,
come se fossero dei cavalli (5,651-3):

aut ubi de longo cursu sol ultima caeli


impulit atque suos efflavit languidus ignis
concussos itere et labefactos aëre multo...

Nel passo in questione l’effetto metaforico è delegato soprattutto ad


efflavit15, che suggerisce l’idea di animali che esalano fiamme dalle fauci e
dalle narici. E questo è appunto il caso dei cavalli del mitico carro del Sole,
come sappiamo dal dio stesso, vanamente impegnato a dissuadere il figlio
dall’ardua impresa di guidarlo (Ov. met. 2,84-6):

nec tibi quadripedes animosos ignibus illis,


quos in pectore habent, quos ore et naribus efflant,
in promptu regere est ...

15 Cfr. tuttavia anche 651 de longo cursu, 652-3. impulit atque suos efflavit langui-
dus ignis / concussos itere et labefactos aere multo: dove si potrebbe sostituire
equos a ignis. La suggestione, peraltro marginale (e forse fin troppo leziosa), che
illustro di seguito non ha attirato l’attenzione di Cyril Bailey, il cui monumentale
commento rimane uno strumento assolutamente indispensabile anche per le parti
del testo lucreziano di cui mi occupo in questa sede.
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 85

Pur senza vedersi conferire valore epistemologico, il mito continua a in-


fluenzare ‘sotto traccia’ il discorso scientifico, intervenendo puntualmente
a garantirne una migliore leggibilità.
Molto ricca di spunti interessanti, sotto questo aspetto, si rivela la lun-
ga trattazione cosmogonica che occupa la prima metà del libro V del De
rerum natura. Essa si chiude con una sezione astronomica (5,509-770),
introdotta da una presentazione della nascita dei corpi astrali, la cui con-
sistenza è più tenue e sottile di quella della materia di cui sono costituiti
i corpi che popolano la terra (5,416 ss.)16. All’interno di questa cospicua
sezione, già preceduta peraltro – come in parte abbiamo già visto – da
numerosi altri accenni di rappresentazione iconica e metaforica dell’azione
della luce degli astri (e del sole in particolare) sugli altri elementi naturali17,
vorrei qui soffermarmi nello specifico su alcune immagini della luce che
esemplificano in modo significativo la tecnica con cui Lucrezio integra il
messaggio scientifico-filosofico (difficile da comprendere nella sua versio-
ne più ‘pura’) con il ‘dolce’ (stavo per dire, “con la luce”) derivante dalla
qualità ‘creatrice’ della poesia e dal mito.
Si tratta di passaggi in cui il poeta ritorna – come gli accade spesso
– a mimare l’atteggiamento dei filosofi-poeti presocratici come Parmeni-
de, Empedocle (gli stessi di cui pure critica la concezione essenzialmente
‘qualitativa’ nella ricerca delle archai). Essi avevano consegnato appunto
alla poesia (una poesia rivolta decisamente verso il sublime) i loro messag-
gi di verità e soprattutto avevano già sfruttato il mito in funzione di ‘con-
densatore metaforico’. Anche il mito, in quanto prodotto culturale (ovvero
‘naturale’), si rivela un mezzo estremamente efficace per ‘illuminare’ la
verità, se non lo si intende soltanto alla lettera, ma si cerca di svelarne le
potenzialità inespresse, anche di tipo semantico.
Prendiamo per es. la parte in cui Lucrezio si occupa della luce che pro-
viene dal sole e dagli altri astri del cielo. L’intensità e la continuità dell’ir-
radiazione luminosa non sembrano diminuire a causa della distanza. Da
ciò, in base a ferrei principi di sensazione (αἴσθησις) e evidenza (ἐνάργεια)
che rimandano a Epicuro (epist. Pyth. 91, cfr. anche fr. 345 Usen.), Lucre-
zio inferisce che le dimensioni reali dei corpi astrali non devono essere di
tanto minori di quanto esse ci appaiano ad occhio nudo (5,564-73):

16 Cfr. in part. 5,449-56: sole, luna e i magni moenia mundi sono fatti di semi più
levigati e rotondi, e di elementi molto più sottili di quelli della terra: la consistenza
di sole e luna è intermedia tra quelle di terra ed etere (471 ss.).
17 5,264 ss. e 389: il sole disfa la matassa delle acque del mare; 281 ss.: il sole come
sorgente inesauribile di luce; 483 ss.: le frustate che infligge alla terra e alle acque
facendone evaporare i liquidi ecc.
86 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

nec nimio solis maior rota nec minor ardor


esse potest, nostris quam sensibus esse videtur.
nam quibus e spatiis cumque ignes lumina possunt
adiicere et calidum membris adflare vaporem,
nil magnis intervallis de corpore libant
flammarum, nihil ad speciem est contractior ignis.
proinde, calor quoniam solis lumenque profusum 570[573]
perveniunt nostros ad sensus et loca fulgent, [570]
forma quoque hinc solis debet filumque videri, [571]
nil adeo ut possis plus aut minus addere vere.18 573 [572]

Un discorso analogo vale per quei corpi astrali, come la luna, della cui
luminosità è incerta la matrice (5,575-84):

lunaque sive notho fertur loca lumine lustrans,


sive suam proprio iactat de corpore lucem,
quidquid id est, nihilo fertur maiore figura
quam, nostris oculis qua cernimus, esse videtur.
nam prius omnia, quae longe semota tuemur
aëra per multum, specie confusa videntur 580
quam minui filum. quapropter luna necesse est,
quandoquidem claram speciem certamque figuram
praebet, ut est oris extremis cumque notata,
quanta quoquest, tanta hinc nobis videatur in alto.

Anche il contorno della luna ci appare nitido, ben delineato (582-3 ...
claram speciem certamque figuram / praebet), e non sfumato e incerto al
punto da determinare un cambiamento della sua apparenza, come – in un
altro celebre passo del libro IV – era stato viceversa osservato a proposito
di corpi non luminosi19. Il fluido luminoso, com’è noto20, percuote le onde
del mare aereo che attraversa e le penetra, con maggiore forza ed efficacia
di quanto non riesca ai lievissimi simulacra che si staccano dai corpi. In-

18 Cfr. anche Cic. fin. 1,20 sol Democrito magnus videtur, quippe homini erudito in
geometriaque perfecto, huic (scil. Epicuro) pedalis fortasse; tantum enim esse
censet, quantus videtur, vel paulo aut maiorem aut minorem; e div. 2,10; acad.
2(Luc.), 82. Cfr. Bailey 1947, 1406-13.
19 4,353-63, dove l’esempio prescelto riguarda delle torri quadrate di una città che
da lontano appaiono stondate negli angoli, o perché da lontano ogni angolo ci ap-
pare ottuso (355 angulus optusus quia longe cernitur omnis), o più probabilmente
a causa dell’attrito che l’immagine-simulacro subisce attraversando l’aria (358-9
aëra per multum quia dum simulacra feruntur, / cogit hebescere eum crebris of-
fensibus aër); cfr. anche qui sopra, n. 12.
20 Cfr. 2,150 ss.
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 87

somma: anche ammettendo che la luna non irradi luce propria, essa appare
comunque alla vista in modo più nitido degli altri corpi non luminosi, e in
questo si può già individuare un motivo di peculiarità, e perciò di interesse.
L’immagine della luna, dunque, non appare meno nitida, perché è comun-
que veicolata dal flusso di luce che promana da essa, sia che si tratti di luce
naturale sia che si tratti di luce non naturale e proveniente da una fonte
esterna, ovvero di luce riflessa, ‘spuria’.
Facciamo adesso un piccolissimo passo indietro e veniamo al punto
saliente del mio discorso, a cui tra l’altro anche questo contributo deve il
suo titolo. Per rappresentare in modo efficace l’alternativa fra luminosità
propria e luminosità indotta, Lucrezio utilizza, a proposito di quest’ulti-
ma, l’aggettivo greco νόθος in riferimento al sostantivo neutro lumen (cfr.
sopra):

lunaque sive notho fertur loca lumine lustrans,


sive suam proprio iactat de corpore lucem,
quidquid id est, nihilo fertur maiore figura
quam, nostris oculis qua cernimus, esse videtur (5,575-8)

Nell’antichità, fin dagli inizi della speculazione filosofica, si era discus-


so sulla questione, che continuava evidentemente a tenere banco ancora nel
I sec. a.C. Uno sguardo panoramico sugli schieramenti contrapposti ci è
offerto da un passo del dossografo bizantino Giovanni Stobeo (ecl. 1,26,1):

Anassimandro, Senofane e Beroso (astronomo caldeo) ritengono che la luna


emani luce propria; così pensa anche Aristotele che ne evidenzia peraltro la
natura più tenue, meno intensa di quella solare; per gli Stoici brilla in modo
molto tenue (ἀμαυροφανής) quasi che il suo chiarore si vedesse filtrato da una
nube (ἀεροειδής); anche per Antifane la luna emana luce propria ... Talete fu
il primo a dire che la luna riceve luce dal sole. E così poi Pitagora, Parmenide,
Empedocle, Anassagora e Metrodoro.

La concezione secondo cui la luna riceve luce dal sole, risalente ad-
dirittura a Talete secondo l’erudito bizantino, sembra prevalere fra i pre-
socratici. Di Parmenide ed Empedocle diremo qualcosa più oltre, mentre
la tradizione secondo cui Anassagora (fr. 59 A 76) attribuiva a se stesso
questa teoria è riferita da Platone per bocca di Socrate nel Cratilo (Plat.
Cratyl. 409a):

{ΕΡΜ.} Τί δὲ ἡ “σελήνη”; {ΣΩ.} Τοῦτο δὲ τὸ ὄνομα φαίνεται τὸν


Ἀναξαγόραν πιέζειν. {ΕΡΜ.} Τί δή; {ΣΩ.} Ἔοικε δηλοῦντι παλαιότερον ὃ
ἐκεῖνος νεωστὶ ἔλεγεν, 409.b ὅτι ἡ σελήνη ἀπὸ τοῦ ἡλίου ἔχει τὸ φῶς. {ΕΡΜ.}
88 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Πῶς δή; {ΣΩ.} Τὸ μέν που “σέλας” καὶ τὸ “φῶς” ταὐτόν. {ΕΡΜ.} Ναί. {ΣΩ.}
Νέον δέ που καὶ ἕνον ἀεί ἐστι περὶ τὴν σελήνην τοῦτο τὸ φῶς, εἴπερ ἀληθῆ οἱ
Ἀναξαγόρειοι λέγουσιν· κύκλῳ γάρ που ἀεὶ αὐτὴν περιιὼν νέον ἀεὶ ἐπιβάλλει,
ἕνον δὲ ὑπάρχει τὸ τοῦ προτέρου μηνός.

Erm. E cosa dici riguardo a (= al nome di) Selene?


Socr. Pare che questo nome metta alle strette Anassagora. Erm. Perché?
Socr. Sembra infatti dimostrare che è più antica l’affermazione - che egli
sosteneva invece essere recente - [409b] secondo cui la luna riceve luce dal sole.
Erm. E come? - Socr. Ma perché ‘chiarore’ (σέλας) e ‘luce’ (φῶς) sono più
o meno la stessa cosa.
Erm. Certo.
Socr. E nuova e antica (ἕνον) è sempre questa luce (φῶς) se gli Anassago-
rei dicono il vero: infatti il sole, volgendosi continuamente intorno ad essa, le
proietta sopra sempre una luce nuova (νέον), mentre è vecchia (ἕνον) quella
del mese precedente.

Come già lo stesso Epicuro21, anche Lucrezio, comunque, non prende


una posizione netta in favore dell’una o dell’altra ipotesi (5,577 quidquid
id est)22. Il poeta romano, tuttavia, è più analitico del suo maestro, come
dimostra la sezione dei vv. 705-50 del libro V, in cui – sempre adottando
la tecnica della ‘spiegazione multipla’23 – egli presenta le possibili cause
delle fasi lunari.
Come prima ipotesi, abbiamo detto, anche in questa circostanza Lu-
crezio riferisce quella della luce ‘spuria’, ovvero dell’illuminazione della
luna da parte del sole: la luna è piena quando ha raggiunto la massima
distanza dal sole e, man mano che si riavvicina al sole, diventa più pic-
cola (5,705-14):

Luna potest solis radiis percussa nitere


inque dies magis <id> lumen convertere nobis
ad speciem, quantum solis secedit ab orbi,
donique eum contra pleno bene lumine fulsit
atque oriens obitus eius super edita vidit;

21 ep. Pyth. 94 ss. “la luna può avere luce propria o anche riceverla dal sole (...)
L’eclissi del sole e della luna può avvenire sia per spegnimento (...) o anche per
occultamento provocato dall’interposizione, tra questi astri e noi, della terra o di
qualche altro corpo celeste”.
22 Anche Cicerone non assume una posizione rigida (e.g. div. 2,91 putatur).
23 Hankinson 2013, 69-97; sull’uso successivo della tecnica lucreziana della spie-
gazione multipla da parte di Virgilio e Ovidio, cfr. Perkell 1989, 166-72; Myers
1994, 140; Hardie 2008, 69-96. Per tutte le complesse questioni erudite rimando
all’ampia trattazione di Bailey 1947, 1437-50.
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 89

inde minutatim retro quasi condere lumen 710


debet item, quanto propius iam solis ad ignem
labitur ex alia signorum parte per orbem;
ut faciunt, lunam qui fingunt esse pilai
consimilem cursusque viam sub sole tenere.

Si tratta di un’ipotesi che, tuttavia, si pone in contrasto con la tesi espo-


sta in precedenza – e condivisa anche da Epicuro – secondo cui sole e luna
sono effettivamente della grandezza con cui ci appaiono: come farebbe,
infatti, il ‘piccolo’ sole a illuminare la ‘piccola’ luna se nel mezzo ci fosse
il grande ostacolo rappresentato dalla terra? Quando più sembra dar credito
alla tesi della luminosità indotta dall’esterno Lucrezio lascia trapelare qual-
che motivo di perplessità o, comunque, di difficoltà.
La seconda ipotesi è che la luna, pur emettendo luce propria, duran-
te il suo percorso orbitale mostri varias splendoris formas; forse perché
accompagnata nel suo tragitto da un altro corpo astrale privo di luce che
si frappone in vario modo tra lei e la nostra vista, così da determinarne le
diverse apparenze (5,715-9):

est etiam quare proprio cum lumine possit


volvier et varias splendoris reddere formas;
corpus enim licet esse aliud, quod fertur et una
labitur omnimodis occursans officiensque,
nec potis est cerni, quia cassum lumine fertur.

La terza ipotesi, che ricalca la teoria degli astronomi Caldei, è la seguen-


te (720-30): la luna ha una faccia luminosa, avvolta di fiamme, e un’altra
oscura, che a poco a poco, nel corso dell’orbita, si scambiano di posto.
Infine, la quarta ipotesi (731-50): l’analogia con l’alternarsi delle stagioni
e dei loro prodotti specifici durante il corso dell’anno induce a considerare
(in maniera peraltro abbastanza generica) la possibilità che la luna si rin-
novi mese dopo mese, anzi giorno dopo giorno, cioè che perisca e rinasca
continuamente (ma il modo stesso in cui è presentata questa ipotesi è indi-
cativo della sua scarsa affidabilità: 731 cur nequeat). Mi pare interessante
osservare che, almeno in questa sezione argomentativa e dossografica (in
cui, abbiamo detto, egli si rivela più analitico del maestro), Lucrezio sem-
bra lasciare un po’ da parte l’ornamento poetico, ivi compreso l’impiego di
immagini e metafore.
Ma vengo al nocciolo del mio interesse, ovvero all’uso del grecismo
nothus. Si tratta di un prezioso traslato, che non a caso sembra particolar-
mente adatto ad essere impiegato in poesia. Lo ritroviamo, infatti, a for-
90 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

mare un identico nesso con lumen, all’interno del breve inno a Diana di
Catullo (34,13-6):

tu Lucina dolentibus
Iuno dicta puerperis,
tu potens Trivia et notho es
dicta lumine Luna.

Il nesso nome + aggettivo compare qui nell’ambito di un’apostrofe che


ne valorizza in pieno lo spessore ‘mitologico’. La dea è invocata in di-
verse forme corrispondenti ad altrettante ipostasi della sua omologa greca
Artemide, cioè come dea del parto (Ilithyia), come dea infera e ‘triplice’
(Hecate)24 e come Luna (Selene). Nel terzo caso, come nel primo, viene
esplicitata la motivazione dell’epiclesi mediante un’espansione in ablativo
dipendente da dicta es. Questo ablativo dovrebbe essere di tipo causale
nel primo esempio, mentre nel caso di Luna la sua natura è meno facile da
delimitare con precisione. In effetti l’accostamento etimologico di luna alla
famiglia di lux (e lumen) è ben noto, ma risulta tuttavia più arduo indivi-
duare un collegamento diretto con l’aggettivo nothus25.
Altrettanto, se non addirittura più difficile, è fare congetture sulla priori-
tà delle due attestazioni. Pare certo che si tratti di un contatto intenzionale
fra quelli che Cornelio Nepote, dedicatario del liber catulliano, celebra in-
direttamente en passant quali i due più grandi poeti che la sua epoca abbia
visto fiorire26. Il contesto innodico induce a ipotizzare che Catullo possa
aver derivato l’impiego di nothus da un modello greco, e che Lucrezio
possa a sua volta aver (indipendentemente da Catullo o meno) attinto allo
stesso registro solenne.
Il passo di Lucrezio è citato – probabilmente a memoria e, forse proprio
per questo, in modo impreciso – da Apuleio, nel De deo Socratis (1,28):

sive illa proprio sed perpeti candore pollens, ut Chaldaei arbitrantur, parte
luminis compos, parte altera cassa fulgoris, pro circumversione oris discolo-

24 Per l’epiteto Trivia, cfr. per es. Varr. Lat. 7,16,2 Titanis Trivia Diana est, ab eo dic-
ta Trivia, quod in trivio ponitur fere in oppidis Graecis vel quod luna dicitur esse,
quae in caelo tribus viis movetur, in altitudinem et latitudinem et longitudinem.
25 L’ipotesi che avanzo di seguito è da prendere come un divertissement: l’epiteto
potrebbe risentire del fatto che Diana era considerata divinità legata alla plebe e
alla componente italica; la dea ricevette la dedica del tempio sull’Aventino dal
re Servio Tullio, ritenuto figlio di una schiava e ‘illegittimo’ figlio di Tarquinio
Prisco e Tanaquil.
26 Nep. Att. 12,4; Lucrezio e Catullo morirono probabilmente entrambi nel 55.
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 91

ris multiiuga speciem sui variat, seu tota proprii candoris expers, alienae lucis
indigua, denso corpore sed levi ceu quodam speculo radios solis obstīpi vel
adversi usurpat et, ut verbis utar Lucreti, “notham iactat de corpore lucem”.

Curiosamente la citazione scorretta di Apuleio finisce per condensare in


una sola espressione le due alternative poste da Lucrezio a 5,575-6 (luna-
que sive notho fertur loca lumine lustrans, /sive suam proprio iactat de
corpore lucem): l’aggettivo notham ha preso il posto di suam e, soprattutto,
iactat viene trasferito alla luna, che adesso “ostenta con orgoglio” non la
luce propria, ma la luce che non le appartiene, quasi volesse arrogarsene
la proprietà.
Ora, malgrado l’impossibilità di trovare altre occorrenze della giuntura
nothum lumen, così come di analoghi moduli espressivi in greco con νόθος
in funzione di attributo, la ricerca di espressioni similari per indicare la ma-
trice non originaria della luce lunare produce ugualmente dei risultati piut-
tosto significativi. Nella tradizione dei poeti-filosofi presocratici, la nozio-
ne della luna come splendente di ‘luce allotria’ compare almeno due volte,
una in Parmenide ed una in Empedocle, con la stessa formula: ἀλλότριον
φῶς (“luce d’altrove”), che si propone come la preziosa variazione seman-
tica di una celebre clausola omerica (Il. 5,214; Od. 16,102 e Od. 18,219
ἀλλότριος φώς: “un uomo che viene da un’altra terra”, uno straniero, un
forestiero). I frammenti sono, rispettivamente, il 14 D.-K. dal Perì phýse-
os di Parmenide27: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς (“luce
d’altrove che brilla di notte vagando attorno alla terra”), e il B 45 D.-K. dal
Perì phýseos di Empedocle28: κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν ἑλίσσεται ἀλλότριον
φῶς (“circolare intorno alla terra si volge la luce d’altrove”), un frammen-
to, questo, che con ogni probabilità è una ripresa da Parmenide29.
Attestazioni dell’uso traslato di altre espressioni greche come νόθον
φέγγος o νόθον φῶς (= φάος) per indicare la nozione di luce ‘spuria’ o
‘riflessa’ in relazione alla luce lunare (di contro a γνήσιον, ‘originario, ge-
nuino’) non sembrano comparire prima di Filone Alessandrino (25 a.C.

27 ap. Plut. Adv. Colot. 15, p. 1116a. Cfr. anche alcune testimonianze incluse nella
raccolta del dossografo Aezio (I-II d.C.), che costituiscono i frammenti A 42, A 43
e A 43a D.-K.
28 ap. Achille Tazio (astronomo greco del II d.C), Isag. in Arat. Phaen. 16, p. 43,2
ed. Maass.
29 Alcuni pensano – dice lo scoliaste – che il sole venga prima, altri la luna e dicono
che essa è un frammento staccato (ἀπόσπασμα) del sole. La stessa formula si
ritrova molto più tardi, sempre a proposito della luna, in Plutarco, De facie in orbe
lunae 929.A.11 μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι, a cui segue un’altra ci-
tazione di Parmenide (15 D.-K. ἀεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο).
92 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

- 50 b.C.), commentatore di passi celebri del libro della Genesi. Di seguito


riporto i primi due esempi, entrambi provenienti dal De Somniis. Essi si
trovano inseriti rispettivamente in note a Gen. xxviii 12 ss. e a xxxi 11 ss.,
sui sogni di Giacobbe:

τί δέ; σελήνη πότερον γνήσιον ἢ νόθον ἐπιφέρεται φέγγος ἡλιακαῖς


ἐπιλαμπόμενον ἀκτῖσιν ἢ καθ᾽ αὑτὸ μὲν ἰδίᾳ τούτων οὐδέτερον, τὸ δ᾽ ἐξ
ἀμφοῖν ὡς ἂν ἐξ οἰκείου καὶ ἀλλοτρίου πυρὸς κρᾶμα; (1,23)

Che altro c’è da dire sulla luna? splende forse di luce originale oppure di
luce spuria, frutto esclusivo del riflesso dei raggi solari? oppure nessuna delle
due ipotesi è vera, ma la sua luce ha origine, per così dire, mista, ed è una specie
di combinazione di luce propria e di luce che appartiene ad un altro corpo?

***

τί δὲ περὶ φωτισμῶν σελήνης, εἰ νόθον ἔχει φέγγος, εἰ γνησίῳ μόνῳ χρῆται;


(1,53)

Perché stai indagando l’origine della luce lunare, se essa brilla di luce spuria
o se invece emana luce propria?

Un’ulteriore occorrenza si trova in De Mutatione Nominum 5,3, sempre


in una nota di commento al libro della Genesi (xvii, 1-22). In relazione
all’occhio dell’intelletto, Filone cerca di sottolineare la differenza fra luce
pura (della ragione) e luce ‘falsa’ (quella delle favole del mito e della po-
esia):

ὁ γὰρ νοῦς τὸ ἄκλειστον καὶ ἀκοίμητον προσβαλὼν ὄμμα τοῖς δόγμασι


καὶ τοῖς θεωρήμασιν εἶδεν αὐτὰ οὐ νόθῳ φωτί, γνησίῳ δὲ ὅπερ ἀφ᾽ ἑαυτοῦ
ἐξέλαμψεν.

l’intelletto, applicando il suo occhio che non è mai chiuso e non dorme mai
alle dottrine e alle teorie della scienza, non le vede sotto una luce spuria, ma
sotto quella luce pura che da essa stessa promana.

Un tema, quest’ultimo, che ritroviamo – più o meno in quegli anni, o co-


munque poco tempo dopo – in un opuscolo di Plutarco, intitolato Quomodo
adulescens poetas audire debeat. L’autore apre decisamente alla possibilità
che i giovani possano trarre vantaggio dall’ascoltare i poeti prima di essere
avviati allo studio della filosofia. Infatti, senza aver prima familiarizzato
con le vicende dei grandi personaggi del mito, essi non potrebbero ricavare
beneficio dal confronto immediato con le parole dei filosofi (36.E.11):
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 93

οἷς ἀντίφωνα τὰ τῶν φιλοσόφων ἀκούοντας αὐτοὺς τὸ πρῶτον ἔκπληξις


ἴσχει καὶ ταραχὴ καὶ θάμβος, οὐ προσιεμένους οὐδ᾽ ὑπομένοντας, ἂν μὴ
καθάπερ ἐκ σκότους πολλοῦ μέλλοντες ἥλιον ὁρᾶν ἐθισθῶσιν οἷον ἐν νόθῳ
φωτὶ κεκραμένης μύθοις ἀληθείας αὐγὴν ἔχοντι μαλακὴν ἀλύπως διαβλέπειν
τὰ τοιαῦτα καὶ μὴ φεύγειν.

quando ascoltano le controverse teorie dei filosofi, i giovani restano


dapprima turbati, sconvolti e vittime di uno stupore che li rende svogliati e
maldisposti, a meno che – come quelli che escono dal buio fitto a vedere la luce
del sole – non si abituino gradualmente a guardare ad esse in modo indolore,
attraverso una luce posticcia che emana un mite splendore di verità mescolata
alle favole, e senza più dover scappare via.

Questo passo di Plutarco dimostra che la metafora della ‘luce spuria’


può servire a illustrare anche la funzione della poesia come ‘mediatrice’
di conoscenza, proprio come il ‘dolce’ miele di cui si unge il bordo della
tazza contenente la medicina amara. La poesia (così come il mito) riesce a
veicolare contenuti difficili ed è come una luce che si presenta tollerabile
agli occhi di chi esce da tenebre profonde, mentre i bagliori accecanti di
filosofia e scienza risultano intollerabili e finiscono per ‘respingere’ coloro
che cercano di avvicinarsi, se questi stessi non si presentano adeguatamen-
te preparati a ‘resistere’ al loro fulgore.

5. Sole e luna, filosofia e poesia.

Natura e cultura sono due nozioni strettamente connesse in un rapporto


che le definisce, per così dire, come due facce della stessa realtà: la cultura
è natura (ovvero materia) in atto, cioè ‘formata’, interpretata. La densità
materiale e metaforica del linguaggio sembra favorire un progressivo av-
vicinamento fra questi due poli, nel senso che il testo recepisce e riflette
(quasi irradiandola verso il lettore) l’analogia sostanziale che caratterizza
la funzione di elementi naturali e la loro trasposizione letteraria, la loro
qualificazione come oggetti culturali. Nel sistema semantico del poema di
Lucrezio la luce rappresenta un medium fondamentale di questo rapporto,
sia sotto il profilo oggettivo – in quanto ente naturale – sia sotto il profi-
lo culturale: cioè, sia come immagine riprodotta nel testo letterario quale
‘contenuto’, sia come fattore in grado di produrre metafore linguistiche.
All’interno di questa relazione, e dunque nell’ambito della caratterizzazio-
ne della luce e delle sue valenze, delle sue manifestazioni naturali e cultu-
rali, si può individuare – almeno secondo me – una sorta di relazione fun-
94 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

zionale (se non addirittura il germe di un parallelismo) fra l’immagine di


enti naturali ‘produttori’ di luce (oltre che di suoi effetti connaturati, come
il calore ecc.) – mi riferisco al sole e alla luna – e quelli che definiscono i
loro corrispettivi metaforici in ambito culturale, ovvero filosofia e poesia.
La luce della ragione (la filosofia) riesce a illuminare anche quelle zone
della realtà dove non arrivano i lucida tela diei. Dal canto suo, la luce
‘spuria’30 della luna appare quale forma di luminosità intermedia e un po’
‘misteriosa’, anche in virtù della maniera cangiante con cui l’astro si mani-
festa, ossia del suo cambiare forma in continuazione, che lo rende sfuggen-
te, labile, quasi effimero (eppure così attraente e importante).
In ogni caso, la luna occupa una posizione secondaria, come ‘secon-
daria’ risulta la sua stessa luminosità (propria o allotria che sia). La sua
funzione, per così dire, satellitare ne fa un corrispettivo iconografico poten-
zialmente efficace per la poesia, in quanto forma mediata di conoscenza.
Una conoscenza che rappresenta uno stadio intermedio di avvicinamento
alla realtà, e che si manifesta attraverso una luce più tenue e tollerabile per
gli occhi degli esseri umani31. Talora corrispondente al mito, alle favole,
oppure affidata alle qualità icastiche del linguaggio stesso, capace di creare
una realtà visibile e quasi tangibile, questa forma di conoscenza intermedia
possiede grazia pari alla ‘dolcezza’32, e si propone quale prezioso ausilio
nella difficile ma affascinante ascesa verso il sublime, che Lucrezio invita
il suo lettore ad affrontare con entusiasmo.

30 O meglio ‘probabilmente spuria’: Lucrezio, ricordo, non sembra mai decidere


definitivamente, né pronunciarsi esplicitamente per l’una o per l’altra posizione.
Ad ogni modo, l’agg. nothos, ancor più di allotrios, sembra portare l’attenzione
sulla qualità intrinsecamente ‘adulterata’ (e manipolata) della luce piuttosto che
evidenziarne la natura non originale.
31 Cfr. il passo di Plutarco cit. qui sopra. Per l’impossibilità dello sguardo umano di
sostenere la luce solare cfr. Lucr. 4,299 ss.
32 1,934 musaeo ... lepore e 947 musaeo ... melle.
M. Fucecchi - Il ‘lume spurio’ della luna 95

Bibliografia33

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33 La bibliografia seguente non ha alcuna pretesa di esaustività e si limita a racco-


gliere i titoli di cui ho potuto materialmente tenere conto nella preparazione di
questo lavoro.
Cecilia Panti
LA MOLTIPLICAZIONE INFINITA DELLA LUCE
E LA SUA FUNZIONE NEL DE LUCE
DI ROBERTO GROSSATESTA

Meno di cent’anni fa cominciò a essere discussa nella comunità scientifica


l’idea elaborata dal fisico e sacerdote belga Georges Lemaître (1894-1966), per
il quale l’universo si era generato dall’espansione subitanea di un atomo d’infi-
nita densità, che, con quell’atto, dava avvio al tempo, allo spazio, alla materia.
In concomitanza con una prima occasione di approfondimento di tale ipotesi,
offerta a Lemaître nel 1924 dall’astronomo Arthur Eddington, il quale lo ri-
chiese per un soggiorno di studio a Cambridge, uno storico della filosofia del
Magdalen College di Oxford, John Alexander Smith, propose di accostare il
trattato De luce del filosofo e vescovo di Lincoln Roberto Grossatesta (1170ca-
1253) alle novità scientifiche sulla luce e l’origine del mondo che stavano pro-
prio allora venendo alla ribalta. Smith espresse pubblicamente la sua audace
comparazione in una conferenza da lui tenuta alla British Academy, alla quale
partecipò Andrew George Little, uno dei maggiori studiosi del francescane-
simo inglese nel Medioevo. Questi rimase molto colpito dal sentire il nome
di Grossatesta, che fu il primo maestro di teologia dei Minori di Oxford negli
anni 1230-1235, associato a idee così all’avanguardia, e scrisse in proposito
una lettera a Smith, la cui risposta è stata recentemente ritrovata e pubblicata1.
In questa lettera Smith sottolineava, a sostegno della sua supposizione,
«che sarebbe possibile e scientificamente utile approfondire in una dottrina
fisica opportunamente espressa in termini matematici la metafisica della
luce» sviluppata da Grossatesta. Infatti, a suo parere, «Grossatesta aveva
preso una sua strada, pensando che la luce fosse una forza o una forma di
energia che agisce con velocità istantanea, o senza tempo, immediatamente
partendo da un centro verso tutte le direzioni, idea che», continua lo stu-
dioso, «è tornata o sta tornando nella moderna teoria scientifica». Quindi,
conclude, «la luce, espandendosi in questo modo, occupa spazio, e siccome
talvolta definiamo come ‘corpo’ ciò che occupa spazio, sembra che Grossa-
testa ci stia parlando di come si è originato il corpo»2.

1 Cfr. Gieben, 219-238.


2 Gieben, 237-238. Traduzione mia.
98 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

L’intuizione di Smith era corretta. Infatti, le ricerche sul De luce che ho


avuto modo di condurre negli ultimi anni per preparare l’edizione critica
del testo, finora disponibile nella sola edizione del 1912 a cura di Ludwig
Baur3, hanno evidenziato che l’intento primo dell’opuscolo era proprio
giustificare come ebbe origine il corpo dell’universo a partire da “qual-
cosa” che non è corpo4. Questo scritto, che Grossatesta redasse attorno al
1225, è considerato un “unicum” nel pensiero medievale, e il suo tradizio-
nale inquadramento nella corrente della cosiddetta “metafisica della luce”
di ispirazione neoplatonica giustifica solo in parte la sua originale teoria.
Roberto Grossatesta è un filosofo non secondario nel pensiero medieva-
le, sia perché una visione storiografica, oggi in parte superata ma comun-
que influente, lo colloca all’origine della tradizione empiristico-scientifica
moderna, sia perché i suoi commenti agli Analitici secondi e alla Fisica
costituiscono i primi tentativi di lettura e interpretazione del pensiero natu-
ralistico e scientifico di Aristotele in età medievale, sia, infine, perché negli
anni del suo episcopato a Lincoln (1235-1253) egli divenne uno dei princi-
pali traduttori dal greco, rendendo disponibile la prima traduzione integrale
dell’Etica Nicomachea, una parziale traduzione del De coelo, nonché nuo-
ve traduzioni degli scritti di Padri greci e dello pseudo-Dionigi5.
Nel presente studio intendo quindi sviluppare alcune osservazioni sul tema
dell’origine dell’universo attraverso l’espansione luminosa, osservazioni che
ho in parte già proposto nel mio commento al testo, ma che necessitano di
approfondimento, impraticabile in quella sede. In particolare intendo soffer-
marmi sulla nozione di moltiplicazione infinita, la quale secondo Grossatesta
è l’“atto” auto-generativo e auto-espansivo della luce, che, unendosi alla ma-
teria prima, consente il passaggio da ciò che è incorporeo al corpo. Il filosofo
inglese utilizza infatti il principio di moltiplicazione infinita applicandolo
alle nozioni di forma (forma), luce (lux), luminosità (lumen) e “adimensio-
nale” (simplex), quest’ultimo termine, in particolare, permette di definire il
corpo come quantità dimensionata (quantum finitum), risultante dell’unione
della luce/forma con la materia. Prima di entrare nel merito di questo tema, è
opportuno richiamare in sintesi come il pensiero cristiano sviluppò il princi-
pio di creazione ex-nihilo e concettualizzò l’idea di corpo fisico.

3 Ed. Baur, 51-59.


4 Edizione critica in Panti 2013; il testo edito con introduzione e commento critico
in Panti 2011. Tutte le citazioni latine dal De luce nel presente studio indicano i
numeri di linea di questa edizione, identica nelle due pubblicazioni.
5 Per un inquadramento complessivo della filosofia di Roberto Grossatesta rimando
all’unica monografia moderna disponibile, ossia a McEvoy.
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 99

1. Creazione ex nihilo e corporeità

Il racconto dell’origine del mondo nel libro della Genesi offrì ai Padri
della chiesa e agli intellettuali cristiani la possibilità di confrontarsi con
l’idea di creazione dal nulla e “fuori dal tempo”. Nell’esegesi agostiniana,
in particolare, il verso d’avvio dell’opera dei sei giorni In principio Dio
creò il cielo e la terra (Genesi 1.1) sottintende l’idea di creazione come
cambiamento istantaneo che portò dal nulla all’essere la totalità dell’esi-
stente, cioè gli enti inanimati e le specie viventi da cui prese inizio la ge-
nerazione degli individui. Agostino, infatti, sostiene che Dio creò contem-
poraneamente e dal nulla la materia e la forma di ogni ente, ovvero “ciò
di cui” esso è fatto e “come” è fatto, intendendo in tal modo riconoscere
che dall’atto creativo divino scaturì ogni cosa, composta inscindibilmente
e senza ordine di precedenza da un substrato materiale, identico per tutti
gli enti quanto alla natura di sostrato, e da una specifica determinazione
formale. Questa lettura della creazione, com’è noto, ambiva a rispondere
tanto al rifiuto manicheo della Genesi quanto a erronee tesi filosofiche circa
l’origine del mondo, come l’idea aristotelica della sua eternità e l’idea pla-
tonica di ordinamento dal caos primigenio a partire da un modello ideale
separato dalla mente divina6.
La dottrina della creazione subitanea dell’universo fu quindi comune-
mente accolta nel medioevo, anche proponendo audaci interpretazioni, che
tentavano di accostare alla spiegazione agostiniana suggestioni provenienti
dalla conoscenza della filosofia antica, come ad esempio accade soprattutto
fra i maestri chartriani. Per essi, e basterà ricordare i nomi autorevoli di
Bernardo Silvestre, Teodorico di Chartres e Guglielmo di Conches, l’emer-
gere di conoscenze del mondo pagano, anzitutto per il tramite del Timeo
platonico e di scritti scientifici arabi, grazie al primo ingresso di opere me-
diche, alchemiche e astronomiche, aveva consentito una composizione di
filosofia e teologia attraverso narrationes fabulosae, racconti mitologici
della creazione. Questa modalità discorsiva introduceva il pensiero dei
filosofi antichi e allo stesso tempo permetteva una lettura “naturalistica”

6 Cfr. Agostino, De Genesi ad litteram I, 4. 9 e 15, 29; trad. in Catapano, 62-64 e


135-138; Catapano, 138: «… la materia, per una sorta d’informità, tende verso
il nulla; [la creatura] invece imita la forma del Verbo sempre e immutabilmente
unita al Padre, quando anch’essa col volgersi, in modo proporzionato al suo ge-
nere, verso Chi è veramente ed eternamente, cioè verso il Creatore della propria
sostanza, ne riceve la somiglianza…». Per un inquadramento complessivo si ve-
dano ad esempio Knuttila e Flasch. Per le letture agostiniane di Grossatesta, con
particolare riferimento alla nozione di forma, si veda Rossi.
100 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

del testo sacro. In certi casi, in questa letteratura possiamo trovare spunti
che sembrano veramente molto vicini all’idea di un universo espansivo, e
Grossatesta potrebbe aver attinto proprio da queste proposte per la sua ori-
ginale teoria cosmologica, come sembra accadere con un passaggio delle
Sententiae de divinitate attribuite a Ugo di San Vittore, in cui è esposta, per
poi confutarla, la dottrina agostiniana della creazione simultanea accostata
a una curiosa interpretazione della teoria atomista:

…Dio creò in primo luogo una peculiare sostanza semplice, cioè l’atomo,
dal quale fu estrapolata tutta la struttura del mondo, aumentata e moltiplicata
per l’azione divina ... Ma questa unità, che non consta di parti, in un certo modo
si diffonde nella molteplicità come l’atomo, dal quale fu creata la struttura del
mondo; ... e questo sembra intendere Agostino quando afferma (De vera reli-
gione, 43, 80) che il mondo non è più grande, nella sua essenza, che un granello
di miglio, né tutto il granello <è> maggiore della sua metà, quasi che la materia
e l’essenza di tutte le cose fosse <racchiusa> in esso, cioè nel semplice atomo,
come sembra ancora affermare Agostino nella frase precedente <che ho citato>
(De genesi ad litteram, IV, 33), cioè che tutte le cose furono create insieme.7

Sebbene Ugo non faccia cenno all’azione della luce o al suo essere for-
ma, non sono pochi gli spunti dottrinali che presentano analogie con il De
luce, come l’idea di espansione dell’universo, il riferimento alla nozione di
moltiplicazione nell’atto creativo divino e il nesso con l’atomismo.
Ma l’idea agostiniana di creazione simultanea fu discussa su nuove basi
soprattutto dagli inizi del secolo XIII, dopo che la Fisica, la Metafisica e Il
cielo di Aristotele iniziarono a circolare insieme agli imponenti commenti
ispirati dalla tradizione del neoplatonismo arabo, cioè quelli di Alfarabi
e Avicenna, e, infine, i commenti di Averroè. In particolare, rispetto alla
nozione di cambiamento implicita nell’idea di creazione ex nihilo, alcune
importanti fonti del neoplatonismo arabo si richiamavano a una distinzio-
ne, fatta risalire ad Aristotele, fra attività completa e incompleta, riferite
rispettivamente al cambiamento subitaneo, cioè al passaggio da uno stato
(hexis) a un altro senza successione temporale, e al movimento, cambia-
mento iscritto nella dimensione della successione temporale, come de-
scritto in Fisica III, 1 (201b27-202a3). Tale distinzione fu relazionata alla
questione della creazione dal commentatore cristiano Giovanni Filopono,
il quale asseriva che il cambiamento atemporale è ciò che caratterizza l’at-
tività creativa divina come energeia, al modo di irradiazione luminosa: il

7 Cfr. Hugo de Sancto Victore, Sententiae de divinitate, in Piazzoni, 930. Per il testo
italiano e un più dettagliato commento si veda Panti 2011, 88-90.
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 101

cambiamento quale atto creativo, accadendo nell’attimo, è paragonabile


all’emanazione di luce da una fonte luminosa, come il sole o il fuoco, che
non appena è visibile, illumina ogni cosa istantaneamente; dunque il pas-
saggio di stato da “oscuro” a “luminoso” non è movimento, ma cambia-
mento immediato e completo8.
Nonostante gli studiosi non abbiano del tutto chiarito attraverso quali
canali il commento di Filopono si trasmise nel mondo arabo, ne è stata
rilevata la presenza in importanti sillogi, come la Teologia di Aristotele,
opera di origine araba consistente soprattutto di estratti dalle Enneadi plo-
tiniane, nella quale ritroviamo il principio dell’attività creativa della poten-
za luminosa emanata senza movimento, e in autori arabi significativi per
il pensiero del secolo XIII, come Alkindi, il quale, attraverso la dottrina
dell’irraggiamento esposta nel De radiis, collega il principio di cambia-
mento istantaneo, riferito alla creazione del mondo, all’idea di causalità, a
sua volta connessa alle nozioni di forma e materia9. Dunque, attraverso la
conoscenza di Aristotele e del neoplatonismo arabo, i filosofi latini del se-
colo XIII ebbero l’opportunità di riflettere sull’idea di creazione ex nihilo,
facendo convergere le tesi agostiniane con il principio aristotelico di cam-
biamento quale azione atemporale immediata che determina un passaggio
di status, senza alterazione progressiva. Il passaggio, quindi, da ciò che non
è “corpo” a ciò che è “corpo” rientrava in questa condizione.
Ma come è concepito il “corpo” in quanto tale? In molti luoghi Aristo-
tele definisce corpo la grandezza tridimensionale10; in particolare, in Fisica
IV, 2 identifica l’estensione spaziale di una grandezza come qualcosa di
analogo alla materia, cioè attribuisce alla grandezza stessa il fatto di esse-
re una sorta di composto consistente di una superficie comprendente, che
è come una forma, e di un’estensione spaziale, che è simile alla materia
indeterminata, la quale è limitata appunto dalla dimensione determinata11.

8 Si veda, per una analisi complessiva del tema, Sorabji, 191-283 (part III. Time and
Creation), e Chase. Per il testo di Filopono si veda Chase, 166 (De aetate mundi 4, 4).
9 Cfr. Janos, 210-260 (con riferimento a Davidson 1969, 371-373, e 1987, 106-
116); Travaglia.
10 Ad esempio Cat. 6, 4b20-25; Cael. 1.1, 268a6-8; Metaph. 4.6, 1016b27-8 e 4.13,
1020a7–11.
11 Si può richiamare anche Fisica I, 9, dove Aristotele considera la physis che per-
mane nella generazione e corruzione. Dopo aver distinto fra hyle (ciò che non è
accidentalmente) e privazione (ciò che non è essenzialmente), perviene all’argo-
mento (192a14) per il quale, in relazione al cambiamento, la materia che permane è
responsabile, con la forma, come una madre. Qui Aristotele sottolinea anche che il
movimento imperfetto è pathos, qualità accidentale della cosa, mentre il movimen-
to perfetto è forma e completamento della cosa, cioè entelecheia. Si veda però, in
102 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

I commentatori greci ed arabi proposero diverse interpretazioni di questa


concezione. Alcuni, come Simplicio, considerarono l’estensione indeter-
minata come un “qualcosa” che resta, cioè la materia, dopo che tutte le
forme sono rimosse12, altri invece, come Avicenna, la pensarono come una
proprietà, cioè una forma che tutti i corpi materiali hanno in comune. Avi-
cenna ribadisce infatti che la corporeità è la prima forma sostanziale nella
materia, una forma condivisa da tutte le sostanze materiali:

Forma corporeitatis aut est prior ceteris formis ... aut simul iuncta cum illis
ita quod non possunt separari ab ea ... quia omnia habent esse cum corporei-
tate.13

Nella Metafisica Avicenna specifica anche che la corporeità è la forma


della continuità fisica (forma continuitatis) comune a tutti i corpi, e che a
essa si attribuisce la predicazione delle tre dimensioni spaziali; in conse-
guenza, la corporeità è semplice e unica14. Una concezione simile è anche
in un’altra importante fonte del neoplatonismo, il Fons vitae di Avicebron,
per il quale ogni realtà materiale e spirituale è composta di materia, iden-

particolare Phys. 4.2, 209b6-11, trad. Russo, 76: «In quanto il luogo sembra essere
l’intervallo (diastêma) della grandezza (megethos), esso è la materia: questa difatti
è diversa dalla grandezza, ed è ciò che è contenuto e determinato dalla forma, come
da un piano o dal un limite, e tali sono appunto la materia e l’indeterminato; quan-
do difatti si tolgono via da una sfera il limite e le affezioni, non rimarrà nulla tranne
la materia. Perciò anche Platone dice nel Timeo (51a-52d) che la materia e lo spazio
sono la medesima cosa, giacché il ricettacolo e lo spazio sono una e la medesima
cosa». Riporto il testo della translatio vetus, Verbeke, 140: «Si igitur est locus
primum continens unumquodque corporum, terminus quidam utique erit; quare
videtur species et forma uniuscuiusque locus esse, quo determinatur magnitudo
et materia magnitudinis; hoc enim est uniuscuiusque terminus. Sic quidem igitur
considerantibus locus uniuscuiusque species est; secundum autem quod videtur
locus esse distantia magnitudinis, materia; hec namque altera est a magnitudine,
hec autem est contenta sub specie et definita, sicut sub plano et termino, est autem
huiusmodi materia et infinitum; cum autem removeantur terminus et passiones
spere, relinquitur nichil preter materiam. Unde et Plato materiam et locum idem
dicit esse in Thimeo; receptivum enim et locum unum et idem».
12 Per Simplicio, il corpo come dimensione indeterminata è materia solo in via con-
getturale, in riferimento a ciò che può essere chiamato materia prima (In Ph. 1.7,
227, 26-30). Se infatti la grandezza tridimensionale fosse la forma che tutte le so-
stanze fisiche hanno in comune, allora le sostanze sarebbero tutte essenzialmente
corporee. Cfr. Chase.
13 De causis et principiis naturalium, 1, 2, ed. Van Riet 1992, 20.
14 Liber de philosophia prima sive de scientia divina I-IV, 2, 2, ed. Van Riet 1977,
73. Si veda anche Lizzini.
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 103

tica in ogni cosa, e forma, principio di determinazione della sostanza indi-


viduale. La prima distinzione formale della sostanza è perciò la corporeità/
tridimensionalità, condivisa da tutti i corpi: cum annuntias aliquid esse
corpus, assignas formam et formatum ... et … constituis rem quae est lon-
ga, lata et spissa15.
Questi elementi di riflessione sulla nozione di corpo come estensione
tridimensionale sono particolarmente significativi nel contesto del De luce
di Roberto Grossatesta. Come accennato, quest’operetta si colloca nella
seconda decade del secolo XIII, probabilmente attorno al 1225, in un perio-
do in cui la filosofia naturale aristotelica aveva appena iniziato a circolare
negli ambienti scolastici, nei quali ancora dominava la visione della natura
che si era consolidata nel secolo precedente. Ora, se i primi opuscoli scien-
tifici di Grossatesta si collocano ancora nel solco della tradizione filosofica
del secolo XII, come dimostra ad esempio il trattato sulle arti liberali16, il
De luce segna chiaramente il passaggio a un nuovo linguaggio filosofico,
elaborato appunto a partire dall’ingresso di Aristotele “filosofo naturale”,
e dell’opera dei suoi commentatori. Nel De luce, quindi, vediamo conver-
gere una “cosmogonia” che rinuncia alla narratio fabulosa – anche se non
del tutto, come evidente nella sezione finale (ll. 153-163), in cui Grossa-
testa ricorre all’allegoria della dea madre – e una “cosmologia” che tenta,
audacemente, di interpretare alla luce di queste nuove fonti filosofiche le
nozioni di forma, materia, corpus, actio, substantia.
Nello specifico della sezione del testo che verrà qui di seguito esami-
nata, il trattato sulla luce di Grossatesta, richiamandosi implicitamente sia
all’idea avicenniana e gebiroliana di corporeità come forma comune so-
stanziale, che Grossatesta identifica con la lux, sia all’idea aristotelica di
cambiamento istantaneo, postula la necessità di una specifica situazione
pre-temporale e pre-spaziale, cioè la creazione divina della materia prima
e della forma prima, necessaria alla generazione del corpo dell’universo.
Materia e forma prime, infatti, essendo in se stesse incorporee, vengono
individuate quali pre-condizioni della corporeità. In tal modo, egli rispon-
de dal punto di vista “fisico” o, se vogliamo, “scientifico” all’argomento
teologico agostiniano della creatio ex nichilo. Dal nulla sono create la pri-
ma forma/lux e la prima materia, le quali, nel loro incontrarsi in principio
temporis danno origine subitanea al corpo, dunque all’universo17.

15 Avicebron, Fons vitae. Fonte della vita, a cura di Benedetto, in particolare IV, 6,
e I, 16, 20 e ancora II, 1, 24, 223-224.
16 Ed. Baur, 1-7; nuova ed. Sonnesyn, 74-95.
17 Come sottolinea Lewis 2013, 240, nota 2, Grossatesta distingue fra materia prima
creata e potenziale nel De potentia et actu, ed. Baur, 127: «materia vero prima et
104 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Per elaborare questa idea, Grossatesta formula una sorta di assioma ge-
nerale, che non ritroviamo nelle fonti a lui disponibili, o almeno in quelle
che sono state identificate, cioè l’idea della moltiplicazione infinita come
processo che determina il cambiamento stesso. In breve, Grossatesta ri-
tiene che il corpo dell’universo si generi dall’infinita moltiplicazione di
un’entità incorporea, la prima forma/lux, che si unisce alla materia prima,
parimenti incorporea. Nel presentare questa idea, egli fa leva sulla conver-
genza di tre nozioni: quella aristotelica di corpo come estensione, quella
aristotelica di cambiamento subitaneo e quella avicenniana/gebiroliana di
corporeità come forma comune. Egli attribuisce alla forma prima la stessa
capacità che Avicenna attribuisce alla forma della corporeità, ovvero il dare
estensione all’indeterminatezza della materia, ma aggiungendovi un nuovo
e inedito principio, cioè che tale capacità è della forma in quanto essa si
auto-moltiplica infinitamente. Proprio tale assunto, quindi, fonda l’identità
fra forma prima, corporeità e luce. Soltanto la luce, infatti, è energeia auto-
generativa in virtù della sua capacità di moltiplicare se stessa all’infinito.
Questo è, in ultima istanza, l’assunto con cui Grossatesta apre il suo trat-
tato, identificando la forma prima con la corporeità, la stessa forma prima
con la luce, e quindi la luce con la corporeità.

ll. 2-3. Formam primam corporalem quam corporeitatem nominant lucem


esse arbitror.

Da quanto è stato accennato, emerge che il concetto di moltiplicazione


infinita ha una notevole rilevanza nel contesto del De luce grossatestiano.
Ma come è impiegato e da dove è tratto tale principio? Nell’addentrarci in
queste problematiche, sulle quali gli studiosi del pensiero di Grossatesta
non hanno posto particolare attenzione, dando quasi per scontato che il
processo generativo della luce sia identificabile come un’auto-moltiplica-
zione, evidenziamo nel paragrafo successivo come questo concetto è in-
trodotto nel testo e relazionato alla natura della luce, per poi mettere in
evidenza la sua giustificazione matematica e, infine, il collegamento con
l’ambito “metafisico” e “fisico”, che consentirà di gettare lo sguardo sulle
possibili fonti dell’idea stessa di moltiplicazione infinita.

omnis res immaterialis penitus, antequam crearetur, fuit in potentia; et tamen nihil
unquam potuit esse materia, nec ex aliquo potuit esse materia». Nell’Hexaëmeron
(1.9.2, ed. Dales-Gieben, 63) invece parla anche di forma prima come creata:
«Materia autem prima et forma prima ex nichilo et a temporis inicio creata sunt»,
ma in questo caso forma e materia indicano la sostanza corporea e la sostanza
spirituale angelica. Sulla nozione di materia in Grossatesta si veda Panti 2017a.
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 105

2. Le quattro affermazioni sull’infinita moltiplicazione

La nozione di moltiplicazione infinita appare nel De luce in quattro con-


testi diversi, anche se integrati l’un l’altro, cioè, in ordine di apparizione
nel testo, è riferita:

1. alla forma (forma) in ambito metafisico,


2. alla luce (lux) in ambito cosmologico e cosmogonico,
3. a ciò che è privo di dimensione (simplex) in ambito matematico,
4. alla luminosità (lumen) in ambito fisico.

La terza occorrenza è la più generica asserzione dell’idea di moltiplica-


zione infinita, in quanto afferma che ciò che è simplex, moltiplicato infini-
tamente, genera necessariamente la quantità finita:

3. ll. 34-35: <simplex> infinities vero multiplicatum necesse est quantum


finitum generare

Il simplex a cui si riferisce l’affermazione significa, secondo Grossate-


sta, qualcosa privo di dimensioni, che appunto “genera” una quantità di
dimensioni finite (quantum finitum) attraverso una moltiplicazione infinita
di se stesso. Questa asserzione viene giustificata, come vediamo oltre (par.
3), con sintetiche – e in buona parte erronee – argomentazioni matemati-
che, imperniate sulla convinzione che il processo infinito del moltiplicare
implichi un passaggio di genere del moltiplicando. La stessa idea di base la
ritroviamo anche nella prima occorrenza della proposizione sulla moltipli-
cazione infinita, applicata però all’ambito metafisico, cioè alla nozione di
forma, ove si specifica apertamente che la forma è simplex in quanto priva
di dimensione:

1. ll. 6-10: Formam vero, in se ipsam simplicem et dimensione carentem, in


materiam similiter simplicem et dimensione carentem dimensionem in omnem
partem inducere fuit impossibile, nisi seipsam multiplicando et in omnem par-
tem subito se diffundendo et in sui diffusione materiam extendendo.

In tale asserzione, “semplice” e “privo di dimensione” sono riferiti ai


concetti di forma e materia, e l’affermazione circa la moltiplicazione in-
finita funge da principio generale, inteso come una specie di regola che
relaziona l’azione della forma sulla materia, ove l’azione è, in questo caso,
dotare la materia di dimensione (dimensionem inducere), ovvero “quantifi-
carla” e “spazializzarla”.
106 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Passiamo quindi alla seconda occorrenza della proposizione sull’infi-


nita moltiplicazione. Qui Grossatesta sostituisce la parola forma con lux,
e si sposta dal piano metafisico a quello cosmologico. Secondo il filosofo
inglese, la luce è infatti una forma, o meglio è la forma prima, dato che
moltiplica se stessa da se stessa in modo assolutamente autonomo (per se)
e indipendente da qualsiasi altra forma, come sua operazione primaria:

2. ll. 13-14: Atqui lucem esse proposui, cuius per se est hec operatio, scilicet
seipsam multiplicare et in omnem partem subito diffundere.

La luce, perciò, nel diffondersi istantaneamente (subito) ovunque (in om-


nem partem) compie la sua propria azione (operatio), ovvero moltiplicare se
stessa. L’espandersi della luce non è un flusso, o una emanazione18, ma una
modalità particolare di auto-generazione, che è la replicazione o moltiplica-
zione di sé. Su questa nozione Grossatesta fa quindi leva per introdurre la tesi
più originale del trattato, relativa all’ambito cosmologico e cosmogonico. La
moltiplicazione infinita della lux-forma, all’inizio del tempo (in principio
temporis), provocò l’estensione della materia prima, assolutamente indeter-
minata, dandole dimensionalità in omnem partem, ovvero spazialità:

ll. 28-31: Lux itaque, que est forma prima in materia prima creata, seipsam
per seipsam infinities undique multiplicans et in omnem partem equaliter porri-
gens, materiam quam relinquere non potuit, secum distrahens in tantam molem
quanta est mundi machina, in principio temporis extendebat.

In tal modo, la proposizione sulla moltiplicazione infinita rende conto


della generazione del corpo fisico della mundi machina, all’inizio del tem-
po19. La forma/luce e la materia prima furono perciò le due condizioni cre-
ate da dio prima che avesse origine l’universo, e il loro incontro determinò
necessariamente (necesse est), in virtù della natura specifica della forma,
l’estensione spaziale della materia, come chiarisce un ulteriore passaggio:

18 All’inizio del trattato tuttavia Grossatesta asserisce che la luce «per se in omnem
partem seipsam diffundit» (l. 3).
19 L’espressione machina mundi risale al De rerum natura di Lucrezio (V, 96), ed è
ripresa in fonti latine quali il De nuptiis di Marziano Capella (IX, 921) e il De con-
solatione boeziano (III, 12,14). Il termine “macchina” ricorre fin dal giovanile De
sphera di Grossatesta (ed. in Panti 2001, 289), dove indica il meccanismo perfetto
di tutte le parti della sfera cosmica. Si ritrova anche nel passo delle Sententiae de
divinitate di Ugo di San Vittore, forse anche per il riferimento all’atomismo (cfr.
qui nota 7).
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 107

ll. 39-40: Lux igitur, que in se simplex est, infinities multiplicata materiam
similiter simplicem in dimensiones finite magnitudinis necesse est extendere.

Grossatesta non descrive, però, solo l’atto generativo iniziale dell’uni-


verso, ma anche ciò che accadde dopo che il corpo fu generato, e in questo
contesto egli introduce la nozione di lumen. Il sinolo luce-materia, infatti,
raggiunse il limite di estensione spaziale laddove la materia non potette
oltrepassare la sua possibilità di espansione (ll. 91-102); ma in tale estremo
corporeo, cioè ai confini della machina mundi, neppure la spinta auto-mol-
tiplicativa della lux potette arrestarsi. Qui, dunque, iniziò un processo auto-
moltiplicativo verso il centro, non del sinolo che si era espanso, né della
sola luce, inseparabile dalla materia, ma del lumen, che Grossatesta defi-
nisce come sinolo di forma/lux e della parte più sottile e “spirituale” della
materia. Il lumen è perciò un “corpo spirituale” o uno “spirito corporeo”.
Il passaggio del lume dalla periferia al centro dell’universo fu immediato,
ma non istantaneo. Infatti, il lume non può muoversi nell’istante, perché è
corporeo, ma neppure nel tempo, perché la sua componente spirituale fa sì
che esso non sia ostacolato dal corpo; esso, quindi, attraversa (transit) il
cosmo per auto-moltiplicazione con velocità “quasi-istantanea”:

4. ll. 108-114: Et sic procedit a corpore primo lumen, quod est corpus spi-
rituale, sive mavis dicere spiritus corporalis quod lumen in suo transitu non
dividit corpus per quod transit, ideoque subito pertransit a corpore celi usque
ad centrum. Nec eius transitus est sicut si intelligeretur aliquid unum numero
transiens subito a celo usque ad centrum, hoc enim forte est impossibile. Sed
suus transitus est per sui multiplicationem et infinitam generationem.

Il lume così definito è la luminosità che si diffonde nel mondo, e l’intro-


duzione di questo “quasi-corpo” ha un ruolo essenziale in ambito fisico: in-
fatti, in esso Grossatesta individua l’agente attivo e operativo che suddivise
e organizzò il corpo primordiale dell’universo nelle sfere celesti (ciascuna
perfetta e capace di generare il proprio lumen) ed elementari (capaci solo in
parte di generare lumen), rendendo così il cosmo intero un’immane sphera
luminis, pervasa da un immenso reticolo di lumina celesti ed elementari (ll.
115-157). Ma il lumen assolve pure a un’altra fondamentale funzione sui
corpi sublunari, cioè agisce come causa efficiente nei loro mutamenti. Tale
azione, che si esplica grazie alla sua capacità di entrare nelle particelle sen-
za dividerle, consente il movimento verso l’alto e il basso, la rarefazione e
la condensazione (ll. 201-204). In altri scritti grossatestiani, questa funzio-
ne del lumen è più chiaramente indicata come “incorporazione” (incorpo-
108 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

ratio lucis o incorporatio luminis), ed è considerata il principio causale di


fenomeni fisici quali il suono e il colore20.
Come possiamo notare dai passi riportati, Grossatesta fa leva sull’idea
dell’infinita moltiplicazione come se fosse una sorta di norma, o “legge”,
che esprime sia un’operazione matematica sia la modalità d’azione di una
“forza”, individuata nella luce quale principio di generazione del corpo
nonché nel lume quale causa efficiente nell’ordinamento del cosmo e
nell’azione causale nel mondo elementare. I quattro passaggi sull’infinita
moltiplicazione sopra esaminati definiscono quindi il contesto “scientifico”
che fonda la lettura grossatestiana della creazione ex nihilo. Tornando per-
ciò alla proposizione (3), dalla quale siamo partiti, vediamo come Grossa-
testa giustifica dal punto di vista matematico la sua affermazione, cioè cosa
significa per lui il moltiplicarsi all’infinito di ciò che è privo di dimensione.

3. L’inquadramento matematico delle affermazioni sulla moltiplicazio-


ne infinita

La proposizione (3), che come abbiamo visto è l’espressione più ge-


nerica del principio di auto-moltiplicazione infinita, veicola l’idea che
qualcosa privo di dimensioni genera o produce una quantità dimensionata
(quantum finitum) solo attraverso una moltiplicazione infinita di se stesso.
Ciò è giustificato da Grossatesta ricorrendo a un argomento matematico: il
prodotto della moltiplicazione infinita di qualcosa supera (excedit) all’infi-
nito il moltiplicando. Riportiamo per esteso il passo in questione:

ll. 33-38: simplex finities replicatum quantum non generat, sicut ostendit
Aristoteles demonstrative; infinities vero multiplicatum necesse est quantum
finitum generare, quia productum ex infinita multiplicatione alicuius in infini-
tum excedit illud ex cuius multiplicatione producitur. Atque simplex a simplici
non exceditur in infinitum, sed solum quantum finitum in infinitum excedit
simplex. Quantum enim infinitum infinities infinite excedit simplex.

Consideriamo anzitutto ciò che, nel passo citato, consegue al quia: se


qualcosa è moltiplicato per se stesso un numero infinito di volte, il prodotto
di tale interminabile moltiplicazione supera all’infinito ciò da cui tale prodot-
to è scaturito. Questa asserzione è corretta dal punto di vista matematico. In-
fatti, è vero che qualsiasi numero naturale moltiplicato all’infinito ha infinito
come prodotto, e quindi il prodotto supera infinitamente il moltiplicando.

20 Cfr. Panti 1999.


C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 109

Tale asserzione, però, consegue all’affermazione che anche il moltiplicando


adimensionale (simplex), se moltiplicato all’infinito, genera un prodotto che
supera all’infinito il moltiplicando stesso; e questo risultato altro non è che
un passaggio dall’adimensionalità alla dimensione, dal simplex al quantum.
Infatti, solo la quantità determinata supera all’infinito l’assenza di quantità.
Grossatesta non si preoccupa di giustificare la sua asserzione se non chia-
mando in causa Aristotele. Nello specifico, la dimostrazione sottintesa nel
passo citato (sicut ostendit Aristoteles demonstrative) è condotta dallo Stagi-
rita nel primo libro del De generatione et curruptione contro le tesi atomisti-
ca, platonica e pitagorica, del corpo quale aggregato di indivisibili. Sembra
quindi che Grossatesta individui nel punto l’entità adimensionale simplex.
Infatti, la versione latina del De generatione (I, 2, 316a30-34) recita:

Similiter autem et si <corpus> erit ex punctis, non erit quantum. Quando


enim tangebant et una erat dimensio et simul erant, non faciebant maius omne;
divisio enim in duo vel plura, non minus neque maius omne prioris; quapropter
et si omnes componantur, nullam faciunt dimensionem.21

Nessun aggregato di un numero finito di punti può dare origine a qual-


cosa che sia di genere diverso dal punto, dunque qualcosa dotato di dimen-
sione (quantum). Tuttavia, asserisce Grossatesta, se l’aggregato consta di
un numero infinito di punti – per intendersi, se pensiamo al quantum come
aggregato di infiniti punti –, allora il punto moltiplicato all’infinito «genera
necessariamente» (necesse est … generare) un quantum. Il simplex, come
il punto, sarebbe quindi “contenuto” nella definizione di quantum, giacché
questo equivarrebbe al prodotto della moltiplicazione infinita del punto.
Ma il passo del De luce afferma che lo stesso principio in forza del quale
l’adimensionale, auto-moltiplicandosi, genera il dimensionato, si applica
anche a ogni quantità finita, la quale, moltiplicata all’infinito, approda a
un genere diverso da quello di partenza, il quantum infinitum. A sua volta,
la quantità infinita (quantum infinitum) supererà il simplex in modo “infi-
nitamente infinito”, secondo una modalità che potremmo definire “infinito
moltiplicato all’infinito” o “infinito elevato al quadrato”22.
Come si può facilmente intuire, il ragionamento di Grossatesta è sem-
plicistico: perché un punto/simplex moltiplicato un numero infinito di volte
dovrebbe generare un quantum finito, come ad esempio un segmento, e
non un quantum infinito, come una linea? Perché una moltiplicazione in-

21 Ed. Judycka, 12.


22 Come però ribadisce Averroè nel commento alla Fisica, I, comm. 38, ed. Giunta,
f. 25I: «est contra rationem infinita multiplicari per infinita».
110 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

finita deve necessariamente generare qualcosa di finito nelle dimensioni?


Sembra evidente che il filosofo inglese abbia introdotto queste distinzioni
solo per stabilire una sorta di gerarchia nell’applicazione del principio del-
la moltiplicazione infinita. Infatti, ricapitolando, possiamo individuare tre
momenti nella dinamica della moltiplicazione infinita, che per chiarezza
schematizzo sia in forma geometrica che aritmetica. Supponendo che il
simplex equivalga al punto e all’unità – in quanto l’unità costituisce non
un numero, ma il “principio” e “origine” del numero, come il punto è pen-
sato quale origine della linea –, il quantum al segmento e alla quantità n, il
quantum infinitum alla linea e alla quantità numerica infinita ∞23:

1. la quantità finita (quantum) supera all’infinito l’adimensionale (simplex);


_____
1· ∞ = n · + · + ·+.... =

2. la quantità infinita (quantum infinitum) supera all’infinito la quantità finita


(quantum)
_____ _____ _____ _________....
n·∞ = ∞ + + +.... = ....

3. la quantità infinita (quantum infinitum) supera in modo infinitamente infinito


l’adimensionale (simplex).
_________....
(1·∞)·∞ = ∞ (· + · + ·+....)+(· + · + ·+....)+(· + · + ·+....)+.... = ....

La triplice affermazione, così formulata, descrive come la dimensione


finita, quindi anche la tridimensionalità, associata all’idea di corpo come
estensione, si generi a partire dalla mancanza di dimensione, e il significato
di tale tesi, nel contesto esaminato, sembra conformarsi all’idea pitagorica
in cui simplex è il punto, richiamato dal riferimento alla dimostrazione ari-
stotelica. Tale campo di applicazione è quindi matematico, come Grossate-
sta palesa anche in altre due sezioni del trattato, una di ambito aritmetico,
cioè nella discussione sugli infiniti ineguali, l’altra di ambito geometrico,
relativa all’osservazione sul punto quale parte della linea.
Vediamo sinteticamente questi due luoghi, entrambi nella seconda parte del
trattato (ll. 41-66 e ll. 75-84)24. Grossatesta ritiene che in ambito aritmetico (ll.
44-66) vi siano infiniti di diversa grandezza e comparabili attraverso rapporti
razionali o irrazionali, come negli esempi addotti che coinvolgono due diverse
serie, o somme (aggregationes), di infiniti addendi. Il primo esempio considera
la serie infinita dei numeri naturali e quella dei soli numeri pari. Le due serie
infinite non avrebbero per Grossatesta la stessa grandezza numerica, perché

23 Sull’unità quale origine del numero, cfr. ad esempio Boezio, De arithmetica, I, 7,


e 16, eds. Oosthout-Schilling, 19-20 e 40.
24 Per una discussione più dettagliata rimando a Panti 2011, 107-134.
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 111

la serie dei pari non comprende i numeri dispari. La serie dei numeri naturali
supera quindi quella dei pari di una quantità infinita, che è la serie dei dispa-
ri. Chiaramente, il ragionamento di Grossatesta è corretto per ogni serie finita,
qualsivoglia grande, di numeri naturali e di numeri pari, ma non per la serie
infinita25. Parimenti errati sono altri due esempi aritmetici, fondati sulla serie
delle potenze di 2 e quella delle rispettive metà, e sulla serie delle potenze di 3
e i rispettivi terzi, rispetto ai quali Grossatesta intenderebbe stabilire che fra le
due serie vi è un rapporto razionale26. In conseguenza, pure l’ultimo esempio,
addotto per dimostrare che fra infiniti si determinano anche rapporti irrazionali,
sviluppandosi su uno degli esempi precedenti, cioè quello delle potenze di 2 e
delle rispettive metà, risulta anch’esso errato27.
Avendo quindi “dimostrato” l’ineguaglianza degli infiniti, Grossatesta
torna all’argomento cosmologico, e ribadisce che la luce, grazie alla sua
moltiplicazione infinita, può estendere la materia secondo dimensioni di-
verse e comparabili (ll. 67-74). Proprio questo, dunque, avvalora quanto
sostenevano gli atomisti e gli “indivisibilisti”, criticati da Aristotele:

ll. 75-79. Is, ut reor, fuit intellectus philosophorum ponentium omnia com-
poni ex athomis et dicentium corpora ex superficiebus componi et superficies
ex lineis et lineas ex punctis. Nec contradicit hec sententia ei [i.e. di Aristotele]

25 Poniamo infatti che a(n) sia la somma finita dei naturali da 1 a n, che b(n) sia
la somma dei pari da 1 a n, e c(n) quella dei dispari. Si avrà allora, per ogni
n, che a(n)–b(n)=c(n). Dalla validità di tale uguaglianza per ogni n, Grossatesta
inferisce, però, anche la validità di A–B=C dove A, B e C sono le serie infinite
dei numeri naturali, dei pari e dei dispari. Dal punto di vista della matematica
moderna questa inferenza è indebita, in quanto corrisponde ad un passaggio al
limite, che è errato perché A, B e C sono “ugualmente infiniti” (cioè equipotenti),
e la differenza A–B è indeterminata.
26 Ad esempio, se A è la serie infinita delle potenze di 2 e B è quella delle metà di
tali potenze, avremo A:B=2, e questo dimostrerebbe che due serie infinite sono in
proporzione numerica razionale.
27 In questo procedimento, tuttavia, egli conduce un ragionamento formalmente cor-
retto, pur partendo da premesse sbagliate. Prendendo infatti le due serie infinite
del doppio e delle rispettive metà, egli ipotizza di togliere dalla serie delle metà
una qualsiasi quantità finita. In tal modo, fra le due serie non è più possibile che vi
sia la proporzione di 2:1, né qualsiasi altra proporzione razionale. Infatti, se da un
rapporto numerico razionale qualsiasi, del tipo a:b, togliamo da b un numero in-
tero o frazionario c, anche il rapporto a:(b–c) sarà razionale. Ma se consideriamo
due serie infinite, A e B, allora nessun numero intero o frazionario c è loro parte
aliquota; quindi, sottraendo c da B non resterà alcun rapporto razionale fra A e
B–c. Il rapporto A:(B–c) risulta perciò non numeralis, cioè irrazionale.
112 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

que ponit magnitudinem solum ex magnitudinibus componi, quia tot modis


dicitur ex quot modis dicitur pars28.

Nuovamente, il contesto di riferimento è ancora la critica aristotelica contro


le teorie per le quali il continuo si compone di elementi minimi indivisibili, si-
ano essi punti, triangoli minimi o atomi. Grossatesta afferma perciò che l’idea
da lui addotta, per cui il corpo si compone o “si genera” dall’infinita moltipli-
cazione di qualcosa che non è corpo, esattamente come una linea si compone
di un numero infinito di punti, non è affatto contraria all’idea di Aristotele,
per il quale una grandezza continua non si compone da alcunché di diverso da
essa (magnitudinem solum ex magnitudinibus componi). Aristotele, come ben
noto, aveva criticato le teorie indivisibiliste negando che la linea, così come
il tempo o la grandezza, si componesse di qualcosa che, privo di dimensione,
fosse “minimo” nella costituzione del continuo. Per Aristotele, l’indivisibile
è solo ciò che “interrompe” la continuità, ovvero è il termine della continuità.
Una quantità continua si compone quindi solo di quantità continua, senza ar-
rivare in via di un processo di divisione a qualcosa di diversa natura29.
Ora, il ragionamento di Grossatesta sembrerebbe contrario ad Aristotele,
se non fosse che il maestro inglese afferma esplicitamente di non voler met-
tere in discussione il principio della continuità (nec contradicit). Al contrario,
egli intende adottarlo, adattandolo, per così dire, a significare che, benché
qualsiasi parte di una grandezza (magnitudo) rimanga sempre una grandezza
nella sua possibilità infinita di divisione in parti sempre più piccole, tuttavia
essa sarà pur sempre costitutivamente generata dalla moltiplicazione infi-
nita di qualcosa di adimensionale, quale il punto, come esemplificato nello
schema. Dunque, Grossatesta conclude con Aristotele che una grandezza è
sempre divisibile all’infinito in una grandezza, e, ugualmente, un quantum in
un quantum più piccolo, senza che ciò contraddica l’assunto che il quantum
si genera dalla moltiplicazione infinita del simplex.
Anche in ambito geometrico, quindi, egli propone brevi esempi relativi
a grandezze infinite disuguali, computabili secondo un maggiore o minore
numero infinito, e comparabili secondo rapporti razionali o irrazionali (ll.
79-84). Gli esempi scaturiscono dall’affermazione che in molti modi si può

28 Grossatesta ripropone questa argomentazione anche nel suo Commento agli Ana-
litici secondi, I, 4 (ed. Rossi 1981, 112), dove, richiamandosi verosimilmente al
De luce (sicut alibi exposuimus), afferma che stando al principio della moltiplica-
zione infinita, una linea si compone di punti (ex punctis), così come una superficie
si compone di linee.
29 Sulla teoria aristotelica del continuo e la sua ricezione in Grossatesta si veda
Lewis 2005.
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 113

dire che una quantità “proviene da” (ex) un’altra che ne è una parte (pars).
Ad esempio, una parte può essere in rapporto razionale con quella quantità
(come un segmento di lunghezza a rispetto a uno di lunghezza 2a), oppure
in rapporto irrazionale, come il lato rispetto alla diagonale del quadrato; e
inoltre, prosegue Grossatesta, si può definire “parte” anche una grandez-
za infinitesimale sia che questa, sottratta dalla quantità, non la diminuisca
(come la sottrazione di un punto dalla linea) sia che la diminuisca (come
l’angolo di tangenza rispetto all’angolo retto). Tutti questi rapporti si de-
terminano, secondo Grossatesta, in virtù dell’aver riconosciuto che ogni
quantità è data da un diverso infinito “ammontare” di indivisibili.
In conclusione, Grossatesta fa convergere il concetto aristotelico di
continuità con quello di moltiplicazione infinita del simplex costitutivo
della quantità. In tale ragionamento, costruito sopra l’idea che la mol-
tiplicazione infinita di “qualcosa” supera all’infinito questo “qualcosa”,
egli non distingue fra filosofia naturale e matematica, e, in ambito ma-
tematico, introduce ragionamenti errati, almeno rispetto alla matematica
moderna. Come, tuttavia, ribadirà nel suo Commento alla Fisica, è pro-
prio il numerus infinitus, con il suo stare in qualsiasi tipo di proporzione
razionale o irrazionale con un altro numero infinito, ciò che consente
di “quantificare” l’infinità fisica (in corpore), cioè l’infinità relativa alla
moltiplicazione della forma/luce:

Ma che il numero infinito sia principio <nel corpo naturale> è un segno di


quanto avviene nei numeri finiti. Come infatti nei finiti, per diverse addizioni,
si determinano specie e figure diverse di numeri, così negli infiniti. E il numero
triangolare infinito, che è nella replicabilità della forma e della materia, è prin-
cipio della triangolazione sensibile nel corpo, e la quadratura nel numero infi-
nito, della quadratura nel corpo. Ugualmente il cubo nei numeri, del cubo nel
corpo, e la piramide, della piramide <nel corpo> e così via. E il cubo corporeo
doppio di un altro cubo corporeo <proviene> dal cubo infinito numerico che è
doppio ad un altro cubo infinito numerico. Infatti un numero infinito può stare
in qualsiasi proporzione numerica o non numerica rispetto ad un altro numero
infinito, come abbiamo dimostrato altrove.30

30 Ed. Dales, III, 55-56; l’alibi cui fa riferimento il testo è ovviamente il De luce. Per
una indagine sulla relazione fra numeri finiti e infiniti figurati si veda Panti 2011,
110-113.
114 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

4. Dalla “metafisica” alla “fisica” della luce: l’idea di moltiplicazione


nei cambiamenti accidentali

Nel paragrafo precedente è stato esaminato come Grossatesta elabora il


principio di moltiplicazione infinita in ambito matematico. Qui di seguito
intendo porre l’accento sulle altre occorrenze del principio di moltiplica-
zione infinita discusse al par. 2, mettendo a fuoco come queste nozioni
sono impiegate in altri scritti del maestro inglese e qual è il contesto da cui
traggono ispirazione.
Anzitutto occorre notare che anche altri scritti di Grossatesta, contempora-
nei o di poco successivi al De luce, sviluppano l’idea dell’auto-moltiplicazio-
ne della forma/luce e del lume, impiegandola per risolvere o illustrare diverse
tematiche. Nell’opuscolo De motu corporali et luce, ad esempio, la moltipli-
cazione della luce presiede al movimento fisico dei corpi inanimati, nei quali
il movimento è la stessa vis multiplicativa lucis31. Nel Commento alla Fisica,
come accennato poco sopra, emerge di nuovo il collegamento fra il principio
ontologico della luce/forma e la cosmologia, basato ancora sull’idea della molti-
plicazione della forma. Infatti, ripetendo quasi alla lettera quanto asserito nel De
luce, Grossatesta sottolinea che la forma, ut lux, replicat se et multiplicat infini-
ties ut se extendat in dimensiones et simul secum rapiat materiam32, ma il termi-
ne multiplicatio è assai spesso sostituito, qui e altrove nel testo, con replicatio.
La replicazione è infatti principio della generazione di ogni specie corporea,
perché omnis species corporalis fit prime forme corporalis maiori vel minori
replicatione33. Nel Commento agli Analitici Grossatesta sviluppa nuovamente il
concetto di replicazione, ponendo una distinzione fra generazione e creazione.
Il riferimento è qui alla luce del sole, la cui auto-moltiplicazione non è creazione
di qualcosa di altro da sé, ma è generazione di identici, proprio in quanto il rap-
porto fra generante e generato implica identità nella differenza:

Infatti, la luce che è nel sole genera dalla sua sostanza la luce nell’aria, né si
crea nulla di nuovo affinché la luce sia nell’aria, ma la luce del sole è moltiplicata
e propagata; e così la luce del sole è diversa dalla luce dell’aria, non tuttavia così
radicalmente diversa da non esservi unità di essenza nella luce generante e nella
generata, altrimenti, infatti, la luce generata sarebbe creazione nuova e dal nulla.34

31 Ed. Baur, 90-92, in particolare 92.


32 Ed. Dales, III, 55.
33 Ibid. I, 17.
34 Ed. Rossi, I, 17, pp. 244-245; traduzione mia. Questa considerazione esemplifica
la relazione uno/molti relativamente al problema degli universali.
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 115

Nell’Hexaemeron, infine, la maggiore opera teologica di Grossatesta,


successiva al De luce e ai commenti ad Aristotele, e collocabile attorno al
1230-1235, viene condotta un’ampia discussione sulla natura della luce,
scaturita dall’esegesi del fiat lux, che comprende un’annotazione su come
la luce naturale si auto-genera moltiplicandosi, e occupando la totalità del-
lo spazio istantaneamente, senza movimento:

La luce dunque ha per sua natura la proprietà di moltiplicarsi in ogni di-


rezione e possiede per sua natura una qualche forma, diciamo, di auto-gene-
ratività (generativitas). Per natura infatti la luce si diffonde in ogni direzione
generandosi, e il generarsi è simultaneo al suo esserci, e quindi pervade istan-
taneamente lo spazio circostante. Infatti, la luce che viene prima genera la luce
successiva, questa una volta generata immediatamente genera, è e genera la
luce immediatamente successiva, che a sua volta produce quella successiva, e
così di seguito. Per cui in un solo istante un solo punto di luce ha la proprietà di
saturare di luce l’orbe intero. Se la luce si diffondesse secondo la velocità del
moto locale, come pensano alcuni, ci sarebbe necessariamente un’illuminazio-
ne non immediata, ma progressiva degli spazi oscuri.35

In questo contesto, ancora più marcatamente, il principio di moltiplicazio-


ne è appena accennato, venendo per lo più sostituito dalla nozione di auto-
generazione. In effetti, negli ultimi scritti di Grossatesta, di ambito teologico,
così come nei commenti allo Pseudo-Dionigi, nei quali la tematica della luce
è dominante, il principio della moltiplicazione infinita non lo si ritrova, così
come non viene più presentata l’idea che la forma prima equivalga alla luce,
e questa sia il principio della corporeità. Contestualmente, la terminologia
grossatestiana riferita alla natura e all’azione della luce si orienta verso le
fonti patristiche, in particolare Agostino e lo pseudo-Dionigi, e i riferimenti
alla luce appaiono per lo più come metafore per illustrare tematiche teologi-
che36. Il principio della moltiplicazione infinita della luce, che regge tutta la
costruzione cosmologica del De luce, appare solo in altre due opere di Gros-
satesta e nel suo Commento alla Fisica; esso scompare progressivamente
man mano che Grossatesta si apre a interessi teologici, maturati attraverso
l’esperienza dell’insegnamento presso la scuola dei Minori di Oxford, negli
anni 1230-123537. Tale principio, come abbiamo visto, deriva solo in parte

35 Ed. Dales-Gieben, 97-98. Traduzione da P.B. Rossi, Prefazione a Panti 2011, XIV.
36 Su questo nuovo impiego della tematica luminosa in Grossatesta, mi permetto di rin-
viare ad alcuni miei recenti studi: Panti 2012; Panti 2012a; Panti 2014; Panti 2017.
37 Panti 2012. In particolare questo principio è presente negli scritti De operationibus
solis (ed. McEvoy, 63): «Lux enim prima secundum se sui multiplicativa et exten-
siva in dimensiones corporeitas est, quia corporeitas est potentia activa triplicis di-
116 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

dalle fonti che presentano l’idea della corporeità come forma prima o comu-
ne: in Avicenna, ad esempio, la relazione fra forma e materia è determinata
dal principio neoplatonico del fluxus38, mentre nel Fons vitae (IV, 14) di Avi-
cebron vi è un ricorso sporadico al principio di moltiplicazione della lumino-
sità, addotto come metafora per illustrare il modo in cui la forma universale
si dispiega sulla materia39. L’idea che l’espansione della forma sia un proces-
so auto-moltiplicativo, tuttavia, si rintraccia nel contesto dell’emanatismo
neoplatonico che ha il suo nucleo speculativo negli Elementi di teologia di
Proclo (I, proposizione 27), dove, in relazione al problema della generazione
del molteplice dall’unità della prima ipostasi, si afferma che ciò che è pro-
dotto non deriva dalla diminuzione o dalla trasformazione del generante, ma
appunto dalla sua capacità moltiplicativa, poiché «il produttore non diviene
la materia dell’essere che procede: resta qual è, e il prodotto è altro da esso.
Il generatore dunque … moltiplica se stesso in virtù della sua potenza gene-
ratrice e produce da se stesso ipostasi derivate»40.
Gli Elementi di teologia erano sconosciuti a Grossatesta, tuttavia l’influen-
te Liber de causis, silloge araba che ne compendia le dottrine, sembra avergli
fornito spunto per articolare l’idea di moltiplicazione; in particolare, nell’affer-
mazione che il primo essere creato, uno e simplex, accoglie la molteplicità mol-
tiplicandosi (esse creatum quamvis sit unum tamen multiplicatur, scilicet quia
ipsum recipit multiplicitatem), che alcune res recepiscono la prima causa recep-
tione multiplicata41, o ancora che la virtù, dalla sua originaria unità nella causa
prima, si dispiega moltiplicandosi negli effetti che produce42. Questo influsso
lo avvertiamo anche nell’opuscolo De statu causarum, nel quale Grossatesta
individua nella causa efficiente ciò che attualizza la potenza che è nel causato,
in forza di una sorta di moltiplicazione implicita nel suo atto:

mensionis»; De motu corporali et luce (ed. Baur, 92): «forma prima corporalis est
primum motivum corporale. Illa autem est lux, quae cum se multiplicat et expandit
absque hoc quod corpulentiam materiae secum moveat, eius pertransitio per diapha-
num fit subito et non est motus, sed mutatio»; e nel Commento alla Fisica I (ed.
Dales, 17): «omnis species corporalis fit prime forme corporalis maiori vel minori
replicatione» e III, 55: «Forma enim, ut lux, replicat se et multiplicat infinities ut se
extendat in dimensiones et simul secum rapiat materiam».
38 Si veda Lizzini.
39 Ed. Lizzini, 242: «et quia haec unitas, scilicet forma universalis, fuit hylearis,
divisa fuit propter materiam quae eam sustinebat, non propter se ipsam. Et ma-
nifestatio huius est haec. Postquam forma est lumen purum, propter divisionem
suam et multiplicationem debilitatum est lumen infusum».
40 Trad. Faraggiana di Sarzana, 106.
41 Liber de causis, proposizioni 41, 44 e 178, in Magnard, 74.
42 Ibid., 16, 140, 64: «virtus, quando incipit multiplicari, tunc destruitur unitas eius».
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 117

Efficiens autem, quod habet in se potentiam et actum, non a potentia, sed


ab actu dicitur efficiens, quia actus efficientis per aliquam multiplicationem fit
causa formalis effecti, et non in quantum intelligitur, sed inquantum diligitur
hoc est inquantum est bonum et finis43.

Questa annotazione, che ha ancora nel De causis il suo contesto di ri-


ferimento, consente a Grossatesta di tornare anche sul concetto di forma
prima, che però, qui, non è individuata nella luce/corporeità, ma è ricon-
dotta alla ratio esemplare e causale della res, astratta e separata, cioè Dio,
sommo bene e fine ultimo di ogni cosa. Un altro accenno all’idea di mol-
tiplicazione lo possiamo intercettare nel Liber XXIV philosophorum, nella
ventiquattresima definizione di Dio, per illustrare, in via metaforica, l’a-
zione divina che si frange in raggi come la luce, trapassando in forme ac-
cidentali moltiplicate da questa diffrazione della propria essenza, cioè nel
bagliore44. E infine in Avicebron, che è una fonte importante del De luce,
e che descrive il passaggio dal punto al corpo, ben presente a Grossatesta,
ricorrendo all’idea di moltiplicazione, ma non infinita45.
Pur riconoscendo la rilevanza di queste fonti, è tuttavia ancora nella ricezio-
ne della filosofia naturale aristotelica che troviamo un ampio sviluppo dell’idea
della moltiplicazione, relativamente, però, alla nozione di cambiamento acci-
dentale, e non di cambiamento sostanziale. Come abbiamo accennato sopra
(par. 1), secondo Aristotele il cambiamento accidentale, ad esempio l’acqui-
sizione di calore da parte di un corpo, avviene gradualmente e nel tempo; è,
cioè, un movimento46. Partendo da questa considerazione, Averroè stabilisce
nel commento alla Fisica che le forme accidentali, come il calore e il colore,
moltiplicano se stesse in base alla quantità dei soggetti nei quali tali forme agi-
scono (sicut est dispositio in albedine et aliis accidentibus quae multiplican-
tur per multiplicationem subiecti), o, come asserisce Alberto Magno nella sua

43 Ed. Baur, 120-126, in particolare 121.


44 Ed. Lucentini: «Deus est lux quae fractione non clarescit, transit, sed sola deiformi-
tas in re. Haec definitio est ad essentiam data. Lux creata sicut cadit super rem tene-
brosam tantae tenebrositatis quod non sit potens lux illa purgare tenebrosum, propter
sui vehementem possibilitatem, tunc frangitur lux in radiis, in maximo scilicet sui
acuti, et pertransit in accidentia, essentialis cum ista fractio accidentia multiplicat.
Et haec claritas est. Lux divina non invenit in rebus creatis tantam possibilitatem
quae eam frangat in sui actione; unde omnia pertransit. Sed sola deiformitas in re,
illa multiplicat et claritatem in re generat, in se nullam. Et hoc est quod dicit».
45 Avicebron, Fons vitae, II, 22, 65, 309.
46 Si veda sopra, par. 1 e Metaph. 7, 8, 1033a24-b19.
118 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Metafisica (V, 6,4), si moltiplicano per la divisione della materia47. La forma


come tale, non essendo qualcosa di divisibile, non si moltiplica quindi se non
in relazione al suo essere ricevuta da più oggetti estesi o soggetti senzienti, in
assenza di contatto diretto. I maestri delle Arti svilupparono un ricco dibattito
su questo tema, facendo oscillare l’uso del termine multiplicatio dalla moda-
lità di distribuzione della forma sulla materia a come le impressioni di una
qualità si trasmettono attraverso un medio, quale l’aria o l’acqua48. Esempi
particolarmente interessanti nell’applicazione del principio di moltiplicazione
al fenomeno luminoso si trovano in anonime questioni sulla luce della metà del
secolo XIII, nelle quali viene posto l’assunto che la luce moltiplica se stessa
nello stesso modo in cui il colore moltiplica la sua specie nell’aria, e si chiede
se questo accada nel tempo o indipendentemente dal tempo49.
In Grossatesta troviamo collegamenti con queste tematiche nel trattato
sull’arcobaleno (De iride), nel quale il filosofo inglese ribadisce che le differen-
ze nei colori sono trasmesse secondo una maggiore o minore moltiplicazione
del raggio; dunque, sembra di intendere, una moltiplicazione finita, non infini-

47 Ed. Giunta, comm. 132, f. 203K; ed. Borgnet: «forma non multiplicatur nisi per
materiae divisionem».
48 In tale contesto si può fare riferimento a una estesa gamma di questiones sulla mul-
tiplicatio, quali ad esempio l’anonimo “de Giele”, Quaestiones in Aristotelis libros I
et II De anima (Oxford, Merton College, 275), risalente al 1270-1275, che si chiede,
inter alia, «Utrum sonus se multiplicet per medium usque ad auditum subito vel
successive. … Utrum lumen subito vel successive se multiplicet in medium et in
organum et similiter potest esse questio de colore», o l’anonimo “Steenberghen”,
Quaestiones in libros Aristotelis de anima («Utrum forma immaterialis possit nu-
meraliter multiplicari in specie una. … solutio: forma secundum quod forma, non
multiplicatur, quia non est divisibilis, sed secundum quod recipitur in materia»), o
ancora nell’opera del maestro inglese Guglielmo di Clifford (1260ca), Super De
anima, II, Cambridge, Peterhouse 157, al f. 115va: «Sequitur de secundo principale,
scilicet de colore, … cum color inmutet medium et visum, an immutet ea per suam
speciem multiplicando ipsam in organo videndi vel non. Secundum, si inmutet per
speciem, aut igitur multiplicatur hec species subito vel successive»; Super De gen.,
ms. cit., f. 143ra-143rb: «... agens physice necessario aliquid inmittit in suum pa-
tiens... In actione simplici ista virtus, licet sit intra, non tamen est ab intra, sed ab
extra, per multiplicationem. Et ideo non potuit fieri forma. Sed potentia activa, que
est intra, excitata per istam virtutem inmissam, fiet forma, completa actione».
49 Salamanca, Biblioteca Universitaria, 2322, ff. 76vb-78rb: «Quaestiones de lucis
natura, de perspicuo, de radio, de calore solis. … dubitatur sexto de prima multi-
plicatione lucis, que in parte consimilis est multiplicationi coloris, secundum quod
dicitur quod lux, cum sit natura una, est in potentia diversitatis naturarum. … Lux
multiplicat suam speciem in aliqua materia, sicut in materia aeris». Si vedano inoltre
i titoli della questio 77: «An lumen multiplicet se subito per medium» (f. 115ra) e 78:
«An posito medio infinito, possit lux multiplicare se in ipso toto» (f. 115ra-115rb). Il
codice si interrompe bruscamente. Per uno studio complessivo si veda Donati.
C. Panti - La moltiplicazione infinita della luce e la sua funzione 119

ta50. Ma è soprattutto in uno degli ultimi suoi scritti scientifici, il trattato Sulle
linee, gli angoli e le figure, che egli formula l’idea per cui ogni agente naturale,
non solo la luce attraverso il raggio, ha in sé la capacità di moltiplicare la sua
virtus. Si tratta della ben nota dottrina della moltiplicazione della specie:

Agens naturale multiplicat virtutem suam a se usque in patiens, sive agat in


sensum, sive in materiam. Quae virtus aliquando vocatur species, aliquando
similitudo, et idem est, quocunque modo vocetur; et idem immittet in sensum
et idem in materiam51.

La dottrina della moltiplicazione delle specie, che in Grossatesta appare in


forma compiuta solo nel De lineis, angulis et figuris, nel quale il maestro ingle-
se identifica la nozione fisica di moltiplicazione della forza agente, la species,
in quella geometrica di propagazione di raggi, siano essi luminosi o del tutto
immateriali, avrà un fecondo sviluppo in Ruggero Bacone, che fece di questa
teoria il centro propulsore di tutta la sua filosofia naturale, nonché il titolo di una
delle sue opere più originali e famose, il De multiplicatione specierum52.

5. Conclusioni

L’idea che la luce sia la prima forma del corpo è stata assunta dalla mo-
derna storiografia grossatestiana come la caratteristica fondamentale del
pensiero di Grossatesta, centrato sulla cosiddetta “metafisica della luce”,
termine moderno coniato per indicare una linea speculativa essenzialmen-
te neoplatonica, fondata sul ruolo primario della luce nella cosmologia,
nell’ontologia, nella gnoseologia, oltre che nella teologia. Per la messa a
punto di questa teoria, come abbiamo visto, risulta determinante il con-
cetto di moltiplicazione infinita, che Grossatesta sviluppa nel De luce, e
ripropone nelle opere degli anni 1220-1230 circa, cioè nei commenti ad
Aristotele (Analitici secondi e Fisica) e in alcuni altri opuscoli di filosofia
naturale, mentre è pressoché assente negli scritti teologici più tardi, come
nei primi suoi opuscoli scientifici. Ciò dimostra che il principio di moltipli-
cazione, pur avendo la sua matrice nella tradizione neoplatonica, fu messo

50 De iride, ed. Baur, 77: «Ubi enim est maior radiorum multiplicatio, apparet co-
lor magis clarus et luminosus; ubi vero minor est radiorum multiplicatio, apparet
color magis attinens hyazintino et obscuro. Et quia luminum multiplicatio et a
multiplicatione ordinata diminutio non sit, nisi per resplendentiam luminosi super
speculum, vel a diaphano, … non est dispositio <colorum> fixa».
51 De lineis, ed. Baur, 60.
52 Si veda ad esempio Lindberg.
120 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

a punto dal maestro inglese nel contesto della sua riflessione sull’opera di
Aristotele e delle critiche che questi mosse alle tesi di platonici, pitagorici
e atomisti circa il continuo e la composizione del corpo.
In altro luogo ho cercato di mostrare come l’identificazione fra luce, forma
prima e corporeità, così originale anche nel fondare l’idea altrettanto originale
del cosmo espansivo, non costituisca una dottrina definitiva di Grossatesta, ma
una sorta di ipotesi, rispetto alla quale gli scritti successivi, soprattutto teologici,
sembrano proporre un ripensamento, inquadrando il problema della corporeità
da un punto di vista essenzialmente agostiniano, che non identifica la forma
prima con la luce e la corporeità, ma con l’esemplare e il modello della realtà
creata nella mente divina53. Nel presente studio ho cercato quindi di mostrare
come l’identificazione della prima forma con la corporeità e la luce scaturisca
primariamente dal ricorso ad un unico principio, quello di infinita moltiplica-
zione, che opera come una sorta di assioma scientifico, tale da consentire un
passaggio dalla matematica alla “fisica”. Questa idea, indubbiamente originale,
è, come abbiamo visto, alquanto problematica, per cui non sorprende che Gros-
satesta l’abbia infine abbandonata. Il curioso patchwork di matematica, filoso-
fia naturale, metafisica e cosmologia che troviamo nel De luce cederà il passo
all’esigenza di mettere in risalto l’universo quale opera della libera creazione
divina. In questo quadro speculativo, non c’è più ragione di pensare che la luce
sia la forma prima della materia, perché “forma prima” è Dio, che contiene
l’esemplare di tutte le cose nella sua mente e che, come afferma Grossatesta
nell’Hexaemeron, è la sola potenza attiva nel creare ex-nihilo il cielo e la terra.

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Gaetano Lettieri
FIAT VERBUM, FIAT LUX
Il Prologo giovanneo come ritrattazione protologica
del battesimo di Gesù e presentazione
dell’incarnazione al Giordano

La luce splende nelle tenebre (τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει)1


E io ho visto (κἀγὼ ἑώρακα) e ho testimoniato (καὶ μεμαρτύρηκα)2

La straordinaria invenzione teologica del vangelo di Giovanni pare fon-


data su un punto cieco, nel quale è forse celato il segreto dell’abbacinante
teofania di Luce descritta nel Prologo. Malgrado questo proclami l’incar-
nazione del Logos, nel corpo del più teofanico dei vangeli sembra latita-
re la descrizione dell’evento del farsi uomo del dio Unigenito, risultando
assenti sia qualsiasi riferimento al concepimento soprannaturale di Gesù
nel seno della vergine, sia la descrizione del battesimo impartitogli dal
Battista, tradizionalmente interpretato come recezione o manifestazione
carismatica della sua filialità divina. Ebbene, seppure nella consapevolezza
di quanto qualsiasi novità in materia sia relativa rispetto a una storia inter-
pretativa sterminata3, avanzo in queste pagine una tesi radicale: è proprio
nel cuore del Prologo che è presentato l’evento dell’incarnazione storica

1 Vangelo di Giovanni (=Giovanni/Gv) 1,5. Si utilizzano l’edizione del NT di Ne-


stle e Aland, Novum Testamentum Graece, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart
201228 e la traduzione italiana, talvolta ritoccata, della Cei, La Bibbia di Gerusa-
lemme. Il Nuovo Testamento, EDB-Borla, Bologna 1971.
2 Gv 1,34.
3 «The effect of reading too much on the Fourth Gospel is to make one feel either
that everything has been said about it that could conceivably be said or that it
really does not matter what one says, for one is just as likely to be right as anyone
else» (J.A.T. Robinson, The Relation of the Prologue to the Gospel of St. John,
in «New Testament Studies» 9/2, 1963, 120-129, in part. 120). Forse ancora più
radicale E. Käsemann, Jesu letzter Wille nach Johannes 17, Mohr Siebeck, Tübin-
gen 1966, tr. it. L’enigma del Quarto Vangelo: una comunità in conflitto con il
cristianesimo nascente?, Claudiana, Torino 1977: «Voglio cominciare con una
strana confessione: parlerò su un argomento che non capisco ancora a fondo…
Se dobbiamo dare un’informazione globale ed esauriente sullo sfondo storico del
nostro Vangelo, brancoliamo più o meno nel buio» (13).
124 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

del Figlio al Giordano, che risulta però al tempo stesso ritrattato ontolo-
gicamente, tramite una riflessione retroproiettiva della luce escatologica
nella luce protologica, nella quale quella pare come essere riassorbita o
sommersa. In effetti, il Prologo articola un “doppio gioco”, un avvento
speculare, nel quale eventuale e ontologico si riflettono l’uno nell’altro:
a) rivela l’ἀρχή divina, l’eterna teogonia di Luce del preesistente Figlio
creatore, ma b) rivela, nella maniera più solenne, anche lo sfolgorante mo-
mento del manifestarsi del Logos/Luce al Giordano, descritto in diretta
come ἀρχή storico-narrativa del vangelo4. L’Ecce apocalittico5-teofanico si
sdoppia… Unicamente grazie alla katabasis storica dell’Unigenito il cielo
si apre, dischiudendo la visione della preesistente venuta intradivina del

4 Trovo, pertanto, soltanto parzialmente fondata quest’affermazione di R.E. Brown,


The Gospel According to John, Doubleday e C., New York 1966-1970, tr. it. Gio-
vanni. Commento al Vangelo spirituale, Cittadella Editrice, Assisi 1999(5): “Il
Prologo non si interessa delle origini terrene di Gesù, ma dell’esistenza celeste
della Parola in principioˮ (27). Direi, piuttosto, che il Prologo si interessa anche
delle origini terrene di Cristo, dell’evento storico che è l’incarnarsi del Logos
preesistente nella carne/umanità di Gesù, al cospetto del Battista.
5 Per un approfondimento concettuale e storiografico della controversa categoria
di apocalittica, relativa a un fenomeno storico e ideologico polimorfo, rimando a
G. Lettieri, Materia mistica. Spirito, corpi, segni nei cristianesimi delle origini, di
prossima pubblicazione, in part. al cap. IV Spiritus litterae. Differire della rivela-
zione, estasi carismatica, ermeneutica biblica: da Gesù “apocalittico” alla demi-
tologizzazione. A partire da una prospettiva non letteraria, ma storico-concettuale
(Sacchi, Boccaccini), che fa riferimento a tradizioni ideologiche medio-giudaiche
fortemente caratterizzate dalla novità enochica, influente sulla genesi delle at-
tese e delle ideologie protocristiane, interpreto apocalisse (ἀποκάλυψις) quale
“rivelazioneˮ escatologica e divisiva; caratterizzata dalla dualistica opposizione tra
luce e tenebra, corrispondente a quella tra vita e morte, l’apocalisse è identificata
con l’ultima rivelazione di Dio, ulteriore rispetto alla Legge stessa, quindi capace
di strappare alcuni eletti dal mondo dominato da un peccato dilagante e asservito a
potenze demoniache. L’apocalisse è dischiusa dall’intervento soprannaturale di un
mediatore celeste, rivelatore di segreti capaci di “far vedere” agli eletti l’imminente
avvento del Regno o il trascendente mistero di Dio, capace di salvare dall’imminen-
te giudizio di condanna del mondo malvagio. Nella nozione di apocalittica quale
rivelazione escatologica, al tempo stesso distruttiva del male dominante ed elettiva
nel dono dell’intimità soprannaturale con Dio, si attiva anche un decisivo elemento
sapienziale: l’apocalittico vede l’intimo, critico segreto di Dio, escatologicamente
dispiegato. Non si può prescindere, pertanto, dall’interpretazione di apocalittica
avanzata da Rowland, né dai raffinati tentativi di sistematizzazione proposti da Col-
lins; cf. Ch. Rowland, The Open Heaven: A Study of Apocalyptic in Judaism and
Early Christianity, SPCK, London 1982; e J.J. Collins, The Apocalyptic Imagina-
tion. An Introduction to the Jewish Apocalyptic, Eerdmans, Grand Rapids 1998(2),
2016(3).
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 125

Figlio, unico rivelatore e interprete del Padre: infatti, soltanto l’avvento del
Figlio Verbum/Lux al Giordano consente di riconoscerlo come primordiale
Fiat di Dio, da sempre avveniente dal Padre. Il raddoppiamento specula-
tivo, che consente l’innalzamento del Messia crocifisso all’intimità pre-
esistente con Dio, funziona unicamente se si rivela attiva la scaturigine
eventuale che governa lo speculare esemplarismo inverso tra Figlio storico
e Figlio eterno.
Il Prologo, pertanto, sostituisce o ritratta gli inizi dei vangeli sinottici
o delle tradizioni da questi presupposte, che iniziavano con il battesimo
carismatico di Gesù (Marco) o con la sua traslazione nel concepimento
soprannaturale del Figlio nel seno di Maria (Matteo, Luca). Nel IV vangelo
il rito battesimale risulta cancellato, ma al suo posto è mantenuto, ed esalta-
to riflettendolo nella preesistenza, l’evento escatologico-apocalittico della
teofania al Giordano. Presso il fiume dove la tradizione profetica collocava
una storica “porta del cielo”, l’avvento della luce messianica profetizza-
ta da Isaia è interpretato come discendere dell’Unigenito in Gesù, quindi
come Fiat Verbum caro factum, in cui ri-avviene il Fiat Lux creativo, detto
da Dio nell’eterna generazione del Figlio ἐν ἀρχῇ, quando nella Genesi lo
Spirito aleggiava sulle acque primordiali. Il Prologo, allora, annunciando
la nuova Genesi ri-creativa del Fiat Verbum/Lux, rivelerebbe l’«ἡμέρα μία/
dies unus» (Gen 1,5), «il primo giorno» della missione storica del Figlio
divenuto uomo/carne6, pure attestando una retractatio mistico-sapienziale
del racconto tradizionale del battesimo messianico di Gesù (cf. Mc 1,9-11)
o di quello della sua “vocazione” elettiva successiva al battesimo (cf. Lc
3,21-22), al punto che la scaturigine storica dell’evento pare risultare quasi
cancellata.
Eppure, un decisivo, lampante indicatore dell’evento del Giordano ri-
mane: nel Prologo, è chiamata in causa per ben due volte la figura storica
di Giovanni Battista, il genius loci del Giordano, che, in tutte le tradizioni
cristiane primitive, “provocava” e mediava con il rito battesimale la gene-
razione/manifestazione del Figlio prediletto. Insomma, togliendo in sé i
“principi” narrativi dei vangeli sinottici, il Prologo proclama il principio
ontologico del Logos dio preesistente, traslato dal seno di Maria al seno

6 «Le Prologue pourrait à juste titre être appelé ‘Genèse de Jésus-Christ’ L’Évangile
de Matthieu commence lui aussi par ces mots: “Livre de la Genèse de Jésus Christ
(Βίβλος γενέσεως Ἰησοῦ Χριστοῦ)” [1,1]» (R. Meynet, Analyse rhétorique du
Prologue de Jean, in “Revue bibliqueˮ 96/4, 1989, 481-510, in part. 507). Discor-
so analogo, come vedremo, si potrebbe fare per l’incipit di Marco, per il quale «il
principio del vangelo di Gesù Cristo (ἀρχὴ τοῦ εὐαγγελίου Ἰησοῦ Χριστοῦ)» (1,1)
coincide proprio con l’attività battista di Giovanni.
126 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

del Padre, eppure rivelato nel principio storico dell’apocalisse messianica:


questa avviene al cospetto di Giovanni, che, pure senza impartire alcun
battesimo, vede e testimonia l’avvento del “Veniente”, che lo trascende e
lo sorpassa, quale prima e ultima Luce del Padre.

1. Anomalie giovannee: quando, come, dove il Logos si incarna?

Quest’ipotesi del Prologo come ritrattazione mistico-sapienziale del bat-


tesimo di Gesù, che pure descrive l’inizio storico dell’apocalisse salvifica
al Giordano, è stata generata dalla constatazione di alcune evidenti ano-
malie strutturali di Giovanni, che possono essere spiegate soltanto ricollo-
cando il testo nel suo contesto storico, caratterizzato da violente polemiche
extracristiane (ostilità del giudaismo dominante e rivalità con la comunità
dei discepoli di Giovanni Battista, con la quale la comunità giovannea ha
evidenti rapporti genetici) e infracristiane (divergenze con altre interpre-
tazioni di Gesù, quindi conflitto con una secessionista frangia giovannea
approssimativamente definibile come “docetista”, attestato dal presbitero
autore della Prima lettera di Giovanni).
Segnalo di seguito cinque anomalie.
a) Nel vangelo che si apre con la solenne celebrazione dell’incarnazione
del Logos Dio in Gesù, incredibilmente parrebbe latitare la visione in
diretta della teofania, la presentazione storica che fonda la conoscenza,
quindi la testimonianza di Giovanni, tradizionalmente collocata in oc-
casione del battesimo di Gesù. La rapidissima notazione in Gv 1,32-34,
nella quale il Battista prende la parola per descrivere (in termini che
sembrano dipendere da tradizioni marciane) la discesa teofanica dello
Spirito sull’uomo Gesù presso il Giordano (cf. Gv 1,28; quindi 10,40),
si presenta piuttosto come un fulmineo flashback, una rammemorazione
di un evento anteriore incomprensibilmente fuori scena, che sembra
essere assente nei passi precedenti del vangelo. Allora, seppure se ne
vede il riflesso, pare mancare il fuoco, il punto luce della visione del
Battista, che può testimoniare soltanto perché ha visto: se il Battista è il
primo e principale testimone, quando ha assistito alla teofania e perché
questa non viene grandiosamente sceneggiata dal vangelo, a differenza
di quanto accade nei sinottici?
b) Nel IV vangelo è clamorosa l’assenza della descrizione del battesimo di
Gesù al Giordano. Nel sopra citato flashback con il quale viene descritta
la teofania al Giordano, risulta del tutto taciuto il rito battesimale. Se,
quindi, convincenti interpretazioni (quelle di Fuller, Watson, Talbert,
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 127

Kinlaw, Engberg-Pedersen e, seppure più ambiguamente, dello stesso


Brown…) hanno collocato nella discesa dello Spirito presso il Giordano
il momento dell’incarnazione di Gesù, facendo appunto riferimento a Gv
1,32-34, con troppa disinvoltura l’hanno connessa al battesimo di Gesù7.
c) La cronologia che scandisce la prima settimana della missione di Gesù
sembra, a prima vista, incoerente. Se anche si volesse, con alcuni inter-
preti, riconoscere in Gv 1,32-34 la descrizione in diretta dell’incarna-
zione del Logos, questa accadrebbe non ἐν ἀρχῇ cronologica o storica
del vangelo, cioè nel primo giorno, ma soltanto nel secondo giorno – in
quello che è definito apertamente come “il giorno dopo (τῇ ἐπαύριον)”
(Gv 1,29) – della cronologia, che pure Giovanni scandisce con gran-
dissima cura, proponendo corrispondenze simboliche con la settimana
della creazione genesiaca di difficile decifrazione (vi tornerò).
d) Comunque, non è possibile collocare la teofania dell’incarnazione altro-
ve rispetto al Giordano: Giovanni non allude in alcun modo al miraco-
loso concepimento di Gesù in Maria ad opera dello Spirito, tanto meno
all’incarnarsi del Logos nel seno della vergine. La presenza del Battista
quale testimone dell’incarnazione e l’assenza di Maria e Giuseppe dal
primo capitolo del vangelo spingono verso il Giordano. Se, infatti, da
Ignazio di Antiochia a Giustino, da Aristide a Ireneo e Tertulliano, pre-
cocemente Gv 1,14 sarà innestato sul teologumeno matteano e lucano
del soprannaturale concepimento verginale di Maria, visitata dallo Spi-
rito (che Giustino e Ireneo identificano con il Logos che discende dal
cielo!)8, nessuna traccia di quest’innesto è presente nel IV vangelo.

7 Ad esempio, cf. il saggio di G. Richter, Zu den Tauferzählungen Mk 1,9-11 und


Joh 1,19-34, in G. Richter, Studien zum Johannesevangelium, Friedriche Pustet,
Regensburg 1977, 315-326.
8 Mi limito a riportare due densi passi: il primo di Ignazio di Antiochia, Lettera
agli Efesini 7,2: «C’è un solo medico, carnale e spirituale, generato e ingenerato
(Εἷς ἰατρός ἐστιν, σαρκικός τε καὶ πνευματικός, γεννητὸς καὶ ἀγέννητος), dio che
è venuto nella carne, nella morte vita vera (ἐν σαρκὶ γενόμενος θεός, ἐν θανάτῳ
ζωὴ ἀληθινή), da Maria e da Dio (καὶ ἐκ Μαρίας καὶ ἐκ θεοῦ), prima passibile e
ora impassibile (πρῶτον παθητὸς καὶ τότε ἀπαθής), Gesù Cristo nostro Signore»;
l’altro di Giustino, I Apologia 33,6, ove, dopo la citazione di Lc 1,31-32, si legge:
«Non è dunque possibile pensare che lo Spirito e la potenza che è presso Dio siano
qualcosa di diverso dal Verbo (τὸ πνεῦμα οὖν καὶ τὴν δύναμιν τὴν παρὰ τοῦ θεοῦ
οὐδὲν ἄλλο νοῆσαι θέμις ἢ τὸν λόγον), che anche Mosè, il profeta di cui abbiamo
parlato, indicò essere il primogenito di Dio (πρωτότοκος τῷ θεῷ); questo, disceso
sulla vergine e adombratala (καὶ τοῦτο ἐλθὸν ἐπὶ τὴν παρθένον καὶ ἐπισκιάσαν),
non mediante l’amplesso, ma per mezzo della potenza, la rese incinta (οὐ διὰ
συνουσίας, ἀλλὰ διὰ δυνάμεως ἐγκύμονα κατέστησε)». Cf. Ireneo, Adversus
Haereses V,1,2-3; e il più tardo Epifanio di Salamina, Panarion I,II,20,1-10, si-
128 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

e) Gv 1,32-34 descrive la visione del Battista della discesa e del permanere


dello Spirito su Gesù, suggerendo che in effetti questo sia stato l’evento
dell’incarnazione. Perché, allora, nel Prologo non viene fatta menzio-
ne alcuna dello Spirito, mentre è il Logos ad incarnarsi? D’altra parte,
perché nel corpo del vangelo la discesa del Logos in Gesù non appare?
Piuttosto, in Gv 3,13 e 6,62, «colui che è disceso dal cielo (ὁ ἐκ τοῦ
οὐρανοῦ καταβάς)» è «il Figlio dell’Uomo (ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου)»9,
che in 6,63 pare essere identificato con «lo Spirito che dà la vita (τὸ
πνεῦμά τὸ ζῳοποιοῦν)». Dunque, quale rapporto ha il Figlio dell’Uomo
con il Logos del Prologo e con lo Spirito della teofania del Battista?

Ricapitolando: se certo il concetto-cardine del IV vangelo è quello


dell’incarnazione del Figlio-dio nell’uomo, non è affatto chiaro il quan-
do, il dove e il come dell’incarnazione. Il IV vangelo pare non descrivere
direttamente e solennemente il momento storico in cui Cristo nasce, né
dove e come l’uomo Gesù riceva la sua identità divina. La doppia identità
del Gesù giovanneo, dio preesistente e vero uomo, sembra non trovare nel
corpo del testo un presente narrativo nel quale si congiunga, anzi pare es-
sere il frutto di due amputazioni o lacune rispetto alle principali tradizioni
testimoniali e teologiche protocristiane: si lascia cadere “la notizia” del
battesimo di Gesù al Giordano, si ignora o si lascia cadere “la notizia” del
concepimento nello Spirito di Gesù nel grembo di Maria vergine. Per di
più, nel corpo del vangelo non è il Logos, ma lo Spirito o il Figlio dell’Uo-
mo colui che discende. Per un testo che proclama, nel Prologo, testimone
il Battista, l’incarnazione del Logos nell’uomo Gesù, queste anomalie ri-
sultano sconcertanti.
Ma prima di approfondire l’esame di queste questioni, è indispensabile
dichiarare alcuni presupposti interpretativi, seppure nella consapevolezza
della loro insuperabile ipoteticità.

gnificativo perché la protocattolica interpretazione del concepimento verginale di


Maria per opera dello Spirito Santo quale incarnazione nel suo grembo de «l’Uni-
genito Figlio, il Logos di Dio», è indirizzata a confutare il divisismo cristologico
di Ebion, affine a quello di Cerinto, sul quale presto torneremo.
9 Così, in Gv 6,38, Gesù dice di sé: «sono disceso dal cielo (καταβέβηκα ἀπὸ τοῦ
οὐρανοῦ)ˮ; 6,33, ove si identifica con “colui che discende dal cielo e dà la vita al
mondo (ὁ καταβαίνων ἐκ τοῦ οὐρανοῦ καὶ ζωὴν διδοὺς τῷ κόσμῳ)»; e 6,43, ove
egli afferma: «io sono il pane disceso dal cielo (Ἐγώ εἰμι ὁ ἄρτος ὁ καταβὰς ἐκ
τοῦ οὐρανοῦ)».
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 129

2. Giovanni conosce i vangeli sinottici e Paolo?

a) Malgrado le idee degli studiosi in proposito siano discordi10, a differenza


di Gardner-Smith, Bultmann, Dodd, Schnackenburg, Brown, Robinson,
Berger, considero, con Barrett, Neirynck, Schnelle, Brodie, Zumstein
(recuperando, quindi, le tesi di Windisch)11, altamente improbabile che
l’ultimo redattore del vangelo giovanneo, il più recente dei vangeli ca-
nonici (90-100ca.), fosse espressione di un gruppo talmente settario, da
risultare del tutto impermeabile rispetto alle altre comunità gesuane, sì

10 Cf. la conclusione di uno studioso per altro assai moderato quale R.E. Brown,
An Introduction to the Gospel of John, Doubleday, New York 2003, tr. it. Intro-
duzione al Vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia 2007: «In gran parte del
materiale narrativo di Giovanni e dei sinottici, credo che le prove non favoriscano
la dipendenza giovannea dai sinottici o dalle loro fonti. Giovanni attinse da una
tradizione indipendente, simile alle tradizioni che soggiacciono ai sinottici» (119).
Eppure, Brown aggiunge: «Nonostante non sia convinto di questo, specialisti seri
ritengono che nella redazione finale di Giovanni un piccolo numero di dettagli sia
stato preso a prestito direttamente da Marco» (120). Sostanzialmente scettico sul-
la dipendenza letteraria di Giovanni dai sinottici è R. Schnackenburg, Il vangelo
di Giovanni…, I,29-52; sulla tesi della dipendenza non letteraria di Gv (nella sua
duplice redazione) da tradizioni marciane e sui suoi rapporti con le altre tradizioni
sinottiche, cf. P.N. Anderson, Interfluential, Formative, and Dialectical – A Theo-
ry of John’s Relation to the Synoptics, in P.L. Hofrichter (ed.), Für und wider die
Priorität des Johannesevangeliums, Olms, Hildesheim 2002, 19-58; in part., cf. la
sua convincente conclusione: «The Johannine tradition engaged the pre-Markan
tradition in the oral stages of their developments and sought to augment and com-
plement the Markan written Gospel… John’s relation to the Synoptic Gospels
was independent but not isolated, connected but not derivative, individuated but
not truncated. In relation to the other Gospels John’s was an engaged autonomy,
and an overall theory of Johannine-Synoptic relations must include factors that
were interfluential, formative, and dialectical» (57-58). Ancora interessante, in
proposito, risulta il bilancio di D. Moody Smith, John and the Synotipcs: Some
Dimensions of the Problem, in «New Testament Studies» 26, 1980, 425-444. E.
Norelli, La nascita del cristianesimo, Il Mulino, Bologna 2014, 106-109, pur pro-
pendendo, invero con molta prudenza, per la tesi della non conoscenza dei sinot-
tici da parte del IV vangelo e sottolineando la notevole differenza di prospettiva
cristologica ed economica tra Gv e Mc, comunque evidenzia l’analogia strutturale
tra i due vangeli: «Insomma, le due costruzioni di una storia del ministero di Gesù
realizzate da Marco e Giovanni differiscono notevolmente, ma convergono nel
mostrare l’esigenza di organizzare per iscritto la tradizione su Gesù sotto forma
di coerente vicenda storica per poter rendere conto del senso di un presente che
comincia a prolungarsi al di là delle generazioni dei discepoli» (109).
11 Cf. H. Windisch, Johannes und die Synoptiker. Wollte der vierte Evangelist die
älteren Evangelien ergänzen oder ersetzen?, Hinrichs, Leipzig 1926: nel testo, la
risposta a questa domanda è nettamente affermativa!
130 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

da non essere entrato in contatto, alla fine del I secolo, con uno o più di
uno dei vangeli sinottici12. Se pare dimostrata la non dipendenza lettera-
ria di Giovanni dai sinottici, considero poco convincente l’ipotesi della
dipendenza parallela e indipendente sia dei sinottici che di Giovanni
da ampie formule kerigmatiche, alcune delle quali organizzate in una
struttura narrativa, che, partendo dal battesimo al Giordano, passando
per la descrizione della predicazione di Gesù in Galilea e a Gerusalem-
me, si concludessero con le vicende della passione, della morte, quindi
dell’annuncio della resurrezione o della visione del Risorto. La non di-

12 Cf. M. Hengel, Die johanneische Frage. Ein Lösungsversuch, Mohr Siebeck,


Tübingen 1993, tr. it. La questione giovannea, Paideia, Brescia 1998, che, in rife-
rimento al IV vangelo, afferma: «Quanto alla dipendenza dai sinottici, se ne deve
supporre la conoscenza e talvolta anche l’influenza diretta – ma in maniera molto
libera. Molto spesso la conoscenza di un racconto sinottico è solo presupposta.
L’autore era persona troppo indipendente per copiare in un modo così diretto»
(233). Per Hengel, il «caposcuola [giovanneo] consapevole di sé… non accetta-
va neanche il petrino vangelo di Marco (come fecero invece Luca e Matteo), il
vangelo più antico, ampiamente riconosciuto, ma se ne dissociava criticandolo»
(235); «Come “fonti” letterarie, di cui l’autore tiene conto senza di fatto dipender-
ne in senso stretto, sono da considerare anzitutto i più antichi vangeli sinottici, in
primo luogo Marco e Luca: lo sviluppo del quarto vangelo avviene in antitesi con
la tradizione sinottica» (251). Con nettezza, si schiera in questa stessa prospettiva
J. Zumstein, Das Johannesevangelium, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 2016,
tr. it. Il Vangelo secondo Giovanni, I-II, Claudiana, 2017, che riassume:«È prefe-
ribile supporre che la scuola giovannea fosse a conoscenza del vangelo di Marco,
forse di quello di Luca, ma probabilmente non di quello di Matteo. Il suo legame
con questi scritti era improntato contemporaneamente alla distanza e alla libertà»
(I,44); Zumstein, ricorrendo alla nozione di “ipertestualitàˮ di Genette, definisce
il rapporto tra Gv e Mc come rapporto tra “ipertestoˮ e “paratestoˮ, ove il rap-
porto di derivazione è ritrattato in rapporto di presa di distanza, trasformazione e
libera interpretazione (cf. I,43-45). Cf. anche U. Wilckens, Das Evangelium nach
Johannes, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 1998, 20002, tr. it. Il vangelo se-
condo Giovanni, Claudiana, Torino 2002, 11-16, che, anzi, radicalizza persino la
posizione: «L’evangelista presuppone nei lettori la conoscenza, anzi la familiarità,
con gli scritti sinottici» (15). Notevole uno degli esempi portati: «Che in Gv 1 non
si racconti nulla del battesimo di Gesù ad opera di Giovanni, che invece ha tanto
rilievo in Marco, non è dovuto al fatto che dalla tradizione del suo ambiente l’e-
vangelista non sarebbe venuto a conoscenza di una storia del battesimo di Gesù;
il fatto è, invece, che egli scrive per lettori che la conoscono già e nel racconto
del suo libro fa loro vedere Giovanni, il grande “testimone” che indica Gesù, e
comprendere il suo battesimo (1,33) in questo contesto» (15-16). Per la tesi della
dipendenza di Gv dai sinottici e in particolare da Mc, cf. Th.L. Brodie, The Quest
for the Origin of John’s Gospel. A Source-Oriented Approach, Oxford University
Press, Oxford 1993.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 131

pendenza letteraria da Marco o dagli altri sinottici, insomma, non penso


possa provare che Giovanni non lo/li conoscesse.
b) Ritengo, infatti, del tutto improbabile che la forma “vangelo”, intesa
come struttura letteraria biografico-kerygmatica, a quanto ci risulta “in-
ventata” da Marco (piuttosto che da un vangelo “presinottico” utilizzato
o persino redatto da Marcione)13, possa essere stata indipendentemente
“inventata” da Giovanni14. Se, quindi, Giovanni conosce il più antico

13 Per M. Vinzent, Marcion and the Dating of the Gospels, Peeters, Leuven 2014,
Marcione sarebbe l’autore del primo vangelo, dal quale dipenderebbero tutti i
vangeli canonici: «Marcion, who created the new literary genre of the ‘Gospel’
and also gave the work this title, had no historical precedent in the combination of
Christ’s sayings and narratives» (277). Piuttosto, sulla dipendenza di Marcione da
un vangelo “presinottico”, anteriore allo stesso Marco, oltre che al Luca canonico,
cf. M. Klinghardt, Das älteste Evangelium und die Entstehung der kanonischen
Evangelien, I-II, Francke Verlag, Tübingen 2015; tutti i vangeli canonici, Giovan-
ni compreso, dipenderebbero, pertanto, da questo vangelo “presinottico”, sicché
verrebbe a cadere la stessa ipotesi di Q, quale fonte, insieme con Marco, di Mat-
teo e di Luca. G. Gramaglia, Marcione e il Vangelo (di Luca). Un confronto con
Matthias Klinghardt, Accademia University Press, Torino 2017, ha radicalmente
contestato le tesi dello studioso tedesco, distinguendo comunque a) una prima re-
dazione di Luca, databile agli anni 80/90, dipendente da Marco e da Q, recepita e
utilizzata senza alterazioni da Marcione, da b) una seconda redazione dello stesso
Luca, redatta ad alcuni decenni di distanza, divenuta “canonica” all’inizio del II
secolo, ma ignota a Marcione. Da segnalare il recente, rilevante volume a cura di
C. Gianotto e A. Nicolotti (edd.), Il vangelo di Marcione, Einaudi, Torino 2019.
14 Cf. R. Bauckham, John for Readers of Mark, in R. Bauckham (ed.), The Gospels
for All Christians. Rethinking the Gospel Audiences, Eerdmans, Grand Rapids-
Cambridge 1998, 147-172: pur non condividendo la tesi di fondo di Bauckham,
che interpreta il IV vangelo come scritto per “tutti i cristiani” e non per la ristretta
comunità giovannea, ritengo il saggio significativo per l’ipotesi della conoscenza
di Mc 1,14 attestata da Gv 3,24 e 11,2. Per una contestazione dell’attendibili-
tà dell’interpretazione di Bauckham, cf. comunque W.E. Sproston North, John
for Readers of Mark? A Response to Richard Bauckham’s Proposal, in «Journal
for the Study of the New Testament» 25/4, 2003, 449-468. Per un generico ri-
conoscimento della dipendenza di Giovanni da “materiale sinottico”, cf. J. van
der Watt, An Introduction to the Johannine Gospel and Letters, T&T Clark,
London 2007: «John was written independently, but with some form of contact
with synoptic material» (90). Per recenti tentativi di dimostrare la conoscenza di
Marco da parte di Giovanni, cf. I.D. Mackay, John’s Relationship with Mark. An
Analysis of John 6 in the Light of Mark 6-8, Mohr Siebeck, Tübingen 2004, in
part. 9-54; M. Jennings, The Fourth Gospel’s Reversal of Mark in John 13,31-
14,3, in «Biblica» 94/2, 2013, 210-236. Sulla conoscenza dei sinottici da parte di
Giovanni, cf. il convincente saggio di U. Schnelle, Johannes und die Synoptiker,
in F. van Segbroek et alii (edd.), The Four Gospels. Festschrift F. Neirynck, Leu-
ven University Press, Leuven 1992, 1799-1814. Cf., infine, il prudente bilancio
132 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

vangelo sinottico, ne eredita l’invenzione originalissima di struttura,


certo reinterpretandola con assolute originalità e creatività teologiche.
c) Se, inoltre, Giovanni (almeno nella sua ultima redazione) avesse co-
nosciuto, oltre a Marco, persino Matteo15 e/o Luca, o comunque tra-
dizioni orali molto antiche sul concepimento verginale del Messia, ad
esempio quelle rifluite nell’Ascensione di Isaia o nel Protovangelo di
Giacomo16, l’assenza di questo teologumeno dal IV vangelo dovrebbe
essere attentamente valutata e probabilmente interpretata come scarto
o rifiuto17.

di S. Schreiber, Kannte Johannes die Synoptiker? Zur aktuellen Diskussion, in


«Verkündigung und Forschung» 51/1, 2006, 7-24: «Dass das JohEv synoptische
Tradition kennt und aufgreift, ist angesichts der Übereinstimmungen plausible
und anerkannt» (23). Radicali, ma interessanti le tesi di G. Wilhelmi, Die Ver-
schleierung der Synoptiker im Johannes Evangelium, Laubach 2012, che comun-
que rintraccia proprio in Mc la fondamentale fonte di Gv, seppure appunto velata,
sistematicamente ritrattata. Segnalo come anche A. Destro e M. Pesce, Il racconto
e la Scrittura. Introduzione alla lettura dei vangeli, Carocci, Roma 2014, 38-40 e
44-47, presuppongono che Giovanni conosca almeno il racconto marciano della
passione o la sua fonte.
15 Per M. Hengel, La questione giovannea…, 68-71, il IV vangelo non soltanto co-
noscerebbe Matteo greco, ma adotterebbe nei suoi confronti una coerente presa di
distanza: questo dato emergerebbe non soltanto dal confronto tra i due vangeli, ma
anche dalla notizia di Papia su Matteo. «I giudeocristiani più tardi considerarono
Matteo come il ‘loro’ evangelista. L’autore del quarto vangelo sceglie dunque lo
sconosciuto ‘Natanaele’ – e non Matteo – come il ‘vero’ israelita credente. Non
riusciamo a capire i due resoconti di Papia sul vangelo di Marco e di Matteo, e
in particolare la loro provenienza dal presbitero, se non teniamo conto del loro
atteggiamento in qualche modo critico verso questi due più antichi vangeli» (71).
16 Sulla possibilità di rintracciare in proposito materiali assai antichi, generati forse
all’interno della prima comunità di Gerusalemme, all’interno di testi più o meno
tardi, quali il Protovangelo di Giacomo e persino il Vangelo dello pseudo-Matteo,
cf. E. Norelli, Marie des apocryphes: Enquête sur la mère de Jésus dans le chri-
stianisme antique, Labor et Fides, Genève 2009.
17 «Vado piano a trarre conclusioni dal silenzio di Giovanni a proposito del conce-
pimento verginale di Gesù. Questo silenzio potrebbe avere un significato, rap-
presentando il rifiuto dell’idea come sbagliata o non importante; però il silenzio
potrebbe significare altrettanto bene che Giovanni non sapeva nulla di una tale
tradizione (che nel NT compare soltanto in Matteo e in Luca)» (R.E. Brown, The
Community of Beloved Disciple, Paulist Press, New York 1979, tr. it. La comunità
del discepolo prediletto, Cittadella Editrice, Assisi 1982, 19). Condivido la prima
ipotesi di Brown, considero davvero improbabile, invece, che alla fine del I secolo
una comunità vitale e ormai ramificata in Asia Minore come quella giovannea
potesse non conoscere se non i tre vangeli sinottici, quanto meno la “notizia” del
concepimento verginale di Gesù.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 133

d) Analogamente, emerge l’interrogativo se Giovanni conoscesse o meno


alcune lettere paoline18. Seppure non sia possibile affrontare qui la que-
stione in maniera approfondita, mi pare assai improbabile che la messa
in tensione tra Mosè mediatore della Legge e il Figlio mediatore della
grazia, presentata in Gv 1,16-17, possa non presupporre la conoscenza
della prospettiva paolina, in particolare della messa in tensione tra an-
tica alleanza della Legge e nuova alleanza dello Spirito di Cristo pro-
spettata da 2Corinzi 3-4.

3. Il Prologo: origine e funzione

Rinuncio a render conto delle numerose e divergenti analisi stratigrafi-


che e strutturali del Prologo, quindi a tentare di verificare l’ipotesi della sua
dipendenza da un preesistente inno gnostico-battista (Bultmann)19, giudeo-
ellenistico (Becker, Painter), o più plausibilmente cristiano (Käsemann,

18 «La stretta relazione interna tra il pensiero teologico paolino e quello giovanneo
rappresenta il problema più affascinante della teologia neotestamentaria» (M.
Hengel, La questione giovannea…, 141); cf. 140-141; 175; 179; 273; 288-296;
318. Cf. P. Borgen, The Gospel of John: More Light from Philo, Paul and Archae-
ology. The Scriptures, Tradition, Exposition, Settings, Meaning, Brill, Leiden-
Boston 2014, in part. il cap.«Gospel Traditions in Paul and John; Methods and
Structures. John and Synoptics», 67-78. Considero deludente R. Schnackenburg,
Das Johannesevangelium, IV, Herder, Freiburg 1984, tr. it. Il vangelo di Giovanni,
IV, Paideia, Brescia 1985, il cap. «Cristologia paolina e cristologia giovannea»,
125-145.
19 Cf. R. Bultmann, Die Bedeutung der neuerschlossenen mandäischen und mani-
chäischen Quellen fūr das Verständnis des Johannesevengeliums, in “Zeitschrift
für die Neutestamentlischeˮ Wissenschaft, 24, 1925, 100-146, quindi in R. Bult-
mann, Exegetica. Aufsätze zur Erforschung des Neuen Testaments, Mohr Siebeck,
Tūbingen 1967, 55-104; e, ovviamente, R. Bultmann, Das Evangelium des Johan-
nes, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 1941, 1-56. Giudico, comunque, troppo
netta l’antibultmanniana affermazione di K. Barrett, The Prologue of St John’s
Gospel, Athlone Press, London 1971: «The Prologue is not a jigsaw puzzle but
one piece of solid theological writing. The evangelist wrote it all» (27). Assu-
mo, pertanto, la pragmatica prospettiva di R.A. Culpepper, The Pivot of John’s
Prologue…:«Even if the prologue contains an earlier hymn, attention needs to be
paid to the structure of the present text apart from source analyses» (2). Come non
segnalare il monito di J. Ashton, Studying John: Approaches to the Fourth Gospel,
Clarendon Press, Oxford 1996: «Any exegesis that depends upon a precisely ac-
curate reconstruction of the Vorlage is open to suspicion. This is not because such
a reconstruction would be unhelpful, but because it is virtually unattainable» (6);
coerentemente, Ashton aggiunge una singolare, ma rivelativa affermazione: «I do
not assume that the hymn was composed before the body of the Gospel. Rather I
134 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Schnackenburg, Haenchen, Wengst, Demke), persino di ambito giovanneo


(Gese, Hofius, Brown); così come rinuncio a render conto delle interpre-
tazioni che rilevano la struttura a chiasma del Prologo20, o che pretendono
di identificarne i versetti interpolati, distinguendoli da un testo originario21.
Il Prologo, piuttosto, è qui assunto nel suo risultato finale, come unità let-
teraria organica, coerentemente connessa con il corpo del vangelo22, di cui
risulta essere la summa e, come vedremo, il vero e proprio principio teo-
logico23. Pertanto, leggerò il Prologo in strettissima connessione, anzi in
continuità con la prima settimana della “missione” gesuana, attestata in Gv
1,19-2,11: ritengo, infatti, che questa presupponga narrativamente il Prolo-
go, o, più precisamente, eventi storici presentati nel Prologo, senza i quali
essa presenta incongruenze narrative irrisolubili24. Seppure un procedimen-

think it likely that it was written at a time when the composition of the Gospel was
well under way» (6).
20 Dopo i lavori pionieristici di Lund e le complesse analisi di Boismard, Lamarche,
Feuillet, il saggio più significativo rimane quello di R.A. Culpepper, The Pivot
of John’s Prologue…, che identifica Gv 1,12 come centro di gravitazione della
struttura a chiasma del Prologo. Tornerò, comunque, su quest’ipotesi.
21 Cf. M. Theobald, Die Fleischwerdung des Logos. Studien zum Verhältnis des Jo-
hannesprologs zum Corpus des Evangeliums und zu 1 Joh, Aschendorff, Münster
1988, in part. I capp. 1, “Der Johannesprolog im 19. Jahrhundertˮ, e 2, “Der Jo-
hannesprolog im 20. Jahrhundertˮ, 3-161. Per un più recente bilancio e un aggior-
namento di prospettive sull’interpretazione del Prologo, cf. G. van der Watt, R.A.
Culpepper, U. Schnelle (edd.), The Prologue of the Gospel of John. Its Literary,
Theological, and Philosophical Contexts. Papers read at the Colloquium Ioan-
neum 2013, Mohr Siebeck, Tübingen 2016. Cf., inoltre, L. Miller, Salvation-Hi-
story in the Prologue of John. The Significance of John 1:3/4, Brill, Leiden-New
York- København-Köln 1989, 1-16; A. Dettwiler, Le Prologue Johannique….
22 Cf. E. Harris, Prologue and Gospel. The Theology of the Fourth Evangelist, Shef-
fied Academic Press, Sheffield 1994, T&T Clark, London-New York 20042, in
part. 9-25.
23 Per un’introduzione alla questione, cf. J. Staley, The Structure of John’s Prolo-
gue: Its Implications for the Gospel’s Narrative Structure, in “Catholic Biblical
Quarterlyˮ 48/2, 1986, pp. 241-264; e, soprattutto, il notevole saggio di R.A. Cul-
pepper, The Prologue as Theological Prolegomenon to the Gospel of John, in J.G.
van der Watt, R.A. Culpepper, U. Schnelle (edd.), The Prologue of the Gospel
of John…, 3-26. S. R. Valentine, The Johannine Prologus – a Microcosm of the
Gospel, in “The Evangelical Quarterlyˮ 68/3, 1996, 291-304, definisce Gv 1,1-18
come “a trailerˮ (303) del IV vangelo. Rimando, infine, a J. Painter, The Prologue
as an Hermeneutical Key to Reading the Fourth Gospel, in J. Verheyden, G. Van
Oyen, M. Labahn, R. Beringier (edd.), Studies in the Gospel of John and its Chri-
stology; Festschrift Gilberte Van Belle, Peeters, Leuven 2014, 37-60.
24 In proposito, condivido pienamente la prospettiva di Theobald: «Eine unvorein-
genommene Betrachtung der Eröffnung des vierten Evs zeigt, daß diese nicht mit
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 135

to di questo tipo potrà apparire approssimativo e manchevole da un punto


di vista storico-critico, nella sua indubbia provvisorietà esso mira comun-
que a identificare l’intenzione teologica complessiva dell’ultimo redattore
del IV vangelo25, erede e mediatore di diverse linee teologiche interne al
variegato gruppo giovannista (aggregato mobile e ramificato, così com’è
stato diversamente restituito da Martyn, Cullmann, Boismard, Brown, e
dai più recenti studi di Destro e Pesce)26. Ritengo che quest’“ultimo redat-
tore” del Prologo, coincidente molto probabilmente con l’ultimo revisore
del vangelo, non possa essere identificato né con il presbitero “antidoce-
tista” di 1-3 Gv, né con Cerinto o un giovannista protognostico, in quanto
il testo del IV vangelo pare ancora ambiguo, potenzialmente indeciso tra
le due prospettive scaturitene; sicché l’inserzione di Gv 21 pare essere ag-
giunta più tarda rispetto alla stessa redazione finale del vangelo, in quanto
convergente con le posizioni del presbitero di 1-3 Gv, quindi orientato a
una convergenza di compromesso con prospettive petrine, definibili come
protocattoliche27.

1,18, sondern mit 1,51 endet… Gegen seine Isolierung in der formgeschichtlichen
Exegese hat der Prolog demnach als erster Teil der Texteröffnung Joh 1 zu gelten»
(M. Theobald, Das Evangelium nach Johannes. Kapitel 1-12, Friedrich Pustet,
Regensburg 2009, 489-490).
25 «In its present form, if not in its origin, the gospel must be approached as a unity,
a literary whole» (R.A. Culpepper, Anatomy of the Fourth Gospel. A Study in Li-
terary Design, Fortress Press, Philadelphia 1983, p. 49); «Esistono serie conside-
razioni ermeneutiche, teologiche e letterarie che hanno riportato gli interpreti ad
una “lettura” del testo così come ci appare…Ci sono crescenti indicazioni che mo-
strano come la narrazione del quarto Vangelo abbia senso nel suo ordine presente»
(R.E. Brown, Introduzione al Vangelo di Giovanni…, 77-78); «Pur supponendo
che l’inno al Logos sia esistito prima che il vangelo fosse redatto, la sua precisa
formulazione è andata perduta per sempre. Ne consegue che l’unica base perti-
nente del lavoro di interpretazione è il prologo tale quale è formulato in 1,1-18»
(J. Zumstein, Il vangelo di Giovanni…, I,70). Assumo, pertanto, la prospettiva di
J.A.T. Robinson, The Relation of the Prologue to the Gospel of St John…, 120: «I
accept the view that the whole is the work of a single hand, including the Prologue
and the Epilogue. The attempt to isolate sources on literary grounds cannot be said
to have succeeded».
26 Mi limito a rinviare a J.L. Martyn, History and Theology in the Fourth Gospel,
Harper and Row, New York 1968, Westminster John Knox Press, Louisville-Lon-
don 20033, 145-167; a R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 47-
53; e ad A. Destro e M. Pesce, Come nasce una religione. Antropologia e esegesi
del Vangelo di Giovanni, Laterza, Bari-Roma 1995, 20084.
27 Cf. M. Hengel, La questione giovannea…, 239-243; i redattori di Gv 21 sarebbero
discepoli del presbitero; dopo la morte del maestro, essi avrebbero aggiunto un
secondo epilogo al corpo del vangelo. Cf. H.-J. Klauck, Der erste Johannesbrief.
Der zweite und dritte Johannesbrief, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn
136 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Sia o meno fondata l’ipotesi sopra avanzata che l’ultimo redattore del IV
vangelo conoscesse almeno uno dei vangeli sinottici, in particolare Marco,
comunque emerge una questione chiave: è possibile misconoscere il ruolo
strategico dell’incipit del vangelo, inteso come biografia di Gesù Figlio di
Dio? L’incipit, infatti, è elemento narrativamente, quindi teologicamente
del tutto fondante28, in quanto chiamato a dichiarare l’origine di Gesù, la
sua nascita quale Figlio di Dio, quindi l’identità profonda di colui che è
annunciato come Messia, “fonte” e fine della buona novella salvifica. La
“natura” dell’eroe dipende dalla sua origine. L’inizio della biografia mes-
sianica, per di più relativa a un Figlio di Dio contestato e violentemente
soppresso, è chiamato a spiegare da dove Gesù derivasse il suo singola-
rissimo e di fatto eversivo carisma, quindi come e dove egli fosse nato, a
che titolo egli potesse vantare un rapporto intimo con il Padre, a partire dal
quale aveva preteso di ridefinire l’identità religiosa ebraica, proiettandola
verso l’imminente e destabilizzante irruzione di un Regno, che egli connet-
teva alla sua stessa persona e alla sua attività apocalittica. Allora, è un caso
che sia Marco che Giovanni inizino con il termine ἀρχή e che entrambi
presentino una connessione intima tra ἀρχή (storica o precosmica) di Gesù
e opera/testimonianza del Battista29? Non è, allora, l’incipit giovanneo –
«In principio era il Logos (Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος)» (Gv 1,1) –, che colloca
in una dimensione premondana l’origine e la divina identità sapienziale di

1991-1992, tr. it. Lettere di Giovanni, Paideia 2013, 65: «Secondo i risultati cui si
è fin qui giunti, 1Gv è posteriore all’opera dello stesso evangelista. Con l’ipotetica
componente redazionale non mancano affinità ma anche differenze… All’interno
dell’orizzonte comune della scuola giovannea possono aver avuto luogo processi
più complessi che oggi non si è più in grado di ricostruire con sufficiente preci-
sione. Un dato è certo: la difficile situazione della comunità di cui parla 1Gv si
riflette anche nello strato redazionale del vangelo. L’autore della lettera [1Gv] non
conosceva probabilmente il capitolo aggiuntivo del vangelo, Gv 21»; cf. 59-65.
Per un’ipotesi di ricostruzioni delle diverse fasi della scuola giovannea, cf. G.
Strecker, Die Johannesbriefe, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1989, 19-28.
28 Cf. M.D. Hooker, Beginnings and endings, in M. Bockmuehl e D.A. Hagner (edd.),
The Written Gospel, Cambridge University Press, Cambridge 2005, 184-202, in
part. 189-190, su Mc e le diverse identificazioni della lunghezza del suo “prologo”.
29 «Non dovrebbe esservi dubbio che per Marco l’ἀρχὴ τοῦ εὐαγγελίου Ἰησοῦ
Χριστοῦ (1,1) sia precisamente la comparsa di Giovanni» (E. Lupieri, Giovanni
Battista nelle tradizioni sinottiche…, 26). Segnalo come Lc 3,32 utilizzi il verbo
ἄρχω per segnalare l’avvio della missione di Gesù, subito dopo il battesimo e la
visione di Gesù; così, il verbo ἄρχω ricorre in Atti 1,22, per designare l’inizio della
missione di Gesù, avviata dal battesimo e conclusasi con l’ascensione.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 137

Gesù, una retractatio30 dell’incipit o del prologo marciano31 – «Principio


del vangelo di Gesù Cristo [Figlio di Dio] (Ἀρχὴ τοῦ εὐαγγελίου Ἰησοῦ
Χριστοῦ [υἱοῦ θεοῦ])» (Mc 1,1) –, che fa “nascere” Gesù quale messianico
Figlio di Dio con la recezione dello Spirito al Giordano32? Inoltre, l’incipit
giovanneo conosce anche l’incipit alternativo di Matteo e Luca? Sia Mat-
teo che Luca (l’uno indipendente dall’altro?) ritrattano la nascita messia-
nica di Gesù dallo Spirito al Giordano (attestata da Marco), collocandola
nel grembo di Maria vergine (sicché la prima testimonianza del Battista
è anticipata nel grembo di Elisabetta: cf. 1,41-45), quindi relativizzando
la discesa battesimale dello Spirito, che da generativa del Diletto del Pa-
dre – che appunto in Spirito lo costituisce quale «ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός»
(Mc 1,11) – diviene soltanto dichiarativa o rivelativa della sua già propria
identità sovraumana di Figlio di Dio, “formatasi” o “avvenuta” nel seno
di Maria, ma non ancora in dimensione premondana33. Nel Prologo gio-

30 Cf. C. Clifton Black, Mark: John’s Photographic Negative, in M.C. Parsons, E.


Struthers Malbon, P.N. Anderson (edd.), Anatomies of the Gospels and Beyond.
Essays in Honor of R.A. Culpepper, Brill, Leiden-Boston 2018, 111-126: il sag-
gio, comunque, mette in rilievo la creativa differenza di prospettive teologiche,
senza pretendere di dimostrare l’influenza “negativa” di Marco su Giovanni.
31 Cf. F.J. Matera, The Prologue as the Interpretative Key to Mark’s Gospel, in
««Journal for the Study of the New Testament» 34/1, 1988, 3-20, in part. 5, ove il
prologo marciano è, sulla scia di Lightfoot, identificato con Mc 1,1-13.
32 A Mc 1,1, segue immediatamente la presentazione del Battista, del suo battesi-
mo di penitenza, quindi, in 1,9-11, la descrizione del battesimo di Gesù e della
teofania che lo rivela, con la discesa dello Spirito dal cielo e il risuonare della
voce: “Tu sei il mio Figlio il Diletto (Σὺ εἶ ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός)ˮ. Cf. già R.E.
Brown, Giovanni…, 4, che, in riferimento all’“ἐν ἀρχῇˮ del Prologo, precisa:
«Si noti come apre il Vangelo di Marco: “Principio del Vangelo di Gesù Cristo
[Figlio di Dio]…”». Sulle affinità dei prologhi di Mc e di Gv, cf. ancora M.D.
Hooker, The Johannine Prologue and the Messianic Secret, in «New Testament
Studies» 21, 1974, 40-58; M.D. Hooker, The Gospel According To St Mark, Con-
tinuum, London-New York 1981, 31-39; G. Neyrand, Le sens de “logos” dans
le prologue de Jean, in «Nouvelle Revue Théologique» 106/1, 1984, 59-71, che
appunto connette strettamente l’in principio di Giovanni e il principio di Marco,
interpretandoli in senso eventuale-rivelativo, sicché «le “Logos” chez Jean joue
le rôle que jouait l’“Evangile” chez Marc» (65).
33 Sulla retroproiezione della “nascita” di Gesù quale Figlio di Dio, dalla resurrezio-
ne da morte (kerygma originario), al battesimo (Marco), al concepimento vergi-
nale nel seno di Maria (Matteo e Luca), cf. R.E. Brown, The Birth of the Messiah.
A Commentary on the Infancy Narratives in Matthew and Luke, Doubleday, New
York 1977, 19932, tr. it. La nascita del Messia secondo Matteo e Luca, Cittadel-
la Editrice, Assisi 1981, 20022, 24-28; 168-173; 976-981. Segnalo la semplice,
ma rilevante ricapitolazione: «Nei racconti del Vangelo sul ministero pubblico il
battesimo era il momento stabilito per identificare apertamente Gesù cristologi-
138 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

vanneo, invece, il riferimento all’origine di Cristo è, com’è noto, duplice:


egli è il Logos che preesiste al mondo, creandolo, sicché egli da sempre è
il veniente dal seno del Padre (e non colui che è stato sopra/naturalmente
generato Cristo nel seno di Maria o carismaticamente divenuto Cristo tra
le acque del Giordano); d’altra parte, «il Logos si fece carne (ὁ λόγος σὰρξ
ἐγένετο)» (1,14), cioè divenne uomo, sicché il Prologo fa evidente allusio-
ne alla nascita storica del Cristo redentore, che ne è il vero baricentro34, ove
comunque il riferimento all’incarnazione risulta connesso con il Battista,
mentre ignora del tutto Maria.
Sorgono, allora, ulteriori interrogativi: il Prologo è un preambolo in
cielo che, pur facendo riferimento all’incarnazione, trascende e precede
ab aeterno l’avvio della descrizione degli eventi storici salvifici, che co-
minciano ad essere narrati soltanto a partire da Gv 1,19? Inoltre, quando
Gv 1,14 proclama l’incarnazione del Logos, indica la legge generale della
rivelazione evangelica o indica un evento storico preciso, avvenuto in quel
paradossale dies unus in principio che connette la preesistenza del divi-
no con la contingenza della storia? Insomma, il Prologo è “al di sopra” o
fuori della serie temporale, insistentemente scandita a partire da Gv 1,29,
quando, con l’indicazione “a ritroso” «il giorno dopo (τῇ ἐπαύριον)», si
determina una ripartizione della prima rivelazione storica di Gesù quale
settimana inaugurale35, conclusa con le nozze di Cana in Gv 2,1-12? Il pri-
mo giorno, allora, è descritto in Gv 1,19-28 o in Gv 1,1-28? Ebbene, ri-
tengo che se il Prologo è incentrato sul «turning point» dell’incarnazione,

camente, cioè dove inizia Marco. Matteo e Luca, scritti dopo Marco, identificano
cristologicamente Gesù al momento del concepimento, mentre Giovanni, che non
descrive il concepimento o la nascita, lo identifica cristologicamente (come la
Parola) in una preesistenza con Dio prima della creazione» (977).
34 Pur se fortemente condizionato da un apriori dogmatico (quello dell’ortodossia
trinitaria e cristologica, retroproiettata sul Prologo), condivido l’assunto fonda-
mentale di S. de Ausejo, ¿Es un himno a Cristo el prólogo de San Juan?...: «El
punto mental de partida para San Juan no es el Logos como Verbo de Dios sin la
carne…, sino el Logos-Cristo, el Cristo histórico… El tema central del Prólogo es
Jesús» (388).
35 Cf. R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…, I,275-279; e R.E. Brown, Gio-
vanni…, 59-60: “Il Vangelo propriamente detto comincia con la testimonianza di
Giovanni Battista resa in tre giorni (1,29 e 35), giorni che hanno un significato
simbolico più che strettamente cronologico… Questa triplice progressione non
fa che esplicitare lo schema fissato in precedenza in 1,6-8”. Questo significa che,
per Brown, il Prologo è fuori dalla narrazione storica del vangelo e che «il primo
giorno» della settimana inaugurale della rivelazione comincia con Gv 1,29.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 139

annunciando l’irruzione del divino Unigenito preesistente nella storia36, se


in esso “la protologia si converte in escatologia” e la divina preesistenza di-
viene storia umana, allora l’ἡμέρα μία (cf. Gen 1,5), il giorno “assoluto” ἐν
ἀρχῇ che è al di sopra della serie, non può non essere simul primo elemento
della serie, inaugurando la successione temporale della storia redentiva37.
Occorre, allora, trovare nel Prologo il momento paradossale nel quale il
preesistente diviene soggetto storico. Ebbene, soltanto il Battista, la figura
storica concreta che irrompe nella rivelazione protologica del Logos come
dio intimo a Dio, può essere l’indicatore dell’incarnazione come tangenza
tra tempo divino e tempo umano. Se il Battista appare nel Prologo è per
segnalare un evento storico, che non può non essere connesso all’incontro

36 Proprio perché dedicato all’annuncio dell’evento apocalittico dell’irruzione ful-


minea della Luce nel mondo, non ritengo che il Prologo abbozzi una specie di
teologia della storia salvifica, quindi una rivelazione progressiva dall’Eterno,
passando attraverso la storia di Israele, sino all’incarnazione del Logos in Gesù,
come suggerito da M. Coloe, The Structure of the Johannine Prologue and Ge-
nesis 1, in «Australian Biblical Review» 45, 1997, 40-55, in part. 47: «The first
part of the Prologue (3-13) tells the story of God’s revelatory Word and as a story
only gradually unfolds so the Prologue shows the gradual coming of the Word
from the indefinite past of eternity (v. 1) to an identifiable moment in history
when John bore witness to the light» (47). Per una lettura dell’intero Prologo
nella prospettiva di storia della salvezza, che dalla protologia passerebbe per la
storia d’Israele culminante nel Battista, per approdare all’incarnazione di Cristo
e alla generazione della sua comunità spirituale, cf. Th.L. Brodie, The Gospel
According to John…: «The hypothesis put forward here is that it is these first
explicite references to John and the incarnation which provide the basic divisions
of the text. Thus, the prologue is to be divided into three parts: vv. 1-5, 6-13, and
14-18… The prologue is largely a description of salvation history… Thus there is
a threefold division which, to some degree at least, is time-based: the beginning,
the OT, the NT» (135).
37 «Il Prologo è un racconto teologico degli inizi, un dar notizia, nella fede, del-
la “preistoria”, che diventa “storia di Gesù” nell’evento dell’incarnazione» (R.
Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…, I,279). Ebbene, a mio parere, il tur-
ning-point della rivelazione non può che essere l’incarnazione al Giordano, il
momento nel quale il preesistente Unigenito discende nell’uomo Gesù, sicché nel
Prologo noi abbiamo anche l’inizio degli eventi storici redentivi. Cf. l’interessante
proposta di identificare il turning point della struttura chiastica in Gv 1,14, e non
come suggerito da R.A. Culpepper, The Pivot of John’s Prologue …, nel centro
esatto del Prologo, che è Gv 1,12: «The “turning point” of an inverted parallelism
or chiasm tends to be immediately after the centre… This means that, in the case
of the prologue, the “turning point” would be the decisive verse “The Word be-
came flesh…”, even though the structural centre of the prologue is to be located
in the area of vv 12-13» (F. McGrath, Prologue as Legitimation: Christological
Controversy and the Interpretation of John 1:1-18, in «Irish Biblical Studies» 19,
1997, 98-120, in part. 102-103).
140 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

al Giordano tra il Battista e Gesù. Avanzo, pertanto, l’ipotesi che il Prolo-


go sia la riflessione teologica che, dando la parola a Giovanni Battista “il
testimone”, presenta la teofania al Giordano, posta al principio del vangelo
perché assunta quale principio storico della missione di Gesù. Si affac-
ciano, allora, questioni ulteriori: l’Inno alla base della rielaborazione del
Prologo era un inno battesimale giovanneo38? Perché, allora, il battesimo
risulta esservi cancellato? E cosa, eventualmente, ne rimane, oltre alla te-
stimonianza di Giovanni?
Ma procediamo ordinatamente, ribadendo come il Prologo debba ovvia-
mente essere interpretato come risposta alla questione della venuta al mon-
do del Figlio messianico: per questo, la κατάβασις marciana dello Spirito al
Giordano o i racconti matteano e lucano del concepimento verginale dello
Spirito rappresentano venute, quindi “principi” alternativi della potenza
divina in Gesù, rispetto ai quali il Prologo, quindi l’intero IV vangelo par-
rebbero prendere una netta presa di posizione.

4. Gesù figlio di Giuseppe: Giovanni “ebionita” o “cerintiano”?

Come si diceva, malgrado la dottrina dell’incarnazione sia il concetto-


cardine del IV vangelo, non esiste alcun riferimento al miracoloso conce-
pimento di Gesù nel seno della vergine Maria39, che pure Matteo e Luca
avevano collocato “nel principio” storico dei loro vangeli40. Giovanni,
analogamente a Marco, pare dare per scontato che Gesù fosse un uomo
concepito naturalmente. È da notare come, in Gv 1,45, Gesù venga indicato
a Nataniele dallo stesso discepolo Filippo (e non dai suoi nemici!) come

38 Y. Ibuki, Lobhymnus und Fleischwerdung. Studie über den johanneischen Prolog,


in «Annual of the Japanese Biblical Institute» 3, 1977, 132-156, colloca appunto
l’inno nell’ambito della liturgia battesimale, che sarebbe culminata nell’afferma-
zione ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο: cf. 148).
39 S. de Ausejo, ¿Es un himno a Cristo el prólogo de San Juan?..., 421-422, pretende
di rintracciare un’affermazione del concepimento verginale di Gesù nei versetti
1,12-13 del Prologo («i figli di Dio… non da sangue, né da volere di carne, né
da volere d’uomo, ma da Dio sono stati generati»), che illuminerebbero quello
successivo proclamante l’incarnazione del Logos (1,14). Del tutto evidente è l’ar-
bitraria forzatura confessionale, che riferisce alla singola persona di Cristo (che
sarebbe nato da Maria, ma senza carne, sangue e volere di “uomo”), di versetti in
realtà riferiti alla comune generazione dallo Spirito dei credenti in Cristo.
40 «“Coming into the world” denoted not Jesus’ birth by Mary, but John’s presen-
tation of him to the world (1:15, 27)» (P.S. Minear, P.S. Minear, Christians and
the New Creation: Genesis Motifs in the New Testament, Westminster John Knox,
Louisville 1994).
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 141

figlio di Giuseppe41; la notizia è ribadita dal vociare dei «Giudei» in Gv


6,4242, senza che l’evangelista si preoccupi di evidenziare l’infondatezza
della notizia, assunta come non problematica. Piuttosto, essa potrebbe es-
sere polemica nei confronti della “notizia” del concepimento verginale43,
forse persino reattiva nei confronti di “criptodocetistiche” volatilizzazioni
della piena umanità di Gesù.
D’altra parte, proprio il confronto tra i due “principi” di Marco e Giovan-
ni evidenzia immediatamente la differenza di prospettiva: mentre per Marco
Gesù è un uomo “adottato” dal Padre, rigenerato dallo Spirito divino44 e
per questo divenuto il messianico Figlio prediletto, per Giovanni Gesù è un
uomo/carne nel quale discende il Logos, lo Spirito, il Figlio dell’Uomo, il
Pane dal cielo che è l’Unigenito preesistente. Senza qui affrontare la diffici-
le questione della sovrapposizione di prospettive cristologiche in progress,
corrispondenti a fasi della storia della comunità stratificatesi nel IV vangelo,

41 «Filippo incontrò Natanaele e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno
scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret (Ἰησοῦν
υἱὸν τοῦ Ἰωσὴφ τὸν ἀπὸ Ναζαρέτ)”» (Gv 1,45).
42 «E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe (Οὐχ οὗτός ἐστιν
Ἰησοῦς ὁ υἱὸς Ἰωσήφ)? Di lui conosciamo il padre e la madre (οὗ ἡμεῖς οἴδαμεν
τὸν πατέρα καὶ τὴν μητέρα). Come può dunque dire: «Sono disceso dal cielo (Ἐκ
τοῦ οὐρανοῦ καταβέβηκα)»?”» (Gv 6,42).
43 «The Gospel makes clear the public perception that Jesus is the son of Joseph
from Galilee (1:45; 6,42; 7,41-42; 7,50-52) and contains no inarguable indication
that the author was aware of the conception Christology of Matthew and Luke»
(P.E. Kinlaw, The Christ is Jesus…, 129). Cf. Ch.H. Talbert, “And the Word Be-
came Flesh”: When?, in A.J. Malherbe e W.A. Meeks (edd.), The Future of Chri-
stology. Essays in Honour of Leander E. Keck, Fortress, Minneapolis 1984, 43-52,
quindi in The Development of Christology during the First Hundred Years and
other essays on early Christian Christology, Brill, Leiden-Boston 2001, 131-141,
in part. 135.
44 In ebraico, Spirito è il sostantivo femminile ‫( רוח‬Rūaḥ); al battesimo, pertanto,
lo Spirito avviene al Giordano, divenendo la madre carismatica di Gesù, sicché
è attestata, quale variante marciana nel Codex Bezae di Cambridge, l’inserzione
della citazione del Salmo 2,7: «Tu sei mio Figlio. Oggi ti ho generato». La varian-
te torna nelle citazioni battesimali riportate da Epifanio di Salamina, Panarion
I, tomo II, eresia XXX, Contro gli ebioniti 13,7-8; quindi in Giustino, Dialogo
con Trifone 88,3 e 8; tornerò, più avanti, su entrambe. Cf. inoltre, Origene, Com-
mento al vangelo di Giovanni, II,87, che cita un «passo del Vangelo secondo gli
Ebrei, dove il Salvatore pronuncia queste parole: “Poco fa mi prese mia madre, lo
Spirito Santo, per uno dei miei capelli e mi trasportò sul gran monte Tabor”»; cf.
Origene, Omelie su Geremia, 15,4. Ritengo che anche il “rinnegamento” di Maria
e dei propri fratelli carnali, operato da Gesù in Mc 3,31-35, possa presupporre un
riferimento alla nuova identità carismatica di Gesù, divenuto figlio elettivo dello
Spirito/Madre.
142 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

il redattore finale pare approdare a una fusione dialettica tra una cristologia
adozionistica di tipo marciano o “ebionita” (Gesù è figlio di Giuseppe e
Maria)45 e un’“altissima” cristologia sapienziale, che lo rivela come Logos
Unigenito, dio presso il Dio Padre. Ma se Giovanni non conosce o taglia via
qualsiasi riferimento all’incarnazione dell’Unigenito in Maria, occorre spo-
starsi al Giordano46, ove è collocabile l’unica ipotesi logicamente alternativa

45 Definisco ebionismo radicale quello combattuto da Ireneo, AdvHaer IV,33,4 e


V,1,3, ove “gli ebioniti” vengono accusati di negare l’incarnazione del Figlio di
Dio, Verbo, Spirito in Maria, della quale quindi non è riconosciuto il concepi-
mento verginale; questa prospettiva radicale è attribuita al mitico “Ebione” da
Epifanio di Salamina, Panarion, I, tomo II, eresia XXX, Contro gli ebioniti, 2,1;
3,1; 3,6; 14,1-4. Per la dottrina attribuita a Cerinto, cf. Epifanio di Salamina, Pa-
narion, I, tomo II, eresia XXVIII, Contro i cerintiani o merintani, 1,2; 1,5-7.
46 «Troppo spesso si legge Gv 1,14, “La Parola divenne carne”, alla luce dei racconti
dell’infanzia di Matteo e di Luca e si ritiene che il momento di divenire carne
dovrebbe essere automaticamente interpretato come il concepimento/nascita di
Gesù… Reginald Fuller ha reso un buon servizio nel mettere in luce che Giovanni
poteva essere letto in altra maniera. Il Vangelo non parla mai in modo chiaro della
nascita di Gesù. Nel Prologo, prima che ci venga detto che la luce è venuta nel
mondo (1,9-10), si parla di Giovanni Battista. E subito dopo il riferimento alla
Parola divenuta carne, c’è un altro versetto riguardante Giovanni Battista (1,15).
Se si isolasse il Vangelo di Giovanni e lo si leggesse attraverso occhiali doceti, si
potrebbe credere che il momento della venuta della luce nel mondo e il momento
dell’incarnazione della Parola sia stato proprio dopo il battesimo di Gesù, quando
lo Spirito discende sopra Gesù, come dice Giovanni Battista: “Io stesso non l’a-
vevo mai riconosciuto, sebbene la ragione per cui sono venuto a battezzare con
l’acqua fosse proprio quella che gli potesse essere rivelato a Israele… Ho veduto
lo Spirito che scendeva dal cielo, a guisa di colomba, e posarsi su di lui” (1,30.32).
Che ciò sia successo se ne ha una prova nel trattato gnostico di Nag Hammadi, la
Testimonianza di Verità IX 3 (30,24-28) che si rifà alla narrazione giovannea degli
avvenimenti che circondano il battesimo di Gesù: “E Giovanni Battista recò testi-
monianza alla (discesa) di Gesù. Infatti egli è colui che vide la (potenza) che disce-
se sul fiume Giordano”» (R.E. Brown, The Community of Beloved Disciple, Paulist
Press, New York 1979, tr. it. La comunità del discepolo prediletto, Cittadella Edi-
trice, Assisi 1982, 178-179). Il riferimento è a R.H. Fuller, Christmas, Epiphany,
and the Johannine Prologue, in M. L’Engle e W.B. Green (edd.), Spirit and Light.
E.M. West Festschrift, Seabury, New York 1976, 63-73. Ma la tesi era già stata
sostenuta da E.C. Colwell e E. Titus, The Gospel of the Spirit. A Study in the Fourth
Gospel, Harper, New York 1953, 107-11; e, in effetti, già dal pionieristico saggio di
R. Seeberg, Ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο, in Festgabe von Fachgenossen und Freunden
A. von Harnack, zum siebzigsten Geburtstag dargebracht, Möhr, Tübingen 1921,
263-281, in part. 267-275. Cf., inoltre, il notevole saggio di Ch.H. Talbert, “And
the Word Became Flesh”: When?…: «To my knowledge, then, there is nothing in
the Fourth Gospel to lead a hearer to infer that the incarnation took place in connec-
tion with a miraculous conception as opposed to a moment in connection with the
water of John’s baptism» (137). Questa prospettiva è stata ripresa da F. Watson, Is
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 143

del farsi uomo del principio divino preesistente, non senza avere evocato la
sfuggente e ambigua figura di Cerinto, nel quale paiono convivere, a detta
degli eresiologi, ebionismo (Gesù è figlio di Giuseppe e Maria) e una va-
riante docetistica (Cristo/Spirito discenderebbe su Gesù al Giordano, per
separarsi da lui prima della passione), che ricorrerà frequentemente in testi
gnostici. Certo, la polemica violentissima che divise la comunità giovannea
parallelamente alla definizione progressiva del corpus, in particolare in ri-
ferimento alla figura dominante del presbitero, presenta un contesto all’in-
terno del quale pare emergere l’oscillante profilo di questo giudeo-cristiano
docetista47. D’altra parte, se il motivo del conflitto teologico tra fazione
giovannea del presbitero e fazione giovannea secessionista fosse stata non
tanto la docetistica negazione della realtà storica e carnale di Cristo48, né la
protognostica dottrina cerintiana del ritrarsi dello Spirito divino dall’uomo
Gesù al momento della passione e della morte49, ma piuttosto la negazione

John’s Christology Adoptionist?, in L.D. Hurst e N.T. Wright (edd.), The Glory of
Christ in the New Testament: Studies in Christology, Clarendon, Oxford 1987, 113-
124: «The union of the Logos or Son of God with Jesus of Nazareth took place in
the descent of the Spirit at his Baptism» (114); ne deriva la restituzione cerintiana,
appunto adozionista della cristologia di Giovanni, che pure sarebbe attestata da
diversi testi gnostici, dalla Testimonianza veritiera al Secondo trattato del grande
Seth. Segnalo, infine, il rilevante volume di un’allieva di Talbert, P. E. Kinlaw,
The Christ is Jesus: Metamorphosis, Possession, and Johannine Christology, Brill,
Leiden 2005. Cf. T. Engberg-Pedersen, Logos and Pneuma in the Fourth Gospel,
in D.E. Aune e F.E. Brenk (edd.), Greco-Roman Culture and the New Testament:
Studies Commemorating the Centennial of the Pontifical Biblical Institute, Brill,
Leiden 2012, 27-48: anche qui Gv 1,32-34 è interpretato come descrizione del
battesimo di Gesù al Giordano (cf. 27; 34; 37-38). Anche per J.F. McGrath, Pro-
logue as Legitimation…, 114 e 117-118, l’incarnazione di Gesù è avvenuta al suo
battesimo. A differenza di Watson, Talbert, Kinlaw, non ritengo, comunque, identi-
ficabile la prospettiva incarnazionistica di Giovanni con quella carismatico-elettiva
o “adozionistica” di Marco, per il quale lo Spirito è una potenza impersonale di
Dio, più che una vera e propria ipostasi distinta e mediatrice. Nella prospettiva
di Marco, non avrebbe senso affermare: «Prima che Abramo fosse, io sono» (Gv
8,58), con l’identificazione personale di Gesù con il preesistente, ontologicamente
ipostatizzato Nome di Dio di Esodo 3,14.
47 Cf. R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 178-180; e soprattutto
The Epistles of John, Doubleday, New York 1982, tr. it. Le lettere di Giovanni,
Cittadella Editrice, Assisi 1986, 20172, Appendice II, «Cerinto», 1033-1040, che
spinge Cerinto in direzione docetistica e protognostica, piuttosto che in direzione
propriamente giudeo-cristiana.
48 È questa la convincente prospettiva di R.E. Brown, La comunità del discepolo
prediletto…, 135-139; R.E. Brown, Le lettere di Giovanni…, 116-136.
49 Secondo P.E. Kinlaw, The Christ is Jesus…, i giovannisti secessionisti sarebbero
effettivamente cerintiani, avrebbero cioè prospettato una cristologia della posses-
144 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

della portata soteriologica della morte di Cristo, essendo la salvezza attri-


buita soltanto alla “protognostica” conoscenza della rivelazione di Luce di-
vina e alla fruizione dello Spirito celeste, la peculiare cristologia dinamica
Logos/Sarx attestata dal IV vangelo e dal suo Prologo potrebbe essere stata
condivisa da entrambi i fronti in conflitto50.
Concordo, pertanto, con la tesi di Brown piuttosto che con la tesi di
Theobald51: 1) il Prologo precede la polemica anti“docetistica” delle Let-

sione temporanea di Gesù da parte dello Spirito, disceso su di lui al Giordano al


momento del battesimo, mentre il presbitero e i suoi seguaci, pur condividendo
l’identificazione del battesimo al Giordano con l’evento dell’inabitazione dello
Spirito in Gesù, l’avrebbero proclamata come possessione «indwelling», perma-
nente anche nel Cristo patiens, morto e risorto.
50 Cf. R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 178.
51 Per M. Theobald, Die Fleischwerdung des Logos…, il Prologo, ultimo documento
del conflitto intragiovanneo attestato da 1-2Gv, sarebbe stato elaborato, in cor-
rispondenza con la polemica “antidocetistica” del presbitero, per contrastare la
cristologia dualistica del protognostico Cerinto, attivo all’interno della comunità
giovannea, che avrebbe formulato una docetistica cristologia battesimale (appunto
una «dualistische Taufchristologie»: 491), per la quale soltanto in occasione del
battesimo sarebbe disceso su Gesù lo Spirito, identificato con il Logos/Cristo pre-
esistente, astratta, mitica figura di intermediazione interpretata come (un proto-
gnostico) Cristo impassibile: «Le Prologue s’oppose à une christologie de l’Esprit
selon laquelle c’est seulement par la descente du Pneuma sur lui à l’occasion de
son baptême par Jean, que Jésus devint celui qu’il se manifesta être, le rêvélateur
de Dieu» (M. Theobald, Le Prologue johannique…, 208). «Gegen die Vorstel-
lung, das Pneuma sei anläßlich seiner Taufe auf Jesus herabgekommen und habe
ihn vor seinem Tod wieder verlassen, bezeugt der Täufer, daß Jesus durch seinen
Tod die Sünde der Welt hinwegschafft (1,29) und daß nicht das Pneuma, sondern
er selbst bei Gott präexistierte (1,30)… Daß die Taufe Jesu verschwiegen wird,
paßt gut in diesen Zusammenhang, der ihre Deutung als Berufungswiderfahrnis
Jesu unterbinden möchte. Jesus wird in seiner Taufe nicht erst zum Messias und
Heilbringer, sondern ist es schon von Anbeginn; der Täufer hatte nur die Aufga-
be, das Geheimnis seiner Person durch sein Zeugnis zu entbergen» (M. Theobald,
Die Fleischwerdung des Logos…, 281). Insomma: 1) l’intuizione fondamentale
del IV vangelo sarebbe quella del Figlio dell’Uomo disceso dal cielo, incarnato-
si sino alla morte, per essere glorificato nel suo paradossale innalzamento; 2) la
cristologia del Logos sarebbe stata, invece, introdotta all’interno della tradizione
giovannea dai rappresentanti della «dualistische Taufchristologie» (491); 3) la più
tarda introduzione della dottrina dell’incarnazione “per nascita” (attestata da 1,14)
da parte dell’autore del Prologo correggerebbe, pertanto, l’eredità criptognostica
della cristologia del Logos introdotta della «“dyophysitische” Taufchristologie»
(491), inevitabilmente distratta nei confronti della realtà storica dell’uomo Gesù,
contrapponendole una protocalcedonese cristologia dell’unità della persona: «Ge-
gen eine “metaphysische” Spaltung des Erlösers in den irdischen Jesus und den
auf ihn bei seiner Taufe herabgekommenen Pneuma-Christus (=Logos) beharrt der
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 145

tere di Giovanni; esso, infatti, nella sua intima relazione con 1,29-34 e in

Prologautor auf der Einheit der Person Jesu als des Heilbringers» (492); 4) per
affermare la piena identità personale tra Gesù e il Figlio dell’Uomo/Logos/Cristo/
Spirito celeste, inevitabilmente Theobald è costretto a postulare (seppure non riu-
scendo a trovare nel IV vangelo e neanche in 1-2Gv alcun testo in proposito!) un’i-
dentità originaria tra Logos e carne sin dalla nascita di Gesù, sicché viene postulata
una «incarnation par naissance» (Le Prologue johannique…, 208): «Jesu Person
wurde nicht erst durch irgendeine Begabung bei der Taufe zum Logos-Träger,
sondern ist von ihrer Geburt an mit diesem identisch… Jesus ist keine zufällige,
kontingente “Äußerung” Gottes, sondern sein wesentliches, einziges Wort, in dem
er sich von Ewigkeit her in seiner ganzen Wahrheit geäußert und entäußert hat, sein
Selbst-Ausdruck» (Die Fleischwerdung des Logos…, 492). La novità dell’autore
del Prologo e del redattore finale del vangelo sarebbe, pertanto, proclamare l’in-
separabilità dell’unione tra Spirito/Logos/Figlio dell’Uomo e uomo Gesù, perdu-
rante sino alla morte e resurrezione. 5) Per Theobald, comunque, l’affermazione
dell’unità della persona di Cristo, proclamata in Gv 1,14 con l’identificazione della
carne del Gesù storico con il Logos stesso, ubbidirebbe a un’esigenza di custodia
della tradizionale memoria della realtà del Gesù storico, messa in questione dalla
cristologia dualistica “cerintiana”: «Damit schließt 1,14 gegen die Spekulation der
Taufchristologie an den Geist der ersten Jesus-Tradition an, für die die Einheit der
Person Jesu selbstverständliche Voraussetzung war. Diese Einheit Jesu im Rahmen
der rezipierten und neudefinierten Logoschristologie nun ihrerseits wieder zum
Gegenstand der Spekulation zu erheben, lag dem Autor des Prologs, der seinen
Text zur Bewältigung einer christologischen Krise geschaffen hatte, völlig fern.
Er hat mit 1,14 nur die Grenze markiert, die seiner Überzeugung nach unbedingt
zu respektieren ist, nämlich das Bekenntnis zur Identität Jesu als des Offenbarers
Gottes, das die Option für die Wertschätzung des Geschöpflich-Sarkischen (vgl.
1,3.10.11.14) miteinschließt» (492-493). Trovo le tesi di Theobald non convincenti
e fortemente condizionate da un presupposto confessionale. Seguendo Brown –
che opportunamente sottolinea la difficoltà di ricostruire l’identità storica di Ce-
rinto a partire da testimonianze eresiologiche divergenti (da Ireneo e dall’autore
dell’Elenchos, a Eusebio ed Epifanio, sino a Dionisio Bar Salibi) –, ritengo che:
a) i secessionisti combattuti dal presbitero in 1-2Gv non siano identificabili con
Cerinto, che pare aver radicalizzato le loro posizioni in direzione gnostica; b) che
il Prologo e l’intero Gv possano essere interpretati come patrimonio comune delle
due fazioni giovannee in conflitto, sicché, contro l’interpretazione di Theobald, mi
pare che il Prologo non sia interpretabile come testo anticerintiano; c) in partico-
lare, condivido la prospettiva di R.A. Brown, Le lettere di Giovanni…, 170, che
esclude chiaramente che Gv 1,14 possa essere interpretato come versetto antiseces-
sionista, in quanto gli stessi secessionisti non avrebbero negato il rapporto del Lo-
gos con la carne, ma si sarebbero limitati a non identificare nella morte della carne
l’evento salvifico, che piuttosto identificavano con la stessa teofania della Luce/
Gloria al Giordano; d) a mio parere, entrambi i fronti giovannei condividevano la
convinzione che l’incarnazione del Logos fosse avvenuta al Giordano, ma diver-
gevano sull’interpretazione dell’evento soterico: già perfettamente manifestatosi
con la discesa del Logos/Spirito al Giordano per i secessionisti, successivamente
espulsi, quindi evolutisi verso prospettive gnostiche; compiutosi soltanto con la
146 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

particolare con la katabasis dello Spirito di 32-24, non attesta una prospet-
tiva anti“docetistica”, piuttosto una prospettiva ancora ambigua52, ove l’e-

crocifissione e la morte, quindi l’effusione del sangue, per il presbitero e la setta


giovannea che finisce per imporsi come “ortodossa”. Comunque, nessuna testimo-
nianza documentata è possibile riconoscere in Gv, né in 1-2Gv sull’incarnazione
per nascita, postulata da Theobald. Se, poi, si pretendesse di identificare nel μένειν
di Gv 1,33 una garanzia anticerintiana (cf. M. Theobald, Die Fleischwerdung des
Logos…, 272), sottolineo come persino il giudeocristiano Vangelo dei “Nazarei”,
testimoniatoci da Girolamo, afferma che lo Spirito disceso su Gesù al battesimo
trova in lui la sua «requies», quindi la sua definitiva permanenza; e questo mal-
grado lo Spirito, che è lo stesso che aveva visitato Adamo, i patriarchi, Mosè, i
profeti, non abbia una dimensione ipostatica paragonabile a quella del preesistente
Logos giovanneo. Infine, analogamente, contro le affermazioni di M. Theobald,
Le Prologue et ses lecteurs implicites…, 210-211, sottolineo come, se certo 1-2Gv
insistono sulla confessione di Cristo quale Figlio di Dio incarnato in Gesù, quindi
l’essere venuto di Cristo nella carne, mai si soffermano a proclamare che l’incar-
nazione del Figlio in Gesù sia avvenuta con la nascita, né a polemizzare contro una
cristologia dell’incarnazione battesimale, interpretata come «christologie dualiste
de la séparation» tra Spirito divino e uomo Gesù (210).
52 Fondamentale è R.E. Brown, Le Lettere di Giovanni…, Introduzione, V, B, cap.
2, «Cristologia secessionista e Quarto Vangelo», 120-128: i “secessionisti” avreb-
bero preso spunto dal testo del IV vangelo, affermando che il Logos era disceso
su Gesù al momento del battesimo, quindi il loro principio era «Cristo venne in
acqua» (125). «Lo Spirito può essere sceso su Gesù in collegamento con il suo
battesimo e avere contrassegnato la rivelazione salvifica di Dio (come sostene-
vano i secessionisti)» (789). Pertanto, sarebbe specifico dei secessionisti non un
docetismo ingenuo e radicale, quale quello combattuto da Ignazio di Antiochia,
ma un docetismo raffinato: essi riconoscevano, come il IV vangelo, la reale uma-
nità di Cristo, ma non ritenevano che la morte della carne fosse il fondamento
della salvezza, bensì la rivelazione della gloria appunto avvenuta con la teofania
al Giordano: «I secessionisti ammettevano la realtà dell’umanità di Gesù, ma rifiu-
tavano di riconoscere che il suo essere nella carne era essenziale al quadro di Gesù
come il Cristo, il Figlio di Dio» (126). Diviene quindi possibile ipotizzare che «il
vangelo di Gv potesse venire letto dai secessionisti in termini di una incarnazione
al battesimo: “Venne con/in acqua”. O, se non spinsero la formula così lontano,
potrebbero almeno avere collegato alla scena del battesimo il dono fondamentale
dello Spirito e la fondamentale rivelazione di Gesù come Figlio di Dio» (126). «Al
massimo gli avversari dell’autore [di 1Gv] sono stati precerintiani nell’accentuare
il battesimo sulla morte… La concezione secessionista non deve necessariamente
avere a che fare con quella di Cerinto o quella dei doceti, i quali pensavano che
Gesù non avesse un corpo umano…. Essi credevano in una vera incarnazione, ma
intendevano che l’inno della comunità giovannea (il prologo del vangelo di Gv),
con i suoi riferimenti a Giovanni Battista in stretta prossimità de “la Parola divenne
carne” (1,6; 9; 14-15), significasse che quest’incarnazione avvenne al battesimo.
Per loro, la piena venuta di Gesù Cristo come Figlio di Dio (si veda Gv 1,49 dove
Gesù viene immediatamente salutato come Figlio di Dio) avvenne nell’acqua e
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 147

saltazione della teofania del Logos di Vita, Luce e Gloria prevale rispetto
alla stessa proclamazione della realtà salvifica dell’incarnazione. Il Pro-
logo, pertanto, è anteriore allo scindersi tra 1) la radicalizzazione “cerin-
tiana”, quindi protognostica, di un’incarnazione “dualistica”, provvisoria,
che afferma l’unione dello Spirito con l’uomo Gesù al Giordano, quindi la
dimensione non salvifica della morte dell’uomo Gesù; e 2) la polemica an-
tidocetistica del presbitero, attestata dalla Lettere di Giovanni, che insiste
non soltanto sul carattere definitivo dell’unione tra Spirito e Gesù avvenuta
al Giordano (cf. già l’ἔμεινεν ἐπ' αὐτόν di Gv 1,32), ma anche sulla dipen-
denza della salvezza dal reale sacrificio espiatorio della carne di Cristo (tesi
influenzata da Paolo?), quindi dal dono del suo sangue sulla croce, sicché,
come proclama 1Gv 5,5-8, la salvezza non viene soltanto dallo Spirito e
dall’acqua (quindi dalla manifestazione salvifica dello Spirito dell’Unige-
nito al Giordano), ma anche dal sangue di Gesù morto in croce.
Il Prologo, infatti, afferma una prospettiva condivisibile da parte di en-
trambi i fronti che verranno a confliggere nel seno stesso della comunità
giovannea: a) l’incarnazione del Logos nella carne di Gesù al Giordano,
cioè al cospetto del Battista (come confermato da 1,32-34), è manifesta-
zione della Luce principale e della sua gloria: l’affermazione dell’incar-
nazione di 1,14 non è comunque affatto approfondita in senso “realista”,
come ad esempio lo sarà nel Prologo di 1Gv 1,1-3. Come ha chiarito Ernst
Käsemann, che ha riconosciuto attivo nel Prologo un docetismo ingenuo,
l’aspetto della manifestazione apocalittica della gloria divina in Cristo pre-
vale nettamente rispetto a quello dell’incarnazione reale e kenotica del Lo-
gos nell’uomo Gesù, sicché il Prologo culminerebbe in 1,14b, piuttosto che
in 1,14a, come sostenuto da Bultmann53. b) L’evento battesimale al Gior-

ciò fu quando lo Spirito discese (1,32) – niente fu più necessario dal punto di vista
salvifico. Una tale concezione può essere collegata alla posteriore tesi mandea:
“Quando venni, io l’inviato dalla Luce… venni con il segno (di olio?) su di me e
con il battesimo” (Diritto Ginza 2.62.10-14; Lidzbarski, pp. 57-78). L’autore [il
presbitero] sta negando la tesi che la venuta di Gesù nel battesimo fosse sufficien-
te ed egli sta insistendo che Gesù Cristo, il Figlio di Dio, venne completamente
come Salvatore del mondo (1Gv 4,14) solo tramite la sua morte quando servì da
riparazione per tutto il mondo (2,2). Non è chiaro che cosa l’autore della lettera
voglia dire affermativamente riguardo alla venuta nel battesimo, ma sicuramente
egli non si preoccupa di metterla in risalto» (R.E. Brown, Le Lettere di Giovanni…,
786-787). Comunque, Brown continua a presentare la dottrina dell’incarnazione
del Logos al Giordano/battesimo come tesi soltanto plausibile, non escludendo
esplicitamente quella tradizionale dell’incarnazione in Maria.
53 «È impossibile non scorgere il pericolo che minaccia la sua cristologia della glo-
ria; è il rischio del “docetismo”, che si presente in una forma ingenua e non è an-
cora riconosciuto come pericolo… Giovanni non ha saputo esprimersi altrimenti
148 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

dano viene di fatto rimosso, perché evidentemente non funzionale all’esal-


tazione di Gesù, essendo connesso all’escatologica manifestazione elettiva
dello Spirito sul profeta/unto/Cristo di Dio, vantata dagli stessi gruppi che
riconoscevano Giovanni il Battista come il profeta escatologico (identifi-
cato con lo stesso messia atteso?), evidentemente in rapporto di rivalità
con la comunità giovannea gesuana. Nel Prologo, il Battista riconosce la
preesistenza del Logos, quindi la superiorità di Cristo rispetto al possesso
battista dello Spirito, che in 1,32-34 (frammento anteriore al Prologo) è
comunque attribuito unicamente a Gesù, sottolineando come discende su
di lui, ma per permanervi definitivamente (l’aggiunta del μένειν è una pri-
ma indicazione dell’esaltazione di Gesù rivale nei confronti della pretesa

che nella forma di un docetismo ingenuo» (E. Käsemann, L’enigma del Quarto
Vangelo…, 37). Infatti: «Nel quarto vangelo la gloria di Gesù domina fin da prin-
cipio l’intera presentazione, tanto che l’inserimento della storia della passione
costituisce inevitabilmente un problema. Eccettuati i pochi accenni che la antici-
pano, la passione di Gesù compare solo alla fine del Vangelo. Si potrebbe quasi
dire che la passione costituisca un’aggiunta, perché, se da una parte Giovanni non
la poteva tralasciare, dall’altra non la poteva neppure inserire in modo organico
nel suo vangelo con la forma che essa aveva ricevuto dalla tradizione» (20). «La
dichiarazione che la Parola è stata fatta carne vuol veramente dire qualcosa di più
del fatto che egli è disceso nel mondo degli uomini, che è venuto a contatto con
ciò che è terreno e che quindi è stato possibile un incontro diretto con lui? Tutto
questo non è forse subordinato all’altra dichiarazione: “Abbiamo contemplato la
sua gloria”, da cui soltanto riceve il suo contenuto» (22). Conseguentemente, la
morte [di Gesù] è la manifestazione dell’amore divino che si dà e il ritorno vit-
torioso dal mondo straniero al Padre che lo ha mandato» (23), sicchè «Giovanni
comprende l’incarnazione come proiezione della gloria della preesistenza e la
passione come ritorno in essa» (31). In questa prospettiva, che condivido, cf. le
limpide pagine di R.E. Brown, La comunità dei discepolo prediletto…, 136-139;
in part.: «Il Gesù giovanneo non ha l’aspetto di una vittima durante la passione…
L’idea del sacrificio ha ceduto il passo a quella della rivelazione, come esprime
chiaramente T. Forestell, The Word of the Cross: Salvation as Revelation in the
Fourth Gospel, Istituto Biblico, Roma 1974, 191: “La croce di Cristo in Gv viene
valutata precisamente in termini di rivelazione in armonia con la teologia di tutto
il Vangelo, invece che in termini di sacrificio vicario ed espiatorio per i peccati”…
La morte fisica di Gesù non ha alcuna particolare importanza se non come mani-
festazione della doxa» (137-139); cf. R.E. Brown, Giovanni…, 914-918. Al con-
trario, per il prevalere nel Prologo di una prospettiva antidocetistica, centrata su
1,14, oltre ai lavori sopra citati di Theobald, cf. W. Loader, Jesus in John’s Gospel.
Structure and Issues in Johannine Christology, Eerdmans, Grand Rapids 2017,
373-392. Per una valutazione sistematica della questione docetistica, a partire
dalla polemica attestata in 1Gv, cf. W. v. Heyden, Doketismus und Inkarnation.
Die Entstehung zweier gegensätzlicher Modelle von Christologie, Narr Francke
Attempto Verlag, Tübingen 2014, 3-216.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 149

del possesso dello Spirito da parte del Battista): evidentemente il Prologo


riflette l’esigenza di un innalzamento ulteriore dell’identità di Gesù rispetto
a una cristologia “adozionistica” della permanenza definitiva dello Spirito
su Gesù, ultimo e supremo “figlio di Dio”, attestata anche, come vedremo,
dal Vangelo dei “Nazarei” o dal corpus pseudo-clementino.
Rivelativi di quest’innalzamento protologico e ontologico dello Spirito,
operato dal Prologo, sono Gv 3,1-21 (il colloquio di Gesù con Nicode-
mo) e 3,27-36 (l’ultima testimonianza del Battista nei confronti di Cristo
“sposo”)54: vi viene esaltato il Figlio dell’Uomo che discende dal cielo,
che è l’Unigenito del Padre, la Luce venuta nel mondo, il Cristo che dona
davvero lo Spirito senza misura, quindi la Vita eterna. Ebbene, Cristo, in-
nalzato e glorificato sulla croce, è qui contrapposto al Battista e a ciò che
viene dalla terra (quindi a ciò che è naturale), incapace di donare lo Spirito
che viene dall’alto55. Per la salvezza non basta, pertanto, l’acqua del batte-
simo, seppure questo rimane il presupposto sacramentale delle stesse co-
munità gesuane, stabilito da Gesù stesso (cf. Gv 3,22-26; 4,1), né soltanto
un generico possesso dello Spirito, ma è necessario il dono dello Spirito di
Gesù Cristo, dell’Unigenito, della sola Luce che dà Vita eterna. Ora, il IV
vangelo connette il dono dello Spirito di Gesù al suo sacrificio “pasquale”,
come testimonia già Gv 1,29 (ove egli è presentato dal Battista come il
sacrificale agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, con riferimento
al Servo sofferente del deutero-Isaia)56 e come suggerisce simbolicamente
il miracolo di Cana. D’altra parte, l’insistenza della più tarda 1Gv sulla
proclamazione che la salvezza non deriva solo dall’acqua, ma dall’acqua e
dal sangue57, sembra radicalizzare polemicamente il riconoscimento della
dipendenza della salvezza dalla morte di Gesù sulla croce, quando dal suo

54 Per una convincente analisi del rapporto di Gv 3,31-36 come ipertesto dell’ipote-
sto Gv 3,1-21, cf. J. Zumstein, Il vangelo secondo Giovanni…, I, 169-181.
55 Sull’opposizione relativa tra Gesù celeste e Giovanni terreno, che riconosce colui
che viene dall’alto e a lui rinvia sottomettendoglisi, quindi senza opporglisi asso-
lutamente, cf. R.E. Brown, Giovanni…, 212-215.
56 Cf. R.E. Brown, Giovanni…, 77-84.
57 «Questi [il Figlio di Dio] è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo;
non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende
testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono
testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue e questi tre sono concordi… E la
testimonianza è questa: Dio ci ha dato la vita eterna e questa vita è nel suo Fi-
glio» (1Gv 5,6-8 e 11). Probabilmente, il testo è da leggere in connessione con Gv
19,34; cf. R.E. Brown, Le lettere di Giovanni…, 780-789; e 124-128.
150 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

costato discendono acqua e sangue58, ovvero il dono dello Spirito di Gesù


recepito tramite l’inserimento battesimale nella comunità pneumatica. Co-
munque, il riferimento alla crocifissione, quindi anche all’agnello, è fina-
lizzato alla glorificazione del Figlio: come vedremo, la passione sino alla
morte di Gesù coincide con il suo innalzamento! Soltanto l’innalzamento
della cristologia, paradossalmente operato tramite il riferimento alla cro-
cifissione del Figlio dell’Uomo disceso dal cielo come sua restituzione al
cielo, riuscirà a garantire uno scarto assoluto rispetto a una “cristologia”
rivale battista.

5. Il battesimo di Gesù messo “fuori gioco” e l’innalzamento antibatti-


sta della cristologia gesuana

Ma torniamo alla rimozione giovannea del battesimo di Gesù. Tutti e


quattro i vangeli canonici testimoniano che la missione di Gesù ha preso
avvio da un’esperienza carismatica o da una rivelazione/visione celeste,
ricevuta in connessione con i riti battisti di Giovanni al Giordano59. È del
tutto evidente che il IV vangelo conosce, ma ritratta radicalmente la noti-
zia, attestata dai tre sinottici, oltre che trasmessa come dato storico nelle
diverse tradizioni delle comunità gesuane60. Se, infatti, Giovanni condivide

58 Cf. Gv 19,34. Su Cristo trafitto, cf. il notevole commento a Gv 19,31-37 di J.


Zumstein, Il vangelo di Giovanni…, II,905-912, il quale fa comunque culminare
la scena nell’atto del «vedere» credente dei discepoli di Gesù, evocato tramite
la citazione di Zaccaria 12,10 (cit. in Gv 19,37) e connesso al glorioso (più che
patico) innalzamento sulla croce di Cristo in Gv 3,14 e 12,32-33.
59 Cf. le equilibrate conclusioni di J.D.G. Dunn, Jesus and the Spirit. A Study of
the Religious and Charismatic Experience of Jesus and the First Christians as
Reflected in the New Testament, SCM, London 1975, Eerdmans, Grand Rapids
19972, 53-67.
60 Cf. M. Hengel, La questione giovannea…, 165: «Il vangelo di Marco che, al pari
di Giovanni, non ha una preistoria biografica e non conosce la nascita verginale,
ma parla invece della venuta dello Spirito sotto forma di colomba e dell’adozione
di Gesù come Figlio di Dio al momento del battesimo, lo fa in modo molto più
preciso di Giovanni, per il quale il racconto diventa accettabile solo con l’in-
troduzione di Giovanni Battista come testimone». «Il narratore sembra dare per
nota ai lettori la scena del battesimo di Gesù secondo quanto attestato nei vangeli
sinottici (cf. Mc 1,9-11 e paralleli). Procede a una completa riscrittura dell’epi-
sodio, ormai incentrato sulla discesa dello Spirito e sulla persona di Gesù. In tal
modo introduce uno scarto fra la concezione tradizionale del battesimo di Gesù
e l’interpretazione che egli intende offrirne… A differenza dei sinottici (cf. Mc
1,10 e paralleli), la discesa dello Spirito su Gesù non è legata a un atto battesima-
le amministrato da Giovanni, ma è oggetto di una visione (τεθέαμαι). Giovanni
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 151

con Luca l’omissione della descrizione del battesimo di Gesù per mano del
Battista, d’altra parte, a differenza di Luca, arriva addirittura a censurare la
notizia di un battesimo di Gesù. Questa censura è, effettivamente, eclatante
e il tentativo, frequente presso i critici, di cercare di recuperare l’evento del
battesimo di Gesù a partire dalle oblique affermazioni di Gv 1,32-34 è non
soltanto arbitrario, ma persino fuorviante, in quanto finisce per rimuovere
del tutto la questione davvero massima, anzi capitale del perché il IV van-
gelo abbia introdotto una così rilevante messa tra parentesi di una notizia
storica unanimemente attestata61.
Infatti, secondo «il criterio di imbarazzo», prova della storicità dell’e-
vento del battesimo di Gesù è la stessa aspra difficoltà teologica che la sua
subordinazione al potere purificatorio del Battista comporta62, una volta
identificato Gesù con l’escatologico e salvifico Figlio di Dio, fosse egli
restituito come Vero Profeta, nuovo/ultimo Adamo, Messia/Cristo, Figlio
di Dio prediletto, Figlio dell’uomo, Sapienza, Potenza di Dio, Nome, “Io
Sono”, Logos/Luce/Vita, Unigenito, etc…. Se Gesù è l’uomo perfetto, l’e-

non interviene nel suo ruolo tradizionale di “battezzatore”, ma nella sua funzione
giovannea di testimone. Teologicamente questo vuol dire che la dignità del Gesù
giovanneo non è stabilita dal battesimo che Giovanni gli avrebbe dispensato, ma
che al contrario l’effusione dello Spirito, indipendente da qualsiasi azione del
Battista, è il segno di una dignità di origine trascendente» (J. Zumstein, Il Vange-
lo secondo Giovanni…, I,104 e 109). È metodologicamente opportuno ricordare
questa rigorosa precisazione di R.E. Brown, La nascita del Messia…: «Con le
normali regole delle testimonianze bibliche si può ritenere che Gesù fu di fatto
battezzato da Giovanni Battista, ma non possiamo sapere quanto venne rivelato
in quella circostanza riguardo a che cosa e a chi, neppure realmente se i cieli si
aprirono, se una voce si fece udire dall’alto e una colomba discese» (978). La
restituzione narrativa del battesimo di Gesù è creazione di ciascuno degli evange-
listi, che ovviamente retroproiettano sul battesimo le loro diverse interpretazioni
cristologiche.
61 «Si on ne connaissait l’événement grâce à une autre tradition (synoptique), la
vision johannique ne laisserait deviner à personne que Jésus s’est fait baptiser par
Jean» (M. Theobald, Le Prologue et ses lecteurs implicites…, 214). «Auch daß
die Taufe Jesu durch Johannes verschwiegen wird, ist ein deutliches Zeichen für
solche Polemik [quella relativa all’interpretazione del battesimo all’interno della
comunità giovannea]» (M. Theobald, Die Fleischwerdung des Logos…, 280). Ri-
tengo che la “rimozione” del battesimo dipenda comunque non da una polemica
intragiovannea (come ritiene Theobald), ma soprattutto da una polemica della
comunità gesuana contro quella del Battista.
62 Cf. Cf. J.P. Meier, A Marginal Jew. Rethinking the Historical Jesus. Vol 2: Mentor,
Messages, and Miracles, Doubleday, New York 1994, tr. it. Un ebreo marginale.
Ripensare il Gesù storico. 2: Mentore, messaggio e miracoli, Queriniana, Brescia
2002, 20032, 167-168.
152 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

letto recettore/vettore dello Spirito divino, come mai deve ricevere da un


altro o per mediazione di un altro il decisivo lavacro escatologico, quindi
lo stesso dono dello Spirito? In effetti, la diminuzione protocristiana del
battesimo di Giovanni Battista, ridotto a mero rito lustrale “d’acqua” pro-
pedeutico al vero battesimo nello Spirito che sarebbe stato impartito da un
altro atteso, non regge affatto: in realtà se il battesimo giovanneo preten-
deva di togliere il peccato63, non poteva non pretendere di trasmettere il
salvifico Spirito di Dio, per di più se Giovanni aveva scelto di situare la sua
predicazione presso il Giordano, “porta del cielo” ove Elia ascende a Dio
e il suo Spirito discende su Eliseo (cf. 2Re 2,1-15)64. Impartendo un rito
irripetibile d’iniziazione ultima e di definitiva remissione dei peccati, non
riducibile a periodica purificazione lustrale65, Giovanni si considerava evi-
dentemente l’eletto mediatore dello Spirito, il profeta/vettore carismatico
proteso verso il giudizio ultimo, immediatamente conseguente al ritorno di
Elia o del messia (forse si identificava con l’uno o con l’altro?) e introdut-
tivo al regno escatologico66.
Gesù stesso, in effetti, facendosi battezzare da Giovanni al Giordano,
ha riconosciuto il suo carisma superiore, divenendo suo discepolo. Allora,
inizialmente almeno, Gesù ha pensato che Giovanni fosse il messia o il
nuovo Elia atteso? In tal caso, Gesù non deve aver riconosciuto, facendosi
battezzare da lui, la propria inferiorità nei confronti del Battista, quindi il
potere di remissione dei peccati e di trasmissione dello Spirito proprio di

63 «Egli [Giovanni Battista] ebbe alcune idee tremende: inventò il battesimo che
toglie i peccati (e la pericolosità rivoluzionaria di tale pratica, in quanto alterna-
tiva al sacrificio espiatorio, non dovrebbe essere sfuggita ai più intelligenti fra i
Giudei suoi contemporanei) nell’attesa della fine del mondo. Per questa fine egli
ritenne forse che sarebbe arrivato Qualcuno, la cui fisionomia ora ci sfugge, il
quale avrebbe operato in un momento escatologico quella rivoluzione che lui, il
Battista, stava operando nella storia. Costui non avrebbe, infatti, asperso il suo
popolo con uno Spirito effuso dall’alto, come avveniva con l’acqua di purifica-
zione e come era previsto dai profeti del passato, ma avrebbe immerso Israele,
battezzandolo nello Spirito di salvezza, come suggerisce Marco, o, più proba-
bilmente, nel fuoco (ovvero in uno Spirito che è fuoco), come indica Luca» (E.
Lupieri, Giovanni Battista nelle tradizioni sinottiche, Paideia, Brescia 1988, 118).
Ma come differenziare aspersione con lo Spirito e immersione nello Spirito?
64 «It is quite probable that it was John the Baptist who finally linked the eschatolo-
gical outpouring of the Spirit to the Messiah and who first spoke of the Messiah’s
bestowal of the Holy Spirit under the powerful figure, drawn from the rite which
was his own hallmark, of a baptism in Spirit-and-fire» (J.S.G. Dunn, Spirit-and-
Fire Baptism, in «Novum Testamentum» 14/2, 1972, 81-92, in part. 92).
65 Cf. J.P. Meier, Un ebreo marginale... 2: Mentore, messaggio e miracoli…, 99-107.
66 Sul rapporto tra il Battista ed Elia, cf. R.E. Brown, Giovanni…, 84-86.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 153

Giovanni? Questi, avendolo “purificato”, l’aveva evidentemente iniziato


alla fruizione dello Spirito escatologico, inserendolo nella comunità esta-
tica dei salvati, che attendeva l’imminente giudizio apocalittico di Dio67.
Certo, tutti i sinottici collegano il battesimo di Gesù nel Giordano alla ma-
nifestazione del suo singolarissimo rapporto filiale con Dio, che coincide
con una personale e del tutto eccezionale esperienza visionaria: Gesù vede
i cieli aprirsi e discendere lo Spirito d’elezione su di lui68. Storicamente,
quest’esperienza estatica, interpretata dai suoi discepoli come superiore
vocazione messianica (conseguentemente negata al Battista), potrebbe es-
sere avvenuta persino dopo l’arresto del Battista; comunque, essa dev’es-
sere stata successiva a un’esperienza recettiva di conversione penitente e
confessione dei peccati, che aveva collocato Gesù in una dimensione “infe-
riore”, probabilmente di discepolato, rispetto a quella del Battista. Insom-
ma, i racconti sinottici del battesimo finiscono per ricapitolare in un’unica
scena (che di fatto contrae, seppure in modi diversi, la stessa “deposizione”
della pretesa carismatica superiore del Battista) ciò che invece si è storica-
mente dispiegato in fasi diverse69.
Ebbene, diverse sono state le strategie dei vangeli canonici per “neu-
tralizzare” la scandalosa memoria storica del battesimo di purificazione
impartito dal Battista a Gesù. Mt 3,13-15 introduce il riconoscimento im-
mediato della messianicità di Gesù da parte del Battista: di fatto assente in
Marco, questo riconoscimento è “inventato” da Matteo, traslato da Luca
nel ventre di Elisabetta, invece sistematicamente ampliato da Giovanni, sin
dal Prologo. Proprio perché l’essere battezzato è segno di “inferiorità” cari-
smatica, Matteo rovescia il rapporto gerarchico: Giovanni si dichiara infe-
riore a Gesù, chiedendogli di essere battezzato, quindi di ricevere da chi gli

67 Per una ricostruzione delle diverse fasi attraverso le quali il polimorfo gruppo
giovannista gesuano, che pure è in debito strutturale nei confronti di discepoli di
Giovanni Battista, è approdato a un atteggiamento critico, infine a un distacco nei
confronti della purificazione battista, cf. l’eccellente ricostruzione di M. Pesce,
Da Gesù al cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2011, in part. 181-184: al bat-
tesimo giovanneo il IV vangelo finisce per contrapporre la «rinascita dall’alto»,
cioè un nascere direttamente da Dio mediante lo Spirito, che è quello che è donato
dal Logos, la Parola creatrice che abita nella carne di Gesù. Ma come la pretesa
giovannista gesuana di questa superiore recezione carismatica si conciliava con il
mantenimento di pratiche battiste?
68 Cf. Mc 1,10; Mt 3,16; Lc 3,21-22; i passi sono da leggere in connessione con
Ezechiele 1,1: «Il cinque del quarto mese dell’anno trentesimo, mentre mi trovavo
fra i deportati sulle rive del canale Chebàr, i cieli si aprirono ed ebbi visioni divine
(sec. LXX: ἠνοίχθησαν οἱ οὐρανοί, καὶ εἶδον ὁράσεις θεοῦ)».
69 Cf. J.P. Meier, Un ebreo marginale... 2: Mentore, messaggio e miracoli…,
136-155.
154 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

è superiore purificazione/iniziazione carismatica. Eppure, Gesù costringe


al rito Giovanni, per «adempiere ogni giustizia», cioè per mostrare la sua
umile sottomissione al volere del Padre, prefigurando, quindi, la kenosis
della sua passione70. Assai meno elaborato risulta il racconto di Marco:
ambiguamente il Battista proclama l’imminente avvento di «uno che è più
forte di me e al quale io non sono degno di chinarmi per sciogliere i legacci
dei suoi sandali», profetizzando che questi «vi battezzerà con lo Spirito
Santo» (1,7-8); ma subito dopo, quando è descritto il battesimo di Gesù, il
Battista non gli riferisce in alcun modo la realizzazione della sua profezia,
sicché, analogamente a Matteo e Luca, la visione del cielo aperto è de-
scritta come esperienza privata di Gesù. Sicché, in Mc, il Battista pare non
riconoscere, in quel Gesù che sta battezzando, l’atteso “che è più forte” di
lui. Luca, invece, risolve la questione assai più drasticamente, rimuovendo
il rapporto diretto tra i due in occasione del battesimo di Gesù al Giordano.
In Lc 3,19-21, il Battista è già in prigione, ormai “fuori gioco”, quando,
senza nemmeno nominare Giovanni, viene evocato il battesimo di Gesù
in termini quasi liquidatori, sicché visione del cielo aperto, discesa dello
Spirito in forma di colomba, voce dal cielo sono restituiti come esperienze
del tutto singolari di Gesù, sì prossime, ma niente affatto immediatamente
connesse alla recezione gesuana del battesimo, comunque non direttamen-
te mediata dal Battista71, che comunque non aveva affidato a suoi discepoli
il compito di battezzare72.

70 «In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi bat-
tezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: “Io ho bisogno di
essere battezzato da te e tu vieni da me?”. Ma Gesù gli disse: “Lascia fare per ora,
poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia”. Allora Giovanni acconsentì.
Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide
lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce
dal cielo che disse: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compia-
ciuto”» (Mt 3,13-17).
71 «[Erode] fece rinchiudere Giovanni in prigione. Avvenne che, quando tutto il po-
polo fu battezzato (Ἐγένετο δὲ ἐν τῷ βαπτισθῆναι ἅπαντα τὸν λαὸν) e mentre
Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera (Ἰησοῦ βαπτισθέντος
καὶ προσευχομένου), il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza
corporea, come di colomba (ἀνεῳχθῆναι τὸν οὐρανὸν καὶ καταβῆναι τὸ πνεῦμα
τὸ ἅγιον σωματικῷ εἴδει ὡς περιστερὰν ἐπ' αὐτόν), e vi fu una voce dal cielo
(καὶ φωνὴν ἐξ οὐρανοῦ γενέσθαι): “Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono
compiaciuto (Σὺ εἶ ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός, ἐν σοὶ εὐδόκησα)”» (Lc 3,19-22).
72 Cf. J.P. Meier, Un ebreo marginale... 2: Mentore, messaggio e miracoli…, 102-
103; 111-112.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 155

Giovanni è, in effetti, ancora più radicale73: inverte la strategia di Luca,


affidando un ruolo-chiave al Battista, ma mettendo fuori gioco o comunque
del tutto fuori scena il battesimo stesso, casomai presupposto, in ogni caso
taciuto perché scomodo e fuorviante74. Sottolineo, comunque, che la messa

73 «Desta una certa meraviglia il fatto che nel quarto Vangelo si trovi una gran quan-
tità di dichiarazioni in forma negativa nei confronti di Giovanni Battista… Nessu-
no dei Vangeli sinottici assume un atteggiamento di riserva altrettanto spinto nei
confronti di Giovanni Battista, né può vantare una serie così ampia di dichiarazio-
ni negative» (R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 79-80). «Gio-
vanni ha eliminato dal suo racconto dell’episodio [del battesimo di Gesù] tutti
gli aspetti del battesimo di cui i seguaci del Battista si sarebbero potuti gloriare»
(R.E. Brown, Giovanni…, 86). Direi, piuttosto: ha eliminato il battesimo stesso.
74 «Giovanni è l’unico dei quattro Vangeli a non descrivere il battesimo di Gesù»
(R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 136); «Il vangelo di Gio-
vanni non descrive mai il battesimo di Gesù e non dice mai che Giovanni il Bat-
tista lo battezzò (al massimo, ciò è implicito in 1,31-32)» (R.E. Brown, Le lettere
di Giovanni…, 786). Rivelative le oscillazioni di molti studiosi; pur sottolineando
come manchi in Giovanni «la scène même du Baptême qu’il [il Battista] confère à
Jésus (Mc 1,10-11)», Boismard parla di «théophanie du baptême», concludendo,
piuttosto contraddittoriamente: «on a l’impression que, pour lui [l’evangelista],
l’activité baptismale de Jean n’avait d’autre but que de permettre le baptême de
Jésus et la théophanie qui l’a accompagné» (M.-É. Boismard, Du Baptême à Cana
(Jean, I,19-2,11), Cerf, Paris 1956, 64); cf. 66: la messianicità di Gesù sarebbe
manifestata in occasione del battesimo impartitogli dal Battista. Boismard, infatti,
forza la prospettiva giovannea a convergere con quella dei sinottici, restituendo
comunque un bilancio del tutto approssimativo: «Mt et Lc ne diffèrent pas de Jo:
au jour du baptême, Jésus est manifesté aux foules comme étant le Messie» (66).
«Giovanni si presenta come un testimone oculare: “Io ho veduto”, dice. Ciò che
egli ha veduto richiama immediatamente al lettore l’episodio del battesimo di
Gesù. D’accordo con i sinottici, l’evangelista suppone indubbiamente che Gesù è
stato battezzato da Giovanni, ma egli si colloca al termine di un’evoluzione della
tradizione relativa a quest’avvenimento… Nel quarto vangelo non è conservato
più nulla del rito applicato a Gesù: si può soltanto dedurre il fatto dal testo… Il
testo allude al battesimo, senza dubbio; ma dell’evento è rimasto soltanto l’essen-
ziale, la discesa dello Spirito» (X. Leon-Dufour, Lecture de l’Évangile selon Jean.
Tome I, Seuil, Paris 1988, tr. it. Lettura del vangelo secondo Giovanni (capitoli
1-4), Paoline, Cinisello Balsamo 1990, 249-250). Oltre alle deludenti pagine di R.
Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…, I,420-423, segnalo queste affermazioni
a mio avviso infondate di R.T. Fortna, The Fourth Gospel and Its Predecessor,
Fortress, Philadelphia 1988, T&T Clark, London-New York 20042: «John will
baptize only Jesus, and alone will describe [in Gv 1,32-34] for us that event» (19);
«It is of course for baptism that Jesus comes to John» (20); cf. 32-34. Anziché
evidenziare le anomalie del IV vangelo, Fortna ne colma le lacune tramite inte-
grazioni attinte dai sinottici. Piuttosto, riferendosi a Gv 1,33, pur interpretando
il passo, a mio avviso infondatamente, come attestazione del battesimo di Gesù,
scrive E. Lupieri, Giovanni e Gesù. Storia di un antagonismo…: «Questa frase è
156 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

“fuori gioco” del battesimo di Gesù a) non ricorra soltanto nel Prologo,
ove il Battista proclama la sua testimonianza alla Luce, riconoscendo la
superiore, divina provenienza del Messia che vede venire, ma mai connet-
tendola al rito battesimale; ma b) sia replicata in Gv 1,32-34, ove il Battista
proclama di avere visto lo Spirito discendere su Gesù, ma di nuovo senza
fare riferimento alcuno al suo battesimo. Eppure, Giovanni amplifica enor-
memente il ruolo di testimone diretto del Battista, sicché la celeberrima
espressione giovannea, «Egli deve crescere e io invece diminuire (ἐκεῖνον
δεῖ αὐξάνειν, ἐμὲ δὲ ἐλαττοῦσθαι)» (Gv 3,30), risulta essere il rovescia-
mento dell’originario dato storico (l’iniziale dipendenza carismatica di
Gesù da Giovanni), che essa stessa evidentemente presuppone.
Dopo gli studi di Bultmann, Culmann, Boismard, Brown75, è ormai ac-
quisita la tesi dell’esistenza di una componente di discepoli del Battista,
poi credenti in Gesù e confluiti molto precocemente (cf. Gv 1,35-44) all’in-
terno della comunità giovannea gesuana, che, nella sua prima fase, condi-
videva una prospettiva cristologica «relativamente bassa»76. La I fase della
storia della comunità giovannea gesuana, proposta da Brown, è quindi ca-
ratterizzata da una componente giudaica, nella quale confluiscono anche
ex-discepoli del Battista, di cui il cosiddetto «discepolo prediletto» (forse

anche l’unico accenno del quarto Vangelo al battesimo ricevuto da Gesù, accenno
tanto indiretto che, se non conoscessimo i sinottici, saremmo autorizzati a dubita-
re dell’esistenza di una tradizione protocristiana relativa a tale momento della vita
di Gesù. La discesa dello Spirito sul Cristo giovanneo, svincolata il più possibile
dal contesto battesimale, non è né una proclamazione ufficiale della figliolanza
di Gesù né un momento di una sua presa di coscienza né un’unzione profetica:
queste sono tutte cose di cui il Verbo di Dio non ha bisogno» (49). Anche Mar-
cione, che pure si sofferma sul Battista, cancella la notizia tradizionale del batte-
simo da lui somministrato a Gesù: cf. A. Camplani, John the Baptist According
to Marcion’s Gospel and Early Syriac Texts, in J.H. Ellens, I.W. Oliver, J. Von
Ehrenkrook, J. Waddell, J.M. Zurawsci (edd.), Wisdom Poured Out Like Water:
Studies on Jewish and Christian Antiquity in Honor of Gabriele Boccaccini, De
Gruyter, Berlin-Boston 2018, 556–574, in part. 564, ove si mette in rilievo come
questa lacuna si spieghi con la volontà di tenere dualisticamente del tutto distinte
le due economie di salvezza, quella ancora demiurgica contrapposta a quella del
tutto estranea al mondo di Gesù.
75 Per un’ardita interpretazione stratigrafica del IV vangelo, dipendente dall’evo-
luzione storica della comunità giovannea, mi limito a segnalare il capolavoro di
M.-E. Boismard e A. Lamouille, Synopse des Quatre Evangiles en français, III:
L’Evangile de Jean, Cerf, Paris 1977; per una sintetica, ma profonda analisi delle
più rilevanti teorie sull’evoluzione della comunità giovannea, della sua teologia
e della scrittura e della riscrittura del vangelo, cf. R.E. Brown, La comunità del
discepolo prediletto…, 203-216.
76 Cf. R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 24.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 157

identificabile con il discepolo innominato di Gv 1,35-40) potrebbe essere


considerato l’elemento di spicco77. La decisiva II fase della storia della co-
munità giovannea è, per Brown, caratterizzata dall’ingresso di una creativa
componente samaritana, responsabile dell’innalzamento della cristologia,
confessante la divinità preesistente di Cristo78. All’evoluzione etnica e cul-
turale della comunità corrisponderebbe l’evoluzione del IV vangelo, testi-
monianza stratigrafica di una cristologia in progress. Proprio la rilevan-
za della componente ex-battista all’interno del gruppo in fieri giovanneo
spiegherebbe la straordinaria rilevanza riconosciuta al Battista nella tarda
redazione del IV vangelo, quindi la stessa sistematica strategia della sua
subordinazione a Gesù, infine proclamato, grazie al contributo teologico
samaritano (?), come Dio preesistente, l’Unigenito del Padre. Evidente-
mente, la comunità battista riconosceva in Giovanni il profeta (Elia redi-
vivo?) o il messia atteso79, forse, secondo Bultmann, persino la Luce pre-
esistente identificata con il Logos di Dio, che sarebbe stata l’oggetto della
proclamazione del Prologo precristiano esaltante il Battista80. Mi pare,
comunque, assai più convincente la tesi di Brown: la rivalità gesuana ri-
spetto all’originaria comunità giovannea non si tradurrebbe nel parassitario
slittamento della preesistente “cristologia” protognostica della Luce dalla
figura di Giovanni a quella di Gesù, ma nell’innalzamento dell’identità di
Gesù, seppure io non ritenga che esso sia stato introdotto quando la comu-

77 Cf. R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 31-36.


78 Cf. R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 36-53.
79 Cf. E. Lupieri, Giovanni e Gesù…, 122-127. La testimonianza più rilevante della
pretesa messianica del Battista è quella (polemica) di Pseudo-Clemente, Recogni-
tiones I,60; cf. anche la più complessa “notizia” di Pseudo-Clemente, Homiliae
II,23-24 (Giovanni è un emerobattista, Simon Mago il suo discepolo prediletto,
Elena una sua “mezza” discepola, Dositeo il primo sucessore di Giovanni alla
testa dei suoi ventinove e “mezza” discepoli). Discorso a parte meriterebbe la
stratificata selva testuale mandea. La rivalità tra Gesù e il Battista è notoriamente
attestata da molti testi gnostici; qui mi limito a segnalare La testimonianza veri-
tiera = Nag Hammadi Codex [IX, 3], in particolare 30,17-31,5, ove il Battista è
identificato con «l’Arconte dell’utero», quindi dell’acqua del Giordano, simboli
de «la concupiscenza del rapporto sessuale» e della «potenza del corpo», mentre
Gesù è identificato con «il Figlio dell’Uomo» disceso «dall’Incorruttibilità». Il
Battista è l’unico testimone della discesa del Figlio dell’Uomo «sopra il fiume»
(cf. 30,25-27 – identificato con la Luce (cf. 30,15) e il Logos (cf. 31,6-8; 40,4;
40,12) trascendenti –, che provoca il ritirarsi all’indietro del Giordano stesso. Cf.
38,22-40,4.
80 «Egli [il Battista] non era la luce (οὐκ ἦν ἐκεῖνος τὸ φῶς), ma doveva rendere
testimonianza alla luce (ἀλλ’ ἵνα μαρτυρήσῃ περὶ τοῦ φωτός)» (Gv 1,8): evidente,
in questo passo, l’emergere di una pretesa rivale, risolta a favore di Gesù. Davve-
ro, illum oportet crescere, me autem minui (3,30).
158 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

nità giovannea accoglie in sé elementi samaritani81. Ricapitolando: Gesù


da profeta escatologico sul quale al Giordano si posa lo Spirito, quindi da
Elia redivivo – così come presumibilmente era stata salutata la figura di
Giovanni, identificata con l’escatologica “luce” messianica profetizzata da
Isaia 9,1 –, diviene colui nel quale discende/si manifesta lo stesso Logos di
Dio, la Luce/Gloria principale, rispetto alla quale il profetismo carismatico
del Battista risulta del tutto inferiore82.
Occorre, allora, “sfidare” e sottomettere il Battista sulle rive stesse del
Giordano, luogo tradizionale nel quale il cielo si apre e lo Spirito discende:
essendo tradizionalmente il battesimo la descrizione della nascita caris-
matica o comunque della manifestazione della filialità messianica di Gesù,
il IV vangelo sente la necessità di esaltare oltre la comune identità ca-
rismatico-profetica l’identità di Gesù, collocando la genesi della filialità
altrove, nell’eterna intimità di Dio, che è il Luogo della generazione e della
manifestazione dell’unicità della filialità del Logos incarnatosi in Gesù,
quindi assolutamente trascendente rispetto a quella dei comuni “figli di

81 Ritengo, infatti, che il convincimento storiografico dell’esistenza di una cristolo-


gia alta samaritana sia frutto dell’influenza di un dispositivo eresiologico, ancora
influente sulla storiografia protocristiana: esso deforma e demonizza il messia-
nismo rivale samaritano di “Simon Mago”, condannandolo per la sua perver-
sa intenzione di “farsi dio”; ne deriva la forzata identificazione di Simone con
l’“inventore” demoniaco della gnosi, che attesterebbe una cristologia alta alterna-
tiva rispetto a quella protocristiana. Cf. G. Lettieri, Materia mistica…, cap. III, «Il
corpo di Dio. La mistica erotica del Cantico dei cantici dal Vangelo di Giovanni ai
Padri», par. 3: «Il dilemma samaritano. Simon Mago ed Elena/Luna: una coppia
equivoca». Ricordo, comunque, come per la tradizione pseudo-clementina non
soltanto la comunità del Battista avrebbe rivendicato la messianicità di Giovanni
contro quella di Gesù (cf. Pseudo-Clemente, Recognitiones I,54; I,60), ma anche
che Simon Mago sarebbe stato il discepolo di Dositeo, successore del Battista (cf.
Recognitiones II,8-12)! Cf. A. Camplani, John the Baptist According to Marcion’s
Gospel and Early Syriac Texts…, 565-567.
82 R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 36-53, fa corrispondere la
scoperta di una cristologia alta con l’ingresso di una forte componente samaritana
all’interno della comunità giovannea primitiva, nella quale già erano presenti sia
giudei ellenisti contrari alla centralità del Tempio, sia ex discepoli del Battista (tra
i quali il Discepolo prediletto, forse da identificare con l’innominato compagno
di Andrea in Gv 1,35-40: cf. R.E. Brown, La comunità del discepolo predilet-
to…, 31-36); cf. anche 29-30 e 79-81. Quando il IV vangelo attribuisce al Battista
confessioni solenni dell’identità divina preesistente di Gesù dimostra come la
cristologia alta fosse nata anche come decisiva prova della superiorità messianica
di Gesù nei confronti del suo antico maestro Giovanni, che in Gv 5,35 è identifi-
cato soltanto con «la lampada che arde e illumina», implicitamente contrapposta
a Gesù Dio, Luce e Gloria preesistenti.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 159

Dio”, dei profeti o messia/unti, da Mosè a Giovanni Battista, da Elia all’at-


teso “profeta grande come Mosè” (cf. Deut 18,15-18, che originerà l’attesa
samaritana del Taheb). Tutte le logiche teofaniche e messianiche giudai-
che sono ricapitolate e trascese nella proclamazione del precosmico venire
“alla luce” del Figlio eterno del Padre, che è comunque la retroproiezione
nell’intimità di Dio della generazione carismatica di Gesù quale Cristo/
Figlio prediletto/Spirito vivificante. Ciò che il IV vangelo vuole assicurare
è la tesi che il dono della filialità appartiene assolutamente a Gesù, senza la
mediazione di Giovanni, che pure l’ha battezzato. Per questo, il riferimento
al battesimo, seppure nascosto, non può essere del tutto cancellato, perché
collocazione storica tràdita dell’evento iniziale della missione di Gesù.
Eppure, il battesimo dev’essere riscritto, sin dal Prologo! In un iperbolico
innalzamento dell’apocalisse storica della filialità al Giordano, il Battista è
privato del suo potere carismatico battesimale e trasformato nel principale
e più grande “Teologo”, nel testimone eletto, ma passivo, che vede e pro-
clama, attonito, lo storico venire in Gesù del Figlio eternamente veniente
dal seno del Padre.
D’altra parte, la sconcertante eliminazione del riferimento esplicito al
battesimo e l’anomala cancellazione dell’«acqua» del Giordano dal Prolo-
go, così come da tutte le proclamazioni del Battista riferite alla teofania del
Figlio, si potrebbe spiegare con l’intenzione di mettere in ombra l’ultima
dimensione salvifica dell’acqua battesimale, certo riconosciuta come ne-
cessario sacramento iniziatico, tradizionale rito introduttivo alla comunità
gesuana, eppure non sufficiente, perché evidentemente comune a diverse
comunità escatologiche carismatiche (come quella battista o, altrove, quel-
la samaritana “simoniana”), quindi non specificatamente caratterizzante la
fruizione salvifica dello Spirito di Cristo83.

83 Cf. Gv 3,5: «“In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito,
non può entrare nel regno di Dio”»; evidentemente il dono dello Spirito è attingi-
bile unicamente all’interno della comunità carismatica, cui soltanto il battesimo
nel nome di Gesù introduce: «Birth by the Spirit, however inexplicable and my-
sterious, is not a matter simply of the individual heart. It is tied up with “water”,
which means entrance into the community through baptism» (Ch. H. Cosgrove,
The Place where Jesus is: Allusions to Baptism and the Eucharist in the Fourth
Gospel, in «New Testament Studies» 35/4, 1989, 522-539, in part. 531). Cf. Gv
3,22, ove si dichiara che Gesù stesso battezzava, insieme con i suoi discepoli (cf.
R.E. Brown, Giovanni…, 204-205: si tratterebbe di testimonianza storicamente
assai attendibile); in 4,2, invece, si specifica come in Samaria non Gesù, ma solo
i suoi discepoli battezzassero. Lo stesso miracolo di Cana in 2,6-11, con le sei
giare di pietra che per ordine di Gesù vengono nuovamente riempite di acqua, poi
trasformata miracolosamente in vino, presuppone probabilmente un riferimento
160 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

6. Una visione in flashback: le testimonianze del Battista in Giovanni


1,19-37

Ma procediamo gradualmente, cominciando dai versetti immediatamen-


te successivi al Prologo (Gv 1,19-28), che mettono in scena il “primo gior-
no” della prima settimana della rivelazione salvifica: «in Betània, al di là
del Giordano, dove Giovanni stava battezzando» (Gv 1,28), questi, dopo
aver negato di essere il Messia, Elia, il Profeta atteso, rivela a sacerdoti
e leviti la sua identità di «voce di uno che grida nel deserto (Ἐγὼ φωνὴ
βοῶντος ἐν τῇ ἐρήμῳ)» (Isaia 40,3 in Gv 1,23), annunciando l’avvento del
Signore: «uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di scio-
gliere il legaccio del sandalo (ὁ ὀπίσω μου ἐρχόμενος, οὗ οὐκ εἰμὶ [ἐγὼ]
ἄξιος ἵνα λύσω αὐτοῦ τὸν ἱμάντα τοῦ ὑποδήματος)» (1,27). Il Battista,
pertanto, proclama l’avvento di chi è più grande di lui, del Cristo atteso
come «lo sposo di Israele»84, dicendo: «In mezzo a voi sta uno che voi non
conoscete (μέσος ὑμῶν ἕστηκεν ὃν ὑμεῖς οὐκ οἴδατε)» (1,26). Il particolare
è della massima importanza: Giovanni non indica affatto colui che ancora
noi non conosciamo, ma colui che sacerdoti e leviti ancora non conosco-
no85. Questo implica che Giovanni ormai conosce colui che gli emissari dei

positivo al battesimo, seppure salvifico unicamente se vivificato dallo Spirito


proprio di Cristo, con possibile riferimento al suo sangue. Sulla compresenza sal-
vifica tra acqua e sangue (battesimo ed eucarestia?), che fluiscono dal costato di
Cristo crocifisso, cf. 19,34. Sul rapporto tra acqua e Spirito, donato però dopo la
crocifissione di Cristo, cf. 7,37-39.
84 Cf. Gv 3,28-30. Sulla valenza sponsale dell’immagine del non poter sciogliere il
sandalo di Gesù da parte del Battista, che andrebbe spiegata a partire dalla legge
del levirato (il congiunto che si scioglieva il sandalo rinunciava al possesso della
vedova del fratello: cf. Deut 25,5-10; Ruth 4,7-8), cf. E. Lupieri, Giovanni Battista
nelle tradizioni sinottiche…, 29-30; e soprattutto P. Proulx e L. Alonso Schökel,
Las Sandalias del Mesías Esposo, in «Biblica» 59, 1978, 1-37, con, tra l’altro, ricca
documentazione patristica: anche attraverso riferimenti al Cantico, gli autori met-
tono in connessione la proclamazione sponsale del Battista in Gv 3,30-34 con la
discesa dello Spirito su Gesù al Giordano in Gv 1,33 e l’episodio delle nozze di
Cana, descritto in Gv 2,1-12, ove la trasformazione dell’acqua in vino segnerebbe
il passaggio dal battesimo per acqua di Giovanni al battesimo in Spirito di Gesù:
«El verdadero esposo es Jesús, que por poseer el Espíritu (1,33), puede ejercitar un
poder creador sacando vino del agua. Al agua de la purificación se opone o sucede
el vino del amor, como al baño en agua se opone o sucede la fecundación por el
Espíritu» (P. Proulx e L. Alonso Schökel, Las Sandalias del Mesías Esposo…, 30).
85 «“Sta in mezzo a voi uno che voi non conoscete”. È evidente che il Battista già lo
conosce; l’enfatico ἐγώ (anche nel logion sin. Mc 1,8) pone già l’accento su colui
che si trova in mezzo a loro e sembra che anche ὑμεῖς abbia una sottolineatura
speciale: al contrario di essi, Giovanni lo ha conosciuto per rivelazione divina (v.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 161

farisei non conoscono, sicché «la testimonianza di Giovanni (ἡ μαρτυρία


τοῦ Ἰωάννου)» (Gv 1,19) può sussistere soltanto presupponendo l’avere
già visto e riconosciuto l’uomo che egli sta appunto testimoniando essere
«il Cristo». Eppure, nei versetti che sembrano aprire la narrazione storica
(appunto 1,19-28), la visione teofanica non ricorre affatto. Ma passiamo
alla descrizione del primo incontro tra il Battista e Gesù descritto dopo
il Prologo, avvenuto il secondo giorno della prima settimana di missione
gesuana:

Il giorno dopo (Τῇ ἐπαύριον), Giovanni vedendo Gesù venire verso di lui
(βλέπει τὸν Ἰησοῦν ἐρχόμενον πρὸς αὐτόν) disse: “Ecco l’agnello di Dio,
ecco colui che toglie il peccato del mondo (Ἴδε ὁ ἀμνὸς τοῦ θεοῦ ὁ αἴρων τὴν
ἁμαρτίαν τοῦ κόσμου)! Ecco colui del quale io dissi (οὗτός ἐστιν ὑπὲρ οὗ ἐγὼ
εἶπον): Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima
di me (Ὀπίσω μου ἔρχεται ἀνὴρ ὃς ἔμπροσθέν μου γέγονεν, ὅτι πρῶτός μου
ἦν). Io non lo conoscevo (κἀγὼ οὐκ ᾔδειν αὐτόν), ma sono venuto a battezzare
con acqua perché egli fosse fatto conoscere ad Israele (ἀλλ' ἵνα φανερωθῇ τῷ
Ἰσραὴλ διὰ τοῦτο ἦλθον ἐγὼ ἐν ὕδατι βαπτίζων)”. Giovanni rese testimonianza
(ἐμαρτύρησεν) dicendo: “Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal
cielo (Τεθέαμαι τὸ πνεῦμα καταβαῖνον ὡς περιστερὰν ἐξ οὐρανοῦ) e rima-
nere su di lui (καὶ ἔμεινεν ἐπ' αὐτόν). Io non lo conoscevo (κἀγὼ οὐκ ᾔδειν
αὐτόν), ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: “L’uomo
sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito
Santo (Ἐφ’ ὃν ἂν ἴδῃς τὸ πνεῦμα καταβαῖνον καὶ μένον ἐπ’αὐτόν, οὗτός ἐστιν
ὁ βαπτίζων ἐν πνεύματι ἁγίῳ)”. E io ho visto (κἀγὼ ἑώρακα) e ho testimoniato
(καὶ μεμαρτύρηκα) che questi è il Figlio di Dio (ὅτι οὗτός ἐστιν ὁ υἱὸς τοῦ
θεοῦ)” (Gv 1,29-34).

Mi pare evidente che in questo secondo giorno il Battista non stia affatto
descrivendo in diretta la discesa dello Spirito su Gesù86, ma soltanto ricor-

33). Dunque il fatto a cui egli si riferisce nella successiva attestazione (vv. 32ss.)
è già avvenuto» (R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…, I,391). Eppure
Schnackenburg non trae la conclusione di queste sue rilevanti osservazioni: se in
Gv 1,31-34 il Battista dice di aver conosciuto Gesù come il Figlio di Dio soltanto
quando lo Spirito su di lui è disceso ed è rimasto, evidentemente la teofania al
Giordano (corrispondente con il tradizionale battesimo di Gesù) è già avvenuta.
Ma come mai il IV vangelo non la descrive in diretta? In realtà essa è narrata nel
Prologo!
86 Cf. Ch.H. Talbert, “And the Word Became Flesh”: When?..., 135-139: l’incar-
nazione del Logos di Gv 1,14 farebbe riferimento all’evento battesimale di Gv
1,32-34; e P.E. Kinlaw, The Christ is Jesus…: «To begin the process of fully
understanding the terms of the prologue, and to continue the shaping of the terms
by which the audience hears the remainder of the Gospel, the baptism of Jesus is
162 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

dando, ricapitolando un evento accaduto prima, tramite verbi al perfetto


e non con verbi al presente87: «κἀγὼ ἑώρακα καὶ μεμαρτύρηκα». Egli può
avere testimoniato, soltanto perché ha prima visto; se il Battista afferma
«io non lo conoscevo (κἀγὼ οὐκ ᾔδειν αὐτόν)», dichiara implicitamente
che ora lo conosce, grazie a una visione che, pur se descritta in 1,32-34,
non può essere immediatamente precedente al suo «Ecco!». Infatti:
1) In Gv 1,29-34, l’«Ecco!» della testimonianza («Ἴδε ὁ ἀμνὸς τοῦ
θεοῦ»: 1,29) precede la descrizione teofanica («Τεθέαμαι τὸ πνεῦμα
καταβαῖνον ὡς περιστερὰν ἐξ οὐρανοῦ»: 1,32): narrativamente, se que-
sta fosse avvenuta in diretta, quando Giovanni vede Gesù «ἐρχόμενον
πρὸς αὐτόν», sarebbe incongruo anticipare la proclamazione (Ἴδε)
rispetto alla visione (espressa da un perfetto: τεθέαμαι) che ne fonda
la possibilità. Rinunciando a qualsiasi solennità sacrale e alla stessa

decisive. The existential and spatial overlap introduced in the prologue, in fact,
can only be placed on a narrative level, and hence, of assistance to the reader,
when laid out in the event of the baptism. Also, only the baptism can introduce
the foundation by which the mutual indwelling of the Father and Jesus Christ
as well as the mutual indwelling of the Father, Jesus Christ and the believer can
be achieved. John the Baptist recalls the event:… These verses [=Gv 1,32-34]
describe how the Word becoming flesh actually occurred. There are four issues to
discuss in this passage: (1) the baptism as the point of incarnation; (2) the Spirit
as possessor; (3) the importance of μένω and (4) the witness to the Son of God»
(127); cf. 132-135.
87 «v. 29 Il giorno dopo. A quanto pare (dal v. 32) l’episodio giovanneo ha luogo
dopo il battesimo di Gesù, di cui Giovanni non parla… v. 32 Ho visto. Il tempo
perfetto indica che l’azione [della discesa e del rimanere dello Spirito su Gesù],
che ebbe luogo presumibilmente al momento del battesimo di Gesù, ha ancora il
suo effetto e, cioè, lo Spirito è ancora con Gesù» (R.E. Brown, Giovanni…, 72 e
74). Brown considera presumibile, ma non certo, che la teofania testimoniata dal
Battista fosse immediatamente conseguente al battesimo di Gesù, di cui, appunto,
il IV vangelo non parla! Anche C.K. Barrett, The Gospel according to St. John,
The Westminster Press, Philadelphia 1955, 19782, 175, interpreta le parole del
Battista non come descrizione in diretta dell’evento, ma come sua rammemo-
razione. Cf. in tal senso P.E. Kinlaw, The Christ Is Jesus…: «Having already
witnessed to Jesus, that is, having claimed to know that this person is present,
he then recounts [in Gv 1,32-34] the proof of all he has claimed about this man:
his recollection of what happened during the man’s baptism… having John recall
the event for the audience» (126). Netto e lucido R. Schnackenburg, Il vangelo
di Giovanni…, 395-396: «Al battesimo di Gesù viene fatto solo un accenno. Che
ciò sia avvenuto proprio ora e che il Battista abbia proclamato Gesù come l’eletto
mentre questi si avvicinava per il battesimo non è pensabile; infatti, secondo le
sue stesse parole (vv. 31-33), prima della rivelazione di Dio egli non lo conosceva
ancora (come Messia). Anche i tempi dei verbi ai vv. 32 e 34 indicano piuttosto
un fatto passato, di cui ora il Battista dà solo l’annuncio ad Israele».
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 163

immediata visionarietà apocalittica, il testo posticiperebbe incoerente-


mente l’evento della teofania (la causa: 1,1,32-34) rispetto al ricono-
scimento di Gesù che viene (l’effetto: 1,29). Saremmo dinanzi a una
straordinaria anomalia testuale, cioè a una proclamazione kerigmatica
retoricamente del tutto infelice, perché obliqua, e questo proprio nel più
solennemente teofanico di tutti i vangeli canonici. La struttura apocalit-
tica del primo capitolo giovanneo funzionerebbe alla rovescia, imper-
niata su un sorprendente ritardo: la teofania fondativa, che origina lo
straordinario annuncio del Battista, non sarebbe descritta solennemente
“in diretta”, come visione della rivelazione che irrompe, ma sarebbe
marginalizzata, ricordata en passant come già avvenuta, già vista. Ri-
tengo vi sia un’unica soluzione razionalmente convincente: la visione
teofanica dell’incarnazione dello Spirito c’è già stata, è avvenuta prima
del secondo giorno nel quale si collocano gli avvenimenti descritti88. Il
Battista riconosce subito in Gesù il Figlio di Dio, perché l’ha già visto
prima, ritengo il giorno prima.
2) Se si vuole continuare ad ipotizzare che anche il IV vangelo, riferendosi
alla visione battista della discesa dello Spirito su Gesù, continui a rife-
rirsi implicitamente all’evento storico del suo battesimo, probabilmente
rielaborando il racconto di Marco89, inevitabilmente Gv 1,32-34 dev’es-
sere assunto come ricapitolazione, rinvio a un evento già avvenuto, che
appunto Giovanni ricorda: la recezione del battesimo non può riguar-
dare il Cristo en passant (1,36), né essere impartito dal Battista mentre
questi sta parlando con due suoi discepoli (1,35), ma deve riferirsi a
un rito (comunque altamente solenne, che non può essere impartito in
movimento!) somministrato dallo stesso Battista nel passato90. D’altra

88 U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovanni…, riconosce che la visione è avvenuta


nel passato, in un altro momento e in un altro luogo, non specificati: «Quando e
dove sia occorsa a Giovanni questa visione non è detto. La sola cosa importante
è che, per mezzo di essa, egli sa chi è colui di cui Dio l’ha inviato ad annunciare
la venuta. Questa visione conferisce alla sua testimonianza definitiva verità di
rivelazione: costui – Gesù, egli solo – è figlio di Dio» (62). «Hier spricht der
Täufer lediglich rückblickend von dem, was er gesehen hatte, als er Jesus taufte»
(B. Peters, Das Evangelium nach Johannes, Christliche Literatur-Verbreitung,
Bielefeld 2015, 81).
89 Cf. M.-É. Boismard, Les traditions johanniques concernant le Baptiste…, 38-39.
90 Si rivela consapevole della difficoltà già Origene, che colloca il battesimo il
giorno prima dell’incontro del Battista con Gesù in Gv 1,29-34, culminante nella
ricapitolazione di Gv 1,32-34: «A questo punto colui che ha reso testimonianza
vede con i propri occhi Gesù venire verso di lui, che ancora progredisce e diventa
migliore: progresso e perfezionamento che qui sono simboleggiati dal termine
“il giorno dopo” (αὔριον). Quasi a dire che nel giorno successivo al battesimo,
164 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

parte, Gv 1,32-34 non descrive, come abbiamo rilevato, il battesimo


di Gesù, ne elimina quasi tutti gli elementi identificativi, per spostare
l’attenzione altrove91.
3) Il Battista cita, in Gv 1,30, l’identica affermazione che incontriamo già
nel Prologo, 1,15: «Giovanni gli rende testimonianza e grida (Ἰωάννης
μαρτυρεῖ περὶ αὐτοῦ καὶ κέκραγεν λέγων): “Ecco l’uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me mi è passato avanti (Οὗτος ἦν ὃν εἶπον,
Ὁ ὀπίσω μου ἐρχόμενος ἔμπροσθέν μου γέγονεν), perché è prima di
me (ὅτι πρῶτός μου ἦν)”». Ma se in 1,15 il Battista riferisce della sua
visione e proclama che Gesù preesistente gli è già passato avanti, egli
evidentemente ha già visto lo Spirito discendere e rimanere su Gesù,
perché, come si dichiara in Gv 1,32-34, il Figlio di Dio può essere ri-
conosciuto soltanto se si è visto lo Spirito discendere su di lui. In 1,30,

che è secondo rispetto a ciò che avviene prima, Gesù viene (οἱονεὶ γὰρ ἐν ἑξῆς
φωτισμῷ καὶ δευτέρᾳ ἡμέρᾳ παρὰ τὰ πρότερον ὁ Ἰησοῦς ἔρχεται), in quanto non
soltanto è conosciuto come presente in mezzo a coloro che non lo conoscono,
ma ormai è anche visto sensibilmente nell’atto di recarsi da colui che prima l’ha
indicato» (Origene, CmGv II,257). Si noti come, per descrivere il battesimo di
Gesù in II,153-251, Origene sia costretto a trattarne in riferimento a Gv 1,19-28,
cioè nel giorno antecedente a quello descritto in Gv 1,29-34, malgrado in esso non
esista alcun riferimento al battesimo di Gesù.
91 «Giovanni ha eliminato dal suo racconto dell’episodio tutti gli aspetti del batte-
simo di cui i seguaci del Battista si sarebbero potuti gloriare… Il fatto che Gio-
vanni accenni al battesimo di Gesù solo indirettamente come il momento in cui
lo Spirito discese su di lui può anche riflettere il desiderio dell’evangelista di non
favorire la causa dei suoi [del Battista] seguaci» (R.E. Brown, Giovanni…, 86).
Il riferimento, pertanto, è indiretto, in quanto l’evento del battesimo è, per motivi
“polemici”, distratto nel passato; non si descrive il battesimo di Gesù ad opera
del Battista, ma l’evento della discesa dello Spirito, che pure, per Brown, il IV
vangelo continua a presupporre avvenuta al momento del battesimo. «The earliest
form of the signs source may well have included some account of Jesus’ baptism,
omitted by John to avoid any suggestion that Jesus might be the Baptist’s inferior.
But in what remains of the source all we have is John’s testimony that he saw
the Spirit descending upon Jesus, along with his conclusion: “This is the Chosen
One of God”. This is unquestionably a reference to one of Second Isaiah’s Songs:
“Behold my servant (LXX, ὁ παῖς μου) whom I uphold, my chosen one (LXX, ὁ
ἐκλεκτός μου) in whom my soul delights: I have put my Spirit upon him, he will
bring forth justice to the nations (Isa. 42:1). All three Synoptists allude to this
verse in their account of Jesus’ baptism (Matt. 3: 17//), though παῖς becomes υἱός
and ἐκλεκτός becomes ἀγαπητός, literally “beloved”» (J. Ashton, Undestanding
the Fourth Gospel…, 161). Ma né Brown, né Ashton, che pure restituiscono Gv
1,32-34 come rammemorazione di un evento passato, pensato analogamente alle
scene battesimali sinottiche, sono in grado di rintracciare in Giovanni la colloca-
zione della teofania battesimale.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 165

quindi, il Battista torna a vedere, ripete la testimonianza di 1,15, ri-


conosce l’uomo che ha già visto manifestato come colui nel quale si
è incarnato l’Unigenito. Insomma, non solo Gv 1,30, ma già Gv 1,15
presuppone che lo Spirito sia già disceso e sia rimasto su Gesù, che,
nel secondo giorno, torna a passare davanti al Battista, che immedia-
tamente lo riconosce e lo saluta come superiore. Ma, se questo è vero,
l’evento storico della teofania al Giordano deve precedere non soltanto
Gv 1,32-24, ma anche Gv 1,15, dove per la prima volta il Battista testi-
monia la sua avvenuta agnizione conseguente alla teofania!
4) Come si è già accennato, evidente ed altamente significativa è la scan-
sione in sette giorni dell’avvio della missione di Gesù: la relazione con
i sette giorni della creazione è provata dall’espressione iniziale in prin-
cipio, che nel modello genesiaco avviava i sei giorni della creazione,
chiudendoli nel settimo giorno, il sabato dell’eterno riposo di Dio. Pur
essendo difficilmente identificabile e disputata la precisa valenza sim-
bolica dei sette giorni, quindi degli eventi gesuani che li caratterizzano,
comunque l’insistenza sui sette giorni non può non essere teologica-
mente portante92. Ebbene, all’interno di questa studiata ripartizione cro-

92 Cf. M.-E. Boismard, Du baptême à Cana: (Jn 1,19-2,11), Cerf, Paris 1956, in
part. 14-15, che propone una scansione settenaria che colloca il primo giorno in
Gv 1,19-28 (cf. 25-39) e il settimo giorno, quello delle nozze di Cana, in 2,1-11
(cf. 133-159). Lo stesso Boismard riconosce il carattere «en partie artificielle»
(15), insomma congetturale dell’eptapartizione; eppure, ribadisce la connessione
evidente tra la creazione del mondo in sette giorni narrata nella Genesi e l’epta-
merone della prima missione di Gesù, che si conclude a Cana (cf. 15). Cf., dello
stesso M.-E. Boismard, Le Prologue de Saint Jean, Cerf, Paris 1953, 136-142. Più
in generale, cf. T. Barosse, The Seven Days of the New Creation in St. John’s Go-
spel, in «Catholic Biblical Quarterly» 21, 1959, 507-516; M. Girard, La structure
heptapartite du quatrième évangile, «Studies in Religion/Sciences Religieuses»
5/4, 1975-1976, 350-359, in part. 354; M. Girard, Analyse structurelle de Jn 1,1-
18: l’unité des deux Testaments dans la structure bipolaire du prologue de Jean,
in «Science et Esprit» 35/1, 1983, 5-31, soprattutto 7-16; L.P. Trudinger, The Se-
ven Days of the New Creation in St. John’s Gospel: Some Further Reflections, in
«The Evangelical Quarterly», 44/3, 1972, 154-158, in part. 156: il “primo giorno”
è quello indicato in Gv 1,19-28, ma con esplicita connessione con la teofania e
la testimonianza proclamata nel Prologo; R. Riesner, Bethany beyond the Jordan
(John 1:28). Topography, Theology and History in the Fourth Gospel, in «Tyn-
dale Bulletin» 38, 1987, 29-63, in part. 45-47. Singolare l’interpretazione di J.
Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, I,94-102, che pur rimanendo scettico
sulle interpretazioni simboliche proposte della scansione settenaria della prima
sezione del vangelo giovanneo, scandisce il suo commento adottando la divisione
in giorni: «Il primo giorno» sarebbe descritto in Gv 1,19-28 (cf.); «il secondo
giorno» in 1,29-34 (cf. 103-114); «il terzo giorno» in Gv 1,35-39 (cf. 115-118);
166 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

nologica, ritengo sia del tutto incongruo pensare che il redattore finale
di Giovanni potesse fissare l’incarnazione teofanica del Logos in Gesù
non «in principio», cioè nel primo giorno, ma in un giorno inserito in
una serie, in particolare nel secondo dei sei giorni descritti in Gv 1,19-
2,12. Ebbene, se la prima settimana della missione di Gesù, evidente-
mente strutturata in analogia con l’eptamerone genesiaco per eviden-
ziare l’inizio della nuova creazione nello Spirito, iniziasse con Gv 1,19,
il suo primo giorno risulterebbe privo della descrizione del fondativo
evento teofanico, che risulterebbe piuttosto collocato nel secondo gior-
no, descritto in Gv 1,32-24. Ritengo, piuttosto, che il primo giorno della
creazione, che avvia la scansione settenaria che si conclude con Gv
2,11, sia già quello “descritto” nel Prologo, non a caso aperto dall’«in
principio», in analogia al «dies unus» della creazione della Genesi93. È,

«il quarto giorno» in Gv 1,43-44 (cf. 118-123); seguono gli altri tre giorni che si
concludono in quello del miracolo di Cana (cf. 125-134). Sulla scansione in sette
giorni di Gv 1,19-2,11, in analogia con Gen 1,1-2,4a, simbolicamente finalizzata a
interpretare l’incarnazione redentiva del Logos in Gesù come nuova creazione, cf.
J. Frey, Die johannische Eschatologie. Ihre Probleme im Spiegel der Forschung
seit Reimarus, I, Mohr Siebeck, Tübingen 1997, 196. Quest’interpretazione era
già stata prospettata da E.-B. Allo, L’Évangile spirituel de saint Jean, Cerf, Paris
1944, 75, per il quale comunque l’eptapartizione di Gv 1,1-2,11 «veut souligner
le parallélisme théologique qui existe entre la première création du monde en
sept jours, effectuée par le Verbe de Dieu (cf. Jean 1,1-5) et l’oeuvre du salut
messianique considérée comme une création nouvelle dans le Christ (cf. Jean 1,3,
17). Comme Moïse avait représenté étendue sur sept jours la création de l’univers
matériel, ainsi Jean a tenu, très consciemment à notre avis, à présenter aussi en
une semaine l’introduction dans le monde de la “nouvelle création” prêchée par
saint Paul». Segnalo, in tal senso, l’interessante saggio di J.K. Brown, Creation’s
Renewal in the Gospel of John, in «The Catholic Biblical Quarterly» 72, 2019,
275-290.
93 Sull’inserimento del Prologo stesso nel primo giorno dell’attività di Gesù, cf. l’a-
cuto saggio di H. Saxby, The Time-Scheme in the Gospel of John, in «Expository
Times» 104/1, 1992-1993, 9-13. Sul profondo significato della serie dei giorni,
quindi sul riferimento trasparente ai giorni della creazione della Genesi, cf. Th.L.
Brodie, The Gospel According to John. A Literary and Theological Commentary,
Oxford University Press, New York-Oxford 1993, i parr. «Reflecting Creation…»
e «And Evoking the Resurrection», 130-132; Brodie conclude: «The essential
point is that, beginning with the prologue, the various chronological references in
1:1-2:22 help to weave the entire text into a unity, a unity which in various ways,
including the evoking of the resurrection, both reflects and surpasses the harmo-
nious seven-day unity of the first account of creation» (132). Già F. Quiévreux,
La structure symbolique de l’Évangile de Saint Jean, in «Revue d’Histoire et de
Philosophie Religieuses» 33, 1953, 123-165: «Nous noterons que le premier jour
va du verset 1 au verset 28 et qu’il a comme thème la lumière, ainsi que le récit
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 167

quindi, nel Prologo che va collocata la visione in diretta, rammemorata


in Gv 1,32-34.
5) Penso che il secondo (ma in realtà terzo!) incontro en passant tra Gesù e
il Battista, che apre la chiamata dei primi discepoli in Gv 1,35-37, provi
che la teofania descritta in Gv 1,32-34 sia quella del Prologo, richia-
mata dal Battista con un flashback. Infatti, «il giorno dopo Giovanni
stava ancora là (τῇ ἐπαύριον πάλιν εἱστήκει ὁ Ἰωάννης) con due dei
suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava (ἐμβλέψας τῷ
Ἰησοῦ περιπατοῦντι λέγει), disse: “Ecco l’agnello di Dio! (Ἴδε ὁ ἀμνὸς
τοῦ θεοῦ)”» (Gv 1,35). La scena replica perfettamente quella descritta
nel giorno precedente: l’identico Ἴδε, l’identica formula sono utilizzati
con tutta evidenza per salutare l’Unigenito già conosciuto come incar-
natosi. Sono formule di ri-conoscimento, non di apocalittica, estatica
agnizione. Pertanto, l’Ἴδε di 1,29-30 non annuncia in diretta l’evento
straordinario dell’incarnarsi del Logos, rammemorato, e non estatica-
mente contemplato, in 1,32-34.
Ma quando, allora, la teofania è avvenuta? Se il IV vangelo insiste si-
stematicamente sull’identificazione di Gesù Cristo con la divina luce di
vita94, quando la Luce si è incarnata in lui? Se in Gv 12,34-36 «la Luce»
è personificata ne «il Figlio dell’Uomo»95, che in 3,13 è apertamente

du premier jour dans la Genèse. Les mots “le lendemain”, qui se trouvent répétés
aux versets 29, 35 et 43, marquent le début de chacun des “jours” suivants. On
arrive ainsi au quatrième jour. Le récit des noces de Cana est ensuite situé dans
le temps de la manière suivante: “et, le troisième jour, il se fit des noces à Cana
de Galilée” (2, 1). L’expression “le troisième jour”, dans la manière de compter
le temps chez les Grecs, est équivalente à l’expression “trois jours après”. Si l’on
additionne ces trois jours avec les quatre jours précédents, on retrouve bien les
sept jours de la nouvelle création. Le nombre 7, dans l’évangile de Jean, tire sa
signification symbolique du récit de la Genèse. Le sens qui lui est attaché est celui
de la perfection divine. Dieu, ayant achevé au septième jour son œuvre, a béni le
septième jour et l’a sanctifié (Gn 2, 3)» (130-131).
94 «Io sono la luce del mondo (ἐγώ εἰμι τὸ φῶς τοῦ κόσμου); chi segue me, non
camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (τὸ φῶς τῆς ζωῆς)» (Gv
8,12); «Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo (φῶς εἰμι τοῦ κόσμου)»
(9,5); «Io come luce sono venuto nel mondo (ἐγὼ φῶς εἰς τὸν κόσμον ἐλήλυθα)»
(12,46). Cf. R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…, I,304-309; R.A. Cul-
pepper, The Prologue as Theological Prolegomenon…, 6-9.
95 «La folla gli rispose: “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in
eterno (ὁ Χριστὸς μένει εἰς τὸν αἰῶνα); come dunque tu dici che il Figlio dell’Uo-
mo deve essere elevato (πῶς σὺ λέγεις ὅτι δεῖ ὑψωθῆναι τὸν υἱὸν τοῦ ἀνθρώπου;)?
Chi è questo Figlio dell’Uomo? (τίς ἐστιν οὗτος ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου;)”. Gesù, al-
lora disse loro: “Ancora per poco tempo la luce è con voi (τὸ φῶς ἐν ὑμῖν ἐστι)”…
Mentre avete la luce (ὡς τὸ φῶς ἔχετε) credete nella luce, per diventare figli della
168 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

identificato con colui che è disceso dal cielo96, quando la Luce che è
vita97 è discesa dal cielo nell’uomo Gesù, quindi nel mondo, nel quale
Cristo la porta e la rivela? Come non ricordare alcune affermazioni del
Prologo? «In lui [nel Logos] era la vita e la vita era la luce degli uomi-
ni (ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων). La luce splende nelle tenebre…
Veniva nel mondo la luce vera (τὸ φῶς τὸ ἀληθινόν… ἐρχόμενον εἰς
τὸν κόσμον)» (1,4 e 9). È ormai evidente che è al Prologo che occorre
tornare.

7. Il Prologo come ritrattazione sapienziale del battesimo

Se «John the Baptist is the Prologue embodied»98 e se questi ha in tutte


le tradizioni protocristiane un ruolo strutturale nella vicenda biografica di
Gesù, più che per la sua attività, per la sua “testimonianza” al Giordano
(certo forzata delle tradizioni gesuane), il Prologo, incentrato sulla rive-
lazione del rifulgere del Logos nel mondo degli uomini riconosciuto dal

luce (ἵνα υἱοὶ φωτὸς γένησθε)» (Gv 12,34-36). Cf. 3,19: «La luce è venuta nel
mondo (τὸ φῶς ἐλήλυθεν εἰς τὸν κόσμον)»; l’affermazione segue di pochi versetti
quella relativa al Figlio dell’Uomo disceso dal cielo, citata nella nota qui sotto.
96 «Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’Uomo che è disceso
dal cielo (ὁ ἐκ τοῦ οὐρανοῦ καταβάς, ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου)» (Gv 3,13). Cf. 6,62:
«E se vedeste il Figlio dell’Uomo salire là dov’era prima? (ἐὰν οὖν θεωρῆτε τὸν
υἱὸν τοῦ ἀνθρώπου ἀναβαίνοντα ὅπου ἦν τὸ πρότερον;) È lo Spirito che dà la vita
(τὸ πνεῦμά ἐστιν τὸ ζῳοποιοῦν), la carne non giova a nulla; le parole che vi ho
dette sono Spirito e vita (τὰ ῥήματα ἃ ἐγὼ λελάληκα ὑμῖν πνεῦμά ἐστιν καὶ ζωή
ἐστιν)»; e 1,51: «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul
Figlio dell’Uomo».
97 «Così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo (ὑψωθῆναι δεῖ τὸν υἱὸν τοῦ
ἀνθρώπου), perché chiunque creda in lui abbia la vita eterna (ἵνα πᾶς ὁ πιστεύων
ἐν αὐτῷ ἔχῃ ζωὴν αἰώνιον)» (Gv 3,14-15). «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna»
(3,36). «Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la
vita in se stesso (καὶ τῷ υἱῷ ἔδωκεν ζωὴν ἔχειν ἐν ἑαυτῷ)» (5,26). «Il pane di Dio
è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo (ὁ καταβαίνων ἐκ τοῦ οὐρανοῦ
καὶ ζωὴν διδοὺς τῷ κόσμῳ)… Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque
vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna (ζωὴν αἰώνιον)… Io sono il pane
disceso dal cielo (ἐγώ εἰμι ὁ ἄρτος ὁ καταβὰς ἐκ τοῦ οὐρανοῦ)» (6,33 e 40-41).
«Io sono la via, la verità e la vita (ἐγώ εἰμι ἡ ὁδὸς καὶ ἡ ἀλήθεια καὶ ἡ ζωή)»
(14,6); cf. 17,2-3.
98 S. Brown, John the Baptist: Witness and Embodiment of the Prologue in the
Gospel of John, in Ch.W. Skinner (ed.), Characters and Characterization in the
Gospel of John, T&T Clark, London 2013, 147-164, in part. 163.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 169

Battista99, non può non essere la testimonianza dell’incarnazione del Figlio


divino preesistente al cospetto di Giovanni il Testimone (ὁ μάρτυς), presso
il Giordano. I riferimenti del Prologo al Battista sono, pertanto, assoluta-
mente centrali perché segnalano lo slittare dell’annuncio dall’ambito della
preesistenza a quello della storia, nel medio dell’incarnazione100. «È questa
la testimonianza di Giovanni (καὶ αὕτη ἐστὶν ἡ μαρτυρία τοῦ Ἰωάννου)»
(1,18): questo versetto cerniera connette, a mio avviso, visione e testi-
monianza “in diretta” giovannee della teofania/incarnazione del Logos al
Giordano, innicamente esaltate dal Prologo, con il ricordo della sua visione
e la reiterazione della sua testimonianza, che, passando per 1,1,19-51, si
prolungano sino all’ultima grandiosa proclamazione di Gv 3,27-36.
È ormai dominante la tesi che il Prologo, dipendente da un inno pre-
esistente, sarebbe stato aggiunto al corpo del vangelo in sostituzione di
una originaria sezione narrativa, che avrebbe avuto come versetti iniziali
Gv 1,6-8, introduttivi della descrizione del battesimo di Gesù al Giordano,
attualmente collocata in Gv 1,32-34101. Insomma, il Prologo a) prendereb-
be il posto di un originario racconto del battesimo di Gesù al Giordano,
posto in apertura del vangelo, con struttura analoga a quella di Marco;
b) conserverebbe frammenti del primitivo racconto battesimale, di cui Gv
1,32-34 sarebbe sezione residuale e decentrata. Eppure, ritengo che la col-
locazione del Prologo al posto della descrizione del battesimo non sia una
vera e propria rimozione, ma una ritrattazione, attraverso la quale la teo-
fania al Giordano viene mantenuta, grazie alla testimonianza del Battista,

99 «The Prologue is concerned with the entry of Wisdom – the Logos – into the
world of men» (J. Ashton, Undestanding the Fourth Gospel…, 536).
100 Cf. R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…, I,275-279; e M. Hooker, John
the Baptist and the Johannine Prologue…: «They [le inserzioni e le testimonianze
del Battista nel Prologo] refer to the historical “event” of Jesus Christ, that is, to
the appearance of the Logos among men… Within the Prologue, the references
to John the Baptist serve to link the subsequent historical statements with the
metaphysical truths there outlines: they make clear that it is Jesus who is the true
light which gives light to men, and who is the full revelation of God» (357-358).
Cf. J. Zumstein, Il vangelo secondo Giovanni…, I,81.
101 «It is probable that the Gospel did not originally include the Prologue. It probably
began with a briefer way of introducing Jesus in connection with the witness of
the Baptist, like the beginning of Mark; traces of this original opening survive
in 1,6-8, 1,15» (B. Lindars, The Gospel of John, Eerdmans-Marshall, Morgan
& Scott, Grand Rapids-London 1972, 76). Cf. M.-E. Boismard, Le Prologue de
St. Jean, Cerf, Paris 1953, 39-41; J.A.T. Robinson, The Relation of the Prologue
to the Gospel of St John…; R.E. Brown, Giovanni…, 39; J. Ashton, Undestan-
ding the Fourth Gospel…, 156-157; J.F. McGrath, Prologue as Legitimation…,
100-101.
170 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

ma reduplicata a livello ontologico, quindi “distillata”, facendo cadere o


trasfigurando elementi narrativi scomodi e troppo “materialistici”, a par-
tire dalla somministrazione di un battesimo di penitenza e conversione ad
opera del Battista. Se nel Prologo non sono immediatamente riconoscibili
le caratteristiche distintive della scena battesimale di Gesù al Giordano
(l’acqua, la discesa dello Spirito, la voce che discende dal cielo) è perché
il redattore finale vuole di fatto sganciare la teofania al Giordano dal bat-
tesimo (come prova la sua coerente ricapitolazione in Gv 1,32-34, ove di
battesimo non si parla affatto), sicché i particolari della teofania vengono
ritrattati, riformulati attraverso una simbologia mistica, speculativa, che
potremmo definire “gnostica” e al tempo stesso demitologizzante: sosti-
tuisce colomba, voce, acqua con luce, parola, vita, che, ricapitolate nella
Persona dell’Unigenito, restituiscono la dimensione interiore, spirituale,
persino “esistenziale” della rivelazione. Il Prologo intende, così, proclama-
re la verità profonda e nascosta dei racconti tradizionali del battesimo di
Gesù, rivelare la conoscenza teologica della venuta al Giordano del Figlio
eletto/prediletto, innalzare l’evento storico, che pure continua a descrivere
all’inizio del vangelo, a disvelamento apocalittico dell’intimo mistero di
Dio. D’altra parte, nel rileggere l’evento teofanico al Giordano tramite i
riferimenti all’eptamerone della Genesi, il Prologo non radicalizza ciò che
già era implicito nei racconti tradizionali (penso a quello di Marco)102 del
battesimo di Gesù, nuovo Adamo generato dallo Spirito che aleggia sulle
acque? Anzi, retrocedendo ulteriormente, se al Giordano Giovanni Battista
annuncia apocalitticamente la fine di questo eone e l’irruzione del regno di
Dio, preparata dalla discesa dello Spirito che consente l’ingresso battesi-
male nella comunità escatologica degli eletti, la predicazione di Giovanni
non dipendeva forse dalla pretesa di essere strumento profetico-messianico
della ricreazione di Dio, dell’avvento del nuovo eone/mondo, con l’appari-
zione della “luce” salvifica, la discesa vivificante dello Spirito sull’acqua,
la divisione tra il popolo della luce/dei salvati e quello della tenebra/dei
condannati?
Certo, se il Prologo inizia nel segno dell’ἐν ἀρχῇ, se mette in scena la
Parola creatrice di Dio, che fa venire la luce, se è articolato attraverso l’op-

102 Cf. G. Lettieri, L’ultimo nel primo. L’uomo ad immagine e somiglianza nella tra-
dizione cristiana primitiva e patristica, in A. Melloni e R. Saccenti (edd.), In
the Image of God. Foundations and Objections within the Discourse on Human
Dignity. Proceedings of the Colloquium at Bologna and Rossena (July 2009) in
Honour of Pier Cesare Bori, Berlin 2010, 127-215, in part. 128-133: Gesù è ti-
pologicamente restituito, in Mc 1,9-12, come nuovo Adamo, nuovo Mosè, nuovo
Elia.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 171

posizione esplicita tra luce e tenebra, con tutta evidenza il Prologo è un


«targumic midrash» di Gen 1,1-5, cioè del primo giorno della creazione,
incentrato sulla Parola/dabar/memra di Dio103. In effetti, a partire dalla
comune espressione iniziale «ἐν ἀρχῇ», il Prologo giovanneo è stato, già
nella primissima esegesi cristiana – dagli gnostici a Origene104 –, messo in
connessione con il racconto della creazione della Genesi105, in particolare
con quella del «primo giorno», descritta in Gen 1,1-5.

103 Cf. D. Boyarin, The Gospel of the Memra: Jewish Binitarianism and the Prolo-
gue to John, in «HTR» 94/3, 2001, 243-284, in part. 267-279: il Prologo sareb-
be un «targumic midrash» di Gen 1-5, sicché Gv 1,1-5 ritratterebbe «a common
“Jewish” theologoumenon» (271) di natura sapienziale, che Gv 1,6-18 adattereb-
be alla figura storica di Gesù in Gv 6-18 (cf. in part. 272). Cf. anche D. Boyarin,
Borderlines. The Partition of Judaeo-Christianity, University of Pennsylvania
Press, Philadelphia 2004, cap. 4, «The Intertextual Birth of the Logos: The Prolo-
gue to John as a Jewish Midrash», 89-111: La «gradation, “In the beginning was
the Word, and the Word was God”, can easily be accounted for as an expansion of
the formal rhetorical pattern found in the first verse of Genesis; “In the beginning
God created the heaven and the earth, and the earth was without form and void”»
(96); cf. 102-105. Segnalo, inoltre, J. Painter, Rereading Genesis in the Prologue
of John?, in D.E. Aune, T. Seland, J.H. Ulrichsen (edd.), Neotestamentica et Phi-
lonica: Studies in Honor of Peder Borgen, Brill, Leiden 2003, 179-201, in part. il
par. «The Targumic Character of the Prologue», 180-183. «This poet, in crafting
the Prologue, had one eye fixed on the Genesis account of creation… and the other
eye fixed on the stories about Jesus» (P.S. Minear, Christians and the New Crea-
tion…, 83). Cf. J.K. Brown, Creation’s Renewal in the Gospel of John…: «His use
of λόγος evokes the recurring Genesis language of “God said” in the creative acti-
vity (εἶπεν ὁ θεός [Gen 1:6, 9, 14, 20, 24, 26, 28 LXX])» (277). «Every assertion
regarding the ensarkos logos in the Prologue’s final five verses, with the exception
of the incarnation itself, is true of the targumic memra» (C.A. Evans, Word and
Glory. On the Exegetical and Theological Background of John’s Prologue, JSOT
Press/Sheffield Academic Press, Sheffield 1993, 121); cf. 121-129.
104 Cf. il fondamentale studio di A. Orbe, A propósito de Gen. 1,3 (fiat lux) en la
exegesis de Taciano, in «Gregorianum» 42/3, 1961, 401-443, in part. 430-440;
inoltre, J.C.M. Winden, In the Beginning: Some Observations on the Patristic
Interpretations of Genesis 1,1, in «Vigiliae Christianae» 17, 1963, 105-121, quin-
di in J.C.M. Winden, Arché. A Collection of Patristic Studies, Brill, Leiden-New
York-Köln 1997, 61-77; J.C.M. Winden, In the Beginning: Early Christian Exe-
gesis of the Term arché in Genesis 1:1, Leiden 1967, quindi in Archè…, 78-93; il
notevole volume collettaneo In principio. Interprétations des premiers versets de
la Genèse, Institut des Études Augustiniennes, Paris 1973, in part. il saggio di P.
Nautin, Genèse 1,1-2 de Justin à Origène, 61-93; M. Coloe, The Structure of the
Johannine Prologue and Genesis 1…, 40-55.
105 «The evangelist cites the first words of Genesis 1 from the LXX, Ἐν ἀρχῇ (“in
the beginning”), and by so doing evokes the story of creation as the starting place
for his Gospel about Jesus. Not only does John introduce the themes of life and
172 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Dio disse: “Sia la luce”. E la luce fu (καὶ εἶπεν ὁ θεός: “Γενηθήτω φῶς”. Kαὶ
ἐγένετο φῶς: sec. LXX) (Gen 1,3)106.

Pronunciandola, Dio fa essere la Luce, manifestazione folgorante del


suo potere creativo, della sua irradiante potenza donativa: la parola di Dio è
il venire stesso della luce, chiamata a fare irruzione nell’originaria «tenebra
che ricopriva l’abisso (σκότος ἐπάνω τῆς ἀβύσσου: sec. LXX)» (Gen 1,2),

light (ζωὴ and φῶς [1:4-5]), which are clearly derived from Genesis 1 (vv. 3, 14,
20, 24 LXX), but his use of λόγος evokes the recurring Genesis language of “God
said” in the creative activity (εἶπεν ὁ θεός [Gen 1:6, 9, 14, 20, 24, 26, 28 LXX]).
Certainly, the language of all things coming into existence via the λόγος (John
1:3) directly connects John’s introduction to the creation account of Genesis 1»
(J.K. Brown, Creation’s Renewal in the Gospel of John, in «The Catholic Biblical
Quarterly» 72, 2019, 275-290, in part. 277). «Gen 1,3 forms the background for
the term [Logos]… Gen 1,3 presents the most probable foundation for the term
Logos in the Prologue of John» (P. Borgen, Logos was the True Light…, p. 119 e
120); cf. p. 129.
106 «Gen 1,3 forms the background… and the most probable foundation for the term
Logos in the Prologue of John» (P. Borgen, Logos was the True Light. Contribu-
tions to the Intepretation of the Prologue of John, in «Novum Testamentum» 14,
1972, pp. 115-130, in part. pp. 118-119, in part. 119 e 120); cf. p. 129; P. Borgen,
Observations on the Targumic Character of the Prologue of John, in «New Te-
stament Studies» 16, 1970, pp. 288-295; e; infine P. Borgen, “John the Witness”
and the Prologue: John 1:1-34(37), in The Gospel of John: More Light from Phi-
lo, Paul and Archaeology, Brill, Leiden-Boston 2014, pp. 219-238. Ma cf. già
R.E. Brown, Giovanni…, p. 4: «Nella Bibbia ebraica il primo libro (Genesi) è
chiamato, dalle parole con cui si apre, “In principio”; perciò il parallelo tra il
Prologo e la Genesi era facilmente riconoscibile. Il parallelo continua nei versetti
seguenti, dove i temi di creazione e di luce e tenebre sono ripresi dalla Genesi».
Segnalo come P. Borgen, Logos was the True Light…, p. 120, rimandi a Filo-
ne, De somniis I,75. Ebbene, De somniis I,72-76 è davvero testo di straordinario
interesse, in quanto connette l’uomo ad immagine con il logos divino e la luce
primordiale di Dio, con esplicito riferimento al Fiat lux di Gen 1,3: «Dio è luce
(ὁ θεὸς φῶς ἐστι)… e non solo luce, ma archetipo di ogni altra luce (καὶ οὐ μόνον
φῶς, ἀλλὰ καὶ παντὸς ἑτέρου φωτὸς ἀρχέτυπον) o, meglio ancora, più antico e
più eccelso di ogni archetipo, perché Egli ha la ragione dell’archetipo (μᾶλλον
δὲ παντὸς ἀρχετύπου πρεσβύτερον καὶ ἀνώτερον, λόγον ἔχον παραδείγματος).
Modello infatti è la sua Parola pienamente compiuta (τὸ μὲν γὰρ παράδειγμα ὁ
πληρέστατος ἦν αὐτοῦ λόγος), che è luce (φῶς); si legge, infatti, nel testo sacro:
«Dio disse: “Sia fatta la luce”» (Gen 1,3); mentre Egli non è simile a nessuna cosa
creata (”εἶπε” γάρ φησιν “ὁ θεός· γενέσθω φῶς” (Gen 1, 3) –, αὐτὸς δὲ οὐδενὶ τῶν
γεγονότων ὅμοιος)» (I,75). Sul rapporto tra il prologo e speculazioni giudaico-
ellenistiche, quindi per una rilevante analisi dei paralleli con Filone, cf. T. Tobin,
The Prologue of John and Hellenistic Jewish Speculations, in «CBQ» 52, 1990,
252-269.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 173

rispetto alla quale si separa (cf. Gen 1,3), distinguendosi dalle acque pri-
mordiali, sulle quali originariamente lo Spirito aleggia (cf. Gen 1,2) e che
la luce trascende. Ebbene, proprio la connessione tra “parola” della «luce»
e «tenebre» “riappare” in Gv 1,5: «La luce splende nelle tenebre (τὸ φῶς
ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει)». La ritrattazione della Genesi è del tutto lampante107.
Si potrebbe obiettare: mentre Gen 1,3 afferma la creazione della luce da
parte di Dio, il Prologo identifica la Luce con il Logos divino, cioè con il
Figlio che è dio presso il Dio (Gv 1,1-2); d’altra parte, già in Proverbi 8 la
Sapienza era definita creata da Dio, pur essendole attribuito il ruolo divino
di “architetto” della creazione, quindi di vivificatrice del mondo:

Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività, prima di ogni sua


opera fin d’allora (sec. LXX: κύριος ἔκτισέν με ἀρχὴν ὁδῶν αὐτοῦ εἰς ἔργα
αὐτοῦ). Dall’eternità sono stata costituita, sin dal principio (πρὸ τοῦ αἰῶνος
ἐθεμελίωσέν με ἐν ἀρχῇ)… Ero la sua delizia ogni giorno, dilettandomi davan-
ti a lui in ogni istante (sec. LXX: καθ’ ἡμέραν δὲ εὐφραινόμην ἐν προσώπῳ
αὐτοῦ ἐν παντὶ καιρῷ)… Chi trova me trova la vita (sec. LXX: αἱ γὰρ ἔξοδοί
μου ἔξοδοι ζωῆς) (8,22-23; 29; 35).

Il Prologo, allora, dispiegherebbe una lettura sapienziale, quindi perso-


nalizzante del Fiat lux di Gen 1,3, interpretato quale Logos/Sapienza ἐν
ἀρχῇ108, quindi come Parola creatrice e donatrice di vita. E come la Sa-

107 Per una notevolissima reinterpretazione dell’intera dottrina della giustificazione


paolina quale apocalittica ri-creazione ex nihilo tramite la sua escatologica parola
di vita che è lo Spirito di Cristo, cf. E. Käsemann, Paulinische Perspektiven, Mohr
Siebeck, Tübingen 1969, 19722, tr. it. Prospettive paoline, Paideia, Brescia 1974:
l’esistenza cristiana è quindi restituita come «un continuo reditus ad baptismum,
un ascolto vissuto della parola creatrice» (137); «l’azione di Dio nella storia si
riferisce sempre, dal principio alla fine, a ciò che in sé non vale nulla… [operando
sempre] con un materiale inetto, in se stesso nullo; in ultima analisi, sempre sui
morti e coi morti (135).
108 Il primo studioso moderno che ha dispiegato una sistematica lettura “sapienziale”
del prologo, messo in relazione a Proverbi 8,22-31; Ecclesiastico 24; Sapienza di
Salomone e Baruch 3,37-4,1, è stato J. R. Harris, The Origin of the Prologue to St.
John’s Gospel, Cambridge University Press, Cambridge 1917. Per un aggiorna-
mento di questa prospettiva, cf. M.E. Willett, Wisdom Christology in the Fourth
Gospel, Mellen Research University Press, San Francisco 1992. Ancora preziose
sono le riflessioni di R.E. Brown, Giovanni…, Appendice seconda, «La “Paro-
la”», 1464-1471: riportando il Logos giovanneo all’ebraico dabar e all’aramaico
memra, insiste comunque sulla predominanza del senso ebraico di atto rivelativo,
operativo, eventuale, comunicativo, rispetto ad un’accezione ellenistica, preva-
lentemente ontologica, del termine. «Sembra che la descrizione della Parola fatta
nel Prologo sia di gran lunga più vicina a correnti di pensiero bibliche e giudaiche
174 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

pienza, così l’Unigenito che è il Logos vede il volto di Dio e per questo
può rivelarlo109. Non è possibile, pertanto, prescindere dal rapporto con
Proverbi 8 nella valutazione del Prologo giovanneo, tanto più che, in Prov
9,1-5, non soltanto si legge che «la Sapienza si è costruita la casa (sec.
LXX: ἡ σοφία ᾠκοδόμησεν ἑαυτῇ οἶκον), ha intagliato le sue sette colonne
[dunque la sua casa è presso Israele]» (1), ma anche che in essa offre il suo
pane e il suo vino:

Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato (Ἔλθατε


φάγετε τῶν ἐμῶν ἄρτων καὶ πίετε οἶνον, ὃν ἐκέρασα ὑμῖν). Abbandonate la
stoltezza e vivrete, andate dritti per la via dell’intelligenza (κατορθώσατε ἐν
γνώσει σύνεσιν) (Prov 9,5-6).

I paralleli con Gv sono del tutto evidenti, seppure rafforzati da riferi-


menti all’Esodo: in Gv 1,14 il Logos, incarnandosi, «venne ad abitare in
mezzo a noi (ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν)», divenendo il vero Tempio di Dio (cf.
3,19-21), il santuario della sua Gloria; in 2,11 il primo dei segni di Gesù
è la trasformazione miracolosa dell’acqua in vino; in 6,26-6 Gesù si iden-
tifica con la manna, il pane di vita disceso dal cielo110. Infine, Gesù dice
di sé: «Io sono la via, la verità e la vita (Ἐγώ εἰμι ἡ ὁδὸς καὶ ἡ ἀλήθεια
καὶ ἡ ζωή)» (14,6). Si potrebbe proseguire nell’identificazione di paralle-
li sapienziali veterotestamentari e intratestamentari (si pensi al libro della
Sapienza)111, capaci di illuminare la genesi della nozione di Logos divi-

che non ad alcunché di puramente ellenistico. Nel pensiero del teologo del Pro-
logo la parola creativa di Dio, la parola del Signore che era rivolta ai profeti, è
divenuta personale in Gesù, che è l’incarnazione della rivelazione divina» (1470).
Per un’approfondita analisi dei testi sapienziali – Gb 28; Prv 1-9; Bar 3,9-4,4; Sir
1; 4,11-19; 6,18-31; 14,20-15,10; 24; Sap 6-10 –, a partire dai quali interpretare
il Prologo e la teologia giovannei, cf. ancora R.E. Brown, Giovanni…, CXLVIII-
CLIII; sottolineo come Brown consideri una lettura sapienziale di Cristo rivela-
tore già presente nei sinottici, in part. in Mt 11,25-27; Lc 10,21-22: cf., in part.,
CLII-CLIII.
109 «Dio nessuno l’ha mai visto (θεὸν οὐδεὶς ἑώρακεν πώποτε): proprio il Figlio uni-
genito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (μονογενὴς θεὸς ὁ ὢν εἰς τὸν
κόλπον τοῦ πατρὸς ἐκεῖνος ἐξηγήσατο)» (Gv 1,18).
110 Cf. Filone, Quis rerum divinarum heres sit, 79: «Israele alza gli occhi verso l’etere
e le rivoluzioni del cielo; egli ha imparato a guardare verso la manna, che è il
Logos divino, cibo celeste ed incorruttibile dell’anima amante della contempla-
zione (εἰς τὸ μάννα ἀφορᾶν, τὸν θεῖον λόγον, τὴν οὐράνιον ψυχῆς φιλοθεάμονος
ἄφθαρτον τροφήν)».
111 Mi limito a citare due soli brani: «[La sapienza] è un’emanazione della poten-
za di Dio (ἀτμὶς γάρ ἐστιν τῆς τοῦ θεοῦ δυνάμεως), un effluvio genuino della
gloria dell’onnipotente (ἀπόρροια τῆς τοῦ παντοκράτορος δόξης εἰλικρινής)…
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 175

no preesistente e rivelato del Padre, proclamato nel Prologo. Ma perché


Giovanni ha, con tutta evidenza, traslato sul termine Logos ciò che diversi
testi ebraici riferivano alla Sapienza? Non soltanto perché, riferito a Gesù,
un sostantivo greco maschile era preferibile a un sostantivo femminile112,
ma, forse, perché il termine Logos meglio esprimeva il significato biblico
di rivelazione vivente, di parola di comunicazione “non oggettivata”, ma
personalmente eventuale, che il IV vangelo vuole recuperare e identificare
con la persona di Gesù113, latore dell’apocalisse salvifica.

8. Lux in tenebris: l’innalzamento del rigettato Messia escatologico a


Logos protologico

Emerge, a questo punto, la delicatissima questione dell’eventuale scarto


tra l’ipostatizzazione del Figlio preesistente e le tradizionali figure ebrai-
che di mediazione, comunque tutte ipostaticamente deboli e create: dalla
Sapienza di Proverbi 8, appunto, al Logos filoniano, dal Figlio dell’Uomo
apocalittico (di Daniele 7 o dell’enochico Libro delle Parabole) ad Adamo
vero profeta redivivo114. Sono, infatti, sempre più diffusi i tentativi storio-

È un riflesso della luce perenne (ἀπαύγασμα γάρ ἐστιν φωτὸς ἀιδίου), uno spec-
chio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà (εἰκὼν τῆς
ἀγαθότητος αὐτοῦ)» (Sap 7,25-26); «Dio dei padri e Signore dei misericordia, che
tutto hai creato con la tua parola (ἐν λόγῳ σου) e che con la tua sapienza (καὶ τῇ
σοφίᾳ) hai formato l’uomo» (9,1-2).
112 Cf. J. R. Harris, The Origin of the Prologue to St. John’s Gospel…, 25-26.
113 «Lungo i secoli la Sapienza aveva eclissato la Parola di JHWH. Nel suo Prologo
Gv fa riapparire il “dabár”, posto in ombra nella sistematizzazione biblica più
recente… Tra il Prologo e la tradizione sapienziale non c’è quindi soltanto con-
tinuità in quanto intuizione della venuta “concreta” di Dio, per salvare il mondo
degli uomini; c’è anche una discontinuità, ma una discontinuità feconda di senso:
il Logos non poteva essere identificato con una legge che in lui avrebbe preso
figura, con un progetto, fosse pure divino, o con una scrittura, per quanto ispirata.
Il Logos dice ciò che la Legge intendeva essere fin dalle sue origini, cioè una
rivelazione vivente e personale di Dio con gli uomini» (X. Leon-Dufour, Lettura
del Vangelo secondo Giovanni…, 100-101).
114 Qui mi limito a riportare un brano davvero straordinario di Filone, che ricapitola
tutti i principali nomi o le più significative figure di mediazione, che, comunque,
non riescono ad aggregarsi ipostaticamente nell’ipostasi del Figlio come secon-
do dio, tant’è che il Logos stesso viene qui indicato come Arcangelo: «Coloro
che hanno conoscenza dell’Uno sono a giusta ragione chiamati “figli di Dio”…
E se anche ci fosse qualcuno che non è ancora degno di essere chiamato “fi-
glio di Dio”, si affretti a mettersi in sintonia con il suo primogenito, il Logos
(κατὰ τὸν πρωτόγονον αὐτοῦ λόγον), il più venerabile degli angeli (τὸν ἀγγέλων
176 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

grafici di anticipare non più in uno gnosticismo precristiano di problema-


tica identificazione storica, ma all’interno dello stesso ebraismo intrate-
stamentario l’emergere di una vera e propria teologia della mediazione,
quindi il diffondersi di una “cristologia pregesuana” del Figlio divino, sic-
ché non soltanto Marco e Giovanni condividerebbero la stessa prospettiva
teologica, ma Gesù stesso avrebbe preteso di “incarnare” in sé l’identità del
mediatore divino115. Si finisce, infatti, per assumere nomi e figure ebraiche
della mediazione come ipostasi analoghe al Logos/Unigenito preesistente
giovanneo, finendo per sfumare la distinzione tradizionale, e a mio avviso
ancora storicamente fondata, tra cristologia bassa e cristologia alta, cri-
stologia eventuale-carismatica e cristologia ontologica. Spirito e Logos,
Parola e Profeta, Cristo e Figlio dell’Uomo, Unigenito preesistente e Ada-
mo protologico o escatologico tendono a risultare interscambiabili, sicché

πρεσβύτατον), potremmo dire l’Arcangelo (ὡς ἂν ἀρχάγγελον). A questo Logos


si attribuiscono molti nomi (πολυώνυμον ὑπάρχοντα), secondo che sia chiama-
to “principio (ἀρχή)”, “nome di Dio (ὄνομα θεοῦ)”, “Logos (λόγος)”, “uomo a
immagine (ὁ κατ’ εἰκόνα ἄνθρωπος)”, oppure il Veggente, ossia Israele (ὁ ὁρῶν,
Ἰσραήλ)… Se non siamo ancora degni di essere chiamati “figli di Dio”, almeno
cerchiamo di essere figli della sua immagine ideale: il santissimo Logos (λόγου
τοῦ ἱερωτάτου). In verità, l’immagine di Dio è il Logos (θεοῦ γὰρ εἰκὼν λόγος
ὁ πρεσβύτατος), la più venerabile delle creature (ὁ πρεσβύτατος)» (Filone, De
confusione linguarum 146-147).
115 Cf. D. Boyarin, The Jewish Gospels, Jack Miles, New York 2012, tr. it. Il vangelo
ebraico, Lit, Roma 2015: «Quando Marco si riferisce a Gesù nel secondo capitolo
del Vangelo come “Figlio dell’Uomo”, lo fa per sottolineare la natura divina del
Cristo» (45); «Ora voglio dimostrare che lo stesso Gesù si vedeva come il Figlio
dell’Uomo divino e lo farò illustrando un paio di difficili passaggi del secondo
capitolo del Vangelo di Marco» (64); cf. 63-74. Il presupposto è interpretare il Fi-
glio dell’Uomo di Dan 7 come vera e propria «seconda figura divina… in forma
umana» (46-47). Prospettiva analoga è quella proposta da G. Boccaccini, How
Jesus Became Uncreated, in J. Baden, H. Nayman, E. Tigchelaar (edd.), Sybils,
Scriptures, and Scrolls. John Collins at Seventy, Brill, Leiden-Boston 2017, I,
185-208, che fa dipendere la genesi della cristologia giovannea dal celeste Figlio
dell’Uomo enochico (cf. Libro delle parabole), creatura preesistente rispetto alla
creazione degli angeli e del mondo, quindi “divino” giudice escatologico, che
poteva essere onorato come “dio”. Gesù, discepolo del movimento apocalittico
di Giovanni Battista fortemente condizionato da teologumeni enochici, sarebbe
stato interpretato dai suoi discepoli come il preesistente Figlio dell’Uomo disce-
so in terra, riconosciuto non soltanto come giudice ultimo, o come messia del
mondo a venire, ma anche come colui che (a rischio di essere accusato di blasfe-
mia) pretendeva di perdonare i peccati individuali agli uomini già su questa terra.
L’innovazione del IV vangelo sarebbe stata l’interpretazione di Gesù come Figlio
increato e non solamente “divino” (come il creato Figlio dell’Uomo enochico, o
la creata Sapienza di Prov 8).
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 177

(come, di fatto, affermano non solo Boyarin, ma anche Talbert e Kinlaw) la


cristologia di Marco e la cristologia di Giovanni finiscono per sovrapporsi,
mentre penso esse siano piuttosto da interpretare come diversi stadi di un
rapido processo infracristiano di progressivo innalzamento dell’identità di
Gesù, che da uomo “divino”, Figlio messianico unto con lo Spirito esca-
tologico, diviene dio presso il Dio, preesistente Figlio unigenito, datore di
Spirito.
Allora, torna forse opportuno ricordare la messa in guardia di Barrett,
che valutava come «vicolo cieco»116 i tentativi di spiegare l’origine del
Logos giovanneo tramite la mera traslazione sul Gesù storico della no-
zione di dabar, memra, kavod o del nome di Dio (si pensi all’ἐγὼ εἰμί
ricorrente in Gv, derivato da una restituzione ellenistica di Esodo 3,14)117.
Forse, una prospettiva storicamente più attenta potrebbe indurre a non ri-
cercare a ritroso l’avatar della cristologia alta giovannea, postulando un’i-
dea astratta dell’ipostasi preesistente e persino della sua incarnazione in un
servo sofferente quale format teologico preconfezionato, successivamente
applicato alla singolare figura storica di Gesù. Penso, appunto, alle tesi
stimolanti e storicamente preziose, eppure a mio parere troppo semplifi-
catorie di Boyarin, che rischia la retroproiezione del modello della cristo-
logia giovannea prima sui vangeli sinottici, quindi su tradizioni ebraiche

116 Cf. C.K. Barrett, The Gospel According to St. John. An Introduction with Com-
mentary and Notes on the Greek Text, The Westminster Press, Philadelphia 1955,
19782, 153: «Memra is a blind alley in the study of the biblical background of
John’s logos doctrine… [Memra] was not truly a hypostasis but a means of spe-
aking about God without using his name, and thus a means of avoiding the nu-
merous anthropomorphisms of the Old Testament». Cf., in questa prospettiva, J.
Bowman, The Immanence of God: The Shekinah and the Memra, in J. Bowman,
The Fourth Gospel and the Jews. A Study in R. Akiba, Esther and the Gospel of
John, Pikwick Publications, Eugene 1975, 45-99; e R.E. Brown, Giovanni…: «La
Memra del Signore nei Targumin… è un surrogato per indicare Dio stesso….
Non si tratta di una personificazione, ma l’uso di Memra serve, per così dire, da
paraurti per la trascendenza divina» (1470).
117 Sulla restituzione del Logos giovanneo come “traduzione” di memra, cf. il cap.
«Logos of the Fourth Gospel and Memra of the Palestinian Targum (Exod 12:42)»,
in M. McNamara, Targum and New Testament. Collected Essays, Mohr Siebeck,
Tübingen 2001, 439-443; e soprattutto il volume di J. Ronning, The Jewish Tar-
gums and John’s Logos Title, Hendricksen, Grand Rapids 2010. Cf., inoltre, C.C.
Sullivan, Introducing the Incarnate Christ: How John’s Logos Theology Sets the
Stage for the Narrative Development of Jesus’s Identity, in «Canadian Theological
Review» 2/2, 2013, 33-44; J.F. McGrath, Prologue as Legitimation…, 105-106.
Sulla nozione di memra e di altre figure di mediazione, cf. il pionieristico saggio
di G.F. Moore, Intermediaries in Jewish Theology: Memra, Shekinah, Metatron,
in «The Harvard Theological Review» 15/1, 1922, 41-85.
178 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

preesistenti. Senza dubbio, le figure di mediazione del mediogiudaismo


sono innumerevoli e paiono talvolta urgere verso la ricapitolazione storica
in una figura messianica escatologica, ma, d’altra parte, esse non hanno
mai avuto la forza concettuale e storica di mettere in discussione il rigoro-
so monoteismo tradizionale. Si pensi al Logos filoniano, che oscilla tra la
potenza impersonale di Dio e l’arconte creato/uomo ad immagine (quale
l’Adamo Vero profeta del corpus pseudoclementino), sicché soltanto l’in-
fluenza della nozione medioplatonica di “secondo dio” può giustificarne la
relativa consistenza ontologica. Questa è comunque incapace di “tenere”
ipostaticamente al cospetto dell’ormai dominante monoteismo ebraico, ri-
uscito a riassorbire e ricapitolare in sé qualsiasi disseminazione del divi-
no, comprese le deboli figure celesti di mediazione, chiamate comunque a
salvaguardare la trascendenza assoluta dell’Altissimo. Ebbene, ritengo che
prive di un apocalittico fondamento storico di crisi radicale della rivelazio-
ne, le figure ebraiche di mediazione tra la trascendenza dell’unico Dio e il
mondo/Israele non riescano mai a costituirsi in persistente ipostasi perso-
nale: proprio perché idee di connessione logica necessaria tra principio e
derivato, assoluto e contingenza, proprio perché teofanie che mediano in
un continuo il rapporto fra Dio e creazione, esse, oscillando tra manifesta-
zione celeste e teofania storica, si sovrappongono, vanno e vengono quali
estroflessioni riassorbibili della potenza suprema di Dio, interscambiabili
e precarie perché di fatto superflue. In effetti, esse sono tutte varianti della
rivelazione fondativa di Dio, quella della Legge (con la quale Sapienza,
Logos, lo stesso Figlio dell’Uomo giudice finiscono per identificarsi), che
essendo principio ontologico e religioso di ordinamento e giustificazione
della creatura (del mondo e soprattutto di Israele eletto) si rivela come
teofania dell’unico Dio, limitandosi a rappresentarne il potere assoluto di
subordinazione salvifica.
Ritengo, piuttosto, che soltanto il tentativo pragmatico di dare ragione
di radicalissimi traumi storici, violente lacerazioni tra comunità giudai-
che, dispute e conflitti tra antitetiche pretese autoritative e non il meccani-
co, astratto riciclo di “indifferenti”, comuni dispositivi teologici118, possa

118 «La teologia dei Vangeli, ben lungi dal costituire un’innovazione radicale nel
contesto della tradizione religiosa israelitica, è un ritorno alquanto conservato-
re ai momenti più antichi della tradizione, nel frattempo soppressi in gran parte
[dall’affermazione di un rigoroso monoteismo], ma non del tutto» (D. Boyarin, Il
vangelo ebraico…, 57); «Tutte le idee riguardanti Gesù sono antiche: la novità è
Gesù. Non vi è nulla di nuovo, nella dottrina del Cristo, salvo la proclamazione di
quest’uomo quale Figlio dell’Uomo… Le idee della Trinità e dell’incarnazione, o
almeno gli embrioni di tali idee, erano già presenti tra i seguaci del credo ebraico
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 179

spiegare la crisi e la paradossale ritrattazione giovannea di un monotei-


smo ebraico chiamato a fuoriuscire da se stesso, o, meglio, l’introduzione
nell’intimità del Padre della precosmica relazione con la persona119 dif-
ferente del Figlio/Dio. La piena divinizzazione giovannea del Messia è,
infatti, l’esito più alto ed estremo della pretesa apocalittica protocristiana
di incarnare la sapienza, di togliere l’intera economia divina (e con essa
Legge e Tempio) in un singolo uomo storico120, divenuto scandalo e pietra
di inciampo nella storia giudaica del secondo Tempio. La “folle” e reietta
pretesa che il senso ultimo del rivelarsi di Dio si nasconda nell’abiezione
del bestemmiatore crocifisso dal Tempio quale maledetto dalla Legge121
può “alla lunga” essere tollerata, nonostante l’enigmatico prolungarsi del
ritardo della seconda parousia, soltanto divinizzando il rivelatore messia-
nico, assicurandone nell’intimità di Dio l’elettiva presenza teofanica, stori-
camente in apparenza sottratta. Quanto più diviene acuta la crisi di credibi-
lità in Gesù crocifisso creduto messia resuscitato, glorificato, asceso nello
Spirito quale Signore escatologico d’Israele, tanto più radicale finisce per
essere il rilancio della pretesa storica gesuana, che la comunità giovannea

molto prima che Gesù arrivasse sulla scena per incarnare tali nozioni teologiche e
rispondere alla chiamata messianica» (96-97).
119 «Vengono fatte [in Gv 1,1-3] affermazioni personali sulla “parola”: essa sempli-
cemente “era”, come esiste una persona nella sua autonomia; essa “era presso
Dio”, come sono le persone che stanno insieme; essa “era Dio”, come si descrive
l’essere delle persone. Con l’affermazione di questo carattere personale del Lo-
gos è nettamente tracciata una linea di separazione dalla speculazione sapienziale
giudeo-ellenistica, dalla dottrina sul Logos di Filone, nonché dalle idee gnostiche
di potenze creatrici, che procedono ed emanano l’una dopo l’altra da Dio» (R.
Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…, 294).
120 «Questa incarnazione in un unico uomo è molto di più delle reiterate incorpo-
razioni della sapienza in molti sapienti. Nel Nuovo Testamento si verificò una
rimitizzazione della sapienza» (G. Theissen, Erleben und Verhalten der ersten
Christen. Eine Psychologie des ersten Christentums, Gütersloher Verlaghaus,
Gütersloh 2007, tr. it. Vissuti e comportamenti dei primi cristiani. Una psicologia
del cristianesimo delle origini, Queriniana, Brescia 2010, 286).
121 «Secondo Paolo, la morte di Gesù contiene in sé in maniera inoppugnabile quel
conflitto che caratterizza essenzialmente la sua teologia, attraverso il contrasto
inconciliabile tra legge e vangelo. Il medesimo stato di fatto è presente in Hebr
13,12ss., ove si parla del morire fuori del campo della comunità del patto. Se
tentiamo di tradurre quest’affermazione in un’immagine moderna, al motivo della
morte di un delinquente si aggiunge quello di colui che muore senza Dio… Se la
croce, la quale oggi è considerata da noi come simbolo della religiosità, veniva
eretta nell’ambiente della lontananza da Dio, la venerazione di colui che vi era ap-
peso era in partenza lo scandalo estremo» (E. Käsemann, Prospettive paoline…,
61-62).
180 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

“raddoppia” nella proclamazione della sua preesistente divinità, signoria,


potenza teofanica. Soltanto la divinizzazione protologica può supportare
un già paradossale kerygma escatologico, quando il compiersi dell’attesa,
il ritorno dell’Amato è costretto ad essere indefinitamente rinviato. Eppure,
il nocciolo del kerygma rimane escatologico, apocalittico, estatico, sicché
la struttura della “nuova” relazione divina preesistente tra il Padre e il Fi-
glio gli si deve adeguare.
Si identifica, così, nel Figlio il punto archimedico di rovesciamento in-
terno e inveramento del monoteismo: il Figlio non è una (secondaria, con-
tinua, necessaria, quindi riassorbibile) manifestazione effusiva di ordine,
ma la tremenda alterazione rivelativa che dischiude “una volta per tutte”
il segreto del Padre, che ritratta la sua logica elettiva. Il Figlio è l’unico
interprete di Dio, il divino discrimine teofanico. È, allora, la violenza del-
la torsione dell’economia storica di salvezza quella che attiva la genesi
dell’economia binitaria (e successivamente trinitaria) protocristiana. Se
«tutto è compiuto (τετέλεσται)» (Gv 19,30) sulla croce, se nella catastrofe
della reiezione del messia culmina tutta la rivelazione del Dio di Israele, è
in questa paradossale perfezione rivelativa che va riconosciuto l’esclusivo
“venir fuori” di Dio, che ormai può essere visto soltanto grazie al Figlio,
che ne diventa l’intima apocalisse (Gv 1,18), al di là della Legge. Pertanto,
se la pienezza è nella fine, la fine è nella pienezza, se Dio compie il suo
rivelarsi nel Figlio crocifisso, questi, Luce che risplende nelle tenebre, ma-
nifesta l’eterno e divisivo segreto estatico, eventuale, comunicativo di Dio.
L’ordine della creazione e della Legge diviene l’ombra dell’eterna Luce
cristica, nella quale da sempre Dio avviene: se Cristo è il mistero ultimo di
Dio, la sua ontologizzazione comporta l’esaltazione protologica dell’esca-
tologia tragica gesuana, ovvero l’escatologizzazione gesuana della preesi-
stenza divina. L’innalzamento di Gesù “nel cuore” del Padre corrisponde,
inevitabilmente, alla frattura infraebraica, quindi a un’assolutizzazione del
trauma, di cui il nuovo binitarismo porta traccia.
In effetti, la radicale pretesa carismatico-escatologica di Gesù ultimo
profeta/messia apocalittico viene rigettata dall’ebraismo stabilito e mag-
gioritario: il Tempio lo crocifigge come maledetto della Legge, il popolo
di Israele non si converte (ad eccezione di un resto minimo), Tempio e
sinagoghe espellono, perseguitano o uccidono i suoi seguaci (da Stefano
a Paolo, da Giacomo ai martiri giovannei: cf. Gv 16,2-3), i più radicali dei
quali reagiscono avviando un processo di violenta denuncia dell’Israele
cieco e malvagio. A questo lacerante conflitto infraebraico (quello tra co-
munità gesuane e giudaismo stabilito e, parallelamente, quello tra pretese
gesuane e pretese profetico-messianiche rivali, quali quelle di Giovanni
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 181

Battista o di Simone samaritano) corrisponde un violento processo di radi-


calizzazione estatica delle originarie prospettive apocalittiche, che emerge
con sempre più forza dalla polimorfa rivelazione protocristiana. Questa
viene sempre più restituita come segnata dalla pretesa polemica di uno
scarto, più o meno radicale, tra vecchio e nuovo: nella potentissima pretesa
carismatica di Gesù apocalittico mediatore del Regno, interpretata come
messianica da parte delle comunità postpasquali, il Dio ebraico avrebbe
ritrattato la sua rivelazione, sicché vengono ad essere messi in tensione
antico e nuovo eone, antica e nuova rivelazione/alleanza, quindi Legge/
Tempio e Spirito del Risorto, elezione separata del giudaismo e razzia-
le universalizzazione (più o meno settaria) dell’elezione122. La pretesa di
“incarnare” in Gesù l’apocalisse della salvezza escatologica determina un
doppio scarto nella storia di Israele: Gesù e “i suoi” vengono scartati come
empi bestemmiatori dall’Israele incredulo, che questi reietti entusiasti giu-
dicano scartato (provvisoriamente per Paolo, definitivamente per Giovanni
e per il protocattolicesimo nascente) da Dio e dalla sua elezione salvifi-
ca. Alla condanna perdurante di bestemmia e apostasia, la fede in Gesù
Cristo non può che contrapporre, infine, una giustificazione iperbolica:
quella carne misconosciuta è l’ultima apocalisse dell’unico Dio nel Figlio,
che è il Logos Dio con il Padre sin dal principio del mondo. Nell’estatica
apocalisse gesuana, che vive della proiezione verso il Regno, quindi della
doppia catastrofe del Figlio (nel suo passare dalla pretesa messianicità alla
morte e da questa alla gloria del Risorto/Asceso) e della catastrofe eco-
nomica dell’ottenebrarsi dell’elezione di Israele (in Paolo e nello stesso
Giovanni), Dio si ritratta, si rivela volontà estatica, dischiude soltanto alla
fine la pienezza del suo disegno eterno: compie la sua rivelazione soltanto
in Gesù, nel quale riapre o riattiva la natura irriducibilmente eccedente,
quindi sempre aperta del suo rivelarsi, che relativizza la tradizione religio-
sa di Israele, quindi il “rivelato” del patto antico, riaffermando la dimen-
sione eventuale, carismatica, assolutamente libera della sua signoria. Se si
accede al segreto apocalittico di Dio soltanto attraverso l’eversivo, persino
“ripugnante” punctum contradictionis di Gesù, questi non può non essere
infine innalzato a irrinunciabile (ed elettiva, divisiva!) condizione teofa-
nica, che eternamente ne diffonde la Gloria. È soltanto la rivelazione del
Figlio dell’Uomo morto/risorto che trasforma il Dio della littera nel Padre
dello Spirito, sicché la relazione binitaria Padre invisibile/Figlio rivelatore

122 Cf. G. Lettieri, L’eresia originaria e le sue alterazioni. I – La matrice giudaico-


apocalittica dell’eresia di Gesù, in «B@belonline» 4, 2018 = Pensare l’eresia.
Tra origine e attualità, 26-78.
182 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

è la retroproiezione intradivina della dialettica economica littera-Spiritus


spinta al massimo grado di tensione rivelativa “dualistica”: l’unico Dio è
ormai interpretabile unicamente a partire dallo Spirito del Figlio morto/
risorto, crocifisso/esaltato, che lo rivela quale Padre.
L’estaticizzazione escatologica dell’economia salvifica (il compiersi
e togliersi di Legge/Tempio in Gesù Cristo/Spirito vivificante) determi-
na, pertanto, una sempre più radicale estaticizzazione protocristiana del
monoteismo. Il Logos giovanneo diviene, così, la torsione del vangelo/
logos escatologico in ontologia estatica, dell’evento della parola messia-
nica nell’eterno essere comunicativo e differente di Dio: l’apocalisse sto-
rico-eventuale diviene preesistente teofania elettiva, nella quale da sempre
Dio si rivela altrimenti, introiettando la differenza storicamente eversiva di
quel Figlio che l’Israele storico ha ormai espulso come radicalmente altro.
L’ultimo (il messia escatologico reietto, esaltato e presto ancora venien-
te) diviene il primo, l’eschaton irrompe nello stesso principio, il vangelo
apocalittico diviene apocalisse eterna di Dio nel Figlio. Gesù crocifisso e
risorto/glorificato nello Spirito viene così a costituire il polo personale, il
perno di torsione, paradossalmente interno e polemico, che magneticamen-
te attrae, ristruttura e riconverte in un paradossale principio escatologico la
pluralità di figure teologiche di mediazione della tradizione ebraica (come
più tardi farà con quelle del pensiero filosofico greco), perché viene ad es-
sere assunto come irrinunciabile, ultima, compiuta apocalisse del Padre. La
rivelazione escatologica di Dio nella kenosis di Gesù è talmente decostrut-
tiva della sua ipseità trascendente da estaticizzarla in se stessa: Dio invia
eternamente nella sua stessa intimità la sua parola apocalittica incarnata in
Gesù reietto e innalzato, giustificando sino alla divinizzazione la novitas,
quindi la crisi radicale che il vangelo introduce nella storia di Israele. Se
Cristo, misconosciuto da quasi tutto Israele, non è ancora venuto/tornato
è perché egli è già venuto da sempre presso il Padre come Luce elettiva,
decisiva.
Infatti, come si diceva, la proclamazione della divinità del Figlio da sem-
pre inviato dal Padre è irriducibilmente polemica e critica, porta ancora
traccia della frattura apocalittica infraebraica, impersonificata dal messia
reietto dall’Israele “accecato”, ma confessato Signore risorto ed esaltato
nei cieli dai suoi eletti, illuminati, veggenti apocalittici. Secondo un vero
e proprio processo di esemplarismo inverso, il Prologo descrive questa
traiettoria: il Figlio reietto, soppresso dalla tenebra del mondo/dei giudei
increduli, non è stato in realtà da questa compreso/afferrato/soppresso (il
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 183

καταλαμβάνω di Gv 1,5b; cf. 1,11)123, perché da sempre innalzato al Padre,


riconosciuto come la parola di Luce e Vita che separa ed espelle le tenebre.
La tragica scissione economica (l’ultimo è reietto dal primo, l’apocalisse
salvifica è rifiutata dal Tempio come empia secondo la Legge di Dio) viene
ritrattata e rovesciata nella preesistenza: Dio accoglie eternamente in sé il
Figlio reietto, il Logos messianico, che è sempre presso di sé. Pertanto, la
scissione storica aperta dall’apocalisse salvifica viene ad essere, tramite la
mediazione del Fiat Lux creativo, “accolta” nella preesistenza come eterna
donazione di Luce e separazione/crisi/giudizio/condanna delle tenebre, che
sono prima di tutto quegli ebrei che credono in un Dio statico e in-alterato,
cioè senza Figlio e senza intima estasi donativa. La creazione in principio
della Genesi viene, così, riletta come immagine prolettica della rivelazione
apocalittica. La risposta alla reiezione di Gesù messia è l’interpretazione
della crocifissione come innalzamento glorioso124, quindi come paradossa-
le manifestazione del risplendere della Luce nelle tenebre, sicché l’Unige-
nito preesistente creatore del mondo diviene il paradossale riflesso eterno
di Luce della fede nella resurrezione quale illuminazione escatologica.
Ne deriva una conclusione a prima vista paradossale: nel suo mitologico
ritrattare figure sapienziali della mediazione, il Prologo non è, malgrado le
apparenze, un testo “sapienziale”, mediatore, garante dell’ordine ontologi-
co, ma è un testo “kerygmatico”125, apocalittico, quindi elettivo, esclusivo e

123 Cf. R.E. Brown, Giovanni…, 10-11.


124 «Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo (ὑψωθῆναι δεῖ τὸν υἱὸν τοῦ
ἀνθρώπου), perché chiunque creda in lui abbia la vita eterna (ἵνα πᾶς ὁ πιστεύων
ἐν αὐτῷ ἔχῃ ζωὴν αἰώνιον)» (Gv 3,14).
125 Sul rapporto tra mito, sapienza, kerygma, cf. la complessa riflessione di G. Theis-
sen, Vissuti e comportamenti dei primi cristiani…, 272-372; in part.: «Un mito
presenta due facce: una sapienza universale e un kerygma drammatico. La sapien-
za è la forma religiosa moderata del mito, che può essere riassunta in regole di vita
e in esempi generali. La parola d’ordine della sua appropriazione recita: credo ut
intellegam. Invece il kerygma è la forma estrema del mito. Le regole familiari di
vita sono fondate esclusivamente da Dio in un evento drammatico. In questo caso
si va contro le regole del mondo esperienziale. Un kerygma è una provocazione,
uno skandalon controintuitivo. Qui la parola d’ordine per l’appropriazione recita:
credo quia absurdum est… Paolo distingue qui [in 1Cor 1,28ss.] a modo suo tra la
sapienza religiosa moderata e il kerygma religioso limite. La sapienza moderata è
basata su una cooperazione fra sapienza divina e sapienza umana, invece il keryg-
ma della croce è una pura autorivelazione di Dio senza cooperazione da parte
dell’essere umano. L’attribuzione causale religiosa è là inclusiva e qui esclusiva»
(282-284).
184 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

conflittuale, polemico126, identificando in Gesù la personale, eterna, eppure


nuova/eversiva «pura autorivelazione di Dio». Certo, proprio perché vertice
ultimo della retroproiezione dell’escatologico nel protologico e dell’estati-
cizzazione apocalittica dell’unico Dio ebraico, pare davvero problematico
negare la straordinaria densità ontologica e ipostatizzante di Gv 1,1-3, re-
stituendone la prospettiva in chiave “neo-sociniana”, come ad esempio ha
proposto, in un suo pur affascinante saggio, Georges Neyrand127. D’altra
parte, proprio per le considerazioni sopra avanzate, nel Prologo risulta evi-
dentissima la scaturigine storica dell’ipostatizzante proiezione protologica:
la dimensione sapienziale dell’inno è finalizzata, quindi subordinata ad esal-
tare il manifestarsi del preesistente quale Figlio incarnato e questo, come

126 Elemento sapienziale ed elemento apocalittico non possono, certo, essere opposti
astrattamente, tanto più se la storicamente approssimativa categoria di “apocalit-
tica” comporta in sé comunque una pretesa sapienziale di visione e conoscenza
dell’intimo segreto di Dio, spesso identificabile con il destino ultimo del mondo
e della storia. Si assume, piuttosto, qui l’elemento sapienziale come quello chia-
mato a riconoscere l’ordine del mondo fissato dalla creazione o dalla rivelazione
divina, all’interno del quale inserirsi tramite conoscenza e azione; e l’elemento
apocalittico come quello chiamato a prospettare un’ulteriore rivelazione divina,
che corregge o ritratta l’ordine del mondo o ne disvela un segreto ulteriore, un
nuovo ordine/regno-a-venire, donato agli eletti chiamati a un’intimità singolare
con Dio. Chiaramente, la Legge mosaica può essere interpretata sia come elemen-
to apocalittico, che come elemento sapienziale, in quanto assumibile sia come
pura autorivelazione donativa di Dio, sia come ordine fissato dal suo rivelarsi, di-
venuto disponibile al desiderio di assicurazione dell’uomo. Il grado estremo della
ritrattazione apocalittica è chiaramente quello protocristiano, in quanto, proprio
per lo scandaloso presupposto della crocifissione del preteso messia, interpreta la
nuova rivelazione dell’unico Dio come crisi radicale dell’antica economia, della
quale diviene insieme paradossale compimento e superamento polemico.
127 Cf. G. Neyrand, Le sens de “logos” dans le prologue de Jean…, che, insistendo
sull’ispirazione apocalittica del IV vangelo, interpreta il λόγος come “vangelo”,
rivelazione salvifica, quindi in senso totalmente storico ed eventuale, e niente af-
fatto ontologico o protologico. Sin dal primo versetto, pertanto, il testo sarebbe
riferito a Gesù Cristo quale parola rivelatrice: «Le terme logos veut présenter
Jésus-Crist en tant que Parole révélatrice. Il s’agit dès le premier verset de Jésus
incarné. Il n’est pas question d’un Logos éternel» (60), né si farebbe mai rife-
rimento al Logos quale creatore. Il «principio» nel quale opera il Logos sareb-
be, quindi, il principio della predicazione di Gesù e della storia della chiesa (cf.
62-66). In tal senso, Gv 1,14 non affermerebbe una dottrina dell’incarnazione
dell’Unigenito divino preesistente, ma la verità salvifica: «La Révélation, c’est
l’homme Jésus» (70). Quest’interpretazione, che definirei neo-sociniana, non
risulta convincente a) per la sostanziale negazione del riferimento a Gen 1,1-3,
quindi della preesistenza del Logos; b) per non impegnarsi a verificare le sue
tesi con un’interpretazione degli eventi del Giordano, malgrado l’ingombrante
presenza del Battista nel Prologo.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 185

vedremo, già a partire da Gv 1,4-5 fino a 1,18. Il Prologo proclama la divini-


tà protologica del Figlio soltanto perché nel Gesù storico è apparsa «la Luce
della Vita (τὸ φῶς τῆς ζωῆς)» (Gv 8,12; cf. 5,20-47). È, quindi, la decisività
dell’esistenziale scelta di fede richiesta da Gesù a produrne e governarne la
divinizzazione “mitologizzante”, sicché il recupero di dispositivi mitolo-
gici/teologici tradizionali è, in effetti, demitologizzante (in proposito, l’in-
terpretazione di Bultmann rimane la più profonda)128. Di conseguenza, nel
Prologo la celebrazione della preesistenza divina del Figlio è finalizzata alla
giustificazione ed esaltazione della sua enigmatica rivelazione storica. «Io e
il Padre siamo una cosa sola (ἐγὼ καὶ ὁ πατὴρ ἕν ἐσμεν)… Il Padre è in me
e io sono nel Padre (ἐν ἐμοὶ ὁ πατὴρ κἀγὼ ἐν τῷ πατρί)»129: Dio è fuori di sé,
si dà soltanto nella rivelazione del Figlio, che è la rivelazione personale del
Padre, dischiusa dalla carne storicamente reietta di Gesù. Rivelazione dua-
listica, tragica, perché segno di contraddizione, principio di rovesciamen-
to nell’identità tradizionale di Israele. Il Figlio giovanneo, pertanto, non è
principio mediatore diffusivo, ma principio catastrofico, rivoluzionario del
monoteismo, che fa ruotare in sé verso l’a-venire dell’ultimo.
Rintracciamo nel Prologo la “prova” biblica della pretesa escatologico-
apocalittica giovannea; soltanto l’ultimo, il Figlio incarnato è l’interpre-

128 «[Il Gesù giovanneo] non trasmette, a differenza del redentore gnostico, misteri
cosmologici e soteriologici…. È quindi evidente che le espressioni mitologiche
hanno perso il loro senso mitologico. Gesù non è presentato davvero come un
essere divino preesistente, venuto sulla terra in figura d’uomo per rivelare misteri
inauditi; la terminologia mitologica ha la funzione di evidenziare il significato as-
soluto e decisivo della sua parola; la rappresentazione mitologica della preesisten-
za è posta al servizio dell’idea di rivelazione… La parola di Gesù è assolutamente
inaccessibile a qualsiasi controllo umano, è parola autoritativa, che pone l’uditore
di fronte alla decisione tra vita e morte… L’incontro con la sua persona chiama
alla decisione l’uomo nella totalità della sua situazione umana» (R. Bultmann,
Theologie des Neues Testaments, Siebeck, Tübingen 1953, 19777, tr. it. Teologia
del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 1985, 19922, 394); cf. 337-348 e 372-
381; cf. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes…, 38-39, dedicate all’in-
terpretazione esistenziale giovannea del mito gnostico della rivelazione mondana
del redentore celeste, in riferimento a Gv 1,14; e J. Zumstein, Il Vangelo secondo
Giovanni…, I,82-86. Proprio perché governata dalla logica apocalittica della crisi
radicale della tradizionale rivelazione ebraica avvenuta tramite la singolarità sto-
rica della figura di Gesù, approfondirei la seguente affermazione di G. Theissen,
Vissuti e comportamenti dei primi cristiani…, 286: «Un’immagine divenne un
mito: il Logos si fece carne… Nel Nuovo Testamento si verificò una rimitizzazio-
ne della sapienza [veterotestamentaria]»; specificherei bultmannianamente: per
esaltare la decisione storica per il vangelo di grazia, singolarmente “incarnato” in
Gesù.
129 Gv 10,30 e 38; cf. ovviamente 17,11; 17,20-23.
186 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

te del primo, del Padre, da quello rivelato estatico, perché la rivelazione


elettiva del Padre ad Israele è apocalitticamente ritrattata nell’«io sono»
dell’Unigenito venuto nella carne130:

Dio nessuno l’ha mai visto (θεὸν οὐδεὶς ἑώρακεν πώποτε): proprio il Figlio/
dio unigenito, che è nel seno del Padre (μονογενὴς υἱός/θεὸς ὁ ὢν εἰς τὸν
κόλπον τοῦ πατρὸς), lui lo ha rivelato/dimostrato (ἐκεῖνος ἐξηγήσατο) (Gv
1,18).

L’origine della teologia binitaria giovannea è, quindi, dichiaratamente


ermeneutica, come segnala il verbo ἐξηγέομαι131. Il Figlio è l’esegeta apo-
calittico del Padre, in quanto il Padre rivela la sua eterna volontà soltanto
nell’escatologica rivelazione del Figlio132. Risulta del tutto logica, pertan-
to, l’introduzione nel Prologo del riferimento a Mosè (sul quale tornerò
più avanti): soltanto Cristo è la chiave interpretativa del dono della Legge,
quindi egli è (superando la promessa di Deut 18,15) un profeta assoluta-
mente più grande di Mosè. L’iperbolica pretesa del superamento dell’e-
conomia della Legge nell’ultima apocalisse del Figlio crocifisso133 viene,
allora, ontologizzata nell’esaltazione del messia misconosciuto a supremo
compimento della Legge, che egli toglie in sé quale diretto, preesistente,
divino “esegeta” del Padre. Soltanto il Figlio vede da sempre in profondità
il Padre, rivelandolo escatologicamente; soltanto il Figlio, e non Mosè, è
la Gloria irradiante e permanente di Dio: 2Cor 3-4 (su cui dovremo torna-
re) sembra qui presupposto e superato dal Prologo, quando questo proto-

130 Cf. L. Devillers, Exégèse et théologie de Jean I,18, in «Revue Thomistique» 89,
1989, 181-217; L. Devillers, Le sein du Père. La finale du prologue de Jean, in
«Revue biblique» 112/1, 2005, 63-79.
131 «Il verbo ἐξηγέομαι significa “raccontare, esporre, comunicare, far conoscere”. Il
suo impiego indica che “con il suo parlare e il suo agire Gesù è l’interpretazione
di Dio nel mondo. Con il suo volto si rivela chi è Dio. È l’interpretazione riuscita
di Dio, la traduzione di Dio nell’ambito dell’umano” (Josef Blank)» (J. Zumstein,
Il Vangelo secondo Giovanni…, I,91).
132 «Voi non conoscete né me né il Padre (Οὔτε ἐμὲ οἴδατε οὔτε τὸν πατέρα μου); se
conosceste me, conoscereste anche il Padre mio (εἰ ἐμὲ ᾔδειτε, καὶ τὸν πατέρα μου
ἂν ᾔδειτε)… Come mi ha insegnato il Padre, così io parlo (καθὼς ἐδίδαξέν με ὁ
πατὴρ ταῦτα λαλῶ)» (Gv 8,19 e 8,28). La conoscenza di Cristo: «Questa è la vita
eterna (αὕτη δέ ἐστιν ἡ αἰώνιος ζωή): che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui
che hai mandato Gesù Cristo (ἵνα γινώσκωσιν σὲ τὸν μόνον ἀληθινὸν θεὸν καὶ
ὃν ἀπέστειλας Ἰησοῦν Χριστόν)… La tua parola è verità (ὁ λόγος ὁ σὸς ἀλήθειά
ἐστιν)» (17,3 e 17,17). Se il Padre è l’unico Dio, questi è conoscibile unicamente
tramite la sua rivelazione nel Figlio, che è il Logos che è verità.
133 Cf. Gv 5,39-40; 5,45-47, con il riferimento a Mosè e alla Scrittura come prova
della divinità e della rivelazione escatologica del Figlio.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 187

logizza l’esaltazione paolina di Cristo quale Immagine/Gloria/Luce/Volto


escatologico di Dio superiore a Mosè. E, comunque, l’Unigenito è rivelato
“ai suoi” soltanto nella sua incarnazione, nel suo essere crocifisso e innal-
zato, sicché soltanto l’ultimo, il Figlio che viene, dischiude la profondità
originaria (l’ἀρχή) del Padre, nel cui seno l’Unigenito è l’eterno veniente:
«Da Dio sono uscito e vengo (ἐγὼ γὰρ ἐκ τοῦ θεοῦ ἐξῆλθον καὶ ἥκω)» (Gv
8,42). Ribadisco, allora, come il Prologo concepisca la generazione o la
venuta preesistente del Logos Unigenito non con finalità cosmologica, ma
con finalità apocalittica: il Logos non è tanto principio ordinatore e legisla-
tore della creazione, quanto vangelo escatologico divenuto evento persona-
le preesistente di donazione gratuita e di giudizio, di separazione tra luce e
tenebra, vita e morte, elezione e reiezione134. Divinizzare Gesù, identifican-
dolo con l’apocalittico Figlio dell’Uomo che discende dal cielo, significa
assolutizzare la κρίσις (il giudizio) rivelativa del Messia reietto e crocifisso
come maledetto, sicché la Luce che egli fa risplendere non è cosmologico,
universale principio di irradiazione ontologica, ma atto apocalittico, irridu-
cibilmente dualistico, essendo rivelazione critica, divisiva, enigmatica, nel
suo eleggere e respingere: l’uomo reietto dalla religione stabilita di Israele
viene rivelato come intimo segreto rivelativo di Dio, chiama alla decisione
e giudica la tenebra, dona la pienezza della vita eterna a “i suoi” e punisce
la resistenza ostile del mondo. Il Prologo è la traslazione nella protologia
teogonica del dramma storico di Gesù rivelatore apocalittico. Se l’Unigeni-
to, rivelato nella carne dell’uomo Gesù ai suoi eletti, è da sempre il divino
esegeta del Padre, la sua “Immagine” escatologicamente trasfigurante135,
questa è “da sempre” Lux in tenebris…

134 Cf. Gv 12,46 e 48: «Io come Luce sono venuto nel mondo (ἐγὼ φῶς εἰς τὸν
κόσμον ἐλήλυθα), perché chiunque creda in me non rimanga nelle tenebre (ἵνα
πᾶς ὁ πιστεύων εἰς ἐμὲ ἐν τῇ σκοτίᾳ μὴ μείνῃ )… Chi mi respinge e non accoglie
le mie parole (ὁ ἀθετῶν ἐμὲ καὶ μὴ λαμβάνων τὰ ῥήματά μου ἔχει), ha chi lo con-
danna (τὸν κρίνοντα αὐτόν): la parola che ho annunziato lo condannerà l’ultimo
giorno (ὁ λόγος ὃν ἐλάλησα ἐκεῖνος κρινεῖ αὐτὸν ἐν τῇ ἐσχάτῃ ἡμέρᾳ)» (Gv 12,46
e 12,48). Se Cristo annuncia il vangelo, quindi le sue parole che sono il suo logos
annunziato, e se il vangelo/logos si risolve in Gv nell’annuncio di Cristo stesso, il
logos/Logos sarà il giudice escatologico.
135 Malgrado Gv non utilizzi mai il termine εἰκών, il Figlio Luce e “interprete” del
Padre richiama il paolino Cristo Gloria e Immagine illuminante (cf. 2Cor 2,18 e
4,4), nella quale sono incorporati e trasfigurati i credenti, fruendo dello Spirito
escatologico. Cf., in proposito, S. Kim, The Origin of Paul’s Gospel, Mohr Sie-
beck, Tübingen 1981, 19842, 140-144. Tornerò più avanti sul parallelo tra Gv e 2
Cor 3-4.
188 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

9. La struttura a spirale del Prologo e l’incarnazione della Luce al


Giordano

Ma quando il Prologo descriverebbe l’incarnazione del Logos? Il ver-


setto 1,14 dovrebbe lasciare pochi dubbi: «E il Verbo si fece carne (καὶ
ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο)»… Eppure, riconoscendo la struttura a spirale del
testo136, che, discendendo dalla trascendenza protologica alla bruciante at-
tualità storico-ecclesiale, torna ripetutamente a proclamare l’evento inau-
dito dell’irruzione del Figlio divino nella storia, convengo che in realtà il
versetto che per primo annuncia la teofania sia 1,5: «E la luce splende nelle
tenebre (καὶ τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει)». Già in 1,5 il Prologo descrive
l’apocalittico presente storico della teofania, il rifulgere della Luce incar-
nata in Gesù137 e non quello della Luce primordiale, né allude alla presenza

136 La struttura a spirale del Prologo è di fatto implicitamente condivisa da M. The-


obald, Le Prologue johannique (Jean 1,1-18) et ses “lecteurs implicites”, in
«Recherches de Science Religieuse» 83/2, 1995, 193-216, in quanto interpreta
come riferiti all’incarnazione già i vv. 4-5, seppure egli la consideri solennemente
proclamata nel v. 14: «Le v. 4 thématise déjà l’irruption de la lumière divine en
ce monde dans la personne et par la voie de Jésus de Nazareth; il parle par image
de ce qui sera appelé plus tard au v. 14 l’incarnation du Logos. En conséquence,
la séquence 1-5 contient effectivement le tout de la révélation du Christ in nuce:
commençant par l’existence éternelle, avant le monde, du Logos auprès de Dieu
(v. 1f), elle affirme le renvoi de la réalité de la création dans son ensemble à ce
Logos (v. 3), pour terminer en nommant le fondement et le point de référence
de toutes ces déclarations, à savoir que ce Logos éternel, divin, est apparu défi-
nitivement dans ce monde comme la vie et la lumière des hommes en Jésus de
Nazareth» (205).
137 Seguo, in questo caso, J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…: «Nella sto-
ria dell’interpretazione il significato del presente “brilla” (φαίνει) è controverso.
Si tratta di un presente intemporale? In tal caso, il presente sarebbe in rappor-
to con il Logos asarkos (prima dell’incarnazione) e indicherebbe la luce di vita
presente nel mondo fin dalla creazione. O invece “brilla” è un presente storico
(cf. al v. 15 il presente “rende testimonianza [μαρτυρεῖ])? In questo caso il testo
alluderebbe al Logos ensarkos (incarnato). Non vi è alcun dubbio: si tratta del
Logos ensarkos. La luce che brilla nelle tenebre simboleggia la presenza di Gesù
di Nazareth, il rivelatore, nella storia. Infatti, da un punto di vista post-pasquale
– quello della comunità giovannea –, il fatto che “la luce brilli” non può essere
separato dall’incarnazione» (I,80); cf. A. Dettwiler, Le Prologue Johannique…,
200; e le lucide considerazioni di M. Hooker, John the Baptist and the Johanni-
ne Prologue…, 157, e n. 2. Sull’interpretazione di Gv 1,5 come riferimento alle
resistenze dei “Giudei” nei confronti della rivelazione di Gesù Cristo/Luce, cf. J.
Ashton, Understanding the Fourth Gospel, Clarendon, Oxford-New York 1991,
Oxford University Press, Oxford 20072, 367-370. Per un’interpretazione ambigua
di questi versetti, cf. J.F. McGrath, Prologue as Legitimation…, 109-110, in part.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 189

della rivelazione del Logos nella Legge o nella “natura” umana creata ad
immagine138. Insomma, sin da “il prologo del Prologo” in cielo di 1,1-3139,
il Prologo gravita tutto intorno all’incarnazione del Logos, quindi alla sua
storica venuta nascosta nel mondo nella persona di Gesù, misconosciu-
ta dagli ebrei («i suoi (οἱ ἴδιοι)»), identificati con le tenebre del mondo,
ma che Giovanni ha, per dono di Dio, riconosciuta, vista e testimoniata.
La stessa irruzione della «vita [che] era la luce degli uomini» (1,4) è, in
realtà, riferita al Logos, quindi al vivificante venire storico della Luce di
1,5, con il suo redentivo risplendere (escatologico e non ontologico) tra gli
uomini140. L’irruzione del presente141, che interrompe la serie degli imper-

n. 56: i non cristiani avrebbero interpretato l’opposizione luce/tenebra, riferendola


all’ambito della creazione; i cristiani alla resistenza alla missione di Gesù Cristo.
138 Per un’interpretazione “gnostica” e sapienziale del Prologo, di cui è minimizzata
la centralità dell’incarnazione a favore della rivelazione “interiore” e universale
nell’intelligenza delle creature, cf. i notevoli saggi di E.H. Pagels, Exegesis of
Genesis 1 in the Gospels of Thomas and John, in «Journal of Biblical Literature»
118/3, 1999, 477-496; D. Boyarin, The Gospel of the Memra…; e quella cattolica
di U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovanni…, 45-46. Così, M.-É. Boismard,
Le Prologue de saint Jean, Cerf, Paris 1953, ritiene che il testo tratti del Logos
incarnato soltanto a partire dal v. 9, che quindi Gv 1,1-5 sia riferito unicamente
all’attività cosmologica del Figlio: cf. 24-38; 176-177. Analoga la prospettiva di
B. Peters, Das Evangelium nach Johannes…, 34-38; e di R.E. Brown, Giovan-
ni…, 36-38.
139 «Anche nel suo versetto iniziale il Prologo non concepisce una Parola che non
debba essere manifestata agli uomini… Tutto il carattere dell’inno come storia
della salvezza lo distanzia di molto dal più speculativo mondo del pensiero elleni-
stico» (R.E. Brown, Giovanni…, 33-34).
140 L. Miller, Salvation-History in the Prologue of John…, propone, infatti, di inter-
pretare Gv 1,4-5 non in prospettiva protologico-creazionistica, ma in prospettiva
escatologico-redentiva, quindi in riferimento allo «historical advent of the Logos»
(102), quindi alla stessa incarnazione del Logos quale salvifico Spirito vivificante:
cf. 97-109. Quest’ipotesi avallerebbe l’interpretazione che sto avanzando dell’in-
tero Prologo come discesa dello Spirito vivificante quale preesistente Logos della
Luce, incarnatosi nell’uomo Gesù presso il Giordano al cospetto del Battista.
141 «The present tense of “shines” (φαίνει) is a puzzle» (E. Haenchen, Das
Johannesevangelium. Ein Kommentar, Mohr Siebeck, Tübingen 1980, tr. ingle-
se John 1. A Commentary on the Gospel of John. Chapters 1-6, Fortress Press,
Philadelphia 1984, 114). Lo stesso R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…,
I, 283, definisce il presente φαίνει «sorprendente», ma finisce per offrirne un’in-
terpretazione ambigua, persino indecisa: a) da una parte, esso farebbe riferimento
alla perdurante «luce del Logos che illumina l’umanità» (309); b) dall’altra, «la
sua espressione si riferisce tanto all’apparizione storica del Logos che è venuto
nel mondo, quanto all’epoca dell’evangelista, in cui continua ad essere operan-
te la forza della luce divina, portata nel mondo tenebroso, dall’incarnato… Alla
venuta storica del Logos si vide che “le tenebre non afferrarono la luce” (309-
190 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

fetti e aoristi precedenti, prova lo slittamento di piano dalla preesistenza


“sovratemporale” al presente storico. Il φαίνει è uno squarcio apocalittico,
descrive l’avvento folgorante del preesistente nella storia degli uomini, ac-
centuato dall’immediato ricorso a un nuovo aoristo: «Ma la tenebra non
l’ha accolta (καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν)». E qui l’unica storia dav-
vero salvifica, come preciserà Gv 1,17-18, non è certo quella precedente
l’avvento del Logos in Gesù, ma proprio quella apocalittica dell’irruzione
“traumatica” e dualistica della Luce del Logos incarnato nelle tenebre142. E,

310); comunque, nella sua proposta di tripartizione del Prologo, Gv 1,5 viene
assegnato alla sua prima sezione (1-5), quella che tratterebbe de «l’essere pree-
sistente del Logos» (283); seppure non escluda che «l’evangelista», rielaborando
un inno preesistente, abbia voluto «richiamare fin da principio l’attenzione sul
Λόγος ἔνσαρκος, perché nel suo vangelo tutto l’interesse è rivolto all’accetta-
zione o al rifiuto del Figlio di Dio fatto uomo, alla fede o all’incredulità in Gesù
Cristo» (285). Analoga l’interpretazione di J. Ashton, Understanding the Fourth
Gospel…: «The present tense in v. 5 (φαίνει), ‘shines’, which has puzzled many
commentators, does not indicate the bright start of a new age, but a continuous
illumination that finally flames out in the incarnation of the Logos» (389). Altret-
tanto ambigua risulta l’interpretazione di X. Leon-Dufour, Lettura del vangelo
secondo Giovanni (capitoli 1-4)…, 132-136: «“La luce brilla nelle tenebre”. Il
testo allude certamente alle infedeltà che tanto spesso i profeti avevano rimpro-
verato a Israele e sulle quali Dio trionfava sempre nuovamente; anticipa inoltre
eventi accaduti durante la vita di Gesù e la vittoria di Dio che risuscita il suo
Figlio: infine tiene viva nella mente del lettore l’esperienza dei cristiani che co-
statavano l’accecamento di un gran numero di persone di fronte a Gesù, mentre la
loro comunità fraterna continuava a irradiare attorno a sé la fede e l’amore (1Gv
2,8). La tenebra rimane sempre presente, ma non ha arrestato la luce, non più di
quanto l’arresti ancor oggi» (135). Nettamente più orientato a interpretare Gv 1,5
in riferimento all’incarnazione del Logos, malgrado sottolinei l’ambiguità inten-
zionale dell’espressione, è D.A. Carson, The Gospel According to John, Apollo/
Eerdmans, Leicester/Grand Rapids 1991, 119-120.
142 Il consenso è, in proposito, autorevolissimo: cf. R. Bultmann, Das Evangelium
des Johannes…, 25-27 e 32-33; in part.: «Von der gegenwärtigen Offenbarung ist
die Rede…», sicché la resistenza delle tenebre al rivelarsi della Luce è interpre-
tato «als Ablehnung des fleischgewordenen Offenbarers» (25); «Was 1,14 durch
die Identifikation des Logos mit dem Menschen Jesus behauptet wird, wird also
schon hier deutlich: in Jesus ist nicht ein anderes Licht erschienen als das, welches
in der Schöpfung immer schon leuchtete… Daß in diese Welt der Finsternis das
Licht der Heilsoffenbarung scheine, sagt 1,5a» (27-28). «Es gibt schlechterdings
kein durchschlagendes Argument dafür, daß [vv.] 5-13 jemals auf etwas ande-
res als die geschichtliche Epiphanie des Offenbarers bezogen worden sein» (E.
Käsemann, Aufbau und Anliegen des johanneischen Prologs, in W. Matthias e E.
Wolf (edd.), Libertas Christiana, Kaiser, München 1957, 75-99, quindi in Exege-
tische Versuche und Besinnungen, II, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 1964,
155-180, in part. 166). Opportunamente Haenchen connette l’interpretazione di
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 191

Bultmann e Käsemann a quelle dominanti nell’antichità cristiana, pur respingen-


dole: «If one interprets verse 5 from the point of verses 6-8, verse 5 is to be
related to the incarnation of Jesus. In fact, the interpretation of the ancient church
is generally invoked for the first mention of the Logos becoming man in verse
5… For the church it was decisive that John the Baptist is treated in verse 6. On
that basis, the church unavoidably interpreted verse 5 to refer to the incarnation
of the Logos» (E. Haenchen, Das Johannesevangelium. Ein Kommentar, Mohr
Siebeck, Tübingen 1980, tr. inglese John 1. A Commentary on the Gospel of John.
Chapters 1-6, Fortress Press, Philadelphia 1984, 114-115). Insomma, condivido
pienamente quello che, in riferimento a Gv 1,5, scrive J.R. Michaels, The Gospel
of John, Eerdmans, Grand Rapids-Cambridge 2010: «The tense of the verb chan-
ges from imperfect to present. The light “is shining” (phainei) in the darkness.
Having looked at beginnings, and how “all things came into being” (v. 3), the
Gospel writer returns to his own time and his own world. What is striking is that
he passes over the whole “biblical” period (what Christians today call the “Old
Testament”) in silence. Some modern interpreters have found this odd, and have
tried to find allusions to the Old Testament, beyond Genesis 1, either in verses
1-5 or verses 6-13, or both. But these supposed allusions are not convincing. This
book is a Gospel, not a survey of redemptive history. Having laid claim, briefly
and decisively, to the whole created order on behalf of the Word (and implicitly,
though only implicitly, to the entire biblical past), the writer moves on to tell the
Gospel story, the good news of Jesus. As readers, we are not kept in suspense.
We learn immediately that the story will have a happy ending. The light “is shi-
ning in the darkness” we are told, not continually through time but specifically
now, because something decisive happened. What that something was, we are
not told. The Christian reader familiar with the rest of the New Testament alrea-
dy knows, and probably the Gospel’s original readers knew. But all we are told
explicitly is what did not happen: “the darkness” did not “overtake” (katelaben)
the light» (30). Commentando Gv 1,5, Michaels mi pare colga perfettamente il
senso del versetto: «The writer boldly passes over the entire Old Testament pe-
riod in silence. In one breath he speaks of light and life coming into existence at
creation, and in the next he proclaims that same light shining today, unquenched
by the darkness around it. The rest of the Gospel makes clear that the reference
is to the life and death of Jesus, who came into the world as a light (3,19; 8,12;
12,46) and confronted darkness in the hour of his death (9,4-5; 11,9-10; 12,35-36;
13,30). “The light shines in the darkness” now, because of Jesus and what he has
done» (J.R. Michaels, John, Baker, Grand Rapids 1984, 19892, 11). Non trovo
convincente R.E. Brown, Giovanni…, che preferisce riferire Gv 1,4 all’ambito
della creazione, piuttosto che a quello della redenzione, avviata con l’incarna-
zione di Gesù, preannunciata dal Battista, a partire da 1,6-8. Non può comunque
escludere l’ipotesi che Gv 1,5 faccia riferimento all’incarnazione del Logos: «Se
“la luce” è un riferimento alla Parola incarnata…, la riga vuol dire che gli uomini
non percepirono la luce portata da Gesù durante il suo ministero (3,19)» (10). Cf.,
infine, M. Theobald, Die Fleischwerdung des Logos…, 189; 211-; e M. Theobald,
Le Prologue johannique…, 203-205; O. Schwankl, Die Metaphorik von Licht und
Finsternis im johanneischen Schrifttum, in K. Kertelge (ed.), Metaphorik und My-
192 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

in effetti, come ha segnalato Bultmann143, Gv 1,5 trova una notevolissima


corrispondenza con 1Gv 2,8: «Le tenebre stanno diradandosi e la vera luce
già risplende (ἡ σκοτία παράγεται καὶ τὸ φῶς τὸ ἀληθινὸν ἤδη φαίνει)»,
con esplicito riferimento al comandamento nuovo dell’amore rivelato e
compiuto dalla Luce incarnata nella sua comunità escatologica.
Non a caso sia 1,5 che 1,14 sono immediatamente seguiti dall’irruzio-
ne del Battista testimone144, che, come egli stesso afferma apertamente
in 1,34, può testimoniare soltanto se ha già visto: «E io ho visto (κἀγὼ
ἑώρακα) e ho testimoniato (καὶ μεμαρτύρηκα)». Pertanto, se, come co-
munemente riconosciuto, il redattore finale ha interpolato i versetti 1,6-8
subito dopo l’affermazione: «La luce splende nelle tenebre» (1,5), è per-
ché logicamente soltanto il precedente avvenire della teofania dell’in-
carnazione può determinare la conseguente, visionaria testimonianza del
Battista. Giovanni Battista è l’eletto testimone veggente, non il profeta
estatico dell’incarnazione del Logos: segue e non precede lo splendore
della rivelazione salvifica145. Il Battista può prendere la Parola, soltanto

thos im Neuen Testament, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1990, 135-167: Gv 1,5,


riferito alla venuta del Logos/Luce nel mondo, quindi alla sua incarnazione, è
interpretato come la tematizzazione dell’intero IV vangelo (cf. 143), sicché Gv
1,9-12 fornirebbe l’esegesi di Gv 1,5 (cf. 146); così come Theobald, Schwankl
sostiene, a mio avviso infondatamente, la presenza nel IV vangelo di una dottrina
dell’incarnazione per nascita del Logos: cf. 145.
143 Cf. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes…, 26. Già Origene, CmGv
II,166-167 interpreta Gv 1,5 in riferimento all’incarnazione e alla passione del
Figlio, che le tenebre cercano di sopprimere: «Cristo, a causa della sua azione
a favore degli uomini, ha preso su di sé le nostre tenebre, per annientare con la
sua potenza la nostra morte e dissipare le tenebre che sono nella nostra anima,
in modo che si adempia ciò che è detto in Isaia [9,1]: “Il popolo che stava nelle
tenebre ha visto una grande luce”. Questa luce, che è stata fatta nel Logos e che
è anche vita, “brilla nelle tenebre” delle nostre anime ed è venuta là dove erano
i prìncipi del mondo di queste tenebre, i quali lottando contro il genere umano si
sforzano di sottomettere alle tenebre tutti coloro che non si adoperano per essere
illuminati ed essere così chiamati “figli della luce”. Brilla dunque nelle tenebre
questa luce e dalle tenebre è perseguitata, ma non afferrata (Καὶ φαῖνον ἐν τῇ
σκοτίᾳ τοῦτο τὸ φῶς διώκεται μὲν ὑπ’αὐτῆς, οὐ καταλαμβάνεται δέ)». Assai
significativa è la connessione tra Gv 1,5 e 2Cor 4,6.
144 «Egli venne come testimone (οὗτος ἦλθεν εἰς μαρτυρίαν)» (Gv 1,7), «per rende-
re testimonianza alla luce (ἵνα μαρτυρήσῃ περὶ τοῦ φωτός)» (1,7 e 8); «Giovan-
ni gli rende testimonianza (Ἰωάννης μαρτυρεῖ περὶ αὐτοῦ)» (1,15)
145 Cf. R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…, I,317. R. Zimmermann, John
(the Baptist) as a Character in the Fourth Gospel. The Narrative Strategy of a
Witness Disappearing, in J.G. van der Watt, R.A. Culpepper, U. Schnelle (edd.),
The Prologue of the Gospel of John…, 99-115.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 193

perché questa si è già manifestata storicamente come Luce146. Appunto,


per Giovanni, il Battista non è affatto un profeta (mai è definito tale nel
IV vangelo!), non preannuncia ciò che deve ancora venire, bensì è testi-
mone di ciò che è già avvenuto o, meglio, della Luce che egli stesso ha
visto avvenire al Giordano147.
Ebbene, da 1,6 fino a 1,18, l’intero Prologo torna ad usare aoristi e im-
perfetti. Se il centro concettuale dell’inno attuale è stato da Bultmann e
Käsemann rispettivamente identificato in Gv 1,14a (ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο)
e in 1,14b (ἐθεασάμεθα τὴν δόξαν αὐτοῦ), d’altra parte il centro eventuale
dell’inno penso sia Gv 1,5, di cui 1,14 finisce per essere la ricapitolazione,
non a caso espressa non al presente, ma all’aoristo, che precisa l’essersi fatto
carne/uomo della Luce che splende nelle tenebre. La teofania al Giordano,
allora, è quella sulla quale ritorna, con un movimento a spirale, il Prologo,
che la indica in 1,5 («La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno
accolta (καὶ τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει, καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν)»,
quindi in 1,9 («Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni
uomo (Ἦν τὸ φῶς τὸ ἀληθινόν, ὃ φωτίζει πάντα ἄνθρωπον, ἐρχόμενον εἰς
τὸν κόσμον)»), ancora in 1,11 («Venne fra i suoi (εἰς τὰ ἴδια ἦλθεν)»), in-
fine ricapitolandola in 1,14: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in
mezzo a noi (ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν)». E, in effetti,
dopo l’introduzione della testimonianza di Giovanni in 1,6-8, l’immediata

146 Rovescio, pertanto, l’argomentazione di R.E. Brown, Giovanni…, 37: «Colui che
ha curato l’edizione del Prologo ha inserito un riferimento a Giovanni il Battista
dopo il v. 5 e difficilmente si può immaginare che egli avrebbe introdotto Gio-
vanni il Battista dopo aver descritto il ministero di Gesù e i suoi effetti. Evidente-
mente il redattore pensava che gli accenni alla venuta di Gesù cominciassero nel
v. 10; egli mise la venuta di Giovanni Battista nei vv. 6-8 prima della venuta di
Gesù e si servì del v. 9 per collegare Giovanni il Battista col momento di quella
venuta… Questa obiezione vale anche contro la teoria di Käsemann, che vede un
riferimento alla venuta di Gesù non nel v. 4, ma in 5, che egli unisce a 10, e contro
la teoria di Bultmann, che fa cominciare l’opera del rivelatore nella storia col v.
5, che egli unisce a 9». Brown, però, trascura un fatto a mio parere probante: il
Battista è presentato da Gv soltanto come testimone, niente affatto come profeta o
precursore, ed esplicitamente, in Gv 1,34, la testimonianza viene fatta dipendere
dall’avere prima visto lo Spirito/Luce discendere su Gesù».
147 «He is not the “forerunner” (as depicted in the Synoptics), but merely a witness
(1:6-8,15; 1:19ff; 3:22ff). The phrase ἀπεσταλμένος παρὰ θεοῦ confirms his au-
thorisation as a witness… Neither the Baptist nor his baptism has any independent
significance; they exist in order to bear witness to Christ, who alone takes away
sin and also confers the Spirit» (D.G. van der Merwe, The historical and theolo-
gical significance of John the Baptist as he is portrayed in John 1, in «Neotesta-
mentica» 33/2, 1999, 267-292, in part. 271 e 285).
194 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

prosecuzione dei versetti 1,9-14 torna a trattare dell’epifania del Logos, che
annuncia come incarnato, ormai identificatosi con la carne/l’uomo Gesù148.
D’altra parte, tale è la radicalità con la quale il messia “disputato” è
retroproiettato ed esaltato nella protologica intimità con il Padre, da provo-
care un effetto di ritrattazione nel protologico del dispositivo escatologico-
messianico. Questo comporterà una rapidissima lettura prevalentemente
ontologica del Prologo, come testimonieranno gli gnostici (sui quali tor-
nerò più avanti), Origene, i teologici trinitari del IV secolo, Agostino stes-
so. Ciononostante, la drammatica scaturigine storica del Figlio dell’Uomo
continuerà a segnare in profondità la stessa ontologia binitaria, quindi tri-
nitaria, governandone la rivoluzionaria interpretazione estatica ed escato-
logica, che altera Dio nella sua stessa intimità, rivelandolo in sé soltanto
con l’altro e per l’altro.

148 Cf. R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni…, I,319-327, che riferisce al Lo-


gos incarnato Gv 1,9-10, successivi all’apparizione di Giovanni quale testimone:
«L’evangelista ha certo riferito il versetto [10] al Logos incarnato. Già alla fine
del v. 9 aveva accennato alla sua venuta storica ed ora intende spiegare il rifiuto
mediante l’incredulità che Gesù ha trovato nel suo popolo. I circoli dirigenti di
esso rappresentano il κόσμος; di fronte a lui, “luce del mondo”, restano impassibi-
li, senza comprensione (cf. 8,14; 8,19; 9,29; inoltre 8,24; 8,43), ciechi addirittura
(9,39). Questo contegno è colpevole (9,41), il “non conoscere” è un ostinato “non
credere” (cf. 3,12; 5,38; 6,36; 8,24; 8,45; 12,37). Chi legge il Prologo di seguito
è portato da quest’interpretazione dei vv. 10ss. al Logos incarnato, com’è provato
dalla storia dell’esegesi moderna» (326). Come afferma R.E. Brown, Giovanni…,
«la maggior parte delle frasi che si trovano in 1,10-12 appaiono nel Vangelo come
una descrizione del ministero di Gesù… In realtà, i vv. 11 e 12 sono realmente
dei brevi sommari delle due parti del Vangelo: il libro dei Segni e il libro della
Gloria… L’argomento decisivo per sostenere che i vv. 10-12 si riferiscono al mi-
nistero di Gesù si trova, a nostro parere, in 12… Non è credibile che in un inno
proveniente da circoli giovannei la capacità di diventare figli di Dio possa essere
stata spiegata altrimenti che in termini di generazione dall’alto per opera dello
Spirito di Gesù» (40-41). Cf. J. Matera, New Testament Christology, Westmin-
ster John Knox Press, Louisville-London 1999: «The Prologue adumbrates the
conflict between the Word and the world (1,9-13) that will occur throughout this
Gospel… This part of the Prologue is the story of Jesus’ ministry, and it explains
that even though Jesus revealed God’s glory by many signs, the world did not
accept him (12:37-43). But his own disciples did, and, in his farewell discourse
(13,1-17,26), Jesus prepared them for the time after his departure from the world»
(218).
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 195

10. La ritrattazione del battesimo “sinottico” nel Prologo

Ma se il Prologo annuncia il rifulgere della luce che s’incarna, perché


insistere nel collocare la sua epifania al Giordano? Basta la presenza del
Battista testimone (e non di Giuseppe, non di Maria, non della levatrice del
Protovangelo di Giacomo) per collocare presso le acque del Giordano l’a-
pocalittico discendere della Luce? Non aveva forse il vangelo di Luca già
prospettato un movimento di “svincolamento” della testimonianza del Bat-
tista dal Giordano, anticipandola nel seno di Elisabetta, quando Giovanni
in lei sussulta per la gioia nel momento in cui Maria, con Gesù in grembo,
viene a visitarla (cf. Lc 1,39-45)?
Ebbene, ritengo sia possibile rintracciare nel Prologo la traslazione della
scansione tripartita dell’avvio della missione di Gesù presente nei sinot-
tici149, che in successione prospetta: a) la predicazione e la testimonianza
di Giovanni, b) appunto, la descrizione della teofania battesimale al Gior-
dano, con la quale è rivelata la filialità divina di Gesù, c) la tentazione di
Gesù, “assalito” da Satana. Elementi specifici del Prologo e dello stesso
corpo del IV vangelo rispetto ai sinottici sarebbero, piuttosto, 1) l’inver-
sione del punto a) e del punto b), in quanto l’entrata in scena di Giovanni
segue e non precede la teofania al Giordano; 2) l’assoluto disinteresse nei
confronti della missione, della predicazione e dell’attività proprie di Gio-
vanni, che viene chiamato in causa unicamente come testimone di Gesù,
quindi come veggente della teofania del Logos/Luce.
Ma cerchiamo di rinvenire nel Prologo la traccia della sinottica teofania
al Giordano.
1) Ritengo che il Logos di Gv 1,1 e 14 tolga in sé la voce teofanica della
tradizione sinottica – «E venne una voce dal cielo (καὶ φωνὴ ἐγένετο
ἐκ τῶν οὐρανῶν)» (Mc 1,11) –, che sparisce dal resoconto del IV van-
gelo150. Invece, «la voce nel deserto» (Isaia 40,3), che Mc 1,3 riferisce

149 Giovanni, «d’accordo con i sinottici, inizia il racconto su Gesù di Nazaret con
l’attività di Giovanni Battista, ma trasforma profondamente la tradizione comu-
ne. Secondo questa tradizione, la vita pubblica di Gesù viene introdotta da un
trittico: la predicazione di Giovanni, il battesimo di Gesù e la tentazione di Gesù.
In Giovanni il predicatore diventa un testimone, il battesimo di Gesù viene indi-
rettamente evocato attraverso l’esperienza del Battista, la scena della tentazione
è del tutto scomparsa. Il trittico tradizionale è sostituito da tre quadri [descritti in
Gv 1,19-2,12] che, nella loro successione, formano una unità letteraria» (X. Leon-
Dufour, Lettura del Vangelo secondo Giovanni…, 215).
150 Comunque, per G. Richter, Zu den Tauferzählungen Mk 1,9-11 und Joh 1,19-34…,
la discesa dello Spirito dal cielo senza il risuonare della voce attesterebbe una tradi-
zione anteriore alla definizione sinottica della scena battesimale: cf. 319-321; 326.
196 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

al Battista, è attestata anche in Gv 1,23, mantenendo la sua funzione


indicativa della pienezza celeste151 ormai proiettata nella trascendenza
precosmica: Giovanni stesso, “voce della Voce”, diviene la voce del Lo-
gos, proclamandone la filialità divina. Il Logos, invece, è lo stesso Fiat
lux primordiale, la divina Parola in principio, quindi la personificata
“voce” assoluta e creativa, che da sempre “viene dai cieli”, cioè da Dio.
Il Logos è divenuto l’evento del parlare/rivelarsi di Dio sin dal primo
giorno, che ora discende redentivamente sull’uomo Gesù per rimanere
su di lui152. La soprannaturale, apocalittica “voce” sinottica è divenuta il
personale Fiat lux in principio, ma l’innalzamento al Logos protologico
è finalizzato alla glorificazione dell’escatologica rivelazione del Nome
di Dio nell’uomo Gesù, del Fiat Verbum in principio (evangelii).
2) Nel Prologo, la “tetrade” teofanica Logos/Luce/Vita/Gloria ritratta il si-
nottico Spirito divino che discende, sotto forma di colomba, su Gesù, la
cui katabasis è rievocata (e non descritta in diretta!) in Gv 1,32-34. Nel
Prologo, le acque del Giordano non possono non essere presupposte, in
quanto è soltanto presso di loro che Giovanni opera, come testimoniato
da tutte le tradizioni protocristiane, quindi dallo stesso prosieguo del IV
vangelo. Presso il Giordano, il “Battista” attende (a partire dalla rive-
lazione di Dio che gli prometteva la rivelazione del Cristo/Spirito: cf.
1,33) e infine riconosce la teofania del Figlio153. In effetti, il IV vangelo

151 Cf. E. Lupieri, Giovanni Battista nelle tradizioni sinottiche…, 27.


152 Cf. Gv 5,36-38: «Io ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni… E
anche il Padre che mi ha mandato ha reso testimonianza di me. Ma voi non avete
udito la sua voce (οὔτε φωνὴν αὐτοῦ πώποτε ἀκηκόατε), né avete visto il suo
volto (οὔτε εἶδος αὐτοῦ ἑωράκατε) e non avete la sua parola che rimane in voi
(τὸν λόγον αὐτοῦ οὐκ ἔχετε ἐν ὑμῖν μένοντα), poiché non credete a colui che egli
ha mandato». Voce, Volto e Logos di Dio, sono significativamente identificati nel
Figlio che è l’eterna rivelazione del Padre. Si noti che il verbo μένειν è lo stesso
utilizzato in Gv 1,32-33, per sottolineare come lo Spirito, discendendo su Gesù
dinanzi al Battista, rimanga su di lui. Il verbo μένειν potrebbe richiamare il ver-
bo ἀναπαύειν, che in Isaia 11,2-4 sec. LXX caratterizza il riposarsi/restare dello
Spirito sull’eletto messianico, capace di giudicare la terra con il λόγος divino
della sua bocca. In Gv 3,1-21, nel suo colloquio con Nicodemo, Gesù gli rivela
la necessità di essere generati dallo Spirito che discende dal cielo, identificandosi
con il Figlio dell’Uomo che discende dal cielo, quindi con l’Unigenito e la Luce
che è venuta nel mondo; cf. C. Bennema, Spirit-Baptism in the Fourth Gospel.
A Messianic Reading of John 1,33, in «Biblica» 84/1, 2003, 35-60, che, a partire
da Isaia 11,2-4, indagando alcuni testi messianici del mediogiudaismo, insiste
sull’intima relazione teofanica tra Spirito e Logos, connessa con la figura del Fi-
glio dell’Uomo attestata in 1Enoch 37-71.
153 Per ebrei o giudeo-cristiani ellenisti, «who heard the Fourth Gospel read, John
1:14 (“the Word became flesh”) and 1:33 (“the Spirit descended and remained on
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 197

pare affacciarsi sul Giordano, “porta del cielo”, tramite la testimonianza


del Battista “suo arconte”, per reinterpretare, innalzandola vertiginosa-
mente, la scena teofanica della discesa dello Spirito di Elia direttamente
sul profeta Eliseo in 2 Re 2,1-15: il Giordano viene attraversato da Elia
(prossimo alla sua ascesa in cielo) e da Eliseo (dopo l’ascesa di Elia),
che non vi si bagnano; eppure, è presso il Giordano che lo Spirito di
Elia asceso al cielo discende direttamente su Eliseo. Insomma, il IV
vangelo pare “correggere” le notizie tradizionali sul battesimo di Gesù
tramite la scena della discesa dello Spirito di Eliseo presso (e non tra) le
acque del Giordano: una discesa dello Spirito sull’eletto di Dio, senza
immersione o abluzione. Ma come il Prologo reinterpreta lo Spirito?
Ebbene, se, biblicamente, lo Spirito Santo è quello che dona la vita
divina, se quindi è Spirito vivificante (identificato da Paolo con Cristo
stesso; così, per Gv 5,21, «il Figlio dà la vita a chi vuole (ὁ υἱὸς οὓς
θέλει ζῳοποιεῖ)»)154, nel Prologo lo Spirito potrebbe rivelarsi “tolto”
nel Logos in cui è la Vita, che si rivela agli uomini come Luce (cf. Gv
1,4). La discesa sinottica dello Spirito Santo è sostituita dalla teofania
della Luce che dà Vita, che è quindi la Luce dello stesso Spirito, perso-
nalmente identificato con il Logos di Dio. Proprio il riferimento traslato
a Genesi 1,1-5 governa lo slittamento dall’ambito carismatico proprio
dello Spirito (riaffermato in Gv 1,32-34) all’ambito protologico/onto-
logico proprio del Logos/Luce: la potenza divina dello Spirito, che è
il Logos della Luce, quindi la manifestazione della Gloria precosmica

him”) would sound like variant expressions of the same event. For converts who
had come out of a Hellenistic Judaism that used Wisdom, Word, Son, and Holy
Spirit interchangeably, “the Word became flesh” would equal “the Spirit descen-
ded and remained on Jesus”. If so, then in Johannine Christianity the incarnation
must have been assumed to have taken place in connection with the water of
John’s baptism» (Ch.H. Talbert, “And the Word Became Flesh”: When?..., 135).
Stranamente Talbert non fa qui riferimento al termine Luce (φῶς), né al termine
Uomo (ἄνθρωπος, φώς), come termini teologicamente interscambiabili con Lo-
gos, Sophia, Spirito Santo, etc…
154 «Paul himself was accustomed to speak of the spirit as “life-giving” (1Cor 15.45;
2Cor 3.6), and that was not a peculiarity of his. It was a belief shared by other
New Testament writers (Jn 6.63; 1Pt 3.18), by Philo (Op. mundi 30; Quaest in Gen
1.4; 2.8; 4.5), and by the writer of the Wisdom of Salomon (15.11). They inherited
from the Septuagint the idea of a πνεῦμα ζωῆς (Gen 6.17; 7.15; Ezek 1.21; 10.17;
37.5 (as v.1 in 10); Jdt 10.13-=”living person”). This association of “spirit” and
“life” is all too intelligible: as πνεῦμα in the sense of “breath” marked the presen-
ce of life, it is a very natural image» (A.J.M. Wedderburn, Baptism and Resurrec-
tion. Studies in Pauline Theology against Its Graeco-Roman Background, Mohr
Siebeck, Tübingen 1987, 275; cf. 294-295).
198 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

di Dio, discende “presso le acque” al cospetto del Battista sull’uomo


Gesù155, appare nel mondo delle tenebre (i seguaci del Battista che non
si convertono, i Giudei increduli).
Ma perché, stranamente, nel Prologo non appare il termine Spirito?
Probabilmente proprio perché il modello dell’inabitazione carismatica,
di fatto rivendicata dallo stesso Battista, non consentiva una sufficiente
esaltazione della superiorità di Gesù nei confronti del suo predecesso-
re, maestro, ma poi rivale. Già l’insistenza di Gv 1,33, sul permanere
(μένειν) dello Spirito disceso su Gesù, mostra l’esigenza, attestata an-
che dal giudeocristiano Vangelo dei Nazareni testimoniatoci da Giro-
lamo156, di specificare una modalità diversa, definitiva di inabitazione.
Il termine Logos, capace di rievocare la luce principale di Dio che in
Gen 1,3 risolve teofanicamente l’aleggiare originario dello Spirito sul-
le acque di Gen 1,2, consente di ipostatizzare il Figlio come preesi-
stente, quindi di togliere nella sua natura al tempo stesso sapienziale
(Verbo/Principio creatore) e apocalittica (Verbo/Rivelatore redentivo)
la dimensione carismaticamente troppo generica, quindi indefinita del-
lo Spirito, non esclusiva di Gesù, ma rivendicata dallo stesso Battista
storico, oltre che “propria” di tutti i profeti e di tutti i “figli di Dio” di
Israele.

155 «È lecito pensare che lo Spirito e la potenza venuta da Dio altro non siano che
il Logos (τὸ πνεῦμα οὖν καὶ τὴν δύναμιν τὴν παρὰ τοῦ θεοῦ οὐδὲν ἄλλο νοῆσαι
θέμις ἢ τὸν λόγον), che è anche il primogenito di Dio (ὃς καὶ πρωτότοκος τῷ θεῷ
ἐστι)» (Giustino, I Apologia 33, 6). «Jesus originated as the Logos (1:1ff.), he
returns as the Spirit (14:18; etc.), and therefore Logos and Spirit are virtually two
ways of expressing a similar thought» (G.M. Burge, The Anointed Community:
the Holy Spirit in the Johannine Tradition, Eerdmans, Grand Rapids 1987, 113).
Descrivendo la katabasis cristologica giovannea, M. Theobald, Die Fleischwer-
dung des Logos…, ha utilizzato la felice formula di «Doppelgängerschaft von
Logos (1,1f.14) und Pneuma (1,32f)» (50).
156 Corrispondente alla descrizione giovannea del discendere e del rimanere dello
Spirito di Gesù è la rilevantissima notizia geronimiana sul vangelo giudeocri-
stiano dei “Nazarei”: «Nel vangelo scritto in ebraico che leggono i Nazarei…
troviamo scritto: «Ora, quando il Signore fu uscito dall’acqua, discese l’intera
sorgente dello Spirito Santo, si riposò su di lui e gli disse: “Figlio mio, io ti attesi
in tutti i profeti, perché tu venissi ed io mi potessi riposare su di te. Tu difatti sei la
mia requie. Tu, il Figlio mio primogenito, che regni in eterno” (Porro in evangelio,
cuius supra fecimus mentionem, haec scripta reperimus: “Factum est autem cum
ascendisset dominus de aqua, descendit fons omnis Spiritus Sancti, et requievit
super eum, et dixit illi: Fili mi, in omnibus prophetis exspectabam te, ut venires,
et requiescerem in te. Tu es enim requies mea, tu es filius meus primogenitus,
qui regnas in sempiternum”» (Vangelo dei “Nazarei”, frammento in Girolamo,
Commento ad Isaia, IV,11,1-2).
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 199

3) Il contenuto della voce celeste, che nei sinottici proclama Gesù come «il
mio Figlio prediletto (ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός)» (Mc 1,11), viene “messo
in bocca” al Battista che, indicandolo come colui che «era prima di me»
(Gv 1,15)157, lo ritratta nella formula più radicale di «Figlio Unigenito
(μονογενής) che è nel seno del Padre» (Gv 1,14 e 18). Segnalo come, in
Gv 13,23, si descriva «reclinato sul petto di Gesù il discepolo che Gesù
amava (ἀνακείμενος… ἐν τῷ κόλπῳ τοῦ Ἰησοῦ, ὃν ἠγάπα ὁ Ἰησοῦς)»,
ove l’essere nel κόλπος è utilizzato appunto come metafora per indicare
colui che è «amato (ἀγαπητός)» più di ogni altro. Dire che il Figlio è
nel seno del Padre significa allora dire che egli è l’ἀγαπητός, il nome
disceso dal cielo, con il quale i sinottici salutano la manifestazione del
messia al Giordano. Il Figlio prescelto come Messia salvifico diviene
eternamente “eletto” come Figlio preesistente del Padre, che Giovanni
Battista proclama come Logos, Luce divina e Gloria incarnata158. Lo
stare del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre viene identificato, in
1Gv 4,7-21, con il soprannaturale «amore (ἀγάπη)», cioè con lo Spirito
Santo, dono del Padre e del Figlio, dal quale sono vivificati i «carissimi
(ἀγαπητοί)» fratelli dell’anziano. L’amore del Padre si manifesta sol-
tanto nel Figlio che, tramite il suo Spirito, lo comunica ai “suoi” fedeli:
caratteristica dell’amore è il rimanere nell’altro, è il fruire dello Spirito
con il quale Padre e Figlio si amano159. Sarebbe qui necessario rilegge-

157 «Mentre nei sinottici è la “voce divina” a indicare in Gesù il “Figlio amato”, nel
quarto vangelo questa funzione rivelatrice è assunta da Giovanni… [In questa]
riscrittura giovannea del battesimo di Gesù, quest’ultimo è dichiarato Figlio di
Dio proprio nella misura in cui è presentato come il portatore dello Spirito di Dio,
che a sua volta, tramite il battesimo “nello Spirito”, egli dispensa e trasmette a
ogni credente» (J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, I,110).
158 «Nella scenografia sinottica, era al momento del battesimo che Gesù veniva ri-
velato come il Figlio di Dio e ciò era simboleggiato con la discesa dello Spirito
Santo su di lui (si veda la connessione di Spirito e Filiazione divina in Rm 1,4).
Giovanni è venuto incontro alla necessità di fare questa rivelazione ricorrendo
al Prologo che ci parla di Gesù come del “Figlio unigenito che è nel seno del
Padre” (1,18). Ciò nonostante, Gv 1,33 conserva indirettamente il ricordo di Gesù
che viene battezzato con lo Spirito Santo mettendo in bocca a Giovanni Battista
una frase che combina questa idea con quella della preesistenza (1,30). Il battesi-
mo diventa ora semplicemente un momento dell’invio della Parola preesistente»
(R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 60-61). Rispetto a Brown,
ribadisco l’assenza di un vero e proprio riferimento al battesimo in Gv 1,33 e
interpreto la teofania del Prologo come sostituto storico-narrativo (l’incarnazione
del Logos/Luce al Giordano) e non soltanto concettuale (ricapitolato nell’attribu-
zione a Gesù del termine Unigenito) del battesimo sinottico.
159 «Amati, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri (ἀγαπητοί,
εἰ οὕτως ὁ θεὸς ἠγάπησεν ἡμᾶς, καὶ ἡμεῖς ὀφείλομεν ἀλλήλους ἀγαπᾶν). Nessuno
200 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

re Gv 1,14 e 16-18 in connessione con il grandioso, bipartito discorso


dell’ultima cena di Gv 13,31-17,26, oltre che con 1Gv 4,7-21. In Gv
14,15-21 il dono escatologico del «Consolatore (παράκλητος)» (14,16),
cioè dello «Spirito di verità (τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας)» (14,17), che
Gesù darà in sua vece quando sarà innalzato al Padre abbandonando il
mondo, garantirà la messa in pratica del comandamento dell’amore, in
maniera tale che «voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in
voi (γνώσεσθε ὑμεῖς ὅτι ἐγὼ ἐν τῷ πατρί μου καὶ ὑμεῖς ἐν ἐμοὶ κἀγὼ ἐν
ὑμῖν)» (14,20)160. Gloria e Spirito sono, insomma, sovrapponibili, quali
prerogative rivelative del Figlio, che questi trasmette ai “suoi”. Il dono
dello Spirito, quindi la grazia che si riversa sulla comunità, è l’amore
stesso che unisce Padre e Figlio, identificato con la Gloria preesistente
donata dal Padre all’Unigenito e incarnatasi in Gesù. Qui mi limito a
sottolineare come l’«amore (ἀγάπη)», che è l’essere uno con il Figlio
che è uno con il Padre già nella sua preesistenza, sia escatologicamente
identificabile con il dono dello Spirito, che è la grazia fruita dagli eletti
in tutta la sua pienezza trascendente161. Se Gesù, al Giordano, riceve

ha mai visto Dio (θεὸν οὐδεὶς πώποτε τεθέαται); se ci amiamo gli uni gli altri
(ἐὰν ἀγαπῶμεν ἀλλήλους), Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi (ὁ
θεὸς ἐν ἡμῖν μένει καὶ ἡ ἀγάπη αὐτοῦ τετελειωμένη ἐν ἡμῖν ἐστιν). Da questo si
riconosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi (Ἐν τούτῳ γινώσκομεν ὅτι ἐν
αὐτῷ μένομεν καὶ αὐτὸς ἐν ἡμῖν); egli ci ha fatto dono del suo Spirito (ὅτι ἐκ τοῦ
πνεύματος αὐτοῦ δέδωκεν ἡμῖν). E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il
Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo (καὶ ἡμεῖς τεθεάμεθα
καὶ μαρτυροῦμεν ὅτι ὁ πατὴρ ἀπέσταλκεν τὸν υἱὸν σωτῆρα τοῦ κόσμου). Chiun-
que riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio (ὁ
θεὸς ἐν αὐτῷ μένει καὶ αὐτὸς ἐν τῷ θεῷ). Noi abbiamo riconosciuto e creduto
all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore (ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν); chi sta nell’amore
dimora in Dio e Dio dimora in lui (ὁ μένων ἐν τῇ ἀγάπῃ ἐν τῷ θεῷ μένει καὶ ὁ θεὸς
ἐν αὐτῷ μένει)» (1Gv 4,11-16).
160 Cf. R.E. Brown, Giovanni…, 1305-1310.
161 Mi limito a citare Gv 17,22-24 e 26: «E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a
loro (κἀγὼ τὴν δόξαν ἣν δέδωκάς μοι δέδωκα αὐτοῖς), perché siano come noi una
cosa sola (ἵνα ὦσιν ἓν καθὼς ἡμεῖς ἕν). Io in loro e tu in me, perché siano perfetti
nell’unità (ἐγὼ ἐν αὐτοῖς καὶ σὺ ἐν ἐμοί, ἵνα ὦσιν τετελειωμένοι εἰς ἕν) e il mondo
sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me (ἠγάπησας αὐτοὺς
καθὼς ἐμὲ ἠγάπησας). Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con
me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché
tu mi hai amato prima della creazione del mondo… E io ho fatto conoscere loro
il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in
essi e io in loro (ἵνα ἡ ἀγάπη ἣν ἠγάπησάς με ἐν αὐτοῖς ᾖ κἀγὼ ἐν αὐτοῖς)». Cf.
J. Zumstein, Il vangelo di Giovanni…, II,813 e 817-818: «Il dono che il Padre
fa al Figlio, questi lo ha trasmesso ai credenti. Tale dono è quello della “gloria”,
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 201

lo Spirito, riceve in realtà la Gloria stessa di Dio, che è lo stesso pre-


esistente sussistere nell’amore effusivo del Padre, che lo Spirito gio-
vanneo, proceduto dal Figlio dopo la sua glorificazione, dona ai suoi
discepoli come grazia.
4) Inoltre, se in Mc 1,12-13 immediatamente lo Spirito “rapisce” l’uomo
Gesù nel quale ha fatto irruzione, rivelandolo come il nuovo impeccabi-
le Adamo riammesso nell’Eden (nel quale il deserto stesso si converte,
secondo Isaia 32,15)162, così il Prologo giovanneo rivela Gesù come
l’eterna “Immagine” rivelatrice di Dio (cf. 1,18), la Luce con la quale è
offerto nuovamente all’umanità il dono della vita eterna edenica163. Per
quanto riguarda l’affermazione del v. 14, «Venne ad abitare in mezzo a
noi e noi vedemmo la sua gloria (ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν, καὶ ἐθεασάμεθα

vale a dire della pienezza della realtà divina rivelata dal Cristo incarnato in seno
al mondo… Ai discepoli che hanno visto nella fede la gloria del Cristo incarnato
(1,14; 2,11) è promessa la visione faccia a faccia della gloria del preesistente…
La preesistenza del Figlio è presentata in termini di amore: è l’espressione di
un tale amore.., la preghiera conduce alla presenza faccia a faccia, espressione
dell’amore divino (cf. 1Cor 13,11-13)». Rimanderei soprattutto a 2Cor 3-4: vi
tornerò tra poco. Cf., infine, U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovanni…, 336-
340, che insiste sulla connessione tra gloria, amore preesistente del Padre e del
Figlio, ruolo-chiave dello Spirito nella preghiera escatologica di Gv 17; si avanza
l’ipotesi che questa presupponga una liturgia eucaristica.
162 «In noi sarà infuso uno Spirito dall’alto; (ἕως ἂν ἐπέλθῃ ἐφ’ ὑμᾶς πνεῦμα ἀφ’
ὑψηλοῦ); allora il deserto diventerà un giardino/il Carmelo (καὶ ἔσται ἔρημος ὁ
Χερμελ)» (Isaia 32,15). Frequente è l’identificazione del monte Carmelo, luogo
elettivo di Elia, con il giardino edenico.
163 «Fin dalle prime parole dell’inno c’è stato un intenzionale parallelo con i capitoli
iniziali della Genesi. Ciò è continuato nel v. 3 con l’uso di egeneto; e ora conti-
nua in vv. 4-5 con l’accenno alla luce e alle tenebre, perché la luce fu la prima
creazione di Dio (Gn 1,3). Anche “vita” è un tema del racconto della creazione…
Alla vita eterna si accenna anche nei primi capitoli della Genesi, perché 2,9 e
3,22 parlano dell’albero della vita il cui frutto, se mangiato, avrebbe fatto vivere
l’uomo per sempre. L’uomo fu escluso da questa vita a causa del suo peccato;
ma come vediamo in Ap 22,2, la vita eterna del giardino dell’Eden prefigurava
la vita che Gesù avrebbe dato agli uomini. In Gv 6, Gesù parlerà del pane di vita
che un uomo può mangiare e vivere per sempre: un pane, quindi, che ha le stesse
qualità del frutto dell’albero della vita nel paradiso… Noi pensiamo che nel v.
4 il Prologo parli ancora nel contesto del racconto della creazione della Genesi.
Ciò che aveva specialmente avuto origine nella Parola creativa di Dio era il dono
della vita eterna. Questa vita era la luce degli uomini, perché l’albero della vita
era strettamente associato all’albero della conoscenza del bene e del male» (R.E.
Brown, Giovanni…, 37-38). Su Gesù come nuovo Adamo in Giovanni, cf. J.K.
Brown, Creation’s Renewal in the Gospel of John…, 281-283.
202 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

τὴν δόξαν αὐτοῦ)», Raymond Brown ha avanzato una tesi originale164:


il versetto che proclama l’incarnazione come «l’attendarsi» della glo-
ria/shekinah di Dio – che colloca in Gesù il suo definitivo tabernaco-
lo165 – potrebbe far riferimento alla trasfigurazione, testimoniata dai
sinottici e da 2Pietro 1,16-18, ove Gesù è manifestato come più grande
di Mosè (cf. Gv 1,17) e di Elia166. Se la voce celeste che, sul monte
della trasfigurazione, definisce Gesù come «Figlio diletto (ὁ υἱός μου
ὁ ἀγαπητός)»167 coincide perfettamente con la voce discesa dal cielo al
battesimo; se la proclamazione giovannea dell’«attendarsi» del Logos
che è la Gloria di Dio in Gesù pare avere riscontro nell’ingenua pretesa
di Pietro, Giacomo e Giovanni, che chiedono di costruire «tre tende
(τρεῖς σκηνάς)» per Gesù, Mosè ed Elia; l’abbacinante, soprannaturale
fulgore di Gesù trasfigurato ricorda lo splendore luminoso della Gloria
di Dio nel Prologo. Ebbene, nel Prologo il Battista (che in Mc 9,13
e ancor più esplicitamente in Mt 17,10-13 è identificato con Elia già
venuto) è lo spettatore della maggior gloria del Figlio diletto, quindi
colui che esalta oltre Mosè stesso l’Unigenito, che è il Figlio diletto del
battesimo e della trasfigurazione168. Il rapporto tra acqua (il Mar Rosso
o il Giordano), deserto, monte (Sinai/Oreb, “Tabor”) e teofania caratte-
rizza in profondità le tre figure di Mosè, Elia, Gesù, dimostrando come
sia in atto un dispositivo tipologico rigorosamente articolato, che, nel
caso del Prologo, risulta del tutto contratto e nascosto (non c’è acqua,
non c’è deserto, non c’è monte, che sono presenti nei sinottici), spiri-

164 Cf. R.E. Brown, Giovanni…, 46-49. «Molte ragioni raccomandano l’ipotesi che
14c.d sia un’eco della trasfigurazione» (48).
165 Cf. Esodo 25,8-9; Zaccaria 2,14; Ezech 43,7. Sull’incarnazione del Logos
come “attendarsi” (σκηνόω) della Gloria di Dio (Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ
ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν: Gv 1,14), che non trova più il suo luogo nel Tempio di Geru-
salemme, ma in Gesù stesso (cf. Gv 2,13-22), cf. R.E. Brown, Giovanni…, 42-49.
166 Sul rapporto tra battesimo di Gesù, rapimento “violento” da parte dello Spirito,
invio nel deserto, collocazione su un alto monte, quindi tentazione di Gesù e sua
trasfigurazione tra Mosè ed Elia, penso che le testimonianze sinottiche debbano
essere lette in relazione al sopra citato passo del Vangelo sopra gli Ebrei, riporta-
toci da Origene. Gesù nuovo Adamo attraversa il deserto ed è collocato sul nuovo
Eden, ove, dopo aver vinto le tentazioni del Maligno, diviene teofanica Gloria di
Dio. Ricordo che secondo Epifanio di Salamina, Panarion II, tomo I, eresia LI,
Contro coloro che non accettano il vangelo di Giovanni e la sua apocalisse [gli
Alogi] 21,7, il Tabor sarebbe stato il monte della tentazione di Gesù (cf. Mt 4,8).
Cf. G. Lettieri, L’ultimo nel primo…, 130-133.
167 «E uscì una voce dalla nube: “Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo (καὶ ἐγένετο
φωνὴ ἐκ τῆς νεφέλης, Οὗτός ἐστιν ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός, ἀκούετε αὐτοῦ)» (Mc 9,7).
168 Cf. U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovanni…, 51.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 203

tualizzato, ma attivo, quando il tema di Gesù rivelatosi Gloria di Dio al


cospetto del Battista (che in Gv 1,21 nega di essere Elia) chiama il rap-
porto con Mosè spettatore e mediatore della teofania di luce del Sinai.
Gv 1 restituisce, quindi, l’evento apocalittico del Giordano senza bat-
tesimo del Cristo, una teofania assoluta senza purificazione dell’uomo
Gesù, un’incarnazione del Logos senza mediazione attiva del Battista,
il quale è testimone di un evento che lo sorpassa ontologicamente, sin
dall’in principio. Il Prologo è la celebrazione della teofania al Giordano,
sfrondata dai “subordinanti” riferimenti al battesimo ricevuto da Gesù e
proiettata in dimensione protologica. D’altra parte, la “memoria” del bat-
tesimo, seppure occultata in riferimento a Gesù, rimane strutturalmente
incancellabile e comunitariamente irrinunciabile, così come l’originaria
dipendenza storica della missione di Gesù da quella del Battista. Il bat-
tesimo rimane, per la comunità giovannea, rito iniziatico fondativo, che
trasmette la fruizione dello Spirito, quello che Gesù stesso ha ricevuto
al Giordano169. Pertanto, il battesimo impartito nella comunità giovan-
nea non poteva non fare riferimento alla fotofania fondativa descritta nel
Prologo, che comunque pare connettere la conoscenza di Cristo Luce e
Vita a un’esperienza battesimale comunitaria. Ambiguamente, il battesi-
mo comunitario permane esperienza fondativa di luce, attingimento dello
Spiritus vivificans nel principio, seppure il ricordo del battesimo storico
di Gesù (che, nelle prospettive di cristologie sempre più alte, non aveva
bisogno alcuno di iniziazione) è bianchettato. Al Giordano, insomma, “li-
berato” da un umiliante battesimo, Gesù diviene la principale, protolo-
gica fonte di acqua di vita eterna, quindi di scaturigine dello Spirito (cf.
Gv 4,13 e 3,31-36, ove è il Battista a riconoscere che il Figlio che viene
dal cielo dà lo Spirito senza misura). L’ἀρχή del sacramento battesimale
immerge l’iniziato nell’ἀρχή escatologica (la rivelazione dell’inizio del
vangelo di Cristo quale Logos e Luce redentivi), riattivazione di quella
protologica (il Fiat Logos del Fiat Lux creativo); il fedele è così strappa-
to dalla tenebra del mondo maligno, ricreato dall’onnipotente Logos ri/

169 «Il dono dello Spirito a Gesù che mediante la visione fa di lui il Figlio di Dio ha
senza dubbio valore soltanto a partire dal battesimo… Al dono dello Spirito nel
battesimo risale anche la svolta fondamentale nella storia dei credenti. Da questo
momento essa è caratterizzata da un’esperienza dello Spirito particolarmente pro-
fonda e intensa» (H.-J. Klauck, Lettere di Giovanni…, 58); «Il dono dello Spirito
che Gesù riceve nel battesimo è in definitiva il modello soteriologico anche per i
credenti» (333). Significativamente, queste prospettive, attribuite da Klauck agli
avversari del presbitero, sono di fatto riscontrabili nella prospettiva complessiva
dello stesso IV vangelo; cf. 266-267; 332-335.
204 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

creativo di Dio, che con lo Spirito è venuto in principio (sia prima della
creazione del mondo, che all’inizio del vangelo salvifico di Gesù) quale
Luce che dona escatologicamente la fruizione della vita eterna170. Torne-
remo più avanti sulla ritrattazione nel Prologo della tentazione sinottica
di Gesù dopo il battesimo. Non prima, però, di esserci dedicati a un ex-
cursus paolino.

170 Si legga 1Gv 2,7: «Amati, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un co-
mandamento antico, che avete ricevuto sin dal principio (ἐντολὴν παλαιὰν ἣν
εἴχετε ἀπ’ ἀρχῆς). Il comandamento antico è la parola che avete udito (ἐντολὴ ἡ
παλαιά ἐστιν ὁ λόγος ὃν ἠκούσατε). E tuttavia è un comandamento nuovo quello
di cui vi scrivo, il che è vero in lui e in voi, poiché le tenebre stanno diradandosi
e la vera luce già risplende (ὅτι ἡ σκοτία παράγεται καὶ τὸ φῶς τὸ ἀληθινὸν ἤδη
φαίνει)» (1Gv 2,7-8). Il riferimento all’«in principio» connette l’insegnamento
iniziatico nella comunità giovannea alla proclamazione del Logos «in principio»,
Luce salvifica che risplende nelle tenebre. Infatti, all’inizio della lettera, il Logos
incarnato è appunto proclamato come colui che era «in principio»: «Ciò che era
fin da principio (ὃ ἦν ἀπ’ ἀρχῆς), ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo
veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e che le nostre mani
hanno toccato, ossia il Logos della vita (περὶ τοῦ λόγου τῆς ζωῆς) – poiché la
vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi
annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi –, quello
che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi (ὃ ἑωράκαμεν καὶ
ἀκηκόαμεν ἀπαγγέλλομεν καὶ ὑμῖν)» (1,1-3). L’insegnamento ricevuto «in prin-
cipio» non può non riecheggiare la scaturigine del mistero soteriologico, quindi
non può non vertere sull’incarnazione del Logos «in principio»; ebbene, questo
include un richiamo al battesimo come compimento del processo di conversione,
quindi come illuminazione spirituale: «Quando l’autore [di 1Gv] parla de “il prin-
cipio”, egli intende il principio della rivelazione di Gesù ai suoi seguaci durante
il ministero, ma per i suoi lettori questo significa il principio del loro contatto
con la tradizione che avvenne con la conversione/iniziazione/battesimo. Mentre
l’annuncio teologico giovanneo aveva le sue peculiarità, aveva in comune molte
caratteristiche con gli altri annunci battesimali cristiani; da qui i paralleli appena
discussi. Pure i secessionisti avevano udito l’annuncio giovanneo di conversione/
iniziazione/battesimo; ma, a giudizio dell’autore, la loro successiva posizione lo
aveva deformato. Essi avevano mostrato che, nonostante il loro battesimo, erano
figli del diavolo e non figli di Dio» (R.E. Brown, Le lettere di Giovanni…, 597);
in 226-230, Brown discute largamente l’interpretazione del termine «principio»
nell’epistolario giovanneo e nello stesso NT. In riferimento a 1Gv 1,24, scrive
H.-J. Klauck, Lettere di Giovanni…, 193-194: «“Avete udito” definisce in modo
chiaro l’estensione di ἀπ’ ἀρχῆς: ai destinatari si ricordano gli inizi della loro vita
cristiana, la predicazione dell’annuncio e la professione di fede che ne è derivata
e che è stata conferita nel battesimo; ἀπ’ ἀρχῆς è direttamente connesso alla con-
fessione di Gesù Cristo e figlio di Dio a cui alludono implicitamente i vv. 22-23…
Al rimanere in noi della parola del principio e al nostro rimanere nel Figlio e nel
Padre è rivolta la promessa di vita eterna… La vita eterna consiste nel credere, nel
conoscere, nel dono della parola; è quindi pensata al presente».
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 205

11. Fiat Lux/Fiat Spiritus: teofania e/o incarnazione battesimale in Pa-


olo e Giovanni

La tesi qui avanzata, che propone di interpretare il Prologo giovanneo


come descrizione e insieme protologizzazione dell’incarnazione in Gesù al
Giordano dello Spirito come Logos della Luce, necessita di un approfon-
dimento, che ci riporta indietro ai più antichi testi cristiani a noi pervenuti.
Prima di tutto, mi chiedo se il Prologo giovanneo non presupponga la co-
noscenza della Seconda lettera ai Corinzi di Paolo, in particolare di 2Cor
3-4171. In questo contesto, Paolo contrappone l’alleanza effimera della Leg-
ge, rivelazione soltanto indiretta di Dio, quindi incapace di “illuminare” e
salvare Israele – «τὸ γὰρ γράμμα ἀποκτέννει» –, alla rivelazione ultima e
perfetta di Cristo, che rivela direttamente e universalmente la gloria di Dio,
rendendone partecipi i credenti – «τὸ δὲ πνεῦμα ζῳοποιεῖ» (2Cor 3,6) –.
Ora, lo Spirito è identificato con Cristo stesso: «Il Signore è lo Spirito (ὁ
δὲ κύριος τὸ πνεῦμά ἐστιν) e dove c’è lo Spirito del Signore c’è la libertà
(οὗ δὲ τὸ πνεῦμα κυρίου, ἐλευθερία)» (3,17); Cristo, inoltre, è interpretato
quale la luminosa «Immagine di Dio (εἰκὼν τοῦ θεοῦ)», che è la storica ri-
velazione della stessa Gloria di Dio, del suo Volto. Il vangelo di Cristo, che
viene trasmesso «non falsificando la parola di Dio (τὸν λόγον τοῦ θεοῦ),
ma annunziando apertamente la verità (τῇ φανερώσει τῆς ἀληθείας)» (4,2),
è quindi restituito non soltanto come kerygma che connette inseparabil-
mente λόγος e ἀλήθεια, ma soprattutto come folgorazione della luce (φῶς),
della gloria di Cristo, che irrompe nelle tenebre dei cuori dell’uomo, in-
corporando i credenti all’Immagine, rispetto alla quale l’Israele incredulo
risulta essere cieco, perché misteriosamente indurito:

E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria


del Signore (ἡμεῖς δὲ πάντες ἀνακεκαλυμμένῳ προσώπῳ τὴν δόξαν κυρίου
κατοπτριζόμενοι), veniamo trasformati in quella medesima immagine, di
gloria in gloria (τὴν αὐτὴν εἰκόνα μεταμορφούμεθα ἀπὸ δόξης εἰς δόξαν),
secondo l’azione dello Spirito del Signore (καθάπερ ἀπὸ κυρίου πνεύματος)…
E se il nostro vangelo rimane velato (εἰ δὲ καὶ ἔστιν κεκαλυμμένον τὸ
εὐαγγέλιον ἡμῶν), lo è per coloro che si perdono (ἐν τοῖς ἀπολλυμένοις ἐστὶν
κεκαλυμμένον), ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula
(ἐν οἷς ὁ θεὸς τοῦ αἰῶνος τούτου ἐτύφλωσεν τὰ νοήματα τῶν ἀπίστων), perché
non vedono lo splendore della gloria del vangelo di Cristo (εἰς τὸ μὴ αὐγάσαι
τὸν φωτισμὸν τοῦ εὐαγγελίου τῆς δόξης τοῦ Χριστοῦ), che è Immagine di Dio

171 Cf., in tal senso, le rapide indicazioni di M.D. Hooker, Beyond the Things that
Are Written? St Paul’s Use of Scripture, in «New Testament Studies» 27/3, 1981,
295-309, in part. 302; e R.P. Martin, 2 Corinthians, Word Books, Waco Texas, 73.
206 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

(ὅς ἐστιν εἰκὼν τοῦ θεοῦ)… E Dio che disse (ὅτι ὁ θεὸς ὁ εἰπών): “Rifulga la
luce dalle tenebre (Ἐκ σκότους φῶς λάμψει)” (Gen 1,3), rifulse nei nostri cuori
(ὃς ἔλαμψεν ἐν ταῖς καρδίαις ἡμῶν), per far risplendere la conoscenza della
gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (πρὸς φωτισμὸν τῆς γνώσεως τῆς
δόξης τοῦ θεοῦ ἐν προσώπῳ Χριστοῦ)» (2Cor 3,18-4,4 e 6).

La rivelazione aperta della «verità (ἀλήθεια)» è l’annuncio del vangelo


di Cristo/Spirito che dà vita, che è l’Immagine di Dio, Gloria, Luce (φῶς)
che folgora nelle tenebre, sicché il riferimento a Genesi 1,3 è utilizzato
come metafora dell’evento della redenzione di grazia.
La corrispondenza con il Prologo mi pare notevolissima, seppure riten-
go che Paolo ancora non prospetti una cristologia della preesistenza divina
del Figlio presso il Padre, concependo Luce/Gloria/Volto/Spirito/(Uomo
ad) Immagine di Cristo come manifestazioni unicamente escatologiche,
redentive e non protologiche, intradivine e creative172. Entrambi i testi, co-
munque, ricorrono alla citazione di Gen 1,3, identificando la luce che riful-
ge nelle tenebre con la manifestazione della Gloria che è il Figlio stesso,
sicché il racconto della creazione diviene figura di quello della rivelazione
apocalittica. L’escatologica Luce/Gloria appare «in principio» (nello stes-
so principio del vangelo storico di Gesù) nelle tenebre, ma queste non la
riconoscono, non la vedono, sono rinchiuse nel loro mistero di reiezione.

In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. E la luce splende nelle
tenebre (καὶ τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει), ma le tenebre non l’hanno accolta
(καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν)… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi (Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν); e noi
vedemmo la sua gloria, gloria come di Unigenito del Padre (ἐθεασάμεθα τὴν
δόξαν αὐτοῦ, δόξαν ὡς μονογενοῦς παρὰ πατρός), pieno di grazia e di verità
(πλήρης χάριτος καὶ ἀληθείας) (Gv 1,5 e 14).

Anche per il Prologo, la rivelazione della Luce è la rivelazione del Figlio


Unigenito, che manifesta nella carne, cioè nell’uomo Gesù, l’intimo segre-
to di Dio. Il Figlio, infatti, è l’unico che vede e media/interpreta il Padre:

172 Soltanto nella deuteropaolina Efes1,3-14 la gloria escatologica di Cristo Immagi-


ne viene anche retroproiettata in una dimensione di preesistenza creativa, quindi
protologizzata. Sull’assenza di una cristologia della divina preesistenza creatrice
del Figlio in Paolo, mi limito a rinviare a R.E. Brown, La comunità del discepolo
prediletto…, 50-51; R.E. Brown, Le lettere di Giovanni…, 120; K.-J. Kuschel,
Geboren vor aller Zeit? Der Streit um Christi Ursprung, Piper, München 1990, tr.
it. Generato prima di tutti i secoli? La controversia sull’origine di Cristo, Queri-
niana, Brescia 1996, 323-417; G. Lettieri, L’ultimo nel primo…, 141-153.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 207

Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto (ὅτι ἐκ τοῦ πληρώματος αὐτοῦ
ἡμεῖς πάντες ἐλάβομεν) e grazia su grazia (καὶ χάριν ἀντὶ χάριτος). Perché
la legge fu data per mezzo di Mosè (ὅτι ὁ νόμος διὰ Μωϋσέως ἐδόθη), la
grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo (ἡ χάρις καὶ ἡ ἀλήθεια διὰ
Ἰησοῦ Χριστοῦ ἐγένετο). Dio nessuno l’ha mai visto (θεὸν οὐδεὶς ἑώρακεν
πώποτε·); proprio il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, egli l’ha
rivelato (μονογενὴς θεὸς ὁ ὢν εἰς τὸν κόλπον τοῦ πατρὸς ἐκεῖνος ἐξηγήσατο
(Gv 1,16-18).

Il Padre, che nessuno può vedere, è rivelato unicamente dal suo “esege-
ta”, da colui che è nel suo seno: il tema messianico-apocalittico che domina
2Cor 3-4 – quello della rivelazione di gloria di Dio, irradiante dal volto di
Cristo risorto – pare anticipare questi versetti del Prologo, che pure sdop-
piano e retroproiettano l’apocalisse escatologica del Figlio nella preesi-
stente relazione di intimità “binitaria”. Per Paolo, rispetto alla rivelazione
di Mosè, Cristo è manifestazione in pienezza di gloria, di grazia, di luce,
non più nascosta, ma manifesta, perché il dono della verità riluce diretta-
mente sul volto di Cristo rivelatore, capace di vivificare «noi che non fis-
siamo lo sguardo sulle cose visibili (μὴ σκοπούντων ἡμῶν τὰ βλεπόμενα)»
(4,18). Come si diceva, il ricorso al primo giorno di Gen 1 scandisce l’op-
posizione tra l’apocalisse della Luce in principio e la resistenza accecata
delle tenebre173, incapaci di scorgere l’eccedenza/trascendenza della gloria
della nuova alleanza (rispetto alla stessa antica alleanza di Mosè)174 e di ri-
conoscere la sovrabbondanza della grazia, rivelata dal Figlio che è lo Spiri-
to vivificante che dona la partecipazione all’Immagine teomorfa. Pertanto,
l’Unigenito “esegeta” giovanneo – capace di vedere Dio e contrapposto a
Mosè che, come ogni uomo, non ha visto Dio – è il paolino Volto di Glo-
ria175, il Cristo nel quale tutti i credenti sono trasformati, moltiplicando la

173 Cf. Gv 3,19: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le te-
nebre alla luce, perché le loro opere erano malvage». Questo versetto, che segue
l’affermazione che «il Figlio dell’Uomo è disceso dal cielo», dichiarando il suo
imminente innalzamento salvifico sulla croce, è perfettamente corrispondente a
Gv 1,9-11, provando, a mio avviso, che questi versetti del Prologo non si riferi-
scono, come affermano tra gli altri Pagels o Boyarin, alla rivelazione della Legge
precedente l’incarnazione del Logos, ma a questa stessa incarnazione e al suo non
essere riconosciuta da gran parte delle “tenebre” (la maggior parte dei discepoli di
Giovanni) al suo apparire.
174 «L’inno [cioè il Prologo] termina con la trionfante proclamazione di una nuova al-
leanza in sostituzione dell’alleanza del Sinai» (R.E. Brown, Giovanni…, 48-49).
175 «Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto (οὔτε εἶδος
αὐτοῦ ἑωράκατε) e non avete la sua parola che dimora in voi (καὶ τὸν λόγον αὐτοῦ
οὐκ ἔχετε ἐν ὑμῖν μένοντα), perché non credete a colui che egli ha mandato» (Gv
208 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

fruizione di grazia, dando accesso in Cristo alla fruizione della pienezza


dei doni divini176. Torniamo a leggere due versetti paolini, mettendoli in
connessione con due versetti giovannei:

E noi tutti a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria


del Signore (ἡμεῖς δὲ πάντες ἀνακεκαλυμμένῳ προσώπῳ τὴν δόξαν κυρίου
κατοπτριζόμενοι), veniamo trasformati in quella medesima Immagine
di gloria in gloria (τὴν αὐτὴν εἰκόνα μεταμορφούμεθα ἀπὸ δόξης εἰς
δόξαν), secondo l’azione dello Spirito del Signore (καθάπερ ἀπὸ κυρίου
πνεύματος)» (2Cor 3,18); «Tutto infatti è per voi, perché la grazia, an-
cora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’in-
no di lode alla gloria di Dio (ἵνα ἡ χάρις πλεονάσασα διὰ τῶν πλειόνων
τὴν εὐχαριστίαν περισσεύσῃ εἰς τὴν δόξαν τοῦ θεοῦ)» (2Cor 4,15).
E noi vedemmo la sua gloria (ἐθεασάμεθα τὴν δόξαν αὐτοῦ), gloria come di
Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità (δόξαν ὡς μονογενοῦς παρὰ
πατρός, πλήρης χάριτος καὶ ἀληθείας)… Dalla sua pienezza noi tutti abbia-

5,37-38); «Non che alcuno abbia visto il Padre (οὐχ ὅτι τὸν πατέρα ἑώρακέν τις),
ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre (εἰ μὴ ὁ ὢν παρὰ τοῦ θεοῦ, οὗτος
ἑώρακεν τὸν πατέρα)» (6,46). «Naturalmente, è il fatto che Mosè non ha veduto
Dio che l’autore vuole mettere in contrasto con l’intimo contatto tra il Figlio e il
Padre. In Es 33,18, Mosè chiede di vedere la gloria di Dio, ma il Signore dice:
“Tu non puoi vedere il mio volto e restare vivo”. Isaia (6,5) esclama con terrore:
“Ohimè! Io sono perduto, perché… i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli
eserciti”, dove non si parla nemmeno di vedere il volto di Dio. Contro questo
sfondo veterotestamentario, che nemmeno i più grandi rappresentanti di Israele
hanno visto Dio, Giovanni innalza l’esempio del Figlio unico, che non solo ha
veduto il Padre, ma che è sempre accanto a lui. Possiamo, certo, sospettare che
questo tema facesse parte della polemica giovannea contro la sinagoga, poiché
esso è ripetuto in 5,37 e 6,46» (49). E se Giovanni attingesse anche da 2Cor 3-4
per sostenere la sua polemica contro la sinagoga?
176 «Pienezza, Plērōma, che ricorre solo qui [in Gv 1,16] negli scritti giovannei, è un
importante termine teologico paolino» (R.E. Brown, Giovanni…, 22). Ricordo
che R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes…, 53, fa dipendere l’opposi-
zione tra legge e grazia/verità del v. 17 da un evidente influsso paolino, rispetto
al quale la prospettiva complessiva del IV vangelo sarebbe comunque estranea;
donde il carattere per Bultmann tardivo e interpolato del versetto in questione.
Ma cf. anche la deuteropaolina Epistola ai Colossesi 1,20: «Piacque a Dio di fare
abitare in lui ogni pienezza (ἐν αὐτῷ εὐδόκησεν πᾶν τὸ πλήρωμα κατοικῆσαι)».
Considerando che in Col 1,15 Cristo viene definito «Immagine del Dio invisibi-
le primogenito di tutta la creazione (εἰκὼν τοῦ θεοῦ τοῦ ἀοράτου, πρωτότοκος
πάσης κτίσεως)» e in 1,18 «il principio, il primogenito di coloro che resuscita-
no dai morti (ἀρχή, πρωτότοκος ἐκ τῶν νεκρῶν)», con un potente incrocio tra
preesistenza celeste e salvifica missione terrena, è legittimo chiedersi: Giovanni
conosce Colossesi, ne è influenzato?
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 209

mo ricevuto e grazia su grazia (ὅτι ἐκ τοῦ πληρώματος αὐτοῦ ἡμεῖς πάντες


ἐλάβομεν, καὶ χάριν ἀντὶ χάριτος) (Gv 1,14 e 16).

Entrambi i testi proclamano l’ultima apocalisse, in Cristo, della trascen-


denza assoluta della Gloria di Dio, che si rende visibile agli eletti ai quali è
stato donato il suo Spirito. Chi vede il Figlio, vede/vive, sia per Giovanni
che per Paolo, la gloria, e con essa la verità, cioè la Luce salvifica apoca-
litticamente rivelata, e fruisce della novità assoluta della grazia, che per
Paolo è donata da «lo Spirito [che] vivifica (τὸ πνεῦμα ζῳοποιεῖ)» che è
Cristo (cf. 2Cor 3,6 e 17), e che per Giovanni è attinta, con la verità, nella
stessa visione della gloria dell’Unigenito (Gv 1,14). Questi, incorporando/
trasformando in sé i fedeli, li fa passare «di gloria in gloria (ἀπὸ δόξης
εἰς δόξαν)» (3,18), donando loro quell’universalmente espansiva «grazia
ancora più abbondante (ἡ χάρις πλεονάσασα)» (4,15), che libera, a diffe-
renza dell’effimera e confinata rivelazione della Legge di Mosè (primo,
pure se ancora insufficiente dono di grazia)177. Il raddoppiamento paolino
di gloria, fruito da chi è vivificato dallo Spirito di Cristo, pare riecheggiare
in Gv ,1,16 nel riferimento alla «pienezza (πλήρωμα)» del dono di cui i
credenti nell’Unigenito fruiscono, ricevendo «grazia su grazia (χάριν ἀντὶ
χάριτος)», tanto più se entrambi i testi mettono in tensione il dono della
gloria/grazia o Spirito con la limitatezza del dono dell’antica alleanza ca-
peggiata da Mosè. Così, non soltanto in 2Cor 3,17 («Il Signore è lo Spirito
e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà (ὁ δὲ κύριος τὸ πνεῦμά ἐστιν·
οὗ δὲ τὸ πνεῦμα κυρίου, ἐλευθερία)»), ma anche nel IV vangelo il Figlio è
identificato con lo Spirito vivificante, quindi con colui che solo è autentica
libertà/liberazione, introducendo alla conoscenza della Verità:

È lo Spirito che dà la vita (τὸ πνεῦμά ἐστιν τὸ ζῳοποιοῦν), la carne non


giova a nulla (ἡ σὰρξ οὐκ ὠφελεῖ οὐδέν): le parole che vi ho dette sono Spirito
e vita (τὰ ῥήματα ἃ ἐγὼ λελάληκα ὑμῖν πνεῦμά ἐστιν καὶ ζωή ἐστιν)» (Gv
6,63); «Se rimanete fedeli alla mia parola (Ἐὰν ὑμεῖς μείνητε ἐν τῷ λόγῳ τῷ
ἐμῷ), sarete davvero miei discepoli; conoscerete la Verità e la Verità vi farà
liberi (γνώσεσθε τὴν ἀλήθειαν, καὶ ἡ ἀλήθεια ἐλευθερώσει ὑμᾶς)… Se dunque
il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero (ἐὰν οὖν ὁ υἱὸς ὑμᾶς ἐλευθερώσῃ,
ὄντως ἐλεύθεροι ἔσεσθε) (8,32 e 36).

177 Cf. L.L. Belleville, Reflections of Glory. Paul’s Polemical Use of the Moses-Doxa
Tradition in 2 Corinthians 3.1-18, Sheffield Academic Press, Sheffield 1991:
«Ἀπὸ δόξης εἰς δόξαν in this context [2Cor 3] denotes increase. It is set in con-
trast to καταργέω in vv. 7,11, and 14: Moses’ glory as minister of the old covenant
was a fading glory; by contrast, the glory of the new covenant minister is one that
steadily grows» (289).
210 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Corrispondenze generiche e casuali tra due testi protocristiani del tut-


to irrelati l’uno rispetto all’altro, seppure separati da una cinquantina di
anni (periodo certo troppo lungo per escludere una totale irrelazione della
comunità giovannea nei confronti di comunità e documenti paolini, che
comunque nello stesso contesto storico, tra Siria e Asia Minore, operavano
e circolavano)? Non credo… Boismard, ad esempio, ha convincentemente
interpretato Gv 1,14-18 come “polemica” ritrattazione cristologica della
figura di Mosè, della teofania dell’Esodo e della dottrina della presa di
dimora di Dio nel Tempio178. Possibile, allora, che sia stato proprio Paolo a
influenzare il Prologo nella sua reinterpretazione della rivelazione mosaica
e persino nella sua originalissima retractatio del Fiat lux genesiaco in rife-
rimento all’apocalisse salvifica di Gesù Messia, identificato con la luce di
gloria irradiante del Padre, quindi con il datore escatologico dello Spirito
vivificante che libera e introduce alla verità?
Resta comunque da verificare un’ultima questione. Qual è il rapporto tra
il battesimo e il testo paolino sulla glorificazione dei credenti nella visione
diretta del Volto di Cristo Immagine/Luce, che ha fatto irruzione nelle tene-
bre? E questo eventuale rapporto può indirettamente illuminare la relazio-
ne tra il Battista e il Fiat lux del Logos nel Prologo? Il rifulgere della Luce
è un singolare evento mistico-apocalittico – quale quello che Paolo ha vis-
suto personalmente, nel suo incontro con Cristo/Luce(φῶς)/Voce(φωνή)179
–, o è fruito attraverso la mediazione sacramentale del battesimo180, come

178 Cf. M.-É Boismard, Le Prologue de saint Jean…, 165-175.


179 Rivelativa la descrizione della folgorazione di Saulo sulla via di Damasco in Atti
9,1-9, ove a Paolo si rivela Cristo come luce, voce, io sono: «E avvenne che…,
all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo (ἐξαίφνης τε αὐτὸν περιήστραψεν
φῶς ἐκ τοῦ οὐρανοῦ) e cadendo a terra udì una voce (ἤκουσεν φωνὴν) che gli
diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Rispose: “Chi sei, Signore?”. E la
voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti (Ἐγώ εἰμι Ἰησοῦς ὃν σὺ διώκεις)”» (9,3-5).
Più avanti il racconto, in parte diverso, è messo in bocca a Paolo stesso: «Verso
mezzogiorno sulla strada risplendette una luce dal cielo, più splendente del sole
(οὐρανόθεν ὑπὲρ τὴν λαμπρότητα τοῦ ἡλίου περιλάμψαν με φῶς), che avvolse
me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una
voce (φωνή)… E il Signore rispose: “Io sono Gesù” che tu perseguiti (ὁ δὲ κύριος
εἶπεν, Ἐγώ εἰμι Ἰησοῦς ὃν σὺ διώκεις)”» (Atti 26,12-14). Cf. 1Cor 9,1; Gal 1,16.
180 Molto netto è A.F. Segal, Paul the Convert. The Apostolate and Apostasy of Saul
the Pharisee, Yale University Press, New Haven – London 1990: «Many scholars
have felt echoes of a baptismal liturgy in 2 Corinthians 3 and especially in 2
Cor 4:4-6. The word phōtismos (4:4; 4:6) ant the phrase kaine ktisis (5:17) are
reminiscent of baptismal liturgy. Since the words lampō, augazō,and phōtismos,
which are commonly used in baptismal liturgy, are used by Paul here only, it is
quite possible that Paul is paraphrasing a baptismal liturgy to express this mystic
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 211

pare suggerire la dimensione comunitaria dell’essere trasformati dallo Spi-


rito in Cristo, che Paolo indica chiaramente in 2Cor 3,18? Ebbene, ritengo
che per Paolo soltanto nello Spirito del Risorto, fruito con la “morte” e la
“resurrezione” battesimali, i credenti possano divenire uno in Cristo, quin-
di venire folgorati nel loro cuore dal rifulgere del Fiat Lux redentivo. Que-
sto significa che soltanto nello Spirito, ricevuto con il battesimo, è possibile
attingere la visione interiore del Cristo Immagine di Gloria. Questa è stata
eccezionalmente anticipata in Paolo dalla teofania sulla via di Damasco,
che comunque si compie soltanto con la recezione del battesimo e il dono
dello Spirito immediatamente connessole, che subito restituisce luce agli
occhi accecati di Saulo181.
Tornando al IV vangelo, per cogliere l’interpretazione giovannea dello
Spirito, rilevantissima appare l’ultima solenne testimonianza del Battista
(cui pare siano state riferite affermazioni che originariamente il testo del
vangelo attribuiva a Gesù stesso), che si conclude riecheggiando l’autodefi-
nizione avanzata da Gesù a Nicodemo in Gv 3,13, ove «il Figlio dell’Uomo
che è disceso dal cielo (ὁ ἐκ τοῦ οὐρανοῦ καταβάς, ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου)»
si identifica con la stessa «Luce [che] è venuta nel mondo» (3,19).

Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti (ὁ ἄνωθεν ἐρχόμενος ἐπάνω πάντων


ἐστίν); ma chi viene dalla terra appartiene alla terra e parla della terra (ὁ ὢν ἐκ
τῆς γῆς ἐκ τῆς γῆς ἐστιν καὶ ἐκ τῆς γῆς λαλεῖ). Chi viene dal cielo è al di sopra
di tutti (ὁ ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἐρχόμενος ἐπάνω πάντων ἐστίν)… Colui che Dio ha
mandato proferisce le parole di Dio (ὃν γὰρ ἀπέστειλεν ὁ θεὸς τὰ ῥήματα τοῦ
θεοῦ λαλεῖ) e dà lo Spirito senza misura (οὐ γὰρ ἐκ μέτρου δίδωσιν τὸ πνεῦμα).
Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. Chi crede nel Figlio ha

identification. Paul’s quotation might then indicate that it was specifically during
baptism that the identification between the image of the savior and the believer
was made» (61-62). Cf. J. Jervell, Imago Dei. Gen. 1,26f. im Spätjudentum, in
die Gnosis und in den paulinischen Briefen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttin-
gen 1960, 196-198; 209; e U. Schnelle, Paulus. Leben und Denken, de Gruyter,
Berlin-Boston 20142, tr. it. Paolo. Vita e pensiero, Paideia, Brescia 2018: «È stato
Dio col battesimo a unire a Gesù Cristo sia i corinti sia l’apostolo e a rendere pos-
sibile in tal modo l’esistenza di chi crede nella forza dello Spirito (2Cor 1,21ss.).
La comunità e l’apostolo sanno che le promesse di Dio hanno trovato in Gesù
Cristo il loro adempimento (2Cor 1,19ss.), poiché in lui si è rivelato il potere di
Dio (2Cor 4,6) ed egli è l’immagine di Dio (2Cor 4,4)… In 2Cor 4,6, l’uomo che
giunge alla fede compie per Paolo un’azione creatrice (cf. Gen 1,3). Questo atto
conduce alla conoscenza della gloria di Dio al cospetto di Cristo crocifisso» (259).
Comunque, per una restituzione autobiografica di 2Cor 4,6, cf. 90-91.
181 Cf. Atti 9,8-18, anche se qui la recezione del battesimo segue immediatamente
l’imposizione delle mani da parte di Anania, quindi la trasmissione dello Spirito.
212 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

la vita eterna (ὁ πιστεύων εἰς τὸν υἱὸν ἔχει ζωὴν αἰώνιον); chi non obbedisce al
Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio incombe su di lui» (Gv 3,31 e 34-36)182.

Il Figlio è colui che viene dal cielo e dona senza misura lo Spirito, con
chiaro riferimento alla precedente, teofanica affermazione di Giovanni in
1,32-34, ove si identificava «colui che battezza in Spirito Santo (ὁ βαπτίζων
ἐν πνεύματι ἁγίῳ)» (1,33) con colui sul quale lo Spirito era disceso e ri-
masto. Ora, ricevere, a partire dal battesimo, lo Spirito dal Figlio/Spirito
significa ricevere la vita, in quanto il Figlio dà lo Spirito vivificante (cf. Gv
6,63).
Ebbene, si impone a questo punto un altro parallelo paolino. In Prima
lettera ai Corinzi, 15,44-53, Paolo propone la sua ricapitolazione antiteti-
ca dell’uomo vecchio/naturale e dell’uomo nuovo/spirituale nel primo e
nell’ultimo Adamo che è Cristo, nel quale tutti quelli che in Adamo sono
morti riceveranno la vita (cf. 15,22), grazie all’incorporazione a Cristo
operata tramite il battesimo (cf. 15,29), che è recezione del suo Spirito di
resurrezione.

Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente (Ἐγένετο ὁ πρῶτος


ἄνθρωπος Ἀδὰμ εἰς ψυχὴν ζῶσαν: Gen 2,7), ma l’ultimo Adamo divenne
Spirito vivificante (ὁ ἔσχατος Ἀδὰμ εἰς πνεῦμα ζῳοποιοῦν). Non vi fu prima
il corpo spirituale, ma quello animale e poi lo spirituale (ἀλλ’ οὐ πρῶτον τὸ
πνευματικὸν ἀλλὰ τὸ ψυχικόν, ἔπειτα τὸ πνευματικόν). Il primo uomo tratto
dalla terra è di terra (ὁ πρῶτος ἄνθρωπος ἐκ γῆς χοϊκός), il secondo uomo viene
dal cielo (ὁ δεύτερος ἄνθρωπος ἐξ οὐρανοῦ). Quale è l’uomo fatto di terra, così
sono quelli di terra (οἷος ὁ χοϊκός, τοιοῦτοι καὶ οἱ χοϊκοί); ma quale il celeste,
così anche i celesti (καὶ οἷος ὁ ἐπουράνιος, τοιοῦτοι καὶ οἱ ἐπουράνιοι). E come
abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra (καθὼς ἐφορέσαμεν τὴν εἰκόνα
τοῦ χοϊκοῦ), così porteremo l’immagine dell’uomo celeste (φορέσομεν καὶ τὴν
εἰκόνα τοῦ ἐπουρανίου). Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non
possono ereditare il regno di Dio (σὰρξ καὶ αἷμα βασιλείαν θεοῦ κληρονομῆσαι
οὐ δύναται), né ciò che è corruttibile può ereditare l’incorruttibilità… I morti
risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo
corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità (ἐνδύσασθαι ἀφθαρσίαν) e questo
corpo mortale si vesta di immortalità (ἀθανασίαν) (1Cor 15,45-50 e 52-53).

Anche in questo passo ritroviamo espressioni già sopra rilevate in rela-


zione a 2Cor 3-4, quindi la sostanziale identificazione tra a) Cristo ultimo
Adamo, l’Uomo dal cielo che è l’Immagine celeste e b) la novità ricreatrice

182 Non mi soffermo sulla dibattuta questione dell’originaria collocazione del passo:
cf. R.E. Brown, Giovanni…, 211-212; U. Wilckens, Il vangelo secondo Giovan-
ni…, 101-103.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 213

de «lo Spirito vivificante (τὸ πνεῦμα ζῳοποιοῦν)», contrapposto anche in


questo caso alla «carne (σάρξ)»183. Il brano presenta notevoli affinità con
Gv 3,13, 3,31 e 3,34-36, quindi con Gv 6,63, sopra citati; tanto più se, nel-
la prospettiva giovannea, il paolino «ultimo Adamo Spirito vivificante»,
cioè il «secondo uomo [che] viene dal cielo» pare corrispondere al «Figlio
dell’Uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13), quindi a «la Luce venuta nel
mondo» (3,19), incarnatasi, eppure capace di essere «lo Spirito vivificante»
(6,53) o di «dare lo Spirito senza misura» (3,34), che è la stessa Vita eterna
con la quale la Luce si identifica. Ebbene, anche in questo fondamentale
passo di 1Cor risulta evidente la connessione tra battesimo e incorporazione
nel Cristo celeste, che è il Cristo risorto, rigenerato dallo Spirito che discen-
de dal cielo184. Prospettiva analoga è quella della Lettera ai Romani: nei
capitoli 5,12-6,11, la contrapposizione analogica tra Adamo e Cristo viene
restituita come dialettica tra peccato/morte e grazia/vita, ma quest’ultima in-
timamente connessa con l’essere battezzati nella morte e nella resurrezione
del Figlio. L’ultimo Adamo, l’Immagine che è Luce e Gloria che comunica
l’immagine celeste, è quindi il Morto-Vivo nello Spirito, che nel battesimo
consente il trasferimento dell’umanità credente dalla morte e dalla tenebra,
quindi dalla stessa Legge come rivelazione di morte e condanna, all’illumi-
nazione della vita eterna dello Spirito (cf. Rom 7,6).
Non si vuole, con questi rilievi, schiacciare affatto la prospettiva giovan-
nea su quella paolina, ma identificare significative risonanze, comunque
riconoscendo l’esistenza di una connessione tra evento battesimale teofa-
nico e sua riattualizzazione sacramentale. Tanto più se anche in Paolo mai è
rammemorato il battesimo di Gesù, mentre sistematica è la connessione tra
recezione dello Spirito e recezione del battesimo sacramentale. Certo, Gio-
vanni complica la prospettiva paolina, identificando lo Spirito che discen-

183 «Poiché l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi
tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano
più per se stessi, ma per colui che è morto e resuscitato per loro. Cosicché ormai
non conosciamo più nessuno secondo la carne (ἀπὸ τοῦ νῦν οὐδένα οἴδαμεν κατὰ
σάρκα); e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo cono-
sciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova (ὥστε εἴ τις ἐν
Χριστῷ, καινὴ κτίσις): le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove
(τὰ ἀρχαῖα παρῆλθεν, ἰδοὺ γέγονεν καινά)» (2Cor 5,14-17). Del tutto evidente è il
riferimento allo Spirito del Risorto, che è l’atto vivificante della ricreazione, quin-
di la teofania cristica «della sovraeminente gloria (τῆς ὑπερβαλλούσης δόξης)»
(3,10) «della nuova alleanza (καινῆς διαθήκης)» (3,6).
184 Il brano sopra citato dipende, non a caso, da 1Cor 15,12-29, ove è esplicita la
connessione tra la resurrezione di Cristo e l’essere incorporati nella sua morte/
resurrezione attraverso il battesimo, impartito persino ai morti.
214 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

de su Gesù al Giordano con lo stesso Unigenito Dio preesistente, mentre


l’apostolo identifica lo Spirito con l’Immagine/Gloria escatologica che è il
Risorto da morte, nel quale lo Spirito, la carismatica, quindi impersonale
potenza divina che discende dal cielo trova infine collocazione personale
e definitiva. Comunque, Luce, Gloria, Logos/Sapienza, Spirito vivificante
fruito tramite l’acqua battesimale, “Uomo” Celeste (contrapposto al “ter-
reno”, alla carne, alla tenebra, alla morte) che è Gloria teofanica, risultano
sistematicamente connessi, con sistematici riecheggiamenti del libro del-
la Genesi: donde il Fiat lux, la distinzione tra cielo e terra, l’antitesi tra
luce e tenebra, l’avvento dello Spirito vivificante sulle acque, la creazione
dell’uomo ad immagine…
Possiamo concludere sottolineando come, in connessione con tradizioni
e prassi battesimali, sia Paolo che Giovanni tolgano lo Spirito in Cristo,
nella Luce/Gloria/Uomo ad Immagine escatologici il primo, nella Luce/
Gloria/Unigenito protologici ed escatologici il secondo.

12. Luce messianica e resistenza delle tenebre: Giovanni e Paolo


apocalittici

A proposito della distinzione tra cielo e terra e della separazione della


luce dalla tenebra, si è già evidenziato come in Gv 1,5 e 1,10-11 emerga
con tutta evidenza un dualismo di matrice apocalittica, chiamato a rappre-
sentare la resistenza dell’Israele incredulo rispetto alla rivelazione storica
della Luce divina incarnatasi in Gesù:

La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta (καὶ τὸ


φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει, καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν)… Il mondo non lo
riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto (εἰς τὰ ἴδια
ἦλθεν, καὶ οἱ ἴδιοι αὐτὸν οὐ παρέλαβον).

Un’analisi del corpo del vangelo può aiutare all’intelligenza di questi


difficili versetti. Se in Gv 8,12 ritroviamo l’opposizione tra Cristo-Luce e
le tenebre185, in Gv 8,43-47, rivolgendosi persino ai «Giudei che avevano
creduto in lui» (8,31), Gesù li definisce incapaci di credere nella sua pree-
sistenza, quindi, per questo, li apostrofa come «voi che avete come padre il

185 «Di nuovo Gesù parlò loro: “Io sono la luce del mondo (Ἐγώ εἰμι τὸ φῶς τοῦ
κόσμου ); chi segue me, non camminerà nelle tenebre (ὁ ἀκολουθῶν ἐμοὶ οὐ μὴ
περιπατήσῃ ἐν τῇ σκοτίᾳ), ma avrà la luce della vita (ἀλλ’ ἕξει τὸ φῶς τῆς ζωῆς)”»
(Gv 8,12).
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 215

diavolo (ὑμεῖς ἐκ τοῦ πατρὸς τοῦ διαβόλου ἐστὲ)… omicida fin da princi-
pio (ἐκεῖνος ἀνθρωποκτόνος ἦν ἀπ' ἀρχῆς)» (8,44).
Ebbene, il diavolo, il principe delle tenebre, è forse evocato nelle tene-
bre di Gv 1,5, nelle quali ha fatto irruzione la Luce assoluta del Figlio, che
«in principio» è Parola di Luce presso il Dio Padre? Emergerebbe, in tal
caso, uno strettissimo rapporto tra diavolo, tenebre e «i suoi (οἱ ἴδιοι)», cioè
i giudei (ovviamente non in senso razziale, ma in senso apocalittico: i giu-
dei che non credono), presso i quali comunque l’Unigenito si è manifestato
come presso il suo popolo eletto. Così, in Gv 12,30-50, Gesù tiene un lungo
discorso, all’interno del quale al Figlio/Luce è contrapposta la violenza
omicida de «le tenebre (σκοτία)» (12,35 e 46), assoggettate a «il principe di
questo mondo (ὁ ἄρχων τοῦ κόσμου τούτου)» (12,31), da cui Cristo libere-
rà i credenti, chiamandoli ad essere «figli della luce (υἱοὶ φωτὸς)» (12,36),
tramite il suo essere innalzato/crocifisso:

Io sono come luce venuto nel mondo (ἐγὼ φῶς εἰς τὸν κόσμον ἐλήλυθα),
perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre (ἐν τῇ σκοτίᾳ μὴ
μείνῃ)… Chi mi respinge e non accoglie le mie parole (ὁ ἀθετῶν ἐμὲ καὶ μὴ
λαμβάνων τὰ ῥήματά μου ἔχει), ha chi lo condanna (τὸν κρίνοντα αὐτόν): la
parola che ho annunziato lo condannerà l’ultimo giorno (ὁ λόγος ὃν ἐλάλησα
ἐκεῖνος κρινεῖ αὐτὸν ἐν τῇ ἐσχάτῃ ἡμέρᾳ) (Gv 12,46 e 12,48).

Come prova Gv 12,42-43, il passo è rivolto contro i capi del popolo giu-
daico, molti dei quali credono in Cristo, ma non lo riconoscono per timore
dei farisei e per amore della gloria degli uomini, piuttosto che della gloria
di Dio, rivelata dal suo logos/Logos. Mentre, in 14,24, Gesù sottolinea che
«la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato
(ὁ λόγος ὃν ἀκούετε οὐκ ἔστιν ἐμὸς ἀλλὰ τοῦ πέμψαντός με πατρός)»,
in 14,30 il suo parlare è contrapposto all’imminente venuta del «principe
di questo mondo (ὁ τοῦ κόσμου ἄρχων)», strumento violento e malvagio,
attraverso il quale comunque si realizza l’ultima obbedienza del Figlio alla
volontà del Padre. Così, in Gv 16, la “profezia” della cacciata dalle sinago-
ghe (16,2; cf. 9,22; 12,42) è connessa con il conflitto tra il Figlio Luce e il
«mondo», dominato ancora per breve tempo dal «principe di questo mondo
(ὁ ἄρχων τοῦ κόσμου τούτου)» (16,11), perché Gesù afferma: «Io ho vinto
il mondo (ἐγὼ νενίκηκα τὸν κόσμον)» (16,33).
Insomma, il redattore finale del IV vangelo, componendo il Prologo (sia
esso o meno derivato da un inno preesistente), non poteva, descrivendo
l’irruzione folgorante della Luce nel mondo, quindi la resistenza delle tene-
bre alla teofania, non evocare la resistenza maligna del principe di questo
216 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

mondo186 e l’incredulità di gran parte del popolo ebraico in Gesù Messia:


come abbiamo sopra riconosciuto, Gen 1,1-3 viene immediatamente sotto-
posto, nel Prologo, a un’interpretazione dualistica di origine apocalittica.
L’apparizione della Parola di Luce che (è Spirito che) dà vita è rivelazione
di salvezza187, ma al tempo stesso è rivelazione di giudizio/condanna delle
tenebre, cioè dell’incredulità che dà morte188.
Ma, qualora «l’apparizione della luce nella tenebra (τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ
φαίνει)» avesse un contesto battesimale, come sembrerebbe confermato
dall’irruzione immediata in Gv 1,6 del Battista, la tenebra quale riferimen-
to mai potrebbe assumere? Ricordo che in tutti e tre i vangeli sinottici la
teofania al battesimo di Gesù al Giordano era seguita dall’episodio della
tentazione di Satana189, cioè dal tentativo della tenebra demoniaca di sop-
primere la luce messianica. Possibile che vi sia, in Gv 1,5, una reminiscenza
del primo assalto di Satana a Cristo subito dopo il battesimo, mentre in Gv
1,11 si potrebbe leggere la resistenza finale che, alla Luce venuta nel mondo,
avrebbero contrapposto Israele («i suoi» increduli) e il demonio ispiratore

186 Per l’interpretazione demoniaca delle tenebre nelle quali brilla la luce del Logos,
cf. Origene, CmGv II,167: «Questa luce… brilla nelle tenebre delle nostre anime
(“φαίνει ἐν τῇ σκοτίᾳ” τῶν ψυχῶν ἡμῶν) ed è venuta là dove erano i principi
del mondo di queste tenebre (ἐπιδεδήμηκεν ὅπου οἱ κοσμοκράτορες τοῦ σκότους
τούτου), i quali lottando contro il genere umano si sforzano di sottomettere alle
tenebre (οἵτινες διὰ τοῦ παλαίειν τῷ τῶν ἀνθρώπων γένει τῷ σκότῳ ὑπάγειν
ἀγωνίζονται) tutti coloro che non si adoperano per essere illuminati ed essere così
chiamati “figli della luce”. Brilla, dunque, nelle tenebre questa luce e dalle tenebre
è perseguitata, ma non afferrata (φαῖνον ἐν τῇ σκοτίᾳ τοῦτο τὸ φῶς διώκεται μὲν
ὑπ’αὐτῆς, οὐ καταλαμβάνεται δέ)».
187 «Io sono la Luce del mondo (Ἐγώ εἰμι τὸ φῶς τοῦ κόσμου); chi segue me, non
camminerà nelle tenebre (οὐ μὴ περιπατήσῃ ἐν τῇ σκοτίᾳ), ma avrà la luce della
vita (ἀλλ’ ἕξει τὸ φῶς τῆς ζωῆς)» (Gv 8,12). «Come il Padre resuscita i morti e
dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole (οὕτως καὶ ὁ υἱὸς οὓς θέλει
ζῳοποιεῖ)… In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola (τὸν λόγον μου)
e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna (ἔχει ζωὴν αἰώνιον) e non va
incontro al giudizio (εἰς κρίσιν οὐκ ἔρχεται)… Come infatti il Padre ha la vita in
se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso (καὶ τῷ υἱῷ ἔδωκεν
ζωὴν ἔχειν ἐν ἑαυτῷ)» (Gv 5,21; 24; 26). Se, quindi, in Gv 1,4 era la vita ad
essere ricapitolata nel Logos, qui il Logos è prospettato come eventuale parola di
salvezza, riassorbita nella stessa vita eterna che è il Figlio. Comunque, τὸ πνεῦμα
ζῳοποιεῖ è tolto nel Figlio stesso, che è Parola-di-Vita.
188 «Il giudizio è questo (αὕτη δέ ἐστιν ἡ κρίσις), che la luce è venuta nel mondo
(ὅτι τὸ φῶς ἐλήλυθεν εἰς τὸν κόσμον), ma gli uomini hanno preferito le tenebre
alla Luce (καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς), perché le loro
opere erano malvage (ἦν γὰρ αὐτῶν πονηρὰ τὰ ἔργα)» (Gv 3,19).
189 Cf. Mc 1,12; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 217

delle tenebre? Comunque, il Prologo mette in scena il mistero di un acceca-


mento. Ricordo che, in Gv 12,40 ricorre una lunga citazione di Isaia 6,9-10,
che poi viene connessa alla proclamazione della Luce venuta nel mondo,
contrapposta al «principe di questo mondo», signore dei Giudei increduli,
che pure si richiamano alla Legge, per non credere nel Figlio messianico190.
La citazione profetica ha sostanziale corrispondenza con altri testi veterote-
stamentari relativi all’indurimento e all’accecamento di Israele, citati in Rom
11,7-10, quali Isaia 29,10 e Salmo 69,23-24; ma, soprattutto, richiama 2Cor
4,3-6, testo sul quale ci siamo soffermati sopra. Il Fiat lux che rifulge nelle
tenebre, lo Spirito vivificante di Cristo crocifisso e risorto, subisce comunque
una resistenza soprannaturale da parte di Israele, indurito e accecato (defini-
tivamente, per Giovanni; soltanto provvisoriamente, per Paolo)191. Ebbene,
anche nel testo paolino, l’Immagine escatologica, la Luce dell’ultimo Ada-
mo, che è Cristo Spirito (e ricordo che anche per Mc 1,12 Gesù tentato era
restituito come nuovo, impeccabile Adamo in Spirito, messo in contrasto,
quindi, con l’Adamo peccatore di Gen 3), è contrapposta al

190 W.A. Meeks, The Man from Heaven in Johannine Sectarianism, in «Journal of
Biblical Literature» 91/1, 1972, 44-72, mette in rilievo l’insistenza giovannea
sulla rottura che il vangelo dello Spirito produce rispetto alle tradizioni religiose
giudaiche, restituendo (così come ad esempio Martyn, Ashton, McGrath) la sto-
rica espulsione degli ebrei giovannei dalle sinagoghe: «Though the Jews are “his
own”, when he comes to them they reject him, thus revealing themselves as not
his own after all but his enemies; not from God, but from the devil, from “below”,
from “this world”. The story describes the progressive alienation of Jesus from the
Jews. But something else is happening, for there are some few who do respond
to Jesus’ signs and words, and these, while they also frequently “misunderstand”,
are progressively enlightened and drawn into intense intimacy with Jesus, until
they, like him, are not “of this world”. Now their becoming detached from the
world is, in the Gospel, identical with their being detached from Judaism. Those
figures who want to “believe” in Jesus but to remain within the Jewish community
and the Jewish piety are damned with the most devastatingly dualistic epithets…
Coming to faith in Jesus is for the Johannine group a change in social location.
Mere belief without joining the Johannine community, without making the decisi-
ve break with “The world”, particularly the world of Judaism, is a diabolic “lie”»
(69). Cf. J. Ashton, Really as Prologue?, in J.G. van der Watt, R.A. Culpepper e
U. Schnelle (edd.), The Prologue of the Gospel of John…, 27-44, in part. 42-44,
ove si mette in rilievo come Gv 1,17 esalti la grazia di Cristo contro la grazia
di Mosè, attribuendo al dono della vita e della verità rivelato da Gesù ciò che
la tradizione giudaica attribuiva alla Legge. In questa prospettiva, seppure più
prudente, cf. J.F. McGrath, Prologue as Legitimation…, 111-112: malgrado egli
sottolinei la differenza tra la prospettiva giovannea e quella paolina (il IV vangelo
non avrebbe mai affermato che la Legge uccide!), riconosce quanto esse siano di
fatto abbastanza vicine; cf., alla n. 66, la citazione di 2Cor 3,6-18.
191 Cf. L.L. Belleville, Reflections of Glory…, 238-242.
218 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

dio di questo mondo (ὁ θεὸς τοῦ αἰῶνος τούτου) [che] ha accecato la mente
incredula (ἐτύφλωσεν τὰ νοήματα τῶν ἀπίστων), perché non vedano lo
splendore del glorioso vangelo di Cristo (εἰς τὸ μὴ αὐγάσαι τὸν φωτισμὸν τοῦ
εὐαγγελίου τῆς δόξης τοῦ Χριστοῦ), che è Immagine di Dio (ὅς ἐστιν εἰκὼν
τοῦ θεοῦ) (2Cor 4,4).

La prospettiva di Paolo, proprio perché apocalittica192, contrappone all’ir-


ruzione della Gloria/Luce di Dio la resistenza della tenebra, dipendente dal
suo arconte/dio diabolico. La fotofania paolina rimane, comunque, escato-
logica: Paolo, insomma, sembra polemizzare in 1-2 Corinzi contro una con-
cezione protologica dell’Adamo Immagine celeste, Spirito di Luce disceso
e risalito in cielo, che egli ritiene metta in ombra la realtà storica del dono
escatologico impersonificato in Gesù Cristo, che salva tramite la “catastro-
fe” sacrificale, ricreativa e liberante della sua morte come maledetto dalla
Legge e dalla sua resurrezione nello Spirito vivificante di Dio. Se per Paolo
il vero Cristo è sapienza e potenza di Dio soltanto in quanto crocifisso e
risorto, per i suoi avversari a Corinto e, probabilmente, anche per alcuni
suoi interlocutori a Filippi, Cristo pare essere stato concepito soprattutto
come potenza protologica, sapienza celeste discesa, forse impassibile. Egli
potrebbe richiamare l’impeccabile Adamo di luce attestato o in tradizioni
giudaico-ellenistiche di origine alessandrina193 o nella tradizione pseudo-
clementina, che lo interpretava quale Cristo o “Spirito” creato originario,
peregrino quale potenza soterica rivelativa e salvifica di Dio attraverso tutti
i giusti di Israele (sul quale discendeva periodicamente), infine disceso e ri-
masto definitivamente su Gesù. Contro una concezione analoga, Paolo con-
fessa Gesù come Immagine escatologica e non protologica, sicché Cristo di
fatto ascende nello Spirito, senza essere “personalmente” disceso.
Invece, seppure a partire da un comune presupposto apocalittico, Giovan-
ni forse non recepisce proprio dottrine dell’Adamo/Elia/Luce/Spirito cele-
ste, avvicinandosi a quelle prospettive sapienziali che alcuni studiosi hanno
attribuito a quello sfuggente Apollo, proveniente da Alessandria ed evan-
gelizzatore a Corinto alternativo a Paolo? Ma, in tal caso, non tornerebbe
plausibile la tesi di una (protognostica?) cristologia sapienziale dell’Uomo
di luce preesistente, influente su Giovanni e nota allo stesso Paolo? Perché,

192 Cf. B.R. Matlock, Unveiling the Apocalyptic Paul: Paul’s Interpreters and the
Rhetoric of Criticism, Sheffield Academic Press, Sheffield 1996; e D.A. Campbell,
The Deliverance of God. An Apocalyptic Rereading of Justification in Paul, Eer-
dmans, Grand Rapids-Cambridge 2009.
193 Cf. G.E. Sterling, “Wisdom among the Perfect”: Creation Traditions in Alexan-
drian Judaism and Corinthian Christianity, in «Novum Testamentum» 37, 1995,
353-384.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 219

allora, non dare credito all’ipotesi bultmanniana e post-bultmanniana (pure


in questo saggio contrastata) di una speculazione battista su Giovanni ma-
nifestazione della Luce protologica? Si noti come Atti 18,24-19,17 faccia
seguire all’enigmatica menzione dell’alessandrino Apollo, seguace di Gesù
che pure «conosceva soltanto il battesimo di Giovanni (ἐπιστάμενος μόνον
τὸ βάπτισμα Ἰωάννου)» (18,25), la menzione di una comunità efesina di se-
guaci del Battista, ancora ignari del battesimo nello Spirito. Al di là delle
lucane forzature polemiche antibattiste, era forse anche Apollo, con la sua
cristologia sapienziale attestata da 1Cor, un erede del Battista?
Non è questo il luogo per addentrarci in questioni così complesse e,
comunque, inevitabilmente sfuggenti, considerata l’esiguità della docu-
mentazione storica. Il passo decisivo compiuto dall’autore del Prologo
pare, comunque, essere stato quello di pensare come assolutamente divina
e creativa la preesistenza della Sapienza/Potenza/Parola/Luce di Dio, con-
trapposta a quella luce “meramente” messianica che molto probabilmente
la comunità di Giovanni Battista proiettava sul suo escatologico “uomo di
Dio”. Si tratterebbe, allora, di verificare se la “cristologia” dei seguaci del
Battista fosse più bassa di quanto Bultmann non sospettasse.

13. Il IV vangelo e i passi messianici di Isaia

In questo pur sommario tentativo di interpretazione del battesimo di


Gesù al Giordano fotologicamente ritrattato, è da indagare una fonte fon-
damentale certamente influente sul Prologo, il quale risulta in effetti vivere
di un “doppio gioco”, di un andirivieni metaforico: esso torna a proiettare
sulla protologica relazione intradivina quel Fiat Lux primordiale, che atte-
se profetico-messianiche avevano traslato sul messia atteso, l’uomo di luce
escatologico, apocalitticamente identificato con Gesù dai suoi discepoli.
Fondamentale è, infatti, nel IV vangelo e in particolare in Gv 1 il ruolo dei
passi messianici contenuti nel libro di Isaia194, che condizionano in profon-

194 Numerosi e rilevanti sono i contributi dedicati a dimostrare la profonda influenza


del libro di Isaia e delle sue traduzioni greche sulla teologia e sulla stessa strut-
tura del IV vangelo. Pionieristico è stato il saggio di F.W. Young, A Study of the
Relation of Isaiah to the Fourth Gospel, in «Zeitschrift für die Neutestamentliche
Wissenschaft» 56, 1955, 215-233; G.D. Kirchhevel, The Children of God and the
Glory That John 1:14 Saw, in «Bulletin for Biblical Research» 6, 1996, 87-93; J.
Hamilton, The Influence of Isaiah on the Gospel of John, in «Perichoresis» 5/2,
2007, 139-162; A.J. Köstenberger, John’s Appropriations of Isaiah’s Signs Theo-
logy: Implications for the Structure of John’s Gospel, in «Themelios» 43/3, 2018,
376-386. J.J.M. Roberts, Whose Child Is This? Reflections on the Speaking Voice
220 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

dità la teofania al Giordano anche nei racconti sinottici: si pensi ad Isaia

in Isaiah 9:5, in «Harvard Theological Review» 90/2, 1997, 115-129, ribadisce


la fondatezza dell’interpretazione di von Rad, che restituiva i versetti iniziali di
Isaia 9 «as reflecting the joyous assent of the divine council to the new king,
Yahweh’s son» (129), ribadendo la dipendenza del testo biblico da protocolli reali
egiziani relativi all’intronizzazione del faraone. Mi concentro, in particolare, su
quello di J. Hamilton, The Influence of Isaiah on the Gospel of John…: cf., in
part., 146-149 e 154, ove si fa riferimento a Isaia 9 e ad altri passi di Isaia (in
part. 8,23; 42,6; 49,6; 60,1; 60,3; 2,5; 10,17) quali profezie dell’avvento redentivo
della luce e della Gloria, che Gv (in part. in 1,4-5 e 1,7-9; 3,19-21; 2,11) riferisce
a Gesù. Così, a p. 149, la discesa dello Spirito su Gesù, descritta in Gv 1,32-34 dal
Battista – autoidentificatosi tramite Isaia 40,3 in Gv 1,23 –, viene fatta dipendere
da Isaia 11,2; 42,1; 48,16; 61,1; così, l’«Ecce agnus Dei» di Gv 1,36 viene messo
in connessione con Isaia 53,7. Inoltre, il riferimento all’innalzamento del Figlio
dell’Uomo in Gv 3,14 (e 8,28; 12,32; 12,34) viene letto in connessione con Isaia
52,13. Infine, alle pp. 153-156, il frequente ricorrere in Gv del riferimento a Gesù
del nome di Dio ἐγὼ εἰμί è messo in relazione al suo ricorrere in Isaia 41,4; 43,10-
11; 43,25; 45,19; 46,4; 48,12; 51,12. Sul rapporto tra il pane che discende dal cielo
di Gv 6,33 con Isaia 55,1-11 (in part. 55,10) e 40,6, cf. F.W. Young, A Study of
the Relation of Isaiah to the Fourth Gospel…, 227-230, ove si sottolinea la di-
pendenza della nozione giovannea di Logos/parole di vita e di pane della vita (cf.
Gv 6,27-79) dalla Parola di Dio di Isaia 40,5-8 (la manifestazione della Gloria di
Dio è manifestazione della sua Parola, che dura per sempre), 55,10-11 (la salvifica
Parola di Dio è paragonata al pane che discende dal cielo), 59,19-60,1 (lo Spirito
che Dio ha fatto discendere sul suo eletto, che manifesta Gloria e Nome di Dio,
è connesso alle parole che Dio gli mette in bocca e alla Luce che viene), seppure
i LXX traducono la Parola di Dio con τὸ ῥῆμα τοῦ θεοῦ; sottolineo come Isaia
40,5-8 segua immediatamente i versetti (40,3-4) che il Battista giovanneo attribu-
isce a se stesso: «“Io sono voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via al
Signore”, come disse il profeta Isaia» (Gv 1,23). Cf. inoltre F.W. Young, A Study
of the Relation of Isaiah to the Fourth Gospel…, 222-224, ove si sottolinea la
dipendenza del Figlio quale Nome di Dio in Gv 14,13-14; 115,16; 16,23-26; 17,6;
17,26, dal Nome attestato in Isaia 52,5; 55,13; 62,2; 65,15. Considero rilevante
l’interpretazione di E.D. Freed, Some Old Testament Influences on the Prologue of
John, in H.N. Bream, R.D.Heim, C.A. Moore (edd.), A Light unto My Path: Old
Testament Studies in Honor of J.M. Myers, Temple University Press, Philadelphia
1974, 145-16, che prima di tutto insiste sul dato che non il Logos, ma la Luce è
l’autentico protagonista del Prologo: «Light (φῶς), not Word (λόγος) is the domi-
nant theme of vv. 3-13 and 14b. Whereas the word λόγος occurs only four times
in vss 1-14, three of which are in the first verse, the word φῶς is used six times in
vss 4-9… The dominance of the λόγος concept in the Prologue has been grossly
exaggerated. And since Light, not Word, is the dominant idea, we have a Phōs
(light) poem or hymn» (148-149); cf. 154-158. In tal senso, Freed, a p. 145-148
e 156, mette in relazione Isaia 60,1-5 e 19, quindi Isaia 9,1 con il ricorrente tema
della Luce in Gv. Al contrario, si sottolinea come «the only idea in the Prologue
which has no counterpart in the Gospel is Jesus as the Logos» (158). Infine G.D.
Kirchhevel, The Children of God and the Glory That John 1:14 Saw, in «Bulletin
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 221

11,2: «Su di lui si poserà lo Spirito del Signore (sec. LXX: ἀναπαύσεται ἐπ'
αὐτὸν πνεῦμα τοῦ θεοῦ)»; a Isaia 42,1: «Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio (sec. LXX: ὁ ἐκλεκτός μου, προσεδέξατο
αὐτὸν ἡ ψυχή μου). Ho posto il mio Spirito su di lui (ἔδωκα τὸ πνεῦμά μου
ἐπ'αὐτόν)»; e a Isaia 61,1 (citato in Lc 4,18-19): «Lo Spirito del Signore è
su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato
a portare il lieto annunzio ai miseri» (sec. LXX: Πνεῦμα κυρίου ἐπ' ἐμέ,
οὗ εἵνεκεν ἔχρισέν με· εὐαγγελίσασθαι πτωχοῖς ἀπέσταλκέν με)». Ebbene,
essi devono essere connessi alla profezia messianica di Isaia 9,1 e 5, che
tra l’altro segue immediatamente un riferimento al Giordano in Isaia 8,23:

Il popolo immerso nelle tenebre (sec. LXX: ὁ λαὸς ὁ πορευόμενος ἐν σκότει)


ha visto una grande luce (ἴδετε φῶς μέγα); su quelli che dimoravano in terra
e ombra di morte (οἱ κατοικοῦντες ἐν χώρᾳ καὶ σκιᾷ θανάτου), una luce si è
levata (φῶς λάμψει ἐφ› ὑμᾶς)… Poiché un bambino è nato per noi (ὅτι παιδίον
ἐγεννήθη ἡμῖν), ci è stato dato un figlio (υἱὸς καὶ ἐδόθη ἡμῖν). Sulle sue spalle è
il segno della sovranità (οὗ ἡ ἀρχὴ ἐγενήθη ἐπὶ τοῦ ὤμου αὐτοῦ) ed è chiamato:
Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.

Propongo, allora, l’ipotesi di Isaia 9 come fonte decisiva del Prologo,


sottolineando come ricorra nella traduzione dei LXX di Isaia 9,5 l’attri-
buzione al Figlio che viene dell’ἀρχὴ (cf. anche Isaia 9,6: μεγάλη ἡ ἀρχὴ
αὐτοῦ), mentre nel testo ebraico ricorre persino l’appellativo di «Dio po-
tente» (9,5). Insomma, a partire da Isaia 9, testo già utilizzato dai sinottici
per descrivere l’avvento escatologico di Gesù Messia, il Prologo presenta
un Figlio messianico come (primordiale e storica) Luce che risplende nelle
tenebre, cui è attribuita la massima ἀρχὴ e persino l’appellativo di dio. Se-
gnalo, inoltre, come Mt 4,16 citi Isaia 9,1 subito dopo le tentazioni di Cri-
sto e l’arresto del Battista, quando, proprio con la metafora del risplendere

for Biblical Research» 6, 1996, 87-93, sostiene la dipendenza di Gv 1,12-14 da


Is 53,1-2: il farsi carne del Logos corrisponderebbe al kenotico nascondersi della
Gloria di Dio nel servo sofferente del deutero-Isaia. D’altra parte, la citazione di
Isaia 6,9 53,1 e 6,9-10 ricorre in Gv 12,38-41, ove si legge: «Questo disse Isaia
quando vide la sua gloria e parlò di lui (ταῦτα εἶπεν Ἠσαΐας, ὅτι εἶδεν τὴν δόξαν
αὐτοῦ, καὶ ἐλάλησεν περὶ αὐτοῦ)» (12,41). Cf. in proposito il notevole saggio
di M. Pesce, “Isaia disse queste cose perché vide la sua gloria e parlò di lui”
(Gv 12,41): Il Vangelo di Giovanni e l’Ascensione di Isaia, in «Studia Patavina»
50, 2003, 649-666: vi si cerca di riconoscere una «costellazione giovannista»,
all’interno della quale verrebbero prodotti o interpretati testi come l’Ascensione di
Isaia e l’Apocalisse d’Abramo, che rivelano elementi sistematici corrispondenti a
quelli giovannei che, a differenza di Pesce, non ho dubbi a definire “apocalittici”.
222 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

di «una grande luce» è indicato l’avvio della predicazione di Gesù195. Ri-


tengo, allora, sia del massimo interesse leggere Prologo giovanneo e ritrat-
tazione dell’evento battesimale nella semplice discesa dello Spirito sull’e-
letto di Dio (in Gv 1,32-34) parallelamente all’intero inizio dell’attività di
Gesù Messia in Mt 3,13-4,17, dal battesimo, passando per le tentazioni,
quindi alla vera e propria “sostituzione” del Battista con Gesù. Vi ritrovia-
mo, infatti, la connessione tra principio della rivelazione e risplendere di
una grande luce nella tenebra (Mt 4,16-17; Gv 1,5a; 1,9; 1,14), parabola
discensiva del Battista corrispondente al sorgere del Figlio di Dio/l’Eletto,
che viene e lo sorpassa (Mt 3,14-17 e 4,12-17; Gv 1,6-9; 1,15), superamen-
to da parte di Gesù della resistenza demoniaca della tenebra (Mt 4,1-11; Gv
1,5b; 1,10-11). Non intendo, con questo, provare una dipendenza testuale
di Giovanni da Matteo, ma indicare la presenza sotto traccia dello stesso
schema rivelativo-messianico tradizionale, che in entrambe le ricostruzioni
degli eventi del Giordano e del principio della predicazione di Gesù riaf-
fiora, seppure con differenze talmente profonde da renderlo difficilmente
riconoscibile. D’altra parte, anche in Luca 1,67-79, il Benedictus intonato
da Zaccaria – con il quale saluta suo figlio Giovanni esaltandolo come
«profeta dell’Altissimo (προφήτης ὑψίστου)» (1,76) – riferisce a Gesù
Isaia 9,1, citato al v. 79196.
Ma che Gv 1 sia impegnato a ritrattare in sé i testi messianici di Isaia
è confermato da un ultimo, davvero fondamentale riferimento, quello ad
Isaia 40,3-11, il cui v. 3 è citato dal Battista per autodefinirsi in Gv 1,23197:

Una voce di chi grida nel deserto (sec. LXX: φωνὴ βοῶντος ἐν τῇ ἐρήμῳ):
“Preparate la via al Signore (Ἑτοιμάσατε τὴν ὁδὸν κυρίου), appianate nella
steppa la strada per il nostro Dio… Allora si rivelerà la gloria del Signore (καὶ
ὀφθήσεται ἡ δόξα κυρίου) e ogni carne vedrà la salvezza di Dio (καὶ ὄψεται
πᾶσα σὰρξ τὸ σωτήριον τοῦ θεοῦ), poiché il Signore ha parlato (ὅτι κύριος
ἐλάλησεν)”… La parola di Dio dura sempre (τὸ δὲ ῥῆμα τοῦ θεοῦ ἡμῶν μένει
εἰς τὸν αἰῶνα)… Alza la voce, non temere; annunzia alla città di Giuda: “Ecco

195 Lc 2,9, invece, pare riecheggiare Isaia 9,1, quando, alla nascita di Gesù, l’angelo
porta la notizia ai pastori e «la gloria del Signore li avvolse di luce (δόξα κυρίου
περιέλαμψεν αὐτούς)».
196 «Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge (ἐπισκέψεται ἡμᾶς ἀνατολὴ ἐξ
ὕψους), per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte
(ἐπιφᾶναι τοῖς ἐν σκότει καὶ σκιᾷ θανάτου καθημένοις) e dirigerà i nostri passi
sulla via della pace (τοῦ κατευθῦναι τοὺς πόδας ἡμῶν εἰς ὁδὸν εἰρήνης)» (Lc
1,78-79).
197 «Gli dissero [sacerdoti e leviti inviati dai Giudei a interrogare il Battista]: “Chi
sei?”… Rispose: “Io sono voce di uno che grida nel deserto; preparate la via al
Signore”» (Gv 1,22-23). Il brano è citato anche in Mc 1,2-3; Mt 3,3; Lc 3,4-6.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 223

il vostro Dio (Ἰδοὺ ὁ θεὸς ὑμῶν)! Ecco, il Signore viene con potenza (ἰδοὺ
κύριος μετὰ ἰσχύος ἔρχεται), con il braccio egli detiene il dominio” (Isaia 40,3;
5; 8-10).

Non soltanto ricorre, in questo passo, il versetto tramite il quale il Bat-


tista giovanneo “si” identifica, ma soprattutto è trasparente la connessione
tra la voce che grida l’avvento del Signore Dio e la manifestazione del-
la «gloria del Signore (δόξα κυρίου)», identificata con la manifestazione
dell’eterna parola (ῥῆμα, piuttosto che λόγος) di Dio, che è «il Signore
[che] viene (κύριος ἔρχεται)» e che “la voce che grida” indica appunto
come avveniente tramite l’espressione tipica del “veggente”: «Ecco/ἰδού/
ἴδε»198. Essa è indirizzata ad esaltare l’avvento del messia, interpretato
(iperbolicamente dal testo profetico, realmente da Gv) come nostro «dio (ὁ
θεὸς ὑμῶν)». Ebbene, proprio sulla bocca del Battista l’«Ecco/ ἴδε» ricorre
in Gv 1,29 e 1,36, chiamato a proclamare Gesù, che il Prologo ha già con-
fessato come «dio» e come «il veniente (ὁ ἐρχόμενος)» (Gv 1,15)199.
Il Prologo può essere, allora, restituito come vero e proprio montaggio
delle profezie di Isaia, che tra l’altro faceva in 8,23 riferimento proprio
al Giordano come luogo di avvento e diffusione della gloria salvifica
verso luoghi della Galilea, prima maledetti da Dio200. Ma se le immagi-
ni profetiche del profeta vengono utilizzate nel Prologo per descrivere
l’avvento messianico di Luce/Gloria/Spirito del Figlio/Dio/Principio nel
mondo, si rafforza l’ipotesi che il Prologo stia descrivendo l’evento del
Giordano, sulle cui rive Giovanni, con il suo «Ecco/ ἴδε», ripetutamente

198 Cf. C. Ginzburg, Occhiacci di legno, Feltrinelli, Milano 1998, il cap. “Ecce. Sulle
radici scritturali dell’immagine di culto cristiana”, 100-117, in part. 108-109.
199 Cf., ovviamente, anche Gv 19,5: «Ἰδοὺ ὁ ἄνθρωπος (Ecce homo!)»; e 19,14: «Ἴδε
ὁ βασιλεὺς ὑμῶν (Ecce rex vester!)».
200 «In passato umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà
gloriosa la via del mare, oltre il Giordano e la curva di Goim» (Isaia 8,23); diversa
è la traduzione dei Settanta, che comunque mantiene il riferimento al Giordano,
introducendo un più esplicito riferimento alla Galilea dei gentili: «Τοῦτο πρῶτον
ποίει, ταχὺ ποίει, χώρα Ζαβουλων, ἡ γῆ Νεφθαλιμ ὁδὸν θαλάσσης καὶ οἱ λοιποὶ
οἱ τὴν παραλίαν κατοικοῦντες καὶ πέραν τοῦ Ιορδάνου, Γαλιλαία τῶν ἐθνῶν, τὰ
μέρη τῆς Ιουδαίας». Sottolineo come Mt citi proprio Isaia 8,23-9,1, specificando
che, «avendo intanto saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella
Galilea e, lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territo-
rio di Zàbulon e di Nèftali, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo
del profeta Isaia: “Il paese di Zàbulon, e il paese di Nèftali, sulla via del mare, al
di là del Giordano, Galilea delle genti; il popolo immerso nelle tenebre ha visto
una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte, una luce si è
levata» (Mt 4,12-16).
224 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

saluta l’avvento del «veniente» (Gv 1,15; ma cf. 1,9). Gesù è il Figlio
«eletto» (Isaia 42,1) di Dio, sul quale questi ha fatto discendere lo Spirito
(Isaia 11,2 e 42,1), rivelandolo come manifestazione della «Gloria» di
Dio (Isaia 40,5), della sua «Parola» (Isaia 40,8), della sua escatologica
«Luce» salvifica (Isaia 9,1), che, rivelandosi come «il Dio/il Signore che
viene» (Isaia 40,9-10), rifulge nella tenebra mortale, portando vita e sal-
vezza. Conseguentemente, Gv 8,12 ricapitola in termini più facilmente
riconoscibili la testimonianza del Battista nel Prologo, ora divenuta auto-
proclamazione di Gesù, che si presenta, a partire da Isaia, quale l’atteso
Figlio/Principio/Parola/Vita/Luce nella tenebra, manifestato dalla disce-
sa dello Spirito:

Di nuovo Gesù parlò loro: “Io sono la luce del mondo (Ἐγώ εἰμι τὸ φῶς
τοῦ κόσμου); chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della
vita (ὁ ἀκολουθῶν ἐμοὶ οὐ μὴ περιπατήσῃ ἐν τῇ σκοτίᾳ, ἀλλ› ἕξει τὸ φῶς τῆς
ζωῆς)” (Gv 8,12).

Ebbene, ritengo che nel caso lucano (cf. 1,78-79), così come nel caso
giovanneo, sia evidente la necessità di traslare su Gesù precedenti attese
profetico-messianiche proiettate sul Battista. Entrambi i testi sono, più
o meno esplicitamente, “polemici”, in quanto affermano che Gesù e non
il Battista è la luce “messianica”. Excusatio non petita… Evidentemen-
te, esisteva una rivendicazione fotologica rivale, incentrata su Giovan-
ni, maestro di Gesù. Pertanto, l’innalzamento del Prologo, che identifica
Gesù con la Luce primordiale, è quasi certamente una ritrattazione proto-
logica, intradivina di una preesistente “cristologia” profetico-messianica
battista, che appunto vedeva in Giovanni il vero (ultimo?) profeta, colui
sul quale si sarebbe posato al Giordano lo Spirito di Elia/Eliseo, l’ἀρχή
di Dio, la Luce escatologico-apocalittica. Molto probabilmente la stes-
sa profezia di Isaia viveva della traslazione escatologica del racconto
genesiaco della creazione, che diveniva figura del Figlio/Messia atteso,
che avrebbe finalmente illuminato Israele decaduto nelle tenebre, prima
dell’avvento del Regno. La reinterpretazione “battista” rilanciava la pro-
fezia isaiana in prospettiva apocalittica, collegandola all’avvento escato-
logico del Regno di Dio, probabilmente alla venuta del Figlio dell’Uomo,
quindi alla possibilità ultima di essere salvati grazie alla conversione/
penitenza e alla purificazione in extremis del Battista, prima del (quasi
universale) giudizio di condanna.
Il Prologo, si diceva, compie un salto in alto radicale: fa ri-avvenire il
Principio, rivelato grazie all’apocalittica apertura del cielo, innalzando
la precedente fotofania escatologico-messianica “battista” a rivelazio-
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 225

ne della preesistente Luce teofanica e creativa. Lo slittamento simboli-


co isaiano, per il quale il Fiat lux genesiaco diveniva figura dell’evento
messianico, viene riconvertito in una paradossale apocalisse protologica:
l’apparizione della luce messianica al Giordano, quando lo Spirito torna
ad aleggiare sulle acque, è rivelazione reale della stessa Luce primordiale
che “sfugge” alla presa delle tenebre. Pertanto, rispetto alle tradizioni
affioranti nei vangeli sinottici, Giovanni non si accontenta di far slittare
la fotofania genesiaco-messianica dal Battista a Gesù, ma, compiendo il
percorso inverso a quello che l’aveva analogicamente generata in Isaia
(che procedeva dal principio atemporale della creazione illuminatrice
alla profezia della redenzione storica), la rilegge ontologicamente, pro-
clamando la preesistenza divina e creatrice del Figlio incarnatosi in Gesù,
quindi apocalitticamente manifestatosi come il solo, autentico messia
salvifico, in quanto ontologicamente “più grande” o “pre-avveniente”
presso il Padre.
Non mi pare plausibile, invece, che la comunità battista abbia po-
tuto “inventare” una cristologia alta, che rivelasse Giovanni, ricono-
sciuto quale vero/ultimo(?) profeta, anche come Luce divina preesi-
stente incarnatasi. Non abbiamo infatti attestazioni in tal senso, come
non abbiamo notizia alcuna su resurrezione o apparizione di Giovanni
dopo la sua decapitazione, convinzioni che mi paiono essere preludio
logico indispensabile per approdare, come innalzamento ulteriore, all’i-
dea di divina preesistenza personale. Probabilmente, la comunità bat-
tista attendeva il suo ritorno nel momento dell’universale resurrezione
escatologica, che sarebbe dovuta coincidere con il giudizio immediato,
l’avvento del Regno, nel quale Giovanni avrebbe forse potuto avere il
ruolo di Figlio dell’Uomo/Giudice. Insomma, la parabola storica del
Battista pare rimanere circoscritta all’interno di un pensiero profetico-
apocalittico eventuale: il suo approdo – la morte violenta del profeta
per mano di un re corrotto – non è stato, in effetti, così infamante,
quindi religiosamente eversivo, quale quello di Gesù, per il quale è
stato “necessario” un rilancio iperbolico della sua identità carismati-
ca per avvalorarne la pretesa. Soltanto la catastrofe storica del messia
amato, ma reietto come bestemmiatore crocifisso dal Tempio, quindi
maledetto dalla Legge, può avere potuto generare – come una molla
straordinariamente compressa, quindi libratasi proiettando verso l’alto
l’energia accumulata – una paradossale potenza, capace di rilanciare
la radicalissima “pretesa” gesuana prima tramite la resurrezione nello
Spirito, infine tramite l’introduzione nel seno stesso di Dio, di cui viene
esaltato come unico eterno rivelatore.
226 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

14. ΦΩΣ: l’Uomo di Luce “incarnatosi” al Giordano

Il “doppio gioco” sopra identificato del Prologo – a) quello della rica-


pitolazione della teofania battesimale “sinottica” nella rivelazione del Fiat
Verbum/Fiat Lux protologico, quindi b) quello della presentazione dell’in-
carnazione in Gesù del dio Unigenito che è Luce al cospetto del Battista
– rimarrebbe un’ipotesi astratta, se non fosse possibile individuare testi
protocristiani che restituissero proprio come rivelazione di Luce, connessa
alla proclamazione del Logos della filialità, la discesa dello Spirito, quindi
l’incarnazione del Figlio divino in Gesù al Giordano. A partire dal Fiat
Lux di Gen 1,3, l’identificazione della Luce primordiale con il Logos –
cioè con lo stesso “parlare” creativo di Dio201 – può richiamare la nozione
di primordiale Uomo ad Immagine, soprattutto se contestualizzata in un
contesto giudaico-ellenistico. Il rivelarsi della Luce, pertanto, può essere
interpretato come il rivelarsi del primo o del nuovo Adamo, quindi (del
Figlio) dell’uomo, interpretato quale Immagine e Gloria di Dio. Ricordo
che in greco φως può significare al tempo stesso «luce (τὸ φῶς)» e «uomo
(ὁ φώς)»202. Ebbene, è possibile identificare alcuni testi assai rilevanti nei
quali: a) la Luce è identificata con la “Potenza” o lo “Spirito” divini che
discendono al battesimo nell’uomo Gesù; b) la nozione della Luce come
“Uomo” luminoso che discende dal cielo in Gesù si retroproietta a livello
protologico, ove, secondo il principio dell’esemplarismo inverso, l’origine

201 Sull’identificazione tra Luce e Logos divino, connessi proprio tramite un riferi-
mento a Gen 1,3, notevolissimo è un passo filoniano: «Dio è luce (ὁ θεὸς φῶς
ἐστι)… e non solo luce, ma archetipo di ogni altra luce (καὶ οὐ μόνον φῶς, ἀλλὰ
καὶ παντὸς ἑτέρου φωτὸς ἀρχέτυπον) o, meglio ancora, più antico e più eccelso di
ogni archetipo, perché Egli è il modello in assoluto. Modello è infatti il suo Logos,
pienamente compiuto (τὸ μὲν γὰρ παράδειγμα ὁ πληρέστατος ἦν αὐτοῦ λόγος),
che è luce (φῶς) – si legge infatti nel testo sacro: “Dio disse: “Sia fatta la luce”
(”εἶπε ὁ θεός· γενέσθω φῶς”)” (Gen 1,3) –, mentre egli non è simile ad alcuna
cosa creata» (Filone, De somniis I,75).
202 Cf. G. Quispel, Ezekiel 1:26 in Jewish Mysticism and Gnosis…, 6: «this con-
cept [quello dell’Anthropos gnostico] presupposes a pun on ho phōs, the man,
and to phōs, the light, and therefore must have originated in the Greek diaspora»
(6)». Cf., inoltre, J.E. Fossum, The Image of the Invisible God. Col. 1.15-18a,
Jewish Mysticism and Gnosticism, in The Image of the Invisible God. Essays on
the Influence of Jewish Mysticism on Early Christology, Vandenhoek & Ruprecht,
Göttingen 1995, pp. 13-39, in part. p. 17: «The light which enclosed the heavenly
Man is the light which was created on the first day according to Gen 1.3: “And
God said: ‘Let there be light!’. And there was light”. The word for “light” in
the LXX is φως, which significantly also means «man» (τὸ φῶς, “light”; ὁ φώς,
“man”».
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 227

stessa dell’uomo è spiegata a partire da un primordiale battesimo di luce,


contrastato dalle potenze del mondo.

a) Fotofanie battesimali giudeocristiane. Sono attestate notizie che in-


terpretano la discesa al Giordano di Spirito/Logos/Sapienza/Potenza/Uomo
come apparizione di Luce. Di fondamentale importanza è la sovrabbon-
dante notizia su Elxai, quindi su Sampseni, Osseti ed Elcasaiti, di Epifanio
di Salamina, nella XXX eresia del I libro del Panarion, Contro gli ebioni-
ti, ove è ricapitolata una serie di dottrine che potremmo definire (certo con
una povera approssimazione) giudeocristiane. Agli ebioniti, Epifanio attri-
buisce, prima di tutto, dottrine attestate nel corpus pseudo-clementino (Cri-
sto è l’impeccabile Adamo/Cristo preesistente, disceso prima sui patriar-
chi, Mosè e i profeti, infine su Gesù), alle quali comunque aggiunge
un’importante variante:

Alcuni di loro dicono persino che il Cristo fosse Adamo (Ἀδὰμ τὸν Χριστὸν
εἶναι λέγουσιν), il primo uomo creato e reso animato dal soffio di Dio (τὸν
πρῶτόν τε πλασθέντα καὶ ἐμφυσηθέντα ἀπὸ τῆς τοῦ θεοῦ ἐπιπνοίας). Altri
invece tra loro predicano che Egli viene dall’alto, ma è stato creato prima di
tutte le cose. È Spirito, è superiore agli angeli e di tutto è Signore. È chiamato
Cristo e ha avuto in sorte il mondo di lassù. Scende però quaggiù quando vuole,
venne anche nella persona di Adamo e apparve ai patriarchi rivestito di corpo.
È sempre lui che, già venuto presso Abramo e Isacco e Giacobbe, tornò alla
fine dei giorni, si rivestì dello stesso corpo di Adamo e fu visto nel mondo, fu
crocifisso, risorse e risalì. Ma poi viceversa quando loro garba ci dicono: “No,
è lo Spirito e cioè il Cristo, che è sceso in Lui e si è rivestito dell’uomo Gesù
(οὐχί, ἀλλὰ εἰς αὐτὸν ἦλθε τὸ πνεῦμα ὅπερ ἐστὶν ὁ Χριστὸς καὶ ἐνεδύσατο
αὐτὸν τὸν Ἰησοῦν καλούμενον)”.203.

In quest’ultima variante “ebionitica”, Cristo non è l’arconte dell’umanità,


quindi l’impeccabile Adamo/Imago Dei e Vero Profeta del corpus pseudo-
clementino, ma lo stesso divino Spirito Santo, esplicitamente identificato
con il Cristo o il Figlio preesistente, che discende sull’/nell’uomo Gesù. La
prospettiva cristologica corrisponderebbe a quella di Cerinto, che ho sopra
interpretata, seguendo Brown, come estremizzazione o variante radicale
della corrente infragiovannea di docetismo moderato (che non negava la di-
mensione umana dell’uomo Gesù, ma riportava la redenzione alla teofania

203 Epifanio di Salamina, Panarion I, tomo II, eresia XXX, Contro gli ebioniti 3,3-6;
cf. 3,1-3. Utilizzo l’edizione e la traduzione a cura di G. Pini, Epifanio di Salami-
na, Panarion, Libro Primo, Morcelliana, Brescia 2010.
228 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

del Logos e non alla passione e morte di Cristo), combattuta dal presbitero
di 1-2Gv. In proposito, è del massimo interesse la notizia fornitaci da Epi-
fanio poco più avanti: dopo aver piuttosto confusamente percorso il frasta-
gliato gruppo di cerintiani/merintiani, nazorei, ebioniti, pur sottolineando
come egli stesso faccia difficoltà a distinguerne le dottrine204, prima afferma
che anche gli ebioniti si riconoscevano nel vangelo ebraico di Matteo o
«secondo gli Ebrei»205 (su cui tornerò poco più sotto), quindi aggiunge che
alcuni di essi facevano riferimento anche a un vangelo di Giovanni, pure dal
greco tradotto in ebraico, custodito nella tesoreria dei Giudei, in particolare
in quella di Tiberiade e vi si conserva in segreto; così ci hanno confidato
dettagliatamente alcuni venuti alla fede dal Giudaismo.206
Qualora volessimo assumere come storicamente fondata questa proble-
matica testimonianza di Epifanio, riportata subito dopo la descrizione della
cristologia divisiva che ho appena riportata, avremmo una prova dell’esi-

204 Il movimento ebionita è significativamente definito come «mostro polimorfo


(πολύμορφον τεράστιον), idra dalle molte teste (πολυκέφαλος ὕδρα)… in quanto
ogni messaggio più pericoloso e funesto ed abominevole, laido e insieme assurdo
e ridondante di ottusità prese da ogni eresia e rifece se stesso sul modello di tutte
(ἀ<ντι>ζηλίας ἔμπλεον παρ’ ἑκάστης αἱρέσεως λαβὼν ἑαυτὸν ἀνετύπωσεν εἰς
ἁπάσας). Egli infatti in sé ha l’aspetto odioso dei samaritani, il nome tratto dai
giudei, i dogmi di ossei, nazorei, nasarei, la natura dei cerintiani (Κηρινθιανῶν
τὸ εἶδος), la malvagità dei carpocraziani e dei cristiani ambisce ad avere solo
la qualifica… Egli sta a mezzo tra tutti, per così dire, e in se stesso non è niente
(μέσος δὲ ὡς εἰπεῖν ἁπάντων τυγχάνων οὐδὲν πέφυκεν)» (Epifanio di Salamina,
Panarion I, tomo II, eresia XXX, Contro gli ebioniti 1,1-4). L’ebionismo finisce
per essere l’intero indistinto, polimorfo ambito giudaico-cristiano, anteriore alla
definizione protocattolica del dogma. Così, dopo aver finito di descrivere l’eresia
cerintiana/merintiana, Epifanio passa all’eresia nazorea, esprimendosi in termini
sostanzialmente analoghi: «Vengono di seguito a questi [ai cerintiani] i Nazorei,
che fiorirono con essi o anche prima di essi, o confusi con loro o dopo di loro, co-
munque contemporanei; non sono in grado di esprimermi con maggiore certezza
sulle rispettive successioni. Come ho detto, erano di fatto reciprocamente contem-
poranei ed ebbero opinioni rispettivamente simili (ὅμοια ἀλλήλοις κέκτηνται τὰ
φρονήματα)» (Epifanio di Salamina, Panarion I, tomo II, eresia XXIX, Contro i
nazorei 1,1).
205 Cf. Epifanio di Salamina, Panarion I, tomo II, eresia XXX, Contro gli ebioniti 3,7:
«Accettano anch’essi [gli ebioniti] il vangelo secondo Matteo; anch’essi, come i
cerintiani e i merintiani, usano solo quello. Lo chiamano però “secondo gli ebrei”;
ed in effetti è la verità che solo Matteo nel Nuovo Testamento fece l’esposizione
scritta e la predicazione del vangelo in ebraico e con lettere ebraiche». Cf. eresia
XXIX, Contro i nazorei 9,4: «Usano il vangelo secondo Matteo, integralmente, in
ebraico: infatti presso di loro questo si conserva ancora, ed è certo, come era stato
scritto all’origine, in lettere ebraiche».
206 Epifanio di Salamina, Panarion I, tomo II, eresia XXX, Contro gli ebioniti 3,8.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 229

stenza di un vangelo di Giovanni (ancora privo di Prologo?), le cui pro-


spettive cristologiche corrisponderebbero sostanzialmente a quelle che lo
stesso Epifanio attribuisce a Cerinto:

Cerinto nacque e visse a lungo in Asia e qui dette inizio alla sua
predicazione… Diceva poi che dall’alto, dal Dio supremo, dopo che Gesù si
fece adulto, il Gesù generato dal seme di Giuseppe e da Maria, discese su di lui
il Cristo, cioè lo Spirito Santo in forma di colomba nel Giordano e rivelò a lui
e per mezzo di lui ai suoi seguaci il Padre inconoscibile. Per questo, dopo che
fu discesa su di lui la potenza celeste, egli compì opere prodigiose; e dopo che
subì la passione lo Spirito che era venuto dall’alto volò via da Gesù di nuovo
in alto. Dunque Gesù subì la passione e di nuovo risorse, mentre Cristo, quello
che era venuto in lui dall’alto, vale a dire era disceso in forma di colomba, volò
via indenne. Insomma Gesù non era Cristo (οὐ τὸν Ἰησοῦν εἶναι Χριστόν).207

Comunque, che la discesa dello Spirito/Cristo avvenga al battesimo è


confermato da una notizia di straordinario interesse, trasmessaci da Epifa-
nio nella stessa descrizione della XXX eresia, quella genericamente defini-
ta ebionitica. Si tratta della narrazione del battesimo di Gesù, riportata da
un «Vangelo secondo Matteo… adulterato e mutilato, onde l’appellativo di
“ebraico”»208. In esso si legge:

“Quando fu battezzato il popolo [dal Battista], venne anche Gesù e fu


battezzato da Giovanni”. E come venne su dall’acqua si aprirono i cieli,
ed egli vide lo Spirito Santo in forma di colomba, che scese ed entrò in lui
(ἠνοίγησαν οἱ οὐρανοὶ καὶ εἶδεν τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον ἐν εἴδει περιστερᾶς,
κατελθούσης καὶ εἰσελθούσης εἰς αὐτόν). E ci fu una voce dal cielo che
diceva: “Tu sei il mio Figlio diletto. In te mi sono compiaciuto (καὶ φωνὴ
ἐκ τοῦ οὐρανοῦ λέγουσα·σύ μου εἶ ὁ υἱὸς ὁ ἀγαπητός, ἐν σοὶ ηὐδόκησα)”.
E, ancora, “Oggi ti ho generato” (καὶ πάλιν· ἐγὼ σήμερον γεγέννηκά σε). E
subito rifulse attorno al luogo una grande luce (καὶ εὐθὺς περιέλαμψε τὸν
τόπον φῶς μέγα). Al vederla, Giovanni gli dice: “Chi sei tu, Signore? (σὺ
τίς εἶ, κύριε;)”. E di nuovo a lui una voce dal cielo: “Questi è il mio Figlio
diletto, nel quale mi sono compiaciuto”. “Allora”, aggiunge il testo, “Gio-
vanni si prostrò a terra e gli disse: “Ti prego, Signore, battezza tu me!”. Ma
Egli lo proibì, dicendo: “Lascia, poiché conviene che tutto si compia”.209

Lo Spirito Santo che discende dal cielo al momento del battesimo è,


quindi, non soltanto identificato con l’elemento “generatore” della filialità

207 Epifanio di Salamina, Panarion I, tomo II, eresia XXVIII, Contro i cerintiani o
merintiani 1,4-7.
208 Epifanio di Salamina, Panarion I, tomo II, eresia XXX, Contro gli ebioniti 13,2.
209 Epifanio di Salamina, Panarion I, tomo II, eresia XXX, Contro gli ebioniti 13,7-8.
230 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

messianica di Gesù, così come in effetti leggiamo in Marco, ma con la


stessa grande Luce teofanica. Mi pare plausibile la dipendenza da Gen 1,2-
3 e da Isaia 9,1 e 61,1: lo Spirito che aleggia sulle acque precede il Fiat
lux, sicché il dire principale di Dio, il Verbo della Luce, corrisponde alla
voce che manifesta la gloria del Figlio diletto di Dio, che è quello sul quale
discende lo Spirito, insieme con la manifestazione della Luce messianica.
La prossimità con il Prologo giovanneo, quindi con il flashback di Gv 1,33-
35, mi pare evidente. Da segnalare, inoltre, il fatto che il Battista dichiari
apertamente di non conoscere l’identità di Gesù al momento del battesimo,
deducendone l’essere il Signore /Figlio diletto soltanto a partire dalla teo-
fania, in analogia con quanto è sottolineato in Gv 1,33-34210. Soprattutto,
nel Prologo rintracciamo la corrispondenza tra manifestazione della Luce e
disvelamento del Figlio Unigenito, ancora più sistematica se interpretiamo
la Vita giovannea come riferimento allo Spirito vivificante (che in principio
aleggia sulle acque al momento del Fiat Lux) e se facciamo corrispondere
la Voce teofanica al Logos rivelatore del Figlio/Luce.
Di particolare interesse, in questa prospettiva, un passo del Dialogo
con Trifone di Giustino211, proprio perché a) attesta l’immagine del fuoco,
che divampa sul Giordano al momento del battesimo, connettendola alla
discesa dello Spirito212; b) identifica con questa fotofania la “generazio-
ne” storico-rivelativa del Figlio messianico. Ebbene, Taziano, discepolo
di Giustino, conserva l’apparizione del «Lumen» al Giordano213. Infine,

210 «Giovanni rese testimonianza dicendo: “Ho visto lo Spirito scendere come una
colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato
a battezzare con acqua, mi aveva detto: L’uomo sul quale vedrai scendere e ri-
manere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo. E io ho visto e ho reso
testimonianza che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,32-33).
211 «E quando Gesù si recò sul fiume Giordano, dove Giovanni battezzava, ed entrò
nell’acqua, un fuoco divampò nel Giordano (πῦρ ἀνήφθη ἐν τῷ Ἰορδάνῃ) e quan-
do risalì dall’acqua lo Spirito Santo volteggiò sopra di lui in forma di colomba,
come hanno scritto gli apostoli del nostro Cristo… Nel contempo venne dai cieli
una voce che già era riecheggiata per mezzo di Davide, che, come impersonando-
lo, pronuncia le parole che gli sarebbero state rivolte dal Padre: “Tu sei mio Figlio,
io oggi ti ho generato (Υἱός μου εἶ σύ, ἐγὼ σήμερον γεγέννηκά σε)” (Salmo 2,7)»
(Giustino, Dialogo con Trifone 88,3 e 8).
212 Sull’apparizione del fuoco e/o della luce al Giordano, in occasione del battesimo
di Gesù, cf. A. Orbe, Cristología gnóstica. Introducción a la soteriología de los
siglos II y III, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1976, I, 518-532.
213 «Cum illo die multi baptizarentur, Spiritus super unum descendit et quievit… qui
descendit in similitudine columbae… Lumen super aquam exortum et vox de ca-
elo delapsa… “Hic est Filius meus dilectus”» (Taziano, Diatessaron, in Th. Zahn
(ed.), Forschungen zur Geschichte des neutestamentlichen Kanons I-X, Deichert,
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 231

l’apparizione di un «lumen ingens» che risplende sulle acque battesimali,


mentre il cielo si apre e discende lo Spirito di Dio in forma di colomba, è
attestata anche da una variante matteana presente nel Codice di Vercelli
(IV sec.)214.
La rivelazione del Figlio è, quindi, diffusamente restituita come mani-
festazione della Luce divina, intimamente connessa con la discesa dello
Spirito e la teofania dell’Uomo di luce. Evidentemente questi testi presup-
pongono quello che è apertamente evidenziato nel Prologo: al Giordano si
rinnova il Fiat lux della creazione del mondo e dell’uomo ad immagine,
sicché Cristo è il Figlio della redenzione, il messia che opera la ricreazione
salvifica del mondo nello Spirito, che torna ad aleggiare sulle acque della
materia tenebrosa e informe (metaforicamente, le tenebre del peccato).
Segnalo, infine, un noto passo messianico di un fondamentale e strati-
ficato apocrifo dell’Antico Testamento, i Testamenti dei dodici patriarchi,
in particolare del Testamento di Levi, del massimo interesse proprio perché
trasmesso con massicce interpolazioni cristiane, sicché il testo pervenutoci
è in sé fluido, essendo databile tra il II sec. a.C. e il II sec. d.C. Lo riporto
senza distinguere tra l’ipotizzato originale ebraico e le interpolazioni cri-
stiane proposte:

Allora il Signore farà sorgere un sacerdote nuovo (ἱερέα καινόν), al


quale tutte le parole del Signore saranno rivelate (ᾧ πάντες οἱ λόγοι Κυρίου
ἀποκαλυφθήσονται)… Nel cielo sorgerà il suo astro, come di un re, brillando
della luce della conoscenza come un giorno nel sole (φωτίζων φῶς γνώσεως ἐν
ἡλίῳ ἡμέρας). Sarà celebrato su tutta la terra. Questi brillerà come il sole sulla
terra e farà scomparire ogni tenebra di sotto il cielo (Οὗτος ἀναλάμψει ὡς ὁ
ἥλιος ἐν τῇ γῇ καὶ ἐξαρεῖ πᾶν σκότος ἐκ τῆς ὑπ’ οὐρανόν)… La conoscenza del
Signore si riverserà sopra la terra come acqua del mare. Gli angeli della gloria

Erlangen 1881, Leipzig 19292, in part. I,124); cf. A. Orbe, La unción del Verbo.
Estudios Valentinianos III, Libreria Editrice dell’Università Gregoriana, Roma
1961, il cap. «El resplandor», 281-287.
214 «Et cum baptizaretur, lumen ingens circumfulsit de aqua; ita ut timerent omnes
qui advenerant. Et baptizato Jesu, confesti ascendit de aqua, et ecce aperti sunt ei
caeli: et vidit Spiritum Dei descendentem de Caelo sicut columbam venientem in
ipsum» (Codex Vercellensis Evangeliorum, Mt 3,16, in A. Gasquet (ed.), Collecta-
nea biblica latina, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1914, vol. III); l’integrazione
matteana ricorre anche nel Codez Sangermanensis: «Et cum baptizaretur Jesus,
lumen magnum fulgebat de aqua, ita ut timerent omnes qui congregati erant»; cf.
il notevolissimo saggio, che amplia la documentazione a testi siriaci e armeni, di
G. Winkler, The Appareance of the Light at the Baptism of Jesus and the Origins
of the Feast of Epiphany, in M.E. Johnson (ed.), Between Memory and Hope:
Readings on the Liturgical Year, Liturgical Press, Collegeville 2000, 291-348.
232 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

del volto del Signore si rallegreranno di lui. I cieli si apriranno e dal tempio
della gloria verrà su di lui la santità, con voce paterna (ἐκ τοῦ ναοῦ τῆς δόξης
ἥξει ἐπ’ αὐτὸν ἁγίασμα μετὰ φωνῆς πατρικῆς) come da Abramo a Isacco. La
gloria dell’Altissimo sarà pronunciata sopra di lui (δόξα ὑψίστου ἐπ’ αὐτὸν
ῥηθήσεται) e lo Spirito di intelligenza e di santità riposerà su di lui sull’acqua
(καὶ πνεῦμα συνέσεως καὶ ἁγιασμοῦ καταπαύσει ἐπ› αὐτὸν ἐν τῷ ὕδατι ) (Tes-
tamento di Levi, XVIII,2-7).215

Ritroviamo la connessione esplicita tra la isaiana e giovannea Luce che


risplende nelle tenebre, la Voce del Padre e la Gloria celeste che discendono
dal cielo sopra l’eletto, l’unzione messianica con lo Spirito che non soltan-
to discende, ma riposa, quindi rimane (cf. Gv 1,33) sul Figlio “sacerdote”.
Soprattutto, è rilevantissimo il riferimento finale alla discesa «sull’acqua»
(interpolazione certamente cristiana!), che avvicina notevolmente questa
teofania apocalittica al Prologo, se letto in connessione con Gv 1,32-34, per
di più esplicitando l’elemento “vitale” dell’acqua del Giordano, presso la
quale il Battista operava e che il Prologo omette di nominare.
È opportuno, poi, introdurre un breve excursus su un testo sfuggente
e straordinario quali le Odi di Salomone (inizio II secolo)216, fortemente
influenzate da prospettive giovannee e partecipi, come il Vangelo di Tom-
maso217, di quel processo di precoce ritrattazione mistico-speculativa dei

215 Testamenti dei dodici patriarchi, in P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamen-
to, Utet, Torino 1981, I,768-948, in part. Testamento di Levi I,789-808, brano cit.
806-807, tr. di P. Sacchi.
216 Utilizzo qui la traduzione del testo siriaco di M. Erbetta, in Gli Apocrifi del Nuovo
Testamento, I/1: Vangeli. Testi giudeo-cristiani e gnostici, Marietti, Casale Mon-
ferrato 1975, verificata e talvolta ritoccata a partire dalla traduzione di M.-J. Pier-
re, Les Odes de Salomon, Brepols, Tunrhout 1995.
217 L’identificazione di Cristo con l’«Uomo di luce» è presupposta nel logion 24 del
Vangelo di Tommaso (=NHC II,38,10-12): «Dissero i suoi discepoli: “Mostraci il
luogo dove tu sei, perché ci è necessario cercarlo”. Disse loro: “Chi ha orecchi,
intenda! Vi è luce in un uomo di luce, e illumina il mondo intero. Se non risplende,
è la tenebra”» (tr. it. di A. Annese lievemente ritoccata, Il Vangelo di Tommaso.
Introduzione storico-critica. Con una nuova traduzione italiana del testo greco e
copto, Carocci, Roma 2019). Si fa qui riferimento alla partecipazione degli eletti
a Cristo, che nel logion 77 dice di sé: «Io sono la Luce che è sopra tutte le cose».
L’eletto partecipa della rivelazione dell’Immagine di Luce, la quale rende ogni
uomo spirituale luce per il mondo. Pertanto, gli eletti stessi partecipano del movi-
mento dialettico della rivelazione della Luce, il suo procedere illuminante e il suo
ritornare/permanere nel Padre. Cf. logion 50=NHC II,41,30-42,7: «Disse Gesù:
“Se vi dicono: “Da dove siete venuti all’esistenza?”, rispondete loro: “Siamo ve-
nuti dalla luce, dal luogo dove la luce è venuta all’esistenza da se stessa, si è levata
e si è manifestata nella loro immagine”. Se vi dicono: “Siete voi?”, dite: “Noi
siamo i suoi figli e noi siamo gli eletti del Padre vivente”. Se vi chiedono: “Qual
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 233

salvifici eventi apocalittici, che, ulteriormente radicalizzata, approderà alla


prospettiva gnostica. Quello che colpisce è la centralità del tema della teo-
fania (piuttosto che del battesimo!) di Cristo al Giordano, spesso espressa
con termini desunti dal IV vangelo e, soprattutto, indicata come simbolo
dell’appropriazione interiore del Logos da parte del credente. L’incontro
con Cristo Signore è restituito come trasfigurazione nella Luce del Logos,
essere rivestiti di luce ed essere ricreati nella vita218, partecipazione alla
Luce assoluta che è il Logos stesso219, Volto che irradia escatologicamen-
te220 la Gloria luminosa di Dio221. In particolare, nell’Ode 41,13-14, si legge:

«Il Figlio dell'Altissimo si rese visibile nella pienezza (o perfezione) del


Padre suo. La luce sorse dalla parola (Logos) che fin da principio era in lui
(=Padre)» (tr. it. di Alberto Camplani).

La dipendenza dal Prologo giovanneo è evidentissima: la Luce scaturi-


sce dal Logos del Padre, è irradiata dal Fiat Lux di Dio. Il Logos è perfor-
matività assoluta: è l’evento protologico della manifestazione personale
della Luce, rivelato dall’evento escatologico dell’incarnazione del Logos,
sui quali le Odi di Salomone tornano in più luoghi. Mi concentro qui su
un passo particolarmente significativo, perché, pur facendo esplicito riferi-
mento alla teofania al Giordano – ricapitolata nella discesa della colomba/

è il segno del Padre vostro in voi?”, dite loro: “È movimento e riposo”». Per una
restituzione del Vangelo di Tommaso come “mistico”, piuttosto che “gnostico”,
cf., A.D. De Conick, Seek To See Him. Ascent and Vision Mysticism in the Gospel
of Thomas, Brill, Leiden-New York-Köln 1996, 3-39.
218 «Il Signore guidò la mia bocca con la sua parola/ ed ha aperto il mio cuore con la
sua luce./ La sua vita immortale ha stabilito in me/ e m’ha concesso di raccontare
il frutto della sua pace» (Odi di Salomone 10,1-2). «Il Signore mi ha fatto nuovo
con il suo vestito e mi ha recuperato con la sua luce. Mi ha ridato la vita con la sua
incorruttibilità» (11,11-12). «Una lampada mi ponesti alla destra e alla sinistra,
perché nulla in me fosse senza Luce. Fui rivestito con la veste del tuo Spirito e mi
levai gli abiti di pelle» (25,7-8); ove è evidente il contesto battesimale. Cf. 12,1-3.
219 «La luce rifulse dal Verbo,/ da tempo in essa presente» (Odi di Salomone 41,14);
«Salì sulla Luce della Verità come su carro e la Verità mi condusse e mi trasportò»
(38,1).
220 «Come il sole è gioia per quelli che desiderano il suo giorno,/ così il Signore è la
mia gioia./ Lui è il mio sole;/ i suoi raggi mi hanno levato;/ la sua luce ha tolto
ogni tenebra dal mio volto» (Odi di Salomone 15,1-2). Mi pare evidente il riferi-
mento a Isaia 9,1. Cf. 41,3-4 e 6: «Noi viviamo nel Signore per il suo favore e per
il suo Unto vita riceviamo. Il grande giorno difatti per noi rifulse… Nella sua luce
i nostri volti rifulgano».
221 «Mi sono tolta l’oscurità e ho rivestito la luce… Mi levai nella luce e passai di
fronte al suo volto» (Odi di Salomone 21,3 e 5). Cf. 13,1-4.
234 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Spirito sul capo di Gesù e nel canto/voce rivelativi della sua trascendente
filialità – di fatto non descrive il battesimo di Cristo:

La colomba volò sul Messia,/ perché egli era suo capo./ Cantò sopra di lui/
e fu udita la sua voce./ Gli abitanti ebbero paura/ e tremarono i residenti!... Gli
abissi si aprirono e si richiusero,/ cercavano il Signore come partorienti./ Ma
egli non fu dato ad essi in pasto,/ ché egli ad essi non apparteneva./ Gli abissi
però furono inondati con l’inondazione del Signore e perirono con quella trama
in cui dai primordi esistevano.222

Il battesimo, pertanto, sembra essere cancellato dalla memoria della


teofania al Giordano: ne sussiste soltanto una traccia negativa, in quanto
il rapporto di Gesù con le acque è restituito come conflitto violento, nel
quale Cristo riesce a sottrarsi al tentativo di afferramento, inabissamento,
inghiottimento da parte delle tenebre/acque, che risultano a loro volta in-
ghiottite dalla potenza superiore del Logos di Vita immortale, che, tramite
il dono dello Spirito, è comunicata al suo eletto223, che da Cristo riceve (con
il battesimo?) l’acqua di vita eterna224.

b) L’avvento battesimale dell’Uomo/Luce gnostico. È nota la straordina-


ria fortuna di Gv all’interno della polimorfa tradizione gnostica225, in parti-
colare in quella “sethiana”/barbelita e in quella valentiniana, che ritengo

222 Odi di Salomone 24,1-3; 5-7. Cf. 17,1-16, ove l’essere coronato con la corona
viva di Cristo Dio, quasi certamente identificabile con la recezione del battesimo,
di fatto “indïa” il credente, che diviene uno con l’uomo Gesù nel quale si mani-
festa il Logos/Luce, che rompe la prigione del mondo. Cf. 23,1-22, ove «grazia»
e «conoscenza perfetta» del Signore, identificati con il suo Logos, discendono
«come lettera… dall’alto» (23,5), nella quale si rivela «il capo… il Figlio vero
procedente dal Padre altissimo» (18); il riferimento alla lettera, che ricorda l’Inno
alla perla degli Atti di Tommaso 110,40-111,68 (ove la lettera celeste è portata da
un’aquila e ha il potere di essere luce e via), è ancora una volta battesimale. Cf.
l’eccellente saggio di D.M. Burns, “The Garment poured its entire self over me”:
Christian Baptismal Traditions and the Origins of the Hymn of the Pearl, in K.
Corrigan e T. Rasimus (edd.), Gnosticism, Platonism and the Late Ancient World.
Essays in Honour of John D. Turner, Brille, Leiden-Boston 2013, 262-273.
223 «Come ali di colombe sui loro pulcini e il becco di questi verso il becco di quelle,
così sono pure le ali dello Spirito sul mio cuore… Vita immortale mi ha abbrac-
ciato e mi ha baciato. Da essa proviene lo Spirito in me; questi non può morire,
perché è Vita» (Odi di Salomone 28,1 e 6-7).
224 Cf. Odi di Salomone 30,1-7.
225 «Tutte le prove in nostro possesso stanno a indicare che il quarto Vangelo riscos-
se un’ampia accoglienza prima tra i cristiani eterodossi che tra quelli ortodossi»
(R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto…, 172).
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 235

non possano essere spiegate senza individuare una loro dipendenza struttu-
rale nei confronti sia della cristologia giovannea, sia della paolina econo-
mia escatologica dello Spirito, appunto influenti su di esse e non dipenden-
ti da esse226, come invece è stato sostenuto, a partire dalle indagini
pionieristiche della scuola storico-religiosa di Göttingen, poi da Bultmann
e dai suoi epigoni, infine da una successiva, imponente tradizione di studi
che ha cercato di rintracciare in ambito giudaico-ellenistico l’origine della
gnosi, quindi il prototipo della stessa cristologia giovannea. Le due princi-
pali tradizioni gnostiche, l’una certamente influente sull’altra, articolano
infatti una teologia dualistica che ontologizza “spazialmente” e “protologi-
camente” l’escatologico scarto paolino tra nuova e vecchia economia nella
contrapposizione tra l’assoluta trascendenza spirituale del pleroma e il
mondo cosmologico, creato dall’Arconte/Demiurgo come immagine in-
consapevole e degradata del mistico cielo pleromatico. Inoltre, a partire dal
Prologo giovanneo, di cui i valentiniani furono i primi profondi esegeti, il
pleroma è pensato come intimità relazionale che (secondo una struttura
proto-trinitaria) rivela Dio come processo amoroso di un Padre che, trami-
te lo Spirito/Madre, genera eternamente il suo Figlio quale Dio-Uomo,
quindi come eterna incarnazione del Logos nella carne mistica di Sophia.
Questa è la protologica “Eva”/Madre dei viventi, tratta dal corpo dell’Uo-
mo, quindi peccatrice, infine redenta, prefigurazione della chiesa eletta, la
divinizzata “casta meretrix”.

Insomma, i testi gnostici ci presentano le prime esegesi mistico-specu-


lative dell’annuncio apocalittico del Prologo giovanneo, impegnate a re-
duplicare la storicità della rivelazione salvifica nell’eterna verità di Dio,
dischiusa come intimo processo rivelativo: la profonda intelligenza gno-
stica consiste nel riconoscere la verità allegorica del dramma teogonico,
sicché, esasperando il “doppio gioco” di Giovanni, la teologia gnostica re-
duplica a livello intradivino il dramma dell’incarnazione e della redenzio-
ne storiche di Gesù Cristo. Pertanto, il forte carattere mitologizzante della
speculazione gnostica dipende dalla sistematica ritrattazione intrateologi-
ca del vangelo escatologico, quindi dalla restituzione storico-processuale,
messianico-escatologica della “natura” separata di Dio. Il mito narra Dio in
figure perché la vera natura di Dio è intimamente apocalittica, rivelativa,

226 «La figura di Cristo sembra sia stata il catalizzatore che ha fatto sì che atteggia-
menti ed elementi proto-gnostici si organizzassero in corpi ben definiti di pensiero
gnostico» (R.E. Brown, Giovanni…, LXII-LXIII). Cf. G. Lettieri, Deus patiens.
L’essenza cristologica dello gnosticismo, edizione a cura di Gaetano Lettieri,
Roma 1996.
236 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

quindi processuale, estatico-eventuale, al tempo stesso donativa, patica e


redentiva, ricapitolata nell’eterno venire del Figlio dal Padre nello Spirito,
quindi nell’eterno incarnarsi del Logos nella sua carne mistica, rivelata
dal IV vangelo come «una cosa sola» con il Figlio, che è «una cosa sola»
con il Padre. Sethiani e valentiniani, pertanto, fanno del vangelo, in parti-
colare del Prologo giovanneo, la gnostica chiave interpretativa del miste-
ro profondo di Dio: se Cristo è la rivelazione storica del Figlio redentore
inviato dal Padre, Dio in se stesso “narrerà” la generazione del Figlio e il
suo dramma kenotico, segnato dalla caduta, dall’imprigionamento, infine
dalla redenzione della sua eterna carne patica, lo gnostico corpo mistico
di Cristo Salvatore, quindi dalla Madre Sophia, che questi toglie in sé, per
riportarla dal kenoma nel pleroma.
Ricapitolando, il mito protologico dualistico barbelognostico/sethiano
e valentiniano drammatizza, in senso teogonico, la protologizzazione gio-
vannea dell’avvento escatologico del Figlio nel mondo, interpretato dal
Prologo come precosmico essere inviato dell’Unigenito quale Logos del
Fiat lux creativo-redentivo, che dissipa le tenebre, avvenendo come dono
di vita e salvezza. Gv 1,5, pertanto, diviene il perno di una retroproiezione
intradivina dell’escatologica venuta salvifica del Logos di Luce, che di-
viene così il modello per pensare l’origine dell’uomo e lo stesso dramma
dualistico che spiega origine del mondo arcontico e liberazione da esso.
La teofania sulle acque cosmiche è una scena chiave dell’Apocrifo di
Giovanni (=ApGv)227: essa descrive quella che è di fatto la prima teofania
redentiva del Salvatore pleromatico, disceso a formare spiritualmente la
Sophia extrapleromatica pentitasi del suo peccato, ma anche ad avviare la
dualistica creazione di Adamo, quindi il processo di ricapitolazione dello
spirituale decaduto nell’uomo creato dal Primo Arconte Jaldabaoth. Questi
crea Adamo di natura ilico-psichica quale immagine “idolatrica”, capace
di catturare l’Uomo/Luce rifulso dal pleroma per redimere Sophia, eppure
la figura demiurgica di Adamo diviene, per decisione comune del pleroma,
del Figlio e della Madre, destinatario dello pneumatico seme divino emes-

227 Faccio riferimento alla versione lunga dell’Apocrifo di Giovanni, NHC II,1,1-
32,10, che corrisponde sostanzialmente a quella riportata in NHC IV,1,1-49,28.
Utilizzo la traduzione italiana del testo copto di F. Berno, in L’Apocrifo di Gio-
vanni. Introduzione storico-critica. Con una nuova traduzione italiana del testo
copto, Carocci, Roma 2019, confrontata con la tradizione inglese a cura di J.M.
Robinson, in The Nag Hammadi Library in English, Brill, Leiden-New York-
Köln 19964, 105-123. Eccezion fatta per l’Elenchos attribuito a Ippolito, i testi
gnostici trasmessi dagli eresiologi protocattolici saranno citati nell’edizione e
nella traduzione a cura di M. Simonetti, Testi gnostici in lingua greca e latina,
Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 237

so da Sophia228. Occorre, seppure brevemente, ripercorrere le tappe della


teofania sulle acque e dell’origine sdoppiata di Adamo.
1) In seguito alla caduta di Sophia al di fuori del pleroma, viene generato
Jaldabaoth, suo figlio abortivo, «un’opera imperfetta» (10,4). Questi crea il
mondo, esaltandosi per la sua potenza: le più note autoproclamazioni mono-
teistiche del Dio veterotestamentario vengono attribuite all’Arconte come
prova della sua autistica arroganza. 2) Conseguentemente, Sophia «si pentì»
(13,23), «si pentì con molto pianto e l’intera Pienezza sentì le invocazioni
della sua penitenza» (13,36-14,1). 3) Commosso dal pentirsi di Sophia, l’in-
tero pleroma invoca «lo Spirito invisibile e virginale», perché riversi la sua
grazia su di lei: mediante il pleroma, discende su Sophia il dono dello Spirito
Santo, che la redime, riconciliandola con il pleroma divino. 4) Contempo-
raneamente, «una voce venne dal glorioso eone celeste: “Esiste l’Uomo e
il Figlio dell’Uomo”» (14,13-15). 5) Insieme con la voce, dal pleroma il
«Padre del tutto…, il Primo Uomo insegnò loro, rivelando la propria Imma-
gine» (14,19-24). 6) La sublime teofania pleromatica si compie, pertanto,
come apocalisse di un’immagine d’Uomo di Luce, che si riflette nelle acque,
con effetto stupefacente e destabilizzante nei confronti dell’inferiore ordi-
ne arcontico229. 7) Il Primo Arconte reagisce, dicendo agli arconti/potenze a
lui inferiori: «Andiamo, creiamo un uomo ad immagine di Dio [dell’Uomo
di Luce] e secondo la nostra somiglianza, così che la sua immagine possa
diventare luce per noi» (15,2-4). Il tentativo è quello di impadronirsi della
potenza eccedente dell’Uomo divino tramite una sua immagine creata, di
natura però inferiore, proprio perché demiurgica creatura psichico-ilica. 8)
Ma il Padre pleromatico e la Madre extrapleromatica decidono di recuperare
la potenza spirituale decaduta di Sophia, concentrandola nella nuova creatura
arcontica: suggeriscono quindi all’Arconte di vivificare il corpo psichico da
lui creato, soffiando in lui il “suo” spirito, coincidente con la potenza spiri-
tuale dispersa di Sophia e nell’Arconte soltanto transitata. Adamo, immagine

228 Per un’analisi del teologumeno gnostico della teofania sulle acque e per un’in-
terpretazione che ne identifica la scaturigine nella retroproiezione antropogoni-
ca della teofania del battesimo di Gesù al Giordano, cf. G. Lettieri, La teofania
sulle acque: il fondamento cristologico del mito gnostico, in «Cassiodorus» 1,
1995, 151-165; cf. le intelligenti osservazioni di F. Berno, L’Apocrifo di Giovan-
ni…, Introduzione, par. 7.2: «La genesi del battesimo ed il battesimo che diviene
Genesi».
229 «E l’intero eone del primo arconte tremò e le fondazioni dell’abisso si mossero.
E dalle acque che erano sotto la materia, la superficie si illuminò dell’apparenza
della sua immagine, che era stata rivelata. E quando tutte le potestà e il primo
arconte guardarono, videro l’intera regione di sotto illuminarsi e, attraverso la
luce, videro nell’acqua la forma dell’immagine» (15,24-34).
238 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

ilico-psichica dell’Uomo di Luce, viene così a ricevere in sé la sostanza spi-


rituale alienatasi da Sophia e rivela di avere conoscenza, intelligenza e forza
eccedenti rispetto a quelle del primo Arconte. Questi avvia, pertanto, la sua
opera di persecuzione dell’Adamo “divino” immagine dell’Uomo di Luce,
mentre Sophia e il pleroma cominciano ad operare per salvare la filialità
adamitica e ricondurla nel pleroma230.
Mi pare risulti evidente la dipendenza del mito fondativo della teofa-
nia sulle acque dal Prologo giovanneo, in particolare da Gv 1,5: la disce-
sa dell’uomo di Luce, dell’immagine del Primo Uomo, quindi del Figlio
dell’Uomo è caratterizzata da un tentativo ostile e di fatto vano delle potenze
inferiori di afferrarlo e impadronirsene. Riconoscibilissima è la struttura teo-
fanico-battesimale del mito preposto alla spiegazione dell’origine d’Adamo,
che attesta un vero e proprio incrocio tra tradizioni sinottiche, ritrattazio-
ne dell’interpretazione paolina del battesimo come nuova creazione nello
Spirito e retroproiezione giovannea del battesimo in Spirito, reinterpretato
come teofania del Figlio dell’Uomo che è Luce. La discesa dal pleroma del-
lo Spirito Santo e della voce binitaria – che pronuncia il nome del Padre
(l’Uomo) e del Figlio (il Figlio dell’Uomo) –, preceduta dal pentimento di
Sophia, ricorda la sinottica successione tra predicazione del Battista e teofa-
nia redentiva del Figlio prediletto; la manifestazione del Figlio dell’Uomo/
Immagine di Luce, connessa alla discesa dello Spirito, ricorda la teofania al
Giordano di Giovanni; l’interpretazione dualistica della creazione dell’uomo
ilico-psichico cui è contrapposta l’“escatologica” genesi celeste dell’“ultimo
Adamo”, pneumatico perché colmato dello Spirito divino, dipende dalla
retroproiezione protologica dell’interpretazione paolina del battesimo, in-
terpretato come cristica incorporazione dell’uomo “naturale”, appunto psi-
chico-ilico, nel Figlio/Spirito che viene dal cielo, quale Gloria e Volto del
Padre. Inoltre, è da sottolineare come alla teofania del Figlio dell’Uomo che
è Luce e Logos binitario venga contrapposto il vano tentativo di resistenza
e afferramento delle potenze mondane, restituite quali “tenebre” arcontiche.
Significativo, infine, è rintracciare lo stesso nucleo generativo anche nella
descrizione che precedentemente ApGv 4,19-5,24 propone della teogonia del
pleroma spirituale: persino in questo caso, il modello genetico della superfe-
tazione mitopoietica è, di fatto, quello del battesimo di Cristo come teofania
luminosa e processione del Logos/Uomo con lo Spirito nell’intimità stessa
di Dio. Limitandoci al raffronto con il IV vangelo, certo emerge con tutta
evidenza quello che Giovanni cerca di nascondere, ma che ai suoi esegeti
gnostici appare ancora del tutto evidente: la teofania della Luce protologica

230 Cf. ApGv 19,15-20,9.


G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 239

ed escatologica dell’Unigenito, generatrice del seme spirituale, avviene sulle


acque, è cioè una superfetazione della sdoppiata restituzione del battesimo al
Giordano come fotofania redentiva.
Struttura simile a quella dell’ApGv ritroviamo nella notizia sui barbelo-
gnostici trasmessaci da Ireneo, Adversus haereses I,30,1, quando si de-
scrive la generazione intratrinitaria del Figlio Salvatore. Il Padre, «primus
homo», insieme con il Figlio preesistente, «secundus homo», esultando

super formositate Spiritus, hoc est Foeminae et illuminante eam, generavit ex


ea Lumen incorruptibile, tertium masculum, quem Christum vocant, Filium
Primi et Secundi Hominis et Spiritus Sancti Primae Foeminae.

Il Figlio Cristo, il Terzo Uomo che è Figlio dell’Uomo (il Primo) e del
Figlio dell’Uomo (il Secondo), è, quindi, definito «Lumen incorruptibile»!
Ritroviamo il mito gnostico della caduta della Secunda Foemina, Sophia
Prunicos, causa della generazione defettiva di Ialdabaoth, cui consegue la
penitenza e la rivelazione binitaria di Sophia, quindi la creazione dell’uo-
mo ad immagine, la persecuzione demiurgica di Adamo ed Eva; infine,
la notizia ireneana si concentra sul mistero della redenzione. Al Giordano
discende Cristo «Lumen incorruptibile» e con lui l’«universa humectatio
luminis» (AdvHaer I,30,12), che si uniscono con l’uomo Gesù, seppure
concepito miracolosamente dalla vergine Maria, quindi non nato natural-
mente da Giuseppe e Maria. La Luce redentiva del Figlio è quindi identifi-
cata con lo stesso Spirito vivificante, dono del Figlio del quale partecipano
gli spirituali eletti. Anche in questo caso, il mito teologico gnostico pare
dichiarare quello che in Giovanni era in parte implicito: l’incarnazione al
Giordano è la katabasis nell’uomo Gesù della Luce primordiale, quindi
dello stesso Spirito di grazia, con il quale si identifica il seme eletto.
Ma passiamo ai testi gnostici di tradizione valentiniana. Anche i tolome-
ani identificano con «la Luce» Cristo a tutti i suoi livelli rivelativi, quale
a) il Figlio Unigenito/Logos della prima ogdoade231, b) il Cristo redentore
della Sophia infrapleromatica, c) il Salvatore/Frutto comune del pleroma,
generato per essere inviato al di fuori del pleroma quale redentore della
Sophia extrapleromatica, chiamata Achamoth, proprio in quanto abban-
donata nelle tenebre del kenoma dalla Luce cristica che aveva redento la

231 «Dicono che la loro Madre, essendo passata per tutta la passione ed essendone
uscita fuori a stento (Διοδεύσασαν οὖν πᾶν πάθος τὴν Μητέρα αὐτῶν, καὶ μόγις
ὑπερκύψασαν), si volse a supplicare la luce che l’aveva abbandonata, cioè Cristo
(ἐπὶ ἱκεσίαν τραπῆναι τοῦ καταλιπόντος αὐτὴν φωτὸς, τουτέστι τοῦ Χριστοῦ,
λέγουσιν)» (Grande notizia tolomeana in Ireneo, AdvHaer I,4,5).
240 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

prima Sophia232. Occorre pertanto dettagliare l’interpretazione tolomeana


del Prologo, riportataci da Ireneo233, proprio per la sua rilevanza storica,
trattandosi della prima sistematica interpretazione speculativa del testo
giovanneo. Tolomeo afferma sinteticamente:

Il Salvatore… Frutto di tutto il pleroma… lo ha definito Luce che risplende


nelle tenebre e non viene compresa da queste (Gv 1,5) (φῶς εἴρηκεν αὐτὸν τὸ
ἐν τῇ σκοτίᾳ φαινόμενον, καὶ μὴ καταληφθὲν ὑπ›αὐτῆς)… E lo definisce Figlio
Verità e Vita e Logos divenuto carne di cui abbiamo visto la gloria ed era la
sua gloria quale quella dell’Unigenito, data a lui dal Padre, piena di grazia e
di verità.234

L’intero Prologo, sin da 1,5, viene pertanto interpretato in riferimento al


Salvatore/Καρπός, cioè al Cristo generato da tutto il pleroma per incarnarsi
nel mondo e redimere la Sophia decaduta al di fuori del pleroma. Comunque,
l’incarnazione è già anticipata nell’intimo, protologico segreto pleromatico:
nell’ogdoade primordiale, infatti, la terza sizigia Logos/Vita, figura del Sal-
vatore/Καρπός è eternamente “incarnata” nella quarta sizigia Uomo/Chiesa,
figura della Sophia patiens espulsa dal pleroma, quindi peccatrice, ma re-
denta e riportata nel pleroma quale sua carne mistica, quindi come madre
e ricapitolazione di tutti gli gnostici/pneumatici235. Infatti, nella cristologia
incarnazionistica gerarchicamente rifratta che governa il mito tolomeano, era
stata la visione della luce di Cristo, mediata dagli angeli, ad avere determi-

232 Cf. Grande notizia tolomeana in Ireneo, I,8,2.


233 Cf. Interpretazione tolomeana del Prologo giovanneo, in Ireneo, AdvHaer I,8,5-6.
234 Interpretazione tolomeana del Prologo giovanneo, in Ireneo, AdvHaer I,8,6.
235 «Questo dice anche Paolo: “Tutto ciò che è manifestato è luce (Πᾶν γὰρ τὸ
φανερούμενον φῶς ἐστιν)”. Pertanto la Vita, avendo manifestato e genera-
to (ἐφανέρωσε καὶ ἐγέννησε) l’Uomo e la Chiesa, è detta Luce di questi (φῶς
εἰρῆσθαι [εἴρηται] αὐτῶν)» (Interpretazione tolomeana del Prologo giovanneo, in
Ireneo, AdvHaer I,8,5-6). La carne di Sophia è la totalità del seme luminoso degli
eletti; cf. i valentiniani Excerpta ex Theodoto trasmessici da Clemente Alessandri-
no: «”Padre”, disse Gesù, “nelle tue mani rimetto il mio Spirito” (Lc 23,46). L’e-
lemento carnale che, dice [Teodoto], Sophia ha emesso per il Logos (ὅ προέβαλε
σαρκίον τῷ Λόγῳ ἡ Σοφία), cioè il seme spirituale (τὸ πνευματικὸν σπέρμα), aven-
dolo rivestito il Salvatore è disceso. Perciò nella passione rimette Sophia al Padre
per riceverla dal Padre e non essere trattenuto qui da quelli che hanno il potere di
spogliare. Così con le parole sopra riportate egli rimette tutto il germe spirituale,
cioè gli eletti (πᾶν πνευματικὸν σπέρμα, τοὺς ἐκλεκτούς, παρατίθεται). Chiamano
il seme eletto anche scintilla vivificata dal Logos (σπινθῆρα ζωοποιούμενον ὑπὸ
τοῦ Λόγου) e pupilla dell’occhio (κόρην ὀφθαλμοῦ)» (ExcTh 1,1-3).
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 241

nato l’emissione del seme spirituale informe e femminile di Sophia236. Nella


retroproiezione del battesimo di luce paolino (che incorporava nel mortale e
peccaminoso corpo psichico dell’uomo terreno lo Spirito vivificante e divi-
nizzante di Cristo Risorto, ultimo Adamo che viene dal cielo), il mito gno-
stico riporta l’elettiva preesistenza degli gnostici eletti alla protologica gene-
razione del seme pneumatico da parte di Sophia237; sicché l’incarnazione del
Salvatore avrà la funzione di risvegliarli alla loro intima essenza divina, alla
loro luminosa natura pneumatica, illuminando la luce che già è in loro, e non
quella di farla in loro avvenire escatologicamente, quale dono soprannaturale
dello Spirito di Cristo risorto. Detto altrimenti, l’evento storico del battesimo
pneumatico viene retroproiettato in protologica teofania della luce, in gene-
razione cristica dell’uomo spirituale come preesistente uomo di luce.
Insomma, Tolomeo interpreta l’avvento luminoso del Figlio Logos qua-
le Vita che è Luce degli uomini eletti (cioè della Chiesa che è Sophia),
come eterna generazione teogonica, quindi come eterna incarnazione di
Dio nell’uomo, che, nella prima ogdoade/radice del pleroma, struttura la
stessa articolazione trinitaria (prima tetrade) e incarnazionistico-redentiva
(seconda tetrade) del Dio “trinitario” rivelato da Gesù: il Figlio Logos del
Padre, che eternamente viene grazie allo Spirito di Vita. Dio in se stesso
è protologica apocalisse del vangelo della Luce, che viene poi dispiegato
storicamente:

236 Cf. Grande notizia tolomeana in Ireneo, AdvHaer I,4,5, ove il seme spirituale è
generato dalla Sophia extrapleromatica dopo la visione della Luce del Salvatore/
Frutto comune del pleroma e dai suoi angeli: «Quanto ad Achamoth, [i valenti-
niani] insegnano che, liberata dalla passione (ἐκτὸς πάθους γενομένην), ebbe la
visione con la gioia che le veniva dalle luci che erano con lui (συλλαβοῦσαν τῇ
χαρᾷ τῶν ἐν αὐτῷ φώτων τὴν θεωρίαν), cioè degli angeli che erano con lui, e,
diventata incinta da parte loro, partorì frutti ad immagine (κεκυηκέναι καρποὺς
κατὰ τὴν εἰκόνα), un prodotto spirituale nato a somiglianza degli accompagnatori
del Salvatore (κύημα πνευματικὸν καθ’ ὁμοίωσιν γεγονότως τῶν δορυφόρων τοῦ
Σωτῆρος)»; ricordo che gli angeli di luce saranno i compagni escatologici di sizi-
gia degli intelletti gnostici, generati alla loro vista da Sophia. Cf. I,5,6.
237 In Grande notizia tolomeana in Ireneo, AdvHaer I,5,6, il seme spirituale emesso
da Sophia e introdotto nell’Adamo ilico-psichico dal Demiurgo nascostamente
manovrato dalla Madre, è la chiesa stessa, immagine della Chiesa superiore,
ultimo eone dell’ogdoade primordiale: «Sfuggì al Demiurgo l’uomo spirituale,
seminato insieme col suo soffio da Sophia con misteriosa potenza e provvidenza.
Infatti come egli [il Demiurgo] ignorava la Madre, così anche il suo seme; e di-
cono che questo è la Chiesa, immagine della Chiesa superiore». Sull’evoluzione
dell’antropologia spirituale da Paolo agli gnostici, sino a Origene e Agostino, cf.
G. Lettieri, L’ultimo nel primo….
242 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Poiché [l’autore del Prologo] ha aggiunto: “E la vita era la luce degli


uomini” (Gv 1,4), nominando l’Uomo, insieme con l’Uomo con lo stesso nome
ha manifestato anche la Chiesa, per mostrare con un sol nome la comunanza
della sizigia: infatti dal Logos e dalla Vita nascono Uomo e Chiesa. Ha definito
la Vita luce degli uomini perché essi sono illuminati da lei, cioè sono formati e
manifestati (Φῶς δὲ εἶπε τῶν ἀνθρώπων τὴν Ζωὴν, διὰ τὸ πεφωτίσθαι αὐτοὺς
ὑπ’ αὐτῆς, ὃ δή ἐστι μεμορφῶσθαι καὶ πεφανερῶσθαι). Questo dice anche
Paolo: “Tutto ciò che è manifestato è luce (Πᾶν γὰρ τὸ φανερούμενον φῶς
ἐστιν)” (Efes 5,14).238

Si compie, così, la retroproiezione giovannea della discesa escatologica


del Figlio dell’Uomo al Giordano in generazione precosmica del Logos
di Luce dal Padre: se il Prologo chiamava in causa Gen 1,3 per innalzare
l’identità del Figlio, comunque mantenendo la teofania nell’ambito storico
dell’incarnazione escatologica, il testo valentiniano ormai pensa – con il
principio dell’ontologico esemplarismo inverso che è il culmine della re-
troproiezione giovannea dell’escatologico nel protologico – la stessa pro-
tologia come eterna fotofania redentiva, quindi come intradivine venuta e
incarnazione del Figlio nella “carne” dell’umanità eletta.
Anche la notizia dell’Elenchos “ippoliteo” su Basilide risulta fortemente
dipendente dal IV vangelo, proprio nel suo presentare generazione e incarna-
zione della Luce redentiva. Sorvolando sull’esegesi basilidiana del Fiat Lux
di Gen 1,3, interpretato tramite Gv 1,9239, è di grandissimo interesse la resti-
tuzione criptica della fotofania al Giordano, che attesta, nel senso contrario
di quanto avverrà nella tradizione protocattolica (che colloca l’incarnazione
del Logos nel seno di Maria), una ritrattazione giovannea della stessa notizia
lucana della soprannaturale generazione di Gesù nella vergine. Questa viene
di fatto traslata al Giordano, quando risplende la Luce divina che discende su
«il Figlio di Maria», cioè sull’uomo Gesù, adombrandolo240. Inoltre, analo-
gamente a quanto avviene nel Prologo e nell’intero IV vangelo, il battesimo
di Gesù non è apertamente citato, pur risultando evidente che l’incarnazione

238 I Interpretazione tolomeana del Prologo giovanneo, in Ireneo, AdvHaer I,8,5.


239 Cf. Notizia basilidiana in “Ippolito”, Confutazione di tutte le eresie, VII,22,3-4,
qui citata nell’ed. del testo greco e nella tr. italiana a cura di A. Magris, Morcellia-
na, Brescia 2012.
240 Cf. Notizia basilidiana, in “Ippolito”, Confutazione di tutte le eresie, VII,26,8:
«Orbene la Luce, che era scesa dall’alto dall’Ogdoade sul Figlio dell’Ebdomade,
scese dall’Ebdomade su Gesù, figlio di Maria, ed egli fu illuminato, infiammato
dalla Luce che brillò su di lui. Ecco – secondo lui – il significato della frase scrit-
turale: “Lo Spirito Santo scenderà su di te”, cioè dalla “seconda” filialità passando
per lo Spirito intermedio sull’Ogdoade e sull’Ebdomade, arrivando fino a Maria,
“e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà” (Lc 1,35)».
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 243

redentiva della Luce avviene presso il Giordano241. Che per Basilide l’incar-
nazione storica si dia al Giordano e non nel seno di Maria è confermato dalla
moltiplicazione della fotofania redentiva, che è rivelazione del Figlio/Logos
pleromatico (la «seconda filialità» pleromatica, il Cristo/Salvatore, distinto
dalla «prima filialità», che è l’intelletto del Padre), che invia la sua luce quale
«vangelo», interpretato come illuminazione di gnosi, che raggiunge prima il
primo Arconte, quindi il secondo Arconte, entrambi ammaestrati dai loro “Fi-
gli”, figure “psichiche” del Cristo pleromatico242. Infatti, la rivelazione della
Luce determina timore, penitenza e confessione del peccato243, in analogia
non soltanto con la connessione canonica tra penitenza e battesimo/teofania
al Giordano, ma anche con quanto, nella “battesimale” teofania sulle acque,
avveniva nell’Apocrifo di Giovanni, seppure riferito a Sophia e non al primo e
al secondo Arconte. Il rapporto tra fotofania e penitenza è, quindi, chiaramen-
te allusivo della teofania al Giordano dopo la predicazione di conversione del
Battista, seppure è del tutto cancellato il riferimento al battesimo.
Assumendo una collocazione singolare tra gli scritti di Nag Hammadi,
La testimonianza veritiera244 è caratterizzata da un rigoroso ascetismo, quin-
di dal rifiuto della sessualità e dalla polemica contro il battesimo d’acqua,
considerato materiale, contaminante e contrapposto al battesimo spirituale,
interpretato come rigorosa rinuncia al mondo245. Ebbene, l’opposizione tra la
gnosi di luce e la concupiscenza tenebrosa è sceneggiata al Giordano, tramite

241 È questa l’interpretazione proposta da A. Orbe, Cristología gnóstica, I,335-337;


A. Orbe, El diácono del Jordán en el sistema de Basílides, in «Augustinianum»
13, 1973, 165-183; e da A. Magris, in “Ippolito”, Confutazione di tutte le eresie…,
263, n. 52: «Qui si allude all’illuminazione di Gesù durante il suo battesimo nel
Giordano». In realtà, il testo basilidiano, come si è detto, non fa esplicito riferi-
mento al battesimo al Giordano.
242 Cf. Notizia basilidiana in “Ippolito”, Confutazione di tutte le eresie, VII,26,1-6.
243 «Il vangelo venne prima dalla seconda filialità all’Arconte per mezzo del Figlio
che gli sedeva accanto: allora l’Arconte apprese di non essere lui il Dio di tutte le
cose…, così si convertì e fu preso da timore, comprendendo in quale ignoranza
si trovava… Pertanto l’Arconte, una volta istruito, reso edotto e preso da timore,
confessò il peccato che aveva fatto esaltando se stesso. A ciò si riferisce, secondo
lui, il detto: “Ho conosciuto il mio peccato e conosco la mia iniquità, per questa
mi pentirò nei secoli”… Ma il vangelo doveva ancora giungere all’Ebdomade»
(“Ippolito”, Confutazione di tutte le eresie, VII,26,1 e 3-4). «Il Figlio dell’Arconte
dell’Ebdomade fu illuminato e annunciò il vangelo dell’Arconte dell’Ebdomade
sicché anche questo qui fu preso da timore e confessò il peccato» (VII,26,5). Evi-
denti le corrispondenze con l’Apocrifo di Giovanni.
244 La testimonianza veritiera=NHC, IX,3,29,6-74,30, qui citata nella tr. it. di C. Gia-
notto, La testimonianza veritiera, Paideia, Brescia 1990.
245 Cf. La testimonianza veritiera, 69,7-32.
244 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

la radicale contrapposizione tra Cristo Figlio dell’Uomo/Luce e Giovanni


Battista Arconte dell’Utero/Tenebra/materiale acqua contaminante:

Il Figlio dell’Uomo [è venuto] dall’Incorruttibilità, [restando] estraneo


alla contaminazione. Scese nel mondo al fiume Giordano e subito il Giordano
rifluì indietro. E Giovanni rese testimonianza alla [discesa] di Gesù. Fu il solo,
infatti, a vedere la [potenza] scendere sopra il fiume Giordano; e riconobbe
che il dominio della procreazione carnale era ormai terminato. Ora, il fiume
Giordano è la potenza del corpo, vale a dire le sensazioni dei piaceri. L’acqua
del Giordano, invece, è la concupiscenza del rapporto sessuale; Giovanni,
infine, è l’arconte dell’utero.246

Il testo è del massimo interesse, perché presuppone una lettura del IV


vangelo, seppure dualisticamente forzata: Gesù non risulta affatto battezzato
da Giovanni, ma la discesa del Figlio dell’Uomo, identificato con il Logos
di Luce, è collocata proprio al Giordano, malgrado questo sia interpretato
come fiume della concupiscenza materiale, quindi del potere contaminante
della sessualità247. Ebbene, il Giordano si ritrae dinanzi alla manifestazio-
ne del Figlio rivelatore/redentore, che, a differenza del IV vangelo, non ha
un autentico rapporto con la carne dell’uomo. Comunque, proprio come in
Gv, il Battista è l’unico che al Giordano vede la rivelazione escatologica del
Figlio della Luce, distruttore del potere della tenebra, seppure qui egli non
collabori all’opera di redenzione, ma sia designato quale antitetico Arconte
dell’utero, araldo della logica della Legge (che prescrive il matrimonio e la
propagazione carnale), oltre che battezzatore tramite l’impura acqua battesi-
male, sacramento contaminante della concupiscenza materiale.

c) Il battesimo come partecipazione alla Luce teofanica in Clemente


d’Alessandria. Di grande interesse è, infine, un testo protocattolico, certo
di un secolo più tardo rispetto al IV vangelo, ma che è in grado di restituir-
ci un’interpretazione originale di alcuni versetti del Prologo, testimonian-
do come la teofania dello Spirito venisse interpretata come manifestazione
dell’Uomo/Luce, quindi come partecipazione battesimale al perfetto Uomo
ad immagine e somiglianza, identificato con lo stesso Logos preesistente.
Si tratta di un passo del Pedagogo di Clemente d’Alessandria, dedicato
all’intelligenza “gnostica”, ma in senso protocattolico, del battesimo:

246 La testimonianza veritiera, 30,17-31,4.


247 La testimonianza veritiera si apre con il riferimento al mitologumeno enochico
del peccato sessuale degli angeli vigilanti con le donne: cf. 29,15-18.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 245

Battezzati, noi siamo illuminati (βαπτιζόμενοι φωτιζόμεθα); illuminati,


siamo adottati come figli (φωτιζόμενοι υἱοποιούμεθα); adottati come figli
siamo fatti perfetti (υἱοποιούμενοι τελειούμεθα), divenuti perfetti riceviamo
l’immortalità (υἱοποιούμενοι τελειούμεθα)… Questa operazione (ἔργον τοῦτο)
è denominata in molti modi: dono, illuminazione, perfezione, lavacro (χάρισμα
καὶ φώτισμα καὶ τέλειον καὶ λουτρόν )… Appena noi abbiamo toccato le
frontiere della vita siamo perfetti (ἄρα οἱ πρῶτον ἀρξάμενοι τῶν ὅρων τῆς ζωῆς
ἤδη τέλειοι) e viviamo già, noi che siamo stati separati dalla morte. È salvezza
infatti seguire Cristo: “Ciò che è stato fatto in lui, è vita” (Gv 1,3)… E uno,
solo che sia stato rigenerato, come indica la parola stessa, illuminato, subito è
liberato dalla tenebra (φωτισθεὶς ἀπήλλακται μὲν παραχρῆμα τοῦ σκότους) e
per questo stesso fatto ha ricevuto la luce (ἀπείληφεν δὲ αὐτόθεν τὸ φῶς)…
Noi che siamo stati battezzati, liberatici dai peccati che come nebbia facevano
ostacolo allo Spirito divino, abbiamo libero e senza ostacoli e lucido l’occhio
dello spirito per mezzo del quale solamente vediamo il divino, perché dal cielo
si riversa su di noi lo Spirito Santo (οὐρανόθεν ἐπεισρέοντος ἡμῖν τοῦ ἁγίου
πνεύματος) (cf. Gv 1,32-34). Questa è una mescolanza di splendore eterno
che può vedere la luce eterna (κρᾶμα τοῦτο αὐγῆς ἀιδίου τὸ ἀίδιον φῶς ἰδεῖν
δυναμένης), poiché il simile è caro al suo simile e ciò che è santo è caro a ciò da
cui viene la santità, mescolanza la quale propriamente è chiamata luce (φῶς):
“Un giorno eravate tenebra, ora siete luce nel Signore” (Efes 5,8) e per questo,
penso, l’uomo riceveva dagli antichi il nome di luce (Ἐντεῦθεν τὸν ἄνθρωπον
ὑπὸ τῶν παλαιῶν ἡγοῦμαι κεκλῆσθαι φῶτα). Ma – dicono – non ha ancora
ricevuto il dono perfetto. Ne convengo anch’io, ma è nella luce (ἐν φωτί ἐστιν
) e “la tenebra non lo afferra” (καὶ τὸ σκότος αὐτὸν οὐ καταλαμβάνει Gv 1,5) e
non c’è niente di mezzo tra luce e tenebre.248

Il sacramento battesimale è esperienza di illuminazione, recezione dello


Spirito che discende dal cielo, accoglimento del dono della vita eterna, in-
troduzione e visione della Luce assoluta del Figlio Dio, separazione dalle
tenebre che non riescono ad afferrare la salvifica donazione di luce che salva
l’uomo, identificato (con il gioco di parole tra φῶς e φώς) con la stessa luce,
di cui partecipa ricevendo lo Spirito del Figlio, Uomo/Luce, che dona la vita
celeste, cioè la libertà dalla mondanità mortale e peccaminosa. Analogamen-
te, Clemente in Eclogae propheticae 1-8 interpreta l’iniziazione battesimale
tramite riferimenti sistematici a Gen 1,1-7: in questa prospettiva di traslazio-
ne dal protologico al dono escatologico, mediato dal battesimo, la Genesi
è figura del Prologo, letto integralmente come testo soteriologico, piuttosto
che protologico, sicché sia la vita fatta nel Logos, che la Luce che risplende
nelle tenebre, sono restituiti come eventi di liberazione spirituale.

248 Clemente d’Alessandria, Pedagogo I,VI,26,1-2; 27,1; 27,3; 28,1-3.


246 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

L’esistenza di una consistente e persistente tradizione teologica primi-


tiva che colloca al Giordano la discesa di una Luce celeste in occasione
del battesimo di Gesù, con il quale avverrebbe l’incarnazione del Figlio
celeste o del suo Spirito/Potenza in Gesù, è una verifica strategica dell’i-
potesi avanzata in questo saggio. Tanto più se “la Luce” si presenta antro-
pomorficamente, come (Figlio dell’)Uomo celeste che manifesta la Gloria
di Dio. L’influenza del “proto-apocalittico” Ezechiele 1,26-28 risulta, in
proposito, della massima importanza: sul trono di Dio, il veggente scorge
il suo kabod, la sua gloria:

Una figura dalle sembianze umane (ὁμοίωμα ὡς εἶδος ἀνθρώπου)… Tale mi


apparve l’aspetto della gloria del Signore (αὕτη ἡ ὅρασις ὁμοιώματος δόξης
κυρίου).

In un suo notevole saggio, Gilles Quispel, che pure non si dedica all’a-
nalisi del IV vangelo, fa dipendere dal testo di Ezechiele sia (deutero-)
Isaia 40, 5, sia un decisivo passo dal Libro delle parabole dell’etiopico
Enoc 46,1-5249: nel primo è annunciato l’avvento messianico de «la gloria
del Signore»; nel secondo, accanto a Dio, appare un essere «con le sem-
bianze di uomo», che viene identificato con «il Figlio dell’Uomo», giudice
escatologico. Ebbene, se nel Prologo il Logos incarnatosi nell’uomo Gesù
è ripetutamente identificato con Gloria e Luce, in Gv 1,49-51 il messianico
Figlio di Dio è esplicitamente chiamato «il Figlio dell’Uomo», che ritratta
in sé Giacobbe/Israele, sul quale salgono e scendono gli angeli del cielo,
rivelando finalmente dischiusa «la porta del cielo» (cf. Gen 28,10-17).
La peculiarità del Prologo giovanneo starebbe, allora, nella ricapitola-
zione nell’Unigenito preesistente di molteplici figure di mediazione della
tradizione teologica ebraica, in particolare apocalittica, comunque a partire
dalla singolarissima retroproiezione del trauma “dualistico” di Gesù mes-
sia crocifisso nell’intima natura di Dio.

249 Cf. G. Quispel, Ezekiel 1:26 in Jewish Mysticism and Gnosis, in «Vigiliae Chri-
stianae» 34, 1980, 1-13, in part. 2-3: «These Jews theologians identify the Power
issuing from God with the Glory and with the Anthropos; it is clear that they have
the vision of Ezekiel in mind... This Glory of God was called the “creator in the
beginning” or “the body of the Shekhinah”… And the kabod was identified with
the beloved of the Song of Songs». Quispel, inoltre, fa risalire a queste eterodosse
speculazioni “mitico-sapienziali” ebraiche precristiane non soltanto la nozione
filoniana di Logos, ma anche quella gnostica di Anthropos, prefiloniana e precri-
stiana. Infatti, da questa tradizione Quispel fa dipendere la stessa identificazione
paolina tra Cristo e l’Uomo Immagine, Potenza e Sapienza di Dio, Spirito vivifi-
cante: cf. 7-13.
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 247

Conclusione

Si è restituito il Prologo giovanneo come principio storico-narrativo del


IV vangelo, seppure speculativamente reduplicato quale principio proto-
logico-creativo: esso è la solenne presentazione della teofania al Giorda-
no quale nuova Genesi, apocalisse che disvela l’intimo ed eterno segreto
“binitario” di Dio. Il principio, pertanto, è escatologicamente ritrattato a
partire dalla rivelazione della fine, che è il vangelo estatico del Figlio. Alla
teofania escatologica assiste Giovanni, il deuteragonista del Prologo, co-
munque “diminuito” da sinottico battezzatore mediatore (reale o simboli-
co) dello Spirito, a principale “testimone” della teofania dell’Unigenito,
che è la Luce che lo trascende ontologicamente. Insomma, il battesimo
sinottico di Gesù è nel Prologo ripensato come incarnazione in Gesù del
Logos preesistente, vista “in diretta” da Giovanni, sicché la teofania che
questi riferisce in Gv 1,32-34 è da interpretare come mero flashback. Di
conseguenza, si è cercato di dimostrare come tutti i riferimenti cronologici
della prima settimana della missione di Gesù, presentata quale avvio della
ri-creazione redentiva, presuppongano il darsi della teofania al Giordano
nel “primo giorno” del Logos incarnato, di cui il Prologo descrive al tempo
stesso il principio precosmico e il principio storico.
Dixit Deus: “Fiat lux” (Gen 1,3). La Luce principale e creativa è genera-
ta dal parlare di Dio, sicché il Figlio/Logos è il “dire” vivente di Dio, la ma-
nifestazione irradiante del Padre. Il Fiat Lux della creazione viene a coinci-
dere con il Fiat Verbum, con il venire del Figlio/Luce/Vita sia nell’intimità
preesistente di Dio, sia nell’evento storico della discesa dello Spirito al
Giordano, che, secondo un evidente esemplarismo inverso, viene pensata
come la teofania escatologica del mistero protologico, quindi come storico
disvelamento effettuale dell’eterna causa primordiale. Il Prologo è, allora,
l’ultimo approdo di una rapidissima parabola di innalzamento cristologico,
che culmina nella retroproiezione e ritrattazione del battesimo teofanico al
Giordano nella protologica intimità di Dio: la voce celeste diviene Logos
preesistente, l’escatologico Figlio prediletto diviene il coeterno Unigenito
del Padre, la luce messianica diviene Luce eterna di Dio, lo Spirito disceso
sulle acque diviene creativa e ricreativa Vita divinizzante.
Questo significa che, in una prospettiva storico-genetica, nel Prologo gio-
vanneo l’elemento eventuale precede, ridefinisce, governa l’elemento onto-
logico, che pure lo toglie in sé: il Logos non è una mera Parola eterna, un
principio cosmologicamente mediatore, ma è l’evento storico dell’avvento
del Figlio innalzato a manifestazione intima e irrinunciabile di Dio, sicché la
stessa creazione, che il Prologo fa dipendere dal Logos, risulta essere imma-
248 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

gine della ricreazione escatologica. In Paolo stesso, infatti, l’apocalittica ri-


velazione di Gesù è espressa tramite una reinterpretazione antropologica del
Fiat lux genesiaco, molto probabilmente connesso a una reinterpretazione
battesimale dei passi messianici di Isaia, in particolare della profezia dell’av-
vento del Figlio quale luce messianica, principio, “dio” in Isaia 9,1 e 5.
Eppure, in 2Cor 4,3-6 come in Gv 1,5, la Luce avviene rivelando/respin-
gendo le tenebre, che non la comprendono e l’aggrediscono. Nel Prologo,
pertanto, Gesù confessato come Logos, Luce, Uomo, Gloria, Spirito che
solo dà Vita, porta comunque traccia di un lacerante trauma storico: l’Uni-
genito misconosciuto e messo a morte da “i suoi” diviene per i “giovanni-
sti” irriducibile punto di contraddizione e catastrofe, ma per questo anche
unico, decisivo principio di svelamento della natura estatico/donativa di
Dio, che nello stesso principio non è senza il Figlio. Pertanto, in Giovanni
come in Paolo, l’apparizione della Luce salvifica (protologica ed escatolo-
gica per il primo, soltanto escatologica per il secondo) è anche manifesta-
zione “polemica” del mistero delle tenebre, quindi apocalittica κρίσις, che
oppone il Logos/l’Immagine celeste e il suo corpo d’elezione al mondo e ai
suoi arconti demoniaci, sicché il battesimo nello Spirito è inestricabilmente
connesso non soltanto con la generazione della nuova creatura spirituale,
ma anche – tramite la sconfitta del demonio tentatore operata dal Figlio
dell’Uomo – con la condanna della creazione e dell’Israele terreni, pec-
catori e mortali. Non a caso, seppure con diverse prospettive teologiche,
frammenti di vangeli giudeo-cristiani e varianti dei vangeli canonici, testi
gnostici e protocattolici interpretano la salvifica discesa dello Spirito/del
Figlio sulle acque come redentivo avvento dell’Uomo di Luce o dell’Im-
magine luminosa di Dio nelle tenebre ostili.
Con tutta evidenza, quest’esaltazione di Gesù crocifisso quale preesistente
Luce e Gloria di Dio non può non comportare una singolarissima oscillazio-
ne: l’Agnus Dei qui tollit peccata mundi, divinizzato, corre il rischio di essere
docetisticamente risolto in puro principio teofanico, sicché l’innalzamento,
da tragica esperienza di reiezione, passione, ultima donazione fino alla per-
dita di sé, finisce per essere interpretato come abbacinante e, almeno poten-
zialmente, destoricizzante rivelazione di potere e di dominio, ontologico ed
escatologico. Ma quest’ambiguità – che presto si cristallizzerà nel conflitto
infragiovanneo tra il presbitero e gli anticristi “docetisti” e protognostici – ri-
produce e potenzia, in effetti, lo stesso “circolo vizioso” della rivendicazione
apocalittica, nel quale il logos sensibile al grido delle vittime della storia si
rovescia nell’escatologica violenza della loro “risentita” glorificazione.
Nel Prologo, insomma, principio ontologico-creativo e principio escato-
logico-apocalittico si riflettono l’uno nell’altro. L’apocalisse salvifica, che
G. Lettieri - Fiat Verbum, Fiat Lux 249

riattualizzava il Fiat lux genesiaco nel Fiat Verbum al Giordano, torna retro-
proiettata nella preesistenza, rivelando l’intima natura di Dio come relazio-
nale: Gesù apocalittico, il messia discepolo del Battista crocifisso e creduto
risorto, è divenuto, nel IV vangelo, l’eterna apocalisse del Padre. Squarciatisi
i cieli presso il Giordano per la katabasis dello Spirito messianico sul Figlio
prediletto, il Veniente risale, malgrado e attraverso l’ostinazione violenta del-
la tenebra, sino al Padre amorosamente estatico, di cui si è rivelato unico
eterno interprete, decisivo e per questo divisivo. Il veggente Giovanni, testi-
mone della discesa dal cielo del Logos di Luce che s’incarna in Gesù, vede il
messia apocalittico quale Figlio Unigenito che da sempre viene dal Padre e
da sempre torna nel suo seno, per scrutarne e rivelarne il mistero.
AUTORI

Elena Fabbro insegna Lingua e letteratura greca all'Università di Udine.


Si è occupata di lirica arcaica, di griphoi ed enigmi e di repertori poetici
simposiali. Si interessa principalmente di dramma antico, in particolare di
commedia aristofanea e della rivisitazione pasoliniana dei classici. Tra le
pubblicazioni: Carmina convivalia attica (1995); Il mito greco nell'opera
di Pasolini (atti di convegno, 2014); Aristofane, Le Vespe (2012). Sta ap-
prontando un’edizione con commento del V libro delle Questioni simpo-
siali di Plutarco di cui per la collana Plutarchi Corpus Moralium.

Marco Fucecchi, nato a Siena, insegna Lingua e letteratura latina all'U-


niversità di Udine. I suoi interessi vertono in prevalenza sulla poesia latina
di età augustea e imperiale, con particolare riferimento all'epica di età fla-
via, a cui ha dedicato numerosi articoli in riviste e capitoli di volume. Si
è occupato anche di storiografia e romanzo antico. Tra le sue monografie
ricordiamo il commento in due volumi al libro VI delle Argonautiche di
Valerio Flacco (1997; 2006). Attualmente sta lavorando a una monografia
sui Punica di Silio Italico. Insieme a Luca Graverini ha scritto un manuale
per l'insegnamento della lingua latina nelle università (2009; 2016).

Salvatore Lavecchia insegna Storia della filosofia antica presso l’Uni-


versità di Udine. Fra le sue monografie: Una via che conduce al divino. La
homoiôsis theô nella filosofia di Platone (2006); Oltre l’Uno ed i Molti.
Bene ed Essere nella filosofia di Platone (2010); Generare la luce del bene.
Incontrare veramente Platone (2015). Al momento la sua ricerca riguarda
il dialogo socratico ed i suoi rapporti con le diverse forme di consulenza,
la metafisica della luce in Platone e nella tradizione platonica, l'estetica
antica, gli orizzonti della filosofia del sé nel mondo antico (con particola-
re riguardo a Plotino) e la loro possibile integrazione nell'attuale dibattito
filosofico.
252 Immagini della luce. Dimensioni di una metafora assoluta

Gaetano Lettieri è professore ordinario di Storia del cristianesimo e


delle chiese e direttore del Dipartimento di Storia Antropologia Religioni
Arte Spettacolo presso Sapienza Università di Roma. La sua ricerca indaga
l'intera storia del cristianesimo, dalle origini alla contemporaneità, privile-
giando lo studio delle categorie teologico-filosofiche cristiane a partire da
una prospettiva storico-critica.

Cecilia Panti è professoressa associata di Storia della filosofia medie-


vale presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Si occupa di
filosofia naturale e discipline matematiche nel medioevo. Ha pubblicato
numerosi studi sulla musica speculativa, fra i quali Filosofia della musi-
ca. Tarda antichità e medioevo (Carocci 2008) e sulla cultura filosofico-
scientifica oxoniense e i suoi protagonisti, in particolar modo Roberto
Grossatesta, del quale ha anche edito e tradotto alcuni scritti filosofici e
scientifici nei volumi Moti, virtù e motori celesti (Firenze 2001) e Roberto
Grossatesta, La luce (Pisa 2011). E’ co-curatrice per la Oxford University
Press della serie The Scientific Works of Robert Grosseteste, di cui è uscito
il primo volume nel 2019.
ASKESIS / Studi di Filosofia antica

1. Linda M. Napolitano Valditara, Il sé, l'altro, l'intero. Rileggendo i Dialoghi


di Platone
2. S. Lavecchia, Oltre l'uno ed i molti. Bene ed essere nella filosofia di Platone
3. Michele Abbate, Tra esegesi e teologia Studi sul Neoplatonismo,
4. Salvatore Lavecchia (a cura di), Istante. L’esperienza dell’Illocalizzabile
nella filosofia di Platone
5. Linda M. Napolitano Valditara, ‘Prospettive’ del gioire e del soffrire nellʼetica
di Platone, prefazione di Enrico Berti
6. Claudia Luchetti, Tempo ed Eternità in Platone. Il primo passo verso il Timeo:
analisi dei nessi Essere-Eterno, Diveniente-Tempo nel Fedone ed esposizione
della loro origine dialettica, prefazione di Thomas Alexander Szlezák
7. Laura Candiotto (a cura di), Senza dualismo. Nuovi percorsi nella filosofia di
Platone, prefazione di Giovanni Casertano
8. Eugenio Buriano-Aimonetto, Movimento circolare ed esperienza della
concretezza tra Platone e Hegel
9. Francesca Eustacchi e Maurizio Migliori (a cura di), Per la rinascita di un
pensiero critico contemporaneo. Il contributo degli antichi
10. Linda M. Napolitano Valditara, Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e
pratica filosofica per la cura di sé
Perché Askesis?
Gli studi umanistici vivono oggi una situazione di crisi radicale. Sua prima radice
non è tanto la più o meno sistematica erosione della loro sostanza mediante questa
o quella riforma del sistema educativo. Questa crisi sembra piuttosto riguardare
la loro identità e legittimazione etico-sociale. Identità e legittimazione gli studi
umanistici le stanno perdendo in nome di malintesi che hanno condotto i loro
rappresentanti a voler trasporre nel proprio campo atteggiamenti e metodi peculiari
di altri ambiti di ricerca. Trasposizione da cui è derivata una curiosa forma di ascesi,
che si concretizza in una tensione spesso spasmodica verso il distacco dall’oggetto
di studio e nell’esercizio di una quasi autofustigatoria modestia d’intenti. Ne sono
risultati stanco iperspecialismo, ricerca di campi d’interesse che il meno possibile
integrino in sé le molteplici dimensioni della vita, culto di una frammentologia
staccata da ogni visione d’insieme: un più o meno asfittico surrogato di vita
contemplativa, di fuga dal mondo, che sempre più, diciamolo chiaramente, rende
esposti a radicali dubbi di legittimità, se non, addirittura, esplicitamente invisi noi
umanisti della post-postmodernità.
Chi, per passione o professione, studia la filosofia antica, si trova a confrontarsi
costantemente con una forma ben diversa di ascesi. Nelle manifestazioni più vitali
del pensiero antico, infatti, la nozione di ascesi, di askesis, lungi dall’implicare
più o meno giustificate fughe dal mondo, è concreta sperimentazione di processi
conoscitivi che immediatamente si fanno pratiche di trasformazione per la vita
tanto dell’individuo quanto della società. Un’ascesi, un’askesis, dunque, in cui
teoresi, prassi e poiesi costituiscono una inscindibile, vivente unità: l’unità del
soggetto che, attinta la coscienza della propria vera natura, e con essa la vera
libertà, si fa demiurgo di se stesso e del mondo che lo circonda.
Sulle tracce di questa askesis vuol tentare di porsi la collana qui presentata. E
vuole farlo valorizzando i presupposti metodologici che hanno reso gli studi di
filosofia antica uno dei settori più qualificati della ricerca umanistica: il rapporto
diretto con le fonti greche e latine, sorretto dalla pratica di un metodo filologico
esercitato nel suo senso più pregnante, ovvero teso a cogliere ogni dimensione
della cultura che quelle fonti ha prodotto; l’attenzione alle forme letterarie ed alle
modalità in cui esse plasmano la comunicazione filosofica; il confronto serrato con
i risultati delle ricerche pregresse, senza preclusioni pregiudiziali verso questo o
quell’indirizzo interpretativo.
Fondandosi su questi presupposti, e proponendo anche la ristampa di “classici”
della storiografia filosofica, nonché traduzioni commentate di testi greci e latini,
si vogliono privilegiare quei peculiari nuclei tematici a partire da cui la filosofia
antica, nelle sue forme più attente ad una disciplina di metamorfosi del soggetto,
è divenuta suprema matrice di modelli di vita nell’intera storia della cultura
europea: la conoscenza e cura di sé; la riflessione riguardo alle forme dialogiche
della comunicazione; la relazione fra umano e divino, fra micro- e macrocosmo; il
rapporto fra conoscenza e azione-produzione; l’attenzione ad una prospettiva estetica
pienamente integrata in un orizzonte gnoseologico ed etico. Proprio a partire da tali
nuclei tematici la filosofia antica può oggi vivere, e già in parte vive, una vera e
propria rinascenza presso il pubblico non accademico. In modo ora più ora meno
fondato alcuni dei suoi aspetti più vitali vengono infatti riscoperti e concretamente
sperimentati come pratiche di trasformazione, come pratiche filosofiche in cui
l’esercizio del conoscere non vuole arenarsi in una astratta analisi argomentativa,
ma farsi forza plasmatrice dell’esistenza. In questa prospettiva Askesis vorrebbe
fornire uno stimolo ad una consapevolezza sempre più approfondita riguardo alle
radici della filosofia intesa come forma di vita, costituendo, almeno nei nostri auspici,
anche un ponte fra mondo degli specialisti e pubblico potenzialmente interessato
alle tematiche più vitali del pensiero antico. Tutto questo affinché l’askesis degli
antichi, fuori da ogni astratto schema, venga sempre più riscoperta come archetipico
esempio di un impulso conoscitivo teso a compenetrare e modellare ogni dimensione
del vivere.
Finito di stampare
nel mese di novembre 2019
da Geca Industrie Grafiche - San Giuliano Milanese (MI)

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