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114 Capitolo IV

4.1. L’elicitazione dei dati

4.1.1. Il problema dell’elicitazione di parlato dialettale per la fonetica


sperimentale

Nonostante la descrizione fonetico/fonologica delle varietà dialetta-


li abbia rivestito e rivesta tuttora un ruolo centrale nella dialettologia
italiana, bisogna rilevare che le ricerche di fonetica sperimentale con-
dotte su parlato dialettale sono fino a oggi piuttosto scarse. Difatti, la
maggioranza delle analisi acustiche condotte in Italia ha come oggetto
varietà regionali di italiano, mentre molto più raramente vengono presi
in considerazione i dialetti italo-romanzi.
In questo paragrafo ci si interroga sul perché di tale gap, riflettendo
su alcuni problemi concernenti l’elicitazione di parlato dialettale in
Italia. L’idea di chi scrive è che lo statuto sociolinguistico peculiare
dei dialetti nel repertorio linguistico italiano renda inapplicabili a que-
ste varietà alcune tecniche standard di elicitazione, largamente utiliz-
zate nelle ricerche di fonetica sperimentale. È il caso ad esempio della
lettura di liste di parole, ma anche di una tecnica quale il Map Task
(Anderson et al. 1991), che è stata utilizzata con successo nell’elicita-
zione di parlato spontaneo in un gran numero di lingue1.
La lettura di liste di parole o di testi in dialetto è un’attività estre-
mamente insolita e difficile per i soggetti parlanti. Se questo è vero
anche per persone con un livello alto di istruzione e una pratica quoti-
diana della lettura in italiano, il problema è praticamente insormonta-
bile con persone quasi-analfabete o con scarso livello di istruzione.
Inoltre, molti dialetti mancano completamente di una tradizione scritta
consolidata, oppure fanno riferimento alla tradizione di altri dialetti di
maggior prestigio, in genere censurando i tratti linguistici più connota-
ti in senso locale. Ad esempio, i pochi testi scritti in (presunto) dialetto
puteolano, hanno una veste completamente napoletana e non riportano
alcuna traccia di tratti fonetici locali. Gli esiti della dittongazione
spontanea, così caratteristici di questo dialetto, non vengono rappre-
sentati nello scritto e lo stesso vale per alcune particolarità morfologi-

1
Per l’italiano e alcune varietà regionali si vedano i corpora AVIP (Bertinetto 2001), API
(Crocco et al. 2002) e CLIPS (Albano Leoni 2007).
Il corpus 115

che2. In breve, quindi, una ricerca fonetica sui dialetti, che si basasse
sulla lettura di liste di parole o frasi, non sortirebbe alcun risultato uti-
le.
Considerazioni analoghe riguardano il Map-Task. Questa tecnica
prevede l’interazione di due parlanti con il fine di disegnare un percor-
so su una mappa. I partecipanti siedono a un tavolo in un laboratorio
di registrazione e sono separati da un pannello che impedisce loro di
comunicare visivamente. Entrambi hanno una copia della mappa, ma
su una sola di esse è segnato un determinato percorso. La persona in
possesso della mappa corredata di percorso deve dare istruzioni
all’altro partecipante, affinché questi raggiunga la destinazione presta-
bilita. Il compito è complicato dal fatto che le due mappe non sono i-
dentiche e alcuni oggetti in esse presenti differiscono in numero, posi-
zione e natura. Questa tecnica è in grado di elicitare un parlato relati-
vamente spontaneo, e ha il grande vantaggio di fornire un contesto in-
terazionale molto standardizzato, che assicura la collezione di un ma-
teriale alquanto omogeneo.
Purtroppo, però, questo metodo di elicitazione non è applicabile ai
dialetti italiani. Come è noto, infatti, i dialetti hanno contesti d’uso li-
mitati e sono ammessi soprattutto in situazioni familiari e piuttosto in-
formali3. La tecnica del Map-Task, invece, prevede una situazione
comunicativa alquanto artificiosa e richiede la partecipazione dei sog-
getti parlanti a un compito insolito, per il quale l’uso del dialetto sa-
rebbe avvertito come inopportuno. In effetti, non mi risulta che sia
mai stata tentata un’operazione del genere e, ad ogni modo, i dubbi
sulla sua legittimità sarebbero molto seri.

2
Cfr. §3.4.3 e Abete (2008).
3
Berruto descrive il repertorio italo-romanzo medio come «una situazione di bilinguismo
endogeno (o endocomunitario) a bassa distanza strutturale con dilalia» (Berruto 1993: 5).
Il concetto di “bilinguismo con dilalia” (cfr. anche Berruto 1987 e 1989) viene introdotto
per meglio descrivere il rapporto sociolinguistico tra varietà nazionale e dialetti, che nella
situazione italiana presenta caratteristiche peculiari, rispetto a situazioni di diglossia clas-
siche (cfr. Ferguson 1959). In Italia, infatti, entrambe le varietà, italiano e dialetto, sono
«impiegate/impiegabili nella conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente
ampio di sovrapposizione» (Berruto 1993: 6); mentre però «la gamma di funzioni dell’i-
taliano è aperta verso il basso, quella del dialetto è chiusa, o quanto meno limitata, verso
l’alto» (ibidem: 22).
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Nei paragrafi successivi (§§4.1.2-4.1.3) si prenderanno in esame


due tecniche più applicabili all’elicitazione dei dialetti in Italia: l’in-
tervista libera e il questionario di traduzione. Come si mostrerà in
§4.1.4, esse differiscono notevolmente per la qualità dei dettagli fone-
tici e linguistici che possono fornire.

4.1.2. L’intervista libera e la tecnica di elicitazione usata nella


presente ricerca

I testi di parlato utilizzati in questo lavoro sono stati elicitati con


una versione adattata dell’intervista libera (cfr. Como 2006; Sornicola
2002). Questa tecnica di elicitazione mira a superare i limiti dell’in-
tervista sociolinguistica tradizionale (face-to-face)4, accogliendo prin-
cipi da altre tecniche più orientate in senso antropologico, come l’os-
servazione partecipante5. Di seguito si riportano i principi metodolo-
gici che hanno sotteso alla fase di elicitazione nella presente ricerca.
Tali principi sono stati sviluppati attraverso una confronto dialettico
tra i suggerimenti riportati nella bibliografia sul fieldwork6 e le espe-
rienze maturate dall’autore in campagne di interviste per l’Archivio
dei Dialetti Campani (Sornicola 2002).

1. L’intervista deve essere condotta in un ambiente familiare al


parlante, dove questi sia a suo agio, e dove l’uso della varietà
che si vuole elicitare (nel nostro caso il dialetto) sia abituale e
non sia avvertito come inappropriato.
2. L’intervistatore deve scegliere (preliminarmente alla campagna
di interviste) degli argomenti topici, quindi deve cercare di diri-
4
Nell’intervista sociolinguistica tradizionale i ruoli di intervistatore e intervistato sono ri-
gidamente distinti e i rapporti di potere tra i partecipanti all’interazione sono asimmetrici,
con l’intervistatore che gestisce la presa dei turni e la scelta degli argomenti. La validità
ecologica del materiale raccolto tramite questa tecnica è stata duramente messa in discus-
sione, a causa delle norme interazionali troppo restrittive che l’intervista comporta rispetto
a una conversazione ordinaria (si veda ad es. Wolfson 1976; Cicourel 1982 e 1988; Briggs
1984 e 1986).
5
Per una definizione di questo metodo si rimanda a Vidich (1971).
6
Un modello di riferimento per lo sviluppo della modalità di intervista libera (in inglese
“spontaneous interview”) sono i lavori di Labov et al. (1968) e Labov (1972a). Per una
sintesi dei principi finalizzati a ridurre l’effetto inibitore della situazione dell’intervista e
della presenza del ricercatore si veda Milroy (1987: 39-67); Feagin (2002); Como (2006).
Il corpus 117

gere la conversazione su questi argomenti, pur mantenendosi


flessibile a spostare il discorso su altri soggetti, verso i quali
l’intervistato si mostri eventualmente più interessato. L’uso di
alcuni argomenti topici come canovaccio comune a tutte le in-
terviste è indispensabile per assicurare l’emersione sistematica
di determinati items lessicali, che possano fornire una base con-
sistente per analisi statistiche.
3. L’intervistato dovrebbe preferibilmente essere supportato da uno
o più dei suoi pari, come amici e parenti. Studiare gruppi piutto-
sto che individui è una delle strategie definite da Labov (1972b)
per attenuare i ruoli sociali di intervistatore e intervistato. Come
osserva Milroy (1987: 62): «this has the effect of ‘out-
numbering’ the interviewer and decreasing the likelihood that
speakers will simply wait for questions to which they articu-
late».
4. L’intervistatore deve utilizzare una varietà il più possibile vicina
al dialetto dell’intervistato, o un’altra varietà limitrofa, purché
questa sia avvertita come bassa nella gerarchia del repertorio.
Tale principio contribuisce a ridurre la distanza sociale tra inter-
vistatore e intervistato (cfr. Gumperz 1982); inoltre riduce il ri-
schio che la varietà dell’intervistatore possa influenzare troppo
drasticamente le risposte dell’intervistato (cfr. Sanga 1991: 172).
5. L’intervistatore non dovrebbe limitarsi a porre domande, ma do-
vrebbe prendere parte attivamente alla conversazione, presen-
tando le proprie opinioni e introducendo le proprie esperienze
personali (cfr. Como 2006: 107).
6. Alcuni aspetti tecnici sono ugualmente importanti. Il microfono
(il più piccolo possibile) dovrebbe essere attaccato ai vestiti
dell’intervistato, a una distanza di circa 15-20 cm dalla bocca.
Questa collocazione, mantenendo il volume di registrazione il
più alto possibile (purché al di sotto del livello di distorsione),
consente di minimizzare i rumori ambientali e di ottimizzare la
registrazione della voce dell’intervistato (cfr. Ladefoged 2003:
22). Inoltre, in questa posizione il microfono è al di fuori del
campo visivo dell’intervistato e sembra poter essere da questi
facilmente ignorato, qualora vi sia un buon coinvolgimento
emotivo nella conversazione.
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Figura 10. Setting tipico delle sessioni di registrazione effettuate in questa ricerca

I principi sopra elencati sono stati messi in atto nelle interviste


svolte per la presente ricerca, secondo le modalità che si espongono di
seguito. Le interviste sono state tutte eseguite dallo stesso raccoglitore
(cioè l’autore), a più riprese tra il 2005 e il 2007. Nei casi di Pozzuoli,
Torre Annunziata e Trani7 la grande maggioranza delle interviste è
stata condotta all’aperto, nelle baie per il rimessaggio delle barche8 (v.
Fig. 10).
Qui i pescatori si intrattengono a compiere piccoli lavori di manu-
tenzione e a rammendare le reti. Spesso il lavoro di ricucitura delle reti
danneggiate prende molte ore della giornata e i pescatori le trascorro-
no conversando insieme, in spazi comuni o a bordo delle stesse imbar-
cazioni. Si tratta di un habitat9 ideale per l’uso del dialetto: il parlante
è inserito in un ambiente familiare, con gli amici di sempre, libero dal
condizionamento di gerarchie sociali o di altri elementi contestuali che
potrebbero inibire l’uso di varianti basse del repertorio. Nella campa-
gna svolta per la presente ricerca, i parlanti venivano spesso contattati
direttamente sul posto, attraverso l’intermediazione di qualche mem-
bro rispettato del gruppo, che si era precedentemente conosciuto.

7
Le interviste condotte a Belvedere Marittimo sono state realizzate nelle case degli in-
formatori o nelle piazzette del centro storico negli orari di minore affollamento.
8
In pochi casi le interviste si sono svolte al chiuso, nei depositi adiacenti al porto.
9
Per il concetto di habitat in senso sociolinguistico si veda Sornicola (2006b: 195-198).
Il corpus 119

L’intervistatore veniva in genere identificato dai parlanti come “amico


di un amico”10.
Gli obiettivi linguistici della ricerca venivano dichiarati agli inter-
vistati all’inizio di ogni sessione; tuttavia, si è avuta spesso l’impres-
sione che queste dichiarazioni venissero ignorate o fraintese, e che i
parlanti tendessero a interpretare l’intervista come finalizzata essen-
zialmente a elicitare conoscenze relative alla pesca, più che a registra-
re il dialetto in sé.
All’intervista prendevano parte generalmente più persone. A volte,
dopo aver registrato a sufficienza il parlato di un intervistato, il micro-
fono veniva passato ad altri. Spesso le persone presenti intervenivano
attivamente nella conversazione, anche se non portavano personal-
mente il microfono. Le loro voci sono comunque chiaramente distin-
guibili nelle registrazioni e il significato degli interventi è in genere
decifrabile, così come è possibile ricostruire le dinamiche interaziona-
li. Tuttavia, la qualità delle voci lontane dal microfono è spesso bassa
e inadeguata per analisi fonetiche di livello fine.
L’intervistatore si rivolgeva agli intervistati in dialetto napoletano,
con slittamenti verso un italiano regionale campano di livello diastra-
ticamente basso. Questa scelta si è rivelata efficace, non solo (come
era prevedibile) nella provincia di Napoli, ma anche nelle interviste ef-
fettuate a Belvedere Marittimo in provincia di Cosenza, e a Trani in
provincia di Bari. Fuori dalla provincia di Napoli, il codice dell’inter-
vistatore veniva però parzialmente modificato, attenuando l’uso di
termini ed espressioni che potevano essere troppo esclusivamente lo-
cali, e aumentando gli interventi in italiano regionale campano. L’uso
del napoletano non appariva affatto insolito o inopportuno per i par-
lanti belvederesi e tranesi. Anzi, essi vi erano abituati e mostravano
raramente problemi di incomprensione11. Ciò dipenderà da un lato dai
tratti comuni che queste varietà intrattengono con il napoletano,
dall’altro dalla grande diffusione che il napoletano ha e ha avuto al di
fuori di Napoli, in particolare nei territori storicamente più legati alla

10
Per l’importanza di questo punto si veda Milroy (1987: 65-67). Il significato sociale
della relazione di “friend of a friend” è descritto approfonditamente in Boissevain (1974).
11
Il raccoglitore, da parte sua, era in grado dopo un breve periodo di “acclimatamento” di
capire la maggioranza degli enunciati prodotti dagli intervistati, riuscendo quindi a portare
avanti la conversazione con naturalezza.
120 Capitolo IV

capitale del Regno. Il dialetto usato dall’intervistatore, seppur diverso


da quello degli intervistati, favoriva comunque l’elicitazione di parlato
dialettale, in quanto veniva interpretato (rispetto all’italiano) come una
varietà bassa del repertorio, e sembrava quindi autorizzare l’uso di va-
rietà altrettanto basse.
L’intervistatore partecipava attivamente alla conversazione, sia con
feedback molto brevi (del tipo ah, mh, eh, ho capito), sia con interven-
ti più estesi, commentando quanto detto dall’intervistato o proponendo
i propri punti di vista. La conversazione veniva orientata il più possi-
bile verso una serie di argomenti predefiniti, quali la pesca, le tecniche
utilizzate, i tipi di pesci catturati, i problemi del mercato ittico, le dif-
ficoltà della vita del pescatore, eventuali avventure in mare, etc.
Quando però il parlante proponeva delle digressioni rispetto a questo
canovaccio di base, l’intervistatore lo lasciava fare e lo assecondava,
soprattutto se il parlato elicitato risultava naturale e abbastanza conno-
tato in senso dialettale, per poi riportare di nuovo il discorso sugli ar-
gomenti prestabiliti, non appena la struttura conversazionale lo avesse
permesso. L’utilizzo di questo schema fisso di argomenti ha consenti-
to la ricomparsa frequente in tutte le interviste di alcuni items lessicali,
che hanno costituito una base solida per le analisi fonetiche (cfr. ad es.
§5.2.1).
Particolare attenzione è stata posta alla formulazione delle doman-
de, al fine di ridurre il più possibile l’influenza della situazione
dell’intervista. Pertanto, le domande sono state realizzate spesso in
maniera indiretta, e sono state sempre contestualizzate all’interno di
un quadro di riferimento, attraverso discorsi introduttivi più o meno
lunghi (cfr. Testa 1994: 133 ss.). La forma più frequentemente adotta-
ta è quella della domanda aperta, finalizzata a stimolare l’intervistato a
produrre racconti o commenti, senza orientarlo verso risposte definite
a priori.
Le registrazioni sono state effettuate con l’uso di un registratore di-
gitale portatile (DAT TCD1100) e un microfono a condensa (Sony
ECM-717). Il registratore è di piccole dimensioni ed era tenuto nella
mano dell’intervistatore. Il volume di registrazione veniva regolato
manualmente e mantenuto il più alto possibile, poco al di sotto della
soglia di distorsione. Durante l’intervista il volume di registrazione era
periodicamente controllato e modificato in rapporto alle variazioni di
Il corpus 121

intensità che alcune fasi della conversazione potevano presentare. Il


microfono era attaccato agli indumenti degli intervistati, in genere a
una t-shirt o a una camicia, a circa 15-20 cm dalla bocca. Le interviste
svolte all’aperto sono di ottima qualità, in quanto il posizionamento
del microfono e le accortezze nella regolazione del volume di registra-
zione hanno consentito di minimizzare i rumori esterni; inoltre, non è
presente nessuna eco di stanza, problema che invece, in maggiore o
minore misura, riguarda le interviste svolte al chiuso.

4.1.3. Specificità della situazione comunicativa dell’intervista libera

Qualunque tecnica d’intervista influenza inevitabilmente il tipo di


parlato dell’intervistato, allontanandolo in maggiore o minore misura
dal suo comportamento abituale. Questo problema è stato riassunto da
Labov nel noto “paradosso dell’osservatore”: «To obtain the data most
important for linguistic theory, we have to observe how people speak
when they are not observed» (Labov 1972b: 113).
Nonostante lo sviluppo di tecniche volte a superare i limiti della si-
tuazione dell’intervista tradizionale (cfr. §4.1.2), bisogna ammettere
l’impossibilità di risolvere completamente il paradosso dell’osserva-
tore. Anche l’intervista libera non sfugge a questo problema. Come af-
ferma Wolfson (1976: 199), «try as we may to distract the subject so
that he forgets that he is being recorded, we do not have the right to
assume that our subjects are unconscious of observation».
Ciascuna modalità d’intervista, dunque, crea una situazione comu-
nicativa particolare, rispetto alla quale i dati elicitati devono sempre
essere contestualizzati12. Nel caso dell’intervista libera, il ricercatore
adotta delle tecniche per superare i vincoli di una situazione comuni-
cativa troppo formale e artificiosa, presentandosi come osservatore
partecipante, piuttosto che come intervistatore in senso stretto; nono-
stante ciò, il suo ruolo nella conversazione non può essere assimilato a
quello di un qualunque partecipante a una conversazione naturale. In-
nanzitutto è l’intervistatore che, in larga parte, gestisce la scelta degli
argomenti. In un precedete studio (Ericsdotter & Abete 2007), condot-

12
Per l’importanza di tale questione e per un approccio “ecologico” ai dati elicitati si ve-
dano Pallotti (2001); Miglietta (2003); Vietti (2003).
122 Capitolo IV

to sulle interviste di Pozzuoli realizzate per la presente ricerca, si è ri-


scontrato che i cambiamenti di tema nella conversazione sono nella
grandissima maggioranza dei casi introdotti dall’intervistatore. Inoltre,
gli interventi dell’intervistatore sono nettamente più brevi di quelli
dell’intervistato e consistono soprattutto in domande dirette o indiret-
te. Anche quando introduce esperienze personali, l’intervistatore lo fa
in maniera piuttosto concisa. Nella situazione dell’intervista sarebbe
giudicato probabilmente come inopportuno se l’intervistatore tenesse
a lungo il turno per parlare di se stesso. Inoltre, intervenendo soprat-
tutto con domande, o con commenti volti comunque a stimolare il par-
lato dell’intervistato, l’intervistatore gestisce di fatto anche la presa
dei turni.
È chiaro quindi che i ruoli di intervistatore e intervistato sono a-
simmetrici e l’interazione conversazionale segue nell’intervista libera
dinamiche diverse da quelle che si verificano tra pari in una conversa-
zione spontanea. In realtà questo non costituisce in sé un problema. Il
parlato elicitato con l’intervista libera non è meno “naturale”13, né
ecologicamente meno valido di parlato elicitato con altre tecniche. I
testi di parlato raccolti per la presente ricerca mostrano un notevole
grado di spontaneità, le forme fonetiche sono caratterizzate da livelli
molto avanzati di riduzione, compaiono varianti sociolinguisticamente
molto basse del dialetto, l’interazione con l’intervistatore e con gli al-
tri partecipanti mostra dinamiche complesse e ricche di spunti di ri-
flessione. La questione si pone piuttosto al livello interpretativo,
quando l’analisi dei dati e le generalizzazioni che se ne possono trarre
devono essere ancorate alla situazione comunicativa specifica in cui i
dati sono stati elicitati: «the linguist must be fully aware of the nature
of his data» (Labov 1972b: 103).
Affinché i dati siano correttamente contestualizzati rispetto alla si-
tuazione che li ha prodotti, è necessaria un’analisi delle dinamiche in-
terazionali dell’intervista. Un passo importante verso questo obiettivo
consiste nel restituire all’intervistatore la piena dignità di parlante,
considerando l’interazione tra intervistatore e intervistato come una

13
Si veda a questo proposito la critica di Wolfson al mito di un unico stile di parlato ve-
ramente “naturale”, in contrapposizione al quale Wolfson propone il concetto di adegua-
tezza di ciascuno stile a determinate situazioni comunicative (Wolfson 1976: 201-203).
Il corpus 123

relazione comunicativa reale, caratterizzata da dinamiche complesse e


da norme specifiche14. Testa (1994) critica l’utilizzo “parziale” che
spesso si fa delle interviste sociolinguistiche, che si manifesta nel
«considerare come oggetto di analisi le singole risposte degli intervi-
stati, […] escludendo in tal modo l’esame del processo discorsivo e
delle caratteristiche interazionali dell’evento» (Testa 1994: 122)15.
È necessario quindi che i dati elicitati con intervista spontanea sia-
no sempre ricondotti in fase interpretativa alla situazione comunicati-
va dell’intervista e alle dinamiche interazionali specifiche tra intervi-
statore e intervistato. Un esempio a favore di questa prospettiva viene
dalla la ricerca di Ericsdotter & Abete (2007) sulla forma e funzione
di un marcatore discorsivo di fine enunciato, etimologicamente colle-
gato all’espressione hai capito? Lo studio è stato effettuato sulle in-
terviste di Pozzuoli realizzate per la presente ricerca. Dall’analisi è
emerso che l’occorrenza del marcatore discorsivo è strettamente con-
nessa dal punto di vista sequenziale a brevi feedback affermativi
dell’intervistatore. Questa distribuzione ha permesso di interpretare le
realizzazioni di hai capito?, come parte di una strategia di tipo colla-
borativo, che coinvolge intervistato e intervistatore (il quale partecipa
con i feedback), finalizzata a concludere micro-unità testuali, e ad ac-
certare che la conversazione stia procedendo con successo. È chiaro
che, se sganciata dalla dinamica interazionale tra intervistatore e inter-
vistato, l’analisi distribuzionale di questo marcatore discorsivo e
l’interpretazione della sua funzione pragmatica sarebbero molto par-
ziali e scarsamente significative.

4.1.4. Intervista libera e questionario di traduzione a confronto

Un altro metodo di elicitazione largamente utilizzato nella raccolta


di materiale dialettale in ambito romanzo è il questionario di traduzio-
ne. Questo metodo consiste nel sottoporre all’intervistato parole o fra-
si in italiano, chiedendogli di tradurle nel dialetto locale. La dialetto-
logia si è a lungo servita del questionario di traduzione e i dibattiti sui

14
Su questo punto si vedano anche Bres (1999) e D’Agostino & Paternostro (2006).
15
Si veda anche Testa (1995).
124 Capitolo IV

suoi pregi e difetti sono infiniti16. In questo paragrafo ci si concentrerà


sui limiti di questa tecnica di elicitazione in riferimento alla prospetti-
va di analisi della variabilità fonetica adottata nella presente ricerca
(cfr. §2.2).
Il fenomeno che qui si indaga è l’alternanza sincronica tra le realiz-
zazioni monottongali e dittongali di determinate variabili vocaliche
(cfr. §1.3). Relativamente a tale fenomeno, in un esperimento condot-
to su alcuni parlanti di Pozzuoli sono stati testati e messi a confronto
sia il questionario di traduzione, sia l’intervista libera17.
La tabella 12 riporta le percentuali di dittongazione in posizione
prepausale (cfr. §4.3.5) delle vocali alte e medio-alte in quattro parlan-
ti (P1-4). I dati nella prima colonna sono stati ottenuti attraverso tra-
scrizioni impressionistiche di dieci minuti di parlato per ciascun par-
lante, elicitati con la tecnica dell’intervista libera; i dati nella seconda
colonna sono stati ottenuti tramite la somministrazione agli stessi par-
lanti di un questionario di traduzione di 70 enunciati.
Durante l’intervista libera i parlanti P1 e P2 esibiscono le percen-
tuali più alte di dittongazione, P3 dittonga solo sporadicamente, men-
tre P4 presenta un comportamento intermedio. I risultati del questiona-
rio di traduzione sono significativamente differenti. Si noterà, innanzi-
tutto, la completa assenza di dittonghi in P4. Discutendo fenomeni fo-
netici come la dittongazione spontanea, Sornicola (2002: 152-153) ha
evidenziato che essi sono spesso al di sotto del livello di consapevo-
lezza dei parlanti ed emergono soltanto in condizioni di parlato spon-
taneo. Sembra essere proprio questo il caso di P4. Anche il fatto che
gli enunciati da tradurre fossero in una lingua come l’italiano, che
manca dei fenomeni di dittongazione spontanea, può aver esercitato
una certa influenza sugli esiti delle traduzione18.

16
Per una sintesi critica si veda Sanga (1991).
17
I dati che si riportano sono stati estrapolati dal lavoro di tesi di laurea dell’autore (Abete
2005). Per un quadro più dettagliato delle caratteristiche linguistiche e sociolinguistiche
dei parlanti considerati in questo paragrafo si rinvia ad Abete (2006).
18
Sull’influenza della lingua di partenza sulla lingua di arrivo nel questionario di tradu-
zione cfr. Sanga (1991: 167).
Il corpus 125

Tabella 12. Percentuali di esiti dittongali prima di pausa prosodica. Dati dall’in-
tervista libera e dal questionario a confronto.
PARLANTI INTERVISTA LIBERA QUESTIONARIO
P1 44% 90%
P2 34% 52%
P3 8% 73%
P4 25% 0%

Completamente opposto il comportamento di P3, il quale produce


dittonghi molto sporadicamente nell’intervista libera, mentre ne rea-
lizza un numero molto alto nelle risposte al questionario. Anche in
questo caso i dati di questionario potrebbero comportare una distor-
sione sostanziale dei dati di parlato reale. A questo riguardo, sono par-
ticolarmente significative due traduzioni, nelle quali P3 realizza forme
quali [marəˈnɛːrə] ‘marinaio’ e [ˈkʰɛːsə] ‘formaggio’, con [ɛ] tonica, in
luogo della /a/ etimologica. Tale fenomeno, noto come “palatalizza-
zione di /a/ tonica”, è stato documentato per Pozzuoli nella prima metà
del ventesimo secolo da Rohlfs (1966: §22), ma sembra essere scom-
parso nel dialetto parlato odierno, dal momento che non lo si è rinve-
nuto in più di venti ore di registrazioni di parlato spontaneo di circa
venti parlanti (alcuni dei quali molto anziani), raccolte negli ultimi
quattro anni, nonostante il gran numero di contesti potenzialmente fa-
vorevoli alla sua emersione. Le traduzioni di P3 esemplificano i pro-
blemi del questionario molto chiaramente. Anche se il questionario di
traduzione può essere un utile strumento per avere accesso a forme
conservate nella competenza passiva del parlante, esso non consente
di ottenere dati affidabili sul comportamento comunicativo effettivo di
ogni giorno.
Un trend simile caratterizza P1, la cui percentuale di dittongazione
è a un livello medio durante l’intervista libera, mentre si avvicina al
100% nelle risposte al questionario. Apparentemente P1 potrebbe es-
sere considerato l’informatore ideale per una ricerca con questionario:
sembra avere un buon livello di consapevolezza metalinguistica e tra-
duce gli enunciati che gli vengono sottoposti in un dialetto molto mar-
cato in senso locale. Tuttavia, anche le sue risposte sono problemati-
che. Ciò che il ricercatore desidera non è in sé l’elicitazione del mag-
126 Capitolo IV

gior numero possibile di dittonghi, ma piuttosto l’elicitazione di dati


che riflettano in maniera attendibile il comportamento linguistico in
situazioni comunicative reali. L’alternanza tra esiti dittongali ed esiti
monottongali è proprio ciò che un buon metodo dovrebbe elicitare,
mentre il questionario distorce la variabilità linguistica in un senso o
nell’altro.
Una discrepanza minore tra i dati di questionario e i dati di parlato
caratterizza soltanto il parlante P2. Ad ogni modo, anche se il ricerca-
tore potesse lavorare esclusivamente con parlanti come P2, il questio-
nario di traduzione presenta altri problemi metodologici di fondo, che
non potrebbero essere evitati. Il questionario elicita enunciati in iso-
lamento, quindi completamente decontestualizzati dalla struttura con-
versazionale. Come diverse ricerche sulle funzioni dei dettagli fonetici
nella conversazione hanno messo in luce (cfr. §2.2.1), i patterns fone-
tici e fonologici di un sistema linguistico sono modellati dai bisogni
della conversazione e possono essere correttamente descritti e inter-
pretati solo in rapporto alla struttura dell’interazione verbale. Con le
parole di Local e Walker (2005: 121) «phonetic and phonological as-
pects of language should in the first instance be understood as shaped
by interactional considerations». Se valutato da questa prospettiva, il
questionario di traduzione è inevitabilmente di scarsa utilità.
Infine, il questionario introduce una forte circolarità nella ricerca,
imponendo assunzioni fonologiche a priori sul processo di raccolta dei
dati, e portando così all’estremo i problemi connessi al cosiddetto “pa-
radosso dell’osservatore”. A questo proposito, Sanga (1991: 167) giu-
stamente commenta:
Il questionario predetermina l’esito della ricerca, perché rende quasi impossi-
bile trovare qualcosa di nuovo: si trova solo quello che si cerca, cioè solo
quello che si è previsto nel questionario e che quindi si sa già; non c’è spazio
– se non casuale e marginale – per l’ignoto. Il questionario non serve per tro-
vare il nuovo, ma per confermare il noto.

Lo studio dei processi fonetici richiede un approccio completamen-


te differente, che parta dai dati dell’uso per arrivare in maniera indut-
tiva ai patterns di variazione (cfr. §2.2.3).

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