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Quali politiche linguistiche per una lingua minoritaria in pericolo?

Chapter · January 2021

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Rosangela Lai
Università di Pisa
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Quali politiche linguistiche per una lingua minoritaria in pericolo?*
Rosangela Lai

1. Introduzione
La quasi totalità delle lingue minoritarie storiche europee sono classificate dall’UNESCO fra
le lingue in pericolo di estinzione e fra i loro parlanti si annovera ormai una larga parte di parlanti
heritage. Le lingue minoritarie del territorio italiano non fanno eccezione. La deriva linguistica
(language shift) che le sta interessando giustificherebbe interventi urgenti di tutela. Qui si discuterà
come caso di studio della lingua sarda.
Nel paragrafo 2 darò alcune nozioni fondamentali di classificazione delle varietà sarde,
particolarmente in relazione alle posizioni assunte dai decisori politici in Sardegna. Si farà vedere che
la variazione interna del sardo è sì considerevole, ma non tanto da non poter individuare due macro-
varietà con sufficiente nettezza. Nel paragrafo 3 farò un quadro della vitalità del sardo e dell’identità
dei suoi parlanti odierni. È importante riconoscere la salute declinante della lingua e la competenza
spesso imperfetta dei suoi parlanti per definire la natura e gli obiettivi dell’intervento. Il paragrafo 4
rievoca la storia delle politiche linguistiche sarde dall’approvazione della 482/1999: la Regione
Autonoma della Sardegna (RAS) ha privilegiato nettamente lo sviluppo e l’implementazione di una
lingua standard, dapprima solo per usi amministrativi, poi in domini via via più ampi. Due proposte
di standard (LSU e LSC) hanno incontrato la forte ostilità dei parlanti del sud dell’Isola. La più recente
legislazione regionale sembra mostrare un cambio di rotta, ma segnalerò alcune criticità della nuova
direzione. Il paragrafo 5 conclude entrando nel merito dei desiderata per una politica linguistica volta
espressamente al contrasto della deriva linguistica. Si farà vedere in che modo le politiche sarde se
ne sono discostate, nella speranza che il nuovo corso li tenga maggiormente presenti.

2. Classificazione interna del sardo

Il gruppo sardo nel suo insieme forma un gruppo dialettale distinto nel dominio romanzo (Meyer-
Lübke 1901: 17; Andreose/Renzi 2013: 301), spesso riconosciuto come un ramo a sé stante (Cfr.
Campbell/Poser 2008: 84). In alcune aree della Sardegna sono presenti varietà che non appartengono
al gruppo sardo: gallurese e sassarese (gruppo italo-romanzo), algherese (varietà di catalano
orientale), e tabarchino (varietà ligure) (Cfr. Toso 2012).
Sono state avanzate diverse proposte di classificazione interna del gruppo sardo. Vedremo ora
le principali, senza pretese di esaustività (rimandiamo il lettore a Lőrinczi 2001 e Molinu/Floričić
2017)1. La prima è una divisione in due macro-aree: le varietà campidanesi (a sud) e quelle
logudoresi-nuoresi (nel centro-nord). Si tratta della classificazione più ampiamente adottata (Wagner
1997 [1950]). Una alternativa, solo in parte difforme, enfatizza le peculiarità del nuorese all’interno
del gruppo logudorese e lo considera un gruppo a sé stante (Virdis 1978: 9). Esiste anche l’ipotesi

*
In apertura di questo lavoro desidero ringraziare gli organizzatori e i partecipanti al convegno Plurilinguismo e
Pianificazione linguistica: esperienze a confronto (Roma, 16-18 ottobre 2019) per i loro suggerimenti e le loro
osservazioni. Un sentito grazie va a due revisori anonimi e ai curatori del presente volume.
1
Si noti che le classificazioni che andremo a discutere si sono storicamente basate in primo luogo su criteri fonetici
o fonologici, e secondariamente su criteri lessicali. Gli aspetti grammaticali nel loro complesso hanno svolto a lungo un
ruolo marginale. Ringrazio un revisore anonimo per aver portato questo aspetto alla mia attenzione. Per un contributo
comparativo dettagliato sulla morfologia verbale nelle varietà sarde, si veda Pisano (2016). Una rassegna più sintetica
che affronta però tutti i livelli linguistici è costituita da Mensching e Remberger (2016). Per la sintassi, Jones (1993) è un
contributo ormai classico ma limitato alle varietà nuoresi di Bitti e Lula.
1
che oltre al campidanese, al nuorese e al resto del logudorese, sia identificabile un’altra zona, l’area
arborense (Virdis 1988). Contini (1987: 580), poi, a conclusione del suo volume sostiene la necessità
di abbandonare le divisioni tradizionali poiché una variazione interna tanto ingente non permette una
tassonomia bi- o tri-partita.
Contini (1987) viene spesso citato a sostegno dai fautori della LSC (Cfr. §4), per l’idea che il
gruppo sardo sia uno solo e sia errato parlare di sottodivisioni interne. D’altronde, se la ben nota bi-
/tri-partizione del sardo non esistesse, allora un riconoscimento al campidanese non sarebbe più
dovuto, né sotto forma di un doppio standard né attraverso la creazione di uno standard multidialettale
(Cfr. §5.2). Vale però la pena sottolineare che questo ragionamento non è cogente: il fatto che il sardo
sia uno non toglie che siano riconoscibili al suo interno delle macro-aree, nelle quali a loro volta si
possano individuare delle sotto-varietà. Inoltre che le diverse varietà di una stessa lingua non siano
separate da confini netti è cosa nota e perfino banale: si tratta del cosiddetto continuum linguistico o
dialettale dei manuali di linguistica 2. Questo vale per il sardo così come per qualsiasi altra lingua,
comprese quelle nazionali.
Tornando a Contini (1987), al di là delle suddette conclusioni finali ad effetto, quello che
risulta dal suo lavoro è altro, cioè che il gruppo campidanese appare chiaramente come un’area a sé
stante, mentre il gruppo logudorese risulta, alla luce dei criteri adottati da Contini, particolarmente
variegato. Benché Contini rilevi differenze diatopiche anche tra le varietà campidanesi, ritiene di
poterle raggruppare in uno stesso gruppo denominato système 7 (pp. 555-563), mentre le varietà
logudoresi sono divise tra ben sette diversi systèmes (pp. 539-554, 563-567). Scrive Contini:

Le sud de l’île laisse apparaître une plus grande unité phonologique notamment dans une vaste zone
comprenant la plaine du Campidano, entre le cours inférieur du Tirso et les abords immédiats de
Cagliari, ainsi que les régions vallonnées de l’Arborea, de la Marmilla et de la Trexenta, Contini (1987:
555).

Si la variété que nous avons appelée ‘campidanienne’ (on pourrait l’appeler aussi ‘campidanienne
central’) peut être considérée, par son extension géographique, comme la plus représentative de
l’espace méridional, aucune des variétés de la moitié nord de l’île ne peut prétendre au même rôle,
Contini (1987: 580).

Si può concludere quindi che il gruppo campidanese, così come indicato fin dai primi lavori
di dialettologia sarda, esiste ed è ragionevolmente uniforme. La novità è piuttosto che il gruppo
logudorese presenta invece una più marcata variazione interna. Si tratta comunque di una novità assai
relativa, visto che analoghe osservazioni erano già presenti in letteratura:

Di fronte al logudorese, il quale è spezzettato in tante varietà dialettali, il campidanese ha il vantaggio


di una maggiore unità e uniformità; esso poteva perciò più facilmente farsi espressione di una poesia
meno artificiale e più corrispondente, anche linguisticamente, alla lingua realmente parlata, Wagner
(1997: 89 [1950]).

Divergenze nella classificazione interna di una lingua dipendono dai criteri ai quali si vuol
dare la priorità. Fin dai primi lavori di linguistica romanza, le classificazioni più comuni si fondano
su fenomeni di linguistica storica. Ciò non toglie che si possa decidere di classificare un gruppo
linguistico sulla base di altri criteri, ad esempio in un’ottica tipologica.
Detto questo, nel presente lavoro assumerò due macro-varietà: le varietà logudoresi (nuorese
incluso) e le varietà campidanesi, premettendo che entrambe esibiscono una variazione interna più o
meno marcata, più un’area di transizione che presenta caratteristiche intermedie e alcuni sviluppi

2
Per le lingue romanze, si veda (fra gli altri) Alkire/Rosen (2010: 2).
2
originali, sia fonologici che morfosintattici (Cfr. Wagner 1997: 350 [1950]; Blasco Ferrer 1988;
Loporcaro 2009: 159; Pisano 2016; Lai 2020a, in stampa).

3. Il sardo e i suoi parlanti

Ormai da qualche decennio, le lingue di minoranza storica europee sono interessate da una
progressiva deriva linguistica (language shift) verso le rispettive lingue nazionali (Salminen 2007:
224-227). I domini linguistici precedentemente occupati dalle lingue minoritarie, come la famiglia, i
rapporti amicali e alcuni ambiti di lavoro, stanno venendo progressivamente erosi. Si è dunque passati
da una situazione di diglossia stabile (con la lingua minoritaria utilizzata nei contesti informali e
quella dominante in quelli formali) ad una situazione di diglossia instabile, con la progressiva
sostituzione della lingua minoritaria in ogni contesto.
Con l’interruzione della trasmissione parentale si è assistito alla crescita dei semi-speakers3,
conosciuti nella letteratura più recente con il termine meno connotato heritage speakers (Montrul
2016). Gli heritage speakers sono dei parlanti che, pur avendo intuizioni native, presentano una
competenza limitata della lingua di famiglia (heritage language) come risultato di un’acquisizione
incompleta4. Un’esposizione limitata, spesso dovuta alla sostituzione precoce nella socializzazione
primaria con la lingua maggioritaria, fa sì che il parlante non raggiunga la piena padronanza della
lingua minoritaria5. Montrul riassume così le problematicità dell’acquisizione di una lingua heritage:

[…] the process of language acquisition and mastery is long and not all native languages acquired in
a bilingual context develop in the same way into adolescence and beyond. Without proper
environmental support, the heritage language remains unstable after the age of basic grammatical
development, leading to incomplete acquisition or attrition of different aspects of the grammatical
system, Montrul (2016: 4).

Le capacità linguistiche dei parlanti heritage possono variare considerevolmente in funzione


del livello di esposizione alla lingua di famiglia. Alcuni parlanti presentano una competenza quasi
native-like, altri possono avere difficoltà importanti, altri ancora una conoscenza pressoché passiva
(Montrul 2016: 16-18). Si tratta sempre di individui cresciuti in un contesto bilingue ma con una
esposizione limitata alla lingua di famiglia. Sono molto diffuse le carenze di tipo morfologico e
sintattico (Cfr. Polinsky 2018: 164-290; Montrul 2010), ma sono attestate anche difficoltà di tipo
fonologico (Polinsky 2018: 114-163). Il lessico di questi parlanti non è stato studiato in modo
sistematico, ma se non altro in varie lingue sembra che la padronanza lessicale sia correlata alla
conoscenza grammaticale generale (Montrul 2016: 48-49). Studi già condotti suggeriscono che i
parlanti heritage abbiano un lessico ridotto (Montrul 2016: 53) e permeabile ai transfer dalla lingua
dominante (Polinsky 2018: 350).
Molti parlanti di lingue di minoranza storiche europee sono oggi parlanti heritage (Montrul
2016: 15, 31-34). Restando sul sardo, studi di sociolinguistica sottolineavano che già dagli anni
ottanta il sardo stava perdendo terreno (Rindler Schjerve 2017: 38) e con una crescente presenza di
parlanti dalla competenza significativamente compromessa:

3
Il termine semi-speaker compare per la prima volta in Dorian (1973: 417, nota 8).
4
Secondo Montrul (2016: 15), le lingue heritage sono lingue minoritarie che coesistono con lingue dominanti o
maggioritarie in una situazione di svantaggio sociopolitico. Può trattarsi di lingue di migrazione, le lingue minoritarie
nazionali e le lingue aborigene. La stessa Montrul (2016: 15, 31-34) considera lingue di minoranza storiche europee quali
l’irlandese, il vallone, il frisone, l’arumeno, etc. come lingue heritage.
5
Può capitare anche che gli stessi bambini (non immuni da dinamiche di prestigio linguistico), non appena
acquistano la consapevolezza dello statuto della lingua minoritaria, adottino (anche a casa) la lingua maggioritaria: «When
children realize that their home language is a minority language and it is not spoken beyond the home, they switch to the
majority language spoken by their social group» (Montrul 2016: 36).
3
[…] at present many young speakers, who have frequently been brought up in Italian, have a restricted
active or even a merely passive command of their ethnic language. This lack of active command is
generally reflected in deficient or restricted use of Sardinian […], Rindler Schjerve (2003: 241).

Rindler Schjerve (1993: 280-281) segnalava certi aspetti critici della lingua di questi parlanti. Il
lessico era già allora particolarmente interessato (con evidenti processi di rilessificazione) come la
morfosintassi in minor misura. Fra gli aspetti fonetici e fonologici, l’autrice annoverava la scomparsa
della geminata occlusiva retroflessa sonora geminata (risultante da -LL- latina) sostituita da una
occlusiva alveolare sonora geminata, probabilmente su influsso dell’italiano che non contempla le
retroflesse. Sottolineava che i parlanti heritage dell’area logudorese sud-occidentale non
presentavano più varie regole fonologiche di assimilazione di -s in coda interna o finale. Lai (2020
b), che riguarda il trattamento delle occlusive sonore del lessico nativo, segnala la perdita di regole
fonologiche in una varietà campidanese.
Allo stato attuale, gli studi su questa tipologia di parlanti di sardo sono troppo pochi per
delineare un profilo anche solo orientativo delle loro competenze linguistiche, e capire quali
componenti della competenza siano più a rischio. L’unica certezza è che il numero di questi parlanti,
già consistente, è destinato ad aumentare. I dati ufficiali sono presenti in Oppo (2007), un sondaggio
sul comportamento linguistico dei sardi commissionato dalla RAS. La tabella 4.2 (Oppo 2007: 34)
(qui Tabella 1) riguarda la lingua della socializzazione primaria.

Tabella 1. Lingua parlata per prima per grandi classi d’età


15-24 anni 25-44 anni 45-64 anni 65 anni e oltre
Italiano 89,0 66,9 33,9 16,8
Lingua locale 5,8 19,9 51,7 73,7
Entrambe 5,2 13,2 14,4 9,5
contemporaneamente
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0
N 191 532 555 380

Se ci focalizziamo sulla prima fascia d’età (15-24 anni) vediamo che per l’89% del campione la lingua
della socializzazione primaria è stata la lingua dominante in via esclusiva, mentre solo il 5,8% ha
indicato la lingua locale. Il 5,2% dichiara una socializzazione primaria bilingue. Nella seconda fascia
d’età (25-44 anni) vediamo che il gap si attenua parzialmente e per il 66,9% l’italiano è stata la lingua
di famiglia rispetto ad un 19,9% della lingua locale. Il 13,2% è stato cresciuto utilizzandole entrambe.
È solo con la terza fascia (45-64 anni) che la lingua locale è la lingua della socializzazione primaria
per la maggioranza dei parlanti, pur con un 33,9% che dichiara (esclusivamente) l’italiano.
La pubblicazione risale al 2007, quindi i dati esposti si riferiscono oggi alle fasce 28-37 anni
(I fascia), 38-57 (II fascia), 58-77 (III fascia), 78 e oltre (IV fascia). Dunque fino almeno ai 57 anni
la maggioranza dei sardi ha l’italiano come lingua esclusiva della socializzazione primaria. Ne
consegue che parte dei sardi sono ad un qualche livello parlanti heritage delle varietà locali6. La
tendenza è purtroppo chiara. Vale la pena rimarcare che nel prossimo futuro il tipico parlante di sardo
non sarà più un parlante fluente ma un parlante heritage. Di questo bisognerà tener conto nei prossimi
interventi di pianificazione linguistica.

4. Vicende della standardizzazione del sardo

6
La tabella si riferisce a tutte le varietà parlate in Sardegna, non solo al sardo, Oppo (2007: 5, nota 2).
4
La legge 482/1999 viene approvata in un momento storico di rinnovato interesse per tematiche di
tutela del patrimonio linguistico, quando il sardo godeva già di un riconoscimento ufficiale grazie alla
precedente legge regionale 26/1997. È però con la legge nazionale che si assiste ad un cambiamento
anche a livello di politiche regionali. La tutela delle minoranze linguistiche invocata dalla 482/1999
viene recepita in un’ottica piuttosto restrittiva: si riterrà prioritaria la creazione di uno standard e tutti
gli altri aspetti di tutela verranno messi in secondo piano. Nel 2001 viene presentata la prima proposta
di standardizzazione: la Limba Sarda Unificada (LSU). Nonostante la LSU prevedesse una
commissione di esperti, come sottolineato in Lőrinczi (2013), il documento finale riflette
particolarmente le idee di Diego Corraine, autore in lingua sarda e attivista politico, già impegnato in
un progetto simile (Cfr. Corraine 2000). Sia la LSU che la LSC presentano un “impianto […]
dichiaratamente logudorese” (Blasco Ferrer 2011: 29).
La LSU ha innescato vigorose polemiche che hanno indotto la RAS a rinunciare alla sua
implementazione (Tufi 2013: 150). Una critica ricorrente riguardava l’adozione di un approccio
unilettale (unilectal approach) a base logudorese7. L’altra macro-varietà dell’Isola, il campidanese,
non veniva presa in considerazione in alcun modo (Calaresu 2001; Blasco Ferrer 2011; Lőrinczi 2013;
Lai 2017, 2018a). Fin dalla premessa del documento (pag. 5) si dava a intendere che l’approccio
adottato fosse invece di tipo multidialettale 8: «La norma standard unificata deliberata dalla
Commissione intende realizzare una mediazione fra le varietà centro-orientali, più conservative, e
quelle meridionali dell’Isola, più innovative, […]». Tale dichiarazione di intenti però non trova
riscontro nella realtà.
L’accoglienza riservata alla LSU avrebbe dovuto far accendere un campanello d’allarme a
livello regionale e suggerire un cambio di rotta: il rischio di incorrere in un rifiuto da parte della metà
sud dell’Isola era decisamente concreto (Cfr. §5.2). Queste avvisaglie però non hanno ricevuto
l’attenzione che avrebbero meritato. Nel 2006, un attivista linguistico, Giuseppe Corongiu, viene
assunto prima come consulente e poi direttore del Servizio Lingua e Cultura Sarda della RAS. Le
politiche regionali a partire dal 2006 fino al 2014 risentiranno dell’impostazione da lui indicata.
Nel 2006, viene elaborata e approvata dalla Giunta regionale sarda la Limba Sarda Comuna
(LSC), (Blasco Ferrer 2011: 29). La LSC, come la LSU, è de facto il frutto di un approccio unilettale
di tipo logudorese. Di nuovo, questo aspetto non viene riconosciuto esplicitamente, anzi, nelle linee
guida si sottolinea che l’approccio adottato è quello multidialettale (LSC 2006: 5-6, 13-14). Inoltre,
nelle nuove norme non viene adoperata la parola ‘standard’, che la LSU invece utilizzava (LSU 2001:
5, 7). La LSC sarebbe invece da intendersi come norma ortografica di riferimento ad uso
dell’amministrazione regionale. Si può quindi constatare un dominio d’uso di minore respiro, e
l’insistenza sulla natura puramente ortografica della LSC 9. È ragionevole collegare questo cambio
nella comunicazione a un tentativo di rassicurare la parte della comunità che aveva male accolto la
LSU (Cfr. §5.4). Nonostante queste cautele, la reazione non è meno virulenta. La sostanza della
proposta, in effetti, cambia ben poco. La varietà di riferimento resta infatti il logudorese, con poche
concessioni al campidanese. In particolare, si ammette l’utilizzo degli articoli e dei clitici di terza
persona campidanesi insieme a quelli del logudorese (LSC 2006: 25, 28, 37ss.), tutto il resto resta
sostanzialmente invariato rispetto alla LSU. Concessioni di questa entità non bastano certo a

7
Sui diversi approcci alla standardizzazione ortografica e le loro conseguenze si veda il §5.2.
8
Cfr. Simons (1977); Seifart (2006); Karan (2014); Jones/Mooney (2017).
9
Come vedremo, le reali intenzioni dei pianificatori si chiariranno con il Piano triennale degli interventi di
promozione e valorizzazione della cultura e della lingua sarda 2011-2013.
5
classificare il nuovo standard come multidialettale 10. Le nuove norme sono di fatto le vecchie norme,
al punto tale che una larga porzione del testo della LSC risulta preso di pari passo dalla LSU 11.
Il perseverare su una norma unilettale a base logudorese creerà uno strappo senza precedenti
con l’area campidanese. L’apice si avrà nel 2009, con uno scontro istituzionale fra RAS e Provincia
di Cagliari, e l’approvazione da parte della Provincia di uno standard campidanese (Cfr. Arrègulas
2009; Lai 2019). Il documento con le norme dello standard in questione è intitolato Arrègulas po
ortografia, fonètica, morfologia e fueddàriu de sa Norma Campidanesa de sa Lìngua Sarda,
conosciuto più brevemente come Arrègulas. A differenza della LSU e LSC, è scritto sia in italiano
che in sardo (varietà campidanese), ed è quindi possibile vedere da subito un’applicazione concreta
delle norme. Senza inoltrarci in discussioni inerenti strettamente le scelte ortografiche, per le quali
rimando a Lai (2019), è interessante soffermarci sulle ragioni che hanno portato allo strappo con la
RAS, ragioni a cui ci ricollegheremo nel §5.2.
Nelle Arrègulas si ribadisce quello che è ben noto in ambito dialettologico, cioè che nel
gruppo sardo si riscontrano due macro-aree, quella campidanese e quella logudorese (inframmezzate
da un’area di transizione), una tesi che i sostenitori della LSC, invocando Contini (1987),
categoricamente rifiutano 12. Gli estensori delle Arrègulas auspicano di fatto un duplice standard per
l’Isola: uno a base campidanese e un altro a base logudorese. Altro aspetto degno di nota è che i due
standard dovrebbero poggiarsi sulla tradizione poetica orale delle rispettive macro-aree. Il riferimento
è alla produzione poetica improvvisata, una forma letteraria molto diffusa nell’Isola. Le Arrègulas si
rifanno in effetti al sardo campidanese utilizzato dai poeti orali (cantadoris)13, una varietà di
campidanese che non presenta una serie di regole fonologiche (es. tapping, assimilazioni varie)
diffuse nelle varietà meridionali. Gli estensori delle Arrègulas suggeriscono che l’area logudorese
faccia altrettanto, vista la presenza di una tradizione analoga anche al centro-nord. L’ovvio vantaggio
sarebbe quello di costruire degli standard rifacendosi a due varietà già esistenti, note nelle rispettive
aree, entrambe dotate localmente di una certa misura di prestigio e di cui esiste già un corpus orale
importante. Non si tratterebbe, quindi, di creare uno standard ex novo ma di costruire su qualcosa di
già noto e presente (la poesia orale).
Neanche lo strappo della Provincia di Cagliari servirà però a far cambiare le politiche
regionali. Anzi, con l’uscita del ‘Piano triennale degli interventi di promozione e valorizzazione della
cultura e della lingua sarda 2011-2013’ i timori degli stakeholders si riveleranno fondati. Si tratta
nello specifico di un documento di programmazione in cui si definiscono le politiche da implementare
per promuovere la lingua sarda. Il documento fa luce sulle intenzioni del Servizio Lingua e Cultura
Sarda della RAS. In primis, la LSC, benché presentata in origine come norma linguistica di
riferimento per l’amministrazione regionale, si rivelerà assai più ambiziosa. Gli estensori del Piano
Triennale si riferiscono alla LSC come ‘lo standard’ da implementare (Cfr. Mastino et al. 2011) e
prevedono una serie di misure fra cui un dizionario normativo (pp. 37-39) e applicazioni quali il
correttore ortografico (p. 47), correttore grammaticale (p. 49) e sistemi di digitazione predittivi (pp.
49-50). La LSC non viene menzionata esplicitamente se non in poche occasioni, ad esempio alla pag.
38 si legge: «L’esigenza che gli operatori linguistici, gli insegnanti, gli amministratori hanno è quella
di disporre di un dizionario che segua norme certe di carattere ortografico, morfologico, lessicale. Il
Dizionario normativo seguirà le norme adottate dalla Regione». Vien da sé che gli operatori,
amministratori e insegnanti debbano tutti insegnare o utilizzare la LSC.

10
Per le caratteristiche che deve avere uno standard multidialettale si veda il §5.2.
11
Per riscontri puntuali tra i due documenti, si veda Lai (2018: 78-80). Non mi soffermo sulla descrizione delle
due proposte. Il lettore interessato può far riferimento (fra gli altri) a Calaresu (2002, 2008); Blasco Ferrer (2011); Mastino
et al. (2011); Lőrinczi (2013); Tufi (2013); Marzo (2017); Lai (2017, 2018a, 2018b).
12
Su quanto sostenuto in Contini (1987) si veda il §2.
13
Cfr. Zedda (2009); Mereu (2014).
6
Il Piano Triennale non vedrà in ogni caso una piena attuazione. Nel 2014 scadrà l’incarico di
Giuseppe Corongiu e a livello regionale più generalmente si osserverà un cambio di rotta. Verrà eletto
alla Presidenza della RAS Francesco Pigliaru, la cui giunta non si segnalerà per particolari meriti o
demeriti legati alle politiche linguistiche. Vale la pena segnalare però, sul finire della legislatura
regionale, l’approvazione della legge 22/2018, che si proporrà di disciplinare le competenze della
Regione in materia di politica linguistica.
Al di là delle generiche dichiarazioni d’intenti iniziali, ci sono alcuni aspetti del testo di legge
che sembrano suggerire un cambiamento, almeno per quanto riguarda la partecipazione pubblica.
L’Art. 6 infatti si propone di favorire la partecipazione pubblica nella definizione della politica
linguistica regionale, attraverso misure quali conferenze aperte da tenersi annualmente, la possibilità
di «sottoporre a consultazione pubblica le proposte di atti normativi e amministrativi in materia di
tutela, valorizzazione, promozione e diffusione» delle lingue dell’Isola, l’utilizzazione di strumenti
demoscopici per conoscere l’opinione dei sardi su argomenti di politica linguistica.
All’Art. 8 si parla di istituire una Consulta de su sardu che avrebbe come scopo la definizione
della grafia della lingua sarda. Si può quindi supporre che gli estensori della legge considerino la LSC
un esperimento concluso. Quanto alle caratteristiche del nuovo standard al comma 4 si legge:

La Consulta elabora una proposta di standard linguistico e di norma ortografica della lingua sarda e
ne cura l’aggiornamento. La proposta tiene conto delle macrovarietà storiche e letterarie campidanese
e logudorese, delle parlate diffuse nelle singole comunità locali, delle norme di riferimento adottate
dalla Regione a carattere sperimentale per la lingua scritta in uscita dell'Amministrazione regionale
e degli esiti della sua sperimentazione, ne propone gli ambiti e la tempistica di applicazione e gli
elementi di verifica della sua efficacia.

Si noti che vengono menzionate le due macro-varietà del sardo, campidanese e logudorese. Si
tratta di un dettaglio importante, visto che i sostenitori di LSC ne avevano spesso negato la stessa
esistenza, negando di conseguenza che la LSC fosse una varietà del gruppo logudorese (Cfr. §2). Il
resto del comma risulta però di non facile interpretazione. L’idea sembra quella di creare un nuovo
standard, ma quali caratteristiche debba avere resta indeterminato. Assumendo che non si vogliano
replicare da vicino le esperienze di LSU e LSC, si possono immaginare due sole altre opzioni: 1) uno
standard multidialettale che tenga conto del campidanese e del logudorese, inclusa la rispettiva
variazione interna, e l’esperienza della LSC, oppure 2) uno standard articolato in due norme, una per
il campidanese e l’altra per il logudorese, che tenga conto sia della variazione interna che
dell’esperienza della LSC (come proposto ad esempio in Comitau/Comitadu 2019). Qualunque
direzione si scelga, le criticità già discusse in merito alle precedenti proposte di standardizzazione
non potranno essere facilmente eluse.
Un ulteriore aspetto degno di nota emerge all’Art. 9, in cui si fa riferimento all’adozione del
Quadro comune europeo di riferimento (QCER) per l’elaborazione di certificazioni linguistiche.
Queste certificazioni dovrebbero poi essere adottate per la selezione del personale da destinarsi agli
sportelli linguistici (Art. 11, comma 4), per accertare la conoscenza della lingua da parte degli
operatori dei laboratori didattici extracurricolari (Art. 19, comma 2) e del personale docente di lingua
sarda (Art. 20, comma 1). Le criticità sono tante. La prima riguarda il sardo che sarà oggetto di
valutazione. Quale varietà di sardo verrà valutata? La conoscenza della LSC? La conoscenza del
nuovo standard? Se si trattasse della LSC, oppure di un nuovo standard unico a base logudorese, è
prevedibile una vigorosa resistenza da parte dei parlanti campidanesi, che considererebbero la misura
discriminatoria. In ogni caso, viste le difficoltà interpretative dell’Art. 8 in merito alla natura del
nuovo standard, non è possibile fare previsioni solide sotto questo profilo.
In generale, l’adozione del QCER per la valutazione delle competenze linguistiche dei sardi
appare inappropriata, dato che il QCER consiste di criteri per la certificazione linguistica di parlanti
L2. Anche se si può ritenere che i parlanti più giovani spesso non abbiano una competenza piena del
7
sardo, sarebbe inappropriato assimilarli ad apprendenti di una lingua seconda o straniera. Si tratta pur
sempre di parlanti bilingui, con un’acquisizione imperfetta ma provvisti di intuizioni native e le loro
competenze linguistiche non possono essere valutate con criteri concepiti per i parlanti L2 (Cfr. §3).
Una difficoltà di altro genere nasce dal fatto che queste certificazioni presuppongono un grado
avanzato di standardizzazione e un significativo corpus testuale, condizioni che non è chiaro se
possano verificarsi in tempi brevi per il sardo. Chiari indizi in questo senso si ricavano da molti
descrittori del QCER. Nella scala globale, ad esempio, troviamo riferimenti all’uso della lingua «for
social, academic and professional purposes» (livello C1) o alla comprensione di testi complessi «on
both concrete and abstract topics, including technical discussions» (livello B2). La voce ‘reading’
della scala di autovalutazione per il livello C1 recita poi «I can understand long and complex factual
and literary texts, appreciating distinctions of style».
Sempre in merito alla certificazione, si noti che agli operatori dei laboratori didattici
extracurricolari in lingua sarda si richiederebbe «un’adeguata conoscenza orale della lingua
certificata secondo le modalità previste dalla presente legge» (corsivo mio), (Art. 19, comma 2). Si
deve dunque prendere atto del fatto che verrà valutata anche la conoscenza orale dello standard. In
questo aspetto, la legge 22/2018 si spinge più in là delle precedenti, che se non altro lasciavano libertà
sulla varietà da utilizzare oralmente. Su questo punto valgono a maggior ragione tutte le
considerazioni precedenti sulla standardizzazione.

5. Politiche linguistiche per la Sardegna

L’implementazione della LSC oggi sembra aver raggiunto un’impasse, essendo utilizzata quasi
esclusivamente in una cerchia relativamente ristretta di simpatizzanti. Assumendo che uno standard
ortografico abbia successo solo se viene accettato e utilizzato dalla comunità linguistica di riferimento
(Cahill 2014; Karan 2014), possiamo ritenere, a distanza di quasi vent’anni, che la LSC abbia mancato
il suo obiettivo. La LSC può essere considerata un case study per esemplificare le criticità di politiche
linguistiche basate su uno standard unilettale in contesto di forte variazione linguistica. Cercheremo
di capire dove siano stati gli errori fatali dall’ideazione fino alla tentata implementazione dello
standard. Non mi soffermerò su aspetti più puramente linguistici, che ho trattato in Lai (2017, 2018a,
2018b) e risultano ugualmente analizzati in Calaresu (2002, 2008), Blasco Ferrer (2011), Lőrinczi
(2013). Mi concentrerò invece sui desiderata per una standardizzazione di successo.

5.1 Diglossia e implementazione di uno standard

La letteratura scientifica, da Fishman (1991) fino ai giorni nostri, ha concentrato la sua attenzione
sulle politiche linguistiche più indicate per arginare la deriva linguistica. Prima di iniziare la nostra
rassegna varrà quindi la pena di sottolineare che non sempre la creazione di uno standard è la misura
più adatta ad interventi di salvaguardia linguistica. Talvolta, può addirittura essere controproducente
(Fishman 1991; Karan 2014: 112). In questo, come in altri modi, la LSC è partita col piede sbagliato.
Come si è proceduto nella standardizzazione regionale? Il primo passo è stato quello di creare una
commissione che in breve tempo producesse uno standard ben definito, pronto per essere adottato.
La letteratura sull’argomento, però, sottolinea che la creazione di uno standard è uno delle ultime
misure in una strategia di lotta alla deriva linguistica, e che anzi può essere adottato solo a patto che
una serie di altri requisiti siano soddisfatti (Fishman 1991: 394-406). Diversamente, lo standard sarà
destinato al fallimento. La LSC non è stata un’eccezione a questa regola.
Come argomentato sopra, il sardo è da tempo una lingua in pericolo. I suoi parlanti sono già
in buona parte parlanti heritage e lo saranno, presumibilmente, ancora di più in futuro. Negli ultimi
decenni si è passati da una situazione di diglossia stabile con il sardo saldamente ancorato in diversi
domini come la famiglia, gli amici e alcuni ambiti lavorativi, a una situazione di diglossia instabile

8
con la progressiva erosione da parte dell’italiano di tutti quegli ambiti fino a poco prima di pertinenza
esclusiva del sardo. Pensare all’implementazione di uno standard prima di avere stabilizzato la
diglossia è un azzardo, perché equivarrebbe a «gonfiare costantemente aria in uno pneumatico che
presenta ancora una foratura» (Fishman 1991: xii) 14. Allo stato attuale il sardo non presenta quella
solidità che è necessaria prima di procedere all’elaborazione di uno standard. Prima di procedere alla
creazione di uno standard sarebbe stato necessario mettere in campo misure di salvaguardia della
lingua parlata. Talvolta, però, la diglossia viene vista come qualcosa da eliminare, e non come
un’opportunità da parte dei pianificatori (Cfr. Fishman 1991: 395; Dell’Aquila/Iannàccaro 2004:
155).
In ogni caso, una diglossia stabile è di fondamentale importanza proprio perché testimonia
una base di bilinguismo relativamente solida sulla quale costruire (Fishman 1991: 399-400).
Bisognerebbe quindi pensare innanzi tutto a misure di ripristino o recupero della lingua parlata, in
particolare a livello di socializzazione primaria.

5.2 Problematiche in un approccio unilettale

Un altro punto critico delle politiche linguistiche regionali è stato la scelta dell’approccio da adottare
nello sviluppo dello standard. Gli approcci da adottare sono vari: unilettale, dialettale, multidialettale
e unilettale su una varietà artificiale (Karan 2014; Jones/Mooney 2017). Con un approccio unilettale
si seleziona un’unica varietà all’interno di una rosa di varietà della stessa lingua da prendere come
riferimento per lo sviluppo dello standard (Cahill 2014; Karan 2014). L’approccio opposto è quello
dialettale, che prevede invece diverse ortografie e grammatiche, una per ciascuna varietà linguistica
(Karan 2014; Jones/Mooney 2017). Nell’approccio multidialettale invece i sistemi fonologici delle
diverse varietà vengono comparati per ottenere uno standard che dia conto di tutte le varietà e possa
quindi essere adottato da diverse comunità (Simons 1977; Seifart 2006; Karan 2014). L’ultimo
approccio è come quello unilettale, ma basato su una varietà artificiale, che non coincide con alcun
dialetto preesistente (Karan 2014).
Ciascun approccio può essere problematico e dar luogo a effetti opposti rispetto a quello auspicato.
Non sono intercambiabili e la scelta deve essere ben soppesata da un punto di vista sociolinguistico,
perché un errore di valutazione può avere ripercussioni negative durevoli e rendere difficili successivi
interventi di recupero. La prima cosa da tener presente è la variazione interna. La presenza di forte
variazione interna è cosa comune nelle lingue del mondo, così come è comune osservare un
continuum linguistico fra le diverse varietà e non un confine netto fra un gruppo linguistico e un altro.
La situazione del sardo non è quindi eccezionale (Cfr. §2). Ciò non toglie che si tratti di una situazione
problematica che spesso rende difficile (se non impossibile) l’implementazione di uno standard unico.
Ma come si dovrebbe procedere in questi casi? La difficoltà spesso non è tanto linguistica quanto
sociolinguistica. Ci troviamo di fronte a varietà concorrenti, ciascuna rappresentante una porzione
della comunità. I pianificatori regionali hanno scelto di sviluppare uno standard utilizzando come
varietà di riferimento una varietà del gruppo logudorese, hanno quindi scelto un approccio unilettale.
Nel caso dell’approccio unilettale, la scelta della varietà può essere fatta sulla base di vari parametri:
il numero di parlanti, il prestigio, il peso economico e/o politico della comunità di riferimento. Nel
caso del sardo il numero di parlanti dei due macro-gruppi è difficile da stabilire, perché ogni confronto
è complicato dal contrasto tra aree rurali (più sardofone) e aree urbane in cui l’italiano predomina. In
entrambe le aree poi bisogna fare i conti con la presenza ormai considerevole di parlanti heritage,
talvolta con competenza solo passiva del sardo (Cfr. §3). C’è poi l’aspetto del prestigio della varietà.
I fautori della LSC insistono spesso sul prestigio del logudorese, sulla base della presenza di una certa
tradizione letteraria in lingua logudorese. Ma l’esistenza di una letteratura è un conto, il suo eventuale

14
«[…] constantly blowing air into a tire that still has a puncture», Fishman (1991: xii).
9
prestigio un altro. Spesso, si sa, la bellezza è negli occhi di chi guarda: la maggiore storia letteraria
del sardo riporta giudizi non entusiastici sul valore letterario degli autori in questione (Tola 2006: 42,
53), e Wagner (1997: 85 [1950]) ne ridimensionava il potenziale per la formazione di una lingua
letteraria. In una lingua che per secoli è stata soprattutto una lingua orale sembrerebbe opportuno
guardare anche e soprattutto alla poesia orale, che risulta particolarmente solida a sud più che a nord
(Cfr. Zedda 2009). Naturalmente, il prestigio di una varietà si può manifestare in molti modi e
l’aspetto letterario è solo una delle possibilità. Una varietà può ad esempio sperimentare il cosiddetto
prestigio occulto. Se ci soffermiamo sulle varietà sarde, è interessante notare che vari fenomeni
linguistici si stanno estendendo attraverso il campidano arrivando sempre più a nord (Cfr. Wagner
1997: 352-353 [1950]). È il caso ad esempio della rotacizzazione di /d/ e /t/ intervocalici derivati
dall’occlusiva alveolare del latino (tapping), che si sta estendendo (Contini 1987, carta 11; Cossu
2013, carta 9), o l’estensione della regola che tratta le occlusive sonore del lessico tradizionale come
quelle da prestito (Wagner 1984: 139, 168-170 [1941]; 1997: 285 [1950]) partita da Cagliari e ormai
presente anche a nord del Campidano. Questi esempi mostrano il fatto che le parlate campidanesi
meridionali esercitano un certo fascino verso le varietà immediatamente più a nord. Resta l’ultimo
criterio, quello del peso economico e/o politico della comunità di riferimento: su questo non si può
che essere concordi sul fatto che l’area campidanese, con la città di Cagliari e l’hinterland li presenti
entrambi a scapito dell’area logudorese. Quindi la scelta di un approccio unilettale a base logudorese
non era pacifico e anzi queste difficoltà avrebbero suggerito maggiore cautela.
Ma quali sono i rischi dell’adozione di un approccio unilettale in una situazione di variazione
linguistica? Il rischio principale è che la scelta di una varietà sia considerato un favoritismo deliberato
agli occhi dei parlanti delle varietà non coinvolte e che questi non siano quindi disposti ad adottarla
(Karan 2014: 116). Questo fenomeno in Sardegna si è manifestato molto presto. L’accoglienza
riservata alla LSU avrebbe dovuto spingere i pianificatori e gli stakeholders istituzionali ad un passo
indietro sostanziale, rivedendo l’approccio di fondo. Si è scelto invece di non affrontare il problema,
mantenendo in sostanza la stessa proposta e puntando piuttosto su una diversa strategia di
comunicazione. Come è ovvio, la mancata considerazione del gruppo campidanese non è stata bene
accolta. La (ex) Provincia di Cagliari, che fece approvare il proprio standard (Arrègulas) in aperto
contrasto con le scelte regionali, è la certificazione del fallimento sotto questo aspetto (Cfr. §5.2).
L’altro rischio importante nell’utilizzo di un approccio unilettale è di tipo più linguistico. Lo
standard ortografico adottato potrebbe risultare in un sistema opaco per i parlanti delle altre varietà,
e quindi troppo impegnativo per risultare in una effettiva alfabetizzazione (Karan 2014: 116). Anche
questo rischio è stato deliberatamente ignorato. Per un parlante campidanese, la LSC non è una
ortografia coerente:

[…] no grapheme-to-phoneme mapping can be consistently employed in mapping speech onto the
LSC and vice versa; rather, it is necessary to memorize the spelling of every single word. The task is thus
burdensome and might conceivably hinder literacy, Lai (2017: 187).

A ulteriore prova delle conseguenze negative che questo approccio ha avuto sui parlanti, vale
la pena di sottolineare che, come riportato in Lőrinczi (2013), insegnanti campidanesi hanno
lamentato come l’implementazione della LSC nelle comunità del sud abbia aumentato l’incertezza e
l’insicurezza dei parlanti rispetto alla propria varietà linguistica. Questa testimonianza è di
fondamentale importanza perché avvalora l’idea che la LSC sia opaca per un campidanese ed è noto
che ortografie opache scoraggino l’alfabetizzazione (Cfr. Karan 2014: 116).
Possiamo concludere dicendo che con la LSC, una serie di rischi paventati nella letteratura
specializzata si sono avverati. La scelta di favorire il logudorese ha suscitato una reazione di rifiuto
nei parlanti campidanesi, con la conseguente mancata adozione, giustificata peraltro anche da un
punto di vista linguistico dall’opacità del sistema ortografico risultante.

10
5.3 Sperimentazione e testing

Un altro aspetto problematico riscontrabile nello sviluppo degli standard regionali è la mancanza di
sperimentazione (Calaresu 2008). Prima di procedere all’implementazione di uno standard è infatti
bene testarlo su un’ampia rappresentanza della comunità linguistica (Karan 2014: 112-113). Ci si
rende spesso conto di quale sia la soluzione ottimale solo dopo che le diverse opzioni sono state testate
con diverse tipologie di parlanti, passando se necessario per un ciclo di sviluppo articolato.
Come ricordato in Karan (2014: 113), spesso durante i test emergono deviazioni dalla norma
proposta, ma queste deviazioni sono di particolare importanza per i pianificatori perché riflettono le
intuizioni native dei parlanti e mettono in luce potenziali problemi dovuti a un’analisi linguistica
errata da parte dei pianificatori. La sperimentazione avrebbe reso palesi le difficoltà dei parlanti
campidanesi con uno standard logudorese, facendo emergere ad esempio tutte le problematicità legate
alla mancata corrispondenza già menzionata fra grafema e fonema. Di conseguenza, l’adozione di
uno standard che non ha mai conosciuto alcun testing lo espone al rischio di un rigetto da parte della
comunità a standard già approvato, e spesso a seguito di ingenti investimenti economici 15.

5.4 Partecipazione degli stakeholders

C’è un ultimo punto, legato al precedente, che è stato poco considerato dai pianificatori ed è la
partecipazione della comunità nella definizione dello standard. La comunità linguistica nelle sue
articolazioni è il target dello standard ortografico che si sta sviluppando. Non si dovrebbe quindi
procedere alla sua elaborazione escludendo i parlanti dal processo decisionale. Escludendo i parlanti
e/o offrendo una informazione parziale sui metodi adottati non aggira affatto il problema
dell’accettazione di uno standard poco rappresentativo. Le criticità si ripresenteranno con più forza
quando sarà forse troppo tardi, e lo scontro sarà ormai in una fase così avanzata da non poter essere
più ricomposto. Uno standard ortografico può dirsi di successo solo se viene accettato dalla comunità:

Se un gruppo non desidera usare una ortografia, non importa quanto sia linguisticamente
soddisfacente: non la userà. Quindi “ciò che la gente vuole” non è solo un altro fattore in più, è il
fattore critico nell’accettazione di un’ortografia, Cahill (2014: 16, tr. mia).

Ma come bisogna procedere per far sì che uno standard venga accettato e la comunità lo senta come
suo? Lo si fa favorendo la partecipazione attiva degli stakeholders delle diverse aree interessate e
fornendo un’informazione corretta e esaustiva su come si vuol procedere. Lo si fa tenendo da conto
le opinioni e le critiche dei diversi appartenenti delle comunità locali, dalla società civile agli
intellettuali, cercando soluzioni alternative ad aspetti controversi.
Su questo punto gli errori dei pianificatori sono stati tanti e di diversa natura. Primo, non si è
provveduto a comunicare fin da subito che l’idea era quella di adottare un approccio unilettale con il
logudorese come varietà di riferimento. La ragione è ovvia: era fin troppo prevedibile che la seconda
metà dell’Isola (di varietà campidanese), più popolosa, più influente politicamente e economicamente
non avrebbe mai accettato di essere esclusa. Invece di cambiare completamente i piani e arrivare ad
un compromesso che fosse gradito anche al sud, si è preferito continuare con l’idea originaria
contenuta nella LSU (standard unilettale logudorese). La comunicazione però è sostanzialmente
cambiata, sostenendo più volte all’interno del documento della LSC che si sarebbe seguito un

15
Si noti che nei vari documenti programmatici della Regione, compresa la legge 22/2018, si fa riferimento alla
sperimentazione dello standard. Inutile dirlo, sarebbe stato più utile porsi il problema prima di approvare lo standard in
questione.
11
approccio diverso, quello multidialettale (Cfr. LSC 2006: 5-6, 13-14). Ma tale promessa non è stata
mantenuta, e questo non è sfuggito agli stakeholders. Questo atteggiamento è stato visto come una
provocazione, causando il pronunciamento immediato di numerosi esperti che hanno notato la
discrepanza fra le intenzioni dichiarate e la realtà dei fatti. Non serviva comunque un esperto perché
fosse chiaro al parlante campidanese che la varietà scritta che si trovava davanti era del gruppo
logudorese: le varietà del gruppo campidanese presentano un sistema completamente diverso (in
diacronia e in sincronia, Lai in stampa) e non si può pensare che questo aspetto potesse passare
inosservato.

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