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Cesare Beccaria, il primo grande critico della pena di morte

Profondamente influenzato dagli illuministi francesi e convertito


alla filosofia grazie a Montesquieu nel 1763 scrisse:Dei delitti e
delle pene, un'opera contro la pena di morte e la tortura che
ebbe un influsso enorme sulla cultura e sulla civiltà europea e gli
elogi di Voltaire, di Denis Diderot e di Jean-Baptiste d'Alembert.
Ebbe una diffusione e una fortuna straordinarie: venne tradotto,
oltre che in francese, anche in inglese, in tedesco e in spagnolo.
L'imperatrice Caterina II di Russia invitò il giurista milanese a
Mosca e promosse una riforma del codice penale ispirata ai suoi
principi.

La critica della pena di morte


Nato a Milano nel 1738 da nobile famiglia, Cesare Beccaria studiò
nel Collegio dei Gesuiti di Parma e si laureò in giurisprudenza a
Pavia. Nel 1768 venne nominato professore di economia politica
alla Scuola Palatina di Milano. Muore a Milano nel 1794.
L'obiettivo fondamentale di Beccaria fu quello di mostrare come i
codici e le procedure penali del suo tempo costituissero un
insieme di abusi dovuti alla superstizione religiosa, alla violenza
sociale e politica, alla crudeltà dei costumi.
Il presupposto teorico del trattato di Beccaria era che gli uomini si
erano riuniti in società sulla base di un patto, in virtù del quale
essi avevano ceduto parte della loro libertà ("la minima porzione
possibile") per averne in cambio sicurezza.
La società, quindi, aveva sì il diritto di punire coloro che
attentavano alle sue regole, ma la pena di morte era illegale
perchè nessuno di coloro che aveva aderito al patto istitutivo
della società aveva rinunciato al diritto alla vita.
Contro le pene disumane
Lo stesso discorso valeva per le pene disumane (come la tortura).
Fra le garanzie che la società doveva dare agli individui, c'era
anche quella che i cittadini non dovevano essere trattati come
colpevoli finché non fosse stata provata la loro colpa. Beccaria
realizzò una completa laicizzazione del diritto penale che doveva
occuparsi di reati e non di peccati; allo stesso modo il giudice non
doveva più essere concepito come un uomo ispirato, ma come il
tutore di un dato ordinamento giuridico.
E come a certi reati devono corrispondere certe pene, così i
cittadini, uguali di fronte alle leggi, devono essere sottoposti alle
stesse pene, quale che sia la loro condizione sociale.

Processo e garanzie
"Una crudeltà, consacrata dall'uso della maggior parte delle
nazioni" scrive Beccaria "è la tortura del reo mentre si forma il
processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le
contraddizioni nelle quali incorre. Un uomo non può chiamarsi reo
prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la
pubblica protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia
violato i patti, co' quali gli fu accordata. […] Non è nuovo questo
dilemma: o il delitto è certo, o è incerto: se certo, non gli conviene
altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti,
perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi
tormentare un innocente, perché tale è, secondo le leggi, un
uomo, i cui delitti non sono provati".
(da Dei delitti e delle pene)

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