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La tortura e la pena di morte nella storia

La pena di morte esiste dall’inizio dell’umanità, più o meno in tutte le società, come la tortura e la schiavitù .
Le prime tracce della tortura risalgono già agli antichi Egizi, che fin dal XX secolo a. C. usavano metodi
crudeli (soprattutto bastonate e frustate) per intimorire, punire o far confessare i malfattori o i nemici.

La prima testimonianza scritta dell’uso della pena di morte è rappresentata dal Codice di Hammurabi.
Anche gli Egizi usavano infliggere la pena di morte. Al contrario di quanto stabilito dal Codice di
Hammurabi, nell’antico Egitto le sentenze erano però uguali per tutti, indipendentemente dalla posizione
sociale o situazione economica. Solitamente le esecuzioni erano eseguite per annegamento del reo nel
fiume Nilo, rinchiuso in un sacco o mediante decapitazione.

Ma fu con i Greci, e soprattutto con i Romani che la tortura prese piede: non a caso la parola tortura deriva
dal latino torquere (torcere il corpo). Inizialmente applicata agli schiavi (per i liberi la credibilità era
convalidata dal giuramento) poi si estese con l’assolutismo imperiale: fu usata sui rei di lesa maestà, sui
maghi e sui bugiardi. La tortura diventò uno strumento giudiziario perfettamente legale: la confessione era
indispensabile, nel diritto romano, per formulare una condanna. La flagellazione, con la frusta formata da
lunghe cinghie di pel di bue che tagliavano come un coltello, era la più utilizzata. Ma vi erano anche altri
metodi: gli schiavi che avevano tentato di fuggire erano marchiati a fuoco sulla fronte; sotto l’imperatore
Costantino allo schiavo colpevole di aver sedotto un uomo o una donna liberi veniva versato piombo fuso in
gola. La stessa crocifissione di Gesù (cruciare significava “tormentare”) era uno dei terribili supplizi riservati
ai malfattori. La rinascita del diritto romano, alla fine del XII secolo, riportò in auge la tortura come
strumento giudiziario (sia punitivo, sia per ottenere confessioni). Varie erano le tecniche: la più comune era
quella della “corda”, cioè sollevare dal suolo il sospetto con una corda legata ai polsi facendo poi precipitare
il malcapitato da varie altezze, disarticolando gli arti superiori, oppure la “stanghetta”, con cui si
comprimeva la caviglia fra due tasselli di metallo; “le cannette” inserite fra le dita delle mani e poi strette
con cordicelle; le tenaglie roventi con le quali si strappavano le carni o l’acqua fatta ingerire, con la forza, a
litri. Ma alla tortura si ricorreva solo in casi eccezionali: spesso era sufficiente la sola minaccia del supplizio;
in ogni caso i manuali dell’epoca raccomandavano che venisse fatta in maniera limitata, senza menomare la
vittima in modo permanente, e che ogni sessione di tortura non dovesse durare più di 10 minuti. Alla fine,
se l’eretico confessava, doveva pentirsi davanti alla comunità con un “atto di fede” (auto da fé, in
portoghese) indossando un saio nero con un alto copricapo. In caso contrario, c’era il carcere a vita o il
rogo. La pratica della tortura continuò a lungo.

Nel 1764 il letterato ed economista Cesare Beccaria pubblicò un libro divenuto famoso, Dei delitti e delle
pene. Per primo si espresse contro la pena di morte (e la tortura), giudicandola non soltanto un’usanza
barbara e incivile, ma anche inutile rispetto allo scopo che si vuole prefiggere, cioè la difesa della società dai
criminali. L’opera incontrò un notevole successo ed ebbe vasta eco in tutta Europa. La Milano di quell’epoca
l’apprezzò; La Francia la vide come un segno di progresso; la zarina Caterina II di Russia la mise subito in
pratica. Sull’onda del successo di questa proposta di riforma giudiziaria, il Granducato di Toscana abolì per
prima la pena di morte, il 30 novembre 1786. Stessa decisione prese il Regno d’Italia nel 1889. Durante il
fascismo però la pena di morte fu reintrodotta (1931). Fu dichiarata inammissibile nel 1948, con l’entrata in
vigore della Costituzione italiana.
Nel 2007, con una legge costituzionale, è stata definitivamente cancellata dagli ordinamenti italiani.
L’articolo 27 della Costituzione recita infatti: «Non è ammessa la pena di morte». con 11.000 giorni di
ritardo, nell’estate del 2017 è stato introdotto nel codice penale il reato di tortura. Sono passati 34 anni da
quando, il 10 dicembre 1984, l’Assemblea generale ha adottato la Convenzione delle Nazioni Unite contro
la tortura. Quel testo è rimasto purtroppo un pezzo di carta. Il numero dei paesi che l’hanno ratificato,
impegnandosi a prevenire e punire la tortura, è solo di poco superiore a quello dei paesi in cui è praticata.

La tortura non è quindi affatto un ricordo del passato, un istituto mostruoso proprio dei sistemi
premoderni. Al contrario, essa è tornata ad essere, anche nei nostri civili ordinamenti, una pratica diffusa e
niente affatto eccezionale, pur se stigmatizzata dal diritto internazionale come crimine contro l’umanità. La
questione della tortura non è, quindi, un problema teorico, appartenente alla tradizione classica,
settecentesca, illuministica del garantismo penale. Essa è bensì una questione aperta, drammaticamente,
dalle innumerevoli e sempre più numerose denunce di sevizie su arrestati o detenuti, anche nei Paesi di
democrazia avanzata. Quest’uso barbaro, inumano e sconcertante non appartiene a un passato ormai
superato; concerne invece il presente, è tema dei nostri giorni.

Occorre allora, oggi, distinguere due tipi di torture, entrambi strutturali ma sotto più aspetti opposti. Il
primo tipo di tortura è quello praticato in maniera occulta e con la consapevolezza della sua illegalità, nel
chiuso delle camere di sicurezza. È una pratica poliziesca, purtroppo niente affatto eccezionale, che si
consuma in segreto e la cui “cifra nera” va ben oltre le aperte denunce, di fatto scoraggiate dal rischio per i
denuncianti di essere perseguiti, in mancanza di prove, per calunnia. Ciò che è eccezionale è la sua
rivelazione. Si ricordino, in Italia, i pestaggi, le lesioni gravissime, le vessazioni e le mortificazioni inflitte a
Genova, nel 2001, a giovani manifestanti illecitamente arrestati e ampiamente documentate grazie alla
presenza di giornalisti e fotografi. C’è poi un secondo tipo di tortura che si è venuto affermando in questi
anni e che è ancora più inquietante e disgustoso: la tortura non già come pratica isolata, occultata,
consapevole della propria illiceità e perciò imprevista e imprevedibile, bensì come metodo strategico di
inquisizione, di punizione e di intimidazione generale nei confronti del nemico o di chi è sospettato tale,
adottato in esecuzione di esplicite direttive e perfino codificato in appositi manuali.

È il modello di tortura praticato nelle carceri americane di Guantanamo e di Abu Ghraib e in altre decine di
carceri sparse in tutto il mondo: dalle mortificazioni morali e sessuali alla privazione del sonno,
dall’applicazione di scosse elettriche fino alla morte per sevizie provocata a decine di arrestati.

Nel 2014 sono 79 i Paesi che nel mondo praticano la tortura e negli ultimi cinque anni vi hanno fatto ricorso
sistematicamente in 141. Lo denuncia Amnesty International lanciando la Campagna globale "Stop alla
tortura". Nonostante la Convenzione Onu contro questa pratica sia stata ratificata a partire dal 1984 da 155
Paesi, "la vietano per legge, la facilitano nella pratica. Ecco la doppia faccia dei governi quando si tratta
della tortura", afferma Antonio Marchesi, presidente della sezione Italia dell'Organizzazione per i diritti
umani.

Il Messico, il Marocco, l'Uzbekistan (dove Amnesty non può entrare), le Filippine e il Marocco sono i Paesi
sui quali si concentrerà la campagna a livello globale. Per quanto riguarda la Svizzera - dove non vi è tortura
- secondo Amnesty occorre concentrarsi essenzialmente sulla prevenzione. La Confederazione è fra l'altro
invitata a non espellere persone in stati in cui viene praticata la tortura, ha dichiarato Patrick Walder di AI
Svizzera in una conferenza stampa a Berna.Berna ha ratificato nel 1986 la Convenzione dell'ONU in materia,
tuttavia Amnesty e altre organizzazioni criticano il fatto che la tortura e il maltrattamento dei carcerati non
rappresentino un reato a sé stante. La Svizzera potrebbe anche attivarsi maggiormente a livello
internazionale per mettere fine alla tortura; in questo contesto Walder accoglie positivamente il fatto che,
assumendo la presidenza dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), la
prevenzione di questa pratica sia stata dichiarata una priorità.

Io sono contro la tortura perché è una pratica disumana e per giunta non risulta essere nemmeno un
metodo di interrogatorio valido in quanto un uomo, sotto tortura, ammette anche reati di cui non è
responsabile. Inoltre la tortura di solito viene praticata generalmente verso gli oppositori di un regime e
nessun uomo merita un simile trattamento a causa di un reato di opinione.

Ogni uomo secondo il mio parere ha diritto a una sua dignità e nessuno ha il potere di poterla togliere ad un
altro uomo anche se quest’ultimo ha commesso i peggiori crimini o reati. Uno stato cosiddetto democratico
non può abbassarsi a condannare una persona a essere torturata od uccisa perché una democrazia non
deve adottare questi metodi barbarici e arretrati.

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