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I modelli rispondono alla domanda di base: che cos’è una emozione? Ogni modello pone il focus su un
aspetto del funzionamento emotivo, così da portarci a osservarne le peculiarità.
Teoria differenziale
Domanda alla base: come sono fatte le emozioni? (domanda che si è posta William James)
Questa teoria deriva dalle intuizioni di Darwin rispetto al valore evoluzionistico delle espressioni facciali
delle emozioni (ovvero come finalizzate a raggiungere obiettivi di sopravvivenza come: protezione,
raggiungimento obiettivi e comunicazione) e alla successiva teorizzazione di James-Lange. Queste vedono le
emozioni come stati precisi e distinti che emergono da stati di attivazione fisiologica (arausal). Quindi siamo
tristi perché piangiamo (stato di attivazione). Sebbene ci siano differenze sul numero, tutti concordano che
fin dalla nascita abbiamo almeno 6 emozioni di base: felicità, rabbia, tristezza, disgusto, paura e sorpresa.
Che tipo di domande e riposte ci offre la teoria differenziale?
1) Le emozioni di base costituiscono il nostro sistema motivazionale primario, perché oltre a farci
sentire una certa emozione, ci porta ad una azione, a rispondere.
2) Ogni emozione di base è distinta dalle altre e possiede programmi fisiologici e neurali innati che
maturano nel tempo.
3) Ogni emozione di base organizza processi cognitivi, percezioni, azioni e strategie di coping.
4) A ciascuna emozione corrisponde a specifiche espressioni facciali
5) Le emozioni hanno una funzione auto-organizzativa che sostiene lo sviluppo di quei comportamenti
che partecipano alla costituzione della personalità.
6) Ciascuna emozione ha un livello di attivazione (arausal) e intensità diversi, che aiutano a definire le
differenze individuali.
Emozioni > fenomeni con base biologica, discreti (ergo distinguibili da specifici indicatori) e complessi
costituiti da più componenti che a loro volta hanno caratteristiche e funzioni distinte. L’emozione è inoltre un
fenomeno:
1) Di natura psicofisiologica
2) Di natura cognitiva
3) Di natura socio-cognitiva
4) Una forma di connessione intersoggettiva
Altri autori più che vedere le emozioni come stati distinti, le vedono organizzate all’interno di continuum:
per esempio il valore edonico può essere inteso nei termini di piacevolezza vs spiacevolezza.
Dal punto di vista dello sviluppo del bambino, possiamo vedere tre fasi di un parallelo sviluppo emotivo:
1) Fino ai due mesi > le emozioni come disgusto, sconforto e interesse sono finalizzate a comunicare i
propri bisogni e sono prevalentemente sensoriali.
2) Fino ai 9 mesi > si aggiungono emozioni nuove come paura, collera e tristezza, vissute in modo
percettivo-affettivo.
3) Dai 9 ai 24 mesi > con una maggiore consapevolezza del Sé, emergono emozioni come la colpa e la
vergogna che presuppongono un tipo di esperienza cognitivo-affettiva
Dopo i due anni, uno dei compiti principali del bambino è la regolazione emotiva.
Riassumendo possiamo dire che la teoria differenziale spiega le emozioni come: stati innati, distinti,
caratterizzati da precipui indicatori ed espressioni facciali che ci permettono di distinguerle e ci offrono un
codice universale condiviso basato fin dal principio su indicatori specifici.
Le teorie funzionaliste
Domanda alla base: a cosa servono le emozioni?
Aspetti in comune con teoria differenziale > emozioni hanno obiettivi discreti e specifici
Aspetti in contrasto > emozioni hanno una natura relazionale che si esprime fra individuo e ambiente, sono
caratterizzate da un processo dinamico e valutativo dell’ambiente (appraisal): per esempio la rabbia ha la
funzione di cambiare o affrontare qualcosa nella relazione fra individuo e ambiente. La felicità di mantenere
qualcosa fra l’individuo e l’ambiente e la paura di allontanare o terminare la relazione con l’ambiente.
Questo processo valutativo è per lo più inconsapevole, ma con il tempo può raggiungere livelli più alti di
consapevolezza. Con lo sviluppo emotivo, cambiano anche i processi psicologici sottostanti alla dinamica
funzionale di ciascuna emozione: se nei primi mesi la funzione primaria dell’emozione è principalmente
quella di comunicare benessere o malessere, a due-tre mesi il sorriso del bambino non emergerà
esclusivamente da stimoli endogeni di benessere, ma avrà una funzione sociale e intorno ai sei-sette mesi,
questo sorriso non sarà più indirizzato indistintamente, ma riservato ai propri caregiver. Intorno al primo
anno e mezzo, la valutazione ambientale e l’utilizzo dei segnali emotivi, aiuteranno il bambino a calibrare il
proprio comportamento, difatti la teoria funzionale pone l’accento su come le emozioni siano:
1) Rette da scopi di natura adattiva
2) Ciascuna permette un processamento dell’informazione (appraisal) che serve a valutare le
circostanze e in secondo luogo a organizzare una conseguente azione che mantenga, cambi o
respinga gli obiettivi individuali e la relazione con l’ambiente.
3) Nella relazione fra bambino e ambiente, il bimbo è in grado di cogliere regolarità e violazioni,
rispondendo a queste con espressioni motive. Questo gli permette di sviluppare il senso del sé grazie
anche alla conquista di emozioni più complesse come orgoglio, colpa e vergogna.
4) Aspetto fondamentale di questa teoria > le emozioni sono strumenti di adattamento e questa è la loro
funzione, per esempio lo sconforto che può provare un insegnante ha come effetto sull’ambiente una
lezione più noiosa ecc. Quindi questa teoria pone l’accento sull’effetto che produce una emozione e
questo è solitamente un aspetto poco considerato poiché spesso le teorie si concentrano
sull’esperienza soggettiva.
5) Negli appunti ho scritto che è un modello che si basa sulla teoria darwiniana
Emozioni come apprese e determinate in modo più o meno forte dalla cultura
Interesse per i processi di socializzazione e relazionali del bambino e come questi influenzino le
competenze emotive.
Conoscenze
Abilità di comportamento
Saper interpretare ed espriremere le azioni e i comportamenti emotivi
Saper controllare l’espressione di emozioni inadeguate (es. impulsive)
Saper esprimere quelle adeguate in modo spontaneo
Saper riconoscere i termini del vocabolario emotivo
Saper fronteggiare le emozioni dolorose senza perdere la propria organizzazione
Secondo Denham tre sono gli elementi per comprendere la qualità della nostra competenza emotiva:
1) Espressione delle emozioni
2) Comprensione delle emozioni
3) Regolazione
Secondo Carolyn Saarni per concettualizzare lo sviluppo della competenza emotiva bisogna prendere in
considerazione il legame tra: componente emotiva e componente sociale. Per capire come il bambino possa
diventare un soggetto emotivamente compentente dobbiamo riferirci alle componenti della competenza
emotiva:
1) Consapevolezza del proprio stato emotivo
2) Sapere riconoscere e discriminare le emozioni altri
3) Saper usare il lessico emotivo della propria cultura ed essere in grado di acquisire script emotivi
associati ai diversi ruolo sociali. Il lessico emotivo può essere personale, quindi specifico di quella
persona, oppure derivare dalla cultura di riferimento.
4) Coinvolgimento empatico
5) Capire che il proprio e altrui stato emotivo interiore non corrisponde necessariamente alla
manifestazione emotiva esperieriore. Capire che i propri comportamenti emotivi possono avere un
impatto sociale
6) Saper affrontare in modo adattivo le emozioni negative usando strategie di autoregolazione che
permettono di ridurne l’intensità o la durata
7) Essere consapevoli che le relazioni sono definite anche dalle emozioni espresse e dalla reciprocità di
queste nella relazione
8) Capacità di autocontrollo emotivo: avere controllo e padronanza delle proprie esperienze emotive e
saperle accettare. L’autocontrollo implica sempre una parte di accettazione dell’emozione.
Ciò che ci suggeriscono questi contributi è che l’acquisizione della competenza emotiva è influenzata da
fattori come il temperamento, il comportamento dei genitori, l’interazione sociale e familiare. Quindi i
processi di socializzazione delle emozioni, dove concorrono genitori, pari e insegnati, giocheranno un ruolo
fondamentale nel processo di apprendimento della vita emotiva e sociale e nella crescita individuale.
Nonostante la loro eterogeneità possono essere classificati in base alla funzione che svolgono:
o gli emblemi sono gesti simbolici poiché esprimo concetti che possono essere espressi anche
a parole, ma sono facili da comprendere anche in assenza di queste. Un esempio è il gesto
dell’”ok”.
o gesti di illustrazione > ossia il gesticolare che accompagna il discorso, può essere volontario
o involontario ed è un canale espressivo capace di abbassare il livello di attivazione, infatti
nei momenti di agitazione si tende a gesticolare troppo
o gesti regolatori (annuire o avvicinarsi) segnalano il tempo di uno scambio verbale, infatti
hanno la funzione di regolare la comunicazione e sono importanti per la co-regolazione.
o gesti adattori, toccarsi il viso, hanno la funzione di facilitare l’adattamento della persona per
esempio abbassando i livello di attivazione, invece se eccedo in questi gesti ho l’effetto
opposto, aumento l’attivazione.
Oltre ad essere associati alla natura dell’emozione, è soprattutto associato alla loro intensità: quando
abbiamo un alta intensità emotiva la persona è portata in modo autoatico a utilzizare una serie di
gesti. Infatti se dobbiamo rispondere alla domanda “cosa esprimono i gesti?” diremmo che
esprimono l’intensità di una emozione, ma che non ci dicono niente sulla tipologia dell’emozione.
Tutti i gesti hanno la funzione di connetterci con gli altri e di calmare il livello di attivazione.
Il bambino mostra prevalentemente gesti involontari, poiché quelli volontari (emblemi ecc) si
evolvono più avanti nel tempo anche per il fatto che sono influenzati culturalmente.
Prossemica
Ossia l’uso dello spazio e della distanza interpersonale come marcatori dello scambio emotivo
Vicinanza spaziale > premessa per esprimere il bisogno di mantenere il contatto
L’equilibrio fra movimenti di avvicinamento e allontanamento è un importante segnalatore della
qualità emotiva di uno scambio relazionale
Sistema aptico
Riguarda le azioni di contatto corporeo con gli altri, come per esempio l’accarezzare, e manifesta un
bisogno di legame e supporto affettivo nella relazione.
Può avere qualità diverse, per esempio può connotarsi come contatto traumatico, quando lo diventa?
Finchè c’è reciprocità abbiamo emozioni con una valenza edonica positiva, nel momento in cui il
bambino manifesta disagio, abbiamo oltrepassato questo confine
Nella prima infanzia questo sistema svolge un ruolo fondamentale nella costruzione della sicurezza
del legame e sussume un numero significativo di segnali emotivi
È un sistema che attiva gli ormoni che ci tranquillizzano
I canali espressivi hanno una funzione biunivoca: sia interpersonale, quindi comunicare un’emozione, sia
soggettiva, quindi nell’intensificare o decifrare l’emozione. Quando parliamo del livello non verbale, ci
riferiamo principalmente al livello di attivazione (arausal) che risulta meno controllabile, difatti il livello
cognitivo è meno implicato.
L’intenzionalità si trova in misura minore nell’espressività non verbale, questo non significa che non siamo
consapevoli quando esprimiamo emozioni attraverso i canali non verbali: per esempio il volto è il canale non
verbale sulla quale possiamoe sercitare un maggior controllo e attuare un certo grado di dissimulazione. La
voce invece è il canale più difficile da controllare e in questo senso rivela di più i nostri stati emotivi. I canali
non verbali non sempre permettono una facile identificazione di quale emozione si sta provando, piuttosto
sono indicatori del generale livello di attivazione dell’organismo. Solo il volto è una eccezione poiché le
espressioni permettono di esprimere la qualità dell’emozione, ossia il tipo. Tuttavia per comprendere il
significato delle emozioni è fondamentale che vi sia congruenza tra i canali espressivi: quando non c’è,
mettiamo per esempio che la postura esprime un significato diverso rispetto la voce e al volto, di solito si fa
maggiore riferimento al volto per riconoscere lo stato emotivo.
Ekman e Friesen parlano di una serie di regole chiamate dispay rules > queste permettono di attenuare,
intensificare, neutralizzare o dissimulare un’espressione emotiva in base al contesto socioculturale e alle
regole di socializzazione apprese. È in età prescolare che i bimbi cominciano ad apprendere le regole
implicite che regolano l’esibizione emotiva e aiutano a esercitare un controllo volontario sulle espressioni
facciali. Anche se le espressioni del volto hanno un carattere universale, la loro manifestazione rimane
condizionata dalle regole di esibizione tipiche di ogni cultura, che le persone imparano durante i processi di
socializzazione.
*il bisogno di contatto e prossimità ha delle radici biologiche ed evoluzionistiche che fanno parte del nostro
funzionamento psicologico: la vicinanza umana svolge delle funzioni utili al nostro benessere, già
individuate da Darwin che le metteva a fondamento della vecchia necessità di difendersi dai predatori.
Recentemente si è visto come la prossimità funzioni tipo da calmante per il nostro cervello, poiché produce
sostante ormonali che fungolo da rinforzo circa il legame sociale e permettono l’autoregolazione dello stress.
Un esempio lo vediamo con l’ossitocina prodotta dall’ipofisi: somministrandola per via intranasale, produce
nei soggetti una migliore capacità nel riconoscere le emozioni, una maggiore fiducia nelle relazioni con gli
altri e una maggiore abilità di regolazione dello stress. Gli effetti dipendono dal contesto in cui si
manifestano, tuttavia l’assenza rimane un qualcosa che produce disagio e rischi per il nostro benessere
psicologico.
2.2, La regolazione delle emozioni tra corpo e cervello: il sistema nervoso centrale e l’asse intestino-cervello
Vedere l’emozione come un processo multicomponenziale ci consente di integrare il concetto di regolazione
emotiva che possiamo definire come: il processo che permette agli individui di utilizzare le loro risorse
psicologiche per rispondere in maniera adattiva e flessibile alle richieste dell’ambiente.
Abbiamo visto come la teoria dei due fattori (o cognitivo-attivazionale di Schacter) vede l’emozione come
risultato dell’interazione di due componenti: una di natura fisiologica diffusa dall’organismo (arausal) e
l’altra di natura psicologica, ossia la percezione e valutazione (appraisal) di questo stato di attivazione. Da
questa teoria una serie di studi ha sottolineato l’importanta della valutazione nel definire la natura del
fenomeno emotivo e quindi una discriminazione dell’emozione che sto provando. Se mi sveglio durante la
notte per dei rumori che vengono dalla cucina, se penso siano dei ladri proverò paura, se penso invece che sia
mio figlio proverò sollievo. In questo senso l’emozione rappresenta un sistema di monitoraggio delle
transazioni fra individuo e il suo ambiente: e il processo che permette questo monitoraggio e in generale la
medizione della risposta emotiva, prende appunto il nome di regolazione emotiva. Attraverso questa le
persone riescono a valutare le richieste da parte dell’ambiente e riescono a riorganizzare le proprie risorse
per rispondervi in modo flessibile e adattivo. Possiamo dire che sottostante alla regolazione emotiva ci
stanno cinque strategie (mega importanti per la Barone) che agiscono sui processi di attenzione e
valutazione (appraisal):
1) Selezione della situazione
2) Modificazione della situazione: per esempio se mi sto trovando a disagio nell’interazione con una
persona, posso fare qualcosa per modificare la situazione e di conseguenza la mia risposta emotiva
risulterà maggiormente regolata.
3) Processi attentivi: è la prima strategia che i bimbi imparano a usare, invece i bimbi con ADHD non
riescono a regolare l’attenzione perché qualsiasi stimolo li attrae
4) Cambiamento cognitivo: strategia spesso utilizzata nelle psicoterapie cognitive che hanno fra gli
obiettivi quello di ristrutturare il pensiero.
5) Modulazione della risposta (comportamento): un esempio di questo è l’esperimento del mezzo
sorriso, che appunto dimostra come la modulazione emotiva possa avvenire anche attraverso la
modulazione del comportamento; queste tecniche comportamentali per la regolazione emotiva si
rivelano utili con le persone che hanno per esempio difficoltà di mentalizzazione.
Ha una componente corticale che va dal lobo limbico e dalla formazione dell’ippocampo (corteccia
orbito-frontale, polo temporale, corteccia insulare anteriore. La corteccia prefrontale orbito-mediale
è deputata alla modulazione della risposta emotiva
Componente sottocorticale:
o Nuclei del setto
o Amigdala > centrale per il suo sistema di afferenze (olfattive, viscerali, provenienti dalle
cortecce visiva, uditiva e somatosensitiva) e di connessioni reciproche con la corteccia
prefontale e il cingolo alteriore. Svolge per questo la funzione di centralina nella regolazione
dei nostri stati emotivi, colelgandoli alle altre funzioni. Inoltre integra le info sensoriali e
mnestiche, aggiorna la corteccia prefrontale in real time circa lo stato emotivo, mentre la
corteccia prefrontale modula il grado di attivazione dell’amigdala tarandole in base alle
informazioni che derivano dall’ambiente.
o Talamo (nuclei anteriori e nucleo dorsomediale
o Ipotalamo (corpi mammillari)
o Epitalamo (abenula)
o Striato ventrale
Quindi il sistema limbico ha una funzione primaria nella regolazione degli istinti connessi alla funzione
olafattiva, nella elaborazione delle emozioni, nella formazione delle memorie recenti (tramite ippocampo) e
nella regolazione delle risposte viscerali o autonomico/omeostatiche (attraverso ipotalamo).
Tutte queste operazioni sono ovviamente involontarie, ma alcune risposte emotive possono essere modulate
anche volontariamente tramite strategie cognitive regolate dalla parte prefrontale che esercitano una certa
influenza anche sull’amigadala. In questo un ruolo primario lo ha la corteccia frontale dorsolaterale che è
presente in tutte le operazioni di manipolazione delle rappresentazioni cognitive, rendendo quindi possibile
questa regolazione volontaria delle emozioni. In sintesi: da una parte le emozioni sono regolate in modo
automatica, dall’altra possono essere modulate con strategie cognitive grazie alla rete prefrontale-amigdala.
La regolazione emotiva dello stress è un compito realizzato dal meccanismo “asse ipotalamo-ipofisi-
surrene”: abbiamo lo stimolo stressante che stimola l’ipotalamo, allora i neuroni del nucleo ipotalamico
paraventricolare secernono l’ormone corticotropina (CRH). A sua volta CRH stimola l’ipofisi anteriore a
rilasciare l’adrenocorticotropina (ACTH) che a sua volta stimola le ghiandole surrenali a rilasciare i
glucocorticoidi. I glucocorticoidi incidono:
1) sul metabolismo
2) sulla funzione imminutaria e cerebrale,
3) possono potenzialmente infiammare gli organi poiché stimola la produzione della proteina c-reattiva,
quindi non è strano che in seguito allo stress emergano le pataoglie che finiscono con -ite (che
appunto indica uno stato di infiammazione, esempio la colite)
4) sistema psichico
La disregolazione di questo sistema può portare a sviluppare la proteina C-reattiva, che rappresenta un
predittore di stati di infiammazione cronici che favoriscono l’insorgenza di malattie legate all’età.
Alcune forme di ansia non beneficiano troppo del colloquio psicologico o della ristrutturazione cognitiva
(terapia cognitivo-comportamente) poiché alcuni aspetti emotivi, in particolare quelli di natura traumatica,
superano e glissano la parte corticale e consapevole arrivando dritti all’intestino; un esempio di questo è
rappresentato da quei ricordi che per l’appunto non emergono in modo consapevole. Per queste
problematiche vi sono degli interventi, chiamati neuro-bio-feedback, che vanno a lavorare sul sistema
nervoso autonomo, sono interventi di tipo pre-verbale che cercano di rieducare il corpo attraverso l’utilizzo
di elettrodi. Il paziente sottoposto al trattamento viene collegato a un computer che inizialmente fa una
rivelazione (base line) del funzionamento del SNA e corticale attraverso un monitoraggio che avviene
mentre il paziente parla di alcuni eventi, quindi il coputer registra le diverse attivazioni dei sistemi in
conseguenza a una rievocazione o di un evento positivo e negativo. Successivamente si mostra al paziente un
film e quando il soggetto mostra disregolazione, quindi utilizza la sua risposta traumatica abituale,
l’immagine del film si sfuca e di conseguenza il soggetto impara a “risistemarsi” e a regolarsi
consapevolmente.
2.2.2 perché l’intestino è il nostro secondo cervello emotivo
La parte involontaria del nostro sistema nervoso è il sistema nervoso autonomo che si divide:
Quando attiviamo il sistema della ricerca, il neurotrasmettitore principale è la dopamina che regola il
desiderio e l’euforia.
Il sistema della rabbia legato alla dominanza e il potere, è legato al testosterone e serotonina.
Sistema della paura e dell’ansia, il cui ormone principale è il cortisolo.
Il sistema della sessualità e del desiderio comprende gli ormoni sessuali.
Il sistema della cura, amore, interessa l’ormone ossitocina.
Il sistema della tristezza e solitudine legati all’assenza di cura
Sistema del gioco, della fantasia legato alla dopamina.
Temperamento > sottodominio della personalità che influenza l’intensità e la modalità di espressione e
regolazione delle emozioni. È un costrutto che può essere misurato sia con un questionario sia con
l’osservazione diretta del comportamento.
I meccanismi interni, come appunto il temperamento, ed esterni, tra cui le cure dal caregiver, supportano lo
sviluppo emotivo dell’individuo. L’interazione tra tratti temperamentali e risposta emotiva presenta alcune
caratteristiche:
1) Identificabili precocemente, già dalla prima infanzia, può essere studiato in senso longitudinale
2) Tracciabili nel corso del tempo
3) Si riflettono nella biologia e nei comprotamenti individuali
4) Fondati nella storia evoluzionistica della specie
In che modo emozione e temperamento interagiscono creando pattern di risposta diversi da individuo a
individuo? Cosa c’entra i tratti temperamentali con le emozioni? Sono collegati perché il temperamento
influisce sul modo in cui sentiamo le emozioni. Per esempio un bimbo con temperamento caratterizzato da
emozionalità negativa (bassa soglia di risposta agli stimoli ambientali) di fronte a una minaccia può avere
una risposta emotiva più prolungata, meno facile da regolare e che rischia di evocare risposte più dure
dall’ambiente. Viceversa nel bambino con un temperamento facile, la cui soglia di attivazione emotiva è più
alta, riuscirà a gestire la risposta emotiva con più facilità e sarà più sensibile ai messaggi del genitore. Alcuni
studi hanno evidenziato solo una debole associazione fra attaccamento dei bimbi e temperamento: tuttavia
temperamento e rispsota emotiva hanno un collegamento e quindi un temperamento facile può fare la
differenza nella modulazione della rispsota emotiva. Per questi motivi vi sono programmi che aiutano il
genitori a capire le caratteristiche dei tratti temperamentali dei figli, così da essere maggiormente
consapevole delle ragioni per cui i bambini rispondono in un certo modo ad alcuni comportamenti.
Nucleo accumbens > area sensibile agli stimoli che comportano una ricompensa/gratificazione
Amigdala > sensibile agli stimol negativi/pericolosi
Corteccia prefrontale > comprensione e regolazione delle conseguenze a lungo termine dei
comportarmenti
Nei bambini, nonostante la ridotta funzionalità della corteccia prefrontale, il nucleo accumbens fa un po’ il
timido permettendo una minore propensione alla ricerca del rischio, invece con l’inizio della pubertà le cose
cambiano. A causa dei cambiamenti ormonali, il collegamento fra corteccia prefrontale e strutture
sottocorticali del sistema limbico perde il suo equilibrio poiché la parte prefrontale è ancora immatura e
invece quella sottocorticale ha da una parte un vantaggio evolutivo e dall’altra diventa ipersensibile agli
stimoli emotivi. Quindi l’adolescente ha una doppia condizione da gestire, da un lato un sistema emotivo con
strutture sottocorticali ipersensibili e dall’altro, un sistema di regolazione corticale non ancora capace di
tenere sotto controllo tale sensibilità. Questo giustifica in parte la maggior propensione adolescenziale al
rischio, ma la risposta comportamentale dipende anche da quanto la situazione risulta emotiva: difatti nelle
situazioni a grande carico emotivo, i centri emotivi sottocorticali diventano iperattivi e non più pienamente
regolati dalla parte prefrontale, in questi casi l’assunzione di rischio può avvenire in modo più impulsivo e
meno regolata.
I soggetti che hanno subito abuso e maltrattamento da bambini o in età evolutiva, sviluppano un volume più
grande dell’amigdala e mantegono una maggiore propensione a rispondere iperemotivamente alle situazione
negative, senza riuscire a rispondere in modo equilibrato grazie all’intervento adeguato dalla parte
prefrontale, di conseguenza tendono a esporsi maggiormente in situazioni con comportamenti di rischio.
Secondo i miei appunti, anche uno sviluppo più pronunciato del nucleo accumbens a discapito della parte
frontale, potrebbe giustificare una propensione al rischio.
Omeostasi grastrointestinale
Digestione
Stress ed emozioni
Processi decisionali collegati alle emozioni
Difatti una esposizione prolungata e ripetuta allo stress riesce a modificare il microbiota dell’intenstino
(ossia l’insieme di microrganismi), dove l’intestino a sua volta, reagisce allo stress producendo citochine
infiammatorie che hanno un effetto negativo sul metabolismo, sistema immunitario, ormonale e psichico. Lo
stress induce una modificazione del microbiota intestinale, per esempio alterando la barriera intestinale che
blocca le tossine, dove un aumento dei batteri risulta collegato alla depressione. Questo si è visto anche con i
topi: se questi sono privi di germi (germ free) mostrano in conseguenza a stimoli stressanti, livelli più alti
degli ormoni corticotropina e corticosterone derivati da un coinvolgimento della flora batterica nella risposta
allo stress. Tuttavia la risposta allo stress poteva tornare normale se ai topi germ free veniva inoculato il
bifidobacterium infantis. Un altro studio ha dimostrato che infettando i tipo si assistiva sia a una lieve
infiammazione intestinale sia a una diminuzione nell’ippocampo dei livelli di BDNF (sopravvivenza
neuronale), provocando un comportamento ansioso nei topi, invece se a questi topi venivano dai dei
microbioti funzionali per l’intestino, la risposta ansiosa diminuiva fino all’estinzione.
Cap. 3, Infanzia
Sviluppi tipici
3.1, I contesti dello sviluppo
Per comprendere lo sviluppo, la prima cosa che ci chiediamo è: quali sono i contesti di riferimento di questo
periodo? In questo caso, la famiglia e la scuola (credo il nido e scuola dell’infanzia)
Quando parliamo di contesti, bisogna fare in primis una distinzione fra stimoli prossimali e distali:
Prossimali: direttamente accessibili tramite interazione e sono a loro volta inseriti in contesti più
ampi dove troviamo anche gli stimoli distali. Un esempio di stimoli prossimali sono le sollecitazioni
che i genitori daranno al bimbo.
Distali: non raggiungibili tramite interazione diretta, un esempio riguarda l’ambiente socioculturale e
lo status socioeconomico del bimbo.
Come mostra la teoria ecologica di Bronfenbrenner, l’ambiente è organizzato in una serie gerarchicamente
ordinata di contesti (o sistemi) inclusi l’uno nell’altro.
Lo sviluppo avviene grazie all’interazione reciproca fra tutti questi sitemi, dove al centro si trova il bambino.
Inoltre tutte le influenze del mesosistema sono dirette, ossia hanno un effetto diretto sul bambino, in più le
interazioni dirette sono influenzate dalle interazioni indirette che derivano dall’ecosistema e macrosistema.
In questo periodo, famiglia e scuola costituiscono i luoghi dello sviluppo infantile. Fra questo interazioni, il
tempo rappresenta una variabile fondamentale: difatti sia i contesti di crescita mutano nel tempo, ma anche
l’età è un fattore importante nel capire come gli elementi che appartengono ai diversi contesti esercitano la
loro influenza.
Definizione di contesto > insieme degli aspetti fisici, sociali, culturali, economici e storici della situazione in
cui un individuo è inserito. I contesti sono dei sistemi complessi (teorie dei sistemi) e un contesto è costituito
da più componenti che sono interdipendenti.
3.2, Un passo indietro: il periodo prenatale
Per capire lo sviluppo relazionale ed emotivo, facciamo un passo indietro per andare a vedere il momento in
cui si formano gli strumenti che il bimbo userà per affrontare le sfide sociali.
La vita emotiva e relazionale del bambino comincia prima della nascita:
Aree sensoriali della corteccia si sviluppano precocemente
Sesto mese l’orecchio è già formato > voce materna riconosciuta subito appena nato
Primi mesi di gestazione si formano le strutture deputate al processamento emotivo: i
circuiti dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene sono completamente formati dal secondo
trimestre di gravidanza, e garantiscono una risposta allo stress già a livello prenatale
attivando la secrezione dei glucocorticoidi. La risposta allo stress è importante anche da
parte della madre: lo stress prenatale che potenzialmente possono vivere, aumenta il
livello ematico dei glucocorticoidi che viene trasmesso al feto attraverso la placenta, lo
stress materno può influire sullo sviluppo infantile, difatti è associato a prematurità,
sottopeso, circonferenza cranica infantile, riduzione delle difese immunitarie e
propensione all’ansia. Gli effetti possono influire anche sulla qualità dello scambio
diadico, con una comprensione rilevabile nello scambio face to face.
Quindi il periodo prenatale non è completamente insensibile dal punto di vista emotivo, ma costituisce un
periodo in cui nel bambino si vanno a formare alcuni precursori utili per il successivo sviluppo.
Quali stimoli ha il bambino dentro il grembo?
- I suoi movimenti, a 4/5 mesi inizia a muoversi
- Ha stimoli tattili
- Gustativi poiché vive in un liquido
- Uditivi, intorno ai 4/6 mesi sviluppa l’orecchio > tutti i giorni sente la voce materna che rappresenta
il primo segnale importante che ci esemplifica cosa succederà la nascita: significa che la curva
gaussiana dell’emotività del bambino si modula in base alla voce materna. Il bambino può essere per
esempio abituata a una voce materna irritata che lo inserisce in un sistema di allarme, caratterizzato
dalla paura. Difatti i bambini che vengono da ambienti violenti perdono spesso l’omeostasi e vanno
nel sistema di allarme. Il nostro sistema naturale (evoluzione) ha provveduto a proteggere il bambino
dallo stress; se la mamma va in uno stato di stress nel suo sangue iniziano a circolare i
glucocorticoidi, se arrivassero queste ondate di stress al bambino, ci sarebbe una compromissione del
ritmo e adeguatezza della formazione degli organi. Invece la natura ha creato la placenta che riesce a
filtrare e a impedire il contatto con i glucocorticoidi. Questa barriera biologica viene sostituita da una
barriera psicologica e in questa avrà in riferimento la voce materna che li rilassa.
- Contrazioni uterine, quindi anche l’utero non è fermo; tuttavia in caso di depressione materna, anche
l’utero appare più fermo, inoltre un utero più “vivace” accoglie meglio l’ovulo fecondato.
3.3, Sviluppo precoce
Con sviluppo precoce intendiamo lo sviluppo dei primi mesi di vita: ogni momento di crescita del bambino è
associato a un contesto, e nei primi mesi di vista il luogo elettivo è rappresentato dalla diade genitore-
bambino. Il bambino fin dalla prime ore è in grado di mettere in atto degli “orientamenti innati” che evocano
comportamenti di cura da parte della madre, preparando il terreno per la comunicazione diadica:
orientamenti del tipo che il neonato dimostra stati di benessere o sofferenza, si orienta verso l’odore della
madre e preferisce la sua voce, esprime emozioni con il volto discrete.
I bambini sono capaci anche di coordinamento intermodale (Stern) ossia di organizzare segnali che vengono
da fonti diverse: visivi, sonori e tattili. Nonostante il cervello del bambino sia un terzo di quello adulto,
possiede già i principali sistemi funzionali come:
Pointing richiestivo e dichiarativo, usato dal bambino per richiedere oggetti oppure per condividere
con l’adulto opinoni su di essi (dichiarativo?).
Condivisione dell’attenzione sull’oggetto si aggiunge alla compatercipazione emotiva tipica
dell’intersoggettività primaria
A partire dagli 8-10 mesi emerge il fenomeno del “riferimento sociale”: di fronte a una situazione
incerta o non familiare, il bambino ricerca l’adulto per decidere cosa fare: nei mesi precedenti
avrebbe risposto immediatamente, ora guarda l’adulto e lo utilizza per capire come comportarsi.
Principale fonte di apprendimento emotivo del bambino, grazie ai protodialoghi non verbali scambia
informazioni dove si definiscono stati di coscienza e significati condivisi
Cosa succede se tale co-regolazione viene compromessa?
1 condizione sviluppo atipico
In questo caso possiamo parlare del fenomeno dell’istituzionalizzazione, dove lo scambio face to face è
deficitario o del tutto assente e mostra come una mancanza di co-regolazione provochi una trascuratezza
emotiva. Questo fenomeno è stato studiato da Spitz che ha osservato come i bambini negli orfanatrofi
reagivano a tale trascuratezza:
- Ritiro, entrano in un mondo “a sé” dove rinunciano persino a cercare attivamente stimoli emotivi
- Prima di entrare in questo stato di ritiro attuano diversi tentativi di ripristino della connessione
emotiva, ossia delle “fasi di protesta” dove la protesta risulta un tentativo attivo di connettersi con il
caregiver. Se la risposta da quest’ultimo non arriva, allora avviene il ritiro e il disinvestimento
- Istituzionalizzazione superiore alla durata di 6 mesi > gli effetti della mancata mutua regolazione si
declinano sulle capacità relazionali ed emotive del bambino che risultano deficitarie rispetto i bimbi
normativi. Tuttavia non è una condizione irreversibile, può avvenire un buon recupero in seguito
all’adozione
Capitolo 4: Fanciullezza
Sviluppi tipici
4.1, i contesti dello sviluppo
Prima fanciullezza: dai 2 ai 6 anni
Contesti simili alla prima fanciullezza, ma con differenze > scuola ha un peso maggiore, poiché
entra l’obbligatorietà di frequenza
Si allargano gli interessi del bambino ai contesti prossimali: pari e amici.
Introduzione nuovo contesto: attività sportive e ricreative > primi legami di amicizia
I contesti non rappresentano solo dei luoghi dove avviene lo sviluppo, ma ci riferiscono anche i correlati
sociali ed emotivi dello sviluppo.
4.2, Comprensione delle emozioni, dei concetti sociali e morali e abilità di mentalizzazione
Ma come fanno i bambini a comprendere le emozioni?
Secondo i modelli dell’appraisal, il momento valutativo si basa su alcuni parametri di riferimento: Arnold:
“la valutazione intuitiva della situazione dà inizio a una tendenza all’azione ed è sentita come emozione”.
Non si tratta dunque di un ragionamento, ma un atto diretto che permette di comprendere se un determinato
evento va incontro o ostacola i miei interessi, oppure se mi piace o meno, e in base a questo oriento la mia
azione. Di questa valutazione possiamo diventare consapevoli solo con una riflessione a posteriori.
I bambini mutano la loro sensibilità rispetto i parametri dell’appraisal, e di conseguenza anche il loro
comportamento emotivo. Difatti Sroufe afferma: “si può parlare di emozioni in senso proprio solo a partire
dalla seconda metà del primo anno di vita, quando il tipo di emozione che compare dipende dal significato
che l’evento ha per il bambino.”
Comprensione emotiva
Bambini piccoli > indicatori non verbali
Dai 2 anni > acquisizione linguaggio che si integra con le modalità preverbali
Dai 2 ai 5 anni > sono capaci di rievocare eventi a valenza emotiva del loro passato e di usarli nella
conversazione. In questo lasso di tempo possiamo individuare due sotto-periodi:
1) 2-3 anni: riconoscono l’importanza dei desideri e degli obiettivi nella valutazione emotiva > ha
ancora una percezione che si limita ad associare situazioni e risposte emotive, un compito che
riuscirà ad eseguire riguarda, per esempio, l’identificazione delle emozioni che può provare un
elefante di peluche che voleva il latte e ha ricevuto il latto e quella di una scimmia che voleva il
succo e ha ricevuto il latte.
2) 4-5 anni: i concetti preesistenti vengono integrati con le aspettative e credenze > va oltre la semplice
associazione, riesce a capire lo stato d’animo altrui perché è in grado di collocarlo all’interno di un
insieme più ampio di stati psicologici (aspettative e credenze). Nuovo compito: indovinare stato
emotivo di un elefante che crede erroneamente che dentro una lattina c’è una bibita gassata quando
invece c’è del latte. Sarò felice prima di scoprire il reale contenuto e triste una volta scoperto.
Possiamo dunque attribuire ai bambini una teoria delle mente, guidata dai processi di appraisal. La
comprensione cambia nei diversi momenti dello sviluppo e per comprenderla dobbiamo riferirci alle
componenti (9) della comprensione emotiva:
Le 9 componenti che secondo Pons, Harris e Rosnay costituiscono lo sviluppo della comprensione delle
emozioni: (p.119)
1) riconoscimento (etichettamento, uso indici espressivi)
3 anni
2) causa esterna (situazionale)
3) desiderio > 5 anni
4) conoscenza (credenza) > 5 anni
5) ricordo (in disaccordo con libro che dice intenzioni e credenze)
6) regolazione
7) occultamento (nascondere)
8-9 anni e 11-12 anni
8) emozioni miste (ambivalenti)
9) morale
Primo ordine: desideri e credenze: il bambino con la propria azione può influenzare ciò che gli altri
fanno, ma non il modo in cui l’altro pensa.
Secondo ordine: desideri e credenze + possiede anche le credenze sulle proprie e altrui credenze: è
un sistema in grado di riflettere su sé stesso. In questo modo il bambino può influenzare ciò che gli
altri pensano e non solo ciò che fanno (persuadere).
Quindi comprende il ToM dell’altro significa:
Infine a partire dalla prima fanciullezza, il rapporto con i fratelli e i pari assume un peso e una fisionomia
specifica.
Quindi il passaggio dal prevalere della regolazione diadica alle prime capacità di autoregolazione è un tratto
distintivo dell’età prescolare (3-5 anni).
Età scolare
In questa età, i cambiamenti cognitivi, sociali e morali comportano l’adozione di strategie regolatorie più
complesse, che permettono al bambino di attuare meccanismi di appraisal più specifici e strategie di coping
adattate in base ai diversi contesti sociali. Alla precedente valutazione e comprensione emotiva si
aggiungono abilità più sofisticate come quella di saper comprendere emozioni miste, emozioni morali e
aspetti riflessivi. Questa maggiore complessità si declina a livello comportamentale attraverso la conquista di
un autocontrollo più saldo, che permette anche di riuscire a mantenere maggiore attenzione durante
l’apprendimento e di avere relazioni con i pari diverse. La capacità di modulare, inibire e regolare le
emozioni in modo socialmente accettabile rappresenta una conquista importante per la competenza emotiva e
per garantire un buon adattamento individuale e sociale.
Strategie di autoregolazione e coping età scolare
Dai 6 anni
3 anni: tende a chiamare “amico” in senso generale ogni compagno di gioco, quindi è una categoria
che usa per i rapporti con coetanei. In più amici immaginari e amicizie con temi conflittuali, il
conflitto nell’amicizia è importante perché permette di sviluppare la capacità di rimanere amici
anche quando si è in disaccordo. Possono emergere gli amici immaginari che possono avere una
funzione consolatorio, di confronto o dialogo interno, e a volte è un segno di solitudine familiare. Le
caratteristiche dell’amico immaginario ci danno indicazione per capire quali sono i bisogni che non
sono soddisfatti nella realtà.
4 anni: scelta consapevole e più selettiva degli amici, si gioca insieme con dei temi di interesse
comune, bambini timidi con bimbi timidi ecc. gioco di fantasia condiviso con forte valenza emotiva
e sviluppo di forme di gioco reciproche (con altri).
5 anni: maggiore comprensione dei desideri, bisogni e convinzioni altrui, sviluppo capacità di
negoziazione e di riappacificazione. Il bambino sa esplicitare cosa vuol dire essere amico, l’amicizia
inizia a diventare un valore “lui mi capisce, è bravo, non mi fa male, quindi è mio amico”.
7-8 anni: amicizia delineata in base alle preferenze di genere, interessi e attività. Condivisione di
attività e scambi con logica costi/benefici. Diventa luogo elettivo di regolazione emotiva,
acquisizione regole e negoziazione del conflitto. Inizia ad esserci l’idea della lealtà e fedeltà.
9-10 anni: condivisione di valori, regole, sanzioni. Maggiore intimità con in più condivisione di
esperienze interiori e private, senso di fedeltà o tradimento. Maggiore senso di empatia e del criterio
selettivo per la costruzione del legame (amico del cuore, i primi si collocano nella scuola primaria, è
più raro averlo prima nella scuola dell’infanzia).
Inizialmente la spinta a ricercare un amico si basa sulla somiglianza rispetto il carattere e gli interessi,
nonché la condivisione del gioco. Nel bambino più grande questa modalità viene integrata dal bisogno di
riconoscersi ed essere riconosciuti, dalla necessità di avere supporto emotivo e conferme sul sé e dal
confronto con l’altro. All’interno delle amicizie si affinano le capacità di mentalizzazione e di comprensione
del punto di vista dell’altro. Un’altra palestra per regolazione emotiva, confronto e gestione del conflitto e la
relazione tra fratelli. Cosa conta? L’ordine di genitura, per esempio i primogeniti si prendono una cascata
delle cose irrisolte dei genitori. All’interno di questa relazione i bambini sperimentano sentimenti come
gioia, gelosia, competizione, empatia e senso di supporto. Inoltre anche questa rappresenta una palestra per
affinare le abilità di mentalizzazione, in quanto le discussioni fra fratelli implicano un continuo accesso fra i
propri stati interni e quelli dell’altro. Anche la nascita di nuovi fratelli e il conseguente riassesto familiare
faranno la differenza rispetto a degli esiti positivi o negativi in base anche al temperamento, il genere e
l’atteggiamento materno nei confronti dei fratelli.
*le figure di attaccamento fra pari in questa età non ci sono, si parla più che altro di bonding, per creare un
legame di attaccamento con un fratello deve esserci una differenza di almeno 10 anni, in questo caso è
possibile che si sviluppo.
*sviluppo morale e sociale: quando i bambini cominciano a sapere di poter fare del male e consolare? Si
sviluppano insieme? Intorno ai 2 anni i bambini sanno fare entrambi in modo spontaneo.
4.5, stili genitoriali, socializzazione e implicazioni educative
Famiglia e scuola sono i contesti elettivi dello sviluppo nella fanciullezza. La struttura familiare può essere
biparentale tradizione, monoparentale, adottiva, omogenitorali o nata attraverso tecniche di procreazione
assistita. La domanda che ci si pone è: qualunque tipo di famiglia può offrire uno sviluppo sociale ed
emotivo armonioso ed equilibrato per il bambino? La risposta è affermativa. Ciò che conta è la qualità
affettiva ed educativa dei genitori e del loro rapporto con i figli. Dal punto di vista educativo ciò che conta
sono gli stili genitoriali, ossia i modi attraverso cui i genitori si rapportano con i figli per far rispettare le
regole e la disciplina. Secondo Baumrind possiamo sintetizzare quattro stili principali:
1) I genitori autorevoli > offrono un buon equilibrio fra cure e attenzioni e il far rispettare le regole.
Lasciano ai figli un adeguato livello di libertà consono alla loro età e non utilizzano la coercizione
per far rispettare le regole. Usano il loro comportamento per insegnare, come esempio (modeling) e
non si contraddicono fra affermazioni e comportamenti. Infine le richieste vengono negoziano e non
pretese e lo scambio affettivo sostiene quello educativo.
2) Genitori autoritari > adottano uno stile coercitivo e non flessibile per far rispettare le regole, che
assumono un ruolo di priorità rispetto lo scambio affettivo e l’ascolto. Le regole sono generali e non
calibrate sul bambino e l’effetto ottenuto è un’immediata disciplina (anche se con un minor senso di
responsabilità individuale dei figli) a discapito della qualità emotiva della relazione.
3) Genitori permissivi > sono una categoria in aumento nella nostra cultura, e riguarda genitori in cui il
principio di indulgenza e della qualità emotiva della relazione assume un ruolo di maggior
importanza a discapito del rispetto delle regole e soprattutto dei ruoli. I genitori instaurano un
rapporto simmetrico e di reciprocità con i figli e fanno in modo che siano i bisogni del figlio a
dettare le regole. L’effetto educativo è un immediato benessere, ma un malessere a lungo termine,
poiché contribuisce a una maggiore vulnerabilità dei bambini a causa di una scarsa esperienza di
frustrazione e limiti che li rende deficitari anche nell’autostima e nella regolazione emotiva. Infine la
rasponsabilizzazione è debole e dipendente dal clima emotivo del momento.
4) Genitori trascuranti/rifiutanti > è il contesto educativo più a rischio poiché sono deficitari sia sul
versante affettivo che disciplinare. L’atteggiamento dei genitori può essere influenzato o da
malessere individuale oppure da problematiche socio-economiche, che portano a ignorare o
trascurare i bisogni dei figli e producono una loro precoce autonomizzazione. Gli insegnamenti
disciplinari non si basano né sul modeling né su proposte dirette e l’effetto sui bambini può spaziare
da: bambini che assumo un ruolo simil-genitoriale a bambini che si lasciano andare e assumono
comportamenti di rischio. In entrambi i casi questo stile genitoriale è considerato, nei suoi effetti,
una forma di maltrattamento, in quanto prima il bambino di un diritto fondamentale.
Indipendentemente dallo stile genitoriale adottato, un aspetto che risulta centrale è la coerenza dei messaggi
educativi trasmessi: questo vale anche all’interno della coppia, in cui la coerenza dei messaggi tra madre e
padre contribuisce all’efficacie e credibilità degli stili genitoriali adottati.
Ma l’educazione dipende solo dagli stili genitoriali? Oggi si tende a considerare anche le componenti
biologiche e genetiche del comportamento sia dei bambini che dei genitori. Questo spiega come mai i
genitori si atteggiano in modo diverso con ciascun figlio e come mai i bambini della stessa famiglia,
rispondano in modo differente alla stessa sollecitazione genitoriale. Dall’altra parte, i bambini sono
biologicamente predisposti ad avere un certo grado di permeabilità nei confronti dell’ambiente e quindi ad
esserne più o meno suscettibile. Le ricerche neurobiologiche fanno una distinzione fra bambini “dente di
leone” e bambini “orchidea”. I primi sono più “resistenti” all’ambiente (parzialmente permeabili), e
subiscono in modo contenuto gli eventuali effetti positivi o negativi derivanti dalla famiglia. I secondi sono
più permeabili e perciò traggono maggior beneficio all’interno di famiglie positive e massimo danno se
allevati in famiglie negative.
4.6, Le strutture educative e la school readiness: scuola dell’infanzia e scuola primaria
Nella fanciullezza ritroviamo due ordini diversi di educazione:
1) La scuola dell’infanzia: costituisce il primo accesso a un contesto educativo, è un luogo che prepara
il bambino all’ingresso obbligatorio alla scuola primaria. Lo strumento educativo per eccellenza è il
gioco, il disegno, la manipolazione e tutto ciò che interessa la motricità e serve a sviluppare le
principali capacità attese di questo periodo prescolare: autonomia, identità e prime competenze. È il
primo contesto che porta il bambino a passare tanto tempo fuori dalla famiglia (quasi 8 ore) e ha la
funzione della school readiness: ossia ha il compito di preparare il bambino rispetto alcune
competenze che gli verranno richieste, ossia rispetto le sue abilità fonologiche, psicomotorie,
linguistiche, logico-matematiche e di simbolizzazione. Non si tratta di sviluppare prerequisiti
scolastici in senso stretto, ma di orientare il bambino verso un percorso che dia priorità al suo
benessere sociale ed emotivo, che rappresenterà la base per l’apprendimento. Quindi la preparazione
alla scuola riguarda l’emotività: insegnare al bambino il controllo della motricità e attenzione, ossia
competenze richieste a scuola, attualmente si sta cercando di creare una continuità fra scuola
dell’infanzia e scuola primaria.
2) La scuola primaria: è il vero e proprio ingresso nel mondo della scuola, l’aspetto del gioco rimane
anche se ridotto e comincia l’apprendimento curriculare, questo porta con se il tema della
prestazione: questa può stimolare il bambino o inibirlo, sottolineando così delle differenze
individuali. Un ulteriore valore aggiunte riguarda l’introduzione dei lavori di gruppo. Per un
armonioso sviluppo del bambino, sono importanti:
Modello educativo di tipo inclusivo, indipendente dalle abilità e disabilità
Insegnanti devono monitorare qualità delle relazioni, è comune in questo periodo che nei bambini si
instaurino fenomeni collegati alla popolarità o esclusione
Alimentare un clima partecipativo anche attraverso la disposizione dei banchi e le attività promosse
Insegnare ad usare diversi tipi di intelligenza e incrementare la voglia di apprendere
Suscitare interesse, anche attraverso un rapporto emotivo e incentivare autonomia
Sviluppi atipici
4.7, adozione: un naturale recupero sociale ed emotivo
Quali sono le situazioni che determinano che un bambino venga destinato all’adozione in Italia? Morte dei
genitori o dei potenziali tutori, inabilità del genitore nel crescere il bambino, situazione di abuso o
maltrattamento o situazioni psicopatologiche del genitore che non prevedono un recupero. Se il recupero
fosse possibile si aprirebbe l’opzione di affido temporaneo. Esiste l’adozione nazionale e internazionale:
quella internazionale interessa i paesi in via di sviluppo.
Quando parliamo di istituzionalizzazione ci riferiamo a un percorso che inizia in un istituto e si conclude
generalmente in una famiglia. La ricerca ci dice che i bambini che arrivano da esperienza di
istituzionalizzazione durate per più di sei mesi, presentano in buona parte una insicurezza nell’attaccamento.
Tuttavia gli effetti dell’istituzionalizzazione possono essere molteplici: bimbi con una crescita più lenta,
circonferenza cranica più piccola, ritardi nel linguaggio o anomalie linguistiche, deficit nel metabolismo.
Tutti questi ritardi nei parametri fisici riescono ad essere recuperati abbastanza facilmente una volta che il
bambino entra in una famiglia.
L’adattamento dei bambini adottati offre un esempio di come potenziali risorse compromesse nei primi anni
di vita, possano subire un recupero significativo all’interno di un ambiente idoneo. Gli effetti
dell’istituzionalizzazione nei bambini sono stati studiati in primis da Bowlby quando nel 1951 avviò
un’indagine sui bambini ospitati negli orfanatrofi, sottolineando come la carenza prolungata di cure materne
crei dei danni durevoli che possono modificare il carattere dei bambini: ritardo nello sviluppo fisico e
motorio, cognitivo, sociale ed emotivo, con una percentuale doppia di insicurezza e disorganizzazione
d’attaccamento. In più possibile sviluppo di un comportamento sociale anomalo definito “socievolezza
indiscriminata” ossia mancata distinzione fra figure familiari e non. Ma cosa succede al bambino che arriva
in adozione? Vi sono alcuni aspetti da tenere in considerazione:
1) Età del bambino al momento dell’adozione > i bambini adottati entro il loro anno di vita presentano
un recupero quasi completo. Un bambino che viene adottato tra i sei e i dodici mesi, subisce un
periodo di istituzionalizzazione limitato, di conseguenza dopo 12-18 mesi passati nella nuova
famiglia, il suo pattern di attaccamento è sovrapponibile a quello di un bambino allevato in famiglie
biologiche. Oltrepassando questa età i tassi di disorganizzazione e insicurezza aumentano, poiché
una volta avvicinati al primo anno di età, non vengono soddisfatti i bisogni legati alla necessità di
instaurare legami con figure di attaccamento stabili e selettive. L’assenza di una figura di
accudimento primaria sembra responsabile anche a età precoci, di una vulnerabilità socioemotiva la
cui risoluzione richiede modalità di allevamento diverse da quelle offerte dagli istituti. Sicuramente
l’adozione precoce favorisce il recupero, ma anche i bambini adottati durante il periodo della
fanciullezza possono avere un recupero positivo. I bambini che vengono dagli istituti rappresentano
il 75-78% della disorganizzazione, ma dopo un anno passato all’interno della nuova famiglia, questo
tasso si riduce del 30% e il 50% di questi bambini sviluppa un attaccamento sicuro. Possiamo quindi
definire l’adozione come una sorta di terapia naturale capace di produrre un recupero e di ridurre in
breve tempo i deficit motori e cognitivi e a lungo tempo i deficit emotivi e sociali.
2) Cosa conta in questo recupero? Almeno che non si parli di ritardo mentale, maggiori o minori abilità
cognitive non sembrano avere un ruolo nel recupero socioemotivo, recuperano in egual misura
bambini più o meno dotati. Stesso discorso per le abilità verbali. Una implicazione diversa deriva
invece dalle capacità di attenzione: queste sono maggiormente deficitarie nei bambini adottati
rispetto ai pari normativi. Tuttavia questa maggiore vulnerabilità sembra legata ai pattern di
attaccamento insicuro o disorganizzato e non legata all’adozione in sé. Ricordiamo che le capacità di
attenzione svolgono un ruolo essenziale sia nella regolazione emotiva che nell’apprendimento.
Anche il temperamento e le disposizioni individuali giocano un ruolo importante nel recupero dei
bambini adottati: un bambino con un temperamento attivo-dinamico e una buona suscettibilità
all’ambiente ha 10 volte di più la probabilità di sviluppare un attaccamento sicuro e organizzato
quando anche la madre presenta lo stesso attaccamento, sono più permeabili e recettivi nei confronti
di stimoli positivi. Tuttavia ciò che più conta, al di là dell’età di adozione, è la qualità di
attaccamento: bambini con una madre adottiva sicura, a un anno dall’adozione, hanno una
probabilità 6 volte più alta di sviluppare un attaccamento sicuro e questa probabilità aumenta di 50
volte se anche il padre ha un attaccamento sicuro. Viceversa un attaccamento insicuro materno rende
nel 67% dei casi, più probabile che permanga un attaccamento insicuro e disorganizzato. Anche in
questo caso, come nelle famiglie biologiche, ciò che conta è la qualità della relazione affettiva. Un
altro contesto che gioca un ruolo nel recupero dei bambini adottati è la scuola. Un clima scolastico
cooperativo e sensibile alle tematiche di adozione rappresenta un fattore di protezione, soprattutto
durante il periodo della scuola primaria dove emerge una tappa evolutiva tipica di questa fase dello
sviluppo: la capacità di interrogati rispetto le proprie origini e rispetto la natura della propria
famiglia. Proporre composizioni didattiche sulla propria famiglia, con descrizione dei nonni, zii ecc.
rappresenta un tema sensibile per questi bambini.
Gli elementi che concorrono allo sviluppo delle problematiche comportamentali sono:
incuria, discuria o ipercuria nei bisogni materiali o affettivi (supporto scolastico, consolazione ecc.)
violenza assistita: assistere a conflitti, molestie sessuali o violenze su altri familiari
maltrattamento psicologico
patologia delle cure: discuria/ipercuria ossia cure distorte/eccessive
maltrattamento fisico e abuso sessuale
quali sono i fattori che possono portare a questo tipo di esperienze?
Prima sfida: distacco progressivo dai genitori, maggiore autonomia e percezione di benessere
maggiore vissuta nei contesti amicali.
Equilibrio tra monitoraggio e guida dei comportamenti dei ragazzi, la loro crescente autonomia
amplia il range dei possibili comportamenti, anche quelli a rischio.
Il contesto del rapporto tra pari, inclusi amici e fratelli, rappresenta una palestra dove i ragazzi
sperimentano forme diverse di relazione.
Questi contesti sono in interdipendenza reciproca e la loro comunicazione funzionale o non dipende dallo
stato di benessere o malessere e dalla qualità delle relazioni sociali.
5.2, I fattori individuali: temperamento, trasformazioni neurali, somatiche ed endocrine
I fattori individuali incidono sullo sviluppo emotivo e sociale dell’adolescente. In questo periodo, un ruolo di
primo piano lo svolge il temperamento: per esempio la presenza di effortful control, ossia la propensione a
regolare emozioni e azioni in modo volontario, sembra essere associato a migliori risultati scolastici. Le
differenze individuali sono alimentate dai tratti temperamentali, soprattutto se pensiamo alle potenziali
reazioni diverse che può scaturire un compito scolastico, che con sé può portare eventuali problematiche e
frustrazioni. Cosa dicono le neuroscienze sui cambiamenti del cervello in adolescenza? Le dimensioni della
materia grigia (composta da neuroni e sinapsi) e del lobo frontale, raggiunge il suo apice poco prima dell’età
puberale per poi diminuire gradualmente a causa del prunning che dura tutto il periodo adolescenziale e che
contribuisce alla specializzazione delle prestazioni comportamentali. L’apice dello sviluppo della materia
grigia è tra i 4 e 8 anni, ma gli stadi finali vengono raggiunti non prima dell’età adulta, quindi lo sviluppo
non è ancora completo in adolescenza. Sviluppo cerebrale:
Sviluppo materia grigia
Sviluppo regioni “sensoriali” del cervello, come il lobo occipitale
Sviluppo aree corticali associative, come i lobi prefrontali e temporo-parietali
Questo significa che il cervello dell’adolescente “subisce” una sfasatura dello sviluppo cerebrale, dove il
centro di controllo cognitivo è ancora in fase di maturazione, e dove il cervello “socioemotivo” guidato
dall’amigdala, dal rilascio di dopamina, dallo striato ventrale e nucleo accumbens, è già fortemente
sviluppato. Inoltre la formazione delle sinapsi inibitorie avviene fra i 14 e 20 anni, mentre le sinapsi
eccitatorie si formano già dai 5 anni. Questo assetto è alla base di una maggiore propensione al rischio da
parte degli adolescenti. Il cervello dell’adolescente, grazie alle maggiori capacità di mentalizzazione,
pensiero astratto e valutazione del punto di vista altrui/diverse prospettive li rende efficienti rispetto
l’apprendimento. Tuttavia la memoria di lavoro sta ultimando il suo sviluppo e le capacità di tenere sotto
controllo la parte emotiva e impulsiva è ancora in trasformazione, questo rende la pianificazione e le
prestazioni soggette a improvvisi cambiamenti.
i fattori che influenzano la comparsa della pubertà sono: peso, luce e clima, qualità nutrizionale,
geni, stress ed elementi chimico-ambientali.
Dalla media fanciullezza le ghiandole surrenali iniziano a produrre gli ormoni definiti “androgeni
surrenalici”
L’asse HPG (ipotalamo (e ghiandola pituitaria) -ipofisi-gonadi) con le gonadi che producono
estrogeni e testosterone, regola i cambiamenti corporei e influenza il cervello. Gli ormoni hanno un
effetto nell’attivazione dell’amigdala, rendendo l’adolescente sensibile agli stimoli emotivi e sociali.
I cambiamenti fisici della pubertà hanno come esisto la maturazione dei caratteri sessuali primari e
secondari. Le femmine hanno una maturazione sessuale più veloce e le trasformazioni del corpo
sono per tutti disomogenee, rendendolo spesso poco armonioso e quindi esponendo i ragazzi a
sentimenti intensi e diversi rispetto il proprio corpo e la stima di sé.
5.3, Immagine del corpo, sessualità e socializzazione
Tutti questi improvvisi cambiamenti portano, a partire dalla pubertà, i ragazzi ad avere un marcato interesse
verso il loro corpo, spesso non si piacciono, si giudicano o pensano di essere giudicati dai pari e quindi
provano a perfezionare la propria immagine fisica. Ma è importante in questo periodo essere soddisfatti del
proprio aspetto fisico? La risposta è affermativa, poiché questo rappresenta una delle preoccupazioni
principali e quindi può anche essere fonte di stress. Inoltre a queste preoccupazioni contribuiscono anche
l’ambiente sociale, i media e gli ormoni sessuali che aumentano la consapevolezza di sé e portano il focus
attentivo sul problema-corpo. Uno studio ha evidenziato il legame fra declinazioni dell’autostima in generale
(prestazioni scolastiche e atletiche, popolarità aspetto fisico ecc.) e aspetto fisico, per esempio ragazzi che
sono a proprio agio con il loro fisico hanno valori d’autostima più alta (chi l’avrebbe detto). Il corpo e la sua
immagine rappresentano un mezzo di comunicazione sociale ed emotiva privilegiata: e questo lo vediamo sia
attraverso i tentativi di ostentare il proprio corpo (tatuaggi, capelli colorati ecc.) sia azioni che portano a
nascondere il corpo (cappuccio, occhiali da sole ecc.) spesso attuati dallo stesso adolescente. Tutti questi
comportamenti esprimono stati interiori e quindi hanno una valenza comunicativa specifica. Questo è un
periodo che segna anche la scoperta della propria sessualità e del proprio orientamento sessuale, inoltre il
corpo diventa potenzialmente riproduttivo. A che età inizia il desiderio sessuale? Di solito intorno alla fine
della fanciullezza tende ad accendersi il primo desiderio sessuale, ma ci vuole un po' di tempo prima che
l’adolescente lo trasformi in atto sessuale vero e proprio. L’età del primo rapporto sessuale porta con sé
un’ampia differenza individuale ed è condizionata da diversi fattori:
Anni 2000 > 5% adolescenti dichiara di aver usato almeno una volta internet
2004 > 57%
2014 > 100%
2008 > 42% adolescenti che usano internet tutti i giorni
2014 > 81 % adolescenti che usano internet tutti i giorni
I social portano aspetti positivi legati all’alfabetizzazione multimediale e digitale, combattere la solitudine,
rafforzare relazioni, espandere la propria identità e affinare talenti. Tuttavia il passo da abitudine a
dipendenza è breve: nel 2018 l’ISTAT riporta che tra gli 11 e 17 anni 85% dei ragazzi utilizza
quotidianamente il telefono, con alcune differenze di genere che vedono le ragazze farne un uso più
frequente e prolungato (tre volte maggiore il rischio di diventare dipendenti rispetto i ragazzi). L’uso può
portare ad alcuni comportamenti a rischio come: guardare telefono prima di dormire, con conseguenti
problemi di sonno, distrazione nello studio o macchina/a piedi con potenziali incidenti ecc. Infine l’uso degli
smartphone inizia ad una età sempre più precoce: un bambino inglese su tre tra gli 8 e 11 anni usa già il
telefono, mentre negli Stati Uniti i bambini della scuola primaria che lo usano sono il 53%.
5.5, L’attaccamento e i legami familiari
In questo periodo, sia genitori che figli devono riorganizzare priorità e responsabilità e andare nella direzione
di una relazione che diventa sempre più simmetrica. A quale età ci riferiamo quando parliamo di
adolescenza? 14-20 anni. Una caratteristica distintiva di questo periodo è la sensibilità e recettività degli
adolescenti rispetto agli stimoli sociali ed emotivi, in particolare verso il giudizio sociale. I legami famigliari
ancora giocano un ruolo considerevole, infatti alcuni legami con i genitori, con certe caratteristiche rispetto il
calore e il controllo, sembrano associati a problematiche comportamentali di tipo internalizzante o
esternalizzante. L’attaccamento rappresenta ancora un legame emotivo e sociale importante? La risposta è
affermativa, ciò che cambia sono il linguaggio e il modo attraverso cui i segnali di attaccamento vengono
espressi, ma ciò che non cambia è la funzione che questo ricopre. Difatti comportamenti aggressivi o
conflittuali dell’adolescente, possono manifestare bisogni di attaccamento, vicinanza/protezione piuttosto che
una richiesta di autonomia, per questo la risposta del genitore se adeguata, può aiutare il ragazzo e dirigerlo
verso una maggiore regolazione emotiva rispetto a un’esacerbazione del conflitto. Il conflitto è un fattore di
cambiamento che può aiutare a definire la relazione verso modalità meno verticali e più negoziate/condivise.
A differenza delle relazioni rigide o apparentemente senza conflitto, i ragazzi sperimentano la sicurezza di
attaccamento all’interno di relazioni negoziate dove la regolazione emotiva rimane più funzionale. Ma
l’attaccamento si trasforma rispetto a come si era configurato nell’infanzia? La risposta non è univoca, la
sicurezza ha un carattere più conservativo, invece forme di insicurezza sono più soggetta a trasformazioni.
Per esempio un lutto o un trauma può cambiare la qualità dell’attaccamento nella direzione dell’insicurezza o
disorganizzazione. In più l’adolescenza è uno dei momenti in cui con maggiori probabilità può cambiare
l’assetto dell’attaccamento, anche per l’entrata di nuovi legami di coppia: per esempio una ragazza con un
attaccamento insicuro rispetto al legame con i genitori, ma che sviluppa un attaccamento sicuro nei confronti
del pattern, quest’ultimo può influenzare anche il primo legame insicuro mitigandone alcuni caratteri. Una
questione controversa riguarda il ruolo dei fattori biologici nella definizione dei modi in cui si organizza
l’attaccamento: il temperamento sembra giocare un ruolo piuttosto marginale (a eccezione dell’attaccamento
ansioso/ambivalente) mentre i fattori genetici contano circa il 40% della variabilità dei diversi attaccamenti
tra i ragazzi. Mentre nella fanciullezza e infanzia ciò che conta sono i fattori ambientali e la qualità
dell’ambiente, in adolescenza la componente genetica fa sentire il suo peso. Alcuni geni definiti “geni
candidati” oppure alcune interazioni fra geni e ambienti posso contribuire alle differenze di attaccamento
individuale. Nei ragazzi adolescenti varianti dei geni associati al sistema della serotonina e dopamina
rendono conto delle differenze di sicurezza e insicurezza. L’adolescenza si configura quindi come un periodo
in cui la componente biologica del comportamento gioca un ruolo importante.
5.6, Famiglia e genitori, compiti e sfide
Anche per la famiglia e i genitori l’adolescenza rappresenta una sfida educativo, per i seguenti motivi:
Le differenze di genere si fanno sentire di più, le adolescenti sono emotivamente più espressive dei
maschi
Il lessico emotivo è più presente, con una maggiore valenza mentalistica poiché è presente una
migliore capacità di introspezione
Esperienza emotiva intensa e anche la loro manifestazione è più accentuata, a questo va aggiunto che
gli adolescenti sono più instabili nell’umore
Sensibilità e reattività al giudizio sociale, sia da parte dei pari che da parte dei genitori
La comprensione delle emozioni è simile a quella dell’adulto, infatti l’adolescente riesce a
comprendere anche emozioni sociali compresse come: vergogna, colpa, gelosia e empatia > queste
vengono comprese sia ricostruendo le cause interne che esterne
I momenti di disponibilità o indisponibilità alla comunicazione sono spesso scanditi dai figli, alcuni
momenti chiudono la comunicazione e la riservano ai pari, altri momenti hanno un impellente
bisogno di comunicare
Qual è il compito dei genitori in questo momento evolutivo e quali sfide devono affrontare? Il compito
principale sembra essere quello di guidare i figli e non controllare, ma qual è la differenza fra controllare e
guidare? Rispetto a questo, ci ritorna utile il concetto di monitoring > indica l’attività con la quale i genitori
guidano e conoscono le attività e i comportamenti dei figli quando sono fuori casa. Quando il monitoring è
presente e si declina come dialogo e interesse rispetto gli impegni dei figli, questi mostrano meno disagio e
minor problemi comportamentali, mentre un’assenza o eccesso di controllo, aumenta la probabilità di
entrambi. Quindi lo stile autorevole è quello prediletto e deve realizzarsi attraverso l’equilibrio fra un
intervento genitoriale di natura emotiva e un intervento di natura disciplinare. Sotto il duplice obiettivo di
riuscire a dare regole e al contempo mantenere una relazione affettiva viva, possiamo ritrovare la teoria
dell’attaccamento che ci evidenzia come molti comportamenti degli adolescenti, quali rifiuto o isolamento,
possono in realtà celare bisogni di attaccamento, ossia connessione emotiva e richiesta di aiuto per regolare
le proprie emozioni. In questo, l’applicazione di pazienza, negoziazione, ascolto e condivisione conduce a
esiti evolutivi che hanno più probabilità di essere positivi.
5.7, Le strutture educative: scuola secondaria e attività sportive, ricreative, associazionistiche e di
volontariato
La scuola rappresenta ovviamente uno dei contesti principali di questo periodo e diventa anche il luogo
elettivo per promuovere socializzazione, reciprocità, apprendimento curriculare e di regole anche grazie al
contributo dei pari. Centrali sono le conquiste cognitive, con il pensiero astratto, capacità di ragionare per
ipotesi e seguire il metodo scientifico, queste permettono ai ragazzi di aumentare il loro interesse e le loro
competenze, contribuendo al successivo allontanamento dalla famiglia per andare ad esplorare il mondo.
Durante questo periodo è comune intraprendere una o più attività sportive: il picco massimo si raggiunge
dagli 11 ai 14 anni, per poi assestarsi e calare del 10% successivamente. L’abbandono di queste attività e
spesso causato da frustrazione o episodi di bullismo. Infine dai 16 anni circa, nasce un interesse per attività
che esulano dal proprio interesse personale, come il volontariato. Questo offre l’opportunità di sperimentare
maggiore autonomia, interiorizzare valori e norme sociali e aumentare la stima di sé, tuttavia se la sensibilità
adolescenziale viene a contatto con eventi come la malattia fisica o mentale, condizioni di trascuratezza, può
portare ad emozioni di non semplice gestione, in questi casi il monitoring è importante.
Sviluppi Atipici
5.8, Bullismo e cyberbullismo
Già a partire dalla fanciullezza possiamo ritrovare degli indici di popolarità che “dividono” i bambini in
popolari con i popolari, i bambini ignorati con quelli ignorati ecc., ossia delle gerarchie che collocano i
bambini in un gruppo piuttosto che in un altro. Questo può essere determinato da delle preferenze sociali per
alcune caratteristiche, ma come si passa da delle preferenze a dei fenomeni di sopraffazione e bullismo? Già
dalla scuola secondaria di primo grado, quindi dalla pubertà, le norme che il gruppo utilizza per scegliere
quali siano i ragazzi più popolari, non si limitano a competenze prosociali, ma interessano anche la capacità
dei ragazzi di attuare gesti di prepotenza e dominio nel gruppo. In adolescenza le forme di vessazione
possono assumere messi diversi: quando si utilizzano mezzi elettronici si parla di cyberbullismo, tuttavia
questo non è una semplice trasposizione del bullismo sullo spazio del web. Il bullismo “faccia a faccia”
implica prevaricazione ripetitiva fisica e/o sociale nei contesti relazionali tra pari, mentre il cyberbullismo
assume connotati diversi anche a causa delle sue caratteristiche peculiari che lo rendono un fenomeno a sé
stante.
1) In internet sono presenti tanti bystander (testimoni) virtuali e quindi aumentano gli spettatori che
vengono a conoscenza degli scherzi
2) L’asincronia delle interazioni, causata dalla rete, l’anonimato o le false identità e la possibilità di
diffondere contenuti denigranti anche dopo la prima condivisione, aumenta la percezione di
impotenza e frustrazione della cybervittima.
Per questi motivi, la cybervittimizzazione rappresenta una minaccia più grave rispetto il bullismo
tradizionale, causando effetti a breve e lungo termine, inoltre è più frequente per le ragazze che per i ragazzi.
Anche l’attaccamento costituisce un fattore di rischio: l’attaccamento insicuro accomuna sia cyberbulli che le
cybervittime, rispetto la qualità delle relazioni famigliari, del monitoring e del supporto dei pari, avvalorando
anche il ruolo dei legami familiari quale concausa del fenomeno.
Vi sono programmi che contrastano questo fenomeno, un esempio presente anche in Italia è il programma
NoTrap! Ossia un programma di prevenzione universale del bullismo e cyberbullismo rivolto a studenti di
scuola secondarie di primo e secondo grado. Il programma è nato dall’integrazione fra: ricerca teorica e
applicata, capacità di testare modelli teorici e valutazione dei possibili meccanismi di cambiamento,
rappresenta quindi un esempio decennale di integrazione fra ricerca e applicazione delle conoscenze. Il
programma si articola in tre fasi principali e occupa circa quattro mesi di scuola, permettendo la
collaborazione di adulti e pari nel contrastare questo fenomeno atipico di comportamento.
1) Prima fase: finalizzata ad aumentare la consapevolezza di studenti e docenti su tali fenomeni,
consiste in una rilevazione iniziale di potenziali episodi e in una sensibilizzazione per gli studenti
2) Consiste in un training dei peer educators (quattro o cinque per classe) dove vengono proposte
attività volte al potenziamento delle competenze di ascolto, emotive ed empatiche, di problem
solving e di coping. Infine vengono fornite indicazione su come i peer educators porteranno avanti
attività di supporto nella community del sito
3) È dedicata alle attività di peer education (in classe) e di peer support (sul sito). In classe ciascun peer
educator coordinerà le attività del sottogruppo assegnato, approfondendo i temi di empatia, problem
solving e strategie di coping. Il lavoro si focalizza sia sul punto di vista della vittima che dello
spettatore e si chiude con una discussione generale. Nelle attività online tutti i peer educators, a
rotazione, lavorano come moderatori della community.
Anoressia nervosa: rientra nei “disturbi alimentari psicogeni” (DAP) e riguarda un rifiuto ostinato
del cibo, controllo ossessivo delle quantità ingerite e paura di ingrassare, con successiva riduzione
dell’autostima e del peso corporeo.
Bulimia nervosa: alternanza fra abbuffate o binge eating e momenti di purging, pur non
compromettendo gravemente il peso, comporta problemi di salute come ulcere all’esofago, carenze
es. potassio, erosione dello smalto dentario e piaghe alla bocca,
Un’altra forma di DAP è il disturbo da alimentazione incontrollata ossia un uso eccessivo e fuori dal
controllo volontario che si caratterizza in abbuffate dove si assume tanto cibo in poco tempo e non si
ha il controllo su cosa si stia mangiando.
Emotional eating, vicina alla precedente, comporta il mangiare in modo frequente e ripetuto per
consolare o placare stati emotivi dolorosi o negativi.
Una cosa che accomuna tutti i disturbi è la loro capacità di compromettere le attività intraprese in
precedenza, tra cui la scuola: chi soffre di disturbi alimentari ha in genere un peggioramento del
rendimento scolastico.
Quindi, abbiamo una trasformazione di due elementi essenziali del funzionamento psicologico
dell’adolescente: attenzione al corpo e tendenza a usare la riflessività e giudizio, come avviene questo?
Comune a tutti i disturbi è la distorsione cognitiva per cui il proprio corpo non è adatto
La riflessività si trasforma in un giudizio critico su sé stessi
Il mancato raggiungimento del peso ideale oppure la perdita di controllo, producono un diffuso senso
di colpa e vergogna
Un aspetto collegato a quanto esposto, riguarda il perfezionismo non funzionale, ossia un insieme di
criticismo e perfezionismo. Molto studi indicano come un clima emotivo familiare propenso alla critica
possa nei figli declinarsi come perfezionismo patologico, cruciale nei disturbi alimentari. In generale tutte le
forma di disturbo alimentare si legano a un difetto nella capacità di gestire e regolare emozioni negative e
dolorose: sperimentare una incapacità di tollerare emozioni prepotenti, porta gli adolescenti a mettere in atto
comportamenti che, seppur disfunzionali, hanno l’effetto di evitare la consapevolezza di tale incapacità e di
mitigarne l’impatto psicologico > infine è una forma di canalizzazione del disagio su comportamenti.
Diffusione d’identità: incertezza e dubbio su dove si sta andando, sulle proprie preferenze e obiettivi,
disorientamento rispetto a quale strada intraprendere.
Blocco dell’identità: adozione di una identità fittizia per acquiescenza ai genitori o all’autorità,
congelarsi in base alle aspettative genitoriali
Moratoria di identità: sperimentazione di sé in u programma scelto e sul quale si investono risorse e
impegno. Sentimento di precarietà e sospensione, ma al tempo stesso caratterizzato da
determinazione.
Identità realizzata: stato in cui, dopo la valutazione di varie opzioni, si opta per una scelta che offre
soddisfazione e investimento emotivo.
Infine un ultimo aspetto riguarda le relazioni sentimentali. Erikson lo intende come un compito primario di
questo momento dello sviluppo, indicandolo come ricerca di intimità vs isolamento. Indipendentemente
dall’orientamento sessuale, il giovane adulto è sensibile al desiderio di genitorialità, e il diventare genitori
interessa un insieme di fattori di natura biologica, culturale e relazionale che trasformano la coppia di due
partner in una coppia anche di genitori.
6.3, Essere genitori: comportamenti e funzioni
Non esiste una equazione fra il mettere al mondo un bambino e il diventare genitori, difatti quest’ultimo
implica il coinvolgimento del sistema neuro-ormonale e una serie di comportamenti che hanno conseguenze
sia sulla prole che sui genitori. Una prima categoria di comportamenti rientra nei cosiddetti “comportamenti
di cura” che riguardano accudimento:
Emotivo
Fisico
Materiale
Stimolazione sociale ed educativa
Sono variabili dal punto di vista quantitativo > frequenza e durata
Sia qualitativo > significati ed emozioni
Questi costituiscono gli atti propri dell’essere genitore. La funzione del prendersi cura comprende un insieme
di competenze in continua evoluzione che si lega a un compito che dura tutta la vita: è da una parte fondata
da fattori biologici ed evoluzionistici, dall’altra è influenzata da fattori culturali e sociali. Inoltre un ulteriore
condizionamento deriva dal mondo in cui l’adulto vive la condizione di essere stato a sua volta figlio e dalla
qualità di cure che ha ricevuto. La funzione genitoriale di cura presenta tra caratteristiche fondamentali:
1) Autonomia: la funzione di cura mantiene una relativa indipendenza da altre funzioni psicologiche,
rimanendo integra anche quando altre condizioni vengono a meno oppure quando siamo sotto stress,
inoltre prescinde parzialmente dal legame biologico genitore-figlio.
2) Il suo aspetto processuale: l’aspetto di cura cambia la sua modalità di espressione in base alla
relazione e ai momenti diversi, anche di età attraversati sia dal genitore che dal figlio.
3) Natura intrinsecamente intersoggettiva della funzione: le capacità di cura si co-costruiscono in un
processo di continua interconnessione con il figlio ed è quindi in interdipendenza con le sue
caratteristiche fisiche, temperamentali, interattive e con il suo processo evolutivo.
4) Cambiamenti strutturali e funzionali che attraversano il cervello dell’adulto quando diventa genitore
> è una caratteristica complementare alle altre. Quando si diventa genitore, il cervello sviluppa una
sorta di “circuito genitoriale” che interessa regioni legate alle emozioni, alla gratificazione e al
sistema della ricompensa: amigdala, nucleo accumbens e insula. Un’influenza ulteriore deriva dalle
regioni legate allo scambio sociale: corteccia prefrontale e il solco temporale superiore. Questo
circuito rende il cervello del genitore flessibile e aperto ai compiti che si trova a dover affrontare,
nonché sensibili a specifici stimoli ricevuti dal bambino, come per esempio il pianto. Questi processi
avvengono nella “sincronia cervello a cervello” (interazione genitore-figlio) dove la coppia riesce a
sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda.
Madri: attivazione dell’amigdala e produzione di ossitocina nei compiti di cura
Padri: riduzione del testosterone e innalzamento della vasopressina prodotta dall’ipofisi durante i
compiti paterni che interessano l’apprendimento, il gioco e la motivazione.
Nelle coppie omogenitoriali e nei padri adottivi non vi sono differenze di attivazione: nei padri gay coinvolti
nei compiti di cura si manifesta sia un aumento di ossitocina che un’attivazione più intensa dell’amigdala,
simile a quella delle madri, sia un aumento dell’attività nelle aree cerebrali associate ai processi cognitivi.
Nei padri adottivi si ritrova lo stesso tipo di attivazione dei padri biologici. I padri gay che rivestono il ruolo
di caregiver primario, presentano l’attivazione di una doppia funzione cerebrale che identificheremmo come
materna e paterna. Questo dato avvalora il fatto che la condizione di genitore non è un fatto biologico, bensì
sociale, e comporta modificazioni del cervello non tanto in base al genere o al legame biologico, quanto in
base al ruolo che ci si trova a svolgere. Infine l’identità di genere è parzialmente indipendente dal genere e
dall’orientamento sessuale dei genitori, anche se giochi tipizzati per maschi o per femmine, o attività
educativi peculiari di uno specifico genere (gendered parenting) svolgono un ruolo nel determinare le
differenze individuali riscontrate nei figli. Quindi è la qualità degli scambi emotivi e relazionali a fare la
differenza rispetto allo sviluppo sociale ed emotivo dei bambini e non la diversa struttura rispetto alla
famiglia tradizionale. L’espressione “famiglie moderne” dove si intende la diversità e articolazione tra le
diverse forme familiari, è considerata un aspetto centrale della contemporaneità.
Regolare
Interpretare e predire comportamenti
Pensieri
Sentimenti di sé stessi e dell’altro.
Si tratta quindi di un riepilogo che raccoglie i pattern di interazione che hanno caratterizzato gli scambi
socioemotivi tra il genitore e il figlio. Dei MOI siamo consapevoli? Possiamo controllarli e quindi adottare
strategie relazionali volontarie, oppure fanno parte del repertorio spontaneo e immediato dell’agire
relazionale? Sono strategie comportamentali che un tempo erano consapevoli e volontari e che nel corso
della crescita, grazie al loro successo adattivo, sono diventati pattern automatici di comportamenti, emozioni
e pensieri del rapporto con gli altri. Diventano quindi il nostro modo naturale e spontaneo di comportarci nei
rapporti affettivamente importanti, di regolare le emozioni all’interno di questi, nonché i nostri pensieri e le
nostre aspettative interpersonali. Grazie alla qualità della sensibilità del caregiving si formano i diversi MOI
che distinguono i modi con cui gli adulti regolano le proprie emozioni, ne hanno consapevolezza, ricordano
la propria storia infantile e definiscono cosa aspettarsi dall’altro significativo. Nel corso degli anni si
consolida un modo di condividere i significati, che rappresenta la base per le differenze individuali fra gli
adulti. Ma cosa di questo linguaggio rimane in età adulta e sulla base di quali indicatori o processi possiamo
riconoscerlo?
Pattern di attaccamento nell’adulto
Pattern sicuro (F): la lettera F sta per free. > le emozioni sia positive che negative sono espresse, regolate e
sperimentate in modo flessibile, le aspettative relazionali sono aperte e benevoli e la memoria autobiografica
è ben conservata. La storia infantile di questi adulti è caratterizzata da figure genitoriali che hanno mostrato
disponibilità emotiva, ma allo stesso tempo rispetto per le iniziative del figlio.
Pattern distanziante (Ds): dismissing > la storia infantile di questo adulto sarà caratterizzata da una figura
genitoriale poco disponibile emotivamente, rifiutante o che sembra non accorgersi (trascuratezza o neglet)
delle manifestazioni emotive e dei bisogni di attaccamento del figlio. Con questa figura il bambino impara
che può condividere le emozioni positive, ma che per mantenere il legame deve inibire quelle negative o
trovare strategie per affrontarle da solo, difatti di fronte a quest’ultime, il genitore si dimostra rifiutante o
disattento oppure individua soluzioni pratiche e organizzative prive di condivisione. Questo funzionamento
si perpetua in modo naturale e spontaneo anche nell’adulto, che appunto inibisce le emozioni negative o si
distrae da esse con sport e lavoro, quindi applica la sua strategia regolatoria, e condivide quelle positive
garantendosi così la sicurezza di riuscire a mantenere un contatto con l’altro. Per quanto riguarda la memoria
e la consapevolezza della qualità del suo approccio relazionale, l’adulto ricorderà le condivisioni positive
mettendo tra parentesi o non ricordando gli aspetti negativi. Questo pattern di attaccamento si mostrerà
vulnerabile quando lo stress si manifesterà in modo troppo intenso e non riuscirà a fronteggiarlo ricorrendo
esclusivamente all’inibizione attiva delle emozioni negative e all’assenza di un supporto sociale.
Pattern invischiato o preoccupato (E): entangled > la storia di sviluppo di questo adulto presenterà genitori
ambivalenti e contraddittori emotivamente, a volte rifiutanti e altre volte disponibili, dove il bambino
monitora attivamente la disponibilità emotiva del genitore e la possibilità di vicinanza. Il bambino impara
che per raggiungere l’obiettivo primario dell’attaccamento deve “marcare stretto” il genitore; ciò che non
viene condiviso in questi scambi emotivi relazionali sono le emozioni positive, invece quelle negative
diventano un’occasione per accentuare i problemi, creare escalation emotive e fare gruppo al di sotto dello
stesso problema che stenta a trovare soluzione (vignetta pag. 205). Il bambino impara che per mantenere il
legame con il genitore, poco disponibile a regolare l’intensità delle emozioni negative, dovrà accentuare il
problema per attrarre l’attenzioni e le cure del genitore. In età adulta questo si traduce in una tendenza ad
accentuare l’attivazione fisiologica (arausal) senza riuscire a utilizzare strategie di coping orientate al
problema. In modo naturale e spontaneo accentuerà i problemi senza capacità di risolverli, affrontandoli con
un coping incentrato sull’emozione provata sul momento, piuttosto che sulle richieste del compito. La sua
consapevolezza della qualità del rapporto avuto con i genitori sarà il medesimo: ricorderà e valorizzerà gli
aspetti negativi e nei momenti di difficoltà emotiva tenderà ad esasperare il problema (la strategia per essere
efficace deve rispettare questi vincoli). La vulnerabilità di questo pattern riguarda la capacità di calmarsi e di
agire efficacemente per regolare le emozioni.
Pattern irrisolto rispetto al lutto o al trauma (U): unresolved > la storia di sviluppo presenta probabilmente
eventi traumatici che il bambino non è riuscito a risolvere o elaborare, dove i genitori possono essere
maltrattanti o assenti/importanti, ossia inadeguati a fornire un punto di riferimento e una guida per il
bambino; in questo il fine dell’attaccamento fallisce. Nell’adulto si mantengono comportamenti e stati di
coscienza contraddittori e non integrati. Il bambino per mantenere il legame con il genitore, poco capace di
regolare l’intensità emotiva in modo coerente, utilizza strategie poco efficaci alimentando un senso di
impotenza e fallimento. In età adulta vi è una propensione al freezing (congelare) gli stati emotivi, attuando
comportamenti impotenti/spaventati o aggressivi/spaventanti. Il minimo comune denominatore di queste due
modalità riguarda il mantenimento di uno stato di paura e allarme, che caratterizza questo pattern di
attaccamento. L’adulto in modo spontaneo e naturale affronterà i problemi con un coping improntato sul
senso di impotenza e sopraffazione emotiva. La vulnerabilità si presenterà nei momenti di forte stress che
causeranno un crescere dell’intensità emotiva e una rottura del sistema dell’attaccamento; quindi questo non
riguarda l’intero funzionamento emotivo dell’adulto, ma solo momenti emotivamente coinvolgenti; si tratta
di temporanee compromissioni del sistema di attaccamento che nelle maggior parte dei casi, funziona
secondo uno dei tre pattern organizzati.
I pattern di attaccamento nell’adulto entrano in gioco in modo spontaneo e naturale poiché sono
consolidati meccanismi di funzionamento che si traducono in comportamento
Moi ricerca la sicurezza, questa ricerca avviene attraverso specifici meccanismi di funzionamento
mentale tra cui: regolazione emotiva, accesso alla coscienza, memoria, aspettative e comportamenti
interpersonali.
L’adulto trova i suoi significati in uno spazio interpersonali condiviso, dove alcuni segnali emotivi
vengono accolti, altri rifiutati, altri soppressi o distorti. In questo senso la sicurezza e insicurezza
sono l’esito delle differenti modalità di funzionamento rispetto i significati emotivi.
Vi è una organizzazione verticale che parte dalla storia dello sviluppo; ossia quanto la figura di
attaccamento è stata disponibile emotivamente e quanto ha risposto ai bisogni, e quanto di queste
modalità è stato interiorizzato dal soggetto per l’organizzazione di MOI. Tutto queste esperienze si
traducono in rappresentazioni mentali che costituiscono il punto di partenza per la trasmissione di
pattern di attaccamento tra generazioni.
All’interno della famiglia vi è anche una organizzazione “orizzontale” dei modelli di attaccamento,
che si manifesta nei rapporti importanti come quelli di coppia.
Il funzionamento dell’attaccamento nell’adulto è frutto di: 1) esperienza maturata con i propri
genitori 2) espressione di questo funzionamento attraverso il proprio comportamento verso i figli.
Questo non significa che la trasmissione del pattern di attaccamento segue un iter deterministico, vi è
una certa stabilità dei MOI, ma questi possono anche essere variabili di fronte a diversi fattori che
possono intervenire nella vita adulta come il rapporto di coppia, eventuali eventi traumatici o
mutazioni della vita affettivo-relazionale. Più le condizioni ambientali sono mutevoli, più aumentano
le probabilità che i pattern di attaccamento subiscano una ridefinizione, seppur siano sostanzialmente
stabili.
6.5, Le sfide dell’età avanzata
Oggi l’età avanzata costituisce un periodo di vita più ampio, poiché inizia verso i 65 anni e in media vi sono
ancora una ventina di anni da vivere, possiamo suddividere questo momento della vita in due sottoperiodi:
1) Età avanzata media (anziani giovani): fino agli 80 anni, con salute discreta
2) Età molto avanzata (anziani anziani): dagli 80 anni e si associa a una general fragilità e uno stato di
salute in genere compromesso
Quali sono le caratteristiche del funzionamento emotivo e sociale di questo periodo? La teoria più accredita,
teoria della selettività socioemotiva di Laura Carstensen, sostiene che gli anziani vedendo una restrizione
delle possibilità, adottano naturalmente una valorizzazione del presente che cerca di trarre il meglio dal
momento presente. L’anziano modifica le proprie priorità sociali, privilegiando i rapporti stretti, solitamente
familiari, e applicando una attenzione selettiva per le emozioni positive e una conseguente riduzione di
attenzione per le emozioni negative. Gli anziani sembrano non enfatizzare le emozioni negative favorendo
così una buona regolazione emotiva e un benessere soggettivo. Appare paradossale poiché a una fragilità
corporea vi è allo stesso tempo un senso di benessere, ottimismo e soddisfazione, un effetto di positività. Può
esserci una riduzione dello stress, noia e senso di inutilità a favore di una accettazione e tranquillità interiore.
Ovviamente non è così per tutti, ma alcuni fattori possono facilitare questo processo: il primo fattore solo le
relazioni sociali e la loro qualità, gli anziani che conservano amicizie e attività sociali riportano anche una
migliore capacità di vivere la solitudine e un decremento delle emozioni negative. Di contro, l’isolamento
può peggiorare il funzionamento emotivo e cognitivo dell’anziano, sottolineando come i rapporti sociali
giochino un ruolo anche in questo periodo della vita.
L’esperienza della vedovanza rappresenta una sfida per l’equilibrio emotivo e sociale, e la teoria
dell’attaccamento ha ben descritto le diverse fasi che deve attraversare chi è costretto a subire una
separazione dovuta a morte o abbandono. Se nei bambini questa rappresenta un’esperienza destinata a
lasciare tracce psichiche permanenti, nell’anziano vi è la possibilità di intraprendere nuove abitudini sociali e
quindi vivere più serenamente la sofferenza. Rispetto la capacità di sopportare in senso costruttivo la
solitudine, sono presenti differenze fra uomini e donne, dove gli uomini appaiono più vulnerabili e dove
vedono nella vedovanza un rischio aumentato di mortalità. L’età avanzata si confronta in modo diretto con il
tema della morte, poiché rappresenta un qualcosa di prossimo e non remoto come nei periodi evolutivi
precedenti. (riquadro pag. 212, La morte e il morire).
Sviluppi Atipici
6.6, Età adulta e genitorialità: fattori e comportamenti a rischio
6.6.1, una doppia condizione di minore età: madri e padri adolescenti
La maternità adolescenziali implica l’affrontare compiti e sfide diverse e vi sono alcuni rischi legati alla
doppia condizione di minori della coppia genitore-bambino. Quali sono le caratteristiche delle madri
adolescenti?
Positive: più energia, meno inclini alla stanchezza e dimensione di gioco attiva nell’interazione.
Negative:
Più egocentrismo tipico dell’età adolescenziale
Meno attenta ai bisogni del figlio e minor capacità, data l’immaturità, di poter immaginare
semplicemente i potenziali bisogni di un figlio
Aspettative poco realistiche rispetto a ciò che è in grado di fare un bambino: si aspettano che il figlio
stia in piedi a sette-otto mesi, o che stia seduto a due mesi, o lo lasciano gestire il biberon.
Quando il bambino entra in età prescolare, quindi raggiunge effettivamente una maggiore
autonomia, queste madri cambiano rotta e diventano ipercontrollanti, abbandonando il precedente
“blando controllo” e spinta verso l’autonomizzazione che attuavano nei primi anni di vita del figlio.
Questo si traduce in un ipercontrollo che limita la capacità di esplorazione del bambino.
Poca sensibilità rispetto lo sviluppo linguistico dei bambini, infatti mettono scarsamente in atto
alcuni comportamenti che sono rilevanti per il linguaggio: leggere storie, usare il motherese e
indicare gli oggetti che si nominano.
Padri adolescenti
responsività materna
Regolazione emotiva
Comportamenti di cura della madre
Tutto questo ha un effetto indiretto e positivo sul bimbo
Un esempio di come questi interventi possano avere successo lo vediamo in uno studio italiano dove nel
primo anno di vita madri e bimbi sono stati sostenuti nello sviluppare le loro competenze genitoriali: queste
madri hanno rafforzato la lor capacità di parlare di più al loro bambino, di intuire meglio i loro stati mentali e
provare più soddisfazione negli scambi emotivi con i propri bimbi.
6.6.2 Quando il genitore è maltrattante
Abbiamo già illustrato le varie forme in cui si può espletare il maltrattamento, ora approfondiamo il
comportamento e le attitudini del genitore che mette in atto il maltrattamento. Cosa porta un genitore ad
avere comunicazioni e azioni che maltrattano i figli? Come mai non trovano modi alternativi? La teoria
dell’attaccamento rappresenta un riferimento teorico ed empirico per interpretare questi comportamenti alla
luce della storia di vita del genitore e dei suoi modelli. Uno studio di Frigerio ha utilizzato l’intervista semi-
strutturata AAI, volta a raccogliere la autobiografia infantile dell’adulto, per analizzare tre gruppi di madri e
le rispettive differenze negli stati mentali legati all’attaccamento.
1) Madri dalla popolazione normativa
2) Madri con basso reddito e livello di istruzione
3) Madri ospitate in una comunità madre-bambino in seguito a una segnalazione dei servizi sociali
riguardo la presenta ti maltrattamento
I risultati hanno mostrato una differenza rispetto agli stati mentali delle mamme del terzo gruppo rispetto gli
altri due. Le madri dei primi due gruppi hanno tassi più bassi di stati mentali caratterizzati da una mancata
integrazione tra ostilità e impotenza, il gruppo delle madri maltrattanti raggiunge il 75%. La mancata
integrazione di stati mentali caratterizzati da un sentimento di impotenza e di ostilità espletati nei
comportamenti di cura può comportare una messa in atto di comportamenti impulsivi, inconsapevolmente
violenti con uno scarso controllo su di essi. Cosa ci dice questo dato rispetto al funzionamento della
genitorialità maltrattante?
1) Quanto sia importante considerare il ciclo intergenerazionale del maltrattamento: alcune esperienze
infantili possono spingere a mettere in atto comportamenti violenti e maltrattanti. Un genitore
maltrattante può soffrire a sua volta di una inappropriatezza di cure ricevute che lo rendono poco
capace di offrine altre più adeguate.
2) Il dato sottolinea come l’interiorizzazione di modelli relazionali d’attaccamento, dove si subiscono
(impotenza) comportamenti del genitore o l’ostilità di quest’ultimo, possono portare ad acquisire a
sua volta un comportamento che trova nel maltrattamento un modo per esprimere la combinazione di
impotenza e ostilità.
Vi sono alcuni comportamenti centrali rispetto le conseguenze sul minore:
6.7, Età avanzata: emozioni e percezione del rischio in situazioni di pericolo per la salute
Come percepiscono gli anziani, rispetto ai giovani e agli adulti, le minacce che derivano da malattie o
epidemie? Gli anziani temono il covid in modo diverso rispetto alle persone appartenenti ad altra fasce di
età? Un primo fattore che influisce sulla percezione del rischio e sui comportamenti che ne derivano (dalla
percezione) è la qualità degli stati emotivi che si sperimentano durante la percezione del rischio stesso.
Secondo la teoria delle selettività socioemotiva, il funzionamento psicologico normativo e tipico dell’anziano
tende a regolare le proprie emozioni negative mettendole da parte a favore di quelle positiva, vi è quindi un
modo diverso di sperimentare le emozioni negative e questo è rappresenta una variabile importante rispetto
alla loro diversa percezione del rischio. Attraverso interviste hanno valutato la loro:
Quindi a che età emerge una concezione, coscienza e pratica della morale simile/uguale a quella
dell’adulto?
Rispetto a questo Piaget non considera la concezione morale del bambino come un qualcosa di equiparabile a
quella dell’adulto, poiché il bambino fino alla fanciullezza, possiede principalmente un pensiero di tipo
egocentrico e di conseguenza le sue azioni sono calibrate in base alla sua visione delle cose. Quindi ha una
concezione egocentrica di cosa sia giusto e sbagliato. Quindi il contributo più grande che deriva da Piaget e
che ancora conserviamo riguarda il fatto che il comportamento morale dipende da come concepiamo le
regole, la giustizia ecc. quindi la morale dipende dal nostro modo di ragionare. Inoltre, come abbiamo
accennato, ha compreso che il modo in cui i bimbi intendono una regola è molto diverso dalla concezione
adulta, difatti secondo Piaget lo sviluppo della morale segue un percorso stadiale dove un importante punto
di snodo è segnato dal passaggio dal pensiero egocentrico al pensiero operatorio, verso i 7 anni. Piaget vede
quindi una equiparazione fra cosa penso=come mi comporto (idea che ha subito integrazioni) ed è inoltre
presente una dicotomia fra l’iniziale morale eteronoma (questa cosa è giusta perché lo dice un adulto quindi
il bambino rispetta la regola perché vi è una contingenza, ma se non è osservato potrebbe anche non
rispettarla, è quindi una morale che dipende dall’adulto e l’interiorizzazione è ancora work in progress) e
morale autonoma. Il passaggio verso una morale autonoma avviene con la conquista del pensiero concreto
dove la morale cambia e diventa attenta anche agli effetti delle azioni, quindi i bambini valutano una azione
come grave in base a quanto è grande l’effetto che produce, successivamente con il pensiero operatorio
astratto, il bambino oltre gli effetti riesce a integrare nella sua concezione anche le intenzioni. Le idee
successive rispetto allo sviluppo della cognizione morale, negli anni ’80, hanno integrato e in parte
modificato l’idea di Piaget, sottolineando come pensiero/cognizione e comportamento non sempre
coincidano e mettendo in luce le emozioni che riguardano l’agire morale. Rispetto a questo ultimo aspetto
Rest sottolinea più processi implicati nell’azione e giudizio morale:
Sensibilità morale: capire che vi è una relazione fra il proprio agito e le conseguenze che questo ha
sul benessere altrui.
Giudizio morale: basato sul binomio giusto/sbagliato.
Decisione morale: valutazione dello spettro delle possibili azioni morali in base ai costi e benefici
per sé e per gli altri.
Azione morale: capacità e volontà di agire ciò che si è deciso.
Quindi la dimensione morale è un qualcosa che presuppone più dimensioni cognitive, sociali ed emotive.
7.3, Gli ambiti della morale
Un limite della proposta di Piaget riguarda il fatto di non aver fatto una distinzione fra regole e regole morali,
distinzione utile anche per comprendere come mai alcune regole sono più facili da applicare rispetto ad altre.
Nucci e Turiel propongono una visione in cui l’adesione del bambino alle regole si basi su quattro ambiti:
*questa si chiama la teoria degli ambiti ed evidenzia anche come il potere della regola, dal punto di vista
educativo, possa dipendere anche dal contesto.
1) Abito morale: comprende alcuni principi che intrinsecamente (prescritti) comportano obbligatorietà,
generalizzabilità e impersonalità: e riguardano la natura universale di temi come i diritti umani, il
benessere e la giustizia “rubare è sbagliato”.
2) Abito convenzionale: riguarda alcuni principi che non sono universali poiché dipendono dal contesto
sociale di appartenenza, che guidano i comportamenti giusti da applicare nei vari contesti: mangiare
con le posate, usare il velo quando si entra in un luogo sacro ecc.
3) Ambito personale: riguarda comportamenti e regole che hanno dirette conseguenze sul soggetto che
le applica: colore dei capelli, orientamento sociale, abbigliamento.
4) Ambito prudenziale: comprende comportamenti che implicano delle conseguenze per la salute e la
sicurezza della persona che le mette in atto: uso di droghe, alcol, sporgersi da una ringhiera.
La capacità di discriminare fra i diversi ambiti è precoce del bambino e a due anni riesce a generalizzare o a
valutare in base al contesto, il valore di una regola morale: per esempio aggredire un bambino e sempre
sbagliato e non mettere a posto i giochi è sbagliato in base al contesto. Solo intorno ai vent’anni il soggetto
comprendere il valore universale di equità e giustizia e l’adesione alle norme come facilitazione sociale. Il
fatto che vi siano più ambiti ci aiuta a capire il perché l’adesione a una regola suscita una risposta emotiva
che dipende anche da come la regola viene intesa. Inoltre le conseguenze emotive che derivano dagli
interventi educativi (scopo far rispettare le regole) dipendono dalla correttezza o meno di come l’educatore le
ricollega ai vari ambiti. Quindi è importante tenere presente che alcune regole sono costruite insieme ed altre
appaiono invece universali; per accettarle e aderirne è importante che l’emozione legata alla regola non sia
negativa. Difatti aderire ai principi morali coinvolge sempre una certa emozione, per questo parliamo di hot
condition.
7.4, Emozioni e relazioni familiari
L’adesione a principi morali si caratterizza come una hot cognitions, ossia un processo di pensiero associato
a un carico emotivo. Le emozioni morali sono processi intuitivi che si legano agli scambi relazionali dove
sono coinvolti giudizi o azioni morali. A differenza delle emozioni di base, che sono immediatamente
rilevanti per il sé, le emozioni morali sono legati agli interessi e al benessere della società e dei singoli e
quindi superano gli immediati interessi del sé e servono alla creazione di legami. Inoltre più un’emozione
morale è evocata da fattori lontani dagli interessi del soggetto, più tende a essere considerata una emozione
morale prototipica. Le emozioni morali compaiono intorno ai diciotto mesi e il loro sviluppo si completa
intorno ai tre anni e questo perché richiedono la capacità di riflettere sulle proprie azioni e di valutarlo in
base alle norme sociali e ai rapporti interpersonali:
Colpa
Vergogna
Imbarazzo
Disprezzo
Timidezza
Orgoglio
Empatia
Disgusto
*pag. 234 tabella con emozioni morali, fattori elicitanti e conseguenti comportamenti
Sono tutte emozioni che hanno la caratteristica di esporre il soggetto, direttamente o indirettamente, al
giudizio altrui e inducono il soggetto a tenere in considerazione l’insieme di norme che caratterizzano la
cultura di appartenenza e gli scambi sociali. Questo tipo di emozioni complesse richiedono dei processi
mentali che portano il sé del soggetto al centro dell’attenzione, dove viene valutato da parte degli altri e nei
confronti degli altri. Per questo vengono chiamate “emozioni autoconsapevoli” poiché presuppongo questi
processi autoriflessivi. Possiamo vedere l’imbarazzo, la colpa e la vergogna all’interno di un continuum
crescente di intensità: la maggiore intensità deriva dalla percezione di responsabilità che il soggetto ha nei
confronti delle proprie azioni. Quindi non è tanto il tipo di azione commessa a determinare l’impatto
emotivo, ma l’interpretazione che diamo di quella stessa azione; se si isola il comportamento in quanto tale,
sentiremo di non aver compromesso globalmente la nostra immagine e ci sentiremo in grado di attuare delle
azioni riparatorie, qui si inserisce l’emozione della colpa. Se invece il focus ricade sul sé in senso globale
(sono ingiusto vs ho fatto una cosa ingiusta) l’emozione di vergogna che ne deriva sarà più intensa e sentita
come irrimediabile e più dipendente dal giudizio altrui.
Per quanto riguarda il senso della responsabilità, se questo in un soggetto risulta eccessivo come nel caso di
DOC, si è visto che somministrando un test sulla sensibilità alla reazione del disgusto questi soggetti tendono
ad avere una enorme reazione di disgusto di fronte a qualcosa in cui tutti lo proverebbero, esempio la foto di
un cibo avariato, ma dove la reazione normale rimane comunque contenuta. Questa evidenza giustifica in
parte il perché il disgusto contiene una accezione morale.
Differenze colpa e vergogna
Colpa
o Focus: sul comportamento messo in atto
o Intensità: meno intensa, meno dolorosa
o Azione/comportamento: strategie di coping, affrontare e riparare
o Esperienza soggettiva: preoccupazione su come gli altri possono giudicare la propria azione,
rimuginio o ruminazione
o Unica emozione che ci dà la spinta alla riparazione
Vergogna
o Focus: sul sé in senso globale
o Intensità: più intensa e dolorosa
o Azione/comportamento: ritiro ed evitamento
o Esperienza soggettiva: preoccupazione di come gli altri possano giudicare il proprio sé,
senso di inadeguatezza
o È quindi l’emozione opposte al senso di colpa poiché ci induce all’evitamento a causa che
dal punto di vista cognitivo questa emozione implica un giudizio globale sul sé.
Il senso di colpa è una emozione centrale per lo sviluppo del senso morale, poiché è un indicatore della
presenza della “coscienza morale” dove appaiono già i primi segni nei bambini. Come ogni emozione, anche
il senso di colpa segue un precipuo sviluppo evolutivo dove risponde a “imperativi” diversi in base all’età del
bambino.
Tappe dello sviluppo del senso di colpa
1) 4-5 anni: si sentono in colpa per non aver contraccambiato l’azione di un’altra persona
2) 6-8 anni: senso di colpa per non aver portato a termine un obbligo o una promessa
3) 10-12: senso di colpa per aver violato una norma morale astratta
Rispetto a questo le relazioni familiari svolgono un ruolo nello sviluppo morale, di conseguenza i legami di
attaccamento e ciò che implica, quindi regolazione emotiva e gli eventuali vincoli connessi alle forme di
insicurezza, influiscono sull’agire morale. Per esempio un soggetto con attaccamento evitante/distanziante di
fronte a una forte emozione di colpa, non condividendo e regolando le emozioni negative con altri, non
riesce a gestirla in modo troppo funzionale e anche le sue potenziali azioni riparatrici potrebbero risentirne,
viceversa un attaccamento sicuro è più funzionale nel trovare risorse per affrontare le situazioni. Quindi la
qualità dei legami familiari condiziona il buon funzionamento o meno dell’azione morale. La relazione con i
genitori pone delle fondamenta per lo sviluppo della coscienza morale anche attraverso i comportamenti e gli
stili disciplinari tipici dei genitori che utilizzano per richiamare la disciplina e il senso delle regole. Come si
trasmettono valori e comportamenti all’interno della famiglia? Una percentuale significativa delle interazioni
familiari si articola in “incontri disciplinari” dove i genitori danno indicazioni, richiedono di rispettare regole
e impongono limitazioni e divieti. Questi incontri disciplinari possono declinarsi attraverso tre stili differenti
che li rendono più o meno efficaci. La socializzazione morale, ossia l’interiorizzazione di norme e valori,
avviene attraverso vari fattori: stili disciplinari dei genitori, legami di attaccamento, regolazione e
socializzazione delle emozioni, età, il genere e temperamento e scambio genitore-figli (momento elettivo per
l’apprendimento dei principi e l’agire morale).
Stili disciplinari dei genitori
I bambini dai 18 mesi circa, cominciano ad apprendere le regole all’interno della famiglia e in questo senso
gli stili disciplinari (lei la chiama anche socializzazione) dei genitori fanno la differenza. È importante che il
messaggio disciplinare si accompagni a un messaggio sensibile, cioè il riuscire a dire di no, il saper mettere
delle regole e dei limiti dovrebbe allo stesso tempo essere accompagnato da una connessione emotiva con il
figlio, in questo caso parliamo di disciplina sensibile.
1) Disciplina basata sul potere > si fonda sul principio di autorità e i bambini rispettano le richieste per
paura. Non favorisce l’interiorizzazione
2) Disciplina basata sul ritiro dell’amore > si fonda sulla relazione affettiva, dove il bambino aderisce
per non perdere l’affetto dei genitori. Non favorisce l’interiorizzazione
3) Disciplina induttiva: si fonda sull’empatia e sulla capacità di perspective taking del bambino, ossia
viene incitato dai genitori a mettersi nei panni dell’altro e a valutare le conseguenze delle proprie
azioni. Favorisce l’interiorizzazione
I primi indizi della coscienza morale
Questi possono essere studiati attraverso un esempio di procedura sperimentale che può essere somministrata
ai bambini di 2 anni, ma non oltre i 4. Lo sperimentatore dà al bambino un oggetto (bambola o macchina)
dicendogli che ha un valore per lui e di giocarci facendo attenzione. Il bambino comincia a manipolare
l’oggetto e questo si rompe facilmente (danneggiato in precedenza dagli sperimentatori). Lo sperimentatore
esprime un moderato dispiacere e rimane in silenzio. Successivamente chiede al bambino cosa sia successo e
se sia stato lui a romperlo. Infine lascia la stanza portando con sé l’oggetto e dopo poco ritorna con lo stesso
ormai riparato (solitamente uovo) dicendo al bambino che non è stata colpa sua se si era rotto (così da non
lasciare il bambino triste). Attraverso l’analisi di indici comportamentali del bambino (sguardo basso ed
evitante, tensione fisica, arausal emozionale, stress, tendenza a confessare, difese e bugie, si valuta la
presenza o meno di coscienza morale e sensi di colpa. Da questi esperimenti è emerso come queste
componenti compaiano presto, ma soprattutto come segnalino già delle differenze individuali facendo una
prima distinzione fra bambini più sensibili e capaci di provare colpa e bambini meno sensibili.
Il fatto che una regola sia repressiva o meno, dipende dall’età e la regola deve essere sensibile alle
risorse del bambino: di conseguenza è normale che durante tutto il primo periodo dello sviluppo sia
il genitore che “decida”. Sicuramente è importante spiegare la regola, ma lo è da una certa età in poi
e la spiegazione deve essere adattata in base alle competenze del bambino, se la spiegazione è
eccessivamente presente, probabilmente vi è una insicurezza dell’adulto.
Obbedire e trasgredite è importante per un motivo: sono azioni che ti danno il senso dell’dell’altro, i
bambini che fanno esperienza dell’obbedire al genitore hanno più rispetto e considerazione
dell’altro, è importante nel percepire e rispettare l’educatore. Se noi privilegiamo il registro affettivo,
la morale ne risentirà indubbiamente, è compito dell’adulto inserire dei limiti e insegnare un minimo
di frustrazione.
7.6, Sviluppo empatico e comportamento prosociale
Sviluppo empatia e del senso di sofferenza empatica
0) Stadio zero, pianto reattivo del neonato: quando un neonato ne sente un altro piangere, comincia a
piangere a sua volta, è un meccanismo primitivo di imitazione (mimicry e condizionamento) che sta
alla base del contagio emotivo. Non tutti i bimbi manifestano il contagio emotivo, dipende anche
dalla soggettiva permeabilità all’ambiente.
1) Stadio 1, empatia egocentrica: appare intorno al primo anno ed è la prima forma di corrispondenza
empatica. Quando un bimbo ne vede un altro sofferente, compartecipa alla sofferenza mostrando
disagio. L’empatia qui mostra l’inizio della corrispondenza emotiva e ha un fine autoconsolatorio.
2) Stadio 2, empatia non più del tutto egocentrica (quasi egocentric): siamo all’inizio del secondo anno
ed è la prima forma in cui appare un comportamento di aiuto associato alla sofferenza empatica.
Tuttavia il bambino offre aiuto secondo il suo punto di vista, per esempio se un bambino piange
perché non trova la mamma, lui lo porta dalla propria madre. Quindi importante, è presente l’azione.
3) Stadio 3, empatia veridica: è lo stadio che dura di più, siamo alla fine del secondo anno dove i
bambini cominciano a capire che gli stati interni dell’altro possono essere diversi dai propri. Qui il
bambino attua comportamenti d’aiuto adatti alla situazione ed ha il fine di alleviare la sofferenza
altrui e non solo la propria. Per esempio l’amica piange perché ha perso il berretto, il bimbo gli
porterà un berretto simile. In questo stadio il comportamento è veramente prosociale ed è un
momento con una valenza evolutiva importante perché questa acquisizione perdurerà per tutta la
vita.
4) Stadio 4, empatia per la condizione esistenziale dell’altro: a partire dall’adolescenza e quindi da una
maggiore capacità d’astrazione, l’empatia comprende tutte le situazioni in cui l’altro o un gruppo è
in sofferenza o svantaggio. È un livello di compartecipazione empatica a cui non tutti arrivano e che
quindi distingue le persone più sensibili. In questa forma non è necessaria la presenza dell’altro
sofferente, ma basta sapere delle condizioni in cui vivono persone o gruppi di persone. Quindi
dall’adolescenza una parte di ragazzi non superiore al 10% può sviluppare una empatia per la
situazione esistenziale dell’altro e questa percentuale solitamente tende a mantenerla per il corso
dell’intera esistenza.
Questo percorso di sviluppo sussume il passaggio da un’empatia egocentrica a una forma empatica sempre
più decentrata.
Quindi nei comportamenti morali vi è l’empatia che gioca un ruolo importante e che viene definita da
Hoffman come: “la risposta affettiva più appropriata alla situazione di un’altra persona che alla propria”
ossia che i processi psicologici che posso provare fanno in modo che i sentimenti che provo sono più consoni
alla situazione di un altro rispetto la mia. Questa emozione è difatti complessa poiché non vi è una pura
coincidenza affettiva tra osservatore e modello. La caratteristica distintiva dell’attivazione empatica è la
“sofferenza empatica” (empathic distress) ed è la molla per i comportamenti prosociali e di aiuto. La
sofferenza empatica si attiva e si esprime attraverso forme diverse, alcune elementari e involontarie, altre che
richiedono processi cognitivi superiori (mediazione verbale e assunzione di ruolo) e queste permettono di
provare empatia anche quando la persona è assente.
Forme elementari
1) Mimesi (mimicry): avviene negli incontri faccia a faccia dove è presente una coincidenza fra i
sentimenti della vittima e quelli dell’osservatore, attraverso un passaggio non verbale rapido e
immediato.
2) Condizionamento classico: di natura elementare e immediata, per esempio una madre è ansiosa, il
suo corpo si irrigidisce e il bambino che tiene in braccio percepisce attraverso l’irrigidimento del
corpo della madre, la sua sofferenza (stimolo incondizionato). Le concomitanti espressioni verbali e
facciali della madre diventano poi stimoli condizionati che in seguito susciteranno nel bambino
sofferenza, anche in assenza di contatto fisico. Diventa un apprendimento a base empatica
generalizzabili a situazioni che hanno stimoli analoghi.
3) Associazione diretta: la situazione della vittima ricordano all’osservatore una situazione simile
vissuta in passato e quindi emergono emozioni corrispondenti. È necessario che l’osservatore in
passato abbia provato lo stesso dolore.
Queste tre forme presentano tali caratteristiche: automatiche, involontarie e agiscono rapidamente, difatti
permettono già ai bimbi preverbali di rispondere alla sofferenza altrui, anche se rimangano presenti tutto il
ciclo di vita.
Modalità cognitivamente superiori > mediazione verbale e assunzione di ruolo: possono essere ritardate e
controllate volontariamente, permettendo una maggiore regolazione emotiva.
Esistono tre specifiche situazioni che rappresentano uno ostacolo per il comportamento morali di aiuto:
1) Personal distress: la sofferenza altrui causa una partecipazione emotiva così intensa da essere
intollerabile e da produrre un allontanamento anziché un aiuto; oppure la sofferenza empatica può
essere così debole da non spingere la persona ad aiutare.
2) Deriva dall’abituazione allo stimolo di sofferenza che ne diminuisce la portata: se vedo tutti i giorni
macellare animali dopo un po’ ne sono insensibile
3) Riguarda alcuni bias, tipo quello del “qui e ora” che porta a considerare ciò che è sotto i nostri occhi,
tralasciando altre situazioni (c’è anche un altro pezzo ma non ho capito)
4) Rabbia empatica: se la causa della sofferenza di una vittima dipende da un’altra persona, è possibile
che l’attenzione dell’osservatore si sposti su questa. Un esempio di questa si vede nei bambini che
assistono alle liti dei genitori, se il bambino è piccolo, può provare rabbia empatica per quello che
sembra il colpevole; un bambino più grande può provare rabbia empatica più sottile, per esempio
anche nei confronti della vittima che non reagisce. In entrambi i casi, la rabbia empatica non dà
sempre comportamenti di aiuto, per esempio può portare al bambino un senso di impotenza e
colpevolizzazione.
Quindi questo ci dimostra che sensibilità empatica e comportamento empatico non sono la stessa cosa; ci
sono persone empatiche che possono appunto non mettere in atto comportamenti empatici. Dove si trova il
confine? Nel personal distress, quindi se l’empatia verso l’altro mi fa “sentire troppo” allora il
comportamento empatico si inibisce, quindi il personal distress rappresenta quel limite emotivo che “decide”
se verrà attivato o meno il comportamento prosociale di aiuto.
Imitare non significa empatizzare > contagio emotivo
Personal distress > effetto che la tua sofferenza emotiva ha su di me
7.7, fare del male, aggressività e trasgressione morale
Se empatia e comportamento prosociale creano una associazione diretta, meno immediato è il fatto che
l’empatia possa spiegare i comportamenti aggressivi. Le azioni empatiche seguono una curva a campana,
dove il singolo può trovarsi anche nel polo più basso dello spettro di empatia. Alcune persone raggiungono
un livello di “erosione” dell’empatia che può farli arrivare al grado zero, questo può accadere quando i
rapporti con gli altri si basano fortemente su stessi e dove c’è una relativa noncuranza dell’altro. I
comportamenti di aggressione possono distinguersi in base a gradi più o meno alti di consapevolezza, ma
tutti hanno in comune una certa deficitarietà del sentimento empatico. Ma cosa succede quanto ci si ritiene
responsabili della sofferenza di qualcuno? Abbiamo parlato dell’emozione della colpa e come questa sia
complessa e difficile da identificare dato che non si palesa attraverso indici espressivi. Negli esperimenti sui
bambini volti a individuare il senso di colpa, si possono vedere alcune differenze individuali: alcuni bambini
sono più capaci di riparazione nei confronti dell’oggetto rotto e questi saranno soggetti con sviluppo morale
e senso dell’altro più elevati, viceversa bambini che attuano comportamenti di evitamento e di sottrazione
della propria responsabilità, avranno un senso morale più blando. Questo indica anche come il rispetto per gli
altri passi, in un certo senso, anche attraverso l’educazione al rispetto degli oggetti (notice perché l’ha detto
due volte). Molte persone usano meccanismi di autoregolazione per adattare i principi morali alle loro
esigente, riducendo il conflitto e la discrepanza fra norme morali e il proprio comportamento. Questi
vengono detti meccanismi di disimpegno morale e sono delle vere e proprie autoassoluzione che mettono fra
parentesi il senso di colpa:
1) Diffusione della responsabilità: anche le altre biciclette vanno sul marciapiede, perché solo io dovrei
andare in strada? > le conseguenze della propria violazione vengono giustificate attraverso il
comportamento degli altri.
2) Dislocamento della responsabilità: è vero Giorgio ha aggredito Paolo, ma se non stesse uscendo con
quella cattiva compagnia non l’avrebbe fatto > la responsabilità di un’azione viene attribuita ad altri.
In entrambe le situazioni abbiamo una attenuazione della responsabilità individuale, con un effetto di
autoregola emotiva. Siccome questi due meccanismi sono alquanto diffusi, non possiamo identificarle
facilmente come un percorso atipico, tuttavia si collocano fra i fattori di rischio che nel caso di una frequenza
più accentuata, possono creare il terreno fertile nel quale l’indulgenza verso sé si associa a comportamenti di
danno per l’altro.
7.8, il valore del rispetto nei bambini e negli adolescenti
Il rispetto implica il trattare l’altro con considerazione e gentilezza e fa parte dei comportamenti morali
quotidiani anche se si può declinare come: comportamento prosociale, riconoscimento del potere sociale,
convenzioni sociali o correttezza dei rapporti con altri. In tutte queste declinazioni, il rispetto presuppone
emozioni morali di stima e valorizzazione di una persona. Da quale fonte origina il senso di rispetto? Esterna
oppure una fonte basata sulla reciprocità? Secondo Piaget i bambini passano da un senso del rispetto basato
sull’autorità esterna, e sulla paura della punizione, a un senso basato su una interiorizzazione della norma e
dai rapporti con i pari. Altri studi hanno integrato questa posizione mostrando che nella media fanciullezza,
8-10 anni, la maggioranza dei bambini segue la regola secondo cui il rispetto si basa sulla reciprocità: quindi
dalla media fanciullezza, fino al consolidamento adolescenziale, il rispetto sembra basato sulla reciprocità e
orientato alla collaborazione, quindi indipendente dalla punizione e autorità. Quindi il senso del rispetto non
si evolve da una forma unidirezionale (autorità) a una forma bidirezionale (reciprocità), piuttosto si evolve
dalle norme sociali e dalle pratiche di socializzazione familiare o educative esperite dal bambino. I bimbi che
già a 5 anni hanno un maggiore senso del rispetto, sono anche quelli identificati come meno aggressivi e più
capaci di cooperazione. Quindi la sympathy, ossia la disposizione empatica che permette di accorgere e di
rispondere ai bisogni altrui, rappresenta un marcatore rispetto ai due possibili esiti comportamentali:
prosociale vs antisociale. Il legame fra rispetto e sentimento simpatetico (sympathy) è più definito in
adolescenza dove il ragionamento astratto permette anche una maggiore comprensione di questo legame. I
bambini pensano al rispetto nei termini di comportamenti prosociali, gli adolescenti concettualizzano il
rispetto come senso di correttezza e giustizia.
Sviluppi atipici
7.9, Antisocialità minorile
In età evolutiva alcuni comportamenti violenti e aggressivi sono per lo più transitori, altri rientrano in due
categorie diagnostiche specifiche:
1) Disturbo della condotta: i bambini e adolescenti hanno un comportamento prepotente, minaccioso,
intimidatorio, di violazione dei diritti dell’altro, colluttazioni, rubare etc.
2) Disturbo oppositivo-provocatorio: l’elemento che distingue questo disturbo riguarda i
comportamenti provocatori nei confronti di figure dotate di autorità, in particolare i genitori: litigi,
rifiuto delle richieste e regole, imputare i propri errori ad altri, vendicatività e collera. Il minimo
comune denominatore di entrambi i disturbi è la carenza o mancanza di empatia, accompagnata da
un deficit del senso di colpa.
Tra le poche ricerche che hanno indagato se vi siano dei precursori rispetto alla possibilità di sviluppare o
meno uno dei due disturbi, vi è uno studio longitudinale che ha preso in considerazione bambini dai
diciassette ai sessanta mesi. Questa ha sottolineato come l’aggressione fisica o litigi con altri bimbi,
raggiunga un picco intorno ai tre anni e mezzo e comprende il 17% dei bambini con madri a rischio (giovani,
primo figlio, bassa istruzione e reddito, tendenze antisociali o depressive). Ma chi manifesta fin da piccolo
comportamenti aggressivi è maggiormente a rischio di mantenere tali comportamenti in adolescenza e in età
adulta? Non vi è una risposta semplice, i comportamenti antisociali hanno una matrice multifattoriale quindi
non vi è necessariamente un determinismo. Tuttavia possiamo trovare due gruppi di giovani dove il
comportamento antisociale a esordio precoce mostra specifici tratti temperamentali e problemi di
adattamento durante lo sviluppo:
1) Tratti callous unmetional: ossia mancanza di rimorso, senso di colpa, empatia e preoccupazione per
le performance scolastiche. Difficoltà ad elaborare stimoli emotivi, soprattutto empatia e senso di
colpa. Più insensibile, freddo e calcolato, con un’aggressività proattiva, premeditata e strumentale a
ottenere vantaggi personali. Nel corso dello sviluppo si mostra maggiormente persistente e con poca
propensione a modificarsi. Questo è un marker presente soprattutto nella variante fredda del
comportamento antisociale.
2) Questo presenta difficoltà nella sfera cognitiva, nella sfera della socializzazione e disregolazione
emotiva, con bassi livelli di paura e alti livelli di reattività emotiva. Aggressività più emotiva e
reattiva. Nel corso dello sviluppo può subire potenziali modificazioni, seppur tende a rimanere la
reattività e impulsività. Viene chiamata appunto variante calda, dove il ragazzo può procurare gli
stessi danni della variante fredda, ma è più incline ha sentire lo scambio emotivo che è implicato con
l’altro.
Da cosa dipende lo sviluppo dei comportamenti antisociali? Insorgenza e mantenimento sono anche questi
multifattoriali, anche se vi sono alcuni marker genetici che sembrano associali a questo tipo di
comportamenti:
1) Primo gruppo polimorfismi genetici: rischiosi se associati ad un ambiente sfavorevole, quindi di per
sé non hanno potere causale, ma rappresentano dei fattori di rischio se associati ad alcune condizioni
ambientali:
a. Polimorfismi coinvolti nella sintesi, ricaptazione e trasmissione dei neurotrasmettitori
responsabili dell’attivazione del comportamento e del controllo dell’aggressività: es. il gene
codificante per la monoaminossidasi A (MAOA) > la variante MAOA-LOW si associa a una
riduzione del volume limbico, maggiore reattività amigdala e decremento della connessione
fra amigdala e corteccia prefrontale mediale, diminuita reattività regioni prefrontali, alterata
attivazione del cingolo > minore capacità di controllo.
b. Geni codificanti per la serotonina > variante allelica short del genere per 5HTTLPR, e quelli
dopaminergici ossia il polimorfismo del recettore della D4 sembrano giocare un ruolo in
questi comportamenti.
Tuttavia ciò che conta è il rapporto gene-ambiente, difatti nei modelli animali la qualità delle cure materne
ha un ruolo nella modificazione epigenetiche di plasticità cerebrale, dove l’alterazione delle vie
serotoninergiche comporta alterazioni delle funzioni di aree implicate nei processi cognitivi ed emotivi alla
base dell’aggressività. Un secondo gruppo di fattori riguarda le variabili ambientali e relazionali:
attaccamento, parenting, problemi comportamentali dei genitori, carenze mentalizzazione, basso reddito e
istruzione, uso sostante etc. Quindi tocca tenere in considerazione la natura multifattoriale delle radici del
comportamento antisociale che includono elementi individuali, sociali, relazionali e ambientali.
7.10, Altruismo compulsivo
Cosa succede quanto i comportamenti prosociali e di altruismo diventano eccessivi, sacrificali e non
includono più un rapporto di rispetto reciproco libero e partecipato? Questo comportamento viene chiamato
“altruismo compulsivo” e si riferisce a una persona che ha la tendenza a mettere sempre l’altro al primo
posto e ad essere accondiscendente a ogni richiesta, mette in secondo piano o rinnega le proprie necessità o
bisogni. Questo è un comportamento problematico, caratterizzato da emozioni e azioni poco realistiche o
eccessiva che alla fine non è in grado di arrecare un reale beneficio all’altro.
Instaura una dinamica relazionale di tipo coercitivo dove la persona che attua il comportamento si
sente costretta a comportarsi in modo eccessivamente altruistico, e dove il ricevente del gesto è
costretto a rispondere in base alle aspettative dell’altro.
È un comportamento paradossale perché negli intenti è prosociale, ma negli effetti nasconde un
intento egoistico, quindi è un comportamento che viola principi etici di rispetto per l’altro e senso di
reciprocità.
L’altruista compulsivo non conosce il senso della reciprocità nelle relazioni ed è caratterizzato da 5 elementi
distintivi:
1) Siccome si mette nella condizione di chi dà e non riceva, crea alla fine una barriera che non permette
di sentire l’intimità con l’altro.
2) Dare senza ricevere nasconde un bisogno di mantenere il controllo sulla relazione, poiché in un certo
senso vincola l’altro a ricevere l’aiuto e quindi minimizza le probabilità di un possibile abbandono.
3) Se in passato ci sono state esperienze dove l’unico modo per essere considerati e amati era quello di
essere accondiscendente o di conseguire determinati risultati, il fatto oggi di ricevere qualcosa
dall’altro richiama questa dinamica che fa sentire giudicati, di conseguenza l’altruista compulsivo
elimina il problema a causa della paura di sentirsi in obbligo (non sono sicura).
4) Credenza secondo cui il ricevere significa essere egoisti e quindi poco consono a un comportamento
morale
5) Paura e timore nel ricevere qualcosa dall’altro, visto come un qualcosa da evitare.