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L’UVA COME SIMBOLO DI RESURREZIONE

Umberto Capotummino

I paesi dell'Europa meridionale come Francia, Spagna, Italia, Portogallo o Grecia, nei secoli recenti
hanno utilizzato una viticoltura basata sui metodi pervenuti dall'antica Grecia e Roma. Ma da fonti
iconografiche, archeologiche e testuali dell'antico Egitto apprendiamo che il vino era prodotto in
Africa del Nord già nel terzo millennio a.C. La coltivazione della vite, nata con il commercio della
prima età del bronzo tra Egitto e Palestina, era prerogativa reale e delle classi nobili. Semi risalenti
al periodo Naquada III ( 2900 a.C) sono conservati nel museo dell’Orto Botanico di Berlino. Nelle
liste delle offerte durante la II Dinastia (2890-2686 a.C.) ritroviamo la parola irep indicante il vino
sulle giare e nei Testi delle Piramidi. Prima ancora ad Abidos nella tomba del Re Scorpione
vissuto intorno al 3150 a.C furono trovati 700 vasi contenenti circa 4500 litri di vino resinato,
Patrick McGovern, direttore scientifico del progetto di archeologia biomolecolare per la cucina, per
le bevande fermentate e la salute presso il Museo dell'Università della Pennsylvania a Filadelfia,
riporta che dalle analisi dei residui il vino era stato miscelato con menta coriandolo e salvia che i
residui hanno rivelato frammenti di DNA di lievito di vino, Saccharomyces cerevisiae, precursore
dei lieviti di birra.
Le scene rappresentate sulle pareti delle tombe private egiziane mostrano come le diverse fasi della
lavorazione del vino sono simili al metodo tradizionale attuato in Europa. Ma più espressamente
nell’antico Egitto il vino assumeva connotazioni religiose ed era presente nei rituali dei templi, nelle
offerte funerarie ed anche utilizzato nelle cure mediche. Nelle stanze della tomba di Tutankhamen
vennero ritrovate 36 anfore di cui 26 marcate con un’iscrizione in ieratico. Sette con il sigillo:
“Anno 4 per la casa di Tuthankamen”, tuttavia intorno al corpo del faraone imbalsamato nel
sarcofago assume significato esoterico l’offerta di un’anfora di vino rosso orientata ad Ovest, di
un’anfora di vino bianco orientata ad Est, e a Sud di un’anfora con vino cotto con spezie e
terapeutico chiamato shedeh ottenuto dal mosto cotto con melagrane e fichi e riscaldato più volte.
(Maria Rosa Guasch Jan´e, 2010)
L’orientamento delle anfore di vino riproduce il percorso di rinascita del sole che da Ovest risorge
ad Est, transitando per l’asse Nord-Sud in una metafora d’assunzione di quelle forze di rinascita cui
l’iniziato poteva attingere. L’anfora di vino rosso posta ad occidente evocava la trasfigurazione di
Tutankhamon come Osiris-Ra nell’ambito di un ciclo stagionale, mentre l’anfora di vino bianco,
posta ad oriente, evocava per la trasfigurazione di Tutankhamon come Ra-Horakhty che al mattino
s’illumina con l’alba nell’ambito del ciclo lunare. (Wells 1992; Assmann 2001). Fig.1
Anche nell’antica Grecia il vino rituale era collegato al ciclo stagionale come rivelano le metafore
di Omero. L’aedo narra che Penelope indice una gara tra i 108 Proci che pretendevano la
successione al trono di Ulisse, l’amato sposo assente: alzandosi uno dopo l’altro da destra -dove il
coppiere versava il vino- uno solo di essi doveva riuscire, tendendo l’arco di Ulisse, a scagliare e
far passare una freccia attraverso gli anelli di dodici scuri infissa al suolo da Telemaco. Egli stesso
aveva già tentato per tre volte di piegare l’arco verso le scuri senza riuscirci. Nei numeri si rivela il
ciclo simbolico: le dodici scuri sono il referente del ciclo annuale, esteso ai Proci nella serie
ternaria, infatti 3 x 12 = 36 e 36 x 3 = 108, l’insieme dei Proci. Sarà il mistico viandante Ulisse a
svelarsi vincendo la prova, prima che tramonti il sole, sotto gli auspici di Crono, il Signore del
Tempo. Ecco l’invito di Penelope, come dal canto XXI dell’Odissea:

“Vi offrirò il grande arco del divino Odisseo: chi più facilmente l’arco tenderà tra le mani, e con la
freccia traverserà tutte le dodici scuri, io lo seguirò, lasciando questo palazzo maritale, bellissimo,
tanto pieno di beni, che sempre ricorderò, penso, anche in sogno”.

L’energia del sole che viene depositata nell’uva e il tempo della sua peculiare trasformazione in
vino divengono insieme il simbolo di resurrezione: per esempio, una vite viene portata al naso di
Osiride nel papiro Nakht conservato al British Museum (BM10471) e una vite che simboleggia la
rinascita dei morti è dipinta sul soffitto nella tomba di Sennefer a Tebe occidentale (Desroches -
Corte Nobile 1985). Il simbolo della vite e il suo coltivatore inteso come agricoltore e Padre è poi
ripreso dalla tradizione cristiana: -In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera
e il Padre mio è l'agricoltore. (Giovanni 15:1).
Dalla vite coltivata sulla terra si traeva l’auspicio della trasformazione nel ciclo del divenire.
La stessa procedura di viticoltura e vinificazione aveva quindi un significato socio-culturale che
trascendeva la mera attività pratica. La vendemmia avveniva ai primi di luglio, prima
dell’inondazione del Nilo, legata al sorgere della stella Sirio.
Le scene raffigurate sulle pareti delle tombe private dell'Antico Regno (2575-2150 a.C) , ci
informano su come veniva prodotto il vino, la tomba di Nakht (Figura 2) a Tebe, risalente alla
XVIII Dinastia (1539-1292 a.C), mostra una scena di vendemmia e vinificazione. A destra, due
operai raccolgono le uve rosse e le immettono in cesti. A sinistra, quattro uomini pigiano con i piedi
l'uva in un tino e in basso un uomo raccoglie il mosto ottenuto, successivamente passato in un
torchio a sacco che spremeva anche le bucce ancora impregnate di mosto. Il sacco veniva
attorcigliato con dei bastoni e il nuovo mosto estratto e filtrato. La componente zuccherina del vino
veniva poi accresciuta con l’aggiunta di fichi secchi e tagliati a fette, integrata da resina di terebinto,
timo e santoreggia. La prima fermentazione era fatta in giare aperte, le anfore, essendo a punta,
venivano adagiate su cassoni di sabbia umida. L’evaporazione dell’acqua causava l’abbassamento
della temperatura del vino e l’azione dei lieviti. La seconda fermentazione era fatta in anfore
sigillate. In alto nella figura ci sono quattro anfore, sul tappo in paglia e fango si osservano dei
piccoli fori per poter liberare il diossido di carbonio, i viticultori avendo appreso con l’esperienza
che questo gas in eccesso, prodotto dalla fermentazione, faceva esplodere le giare, e con un calco
nel tappo ancora umido, oppure con ostraca di ceramica le etichettavano.
Fig.2

Tomba di Nakht ( TT52) a Sheikh Abd El-Qurna, Tebe.

I vigneti sono spesso circondati da muri di mattoni di fango per concentrare l'acqua che scorre sulla
pianta. Un buon drenaggio del terreno era necessario, ottenuto con la ghiaia l’argilla e il limo, la
prerogativa delle radici della vite è che possono raggiungere quindici metri cercando l’acqua, ma
necessitano di ossigeno. Diverse scene tombali illustrano tali muri di sostegno che a volte potevano
essere collegati a traverse di legno. Altre immagini riportano la tecnica della pigiatura, i tini erano
ricoperti da un tetto munito di funi a cui gli uomini si tenevano mentre pigiavano l'uva con i piedi.
Pigiatura dell’uva e lavorazione del mosto nell’antico Egitto.
Fonte: Menna El-Dorry

Furono fatti prosperare in Egitto l’arbusto euroasiatico Vitis silvestris e la Vitis vinifera, che erano
giunti in Egitto dal Mar Caspio, queste piante nonostante le avverse condizioni climatiche e l’aridità
del territorio, furono coltivate nei pressi del Nilo che tracimava annualmente nel Delta, apportando
alle piante la feconda e umida terra nera. Nel tempio di Seti I in Abidos è tramandata la seguente
versione del Rituale degli Antenati Reali, riferita al culto del vino:

Possano i miei vignaioli prosperare come tu vuoi, possa l’inondazione rallegrarsi per ciò che è in
essa. Io trovo per te l’Occhio di Horus con il vino. Esso è puro! Possano le due Porte del Cielo
essere aperte, possano le due Porte della Terra essere aperte. Possa Osiride essere purificato
sopra le braccia di Hapi. (M.L. Ryhiner, Wine and wine offering in the Religion of Ancien Egypt,
2014).

Il dio Nilo Hapi presiedeva l’inondazione annuale insieme all’Occhio dio Horus, qui referente di
una culminazione estiva, come spiega Plutarco:

Negli inni sacri di Osiride viene invocato “Colui che sta nascosto nelle braccia del sole” e il trenta
del mese di Epifisi [fine Giugno] si festeggia la nascita degli Occhi di Horo: in questo giorno,
infatti, la luna e il sole si trovano sulla stessa retta, e per gli Egiziani non solo la luna
ma anche il sole sono Occhio e luce di Horo (Plutarco, Iside e Osiride, Cap. 52)

L’inondazione donata dal dio Nilo apportava la gioia della terra nera ai vignaiuoli e i tralci giovani
della vite, riuniti in pergolati, coltivazione prescelta, alternativa a quella a spalliera, garantivano
all’uva l’ombra reciproca al sole cocente. Bacini di acqua e terra nera del Nilo venivano approntati
intorno ai vigneti. Questa forma di irrigazione potrebbe essere implementata anche oggi con indotti
specifici nei territori situati nei pressi di corsi d’acqua.
Un vigneto è descritto nelle iscrizioni della tomba di Metjen, un alto funzionario della IV dinastia
(2620-2500 a.C.). Egli possedeva alberi e vigneti a Sakkara nel Delta del Nilo, così descritti:
Fu fatto uno stagno molto grande, furono piantati fichi e uva. Gli alberi e l'uva furono piantati in
grandi quantità e da essi si ricavava molto vino.

Le vigne del Delta erano zone considerate di produzione pregiata come il vino delle colture
Sebennitica e Teniotica, particolare era la Mareotica, vino bianco e dolce prodotto sulle rive del
lago salmastro a sud di Alessandria, come testimonia Orazio questo era il vino preferito da
Cleopatra:

“Il suo delirio il vino mareotico acuiva”. ( Odi I, 37)

Scultura raffigurante un grappolo d’uva rinvenuta in Amarna,18° dinastia (1549 a.C.-1292 a.C.)
Petrie Museum of Egyptian Archaeology. Londra.

Con notazione più ampia la vigna e l’uva venivano considerate dono divino d’amore, l’Amata nel
Cantico dei Cantici di Re Salomone annuncia la promessa (7,13):

Al mattino vedremo / Se la vigna è fiorita / Se gli acini sono spuntati / Se i melograni sono
sbocciati/…Sono la porta di tutte le cose / Preziose antiche e nuove.

Con l’auspicio che nuove colture “ preziose antiche e nuove” vengano realizzate dai consorzi del
Veneto, lo scrivente porge i suoi cordiali saluti.

Umberto Capotummino

http://umbi.blogspot.it/

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