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Campi di sale, messi di pesci

di Ignazio E. Buttitta

«Dal momento che abbiamo dato a questo libro il titolo Sulle isole, parleremo per prima della Sicilia, sia
perché è la più fertile delle isole sia perché ha il primo posto per l’antichità dei racconti che la riguardano.
[…]. I Sicelioti che abitano questa regione hanno appreso dagli antenati – questa notizia sin dai tempi più
antichi è stata sempre trasmessa ai discendenti – che l’isola è sacra a Demetra e Kore; alcuni poeti
raccontano che, in occasione delle nozze di Plutone e di Persephone, quest’isola fu donata da Zeus alla
sposa come dono di nozze. I più illustri scrittori dicono che i Sicani, che anticamente la abitavano, erano
autoctoni e che le due dee sopra nominate apparvero per la prima volta in quest’isola e che questa produsse
per prima il frutto del grano grazie alla fertilità della regione, cose delle quali anche il più famoso dei poeti
dà testimonianza dicendo: “ma tutto nasce non seminato e non arato, / grano ed orzo, e viti, che portano /
vino ricco nei grappoli, che la pioggia di Zeus turgidi fa crescere” (Omero, Odissea IX, 109-111). Infatti sia
nella pianura di Leontini sia in molti altri luoghi della Sicilia ancora adesso nasce il grano detto selvatico.
Indagando dunque riguardo alla scoperta del grano, in quale regione della terra siano apparsi per la prima
volta i suoi frutti, è verisimile attribuire il primato alla regione più fertile; conseguentemente alle cose dette,
è anche possibile vedere che le dee che hanno scoperto il grano sono onorate moltissimo presso i Sicelioti.
[3] Dicono che la prova più chiara che il rapimento di Kore sia avvenuto in questa (regione) è che le dee
passavano molto tempo in quest’isola perché stava loro molto a cuore. Narrano che il ratto di Kore avvenne
nei prati vicino all’Enna. Questo luogo è nelle vicinanze della città, bellissimo per le viole e per gli altri fiori
di tutti i tipi e degno della dea. […]. Vicino ha boschi sacri e, intorno a questi, paludi, e una grotta di
considerevoli dimensioni, che ha un’apertura sotterranea rivolta a nord, attraverso la quale raccontano che
Plutone, sopraggiunto con il carro, compì il rapimento di Kore. […] Gli abitanti della Sicilia, per il fatto di
aver ricevuto per primi la scoperta del grano grazie al soggiorno presso di loro di Demetra e Kore,
introdussero per ciascuna dea sacrifici e cerimonie che prendevano il nome da quelle e la cui data di
celebrazione indicava chiaramente i doni ricevuti». Così Diodoro nel libro V, 2-4 della sua Biblioteca
storica ci consegna il mito della Sicilia “madre delle messi”.
I miti hanno, più spesso di quanto generalmente si ritenga, profonde radici nei paesaggi e nelle vicende che
questi paesaggi hanno attraversato e trasformato. La pervasiva forza dei miti finisce spesso, tuttavia, con
l’oscurare intere sezioni della realtà circostante e ci sospinge a prestare attenzione solo ad alcuni aspetti di
essa. Non sorprende pertanto che gli studiosi di miti e mitologie finiscano con l’esserne coinvolti fino a
confondere la realtà mitica con la realtà storica. La Sicilia è stata, indubbiamente, per millenni uno degli
spazi mediterranei privilegiati della produzione cerealicola e questa sua vocazione è stata a fondamento della
sua storia antica e recente: la visione del mondo, l’immaginario mitico-rituale, l’organizzazione sociale, la
cultura materiale di larga parte degli abitanti dell’Isola si sono costruiti e confrontati sulla e con la vicenda
del frumento; conflitti di popoli, sommovimenti di comunità e di classi, ascese e discese sociali di singoli e
di gruppi, sono stati conseguenza più o meno immediata del controllo e dell’andamento della produzione
cerealicola. È altrettanto indubitabile, però, che la Sicilia sia stata sin dal suo esordio nella storia una terra di
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navigatori e pescatori, di avventurieri e commercianti per mare; un luogo strategicamente fondamentale per
la sua posizione geografica al centro delle rotte mediterranee; una regione sulla cui costa sono sorte
importanti città e numerosi paesi e borghi a vocazione marinara e piscatoria. Una regione, dunque, di campi
e di messi ma anche, e non secondariamente, di mare e di pesca. Una regione il cui emblema ergologico e
ideologico potrebbe ben ritrovarsi nel “corema”, direbbe Eugenio Turri, Grotta dell’Uzzo (quell’ampio antro
verso cui, mio fratello e io bambini, andavamo ogni estate con mio padre a raccogliere selci e conchiglie), un
discretum territoriale dove gli uomini vivevano della raccolta dei cereali e insieme dei prodotti del mare.
Eppure la storia e la cultura del mare di Sicilia non sono state oggetto della necessaria attenzione da parte
degli antropologi. Gli studi demologici siciliani hanno privilegiato le indagini sulla cultura agraria e
secondariamente quelle sulla cultura urbana e pastorale, a discapito di studi e ricerche sulla cultura del mare.
A fronte delle numerose ed estese indagini condotte in Sicilia sulla cultura contadina a partire dalla seconda
metà dell’Ottocento, poche risultano dunque quelle dedicate alla cultura marinara e tra queste ultime
pochissime quelle rivolte allo studio di alcuni dei suoi aspetti immateriali: lessico, saperi e competenze
tecniche, riti e cerimonie festive, restando i relativi fatti di cultura orale (canti, racconti, leggende)
sporadicamente inseriti nella più ampia cornice delle raccolte di canti e racconti popolari realizzate, tra
l’altro, da Salomone Marino (1867), Lizio Bruno (1871), Vigo (1870-74), Pitrè (1888, 1891, 1913a, 1913b),
Favara (1957).
Basti scorrere, da un lato, la preziosa Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia di Giuseppe Pitrè (Torino
1894), dall’altro, esaminare la successiva produzione squisitamente demologica o di interesse demologico,
per rendersi conto di questa lacuna. Nella Bibliografia sono segnalati solo pochi studi dedicati interamente o
parzialmente alle tradizioni marinare, segnatamente alla pesca del pescespada, del tonno, del corallo. Tra
questi, i più interessanti quelli di Spallanzani (1792-1797) che dedica due interi capitoli ai sistemi di pesca
del corallo e del pescespada; di La Farina (1840) che, discorrendo sulla storia e sui monumenti della città di
Messina, si sofferma sulla leggenda di Cola Pesce, sulla pesca dello spada e sulla festa dell’Assunta; di
Linares (1886) che dedica un capitolo, il XLIII, alla pesca del tonno nelle coste di Palermo; di Chiesi (1892:
in part. cap. II. Tonni e Tonnare; cap. III. L’industria del sale, del corallo, della pesca in Trapani e cap.
XVIII. Messina, La pesca del pescespada); di Cellini (1899) che presenta tra l’altro sei preziose fototipie di
strumenti e fasi della pesca dello spada; di Vacha Strambio (1901) che descrive una mattanza a Favignana
illustrandola anch’egli con sei fototipie.
Oltre agli studi di esplicito interesse storico-demologico vanno considerate le lettere, le relazioni e le
cronache dei viaggiatori. Ad esempio: Jean Houel, nel Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malte et de
Lipari (Parigi 1782), disegna la pianta e la sezione di una tonnara siciliana nonché l’attesa sulla muciara del
rais; Patrick Brydone, nel suo A tour through Sicily and Malta (Dublino 1780) dà conto della pesca del
corallo, della pesca del tonno, dei sistemi di pesca notturna; de Gourbillon nel suo Voyage critique all’Etna
en 1819 (Parigi 1920), si sofferma anche lui sui sistemi di pesca del pesce spada insieme a quella del corallo
e, ampiamente, sulla festa del mezz’agosto messinese; Alessandro Dumas in Le Speronare o Scene e nuove
impressioni di un viaggio in Italia (Parigi 1841), dedica un capitolo alla pesca del pesce spada. Lo stesso
Giuseppe Pitrè non si occupò mai estesamente di folklore marinaro. Assai limitato è, all’interno delle sue
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ampie ricerche, lo spazio a esso dedicato. Ricordiamo il primo volume di Usi, costumi, credenze e pregiudizi
del popolo siciliano (Palermo 1889) in cui Pitrè – riprendendo in parte alcune pagine di Raffaele Castelli
(1880) –, brevemente si sofferma su una leggenda di origine della barca da pesca, sul rito del varo, sulle
relazioni tra padroni di barche e pescatori, sulle modalità del pubblico incanto del pescato, sui canti dei
pescatori e dei marinai, sul tatuaggio; due succinti paragrafi del terzo volume della stessa opera, uno sulla
pesca del pesce spada e l’altro sulla pesca del tonno, che riprendono ampiamente le pagine di La Sicilia
ricercata nelle sue cose più memorabili del Mongitore (1742-43). Sempre nel terzo volume di Usi e costumi,
qualche ulteriore notizia su credenze e pratiche marinare si rinviene nelle cinque pagine dedicate ai pesci e in
qualche altro luogo (per es. nel paragrafo “Il dragone” ossia la tromba marina). Pitrè ritornerà più
estesamente sulla mattanza, in La famiglia, la casa e la vita del popolo siciliano (1913b: 373-389). Nello
stesso lavoro dà conto anche delle barche e degli attrezzi di pesca tradizionali, della pesca del corallo, del
pescespada e, brevemente, di altri pesci (cefalo, sarda, ecc.) (1913b: 393 ss.). Poco spazio occupano le
cerimonie religiose tradizionali dei comuni marinari nelle sue monografie sulle feste siciliane. In Spettacoli e
feste popolari siciliane (1881) e in Feste patronali in Sicilia (1900), lo Studioso rivolge la sua attenzione
solo alle feste dei Santi Cosma e Damiano a Palermo e Sferracavallo, di San Pietro nelle Borgate marinare di
Palermo, di san Niccolò di Bari a Gioiosa Marea, di Sant’Angelo a Licata, di San Giovanni Battista a
Marsala e di San Vito a Mazara.
Venendo a tempi più recenti, e facendo riferimento essenzialmente alla Bibliografia di D’Anna (1987) che
copre gli anni 1920-1980, si constata analoga situazione. A parte qualche rara monografia, alla cultura del
mare sono dedicati in massima parte brevi articoli su giornali, riviste, atti di convegni (una rassegna di questi
lavori in Buttitta I. E., 2009). Da diversi punti di vista (storico, demologico, socio-economico, etc.) i vari
scritti si occupano soprattutto della pesca tradizionale: del tonno nel Trapanese e in altre aree costiere
siciliane; del pescespada, a strascico. Altri trattano più in generale di vari aspetti delle tradizioni marinare
siciliane o di specifiche aree territoriali dell’Isola. Rarissimi i contributi volti a documentare ritualità festive
marinare.
Alla fine degli anni Settanta, il rinnovato interesse nei confronti della cultura materiale e della museografia
etnoantropologica investe anche la cultura del mare. Nel 1977 vengono pubblicati i primi esiti di un’ampia
indagine condotta, a partire dal 1974, da Elsa Guggino e Gaetano Pagano sulla mattanza di Favignana (incisa
anch’essa, come i viaggi alla Grotta dell’Uzzo, nella memoria mia e di mio fratello Emanuele). Nel 1978, un
importante convegno palermitano sulla cultura materiale, organizzato dall’Istituto di Scienze antropologiche
e geografiche dell’Università di Palermo (AA. VV. 1980), registra vari contributi sui sistemi e
sull’organizzazione della pesca tradizionale. Esiti delle numerose ed estese attività di ricerca condotte e
sostenute sul territorio dagli antropologi palermitani, sono i saggi sulla pesca e la salatura del pescato, sui
sistemi di pesca del tonno e del pescespada, sulla raccolta e lavorazione del corallo, sulla costruzione delle
barche, editi in Le forme del lavoro. Mestieri tradizionali in Sicilia (AA. VV. 1990). Dello stesso anno è il
numero monografico di “La ricerca folklorica” dedicato alla cultura del mare; del 1995 è l’importante
Atlante dei beni etno-antropologici eoliani che affronta lo studio del patrimonio musicale, del lessico, della
toponomastica, delle feste e dei pellegrinaggi, dei sistemi di pesca alle Eolie.
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Come osserva Sebastiano Tusa, «Al di là delle immense e svariate risorse materiali che il mare ha offerto ed
offre all’uomo, ve ne sono altre che attengono alla sfera sovrastrutturale che hanno nei millenni rifornito ed
animato l’immensa enciclopedia dei miti, delle leggende e dei culti ad esso ispirati o, comunque, connessi»
(2009: 12). Inscindibili dai saperi e dalle pratiche ergologiche si porgono alla nostra attenzione miti e riti
molteplici. Una profonda religiosità, un insieme di prescrizioni, di regole e di comportamenti che trova
ragione nella dimensione del sacro, permea la vita dei pescatori. I rischi connessi all’andar per mare, la
necessità di uccidere gli esseri viventi che lo popolano e di garantire i loro cicli riproduttivi per sostenere la
propria esistenza e quella della comunità di appartenenza, alimentano un immaginario mitico-cultuale e una
prassi rituale amplissimi. La gran parte, infatti, dei calendari cerimoniali dei paesi costieri e delle isole
minori sono tutt’oggi animati da molteplici feste dedicate a Santi e Madonne protettori di pescatori e
marittimi. Osserviamo così il fiorire di leggende di fondazione di un culto legate al ritrovamento di immagini
miracolose consegnate dalle onde, innumerevoli santi chiamati a benedire il mare, processioni che si
svolgono in prossimità del o sul mare, immagini e oggetti sacri gettati in acqua per placare le tempeste (cfr.
Ranisio 1990: 85).
Eppure anche relativamente alle feste religiose tradizionali dei comuni marinari, va osservato che sono state
raramente oggetto di specifico interesse. Non esiste di fatto una monografia sulle feste religiose legate, in
qualche modo, alle comunità marinare e alle attività piscatorie; solo qualche saggio in riviste, in atti di
convegni, in volumi, prende in esame singole tradizioni. In particolare, oltre ai contributi di Lo Presti (1934)
e alle indagini di Todesco (1995) e Brundu (1995) sulle feste e i pellegrinaggi eoliani contenute nel già
menzionato Atlante, si possono ricordare: il contributo di Sorgi sulla festa della Madonna del Lume a
Porticello (1980); il saggio in rivista di Maffei sulla festa di san Bartolomeo alle Eolie (1987); quello in
volume di Mondardini relativo alla pantomima del pisci a mari di Acitrezza, che ha luogo per la festa di San
Giovanni (1995); la ricerca di Giallombardo sulla festa dei santi Cosma e Damiano a Sferracavallo (1998). A
questi scritti possiamo aggiungere: la pagina di Iacono dedicata alla festa di Santa Maria di Portosalvo a
Scoglitti e Marina di Ragusa (1989); i cenni contenuti nel volume di Arnaldi dedicato alla storia del culto di
Nostra Signora di Lampedusa (1990); il sintetico contributo di Falcone sulla Madonna a Mari di Marina di
Patti (1992); alcuni capitoli dei volumi sulle feste siciliane di Agata Finocchiaro (1996), Maria Adele Di Leo
(1997), Ignazio E. Buttitta (1999), Raciti Maugeri (2000); un articolo di Buttitta, Armilli e Jocolano che
propone alcune brevi schede di feste marinare siciliane (2008). Da ricordare, infine, l’ampia indagine sulle
feste marinare promossa dall’architetto Monica Modica nell’ambito del suo insegnamento di Architettura e
storia del paesaggio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, e le ricerche sostenute
a partire dal 2006 dalla Fondazione Buttitta e dal Folkstudio di Palermo di concerto con la Soprintendenza
del Mare sulle attività produttive e i sistemi rituali tradizionali, appena esitate nell’edizione del volume
Santi a mare. Ritualità e devozione nelle comunità costiere siciliane, a cura di Ignazio E. Buttitta e Emanuela
Palmisano.

Come appare chiaro la letteratura sui beni materiali e immateriali attinenti al mondo del mare e della pesca è
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assai contenuta sia rispetto alla complessiva letteratura demologica, sia al ruolo socio-economico rivestito in
Sicilia dalla pesca, dalla navigazione e dalle attività correlate (fabbricazione di barche, salatura e
inscatolamento del pescato, commercio marittimo, ecc.) – temi questi che hanno peraltro interessato anche la
narrativa isolana: da Verga (I Malavoglia), a Consolo (Il sorriso dell’ignoto marinaio), da D’Arrigo
(Horcynus Orca), a Sciascia (Rapporto sulle coste di Sicilia), a Camilleri (Il birraio di Preston), e sollecitato
memorabili produzioni cinematografiche e cinedocumentarie: da La terra trema di Visconti a Stromboli di
Rossellini, a Contadini del mare, Il tempo del pesce spada, Pescherecci, di De Seta.
Non è questa la sede per discutere le ragioni di questo fatto, semmai per sollecitare maggiore interesse per un
ambito di studi che si presenta particolarmente denso e oggetto di attenzioni, tutt’altro che neutre, da parte
del mercato cosiddetto “turistico-culturale” (cfr. Simonicca 2004; Rami Ceci 2005). È da riflettere in special
modo sulle tradizioni festive dei borghi marinari e sul loro potenziale ruolo di attrattori, cioè di qualificanti
elementi di “corredo” alla vocazione balneare di molti di questi centri. L’interesse rivolto dalle comunità
locali alle loro tradizioni religiose, in quanto spazio-tempo di riproduzione e riaffermazione dell’identità
comunitaria e di accesso privilegiato al trascendente, si incontra, infatti, non di rado in maniera conflittuale,
con l’esigenza di offrire una accattivante immagine dei propri contesti di appartenenza volta a catturare quei
flussi turistici che oggi paiono i soli in grado di risollevare le economie depresse di tanti piccoli e grandi
centri di antica tradizione marinara. Occorre pertanto ritrovare nuove ragioni all’esserci nel mondo,
recuperando in una prospettiva inedita la propria memoria culturale. D’altronde, a differenza di altre regioni
italiane bagnate dal mare ma economicamente rivolte all’interno del territorio, la Sicilia ha visto nascere e/o
svilupparsi numerose comunità in funzione dello sfruttamento delle risorse ittiche e delle vie marittime. Tra
tutte basti ricordare Mazara del Vallo, Favignana, San Vito Lo Capo, Sciacca, Porto Empedocle, Licata
Augusta, Porticello, Porto Palo. Comunità che ormai da qualche decennio, non senza difficoltà, cercano di
riconvertirsi in poli turistici di massa (più raramente d’élite) per supplire alla crisi della pesca e ampliare le
fonti di reddito.

Questa ampia premessa per dare ragione dell’interesse che la Fondazione Ignazio Buttitta ha subito prestato
al reportage fotografico di Filippo Mannino su Lavoro e festa nella Sicilia del mare, e inoltre per offrire un
insieme di percorsi di lettura delle sue incisive immagini.
La partecipe esperienza del giovane fotografo ai momenti del lavoro e della festa, l’intimità delle relazioni
intessute con i soggetti e gli oggetti del racconto, rendono i suoi scatti assai di più che una documentazione
etnografica, assai più che un esercizio di sapienza tecnica, assai più che la declinazione di un’estetica. La sua
autorialità si afferma, con forza euristica, proprio all’incrocio di questi singoli aspetti. La mitologia
dell’opera d’arte come frutto dell’immediato e inconscio impulso creativo non ha mai affascinato Filippo
Mannino. In egli alberga la lucida consapevolezza che l’arte, come la scienza, richiedono pratica ed
esercizio, studio e meditazione, padronanza degli strumenti e delle tecniche di indagine, analisi minuziosa
dell’oggetto di interesse e conoscenza dei processi che ne stanno a fondamento. Ecco perché ogni frammento
del suo percorso restituisce un senso e impone una riflessione. Le mani che si protendono a toccare
l’immagine della Madonna del Lume e che sostengono la vara di San Vito sono quelle stesse mani che
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raccolgono le reti e i cordami, di chi para le barche, le lenze e le reti, la paranza, la sciabbica e il cianciolu;
e, insieme, sono le mani delle madri e dei figli di chi campa a mari, di chi cerca polpi al lume della lampara,
di chi vive al ritmo dell’andata e del ritorno degli asinieddi, degli sgombri, delle sarde, dei palamiti e dei
caponi, di chi conosce i solitari e fragorosi silenzi del mare “colore del vino”.

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