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L’America prima di Colombo

Marcello Risicato
Quando ho cominciato a raccogliere informazioni sulle voci di possibili traversate oceaniche in
tempi remoti, non pensavo avrei trovato così tante notizie. Si perché la storia ufficiale non ne parla, ci dice
soltanto che Cristoforo Colombo scoprì l’America quel famoso 12 ottobre del 1492 ma nient’altro. In realtà
analizzando le conoscenze degli antichi, le testimonianze di vari scrittori, le mappe nautiche più vecchie e le
nuove scoperte della genetica, si può dedurre che la storia non sia andata così come viene ufficialmente
insegnata tra i banchi di scuola. Fu davvero Colombo a scoprire l'America? In questa mia breve e sintetica
ricerca ho raccolto dati geografici, letterari, archeologici, numismatici, genetici che spingono a rivedere la
storiografia ufficiale.

Le isole atlantiche al di qua dell’oceano

Le ​Canarie​: nell’antichità queste isole erano conosciute e frequentate da molti popoli quali Fenici, Greci,
Iberici, Romani ma pare anche Etruschi, Egiziani e Cirenaici. E’ quanto emerge dal lavoro pubblicato da
Santana A. S. “Las dos islas Hespèridis Atlànticas durante la Antiguedad” in cui rende pubblici i risultati delle
ultime campagne di scavo condotte sulle isole e conclusesi nel 2006.

Le Azzorre​: anche le Azzorre erano conosciute nell’antichità, ultimamente alcuni ricercatori hanno trovato
nell'isola di Terceira segni di arte rupestre risalente all'età del bronzo. L’arcipelago fu probabilmente
visitato già dai Cartaginesi, vi sono resoconti di ritrovamenti nell’isola di Corvo di monete cartaginesi (1749)
e di una scultura equestre (1567) (Manoel de Faria e Sousa: Epitome de las historias portuguezas, Madrid
1628), anche se le opinioni circa la loro autenticità sono controverse. Altri archeologi hanno trovato
recentemente una epigrafe romana e delle strutture megalitiche. Plutarco racconta che il generale romano
Quinto Sertorio (126-72 a.C.), durante la sua campagna militare contro uno dei generali di Silla in
Mauretania (l’odierno Marocco), conobbe dei marinai che dichiaravano di essere tornati dalle Isole dei
Beati, due isole distanti dall'Africa circa 10.000 stadi (circa 1850 km!) ed il cui clima e la vegetazione erano
tropicali (Vita di Sertorio, capitolo 8). Vista la distanza e il tipo di vegetazione non poteva che trattarsi delle
isole Azzorre. D’altronde molto prima del 1492 queste isole sono documentate in diverse carte, nell’Atlante
Mediceo del 1351 vengono riportate 7 isole al largo del Portogallo, col nome di isole di Bracir appaiono
anche nel mappamondo dei fratelli Pizigani che risale al 1367, nella Carta Catalana di Abraham Cresque del
1375 coi nomi italiani di Brasil, San Zorzo, Li Conigi e in un’altra mappa anonima catalana del 1384 coi nomi
di Corvo, Flores e Sao Jorge. Nella prima metà del XIV secolo furono riesplorate da navigatori italiani e
quindi colonizzate nel secolo successivo dai Portoghesi.

Similitudine delle parole Aztlan e Aztechi con Azzorre: Aztlan, secondo il mito, sarebbe la terra d'origine
degli Aztechi e più in generale delle popolazioni di etnia nahua, il nome deriva dalla fusione delle parole
nahuatl “aztatl” e “tlan(tli)” e significa “Terra dell’uccello dalle piume bianche”, uccello identificato con
l’airone. Anche le Azzorre hanno un’etimologia curiosamente simile, secondo la teoria più accreditata
l’arcipelago deriverebbe il proprio nome dall’astore un uccello che si riteneva diffuso nelle isole al tempo
della scoperta ma che si è poi appurato non essere mai esistito nell’arcipelago. Come mai allora una simile
etimologia? Soprattutto alla luce del fatto che quell’uccello non viveva nelle Azzorre? L’astore è un rapace
che predilige infatti i climi freddi, gli aironi invece vivono in climi tropicali e subtropicali e sono presenti in
tutti i continenti, forse un tempo nidificavano anche nelle tropicali Azzorre? forse l’analogia e l’etimologia
simile tradiscono ricordi ancestrali derivati da miti atlantici? Non c’è dubbio che la vicinanza delle parole sia
notevole e se si aggiunge la curiosa etimologia legata al nome di due uccelli la cosa diviene ancor più
singolare. Il Codex azteco Boturini descrive Aztlan come "un'isola in mezzo a una distesa d'acqua" e cosa
sono le Azzorre se non delle lingue di terra in mezzo all’oceano?

Le isole di Capoverde​: le isole di Capoverde si trovano a sud delle Canarie a circa 500 km ad ovest dalla
costa del Senegal e non a caso furono visitate da Colombo nel corso del suo terzo viaggio verso le
Americhe. Da qui infatti il vento e la corrente portano direttamente verso le coste del Brasile!

Le isole al di là dell’oceano

L’isola di Antilia​: quest’isola compare ​nelle carte “precolombiane” di Pizzigano (1424), di Battista Becario
(1435), di Andrea Bianco (1436), di Bartholomeo Pareto (1455) e nel mappamondo di Behaim (1492). In
passato è stata ​identificata da alcuni con una delle isole delle Azzorre, ​da altri con quelle che venivano
ritenute le Indie Occidentali, questo è il motivo per cui alle isole dei Caraibi venne anche attribuito il nome
di Antille. Per risultare nelle mappe precolombiane l’isola deve essere stata scoperta in tempi antichi. In
queste mappe viene disegnata con una forma assai simile all’isola di ​Trinidad che si trova di fronte alle
coste del Venezuela. Secondo leggende medievali ad Antilia si erano rifugiati nell’VIII secolo d.C. sette
vescovi sfuggiti alla conquista araba della Spagna e avevano fondato sette città. In effetti Trinidad sembra
avere quattro nuclei abitativi localizzati nella costa orientale e tre nella costa occidentale, come i sette
vescovi e le sette insenature dell’isola disegnate nelle mappe precolombiane.

Le testimonianze

Notizie di traversate transoceaniche e di un continente al di la dell'oceano risalgono addirittura a diversi


millenni fa e sono tutte documentate in scritti dell’epoca.

Il filosofo ​Platone ​(428/7-348/7 a.C.) ​nel suo Timeo descrivendo l'isola di Atlantide al di la delle Colonne
d'Ercole, l'odierno stretto di Gibilterra, parla di un continente che vi si trovava di fronte, egli scrive: “A quei
tempi, infatti, quel mare (l'Oceano Atlantico) era navigabile: aveva infatti un'isola di fronte allo stretto che
voi chiamate "Colonne d'Ercole" e l'isola era più grande dell'Africa del Nord e dell'Asia (Minore, cioè
l'Anatolia) messe insieme, ​da essa era possibile passare alle altre isole per coloro che allora viaggiavano e
dalle isole ​a tutto il continente di fronte.​ In questa isola di Atlantide, dunque, c'era una grande e mirabile
dinastia di re, che dominava tutta l'isola, molte altre isole e parti del continente; ed oltre a ciò
comandavano l'Africa del Nord fino all'Egitto e l'Europa fino alla Tirrenia (Etruria). Ma in seguito,
sopraggiungendo tremendi terremoti ed inondazioni, nel corso di un sol giorno e di una notte terribili,
l'isola di Atlantide scomparve inghiottita dal mare: perciò ancor oggi quel mare è impraticabile e
inesplorabile, p​e​r l'ostacolo dei fondi melmosi e bassi che l'isola inabissandosi ha formato” (Platone, Timeo,
capitolo III). Platone quindi parla di un'isola di fronte allo stretto di Gibilterra, di altre isole subito dopo (i
Caraibi?) e di un continente di fronte ad esse. Al di là della veridicità o meno del racconto platonico su
Atlantide, che motivo aveva Platone di collocare dopo Atlantide altre isole ed un continente se non ne
avesse già sentito parlare? E di quale continente può trattarsi se non dell'America?
Ipparco di Nicea geografo e astronomo tra i più grandi del mondo antico (190-120 a.C.) basandosi sulle
differenze osservate tra le maree dell’oceano Indiano e quelle dell’oceano Atlantico dedusse che i due
oceani non costituivano un mare unico, ipotizzò quindi l’esistenza di un continente che separasse i due
oceani cioè l’America.

Di una terra tropicale ricca di meraviglie scoperta dai punici al di la dell’Oceano Atlantico ci parla lo storico
greco ​Diodoro Siculo (90-27 a.C.), egli scrive che “… di fronte alla Libia (era allora chiamata così l’Africa) sta
un'isola di notevole grandezza, e posta com'è in mezzo all'Oceano è lontana dalla Libia molti giorni di
navigazione ed è situata a occidente. La sua è una terra che dà frutti, in buona parte montuosa, ma in non
piccola parte pianeggiante e di bellezza straordinaria. Poiché vi scorrono fiumi navigabili, da essi è irrigata, e
presenta molti parchi piantati con alberi di ogni varietà, ricchi di giardini attraversati da corsi d'acqua dolce.
La zona montuosa presenta foreste fitte e grandi alberi da frutto di vario genere, e valli che invitano al
soggiorno sui monti, e molte sorgenti. In generale, quest'isola è ben fornita di acque dolci correnti… I
Fenici, dunque, mentre esploravano, … , la costa al di là delle Colonne, navigando lungo la Libia, furono
portati fuori rotta dai venti, a grande distanza nell'Oceano. Dopo essere stati esposti alla tempesta per
molti giorni, furono portati sull'isola che abbiamo citato, e una volta constatata la sua prosperità e la sua
natura, ne resero nota l'esistenza a tutti gli uomini.” (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, Libro V, 19-20). Da
questa descrizione è quindi verosimile che i fenici abbiano raggiunto un’isola tropicale, o appartenente alle
Azzorre o più probabilmente, viste le notevoli dimensioni di cui parla Diodoro, un’isola dei Caraibi come
Cuba o Haiti oppure le coste del continente americano, a questa conclusione spinge il riferimento grandi
fiumi navigabili. La veridicità del racconto è data anche dalla particolare citazione dei venti che portarono
fuori rotta i fenici nell'oceano Atlantico, ebbene questi venti si chiamano Alisei e furono sfruttati per
centinaia di anni proprio per attraversare l'Atlantico e giungere in America.

Lo stesso scrittore riferisce poi che i Celti veneravano due divinità, i Dioscuri, che significa letteralmente figli
di Zeus, affermando che essi erano venuti dall'oceano Atlantico: “i Celti che abitano lungo l'oceano
venerano i Dioscuri al di sopra di tutti gli dei, dal momento che hanno una leggenda tramandata da tempi
antichi secondo cui questi Dei giunsero tra loro provenendo dall'oceano” (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica,
Libro IV, 56, 4). Che questi miti nascondessero il ricordo dello sbarco di antichi navigatori provenienti da
oltre l'Atlantico?

A conferma di traversate più o meno casuali dell'oceano, pare che ai tempi dell’imperatore romano
Augusto (63 a.C., 14 d.C.) siano naufragati alcuni indigeni americani in Gallia, l’odierna Francia. La
strabiliante notizia viene riferita dallo scrittore romano ​Cornelio Nepote (100 a.C., morto in anno
imprecisato durante il principato di Augusto) e ripresa poi da ​Pomponio Mela ​(I sec d.C.) ​(De situ Orbis, lib
III, cap 5 pag 127 Ed. Olivar senza data) e da ​Plinio il Vecchio ​(23-79 d.C.) ​(Naturalis Historia, lib II, cap 67).
Cornelio Nepote racconta che durante il principato di Augusto alcuni naufraghi furono condotti al cospetto
dell’allora governatore della Gallia Quinto Metello Celere, che non comprendendone la lingua li mandò a
lezione di latino e questi dopo averne imparato i rudimenti, raccontarono di essere venuti dall'altra parte
dell'oceano.

Lucio Anneo Seneca ​(4 a.C., 62 d.C.) nelle sue “Naturales quaestiones” così scrive: “quale è infatti lo spazio
che intercorre tra le estreme coste della Spagna e le Indie? (per Indie si intendevano tutti quei territori che
andavano dall’India odierna fino al Sud Est Asiatico) Una distanza di pochissimi giorni, se la nave è spinta dal
vento favorevole” (Seneca, Naturales quaestiones, libro I). Praticamente Seneca sta ammettendo che la
terra è sferica, inoltre per comprendere a fondo questa affermazione bisogna capire che fino ai tempi di
Cristoforo Colombo si credeva che le terre ad occidente dell’oceano Atlantico fossero le estreme propaggini
delle Indie e che la circonferenza terrestre fosse minore di quella che è realmente. Da notare inoltre che
anche Seneca cita il “vento favorevole”, proprio gli Alisei di cui parla Diodoro Siculo.

Plutarco (46-126 d.C.) nel suo trattato “De facie quae in orbe lunae apparet - Sul volto della luna” afferma
che “a cinque giornate di navigazione dalla Britannia verso Occidente ci sono alcune isole e dietro di loro un
continente” (Plutarco, Il volto della Luna , L. Lehnus, Milano 1991, cap. XXVI, cit. da Elio Cadelo, Quando i
Romani andavano in America, Palombi Editori, pag. 198). Da queste parole sembra proprio che l'Islanda, la
Groenlandia e forse il nord del Canada fossero già stati scoperti ai tempi di Plutarco.

Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) sempre nella sua “Naturalis Historia” (libro VI) riferisce inoltre che “Stazio
Seboso disse che il viaggio navigando oltre l'Atlante dalle isole delle Gorgoni (isole di Capo Verde) fino alle
isole delle Esperidi sia di quaranta giorni, e da queste (sempre le Gorgoni/Isole di Capo Verde) al Corno di
Espero (oggi Cap Vert in Africa) di un giorno". E‘ evidente che delle terre distanti 40 giorni di navigazione
dalle coste dell’Africa non possono che far parte dell’America, questo numero tornerà tra poco.

Anche lo scrittore romano ​Gaio Giulio Solino vissuto nel III secolo d.C. riporta la notizia di Plinio e Stazio
Seboso nella sua opera “Collectanea rerum memorabilium” conosciuta nel medioevo col titolo di
“Polyhistor” o “De mirabilibus mundi” . Quest’opera fu sicuramente consultata da Colombo ed era
conosciuta anche dal suo secondogenito Fernando e dal navigatore Sebastiano Caboto come da loro stessi
dichiarato in atti pubblici.

Nel XIII secolo, il francescano ​Raimondo Lullo (1235-1316 d.C.) nella sua opera “Quodlibeta” basandosi
sullo studio delle maree, così scrive: "l’Oceano oltre le colonne d’Ercole poggia anche su un altro continente
che non vediamo e non conosciamo fino a oggi".

In effetti ​Cristoforo Colombo impiegò 37 giorni nel primo viaggio per raggiungere l’America (dal 6
settembre al 13 ottobre del 1492) e 39 giorni nel secondo viaggio, il numero dei giorni di navigazione
coincide con quanto affermano questi antichi autori. E’ quindi evidente che qualcuno ai tempi dei romani o
ancor prima andò in America e vi fece ritorno.

Addirittura lo stesso Colombo quando ancora raccoglieva prove e indizi prima della traversata che lo
renderà famoso, incontrò un naufrago che raccontava di essere stato in terre oltre oceano, costui in punto
di morte disegnò una mappa delle lontane terre per il navigatore genovese; abbiamo anche una
trasposizione letteraria di quell’episodio che venne trascritto in versi dal poeta ​Garcilaso de la Vega e
confluì nel suo Canzoniere.

Bartolomeo de las Casas riferisce di aver trovato tra gli appunti di Cristoforo Colombo, la notizia che i corpi
di due indiani erano stati ritrovati sull’isola di Flores appartenente alle Azzorre, argomentando che questo
doveva essere uno dei motivi che aveva convinto Colombo che dall’altra parte dell’oceano vi fossero le
Indie. (De Las Casas, Bartolomé; Pagden, Anthony, Settembre 8, 1999. Un breve conto della distruzione
dell'Indias. New York: Penguin Books).

Il geografo ​Lorenzo D’Anania pubblica nel 1576, “L’Universal Fabrica del Mondo overo Cosmografia” in cui
riferisce del ritrovamento, quand’era viceré del Messico Don Antonio Mendoza, cioè intorno al 1540, di una
sepoltura con lo scheletro di un uomo vestito con le armi di un antico romano e di alcune medaglie d’oro
con la scritta “Giulio Cesare perpetuo dittatore”.

Nel 1970 ​Thor Heyerdal antropologo, grande esploratore e navigatore, sostenitore dei contatti
transoceanici, con una barca di papiro chiamata Ra II, simile a quelle dell’antico Egitto, attraversò l’oceano
Atlantico e dalla costa del Marocco arrivò, dopo aver percorso 3270 miglia in 57 giorni, all’isola di Barbados
nelle Antille. Egli dimostrò con questa impresa alla comunità scientifica e al mondo l’assoluta fattibilità della
traversata oceanica anche in epoche assai remote. Utilizzò un’imbarcazione fatta di papiro quindi molto
meno resistente e sicura delle navi romane di duemila anni fa.

Ancor più recentemente ​Syusy Blade autrice di diversi libri e dei programmi Misteri per caso e Turisti per
caso, nel corso di un’intervista alla duchessa spagnola Medina Sindonia, ultima erede di un’antica casata
nobiliare, riferisce di aver appreso ella stessa, durante il suo soggiorno del 1999 presso le isole di
Capoverde, che alcuni marinai a bordo di una barca erano stati trasportati in soli 15 giorni presso le coste
del Brasile.

Vi ho raccolto in questo paragrafo innumerevoli testimonianze, dopo aver letto tutto questo c’è qualcuno
che avanza ancora dubbi sul fatto che l’America sia stata scoperta prima di Cristoforo Colombo?

Monete romane in America

Una review del 1980 sui ritrovamenti di monete romane: Molte monete romane sono state trovate nel
continente americano, nel 1980 l’antropologo Jeremiah F. Epstein, Professore presso l’Università di Austin,
Texas, nel suo lavoro "Pre-columbian Old World Coins in America" (Current Anthropology vol. 21 n. 1,
febbraio 1980, pp. 1-20), esaminò 40 ritrovamenti di monete romane, greche ed ebree, concludendo che
esse erano falsi moderni o, quando autentiche erano state probabilmente smarrite da distratti collezionisti.
Se la prima conclusione è condivisibile, la seconda lo è un po’ meno, collezionisti che smarriscono monete
romane antiche seppellendole sottoterra? Direi che è quantomeno improbabile, allora a questo punto è più
verosimile che i ritrovamenti siano opera di imbroglioni che hanno voluto specularci spacciando per
autentico ciò che essi stessi avevano seppellito. Tuttavia la storia delle monete romane in America è
parecchio antica, il Prof Epstein racconta che il primo rinvenimento risale al 1533, quando lo scrittore
Marineo Siculo riferì di una moneta con l’effige di Augusto scoperta nei pressi di una miniera d’oro a
Panama.

I ritrovamenti nell’isola di Gaveston e in Texas​: Nell’isola di Galveston nel 1886 furono rinvenuti i resti di
quella che secondo alcuni studiosi era una nave romana, il ritrovamento venne pubblicizzato sull’allora
giornale locale, il Galveston Daily News (9 Luglio 1886) . Della vicenda si è occupato il Dr. Valentine Belfiglio
della Texas Woman's University che si ritiene convinto dell’autenticità della scoperta. Nell’articolo
“​Circumstantial Evidence in Support of an Encounter Between Indian Texans and Ancient Romans​” egli
sostenne l’ipotesi dello sbarco accidentale di una nave mercantile romana, spinta sulle coste americane in
seguito ad una tempesta. Belfiglio ricollega allo stesso evento la scoperta in Texas di 3 monete romane di
epoca imperiale, a conferma dello sbarco di un equipaggio romano in quella zona. La prima fu rinvenuta
nel 1964 vicino alla città di Round Rock in Texas in un moud indiano risalente all’800 d.C., la seconda nel
1970 tra le dune da un certo Duckworth, la terza nel 1993 nell’isola di St. Joseph da un collaboratore di
Belfiglio, il linguista Ellie Kamron. Diversi studiosi però, come Barto Arnold del Texas Historical e Fred
Hocker del Nautical Archeological, Texas A&M, hanno messo in discussione le conclusioni e la sua teoria. In
effetti le condizioni del relitto erano pessime e attribuirne con certezza l’appartenenza ai romani fu una
conclusione quantomeno azzardata, le monete poi furono ritrovate in diverse occasioni e tempi e, per
quanto autentiche, persistono dubbi sulla loro “origine precolombiana”. Ad infittire ancor più il mistero si
aggiunge il ritrovamento nel 1915 da parte di alcuni operai di pesanti travi di legno nella zona centro-nord
dell'isola di Galveston identificate come i resti di un antico ponte romano, anche su questa scoperta gli
studiosi ortodossi non concordano. Sicuramente i dubbi restano, se però tutti questi manufatti fossero
realmente di origine romana sarebbero un'ulteriore conferma del fatto che millenni fa i romani sbarcarono
in America.

Ci sono storie di altri ritrovamenti di monete romane come in Venezuela (Cyrus Gordon, Before Columbus,
Crown Publishers, NY 1971, pag. 92-93) ed in altri stati americani, ad esempio il Maine, tuttavia la comunità
scientifica ha bocciato come bufale tali ritrovamenti. Si resta in attesa di pubblicazioni serie sull’argomento.

Gli Olmechi la cultura madre

La civiltà olmeca è definita la cultura madre di tutte le popolazioni mesoamericane, essa fiorì dal VI secolo
a.C. al III secolo d. C ed ebbe maggiore diffusione negli odierni stati messicani di Veracruz e Tabasco,
sebbene la sua influenza arrivò in varie aree periferiche fino a Puebla, Morelos, Oaxaca, Chiapas,
Guatemala, Honduras, El Salvador e Costa Rica. Alle civiltà della regione messicana trasmise la conoscenza
della scrittura ed il calendario, l’arte della lavorazione monumentale della pietra e di materiali preziosi
come la giada e l’ossidiana. Gli influssi culturali olmechi vennero assimilati e successivamente sviluppati
soprattutto dagli Zapotechi, dai Toltechi e dai Maya. Gli Olmechi sono anche famosi per le monumentali
teste scolpite ritrovate in numerosi siti archeologici che mostrano fattezze da molti ritenute negroidi, sulla
base di questi enormi volti diversi studiosi hanno avanzato l’ipotesi che gli olmechi fossero, almeno in
parte, di origine africana. Questa ipotesi affascinante comunque ad oggi non è accettata dalla comunità
scientifica. In effetti se ci furono influenze africane con le etnie presenti in Mesoamerica oggi non ve ne è
traccia, è possibile però che quei caratteri razziali tipici andarono attenuandosi fino alla scomparsa solo
esteriormente, perché diversi studi hanno evidenziato la presenza di geni africani nelle attuali popolazioni
messicane discendenti da quei popoli che succedettero agli Olmechi (vedi oltre).

Le leggende del Mesoamerica

Secondo leggende mesoamericane Quetzalcoatl era una divinità olmeca e poi tolteca (i Toltechi furono un
popolo che dominò il Messico dal X al XII secolo d.C.) venerata sotto diversi nomi anche dai popoli
successivi come gli Aztechi e i Maya (in questo caso col nome di Kukulkan). Secondo i miti, Quetzalcoatl era
un re sacerdote rappresentato con la barba e la pelle bianca realmente vissuto all’alba dei tempi, il quale
avrebbe insegnato ai Toltechi la scrittura, la metallurgia, l'arte della coltivazione e il rifiuto delle guerre.
Dopo un litigio con un’altra divinità di nome Tezcatlipoca, salpò verso il mare aperto con una zattera
promettendo però che sarebbe ritornato. ​(​http://www.treccani.it/enciclopedia/quetzalcoatl/​). Quando
infatti il conquistador spagnolo Cortes sbarcò sulle coste del Messico venne scambiato dagli Aztechi, ultimi
ad aver ereditato il mito di Quetzalcoatl, proprio per il dio di ritorno dall’oceano, questa fortunata
circostanza rese molto più facile la conquista da parte di Cortes dell'impero azteco.

Quali sono quindi i possibili elementi storici che possiamo ricavare da questo mito? Abbiamo un uomo
bianco, barbuto, conoscitore della metallurgia e della scrittura, portatore di civiltà, divenuto re-sacerdote e
poi divinizzato. Un uomo che prende il largo verso oriente con un’imbarcazione promettendo di ritornare.
E’ risaputo che i romani non usassero abitualmente portare la barba, questo però è vero solo fino al
periodo dell’imperatore Adriano (regno dal 117 al 138 d.C.) quando la barba divenne una moda del tempo
seguita anche nei centocinquant'anni seguenti. Che questo mito fosse l’eco di un avvenimento storico e
nascondesse il ricordo dello sbarco di antichi marinai romani sulle coste americane? E’ possibile che dei
romani del II – III secolo d.C. siano arrivati in Mesoamerica e abbiano trasmesso le proprie conoscenze ai
nativi americani prima di ripartire per l’oriente? Senza dubbio è un’ipotesi affascinante e sempre più
verosimile alla luce di tutti i dati, le testimonianze e le documentazioni archeologiche fin qui raccolti.

Le prove genetiche

Tuttavia in America potrebbero esservi arrivati prima popoli provenienti dall’Africa centrale, infatti
numerosi studi di genetica molecolare degli ultimi due decenni hanno messo sempre più in evidenza tracce
di patrimonio genetico africano nei nativi americani dell’America centrale. Queste tracce sono importanti
perché spesso ritrovate in popolazioni che, vivendo in zone isolate, non hanno avuto mescolanza con gli
schiavi africani provenienti dall’Africa durante il periodo coloniale. Nel 1996 ad esempio ​Underhill​, et al per
primi hanno evidenziato la presenza di un cromosoma africano in un uomo maya (Underhill et al, A
pre-Columbian Y chromosome-specific transition and its implications for human evolutionary history,
Proceedings of the National Academy of Science USA 1996, January, 93:196-200). Nello stesso anno ​Lisker
et al hanno trovato tracce di patrimonio genetico africano nel popolo dei Cora che vive e visse in una zona
montagnosa del Messico occidentale fino alla conquista spagnola del XVIII secolo. La commistione con altre
etnie di questo popolo proprio per questo è stata assai limitata e ciò fa supporre che i geni africani vengano
da un antico passato (R. Lisker et al., 1996, Genetic structure of autochthonous populations of
Meso-america:Mexico. Am. J. Hum Biol 68:395-404). Analoga situazione è stata trovata da ​Green et al nel
2000 presso Ojinaga, cittadina al confine tra il Messico e gli USA, che è largamente isolata dal contatto con
gli afroamericani oggi come nel passato(Green LD, Derr JN, Knight A. mtDNA affinities of the peoples of
north-central Mexico, Am J Hum Genet 2000 66:989-998). Simili risultati emergono anche dallo studio del
2000-1 sugli aplotipi HLA dei nativi americani di ​James L. Guthrie (Human lymphocyte antigens: Apparent
Afro-Asiatic, southern Asian and European HLAs in indigenous American populations, Pre-Columbiana,
Volume 2, Number 2 & 3, December 2000 & June 2001) e da quello del 2007 di ​Makoto K. Shimada
(Makoto K. Shimada et al, Divergent Haplotypes and Human History as Revealed in a Worldwide Survey of
X-Linked DNA Sequence Variation, Molecular Biology and Evolution 2007 24(3):687-698).

I Vichinghi in America

Prove archeologiche ormai pienamente accettate dalla comunità scientifica ed antichi racconti confermano
la presenza in America dei Vichinghi parecchi secoli prima di Cristoforo Colombo. Intorno al 980 d.C. i
Vichinghi scoprirono la Groenlandia o “Terra verde”, per poi spingersi prima in una terra che chiamarono
Markland, poi all’isola di Terranova nell’attuale Canada, battezzata Vinland “Terra delle viti”. Un elemento
storico interessante lo fornisce lo specialista di storia degli indiani della Smithsonian Institution Wilcomb E.
Washbrun quando, descrivendo le usanze degli indiani dice: “… nella valle del fiume San Lorenzo… tutti gli
indiani della zona… indossavano una specie di corazza, portavano scudi e combattevano con archi e frecce.
La loro tattica tradizionale ricordava sotto alcuni aspetti quella europea per le battaglie in campo aperto,
dove le forze in conflitto si schieravano su due file, una di fronte all’altra e scaricavano le loro armi” (W.E.
Washburn, Gli indiani d’America, Editori Riuniti, 1981:158). Probabilmente questi indiani ereditarono il
modo di combattere dai Vichinghi giunti alcuni secoli prima nei loro territori. Alcuni studiosi ritengono che
questi navigatori abbiano esplorato le coste fino alla Virginia o al territorio dove oggi sorge New York ma
non sono ancora emersi dati archeologici certi a sostegno di queste supposizioni, strani resti di edifici nello
stato del Rhode Island (USA) e nella vicina Nuova Scozia (Canada) sono oggetto di studio. A Newport
cittadina costiera del Rhode Island vi è infatti una torre ottagonale con archi al piano terra che secondo
alcuni è un mulino del XVII secolo, secondo altri una struttura molto più antica simile ad altre costruite nel
nord Europa poi riadattata a mulino, mentre vicino ad Halifax capitale della Nuova Scozia abbiamo le
ancora più enigmatiche mura del mistero le “mistery walls”, qui in un bosco appena fuori città si trovano
avvolte dalla vegetazione antiche mura, i resti di un edificio, una scala e quella che sembra essere un'antica
strada. In effetti non ci sono spiegazioni storiche sul perché di queste rovine e la modalità di costruzione a
secco ricorda molto da vicino quella dei Vichinghi, è dunque possibile che questi siano i resti di loro antichi
insediamenti. Nel 1960 la scoperta certa, invece, di costruzioni vichinghe dell'XI secolo a L'Anse aux
Meadows nell’isola di Terranova ha confermato quello che tramandavano i racconti delle “Gesta
Hammaburgensis Ecclesiae Pontificum” di Adamo da Brema, la “Saga di Eric il Rosso” e la “Saga dei
Groenlandesi”. Gli insediamenti vichinghi nel Nord America, resistettero alcuni secoli, non sappiamo
esattamente quando furono abbandonati, l’ultima volta in cui una nave giunse in Islanda provenendo da
Markland con un carico di legname destinato alla Groenlandia fu nel 1347, dopo più nulla (Chronicle entries
translated in A.M. Reeves et al. The Norse Discovery of America (1906) via saacred-texts.com).

L’America dal Pacifico

Secondo alcuni studiosi vi sarebbero prove genetiche dell’arrivo di navigatori in America anche dall’Oceano
Pacifico. ​Storey A et al, basandosi sul DNA di alcuni resti ossei di polli analizzati in Perù, a partire dal 2007
hanno sostenuto che i polli fossero stati introdotti in America dalle isole della Polinesia a conferma quindi di
antichi contatti transoceanici (Storey AA, et al, Radiocarbon and DNA evidence for a pre-Columbian
introduction of Polynesian chickens to Chile. Proc Natl Acad Sci USA 104:10335–10339, 2007). ​Altri
ricercatori come ​Jaime Gongora et al non concordano con questi risultati, ritenendo i polli del Perù di
provenienza spagnola e portoghese. Negli anni si sono succeduti articoli di repliche e smentite senza che
nessuno dei due gruppi di scienziati abbia fornito prove definitive a favore dell'una o dell'altra ipotesi. Per
ottenere risultati decisivi si aspettano dunque ulteriori conferme genetiche.

Al di là delle diatribe genetiche già da tempo altri ricercatori si sono invece avventurati nel Pacifico per
dimostrare la possibilità di traversate transoceaniche da e verso il sud America in epoche remote. Già nel
lontano 1947 sempre ​Heyerdal ed altri cinque compagni con una imbarcazione in balsa il famoso Kon-Tiki
partì da Callao in Perù arenandosi presso un atollo delle isole Tuamotu nella Polinesia Francese. Lo stesso
percorso era stato seguito stando a quanto documentato da ​José Antonio del Busto ​dalle imbarcazioni
dell'imperatore inca ​Tupac Inca Yupanqui ​nel lontano 1480 ​durante una spedizione di 10 mesi nel Pacifico
(Tupac Yupanqui, Discoverer of Oceania, Lima 2000). Nel 1980 invece un gruppo di sette giapponesi
navigarono con un catamarano denominato Yasei-go III nel senso opposto, giungendo dal Giappone
all'America, toccando prima San Francisco, poi Acapulco e infine Guayaquil in Ecuador. In effetti le correnti
oceaniche permettono spostamenti di migliaia di miglia in entrambe le direzioni e probabilmente nei secoli
passati contatti tra l'America e le isole del Pacifico o addirittura l'Asia avvennero seppur sporadicamente.

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