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GIAN FRANCO BELSITO

Meditazioni sul Presepe

BELVEDERE MARITTIMO

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INTRODUZIONE

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Chi di noi, sotto Natale, non ha sentito o cantato “Tu
scendi dalle stelle” o “Quannu nascette Ninno”? Sono
canti, entrambi, che hanno ispirato l’animo, nobile di S.
Alfonso Maria dei Liguori, a comporre queste splendide
melodie. S. Alfonso può essere considerato, a giusta
ragione, uno degli apostoli del presepe napoletano.
Certo è che il presepe, divenuto oramai popolare in ogni
casa, rimane uno dei simboli più affascinati della nostra
cultura.
I diversi personaggi che vengono installati non sono
messi li a caso. Richiamano un preciso significato che
spesso, ai meno accorti, sfugge.
Proprio per questo ho pensato di voler meditare,
quest’anno, in occasione della novena del Natale, sulle
figure del presepe includendo anche quelle che spesso
non vengono notate.
Il presepe è una rappresentazione ricca di simboli. Alcuni
di questi provengono direttamente dal racconto
evangelico. Sono riconducibili al racconto di Luca la
mangiatoia, l'adorazione dei pastori e la presenza di
angeli nel cielo.
Altri elementi appartengono ad una iconografia propria
dell'arte sacra: Maria ha un manto azzurro che
simboleggia il cielo, San Giuseppe ha in genere un
manto dai toni dimessi a rappresentare l'umiltà.
Molti particolari scenografici nei personaggi e nelle
ambientazioni del presepe traggono inoltre ispirazione
dai Vangeli apocrifi e da altre tradizioni. Tanto per citarne
alcuni: il bue a l'asinello, simboli immancabili di ogni
presepe, derivano dal cosiddetto protovangelo di
Giacomo, oppure da un'antica profezia di Isaia che scrive
"Il bue ha riconosciuto il suo proprietario e l'asino la
greppia del suo padrone". Sebbene Isaia non si riferisse
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alla nascita del Cristo, l'immagine dei due animali venne
utilizzata comunque come simbolo degli ebrei
(rappresentati dal bue) e dei pagani (rappresentati
dall'asino).
Anche la stalla o la grotta in cui Maria e Giuseppe
avrebbero dato alla luce il Messia non compare nei
Vangeli canonici: sebbene Luca citi i pastori e la
mangiatoia, nessuno dei quattro evangelisti parla
esplicitamente di una grotta o di una stalla. In ogni caso a
Betlemme la Basilica della Natività sorge intorno a quella
che è indicata dalla tradizione come la grotta ove nacque
Cristo e anche quest'informazione si trova nei Vangeli
apocrifi. Tuttavia, l'immagine della grotta è un ricorrente
simbolo mistico e religioso per molti popoli soprattutto del
settore mediorientale: del resto si credeva che anche
Mitra, una divinità persiana venerata anche tra i soldati
romani, fosse nato da una pietra.
Ovviamente, un presepe ha, al suo interno, tante
installazioni e presentarle tutte non sarebbe stato
possibile.
Ho ritenuto perciò di fare una scelta lasciandomi guidare,
nella composizione, da una bella meditazione, che ho
fatto mia, proposta da Bruno Forte (Santo Natale.
Meditando sul presepe, Edizioni Paoline 2008).

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PRIMA MEDITAZIONE
16 DICEMBRE 2018
Gli occhi di Gesù Bambino, il bue e l’asinello
La novena, come oramai sapete, ripercorre,
simbolicamente, i nove mesi di attesa di Maria prima
della nascita di Gesù Bambino. Allo stesso modo noi ci
prepariamo a rivivere nell’oggi quella nascita
preannunciata dai profeti e realizzatasi in Cristo.
In questo stesso periodo, insieme alla novena, viviamo
anche un'altra tradizione, più popolare, anche nelle mura
domestiche, non solo in chiesa, che è quella
dell’allestimento del Presepe. Nella nostra comunità
parrocchiale un tempo ci pensava direttamente don
Erminio, poi don Silvio e, infine, com’è risaputo, il nostro
Peppe ha “ereditato” questo impegno.
Vorrei tentare di riparare ad un tradimento che da
sempre abbiamo operato senza rendercene conto. Il
presepe è diventato una tradizione popolare di ogni casa
e, nella totalità dei casi, lo abbiamo installato in posizioni
importanti: all’ingresso di casa, in salotto o in cucina,
accanto alla finestra o vicino al balcone. Al di la di dove
lo abbiamo collocato in ogni caso lo abbiamo visto,
osservato o contemplato dall’alto in basso. Non ci siamo
mai resi conto che invece lo sguardo di Gesù Bambino,
posto nella capanna, parte dal basso verso l’alto.
Cerchiamo di immaginarci questo percorso. Partiamo
dagli occhi di Gesù Bambino. Come ogni bambino si
sarà svegliato dal suo sonno solito e avrà osservato tutta
quella scena, all’aperto, di notte, sotto il cielo stellato.
Sono occhi di cielo venuti sulla terra. Sono occhi che
colgono un altro punto di vista. Sono gli occhi di un
Bambino che vede come noi ma non allo stesso modo.

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Sebbene piccolo, quegli occhi sentono le viscere
dell’animo di ognuno dei viandanti.
Aprendo gli occhi si sarà sentito attratto da quella mano,
ruvida e forte, che
teneva in mano un
lungo bastone di
legno. E’ la mano di
un falegname che
non si è mai mosso
dal suo capezzale. I
suoi occhi sono quelli ancora pensosi e segnati dallo
scrupolo di quel dubbio che, in un dato momento, lo
aveva assalito. Ora quello sguardo si è sciolto nella
fermezza di un uomo deciso e responsabile. Uno
sguardo che trasmette quella sicurezza di chi sa di dover
custodire quel piccolo uomo-Dio.
Li, a fianco, degli occhi stupendi e chiari, trasmettono
serenità e amore. Sono gli occhi che parlano una lingua
muta, quella del cuore. Sono inconfondibili. Sono gli
occhi che hanno accompagnato nel ventre e che
continuano a nutrire l’animo. Gli occhi della mamma che
ascoltano, parlano, sorridono, inseguono, placano il
pianto, intuiscono in anticipo ogni difficoltà, prevengono
ogni pericolo.
Dopo un pò gli occhi si sono messi a muovere più
frequentemente, guardando a destra e a sinistra. Ha
avvertito una sensazione strana, di calore diffuso in
quella notte gelida che lo riscaldavano. Ha cercato
conferma e sicurezza negli occhi della madre che, pacati
e fermi, lo hanno tranquillizzato. In un baleno avevo
compreso: il mondo animale aveva delegato a fargli
compagnia il bue e l’asinello.

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A Canaan, l'animale sacro al dio Baal era il toro simbolo
di forza e fertilità. Questi animali erano importanti per il
lavoro agricolo di aratura (Am 6,12) e di trasporto che
assicurava la vita al popolo: «Se non ci sono buoi la
greppia è vuota, l'abbondanza del raccolto sta nel vigore
del toro» (Pr 14,4). Chi possiede questi animali è ricco.
Giobbe tra le sue ricchezze «possedeva 500 paia di
buoi». Il bue è animale da lavoro faticoso e da carico (Sir
38,25-26). Il giogo che veniva attaccato al collo del bue
addomesticato, per trainarlo, lo rende simbolo di
sottomissione paziente, di forza pacifica e di mitezza.
Oltre all'uso nei lavori agricoli, i buoi trainavano il carro
che trasportava l'arca dell'alleanza (1 Sam 6,7; 2 Sam
6). Il giogo è simbolo del legame alla Torah a cui il
popolo ebraico si sottometteva con devozione e
dolcezza (cfr. Sir 6,24 -25.28). Di questo me ne ricorderò
in futuro avrà pensato (cfr. Mt 11,28-30). Per la loro
capacità lavorativa, come pure per il significato simbolico
della loro fecondità, i buoi o tori erano considerati animali
adatti per il sacrificio perché simbolo di vitalità.
La figura dell'asino, mentre da un lato si collega alla
cavalcatura dei re e degli immortali, propria delle culture
dell'estremo Oriente (cfr. Gdc 5,10) dall'altro è presentato
come cavalcatura, modesta, del Messia in segno
d'umiltà.
Il bue e l'asino non saranno immessi nei testi ispirati ma
la sapienza popolare ne conserverà traccia (non citati nei
Vangeli, devono la loro presenza alla tradizione del
Vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo). Raffigurano la
parola del profeta Isaia: “Il bue conosce il suo proprietario
e l’asino la greppia del suo padrone; Israele invece, non
comprende, il mio popolo non ha senno” ( Is 1,5) e
simboleggiano quindi i Gentili.
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Tutte queste informazioni le aveva attinte dal suo cuore
ma non bastavano, voleva sapere di più. Diritto, sopra i
suoi occhi, sentiva un dolce canto melodioso di un’infinità
di angeli in coro ma era come se cantasse una sola voce.
Da uno di loro si senti venire in soccorso. Questi prese la
parola e gli raccontò come avevano deciso di scegliere
proprio il bue e l’asinello. Abbiamo chiesto agli animali
chi ti volesse fare compagnia in questa notte e subito si è
presentato il leone che ci ha detto: “Il re degli animali
sono solo io; mi preoccuperò di procurargli ogni giorno
della cacciagione buona e pronta da mangiare”. Abbiamo
ritenuto subito che fosse troppo violento. Poi si è
presentata la volpe ci ha detto che ogni giorno ti avrebbe
procurato un pollo con la sua astuzia. Ci siamo detti, con
l’Eterno Consiglio, troppo furba. E così via via si sono
presentati tutti con lungi discorsi e argomenti convincenti
ma nessuno ci ha convinto. Poi abbiamo notato questi
due animali che erano passati quasi inosservati visto che
non avevano pronunciato neppure una parola. E allora
siamo stati noi a chiedere, tenendo conto che essi
stavano con lo sguardo sempre verso il basso: “e voi che
cosa proponete’”. Insieme ci hanno detto: “a noi nulla,
siamo qui e basta, a fare, al massimo, compagnia”. Ecco
quelli giusti silenziosi, umili, laboriosi e sereni.
Il suo sguardo divenne sereno e fiducioso e si perse negli
occhi della madre perché, proprio nei suoi occhi vedeva,
come in uno specchio, uno spettacolo: un uomo carico di
legna; uno con la lanterna, tre, da lontano, cavalcavano
dei cammelli, uno meravigliato che lo fissava; una
signora che lavava la biancheria; un uomo con la canna
da pesca in mano; il cielo stellato; una stella
luminosissima proprio sulla sua capanna; un giovane,
coricato sulla paglia che dormiva; un cacciatore; dei
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pastori e tanti altri che erano in cammino. Insomma era
notte si ma piena di luce e di movimento; si stava
chiedendo come mai tutto quel movimento in quella
notte. Era la notte della Vita.
Dobbiamo recuperare quello sguardo perché, come
sappiamo, alcuni vi sono riusciti così bene che proprio
Gesù Bambino si è lasciato cullare da loro: S. Francesco,
che fu visto destare il sonno profondo del Bambino di
Betlemme e Sant’Antonio da Padova, che lo ricevette
come dono prima della sua morte.

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SECONDA MEDITAZIONE
17 DICEMBRE 2018
Il bel Pastore e la pecorella ritrovata
Gli occhi di Gesù Bambino sono sempre attratti dal
movimento dei pastori in cammino. Gli occhi dei pastori
sono occhi che affascinano e seducono, soprattutto i
bambini: forse perché sono occhi che hanno imparato la
delicatezza dell’attenzione
premurosa verso le pecore
gravide, che vanno guidate
con passo lento, e la
sollecitudine, carica di
tenerezza, verso le pecorelle
che hanno bisogno di essere
portate in braccio.
Tra i tanti pastori uno, in
particolare, lo aveva attratto
più di tutti gli altri. Forse per il
suo modo goffo di camminare,
sembrava quasi ubriaco o
forse per l’andatura
altalenante. Certo, anche
perché quel pastore era più stanco di tutti gli altri.
Sebbene lontano dai suoi occhi, sembrava quasi sentisse
l’affanno del suo respiro insieme alla gioia interiore per
avere ripreso, certamente, una delle sue giovani
pecorelle più baldanzose che aveva smarrito dal suo
ovile.
Quanta tenerezza le suscitavano nel cuore proprio quelle
pecorelle che necessitavano di un pastore fermo e
tenero, forte e amorevole. Si questa sarebbe stata
l’immagine del futuro uomo che sarebbe voluto diventare.

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Il cielo stellato, da cui egli steso proveniva, sembrava che
gli raccontasse delle storie contenute, come in un libro,
scritto dall’alto.
Era come se qualcuno scrivesse già nel suo cuore delle
linee guida: Dio è l'unico vero Pastore del popolo (Gen
48,15; 49,24; Sal 23; 80). Come in un film immaginario
ha visto il popolo «uscire» dall'Egitto guidato da Dio e
condotto verso la libertà ricevendo così, in dono, una
terra dove vivere libero e felice (Es 3,10; cfr. At 7,36;
13,17; Eb 8,9). Ha visto ancora Dio in persona, come un
pastore, camminare davanti alle pecore (Dt 1,30; Sal
68,8; Mi 2,13), guidandole nel cammino, difendendole dai
nemici. La visione continua in quel Dio scoperto a donare
le quaglie, la manna (Es. 16,1-36) e l'acqua (Es.17,6).
Più avanti, ancora, durante l'esilio babilonese e al ritorno
dall'esilio, Dio ha fatto di nuovo uscire' il popolo che
viveva in mezzo alle genti dove era disceso (Ez 34,13).
Era come un scire dalla schiavitù del peccato per vivere
una nuova fedeltà all'alleanza, proprio come avevano
scritto i profeti.
Lo stesso Dio, nella storia, lo aveva visto scegliersi dei
collaboratori nell’opera di conduzione del gregge
affidando loro compiti specifici, tipiche del pastore, a
determinate persone che designò come una vera e
propria autorità e responsabilità: i capi del popolo in
particolare i giudici, i re (2Sam 5,2; Ez 34,2s.; 37,24; Ger
3,15). Mosè, Giosuè, i Giudici, Davide - e anche il re
pagano Ciro (cfr. Is 45,2) - devono guidare il
popolo, come pastori, secondo il suo stesso stile, quello
della premurosa amorevolezza di un Padre. Certo, si è
intristito nel vedere alcuni pastori, infedeli, i quali, come
mercenari, sfruttarono le pecore/popolo lasciandolo

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andare in rovina nonostante le minacce dei messaggeri
divini (i profeti).
Desiderava tanto che gli amici (gli evangelisti), che
avrebbero dovuto scrivere di lui, lo avessero presentato
come il pastore secondo il cuore di Dio che, mosso a
compassione per le folle, stanche e sbandate perché
come pecore senza pastore, se ne sarebbe fatto carico:
sfamandole con il cibo (Mt 9,36) guidandole con
l'insegnamento (Mc 6,34). Pastore pieno di quella
misericordia che sospinge a ricercare la pecora perduta
e, una volta ritrovata, la riconduce in casa (Mt 18,12-13;
Lc 15,4-6).
In un momento però fu segnato come da un velo di
tristezza. Sapeva che nei tempi antichi, nelle notti
importanti, soprattutto durante i cambi di stagione,
usavano offrire dei sacrifici a Dio e gli agnellini erano i
sacrifici più graditi. Il suo sguardo andava dappertutto ma
non riuscì a scorgerne nessuno. In quella città, in una
notte così affollata di gente, persone, animali e cose in
ricerca di Dio e nessuno che aveva pensato di portare
l’agnello del sacrificio. Non sapeva ancora nulla della sua
vita ma, con spirito di abnegazione, pensò che presto
avrebbe compreso quale sarebbe stato il sacrificio
richiesto da Dio. Quei pensieri gli avevano trasmesso un
brivido di freddo in tutto il corpo che lo avevano
raggelato. Non si seppe spiegare quella reazione del suo
piccolo corpicino. Si liberò di quei pensieri freddi nel
sonno. In un momento di dormiveglia fu come rapito da
una visione: un agnello rappresentato con un libro con
sette sigilli e poi, ancora, con sette corna e sette occhi (i
sette doni dello Spirito Santo Ap 5,1ss).
L'agnello sulla collina, ove fluiscono i quattro ruscelli e i
quattro fiumi del Paradiso (quattro Vangeli). Certo sentiva
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di dover cercare l’agnello ma non lo trovava: non sapeva
ancora che presto sarebbe diventato l’agnello sacrificale
(Giovanni il Battista lo avrebbe indicato così: Ecco
l’agnello di Dio (Gv 1,29). Forse cercava quell’agnello per
la sua mitezza, per la sua arrendevolezza di fronte a tanti
bisogni dell’umanità in cammino.
Pensava che prima o poi avrebbe comunque raccontato
a qualcuno dei suoi amici più cari (Giovanni) le
caratteristiche del Pastore che doveva essere bello
perché conosce le sue pecore una per una e per esse
dona la sua vita (Gv 10,11-15). La bellezza del Pastore è
data non dai sui connotati estetici, ma dalla sua qualità di
vita interiore e dalla concretezza dei suoi gesti: il pastore
è bello perché tiene al gregge più della sua stessa vita,
anzi, dona la sua vita per pecore tanto che egli stesso si
farà porta delle sue pecore. Senza di essa il gregge
rimane chiuso e prigioniero nel recinto, ed è preda dei
ladri (Gv 10,9).
Nella città di Betlemme, casa del Pane, gli occhi di
questo bambino sono alla ricerca dell’Agnello sacrificale
e sono occhi che, senza sapere, esprimono già, con
tremore, come una sensazione, di quello che sarebbe
presto diventato: la vittima sacrificale per il bene di tutta
l’umanità

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TERZA MEDITAZIONE
18 DICEMBRE 2018
A Betlemme la terra, madre dei viventi
In quella notte il suo sguardo si perse nella visione
notturna della città che, come un profugo, lo aveva
ospitato. Si, in una stalla, ma in fondo era tutto quello che
voleva: il caldo del bue e dell’asinello; la presenza di
mamma e di papà li accanto e la festa degli amici, vicini e
lontani, riempivano il cuore.
La cosa più bella però
era vedere la città di
Betlemme tutta
preparata in festa ad
accogliere questa Vita.
Certo è che si sentiva
attratto fortemente dal
profumo della terra
sottostante. Non sapeva
spiegarsi il perché;
ancora non aveva avuto
il tempo di leggere antichi testi ma ne era impregnato in
tutte le sue viscere. In quegli antichi libri si poteva
leggere un legame inscindibile tra la terra, Dio e l’uomo, il
primo uomo, con il quale si sentiva quasi imparentato
(Gen 1; 2). In quella lingua ebraica, che avrebbe dovuto
presto imparare, terra (adamà) e primo uomo (Adam)
hanno lo stesso suono, segno, certo, di un vincolo forte.
In quei libri leggerà più avanti che quel primo uomo
venne fatto dalla terra dalle mani del creatore (Gen 2,7).
A quel primo uomo fu affidato il compito di custodire e
conservare il suolo terrestre, due verbi che volevano dire
amore, rispetto e non sfruttamento.

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Stava assaporando già la possibilità di scendere da
quella paglia e mettersi a giocare. Avvertiva che se solo
fosse riuscito a calarsi con le orecchie sulla nuda terra
avrebbe ascoltato tante storie di cui quella terra si fece
portavoce.
Si sforzò e, con l’aiuto dei messaggeri divini, riuscì a
sentire comunque quelle storie.
La terra sulla quale stavano non era di nessuno in realtà
perché l’intero popolo, in cammino, l’aveva avuta in dono
direttamente dall’alto. Questo dono aveva richiesto,
all’uomo di ogni tempo, un certo impegno di
responsabilità nella fedeltà verso il datore dei doni
Si era intristito quando aveva sentito le storie di infiniti
tradimenti: il vitello d’oro (Es 32,5); quando il popolo
preferì mormorare. La terra aveva scritto nelle sue
viscere quelle storie e le ripeteva solo a chi le sapeva
ascoltare. La storia del cammino del deserto quanto il
popolo, giunto a Mara, l’acqua fu accertata come amara,
allora «il popolo mormorò contro Mosè» (Es 15,24).
Subito dopo, ecco un’altra mormorazione nel deserto di
Sin, contro Mosè e Aronne, le due guide: «Fossimo morti
per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando
eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando
pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo
deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine»
(Es 16,3).
Gesù bambino sentiva la nostalgia della terra che in quei
famosi libri si era sentita apostrofare da Dio come sette
volte bella e tre volte benedetta (Gn 1-2,4). Si stava
chiedendo se le generazioni a seguire avessero avuto
questa sensibilità di saper ascoltare gli insegnamenti
provenienti dalla terra; se avessero saputo utilizzare le
scoperte, sempre nuove e più potenti, dell’ingegno
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umano per “creare” - simile a Dio - una terra intesa come
casa accogliente della vita. La coscienza etica degli
umani sarebbe cresciuta di pari passo con le
responsabilità dell’uso dei potenti e nuovi mezzi della
tecnica? In quei libri antichi avrebbe trovato delle risposte
da suggerire, almeno ai suoi amici. Avrebbe cercato di
far capire che la natura non è altra cosa rispetto
all’umano. Dalla terra veniamo e alla terra torniamo (cf.
Gen 3,19). Anche noi siamo natura. Se l’acqua non è
salubre, l’aria non è pura, il cibo non è sano, il clima non
è equilibrato, neppure la vita umana sarà felice. Siamo
“polvere di stelle”: fatti di atomi e di molecole, gli stessi
che costituiscono l’universo. Non situati “sopra”, ma
“dentro” il cosmo. Adamo è tratto dal suolo (Gen 2,7), ma
anche gli animali sono creati dal suolo (Gen 2,19) e così
in tutti i viventi alberga il medesimo “alito di vita”
(Gen 7,22). Le relazioni ecologiche coinvolgono tutti e
tutto.
La terra, poi, è madre di tutti e non fa distinzioni di razza,
di cultura, di colori della pelle. È solidale con tutti e è
madre comune e non chiede di rimanere vergine perché
vuole essere madre, vuole fruttificare per vocazione.
Sapeva che sarebbe presto arrivato un tempo in cui gli
uomini si sarebbero sentiti non parenti e amici della terra,
ma i padroni assoluti, come se solo gli uomini vantassero
dei diritti sulla terra e nessun dovere verso di essa. La
natura e l’ambiente non sono nostra proprietà, né sono
un luogo di risorse a nostra totale e arbitraria
disposizione. La terra deve sì darci il pane, ma noi umani
dobbiamo, a nostra volta, riconoscere che esistono diritti
dell’ambiente, della natura, che le altre co-creature, gli
altri co-inquilini della terra sono portatori di diritti come
noi: natura, animali, piante, umani, siamo tutti co-inquilini
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e tutti soggetti di diritti che vanno tutelati e
sinfonicamente affermati.
Aveva compreso che avrebbe dovuto maturare per
l’intera umanità, una sorta di nuova legge da seguire:
“Ama la terra come ami te stesso” (Mc 12,31)

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QUARTA MEDITAZIONE
19 DICEMBRE 2018
Il pastore carico di legna: la fatica della fede
Lo sguardo del Bambinello aveva visto dei colori vivaci di
un uomo dedito alla fatica: stava caricando la legna sulle
spalle. Che cosa poteva pensare
quell’uomo dentro di sè? Vi erano
diverse persone in cammino e diversi
aspetti nell’ambiente che lo
spingevano già a domandarsi. Alcune
scene erano più in vista: la capanna,
gli angeli, la stella cometa, la Santa
Famiglia, i magi. Altri personaggi
spesso non sono notati dai più ma
non sfuggirono agli occhi dell’attento
Bambinello venuto dal cielo: il pastore
dormiente, il pastore con la legna in
mano (pensate ai mestieri che il
nostro Peppe allestisce con scrupolo
e precisione), l’incantato dalla stella, il
pifferaio, il pastore con la lanterna in mano, le pecorelle e
potremmo continuare con il ruscello, le montagne.
Gli occhi di Gesù, carichi di tenerezza si erano come
posati proprio su quel personaggio: il pastore carico della
legna.
Si, Lui era venuto al mondo ma la vita, quella vera, non
poteva fermarsi. La poesia della natività potrebbe correre
questo rischio. Mentre Gesù nasce c’è chi rimane dedito
alla fatica. Questo personaggio, non lo si può negare, si
presenta come il simbolo del lavoro. In futuro diverse
regioni del sud del mondo italico sarebbero state
ingiustamente private della possibilità del lavoro. Alcuni
non sarebbero stati mai occupati, altri licenziati, parecchi
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altri ancora mal pagati (il lavoro sarebbe stato presto
definito lavoro nero).
In un primo momento saremmo tentati di scorgere la
distrazione, a causa del lavoro, dall’evento della nascita.
Quest’uomo risulterebbe in un primo momento non
attratto dalla tenerezza del Gesù che viene a nascere
bambino tra di noi (il Natale oggi è diventato un modo per
raccogliere profitti dimenticando il festeggiato).
Certo, spesso, ai più è sembrato che il lavoro e la fede
debbano essere letti come dicotomici, come due realtà a
se stanti. Non è proprio così: il lavoro non costituisce un
tema per i non credenti. Anzi, dal libro della Genesi, il
nostro Bambinello avrebbe appreso che il lavoro fu voluto
come via essenziale e primaria per la realizzazione del
primo uomo già nel giardino dell’Eden. In futuro, il popolo
italico l’avrebbe sancito addirittura nella costituzione: una
repubblica fondata sul lavoro. Il lavoro ha a che fare con
la fede. È vero che spesso il credente incontra una certa
difficoltà a coniugare sapientemente questi due aspetti. Il
nostro pastore dunque ci ricorda san Giuseppe, dedito ai
lavori di falegnameria a Nazareth dove, alla scuola del
lavoro e della fatica, avrebbe educato e spinto in quella
direzione proprio quel Bambinello. Sapeva che sarebbe
stato forgiato alla scuola della fatica. Nel nostro gergo
dialettale spesso il lavoro ha assunto questa accezione:
“a fatica”.
Possiamo dire che anche Dio ha faticato nel compiere la
sua creazione e il settimo giorno si è riposato. All’uomo
ha affidato il lavoro inteso come custodia e
conservazione del creato (Gen 2,15).
Negli Antichi libri (Es 1,8-12), si narravano tante storie
che avrebbe scoperto in futuro. La storia di quel Faraone
che, non avendo conosciuto Giuseppe, ebbe paura del
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popolo ebraico più numeroso e fece del lavoro un motivo
di sfruttamento e di degradazione della persona umana.
Il lavoro inteso come servizio al creato e all’intera
umanità. Non può essere ridotto a servitù. Quel Libro
Antico ci conforta perché ci fa sapere che il nostro Dio è
colui che ci farà uscire dalle fatiche dell’Egitto (Es 6,7). Il
nostro Dio intende il lavoro come un processo di
liberazione e di riscatto della nostra umanità ferita e
sfruttata. Ma il lavoro fa appello prima di tutto alla
capacità, solo umana, di creare: «Mosè disse ai figli
d'Israele: "Vedete, il Signore ha chiamato per nome
Bezaleel, il figlio di Uri, il figlio di Cur, della tribù di Giuda.
Lo Spirito di Dio lo ha riempito di sapienza, intelligenza,
scienza per ogni opera, per progettare artisticamente ed
eseguire in oro, argento e rame, per scolpire la pietra da
incastonare, per intagliare il legno per fare ogni opera
d'arte; ha posto nel suo cuore la facoltà di insegnare, in
lui e in Oolia figlio di Achisamach della tribù di Dan"» (Es
35,30-34). Si vede bene come il lavoro è un’attività
tipicamente creativa, frutto dell’ingegno umano. In futuro,
al Bambinello, sarebbe piaciuto raccontare delle parabole
sul fatto che tutti hanno diritto ad essere pagati per il
lavoro compiuto, anche quelli che avessero ricevuto
l’invito all’ultimo momento (Cfr la parabola degli operai
dell’ultima ora, pagati allo stesso modo dei primi Mt 20, 1-
16); o considerare il lavoro come un dono da investire e
far fruttare per servire gli altri (Cfr. la parabola dei talenti
Mt 24,14-30).
Il nostro personaggio ci aiuta, perciò, a tenere vivo
questo legame: fede e lavoro. Ma se da una parte il
richiamo può essere quello di leggere anche il riposo
come un tempo, non di ozio, ma da dedicare a Dio certo
il lavoro non può e non deve essere visto come
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un’occupazione altra rispetto alla fede. Fede e “fatica”
devono camminare insieme. Noi oggi abbiamo sempre
più bisogno di cristiani che sappiano essere presenti, con
la schiena diritta e autorevolmente, nel mondo del lavoro.
Che il lavoro (che troppo spesso manca o non viene
remunerato per quello che spetta come diritto del
lavoratore) diventi un’occasione per rendere la nostra
bella testimonianza di fede. Un lavoro letto nella fede. Ma
questo tipo di fede, occorre dirselo, richiede fatica. E’ una
vera e propria fatica credere così. Nel lavoro giusto, equo
e solidale Gesù chiede di venire a nascere e noi siamo
forse troppo carichi di quella legna delle nostre
preoccupazioni, dei nostri strumenti di fatica della vita e
non ci rendiamo conto che a un tiro di sasso (proprio
come nel presepe) c’è la Grazia di Gesù che viene a
nascere nel nostro cuore. Quel bambino, a chi è senza
lavoro o viene pagato male, non restituisce magicamente
la giusta paga ma viene a dire che non è solo. Il lavoro è
dunque fede ma la fede, che è dono di Dio e risposta
umana, non è semplice. Dio si dona tutto nel Figlio, ma la
nostra risposta non è sempre è adeguata e riconoscente,
spesso facciamo fatica a rispondere. Una fede, la nostra,
che fatica a incarnarsi nella realtà del lavoro e in tutta la
nostra vita. La fede chiede la conversione del nostro
cuore e noi, spesso, fatichiamo a seguire Gesù sulla via
della Croce. Il nostro presepe ci ricorda che il Natale va
sempre letto a partire dal suo fine: la Pasqua (di fatto nel
nostro allestimento non manca mai il calvario e il
sepolcro vuoto che rappresentano, insieme al natale, gli
elementi essenziali del Kerygma). Quel Gesù Bambino
viene a nascere e chiede di poter entrare nel nostro
cuore appesantito dai nostri interessi e occupazioni e
facciamo fatica a credere.
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Il pastore carico di legna ci ricorda, dunque, la fatica del
credere nel quotidiano, nel ritmo della vita ordinaria, nel
tempo che deve essere sempre ordinato alla fatica.
Questo aspetto è così importante nell’allestimento del
presepe che il genio napoletano, in futuro, avrebbe voluto
rappresentare solo dodici mestieri eletti a simbolo dei
mesi dell’anno: Gennaio, macellaio o salumiere;
Febbraio, venditore di ricotta e di formaggio; Marzo,
pollivendolo e venditore di altri uccelli; Aprile, venditore di
uova; Maggio, coppia di sposi con cesto di ciliegie e di
frutta; Giugno, panettiere; Luglio, venditore di pomodori;
Agosto, venditore di anguria; Settembre, venditore di fichi
o seminatore; Ottobre, vinaio o cacciatore; Novembre,
venditore di castagne; Dicembre, pescivendolo o
pescatore.

22
QUINTA MEDITAZIONE
20 DICEMBRE 2018
Benino, il giovane sognatore
Gli occhi di Gesù bambino si posarono poi su quel
giovane pescato a
dormire sulla
paglia. In futuro, la
gente di Napoli
avrebbe attribuito
persino un nome a
questo pastore:
Benino,
classificandolo
come pastore
dormiente.
Non si può
nascondere che il
genio napoletano
ha rasentato la sapienza contenuta nella raccolta di quei
famosi libri antichi (La Bibbia). In quei libri, infatti, quando
ad un personaggio si attribuiva il nome era per
comunicare, così, un messaggio positivo. Anche se
all’apparenza ci sembrerebbe giusto dire il contrario
perché, mentre Gesù viene a nascere tra di noi, il nostro
Benino dorme.
Gli occhi del Bambinello, come tutti sappiamo, non si
soffermano solo su ciò che appare immediatamente. Da
ciò che appare si può cogliere subito che egli è giovane e
potrebbe sembrare un superficiale perché, nel momento
più importante della storia dell’umanità egli, pur
trovandosi ad due passi dell’evento, sembrerebbe aver
preferito dormire. Da secoli i profeti ne avevano
23
preannunciato il fatto, una stella si era posata in quel
piccolo lembo di terra della mezzaluna fertile e Benino
preferì dormire. Chiunque avrebbe esclamato: “e che
diamine, datti una sveglia, non vedi ciò che ti sta
succedendo accanto?” In effetti spesso i nostri giovani
vengono etichettati come superficiali e distratti. Il sonno,
biblicamente, può essere letto come una mancata veglia.
La responsabilità della sentinella conosce il valore
dell’attesa lucida e pronta ad ogni evenienza. La notte
richiede una vigilanza perché può essere foriera di
agguati dei lupi, ma può anche portare la gioia dell’alba
di una serenità sempre nuova.
Ma il cuore di Gesù bambino già sapeva, dentro di se,
che il sonno non è solo sintomo di distrazione (I giovani
degli anni duemila avrebbero perso il senso del dormire
la notte pur sapendo che la nostra mente richiede il
riposo notturno, perché il corpo e la mente, il giorno
dopo, possano essere pronti e riposati per affrontare la
fatica).
Il sonno non è solo riposo, può essere letto come quel
giusto tempo dato ad un dubbio per maturare una
certezza: quando volte abbiamo preferito dormire per
chiarirci le idee confuse dalle nostre occupazioni. Nel
sonno tante volte ci siamo calmati dopo una lite
furibonda. Nel sonno abbiamo atteso giornate importanti.
Ma il sonno è anche sognare. La tradizione napoletana
qui, in futuro, avrebbe dato il meglio di se: pare che il
nostro Benino stesse sognando proprio Gesù Bambino
aiutato, in questo, dalla melodia celestiale del canto degli
Angeli in coro. Il nostro Benino, allora, va meglio
qualificato come il giovane sognatore.
Non ci mettiamo qui a fare memoria delle diverse teorie
scientifiche sull’interpretazione dei sogni. Certo è che il
24
sogno appartiene all’animo umano e, al di là di quello che
possiamo pensare, ci lasciamo sempre affascinare da
quello che sogniamo. Alcuni sono anche convinti che
dietro i sogni si nascondano i numeri della fortuna. Tanti
pensano al valore premonitore dei sogni. Quanto volte ci
siamo soffermati a raccontare, con dovizia di particolari,
ciò che abbiamo sognato solo alle persone più care o più
intime. Non amiamo condividere con sconosciuti ciò ci ha
colpito nel sogno. Consideriamo i sogni come qualcosa di
intimo, personale, riservato a noi. I giovani, più di noi
adulti, amano coltivare i loro sogni e inseguirli con tutte le
loro forze.
Il nostro Benino, dunque ci ricorda che la nostra vita va
vissuta con la caparbietà di vuol realizzare il suo sogno, il
sogno di una vita.
I sogni, spesso, nella bibbia sono diventati luogo
privilegiato di rivelazione della volontà di Dio. Pensiamo
al nostro San Giuseppe (Cf Mt 1,22-25): nel suo dubbio
su cosa bisognasse fare della sua promessa sposa
ricevette il consiglio degli Angeli. “Quel che è nato in lei
viene dallo Spirito Santo” sono state parole che hanno
dato certezza, che hanno indicato una strada, che hanno
svelato un piano. Nel sogno Dio si è rivelato.
La capacità di interpretare i sogni ha fatto di Giuseppe
(Cfr Gen 41), rifiutato dai fratelli, il primo ministro
egiziano. I sogni in quel caso hanno permesso a
Giuseppe di rincontrare i fratelli e di riappacificarsi con
loro (Gen 42).
Nel sonno di una notte Dio ha potuto educare il cuore
indurito del profeta Giona (Cfr. Gio 4). Il testo
dell’Apocalisse può essere letto come la fatica di un
sognatore di Dio: San Giovanni, che descrive le sue
visioni notturne.
25
Ma anche Dio sogna di avere un uomo fedele al suo
patto; anche Dio coltiva un sogno su ciascuno di noi. Noi
siamo quel sogno di Dio. Ciascuno di noi è sognato da
Dio nel presepe, come Benino, accanto a Gesù Bambino.

26
SESTA MEDITAZIONE
21 DICEMBRE 2018
La lavandaia, l’acqua della purificazione e della vita
Agli occhi di Gesù bambino non poté sfuggire quella
donna, anziana, tutta intenta al
lavaggio della biancheria: la
lavandaia. (In genere, questa
raffigurazione deve essere
collocata nei pressi dell’acqua, del
ruscello, del lago o del fiume che si
è voluto installare).
I panni colorati della lavandaia
richiamano l’idea di bellezza e di
armoniosità che prescinde dall’età
stessa, sia essa giovane o
anziana. Gesù Bambino la
guardava gli sembrava, quasi, di
avvertire l’aria pulita e fresca che
da essa promanava. Ha pensato immediatamente
all’acqua, nei cui pressi la nostra lavandaia era intenta a
fare il bucato. Quella donna poteva sembrare anonima,
ma in realtà affascinava il cuore di quel piccolo uomo che
vedeva in lei un richiamo simbolico. Attraverso essa il
cuore del piccolo uomo-Dio si riappropriava dell’acqua.
Essa aveva sempre catturato la mente di antichi
pensatori e, attraverso il ruscello, sembrava di risentire
quelle storie. In passato vi era stato chi ritenne (Talete)
l’acqua come quell’elemento primo da cui l’universo e
ogni cosa creata è derivata. Con una certa semplicità tutti
sappiamo che dire acqua vuol dire dire vita. In futuro
anche le missioni stellari sarebbero state tentate per
cercare di scoprire, attraverso gli astronauti, presenza di
27
acqua in altri mondi perché, ove mai ci fossero queste
tracce, vorrebbe dire possibilità di vita per l’uomo in altri
pianeti. Prima di loro anche l’uomo agricolo aveva
imparato a comprendere il valore benefico dell’acqua per
la terra e per i frutti della stessa. Anzi, l’agricoltore di un
tempo si era ingegnato a costruire pozzi per raccogliere
l’acqua piovana e poterla utilizzare in periodi di siccità.
Lo sappiamo tutti noi quando facciamo l’esperienza, per
svariati motivi, di rimanere senza acqua: non ci si può
lavare, sembra che ci sentiamo bloccati e sporchi. Ci
sentiamo come impediti ad uscire di casa. In un certo
qual modo, la privazione di acqua blocca le nostre
relazioni. Il nostro stesso organismo è per la maggior
parte composto da acqua e sappiamo bene che, man
mano che l’età avanza, diminuisce la percentuale di
acqua nel nostro corpo. Tanto è vero questo che, con
l’età decisamente avanzata, persino la nostra stessa
pelle si inaridisce e si presentano le rughe. L’acqua ci
dispone alla naturale bellezza del nostro corpo. Col
passare del tempo si perde l’acqua e con essa la
giovialità della vita.
La sapienza di quei famosi libri antichi si depositava nel
suo cuore e ricordava alcuni fatti vissuti e contemplati da
un’altra visione: all’inizio della creazione lo Spirito di Dio
aleggiava sulle acque (Gen 1,2) ed è quello Spirito che
ha dato vita a tutte le cose. L’acqua non è nell’elenco
della creazione di Dio, nel senso che è presupposta.
Apparteneva all’ordine primordiale dell’universo da cui il
Creatore ha trasse ogni cosa.
L’acqua, ha sempre rappresentato un pericolo, una
difficoltà da superare e da cui uscire come rinati e
rigenerati. Tornavano alla mente del suo cuore, alcune
immagini, come in un film: l’esperienza del mar rosso
28
(Cfr. Es 14), da quella divisione gli israeliti ne uscirono
salvati e gli egiziani sconfitti; Mosè stesso viene salvato
dalle acque del Nilo (Cfr. Es 2,1-10), per simboleggiare
forse quella salvezza della terra promessa verso cui lui
stesso dovrà condurre tutto il popolo. Nel deserto, lo
stesso Dio, si preoccuperà di assicurare la vita del suo
popolo facendo scaturire acqua dalla roccia (Cfr. Es
17,1-7).
L’acqua del diluvio (Cfr. Es 7,1-24), permise a Noè di
poter salvare e avanzare nella logica della fedeltà di Dio.
All’acqua perciò è collegato il significato della
purificazione. L’acqua è, per sua natura, un solvente. La
scienza medica ci ha aiutato a comprendere anche
meglio la spiritualità dell’acqua. Essa ha la funzione di
disciogliere e trasportare i principi nutritivi in tutte le
cellule, di promuovere la digestione, di garantire la
termoregolazione (mediante la sudorazione, anche
impercettibile) di trasportare le scorie fuori dal nostro
organismo per mezzo degli organi emuntori ed escretori.
L’acqua svolge inoltre una certa funzione di
ammortizzatore nei confronti degli organi più delicati quali
l’occhio, l’orecchio interno e il cervello. Questi infatti sono
ricchi d’acqua, o circondati da acqua oppure posati su un
cuscinetto d’acqua. Anche da un punto di vista della
salute della persona, lo sa bene chiunque si sia trovato
davanti ad un dietologo, da cui ci siamo sentiti dire: “mi
raccomando beva molto”.
In un libro antico (la Genesi) tutta la vitalità dell’opera del
creatore viene espressa dal fiume abbondate che scorre
nel giardino dell’Eden (Gen 2,10) e la città celeste che,
l’amico del cuore, descriverà in futuro (l’Apocalisse 22,2),
come quella città dal cui trono scorrerà un fiume d’acqua
viva. Un messaggero divino (Ezechiele) aveva
29
preannunciato questo tempio nuovo da cui scorre una
fonte di acqua viva che rigenera tutto il paese (Cfr. Ez
47,1-9).
La sapienza degli antichi (salmi) avevano presentato
l’animo umano desideroso di incontrare il Signore come
terra arida che chiede di essere bagnata dalle acque
della vita (Sal 62).
Il battista avrebbe predicato lungo le acque del Giordano
(Cfr. Mt 3,1-5) presso cui lo stesso Bambinello, più
cresciuto e consapevole, chiederà di essere Battezzato.
In futuro l’amico più stretto (Giovanni) avrebbe
immortalato per sempre una scena memorabile: la
samaritana che, nell’ora di punta e in pieno giorno, con il
pretesto dell’acqua, venne al pozzo in cerca di relazioni
Gesù stesso gli si fece vicino e permise a quella donna di
poter incontrare e riconoscere la vera fonte della vita (Cfr.
Gv 4,1-42).
Dunque non si può negare la funzione rigenerante
dell’acqua e la nostra lavandaia forse ci rimanda a tutto
questo.
In quell’opera di pulizia della biancheria è rappresentata,
simbolicamente, la pulizia spirituale del nostro animo.
Che non passi il Natale senza che ci lasciamo riconciliare
dalla presenza di Gesù Bambino, ad iniziare dalle nostre
stesse famiglie: che l’acqua della vita purifichi le nostre liti
e che le storie di guerra si trasformino in riconciliazione;
che sia lavata ogni macchia del nostro animo; che siano
lavate le nostre difficili relazioni con il balsamo del
perdono e l’unguento della dimenticanza dell’offesa
ricevuta.

30
SETTIMA MEDITAZIONE
22 DICEMBRE 2018
Il pescatore e il cacciatore, la pasqua della vita
Di certo Gesù bambino non poteva non raccogliere
l’inquietudine di due
personaggi piuttosto
ambigui. Tant’è che
nelle future
rappresentazioni di
questo evento,
denominato
presepe, non
sarebbero mai
mancate le figure del cacciatore e del pescatore.
La caccia e la pesca hanno sempre rappresentato le più
antiche forme di civiltà e hanno permesso all’uomo di
civilizzarsi e di sedentarizzarsi. I simboli della pesca e
della caccia non sono mai mancate come iscrizione nelle
tombe degli antichi sumeri ed etruschi: a rappresentare
quell’ingegno umano che, come bagaglio, l’uomo si porta
sempre con sé, anche oltre la morte, nella vita futura.
Quando vediamo il pescatore (che ha dato vita ad una
serie di varianti: il pescatore con la lenza, o quello che
vende i pesci al mercato, o quello con un singolo grosso
pesce – il capitone – o, ancora, il pescivendolo che,
come vuole la tradizione, sembra lanciare un grido
ambiguo) non possiamo celare il senso di calma e di vita
che ci trasmette. Ne riceviamo quasi un senso di pace.
Questo personaggio però, va sempre collocato insieme
al cacciatore che, invece, ci trasmette un senso di morte.
Qui, nel futuro, già si sentivano le proteste furibonde
degli intellettuali: ma come un uomo col fucile sul
presepe? Ma Il vangelo non è il tema della pace e uno
31
strumento di morte cosa
ci fa nel presepe? Non
bisogna negare che
questa figura pone
qualche interrogativo
ma va colta insieme al
pescatore perché morte
e vita fanno parte di
quelle notizie che quel
bambino verrà a
comunicarci. Anche la
posizione del presepe di
questi due personaggi deve essere chiara. Se il
cacciatore allude all’inferno il pescatore rimanda alla vita.
Dunque potrebbe indurci a pensare il pescatore in alto
(cielo) e il cacciatore in basso, nell’inferno (terra). Dato
però che il presepe ci fa compiere un cammino verso il
basso della grotta, dove Dio è venuto ad abitare, la logica
si inverte: il pescatore in basso (vicino al fiume) che
richiama la vita che Gesù bambino è venuto a donarci, e
il cacciatore li vicino, meglio di fronte ma più in alto, ad
indicare l’inferno.
Questa contrapposizione non ci deve spaventare ne
meravigliare. Nell’icona della natività di Andrey Rublev il
bambino viene collocato nella grotta, in uno sfondo
nerissimo, chiaro simbolo della morte a cui il bambino è
destinato, ma, più ancora, è raccolto non nelle fasce ma
come mummificato.
I padri della chiesa, da un punto di vista strettamente
teologico, suggeriranno, nel futuro, che il natale va
sempre letto con le categorie della pasqua. Quel
bambino che è venuto a nascere in mezzo a noi sarà
chiamato a realizzare la volontà del padre: offrirsi in
32
sacrificio per noi. In altre parole, si tratta di realizzare
tutta la poesia del presepe senza mai dimenticare il fine
di questa venuta di Dio sulla terra: egli è venuto a morire
per noi. Morte e vita sono qui rappresentate in un
armonioso equilibrio come passaggio indispensabile per
ogni uomo.
In pratica, nel presepe questa coppia, meglio, questa
triade, non deve mai mancare. Il cacciatore, il pescatore
e la lavandaia. Compongono una triade di significati che
fanno appello alla nostra riflessione attenta e scrupolosa.
Quel Bimbo sentiva già, dentro il suo animo, tutto il
significato tramandato
da secoli e infatti, in
essa si narra del pesce
e della pesca in diverse
forme. Innanzi tutto
viene detto dei diversi
metodi di conservazione
di questa vita:
essiccandolo o
salandolo, per
conservarne il sapore
originario. Il pesce, fin
da subito, biblicamente
richiamava una vita che
si può conservare oltre
la morte. Lo sa bene chi
va a fare la spesa:
entrare in una macelleria vuol dire far esperienza di
carne, di sangue, di carni tagliate, in una parola: di morte.
Chi entra in pescheria assiste ad un teatro: c’è il
pescatore o i suoi aiutanti che gridano e non si
risparmiano pesanti allusioni, c’è l’acqua che viene
33
continuamente spruzzata dai venditori sui pesci ma
l’osservazione attenta dell’acquirente, accorta, che non si
lascia ingannare da questi trucchi, che così inducono i
piccoli pesci a dimenarsi. Si cercano, invece, gli occhi del
pesce perché quelli non ingannano, solo gli occhi del
pesce riescono a farti leggere se quella vitalità è indotta
dall’acqua e in realtà il pesce è morto da un bel po’ o se
invece, è vivo realmente. Il pesce dunque rimanda ad
una vitalità reale, vera, non indotta, falsata. Il pesce vivo
non quello scongelato.
Secondo il primo racconto della creazione (Gen 1, 20-23)
il pesce fu creato da Dio al quinto giorno insieme agli
uccelli. Esseri viventi che popolano le acque, i pesci sono
benedetti da Dio e ricevono il comando di essere fecondi.
Tra questi animali: «Dio creò i grandi mostri marini e tutti
gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque»
(Gen 1,21a). Il libro di Giobbe ricorda il Leviatàn, mostro
marino per eccellenza che corrisponde al coccodrillo (Gb
40,25; cfr. Sal 104, 25-26). Dopo il diluvio, Dio benedice
Noè e i suoi figli e dicendo: «Tutti i pesci del mare sono
dati in vostro potere» (Gen 9,2). Tra le specie acquatiche
quel libro distinse i pesci commestibili o puri, che hanno
squame e pinne, da quelli impuri, perché mancano di una
di queste caratteristiche (Lev 11,9-12; Dt 14,9). Una
risonanza di questa concezione si avrà più avanti (cfr.
Vangelo secondo Matteo) dove assisteremo ad una
cernita dei pesci (Mt 13,47-50). Gli ebrei usciti dall'Egitto
rimpiansero i pesci che mangiarono gratuitamente in
quella terra (Nm 11,5).
Il pesce, nel libro di Giona, diviene simbolo del sepolcro
da cui il profeta, liberato da Dio, il terzo giorno, uscì vivo,
per proseguire la sua missione (Gn 2,1-2). Giona nella
pancia del pesce sarà riletto (nei Vangeli) come figura e
34
segno di Gesù che resta tre giorni nella tomba, ma poi
risorge (Mt 12,39-41; Lc 11,29-31,32).
Nel libro di Tobia il pesce ha delle proprietà terapeutiche
che guariscono il padre di Tobia dalla cecità e, Sara, la
sua amata donna, dalle forze del male (6, 1-9).
Il pesce è simbolo della sventura che si abbatte
sull'uomo: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale
e agli uccelli presi al laccio, l'uomo è sorpreso dalla
sventura che improvvisa si abbatte su di lui (Cfr. Sir
9,12).
Il Bambinello cresciuto, per tutte queste ragioni, non
negherà questo alimento a chiunque ne domandi con
fiducia (Lc 11,11-12; Mt 7,10), come pure richiama il
frutto del lavoro che dona il denaro necessario per la vita.
Un episodio, grazie ad una pesca miracolosa, legherà
per sempre il Gesù della storia al suo primo successore
in terra: «Ma per non scandalizzarli, va' al mare, getta
l'amo e prendi il pesce che per primo abboccherà. Aprigli
la bocca e vi troverai uno statere. Lo prenderai e lo darai
loro per me e per te» (Mt 17,24-27). Lo statere è il
denaro che Pietro, essendo pescatore, riceve dalla
vendita del pesce che aveva pescato (Mc 1,16-18). In
questo episodio si può leggere lo stesso destino che
accomuna Pietro a Gesù. Soltanto a Pietro viene
concesso di pagare la tassa per il tempio insieme a
Cristo. E’ evidente la condivisione di una vita che lo
porterà a condividere lo stesso destino di morte nella
celebrazione della Pasqua. Ictus, in greco, che tradotto
vuol dire pesce – per questo motivo lo troviamo dipinto
sulla pisside o vicino i tabernacoli - è l’acronimo che
indica Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.
Gesù, più avanti, si servirà del pesce per nutrire la folla
stanca e affamata, moltiplicando i cinque pani e i due
35
pesci disponibili tra la folla (Mt 14,13-21; Mt 15,29-39; Mc
6,30- 44; Mc 8,1-10; Lc 9,12-17; Gv 6,1-15). Dopo la sua
risurrezione, si fa riconoscere nella pesca miracolosa e
agli apostoli come cibo offre il pesce arrostito (Gv 21,1-
14). Una volta risorto mangerà il pesce arrostito che gli
apostoli gli offriranno rassicurandoli, coì, di non essere
un fantasma (Lc 24,42).
Ma più di ogni altra cosa ancora Gesù sceglierà i suoi
primi collaboratori tra i pescatori (Mc 1,16-20) i quali,
lasciate le reti, lo seguirono. La metafora vocazionale
utilizzata dal Signore è l’immagine del «pescatore»
(aliéis), contestualizzata nell’attività della pesca e delle
reti (díktua). In un “pittore” delle sue Gesta (l’evangelista
Luca 5,10) con questa medesima espressione, rivolta a
Simon Pietro, intese alludere al «pesce vivo» (la pesca
come attività della predicazione evangelica). Il discepolo
è colui che sperimenta nella «barca» (immagine della
comunità) la fatica di chiamare al vangelo («gettare la
rete») tutti gli uomini, senza fare distinzioni di razza e di
sesso. Forse gli apostoli sono pescatori perché possono
meglio comprendere l’idea di andare nel mare,
biblicamente, come segno del male, entro cui bisogna
andare per salvare gli uomini che vogliono vivere. I
pescatori sono abituati ad uscire di notte e fare ritorno
all’alba. Le immagini della pesca e della rete ritorneranno
con un significato escatologico (così anche nella
tradizione biblica: cf Ger 16,16-18; Am 4,2; Ab 1,14-17)
in altri racconti (nella parabola di Mt 13,47-50) dove si
dirà che i pescatori hanno il compito di raccogliere
qualsiasi genere di pesci (12,47), mentre alla fine del
mondo spetterà agli angeli fare la distinzione tra i pesci
buoni e cattivi (Mt 12,49).

36
OTTAVA MEDITAZIONE
23 DICEMBRE 2018
Incantato dalla stella, lo stupore
Ad un certo punto il piccolo Bambinello fu quasi come
rapito da un uomo, lontano dai
suoi occhi, che appariva come
rapito da uno spettacolo in
cielo. (Vi sono due personaggi
che di per sé non
appartengono alla tradizione
classica napoletana. Ogni
regione, quasi, ha elaborato in
proprio un personaggio da
inserire nel presepe.) Vi era un altro pastore, simile a
quello, proprio vicino alla grotta da cui si sentiva
osservato. Entrambi avevano lo stesso sguardo. I due
però erano molto diversi. Il primo era incantato dalla
stella il secondo, invece, era con gli occhi meravigliati
davanti alla grotta che contemplava Gesù bambino. Il
primo, infatti, è un uomo; l’altra, in genere, è una figura
femminile; il primo guarda in alto, l’altro guarda davanti; il
primo è posto lontano dalla grotta il secondo, invece è
accanto alla grotta. Non si può negare che il nostro
pastore sia collegato al senso della ricerca di Dio, al
desiderio che l’uomo, da sempre, ha avvertito nei riguardi
dell’eterno. L’etimologia del termine desiderio, infatti,
spiega bene questo tema: parola composta da De e
Sidus (Mancanza di stelle). La nostra vita infatti può
essere letta così come una mancanza di stelle per
cogliere la rotta verso il cielo. Il personaggio
rappresentato ci richiama al senso della direzione da
dare alla nostra vita. Troppo spesso ci lasciamo attrarre
solo da ciò che luccica e non fa luce. Vi sono troppi
37
angoli bui del nostro animo che chiedono di essere
illuminati dalla luce della Parola. Solo la Parola di Dio
fatta carne è quella luce che guida i nostri passi.
Anzi, per la verità le notizie scientifiche avrebbero fornito
indicazioni preziosi di quello spettacolo da cui il pastore
risultava rapito. Le teorie scientifiche avrebbero svelato la
composizione delle stelle spiegando la loro particolare
luminosità come un indicatore di direzione. Infatti, le
comete sono corpi solidi in orbita intorno al sole, di
dimensioni assai inferiori rispetto a quelle dei pianeti o
dei loro satelliti. Ruotano su orbite fortemente ellittiche,
cioè molto allungate; in un numero limitato di casi
possono essere corpi celesti esterni al sistema solare,
che il campo gravitazionale del sole ha catturato
obbligandoli a muoversi su traiettorie paraboliche o
iperboliche e, dunque, non in orbite ricorrenti.
Approssimandosi al sole, dalle comete evapora buona
parte del materiale di cui è composta la loro superficie,
formando una chioma di gas che gli sciami di particelle
provenienti dal sole — il cosiddetto vento solare —
spingono e rendono luminosa; ha così origine una “coda”
di polveri e particelle ionizzate, la cui direzione varia
lungo l’orbita, mantenendo sempre un orientamento
opposto rispetto alla posizione del sole. La loro
luminosità vista dalla terra dipende dalle dimensioni e
dalla distanza dal sole, aumentando notevolmente
quando esse vi si avvicinano maggiormente, sebbene
tale prossimità renda nel contempo più difficoltosa la loro
osservazione (perché visibili solo fra le luci dell’alba o del
tramonto). La spettacolarità del fenomeno, la presenza di
una coda in grado di indicare una certa direzionalità, ed
un debole movimento diurno rispetto allo sfondo delle
stelle fisse, hanno tradizionalmente favorito una
38
identificazione “classica” fra la «stella di Betlemme» ed
una particolare cometa. Questa stella cometa nella
bibbia era già stata preannunciata: «Una stella spunta da
Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (Nm 24,17); «E
tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i
capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve
essere il dominatore in Israele» (Mi 5,1). La mia
domanda però è un’altra: se questo segno luminoso in
modo vistoso che si muove e indica una direzione
apparve in quel tempo come mai non si mossero tutti in
quella direzione? Come mai, a sentire il Vangelo di
Matteo, Erode, che pure era alla ricerca di Gesù per farlo
fuori, non si accorse di nulla? Il nostro pastore calabrese,
“u ncantatu da stiddra”, ci ricorda che forse questo nostro
tempo ha perso la capacità di stupirsi. Non ci
meravigliamo più di niente. Siamo sempre connessi con
l’universo intero che una notizia ci appare scontata,
superata, quasi da non ripetersi. Ogni giorno non c’è
nulla di nuovo. In questo tempo di velocità di
comunicazioni nell’etere siamo coì sommersi da
informazioni che non ci stupiamo più di nulla: ne di un
uomo che si spegne e ne di una vita che nasce. Eppure,
un famoso scienziato, ci aveva avvisato: “Se non sei in
grado di provare né stupore né sorpresa sei per così dire
morto, i tuoi occhi sono spenti” (Albert Einstein). Mi rendo
conto che è una questione anche di linguaggio. Il termine
stupore pare debba essere utilizzato solo dagli specialisti
dell’educazione o dagli psicologi, conoscitori dei segreti
dell’animo umano. Eppure non è così. Forse dobbiamo
sdoganare questo termine dalle periferie del sapere dotto
e condurlo nella popolarità del linguaggio ordinario. Lo
stupore, dunque, non è termine solo adatto ai bambini.
Certo in questo i bambini ci sono da esempio: sono alla
39
continua ricerca di nuove scoperte. Quante volte li
abbiamo trovati a giocare per ore con un filo d’erba;
quante volte ancora li abbiamo trovati incantati ad
osservare i colori dei fiori o i movimenti dei pesci che
inseguono a riva ad occhio nudo. Ma non è vero che solo
i bambini amano le sorprese: lo sa bene la sposa che
attende da tempo una rosa che non arriva dal proprio
amato, troppo preso dalle fatiche del giorno; lo sa bene lo
sposo che attende una pietanza diversa, frutto
dell’inventività e della creatività dell’amata. Eppure lo
stupore è un’arma potente della nostra stessa vita.
Poche volte ce rendiamo conto, quando, ad esempio,
diciamo a noi stessi: “ma che stupido, non ci avevo
pensato”. In riferimento all’utilizzo di un qualcosa che
avevamo dimenticato, che avevamo visto, si, ma non
osservato. Ecco lo stupore nasce dagli occhi che non si
fermano al vedere ma vanno al di la del segno che ci si
pone davanti. Sono gli occhi dell’anima e non solo quelli
della vista che devono essere attivati. Sono occhi potenti
che attivano le nostre capacità creative. Le mamme lo
sanno: con quegli occhi hanno raccontate mille storie ai
loro figli davanti alla pappa; durante le notti agitate dei
loro figli alla ricerca della tranquillità del sonno hanno
fatto parlare le sveglie, i cuscini e che cosa non sono
inventati pur di inseguire un obiettivo educativo. Lo
stupore ha fatto muovere i Magi, lo stupore ci smuove
dalle poltrone della comodità fiacche della nostra vita
dove ci siamo insediati. Lo stupore rende la nostra vita
sempre nuova e mai noiosa. E’ una potente arma della
creatività della nostra vita e ci aiuta a rinascere ogni
giorno e a vivere in pienezza tutta la nostra vita.
Lasciamo incantare anche noi dalla luminosità della
stella.
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NONA MEDITAZIONE
24 DICEMBRE 2018
Come i Magi anche noi in cammino
Gli occhi del bambinello si erano fatti più attenti, quasi
scrupolosi, quando, da lontano aveva comunque
avvistato tre personaggi. In futuro, dei libri antichi, un po
fantasiosi (Il Vangelo, apocrifo, dell’Infanzia - Armeno) ne
avrebbero conservato anche i nomi: Melkor, Gaspar e
Balthasar.
Sarebbero stati
presentati come
dei sacerdoti
persiani, o,
come forse si
considera più
veritiero, i Magi
erano tre Re,
uno Persiano,
uno Etiope, ed
uno Arabo per
rappresentare le tre popolazioni all'epoca conosciute,
quella africana, quella europea e quella asiatica.
Al di là di cosa fossero se sacerdoti o re una cosa è certa
questi personaggi avevano proprio la caratteristica di
essere dei veri e propri simboli: rappresentavano tutte le
popolazioni: l'Africa, rappresentata da Baldassarre, l'Asia
da Melchiorre e l'Europa da Gaspare; Rappresentavano
ancora le età dell'uomo: giovinezza, maturità e vecchiaia;
le tre ripartizioni del tempo: passato, presente e futuro.
Un modo per dire che di fronte a quel bambino tutte le
popolazioni, senza alcune forma di discriminazione,
sarebbero state unite dalla forza della debolezza di quel
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bambino inerme. Si tutti insieme. Quei tre personaggi
stavano a significare che sognare non è da illusi; sognare
è possibile. Erano da ammirare più di tutti gli altri perché,
avendo messo da parte il loro blasone e l’appartenenza
ad una casta si erano messi in cammino alla ricerca del
Bambino preannunciato nei testi antichi. Pur di
raggiungerlo, sprezzando ogni pericolo, avevano persino
interloquito con un potente dedito alla violenza. Lo
avevano saputo tenere a bada quella volpe velenosa
(Erode). Quegli uomini diversi non facevano paura;
venivano da lontano si, ma portavano nel cuore una
sapienza diversa. Avevano immaginato il mondo come
un’unica famiglia; tutti apparentati dalla terra come madre
comune e, da quel momento, si sarebbero riconosciuti,
tutti fratelli negli occhi di quel nuovo re. Si negli occhi del
Bambino che era davvero l’unico e nuovo re. Quel re
poteva unire tutte le popolazioni abbattendo ogni muro e
tutti i recinti della storia per fare del mondo un solo
campo comune di vita. Una terra come madre di tutti e un
figlio, nato in terra ma venuto dal cielo, che avrebbe
inaugurato una nuova via per cielo.
Era chiaro che quella era la notte della vita e i tre sapienti
non si erano lasciati sorprendere; non si erano presentati
li senza doni. Alla vista di quei doni, gli occhi del
bambinello si misero a luccicare ancora di più.
Avevano portato l’oro, al re, l’incenso a Dio e la Mirra
all’uomo. Si quel bambinello era l’uomo-Dio
preannunciato dai profeti.
L’oro, per simboleggiare che lo avevano riconosciuto
come loro re.
L’incenso, per dire che tutta l’umanità lo avrebbe pregato
da quel momento in poi.

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Alla vista della mirra però sentì di nuovo quel brivido alle
ossa e alla schiena che aveva avvertito quando aveva
cercato, invano, l’agnello. Quella strana sostanza in
effetti, frutto dell’ingegno e del lavoro degli uomini,
serviva ad alleviare i dolori degli uomini destinati alla
morte cruenta. La Mirra, infatti, è una pianta
appartenente al genere Commiphora, dalla quale si
estraggono due diverse sostanze, a seconda della
specie: dall'albero Balsamodendron Myrrha, si estrae un
profumo anticamente usato in alcuni riti di
imbalsamazione, dal Cistus Creticus si ricava un olio
volatile simile al laudano.
Nel giorno più bello della storia non si poteva nascondere
la verità: quel bambino, come tutti gli uomini, era
destinato a morire; a differenza di tutti gli altri figli della
storia (di Isacco che fu risparmiato; di Giuseppe che in
Egitto fu ritrovato dai suoi fratelli) lui sarebbe stato
destinato ad una morte cruenta per salvare tutti noi.
I magi avevano seguito la stella della ricerca ma anche
della verità. La verità non può fare sconti. Quel bambino
era destinato a donarsi tutto per amore fino a lasciarsi
consumare e per vie sconosciute che non sono le nostre
sappiamo che sarebbe diventato pane per tutti. Sarà
pure una combinazione, ma a questo punto sono troppe
(la stella, i magi, e la città: tre indizi in materia
processuale fanno una prova) venne a nascere in quella
città il cui significato è casa del pane.
Anche noi disponiamoci alla ricerca del bambino come i
magi e, una volta trovato, cambiamo vita perché non
dobbiamo incrociare le volpi della nostra storia.
Anche noi siamo destinati ad imitarlo e a diventare, come
lui, pane consumato per gli altri.

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