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CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE

ISTITUTO PER LA CIVILTÀ FENICIA E PUNICA


“SABATINO MOSCATI”

RIVISTA
DI

STUDI FENICI
VOLUME XXX, 2

2002
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE
ROMA
RIVISTA DI STUDI FENICI
Fondata da: SABATINO MOSCATI – Direttore responsabile: PIERO BARTOLONI – Redazione:
SILVIA MARIA CHIODI – MARIA TERESA FRANCISI – LORENZA-ILIA MANFREDI –
FEDERICO MAZZA – GIOVANNI MONTALTO – GESUALDO PETRUCCIOLI – SERGIO RIBICHINI –
LUIGI ROSSI – GABRIELLA SCANDONE MATTHIAE – PAOLO XELLA

Sede: Area della Ricerca di Roma, Via Salaria Km. 29,300 - Montelibretti C.P. 10 –
00016 Monterotondo Stazione (Roma)

SOMMARIO

Pagine
G. F. CHIAI, Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici e dei Greci in età ar-
caica. Analisi di una tradizione storico-letteraria.................................................. 125-146
S. FINOCCHI, Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora e del suo territorio in epoca feni-
cia e punica.............................................................................................................. 147-186
J. RODRÍGUEZ RAMOS, El origen de la escritura sudlusitano-tartesia y la formación de alfabetos
a partir de alefatos................................................................................................... 187-222

Note e discussioni
PH.C. SCHMITZ, Paleographic Observations on a Phoenician Inscribed Ostracon from
Beirut......................................................................................................................... 223-227

Recensioni e schede
AA.VV. (a cura di M.L. FAMÀ), MOZIA, Gli scavi nella «Zona A» dell’abitato (A. Spanò
Giammellaro) ............................................................................................................ 229-235

Bibliografia. 30 ......................................................................................................................... 237-274

Autorizzazione del Tribunale di Roma, n. 14468 in data 23-3-1972

Impresso per i tipi degli ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI - ROMA


RStFen, XXX, 2 (2002)

IL NOME DELLA SARDEGNA E DELLA SICILIA SULLE ROTTE


DEI FENICI E DEI GRECI IN ETÀ ARCAICA. ANALISI DI UNA
TRADIZIONE STORICO-LETTERARIA(*)

G.F. CHIAI – Tübingen

Oggetto del presente lavoro è l’analisi di una tradizione letteraria, rico-


struibile attraverso le testimonianze di Diodoro Siculo e di Pausania, relativa
alla denominazione da parte dei Greci delle isole di Sardegna e di Sicilia, quali
«Ixnoy^ssa e Trinakría. Si tratta di denominazioni che, come verrà mostrato, si
connettono ad una precisa fase storica di contatto con i territori costieri delle
due isole e con un comune atteggiamento nei confronti delle culture locali(1).

(*) Ringrazio i Proff. A.C. Cassio e P. Bartoloni per l’attenzione con cui hanno letto
questo lavoro e la Dott.ssa C.A. Ciancaglini per alcuni preziosi suggerimenti; un grazie
anche ai Proff. G. Garbini e F. Mazza per la disponibilità mostratami. Nel testo sono state
utilizzate le seguenti abbreviazioni: ACFP1 = Atti del I Congresso Internazionale di Studi
fenici e punici, Roma 1983; ACFP2 = Atti del II Congresso Internazionale di Studi fenici e
punici, Roma 1990; ACFP3 = Actes du IIIe Congrès International des Études phéniciennes
et puniques, Tunis 1995; APOIKIA = B. D’AGOSTINO - D. RIDGWAY (a cura di), APOIKIA. I
più antichi insediamenti greci in Occidente: funzioni e modi dell’organizzazione politica e
sociale (= Annali di Archeologia e Storia Antica, n.s. 1, 1994); AuOr = Aula Orientalis;
BICS = Bulletin of the Institute of Classical Studies; BSA = The Annual of the British
School at Athens; CRAI = Comptes-Rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Let-
tres; DA = Dialoghi di Archeologia; EVO = Egitto e Vicino Oriente; MAL = Monumenti
Antichi dei Lincei; Momenti precoloniali = E. ACQUARO - L. GODART - F. MAZZA - D. MUSTI
(a cura di), Momenti precoloniali nel Mediterraneo antico, Roma 1988; PdP = La Parola
del Passato; Phoinikes b Shrdn = P. BERNARDINI - R. D’ORIANO - P.G. SPANU (a cura di),
Phoinikes b Shrdn. I Fenici in Sardegna, nuove acquisizioni, Oristano 1997; PIW = H.G.
NIEMEYER (a cura di), Phönizier im Westen. Die Beiträge des Internationalen Symposium
über «Die phönizische Expansion im Westlichen Mittelmeerraum» in Köln vom 24. bis 27.
April 1979, Mainz am Rhein 1982; QuadCagliari = Quaderni della Soprintendenza Ar-
cheologica di Cagliari e Oristano; RANL = Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lin-
cei; RFIC = Rivista di filologia e di istruzione classica; RIL = Rendiconti dell’Istituto
Lombardo; RStFen = Rivista di Studi Fenici; SE = Studi Etruschi; SMSR = Studi e Mate-
riali di Storia delle Religioni; StudStor = Studi Storici.
(1) Sulle fasi di contatto e di precolonizzazione fenicia e greca esiste una bibliogra-
fia sterminata: in generale s.v. i diversi contributi negli atti del convegno romano Momenti
precoloniali, che trattano del fenomeno storico della «precolonizzazione» a partire dall’e-
spansione minoica nell’Egeo; tra gli studi successivi, in particolare sulla Sardegna, s.v. in
126 G.F. Chiai

Proprio a quest’ultimo punto si collega l’affermazione di Sardv́ e di Sikelía,


di origine chiaramente anellenica, quali nomi delle due regioni. Il punto centra-
le di questa ricerca è ricostruire appunto lo scenario e le motivazioni storiche
che hanno condotto i Greci, in questo caso in modo specifico gli Eubei, in un
primo momento a designare con una denominazione ellenica entrambe le isole,
e successivamente ad adottare un nome di origine locale – seppur grecizzando-
lo – per indicare i medesimi luoghi. Tale atteggiamento è in parte analogo a
quello dei Fenici(2), i quali, come verrà mostrato, adottarono le stesse denomi-
nazioni epicoriche in riferimento a queste terre.

Sardegna: dati archeologici e linguistici

Iniziamo con una valutazione dei dati archeologici. Per quanto riguarda la
Sardegna, vanno in primo luogo ricordate le scoperte di materiali ceramici eu-
boici, databili tra IX-VIII sec. a.C., effettuate nel complesso nuragico di S. Im-
benia, situato sulla costa nord-occidentale dell’isola(3). Si tratta di rinveni-
menti noti già da tempo, che gettano sicuramente nuova luce riguardo alle pri-
me fasi della frequentazione «precoloniale» dell’isola. Anche se un singolo va-
so non prova in maniera definitiva che gli Eubei fossero di persona presenti nel
sito, tuttavia, il fatto che merci euboiche fossero commerciate e trasportate su
navi fenicie, va connesso ad una fase storica di pacifica coesistenza e di non

generale S.F. BONDÌ, La frequentazione precoloniale fenicia: AA.VV., Storia dei Sardi e
della Sardegna, Milano 1988, pp. 129-45; P. BARTOLONI, Aspetti precoloniali della coloniz-
zazione fenicia in Occidente: RStFen, 18 (1990), pp. 157-67; da ultimo con una ricca bi-
bliografia si segnala P. BERNARDINI, I Phoinikes verso Occidente: una riflessione: RStFen,
28 (2000), pp. 13-33; ed anche S.F. BONDÌ, Interferenza fra culture nel Mediterraneo anti-
co: Fenici, Punici, Greci: S. SETTIS (a cura di), I Greci. Storia, Cultura, Arte, Società, 3,
Torino 2001, pp. 369-400, per un quadro storico d’insieme.
(2) Il termine «fenicio» viene qui utilizzato quale denominazione comune, che desi-
gnava in maniera indistinta le differenti componenti etniche che dalle regioni «levantine»
presero parte ai moti di espansione commerciale e più tardi politica nel Mediterraneo; sul-
l’argomento cf. da ultimo con bibliografia il contributo di G. GARBINI, Fenici e Cartaginesi
nel Tirreno: Magna Grecia, Etruschi, Fenici. Atti del XXXIII Convegno di Studi sulla Ma-
gna Grecia, Taranto 1994, pp. 73-85.
(3) Sugli scavi di S. Imbenia s.v. S. BAFICO – R. D’ORIANO – F. LO SCHIAVO, Il vil-
laggio nuragico di S. Imbenia ad Alghero (SS). Nota preliminare: ACFP3, pp. 87-98; sui
materiali euboici qui messi alla luce s.v. le osservazioni di D. RIDGWAY in Phoinikes b Shr-
dn; ID., Relazioni di Cipro con l’Occidente in età precoloniale: G. PUGLIESE CARATELLI (a
cura di), Greci in Occidente, Milano 1996, pp. 117-20, che richiama somiglianze con ma-
teriali euboici rinvenuti a Cipro. Con più ampia prospettiva storica, sempre di questo stu-
dioso s.v. L’Eubea e l’Occidente: nuovi spunti sulle rotte dei metalli: Euboica. L’Eubea e
la presenza euboica in Calcidica e in Occidente, Napoli 1998, pp. 311-22.
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 127

conflittualità tra Eubei e Levantini, quando ancora gli spazi commerciali del
Mediterraneo erano aperti e non definiti politicamente(4). Neppure si dimenti-
chi che i vasi di cui si sta parlando sono di tipo simposiale e che vanno pertanto
connessi ad un mondo di valori e di ideologie, di cui le genti di Lefkandi si fe-
cero portatrici presso le culture italiche d’Occidente. Si trattava quindi di og-
getti «esotici» e preziosi, destinati alle aristocrazie locali dell’isola, principali
interlocutrici dei Fenici. Si riscontra in un certo senso una situazione di tipo
«iliadico», in cui i mercanti di Sidone sono noti per la preziosità delle loro
merci, quali il cratere aureo di Toante (Hom. Il. XXIII, 744-45) ed i tessuti di
porpora donati alla dea Atena ed acquistati da Paride in Fenicia (Hom. Il. VI,
288-95), tutti beni di prestigio che connotano e contraddistinguono le «élites»
aristocratiche della società dell’Alto Arcaismo greco(5).
Per quanto riguarda la Sicilia, anche qui i più antichi materiali ellenici so-
no di produzione euboica, si rinvengono in contesti indigeni e sono sempre vasi
simposiali.
Offrire da bere e brindare, sedersi e mangiare, rappresentano gli strumenti
universali con cui poter prendere contatto pacificamente con le genti locali
e superare difficoltà di comunicazione linguistica.

(4) Con ampia bibliografia s.v. P. BERNARDINI, Considerazioni sui rapporti tra Sar-
degna, Cipro e l’area egeo-orientale nell’età del Bronzo: QuadCagl, 10 (1993), pp. 26-67;
H. MATTHÄUS, Die Rolle Zyperns und Sardiniens im mittelmeerischen Interaktionsprozess
während des späten zweiten und frühen ersten Jahrtausends v. Chr.: F. PRAYON-W. RÖLLIG
(a cura di), Der Orient und Etrurien. Zum Phänomen des «Orientalisierens» im westlichen
Mittelmeerraum (10-6 Jh. v. Chr.), Pisa-Roma 2000, pp. 41-75; sulle rotte ed i traffici
commerciali F. LO SCHIAVO – R. D’ORIANO, La Sardegna sulle rotte dell’Occidente: La
Magna Grecia e il lontano Occidente. Atti del XXIX Convegno di Studi sulla Magna Gre-
cia, Taranto 1990, pp. 99-160, in modo specifico per l’ambito fenicio P. BARTOLONI, Le li-
nee commerciali all’alba del primo millennio: AA.VV., I Fenici: Ieri, Oggi, Domani, Ro-
ma 1995, pp. 245-59; a riguardo cf. anche il lavoro di M. BOTTO, I commerci fenici nel Tir-
reno centrale: conoscenze, problemi e prospettive: ibid., pp. 43-53 con ricca bibliografia.
In generale sull’espansione fenicio-punica in Sardegna s.v. il recente contributo di P. BAR-
TOLONI – S.F. BONDÌ – S. MOSCATI, La penetrazione fenicia e punica in Sardegna. Trent’an-
ni dopo (= MAL, 9), Roma 1997.
(5) In generale sulla presenza dei Fenici nei poemi omerici si rimanda all’analisi di
G. BUNNENS, L’expansion phénicienne en Méditerranée, Bruxelles 1979, p. 92 sgg.; inte-
ressanti osservazioni su questo tema anche in D. MUSTI, L’economia in Grecia, Bari 1981,
p. 27 sgg.; per quanto riguarda la caratterizzazione dell’elemento fenicio in Occidente nel-
le fonti greche dello stesso studioso s.v. Modi e fasi della rappresentazione dei Fenici nel-
le fonti letterarie greche: ACFP2, pp. 161-68. Le fonti classiche di autori greci, a partire
da Omero, sui Fenici sono state raccolte da F. MAZZA – S. RIBICHINI – P. XELLA, Fonti clas-
siche per la civiltà fenicia e punica, Roma 1988; si segnala poi F. MAZZA, L’immagine dei
Fenici nel mondo antico: S. MOSCATI (a cura di), I Fenici, Milano 1988, pp. 548-67; per
una rassegna critica degli studi sull’argomento cf. il recente saggio di M. LIVERANI, L’im-
magine dei Fenici nella storiografia occidentale: StudStor, 39 (1998), pp. 5-22.
128 G.F. Chiai

Relativamente alla cultura materiale, come da tempo le ricerche archeolo-


giche hanno mostrato, le prime frequentazioni fenicie nell’isola sono state pre-
cedute da una lunga fase in cui i contatti tra la Sardegna e l’Oriente vennero
gestiti da altre genti, alle quali i Fenici si associarono, finendo per prevalere. In
questa fase, convenzionalmente chiamata precoloniale(6), le genti levantine
prendono contatto con le culture locali dell’isola, conoscendone i costumi, le
strutture sociali ed il territorio da loro abitato(7).
Come posto in rilievo(8), nell’ambito della documentazione archeologica
precoloniale si distinguono due classi di oggetti, bronzi e ceramica, che vanno
messi in rapporto a due atteggiamenti differenti nei confronti del territorio e
dei suoi abitanti. Il rinvenimento di bronzetti in ambito nuragico, di produzione
levantina(9), è stato connesso ad una presa di contatto «positiva» con le cultu-
re locali: essi vengono, infatti, interpretati come un dono di pregio fatto alle
aristocrazie indigene, con lo scopo di rendersele amiche. Quella del dono era
una pratica molto diffusa presso le civiltà del Vicino Oriente antico, dietro la
quale, come ha ampiamente mostrato C. Zaccagnini(10), si nasconde un com-

(6) Per una chiara definizione del fenomeno, da parte sia greca che fenicia, merita-
no di essere riportate le parole di S. MOSCATI, Precolonizzazione greca e precolonizzazione
fenicia: RStFen, 11 (1983), pp. 1-7, in part. p. 7: «La precolonizzazione è un fenomeno di
frequentazione dei mari, senza intento di conquista e neppure di stabilizzazione, limitato al
reperimento di approdi adatti e conosciuti a cui fare riferimento, talvolta accompagnato
dalla presenza sul luogo di poche persone che non hanno né vogliono avere autonomia po-
litica e servono solo a favorire i contatti indispensabili». Su questo tema s.v. con una bi-
bliografia aggiornata il recente contributo di D. RIDGWAY, Riflessioni sull’orizzonte «pre-
coloniale» (IX-VIII sec. a.C.): Magna Grecia e Oriente mediterraneo prima dell’età elle-
nistica. Atti del XXXIX Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 2000, pp.
91-108.
(7) Sui cambiamenti sociali avvenuti in seno alle comunità nuragiche in seguito ai
contatti con queste nuove culture s.v. il documentato studio di P. BERNARDINI, Le aristocra-
zie nuragiche nei secoli VIII e VII a.C. Proposte di lettura: PdP, 37 (1982), pp.
81-101.
(8) Cf. le osservazioni di S.F. Bondì in P. BARTOLONI – S.F. BONDÌ – S. MOSCATI, op.
cit., p. 13 sgg.
(9) Si tratta in particolare dei bronzetti di Olmedo e del Nuraghe di Flumenlongu,
presso Alghero, per una definizione tipologica dei quali cf. G. TORE, I bronzi figurati feni-
cio-punici in Sardegna: ACFP1, pp. 449-61; A.M. BISI, L’apport phénicien aux bronzes
nouragiques de Sardaigne: Latomus, 36 (1977), pp. 909-32, in part. 915 sgg.; EAD., Bronzi
vicino-orientali in Sardegna: importazioni ed influssi: M.S. BALMUTH (a cura di), Studies in
Sardinian Archaeology III, Oxford 1987, pp. 225-46, in part p. 229 sgg. In generale, sulla
base della tipologia e di confronti stilistici, questi reperti vengono datati tra IX-VIII sec.
a.C.; cronologia che si riallaccia a quella dei materiali ceramici emersi a S. Imbe-
nia.
(10) Cf. C. ZACCAGNINI, Lo scambio dei doni nel Vicino Oriente durante i secoli XV-
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 129

plesso mondo di valori e di ideologie. Il dono veniva certo contraccambiato da


parte degli aristocratici nuragici, forse anche con un oggetto di pari valore, ma
ad ogni modo il fine era stato raggiunto: entrare in rapporto amichevole con le
«élites» locali. Per quanto riguarda la ceramica, va ugualmente premessa una
sua circostanziale valutazione. Singoli vasi, impreziositi dalla lavorazione e
dalle decorazioni, potevano anch’essi fungere da dono per una Kontaktauf-
nahme con i ceti dominanti indigeni, ma non va comunque sottovalutata la loro
funzione primaria, quali contenitori di oggetti preziosi o di essenze profuma-
te(11). Diverso è il caso della ceramica di uso domestico, di produzione levanti-
na, rinvenuta ad esempio a S. Imbenia: essa, infatti, va posta in relazione con le
necessità pratiche degli elementi orientali residenti in questo centro emporico,
ed in quanto tale con delle esigenze di tipo insediativo(12).
Una domanda, che a mio avviso sorge spontanea, è inerente al modo ed al-
le forme di comunicazione tra Greci, Fenici e popoli indigeni. In altre parole,
dopo aver preso contatto con le realtà locali ed aver conquistato la fiducia delle
«élites» con ricchi doni, quali potevano essere i tramiti della comunicazio-
ne?
Passiamo per questo all’analisi di alcuni dati che emergono dallo studio di
un antico documento epigrafico, in lingua semitica, rinvenuto in Sardegna, sul-
la base dei quali si potrebbe forse dare una risposta a questa domanda: la stele
di Nora. A riguardo, quale premessa, sento di poter affermare che non sempre
da parte dei coloni si deve presupporre un atteggiamento di totale rifiuto nei
confronti delle lingue locali. Lo prova, secondo il mio parere, per lo meno da
parte fenicia e in epoca precoloniale, la presenza del termine ŠRDN nella sud-

XIII, Roma 1973, in part. p. 62 sgg. dove si legge: «Il dono si differenzia dal baratto e, in
genere, dall’atto di commercio, proprio per il suo presentarsi come un comportamento
spontaneo, in cui è la libera iniziativa del soggetto a suggerire il criterio dell’agire
[...]».
(11) È ad esempio il caso dell’alabastron miceneo, datato al TE III A2 rinvenuto nel
nuraghe Arrubiu, il quale conteneva certamente delle essenze profumate che erano state
offerte in dono al capo di questo complesso nuragico, cf. F. LO SCHIAVO – L. VAGNETTI, Ala-
bastron miceneo dal nuraghe Arrubiu di Orroli (Nuoro): RANL, 4 (1993), p. 121 sgg. Per
un inquadramentro delle funzioni dei vasi micenei s.v. lo studio di I. TOURNAVITOU, Practi-
cal Use and Social Function: a Neglected Aspect of Mycenean Pottery: BSA 87 (1992), pp.
181-210, gli alabastra sarebbero da porre nella categoria degli accessory vessels.
(12) Su tale ceramica, che viene datata all’VIII sec. a.C., s.v. le osservazioni di R.
D’Oriano, in S. BAFICO – R. D’ORIANO – F. LO SCHIAVO, art. cit.; più recente con ampia bi-
bliografia s.v. I. OGGIANO, La ceramica fenicia di Sant’Imbenia (Alghero – SS): P. BARTO-
LONI - L. CAMPANELLA (a cura di), La ceramica fenicia di Sardegna. Dati, problematiche e
confronti, Roma 2000, pp. 235-58.
130 G.F. Chiai

detta stele(13), in riferimento alla Sardegna. Ciò significa, prescindendo dalle


interpretazioni storiche e filologiche che si sono fatte su tale documento, che i
Fenici erano consapevoli tra il IX-VIII sec. a.C. che la denominazione epicori-
ca dell’isola era ŠRDN e questo potevano averlo appreso forse direttamente da-
gli abitanti del luogo(14). Sarebbe poi lecito supporre, ma questo solo in una se-
conda fase, che assimilato il nome, lo avessero poi adattato alla loro lingua. I
Fenici nella fase precoloniale avrebbero preso contatto con le realtà locali uti-
lizzando non solo interpreti, ma anche, quando serviva, apprendendo loro stessi
i rudimenti della lingua del posto, anche in seguito ad unioni con le donne indi-
gene(15). Ad ogni modo, il fatto stesso che la maggior parte dei toponimi dei
centri fenici dell’isola sia di matrice locale(16), presuppone comunque un atteg-
giamento positivo e pacifico nei confronti delle popolazioni del posto e della

(13) Su questo documento epigrafico esiste una notevole bibliografia, in generale s.v.
A. DUPONT-SOMMER, Nouvelle lecture de l’inscription archaïque de Nora, en Sardaigne
(CIS I, 144): CRAI, 1948, pp. 12-28; J.G. FÉVRIER, L’inscription archaïque de Nora: Revue
d’Assyriologie, 44 (1950), pp. 123-26; H. DONNER – W. RÖLLIG, Kanaanäische und ara-
mäische Inschriften I-II, Wiesbaden 1969-712, nr. 46, 10, tav. II; G. BUNNENS, L’expansion
phénicienne en Méditerranée, cit., p. 30 sgg.; M.G. AMADASI GUZZO, Le iscrizioni fenicie e
puniche delle colonie in Occidente, Roma 1967, pp. 83-87; M.G. AMADASI GUZZO – P.
GUZZO, Di Nora, di Eracle Gaditano e della più antica navigazione fenicia: AuOr, 4
(1986), pp. 59-71; su alcuni aspetti terminologici relativi alle iscrizioni fenicie di Sardegna
s.v. le osservazioni di P. FILIGHEDDU, Spigolature antropologiche attraverso le attestazioni
epigrafiche fenicie e puniche della Sardegna: F. VATTIONI (a cura di), Sangue e antropolo-
gia nel Medioevo, Roma 1993, in part. sulla stele di Nora p. 102 sgg.
(14) Si prescinde qui dal problema storico dell’identificazione degli antenati dei Sar-
di nuragici con gli Shardana nominati tra i Popoli del Mare; su questo problema cf. le re-
centi osservazioni di G. GARBINI, Genti orientali e ceramica «micenea»: Magna Grecia e
Oriente Mediterraneo prima dell’età ellenistica, cit., pp. 2-26.
(15) Sul ruolo dell’elemento femminile indigeno nell’ambito della colonizzazione
greca, soprattutto per quanto riguarda le prime generazioni di coloni s.v. R. VAN COMPER-
NOLLE, Femmes indigènes et colonisateurs, in AA.VV., Forme di contatto e processi di
trasformazione nelle società antiche, Pisa-Roma 1983, pp. 1033-49. Un altro esempio ad-
ducibile è quello delle Ateniesi rapite dai pirati tirreni e portate a Lemno, i cui figli erano
in grado di parlare greco e si distinguevano per questo dagli altri loro coetanei dell’isola;
in generale sulle tradizioni mitiche relative all’isola si rimanda al libro di C. DE SIMONE, I
Tirreni a Lemnos. Evidenza linguistica e tradizioni storiche, Firenze 1996, in part. p. 39
sgg. Ancora, la tradizione mitica ricorda che al momento della conquista di Mileto, gli Io-
ni avrebbero sterminato la popolazione maschile caria, risparmiando però le loro donne,
che avrebbero successivamente sposato; su tale tradizione cf. Pausania (VII, 2, 5-6). In ge-
nerale sul concetto di competenza linguistica cf. E. COSERIU, Sprachkompetenz, Tübingen
1988, p. 56 sgg.; sul mondo antico cf. E. CAMPANILE - G.R. CARDONA - R. LAZZERONI, (a cura
di), Bilinguismo e biculturalismo nel mondo antico, Pisa 1988.
(16) Sulla toponomastica soprattutto costiera della Sardegna s.v. gli studi di R. DE
FELICE, Le coste della Sardegna. Saggio toponomastico-descrittivo, Cagliari 1964; V. BER-
TOLDI, Sardo-Punica: PdP, 2 (1947), pp. 5-38; a riguardo cf. anche le osservazioni di G.
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 131

loro lingua, in relazione ad una volontà di integrarsi nell’ambiente(17), rispet-


tando in primo luogo le denominazioni indigene. Il dato linguistico in questo
caso si integra bene con quello storico-archeologico.

Sicilia: dati archeologici, linguistici e tradizione letteraria

Anche per la Sicilia esiste una tradizione di studi ben consolidata, che ha
approfondito e messo in rilievo sul piano archeologico quali furono i modi di
contatto e le forme di acculturazione che si manifestarono a seguito dell’arrivo
dei Fenici(18) e dei Greci nell’isola. Non è questa la sede per ripercorrere i con-

GARBINI, Esploratori e mercanti non greci nel Mediterraneo occidentale: G. PUGLIESE CAR-
RATELLI (a cura di), Magna Grecia. Il Mediterraneo, le metropoleis e la fondazione delle
colonie, Milano 1985, pp. 245-64, in part. p. 258.
(17) La presenza di urne funerarie di tradizione indigena a Sulci lascia, ad esempio,
supporre una partecipazione dell’elemento nuragico al popolamento di questo antico cen-
tro fenicio; sulla questione cf. P. BARTOLONI, Nuove testimonianze arcaiche da Sulcis: Nuo-
vo Bullettino Archeologico Sardo, 2 (1985), pp. 167-92, il quale richiama altri paralleli
nell’isola; sempre dello stesso studioso cf. Urne cinerarie arcaiche a Sulcis: RStFen, 16
(1988), pp. 165-79; P. BERNARDINI, S. Antioco: area del Cronicario. L’insediamento feni-
cio: ibid., pp. 75-89; P. BARTOLONI, Anfore fenicie e puniche da Sulcis: ibid., pp. 91-110;
una situazione analoga è riscontrabile anche nelle prime fasi dell’insediamento di Bitia,
nella cui necropoli sono stati rinvenuti recipienti di fabbrica nuragica, databili all’ultimo
quarto del VII sec. a.C.; sulla questione cf. P. BARTOLONI, La ceramica fenicia di Bithia: ti-
pologia e diffusione areale: ACFP1, pp. 491-500; i materiali della necropoli di questo cen-
tro si trovano pubblicati in P. BARTOLONI, La necropoli di Bitia I (con contributi di M. Bot-
to, di L.A. Marras e di C. Tronchetti), Roma 1996, sulle urne di fabbricazione nuragica cf.
le schede 186-87, 297 del catalogo e le osservazioni dello studioso a p. 115 sgg.
(18) Sulla penetrazione fenicia in Sicilia in generale cf. il saggio di S.F. BONDÌ, La
penetrazione fenicio-punica e storia della civiltà punica in Sicilia. La problematica stori-
ca: E. GABBA-G. VALLET (a cura di), La Sicilia antica, Napoli 1979, pp. 163-225, in part.
sulla fase precoloniale p. 165 sgg.; ID., Su alcuni aspetti della penetrazione fenicio-punica
in Sicilia: RIL, 111 (1977), pp. 237-48; ID., Per una caratterizzazione dei centri occidenta-
li nella più antica espansione fenicia: EVO, 7 (1984), pp. 75-92, in part. sui centri siciliani
p. 80 sgg.; ID., Le fondazioni fenicie d’Occidente: aspetti topografici e strutturali: S. MAZ-
ZONI (a cura di), Nuove fondazioni nel Vicino Oriente Antico: realtà e ideologia, Pisa 1994,
pp. 357-68; per un quadro archeologico d’insieme cf. V. TUSA, La presenza fenicio-punica
in Sicilia: PIW, pp. 95-112; S.F. BONDÌ, La Sicilia fenicio-punica: il quadro storico e la
documentazione archeologica: Bollettino d’Archeologia, 31-32 (1985), pp. 13-32; tra i
contributi più recenti cf. G. FALSONE, Sicile: V. KRINGS (a cura di), La civilisation phéni-
cienne et punique. Manuel de recherche, Leiden – New York – Köln 1995, pp. 674-97;
S.F. BONDÌ, Fenici ed indigeni in Sicilia agl’inizi dell’età coloniale: P. NEGRI SCAFA - P.
GENTILI (a cura di), Donum Natalicium. Studi presentati a Claudio Saporetti in occasione
del suo 60o compleanno, Roma 2000, pp. 37-43.
132 G.F. Chiai

tatti che le culture locali intrattennero col mondo egeo-anatolico e con quello
siro-palestinese, contatti che in seguito anche all’insediarsi di maestranze egee
nell’isola avrebbero dato vita a fenomeni di cultura materiale, quale quello del-
le «tholoi» di S. Angelo Muxaro, che caratterizzarono in senso cretese agli oc-
chi dei primi coloni ellenici il paesaggio di quella zona(19).
Come detto, prescindendo da questo terreno di ricerca, passiamo ad esa-
minare il periodo delle prime relazioni col mondo fenicio e più in generale si-
ro-levantino. Come si sa, per anni si è visto nel bronzetto di Sciacca, interpre-
tato in diverso senso, la prima prova concreta di rapporti diretti tra l’isola ed il
Levante. Recenti studi hanno però messo in dubbio il contesto storico che si è
ricostruito dietro questo oggetto, proponendo sulla base di convincenti con-
fronti stilistici una datazione più bassa del reperto(20). La questione si fa quindi
molto complicata: se si prescinde, infatti, dal numero anche considerevole de-
gli oggetti di produzione egizia emersi in contesti locali, per i quali sembra più
lecito supporre un tramite miceneo, non esistono sino all’VIII sec. a.C. prove
concrete che i Fenici avessero frequentato la Sicilia(21).
Se da un lato, come rilevato, mancano delle prove archeologiche
concrete o comunque l’individuazione di un sito, come quello di S. Imbenia
in Sardegna, dall’altro, in maniera autorevole L. Bernabò Brea(22) ha però
mostrato che tra la seconda metà dell’XI e la prima metà dell’VIII sec.
a.C. i Fenici avrebbero avuto un’influenza notevole sulle culture indigene
dell’isola. In particolare lo studioso si è soffermato su quattro oggetti,
che in maniera specifica sarebbero da riportare a questa fase di acculturazione.
Questi sono: 1) la fibula con arco a gomito o a occhio, della cultura
di Cassibile, da datare tra il X e il IX sec. a.C.; 2) la teiera a forma
di bottiglia sferoidale, con collo stretto e becco di versamento a crivello
sulla spalla, da porre tra l’XI e il IX sec. a.C.; 3) la brocca a bocca

(19) Su questo argomento s.v. D. MUSTI, La tradizione storica e l’espansione mice-


nea in occidente: Momenti precoloniali, pp. 21-36; ID., Tradizioni letterarie: Atti del VII
Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia antica, KVKALOS, 34-35 (1988-89), pp.
209-26.
(20) Cf. G. FALSONE, Sulla cronologia del bronzo fenicio di Sciacca alla luce delle
nuove scoperte di Huelva e di Cadice: Studi sulla Sicilia Occidentale in onore di V. Tusa,
Padova 1993, pp. 45-56, al quale si rimanda per ulteriore bibliografia e per una storia della
questione.
(21) Una catalogazione degli oggetti orientali rinvenuti nell’isola è stata fatta di re-
cente da L. GUZZARDI, Importazioni dal Vicino Oriente in Sicilia fino all’età orientalizzan-
te: ACFP2, pp. 941-54, al quale si rimanda anche per la bibliografia relativa.
(22) Cf. L. BERNABÒ BREA, Leggenda e archeologia nella protostoria siciliana: Atti
del I Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia antica: KVKALOS, 10-11 (1964-65),
pp. 1-33.
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 133

trilobata, che si colloca tra l’XI e il IX sec. a.C.; 4) gli anelli digitali
di ferro(23), provenienti da un contesto funerario di X sec. a.C.
Sulla base di questi dati, una presenza fenicia per lo meno a livello di in-
flussi culturali sulle popolazioni autoctone sarebbe da individuare in Sicilia
nell’XI sec. a.C., in una fase precoloniale; mentre il primo insediamento feni-
cio, archeologicamente databile con sicurezza, è quello di Mozia(24). Tale rico-
struzione è stata tuttavia da tempo criticata, da diversi studiosi, che hanno
avanzato dubbi circa l’origine fenicia della tipologia dei singoli ogget-
ti(25).
Per quanto riguarda i Greci, la cui frequentazione della Sicilia va tenuta
distinta da quella dei Micenei, sulla loro attività abbiamo a disposizione la ben
nota testimonianza tucididea (VI, 2, 6), secondo cui alla loro comparsa i Fenici

(23) Il recente ritrovamento di sette anelli in ferro e di altri oggetti (lame di coltello
soprattutto) nella necropoli di Madonna del Piano, in un contesto di XII sec. a.C., sembre-
rebbe rialzare la cronologia dell’introduzione della tecnica di raffinamento di questo me-
tallo nell’isola; su questi materiali cf. R.M. ALBANESE PROCELLI, Produzione metallurgica e
innovazioni tecnologiche nella Sicilia protostorica: R. LIGHTON (a cura di), Early Societies
in Sicily. New Developements in Archaeological Research, London 1996, pp. 117-28 (fig.
3), la quale propende per un tramite cipriota, più che fenicio.
(24) I materiali più antichi, provenienti dall’area della necropoli, si datano alla prima
metà dell’VIII sec. a.C.; su Mozia esiste una vasta bibliografia, in generale s.v. i rapporti
di scavo che tra il 1964 ed il 1978 sono stati pubblicati a cura dell’Istituto di Studi del Vi-
cino Oriente Antico dell’Università di Roma «La Sapienza», sotto la direzione di S. Mo-
scati; tra gli altri contributi, cf. B.J.J. ISSERLIN – J. DU PLAT TAYLOR, Motya. A Phoenician
and Carthaginian City in Sicily I, Leiden 1974; G. FALSONE, The Bronze Age Occupation
and the Phoenician Foundation at Motya: BICS, 25 (1988), pp. 31-53; ID., Motyé: E. LIPIN-
SKI (a cura di): Dictionnaire de la Civilisation phénicienne et punique, Bruxelles – Paris
1992, pp. 301-3; per una ricostruzione storica delle vicende del centro cf. S.F. BONDÌ, Mo-
zia, tra i Greci e Cartagine: EVO, 12 (1989), pp. 165-73; particolarmente di rilievo è l’alta
percentuale di ceramica indigena (circa il 37%), emersa nel corso dello scavo dello strato
più arcaico (il cd. strato VII) del tofet, che insieme ai materiali rinvenuti nell’area sacra del
Cappiddazzu permette di ipotizzare un enoikismos fenicio in ambito indigeno o comunque
forme di convivenza con gli elementi locali; su tale ceramica cf. A. CIASCA, Note moziesi:
ACFP1, pp. 617-22; va anche notata la quasi totale assenza di importazioni greche nelle
prime fasi di vita di questo centro fenicio, quale emerge dall’analisi dei materiali rinvenuti
nel gruppo di 16 tombe di VIII sec. a.C. (le più antiche dell’abitato) scavate e pubblicate
da V. TUSA, «La necropoli arcaica e adiacenze». Lo scavo del 1970, in Mozia VII, Roma
1971, pp. 34-55, il quale rilevava grosse affinità con i corredi di Cartagine.
(25) La questione qui viene solo accennata, in quanto esula dagli scopi di questo la-
voro un vaglio critico delle argomentazioni addotte in proposito; si rimanda pertanto alle
osservazioni di G. FALSONE, Sicile, cit., in part. p. 677 sgg.; lo studioso ritiene che sulla ba-
se dei dati archeologici in possesso la frequentazione «precoloniale» di cui parlava Tucidi-
de possa precedere di più di un secolo le prime fondazioni greche e fenicie nell’iso-
la.
134 G.F. Chiai

avrebbero abbandonato la maggior parte delle coste dell’isola e si sarebbero ri-


tirati nella parte di Nord-Ovest.
Archeologicamente, come accennato, i più antichi rinvenimenti di cera-
mica greca vanno datati a cavallo tra IX e VIII sec. a.C. Si tratta delle cerami-
che di produzione euboica della necropoli del Marcellino (Villasmundo, presso
Siracusa), che consistono, proprio come a S. Imbenia, in una coppa con decora-
zione a semicerchi pendenti, in un’altra con decorazione a chevrons ed infine
in una kotyle del tipo Aetos 666(26).
Passiamo ora a considerare le testimonianze mitiche, prendendo in analisi
la tradizione storico-letteraria relativa a questi toponimi. Per quanto riguarda la
Sicilia, fonte privilegiata per la protostoria dell’isola è Diodoro Siculo, molto
probabilmente in stretta dipendenza da Timeo. Lo storico siceliota (V, 2, 1)
narra che anticamente l’isola sarebbe stata chiamata Trinakria a causa della
sua forma, che in seguito avrebbe assunto la denominazione di Sikania dal no-
me dei suoi abitanti, e che alla fine avrebbe preso il nome dei Sikelia dai Sike-
loi, una popolazione di origine italica immigrata nell’isola(27).

Diodoro (V, 2, 1): »H gàr nh^sow tò palaiòn a∫ pò mèn toy^ sxh́matow Trinakría
klh&ei^sa, a∫ pò dè tv
^ n katoikhsántvn ay∫ th̀n Sikanv ^ n Sikanía trosagorey&ei^sa, tò
teleytai^on a∫ pò Sikelv ^ n tv
^ n e∫ k th^w «Italíaw pandhmeì peraiv&énten v∫ nómastai
Sikelía.

Iniziamo con un’attenta analisi del testo. tò palaiòn utilizzato in forma
avverbiale all’inizio del periodo si riferisce al momento in cui anticamente, do-
po averne circumnavigato le coste, i Greci, verosimilmente gli Eubei, avrebbe-
ro denominato questa terra «Isola dai tre promontori». Dopo una prima fase
esplorativa ci sarebbe stata una fase di contatto con le popolazioni locali, dalla
quale sarebbe poi sorta la denominazione di «Isola dei Sicani»; infine l’isola
avrebbe tratto il nome definitivo dai Siculi, anch’essi una popolazione dell’iso-
la, ma solo – a quanto sembra – in un momento di contatto successivo. Da un
punto di vista linguistico la successione temporale di queste tre fasi viene scan-

(26) Su questi rinvenimenti s.v. G. VOZA, Villasmundo. Necropoli in contrada Fossa:


Archeologia della Sicilia Orientale, Napoli 1973, pp. 57-63; ID. in KVKALOS, 18-19
(1972-73), p. 188; ID. in SE, 42 (1974), pp. 542-44.
(27) Per un inquadramentro storico-archeologico di queste tradizioni s.v. V. LA RO-
SA, Le popolazioni della Sicilia: Sicani, Siculi, Elimi: AA.VV., Italia, Omnium Terrarum
Parens, Milano 1989, pp. 3-110, nello stesso volume s.v. anche il contributo di R. PERONI,
Enotri, Ausoni, Itali e altre popolazioni dell’estremo sud d’Italia, pp. 113-89. Per un qua-
dro archeologico dei contatti delle culture locali siciliane con le civiltà egeo-levantine si
rimanda al contributo di G. VOZA, I contatti precoloniali con il mondo greco: AA.VV., SI-
KANIE. Storia e civiltà della Sicilia greca, Milano 1985, pp. 543-63.
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 135

dita dall’uso avverbiale di tò palaiòn - tò teleytai^on «all’inizio – alla fine»,
con al centro un a∫ pò dè(28) «poi»: la successione si configura come, «all’inizio
– poi – alla fine». In particolare il dè, legandosi sintatticamente al mèn della fra-
se precedente, si riferisce al tempo in cui le denominazioni di Sikania e Sikelia
sarebbero coesistite, sino a quando non fu l’ultima a prevalere, in connessione,
come si vedrà, a fatti di acculturazione e di alfabetizzazione che legarono i Si-
culi ai Greci. Da notare, sempre sul piano linguistico, la scelta terminologica di
klh&ei^sa, di prosagorey&ei^sa, due participi aoristi passivi, e di v ∫ nómastai
un aoristo medio. Molto interessante è prosagoreýein, termine che indica una
denominazione che si aggiunge o che va a sostituirne un’altra.
Sulla base di queste considerazioni il passo andrebbe tradotto:

«L’isola, infatti, anticamente chiamata per la sua forma Trinakria, poi denomina-
ta dal nome delle popolazioni dei Sicani che vi abitavano Sikania, prese alla fine il no-
me di Sikelia dai Siculi, che in gran numero erano immigrati dall’Italia».

In un certo senso, troviamo anche espressa una coscienza da parte greca


della superiorità numerica e culturale di quest’ultima componente etnica ri-
spetto alle altre. Segue poi una descrizione del perimetro geografico dell’isola
e la narrazione delle vicende mitiche di Core e di Demetra, che vengono rap-
portate ad un sostrato di religione locale sicula. Il fatto che Omero (Od. XXIV,
307) conosca la denominazione di Sikania per l’isola potrebbe lasciar intendere
che per un certo periodo i nomi di Sikania e di Sikelia, quali designazioni di
questa terra, siano coesistiti, sino alla definitiva fissazione di quest’ultimo. A
riguardo andrebbe anche ricordato un passo di Erodoto (VII, 170), in cui, a pro-
posito del viaggio di Minosse in Sicilia si dice che questi sarebbe giunto in Si-
cania, isola che però ai suoi tempi era conosciuta come Sicilia; va, inoltre, cita-
to anche un passo in cui Tucidide (VI, 2, 2), ricostruendo la protostoria dell’i-
sola, chiama la Sicilia Sikania, rammentando comunque che l’antico nome di
questa regione era Trinakria. Strabone(29) dà, infine, conferma di tali testimo-
nianze, affermando anch’egli che, a causa della sua forma triangolare, l’isola
era stata chiamata anticamente Trinakria. La coesistenza di tutte queste deno-
minazioni potrebbe far ipotizzare che per un certo periodo di tempo l’isola, nel
complesso, fosse conosciuta come Trinakria, per poi essere ripartita in Sikania

(28) In generale sull’uso correlato di mèn e di dè nella prosa greca s.v. J.P. DENNISTON,
The Greek Particles, Oxford 19542, p. 359 sgg.
(29) Cf. Strabone (VI, 2, 1): ÊEsti d« h™ Sikelía trígvnow tv^ı sxh́mati, kaì dià toy^to
Trinakría mèn próteron, Trinakría d« yçsteron proshgoreý&h metonomas&ei^sa ey∫ fvnó-
teron. tò dè sxh^ma diorízoysi trei^w a¢krai. Le fonti classiche relative ai popoli ed alla
geografia della Sicilia sono raccolte in E. MANNI, Geografia fisica e politica della Sicilia
antica, Roma 1981, in part. sui nomi dell’isola nell’antichità p. 44 sgg.
136 G.F. Chiai

e Sikelia, in riferimento ai territori abitati dai Sicani e dai Siculi; forme queste
che finirono poi per fissarsi, come detto, quali designazioni della regione. Ma
questo solo dopo la stabilizzazione dell’elemento greco sull’isola, la definizio-
ne delle zone di influenza ed i processi di integrazione e di fusione con gli ele-
menti locali, quali lasciati intendere dalla tradizione storica, che più avanti ver-
rà presa in considerazione.
Va fatto notare come nel testo diodoreo, prima analizzato, non si faccia al-
cuna menzione degli Elimi(30), i quali non sembrano aver giocato alcun ruolo
nella fase di denominazione dell’isola. Questo fatto va posto in relazione, pro-
babilmente, con quanto detto da Tucidide (VI, 2, 6)(31) circa il momento della
comparsa dei Greci in Sicilia, ovvero quando i Fenici, come reazione, lascian-
do loro la maggior parte di questa terra, si ritirarono nella parte nord-occidenta-
le, proprio quella in cui si trovavano gli insediamenti di questo popolo.
Il sesto capitolo del V libro diodoreo rappresenta un’altra fonte privilegia-
ta per la ricostruzione della protostoria mitica dell’isola. La narrazione ha ini-
zio proprio con la trattazione delle opinioni che i logografi(32) si erano fatti del-
l’origine dei Sicani, opinioni diverse e spesso in contrasto tra loro. Filisto (556
Jac. Fr. 45) riteneva che questi provenissero dall’Iberia, sulla base della pre-
senza in questa terra di un fiume dal nome Sikanów; Timeo (566 Jac. Fr. 38) li
considerava invece una popolazione autoctona. I Sicani avrebbero abitato l’i-
sola kvmhdón, ovvero distribuiti in villaggi, posti generalmente, a causa delle
incursioni di pirati, sulle sommità di colline, e non avrebbero conosciuto alcu-
na forma di potere centralizzato sotto un basileus, ma ogni centro sarebbe stato
retto da un signore locale. Seppur frazionati politicamente, un tempo essi
avrebbero abitato tutta la Sicilia, vivendo di agricoltura, sino a quando, a segui-
to di una distruttiva attività eruttiva dell’Etna, si sarebbero spostati ad Ovest. I
territori da loro abbandonati sarebbero stati in seguito occupati dai Sikeloi, pro-
venienti dall’Italia. Tra i due popoli la convivenza non sarebbe stata pacifica,

(30) Sugli Elimi e la loro cultura s.v. AA.VV., Gli Elimi e l’area elima fino all’inizio
della prima guerra punica (= Archivio Storico Siciliano, 14-15 [1988-89], pp. 5-393), in
part. il contributo di S.F. BONDÌ, Gli Elimi ed il mondo fenicio-punico, pp. 133-43, con una
valutazione dei dati archeologici in relazione alle fonti letterarie; le iscrizioni elime sono
state raccolte da L. AGOSTINIANI, Iscrizioni anelleniche di Sicilia. Le iscrizioni elime, Fi-
renze 1977.
(31) Su tale tradizione cf. le osservazioni di S. MOSCATI, Tucidide e i Fenici: RFIC,
113 (1985), pp. 129-33.
(32) Per una discussione di tali tradizioni in relazione ai contesti archeologici cf. L.
BRACCESI, La trattazione storica: La Sicilia antica, cit., pp. 53-86; più di recente con una
aggiornata bibliografia cf. il documentato lavoro di N. CUSUMANO, Una terra splendida e
facile da possedere. I Greci e la Sicilia, Roma 1994, in part. p. 141 sgg. sull’etnogenesi
delle culture locali siciliane.
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 137

ma sarebbero scoppiati dei conflitti, che avrebbero in seguito portato le due


parti a fissare dei convenienti confini, sýnfonoyw oçroyw. A questo excursus
sulla mitistoria delle popolazioni indigene(33) dell’isola lo storico siceliota fa
poi seguire un’appendice conclusiva, secondo cui i coloni greci avrebbero fon-
dato sulle coste molte fiorenti città, si sarebbero poi mischiati con le popola-
zioni locali di questi territori, che avrebbero finito per grecizzarsi e fondersi
completamente con i nuovi elementi ellenici: da questo processo di accultura-
zione e di integrazione sarebbe nata la denominazione di Sikeliotai per gli abi-
tanti dell’isola(34).

Diodoro (V, 6, 5): yçstatai d« a∫ poikíai tv^n «Ellh́nvn e∫ génonto katà th̀n Sikelían
a∫ jiólogoi kaí póleiw parà &álattan e∫ ktís&hsan, a∫ namignýmenoi d« a∫ llh́loiw kaì dià
tò plh^&ow tv^ n katapleóntvn «Ellh́nvn th́n te diálekton ay∫ tv ^ n e¢ma&on kaì tai^w a∫ gv-
gai^w syntraféntew tò teleytai^on th̀n bárbaron diálekton açma te kaì th̀n proshgo-
rían h™llájanto, Sikeliv ^ tai prosagorey&éntew.

«Ultimi, ma degni di fama, sono gli insediamenti(35) e le poleis che dai Greci
vennero fondati sulle coste; (gli indigeni) mischiandosi con essi, a causa del gran nu-
mero di Greci sbarcati sull’isola, appresero la loro lingua e, venendo educati secondo
il modello greco, abbandonarono il loro dialetto barbaro ed il loro nome, venendo
chiamati tutti Sicelioti».

La Sikelia, quale concetto etnico e geografico, viene qui presentata come


frutto di un processo storico di convivenza e comunque di buoni rapporti e di
integrazione con l’elemento indigeno locale.
Abbiamo precedentemente visto che i Fenici chiamavano la Sardegna ŠR-
DN; verrebbe ora da chiedersi come essi denominassero la Sicilia; una risposta
in tal senso potrebbe forse provenire da un’epigrafe punica proveniente da Car-
tagine(36), nella quale compare l’etnico ŠQLN «il Siciliano». Va premesso
chiaramente che si tratta di una testimonianza relativamente tarda (di età elle-

(33) Offre una storia degli studi sulle popolazioni anelleniche siciliane N. CUSUMANO,
op. cit., p. 29 sgg., che ripercorre in maniera critica il modo in cui il ruolo dell’elemento
indigeno nell’ambito della colonizzazione fenicia e greca della Sicilia è stato di volta in
volta valutato.
(34) Quella greca viene presentata nella tradizione trasmessa da Diodoro quale ulti-
ma fase di popolamento dell’isola.
(35) Il termine apoikia può avere il significato tanto di «spedizione coloniale», quan-
to quello generico di «insediamento»; in generale sulla questione cf. M. CASEVITZ, Le voca-
bulaire de la colonisation en grec ancien, Paris 1985, p. 120 sgg.
(36) Cf. CIS I 4945, 3-4: h-šqlny. Devo quest’indicazione ed altri preziosi consigli al
Dott. P. Filigheddu dell’Università di Tübingen, che qui ringrazio. Mi limito solo ad una
138 G.F. Chiai

nistica), e per questo da valutare con prudenza, ma che comunque attesta che
per i Punici (come per i Greci) la Sicilia era l’isola dei Sikeloi.

Considerazioni linguistiche e storiche in margine alla tradizione sui nomi delle


due isole

Prendiamo ora in considerazione il toponimo «Ixnoy^ssa(37). A proposito


dell’origine di tale nome, Pausania (X, 17, 5) racconta che i Greci avrebbero
preso contatto con l’isola per ragioni commerciali e che, circumnavigandola e
tracciando una mappa delle coste, si sarebbero accorti che essa aveva la forma
dell’orma di un piede: per tale motivo si sarebbe creata la denominazione di
«Isola dalla forma di piede», h™ ∫ixnoy^ssa nh^sow.

Pausania (X, 17, 5): oçnoma de ay∫ tW^ı tò a∫ rxai^on oç ti mèn y™pò tv^n e∫ pixvrívn e∫ géne-
to oy∫ k oi®da, «Ellh́nvn dè oi™ kat « e∫ mporían e∫ spléontew «Ixnoy^ssan e∫ kálesan, oçti tò
sxh^ma th^ı nh^svı kat« ¢ixnow málistá e∫ stin a∫ n&rv́poy.

«Non conosco quale fosse il nome antico, dato dai locali all’isola, invece quei
Greci che per ragioni commerciali vi navigarono la chiamarono Ichnussa, principal-
mente per il fatto che l’isola ha la forma dell’orma del piede di un uomo».

Il Periegeta ricostruisce lo scenario storico in cui i Greci avrebbero preso


contatto con l’isola, nell’ambito dei viaggi d’esplorazione delle terre d’Occi-
dente, intrapresi anche su iniziativa di ricchi mercanti, quando ancora questi

menzione di tale etnico, senza entrare nell’ambito di un’analisi linguistica di tale forma,
che lascio a persone più competenti.
(37) Cf. sui toponimi in –oussa le osservazioni di G. PUGLIESE CARRATELLI, Per la sto-
ria delle relazioni micenee con l’Italia: PdP, 13 (1958), p. 213 sgg., il quale riteneva que-
ste forme linguisticamente equivalenti alle formazioni anatoliche in –(w)anda/(w)anta, in
parte grecizzate in –anda (Oi∫nóanda); più di recente sempre su questo tema ID., in G. PU-
GLIESE CARRATELLI, (a cura di) Ichnussa. La Sardegna dalle origini all’età classica, Milano
1985, p. XIII sgg. Storicamente, la diffusione delle denominazioni di luogo in –oussa lun-
go le coste del Mediterraneo è stata connessa alla rotta percorsa da elementi rodii e focesi
nell’ambito dell’espansione commerciale sui mari: su questa teoria cf. A. GARCÍA Y BELLI-
DO, Hispania Graeca I, Barcelona 1948, p. 70 sgg., (che propende per un’origine rodia e
calcidese) dove è riportata anche una carta di distribuzione di tali toponimi (fig. 20); P.
BOSCH-GIMPERA, La formazione dei popoli della Spagna: PdP, 4 (1949), p. 113 (per un’ori-
gine focea); T.J. DUNBABIN, The Western Greeks, Oxford 1948, p. 340 sgg. (origine focea o
rodia); da ultimo, in particolare per l’ambito spagnolo con una valutazione dei materiali
archeologici cf. L. ANTONELLI, I Greci oltre Gibilterra, Roma 1997, p. 27 sgg.; ed anche R.
ZUCCA, Insulae Baliares, Roma 1998, p. 49 sgg.
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 139

spazi non erano stati politicamente definiti in sfere d’influenza; da notare an-
che come questa testimonianza sottolinei, quali strettamente legati, il momento
esplorativo a quello commerciale(38). Interessante anche il fatto che il nostro
autore affermi di ignorare quale fosse la denominazione locale dell’isola, sep-
pure egli conosca il nome di Sardò. Ciò potrebbe forse essere interpretato come
un indizio che i Greci avessero appreso tale nome, per indicare l’isola, dai Fe-
nici e lo avessero utilizzato accanto a quello ellenico di Ichnoussa, da loro
creato.

Fig. 1 - Carta di distribuzione dei toponimi in -oussa nel Mediterraneo Occidentale in età
arcaica (da A. GARCÍA Y BELLIDO, Hispania Graeca I, Barcelona 1948, fig. 20).

Da un punto di vista linguistico, a ben vedere, Ichnoussa è una forma ag-


gettivale passata a denominazione di luogo: ∫ixno- ‡ént-ja = ∫ixnoy^sa - ∫ixnoy^ssa
(entrambe le forme sono infatti possibili)(39). Essa è di formazione analoga,

(38) Su questi temi si rimanda al lavoro di A. MELE, Il commercio greco arcaico.


Prexis ed emporie, Napoli 1979; utile anche lo scenario storico, soprattutto per i traffici
commerciali ed i modi di contatto con gli indigeni, ricostruito nel documentato libro di M.
GRAS, Trafics tyrrhéniens archaïques, Rome 1985; dello stesso studioso più recentemente
s.v. La Méditerranée archaïque, Paris 1995.
(39) Su tali formazioni in greco cf. H. RIX, Historische Grammatik des Griechi-
schen. Laut- und Formenlehre, Darmstadt 1976, p. 164 sgg. ed anche con un ricco mate-
riale E. SCHWYZER, Griechische Grammatik, München 1953, p. 526 sgg.; a riguardo va an-
che ricordato che nel testo omerico sono presenti toponimi in –oessa, nella forma ancora
non contratta (cf. Gonóesa, Il. II, 573), sui cui cf. le osservazioni di M. LEUMANN, Homeri-
sche Wörter, Basel 1950, p. 299 sgg., il quale pure osserva una particolare concentrazione
140 G.F. Chiai

probabilmente, a quella di altri toponimi in -oussa nel Mediterraneo, come ad


esempio Pi&hkoy^ssai, «isola delle scimmie»(40), che, secondo l’opinione di
alcuni studiosi, sarebbero da localizzare principalmente lungo la rotta maritti-
ma percorsa in età arcaica soprattutto dai Focei e dai Rodii (Fig. 1), nell’ambi-
to della loro espansione commerciale e politica nel Mediterraneo(41).
La derivazione da un aggettivo, soprattutto per la Sardegna trova altri pa-
ralleli, sia antichi che moderni. Pensiamo ad esempio alle Isole Verdi, o alle
Kyanéai Nh^soi. Una simile formazione aggettivale si riscontra anche per la Si-
cilia, denominata in origine Trinakria, e derivante sicuramente da una forma
originaria Trinakría nh^sow.
Per quanto riguarda Sardv́(42) sarebbero percorribili due vie. Come pri-
ma, che i Greci, in modo specifico gli Eubei, avessero appreso questa denomi-
nazione dai Fenici, navigando e commerciando con loro(43), in un periodo in
cui il Mediterraneo ad Occidente era uno spazio ancora politicamente da defi-

di tali denominazioni di luogo soprattutto in ambito coloniale. Il problema, nel caso di


Ichnoussa, sussiste nel fatto che tale forma deriva da una parola (Ichnos) greca di genere
neutro, con a rigore un tema in ichne(s)- sul quale si forma il genitivo ¢ixnoys (< ¢ixneos <
*
¢ixnesos); questo porterebbe a supporre che la forma «Ixnoy^ssa sia stata formata su un te-
ma in ichno- forse per ragioni di analogia con denominazioni di luogo in –oussa preesi-
stenti. La medesima problematica si riscontra anche in altri toponimi, sempre di ambito
coloniale d’Occidente, quali ad esempio Meloy^ssa ed «Ofioy^ssa.
(40) Sul nome di Pitecussa s.v. E. PERUZZI, Le scimmie di Pitecussa: PdP, 47 (1992),
pp. 115-26, il quale ipotizza a monte di tale denominazione l’effettiva presenza di scimmie
sull’isola al momento dell’arrivo dei Greci; di posizione opposta invece L. CERCHIAI, Le
scimmie, i Giganti e Tifeo: AA.VV., L’incidenza dell’Antico. Studi in memoria di E. Lepo-
re, Napoli 1996, pp. 141-50, il quale ricostruisce l’immaginario mitico euboico nel quale
si inserisce la creazione di tale nome; nella stessa direzione di muove anche M. TORELLI,
L’immaginario greco dell’oltremare. La lekythos eponima del Pittore della Megera, Pau-
sania I, 23, 5-6 e Pitecusa: APOIKIA, pp. 117-25. Si prescinde qui dal problema della lo-
calizzazione di un’altra Pitecussa sulle coste della Tunisia, in relazione probabilmente alla
presenza di elementi euboici nella zona; in generale sulla questione con un’analisi delle
tradizioni letterarie connesse all’archeologia s.v. M. GRAS, Les Eubées et la Tunisie: Bulle-
tin des Travaux de l’Institut Nationale du Patrimoine, 5 (1990), pp. 87-93; ID., Pithécus-
ses. De l’étymologie à l’histoire: APOIKIA, pp. 127-31; ID., I Greci e la periferia africana
in età arcaica: Hesperia, 10 (2000), pp. 39-48.
(41) Cf. quanto detto nelle note precedenti 37 e 38. Sull’argomento s.v. il saggio di
E. LEPORE, Strutture della colonizzazione focea in Occidente: PdP, 25 (1970), pp.
19-54.
(42) Si prescinde qui del tutto dalla problematica questione del sardonios gelos, al
quale accenna Omero (Od. XX, 299-302), sulla quale s.v. con un’analisi delle testimo-
nianze letterarie P. KRETSCHMER, Das sardonische Lachen: Glotta, 34 (1955), pp. 1-9. Sulla
tradizione dell’uccisione degli anziani in Sardegna cf. S. RIBICHINI, Liquidare gli anziani in
Sardegna: SMSR, 62 (1996), pp. 445-57.
(43) Questo momento di collaborazione e comunque di pacifica coesistenza tra Greci
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 141

nire(44). In questa direzione sembrerebbero orientare i rinvenimenti euboici di


S. Imbenia e di Sulci(45), data la loro alta cronologia. Oppure, in alternativa,

e Fenici sui circuiti commerciali di età arcaica è stato posto particolarmente in rilievo in
un recente lavoro di J. BOARDMAN, Aspects of “Colonization”: BASOR, 322 (2001), pp. 33-
42. Nel caso della Sicilia, di fatto la convivenza tra Fenici e Greci rimase sostanzialmente
tranquilla sino al 580 a.C. (arrivo di Pentatlo), ed anzi la cultura greca fu apprezzata e va-
lutata positivamente nei centri fenici.
(44) Va ricordato in tal senso anche l’esempio di Pitecussa, un insediamento di tipo
emporico, in cui, come le ricerche condotte hanno mostrato, elementi semitici, greci ed
italici convivevano nell’ambito dello stesso abitato; sull’argomento cf. G. GARBINI, Un’i-
scrizione aramaica ad Ischia: PdP, 33 (1978), pp. 143-50; G. BUCHNER, Testimonianze epi-
grafiche e semitiche dell’VIII sec. a.C. a Pithekoussai: ibid., pp. 130-42: ID., Nuovi aspetti
e problemi posti dagli scavi di Pithecusa, con particolari considerazioni sulle oreficerie di
stile orientalizzante antico: AA.VV., Contribution à l’étude de la société et de la coloni-
sation eubéennes, Napoli 1975, pp. 59-86; ID., Die Beziehungen zwischen der euböischen
Kolonie Pithekoussai auf der Insel Ischia und dem nordwestsemitischen Mittelmeerraum
in der zweiten Hälfte des 8. Jhs. v. Chr.: PIW, pp. 277-306; tra i contributi più recenti cf.
R.F. DOCTER, Pottery, Graves and Ritual I: Phoenicians of the First Generation in Pithe-
koussai: P. BARTOLONI – L. CAMPANELLA (a cura di), La ceramica fenicia di Sardegna, cit.,
pp. 135-49, che prende in esame alcune sepolture di elementi orientali, residenti nell’isola
(in part. i materiali relativi alla tomba 298, fig. 12), mostrando come questi fossero perfet-
tamente integrati nell’ambito della comunità greca e supponendo anche la presenza di ma-
trimoni misti; per un esame dei materiali «fenici» ischitani cf. il contributo di R.F. DOCTER
– H.G. NIEMEYER, Pithekoussai: the Carthaginian Connection on the Archaeological Evi-
dence of Euboeo-Phoenician Partnership in the 8th and 7th Centuries: APOIKIA, pp. 101-
15; per un quadro d’insieme su Pitecussa utile resta sempre il classico libro di D. RIDGWAY,
L’alba della Magna Grecia, Milano 1984, in part. p. 184 sgg.; in generale sulle iscrizioni
semitiche rinvenute in contesti greci ed italici cf. il contributo di M.G. AMADASI GUZZO,
Iscrizioni semitiche di Nord-Ovest in contesti greci ed italici (X-VII sec. a.C.): DA, 5
(1987), pp. 13-27. Neppure va dimenticato che dall’isola proviene la «coppa di Nestore»,
una delle più antiche testimonianze della scrittura alfabetica greca, che si connette alla
questione della circolazione ed elaborazione dell’epica nei contesti coloniali d’Occidente:
in generale sulla questione s.v. due recenti contributi di C.A. CASSIO, Kei^nos Kallistéfa-
nos e la circolazione dell’epica in area euboica: APOIKIA, pp. 55-67; ID., Epica greca e
scrittura tra VIII e VII secolo a.C.: madrepatria e colonie d’Occidente: G. BAGNASCO
GIANNI – F. CORDANO (a cura di), Scritture mediterranee tra il IX ed il VII secolo a.C., Mi-
lano 1999, pp. 67-84. Le iscrizioni greche di Pitecussa (comprese anche quelle semitiche)
sono state ora raccolte da A. BARTONĚK – G. BUCHNER, Die ältesten griechischen Inschrif-
ten von Pithekoussai (2. Hälfte des VIII. bis 1. Hälfte des VII. Jhs.): Die Sprache, 37
(1995), pp. 129-31.
(45) Il rinvenimento a Sulci di oggetti di provenienza pitecussana, in particolare di
un’urna dipinta databile alla seconda metà dell’VIII sec. a.C., ha portato alcuni studiosi a
presumere la presenza di elementi greci, probabilmente euboici, nel centro; sull’argomen-
to cf. C. TRONCHETTI, Per la cronologia del tophet di Sant’Antioco: RStFen, 7 (1979), pp.
201-205; P. BERNARDINI, Pithekoussai-Sulci: Annali dell’Università di Perugia, 19 (1981-
82), pp. 13-20; P. BERNARDINI – C. TRONCHETTI, La Sardegna, gli Etruschi e i Greci:
142 G.F. Chiai

prendendo alla lettera la testimonianza di Pausania, si potrebbe supporre che


gli Eubei avessero per propria iniziativa preso contatto con le aristocrazie nura-
giche e da esse appreso quale fosse il nome epicorico dell’isola. Quest’ultima
soluzione, che anche da un punto di vista archeologico non è facilmente soste-
nibile, come precedentemente è stato detto, troverebbe un ostacolo nella testi-
monianza del Periegeta stesso, in quanto questi, che pur conosceva Sardò quale
denominazione dell’isola, afferma di ignorare quale fosse il nome col quale gli
abitanti dell’isola designavano la loro terra, mentre dice di conoscere quello
con cui i più antichi navigatori greci indicavano questa regione.
Secondo il mio parere, le forme Ichnoussa e Trinakria che la tradizione
letteraria tramanda quali le più antiche denominazioni in uso presso i Greci a
designazione delle due isole, potrebbero essere di una cronologia alta, per una
ragione molto pratica. La precolonizzazione, quale momento storico, è a sua
volta preceduta da un’attività marittima di esplorazione, in cui si tracciano rot-
te e si disegnano promontori e rilievi costieri. Si tratta, come detto, di un’attivi-
tà molto pratica, in cui si fissano per la prima volta dei punti di riferimento
geografici, che si ha la necessità di denominare da subito in maniera molto
chiara. In questo senso, «l’Isola dalla forma di piede» e «l’Isola dai tre pro-
montori» corrispondono a delle realtà insulari viste dall’esterno e segnate sulla
rotta(46). Solo successivamente «l’Isola dei tre promontori» divenne l’isola dei
Sikeloi, per poi essere definitivamente chiamata Sikelia. Ma dietro l’affermarsi
di questa denominazione vi sono processi storici di contatto, di integrazione e
di acculturazione molto complessi.
Plinio(47) ricorda che l’antica denominazione greca della Sardegna era
Sandaliotis, e la attribuisce a Timeo, mentre Mirsilo usava ancora il nome di

AA.VV., Civiltà nuragica, Milano 1985, pp. 285-307; a riguardo cf. le osservazioni di S.
MOSCATI, Fenici e Greci in Sardegna: RANL, 40 (1985), pp. 265-71, il quale preferiva rap-
portare la presenza di tali materiali ad un tramite commerciale; cf. anche la ricostruzione
storica di P. BARTOLONI, Orizzonti commerciali sulcitani tra l’VIII e il VII sec. a.C.: RANL,
41 (1986), pp. 219-26. In generale sulle relazioni intrattenute dalla Sardegna nuragica in
età arcaica s.v. il libro di C. TRONCHETTI, I Sardi. Traffici, relazioni ed ideologie nella Sar-
degna arcaica, Milano 1988.
(46) Interessante anche notare la terminologia geografica che riprende quella anato-
mica del corpo umano. La forma della Sardegna è, infatti, paragonata a quella di un piede;
la Sicilia è l’isola dei «tre capi»; o ancora si potrebbe pensare anche al toponimo cherson-
nesos, che designava il territorio occupato dai Calcidesi nell’Egeo settentrionale, o allo
stivale per la penisola italiana.
(47) Cfr. Plin. NH III 85 = Solin. 4, 1 = Tim. 566 Jac. F. 63: Sardiniam ipsam Tima-
eus Sandaliotim appellavit ab effigiae soleae, Myrsilus (477 Jac. F. 11) Ichnusam a simili-
tudine vestigii. Questa testimonianza mostra chiaramente che ancora nel V sec. a.C. la de-
nominazione Ichnoussa era ancora in uso presso i Greci e che ad essa si affiancava il nome
di Sandaliotis, anch’esso designante l’isola.
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 143

Ichnoussa. La forma in questione non è altro che il corrispettivo di Ichnoussa,


in quanto significa «Isola dalla forma di sandalo». Il fatto interessante è tutta-
via che ancora all’epoca di Timeo, nel IV sec. a.C., la Sardegna era conosciuta
con una denominazione di origine greca, così come nel V sec. a.C., nelle tradi-
zioni di Lesbo essa era nota ancora come Ichnoussa. Si tratta di una situazione
che va tenuta ben presente e che, comunque, in sé non crea problemi, se pen-
siamo che anche in età moderna nell’ambito di una stessa lingua, una nazione
può avere denominazioni differenti(48), ma con connotazioni diverse.
Riguardo a Sardò sarebbe, inoltre, il caso di ricordare che Pausania, nel ri-
costruire il popolamento mitico dell’isola, attribuisce a Sardos il comando del-
le prime genti che dalla Libye si sarebbero trasferite in Sardegna, consideran-
dolo figlio di Eracle, che presso i Libi era noto come Maceride; certamente non
è un caso se la memoria mitica dei Greci abbia codificato nel personaggio epo-
nimo di Sardos la prima fase di popolamento della terra, da cui avrebbe poi
tratto il nome, conferendogli un’origine africana, con un chiaro riferimento a
Cartagine, e comunque all’ambiente fenicio-punico(49). In un precedente con-
tributo, apparso su questa stessa rivista, ho sostenuto la tesi(50), in accordo con
un precedente studio di L. Pulci Breglia(51), che anche se il nucleo centrale del-
le tradizioni mitiche sulla Sardegna(52) si lascia ricondurre ad una matrice eu-

(48) Si potrebbe ad esempio citare il caso degli Stati Uniti, comunemente chiamati
anche America, o quello dell’ex Unione Sovietica, denominata anche Russia; ancora, si
potrebbero ricordare gli esempi di Formosa-Taiwan, di Burkina Faso-Costa d’Avorio o di
Persia-Iran.
(49) L’associazione tra la Sardegna e la Libia ricorre in diverse fonti di epoca roma-
na, prima tra tutte nell’orazione ciceroniana in difesa di M. Emilio Scauro (45 a.), dove si
legge l’espressione «Africa ipsa parens illa Sardiniae»; si potrebbero a riguardo ancora ci-
tare diversi passi di Diodoro (XV, 24, 2), di Polibio (III, 24, 11) (in particolare sulla clau-
sola del II trattato romano-cartaginese, per cui nessun Romano poteva commerciare e fon-
dare città in Libia ed in Sardegna) e di altri autori di epoca ellenistico-romana, in cui con
frequenza ricorre il collegamento tra queste due terre; le testimonianze letterarie su questo
tema sono state raccolte e discusse da S. MOSCATI, «Africa ipsa parens illa Sardiniae»:
RFIC, 95 (1967), pp. 385-88, il quale a riguardo sottolineava come da Cartagine la Sarde-
gna fosse vista come parte integrante dello stato e non semplicemente una semplice colo-
nia. Questo dimostra ancora una volta come l’insieme delle tradizioni mitiche sulla Sarde-
gna, tramandato da Pausania, pur risalendo nel suo nucleo centrale all’età arcaica, sia il
frutto di tutta una serie di elaborazioni successive.
(50) Cf. G.F. CHIAI, Ginnasi, templi e tribunali in Sardegna: RStFen, 29 (2001), pp.
35-52.
(51) Cf. L. BREGLIA-PULCI DORIA, La Sardegna arcaica tra tradizioni euboiche ed at-
tiche: AA.VV., Nouvelle contribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéen-
nes, Napoli 1981, pp. 61-95.
(52) La fonti classiche sulla Sardegna sono state raccolte e tradotte da M. PERRA, Le
fonti classiche in Sardegna, Oristano 1994; tra i contributi pubblicati s.v. E. PAIS, La Sar-
144 G.F. Chiai

boica, di fatto, con l’andar del tempo, in relazione soprattutto ai fatti storici del
presente(53), tali miti vennero ulteriormente rielaborati ancora in età ellenisti-
ca. Mi pare ad ogni modo importante sottolineare come a livello di memoria
mitica, di probabile matrice euboica, i Greci riferissero ad un eroe di nome
Sardos la prima fase di popolamento dell’isola.
Vale la pena, ritornando alle forme Ichnoussa e Trinakria, di fare qualche
ulteriore osservazione. Si è messo in rilievo come entrambe queste denomina-
zioni fossero codificate nella memoria mitica ellenica come i più antichi nomi
delle due isole, ai quali per un certo periodo, si sovrapposero finendo poi per
prevalere, Sardò e Sikelia, nomi anellenici, derivanti verosimilmente dagli et-
nici delle popolazioni locali delle due isole. La consapevolezza che su di una
carta geografica si dovesse disegnare un profilo triangolare per le coste della
Sicilia(54) ed una forma d’orma di piede per quelle della Sardegna presuppone
sicuramente a monte di questi nomi un periplo o, comunque, una circumnavi-

degna prima del dominio romano: RANL, 7 (1880-81) pp. 352-66, che rappresenta il primo
approccio critico alla questione; P. MELONI, Gli Iolei ed il mito di Iolao in Sardegna: Studi
Sardi, 6 (1942-44), pp. 43-66; A. MASTINO, Nur. La misteriosa civiltà dei Sardi, Milano
1980, pp. 261-74; S.F. BONDÌ, Osservazioni sulle fonti classiche per la colonizzazione del-
la Sardegna: AA.VV., Saggi fenici I, Roma 1975, pp. 49-66; F. NICOSIA, La Sardegna nel
mondo classico: Ichnussa, cit., pp. 421-76, il quale individua tre nuclei di tradizioni: uno
greco-orientale, uno ateniese ed un ultimo di matrice siceliota; lo studioso ritiene inoltre
che siano da attribuire a Timeo la tradizione secondo la quale l’antico nome dell’isola sa-
rebbe stato Sandaliotis, la connotazione quale terra fertile e felice e la spiegazione del sar-
donios gelos quale derivante dall’uso di uccidere i vecchi a colpi di bastone. Tra gli altri
studi cf. J. DAVISON, Greeks in Sardinia: the Confrontation of Archaeological Evidence
and Literary Testimonia: AA.VV., Studies in Sardinian Archaeology, Ann Arbor 1984, pp.
187-200; ID., Greek Presence in Sardinia: Myth and Speculation: AA.VV., Sardinian and
the Mediterranean: A Footprint in the Sea, Ann Arbor 1996, pp. 384-93; C. TRONCHETTI, I
rapporti tra il mondo greco e la Sardegna: note sulle fonti: EVO, 9 (1986), pp.
117-24.
(53) A. COPPOLA, Archaiologhia e propaganda, Roma 1995, pp. 69-100, in particola-
re vede nella monumentalizzazione della Sardegna ad opera di Iolao e di Dedalo un paral-
lelo con quella di Atene promossa nel V sec. a.C. da Pericle; la studiosa sottolinea in tal
modo la presenza di una forte rielaborazione in ambiente attico.
(54) In particolare sulla Sicilia cf. F. PRONTERA, La Sicilia nella tradizione della geo-
grafia greca: P. ARNAUD – P. COUNILLON (a cura di), Geographica Historica, Bordeaux-Ni-
ce 1988, pp. 97-107, in part. p. 99 dove si sottolinea l’importante ruolo che per ragioni sto-
riche e geografiche la Sicilia e la Sardegna hanno svolto nel Mediterraneo Occidentale,
quale punto di raccordo tra le coste europee ed africane; lo studioso valorizza particolar-
mente un passo di Tucidide (VI, 1, 1), dal quale si ricava che prima della guerra del Pelo-
ponneso la maggior parte degli abitanti di Atene ignorava quale fosse la vera estensione
dell’isola. Del medesimo studioso, sullo stesso argomento s.v. anche Lo stretto di Messina
nella tradizione geografica antica: Lo stretto crocevia di culture. Atti del XXVI Convegno
di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1993, pp. 107-31. Per quanto riguarda il concetto di
Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici... 145

gazione delle coste delle due isole. La questione, oltre a connettersi con la pro-
blematica dei primi peripli e dei viaggi di esplorazione verso l’Occidente(55)
intrapresi dai naviganti greci, si lega anche alla codificazione su carte geogra-
fiche di tali esperienze(56). Secondo una ben nota testimonianza straboniana (I,
1, 1)(57), Anassimandro di Mileto sarebbe stato il primo ad aver disegnato una
carta geografica, fondando in questo modo la «geografia» quale disciplina.
Non intendo in questa sede discutere il significato storico-culturale da dare a
tale tradizione; tuttavia, certamente l’analisi qui compiuta di tali denominazio-
ni e soprattutto il fatto che nella memoria mitica greca Trinakria e Sikelia fos-
sero considerati i più antichi nomi della Sardegna e della Sicilia mi indurrebbe
a credere che dietro l’affermarsi di questi toponimi ci fosse un’esperienza car-
tografica. Neppure va dimenticato che la Sardegna(58), a partire da Erodoto(59),
è considerata per grandezza superiore alla Sicilia; tale calcolo, apparentemente

isola cf. le osservazioni di E. GABBA, L’insularità nella riflessione antica: F. PRONTERA (a


cura di), Geografia storica della Grecia antica, Roma-Bari 1991, pp. 106-109.
(55) In generale sulla geografia mitica dell’Occidente coloniale cf. L. ANTONELLI,
Sulle navi degli Eubei: Hesperia, 5 (1995), pp. 11-24; cf. anche L. BRACCESI, Gli Eubei e la
geografia dell’Odissea: Hesperia, 3 (1993) pp. 11-23.
(56) Sulla cartografia degli antichi cf. il lavoro di P. JANNI, La mappa ed il periplo.
Cartografia antica e spazio odologico, Roma 1984, in part. p. 79 sgg. sul concetto di «spa-
zio odologico»; sempre dello stesso studioso cf. Gli antichi e i punti cardinali: rileggendo
Pausania: P. JANNI-E. LANZILLOTTA (a cura di), GEVGRAFIA. Atti del secondo convegno
maceratese su Geografia e Cartografia antica, Roma 1988, pp. 77-91; tra gli altri contri-
buti s.v. O.A.W. DILKE, Greek and Roman Maps, London 1985; C. JACOB, Disegnare la
terra: S. SETTIS (a cura di) I Greci. Storia Cultura Arte Società I, Torino 1996, pp. 901-53.
Per quanto riguarda l’ambito delle colonie d’Occidente cf. F. PRONTERA, Sulla geografia
nautica e sulla rappresentazione litoranea della Magna Grecia: F. PRONTERA (a cura di),
La Magna Grecia e il mare. Studi di storia marittima, Taranto 1996, pp. 281-98. Per un
quadro generale delle conoscenze geografiche degli antichi cf. F. CORDANO, La geografia
degli antichi, Roma-Bari 1982; della stessa studiosa sui peripli cf. Antichi viaggi per ma-
re. Peripli greci e fenici, Pordenone 1992; da citare è anche il lavoro di L. BREGLIA, Le an-
tiche rotte del Mediterraneo, Roma 1966, che sulla base delle monete e dei sistemi ponde-
rali tenta di ricostruire i percorsi commerciali dei coloni greci nel Mediterraneo in età
arcaica.
(57) Va detto che il geografo di Amasea cita nell’ordine: Omero, Anassimandro,
Ecateo. In ambiente milesio nella seconda metà del VI sec. a.C sarebbe stata pertanto per
la prima volta, in maniera sistematica, ordinata la geografia litoranea del Mediterraneo, le
cui conoscenze si erano accumulate nei secoli precedenti attraverso peripli e viaggi di
esplorazione.
(58) Sull’argomento si rimanda al documentato lavoro di A. MASTINO – R. ZUCCA, La
Sardegna nelle rotte mediterranee in età romana: PACT, 27 (1990), pp. 99-122.
(59) Presso lo storico di Alicarnasso la Sardegna è rappresentata come una grande e
fertile isola in diversi passi (I, 170; V, 106, 124; VI, 2); sull’argomento cf. S. CELATO, Ero-
doto e la Sardegna: Hesperia, 5 (1995), pp. 49-53.
146 G.F. Chiai

errato, è in realtà esatto, in quanto effettuato non in termini di superficie, ma di


sviluppo costiero: il litorale della Sardegna è, infatti, lungo oltre 1385 Km,
mentre quello siciliano è di 1039 Km. Ad ogni modo, tale conoscenza presup-
pone a monte la constatazione che le due isole avessero rispettivamente «la
forma di un piede» e l’aspetto di un triangolo, e questo era possibile solo dopo
una loro circumnavigazione.
* * *
Vediamo ora di trarre un bilancio conclusivo di quanto detto. Il punto di
partenza delle mie considerazioni ha voluto essere un’analisi delle tradizioni
letterarie, relative ai nomi della Sardegna e della Sicilia, rispettivamente quali
Ichnoussa e Trinakria; a riguardo si è in primo luogo mostrato che in origine si
trattava di forme aggettivali, relative alla conformazione fisica delle due isole,
successivamente fissatesi quali nomi; un altro punto posto in rilievo è stato l’a-
ver connesso le più antiche testimonianze archeologiche, attestanti una fre-
quentazione fenicia ed euboica delle isole, con l’adozione delle denominazioni
epicoriche per la loro designazione. La stele di Nora prova infatti che già alme-
no dalla prima metà dell’VIII sec. a.C. i Fenici, o comunque gli elementi le-
vantini che erano entrati in contatto con la Sardegna, erano consci che la deno-
minazione locale dell’isola era ŠRDN; lo stesso nome sarebbe poi stato, presu-
mibilmente, assunto dai Greci (Eubei) per designare l’isola in un periodo cro-
nologicamente molto alto, come a mio avviso farebbe intendere sia il fatto che
tutte le tradizioni mitiche sulla Sardegna utilizzano la forma Sardò per desi-
gnare l’isola, sia anche la creazione di un eroe eponimo, originario dell’Africa,
al quale connettere la prima fase (mitica) di popolamento di questa terra.
Per quanto riguarda la Sicilia, la tradizione mitica, così come si struttura
nel passo diodoreo (V, 1, 4) preso in esame, ci fornisce un quadro dell’evolu-
zione delle conoscenze che i Greci ebbero dell’isola. Ci sarebbe stata infatti al-
l’inizio una presa di contatto con la circumnavigazione delle coste, fase alla
quale si rapporterebbe la denominazione di questa terra quale Trinakría nh^sow
«isola dai tre promontori»; successivamente, entrati in rapporto con i suoi abi-
tanti, per i Greci la Sicilia sarebbe diventata l’isola dei Siculi e dei Sicani. Co-
me si vede, la tradizione mitica sembra codificare in due momenti, paralleli tra
loro, l’evoluzione delle conoscenze geografiche ed etniche di queste due
terre.
Tutto questo si connette, infine, con un comune atteggiamento, tenuto tan-
to dai Greci quanto dai Fenici nella fase «precoloniale», di pacifico rispetto nei
confronti dei popoli e delle culture locali, con i quali si era disposti in una certa
misura a convivere e ad integrarsi attraverso matrimoni misti.
RStFen, XXX, 2 (2002)

CONSIDERAZIONI SUGLI ASPETTI PRODUTTIVI DI NORA E


DEL SUO TERRITORIO IN EPOCA FENICIA E PUNICA

S. FINOCCHI - Viterbo
TAVV. I-III

PREMESSA

Ad iniziare dal 1992 il territorio circostante la città di Nora è stato oggetto


di sistematiche campagne di prospezione finalizzate all’individuazione dei
tempi e dei modi dell’organizzazione territoriale in età fenicia e punica(1). Il
territorio indagato rientra nei Fogli N. 573 sez. I-Domus de Maria, 565 sez. II-
Villa San Pietro e 566 sez. III-Pula della nuova Carta d’Italia in scala 1:25.000
realizzata dall’Istituto Geografico Militare.
Una équipe di sei-otto persone ha investigato intensivamente tutte le aree
libere del territorio, non soggette a particolari vincoli per un totale di più di 40
km2, rispettando i suoi confini naturali: mare a Est e Sud, colline di Sarroch e
pendici meridionali del Sulcis a Nord e Ovest. L’indagine ha permesso di otte-
nere una documentata indicazione dell’antropizzazione del territorio, delle tra-
sformazioni avvenute nel paesaggio e dello sfruttamento territoriale in senso
diacronico (Fig. 1). Inoltre, si è potuta disegnare una carta dell’uso e dell’abuso
dei suoli, soprattutto in relazione ad un invasivo incremento delle aree edilizie,
e considerare come più della metà del territorio per diverse ragioni possa sfug-
gire ad un’analisi di tipo archeologico.
Già dal 1889 sulle carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare
erano riportate varie aree, limitrofe a quella urbana, con la dicitura Rovine di
Nora (Fig. 2). I primi scavi furono avviati da F. Nissardi nel 1890 e interessaro-
no un lembo di spiaggia, in prossimità della città, dove una mareggiata aveva

(1) Desidero ringraziare il prof. S.F. Bondì che ha reso possibile il compimento di
questo studio, seguendomi costantemente in tutte le fasi della ricerca sempre generoso di
consigli e suggerimenti. La mia più viva gratitudine va inoltre agli amici Massimo Botto e
Marco Rendeli, responsabili del progetto di ricognizione. Le attività di ricognizione rien-
trano nel progetto d’indagine archeologica della città di Nora che vede coinvolte le Uni-
versità di Genova, Pisa, Padova, Venezia e Viterbo, in collaborazione con la Soprintenden-
za Archeologica per le Province di Cagliari e Oristano. Per i dati più recenti riguardo alle
indagini nella città e nel territorio: C. TRONCHETTI (ed.), Ricerche su Nora – I (anni 1990-
1998), Cagliari 2000 (in seguito Ricerche su Nora – I).
148 S. Finocchi

Fig. 1 - Antropizzazione del territorio di Nora.

messo in luce quello che successivamente fu riconosciuto come il tofet(2). Se


dunque la città ha suscitato gli interessi degli studiosi sin dall’800, la stessa co-
sa non può dirsi per il suo territorio, che non è mai stato fino ad anni recenti og-
getto d’indagini esaustive, limitandosi gli studi a rapidi accenni alle sole evi-
denze macroscopiche.

(2) F. VIVANET, Nora. Scavi nella necropoli dell’antica Nora nel comune di Pula:
NSc, 1891, pp. 299-302; quelle vicende sono state ricordate in S. MOSCATI, Documenti ine-
diti sugli scavi di Nora: RANL, ser. 8, 36 (1981), pp. 157-61.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 149

Fig. 2 - Particolare della carta topografica IGM 1889.

In questa sede si vogliono presentare alcune osservazioni riguardo all’or-


ganizzazione dello sfruttamento del territorio di Nora in età fenicia e punica,
con particolare attenzione agli aspetti produttivi. Iniziando dalla storia degli
studi, cercheremo di evidenziare i contributi che dalla fine dell’800 hanno inte-
ressato la regione in esame; si analizzerà quindi il territorio con particolare at-
tenzione alla metodologia d’indagine utilizzata durante le prospezioni e alla
morfologia. La sezione principale è costituita dalle osservazioni sulle poten-
zialità economiche del territorio di Nora, evidenziando le «possibili» risorse
alimentari e minerarie.

1. STORIA DELLE RICERCHE

L’unica fonte antica a fornire indicazioni storiche sul territorio di Nora è


l’Itinerarium Antonini (III sec. d.C.), dove sono indicati gli assi viari della lito-
ranea occidentale facenti capo a Nora(3). In seguito le fonti tacciono; bisogna

(3) Per una recente analisi dell’Itinerarium provinciarum antoni[ni] augusti quale
150 S. Finocchi

arrivare al XIX secolo perché siano prese in considerazione le evidenze ar-


cheologiche del territorio. Così V. Angius offre una descrizione completa degli
abitati di Pula e Sarroch(4), soffermandosi, a proposito del primo centro, sul-
l’argomento «nuraghi» e segnalando per la prima volta l’esistenza del nuraghe
di Guardia Sa Mongiasa, esplorato in seguito da A. Della Marmora il quale ne
diede anche una documentazione grafica(5). Nella descrizione del centro di
Sarroch, invece, sotto la voce «antichità», egli si sofferma sul sito di Antigori
nel quale era presente «un vasto e solido fabbricato antico»(6). Lo stesso sito
fu in seguito oggetto dell’interesse di G. Spano, il quale segnalò la presenza di
resti nuragici nell’area e il rinvenimento nella stessa di materiali roma-
ni(7).
Pochi anni più tardi F. Vivanet fornì resoconti periodici delle scoperte che
si effettuavano nel territorio in questione: nel 1885 riferendo del recupero di tre
miliari pertinenti al tratto viario che collegava Nora a Bitia, nel 1889 segnalan-
do i resti di una villa romana nel sito, già in precedenza indagato, di Antigori e
nel 1890 indicando la presenza di una struttura d’età romana in località Nura-
xeddus-Pula(8). Più recentemente G. Pesce ha pubblicato gli esiti di «un pic-
colo scavo» effettuato nel 1956 in località Santa Margherita di Pula, in cui «fu
restituito alla luce un deposito sacro», nel quale, accanto a statue fittili testimo-
nianti una religiosità greco-italica, si rinvenne anche una placchetta in terracot-
ta raffigurante a rilievo il busto della dea Tanit(9). Anche V. Tusa ricorda il
rinvenimento effettuato da G. Lilliu di un frammento di brocca fenicia in un’a-

importante documento della viabilità e dell’economia sarda cf. R. REBUFFAT, Un document


sur l’économie sarde: AfRo 8, Sassari 1991, pp. 719-34.
(4) V. Angius in G. CASALIS, Dizionario geografico storico-artistico-commerciale
degli stati di S. M. il Re di Sardegna, compilato per cura del professore Goffredo Casalis,
Torino 1833-1857, pp. 1023-48 per quanto riguarda Pula e pp. 1241-47 per quel che riguar-
da Sarroch (in seguito V. Angius in G. CASALIS, Dizionario).
(5) Ibid., p. 1034: «Più furono distrutti dagli antichi e solo in prossimità di Pula ve-
desi quello che servì come pilastro sull’acquidotto di Nora. Quelli che sono ne’ siti mon-
tuosi non poterono essere esplorati per noi». Cf. inoltre A. DELLA MARMORA, Itinerario del-
l’isola della Sardegna del conte Alberto Della Marmora tradotto e compendiato dal cano-
nico Giovanni Spano, Cagliari 1868, I, p. 100 e III, p. 333.
(6) V. Angius in G. CASALIS, Dizionario, p. 1246.
(7) G. SPANO 1874, p. 167.
(8) F. VIVANET, Pula e Domus–de–Maria: NSc 1885, p. 90; ID., Sarrok. Avanzi di
edificio romano: ibid., 1889, pp. 170-71; ID., Pula. Avanzi di età romana soperti a «Cala
d’Ostia»: ibid., 1890, p. 197.
(9) G. PESCE, S. Margherita di Pula (Cagliari). Deposito sacro: ibid., ser. 8, 28
(1974), pp. 506-13 (in seguito G. PESCE, S. Margherita di Pula). Per una proposta di lettura
dell’area in relazione a Nora cf. S. MOSCATI, La penetrazione fenicia e punica in Sardegna:
RANL, 12 (1966), p. 238.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 151

rea tra Sarroch e Pula(10). Sempre presso Sarroch bisogna infine ricordare la
ceramica fenicia e punica, databile fra il VI e il IV sec. a.C., rinvenuta nel nu-
raghe Antigori e pubblicata da P. Bartoloni(11).

2. L’INDAGINE TERRITORIALE

2.1. La metodologia

I dati fin qui presentati fanno di certo riflettere sui tempi dell’antropizza-
zione nel territorio, ma non permettono di esprimere valutazioni sui modi e sul-
le forme del popolamento(12). La volontà di definire, per l’età fenicia e punica,
i tempi e i modi della presenza nell’entroterra ha imposto una metodologia
d’indagine che permettesse di considerare le «aree»/«siti» di rinvenimento co-
me parte integrante del territorio in cui la presenza umana si è manifestata(13).
L’esistenza di un sito non si determina solo per la presenza di elementi struttu-
rali, ma anche di associazioni di materiali archeologici; così il mezzo per defi-
nire l’entità di sito non è solo la presenza (tipo e datazione dei manufatti rinve-
nuti), ma anche la distribuzione, la densità e l’estensione del rinvenimento. Af-
finché un’area di rinvenimento possa essere considerata «sito» c’è bisogno che
l’insieme delle variabili che la connotano diventi una discriminante. In un ge-

(10) La datazione proposta all’VIII sec. a.C. non può essere confermata in assenza di
alcuna indicazione grafica o fotografica: V. TUSA, La civiltà punica: Popoli e civiltà dell’I-
talia antica, III, Roma 1974, p. 76.
(11) P. BARTOLONI, Ceramica fenicia e punica dal nuraghe Antigori: RStFen, 11
(1983), pp. 167-75.
(12) Gli aspetti metodologici sono stati recentemente trattati in diverse sedi, ad esse
si rimanda per tutte le informazioni di carattere metodologico: M. BOTTO - M. RENDELI, No-
ra II. Prospezione a Nora 1992: QuadCagliari, 10 (1993), pp. 151-53; IID., Progetto Nora
– Campagne di prospezione 1992-1996: AfRo 12, Sassari 1998, pp. 713-19 (in seguito M.
BOTTO - M. RENDELI, Progetto Nora); M. BOTTO - S. MELIS - M. RENDELI, Nora e il suo terri-
torio: Ricerche su Nora-I, pp. 257-60. In questa sede saranno segnalati solo i criteri che
sono alla base dell’indagine territoriale e che si rendono necessari per la comprensione dei
dati presentati di seguito.
(13) La strategia d’indagine utilizzata è ispirata alle tecniche e alle scelte sviluppate
negli ultimi decenni dal mondo anglosassone e si è, nel corso degli anni, plasmata sulle
particolarità del territorio norense. Un’indagine territoriale che ha i suoi fondamenti nella
scelta regionale, nell’esplorazione intensiva e nella quantificazione e visibilità archeologi-
ca. Fondamentale per comprendere le metodologie utilizzate nella ricerca è: J.F. CHERRY,
Frogs Round the Pond: Perspectives on Current Archaeological Survey Projects in the
Mediterranean Area D.R. KELLER - D.W. RUMPP, Archaeological Survey in the Mediterra-
nean Area (BAR, Int. Ser., 155), Oxford 1983.
152 S. Finocchi

nerale valore di fondo si vengono a distinguere delle aree di maggiore concen-


trazione, dai limiti netti e con densità di materiale quantificabile. Da questo
punto di vista, il sito si presenta come un’anomalia: un picco di densità assai
chiaro di frammenti rinvenuti nel generale disturbo di fondo.
L’individuazione delle evidenze archeologiche, siano esse siti o aloni, so-
no strettamente correlate all’accuratezza e all’intensità con le quali è campio-
nato e analizzato il territorio.
Due sono stati gli obiettivi prioritari della ricerca: analizzare le trasforma-
zioni avvenute nel paesaggio nei diversi momenti storici; evidenziare l’orga-
nizzazione dello sfruttamento del territorio nelle singole fasi. Per quel che ri-
guarda le scelte operative, il lavoro sul campo è stato caratterizzato da criteri
di:
– regionalità, con scelta di aree d’indagine abbastanza vaste;
– sistematicità e intensità di esplorazione;
– quantificazione delle scoperte;
– multidisciplinarità con tutte le scienze che possono contribuire alla ri-
costruzione del paesaggio antico.
Nel corso delle prospezioni si è sviluppata una tecnica di indagine che ha
avuto come soggetto principale il territorio: al suo interno i siti (anomalie
quantitative rispetto al disturbo di fondo) concorrono alla formazione del pae-
saggio. Per indagare storicamente tale paesaggio bisogna comprendere se esi-
ste un’organizzazione secondo schemi territoriali e di popolamento, coordinata
dal centro urbano, che favorisca la produzione primaria delle risorse in modo
diretto o indiretto. Bisogna cioè individuare la vocazione del territorio sulla ba-
se delle risorse «possibili»: queste sono strettamente legate ad alcuni aspetti
geomorfologici, quali il mare, la laguna, la pianura e i rilievi montuosi. Si trat-
ta di sistemi geografici che condizionano fortemente la natura della fondazione
e allo stesso tempo rappresentano dei bacini di possibili risorse di sussistenza e
«industriali».

2.2. La morfologia del territorio e le vie di comunicazione

La città di Nora è posta su una bassa dorsale che si spinge nel Canale di
Sardegna con andamento Sud-Est ed è stretta in un territorio limitato ad Ovest
dalle propaggini meridionali del sistema montuoso sulcitano (culminante con il
monte Is Caravius) e a Nord dai rilievi montuosi che la separano dalla piana di
Sarroch. Si tratta di una pianura con un’estensione di circa 50 km2 sovrastata
da aspri rilievi che a volte sfiorano i mille metri di quota. Se è vero che questi
rilievi costituiscono una linea di protezione alle spalle della cit-
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 153

Fig. 3 - La regione di Nora (da: P. BARTOLONI - C. TRONCHETTI, La necropoli di Nora (=


CSF, 12), Roma 1981.
154 S. Finocchi

tà, ne condizionano però lo sviluppo e ne provocano l’isolamento(14). Il grande


impedimento dovuto agli aspetti orografici è rappresentato dalle difficoltà di
collegamento terrestre con le regioni contermini del Sulcis-Iglesiente e del
Campidano. Le uniche vie di comunicazione, come più volte ha sottolineato
Piero Bartoloni, erano due percorsi «costieri», uno a Nord e l’altro a Sud. Il pri-
mo, che consentiva di raggiungere Cagliari e il Campidano, è costituito dal va-
lico naturale a Nord-Ovest di Sarroch controllato ad occidente dal nuraghe An-
tigori; il secondo, a Sud-Ovest, permetteva il passaggio lungo la piana litora-
nea di S. Margherita di Pula, con un percorso che proseguendo lungo la costa
raggiungeva l’abitato di Chia; da qui la strada si inoltrava verso i monti sino a
Teulada, per seguire poi nuovamente un percorso costiero fino a raggiungere
l’alto Sulcis e l’Iglesiente. Un’altra possibilità di collegamento con la regione
sulcitana era costituita dal percorso che dal Campidano di Cagliari, attraverso
il valico di Pantaleo (450 m s.l.m.), raggiungeva Paniloriga(15) (Fig. 3).
È interessante notare come tali passaggi obbligati fossero, se non «con-
trollati», quanto meno interessati da una presenza fenicia e punica da mettere
probabilmente in relazione con la fondazione di Nora. Dal nuraghe Antigori,
posto a controllo della via settentrionale, proviene ceramica fenicia e punica,
verosimilmente di provenienza norense, databile tra gli inizi del VI e la fine del
IV sec. a.C. pertinente ad un orizzonte abitativo e forse cultuale(16); in prossi-
mità della via sud-occidentale, presso S. Margherita di Pula, è stato individuato
il deposito sacro di un luogo di culto tardo-punico dedicato a Demetra e Ko-

(14) P. BARTOLONI - C. TRONCHETTI, La necropoli di Nora (= CSF, 12), Roma 1981,


pp. 17-19.
(15) Riguardo alle vie di comunicazione tra il Sulcis e il Campidano, oltre a ibid. cf.
P. BARTOLONI, La necropoli di Bitia-I (= CSF, 38), Roma 1996, pp. 33-35; per la viabilità di
questa regione in età romana cf. P. MELONI, I miliari sardi e le strade romane in Sardegna:
Epigraphica, 15 (1953), pp. 30-37; ID., La Sardegna romana, Sassari 1990, pp. 265-98, in
particolare le pp. 284-85.
(16) Ubicato su un’altura che sovrasta la costa, era in grado di avere un ampio spettro
di controllo sia marino sia terrestre dal Golfo di Cagliari sino alle colline che limitano ad
oriente il territorio di Nora. È noto il rinvenimento dall’Antigori di ceramica vascolare mi-
cenea (III B/C) ed è ugualmente nota l’importanza di tali rinvenimenti nel quadro della
frequentazione precoloniale della Sardegna. Tra i frammenti fenici e punici rinvenuti la
maggior parte appartiene a forme aperte e questo fa presupporre una frequentazione abita-
tiva; inoltre, è importante notare come nei materiali le caratteristiche tecniche dell’argilla
«contenente abbondanti inclusi micacei e granitici, così come la vernice che ricopre in ge-
nere tutta la superficie siano identiche a quelle dei recipienti, relativi ai secoli V e IV a.C.,
rinvenuti nella vicina necropoli di Nora»: P. BARTOLONI, Ceramica fenicia e punica dal nu-
raghe Antigori, cit. (supra nota 11), p. 169.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 155

re(17). Per quel che riguarda la seconda via di comunicazione verso il Sulcis,
testimonianze puniche, per le quali è più complicato individuare l’eventuale le-
game con Nora, ci provengono da una località a Sud di Pantaleo(18).
Le notevoli difficoltà nei collegamenti terrestri hanno contribuito a svi-
luppare e consolidare un commercio marittimo(19), non solo con le città della
Sardegna ma anche con i centri costieri della Penisola Iberica, del Nord-Africa,
della Grecia continentale, dell’Etruria meridionale e dell’Italia continenta-
le(20).
Oltre alle vie di comunicazione con le regioni contermini della Sardegna
sud-occidentale, dobbiamo analizzare anche i modi di comunicazione tra le
aree dell’entroterra e la città. La ricerca sul campo non ha portato al riconosci-
mento di percorsi stradali per l’età fenicia e punica. Una traccia è ricavabile
dalla lettura di una fotografia aerea IGMI del 1957: si tratta di un possibile per-
corso viario, purtroppo non controllabile sul terreno poiché rientra attualmente
in aree militari e zone non investigabili, che a partire dal limite orientale della

(17) G. PESCE, S. Margherita di Pula, per le possibili relazioni con la città di Nora ve-
di infra.
(18) Sono stati riscontrati sul terreno frammenti ceramici punici e romani associati a
strutture murarie a pianta rettangolare: F. BARRECA, Monte Sirai-III (= SS, 20), Roma 1966,
pp. 163-64; S.M. CECCHINI, I ritrovamenti fenici e punici in Sardegna (= SS, 32), Roma
1969, p. 75.
(19) Si tratta solo apparentemente di vie di comunicazione semplici, poiché questo
settore della costa sarda è particolarmente aperto ai venti di Levante, Scirocco e Libeccio
che rendono particolarmente pericolosa la navigazione: ne sono testimonianza i relitti indi-
viduati presso lo scoglio del Coltellazzo dall’esplorazione subacquea di M. Cassien effet-
tuata tra il 1978 e il 1985. Al riguardo cf. M. CASSIEN, Campagne de sauvetage 1980 sur le
sites sous-marines de Nora-Pula, Paris 1980; in proposito cf. anche: A.J. PARKER, Ancient
Shipwtecks of the Mediterranean and the Roman Provinces (BAR, Int. Ser., 580), Oxford
1992, pp. 151-52 e S. FINOCCHI, Nora: anfore fenicie dai recuperi subacquei: P. BARTOLONI
- L. CAMPANELLA (edd.), La ceramica fenicia di Sardegna. Dati, problematiche, confronti.
Atti del Primo Congresso Internazionale Sulcitano (S. Antioco, 19-21 Settembre 1997) (=
CSF, 40), Roma 2000, pp. 163-73.
(20) A testimonianza delle relazioni con i centri della Spagna è la presenza di anfore
di produzione iberica provenienti dalla città. Per quel che riguarda i collegamenti con la
Grecia continentale, i recenti rinvenimenti di ceramica greca dagli scavi dell’abitato testi-
moniano una serie di relazioni che iniziano dalla metà del VII sec. a.C. e assieme al buc-
chero etrusco di fine VII-inizi VI sec. a.C. consentono di inserire Nora quantomeno in una
rotta di collegamento fra la Sardegna e l’Italia continentale: M. BOTTO - M. RENDELI, Nora
nel quadro dei commerci fenici del Mediterraneo: Atti del V Congresso Internazionale di
Studi Fenici e Punici, Marsala-Palermo 2-8 ottobre 2000, in stampa; riguardo ai collega-
menti con l’Etruria: M. BONAMICI, Alcuni buccheri da Nora: Atti del XXI Convegno di Stu-
di Etruschi ed Italici (Sassari 13-17 ottobre 1998), Roma 2002, pp. 255-64.
156 S. Finocchi

Fig. 4 - a: particolare della fotografia aerea IGMI 1957; b: siti fenici e punici in prossimità
del porto.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 157

laguna sfiora i siti NR98-R 1.9(21), NR92-R 1.8, NR92-R 5.8 e NR92-R 5.10 e
poi si perde in aree inaccessibili in località Perdu Locci (Fig. 4, a). La presenza
di un asse viario in questa posizione si spiegherebbe abbastanza agevolmente
in funzione della vicinanza al porto e ai siti con carattere artigianale e di imma-
gazzinamento posti nelle vicinanze(22); la strada, inoltre, costeggiando il litora-
le occidentale del promontorio conduceva al cuore dell’area urbana. In assenza
di elementi cronologici e di verifiche dirette sul terreno possiamo constatare
come tale percorso rispetti la dislocazione topografica dei settori occidentali
della città: settori organizzati e strutturati in età punica, ma che nascono proba-
bilmente in età fenicia(23). Per il resto, l’assenza di grandi impedimenti morfo-
logici permetteva i collegamenti sfruttando i sentieri naturali che ancora oggi
sono presenti nella piana di Nora. Un ruolo sicuramente importante fu assunto
dai corsi fluviali, in particolare da quelli che raggiungevano le aree più interne
del territorio. Tra questi nel settore occidentale si segnala il Rio su Tintioni,
che si spinge verso Ovest sino a raggiungere le alture del Monte Santo; per
quel che riguarda il settore settentrionale si segnala il Rio Pula, che raggiunge
le alte quote del complesso montuoso sino a giungere in prossimità di
Pantaleo.
I dati raccolti permettono di affermare che la città di Nora non ha facilità
di collegamento con le regioni interne, che ha un retroterra ristretto e che pro-
babilmente proietta sul mare la maggior parte delle proprie attività. Per Nora si
può quindi parlare di una fondazione con marcata vocazione marittima.

3. NORA E LE POTENZIALITÀ ECONOMICHE DEL SUO TERRITORIO

La città di Nora disponeva di un territorio coltivabile, sovrastato e circon-


dato dalle pendici dell’imponente complesso montuoso sulcitano, probabil-
mente sfruttato nelle sue risorse naturali fin dalle prime fasi di vita in modo
proporzionale alla crescita demografica. L’analisi delle possibili risorse e la

(21) Le sigle dei siti contengono la sigla generale della ricognizione a Nora seguita
dall’anno (NR98), la R di ricognizione e due numeri (1.9) che indicano rispettivamente il
quadrato e il sito di rinvenimento.
(22) S. FINOCCHI, La laguna e l’antico porto di Nora: nuovi dati a confronto: RStFen,
27 (1999), pp. 167-92 (in seguito S. FINOCCHI, La laguna e l’antico porto di Nora).
(23) L’importanza di Nora nella viabilità romana è testimoniata dalle colonne milia-
rie dove le miglia erano numerate a partire da Nora a Cagliari e da Nora a Bitia. CIL, X,
7996-98; CIL, X, 7999-8001; G. SOTGIU, Iscrizioni latine della Sardegna, I, Padova 1961,
p. 370; P. MELONI, I miliari sardi e le strade romane in Sardegna, cit. (supra nota
15).
158 S. Finocchi

capacità di definire uno «spazio rurale-commerciale»(24) è di fondamentale im-


portanza per comprendere la natura della fondazione e il cambiamento di que-
sta nei diversi momenti storici.

3.1. Risorse alimentari

3.1.1. Ambiente terrestre

La base materiale della sussistenza di una comunità è strettamente legata


all’attività agricola. Diverse fonti storiche sottolineano il forte legame dell’uo-
mo con l’agricoltura: i produttori erano gli stessi consumatori dei propri pro-
dotti, mentre i surplus servivano da beni di scambio e di accumulazio-
ne(25).
Per il mondo fenicio e punico molte sono le testimonianze letterarie che
documentano il rapporto dei Fenici con la terra. Si tratta di informazioni che si
riferiscono non all’ambiente fenicio, ma all’organizzazione economica e terri-
toriale operata da Cartagine nel Nord-Africa e in Sardegna(26). Un passo del De
mirabilibus auscultationibus (100) ricorda il divieto cartaginese di piantare al-
beri da frutto in Sardegna. Tale fonte è stata considerata come il riflesso di una
volontà politica punica di potenziare la produzione di grano nell’isola e di im-
pedire la concorrenza agli oliveti, vigneti e frutteti della madrepatria(27). A tale

(24) Al riguardo cf. PH. LEVEAU, La question du territoire et les sciences de l’Anti-
quité: la géographie historique, son évolution de la topographie à l’analyse de l’espace:
Revue des Études Anciennes, 86 (1983), pp. 85-115.
(25) ESIODO, Le opere e i giorni; CATONE, Sull’agricoltura, I, I. Per un’analisi che ten-
ga conto dello sviluppo agricolo e alimentare nel contesto tecnologico ed economico delle
società antiche cf. A. GARA, Tecnica e tecnologia nelle società antiche, Roma 1994, pp.
27-42. Una recente e approfondita analisi sull’economia e sulle attività agricole nel mondo
coloniale fenicio della Penisola Iberica è in: M.E. AUBET - P. CARMONA - E. CURIÀ - A. DEL-
GADO - A.F. CANTOS - M. PÁRRAGA, Cerro del Villar – I. El asentamiento fenicio en la de-
sembocadura del río Guadalhorce y su interacción con el hinterland, Sevilla 1999, pp.
307-19.
(26) Le fonti esaltano i modi dell’agricoltura cartaginese e sono testimonianza del
rapporto privilegiato dei Punici con l’agronomia: il simbolo della tradizione agronoma pu-
nica è sicuramente rappresentato da Magone, l’unico cartaginese al quale fu concesso l’o-
nore dal Senato romano, dopo la conquista di Cartagine, di una traduzione ufficiale dal pu-
nico della propria opera, scritta in 28 libri forse alla fine del IV sec. a.C.: PLINIO, Naturalis
Historia, XVIII, 22; S.F. BONDÌ, L’alimentazione nell’antichità, Parma 1985, pp. 175,
177.
(27) ID., Osservazioni sulle fonti classiche per la colonizzazione della Sardegna:
Saggi Fenici-I, Roma 1975, p. 51; L. BREGLIA PULCI DORIA, La Sardegna arcaica tra tradi-
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 159

proposito risulta importante la scoperta presso S. Margherita di Pula dell’area


sacra dedicata a Demetra e Kore: divinità legate alla sfera del culto agrario(28).
Anche se la documentazione archeologica non può risalire oltre l’età tardo-pu-
nica(29), essa costituisce una testimonianza indiretta della vocazione agricola e
della fertilità del distretto in esame. L’area sacra di S. Margherita, posta sulla
via costiera di comunicazione con l’alto Sulcis verso occidente e il Campidano
verso settentrione, rappresentava un punto di raccordo per i traffici agrari dei
due distretti.
Testimonianze archeologiche relative alla coltivazione e alla lavorazione
dei cereali nel territorio si riscontrano con una certa frequenza nei siti d’età
preistorica, protostorica e punica. La documentazione più antica si riferisce al
sito di S’Abuleu (NR94-R 36.1), posto a circa 3 km a Nord-Ovest di Nora, do-
ve numerosi strumenti in ossidiana, assieme a macine, macinelli e pestelli, te-
stimoniano un’economia dedita ad attività di trasformazione dei prodotti vege-
tali(30) (Fig. 1; Tav. I, a). Durante l’età del Bronzo continuano ad essere attesta-
ti numerosi strumenti in selce e in ossidiana, probabilmente pertinenti a falcetti
e macine in granito, che documentano anche per questa fase un’attività di tra-
sformazione cerealicola. In questo periodo però lo spostamento di persone dal-
le aree pianeggianti alle alture e in luoghi impervi è probabile indizio di un
cambiamento nell’economia: oltre allo sfruttamento agricolo, diventa consi-
stente l’attività legata alla pastorizia (società agro-pastorali).
L’età del Ferro è documentata nel territorio da pochi frammenti ceramici e
da un unico sito presso Canale Peppino (NR96-R 58.5)(Fig. 1; Tav. I, b). Qui
una macina in granito associata a macinelli e pestelli è testimone dell’attività
agricola, in un’area, peraltro, tra le più fertili dell’entroterra norense. La docu-

zioni euboiche ed attiche: Nouvelle contribution à l’étude de la société et de la colonisa-


tion eubéennes, Napoli 1981, pp. 71-74.
(28) P. XELLA, Sull’introduzione del culto di Demetra e Kore a Cartagine: StMat-
StorRel, 40 (1969), pp. 215-28.
(29) Il culto di Demetra e Kore fu probabilmente introdotto in Sardegna da Cartagine
durante il IV sec. a.C. Cartagine adottò il culto delle due dee, dedicando un tempio nella
stessa Cartagine a Demetra e Kore e istituendo i relativi sacerdozi e riti, a seguito della
profanazione avvenuta nel 396 a.C. del tempio di Demetra e Kore a Siracusa. G. Pesce
considera i frammenti delle statue attribuite a Demetra e Kore coeve alle statue dei giovani
dormienti recuperati, dallo stesso Autore, nel cosiddetto tempio di Eshmun-Esculapio a
Nora e datate al II-I sec. a.C.: G. PESCE, S. Margherita di Pula, p. 508. Per una recente ana-
lisi dei luoghi di culto nella Sardegna romana cf. S. PIRREDDA, Per uno studio delle aree
sacre di tradizione punica della Sardegna romana: AfRo 10, Sassari 1994, pp. 831-41, p.
838.
(30) M. BOTTO - M. RENDELI, Progetto Nora, pp. 719-21; M. MIGALEDDU, Nora IV. Ri-
cognizione. L’insediamento preistorico di S’Abuleu: QuadCagliari, 13 (1996), pp.
189-209.
160 S. Finocchi

mentazione è praticamente assente per l’età fenicia. Tale indicazione va letta


non come assenza totale dello sfruttamento delle terre, ma come sfruttamento
volto alla sussistenza: probabilmente la coltivazione di aree limitate era suffi-
ciente a garantire la sopravvivenza della popolazione che risiedeva a Nora.
Siamo quindi di fronte ad un tipo di sfruttamento che non richiedeva la presen-
za stabile nel «distretto agricolo», dove la popolazione locale esercitava un
proprio controllo e probabilmente poteva rifornire il centro fenicio di derrate
alimentari. Durante l’età punica e tardo-punica lo sfruttamento dei cereali di-
venta probabilmente predominante nell’economia della città. Ora, la presenza
di anfore e di ceramica di uso domestico si fa consistente e testimonia una pre-
senza stabile fino a questo momento sconosciuta. A dimostrazione della produ-
zione agricola del distretto, oltre al culto agrario di Demetra e Kore già segna-
lato, si ricordano le macine in granito, arenaria e trachite dislocate nei diversi
siti del territorio, che testimoniano una continuità dello sfruttamento agricolo
fino ad età tardo imperiale.
Importanti notizie riguardo alla fertilità della regione si ricavano anche
dall’analisi delle fonti storiche. «La curatoria di Nora regione marittima (....)
non manca di pianure fertilissime di ogni genere di frutti», in questo modo G.
Fara descriveva la curatoria di Nora in epoca giudicale(31). La fertilità del terri-
torio è ricordata anche da V. Angius: «I terreni di Pula sono meritatamente fa-
mosi per la loro fecondità, e può dirsi verissimamente essere il Campidano no-
rese una delle regioni più felici della Sardegna non solo pe’ cereali e per l’orti-
cultura, ma per la coltura degli alberi fruttiferi (....) Le regioni seminative più
fertili sono Furcadizza e Perd-e-Sali, che si estende sino a’ limiti col villaggio
di Sarroco»(32). Tali fonti ci informano inoltre delle trasformazioni subite dalla
flora a causa «della scure de’ pastori» e del disboscamento della macchia me-
diterranea a vantaggio dell’agricoltura(33).
Pur non avendo specifiche informazioni riguardo al paesaggio boschivo,
dobbiamo ritenere che questo avesse una certa importanza sia per il reperimen-
to del legname sia per la caccia; gli stessi autori sottolineano come questa re-
gione fosse ricca di animali selvatici di tutti i tipi, con particolare presenza di
cervi, daini, mufloni e cinghiali(34).

3.1.2. Ambiente marino

Analizzando la topografia del territorio di Nora si sono sottolineate le dif-


ficoltà nei collegamenti terrestri e si è evidenziato come la città abbia proba-

(31) G. FARA, De chorographia Sardiniae libri duo, Torino 1854, p. 147.


(32) V. Angius in G. CASALIS, Dizionario, pp. 1029-30.
(33) Ibid., p. 1025.
(34) Ibid., pp. 1025-26.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 161

bilmente proiettato sul mare la maggior parte delle proprie attività(35). L’im-
magine dei Fenici nel mondo antico è intimamente legata da un lato ai com-
merci marittimi(36), dall’altro alla colorazione delle stoffe in rosso porpora(37):
attività che sfruttano l’ambiente marino sia come mezzo di comunicazione sia
come bacino di risorse possibili. Nelle fonti classiche è più volte documentato
lo stretto legame tra i Fenici e il mare: oltre all’estrazione della porpora dai
murici, si ricorda la pesca del corallo, delle sardine, del pesce spada e del ton-
no(38); inoltre è attribuita ai Fenici l’industrializzazione dell’estrazione del sale
utilizzato per l’esportazione(39) e soprattutto per conservare gli alimenti, in
particolare il pesce(40). I dati disponibili per le attività produttive legate al ma-
re riguardano soprattutto il Nord-Africa cartaginese e la Spagna meridionale. A
testimonianza dell’importanza della pesca nell’economia cittadina, S.F. Bondì
ha sottolineato come le fonti storiche, almeno in alcuni casi, facciano pensare
«a un’accurata gestione dell’attività di pesca, condotta da vere e proprie flotti-
glie professionali»(41).
La città di Nora è per circa 2/3 della sua estensione circondata dal mare;
essa è delimitata a Nord-Ovest da un ampio golfo naturale, oggi trasformato in

(35) Un recente studio di G. Lilliu consente di cogliere il particolare rapporto fra la


Sardegna e il mare: G. LILLIU, La Sardegna e il mare durante l’età romana: AfRo 8, Sassari
1991, pp. 661-94, in particolare le pp. 677-89 sono dedicate all’analisi delle risorse legate
al mare e segnatamente all’attività di pesca.
(36) S.F. BONDÌ, Note sull’economia fenicia-I. Impresa privata e ruolo dello Stato:
EVO, 1 (1978), pp. 139-49; ID., Sull’organizzazione dell’attività commerciale nella società
fenicia: AA.VV., Stato, economia, lavoro nel Vicino Oriente Antico, Milano 1988, pp.
348-62.
(37) J. DOUMET, Étude sur la couleur pourpre ancienne et tentative de reproduction
du procédé de teinture de la ville de Tyr décrit par Pline l’Ancien, Beyrouth 1980.
(38) STRABONE, I, 2, 24.
(39) STRABONE, III, 5, 11; G. LILLIU, La Sardegna e il mare durante l’età romana, cit.
(supra nota 35), pp. 689-90; una recente analisi sull’importanza del sale e delle saline nel
mondo punico è stata effettuata da: L.I. MANFREDI, Le saline e il sale nel mondo punico:
RStFen, 20 (1992), pp. 3-14.
(40) POLLUCE, VI 48; ARISTOTELE, apud Athen., VII, 329; altre notizie riguardo alla pe-
sca e alla conserva dei pesci si hanno nel De mirabilibus auscultationibus pseudo-aristote-
lico, 844 e in ARISTOTELE, Historia animalium, 525, 541, 602-603. Riguardo alla produzio-
ne di codlia, salsa di pesce definita dai romani garum: M. PONSICH - M. TARRADELL, Garum
et industries antiques de salaison dans la Méditerranée occidentale, Paris 1965; H. HORST,
Codlia-eine semitische Bezeichnung für garum?: ZDMG, 138 (1988), pp. 24-38. Una re-
cente e approfondita analisi sulla pesca e sulla lavorazione del pesce nell’economia colo-
niale fenicia della Penisola Iberica è in M.E. AUBET ET ALII, op. cit. (supra nota 25), pp.
320-32.
(41) S.F. BONDÌ, op. cit. (supra nota 26), p. 178.
162 S. Finocchi

peschiera, in cui sfociano alcuni dei maggiori fiumi che nascono nell’entroter-
ra(42). Tale golfo, pur non essendo una vera e propria laguna, poiché è un brac-
cio di mare parzialmente occluso da una duna d’arenaria a Sud-Ovest (penisola
di Fradis Minoris), presenta in prossimità del delta dei fiumi degli ecosistemi
d’acqua salmastra che permettono la riproduzione di abbondante fauna acqua-
tica (cefalopodi e mitili). Le risorse possibili legate al mare e alla «laguna» po-
tevano quindi rappresentare per Nora una valida attività economica.
Piero Bartoloni ha più volte sottolineato come nelle vicinanze delle fon-
dazioni fenicie d’Occidente si ritrovino impianti per la pesca e la lavorazione
del tonno (in Sardegna a Villasimius, presso Cala Caterina, a Bitia, a Capo S.
Marco, a Capo Mannu, all’Argenteria presso S. Imbenia, a Carloforte, a Porto-
scuso)(43). Anche a Nora si segnala la presenza di una tonnara in uso tra il XVII
e il XIX secolo(44): quasi dimenticata nella cultura popolare, se ne conservano i
resti sulla costa sud-occidentale della piccola isola di S. Macario(45) (Fig. 1;
Tav. II). Si tratta di un isolotto, di circa 3000 m2 d’estensione, posto quasi a un
miglio a Nord-Est dell’area urbana di Nora, interessato dalla presenza di una

(42) Si tratta del Rio Saliu, nella sua ultima parte irregimentata prende il nome di Ca-
nale Saliu, che nasce in prossimità delle ultime pendici montuose occidentali e il cui corso
si segue dalla località Funtana e Sassa; gli altri sono il Rio s’Orecanu e il Rio su
Tintioni.
(43) G. SCHMIEDT, Antichi porti d’Italia: L’Universo, 45 (1965), p. 50; P. BARTOLONI, I
Fenici e le vie dei tonni: Il Mare, 39-40 (1991), p. 9; ID., I modelli insediativi: P. BARTOLO-
NI - S.F. BONDÌ - S. MOSCATI, La penetrazione fenicia e punica in Sardegna. Trent’anni do-
po (= MonAnt, 9, 9), Roma 1997, p. 40 (in seguito P. BARTOLONI - S.F. BONDÌ - S. MOSCATI,
La penetrazione fenicia e punica). Si tratta di impianti «industriali» talvolta ricordati come
abbandonati da tempo immemorabile, altre volte note per la loro attività durante il XVII e
XIX secolo; per una prima «rassegna» delle tonnare in Sicilia cf. G. SCHMIEDT, Antichi
porti d’Italia, op. cit. (in questa stessa nota); più recentemente sono stati individuati im-
pianti per la lavorazione del tonno nella Sicilia sud-orientale e nei pressi di Trapani e Le-
vanzo: G.M. BACCI, Antico stabilimento per la pesca e la lavorazione del tonno presso
Portopalo: Kokalos, 28-29 (1982-1983), pp. 345-47; G. PURPURA, Pesca e stabilimenti an-
tichi per la lavorazione del pesce in Sicilia-I: S. Vito (Trapani), Cala Minnola (Levanzo):
Sicilia Archeologica, 48 (1982), pp. 46-50; per quel che riguarda gli stabilimenti dell’Afri-
ca settentrionale cf. M. PONSICH - M. TARRADELL, op. cit. (supra nota 40). Un’attenta indagi-
ne territoriale costiera nell’area del Rio Guadalete ha permesso l’individuazione e la «ubi-
cación de pequeños núcleos industriales en esa zona y su número, en torno a 30 estableci-
mientos»: D. RUIZ MATA, La fundación de Gadir y el Castillo de Doña Blanca: Contrasta-
ción textual y arqueológica: Complutum, 10 (1999), pp. 302-303.
(44) P. BARTOLONI, I modelli insediativi, cit. (supra nota precedente); S. BARCA - F. DI
GREGORIO - C. FLORIS - M. MONTIS, Rilevamento e valutazione dei monumenti e delle aree
di rilevante interesse geologico e geomorfologico nei monti del Sulcis (Sardegna SO): L.
D’ARIENZO (ed.), Studi di Geografia e Storia in onore di Angela Terrosu Asole, Cagliari
1996, p. 292.
(45) Geologicamente l’isolotto fa parte del complesso dei rilievi vulcanici di Sarroch
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 163

torre spagnola e di altri resti di età bizantina: la particolare posizione ricorda


molto da vicino sia il paesaggio «precoloniale» fenicio che i «nidi» dei naviga-
tori micenei, come l’isolotto di Sa Tuerredda e l’Isola Rossa presso Teula-
da(46).
Seppure non si abbiano per Nora informazioni relative alla pesca del ton-
no per l’età fenicia e punica, non è escluso che questa attività facesse parte del-
l’economia cittadina assieme ad una produzione di sale permessa dai bacini
evaporanti che potevano crearsi nelle «aree lagunari» a ridosso della penisola
di Fradis Minoris e alla foce del Rio Pula. Una prima ricognizione sull’isola e
nelle acque antistanti ha portato al recupero di frammenti ceramici di difficile
attribuzione cronologica, dato lo stato di conservazione, che comunque dovreb-
bero collocarsi fra l’età tardo-punica e quella romana. La presenza a Nora di
moltissimi frammenti di anfore fenicie provenienti dagli scavi dell’abitato è si-
curamente una testimonianza dei traffici commerciali. Spesso, e in modo quasi
consequenziale, si è portati ad associare all’anfora l’olio o il vino, ma numerosi
rinvenimenti in Sardegna e nel resto del Mediterraneo tendono ad attenuare ta-
le «equazione»(47). Per il contenuto di queste anfore, quindi, oltre ad olio e vi-
no, per i quali il territorio di Nora non sembra avere le caratteristiche produtti-

di cui costituisce il prolungamento verso Sud e l’unico importante testimone in mare: cf.
nota precedente.
(46) P. BARTOLONI, Le più antiche rotte del Mediterraneo: Civiltà del Mediterraneo, 2
(1991), p. 13; ID. Le linee commerciali all’alba del primo millennio: I Fenici. Ieri oggi do-
mani. Ricerche, scoperte, progetti, Roma 1995, pp. 254-56.
(47) Sul contenuto delle anfore: P. BARTOLONI, Le anfore fenicie e puniche di Sarde-
gna (= StPu, 4), Roma 1988, p. 21; A.J. RAMON, Las ánforas fenico-púnicas del Mediterra-
neo central y occidental, Barcellona 1995, pp. 264-66, con riferimento alla bibliografia ci-
tata (in seguito A.J. RAMON, Las ánforas). È difficile dire se ci troviamo di fronte ad una
differenziazione dei tipi a secondo dei contenuti; sembrerebbe che il rivestimento interno
di resina nelle anfore possa essere associato al contenimento di vino, comunque la presen-
za della resina è indipendente dal tipo anforico. La difficoltà di associare il tipo anforico al
contenuto è maggiore in età antica, mentre per l’età punica si può individuare in alcune an-
fore di produzione iberica di III e II sec. a.C. i contenitori principalmente utilizzati per la
conserva del pesce: è questo il caso dei tipi Ramon T-9.1.1.1.; T-9.1.1.2. e T-9.1.2.1. al ri-
guardo ibid., pp. 226-28. Per i contenitori relativi alla conservazione del pescato cf. inoltre
A. MUÑOZ VICENTE - G. DE FRUTOS - N. BERRIATUA, Contribución a los orígines y diffusión
comercial de la industria pesquera y conservera gaditana a través de las recientes aporta-
ciones de las factorías de salazones de la Bahía de Cádiz: Actas del I Congreso Interna-
cional el Estrecho de Gibraltar, Madrid 1988, pp. 487-508. Per quel che riguarda la Sarde-
gna, nella maggior parte dei casi le anfore rinvenute contengono resti di carne bovine, ovi-
ne, pigne e nocciole: F. FANARI, Un’anfora contenente resina proveniente dal mare di Sul-
cis: QuadCagliari, 10 (1993), pp. 81-92, in particolare nota 38; per quel che riguarda Nora
possiamo ricordare il recupero, nelle acque antistanti, di anfore commerciali fenicie conte-
nenti resti macellati di carni bovine e ovine conservate entro vino: M. CASSIEN, Campagne
164 S. Finocchi

ve adatte(48), dobbiamo pensare alle derrate alimentari solide, in particolare al-


la carne e al pesce salato, ma anche ai cereali e al sale.

3.2. Risorse minerarie e materiali da costruzione

3.2.1. I metalli

Nel territorio in esame l’attività metallurgica dovette rappresentare, a par-


tire dall’età del Bronzo, un impegno per le popolazioni locali. Le naturali diffi-
coltà di raggiungimento del distretto minerario sulcitano hanno probabilmente
giocato a favore della ricerca e dello sfruttamento dei minerali locali. Oggetti
metallici sono presenti nel vicino nuraghe Antigori(49) e in un ripostiglio di
bronzi nuragici, contenente anche asce di tipo «iberico», databile al X sec. a.C.
circa, a M. Arrubiu(50); inoltre la presenza di gocce di rame e crogioli in pietra
dal nuraghe di Sa Domu ’e S’Orcu fa ipotizzare la presenza nell’area di «offi-
cine fusorie»(51). È probabile che per la produzione del bronzo venissero sfrut-
tati quei filoni superficiali di rame, non così ricchi da garantire rapporti con
l’esterno ma sufficienti almeno per una produzione locale, presenti nel territo-
rio e citati a più riprese da diversi viaggiatori (Fig. 5). Un filone di rame è se-
gnalato dal Cugia presso Sa Malesa(52), una località nel territorio di Sarroch; lo
stesso Autore segnala in località Perdo Pipia, nella vallata di Sa Stiddiosa, di-

de sauvetage 1980 sur le sites sous-marines de Nora-Pula, op. cit. (supra nota 19), pp.
76-84.
(48) Una interessante informazione è riportata da V. Angius in G. CASALIS, Diziona-
rio, p. 1030. Sotto la voce Vigneto, riferito a Pula egli sostiene: «Sono de’ luoghi attissimi
alle viti, ed è grande il numero delle vigne; tuttavolta perché poche sono le uve da mosto,
però la vendemmia non dà il necessario per la consumazione del paese, e devesi col prezzo
delle uve vendute a’ cagliaritani comperare da’ campidanesi quanto manca di vino per le
provviste particolari».
(49) F. LO SCHIAVO, Una reinterpretazione: modellino di nave in piombo da Antigori
(Sarroch, Cagliari): M. MARAZZI - S. TUSA - L. VAGNETTI (edd.), Traffici micenei nel Medi-
terraneo. Problemi storici e documentazione archeologica, Taranto 1986, pp. 193-97.
(50) Si tratta di un rilievo montuoso che divide a settentrione la piana di Nora da
quella di Sarroch. Per i rinvenimenti di bronzi cf. A. TARAMELLI (1926), Sarrock, scavi nel
nuraghe Sa Domu ‘e S’Orcu: Sardegna Archeologica, scavi e scoperte, IV 4 (1985), pp.
115-40; F. LO SCHIAVO - R. MADDIN - J. MERKEL - J.D. MUHLY - T. STECH, Analisi metallur-
giche e statistiche sui lingotti di rame della Sardegna: QuadSassari, (17) 1999, p.
34.
(51) A. UCCHEDDU, Le emergenze preistoriche della fascia costiera e pedemontana
dei territori di Sarroch, Villa San Pietro e Pula: QuadCagliari, (15) 1998, p. 110.
(52) P. CUGIA, Nuovo itinerario dell’isola di Sardegna, Ravenna 1892, p. 66 (in se-
guito P. CUGIA, Nuovo itinerario).
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 165

Fig. 5 - Metalli e miniere nel territorio di Nora secondo le fonti storiche.

verse vene di minerali: «La bella vallata di Sa Stiddiosa prestasi per lo studio
del calcare metallifero contenente piombo, ferro ossidato»(53) e sempre nel ter-
ritorio pulese, in località Perda Sterri, ricorda filoni eruttivi di ferro e «Miniere
di galena argentifera rattrovansi in regione Antiogu Lai, Perdu Carta, Sa Gala-
na e ferro anche in Su Fraizzu»(54).
Alcune indicazioni possono fornirci anche quelle miniere di ferro abban-
donate che si registrano nel retroterra pulese: quella di Perdu Carta, sul versan-
te nord-occidentale di Monte Santo, quella di Punta Sebera, nelle cui vicinanze
sorgeva il nuraghe Gangiu, quella in località Posta de Trobea, al confine tra i
territori di Pula e Domus de Maria, e quella presso il Monte Barone, nelle cui
vicinanze sorgeva il nuraghe Perdu Becciu. Inoltre, è di particolare interesse
segnalare nell’area tra Perdu Carta e il Monte Santo la presenza del toponimo
S’acqua ’e ferru. Un luogo di particolare importanza per l’estrazione del ferro è
la miniera di S. Leone, il maggiore giacimento dell’isola, nel territorio di Ca-

(53) Ibid., p. 175.


(54) Ibid.
166 S. Finocchi

poterra, in uso dal 1878 al 1888, raggiungibile dal territorio pulese attraverso la
vallata del Rio Gutturu Mannu: l’area mineraria conserva resti archeologici de-
finiti d’età romana(55).
L’importanza assunta dal ferro in questa regione della Sardegna sud-occi-
dentale è testimoniata dalle armi di ferro rinvenute nella necropoli fenicia della
vicina Bitia e pubblicate da M. Botto(56). Si tratta di ventidue esemplari (punte
di lancia, punte e talloni di giavellotto e pugnali) per i quali l’autore propone
una produzione isolana, sulla base della tipologia e su considerazioni di natura
topografica del centro: «la difesa di questi centri doveva essere organizzata lo-
calmente e non doveva dipendere dalla casualità di eventuali apporti ester-
ni»(57); possiamo aggiungere che la vicinanza dei filoni di ferro a Bitia, quali
quelli di Perda Sterri, Posta de Trobea e di Monte Santo (Fig. 5), può essere un
dato a vantaggio della produzione locale.
Si ricordano infine le vene di piombo presenti in zona; nella vallata di Sa
Stiddiosa(58), in località Spinalba presso Monte Sebera(59) e alle pendici del
Monte Santo, dove è ricordato uno scavo «antico» nella roccia per il reperi-
mento del materiale(60). Nello scavo del tofet di Nora si rinvennero quarantasei
oggetti plumbei(61) che G. Chiera, nella più recente disamina di questi materia-
li, colloca cronologicamente fra il III sec. a.C. e il I sec. d.C.(62). La Studiosa,
in fase di osservazioni sul centro produttore, ritiene «Rischioso dire se a Nora
si fabbricassero oggetti del genere qui esaminato: è un fatto che, tra tutti i cen-
tri fenici, Nora sia il più generoso nel numero dei rinvenimenti»(63); simili con-
siderazioni possono farsi riguardo agli oggetti in bronzo e in ferro, numerica-

(55) S. BARCA ET ALII, Rilevamento e valutazione dei monumenti e delle aree di rile-
vante interesse geologico e geomorfologico nei monti del Sulcis (Sardegna SO), cit. (supra
nota 44), p. 246. Sempre presso Capoterra bisogna ricordare il rinvenimento di una grande
quantità di metallo, di cui rimane un singolo frammento di lingotto ox-hide, rinvenuto nel
corso di lavori agricoli: F. LO SCHIAVO ET ALII, Analisi metallurgiche e statistiche sui lin-
gotti di rame della Sardegna, cit. (supra nota 50), p. 30.
(56) M. BOTTO, Le armi: P. BARTOLONI, La necropoli di Bitia-I, op. cit. (supra nota
15), pp. 137-44.
(57) Ibid., p. 144.
(58) P. CUGIA, Nuovo itinerario, p. 175.
(59) V. Angius in G. CASALIS, Dizionario, p. 1023.
(60) Ibid., p. 1024: «Un’altra consimile vena di piombo solforato argentifero trovasi
nella pendice di Montesanto sotto il più alto gioco, a metri 629.11 sul livello del mare, do-
ve fu fatta dagli antichi una escavazione nella roccia calcarea sovraposta al grani-
to».
(61) F. VIVANET, Nora. Scavi nella necropoli dell’antica Nora nel comune di Pula,
cit. (supra nota 2), pp. 299-302.
(62) G. CHIERA, Testimonianze su Nora (= CSF, 11), Roma 1978, p. 140.
(63) Ibid., p. 140.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 167

mente inferiori ai piombi, «gli elementi di giudizio sono generici sicché tutte le
soluzioni paiono possibili, tanto in merito a una produzione locale quanto in
rapporto a un acquisto da altri siti, sardi e non»(64). I recenti scavi condotti nel
sito hanno portato all’individuazione, nell’area del Macellum, di strutture col-
legate ad un’attività produttiva e artigianale, testimoniata da una notevole
quantità di scorie metallurgiche, scorie di vetro e nuclei di argilla associati a
fasi di vita della seconda metà-fine II sec. a.C.(65). Un’altra area «industriale» è
stata riconosciuta presso le pendici nord-occidentali della collina di Tanit; an-
che in questo caso abbondanti scorie metalliche, tra cui scarti di lavorazione
del rame, sono associati a fasi di vita del III-II sec. a.C., ma l’area è interessata
da un potente bacino stratigrafico che ha già documentato, in altri settori dello
scavo, livelli di vita d’età punica e fenicia(66). L’individuazione di queste aree
di produzione riduce in parte i dubbi circa la produzione locale degli oggetti in
metallo rinvenuti a Nora.
Naturalmente la presenza di mineralizzazioni a cielo aperto non indica
tout court uno sfruttamento in antico delle stesse. La capacità di trasformare i
minerali dallo stato naturale al prodotto finito è infatti un processo che richiede
notevoli conoscenze tecniche(67). Purtroppo, le aree del territorio di Nora inte-
ressate da mineralizzazioni al momento non hanno restituito tracce di estrazio-
ne in epoca antica: andrà comunque osservato che nel caso di coltivazioni
«strutturate» (gallerie, pozzi, ecc.) la continuità nello sfruttamento delle minie-
re in epoca recente (miniere di: Perdu Becciu, Perdu Carta, Antiogu Lai, Posta
de Trobea) potrebbe aver cancellato le tracce delle coltivazioni più anti-
che.

(64) Ibid., pp. 144-45.


(65) P. FENU, Area «D»: le fasi ante Macellum: Ricerche su Nora – I, pp.
105-21.
(66) B.M. GIANNATTASIO, L’area C di Nora, ovvero uno spazio aperto: ibid., pp. 77-
94; i livelli di vita d’età fenicia sono stati individuati nel corso della campagna 2000 e so-
no attualmente in corso di studio. Ringrazio la prof.ssa Bianca Maria Giannattasio per
avermi messo a disposizione lo studio del materiale fenicio e punico proveniente dallo
scavo dell’Area C.
(67) I cicli produttivi legati ai metalli si compongono di diverse fasi: il riconosci-
mento dei minerali (il modo più semplice è dato dalla pesantezza e dalla lucentezza metal-
lica dei nuclei); il reperimento (nelle formazioni più semplici si riscontrano nuclei di mi-
neralizzazioni che potevano essere immediatamente lavorati, in quelle più complesse c’era
bisogno di estrazioni in galleria); la cottura del minerale (che doveva essere controllata per
evitare la perdita degli ossidi) e la riduzione dei vari componenti al fine di ottenere un me-
tallo depurato. Al riguardo cf. T. MANNONI - E. GIANNICHEDDA, Archeologia della produzio-
ne, Torino 1996, pp. 66-69, 71-74, 92-97; C. GIARDINO, Sfruttamento minerario e metallur-
gia nella Sardegna protostorica: M.S. BALMUTH (ed.), Studies in Sardinian Archaeology,
III (= BAR, Int. Ser., 387), Oxford 1987, pp. 203-204.
168 S. Finocchi

Fig. 6 - Frammenti protostorici dal sito di Canale Peppino; a-c: teste di mazza, d-h: fram-
menti ceramici protostorici.

Al fine di ricavare informazioni sulle tecniche estrattive e di lavorazione


può essere interessante esaminare una classe di oggetti rinvenuta nel territorio
di Nora. Si tratta delle teste di mazza con foro centrale rinvenute in abbondan-
za nel sito dell’età del Ferro di Canale Peppino (Fig. 6). In altre aree della Sar-
degna il rinvenimento di questi oggetti è stato associato alla frantumazione dei
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 169

minerali, in particolare piombiferi. Si tratta di un’operazione che permetteva di


eliminare la roccia superflua prima di effettuarne la cottura(68). È possibile che
anche nel nostro caso le teste di mazza possano aver svolto un ruolo
simile.
In conclusione, la presenza di minerali e di oggetti rapportabili a fasi di
lavorazioni metallurgiche ci può far pensare ad una attività metallurgica «di-
retta» nella città di Nora, che sfrutta cioè le risorse minerarie del proprio retro-
terra. Una produzione forse già in uso in epoca protostorica operata dalle popo-
lazioni locali e che continua durante l’età del Ferro: probabilmente il controllo
e il reperimento dei metalli rimane nelle mani delle popolazioni locali, mentre
è possibile che già da età fenicia si inizi una produzione nell’area cittadina che
continuerà poi in età punica e tardo-punica.

3.2.2. I materiali da costruzione

Fra le altre materie presenti sul territorio, particolare interesse rivestono i


materiali litoidi utilizzati sia nella realizzazione delle opere pubbliche e priva-
te di Nora fenicia e punica, sia per l’attività artigianale della lavorazione della
pietra, che porta all’ampia produzione delle stele. Non abbiamo documenti
scritti che ci indichino i modi o le forme del recupero di tali materiali nel terri-
torio per le fasi che stiamo analizzando. Sia per l’architettura quanto per l’arti-
gianato sembrano essere sfruttati quei materiali litoidi che caratterizzano il
promontorio di Nora e costituiscono tutti i rilievi che insistono sulla piana allu-
vionale circostante la città: le arenarie «tirreniane»; le vulcaniti e le cosiddette
arenarie della «formazione del Cixerri».
Nel corso della ricerca una particolare attenzione è stata posta all’indivi-
duazione di quelle aree che potevano rappresentare delle probabili cave: inten-
sivamente investigate, alcune di esse si sono dimostrate particolarmente inte-
ressanti, grazie all’associazione con siti ai quali probabilmente facevano riferi-
mento(69). Cave per l’estrazione di materiali da costruzione sono state indivi-
duate nel territorio occidentale in località Azienda Farina e Sa Perdera; più vi-

(68) A proposito delle teste di mazza associate alla frantumazione del minerale, rin-
venute nell’Iglesiente presso Rosas e Narcao e pubblicati da A. Taramelli: ibid., p.
197.
(69) Dal momento che le aree di estrazione di questi materiali sono state recente-
mente analizzate in diversi articoli, ad essi si rimanda per le caratteristiche topografiche
dei giacimenti e per le tecniche d’estrazione: S. FINOCCHI, La laguna e l’antico porto di
Nora, pp. 188-89; ID., Nuovi dati su Nora fenicia e punica: Ricerche su Nora – I, pp. 288-
89; M. BOTTO - S. FINOCCHI - M. RENDELI, Nora-VI. Prospezione a Nora 1994-1996: Quad-
Cagliari, 15 (1998), p. 215.
170 S. Finocchi

Fig. 7 - Le vie per il reperimento delle materie prime.

cine alla città di Nora sono le cave che sfruttano la penisola di Fradis Minoris e
la linea di costa nord-orientale del promontorio della città, nei pressi dell’at-
tuale ingresso agli scavi (Fig. 7; Tav. III).
Se queste cave sono, come sembra, utilizzate per le costruzioni cittadine
risulta fondamentale stabilire le fasi delle prime estrazioni(70). Generalmente
lo sfruttamento intensivo delle cave d’arenaria è datato ad iniziare dal IV sec.

(70) Ringrazio l’amica Susanna Melis per la disponibilità ai chiarimenti di natura


geomorfologica e ai continui sopralluoghi nelle suddette cave. È grazie alla sua collabora-
zione, iniziata nel 1993 quale geomorfologa nel progetto di ricognizione, che si è potuto
iniziare uno studio geomorfologico del territorio avendo presente le esigenze archeologi-
che. Recenti analisi dei materiali lapidei usati nella costruzione del teatro romano di Nora,
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 171

a.C., data alla quale si riporta l’utilizzazione delle cave della costa sud-occi-
dentale della Sardegna, in particolare quelle situate tra Matzacara e Paringianu,
ampiamente utilizzate per le costruzioni dell’abitato ellenistico di Monte Si-
rai(71). Diversi conci in arenaria, macroscopicamente simile a quella delle cave
individuate, sono presenti in alcune strutture norensi databili ad età fenicia e
punica. Tale attestazione, se da un lato non certifica lo sfruttamento sistemati-
co delle aree di estrazione, dall’altro fa riflettere sulla possibilità dell’utilizza-
zione di questo materiale già in età antica. In particolare, i blocchi d’arenaria
presenti nell’area F e nell’area P sono impiegati in strutture murarie databili
sulla base della sequenza stratigrafica nel corso del VI sec. a.C.(72).
Un’utile indicazione cronologica riguardo allo sfruttamento delle cave ci
viene anche dall’analisi delle stele. Per la maggior parte di esse è stata utilizza-
ta arenaria quaternaria, comunemente nota come «panchina», terziaria e arena-
ria grigia, presente nelle cave individuate; mentre un ulteriore gruppo è realiz-

effettuate con analisi al microscopio e chimiche, hanno dimostrato che i materiali utilizza-
ti, tranne qualche blocco costituito da marne provenienti con ogni probabilità dalle colline
di Cagliari, provengono dalle cave di Sa Perdera e di Fradis Minoris: S. MELIS - S. COLOM-
BU, Matériaux de consctruction d’époque romaine et relation avec les anciennes carrières:
l’exemple du théâtre de Nora (Sardaigne SO - Italie): La pierre dans la ville antique et
medievale, Argenton-sur-Creuse 30-31 marzo 1998, pp. 104-17. Il contenuto mineralogico
e quello microfossilifero riscontrato nei 50 blocchi di arenarie «tirreninane» campionati ne
danno una provenienza certa dalla cava di Fradis Minoris; l’analisi delle sezioni sottili per
le arenarie della «Formazione del Cixerri» ha individuato una composizione e un susse-
guirsi delle fasi mineralogiche identiche a quelle della cava di «Sa Perdera»; la campiona-
tura è stata eseguita in modo sistematico seguendo i profili verticali (lungo l’affioramento)
e le variazioni orizzontali della roccia. Le arenarie «tirreniane» sono state riscontrate pres-
so il porticus post scaenam, i vomitoria e l’emiciclo esterno; le arenarie del «Cixerri» in
alcune parti della cavea e in blocchi di rincalzo o di rimpiazzo della stessa. Attualmente
sono in corso delle analisi chimiche e fisiche sui blocchi di arenaria utilizzati nelle costru-
zioni d’età fenicia di Nora.
(71) P. BARTOLONI - S.F. BONDÌ - S. MOSCATI, La penetrazione fenicia e punica, pp.
84, 90.
(72) Per quel che riguarda la documentazione archeologica nell’area F, cf. I. OGGIA-
NO, Nora VI. Lo scavo: area F: QuadCagliari, 15 (1998), pp. 190-201; ID., L’area F di No-
ra: un’area sacra sul promontorio del Coltellazzo: Ricerche su Nora – I, pp. 212-41. Per
quel che riguarda la documentazione archeologica nell’area P cf. J. BONETTO - M. NOVELLO,
Il foro romano (area «P»): ibid., pp. 183-195; J. BONETTO - A.R. GHIOTTO - M. NOVELLO,
Nora-VII. Il foro romano (area «P»). Campagne 1997-1998. QuadCagliari, 17 (2000), pp.
173-208; A.R. GHIOTTO - M. NOVELLO, Nora-VIII. Il foro romano (area «P»). Campagna
1999: QuadCagliari, 19 (2002), in stampa; J. BONETTO, Nora municipio romano: Atti del
XIV Convegno Internazionale di Studi su «L’Africa Romana» (Sassari, 7-10 dicembre
2000), in stampa.
172 S. Finocchi

zato in calcare tramezzario(73). Se per l’arenaria conosciamo gli affioramenti, e


probabilmente la vicinanza all’area urbana ne facilitava lo sfruttamento già da
età fenicia, diversa è la situazione del calcare tramezzario: questo è presente
nella provincia di Cagliari e quindi doveva essere trasportato. Poiché tale grup-
po di stele è databile fra il VI e il IV sec. a.C.(74), doveva esistere una organiz-
zazione nella gestione (reperimento e ridistribuzione) della materia prima
coordinata dal centro urbano ad iniziare almeno dalla prima età puni-
ca(75).
Per concludere, dobbiamo segnalare due aree di cava di andesite, roccia
vulcanica molto più resistente dell’arenaria e utilizzata sin da epoca nuragica
nelle costruzioni di Nora e del suo territorio. Un piccolo fronte di cava è visibi-
le in località S’arcu ’e Mussara, sulle pendici delle alture di Sarroch, utilizzato
per la costruzione della struttura nuragica NR99-R 50/51.4 e sfruttato a cielo
aperto realizzando il distacco dei blocchi, a gradoni secondo le naturali linee di
frattura. Un ulteriore fronte di cava è rappresentato dalle lave andesitiche che
costituiscono il promontorio del Coltellazzo a Nora(76). I blocchi estratti da
quest’area sono probabilmente stati utilizzati nelle costruzioni della città (Fig.
7).

4. I SITI FENICI E PUNICI: LA DOCUMENTAZIONE MATERIALE

4.1. Età fenicia (Fig. 8)

Fin dall’inizio delle ricerche la città di Nora è stata oggetto delle campa-
gne di prospezione topografica. Il rinvenimento di alcuni frammenti di anfore,

(73) S. MOSCATI - M.L. UBERTI, Le stele puniche di Nora (= SS, 35), Roma 1970, p.
19.
(74) Ibid., pp. 43-45; G. Chiera propone di abbassare la cronologia del tofet di Nora
fra il III sec. a.C. e il I sec. d.C.: G. CHIERA, Testimonianze su Nora, op. cit. (supra nota
62), p. 140, nota 52.
(75) La distanza delle cave dal centro urbano non è mai stata preclusiva dell’approv-
vigionamento del materiale, come è ben testimoniato dal caso di Cartagine. L’arenaria uti-
lizzata per le stele di Cartagine (I gruppo: VII-VI sec. a.C.; II gruppo: V-II sec. a.C.) pro-
viene dalle cave di Dagla ed El-Haouaria. Queste cave sono situate sulla costa nord-occi-
dentale del Capo Bon, distanti dalla metropoli nord-africana circa 60 km: P. BARTOLONI, Le
stele arcaiche del tofet di Cartagine (= CSF, 8), Roma 1976, pp. 19-20.
(76) Riguardo agli elementi geologici del promontorio di Nora: F. DI GREGORIO - C.
FLORIS - P. MATTA, Lineamenti geologici e geomorfologici della Penisola di Nora: Ricer-
che su Nora-I, pp. 9-16; per quanto riguarda il territorio: M. BOTTO - S. MELIS - M. RENDELI,
Nora e il suo territorio, cit. (supra nota 12) pp. 255-57.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 173

Fig. 8 - Il territorio di Nora in età fenicia.

piatti e tazze in red slip databili fra la seconda metà dell’VIII e la metà del VII
sec. a.C.(77) rappresenta una conferma dell’antichità della fondazione fenicia di
Nora ricordata dalle fonti classiche (Pausania, X, 17, 5) (Fig. 9). Frammenti
vascolari fenici si trovano anche in aree poste immediatamente al di là dell’ist-
mo (NR98-R 1.9; NR92-R 1.8) e sul versante settentrionale della laguna
(NR92-R 2.1; NR92-R 5.10), in una zona che possiamo ritenere integrata all’a-

(77) M. BOTTO - M. RENDELI, Nora-II. Prospezione a Nora 1992, cit. (supra nota 12),
pp. 162-63; S. FINOCCHI, Nuovi dati su Nora fenicia e punica, cit. (supra nota 69), pp. 285-
86, 289.
174 S. Finocchi

Fig. 9 - Ceramica fenicia proveniente da Nora.

rea urbana e da mettere verosimilmente in relazione al vicino impianto portua-


le(78) (Figg. 8, 10).

(78) ID., La laguna e l’antico porto di Nora, pp. 171-80.


Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 175

Fig. 10 - Ceramica d’età fenicia proveniente dal territorio di Nora.

Nel territorio l’età fenicia è documentata da materiali che dalla seconda


metà del VII sec. a.C. raggiungono gli inizi del VI sec. a.C. Un’area di frequen-
tazione doveva essere collocata sulla vetta di Monte Santa Vittoria (NR93-R
4/11.8) (Fig. 8), dove una serie di rinvenimenti in una zona precedentemente
occupata da un nuraghe farebbe pensare ad una postazione fenicia di controllo
176 S. Finocchi

territoriale. Da quest’area proviene un singolo frammento d’anfora del tipo Ra-


mon T-2.1.1.2.(79), databile fra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C. (Fig.
10). Un altro «sito» è posto in località San Raimondo (NR 93-R 14.11) (Fig. 8),
in un’area interessata da recenti interventi edilizi che hanno portato alla luce
resti di murature pertinenti ad una villa romana. Tra i materiali fittili recuperati
è di particolare interesse un frammento d’anfora del tipo Ramon T-2.1.1.2.(80)
(Fig. 10).
Queste sono le uniche testimonianze fenicie nel territorio di Nora circo-
scritto entro un raggio di 2 km. Tali evidenze documentano l’interesse della cit-
tà per un territorio limitato alle aree immediatamente prospicienti l’impianto
urbano, in grado di garantire il sostentamento della ridotta popolazione. L’oc-
cupazione fenicia dei terreni retrostanti al porto è funzionale alle attività di ca-
rattere commerciale/artigianale e di sfruttamento agricolo; in località S. Rai-
mondo è possibile riconoscere la più profonda penetrazione agricola; nel Mon-
te Santa Vittoria è facile individuare un caposaldo per il controllo marino e ter-
ritoriale collegato visivamente alla città(81).
Il paesaggio fenicio si sostanzia quindi in uno sfruttamento dell’hinter-
land limitato alle zone immediatamente circostanti la città. La ragione di que-
sta situazione andrà ricercata nella natura commerciale della fondazione di No-
ra che, inserita in un più vasto sistema di traffici marittimi con gli altri centri
della Sardegna sud-occidentale e del Mediterraneo occidentale, poteva fare a
meno di una forma di sfruttamento complesso del territorio(82). Non si intende
qui negare l’importanza dello sfruttamento agricolo nelle prime fasi di vita del-
la colonia, ma certamente, in questa fase, non si è ancora dinanzi ad un paesag-

(79) Si tratta del frammento NR5 in M. BOTTO, Inquadramento archeologico dei ma-
teriali: M. BOTTO - A. DERIU - D. NEGRI - M. ODDONE - P. PALLECCHI - R. SEGNAN, Caratte-
rizzazione di ceramiche fenicie e puniche mediante spettroscopia Mössbauer, in corso di
stampa. Per la datazione del tipo: A.J. RAMON, Las ánforas, p. 178.
(80) Cf. nota precedente.
(81) La vicinanza di questo insediamento all’isola di S. Macario potrebbe far pensare
anche ad un controllo marino legato alla pesca. In un passo di Filostrato, a proposito della
pesca del tonno, si ricorda che il modo migliore per sorvegliare il passaggio dei branchi è
quello dell’uomo che dall’alto di un promontorio, una volta avvistati, irrompe sul gruppo
con le barche sbarrando loro il cammino e una volta distese le reti inizia la mattanza
(&h́ra): FILOSTRATO, Imag., I, 13; al riguardo cf. inoltre: R. MARTIN - P. PELAGATTI - G. VAL-
LET, Alcune osservazioni sulla cultura materiale. Città e mare: E. GABBA - G. VALLET
(edd.), La Sicilia antica. I, 2. Le città greche di Sicilia, Napoli 1979, pp. 437-39.
(82) P. BARTOLONI - C. TRONCHETTI, La necropoli di Nora, op. cit. (supra nota 14), p.
19; S. F. BONDÌ, La colonizzazione fenicia: AA. VV., Storia dei Sardi e della Sardegna. I.
La Sardegna dalle origini alla fine dell’età bizantina, Milano 1988, pp. 160-62, in genera-
le per quanto riguarda il ruolo della Sardegna nel commercio mediterraneo si vedano le pp.
165-68.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 177

gio agrario dell’hinterland strutturato e organizzato. Tale situazione si verifi-


cherà solo con l’intervento di Cartagine, in linea con quanto attestato anche per
le altre regioni della Sardegna(83). Per tutta la fase fenicia, quindi, la città di-
mostra un limitato sfruttamento agricolo del territorio, mentre intensi risultano
i commerci transmarini e le attività produttive legate allo sfruttamento del-
l’ambiente marino. Inserite in questo contesto, le ceramiche fenicie presenti in
alcuni siti nuragici dell’estremo settore settentrionale potrebbero testimoniare
più che una volontà di sfruttamento territoriale, gli scambi tra Fenici e popola-
zioni locali.
Si fa riferimento ai siti che si trovano nel territorio caratterizzato dalle
pendici meridionali del sistema montuoso che divide la piana di Nora da quella
di Sarroch. Qui è stato individuato l’insediamento di Canale Peppino (NR96-R
58.5) (Fig. 8), dove in un tratto della carrareccia utilizzata dai pastori della vi-
cina Fattoria Perd ’e Sali, si possono leggere sul terreno tracce di alcuni lacerti
murari ai quali sono associati numerosi reperti ceramici e intonaci di capan-
na(84). I materiali recuperati sono inquadrabili cronologicamente fra l’età del
Bronzo Recente-Finale e l’età del Ferro; si segnala la presenza nel sito di due
frammenti di anfora del tipo Ramon T-2.1.1.2. (Fig. 10).
Questo territorio è limitato ad occidente da un piccolo sistema collinare
posto a Sud-Est delle colline di Sarroch dove particolare importanza assumono
i rilievi di Guardia Mussara e S’Arcu ’e Mussara. Guardia Mussara, una collina
posta a quota 117 m s.l.m., è l’altura principale e rappresenta il centro del siste-
ma limitato a Ovest dal Rio ’e su Spagnolu e a Est da un altro ruscello quasi
sempre completamente in secca. Le pendici non sono scoscese e la sommità, di
natura andesitica, è sufficientemente ampia da formare un piccolo pianoro per
ospitare un nuraghe (NR96-R 49.3)(85) (Fig. 1). In diretta relazione con il nura-

(83) P. BARTOLONI - S.F. BONDÌ - S. MOSCATI, La penetrazione fenicia e punica, pp.


73-77, 81-92; P. VAN DOMMELEN, Colonial Constructs: Colonialism and Archaeology in the
Mediterranean: World Archaeology, 28, 3(1997), pp. 305-23, in particolare per la presenza
cartaginese nella Sardegna centro-occidentale vedi le pp. 313-18.
(84) Si tratta della cresta di un muro circolare al quale si affianca poco più a Nord
un’area delimitata da un muro di forma subcircolare con andamento Ovest-Est, visibile per
una lunghezza di circa m 4. In prossimità di questo muro, sul limite orientale della carra-
reccia, è presente una struttura muraria con andamento Nord-Sud, visibile per una lun-
ghezza di circa m 2.80. I due muri sono realizzati con blocchi andesitici di medie dimen-
sioni posti in opera a secco, e sembrerebbero elementi di una medesima struttura di forma
circolare. A Sud-Ovest, ad una distanza di circa m 5 è documentata un’area circolare del
diametro di circa m 2 completamente cosparsa di frammenti d’intonaco d’argilla.
(85) Il limite meridionale del pianoro durante l’età del Bronzo Recente o Finale fu
probabilmente interessato dalla presenza di un nuraghe che oggi risulta quasi completa-
mente distrutto e obliterato da moderne costruzioni. Rimangono sparsi su tutta l’area nu-
178 S. Finocchi

ghe di Guardia Mussara è probabilmente il sito NR99-R 50/51.4 posto sulla


sommità del piccolo pianoro di S’Arcu ’e Mussara, immediatamente a Sud del
rilievo principale, a quota 88 m s.l.m. (Fig. 8). Nonostante la fitta vegetazione
spontanea, è visibile parte di una struttura ellissoidale provvista di due nicchie
sub-rettangolari lungo il lato occidentale(86), recentemente catalogata(87). Nel-
l’area sono stati recuperati numerosi frammenti di scorie di lavorazione, di
grandi grumi d’argilla concotti e di nuclei di minerale ferroso che farebbero
pensare alla presenza in loco di una struttura artigianale. Numerosi sono stati
anche i frammenti ceramici recuperati, riferibili per lo più all’età del Bronzo.
Particolare interesse presenta il rinvenimento di due frammenti di anfora, tor-
niti, a spalla carenata di tipo orientale (VII sec. a.C.) assieme ad orli d’anfora,
realizzati in ceramica non tornita, che imitano quelli delle più antiche anfore
fenicie (T- 3.1.1.1. e T-3.1.1.2.)(88) (Fig. 10). Ricordiamo, inoltre, che nella
piccola valle che separa i due rilievi è stata individuata una presenza naturale
d’argilla probabilmente utilizzata per la fabbricazione del repertorio vascolare
trovato in situ.
Tali testimonianze risulteranno di più agevole comprensione se facciamo
una piccola premessa riguardo alla documentazione d’età pre-fenicia. Il pro-
montorio di Nora ha restituito in diverse occasioni testimonianze materiali re-
lative ad una frequentazione dell’area già dall’età del Bronzo e del Ferro, ma
non siamo in grado di affermare né l’entità né la collocazione dell’insediamen-
to indigeno(89). Dei siti nuragici individuati nel territorio, sia occidentale sia
settentrionale, nessuno offre testimonianze di continuità tra la fase protostorica

merosi conci informi d’andesite che dovevano formare la struttura. Sempre sulla propaggi-
ne meridionale del pianoro e sulle sue pendici terrazzate orientali sono stati raccolti fram-
menti ceramici protostorici e romani, spia questi ultimi di un possibile sito che ha sfruttato
la preesistente struttura nuragica.
(86) Il paramento interno della struttura è visibile per almeno tre filari per un’altezza
di circa 0.80 m, mentre quello esterno non è visibile perché parzialmente crollato. Anche
l’aspetto geologico di quest’area è molto importante: gli affioramenti di roccia sono carat-
terizzati da una sovrapposizione tra andesite e arenaria, che rende il materiale facilmente
lavorabile. A conferma di ciò, sul versante sud-occidentale, è ben visibile un fronte di cava
probabilmente utilizzato per la realizzazione della struttura.
(87) A. UCCHEDDU, Le emergenze preistoriche della fascia costiera e pedemontana
dei territori di Sarroch, Villa San Pietrro e Pula, cit. (supra nota 51).
(88) A.J. RAMON, Las ánforas, pp. 180-82, 155-56, 242-43, figg. 30-31.
(89) Per i resti del nuraghe sul colle di «Tanit», i materiali nuragici rinvenuti presso
la torre del Coltellazzo e alcuni frammenti di ceramica d’impasto, di provenienza laziale,
attribuibili ad un’anforetta costolata e ad un’anforetta a doppia spirale, cf. P. BERNARDINI,
La Sardegna e i Fenici. Appunti sulla colonizzazione: RivStFen, 21, 1 (1993), p. 58; M.
BOTTO - M. RENDELI, Progetto Nora, pp. 721, 732.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 179

e quella storica(90). L’unico distretto a testimoniare una continuità di vita è


quello posto tra Canale Peppino ad Ovest, le montagne di Sarroch a Nord e le
alture di Guardia e S’Arcu ’e Mussara ad Est. Da questo settore sono stati recu-
perati due interessanti frammenti ceramici. Si tratta di un esemplare di sicura
importazione micenea e di un prodotto locale di imitazione micenea, prove-
nienti dal nuraghe Is Baccas, che si associano a quelli provenienti dal macel-
lum di Nora, dal nuraghe Antigori, dal nuraghe di sa Domu ’e s’Orku e dalla
tomba di giganti in località Perda ’e Accuzzai di Villa San Pietro, nonché ai
bronzi «iberici» di M. Arrubiu e che inducono a riflettere sui traffici commer-
ciali che interessano sia il territorio sia la città in un momento precedente la
fondazione della colonia fenicia(91).
Abbiamo già evidenziato l’importanza di questi rinvenimenti in funzione
del valore strategico ed economico del territorio (reperimento dei metalli), ma
ora possiamo attribuirgli anche un valore di «fertilità culturale». È in quest’a-
rea che si colgono i segni di una continuità ed evoluzione culturale tra l’età del
Bronzo e l’età del Ferro ed è in quest’area che troviamo i segni del contatto tra
la popolazione locale e i Fenici. Qui, dove la cultura nuragica presenta ancora
forme e modelli d’occupazione del territorio più radicati, in relazione al reperi-
mento di materie prime metalliche, il contatto tra le due realtà si manifesta da
un lato attraverso forme ceramiche di produzione fenicia come le anfore, indi-
catori di scambi commerciali diretti, e dall’altro tramite l’imitazione di forme
vascolari fenicie e orientali che testimoniano contatti continuati nel tem-
po.
Tali rinvenimenti non sono quindi testimonianze di un controllo territoria-

(90) Non dobbiamo dimenticare le difficoltà nel riconoscere il processo di trasforma-


zione dall’età del Bronzo all’età del Ferro. Infatti, lo studio dei repertori vascolari non è
ancora definito con chiarezza e ciò non consente di cogliere pienamente le relazioni fra la
popolazione locale e i Fenici durante la più antica fase coloniale. Al riguardo: P. BARTOLO-
NI, Studi sulla ceramica fenicia e punica di Sardegna (= CSF, 15), Roma 1983, pp. 58-60;
M. BOTTO - M. RENDELI, Progetto Nora, p. 733, in particolare nota 42; un significativo
esempio dei rapporti fra cultura nuragica e cultura fenicia è rappresentato da S. Imbenia: I.
OGGIANO, La ceramica fenicia di S. Imbenia (Alghero-SS): P. BARTOLONI - L. CAMPANELLA
(edd.), La ceramica fenicia di Sardegna. Dati, problematiche e confronti. Atti del Primo
Congresso Internazionale Sulcitano (Sant’Antioco, 19-21 settembre 1997), Roma 2000,
pp. 235-58.
(91) Per i frammenti micenei provenienti da Is Baccas cf. M. BOTTO - M. RENDELI,
Progetto Nora, pp. 723-26, figg. 6-7; per i frammenti micenei provenienti dal Macellum di
Nora: C. ROSSIGNOLI – M.T. LACHIN – S. BULLO, Nora-III. Lo Scavo. Area D (Macellum):
QuadCagliari, 11 (1994), p. 227; per i frammenti micenei da Perda ’e Accuzzai cf. D.
COCCO – L. USAI, Tomba megalitica in località Perda ’e Accuzzai (Villa S. Pietro): Selar-
gius... pp. 187-99; per quel che riguarda i reperti del nuraghe Antigori, sa Domu ’e s’Orku
e M. Arrubiu cf. infra.
180 S. Finocchi

Fig. 11 - Il territorio di Nora in età punica.

le, ma di esclusivi rapporti commerciali: la città di Nora intratteneva relazioni


con la popolazione locale per partecipare allo sfruttamento delle risorse. Prima
dell’arrivo dei Fenici lo sfruttamento e il controllo dei prodotti minerari di Pula
e Sarroch erano nelle mani degli indigeni, con l’arrivo dei Fenici il controllo e
il commercio di tali beni rimane parimenti nelle mani delle popolazioni locali:
possiamo pensare ai siti nuragici dell’età del Ferro del settore settentrionale
come a centri di ridistribuzione dei «prodotti» minerari che traggono vantaggio
dalle attività commerciali che si sviluppano con i mercanti fenici.

4.2. Età punica (Fig. 11)

Si registra una totale assenza d’insediamenti per la prima fase punica; i


Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 181

Fig. 12 - Ceramica punica proveniente dal territorio di Nora.

dati divengono decisamente più consistenti nel V e soprattutto nel IV sec. a.C.,
quando si assiste ad un progressivo aumento del numero degli insediamenti
nelle aree pianeggianti e coltivabili. Dalla seconda metà del IV sec. a.C. queste
aree subiscono uno sfruttamento sistematico testimoniato dalla presenza di
strutture stabili. L’organizzazione del popolamento non segue modelli presta-
182 S. Finocchi

biliti, ma si adatta alla natura del territorio: si riscontra la tendenza dei siti a di-
sporsi sulla sommità di pianori tabulari. In questa fase, pur mantenendosi vivo
un forte interesse per l’area cittadina e portuale, che vive un momento di ulte-
riore e notevole sviluppo, si riscontra per la prima volta un marcato intervento
della città nello sfruttamento organizzato del territorio (Fig. 12).
Mentre per l’età fenicia i siti si dispongono entro un raggio di pochi chilo-
metri dall’area urbana, per l’età punica si definiscono due aree di interesse:
quella a Nord del Rio Pula e quella occidentale, che raggiunge le pendici del
complesso montuoso sulcitano (Fig. 11). Nel settore settentrionale si ravvisa la
tendenza dei siti a concentrarsi nelle aree più fertili da un punto di vista agrico-
lo, a testimonianza di un’organizzazione di gestione del territorio per piccole e
autonome entità rurali dotate anche di indipendenti zone di sepoltura, come te-
stimonierebbe l’area necropolare individuata alle pendici di Guardia Mussara
databile fra il III e il II sec. a.C. (NR96-51.1) (Fig. 1). Dalla seconda metà del
IV fino al II-I sec. a.C. si manifestano due nuclei di maggiore concentrazione
delle presenze: le aree dei quadrati NRR 16-19 e quelle dei quadrati NRR 51-
58-60. Particolare importanza assume il sito che sfrutta il precedente nuraghe
di Canale Peppino, dove è stato rinvenuto un discreto numero di materiale: al-
cuni frammenti d’anfora dei tipi Ramon T-1.4.4.1., T-4.1.1.4., T-5.1.1.1. e T-
5.2.1.3.(92) e di ceramica comune punica indicano una frequentazione e uno
sfruttamento della zona dalla prima metà del IV secolo fino a tutto il II secolo
a.C. (Fig. 13). Si tratta di un territorio il cui confine occidentale e meridionale è
rappresentato dal Rio Pula, quello orientale dal mare e quello settentrionale
dalle pendici dei rilievi montuosi di Sarroch.
Un’area provvista di circa tre chilometri di costa e che nella zona centrale,
compresa tra Punta Furcadizzu a Sud e Punta Perd’e Sali a Nord, è interessata
da un piccolo golfo naturale (Fig. 11). Si tratta di un settore completamente
perso per la ricerca archeologica dopo la destinazione dell’area a centro resi-
denziale. L’interesse archeologico di questa regione costiera è ulteriormente
testimoniato da alcune presenze nuragiche: il nuraghe di Punta Furcadizzu, al
limite meridionale del golfo, quello di Porto Columbu, in posizione centrale, e
il nuraghe di Guardia sa Mendula a Nord. La zona è caratterizzata da terreni al-
luvionali che si sostituiscono alla costa rocciosa, mentre il fondo marino è per
lo più sabbioso e fangoso. Questo tratto di mare, esposto al vento di levante e
di scirocco e alla traversia di scirocco e mezzogiorno, ospita oggi il porticciolo
turistico di Perd’e Sali e anche in età antica poteva probabilmente ospitare un

(92) Per quanto riguarda il tipo Ramon T-1.4.4.1. cf. A.J. RAMON, Las ánforas, pp.
175-76, fig. 22; per quanto riguarda il tipo Ramon T-4.1.1.4. cf. ibid., p. 186, fig. 39; per
quanto riguarda il tipo Ramon T-5.1.1.1. cf. ibid., pp. 194-96, fig. 57 e per il tipo Ramon
T-5.2.1.3. cf. ibid., pp. 196-97, fig. 60.
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 183

Fig. 13 - Ceramica punica proveniente dal sito di Canale Peppino.

piccolo approdo a ridosso della Punta di Perd’e Sali. Questa, considerando an-
che una variazione della linea di costa con conseguente arretramento e modifi-
cazioni dovute al moto ondoso, poteva rappresentare un sorta di piccolo molo
di sopraflutto e garantire ormeggi e brevi soste a piccole imbarcazioni.
184 S. Finocchi

Fig. 14 - Il territorio di Nora in età tardo-punica.

piccolo approdo a ridosso della Punta di Perd’e Sali. Questa, considerando an-
che una variazione della linea di costa con conseguente arretramento e modifi-
cazioni dovute al moto ondoso, poteva rappresentare un sorta di piccolo molo
di sopraflutto e garantire ormeggi e brevi soste a piccole imbarcazioni.
Il settore occidentale documenta invece un diverso modo di intervento
della città punica. Non si riscontrano formazioni concentrate in aree ristrette,
ma una dispersione dei siti posti sulla sommità di piccoli pianori tabulari. Le
carte di distribuzione evidenziano le associazioni tra siti, aree di reperimento
delle risorse e attestazioni di minerali e scorie metallurgiche nel territorio (Fig.
7). Possiamo individuare nello sfruttamento delle risorse «industriali» una del-
le cause di occupazione di questo settore. È interessante notare la concentra-
zione delle miniere disposte in prossimità di Monte Santo e Monte Barone;
Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... 185

queste potevano essere collegate all’area urbana sfruttando i fiumi: l’associa-


zione di minerali ferrosi nei siti disposti ai margini della maggiore via di co-
municazione costituita dal Rio s’Orecanu e dai suoi affluenti, assieme alle sco-
rie metallurgiche nei siti a ridosso del porto di Nora e nel settore nord-occiden-
tale dell’area urbana, potrebbero esserne la testimonianza.
La documentazione riferibile alla più tarda età punica individua una conti-
nuità nello sfruttamento delle aree già occupate in precedenza (Fig. 14). Sem-
bra quasi di essere di fronte alla scelta di convergere, fra i siti, su quelli che of-
frivano i maggiori vantaggi in vista dello sfruttamento agricolo o di quello «in-
dustriale», oppure del controllo territoriale. Per quel che concerne lo sfrutta-
mento agricolo, le zone interessate dal fenomeno sono per il settore settentrio-
nale quelle corrispondenti ai quadrati NRR 16 e 19, in cui sembrano sorgere
strutture agricole a volte assai complesse. È questo il caso della grande villa in-
dividuata in località Sa Tanca Manna (NR93-R 16.19), dove alle strutture prin-
cipali si affiancano una serie di strutture annesse o poste nelle immediate vici-
nanze. L’area di rinvenimento ha restituito materiali d’età romana, repubblica-
na prima e imperiale poi, collocandosi il periodo di massima frequentazione fra
II e IV sec. d.C.
L’occupazione del territorio a fini «industriali» prosegue anche nelle aree
circostanti la laguna e nel settore occidentale lungo le propaggini digradanti
del complesso montuoso sulcitano, dove era agevole la possibilità di reperire
materie prime: come i metalli e i materiali da costruzione (Fig. 14). Durante la
fase repubblicana non si assiste ad evidenti cambiamenti nel modo d’occupa-
zione e nella natura della ceramica utilizzata. La documentazione archeologica
sembra indicare un quadro sociale ed economico di sostanziale somiglianza al
periodo punico.

5. CONCLUSIONI

Il dato più rilevante, che emerge a seguito di quest’analisi, è una modesta


presenza di Nora nel territorio riferibile alla prima fase di vita della colonia fe-
nicia. La sua fondazione non è legata alla volontà di controllare un vasto terri-
torio coltivato, ma alla funzione di scalo per i traffici commerciali. Le testimo-
nianze archeologiche non documentano alcun intervento in profondità nell’en-
troterra in grado di giustificare uno sfruttamento dedito ad attività produttive
agricole e pastorali. Semmai possiamo pensare a Nora come ad un terminale di
risorse agricole e forse minerarie legato a contesti produttivi isolani: una fon-
dazione cioè che ricalca il modo di accesso nei mercati locali aperto dai Mice-
186 S. Finocchi

nei(93). La documentazione materiale ci mostra un centro privo di ambizioni di


conquista territoriale, ma nato e sviluppatosi con finalità puramente commer-
ciali(94): le relazioni stabilite con il territorio si materializzano in rapporti, a
volte sistematici e continuativi, tesi all’approvvigionamento di materie
prime(95).
Un sostanziale cambiamento nel rapporto fra città e territorio si ha in pie-
na età punica e principalmente a partire dal IV sec. a.C., quando ci sarà un’oc-
cupazione stabile volta allo sfruttamento delle risorse naturali. Ci sembra di as-
sistere ad una specializzazione dei settori: le aree fertili vedono uno sfrutta-
mento intensivo con modelli di popolamento quasi latifondistici; dove invece
era possibile reperire materie prime (metalli, materiali lapidei, legno) il popo-
lamento si adatta alle caratteristiche topografiche del territorio, secondo la fa-
cilità di approvvigionamento e di smistamento verso l’area urbana.

(93) È ormai dimostrato che i Fenici iniziarono a frequentare le coste sarde sulla scia
delle più antiche rotte micenee e in quest’ottica assumono particolare rilievo i rinvenimen-
ti effettuati nel Macellum di Nora, nei nuraghi di Is Baccas, d’Antigori e Domu ’e s’Orku e
nella sepoltura di Perda ’e Accuzzai. Importante per comprendere le motivazioni economi-
che che sono alla base di questa associazione e sovrapposizione è l’analisi di S.F. BONDÌ,
Problemi della precolonizzazione fenicia nel Mediterraneo centro-occidentale: Momenti
precoloniali nel Mediterraneo antico. Atti del Congresso internazionale (Roma, 14-16
marzo 1985) (= CSF, 28), Roma 1988, pp. 243-55; cf. inoltre P. BARTOLONI - S.F. BONDÌ -
S. MOSCATI, La penetrazione fenicia e punica, pp. 7-19.
(94) Per una lettura della stele di Nora come commemorazione di una vittoria milita-
re a scopo di conquista territoriale cf. P. BERNARDINI, La Sardegna e i Fenici. Appunti sulla
colonizzazione, cit. (supra nota 89), pp. 54-55.
(95) Al momento non siamo in grado di cogliere il livello di acculturazione delle
genti indigene entrate in contatto con i Fenici di Nora se non dai pochi materiali rinvenuti
nel territorio, di cui abbiamo parlato, e che imitano forme ceramiche dei primi coloni; né
siamo in grado di dire se nella comunità di Nora entrano a far parte elementi indigeni.
Questo stato degli studi è principalmente imputabile alla conoscenza della necropoli arcai-
ca, della quale si conoscono soltanto alcuni reperti a seguito di una ricognizione nel Museo
di Cagliari: P. BARTOLONI, Su alcune testimonianze di Nora arcaica: Habis, 1979-1980, pp.
375-80.
RStFen, XXX, 2 (2002)

EL ORIGEN DE LA ESCRITURA SUDLUSITANO-TARTESIA Y LA


FORMACIÓN DE ALFABETOS A PARTIR DE ALEFATOS(1)

J. RODRÍGUEZ RAMOS - Barcelona

En lo concerniente al origen de las escrituras paleohispánicas, signarios


nativos prerromanos de la Península Ibérica, se han propuesto dos plantea-
mientos distintos. El primero, defendido por Untermann y Adiego, indica que
el origen es mixto, es decir, que para su formación se tuvo como modelo tanto
el alefato fenicio como el alfabeto griego. El segundo es el modelo diseñado
por De Hoz, según el cual el origen es único, a partir del fenicio del que deriva-
ría una hipotética escritura tartesia (que identifica con la del signario de Espan-
ca) de la cual derivarían la escritura sudlusitano-tartesia y la íbera meridional.
A su vez, de esta última derivaría la íbera levantina. En el presente artículo ex-
pondré un modelo sobre el origen inicial de las escrituras paleohispánicas, cen-
trado en la creación de la escritura sudlusitana (también llamada tartesia, del
sudoeste o del Algarve) a partir únicamente del alefato fenicio. Es decir un de-
sarrollo de los trabajos de De Hoz, proponiendo también la relación de depen-
dencia entre los diversos signarios paleohispánicos y no su origen independien-
te, aunque con algunos matices y ampliaciones relevantes.
No entro a considerar si hubo o no un modelo intermedio entre el fenicio y
el sudlusitano, que no encuentro necesario. De las escrituras paleohispánicas
de las cuales tenemos un mínimo de datos para poder trabajar con ellas sólo
nos podemos plantear la sudlusitana como la más próxima al modelo fenicio.
La forma de sus signos es la más similar al fenicio (más apartada está la íbera
meridional y mucho más la levantina) y es la más antigua documentada (al me-
nos desde los siglos VI-V a.C.).
El funcionamiento de la escritura sudlusitana no se conoce a la perfec-
ción, pero hay algunos aspectos claros. Se trata de un alfabeto redundante, no

(1) El presente artículo deriva del capítulo 2 («Historia de la escritura íbera»), apar-
tado 1o, de mi tesis doctoral Análisis de Epigrafía Íbera de 1997 (RODRÍGUEZ RAMOS, en
prensa); y del capítulo 6o de mi tesis de licenciatura inédita (Análisis de Epigrafía Sudlusi-
tana, Barcelona 1992, en adelante AES) ambas dirigidas por F. Gracia Alonso. En AES tra-
to con más detalle aspectos como por qué el alefato de origen ha de ser el fenicio y no el
arameo o el hebreo y por qué hay que descartar el origen en algún signario prefeni-
cio.
188 J. Rodríguez Ramos

un semisilabario, en el que de forma paralela al íbero se dispone de cinco sig-


nos para cada uno de los tres órdenes de consonantes oclusivas (verosímilmen-
te velar, dental y labial); correspondiéndose en principio cada uno al uso exclu-
sivo ante un signo vocálico específico. La apariencia formal de la escritura es
como si a cada silabograma del íbero se le añadiera sistemáticamente el signo
de la vocal ya incluida en dicho silabograma (ba + a, be + e, etc.) pero, desde
un punto de vista estructural y funcional, corresponde a un alfabeto. Con todo,
las inscripciones que han llegado hasta nosotros no siempre se atienen ortodo-
xamente a la regla general, sino que se aprecian lo que parecen ser simplifica-
ciones y evoluciones diversas en un grupo minoritario; además de unas pocas
inscripciones que utilizan formas de signos atípicas y que deben corresponder a
tradiciones epicóricas, por lo que son de difícil clasificación y complican so-
bremanera el establecimiento de regularidades a la hora de analizar el
material.
Para una descripción básica del signario de la escritura sudlusitana puede
verse el cuadro 1 (una justificación exhaustiva del mismo en RODRÍGUEZ RAMOS
2000). En él hay escasas diferencias respecto a los modelos propuestos por Co-
rrea y Untermann(2). Las únicas que pueden afectar a la cuestión del origen
son: 1) mi no aceptación de la existencia de un signo m en sudlusitano, pro-
puesta por Untermann para S-105 como apareciendo sólo ante u; 2) la inver-
sión de los valores propuestos por Correa y aceptados por Untermann para las
lecturas de los pseudosilabogramas ku (o ku) y bu (o bu); donde yo leo ku ellos
leen bu y viceversa; 3) la identificación de ki, a la que se opone Untermann pe-
ro no Correa ni De Hoz; y 4) la de bi en la que coincido con De Hoz pero nega-
da categóricamente por Untermann. Debe también observarse que la transcrip-
ción ŕ, unánime, no responde a una identificación fonética, sino a su equipara-
ción con la r del íbero meridional.

EL SIGNARIO FUENTE DE LA ESCRITURA SUDLUSITANA

Como hemos indicado, generalmente se consideran dos posibilidades fun-


damentales como origen de la escritura sudlusitana: la de que proviene del ale-
fato fenicio pero con clara influencia del alfabeto griego; y la de que única-
mente procede del signario fenicio. En líneas generales se defiende el influjo
griego apoyándose en tres argumentos: 1) la existencia de signos para repre-

(2) No entro en la discusión las arbitrarias lecturas de algunos estudiosos portugue-


ses, últimamente V. H. Correia, que se limitan a llenar el casillero de signos sin seguir cri-
terio alguno y sin siquiera molestarse en intentar justificarlas o dar una mínima
explicación.
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 189

sentar vocales, que sería un invento exclusivamente griego y para el que el su-
dlusitano no contaría siquiera con la ayuda de los signos matres lectionis pues-
to que en la epigrafía fenicia corresponden a un periodo tardío; 2) la forma de
a, que efectivamente es la de alfa; y 3) la posición de u tras tau en el alfabeto
de Espanca(3), coincidiendo con la upsilon griega que, en principio, cabe con-
siderar que se añade al final del signario al desdoblarse la waw. Evidentemente
estos tres fenómenos podrían explicarse a partir de la copia del modelo
griego.
El primero podemos descartarlo como producto de la herencia cultural de
las ideas decimonónicas helenocentristas del impacto del «genio» del pueblo
griego en la historia de la humanidad, frente a una escasa consideración de las
culturas no europeas. Efectivamente, hay evidencia clara del desarrollo de sig-
nos vocálicos a partir de sistemas de escrituras alefáticos. En primer lugar,
existen dos alfabetos, aunque a veces erróneamente considerados silabarios,
originados en alefatos de tipo semita (fenicio o sudarábigo): las escrituras in-
dias y la etiópica. En ambos casos con matices derivados de la lengua a la que
sirven.
Las primeras escrituras indias, la brahmi y la karoshti (RENOU-FILIOZAT
1947, tomo 2, 665-712), toman como base una lengua indoeuropea en la que es
preciso notar las vocales pero en las que, por motivos de lingüística histórica,
la vocal a es con mucho la más frecuente, y poseen un consonantismo muy ri-
co. Consecuentemente tienen que inventar nuevos signos para consonantes, al
no bastar el repertorio fenicio-arameo, y el signo consonántico aislado anota su
uso más frecuente: la consonante seguida por a. En los otros casos se añade un
signo vocálico al de la consonante, que, ulteriormente, en algunas vocales pue-
de parecer un mero apéndice(4). Aunque tipológicamente diferente al modelo
greco-latino, es un alfabeto de pleno derecho.
En lo referente a las escrituras etiópicas, también erróneamente estudia-
das como silabario, corresponden a una lengua semítica similar al sudarábigo
e, inicialmente, es de uso alefático pero, posteriormente, a cada signo conso-
nántico se le ha añadido un apéndice según su timbre vocálico; de manera que
los signos tales como la, le o lu son simples variantes de un mismo signo base
(FÉVRIER 1959, 375-379). El sistema recuerda a la notación masorética del he-
breo y lo único que lo diferencia de un alfabeto clásico es la menor autonomía

(3) Sobre la estela de Espanca vide UNTERMANN 1997b, CORREA 1993 y ADIEGO
1993.
(4) No hay que descartar que la tradición de fonética oral en el estudio de los textos
sagrados, muy antigua, influyera en el proceso. Es, al menos, una buena explicación al he-
cho de que el orden de las letras del alfabeto sea lógico y no respete el orden semita
tradicional.
190 J. Rodríguez Ramos

de los grafemas vocálicos, siendo totalmente distinto a los silabarios, como el


Lineal B, en los que los signos tales como pa, pi o pu son formas independien-
tes entre sí.
También hay que llamar la atención sobre la escritura aqueménida, que
mantiene formalmente su trazado como escritura cuneiforme (que era el mode-
lo de prestigio cultural y de propaganda política de la época en la zona según el
cual se diseñó una escritura monumental propia del imperio persa), pero sim-
plificado en su funcionamiento bajo el influjo del alefato arameo, la escritura
que se usaba a efectos prácticos. Se trata de un sistema mixto en el que diver-
sos signos consonánticos aceptan solo un timbre vocálico tras él, otros signos
dos y otros cualquiera de los tres existentes. El signo l aislado puede ser tanto
/l/ como /la/, pero ante i y ante u forma respectivamente los grupos /li/ y /lu/.
El signo g puede leerse tanto /g/ como /ga/, pero ante i forma /gi/, pero para
/gu/ tenemos un signo específico gu, mientras que, por su parte, w además de
su valor aislado admite la combinación con u, pero existe un signo wi. En la
serie de /m/ tenemos los signos respectivos ma, mi y mu. Esta escritura posee
tres signos vocálicos y su uso sistemático de matres lectionis, por así llamarlas,
la hace la escritura más similar al sistema de redundancia vocálica del
sudlusitano.
Finalmente, es evidente que la escritura ugarítica, técnicamente un alefa-
to, incluye signos para inicios vocálicos en los que, además del alef, preceptivo
ataque vocálico en la mayoría de las lenguas semitas, se explicita el timbre de
la vocal. Lo que es un evidente uso de signos para marcar una vocal en un ale-
fato semita en pleno segundo milenio a.C.
Aclarado el que los signos vocálicos no son una exclusiva griega, puede
señalarse que tampoco el primer argumento acierta cuando se dice que los feni-
cios antiguos no conocían el uso de las matres lectionis. Ya Harris (1936: 17)
detalla cómo las inscripciones propiamente fenicias van configurando una tra-
dición inmovilista que rechaza el uso de matres lectionis e incluso de separa-
dores de palabras, pero por ortodoxia que no por ignorancia. Así, en su uso por
arameos, hebreos o moabitas, ya no se sigue esa tradición codificada de forma
estricta. Incluso, en los grafitos fenicios de Abydos, para cuya autoría propone
que fuesen marineros fenicios (clase social que es seguro que llegó a Occiden-
te), sí se usa la yod como mater lectionis indicando una i final. Un mercader fe-
nicio en Occidente no tenía por qué seguir una ortodoxia metropolitana(5) y,

(5) De hecho, existen inscripciones fenicias en Occidente en las que se sigue la di-
rección de escritura de izquierda a derecha, esquema que desaparece de Fenicia a finales
del II milenio, lo que es una clara prueba de usos heterodoxos. Asímismo sirve para demo-
ler los «argumentos» de los que proponen que la escritura griega o la tartesia deriven de
una escritura protocananita al suponer que el que en estas escritura se escriba en ambos
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 191

evidentemente, su trabajo le había obligado a estar en contacto con pueblos se-


mitas perifenicios, como hebreos y arameos, que sí usaron matres lectionis(6)
desde época antigua. Además de que aquellas tradiciones de escritura que nos
son mal conocidas en la actualidad, como la de los óstraca de Kamid el-
Loz(7), el alefato de la tableta de Beth Shemesh(8) o la inscripción de Tell Fe-
khariyah(9) (que demuestran tanto la existencia de arcaísmos, como entroncan
los signarios sudarábigos de la segunda mitad del primer milenio con escrituras
palestinas porotocananitas del segundo), no debían de resultarles desconocidas.
Al igual que el mercader púnico de Plauto omnes linguas sciet, podemos supo-
ner que los mercaderes fenicios también sabían leer.
Por otra parte, es bien sabido que las matres lectionis han sido el recurso
de las escrituras alefáticas para señalar los timbres vocálicos de palabras ex-
tranjeras (fundamentalmente nombres propios) cuyas vocales, al ser términos
ajenos a la flexión interna semita, no eran predecibles. ¿Qué más natural pues
para una persona de cultura fenicia cuando ha de notar palabras sudlusitanas (o
griegas en su caso) que recurrir al sistema de las matres lectionis, por más que
cuando escriba en fenicio no lo use porque no lo necesita?
De hecho, el argumento de la creación de signos vocálicos es precisamen-
te el que descarta la influencia griega, puesto que los signos empleados para las
vocales en sudlusitano son incompatibles con los empleados en griego:

sentidos, cuando la escritura fenicia sólo era sinistrorsa, ha de suponer una influencia más
antigua. Naturalmente la hipótesis cananita, postulada para el sudlusitano tanto por Beirão
(1990, 118) como por Ferreira da Silva y Gomes (1994, 163) es tan insostenible para el
sudlusitano como para el griego; en este sentido estoy de acuerdo con las objeciones de
Amadasi Guzzo (1991, 305).
(6) En hebreo y arameo, las matres lectionis suelen ser sólo tres: y para /i/, w para
/u/ y h (!) para las restantes vocales, empleándose sólo esporádicamente el alef (NAVEH
1987: 62 y 76; LIPIŃSKI 1988: 236 y 239); pero, por lo que sabemos h no se utiliza en sud-
lusitano como valor vocálico, sino que su sistema vocalizador se parece más al de la escri-
tura ugarítica (s. XIII), que se basaba en el alef para establecer tres signos «silábicos» que
implicaban la secuencia de alef con a, i y u, respectivamente. El mayor parecido con el
griego radica en el uso vocalizador de alef, secundario en el sistema de scriptio
plena.
(7) G. MANSFELD - W. RÖLLIG, Zwei Ostraka von Tell Kamid el-Loz und ein neu
Aspekt für die Entstehung des kanaanäischen Alphabets: WdO, 5 (1970), pp. 265-270. Ver
también LIPIŃSKY 1988 p. 237 y fig. 11.
(8) A.G. LUNDIN, L’abécédaire de Bet Shemesh: Le Muséon, 100 (1987), pp. 243-
251. Vide también J.F. HEALEY, The Early Alphabet: Reading the Past. Ancient Writing
from Cuneiform to the Alphabet, London 1993, pp. 198-257, p. 218.
(9) A. ABOU-ASSAF - P. BORDREUIL - A.R. MILLARD, La statue de Tell Fekherye et son
inscription bilingue assyro-araméenne, Paris 1982.
192 J. Rodríguez Ramos

Timbre Griego adopta Sudlusitano adopta


A Alef Alef en forma de alfa
E He Ayin
I Yod Yod
O Ayin Alef fenicia
U Waw Waw

Nadie ha intentado explicar cómo haría el sudlusitano, si para la creación


de los signos vocálicos ha tomado como modelo el alfabeto griego, para siendo
un sistema pentavocálico totalmente compatible con el del griego, decidir que
el signo epsilon no les interesaba, pero que para él preferían el de omicron, y
que para la o era preferible remitirse a la alef fenicia. Este esquema, que coin-
cide con el de la adaptación del alefato hebreo para escribir yiddish(10), sólo es
comprensible si no se ha tenido como modelo el alfabeto griego.
Restan pues los argumentos, en absoluto baladís, de la forma de a y la po-
sición del signo u en el alfabeto de Espanca. Para ambos sería preferible la ex-
plicación del influjo griego, pero en este caso sí hay alternativas reales.
Tanto una alef inicial como una waw, ubicada en posición final, ya eran
usadas en ugarítico para notar ’a y ’u. La forma de alfa está presente en los sig-
narios cananitas de finales del II milenio y es perfectamente posible que alguna
tradición parafenicia conservase esta forma y tal vez un uso similar al del uga-
rítico. Ello explicaría tanto la forma de a en sudlusitano, como el que la alfa
griega coincida con una forma prefenicia de alef.
Esto podría ser también una explicación posible para la situación de u en
la estela de Espanca. Pero a este respecto hay que hacer otras dos observacio-
nes. La primera es el hecho de que el que la estela de Espanca sea un eslabón
perdido entre la escritura fenicia y la sudlusitana es algo carente de base. Se
trata de una estela sin contexto arqueológico, por lo tanto sin datación, y paleo-
gráficamente está más alejada del fenicio que la escritura sudlusitana, por lo
que lo lógico es suponer que se trata de una derivación posterior(11). Es espe-
cialmente significativo que el signo resh esté ausente en esta estela, ya que es
un signo adaptado sin alteración alguna para r en sudlusitano y en íbero meri-
dional y simplemente geminado en levantino. ¿Cómo un signo común a todas

(10) Sistema de vocalización mencionado por Schmoll (1961, 21), aunque, no parece
haberse dado cuenta de este paralelo. En este dialecto del alemán, que utiliza la escritura
hebrea, alef sirve de base tanto a /a/ como a /o/; ayin simboliza la /e/; mientras que he no
tiene sentido vocálico alguno.
(11) En ese sentido destaca la aparición en el mismo de los signos que en levantino
serán ti y ki, también presentes en íbero meridional, pero en el mejor de los casos, como
hapax graphomena en sudlusitano e inexistentes en fenicio.
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 193

las escrituras paleohispánicas iba a estar ausente del supuesto signario modelo
primigenio?. Por otra parte, de la u de Espanca sólo sabemos que está tras la
selección de unos cuantos signos iniciales que, con una posible excepción en
un signo extraño y que pudiera ser el heredero muy deformado de resh, sigue el
orden del alefato fenicio. No puede siquiera descartarse la posibilidad de que u
encabece la serie de signos que se añada por una simple coincidencia, además
de poderse recurrir a la idea de que la posición de upsilon en el alfabeto griego
sea una hipotética herencia de algún signario semita que herede los signos vo-
cálicos y el orden de un modelo ugarítico(12).
Como quiera que en el sudlusitano es innegable la influencia fundamental
de un modelo alefático de tipo fenicio y que su sistema de signos vocálicos es
incompatible con el del griego, mientras que no hay ningún elemento para cuya
explicación sea necesario recurrir al griego, considero que el origen de la escri-
tura sudlusitana es exclusivamente fenicio. Es más, según veremos, la fecha
más probable de derivación del alfabeto sudlusitano (o, en su caso, el de la pri-
mera escritura paleohispánica del que se derivara) es de hacia el 800 a.C., con
tendencia a ser a finales del s. IX. Una fecha en que ni siquiera puede asegurar-
se que existiese el alfabeto griego.

CRONOLOGÍA DE ORIGEN DEL SIGNARIO SUDLUSITANO

Para el establecimiento de su cronología hemos de recurrir al análisis pa-


leográfico, tomando como base la abundante documentación proporcionada
por las tablas de signos de Gibson (1982), las de Herr (1978) y las de Naveh
(1987). Los detalles cronopaleográficos confirman en lo fundamental las consi-
deraciones de De Hoz, y pueden concretarse de la siguiente manera:
Dentro de la evolución paleográfica del signario fenicio que define Swig-
gers (1991: 120ss.), los signos de la fase 1a (s. X a.C.) son muy similares, salvo
en un solo signo. Este es kaf, del que en esta fase, con la forma típica de las in-
scripciones reales de Biblos, no parece derivable el ke sudlusitano, que sí es
muy similar al kaf fenicio posterior. La totalidad de los signos sudlusitanos
puede remontarse a los fenicios de la fase 2a de Swiggers, pero ésta resulta ex-
cesivamente imprecisa (ss. IX-VI) y permite una precisión cronológica
deficiente.
Una mejor aproximación la podemos realizar mediante las tablas de Gib-
son. Pueden descartarse, para empezar, los signos que en su forma equiparable,

(12) Aparte de esto, tampoco puede descartarse la simple explicación de que la pro-
nunciación taw coadyuvara, entendible como tau en especial cuando el signo en sudlusita-
no vale para ta, a que le siguiese la vocal u.
194 J. Rodríguez Ramos

tienen un lapso cronológico demasiado extenso como para resultar significati-


vo su análisis. Estos son: he, (s.X hasta el V); zayin, aún suponiendo su rela-
ción con ŕ (1.000 al 600 a.C.); het, de la que cualquier variante fenicia podría
˙
equipararse a la variedad de formas sudlusitanas similares; yod, también podría
derivarse de cualquier época; lamed, (ss. X-VI); nun, básicamente la misma
siempre; samek, (ss. X-VII); ayin, no muta hasta empezar a abrirse en el s. VI;
pe, todas las formas fenicias son similares; tsade, aun si tuviese que ver con S-
105; resh, todas las formas son muy similares; shin, (s. X al VII). En todo caso
este conjunto nos daría un ante quem de 600 a.C. Nos restan, pues, los siguien-
tes elementos de comparación: alef, bet, gimel, dalet, waw, tet, kaf, mem, qof y
˙
taw.
1) alef: Parece evidente que de él se derivan tanto la o como la a. Para la
primera el ángulo transversal de la forma fenicia simplemente se abre. Se ates-
tigua el mismo proceso en las inscripciones fenicias del s. VII (NAVEH 1987,
89-91) y también en inscripciones hebreas del s. VIII como la de Siloam (NA-
VEH 1987, 77). La segunda, a, coincide con formas palestinas prefenicias y, na-
turalmente, con la alfa griega. Este doble uso, así como el de todos los signos
para vocales, coincide, como se ha indicado, con el que se hace en yiddish, lo
que constituye un paralelo estructural confirmativo. No obstante, desde el pun-
to de vista de la cronopaleografía, el hecho de plantearnos un desdoblamiento
minimiza el valor de la comparación morfológica, dado que los signos han de-
bido ser modificados para diferenciarlos. Es probable que la evolución hacia o
sudlusitana sea independiente de la semita, ya que sus resultados no coinciden,
pese a ser similares, y, en mi opinión, es fácil que se derivase de modelos tanto
del s. IX como del VIII. Respecto a a pudo recurrirse a un signo arcaizante co-
nocido por los fenicios (que explicaría también el origen de alfa) o a una evolu-
ción paralela a la griega para diferenciarlos. Menos probable es que un fenicio
se inspirase en la forma griega pero que desconociese el sistema vocalizador
griego.
– bet: Debe ser la forma origen del be sudlusitano. Éste debiera proceder
preferiblemente de una forma fenicia poco angulosa y poco abierta, lo que lo
asemejaría con las formas del s. X del cuadro de Naveh (1987, 91s). Sin embar-
go, la comparación con las formas posteriores muestra que la diferencia es
prácticamente insignificante. Por eso, si bien este signo aboga por una cronolo-
gía cuanto más antigua mejor, no nos sirve para concluir nada.
– gimel: Forma origen de ka. Del cuadro de Gibson la única forma que no
se basa en la vertical es del s. X, pero sería una conclusión precipitada: tanto el
alfabeto griego como el íbero levantino demuestran que es normal la evolu-
ción, e incluso coexistencia de signos, del mismo valor fonético con formas
tanto como . En el caso del sudlusitano, dentro de la dinámica formal inter-
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 195

na(13) en la que los signos cambian para diferenciarse de otros que por evolu-
ción normal se les han aproximado demasiado, creo que se ha producido una
especie de evolución colectiva de los modelos fenicios l, g y p; como explica-
remos infra. Por todo ello, tampoco gimel debe considerarse significativo.
– dalet: La forma sudlusitana tiende, como la griega al triángulo equiláte-
ro, mientras que, como puede verse en el cuadro, la forma con apéndice apare-
ce en el s. IX y se generaliza en el VIII. Es difícil decidir si, mientras el apéndi-
ce era pequeño, pudo interpretarse como un simple triángulo, pero, en todo ca-
so, parece constituir una prueba de que el original debió ser de los ss. X-IX o,
difícilmente, de la primera mitad del VIII, en que aparece muy esporádicamen-
te (especialmente en la de Limassol, que por su probable relación con Tiglatpi-
leser III sería de ca. 750).
– waw: La forma sudlusitana contrasta con la Y. El predominio de la pri-
mera es en el s. IX, con los mejores paralelos en las inscripciones de Chipre,
Kilamuwa y Nora, que se consideran de fines del IX, si bien Amadasi Guzzo
opina que Nora podría ser del VIII. Alguna forma asimilable aparece en Kara-
tepe, ya en el s. VIII. Pueden también encontrarse paralelos aislados posterio-
res, pero habría que explicar por qué se exporta una forma minoritaria.
– tet: Dado que parece ser difícil de distinguir una cronología de dicho
˙ un solo trazo interior, respecto a la normal con dos trazos en cruz, só-
signo con
lo podemos disociarlo de su forma abierta, más cursiva, con lo que tendríamos
un ante quem de hacia el 700 a.C.
– kaf: La forma sudlusitana, similar a la griega aparece en fenicio entre la
arcaica y la simplificada (14), predominando en el s. IX y parte del VIII. Sin
embargo, formas de éstas pueden hallarse esporádicamente en diversas crono-
logías, incluso a inicios del s. VI. Con todo, en esas fechas sería minoritario y
no hay rastro en sudlusitano de sus formas más evolucionadas.
– mem: Dado que todo indica que se relaciona con el ba sudlusitano, he-
mos de suponer un original fenicio vertical, en claro contraste con la my griega.
La forma fenicia vertical es propia del fenicio del s. X y sólo raras veces apare-
ce en el IX. A partir del s. VIII la forma fenicia, tal y como puede verse en la
inscripción votiva de Kition, de ca. 800 a. C. (PUECH 1976), debe considerarse
de imposible relación con ba, aunque podría especularse, tal y como hace Un-
termann, con que la forma evolucionada de mem fuese el origen de S-105. Sin
embargo, resulta decisivo el testimonio de la estela de Espanca a favor de que
el signo sudlusitano que deriva de mem sea ba. Ello dejando aparte el carácter

(13) BRIXHE 1991, p. 316. Es lógico y natural que para no confundir dos signos se al-
tere la forma de, por lo menos, uno de ellos.
(14) Esta forma evolucionada de kaf aparece en la inscripción fenicia de una ánfora
del Cabezo de la Esperanza (Huelva) del s. VII: kry.
196 J. Rodríguez Ramos

de signo muy poco frecuente de S-105, por lo que cabe sospechar que sea una
variante de otro más conocido. La interpretación de la inscripción de Espanca
es unánime respecto a que los signos de la primera línea, de buen trazo, son el
modelo hecho por el maestro lapicida que, en la segunda línea copia un alumno
poco avanzado, a juzgar por el torpe trazado de sus signos. Untermann, siempre
suponiendo que este alfabeto es un modelo primigenio, enfatiza que el signo
que ocupa el lugar de mem en la segunda línea es similar a S-105, pero lo cierto
es que justamente en la línea «modelo» del maestro se parece a ba. Es pues
mem el signo más problemático para rebajar la cronología de préstamo que
condujo al sudlusitano, puesto que ni siquiera de forma minoritaria vuelve a
aparecer la versión vertical, ni tampoco está en griego, que adapta formas feni-
cias más modernas.
– qof: No hay problema alguno para relacionar ki con cualquier forma fe-
nicia anterior al 700 a.C. Merece, en cambio, especial mención el hecho de que
el signo qof posterior a esta fecha, podría intentar relacionarse con ko y ku.
Ello podría admitirse si no fuera por las dificultades que genera en los restantes
signos, por lo que es preferible pensar que ko es una forma geométrica simple
y ku su derivado.
– taw: Aparecen en sudlusitano dos formas fenicias diferentes y . La
primera de ellas encuentra paralelos muy arcaicos en fenicio, siglo X – inicios
del IX, pero puede proponerse que la original sea la segunda, mientras que la
primera sea una derivación de la fenicia dada la simplicidad del signo, que, co-
mo es sabido, aparece casi siempre en las sociedades iletradas cuando se reali-
zan marcas, como las de muchas de las cerámicas prerromanas peninsula-
res.
La impresión general que se tiene tras revisar los signos es que puede ase-
gurarse que el periodo cronológico de préstamo oscila entre el 900 y el 700
a.C.; puesto que si bien un análisis exhaustivo de más material demuestra que
signos aislados pueden aparecer en su forma arcaica posteriormente, se hace
evidente que no vuelven a encontrarse todos juntos. Sin embargo, el signo mem
en puridad aboga por una fecha anterior al 850 a.C. Mi opinión es que el présta-
mo de mem podría ser posible de alguna de las formas posteriores transiciona-
les, más oblicuas que verticales, pero que sería imposible cuando el apéndice
inferior ya se ha desarrollado totalmente.
La forma de mem podría relacionarse con la de las tres inscripciones feni-
cias que se consideran datables a finales del s. IX: la estela de Kilamuwa (ca.
825 datada por alusiones históricas), una inscripción arcaica de Chipre (consi-
derada del s. IX) y la estela de Nora (datada paleográficamente a finales del s.
IX). Asimismo, en 1993 se ha publicado la inscripción de Tel Dan, que presen-
ta un signario muy similar a la de Kilamuwa y que puede datarse en un 825 ±
15, preferiblemente ca. 820, por alusiones históricas (MARGALIT 1994). Si las
comparamos con el signario sudlusitano, comprobamos que guardan una gran
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 197

similitud y coherencia, y que no hay formas de signos cuya relación sea


imposible.
La inscripción de Chipre se distingue porque usa líneas separadoras y un
minúsculo, a veces inapreciable, apéndice en la dalet. La taw no es la geomé-
trica, sino en forma de casi T, que, como hemos visto, también se usa en
sudlusitano.
La estela de Kilamuwa, ciertamente, procede de un sector apartado, de un
pequeño estado neohitita; pero, por razones de prestigio, están copiando la es-
critura fenicia. En esta estela, algunas mem ya están bastante evolucionadas,
pero alguna vez se realiza en forma bastante vertical; se utilizan puntos separa-
dores; el apéndice de dalet ya empieza a notarse con claridad; ni tampoco se
usa la taw geométrica, pero, como hemos visto, este es un problema menor y
los demás signos no parecen ofrecer problema alguno. En especial, merece
destacarse que alguna forma de gimel adopta una posición prácticamente idén-
tica a la sudlusitana.
Pero, más interesante es la de Nora, y no sólo por su proximidad geográfi-
ca. La mem es un tanto oblicua, pero asimilable a la vertical; el apéndice de da-
let es casi inapreciable; no usa separadores; utiliza la taw geométrica en cruz;
el ángulo del alef aparece tanto muy desviado a la izquierda como más centra-
do; el único inconveniente es que sea una inscripción tan breve. El problema es
que esta inscripción se fecha sólo por medios paleográficos. Naveh la conside-
ra del s. IX, Puech de entre el 830 y el 800. La opinión común es que sería de
finales del s. IX, aunque Amadasi Guzzo, basándose justamente en el nivel
evolutivo de la mem piensa que podría rebajarse algo la fecha hasta el s.
VIII.
Por su parte, la estela de Tel Dan presenta una caligrafía muy similar a la
de Kilamuwa, de la que es prácticamente contemporánea; coincidiendo en pre-
sentar una mem que ha iniciado ya su evolución.
La conclusión que estamos obligados a tomar a partir de los datos
conocidos es que la escritura sudlusitana parte de un modelo fenicio de
la segunda mitad del s. IX, preferiblemente en su último cuarto y que,
como mucho, en consideración a la poca cantidad de documentación de
algunos periodos podría intentar rebajarse a la primera mitad del s.VIII,
pero que esta tendencia no sería totalmente objetiva, sino una manipulación,
más o menos plausible de la evidencia. Ello se confirma si tenemos en
cuenta que el origen del alfabeto griego se viene datando en la primera
mitad del s. VIII y que se configura con una forma de mem posterior
a la del modelo sudlusitano que, consecuentemente, en principio debe
considerarse anterior. Una datación coherente sería la de ca. 800 ± 25,
pero siempre con una mayor probabilidad de ser del lapso 825-800. No
nos debe preocupar el que según esto el alfabeto sudlusitano fuese el
primer alfabeto de Europa, con anterioridad al modelo griego, sino si
198 J. Rodríguez Ramos

esa datación es compatible con el resto de datos arqueológicos y si le


proporciona nueva información.

LA EVIDENCIA ARQUEOLÓGICA DE LA PRIMERA PRESENCIA FENICIA EN OCCIDENTE

Cuando defendí la primera versión de este modelo en 1992 (AES), la evi-


dencia paleográfica indicaba una fecha de fines del s. IX para la formación de
la primera escritura paleohispánica, pero las síntesis arqueológicas presentaban
problemas para la misma. Sólo documentaban la presencia fenicia con claridad
en la segunda mitad del s. VIII. Sin embargo, las investigaciones posteriores
han ido mostrando una clara tendencia a elevar las fechas de llegada de los fe-
nicios cuya presencia, ya con contactos masivos, no puede hacerse descender
de los inicios del s. VIII.
La consideración de que la primera presencia fenicia tenía lugar a media-
dos del s. VIII, se veía confirmada por la primera publicación del yacimiento
«nativo» próximo a Cádiz de Castillo de Doña Blanca (RUIZ MATA 1985) o en la
periodización de Pellicer en 1982. Pellicer proponía que había una pequeña
presencia fenicia en la primera mitad del s. VIII, pero que el material fenicio
sólo aparecía a mediados de siglo y la aculturación se producía en el s.
VII.
Sin embargo, ya entonces estaba documentada una presencia previa en la
Andalucía mediterránea, documentándose la fundación de las factorías fenicias
en la primera mitad del siglo VIII, como son Chorreras y Morro de Mezquitilla
(NIEMEYER 1983). Resultaba totalmente ilógico el motivo por el que los feni-
cios, supuestamente en búsqueda de metales, se hubiesen instalado en una zona
de escasos recursos comerciales y esperado medio siglo a entablar contacto
con los florecientes mercados de Huelva y del Bajo Guadalquivir que, por su
parte, ya había sido capaz de enlazar con el Mediterráneo Central, según docu-
menta claramente el comercio de metales del Bronce Final. Tal es la evidencia
proporcionada por el depósito metálico de la Ría de Huelva, datable tipológica-
mente en el s. IX y por radiocarbono en la primera mitad de ese siglo (MEIJIDE
1988, 46 y 49). Aunque de acuerdo con el reanálisis de Coffyn (1985, 159) la
relación del material del depósito de Huelva con el chipriota es un espejismo,
sí que demuestra una relación comercial entre la zona atlántica y el Mediterrá-
neo Central (Italia, Cerdeña y Sicilia); lo que indica que, sobre las bases de una
ruta existente, los fenicios no debieron tener problemas en pasar de asenta-
mientos en la zona de Túnez y Sicilia al Atlántico(15).

(15) Un paralelo interesante lo tenemos en la circunnavegación de África por los na-


El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 199

Otros datos apuntaban también a una elevación de las dataciones. Fernán-


dez Miranda consideraba que los primeros fragmentos de cerámica fenicia de
barniz rojo presentes en Huelva serían de la primera mitad del s. VIII(16). Aun-
que matizaba que los primeros contactos eran del s. VIII «y no antes salvo con-
tactos esporádicos que no parecen tener peso histórico apreciable» (FERNÁNDEZ-
MIRANDA 1983, 856). En el mismo sentido Rufete mencionaba el fragmento de
pixis de cerámica ática del Geométrico Medio II, identificado por Coldstream
y Shefton, con una cronología de 800-760(17), y para quien los primeros contac-
tos se establecerían durante el Tartésico Medio I, es decir, antes del 750.
Pero sobretodo, había un dato que determinaba que ya a inicios del s. VIII
había no solo contactos, sino una estrecha colaboración entre indígenas y feni-
cios. Se trataba del muro hallado en el Cabezo de San Pedro de Huelva, un mu-
ro de sillares y mampostería, construido a soga y tizón y que se alza sobre un
estrato del Bronce Final I. Su excavador, Ruiz Mata, le propuso una cronología
estratigráfica de inicios del s. VIII, relacionándolo con un prototipo similar de
Tiro de mediados del s. IX a.C. y afirmando (RUIZ MATA 1986: 540): «es evi-
dente la vinculación de este muro con los que utilizaban en la costa fenicia»...
«viene a significar una de las primeras manifestaciones de la presencia fenicia
en los cabezos onubenses, un excelente regalo de acercamiento, que resolvería
técnicamente»... «el problema constante de las torrenteras producidas por las
fuertes lluvias otoñales y de primavera». Asimismo, opina que se trata de una
aportación tecnológica no generalizada, sino testimonio aislado de una «fór-
mula de acercamiento», ya que: «no denota un cambio en la estructura del po-
blado, al modo oriental, sino una construcción puntual, una obra de ingeniería
más eficaz, en un medio estrictamente indígena»(18). De acuerdo con la perio-
dización de Fernández Jurado (1989), el muro se construye en la fase Ib de Ca-
bezo de San Pedro; fase que, junto a la Ic, corresponde al Tartésico Medio I,
fechado en la primera mitad del s. VIII(19), época de la pixis ática del Geomé-

vegantes portugueses del s. XV que se realiza mediante una serie de avances largos en
unos pocos decenios, con asentamientos de apoyo, pero que al contactar con las rutas co-
merciales árabes el acceso a su objetivo, la India, es muy rápido.
(16) FERNÁNDEZ-MIRANDA 1983 indica que en el nivel XIIIa de Cabezo de San Pedro
sólo había un 3% de cerámica a torno: tres fragmentos de barniz rojo y cinco
grises.
(17) También en el mismo sentido, pero más detallado, FERNÁNDEZ JURADO 1988-89,
p. 219, sobre la pixis ática. Sin embargo, ha de tenerse en cuenta que dicha cerámica apa-
reció fuera de contexto.
(18) RUIZ MATA 1989, p. 241. Vide también su opinión sobre los contactos en la pri-
mera mitad del s. VIII (p. 231).
(19) Una descripción de la periodización en FERNÁNDEZ JURADO 1988-89, pp. 203-264;
su opinión sobre el muro en p. 214 s. y 219.
200 J. Rodríguez Ramos

trico Medio. Con todo, no sería hasta el Tartésico Medio II (tercer cuarto o se-
gunda mitad del s. VIII) cuando se generalizase la aparición de la cerámica a
torno de engobe rojo.
Pero un significado muy especial, en lo concerniente a la escritura lo tu-
vieron los primeros hallazgos de Castillo de Doña Blanca, constatándose la
aparición de inscripciones claramente fenicias, sobre cerámica de producción
local, bajo la muralla, en un estrato fechado en 810-760 (CUNCHILLOS
1990).
Sin embargo, desde entonces los hallazgos han ido proporcionando nove-
dades radicales, no solo las dataciones confirman la tendencia a hacerse más
antiguas, sino que la presencia fenicia en la primera mitad del s. VIII ha pasado
de ser un fenómeno precolonial, débil y esporádico a una presencia organizada
y masiva de población fenicia. Así tenemos las dataciones calibradas de radio-
carbono de la fase inicial de Morro de Mezquitilla se adentran en pleno s. IX.
Aubet (1994, 323) ya indica que «según un coeficiente de probabilidad del 93
por 100, los fenicios se instalaron en Morro entre el 894 y el 835 a.C.». Aunque
esta sea la datación más significativa, tal y como analiza Ruiz-Gálvez no está
aislada, sino que hay otras dataciones radiocarbónicas calibradas de estratos
fenicios u orientalizantes que apuntan al 800 a.C. Así, en Rocha Branca (Sil-
ves) una tiene su mayor probabilidad en 800-765, en Quinta do Almaraz tramos
de 830-800 y 825-795, en Alcaçovas de Santarem (Lisboa) una muestra indica
un 875-800. De todo ello concluye Ruiz-Gálvez (1998, 291) que «las fechas de
mediados del s. IX a.C. para los comienzos de la colonización fenicia resultan
totalmente coherentes, a tenor de las dataciones radiocarbónicas». He aquí,
pues, cómo el radiocarbono calibrado y la cronología paleografía coinci-
den.
Posteriormente se ha establecido que tanto el yacimiento ya conocido de
Castillo de Doña Blanca (Cádiz), como los nuevos de Tavira y de La Fonteta
(Alicante), son establecimientos fenicios del s. VIII que surgen desde el primer
momento con una estructura urbanística y de fortificación considerable; y más
importantes que los previamente conocidos. Documentando los tres una pre-
sencia organizada y abundante de población fenicia en el s. VIII. El que en un
breve lapso de tiempo hayan sido encontrados tres yacimientos nuevos de pri-
mera magnitud del s. VIII es un índice inequívoco de que todavía nos falta
mucho por conocer de la primera presencia fenicia en Occidente.
Podemos, pues, concluir que la evidencia paleográfica no es un problema,
sino un indicador más de que la presencia fenicia data de hacia el 800 a.C., po-
siblemente incluso un poco antes, y ya con estrechos contactos con las culturas
nativas. El único reparo posible es aquel subjetivo y tan poco sólido de consi-
derar que un fenómeno de tal importancia histórica como la escritura se adop-
tase por unos indígenas del Bronce Final atlántico en tan breve tiempo.
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 201

LOS CONTACTOS CULTURALES Y EL PROCESO DE ADAPTACIÓN DEL ALEFATO FENICIO

Uno de los pocos estudios metodológicamente estructurados del fenóme-


no de la aculturación orientalizante es el de Wells sobre el cambio cultural en
Centroeuropa entre el Hallstatt Final y La Tène Inicial. Wells (1980, 86-96)
propone tres tipos de «canal» de contacto que permitan la transmisión de ele-
mentos culturales: 1) dones a jefes indígenas que acaban por establecer líneas
de comercio; 2) presencia de indígenas en centros coloniales como Massalia;
3) presencia de artesanos griegos en Centroeuropa y que, básicamente, sólo in-
fluirían en la tecnología. Ahora bien, uno de sus principales ejemplos del tercer
tipo de canal, es el de la construcción de un muro de adobe en la Heuneburg,
cuyas características y elección de material denotan un origen mediterrá-
neo.
De la misma forma, podemos aunar una serie de evidencias para el suroes-
te de la Península que son: presencia de un muro aparentemente orientalizante
en el Cabezo de San Pedro a inicios del s. VIII, ca. 800, aunque su cronología
tal vez sea revisada; presencia de textos claramente fenicios en material indí-
gena, según Cunchillos, en Doña Blanca en la primera mitad del s. VIII; la da-
tación paleográfica de los signos que aparecen en las primeras escrituras indí-
genas atestiguadas hacia el 800 a.C.
Se concluye que hay diversos argumentos a favor de que antes de que se
importasen materiales, al menos materiales no perecederos o distinguibles o en
cantidad suficiente para que hayan sido encontrados, se produjo una entrada de
información tecnológica fenicia que, de acuerdo con la lógica y los plantea-
mientos de Wells, implicaría la llegada de individuos de cultura fenicia previa
a la importación de elementos materiales orientales(20).
A partir de aquí considero que si el adaptador del alefato fenicio a otro ap-
to para notar un idioma nativo fuese un colonizador oriental, en vez de un nati-
vo, todos los aspectos del origen de la escritura sudlusitana se explican satis-
factoriamente. Otra cuestión es la concerniente al motivo que justificara una
adopción temprana de la escritura. De hecho la etiología del fenómeno no de-
biera ser un factor determinante de la credibilidad del mismo y estas interpreta-
ciones tan afinadas corren el peligro de convertirse en obras de ficción narrati-

(20) Indicios de la presencia en época arcaica de elementos culturales fenicios en po-


blados nativos pueden hallarse en Medellín (ALMAGRO 1977, 268), Peña Negra (Alicante;
GONZÁLEZ PRATS 1983). Las tres son inscripciones fenicias, breves, sobre cerámicas de fac-
tura local; si bien la procedencia de la cerámica no es totalmente segura en el caso de Me-
dellín. La inscripción de Castillo de Doña Blanca se realiza sobre cerámica local, pero da-
do que este enclave ha pasado a ser considerado colonia fenicia su evaluación es más
compleja.
202 J. Rodríguez Ramos

va más que en ensayos científicos; la perspectiva contemporánea está demasia-


do alejada de una comprensión de los mecanismos socioculturales protohistóri-
cos. En este caso concreto, en que desconocemos la estructura organizativa
tanto indígena como la de los comerciantes orientales, la situación es muy
especulativa.
Hecha esta advertencia preliminar, puede recurrirse a un tipo de hipótesis,
que podría llamarse ‘tradicional’, y centrarnos en las interpretaciones habitua-
les de las fuentes sobre Tartessos. Se considera que existía una monarquía y un
cierto estado centralizado, en el que el monarca se interesa en que se establez-
ca una colonia focea y realiza una fuerte inversión, en regalos, para mantener
la ruta comercial abierta. Ello ha sido susceptible de ser interpretado tanto co-
mo un intento de acabar con un hipotético molesto monopolio fenicio, como de
mostrar un interés en la modernización del país, mediante la inmigración de ar-
tesanos griegos. Si esta última consideración es algo más que la proyección
subjetiva del prototipo del déspota ilustrado, podría servir como pauta para ex-
plicar el interés de nuevas técnicas. Pero aparte de eso hay que reconocer que
un centro organizativo que haya desarrollado un comercio atlántico previo al
advenimiento fenicio y que es capaz de organizar una explotación minera de
importancia, tiene facilidad para encontrar utilidad a la escritura.
Tampoco merece descartarse, al menos en lo referente al uso estelar que
ha llegado hasta nosotros, que sirviera como estímulo la ya existencia del uso
de las estelas figuradas, alentejanas y extremeñas. Sentido en el que hay que
recordar que el descubrimiento del enclave fenicio de Tavira, así como el de
Rocha Branca, permite considerar que el paso de la escritura a los pueblos de
las estelas no precisa de la intermediación tartesia u onubense.
En el otro lado de la historia de Argantonio tenemos a un Kolaios (Hero-
doto IV, 152), que dirige, al menos, un navío de explotación comercial y nego-
cia para conseguir sus propios beneficios. No es claro que un comercio ocasio-
nal de este tipo permitiera exportar la escritura, pero, de acuerdo con los datos
arqueológicos, la población fenicia sí se asienta en zonas indígenas. Conse-
cuentemente, el interés en exportar la escritura desde el punto de vista fenicio
sería de dos tipos. Como contacto comercial colectivo, el préstamo de la técni-
ca de escritura podría suponer un regalo típico para estimular las buenas rela-
ciones comerciales. Pero, dado que la escritura fenicia no era un sistema elitis-
ta que conocieran unos pocos, hay que considerar las grandes posibilidades de
una aportación técnica por parte de un particular fenicio asentado en la zona;
que es el tercer canal de aculturación propuesto por Wells. Una de las ventajas
de un oriental al instalarse es el diferencial técnico-cultural a su favor. El esta-
tus de un artesano normal en oriente sería mucho menor a la consideración que
tendría en occidente. El uso de técnicas nuevas en occidente podía ser utilizado
para medrar social y económicamente. El muro del Cabezo de San Pedro, co-
mo hemos visto, es susceptible de ejemplificar una importación técnica tem-
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 203

prana. En el caso de la técnica de la escritura, el uso de la misma para el con-


trol de la producción y las recaudaciones podría proporcionar al interesado un
puesto relevante.
En esta línea, opino que resulta más sencillo que alguien que ya conoce
perfectamente la escritura e incluso, presumiblemente, entienda algo de otras
escrituras orientales, al afincarse en la Península pueda adaptar el sistema a
una lengua que precisa expresar vocales, que el esperar a que un indígena lle-
gue a comprender la escritura y el idioma fenicio. En cambio un fenicio podía
recurrir al sistema conocido, lo use regularmente o no, de la scriptio plena ya
usado para notar palabras extranjeras, y extenderlo a una adaptación sistemáti-
ca. El único error del fenicio adaptador sería el no haber abstraído y unificado
las oclusivas, prefiriendo un procedimiento más conservador y respetuoso con
el conjunto de signos ya disponible, a suprimir los grafemas sobrantes.
Si esta primera o estas primeras adaptaciones respondían ya a un alfabeto
redundante o si, por el contrario, ya a un semisilabario, es un aspecto de impo-
sible certeza. Mi opinión es que es más lógico suponer que se trató de un alfa-
beto redundante, ya que es lo que más se asemeja al resultado de las otras es-
crituras procedentes de alefatos, y dado que la evolución desde un alfabeto re-
dundante a un semisilabario sería un simple y lógico proceso de simplificación.
Este orden supondría asimismo una explicación sencilla al hecho de que el si-
labismo sólo se dé en los signos de oclusiva y es tanto el más económico desde
el punto de vista del origen fenicio, como el más adecuado al testimonio de la
escritura sudlusitana.
No obstante, no resulta imposible el proceso inverso, por más que resulte
un tanto artificioso, dado que si bien existe un único testimonio, éste es muy
cercano. Es el fenómeno de aparente redundancia que se da en un pequeño pero
consistente grupo de inscripciones celtíberas. Aunque ello deba atribuirse a la
influencia de la escritura latina y, tal vez, a la necesidad de notar oclusivas no
seguidas de vocal, resulta un paralelo válido. Su principal problema es que re-
sulta muy difícil explicar el origen del semisilabismo a partir del alefato feni-
cio. Pero, en todo caso, hay que convenir que este detalle estructural, por inte-
resante que resulte, no interfiere en absoluto al considerar el origen y evolución
paleográfica de los signos(21).

(21) Es cierto que Adiego (1993, 21) hace referencia, como paralelo del paso de un
silabario a un alfabeto, a una cita de Gelb (1976, 270) sobre la invención por el rey de los
Njoyas de un sistema de escritura donde, la posterior adición de vocales a un silabismo
inicial (puesto que al parecer el modelo a emular era un silabario de un pueblo vecino).
Gelb concluye que prueba que «un alfabeto puede originarse no solamente de un silabario
del tipo semítico,» – Gelb considera los alefatos semitas como silabarios- « que consista
en signos sin indicación de vocales, sino también de un silabario como el bamum, com-
204 J. Rodríguez Ramos

EL PASO DEL SIGNARIO FENICIO AL SUDLUSITANO

En esta sección trataremos los principales rasgos evolutivos que se pue-


den hallar entre el fenicio y el sudlusitano, entendiendo a éste último como el
modelo más antiguo identificable de las escrituras de tipo íbero. Pero no se en-
trará más que marginalmente en los rasgos de evolución interna del sudlusita-
no.
La comprobación empírica de la adaptación de los signos, y la propia rea-
lidad paleográfica de la escritura sudlusitana, inducen a considerar una serie de
normas generales en el proceso de acomodación formal de los signos
fenicios.
– 1o: Los signos sudlusitanos se basan en:
a) una o dos líneas verticales (principio de verticalidad)
b) o en formas geométricas simples (principio de geometrización).
– 2o: El rasgo distintivo de un signo nunca está exclusivamente en la parte
inferior del mismo; si hay alguno en la parte inferior es porque ya lo hay en la
superior.
– 3o: a) los signos, fenicios o inventados, pueden desdoblarse en dos (prin-
cipio de desdoblamiento); mientras que
b) en un momento posterior pueden unificarse los signos oclusivos redun-
dantes de a y e, o de o y u, tal vez incluso de cuatro o cinco vocales (principio
de simplificación de repertorio).
4o: Las oclusivas enfáticas fenicias son asociadas a la vocal anterior
i.
Signos vocálicos: siguen un sistema de aprovechamiento de los fonemas
fenicios idéntico al del yiddish.
– a: procedería de alef, en principio, una laringal oclusiva sonora(22).
Evolucionaría de forma paralela a la griega mediante desviación del ángulo
hacia la izquierda. Con todo, no puede descartarse que se adopte de un
repertorio parafenicio, ya que la forma está atestiguada en la zona Palestina
a fines del II milenio.

puesto de signos con completa indicación de vocales». Sin embargo, siempre según Gelb,
la necesidad de crear signos vocálicos se debió a la voluntad de, en vez de usar la escritura
para la lengua njoya o bamum, se decretó la creación de una nueva lengua mezclando pa-
labras del francés, inglés y alemán cuya pronunciación se conservaba, aunque se les daba
un significado arbitrario y que «dada la insuficiencia del sistema silábico existente para
expresar palabras extranjeras, se introdujo un recurso para agregar signos vocálicos a las
sílabas abiertas». Difícilmente puede extrapolarse un caso tan artificioso y tan específico,
ni, desde luego, puede extrapolarse la etiología del proceso africano a las escrituras pale-
ohispanas, que mantienen siempre el mismo esquema pentavocálico.
(22) Como todas las demás atribuciones fonéticas del fenicio, debe considerarse sólo
probable dado que es imposible contrastar la fonética fenicia de forma directa.
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 205

– e: adaptación sin cambios relevantes de la faringal fricativa sonora


ayin.
– i: adaptación de la yod según el principio de verticalidad, resaltándose
el apéndice.

– o: adaptación de la forma clásica del alef, desdoblando el signo según


el modelo del yiddish. De acuerdo con el principio de verticalidad se mantiene
apoyado en un eje, mientras que, como sucede en algunas inscripciones feni-
cias o perifenicias, el triángulo horizontal se abre trocándose en dos líneas pa-
ralelas que, comúnmente, conservan la inclinación del original.

– u: adopción del waw

Sonantes y sibilantes:
– l: adapta la lamed. De acuerdo con el principio 2 el rasgo distintivo pa-
sa a la parte superior. Ello conllevará modificaciones en los signos derivados
de gimel y de pe.

– n: adopción de nun, algo verticalizada.


– r, adopción de resh.
– ŕ: es posible que se derive de zayin, tras haberse rotado, y
con ligeras modificaciones.

La transcripción como ŕ depende del testimonio del íbero meridional(23).


No se puede determinar si en sudlusitano corresponde a una segunda vibrante o
a una tercera sibilante. En fenicio, el zayin parece corresponder a una sibilante
sonora, pero, de acuerdo con Harris, hay indicios de que en Chipre correspon-
día a un fonema compuesto o africado, lo que coincidiría con su interpretación
en griego (HARRIS 1936, 23s). Es vieja la discusión sobre si algunas sibilantes
en diversos idiomas semitas correspondían en realidad a africadas dentales(24).
Un buen testimonio de lo dicho lo constituyen las cuidadosas transcripciones

(23) Si bien invirtiendo las transcripciones tradicionales del íbero de r y ŕ dado que
el valor de erre primaria ha de corresponder, al igual que testimonia el grecoibérico, al si-
gno descendiente de resh.
(24) Por ejemplo, recientemente Bomhard (1984, 149), si bien en interés de trazar
206 J. Rodríguez Ramos

egipcias de términos fenicio-palestinos en las que el egipcio tj (fricativa dental


sorda) equivale a s fenicia, mientras que su equivalente sonora dj equivale tan-
to a zayin como a tsade(25).
Independientemente de todas estas consideraciones, dado el testimonio
del íbero y que el signario sudlusitano no representa la distinción de sonoridad,
resulta provisionalmente más probable considerar que representa una segunda
vibrante. Desde este punto de vista, el paso de zayin a una vibrante erre puede
haberse realizado de tres formas diferentes: a) se ha reaprovechado el signo no
oclusivo sobrante para otro fonema no oclusivo del sudlusitano (o de la lengua
receptora); b) representa un fonema vibrante similar a /z/; c) de forma similar a
b) pero menos explicable se relacionaría con un fenómeno de rotacis-
mo(26).
Existen también fonemas vibrantes asibilados que podrían relacionarse
tanto con un original /z/ como con /dj/, siendo bien conocida la vibrante postal-
veolar fricativa del checo. Este fonema es comúnmente confundido por los ex-
tranjeros con una combinación del tipo rsh, de forma muy similar a la del alfa-
beto umbro que en latino es transcrita como rs.
– s: adopción de samek.
– ś: para este signo, de igual manera que para el san griego, pueden pro-
ponerse dos posibles orígenes fenicios: tanto shin, como tsade. Desgraciada-
mente la estela de Espanca no permite salir de dudas, aunque apunta ligera-
mente a que el signo de origen sea el a priori más probable, el de
shin(27).
De todas maneras, la morfología de los signos fenicios del s. IX
muestra que el shin es mucho más asimilable a la forma sudlusitana.
El origen desde shin sólo precisaría una rotación del signo, fenómeno
atestiguado en sudlusitano, mientras que la necesidad de tal rotación estaría
justificada en que el original fenicio prima los rasgos distintivos inferiores,
lo que incumpliría la norma 2. Por el contrario, un origen en tsade produce
problemas, ya que no conservaría la barra vertical, en contra de la estética
habitual de los signos sudlusitanos, y se trata de un fonema enfático,
que en sudlusitano suelen ser reaprovechados de una forma especial.

una reconstrucción del protonostrático, considera que en hebreo s, z y tsade serían africa-
das dentales.
(25) Albright (1974, 33-67), sobre testimonios del II milenio a.C.
(26) Fenómeno según el cual una s sonora, preferiblemente intervocálica, como en
latín, pasa a /r/ simple.
(27) El problema radica en identificar el signo que le precede, de morfología aberran-
te. Si es una deformación de resh entonces, de acuerdo con el orden del alefato fenicio, só-
lo le puede seguir shin, pero si es una deformación de pe, lo que estructuralmente es algo
menos probable, pueden admitirse ambas sibilantes.
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 207

(rota por 2a) > (por 1a)

Signos de oclusiva:
En la adaptación de signos fenicios para los pseudosilabogramas de oclu-
siva observados en sudlusitano se ha respetado el punto de articulación del ori-
ginal, cuando este puede comprobarse en sudlusitano. Las consonantes enfáti-
cas fenicias han sido reasignadas a pseudosilabogramas en /i/. Como era de es-
perar, el casillero de pseudosilabogramas ha sido completado con signos inven-
tados. Dentro de esta invención, si mi hipótesis de la lectura de los signos bu y
ku, según la cual intercambio los valores comúnmente admitidos, es correcta,
puede comprobarse que los signos para las vocales posteriores (/o/ y /u/) pre-
sentan morfologías emparentadas.

Signos de oclusiva ligados a -a:


Este es el único caso en que parece que ha de contemplarse la existencia
irreductible de cuatro de estos pseudosilabogramas, puesto que en los de u es
probable que el supuesto cuarto no sea más que una variante de otro.
– S-31 : ta: adopción de la taw fenicia.
– S-41 : ka: adaptación de la gimel fenicia ( ). En la inscripción de Ki-
lamuwa se encuentra alguna variante similar. Sin embargo la adaptación no
ofrece problemas, pues es normal en diversos signarios antiguos, como en el
propio íbero levantino. Dicho cambio, con todo, contravendría la norma de ver-
ticalidad postulada. La razón puede estar relacionada con la necesidad de dis-
tinción respecto a la l sudlusitana.

– S-101 : ba: adopción de la mem fenicia arcaica, posiblemente de una


forma fenicia ya algo inclinada, pero corregida por el principio de verticalidad.
No hay problemas para la adaptación fonética, pues /m/ es también una oclusi-
va labial.
– S-111 : ?. Dado que es el cuarto signo de la serie de consonantes
que preceden a a, y que tres de las vocales impiden proponer la existencia
de una cuarta serie, no es posible atribuirle un valor. No descarto, aunque
sea meramente especulativo y poco sistemático, que corresponda a una
sonante que, por motivos de fonética sintáctica, suela preceder a a; puesto
que es la hipótesis menos improbable en el estado actual de los conocimientos.
208 J. Rodríguez Ramos

Procede claramente de la he fenicio y cabe la posibilidad de que efectivamente


represente una /h/ en sudlusitano(28).
– S-121 : ?. Signo poco frecuente, se emplea, una o dos veces, en un úni-
co yacimiento, antecediendo a a. No presenta ninguna relación obvia con nin-
gún antecedente fenicio. Combinatoriamente podría tratarse del sustituto local
de S-111(29).

Signos de oclusiva con e:


– S-22 : be: adaptación de bet, según ha puesto en evidencia la estela de Es-
panca. Ha sido algo asimilada a la forma geométrica del círculo, ya sea ello de-
bido al principio de geometrización o al hecho de que su vocal, la e, sea un cír-
culo; significativamente ambos suelen tener el mismo reducido tamaño.

– S-32 y variantes: te corresponde a la serie de signos similares a het,


˙
signos que clasifico en la serie 200, en su aparición ante e. Si bien son formal-
mente reminiscentes al het fenicio, se trata de una forma geométrica; por lo
˙ un reaprovechamiento del signo fenicio como de un
que tanto puede tratarse de
creación nueva. En cualquier caso no se le ve ninguna relación fonética con la
faringal sorda del fenicio. Según mi análisis de distribución espacial en la zona
costera, más meridional del sudlusitano se produce una hiperregularización por
el que los signos de het pasan a sustituir a la típica aspa ante a como ta (AES:
193 ss; mapas 11-13). ˙
– S-42 : ke: adopción de kaf diferenciando, seguramente por motivos de
trazado el trazo vertical del ángulo. Alguna variante en forma de semicírculo
que probablemente sea también ke debe explicarse por evolución interna del
sudlusitano.

Signos de oclusiva con i:


S-33 : ti: adaptación de la dental enfática tet que se asocia a i tal como
˙

(28) De hecho en fenicio corresponde a un fonema laringal sordo (BRIXHE 1991, 318;
recogiendo la reconstrucción de Segert) que encaja con la descripción de la laringal 2 del
protoindoeuropeo (fricativa laringal sorda), causante de vocalizaciones en /a/, tanto como
asimilación regresiva (siguiendo a la vocal) como en regresiva (precediéndola). Física-
mente, se debería a que este tipo de laringales se pronuncian con la lengua baja, lejos del
paladar, de forma similar a la vocal abierta /a/. Grammont indica este fenómeno en la asi-
milación regresiva de /i/ y /u/ en /a/ seguidas de fricativa laringal sorda en algunos dialec-
tos árabes. Asimismo, señala una asimilación progresiva de este tipo con oclusiva laringal
sonora, que produce diptongos /ai/ y /au/ (GRAMMONT 1965, 214).
(29) Consecuentemente con lo explicado sobre que S-111 pudiera ser un sonido del
tipo de /h/, entonces S-121 pudiera ser su sustituto elaborado añadiendo un apéndice al fo-
néticamente similar ka.
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 209

parece ser lo habitual en las enfáticas. En realidad el modelo fenicio casi siem-
pre presenta dos trazos interiores, puesto que parece que se creó como derivado
de taw, pero también puede hallarse con un solo trazo. La forma sudlusitana
enfatiza la verticalidad del único trazo interior, por lo que en ocasiones el cír-
culo se convierte en una especie de elipsoide.

S-43 : ki: adopción de la velar enfática.


S-103 : bi?: Este signo es poco frecuente y de valoración insegura; Unter-
mann incluso no lo considera pseudosilabograma. Si se admite hipotéticamente
esta valoración, el origen en el pe fenicio es morfológica y fonéticamente posi-
ble, aunque, desde luego, no se parece al signo, sea resh o sea pe, que en Es-
panca ocupa su sitio en el orden de signos inicial fenicio(30). Mientras que de
hecho sí se encuentra un signo homomorfo a S-103 al final del signario de Es-
panca, lo que supone otra seria objeción a que S-103 provenga del pe
fenicio.
Hay que observar que fonéticamente pe es una labial por lo que dicha
adaptación no sería extraña. Es más, de la serie de labiales fenicias, a falta de
una labial enfática, es la relativamente más enfática de la terna, lo que pudiera
explicar también una interpretación como bi. Formalmente la adaptación pue-
de parecer que presenta problemas, pero dado que el descendiente evidente de
la pe fenicia sería una especie de l sudlusitana y que ya ka ha sido alterado para
diferenciarlo de l, cabe plantear la solución de reduplicación de rasgos para di-
ferenciarlo. En efecto, si duplicamos de forma simétrica el apéndice superior
de pe y observamos la regla de verticalización obtendremos S-103. Con todo,
esto no deja de ser un tratamiento hipotético y es probable que se trate de un
signo inventado.

Signos de oclusiva con vocal o o u:


Esta parte permite un tratamiento especial, pero problemático, dado
que los signos para ambas vocales parecen estar morfológicamente muy
emparentados. Ahora bien, conviene recordar que fundamentándose en su
evolución posterior en meridional, donde la forma S-45 puede ser tanto
ko como bo; es communis opinio que S-45 es bu en sudlusitano y,
consecuentemente, que ku es S-202. Personalmente considero que un cambio

(30) Esto constituye un problema importante. Si ese signo fuese r habría que suponer
que pe no ha sido adaptado a un sonido próximo a su original, como sucede en la serie de
orden fenicio, mientras que si suponemos que efectivamente es el equivalente a pe sería r
una flagrante excepción a lo que parece una norma.
210 J. Rodríguez Ramos

de ku (una falsa labiovelar) a bo es factible fonéticamente y prefiero


primar en la hermenéutica del signario sus regularidades en la formación.
Este origen común estaría justificado en la similitud fonética entre /o/ y
/u/, ambas vocales posteriores. De hecho la mayor inscripción sudlusitana co-
nocida, con 75 signos, de Fonte Velha, se caracteriza por no presentar ni un so-
lo caso de u como si en su dialecto ambas vocales se hubiesen fusiona-
do.
S-24 : bo; y S-202 bu cuando precede a u: se trataría de signos sin ba-
se fenicia sino inventados. Es plausible que S-202 provenga de añadir un apén-
dice interior a bo.
S-34 to; y S-35 tu: el signo original es tu que resulata de la adopción
del dalet fenicio. El signo to, poco documentado, es claramente un derivado de
tu.
S-44 ko; y S-45 , ku: ko es un signo geométrico inventado,
mientras que, de acuerdo con mi interpretación, S-45 sería ku y, consecuente-
mente, un derivado de ko por inclusión de un apéndice.
S-105 : No se puede asegurar nada sobre este signo. Morfológicamente
podría tratarse de un desdoblamiento de mem, ahora en su forma innovada del
s. VIII o de una tsade invertida. El problema es no poder asegurar su lectura,
pero dado que no está demostrada la existencia de una cuarta serie de pseudosi-
labogramas y que en sus pocas apariciones siempre lo hace ante u, parece plau-
sible suponer que se trata de una variante de alguno de los signos ya conocidos.
Podría tratarse de una variante de S-45 ku, signo con el que nunca coexiste en
una misma inscripción.

¿ES POSIBLE JUSTIFICAR LOS TIMBRES VOCÁLICOS ASOCIADOS A LOS SILABOGRAMAS A PAR-
TIR DEL FENICIO?

Esta pregunta pese a no constituir un problema substancial de la epigrafía


paleohispánica, tiene un cierto interés para la historia de la escritura. Tanto De
Hoz como Adiego coinciden en afirmar que no es posible explicar el timbre
vocálico de los silabogramas sudlusitanos de origen formal en el alefato feni-
cio pese a que, especialmente De Hoz, proponen varios modelos. Obviamente,
no sería imposible que el valor vocálico se haya atribuido prácticamente al
azar en algunos casos e incluso, subliminalmente, esta no adecuación apoya su
idea de que el sudlusitano no es representante de la primera adaptación indíge-
na. Por más que paleográficamente el signario de Espanca está más alejado del
modelo fenicio que el de las inscripciones sudlusitanas, el hecho de contar con
un orden de adaptación del alefato ha hecho reavivar la cuestión de su
origen.
Por mi parte, las principales diferencias de método suelen consistir en
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 211

añadir a la investigación criterios lingüísticos fonéticos; criterios que resultan


totalmente oportunos al tratarse de la proyección gráfica de lenguas lo que se
estudia. En este terreno ya hemos visto que la asociación de las enfáticas feni-
cias a los silabogramas en /i/ me parece significativa (¿tal vez asimilándolo a
una palatalización consonántica?) y que creo que es bastante para explicar dic-
ho timbre vocálico(31). Tomando esto como base creo que sí puede explicarse
el resto de los silabogramas, aunque conviene hacer dos observaciones. En pri-
mer lugar, es una explicación válida y posible que técnicamente permite expli-
car el problema, pero que no es necesaria y que implica considerar condicio-
nantes fonéticos que, si bien son conocidos en numerosas lenguas, no están de-
mostrados para la lengua adaptadora. En segundo lugar, hay que partir de que
el orden del alefato y la necesidad de no repetir valor vocálico son factores de-
cisivos; criterios estos seguidos por Adiego (1993), aunque para llegar a una
conclusión negativa, pero que aunque son técnicamente posibles no están pro-
bados y carentes de paralelo. Por más que es un criterio plausible y aceptable,
no es seguro.
Si aceptamos estos criterios, podemos seguir un proceso paralelo al de
Adiego a partir del orden de adopción indicado en la estela de Espanca. En pri-
mer lugar las letras de Espanca 17 y 21, son enfáticas provenientes del fenicio
tet y qof. Al ser fonemas extraños se readaptan y por ello no aparecen dentro
˙del orden inicial sino como añadidos y, de acuerdo con lo indicado, no ha de
ser coincidencia que ambos se utilicen para /i/. Es posible que una explicación
similar valga para el 23, pero ni es seguro ni relevante.
Seguimos por la serie inicial que es sobre la que se concentra Adiego. El
primer signo silabogramático es el 2o be proveniente de bet (gr. beta) por lo
que el vocalismo parece natural. El siguiente es el 3o ka proveniente de gimel /
gamel que de acuerdo con el griego gamma tampoco presenta problemas. Lue-
go el 4o es dalet (gr. delta) sobre cuya utilización para tu volveremos después.
Tras él encontramos el 6o ke proveniente de kaf (gr. kappa) cuyo vocalismo ex-
plica Adiego considerando que el puesto para ka ya está ocupado. El siguiente
parece ser el 8o, probablemente ba, proveniente de mem (el gr. mu es probable-
mente analógico), que también cambia de vocal no posterior ante el ya usado
be. Al no ser explicable el 11o, el último de la serie es el 13o ta que, al provenir
de taw (gr. tau) tampoco precisa especial explicación.
Éste sería básicamente el modelo expuesto por Adiego quien, aunque no

(31) J. De Hoz me ha hecho la interesante observación de que justamente las enfáti-


cas en las lenguas semíticas eluden el contacto con la vocal /i/. Sin embargo, mi idea es
que se adaptó un sonido fenicio peculiar a oídos de los indígenas para transcribir otra reali-
zación peculiar nativa. Por otra parte, no puede descartarse que las «enfáticas» fenicias no
fuesen, en realidad, glotálicas.
212 J. Rodríguez Ramos

tiene en cuenta lo de los signos enfáticos fenicios ni entra en cómo se origina-


ría el resto de los silabogramas, no lo considera satisfactorio al no poder expli-
car el valor de tu. Ahora bien, si tenemos en cuenta el nombre original de la le-
tra, tradicionalmente dalet, pero que el griego, siempre conservador en el regis-
tro vocálico, denominó delta, llama la atención que el timbre vocálico selec-
cionado en sudlusitano es el afín a los rasgos fonéticos de la pronunciación de
/l/. Consonante que, por otro lado, especialmente cuando cierra sílaba, en muc-
has lenguas suele producir una asimilación regresiva velarizando el timbre de
la vocal que le precede. No creo que resulte exótico ni lejano ejemplificar este
fenómeno con lo que sucede en latín (PALMER 1988: 216-223). En principio una
forma posible *delet se pronunciaría dolet si la vocal fuese tónica (como es
normal en las iniciales del latín antiguo y rasgo que impediría el proceso sobre
dalet). Pero en latín si hipotéticamente la forma fuese átona, ante /l/ velar, co-
mo sería el caso, aún en sílaba abierta cualquier vocal pasaría a /u/. Ahora bien,
si tenemos en cuenta la dualidad de nombres entre el griego delta y la tradicio-
nal dalet puede reconstruirse que el original fuese *delt. En este caso lo regular
en latín sería pronunciarlo dult como se ejemplifica en formas del verbo «que-
rer» cuya vocal de base es /e/: velim (con l palatal) frente a volo y vult(32). Esta
velarización o bemolización regresiva del timbre de la vocal ante /l/ en posi-
ción implosiva no es en absoluto un capricho de la fonética latina, sino que res-
ponde a las características de la fonética acústica de la consonante.
Guarda su lógica fonética en que la pronunciación más normal de la /l/ es
velar y que las vocales velares son /o/ y en mayor medida /u/, y que los fone-
mas sonantes, especialmente en posición implosiva, suelen alterar en mayor o
menor medida los formantes acústicos vocálicos de la vocal de su sílaba.
Desde este punto de vista creo que técnicamente sí que es posible explicar
el vocalismo de los silabogramas de la escritura sudlusitana a partir del nombre
y el orden del signario del alefato fenicio. No obstante el que la explicación sea
posible y funcione no implica que sea correcta, aunque creo que los indicios
que presenta merecen tenerse en cuenta.

LA APORTACIÓN DEL SUDLUSITANO A LA HISTORIA DE LA ESCRITURA

El contenido de las páginas precedentes nos ha de conducir a una serie de


reflexiones. En primer lugar destaca que en las exposiciones de la historia de la
escritura estándares se tiende a centrar demasiado la atención en el alfabeto

(32) Sin embargo, si el signo tu se explica a partir de la fonética de la lengua recep-


tora ello apoyaría la idea de que el creador de la escritura fuese un indígena y no un fenicio
como, en principio, creo probable.
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 213

griego. Las escrituras orientales previas interesan básicamente como antece-


dentes del mismo. Sin embargo al resto de evoluciones paralelas surgidas de
modelos alefáticos fenicios o similares sólo se les presta una atención superfi-
cial, habiendo despertado poco interés el problema del origen y configuración
de sistemas como los índicos, los etiópicos o el aqueménida. En esta situación,
el testimonio de las escrituras paleohispánicas, que llega a crear un alfabeto in-
dependientemente del griego (en mi opinión como forma originaria, derivando
posteriormente al semisilabismo), presenta un indudable interés.
En primer lugar tenemos el puramente anecdótico, pero muy apreciado
por las corrientes historiográficas de que, efectivamente, con los datos disponi-
bles puede defenderse el que el alfabeto sudlusitano sea anterior al griego, co-
múnmente considerado el primer alfabeto de la humanidad.
Más interesante es el hecho de que disponer de dos sistemas de escritura
alfabéticos derivados en fecha similar a partir del alefato fenicio nos permite
entender mejor cómo funcionaba éste. Esto y los propios datos de la adaptación
del sudlusitano son útiles para reconsiderar algunos problemas del origen del
alfabeto griego. Si se confirma, como es probable y he defendido en este artí-
culo, que la forma de alfa llega como signo vocálico independientemente a
griego y sudlusitano, y tenemos en cuenta que éste es el signo prefenicio que da
lugar a alef podemos plantearnos el que existiesen algunas tradiciones parafe-
nicias arcaizantes todavía en el s. IX. Es posible que estas tradiciones recogie-
sen algunos signos para la indicación de vocales, probablemente al estilo de la
escritura ugarítica, es decir limitados a posición inicial tras ataque vocálico.
Esto también podría explicar la posición de upsilon en el alfabeto griego que,
como hemos visto es paralela al vocalizador de /u/ en ugarítico. La invención
del alfabeto no sería un invento ex novo sino que procedería de un recurso ya
conocido en el Oriente Próximo. Los hablantes de lenguas semíticas no lo ha-
brían sistematizado porque para sus lenguas este recurso sería superfluo (de la
misma manera que en la actualidad el sistema notación de vocales es muy inu-
sual en árabe). Por el contrario, griegos y sudlusitanos necesitarían usar siem-
pre este recurso para entenderse y acabarían sistematizándolo, siguiendo el
modelo de los signos auxiliares que sabían usar los fenicios para expresar tér-
minos extranjeros.
Estos datos, además de advertirnos de lo mucho que nos falta por descu-
brir respecto a las escrituras de la zona palestina a inicios del primer milenio
a.C., enfatizan la importancia de las poblaciones fenicias y perifenicias en el
origen del alfabeto.
También es interesante la información que irá proporcionando, según se
perfeccione nuestro conocimiento del sudlusitano, al respecto del conocido
problema de la adaptación de los signos de sibilantes fenicios al griego. Es casi
seguro que el signo s en íbero, el descendiente de samek/xi, representa un fone-
ma africado del tipo /ts/, lo que hace probable que también lo fuese en sudlusi-
214 J. Rodríguez Ramos

tano. En tal caso resultaría que tanto el griego como el sudlusitano habrían en-
tendido samek como un fonema compuesto, lo que, junto al testimonio de las
transcripciones egipcias de términos fenicios, reforzaría la idea de que la re-
construcción fonética tradicional de samek es errónea. Ello permitiría entender
el origen de xi. Por otra parte y aunque es todavía problemático, parece que el
signo zayin es también adaptado en las escrituras paleohispánicas para formar
un signo que en íbero será una variante de ‘erre’ pero del que desconocemos su
valor en sudlusitano.

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El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 217

RESUMEN DEL SIGNARIO SUDLUSITANO


218 J. Rodríguez Ramos

FORMACION DEL SIGNARIO SUDLUSITANO. 2 SIGNOS INVENTA-


DOS.

A) Signos en forme de het:


˙
Ante a: ta (Derivado secundario epicórico de te)

Ante e: te

Ante o: bo

Ante u: bu (Probablemente derivado de bo)

B) Otros:

Signo ko > de él deriva ku


El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 219

FORMACION DEL SIGNARIO SUDLUSITANO. 1 SIGNOS DE ORIGEN


FENICIO

Signo Fenicio Forma fenicia S. IX Sudlusitano

Alef a o

Bet be

Gimel ka

Dalet tu >to

He h?? (valor y filiación


hipotéticas)

Waw u

Zayin tal vez ŕ

Het coincidencia formal con algunos


˙
signos

Tet ti
˙
Yod i

Kaf ke

Lamed l

Mem ba

Nun n

Samek s

Ayin e

Pe tal vez bi?? (Problemático)

Tsade
220 J. Rodríguez Ramos

Qof ki

Resh r

Shin ś

Taw ta
El origen de la escritura sudlusitano-tartesia ... 221

SIGNARIO DE ESPANCA (J.25.1)


222 J. Rodríguez Ramos

Inscripción de Tel Dan, según Biran y Naveh (IEJ 45-1, 1995, p. 12; dibujo de
A. Yardeni)
RStFen, XXX, 2 (2002)

NOTE E DISCUSSIONI

PALEOGRAPHIC OBSERVATIONS ON A PHOENICIAN


INSCRIBED OSTRACON FROM BEIRUT

PH. C. SCHMITZ - Ypsilanti

Among the many important discoveries resulting from excavations direc-


ted by Dr. Leila Badre from October 1993 until July 1996 in the site labeled
Bey 003 in the ancient tell of Beirut are a few ostraca bearing short Phoenician
texts in red ink or paint(1). One of these ostraca is illustrated in an excellent
black-and-white photograph published in the preliminary report (Fig. 1)(2). As
the excavation director explains, the published example illustrates a group of
inscribed ostraca bearing the same text: lšmn, «for oil», probably indicating
the intended contents of the containers(3). The published example shows
clearly only the three letters šmn, and my present comments are mostly limited
to the first letter, šin(4).
The Phoenician letter šin underwent considerable variation and de-
velopment in the course of time. From the twelfth century until the early
seventh century, šin has the well-known four-stroke or «saw-tooth» form(5).
By the middle of the seventh century, a three-stroke variety of šin has
developed(6). The three-stroke šin incised on ostracon TDB 91001 from
Castillo de (or Tell) Doña Blanca (near Cadiz, Spain) is the earliest example

(1) L. BADRE, Bey 003 Preliminary Report: Excavations of the American University of
Beirut Museum 1993-1996: BAAL (Bulletin d’Archéologie et d’Architecture Libanaise), 2
(1997), pp. 6-94. Reprinted at http://almashriq.hiof.no/ddc/projects/museum/baal/1997/pa-
ge91.html. Details about the site and the excavation process are given pp. 6-12.
(2) Badre (supra nota 1), p. 74 and fig. 47d (p. 91). The registration number of the
ostracon is 95.120. The context from which the ostracon came is Bey 003 787. I thank Dr.
Badre for providing these details (e-mail message, January 23, 2001).
(3) Badre (supra nota 1), p. 74. A. LEMAIRE, Bulletin d’information I. Syrie-Phéni-
cie-Palestine: Épigraphie: Transeuphratène, 17 (1999), pp. 111-12.
(4) I wish to thank Dr. Badre for permission to comment on this inscription.
(5) See J. B. PECKHAM, The Development of the Late Phoenician Scripts, Cambridge
1968, pp. 169-70; G. GARBINI, Storia e problemi dell’epigrafia semitica: Annali dell’Istitu-
to Orientale di Napoli, Suppl. 19 (1979), pp. 54-55; M.G. AMADASI GUZZO, Scritture alfa-
betiche, Roma 1987.
(6) Peckham (supra nota 5), pp. 170-72.
224 Ph. C. Schmitz

of the three-stroke stage of the letter šin from a controlled context, dating
on both stratigraphic and ceramic grounds to about 750 B.C.E.(7).

Fig. 1 - Bey 003 no. 95.120


(Reproduced with permission of the author, L. Badre)

As can be seen from Fig. 2, the šin of Bey 003 no. 95.120 has a somewhat
unusual shape. The right stroke is elongated and the center stroke intersects it
to the right of its intersection with the left stroke. This form of šin is also found
in the Cebel Ires Daği inscription from Rough Cilicia (there are many exam-
ples; the example in Fig. 2 is traced from the first line of Face C)(8). The Ce-

(7) J.-L. CUNCHILLOS, Inscripciones fenicias del Tell de Doña Blanca (V). TDB
91001: Sefarad, 53 (1993), pp. 17-24. For a more detailed argument concerning the date
and significance of this graffito, see PH. C. SCHMITZ, Phoenician Seal Script: W.A. AUF-
RECHT - J.A. HACKETT (edd.), An Eye for Form. Epigraphic Studies in Honor of Frank Moo-
re Cross (in press). Peckham’s earliest example of the three-stroke šin was from the šlmy
jar inscription from Azor; on the date, see Peckham (supra nota 5), pp. 125-27.
(8) P. MOSCA - J. RUSSELL, A Phoenician Inscription from Cebel Ires Daği in Rough
Cilicia: Epigraphica Anatolica, 9 (1987), pp. 1-28. Note the script chart, p. 27, and pl.
4.
Paleographic Observations on a Phoenician... 225

bel Ires Daği inscription shows three varieties of three-stroke šin: (1) with three
strokes converging at a single point (e.g., Face B, line 2, letter 5); (2) with cen-
ter stroke meeting left stroke above and parallel to the right stroke; (3) the va-
riety in Fig. 2 discussed here. This third variety is the most frequent form of the
letter šin in the Cebel Ires Daği inscription, in contrast to other extant Phoeni-
cian inscriptions of the period(9).

Fig. 2 - Bey 003 no. 95.120: «third variety» three-stroke šin (above);
«third variety» three-stroke šin from Cebel Ires Daği inscription (below).

Another example of this third variety of three-stroke šin is from Mo-


tya(10). In this example, the center stroke intersects the right stroke only slight-
ly above the intersection of the left and right strokes. Amadasi Guzzo notes
that both examples of the letter šin in this inscription are damaged; however,
the example in line three is only slightly damaged, and my interpretation is not
obscured by the letter’s condition(11).
A third example comes from a Phoenician-inscribed seal bearing the na-
me gršd(12). This inscription is dated in the sixth or fifth century B.C.E.(13). As
with the example from Motya, the central stroke intersects the right stroke only

(9) This third variety of three-stroke šin was not described or discussed by Peckham
(supra nota 5). I believe that the present discussion constitutes its first systematic
description.
(10) M.G. AMADASI GUZZO, Scavi a Mozia - Le iscrizioni (= Collezione di Studi Feni-
ci, 22), Rome 1986, pp. 71-75 (inscription no. 23, line 3) and tav. IX, 1. There is a three-
stroke šin of the first variety in line 2 of this inscription. The inscription was unearthed in
Stratum IV, datable to the second half of the sixth century B.C.E. (ibid., p. 71).
(11) Amadasi Guzzo (supra nota 10), p. 75.
(12) P. BORDREUIL, Catalogue des sceaux ouest-sémitiques inscrits de la Bibliothèque
Nationale, du Musée du Louvre et du Musée biblique de Bible et Terre Sainte, Paris 1986,
no. 26; N. AVIGAD - B. SASS, Corpus of West Semitic Stamp Seals, Jerusalem 1997, p. 274,
no. 736.
(13) L.G. HERR, The Paleography of West Semitic Stamp Seals: Bulletin of the Ameri-
can Schools of Oriental Research, 312 (1998), p. 57.
226 Ph. C. Schmitz

slightly above the angle formed by the intersection of the left and right
strokes(14).
The co-occurrence of three varieties of the letter šin in the Cebel Ires Daği
inscription indicates that these forms are employed as free variants by the late
seventh century. The Motya inscription cited above (no. 23) witnesses the first
and third variety, but not the second. The other example provides no evidence
concerning distribution of the form. The «third variety» of the three-stroke šin
probably developed by the mid-seventh century B.C.E., and probably
continued into the fifth century B.C.E.
The two other letters in Bey 003 no. 95.120 are consistent with this chro-
nological framework. The mem of Bey 003 no. 95.120 is of a type generally la-
beled «cursive». The cursive mem is first attested early in the seventh cen-
tury(15). One of the ink-written Phoenician texts on fifth-century ostraca from
Elephantine shows a cursive mem bearing a strong resemblance to the cursive
mem in Bey 003 no. 95.120(16). The nun of Bey 003 no. 95.120, however, is
earlier than the examples from Elephantine. It is more similar in form to the
nuns in the sixth-century Phoenician letter written in ink on papyrus from
Saqqarah(17). Comparative paleographic features of Bey 003 no. 95.120 sug-
gest that it could be dated between about 625 and 550 B.C.E. The archaeologi-
cal context of the find, however, indicates a date between 675 and 650
B.C.E.(18). It seems probable that the inscription should be dated about 650
B.C.E.

(14) There is a letter šin similar in shape on a cuboid Phoenician weight studied by J.
ELAYI - A. G. ELAYI, Recherches sur les poids phéniciens: Transeuphratène, Suppl. 5
(1997), p. 137, no. 391 and pl. XXIX, 391. The Phoenician word št in which the letter oc-
curs is inscribed in mirror-reverse (ibid., p. 178), probably for use as a stamp. Because it is
reversed, I do not consider the letter comparable to the examples of «third variety» šin al-
ready discussed. (It should probably be excised from the script chart, ibid., p. 379, fig.
11).
(15) Peckham (supra nota 5), pp. 158-59.
(16) M. LIZBARSKI, Phönizische und aramäische Krugaufschriften aus Elephantine (=
Anhang zu den Abhandlungen der königlich preussischen Akademie der Wissenschaften,
phil.-hist. Kl.), Berlin 1912, p. 6 and pl. I, no. 8. See also Peckham (supra nota 5), pp. 110-
11, pl. X, line 4.
(17) N. AIMÉ-GIRON, Bacal Saphon et les dieux de Tahpanes dans un nouveau pa-
pyrus phénicien: Annales du Services des Antiquités de l’Égypte, 40 (1940), pp. 433-460;
H. DONNER - W. RÖLLIG, Kanaanäische und aramäische Inschriften mit einem Beitrag von
O. Rössler (KAI), I-III, 3d/4th ed., Wiesbaden 1973-1979, no. 50. I have consulted the
excellent photograph in J. NAVEH, Early History of the Alphabet. An Introduction to West
Semitic Epigraphy and Palaeography, 2d rev. ed., Jerusalem 1987, pl. 4.
(18) In the same context was found an SOS Attic amphora (Badre, [supra nota 1], p.
86, and p. 89, fig. 46:2). According to A. Johnston, this amphora indicates a date not later
than 675-650 B.C.E. (L. Badre, e-mail message, April 25, 2001).
Paleographic Observations on a Phoenician... 227

The geographical distribution and paleographical significance of the


«third variety» of the three-stroke šin identified and described herein remains
to be established. My hope is that, in directing scholarly attention to this form,
this brief study will arouse further interest among paleographers.
RStFen, XXX, 2 (2002)

RECENSIONI E SCHEDE

AA.VV. (a cura di M. L. FAMÀ), MOZIA. Gli scavi nella «Zona A» dell’abitato, Bari
2002. 378 pp.; figg., tavv. e grafici nel testo. Centro Internazionale di Studi Fenici,
Punici e Romani del Comune di Marsala.

È la prima volta che uno scavo condotto a Mozia viene pubblicato sistematica-
mente e integralmente a pochissimi anni di distanza dal completamento della ricerca
sul campo. È proprio questo il primo merito del volume in esame, frutto di una ricerca
pluridisciplinare avviata dalla Soprintendenza BB.CC.AA. di Trapani, sotto la dire-
zione di M. L. Famà, che restituisce con tempestività alla comunità scientifica un pa-
trimonio di dati e conoscenze fondamentali non solo per chi studia Mozia, ma per tutti
coloro che, a diverso titolo, operano nel campo degli studi di Archeologia
fenicio-punica.
L’opera, stampata per i tipi della Casa editrice Edipuglia, inaugura la collana di
monografie promossa e avviata dal Centro Internazionale di Studi Fenici, Punici e Ro-
mani del Comune di Marsala nato al fine di incentivare la conoscenza della Sicilia an-
tica nell’ambito del contesto storico-culturale del Mediterraneo.
Il volume si apre con una Prefazione di V. Tusa, cui si deve l’avvio degli scavi
nell’abitato di Mozia, negli anni ’60; segue l’Introduzione di M. L. Famà, in cui la
studiosa illustra la nascita e le finalità del progetto della ricerca intrapresa nel 1987
nella c.d. «Zona A», ubicata proprio nel cuore di Mozia e comprendente l’ambiente
già noto come «Casa delle anfore».
La prima parte del lavoro (I. Il Contesto, pp. 15-34) tratta della morfologia dell’i-
sola nel suo contesto territoriale, fornisce i lineamenti essenziali della storia del sito e
presenta lo stato delle conoscenze sull’abitato. Rendendo conto delle scoperte più re-
centi, M. L. Famà presenta una rilettura aggiornata della struttura urbana dell’antica
Mozia, mettendo in rilievo come la verifica dell’assenza di un impianto stradale rego-
lare nella zona centrale dell’isola induca alla revisione di ipotesi formulate in passato
a proposito dell’esistenza di due diversi impianti stradali: uno ortogonale, nella zona
centrale dell’isola, forse a partire dal VI sec. a.C.; uno, più antico, costituito da strade
ad andamento curvilineo, lungo il circuito naturale dell’isola. L’attestazione di strade
curveggianti al centro dell’isola, le divergenze spesso notevoli di orientamento degli
assi viari rettilinei e la mancata evidenza di raccordi tra le arterie individuate sembra-
no infatti mettere in dubbio la possibilità di un impianto stradale regolare «di tipo ip-
podameo». Relativamente più chiara sembra invece la planimetria della fascia peri-
metrale, dove le strutture finora note sono orientate secondo la linea costiera, lungo il
tracciato «anulare», individuato sul margine settentrionale dell’abitato.
Con la parte seconda (II. La «Zona A», pp. 35-67) si entra nel vivo della trattazio-
ne. La definizione del modulo urbanistico dell’isolato in esame, indagato estensiva-
mente e, solo in parte, in profondità – noto, quindi, pressocché integralmente nel suo
assetto finale attribuibile agli inizi del IV sec. a.C./post 397 – costituisce, infatti, la
230 Recensioni

necessaria premessa alla disamina analitica dei risultati degli scavi condotti negli edi-
fici denominati A e B, ubicati nel settore est dell’isolato stesso. Di questi due edifici
anzitutto viene illustrata la sequenza delle fasi, nell’ambito di sei distinti periodi di
occupazione – quella che l’A. definisce microstoria delle due strutture abitative – cui
corrisponde una sequenza puntuale, in termini di cronologia assoluta, dalla fine del-
l’VIII sec. a.C. all’età contemporanea.
Nell’alternanza di fasi costruttive o ricostruttive e fasi di abbandono, si riesce a
connettere l’attività edilizia svoltasi nell’isolato in esame con quella evidenziata, a
Mozia, in altri complessi pubblici o in edifici privati: così, ad esempio, la prima fase
di occupazione del settore orientale della «Zona A» coincide con il primo impianto
del tofet; l’obliterazione di strutture funzionali, nella seconda metà del VI sec. a.C.,
può essere collegata ai violenti episodi bellici che contrassegnarono quel periodo; le
consistenti attività di ristrutturazione nel corso del V sec. a.C. trovano raffronto nel
coevo fervore edilizio che interessa santuari, mura urbiche, strutture portuali,
case.
La data dell’assedio dionigiano non coincide con la cessazione di vita nella «Zo-
na A»: forse la centralità del quartiere e le attività (trasformazione e conservazione di
prodotti agricoli) in esso svolte prima del 397 a.C. ne determinarono una continuità di
frequentazione fino agli inizi del III sec. a.C.
In quello che, giustamente, l’A. definisce «il primo tentativo di periodizzare
strutture abitative a Mozia» un ruolo importante ha avuto lo studio delle tecniche edi-
lizie che ha consentito in alcuni casi la datazione di strutture altrimenti poco chiara-
mente definibili in termini cronologici. La tipologia elaborata da M. L. Famà, M. P.
Toti, P. Vecchio, che comprende sette tipi struttivi, ha confermato inoltre alcune cono-
scenze già acquisite a proposito di materiali e sistemi di costruzione a Mozia: l’impie-
go dei mattoni crudi, insieme a calcare, arenaria, pietre scistose; la tecnica di copertu-
ra degli edifici, che prevedeva tetti piani; la realizzazione di solidi pavimenti in calca-
re duro e compatto, in età arcaica, o ad intonaco, nel IV sec.
Elemento di assoluta novità, per Mozia, è inoltre lo studio di focolari, forni, sili
che fornisce dati preziosi ed inediti per la Sicilia sia sui sistemi di cottura e riscalda-
mento, sia sui sistemi di ammasso delle granaglie, individuando, altresì, significativi
riscontri sia in aree di cultura greca della stessa Isola, sia in centri fenici e punici di
altre regioni mediterranee.
Nella parte III (III. Lo scavo, pp. 69-128) vengono esaminati analiticamente i ri-
sultati dello scavo, condotto ineccepibilmente sia per quanto attiene al metodo e alle
strategie d’intervento sia relativamente alla raccolta e all’elaborazione dei dati strati-
grafici e materiali.
L’Edificio A, illustrato da F. Bistolfi, M. P. Toti, P. Vecchio, chiude ad Est l’iso-
lato ed è proprio in questo settore che sono più consistentemente documentati i Perio-
di I (fine VIII - seconda metà VI sec. a.C.) e II (fine VI sec. a.C.).
Il Periodo I è caratterizzato dalla presenza di un complesso di sili sotterranei,
successivamente obliterati in connessione con una mutata destinazione d’uso della zo-
na, e da due grandi cortili che hanno restituito un’ampia documentazione ceramica di
tradizione fenicia.
Una modifica nell’articolazione degli spazi si registra nel Periodo II, proprio in
Recensioni 231

relazione al mutamento della destinazione funzionale degli stessi, con l’impianto di


un nuovo cortile sul quale si aprono due ambienti, uno dei quali adibito a cucina. A
questo periodo risale la tripartizione del settore nord-ovest dell’edificio.
A proposito di questa organizzazione dello spazio, per la quale il richiamo ad
analoghe realtà planimetriche isolane («Casermetta» e «Casa di mosaici») è immedia-
to, viene giustamente rilevato come l’analogia con la planimetria del primo impianto
del quartiere di Porta Sud sia solo apparente e generica. Va peraltro ricordato che re-
centemente M. E. Aubet, in uno studio sugli edifici legati al commercio in Vicino
Oriente e in ambito coloniale(1), ha espresso perplessità sull’interpretazione della
struttura tripartita di Porta Sud come edificio pubblico o amministrativo.
Agli inizi del V sec. a.C. (Periodo III A) si fa risalire una consistente ristruttura-
zione dell’edificio che definisce l’unità abitativa nel suo assetto planimetrico presso-
ché definitivo, destinato a subire pochi e non sostanziali interventi nel periodo IV (se-
conda metà V - seconda metà IV sec. a.C.) e fino all’abbandono, anche se l’evidenza
documentaria indica con chiarezza, per alcuni ambienti, un cambiamento d’uso.
Più complessa è la sequenza delle fasi costruttive dell’Edificio B (analizzate da
M. L. Famà, G. Rossoni, P. Vecchio), del quale non sono chiaramente leggibili né la
planimetria né le vicende edilizie prima del Periodo IV A (seconda metà V sec. a.C.).
È a questo periodo, infatti, che risale l’articolazione planimetrica e architettonica che
costituisce l’evidenza attuale dell’edificio, frutto di interventi, susseguitisi nel tempo,
su strutture più antiche. Centro dell’edificio è un ampio ambiente (ambiente 1) che se-
para due grandi cortili intorno ai quali si distribuiscono diversi vani di forma stretta e
allungata nel settore orientale; più articolata la sequenza degli ambienti nel settore
occidentale.
Nel Periodo IV B, che interessa la prima metà del IV sec. a.C., gli interventi edi-
lizi più importanti consistono nella costruzione, in uno dei cortili, di una scala che
conduce al tetto e nella redistribuzione di alcuni spazi al fine di una nuova destinazio-
ne funzionale.
La seconda metà del IV sec. a.C. costituisce l’ultima fase di vita dell’edificio e a
questo periodo (Periodo IV C) si riferisce l’utilizzo dell’ambiente centrale 1 come de-
posito di anfore, in connessione con presunte attività di conservazione del vino. Pro-
prio il consistente rinvenimento di anfore, nel corso degli scavi effettuati in questo
ambiente da Whitaker e Tusa, ne aveva determinato la denominazione di «casa delle
anfore» e aveva indotto V. Tusa ad ipotizzarne la funzione di deposito e punto di ven-
dita degli stessi contenitori.
Il nuovo scavo di M. L. Famà ha consentito di far luce su alcune questioni rima-
ste aperte dopo le ricerche più antiche: anzitutto la verifica della giacitura delle anfore
ha consentito di stabilire che erano vuote e che dovevano essere immagazzinate su più
file sovrapposte; si è poi potuto accertare che il bancone che occupa l’angolo nord-est

(1) M. E. AUBET, Arquitectura colonial e intercambio: Fenicios y territorio. Actas


del II Seminario Internacional sobre temas fenicios (Guardamar del Segura, 9-11 de abril
de 1999), Alicante 2000, pp. 13-45.
232 Recensioni

dell’ambiente era costituito da due muretti in pietre squadrate e lastrine di tufo che
contenevano strati di terra argillosa e piccole pietre, sormontati da un piano di terra
pressata che fungeva da superficie superiore. L’analisi stratigrafica ha inoltre consen-
tito di stabilire che l’istallazione del bancone è contestuale alla costruzione dell’am-
biente; resta da chiarire la funzione del monolite posto al centro del vano, caratteriz-
zato da tre solchi «a vite», nel quale V. Tusa aveva riconosciuto un elemento funzio-
nale al sostegno del tetto; dubbia, anche se convincente, resta pure l’ipotesi di identi-
ficazione del monolite con un peso a vite per pressoio, sebbene non esattamente in-
quadrabile in alcuno dei tipi censiti da R. Frankel(2). Di notevole interesse per la
complessa storia edilizia e per la varietà e qualità dei rinvenimenti indicativi delle at-
tività domestiche che vi si svolgevano risulta l’ambiente 12, irregolarmente rettango-
lare e molto stretto e allungato.
La più antica attività costruttiva evidenziata, risalente al Periodo I A (fine VIII -
inizi VII sec. a.C.), consiste in una serie di fosse scavate nella roccia, analoghe a quel-
le rinvenute nell’Edificio A; tali fosse, obliterate nel corso dei Periodi I B e I C , han-
no restituito, dal volume degli strati di riempimento, una consistente quantità di mate-
riali arcaici. Le strutture murarie più chiaramente leggibili sono quelle a telaio realiz-
zate, su murature precedenti, nel periodo IV A (seconda metà V sec. a.C.). All’ultima
fase di vita dell’ambiente, corrispondente al Periodo IV C (seconda metà del IV sec.
a.C.) è pertinente una grande quantità di reperti mobili, rinvenuti sui livelli pavimen-
tali più recenti, fra i quali sono da segnalare due gruzzoli monetali e numerosi pesi da
telaio.
La «storia» dello scavo degli edifici A e B è completata e sintetizzata dagli uti-
lissimi diagrammi stratigrafici elaborati rispettivamente da M. P. Toti e M. L.
Famà.
I paragrafi 4 e 5 della Parte III del volume, a cura di G. Rossoni e M. L. Famà,
sono dedicati allo scavo delle strade che delimitano a Nord e a Sud l’isolato in esame;
la ricerca ha consentito di individuare la presenza di altri tre isolati, uno a Nord e due
a Sud, che seppure molto limitatamente e parzialmente messi in luce, forniscono già
indizi assai utili per la definizione di almeno due diversi moduli del sistema urbanisti-
co e costituiscono premessa essenziale per le future indagini sull’organizzazione to-
pografica di questa zona dell’isola.
Con la Parte IV (IV. I materiali, pp. 129-351) si entra nel vivo della trattazione
delle singole classi di materiali.
Nella introduzione M. L. Famà illustra i criteri di classificazione, studio ed edi-
zione dei reperti rinvenuti, specificando che di questi vengono pubblicate le classi nu-
mericamente più rappresentate, rimandando l’edizione delle rimanenti ad un secondo
volume destinato a contenere anche i risultati delle indagini archeometriche. Seguono
alcune valutazioni e considerazioni sul quadro generale offerto dai materiali: vengono
segnalate la presenza di sia pur pochissimi frammenti di ceramica dell’Età del Bronzo

(2) R. FRANKEL, Wine and Oil Production in Antiquity in Israel and Other Mediter-
ranean Countries, Sheffield 1999.
Recensioni 233

– indizio di una possibile occupazione di questa zona dell’isola sin dalla preistoria – e
la scarsa consistenza della documentazione di ceramica c.d. «elima» ed etrusca. Le
classi ceramiche di importazione o tradizione greca, offrono un notevole contributo
alla comprensione del ruolo di Mozia nei circuiti commerciali coloniali, mentre la ce-
ramica comune di tradizione orientale documenta, in un quadro ampio e articolato,
l’intero repertorio morfologico noto, offrendo al contempo una serie di dati nuovi in
relazione sia a forme scarsamente attestate sia a varianti finora ignote e a peculiari
sviluppi locali di forme comuni ai centri fenici e punici del Mediterraneo. La matrice
culturale orientale della produzione moziese si manifesta con forza anche nella produ-
zione «minore» documentata da oggetti di culto e di uso personale.
Il paragrafo, a cura di M. L. Famà, dedicato alla ceramica corinzia, apre la rasse-
gna e il catalogo dei materiali. La documentazione offerta copre un arco cronologico
che va dall’ultimo quarto dell’ VIII alla fine del VI sec. a.C. (con una prevalenza degli
esemplari più antichi) e, seppure numericamente esigua, arricchisce il quadro delle
importazioni note, a Mozia, da aree di abitato.
A M. de Cesare è spettato lo studio della ceramica figurata, per la quale non si re-
gistrano sostanziali difformità rispetto al quadro generale noto attraverso l’analisi dei
materiali attici rinvenuti sia negli altri settori indagati dell’isola sia negli altri centri
di cultura punica e non, della Sicilia Occidentale. Le importazioni attiche, prevalente-
mente nelle forme di vasi potori, cominciano ad essere attestate, nella «Zona A», dalla
seconda metà del VI sec. a.C. e sembrano intensificarsi tra la fine del VI e l’inizio del
V sec. a.C., come del resto già segnalato(3) per altri siti. Il vuoto documentario d’im-
portazioni relativo all’età dello stile severo ripropone, anche a Mozia, il «problema
del V secolo» legato alle complesse vicende che investono la Sicilia nella prima metà
del secolo; è solo dopo il 450 che riprende il flusso di ceramica greca, ancora preva-
lentemente documentata nella «Zona A» da forme aperte, perdurando fino alla metà
ca. del IV sec. a.C. Infine, un precoce apprezzamento delle produzioni siceliote sem-
bra trasparire dalla significativa attestazione di piatti da pesce a figure rosse del tipo
più antico.
Il quarto e il quinto paragrafo della Parte IV del volume interessano l’analisi del-
la ceramica di tipo ionico e laconico e della ceramica a vernice nera, curata da C.
Michelini.
La ceramica di tradizione greca orientale, già nota da altri contesti moziesi, è do-
cumentata nella «Zona A» attraverso pochissimi frammenti di coppe di tipo B 1 e dai
relativamente più numerosi frammenti di coppe di tipo B 2 che per le caratteristiche
tecniche si distinguono, rispetto a realizzazioni più correnti, nell’ambito della produ-
zione coloniale. Non manca poi l’attestazione, sia pure in un solo esemplare, di un pe-
culiare tipo di vaso potorio di tradizione ionica, denominato «Iato K 480» – finora non
segnalato fra i rinvenimenti moziesi – che contraddistingue contesti sacri, funerari,
abitativi della Sicilia centro-occidentale, la cui produzione si concentra fra gli ultimi

(3) C. A. DI STEFANO, Ceramiche a v.n. dei centri punici della Sicilia Occidentale:
ACFP IV, 2000, pp. 1297- 1307.
234 Recensioni

decenni del VI e i primi del V sec. a.C., probabilmente nella colonia calcidese di
Himera.
Quanto alla ceramica a v.n., le indagini condotte nel settore in esame dell’abitato
moziese ne hanno restituito una relativamente notevole quantità, per lo più di buon li-
vello qualitativo, scaglionabile in un arco cronologico che va dall’ultimo venticin-
quennio del VI al III sec. a.C. Nell’ambito di un’ampia varietà morfologica e tipologi-
ca si registra una netta prevalenza di forme aperte da mensa, ovvia in relazione al con-
testo di pertinenza.
Una delle parti più corpose del volume, e a ragione, è dedicata alla ceramica co-
mune della quale, per la prima volta, relativamente all’ambito moziese, viene pubbli-
cata un’articolata classificazione tipologica; resta purtroppo ancora inedita, infatti, la
tipologia proposta da J. du Plat Taylor(4), a partire dai materiali fenici e punici rinve-
nuti nel corso degli scavi inglesi sull’isola, che potrà fornire un contributo fondamen-
tale all’auspicabile elaborazione di un corpus della ceramica moziese di tradizione
orientale.
La seriazione del materiale ceramico della «Zona A» procede per categorie fun-
zionali e tipi morfologici, rintracciandone le linee evolutive e formulandone schemi
cronologici di sviluppo con la precisione consentita da contesti stratigraficamente si-
curi. L’analisi viene giustamente circoscritta, in partenza, all’ambito locale, all’inter-
no del quale soltanto si possono correttamente osservare articolazioni e sviluppi for-
mali, pur senza perdere di vista analoghi complessi ceramici esterni, di comune matri-
ce culturale. Emerge un panorama formale ampio e variegato che conferma e arricchi-
sce quello noto da altri specifici contesti moziesi e che rispecchia, sia pure con qual-
che riformulazione, l’identità di un patrimonio ceramico comune all’intero Occidente
mediterraneo.
La rassegna dei materiali provenienti dalla «Zona A» prosegue con la trattazione
delle anfore, di M. P. Toti, per le quali, correttamente, viene adottata una seriazione ti-
pologica «interna», in costante riferimento a quella elaborata da J. Ramon. Vengono
individuati ventisei tipi che ricoprono tutto l’arco di frequentazione dell’area in esa-
me. Oltre a prodotti di officine locali, prevalenti tra la fine dell’VIII e il VII sec. sono
stati riconosciuti, sulla base degli impasti e di alcune peculiarità morfologiche, conte-
nitori realizzati in fabbriche esterne, sia siciliane che di ambito centro-mediterraneo,
indicatori di una intensità di circolazione di genti e prodotti che appare già avviata in
epoca arcaica, ma che va sempre più chiaramente delineandosi relativamente ai secoli
centrali della storia di Mozia.
Ancora M. P. Toti ha esaminato le lucerne rappresentate da pochi esemplari
frammentari, mentre G. Rossoni ha curato lo studio dei pesi da telaio. L’importanza
dell’analisi condotta dallo studioso non sta tanto nella classificazione dei reperti
quanto nell’accurata osservazione della loro distribuzione, concentrazione, giacitura e

(4) J. DU PLAT TAYLOR, Phoenician and Punic Pottery: B. S. ISSERLIN (ed.), Motya, a
Phoenician City in Sicily, II, in c.d.s.; A. SPANÒ GIAMMELLARO, Supplementary observations
on the Phoenician and Punic Pottery, ibid.
Recensioni 235

dislocazione, che ha condotto almeno in un caso (ambiente 12 dell’Edificio B) alla


probabile connessione con un telaio e ha consentito di valutare eventuali connessioni
tra valori ponderali, «decorazioni» dei pesi e diversi tipi di tessuti da realizzare.
Poche, ma significative, sono le terrecotte figurate rinvenute nella «Zona A»,
presentate da M. L. Famà, M. P. Toti, P. Vecchio, fra le quali una statuetta fittile i cui
archetipi sono rintracciabili nella produzione coroplastica fenicia e cipriota dell’Età
del Ferro e altre due statuette, le cui iconografie trovano riscontro, a Mozia, nella pro-
duzione lapidea, che indicano la pratica di culti domestici in onore di una divinità
femminile.
Due esemplari, uno in terracotta, l’altro in pietra documentano la categoria delle
arule, prese in esame da M. P. Toti e ancora la stessa studiosa, insieme con G. Rossoni
e P. Vecchio, ha curato l’edizione degli small finds che rientrano nella produzione cor-
rente di piccolo artigianato comune a tutti i centri punici.
Le 87 monete rinvenute, classificate e studiate da G. Mammina, testimoniano la
circolazione a Mozia, tra l’ultimo quarto del V e la prima metà del IV sec. a.C., di
esemplari delle principali zecche della Sicilia greca e confermano quanto già eviden-
ziato in altri contesti isolani.
L’ultima parte del volume (V. Appendici, pp. 353-378) consta di due appendici,
una delle quali dedicata all’analisi petrografica delle anfore – eseguita da I. Iliopou-
los, R. Alaimo, G. Montana – che si è giovata delle precedenti indagini chimiche e
mineralogico-petrografiche condotte dagli stessi Autori su reperti provenienti dal
quartiere dei ceramisti («Zona K»), oltre che su gruppi di ceramiche soluntine. La se-
conda appendice contiene un utile indice delle unità stratigrafiche redatto da M. L. Fa-
mà e M. P. Toti.
Chiudono il volume l’elenco delle abbreviazioni bibliografiche e l’indice genera-
le. Il libro, non ultimo merito, si avvale di un apparato grafico e illustrativo di qualità,
sia per quanto attiene alla documentazione dello scavo, sia in ordine alle analisi stati-
stiche dei dati materiali.
Si tratta, in sostanza, di un’opera destinata a costituire d’ora in avanti premessa
essenziale per la lettura dei dati che la ricerca futura potrà recuperare a Mozia e terre-
no fondante per ogni indagine volta alla ricostruzione dei contesti abitativi dei centri
punici, sia come realtà topografiche e urbanistiche, sia come alvei di strutture sociali
delle quali vorremmo conoscere composizione, organizzazione, processi di trasforma-
zione, meccanismi economici, per una corretta e attendibile ricostruzione di una parte
della storia del Mediterraneo antico.
ANTONELLA SPANÒ GIAMMELLARO
RStFen, XXX, 2 (2002)

B I B L I O G R A F I A. 30
(1.I.2001 - 31.XII.2001)

a cura di
M. BOTTO - L. CAMPANELLA - F. MAZZA - S. RIBICHINI

Questo repertorio comprende gli studi sulla civiltà fenicia intesa nel senso
più vasto e includente quindi anche la civiltà di Cartagine e delle colonie in
Occidente. Le opere, raccolte in ordine alfabetico per autore, sono divise in due
sezioni: a) Libri; b) Articoli.
Gli autori e gli editori sono invitati a collaborare a questa rassegna biblio-
grafica inviando o segnalando le pubblicazioni concernenti questo ambito di
studi, con particolare riferimento a quelle di più difficile accesso; i successivi
numeri della Bibliografia terranno conto di ogni indicazione. Per una più rapi-
da segnalazione si suggerisce di utilizzare il seguente indirizzo di posta elettro-
nica: rstfen@mlib.cnr.it.

Abbreviazioni: Argantonio = C. ARANEGUI GASCÓ (ed.), Argantonio, rey de


Tartessos, Valencia 2000; Argyróphleps nesos = P. BERNARDINI - R. D’ORIANO (a
cura di), Argyróphleps nesos. L’isola dalle vene d’argento. Esploratori, mer-
canti e coloni in Sardegna tra il XIV e il VI sec. a.C., Fiorano Modenese 2001;
Arquitectura oriental = D. RUÍZ MATA - S. CELESTINO PÉREZ (eds.), Arquitectura
oriental y orientalizante en la Península Ibérica, Madrid 2001; Atti Tore =
AA.VV. (a cura dell’Associazione culturale «Filippo Nissardi»), Architettura,
arte e artigianato nel Mediterraneo dalla Preistoria all’Alto Medioevo. Atti
della Tavola Rotonda Internazionale in memoria di Giovanni Tore, Oristano
2001; BASOR = Bulletin of the American Schools of Oriental Research; Carta-
go = M. VEGAS (ed.), Cartago fenicio-púnica. Las excavaciones alemanas en
Cartago, 1975-1997 (= Cuadernos de Arqueología Mediterránea, 4 [1998]);
Colonos y comerciantes = J.L. LÓPEZ CASTRO (ed.), Colonos y comerciantes en
el Occidente mediterráneo, Almería 2001; Comercio y comerciantes = F.
WULFF ALONSO - G. CRUZ ANDREOTTI - C. MARTÍNEZ MAZA (eds.), Comercio y co-
merciantes en la Historia Antigua de Málaga (siglo VIII a.C. - año 711 d.C.),
Málaga 2001; El Mediterráneo en la Antigüedad = J.M. GALÁN - J.-L. CUNCHIL-
LOS - J.A. ZAMORA (eds.), El Mediterráneo en la Antigüedad: Oriente y Occi-
dente. Actas del I Congreso Español de Antiguo Oriente Próximo. Lenguas y
Culturas del Antiguo Oriente Próximo - 2, Madrid 1998; Fenicios e indígenas
238 Bibliografia. 30

= D. RUÍZ MATA (ed.), Fenicios e indígenas en el Mediterráneo y Occidente:


Modelos e Interacción. Actas de los Encuentros de Primavera de la Universi-
dad de Cádiz en El Puerto de Santa María 1998, El Puerto de Santa María
2000; Influenze vicino-orientali = S. RIBICHINI - M. ROCCHI - P. XELLA (a cura
di), La questione delle influenze vicino-orientali sulla religione greca, Roma
2001; Intercambio y comercio = P. FERNÁNDEZ URIEL - C. GONZÁLEZ WAGNER - F.
LÓPEZ PARDO (eds.), Intercambio y comercio preclásico en el Mediterráneo. Ac-
tas del I coloquio del Centro de Estudios Fenicios y Púnicos, Madrid 2000; Ita-
ly and Cyprus = L. BONFANTE - V. KARAGEORGHIS (eds.), Italy and Cyprus in An-
tiquity: 1500 - 450 B.C. Proceedings of an International Symposium held at the
Italian Academy for Advanced Studies in America at Columbia University (No-
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de Outubro de 2000), Lisboa 2001; Première guerre punique = Y. LE BOHEC
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la Table Ronde de Lyon (mercredi 19 mai 1999), Lyon 2001; Protohistoria =
AA.VV., Protohistoria de la Península Ibérica, Barcelona 2001; Punica - Li-
byca - Ptolemaica = K. GEUS - K. ZIMMERMANN (Hrsg.), Punica - Libyca - Ptole-
maica. Festschrift für Werner Huß, zum 65. Geburtstag dargebracht von Schü-
lern, Freunden und Kollegen (= Orientalia Lovaniensia Analecta, 104 - Studia
Phoenicia, XVI), Leuven 2001; QuadCagliari = Quaderni della Soprintenden-
za Archeologica di Cagliari e Oristano; RDAC = Report of the Department of
Antiquities, Cyprus; RStFen = Rivista di Studi Fenici; RStPun = Rivista di Stu-
di Punici; Scritti Candellieri = AA.VV., Scritti in ricordo di Valentino Candel-
lieri (= Annotazioni Numismatiche, Suppl. 13), Milano 1999.

a) Libri

1. AA.VV. (a cura dell’Associazione culturale «Filippo Nissardi»), Archi-


tettura, arte e artigianato nel Mediterraneo dalla Preistoria all’Alto Me-
dioevo. Atti della Tavola Rotonda Internazionale in memoria di Giovan-
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INDICE DEGLI AUTORI

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Acquaro, E., a 5; b 1-6. Blázquez, J. M., b 63-65. Chiai, G.F., b 108.
Aguayo de Hoyos, P., b 7, 96. Blech, M.,b 66. Ciasca, A., b 109.
Agus, A., b 8. Boardman, J., a 18; b 67. Ciccone, M.C., b 110-111.
Alexandre, Y., b 9. Bondì, S. F., b 68-72. Cisneros García, M.I., b 333.
Almagro-Gorbea, M., b 10- Bonet Rosado, H., b 73. Coelho Ferreira da Silva, A.,
12. Bonetto, J., b 74. b 112.
Alvar, J., b 13-15. Bonfante, L., a 19. Cohen, R., a 23.
Alvar Ezquerra, J., b 16. Bonnet, C., b 208. Colonna, G., b 113.
Alvarez, N., b 17-18. Borda, K.,b 363. Conti, O., b 114.
Alvarez García, N., b 19. Bordreuil, P., b 75-76. Córdoba Alonso, I., b 115-
Alves, F., b 20. Botto, M., b 77. 116.
Amadasi Guzzo, M.G., b 21. Brandl, B., b 78. Cors i Meya, J., b 117.
Ameling, W., b 22. Bravo Jiménez, S., b 79. Corzo Sánchez, R., b 118.
Amores Carredano, F., b 23. Brehme, S., a 20. Costa, B., b 119.
Aranegui Gascó, C., a 6-7; b Briese, Ch., b 80. Cruz Andreotti, G., a 67.
24-27. Briffa, J.M., b 363. Cunchillos, J.-L., a 28; b 120.
Arobba, D., b 6. Brillante, C., b 81. Cutroni Tusa, A., b 121.
Arruda, A.M., a 8; b 28-31. Bringmann, K., b 82.
de Frutos Reyes, G., b 267.
Arteaga, O., b 32-33. Briquel-Chatonnet, F., b 83,
de la Bandera, M.L., b 122.
Åström, P., a 9. 278.
de Madaria, J.L., b 280.
Aubet, M.E., a 10. Brizzi, G.,b 84-85.
Del Vais, C., b 124.
Aubet-Semmler, M.E., b 34- Brodersen, K.,b 86.
Delgado Delgado, A. J., b
35. Brönner, M.,a 20. 123.
Burkert, W., b 87. Dias Diogo, A., b 20.
Baert, L.P., b 36.
Díes Cusí, E., b 125
Barceló, P., b 37. Campanella, L., b 42, 88-89.
Dietz, S., b 126.
Bartoloni, P., b 38-42. Campus, A.,b 90. Dion, P.-E., b 127.
Baslez, M.-F., b 43. Caramiello, R., b 6. Di Paolo, S., b 128.
Battaglini, S., a 11. Cardoso, J.L., b 91. Docter, R., b 80.
Belén, M., b 44-46. Carmona González, P., b 92. Domínguez Monedero, A.J.,
Bélen Deamos, M., b 47-48. Carrez-Maratray, J.-Y., b 93. b 129.
Berges, D., b 49. Carrilero Millán, M.,b 94-96. D’Oriano, R.,a 13-14; b 130-
Bernabé, A., b 50. Caruana, I., b 97. 133.
Bernal, M.,a 12. Caruana Clemente, I., b 98. Duarte i Martínez, F.X., b
Bernardini, P., a 13-15; b 51- Castelló Marí, J.S., b 19. 134.
59. Cavaleiro Paixão, A., b 99.
Best, J., b 60. Cavaliere, P., b 100-101. Edwards, J., b 135.
Bienkowski, P., a 16. Cavillier, G., a 21. Efrén Fernández Rodríguez,
Bignasca, A.M., a 17. Celestino Pérez, S., a 22, 56; L., b 333.
Bikai, P.M., b 61. b 102-105. Ehrhardt, C., b 136.
Billault, A., b 62. Cerasetti, B., b 106. Elayi, A.G., b 138-139.
272 Indice degli autori

Elayi, J., b 137-139. Gómez de Caso Zuriaga, J., b Krahmalkov, C.R., a 36.
El-Khayari, A., b 140. 175. Krings, V., b 107.
Escacena Carrasco, J.L., b Gómez Fraile, J.M., b 176.
141-142. González Acuña, D., b 177. Lalueza, C., b 178.
Escribano Cobo, G., b 248. González-Martín, A., b 178. Lancellotti, M.G., b 212.
González Prats, A., b 179- La Rocca-Pitts, E.C., a 37.
Fabião, C., b 143. 180. Lassère, J-M., a 38.
Famà, M.L., a 24. González Román, C., b 181. Le Bohec, Y., a 38-39; b 213.
Fantar, M.H., b 144-146. González Wagner, C., a 26; b Lemaire, A., b 214, 343.
Fanti, R., b 147. 182. Lembke, K., a 40.
Fariselli, A.C., a 25; b 5. Goukowsky, P., a 32-33. Lemos, I. S., b 215.
Fenech, K., b 363. Gras, M., b 183-184. Lipiński, E., b 216.
Ferjaoui, A., b 148. Grasso, L., b 185-186 Le Rider, G., a 41.
Fernández, J.H., b 119. Grau Almero, E., b 187. López Castro, J.L., a 42; b
Green, M.A., a 34. 217-220.
Fernández Cantos, A., b 23.
Grinde, K., b 363. López de la Orden, M. D., b
Fernández Jurado, J., b 149-
Groenewoud, E., b 188. 221.
151.
Grottanelli, C., b 189. López Domech, R., b 222.
Fernández Uriel, P., a 26; b
Gubel, E., b 36, 190. López Pardo, F., a 26; b 223.
152.
Guerra, A., b 191. Loreto, L., b 224-225..
Ferrer Albelda, E., b 122; b Guerrero, V.M., b 192. Lorrio, A.J., a 43.
153-154. Guido, F., b 193. Lo Schiavo, F., b 226-227.
Finkelstein, I., b 155. Günther, L.-M., b 194. Louca, E., b 228.
Fleming, S., b 256.
Lund, J., a 35, 44.
Floris, F., a 27. Heltzer, M., b 195.
Luraghi, N., b 229.
Freed, J., b 156. Hermary, A., b 196-197.
Lust, J., b 230.
Frendo, A. J., b 157. Hipplito Correia, V., b 198.
Frost, H., b 158-159 Hirschfeld, N., b 199. MacIntosh Turfa, J., b 231.
Hornaes, H., a 35. MacNamara, E., b 232.
Galán, J.M., a 28.
Manconi, F.,b 233.
Garbati, G., b 160. Ibba, M.A., b 200.
Manfredi, L.-I., a 5; b 234-
Garbini, G., b 161-163. Ipek , I., b 343.
236.
García-Bellido, Ma.P., a 29; b Isler, H.P., b 201-202.
Manganaro, G., b 237.
164. Izquierdo de Montes R., b
Marín Baño, C., b 238.
García Raya, J., b 165. 142.
Marín Ceballos, M.C., b 239.
García Sanz, C., b 151. Izquierdo Paraile, I., b 97,
Mariotti, S., a 45.
Garrido, J., b 166. 203.
Izre’el, S., b 204. Martínez Maza, G., a 67.
Garrido Roiz, J.P., b 167. Martín Ruiz, J.M., b 240-241.
Gaudina, E., a 5; b 168. Mathys, H.-P., b 332.
Jiménez Ávila, J., b 205-206.
Geus, K., a 30; b 169. Mattazzi, P., b 168.
Jiménez Flores, A.Ma., b 207.
Ghaki, M., b 170. Matthäus, H., b 242.
Jourdain Annequin, C., b
Ghiotto, A.R., b 74. 208. Mayet, F., b 243, 342.
Giannattasio, B.M., b 171. Mayorga Mayorga, J., b 333.
Gibson, S., a 49. Karageorghis, V., a 19-20, Mazza, F., b 42, 244.
Giovannini, A., b 172. 35; b 209. Medde, M., b 245.
Gitin, S., b 173. Karetsou A., a 57. Mederos Martín, A., b 246-
Golani, A., b 173. Kassianidou, V., b 210. 250.
Goldsworthy, A., a 31. Kassis, A., b 211. Melis, S., b 251.
Gómez Bellard, C., b 19, 174. Kazim Tosun, A., b 343. Mendes Pinto, J.M., b 112.
Indice degli autori 273

Merlo, P., b 252. Plácido, D., b 289. Sørensen, L.W., a 35.


Mettinger, T.N.D., a 46. Platz-Horster, G., a 20. Spanò Giammellaro, A., b
Mezzolani, A., b 253. Porro, C., b 186. 328-329.
Millán León, J., b 254. Poveda, A., b 359. Spanu, P.G., a 15.
Millard, A., a 16. Prados Martínez, F., b 290. Stampolidis, N. Chr., a 57.
Montes Cala, J.G., b 255. Prayon, F., b 291. Steiner, R.C., b 330.
Moorey, P.R.S., b 256. Pulak, C., b 292. Stern, E.J., a 58; b 9.
Morel, J.-P., b 257. Stöger, H., b 363.
Moreno Arrastio, F.J., b 258. Rainey, A.F., b 293. Strøm, I., b 331.
Morhange, C., b 159, 259 Rakob, F., b 294. Stucky, R., b 332.
Mosca, P.G., b 260. Ramon, J., b 295. Suárez Padilla, J., b 333.
Moscati, S., a 47. Ramón Pérez-Accino, J., b Sznycer, M., b 334-337.
Müller, H.-P., b 261-263. 296.
Mullins, P., b 264. Rasmussen, B.B., a 35. Tagliaferro, E., b 338.
Muñoz, F.A., b 265. Reyes, A.T., a 53. Tarradell-Font, N., b 27, 339.
Muñoz Gambero, J.M., b Ribichini, S., a 54; b 42, 297- Tavares, A.A., a 59; b 340.
266. 300. Tavares da Silva, C., b 243,
Muñoz Vicente, A., b 267. Ridgway, D., b 301. 341-342.
Rocchi, M., a 54. Tekoǧlu, R., b 343.
Nakhai, B.A., a 48. Rodríguez Adrados, F., b Thalmann, J.-P., b 344.
Navarro Luengo, I., b 333. 302. Tinoco Pérez, M., b 345.
Negev, A., a 49.
Rodríguez Mariscal, N., b Tomber, R., b 346.
Nielsen, A.M., a 35.
303. Tore, G., a 60.
Niemeyer, H.-G., b 268-271.
Röllig, W., b 304. Torres Ortiz, M., b 347.
Niemeyer, W.-D., b 272.
Ruggiero, F., b 305. Toti, P., a 14.
Niveau de Villedary y Mari-
Ruiu, P.F., b 306. Tronchetti, C., b 348-350.
ñas, A. Ma, b 273-276.
Ruivo, J., b 307. Tsirkin, Ju.B., a 61; b 351.
Novello, M., b 74.
Ruiz Cabrero, L.A., b 249. Tusa, V., a 24; b 352.
Nunn, A., b 277.
Ruiz-Gálvez, M., b 308.
Nys, K., b 278.
Ruíz Mata, D., a 55-56; b Untermann, J., b 353.
Oggiano, I., b 279. 309-311.
Vaggioli, M.E., b 354.
Ortega Blanco, J., b 206.
Salvi, D., b 312. Vagnetti, L., b 355.
Ortu, E., b 6.
Sánchez Fernández, C., b Vallejo Sánchez, J.I., b 276,
Papasavvas, G., a 50. 313. 356.
Pascual, I., b 280. Sanciu, A., b 314-315. van Dommelen, P., a 62.
Peckham, B., b 281. Santoni, V., b 316-319. Vannicelli, P., b 357.
Pedersén, O., a 51. Saporetti, C., b 320. Varela Gomes, M., b 358.
Pedro Cardoso, J., b 20. Sarà, G., b 321. Vargas, G., b 154.
Pelegrín Campo, J., b 282. Scandone Matthiae, G., b Vázquez Hoys, A., b 359.
Pentz, P., a 44. 322. Vegas, M., a 63; b 346, 360-
Perdiguero, M., b 283. Scerri, E., b 363. 361.
Perera, A., b 284-285. Schubart, H., b 323. Vella, N.C., b 157, 362-363.
Pérez-Malumbres Landa, A., Secci, R., b 324. Verga, F., b 6, 364.
b 241. Segert, S., b 325. Vidal González, P., b 365-
Perra, C., b 286-287. Serra Ridgway, F. R., b 326. 366.
Pesce, G., a 52. Simula, G., b 327. Vighi, S., b 168.
Pisano, G., b 288. Singer-Avitz, L., b 155. Vinchesi, M.A., a 64.
Pisanu, G., b 168. Sisk, M., b 363. Vismara, N., b 367.
274 Indice degli autori

Visonà, P., b 368. Wilkens, B., b 373. Zamora, A., a 28.


Vita Barra, J.-P., b 369. Wulff Alonso, F., a 67. Zamora López, J.A., a 28; b
380.
Wagner, C.G., a 65-66; b Xella, P., a 54, 68; b 252,
Zanolli, I., b 381.
370-371. 374-378.
Watkins Treumann, B., b Zimmermann, K., a 30; b
372. Yon, M., b 379. 382.
Weisser, B., a 20. Zirone, D., b 383
Westbrook, R., a 23. Zammit, M.E., b 363. Zucca, R., a 52; b 384-387.
TAVOLE
S. FINOCCHI, Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... TAVOLA I

Macine per la lavorazione dei cereali; a: macina dal sito preistorico di S’Abuleu,
b: macina dal sito protostorico di Canale Peppino.
S. FINOCCHI, Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... TAVOLA II

Isola di S. Macario.
S. FINOCCHI, Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora ... TAVOLA III

Cava di Fradis Minoris. Tagli per l’estrazione dei blocchi.


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ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI . ROMA

Dicembre 2002

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