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Autori:
Marco Griffo
Erika Nicoletti
Roberta Pirri
Aurora Rapisarda
Dominika Zielinska
1. LE ORIGINI DELL’EUROCENTRISMO
Dominika Zielinska
Cos’è „l’Europa“?
1
Cfr. E. Dussel, Europe, modernity, and eurocentrism, in «Nepantla. Views from South», 3 (2000), p.
465.
2
Ivi, p. 466.
2
facilitata dall’apropriazione egoistica e sistematica di certi elementi delle più
sviluppate civilizzazioni dell’islam e del Bisanzio, accompagnate dall’adattamento di
questo patrimonio alle condizioni e agli interessi dell’Occidente.3
Essenzialmente abbiamo a che fare con due visioni della modernità. La prima,
kantiana, presenta la modernità come ausgang, l‘uscita dallo stato di immaturità
grazie alla ragione intesa come un processo critico che concede all’umanità la
3
Cfr. S. Huntington, Zderzenie cywilizacji i nowy kształt ładu światowego, Varsavia, Muza SA, 2008, p.
63.
4
Cfr. E. Dussel, Eurocentrism and modernity (introduction to Frankfurt lectures), in «Boundary 2», 3
(1993), pp. 65-66.
3
possibilità di sviluppo. In Europa questo processo ebbe luogo prevalentemente nel
XVIII secolo. Il fenomeno fu discusso ampiamente, apparte da Immanuel Kant, da
studiosi come Georg W.F.Hegel e Jürgen Habermas. Indicarono loro eventi chiave
nel percorso europeo verso la maturità-modernità: la Riformazione, l’Illuminismo e
la Rivoluzione Francese. La seguenza spazio-temporale che possiamo chiamare
strettamente eurocentrica, poiché indica i fenomeni intra-europei come inizio della
modernità.5 Kant sosteneva peraltro che le ragioni per cui il resto dell’umanità
rimane nello stato d’immaturità sono la pigrizia e la codardia. Secondo Hegel invece
lo sviluppo è logicamente lineare. Anzitutto lo sviluppo ha una direzione precisa
nello spazio: va dall’Est all’Ovest. Allora l’Europa è il culmine della Storia
Universale, mentre l’Asia è il suo inizio. Notiamo che in questo modello l’America
Latina e l’Africa rimangono fuori dallo schema, giacché sono dei territori immaturi,
ancora alla tappa dell’infanzia. L’Europa è l’inizio e la fine della Storia. Per questo
motivo la moderna Europa Cristiana non ha niente da imparare da altre culture, in
quanto il culmine dello Spirito moderno.6
5
Cfr. E. Dussel, Europe, modernity, and eurocentrism cit., pp. 469-470.
6
Cfr. E. Dussel, Eurocentrism and modernity (introduction to Frankfurt lectures) cit., pp. 68-72.
4
È un aspetto che adesso sfugge agli Europei, ma uno che è ben incisio nella
memoria dei non-occidentali.7
Tornando al discorso delle teorie della modernità, la seconda visione di essa prende
in considerazione la prospettiva globale. Indica come la caratteristica essenziale del
mondo moderno, il fatto di essere il centro della storia mondiale. Questa centralità
può essere raggiunta da diversi punti di vista: statale, militare, economico,
filosofico. In altri termini, la teoria sostiene che non ci fu una storia del mondo in
senso empirico prima del 1492, la data che costituisce l’origine del mondo-sistema.
Prima del XV secolo i sistemi semplicemente coesistevano e soltanto allora il
nostro pianeta cominciò ad avere una storia mondiale. 8 Siccome Hegel ritiene
l’Europa la portatrice dello sviluppo, le concede una sorta di “diritto universale” o
“diritto assoluto” alla dominazione. Infatti, nessun altro si può porre contro
l’Europa. La sua tesi è una sacralizzazione del potere imperiale del Nord (o Centro)
sul Sud, sulla Periferia, sulle colonie. Di conseguenza l’Europa occupò i territori
altrui perché aveva diritto, anzi quasi obligo di farlo in nome dello sviluppo.9 La
Spagna e il Portogallo, con le loro scoperte oltremare, inaugurarono il primo
periodo della modernità – il mercantilismo, l’accumulazione dei beni e delle risorse
che portò alla dominazione economica e di conseguenza anche militare. La seconda
tappa, la Rivoluzione Industriale e l’Illuminismo del XVII secolo, rimpiazzò la
Spagna e il Portogallo con un nuovo potere egemonico, l’Inghilterra e la Francia.
Dal 1492 il continente europeo ha usato la conquista dell’America del Sud come
trampolino di lancio per ottenere il vantaggio cruciale rispetto alle culture
antagonistiche. Riassumendo la scoperta del Messico fece nascere l’ego moderno.
7
Cfr. S. Huntington, op. cit., pp. 65-66.
8
Cfr. E. Dussel, Europe, modernity, and eurocentrism cit., p. 470.
9
Cfr. E. Dussel, Eurocentrism and modernity (introduction to Frankfurt lectures) cit., pp. 73-74.
5
Dal XIX secolo questa “Europa moderna” definì tutte le altre culture come la sua
periferia. 10 Infatti, nel 1800 l’Europa (o le ex-colonie europee in entrambe le
Americhe) controllava il 35%, nel 1878 – il 67% e nel 1914 – l’84% della terra
ferma. 11 L’Europa moderna si considerò fin dalla sua nascita non una delle
civilizzazioni ma si ritenne unicamente, o per lo meno specialmente, civilizzata. Per
questo i colonizzatori francesi nel XIX secolo parlavano della mission civilisatrice,
assumevano (non solo i Francesi ma in generale gli Europei), mediante la conquista
coloniale, il ruolo dei portatori dei valori e delle norme da imporre alle popolazioni
“barbare”, “primitive”. Negli anni ’90 nei paesi occidentali si parlava del “diritto a
interferire” nella politica delle diverse parti del mondo, specialmente i territori non-
occidentali, in nome dei valori della civilizzazione. 12 Diventata capitalista e
conquistatrice l’Europa si concesse il diritto non solo di rappresentare gli altri, in
modo particolare al Oriente, ma adirittura di giudicarli.
10
Cfr. E. Dussel, Europe, modernity, and eurocentrism cit., pp. 471-472.
11
Cfr. S. Huntington, op. cit., pp. 64-65.
12
Cfr. I. Wallerstein, Eurocentrism and its avatars. The dilemmas of social science, in «Sociological
bulletin», 1 (1997), pp. 25-26.
13
Cfr. A.Samir, El eurocentrismo crítica di una ideología, Messico, Sigla Veintuno, 1989, p. 102.
6
nei mass media, nei programmi politici dei governi e ci fa riflettere
sull’indispensabilità dell’implementazione delle politiche del dialogo interculturale
non soltanto al livello teorico o istituzionale ma soprattutto al livello pratico.
Fin dalla seconda metà dell’800, l’Europa ha mostrato di essere una delle potenze
più forti e autorevoli nel campo non solo della cultura o della politica ma anche nel
campo dell’economia e del commercio. Effettivamente la civiltà europea si è
lanciata alla conquista del mondo mirando solo ad imporre i propri ideali, le proprie
istituzioni e abitudini. E’ per questo che si parla d’Imperialismo: perché fin dagli
albori della civiltà, gli europei si sono imposti (anche con la forza) sul resto del
mondo con l’intento di espandere il possesso e il controllo economico-politico sulla
maggior parte dei territori possibili. Un esempio può essere riportato con
Alessandro Magno e il suo vasto impero, con l’impero romano e con i molti stati
europei che fondarono imperi comprendenti colonie in Asia, Africa e America. A
muovere gli Europei erano ragioni non solo economiche, ma anche politiche
poiché conquistare nuovi territori era motivo di prestigio e prova di potenza nei
rapporti con i paesi rivali. Tuttavia col tempo anche altre potenze iniziarono a
svilupparsi e ad entrare a far parte dello schema internazionale come potenze
maggiori eguali a quelle europee.
L’Europa volle sfruttare tutti i paesi colonizzati per ricavarne materie prime, e
secondo la convinzione della loro superiorità politica, biologica e culturale, gli
europei si sentirono spronati ad espandersi per attuare una cosiddetta missione di
civilizzazione tra le popolazioni “selvagge” ed inferiori, tanto che molti stati
europei fondarono imperi comprendenti colonie in Asia, Africa e America.
L’Europa dunque «prende coscienza della portata universale della sua
7
civilizzazione, adesso capace di conquistare il mondo»14 e inoltre prende coscienza
«di una superiorità in alcuni aspetti assoluta, anche quando la sottomissione
effettiva degli altri popoli richiede ancora qualche tempo. Loro [gli europei]
disegnano le prime vere mappe del pianeta. Conoscono tutte le popolazioni che lo
abitano e sono gli unici che possiedono questo vantaggio. Sanno che anche se
qualche altro impero dispone di mezzi militari per difendersi, loro, gli europei,
potranno sviluppare mezzi più forti e potenti. L’Eurocentrismo si cristallizza in
questa nuova coscienza». 15 Effettivamente è proprio dopo il 1870 che gli stati
europei iniziano ad avvertire il bisogno di trovare nuovi mercati esteri, fuori dallo
stesso continente europeo. Aumenta sempre più l’attività industriale e la
produzione e inoltre il sempre più avanzato perfezionamento dei macchinari
(capaci di produrre maggiori quantità di merce), richiede di giorno in giorno un
numero più elevato di materie prime quali ferro, carbone, lana, cotone e petrolio; e
poiché l’Europa non produce determinati prodotti e materie sufficienti per il
proprio fabbisogno, è “necessario” porre l’attenzione su territori non ancora
sfruttati o perlomeno dove sono presenti e disponibili prodotti in grandi quantità e
a costi molto bassi. Per questo bisogna mettere in chiaro che da quel momento in
poi si vennero a creare contrasti tra le stesse potenze europee per il controllo e il
possesso dei nuovi territori (Asia e Africa), paesi considerati “indispensabili per uno
Stato evoluto e civile”. Ciononostante, a queste potenze europee maggiori si
affiancarono la Germania, gli Stati Uniti e il Belgio che riescono velocemente a
svilupparsi e a farsi avanti nella produzione e nel commercio, rendendo così sempre
più difficile i liberi mercati ai paesi europei (Inghilterra soprattutto). E' proprio
riguardo questa problematica che John A. Hobson scrisse: «le intrusioni di questi
Paesi […] impongono con la massima urgenza l’adozione di energiche misure che
ci assicurano nuovi mercati. Tali nuovi mercati devono trovarsi in Paesi finora
arretrati, dove vivono popolazioni numerose con possibilità di aumento e di
sviluppo dei bisogni economici, che i nostri mercati e i nostri manifatturieri siano in
14
Ivi, p. 72.
15
Ivi, pp. 73-74.
8
grado di soddisfare»16 sicché da questa sua affermazione si può comprendere che
lui, così come molti sostenitori della superiorità europea, incitava alla
colonizzazione di paesi esteri meno industrializzati ma con maggiori possibilità di
dare grandi benefici alla madrepatria.
Tuttavia, questo processo eurocentrico iniziò ugualmente a sgretolarsi sin dal 1914
quando l’emergere e lo sviluppo di nuove potenze sullo scenario internazionale
(Stati Uniti e Giappone) fanno sì che l’Europa cessi di essere al centro del mondo.
Dopo secoli di “sottomissione” i paesi inferiori e più deboli iniziano a muoversi e
anche se a piccoli passi, ad imporre le loro istituzioni, i loro modelli e sistemi
economici, le loro culture e le loro religioni. Ma nonostante il mondo stesse
cambiando, distogliendo lo sguardo dall’Europa, le potenze europee non si resero
conto che nel periodo di loro maggiore espansione, emergevano già tutti i segni che
avrebbero portato alla fine dell’eurocentrismo assoluto, ma al contrario pensarono
che costituissero il centro del globo (soprattutto visto che tra la fine dell’800 e gli
inizi del 900 sembrava che tutto ruotasse intorno agli eserciti e alle istituzioni dei
paesi europei, quali Gran Bretagna, Francia, Germania e altre potenze coloniali
minori quali Italia o Spagna). Effettivamente a partire proprio dai primi del 900, gli
Stati Uniti avviano lo sviluppo industriale, commerciale e finanziario fino a
raggiungere i livelli dell’Inghilterra. Ben presto la politica adottata consente agli Stati
Uniti di diventare la maggior potenza economica mondiale. Intanto il Giappone
progredisce economicamente fino a diventare la potenza più importante d’Oriente,
mentre la Russia entra in crisi in seguito alla guerra persa contro il Giappone stesso.
Dunque possiamo affermare che l’Europa, nel primo decennio del 900 stava già
perdendo la sua egemonia come economia di riferimento mondiale. Tuttavia, dopo
molti anni, non si può dire che l’Europa non sia uno dei paesi più avanzati al livello
economico, nonostante la concorrenza con gli Stati Uniti e il Giappone; anzi è bene
ricordare che l’Europa ha tutti i settori economici molto sviluppati (anche se non
16
J. A. Hobson, Imperialism: a study, Nottingham, Spokesman Books, 1902, pp. 33-34.
9
ben sfruttati: l’economia europea è, infatti, scesa di molto rispetto a un decennio fa,
quasi di un decimo per l’esattezza) nonostante le culture non europee si siano rese
conto della loro importanza e del loro valore e abbiano cercato di evolversi e
prendere coscienza di sé e anche se ancora debolmente radicate, hanno dimostrato
di essere indipendenti tanto da aspirare ad un ruolo importante nel mondo: un
mondo che ormai si può considerare nuovo, democratico e multiculturale rispetto a
quello del XIX secolo. Dice Ryszard Kapuscinski (saggista, giornalista e scrittore
polacco): «Un tempo, l’Europa, per mezzo delle sue istituzioni e dei suoi abitanti,
era saldamente insediata in questo mondo e grazie a questo, se si viaggiava ai più
lontani angoli del mondo, si aveva come l’impressione di non aver mai lasciato
l’Europa. L’Europa era ovunque!».17 Ebbene il saggista polacco afferma di aver
vissuto, durante gli ultimi anni, tra le popolazioni dell’Asia, America Latina, Sudan
ecc. e a differenza di quando le aveva incontrate decine di anni prima, quando a
fatica iniziavano a sollevarsi da secoli di dipendenza, ora il loro atteggiamento è
cambiato radicalmente e ciò che le caratterizza sono la dignità, l’orgoglio per la
propria cultura e il senso di appartenenza a una civiltà propria e distinta. «Ormai
non soffrono più di alcun complesso di inferiorità, un tempo così ovvio e
opprimente. Al contrario, un desiderio di essere rispettati ed essere considerati alla
pari».18
Purtroppo, o forse no, l’Europa, invece di considerare cosa stesse accadendo nel
mondo che aveva dominato per vari secoli, ha ceduto al consumismo e si è isolato
restando indifferente a tutto ciò che accade al di fuori del continente stesso.
L'Europa non si è resa conto che il mondo stesse cambiando; un mondo che
adesso va avanti non solo grazie all’Unione Europea. Oggigiorno quando si parla di
economia e commercio, non si pensa subito all’Europa, non si fa subito riferimento
ai paesi europei ma si parla sempre più di Stati Uniti, Cina, Giappone ma
nonostante questo non si può dire che il nostro continente sia passato in secondo
17
R. Kapuscinski, Se l’Europa non è più il centro del mondo, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 28.
18
Ibidem.
10
luogo o meglio non si può dire che le ulteriori crisi economiche europee degli
ultimi anni (si intendono gli anni 2000) siano dovute all’emergere di altre potenze:
la crisi economica degli stati europei è un fatto interno, un fatto risalente già al 2005
quando vennero bocciati i Trattati di Lisbona o ancora prima quando nel
1999/2000 si registrò l’ingresso nell’Eurozona dei primi 12 paesi membri: anche se
si pensava di ristabilire un benessere economico e finanziario, rendendo dunque
l’economia europea più stabile e cercando di realizzare un’unione di stato simile a
quella degli Stati Uniti (grazie all’entrata in vigore della moneta unica: l’euro €), non
si realizzò ciò che si sperava, ma al contrario, si rivelò essere la causa della crisi dei
paesi dove lo Stato non aveva vigilato sull’inflazione interna dovuta all’aumento dei
prezzi (Ad esempio in Italia molti prodotti che costavano 1000 lire, e che con
l’avvento dell’euro sarebbero dovuti costare al cambio circa 52 cent., poco dopo si
stabilizzarono ad 1 €, dando così vita ad un cambio di 1€= 1000 lire anziché 1936).
L’entrata dell’euro come valuta ha quindi sovraccaricato le spese dei
cittadini/consumatori anche se ha dato una certa stabilità monetaria, rafforzando la
valuta europea nei confronti del dollaro ed ha rafforzato la posizione dell’Europa
nei confronti degli altri paesi, effettivamente ha avvantaggiato principalmente le
nazioni più forti, mentre i paesi economicamente più deboli, quali Spagna, Grecia e
Italia si sono trovati in difficoltà.
E’ chiaro dunque che la posizione dell’Unione Europea non è più la stessa dei
primi anni del 900, per cui non si può più parlare di eurocentrismo assoluto o
perlomeno di eurocentrismo economico ma nonostante questo, anche se non è “il
centro del mondo”, così come hanno affermato molti studiosi in passato, è
ugualmente una delle potenze più importanti e forti che abbiano mai dominato
l’intero globo. Allora come bisognerebbe risolvere, o perlomeno migliorare, i
problemi economici dei paesi europei (come quelli dell’Italia)? In primo luogo
dovrebbe essere la politica stessa ad assumersi la responsabilità vera e propria di
svolgere bene il suo lavoro: piuttosto che pensare al proprio rendiconto e al denaro
incassato giorno dopo giorno, i politici dovrebbero agire per il benessere comune di
11
tutti i cittadini europei, regolando allo stesso tempo i rapporti con gli economisti e
avviando un processo politico-economico concreto e razionale, utile per rendere
forte l’economia, non solo dei paesi più sviluppati, ma in generale di tutti i paesi
europei, compresi i più deboli. Una volta stabilizzata la posizione dei politici e degli
economisti, il resto spetta allo stesso cittadino che, così come affermava lo storico
Walter Hallstein, primo Presidente della Commissione Europea, deve compiere un
atto di coraggio, Tu etwas Tapferes, per cercare di mantenere sana la propria identità
europea e per mantenere alto l’onore del proprio paese. Sarà solo allora che
cambieremo l’Europa.
Come ben già si sa l’eurocentrismo è quel fenomeno secondo cui l’Occidente, per
lo più l’Europa, si considera superiore alle altre civiltà in diversi aspetti: storico,
culturale, economico, politico. Esso è un atteggiamento già esistente dai tempi
antichi che si è sviluppato in maniera spontanea, dal sentire comune e attraverso dei
processi consecutivi che hanno dato vita a una ideologia con connotazione non
puramente negativa. Quest’ultima viene acquisita nel momento in cui si divaga e si
arriva così al concetto di razzismo/discriminazione. Esso infatti: ‹‹non è una
banalità, è la testimonianza dei limiti che nessun popolo del pianeta ha superato
veramente ancora al giorno d’oggi››.19 E’ questo infatti, il versante della storia degli
stati europei che ha raggiunto il suo culmine nella seconda guerra mondiale.
12
dell’altro, è riscontrabile nella concezione di prevalenza che i nazisti avevano sul
popolo ebraico. Questi ultimi, erano infatti, considerati inferiori sotto tutti i punti
di vista. Secondo Hitler i motivi erano numerosi ma privi di fondamenta.
Innanzitutto, egli addossò loro la responsabilità di grandi eventi come la sconfitta
tedesca nella Prima Guerra Mondiale e la crisi economica. In generale, si può dire
che in Germania, tutti i problemi che vi potevano essere, secondo i nazisti, erano
causati dagli ebrei. Da qui l’odio.
Durante la seconda guerra mondiale centinaia di migliaia di persone vennero uccise,
in modo così brutale, solo perché considerate inferiori alla cosiddetta “razza
ariana”. I nazisti inizialmente procedettero con le persecuzioni le quali avrebbero
poi portato nel giro di dieci anni allo sterminio di circa sei milioni di ebrei in tutta
Europa.
L'ebreo era visto come “HOSTIS” nonché il nemico per eccellenza, il “diverso” da
sterminare. ‹‹L'ebreo è il nemico con la sua cultura, il suo universalismo, il suo culto
dell'intelligenza, la sua “mancanza di radici”, la minaccia che costituiva, per il solo
fatto di esistere, per una comunità, come quella tedesca, che si voleva pura,
razzialmente e culturalmente, incontaminata, monoliticamente coesa e
omogenea››. 20 Inoltre, ‹‹l'ebreo rappresenta agli occhi dei nazisti l'intellettuale
apolide, uncommitted, per definizione privo di impegni verso gli interessi nazionali e
con nessun orecchio per la patria o Fatherland che dir si voglia, e quindi, come tale,
un mortale nemico interno, da mascherare e da annientare››. 21 Hitler dunque,
vedeva gli ebrei come una razza che voleva rovinare tutte le altre infatti: ‹‹egli li
additava come i portatori del bacillo mortale che stava consumando la Germania››.22
Ma ancora, secondo egli, essi erano ‹‹“portatori di malattie della peggior specie”,
anche nel mondo culturale, giacché producevano “immondizia letteraria”,
“paccottiglia artistica” e “assurdità in campo teatrale”. Infettavano il popolo “con
20
F. Ferrarotti, La tentazione dell’oblio: razzismo, antisemitismo e neonazismo, Roma, Laterza, 1997, p.
30.
21
Ivi, p. 36.
22
Ivi, p. 37.
13
una pestilenza intellettuale peggiore dell'antica Morte Nera”››.23
Con l'antisemitismo Hitler toccava una corda sotterranea e sensibilissima non solo
della cultura tedesca ma di tutta la cultura eurocentrica. Egli infatti, può essere
considerato come l’esempio lampante della visione eurocentrica poiché considerava
la propria cultura superiore alle altre. Ad essi venne imposto il marchio del
“diverso” che sarà poi uso frequente anche negli anni successivi. I tedeschi
essenzialmente guardavano alla loro sopravvivenza in quanto, la difesa dal
“diverso” serviva loro a mantenere intatta l’identità culturale del gruppo
preservandolo da minacce esterne poiché appunto gli ebrei, appartenenti a un altro
mondo, venivano considerati culturalmente e socialmente inferiori. Del resto, il
considerare un’altra civiltà inferiore, è un pensiero comune che tutt’ora risiede nelle
mentalità degli occidentali.
A partire da ciò, il fenomeno dell’eurocentrismo si è affermato sempre più con il
passare del tempo, come un atteggiamento dominante, assoluto e indiscutibile,
influenzando tutta la parte europea. L’Europa prese così sempre più chiaramente
coscienza della sua diversità e, al tempo stesso, della sua superiorità, motivo per cui
gli europei maturarono in essi la convinzione che la loro civiltà fosse superiore sia a
livello intellettuale sia a livello culturale, tecnologico, scientifico, politico e così via..
‹‹Gli europei hanno, per così dire, “lobomotizzato” il resto dell'umanità,
rendendolo estraneo a se stesso, facendo ad esso desiderare la civiltà europea e
nello stesso tempo bloccandolo sulla porta d'ingresso››.24 Dunque, l’eurocentrismo
si è esteso in modo così capillare assumendo toni sempre più trionfalistici, tanto da
non tollerare più le differenze culturali tra paesi europei e non europei.
23
Ibidem.
24
Ibidem.
14
ancora oggi esistente ed è possibile rilevarlo nella drammatica realtà della
condizione degli immigrati.
‹‹L'immigrato si trova in una situazione senza vie d'uscita: ha abbandonato la sua
cultura d'origine e può avvertire in sé un oscuro, ma forte, senso di tradimento e
nello stesso tempo non viene accettato dalla cultura del paese ospitante, che spesso
ha chiesto muscoli ma non vuole persone. L'immigrato è dunque costretto a vivere,
culturalmente, in una terra di nessuno, da uomo marginale, privo di sicuri punti di
riferimento che lo aiutino a costruirsi una sicura identità come lavoratore e come
cittadino››.25 Egli è visto solamente come portatore di malattie e come una possibile
minaccia alla cultura e all’identità ma anche all’ordine pubblico e alla sicurezza, così
come la considerazione che Hitler aveva degli ebrei.
E quindi cos’è cambiato? Nulla.
Possiamo così facilmente comprendere come l’eurocentrismo, oggi, possa essere
considerato un problema ineludibile e sicuramente difficile da gestire. L’europeo
vede l’immigrato essenzialmente come straniero, come quell’individuo che “mette
piede” nel suo paese, senza tener conto di quanto possa essere stato lungo il suo
viaggio e quali possano essere i problemi che l’abbiano spinto a cambiare vita. Egli
teme pertanto che un’eccessiva liberalità possa consentire o addirittura incoraggiare
contatti troppo ravvicinati fra culture differenti e questo significherebbe per
l’europeo una vera e propria “contaminazione”. Questo può essere visto come un
atteggiamento difensivo che però porta al completo rifiuto di tali individui, ma
questo comportamento, può anche veicolare e/o rafforzare stereotipi e pregiudizi.
Ebbene l’immigrato è visto come “diverso” e allo stesso tempo inferiore, per
questo motivo viene sfruttato e trattato disumanamente e si trova a dover
affrontare una totale “chiusura sociale” in cui la paura e la preoccupazione sono fra
le reazioni più diffuse di fronte al tema dell’immigrazione.
25
Ivi, p. 125.
15
L’eurocentrismo, senza alcun cambiamento
4. PREGIUDIZI E STRATEGIE28
Marco Griffo
Una chiave di lettura, per avere una visione più ampia riguardo all’origine
dell’Eurocentrismo moderno, si ritrova nella storia insegnata oggi nelle scuole italiane
ed europee, che deriva da un modello creato intorno alla metà
del XIX secolo (1801-1900):
Il modello nazionalistico, che raccontava la biografia della Nazione, e che doveva
servire a costruire l’identità nazionale. Un vero e proprio strumento, che gli stati-
nazione (ovvero gli Stati costituiti da una comune entità culturale e/o etnica
omogenea) usavano per formare il buon patriota. Questo modello era sostenuto da
26
Ivi, p. 43.
27
Ibidem.
28
L.Cajani, L’insegnamento della storia mondiale nella scuola secondaria: appunti per un dibattito.
Rielaborazione della relazione presentata con il titolo Teaching World History in Secondary
Schools: The Present Debate alla World History Association Annual Conference, tenuta a Fairfax, va
(USA) dal 17 al 20 giugno 2004.
16
una ricerca che inseriva le varie storie nazionali in un paradigma eurocentrico
fondato sulla marginalizzazione o esclusione delle altre parti del mondo. In seguito,
dopo la Seconda guerra mondiale, con lo sviluppo di varie iniziative tendenti
all’unificazione europea, il nazionalismo è stato progressivamente sostituito
dall’eurocentrismo.
Fu così che il Consiglio d’Europa organizzò fra il 1953 e il 1958 una serie di
convegni, allo scopo di eliminare dai manuali di storia i pregiudizi negativi e gli
atteggiamenti polemici nei confronti degli altri stati europei, e di individuare gli
elementi di un quadro europeo della storia che sostituisse gli approcci nazionali.
Tuttavia, nonostante le correzioni apportate ai manuali di storia, il paese dell’autore
del manuale veniva ancora dipinto come il campione di una giusta causa e
l’avversario come un cercatore di contese malvagie.
Dall’inizio degli anni Novanta il modello ottocentesco dell’insegnamento della storia
è entrato in una fase di crisi. Da più parti − a livello internazionale − si sta infatti
discutendo sulla necessità di sostituirlo con uno che abbia come tema la storia
dell’intera umanità e come obiettivo pedagogico non la formazione d’identità
collettive, ma l’acquisizione di strumenti di analisi delle società umane, passate e
presenti. Uno spostamento di certo rilevante, ma che rimane sempre all’interno del
contesto europeo. Il resto del mondo continua a restare ai margini. Ancora una
volta, un progetto politico, in questo caso l’europeismo, che si serve
dell’insegnamento della storia per costruire il consenso. L’etnocentrismo dei vari
stati-nazione è stato sostituito dall’etnocentrismo eurocentrico.
Sul piano filosofico, seguendo la via del cosmopolitismo (cioè considerandoci tutti
cittadini del mondo, senza distinzioni nazionalistiche), potremmo dire che
il soggetto della storia dovrebbe essere l’umanità intera. Interessanti e significative,
sono in tal senso le riflessioni contenute in un rapporto sull’educazione nel XXI
secolo preparato fra il 1993 e il 1996 su incarico dell’UNESCO da una commissione
presieduta da Jacques Delors, intitolato “Nell’educazione un tesoro ”:
17
«L’educazione […] deve cercare di rendere gli individui coscienti delle proprie radici e
fornire specifici punti di riferimento che consentano loro di definire la loro
collocazione nel mondo, ma dovrebbe insegnare loro anche il rispetto per le altre
culture. Alcune discipline sono sotto questo aspetto di cruciale importanza. La storia,
per esempio, è servita spesso a rafforzare un senso di identità nazionale mettendo in
risalto differenze ed esaltando un sentimento di superiorità, essenzialmente perché
l’insegnamento della storia è stato basato su una prospettiva non scientifica. La
comprensione degli altri […] rende possibile una migliore conoscenza di se stessi: ogni
forma d’identità è complessa, perché gli individui vengono definiti in relazione ad altre
persone, sia individualmente che collettivamente, e ai vari gruppi di appartenenza si
deve fedeltà, secondo un modello continuamente mutevole. Lo scoprire che vi sono
molte di queste appartenenze, al di là di certi gruppi relativamente ristretti come la
famiglia, la comunità locale o anche la comunità nazionale, ispira la ricerca di comuni
valori che possono servire come fondamento alla «solidarietà intellettuale e morale
dell’umanità» proclamata dalla Costituzione dell’UNESCO».29
29
J.Delors, Rapporto all'UNESCO della Commissione Internazionale sull'Educazione per il Ventunesimo
Secolo, Armando Editore, 1997, p. 41.
18
complementare a un pregiudizio positivo, nel senso che, ad esempio, la
considerazione negativa dei gruppi diversi dal proprio si basa su una considerazione
esageratamente positiva di quello al quale si appartiene.»30
Per sopperire poi alla mancanza di conoscenza degli altri gruppi, ovvero dei popoli
extraeuropei, e per sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro confronti, ci si
affida a delle caratteristiche, attribuite in determinati contesti a certi gruppi sociali, e
quindi agli stereotipi. Gli stereotipi negativi possono essere definiti come « insieme
coerente e abbastanza rigido di credenze negative che un certo gruppo condivide
rispetto a un altro gruppo».31 Gli stereotipi fanno parte della cultura del gruppo e
svolgono una funzione di tipo difensivo poiché garantiscono la salvaguardia delle
posizioni acquisite dallo stesso. Queste posizioni derivano spesso da caratteristiche
negative attribuite in determinati contesti a certi gruppi sociali, quasi sempre
minoranze in qualche modo svantaggiate.
«Questi processi di globalizzazione non hanno avuto, come si pensava alla fine del
secolo scorso, l’effetto automatico di ottenere l’occidentalizzazione del mondo. I
fattori esteriori, le mode, i commerci e l’integrazione dei mercati non hanno messo in
30
Bruno M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, 1997, pp. 10-13.
31
Ivi, p.19.
19
secondo piano il fattore umano che, anzi, risulta oggi ancora più importante che in
passato, in un’epoca in cui mondi in precedenza lontanissimi tra loro, si ritrovano
improvvisamente fianco a fianco, l’uno accanto all’altro, come se il pianeta fosse
divenuto più piccolo. L’evoluzione tecnologica dei trasporti e delle telecomunicazioni
ha costruito il nuovo panorama psicologico. Accanto a questa percezione di prossimità
e di vicinanza permane tuttavia, fortissima e indelebile, quella di diversità. Diversità di
lingua, diversità di cultura, diversità di religione, diversità di concezioni, diversità di
sviluppo economico. Da questa condizione emergono due istanze divergenti:
Da una parte, la pulsione all’integrazione e all’assimilazione; dall’altra, la spinta alla
separazione e alla segregazione. […] Se non si apre al confronto, la comunità chiusa
nelle mura del suo modello culturale (di cui continua a presumere una inattuale
egemonia), non può che alimentare ansie e paure, che possono avere esiti tremendi.».32
20
che non comprende; per questa ragione sviluppa strumenti e tecniche di orientamento
che assolvono ad una duplice funzione: a) fornire conoscenze;
b) alleviare il senso di ansia e di angoscia.»34
Come accennato i precedenza, gli strumenti di difesa dell’individuo sono i
pregiudizi e gli stereotipi, mentre, risulta doveroso inquadrare alcune delle ansie e
delle paure avvertite dal popolo europeo nei confronti della società globalizzata
odierna.
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le compie, azioni di intolleranza e di discriminazione. Quante volte abbiamo sentito
ripetere l’espressione «io non sono razzista ma …» seguita da valutazioni pseudo -
oggettive che tendono a razionalizzare l’ostilità verso gli immigrati e a sostenere
come inevitabili provvedimenti di fatto discriminatori, aventi come finalità ultima e
37
comune quella di allontanarli da sé e dal proprio spazio vitale.»
La situazione attuale, in Italia come nel resto dei paesi di più recente immigrazione,
si va configurando sempre più nella direzione della segregazione e della reciproca
impermeabilità. Nel migliore dei casi una condizione di non belligeranza, nella
quale la diversità non si pone come un fattore di arricchimento ma, bensì come una
barriera insormontabile.
«In Italia, come in tutti gli altri contesti di relazioni interetniche, alla diversità
corrisponde una gerarchia, e gli immigrati sono percepiti come individui di
categoria sociale inferiore. Di ciò forse l’esempio più evidente – e doloroso per chi
crede nell’uguaglianza fra gli esseri umani – è la facilità con cui ci si rivolge a un
immigrato, specie se africano, usando come pronome di indirizzo il «tu» e non il
«lei», come il nostro costume prescrive nei rapporti tra sconosciuti. »38
37
B. M. Mazzara, op.cit., p. 33.
38
Ivi, p. 34.
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«Se, come sempre più spesso accade, la separazione fisica appare impraticabile,
allora la distanza può essere prodotta in modo immateriale: alzando, ad esempio,
una barriera di pregiudizi così da rendere invisibile […] questa moltitudine di Altri
con cui non si intende interagire»39
«Una prima strategia, che possiamo definire assimilazione, esprime la tendenza del
gruppo maggioritario a inglobare quello minoritario, facendo in modo che esso
rinunci alla sua differenza e accetti in pieno, riconoscendoli come superiori, i
modelli di vita e la cultura della maggioranza. Si tratta della strategia che di solito si
manifesta per prima nel rapporto con il diverso, e che esprime l’orgoglio per il
proprio modo di essere, e insieme una percezione di minaccia da parte di ciò che la
metta in discussione. Una seconda strategia è quella detta della fusione: le diversità
mescolate in un ipotetico crogiuolo (il cosiddetto melting pot) dal quale ci si aspetta
che fuoriesca una sintesi superiore, migliore dei singoli componenti di partenza.
L’idea di base è che ciascuna diversità possegga elementi positivi che meritano di
entrare nella sintesi finale, ma anche la fiducia che le diversità non siano tali e
39 D.Crimi, L.Falduzzi, M.La Bella, P.Santoro, A.Scuderi, Diffusione e differenziazione dei modelli
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talmente incompatibili da precludere quel rapporto stretto che è indispensabile per
la fusione. »40
Già durante una prima analisi questi modelli risultano di difficile applicazione
poiché, per i motivi di cui abbiamo discusso in precedenza, non tutti sarebbero
disposti a rinunciare alla propria identità per il fine ultimo di un maggior valore,
dato appunto dall’integrazione, per una convivenza pacifica e redditizia.
«Ma esiste anche una terza strategia, che viene detta di pluralismo culturale, la quale
mira invece a mantenere le differenze, valorizzando ciascuna di esse in quanto
possibile arricchimento del patrimonio culturale complessivo, il quale trae la sua
forza non dalla fusione indistinta, bensì dal confronto e dalla pacifica coesistenza di
culture diverse.»41
Nel pregiudizio eurocentrico a ciascuna delle altre civiltà con le quali si entra in
contatto «si rimprovera di non essere in linea con i valori e gli stili di vita prevalenti
(vale a dire i propri), e si pone spesso a esse un’esplicita richiesta di adattamento
come prezzo per l’accettazione sociale; mentre risulta sicuramente più utile una
40
B. M. Mazzara, op.cit., pp. 110-111.
41 Ivi, p. 111.
42 Ivi, p. 112.
24
certa dose di «contaminazione», intesa come capacità di diversi universi di trovare,
almeno su alcuni tratti, più ampie occasioni di arricchimento reciproco. »43
Per concludere il nostro approfondimento possiamo definire delle condizioni
necessarie per un contatto efficace.
«Si può dire che la strategia di intervento in assoluto più diffusa […] e dalla quale ci
si aspettano i migliori risultati è quella di favorire il contatto fra i diversi. La fiducia
nell’efficacia di questa strategia si basa sulla convinzione che stereotipi e pregiudizi
derivino da un’insufficiente conoscenza della realtà dell’altro, il quale viene
percepito erroneamente come troppo diverso da sé e come nemico per principio,
sicché si ritiene che una migliore conoscenza reciproca sia sufficiente a rimuovere
gli errori di valutazione e di aspettativa e a creare un rapporto di amicizia e di
solidarietà.
Sono basati su questa convinzione tutti gli interventi che nei più diversi contesti
(dalla scuola al lavoro alla vita civile) puntano alla cosiddetta de-segregazione:
rompere le barriere, sia giuridiche dove laddove ancora esistano, sia culturali, e fare
in modo che i diversi possano interagire, conoscersi e apprezzarsi. Altra condizione
importante è che l’interazione sia sufficientemente lunga e approfondita;
Dato il forte radicamento degli stereotipi e la loro tendenza all’autoriproduzione,
può essere necessario, infatti, molto tempo e molte esperienze per realizzare una
conoscenza in grado di contrastarli. Tale interazione deve poi essere soddisfacente, nel
senso che la conoscenza deve apportare elementi informativi positivi che rendano
gratificante il rapporto[…]. Infine un fattore cruciale è il supporto istituzionale e
culturale: le esperienze di contatto non possono essere degli episodi isolati o limitati
a un solo contesto, poiché l’individuo li vivrebbe come delle eccezioni rispetto a
una norma che è invece quella dell’esclusione e della separazione. »44
Nonostante le numerose problematiche riscontrate durante il nostro percorso di
analisi sul pregiudizio eurocentrico, possiamo tutti convergere sul fatto che, anche
se si avverte come un argomento spinoso e all’apparenza difficilmente risolvibile,
43 Ivi, p. 114.
44 B. M. Mazzara, op.cit., pp. 115-118.
25
durante tutto il corso della storia dell'umanità la crescita spirituale dei popoli ha
conosciuto momenti terribili e tremende involuzioni; ma da questi momenti si è
quasi sempre tratto uno spunto per porre dei rimedi alle difficoltà insorte. Già da
tempo, infatti, si discute a livello europeo su degli accordi fra le analisi scientifiche e
le esigenze applicative necessarie a migliorare la convivenza fra gruppi etnico -
culturali differenti. Tale apertura al confronto dimostrata dall’Unione Europea
attraverso le varie politiche di dialogo e di sensibilizzazione, ci fa ben sperare nella
capacità di influenzare l’opinione pubblica e quindi il singolo individuo, riuscendo
ad uscire dallo spirito eurocentrico al quale è ancora legato.
Il mondo sta cambiando e con esso le idee e i punti fermi a cui si ha/è sempre fatto
riferimento. Superare il razzismo a oggi sembra possibile.
Sulla base di tutto ciò bisogna porre una particolare attenzione sul carattere della
rappresentanza politica e sulla chiesa. Una rappresentanza politica che garantisca ai
lavoratori la libertà di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a
cui intendono prestare la loro opera, ed è qui che lo Stato deve impegnarsi nel dare
i mezzi giuridici per garantire l’osservanza dei patti conclusivi garantendo ai
lavoratori la libertà di decidere senza un’ oppressione politica. Per quanto riguarda
26
la chiesa, essa dovrà impegnarsi a far sì che tutte le credenze religiose dovranno
essere egualmente rispettate.
27
Tutto quello che sin ora è stato preso in considerazione non riguarda solo il nostro
stato, ma tutte le nazioni; oggi più di ieri gli immigrati sono presenti in ogni luogo e
mettono in discussione le radici di ciascuna cultura che si trova dinanzi a questa
problematica, quindi oltre ad una collaborazione individuale è da estendere dell’
intera Panagea.
Si evince dal libro intitolato “The First Modern Society”, l’apertura dell’Europa
occidentale a nuovi orizzonti culturali. Tale capolavoro si apre infatti con una
citazione dell’ autore (L. Stone): « come e perché l’ Europa occidentale cambia nel
corso dei secoli XVI, XVII e XVIII in modo da porre le fondamenta sociali,
economiche, scientifiche, politiche, ideologiche ed etniche della società
industrializzata razionalista, democratica, individualista, tecnologica nella quale
viviamo ora? L’Inghilterra fu il primo paese a percorrere questa strada […]».45
Tutto questo può essere garantito attraverso una solidarietà umana che non si basa
su azioni caritatevoli, ma sulla garanzia di una vita dignitosa, cosicchè nessuno sarà
costretto alla miseria ed ognuno avrà un lavoro giustamente retribuito e quindi
abolire il concetto che il povero sta allo straniero come lo straniero sta al razzismo.
In questa attenta analisi emerge che il fatto di credersi superiori è stata la causa di
molte guerre e barbarie e questa distrazione ha fatto si che il processo di
45
L. Passerini, Identità culturale europea: idee, sentimenti, relazioni, Scandicci, La nuova Italia, 1998, p.
33.
28
civilizzazione venisse ostacolato, ad oggi queste barbarie vengono viste come una
giustificazione al mancato progresso ed ognuno si crede vittima di se stesso e di
conseguenza non si va avanti, ma tutto questo non conta più nulla perché tutti si
impegnano ad aggiornare statistiche di immigrazione, dimenticando che siamo tutti
migranti e siamo sempre di più nel mondo, di conseguenza, attuiamo più
spostamenti; ad oggi questo fenomeno si sta verificando e quindi dobbiamo
rivalutare tutti i punti di riferimento passati. Prendere coscienza di tutto ciò e di
anni di erronea analisi dello straniero grazie ad una promessa di presa in carica dell’
istruzione e di una politica mediatrice ci permette di entrare in gioco verso il futuro
dell’ Europa in cui quest’ ultima dovrà proporsi l’ emancipazione delle classi
lavoratrici e delle condizioni più umane e di vita.
29
incontrano per tessere la tela del futuro cercando di elidere tutte quelle
incomprensione che oggi vogliamo lasciare alle nostre spalle per scrivere le pagine
di una nuova storia delle relazioni sociali fondate su una democrazia della nuova
società moderna. Tutti siamo diversi da tutti nessuno è uguale a nessun altro.
30
Bibliografia
L. Cajani, L’insegnamento della storia mondiale nella scuola secondaria: appunti per un
dibattito. Rielaborazione della relazione presentata con il titolo Teaching World
History in Secondary Schools: The Present Debate alla World History Association Annual
Conference, tenuta a Fairfax, va (USA) dal 17 al 20 giugno 2004;
D. Crimi, Mezzogiorno irremedibile, Catania, Fondazione M, 2015;
D. Crimi, L.Falduzzi, M.La Bella, P.Santoro, A.Scuderi, Diffusione e differenziazione dei
modelli culturali in una metropoli mediterranea, Franco Angeli, 2004;
J.Delors, Rapporto all'UNESCO della Commissione Internazionale sull'Educazione per il
Ventunesimo Secolo, Armando Editore, 1997;
E. Dussel, Eurocentrism and modernity (introduction to Frankfurt lectures), in «Boundary
2», 3 (1993), pp. 65-76;
E. Dussel, Europe, modernity, and eurocentrism, in «Nepantla. Views from South», 3
(2000), pp. 465-478;
F. Ferrarotti, La tentazione dell'oblio : razzismo, antisemitismo e neonazismo, Roma,
Laterza, 1993;
J. A. Hobson, Imperialism: a study, Nottingham, Spokesman Books, 1902;
S. Huntington, Zderzenie cywilizacji i nowy kształt ładu światowego, Varsavia, Muza SA,
2008;
R. Kapuscinski, Se l’Europa non è più il centro del mondo, Milano, Feltrinelli, 2002;
B.M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il Mulino, 2002;
L. Passerini, Identità culturale europea : idee, sentimenti, relazioni, Firenze, La Nuova
Italia, 1998;
A. Samir, El eurocentrismo crítica di una ideología, Messico, Sigla Veintuno, 1989;
I. Wallerstein, Eurocentrism and its avatars. The dilemmas of social science, in «Sociological
bulletin», 1 (1997), pp. 21-39.
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