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Psicologia del lavoro – 04 Gruppo 23:

Argomento: stress lavorativo e burnout,


comportamenti lavorativi controproducenti
Sbobinatori: Anselmo Bovo, Gaia Iacuzzi
Controllore: Matteo Sinigaglia

STRESS LAVORATIVO E BURNOUT

Stress lavorativo e burnout fanno parte dei possibili esiti negativi del lavoro.

STRESS LAVORATIVO

Il termine stress nella quotidianità è molto usato per indicare i sintomi che derivano da
questo, ma spesso non lo si utilizza nell’accezione scientifica.
Lo stress è una risposta psicofisica che occorre quando le richieste del lavoro superano le
risorse o le capacità del lavoratore di farvi fronte o si scontrano eccessivamente con i suoi
bisogni (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, 2010).
Parte da un processo di interazione tra richieste del lavoro e caratteristiche personali
(giocano un ruolo importante nella percezione del lavoratore di poter farsi carico delle
richieste).
Lo stress è quindi un processo che parte da richieste poste alla persona dal lavoro e procede
attraverso la valutazione percettiva di tali richieste. Bisogna sottolineare come la percezione
soggettiva sia fondamentale in questo caso.
Se le richieste eccedono le risorse, ci sarà una minaccia per l’equilibrio e, di conseguenza,
si presenterà la necessità di contromisure, che sono misure di adattamento psicologico,
comportamentale, fisico-biologico.
Se l’adattamento non ristabilisce l’equilibrio minacciato, si innescano risposte disadattive e
si hanno conseguenze negative.

È necessario dare alcune definizioni:


• Stress (o processo di stress): processo articolato in stimoli, modalità di
elaborazione di tali stimoli (entrano in gioco i sistemi cognitivi e percettivi del
lavoratore) ed esiti derivanti dall’incongruenza tra richieste e risorse.
• Stressor: eventi o fattori che possono attivare il processo di stress.
• Strain: reazioni fisiologiche, psicologiche e comportamentali che derivano dalla
valutazione e dalla discrepanza percepita tra richieste e risorse.
• Strategie di coping: insieme di sforzi e capacità che il lavoratore utilizza per
fronteggiare squilibri percepiti tra richieste e risorse. Sono strategie individuali.
• Stress outcome: conseguenze dello strain, sia a livello individuale sia organizzativo.

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L’immagine serve a
esemplificare il concetto di
stress in psicologia del lavoro.
Se le risorse sono valutate
insufficienti per le richieste ci
può essere una risposta
psicofisica a breve termine.
Se non si ritorna ad un equilibrio, c’è il rischio di sviluppare vere e proprie patologie da
stress.
In tutto ciò giocano un ruolo importante le caratteristiche del lavoratore: ad esempio, una
persona che abbia maggior autoefficacia non sovrastimerà le richieste e avrà minor
probabilità di soffrire di stress. Inoltre ci sono caratteristiche che proteggono sia dagli effetti
a breve termine che da quelli a lungo termine.

Stressor
In letteratura (Koslowsky, 1998) gli stressor sono suddivisi in due categorie [nds. Il prof poi
ne elenca una terza, individuata più recentemente]:
1. Individuali
2. Organizzativi
Esistono anche altri tipi di classificazione.

1. Stressor individuali (fanno riferimento al vissuto del lavoratore):


• Stressor soggettivamente percepiti: percezione di situazione/attività stressanti al di
là di caratteristiche oggettive; percezione di inadeguatezza dei ricavi (es. monetari,
soddisfazioni personali che il lavoro può dare); percezione di ostilità dell’ambiente
(es. leadership autoritaria).
• Stressor connessi a caratteristiche oggettive dell’occupazione: modalità di impiego
(es. precario), tipo di occupazione (es. ambito sanitario), tempo per recarsi al lavoro,
viaggi frequenti di lavoro, eventi come cambiamento di lavoro e pensionamento.
• Job stressor: richieste del compito che eccedono risorse fisiche, psicologiche e
comportamentali, pressioni di ruolo (squilibri e ambiguità), responsabilità verso altre
persone, relazioni con superiori (se non eque), sovraccarico o sottocarico mentale.

2. Stressor di gruppo e organizzativi:


• Clima relazionale e rapporti interpersonali negativi e ostili
• Incoerenza tra valori personali e valori organizzativi (es. sistema sanitario
statunitense: un sanitario vorrebbe poter curare chiunque abbia bisogno, ma il
sistema assicurativo non lo permette)

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• Technostress (a volte è difficile riuscire a seguire i continui aggiornamenti e
cambiamenti della tecnologia)
• Instabilità (es. cambiamenti continui dell’organizzazione di reparti, chiusura di
un’azienda)

3. Stressor legati a vita familiare/extralavorativa e quotidiana (si è data più


attenzione a questi negli ultimi decenni):
• Imprevisti quotidiani (es. ritardo dei mezzi frequente, rottur del pc9
• Eventi di vita maggiori (lutti, rotture)
• Spillover effect (eventi familiari o personali giocano un ruolo su come il lavoratore
percepirà la vita lavorativa e viceversa)

Fattori di moderazione dell’impatto degli stressor


Fanno sì che l’impatto dello stress sia minore o fanno percepire al lavoratore di essere in
grado di sopportare richieste e stressor.

• Fattori individuali:
o Caratteristiche individuali come locus of control interno (fa percepire che gli
eventi che accadono dipendano da caratteristiche interne, in maniera opposta
a chi ha il locus di control esterno,e definisce la causa degli eventi come
esterna; una persona può avere gradi diversi di questi due opposti), self-
efficacy, ottimismo disposizionale (non è detto che il pessimismo sia negativo:
alle volte, aspettandosi il peggio, si è pronti a fronteggiarlo nel caso in cui
dovesse accadere), tolleranza all’ambiguità sono associate a minore impatto
degli stressor.
Tutte queste caratteristiche, nonostante siano per lo più stabili e disposizionali,
sono adattive e hanno la possibilità, in parte, di cambiare nel corso della vita.
o Fattori socio-demografici. Es: salute fisica (chi è in salute sopporta meglio gli
stressor), categorie e gruppi sociali d’appartenenza (un background migratorio
potrebbe causare discriminazione), età (lavoratori più anziani non sono visti
come performanti), sessismo, vivere da soli/convivere (la presenza di altre
persone può dare supporto emotivo ma può anche causare discussioni e
scontri nella convivenza quotidiana)
o Quantità e qualità di rapporti sociali. Avere rapporti sociali è un fattore di
protezione nei confronti degli stressor. Si fa riferimento sia a rapporti duraturi
e profondi sia a interazioni sociali più fugaci (il cosidetto small talk, es: fare
quattro chiacchiere sull’autobus)
• Fattori legati al lavoro e all’organizzazione:
o Grado di controllo e autonomia (es. su ritmo lavorativo)
o Clima psicosociale
o Sostegno sociale (da colleghi e superiori)
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Conseguenze dello stress

• Esiti psicofisici: variazioni del battito cardiaco e della pressione sanguigna, malattie
cardiovascolari e bronchiali, disfunzioni gastrointestinali
• Esiti psicologici e di disagio psichico: riduzione del funzionamento cognitivo
(attenzione, concentrazione, memoria), emozioni negative croniche (es. ansia,
paura, senso di colpa, irritabilità, disgusto)
• Esiti comportamentali sul lavoro: maggior rischio di commettere errori, ritardi e
assenteismo, reazioni aggressive fisiche e verbali, condotte autolesive (es. uso
psicofarmaci, alcool)
• Esiti per la vita personale: riduzione dei significati attribuiti al lavoro (percepire che la
propria attività lavorativa ha un significato aumenta il benessere); interferenza con
vita familiare, impoverimento vita sociale (chi è in uno stato di stress cronico non ha
energie per mantenere una vita sociale). Da un lato vita familiare e vita sociale sono
un fattore di protezione per lo stress, dall’altro una persona stressata tende a
trascurare questi aspetti della vita che potrebbero aiutarla, creando un circolo vizioso.
• Esiti socioeconomici e organizzativi: perdite economiche (assenteismo e turnover),
perdita efficienza, perturbazioni clima organizzativo e relazioni sociali.

La figura rappresenta il Job


Demands – Control Model.
Vengono considerate due
dimensioni del lavoro per capire se
il lavoro è a rischio di strain e
stress: richieste lavorative (carico,
ritmi) e possibilità di controllo
(discrezionalità e autonomia
decisionale).
1. Richieste alte e possibilità di
controllo basse: lavori ad alto
strain. C’è maggior probabilità che
si verifichi stress.
2. Richieste e possibilità di controllo alte: lavori attivi. La possibilità di controllo permette
di gestire agevolmente le richieste.
3. Richeste basse e possibilità di controllo alte: lavori a basso strain.
4. Richieste e possibilità di controllo basse: lavori passivi.
In una revisione di questo modello è stata aggiunta una dimensione: il supporto, sia
socioemotivo sia strumentale. Funge da moderatore delle richieste lavorative: anche in caso
di richieste elevate e bassa possibilità di controllo, il supporto riduce la possibilità di strain.

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Un altro modello è l’Effort/Reward Imbalance Model (Siegrist, 2001).
Considera il fatto che lo strain sia causato da una percezione di squilibri tra sforzi e
ricompense (una persona ritiene di essersi sforzata di più di quello che ha ottenuto).
Le motivazioni (atteggiamenti ed emozioni riconducibili a forte desiderio di essere
riconosciuti e stimati sul lavoro) portano a sottostimare sforzi e costi e a sovrastimare
ricompense e ricavi.

BURNOUT

È una grave forma di stress cronico, inizialmente identificato in ambito sanitario e poi esteso
a professioni di aiuto e in generale caratterizzate da rapporti con altre persone
Nella letteratura si individuano tre componenti (es. Masclach & Leiter, 2016):
• Depersonalizzazione (cinismo, distanza psicologica verso paziente/utente).
Inizialmente il lavoratore investe molto nei rapporti sociali con i colleghi o con i
pazienti, poi si distacca e perde la personalizzazione del paziente/utente
• Esaurimento emotivo (eccessivo coinvolgimento personale che drena energie, poi
si raffredda)
• Ridotta efficacia personale (percezione di non riuscire più a realizzare proprie
capacità e aspettative)
È studiato in contrapposizione al work engagement nel Job Demands-Job Resources
Model: se le richieste lavorative diventano stressor e richieste/stressor superano le risorse,
c’è rischio di burnout.

Cosa si può fare per la gestione dello stress:


Era già stato menzionato che gli individui possono mettere in atto strategie di coping con
funzione protettive che fanno riferimento a caratteristiche personali.
Tre categorie:
• Strategie incentrate sul problema, cioè cercare di risolvere la situazione problematica
che innesta il processo di stress (azioni orientate a rimuovere la causa, ridefinire
tempi e ritmi, cercare informazioni da colleghi e supervisori: esempio se ho un
sovraccarico coi turni dei pazienti posso cercare di rinegoziarli)
• Strategie incentrate sulle emozioni e cognizioni , si può cercare di analizzare a livello
cognitivo la situazione da altri punti di vista, cercando di capire se ci sono soluzioni
alternative che, tenendo le stesse condizioni oggettive, mi permettono di gestire al
meglio la situazione ( modificare il significato attribuito ad un evento: esempio se una
relazione interpersonale ha drenato le mie energie, io posso ragionare sulla
situazione e prendere le giuste distanze dall’evento o dal singolo paziente/persona)
• Strategie incentrate sui sintomi di stress (al fine di potenziare la capacità di risposta
e resilienza, tecniche di rilassamento, meditazione, esercizio fisico)

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L’ideale sarebbe non arrivare a mettere in atto queste strategie.

Gestione a livello organizzativo


Ci possono essere:
- Interventi a livello individuale (una più adeguata collocazione lavorativa delle persone
con collocazione in diversi reparti, riduzione dei carichi nei casi di sovraccarico
lavorativo, chiarezza dei ruoli, sulla rotazione e mansioni diverse)
- Interventi a livello di gruppi di lavoro (per un miglioramento della capacità di
collaborazione con un impegno per rendere il clima lavorativo più sano e collaborativo
possibile, comunicazione, decisioni condivise)
- Interventi a livello organizzativo più in generale, con interventi preventivi e correttivi
per ridurre fonti di stress. Preventivi nel prevenire l’innesco del processo di stress, o
correttivi nel caso il processo sia già innescato.

Il processo di valutazione dello stress e di progettazione degli interventi, oltre a essere


complesso, parte dall’ identificare e valutare gli stressor, effettuato in equipe multidisciplinari
in cui collaborano psicologi del lavoro ma anche medici del lavoro e tramite ricerche
quantitative e qualitative (questionari, interviste) si cerca di trovare e valutare gli stressor,
ovvero quali caratteristiche del lavoro potrebbero essere l’origine dello stress.
Una volta identificati i possibili stressor si attuano interventi di prevenzione primaria,
ovvero ridurre lo stressor, se si intuisce, ancor prima che il lavoratore risulti stressato, che
l’organizzazione dei turni è dura e rischia di innescare il processo di stress, allora sarebbe
ideale cercare di cambiare i turni in modo che il processo di stress sia il meno possibile.
La prevenzione secondaria consiste nella facilitazione della gestione attiva dello stress,
ovvero cercare di dare informazioni ai lavoratori su come gestire situazioni che potrebbero
essere potenzialmente stressanti (formazione sulle condotte salutari, competenze e
strategie di coping).
La prevenzione terziaria ha come destinatari quelle persone che sono già in situazioni
stress prolungate o croniche, servirà quindi un trattamento e una riabilitazione (assistenza
e sostegno a persone in condizioni di stress cronico e burnout).

CONDOTTE LAVORATIVE CONTROPRODUCENTI:


COMPORTAMENTI AGGRESSIVI E MOBBING:
Alcune condotte lavorative controproducenti che oggi non prenderemo in considerazione
sono: la violazione delle norme di sicurezza, condotte lavorative che avvantaggiano sé
stessi o persone che si conoscono, condotte lavorative non normative che avvantaggiano
la propria organizzazione come la concorrenza sleale che si può trovare nelle aziende, per
esempio, o i ritardi prolungati non determinati dalla casualità. Ci soffermeremo invece nei
comportamenti aggressivi in ambito lavorativo.

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In Psicologia del lavoro per comportamento aggressivo si intende un comportamento
volto ad arrecare danno ad altre persone con intenzionalità, per cui se arreco danno
involontariamente ad una persona non potrò parlare di comportamento aggressivo.
In ambito lavorativo è un comportamento volto ad arrecare danno ad altri lavoratori o ad
altre persone come pazienti o clienti.
Dobbiamo distinguere il termine violenza, in ambito della psicologia sociale e del lavoro,
dall’ aggressività in quanto la violenza implica ledere fisicamente mentre l’aggressività si
riferisce anche all’aggressività verbale.
In generale sembrano essere in aumento i casi riportati di aggressività, ciò non vuol dire
necessariamente che sta aumentando l’aggressività nei luoghi di lavoro, ma che c’è un
progressivo aumento della consapevolezza che non sia accettabile e che così vengano
riportati più spesso.

Forme di aggressività
- Distinta in fisica e verbale
- Distinta in diretta e indiretta: diretta quando il danno viene inflitto direttamente alla
vittima come spingere o insultare. Indiretta quando il danno è inflitto alla vittima
attraverso qualcosa o qualcun altro o quando si arreca danno ad oggetti o persone
care alla vittima.
- Distinta in attiva o passiva: attiva quando si mette in atto il comportamento per
arrecare danno a qualcun altro. Passiva quando vi è l’omissione di un
comportamento.

Accenniamo solo qualche esempio delle tre dimensioni dell’aggressività nel luogo di lavoro
intrecciate. Può esserci l’aggressività fisica attiva diretta (spingere o “gestacci”),
l’aggressività fisica attiva indiretta come distruggere qualcosa che appartiene ad un altro
lavoratore, non si interagisce direttamente con il lavoratore.
L’aggressività verbale diretta è tipicamente l’insulto, mentre quella indiretta è ad esempio
spargere pettegolezzi su una persona senza l’interazione diretta.
L’aggressività verbale passiva indiretta come non smentire pettegolezzi su una persona che
io so essere falsi.
Questi sono esempi del 1996 e non tengono conto che ora, in qualsiasi ambiente lavorativo,
tutto ciò che riguarda l’aggressività verbale passa spesso attraverso i nuovi media, come
chat, whatsapp e insulti sui social.
Le forme di aggressività più diffuse e in aumento sono soprattutto quelle verbali.
E’ importante menzionare anche l’esclusione che risulta una forma attiva indiretta,
soprattutto l’esclusione sistematica di un lavoratore, come ad esempio creare una chat di
un reparto di lavoro senza inserire un lavoratore.

Teorie psicosociali e organizzative


Spiegano l’insorgenza dei comportamenti aggressivi del mondo lavorativo.
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La prima teoria che viene discussa è la teoria di frustrazione aggressività, inizialmente
formulata nel 1939 ma che ha subito numerose revisioni e a differenza di quanto
inizialmente formulato, questa non spiega cosa sono i comportamenti aggressivi, ma
comunque ne identifica possibili cause.
L’idea di questa teoria è che la mancata realizzazione di un desiderio crei frustrazione, che
a sua volta crea attivazione fisiologica e conseguente risposta aggressiva. Se si percepisce
che un proprio bisogno o desiderio non venga realizzato, allora ci si sentirà frustrati, con
conseguente necessità di sfogare quest’attivazione fisiologica con una risposta aggressiva.
Inizialmente l’ipotesi riconosceva solo questo, dopo diverse revisioni ora si riconosce che
ad un evento frustrante o a più eventi negativi possano seguire delle reazioni di cui la
principale è la frustrazione ma anche la paura e queste hanno reazioni diverse poiché se
dopo l’evento frustrante ho la paura allora tenderò alla fuga, mentre se si proverà
frustrazione allora la risposta sarà di tipo aggressivo.
Revisioni più recenti hanno detto che gioca un ruolo l’ambiente, anche di tipo fisico; infatti,
se l’ambiente ha dei vizi che suggeriscono che una risposta aggressiva sia la più
appropriata, allora la probabilità che venga messa aumenterà, esempio è stato un
esperimento in cui è stata lasciata un'arma in vista e alla sola visione dell’arma le reazioni
di tipo aggressivo sono aumentate.
Importante in questa teoria è che la risposta aggressiva non è sfogata verso la fonte della
frustrazione ma verso capri espiatori.
Se ci si arrabbia verso il proprio responsabile che non è stato per nulla chiaro nell’assegnare
i compiti, non si riuscirà a sfogare la propria aggressività verso il responsabile poiché è una
persona troppo potente e verrà quindi riversata verso un capro espiatorio generalmente una
persona più debole.

Vi è poi una prospettiva della giustizia organizzativa, per cui gli atti aggressivi sono una
risposta a percezione di ingiustizia nella distribuzione di costi e benefici, nelle procedure di
funzionamento organizzativo e nelle relazioni.
Quando si percepisce una ingiustizia o nel sistema delle ricompense o in come le procedure
delle ricompense vengono messe in atto allora c’è una maggiore probabilità che il lavoratore
sia scontento e risponda con atti aggressivi.
Abbiamo anche la violazione del contratto psicologico, ovvero la percezione di un vincolo
reciproco e lo scambio percepito tra l’organizzazione e il lavoratore che va aldilà del
contratto formale, se si percepisce che l’organizzazione non dà indietro quanto promesso
dal contratto psicologico allora ci sarà la percezione che gli obblighi reciproci sono stati rotti
e che il lavoratore non ha più l’obbligo di comportarsi in modo adeguato ad esempio
mettendo in atto comportamenti aggressivi verso colleghi o altri lavorativi.

Un’altra teoria che nominiamo è la teoria dell’apprendimento sociale, questa teoria


propone che si apprende per osservazione di quello che fanno gli altri, inizialmente si è visto
nei bambini che se l’adulto giocava o aggrediva la bambola, tendenzialmente imitavano il
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comportamento dell’adulto per cui se l’adulto giocava con la bambola loro ci giocavano, al
contrario se l’adulto la aggrediva loro la aggredivano.
A livello lavorativo quindi trovarsi in un contesto in cui si vedono varie forme di aggressività
può portare ad una imitazione di tali forme di aggressività, da un lato c’è un apprendimento
per modellamento con imitazione dell’aggressività, dall’altro lato, il vedere che l’aggressività
viene punita dimostra ciò che è normativo in quel contesto.

Determinanti dell’aggressività in ambito lavorativo


Sono state studiate caratteristiche individuali che possono essere associate ad aggressività,
ad esempio:
- variabili sociodemografiche: per quanto riguarda l’aggressività fisica diretta gli uomini
hanno più tendenza nel farla; anche il background socioeconomico
- Tratti di personalità, ad esempio chi prova spesso emozioni negative può mettere in
atto più spesso comportamenti negativi
- Autostima, spesso chi ha bassa autostima tende a mettere in atto comportamenti
aggressivi di tipo difensivo, anche se la relazione potrebbe non essere così lineare e
scontata, poiché comportamenti aggressivi sono stati visti essere messi in atto anche
da persone con autostima elevata

Importante dire che queste caratteristiche individuali spiegano una parte di variabilità di
comportamenti aggressivi molto limitata; questo ci permette di uscire un po’ dalla cultura
della colpa e di renderci conto che molto è determinato dal contesto, che può porre le basi
a futuri comportamenti aggressivi.
Quindi prestiamo attenzione ai fattori organizzativi, quali il clima sociale, i modelli di giustizia,
la percezione di frustrazione lavorativa e anche all’ambiente fisico con situazioni di rumore
e grande sovraffollamento che sembrano predisporre ad una maggiore aggressività fisica.
In ultima analisi abbiamo anche gli aspetti socio-culturali, in cui si vede come i paesi
occidentali in cui viene valorizzata molto la competitività sembrano essere un terreno fertile
per l’aggressività.

MOBBING
Definizione abbastanza recente che definisce il mobbing un insieme di azioni di attacco,
offesa, di esclusione rivolte verso qualcuno che intaccano progressivamente i suoi compiti
lavorativi normali.
Importante sottolineare che non vi è solo un’azione diretta ma soprattutto indiretta tramite
l’esclusione che è molto presente nelle dinamiche del mobbing.
Vi è un’escalation in cui si parte da azioni più piccole che progressivamente nel tempo si
rafforzano e aumentano; infatti, si parla di mobbing se le azioni sono ripetute nel tempo, con
almeno un episodio a settimana per 6 mesi, anche se ciò che conta è la percezione della
vittima.

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Nella definizione del 2003 viene affermato che il mobbing avviene spesso quando vi è
un'asimmetria di potere, con la vittima che ha in genere una posizione sociale inferiore; negli
ultimi anni è molto dibattuto questo ultimo punto poiché non è sempre necessariamente così
in quanto se è vero che la vittima in posizione sociale inferiore temerà maggiormente le
possibili ripercussioni come demansionamento, è anche vero che può avvenire tra persone
dello stesso livello sociale che magari cercano di escludere un superiore.

Il mobbing consiste in cinque classi di condotte che intaccano:


- Reputazione della vittima, per cui o tramite esplicita verbalizzazione o tramite
esclusione si cerca di etichettare una vittima come inadatta all’ambiente sociale.
- La possibilità della vittima di comunicare e delle sue relazioni sociali, attaccando i
rapporti sociali che la vittima ha.
- Qualità dell’occupazione e delle mansioni, infatti uno dei più ricorrenti casi è il
demansionamento con l’assegnazione di compiti molto inferiore rispetto al potenziale
e agli studi che la vittima ha.
- Salute e benessere

Esistono varie tipologie di mobbing:


• Verticale, da un superbire a un subordinato e questa situazione viene vissuta peggio
dalla vittima
• Orizzontale, tra pari /colleghi
• Strategico, sia verticale che orizzontale poiché è finalizzato a espellere un lavoratore
per motivi strategici, come nel caso di voler rimpiazzare un lavoratore temporaneo e
si cerca di mettere in atto comportamenti che portino il lavoratore a dimettersi senza
che esso venga licenziato

Antecedenti e conseguenze del mobbing


● Antecedenti: Fattori organizzativi quali stressor ambientali, clima organizzativo
inadeguato caratterizzato da scarsa collaborazione e comunicazione, anche la
leadership lassista che non si occupa completamente del benessere dei lavoratori
può rappresentare terreno fertile per il mobbing. Fattori sociali come ostilità tra gruppi
di lavoro (può portare a mobbing verso lavoratori di altri gruppi), invidia sociale verso
un collega che sta avendo successo o tendenza a identificare un capro espiatorio.
Fattori individuali come ridotte competenze professionali del mobber quindi provando
invidia verso la vittima, ma anche mancanza di sensibilità e intelligenza emotiva del
mobber
● Conseguenze: Deterioramento del benessere psicofisico e disadattamento
ambientale della vittima che avrà forme di disagio psicofisiologico e reazioni
comportamentali (insonnia, abuso di sostanze...); varie forme di disagio psicologico
grave fino a possibili sindromi psichiatriche. Peggioramento delle relazioni lavorative

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non solo verso il mobber ma del clima aziendale con perdita dell’efficacia e efficienza
del gruppo lavorativo

Nella dinamica del mobbing abbiamo parlato di vittime e dei mobber, ovvero coloro che
generalmente mettono in atto azioni per escludere una vittima, ma esistono anche persone
che potrebbero non partecipare a queste azioni ma nemmeno schierarsi con il mobber.
Intervenire è difficile ma il non intervento non fa altro che rafforzare questa dinamica perché
il messaggio che riceve il mobber è che quello che lui sta facendo è normativo e accettato,
ciò ha implicazioni sulle politiche aziendali che dovrebbero avere delle chiare strategie di
intervento per tutti i casi di qualsiasi forma di aggressività e mobbing, perché senza
intervento si rischia la legittimazione del mobbing.

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