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La sindrome di burnout nelle professioni di aiuto

Il termine burnout che in italiano può essere tradotto come “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”, ha fatto la
sua prima apparizione nel gergo del mondo dello sport nel 1930 per indicare l’incapacità di un atleta, dopo
alcuni successi, ad ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti.
Lo stesso termine è stato riproposto, poi, in ambito socio- sanitario durante gli anni ’70 dalla psichiatra
americana Cristina Maslach la quale, nel corso di un convegno, utilizzò quest’ultimo per definire una
sindrome i cui sintomi testimoniano l’evenienza di una patologia comportamentale a carico di tutte le
professioni ad elevata implicazione relazionale.
Secondo la psichiatra statunitense, accanto ai fattori ad impatto emotivo e relazionale vi sono, anche,, altre
numerose cause che inducono, poi, il lavoratore al burnout.
Si tratta, spesso, di cause relative alle strutture ove si lavora, alla scarsa o, addirittura, inadeguata
retribuzione;
ad un’organizzazione del lavoro disfunzionale o patologica, allo svolgimento di mansioni frustranti o
inadeguate alle proprie aspettative oltre all’insufficiente autonomia decisionale e a sovraccarichi di lavoro.
Il professionista d’aiuto che va incontro a questo tipo di sindrome, spesso, mette in atto una serie di
psicosomatizzazioni quali: eccessivo nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, addirittura sia
fra colleghi che verso terzi;
tendiamo, però, a distinguerlo dallo stress generico perché esso è una concausa del burnout, così come lo
distinguiamo dalle varie forme di nevrosi in quanto non disturbo della personalità ma del ruolo lavorativo.
A proposito dello stress lavoro- correlato: in Italia c’è una legge che invita le aziende o i datori di lavoro a
prendere una serie di misure che portino all’evitamento di questa condizione psico-fisica;
se per le professioni sanitarie e d’aiuto si parla di burnout, per altri tipi di professioni si fa riferimento ad un
fenomeno definito “mobbing”, che non è altro che delle prevaricazioni in ambito lavorativo.

Quali sono, però, le tre aree che si attivano nel momento in cui il lavoratore entra nella condizione del
burnout?
La prima è quella dell’esaurimento emotivo che, secondo Maslach, consiste nel sentimento di essere
emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un inaridimento emotivo nel rapporto
con gli altri: ciò spiegherebbe anche il passaggio, da parte del suddetto, dall’empatia all’apatia.
La seconda area è quella della depersonalizzazione, che si manifesta come un atteggiamento di
allontanamento e di rifiuto nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il
servizio o la cura.
Infine, come ultima area di attivazione, vi è la ridotta realizzazione personale che riguarda la non
percezione della propria personalità.

Questa sindrome, negli operatori sanitari, segue, generalmente, quattro fasi.


La prima fase, quella del cosiddetto “entusiasmo idealistico”, è caratterizzata dalle motivazioni che hanno
indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale; si tratta, pertanto, di motivazioni consapevoli
(quali migliorare il mondo e se stessi, avere un impiego sicuro e svolgere un lavoro poco manuale e che
garantisce, senza dubbio, un prestigio maggiore) e di motivazioni inconsce (desiderio di approfondire la
conoscenza di sé e di esercitare una forma di potere o di controllo sugli altri).
Tali motivazioni sono spesso accompagnate da aspettative di “onnipotenza”, soluzioni semplici, di successo
generalizzato e immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status e ecc.

Nella seconda fase, detta di “stagnazione”, l’operatore continua lavorare ma si accorge che la propria
professione non soddisfa più tutti i suoi bisogni, inoltre i risultati del forte impegno iniziale via via sono
sempre più inconsistenti;
si passa, così, da un super investimento iniziale ad un graduale disimpegno dove il sentimento di profonda
delusione avanza determinando, nell’operatore, una chiusura verso l’ambiente di lavoro e verso i colleghi:
ecco il preludio del burnout.
La fase più critica è la terza, quella della “frustrazione”, caratterizzata dal costante e dominante pensiero
dell’operatore di non essere più in grado di aiutare nessuno.
Egli prova una profonda sensazione di inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell’utenza.
Il vissuto dell’operatore, quindi, è un vissuto di perdita, di svuotamento, di crisi di emozioni e di valori
considerati fondamentali fino a quel momento.
Come fattori di frustrazione aggiuntivi intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori sia
da parte degli utenti, nonché la convinzione di un’inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto.
Il soggetto frustrato può assumere, quindi, atteggiamenti aggressivi (verso se stessi o verso gli altri) e
spesso mette in atto comportamenti di fuga (quali allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause
prolungate, frequenti assenze per malattia).

Il graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dall’empatia all’apatia,
costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste ad una vera e propria morte professionale.

In un’ultima analisi si possono, quindi, delineare quelle che sono le conseguenze del burnout.
Il soggetto colpito manifesta, infatti, sintomi aspecifici (tra cui quelli già citati prima), sintomi con insorgenza
di vere e proprie patologie (ulcere, cefalee, aumento o diminuzione ponderale, disturbi cardiovascolari
ecc.), sintomi psicologici (depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia,
risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza,
negativismo, isolamento, sensazione di immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza
al cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei
confronti degli utenti e critico nei confronti dei colleghi).
Tale situazione di disagio, molto spesso, induce il soggetto ad abuso di alcol, psicofarmaci o fumo.
Le conseguenze non si ripercuotono, però, solo sull’operatore ma, anche, sugli utenti, per i quali un
contatto con gli operatori sociali in burnout risulte frustrante, inefficace e dannoso, e sull’intera comunità
che vede svanire forti investimenti nei servizi sociali.

Quali sono, allora, le strategie per prevenire il burnout?


Esistono diversi modi riguardanti sia lo staff d’assistenza stesso che l’organizzazione lavorativa vera e
propria, che permettono di rendere il luogo di lavoro e le condizioni di quest’ultimo ottimali.
Sarebbe quindi necessario:
 ridurre le richieste agli operatori da loro stessi attraverso l’incoraggiamento ad adottare obiettivi
più realistici;
 incoraggiare gli operatori ad adottare nuovi obiettivi che possano fornire alternative di
gratificazione;
 aiutare gli operatori a sviluppare ed utilizzare meccanismi di controllo e di feed-back sensibili a
vantaggi a breve termine;
 fornire frequenti possibilità di training per incrementare l’efficienza del ruolo;
 insegnare allo staff a difendersi mediante strategie quali lo studio del tempo e l’ottimizzazione di
esso;
 orientare il nuovo staff fornendo un libretto che descriva realisticamente le frustrazioni e difficoltà
tipiche che insorgono sul lavoro;
 fornire periodi di “controlli del burnout” a tutto lo staff;
 fornire consulenza centrata sul lavoro o incontri per lo staff che sta sperimentando elevati livelli di
stress nel proprio lavoro;
 incoraggiare lo sviluppo di gruppi di sostegno e/o sistemi di scambio di risorse.
Per quanto riguarda i cambiamenti circa il lavoro e le strutture di ruolo:
 limitare il numero di pazienti di cui lo staff è responsabile;
 distribuire tra i membri dello staff compiti più difficili e meno gratificanti ed esigere da esso che
lavori in diversi ruoli e programmi;
 pianificare ogni giorno in modo tale da alternare attività gratificanti e non;
 strutturare i ruoli in modo da permettere agli operatori di prendere un periodo di “riposo” quando
necessario, magari assumendo personale ausiliario o, anche, incoraggiando in maniera diretta il
personale a concedersi una vacanza con, ad esempio, un breve preavviso;
 limitare, quindi, il numero delle ore di staff;
 non incoraggiare il lavoro part-time;
 dare ad ogni membro dello staff la possibilità di creare nuovi programmi;
 costruire varie fasi di carriera per tutto lo staff.

È importante, quindi, creare programmi di training e sviluppo per il personale attuale e futuro che si dedica
alla supervisione, accentuando quegli aspetti del ruolo che gli amministratori hanno già difficoltà ad
affrontare;
creare sistemi di controllo per i supervisori, quali indagini tra lo staff, e fornire al personale della
supervisione un feed-back regolare sulle loro prestazioni;
controllare la tensione di ruolo nei supervisori e intervenire quando essa diventa eccessiva.

Dal punto di vista decisionale e organizzativo sarebbe di fondamentale importanza, invece:


creare meccanismi formali di gruppo per la soluzione del problema organizzativo e la risoluzione del
conflitto, organizzare training per la risoluzione del conflitto e la soluzione dei problemi di gruppo per tutto
lo staff, accentuare l’autonomia dello staff e la partecipazione alle decisioni.

Naturalmente, centrale, è il mantenimento di obiettivi chiari, solidi e compatibili con le singole esigenze
familiari, oltre che la capacità di garantire un modello gestionale forte e originale.
Obiettivo di estrema importanza è quello di permettere la formazione del personale così da farlo sentire
parte integrante e indispensabile di un complesso sistema il cui fine primario e ultimo è quello di fornire
aiuto alla comunità di appartenenza.
Sembrerà banale ma esaltare le qualità di un individuo può aiutare molto la sua condizione e psicologica, la
sua attitudine lavorativa, oltre che accentuare la gratificazione di sé.

Infine, condividere la responsabilità delle cure e della terapia con i pazienti, le loro famiglie e la comunità
sociale può aiutare molto a lenire una condizione di stress che potrebbe poi, come già visto, divenire
patologica.

Di seguito il test del burnout.

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