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TEMI E PROBLEMI DI

SCIENZE UMANE

VOLUME SECONDO

1. Psicologia clinica e psicologia sociale


2. Storia della pedagogia: da Locke ad Herbart
3. Antropologia religiosa; il cibo; spazio e tempo
4. Sociologia: interazione quotidiana; devianza; stratificazione
Indice Scienze umane

1. Psicologia

1 1. La Psicologia clinica e i disturbi mentali


2 - Storia dei disturbi mentali
4 - Il XX secolo: psicoanalisi, teoria sistemica, antipsichiatria
5 - Disturbi psicotici
6 - La psicosi schizofrenica
7 - Le nevrosi
9 - I disturbi della sessualità
10 - I disturbi della personalità
12 - I disturbi dell’umore
14 - L’anoressia mentale
15 - L’autismo
16 - Le terapie psicologiche: la psicoterapia dinamica
17 - Le psicoterapie brevi
18 - Psicoterapia umanistica
19 - La terapia comportamentale
19 - La terapia cognitiva
20 - La terapia strategica
21-34 mappe concettuali

35 2. La Psicologia sociale
35 - La conoscenza della realtà sociale
37 - I biases di sapere
38 - Le rappresentazioni sociali
39 - Le attribuzioni
41 - Il Sé: psicologia filosofica, psicologia generale, psicoanalisi
41 - Il Sé: la Psicologia sociale
43 - Posizioni individuali e di gruppo
44 - Gli atteggiamenti
46 - I valori
47 - Le posizioni di gruppo: gli stereotipi
48 - I pregiudizi, la distanza sociale
49 - Comportamenti e fenomeni sociali: l’attrazione interpersonale
50 - Le relazioni profonde
52 - L’altruismo
53 - I Gruppi: coesione di gruppo
54 - Leadership
55-68 mappe concettuali
2. Pedagogia
Storia della pedagogia moderna: il ‘700 e il primo ‘800
70 John Locke: la concezione pedagogica
72 L’Illuminismo francese e l’educazione
74 J. M. Itard e il fanciullo selvaggio dell’Aveyron
75 Rousseau: la teoria pedagogica
76 Emilio, o dell’educazione
79 mappe concettuali: John Locke
80 Illuminismo: caratteri generali
81 Jean Marc Itard
83 L’Illuminismo francese e l’educazione
84 Rousseau. I due discorsi e il Contratto sociale
85 Rousseau: la teoria pedagogica
86 Rousseau: l’Emilio
87 Problemi e teorie dell’educazione nella prima metà del XIX secolo
88 La pedagogia romantica: Schiller, Richter, Hegel
89 Pestalozzi e l’educazione popolare
90 Fröbel e l’ideale formativo romantico
91 Herbart: la teoria dell’istruzione educativa
92 Il gioco nella pedagogia romantica
93 mappe concettuali: La Rivoluzione industriale e l’educazione
94 La pedagogia romantica ed idealistica
95 Pestalozzi
96 Fröbel
97 Herbart

99 Problemi di pedagogia
101 I modelli formativi
102 La trasmissione dei modelli educativi
103 Il modello educativo moderno e postmoderno
105 mappe concettuali

3. Antropologia

111 1. Pensare e mangiare


111 - De gustibus
111 - Tabu alimentari
112 - La ricerca della purezza
113 - Cibo e identità; Nutrire gli dèi; Cibi di terre lontane e cibi tradizionali
114 - Saper mangiare
115 mappe concettuali

117 2. Antropologia religiosa


117 - Il senso del sacro
117 - La magia
118 - Stregoneria e fattucchieria
119 - Lo sciamanesimo
119 - Le credenze nella mitologia: le rappresentazioni collettive per immagini
119 - I protagonisti del mito
120 - Le anime come principi vitali
121 - Mana, Totem, Tabù
121 - Le pratiche rituali
122 - Dai culti degli antenati ai culti sincretici
123 - Possessione e mantica
125 mappe concettuali

129 3. Nello spazio e nel tempo


129 - La linea, il cerchio e la spirale
130 - Inventare lo spazio
130 - Dallo spazio al paesaggio
131 - Abitare
132 - Surmodernità, nuove tecnologie e non-luoghi
133 mappe concettuali

137 4. Sociologia
139 1. L’interazione nella vita quotidiana
139 - L’interazione simbolica
140 - Il sé nella vita quotidiana
140 - L’approccio drammaturgico
143 - L’etnometodologia
144 - La comunicazione non verbale
145 - La costruzione sociale della realtà
147 mappe concettuali

151 2. La devianza
151 - Devianza e controllo sociale
152 - Le teorie sulla devianza: le teorie biologiche; la teoria dell’anomia
154 - La teoria della trasmissione culturale
155 - La teoria dell’etichettamento
155 - Teoria della scelta razionale
156 - Effetti sociali della devianza
157 mappe concettuali

159 3. La stratificazione e le classi sociali


159 - I sistemi di stratificazione
160 - La mobilità sociale
161 - I criteri di appartenenza di classe
162 - Il concetto di ceto sociale
162 - La conservazione delle disuguaglianze: il ruolo dell’ideologia
163 - Teorie della stratificazione
164 - Le classi sociali in Italia
164 - La struttura di classe delle società occidentali: problemi di analisi
165 mappe concettuali
PSICOLOGIA
LA PSICOLOGIA CLINICA ED I DISTURBI MENTALI

La psicologia studia le funzioni normali della mente e del suo sviluppo. Conoscere i meccanismi e i
fattori che sono alla base del funzionamento psichico normale diventa anche una chiave per capire
come nascono le alterazioni, i disturbi e le malattie della psiche.
La psicologia clinica studia, affronta e previene i problemi dell'adattamento e i disturbi del com-
portamento. L'ambito disciplinare è ampio e comprende, oltre alla prevenzione dell'insorgenza dei
disturbi, anche la ricerca clinica e la formulazione di diagnosi accurate.
Per quanto riguarda il trattamento e la cura dei disturbi psichici, lo psicologo clinico, a differenza
dello psichiatra o del neuropsichiatra, non ha a disposizione alcuni tipi di trattamento (trattamenti
“fisici” o terapie farmacologiche) che si rivelano oggi importanti in molte patologie, specie le più
gravi come le psicosi, ma dispone di una più ampia conoscenza dei fattori comportamentali e peda-
gogici, e dispone di buone tecniche di diagnosi e di trattamento psicoterapico. A ben vedere, le due
formazioni, quella psichiatrica (medica) e quella psicologica, non dovrebbero essere antagonistiche
ma - come talvolta accade - complementari.
Avere una malattia mentale, essere “malato di mente” ha per lungo tempo significato essere folle,
invasato, posseduto da strani meccanismi mentali, essere inquietante e pericoloso, dunque guardato
con sospetto o paura ed emarginato dalla società dei “normali”. Oggi si parla, più correttamente, di
disturbi mentali; nella categoria dei disturbi (e delle sindromi) non rientra più solo la schizofrenia,
come accadeva un tempo, ma molti altri disturbi di varia entità e gravità, come la depressione, i di-
sturbi della personalità, i disturbi alimentari, ecc. Rientrano in tale categoria anche quei malesseri
che possiamo chiamare “minori” perchè non privano la persona della sua ragionevolezza e non crea-
no una dissociazione tale da perdere il contatto con la realtà (come le varie forme di disturbo nevro-
tico o ansioso-fobico).
Oggi sappiamo che il disturbo mentale ha origine da tre tipi di fattori variamente intrecciati: biolo-
gici, psicologici, sociali. I fattori biologici riguardano le predisposizioni genetiche ed elementi pato-
geni perlopiù ancora sconosciuti. I fattori psicologici indicano l'importanza delle figure genitoriali e
del loro stile educativo (cognitivo e affettivo). Infine i fattori sociali riguardano le relazioni, o meglio
la qualità delle relazioni che l'individuo riesce ad instaurare nel suo ambiente di appartenenza: rela-
zioni affettive o non, basate sul dialogo o sull'indifferenza, profonde o superficiali, ecc. Dall'intera-
zione di questi tre fattori deriva il comportamento, che può essere adattivo (cioè riconosciuto nor-
male dalla società), o disadattivo (cioè “anormale”).
É indubbio che la patologia mentale è definita socialmente, in quanto viola, in modo più o meno
grave, i codici e le norme sociali. I comportamenti di per se stessi non sono intrinsecamente “anor-
mali”; anche gli atti più tremendi possono risultare comprensibili in particolari circostanze (si pensi
al caso dei sopravissuti ad un incidente aereo sulla catena andina che per sopravvivere si cibarono
dei corpi degli altri passeggeri deceduti).
Inoltre molti comportamenti mutano di significato a seconda del contesto: passeggiare in mutan-
de è considerato anormale per le vie di una città, e normale su una spiaggia; scuotere ritmicamente il
corpo al suono della musica è considerato normale in una discoteca, sicuramente lo è molto meno in
un'aula scolastica.
Anche definire la “normale” soglia di sofferenza psichica non è semplice. La tolleranza alla soffe-
renza psichica è soggettiva, varia da individuo a individuo, perchè dipende dalle esperienze prece-
denti, dai vissuti che hanno gettato le basi della sofferenza attuale. La sofferenza psichica “normale”
viene definita dal linguaggio comune con il termine di crisi, e normalmente è la persona interessata a
riscontrarla. In diversi casi gravi, però, quando ad esempio un individuo attua comportamenti lesivi
verso altri o verso se stesso, sono gli altri a riscontrare il superamento della soglia, e a prendere delle
decisioni per la persona sofferente.
STORIA DEI DISTURBI MENTALI

“I malati di mente sono sempre stati con noi: per essere temuti, derisi, per destare meraviglia o
compassione, per essere torturati, ma troppo raramente per essere curati. La loro esistenza ci
scuote nell'intimo, perché essi ci rendono consapevoli che le salute mentale è una cosa fragile”.
(Alexander / Selesnick, Storia della psichiatria).

La storia dell'uomo è anche la storia della sua sofferenza, delle sue emozioni, dei suoi sentimenti e
delle sue malattie. La lotta ai disturbi ed alle malattie è una parte importante del cammino, dell'opera
e del progresso nell'evoluzione umana, soprattutto alle sue origini, quando una figura misteriosa e
potente chiamata “stregone” influenzava enormemente l'attività e l'organizzazione sociale primiti-
va. Le arti magiche e la concezione magico-animistica possono considerarsi il primo tentativo di in-
dagine e di cura dei malesseri, soprattutto psicologici, in età antiche.
L'uomo primitivo non faceva distinzione fra mente, anima e corpo: egli pensava che l'anima alber-
gasse nei vari organi ed apparati del corpo stesso, cosicchè se qualche incantesimo o spirito malefico
si impadroniva di essa, anche il corpo veniva influenzato e si ammalava. Tutte le malattie sconosciu-
te o non facilmente identificabili del corpo e della mente venivano dunque interpretate come opera di
spiriti maligni, come “possessione diabolica”, nella Mesopotamia, presso i Babilonesi, gli Ebrei, i
Persiani, in Grecia, dove intorno all'anno 1000 a. C. domina il “culto di Esculapio” , un medico-
stregone e sacerdote che diffuse la sua scuola in tutta la Grecia e nelle nazioni circostanti. Ancora
oggi il suo bastone, (una verga con attorcigliato un serpente) è l'emblema della medicina. La cura dei
malati consisteva nel dormire nel tempio (incubazione): ai pazienti venivano somministate delle so-
stanze (probabilmente oppiacee) e nella fase del dormiveglia, durante la quale le persone sono più
suggestionabili, venivano indotti a seguire consigli e indicazioni particolari.
Nel VII / V secolo compaiono in Grecia le prime forme di approccio meccanicistico e materialistico
nella visione del mondo: a Ippocrate (460 - 377) si deve la prima vera spiegazione delle malattie sul-
la base di cause naturali. Il cervello è l'organo più importante del corpo. Si deve ad Ippocrate la co-
siddetta teoria degli “umori” (melanconico, flemmatico, collerico, sanguigno), in base alla quale la
malattia mentale va intesa come uno “squilibrio umorale”. Ippocrate descrive i sintomi della depres-
sione, della psicosi post-partum, delle fobie, utilizza il termine “isteria” per indicare una patologia
caratteristica del sesso femminile e classifica le malattie mentali (melanconia, mania, paranoia).

Nel corso del Medioevo le teorie meccanicistiche e naturalistiche vengono quasi totalmente abban-
donate, vi è una forte reviviscenza dei pregiudizi demonologici e magico-religiosi.
Nel 1409 a Valencia (Spagna) viene costruito il primo “ospedale” per i malati di mente. I disordini
mentali diventano dominio dei “medici religiosi” (a differenza delle malattie organiche); infatti le per-
sone sane sono considerate tali per volontà di Dio, le persone follli subiscono una punizione celeste.
Compare il fenomeno della “Caccia alle streghe”: la donna era considerata la fonte di tutte le perver-
sioni malvagie, portatrice del demonio. Ciò portò alla persecuzione sistematica delle donne psicoti-
che, ma anche di tutte quelle che presentassero qualche forma di devianza nelle condotte sociali.
Nel 1487 J. Sprenger e H. Kraemer pubblicano il “Malleus maleficarum”, che viene approvato
dalla Chiesa e diventa il manuale dell'Inquisizione; è diviso in tre parti: nella 1° parte vi è la dimo-
strazione pratica dell'esistenza delle streghe e degli indemoniati; nella 2° parte vi è la guida all'iden-
tificazione delle streghe e degli indemoniati; nella 3° parte sono contenute le istruzioni su come pro-
cessare e punire le streghe (distruggere il diavolo bruciando il corpo che lo ospita).

Nell'età rinascimentale si assiste ad un cambio di prospettiva nella visione globale dell'uomo, senza
però un sostanziale progresso scientifico in psicologia e psichiatria; si diffondono ulteriormente, in-
fatti, le arti magiche e l'astrologia. Compaiono, come sedi di segregazione dei malati mentali alterna-
tive a Lazzaretti ed Ospedali, sui fiumi della Renania, le Narrenschiff (stultifera navis, nave dei fol-
li); all'acqua, elemento purificatore, viene affidato il compito della guarigione.

Nel corso del XVII° secolo, benchè sopravvivano le concezioni mistiche, ci si orienta con determi-
nazione nuova verso una seria considerazione dell'aspetto organico delle malattie (anche mentali).
Nel 1656 viene fondato a Parigi l' Hopital général: è l'inizio del grande internamento (l'espressione è
di Michel Foucault) di poveri, sbandati, disabili mentali nelle grandi strutture manicomiali che
compariranno in Europa ed in America negli anni successivi.

Il XVIII° secolo segna il trionfo della sperimentazione in tutti i campi della scienza; spariscono le
interpretazioni magico-religiose e demonologiche, a favore di una descrizione organica dei disturbi
mentali (lesioni cerebrali). Si diffondono i Manicomi: i pazzi erano ritenuti socialmente pericolosi e
rinchiusi, sottoposti a scherno, tortura, incatenamento, condizioni antigieniche, maltrattamenti.
Questo apparente paradosso del “Secolo della Ragione” (e dell'Illuminismo) si spiega probabilmente
con la paura dell' “anti-ragione”, di ciò che non si riusciva a spiegare con le varie teorie imperanti
dell'epoca.
. Compare la “Frenologia” (F. Gall, 1758-1828) che cerca di spiegare i disturbi mentali collegando
le prominenze del cranio all'ipersviluppo delle regioni encefaliche sottostanti, ed il “Mesmerismo”
(F. Mesmer, 1734-1815) che pretende di ottenere la guarigione tramite il magnetismo animale che si
sprigiona dalle mani del medico.

In ambito farmacologico, si delinea il contrasto tra “allopatia” e “omeopatia” . Secondo Hoffman


(1660 - 1742), il principale teorico dell'allopatia, è opportuno sollecitare la guarigione attraverso la
soppressione dei sintomi: “contraris contrariis curantur” (da ciò l'uso di anti-dolorifici, anti-allergici,
anti-infiammatori, ecc.); i farmaci usati devono infatti produrre un effetto contrario ai sintomi del
paziente.
Hahnemann (1755 - 1843), pervenne alla intuizione ed alla formulazione della teoria omeopatica in
seguito all' osservazione dei sintomi di intossicazione degli operai addetti alla lavorazione dei chinino; si
convinse del fatto che una sostanza in grado , a dosi tossiche, di provocare in un individuo sano il quadro
di una determinata malattia, ha anche il potere di curarla se impiegata a dosi attenuate. Il medico
omeopatico per combattere la malattia cerca di sollecitare gli strumenti naturali di difesa.

Il XIX° secolo è dominato dalle interpretazioni organiche della malattia mentale, la psichiatria di-
venta parte integrante della medicina ed i maggiori studiosi (Reil, Esquirol, Moreau) si impegnano
nella ricerca di cause fisiche (infettiva, tossica, genetica, degenerativa) delle malattie mentali.
Con la scoperta del microscopio e con la conseguente conoscenza di virus e batteri, la ricerca psi-
chiatrica punta all' individuazione di un meccanismo infettivo come causa dei disturbi mentali.
Gli sviluppi della chimica, della biologia, della neurologia conducono ad una più approfondita cono-
scenza del sistema nervoso centrale: fondamentale la scoperta del “neurone”, cellula nervosa che ne
costituisce la principale unità strutturale funzionale; tale scoperta conduce alla individuazione delle
localizzazioni cerebrali (area motoria, area linguistica, ecc.)
Alla fine del secolo, Charcot (1825-1893) studia, alla Salpetriére, un gruppo di pazienti che chiamò
malati di isteria o nevrotici; considerava l'isteria una malattia organica, influenzata però da fattori
psicologici ed ambientali; dimostra come sia possibile produrre o eliminare, attraverso la sugge-
stione ipnotica, la paralisi isterica. Charcot arriva così ad affermare il carattere “imitativo” dei sinto-
mi isterici. L'individuazione di fattori psicologici ed ambientali ed il ricorso alla suggestione ipno-
tica verranno ripresi dalla corrente psichiatrica che influenzerà maggiormente le ricerche e le inter-
pretazioni dei disturbi mentali nel XX secolo: la psicoanalisi.
Il XX secolo: psicoanalisi, teoria sistemica, antipsichiatria

(1) Sigmund Freud, che in qualità di neurologo era stato all'ospedale di Charcot per perfezionarsi,
propone, con il modello psicoanalitico, una rivoluzione concettuale. Nel modello psicoanalitico si
introducono alcuni concetti chiave, come l'inconscio e la suddivisione in tre istanze psichiche (ES,
Io, Super Io). L'origine di un comportamento o di un sintomo va quindi ricercata nella storia dell'in-
dividuo e nella relazione dinamica tra gli strati (profondi e superficiali, razionali e istintivi, conscie e
inconsci) della struttura psichica. La sanità mentale è l'espressione di un completo e valido sviluppo
della personalità del soggetto, mentre gli arresti di tale sviluppo si traducono nei vari disturbi menta-
li. I disturbi più gravi (come la psicosi) corrispondono ad un arresto precoce dello sviluppo, mentre
i disturbi più lievi (come le nevrosi) corrispondono ad un arresto in una fase più avanzata. Il model-
lo freudiano non esclude a priori l'esistenza di fattori biologici o anche ereditari, ma stabilisce nelle
esperienze e negli stimoli esterni la prima causa patogena. Il trattamento del disturbo mentale consi-
ste nel correggere le esperienze che hanno arrestato lo sviluppo e lo hanno fissato ad un livello arcai-
co o patologico. Questa correzione si ottiene con una comprensione emotiva e globale. La guarigione
si ottiene con un lavoro di analisi e una terapia “con” la psiche del paziente, o psicoterapia (cfr. “le
terapie psicologiche). Nel modello psicoanalitico il malato di mente e il soggetto normale non sono
nettamente separati ma per così dire disposti diversamente lungo un continuum di possibili gradi di
sviluppo: il sano ha dentro di sé aspetti non maturi o arcaici ai quali normalmente non soggiace, ma
che possono riemergere in caso di difficoltà; il malato può avere a sua volta dei nuclei normofunzio-
nanti con i quali può entrare in comunicazione valida con l'ambiente.
(2) Se il modello psicodinamico rivoluziona la gerarchia tra i fattori biologici e fattori relazionali e
psicologici, il modello sistemico abbandona del tutto il discorso biologico e considera la malattia
mentale come risultato di un disturbo di comunicazione. Principale fautore di questa teoria è il siste-
ma familiare delle comunicazioni interpersonali, il quale crea delle situazioni contraddittorie ed irre-
solvibili (ingiunzioni paradossali, doppio legame, mistificazione dell'Io, ecc.); la terapia è perciò riv-
olta alla famiglia ed all'ambiente del “malato” per una possibile correzione delle patologie comunica-
tive. Questa terapia è chiamata sistemica perchè interviene nel sistema delle comunicazioni.
(3) L'Antipsichiatria ha preso avvio negli anni '60 in America con E. Goffman e T. Szasz, in In-
ghilterra con R. Laing, in Italia con F. Basaglia. Tale indirizzo ha contribuito al rinnovamento del-
l'impostazione dell'assistenza psichiatrica, col rifiuto della concezione manicomiale e di ogni tratta-
mento coatto o imposto d'autorità, partendo dal concetto che i disturbi mentali non possono essere
curati come si curano le malattie dell'organismo, perchè nella gran parte dei casi le sofferenze psichi-
che sono il risultato non di malattie o di disfunzioni, ma di condizionamenti ambientali o di contrad-
dizioni sociali: la “malattia mentale” diagnosticata dalla psichiatria classica è, nella maggior parte dei
casi, una etichetta sanzionatoria dei comportamenti ribelli e devianti, emergenti di solito come rea-
zione alla oppressione educativa o sociale. L'antipsichiatria ha puntato sull'intervento politico-so-
ciale e sulla creazione di condizioni di inserimento sociale del “malati”: i manicomi devono essere
aboliti ed i pazienti devono essere reinseriti nella società.
Nel 1978 viene approvata in Italia la legge 180/78, battezzata anche legge Basaglia (dal nome del
suo ispiratore), che prevede che i 'malati mentali' non siano più obbligati a restare chiusi contro la
loro volontà, ma possano rientrare in famiglia, sul territorio. Il ricovero coatto (presso i reparti di
psichiatria degli ospedali civili) è previsto solo per casi eccezionali, ed è chiamato Trattamento Sani-
tario Obbligatorio. Il trattamento di degenza consentito è breve: se ciò da un lato impedisce i feno-
meni negativi da “cronicità da istituzionalizzazione” tipici del ricovero manicomiale, dall'altro deter-
mina un notevole turn-over di pazienti e frequenti rientri. Di fatto la legge 180, pur gettando le basi
per una condizione ottimale della cura dei disturbi mentali, ha dimostrato, in alcuni suoi aspetti, di
non essere funzionale. Il passo successivo all'apertura dei manicomi avrebbe dovuto essere la crea-
zione di strutture intermedie (comunità terapeutiche, day hospital, centri di assistenza diurna), ma
tali strutture sono nella maggior parte dei casi rimaste sulla carta per mancanza di volontà o di risor-
se finanziarie. Non si dimentichi, inoltre, che spesso nei manicomi venivano ricoverati bambini o
adoescenti (a volte solo perchè portatori di handicap fisici) con l'intenzione di tenerli rinchiusi per
tutta la vita: aprire le porte dei manicomi a persone che vi avevano vissuto per trenta o quarant'an-
ni, e che lo consideravano ormai la loro casa, ha causato un aumento notevole del tasso dei suicidi.

Al di là di eccessive schematizzazioni, è molto improbabile che i disturbi mentali abbiano una sola
causa, sia essa fisica o psicologica, di solito cause fisiche, esperenziali e psicologiche si presentano
insieme interagendo ed influenzandosi reciprocamente, nel senso che dei fattori psicologici agiscono
in modo diverso a seconda delle predisposizioni individuali e delle condizioni ambientali, oppure
che certe caratteristiche somatiche e fisiche inducono con maggiore frequenza alcuni tipi di esperien-
ze che marcano lo sviluppo psichico: sappiamo, ad esempio, che uno stress psichico ripetuto e cro-
nico induce delle variazioni di funzionamento del corpo, con scompensi di tipo ormonale e una ridu-
zione della resistenza alle malattie infettive.
La classificazione dei disturbi mentali tiene conto della difficoltà di individuare una causa unica e
prevalente dei sintomi osservabili. Quando un disturbo ha una causa riconoscibile, diciamo che essa
è una malattia. Quando un disturbo è caratterizzato da una costellazione di segni (osservabili dal-
l'esterno) e di sintomi (problemi avvertiti dal malato) che si verificano insieme ma che non possiamo
ricondurre ad un meccanismo comune (come la schizofrenia) diciamo che esso è una sindrome.
Fin dall'antica classificazione di Kräpelin (1856 - 1926) si è preferito considerare i disturbi mentali
come sindromi; la classificazione dei disturbi può articolarsi nei grandi capitoli delle psicosi, delle
nevrosi, dei disturbi della sessualità, dell'umore e della personalità.

Disturbi psicotici. Il termine psicosi sta a indicare una particolare categoria di disturbi mentali
gravi, che si esprimono in una perdita più o meno totale della capacità di comprendere il significato
del-la realtà in cui si vive e di mantenere tra sé e la realtà un rapporto di sintonia sufficiente a
consentire un comportamento autonomo e responsabile. Il quadro sintomatico comprende: 1)
un'alterazione profonda nella percezione della realtà esterna; 2) disgregazione a livelli profondi della
personalità con difficoltà a selezionare i propri pensieri e sentimenti, accompagnata da regressione a
comporta-menti primitivi; 3) lo smarrimento della distinzione appartenenza-estraneità per cui
vengono meno i confini tra interno ed esterno, tra sentimenti propri e altrui; 4) allucinazioni e deliri,
alterazioni del pensiero logico e della capacità linguistica; 5) un grave disadattamento sociale.
Classificazione delle psicosi. (1) le psicosi organiche sono di origine biologica, per cui eliminan-
do la causa organica si può ripristinare l'equilibrio psichico. Possono essere di varia natura: infiam-
matoria, infettiva, traumatica, ecc. La psicosi arteriosclerotica è dovuta alla difettosa circolazione del
sangue a causa della degenerazione delle arterie cerebrali, la demenza senile è legata ad una atrofia ce-
rebrale diffusa, la psicosi tossica è dovuta all'intossicazione da farmaci o da allucinogeni.
(2) Le psicosi reattive sono causate da gravi traumi psichici e senza base organica; il termine reattivo,
infatti, indica proprio la reazione ad un trauma, a un evento particolarmente doloroso. Per esempio,
le psicosi da lutto sono originate dalla perdita di una persona cara; quelle gravidiche possono essere
causate da situazioni conflittuali legate al timore della gravidanza, quelle puerperali possono manife-
starsi dopo il parto, con sentimenti aggressivi verso il neonato e sensi di colpa; altre forme possono
essere indotte da shock specifici (guerra, isolamento da detenzione, ecc.)
(3) Le psicosi endogene o funzionali non hanno una base organica conosciuta; il termine endogeno,
infatti, indica una predisposizione congenita, interna. Le forme principali sono la schizofrenia e la
ciclotimia, o psicosi maniaco-depressiva.
LA PSICOLOGIA CLINICA ED I DISTURBI MENTALI

funzioni normali della mente e del suo sviluppo


Psicologia
alterazioni, disturbi e malattie della psiche disturbo mentale

psicologo conoscenza dei fattori comportamentali fattori


clinico e pedagogici, tecniche di diagnosi
psicoterapie / psicoanalisi biologici sociali
psicologici
psichiatra formazione medica
neuropsichiatra conoscenze generali di tipo medico-biologico comportamento
terapia farmacologica (-> psicosi)
adattivo vs disadattivo
la patologia mentale è definita socialmente: coincide con una condotta
strana, paurosa o ripugnante cheviola i codici e le norme sociali.
a) I comportamenti non sono b) i comportamenti mutano di c) la soglia della sofferenza
intrinsecamente “anormali” significato a seconda del contesto psichica è soggettiva

STORIA DEI DISTURBI MENTALI

Antichità: concezione magico-animistica; culto di Esculapio


VII / V sec. a. C.: prime forme di approccio meccanicistico e materialistico: Ippocrate (460 - 377)
Medioevo: reviviscenza dei pregiudizi demonologici e magico-religiosi.
“Malleus maleficarum” (1487) J. Sprenger e H. Kraemer: manuale dellʼInquisizione.
Rinascimento: 1409 Valencia / diffusione delle arti magiche e dellʼastrologia / La nave dei folli
XVII° secolo: aspetto organico delle malattie (anche mentali); il “grande internamento”
1656 Parigi Hopital General => poveri, sbandati, disabili
XVIII° secolo: descrizione organica dei disturbi mentali (lesioni cerebrali). I Manicomi
“Allopatia” Hoffman vs “omeopatia” Hahnemann
XIX° secolo ricerca di cause fisiche (infettive, degenerative, ecc.) della malattia mentale
“Frenologia” (F. Gall, 1758-1828). “Mesmerismo” (F. Mesmer, 1734-1815)

XX° secolo: (1) -> Sigmund Freud: la psicoanalisi

importanza dei fattori psico-sociali oltre che dei fattori


nella genesi dei disturbi mentali biologici ed ereditari

ES Conscio
individuazione di
tre istanze psichiche IO Pre-conscio I topica
II topica
Super-Io Inconscio

storia dellʼindividuo -> relazione dinamica tra gli strati della struttura psichica:

sanità mentale = completo e valido sviluppo della personalità del soggetto

precoce > psicosi


disturbi mentali = arresto di tale sviluppo
in fase + avanzata ---> nevrosi

terapia: correggere le esperienze -> comprensione emotiva e globale


che hanno arrestato lo sviluppo lavoro “con” la psiche del paziente

continuum di gradi di sviluppo tra “sano” e “malato”:

soggetto -> aspetti non maturi o arcaici nuclei normofunzionanti < - soggetto
normale solitamente nascosti che possono riemergere malato
I DISTURBI MENTALI: IL XX SECOLO

(2) Teoria sistemica

malattia mentale come risultato di un disturbo di comunicazione;


il sistema familiare delle comunicazioni interpersonali crea delle situazioni contraddittorie
ed irresolvibili (ingiunzioni paradossali, doppio legame, mistificazione dell’Io, ecc.);
la terapia è perciò rivolta alla famiglia ed all’ambiente del “malato” per una possibile
correzione delle patologie comunicative.

(3) Antipsichiatria

la “malattia mentale” è una etichetta sanzionatoria dei comportamenti ribelli e devianti,


emergenti di solito come reazione alla oppressione educativa o sociale; gli ospedali
psichiatrici devono essere aboliti ed i pazienti devono essere reinseriti nella società.

1978 legge 180/78 legge “Basaglia”


i ‘malati mentali’ non sono più obbligati a restare chiusi contro la loro volontà, ma possano rientrare in
famiglia, sul territorio. Il ricovero coatto (presso i reparti di psichiatria degli ospedali civili) previsto solo per
casi eccezionali (Trattamento Sanitario Obbligatorio)
trattamento di degenza breve vs “cronicità da istituzionalizzazione”
turn-over di pazienti e frequenti rientri
Aspetti disfunzionali della legge 180:
a) creazione di strutture intermedie previste (comunità terapeutiche, day hospital, centri di assistenza diurna)
rimaste sulla carta
b) apertura delle porte dei manicomi a persone che vi avevano vissuto molti anni (a volte solo perchè porta-
tori di handicap fisici), e che lo consideravano ormai la loro casa => aumento notevole del tasso dei suicidi.

Malattia Sindrome Disturbi mentali

solitamente si tratta di
disturbo che ha disturbo caratterizzato da una sindromi; è raro che essi
una causa riconoscibile costellazione di segni (osservabili abbiano una sola causa;
dall’esterno) e di sintomi (avvertiti di solito cause fisiche, esperenziali
dal malato) che si verificano insieme e psicologiche si presentano insieme
ma che non possiamo ricondurre ad interagendo ed influenzandosi
un meccanismo comune. reciprocamente.
1) alterazione nella percezione della realtà esterna
PSICOSI 2) disgregazione della personalità (regressione)
3) smarrimento della distinzione appartenenza-estraneità
4) allucinazioni e deliri (interno - esterno)
5) disadattamento sociale (sentimenti propri / altrui)

CLASSIFICAZIONE DELLE PSICOSI


a) Psicosi organiche P. arteriosclerotica
natura : infiammatoria Demenza senile
endocrina (atrofia cerebrale diffusa)
metabolica
infettiva P. associata
tossica P. tossica
traumatica P. traumatica
genetica

b) Psicosi reattive da lutto


(eventi esterni) da shock ( guerra)

.da detenzione (isolamento)

gravidiche (timore del parto)


puerperali ( angoscia ruolo materno)

indotta organica
Kanner :
Autismo eziologia autismo
innato

ambientale
Eisenberg : a. acquisito
(rapporto diadico)
autismo infantile precoce non instaura Spitz : carenza affettiva
assenza di stimolazione
vs interesse al mondo ( depressione anaclitica)

schizofrenia Bettelheim percezione da parte del


ritira
bambino dell’ attitudine
negativa con la quale le
figure significative del
suo ambiente gli si
accostano :
Ritiro autistico
c) Psicosi endogene o funzionali

Schizofrenia (paranoia)

Ciclotimia
P. maniaco-depressiva
La psicosi schizofrenica

La sindrome che oggi viene etichettata come schizofrenia (“schizein” = scindere, “frén” = mente),
era chiamata in passato “dementia praecox” (=demenza precoce), poichè è un disturbo caratterizza-
to da uno scadimento delle funzioni intellettive che ricorda la demenza senile ma che compare, nella
maggior parte dei casi, all'inizio dell'età adulta. Il termine venne coniato da Bleuler, il quale intende-
va mettere l'accento sul tratto considerato tipico della schizofrenia: la dissociazione in parti recipro-
camente indipendenti della vita psichica. É una sindrome - comprendendo anche le varianti meno
gravi e le forme acute transitorie - piuttosto frequente e diffusa. Mentre in passato la prima crisi
schizofrenica (che avveniva ed avviene tra i 17 e i 25 anni) segnava l'inizio di un declino progressi-
vo, a partire dagli anni '50 le cure farmacologiche permettono, se non di guarire, almeno di modifica-
re il decorso della psicosi, di controllare e “spegnere” i sintomi e di aumentare molto l'intervallo tra
una crisi e l'altra, favorendo il normale inserimento sociale dei malati.
Per poter diagnosticare una schizofrenia si devono rilevare almeno due di questi sintomi, con una
durata di almeno una settimana:
1. Deliri bizzarri (ideazioni e interpretazioni della realtà prive di fondamento: per esempio: delirio
di persecuzione, di essere al centro dell'interesse di tutti, delirio di onnipotenza, di controllo, ecc.);
2. Allucinazioni rilevanti ripetute (percepire qualcosa che non ha riscontro nella realtà esterna,
sentire delle voci, vedere presenze che altri non vedono, ecc.);
3. Incoerenza o marcato allentamento delle associazioni logiche, disgregazione del linguaggio;
4. Appiattimento o incoerenza nell'espressione degli affetti (ad es. il riso per comunicazioni tristi);
5. Comportamento catatonico (stupore, negativismo, rigidità di postura);
6. Improvvisa trasformazione della condotta (es. esibizionismo in un soggetto timido e composto).
Esistono quattro tipologie generali di psicosi schizofrenica.
1. Il tipo ebefrenico è la forma più precoce come insorgenza, e tende a diventare cronica. Presenta
reazioni emotive sconclusionate, grave incapacitazione intellettiva e disorganizzazione massiccia del
pensiero e delle percezioni.
2. Il tipo catatonico presenta come tratto dominante una iporeattività agli stimoli ambientali ed un
ritiro in se stesso. Il soggetto è profondamente distaccato e assente, ha i muscoli contratti e assume
pose strambe. Oggi è una forma rara a vedersi, perchè la catatonia cede al trattamento farmacologico.
3. Il tipo paranoide presenta come tratto saliente lo sviluppo di deliri di grandezza e di onnipotenza
(per esempio identificarsi in un grande personaggio storico). É una forma che insorge un pò più tar-
divamente, spesso dopo i 40 anni.
4. Il tipo indifferenziato è quello che pur presentando caratteristiche schizofreniche, come allucina-
zioni, deliri e ritiri in se stesso, non rientra in nessuna delle tre tipologie precedenti.
É importante considerare il fatto che esistono tante modalità di manifestazione della sindrome schi-
zofrenica quante sono le differenze fra le persone non malate, e che oltre alle differenze individuali
di manifestazione dei disturbi esistono anche delle differenze di tipo culturale ed etnico. Le quattro
tipologie valgono infatti per le culture di tipo europeo; in altre culture lo psicotico può assumere la
tipologia del “veggente”, che sviluppa un delirio di onnipotenza particolare e che assume agli occhi
della comunità una posizione “magica”, oppure può prevalere una tipologia “stuporosa”, o possono
comparire deliri di rovina e malinconie paralizzanti.
Di particolare interesse sono gli studi sullo sviluppo ereditario della schizofrenia in soggetti figli di
genitori schizofrenici. Questi studi dimostrano che la psicosi è trasmissibile, nel senso che la proba-
bilità che un figlio di genitori psicotici diventi psicotico è molto più alta rispetto al figlio di genitori
normali. I dati non dimostrano però che la trasmissione avvenga attraverso un meccanismo eredita-
rio-biologico: è possibile che si tratti di una trasmissione di stimoli ed esperienze affettive patogene;
è verosimile che la trasmissione ereditaria biologica sia solo limitata ad una predisposizione e che il
vero meccanismo sia di tipo ambientale, legato al tipo di cure genitoriali offerte al bambino nelle pri-
me e decisive fasi dello sviluppo.
Paranoia. Il termine “paranoia” viene già impiegato da Eschilo, Euripide e Platone come sinonimo
di follia. Il suo significato si precisa con la psichiatria ottocentesca che lo definì una psicosi caratte-
rizzata da un delirio più o meno sistematizzato centrato su temi di persecuzione, grandezza o gelo-
sia. Non è accompagnata da allucinazioni né da sintomi dissociativi o di deterioramento, per cui la
personalità paranoica conserva pensiero, intelligenza, volontà e vita di relazione che non presentano
grossi turbamenti al di fuori di quelli indotti dalla tematica delirante. Il DSM - III (Manuale Diagno-
stico e Statistico, III ed.) adotta il termine paranoia per designare: 1) un tipo di disturbo della perso-
nalità (v. disturbo paranoide della persona-lità); 2) un disturbo delirante “non bizzarro (cioè concer-
nente situazioni che si verificano nella vita reale come: essere seguito, avvelenato, infettato, amato a
distanza, avere una malattia, essere ingan-nato dal proprio coniuge o amante) della durata di almeno
un mese; 3) una forma di schizofrenia (v. psicosi schizofrenica) caratterizzata dalla “presenza di
uno o più deliri sistematici, o di frequenti allucinazioni uditive correlate ad un unico tema”.

Le nevrosi

Mentre nella psicosi: esiste una dissociazione dalla realtà esterna, con la costruzione di una realtà
che nasce dalla mente del paziente (allucinazioni, deliri, incoerenze nelle associazioni logiche, ecc.),
nella nevrosi la realtà è percepita correttamente, ma si sente la spinta ad reagire in modo incongruo
ed inadatto ad aspetti di essa; si tratta di un disturbo psichico senza causa organica, i cui sintomi
possono essere interpretati come espressione simbolica di un conflitto. Il termine pare sia stato in-
trodotto dal medico scozzese William Cullen nel 1777; Charcot ne ha poi definito la natura solo psi-
cologica, Freud ne ha illustrato gli aspetti dinamici sottesi. Tra le varie forme di nevrosi (depressiva,
ipocondriaca, isterica, ecc.), le più frequenti sono le nevrosi d'ansia o ansioso-fobiche e le nevrosi
ossessivo-compulsive.
Nevrosi ansioso-fobica. Le nevrosi d' ansia e le fobie sono probabilmente, insieme alla depressio-
ne, i disturbi mentali più diffusi. L'aspetto saliente di questa nevrosi è lo stato d'ansia, una condi-
zione che ricirda per molti aspetti esteriori quello della paura, ma che se ne distingue perchè si scate-
na in modo misterioso e incomprensibile per il paziente. Non avendo un oggetto che la spieghi, l'an-
sia viene anche definita “paura senza oggetto”. Per la verità a volte sembra che un oggetto scatenante
esista, come nel caso delle fobie nelle fobie: di fronte alla presenza di un determinato oggetto o situa-
zione l'individuo avverte ansia crescente e anche attacchi di panico. Egli tenterà di evitare accurata-
mente queste situazioni o oggetti perchè ne ha una paura nevrotica, appunto una fobia, ma anche in
questo caso, a ben vedere, non si tratta solitamente di una fonte di pericolo reale ed effettivo. Il ne-
vrotico è perfettamente consapevole di questo e tuttavia soggiace a quella che lui avverte come una
reazione assurda e incomprensibile di panico. Come ha chiarito la teoria freudiana, a scatenare la rea-
zione ansiosa e fobica non è l'oggetto in sé, ma ciò che esso rappresenta simbolicamente per l'incon-
scio. La reazione può essere connessa quindi con angosce profonde e primitive come l'angoscia di
morte o i tabù dell'incesto, ma resta incomprensibile all'io cosciente del soggetto.
I segni e i sintomi (fisici e psichici) sono caratteristici e permettono di fare facilmente la diagnosi:

segni fisici sintomi fisici sintomi psichici

tachipnea affanno a riposo preoccupazione, incapacità di rilassarsi


ipersudorazione batticuore acutizzazione dell'attenzione
tachicardia nodo in gola sensazione di impotenza
tremore e ipertono capogiro senso di perdita del controllo
muscolare disturbi intestinali sfiducia nelle proprie risorse
Questi segni e sintomi non sono presenti tutti insieme, né hanno la stessa intensità per ogni tipo di
crisi d'ansia. Quando sono attenuati e incompleti si parla di una reazione ansiosa, quando sono pre-
senti in modo massiccio si parla di attacco di panico: si tratta, in questo caso, di un episodio di forte
apprensione e paura, associato ad una sensazione di catastrofe, che ha la durata di circa dieci minuti
e che provoca palpitazioni, senso di soffocamento, percezione di sbandamento e de-personalizza-
zione (cioè la percezione di essere distaccati da se stessi). La persona ha paura diperdere il control-
lo, di morire o di non riuscire più a ritornare in una condizione normale.
Un gran numero di persone ha dei disturbi nevrotici che, essendo modesti e poco inabilitanti, come
l'ansia dell'esame o la timidezza sociale, non vengono riconosciuti come tali, e vengono presi per
reazioni congrue alla situazione oppure per limiti caratteriali. Di fatto però i farmaci tranquillanti ed
anti-ansia sono di gran lunga i farmaci più prescritti e più consumati. Anche alcuni prodotti che han-
no un effetto di riduzione dell'ansia (come il vino, gli alcolici e il tabacco) sono consumati in grande
quantità verosimilmente per lo stesso motivo.
Le fobie sono molto varie per contenuto. Le possiamo dividere in tre gruppi generali: l'agorafobia,
(fobia degli spazi aperti), fobia sociale (timore paralizzante di esporsi al contatto con gli altri) e le
fobie semplici (come la fobia dei ragni, la fobia dell'altezza, dell'aereo, ecc.). Le fobie semplici sono
sicuramente le forme più diffuse ma - dato che le cose o le situazioni che scatenano l'ansia fobica
possono essere in molti casi evitate senza grandi inconvenienti - non arrivano spesso all'osservazio-
ne dello psicologo; la fobia sociale e in particolare l'agorafobia sono gravemente inabilitanti per la vi-
ta del paziente e arrivano quindi molto spesso all'osservazione del clinico.
Talora la nevrosi fobica prende l'aspetto di una ossessione e si traduce in un comportamento coat-
to e ripetitivo. La fobia dello sporco, ad esempio, diventa la coazione a lavarsi incessantemente le
mani e lustrare e rimettere a posto ogni cosa. Questa variante della nevrosi ansioso-fobica si chiama
nevrosi ossessivo-compulsiva. Si tratta di una forma di nevrosi che ha dei punti di contatto con il
meccanismo psicotico: talvolta infatti chi soffre di tali disturbi non è in grado di riconoscere che le
sue ossessioni sono irragionevoli, si allontana in qualche maniera dalla corretta percezione della real-
tà, comincia a dar corpo ai propri fantasmi e diventa schiavo dei suoi rituali scaramantici.
La spiegazione data dalla psicoanalisi dell'instaurarsi delle fobie e delle ansie nevrotiche è che gli
stimoli ansiogeni rappresentino un desiderio inconscio inaccettabile (per esempio esisterebbe un col-
legamento inconscio tra lo sporco e il soddisfacimento sessuale). La persona ansiosa non ha appreso
a soddisfare i suoi impulsi senza avere il timore di violare un tabù o una norma morale o sociale.
Sono le esperienze infantili traumatiche o le atmosfere educative sfavorevoli che hanno fatto rimuo-
vere dalla coscienza desideri e istinti: l'oggetto o la situazione fobica si collegano direttamente
all'impulso rimosso, in modo apparentemente assurdo e spesso incomprensibile per il paziente.
Se il rimosso viene fatto riemergere a livello cosciente, attraverso un'analisi psicologica, lo stimolo
perde il suo potere ansiogeno poichè si riconduce a quello che è nella realtà.
Una spiegazione alternativa è quella comportamentista dell'associazione negativa precoce: un de-
terminato stimolo diventa fobico per essere stato associato, in passato, ad una punizione od un
evento sgradevole. Attraverso il fenomeno della generalizzazione, il condizionamento si può esten-
dere a tutti gli stimoli che hanno una qualche analogia o somiglianza con lo stimolo che faceva scatta-
re la paura condizionata (reazione condizionata di evitamento). Il trattamento proposto è quello del
de-condizionamento: si tratta di esporre gradualmente il soggetto al contatto con lo stimolo ansio-
geno, in condizioni di sostegno e tranquillità. Questa tecnica, detta di desensibilizzazione progressi-
va, appare discretamente efficiente nel risolvere le fobie semplici.
LA PSICOSI SCHIZOFRENICA

schizofrenia (“schizein” = scindere, “fren” = mente) individuata da Kraepelin sotto il titolo di “dementia
praecox”, ha come tratto tipico, la dissociazione in parti reciprocamente indipendenti della vita psichica;
rientra, insieme alle psicosi maniaco-depressive (ciclotimia) nellʼ ambito delle psicosi endogene funzionali.

sintomi della sindrome schizofrenica

1. Deliri bizzarri (di persecuzione, di onnipotenza, di controllo, ecc.)


2. Allucinazioni rilevanti ripetute
3. Incoerenza o marcato allentamento delle associazioni logiche
4. Appiattimento o incoerenza nellʼ espressione degli affetti
5. Comportamento catatonico (stupore, negativismo, rigidità di postura)
6. Trasformazione della condotta

tipologie generali

1. Tipo ebefrenico (3 e 4) insorgenza precoce tende a diventare cronica

2. Tipo catatonico (4 e 5) cede al trattamento farmacologico

3. Tipo paranoide (1) insorgenza tardiva

4. Tipo indifferenziato (1, 2, 4, ecc.) non rientra nelle altre tipologie

classificazione di tipo prognostico (legata allʼ andamento futuro)

1. schizofrenia processuale o evolutiva insorgenza subdola e precoce


patologia cronica invalidante

2. schizofrenia reattiva o acuta può limitarsi ad una sola crisi dissociativa


con recupero del normale adattamento

classificazione della schizofrenia in base alla qualità dei sintomi

a) sintomi “positivi” -> fenomeni aggiuntivi rispetto alla norma (deliri, allucinazioni)
sensibile alle terapie farmacologiche
non presenta alterazioni cerebrali
non ha solitamente una lunga durata

b) sintomi negativi -> scadimento e perdita delle funzioni normali (rallentamento, catatonia)
cede solo temporaneamente con il trattamento farmacologico
presenta alterazioni cerebrali diffuse
ha una maggiore durata, tende a diventare cronico

Studi sulla ereditarietà la psicosi schizofrenica è trasmissibile (maggiori probabilità,


per un figlio di genitori psicotici, di diventare schizofrenico)

trasmissione di stimoli ed esperienze affettive patogene;


tipo di cure genitoriali offerte al bambino nelle
prime e decisive fasi dello sviluppo

vs
meccanismo ereditario-biologico
CLASSIFICAZIONE DELLE NEVROSI

ansia d’ attesa
nevrosi fobica
ansia di situazione ansia. di
nevrosi d’ ansia ipocondria essere
osservati
può evolvere
in depressione esibizionismo
mecc. di difesa

ansia fluttuante
(sensazione di non essere all’ altezza dei propri compiti )

ansia di separazione (O.Rank -> trauma della nascita)

nevrosi narcisistiche ripiegamento sull’ Io della libido

nevrosi miste eziologie diverse


casi-limite o “borderline”
(componenti nevrotiche e psicotiche)

nevrosi conseguenti a shock


traumatiche emotivo

nevrosi di scacco soggetti che non sopportano di aver

ottenuto le mete fortemente desiderate

nevrosi -> disturbo psichico senza causa organica i cui sintomi sono interpretati come
espressione simbolica di un conflitto che ha le sue radici nella storia del
soggetto e che costituisce un compromesso tra il desiderio e la difesa.
NEVROSI ANSIOSO-FOBICA

Nevrosi dʼ ansia e fobie ( + depressione) => disturbi mentali più diffusi

ansia “paura senza oggetto”; simile alla paura, ma priva di una precisa causa scatenante; nelle
fobie un oggetto scatenante sembrerebbe esistere, ma in realtà non si tratta,solitamente,
di una fonte di pericolo effettivo, bensì di una paura “simbolica”: a scatenare la reazione
ansioso-fobica non è lʼ oggetto in sé, ma ciò che esso rappresenta per lʼ inconscio.

Psicosi: esiste una dissociazione dalla realtà Nevrosi: la realtà è percepita correttamente,
esterna, con la costruzione di una realtà che vs ma si sente la spinta ad reagire in modo in-
nasce dalla mente del paziente. congruo ed inadatto ad aspetti di essa.

segni fisici sintomi fisici sintomi psichici


tachipnea affanno a riposo preoccupazione, incapacità di rilassarsi
ipersudorazione batticuore acutizzazione dellʼ attenzione
tachicardia nodo in gola sensazione di impotenza
tremore e ipertono capogiro senso di perdita del controllo
muscolare disturbi intestinali, ecc. sfiducia nelle proprie risorse

sintomi attenuati e sintomi presenti ampio utilizzo di farmaci anti-ansia


incompleti: in modo massiccio -> e di surrogati ( alcolici, fumo, ecc.)
reazione ansiosa <-> “attacco di panico”

FOBIE
agorafobia fobia sociale fobie semplici
paura degli paura del con- paura di oggetti
spazi aperti tatto con gli altri specifici

Nevrosi comportamento coatto e ripetitivo (es. fobia dello sporco:


ossessivo-compulsiva bisogno di lavarsi o lustrare incessantemente ogni cosa)
il paziente ossessivo-coatto da corpo ai propri fantasmi
(si avvicina ai meccanismi psicotici -> “borderline”), diventando
schiavo dei suoi rituali scaramantici e delle sue ossessioni.

Psicoanalisi gli stimoli ansiogeni rappresentano un desiderio inconscio inaccettabile


(es. sporco = soddisfacimento sessuale); la persona ansiosa non ha
appreso a soddisfare i suoi impulsi senza avere il timore di violare una
norma morale o sociale (esperienze infantili traumatiche o atmosfere
educative sfavorevoli). Oggetto o situazione fobica -> impulso rimosso

terapia => fare riemergere a livello cosciente, attraverso una analisi psicologica,
i contenuti rimossi -> lo stimolo perde il potere ansiogeno

Comportamentismo associazione negativa precoce: uno stimolo diventa fobico per essere
stato associato, in passato, ad una punizione od un evento sgradevole.
Generalizzazione -> reazione condizionata di evitamento

terapia => de-condizionamento: esporre gradualmente il soggetto al


contatto con lo stimolo ansiogeno, in condizioni di sostegno e tranquillità

modello biologico le persone soggette a crisi dʼ ansia avrebbero dei chemiorecettori


particolarmente sensibili, con una soglia del segnale di “soffocamento”
particolarmente bassa: somministrazione di farmaci che attenuano
o sopprimono le crisi.
I DISTURBI DELLA SESSUALITÀ

I disturbi sessuali riguardano: a) difficoltà relative al compimento dell'atto sessuale (impotenza


nell'uomo, inibizione - in passato chiamata frigidità - nella donna) che possono innescare disturbi
d'ansia e ridurre l'autostima; b) disagi connessi all'incapacità di riconoscersi completamente nella
propria appartenenza di “genere” (disforie di genere): il maschio e la femmina possono sentirsi par-
te dell'altro sesso, aspirare a farne parte o fantasticarne. La persona spesso riferisce di avere
“un'anima femminile in un corpo maschile” e può mirare a sembrare femminile (con abiti, trucco,
parrucche) ben sapendo di non esserlo (è il caso del travestitismo). Diverso il perscorso transessua-
le: chi si sottopone all'intervento chiurgico e ai trattamenti ormonali per cambiare sesso è certo di
non appartenere al sesso e al genere assegnatigli alla nascita; c) le perversioni sessuali, nelle quali la
condotta si discosta dalla norma o in ordine all'oggetto sessuale (ad es. la pedofilia, nella quale
all'incapacità di reggere un rapporto amoroso adulto si abbina una componente narcisistica: il
pedofilo ama, nel bambino, se stesso nel periodo della propria infanzia e tende ad adottare lo stesso
trattamento subito o il suo opposto) o in ordine alla zona corporea (quando il piacere sessuale è
raggiunto con parti del corpo di per sé non deputate all'esercizio della sessualità), o in ordine alla
meta sessuale che può essere raggiunta solo in presenza di condizioni di per sé estrinseche, come nel
caso del voyeurismo, dell'esibizionismo, del sadomasochismo. Il sadismo può essere considerato
tanto un tratto del carattere (proprio di chi si compiace della crudeltà), quanto una perversione ses-
suale (in cui il soggetto trae godimento dalla sofferenza che infligge agli altri). Il sadomasochismo si
manifesta sia a livello interpsichico come relazione di dominio-sottomissione, sia a livello intrapsi-
chico come autopunizione. In una prima fase del suo pensiero Freud considerò il sadismo come ori-
ginario e il masochismo come sadismo riflesso sulla propria persona; in una seconda fase, connetten-
do il masochismo alla pulsione di morte (thanatos), Freud postula il masochismo come originario e il
sadismo come sua espressione secondaria caratterizzata dal volgersi del sadismo sulla persona stes-
sa che lo esprime (pulsione distruttiva estroflessa).
Sono considerate perverse tutte le forme di regressione o di fissazione a stadi precedenti, in cui la
sessualità si esprime attraverso pulsioni parziali legate alle diverse zone erogene: alla fase orale cor-
rispondono perversioni molto primitive, con condotte di tipo incorporativo, alla fase anale corri-
sponde, ad esempio, il piacere della costrizione, alla fase fallica corrispondono perversioni più sot-
tili e meno evidenti, ad esempio le condotte improntate al dominio, al “collezionismo”, all'atto ses-
suale vissuto come “prestazione”; il piacere è collegato al dominio nel rapporto, al “collezionismo”
dei partner, alla ripetizione dell'atto come rassicurazione delle proprie capacità sessuali.
Il meccanismo generale delle perversioni è, secondo la psicoanalisi, speculare a quello delle nevrosi.
Nel nevrotico l'impulso sessuale è stato rimosso, respinto nell'inconscio, poichè la sua libera
espressione era fonte di senso di colpa e di timore o paura; uno stimolo esterno che richiama l'im-
pulso rimosso è in grado di scatenare questa antica paura sotto forma di ansia indefinita.
Nel perverso l'impulso sessuale non è rimosso o censurato, ma non è adeguatamente sviluppato;
egli prova piacere in rapporto allo stadio in cui si è fissato, o è regredito, il suo sviluppo psicoses-
suale; non prova ansia o sensi di colpa e tende alla soddisfazione del proprio impulso compatibil-
mente con le circostanze esterne.
Il trattamento delle perversioni sessuali è difficile perchè il perverso non ha una buona motivazione
a cambiare, non ha una spinta interna a modificare la sua condizione in quanto questa non gli com-
porta nessuna sofferenza; esso può puntare: a) sull'allargamento e sulla ridefinizione del campo del
piacere sessuale (ridare spazio allo sviluppo che si era arrestato); b) su strumenti di dissuasione e
restrizione, come le cure con farmaci che riducono lo stato di attivazione del sistema nervoso centra-
le (“tranquillanti maggiori”), che non modificano la struttura psicopatologica del perverso ma ridu-
cono la sua tendenza a porre in atto la sua perversione.
LE PERVERSIONI SESSUALI

perversione => meccanismo speculare a quello delle nevrosi

nevrotico perverso
impulso sessuale rimosso, respinto nell’ inconscio; l’ impulso sessuale non è rimosso o censurato,
la sua libera espressione era fonte di senso di colpa; ma non è adeguatamente sviluppato; egli prova
uno stimolo esterno richiama l’ impulso rimosso piacere in rapporto allo stadio in cui si è fissato,
o è regredito, il suo sviluppo psicosessuale; non
ansia / fobia prova ansia o sensi di colpa e tende alla sod-
disfazione del proprio impulso compatibilmente
con le circostanze esterne.

fase orale => perversioni più primitive;


condotte di tipo incorporativo od autistico
fase anale => piacere della costrizione
condotte di tipo sadico e masochistico
fase fallica => perversioni più sottili e meno evidenti
condotte improntate al dominio, al “collezionismo”,
atto sessuale vissuto come “prestazione”

sadismo

perversione sessuale tratto del carattere


(godimento della sofferenza inflitta) (crudeltà)

sadomasochismo

dominio-sottomissione
(interpsichico)

autopunizione
(intrapsichico)

1° spiegazione > 1) sadismo > 2) masochismo riflesso sulla


propria persona
FREUD

2° spiegazione > 1) pulsioni distruttive > 2) masochismo > 3) sadismo p. distruttiva


estroflessa

terapia => il perverso non ha una buona motivazione a cambiare, non ha una spinta interna a
modificare la sua condizione in quanto questa non gli comporta nessuna sofferenza

a) allargamento e ridefinizione del campo del piacere sessuale


( ridare spazio allo sviluppo che si era arrestato )

b) strumenti di dissuasione e restrizione: farmaci che riducono lo stato


di attivazione del sistema nervoso centrale (“tranquillanti maggiori”)
I DISTURBI DELLA PERSONALITA'

I disturbi della personalità sono delle disposizioni del carattere e degli stili di reazione inadeguati,
che portano disagio e sofferenza sia per gli individui che li mostrano che per chi è a contatto con es-
si. A differenza degli altri disturbi mentali, non si tratta di disturbi di tipo acuto, ma di problemi che
caratterizzano in modo stabile e per tutto l'arco della vita la personalità del soggetto; essi general-
mente iniziano a manifestarsi durante l'adolescenza o nella prima età adulta.

Consideriamo i dieci tipi di disturbo della personalità secondo la classificazione della IV edizione
(1999) del Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) dell'American Psychiatric Association (APA).
I soggetti con un disturbo paranoide della personalità tendono ad essere privi di fiducia nei rap-
porti con gli altri, estremamente sospettosi e guardinghi in tutto ciò che fanno e sempre pronti ad
interpretare in modo negativo le intenzioni altrui; temono di essere sfruttati o anneggiati dagli altri,
non si confidano e possono dubitare senza motivo della fedeltà del partner. A differenza degli psico-
tici paranoici, non presentano deliri o allucinazioni e il loro rapporto con la realtà rimane fondamen-
talmente corretto.
I soggetti con un disturbo schizoide della personalità sono freddi, poco espansivi e solitari, chiusi
nei rapporti sociali, con grandi difficoltà a stabilire e mantenere dei rapporti di amicizia. Questo di-
sturbo può comportare lo sviluppo di condotte bizzarre e anticonformiste e comportamenti “origi-
nali”, ma non giunge alla dissociazione degli schizofrenici. Aspetti transitori di tipo schizoide si os-
servano con frequenza nella fase adolescenziale.
La particolarità di chi soffre di un disturbo schizotipico della personalità è la presenza di idee ec-
centriche: il soggetto può credere di avere un controllo magico del pensiero degli altri, crede nella
chiaroveggenza, nella telepatia e nel sesto senso; le relazioni con gli altri sono scarse, ha al massimo
un confidente, la sua vita è caratterizzata da rituali (ad es. compiere sempre lo stesso tragitto per an-
dare al lavoro) e anche l'aspetto è strano, eccentrico o particolare.
Gli individui con un disturbo istrionico della personalità hanno una condotta che richiama costan-
temente l'attenzione degli altri, con degli scoppi d'ira e dei bruschi cambiamenti d'umore. Essi ap-
paiono iper-reattivi perchè sono molto centrati su di sé, il loro atteggiamento teatrale è il risultato di
un marcato egocentrismo e della ricerca di interesse e approvazione da parte degli altri.
Il disturbo borderline della personalità è caratterizzato da instabilità nelle relazioni, impulsività. Il
soggetto borderline è incapace di controllare le proprie emozioni e pulsioni, cerca di evitare la solitu-
dine e teme l'abbandono; si getta a capofitto in relazioni intense e tempestose: se il partner minaccia
di interrompere la relazione sentimentale può compiere comportamenti autoaggressivi, come auto-
mutilarsi, può minacciare o tentare il suicidio; è portato a pensare in termini assoluti: bianco o nero,
tutto o niente; ha comportamenti impulsivi: spende troppo denaro, abusa di sostanze ed alcol, guida
in maniera spericolata; oscilla costantemente da uno stato d'animo estremo all'altro.
L'individuo con disturbo narcisistico della personalità ritiene di essere unico e speciale e si sente
superiore agli altri; desidera ardentemente ammirazione e adulazione e risponde alle critiche con odio
accanito e duraturo; l'autostima è esagerata, ma allo stesso tempo vulnerabile: il narcisista infatti
tende a sviluppare depressione di fronte ad un rifiuto o a un fallimento. Chi soffre di questo distur-
bo è poco sensibile ai bisogni atrui e sostanzialmente incapace di empatia.
Il soggetto con un disturbo evitante della personalità presenta una combinazione di sentimenti di
inadeguatezza, imbarazzo nei rapporti sociali, estrema permalosità nei confronti della disapprova-
zione; è introverso, vergognoso e timido, ha una bassa autostima, è molto sensibile ai rifiuti ed evita
di stare con gli altri e fare nuove esperienze.
La caratteristica dominante del soggetto con un disturbo dipendente della personalità è la necessi-
tà di essere costantemente accudito; il soggetto dipendente manifesta la pressante necessità che gli
altri si facciano carico delle decisioni e le prendano, tende a sottomettersi, ha paura di essere lasciato
solo: cerca subito una nuova relazione quando ne termina una; evita il disaccordo e ha bisogno di
rassicurazione costante, delegando la responsabilità per le decisioni più importanti.
Il disturbo ossessivo-compulsivo della personalità è caratterizzato da perfezionismo, eccessiva at-
tenzione ai dettagli, dedizione al lavoro e desiderio di controllo; il soggetto ossessivo-compulsivo fa
fatica, preoccupandosi troppo dell'ordine e della perfezione, a portare a termine un compito; si de-
dica al lavoro trascurando legami e amicizie, non delega, e accumula denaro piuttosto che spenderlo.

Un caso a parte, sia per il meccanismo patogeno che per la sua gravità, è quello del disturbo anti-
sociale della personalità, detto anche sociopatia o psicopatia. La maggior parte degli psicopatici fin
dalla fanciullezza hanno cominciato a violare le norme sociali, legali e morali, e una volta diventati
adulti tendono a diventare mentitori incalliti, scadenti lavoratori, cattivi genitori, manifestando spes-
so disturbi della sessualità; tipicamente gli atti illegali o contro le regole da essi commessi sono mal-
destri e male congegnati, perchè agiscono in modo impulsivo, non sono frenati dal timore della puni-
zione.
A differenza dei soggetti appartenenti ad una micro-cultura delinquenziale, i quali reagiscono alla
punizione solitamente con timore e con una attenuazione della condotta, gli psicopatici reagiscono
alla punizione con una ripetizione accentuata della condotta sanzionata, manifestando anche la ten-
denza a compiere atti gratuiti e controproducenti. Si tratta di individui irresponsabili, aggressivi, fa-
cilmente irritabili; in essi non è presente la manifestazione del rimorso, neanche per azioni gravi: so-
no cinici, privi di empatia e indifferenti alla sofferenza altrui; hanno un'immagine di sé grandiosa e
tendono ad incolpare gli altri del proprio comportamento.
A differenza del soggetto psicotico, lo psicopatico non è psichicamente destrutturato, quindi è so-
cialmente assai più pericoloso del primo: può pianificare, mascherare, occultare le azioni delittuose.
Per quanto concerne la terapia, i disturbi di personalità sono poco sensibili ai trattamenti psicolo-
gici o psichiatrici; la strada più valida è probabilmente quella della individuazione precoce degli am-
bienti familiari patogeni e dell'intervento correttivo precoce delle esperienze dei soggetti.

L'interpretazione psicoanalitica della personalità psicopatica

I tratti caratteriali della personalità psicopatica intorno a cui si registra maggior consenso sono:
1) un'immaturità affettiva che nasconde una puerilità di fondo con conseguente insofferenza alle
frustrazioni e incapacità di esprimere sentimenti positivi come simpatia e gratitudine;
2) apatia morale con mancanza di sentimenti di rimorso e di colpa, mancanza di responsabilità, fal-
sità e insincerità sistematiche;
3) condotta antisociale non episodica ma costante e programmata che spesso mette capo a condot-
te delittuose realizzate con freddezza e indifferenza.
Circa le cause, la psicoanalisi ad orientamento freudiano vede l'origine della personalità psicopatica
in una figura materna inconsistente, anaffettiva o ambigua, da cui scaturisce la successiva costituzio-
ne psicologica caratterizzata da un Io debole, da un Super-Io assente con conseguente mancanza di
rimozione o condanna delle richieste pulsionali dell'Es, che verrebbero immediatamente agite e non
elaborate: di qui la proiezione continua dell'aggressività sul mondo esterno.
DISTURBI DELLA PERSONALITAʼ

Disposizioni del carattere e stili di reazione inadeguati, che portano disagio e


sofferenza sia per gli individui che li mostrano che per chi è a contatto con essi.
Si tratta di problemi che caratterizzano in modo stabile e per tutto lʼarco
della vita la personalità del soggetto.

disturbo paranoide mancanza di fiducia nei rapporti con gli altri;


sospetto e interpretazione negativa delle intenzioni altrui;
non presentano deliri o allucinazioni (vs psicotici paranoici)

disturbo schizoide freddezza, tendenza alla solitudine, chiusura nei rapporti sociali;
difficoltà a stabilire e mantenere rapporti di amicizia;
condotte bizzarre e anticonformiste, “originalità” (-> adolescenza)

disturbo istrionico condotta che richiama costantemente lʼattenzione degli altri;


scoppi dʼira e bruschi cambiamenti dʼumore;
iper-reattività, marcato egocentrismo;
atteggiamento “teatrale”, ricerca di interesse e approvazione.

personalità sociopatica violazione delle norme sociali, legali e morali fin dallʼinfanzia;
(psicopatia) adulti mentitori, scadenti lavoratori, cattivi genitori, sessualità disturbata;
comportamenti impulsivi, non frenati dal timore di punizioni
tendenza a compiere atti gratuiti e controproducenti.

disturbo schizotipico idee eccentriche controllo magico del pensiero degli altri:
chiaroveggenza telepatia sesto senso relazioni scarse
rituali (es. compiere sempre lo stesso tragitto per andare al lavoro)
aspetto strano eccentrico o particolare.

disturbo borderline instabilità nelle relazioni, impulsività, emozioni e pulsioni incontrollate


evitamento della solitudine paura dell'abbandono
relazioni intense e tempestose: autoaggressività in caso di rifiuto
(automutilazione, suicidio); pensiero in termini assoluti: bianco o nero
abuso di sostanze ed alcol guida spericolata spesa compulsiva
oscillazioni da uno stato d'animo estremo all'altro.

disturbo narcisistico essere unico e speciale, sentirsi superiore agli altri; desiderio di
ammirazione e adulazione vulnerabilità ostilità alle critiche
autostima esagerata scarsa empatia depressione per rifiuti/fallimenti

disturbo evitante sentimenti di inadeguatezza, imbarazzo nei rapporti sociali,


permalosità in caso di disapprovazione introversione vergogna
timidezza bassa autostima evita gli ʻaltriʼ e le nuove esperienze

disturbo dipendente essere costantemente accudito necessità che gli altri prendano
decisioni per lui delega della responsabilità
sottomissione paura della solitudine
ricerca di una nuova relazione quando ne termina una
evitamento del disaccordo bisogno di rassicurazione costante

disturbo perfezionismo, cura maniacale dei dettagli dedizione al lavoro


ossessivo- desiderio di controllo difficoltà a portare a termine un compito per
compulsivo eccessivo perfezionismo accumula denaro piuttosto che spenderlo
si dedica al lavoro trascurando legami e amicizie non delega
DISTURBI DELLA PERSONALITAʼ

Disposizioni del carattere e stili di reazione inadeguati, che portano disagio e


sofferenza sia per gli individui che li mostrano che per chi è a contatto con essi.
Si tratta di problemi che caratterizzano in modo stabile e per tutto lʼ arco
della vita la personalità del soggetto.

disturbo paranoide mancanza di fiducia nei rapporti con gli altri;


della personalità sospetto e interpretazione negativa delle intenzioni altrui;
non presentano deliri o allucinazioni ( vs psicotici paranoici)

disturbo schizoide freddezza, tendenza alla solitudine, chiusura nei rapporti sociali;
della personalità difficoltà a stabilire e mantenere rapporti di amicizia;
condotte bizzarre e anticonformiste, “originalità” (-> adolescenza)

disturbo istrionico condotta che richiama costantemente lʼ attenzione degli altri;


della personalità scoppi dʼ ira e bruschi cambiamenti dʼ umore;
iper-reattività, marcato egocentrismo;
atteggiamento “teatrale”, ricerca di interesse e approvazione.

personalità sociopatica violazione delle norme sociali, legali e morali fin dallʼ infanzia;
(psicopatia) adulti mentitori, scadenti lavoratori, cattivi genitori, sessualità disturbata;
agiscono in modo impulsivo, non sono frenati dal timore di punizioni
tendenza a compiere atti gratuiti e controproducenti.

Interpretazione psicoanalitica della personalità psicopatica

1) immaturità affettiva -> puerilità e insofferenza alle frustrazioni

2) apatia morale -> mancanza di senso di colpa e responsabilità


-> insincerità sistematica

3) condotta antisociale costante e programmata, condotte delittuose


realizzate con freddezza e indifferenza.

cause -> figura materna inconsistente e anaffettiva -> Io debole, Super-Io assente

psicosi -> lo psicopatico non è psichicamente destrutturato

psicopatia vs

nevrosi -> il disturbo non nasce da conflitti,


bensì da predisposizione costituzionale

terapia: i disturbi di personalità sono poco sensibili ai trattamenti psicologici o


psichiatrici; individuazione precoce degli ambienti familiari patogeni e
dellʼ intervento correttivo precoce delle esperienze dei soggetti
I DISTURBI DELL'UMORE

La depressione
La depressione, o melanconia, è un'alterazione del tono dell'umore verso forme di tristezza pro-
fonda con riduzione dell'autostima e bisogno di autopunizione. Quando l'intensità della depressione
supera certi limiti o si presenta in circostanze che non la giustificano diventa di competenza psichia-
trica (e rientra tra le forme di disturbo psicotico), dove si distingue una depressione endogena, che
nasce “dal di dentro” senza rinviare a cause esterne, e una depressione reattiva che è patologica so-
lo quando la reazione ad eventi luttuosi, tristi o traumatici appare eccessiva.
Depressioni reattive. Gli eventi stressanti che riguardano la vita sociale possono rappresentare
una delle cause scatenanti della depressione: una separazione, un lutto, un licenziamento possono
far precipitare il tono dell'umore in persone già predisposte. L'esordio può essere improvviso ed
evidente, oppure comparire in modo silente e subdolo; talvolta può comparire un episodio depressi-
vo isolato e circoscritto nel tempo seguito da un periodo senza sintomi (periodo di remissione).
Depressioni endogene. Sono le forme classiche di depressione conosciute e descritte fin dall'an-
tichità sotto la denominazione di melanconia. In questo ambito si distinguono le forme depressive
periodiche a decorso monopolare, cioè con fasi solo depressive, in cui la periodicità può essere di ti-
po stagionale (autunno e primavera), oppure comparire nell'arco della giornata, e depressioni cicli-
che con decorso bipolare che alternano alla fase depressiva quella maniacale: se depressione e mania
si presentano in fasi o cicli di settimane intervallati da periodi di benessere si parla di ciclotimia.
La depressione endogena prevede oscillazioni durante la giornata, con risveglio precoce al mattino e
con il manifestarsi di idee deliranti aventi per oggetto idee di colpa, di rovina, di incurabilità, o idee
ipocondriache che per lo più traggono spunto da sensazioni di oppressione nella zona toracica.

Come modificazione del tono dell'umore (in greco tymós), la depressione è un disturbo distimico,
che ha nell'euforia, che quando è spiccata assume le forme di mania, il suo contrario.
Capita ad ognuno di noi di attraversare periodi in cui ci sentiamo pessimisti o tristi senza una vera
ragione, ma questo stato d'animo è normale: magari si tratta di un momento di particolare introspe-
zione, di riflessione interiore. La depressione invece rappresenta uno squilibrio permanente dei sen-
timenti, per cui l'umore si fossilizza su un piano malinconico e non presenta l'alternativa gioiosa.
Ogni individuo apprende da sé i modi per tamponare i propri squilibri umorali, soprattutto quelli a
sfondo depressivo: la convenzione sociale mostra di preferire e di integrare meglio i soggetti con un
certo grado di euforia, che favorisce investimenti, progettualità, apertura alle possibilità della vita.
Nel depresso invece compare un totale disinteresse per il futuro, per la propria persona, per gli altri,
manca la voglia di vivere, c'è l'incapacità di provar piacere per qualsiasi cosa, incapacità d'amare.
I segni ed i sintomi che contraddistinguono la depressione sono vari, e possono comprendere:
a) disturbi somatici e neurovegetativi (insonnia, inappetenza, diminuzione dell'interesse sessuale);
b) disturbi dell'affettività (tristezza profonda e cupa, perdita di interesse per la vita, senso di colpa,
sentimenti di indegnità e autodisprezzo); c) abulia nel comportamento e inibizione del pensiero
(perdita di iniziativa, povertà di ideazione, difficoltà di associazione, sintesi, rievocazione, “rumina-
zione”, cioè ripetizione continua di pensieri, per esempio, relativi a episodi del passato, o su pro-
prie colpe, vere o presunte; ); d) tendenza al suicidio e desiderio di morte.

Purtroppo la depressione, che in genere può comparire attorno ai 25-30 anni, non riguarda esclu-
sivamente l'adulto, perchè è facilmente riscontrabile anche nei bambini.
Questo disturbo dell'umore può comparire anche in bimbi che per lungo tempo hanno manifestato
vivacità, serenità; ma ad un certo punto qualcosa si rompe: il bambino perde la voglia di giocare,
diventa pigro, distratto, privo di iniziative, niente più lo diverte. Spesso questi comportamenti
vengono sottovalutati o fraintesi: a volte questi bambini vengono rimproverati perchè hanno smesso
di impegnarsi, perchè apatici, perchè non mangiano e piangono per niente, ma sgridate e rimproveri
non sortiscono alcun effetto positivo.

semiologia delle forme depressive


Le nominazioni più ricorrenti della depressione (oltre a quelle già citate) sono:
depressione anaclitica (Spitz): si presenta nei bambini separati dalla figura materna per un lungo periodo;
depressione ansiosa: l'ansia si presenta come sensazione angosciante di morte interiore e di perdita del-la
propria presenza a sé e al mondo;
depressione climaterica: è la melanconia che accompagna la cessazione delle mestruazioni;
depressione da esaurimento: è la conseguenza di un sovraccarico emozionale prolungato e ripetuto;
depressione da sradicamento: subentra in occasione di trasferimenti o emigrazioni, con perdita di abitu-
dini e relazioni sociali;
depressione delirante: è animata da idee di colpa inespiabile, di rovina irreparabile, di “possessione”;
depressione esistenziale (Haefner): è conseguenza della mancata realizzazione di aspirazioni e valori
fondamentali per l'individuo;
depressione involutiva: si instaura dopo sofferenze fisiche o infermità (durante la mezza età);
depressione puerperale: riattiva unsenso di perdita nella madre rispetto alla precedente situazione di gra-
vidanza.

Il paziente depresso e i suoi rapporti con l'ambiente circostante


I familiari della persona depressa sono ovviamente coinvolti nella patologia del congiunto, e non
sono certo immuni dai sentimenti e dalle emozioni che il depresso suscita. Spesso chi vive accanto
ad una persona affetta da depressione sviluppa sentimenti contrastanti: da un lato ci si sente impo-
tenti e in colpa verso il malato, dall'altro si prova rabbia, a volte si arriva anche all'intolleranza di
fronte all'apatia del depresso. Si genera una sorta di “patto impossibile”: l'attesa e i desideri del
malato rendono vana qualunque condotta e mettono in moto un meccanismo infinito di nuove attese
e desideri. Il depresso costringe dunque a una continua rincorsa, un affanno che toglie forze a chi è
coinvolto e disponibile verso di lui. É dunque necessario che i familiari siano consapevoli dei propri
sentimenti ambivalenti (odio/amore) e che diano spazio ad un'elaborazione cosciente di ciò che
provano, compensando in questo modo alla difficoltà propria del depresso ad integrare i propri
sentimenti confllittuali. Bisogna sempre considerare che la depressione, anche se cronica, è
comunque curabile. In sintesi, compito dei familiari è di aiutare il malato nell'essere costante con
l'eventuale psicoterapia e di assicurarsi della corretta assunzione della terapia farmacologica, di of-
frire affetto e comprensione, ascolto e compartecipazione, senza però dimenticare se stessi.

La mania
Quando si parla di mania ci si riferisce a una manifestazione esagerata dell'affettività, ben diversa
dalla normale euforia, in quanto esagerata, non adeguata alla situazione, esasperata. I pensieri scorro-
no nella mente in modo molto veloce (fenomeno che si definisce “fuga delle idee” e che sul versante
del linguaggio corrisponde al fenomeno della logorrea, la tendenza a parlare con grande velocità e lo-
quacità, spesso senza rispettare un filo conduttore), al punto che riesce difficile ricordarli; il sogget-
to è connotato da megalomania, ipervalutazione di se stesso e delle proprie capacità, eccessivo otti-
mismo, desideri e progetti di ordine fantastico. L'autostima è talmente esagerata da poter essere pe-
ricolosa per questi soggetti che tendono a mettere in atto dei comportamenti rischiosi, sopravvalu-
tando le proprie capacità e sottovalutando le conseguenze.
Il disturbo maniacale spesso si presenta in alternanza con la depressione: in questo caso si parla,
come già si è detto, di disturbo bipolare, proprio perchè vengono coinvolti entrambi i poli opposti
dell'affettività.
DEPRESSIONE

la depressione, o melanconia, è unʼalterazione del tono dellʼumore verso forme disturbo


di tristezza profonda con riduzione dellʼautostima e bisogno di autopunizione. distimicoʼ

endogena -> nasce dal di dentro senza rinviare a cause esterne


depressione
reattiva -> nasce come reazione ad eventi luttuosi, tristi o traumatici

ciclotimia: depressione ed euforia (mania) si presentano in fasi bipolare vs monopolare


e cicli di settimane intervallati da periodi di benessere segni e sintomi

a) disturbi somatici e neurovegetativi (insonnia, inappetenza, diminuzione dellʼ interesse sessuale)

b) disturbi dellʼ affettività (tristezza profonda e cupa, perdita di interesse per la vita, senso di colpa,
sentimenti di indegnità e autodisprezzo)

c) abulia nel comportamento e inibizione del pensiero (perdita di iniziativa, povertà di ideazione,
“ruminazione”, difficoltà di associazione, sintesi, rievocazione)

d) tendenza al suicidio e desiderio di morte

somatogene -> malattia organica o disfunzione somatica

a decorso monopolare
forme depressive periodiche
a decorso bipolare (mania-depressione)

depressioni endogene -> risveglio precoce, idee di colpa,rovina, idee ipocondriache

reazione depressiva semplice (lutto, delusione amorosa, insuccesso)


psicogene ->
reazione depressiva nevrotica (motivazione non chiara alla coscienza)

semiologia delle forme depressive

anaclitica (Spitz) si presenta nei bambini separati dalla figura materna per un lungo periodo
ansiosa : sensazione angosciante di morte interiore e di perdita della propria “presenza”
climaterica: melanconia che accompagna la cessazione delle mestruazioni
da esaurimento: conseguenza di un sovraccarico emozionale prolungato e ripetuto
depressione da sradicamento: conseguenza di trasferimenti, con perdita di abitudini e relazioni sociali
delirante: idee di colpa inespiabile, di rovina irreparabile, di “possessione”
esistenziale (Haefner) mancata realizzazione di aspirazioni e valori fondamentali per lʼ ind.
involutiva: sofferenze fisiche o infermità (mezza età) profondo pessimismo
puerperale: senso di perdita rispetto alla precedente situazione di gravidanza

manifestazione inadeguata/esasperata dell'affettività vs normale euforia


“fuga delle idee” (velocità di pensiero) logorrea loquacità senza filo conduttore
mania megalomania ipervalutazione di se stesso eccessivo ottimismo
desideri e progetti di ordine fantastico
autostima esagerata => comportamenti rischiosi
sopravvalutazione delle proprie capacità / sottovalutazione delle conseguenze

senso di impotenza / colpa


familiari delle consapevolezza della
persone depresse propria ambivalenza
rabbia / intolleranza
affetto/comprensione
ascolto/empatia
costanza nella psicoterapia
corretta terapia farmacologica
L'ANORESSIA MENTALE

L'anoressia è perdita totale o parziale dell'appetito; è un sintomo che rinvia o a una malattia orga-
nica o a un disturbo psicogeno connesso alla sfera dell'affettività. Frequente nei bambini iperprotet-
ti, questo sintomo rappresenta un modo per esprimere ostilità nei confronti di genitori che rifiutano
la loro autonomia e indipendenza.
Nell'ambito delle anoressie ha un particolare rilievo l'anoressia mentale, che è uno stato patologi-
co che insorge - prevalentemente - in giovani donne per conflitti di tipo emotivo, i più comuni dei
quali riguardano l'accettazione del proprio ruolo femminile, e per conflitti psicologici maturati all'in-
terno del nucleo familiare ed in particolare con la figura della madre.

Secondo Hilde Bruch tre sono i segni che consentono di distinguere un'anoressia mentale dalle
altre forme di anoressia (reattive, croniche, di origine endocrina, ecc): 1) il disturbo dell'immagine
corporea di proporzioni deliranti da cui dipende anche l'assenza di preoccupazione per stadi anche
gravissimi di emaciazione; 2) il disturbo della percezione e cognizione degli stimoli provenienti dal
corpo, da cui dipendono, ad esempio, l'iperattività nonostante l'evidente esaurimento di energia o la
persistenza delle posture corporee disagevoli, come se il corpo non ne soffrisse; 3) il senso paraliz-
zante di impotenza cui si collega il terrore di perdere il controllo sui propri istinti orali ed essere tra-
volti dall'impulso incontrollato a mangiare (con sconfinamenti nella bulimia).

Mara Selvini Palazzoli il rapporto con l'oggetto nell'anoressia mentale


Dal punto di vista psicodinamico, M. Selvini Palazzoli scrive che “il cibo non è per le anoressiche
affatto negativo come cosa in sé, ma è amabile, desiderabile, interessante, continuamente presente
allo spirito (...) è l'atto del cibarsi che è divenuto pericoloso e angoscioso”.
L'esperienza iniziale dell'Io originario, nei pazienti anoressici, anzichè essere un'esperienza corpo-
rea di buono, di bene, di benessere, è una esperienza di incorporazione dell'oggetto primario nei suoi
aspetti cattivi. Per la paziente anoressica, esser corpo significa essere cosa, a spese del suo Sé; que-
sto terribile vissuto del corpo (potente, indistruttibile, crescente e minaccioso) deriva dall'averlo to-
talmente fuso con l'oggetto incorporato, cioè con la madre, nei suoi aspetti cattivi, passivizzanti e
devalorizzanti.
Una madre aggressivamente iperprotettiva, incapace di concepire la figlia come una persona nel suo
proprio diritto, è la tipica madre dell'anoressica mentale. Di fronte alla madre prevaricatrice, che
preme sull'aspetto rituale della nutrizione, la bambina sperimenta l'impotenza orale, che poi porte-
rà, con l'identificazione con la madre reale, al risultato di una resa compiacente come stile di vita, ti-
pico dell'età di latenza.
Con la pubertà, che espone la giovinetta ad una esperienza brusca e traumatizzante, si profila la
necessità di dis-identificazione dalla madre, mentre l'incorporazione dell'oggetto-madre viene vis-
suta concretamente nella modificazione corporea puberale: il corpo, sempre più “adulto” e “tondeg-
giante” viene a somigliare a quello materno, da cui l'Io centrale vuole invece ad ogni costo distinguer-
si. Avviene dunque una scissione dell'Io incorporativo (il corpo, visto come oggetto cattivo per la
crescente somiglianza con quello materno) dall'Io identificativo (centrale), il quale si dis-identifica
dalla madre reale e si identifica ad un oggetto idealizzato: una imago corporea desessualizzata e a-
carnale. Si badi, però: come il cattivo oggetto, anche il corpo è affascinante, e perciò non può essere
abbandonato, né tanto meno annientato: deve essere solo tenuto in rispetto, sottoposto a fatica e
lavoro, non deve essergli concesso di crescere e rafforzarsi. L'anoressica mentale non rifiuta il cibo,
ma riduce volontariamente l'alimentazione a livelli assurdi; i fenomeni basici dell'anoressica mentale
sono dunque: persistenza di fame (confessata solo dopo lunga confidenza col terapeuta), lotta vo-
lontaria ed acerrima contro di essa.
ANORESSIA MENTALE

anoressia perdita totale o parziale dellʼappetito; sintomo che rinvia o a una malattia organica
o a un disturbo psicogeno connesso alla sfera dellʼaffettività. Frequente nei bambini
iperprotetti, questo sintomo rappresenta un modo per esprimere ostilità
vs nei confronti di genitori che rifiutano la loro autonomia e indipendenza.

anoressia stato patologico che insorge prevalentemente nelle giovani donne per conflitti di
mentale tipo emotivo, i più comuni dei quali riguardano lʼaccettazione del proprio ruolo
femminile, e per conflitti psicologici maturati allʼinterno del nucleo familiare
ed in particolare con la figura della madre.
reattiva (traumi)
Hilde Bruch anoressia mentale vs altre forme croniche
di anoressia difficoltà funzionali malinconia
rifiuto del cibo schizofrenia

1. disturbo dellʼimmagine corporea (delirio) con assenza di preoccupazione


per stadi anche gravissimi di emaciazione;
2. disturbo della percezione degli stimoli provenienti dal corpo, da cui dipen-
dono lʼiperattività o la persistenza delle posture corporee disagevoli, come
se il corpo non ne soffrisse;
3. senso paralizzante di impotenza cui si collega il terrore di perdere il controllo
sui propri istinti orali ed essere travolti dallʼimpulso incontrollato a mangiare.

M. Selvini Palazzoli il rapporto con lʼoggetto nellʼanoressia mentale

Io originario
atteggiamento
prevaricatorio
della madre
incorporazione identificazione
(introiezione) con la madre reale
dellʼoggetto cattivo°

impotenza orale resa compiacente


(infanzia) (età di latenza)

pubertà: si profila la necessità di DIS-IDENTIFICAZIONE


dalla madre mentre lʼincorporazione dellʼoggetto-madre
viene vissuta concretamente nella modificazione corporea puberale*

depressione dellʼIo
scissione dellʼIo incorporativo
dallʼIo identificativo

tenuto a bada, oggetto


sottoposto a cattivo = IO
fatica e lavoro CORPO centrale
(non annientato)

la porzione dellʼIo lʼIo centrale si dis-identifica dalla madre


legata allʼoggetto reale e si identifica ad un oggetto
incorporato viene idealizzato (imago corporea
scissa (corpo) desessualizzata a-carnale)

° il corpo non contiene lʼoggetto cattivo, ma è lʼoggetto cattivo; è dunque potente, indistruttibile,
crescente e minaccioso

* il corpo (adulto e tondeggiante) viene a somigliare a quello materno, da cui lʼIo centrale vuole
distinguersi
L'AUTISMO

Il termine “autismo” è stato coniato da Bleuler per descrivere individui interamente assorbiti dalle
proprie esperienze interiori con conseguente perdita di ogni interesse per la realtà esterna, le cose e
gli altri. Derivato dal greco autós che significa sé stesso, il termine ha un impiego generico ed uno
specifico riferito ai bambini e distinto dall'espressione “autismo infantile precoce”. Nella sua acce-
zione generale l'autismo presenta i caratteri della chiusura dei rapporti comunicativi col mondo
esterno con conseguente ritiro in sé stesso, nella propria vita interiore, autocentrica e dominata dalla
propria soggettività; il pensiero autistico si alimenta quasi esclusivamente di produzioni endogene,
con materiale derivato unicamente dal soggetto: sogni ad occhi aperti, fantasie, deliri, allucinazioni.
Quando l'autismo presenta tali forme di “derealizzazione” (= perdita del contatto con la realtà), è
uno dei sintomi fondamentali della schizofrenia. Se l'autismo infantile precoce non è propriamente
rubricabile nelle sindromi schizofreniche, è perchè mentre lo schizofrenico ritira il suo interesse dal
mondo, il bambino autistico semplicemente non lo instaura.
Autismo infantile precoce. Prevalentemente normale nei primi mesi di vita, il bambino autistico
diventa anaffettivo, mostra scarso interesse per gli stimoli visivo-uditivi, presenta un ritardo del lin-
guaggio mentre lo sviluppo motorio è nella norma, non attraversa le fasi dell'angoscia da estraneo e
da separazione; è apatico, rigido e distaccato: non manifesta alcun interesse per la compagnia degli
altri, preferendo trascorrere il suo tempo in manierismi ritualistici, in giochi di carattere ripetitivo
(seguiti da una reazione d'ira se vengono interrotti), con una predilezione per i movimenti ritmici
(rotolare, dondolare), per l'ecolalia e per la sostituzione del pronome personale “Io” con “Lui”.

Interpretazioni dell'autismo infantile precoce


Circa le ragioni di questa sindrome le opinioni sono molto differenti: si va dalla posizione organica
di Kanner, secondo cui l'autismo è innato e non cagionato da un'educazione sbagliata, a quella psi-
cogenetica di Bettelheim, secondo cui l'autismo ha radici psicologiche avvicinabili a quelle narcisi-
stiche, in cui la libido è investita sull'Io anzichè sugli oggetti.
a) Secondo Kanner l'origine dell'autismo è biologica: il disturbo autistico è innato e l'incapacità di
relazione è presente fin dalla nascita. Kanner vede nell'autismo infantile i caratteri dell'autoassorbi-
mento, dell'inaccessibilità e della solitudine.
Tra la posizione di Kanner e quella acquisita di Eisenberg si colloca Bender, il quale considera l'au-
tismo come una reazione difensiva secondaria ad una lesione organica del sistema nervoso centrale.
b) Secondo Eisenberg, che aveva iniziato le sue ricerche sull'autismo in collaborazione con Kanner,
la causa dell'autismo va invece cercata nell'educazione: i genitori “si interessano al bambino solo
nella misura in cui egli si dimostra capace di eseguire degli automatismi, donde la frequenza, tra i
bambini autistici, di prodigiosi exploit recitativi di cose mandate a memoria. Si esige il bambino
“perfetto”: che obbedisce, che esegue, che non ha esigenze proprie”.
Un'interpretazione psicoanalitica dell'autismo è stata tentata per la prima volta da R. Spitz secon-
do cui la carenza affettiva, insieme all'assenza di stimolazioni adeguate induce nel bambino una de-
pressione anaclitica nonchè un grave ritardo affettivo-intellettuale. Su questa linea, C.E. Goshen ha
insistito sull'effetto nefasto della madre che non è in grado di stimolare il bambino e di inviargli se-
gnali coerenti durante la prima infanzia (in particolare tra il 6° e il 18° mese).
B. Bettelheim promuove la sua interpretazione psicoanalitica in questi termini: la causa iniziale del
ritiro autistico è l'interpretazione corretta da parte del bambino dell'attitudine negativa con la quale
le figure significative del suo ambiente gli si accostano. Ciò provoca nel bambino accessi di collera,
fino a quando comincia a interpretare il mondo “a immagine della sua propria ira”, cioè come qualco-
sa da rifiutare. Il dramma del bambino autistico è che “la sua visione fantasmatica del mondo compa-
re in un'età precoce in cui gli manca ogni altra esperienza benigna in grado di bilanciarla”.
AUTISMO

(autos = sé stesso) chiusura dei rapporti comunicativi col mondo esterno con conseguente ritiro in
sé stesso, nella propria vita interiore, autocentrica e dominata dalla propria soggettività..
Bleuer assorbimento totale nelle proprie esperienze interiori con conseguente
(1911) perdita di ogni interesse per la realtà esterna, le cose e gli altri.

pensiero autistico: produzioni endogene sogni ad occhi aperti


materiale derivato unicamente dal soggetto fantasie, deliri, allucinazioni

schizofrenia vs autismo infantile precoce Kanner 1943

ritira interesse al mondo non instaura

disturbi dello spettro autistico:


segni e sintomi deficit
interazione comunicazione
anaffettività sociale
disinteresse per gli stimoli visivo-uditivi interessi e comportamenti
ritardo del linguaggio limitati e ripetitivi
sviluppo motorio nella norma
mancanza dell’angoscia da estraneo/separazione disturbo dello spettro autistico
manierismi ritualistici, giochi di carattere ripetitivo ad “alto funzionamento” Asperger 1944
movimenti ritmici: rotolare, dondolare
resistenza ad ogni cambiamento

psicogenesi eziologia organogenesi

ambientale organica - autismo innato


a. acquisito + cure parentali inadeguate

Eisenberg Kanner
educazione autoassorbimento
rapporto diadico: inaccessibilità
comformismo solitudine
automatismi incapacità di relazione
“bambino perfetto” presenti fin dalla nascita

Bender / Rimland
reazione difensiva secondaria agenti infettivi, tossici
a una lesione organica del (farmaci / mercurio)
sistema nervoso centrale status immunologico

teoria della sotto-connettività:


R. Spitz / C.E. Goshen disturbo globale del cervello
carenza affettiva / assenza di stimolazione coordinazione-integrazione
(6°/ 18° mese) tra le sue parti ristretta
depressione anaclitica
ritardo affettivo-intellettuale

B. Bettelheim 1967 “La fortezza vuota” teoria dell’autismo preoperativo


radici psicologiche: libido investita blocco neurologico
sull’Io (narcisismo primario) allo stadio preoperativo
“madri frigorifero” dello sviluppo cognitivo
percezione da parte del bambino
dell’attitudine negativa con la
quale le figure significative del suo
ambiente gli si accostano:

ritiro autistico
LE TERAPIE PSICOLOGICHE

Esistono moltissimi tipi di trattamenti e terapie psicologiche: ci limiteremo a descrivere quelli più
importanti teoricamente e quelli più diffusi.

Una delle forme più antiche, è quella del trattamento ipnotico. Attraverso la suggestione ipnotica si
può indurre nel paziente una modificazione particolare dello stato di veglia (la trance ipnotica) e re-
stringere e polarizzare il suo campo d'attenzione. Le tecniche ipnotiche possono servire ad indurre
uno stato di rilassamento emotivo e muscolare, oppure possono aumentare l'accessibilità di ricordi
che in una condizione diversa non sarebbero recuperabili. Il recupero di questi ricordi può avere un
effetto liberatorio e risolutivo di stati nevrotici di tipo ansioso-fobico. Questa era la tecnica che ori-
ginariamente Freud utilizzava per averla appresa all'ospedale della Salpetrière a Parigi, alla Scuola di
Charcot. Freud però si accorse ben presto che gli effetti della catarsi, la liberazione dal sintomo in
seguito al recupero del ricordo traumatico, non erano stabili: in tempi più o meno lunghi si ripropo-
neva la necessità di sottoporre il paziente ad un altro ciclo di sedute. Freud intraprese quindi delle
modificazioni progressive della trattamento, individuando una strada completamente diversa: le “as-
sociazioni libere”.
Attualmente l'ipnosi è comunque una tecnica che risulta utile ed efficace in alcuni campi ben preci-
si. Un di essi è l'induzione al rilassamento. Tecniche di ipnosi e autoipnosi sono molto valide per
tollerare meglio situazioni di stress psico-fisico e per la preparazione al parto; un altro campo di
applicazione è quello dell'indifferenza al dolore e anestesia senza l'uso di farmaci potenzialmente
pericolosi. Recentemente nel campo delle medicine non tradizionali (o alternative) e della “cultura
new age” c'è stata una “riscoperta” dell'ipnosi, specie in Francia e negli Stati Uniti (per Milton
Erikson, ad esempio l'ipnosi è uno stato di alterazione mentale” presente un pò dappertutto: nei
sogni ad occhi aperti, nella lettura, nella contemplazione di un tramonto, ecc.); inoltre è stata propo-
sta l'associazione di tecniche ipnotiche e psicoterapie verbali interpretative, con un allargamento del
campo d'uso dell'ipnosi a patologie gravi come le psicosi.

La psicoterapia dinamica o psicoanalisi è adatta alla soluzione di problemi nevrotici o di natura


sessuale, di alcuni disturbi di personalità, dei disturbi dovuti all'abuso di sostanze, è meno indicata
per disturbi psicotici. Ha costi elevati: può durare diversi anni e prevede tre-quattro sedute settima-
nali. Frequenza delle sedute, pagamenti, orari sono regolati in modo rigoroso: le deviazioni dagli ac-
cordi prestabiliti (ritardi, dimenticanze, assenze) è considerata una resistenza alla terapia e diventa-
no oggetto di lavoro terapeutico. Visto l'impegno richiesto, il soggetto deve essere altamente moti-
vato e presentare caratteristiche di personalità idonee a sopportare il contratto terapeutico.
Nella terapia dinamica lo psicologo non ricorre in forma direttiva a strumenti pedagogici ma si offre
come stimolo per un lavoro di scavo e di comprensione di sé del paziente. Nel quadro di una relazio-
ne circoscritta nel tempo e nei contenuti, accade che il paziente tenda a comportarsi con il terapeuta
come si comporta con le altre persone significative della sua vita: può tendere, ad esempio, ad inna-
morarsi di lui o a sentirsi ingiustamente respinto o disprezzato. Il paziente in sostanza proietta sulla
figura del terapeuta qualcosa che appartiene alla sua vita affettiva (attuale e pregressa). Questo feno-
meno si chiama transfert, ed è costituito da tutti quei sentimenti (positivi o negativi, di odio o di
amore) che l'analizzato prova nei confronti del terapeuta e che rappresentano il trasferimento sul-
l'analista di relazioni sperimentate nel corso della propria vita (ad esempio, il paziente può provare
verso il terapeuta gli stessi sentimenti che provava verso il padre). Il transfert può quindi essere uti-
le per rielaborare tutto questo con l'aiuto del terapeuta. Per decidere che si tratta davvero di trans-
fert e non di una risposta a dei segnali del terapeuta (come accadrebbe, ad esempio, in un “normale”
innamoramento) è assolutamente necessario che lo psicologo sia neutrale (evitando di essere “sedut-
tivo” o respingente) e che il quadro delle sedute (il setting analitico) rimanga stabile in tutti i suoi
aspetti. Freud raccomanda la regola dello specchio: “il medico deve essere opaco per l'analizzato e,
come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato”. In caso contrario, senti-
menti, resistenze, conflitti interiori dell'analista influiscono negativamente sulla terapia alterandone
l'andamento. Ciò che va tenuto a bada è in particolare il controtransfert, cioè il vissuto globale del-
l'analista nei confronti del paziente, nel quale sono comprese anche le reazioni inconsce che il trans-
fert del paziente induce nell'analista.
La durata delle sedute deve quindi restare fissa (una seduta più lunga potrebbe far supporre un
particolare interesse, una seduta accorciata noia o rifiuto). L'ambiente delle sedute è bene che riman-
ga lo stesso. Non è opportuno che il terapeuta parli di sé, della propria vita e delle proprie idee. Per
ridurre le interferenze e facilitare la proiezione transferale il paziente viene posto in una posizione
non frontale rispetto all'analista, generalmente su un lettino o divano con il terapeuta alle spalle o
posto fuori dal campo visivo diretto.
Il paziente viene invitato all'inizio della terapia a dire liberamente tutto ciò che gli passa per la te-
sta (comporre delle “libere associazioni”), senza tentare di fare una selezione delle sole cose che gli
appaiono interessanti e senza censurare pensieri che gli appaiono bizzarri o disturbanti. La comuni-
cazione riguarda anche le impressioni, le fantasie, le emozioni e, in particolare, i sogni del paziente.
L'attività onirica è infatti ricca di contenuti nascosti (“latenti”) che attraverso l'interpretazione per-
mettono di capire quali sono i contenuti inconsci che entrano in conflitto con la coscienza del sog-
getto. Tutto il setting analitico deve d'altra parte favorire l'emergere di contenuti inconsci; in tal mo-
do il paziente può capire che alcuni (o molti) dei suoi pensieri ed emozioni nascono dal proprio in-
terno e non come “reazioni” a caratteristiche oggettive dell'ambiente che lo circonda, può meglio
comprendere l'origine dei propri sintomi e il significato profondo delle proprie reazioni emotive. In
questa scoperta di sé, il paziente è accompagnato dal lavoro interpretativo del terapeuta. Le inter-
pretazioni sono come dei (brevi) suggerimenti proposti intorno al significato e allo scopo di alcuni
processi mentali manifestatisi nel transfert.

Le psicoterapie brevi a orientamento psicodinamico mirano ad accelerare i tempi del trattamento,


principalmente attraverso un certo grado di “attività” interpretativa in più da parte del terapeuta;
fattore fondamentale di abbreviazione sembra essere quello di focalizzare le interpretazioni, nel
senso di tralasciare tutte le comunicazioni che non sono connesse con il problema principale del
paziente. I risultati - come guarigione dei sintomi - sono spesso soddisfacenti ma, sul piano della
crescita della conoscenza di sé, l'esperienza e la percezione finale è assai meno intima e accurata:
come se il paesaggio (interiore) fosse stato osservato non viaggiando a piedi o in bicicletta, bensì
spostandosi in treno o in aereo.

Tra le varianti e le derivazioni del metodo psicoanalitico, la più nota e importante è la tecnica di
analisi psicologica di derivazione junghiana. Nell'analisi psicologica cambiano alcuni aspetti del
setting (per esempio non si fa uso del lettino, il rapporto con il paziente è più informale, si fa un
utilizzo esteso delle libere associazioni mentali, ecc.) ma soprattutto mutano i sistemi di interpreta-
zione (legati ai concetti di persona ed ombra, ego e sé, anima e animus, senex e puer, ecc.).
L'analista junghiano utilizza uno schema di riferimento diverso, nel quale entrano non solo temi in-
consci individuali ma anche archetipi e temi sovra-individuali. Le interpretazioni sono generalmente
più numerose e articolate, la condotta dell'analista è tendenzialmente più pedagogica e direttiva di
quella dello psicoanalista freudiano.
Psicoterapia umanistica: la terapia “centrata sul cliente”

Il più noto esponente della psicologia umanistica (che comprende anche autori come Maslow e
Fromm) è Carl Rogers (1902 - 1987), il quale ha proposto, con la sua terapia centrata sul cliente,
un tipo di intervento finalizzato al potenziamento delle capacità dell'uomo e della promozione del
suo sviluppo ottimale (denominato “attualizzazione”). Secondo il modello teorico di Rogers i di-
sturbi psicologici derivano dalla incapacità di esprimere il proprio potenziale positivo. I problemi
nascono dal fatto che da bambini coloro che poi si sono ammalati hanno particolarmente patito le
esperienze di “affetto condizionato”: non erano apprezzati ed amati per quello che realmente erano,
non erano accettati, ma erano apprezzati e amati a patto e a condizione che si comportassero in un
determinato modo. Questo meccanismo di repressione degli aspetti autentici di sé per difendersi dal
rifiuto e dalla punizione sarebbe, secondo Rogers, la base di molti disturbi mentali.
La terapia centrata sul “cliente” è una occasione di apertura totale di sé e una esperienza di accetta-
zione incondizionata. Lo scopo è quello di portare ad una correzione della percezione di sé da par-
te del paziente, con un aumento della fiducia e dell'autostima, e ad una crescita complessiva della
realizzazione di sé. É una psicoterapia dalla durata generalmente breve, alcuni mesi o al massimo un
anno, ma di regola è comunque il paziente che decide la frequenza e la durata delle sedute, è sempre
lui che decide se parlare, ed eventualmente di quale argomento, oppure se restare in silenzio.
I fattori che consentono la costruzione di un “clima facilitante” sono essenzialmente tre:
1) il terapeuta rogersiano deve essere autentico, non deve nascondersi dietro una facciata di rigida
professionalità, non deve mascherarsi attraverso l'assunzione del ruolo di “esperto”;
2) deve creare un'atmosfera di accettazione comprensiva, riducendo al minimo l'utilizzo di inter-
pretazioni e lasciando “lavorare” il paziente nel suo percorso di rivalutazione ed espressione di sé.
Lo strumento utilizzato è il colloquio non-direttivo, all'interno del quale il terapeuta evita ogni at-
teggiamento valutativo, non pone domande investigative, non critica nè rassicura il paziente (mo-
strando un “interesse disinteressato”); i suoi sono interventi: a) di sintesi o parafrasi di ciò che il
paziente dice, per consentire al paziente di esplicitare meglio ciò che per lui era vago e confuso e per
introdurre una “punteggiatura nel caotico flusso verbale”; b) di “riflessione dei sentimenti”: il tera-
peuta cerca di palesare i sentimenti soggiacenti (ad es. il paziente dice: “Vi dico che detesto mio pa-
dre, lo odio!”, e il terapeuta: “Provare tali sentimenti vi tormenta”); interventi “a specchio”: il tera-
peuta fornisce semplici risposte-riflesso attraverso le quali possa eventualmente profilarsi una pro-
spettiva (ad es. il cliente dice: “Sono completamente scoraggiato e non ne posso più” , il terapeuta
osserva: “Avete fatto ogni sforzo di cui siete capace”).
3) la relazione tra terapeuta e paziente deve essere di tipo empatico. Egli deve sentire i vissuti del
paziente, farli propri, mettersi nei suoi panni. É però necessario che egli ne sappia anche uscire per
aiutare il soggetto ad elaborare le sue esperienze.

La Terapia della Gestalt possiede in comune con la psicologia umanistica un atteggiamento “oli-
stico”, cioè una concezione globale dell'uomo, intendendo la persona come un tutt'uno unico e inse-
parabile. Pertanto la terapia della Gestalt propone esercizi creativi ed espressivi della persona nella
sua globalità, piuttosto che concentrarsi su problematiche e conflitti. L'approccio generale della te-
rapia richiede al paziente di specificare i cambiamenti che egli desidera apportare in se stesso, lo as-
siste nell'accrescere la consapevolezza dei suoi atteggiamenti di evitamento che generano frustrazio-
ne, lo aiuta a sperimentare e a cambiare.
I concetti fondamentali della terapia gestaltica possono essere così riassunti:
1. tutta l'esistenza della persona si racchiude nel “qui ed ora”. Non ha senso la vita passata se non
come ricordo, come storia che ha condotto ad un presente, ed è il presente che attualizza i percorsi
vitali del soggetto. Anche il futuro rientra nel presente sotto forma di progettualità, di piani e di
prospettive;
2. l'esperienza è direttamente vissuta, sentita, senza bisogno di introdurre alcuna sorta di interpre-
tazione: è ciò che i clinici della Gestalt chiamano “consapevolezza” . Tale consapevolezza sponta-
nea è canalizzata dal terapeuta in direzione del cambiamento verso situazioni di vita più adattative;
3. ognuno è responsabile di quello che sente, pensa e fa: “riconoscere le responsabilità (..) è un mo-
do per stare meglio, un modo di guarire dalle nostre menzogne. Diventare consapevoli porta ad assu-
mersi delle responsabilità” (B. Simmons). Se il paziente esprime un “blocco”, il terapeuta lo invita
ad evitare di nascondersi per non vederlo; ciò conduce a una consapevolezza e ad un'assunzione di
responsabilità che rende poi possibile il cambiamento.

La Terapia Comportamentale

La Terapia Comportamentale si fonda sul modello del condizionamento classico od operante


(Pavlov, Skinner, Bandura). Il meccanismo di creazione dei sintomi sarebbe quello del condiziona-
mento e dell'apprendimento per associazione. Il trattamento comportamentale punta alla elimina-
zione dei sintomi facendo ricorso a tecniche di estinzione dell'associazione. Una delle più note ed
efficaci è la tecnica della desensibilizzazione sistematica (già incontrata a proposito delle nevrosi
fobiche). Fra le tecniche maggiormente utilizzate dai comportamentisti ricordiamo le tecniche del-
l'avversione che associano il comportamento indesiderato a stimoli dolorosi o disgustosi in modo da
estinguere le condotte inadeguate; queste terapie vengono praticate specialmente nei trattamenti
delle forme di dipendenza da tabacco, alcool, droghe. Nel caso del tabagismo, si tratta di far collegare
le sensazioni piacevoli che derivano dal fumo con effetti disgustosi che provocano una diminuzione
dell'attrazione: ad esempio, l'assunzione di sostanze emetiche (che producono il vomito), all'accen-
sione di una sigaretta provoca immediatamente nausea e disgusto: col ripetersi dell'esperienza si crea
un'associazione stabile, finche i comportamenti indesiderati si estinguono e cessa la dipenden-za. In
questo tipo di terapia, il terapeuta è direttivo: nelle prime sedute egli ha il compito di rilevare il
problema posto dal paziente, poi deve capire quali variabili ambientali hanno inciso sul comporta-
mento e sui pensieri. Nel colloquio, non si chiede tanto il perchè, quanto il come, quanto, in che mo-
do, arrivando a stilare una gerarchia di situazioni ritenute sgradevoli: questa lista sarà il programma
di lavoro.
Di solito la terapia comportamentale è di breve durata: dopo circa due tre mesi il terapeuta valuta
la possibilità di prolungarla a seconda dei risultati ottenuti. Tra gli strumenti specifici utilizzati:
l'immaginazione guidata (si aiuta il paziente ad immaginare una situazione da lui riconosciuta come
fonte di disagio), la registrazione fisiologica (attraverso una strumentazione tecnologica si
osservano le reazioni del soggetto a particolari stimoli), il role-playing (vera e propria simulazione,
in forma di recita, di una situazione sgradevole). In seguito all'utilizzo di tali tecniche, si avvia una
ristrutturazione cognitiva basata sull'interpretazione delle situazioni sperimentate.
La psicoterapia comportamentale è applicabile a soggetti che presentano disturbi di origine ansio-
sa, disturbi sessuali, depressione in soggetti adolescenti; è invece gereralmente sconsigliata per pato-
logie di tipo psicotico.

La Terapia Cognitiva

La Terapia Cognitiva parte dal presupposto che la causa dei disturbi mentali stia in una erronea
e distorta valutazione conscia della realtà esterna. Se l'origine dei disturbi è stata una distorsione co-
gnitiva e un difetto di elaborazione dell'informazione, l'intervento curativo proposto consiste nel-
l'indirizzare il paziente verso la correzione del proprio modo di ragionare.
Si tratta di un intervento psicologico svolto sul piano razionale, dalla esplorazione e riformulazione
dei giudizi dati dal paziente su di sé e sull'origine delle sue difficoltà. Scopo della terapia è quello di
rendere consapevole il paziente della disfunzionalità dei propri pensieri e dell'errata applicazione di
schemi mentali a delle specifiche situazioni.
Tra le distorsioni cognitive piòù frequenti: la generalizzazione (si estrapola una legge generale da
un episodio isolato: “sono stato lasciato” = “nessuno più mi amerà”), il pensiero dicotomico (cata-
logare gli eventi per estremi, senza posizioni intermedie: eventi personali suddivisi secondo la dico-
tomia fallimento / successo ), l'astrazione selettiva (si valuta la situazione considerando solo un det-
taglio del contesto, prescindendo dagli altri). Durante la psicoterapia, il terapeuta non spiega in mo-
do diretto che le sue argomentazioni derivano da pensieri distorti, ma fa piuttosto delle domande
particolari per far risaltare la disfunzionalità delle risposte; in questo modo al paziente viene poi via
via insegnato a riconoscere i propri pensieri disfunzionali. La terapia cognitiva è di breve durata
(dalle 12 alle 16 settimane): già dalla prima seduta paziente e terapeuta stabiliscono il termine della
terapia. Essa è molto strutturata, e il terapeuta è una figura attiva; non ha l'obiettivo della crescita
personale, infatti non è centrata sulla persona, bensì su uno specifico problema.

La Terapia Strategica

Il modello sistemico spiega l'insorgenza dei sintomi e dei disturbi mentali coe la conseguenza di una
distorsione delle comunicazioni all'interno della famiglia del paziente. Il paziente è in qualche modo
designato, è l'anello debole nella catena di rapporti patogena. Questa terapia, che si chiama terapia
strategica perchè utilizza una strategia di revisione e correzione delle comunicazioni familiari, è una
terapia familiare. Attraverso una ridefinizione del problema in termini sistemici e comunicativi, si
introduce una possibilità di cambiamento nelle relazioni tra famiglia e paziente.
La terapia familiare non è applicabile in tutti i casi, ma per alcune patologie che rappresentano del-
le situazioni di confine tra la nevrosi e la psicosi, come ad esempio l'anoressia mentale, sembra esse-
re l'unico trattamento valido e attivo. L'intervento curativo punta sull'allargamento del campo psi-
cologico, con il superamento dei limiti dell' individualità ed il chiarimento delle posizioni relazionali
all'interno della famiglia: l'attenzione del clinico è diretta sulla organizzazione interattiva che il siste-
ma familiare si è dato. É questo il dato di partenza che emerge all'inizio del trattamento.
Mara Selvini Palazzoli - passata a questo approccio dopo una lunga esperienza psicoanalitica - de-
finisce questo aspetto col termine di “gioco” familiare: il concetto di malattia è sostituito da quello
di “modalità relazionale insoddisfacente”, quello di “cura” è sostituito dal lavoro che il terapista fa
insieme alla famiglia per comprendere le modalità dell'organizzazione relazionale e cercare di cambi-
arle attraverso metodi originali e provocatori, spesso basati sul paradosso.
Dal punto di vista tecnico, il setting del terapeuta sistemico relazionale è un pò particolare. Gli in-
terventi sono normalmente contenuti in una decina di sedute di circa due ore l'una. É prevista la for-
mazione di un team composto dal terapeuta e da almeno un supervisore. L'ambiente in cui si effet-
tua la terapia è solitamente suddiviso da una parete in cui è collocato uno specchio unidirezionale
per l'osservazione diretta delle sedute. Il supervisore o il gruppo di supervisori si colloca al di là
dello specchio e assiste alla seduta, una postazione video registra l'intero incontro per consentire
una revisione. Naturalmente, in sede di primo colloquio, la famiglia viene avvisata della presenza del
gruppo di supervisione e della registrazione video delle sedute.
LE TERAPIE PSICOLOGICHE
rilassamento emotivo
Trattamento ipnotico trance ipnotica -> polarizzazione dellʼ attenzione -> catarsi
accessibilità dei ricordi (stati nevrotici)
Charcot - Freud

induzione di rilassamento (stress fisico, preparazione al parto)


associazione di tecniche ipnotiche e psicoterapie verbali (psicosi)

Psicoterapia dinamica o psicoanalisi

trattamento delle nevrosi -> scavo e comprensione di sé


terapeuta: atteggiamento neutro, “a specchio”

processo per cui un paziente sposta sul suo analista i sentimenti, le idee, ecc.
transfert che derivano da figure significative precedenti della sua vita, proiettandovi le
rappresentazioni oggettuali acquisite con precedenti introiezioni; in senso lato:
totalità degli atteggiamenti emozionali dellʼ analizzato nei confronti del terapeuta

positivo / negativo (amichevole / ostile)

proiezione di sentimenti , conflitti inconsci, desideri passati dellʼ analista sulla


controtransfert personalità del paziente, che non deve interferire con la comprensione e la
terapia (-> neutralità delle reazioni dellʼ analista alle emozioni del paziente)

durata fissa
stabilità del “setting” analitico ambiente costante
posizione non frontale

metodo delle associazioni libere: assenza di selezione e censura da parte del paziente
emergere dei contenuti inconsci connessi ai disturbi
comprensione e lavoro interpretativo

psicoterapie brevi psicodinamiche focalizzazione delle interpretazioni sul problema


principale del paziente: minore efficacia del trattamento

analisi psicologica junghiana setting + informale


archetipi e temi sovraindividuali
interpretazioni + numerose
condotta dellʼ analista + pedagogica e direttiva

psicoterapia umanistica considerazione unitaria (“olistica”) della persona


(Rogers, Maslow, Fromm) problemi derivanti dallʼ “affetto condizionato”
ripudio della propria natura da parte del paziente
e repressione degli aspetti autentici di sé

terapeuta - saggio, autentico (vs mascheramenti professionali)

a-valutatività
terapia: accettazione incondizionata, apertura totale -> empatia intervento a specchio
ambiente “facilitante” colloqio non direttivo sintesi - parafrasi
“riflettere i sentimenti”
correzione della percezione di sé - aumento dellʼ autostima

terapia della Gestalt atteggiamento olistico

1. “qui ed ora” (presente che attualizza i percorsi vitali del soggetto)


2. “consapevolezza” (esperienza vissuta e sentita, senza “interpretazione”)
3. “responsabilità” ( guarire dalle menzogne, superamento dei “blocchi”)
LA TERAPIA COMPORTAMENTALE

condizionamento classico / operante: Pavlov, Skinner, Bandura (modeling)

apprendimento per associazione > creazione dei sintomi

manipolazione strategica dei fattori ambientali


tecniche di estinzione dellʼassociazione

a) desensibilizzazione sistematica (es. nevrosi fobiche)


(associazione stimolo fobico - stimolo rilassante) eliminazione del sintomo

b) terapie “aversive” (trattamenti delle forme di dipendenza da tabacco, alcool, droghe)


(associazione sensazioni piacevoli - effetto sgradevole)
immaginazione guidata
c) condizionamento operante: utilizzo a scopi terapeutici del rinforzo registrazione fisiologica
role-playing
d) modeling -> modellamento del comportamento attraverso lʼimitazione

LA TERAPIA COGNITIVA
generalizzazione
causa del disturbo => erronea valutazione conscia della realtà pensiero dicotomico
(vs interpretazione psicoanalitica) astrazione selettiva
intervento curativo

difetto di elaborazione correzione del proprio modo di ragionare


dellʼ informazione esplorazione e riformulazione dei giudizi

LA TERAPIA STRATEGICA

disturbi mentali: conseguenza delle patologie comunicative presenti nel ʻsistemaʼ familiare del paziente

paziente => anello debole nella catena di rapporti patogena

intervento curativo allargamento del campo psicologico


(superamento dei limiti dellʼindividualità)

servizi per lʼetà evolutiva / disturbi adolescenziali (anoressia mentale)

strategia di revisione e correzione delle comunicazioni intrafamiliari => terapia familiare

modalità relazionale vs malattia


insoddisfacente individuazione del
“gioco familiare”
retroazioni del vs diagnosi
sistema familiare

setting:

dieci sedute di due ore

team: terapeuta e supervisore/ i

ambiente con specchio unidirezionale

dialogo e interventi ʻprovocatoriʼ del terapeuta


nei confronti del gruppo familiare riunito

registrazione e studio delle


modalità di intervento
PSICOLOGIA SOCIALE
La psicologia sociale non ha un oggetto molto ben definito; anche se forma un’area autonoma per
inquadramento disciplinare e posizione istituzionale, dire di che cosa si occupa non è così facile co-
me per altre branche della psicologia. In linea di massima studia la psicologia dentro la vita sociale,
cioè pensieri, sentimenti, comportamenti delle persone nel vivo dei rapporti con gli altri e della so-
cietà. Più specificamente prende in esame le influenze sociali sul funzionamento psichico (i condi-
zionamenti dovuti alle esigenze pratiche della vita sociale, gli effetti delle pressioni cui si è esposti,
ecc.), i comportamenti sociali (essenzialmente le interazioni, le relazioni e tutte le azioni che hanno
peso sociale) e il monitoraggio della vita sociale, cioè l’attività con cui le persone vigilano su ciò che
accade e attraverso cui regolano, di conseguenza, la condotta.
Anche se nessuno dubita del fatto che l’oggetto è la psicologia nella vita sociale, c’è disaccordo su
come intendere esattamente la cosa e come impostare lo studio. Per alcuni vale l’individualismo me-
todologico e l’unità di analisi è l’individuo, mentre altri, nella linea del collettivismo metodologico,
sostengono che vanno presi in considerazione per quello che sono i fenomeni psicologici di gruppo
e collettivi che trascendono il singolo. C’è chi è interessato soprattutto ai meccanismi e mira a ela-
borare modelli psichici di valore generale e chi guarda alle idee che circolano nella società e alle realtà
storico-sociali, pensando a tracciare quasi un ritratto della vita nell’occidente di oggi o comunque
cercando un inquadramento storico-antropologico.
In ultima analisi, gli psicologi sociali, prescindendo solitamente da interessi applicativi in settori
specifici (come la clinica, il lavoro, l’educazione) e mirando più che altro a finalità legate al migliora-
mento delle condizioni di vita dell’uomo, si dedicano ad alcuni temi che per tradizione riconoscono
come propri: i gruppi, l’influenza sociale, i fenomeni di conformità, le posizioni individuali e di
gruppo, l’attrazione interpersonale, l’altruismo, l’aggressività, la comunicazione, la relazione inter-
personale, il sé, la conoscenza della realtà sociale.

LA CONOSCENZA DELLA REALTÀ SOCIALE

Lo studio di come le persone percepiscono l’esperienza quotidiana è forse oggi il tema principale
della psicologia sociale; il tema della conoscenza della realtà sociale ha assunto importanza soprat-
tutto perchè in linea con l’idea, propria della psicologia sociale, che gli individui cercano di controlla-
re la vita sociale e che ciò che fanno si capisce solo a partire da come vedono le cose.
Nel settore della conoscenza della realtà sociale ci sono tre filoni, tra loro complementari, che ana-
lizzano aspetti diversi dello stesso fenomeno. Il filone della social cognition, che è quello dominante
nella ricerca statunitense, studia i meccanismi generali con cui gli individui si costruiscono una visio-
ne della realtà sociale elaborando i dati dell’esperienza. Il filone europeo delle rappresentazioni so-
ciali è interessato alle concezioni che circolano nella società e penetrano nel senso comune, mentre
quello delle attribuzioni (nato negli Stati Uniti, ma diffuso in Europa) mira a ricostruire i ragiona-
menti con cui le persone si spiegano i fatti della vita sociale.

La Social Cognition

La Social cognition è l’attività mentale con cui l’individuo elabora i dati dell’esperienza e si forma
la sua visione della realtà sociale. I processi di base sono quelli di qualsiasi attività cognitiva, ma la
mente risente del fatto di trovarsi a operare nel mezzo della vita sociale.
Uno dei contributi più significativi del filone della social cognition è lo studio dei biases (bias =
inclinazione, tendenza distorsiva, pregiudizio). Qualsiasi attività cognitiva presenta tendenze distor-
sive, ma il fenomeno si accentua nel caso della conoscenzadella realtà sociale, perchè ai fattori co-
gnitivi di distorsione si aggiungono i sociali. Contano owiamente le parzialità di giudizio (legate agli
interessi e alle esigenze dell'individuo), ma anche il bisogno di coerenza, di mantenere una visione
chiara e ordinata delle cose, che non minacci il nostro senso di sicurezzae stabilita, ele influenze del
contesto socio-culturale. Pero la causa di biases cui si dà oggi piu importanza èl'eurìstíca cognítíva;
con questo termine si fa riferimento al complesso di espedienti adoperati nella conosceru;a della real-
ta sociale (eurìskein: trovare, vuol dire tecnica, metodologia della scoperta).
L'individuo normalmente ha da elaborare un gîan numero di input mutevoli (problema della com-
plessità), è costretto a prendere posizione in tempi brevi Qtroblema dela prontezza) e dispone di ri-
sorse limitate (problema dell'economia cognitiva),per cui si affida a strategie euristiche, espedienti,
scorciatoie per trarre conclusioni senza ricorrere ad analisi approfondite. Le euristiche mediamente
ftrnzionano, ma espongono al rischio di errori.
Il fatto che la social cognition sia soggetta a biases dice che le persone difficilmente sono obiettive.
Cio che comunemente giudichiamo assodato, oggettivo e scontato è di regola solo ciò su cui c'è con-
senso, ma anche la ricerca e la costruzione di consenso sono processi che vanno incontro a distorsio-
ni: la psicologia sociale tenta di sensibilizzarele persone al problema dell'obiettiviti suggerendo
strategie correttive e incrementando I' autocontrollo.
Altro problema che emerge dagli studi di social cognition è quello della"cecità sociale"'.la nostra
conoscenza della realtà sociale lascia in ombra molte cose e mostra i suoi limiti in situazioni partico-
lari, dove, per la posta in gioco e le decisioni da prendere, sarebbe necessario andare piu a fondo.

di attenzione di attribuzione di conoscenza


intergruppo

accentuazione effore fondamentale


arricchimento effetto sé-altro stereotipi distorti
composizione self-serving-bias pregiudizi distorti
correlazione illusoria group-serving bias
autoconvalida

Biases di attenzione: I'effetto priming. Ci sono input per noi salienti, che hanno piu probabilità
di attirare l'attenzione, passare il filtro della selezione, ed essere elaborati. Il fenomeno per cui deter-
minati stimoli mettono in moto i processi cognitivi si chiama ffitto primrng (innesco). Ad alcuni
stimoli tendiamo a rispondere per predisposizioni naturali. Gli etologi parlano di releasers, stimoli-
chiave che producono risposte prestabilite di tipo adattativo e evolutivo. Un esempio di priming su
basi naturali è quello dei trafii infantili, che richiamanol'altenzione e evocano tenerezza.

figura: prim

O-
\_ / \r_ /

da B. Húckstedl, Z, exp. angew Psychol-.


1 965

Fig, 1. Príming deilo schemd intanti,e. La tipica testa infantile è grande, con fronte bombala e viso piccolo trian-
golare, B. Húckstedt (1965) ha sottoposto a &j0 soggetti di enlrambí i sessi e di diversa eÉ i due profili di bambini.
Ouello di destra risuhava decisamente preferito e attirava maggiorrÉíte I'atlenzione. [.6 faltezze iniantili, oltre che
dalla lipica confórmazione del cranio, sono caratterizate dal fatto che il capo è grande rispetto al corpo e gli arti sono
tozzi e corti. Qui, Quo, Oua sono perfetti p€r attirare l'attenzione e inteflerire. Topolino è stalo miglioraio n6gli anni.
PSICOLOGIA SOCIALE

1. definizione di sapere
metodologia

social cognition biases / obiettività / cecità sociale


conoscenza della
realtà sociale rappresentazioni sociali processo di formazione

attribuzioni bersagli / attributi biases sociali


di attribuzione

filosofia (Descartes / Hume / James)


2. psicologia generale (sé fenomenico / inferito)
psicoanalisi (Hartmann - Kohut) concetto di sé
autostima
sé concettuali identità psicosociale
il sé psicologia sociale coscienza di sé immagini di sé

mentale agente
sé sociale in rapporto con gli altri
mutevole / continuo
portatore di valori

3. opinioni processo di formazione nucleo dichiarativo / quadro razionale


posizioni
individuali atteggiamenti comportamenti e atteggiamenti (questionario di Likert)

valori finali / strumentali (Klukhohn / Rokeach)

stereotipi auto / eterostereotipo / st. attribuito


conoscenze
intergruppo distanza sociale contatto / autorivelazione / coinvolgimento / prossimità

pregiudizi

4. attrazione interpersonale condizioni di efficacia


comportamenti il senso di giustizia caratteristiche
e fenomeni sociali le relazioni profonde processo di formazione
dinamiche strutturali vicoli ciechi

l’ altruismo decisione altruistica (processo)

i gruppi i sociogrammi / la leadership


PSICOLOGIA SOCIALE

pensieri, sentimenti, comportamenti delle persone nella vita di relazione

1. Influenze sociali sul funzionamento psichico => esigenze pratiche della vita sociale
pressioni persuasive
2. Comportamenti sociali => interazioni, relazioni, azioni sociali

3. Monitoraggio della vita sociale => vigilanza e regolazione della condotta

individualismo modelli psichici di


valore universale -> universali

metodologia

collettivismo inquadramento
storico-antropologico

la conoscenza della realtà sociale

a) “SOCIAL COGNITION” meccanismi generali per la costruzione-elaborazione


della visione della realtà attraverso lʼ esperienza

b) RAPPRESENTAZIONI concezioni circolanti nella società e nel senso comune


SOCIALI che orientano nella comprensione della realtà

c) ATTRIBUZIONI ragionamenti sui fatti sociali che fanno uso di attributi


ascritti a vari ʻbersagliʼ personali e impersonali

BIASES
tendenze distorsive 1. parzialità di giudizio ( interessi ed esigenze personali )

2. bisogno di coerenza ( visione ordinata -> sicurezza personale)


cognitivi sociali
3. pressioni del contesto socio-culturale

4. euristica cognitiva complessità

di attenzione problema della prontezza

di sapere 5. “cecità sociale” economia cognitiva


(scorciatoie ed espedienti)

RAPPRESENTAZIONI
POSIZIONI SOCIALI CONCEZIONI
INDIVIDUALI SPECIALISTICHE
opinioni concezioni diffuse nel senso comune e teorie scientifiche
atteggiamenti maturate in ambiti specifici o specialistici dottrine religiose
I biases di sapere

L’uso del sapere comporta distorsioni (biases) di vario genere. Stando immersi poi nella vita socia-
le, i biases di sapere, come quelli di attenzione, si accentuano. Al momento di riconoscere uno sti-
molo, possono sorgere problemi di categorizzazione, cioè di individuazione della categoria alla quale
l’oggetto percepito appartiene. Può quindi accadere, con i biases di accentuazione, che tendiamo ad
esagerare le differenze tra esemplari di diverse categorie o a minimizzare quelli tra gli appartenenti
ad una stessa categoria. Ad esempio, se un alunno, per ragioni extrascolastiche (interessi comuni,
simpatie o altro), si intende e lega con certi compagni, i docenti corrono il rischio di attribuirgli carat-
teristiche di quel gruppo (la scarsa partecipazione scolastica, il disimpegno, il basso rendimento) che
magari non ha.

I biases di arricchimento ci portano più che altro a attribuire agli input significati che generalmente
ci sono, ma nel caso specifico sono errati. Ad esempio, se leggiamo:

il mercante di stoffe disse allo zar: “Sono onorato della vostra visita,
ma devo pregarvi di non prendere in mano quello che vi farò vedere”.

In assenza di informazioni di contorno pensiamo si stia parlando di stoffe. Quando scopriamo che
il mercante di stoffe in questione era Anthony Van Leeuwenhoek, grande microscopista olandese del
XVII secolo, capiamo che non si tratta di stoffe, ma di microscopi e preparati microscopici.

I biases di integrazione possono consistere in una perdita di informazione: tratteniamo il senso


che abbiamo afferrato e lasciamo cadere molti dettagli, alcuni dei quali in realtà significativi.

Operiamo invece una composizione quando prendiamo pezzi da scene, discorsi, circostanze diver-
se, e li unifichiamo come se si fossero presentati tutti assieme, dando loro un senso unitario che al-
l’origine non possiedono

Con la correlazione illusoria gettiamo ponti tra elementi in maniera arbitraria. Sovrastimiamo l’as-
sociazione tra due variabili, dandole un valore significativo che di fatto non ha. Ad esempio, per ef-
fetto di uno stereotipo diffuso, vediamo degli zingari in giro, poco dopo sentamo raccontare che ci
sono stati dei furti e pensiamo che gli zingari hanno rubato.

Un altro bias di sapere di grande rilievo, per le implicazioni che ha nel senso comune, nelle ideolo-
gie e nelle forme di pregiudizio, è l’autoconvalida. Una volta che ci siamo fatti un’idea sulle cose,
tendiamo a conservarla a dispetto delle prove contrarie. Quando ci siamo fatti una visione, infatti,
raccogliamo selettivamente dati che la confermano. L’assunzione selettiva di informazioni è in gran
parte legata al fatto che l’attenzione è guidata dall’alto e che la lettura dei dati è condizionata dagli
schemi che impieghiamo.
BIASES COGNITIVI DI SAPERE

accentuazione sovrastima intercategoriale


1. Categorizzazione sottostima intracategoriale

effetto prototipo esemplari periferici in linea


con i prototipi

2. Arricchimento attribuzione agli input di significati generalmente corretti


ma nel caso specifico errati (automatismo inferenziale)

Integrazione - > perdita di informazione -> cadono i dettagli


3.
Composizione si unificano pezzi
di scene diverse

4. Correlazione illusoria sovrastima arbitraria del -


lʼ associazione tra due variabili

5. Autoconvalida conservazione di unʼ idea pregressa


a dispetto delle prove contrarie

relega in un recinzione introduzione di un


campo inattivo fattore perturbante

ammissione dei dati contrari limitazione dellʼ ambito teoria di partenza valida
ma valutati non pertinenti di esperienza nel quale disturbata da una
la nostra idea è valida interferenza importante

BIASES

COGNITIVI SOCIALI

di attenzione di sapere di attribuzione di conoscenza


intergruppo
categorizzazione errore fondamentale
arricchimento effetto sé-altro stereotipi distorti
effetto priming composizione self-serving biases pregiudizi distorti
correlazione ill. group-serving biases
autoconvalida
Le rappresentazioni sociali
Il senso comune contiene un gran numero di rappresentazioni sociali, concezioni belle e fatte cui
rifarsi, che adoperiamo ogni giorno per interpretare le cose. E stato S. Moscovici ad awiare ilfilone
delle rappresentazioni sociali negli anni '50, col suo studio sulla psicoanalisi.
Le rappresentazionisociali sono versioni di senso comune di concezioni maturate in ambiti specia-
listici (scientifici, ideologici, religiosi, ecc.), che riguardano specifici oggetti e guidano nella compren-
sione della realtà e nei comportamenti quotidiani. Si trovano a meta strada tra le posizioni individua-
li (opinioni, atteggiamenti, valori) e le concezioni specialistiche da cui derivano (teorie scientifiche,
Aottrine religiose, ideologie, miti). Non vanno confuse con le posizioni individuali, perchè piu elabo-
rate concettualmente e perchè non legate al singolo, ma a collettività, aruitipiche di determinate cul-
ture e società. D'altraparte sono diverse dalle teorie scientifiche e dalte altre concezioni specialisti-
che, perchè, pur essendo anch'esse collettive, sono meno astratte e sistematiche e, anziché essere
stabili, vanno incontro a continue trasformazioni.
Una concezionespecialistica, dopo la diffusione nel senso comune, va incontro ad un processo di
trasformazione, che la porta ad essere più tangibile e calata nella coscienza quotidiana: intomo ad un
nucleofigurativo, che è quanto resta della concezione originaria, sedimenta un alone di riferimenti ad
esempi, nozioni, faltqgqblelqi4t1l4 Yi14g! ti diana

Processo di trasform azione del sapere che genera una rappresentazione sociale.
Gli studiosi di rappresentazioni sociali distinguono due operazioni fondamentali di trasformazione.
Per oggettivazione si intende il processo con cui il sapere lontano dall'uomo comune e astratto viene
Íadotto in qualcosa di concreto, familiare e padroneggiabile. Consiste in una schematizzazione (11sa-
pere di parteruaviene semplificato,lasciando cadere molte nozioni, decontestualizzato, staccato
dall'entroterra di conoscenze in cui è inserito, e tradotto in un modello elementare) e in una natura-
lizzazione (gli elementi del modello non sono più considerati concetti, ma entità reali, persone o co-
se). Ad esempio, della teoria psicoanalitica si perdono tante nozioni, alcune perchè poco accessibili,
altre perchè intbarazzanti o troppo complesse per l'uomo comune. Col termine ancoraggio si inten-
de l'operazione che integra e fissa la rappresentazione nel pensiero e nella vita quotidiana.La nuova
conoscenza viene messa a confronto con le precedenti e, attraverso aggiustamenti, incorporata nel
sistema di pensiero della gente. Ad esempio, si è cominciato a adoperare il modello psicoanalitico
come chiave interpretativa per i fatti della vita quotidiana (i lapsus, il simbolismo dei sogni, ecc.) e si
è data alla psicoanalisi una generica connotazione (portatrice di libertà sessuale, roba da ricchi, sfizio
da intellettuali, ecc.).
LE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI

versioni di senso comune di concezioni maturate in ambiti specialistici


(scientifici, ideologici, religiosi)che riguardano specifici oggetti e guidano
nella comprensione della realtà e nei comportamenti quotidiani.

posizioni rappresentazioni concezioni


individuali sociali specialistiche

opinioni teorie scientifiche


atteggiamenti dottrine religiose
valori ideologie

+ elaborate concettualmente
legate alla collettività

meno astratte e sistematiche


meno stabili

processo di trasformazione del sapere che genera una rappresentazione sociale

FONTE SENSO COMUNE

ambito ristretto largo pubblico

scienze - ideologie
miti - religioni

sapere specifico rappresentazione


sociale
diffusione trasformazione

oggettivazione ancoraggio

la conoscenza è resa la conoscenza è calata


tangibile e alla portata nel pensiero e nella
dellʼ uomo comune vita quotidiana

schematizzazione naturalizzazione

il sapere è tradotto in gli elementi concettuali


modello elementare diventano entità personificate

semplificazione
Le attribuzioni

Fritz Heider, esponente della psicologia sociale del dopoguerra, ha gettato le basi teoriche degli stu-
di sulle attribuzioni, cioè sui ragionamenti con cui le persone spiegano i fatti sociali e ascrivono a
bersagli personali e e impersonali diversi tipi di attributi (cause, intenzioni, stati interni, tratti perso-
nali, responsabilità, scusanti, effetti, significati).
Che cosa sono. L’attribuzione è un’operazione mentale con cui una data proprietà viene assegnata
a qualcosa o a qualcuno. Ad esempio, dire che Pietro è irascibile significa attribuirgli questa disposi-
zione interiore, sostenere che il vento ha rotto il vetro vuol dire attribuire a quell’agente atmosferico
la qualità di causa del danno. In ogni attribuzione ci sono un attibuto, che è la proprietà presa in
considerazione, e un bersaglio, ciò a cui si attacca l’attributo.
Come si presentano. Molti messaggi, sia nella comunicazione faccia a faccia, sia attraverso i me-
dia, contengono attribuzioni. In quale forma si presentano? A volte le attribuzioni sono esplicite, e
vengono espresse verbalmente o con segnali non verbali (es. dire all’altro “Sei matto”, oppure pic-
chiettarsi sulla tempia fissandolo). Altre volte sono tacite: le si deve cercare andando a interpretare i
significati latenti dei comportamenti (ad es. davanti a un professore che ci tratta freddamente, pos-
siamo pensare che ci attribuisce scarse capacità e poche possibilità di successo).
A differenza delle esplicite, le attribuzioni tacite sono incerte: le ricaviamo ragionando su quello
che gli altri dicono e fanno, ma nessuno le ha dette ed è possibile che ci si sbagli. Anche quando sono
esplicite, raramente le attribuzioni sono complete, cioè enunciate compiutamente in ogni parte. Nel-
l’esempio sopracitato del vento, si potrebbe dire: “scherzi del vento”: per essere afferrate le attribu-
zioni incomplete richiedono passaggi mentali, possibili se si conoscono certe presupposizioni, cioè
se si hanno conoscenze in comune, date per scontate.
Le persone non si dedicano costantemente a spiegare le cose, ma solo in presenza di condizioni-sti-
molo, caratterizzate da imprevisti, obiettivi mancati, stati di incertezza, incongruenze o particolari
esigenze (mettersi in mostra, sostenere una tesi, ecc.). In queste situazioni i discorsi sono carichi di
attribuzioni. Nell’ambito delle attribuzioni causali, a partire da Heider si distinguono attribuzioni
interne, riferite al soggetto agente (di solito alle capacità o all’impegno), e attribuzioni esterne, riferi-
te all’ambiente (per lo più alla sorte o alle circostanze). Nelle attribuzioni causali siamo soggetti a
biases di vario genere. Il cosiddetto errore fondamentale (tipico di noi occidentali) ci porta a dare
più importanza ai fattori individuali (come la responsabilità personale, l’impegno, l’intenzionalità) e
a sottovalutare le influenze ambientali esterne. Per l’effetto sé-altro preferiamo le attribuzioni ester-
ne quando si tratta di spiegare le nostre azioni e le interne nel caso delle azioni altrui (ad es. “l’altro
è stato volutamente sgarbato; noi eravamo in ritardo e non potevamo fermarci a salutare”). I self-
serving biases e i group-serving biases intervengono quando si tratta di spiegare i successi e gli in-
successi e conducono a favoritismi nei riguardi propri e del proprio gruppo. Ci sono poi biases
legati a visioni preconcette, come quelli che intervengono nella spiegazione dei successi degli uomini
e delle donne, che risentono degli stereotipi maschili e femminili

cause c’era poca gente per via dello sciopero dei treni
intenzioni stavo scherzando
stati interiori ho l’impressione che tu sia dispiaciuto
attribuzioni di tratti personali è uno che se la prende
responsabilità con la tua flemma siamo arrivati in ritardo
scusanti non l’ho comprato, i prezzi erano proibitivi
effetti questa siccità sarà un guaio per gli agricoltori

Classificazione delle attribuzioni in base all’attributo


ESEMPI

autoattribuzioni "sono stanco"

agli altri
"colpa tua"

naturali "non ho dormito per il temporale"

impersonali
sforico-sociali 'ola comrzione dipende dal sistema"

classificazione delle attribuzioni in base al bersagfio.

PERCHÉIL COMPITO ÈANOETO À{ALE?

non riesce proprio nei è capitato un argomento


componimenti brevi spiegato mentre efa assente
si è distrano si sentiva poco bene

INTERNE ESTERNE

capacità impegno sorte circostanze

AT-TRIBUZIONI CAUSALI

Classificazione di Heider delle attribuzioni causali.


ATTRIBUZIONI

operazione mentale con cui una data proprietà ATTRIBUTO

viene assegnata a qualcosa o a qualcuno cause

intenzioni
BERSAGLIO
stati interiori

attribuzioni a tratti personali

responsabilità
persone entità
impersonali scusanti

effetti
a sè agli altri naturali storico-sociali
auto-attribuzioni. eteroattribuzioni

interne soggetto agente-capacità-impegno


attribuzioni

esterne ambiente-sorte-circostanze

BIASES SOCIALI DI ATTRIBUZIONE

errore fondamentale sopravvalutazione dei fattori individuali-interni

sottovalutazione dei fattori ambientali-esterni

effetto sè-altro NOI attribuzioni esterne

ALTRI attribuzioni interne

self-serving biases successi autoattribuzione (merito)

personali

group-serving biases fallimenti eteroattribuzione (circostanze)


attribuzioni esterne

esplicite complete/ incomplete


attribuzioni

tacite/ implicite significati latenti


LE ATTRIBUZIONI

operazione mentale con cui una data proprietà ATTRIBUTO


viene assegnata a qualcosa o a qualcuno
“il soggetto interpreta le proprie esperienze cause
individuando 1 o + cause che ne rendano ragione”
intenzioni
BERSAGLIO
stati interiori

attribuzioni a tratti personali

r esponsabilità
persone entità
impersonali scusanti

effetti
a sè agli altri naturali storico-sociali
auto-attribuzioni. eteroattribuzioni

interne soggetto agente - capacità - impegno


attribuzioni

Heider esterne ambiente - sorte - circostanze

individui “interni” vs “esterni”


Rotter stili di attribuzione diverso “locus of control”

BIASES SOCIALI DI ATTRIBUZIONE

errore fondamentale sopravvalutazione dei fattori individuali-interni

sottovalutazione dei fattori ambientali-esterni

effetto sè-altro NOI attribuzioni esterne

ALTRI attribuzioni interne

self-serving biases successi autoattribuzione (merito)


personali
group-serving biases fallimenti eteroattribuzione (circostanze)
attribuzioni esterne

carattere interno/esterno

Modello di Wiener processi di attribuzione 3 parametri stabilità

controllabile controllabilità
stabile stabile
incontrollabile
interna esterna
controllabile
instabile instabile
incontrollabile
Il SÉ: psicologia filosofica, psicologia generale, psicoanalisi
Il termine “sé” viene usato nell’ambito psicologico e psicoanalitico per indicare - con significati
diversi e prospettive a volte contrastanti - il nucleo centrale dell’identità personale, talvolta accen-
tuandone il valore di realtà oggettiva e impersonale, in altri casi quello di realtà soggettiva ed espe-
rienziale. Nella tradizione filosofica occidentale il termine viene assunto principalmente per testimo-
niare l’alterità dell’anima rispetto al corpo da tutta la tradizione spiritualistica ed in particolare da
René Descartes, il quale chiama “res cogitans” (sostanza pensante) un ‘io” immateriale che esiste
e pen-sa, e che può essere conosciuto senza possibilità di errore. David Hume ritiene invece che ciò
di cui si può essere coscienti non costituisce un’idea di sé, e che la mente (o sé) non è altro che un
aggregato di differenti percezioni.
La nozione di sé fa la sua comparsa all’interno della “psicologia scientifica” con William James,
il quale parlò di tre costituenti del sé: il sé materiale che deriva dalla coscienza del proprio corpo,
del proprio ambiente e dei propri beni; il sé sociale costituito da una parte delle percezioni o imma-
gini che ciascuno presume gli altri abbiano di lui, e dall’altra dalle norme e dai valori sociali che fanno
parte della visione comune del mondo; il sé spirituale che è l’autoconsapevolezza che ciascuno ha
di sé e della propria esistenza. C. H. Cooley lasciò cadere le distinzioni di James e sostenne che il
sé è sempre sociale, ricavato dalle informazioni rimandate dagli altri, come specchiandosi in loro: un
“sé riflesso” (looking glass self).
Da allora le ricerche sul concetto di sé si sono sviluppate nella direzione di un possibile approccio
allo studio dell’integrazione personale, e in questo senso il sé viene percepito come: 1) agente delle
proprie azioni a partire da quelle corporee, accompagnate dal vissuto che ciò che riguarda il corpo ri-
guarda me; 2) continuo, dove la continuità è garantita dai ricordi che hanno una collocazione precisa
nel passato personale in cui è rintracciabile un’identità al di sotto delle mutazioni; 3) in rapporto
agli altri, i cui comportamenti di accettazione o di rifiuto incidono sul concetto di sé; 4) come por-
tatore di valori in base ai quali si costruisce un sé ideale che rappresenta ciò che una persona vorreb-
be realizzare.
All’interno della Psicologia Generale oggi il termine sé (self) viene utilizzato principalmente in due
diverse accezioni: il sé fenomenico viene riferito all’esperienza di sé dell’individuo consapevole che
si riconosce come nucleo permanente e continuativo nel corso dei molteplici cambiamenti somatici e
psichici che caratterizzano la sua esistenza; il concetto di sé inferito indica invece la struttura della
personalità che rappresenta il nucleo in cui si formano decisioni, programmi, processi di difesa
comprensibili da un osservatore esterno.
Nell’ambito psicoanalitico la nozione di sé è stata utilizzata, tra gli altri, da Hartmann, il quale
concepisce il sé come “io nella forma riflessa”, cioé come un’immagine o specchio che dà luogo a
delle rappresentazioni nelle quali l’individuo si riconosce, assolvendo ad una funzione prevalente-
mente intrapsichica; da Kohut, che concepisce il sé come sistema organizzato di ricordi, indicati
comunemente come rappresentazioni di sé, che esercita un’influenza dinamica sul comportamento;
si tratta secondo Kohut di un’istanza autonoma presente fin dalla nascita, che può già essere inferi-
ta dalla madre nel corso delle prime interazioni.

Il Sé: la Psicologia Sociale


La psicologia sociale si accosta allo studio del sé con presupposti teorici particolari, mutuati in
parte dall’interazionismo simbolico, in parte dal cognitivismo: lontano quindi dalle psicologie del sé
di matrice psicoanalitica o umanistico-esistenziale. Per gli psicologi sociali la natura del sé è mentale,
sociale e mutevole. Il sé di un individuo è semplicemente la conoscenza che ha di sé, quella parte
della sua conoscenza che vede lui per oggetto. Non si tratta di qualcosa che abbiamo dentro, una
specie di persona nella persona (un nocciolo consistente puramente individuale), ma di un prodotto
della mente. Il sé non nasce in privato, non è una conoscenza che elaboriamo nell’intimità della co-
scienza, ma stando con gli altri, nel corso dell’esperienza sociale. Sebbene sembri che il sé resti fisso,
in realtà cambia continuamente. La sua apparente stabilità è il risultato di un lavoro costante di con-
servazione e ripristino che controbilancia i rinnovamenti.
La concezione del sé della psicologia sociale, incentrata sulla sua natura sociale, diverge dunque dal-
l’asse della filosofia moderna che da Cartesio ha insistito sulla coscienza individuale e sul rapporto
introspettivo del soggetto con se stesso, ed è invece in linea con posizioni della filosofia contempo-
ranea (come l’esistenzialismo, il pragmatismo e l’interazionismo simbolico), per cui la persona, an-
zichè autorelazione, è eterorelazione e si definisce nel rapporto col mondo e con gli altri.
Le ricerche di psicologia sociale portano a distinguere alcuni tipi di conoscenza di sé diversi per
grado di astrazione e organizzazione. La Coscienza di sé è la semplice consapevolezza di esserci sia
come a) centro d’ azione (sé soggetto), sia come b) presenza nel mondo (sé oggetto), sia come
c) essere unico (sé unico). Sulla coscienza di sé si stratificano i sé contingenti che sono impressioni
frammentarie sul proprio conto e i sé concettuali, elaborati, strutturati e inseriti in una visione orga-
nica più ampia. Tra i sé concettuali si distinguono il concetto di sé, descrittivo-esplicativo, l’autosti-
ma in cui prevale l’aspetto valutativo, e l’identità psicosociale, che fa da nucleo stabile della
conoscenza di sé.
a) Il concetto di sé è formato da attributi personali (qualità individuali, modelli interni di funziona-
mento, standard personali di comportamento, status sociali, posizioni rispetto a standard di riferi-
mento) inseriti in una rappresentazione organica, che adoperiamo sia per descriverci, sia per spiega-
re i fatti della nostra vita. Oggi prevale la tesi che il concetto di sé abbia una struttura multidimen-
sionale, con vari concetti specifici, ciascuno per un ambito abituale di vita (emotività, vissuto cor-
poreo, vita familiare, relazioni interpersonali, istruzione e cultura, rapporti intimi, sfera morale) che
fanno capo ad un nucleo comune, il concetto generale di sé (Bracken,1992). Per la sua natura artico-
lata, il concetto di sé è un’entità che va ricostruita con metodi qualitativi, come l’intervista.
b) L’autostima è il complesso delle valutazioni, descrizioni e ragionamenti che l’individuo ha ma-
turato sul proprio conto; essa si traduce in ultima analisi in un complesso di situazioni con un bilan-
cio finale. Perciò si presta ad essere quantificata e viene normalmente indagata con tecniche psico-
metriche. Benchè venga espressa anche con punteggi, l’autostima non è comunque qualcosa di sem-
plice. Attualmente si pensa che abbia, analogamente al concetto di sé, una struttura multidimensio-
nale. Bisogna tener presente che il bilancio individuale di autovalutazione ha dietro processi com-
plessi di elaborazione, che chiamano in causa vari standard (standard personali ideali: il livello cui
ci si vorrebbe attestare; standard personali normali: il nostro modo abituale d’essere; standard
sociali: dettati da un confronto con gruppi di riferimento; standard minimali: ciò che giudichiamo il
livello minimo accettabile) e richiedono operazioni di ponderazione e integrazione dei dati sul pro-
prio conto.
c) L’identità psico-sociale è ciò che l’individuo considera il fulcro della conoscenza di sé, perchè
si mantiene costante, lo distingue dagli altri, serve a rendere coerente il resto ed è investito di senti-
menti positivi. Di solito le persone fanno rientrare nell’identità gli attributi socialmente riconosciuti
e obiettivi e quelli a cui soggettivamente tengono molto. Il TST (Twenty Statements Test = test delle
venti dichiarazioni) o test del “chi sono io?”, ideato nel 1954 da Kuhn e McPartland, serve a inda-
gare l’identità psico-sociale e consiste nel far rispondere venti volte alla domanda “chi sono io?”.
Per la sua semplicità ed efficacia, nonostante i limiti di attendibilità, è ancora molto usato.
Le principali fonti di informazione sul sé sono l’interazione sociale, in cui gli altri ci rimandano
“a specchio” impressioni sul nostro conto, il confronto sociale, con individui e gruppi di riferimen-
to o con modelli occasionali, l’interpretazione di ruoli, formali e informali, e le esperienze sociali
mediate, vissute tramite altri cui siamo legati.
Il SEʼ

Cartesio Sé pensante immateriale ( “ res cogitans “ )

Hume Sé = aggregato di percezioni

senso comune persona in carne ed ossa che ragiona


e intraprende azioni fisiche

Spiritualisti alterità dellʼ anima rispetto al corpo

Psicologia Generale :

SEʼ FENOMENICO individuo che consapevolmente si autoesperisce come nucleo


permanente e continuativo nel corso dei molteplici cambiamenti
somatici e psichici che caratterizzano lʼ esistenza individuale

SEʼ INFERITO struttura della personalità che rappresenta il nucleo in


cui si formano decisioni, programmi, processi di difesa
comprensibili da un osservatore esterno

materiale coscienza del corpo, degli abiti della famiglia,


dellʼ ambiente di casa, dei beni posseduti

W. James SEʼ sociale presunta immagine che gli altri (significativi)


hanno della persona
valori sociali (onore, pudore, ecc.) (-> Super-Io)

spirituale autoconsapevolezza di esistere


coscienza delle proprie capacità e debolezze
grado di disposizione verso lʼ esistenza fattuale

Psicoanalisi : H. Hartmann sé = io nella forma riflessa ( immagine, specchio)


( funzione prevalentemente intrapsichica)

H. Kohut sé = istanza autonoma presente fin dalla nascita


( inferito dalla madre)
“sistema organizzato di ricordi che esercita
unʼ influenza dinamica sul comportamento”

AGENTE delle proprie azioni a partire da quelle corporee

CONTINUO conoscenza garantita dai ricordi del passato personale


in cui è rintracciabile unʼ identità al di sotto delle mutazioni
SEʼ

IN RAPPORTO i cui comportamenti di accettazione- rifiuto


CON GLI ALTRI incidono sul concetto di sé
SELF - Psicologia Sociale

a) centro dʼ azione ( sé soggetto)

Coscienza di sé consapevolezza di b) presenza nel mondo ( sé oggetto )


esserci come :
c) essere unico ( sé unico )

concetto di sé attributi personali :


qualità individuali
modelli interni di funzionamento
standard personali di comportamento
status sociali
posizioni rispetto a standard di riferimento
( struttura multidimensionale )

sé concettuali autostima complesso di valutazioni - bilancio finale

identità psico-sociale conoscenza di sé come :


costante nel tempo
distinto dagli altri
investito di sentimenti positivi

Cooley:
“looking-glass self”
immagini di sé

singole circostanze della vita

fonti dʼ informazione :
Sè Contingenti
(impressioni frammentarie) a) interazione sociale
(impressioni a specchio sul nostro corpo )

b) confronto sociale
(gruppi di riferimento vs gruppi occasionali)

c) interpretazione di ruoli

d) esperienze sociali “mediate” tramite gli altri

mentale prodotto della mente


che nasce nel corso della “persona “ come
SEʼ sociale “eterorelazione”:
esperienza sociale fenomenologia,
esistenzialismo,
pragmatismo,
mutevole interaz. simbolico
la apparente stabilità del sè
è il prodotto di un lavoro di vs
conservazione e ripristino che
controbilancia i rinnovamenti “autorelazione”:
sostanzialismo,
spiritualismo,
Cartesio
POSIZIONI INDIVIDUALI E DI GRUPPO

Lo studio delle posizioni individuali e di gruppo si preoccupa di fornire definizioni, metodi d’inda-
gine, teorie riguardo ai principali modi di vedere le cose e prendere posizione individualmente (opi-
nioni, atteggiamenti, valori) o come gruppi sociali (pregiudizi, stereotipi, distanza sociale).

Le posizioni individuali. Le opinioni, gli atteggiamenti, i valori sono tipi di posizioni individuali,
di modi di porsi delle persone nei riguardi delle realtà sociali. Lo studio delle opinioni e degli atteg-
giamenti ha una tradizione consolidata in psicologia sociale (che risale al secondo dopoguerra), men-
tre le ricerche sui valori si sono sviluppate più di recente.

1.Le opinioni sono i pareri che le persone esprimono su questioni esistenti nella società, maturate
in risposta al fatto che, esplicitamente o implicitamente, si viene interpellati e si accompagnano alla
consapevolezza che si tratta di punti di vista soggettivi. Anche se abitualmente le persone colorano
affettivamente le proprie idee, un’opinione è essenzialmente un costrutto cognitivo. É composta da
un nucleo dichiarativo, l’enunciato che sintetizza il parere, e un quadro razionale sottostante, che
riguarda le idee-guida, le tendenze di pensiero profonde esprimibili attraverso i chiarimenti, le spie-
gazioni e gli argomenti portati a sostegno.

A B
“I neri sono meno NUCLEO DICHIARATIVO “I neri sono meno
istruiti dei bianchi” istruiti dei bianchi”

i neri hanno QUADRO RAZIONALE i neri sono svantaggiati


un’intelligenza SOTTOSTANTE nello studio per ragioni
inferiore economiche e sociali

Struttura delle opinioni. Se badiamo al nucleo dichiarativo, l’opinione A e B sembrano identiche. Invece, esa-
minando il quadro razionale sottostante, ci rendiamo conto che sono radicalmente diverse. Una è negativa e discrimina-
toria nei confronti dei neri, l’altra può essere alla base di una tendenza all’integrazione razziale.

Nel processo di formazione delle opinioni, la sequenza è innescata dalla richiesta sociale: qualcu-
no pone un quesito esplicito, c’è un dibattito diffuso, o un evento spinge a interrogarsi. In una pri-
ma fase, afferriamo la questione (percezione), nella seconda fase ci documentiamo e ci confrontiamo
con le opinioni degli altri (conoscenza); nella terza fase prendiamo una posizione e ci formiamo un
quadro razionale per sostenerla (maturazione); in una quarta fase manifestiamo l’opinione con com-
portamenti e discorsi (espressione); in una quinta fase cerchiamo di persuadere gli altri (influenza).
Espressione e influenza fanno sempre parte della formazione di un’opinione, perchè servono a con-
solidarla una volta che è maturata: dicendo ciò che pensiamo e cercando di persuadere gli altri, di so-
lito chiariamo a noi stessi le nostre idee, le sistematizziamo e finiamo per rafforzarci nella posizione
presa.

stimolo richiesta sociale (quesito, dibattito, evento)

1ª fase percezione afferrare la questione


2ª fase conoscenza documentazione / confronto
3ª fase maturazione presa di posizione / quadro razionale
4ª fase espressione manifestazione (comportamenti e discorsi)
5ª fase influenza persuasione e proselitismo

processo di formazione delle opinioni


Gli atteggiamenti
Per atteggiamento si intende il grado di favore a sfavore con cui un individuo si pone nei rigucrdi
di un oggetto. A differenza delle opinioni non sono semplici prese di posizione soggettive, ma veri e
propri tratti interiori, qualcosa di più profondo e sentito, che tendiamo a considerare "vero". Un in-
dividuo possiede ul gran numero di atteggiamenti, che differiscono non solo per l'oggetto, ma anche
per come si collocano nella sua rappresentazione della realtà (ve ne sono di più o meno centrali, ac-
cessibili, coerenti col resto). Sebbene siano stati provati vari metodi per lo studio degli atteggiamen-
ti, i più efficaci si sono dimostrati i questionari di Likert, messi a punto alla fine degli anni '20 sul
modello delle Gcniche psicometriche di Thurstone. Il soggetto si trova davanti a una serie di items
autodescrittivi, per meta favorevoli e per metà contrari all'oggetto, e deve scegliere fa 5 o 3 risposte
obbligate (molto d'accordo, d'accordo, indeciso, contrario, molto contrario, opptne sì, no, non 1o
so). Il calcolo dei punteggi si basa su una semplice somma algebrica e il valore dell'atteggiamento
viene di solito espresso in una scala a intervalli da 1 a 10.

COMPORTAMENT1 EFFETTI SUGLI ATTEGG IAMENTI

si ciiventa più favorevoli all'oggeco di tenazio-


cedere o resistere a una tenlzzlone ne se si è ceduto. altrimend più contrari

in un compito in c.iosse deosivo c'è I'opporwnhà dí chi copio odonero un oneggiomento píit demente dí
copiore e ci si trovo a decidere se restore ferie|'oi ùnmo nei confronti delt'imbrogliore, mentte chi non
princjpio dì non imbrogiiore o for prevolere l'interes- copio diventerò più intrsnsigente (l.Mills 1958)
se dei mornento

tenere un comPoftamento contra(egtlamen-


tale (hre qualcosa in contràsîo coi propri se punizioni e premi previxi sono significao'
aceggiamenti) in un clima di ìibera scela vi, le persone restano ancorate agli aceggia-
(voiendo ci si puo soctrarre) socromecendosi a menci che avevano già, se invece sono scarsi
pressioni (promesse di premi, minacce di puni- tendono a cambiarli
zioni)

in cambio di uno ricompensc in denaro dire o un se il denoro dello ncompensa è ronto, si reslo corF
compagno che un compno noioso oppeno svoho vinti che il compito è noioso, mo se è poco si fnisce
tutto sommolo è piocevo/e per non trovodo tonto sgrodevole (LFaanger,J. M-
Cnlsmtth 19591

tenere un compor.amento proatteggiamentale si manifesra tendenza a cambiare gii atteggia-


(in linea coi propri aneggiamenti) soEtomet- mend di paftenza
tendosi a pressioni

it viene offena Llna ricompensa Per d:6egnore' in segurto omeremo meno il disegno e saremo Pot-
un'ot;rnà che deosomente ci piace,e acconsentjo- tsti d pensore che si disegno perché gli okri ce lo
mo chiedono (M-r. Lepper, D. Greene, RÉ Nrsbea
t e73)

si sviluppa.un aceggiamenrc hvorevcle verso


orrenere qualcosa a costo di lorzi e sacrifici I'obieccivo. raggiunto

troveremo it gruppo inrcressonle e significatjva,


superiofio uno dura selezione per essere ommessl
più clre se non ovcsirno dowu faticore per por-
in ún grup1o di discussione di educozione sessuoie
tmipovi (J.' Milts, LAronson I 9 59)
in cui si richiede mowritò e disinvolwto
Anche se gli atteggiamenti per lo più si formano nello sviluppo e molti (soprattutto quelli centrali)
tendono a restare stabili, lungo tutto l'arco della vita e possibile che cambino o che ne maturino di
nuovi. Spesso un atteggiamento matura in conseguenza di specifici comportamenti personali. Agia-
mo in un determinato modo (ad esempio, andiamo a scuola) e di conseguenza sviluppiamo un atteg-
giamento in linea col comportamento (ad esempio diventiamo favorevoli a1l'istruzione), per bisogno
di coerenza o perchè, per effetto dell'autopercezione, cercando di capire come la pensiamo, conclu-
diamo che, se andiamo a scuola, evidentemente siamo per f istruzione. Non e detto che all'atto pra-
tico le persone si lascino guidare dagli atteggiamenti. Il nesso tra atteggiamenti e comportamenti non
è semplice e lineare, però non è neppure privo di consistenza.

.r++ì,.1:*: j *?; *- ..-

1. Ènaturaiecherngli uomini cj siachi comandaechi ubbidisce


-€-s.**&+
molto d'accordo d'aFdrao indeciso contrario molto contrario
2, Chi comanda ha il diriao di entrare net futti priraci di una persona quancio ii caso lo
richiede
moko d'accordo a'}(.ao incieciso conrario moiro connrio
3. Chi comanda deve agire nei rispecro di norme fucte nell'inceresse generale
moiro d'accordo a'dao incjeciso consario moito conoario

4. Spesso solo chi comanda puo capire dawero il senso di certe sue scelte
molto d'accordo d'accordo inÈ(so contrario moirc conrrario

5. ll primo compiro dÌ chi comanda è evitare che il caos minacci la vie. di ciascuno
molto d'accordo d'yqlrdo indeclso conúario moico ccnrano

6. Quando quaicuno impone qualcosa a un aitro, c'è semore una srumaa:ra cji violen-
za, anche se sì è cj'accordo e cutto awiene nei rispecto delle regole
moito d'accorcio d'accordo indeciso .o}(.o molto conrrario

7. lnfururo,grazieai progressomoraledell'umanicà.saràpossibilehrearnenodi ricor-


rere alla forza per far rispercare le legi
moito d'acccrdo ci'accordo iÈ(ito contrario molto contrario

8. Ricorrere alla forza per imporre cuaicosa è segno di scarsa autone.


moiro d'accordo a'a{do indeciso conrnrio molrc conwio
9. Con I'esercizio del ootere rischiano di corromoersi anche le oe:-sone migiion
molto d'accordo d'accordo indeciso cog{io mofto conùario
'10. Per arrivare in posizioni di comando occorîono doù particolari
molto d'accordo d'r<iroo ;noeoso contrano moicc conrano

,._: jtotate =4

Fíg.4. Esempio di questionario di Likert ( A. Eianchi, S. Cottone, P. Di Giovannl). I 10 items ser-


vono a misurare I'atteggiamento verso ii potere. I 5 (1,2,4, 5,i0) iavore,roii al potere e i5 (3, 6,7, I,
g) conrran sono distribuiti casualmente neila iisla. Le risposte agii items ciei due gruppi ricevono pun-
teggi di segno opposto (in questo caso si è convenuto di utiliz;are valori positivi per gli items Íavorevo-
li e negativi per i contrari). A motto d'accordo diamo 5, a d'accorcio 4, a indeciso 3, a contrarto 2, a
molto òontnio 1. Se ci fossero ilems con tre sole alternative, si, no, non so potremmo adottare il cri-
terio di assegnare rispettivamente i punteggi 5, 1 , 3 o, diversamente, 4, L 3. Per il calcolo occone fare
la somma algebrica dei punteggi. ll nsuitato esprime una misura in una scaia da -20 (il totale piil basso
possibile) a IZO 1it più atto poèliOile). Questo punteggio grezzo va convertito in quello iinale espresso
con la scala a intervalli da 0 a 10, che ò quella abitualmente adoperata per gli atteggiamenti-
I valori

I valori sono convinzioni durevoli e piuttosto radicate su che cosa è desiderabile, che influenzano
comportamenti e scelte di vita. Possono essere più o meno espliciti e consapevoli e tendono ad es-
sere condivisi all’interno di gruppi, categorie, culture. I valori degli individui e di gruppi tendono a
formare sistemi coerenti ed ordinati gerarchicamente; essi si classificano secondo varie dimensioni:
a) il contenuto, che può essere affettivo, quando i valori definiscono stati desiderabili in termini di
gratificazione fisica o psico-fisica primaria, come il senso di benessere dell’individuo in salute, o
secondaria, come il senso di benessere di tipo estetico (es. ascoltare buona musica); cognitivo,
quando i valori contengono asserzioni intorno alla realtà valide come condizioni da rispettare nelle
condotte individuali (verità); morale, quando si riferiscono ai principi che una collettività considera
come punti cardinali per la convivenza e l’ordine sociale.
b) la posizione nella catena mezzo-fine, per la quale si distinguon valori intrinseci, o finali, e
operativi, o strumentali (cfr. l’inventario di Rokeach);
c) l’intensità o forza, cioè il grado di attaccamento al valore da parte del soggetto;
d) il campo di applicazione (tutti o parte dei membri di una collettività);
e) il grado di adesione (l’effettiva applicazione dei valori da parte dei membri dela collettività).
M. Rokeach (1973) ha stilato un inventario di trentasei valori (18 finali e 18 strumentali), che sem-
bra riassumere quelli correnti nella cultura occidentale e si è rivelato di utilità pratica nelle ricerche.

TERMINALI STRUMENTALI

1 una vita comoda ambizioso 1


2 una vita eccitante di larghe vedute 2
3 un senso di compiutezza capace 3
4 un mondo di pace allegro 4
5 un mondo di bellezza puro 5
6 eguaglianza coraggioso 6 INVENTARIO
7 sicurezza famigliare indulgente 7
8 libertà altruista 8 DEI VALORI
9 felicità onesto 9
10 armonia interiore immaginativo 10 DI ROKEACH
11 maturità affettiva indipendente 11
12 sicurezza nazionale colto 12
13 piacere logico 13
14 salvezza dell’anima affettuoso 14
15 rispetto di sé docile 15
16 prestigio sociale cortese 16
17 sincera amicizia responsabile 17
18 saggezza che sa dominarsi 18

Di grande interesse è il modello di modello di Kluckhohn a 5 dimensioni. Un determinato valore


può essere definito collocandolo in un punto di ciascuna dimensione.

1 2 3 4 5
NATURA UMANA ORIENTAMENTO RAPPORTO FINI PRIMARI RELAZIONI
DELL’ESISTENZA UOMO-NATURA PRIMARIE

buona al passato sottomissione essere egoistiche


mediana
cattiva al presente integrazione realizzarsi famigliari
mutabile
fissa al futuro dominio fare coi pari
POSIZIONI INDIVIDUALI

1. opinioni pareri che le persone esprimono, in risposta a qualche stimolo,


su questioni esistenti nella società, accompagnati dalla consa-
pevolezza che si tratta di punti di vista soggettivi.

nucleo dichiarativo espressione verbale dellʼ opinione

quadro razionale sottostante idee-guida, tendenze di pensiero profonde

processo di formazione delle opinioni

stimolo richiesta sociale (quesito, dibattito, evento)

percezione afferrare la questione


conoscenza documentazione / confronto
maturazione presa di posizione / quadro razionale
espressione manifestazione (comportamenti e discorsi)
inflenza persuasione e proselitismo

2. atteggiamenti grado di favore o sfavore con cui un individuo si pone nei riguardi di
un oggetto; sono più profonde e sentite delle opinioni (tratti interiori)
si formano nello sviluppo e tendono a restare stabili, ma è possibile
anche che cambino o che ne maturino di nuovi in conseguenza di
specifici comportamenti personali

comportamento atteggiamento coerente


attuato con il comportamento

molto dʼ accordo
dʼ accordo oggetto o
questionari di Likert -> items autodescrittivi indeciso argomento
contrario specifico
molto contrario

3. valori convinzioni durevoli e piuttosto radicate su che cosa è desiderabile,


che influenzano comportamenti e scelte di vita.

a) possono essere + o meno consapevoli ed espliciti;


b) tendono ad essere condivisi allʼ interno di gruppi, categorie, culture;
c) tendono a formare sistemi coerenti ed ordinati gerarchicamente.

natura umana
orientamento dellʼ esistenza
modello di Kluckhohon a 5 dimensioni rapporto uomo-natura
fini primari
relazioni primarie

finali
inventario (36 valori) di Rokeach valori
strumentali
Le posizioni di gruppo
Stereotipi, pregiudizi e distanza sociale sono conoscenze intergruppo. Rispetto adaltritipi di co-
noscenze sociali sono caratteristiche perchè hanno per oggetto interi gruppi, sono largamente condi-
vise e maturano nel contesto di relazioni intergruppo, cioè in quelle situazioni di paficolare rilievo
storico-sociale in cui ci si rapporta gli uni agli altri non da persona a persona o da uomo a uomo, ma
in quanto esponenti di gruppi e categorie sociali. Sebbene siano tutte e tre conoscenze intergruppo,
nello stereotipo prevale l'aspetto cognítívo,nelpregiudizlo I'aspetto affettívo e nella distanza so-
cial e l' aspetto vo lítiv o.

Gli Stereotipi
Gli stereotipi sono rafftgurazioni di gruppi (gruppi-bersaglio), largamente condivise, schematiche,
che nascono nelle relazioni intergruppo e guidano conoscenze e comportamenti sociali delle persone.
In una relazione intergruppo gli stereotipi fanno da chiavi interpretative della realtà, da base per
orientarsi, capire persone, fatti, vicende, e fare previsioni. Perciò se ne formano normalmente da una
parte e dall'al1a;a, sia sull'altro gruppo (aerostereotípí), sia sul proprio (autostereotìpi). Ci sono poi
$i stereotìpì attríbuíti, o pr,qrettivi, quelli che ung p_etrq4 !he] illlq 3qqia.

FTEROSTEREOTI PO ATTRIBUITO ETEROSTEREOTIPO ATTRI BUITO

come il g5uppo A pensa di come iì gruppo B pensa di


essere raffìgurato dal B essere raffi guraro dail'A

come il gruppoA come il gruppo B


raffìgura il B raffigura l',{,
rgruppo\
\gt
come il gruppoA come il gruppo B
raffìgura se stesso rafigura se stesso

AUTOÍEREOTIPO ATTRIBUITO
come ii gruppo A pensa che come ii gruppo B pensa che
ii B raffiguri se $esso I'A raffiguri se stesso

La struttura interna. Uno stereotipo non è un semplice elenco di carafteristiche attribuiîe al


gruppo bersaglio. Anche se non sempîe i suoi contenuti sono chiari ed espliciti, costituisce un pen-
siero organizzato, una vera e propria concezione del gruppo bersaglio. Per struttura, caretterrstiche
e funzioni si tratta di uno schema orientato a comprendere l'oggetto e ciò che vi è connesso.
Possiamo farci un'idea più precisa della sfruttura degli stereotipi analizzandone uno. C'è un bersa-
glio, con un nome, un'etichetta linguistica che lo designa. Al bersaglio viene atfiibuito un insieme di
caratteristiche di vario genere (vanno dall'aspetto esteriore, alle abitudini comportamentali, alle di-
sposizioni interiori, dalle cose private alle pubbliche e sociali). La correlazione tra caratteristiche si
puo fare in base a ragionamenti statistici (la maggior parte degli Olandesi sono alti), a confronti con
altri gruppi (a dffirenza degli inglesi, gli italiani, quando parlano, gesticolano) o avalutazioni di
carattere generale. Il soggetto ha in mente un ordine gerarchico: giudica alcuni tratti più tipici di altri
e quindi più importanti per descrivere il bersaglio. Ad esempio, uno può pensare che è estremamen-
te difficile trovare un Giapponese pigro, che gli sgarbati sono molto rari, che se ne possono incon-
trare di irascibili. Per stabilire la gerarchia dei tratti ci si rifa aiprototípí. Di solito abbiamo in mente
un prototipo contrale, un rappresentante ideale della categoria che riunisce itratli più tipici, e vari
prototipi periferici.
I Pregiudizi
I pregiudizi sono atteggiamenti, cioè posizioni di favore o sfavore nei confronti di un altro gruppo.
Si creano solitamente sulla base di stereotipi, cioè di precedenti elaborazioni cognitive del gruppo-
bersaglio, ed hanno, come componente dominante, quella affettiva.
Comunemente, quando si parla di pregiudizio, ci si riferisce ad atteggiamenti negativi verso gruppi,
fonte di discriminazione e di problemi storico-sociali, come il razzismo. In senso tecnico, però, per
pregiudizio si intende qualsiasi atteggiamento, che sia di favore o di sfavore, e indipendentemente
dal tipo di conseguenze registrabili sulla vita sociale.
Non è vero che il pregiudizio (come lo stereotipo) sia sempre difficile da modificare; esso può ri-
sultare tenace o suscettibile di cambiare a seconda di quanto è radicato nelle persone, del consenso
sociale di cui gode, del clima culturale che c’è intorno. Si sa che le distorsioni alla base delle cono-
scenze intergruppo sono normali nei processi di social cognition, e che non necessariamente sfocia-
no in modi di pensare dalle conseguenze negative sul piano pratico, dell’azione. Questo non toglie
nulla alla gravità del problema storico-sociale del pregiudizio, né significa negare l’esistenza di dera-
gliamenti collettivi, in cui la gente distorce marcatamente le cose in una direzione, talvolta con esiti
tragici.
In passato, specie nel dopoguerra, ci si è chiesti se stereotipi e pregiudizi non fossero il frutto di
un pensiero malato. Sono state rintracciate varie cause possibili di questa patologia della conoscen-
za. Il fondamentale lavoro di T.W. Adorno e all. sulla personalità autoritaria (1950) ha richiamato
l’attenzione sui disturbi della personalità di tipo affettivo, derivante da un cattivo rapporto con i
genitori nell’infanzia. Gli individui con personalità autoritaria tendono a formarsi opinioni distorte
sulle minoranze, sviluppando pregiudizi etnocentrici. Successivamente M. Rokeach ha spostato
l’accento su disturbi individuali cognitivi, di “chiusura mentale”, l’incapacità di accettare idee con-
trastanti con le proprie, che si traduce in dogmatismo e intransigenza.

La Distanza sociale
Quello di distanza sociale è un concetto operativo che esprime la disponibilità dei membri di un
gruppo ad avere contatti sociali con persone di un altro gruppo. Questo concetto tiene conto delle
intenzioni personali. Si tralasciano valori e norme di gruppo, impressioni e giudizi di fatto, per inte-
ressarsi esclusivamente a come le persone hanno in animo di comportarsi con quelli dell’altro grup-
po. Perciò la distanza sociale è una conoscenza intergruppo essenzialmente volitiva o conativa.
Non si considerano neppure tutte le intenzioni personali verso l’altro gruppo, ma soltanto quelle
che riguardano i comportamenti di chiusura o apertura di gruppo. Oggi si tende a considerare la di-
stanza sociale a struttura polidimensionale, perchè implica aspetti diversi che si prestano ad analisi
indipendenti.

PROSSIMITÀ CONTATTO GRADO GRADO DI


FISICA PERSONALE DI COINVOLGIMENTO
ACCETTABILE ACCETTABILE AUTORIVELAZIONE EMOTIVO

in quale misura intimo? in quale misura in quale misura si è


si è pronti a condividere amichevole? si è disposti ad aprirsi disponibili a esternare
degli spazi? formale? e a parlare di sé? sentimenti e emozioni
e a condividerli?

Modello multidimensionale di distanza sociale


STEREOTIPI, PREGIUDIZI, DISTANZA SOCIALE

conoscenze intergruppo
hanno per oggetto interi gruppi
(vs singoli individui)
sono largamente condivise
maturano nel contesto di relazioni intergruppo

biases cognitivi (freddi) e affettivo-sociali (caldi)


formazione ambiente socio-culturale favoritismo
clima delle relazioni intergruppo -> grado di
conformismo

Stereotipi Pregiudizi Distanza sociale

aspetto aspetto aspetto

cognitivo affettivo volitivo

stereotipo raffigurazione schematica di un gruppo bersaglio


che funge da chiave interpretativa della realtà

complesso di stereotipi intergruppo

eterostereotipo autostereotipo bersaglio


(s. sullʼaltro gruppo) (s. sul proprio gruppo)
prototipo
eterostereotipo autostereotipo
attribuito attribuito caratteristiche
(come il gruppo A pensa (come il gruppo A pensa
di essere raffigurato da B) che B si raffiguri) centrali periferiche

favore
pregiudizi => atteggiamenti di nei confronti degli altri gruppi
sfavore

discriminazione
razzismo

distanza sociale => disponibilità dei membri di un gruppo ad avere contatti sociali
con persone di un altro gruppo (concetto operativo)
intenzioni personali di apertura / chiusura

conoscenza volitiva o conativa

struttura polidimensionale

prossimità contatto grado grado di


fisica personale di coinvolgimento
accettabile accettabile autorivelazione emotivo

condivisione intimo disponibilità disponibilità


degli spazi amichevole a parlare di sé a condividere
formale emozioni / sentimenti
Comportamenti e fenomeni sociali: I'attrazione interpersonale

L'atlrazione interpersonale, la simpatia che le persone provano le une per le altre, è un fenomeno
la cui importaruava al di 1à della sfera intima, dell'amicizia e dell'amore. Si fiatta di qualcosa che in-

terviene a vari livelli della vita sociale e che è capace di influenzare i giudizi sulle persone e la produ-
zione di consensi. Gli psicologi sociali si sono interessati soprattutto ai motivi dell'attrazione, alle
condizioni e ai meccanismi che la producono. Nel campo dell'atfiazione interpersonale la psicologia
sociale e arrivata a conclusioni non lontane dal senso comune. I fattori di attrazione individuati e
analizzati sono gli stessi noti alle persone di esperienza e buon senso e rintracciabili nella letterafura
non scientifica (bellezza, capacità, somiglianza, diversita, familiarita" lodi, favori, critiche costrutti-
ve). Tuttavia la psicologia sociale ha tracciato una marya di fattori di altrazione, ha precisato le
condizioni di effrcacia di ciascuno, ha chiarito i meccanismi di azíone e le interdipendenze possibili
tra l'uno e l'altro.
Nel senso comune è radicata f idea che ci sono persone simpatiche e antipatiche. Invece per la psi-
cologia sociale la produzione di simpatia-antipatia è qualcosa di fluido e dinamico, che dipende dalle
circostanze e dagli sviluppi dell'interazione e della relazione. L'effetto non è semplice e lineare, ma
legato a un complesso sistema di elementi in gioco (condizioni favorevoli o contrarie, altri fattori
interferenti, precedenti dell' interazione e della relazione).

Principalí motivì di attrazione e relative eondizioni di efficacia.


BEU-ezza
.- Le persone belle (secondo i canoni di una cultura o subcultura) piacciono.rendono a essere apprez-
zare anche in airri campi e vengono giudicate con benevolenza-
Pero,quando c'è in vista una reiazione.valuriamo noi stessi in rappono a loro.Se non ci stimiamo all'aitezza e temia-
mo dì éssere respinri o far brusca figura accanto a loro. ci aftraggono meno. Le donne in genere sono meno sensibi-
li degli uomini all'atrractiva fìsica-

UI\PACITA
Le persone con abilità e comperènze piacciono e volentieri ci si accompagna a loro.

-
Pero una persona bravissima. che non sbaglia mai,fa sentire a disagio, perché sembn inawicinabile e remiamo che
un momenro all'alro ci censuri. I più amati sono i bravi che mostrano di avere qualche debolerza.
da

l-oor
Ci piace chi cì apprezza.
Pero le locii di solìto sono controproducenti se fanno nascere il sospeno di un ingraziamento. perche poco credibi-
li o perché porebbero esserci secondi fini,Servono a poco quando capiuno in un momenro inopponuno.in cui I'al-
lro non ha voglia di pensare a se sresso, specre se impediscono di considerare seri problemi da affron'.are. Se un
apprezzamenro è in disaccordo con la conoscenza che chi lo riceve ha di se stesso.in certe sicuazioni (se uno è sere-
-no.disuccaro,sicurodi se,resoall'obietrivicà,vedelecoseconchiare a),nonsusciaaffartosimpaga.ilannopiùeffì-
cacia le che seguono a cridche o
lodi vengono da persone che non ci apprezano d'abirudine.
che

Favoat

Pero non ci piacciono le persone che facendoci un favore ci obbligano a ricambiarli in qualche modo e ci legano.
perché susciuno in noi reatanza. Ci dà fasridio anche chi ci aiuu per un secondo fine e chi ci fa sentire inferiori in
qualche cosa.

-Chièdisponibileadareunamanoaglialtridiregolariscuotesimpatia.
CRrrtcHE
ffi Possiamo provare simoatia per chi ci cridca-
Pero soio se le sue osservazioni ci sono d'aiuto.vengono dare in un clima posicivo e in momenri opportuni,e se non
ci minacciano nel conceno di sé e nell'aurosdma.

;oN'cu*"tl
reSiamoacracridachícisomigliapervedute'interessi.capacirÌr"abitudini.
Però con chi ci somiglia troppo remiamo di perdere il senso deila noscra uniciè ia relazione rischia di appiatrirsi e
di sembrare poco produttiva.Tendiamo a evirare chi ci somiglia in qualcosa di.negadvo, perché ci ricorda il nostro
ciiferro..

Drvensrra
_Siamoattncddallepersonecheperlalorodiversiràdannol.impressionedicompletarci..
Pero in molti casi la diversid è di disturbo, ad esempio perché puo impedirci di fure insieme una cosa che piaccia a
enrrambi.

-ollpicNtA i
lelicemente.
Pero non ci piace una persona la cui presenza ci sembra minacciosa o ci annoia o si associa a censioni non risolte.
Se nell'interazione faccia a faccía non ripenando le distanze convenzionalí invadiamo lo spazio personale, diventiamo
antipadci.
-Cipiaccionolepersonefamiliarieinparticolarechièpresenteinmomentidifficilichesuperiamo
Per spiegare i fenomeni dell’attrazione, la più accreditata è la teoria del rinforzo.Una persona ci è
simpatica se è fonte per noi di rinforzi positivi o ricompense di qualche tipo. I motivi di attrazione
non sono altro che potenziali rinforzi. Dietro al fatto che la bellezza o la somiglianza o l’apprezza-
mento ci rinforzano evidentemente c’è un ragionamento che ci porta a valutare positivamente queste
cose: nel caso della somiglianza, ad esempio, si ritiene che stare insieme a persone come noi sia rin-
forzante, perchè ci dà l’impressione di essere nel giusto e nella normalità. Altri dati però indicano
che i simili ci attraggono perchè pensiamo che andranno d’accordo con noi e non ci rifiuteranno
(aspettativa di reciprocità).
I fenomeni di attrazione si possono spiegare anche con la teoria del filtro: prima di ammettere una
persona ad avere a che fare con noi, pretendiamo che abbia alcuni particolari requisiti. I motivi di
attrazione non sono altro che indicatori di accettabilità.

Le Relazioni profonde

Fino a qualche decennio fa gli psicologi sociali non si occupavano di relazioni profonde (gli unici a
parlarne erano gli psicologi clinici). In poco tempo però si sono accumulati molti studi sull’argomen-
to ed è emerso un quadro piuttosto ricco e preciso. Le relazioni non caratterizzano solo la vita pri-
vata e intima, ma sono abituali anche nei rapporti di lavoro, nell’educazione, nella cura dei malati e
ovunque l’attività richieda intesa e complicità. Per stabilire il grado di profondità di una relazione di
solito ci si basa su vari parametri, che vanno dal semplice giudizio degli interessati (a volte però po-
co affidabile) all’interdipendenza cognitiva (il fatto di aprirsi l’un l’altro e partecipare alla costruzio-
ne di una visione comune), a uno scambio equo e appropriato, in cui ciascuno ha ciò che gli spetta e
ci si danno in cambio cose simili a quelle ricevute (ad esempio, affetto per affetto, e non affetto per
denaro o altre ricompense materiali). Contano anche l’affinità, che porta ad avere interessi comuni,
e la complementarietà, grazie alla quale ci si compensa a vicenda nei difetti.
Anche quando si sviluppa in breve tempo, una relazione profonda è qualcosa cui si arriva attraver-
so un processo di sviluppo dell’intimità, fatto di tappe successive; una sequenza di passaggi che
non possono mancare. Ciascun caso è ovviamente una storia a sé e ci sono importanti diversità lega-
te al tipo di relazione: i contenuti (ciò che si fa, ci si dice e si pensa), i tempi e le condizioni di par-
tenza cambiano a seconda che a nascere sia un’amicizia, un amore, un rapporto di stretta collabora-
zione o di educazione. Tuttavia nelle linee generali il cammino è lo stesso. Occorre che i partner ri-
spettino la sequenza, muovendosi con coordinazione: essa consente di attraversare contemporanea-
mente le stesse fasi e di tenersi in sintonia. Se, ad esempio, uno dei due esplora la reciprocità mentre
l’altro è ancora nella fase dell’attrazione, i suoi tentativi di sondare la disponibilità a corrispondere
sembreranno prematuri e fuori luogo e susciteranno reazioni di difesa.

FASE 1 Contatto sociale A e B hanno occasione di rapporto

FASE 2 Attrazione A e B risultano simpatici l’uno all’altro

FASE 3 Invischiamento A e B fantasticano sugli sviluppi futuri della relazione


e sul ruolo che ciascuno avrà nella vita dell’altro

FASE 4 Esplorazione A sonda quanto B è disposto a corrispondere alle sue


della reciprocità fantasie di relazione e B fa lo stesso

FASE 5 Reciprocità A e B cominciano a corrispondersi

Nella fase di attivazione intervengono i diversi motivi di attrazione e le condizioni che li rendono
più o meno efficaci. Di solito l’invischiamento è caratterizzato da una certa carica emotiva e da fan-
tasie piuttosto lontane dalla realtà. Si chiama così perchè ciascun partner è come prigioniero dei pro-
pri progetti e di quelli dell'altro. La fase di esplorazíone della recìprocítù è particolarmente delicata:
svelare le proprie fantasie sulla relazione puo portare l'altro a irrigidirsi , ad arre1rare o addirittura a
rompere il rapporto. Di regola il tipo di corrispondetuache di fatto nasce è decisamente più realisti-
co di quello pensato in fase di invischiamento.
E tipico delle relazioni profonde il fatto che si vada incontro a inciderrti di percorso, problemi che
sorgono per cause esteme, come I'interferenza di altre relazioni in concorrerTza,ma soprattutto in-
terne. Siccome pretendiamo che in una relazione profonda coesistano qualità difficili da conciliare,
quali la dipandenza e I'indipendenza dei parfner, la stabilità e il cambiamento, nascono dialettiche
strutturali,tensioni legate al tipo stesso di relazione che si sta vivendo. Abitualmente poi la cono-
scenza reciproca, crescendo, porta a deivicoli ciechi, in cui ognuno è radicato nel suo punto di vista,
per cui non si riesce a trovare un accordo senza passare per il compromesso (collusíone) e la coe-
Íetrza sembra imporre il contrasto radicale {compAízione).L'altemativa competizione/collusione
rappresenta un vicolo cieco, un dilemma canco di disagio da cui è difficile venir fuori. Entrambe le
soluzioni non sono soddisfacenti. Portare avanti un contrasto sistematico significa rompere l'armo-
nia della relazione. D'alfra parte la collusione implica che entrambi, almeno in parte, cedano incri-
nando la coerenza del se e rompendo I'armonia interiore. In tutti e due i casi c'è una perdita di obiet-
tivita e di senso della realtà. In un clima di scontro è difficile valutare le cose serenamente: dopo va-
rie oscillazioni, subentra una sfiducia nella socialita e nelle relazioni profonde in genere. Un'uscita di
sicrtrezza può essere costituita da un modo di condurre la comunicazione (lo script reverberativo)
che permette di evitare sia di cedere, sia di mettersi contro l'altro.

interdipenden za co gmtiv a

radicalizzazione dei punti di vista

mi metto contro cedo

non sto in pace con I'altro non sto in pace con me stesso
perdo obiettività perdo I'obiettività
perdo fiducia nella socialità perdo fiducia nella socialità

(script riverberativo)
non cedo e non mi metto contro
sospendo momentaneamente il giudizio
sto in pace con gli altri e con me stesso vicoli ciechi del-
conservo obiettività e fiducia nella socialità l' interdipendenza co gnitiva

Fí9. 9. Struttura della competizlone e della collu-


sione. Competizione e collusione si possono rappre-
sentrare mediante due ìnsiemi, A'l e 81, in sovrapposi-
zione paaiale. Ciascun insieme è il punto di vista di un
partnen 41 di A e B1 di B. Linsieme intersezione, frul-
to della sovrapposizione, indìca I'area di accordo.
Nella competizione, a differenza che nella collusione,
è vuoto (segno O)l i partner non vedono nulla in comu-
ne. Come indicano le frecce, nella collusione ciascun
partner ha presenle l'area di accordo e il resto del pro-
prio punto di vista, ma trascura la parte di punto di vista
COMPEÎIZIONE COLLUSIONE
dell'altro su cui non c'è accordo. lnvece i partner in
compiètizione lendono a non considerare che sono
d'accordo sul tatto di non essere d'accordo in nulia.
ATTRAZIONE INTERPERSONALE

fenomeno che interviene a vari livelli nella vita sociale, capace di influenzare i giudizi sulle persone e
la produzione di consensi; per la psicologia sociale la produzione di simpatia-antipatia è qualcosa di
fluido e dinamico, che dipende dalle circostanze e dagli sviluppi dellʼinterazione e della relazione.

bellezza
capacità
somiglianza
fattori di diversità condizioni di efficacia -> costi / benefici
attrazione familiarità
lodi
favori
critiche costruttive

del RINFORZO una persona ci è simpatica se è fonte per noi di rinforzi positivi
motivi di attrazione = potenziali rinforzi
TEORIA

del FILTRO per ammettere una persona ad avere a che fare con noi,
pretendiamo che abbia alcuni particolari requisiti
motivi di attrazione = indicatori di accettabilità

LE RELAZIONI PROFONDE

processo di sviluppo
giudizio degli interessati dellʼ intimità:
parametri per interdipendenza cognitiva
la valutazione equità-reciprocità dello scambio 1. contatto sociale
affinità e interessi comuni
complementarietà- 2. attrazione

3. invischiamento
pretese dei partner 4. esplorazione della
relative alla relazione reciprocità

5. reciprocità
dialettiche strutturali
vicoli ciechi

dipendenza stabilità interdipendenza cognitiva


indipendenza cambiamento
radicalizzazione dei punti di vista

competizione collusione
mi metto contro cedo

non sto in pace con lʼaltro non sto in pace con me stesso
perdo obiettività perdo lʼobiettività
perdo fiducia nella socialità perdo fiducia nella socialità

uscita di sicurezza
(script riverberativo)
non cedo e non mi metto contro
sospendo momentaneamente il giudizio
sto in pace con gli altri e con me stesso
PROCESSO DI SVILUPPO DELL’INTIMITA’

A una relazione profonda si arriva attraverso un processi di sviluppo dell’intimità, fatto di tappe
successive. Ciascun caso è una storia a sé e ci sono importanti diversità legate al tipo di relazione:
i contenuti (ciò che si fa, ci si dice e si pensa), i tempi e le condizioni di partenza cambiano a seconda
che a nascere sia un’amicizia, un amore, un rapporto di stretta collaborazione o di educazione.
Tuttavia nelle linee generali il cammino è lo stesso. Occorre che i partner rispettino la sequenza,
muovendosi con coordinazione: essa consente di attraversare contemporaneamente le stesse fasi e
di tenersi in sintonia. Se, ad esempio, uno dei due esplora la reciprocità mentre l’altro è ancora nella
fase dell’attrazione, i suoi tentativi si sondare la disponibilità a corrispondere sembreranno prematuri
e fuori luogo e susciteranno reazioni di difesa
Nella fase di attivazione intervengono i diversi motivi di attrazione e le condizioni che li rendono
più o meno efficaci. Di solito l’invischiamento è caratterizzato da una certa carica emotiva e da
fantasie piuttosto lontane dalla realtà. Si chiama così perchè ciascun partner è come prigioniero
dei propri progetti e di quelli dell’altro. La fase di esplorazione della reciprocità è particolarmente
delicata: svelare le proprie fantasie sulla relazione può portare l’altro a irrigidirsi, ad arretrare o
addirittura a rompere il rapporto. Di regola il tipo di corrispondenza che di fatto nasce è decisamente
più realistico di quello pensato in fase di invischiamento

FASE 1 Contatto sociale A e B hanno occasione di rapporto

FASE 2 Attrazione A e B risultano simpatici l’uno all’altro

FASE 3 Invischiamento A e B fantasticano sugli sviluppi futuri della relazione


e sul ruolo che ciascuno avrà nella vita dell’altro

FASE 4 Esplorazione A sonda quanto B è disposto a corrispondere alle sue


della reciprocità fantasie di relazione e B fa lo stesso

FASE 5 Reciprocità A e B cominciano a corrispondersi


L’Altruismo
L’altruismo e i comportamenti prosociali costituiscono un tema importante della psicologia sociale
recente, che ha dato origine a un filone di ricerca particolarmente fecondo. Definire con criteri scien-
tifici l’altruismo non è facile come può sembrare a prima vista. É indubbio che bisogna escludere i
comportamenti che sotto parvenze altruistiche e prosociali nascondono tendenze egoistiche e anti-
sociali. Per fare questo dobbiamo cercare di capire a che cosa mira il donatore (chi compie l’azione),
se ne ha un tornaconto, se lo fa liberamente o perchè non ha scelta e se il suo intervento è efficace e
produce davvero un beneficio all’accettore (il destinatario dell’azione altruistica). Si tratta di requisi-
ti che è problematico definire con precisione. Ad esempio, un qualche tornaconto psicologico, come
la soddisfazione di aver fatto del bene, ci sarà sempre. Allo stesso modo, anche la norma morale di
aiutare il prossimo si può considerare una costrizione per la persona che ne è convinta.
Nonostante le difficoltà, in psicologia sociale i comportamenti altruistici vengono identificati sulla
base di criteri operativi di massima come: a) la mancanza di ricompense estrinseche evidenti; b) un
costo personale da pagare; c) l’assenza di costrizioni esterne.
É noto il fatto che le persone di fronte al bisogno possono comportarsi in modo opposti, arrivando
a gesti eroici (a volte difficili da comprendere) o a omettere (a volte assurdamente) un soccorso.
C’è poi il fatto che, in tutti i popoli della terra, aiutare gli altri è una specie di arma a doppio taglio:
l’accettore può prendere la cosa bene o male, restare soddisfatto, essere grato, contraccambiare, o
soffrirne e provare risentimento per il donatore. La psicologia sociale cerca di studiare il lato mentale
del rapporto di aiuto, analizzando i processi cognitivi di chi porta e chi riceve l’aiuto.
Il processo cognitivo della decisione altruistica. La decisione di aiutare matura attraverso un
processo cognitivo a più fasi. Il donatore percepisce la situazione (analizza il bisogno, la persona
dell’accettore, se stesso, l’eventuale azione d’aiuto), si motiva ad aiutare (in genere riferendosi a
norme di mutuo soccorso fondate sulla reciprocità sociale, o al criterio dell’utilità collettiva, legato
alla responsabilità sociale), valuta le conseguenze di un suo eventuale gesto altruistico, riconsidera
egoisticamente la situazione, valutando eventuali motivi per sottrarsi, e infine si decide, in un senso
o nell’altro, in base al bilancio che fa dei costi e dei benefici. Una reazione egoistica di difesa, più o
meno accentuata, precede praticamente sempre la risoluzione finale. Determinante è il calcolo dei
costi e dei benefici che il soggetto fa. Si tratta di un bilancio psicologico, perchè i costi e i benefici
per lo più non sono di ordine materiale. Tra i benefici più comuni troviamo la gratificazione che
l’aiuto può dare, l’autorinforzo (il fatto che poi si approvi se stessi per ciò che si è fatto), la cessa-
zione della sofferenza da empatia (veder soffrire a volte fa male), l’appagamento del senso di giusti-
zia (intervenendo rafforziamo la nostra fede in un mondo giusto e ci liberiamo dai sensi di colpa).
I costi che più spesso frenano lo slancio altruistico sono l’impressione di impegno insostenibile
(l’idea che cedendo alle norme altruistiche si entra in una spirale di aiuti senza fine), il dubbio di
realizzare un’iniquità rovesciata (lo svantaggio è per il donatore), il timore per eventuali rischi di
percezione negativa dell’azione da parte delle altre persone.
Uno dei risultati più sorprendenti degli studi relativi al comportamento altruistico è che esso di-
pende più dalla situazione che dai valori e dalle caratteristiche personali stabili. É difficile dividere il
mondo in altruisti ed egoisti, perchè gli individui mostrano scarsa coerenza transituazionale e longi-
tudinale: chi è altruista in una situazione non lo è in un’altra, chi è altruista in un periodo della vita,
può non esserlo in un altro. Di volta in volta il comportamento dinnanzi al bisogno dipende dal pro-
cesso decisionale del soggetto e da una serie di fattori, legati in gran parte alle circostanze e al mo-
mento, come il numero dei presenti e il loro comportamento, il rapporto che si instaura tra i parteci-
panti, l’umore del donatore, il modo in cui l’accettore si presenta e chiede aiuto. Anche i comporta-
menti contraddittori dell’accettore si capiscono pensando che dipendono dalla situazione da lui per-
cepita: può essere convinto di non aver bisogno d’aiuto, può sospettare che il donatore lo stia stru-
mentalizzando, sentirsi a disagio perchè messo in obbligo e umiliato, minacciato nell’autostima.
Lʼ ALTRUISMO
assenza di tornaconto (ricompense estrinseche)
comportamento intenzione del donatore
pro-sociale libera scelta / costrizione
efficacia (produzione di un beneficio)

ambiente fisico

contesto

situazione scena partecipanti scopi presupposizioni valori norme

azione beneficio

DONATORE ACCETTORE

richiesta
elaborazione elaborazione
cognitiva reazione cognitiva

processo cognitivo della decisione altruistica

bisogno
accettore
a. percezione della situazione se stesso
azione dʼ aiuto

mutuo soccorso -> reciprocità sociale


b. motivazione allʼ aiuto
utilità collettiva -> responsabilità sociale

c. valutazione delle conseguenze

d. riconsiderazione egoistica delle conseguenze

impressione di impegno insostenibile

costi iniquità rovesciata

rischio di percezione negativa dellʼ azione

need for competence altruismo


gratificazione affiliazione
autorealizzazione eroico
autorinforzo
benefici
cessazione della sofferenza da empatia

appagamento del senso di giustizia

e. decisione
transituazionale
dipendente dalla situazione -> scarsa coerenza
longitudinale
comportamento scarsa influenza dei valori individuali
altruistico
scarsa influenza delle caratteristiche personali stabili
PROCESSO COGNITIVO DELLA DECISIONE ALTRUISTICA

bisogno
sè stesso
a) percezione della situazione accettore
azione dʼ aiuto

mutuo soccorso reciprocità sociale

b) motivazione allʼ aiuto

utilità collettiva responsabilità sociale

c) valutazione delle conseguenze

impressione di impegno insostenibile

costi iniquità rovesciata

rischio di percezione negativa dellʼ azione


d) riconsiderazione egoistica
delle conseguenze need for competence
gratificazione affiliazione
autorealizzazione
autorinforzo
benefici cessazione della sofferenza da empatia

appagamento del senso di giustizia

e) decisione
I Gruppi

Gli psicologi sociali sono interessati ai rapporti interpersonali e al funzionamento degli organismi
sociali cui le persone danno vita interagendo. Perciò non si interessano ai gruppi in senso lato, bensì
restringono il campo e studiano i piccoli gruppi, formati da tre sino a qualche decina di persone, ca-
ratterizzati dal fatto che i membri sono a diretto contatto sociale (con interazioni ripetute), instaura-
no relazioni significative (amicali, profonde), hanno coscienza di gruppo, sono cioè consapevoli di
costituire un’unità (hanno il senso dell’in-group e dell’out-group) e dal fatto che la vita di gruppo ha
una propria organizzazione, con strutture e processi definiti.
Sono importanti i limiti numerici del piccolo gruppo. Oltre le 30 - 40 persone normalmente si per-
de l’interpersonalità diretta. Due persone, invece, se hanno contatti diretti significativi, anzichè un
gruppo formano una diade, che è regolata da principi di funzionamento in parte diversi, soprattutto
perchè ognuno è indispensabile alla sopravvivenza dell’insieme.
Le prime ricerche sui gruppi, condotte nel periodo antecedente la seconda guerra mondiale, erano
interessate più che altro a confrontare lavoro individuale e lavoro di gruppo. Nel dopoguerra c’è sta-
ta una forte crescita degli studi sui gruppi; dobbiamo in particolare ai contributi di K. Lewin il pas-
saggio al nuovo modo di concepire le ricerche. Lewin, partendo dalla sua teoria del campo (secondo
cui l’individuo agisce motivato dalle forze psicologiche, pensate, in analogia con la fisica, come dei
vettori e dettate da come egli percepisce la situazione del momento), ha elaborato la nozione di dina-
miche di gruppo, l’idea cioè che nell’esperienza di gruppo agiscono sistemi di forze che condiziona-
no i comportamenti individuali.

Coesione di gruppo
La coesione è la capacità del gruppo di resistere alle forze disgregatrici esterne e interne e conserva-
re intatte strutture e composizione. Il gruppo coeso si riconosce per i rapporti tra i membri impron-
tati alla simpatia, il legame e la fiducia e per il senso di appartenenza e l’attaccamento al gruppo.
La coesione di gruppo, a seconda dei casi, può costituire un vantaggio o uno svantaggio. Essere
uniti può portare i singoli a sentirsi meglio e favorire la produttività, specie se si è alle prese con se-
rie difficoltà. Tuttavia la coesione può produrre anche danni. É nota la condizione di “beata impro-
duttività”, in cui al benessere dell’esperienza di gruppo corrisponde un abbassamento del livello di
produttività, anzichè un incremento. Si sa che i gruppi fortemente coesi pretendono più conformità
e emarginano facilmente i dissidenti, arrivando a costituire “oasi” disinserite dal tessuto sociale.
L’effetto negativo più pericoloso della coesione è con ogni probabilità la mentalità di gruppo (group
think): un pensiero condiviso, refrattario alle critiche, che si autoconvalida in forza del consenso in-
terno al gruppo e che fa perdere di vista l’obiettività. La coesione dipende da varie condizioni: le di-
mensioni del gruppo, le sfide esterne, il senso del “noi”, la struttura di ricompense (quando il suc-
cesso di un membro significa successo anche per gli altri, la coesione si rafforza).
In particolare per la coesione è importante la struttura socio-affettiva, cioè il modo in cui si distri-
buiscono simpatie e antipatie reciproche. Ci si può fare un’idea della struttura socio-affettiva di un
gruppo col metodo sociometrico, ideato da Moreno nel 1943, di semplice attuazione, che permette
di costruire una mappa delle preferenze, detta sociogramma. Si tratta di una sorta di “mappa socia-
le”, o diagramma, che mostra le interazioni fra i membri di un gruppo, generalmente in termini di an-
tagonismo o di attrazione reciproca (ad es. ciascun membro indica, in relazione al gruppo, le sue
simpatie ed antipatie, in ambito operativo e ludico, con un ordine di preferenza). Se l’attrazione in-
terpersonale è diffusamente distribuita, il gruppo è nelle migliori condizioni per attestarsi a livelli al-
ti di coesione. Quando invece le simpatie sono distribuite in modo ineguale, tendono a formarsi sot-
togruppi che spezzano la coesione.
GRUPPO A
Fig. 1. Esempi di sociogrammi. Per
chi sceglieresri come
costruire il sociogramma di un gruppo pos" chi sceglieresti come
compagno di banco? compagno di giochi?
siamo chiedere a ciascun membro di indi-
carne un altro a cui vanno le sue simpatie.
ln alternativa si può chiedere di indicarne
pifr di uno e rnetterli in ordine di preferen-
za. ll procedimento è ancora piir accurato,
se si indaga anche sulle antipatie e si
distingue l'ambito operativo da quello ludi-
co. Spesso infatti le persone simpatiche
nel lavoro non sono le stesse nelle attività
ricreative. ln una classe scolastica un
sistema semplice consiste nel far indicare
il compagno che si vorrebbe nello stesso GRUPPO B
banco o con cui si prelerisce giocare.
ll sociogramma del gruppo A suggerisce clisceglieresri come chi sceslíeresd come
compagno dí banco? compalno di giochi?
che ci sono le condizioni per la coesione,
sia nel lavoro scolastico, sia nel gioco. Si
noti pero che nella sfera ludica le simpatie
o ^ !--
I l-:l4A
"./ .;J
si distribuiscono diversamente, concen- --fv
ll --''
"ZR\
I.
trandosi su un membro e lasciandone fuori
tre. Nel gruppo B la distribuzione delle C'' -.-(t .:;ìl
simpatie è diseguale e clè la tendenza alla
formazione di due sottogruppi (i bianchi e @Y'-t2 -/1
-Et
@*-o:0
i:.1

ijs
i grigi). Questo accade sia nel lavoro, sia
nel gioco, ma i'sottogruppi sono diversi. ild
ì.l

Leadership

Il leader di un gruppo è un membro di status piu elevato degli altri per ragioni formali o perchè la
sua superiorità emerge informalmente nei rapporti. Si distinguono solitamente due stili di leadership.
Il leader orientato al coftWíto ("task oriented') bada alle cose da fare ed è essenzialmente un idea-
tore e rn orgaîizzatore del lavoro di gruppo. Invece 1l leader orientato alla relazíone (" group orien-
ted') si preoccupa degli individui e dei rapporti tra loro ed è un armorrjzzatore della vita di gruppo.
Oggi non si usa più la distinzione tra leader autorìtarío e leader democratíco introdotta da Lippit e
White in una famosa ricerca degli anni '40 su gruppi di bambini.
Nella sostanza lo stile che secondo Lippit e White sarebbe autoritario è quello orientato al compito
e 1o stile democratico coincide con I'orientamento alla relazione: negli anni del dopoguerra vigeva la
convinzione: confermata dalla ricerca di Lippit e White, che il leader democratico fosse quello che
ottiene in assoluto i risultati migliori, in qualsiasi situazione, sia sul piano del benessere dentro il
gruppo, sia sul piano della produttività. Tuttavia tale distinzione appare oggi connotata ideologica-
mente e appesantita da giudizi di valore. Negli anni '50 e '60 si è imposta la tesi che l'ideale è una
combinazione dei due stili. Perche il gruppo stia bene e produca, occorre sia I'organizzazione del
lavoro, sia la considerazione e l'attenzione per i membri e i rapporti personali.
Tra le concezioni più accreditate negli ultimi decenni può senz'altro essere indicata quella del mo-
dello della contíngenza di Fiedler, per cui non c'è uno stile di leadership preferibile in assoluto,
ma a seconda delle circostanze conviene I'orientamento al compito o alla rclazione.In particolare è
decisiva la facilita con la quale il leader può imporsi, la attuabilita della leadership: I'orientamento al
compito è piu efficace quando la leadership incontra resisterze, l'orientamento alla relazione è la co-
sa migliore nelle situazioni di moderata attuabilita della leadership.
I GRUPPI: LA PSICOLOGIA SOCIALE

piccoli gruppi diretto contatto sociale (interazioni ripetute)


“small groups” relazioni significative (amicali, profonde)
(3 / 40 membri) coscienza di gruppo (in-group vs out-group)
organizzazione, strutture, processi definiti

ricerche sui gruppi: Lewin e Bales (anni ʻ50)

teoria del campo => forze psicologiche (-> vettori) che motivano lʼindividuo e lo
orientano nella percezione della situazione del momento
Kurt Lewin

dinamiche di gruppo => sistemi di forze che condizionano i comportamenti individuali

sociogramma => mappa sociale, o diagramma che mostra le interazioni fra


i membri di un gruppo, generalmente in termini
di antagonismo o di attrazione reciproca

operativo
simpatie ambito
ludico
ciascun membro indica ordine di preferenza
operativo
antipatie ambito
ludico

coesione di gruppo

capacità del gruppo di resistere alle forze disgregatrici esterne senso di appartenenza
e interne e conservare intatte strutture e composizione -> simpatia fiducia
attaccamento al gruppo

produttività vs “beata improduttività”


pensiero condiviso
conformità refrattario alle critiche
forte coesione -> emarginazione dei dissidenti autoconvalidato dal consenso
“group think” (Janis) carente di obiettività

Leadership leader
orientato

al compito alla relazione


“task oriented” “group oriented”
combinazione
Lippit & vs Bales, Ohio Un. ideale: tra
White (anni ʻ50 / ʻ60) i due stili
(anni ʻ40)
autoritario democratico
(“autoritharian l.”) (“democratic l.”)

Fiedler -> modello della contingenza


il + efficace
a seconda delle circostanze conviene
lʼorientamento al compito o alla
relazione (-> attuabilità della leadership)
SOCIOLOGIA
L’interazione sociale nella vita quotidiana

L’unità fondamentale del comportamento umano è l’atto. Qualsiasi cosa facciamo è un atto: al-
zarsi dal letto la mattina, vestirsi, andare a lezione, leggere una frase. Un atto può essere contenuto
in un altro atto, come in una specie di scatola cinese: leggere un libro può rientrare nell’atto più am-
pio di seguire un corso di sociologia, e questo, a sua volta, può far parte di un atto di portata più
ampia che consiste nel prendere una laurea e così via. Alcuni dei nostri atti non hanno conseguenze
che per noi stessi, ma nella maggior parte dei casi comportano delle relazioni con altre persone, co-
stituiscono un’interazione.
L’interazione sociale è quel processo mediante il quale le persone agiscono e reagiscono in rela-
zione agli atti di altre persone: sorridere ad un amico, scrivere una lettera ai genitori, bere un caffè al
bar, lasciare un oggetto sulla sedia della biblioteca per tenere il posto quando ci si assenta per un pò.
L’interazione umana è estremamente flessibile e varia, e sotto questo aspetto differisce molto da
quella degli altri animali sociali come le formiche o le rondini. Gli animali di altre specie interagiscono
gli uni con gli altri in modo irriflessivo e piuttosto rigido perché grano parte del loro comportamento
è “istintivo”. In altri termini: reagiscono ai diversi stimoli che provengono dall’ambiente secondo
modalità geneticamente programmate.
L’interazione sociale umana è estremamente diversa per il fatto che noi viviamo in un mondo signi-
ficativo, un mondo che siamo in grado di sottoporre alla nostra riflessione ed interpretazione. Noi
reagiamo all’ambiente sociale a seconda del significato che attribuiamo agli oggetti ed agli avvenimen-
ti: un pezzo di legno può essere, a seconda del significato che gli assegniamo, un’arma potenziale,
una mazza da hockey o legname da ardere. Lo stesso vale per l’interazione con gli altri: dobbiamo
interpretare ciò che fanno, altrimenti le loro azioni non hanno alcun significato per noi: di fronte ad
una mano tesa dobbiamo decidere se si trova in quella posizione in segno di amicizia oppure per
sferrare un colpo di karatè. L’interazione sociale si può svolgere ordinatamente soltanto se noi e gli
altri riusciamo a definire e a interpretare le situazioni nelle quali ci troviamo.
Ma com’è possibile interpretare le azioni e le intenzioni degli altri? La chiave della risposta è che
nel corso della socializzazione sviluppiamo il concetto di sé (self): una “persona interiore”, oggetto
dei nostri pensieri e delle nostre riflessioni; il nostro senso del sé ci mette in grado di renderci conto
che anche gli altri hanno un sé e ci permette di assumere il ruolo degli altri nella nostra immaginazio-
ne. Insomma: cerchiamo di vedere le cose dal loro punto di vista, di comprendere il loro modo di
sentire, di predire come probabilmente si comporteranno e di conoscere in anticipo le loro risposte e
reazioni alle nostre azioni.

L’interazione simbolica

Il mondo in cui viviamo è significativo perché è costituito da un ambiente non meramente fisico,
ma anche simbolico. Per simbolo si intende qualcosa che rappresenti in modo significativo qualcosa
di diverso. Qualsiasi cosa può essere un simbolo: una risata, un gesto, un modo di vestire, un croce-
fisso, un pezzo di stoffa colorata a stelle e strisce. Un simbolo ha un significato solo perché arbitra-
riamente la gente gliene assegna uno concordemente. Anche le parole sono simboli ai quali vengono
assegnati arbitrariamente significati condivisi, e il linguaggio è il sistema di simboli più ricco e più
flessibile che esista. Attraverso il linguaggio e altri simboli le persone definiscono e interpretano il
mondo, ordinano il brusìo dei suoni e la confusione dei modelli significativi e negoziano le proprie
interazioni con gli altri.
Questa capacità di penetrare la natura unica della vita sociale degli esseri umani costituisce la base
della prospettiva sociologica dell’interazione simbolica. Secondo Herbert Blumer, uno dei più auto-
revoli esponenti di questa prospettiva, la particolarità del termine “interazione simbolica” consiste
“nel fatto che gli esseri umani interpretano o definiscono le azioni l’uno dell’altro, piuttosto che
semplicemente reagirvi. La loro risposta non si riferisce direttamente alle azioni reciproche, ma inve-
ce è basata sul significato che essi attribuiscono a tali azioni. Così l’interazione umana è mediata dal-
l’uso di simboli, dall’interpretazione, o dall’accertamento del significato delle azioni reciproche.
Questa mediazione significa che tra stimolo e risposta si inserisce un processo interpretativo che è
appunto peculiare al comportamento umano”.
In breve, non rispondiamo direttamente agli altri: interpretiamo gli avvenimenti della vita quotidia-
na secondo le categorie e le definizioni che la nostra cultura ci offre e che apprendiamo attraverso
l’interazione con gli altri.
La prospettiva interazionista mette principalmente a fuoco il micro ordine, il tessuto di azioni
spicciole, quotidiane di cui si compone la vita sociale corrente. Larga parte di questi innumerevoli
avvenimenti passano facilmente inosservati perché sono dati per scontati; tuttavia, tutti insieme,
producono e rendono possibile l’esistenza di ciò che chiamiamo società. Pertanto lo studio del mi-
cro ordine ci offre un fondamentale complemento per l’analisi del macro ordine, cioè dei processi e
delle strutture di grandi dimensioni.

Il sé nella vita quotidiana

Il sé che si presenta agli altri varia a seconda delle situazioni. La natura della vita sociale è tale che
in situazioni diverse dobbiamo presentare aspetti diversi di noi stessi: il sé che presentiamo ai geni-
tori è diverso di quello che presentiamo agli amici o agli estranei. Se ciascuno di noi si comportasse
esattamente nello stesso modo con ciascun altro, ne risulterebbe il caos sociale. Non riusciremmo a
svolgere i vari ruoli che, fin dall’infanzia, abbiamo imparato a svolgere: figlio, studente, impiegato,
operaio e così via.
Il sé che presentiamo agli altri è dunque strettamente connesso al ruolo che stiamo svolgendo in
quel momento, che è a sua volta connesso con un nostro status specifico (uomo, donna, studente,
camionista, artista, ecc.). In molti tipi di interazione sociale le norme che disciplinano il comporta-
mento delle persone che svolgono particolari ruoli sono abbastanza chiare: quando paghiamo alla
cassiera una consumazione, generalmente l’interazione ha per entrambi il carattere di routine. In altre
situazioni le definizioni di comportamento appropriato o sono ambigue o mancano del tutto. Per
esempio, non c’è un modello univoco di comportamento nel caso che noi troviamo un intruso nella
nostra stanza. In ogni caso, non svolgiamo i ruoli che ci competono come se fossimo dei burattini;
spesso dobbiamo progettare attivamente l’esecuzione di un ruolo, esplorando con l’immaginazione
le diverse possibilità e scegliendo quella che sembra più conveniente.
Quando progettiamo l’esecuzione di un ruolo teniamo conto delle aspettative che gli altri hanno nei
nostri confronti. Queste aspettative comuni presentano un gran numero di piccole regole delle quali
è ben raro che ci rendiamo conto. Un esempio di esse è la regola tacita riguardante ciò che Ervin
Goffman chiama “disattenzione civile” verso gli estranei in pubblico: ci comportiamo in modo tale
da mostrare la nostra consapevolezza della loro presenza, ma a distanza ravvicinata evitiamo di
guardarli negli occhi. In effetti li ignoriamo educatamente. Goffman mette in evidenza come il ruolo
di passante comporti spesso un comportamento di “disattenzione civile”.

L’approccio drammaturgico

Buona parte delle nostre conoscenze delle regole tacite dell’interazione sociale provengono dagli
scritti di Ervin Goffman (The presentation of Self in Everyday Life, 1959, trad. it. La vita quoti-
diana come rappresentazione, 1969; Asylums, 1961; Espressione e identità, 1967; Interazione stra-
tegica, 1969; Relations in public, 1961). Il lavoro di Goffman sembra spesso situarsi al di là delle
principali correnti della ricerca sociologica. Il suo modo di guardare ai dettagli e alle sottigliezze del
comportamento sociale assomiglia più a quello di un romanziere che a quello di uno scienziato; tut-
tavia, le sue descrizioni appaiono così distaccate e impersonali che sembrano riferirsi al comporta-
mento di una specie diversa. La voluta irriverenza con cui, sfidando remore metodologiche e gerar-
chie intellettuali, Goffman accosta nella stessa pagina citazioni colte, riferimenti a manuali di etichet-
ta e curiosi ritagli di giornale lo rendono un sociologo fuori dal comune e difficile da catalogare in
qualche corrente conosciuta. Però la sua capacità di afferrare i “piccoli saluti, i complimenti e le scu-
se che punteggiano la vita sociale” è brillante e convincente. Egli afferma che una vita sociale ordina-
ta è possibile grazie alle tacite regole dell’interazione; pertanto una descrizione accurata della società
deve comprendere un resoconto di queste regole.
Già nella sua prima e più nota opera, La vita quotidiana come rappresentazione, sono evidenti i
temi che caratterizzeranno la sua ricerca: l’indagine sugli aspetti trascurati del mondo quotidiano, la
componente “drammaturgica” degli “incontri sociali”, le situazioni in cui gli individui si trovano a
interagire faccia a faccia. In questa prospettiva, la vita quotidiana viene tematizzata come un “gioco
di rappresentazioni”, nel quale l’identità (self) dell’individuo coincide di volta in volta con le “ma-
schere” che egli indossa su diversi palcoscenici. Goffman prende in seria considerazione il concetto
di “interpretazione” di un ruolo; analizza l’interazione sociale come se i partecipanti fossero attori
sulla scena: come se interpretassero le varie parti e le varie scene seguendo il copione e improvvisan-
do la recitazione laddove il copione è poco chiaro o incompleto. Le persone, secondo Goffman, so-
no profondamente interessate al controllo dell’impressione: tutti cercano di controllare l’impressio-
ne che esercitano sugli altri presentandosi nella luce più favorevole. A tal fine le persone devono co-
struire con cura lo “scenario”, magari affiggendo poster alle pareti o disponendo sul tavolo libri ric-
camente illustrati, o ricorrendo ad oggetti personali particolari (ad esempio una borsa griffata).
Le persone ripongono molta attenzione nell’indossare i vestiti adatti a particolari occasioni sociali
e a presentarsi in modo differenziato: per esempio con abiti casual per un amico, alla moda per una
serata in discoteca, eleganti per un ricevimento, formali per un colloqio diretto all’assunzione di un
posto di lavoro.
Goffman sostiene che abbiamo sia un “retroscena” (backstage) sia un “palcoscenico” (frontstage)
per le nostre rappresentazioni. Per esempio, i camerieri di un ristorante svolgono un ruolo quando
servono i clienti e passano a un altro, più rilassato, nel retroscena della cucina, per tornare poi alla
rappresentazione di prima quando si ripresentano ai clienti. Similmente una coppia di sposi che in-
trattiene un’altra coppia durante la cena può prendersi un momento di pausa quando gli ospiti sono
intenti a fare qualche altra cosa, approfittandone per scambiarsi qualche idea sulla propria rappre-
sentazione e sul modo di migliorarla. Infatti buona parte del controllo dell’impressione comprende
un “lavoro di gruppo” di questo genere. I genitori collaborano per impedire che i loro figli sappiano
delle liti coniugali. I professori che si detestano l’un l’altro fanno attenzione a nascondere la loro ini-
micizia in presenza di studenti. Gli uomini politici irradiano una comune aria di fiducia attendendo i
risultati delle elezioni.
Non sempre il tentativo di presentare il self in una luce favorevole ha successo. Spesso il pubblico
sa alla perfezione ciò che l’attore sta facendo e valuta esattamente la rappresentazione, notando sia
le impressioni che l’attore “dà” intenzionalmente, sia quelle che “gli scappano” senza volerlo. I “ge-
sti involontari” possono “distruggere l’armonia di tutta una rappresentazione”: l’attore può perdere
momentaneamente il controllo dei muscoli (inciampare, cascare, sbadigliare, fare una “papera”, la-
sciar cadere le cose); può agire in modo da dare l’impressione di essere troppo o troppo poco inte-
ressato all’interazione (balbettare, apparire imbarazzato, arrossire, ridere troppo vigorosamente,
tremare, stare troppo vicino); può metter in scena rappresentazioni che risentono di una regia inade-
guata (l’ambientazione può esser impropria o disordinata, alterarsi durante l’azione, ecc.).
Se i gesti appaiono recitati con troppo studio o se non si adattano alla parte verbale della rappre-
sentazione, il pubblico ha il sospetto che siano insinceri. Talvolta, naturalmente, le persone riescono
ad ottenere una risposta - come il rispetto, la fiducia o il favore - alla quale non hanno diritto (Goff-
man distingue tra rappresentazioni “in buona fede” e “in mala fede”). In tal caso un “colpo” è anda-
to a segno. Talvolta, infatti, tutti coloro che partecipano a un incontro possono fare in modo di con-
vincere gli altri che il sé che stanno illustrando è autentico anche quando non lo è.

Gesti non intenzionali. É facile commettere atti di per sé di importanza secondaria e trascurabili,
ma tali da comunicare chiaramente impressioni intempestive, che screditano la propria rappresenta-
zione o quella di un compagno di equipe.

Intrusioni inopportune. Quando un estraneo entra in un territorio in cui si sta svolgendo una rap-
presentazione, le persone presenti possono accorgersi i essere state viste mentre svolgevano attività
palesemente incompatibili con l’impressione che, in virtù di ragioni sociali più generali, devono man-
tenere agli occhi dell’intruso.

Passi falsi. Quando un attore, mediante il suo comportamento non intenzionale ma incauto, di-
strugge l’immagine della propria equipe, possiamo parlare di gaffes o di “papere”. Nel caso in cui
un attore comprometta l’immagine di sé proiettata dall’equipe, possiamo dire che si tratta di bricks
(termine che non ha equivalente nella lingua italiana e sta a designare una situazione in cui uno dei
presenti “peggiora la situazione” facendo rilevare l’ “incidente” o la “papera” in cui è incorso un
membro dell’equipe).
“Se tra i presenti ci sono persone che non conosci, bada a non lasciarti scappare delle battute o pic-
coli sarcasmi divertenti. Potresti parlare di corda in casa dell’impiccato. Il primo requisito per soste-
nere una conversazione brillante è quello di conoscere bene tutta la compagnia. Incontrando un ami-
co che non vedi da molto tempo e di cui non conosci in modo approfondito e aggiornato le vicende
familiari, evita di fare domande o allusioni a singoli membri della sua famiglia fintanto che non sei
messo al corrente di quanto è loro accaduto.” (The canons of Good Breeding, cit. in E. Goffman,
La vita quotidiana come rappresentazione)

Scenate. Esistono situazioni in cui l’individuo agisce in modo da distruggere o mettere in grave
pericolo il consenso che apparentemente la cortesia degli interlocutori crea e in cui, benchè egli non
agisca solamente per il gusto di creare un tale scompiglio, pure agisce ben sapendo che questo può
avvenire. L’espressione comunemente usata in questi casi, “fare una scenata”, è appropriatissima,
per-ché effettivamente con questo disturbo si crea una nuova scena.

Attributi e tecniche di difesa

Lealtà drammaturgica. É evidente che se l’équipe deve attenersi alla linea di condotta adottata, i
componenti della medesima dovranno agire come se avessero accettato certi obblighi morali. Essi
non dovranno, cioé, tradire i segreti dell’équipe fra una rappresentazione e l’altra per interesse per-
sonale, per principio o per mancanza di discrezione (ad es. i membri adulti di una famiglia devono
spesso stare attenti a che i bambini non ascoltino le loro chiacchiere o confidenze).

Disciplina drammaturgica. É decisivo per il mantenimento della rappresentazione d’équipe che


ogni suo componente sia dotato di un senso di disciplina drammaturgica e che poi vi si attenga pre-
sentando la sua parte. L’attore deve, cioé, apparire immerso e infervorato nell’attività che sta rap-
presentando ed essere esteriormente assorbito dalle sue azioni in un modo spontaneo e non calco-
lato, ma d’altro lato egli deve essere distaccato nella sua recitazione così da essere in grado di porre
rimedio agli incidenti di indole drammaturgica che possono capitare. Da un punto di vista
drammaturgico, un attore è disciplinato quando ricorda la sua parte, evita di commettere gesti non
intenzionali o passi falsi durante la rappresentazione, è discreto e non rivela i punti deboli dello
spettacolo divulgandone involontariamente i segreti, ha “presenza di spirito” e può ovviare con
tempestività al comportamento inappropriato dei suoi compagni di équipe.

Circospezione drammaturgica. Gli attori devono usare prudenza e circospezione nel mettere in
scena lo spettacolo, preparandosi in anticipo a possibili contingenze e sfruttando le possibilità che
si offrono. Occorre prudenza: quando c’è poca probabilità di essere visti, si può approffittarne per
rilassarsi; qunado c’è poca probabilità di essere messi alla prova, si possono portare alla luce i fatti
così come sono.

Le azioni di allineamento
Quando il comportamento di una persona ha violato, o sembra abbia violato, le tacite regole di con-
dotta, il colpevole cerca spesso di “salvare la faccia” minimizzando l’importanza della violazione.
Gli stratagemmi di questo genere si chiamano “azioni di allineamento” perché tentano di riportare le
impressioni del pubblico riguardanti il sé dell’attore in linea con l’impressione che egli intendeva of-
frire (Stokes a Hewitt, “Aligning actions”, 1976).
Un tipo di azioni di allineamento é la spiegazione (account) che viene usata per scusare o giustifi-
care il comportamento inappropriato che si é tenuto (“Mi rendo conto che non avrei dovuto ma...”;
“Mi avete frainteso, ciò che intendevo dire...”; “So di fare una cattiva impressione in questo mo-
mento, ma...”).
Un secondo tipo é il diniego (disclaimer), che viene usato per giustificare un comportamento per-
cepito dagli altri come “inappropriato” rifiutando di accettare l’interpretazione altrui del fatto o
non ammettendo l’azione stessa in forma argomentativa. Un tipico diniego inizia con espressioni
come: “Ascoltatemi prima di interrompermi...”; “So che il mio comportamento può esservi
sembrato stupido, ma...”.
Queste azioni di allineamento spianano il corso dell’interazione sociale, permettendo al pubblico,
se lo vuole, di trascurare atti che altrimenti potrebbero essere interpretati come distruttivi, tali da
annientare l’impressione che l’attore cerca di produrre.

L’Etnometodologia

Nella nostra vita quotidiana negoziamo innumerevoli interazioni con altre persone, molte delle quali
non avevevamo mai viste prima. Condividiamo con le altre persone che appartengono alla nostra
cultura le stesse idee fondamentali sulla natura della realtà sociale e questi assunti dati-per-scontati
servono per gran parte della routine a livello dei rapporti sociali più ovvi. A dire il vero queste
intese di fondo vengono tranquillamente trascurate, al punto che perfino i sociologi spesso le
ignorano. Tuttavia a partire dagli anni settanta, alcuni sociologi hanno prospettato un nuovo
approccio a questi aspetti dell’interazione sociale, un approccio che presenta dei punti in comune
con l’interazionismo simbolico e con l’analisi drammaturgica, ma che si differenzia da questi sia dal
punto di vista dei metodi che impiega che da quello delle cose che mette a fuoco. Questo approccio,
detto etnometodologia è lo studio del modo in cui le persone costruiscono e condividono la loro
definizione della realtà nell’interazione quotidiana (Harold Garfinkel “The ethnomethodological
paradigm”, 1970). Ethnos è una parola greca che significa “popolo”, quindi il titolo di questo
approccio sta a indicare semplicemente un metodo diretto a studiare il modo sottinteso in cui la
gente (“ethnos”) comprende il mondo sociale.
Gli etnometodologi sono particolarmente interessati alla comunicazione attraverso il linguaggio,
perché le parole hanno più o meno significato a seconda dei sottintesi che i partner della conversa-
zione condividono. Per esempio, in un ipotetico dialogo tra il padre e il proprio figlio adolescente:
Padre: dove vai? Figlio: Fuori. Padre: E che cosa fai? Figlio: Niente. Padre: Quando torni? Figlio:
Più tardi. Il reale significato della conversazione è più o meno il seguente: Padre: Non uscirai anche
stasera, no? Dove vai a quest’ora? Figlio: Sì, vado fuori, ma non ti dico dove e per piacere non
scocciarmi. Padre: Mi preoccupo perchè potresti cacciarti nei guai. Con chi esci e che cosa hai in
mente di fare? Figlio: Alla mia età so provvedere a me stesso, per questo non ho bisogno di dirti
ogni volta dove vado. Padre: Va bene, ma non tornare troppo tardi. Figlio: Non mi va di dirti
quando torno; può darsi che torni molto tardi.

La tecnica principale dell’etnometodologia sviluppata dal suo fondatore Harold Garfinkel consiste
nello “svelare le regole violandole”, nel mettere a nudo le intese comuni infrangendole. Nei
suoi esperimenti Garfinkel ha invitato i suoi studenti a comportarsi come se non comprendessero i
fondamentali assunti taciti che regolano l’interazione sociale: così, per esempio, si mettevano a con-
trattare il prezzo di un articolo nei supermercati, violavano le regole di qualche gioco di carte o si ac-
costavano sempre di più all’interlocutore con il quale conversavano. In ogni caso le reazioni dei sog-
getti - sorpresa, collera o imbarazzo - mostravano che una breccia si era aperta nelle loro tacite inte-
se riguardo alla realtà sociale. Garfinkel chiese ai suoi studenti di comportarsi in famiglia come se
fossero dei pensionanti e non i figli o le figlie. Essi si rivolgevano ai loro genitori chiamandoli “signo-
re” o “signora”, a tavola esibivano maniere formali, chiedevano educatamente di usare il frigorifero e
così via. Garfinkel riferisce che nella gran parte dei casi “i familiari erano stupefatti. Cercavano di
sforzarsi per comprendere questo strano modo di fare e di riportare la situazione alla normalità. I
resoconti riportavano lo stupore, lo smarrimento, l’ansia, l’imbarazzo e la collera nonché le accuse
rivolte allo studente dai vari membri della famiglia di essere meschino, privo di riguardi, egoista,
dispettoso e maleducato. I familiari chiedevano spiegazioni: Che cosa succede? Che cosa ti è preso?
Sei arrabbiato? Ti senti male? Sei pazzo? Stai dando di fuori o sei soltanto stupido?”.
Gli studenti erano stati invitati a portare avanti la rappresentazione per circa quindici minuti-mez-
z’ora, ma la disgregazione degli schemi di interazione familiare fu così forte che pochi riuscirono a
svolgere il loro ruolo per il tempo previsto. Alla fine la spiegazione da parte degli studenti placò gli
umori logorati e scossi dei familiari, ma - come nota Garfinkel - essi non si divertirono affatto.
In un altro dei suoi esperimenti, Garfinkel domandò agli studenti di avviare normali conversazioni
con amici e conoscenti, ma di chiedere all’interlocutore di chiarire il significato di tutti i luoghi comu-
ni espressi nelle osservazioni e nelle frasi. I resoconti rivelano le reazioni di imbarazzo, sconcerto e
collera dei soggetti interpellati. In generale, si può affermare che lo scopo delle ricerche di Garfinkel
è proprio quello di mostrare come nelle persone coinvolte nell’interazione quotidiana la violazione
delle regole produce sempre collera, ansia e confusione, mettendo allo scoperto le intese tacite delle
quali ci rendiamo scarsamente conto nel corso della vita.

La comunicazione non verbale

Una parte notevole dell’interazione umana è di tipo non verbale, cioè ha luogo non attraverso il me-
dium del linguaggio, ma attraverso altri simboli. Due forme importanti di comunicazione non verbale
sono costituite dal linguaggio del corpo - le espressioni del volto, i gesti - e dalla manipolazione dello
spazio fisico tra le persone.
La forma più evidente del linguaggio del corpo è costituita dalle espressioni facciali e dai gesti fatti
con le mani. Le espressioni facciali che comunicano emozioni fondamentali quali la collera, la paura,
la tristezza, il divertimento, la perplessità e il disgusto sono degli universali culturali; sembra che
siano congeniti nella nostra specie e che vengano compresi dagli individui socializzati di tutte le
culture (Ekman et al., 1972). I gesti invece variano da una cultura all’altra e non sembra che ve ne sia
alcuno che mantenga un identico significato in tutte le società. Ad esempio, se nel Nord America una
persona si dà una tiratina all’orecchio, vuol dire semplicemente che sente del prurito. Ma in Jugosla-
via lo stesso gesto significa sdegno per una manifestazione di effeminatezza, in Turchia una prote-
zione contro il malocchio, in Grecia un avvertimento ai bambini che stanno per essere puniti, in Sco-
zia un segno di scetticismo, a Malta allude ad un informatore. I gesti, quindi, possono essere compr-
esi solo da persone che condividendo lo stesso background culturale, attribuiscono loro lo stesso si-
gnificato simbolico.
Un altro modo in cui le persone possono comunicare tra loro consiste nella manipolazione dello
spazio che le separa. Le persone hanno un senso molto spiccato dello spazio personale che le cir-
conda e sono sommamente disturbate quando esso viene invaso. Edward T. Hall (La dimensione
nascosta, 1966) che ha effettuato uno studio comparativo sugli atteggiamenti relativi alla vicinanza
fisica presenti nelle varie culture, ha trovato che i vari popoli differiscono rispetto al grado di pros-
simità fisica con estranei e conoscenti che essi tollerano. Hall ha accertato che esistono quattro aree
diverse di spazio privato. La prima è la distanza intima (fino a 45 cm), riservata ai contatti per-
sonali intimi. La seconda è la distanza personale (fino a 1,2 m) riservata agli amici e ai conoscenti;
all’interno di questa zona esiste una qualche intimità, ma i limiti sono ben definiti. La terza è la di-
stanza sociale (fino a 4,5 m), che si tiene in situazioni relativamente formali come le interviste. La
quarta è la distanza pubblica (oltre 4,5m) che è tenuta dalle persone (personaggi pubblici, oratori,
politici) che intendono distinguersi dal pubblico al quale si rivolgono, essendo anche spesso vinco-
lati a protocolli ufficiali. L’invasione dello spazio personale suscita sempre delle reazioni da parte
delle persone il cui spazio è stato invaso.

La costruzione sociale della realtà

Generalmente le persone danno per scontato il mondo esterno. La realtà (con le sue componenti
categoriali: tempo e spazio, causa ed effetto, animale e vegetale, ecc.) sembra esistere come un fatto
esterno che offre a tutti lo stesso aspetto; essa apaare “autoevidente”. Invece non è così. La “realtà”
che ci troviamo di fronte altro non è che l’interpretazione che diamo dei dati dei nostri sensi, per cui
individui che appartengono a culture diverse interpretano la realtà molto diversamente.
Peter Berger e Thomas Luckmann (La realtà come costruzione sociale, 1963) hanno descritto co-
me la realtà viene costruita socialmente attraverso un processo che comprende tre stadi:

1. Esteriorizzazione. Si realizza quando, attraverso l’interazione sociale, gli individui creano dei
prodotti culturali. Questi sono dei tipi più disparati: prodotti materiali lavorati, istituzioni sociali,
idee intorno alla natura umana. Una volta che questi prodotti sono stati creati, diventano in un certo
senso “esterni” rispetto a coloro che li hanno prodotti.

2. Oggettivazione. Si realizza quando i prodotti esteriorizzati acquistano una realtà in sé, diventa-
no indipendenti da coloro che li hanno creati; gli individui perdono la coscienza di essere i creatori
del loro ambiente sociale e gli autori delle loro interpretazioni della realtà.

3. Interiorizzazione. Si realizza quando, attraverso il processo di socializzazione, gli individui ap-


prendono i fatti, che presumono oggettivi, incorporandoli nella loro coscienza (soggettiva e “interio-
re”). Gli individui socializzati in culture e subculture simili hanno la stessa percezione della realtà e
raramente si interrogano sulle origini delle loro credenze e cercano di comprendere il processo attra-
verso il quale queste credenze sono venute alla ribalta.
LʼINTERAZIONE SOCIALE NELLA VITA QUOTIDIANA

ATTO unità fondamentale del comportamento

relazione “attori sociali” umana flessibile


con altre interazione sociale
persone animale rigida

SELF > concetto di sé SIGNIFICATI


(looking glass self) e
INTERPRETAZIONI
delle SITUAZIONI

assunzione del reazioni degli altri al


ruolo degli altri nostro comportamento

INTERAZIONE SIMBOLICA microordine -> tessuto di azioni quotidiane di cui


si compone la vita sociale corrente

SIMBOLO -> qualcosa che rappresenti in modo


significativo qualcosa di diverso

INTERPRETAZIONE vs reazione => gli esseri umani interpretano e definiscono le azioni


lʼ uno dellʼ altro, piuttosto che semplicemente reagirvi.

self - vita quotidiana


SEʼ e RUOLI

presentazione di vari sè esecuzione di


in situazioni diverse ruoli conformi -> (es. disattenzione civile)
alle aspettative

Erving Goffman :
APPROCCIO regole tacite del- ATTORI sulla SCENA
DRAMMATURGICO lʼ interazione sociale
SCRIPTS - improvvisazione

azioni di evitamento dei controllo sullʼ impressione


allineamento gesti recitati con
“troppo studio” SCENARIO
(violazione di
regole tacite) front back
stage

spiegazione (account) giustificazione con ammissione


utilizzo di scusanti dellʼ azione

diniego (disclaimer) argomentazione non ammissione


rifiuto di accettare dellʼ azione
lʼ interpretazione
altrui del fatto
L’approccio drammaturgico di Ervin Goffman

The presentation of Self in Everyday Life, 1959 La vita quotidiana come rappresentazione, 1969
una vita sociale ordinata è possibile grazie alle tacite regole dell’interazione
guardare ai dettagli e alle sottigliezze del comportamento sociale,
afferrare i “piccoli saluti, i complimenti e le scuse che punteggiano la vita sociale”
per fornire una descrizione accurata della società.
componente “drammaturgica” degli “incontri sociali”, delle interazioni faccia a faccia

vita quotidiana => “gioco di rappresentazioni”


identità (self ) => “maschere sociali”
interazione sociale => attori sulla scena con copioni (script) e parti improvvisate

controllare l’impressione che si esercita sugli altri:


costruire lo “scenario”, indossare vestiti adatti, etc.

“retroscena” vs “palcoscenico”
(backstage) (frontstage)

presentazione del self e coerenza drammaturgica: gli errori

scarto tra le impressioni che l’attore “dà” intenzionalmente e quelle che “gli scappano” senza volerlo

Gesti non intenzionali (es. inciampare, cascare, sbadigliare, lasciar cadere le cose, balbettare, apparire
imbarazzato, arrossire, ridere troppo vigorosamente, tremare, stare troppo vicino);

Intrusioni inopportune entrare in un territorio in cui si sta svolgendo una rappresentazione incompatibile con
l’impressione che si vorrebbe che l’estraneo mantenesse dell’attore o degli attori

Passi falsi l’attore con un comportamento incauto distrugge l’immagine della propria equipe con
gaffes e bricks (termine che designa una situazione in cui uno dei presenti “peggiora la
situazione” facendo rilevare la gaffe in cui è incorso un membro dell’equipe).

Scenate l’individuo agisce in modo da mettere in grave pericolo il consenso che la cortesia degli
interlocutori crea, ben sapendo che questo può avvenire.

Attributi e tecniche di difesa

Lealtà drammaturgica => attenersi alla linea di condotta adottata, non tradire i segreti dell’équipe

Disciplina drammaturgica => equilibrio immedesimazione/distacco da parte dell’attore, evitamento degli errori

Circospezione drammaturgica => usare prudenza nella messa in scena, anticipando problemi
o situazioni inopportune

Azioni di allineamento => riportare le impressioni del pubblico riguardanti il sé dell’attore in linea con
l’impressione che egli intendeva offrire

spiegazione (account) vs diniego (disclaimer)


scusare o giustificare il comportamento rifiutare di accettare l’interpretazione altrui del fatto o
inappropriato che si é tenuto non ammettendo l’azione stessa in forma argomentativa
ETNOMETODOLOGIA

Harold Garfinkel “The ethnomethodological paradigm”, 1970

studio del modo in cui le persone costruiscono e condividono


la loro definizione della realtà nellʼ interazione quotidiana;
metodo diretto a studiare il modo sottinteso in cui la gente
(-> “ethnos”) comprende il mondo sociale.

tecnica fondamentale = svelare le regole violandole;


assunzione di comportamenti che non rispettano i fondamentali
assunti taciti che regolano lʼ interazione sociale quotidiana

la violazione delle regole produce sempre collera, ansia e


confusione, mettendo allo scoperto le intese tacite delle
quali ci rendiamo scarsamente conto nel corso della vita.

COMUNICAZIONE NON VERBALE

a) linguaggio del corpo

espressioni gesti
del volto

universali variazioni
culturali culturali

b) manipolazione dello spazio fisico tra le persone:

PROSSEMICA

Edward T. Hall, La dimensione nascosta, 1966

studio comparativo degli atteggiamenti verso la vicinanza fisica presenti nelle varie culture:
i vari popoli differiscono rispetto al grado di prossimità fisica con estranei e conoscenti che essi tollerano.

Quattro aree di spazio privato

1. Distanza Intima ( - > fino a 45 cm) contatti personali intimi

2. Distanza Personale (- > fino a 1,2 m) amici “fase di vicinanza” 45/ 70 cm


conoscenti “fase di lontananza” 70/120 cm

3. Distanza Sociale ( - > fino a 4,5 m) affari impersonali,


incontri occasionali “fase di vicinanza” 1,20/ 2,10 m
situazioni formali “fase di lontananza” 2 /4,5 m

4. Distanza pubblica ( - > oltre 4,5m) personaggi pubblici,


oratori, politici

COSTRUZIONE SOCIALE DELLA REALTAʼ


P. Berger,T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, 1963

1. Esteriorizzazione gli individui creano dei prodotti culturali

2. Oggettivazione i prodotti acquistano una realtà in sé, diventano indipendenti


da coloro che li hanno creati; gli individui perdono la coscienza di
essere i creatori del loro ambiente sociale.

3. Interiorizzazione attraverso il processo di socializzazione, gli individui apprendono i


fatti, che presumono oggettivi, incorporandoli nella loro coscienza.
LA DEVIANZA

La maggior parte delle persone agisce quasi sempre in conformità alla maggior parte delle norme; di
conseguenza la vita sociale si svolge secondo un modello abbastanza regolare che non è difficile pre-
dire. Ma se è vero che le norme sociali vengono spesso rispettate, è anche vero che esse vengono tal-
volta violate. Alcune persone derubano, stuprano, truffano altre persone. Dunque un’immagine
completa della società deve comprendere la devianza dalle norme sociali, così come comprende la
conformità ad esse.
In senso stretto la devianza è un comportamento non conforme alle norme sociali, ma
questa definizione non è di grande utilità, perché a molte norme non viene attribuita una grande im-
portanza, per cui un certo, variabile grado di devianza rispetto ad esse è tollerato o ingnorato. Le de-
viazioni di minore importanza dalle norme e le deviazioni da norme di cui non ci si cura più di tanto
hanno scarse conseguenze - se ne hanno - e non sono di particolare interesse per il sociologo.
La sociologia della devianza si interessa principalmente delle violazioni che vengono consi-
derate offensive da un consistente numero di persone. La prima caratteristica condivisa
da coloro che generalmente vengono considerati devianti è lo stigma, il marchio dell’ignominia che
segrega il deviante da coloro che si considerano “normali”. Per quel che riguarda la sociologia, dun-
que, la devianza si riferisce al comportamento o alle caratteristiche che violano norme e aspettative
sociali importanti e che di conseguenza sono oggetto di valutazione negativa da parte di un gran nu-
mero di persone. Per chiarire il concetto è necessario aggiungere tre considerazioni:
a) in primo luogo la devianza non va confusa con la rarità statistica: ad esempio, correre
per un paio di chilometri prima di far colazione è un fatto statisticamente insolito, ma chi lo fa non è
perciò considerato deviante;
b) in secondo luogo non è possibile dividere rigidamente la società in, buoni e cattivi, con i “devian-
ti” che non si conformano e i “normali” che lo fanno. Anche se la maggioranza delle persone gene-
ralmente si conforma a ogni norma che sia importante per la sociatà, la maggior parte di essa ha vio-
lato una o più norme importanti in qualche momento della sua esistenza;
c) la terza considerazione è che la devianza è relativa. Di per sé nessun atto è a priori deviante. Di-
venta deviante soltanto quando viene socialmente definito come tale e le definizioni variano forte-
mente nel tempo, nello spazio e da un gruppo all’altro: l’eretico di un’epoca può essere il santo di
un’altra. Chi e cosa è stato definito deviante dipende da chi dà la definizione e da chi ha il potere di
farla osservare.
È possibile anche che lo stesso atto sia interpretato in modo diverso a seconda dello specifico con-
testo in cui viene compiuto: stare senza “far niente” in casa o in pubblico, ad esempio, ha un diverso
valore per la nostra società, e se vi trattenete a lungo all’angolo di una strada, la polizia potrebbe
chiedervi cosa fate, chiedervi i documenti, persino - in alcuni paesi - arrestarvi per vagabondaggio.
Un atto può provocare reazioni diverse a seconda dello status sociale della persona interessata: se
ad esempio un maschio di bassa levatura sociale compie atti di esibizionismo in un parco, probabil-
mente sarà accusato di atti osceni in luogo pubblico, ma se il presidente di una grande società si
comporta nello stesso modo, è quasi certo che non verrà arrestato, bensì affidato ad uno psichiatra.

Devianza e controllo sociale

L’ordine sociale può esistere soltanto se esiste un efficace sistema di controllo sociale, cioé un in-
sieme di mezzi diretti a garantire che normalmente la gente si comporti nei modi attesi ed approvati.
Il controllo sociale inizia con il processo di socializzazione, che in linea di principio garantisce che
tutti interiorizziono e seguano le norme della società.
Nella misura in cui la socializzazione non è in grado di garantire una sufficiente conformità, sono
necessari ulteriori mezzi di controllo sociale. La società rafforza le sue norme mediante le sanzioni,
cioé ricompensando chi segue tali norme e punendo chi non lo fa. Tutti e due i tipi di sanzione pos-
sono essere erogati sia in modo formale, secondo uno schema organizzato, sia in modo informale,
mediante le reazioni spontanee delle altre persone. Una sanzione formale positiva, ad esempio,
può consistere nell’assegnazione di una medaglia, una sanzione formale negativa nell’incarcera-
zione. Una sanzione informale positiva può consistere in una pacca sulla spalla o in un compli-
mento, una sanzione informale negativa in uno sguardo di disapprovazione o in un insulto pro-
nunciato ad alta voce.
Paradossalmente la presenza della devianza può contribuire in realtà a rendere efficace il controllo
sociale. Emile Durkheim (La divisione del lavoro sociale, 1893) ha sostenuto che una limitata quan-
tità di devianza è funzionale per la società perché l’esistenza dei devianti è necessaria per definire i
confini del comportamento lecito. Quando la società stigmatizza i ladri o le prostitute riafferma an-
che le norme esistenti e avverte gli altri di ciò che li attende se non seguiranno le regole. L’esempio
pubblico della stigmatizzazione del deviante è una prova dell’insuccesso del controllo sociale, ma
trattiene anche gli altri dal seguire il suo esempio e in questo modo rafforza le norme.

Le teorie sulla devianza

Gli psicologi che hanno indagato sulle caratteristiche personali dei singoli devianti hanno spiegato
il loro comportamento indicandone le cause nella debolezza dell’ego, nell’incapacità di assumere il
ruolo degli altri, nell’insuccesso nell’identificarsi con l’autorità dei genitori, nel processo di appren-
dimento sociale, nella reazione a questa frustrazione e così via. Dal punto di vista sociologico il pro-
blema non è quello di spiegare perché una persona particolare diventa deviante, bensì quello di com-
prendere perché nasce la devianza, perché segue dei modelli specifici e perché certi atti e non altri
sono definiti innanzitutto devianti. Vediamo alcune delle principali teorie che sono state avanzate.

1. Le teorie biologiche
I primi approcci alla devianza partirono dall’assunto che nel deviante ci fosse qualcosa di fonda-
mentalmente “sbagliato”. Il criminologo Cesare Lombroso (1884) si convinse, attraverso le sue ricer-
che, del fatto che il comportamento criminale fosse innato. Usando un gran numero di prove alquan-
to sommarie per misurare le caratteristiche fisiche dei carcerati, Lombroso identificò certi tratti ca-
ratteristici della popolazione criminale: occhi sfuggenti, attaccatura dei capelli bassa, capelli rossi,
mascella possente, barba a ciuffi e altre cose simili. Lombroso giunse alla conclusione che i criminali
rappresentano una forma di regressione evolutiva in direzione di un tipo umano primitivo. Il vizio di
fondo della metodologia del criminologo consisteva nel fatto che egli aveva trascurato di raccogliere
dati sui non-criminali, quindi non poteva provare che i tratti rivelatori contenuti nel suo elenco si ri-
scontrassero con maggiore frequenza tra i criminali che tra la popolazione in generale. Ricerche suc-
cessive (Charles Goring, 1913) dimostrarono che le caratteristiche fisiche dei “criminali” non differi-
scono in modo apprezzabile da quelle dei comuni cittadini.
In definitiva, per quanto i fattori biologici possano risultare importanti in alcuni tipi molto specifi-
ci di devianza - per esempio in quelle dipendenti da forme genetiche di disordine mentale - esse si ri-
velano di scarsa utilità ai fini della devianza in generale. Le caratteristiche innate non danno infatti
una spiegazione esauriente di forme di comportamento culturalmente relative.

2. La teoria dell’anomia
Il concetto di anomia è stato introdotto nella sociologia moderna da Emile Durkheim per descrivere
la condizione di confusione che si riscontra sia negli individui che nella società quando le norme so-
ciali sono deboli, oppure mancano, oppure sono in conflitto tra loro. Quando una società raggiunge
un alto livello di anomia rischia di disgregarsi perché i suoi membri non condividono più né finalità
né valori. Dal canto loro, gli individui che si trovano in uno stato anomico non hanno alcuna direttiva
che orienti il loro comportamento, perché sono quasi privi di qualsiasi senso di disciplina sociale dei
loro desideri e dei loro atti. Robert Merton (Teoria e struttura sociale, 1938) ha modificato questo
concetto applicandolo al comportamento deviante.
Partendo da una prospettiva funzionalista, Merton considera che la devianza sia il risultato di uno
squilibrio all’interno del sistema sociale. Per Merton si ha anomia quando esiste una discrepanza tra
fini socialmente approvati e mezzi socialmente approvati per il loro conseguimento. Se una società
considera molto importante un alto tenore di vita generalizzato, ma nega alla gente un uguale accesso
ai mezzi socialmente approvati per diventare ricchi, stimola di fatto il furto, la truffa e altri reati di
questo genere. Nelle grandi società moderne molte persone sono escluse dall’accesso ai mezzi ap-
provati necessari per raggiungere le mète desiderate, e non sempre tali persone sono sufficientemen-
te “socializzate” da accettare come unici mezzi possibili per raggiungere le mète (il successo, l’esser
“realizzate” sul piano dello status o del benessere economico) quelli socialmente approvati.
Gli individui che accettano la mèta del successo, ma trovano bloccate le vie socialmente approvate
per raggiungerlo, cadono in uno stato anomico e cercano di ottenere il successo con mezzi disappro-
vati. Merton individua dunque nella cultura e nella struttura sociale le fonti del fenomeno della de-
vianza, anziché cercarle nelle difficoltà individuali dei devianti. È la società stessa ad esercitare su al-
cuni individui una chiara pressione a deviare anziché a conformarsi. Merton sostiene che gli indivi-
dui possono reagire a questa situazione in uno dei cinque modi sottoelencati, a seconda che accettino
o respingano le mète o i mezzi.
1. Conformità. Gli individui accettano tanto i fini approvati quanto i mezzi approvati. Chi si
comporta in questo modo desidera le mète del successo materiale. Lavora con impegno, risparmia e
di regola usa mezzi approvati per raggiungere le mète anche quando questi non hanno successo.
2. Innovazione. Gli individui accettano i fini approvati, ma fanno ricorso a mezzi disapprovati. È
questa la forma pìù comune di devianza. Si verifica, ad esempio, quando uno studente vuole supera-
re un esame, ma si serve di imbrogli, o quando un candidato che vuole essere eletto usa delle forme
diffamatorie infondate per screditare l’avversario.
3. Ritualismo. Gli individui rifiutano le mète considerandole irrilevanti per la loro esistenza, ma
accettano ancora e mettono in atto coercitivamente i mezzi. Un esempio è il burocrate che applica
per puro formalismo anche le regole e le procedure più insignificanti, perdendo di vista i reali obiet-
tivi per il cui raggiungimento le norme sono state previste. Il ritualismo è la forma più blanda di de-
vianza, che infatti generalmente non viene considerata tale.
4. Rinuncia. Gli individui rifiutano sia le mète approvate che i mezzi approvati necessari per rag-
giungerle. Agli occhi della società il rinunciatario è un “doppio fallimento”. Appartengono a questo
tipo i mendicanti, i drogati cronici, gli “sbandati” e in genere tutti quelli che non mostrano nessun
interesse né per le mète né per i mezzi ai quali la società attribuisce valore.
5. Ribellione. Gli individui rifiutano sia le mète approvate che i mezzi approvati e li sostituiscono
con altre mète e altri mezzi che la società non accetta. Ad es. il ribelle rifiuta la mèta della ricchezza
personale e i mezzi dell’accumulazione capitalistica come strumento per raggiungerla, assumendo in-
vece l’uguaglianza sociale come fine, e la rivoluzione come mezzo necessario per raggiungerla.
La teoria dell’anomia è stata applicata a numerose forme di devianza, in particolare alla delinquen-
za giovanile. Richard Cloward e Lloyd Ohlin (1960) hanno individuato tre tipi di subculture delin-
quenziali:
a) il tipo criminale è organizzato per realizzare guadagni materiali mediante furti, rapine e simili;
b) il tipo conflittuale si preoccupa della difesa del proprio territorio e degli scontri con altre bande;
c) il tipo rinunciatario è centrato su attività meno vistose, quali l’uso di alcolici o droghe.
TIPOLOGIA DELLA DEVIANZA DI MERTON
____________________________________________________________________________

Modi di Accetta le mète Accetta i mezzi


adattamento approvate approvati
culturalmente culturalmente
________________________________________________________________

Conformità Sì Sì
Innovazione Sì No
Ritualismo No Sì
Rinuncia No No
Ribellione No (crea nuove mète) No (crea nuovi mezzi)
________________________________________________________________

La teoria della devianza di Merton è brillante, profonda e importante; va detto, però, che Merton
ignora in larga misura il processo mediante il quale alcuni individui vengono definiti devianti da altri
individui, un processo che implica spesso un conflitto di valori tra coloro che hanno il potere di im-
porre queste definizioni e coloro che non lo hanno.

3. La Teoria della Trasmissione culturale


Clifford Shaw e Henry McKay (1929), dopo aver analizzato il tasso di criminalità di alcuni quar-
tieri di Chicago, mantenutosi nell’arco di un ventennio sempre piuttosto alto nonostante l’avvicen-
darsi di residenti e gruppi etnici, giunsero alla conclusione che, se il comportamento deviante è pre-
sente come modello culturale in un certo gruppo o in una certa comunità, esso tende ad essere tra-
smesso ai nuovi arrivati e ai giovani.
Edwin Sutherland, da loro influenzato, costruì una teoria per spiegare esattamente come si svolge
una trasmissione culturale. Secondo Sutherland (1939) il comportamento deviante viene appreso
attraverso un processo di associazione differenziale (versione sofisticata della vecchia massima del-
le “cattive compagnie”). Così come un individuo tende ad essere conformista se la sua socializzazio-
ne mette in risalto il rispetto per le norme dominanti, egli tenderà a diventare un deviante se la sua
socializzazione lo incoraggia a disprezzare queste norme. I fattori che determinano quale sarà l’influ-
enza dominante sono molteplici. Il primo di essi è l’intensità dei contatti con gli altri; è più probabi-
le che una persona sia influenzata da amici o da familiari devianti che non da conoscenti più lontani
altrettanto devianti. Un altro fattore è l’età alla quale i contatti avvengono; le influenze esercitate du-
rante la fanciullezza e l’adolescenza sono più forti di quelle che si manifestano più avanti nel corso
della vita. Un altro fattore è costituito dal tipo di rapporto esistente con devianti e con conformisti.
Un corollario interessante della teoria della trasmissione culturale è che la devanza tende a diffon-
dersi quando in una società esistono numerose subculture diverse. Quando una cultura è omogenea,
come avviene solitamente nelle piccole comunità tradizionali, gli abitanti condividono le stesse nor-
me e gli stessi valori e non incontrano difficoltà a trasmetterli alle generazioni che seguono.
Nelle grandi ed eterogenee società moderne esistono invece numerose subculture fondate su carat-
teristiche quali l’etnia, la razza, la religione, l’età o la condizione economica. Talora gli individui ma-
nifestano una maggiore lealtà alle loro subculture che alla cultura comune, anche se le norme di que-
ste sono definite devianti dalla società.
La teoria della trasmissione culturale ha il merito di aver messo in risalto che il comportamento vie-
ne appreso per contatti personali, per “modellamento” o per “rinforzo”; un suo limite può essere
quello di spiegare come la devianza viene appresa ma non come nasce nella cultura, né perché prima
di tutto viene definita come devianza.
4. La Teoria dell’Etichettamento (labeling theory)
Affrontando alcuni dei problemi che la teoria della trasmissione culturale ignorava o non riusciva a
risolvere, la teoria dell’etichettamento (labeling theory) sottolinea il carattere relativo della devian-
za: una persona o un atto diventano devianti solo quando gli altri sono riusciti ad applicare ad essi
l’etichetta di devianti. L’attenzione è rivolta al processo attraverso il quale le persone, e non i loro
atti, vengono etichettati come devianti. I primi sostenitori di questa teoria, in primo luogo Edwin
Lemert (Social pathology, 1951) e Howard Becker (Outsiders: Studies in the Sociology of Deviance,
1963) misero in risalto che in pratica quasi tutte le persone una volta o l’altra si comportano in mo-
do deviante. Per la maggior parte questo comportamento ha carattere temporaneo, esplorativo, su-
perficiale, viene occultato facilmente e perciò rientra nella categoria della devianza primaria: ad
esempio, una dichiarazione del proprio reddito all’ufficio delle imposte inferiore a quello effettivo,
l’occasionale relazione omosessuale di un adolescente, l’uso di droga per “vedere che effetto fa”, etc.
Probabilmente questo comportamento non viene notato e l’individuo non si considera, né viene con-
siderato dagli altri un deviante. Ma se questi stessi atti vengono scoperti e resi pubblici da parte di
altre persone significative - amici, genitori, datori di lavoro, polizia - la situazione cambia radical-
mente. Il trasgressore viene posto di fronte all’evidenza di ciò che ha commesso, spesso in una si-
tuazione che Harold Garfinkel ha definito “cerimonia di degradazione”. In questa “cerimonia” la
persona viene accusata dell’atto deviante, ammonita e forse anche punita e obbligata a riconoscere la
superiorità morale degli accusatori. Altre persone cominciano a reagire nei confronti del trasgressore
secondo la sua etichettatura. Di conseguenza, il trasgressore, coscientemente o incoscientemente,
accetta l’etichetta, sviluppa un nuovo concetto di sé e incomincia a comportarsi conformemente a
questa. Ora il comportamento assume la forma di devianza secondaria. L’etichetta dimostra il suo
carattere profetico, la devianza diventa abituale.
Una volta che una persona è stata etichettata come deviante, la sua biografia risulta profondamente
alterata. Le persone normali applicano lo stigma ai devianti costringendoli spesso a stare con altri
devianti, col risultato che le sanzioni producono l’effetto di rinforzare il comportamento deviante
che intendevano eliminare. I devianti si conformano a quello che dice l’etichetta, cioé vengono spinti
verso una carriera di deviante. La devianza diventa in questa maniera il loro status dominante, gran
parte del loro comportamento viene interpretato dagli altri alla luce di questa sola caratteristica, per
quanto in realtà possa risultare irrilevante nelle interazione della vita quotidiana. Questa interpreta-
zione artificiosa e scorretta viene spesso applicata anche retrospettivamente al comportamento che
un individuo ha tenuto nel passato.
Perché certe persone e certi atti vengono etichettati come devianti ed altri no? Parecchi sociologi
hanno sostenuto che la risposta va cercata nel conflitto di valori e di interessi tra coloro che hanno il
potere di affibbiare un’etichetta e coloro che non hanno il potere di respingerla. Alexander Liazos
(1972) osserva che l’etichetta della devianza non viene applicata all’uomo politico che dà l’avvio a
una guerra per motivazioni personali o economiche, o al presidente del consiglio di amministrazione
di una grande industria che inquina l’ambiente, benché questi atti abbiano conseguenze sociali enor-
memente più gravi del furto di una bicicletta, o del non lavarsi; eppure è quest’ultimo tipo di tra-
sgressione che attira lo stigma della devianza. Ciò si spiega con il fatto che in ogni società le inter-
pretazioni dominanti della realtà sono quelle degli individui che detengono il potere sociale, politico
ed economico e che pertanto sono in grado di imporre definizioni di carattere assoluto in una materia
che in realtà è relativa.

5. Teoria della Scelta razionale


Uno dei filoni generali delle teorie e le ricerche sociologiche sul fenomeno deviante sviluppatesi dal-
la fine del diciottesimo secolo comprende le teorie “eziologiche”, ovvero quelle rivolte allo studio dei
fattori che determinano i comportamenti devianti. Tale filone utilizza il paradigma utilitarista inter-
pretando il crimine non come reazione a fattori o influenze esterne, ma come il risultato di una deci-
sione razionale dell’individuo volta ad ottenere benefici nel contesto di una valutazione sulle norme
e le sanzioni. Esso è stato in questi ultimi anni ripreso dalle teorie della scelta razionale (rational
chioce theory) della devianza che pongono al centro del formarsi delle preferenze devianti l’interesse
e il calcolo economico. Secondo tale teoria le condotte criminali sono considerate non in funzione di
influenze esterne, bensì risultano essere l’esito di una scelta interna adottata razionalmente in rispo-
sta al contesto e ai bisogni: l’individuo che assume un comportamento deviante, in questa prospetti-
va, è una persona “normale” che ha giudicato razionale adoperare quel particolare comportamento
per giungere al suo fine. Il comportamento deviante è paragonabile a un qualsiasi comportamento
quotidiano, e l’agire deviante è dotato, come le altre azioni sociali, di “senso intenzionato”: l’indivi-
duo studia in modo consapevole i vantaggi che può ottenere dal suo comportamento.

Effetti sociali della devianza

La devianza produce molteplici conseguenze sociali, alcune delle quali sono funzionali e altre disfun-
zionali alla società stessa.

Gli effetti disfunzionali della devianza


a) L’effetto disfunzionale più evidente della devanza sta nel fatto che la diffusa violazione di im-
portanti norme sociali può disgregare l’ordine sociale rendendo impossibile predire il corso della vita
sociale e provocando tensioni tra devianti e conformisti.
b) Un secondo effetto disfunzionale di una diffusa devianza sta nella sottrazione di risorse che essa
comporta: anziché essere utilizzate nel tentativo di esercitare il controllo sociale, potrebbero trovare
altrove un più utile impiego.
c) Un terzo effetto disfunzionale della devianza sta nel fatto che essa indebolisce la fiducia delle per-
sone nei confronti del sistema sociale. Le regole sociali si fondano sull’assunto che le persone si
comporteranno secondo regole di condotta comunemente accettate: la diffusione della devianza met-
te in crisi questa fiducia e produce una generale ansia nei confronti degli altri.
d) Un quarto effetto disfunzionale della devianza si manifesta nel fatto che, nei casi in cui resta im-
punita, indebolisce la disponibilità delle persone a conformarsi alle norme sociali. Se i devianti sono
considerati come persone che “la fanno franca”, molti possono essere tentati di fare lo stesso.

Gli effetti funzionali della devianza


a) La funzione più importante della devianza è probabilmente quella indicata da Durkheim: l’ esi-
stenza della devianza a segnalare i limiti della tolleranza sociale serve a mettere in luce le norme so-
ciali e a segnalare i limiti della tolleranza sociale (cfr. Devianza e controllo sociale).
b) La seconda funzione è implicita nella prima: reagendo collettivamente alla devianza, i membri del-
la società che rispettano le leggi riaffermano le loro norme e i loro valori, e in tal modo acquistano
consapevolezza della loro solidarietà di gruppo. Se contenuta entro limiti ragionevoli, la devianza
svolge la funzione di mantenere l’integrazione e la coesione sociale.
c) La terza funzione della devianza è quella di fungere ad valvola di sicurezza al malcontento sociale;
la gente può violare le regole anziché attaccarle; ad esempio, l’istituzione matrimoniale è di fatto più
seriamente minacciata dalle relazioni extramatrimoniali con una componente affettiva che dal ricorso
a prestazioni sessuali a pagamento.
d) Una quarta funzione della devianza è che essa segnala alcuni difetti dell’organizzazione sociale:
quando le norme vengono violate mediante una evasione istituzionalizzata, su larga scala, ciò può
significare che la legislazione è semplicemente inapplicabile (si pensi al proibizionismo, o a una legge
che proibisse gli intrattenimenti di sabato o nei giorni prefestivi o festivi).
DEVIANZA

devianza = comportamento non conforme alle norme sociali

sociologia della devianza = violazioni che vengono considerate offensive


da un consistente numero di persone

la devianza si riferisce al comportamento o alle caratteristiche che violano norme e aspettetive sociali impor-
tanti e che di conseguenza sono oggetto di valutazione negativa da parte di un gran numero di persone

a) non va confusa con la rarità statistica


devianza sociale b) non è possibile dividere rigidamente la società in “devianti” e “normali”
c) la devianza è definita socialmente, varia nel tempo e nello spazio

socializzazione e controllo sociale vs devianza Durkheim “devianza funzionale”

formali positive norme positive negative


sociali
informali positive
SANZIONI formali medaglia carcere
formali negative
informali lode rimprovero
informali negative

TEORIE SULLA DEVIANZA

1. Teorie biologiche

2. Teoria dellʼANOMIA Durkheim condizione di confusione ed incertezza che si riscontra


tra gl iindividui e nelle società quando le norme sono
deboli, mancano, oppure sono in conflitto tra loro

fini socialmente approvati


Merton anomia = discrepanza tra
mezzi socialmente approvati
disponibili per il conseguimento dei fini

modi di accetta le mète accetta i mezzi


adattamento approvate approvati
culturalmente culturalmente

Conformità Sì Sì

Innovazione Sì No

Ritualismo No Sì

Rinuncia No No

Ribellione No No
(crea nuove mete) (crea nuovi mezzi)

tipo criminale

Cloward & Ohlin subculture delinquenziali tipo conflittuale

tipo rinunciatario
3) Teoria della Trasmissione culturale Sutherland (1939)

processo di associazione differenziale gli individui diventano devianti associandosi


a dei portatori di norme criminali o devianti

ogni comportamento deviante a) intensità dei contatti sociali


è appreso in funzione della
b) età alla quale i contatti avvengono

la devianza tende a diffondersi quando in una società esistono numerose SUBCULTURE

culture omogenee vs società moderne eterogenee

4) Teoria dellʼEtichettamento E. Lemert , H. Becker

primaria comportamento temporaneo, esplorativo, occasionale

devianza “cerimonia di degradazione” STIGMA (marchio)

secondaria lʼ individuo accetta lʼ etichetta (stigma) e si indirizza


verso una “carriera” deviante;lo status dominante
viene definito dalla specifica area della devianza

la devianza esiste quando 1) un individuo viene etichettato (considerato, definito


trattato) come deviante

2) si evidenzia un preciso processo di interazione


tra deviate e non deviante

3) le etichette riflettono le strutture di potere della società

4) Teoria della Scelta razionale

1) teoria dellʼ anomia pressioni della


gli individui scelgono attivamente società acquisitiva”
di intraprendere la carriera deviante,
quando essa si dimostri vantaggiosa, vs 2) associazione interazioni con
conveniente e praticabile differenziale gli altri significativi

3) labeling theory ruolo di agenti esterni


(strutture di potere)

Effetti sociali della devianza

disfunzionali funzionali

a) la diffusa violazione di importanti norme a) lʼ esistenza della devianza (perseguita)


sociali può disgregare la società segnala i limiti della tolleranza sociale

b) la devianza sottrae risorse, necessarie b) la reazione alla devianza rinsalda norme


per attuare il controllo sociale e valori, favorendo la coesione sociale

c) la devianza indebolisce la fiducia delle c) la devianza funge la valvola di sfogo


persone nei confronti del sistema sociale del malcontento sociale: le regole vengono
violate ma non attaccate
d) la devianza impunita indebolisce la
disponibilità delle persone a conformarsi d) la devianza segnala i difetti dellʼ organizza-
alle norme sociali zione sociale (evasione istituzionalizzata)
LA STRATIFICAZIONE E LE CLASSI SOCIALI

Siamo di fronte alla disuguaglianza sociale ogni qual volta l’accesso alle ricompense sociali (co-
me il danaro, il potere, il prestigio) risulta determinato dalle caratteristiche di un individuo o di un
gruppo. La disuguaglianza è un fenomeno universale: in tutte le società conosciute, grandi o piccole,
attuali o estinte, sono sempre esistite marcate differenze di status tra i singoli membri. La disugua-
glianza sociale riguarda solitamente intere categorie di persone, per cui è insita nella struttura sociale
e viene trasmessa da una generazione all’altra. La società in questo caso si presenta suddivisa in
strati, e viene perciò definita “società stratificata”. La stratificazione sociale è pertanto la disu-
guaglianza strutturata di intere categorie di individui che hanno un accesso differenziato alle
ricompense sociali in conseguenza del loro status nella gerarchia sociale. All’interno di ciascuno
strato, gli individui condividono le stesse opportunità di vita. In genere essi considerano coloro che
si trovano all’interno dello stesso strato come pari, coloro che si trovano in tutti gli strati più alti co-
me superiori per certi aspetti e coloro che si trovano in tutti gli strati più bassi come inferiori.
Durante tutto il corso della storia, la stratificazione sociale - argomento centrale per la sociologia - è
stata all’origine di tensioni, rivoluzioni, cambiamenti sociali, generando conflitti sanguinosi tra schia-
vi e padroni, contadini e nobili, proletari e capitalisti, poveri e ricchi.

I sistemi di stratificazione

I sistemi di stratificazione variano fortemente da una società all’altra. I sociologi hanno sviluppato
alcuni concetti fondamentali da impiegare nell’analisi dei sistemi di stratificazione e delle differenze
esistenti fra loro.

Le caste e le classi
Ogni sistema di stratificazione può essere chiuso o aperto. In un sistema chiuso i confini esistenti
tra gli strati sono chiari e definiti e non è possibile a nessuno cambiare il proprio status. La posizio-
ne di una persona nella gerarchia è determinata fin dalla nascita da criteri quali il colore della pelle o
la stirpe, e il relativo status dura tutta la vita. In un sistema aperto, invece, i confini tra gli strati so-
no flessibili. È possibile per gli individui cambiare il proprio status, attraverso sforzi o insuccessi
personali, per esempio guadagnando o perdendo denaro o sposandosi con una persona di diverso
status.

I sistemi di casta
Il sistema di tipo chiuso è detto sistema di casta. Poiché lo status sociale di una persona in questo
tipo di sistema è determinato esclusivamente dalla nascita, esso corrisponde in maniera immodifica-
bile a quello dei suoi genitori. Una caratteristica comune dei sistemi di casta è costituita dall’endo-
gamia: agli individui dello stesso gruppo. In una società di casta lo status è ascritto perché gli viene
attribuito in forza di fattori sui quali egli non esercita alcun controllo. I sistemi di casta esistevano in
parecchie società antiche, nel mondo moderno sono una cosa rara.

Una società di casta: l’India


Il sistema di casta indiano ha caratterizzato la vita di quel paese per più di 2500 anni. Anche se questo
sistema è stato abolito ufficialmente dal 1949, è tuttora un elemento importante nella vita del paese, in
special modo nelle aree rurali, che sono state toccate relativamente poco dal processo di modernizza-
zione. In teoria le caste o varna principali sono quattro. In origine esse si basavano sulle differenze etni-
che della popolazione indiana. Il varna più elevato è quello dei brahmini, ossia dei sacerdoti e degli stu-
diosi; seguono i ksatriya, ossia i nobili e i guerrieri; vengono poi i vaishya, ossia i mercanti e gli artigiani
specializzati; infine abbiamo gli shudra, ossia i semplici lavoratori. Oltre a queste caste, ci sono gli
harijan o paria, che non appartengono a nessuna casta. Essi sono detti anche “intoccabili” perché toc-
care uno di loro o anche soltanto essere toccati dalla loro ombra è una forma di contaminazione rituale
per coloro che appartengono ai varna più elevati: in alcune regioni non è permesso agli intoccabili di
entrare nei villaggi durante le prime ore del mattino e nel tardo pomeriggio perché i loro corpi gettereb-
bero ombre tanto lunghe da costituire un pericolo rituale per gli altri. Le regole che disciplinano la con-
taminazione sono molto complesse: in certe regioni basta che uno shudra dia un’occhiata alla pentola
che bolle per contaminare il cibo; alcuni gruppi appartenenti alle caste inferiori non si possono nemme-
no guardare: gruppi di lavandaie sono costrette a lavorare solo di notte. Queste quattro caste sono in
realtà composte da migliaia di sottocaste o jati, delle volte circoscritte ad aree locali, altre volte diffuse
in tutta l’India. Spesso una jati è collegata ad una particolare occupazione - netturbino, allevatore di ba-
chi da seta, incantatore di serpenti - e ci si attende che tutti i suoi membri facciano lo stesso lavoro.
Tutti gli individui non possono cambiare il loro status, dato che esso è determinato fin dalla nascita dalla
casta a cui appartengono i genitori. I matrimoni misti tra le caste sono tabù, quelli tra membri di jati di-
verse sono fortemente disapprovati. Il sistema di caste indiano è strettamente connesso alla religione
indù. L’adesione alle norme di comportamento di ciascun varna è di importanza vitale, perché secondo
la dottrina indù ogni essere umano si reincarna passando attraverso una serie di esistenze e lo status di
ognuno nella prossima esistenza dipende dalla misura in cui osserva le norme di comportamento stabilite
per la vita presente. Se una persona non riesce a vivere rispettando gli obblighi del sistema di stratifica-
zione, secondo la dottrina induista essa si reincarnerà come membro di un varna inferiore, come un indi-
viduo fuori casta o anche come animale.
Il sistema di casta indiano è in rapido declino nelle aree urbane, perché in un ambiente affollato e ano-
nimo è difficile stabilire quale è la casta di appartenenza e osservarne le regole. Lo sviluppo industriale
ha prodotto anche una notevole mobilità sociale, sia ascendente che discendente, cosicché oggi esistono
molti brahmini poveri, molti shudra ricchi e anche dei ricchi fuori casta. Tuttavia nelle aree rurali un si-
stema rigido e chiuso domina o condiziona pesantemente la vita di milioni di indiani.

I sistemi di classe
Il sistema di tipo aperto è detto sistema di classe. In questo caso i confini esistenti tra gli strati so-
no più confusi e incerti, e poiché lo status dell’individuo dipende prevalentemente dalla posizione
economica di chi dà sostentamento alla famiglia, è possibile che le persone diventino membri di una
classe sociale diversa da quella dei propri genitori. Quindi lo status in una società di classe è almeno
in parte acquisito, dipendendo in qualche misura da fattori sui quali l’individuo esercita un certo
controllo. I sistemi di classe si riscontrano in quasi tutte le società agricole e industriali. Nelle società
agricole troviamo generalmente due classi principali: una molto ricca costituita dai proprietari terrieri
e una molto povera di contadini. Invece nelle società industriali ci sono di solito tre classi principali:
una classe superiore di élite, una classe media abbastanza numerosa di professionisti e di impiegati
specializzati e una classe ancora più numerosa di operai e di lavoratori con scarsa qualificazione.

La mobilità sociale

Si chiama mobilità sociale il passaggio da uno status ad un altro. In una società, quanto più alto è il
grado di mobilità, tanto più aperto è il sistema di stratificazione.

Tipi di mobilità
La mobilità sociale può assumere varie forme. La mobilità orizzontale consiste nel passare da uno
status ad un altro più o meno equivalente (ad es. da quello di idraulico a quello di falegname). La mo-
bilità verticale comporta il passaggio da uno status ad uno più alto o più basso (ad es. da idraulico a
presidente di una società). La mobilità intragenerazionale comporta che il cambiamento di status
(orizzontale o verticale) si realizzi nell’ambito della carriera di un individuo, mentre nella mobilità
intergenerazionale il cambiamento (orizzontale o verticale) riguarda le persone di generazioni suc-
cessive di una famiglia.
Le determinanti della mobilità
Il grado di mobilità in una società è determinato da due fattori: il numero degli status disponibili e
la facilità con la quale gli individui possono passare da uno status ad un altro.
1. Quanto maggiore è il numero degli status, tanto maggiori sono le possibilità di mobilità degli in-
dividui. Le società preindustriali hanno un numero di status minore di quello delle società industriali.
Nell’Europa feudale, ad esempio, la mobilità ascendente era scarsissima, poiché gli status superiori
erano limitati. Le società industriali, invece, si contraddistinguono per una molteplicità di status di-
versi, ed offrono di conseguenza numerose occasioni di mobilità sociale, per quanto limitate dalle
condizioni economiche.
2. Il secondo fattore che influenza la mobilità sociale è costituito dall’insieme delle condizioni giu-
ridiche e di fatto che facilitano il passaggio da uno status ad un altro: quanto più gli status di una so-
cietà sono ascritti, tanto meno è possibile che vi sia della mobilità. Le società preindustriali, per
esempio, erano caratterizzate da restrizioni legali e tradizionali che rendevano quasi impossibile a
una persona di basso status di diventare membro della classe superiore: chi nasceva contadino, con-
tadino restava. Invece, nelle società industriali che assegnano un alto valore al merito individuale, il
tasso di mobilità è molto maggiore.

I criteri dell’appartenenza di classe

L’analisi di Marx
Marx definì una classe come l’insieme di tutti gli individui che hanno gli stessi rapporti nei con-
fronti dei mezzi di produzione. Coloro che possiedono e controllano i mezzi di produzione - pro-
prietari di schiavi, proprietari terrieri, capitalisti - costituiscono la classe dominante (o egemone).
Coloro che lavorano al loro servizio - schiavi, contadini, operai dell’industria - costituiscono la clas-
se subordinata (o subalterna). I rapporti tra le classi non sono caratterizzati solo dalla disuguaglian-
za, ma anche dalla sfruttamento: i lavoratori producono più ricchezza di quanto è loro necessaria per
soddisfare i bisogni essenziali. Essi producono un plus-valore, però non dispongono di esso: sono i
i proprietari dei mezzi di produzione ad appropriarsene sotto la forma di “profitto”. Marx collegò
questa analisi all’idea che la base economica della società influenza tutti gli altri aspetti della cultura
e della società, quali il diritto, la religione, l’istruzione e il governo. Marx non si è mai attribuito il
merito di aver “scoperto” l’esistenza delle classi nella società moderna; il suo contributo originale, a
questo proposito, risiede nell’aver puntualizzato che: a) l’esistenza delle classi è legata a determina-
te fasi storiche di sviluppo della produzione; b) le classi si definiscono in relazione alla proprietà dei
mezzi di produzione, la quale fa sì che in ogni epoca vi siano sempre due classi fondamentali; c) la
lotta di classe dovrebbe condurre alla soppressione di tutte le classi e ad una società senza classi.

L’analisi di Weber
Allo stato attuale delle conoscenze non si ritiene più che il possesso dei mezzi di produzione pos-
sa essere considerato l’unico criterio di stratificazione della società. La stessa società industrializza-
ta si è fatta col tempo più articolata e complessa, e sono divenuti di uso comune concetti come quel-
lo di “classe media” e di “piccola borghesia”, che non trovano posto nella semplice contrapposizio-
ne tra una classe che detiene la proprietà dei mezzi di produzione e una classe che non la detiene.
Il sociologo e filosofo tedesco Max Weber ha proposto un approccio multidimensionale al con-
cetto di classe, introducendo tre criteri distinti, ma collegati tra loro, che possiamo tradurre con i ter-
mini di status politico o potere, status economico o ricchezza e status sociale o prestigio. È evi-
dente che una persona può essere politicamente potente, ma non particolarmente ricca, o essere
molto ricca, ma priva di prestigio, o avere molto prestigio, ma scarsa ricchezza. Potere, ricchezza e
prestigio possono essere indipendenti uno dall’altro, ma in pratica sono per lo più strettamente as-
sociati. La ragione è che ciascuno di essi può essere “convertito” in ciascuno degli altri. In particola-
re ciò vale per la ricchezza, che si può facilmente utilizzare per acquistare il potere o il prestigio.
Rendendosi conto di questa stretta connessione tra ricchezza, potere e prestigio, molti sociologi va-
lutano la posizione sociale degli individui facendo ricorso allo status socioeconomico (SES) generale.
Questo concetto tiene conto di un complesso di fattori quali il livello di istruzione, quello di reddito,
il tipo di professione e a volte anche il luogo di residenza.

Il concetto di ceto sociale

Per definire meglio la complessità della stratificazione sociale, in modo da tener conto non solo del-
le disuguaglianze economico-professionali, ma anche delle differenze culturali, si può utilizzare il
concetto di ceto sociale, che a differenza di quello di classe fa riferimento non alla professione e al
reddito delle persone, ma allo stile di vita che esse conducono e al tipo di riconoscimento sociale cui
ambiscono. Il concetto di ceto viene utilizzato di solito con la caratterizzazione generica di ceto
“basso”, “medio” o “alto”. Il ceto di una persona è stabilito fondamentalmente dallo stile di vita che
essa conduce, e quindi dalle sue abitudini e dai suoi consumi: che tipo di cibo compare sulla sua ta-
vola, come ama vestirsi, dove va in vacanza, quali sport pratica, quali sono le sue amicizie, ecc.
La stratificazione di ceto è in generale meno fluida e flessibile di quella di classe, perché l’apparte-
nenza ad un ceto, oltre ad essere determinata in misura sostanziale dal riconoscimento sociale che
una persona ottiene dagli altri, dipende da fattori culturali, la cui acquisizione è più complessa del-
l’acquisizione di fattori materiali come la ricchezza.

La conservazione delle disuguaglianze: il ruolo dell’ideologia

Un sistema di stratificazione necessita di un qualche tipo di legittimità. Se il grosso della popola-


zione non lo considera legittimo, ogni sistema è di per sé instabile ed inevitabilmente destinato a ca-
dere. Per mantenere le disuguaglianze, l’élite al potere può usare la forza, ma in realtà la maggior par-
te dei sistemi stratificati riescono a sopravvivere senza farvi eccessivamente ricorso. La ragione è
semplice: la disuguaglianza viene data per scontata, tutti la considerano una cosa “naturale”. Un si-
stema politico è legittimato da una ideologia, cioé da un insieme di credenze di carattere religioso,
politico ed economico che spiega e giustifica un dato sistema sociale. Secondo Marx in ogni società
l’ideologia dominante è sempre quella della classe dominante ed è sempre diretta a giustificarne gli
interessi economici. Naturalmente nella società esistono altre ideologie, ma nessuna di esse diventa
dominante né trova una larga accoglienza, a meno che la classe che ne è portatrice diventi essa stessa
classe dominante. Se è ovvio che i membri della classe dominante considerino “naturale” l’ideologia
dominante, resta da chiedersi perché facciano altrettanto i membri deii gruppi subordinati. Il feno-
meno per cui questi accettano la legittimazione del sistema è stato definito da Marx falsa coscienza:
un modo soggettivo di rappresentare la realtà al quale non corrispondono i fatti oggettivi che riguar-
dano la posizione dell’individuo. Gli appartenenti alla classe oppressa attribuiscono il loro basso
status al destino, alla fortuna, alla volontà di Dio o ad altri fattori che sfuggono al loro controllo.
Soltanto se i membri della classe subordinata, sostiene Marx, acquisiscono una coscienza di classe
- cioé la consapevolezza oggettiva del comune sfruttamento che subiscono da parte dello strato do-
minante - cominciano a mettere in dubbio la legittimità del sistema. Allora essi sviluppano una nuo-
va ideologia - rivoluzionaria agli occhi della classe dominante - che giustifica i loro interessi. A que-
sto punto, secondo Marx, scoppia un conflitto di classe.
TEORIE DELLA STRATIFICAZIONE

Le posizioni prevalentemente adattate dal sociologi in tema di stratificazione sociale sono ricondu-
cibili alla prospettiva funzionalista - adottata principalmente da Talcott Parsons (1937) - la quale
considera la stratificazione come una caratteristica inevitabile e necessaria della società, e alla pro-
spettiva del conflitto - fatta propria dai teorici che più o meno direttamente si rifanno a Marx - la
quale considera la stratificazione come qualcosa di evitabile, non necessario e come probabile fonte
della maggior parte delle ingiustizie umane.

L’approccio funzionalista
Kingsley Davis e Wilbert Moore hanno sostenuto che i ruoli sociali di maggiore complessità richie-
dono particolari talenti e lunghi periodi di addestramento. Questi ruoli comportano generalmente
tensioni, sacrifici e pesanti responsabilità: è quindi necessario che questi ruoli offrano, come ricom-
pensa, ricchezza, potere e prestigio, in modo da incentivare le persone ad assumerli.
Questa distribuzione disuguale delle ricompense sociali - sostengono Davis e Moore (1945, trad.
ital. 1969) - è funzionale per la società perché fa sì che i ruoli che richiedono talenti rari vengano
svolti dagli individui più capaci. Ma inevitabilmente si traduce in stratificazione sociale.
Diversi critici hanno fatto notare come questa teoria sembra perdere il contatto con la realtà sotto
vari aspetti: ci sono persone i cui ruoli non hanno evidentemente alcun valore per la società o ne
hanno poco - ereditieri plurimiliardari, star del cinema - e che tuttavia godono di ricompense assai
alte, mentre molte persone hanno delle ricompense scarse in forza del loro status ascritto (i neri ne-
gli Stati Uniti, i paria in India, ecc.). È vero anche che alcune persone nelle società stratificate rag-
giungono uno status elevato attraverso i loro sforzi personali, ma una volta che il loro status viene
trasmesso ai loro discendenti - spesso non meritevoli - la disuguaglianza tende ad allargarsi.
Davis e Moore hanno trascurato le disfunzioni della stratificazione per la società. In realtà, la stra-
tificazione garantisce che gli individui non abbiano uguale accesso ai ruoli sociali, impedendo, qundi,
e non incoraggiando, l’assegnazione dei ruoli secondo il criterio del merito. E se gli strati inferiori ini-
ziano a pensare che il sistema sia ingiusto, allora scoppiano dei conflitti sociali. In questo caso la
stratificazione non contribuisce alla conservazione del sistema sociale, ma può portare alla sua di-
sgregazione.

Prospettiva del Conflitto


La concezione di Marx, secondo la quale la stratificazione è uno strumento creato e tenuto in vita
dalla classe dominante per proteggere e promuovere i propri interessi economici, considera la lotta
di classe come la chiave del cambiamento storico: i lavoratori avrebbero conquistato il potere e dato
vita ad una nuova società socialista nella quale la disuguaglianza, l’alienazione e il conflitto sarebbero
stati un ricordo del passato. Gli errori di previsione di Marx riguardano lo sviluppo del capitalismo,
lo sviluppo della classe media, lo scoppio di rivoluzioni nelle società industriali avanzate.
Nonostante le “predizioni” di Marx, il capitalismo sta tuttora prosperando, secondo Ralph Dahren-
dorf (1959) per quattro diverse ragioni: 1. la frammentazione della classe capitalista, con i capitalisti
individuali sostituiti da grandi compagnie ed azionisti; 2. il più elevato standard di vita (perlomeno
nel mondo occidentale) anche di molti lavoratori impiegati in occupazioni di basso prestigio; 3. la
migliore organizzazione sindacale dei lavoratori, che ha consentito di riconoscere dei diritti nell’800
del tutto ignorati; 4. le protezioni legali più estese (indennità di disoccupazione, fondi di previdenza,
misure a favore dell’invalidità, ecc.). Questi sviluppi sembrano indicare il fatto che il capitalismo ha
mitigato molti dei suoi aspetti più duri. Nonostante questo, la ricchezza rimane fortemente concen-
trata: circa il 40% della proprietà è posseduto dall’1% della popolazione.
Le classi sociali in Italia

Il tentativo più importante di definizione della struttura di classe nel nostro paese si deve all’eco-
nomista Paolo Sylos Labini (1975, 1986). Egli considera come base la misurazione del reddito, otte-
nendo un sistema che comprende i seguenti gruppi:

- la borghesia, composta dai grandi proprietari agricoli o immobiliari (che ricevono le rendite), da
imprenditori e alti dirigenti dell’industria, (che ricevono profitti) e dai grandi professionisti;

- le classi medie, urbane e non urbane, che comprendono la piccola borghesia impiegatizia (redditi
da stipendi), la piccola borghesia autonoma (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, che ricevono
redditi misti) e categorie particolari (militari, religiosi ecc.);

- la classe operaia (che riceve il salario: salariati agricoli, operai dell’industria, operai del commercio,
trasporti e servizi, domestici). Sotto quest’ultima Sylos Labini aggiunge il sottoproletariato, com-
prendente le persone povere o dedite ad attività precarie, talvolta illecite.

La struttura di classe delle società occidentali: problemi di analisi

La disuguaglianza assume carattere strutturale quando interi settori della popolazione hanno un ac-
cesso inuguale alla ricchezza, al potere ed al prestigio, quando queste disuguaglianze si trasmettono
da una generazione all’ altra come strutture di ruoli e di status la cui titolarità è prevalentemente una
questione di discendenza familiare. Queste strutture possono essere esaminate attraverso vari meto-
di. Nella tradizione sociologica americana in particolare i metodi impiegati sono di tre tipi: il metodo
reputazionale, il metodo soggettivo e il metodo oggettivo.
a) con il metodo reputazionale il ricercatore si rivolge alle persone chiedendo a quali classi appar-
tengono i vari gruppi di individui che risiedono nella comunità (Lloyd Warner e Paul Lunt, 1941).
Questa tecnica presenta due inconvenienti di fondo: è applicabile esclusivamente alle piccole comu-
nità in cui le persone si conoscono, e fornisce delle interpretazioni puramente soggettive della realtà.
b) Il metodo soggettivo consiste nel chiedere ad un certo numero di individui a quale classe ritengo-
no di appartenere (Richard Centers, 1949). Gli inconvenienti principali di questo approccio deriva-
no, oltre che dalla tendenza delle persone a sopravvalutare la propria condizione socio-economica,
dall’influenza che esercita sulle risposte il modo in cui la domanda è formulata: è assai diverso, come
è stato dimostrato, proporre agli intervistati di definirsi come “classe inferiore” o come “classe ope-
raia”, perché il primo termine ha un suono spregiativo, il secondo no.
In entrambi questi casi il ricercatore si rimette al giudizio delle persone per ottenere una distribu-
zione della popolazione in “classi sociali” che corrisponde a uno schema di gradazione delle posizio-
ni sociali secondo la coscienza dei partecipanti. A questa limitazione si sottrae invece:
c) il metodo oggettivo, nel quale è il ricercatore ad assegnare gli individui alle varie classi che ha pre-
liminarmente definito in base allo specifico modello interpretativo al quale si riferisce. Lloyd Warner
(1949) ha analizzato il sistema di classe di una piccola comunità servendosi di un “indice delle carat-
teristiche di status” basato su sei dimensioni principali (occupazione, tipo di abitazione, zona di re-
sidenza, fonte e ammontare del reddito e livello di istruzione). Tutti questi fattori risultarono forte-
mente correlati tra loro.
August Hollingshead (1949) ha impiegato lo stesso metodo assumendo tre fattori (residenza, occu-
pazione, livello di istruzione) mediante i quali ha suddiviso in cinque classi le famiglie residenti nella
comunità.
LA DISUGUAGLIANZA SOCIALE

disuguaglianza accesso alle ricompense sociali (danaro / potere / prestigio)


sociale determinato dalle caratteristiche di un individuo o di un gruppo;
riguarda solitamente intere categorie di persone ed è insita
nella struttura sociale,trasmettendosi da una generazione allʼ altra.

stratificazione disuguaglianza strutturata di intere categorie di individui che hanno un accesso


sociale differenziato alle ricompense sociali in conseguenza del loro status gerarchico

sistemi di stratificazione

chiusi aperti

confini chiari e definiti confini flessibili


tra gli strati sociali tra gli strati sociali
immobilità sociale India: 4 varna: mobilità sociale
brahmini - sacerdoti
sistemi di casta ksatriya - nobili guerrieri sistemi di classe
endogamia vaishya - mercanti artigiani esogamia
status ascritto shudra - lavoratori (+paria) status ascritto / acquisito

mobilità sociale > passaggio da uno status ad un altro

orizzontale verticale

passaggio da uno status passaggio da uno status


ad un altro + o - equivalente ad un altro + alto o + basso

intragenerazionale intergenerazionale

cambiamento nellʼ ambito cambiamento relativo


della carriera di un individuo a persone di generazioni
successive

numero degli status disponibili


determinanti società preindustriali
della mobilità vs
grado di facilità relativo al società industriali
passaggio da uno status ad un altro

Marx: classe => insieme di tutti gli individui che hanno gli stessi classe dominante (egemone)
rapporti nei confronti dei mezzi di produzione classe subordinata (subalterna)

sfruttamento - plusvalore - profitto struttura => base economica della società


vs
vs sovrastruttura => diritto, religione, governo, ecc.

status economico (ricchezza)


Weber : classe => status politico (potere) approccio multidimensionale
status sociale (prestigio)

conservazione legittimata da insieme di credenze


delle disuguaglianze unʼ ideologia di carattere religioso,
politico, economico
ideologia dominante - > classe dominante

falsa coscienza accettazione passiva, da parte delle


classi subalterne, della ideologia dominante
vs

coscienza consapevolezza oggettiva dello sfruttamento ideologia conflitto


TEORIE DELLA STRATIFICAZIONE

Prospettiva funzionalista Talcott Parsons 1937

stratificazione = > caratteristica inevitabile e necessaria della società.

I ruoli sociali di maggiore complessità richiedono particolari talenti e lunghi periodi di addestramento,
comportano tensioni, sacrifici e pesanti responsabilità: è quindi necessario che questi ruoli offrano
come ricompensa ricchezza, potere e prestigio, in modo da incentivare le persone ad assumerli.
(Davis e Moore, 1945)

presenza di ruoli di scarso valore per la società con ricompense assai elevate

critiche presenza di gruppi sociali con ricompense scarse in forza del loro status ascritto

è vero che alcune persone nelle società stratificate raggiungono uno status elevato
attrverso i loro sforzi personali, ma una volta che il loro status viene trasmesso ai
loro discendenti - spesso non meritevoli - la disuguaglianza tende ad allargarsi.

-> disfunzioni della stratificazione -> conflitti sociali -> disgregazione dellʼ ordine sociale

Prospettiva del Conflitto Karl Marx

stratificazione = caratteristica evitabile, non necessaria, fonte delle maggiori ingiustizie umane.

la stratificazione è uno strumento creato e tenuto in vita dalla classe


dominante per proteggere e promuovere i propri interessi economici.

sullo sviluppo del capitalismo


critiche: errori di previsione sullo sviluppo della classe media
sullo scoppio di rivoluzioni nelle società industriali avanzate.

la struttura di classe delle società occidentali

la disuguaglianza assume carattere strutturale quando interi settori della popolazione


hanno un accesso inuguale alla ricchezza, al potere ed al prestigio, quando queste
disuguaglianze si trasmettono da una generazione allʼ altra come strutture di ruoli e di
status la cui titolarità è prevalentemente una questione di discendenza familiare.

problemi di analisi

a) metodo reputazionale => il ricercatore si rivolge alle persone chiedendo a quali classi ap-
partengono i vari gruppi di individui che risiedono nella comunità

applicabile esclusivamente alle piccole comunità


interpretazioni puramente soggettive della realtà

b) metodo soggettivo => il ricercatore chiede ad un certo numero di individui


a quale classe ritengono di appartenere

tendenze distorsive delle persone nella valutazione


della propria condizione socio-economica;
influenza sulla risposta delle modalità di formulazione delle domande

c) metodo oggettivo => il ricercatore assegna gli individui alle varie classi che ha
preliminarmente definito in base a specifici modelli interpretativi

Lloyd Warner (1949) - > occupazione / abitazione / zona di residenza / reddito / istruzione
Hollingshead (1949) - > residenza / occupazione / livello di istruzione
ANTROPOLOGIA
Pensare e mangiare

1. De gustibus

Il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1804-1872) sosteneva che: “L’uomo è ciò che mangia”.
Un’affermazione che può sorprendere, ma non è poi così distante dal vero: non basta infatti che una
pianta o un animale siano commestibili per farli rientrare nella lista dei cibi che ogni società ritiene
buoni da mangiare. Esiste un dato universale, ed è che noi dobbiamo assumere circa 2.000 calorie al
giorno per evitare il deperimento fisico e la morte; altro dato è che in natura ci sono molte sostanze
velenose per l’uomo; per il resto, l’umanità si nutre di una lista di alimenti, vegetali e animali, ma
non tutti mangiano tutto e non solo per mancanza di disponibilità: scelte legate ad abitudini o a re-
gole culturalmente costruite. Gli inglesi non mangiano carne di coniglio o di cavallo; nell’Europa
del nord non si mangiano funghi; noi occidentali non mangiamo insetti; in certe parti dell’Africa
mangiare insalata è ritenuto un atto da capre più che da esseri umani. In molti casi l’alimentazione è
legata a convinzioni di tipo ideologico, ma a livello individuale e non collettivo, come nel vegeta-
rianesimo della società occidentale, dove la scelta avviene su base salutista ed etica, oppure legato a
tabu religioso, un divieto in senso lato, come nel caso della carne suina per ebrei e musulmani,
della carne bovina per gli induisti o l’adozione del vegetarianesimo per molte filosofie orientali.
Le abitudini alimentari finiscono per essere talmente consolidate e consuetudinarie da essere pen-
sate come naturali. In Buono da mangiare (1990), l'antropologo Marvin Harris sostiene che non è
vero che non mangiamo una cosa perché non ci piace: non ci piace perché non la mangiamo. Il gu-
sto collettivo non nasce da un'attitudine innata, ma è il prodotto di una costruzione culturale: esiste
cioè una commestibilità culturale. Con un approccio totalmente diverso, Claude Lévi-Strauss sug-
gerisce invece che il cibo deve prima di tutto soddisfare un appetito simbolico: deve cioè essere
“buono da pensare”. Lévi-Strauss sottolinea, ad esempio, l’importanza sul piano simbolico della
cottura: cucinare un vegetale o della carne significa per lui sottomettere la natura alla cultura.
Due prospettive che partono da un diverso ordine di priorità: se per il primo sono le condizioni
storico-economico-ecologiche a determinare molte scelte alimentari, destinate poi a realizzare un
quadro simbolico, per l’etnologo francese è il simbolo a precedere le scelte degli individui.
La teoria del “foraggiamento ottimale” spiega uno dei meccanismi alla base del gusto collettivo.
Procurarsi un cibo richiede uno sforzo che implica un consumo di calorie. Tutti gli esseri viventi
tentano di ottimizzare il modo di procurarsi il cibo, cercando le fonti che danno il maggior apporto
nutritivo con il minore sforzo. In Europa gli insetti commestibili (locuste, termiti alate) non sono
molto numerosi e per raccoglierne una quantità sufficiente a preparare un pasto occorrerebbe molto
tempo: per questo i nostri antenati non hanno reputato conveniente catturarli, disponendo inoltre di
fonti alternative; in regioni dove invece gli insetti abbondano, come l’Estremo Oriente o l’Africa,
può risultare conveniente catturarle e trasformarle in cibo. La disponibilità di una certa risorsa ali-
mentare fa sì che venga immessa o meno nella dieta di una società. In caso positivo essa entra a fare
parte dell’immaginario di quella comunità ed è pensata come buona; in caso negativo viene esclusa
e pensata come cattiva.

2. Tabu alimentari

A determinare le abitudini alimentari possono essere anche motivazioni di tipo religioso. Esistono
infatti dei tabu – come nei casi sopracitati - che impediscono di nutrirsi di certi cibi. Le religioni im-
pongono talvolta regole di consumo di determinati cibi: ad esempio un musulmano può mangiare
carne solo se l'animale è stato sgozzato quando era ancora vivo e se il sangue è scolato completa-
mente dal suo corpo; gli ebrei invece seguono nel consumo del cibo le regole della legge kashrut,
ad esempio non è consentito consumare contemporaneamente carne e latte, perché, dice la regola,
la carne è figlia del latte.
La Bibbia e il Corano vietano di cibarsi di carne di maiale. Questo divieto trova motivazione nel
contesto ambientale in cui sono nati ebraismo e islam. In quei territori desertici o semidesertici,
come il Sinai o la penisola arabica, l’allevamento dei maiali, i quali necessitano di fresco, non era
conveniente per motivi climatici; inoltre i maiali, a differenza di pecore e capre, si nutrono di cibi
come tuberi, noci, carote, commestibili anche per l’uomo, con cui entravano perciò in concorrenza.
Le religioni hanno sancito una tendenza già in atto: stabilendo un divieto di ordine sacro, si voleva
anche stabilire una norma sociale più conveniente. Anche l’induismo, prevedendo la venerazione
dei bovini e il divieto di cibarsi della loro carne, ha trasformato in norma di comportamento
un’usanza già consolidata. Ma non è sempre stato così: nell’antica India, infatti, la carne bovina ve-
niva ampiamente utilizzata soprattutto nei banchetti presieduti dai brahmani, i membri della casta
più elevata. Con l’aumento della popolazione, la carne bovina, utilizzata per banchetti e sacrifici,
divenne sempre più rara e finì per costituire un privilegio delle caste alte, mentre i contadini dove-
vano cibarsi di latticini, cereali e legumi.. Quando, attorno al 600 a. C., nacque il buddhismo, filo-
sofia dei poveri, il non consumare questa carne divenne segno politico di disapprovazione delle
classi dirigenti. Infine anche i brahmani, per evitare di diventare impopolari, si convertirono alle
protezione dei bovini. Le vacche vennero utilizzate come animali da traino, rivelandosi più utili che
come semplice alimento.
I tabu possono anche tramontare a causa dei cambiamenti culturali che le condizioni ambientali ed
economiche producono in una civiltà. È il caso della cipolla, in passato tabu alimentare in Madaga-
scar: si diceva che aglio e cipolla attirassero il fulmine; ma via via che che i raccolti di riso diventa-
vano insufficienti, la gente iniziò a violare questo antico tabu e la cipolla, importata dai missionari
all’inizio del secolo scorso, iniziò ad essere vista come una buona alternativa alla malnutrizione.
In Cina ed Estremo Oriente il latte non viene consumato. Le ragioni di questa abitudine risalgono
alla preistoria. Quando i nostri antenati si spostarono dall’Africa verso l’Europa, trovarono un clima
freddo e dovettero cominciare a coprirsi. La scarsa esposizione al sole causò carenza di calcio e ra-
chitismo; i raggi del sole hanno infatti una funzione vitale: aiutano la circolazione della vitamina D,
che serve a fissare il calcio nelle nostre ossa. Probabilmente alcuni individui iniziarono a bere latte
di capra, pecora, mucca, e poco per volta, per selezione naturale, nei primi europei si sviluppò un
enzima, chiamato lactasi, necessario a digerire il latte e a garantire l’assunzione di calcio. Poiché
in altre parti del mondo tale processo non è avvenuto, molti individui non possono assumere latte,
a eccezione di quello materno.

3. La ricerca della purezza

L’antropologa britannica Mary Douglas (1921–2007) si è occupata a fondo degli aspetti simbolici
del cibo, ponendo l’accento sul fatto che alcune proibizioni alimentari sono fondate sul concetto di
impurità, che a sua volta rimanda all’idea di sporcizia. Ciò che definiamo sporco o pulito non è un
giudizio assoluto e universale, ma culturale e, pertanto, relativo. Per esempio, i brahmini Havik non
possono accettare cibi cotti dalle mani di individui di casta inferiore. Il cibo crudo, invece, può esse-
re passato di mano, in quanto la successiva cottura ne eliminerà l’impurità. I sacerdoti dei tangba
(Benin), che riproducono il modo di vita degli antenati, si nutrono solo con cibi ritenuti “tradiziona-
li”: rifiutano il pomodoro, le arachidi, il mais, la birra industriale, limitandosi a mangiare quei cibi
che erano presenti già nei tempi antichi, e tali cibi devono essere cucinati in pentole di terracotta,
non di metallo. I tuareg affidano ai bellah, un tempo schiavi neri, tutte le mansioni domestiche
tranne quella del cucinare: nessun tuareg consentirebbe ad un discendente di schiavi di manipolare
il proprio cibo. Un esempio attuale di ricerca della purezza nella società occidentale è l'attenzione
verso il “biologico” e il rifiuto degli OGM (organismi geneticamente modificati). La ricerca di un
cibo non contaminato da sostanze chimiche o non manipolato geneticamente rivela il desiderio di
un ritorno a pratiche “tradizionali” considerate più vicine alla natura e pertanto più sane.
4. Cibo e identità

Spesso i cibi diventano simboli per indicare l'identità di un gruppo o di un popolo. Pensiamo, ad
esempio, a come alcuni piatti siano diventati una sorta di marchio legato a determinati paesi o cultu-
re: l’hamburger, simbolo dello stile di vita americano, la birra tedesca, il riso orientale, la pizza ita-
liana e così via. A volte questa identificazione viene usata in senso derisorio o dispregiativo: gli im-
migrati italiani in Francia sono stati a lungo definiti “maccaronì”, così come, nel Centro e Sud Ita-
lia, alla gente del Nord veniva dato il soprannome “polentoni”. Analogamente, i francesi prendono
in giro i belgi perché mangiano molte patate fritte (frites) e gli inglesi chamano i francesi “mangia-
tori di rane”. In altri casi, invece, è il gruppo stesso a fare di un piatto o di una bevanda un elemento
di orgoglio (lo champagne francese, il cous cous arabo, la pizza e gli spaghetti italiani, ecc.).
Le abitudini alimentari finiscono così per creare dei gruppi di definizione o di appartenenza. La
scelta dei cibi può anche esprimere un'appartenenza ideologica: mangiare “biologico” oggi signifi-
ca esprimere non solo una scelta salutistica, ma anche l’appartenenza a un determinato movimento
di idee che non si limitano all’alimentazione. Il sociologo francese Pierre Bourdieu (1930-2002)
sottolinea come Il cibo possa infine diventare uno strumento per rimarcare le differenze tra strati
sociali, evidenziando gusti “di necessità” di chi ha meno risorse (“mangiare pane e cicoria”) e gusti
“di lusso” delle classi agiate (“pasteggiare a caviale e champagne”).

5. Nutrire gli dèi

Il cibo può essere un importante mezzo per comunicare con il sacro. Fin dall'antichità gli uomini
hanno praticato offerte agli dèi in forma di cibo. Oggi si ritrovano pratiche di offerta alimentare in
molti culti tradizionali, ad esempio, nel culto afrobrasiliano del candomblé, si usa offrire cibo agli
orixàs, le divinità, che mangiando si ricaricano di una nuova energia, ma devono ricevere un deter-
minato cibo in determinati giorni della settimana: ogni santuario è fornito di cucina di modo che il
fedele possa preparare i piatti preferiti dalla divinità a cui si vuole rivolgere l’offerta.
Molti luoghi di culto delle religioni tradizionali africane sono caratterizzati da oggetti, statuette,
manufatti, spesso chiamati feticci, i quali rendono materiale il dio, talmente materiale che le statue
delle divinità devono essere nutrite con cibi e bevande. Nel mondo musulmano ogni anno dopo la
fine del ramadan si celebra la festa dell’Aid el Kebir, nel corso della quale ogni famiglia, dopo la
preghiera del mattino, sacrifica un montone. Nei giorni della festa non è consentito digiunare, al
contrario tutti sono invitati a preparare cibi particolari e a condividerli con vicini, amici e gente bi-
sognosa. Nell’atto dell’eucarestia cristiana, la condivisione del pane e del vino, rappresentati nella
liturgia cattolica dall’ostia, ripropone il rinnovarsi dell’ultima cena di Gesù e la volontà di continua-
re il suo discorso, riaffermando, a livello simbolico, un patto.
Come il cibo, anche la pratica del digiuno rituale è un mezzo di comunicazione con il sacro, con-
diviso da moltissime religioni. Ritroviamo pratiche di digiuno tra i nativi americani, in Africa, tra
gli sciamani dell’Asia e delle Americhe. L’astinenza viene quasi sempre interpretata come pratica
purificatoria per liberarsi del piacere e delle scorie del cibo e per avvicinarsi a una verità sacra. Non
a caso il digiuno è spesso accompagnato dalla preghiera e dalla meditazione, e la capacità di resi-
stenza alla fame diventa l'espressione della capacità di sacrificio e di autocontrollo.

6. Cibi da terre lontane e cibi tradizionali

Commerci ed esplorazioni hanno arricchito le tavole di tutto il mondo con cibi nuovi, provenienti
da lontano, che, con il passare del tempo, sono diventati familiari. Gran parte della frutta che consu-
miamo oggi è originaria del Medio Oriente (arancia, mandarino, prugna, albicocca). Il riso è arriva-
to sulle tavole europee dall’Asia, così come molte spezie. La scoperta dell’America ha portato in
Europa il pomodoro, il mais, l’arachide, la patata, la manioca, il fagiolo e il tacchino. A loro volta
gli europei contribuirono a diffondere questi alimenti in Africa. Anche un altro alimento fondamen-
tale per la nostra esistenza, il sale, ha sempre compiuto lunghi viaggi (ad es. dalle coste della liguria
all’Europa centrale). Ogni cucina è “multiculturale”, in quanto è il prodotto di scambi avvenuti neƁl
corso della storia. Molti cibi considerati tradizionali sono tali perché sono pensati così. La tradizio-
ne è infatti spesso il prodotto di una proiezione del presente sul passato, piuttosto che espressione di
una continuità storica profonda. La cucina è infatti tendenzialmente portata a meticciarsi, a prende-
re elementi esterni, a rielaborarli e reintegrarli nel proprio panorama alimentare. Gli spaghetti, il
piatto “tipico” italiano, sono in realtà di origine cinese. Il piatto che i senegalesi considerano tipico
è il thiéboudiene, una ricetta a base di riso e pesce, ma il riso viene in gran parte dal sud est asiatico;
l’origine della diffusione del riso risale all’epoca coloniale, quando i francesi iniziarono a trasporta-
re in Senegal le eccedenze di riso provenienti da un’altra colonia, l’Indocina. Ecco come il riso di-
venne il cibo nazionale del Senegal, pur essendo un prodotto di importazione ed avendo oramai, a
poco più di un secolo dall’arrivo nel porto di Dakar del primo bastimento carico di riso indocinese,
costi piuttosto elevati.

7. Saper mangiare
Spesso le società stabiliscono delle regole su come il cibo va consumato. Tra le popolazioni no-
madi e seminomadi del Sahel o del Sahara, il pasto viene preso da un contenitore comune utilizzan-
do la mano destra, che nelle abitudini locali è la mano con cui si fanno i lavori puliti (con la sinistra
si effettuano invece le operazioni sporche). La carenza d’acqua delle regioni desertiche e semide-
sertiche, e la conseguente difficoltà a lavarsi le mani, impongono un’etichetta che mira a garantire
l’igiene collettiva.
Dietro l’abitudine cinese di mangiare con i bastoncini di legno c’è l’idea che il cibo sia un elemen-
to da condividere in pace, e pertanto il coltello non deve comparire sulla tavola. In Africa ogni invi-
to prevede offerta di cibo: la condivisione del cibo è infatti uno scambio sociale dal forte valore
simbolico. Presso molte popolazioni dell'Africa occidentale l’ospite consuma i pasti da solo, perché
la separazione è indice di rispetto.
La disposizione dei commensali durante un pasto è un elemento rivelatore della concezione dei
rapporti sociali in una determinata società. In molti paesi musulmani uomini e donne consumano il
pasto in luoghi separati dell'abitazione. Nel Galateo di Giovanni Della Casa la disposizione dei
commensali deve mostrare le gerarchie, i rapporti sociali reciproci e lo stato civile: i padroni di casa
siedono sempre a capotavola e di fronte, alla loro destra va l’ospite più importante rispettando sem-
pre l’alternanza uomo-donna. Il padrone di casa avrà sempre alla sua destra la signora più importan-
te, alla sinistra un’altra signora. La padrona avrà alla sua destra l’uomo più importante e alla sua si-
nistra un altro ospite maschile. I celibi e le persone di famiglia occupano i posti più lontani.
Anche nella tradizione giapponese la disposizione attorno al tavolo segue una rigida gerarchia, ba-
sata sull'importanza dei commensali. La precisione formale giapponese raggiunge poi livelli altis-
simi nel chaji, la cerimonia del tè, dove l’attenzione per la bellezza è ricercata al punto di farla di-
ventare una vera forma d’arte. Gli attrezzi utilizzati sono di qualità altissima, la disposizione del ci-
bo segue rigidi criteri estetici e il movimento del corpo si traduce in una vera coreografia.
Una coreografia è anche quella messa in scena dai Tangba del Benin in occasione del Rpama, rito
di passaggio nel quale i partecipanti hanno circa venticinque anni. Il giorno prestabilito, ogni mem-
bro della classe d’età sakpana (inferiore ai 25 anni) deve sacrificare un bue e offrirlo alla gente del
proprio quartiere. La ripartizione del bue è rigidamente prestabilita: le cosce ai sacerdoti della terra,
il torace al capo politico, il collo al pastore che ha allevato il bue, le parti migliori vengono date agli
anziani e ai sacerdoti, mentre invece i giovani non mangiano carne, e gli anziani si rivolgono a loro
quasi schernendoli: “Aspetta la mia morte e poi mangerai”.
Pensare e mangiare

Ludwig Feuerbach (1804-1872) “L'uomo è ciò che mangia”


specie umana => 2.000 calorie al giorno per evitare il deperimento fisico e la morte
non tutti mangiano tutto > scelte legate ad abitudini/regole culturalmente costruite, pensate come naturali

convinzioni di tipo ideologico tabu religiosi


(es. vegetarianesimo / veganismo occidentale) (es. carne suina ebrei / musulmani, bovina induisti)

Buono da mangiare (1990) Marvin Harris vs C. Lévi-Strauss Il crudo e il cotto (1964)


“non è vero che non mangiamo una cosa perché cibo => appetito simbolico (cibo“buono da pensare”)
non ci piace: non ci piace perché non la mangiamo” valore simbolico della cottura:
Il gusto collettivo è il prodotto di una costruzione sottomettere la natura alla cultura
culturale (condizioni storico-economico-ecologiche) il simbolo precede le scelte individuali

teoria del “foraggiamento ottimale”


cercare le fonti che danno il maggior apporto nutritivo con il minore sforzo
Europa insetti commestibili (locuste, termiti alate) poco numerosi vs Estremo Oriente Africa
cibo disponibile => pensato come buono vs cibo non disponibile => pensato come cattivo.

Tabu alimentari

tabu che impediscono di nutrirsi di certi cibi


musulmano > animale sgozzato da vivo / sangue scolato completamente
ebrei legge kashrut > divieto di consumare insieme carne e latte (carne figlia del latte)
divieto di cibarsi di carne
(Bibbia e il Corano) suina bovina (Induismo e Buddhismo)
motivazione ambientale: antica India: carne bovina cibo dei brahmani
territori desertici/semidesertici aumento della popolazione >
allevamento dei maiali carne bovina più rara privilegio delle caste alte
non conveniente per motivi climatici 600 a. C. buddhismo filosofia dei poveri
concorrenza con l’uomo per il cibo non consumare carne: segno politico di
(tuberi, noci, carote) disapprovazione delle classi dirigenti > anche
i brahmani si convertono alle protezione dei bovini

Madagascar > cipolla evitata perchè attira il fulmine > riso insufficiente > ‘800: alternativa alla malnutrizione

Assunzione del latte antenati Africa => Europa: clima freddo scarsa esposizione al sole: carenza di calcio e
rachitismo (carenza vitamina D) si iniziò a bere latte di capra, pecora, mucca e si sviluppò
un enzima, lactasi, necessario a digerire il latte e assimilare il calcio
parti del mondo nelle quali tale processo non è avvenuto (es Cina ed Estremo Oriente)
> molti individui non possono assumere latte, a eccezione di quello materno.

La ricerca della purezza Mary Douglas (1921-2007)


aspetti simbolici del cibo > concetto di impurità (idea di sporcizia)
Ciò che è sporco o pulito = giudizio culturale e relativo

brahmini Havik: divieto di accettare cibi cotti dalle mani di individui di casta inferiore
sacerdoti dei tangba (Benin) solo cibi ritenuti “tradizionali” cucinati in pentole di terracotta
tuareg affidano ai bellah (schiavi neri) le mansioni domestiche tranne il cucinare
società occidentale > culto del “biologico” e rifiuto degli OGM (organismi geneticamente modificati)
Cibo e identità
hamburger (u.s.a.)
cibo => stereotipo / identità di un gruppo birra tedesca riso orientale
dispregiativo prestigio/orgoglio pizza italiana
“maccaronì” italiani in Francia champagne francese
“polentoni””terroni” Italia nord-sud cous cous arabo
francesi -> belgi: mangeurs de frites spaghetti italiani
inglesi -> francesi: frog eaters sushi giapponese

abitudini alimentari => gruppi di appartenenza


appartenenza ideologica: mangiare “biologico” scelta salutistica appartenenza a un movimento di idee
Pierre Bourdieu (1930-2002) il cibo rimarca le differenze tra strati sociali
gusti “di necessità” (“pane e cicoria”) vs gusti “di lusso” delle classi agiate (“caviale e champagne”).

Nutrire gli dei


cibo come comunicazione con il sacro: offerte agli dèi in forma di cibo
culto afrobrasiliano del candomblé (orixàs) santuari forniti di cucina
religioni tradizionali africane: i feticci (oggetti, statuette, manufatti) devono essere nutrite con cibi e bevande.
ramadan festa dell'Aid el Kebir sacrificio di un montone: non è consentito digiunare invito e condivisione
eucarestia cristiana: valore simbolico della condivisione del pane e del vino: rinnovarsi del patto dell’ultima cena
digiuno rituale moltissime religioni (nativi americani, sciamani dell'Asia e delle Americhe, etc)
pratica purificatoria per liberarsi del piacere e delle scorie del cibo e per avvicinarsi a una verità sacra

Cibi da terre lontane e cibi tradizionali


Ogni cucina è “multiculturale”: prodotto di scambi avvenuti nel corso della storia
frutta originaria del Medio Oriente (arancia, mandarino, prugna, albicocca) riso e spezie: Asia
scoperta dell'America: pomodoro mais arachide patata manioca fagiolo tacchino
tradizione => prodotto di una proiezione del presente sul passato (cucina => “metissage”)
spaghetti piatto “tipico” italiano di origine cinese senegalesi thiéboudiene (riso e pesce)
epoca coloniale eccedenze di riso dell'Indocina:
Europei => Africa mancanza di produzione locale: costi oggi piuttosto elevati.

Saper mangiare => regole su come il cibo va consumato.

popolazioni Sahel Sahara: contenitore comune (mano destra vs mano sinistra)


bastoncini di legno (Cina) cibo elemento da condividere in pace (vs uso coltello)
Africa: condivisione del cibo alto valore simbolico:
l'ospite talvolta consuma i pasti da solo (separazione = indice di rispetto)

disposizione dei commensali


gerarchie, rapporti sociali, stato civile Galateo (Giovanni Della Casa)
padrone di casa capotavola (padrona di fronte) loro destra: ospite + importante
(alternanza uomo-donna) celibi e persone di famiglia posti più lontani
molti paesi musulmani: uomini e donne consumano il pasto in luoghi separati dell'abitazione
chaji cerimonia del tè (Giappone) attrezzi di qualità altissima
disposizione del cibo > rigidi criteri estetici / movimenti coreografici del corpo
attorno al tavolo: gerarchia basata sull'importanza dei commensali
Tangba Rpama rito di passaggio 25 anni i sakpana (inferiori ai 25 anni) sacrifica un bue e lo offre
ripartizione prestabilita: cosce > sacerdoti torace > capo politico collo > pastore che ha allevato il bue
i giovani non mangiano carne, gli anziani li scherniscono: “Aspetta la mia morte e poi mangerai”
Nello spazio e nel tempo

“Che cos’è il tempo? Se nessuno m’interroga lo so. Se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo
so”, scriveva sant’Agostino. Secoli dopo Edmund Leach (1910-1989) affermava:“Noi parliamo di
misurare il tempo come se il tempo fosse una cosa concreta posta lì per essere misurata; di fatto
noi, creando degli intervalli nella vita sociale, creiamo il tempo. Fino a che non abbiamo operato
questa suddivisione non c’è tempo da misurare”. Una tesi che sembra riprendere le parole di Albert
Einstein, che estendeva la soggettività anche allo spazio:“Lo spazio non ha una realtà oggettiva,
ma solo un ordine o una disposizione degli oggetti che percepiamo in esso, e il tempo non ha
un’esistenza indipendentemente avulsa dall’ordine di eventi attraverso cui noi lo misuriamo”.
La vita umana si svolge all’interno di due dimensioni fondamentali: lo spazio e il tempo. Tutti noi
ci muoviamo lungo coordinate spaziali che possono portarci in avanti, indietro, di lato, in alto o in
basso. Se lo spazio può essere facilmente visualizzato dai nostri occhi, il tempo lo è molto meno.
Possiamo osservare l’effetto dello scorrere del tempo nella progressiva decadenza degli oggetti o
delle persone, ma il tempo in quanto tale non è facilmente percepibile dai nostri sensi. Infatti il tem-
po in quanto entità calcolabile non esiste in natura, ma inizia a esistere quando gli umani creano de-
gli intervalli per regolare la propria vita. Più che parlare di tempo, dovremmo quindi parlare di per-
cezione del tempo, e l’etnografia ci porta a scoprire che questa percezione è diversa da cultura a
cultura. Se noi occidentali vediamo un uomo seduto all’ombra di un albero, siamo portati a pensare
che non stia facendo nulla, che stia oziando. Al contrario per un indiano o per un giapponese stare
seduti non vuole dire essere inattivi, ma significa fare qualcosa: stare seduti.

La linea, il cerchio e la spirale


Nonostante i modi di percepire il tempo siano molti e diversi, una cosa accomuna tutte le società
umane: la necessità e la volontà di calcolarlo. Infatti per gestire le relazioni è necessario stabilire un
codice di lettura del tempo comune, che riduca il fluire del tempo a segmenti stabiliti, ai quali si può
fare riferimento nella comunicazione e per collocare un fatto nel tempo. Per creare un sistema di
misurazione utile, gli intervalli di tempo devono essere ripetitivi e vanno trasformati in unità forma-
li. Esistono sostanzialmente due modi per stabilire gli intervalli di tempo: il primo si fonda sull'os-
servazione dei fenomeni naturali e sulle relazioni tra gli esseri umani e la natura, il secondo sulle
relazioni tra gli individui stessi e la loro società.
1. Le diverse unità di misura (ora, giorno, settimana, mese, stagione) sono alla base di due diverse
concezioni del tempo. La prima è quella che possiamo definire ciclica e che si basa sulla ripetitività
degli eventi. Il sole e la luna ripetono quotidianamente il loro arco celeste e ci danno la certezza che
a ogni alba inizia un nuovo giorno e dopo ogni tramonto una nuova notte. Allo stesso modo ogni
20-30 giorni possiamo vedere la luna piena e dopo ogni estate arriva l’autunno. Il tempo ciclico è
funzionale per calcolare degli intervalli di tempo, per fissare delle scadenze, ma non ci dà il senso
del fluire del tempo, della storia e, di conseguenza, dell’invecchiamento. Per essere in grado di per-
cepire questo flusso occorre leggere il tempo in modo lineare, cioè mettere in sequenza le unità di
misura, che ritornano ciclicamente, lungo una linea continua che fugge in avanti, come una freccia
scagliata verso il futuro. Se allineiamo un giorno dopo l’altro e li numeriamo, così come allineiamo
e numeriamo i mesi e poi gli anni, abbiamo costruito una cronologia, che ci fornisce il senso dello
scorrere del tempo.
Spesso queste due diverse concezioni del tempo vengono usate per creare una distinzione tra «noi»,
occidentali civilizzati, legati a una concezione lineare e «loro», i primitivi ancorati ai ritmi della na-
tura, incapaci di percepire la storia. A tale proposito Claude Lévi-Strauss propose una distinzione
tra società «calde» e società «fredde»: le società calde sarebbero simili a dei motori a scoppio, che
vivono in un continuo mutare degli equilibri e producono «calore» grazie alla loro percezione della
storia, al fatto di essere sempre in movimento e a uno sfruttamento senza limiti della natura. Inoltre
proprio questo loro perenne lavorio porterebbe continue innovazioni e darebbe vita a strutture socia-
li stratificate, con gerarchie di potere ed economiche. Calde, per Lévi-Strauss, sarebbero le società
come quella occidentale. Al contrario le società fredde presentano un’organizzazione più egualita-
ria, basata su gruppi di parentela dotati di pari dignità, su un sistema politico che prevede la parteci-
pazione collettiva della comunità e su una volontaria limitazione dei bisogni individuali e collettivi.
Questo perché tali società funzionerebbero sulla base di schemi fissi e ripetitivi, più simili al mecca-
nismo di un orologio che a quello di un motore, senza dare vita a profonde innovazioni. La preser-
vazione dell’ordine interno ed esterno e la conservazione della natura impedirebbero loro di avviare
un vero progresso. In sintesi, le società calde vivrebbero nella storia, mentre quelle fredde vivrebbe-
ro nella natura. Pur rivelando non pochi pregi, tale dicotomia, applicata al problema della percezio-
ne del tempo, rischia di essere troppo rigida e schematica: non è vero che gli altri non concepiscano
il tempo anche in modo lineare, così come non è vero che noi non utilizziamo un’idea circolare di
tempo. Nella storia di ogni popolo esistono riferimenti fissi, eventi particolari, che in qualche modo
contribuiscono a dare il senso della storia e a fornire un preciso ordine cronologico. Guerre, care-
stie, epidemie o altri eventi eccezionali sono ben impressi nella memoria collettiva di qualunque
popolazione umana. In Africa si usa spesso battezzare i figli con nomi legati ad eventi accaduti al
momento della loro venuta al mondo. In Rwanda, per esempio, ci sono adulti che si chiamano «ca-
duto dal cielo» o con espressioni simili. Sono persone nate nel 1966, quando i rwandesi videro, per
la prima volta, i paracadutisti francesi, lanciatisi per ristabilire l’ordine nel paese.
Un altro esempio di concezione lineare ce lo fornisce uno studio sui medje-mangbetu, che abitano nelle re-
gioni nord-orientali della Repubblica Democratica del Congo. Questa popolazione organizza il proprio spa-
zio e il proprio tempo lungo l’asse est-ovest, che nella lingua locale vengono definiti rispettivamente con il
termine zebo, che indica sia l’est sia lo spazio «a monte», e zebu che a sua volta significa sia «a ovest» sia «a
valle». I due termini fanno pertanto riferimento non solo al ciclo solare, ma anche allo scorrere dell’acqua
dei fiumi, che diventa anche metafora dello scorrere della vita. Un proverbio mangbetu recita: «la piroga non
invecchia a levante, invecchia verso ponente». Il trascorrere della vita è inscritto nello scorrere delle acque:
per quanto si possa remare controcorrente, per risalire il fiume, alla fine le forze verranno a mancare e la pi-
roga, con il suo rematore, verrà trascinata verso valle, verso il tramonto, cioè verso la morte.
Al contrario, noi utilizziamo spesso sistemi circolari di calcolo del tempo come, per esempio, la settimana,
che appare ancor più circolare se intesa in senso scolastico o lavorativo. Thank God it’s Friday si intitolava
un celebre film musicale del 1978 e ogni studente o lavoratore sa bene come il mercoledì rappresenti il giro
di boa che lo avvicina al weekend, al riposo, alla fine di una settimana lavorativa, che si ripete sempre
uguale.
In ogni cultura quindi convivono le dimensioni lineare e circolare del tempo, nessuno si limita ad
adottarne una sola e a escludere l’altra. Commerci, espansioni, viaggi hanno fatto sì che i popoli
oggi vivano con più di un calendario, utilizzandone uno o l’altro in base alle esigenze del momento.

2. Non è neppure vero che le altre società basino il calcolo del tempo solamente sull’osservazione
della natura: spesso lo fanno anche sulla base delle relazioni sociali. Anche qui occorrono però
elementi di confronto e di ripetitività: non si confrontano più solo eventi naturali, ma esperienze
legate al singolo individuo o all’intera comunità, che siano condivise e che siano ripetitive.
In molti casi è il lavoro a determinare la scansione temporale, come nel caso dei calendari
contadini, in altri sono i cicli cerimoniali a segnare il tempo, in particolare quelli legati ai sistemi di
classi d’età, oppure a eventi politico-strutturali, come nel caso delle capitali mobili in alcune parti
dell’Africa.
Presso alcuni regni africani come il Bunyoro, il Baganda e l’Ankole (tutti nell’attuale Uganda) alla morte
del sovrano si abbandonava la capitale dove egli aveva regnato e il centro del potere si trasferiva in un luogo
nuovo. In questo modo si ribadiva l’eccezionalità del potere centrale nei confronti dei clan o dei villaggi, ra-
dicati nel territorio. Allo stesso modo la loro precarietà indicava anche il senso di transitorietà del potere. La
morte del sovrano dava origine a un periodo di crisi: le leggi non venivano più osservate, i mercati venivano
chiusi, i ruoli tradizionali erano invertiti. Nella lingua ganda il termine mirembe significa «pace», o «regno»
e indica il periodo che coincide con l’elezione di un sovrano, il riemergere dell’ordine, fino alla morte del
sovrano stesso, quando tornerà il disordine. Poi ancora un nuovo re e una nuova capitale, in un nuovo luogo.
Anche se spesso si tende ad attribuire ai popoli considerati primitivi una percezione temporale
basata sull’imminente più che sulla lunga durata, l’antropologia ci ha offerto casi (come quello delle
capitali mobili) di conteggio del tempo pluriennale: i dogon del Mali celebrano il sigui (cerimonia
itinerante che rappresenta la perdita dell’immortalità dell’anima da parte dell’uomo) ogni
sessant’anni circa, basando il loro calcolo sul periodo di rotazione della stella Sirio B.
La credenza nella reincarnazione delle anime propria di alcune filosofie orientali (l’idea del «ritor-
no») potrebbe suggerire una concezione circolare del tempo, ma non è esattamente così. Infatti an-
che nelle culture orientali è ben presente il senso della storia. Se si dovesse pertanto rappresentare
graficamente la percezione del tempo in questa parte di mondo, l’immagine più pertinente sarebbe
la spirale. Questa figura, infatti, racchiude in sé tanto la circolarità, quanto il senso di progressione
in avanti.

Il verme "annuale" delle Trobriand


Nel piccolo arcipelago melanesiano delle Trobriand, la luna svolge un ruolo fondamentale nel calcolo del
tempo: il calendario festivo è costruito sui cicli lunari, in base al quale si possono svolgere attività e cerimo-
nie anche di notte se la luna è piena, altrimenti di notte si rimane a casa. Il ciclo lunare inizia con il compari-
re della luna, che nella prima fase è chiamata "luna acerba", mentre i giorni non hanno denominazione; dal
decimo giorno la luna diventa "alta" e ogni giorno ha un nome specifico, in particolare i giorni di luna piena
dedicati alle attività festive serali, dove la gente si incontra, danza e si scambiano doni; dal ventiduesimo
giorno inizia il periodo della"grande oscurità" e i giorni tornano ad essere anonimi. In ogni ciclo lunare ci so-
no 29-30 giorni e ogni anno è formato da 12-13 cicli lunari, anche se non ha un momento specifico di inizio
né di fine; alcuni mesi hanno un nome, ma esso varia di zona in zona, poiché i mesi non sono organizzati
secondo un calendario astratto, ma determinati dai ritmi dell’agricoltura (è il raccolto a determinare il mese).
Poiché la maggior parte dei calendari locali prevede 12 cicli lunari, ogni 3 anni si apporta una modifica, por-
tando a 13 i mesi di quell’anno. Per far ciò ci si affida a un anellide marino, chiamato militala, che depone le
uova una volta all’anno sempre nel periodo in cui c’è luna piena a Vakuta, isola dell’arcipelago, e si tiene
una festa per celebrare l’evento. Se il neonato verme non appare, la festa viene rinviata e il mese, chiamato
appunto milamala, ripetuto; in questo modo si avrà un mese in più e il calendario compenserà lo sfasamento
rispetto alle fasi lunari.

Tempo e spazio nel mercato africano


In molte regioni dell’Africa il mercato è un punto di riferimento temporale, spaziale e sociale insostituibile:
non è solo un luogo di compravendita e di scambio commerciale, ma è un luogo caratterizzato dall’intensa
celebrazione di scambi sociali e diventa punto di incontro tra i membri dispersi della propria famiglia.
Il grande albero al centro delle piazze è un vero e proprio arbre à palabre, dove gli anziani si riuniscono per
lunghe discussioni e fumate di pipa. I mercati non determinano solo l’economia e il calendario, ma sono un
collegamento nelle comunicazioni di ogni tipo: vi si reca per bere birra, incontrare gente, divertirsi. Il giorno
del mercato è un giorno di festa: amici e fidanzati, si incontrano, mentre gli affari commerciali vanno avanti.
L’aspetto sociale del mercato è sottolineato dal suo carattere neutrale che emerge nel divieto di portare armi
nello spazio designato. Il grande scrittore e storico polacco Ryszard Kapuscinski (1932-2007) racconta co-
me in Liberia, durante la guerra civile, il giorno di mercato i ribelli del dittatore Charles Taylor attraversas-
sero il confine e consegnassero le armi ai militari per recarsi al mercato. Al ritorno le armi venivano loro ri-
consegnate e il giorno dopo riprendevano gli scontri a fuoco.
Presso molte società africane tradizionali i mercati di una certa area formano un ciclo che rappresenta la set-
timana locale: il calcolo del tempo breve si fonda sulla sequenza con cui si animano i mercati di una serie di
villaggi, che danno il nome al loro giorno del mercato. Per esempio, in un ciclo di 4 giorni, uno tra i più dif-
fusi in Africa occidentale, il primo giorno il mercato si terrà nel villaggio A, il secondo in quello B, poi C,
quindi D e di nuovo A. Ogni giorno prende il nome del mercato e tale sequenza fornisce il riferimento condi-
viso per i periodi di tempo breve. Se uno, viaggiando, lascia l’area di un mercato per entrare in un altro che si
tiene lo stesso giorno, il nome del giorno cambierà.
Ci troviamo davanti ad un calcolo del tempo diverso rispetto a quello basato sui cicli ecologici, le stagioni,
le piogge, le lune: la settimana non ha riferimenti in nessun evento naturale e non è integrata con gli altri ci-
cli legati alla luna e al sole. Una settimana è tale perché in essa i giorni hanno un ordine prefissato, un calco-
lo basato su fatti concreti che fanno riferimento a fenomeni sociali: il tempo del mercato indica un dominio
entro il quale gli uomini contraggono obbligazioni gli uni con gli altri, quindi più percettibile rispetto al tem-
po strutturale legato ai riti di passaggio e quello ecologico delle stagioni, è un tempo voluto dall’uomo e
creato dall’uomo.
Inventare lo spazio
«L’uomo è organizzatore dello spazio» ha scritto il grande paleontologo André Leroi- Gourhan.
Nell’organizzare le loro relazioni gli uomini infatti «costruiscono» lo spazio attorno a loro sulla ba-
se di categorie culturali specifiche della loro società. Ecco perché dal modo in cui viene gestito lo
spazio si possono comprendere le relazioni, le gerarchie, il sistema politico oppure l’ideologia di
una società. Creato e pensato dall’uomo, lo spazio diventa metafora delle azioni umane. Pensiamo
all’utilizzo che facciamo nella lingua italiana di trasposizioni spaziali per indicare alcuni nostri mo-
di di agire e di pensare (ad es. «sprofondare nel silenzio», «Risalire la china. Lo spazio e le sue rap-
presentazioni, create dagli uomini, risultano essere utili per pensare, per raccontare gesti e pensieri
umani, quasi a ribadire che gli uomini non si muovono in un vuoto, ma sempre in uno spazio codi-
ficato. Lo spazio, infatti, può anche diventare un mezzo di comunicazione non verbale. Ogni cultura
stabilisce quale sia la distanza «giusta» tra due individui a seconda della situazione in cui si trovano.
Il concetto di spazio tra gli individui cambia da cultura a cultura. Per esempio, se mettiamo cento
persone in una piazza, a un inglese può sembrare affollata, mentre agli occhi di un arabo la stessa
piazza con le stesse persone apparirà mezza vuota.

Dallo spazio al paesaggio


Lo spazio, culturalmente inteso, è un prodotto del pensiero, un vuoto riempito dalle azioni umane e
costruito sulla base delle relazioni sociali; viene dunque anche letto e interpretato in base a queste
stesse relazioni sociali. Infatti ciò che noi chiamiamo paesaggio non è uno spazio «puro», ma il pro-
dotto del nostro sguardo su quello spazio, su quell’ambiente. Il paesaggio è costruito dallo sguardo:
non c’è paesaggio senza un osservatore. Per questo è suscettibile di essere letto in modi diversi da
individui appartenenti a epoche, a culture, a gruppi sociali diversi.
Per esempio, noi siamo abituati a orientarci basandoci su un sistema che prevede quattro punti cardinali, in
base ai quali abbiamo «fissato» lo spazio. Le popolazioni che abitano l’isola di Bali nell’arcipelago indone-
siano aggiungono a questi quattro punti il centro. Inoltre definiscono l’asse nord-sud come l’asse che unisce
il «lato della montagna» al «lato del mare»; una direzione che però può mutare a seconda del lato dell’isola
in cui ci si trova. Per i nativi americani i punti cardinali sono addirittura dodici. Presso le società di cacciato-
ri-raccoglitori spesso sono dei riferimenti naturali a essere presi come riferimenti spaziali, come per esempio,
le pozze d’acqua, che danno origine a una vera propria mappa funzionale, utilizzata dai gruppi semi-nomadi.
Lo scrittore e viaggiatore inglese Bruce Chatwin con il suo libro Le vie dei canti (1988), ha descritto la
concezione dello spazio degli aborigeni australiani, secondo i quali in un passato mitico chiamato Tempo
del Sogno gli antenati avevano percorso la loro terra, cantando il nome delle cose e delle creature in cui si
imbattevano, facendo così esistere il mondo. Per gli aborigeni ogni antenato totemico, nel viaggiare per il
paese, aveva lasciato una specie di scia di parole e di note musicali. Questi «segni» orali sono rimasti sulla
terra per segnare delle vere e proprie «vie» di comunicazione fra le tribù più lontane. Secondo Chatwin: «La
terra de-ve prima esistere come concetto mentale. Poi la si deve cantare. Solo allora si può dire che esiste».
Per i dogon del Mali lo spazio del villaggio è legato alla creazione e alla cosmogonia e presenta una pianta
che riflette il corpo umano. Gli abitati dogon sono un esempio di antropomorfismo applicato alla struttura ur-
banistica: visto dall’alto un villaggio rappresenta il corpo umano, scomposto nelle sue varie parti. Si tratta in
realtà di un’evocazione simbolica del corpo umano e non di una rappresentazione grafica, ma l’intento dei
costruttori è comunque di riprodurre la figura umana. La to-guna, la «casa della parola», dove si tiene il con-
siglio degli anziani e dove si elaborano e si consolidano la tradizione e il sapere locale, rappresenta la testa
dell’uomo-villaggio. Le case rappresentano il petto della figura umana. Queste costruzioni, che sono a un
tempo abitazione e altare per gli antenati, rimandano a loro volta ad altri simboli antropomorfi: la stanza del
capo-famiglia rappresenta il maschio della coppia e la porta è il suo sesso, così come la stanza centrale è il
simbolo della donna, la porta è il suo sesso e i ripostigli laterali sono le sue braccia. Le mani del villaggio so-
no rappresentate dalle case, rotonde come uteri, che sorgono ai lati dell’abitato, dove vengono isolate le don-
ne durante il periodo mestruale. I dogon sembrano aver fatto loro l’immagine organica della società; riprodu-
cono nello spazio architettonico dei loro abitati il corpo dell’uomo e i simboli della cosmogonia, riproponen-
do così una lettura quotidiana del rapporto che esiste tra il pensiero religioso e l’azione degli uomini.
Lo spazio a volte si traduce anche in forme di gerarchia, per esempio le grandi società sono caratte-
rizzate da una dicotomia centro/periferia, che si fa tanto più evidente quanto il territorio occupato
dalla società è più vasto. Il centro non rappresenta solamente una coordinata spaziale, ma anche una
dimensione di tipo politico, nel caso di una capitale, economico, nel caso di centri di commercio o
di produzione, o religioso, come nel caso di città sante come La Mecca, Roma o Gerusalemme.

Abitare
L'uomo ha cercato da sempre di ritagliare dallo spazio esterno uno spazio ‘domestico’ protetto, che
lo riparasse dalle intemperie, ma anche dagli sguardi altrui. Questa porzione di spazio, separata dal
“fuori”, viene genericamente detta “casa”. Ma che cosa si intende per casa? Si potrebbe pensare
che, chiudendo lo spazio, la casa separi la “cultura” dalla “natura”, ma non è proprio così, infatti la
costruzione di una abitazione dipende spesso dalla natura, per esempio per quanto riguarda i mate-
riali e per ciò che riguarda il clima. Un’abitazione è quindi il prodotto della relazione tra la cultura
umana e la natura che la circonda. Se poi parliamo di popolazioni nomadi, dobbiamo considerare
l’esigenza della trasportabilità.
Caratteristiche abitazioni, che rispondono a differenti esigenze climatiche o pratiche, sono: gli igloo degli
inuit, che sovrappongono blocchi di ghiaccio a cerchi concentrici sempre più stretti, fino a formare una cu-
pola, garantendo una temperatura interna di circa 20°C superiore a quella esterna; le tende dei tuareg, che
pos-sono essere trasportate sui dromedari e resistono molto bene alla forza del vento e le yurte dei kirghisi
(popolazione nomade dell’Asia centrale), spaziose e ottimamente strutturate dal punto di vista aerodinamico.
In climi molto piovosi, come quello dei Caraibi, gli abitanti costruiscono abitazioni con foglie di palma, ade-
guatamente sistemate in modo da non far passare l’acqua; nella foresta equatoriale africana i pigmei realiz-
zano delle sorte di igloo fatte da un telaio in legno e da foglie larghe che fanno da copertura. Nelle Alpi e in
altre regioni montane le case sono costruite in pietra o in legno, con tetti spioventi e robusti, per sopportare il
carico di abbondanti nevicate. Negli Stati Uniti sono molto diffuse le balloon frame, costruzioni di legno dal
telaio molto leggero e dalla forma standardizzata, che rispondono perfettamente alle esigenze di mobilità che
caratterizzano la società statunitense, dove nel corso di una vita un individuo cambia casa in media 13 volte.
Ben diverso il concetto di casa nella società italiana, dove l’abitazione costituisce uno dei più importanti in-
vestimenti della vita. La scelta della casa è solitamente laboriosa e lunga, perché si fonda su un’idea, almeno
presunta, di stabilità.
Un'abitazione rappresenta anche un segno, ricco di simboli e valori, diversi in ogni società. Spesso essi sono
legati alle relazioni familiari o sociali, o ai rapporti con i defunti. Ad esempio, in molti villaggi africani le
abitazioni sono raggruppate in compound all’interno di un cortile recintato. Quel cortile per gli africani è ca-
sa tanto quanto le abitazioni vere e proprie, infatti in molti casi ci si toglie le scarpe prima di accedervi.
Presso i walser, che abitano nelle vallate alpine attorno al Monte Rosa, l’abitazione tradizionale, “das Hus”,
è costruita in legno e poggia su una base in pietra. La parte superiore è costruita in tronchi e in alto, in una
parete, veniva praticata una piccola apertura che veniva aperta quando un familiare moriva, affinché l’anima
del defunto potesse uscire, ma poco dopo richiusa, perché l’anima non potesse tornare a spaventare i vivi.
Talvolta l'abitazione può diventare una metafora visibile della società, È il caso, per esempio, della casa
lunga degli irochesi, popolo che viveva nella regione dei Grandi Laghi, al confine tra Stati Uniti e Canada.
Prima dell’arrivo dei coloni, gli irochesi erano organizzati in quella che è stata definita la Lega delle Cinque
Nazioni; in pratica l’intero territorio veniva letto come una grande abitazione comune in cui ardevano cin-
que fuochi. In ogni villaggio c’erano le long houses, abitazioni collettive, lunghe oltre 50 metri, che poteva-
no ospitare da un minimo di due, fino a oltre venti famiglie. Queste costruzioni erano orientate sempre lungo
l’asse est-ovest, per connettere lo spazio abitato con quello cosmico, e tetto, pareti e pavimento riflettevano
la tripartizione cielo, suolo e terra, caratteristico del pensiero irochese. La suddivisione degli spazi ripropone-
va anche la divisione sociale in tre gruppi di clan che rappresentavano l’umanità; la porta orientale simboleg-
giava l’inizio di tutte le cose, mentre quella occidentale, che rimaneva sempre chiusa, la fine. È significativo
notare come l’espressione in lingua irochese per indicare la Lega delle Cinque Nazioni era «apparteniamo
tutti alla grande tenda». La tenda, l’abitazione, diventavano così metafora di uno spazio ben più ampio di
quello strettamente domestico e si traducevano in un concetto che esprime familiarità. Anche noi del resto
utilizziamo la stessa metafora quando diciamo «giocare in casa» per indicare lo stadio della città di apparte-
nenza di una squadra, oppure quando esprimiamo il nostro stare bene in un luogo, dicendo «mi sento a casa».
Tra i tangba del Benin, le cui abitazioni tradizionali (sarhà) sono capanne di terra rotonde con il tetto in
paglia, le case di una stessa famiglia sono unite fra di loro da un basso muretto di terra e pietre. L’entrata è
costituita da una semplice apertura nel muretto e nel cortile si incontra il cocon, la camera dove il capofami-
glia riceve gli ospiti. Spesso in questa capanna vengono conservati oggetti antichi (armi, calebasses – reci-
pienti di zucca svuotata e fatta seccare –, staffe per cavalli) appartenenti alla famiglia e i crani dei buoi sacri-
ficati nel corso delle cerimonie. Si dice infatti che in quella stanza ci sia «la storia» della famiglia stessa.
Oggi nei villaggi, tra i caratteristici coni di paglia delle capanne, spiccano sempre più spesso tetti in lamiera
e abitazioni a pianta rettangolare. La casa quadrata possiede però dei limiti: non è possibile compiervi nessun
tipo di sacrificio o rituale. Per fare questo è necessaria un’abitazione rotonda. Perciò in caso di necessità, ci
si reca al villaggio, per affidare alle mani degli specialisti o degli anziani il compito di eseguire il rito.

Surmodernità, nuove tecnologie e nonluoghi


Le nuove tecnologie non modificano solo la nostra vita pratica, il nostro modo di lavorare, ma an-
che il nostro immaginario e le nostre reazioni emotive. Telefoni cellulari, televisione, internet e alta
velocità hanno imposto un’accelerazione generale dei movimenti sia fisici sia, di conseguenza, cul-
turali. Il tempo, una volta monetizzato e ridotto a merce, è diventato un bene raro nella società urba-
na e industriale. L’accelerazione è spesso più percepita che reale: la velocità media di un’auto in cit-
tà è oggi inferiore a quella di una bici, eppure mobilità e velocità sono diventate valori assoluti. La
lentezza diventa un difetto da superare nell’epoca fast. Le moderne comunicazioni fanno sì che i
fatti diventino eventi planetari, perché coperti ed esaltati dai media. Il nostro immaginario viene de-
formato dalle finzioni che si susseguono nelle raffiche di informazioni che ogni giorno ci colpisco-
no. Questa è la surmodernità (intesa come evoluzione ulteriore rispetto alla modernità), un’accele-
razione della storia in cui la rapidità ha annullato le distanze e pertanto il tempo prevale sullo spa-
zio. In passato, quando si telefonava a qualcuno, la prima domanda era: «come stai?»; oggi è: «dove
sei?», perché il cellulare consente di essere raggiungibili ovunque, svincola lo spazio dal mezzo co-
municativo. Tale opportunità non solo influenza la rapidità dei contatti, ma anche l’attenzione emo-
tiva: in passato, se uno non rispondeva, si pensava che fosse uscito di casa, ora se uno non risponde,
ci si inizia a preoccupare. Accelerazione e ansie caratterizzano anche l’uso della posta elettronica.
Se non si risponde rapidamente a una mail, ne arriva subito un’altra che sollecita la risposta.
Esistono inoltre delle vere e proprie patologie legate alla posta web, che si manifestano in un’ansia
continua di verificare se è arrivato un messaggio. Il web ha poi creato una nuova idea di spazio «vir-
tuale», svincolato dal territorio, in cui si «incontrano» persone di tutto il mondo, senza condividere
uno spazio fisico, ma in tempo reale.
Tutte queste nuove componenti hanno determinato una progressiva prevalenza del tempo sullo spa-
zio e un appiattimento della dimensione tempo sul presente. La percezione sempre più diffusa è che
tutto accada in tempo reale, nel presente, e questo fa sì che il passato perda un po’ del suo peso.
L’antropologo Marc Augé (1935-) ha pubblicato nel 1992 Nonluoghi. Introduzione a una antro-
pologia della surmodernità, dove, ha coniato la ormai celebre definizione di «nonluogo», inteso co-
me luogo privo di storicità, frequentato da gente sempre in transito. Se la casa è il «luogo» per ec-
cellenza, dove si concentrano i simboli più intimi, ci sono al contrario spazi che, essendo frequen-
tati con sempre maggiore rapidità, perdono di spessore e finiscono per diventare sempre di più «su-
perfici». Al contrario degli spazi antropologici, la cui esistenza si intreccia con quella del territorio e
delle persone che li abitano, dando vita a relazioni di tipo simbolico tra individui e ambiente, i non-
luoghi non hanno nessuna relazione identitaria con lo spazio che li circonda, non sono integrati.
Potrebbero stare lì come altrove, senza che la loro funzione cambi. Per esempio il Colosseo non po-
trebbe essere in nessun altro posto se non a Roma, perché è strettamente legato alla storia della città
stessa. Se visitiamo invece un supermarket in un qualunque angolo di mondo, siamo in grado di tro-
vare con relativa facilità le cose che ci servono, perché i supermarket si assomigliano dappertutto
sul piano dell’organizzazione, riflettono un modello generale e non sono legati più di tanto al terri-
torio che li ospita. Nonluoghi sarebbero, pertanto, supermarket, centri commerciali, aeroporti, auto-
strade, le varie versioni di Disneyland. Luoghi che racchiudono al loro interno delle diversità, ma
tutte in modo decontestualizzato; sono vissuti al presente e caratterizzati da una fruizione veloce,
accelerata. Gli aeroporti possono cambiare nello stile architettonico, ma sono organizzati tutti allo
stesso modo: non c’è un modello di aeroporto arabo o asiatico o sudamericano; infatti i nonluoghi
non dialogano con il territorio. Nessuno abita nei nonluoghi, eppure essi sono rappresentativi di una
tendenza all’accelerazione che caratterizza la nostra epoca.
Nello spazio e nel tempo

“Che cos’è il tempo? Se nessuno m’interroga lo so. “Noi parliamo di misurare il tempo come se
Se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so” il tempo fosse una cosa concreta posta lì per
Sant’Agostino essere misurata; di fatto noi, creando degli
intervalli nella vita sociale, creiamo il tempo”
Edmund Leach (1910-1989)

“Lo spazio non ha una realtà oggettiva, ma solo un ordine


o una disposizione degli oggetti che percepiamo in esso, e
il tempo non ha un’esistenza indipendentemente avulsa
dall’ordine di eventi attraverso cui noi lo misuriamo” Albert Einstein

avanti indietro di lato


spazio in alto in basso
vita umana due dimensioni
tempo intervalli per regolare la vita
creati dagli umani

percezione del tempo diversa da cultura a cultura

“Se noi occidentali vediamo un uomo seduto all’ombra di un albero,


siamo portati a pensare che non stia facendo nulla, che stia oziando.
Al contrario per un indiano o per un giapponese stare seduti non
vuole dire essere inattivi, ma significa fare qualcosa: stare seduti”.

La linea, il cerchio e la spirale

società umane => necessità e volontà di calcolare il tempo

gestione delle relazioni

codice di lettura del tempo comune => segmenti stabiliti -> comunicazione

collocazione dei “fatti”

intervalli di tempo ripetitivi => unità formali

1. osservazione dei fenomeni naturali

a. concezione ciclica del tempo b. concezione lineare del tempo

ripetitività degli eventi mettere in sequenza le unità di misura


ora, giorno, settimana, mese, stagione linea continua che fugge in avanti
cicli solari e lunari “freccia scagliata verso il futuro”
tempo ciclico => a-storico allineare i giorni e numerarli => cronologia
Claude Lévi-Strauss

società calde vs società fredde


continuo mutare degli equilibri organizzazione più egualitaria
movimento incessante gruppi di parentela dotati di pari dignità
sfruttamento senza limiti della natura sistema politico con partecipazione collettiva
perenne lavorio => continue innovazioni limitazione bisogni individuali/collettivi
“motori a scoppio” “meccanismo dell’orologio”
strutture sociali stratificate schemi fissi e ripetitivi vs innovazioni
gerarchie di potere ed economiche => preservazione dell’ordine vs progresso
società occidentale culture tradizionali
storia vs natura

«noi» occidentali civilizzati vs «loro» primitivi ancorati ai ritmi della natura


concezione lineare incapaci di percepire la storia

presenza dell’idea sia ciclica che lineare del tempo presso ogni popolo

lettura: Rwanda: i “caduti dal cielo”


Congo: i medje-mangbetu, “zebo” e “zebu”
USA 1978: Thank God it’s Friday

2. calcolo del tempo sulla base delle relazioni sociali

esperienze legate al singolo individuo o all’intera comunità, condivise e ripetitive

lavoro => scansione temporale (calendari contadini)


cicli cerimoniali => sistemi di classi d’età / eventi politico-strutturali

letture: Uganda: capitali mobili


Dogon (Mali) il “sigui”
Induismo e filosofie orientali: la reincarnazione delle anime:
concezione del tempo ‘spiraliforme’
Melanesia: Il verme "annuale" delle Trobriand
Il mercato africano: l’arbre à palabre

Inventare lo spazio
«L’uomo è organizzatore dello spazio» André Leroi- Gourhan

organizzazione delle relazioni

«costruzione» dello spazio sulla base di categorie culturali specifiche della società

spazio metafora delle azioni umane


mezzo di comunicazione non verbale

concetto di spazio interpersonale (prossemica)


variabile da cultura a cultura
distanza «giusta» tra le persone nelle specifiche situazioni
Dallo spazio al paesaggio
riempito dalle azioni umane
Spazio culturalmente inteso => prodotto del pensiero => vuoto costruito sulle relazioni sociali

“paesaggio” => prodotto del nostro sguardo vs spazio «puro»


non c’è paesaggio senza un osservatore
letto in modi diversi a seconda delle epoche/culture/gruppi sociali

lettura Bali: 4 punti cardinali + centro gli antenati, cantando


nativi americani 12 punti cardinali il nome delle cose e
cacciatori-raccoglitori pozze d’acqua: mappa funzionale delle creature, facevano
aborigeni australiani (Bruce Chatwin, Le Vie dei canti) così esistere il mondo
dogon (Mali) villaggio: pianta che riflette il corpo umano

Lo spazio => forme di gerarchia grandi società: dicotomia centro/periferia


centro coordinata spaziale
dimensione di tipo politico (capitale)
economico (centri di commercio/produzione)
religioso (es. città sante La Mecca, Roma, Gerusalemme)

Abitare
intemperie
spazio ‘domestico’ protetto vs porzione di spazio separata dal “fuori” => casa
sguardi altrui
prodotto della relazione tra la cultura
umana e la natura che la circonda

lettura/immagini igloo inuit tende tuareg yurte dei kirghisi Caraibi capanne con foglie di palma
Pigmei ‘igloo’ in legno Stati Uniti balloon frame Alpi tetti spioventi e robusti
casa nella società italiana: stabilità, scelta laboriosa e lunga investimento importante
villaggi africani: abitazioni raggruppate in compound all’interno di un cortile recintato
walser (Monte Rosa) “das Hus”: apertura per far uscire l’anima del defunto
irochesi long houses, Grandi Laghi tangba (Benin) sarhà

Surmodernità, nuove tecnologie e nonluoghi


nuove tecnologie => accelerazione generale fisica / culturale epoca fast vs lentezza
surmodernità (evoluzione ‘oltre’ la modernità) accelerazione della storia
il tempo prevale sullo spazio web spazio virtuale
la rapidità annulla le distanze ci si incontra in tempo reale
senza condivisione di spazio fisico
esser sempre connessi => posta web: accelerazione e ansia
appiattimento della dimensione tempo sul presente

«nonluogo» => luogo privo di storicità


gente sempre in transito vs casa «luogo» per eccellenza
Marc Augé (1935-) frequentato con rapidità, fruizione veloce, accelerata => «superfici»
1992 Nonluoghi. nessuna relazione identitaria con lo spazio che li circonda
Introduzione a una non integrato non dialogante col territorio
antropologia della organizzazione comune identico modello generale
surmodernità Privo di abitanti
supermarket centri commerciali aeroporti autostrade Disneyland
L’antropologia religiosa
L’antropologia religiosa studia il rapporto che l’uomo, costruttore e manipolatore di simboli,
intrattiene con ciò che considera il soprannaturale o il sacro. Lo studio antropologico, però, si limita
solitamente alle religioni delle micro-società e lascia alla sociologia religiosa l’esame delle grandi
religioni della salvezza. L’antropologia religiosa non si occupa di ciò che comunemente viene
definito “irrazionale”, ma di fenomeni disparati (la magia, la stregoneria, le forme
dell’organizzazione religiosa, la cosiddetta mentalità primitiva); le sue sfere d’interesse riguardano:
le potenze (Dio, geni, mana, feticci, antenati, dèmoni, ecc.), i luoghi sacri ricettacoli di forze (pietre,
alberi, acqua, fuoco, animali, ecc.), l’uomo sacro (re, sacerdote, santo, mago, ecc.), gli elementi
spirituali dell’uomo (anima, doppi, spiriti); la comunità cultuale (Clan, Chiesa, setta, società
segreta). Le espressioni dell’esperienza religiosa sono al tempo stesso ideali (credenze, miti,
dottrine), pratiche (culti, riti, feste, atti magici), sociologiche (legami sociali in seno ad una
organizzazione religiosa), storiche (mutamenti della vita religiosa nei vari periodi).

Il senso del sacro


Alcuni importanti autori del primo Novecento, hanno individuato il fondamento antropologico
comune ad ogni religione nel concetto di “sacro”. Infatti, mentre l’idea di “dio” non è presente in
tutti i sistemi di credenze, l’idea di una forza soprannaturale, al tempo stesso venerabile e temibile,
è universalmente diffusa. La parola italiana sacro deriva dal latino sacer, termine che nell’antica
Roma indicava tutto ciò che era dedicato agli dei dalla comunità politica e che, pertanto, si
considerava appartenente a loro. Il termine sacer possedeva una certa ambivalenza: esso suggerisce
infatti l’idea di qualcosa che può essere degno di venerazione, ma anche tremendo, qualcosa di
santo e maledetto insieme; l’espressione giuridica sacer esto può essere tradotta con “sia
maledetto”, quando si riferisce ad un condannato, ma anche con “sia consacrato agli dei”.
Secondo Durkheim, tutte le religioni presuppongono una classificazione della realtà in due
categorie: il “sacro” (ciò che è dedicato agli dei) e il “profano” (ciò che sta fuori dal fanum, il luogo
consacrato). Tale classificazione è opera della società, la quale stabilendo che cosa è sacro, nel
senso di “degno di rispetto” e “inviolabile”, costituisce anche la fonte dell’obbligo morale.
Secondo Rudolf Otto (1869-1937), il sacro è una realtà che esiste prima del suo riconoscimento
sociale e ha le sue radici nell’esperienza interiore di ogni uomo. Ha il senso del sacro chi avverte la
propria piccolezza di fronte all’infinità del Tutto e ne è turbato. Il sacro è la consapevolezza di un
“totalmente altro” che insieme atterrisce e affascina l’uomo. Secondo questa prospettiva,
l’esperienza del sacro è il presupposto di tutte le religioni, da quelle tribali a quelle monoteistiche.
La distinzione sacro-profano, (relazione degli uomini con la trascendenza e relazione degli uomini
tra loro), è elastica e non stabile: il sole e la luna non sono per l’uomo moderno delle manifestazioni
del sacro come lo erano per l’antico egizio. Il sacro dunque sopravanza di molto il campo del
religioso, soprattutto di quello istituzionalizzato. Esso può venir percepito tanto nelle liturgie
politiche, come nella magia o nelle “religioni popolari” che non sono dotate di un apparato di
specialisti che gestiscono le credenze e le pratiche.

Magia, stregoneria e sciamanesimo

La magia

Per magia si intende generalmente un’operazione tesa ad agire sulla natura attraverso mezzi occulti
che suppongono la presenza di spiriti e di forze immanenti e straordinarie. Si distingue, in basa alla
finalità dell’azione, tra magia bianca, attuata per scopi benefici (una guarigione, il successo in
un’impresa) e magia nera, che si avvale di spiriti maligni e ha scopi malvagi. La magia utilizza

1
sempre delle potenze esterne, manipolate attraverso simboli (oggetti, formule, gesti) al fine di
modificare il corso degli avvenimenti a vantaggio dell’esecutore della magia oppure a danno di
altri. Secondo James Frazer le pratiche magiche sono raggruppabili in quattro categorie: 1) la magia
contagiosa: ci si serve, per ottenere l'effetto magico, di materiali che siano stati in contatto con ciò
che si desidera influenzare (l’atto di stregare qualcuno servendosi dei frammenti delle sue unghie,
dei capelli, dei vestiti); 2. la magia imitativa: consiste nel riprodurre nell’atto magico ciò che si
desidera avvenga nella realtà (bagnare d’acqua la terra per favorire la caduta della pioggia); 3. la
magia omeopatica: effetti prodotti nel corso dell’atto magico si ripercuotono uguali sulla vittima;
4. la magia simpatica: gli atti magici si fondano sul principio de “il simile influisce sul simile”. Ad
esempio, i pigmei, per catturare un determinato animale, ne assumono le sembianze.
Per l’etnologo e storico delle religioni Ernesto De Martino (1908-1965) la magia va intesa come
una risposta alla crisi della presenza, condizione che caratterizza l’individuo nel momento in cui
questo si trova a fronteggiare un passaggio della vita che mette in discussione il suo “essere nel
mondo”. Nel 1959, un'equipe guidata da De Martino conduce una ricerca etnografica nel Salento
per studiare il tarantismo, antico rito contadino caratterizzato dal simbolismo della taranta - il
ragno che morde e avvelena - e dalla potenza estatica e terapeutica della musica e della danza. Con
un'impostazione multidisciplinare inedita (De Martino è accompagnato da uno psichiatra, uno
psicologo, un etnomusicologo ed un sociologo), l’indagine storico-antropologica di De Martino
dimostra, con La Terra del rimorso (1961), come le pratiche rituali abbiano la funzione di
scongiurare le ansie di un'esistenza segnata dalla povertà e dall'emarginazione.

Stregoneria e fattucchieria
Occorre distinguere tra la stregoneria, in quanto potere di nuocere agli altri attraverso un’azione
spirituale, dalla fattucchieria, che agisce attraverso l’uso di materiali e di formule. Evans-Pritchard,
nel suo studio sugli azande del Sudan, contrappone appunto whitchcraft e sorcery. Presso gli azande
la stregoneria è un potere malefico legato a una sostanza contenuta nel corpo; essa viene trasmessa
dai genitori ai figli dello stesso sesso. Gli Azande assicurano che le witches hanno nell’intestino
tenue una sostanza materiale (mangu), il cui possesso consente di nuocere alla salute e ai beni altrui.
Condannata come atto offensivo, responsabile di malattia, morte cattivi raccolti e fallimento degli
affari, l’aggressione stregonesca viene condotta da un individuo o da un gruppo di individui
sospettati di divorare le anime (vampirismo), di avere il dono della doppia visione, di circolare
durante la notte, di scomparire quando lo desiderino (azione del “doppio” e inversione), di
trasformarsi. Le orge degli stregoni prevedono un festino cannibalico in cui ci si ciba di un morto. Il
riconoscimento di uno stregone passa attraverso il suo scarto rispetto alla norma: eccesso di
malattie, di povertà o di ricchezza, sterilità, accanimento nella lotta per il potere, rancore tenace
verso un membro della famiglia. L’oracolo individua gli stregoni e indica anche i modi per
difendersene (incantesimo, esorcismo, bando, morte).
La teologia cristiana del XVI secolo imputava alle streghe il delirio, l’eresia e la frenesia sessuale.
L’ossessione per il diavolo favorì la caccia alle streghe; il sacrificio rituale aveva lo scopo di
calmare i timori generati dai mutamenti in corso.
Un rito magico praticato da fattucchiere o guaritrici, in particolare nell’Italia meridionale, è il rito
dell'eliminazione del malocchio (della jettatura napoletana parla anche A. Dumas nel Corricolo:
“L’jettatore è di solito magro e pallido, il naso ricurvo, occhi grandi che hanno qualcosa di quelli del rospo,
e ch’egli di solito copre, per dissimularli, con un paio di occhiali; il rospo, come è noto, ha ricevuto dal cielo
il dono fatale della jettatura: uccide l’usignolo col solo sguardo. Dunque, quando incontrate per le strade di
Napoli un uomo come l’ho descritto, guardatevi!” cit. in E. De Martino, Sud e Magia, 1959).
Con il termine "malocchio" si intende un pensiero negativo che qualcuno ha inviato con lo sguardo.
A credere nel malocchio sono in special modo le aree mediterranee, mediorientali ed
ispanoamericane. Se, ad esempio, una persona è invidiosa di me o mi vuole male, essa mi manderà
pensieri negativi o mi augurerà il male.

2
Lo sciamanesimo

Il termine sciamanesimo, che gli etnografi russi hanno mutuato dalle popolazioni tunguse
dell’Artico, designa un insieme di credenze magiche e di fenomeni estatici osservati presso i popoli
della Siberia e dell’Asia centrale, ma anche in quelli del Tibet, dell’Indonesia e dell’Oceania, tra gli
inuit e gli indiani dell’America settentrionale. Secondo Mircea Eliade lo sciamano è un individuo
ispirato e soggetto alla trance; una delle sue anime effettua un viaggio nell’universo extraumano.
Quale che sia il modo in cui viene selezionato (trasmissione eredtaria, decisione personale, volontà
del clan), lo sciamano raggiunge il pieno riconoscimento sociale solo dopo un’iniziazione di tipo
estatico (discesa rituale agli inferi, trance), tecnico (conoscenza degli spiriti, dei miti, dei linguaggi)
e ascetico (digiuno, permanenza solitaria nella foresta, sensazione di smembramento del corpo). Lo
sciamano spesso si distingue dal gruppo per delle malformazioni fisiche o per un comportamento
neuropatico (solitudine, visioni, crisi isteriche), ma la sua guarigione attraverso la resurrezione
iniziatica, se lo integra totalmente nella comunità, lo circonda comunque di un prestigio dovuto ai
poteri soprannaturali che gli vengono riconosciuti. Tra i buriati della Siberia lo sciamano si
arrampica fin sulla cima di una betulla sacra e tale atto simboleggia la sua ascensione verso gli
spiriti celesti. Attraverso questo viaggio egli cerca di catturare la potenza del sacro per il bene della
comunità, con scopi propiziatori, terapeutici o di scongiuro.

Le credenze nella mitologia: le rappresentazioni collettive per immagini

È nell'ambito della religione che è emersa la maggior parte delle credenze riguardanti miti più o
meno elaborati. Il mito enuncia in un linguaggio di immagini il credo di un popolo a proposito degli
dèi, dell'origine della vita e della morte e dei rapporti tra l’uomo e il sacro.
Il mito può spiegare la creazione e la struttura del mondo (è questo il caso della genesi biblica),
oppure può essere mito di fondazione, può cioè giustificare una situazione proiettandola nel passato
(origine della morte o della disuguaglianza castale, nascita di una dinastia, fondazione di un
villaggio). Il mito non ha un autore, è anonimo, va al di là del singolo essere umano, perché deve
essere condiviso da tutti; esso si situa sempre all’inizio della storia, o di una storia, e ne legittima la
tradizione; In quanto forma di rivelazione capace di suscitare una credenza stabile, il mito viene
recitato in occasione delle feste; viene appreso nel corso delle iniziazioni; viene trasmesso da una
generazione all'altra modificandosi nei dettagli, e talvolta degenera in favola o in leggenda.
Il mito è dunque una sorta di carta fondamentale - per quanto frammentaria e dispersa in diversi
racconti - che orienta la prassi, legittima lo stato di cose e lo promuove a norma. Secondo Lévi-
Strauss esso ci rivela, come in filigrana, l’inconscio di un popolo ed esprime in simboli il senso di
domande primordiali. Come si è costituita la società? Qual è il significato di una certa istituzione?
Perché esiste un determinato divieto? A che cosa si deve una certa prerogativa nell’ambito di una
gerarchia? Che cosa legittima il potere? Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

I Protagonisti del mito

Protagonisti principali delle cosmogonie sono, nei miti, o una forza creatrice più o meno
impersonale (come il mana di cui parla Durkheim) oppure un dio dai tratti più o meno
antropomorfici, che può starsene lontano dalle sue creature o viceversa prendersi cura di esse -
manifestandosi come un padre o un re primordiale o come una dea della terra (Cerere nella religione
romana), o ancora sotto la forma di più divinità simbolizzate da fenomeni quali il tuono, il vaiolo, il
metallo che taglia e colpisce (come avviene presso gli yoruba nigeriani).
Alle origini vengono frequentemente posti anche degli antenati fondatori, un eroe civilizzatore o un
demiurgo che perfeziona la creazione (Nyikang presso i shilluk del Sudan), una prima forma di umanità, di
tipo subumano, che scaturisce da un buco nel terreno, dalla foresta o da un termitaio. Il discorso mitico è

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carico di simboli che si riferiscono all’ambiente in cui vivono le varie popolazioni, Presso gli yoruba della
Nigeria e presso i fon del Benin la zucca primordiale si divide in due parti, quella concava che rappresenta la
terra e quella convessa che rappresenta il cielo. Presso i dogon il male del mondo è rappresentato dalla volpe
pallida, Yurugu, che ne è stata la causa. I fali del Camerun narrano di come l’unione della tartaruga e del
rospo, esseri del mondo addomesticato, abbia prodotto il coccodrillo e il varano, che appartengono al mondo
selvaggio. Presso i pastori tutsi del Burundi la scelta del nuovo re avveniva tramite la lettura delle impronte
lasciate dalle vacche reali fuori dal recinto del re defunto, in quanto la vacca aveva un ruolo essenziale nei
miti.
Per gli indiani cherokee in principio c’era solo acqua. Tutti gli animali vivevano sopra di essa e il cielo era
sommerso. Tutti volevano sapere cosa ci fosse sotto l’acqua e un giorno Dayuni’si, lo scarabeo acquatico,
decise di andare a vedere. Esplorò la superficie, ma non riuscì a trovare nessun terreno solido. Andò sul fon-
do, ma trovò solo del fango, che portò in superficie. Quel fango però cominciò a crescere e a spargersi tutto
intorno, fino a che non divenne la Terra così come la conosciamo. In seguito uno degli animali attaccò questa
nuova terra al cielo con quattro corde. La terra era ancora troppo umida, così mandarono il grande falco nel
Galun’lati per prepararla per loro. Il falco volò giù e quando raggiunse la terra dei cherokee era così stanco
che le sue ali cominciarono a colpire il suolo. Ogni volta che colpivano il suolo si formava una valle od una
montagna. Gli animali poi decisero che era troppo buio, così crearono il sole e lo misero lì, dove è tutt’oggi.

Le anime come princìpi vitali

Nelle società tradizionali l’anima non è necessariamente pensata come la forma particolarizzata di
una forza soprannaturale, né come lo spirito-genio che alberga in una realtà materiale, né come il
prototipo unico delle idee dell'io e della persona (in senso morale e giuridico). In determinati esseri
appartenenti alla sfera materiale o biologica, si riconosce la presenza di una o più potenze
immanenti che costituiscono il principio di un dinamismo individualizzato. Le concezioni che le
riguardano, sono assai spesso poco omogenee e poco precise.
Edward Taylor, che fu il primo a proporre l’animismo come teoria dell’origine della religione,
pensava che l’evoluzione dei sistemi religiosi dovesse essere fatta risalire alle credenze riguardanti
esseri spirituali. Tuttavia, le sequenze storiche da lui ipotizzate - che prevedono i seguenti passaggi:
credenza nel doppio, attribuzione dell’anima prima agli animali poi agli oggetti, feticismo, idolatria
antropomorfica, politeismo, monoteismo - attualmente non sono giudicate sostenibili.
Presso molte società si crede all'esistenza contemporanea, in uno stesso individuo, di più anime,
ciascuna delle quali avrebbe una funzione distinta.
I fang del Gabon, ad esempio, enumerano sette anime, che vengono rispettivamente individuate dai loro
supporti (il cervello, il cuore), o da immagini (l’ombra, il fantasma), da simboli (il nome, il segno
caratteristico); l’ultima, infine, è pensata come il principio di attività.
Per i bambara del Mali l’uomo possiede anzitutto due anime tra loro gemelle (ni e dya) assegnategli dal
genio Faro. Il tere – che rappresenta al tempo stesso il carattere, la coscienza e la forza – viene assegnato dal
genio Pemba; dal genio Muso Coroni, infine, proviene il wazo, una forza nefasta localizzata in ogni
individuo nel prepuzio o nella clitoride, che sparisce al momento della circoncisione o della escissione.
Presso gli ewe del Togo, che chiamano luvo l’anima che persiste dopo la morte e ghogho il soffio vitale,
l’individuo, che prima di incarnarsi preesiste come spirito, si accorda con il creatore supremo, Mawu-Se,
sulla scelta del proprio destino. Tale scelta viene effettuata, si pensa, nel bome, luogo dell’esistenza prenatale
e sorta di serbatoio di vite stagnanti e infantili, dove la madre primordiale, Bomeno, spezza l’argilla con cui
vengono plasmati i neonati da inviare nel corpo della donna. I miti d’origine relativi a ciascun individuo si
incentrano sulla scelta iniziale della propria vita (gbetsi), sulla riproduzione di un certo tipo caratteristico
(kpoli) e sulla reincarnazione di un antenato (dzoto).
Generalmente viene accordata maggiore importanza alla potenza animante (anima) rispetto alla
facoltà rappresentativa (animus). E l’idea che dopo la morte sopravviva un elemento spirituale della
persona è quasi universale. Le varie società, infine, elaborano miticamente l’esistenza di molteplici
spiriti esterni all’uomo.

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Mana, Totem, Tabù

Per dare un ordine alle rappresentazioni collettive proprie delle religioni che definiva primitive,
Durkheim ha utilizzato alcuni concetti ritenuti elementari e fondamentali: il mana, il totem, il tabù.

1) Secondo Robert Henry Codrington (1830-1922), in Melanesia il mana designa “un potere
d’influenza che si lega alle persone e alle cose”, una potenza impersonale e soprannaturale
riscontrata in un’azione efficace, in qualche cosa di grande e di inusuale, che suscita stupore,
terrore, o ammirazione. Durkheim scopre alla base del totemismo australiano questa stessa nozione
di forza anonima e diffusa, questa sorta di dio impersonale immanente rispetto al mondo, diffuso in
una moltitudine di cose; il mana melanesiano corrisponderebbe al manitu degli algonchini, al wakan
dei sioux, all’orenda degli irochesi. Il mana, principio vitale presente negli uomini e nei loro totem,
sarebbe un prodotto della società che ha in sé qualcosa di sacro.
2) Il totem – termine derivante da ototem, che nella lingua degli ojibwa (nativi americani) significa
“appartenente alla mia parentela” - designa le categorie di specie animali e vegetali che,
generalmente rivelate da una visione o un sogno, danno i nomi ai clan e ne divengono protettori e
guide. Nelle società che vivono a stretto contatto con la natura, gli alberi e gli animali non sono
ritenuti inferiori all’essere umano, anzi, spesso ad essi vengono riconosciute forme superiori di
intelligenza e di conoscenza. Emblema del totem, e perciò rappresentato sui pali, sulle armi o sui
corpi, è l’animale o l’oggetto e sarebbe all’origine dei tabù alimentari (non ci si nutre della carne
dell’animale totemico) e soprattutto di quelli sessuali (obbligo di matrimonio esogamico).
3) Il tabù, dal termine polinesiano tapu, designa un divieto sacro e allo stesso tempo l’elemento che
è colpito da proibizioni in quanto sacro o in quanto impuro. Si ritiene che la trasgressione del tabù
provochi una calamità, una sventura o una impurità. Spesso esso viene imposto da individui che
rivestono un ruolo di autorità e che lo stabiliscono sulla base dell’interpretazione di episodi
spiacevoli, di sogni, visioni o miti. Esso ha la funzione di proteggere il valore di beni e di esseri
considerati fragili sottomettendo l’individuo alla legge del gruppo. In Il ramo d’oro, Frazer
distingue vari tipi di tabù: gli atti (l’incesto, l’omicidio, ecc.), le persone (i re, i sacerdoti, i guerrieri,
coloro che portano il lutto, le donne mestruate, ecc.), le cose (il sangue, le armi taglienti, i capelli,
ecc.), le parole (i nomi delle divinità, delle persone sacre, dei morti, degli oggetti impuri, ecc.)

Le pratiche rituali

I miti, per rimanere vivi nella memoria delle persone, hanno bisogno di essere visualizzati, rappre-
sentati continuamente attraverso delle forme di rito. Ogni culto ha bisogno di rituali come, ad esem-
pio, una processione, una preghiera collettiva, una danza sacra, un sacrificio animale, una prova di
forza, un banchetto. La caratteristica fondamentale di ogni rituale è la sua ripetitività. Ogni rito è
fatto di formule predefinite, gesti e azioni codificati, spesso solenni, investiti di una forte carica sim-
bolica, che in molti casi devono avvenire in determinati luoghi di culto, dove gli spettatori parteci-
pano attivamente ed emotivamente. I riti sono fondati sulla credenza in una forza attiva posseduta
da esseri o da potenze sacre con i quali l’uomo tenta di comunicare per ottenere un determinato ef-
fetto. Per estensione esso designa tutti i comportamenti stereoripati, ripetitivi e compulsivi (tra gli
animali si osservano riti di seduzione, di sottomissione, di marcatura del territorio). In tutte le reli-
gioni sono previsti due tipi di relazioni: quelle degli uomini con le divinità e, viceversa, quelle delle
divinità con gli uomini. Le prime costituiscono l’ambito dei sacra (riti sacramentali, preghiere, sa-
crifici, che prevedono talvolta il ricorso a specialisti del culto). La relazione diretta degli uomini con
le divinità può essere associata anche a delle tecniche (mortificazione, yoga, digiuno, meditazione)
o a delle istituzioni (ascetismo, monachesimo, sciamanesimo). Le seconde sono i signa, che danno
l'impressione di un contatto diretto con il divino e sono legate a specifiche tecniche di interpretazio-
ne. Rientrano nei signa le parole degli oracoli, i messaggi ottenuti per mezzo della divinazione, le
possessioni, di cui parleremo in seguito.

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Basandosi sul diverso rapporto con il sacro che li caratterizza, Mauss distingue tra riti positivi in
cui vi è una partecipazione attiva (preghiere, offerte, sacrifici, ecc.) e riti negativi, che proibiscono
il contatto con potenze pericolose (tabù sessuali e alimentari, ecc.). Durkheim aggiunge a questi
un’altra categoria, quella dei riti di espiazione e di purificazione, che hanno lo scopo di liberare da
un’impurità contagiosa, ad esempio nel momento del lutto, attraverso l’acqua o il fuoco, oppure
grazie all’espulsione di un capro espiatorio che carica su di sé le colpe del gruppo.
Analizzando il rito in rapporto all’ordine distingueremo tra riti di inversione (la trasgressione
temporanea e ammessa delle norme, con la quale i ruoli sociali vengono rovesciati in un’azione
simbolica: ad esempio il re divino può essere insultato o aggredito) e riti di conversione, che hanno
lo scopo di consacrare un fedele alle potenze o alle divinità riconosciute, trascendendo in tal modo
il “disordine”. Victor Turner (1929-1983) oppone i riti di afflizione, legati al sopravvenire di una
disgrazia, a quelli life-crisis, che scandiscono regolarmente le tappe della vita. Riti apparentemente
simili possono rispondere a finalità assai diverse: invocazione della pioggia, o della fecondità,
ringraziamento dopo una nascita, un raccolto, una vittoria; interrogazione delle divinità attraverso la
mantica (previsione del futuro, divinazione), desacralizzazione di un oggetto di culto per condurlo
nella sfera del profano, commemorazione, vendetta, propiziazione, ecc.

Dai culti degli antenati ai culti sincretici

Quando siamo in presenza di più riti collegati tra loro ed associati a credenze, allora si parla di un
culto. In generale un culto è costituito dall’insieme di segni di sottomissione e di deferenza nei
confronti di un potere sacralizzato. Nello specifico esso designa le cerimonie e i riti che rendono
omaggio a degli esseri sacri (dèi, santi, antenati, eroi) o a degli oggetti (idoli, reliquie) la cui
potenza emana da una loro relazione con un’entità soprannaturale o con la persona a cui sono
associati. Il termine “culti popolari” si riferisce a pratiche che vivono ai margini delle religioni
ufficiali e che spesso da queste sono tollerate. Si tratta di fenomeni molto studiati dal folkloristi e a
cui a volte è stato attribuito il termine di “superstizioni”; ne sono un esempio la venerazione di
immagini sacre e di animali amici dei santi, oppure quella di testimoni simbolici delle potenze sacre
(fuoco, sorgente, roccia, sole, ecc.).
Nell'antica Roma il culto imperiale era indirizzato al “genio” del sovrano. Nei cesarismi (regimi
politici autoritari basati sul potere di un uomo forte) e nei totalitarismi si è sviluppato un culto della
personalità, orchestrato dalla propaganda, nei confronti di capi come Hitler, Stalin, Mao-Tse-Tung.
In Oceania, in Estremo Oriente, in Africa gli antenati, e in particolare i capostipiti dei lignaggi, sono
oggetto di culto in quanto, in una prospettiva per cui i legami tra le generazioni sono assicurati dal
rinnovamento ciclico della vita, essi sopravvivono nella memoria dei vivi e sono per questi ultimi
degli interlocurori e dei protettori privilegiati; è opportuno venerare gli antenati in quanto essi
rigenerano il lignaggio e sono garanti di quell’ordine che hanno contribuito a creare. In Cina agli
antenati si offrono sacrifici, si innalzano preghiere, si offrono libagioni, si bruciano incensi; ci si
prostra davanti all’altare che contiene la loro anima. La comunicazione con loro avviene tramite
sogni e presagi.
Per spingerli ad agire o per placarli quando sopravviene una disgrazia, in Africa, dove sono invocati
in tutte le circostanze importanti della vita, si recano loro delle offerte. Il lignaggio si aspetta in
dono dagli antenati la ricchezza, la salute e la pace.
Il culto degli antenati va distinto dal culto dei morti, che implica spesso un trattamento del corpo
(purificazione, ostensione, interrogazione del cadavere). Alcuni morti non passano nel mondo degli
antenati e tormentano i vivi, che si proteggono da loro per mezzo di riti. Nel pensiero indigeno degli
indiani dell’America meridionale studiati da Pierre Clastres (1934-1977) il rapporto con gli antenati
è positivo, mentre i morti recenti, le cui anime erranti sono una fonte di pericolo, vengono rifiutati
dalla comunità.
L'America latina, crogiuolo di popoli di diversa origine, ha amalgamato elementi religiosi disparati
in culti che vengono detti sincretici; il fenomeno si trova comunque in tutte le parti del mondo. Il

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sincretismo è un processo nel quale si fondono elementi di diversa origine, e che include la
manipolazione di miti, il prestito di riti, l’associazione di simboli, la reinterpretazione dei messaggi
divini.
Nel vudu importato nel XVII secolo nelle Antille (soprattutto ad Haiti) e in Brasile (candomblé di Bahia,
macuba carioca) dagli schiavi africani, riti istituzionalizzati, eseguiti in una cornice associativa caratterizzata
da un ordinamento gerarchico, permettono la comunicazione della comunità religiosa con gli spiriti; tali riti
prevedono tra l’altro l’intermediazione di soggetti privilegiati che cadono in trance.
Riguardo al Brasile sono note le influenze precolombiane sui culti pagelança dell’Amazzonia, in cui
l’animismo fluviale e zoolatrico si è in parte conservato insieme a pratiche sciamaniche, alla credenza nella
trasmigrazione delle anime e ad un notevole uso di stimolanti, (tabacco, alcol, fumo). Le influenze cristiane
si percepiscono un po’ ovunque, nel codice morale, nel calendario liturgico, nel culto dei santi, nella logica
dei sacramenti, nell’organizzazione in parrocchie e in confraternite. L’influenza africana è evidente
soprattutto nel culto degli orisha, di origine yoruba, e nel culto degli antenati, comune a tutta l’area bantu.
I culti del cargo (cargo cults) melanesiani si fondano sulla credenza magico-religiosa sorta negli anni
intorno al 1890 per opera del profeta Tokerau e rivivificata dalla crisi della seconda guerra mondiale,
nell’arrivo di una nave carica di cibo, di attrezzi e di beni. Sarebbero gli antenati coloro che inviano tali
prodotti. Per accelerare il ritorno dei defunti, i profeti invitano ad abbandonare il lavoro e a costruire dei
depositi per accogliere le merci.
In Africa e altrove, il linguaggio religioso dei profetismi e dei messianesimi ha una carica fortemente
contestataria. L’harrismo (W. W. Harris), nato nel 1910 e particolarmente diffuso nella bassa Costa d'Avorio,
è un'interpretazione indigena del cristianesimo e si caratterizza come antifeticismo e antistregonismo. II
profeta harrista Albert Atcho accelera il passaggio dall’idea persecutoria del male, tipica della medicina
tradizionale africana, all’idea della colpa individuale propria del cristianesimo. Nel culto bwiti del Gabon
l’antenato civilizzatore Nzame è identificato contemporaneamente con l’Adamo peccatore e con il Cristo
redentore. Nel kimbangismo dei kongo vengono mescolati riferimenti alla Bibbia e al culto degli antenati: in
Simon Kimbangu (1889-1950) si è incarnato lo Spirito Santo. In generale gli adepti traggono dall’adesione ai
culti determinati vantaggi: reciproca assistenza, fiducia nella protezione di uno spirito, riuscita sociale o
miglioramento dello status personale.

Possessione e mantica

Molti di questi culti sincretici hanno conservato, tra altri riti tradizionali, quelli della possessione e
della divinazione - ciò è accaduto ad esempio in Africa.
La possessione è una condizione in cui l’individuo è considerato in potere di una forza soprannatu-
rale, la quale ne fa lo strumento della sua volontà. Tale forza può agire per guarire il soggetto posse-
duto, oppure può utilizzarlo come mediatore (divinatore) per mandare un messaggio alla società. Si
distingue generalmente tra la trance - favorita da tecniche (tamburo, digiuno, sostanze psicotrope),
ma in cui il soggetto non è invaso da agenti extraumani – dalla possessione da parte di uno spirito,
che non necessariamente implica la trance, oppure la prevede solo nel corso dell’esorcismo. Tra i
mofu del Camerun, ad esempio, le donne divinatrici al momento della consultazione cadono in
trance; ciò non accade invece ai divinatori maschi, che pure sono in uno stato di possessione. Si di-
stingue inoltre, anche se i due stati manifestano la stessa sintomatologia (disturbi psicosomatici, ca-
talessi, mutismo o logorrea) tra: 1) l’adorcismo, mediante il quale si invita l’anima benefica a rien-
trare nel corpo di una persona eletta a diventare ricettacolo di uno spirito benigno (ad esempio tra i
songhay del Niger); 2) l’esorcismo, che è l'estrazione di una potenza o di un’anima estranea perico-
losa o malefica (ad esempio gli spiriti aggressori dei nemici zulu presso i thonga del Malawi).
Presso i teke del Congo, la possessione delle donne da parte di un genio dell'acqua che si eredita per
via patrilineare, culmina nel momento della crisi, durante la quale viene sottomesso lo spirito re-
sponsabile della malattia.
La possessione può funzionare come (1) mezzo terapeutico individuale, oppure come (2) sistema di
comunicazione con gli spiriti sancito dall’iniziazione e istituzionalizzato.
(1) Un esempio del primo caso è rappresentato dal rito del bori presso gli hausa del Niger meridio-
nale, che è esclusivamente femminile.

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Nei riti del Bori viene utilizzata una pianta allucinogena, Datura metel. Quando una persona malata non tro-
va guarigione con le terapie tradizionali (o con la “medicina dei Bianchi”), si fa iniziare al Bori. Secondo il
concetto hausa di malattia, questa è governata da una delle divinità dell’affollato pantheon divino hausa.
Ciascuna divinità ha il potere di inviare e di guarire da un certo insieme di malattie. Nel corso dei riti bori le
divinità (bori = “vento, soffio”) possiedono le adepte, chiamate “giumente degli dèi” (godiyar iskoki) o “don-
ne-bori”. Posseduta dalla divinità, l’adepta acquisisce in tal modo, “dal di dentro”, l’abilità di guarire dalle
malattie presiedute da quella specifica divinità. Nel corso dei riti di possessione, le divinità sono “chiamate”
a possedere le adepte attraverso la musica, in particolare di un violino, con melodie specifiche per le diverse
divinità. Quando il violinista suona una certa melodia, le adepte vanno in trance ed eseguono danze caratte-
ristiche della divinità che le sta possedendo. Quando il violinista si ferma, l’adepta tossisce o starnutisce e in
tal modo la divinità esce dal suo corpo. Nel corso di una seduta l’adepta può “cavalcare” sino a una dozzina
di divinità.
(2) Un esempio del secondo caso è rappresentato dal vudù haitiano.
Il termine “vodun” significa "spirito". Il vudù di Haiti ha origine in due grandi sistemi magico religiosi affini
del golfo di Guinea, incentrati sui vudù aja-fon e gli orisha yoruba. Gli schiavi yoruba, importati ad Haiti me-
scolarono la loro religione con le credenze cattoliche degli abitanti francesi locali, dando origine, tra il XVIII
e il XIX secolo, ad un culto sincretico incentrato sulla trance di possessione. Un tempio vudu, detto hounfor,
mostra al suo centro un altare decorato con candele ed altri oggetti sacri dove Dio e gli spiriti comunicano
con gli uomini. I numerosi spiriti adorati sono indicati con il termine Loa (divinità), e vengono invocati e
nutriti durante i rituali. Comune alle varie forme di vudù è la credenza della presenza di forze soprannaturali
nelle piante, negli oggetti e nelle persone. I rituali vengono celebrati in varie occasioni, per eventi particolari
come nascite, morti e matrimoni o per ottenere un aiuto dagli spiriti del Loa, mantenendolo "felice" e nutren-
dolo. Secondo la religione vudù, ogni persona avrebbe due spiriti: un gros-bon-ange, doppio spirituale del
corpo, che può raggiungere temporaneamente, nella possessione, lo stato di Loa, ed un ti-bon-ange, un pic-
colo angelo guardiano; si dice che lo spirito minore possa abbandonare il corpo durante il sonno o durante
alcuni rituali praticati da sacerdoti malvagi chiamati bokor, i quali produrrebbero uno stato di letargia che
renderebbe come morto un essere vivente; entro 36 ore dalla morte, i bokor sarebbero in grado di rivitaliz-
zare il corpo grazie ad una pozione, rendendolo loro schiavo (zombie). I praticanti dei rituali, se sono uomini
sono chiamati houngan, se sono donne sono chiamati mambo. I rituali durano una notte intera e sono così
organizzati: saluti e preghiere; canti sacri accompagnati da tre tamburi per tutta la durata del rituale; danze
frenetiche; animali sacrificali come galline, capre, polli o cani macellati durante il rituale. Il sangue degli
animali sacrificali viene riversato nel terreno, per nutrire i Loa (spesso accompagnato da superalcolici). Per
indurre la trance nei rituali si utilizzano talvolta estratti di erbe, spezie e droghe. Ogni Loa ha un particolare
tipo di suono effettuato con il tamburo, uno specifico animale sacrificale e una specifica danza. Durante il
rituale l’houngan e gli altri danzatori possono cadere in trance, con convulsioni e tremori ritrovandosi posse-
duti dallo spirito del Loa che comunica con tutto il villaggio attraverso i loro corpi. La trance di queste per-
sone talvolta dura ore ma può durare anche giorni interi.

La divinazione presuppone un cosmo codificato, ricco di significati da decifrare, sia attraverso una
lettura diretta dei sogni, dei presagi, del manto dei bovini, ecc. sia attraverso una lettura provocata
attraverso l’interrogazione del cadavere, la trance o l’interpretazione competente di segni (carte, li-
nee della mano, stelle, conteggio di semi, ecc.).
Generalmente un gruppo sociale possiede sistemi diversi di divinazione che variano per complessi-
tà, fanno riferimento a divinatori differenti e sono strettamente connessi alle condizioni dell’esisten-
za. Nelle civiltà agricole, ad esempio, spesso vengono utilizzati i semi, le noci, o si interpretano le
convulsioni di un pollo morente; l’interpretazione delle tracce di animali selvatici o del volo degli
uccelli è caratteristica invece delle culture di caccia, e l’esame delle viscere degli animali di quelle
dei pastori.
La divinazione contribuisce a ridurre le incertezze sul futuro individuale o su di un progetto colletti-
vo e aiuta ad operare una scelta nei momenti difficili (morte, malattia, stregoneria, sventura, rito di
passaggio), ma può anche svelare ciò che è accaduto o che sta per accadere, così da permettere di
regolare il comportamento in funzione del contesto più o meno favorevole a colui che ha consultato
il divinatore.

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L’ANTROPOLOGIA RELIGIOSA

antropologia => micro-società


uomo => soprannaturale / sacro vs
sociologia religiosa => grandi religioni

Potenze Luoghi sacri Uomo sacro Uomo spirituale Comunità cultuale

Dio, geni, mana, ricettacoli di forze re, sacerdote, anima, doppi, Clan, Chiesa, setta,
feticci, antenati, pietre, alberi, acqua, santo, mago spiriti società segreta
dèmoni, angeli fuoco, animali, ecc.

espressioni dell’esperienza religiosa

ideali pratiche sociali storiche


credenze, culti, riti, legami interni mutamenti della vita
miti, dottrine feste, atti magici organizzazioni religiosa nei vari periodi

degno di venerazione sia consacrato agli dei


Il senso del sacro sacer “sacer esto”
tremendo / maledetto sia maledetto

E. Durkheim: sacro vs profano R. Otto: senso del sacro:


dedicato agli dei fuori dal fanum esperienza interiore
opera della società piccolezza di fronte al Tutto

distinzione sacro-profano => elastica, non stabile: cambia nel tempo e nello spazio

MAGIA => agisce sulla natura attraverso mezzi occulti che suppongono
la presenza di spiriti e di forze immanenti e straordinarie

bianca nera contagiosa (frammenti di indumenti, capelli, etc:)


scopi magia imitativa (bagnare il terreno per favorire le piogge)
benefici malvagi Frazer omeopatica (effetti dell’atto magico riprodotti sulla vittima)
simpatica (assumere le sembianze di un animale per catturarlo)

Ernesto De Martino (1908-1965) magia intesa come risposta alla crisi della presenza
La terra del rimorso (1961) tarantismo: simbolismo della taranta

Stregoneria => azione spirituale vs Fattucchieria => materiali / formule


witchcraft sourcery malocchio - jettatura
Evans-Pritchard
Azande (Sudan) pensiero negativo inviato
witches: sostanza materiale (mangu) da qualcuno con lo sguardo
jettatura napoletana
divorare le anime doppia visione scomparire trasformarsi (cit. Dumas, in Sud e magia)
vampirismo doppio

orge stregonesche => festini cannibalici


teologia cristiana del XVI secolo streghe => delirio / eresia / frenesia sessuale
Sciamano
Mircea Eliade
individuo ispirato e soggetto alla trance popolazioni tunguse (Artico) Buriati siberiani
una delle sue anime effettua un viaggio Inuit Tibet Idonesia Oceania Indiani d’America
nell’universo extraumano, per selezione
ereditaria, personale, decisa dal clan betulla sacra: ascensione verso gli spiriti celesti

malformazioni fisiche estatica => discesa rituale agli inferi, trance


> iniziazione tecnica => conoscenza degli spiriti / miti / linguaggi
neuropatia ascetica => digiuno solitudine “smembramento”

enuncia in un linguaggio di immagini il credo di un popolo a proposito degli dèi,


dell'origine della vita e della morte e dei rapporti tra l’uomo e il sacro
dèi
MITO antropomorfici

fondazione della società forza protagonisti


anonimo creazione - struttura del mondo impersonale del mito
collettivo espressione delle domande primordiali

antenati eroi e divinità fenomeni


fondatori demiurghi animali naturali

testo: Silluk (Sudan) Yoruba (Nigeria) Fon (Benin) Dogon (Mali) Fali (Camerun) Cherokee (USA)

Anime come princìpi vitali

una o più potenze immanenti (sfera materiale e biologica)


principio di un dinamismo individualizzato

E. Taylor => animismo = origine della religione fasi: credenza nel doppio, anima animali e oggetti,
feticismo, idolatria antropomorfica, politeismo, monoteismo

Fang (Gabon) 7 anime anima = potenza animante


pluralità di anime Bambara (Mali) 2 anime + tere / wazo vs
(testo) Ewe (Togo) Luvo - Ghogho (Bome) animus = facoltà rappresentativa

MANA TOTEM TABU


“potenza impersonale soprannaturale” appartenente alla “mia” parentela tapu Polinesia
(Codrington) Melanesia nativi americani ototem, oijbwa, nativi d’America a) divieto sacro
azioni efficaci, eventi grandi e inusuali animali vegetali protettori/guide b) elemento colpito
causa di stupore / terrore / ammirazione del clan rivelate da visione o sogno da punizioni
origine di tabù alimentari/sessuali la trasgressione genera
sventura calamità impurità

tipi di tabù: atti (es. incesto omicidio)


Il ramo d’oro persone (es. re sacerdoti guerrieri persone in lutto donne mestruate)
Frazer cose (es. sangue armi taglienti capelli)
parole (es. nomi di divinità, persone sacre, morti, oggetti impuri)
RITO => Ripetitività / formule predefinite / gesti e azioni codificati / carica simbolica
relazioni:
degli uomini con le divinità delle divinità con gli uomini
sacra signa
riti sacramentali preghiere sacrifici
specialisti del culto possessioni tecniche di interpretazione
mortificazione digiuno meditazione oracoli divinazione

riti positivi => partecipazione attiva (preghiere offerte sacrifici) Durkheim


Mauss
riti negativi => es. tabù sessuali e alimentari riti di espiazione e di purificazione
di inversione => trasgressione temporanea e ammessa delle norme
riti
di conversione => consacrazione di un fedele alle potenze / divinità riconosciute
riti di afflizione => legati al sopravvenire di una disgrazia
Turner
riti life-crisis => scansione delle tappe della vita
mantica desacralizzazione di oggetti di culto => sfera del profano / commemorazione vendetta propiziazione

più riti collegati tra loro => culto => insieme di segni di sottomissione e di deferenza
nei confronti di un potere sacralizzato
cesarismi => culto della personalità e culto degli antenati
culto dei morti => purificazione ostensione interrogazione del cadavere
indiani (SudAmerica) (Pierre Clastres) rapporto positivo con antenati negativo con i morti recenti

culti sincretici => fusione di elementi di diversa origine


vudu (Haiti) candomblè (Bahia) culti pagelança (amazzonia) cargo cults (Melanesia) W. W. Harris (testo)
culto bwiti (Gabon) l'antenato Nzame = Adamo = Cristo kimbangismo (kongo) Simon Kimbangu -> incarn. Spirito Santo

Possessione
a) possessione trance - favorita da tecniche (tamburo, digiuno, sostanze psicotrope)
soggetto non invaso da agenti extraumani
b) possessione da parte di uno spirito che non implica la trance mofu (Camerun): trance (testo)
donne divinatrici
1) adorcismo => anima benefica nel corpo di persona eletta a ricettacolo di uno spirito benigno songhay
vs (Niger)
2) esorcismo => estrazione di una potenza pericolosa o malefica thonga (Malawi) spiriti maligni zulu
teke (Congo) possessione delle donne da genio dell'acqua che si eredita per via patrilineare
(1) mezzo terapeutico individuale => bori presso gli hausa del Niger
possessione
(2) sistema di comunicazione con gli spiriti iniziazione e istituzionalizzato -> vudù haitiano
“vodun” = "spirito" Haiti: vudù aja-fon orisha yoruba tempio: hounfor Loa (divinità)
due spiriti: gros-bon-ange, doppio spirituale del corpo / ti-bon-ange, un piccolo angelo guardiano
bokor-> (zombie) praticanti uomini: houngan, pratic. donne: mambo (testo)

mantica o divinazione
cosmo codificato => significati da decifrare (lettura sogni presagi manto bovini, ecc.)
lettura provocata attraverso: a) interrogazione del cadavere b) trance
c) interpretazione competente di segni (carte linee della mano stelle conteggio di semi etc)
civiltà agricole => semi, noci, convulsioni di un pollo morente
culture di caccia => tracce animali selvatici volo degli uccelli viscere degli animali
Le parole dell'antropologia
caccia-raccolta: economia basata sullo sfrut-
agricoltura: modello di produzione basato tamento delle risorse naturali, raccogliendo
sullo sfruttamento di piante domesticate. Si bacche, frutti, piante (le donne) e cacciando
definisce coltivazione, quando è praticata con (gli uomini).
zappe e mezzi simìli; agricoltura, quando si capo: individuo che ad esempio in una tribù
utilizza l'aratro. detiene una funzione di comando e che pos-
allevamento: pratica economica basata sullo siede determinate prerogative e privilegi.
sfruttamento di animali domesticati. Si defi- casta: gruppo ordinato su base gerarchica a
nisce allevamento una pratica stanziale, men- cui si appartiene per nascita e non per affilia-
tre per pastorizia si intende una forma di al- zione.
levamento che prevede lo spostamento sta- circoncisione: pratica di modificazione geni-
gionale dei capi di bestiame. tale maschile che consiste nella rimozione del
ambienti antropizzati: ambiente prodotto di prepuzio. A seconda del contesto può signifi-
una lunga azione dell'uomo. care l'appartenenza religiosa o il passaggio al-
animismo: termine usato per indicare un va- l'età adulta.
sto insieme di religioni tradizionali non isti- clan: gruppo di discendenza i cui membri fan-
tuzionalizzate. no risalire la loro discendenza a un comune
antropologia marxista: prospettiva antro- antenato mitico.
pologica che cerca di individuare modi di commercio: pratica economica che prevede
produzione diversi da quello capitalista e di lo scambio di beni o servizi con l'interme-
studiare le questioni legate alla stratificazione diazione del denaro.
sociale, all'interrelazione tra modello econo- comparazione: metodo antropologico che
mico e struttura sociale, nonché ai rapporti tra consiste nel confronto tra diverse culture al
colonizzati e colonizzatori. fine di riscontrare elementi di similitudine o
antropopoiesi: secondo l'antropologo France- di differenza.
sco Remotti è quell'insieme di pratiche che le cultura: lnsieme di saperi, pratiche, tradizioni
società mettono in atto per rendere più umano condivisi da un gruppo umano, che vengono
il corpo, per costruire l'uomo secondo i propri trasmessi di generazione in generazione, ma
criteri di umanità. sempre suscettibili di cambiamenti e prestiti
aree culturali: aree geografiche abitate da da altre culture in seguito a incontri, scontri,
gruppi umani, che condividono tratti culturali migrazioni.
comuni. dialetti: sono dialetti le parlate non ufficial-
arte immateriale: l'insieme di forme espres- mente riconosciute da uno stato, ma non per
sive non plastiche, come danza, musica, poe- questo inferiori a una lingua.
sia, canto ecc. diffusionismo: prospettiva antropologica se-
arte materiale: l'insieme di forme espressive condo cui le diverse culture venivano irradiate
plastiche, come scultura, pittura ecc. da centri particolarmente importantì e si dif-
artigianato: attività di trasformazione con- fondevano alle società periferiche.
dotta con mezzi manuali e su piccola scala. discendenza bilineare: trasmissione di beni e
banda: la banda è la forma tipica di organiz- status per cui i figli ereditano da entrambi i
zazione di popolazioni di cacciatori-racco- genitori.
glitori, di piccole dimensioni (meno di cin- discendenza matrilineare: trasmissione di
quanta membri), con base fortemente egua- beni e status per cui i figli ereditano esclusi-
litaria. vamente per via materna. Poiché quasi sempre
baratto: forma dì scambio di beni o servizi sono gli uomini a detenere i beni, i figli della
senza la mediazione del denaro. Gli attori del donna erediteranno da suo fratello, lo zio ma-
baratto stabìliscono insieme il valore deì beni terno.
in oggetto.
discendenza patrilineare: trasmissione di be- evolutiva, che le avrebbe condotte ìnfine al
ni e status per cui i figli ereditano esclusiva- modello occidentale.
mente per via paterna. famiglia: insieme di parenti stretti, che vivo-
discendenza unilineare: trasmissione di beni no insieme. Si parla di famiglia nucleare,
e status per cui i figli ereditano o per via pa- quando è formata da genitori e figli; di fami-
terna o pervia materna. glia allargata quando oltre al nucleo, convivo-
domesticazione: selezione progressiva prati- no altri parenti (nonni, zii, cugini ecc. ).
cata dall'uomo su piante e animali fino a fatto sociale totale: aspetto particolare di una
renderli più produttivi e assoggettati all'uomo. cultura che è in relazione con tutti gli altri
La domesticazione non riguarda una sola aspetti di quella stessa cultura e attraverso il
pianta o un solo animale, ma le intere specie. quale è possibile leggere per estensione le di-
dote: beni o denaro che la sposa reca con sé al verse componenti di una società.
momento del matrimonio. feticcio: oggetto che materializza in sé la divi-
ecologia culturale: prospettiva antropologica nità e che funge da intermediario tra questa e
che pone l'accento sul rapporto tra le popola- gli uomini.
zioni e l'ambiente in cui vivono, analizzando- funzionalismo: prospettiva antropologica che
ne prevalentemente gli aspetti relativi all'adat- supponeva le società come un organismo in
tamento e all'economia. cui le diverse funzioni (economia, politica.
emico: il punto di vista di chi fa parte della rƁeligione ecc.) contribuiscono a mantenere
società in oggetto e che percepisce gli stessi l'equilibrio.
fatti con una prospettiva interna. genere: termine introdotto dalla critica fem-
endogamia: pratica matrimoniale in cui si minista per indicare il ruolo sociale attribuito
privilegìa il matrimonio con un partner in- a un individuo in quanto uomo o donna in una
terno al gruppo. determinata società.
esogamia: pratica matrimoniale in cui si pri- gerontocrazia: nelle società dove sono pre-
vilegia il matrimonio con un partner esterno al senti sistemi di classi d'età è il governo degli
gruppo. anziani, in cui gli anziani detengono il potere.
età anagrafica: nella nostra società l'età ana- gruppi di discendenza: gruppi basati sulla
grafica è la differenza tra l'anno corrente e il relazione di affiliazione: si definiscono a par-
nostro anno di nascita. È un dato che serve tire da un capostipite, che è l'antenato comu-
soprattutto a fini burocratici. ne. Si distinguono in gruppi a discendenza
età sociale: età che nasce dal legame tra l'età bilaterale o cognatica e a discendenza unili-
anagrafica e un determinato valore che ogni neare (patrilineare o patrilineare).
società attribuisce a quell'età. È la percezione gusto artistico: criteri artistici culturalmente
sociale dell'età anagrafica di un indivìduo in definiti e quindi variabili nel tempo.
una determinata società. gusto sociale: formulata da Pierre Bourdieu e
etico: il punto di vista dell'osservatore ester- Marvin Harris, questa espressione indica il
no, che spesso è altro rispetto alla comunità fatto che le esperienze percettive e gustative
che studia. sono influenzate dal contesto socioculturale di
etnocentrismo: atteggiamento opposto al re- riferimento. Pìù in generale si riferisce all'al-
lativismo, che prende come unico punto di ternarsi delle mode che secondo Bourdieu so-
riferimento e come metro di giudizio la pro- no dettate dalla classe dominante.
pria cultura. identità: l’identità è un dato relazionale, che
etnografia: pratica di raccolta e di registra- si costituisce e si negozia continuamente sulla
zione dei dati sulla base dell'osservazione base degli altri, del diverso. Noi siamo ciò che
partecipante. gli altri non sono, ma dobbiamo essere consci
evoluzionismo sociale o unilineare: pro- che ciò che crediamo di essere spesso è il frut-
spettiva antropologica sviluppatasi tra fine to di una scelta e non di un dato assoluto.
Ottocento e inizio Novecento, che conside- incesto: rapporto sessuale tra due persone fra
rava le diverse società poste su una scala le quali esistano determinati vincoli di con-
sanguineità.
infibulazione: nota anche come circoncisione nati, classificati, conservati ed esposti gli og-
faraonica o sudanese, è una forma di modifi- getti etnografici raccolti in varie parti del
cazione genitale femminile che comporta mondo.
l'asportazione del clitoride, delle piccole lab- neoevoluzionismo: prospettiva antropologica
bra, di parte delle grandi labbra vaginali con che riprende le teorie evoluzioniste, ma
cauterizzazione, a cui segue la cucitura della affermando che i modelli di evoluzione sono
vulva, lasciando aperto solo un foro per per- molti e non esiste una sola linea evolutiva.
mettere la fuoriuscita dell'urina e del sangue nomadismo: pratica pastorale, che prevede il
mestruale. Tale pratica è stata condannata continuo spostamento degli armenti in cerca
dall'OMS come la forma più grave di mutila- di pascoli favorevoli.
zione genitale femminile. nonluoghi: luoghi privi di connotazione cul-
interpretativismo: prospettiva antropologica turale che si ritrovano uguali in ogni parte del
che ritiene ogni cultura come un sistema a sé, mondo, ad esempio le stazioni del metrò, gli
che va studiato secondo i riferimenti simbolici aeroporti ecc.
di quella cultura e che non può essere compa- oggetto etnografico: oggetto esotico, raccolto
rato con altri sistemi. durante viaggi o esplorazioni in giro per il
lignaggio: gruppo di discendenza i cui mem- mondo, successivamente esposto in un museo.
bri fanno risalire la loro discendenza a un co- Un oggetto etnografico diventa opera d'arte
mune antenato storicamente definito. solo attraverso lo sguardo dell'osservatore oc-
lingua: un insieme organizzato di suoni, che cidentale; e il valore di un'opera d'arte si basa,
acquisiscono un significato dato loro dagli secondo il nostro criterio, sull'utilizzo di cate-
uomini che l'hanno codificato. Lo status di gorie predeterminate culturalmente.
lingua è connesso al riconoscimento ufficiale osservazione partecipante: pratica che pre-
di uno stato. vede un lungo soggiorno sul terreno, durante
linguaggio: sistema dì codici tale da permet- il quale l'antropologo conduce interviste, os-
tere a due o più esseri viventi di comunicare serva il comportamento dei locali e condivide
tra loro e di trasmettersi informazioni. con loro gran parte della loro esistenza.
materialismo culturale: prospettiva antro- parentela: sistema di relazioni tra individui
pologica teorizzata da Marvin Harris, che ri- legati fra di loro da vincoli di discendenza e
cerca leggi universali, basandosi sul presup- da vincoli matrimoniali.
posto che gli esseri umani agiscano sempre parenti affini: parenti acquisiti dopo il matri-
sulla base di un calcolo costi/benefici. monio (cognato, genero, nuora ecc.).
matrimonio: definisce le condizioni in cui un parenti collaterali: parenti legati da vincoli
uomo e una donna possono intrattenere rela- di discendenza (genitori, nonni, zii, fratelli).
zioni sessuali e la gestione dei loro beni, rego- poliandria: pratica che prevede il matrimonio
la il processo di allevamento dei figli e stabi- di una donna con più uomini.
lisce privilegi e doveri, serve a trasmettere al- poligamia: pratica che prevede il matrimonio
la prole uno status sociale e a determinare un con più partner.
legame socialmente significativo tra i gruppi poliginia: pratica che prevede il matrimonio
domestici del marito e della moglie. dì un uomo con più donne.
migrazioni: spostamenti da un luogo a un al- polimorfismi: differenze di carattere somati-
tro, in genere con carattere permanente, di una co, indicatìve del luogo di provenienza di un
popolazione o di un gruppo di uomini in cerca individuo, prodotte da lenti e complessi pro-
di nuove risorse per sopravvivere. cessi di adattamento dei diversi gruppi umani
mito: racconto dell'origine di cui non si cono- alle diverse condizioni ambientali.
sce l'autore, che narra come un gruppo o una politeisti: fedeli di religioni che contemplano
popolazione è venuta al mondo. più divinità.
monoteisti: fedeli di religioni che contempla- postmodernismo: prospettiva antropologica
no una sola divinità. in cui rapporti tra osservatori e osservati ven-
museo etnografico: nato nella prima metà gono messi in discussione, si analizzano i pro-
dell'Ottocento, è il luogo in cui vengono radu- cessi di scrittura, le retoriche descrittive, por-
tando l'antropologia su un terreno sempre più scambio di mercato: forma di scambio in cui
prossimo alla letteratura e trasformando l'ana- il valore dei beni scambiati è determinato dal-
lisi antropologica in una critica culturale sem- la legge della domanda e dell'offerta.
pre più rivolta alla nostra società. scarificazione: incisione sulla pelle a scopo
prezzo della sposa (o ricchezza della sposa): terapeutico o decorativo, spesso associata ai
beni o denaro che la famiglia dello sposo do- riti di iniziazione.
na a quella della sposa, per compensare la sciamano: specialista rituale, tipico delle po-
perdita di una donna e pertanto le sue capacità polazioni siberiane e dei nativi americani, do-
lavorative. tato di poteri particolari, il quale, attraverso la
razza: concetto sviluppato nel XVIII secolo: trance, spesso indotta dal ritmo di tamburi,
prevede la classificazione dell'umanità in riesce a entrare in contatto con le entità so-
gruppi, o razze, formati da individui che pre- vrannaturali.
sentano una serie di tratti somatici e fisici di- scrittura: pratica finalizzata a riportare l'ora-
stintivi. Nel corso del Novecento questa clas- lità su un supporto materiale. Esistono nume-
sificazione è risultata infondata dal punto di rosi tipi di scritture, basate su logiche diverse.
vista scientifico. La scrittura fu alla base della nascita degli sta-
razzismo: dottrina che si basa sul concetto di ti.
razza, che attribuisce a ogni razza determinate Scuola di Manchester: corrente di pensiero
caratteristiche fisiche, culturali e morali, iden- che tendeva a considerare le società come
tificando in quella di appartenenza un mag- meccanismi in continuo movimento e segnate
giore livello di evoìuzione rispetto alle altre. da perenni conflitti interni, che ne determina-
reciprocità: scambio tra due o più soggetti no i mutamenti.
alla pari. selezione naturale: teorizzato da Darwin nel
redistribuzione: pratica economica che pre- XIX secolo, è il processo attraverso cui la
vede un'autorità centrale, che raccoglie i con- natura selezìona gli organismi animali e vege-
tributi della popolazione e li ridistribuisce in tali più adatti all'ambiente in cui vivono. È il
forma di beni o servizi. meccanismo alla base dell'evoluzione delle
relativismo culturale: atteggiamento secondo specie.
il quale ogni espressione culturale deve essere sesso: legato all'anatomia, il sesso indica la
spiegata all'interno del quadro simbolico della differenza biologica alla base della distinzione
società che la produce. tra maschi e femmine. È un dato naturale e
religioni: sistemi di credenze più o meno isti- immutabile, se non con specifiche operazioni
tuzionalizzati, che prevedono l'esistenza di chirurgiche.
entità sovrannaturali e sovraumane. sfere di scambio: modello di scambio in cui i
riti di passaggio: espressione coniata da Van beni sono raggruppati in ‘sfere’ secondo il va-
Gennep nel 1909, indica i rituali che accom- lore morale cha la popolazione attribuisce a
pagnano le transizioni attraverso i diversi sta- essi. Tali beni possono solo essere scambiati
tus che segnano la vita di ogni individuo, co- con beni appartenenti alla stessa sfera.
me la nascita, il passaggio all'età adulta, la sistema di classi d'età: è un'istituzione cultu-
morte. rale e politica che mette in relazione età bio-
rito: pratica ripetitiva e collettiva, che serve a logica ed età sociale. I sistemi di classi d'età
rappresentare, a mettere in scena una pratica determinano un ordine sociale, creando cate-
legata alla religione o al potere, al fine di ren- gorie basate sull'età e sulla generazione.
derla visibile. società egualitarie: società in cui le decisioni
rituali: comportamenti simbolici, sociali, ri- non vengono prese da un capo, ma per lo più
petitivi e standardizzati che vengono praticati dal consiglio degli uomini, all'interno del qua-
in occasioni cerimoniali distinte dalla vita le il più anziano del gruppo esprime solita-
quotidiana. Possono avere numerosi signifi- mente una posizione di autorevolezza.
cati, sia laici sia religiosi. strutturalismo: prospettiva antropologica che
si pone come obiettivo di dimostrare l'unità
psichica del genere umano attraverso
l'individuazione di categorie universali della necessariamente parenti tra di loro. È un'orga-
mente. Le diversità culturali sarebbero, per gli nizzazione caratteristica di popolazioni di
strutturalisti, delle varianti di temi costanti, agricoltori e allevatori, e può essere guidata
ìnsiti nella struttura psichica umana. da un capo.
superorganica: definizione adottata dal so- visione olistica: visione totalizzante che tiene
ciologo francese Émile Durkheim per definire conto di vari elementi dì una società, di una
la cultura come realtà che sta al di sopra delle cultura, per poter analizzare anche uno solo di
individualità umane. essi.
surmodernità: evoluzione ulteriore rispetto
alla modernità: accelerazione della storia in
cui la rapidità ha annullato le distanze e per-
tanto il tempo prevale sullo spazio.
tabu alimentari: indicano gli alimenti che
non possono essere mangiati da determinati
gruppi, perché considerati impuri o perché
associati al totem del clan.
tatuaggio: pratica nata in Polinesia. Segno
indelebile e ornamentale sul corpo che può
trasmettere informazioni sullo status sociale,
gruppo etnico, genere ecc.
tempo ciclico: concezione del tempo che si
basa sulla ripetitività e circolarità degli eventi,
come per esempio lo scorrere delle stagioni o
il ciclo lunare. È caratterizzata da un'assenza
di direzionalità nel processo storico.
tempo lineare: concezione del tempo che si
basa sull'idea di progressione e che fornisce
quindi il senso del fluire del tempo e della sto-
ria.
thick description: definizione coniata da
Clifford Geertz per indicare una pratica etno-
grafica che non si limiti alla mera descrizione
dei fatti, ma che contenga già in sé l'interpre-
tazione di quei fatti.
totem: animale o personaggio simbolico che
rappresenta gli antenati mitici di un clan.
tradizione: l'insieme delle pratiche che una
popolazione ritiene fondate su un passato co-
mune. Secondo Hobsbawm e Ranger questo
passato può essere inventato o rielaborato a
partire dal presente attraverso un processo di
‘filiazione inversa’.
tradizione orale: processo di trasmissione
verbale intergenerazionale di conoscenze e
pratiche culturali di una determinata popola-
zione.
transumanza: pratica pastorale che prevede
lo spostamento dei capi di bestiame tra due
punti stabiliti.
tribù: la tribù è un insieme più grande della
banda, che comprende individui che non sono
STORIA DELLA
PEDAGOGIA
JOHN LOCKE: la concezione pedagogica

Nei Pensieri sull’educazione, John Locke (1632/1704) delinea un modello formativo tipicamente
aristocratico, sulla base di una concezione pedagogica in cui l’educatore deve avere una profonda co-
noscenza dell’allievo e del suo carattere, ma anche dei processi psichici su cui impostare il rapporto
reciproco e organizzare la didattica.
I Pensieri sull’educazione nascono in seguito ad una richiesta di consigli che l’aristocratico Edward
Clarke invia a Locke, durante il suo esilio politico, per l’educazione del figlio; dalle lettere che il filo-
sofo inglese gli scrive in risposta, scaturirà la raccolta di pensieri pubblicata nel 1693. Il risultato è
una serie di proposte orientate alla formazione del nobile rampollo inglese di famiglia aristocratica: il
gentleman. Al posto dell’educazione universale di Comenio, Locke sceglie quindi consapevolmente
l’educazione della classe dirigente, quella che, a suo parere, deve guidare le sorti dell’Inghilterra.
Nel modello classista di educazione proposto da Locke, i futuri membri della classe dirigente (ru-
ling class) necessitano di un precettore privato (private teacher); per i poveri sono sufficienti le
working schools presso le parrocchie, dove essi possono essere raccolti e imparare un lavoro*.

Il precettore: analisi psicologica dell’allievo, autorità, dialogo educativo


L’educazione del gentleman avviene coerentemente con il costume aristocratico dell’epoca, all’in-
terno della famiglia, sotto la guida del padre e di un precettore privato che dedicherà tutti i suoi sfor-
zi, ancor prima che all’istruzione, alla formazione del carattere del suo unico allievo. Un buon pre-
cettore dovrà essere capace di comprendere psicologicamente il suo alunno osservandolo: il fanciullo
dovrebbe essere osservato quando non ne è consapevole e si sta esprimendo più liberamente, come
nelle attività di gioco. Locke ritiene che il buon educatore debba saper adattare il programma stesso
alle caratteristiche individuali e al ritmo evolutivo dell’allievo: il rapporto individualizzato fra mae-
stro e allievo è per lui centrale. L’aspirazione umana alla libertà ha bisogno, secondo Locke, di una
guida per realizzarsi: il precettore deve quindi comandare l’alunno per guidarlo alla libertà, far evol-
vere la sua personalità dall’eteronomia all’autonomia. Ma soprattutto, secondo Locke, deve saper
risvegliare nell’allievo la razionalità e la capacità di autovalutazione mediante il dialogo. I fanciulli
amano essere trattati come creature razionali, quindi l’educatore dovrà spiegare con semplicità e
chiarezza la ragione della sua volontà e la sua utilità per l’allievo.

Finalità dell’educazione: libertà, ragione, autocontrollo, onore, rispettabilità


Locke esprime il principio per il quale la scuola è vita e non preparazione alla vita, e richiede una
open education, cioè un’educazione aperta come valorizzazione della libertà e della creatività; que-
sta libertà non esclude però la capacità individuale di resistere alle proprie inclinazioni. Pertanto,
l’educazione dovrà in primo luogo tendere all’acquisizione di buone abitudini che conducano all’au-
todominio, nel quale è facile ravvisare un richiamo al concetto tipicamente anglosassone di self-con-
trol, o self-government. Altro fondamento del carattere del gentleman sarà rappresentato dall’ono-
re, valore tipicamente aristocratico, nel quale il precettore individuerà il principio della sua azione
pedagogica. Il concetto di onore è strettamente collegato con quello di rispettabilità. Il giovane gen-
tleman deve guadagnarsi la stima e il rispetto degli altri per costruire una buona reputazione.

Il metodo: ordine, interiorizzazione, esperienza


Il metodo attraverso cui il precettore provvederà alla formazione del carattere dell’allievo non sarà
organizzato intorno al tradizionale sistema dei premi e dei castighi. Certo premi e castighi sono ne-

*Tale preoccupazione nasce dalla necessità di porre freno al problema (destinato, per gli effetti della
rivoluzione industriale, ad accentuarsi tra il ‘700 e l’800) del vagabondaggio di bambini e adolescenti.
cessari, in quanto sono “i soli motivi della condotta di un’essere razionale”. Tuttavia i castighi ester-
ni, come le punizioni corporali, generano solo “carattere da schiavi”. Dovranno essere l’amore della
stima e il timore della vergogna, cioè l’interiorizzazione dei premi e dei castighi, il vero stimolo per
un giovane che viene formato al senso dell’onore.
La formazione del carattere passa attraverso l’esperienza, lo sviluppo dell’interiorità attraverso
l’esercizio dell’esteriorità. L’esercizio costante serve a produrre l’abitudine, che nel sistema educa-
tivo di Locke ha un ruolo centrale. Ma l’esperienza non è solo esercizio. Occorre che il precettore
rispetti la libertà di iniziativa dell’alunno e le sue modalità conoscitive. Viene qui sottolineata l’im-
portanza di suscitare in lui interesse, stimolando la curiosità per favorire un apprendimento incen-
trato sulla ricerca.

I contenuti dell’educazione
L’importanza dell’esperienza nella concezione dei Pensieri appare in primo luogo nella valorizza-
zione di gioco e lavoro. Locke apprezza il gioco e il lavoro come espressione dell’uomo nell’attività
pratica. Egli ritiene che come i materiali di gioco debbano essere costituiti da piccole cose della vita
quotidiana, mediante le quali i bambini possano esprimere liberamente la loro creatività e impegnarsi
in attività che li faranno gradualmente passare dal gioco al lavoro.
Il lavoro, la cui differenza rispetto al gioco consiste nell’utilità, viene esaltato nel suo valore educati-
vo. Secondo Locke ogni lavoro manuale rafforza l’esercizio ed è utile per la salute. Pertanto il pre-
cettore avrà cura di avviare il suo allievo ad un lavoro, ma senza costrizioni, rispettando la sua età e
le sue inclinazioni. L’agricoltura e la falegnameria sono considerate particolarmente significative.
Nei Pensieri possiamo trovare una vera e propria “educazione alla salute” e all’indurimento fisico.
Igiene alimentare, vita all’aria aperta, libertà di movimento e comodità domestiche molto limitate
aiutano i fanciulli ad acquisire quella forma fisica e quella capacità di sopportazione della fatica
necessarie per formare un carattere saldo.
Gli affari dei gentlemen nella nuova età industriale comporteranno certo dei viaggi, e Locke ritiene
che anche questi abbiano una valenza educativa, in quanto, oltre a favorire l’apprendimento delle
lingue e di nuove conoscenze, aiutano a sviluppare saggezza e prudenza. Pertanto, il giovane gentle-
man verrà avviato alla conoscenza di altri popoli e paesi.
Locke ritiene che la cultura debba essere collocata all’ultimo posto nel percorso formativo, poiché
appare sostanzialmente un “di più” rispetto alle acquisizioni fisiche, morali e sociali. Poiché la co-
noscenza dipende dall’esperienza, la didattica dovrà incentrarsi su quest’ultima, nel duplice senso di
partire dal pratico e di incoraggiare le attività, l’imparare facendo (“learning by doing”) del fanciul-
lo. Occorre individuare le prime idee dei fanciulli e partire da esse seguendo un itinerario graduale,
che vada dal semplice al complesso e dalla considerazione delle parti a quella del tutto.
Nessuna precocizzazione viene ammessa, poiché lo scopo dell’educazione non è il nozionismo, ma
quello di “aprire e disporre la mente”.

Il programma di studi del gentleman


Per quanto concerne l’educazione specifica del gentleman, Locke ritiene che il suo curricolo debba
incentrarsi su una formazione integrale, che ricorda per taluni aspetti il modello rinascimentale. Ma
l’orientamento pratico del filosofo inglese oltrepassa notevolmente l’ideale umanistico precedente.
Verbalismo e retorica vanno osteggiati, mnemonicismo e grammatica vanno limitati al massimo. Il
latino dovrà essere appreso dopo il francese, parlando e leggendo. Il disegno verrà insegnato solo in
relazione ai suoi potenziali usi pratici. Spazio maggiore verrà dedicato alla geografia, alla matematica
e al diritto civile e pubblico, materie fondamentali per il concreto esercizio della vita pratica del gen-
tleman. Infine la sua educazione sociale verrà completata dalle conoscenze di filosofia naturale, da
lezioni di stile, di ballo, di equitazione e di scherma.
JOHN LOCKE (1632 - 1704) la concezione pedagogica

concezione empirista: Saggio sullʼintelletto umano (1690)


liberalismo politico: Trattati sul governo civile (1690)

la formazione del gentleman => i Pensieri sullʼeducazione (1693)

ruling class => private teacher (tutor)


vs concezione classista
middle class => public schools dellʼeducazione
working class => working schools

1. attenta osservazione psicologica => educazione individualizzata (psicologia differenziale)


adattare il programma educativo alle caratteristiche
psicologiche ed al ritmo evolutivo dellʼallievo

2. educazione allʼinterno della famiglia ( padre / precettore privato)

dialogo: risvegliare la razionalità e la capacità di autovalutazione dellʼallievo (critiche di Rousseau)

3. abitudini razionali che conducano allʼautodominio: self-control

4. onore e rispettabilità : ottenere la stima e il rispetto degli altri per costruire una buona reputazione

5. il metodo: il valore dellʼinteriorizzazione (ordine, amore della stima e timore della vergogna)

la necessità di premi e castighi in educazione (interni vs esterni)


lʼevitamento delle punizioni corporali e delle umiliazioni pubbliche

6. gioco e lavoro come attività educative

materiali di gioco => piccole cose della vita quotidiana => liberare la creatività

lavoro manuale (senza costrizioni): rafforza lʼesercizio ed è utile per la salute


agricoltura e falegnameria

7. educazione alla salute e indurimento fisico igiene alimentare forma fisica


vita allʼaria aperta
libertà di movimento capacità di sopportazione
della fatica

8. valenza educativa del viaggio (conoscenza delle lingue, delle usanze (“folkways”), prudenza)

9. “cultura”:ultimo posto nel percorso formativo; un “di più “ rispetto alle acquisizioni fisiche e morali

esperienza => conoscenza didattica: partire dal pratico, incoraggiare le attività

semplice -> complesso “learning by doing”


parte -> tutto

10. il programma di studi: a) formazione integrale (modello rinascimentale)


b) orientamento pratico

lingue: apprendimento attraverso lʼuso di: inglese, francese, latino


(vs verbalismo, retorica, mnemonicismo e grammatica)
disegno: in relazione ai suoi usi pratici
geografia, matematica, diritto civile e pubblico
filosofia naturale, stile, ballo, equitazione, scherma
L’Illuminismo francese e l’educazione

In un secolo caratterizzato dalla fiducia nelle capacità razionali dell’uomo, l’educazione diviene uno
dei cardini fondamentali del progetto sociale, capace di foggiare contemporaneamente il nuovo indi-
viduo e la nuova società. Per raggiungere questo risultato essa deve emanciparsi sia dai modelli che
dalle istituzioni della tradizione autoritaria del passato. Questa critica dell’educazione tradizionale
avviene sia alla luce di una nuova antropologia, che cerca di avvicinarsi ad una visione più “scienti-
fica” dell’uomo, sia nel biasimo dell’inefficacia dei curricoli educativi vigenti.
L’Illuminismo francese rappresenta per molti aspetti il punto più avanzato dell’elaborazione cul-
turale del settecento, anche se i suoi philosophes ereditano a loro volta i semi della cultura empirista
(in particolare la gnoseologia lockiana), scientifica e liberale del Seicento inglese.
É comunque la Francia a proporre le idee più innovatrici, organiche e radicali nel campo della rifor-
ma dell’istruzione. Il pensiero pedagogico dell’Illuminismo francese è caratterizzato da due cesure
storiche significative, che si collocano rispettivamente nel 1762, anno in cui i Gesuiti vengono cac-
ciati dalla Francia e Rousseau pubblica l’Emilio, e nel 1789, quando ha inizio la Rivoluzione, con la
quale il paese modifica le proprie strutture politiche, sociali, educative.
Étienne Bonnot, abate di Condillac (1714 - 1780) delinea, nel Saggio sull’origine delle conoscenze
umane (1746) e nel Trattato delle sensazioni (1754) una gnoseologia sensista, per cui all’origine di
tutte le conoscenze starebbero le sensazioni e l’uso del linguaggio. Condillac scrive un Corso di Stu-
di in cui sostiene la necessità di un insegnamento basato su un metodo di tipo empiristico a partire
dal naturale sviluppo dei bisogni conoscitivi sulla base di necessità pratiche. Pertanto l’insegnante
dovrà fondare la sua didattica sull’osservazione diretta effettuata dall’alunno, per poi procedere via
via dal particolare al generale fino a costituire i saperi separati delle discipline.
Amico degli enciclopedisti e appartenente alla corrente del materialismo sensista, Claude-Adrien
Helvétius (1715 - 1771) stabilisce in Dello Spirito (1758) lo stretto rapporto fra educazione (intesa
come influsso dell’ambiente) e personalità. Lo scopo dell’educazione è il raggiungimento della felici-
tà, possibile solo a partire da un efficiente sistema educativo.. Occorre un’educazione più attenta al-
l’esercizio fisico e allo studio di discipline quali la storia, la fisica, la matematica e la morale sociale,
in grado di favorire l’inserimento del giovane nella società. Del pari, è necessario studiare la propria
lingua, piuttosto che le “lingue morte”. La pars destruens della riflessione di Helvétius individua nel
monopolio educativo della Chiesa l’ostacolo principale alla riforma dell’educazione. Occorre che lo
Stato intervenga a rendere gratuita e obbligatoria per tutti la scuola, riformando nel contempo le leggi
e migliorando le condizioni dei poveri.
L’apice della riforma culturale dell’Illuminismo europeo si trova senza dubbio nella realizzazione
dell’Enciclopedia delle scienze, delle arti e dei mestieri, pubblicata in 27 volumi tra il 1751 e il 1772.
L’opera, diretta da Denis Diderot (1713-1784), curata da Jean Le Rond D’Alembert (1717-1783)
e frutto della collaborazione fra numerosi philosophes, presuppone una nuova visione della cultura,
attraverso una differente valutazione del sapere in nome della sua utilità individuale e sociale che si
collega al “sapere è potere” baconiano e produce un riconoscimento della dignità culturale delle atti-
vità pratiche e della tecnologia. L’Enciclopedia si occupa solo di “conoscenze reali”, rinunciando ad
ogni trattazione di metafisica, mentre le arti, le tecniche e le attività, viste nel loro rapporto con la
scienza, vi trovano ampio spazio. Al primato del sapere scientifico e tecnologico, Diderot e
D’Alembert fanno corrispondere il richiamo all’utilità dell’educazione, purchè essa si emancipi dal
pedantismo umanistico con curricoli e scuole rinnovate.

Rivoluzione ed educazione
L’Illuminismo nasce in seno alla borghesia, e perciò la sua battaglia culturale è spesso tanto rivolta
all’abbattimento dei privilegi e del monopolio culturale dei vecchi ordini feudali, quanto al manteni-
mento di coloro che Voltaire chiama “pezzenti ignoranti” nella loro condizione. Nel dibattito relati-
vo all’istruzione popolare esisteva infatti una grande oscillazione tra posizioni di totale chiusura
verso ogni forma di istruzione per i poveri (l’istruzione popolare avrebbe costituito un pericolo per
la stabilità sociale, in quanto nessuno avrebbe voluto più praticare i mestieri più umili e manuali),
proposte educative per un’istruzione finalizzata a un miglior controllo sociale, fino a reali progetti
di emancipazione mediante l’educazione. Quando scoppiò la rivoluzione francese, fu dedicato gran-
de interesse al problema educativo. Furono isituite varie commissioni incaricate di mettere a punto
soluzioni e progetti per impostare il sistema scolastico su base laica e nazionale. Uno dei progetti
più aperti e innovatore fu quello presentato da Condorcet.
Jean-Antoine-Nicolas Caritat, marchese di Condorcet (1743 - 1794) è l’autore del progetto più
completo di riforma dell’educazione della Francia rivoluzionaria. Egli redige nel 1792 le cinque Me-
morie sull’istruzione pubblica e organizza le riforma del sistema scolastico francese. Secondo Con-
dorcet lo scopo principale di un’educazione nazionale è di offrire a tutti indistintamente i mezzi per
provvedere ai propri bisogni ed esercitare i propri diritti. Il progetto di Condorcet distingue cinque
gradi di istruzione interamente gratutiti, ma non obbligatori:
1. la scuola primaria (4 anni) ha lo scopo di fornire a ciascuno le regole fondamentali per la vita so-
ciale, con l’educazione alla lettura, alla scrittura, al calcolo, alla soluzione di problemi di vita pratica
e alla ginnastica. Le scuole dovranno essere aperte in ogni villaggio di almeno 400 abitanti.
2. Le scuole secondarie, presenti in ogni distretto di 4000 abitanti, sono l’equivalente di scuole me-
die inferiori a carattere tecnico-professionale. In queste scuole matematica, storia naturale, chimica,
commercio, scienza sociale e morale costituiscono una piattaforma scientifica per l’utilità sociale.
3. Gli istituti, presenti in ciascun dipartimento, devono fornire un’istruzione superiore completa;
le discipline scientifiche avranno comunque la prevalenza rispetto a quelle umanistiche.
4. I Licei, corrispondenti all’università, nel numero di 9 in tutto il territorio, riprenderanno le disci-
pline insegnate negli istituti, ma a quel grado di profondità che si addice per la formazione dei dotti,
ossia gli studiosi di professione, i quali costituiranno insieme l’ultimo grado del sistema educativo.
5. la Società nazionale della scienza e delle arti, che ha il compito di dirigere le altre istituzioni.
La scuola per Condorcet dovrà limitarsi all’istruzione, ad un insegnamento rigorosamente fondato
sui fatti, e non dovrà ospitare opinioni politiche o religiose. Per quanto riguarda l’educazione femmi-
nile, Condorcet afferma che la donna ha diritto, in nome dell’uguaglianza, alla stessa educazione del-
l’uomo. Le donne dovranno essere anche insegnanti e si dovrà realizzare - anche per i suoi vantaggi
pratici - la coeducazione dei sessi.
Nel dibattito sull’educazione popolare si definirono sostanzialmente due blocchi ideologici: uno di
tendenza liberale e moderata, favorevole alla gratuità della sola istruzione di base, all’istruzione pri-
vata, contraria all’obbligatorietà, ed uno di tendenza radicale, favorevole ad un maggior ruolo dello
Stato nell’educazione, e per una sua maggiore laicità, democraticità e gratuità. Su posizioni partico-
larmente avanzate e radicali vi era il “movimento babuvista”, di cui facevano parte Babeuf (1760/
1797) e Buonarroti (1761/1837). Essi rappresentano una corrente di pensiero libertario, che auspi-
cava una società obbediente solo alle leggi di natura e del buon senso, costituita di piccole comuni
agricole praticanti la comunione dei beni in una situazione di totale autosufficienza e autonomia.
Secondo Babeuf e Buonarroti l’educazione e l’istruzione dovevano essere date a tutti gli uomini, ser-
vire a infiammare gli animi e suscitare una rivoluzione che scardinasse il vecchio ordine sociale per
creare una società nuova, giusta e libera. Per l’educazione dei giovani proponevano delle case comu-
ni di educazione. Le case dovevano sorgere, utilizzando castelli e conventi requisiti in campagna,
possibilmente vicino ad un fiume, in modo da disporre di ampi spazi non solo per i lavori agricoli
ma anche per officine di vario tipo; né dovevano mancare biblioteche, teatri e palestre, attrezzature
indispensabili per un proficuo lavoro intellettuale e manuale.
LʼILLUMINISMO FRANCESE E LʼEDUCAZIONE

educazione => nuovo individuo, nuova società


emancipazione dai modelli e dalle istituzioni della tradizione autoritaria del passato
nuova antropologia: visione più scientifica dellʼuomo
abbattimento dei privilegi e del monopolio culturale dei vecchi ordini feudali

1762: espulsione dei Gesuiti dalla Francia (Emilio)

pericolosa (nessuno svolgerebbe più i mestieri umili e manuali)


Illuminismo -> borghesia istruzione (Voltaire)
popolare
necessaria proposte educative per lʼ educazione di base
progetti di emancipazione mediante lʼ educazione
(Helvétius, Condorcet, Babeuf)

-> 1789: Rivoluzione

Condillac (1714 - 1780) gnoseologia sensista: sensi e uso del linguaggio


Trattato delle sensazioni (1754) alla base di tutte le conoscenze

Corso di studi: insegnamento empiristico a partire dai bisogni conoscitivi


didattica fondata sullʼosservazione diretta effettuata dallʼalunno

Helvétius (1715 - 1771) educazione: favorire la felicità e lʼinserimento sociale


Dello Spirito (1758) esercizio fisico, studio della propria lingua
critica del monopolio religioso dellʼeducazione
Stato: istruzione gratuita e obbligatoria per tutti

Diderot (1713 - 1784) e Dʼ Alembert (1717 - 1783)


Enciclopedia delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751/ 72)

nuova visione della cultura -> utilità individuale e sociale del sapere (“sapere è potere”)
le ʻconoscenze realiʼ dignità culturale delle attività pratiche e della tecnologia
utilità dellʼeducazione: sapere scientifico vs pedantismo e tradizione

Rivoluzione ed educazione

Condorcet (1743 - 1794) progetto più completo di riforma


Memorie sullʼistruzione pubblica (1792) dellʼeducazione della Francia rivoluzionaria

educazione nazionale per tutti 1. scuola primaria (4 anni) lettura, scrittura, calcolo, ginnastica
cinque gradi di istruzione gratuiti (ogni villaggio di almeno 400 abitanti)
2. scuola secondaria: scuole medie inferiori professionali
matematica, storia naturale, chimica, commercio
autonomia del sistema scolastico (ogni distretto di 4000 abitanti)
dallo Stato 3. istituti: istruzione superiore completa;
discipline scientifiche ed umanistiche
uguaglianza di diritti uomo-donna 4. Licei (università; 9 in tutto il territorio)
5. Società nazionale della scienza e delle arti
dirigere le istituzioni educative, nominare gli insegnanti

Babeuf (1760 - 1797) Buonarroti (1761 - 1837) “movimento babuvista”

corrente di pensiero libertario società obbediente alle leggi di natura e del buon senso
piccole comuni agricole praticanti la comunione dei beni in autosufficienza e autonomia
educazione e istruzione -> a tutti gli uomini rivoluzione che scardinasse il vecchio ordine sociale
creazione di una società nuova, giusta e libera
educazione dei giovani -> “case comuni di educazione” castelli e conventi requisiti in campagna
ampi spazi lavori agricoli officine biblioteche teatri e palestre lavoro intellettuale e manuale
J. M. Itard e il fanciullo selvaggio dell’Aveyron

Nella scia dell’emozione suscitata dalle grandi scoperte geografiche dei secoli precedenti, si mani-
festa nel settecento - in Francia in particolare - un’attitudine più seria e profonda a capire quale fos-
se l’effettiva realtà delle popolazioni considerate selvagge e primitive. Furono pubblicati parecchi
scritti, resoconti, diari di viaggiatori ed esploratori che studiavano in modo nuovo le usanze, la ma-
niera di vivere e le credenze di quelle genti, scoprendone la sensibilità religiosa (prima negata dagli
occidentali), le strutture linguistiche, parentali, societarie.
In Francia fu creata la Société des observateurs de l’homme, che si proponeva di studiare compara-
tivamente le differenze tra i vari popoli, sia sul piano delle usanze e dei costumi, sia su quello delle
caratteristiche fisiche. In tale prospettiva veniva considerato particolarmente il bambino selvaggio,
che meglio dell’adulto poteva offrire agli studiosi il modo per capire come nascevano le idee nell’uo-
mo, al di là del contesto culturale e sociale, nel cosiddetto ‘stato di natura’.
Un appartenente alla Société, il medico Jean Marc Itard (1774 - 1838), si dedicò a cercare di atti-
vare processi linguistici e mentali e a suggerire condotte adeguate all’inserimento nella società di un
ragazzo selvaggio, poi chiamato Victor, trovato in Francia nel gennaio del 1800 nelle foreste del-
l’Aveyron. Itard era animato dalla fiducia nelle possibilità di sviluppo intellettuale dell’uomo, a par-
tire da una adeguata e ben predisposta educazione sensoriale. A tal fine predispose tutta una serie di
materiali e di giochi e inventò molti espedienti per produrre apprendimento nel giovane, assicuran-
dogli anche ogni cura materiale.
Itard dà conto della sua esperienza medico-pedagogica in due successivi scritti: la Memorie sui pro-
gressi di Victor dell’Aveyron (Parigi, 1801), e il Rapporto sui nuovi progressi di Victor dell’Aveyron
(1807). L’intuizione di Itard nasce dal confronto con il maggiore alienista dell’epoca, Pinel, il quale
giudica il ragazzo selvaggio affetto da “idiozia congenita”, e quindi non educabile. Itard è di diverso
avviso: ritiene che si debba distinguere tra deficit mentali dovuti a lesioni organiche e quelli derivanti
da prolungato isolamento, o, come oggi diremmo, dalla deprivazione socioculturale. Dopo cinque an-
ni di terapia pedagogica, Victor non è più un selvaggio e neppure un idiota: ha imparato a leggere e
scrivere un certo numero di parole, sa servirsene per comunicare con i suoi simili, ha stabilito vincoli
affettivi con le persone che si prendono cura di lui. Però non ha acquistato l’uso della parola, i suoi
interessi mentali sono sempre limitati ed egli resterà in sostanza un ritardato per tutta la vita, con-
clusa nel 1828, a quarant’anni, in una dependance dell’Istituto dei sordomuti. Il parziale “fallimen-
to” educativo di Itard è attribuibile in parte ad errori di metodo riconducibili alla sua formazione ri-
gidamente sensistica, ma esso avvia alla comprensione di una verità fondamentale, sino ad ora mai
smentita: la deprivazione socio-culturale, perdurando oltre certi limiti, provoca processi irreversibili
di atrofia delle funzioni intellettuali..
Tra i numerosi casi di “fanciulli selvaggi” attestati, quello di Victor dell’Aveyron rimane il più illu-
stre ed il meglio fornito di una probante documentazione; significative in proposito le parole di Ma-
ria Montessori: ”I lavori pedagogici dell’Itard sono interessantissime descrizioni minuziose di tenta-
tivi e di esperienze pedagogici: e chi le legge deve convenire che quelle furono le prime prove della
pedagogia sperimentale (...) Itard può dunque essere chiamato il fondatore della pedagogia scientifi-
ca”.
Il valore scientifico delle due relazioni di Itard non deve indurre a trascurare il loro significato lette-
rario ed umano; esse contengono pagine vibranti di commossa partecipazione: Victor che urla di gio-
ia alla vista della prima neve caduta nel giardino; che trascorre ore di meditazione fissando l’acqua
della fontana; che si sprofonda in una sorta di estasi contemplativa ammirando, in piena notte, dalla
finestra della sua stanza, il paesaggio campestre illuminato dai raggi della luna; che piange di dolore
quando non riesce ad eseguire i compiti più difficili; che grida di gioia rivedendo la sua amata sorve-
gliante; che piange di rabbia sentendosi vittima di una punizione immeritata.
L’ENFANT SAUVAGE (IL RAGAZZO SELVAGGIO) 1969, Francia
Regia: François Truffaut; soggetto: tratto da Mémoire et Rapport sur Victor de l’Aveyron di Jean
Itard (1806); sceneggiatura: F. Truffaut e J. Gruault; fotografia: Nestor Almendros; musica: Antonio
Vivaldi (direzione musicale di A. Duhamel). interpreti: Jean-Pierre Cargol (Victor), François Truf-
faut (il dottor Itard), François Seigner (M.me Guérin). durata: 85’

T. Kezich: “Illustrazione fedele, volutamente fuori moda nel suo dimesso bianco e nero e nel suo
fraseggio da cinema muto, di uno studio del pedagogista Jean Itard (...) Truffaut è presente qui per la
prima volta come attore, nella parte del medico (...) l’assunzione di un tale personaggio rivela che
Truffaut, uscito dalla propria adolescenza selvaggia, tenta per la prima volta di porsi in termini ra-
zionali, addirittura illuministici, il tema centrale della sua personalità: il rapporto fra il bambino e la
realtà rappresentata dal mondo degli adulti. L’Itard di Truffaut, conforme allo scienziato la cui lettu-
ra influenzò Maria Montessori, elabora empiricamente un metodo educativo; ma senza abbandonare
il sospetto che la natura sia l’unica maestra di felicità. In questa dialettica fra scienza e coscienza si
articola, con assoluta precisione di tratti, un film dai toccanti valori poetici, un piccolo capo d’ope-
ra.”
M. Morandini: “E’ il più grave, radicale, “freddo”, dei film di Truffaut. Non è un apologo umanisti-
co. La sua parola d’ordine è: disubbidire al Padre, una spietata critica a certi metodi educativi. Sotto
la puntigliosa ricostruzione storica, un film poetico che nasce dalla sensibilità e da un grande amore
per l’infanzia.”
P. Mereghetti: “Il ragazzo selvaggio è un film-saggio di grande e intensa poeticità, strutturato intor-
no alla particolare relazione tra medico e paziente. Oltre al tema dell’infanzia, fondamentale nel cine-
ma di Truffaut, va notato l’intimo legame tra lo sviluppo del testo scritto (il diario del medico) e la
creazione di quello visivo (il film), che per il regista costituiscono un processo unico e inscindibile
(i libri non mancano mai nei suoi film).”
A. Cappabianca: “Itard appare come il campione della Civiltà, che contrasta l’attrazione del ragaz-
zo verso la natura; attrazione sentita fortemente, con intensità lancinante, in alcune delle sequenze
più belle del film. Di fronte a questa nostalgia-regressione, il lavoro di Itard non può che apparirci
progressivo; ma Truffaut ci fa comprendere che il problema non è qui, strutturando l’attrazione
stessa del ragazzo come nostalgia, sogno e ricordo, di qualcosa che è comunque irrimediabilmente
perduto, a cui si può tornare per un breve momento, ma che ormai, anche, finisce per respingerci,
risospingendoci verso la Casa, verso gli Esercizi”
A. Barbera: “Converremo con Alessandro Cappabianca, che giudica il film ‘problematico e del tut-
to privo di illusioni di ogni genere’. Il distacco critico si coniuga anche formalmente, tramite il ricor-
so a procedimenti e scelte stilistiche che, nel loro insieme (schermo standard; fotografia in bianco e
nero, voce fuori campo, mascherini e dissolvenze, prevalenza assoluta di inquadrature a figura intera
e di campi lunghi) sottolineano la messa a distanza di una rappresentazione esplicitamente costruita
e anti-autoritaria (...) L’iniziazione di Victor al linguaggio è l’educazione dello stesso alla tragica
normalità dell’ esistenza quotidiana, ad un ordine il cui prezzo è la rimozione della contraddizione
originaria, l’accettazione della privazione come norma di vita. Victor rinuncia alla fuga. Nel nome del
Padre: nel riconoscimento della necessità di questa scelta, lo scacco originario dell’esistenza, ma, an-
che, la possibilità del suo riscatto. L’interiorizzazione del divieto paterno è condizione per accedere
al linguaggio, alla società, alla conoscenza. Quando il ragazzo, ribellatosi ad una ingiusta punizione,
morde una mano al dottore, questi annota nel suo diario:”E’ una prova incontestabile che il senti-
mento del giusto e dell’ingiusto, questa base eterna dell’ordine sociale, non è estranea al cuore del
mio allievo”. Ribellandosi, Victor scopre la morale; la morale è disubbidire al Padre: morale è chi du-
bita della morale degli altri.”
Jean Marc Itard e il ragazzo selvaggio dell’Aveyron

‘700 in Francia => conoscenza delle popolazioni selvagge e primitive => antropologia
resoconti, diari di viaggiatori ed esploratori usanze, credenze, strutture
mito del “buon selvaggio” linguistiche, parentali, societarie

Société des observateurs de l’homme studio comparativo delle differenze culturali/fisiche tra i vari popoli
bambino selvaggio ‘stato di natura’

J. M. Itard (1774 - 1838) => attivazione di processi linguistici e mentali condotte morali/sociali

ragazzo selvaggio (Victor) educazione sensoriale => sviluppo intellettuale


gennaio del 1800 Aveyron
materiali giochi espedienti educativi
Maria Montessori:
Memorie sui progressi di Victor dell’Aveyron (1801) prime prove della
Rapporto sui nuovi progressi di Victor dell’Aveyron (1807) pedagogia sperimentale

Itard vs Philippe Pinel (1745-1826)

deficit mentali dovuti all’isolamento “idiozia congenita” non educabile


deprivazione socioculturale

5 anni di terapia: lettura e scrittura forme di comunicazione vincoli affettivi


non acquisizione dell’uso della parola interessi mentali limitati

deprivazione socio-culturale prolungata => processi irreversibili di atrofia delle funzioni intellettuali

Harlan Lane (1978) The wild boy of Aveyron Uta Frith (1989) L’autismo. Spiegazione di un enigma
bambino autistico abbandonato da contadini poveri nell’Aveyron

- disturbo delle interazioni sociali - disturbo intellettivo specifico: carenza di giudizio, memoria,
immaginazione, attenzione, vocalizzazioni disarticolate,
- stereotipie: dondolamenti azioni prove di scopo
- mancanza di gioco di finzione: - disturbo dell’attenzione sensoriale: non percezione di suoni acuti
indifferente ai giochi dei bambini o vicini, percezione distinta per determinati suoni anche deboli

resta muto nonostante l’apprendimento della lingua dei segni


non apprendimento di valori sociali fondamentali
progresso limitato segni scarsi di amicizia, compassione, imbarazzo;
rieducazione incompleta isolamento autistico evidente anche in mezzo alla gente
incapacità di comprendere gli stati della mente
non si preoccupa per gli effetti del suo comportamento e l’opinione altrui

urla di gioia alla vista della prima neve caduta nel giardino
trascorre ore di meditazione fissando l’acqua della fontana
Victor che grida di gioia rivedendo la sua amata sorvegliante
in estasi contemplativa ammira il paesaggio illuminato dalla luna
piange di dolore quando non riesce ad eseguire i compiti più difficili
piange di rabbia sentendosi vittima di una punizione immeritata.
ROUSSEAU (1712 / 1778)

Figlio di un orologiaio e privo della madre fin dalla nascita, riceve un’educazione disordinata. Nel
1728 fugge dalla città e trova rifugio a Chambéry presso Madame de Warens - da lui definita “ma-
dre, amica e amante” - la quale eserciterà su di lui un notevole influsso. Nel ‘41 si stabilisce a Parigi,
dove entra in relazione con i Philosophes. Nel ‘45 Rousseau conosce una donna umile, Thérèse
Levasseur, dalla quale non si separerà fino alla morte, generando con essa cinque figli che verranno
affidati, uno dopo l’altro, all’orfanotrofio. I due discorsi (Discorso sulle scienze e le arti, 1750,
Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, 1754) gli procurano grande
successo nella società parigina, ma il suo temperamento scontroso non lo favorisce nelle relazioni
sociali. Rompe i rapporti con l’ambiente degli enciclopedisti e compone le sue opere maggiori: La
Nuova Eloisa (1761), Il Contratto sociale e l’Emilio (1762), che viene bruciato per empietà a Pa-
rigi. Rousseau torna in Svizzera, dove inizia a scrivere Le confessioni, pubblicate postume dopo il
1782. Nel ‘65 accetta l’ospitalità di Hume in Inghilterra, ma rompe presto anche con lui. Ritornato
in Francia, trascorre gli ultimi anni della sua esistenza in un isolamento quasi totale, assalito da ango-
sce persecutorie che riusciva a stento a contenere. Morì a Ermenonville nel 1778.
Rousseau ha un posto a parte nell’Illuminismo. L’Illuminismo aveva riconosciuto i limiti della ra-
gione, nonchè la forza dei bisogni, degli istinti e delle passioni. Ma aveva posto nella ragione la vera
natura dell’uomo. Rousseau sembra infrangere su questo punto l’ideale illuministico. La natura uma-
na non è ragione, ma istinto, passione, sentimento, spontaneità.
L’Illuminismo vuole riportare l’istinto alla ragione, Rousseau la ragione all’istinto.
Il motivo dominante dell’opera di Rousseau è il contrasto tra uomo naturale e uomo artificiale: il
secondo è il risultato di un processo di decadenza e degenerazione nel corso del quale la condizione
naturale dell’uomo è andata perduta. Di questa degenerazione, Rousseau fa un’analisi amara e spie-
tata, che richiama quella di Pascal. Come sostiene nel “Discours sur les sciences”, i beni che l’umani-
tà crede di aver acquistato, i tesori del sapere, dell’arte, della vita raffinata, non hanno contribuito al-
la felicità e alla virtù dell’uomo, ma lo hanno allontanato dalla sua origine ed estraniato dalla sua na-
tura. Le scienze e le arti devono la loro nascita ai nostri vizi ed hanno contribuito a rinforzarli:
“L’astronomia è nata dalla superstizione; l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio, dall’adulazione, dal-
la menzogna; la geometria dall’avarizia; la fisica da una vana curiosità; tutte, e la morale stessa, dal-
l’orgoglio umano”. Esse hanno inoltre contribuito a stabilire l’ineguaglianza tra gli uomini, creando
un prestigio apparente e vano.
Nel “Discours sur l’inégalité” Rousseau intende chiarire quali siano le cause accidentali ed estra-
nee “che hanno perfezionato la ragione deteriorando la specie, facendo l’uomo cattivo col farlo so-
cievole”. I casi accidentali che hanno perfezionato la ragione e rovinato la natura umana sono, secon-
do Rousseau, la nascita della proprietà in primo luogo, poi l’istituzione della magistratura, infine il
mutamento del potere legittimo in potere arbitrario; alla prima si deve lo stato di ricco e povero, alla
seconda quello di potente e debole e al terzo quello di padrone e schiavo, che è l’ultimo grado del-
l’ineguaglianza. É evidente che l’uomo può risalire dallo stato in cui si trova verso lo stato originario,
difatti la decadenza è dovuta a cause accidentali ed estranee sulle quali la volontà umana può agire
per modificarle. Perciò Rousseau intende il progresso come un ritorno alle origini, cioè alla natura; il
termine ideale di questo ritorno è la condizione naturale dell’uomo. Ma egli non intende questa con-
dizione come uno “stato di fatto”. “Essa - dice Rousseau - è uno stato che non esiste più, che forse
non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, ma di cui è necessario tuttavia aver nozioni
giuste”. Lo stato di natura o la natura originaria è dunque soltanto una norma di giudizio, un criterio
direttivo per sottrarre l’uomo al disordine e all’ingiustizia della sua situazione presente e riportarlo
all’ordine e alla giustizia. Il Contratto sociale e l’Emilio sono le opere nelle quali Rousseau stabilisce
le condizioni per le quali rispettivamente la società e l’individuo possono ritornare - attraverso la
rifondazione della politica e dell’educazione - alla loro condizione naturale, uscendo dalla degenera-
zione artificiale nella quale sono caduti.

Il Contratto sociale
Il progetto politico di Rousseau, inteso a ripristinare tra gli uomini uno stato simile a quello di na-
tura, è costituito dal Contratto sociale. Quest’opera propone di ricostituire ex novo la società sulla
base di un patto che ristabilisca il più possibile condizioni naturali di libertà e di uguaglianza per tut-
ti gli uomini. Per passare dallo stato di natura (composto da individui) allo stato sociale (composto
da cittadini), è necessario un patto sociale. Althusius, teorico del contrattualismo, proponeva la di-
stinzione tra patto d’unione, per il quale si costituisce un’organismo sociale inteso come corpus
symbioticum, ed un patto di soggezione, per il quale si concede la sovranità (jus majestatis) ad una
autorità riconosciuta dall’intero organismo sociale. La concezione di Rousseau concorda con quella
di Hobbes riguardo al fatto che i contraenti siano gli stessi membri dell’organismo sociale che creano
le entità del Leviatano e della Volontà generale e che non esista, come nel modello liberale, un con-
tratto tra organismo sociale e sovrano: l’evento che fonda il patto è per entrambi l’alienazione tota-
le dei diritti di ciascuno, a vantaggio del sovrano o del popolo. Il patto proposto da Rousseau, tut-
tavia, non può essere, come quello proposto da Hobbes, un “patto di soggezione” (pactum sub-
iectionis), ma deve essere solo un “patto di unione”, cioè un patto con cui ciascun individuo cede
tutti i propri diritti a tutti gli altri, e nessuno viene a trovarsi in una condizione superiore agli altri,
perchè nessuno conserva il benchè minimo diritto. Solo la rinuncia a tutti i diritti da parte di tutti
può garantire, secondo Rousseau, che nessuno prevarichi sugli altri.
Da questa unione si forma quella che Rousseau chiama la Volontà generale, che è contrapposta al-
la volontà di tutti, cioè alla somma delle volontà particolari di una serie di individui, perchè, come un
“atto puro dell’intelligenza che ragiona nel silenzio delle passioni”, va oltre i bisogni egoistici e gli
interessi del singolo, per garantire il perseguimento del bene sociale e dell’interesse comune. Essa è
la fondazione della sovranità popolare, che risulta essere inalienabile e indivisibile.
Rousseau riprende la dottrina della sovranità tipica del pensiero moderno, cioè ammette che lo Sta-
to si identifichi con un soggetto che sta al di sopra di ogni altro soggetto. Si tratta di una dottrina di
tipo assolutistico, come quella di Bodin e Hobbes, ma per Rousseau il sovrano non è più il monarca,
cioè un singolo individuo, ma il corpo sociale, il popolo, che tuttavia si comporta come se fosse un
unico individuo, perchè possiede un’unica volontà indivisibile.
Con questa dottrina Rousseau è diventato il teorico della forma più radicale di democrazia, una de-
mocrazia che, a differenza di quella liberale, non distingue tra vari poteri distinti dello stato (legisla-
tivo, esecutivo e giudiziario) e non riconosce a nessun individuo diritti inalienabili e inviolabili da
parte dello Stato. Si tratta di una forma di democrazia diretta, da cui è esclusa qualsiasi forma di
rappresentanza, perchè tutti i cittadini concorrono direttamente alla formazione della volontà gene-
rale partecipando all’assemblea del popolo. Ogni forma di rappresentanza comporterebbe, infatti,
una delega, quindi una limitazione almeno temporale, al potere dei delegati, ed un esonero dei dele-
ganti dal dovere di partecipare pienamente all’esercizio del potere. Il popolo esercita dunque la sua
sovranità in maniera assoluta, non può conoscere, a differenza della democrazia liberale, deleghe e
rappresentanti, ma solo ufficiali per la gestione degli affari pubblici nominati dal popolo e destitui-
bili in qualunque momento. Va osservato che anche nell’assemblea del popolo è inevitabile il formar-
si di una maggioranza e di una minoranza: se accade, dice Rousseau, è necessario che la minoranza si
adegui alla volontà della maggioranza, in modo da non incrinare la Volontà generale. Rousseau è con-
trario all’introduzione del parlamento e considera invece come forma ideale di governo la repubblica,
cioè la forma di governo che esisteva nelle antiche città greche, o quella che al suo tempo esisteva a
Ginevra (anche se presto si avvide del carattere oligarchico e non democratico di essa). Egli tuttavia
ammette, in alcune circostanze, forme di governo diverse, ad esempio di tipo federale.
ROUSSEAU (Ginevra 1712 - Ermenonville 1778)

natura = istinto, passione, sentimento => uomo naturale vs uomo artificiale

“Discours sur les sciences”


allontanato lʼuomo dalla sua origine
estraniato dalla sua natura
le scienze hanno rinforzato i vizi
contribuito a stabilire lʼineguaglianza
creato un prestigio apparente e vano (-> Pascal: “povertà interiore)

“Discours sur lʼ inégalité”

cause accidentali ed estranee proprietà => ricco / povero


che hanno perfezionato la ragione magistratura => potente / debole
deteriorando la specie potere arbitrario => padrone / schiavo

la volontà può agire sulle cause progresso = ritorno alla natura (origini)
accidentali per modificarle
norma di giudizio
STATO DI NATURA => criterio direttivo
non “stato di fatto”

rifondazione

della società dellʼindividuo


(politica) (educazione)

CONTRATTO EMILIO
SOCIALE

sicurezza libertà agire razionalmente vs


sociale individuale => in conformità allʼordine arbitrio di
razionale indifferenza

stato naturale (individuo)

stato sociale (cittadino)

alienazione dei diritti di ciascuno

VOLONTAʼ partecipazione “atto puro dellʼ intelligenza che


GENERALE ragiona nel silenzio delle passioni”
vs
“volontà di tutti” comunità sociale => corpo organico
(somma di vari individui) (integrazione vs aggregazione)
prospettiva “olistica”

sovranità POPOLO

inalienabile nomina di “ufficiali” per la


indivisibile gestione degli affari pubblici
non rappresentabile destituibili
vs vs
“balance of powers” rappresentanza / delega
(liberalismo)
Rousseau: la teoria pedagogica

Il Contratto sociale e l’Emilio si integrano reciprocamente nell’idea che la rifondazione della società
consista in primo luogo nel rinnovamento dell’individuo. Solo dalla persona riscoperta nella sua na-
tura originaria potrà scaturire il “cittadino” che dovrà adoperarsi per migliorare la società in modo da
rendervi possibile una vita in condizione di uguaglianza e libertà simili a quelle dello stato di natura.

Educazione naturale. Per rendere lo “stato di società” quanto più simile allo stato di natura, oc-
corre partire dal fanciullo, la cui educazione deve seguire e coadiuvare lo sviluppo naturale. Educare
secondo natura significa:
1) realizzare il progetto educativo in un ambiente naturale, non urbano, per evitare ogni contamina-
zione con l’ambiente cittadino corrotto;
2) rispettare e conoscere la natura e le fasi dello sviluppo psicologico del fanciullo, commisurando
ad esse i contenuti e i metodi dell’insegnamento;
3) rispondere ai bisogni istintivi e profondi del fanciullo, valorizzando bisogni, interessi e inclinazio-
ni del bambino.

Puerocentrismo. Rousseau ha il merito di aver delineato per la prima volta con grande chiarezza,
nella sua teoria dell’educazione, il concetto - basilare per la riflessione pedagogica contemporanea -
del “puerocentrismo”: il bambino non è semplicemente un ‘uomo in piccolo’; fra il bambino e l’adul-
to non c’è tanto differenza di grado, per cui il bambino possa essere considerato un uomo ancora im-
perfetto, quanto differenza qualitativa. L’infanzia è dunque un’età autonoma con le sue specifiche
peculiarità. La natura e le caratteristiche dell’educando devono essere poste, a partire dall’età infan-
tile, al centro delle scelte formative.
Rousseau ha inoltre individuato la centralità del legame motivazione-apprendimento (l’interesse
discende da un precedente bisogno, le motivazioni si modificano via via nel bambino, a partire del
piacere/dispiacere, passando per il concetto di utile e pervenendo all’idea del bene) e di aver messo
in luce, in maniera problematica ma assai evidente, la presenza del conflitto tra autorità e libertà nel
processo educativo, tra autonomia dell’educando (si pensi all’educazione dei sensi, al “contatto”
con le “cose”, ecc.) ed eteronomia, dipendenza dell’educando (si pensi alla direttività mascherata
delle condotte del precettore, all’organizzazione rigorosa e totale delle attività infantili),.
Tale conflitto rimanda ad altri due nuclei concettuali importanti nella teoria dell’educazione rous-
seauiana: il principio dell’educazione “negativa” e il metodo dell’educazione “indiretta”.
L’educazione negativa si basa sul principio che si debba “garantire il cuore dal vizio e la mente
dall’errore”, che il compito fondamentale dell’educatore sia quello di togliere le cattive influenze an-
zichè quello di fornire precetti. Infatti ad Emilio non deve essere insegnata la virtù, e neanche il sa-
pere, proponendogli certe condotte o certe conoscenze,ma piuttosto evitando che egli cada nel vizio
e nell’errore, preservandolo dalla corruzione e dai pregiudizi e dunque, almeno in apparenza, “non”
educandolo.
Il metodo per realizzare tale principio è quello dell’educazione indiretta: il precettore predispone
indirettamente delle situazioni concrete, in modo da far credere all’allievo di trovarsi per caso e per
necessità naturali a vivere determinate esperienze ed evitando di dargli l’impressione di ricevere or-
dini espliciti su che cosa fare; contemporaneamente mette l’allievo nella condizione di compiere ciò
che lui esattamente intende fargli sperimentare.
Nasce così il problema dell’antinomicità dell’atto educativo: il binomio ‘educazione negativa-edu-
cazione indiretta’ entra in conflitto con il presupposto che la libertà dell’educando non debba essere
in alcun modo ostacolata.
Contraddittorietà del concetto rousseauiano di “educazione negativa”

Rousseau afferma che il fanciullo deve passare naturalmente attraverso i successivi stadi del suo
sviluppo e che, se ogni individuo differisce più o meno dagli altri, è necessario, come suggeriva
Montaigne, lasciarlo trotterellare liberamente davanti a noi per evitare di imporgli un passo troppo
lento o troppo spedito. Quindi niente programmi rigidi, orari precostituiti, mete fisse da raggiungere
entro limiti di tempo determinati.
Però, di fatto, lungi dal limitarsi ad osservare Emilio che cresce a contatto con le cose, lungi dal
contenere il suo intervento entro i limiti di una oculata vigilanza, il precettore, incessantemente, tra-
sforma l’ambiente, organizza situazioni, crea occasioni, di modo che, al momento da lui ritenuto op-
portuno, il fanciullo sia costretto a incontrare certe “cose”, a fare certe esperienze, a porsi certi pro-
blemi: “Emilio deve credere di essere sempre lui il padrone, ma in realtà il padrone dovete essere
voi. Non vi è sottomissione più completa di quella che conserva l’apparenza di libertà; così la vo-
lontà stessa risulta imprigionata”. A questo punto l’educazione negativa si trasforma in interven-
to dissimulato, e la libertà dell’educando si risolve nell’assenza della consapevolezza di essere
sotto il giogo dell’educatore.
Sembra di poter affermare che all’interno della concezione educativa rousseauiana convivano - in
forma conflittuale - due diversi concetti di “libertà”:
a) la libertà può essere concepita come un dato, come una prerogativa strettamente individuale che
il singolo porta con sè dalla nascita. Ne deriva che l’esercizio della libertà implica assenza di ogni co-
strizione e che ogni forma di costrizione si risolve in una negazione o, almeno,in una diminuzione
della libertà o della stessa personalità individuale.
b) Qualora, invece, si intenda la libertà come facoltà di realizzare pienamente le possibilità imma-
nenti, ma solo allo stato, per dir così, potenziale della natura del singolo, ne derivano due importanti
conseguenze. In primo luogo, le possibilità evolutive del fanciullo appaiono serrate tutte attorno e
impedite da una serie di fattori in parte esterni, ma in larga misura interni alla stessa personalità
(istinti, passioni, pregiudizi, abitudini, ecc.); in secondo luogo, e conseguentemente, tutto ciò che
aiuta l’individuo a superare tali impedimenti ed a realizzare in maniera più piena le sue possibilità è
fattore di libertà. Sotto questo punto di vista, la sottomissione dell’educando all’autorità ed alla
stessa azione costrittiva dell’educatore si risolve non in una diminuzione, ma in un accrescimento di
libertà.
Quanto a Rousseau, egli sembra oscillare fra l’identificazione della libertà col non-impedimento al-
l’attività spontanea (la dove è sottolineata la naturale bontà dell’uomo) e la trasformazione della li-
bertà individuale in libertà politica, adeguamento della volontà individuale a quella collettiva.
Nel primo caso la libertà è essenzialmente libertà dalla comunità; nel secondo, libertà nella comuni-
tà. Si tratta quindi, secondo Rousseau, di restaurare la natura nella società; ciò significa, dal punto di
vista della realtà oggettiva, riportare la cultura al suo carattere di essenzialità e praticità; dal punto di
vista del soggetto, riconquistare la primitiva spontaneità al superiore livello della vita sociale.
Senonchè la coincidenza della volontà del singolo con la legge è vista da Rousseau non come frutto
di atto consapevole, ma come abitudine: Rousseau, sostanzialmente pessimista riguardo alle capaci-
tà dell’uomo di agire volontariamente, cioè consapevolmente, vuol rendere i comportamenti di tipo
sociale formalmente identici a quelli istintivi.
Se, dunque, Rousseau ammette in linea di principio la naturale bontà dell’uomo, afferma, in linea
di fatto, la sua attuale corruzione; conseguentemente instaura una pedagogia dell’autorità, anche se,
con la tecnica dell’intervento dissimulato, mira ad ottenere l’adesione dell’educando in forma irri-
flessa e inconsapevole.
((Renato Tisato, in L. Geymona/R. Tisato, Filosofia e Pedagogia nella storia della civiltà, vol. II,
p. 352-55, Garzanti, Milano, 1967)
ROUSSEAU: LA TEORIA PEDAGOGICA

rifondazione dellʼindividuo
ritorno alla natura

EDUCAZIONE NATURALE

1 2 3
ambiente naturale conoscenza da parte bisogni istintivi e profondi del fanciullo
non urbano dellʼeducatore della fasi di sviluppo / ritmi di crescita
(campagna) natura e della psicologia valorizzazione dei bisogni, interessi,
del fanciullo inclinazioni del bambino
vs
contaminazione
dellʼambiente riconoscimento delle peculiarità “non accelerare i tempi”
cittadino corrotto dellʼetà infantile
vs
(bambino come uomo ʻin piccoloʼ)

a) scoperta dellʼ infanzia come età autonoma => PUEROCENTRISMO

b) centralità del legame motivazione-apprendimento => piacere -> utile -> bene

c) scoperta del conflitto tra autorità e libertà nel processo educativo

eteronomia autonomia

organizzazione rigorosa educazione dei sensi


delle attività infantili “contatto” con le “cose”

EDUCAZIONE INDIRETTA EDUCAZIONE NEGATIVA


metodo principio

situazioni concrete predisposte dal precettore “garantire il cuore dal vizio e la mente dallʼerrore”
il maestro “fa tutto senza fare nulla” togliere le cattive influenze anzichè fornire precetti
“imparare facendo”

antinomicità dellʼ atto educativo

a) dato della bontà assenza di non puerocentrismo


nascita naturale costrizione direttività valorizzazione
degli istinti

educazione intervento
LIBERTAʼ negativa e dissimulato
indiretta

vs
b) sviluppo delle corruzione rimozione degli direttività autoritarismo
potenzialità malvagità impedimenti comportamenti
sociale interni ed esterni sociali razionali
attuatiʼ istintivamenteʼ

pessimismo riguardo
alla capacità dellʼuomo
di agire volontariamente
in maniera razionale
Emilio o dell’educazione

Nella Prefazione dell’Emilio Rousseau afferma che l’arte di formare gli uomini dipende dalla capa-
cità di riconoscere le peculiarità di ogni età della vita, per conformarsi alla “marche naturelle” dello
sviluppo. Rousseau divide lo sviluppo umano in fasi di cui descrive le modalità caratteristiche nella
dimensione cognitiva e nella dimensione affettiva. L’educazione di Emilio viene così ripartita in di-
versi momenti, ciascuno con caratteri e compiti particolari. Soprattutto non bisogna cercare di acce-
lerare lo sviluppo: il fanciullo, che ha già in sé la sua perfezione, deve vivere la sua età da fanciullo.

Il Libro I si apre con la nota enunciazione: “Tutto è buono quando esce dalle mani dell’Autore del-
le cose; tutto degenera nelle mani dell’uomo”. L’uomo è originariamente buono, ma attraverso i rap-
porti sociali va inevitabilmente incontro a una degenerazione. Tutto quello che impariamo, infatti, ci
viene fornito dall’educazione impartita da tre “maestri”: la natura, gli uomini, le cose.
La natura provvede allo sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi, gli uomini all’uso
che ne facciamo; le cose all’acquisizione dell’esperienza e degli oggetti. Solo se i contributi di questi
tre “educatori” saranno armonici, il giovane potrà realizzare la sua natura.
L’unica educazione efficace, per Rousseau, è quella naturale, che forma semplicemente l’uomo alla
condizione umana autentica. L’educazione naturale comincia dalla nascita, poichè già le prime sensa-
zioni puramente affettive, come il piacere e il dolore, possono generare l’insorgenza di nocive abitu-
dini. Rousseau depreca una serie di errori pratici dell’educazione tradizionale, come l’uso delle fasce
che limitano la libertà di movimento, le cure e le precauzioni eccessive, le lusinghe e le minacce, il ri-
corso alle balie, che badano più che altro alla propria personale comodità. Il primo allevamento e
nutrimento del bambino saranno responsabilità esclusive della madre; tuttavia, il neonato verrà pre-
sto sottratto alle cure materne, per essere affidato a quelle di uu precettore.
Rousseau delinea il ritratto dell’allievo e la situazione educativa ideali. Emilio è ricco e nobile (“un
povero può diventare uomo da se stesso”); è orfano (o va considerato tale), è europeo, di indole nor-
male e intelligenza media, sano e robusto. “Le città sono l’abisso della specie umana”, l’educazione
naturale va ovviamente condotta in campagna, in mezzo alla natura, dove l’ambiente rinvigorisce e
rinfranca il corpo e l’animo.
Riguardo alle modalità di apprendimento, Rousseau afferma che “all’inizio della vita, quando la
memoria e l’immaginazione sono ancora inattive, il bambino presta attenzione solo a ciò che colpi-
sce i suoi sensi”: l’esperienza è la prima matrice e la prima condizione dello sviluppo infantile.
L’educatore dovrà provvedere affinchè Emilio non contragga abitudini che lo rendono schiavo e lo
devino dai suoi naturali bisogni. Occorre inoltre che l’educazione del carattere inizi con l’opporre la
calma dell’adulto alla naturale prepotenza del bambino: egli deve essere abituato a non imporre nul-
la, né agli uomini né alle cose.
Riguardo all’apprendimento del linguaggio, Rousseau afferma che i bambini “parlano prima di sa-
per parlare”, facendo molte osservazioni sui vocalizzi infantili, sui gesti e sulle mimiche. Gli adulti
devono iniziare col fornire gradualmente pochi termini, ben pronunciati, ben distinti, collegabili ad
oggetti sensibili sperimentati dal bambino. É importante, ad ogni modo, evitare che il bambino uti-
lizzi parole di cui non conosce il significato, che possieda più parole che idee e che sappia dire più
cose di quante ne possa pensare.

Libro II (3/12 anni). Nella seconda età educativa, Emilio imparerà anzitutto a muoversi e a parlare, a
conquistare coscienza di sé e autonomia, a ricordare. Poichè la sua esperienza sarà incentrata sulle
emozioni del piacere e del dolore, sarà a partire da esse che si dovrà organizzare l’educazione. Emilio
verrà lasciato libero di muoversi e di agire, il libero esercizio del corpo nel gioco lo renderanno sano e
vigoroso, le piccole cadute lo aiuteranno a conoscere e dominare il dolore. La sua educazione passerà
soprattutto attraverso i sensi e il corpo, spinta dall’interesse; tutto ciò che apprenderà dovrà essere
collegato a uno scopo concreto, per questo verranno banditi le favole e i libri, inutili o tediosi per
questa età. É sbagliato pensare che con i fanciulli si possa stare a discutere in modo astratto: “Ragio-
nare con i fanciulli - dice Rousseau - era la grande massima di Locke”, ma, di tutte le facoltà dell’uo-
mo, la ragione è quella che si sviluppa più tardi: “se i fanciulli fossero ragionevoli, non avrebbero bi-
sogno di essere educati; parlando loro fin dai primi anni una lingua che non capiscono li si avvezza
ad appagarsi di parole, (...) a diventare testardi e polemici”. Nessuna lezione verbale verrà quindi im-
partita. Emilio apprenderà la lettura solo quando misteriosi biglietti scritti dal precettore gli verran-
no recapitati e lo renderanno desideroso di conoscerne il contenuto.
Nel libro II Rousseau enuncia le coordinate fondamentali della sua concezione di educazione natu-
rale, di educazione negativa ed indiretta. Per rispettare “il fanciullo nel fanciullo” non occorre incul-
cargli la nostra verità e virtù, ma “proteggere il suo cuore dal vizio e la sua intelligenza dall’errore”.
Bisogna rispettare la legge di natura e permettere che Emilio assuma conoscenze, abitudini e norme
dalla legge stessa delle cose: la natura non insegna mai il male. Se fosse possibile, occorrerebbe non
far nulla e non lasciar fare nulla. Il metodo del precettore sarà dunque inattivo, e la sua educazione
negativa consisterà infatti nel togliere le cattive influenze, non nel fornire precetti.
Ma se il precettore non fornirà nulla, in che modo sarà guidata l’educazione di Emilio? Il giovane
allievo apprenderà dalle esperienze, ma le sue esperienze avverranno in situazioni concrete accurata-
mente predisposte dal precettore. La relazione fra maestro e allievo verrà mediata dall’ambiente
(predisposto) e l’attività educativa del precettore sarà indiretta. Il metodo sarà quello lockiano del-
l’”imparare facendo” (premessa di tutto l’attivismo pedagogico del ‘900). Il maestro “farà tutto sen-
za far nulla”, dando ad Emilio l’impressione che le sue esperienze siano casuali, anche se “i suoi la-
vori, i suoi giochi, i suoi piaceri e i suoi dolori sono nelle nostre mani senza che egli se ne avveda”.
Per esempio, è opportuno che Emilio si formi l’idea della proprietà come diritto fondato sul lavoro.
Il precettore ricorre ad un artificio, spingendo il fanciullo a seminare abusivamente nel terreno del
giardiniere e incaricando quest’ultimo di sradicare il prodotto del lavoro di Emilio. Così il bambino
sperimenta da un lato il dolore per la perdita del frutto delle sue fatiche, comprende dall’altro che il
rispetto della proprietà nostra da parte degli altri ha come contropartita il rispetto nostro della pro-
prietà altrui.
Nasce però il problema della libertà: Emilio deve essere educato alla libertà, ma l’accurata “regia”
del precettore lo lascia davvero libero, o gliene dà solo l’illusione? Se la libertà viene intesa come as-
senza di condizionamenti, risponde Rousseau, allora nessuno è libero, perchè ognuno è condizionato
innanzitutto dalla propria natura. Il precettore, che conosce la natura del proprio allievo, lo guida ad
un libero sviluppo di essa, sottraendolo agli impedimenti e alle deviazioni imposte dalla società.
Dunque il precettore interviene anche positivamente, ma solo per sgomberare il cammino dell’allie-
vo, nel predisporre i suoi passi.

Libro III (12/15 anni) Se prima era opportuno in un certo senso “perdere tempo”, in questa fascia
d’età, definita “dell’intelligenza”, il tempo è così breve che l’azione pedagogica deve scegliere che
cosa fornire all’allievo senza pretendere di renderlo sapiente. All’attività del corpo, che si sta svi-
luppando, si aggiunge quella dello spirito, che cerca di istruirsi. Emilio è curioso di tutto e l’inse-
gnante deve indirizzare bene la curiosità. Il passaggio dalle conoscenze sensibili a quelle intellettuali
avverrà sempre attraverso l’esperienza diretta, incentrata sull’esplorazione dell’ambiente.
L’errore non verrà corretto dall’adulto ma scoperto dallo stesso Emilio: è fondamentale che egli
sappia solo ciò che ha compreso da sé. Nella terza età educativa l’istruzione continuerà per forma
indiretta, sarà incentrata sull’utilità, sull’interesse e sullo sforzo. Emilio imparerà non i contenuti
delle scienze, ma il gusto di amarle e i metodi per apprenderle: Rousseau, diremmo oggi, punta dun-
que a fornire competenze anzichè conoscenze, attraverso un metodo incentrato sul “problem sol-
ving”. In questo periodo la lettura non viene ancora particolarmente incoraggiata perchè i libri inse-
gnano a parlare di ciò che non si sa. Un solo testo viene consigliato: è il Robinson Crusoe, che narra
la storia di un uomo che si è districato da solo in situazioni difficili. Come la storia di Robinson inse-
gna, l’occupazione che può servire alla sussistenza e lo avvicina maggiormente allo stato di natura, è
il lavoro manuale.
Emilio verrà indirizzato a fare il falegname, poiché questo è un lavoro pulito e utile, mantiene il
corpo sufficientemente in esercizio ed esige accortezza e abilità, eleganza e buon gusto. Rousseau
supera il tradizionale aristocratico rifiuto della manualità ed esalta il significato pedagogico di una
formazione al lavoro anche per coloro che saranno chiamati alla guida della società.

Libro IV (15 - 20 anni) In questa fase, considerata da Rousseau una “seconda nascita”, inizia l’edu-
cazione sentimentale, sociale, morale, religiosa ed estetica di Emilio. Emilio impara a ragionare in
modo astratto, dunque il suo percorso educativo dovrà avvenire secondo modalità differenti, ma do-
vrà pur sempre fondarsi sulla natura. Quanto all’educazione affettiva, Rousseau ritiene che la sola
‘passione’ naturale e originaria sia l’amore di sé, che tende a svolgersi naturalmente nella benevolen-
za e nella pietà. Tuttavia l’amore di sé può degenerare in “amor proprio” , l’egoismo che nasce dalla
contrapposizione agli altri e che è la fonte di tutte le passioni antisociali.
Il precettore sarà molto attento a non favorire in Emilio l’insorgere precoce e incontrollato delle pas-
sioni: Rousseau ritiene sia meglio differire il più possibile l’educazione sessuale, poiché il controllo
delle passioni a essa connesse richiede una maturità difficilmente presente nell’adolescenza. Pertan-
to si dovrebbe aver cura di non suscitare nessuna curiosità in merito. Se questa curiosità si risveglia,
non bisogna ricorrere alla menzogna, ma parlare con normalità e semplicità di ciò che il giovane desi-
dera sapere. Emilio avvertirà certamente i turbamenti dell’adolescenza nei confronti dell’altro sesso.
Compito dell’educatore sarà di prepararlo ad affrontare la vita amorosa, e inizierà a descrivere al suo
allievo le caratteristiche che dovrà avere la sua compagna ideale, non priva di difetti, ma a lui com-
plementare: si chiamerà Sofia.

Libro V Emilio viene avviato all’incontro con Sofia e al matrimonio. Ma Sofia dovrà essere sta edu-
cata in modo opportuno, per giungere a questo passo. Ciò dà a Rousseau il pretesto per esporre la
sua concezione sulla donna e sull’educazione femminile. Le idee di Rousseau su questo argomento
sono improntate a un forte maschilismo. Passiva e debole per natura, la donna secondo il filosofo gi-
nevrino è fatta per essere soggiogata dall’uomo e usa le armi della seduzione per legarlo a sé. La sua
destinazione naturale è rappresentata dal matrimonio e dalla procreazione: pertanto l’educazione
femminile sarà indirizzata a questi scopi. Sofia verrà anzitutto preparata alle conoscenze pratiche
utili al governo della casa. Sarà inoltre avviata a una certa cultura, al buon gusto e a tutte quelle arti
che possono farla ben figurare in società, per destare l’interesse degli uomini.. Questo non esclude
una formazione morale e religiosa; le scienze, la matematica e la filosofia, invece, sarebbero troppo
al di sopra delle sue capacità.
Emilio incontrerà Sofia nel corso un lungo viaggio a piedi; egli giunge, insieme al precettore, presso
una casa, piccola ma pulita e comoda, ove ricevono ospitalità: è la casa di Sofia, per la quale Emilio
prova subito simpatia. Emilio decide di prendere dimora vicino a Sofia, per rivederla; le visite e le
conversazioni si fanno più assidue. Ma il precettore sottoporrà Emilio (il quale ha compiuto venti-
due anni: l’età “dell’amore, non quella del matrimonio”) ad un’ulteriore prova: egli compirà un lungo
viaggo all’estero per studiare le istituzioni di altri popoli: la lunga separazione consentirà a Emilio e
Sofia di imparare il valore della fedeltà. Al termine del viaggio Emilio sposerà Sofia. Vivrà nella pro-
pria patria e sarà a sua volta maestro, con Sofia, del bambino la cui nascita l’autore annuncia nell’ul-
tima pagina dell’opera.
ROUSSEAU: L’EMILIO (1762)

Prefazione conformarsi alla “marche naturelle” dello sviluppo


il fanciullo ha già in sé la sua perfezione: non accelerare lo sviluppo
condividere il mondo dell’allievo

Libro I “Tutto è buono quando esce dalle mani dell’ Autore delle cose; tutto degenera nelle mani dell’ uomo”
I tre maestri: la natura gli uomini le cose
gli errori pratici dell’educazione tradizionale: l’uso delle fasce, le cure eccessive,
lusinghe e minacce, il ricorso alle balie.
nutrimento materno; educazione: cure di un precettore
Emilio: ricco, nobile, orfano, europeo, di indole normale,
di intelligenza media, sano e robusto
luogo di educazione: => campagna
modalità di apprendimento: 0 / 3 anni esperienza ed esercizio dei sensi
contro le abitudini che lo rendono passivo
contro l’attitudine al comando ed alla prepotenza
apprendimento la comunicazione non verbale
del linguaggio: utilizzo iniziale di pochi termini, ben distinti, collegati ad oggetti sensibili
evitare che il bambino utilizzi parole di cui non conosce il significato

Libro II (3 - 12 anni) libertà di movimento: esperienza del piacere e del dolore


educazione dei sensi e del corpo: l’interesse, la “dipendenza dalle cose”
lettura: evitamento di libri e favole
metodo inattivo ed educazione negativa; educazione indiretta e “imparare facendo”

Libro III (12 - 15 anni) età dell’intelligenza: indirizzare la curiosità => esplorazione dell’ambiente
errore: non corretto dall’adulto ma scoperto dallo stesso Emilio.
Utilità, interesse, sforzo; apprendere competenze anzichè conoscenze: “problem solving”
sola lettura consigliata: Robinson Crusoe (districarsi in situazioni difficili)
apprendimento di un lavoro manuale: falegnameria

Libro IV (15 - 20 anni) sviluppo del ragionamento astratto


l’educazione delle passioni: amore di sé (passione naturale) e “amor proprio” (egoismo)
l’educazione sessuale ed affettiva: differirla e non suscitare curiosità;
se l’argomento viene affrontato, parlare con semplicità, senza misteri o imbarazzo
le passioni sociali: la pietà e la solidarietà verso coloro che soffrono.

Libro V Sofia e l’educazione femminile: il maschilismo di Rousseau: la donna “debole e passiva”


educazione alla sottomissione, alla laboriosità; conoscenze pratiche, formazione religiosa
Il viaggio come esperienza educativa. Il matrimonio di Emilio e Sofia.
Problemi e teorie dell’educazione nella prima metà del XIX secolo

La prima metà del XIX secolo si configura come un periodo in cui maturano linee di tendenza e tra-
sformazioni già iniziate nel Settecento, in particolare quelle connesse all’ambito economico-produt-
tivo e finanziario-commerciale, quelle relative all’espansione coloniale, ma soprattutto quelle riguar-
danti l’ambito politico: saranno infatti i moti rivoluzionari e di protesta mirati all’ottenimento di
Stati nazionali riunificati sotto un unico governo a caratterizzare la prima metà dell’800.
La rivoluzione industriale continuò ad espandersi sempre di più, il numero delle fabbriche aumen-
tò, si incrementò notevolmente anche il tasso di popolazione in esse impiegata e si accentuò il feno-
meno dell’inurbamento dovuto alla migrazione di grandi masse rurali verso la città.
La condizione degli operai nelle città era estremamente degradata, caratterizzata da una grandissima
miseria, da una accentuata scarsità alimentare, da pessime condizioni igieniche, da un tasso molto
elevato di analfabetismo. Lo stato di generale abbrutimento conseguente a tutto ciò, veniva aggravato
da orari lavorativi che raggiungevano le sedici ore giornaliere e dall’abuso di alcool (che infatti diven-
ne uno dei grandi problemi sociali del secolo). Anche i figli degli operai si trovavano nelle stesse con-
dizioni di degrado e di estremo affaticamento fisico, sfruttati in modo indegno insieme alle donne,
con le quali condividevano anche un salario più basso. I piccoli poi erano abbandonati a se stessi e
si radunavano in bande nelle strade, compiendo furti e chiedendo l’elemosina.
Questa situazione spinse filantropi e progressisti a occuparsi di loro, con modalità prevalenti di
tipo assistenziale e caritativo, istituendo ricoveri per bambini orfani, delinquenti o molto poveri.
Alla fine del ‘700 e all’inizio dell’ ‘800 fu escogitato, per far fronte alla domanda d’istruzione, al
metodo del ‘mutuo insegnamento’. Il pastore anglicano Andrew Bell (1753 - 1832) e il quacche-
ro Joseph Lancaster (1778 - 1818) dividevano le numerosissime scolaresche in gruppi, istruiti dai
“monitori”, allievi più autorevoli e bravi: essi dovevano assicurare che gli allievi fossero sempre im-
pegnati nelle attività prescritte secondo tabelle didattiche, articolate minuziosamente, cui i monitori
dovevano per primi attenersi.
In Scozia, un industriale considerato un precursore del socialismo moderno, Robert Owen, costi-
tuì a New Lanark, nel 1816, una fabbrica modello, collegata al villaggio, alla comunità in cui abitava-
no gli operai, in buone condizioni igienico sanitarie e con alimenti sufficienti, dotata di un insieme di
iniziative scolastiche e prescolastiche per i figli dei lavoratori. Owen, convinto che l’ambiente in cui
il soggetto vive condizioni la formazione della personalità, lottava secondo un’ottica riformistica ed
utopistica per il rinnovamento della società. Invece di costringere uomini, donne e bambini ad orari di
lavoro disumani, si doveva riconoscere loro un compenso adeguato, in quanto produttori di forza-
lavoro e di ricchezza. A New Lanark esistevano una sala d’asilo per i bambini piccoli dai due ai cin-
que anni, detta Infant School (Owen fu precursore insieme a Fröbel in Germania e a Oberlin in Fran-
cia dell’educazione infantile), poi una scuola elementare per i ragazzi fino a dodici anni, e scuole se-
rali per gli adulti. Il metodo seguito teneva conto delle idee di Rousseau e di Pestalozzi, voleva che i
ragazzi apprendessero sempre partendo dall’esperienza, e poi che su interessi da essa suscitati si at-
tivassero discussioni tali da spingere a riflessioni ed approfondimenti progressivi; non si serviva di
castighi e punizioni corporali, inseriva possibilità di gioco e di svago come momenti della vita sco-
lastica, mirava a che fra gli insegnanti e i ragazzi ci fossero rapporti basati sulla cordialità e sull’af-
fetto.
Anche in Francia si svilupparono riflessioni sulle condizioni di vita dei lavoratori e sul tipo di so-
cietà ingiusta che stava emergendo dalla rivoluzione industriale, ad opera di pensatori quali Charles
Fourier e Claude-Henry de Saint-Simon. Fourier (1772 - 1837) riteneva, seguendo Rousseau, che il
bambino nascesse moralmente buono e ricco di possibilità e di disponibilità all’apprendimento, e
che venisse poi represso nei suoi istinti e nelle sue passioni da una società ingiusta e depravata. Egli
propose allora la creazione di comunità agricole chiamate ‘falansteri’, in cui sarebbero stati banditi
lo sfruttamento, il salario, l’economia concorrenziale e la famiglia monogamica. Il lavoro sarebbe sta-
to vissuto non più come alienazione ma come gioco, svolto da ciascuno secondo le sue possibilità e
le sue preferenze. Fondamentale era che tutti potessero esternare e vivere appieno le proprie attra-
zioni e le proprie passioni, i propri istinti naturali nei vari campi dell’esperienza, sia sul piano lavo-
rativo, sia in quello affettivo, cognitivo ed operativo. Ciò deve soprattutto essere consentito ai bam-
bini, che sono educati dalla collettività in modo libero, così che il loro sviluppo segua il percorso del-
la natura, lasciando agli stimoli dell’imitazione e dell’emulazione il compito di far scattare le molle
dell’apprendimento.
Nei paesi tedeschi, in cui il clima politico era pesantemente conservatore e repressivo, numerosi
pensatori progressisti e attivisti politici e riformatori furono costretti all’esilio, da dove però conti-
nuarono la loro riflessione e la loro attività costituendo, tra le altre iniziative, la Lega dei Giusti, a
cui si avvicinarono Karl Marx (1818 - 1883) e Friedrich Engels (1820 - 1895).
Dal punto di vista dell’educazione, la prospettiva di Marx ed Engels sottolineava il fine generale
della formazione dell’uomo nuovo, capace di creare e di saper vivere in una società senza classi, la
necessità di un’istruzione politecnica volta alla padronanza dei vari campi del sapere e della pro-
duzione, la prospettiva di una educazione onnilaterale diretta a consentire l’espressione di tutte le
potenzialità dell’individuo, l’esigenza di un addestramento al lavoro considerato non più come ac-
cessorio nella formazione della personalità, ma come assolutamente determinante e intrinsecamente
formativo, l’importanza di una educazione insieme militante e critica sul piano ideologico, tale da
consentire di riconoscere la “falsa coscienza” dei propri interlocutori sia sul piano interpersonale
che su quello politico e sociale.

La pedagogia romantica
Quanto agli altri movimenti culturali a alle altre correnti filosofiche, si affermano anzitutto il Ro-
manticismo e l’Idealismo, tra loro strettamente connessi. Tra i romantici, J.C. Friedrich Schiller
(1759 - 1805) si proponeva di tornare alla cultura del mondo antico e dell’umanesimo classico in
vista della formazione di una personalità perfetta, armoniosa, guidata da valori e ideali elevati.
Schiller propone inoltre la propria concezione dell’educazione estetica che si rifà alla teoria estetica
di Kant, dell’educazione dell’uomo attraverso l’arte come unica possibilità per esso di trovare una
conciliazione e di rendere praticabile un incontro tra ragione, sentimento e sensibilità, tra norma e
spontaneità. La natura umana possiede due istinti, il primo legato ai sensi, il secondo alla ragione;
l’arte permette lo sviluppo di un terzo istinto, l’istinto estetico, che li concilia entrambi: la forma
suprema di tale conciliazione è costituita dal gioco, che rappresenta così l’attività educativa per ec-
cellenza (Lettere sull’educazione estetica dell’umanità, 1795).
Johann Paul F. Richter (detto Jean Paul, 1763 - 1825) sostenne similmente che l’uomo poteva
sviluppare la propria propensione verso la libertà attraverso un’educazione infantile attenta alla di-
mensione del gioco, della musica, dell’affettività (Levana, 1807).
Georg W. F. Hegel (1770 - 1831) attribuisce (in particolare nella Fenomenologia dello Spìrito,
1807) proprio all’idealismo il compito di indicare la necessità di una conciliazione tra soggetto ed
oggetto; essa può realizzarsi attraverso una fase pedagogica di alienazione dell’individuo da se stes-
so, allo scopo di sottomettersi alle cose e alle tradizioni in modo da assimilarle e da poterle com-
prendere. Questo avviene ad esempio con il lavoro, con l’accettazione delle norme di condotta, con
l’autocontrollo e la disciplina, e con il pensare in modo sistematico. Su queste basi l’uomo può
acquistare signoria e padronanza sul mondo, sulle cose stesse, sulla natura, e consentire la trasfor-
mezione congiunta di sé e di quest’ultima, pervenedo alla formazione di una più complessa, artico-
lata ed elaborata personalità. Può così avvenire lo sviluppo dello spirito, che Hegel chiama Bildung,
cioè ‘formazione’ piena e completa della personalità attraverso l’acquisizione di un tipo di cultura
che comporti trasformazione, modificazione, cambiamento e divenire continui.
LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LʼEDUCAZIONE

aumento delle fabbriche -> inurbamento ( migrazione di grandi masse rurali verso la città )

condizione degradata scarsità alimentare


degli operai nelle città miseria pessime condizioni igieniche
tasso molto elevato di analfabetismo abuso di alcool
stato di abbrutimento -> orari lavorativi fino a 16 ore giornaliere

figli degli operai e donne condizioni di degrado e di affaticamento fisico


sfruttamento salario più basso
bande di strada furti ed elemosine

domanda dʼistruzione > mutuo insegnamento

Andrew Bell (1753 - 1832) scolaresche (più di 100 alunni) divise in gruppi
Joseph Lancaster (1778 - 1818) istruiti dai “monitori”

socialismo utopistico

Robert Owen (1771 - 1858) industriale filantropo lʼambiente in cui il soggetto vive condiziona
New Lanark, Scozia (1816) fabbrica modello la formazione della personalità

iniziative scolastiche e prescolastiche


per i figli dei lavoratori metodo: Rousseau Pestalozzi

sala dʼasilo (Infant School) (2 - 5 anni) esperienza interessi vs castighi / punizioni corporali
scuola elementare (6 - 12 anni) gioco e svago come momenti della vita scolastica
scuole serali per gli adulti rapporti basati sulla cordialità e sullʼaffetto.

Charles Fourier (1772 - 1837) il bambino nasce buono e ricco di disponibilità allʼapprendimento
viene represso negli istinti e nelle passioni dalla società ingiusta e depravata

dominio del commercio famiglia monogamica errata gestione del potere vita culturale mercificata
(economia) (morale) (politica) (metafisica)

Nuovo Mondo Amoroso (Armonia) “educazione integrale composita”

lavoro non alienante = gioco libero salario sfruttamento


ʻfalansteriʼ varie attività vs economia concorrenziale
comunità agricole possibilità e preferenze personali subordinazione della donna

bambini educati dalla collettività in modo libero (lʼistituzione scolastica è abolita)


lo sviluppo deve seguire le diverse disposizioni istintuali (le piccole orde / le piccole bande)
apprendimento => osservazione, imitazione ed emulazione “corporazioni dʼistintoʼ

socialismo scientifico

Karl Marx (1818 - 1883) Friedrich Engels (1820 - 1895).

formazione dellʼuomo nuovo -> società senza classi

uomo = attività reale, produzione

valore formativo dellʼaddestramento al lavoro

onnilaterale -> espressione di tutte le potenzialità dellʼindividuo


educazione
critica -> riconoscere le forme di “falsa coscienza”

istruzione politecnica -> padronanza dei vari campi del sapere e della produzione
LA PEDAGOGIA ROMANTICA E IDEALISTICA

J. Wolfgang Goethe (1749 - 1832) spirituale


(Wilhem Meister 1796 / 1829) romanzo di formazione (‘bildung’)
naturale
, J.C. Friedrich Schiller (1759 - 1805)
(Lettere sull’educazione estetica dell’umanità, 1793 - 1795).
cultura del mondo antico umanesimo classico
formazione di una personalità perfetta e armoniosa (“anima bella”) => educazione estetica (Kant)

istinto sensibile sentimento e spontaneità => (vitalità)

natura umana istinto estetico => gioco => (bellezza)

istinto della forma ragione e norma => (forma)


attività educativa
per eccellenza
Johann Paul F. Richter detto ‘Jean-Paul’ (1763 - 1825)
(Levana, o teoria dell’educazione 1807) Dea che i padri romani invocavano all’atto di sollevare
da terra, in segno di riconoscimento, i loro figli neonati

uomo educazione infantile


propensione verso la libertà
(Rousseau) dimensione del gioco:
fondamentale attività ‘seria’ del bambino
materiali semplici attività libera
attività artistiche musica

Georg W. F. Hegel (1770 - 1831) idealismo compito di indicare la necessità di una


(Fenomenologia dello Spìrito, 1807) conciliazione tra soggetto ed oggetto

sviluppo dello spirito Bildung ‘formazione’ piena e completa della personalità


attraverso l’acquisizione di un tipo di cultura che comporti
trasformazione, modificazione, cambiamento e divenire continui.

fase pedagogica di alienazione sottomettersi alle cose e alle tradizioni


dell’individuo da se stesso assimilarle e comprenderle
adolescente: ‘esigenza di separazione’ ‘andare ad abitare presso gli antichi’
(studi umanistici)

lavoro
accettazione delle norme di condotta
autocontrollo disciplina rigorosa
pensare in modo sistematico

padronanza sul mondo, sulle cose, sulla natura


trasformezione di sé e del mondo
formazione di una articolata ed elaborata personalità
Johann Heinrich Pestalozzi

Johann Heinrich Pestalozzi (1746 - 1827) nacque a Zurigo da un pastore protestante, fu un grande
apostolo della pedagogia, animato dall’interesse verso l’educazione delle classi popolari, per le quali
promosse una serie di iniziative concrete. Infatti, ispirato da Rousseau e dagli ideali illuministici,
diede vita ad alcuni istituti a Neuhof, Stans, Burgdorf e Yverdon, tra cui una scuola per orfani di
guerra, una scuola-convitto per bambini e ragazzi abbienti, e una successiva scuola autofinanziatesi
con le rette di tali allievi aperta ai bambini poveri che vi partecipavano gratuitamente. Scrisse in fa-
vore della creazione di un nuovo tipo di scuola popolare, e allo scopo di dare testimonianza della
conquista progressiva delle proprie idee pedagogiche e del proprio metodo didattico; le opere princi-
pali sono: il romanzo pedagogico Leonardo e Geltrude (1781 - 87), il successivo Come Geltrude
istruisce i suoi figli (1801), le Mie indagini sul corso della natura nello sviluppo dell’umanità
(1797), e infine Il canto del cigno (1825).
Pestalozzi intendeva rivolgersi, con le sue iniziative educative, al popolo, e aiutarlo ad emanciparsi
e a vivere in condizioni migliori. Tuttavia l’atteggiamento di Pestalozzi non ha niente di socialista, è
piuttosto un convinto e ingenuo populismo paternalistico, garante di un esplicito immobilismo di
ceto: l’ordine sociale, come gerarchia di classi, è immutabile perchè così voluto da Dio.
Secondo Pestalozzi, animato dall’ideale ‘georgofilo’ del rilancio della vita agricola, l’educazione de-
ve seguire attentamente il processo della natura nello sviluppo delle facoltà del soggetto e nella pre-
disposizione di strumenti e mezzi per fare acquisire le abilità concrete, ponendosi prima di tutto in
un’ottica di osservazione attenta del bambino. Pestalozzi ritiene che la natura del bambino sia origi-
nariamente buona, che egli già possieda in sé tutte le potenzialità necessarie per lo sviluppo intellet-
tuale, fisico e morale, che spetti prima alla madre e alla famiglia, poi soprattutto al maestro di aiutar-
lo a crescere attraverso un rapporto fondato sull’amore.
L’uomo conosce la realtà esterna prima di tutto attraverso l’osservazione intuitiva (Anschauung),
che consente alla percezione umana - la quale è di tipo globale - di cogliere i vari elementi da cui è
costituita la struttura della realtà esterna. Tre sono essenzialmente le dimensioni portanti: la forma,
il numero e il nome. Esse sono qualità pertinenti a ogni oggetto, perchè qualunque cosa possiede
una certa forma, può essere contata o misurata, e può venire assunta come termine di discorso. Una
simile concezione viene tradotta da Pestalozzi sul piano didattico, indicando come nella pratica edu-
cativa vada strutturato il modo di insegnare e di far apprendere ai ragazzi. In particolare egli sostene-
va la necessità di far nascere l’idea del numero e della forma mostrando concretamente gli oggetti di
cui si parla, sia nella realtà sia attraverso immagini sensibili; solo su questa base si sarebbero potuti
sviluppare i concetti astratti ad essi corrispondenti.
I programmi di studio e le materie di insegnamento dovevano essere organizzati e strutturati secon-
do connessioni logiche, e soprattutto dovevano essere presentati al bambino per gradi, sempre nel
rispetto del graduale sviluppo delle sue facoltà.
Secondo Pestalozzi occorre stimolare un’intuizione fondante anche sul piano morale, che costitui-
sce il vero scopo dell’educazione e della vita umana. Bisogna quindi che il ragazzo venga a contatto
con esempi concreti anche in questo campo, che gli consentano di accedere poi alla comprensione
della virtù e dei principi etici che devono guidare la vita dell’uomo: Pestalozzi riteneva che sia so-
stanzialmente la vita concreta a educare l’uomo, e la sua esperienza in mezzo agli altri.
Oltre all’educazione affettiva e morale del”cuore”, e a quella comunque importante della “mente”,
egli riteneva irrinunciabile compimento della personalità la partecipazione del bambino al lavoro
produttivo, attraverso l’educazione della “mano”, che corrisponde alla terza forza fondamentale
presente nello spirito infantile.
JOHANN HEINRICH PESTALOZZI (Zurigo 1746 - Brugg 1827)

la natura e la terra sono


dottrine fisiocratiche ideali ‘georgofili’ l’origine di ogni ricchezza
clima culturale ideali filantropici populismo
influenza di Rousseau stato di natura, bontà originaria

Veglia di un solitario (1779) => esperienza di vita, amore, famiglia


opere Leonardo e Geltrude, romanzo pedagogico in quattro parti (1781 - 87)
Glüphi: maestro ideale, severo e pieno d’amore (dignità e responsabilità)
principali Mie indagini sul corso della natura nello sviluppo dell’umanità (1797)
stato di natura, stato sociale (decadenza) => “stato morale” (educazione)
Il canto del cigno (1825) => superamento del didatticismo “la vita educa”

Neuhof (“Corte Nuova”, tenuta agricola e filanda)


esperienze istituto educativo per bambini poveri (1774 - 79) mutuo
Stans orfanotrofio per bambini sopravvissuti alla guerra (1798 - 99) insegnamento
educative Burgdorf (castello) scolari di ceto medio 5 - 11 anni (1800 - 1803)
Yverdon (castello) scuola convitto per alunni benestanti (1804 - 1825)

IL METODO ELEMENTARE

dell’organismo => integrare i contenuti in un processo coerente (crescita di un organismo)

della continuità => dall’esperienza del bambino nascono le nozioni, in linea di continuità
principi
della gradualità => i contenuti dell’apprendimento vanno dal semplice al complesso

di vicinanza => quanto più una cosa è prossima ai sensi, tanto più è chiara;
lontananza l’educazione asseconda il quadro d’esperienza ‘vicino-lontano’

LE TRE AREE EDUCATIVE FONDAMENTALI, LA DIDATTICA ED IL CURRICOLO

cuore (vita morale) vita familiare, madre educatrice, amore, fede

disegno
forma geometria lavori manuali
scrittura
intuizione
educazione mente (conoscenza) diretta numero aritmetica e calcolo
Anschauung
suoni
nome lingua e musica parole
strutture linguistiche
esercizi fisici
mano (arte) cura igienica tipografia
attività pratica falegnameria
tecnica e lavoro giardinaggio
Friedrich Wilhelm A. Fröbel

Friedrich Wilhelm Fröbel (1782 - 1852), nato a Oberweissbach, principale rappresentante del ro-
manticismo pedagogico tedesco, figlio di un pastore protestante, discepolo di Pestalozzi, fondò a
Keilhau un istituto educativo di istruzione secondaria, e nel 1839-40 a Blakenburg, in Turingia, il
primo ‘giardino d’infanzia’. Si dedicò poi ad attività di riforma educativa e a organizzare la forma-
zione degli educatori. Scrisse “L’educazione dell’uomo” (1826), “Progetto di un piano per la fon-
dazione e la realizzazione di un giardino d’infanzia” (1840), “Canti e carezze materne” (1844) e
altre opere.
Per Fröbel il bambino non nasce come una tabula rasa, possiede invece dentro di sé le potenzialità
che garantiranno il suo sviluppo, ma solo se questo gli sarà permesso dal tipo di educazione che ri-
ceverà. Egli deve dunque poterle estrinsecare ed esprimere liberamente. Il bambino, come l’uomo, fa
parte della natura, concepita da Fröbel, secondo modalità insieme mistiche, religiose, metafisiche ti-
picamente romantiche, come un tutto infinito e necessario, un’unità, un organismo vivente di cui è
importante cogliere le connessioni e le relazioni che si instaurano tra i suoi vari enti. L’educazione
deve sviluppare questo senso di partecipazione alla natura, di appartenenza comune alla vita di tutti
gli altri esseri nell’ambito di una visione di tipo ‘pan-enteistico’.
L’educazione deve essere naturale perchè deve seguire e permettere il fine che ogni cosa e ogni per-
sona hanno nel mondo, cioè quello di realizzare la propria essenza, che in ultima istanza deriva da
Dio. L’attenzione di Fröbel si indirizzò particolarmente verso l’infanzia, considerata un’età dotata
di grandi potenzialità espressive e creative, che occorreva far emergere in condizioni di libertà e di
spontaneità, perchè il modo in cui esse vengono a estrinsecarsi risulta importante per tutta la vita
futura. Fröbel creò una istituzione specifica per il bambino piccolo, per l’educazione prescolare, il
“giardino d’infanzia” (kindergarten), ricco di attività di vario tipo (tra cui i ‘canti materni’ e la
coltivazione di un giardino vero e proprio). Il giardino d’infanzia è una istituzione dedicata a tutti i
bambini, specie a quelli dei ceti sociali più bassi, il che costituì uno dei motivi per cui i numerosi
istituti fondati da Fröbel vennero accusati di socialismo e di ateismo e furono chiusi dal governo
prussiano, timoroso degli ideali rivoluzionari del’48.
Uno dei mezzi espressivi più importanti per il bambino è il gioco, che gli consente di esprimersi
spontaneamente, di oggettivare il suo mondo interno, di interpretare il mondo e la realtà ricreandoli a
modo suo. A questo scopo Fröbel elaborò degli appositi oggetti didattici, detti “doni”, costituiti da
sfere, da cubi, da cilindri e da insiemi suddivisi ma tra loro riunibili di cilindri, cubetti, prismi, oltre
che da fasci di bastoncini e da anelli di legno. La motivazione di tutto ciò attiene alla dimensione
simbolica dell’esperienza educativa: la sfera, il cubo, il cilindro rappresentano le strutture fondamen-
tali della natura e dell’essere. Il bambino, maneggiandole concretamente, costruendo così “forme di
conoscenza” e “forme di bellezza”, sarebbe potuto pervenire a una migliore comprensione delle for-
me primigenie della realtà e delle loro connessioni reciproche.
D’altra parte lo sviluppo e la crescita del bambino si fondano su di un movimento continuo che va
dalla esteriorizzazione all’interiorizzazione di forze determinate e viceversa: nel caso dell’educazio-
ne si tratta della esteriorizzazione del proprio mondo spirituale - dimensione propria dell’infanzia,
che trova espressione nel linguaggio ma soprattutto nel gioco - e della interiorizzazione dell’ambien-
te naturale, dimensione prevalente nella fanciullezza, nel corso della quale curiosità e interesse gui-
dano l’apprendimento. Ci si deve quindi proporre di predisporre l’ambiente esterno in modo che sia
in sintonia profonda con il mondo interno del bambino: la scuola è il momento specifico dell’interio-
rizzazione delle nozioni esterne, che devono però rispondere ai desideri di conoscenza, ai bisogni in-
tellettuali dei ragazzi, anche se di fatto è l’educatore stesso che offre i contenuti in base a domande
presupposte nell’allievo.
Friedrich Wilhelm A. Fröbel (Oberweissbach1782 - Marienthal 1852)

formazione figlio di un pastore protestante, orfano di madre apprendista forestale => amore per la natura
studi di scienze, filosofia, architettura, mineralogia discepolo di Pestalozzi
esperienze 1805: visita ad Yverdon: studio del metodo pestalozziano
educative 1817: Keilhau scuola-convitto a indirizzo umanistico (istruzione secondaria)
1839-40 Blakenburg: primo Kindergarten (‘giardino d’infanzia’)
opere “L’educazione dell’uomo” (1826),
principali “Progetto di un piano per la fondazione e la realizzazione di un giardino d’infanzia” (1840)
“Canti e carezze materne” (1844)

il bambino, come l’uomo tutto infinito e necessario pan-enteismo (Krause)


è parte della unità del reale ogni singola entità è espressione del-
natura Dio - organismo vivente l’Assoluto (Dio), ma mantiene una
sua relativa autonomia
legge dello => opposizione => ogni elemento ha il suo opposto
sviluppo (natura - spirito) ogni vivente
esteriorizza interiorizza
metodo Fröbel se stesso l’ambiente

sviluppo esteriorizzazione dimensione propria dell’infanzia, che trova


del proprio mondo spirituale espressione nel linguaggio ma soprattutto
e crescita movimento continuo nel gioco libero e spontaneo (=> lavoro)

del bambino interiorizzazione dimensione prevalente nella fanciullezza


dell’ambiente naturale nella quale curiosità e interesse guidano
l’apprendimento

giardino d’infanzia => istituzione specifica per l’educazione prescolare dedicata a tutti i bambini
(specie a quelli dei ceti sociali più bassi => accuse di socialismo e di ateismo)

“maestra giardiniera” vari frutti, patate


parte comune (racchiude quelle particolari) barbabietole, erba, ecc.;
coltivazione ciascuna pianta ha un
del giardino paletto con il nome;
parte individuale (1mq per ciasc., aiuole di 25cm) la crescita delle piante
rispecchia quella del
bambino

1° palla (di stoffa) => finito / infinito unità / molteplicità perfezione totalità
(esercizio => mano dita braccio occhio)
sfera => interiorità / movimento
2° cubo (di legno) => forma grandezza numero
DONI cilindro => unità / pluralità movimento riposo
3° cubo suddiviso in otto cubetti => tutto/parti operazioni aritmetiche
4° cubo suddiviso in otto mattoncini => costruzione
5° cubo suddiviso in 27 cubetti => costruzione
6° cubo suddiviso in 27 mattoncini => costruzione
fasci di bastoncini anelli di legno stecche trucioli bottoni carta colorata
Johann Friedrich Herbart

Johann Friedrich Herbart (1776 - 1841), nato a Oldenburg, successe a Kant nella cattedra di filoso-
fia e pedagogia dell’Università di Könisberg, dove elaborò le sue concezioni che precorrono la futura
psicologia scientifica. Tra le sue opere principali ricordiamo Pedagogia generale tratta dal fine del-
l’educazione (1806), Psicologia come scienza (1824 - 25), Lezioni di pedagogia (1835).
Ebbe un vastissimo successo, tanto che si formò presto tra i suoi seguaci un movimento detto
‘herbartismo’, la cui influenza durò lungo tutto il corso dell’Ottocento.
Il punto di partenza di Herbart non consiste nell’inglobare la realtà nel pensiero - come fanno gli
idealisti da lui criticati - quanto piuttosto nel considerare come in sé inconoscibili gli oggetti reali po-
sti di fronte al soggetto, che entra in contatto con essi tramite le proprie rappresentazioni mentali.
Gli oggetti esterni appaiono come fenomeni da cui la mente viene perturbata, reagendovi di conse-
guenza con quegli atti di autoconservazione che costituiscono appunto le rappresentazioni stesse.
Le nuove rappresentazioni, derivate da nuovi stimoli esperienziali, vengono assimilate e associate
alle “masse” e alle tendenze mentali già costituitesi tramite una funzione detta “appercezione” se
sono ad esse coerenti. In caso contrario vengono rimosse sotto la soglia della coscienza, finché non
emergono elementi successivi ad esse compatibili. Lo studio di questi movimenti psichici viene con-
siderato da Herbart l’oggetto e il campo di conoscenza proprio della psicologia. Una tale concezione
della psicologia costituisce la base fondamentale per la pedagogia e l’educazione, poiché il nucleo
fondamentale di esse è costituito dal reperimento del metodo con cui indurre, allo scopo di indiriz-
zare verso certe tendenze o “interessi” la formazione dell’individuo, complessi determinati di idee,
vale a dire catene associazionistiche determinate di certe rappresentazioni mentali. La psicologia
fornisce dunque alla pedagogia i mezzi e gli strumenti per la sua necessaria efficacia. Perché si deter-
mini apprendimento occorre che l’allievo mostri interesse, il quale a sua volta è costituito da una se-
rie di rappresentazioni precedenti che si sono rinforzate e intensificate grazie a un particolare orien-
tamento degli stimoli esterni, così che divenissero “masse appercipienti dominanti”. Sono esse a
produrre l’interesse (che non è dunque un criterio esterno a cui adeguare l’azione formativa ma il suo
esito stesso) e a generare l’attenzione, fondamentale per un’apprendimento successivo. Ciò che con-
ta è allora, da una parte, che gli interessi siano molteplici, che vi sia quindi una effettiva “multilate-
ralità” di essi, così da consentire per il ragazzo l’apertura di un grande campo di possibilità culturali
e comportamentali; dall’altro che l’insegnamento non sia monotono e ripetitivo, o privo di graduali-
tà, perchè diversamente le varie rappresentazioni si accumulerebbero confusamente.
Gli interessi che sorgono dall’esperienza si differenziano per Herbart in interessi conoscitivi (em-
pirici, legati ai fatti; speculativi, relativi alle riflessioni sulle conoscenze; estetici, individuanti giudizi
di valore) e partecipativi (simpatetici, sociali e religiosi).
L’insegnante deve comunicare con il bambino dapprima con un tipo di rapporto che Herbart chia-
ma “governo”, di sostanziale guida esterna; successivamente si può passare alla fase dell’istruzione
(quella di Herbart è una teoria dell’ “istruzione educativa”), che si deve basare su una didattica rigo-
rosa, cioé su una metodica dell’insegnamento che tenga conto delle diverse fasi di età, incrementando
gli interessi, stimolando l’intuizione, alternando approfondimenti e riflessioni sugli oggetti di cultura
in base ai quali il ragazzo potrà poi proseguire educandosi da sé, conseguendo un autonomo eserci-
zio della forza di carattere (disciplina).
I gradi formali dell’istruzione dell’educazione comprendono la concentrazione e la riflessione;
nella prima si procede dalla chiarezza, attraverso la quale si coglie l’elemento nuovo, all’associazio-
ne, nella quale lo si ricollega agli altri; nella seconda si passa dal momento del ‘sistema’ (sintesi or-
ganica degli elementi di apprendimento), al ‘metodo’, che consente la produzione autonoma di ra-
gionamenti.
Johann Friedrich Herbart (Oldenburg 1776 - Gottinga 1841)
Frequenta a Jena le lezioni di Fichte e di Schiller studia matematica, psicologia, pedagogia, visita Burgdorf
(Pestalozzi) 1809 cattedra di filosofia e pedagogia dellʼUniversità di Könisberg dal 1833 insegna a Gottinga

opere Pedagogia generale tratta dal fine dellʼeducazione (1806)


pedagogiche Psicologia come scienza (1824 - 25)
principali Lezioni di pedagogia (1835)

metafisica realismo idealismo


realtà = complesso di ʻrealiʼ molteplici vs
(alterità - estraneità) spirito come auto-creazione

urto con altri reali: atto di autoconservazione

psicologia rappresentazioni
(atomi psichici)
attrazione repulsione
masse di rappresentazioni
conscio inconscio
massa apprecipiente centrale
(personalità dellʼuomo) estetica:
in formazione salda carattere organizzazione
(fanciullo) (adulto) libertà della personalità
appercezione
di nuove rappresentazioni

ISTRUZIONE EDUCATIVA
pedagogia curare la strutturazione delle masse appercettive
procurare le rappresentazioni più opportune
costituire la base per lʼassimilazione di nuove rappresentazioni

tendenza della massa appercettiva ad aggregare nuove rappresentazioni


risultanti delle forze di attrazione/repulsione delle singole rappresentazioni

INTERESSI (inter-esse)
di conoscenza partecipativi
empirici (cosʼè questo?) simpatetici (diretti ai singoli)
speculativi (fondamenti, leggi dei fenomeni) sociali (diretti ai gruppi sociali)
estetici (rapporti interni/esterni) religiosi (rivolti al destino dellʼumanità)

principio della multilateralità degli interessi

individuazione di vs enciclopedismo
centri di interesse nozioni frammentarie

governo => azione estrinseca che comporta premi e punizioni -> presente
didattica istruzione => suscita una molteplicità di interessi (intuizione)
disciplina => autonomo esercizio della forza di carattere > futuro

gradi formali dellʼistruzione

concentrazione riflessione

chiarezza si coglie sistema sintesi organica


lʼelemento nuovo

associazione lo si ricollega metodo produzione di


agli altri ragionamenti
Il gioco nella pedagogia romantica

Che ruolo e che importanza abbia il gioco nella vita e nell’educazione del bambino, sono domande
che filosofi e pedagogisti si sono sempre posti nel corso del tempo, fin dall’antichità. Man mano
che l’idea dell’educazione come formazione integrale della personalità si è fatta strada, il gioco è sta-
to riconosciuto come garanzia di equilibrio interiore e di normale sviluppo. In epoca moderna, in
particolare, Locke e Rousseau erano convinti che l’educazione naturale dovesse essere caratterizzata
dalla presenza del gioco, inteso come libera attività, e che esso sarebbe stata una base eccellente per
la completa formazione dell’individuo.
Tra le fine del ‘700 e gli inizi dell’ ‘800 compaiono due atteggiamenti divergenti rispetto al gioco:
un’atteggiamento svalutativo ben espresso dalle parole di Kant: “I ragazzi devono essere avvezzi
per tempo alle occupazioni serie, poichè debbono pure una volta entrare nella vita seria. Il bambino
deve giocare, ma deve imparare anche a lavorare” e ribadito da Hegel, il quale si espresse sfavorevol-
mente in relazione al rapporto tra gioco e studio, dicendo che tra essi doveva essrci un fossato: acco-
stare l’insegnamento al gioco creerebbe l’abitudine nel fanciullo a trattare con leggerezza ogni cosa.
Nel contempo il valore educativo del gioco venne energicamente riaffermato dal romanticismo peda-
gogico. J.C. Friedrich Schiller (1759 - 1805) si proponeva di tornare alla cultura del mondo anti-
co e dell’umanesimo classico in vista della formazione di una personalità perfetta, armoniosa, guida-
ta da valori e ideali elevati. Schiller propone una concezione dell’educazione estetica che si rifà alla
teoria kantiana: l’educazione dell’uomo attraverso l’arte è l’unica possibilità per trovare una conci-
liazione e per rendere praticabile un incontro tra ragione, sentimento e sensibilità, tra norma e spon-
taneità. La natura umana possiede due istinti, il primo legato ai sensi, il secondo alla ragione; l’arte
permette lo sviluppo di un terzo istinto, l’istinto estetico, che li concilia entrambi: la forma suprema
di tale conciliazione è costituita dal gioco, che rappresenta così l’attività educativa per eccellenza
(Lettere sull’educazione estetica dell’umanità, 1795). Johann Paul F. Richter (detto Jean Paul,
1763 - 1825) sostenne similmente che l’uomo poteva sviluppare la propria propensione verso la li-
bertà attraverso un’educazione infantile attenta alla dimensione del gioco, della musica, dell’affettivi-
tà (Levana, 1807). Ma l’autore che ebbe il merito, all’interno della pedagogia romantica, di riaffer-
mare il valore educativo del gioco fu senz’altro Froebel (cfr.)
PEDAGOGIA
TEMI E PROBLEMI
LA FAMIGLIA

La famiglia è la più importante e la più antica di tutte le istituzioni e in tutte le società essa resta
l’unità sociale fondamentale. Che cos’è esattamente una famiglia? Le nostre idee al riguardo tendono
probabilmente ad essere piuttosto etnocentriche, perché spesso si basano sulla “famiglia ideale” del-
la classe media, quella che la pubblicità dei mass-media assiduamente ci propina, ma questo modello
non è molto rappresentativo ed è comunque piuttosto recente. Per avere una definizione più corret-
ta della famiglia occorre tener conto delle numerose forme di famiglia che sono esistite e che esistono
ancora nelle diverse culture.
La prima caratteristica della famiglia è quella di essere un gruppo di individui in qualche modo im-
parentati tra loro. In secondo luogo i suoi membri vivono insieme per lunghi periodi di tempo. In
terzo luogo, gli adulti del terzo gruppo assumono la responsabilità di tutta la prole. Infine i membri
formano un’unità economica, in molti casi per la produzione di beni e servizi (per esempio quando
tutti partecipano ai lavori agricoli) e in ogni caso ai fini del consumo di beni e servizi (per esempio
per quanto riguarda il vitto e l’abitazione).
Possiamo dunque affermare che la famiglia è un gruppo relativamente stabile di individui legati tra
loro da un’ascendenza comune, dal matrimonio o dall’adozione, che convivono formando un’unità
economica e i cui membri adulti assumono la responsabilità dei piccoli.
In tutti i modelli di famiglia esiste una norma universale: un individuo non può accoppiarsi con
qualsiasi altra persona di suo gradimento. In tutte le società esiste un tabù dell’incesto che proibisce
i rapporti sessuali nell’ambito di certi rapporti di parentela. Il tabù si applica quasi universalmente
ai rapporti tra genitori e figli e tra fratello e sorella, ad eccezione delle famiglie al trono delle società
dell’antico Egitto, delle Hawaii e degli Inca e di alcune etnie africane.
Secondo la prospettiva funzionalista (Murdock, 1949, Parsons e Bales, 1955), la famiglia svolge
diverse funzioni fondamentali in tutte le società.
a) Regolamentazione del comportamento sessuale. Nessuna società permette che i suoi membri
possano accoppiarsi casualmente; il sistema matrimoniale rappresenta uno strumento atto a regola-
mentare il comportamento sessuale dei suoi membri.
b) Sostituzione dei membri e ricambio generazionale. Una società non riesce a sopravvivere se
non dispone di un sistema mediante il quale possa sostituire i suoi membri da una generazione all’al-
tra. la famiglia rappresenta uno strumento stabile, istituzionalizzato, mediante il quale si assicura il
ricambio generazionale.
c) Cura, protezione e socializzazione dei bambini. I bambini hanno bisogno di calore, di cibo, di
protezione e di affetto, e la famiglia costituisce un’atmosfera intima e costituisce al tempo stesso
un’unità economica che permette di soddisfare tutti questi bisogni. I genitori ripongono generalmen-
te una particolare attenzione nel controllare il comportamento dei figli e nel trasmettere loro il lin-
guaggio, i valori, le norme e le credenze propri della loro cultura; in altre parole, essi si pongono co-
me agenti della socializzazione dei figli. La famiglia resta il primo ed il più importante agente della
socializzazione.
d) Collocazione sociale. La nascita legittima nell’ambito di una famiglia conferisce agli individui
una posizione stabile nella società. dalla famiglia di orientamento si ereditano non soltanto oggetti
materiali, ma anche lo status sociale.

I modelli familiari

Forme di matrimonio
Il matrimonio può essere monogamico, ossia circostritto ad un solo uomo e a una sola donna, o
poligamico, quando una persona si sposa simultaneamente con due o più persone dell’altro sesso.
La forma di matrimonio prende il nome di poliginia se è l’uomo ad avere più di una moglie; se inve-
ce è la moglia ad avere più di un marito, si chiama poliandria. Quest’ultima si verifica soltanto in
condizioni eccezionali, come ad esempio presso i Toda (India), che, praticando l’infanticidio femmi-
nile, si trovano ad avere un forte soprannumero di maschi.

Partner preferenziale
Alcuni gruppi si attendono o esigono che i loro membri si sposino al di fuori del gruppo: questo
modello prende il nome di esogamia. Gli Aranda australiani, per esempio, dividono la loro società in
due sezioni e ciascun individuo può sposarsi soltanto con qualcuno che appartiene all’altra sezione.
Altri gruppi invece si attendono e esigono che i loro membri si sposino all’interno del gruppo: que-
sto modello prende il nome di endogamia. Generalmente i gruppi religiosi, razziali ed etnici pratica-
no l’endogamia, sia a causa dei pregiudizi, sia per la mancanza di contatti con gli altri gruppi, sia
perché viene usata come strumento per conservare la coesione del gruppo.

Modelli di residenza
Una coppia appena sposata può andare a vivere con la famiglia estesa del padre dello sposo, se-
guendo così il modello patrilocale, oppure può andare a vivere con la famiglia della sposa, seguendo
il modello matrilocale. Ma oggi è sempre più diffusa la consuetudine di formare una famiglia nucle-
are che va a stabilirsi in una propria residenza, seguendo il modello neolocale.

Modelli di autorità
Pur essendo influenzati dalla personalità degli sposi, i modelli di autorità che regolano i rapporti tra
marito e moglie seguono le norme imposte dalla società. In quasi tutte le società il modello dominan-
te è quello patriarcale, in cui l’ultima parola su tutto ciò che riguarda la famiglia spetta sempre al
marito. Non esiste oggi un vero e proprio sistema matriarcale che assegni alle donne una posizione
di autorità definitiva, pur esistendo diverse società nelle quali in certi settori della vita domestica la
moglie ha un potere maggiore del marito. Un terzo modello apparso in tempi recenti è quello della
famiglia ugualitaria. Si tratta di un fenomeno che sta diventando sempre più comune nel mondo
moderno e che vede marito e moglie più o meno su un piano di parità per ciò che riguarda le faccen-
de della famiglia.

Modelli di discendenza
Le forme principali di discendenza e di trasmissione ereditaria sono tre. Nel sistema patrilineare la
discendenza e l’eredità seguono la linea maschile della famiglia; i congiunti della madre non sono con-
siderati parenti e alle femmine non spetta alcun diritto di successione nella proprietà.
Nel sistema matrilineare accade l’inverso: i congiunti del padre non sono considerati parenti e la
proprietà si trasmette solo in linea femminile.
Nel sistema bilaterale, il tipo più comune per noi, ma seguito da meno della metà della popolazio-
ne mondiale, la discendenza e l’eredità seguono sia la linea maschile che quella femminile. Sono con-
siderati parenti i congiunti di tutti e due i genitori e la proprietà si trasmette sia ai maschi che alle
femmine.
FORME DI FAMIGLIA

Usando una categorizzazione approssimativa, i sociologi suddividono tradizionalmente tutti i si-


stemi familiari in due tipi principali. Nella famiglia estesa, più di due generazioni appartenenti allo
stesso ceppo parentale vivono nella stessa casa o in abitazioni contigue. Capo di tutta la famiglia di
solito è il maschio più anziano, mentre tutti gli adulti partecipano in varia misura all’allevamento dei
bambini ed all’esecuzione di altri compiti. Nella famiglia nucleare il gruppo si compone dei genito-
ri e della prole da loro dipendente e vive in una residenza separata da quella degli altri congiunti.
Peter Laslett e il Cambridge Group for the study of Population hanno elaborato, nel corso dei loro
studi demografici, una tipologia che prevede cinque diversi tipi di famiglia.
1. Vi è innanzitutto la famiglia semplice o nucleare, formate da una sola unità coniugale, sia essa
completa (marito, moglie e figli) o incompleta (madre vedova o divorziata con figli, oppure padre
vedovo o divorziato con figli).
2. Vi è in secondo luogo la famiglia dei solitari, costituita da una sola persona.
3. Il terzo tipo è quello della famiglia senza struttura coniugale, priva cioè di un’unità coniugale, e
formata da persone con altri rapporti di parentela (fratelli o sorelle non sposati).
4. Il quarto è quello della famiglia estesa, costituita da un’unità coniugale ed uno o più parenti con-
viventi. É estesa, ad esempio, una famiglia formata dal marito capofamiglia, la moglie, i figli, la madre
del capofamiglia.
5. Il quinto tipo è quello della famiglia multipla, formata da due o più unità coniugali. Le famiglie
multiple possono essere verticali o orizzontali. É multipla verticale, ad esempio, la famiglia compo-
sta da marito, moglie, figlio e moglie di quest’ultimo. É invece orizzontale una famiglia formata da
due o più fratelli con le rispettive mogli e i figli. Per semplicità si parla di famiglie complesse quando
si considerano insieme quelle estese e quelle multiple.
Fanno parte delle famiglie complesse anche: a) quelle denominate “a domino”, costituite dalla cop-
pia coniugale e da figli di diversi matrimoni; b) le famiglie multiculturali e multietniche, divenute
negli ultimi anni più frequenti anche in Italia.
(da: Ian Robertson, Sociologia, Zanichelli, Bologna, 1988, pp.374-385)

Famiglia e educazione sociale

La famiglia, prima le cosiddette “agenzie di socializzazione”, presenta alcune caratteristiche di


grande rilievo educativo:
- come primo ambiente sociale in cui il singolo individuo è inserito e permane per la maggior parte
dei casi per tutto l’arco della vita, la famiglia adempie un compito di socializzazione primaria e se-
condaria: fornisce buona parte degli strumenti fondamentali per l’interazione sociale, per l’inseri-
mento e l’integrazione nella comunità più vasta;
- per le stesse ragioni, la persistenza della famiglia lungo l’arco di vita degli individui fa sì che essa
condizioni il rapporto con le altre agenzie di socializzazione, sostituisca o integri il contributo di al-
tre istituzioni sociali, assuma di volta in volta funzioni diverse in relazione alla situazione in cui si
inserisce.
Complessivamente oggi si può definire la famiglia una realtà in transizione, all’interno della quale
si possono ritrovare concezioni, modelli e progetti educativi spesso contrastanti, che variano col va-
riare dei contesti sociali, dei tipi di famiglia, delle visioni del mondo presenti nei loro membri.
Attualmente molti studiosi propongono di partire dal concetto di un ciclo di vita della famiglia, che
va dalla formazione della coppia fino alla morte dei suoi membri. L’educazione dei figli rientrerebbe
perciò all’interno di un vasto processo educativo, che riguarda anche gli adulti in ogni età della loro
vita. Secondo questa prospettiva è possibile individuare le tappe del ciclo della vita sulla base di
quelli che la psicologa Eugenia Scabini definisce come eventi critici: la formazione della coppia, la
nascita dei figli, la loro adolescenza e la loro uscita dal nucleo familiare, il pensionamento, la malattia
e la morte. A ciascuno di essi corrisponde una fase della vita famigliare contrassegnata da una crisi
che definisce per i suoi membri dei “compiti di sviluppo”, intesi come obiettivi di un percorso di
educazione reciproca e autoeducazione. Tra questi obbiettivi risulta fondamentale l’assunzione dei
ruoli parentali, che riguardano il modo in cui i genitori svolgono i loro compiti educativi ed affettivi
nei confronti dei figli.
Gli stili educativi

Il modo in cui una famiglia affronta l’educazione dei figli è soggetto a numerose variabilità e può
essere descritto in una tipologia che comprende:
a) uno stile autoritario, basato su un sistema rigido di norme stabilite dai genitori, cui il figlio deve
adeguarsi passivamente;
b) uno stile autorevole (democratico) in cui i valori stabili e la responsabilità educativa dell’adulto
vengono calati in una serie di norme flessibili e incentrate sui bisogni di tutti i membri della famiglia;
c) uno stile permissivo che si fonda sul tenativo di eliminare tutte le occasioni di frustrazione e di
soddisfare tutte le richieste dei figli;
d) uno stile incoerente in cui si oscilla tra autoritarismo e permissività a seconda delle codizioni
emotive dell’adulto. (U. Avalle - M. Maranzana, Problemi di pedagogia, Paravia, Torino, 2001)

Clima della famiglia e ambiente educativo

La condotta prevalente e le caratteristiche più evidenti dei genitori concorrono al “clima educati-
vo”, ossia all’habitat mentale in cui si formeranno le prime esperienze del bambino.
I rapporti tra genitori e figli sono molteplici e articolati sulle esigenze del vivere nella comunità fa-
miliare: la personalità dei genitori, le lore tendenze e le modalità acquisite di adattamento al vivere
sociale dovranno misurarsi con le varie esigenze e con i tratti di temperamento proprie dei figli.
Se i genitori, con lo stile di vita e di comportamento contribuiscono a formare la personalità dei figli,
dall’altro i figli agiscono sul piano interattivo, modificando le aspettative e contribuendo alla forma-
zione di un “clima” particolare che distingue nel suo essere una famiglia da un’altra. Tali modalità in-
terattive potranno risultare determinanti nello sviluppo delle differenze individuali.
Recenti e numerosi studi sulle dinamiche tipiche del rapporto che si instaura tra genitori e figli so-
no stati effettuati da psicologi sociali e tra essi vanno citati quelli di Schaefer, che propone una se-
rie di correlazioni per evidenziare quattro climi educativi tipo: il primo basato sulla dipendenza del
rapporto tra affetto e controllo, il secondo tra affetto e autonomia, il terzo tra ostilità e controllo, il
quarto tra ostilità e autonomia. L’autore propone due dimensioni bipolari in cui si manifestano le in-
terazioni familiari: la prima varia dalle forme di controllo fino a giungere al grado massimo di autono-
mia, l’altra tiene in considerazione i fattori che vanno dall’ostilità sino all’affetto; queste due dimen-
sioni dinamiche sottolineaano i rapporti di reciprocità tra genitori e figli. L’asse autonomia-controllo
rappresenta il ventaglio delle caratteristiche generali elargite dai genitori; l’asse affetto-ostilità indica
l’interazione affettiva mediante la quale genitori e figli vengono emotivamente in contatto tra loro.
Schaefer sintetizza le variazioni caratteristiche dei climi familiari proponendo uno schema (noto
come quadrante di Schaefer) che permette praticamente una correlazione tra i vari fattori.

controllo autonomia

affetto sottomissione, dipendenza attività, creatività


buone maniere, obbedienza buon adattamento sociale
scarsa creatività, conformismo aggressività moderata
rispetto acritico delle regole indipendenza

ostilità problemi nevrotici, forte aggressività


scarso adattamento sociale disadattamento sociale
timidezza, scarsa autonomia trasgressione ed anticonformismo
auto-aggressività immaturità affettiva

tabella 2 clima educativo e tratti infantili della personalità: quadrante di Schaefer


La correlazione affetto-autonomia, la più auspicabile, soprattutto se sottolineata da rapporti
cooperativi o democratici, è tipica di un clima familiare in cui il bambino si apre alla socialità e alla
collaborazione: il futuro adulto sarà tendenzialmente attivo, dotato di spirito creativo e capace di
adattamento alle esigenze della vita, portato all’amicizia, generalmente estroverso, possiederà doti
direttive, maturo e libero da regole eccessivamente vincolanti, con un temperamento moderatamente
aggressivo che gli consentirà di affrontare le più svariate situazioni.
La correlazione affetto-controllo darà luogo ad un minore grado di indipendenza nel bambino che
farà spesso riferimento ai genitori, sarà ordinato, pulito, rispettoso delle regole e delle gerarchie; la
creatività risulterà meno evidente del primo caso; sarà buon organizzatore, si orienterà nella vita a li-
velli di adattabilità; pur non manifestando uno spiccato senso di indipendenza, sarà mite e disponi-
bile verso gli altri.
La correlazione ostilità-autonomia può suscitare nel bambino una notevole aggressività, con riper-
cussioni negative sull’adattamento sociale; sarà trasgressivo e anticonformista, avrà difficoltà di ma-
turazione nella sfera affettivo-emotiva.
La correlazione ostilità-controllo, la più negativa rispetto al raggiungimento dell’autonomia ed in
generale per l’educazione del bambino, potrà provocare l’insorgenza di eventuali disturbi psicoso-
matici; il bambino potrà essere ansioso, rinunciatario con i superiori, litigioso con i pari, ombroso e
introverso, spesso autolesionista, generalmente nevrotico.
(Andrea Rocca, Psyché, Oberon, Roma, 1994, pp. 184 - 187)

LA COMUNICAZIONE FAMILIARE

La comunicazione familiare è stata studiata più da un punto di vista patologico che non pedagogi-
co, seguendo il riflesso di quella concezione della “crisi della famiglia” che costituisce uno dei grandi
modelli interpretativi dell’istituzione famigliare del nostro secolo. La scuola psicologica di Palo Al-
to, ad esempio, ha messo in luce nei suoi studi sulla pragmatica della comunicazione umana in che
modo all’interno della famiglia, considerato come il principale dei “gruppi-vitali-con-storie”, le atti-
vità comunicative producano conseguenze a vasto raggio, in cui sono presenti anche versanti distrut-
tivi. La differenza tra la famiglia capace di realizzare positivi progetti educativi e la famiglia psicolo-
gicamente distruttiva sta soprattutto nella capacità della prima di assorbire i cambiamenti attraverso
una ristrutturazione complessiva delle relazioni, a confronto con la tendenza della seconda a cercare
di negare le trasformazioni o a scaricare gli effetti sui membri più deboli o esposti. Secondo i teorici
di Palo Alto, è all’interno delle famiglie patologiche che si sviluppano frequentemente interazioni a
doppio legame1 , forme di risposta tangenziale2 e mistificazioni dell’Io3 .
La considerazione delle relazioni famigliari come sistemi educativi e comunicativi induce a conside-
rare la loro diversa validità nella creazione di sistemi aperti (cioé famiglie capaci di interagire con i
mutamenti interni ed esterni, così da favorire la crescita psicologica di tutti i propri membri) e siste-
mi chiusi (ovvero famiglie strutturate tanto rigidamente da impedire gli adattamenti e l’apertura ver-
so l’esterno e da mantenere i propri equilibri al prezzo del disadattamento dei propri membri rispet-
to ad altri sistemi).

(1) Il doppio legame è un’ingiunzione paradossale (illusione delle alternative) all’interno della quale compare: a) una
relazione profonda tra due persone (vita familiare, dipendenza materiale, amicizia, amore); b) un messaggio strutturato
in modo da: 1) affermare qualcosa (contenuto); 2) metacomunicare sulla propria asserzione (relazione); 3) determinare
una contraddizione reciproca tra i due livelli di comunicazione; c) un impedimento al ricettore del messaggio (solita-
mente in rapporto complementare subordinato con l’emittente) di rifiutarlo o metacomunicare su di esso.
(2) La risposta tangenziale (con effetto di disconferma) è una risposta adulta inadeguata rispetto all’intervento del
bambino di cui non si prende in considerazione la richiesta effettiva di attenzione.
(3) La mistificazione dell’io consiste in una attribuzione all’altro di desideri, bisogni, stati d’animo in realtà non
espressi, con fini di controllo.
Analisi psicologica dei gruppi familiari: tipologie della famiglia
Sono state condotte numerose ricerche sui gruppi familiari, con metodologie molto diverse tra loro
(strumenti psicodiagnostici, analisi delle conversazioni, osservazione) e con l’intento comune di per-
venire alla formulazione di “tipologie” familiari.
Dalla fine degli anni sessanta, in particolare, gli schemi concettuali ispirati all’approccio sistemico
sono stati utilizzati nella ricerca sulle tipologie familiari: il criterio dominante è diventato quello dei
modelli di relazione, con una migliore focalizzazione delle relazioni interpersonali (diadiche e non) e
della struttura dei gruppi familiari.
L’analisi dei gruppi familiari centrata sulla “struttura” e l’individuazione di tipologie differenziate
tende a privilegiare i criteri della coesione-integrazione tra i vari componenti. Particolarmente rap-
presentativa in questo senso è la contrapposizione proposta da Minuchin (1967) tra famiglia “in-
vischiata” (enmashed) e famiglia “disimpegnata” (desengaged). La prima si caratterizza infatti per
la stretta interconnessione esistente tra i membri componenti: ogni tentativo di cambiamento da par-
te di uno di essi provoca un’immediata risposta di “resistenza” da parte degli altri; nella seconda, in-
vece, i movimenti dei singoli componenti appaiono come indipendenti l’uno dall’altro e le relazioni
complessive risultano molto debolmente interconnesse. Questa tipologia ricalca, sintetizzandole, le
riflessioni teoriche sulla struttura familiare di altri autori: Bowen (1966) parla infatti di famiglia “in-
differenziata” o “differenziata” a seconda della chiarezza con cui i singoli componenti giungono a de-
finire i contorni del proprio sé; Stealin (1972) descrive come “centripeti” o “centrifughi” i principi
delle famiglie di adolescenti da lui studiate, Ashby (1969) distingue sistemi familiari “altamente” o
“scarsamente interconnessi”.
Reiss (1970, 1981) sviluppa una tipologia basata sulle relazioni interne al sistema familiare e su
quelle intercorrenti tra famiglia e ambiente. Facendo riferimento all’integrazione tra un triplice ordine
di fattori - coesione interna al gruppo, indipendenza personale, permeabilità alle stimolazioni ester-
ne - questo autore distingue tre diversi tipi di famiglia, in funzione del diverso grado di “sensibilità”
manifestata rispetto al “consenso”, alla “distanza interpersonale”, all’ “ambiente”.
La famiglia “sensibile al consenso” è quella in cui la dinamica predominante si caratterizza nella
ricerca di vicinanza, unione ed accordo tra i membri, mentre l’ambiente esterno viene vissuto come
minaccioso e pericoloso.
La famiglia “sensibile alla distanza interpersonale” è quella i cui componenti appaiono disaggre-
gati tra loro; i confini tra il gruppo familiare e l’ambiente esterno non risultano marcati in maniera
netta e precisa.
La famiglia “sensibile all’ambiente” si trova invece in equilibrio ottimale tra l’esigenza di coesione
interna e l’indipendenza personale dei singoli membri; si caratterizza per flessibilità, è sensibile ai
bisogni ed aperta ai contributi interni, ma anche alle novità ed ai cambiamenti esterni.
(Renzo Canestrari, Psicologia generale e dello sviluppo, Clueb, Bologna, 1984, p. 564)

La coppia

La coppia può essere considerata come sistema relazionale fondato su un’autoeducazione e una
educazione reciproca dei suoi membri. Nell’antichità l’educazione alla relazione di coppia e ai ruoli
genitoriali era intesa a senso unico, come educazione che prima la famiglia d’origine e poi il marito
dovevano fornire alla donna. Oggi la tendenza verso la parità dei sessi e il riconoscimento della cen-
tralità dei sentimenti, derivante dalle evoluzioni culturali e sociali maturate nel XX secolo, richiedo-
no piuttosto una coeducazione realizzata assieme dai membri della nuova coppia. L’opportunità di
quest’opera sembra sottolineata dalla diffusione di un modello di “coppia coniugale instabile” e dal
notevole aumento delle separazioni e dei divorzi. La stabilità della coppia dipende certamente da
premesse psicologiche profonde, ma anche da relazioni concretamente gestibili ed educabili. Molti
studiosi sottolineano l’importanza di una intimità affettiva in cui ciascuno dei due membri della
coppia è in grado di sviluppare empatia verso i sentimenti dell’altro senza rischiare di “fondersi”
con esso. Accanto all’intimità è importante l’esistenza di un progetto comune: in questo senso
l’armonia di coppia non viene intesa come “miracolo”, quanto piuttosto come il risultato di una
ricerca in cui i partner puntano tanto ad affinare il senso di biunivocità e reciprocità (“amarsi allo
stesso modo”) quanto a coindirizzarsi verso scelte condivise (“amare le stesse cose”).

Il paradosso del fondamento “romantico” della famiglia nucleare

Il paradosso che balza all’occhio di chi si pone ad osservare la famiglia nucleare, nasce dalla consta-
tazione che, una volta liberata dai vincoli esterni e istituita sul solo fondamento del consenso e del-
l’amore, la famiglia si è fatta più fragile, esposta come mai in passato alla sua rapida dissoluzione;
con la conseguenza evidente dell’aumento costante del numero di bambini ed adolescenti che vivono
le tensioni dei loro genitori o mancano di una delle figure parentali. Il matrimonio resta l’ideale più
ampiamente condiviso dalle giovani coppie le quali istituiscono la famiglia ubbidendo alla sola moti-
vazione dell’amore; quelle stesse coppie, però, consumano di frequente in tempi rapidi e in numero
crescente sia il loro ideale che la sua base affettiva.
Sulla coppia non pesano più, come in passato, vincoli di origine esterna, (come le strategie familiari
delle alleanze tra parentele fondate su calcoli economici o d’altro tipo): preminente su ogni altra mo-
tivazione è la logica secondo la quale “ci si sposa per amore, e per amore si rimane sposati”, formula
che gli studiosi di sociologia della famiglia hanno ricondotto al modello dell’ “amore romantico”.
La famiglia contemporanea è fondata sull’amore, e dunque si vede arricchita dai valori dell’intimità,
dell’auto-espressione, dell’affettività, dunque di motivi che si collocano nell’interiorità. L’amore,
però, evidentemente non basta, altrimenti non si spiegherebbero le proporzioni del fenomeno delle
separazioni e dei divorzi. É qui che che compare il “paradosso” dell’amore romantico: è infatti per-
fettamente spiegabile che, una volta posto l’amore romantico - come rapporto amoroso-passionale -
a fondamento unico della costituzione della coppia e quindi della famiglia, il venir meno dell’amore
legittimi la separazione e lo scioglimento della famiglia medesima.
L’amore, assolutizzato e vissuto come “esclusivo”, tende a diventare edonistico, l’autoespressione
affettiva tende a precipitare nell’egocentrismo. Ciò che spesso non è presente è un progetto di vita
familiare che trascenda la coppia per estendersi ai figli, che peraltro vengono ricercati come “com-
pletamento” della famiglia, ma che nella realtà vengono trascurati nel momento in cui l’amore roman-
tico dovrebbe tradursi in amore per la famiglia, esteso a tutti i suoi membri.
La famiglia nata nel segno della libertà sembra in definitiva restare prigioniera dell’individualismo e
del consumismo della società contemporanea: l’amore - non oblativo - si consuma per effetto dello
scorrere del tempo, e poichè i coniugi vivono solo nel presente, la famiglia non riesce a costituire una
sua storia, spesso lasciando dietro di sé un cumulo di macerie. L’effetto di un amore che non sa rin-
novarsi è costituito dall’aumento notevole delle famiglie monogenitore, con la presenza, nella misura
del 90%, delle madri. La vittima resta, così, quella di sempre: ieri “angelo del focolare domestico”,
ma oggetto di sfruttamento; oggi quasi sempre lavoratrice “fuori di casa” e “donna di servizio” in fa-
miglia; coi rischi aggiuntivi della solitudine, della povertà conseguente al divorzio, della responsabili-
tà educativa dei figli.
L’istanza che emerge è quella, ineludibile, di una pedagogia della famiglia, che si ispiri non già al
motivo “moralistico” della cura dovuta ai figli, ma che punti sui motivi forti della formazione della
personalità, aperta, disponibile a raccordarsi ad un vasto orizzonte di valori metaindividuali, che de-
nunci l’egocentrismo come il segno di un’insufficiente maturazione personale.
(Renzo Tassi, Itinerari pedagogici, Zanichelli, Bologna, 1993, vol 1b, p. 82-83)
La difficoltà di essere “buoni” genitori

Come afferma John Bowlby, “è sempre più facile educare i figli degli altri che non i propri”. L’in-
tensità del legame affettivo fa infatti sì che la relazione richieda un’elaborata gestione di emozioni e
sentimenti. É evidente che la ricchezza dei legami emotivi presenti nella relazione famigliare renda
molto difficile essere “genitori perfetti”. Così lo psicoanalista Bruno Bettelheim ha dedicato all’edu-
cazione famigliare un libro, Un genitore quasi perfetto, basato sull’idea che, piuttosto che affidarsi
agli “specialisti”, “è alla portata di tutti essere genitori passabili, vale a dire genitori che educano be-
ne i figli. Occorre però che gli errori che commettiamo nell’educarli (...) siano più che compensati
dalle molte occasioni in cui ci comportiamo in modo giusto con loro”. Il “genitore quasi perfetto” è
dunque colui che è in grado di amare il figlio e dialogare con lui sulla base del “progetto” di cui que-
st’ultimo è portatore e che trascende la volontà dell’adulto. Naturalmente questo progetto non è
chiaro fin dall’inizio, ma necessita di strumenti (che spetta appunto al genitore fornire) per costru-
irsi, in modo che il figlio possa scoprire “chi essere e come esserlo”.

Claudio Volpi: Immagini dell’infanzia e strategie educative famigliari

Secondo Claudio Volpi esistono nella società contemporanea tre distinte immagini dell’infanzia e
tre distinte strategie della socializzazione infantile, alle quali corrispondono tre modelli di interventi
familiari:
a) l’immagine della “continuità”, in rapporto alla quale l’infanzia è concepita in funzione della ri-
produzione culturale e dell’inserimento del bambino nella società dell’adulto, si regge sulla “socializ-
zazione oggettiva” e postula una famiglia di tipo “patriocentrico”, in modo di foggiare e assicurare
modelli di comportamento ben definiti e ascritti normativamente;
b) l’immagine della “discontiuità”, in rapporto alla quale l’infanzia è concepita in funzione della li-
berazione individuale e del ruolo rivoluzionario del bambino nei confronti della società degli adulti, si
fonda sulla “socializzazione soggettiva” e richiede una struttura familiare di tipo “puerocentrico”, in
grado di assicurare la crescita infantile secondo parametri prettamente individualistici;
c) l’immagine della “continuità nell’autonomia”, in rapporto alla quale l’infanzia è concepita sia in
funzione dell’inserimento critico che in funzione dell’autorealizzazione, si regge sulla socializzazio-
ne transattiva e postula un modello di famiglia di tipo “paidocentrico”, in grado di far crescere tanto
il bambino quanto i genitori in ordine a progetti di vita possibili ma anche auspicabili, che partono
dal presente ma assumono il divenire storico come ipotesi di lavoro razionalmente controllabile.
(C. Volpi, La famiglia e l’educazione, oggi, in AA. VV. Un educazione possibile, La Nuova Italia,
Firenze, 1988, pp. 114-115)

L’evoluzione familiare e il problema dei ruoli educativi

L’evoluzione della famiglia nella società contemporanea, unito alla trasformazione della divisione
tradizionale del lavoro fra i sessi, ha prodotto vistose conseguenze educative, fra cui anche la diffi-
coltà di molti genitori ad assicurare nei primi anni di vita una presenza famigliare estesa e regolare.
Nella famiglia tradizionale questo problema toccava in genere solo la figura paterna. Oggi è invece
frequente il lavoro di entrambi i genitori, con la necessità di individuare già nel primo anno di vita
istituzioni, come l’asilo-nido, o figure, come i nonni o le baby-sitter, in grado di svolgere una funzio-
ne sostitutiva.
Per al psicologia del XX secolo il rapporto tra il bambino e la madre è stato uno degli argomenti
più affrontati: da un lato è stato infatti considerato dal punto di vista proprio della teoria dell’attac-
camento, che presupponeva un ruolo fondamentale della madre nello sviluppo emotivo della 1ª in-
fanzia e, spesso, di tutta la vita (Bowlby, Winnicott, Brazelton). Peraltro le implicazioni sociali e
pedagogiche di questi approcci sono anche state sottoposte a critiche da parte di coloro che hanno
visto, almeno in alcune di esse, un tentativo di ribadire il ruolo femminile di “moglie e madre” con-
tro l’emancipazione della donna. Secondo pedagogisti come Elena Gianini Belotti o pedopsichiatri
come Stella Chess e Alexander Thomas, ad esempio, quella di considerare le madri le principali re-
sponsabili di un’ampia serie di difficoltà comportamentali dei figli è una vera e propria moda, in-
fluenzata da pregiudizi sessisti e cresciuta sul tronco di teorie come quella di John Bowlby, orien-
tate a sopravvalutare il ruolo delle interazioni precoci fra l’adulto (inteso sostanzialmente come
“madre biologica”) e il bambino. Mentre lo stereotipo di madre è rimasto, nonostante tutto, piutto-
sto stabile, la figura paterna è andata incontro, nella nostra civiltà, ad una evoluzione considerevole,
che ha portato a notevoli oscillazioni dei ruoli educativi, variamente rappresentati con figure come
quelle del padre-autoritario, del padre-assente, del padre-amico, del padre-infantilizzato, del padre-
madre, e così via. Connessa a tutto ciò vi è certamente una maggiore flessibilità dei ruoli famigliari e
un cambiamento dei rapporti di autorità. La flessibilità dei ruoli richiede al padre la capacità di conti-
nuare ad essere una figura di riferimento autorevole senza per questo fissarsi sugli stereotipi dell’au-
toritarismo tradizionale.

Le “nuove” famiglie: adozione e affidamento

L’adozione è l’istituto giuridico che permette ad un minore, dichiarato adottabile per assenza o in-
capacità della famiglia naturale, di diventare figlio legittimo di chi lo adotta. La legge italiana prevede
l’istituto dell’adozione. Il diritto ad avere una famiglia, stabilito dalle carte costituzionali, dalle di-
chiarazioni e dalle convenzioni internazionali, è stato più volte ribadito anche da coloro che profes-
sionalmente si occupano dei bambini. Noti psicologi come René Spitz o John Bowlby, ad esempio,
hanno messo in luce gli effetti delle carenze affettive conseguenti a uno stato di abbandono.
L’adozione diventa così la soluzione per queste carenze sia nel caso di bambini orfani che in quello
in cui, per varie ragioni, la famiglia naturale venga giudicata, con provvedimento del tribunale minori-
le, incapace di “mantenere, istruire ed educare” i propri figli.
L’adozione rappresenta, per genitori e figli, un’importante “crisi” i cui esiti positivi o negativi di-
pendono in larga parte dalla capacità di gestione dei nuovi genitori. Peraltro i genitori adottivi hanno
nei confronti del nuovo figlio aspettative che possono risultare anche frustrate e deluse; avvertendo
l’insicurezza della nuova situazione, possono temere di non riuscire a gestirla. Ciò dipende in parte
dall’incapacità di distinguere tra procreazione (biologica) e filiazione (il legame psicologico che uni-
sce un figlio ai propri genitori). La psicoanalista Françoise Dolto afferma che “bisogna che i genitori
adottino i loro figli: purtroppo molto spesso non lo fanno”, intendendo con questo sottolineare che
un bambino, anche se procreato, diventa autenticamente figlio solo a condizione di una scelta e di
una volontà di affetto e di cura che non dipendono dalla procreazione biologica.
Secondo René Hoksbergen, tra i fattori necessari a evitare il fallimento dell’adozione troviamo, ol-
tre all’essere buone genitori: a) il rispetto dell’identità (genetica, culturale, etnica) dell’adottato, e
quindi del suo diritto a conoscere le proprie origini; b) la capacità di affrontare i problemi psicologi-
ci che possono caratterizzare il rapporto con tranquillità emotiva. Esiste una vera e propria “ango-
scia pedagogica” del genitore adottivo, il quale teme che il figlio non cresca secondo le proprie aspet-
tative, e che le esperienze precedenti o l’eredità genetica prendano il sopravvento.

La presenza dei minori in comunità socioassistenziali assume spesso la forma dell’affidamento a


tempo pieno o parziale. L’affidamento è un istituto giuridico che permette l’assegnazione per un
periodo più o meno lungo a una famiglia, a una comunità o ad una persona, di minori temporanea-
mente privi di assistenza o in condizioni di grave difficoltà familiare. Lo scopo di questo dispositivo
sociale è quello di favorire la ricostituzione di condizioni accettabili per la vita del minore nella sua
famiglia di origine. L’affidamento si differenzia dall’adozione per la sua temporaneità: vi si ricorre
quando i bambini, per varie ragioni, vengono staccati pe un periodo a termine dalla loro famiglia na-
turale, nella quale potranno rientrare appena le condizioni lo rendano possibile. La famiglia affidata-
ria non è quindi concepita come fonte di distacco rispetto a quella naturale: i genitori affidatari - que-
sta è la loro grande responsabilità pedagogica - devono essere in grado di dare affetto e attenzione in
modo non esclusivo e con la consapevolezza dei limiti temporali del legame, che peraltro possono
allungarsi o accorciarsi al di là delle aspettative. D’altra parte, benché il bambino possa disporre al-
l’interno della nuova famiglia di due figure genitoriali presumibilmente più positive di quelle della
famiglia naturale, mantiene nei confronti dei genitori naturali un legame affettivo che può dar luogo a
reazioni negative nei confronti della seconda famiglia, la quale dovrà farsi trovare preparata - tanto
sul piano emotivo che su quello educativo - di fronte a tale evenienza.

Famiglia e vita sociale

La famiglia è a tutti gli effetti un’istituzione che si assume compiti educativi inerenti la trasmissio-
ne dei valori sociali e l’integrazione dei suoi membri nella società. Sulla validità di questa azione esi-
ste un dibattito antico, ma ancora attuale: riesce la famiglia ad assolvere pienamente la propria fun-
zione di trasmissione e integrazione? É in grado di foggiare individui che corrispondano al modello
d’uomo su cui si basa il “progetto sociale” della propria comunità? É nota a questo proposito la ri-
sposta di Platone, il quale credeva che esistesse un conflitto tra famiglia e società, che la famiglia
potesse essere un ostacolo per la crescita politica dell’individuo. La sua concezione è diventata il
prototipo di tutte le proposte pedagogiche incentrate su una socializzazione precoce nell’educazio-
ne dei bambini. Aristotele, viceversa, era convinto che il contributo della famiglia fosse ineliminabile
e sostanzialmente integrabile con quello della società. Al di là della generale propensione per questa
seconda soluzione, la problematica di fatto è complessa. Essa concerne in primo luogo la misura in
cui la famiglia si identifica con i modelli sociali dominanti e riconosce il destino dei propri membri
nel destino collettivo della società. Schematizzando, si potrebbe dire che ogni famiglia colloca le pro-
prie scelte educative fra gli estremi di una perfetta adesione a un progetto sociale esterno (il quale, se
corrisponde a quello dei gruppi dominanti, rischia di produrre individui acriticamente “integrati”), e
di un completo familismo* indifferente ai bisogni sociali e orientato esclusivamente verso la forma-
zione di soggetti indirizzati a perseguire gli interessi del proprio ambito particolare di vita.
Il familismo può anche implicare che il successo del compito educativo della famiglia venga identi-
ficato con il raggiungimento di determinati obiettivi (di successo sociale, professionali, ecc..) giudica-
ti validi solo da alcuni dei suoi membri. Si può citare ad esempio il caso tipico del sacrificio dei pro-
getti dei figli a favore del progetto dei genitori (come accadeva tradizionalmente nei “matrimoni d’in-
teresse”) o alla rinuncia all’autonomia economica della moglie in nome del suo compito di “angelo
del focolare” per la carriera del marito. La crisi di questo orientamento si è espressa nei conflitti in-
trafamigliari, negli scontri generazionali e nei movimenti di emancipazione femminile.
Molte proposte per il superamento della crisi educativa della famiglia indicano la sua attuale situa-
zione di chiusura familistica come segnale della necessità di una “apertura” all’interno di forme di ag-
gregazione più ampie (Vance Packard, Bruno Bettelheim). Si tratta di mantenere o ricostruire la co-
munità, nella quale la famiglia possa inserirsi senza per questo cadere nella dissoluzione della pro-
pria identità.
* il familismo è la concezione secondo la quale la solidarietà tra i membri della famiglia deve prevalere
sui legami sociali più generali

(U. Avalle - M. Maranzana, Problemi di pedagogia, Paravia, Torino, 2001, pp. 8-22)
LA FAMIGLIA

stabile nel tempo sostituzione dei membri


ricambio generazionale
formato da individui legati da
ascendenza comune / matrimonio / adozione regolamentazione del tabù
gruppo comportamento sessuale dellʼ incesto
assunzione della responsabilità
della prole socializzazione, cura e protezione

unità economica collocazione sociale

modelli familiari

forme di partner
matrimonio preferenziale

monogamico esogamia (esterno al gruppo)


poligamico endogamia (interno al gruppo)

poliandria poliginia

modelii di modelli modelli di


residenza di autorità discendenza

patrilocale patriarcale patrilineare


matrilocale matriarcale matrilineare
neolocale ugualitario bilaterale

FORME DI FAMIGLIA

completa (marito - moglie - figli)


nucleare
incompleta (un coniuge vedovo/ divorziato - figli)

di una sola persona


senza struttura coniugale (fratelli / sorelle non sposati)
coppie omossessuali stabili

“a domino” (coppia + figli di diversi matrimoni)

orizzontale (due o + fratelli con mogli e figli)


famiglie multipla
complesse verticale (coppia + figlio/a con coniuge)

multiculturali / multietniche

estesa (coppia + parenti conviventi)


IL RAPPORTO GENITORI-FIGLI
la famiglia nucleare e la difficoltà di essere “buoni” genitori

autoritario sistema rigido di norme / adeguazione passiva


gli stili educativi autorevole-democratico norme flessibili incentrate sui bisogni effettivi / autonomia
permissivo eliminazione delle frustrazioni, soddisfacimento delle richieste
incoerente oscillazione tra autoritarismo e permissivismo

B. Bettelheim -> “un genitore quasi perfetto” -> errori educativi compensati dal dialogo / amore

patriocentrico continuità (riproduzione culturale) socializzazione


inserimento nella società dellʼ adulto oggettiva

C. Volpi -> modello puerocentrico discontinuità (liberazione individuale) socializzazione


crescita infantile / individualismo soggettiva

paidocentrico continuità nellʼ autonomia socializzazione


inserimento critico / autorealizzazione transattiva

Lʼ evoluzione famigliare e il problema dei ruoli educativi


asilo-nido
difficoltà dei genitori ad assicurare nei primi anni di vita una presenza regolare “reti sociali primarie”
baby-sitter

la teoria dellʼ attaccamento: il ruolo della madre nello sviluppo emotivo della 1° infanzia (J. Bowlby)
le critiche (S. Chess & A. Thomas): i pregiudizi sessisti

evoluzione della figura paterna: padre autoritario / assente / amico / infantilizzato / padre-madre

La separazione dei genitori / la “società fraterna” / figure significative nella “famiglia estesa”

adozione : istituto giuridico che permette ad un minore, dichiarato adottabile per


assenza o incapacità della famiglia naturale, di diventare figlio legittimo
di chi lo adotta.

Françoise Dolto: “procreazione” e “filiazione”


la filiazione è il legame psicologico che unisce un figlio
ai propri genitori: al di là della procreazione biologica
le “nuove” o dellʼ adozione, un bambino diventa psicologicamente
famiglie “figlio” di un adulto solo se questʼ ultimo decide di ricono-
scerlo affettivamente come proprio.
René Hoksbergen: a) rispetto dellʼ identità (genetica, culturale, etnica)
b) capacità di affrontare i problemi psicologici

affidamento (a tempo pieno o parziale): istituto giuridico che permette lʼ assegnazione


per un periodo più o meno lungo a una famiglia, a una comunità o ad una
persona, di minori temporaneamente privi di assistenza o in condizioni
di grave difficoltà familiare

Famiglia e vita sociale: il conflitto famiglia-società

identificazione con i modelli sociali dominanti / progetto sociale esterno


individui acriticamente integrati

famiglia nucleo affettivo aperto / sistema formativo complesso

familismo: la solidarietà tra i membri della famiglia prevale sui legami sociali più generali
soggetti indirizzati a perseguire gli interessi del proprio ambito particolare di vita
MODELLI DI COMUNICAZIONE FAMILIARE

Scuola di Palo Alto

RELAZIONI

(1) (2) (3)


SIMMETRICA COMPLEMENTARE RECIPROCA

rigida rigida flessibile


rifiuto disconferma ( alternanza simmetria -
(escalation) (doppio legame) complementarietà)

Minuchin

famiglia

“invischiata” “disimpegnata”
(enmashed) (desengaged)

resistenza ai debolezza delle


cambiamenti interconnessioni

“centripeta” “centrifuga”

Stealin

(1) al consenso (vicinanza vs esterno pericoloso)

Reiss famiglia sensibile (2) alla distanza personale (disaggregazione)

(3) allʼ ambiente (equilibrio coesione - indipendenza)

flessibilità, apertura al cambiamento

Schaefer Clima educativo e tratti infantili della personalità

controllo autonomia

affetto sottomissione, dipendenza attività, creatività


buone maniere, obbedienza buon adattamento sociale
scarsa creatività, conformismo aggressività moderata
rispetto acritico delle regole indipendenza

ostilità problemi nevrotici, forte aggressività


scarso adattamento sociale disadattamento sociale
timidezza, scarsa autonomia trasgressione ed anticonformismo
auto-aggressività immaturità affettiva
I MUTAMENTI PROFONDI E LA CRISI DELLA FAMIGLIA NEL XX SECOLO

Famiglia e educazione sociale


socializzazione primaria e secondaria
famiglia = agenzia dei socializzazione condizionamento nel rapporto con le altre agenzie di socializz.
centro di una molteplicità di progetti educativi

formazione della coppia modo in cui i genitori svolgono


nascita dei figli ruoli parentali i loro compiti educativi ed affettivi
ciclo di vita adolescenza dei figli nei confronti del figlio
familiare uscita dei figli dal nucleo familiare
pensionamento
malattia - morte

la dimensione affettiva e relazionale -> lʼ analisi del “sistema famiglia” (gruppo-vitale-con-storia)

PATOLOGIE DELLA COMUNICAZIONE FAMILIARE

(1) DOPPIO LEGAME ingiunzione paradossale / illusione delle alternative

a) relazione profonda tra due persone vita familiare, dipendenza materiale, amicizia, amore

b) messaggio strutturato in modo da: 1) affermare qualcosa (contenuto)


2) metacomunicare sulla propria asserzione (relazione)
3) determinare una contraddizione reciproca tra i due
livelli di comunicazione

c) impedimento al ricettore del messaggio (solitamente in rapporto complementare subordinato


con lʼ emittente) di rifiutarlo o metacomunicare su di esso

(2) RISPOSTA TANGENZIALE risposta adulta inadeguata rispetto allʼ intervento


(con effetto di disconferma) del bambino di cui non si prende in considerazione
la richiesta effettiva di attenzione

(3) MISTIFICAZIONE DELLʼ IO attribuzione allʼ altro di desideri, bisogni, stati dʼ animo in realtà
non espressi, con fini di controllo

aperta -> capace di interagire con i mutamenti interni ed esterni in modo flessibile
famiglia
chiusa -> strutturata tanto rigidamente da impedire gli adattamenti e lʼ apertura verso lʼ esterno

coeducazione
la coppia parità dei sessi intimità affettiva -> sviluppo di sentimenti empatici senza “fusione”
centralità dei sentimenti progetto comune

la “coppia coniugale instabile” e il “paradosso dellʼ amore romantico”

Sulla coppia non pesano più, come in passato, vincoli di origine esterna (come le strategie familiari delle
alleanze tra parentele fondate su calcoli economici o dʼ altro tipo): preminente su ogni altra motivazione è la
logica secondo la quale “ci si sposa per amore, e per amore si rimane sposati” (formula riconducibile al modello
dellʼ “amore romantico”) . La famigli contemporanea è fondata sullʼ amore, e dunque si vede arricchita dai valori
dellʼ intimità, dellʼ auto-espressione, dellʼ affettività, dunque di motivi che si collocano nellʼ interiorità; ma una volta
liberata dai vincoli esterni e istituita sul solo fondamento del consenso e dellʼ amore, la famiglia si è fatta più
fragile, esposta come mai in passato alla sua rapida dissoluzione; una volta posto lʼ amore romantico a
fondamento unico della costituzione della coppia, il venir meno dellʼ amore legittima la separazione e lo
scioglimento della famiglia medesima; lʼ amore, vissuto come “esclusivo”, rischia di diventare edonistico,
lʼ autoespressione affettiva tende a precipitare nellʼ egocentrismo, la famiglia, nata nel segno della libertà,
sembra restare prigioniera dellʼ individualismo e del consumismo della società contempo- ranea: lʼ amore (non
oblativo) si consuma per effetto dello scorrere del tempo, e poichè i coniugi vivono solo nel presente, la famiglia
non riesce a costituire una sua storia, con la conseguenza evidente dellʼ aumento costante del numero di
bambini ed adolescenti che vivono le tensioni dei loro genitori o mancano di una delle figure parentali.
La condizione giovanile e il gruppo dei pari

1. Immagini sociali dell’adolescenza


L’adolescenza presenta caratteristiche biologiche (raggiungimento della pubertà e della capacità
procreativa), caratteristiche psicologiche (comparsa del pensiero ipotetico-deduttivo) e caratteristi-
che sociali (raggiungimento dell’autonomia dal controllo familiare) spesso strettamente collegate ma
non necessariamente in parallelo. É dunque difficile stabilire in modo univoco “quando” hanno inizio
e fine adolescenza e condizione giovanile e “come” sono caratterizzate, nonostante siano diffusi
molti stereotipi sui giovani come categoria sostanzialmente omogenea: infatti numerose variabili
- come la cultura di appartenenza, la classe sociale, gli status, le esperienze individuali - modificano
fortemente il modo in cui ogni persona affronta questo periodo della vita. É stato così affermato che
esistono non “una” ma “molte” adolescenze, con molteplici “compiti di sviluppo” e molteplici “cri-
si”, ciascuna legata a un determinato problema specifico.

2. Aspetti dell’esperienza giovanile


La descrizione delle condizioni psicologiche dell’adolescenza fa riferimento ad aspetti generali che
possiamo schematicamente elencare.
a) A partire dalla preadolescenza si verifica la “scoperta” della dimensione del possibile, come po-
sizione intermedia fra il reale e il fantastico. Di conseguenza la lettura della realtà diviene sempre più
consapevole e articolata, mentre sempre più estesa si fa la proiezione nel futuro e l’apertura a situa-
zioni o persone vissute come alternative rispetto a quelle della propria vita quotidiana.
b) La possibilità di ragionare nella dimensione del possibile si collega anche al desiderio di autono-
mia intellettuale e alla necessità di sviluppare convinzioni personali nei confronti dei rapporti sociali
e del mondo adulto. A ciò si affianca la tendenza alla marginalità volontaria, cioé un allontanamento
dalle istituzioni sociali di riferimento, come la famiglia, che può essere tuttavia revocato liberamente
in ogni momento.
c) L’autonomia intellettuale può portare al formarsi di un sistema di ideali morali che è alla base di
molta parte dell’impegno giovanile, al quale si connette spesso la tendenza all’idealismo, tipica di
chi giudica le idee senza tener conto delle loro specifiche conseguenze pratiche. L’adolescenza è del
resto il periodo nel quale si possono sviluppare una moralità e una religiosità personali, lontane dalla
semplice adesione ai modelli adulti.
d) Un bisogno fondamentale è quello relativo alla costruzione dell’identità. L’identità viene costru-
ita con un lungo e complesso processo a partire dall’infanzia, in cui è indispensabile la capacità di
riconoscere una continuità attraverso la molteplicità di cambiamenti psicofisici e relazionali che si
connettono con il crescere.
e) L’adolescenza è anche un periodo caratterizzato da una particolare “tonalità” emotiva, con una
serie di stimoli fortemente significativi sul piano emotivo: la crescita fisica, affettiva, sessuale, cogni-
tiva, l’instabilità dovuta alla presenza in gruppi sociali con richieste e messaggi contraddittori.
f) La componente emotiva dell’adolescenza porta con sé anche un potenziamento della dimensione
espressiva e comunicativa, in cui la padronanza dei diversi linguaggi viene messa in gioco in un uso
più libero e creativo, nella forma della scrittura (diari, lettere, poesie, racconti), della musica, dell’im-
magine.

3. Disagio giovanile e marginalità


Quella del “disagio” è una delle categorie tipiche attraverso cui viene descritta la condizione giova-
nile. Ciò avviene certamente a partire da stereotipi diffusi, ma presenta anche una profonda giustifi-
cazione nelle circostanze psicosociali in cui i giovani sono immersi.
Secondo Erik Erikson l’età giovanile è normalmente caratterizzata da una certa “diffusione” del-
l’identità (ego-diffusion), ossia da una difficoltà a riconoscersi in una personalità determinata e a fare
scelte coerenti con essa. Guido Petter osserva che la conflittualità legata al disagio giovanile può pre-
sentarsi in diverse forme: conflittualità nei confronti del proprio corpo o del proprio aspetto fisico,
nei confronti delle regole sociali e dei diversi ambienti di vita, nei confronti dei valori o rispetto alla
propria presenza in vari contesti (famiglia, scuola, gruppo dei coetanei). A tale riguardo Petter con-
siglia ai genitori di non cercare di evitare indiscriminatamente ai propri figli tutte le situazioni di con-
flitto. Alcune di esse, come quelle che inducono ad innalzare il livello di aspirazione, sono infatti po-
sitive per la crescita. Per quelle negative è invece importante cercar di realizzare un’opera di preven-
zione (ad esempio educando a un corretto rapporto con la propria immagine corporea in risposta al
condizionamento indotto dai mass-media) oppure, se sono già in atto, servirsi del dialogo per aiutare
ad “alleggerire” la situazione, confermandola disponibilità, l’attenzione e la fiducia nelle capacità del
figlio di superarle.
Alla base del disagio giovanile ci sono numerosi fattori sociali: la mancanza di prospettive per il fu-
turo, la molteplicità dei modelli e dei valori, la crisi della famiglia, e così via. I giovani si trovano oggi
all’interno di una famiglia spesso frammentata e in difficoltà, vivono in una società costruita per la
maggior parte da adulti e da anziani e fatta su misura per i primi, cresono in una “civiltà televisiva”
lontana da riferimenti di valore facilmente decifrabili. La scuola non riesce e rispondere a questo di-
sagio, e talora lo acuisce. Gli ambienti urbani degradati non offrono luoghi di aggregazione, la disoc-
cupazione protratta e il gruppo dei pari favoriscono talvolta comportamenti devianti.
Françoise Dolto sostiene che l’adolescenza è “un’età vulnerabile e meravigliosa” in cui esistono
potenzialmente progetti di vita verso cui la società adulta prova spesso “invidia” rispondendo ad
essa con prevaricazioni e abusi. Una responsabilizzazione educativa della società in questo senso
dovrebbe prevedere la creazione fra adulti e adolescenti di un rapporto di reciprocità e dialogo, in cui
ai giovani vengono riconosciute condizioni di autonomia (anche concretamente economica) in cui
realizzare il proprio progetto di vita: la famiglia dovrebbe divenire un contesto di sicurezza primaria
e di dialogo capace di fornire esempi di progettualità, la scuola dovrebbe trasformarsi in una “casa
dei giovani”, un “luogo di vita” in grado di offrire un’alternativa alla famiglia, i percorsi formativi do-
vrebbero consentire ai giovani di incontrare educatori “non professionali” capaci di promuovere e
preservare le caratteristiche positive dell’adolescenza, come l’apertura al nuovo e al diverso.
Condizioni come quelle prospettate da Françoise Dolto si verificano però assai raramente, e l’area
del malessere giovanile assum nel frattempo molte forme, pur senza sfociare subito in un aperto di-
sadattamento. Giovani apparentemente ben adattati soffrno di malattie psicosomatiche, interrompo-
no bruscamente gli studi, sviluppano anoressie o altri disturbi nervosi, adottano comportamenti for-
temente rischiosi. L’approdo al disadattamento può diventare in seguito più evidente con una serie
di crisi interiori e relazionali che famiglia e scuola tendono a gestire superficialmente, in un incalzare
di “messaggi” sempre più drammatici come le fughe, i tentativi palesi di suicidio o l’adozione di
comportamenti aggressivi, ai limiti della violenza grave.
Uno degli sbocchi di questo disadattamento prende quindi la forma della devianza vera e propria.

4. La devianza giovanile
Il passaggio alla devianza come comportaùento di violazione sistematica e consapevole di norme e
aspettative sociali non avviene necessariamente in relazione a fatti molto gravi, ma presuppone una
“preparazione” ampiamente collegata con l’ambiente di sviluppo. Un contributo negativo in questo
senso può anche essere dato da ambienti educativi come la famiglia e la scuola quando non si dimo-
strano flessibili e sensibili verso i comportamenti giovanili. Il rischio è quello di trattare come carat-
teri devianti ragazzi che possono aver compiuto alcune azioni devianti in un contesto che le favoriva
per varie ragioni. Entra così in gioco il fenomeno sociologico dell’etichettamento, mediante il quale
l’attribuzione di un ruolo negativo (con definizioni come delinquente, pervertito, “cattivo” e così
via) produce emarginazione e bassa autostima che rendono sempre più definitiva ed estesa la con-
dotta “deviante”.
L’espressione in forme di aggressività e violenza fisica della devianza, a sua volta, dipende anche
da una serie di modelli propagati dai mass-media senza alcun alone di biasimo, ma anzi proposti co-
me “vincenti” e come valida alternativa al dialogo. Accade così che condizioni di povertà di dialogo e
di isolamento portino molti giovani a individuare nella violenza la compensazione del proprio disa-
gio e una via di affermazione della propria personalità. Anche il gruppo può incentivare comporta-
menti devianti, come “branco” che legittima con il proprio sostegno atti che un adolescente non
compirebbe da solo.
In determinati casi la devianza prende la forma vera e propria della delinquenza minorile. Nella mag-
gior parte dei casi alla base della delinquenza minorile sta una storia di disagio: disgregazione fami-
gliare, carenze di scolarizzazione, emarginazione sociale e culturale.
La rieducazione di giovani con comportamenti devianti richiede una ricostruzione dei loro valori e
modelli, asieme a concrete esperienze di vita di gruppo alternativa, con figure di educatori in grado di
offrire una leadership positiva e opportunità di attività e realizzazione di progetti. É però soprattut-
to in senso preventivo che l’educazione dovrebbe affrontare la devianza. Si potrebbe dire che la mi-
glior forma di prevenzione è una “buona” educazione, capace di porre le basi per una crescita armo-
nica, intellettualmente ed emotivamente equilibrata, ricca di competenze relazionalie e di capacità di
dialogo, fornita di progetti e rapporti significativi. I genitori e la scuola, assieme a tutte le realtà ter-
ritoriali di aggregazione e prevenzione, hanno il compito di creare degli ambienti di vita improntati
alla vicinanza e al dialogo autentico. É infatti l’ascolto nei confronti del “muto appello” del disagio
che consente a istituzioni come scuola e famiglia di fronteggiare precocemente ciò che tenderebbe in
seguito a dilatarsi come disadattamento e devianza. A titolo di esempio sulle modalità di prevenzio-
ne possiamo ricordare l’attribuzione di un nuovo significato all’avventura. Gli studi sulla delinquen-
za minorile mostrano una percentuale statisticamente significativa di personalità orientate verso stili
di vita emotivi ed avventurosi, che non trovano adeguata accoglienza ai loro bisogni (del resto tipica-
mente giovanili) nelle istituzioni educative tradizionali. Sorge così la necessità di riflettere sull’av-
ventura come “dispositivo pedagogico” la cui attivazione “controllata” assume una funzione pre-
ventiva grazie alla possibilità, in essa implicita, di accedere “all’inconsueto, allo straordinario, al tra-
sgressivo” (Paolo Mottana). La possibilità di vivere l’avventura in esperienze associative (ad es.
scoutistiche), in soggiorni di vacanza, offre infatti un itinerario di “iniziazione e transizione” alter-
nativo al rischio cercato nei giochi pericolosi e nei comportamenti devianti di molti adolescenti.

4.1 Consumo di droghe e tossicodipendenza come problema pedagogico


Fra le forme di devianza socialmente più diffuse e ampiamente presenti a livello giovanile troviamo
i comportamenti legati al consumo di droghe e la tossicodipendenza: è accertato che il primo contat-
to con le droghe avviene solitamente nell’adolescenza. É opportuno distinguere fra il consumo,
spesso occasionale, di determinate sostanze, e le forme di dipendenza fisica e psichica, che fanno sì
che gradualmente queste sostanze diventino il “centro” stesso dell’esistenza, lo scopo e la preoccu-
pazione principale di un individuo. Solo in questo caso, infatti, si può parlare di tossicodipendenza.
Le ipotesi sulle motivazioni e sulle cause che spingono alla dipendenza da droghe sono moltissime:
problemi relativi al profilo di personalità, problemi di identità sessuale, la pressione del gruppo,
l’automedicamento (ossia l’uso di sostanze con lo scopo di allontanare l’ansia o la depressione), fat-
tori economici e sociali (crisi di valori, disagio esistenziale), problemi legati all’età (la “marginalità”
dell’adolescente), ecc.
Il problema delle tossicodipendenze viene attualmente affrontato anzitutto a livello di prevenzio-
ne, sulla base di un approccio educativo e rieducativo. Si distinguono tre modelli fondamentali:
1. Il modello informativo è l’approccio più tradizionale, basato sulla convinzione che una corretta
informazione sugli effetti, sui danni e sulle implicazioni legali del consumo di droghe possa allonta-
nare dal loro uso. Nella prevalenza dei casi si è rivelato un percorso scarsamente efficace, che talora,
addirittura, ha prodotto l’effetto opposto di “promuovere” l’uso delle sostanze.
2. Il modello della drug education, sviluppatosi nell’ambito statunitense, ha aggiunto agli obiettivi
cognitivi del precedente anche obiettivi di tipo affettivo, incentrati sull’aumento dell’autostima, la
capacità di fare chiarezza sui valori in gioco, di orientarsi e saper risolvere problemi attraverso deci-
sioni autonome. La drug education ritiene che alla base del consumo stia una sostanziale difficoltà a
livello di autogestione e di rapporti sociali, a partire dalla quale è possibile costruire dei soggetti in
grado, se correttamente informati, di evitare il consumo mettendo anche in atto specifiche strategie
di difesa.
3. Il modello dell’educazione sanitaria, più frequente a livello europeo, è caratterizzato dall’idea
che la prevenzione delle tossicodipendenze trovi posto nel più vasto ambito di un’educazione a un
corretto rapporto fra organismo, ambiente e società. Questo punto di vista colloca il tema delle tos-
sicodipendenze nel contesto di una generale eduucazione alla salute.
Secondo il Gruppo Abele, da molti anni operante in Italia, il percorso ragionato di recupero deve
consistere in almeno cinque punti:
- la fonte d’informazione deve essere una persona vicina ai giovani, non autoritaria, molto prepara-
ta e possibilmente con esperienza specifica sul campo;
- il contesto deve essere adatto, caratterizzato da una precedente disponibilità al dialogo aperto su
problemi sociali;
- il metodo deve essere la discussione guidata, in cui sono i soggetti stessi a giungere alle conclusioni;
- i contenuti devono essere adattati al gruppo, essere corretti, oggettivi, non terroristici, non bana-
lizzanti, legati alla ricerca comunitaria delle cause e delle soluzioni;
- Il messaggio fondamentale che deve essere trasmesso non è l’immagine dei soggetti come poten-
ziali consumatori ai quali raccomandare di “non drogarsi”, quanto piuttosto come soggetti responsa-
bili e degni di fiducia, cui dire “devi impegnarti per risolvere il problema”.
Presupposto fondamentale delle varie forme di prevenzione resta comunque la capacità di ascolto
ed empatia, che permette di affrontare le tendenze devianti che sono alla base dell’uso di droghe.

5. La cultura giovanile

La cultura giovanile scaturisce dal fatto che, oltre che un “passaggio” e una “crisi”, l’adolescenza è
un’area intermedia dotata di una propria autonomia e di propri compiti di sviluppo, di forme di
identità contrassegnate da prodotti culturali. A partire dalla metà del novecento i giovani del mondo
occidentale hanno dato origine a subculture parzialmente in conflitto con il mondo adulto, o addirit-
tura a progetti di controculture alternative. Gli stili che le contrassegnano si sono gradualmente dif-
fusi in tutto il mondo, grazie al potere dei mass-media. A partire dagli anni settanta vi è stato quindi
il progressivo frantumarsi della fruizione giovanile dei prodotti di consumo, degli stili e delle mode,
così da dar luogo a molteplici gruppi e identità differenziate, tanto che diviene necessario parlare di
“culture” giovanili piuttosto che usare quest’espressione al singolare.
La diffusione delle culture giovanili si realizza anzitutto attraverso il gruppo e la comunicazione tra
i suoi membri, attraverso i mass-media e la fruizione di prodotti dotati di visibilità e di particolari
“stili”. Ciò porta ad affrontare il discorso della moda. La moda, definita dal semiologo Roland Bar-
thes “modello di identità sociali”, occupa un posto particolare nell’universo giovanile a partire dal
momento in cui i giovani hanno deliberatamente differenziato i propri stili di vita rispetto a quelli
degli adulti, riconoscendosi, dagli anni Cinquanta in poi, come generazione dotata di una propria
identità che rifiutava l’omologazione a quella dei genitori. Da questo punto di vista, come afferma lo
psicologo francese Jean-Marie Seca, la moda serve a caratterizzare “una ricerca urgente di riconosci-
mento sociale”, diviene una “seconda pelle” che esprime il desiderio di essere riconosciuti e compre-
si. La scelta giovanile per look fortemente connotati, “diversi” rispetto agli stili adulti, e, al limite,
estrosi e personalizzati, indica anche il desiderio di non subire i codici sociali, ma di essere protago-
nisti, combinando e dotando di nuovo significato quanto ricevuto dall’esterno.

5.1 Le culture giovanili come problema educativo

Oggi è diventato ineliminabile per gli educatori conoscere i contenuti e i prodotti delle culture gio-
vanili per poter efficacemente dialogare su di essi. Ciò implica l’uscita dalla logica del “conflitto ge-
nerazionale” come unica possibilità di rapporto fra adolescenti e adulti. Sembra infatti che il princi-
pale punto di frattura culturale tra giovani e educatori adulti sia quello determinato dal fatto che la
maggioranza dei giovani viene identificata con fruitori particolarmente passivi di una cultura di mas-
sa standardizzata, arbitraria, semplicistica e priva di valore, semplice “merce” contrapposta alla cul-
tura “vera” che la scuola dovrebbe promuovere. Nella sua forma estrema ciò diviene una condanna
dei giovani, giudicati come individui sfruttati e manipolati da una cultura creata artificialmente per
interessi commerciali. Ma se i consumi culturali legati all’identità generazionale giovanile sono in ge-
nere lontani dalla cultura “alta” proposta dalla scuola e apprivata da una parte degli adulti colti, tut-
tavia la scuola non può correre il rischio di fare della cultura “alta” una cultura chiusa, ostile alle for-
me di cultura che i giovani possono ritenere “proprie”. La scuola deve perciò rivolgersi alla cultura
di massa, alle sottoculture e controculture in cui i giovani sono implicati non con un atteggiamento
aprioristico di condanna, bensì secondo un approccio a più facce che assuma i caratteri di una “edu-
cazione interculturale”. La scuola dovrebbe dunque: 1) studiare i legami tra cultura “alta” e altre cul-
ture servendosi degli stessi strumenti ed apparati critici utilizzati solitamente per i prodotti della
cultura “alta” (ad esempio leggere una canzone come una poesia); 2) saper “leggere” le altre culture,
capire i loro codici, i loro motivi, i loro effetti; 3) fornire ai suoi utenti una capacità di fruizione e
lettura critica, riunendo “alto” e “basso” secondo categorie interpretative adeguate.
Il rischio prevalente per la scuola, di fronte ad una parte delle culture giovanili che reca con sé mes-
saggi di forte “trasgressione” rispetto alle “regole” adulte, è quello di intervenire invece in maniera
semplicemente repressiva verso queste forme di trasgressione, alla cui origine c’è spesso il bisogno,
dettato da non-conformismo, di cambiare le regole, oppure la ribellione verso determinate forme di
autorità. Si pone così il problema di una educazione autenticamente “aperta”, capace di fare della
scuola un luogo di democrazia e di dialogo, una comunità rispettosa della persona e della pluralità
dei valori e che non si fondi su giudizi sommari e opinioni preconcette.

6. Le aggregazioni tra coetanei


Un elemento comune che caratterizza fortemente la condizione giovanile è la forma particolare as-
sunta dal bisogno di socialità, che tende sempre di più a gravitare nella direzione dei coetanei, per-
cepiti come alternativa al mondo adulto, alle sue contraddizioni e incomprensioni. È con i pari che i
giovani costruiscono forme di aggregazione più o meno vaste, che in alcuni casi tendono a diventare
esclusive.
6.1 I “movimenti a due”: amicizia e amore
L’amicizia è un legame complesso e articolato, di cui fanno parte dimensioni come lo stare insieme,
il conflitto, l’aiuto, la sicurezza, l’intimità che interagiscono in modo diverso a seconda dell’età dei
soggetti. Se le prime forme di amicizia si manifestano già intorno ai tre anni, la loro maturazione av-
viene proprio intorno agli undici-dodici anni, cioè alle soglie della preadolescenza, quando la funzio-
ne sociale ed affettiva raggiunge la sua maggiore ampiezza. L’amicizia contribuisce alla “desatellizza-
zione” dalla famiglia, anche se talora può produrre una nuova forma di “satellizzazione” - anche
estrema - basata su un forte bisogno di fiducia e di reciprocità. All’interno dell’amicizia trovano po-
sto numerosi conflitti: educare all’amicizia significa, da questa angolatura, potenziare anzitutto le
competenze di dialogo e di risoluzione pacifica e consensuale dei conflitti nel riconoscimento del
“punto di vista” dell’altro. Un discorso simile può essere sviluppato anche a proposito delle forme
di educazione dell’affettività connesse ai flirt, all’innamoramento e all’amore con cui gli adolescenti
entrano nella sfera di esperienza collegata al raggiungimento della maturità sessuale. Flirt, innamora-
mento e amore, oltre ad essere esperienze profondamente coinvolgenti, implicano lo sviluppo di
competenze e caratteristiche della personalità, che vanno dalla sicurezza all’autonomia, all’autosti-
ma, all’identità sessuale, a capacità di comunicazione, e così via. L’educazione alla gestione di queste
esperienze è oggi spesso contraddittoria, con interventi e messaggi contrastanti proposti dagli adulti
di riferimento, dal gruppo, dai mass-media.

6.2 Il gruppo dei pari


A partire dall’infanzia l’appartenenza al gruppo fa sì che accanto alle attività di gioco si costruisca-
no progressivamente forme di condivisione di sentimenti, segreti, interessi e problemi. Il gruppo for-
nisce uno status, un’identità, una sicurezza di fronte alle molteplici trasformazioni che si devono af-
frontare. Gli studi di psicologia sociale individuano nel gruppo una forma di aggregazione che assu-
me progressivamente più importanza a partire dalla preadolescenza. Le “bande” di preadolescenti
(non intendendo con questo termine gruppi con fini delinquenziali) si costituiscono inizialmente fra
individui appartenenti allo stesso genere sessuale, che tendono ad escludere membri dell’altro sesso
e a compiere assieme attività di tipo esplorativo, costruttivo o competitivo. Queste attività hanno
l’importante funzione di permettere esperienze personali al di fuori del sostegno familiare ma allo
stesso tempo non in condizioni di isolamento. Durante l’adolescenza la “banda” si trasforma in
“compagnia” in cui sono presenti membri di entrambi i sessi e in cui le appartenenze sociali di pro-
venienza sono generalmente più omogenee. Nella compagnia si esplora la relazione con l’altro sesso
e si costruisce la propria immagine di sé confrontandosi con gli altri e sperimentando i diversi ruoli
possibili nell’interazione sociale col gruppo. Il gruppo “educa” in modo informale gli individui che
ne fanno parte alle sue regole, alla sua visione del mondo. Un aspetto che rimane problematico ri-
guarda l’assenza di luoghi adeguati come punto d’incontro e di attività comuni. L’offerta educativa
dovrebbe prevedere strutture aperte e informali, frequentabili con orari liberi e senza particolari for-
me d’impegno, ma allo stesso tempo caratterizzate dalla presenza di attrezzature e materiali (per
giocare, per fare sport, per attività culturali...) e di programmi da condividere (peraltro senza con-
trolli pressanti) con animatori e operatori specializzati. Per superare l’emarginazione, si dovrebbe
favorire la socializzazione positiva intorno ad attività arricchenti e coinvolgenti, consentire l’incon-
tro con adulti di riferimento in grado di fornire, all’occorrenza, un supporto educativo. Di fatto tale
tipologia di offerta educativa risulta sul territorio piuttosto carente, rimanendo sempre di più affida-
ta alle sole forme tradizionali e “adultocentriche” di associazionismo educativo.
A parere di Erik Erikson i giovani possono cercare di soddisfare il proprio desiderio di identità e
autonomia anche “nella partecipazione ai movimenti (...) purché questi rispondano all’esigenza dei
giovani di sentirsi “attivati” e indispensabili nell’indirizzare qualche cosa verso un avvenire aperto a
tutto”. A fronte delle molteplici immagini sociali di giovani devianti, privi di valori, “ribelli senza
una causa” il cui tempo libero è un tempo “vuoto”, si è affermata in questi anni la partecipazione di
moltissimi giovani ad attività di volontariato in campo sociale e culturale, a testimonianza, ancora
una volta, della frammentazione dell’universo giovanile che ne rende impossibile una definizione
univoca. I riflessi educativi dell’inserimento in un gruppo di volontariato sono evidenti: i giovani
vengono coinvolti in un “progetto di vita” ricco di valori e di esperienze significative, hanno la pos-
sibilità di agire ed essere considerati “adulti” e pienamente responsabili in un rapporto “alla pari”
con altre figure adulte di riferimento, sono messi nelle condizioni di seguire altri percorsi formativi
che in un certo numero di casi si traduce in un orientamento verso scelte professionali parallele.
La condizione giovanile e il gruppo dei pari

adolescenza

caratteristiche caratteristiche caratteristiche


biologiche psicologiche sociali

pubertà pensiero autonomia dal


capacità procreativa ipotetico-deduttivo controllo familiare

scoperta del possibile autonomia intellettuale

marginalità volontaria idealismo

costruzione dellʼ identità emotività

espressione e comunicazione

disagio giovanile “irresponsabilità”


bambino
ego-diffusion conflittualità marginalità sociale
adulto
difese maniacali: disprezzo responsabilità
adulti
devianza giovanile

aggressività e delinquenza consumo di droghe


violenza fisica minorile e tossicodipendenze

il “branco” labeling theory prevenzione


etichettamento
modello drug educazione
informativo education sanitaria
gruppo “attacco-fuga”

cultura giovanile

identità subculture e controculture mass-media


generazionale (metà del ʻ900) mode e stili di vita
adolescenziali

culture giovanili come


problema educativo

conoscere i prodotti studiare i legami tra fornire una capacità di


delle culture giovanili cultura “alta” e altre culture fruizione critica, riunendo
“alto” e “basso”
vs
condanna della evitare gli atteggiamenti
“cultura di massa” repressivi nei confronti delle
forme (culturali) di trasgressione
le aggregazioni
tra coetanei

amicizia flirt, innamoramento gruppo dei pari


amore
desatellizzazione
dalla famiglia sicurezza, autonomia banda monosessuale compagnia eterosessuale
risoluzione dei identità sessuale preadolescente adolescente
conflitti capacità comunicativa
associazioni
MASS-MEDIA E EDUCAZIONE

cultura e comunicazione di massa


U. Eco

“apocalittici” “integrati”
irrimediabile negatività dei media accettazione incondizionata
per la crescita umana dei nuovi media

la moltiplicazione vertiginosa della comunicazione -> le “reti globali”


(G. Vattimo: la società trasparente)

potente pervasiva condizionante -> ( audience)


educazione sociale dei media
informale involontaria non formativa

libro durata nel tempo, fruibilità immediata, flessibilità e velocità dʼuso


letteratura per lʼinfanzia: iniziazione, fantasia, formazione (ʻbildungʼ)
M. Lodi: il libro creativo contro la TV (tipografia in classe -> Freinet)
il fumetto come struttura iconico-narrativa (p.114 - 115)
atteggiamento psichico visivo-razionale vs orale-intuitivo
sequenzialità vs globalità culture analfabete

McLuhan, Postman media audiovisivi -> “orecchiocchio” culture post-alfabete


apprendimento per “immersione”
dimensione analogica (immagine) vs logica

falsificazione vs autenticità
TV -> informazione-interpretazione -> ipersemplificazione degli eventi
illusione dellʼinformazione oggettiva

sostituto dellʼesperienza affettivo-comunicativa


fruizione della TV nellʼetà evolutiva -> adultizzazione precoce (la TV “babysitter”)
contenuti negativi: modelli consumistici, violenza, erotismo
mescolanza di “verità” e finzione
sensomotori aumento dei comportamenti aggressivi
videogiochi operatori passività del corpo
simbolici stress da sovrastimolazione percettiva
isolamento relazionale e dipendenza

necessità di elaborare criticamente i messaggi


ruolo della famiglia
superamento di posizioni “apocalittiche” o “integrate” (G. Petter, p.121)

lʼanalisi della pubblicità: caratteristiche degli spot e rischi educativi (p.121 - 122)

scuola e TV cultura scientifico-tecnologica vs cultura iconico-orale


impegno intellettuale vs immediatezza emotiva
razionalità dei discorsi vs flusso discorsivo analogico

educazione attraverso i media => didattica multimediale (p.123 - 124)

computer -> strumento programmabile, -> istruzione programmata sequenze semplici rinforzate
interattivo, autocorrettivo “teaching machine” (Skinner) di apprendimento (CAI)
ipertesti -> prodotti informatici multimediali (testo, immagini, suoni) computer
facilità di navigazione -> rischio di “zapping” informatico assisted
instruction

atteggiamenti romanticismo tecnologico (medium “naturalmente” formativo)


verso il spersonalizzazione dellʼinsegnamento (qualità “umana” della cultura)
computer nuove disuguaglianze educative (il computer giova agli alunni già avvantaggiati)

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