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Umberto Roberto

IL NEMICO INDOMABILE

Capitolo 1: Sulle orme degli dèi: l’Impero Romano ai confini del mondo

La prudenza di Cesare

Augusto, fino alla sua morte, considerò l’Elba come confine ultimo dell’Impero Romano. Furono le imprese
di Druso tra 12 e 9 a.C. a consolidare questa posizione. Trenta anni prima, né Agrippa, né Cesare prima di lui,
erano riusciti a mappare il territorio o a catalogarne gli abitanti.

Le legioni di Cesare si erano spinte fino al Reno, entrando in contatto con gli autoctoni, ma queste genti erano
pericolose: spesso razziavano la pianura gallica. Cesare doveva dare una dimostrazione della forza di Roma
per incutere timore a questi popoli (c’era da battere il ferro finchè era caldo, dopo la sconfitta di Ariovisto),
così quando nel 55 gli Ubii, minacciati dai Suebi, chiesero aiuto a Roma, Cesare mosse contro Usipeti e
Tencteri, sconfiggendoli in Gallia, nella quale avevano sconfinato. A quel punto passò il fiume, ed individuò
nell’oceano il confine ultimo del potere romano. Cesare optò per la prudenza, e consolidò la provincia di
Gallia: le conquiste oltre il Reno non erano necessarie. Esso demarcava il confine tra civiltà e caos.

Agrippa in Gallia e sul Reno(39/38 a.C.)

Ad Agrippa e alla domus Augusta, il territorio oltre il Reno non faceva paura, anzi: vi individuarono fonte di
bottino, terre e gloria, della quale Augusto era affamato. La provincia di Gallia ancora necessitava sistemazione
dopo la prematura morte di Cesare, ed Agrippa venne scelto per questo compito.

L’accordo di Brindisi del triumvirato fece passare le legioni d’occidente in mano ad Ottaviano, che inviò
Agrippa come governatore. Da Appiano sappiamo di una sua vittoriosa campagna ad Aquitania, che ebbe lo
scopo di assicurare le comunicazioni in territorio gallico. Tra 39 e 38, consolidata l’amministrazione e la
sicurezza provinciale, Agrippa si mosse verso il confine nord est per rendere sicuro il Reno. Utilizzò
diplomazia e terrore: dapprima passò il fiume con l’esercito per colpire le popolazioni ostili ed intimorire le
altre. Si rivolse contro i Treveri e i loro alleati, Sugambri e Suebi. Durante la spedizione Agrippa apprese sullo
spazio ignoto oltre il Reno. Agrippa inviò molti esploratori per marcare il territorio e riconoscere quali tribù
fossero amiche e quali non lo fossero, al fine di preparare le future spedizioni ed alleggerire la pressione sul
confine.

Nel 37 però, il buon Agrippa fu richiamato a Roma per aiutare Ottaviano contro Sesto Pompeo. Agrippa lasciò
la Gallia, e le scorrerie barbariche nella provincia ripresero, con grande disperazione dei governatori, i quali
mancavano di un piano efficace per bloccare le razzie. Il proconsole Gaio Carrinas nel 30 represse la ribellione
dei Morini in Gallia belgica, e respinse l’incursione dei Suebi. Per questi onori, celebrò il trionfo sui galli.
L’instabilità, tuttavia, continuò: nel 29 anche il legato Marco Nonio Gallo dovette fare i conti con l’invasione
dei Treveri, che furono domati.

Il Reno veniva anche attraversato da mercanti assetati di guadagno, di cui nessuno però poteva garantire
l’incolumità. Nel 25 infatti dei mercanti romani vennero catturati e uccisi. L’allora governatore di Gallia,
Marco Vinicio, passò il Reno e punì i responsabili, riportando un’altra grande vittoria sui germani ed
incrementando la gloria di Ottaviano Augusto.
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Il ritorno di Agrippa in Gallia: una nuova visione dell’impero (20/19 a.C.)

Quando Agrippa torna in Germania le cose sono cambiate: Augusto ora è comandante supremo di tutte le forze
romane, mentre Agrippa è entrato nella sua casata sposandone la figlia. La sua visione era ora cambiata: Roma
doveva dominare. Ne andava della sua missione ecumenica e del prestigio e consenso del princeps. Agrippa
convince Augusto ad avviare la campagna di conquista oltre il Reno affermando che la domus Augusta doveva
trovare gloria là dove lo stesso Cesare si era arrestato. La spedizione andava ora preparata con cura. Cassio
Dione scrive che nel 20 Agrippa dovette tornare in Gallia per sedare alcune dispute tra comunità galliche,
inasprite dalle incursioni germaniche. Una volta risolte, diede il via alla costruzione di grandi vie che
collegassero Lugdunum ad Aquitania, Marsiglia e soprattutto al Reno. Il territorio si sviluppò grazie agli
interventi del governatore. Nacquero inoltre molti avamposti militari sulla riva del fiume, primo tra i quali
quello di Hunerberg, datato tra 19 e 16 a.C. grazie ad alcune monete ivi ritrovate. Agrippa si impegnò anche
nella diplomazia per assicurare il confine: fece accordi con popolazioni stanziate tra Reno e Weser, tra cui
Catti, Sugambri, Cherusci, Bructeri, Tencteri, Usipeti. I romani potevano anche controllare lo spostamento di
queste popolazioni a loro piacimento, al fine di ridurre le pressioni sul territorio romano. Un esempio è lo
spostamento della popolazione degli Ubii, mossi fuori dalla zona del Sieg per evitare la pressione dei Suebi
che li minacciavano. La nuova ubicazione che raggiunsero divenne un insediamento, che oggi è la città di
Colonia (Oppidum Ubiorum). Si tratta di una riuscita integrazione tra romani e germanici, riuscita secondo
Tacito perché i romani si fidavano degli Ubii. Vi furono diversi casi di questo genere.

Clades Lolliana: la svolta (17/16 a.C.)

La situazione stabilita da Agrippa durò però poco. Marco Lollio Paolino, sostenuto da Augusto, venne
nominato governatore della Gallia nel 17. Velleio Patercolo ce ne parla come di un uomo avido ed incline al
vizio. Poco dopo il suo arrivo, si scoprì che i Sugambri, stanchi del molesto dominio romano, avevano convinto
Tencteri ed Usipeti a combattere al loro fianco contro Roma, ed avevano catturato e massacrato 20 centurioni
che erano stanziati nel loro territorio. Prevedibilmente, fu guerra. Nel 16 i Germani varcarono il fiume,
mettendo a ferro e fuoco tutto sul loro passaggio. Lollio mosse con l’esercito, ma i Germani erano pronti, e
sconfissero sonoramente i romani, che persero l’aquila della quinta legione. L’evento venne ricordato come
Clades Lolliana, e portò più infamia che non danno: Svetonio dice che le perdite furono esigue, ma l’accaduto
suscitò grande impressione, e fu una pesante macchia sul principato augusteo. L’ultio ormai urgeva contro le
offese germaniche. Augusto partì per la Gallia, mentre Lollio si riorganizzava. I germani, impauriti, inviarono
emissari per riacquisire relazioni pacifiche, rendendo anche l’aquila, ma ormai era tardi: la Gallia grazie agli
sforzi di Agrippa era adatta a sostenere la logistica militare. Il Reno stava per cessare di essere un confine.

Manipolazione della memoria: Claudio Marcello a Clastidium

Tutte le risorse vennero convogliate nella preparazione all’invasione, perfino la memoria: nei Fasti
Triumphales si parla infatti di una vittoria sui germani del 222 a.C. ottenuta da Claudio Marcello, sebbene
questi in realtà avesse combattuto conto i galli transalpini.

La via per le Alpi

Augusto lasciò Roma per 3 anni (16-13) per seguire le iniziative di Agrippa. In questo periodo egli pensò
anche di concludere la conquista dell’arco alpino con una grande spedizione contro Reti e Vindelici, della
Vallis Poenina. Questa decisione era divenuta improrogabile e avrebbe finalmente dato il definitivo controllo
delle Alpi per la difesa dell’Italia. Questa spedizione era però solo un preludio: era una preparazione per la
campagna in Germania. Andava preparata la logistica attraverso le montagne in vista del colpo decisivo con
la campagna di Tiberio e Druso.
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Un affare di famiglia: Druso e Tiberio al comando delle operazioni

La campagna era probabilmente stata organizzata con grande anticipo. La conquista della Germania veniva
considerata come un’eredità cesariana, perciò anche la campagna sulle Alpi venne considerata come un modo
di consolidare l’autorità degli uomini che ora guidavano la repubblica. A guidare le operazioni furono Druso
e Tiberio, figliastri di Augusto.

Manovra a tenaglia attraverso le valli alpine

Secondo Cassio Dione, l’attacco a Reti e Vindelici fu eseguito simultaneamente dai due fratelli. Essi
parteciparono personalmente agli scontri, dimostrando grande coraggio. È possibile che in queste battaglie
partecipò anche il giovane aristocratico Publio Quintilio Varo, al comando della diciannovesima legione.

Druso da Aquileia al Danubio

Druso, lasciata la base di Aquileia, mosse sul fianco destro dello schieramento. I Reti furono messi in fuga, e
Druso proseguì fino al Danubio. Durante le operazioni, i soldati approntarono il sistema viario dalla valle
dell’Adige fino all’area danubiana. In pochi mesi, le operazioni furono concluse, con grande strage di
popolazioni germaniche. Gran parte della popolazione maschile fu deportata onde evitare rivolte.

Una vittoria da celebrare

La vittoria dei due fratelli andò ad incrementare il prestigio di Augusto, che si occupò di farla celebrare con
monete, monumenti, poesie, chi più ne ha più ne metta.

Druso il conquistatore

Nel 13 Druso prese il comando delle legioni per l’invasione oltre il reno, e si stabilì nei campi di Mogontiacum
(Magonza) e Castra Vetera (Xanten). Bisognava assicurarsi le vie fluviali, in assenza di un efficiente sistema
stradale. Ma non solo: i romani cercarono di costruire una flotta, probabilmente per solcare l’Oceano (il Mare
del Nord) e far sbarcare i legionari alle spalle dei germani. La flotta fu approntata, ma bisognava ora aprire la
via per il mare. Venne quindi creato un canale che collegava il Reno al Mare del Nord, opera di grande
ingegneria militare. Tutto era pronto e i Sugambri, intimoriti da queste preparazioni, lanciarono un’offensiva
oltre il Reno per scoraggiare i romani. Vennero fermati, e la ferocia dei romani non fece che crescere.

Invasione e conquista (12-11 a.C.)

I romani finalmente varcano il Reno, devastando prima gli Usipeti, poi i Sugambri. Simultaneamente, Druso
passava per il canale di recente costruzione con le navi per accerchiare i germani. I Frisi, spaventati, si
allearono con Roma. Druso sbarcò da dietro ed ottenne una vittoria sui Bructeri, poi si rivolse contro i Cauci,
che occupavano terre fino all’Elba. La flotta però si incagliò a causa delle correnti marine. Tacito attribuisce
ciò alla furia delle divinità. Druso era in grave pericolo, ma i Frisi giunsero in aiuto, e Druso riuscì a ritirarsi
per l’inverno, poi tornò a Roma per assumere la carica di pretore urbano. Nell’11 era però già tornato, e con
l’esercito attraversò nuovamente il Reno. Sconfisse gli Usipeti, e ordinò agli ingegneri di costruire un ponte
sul fiume per giungere fino ai Sugambri, con l’aiuto dei Catti, loro nemici. Giunto fino al fiume Weser, però,
Druso assecondò gli umori dei suoi soldati, spaventati da alcuni auspici nefasti e dall’arrivo dell’inverno, e
decise di tornare indietro. Qui vennero colti di sorpresa da un’imboscata (presso Arbalo, Plinio), che fallì solo
per la disorganizzazione dei germani. La ritirata proseguì indisturbata, e Druso fondò due campi per segnare
la via della sua futura impresa. L’archeologia supporta quanto affermato dalle fonti. Augusto, per queste
vittorie, fu per la dodicesima volta salutato come imperator. A Druso fu concesso l’imperium proconsolare ed
un trionfo minore.
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Ai confini del mondo: l’Elba

Nella primavera del 10 a.C. la conquista riprese. Druso partì contro i Catti da Mogontiacum, ma non riuscì a
sconfiggerli. Intanto, Tiberio, Druso e Augusto si incontrarono e fecero ritorno a Roma. Druso ottenne il
consolato, ma ignorò alcuni presagi nefasti di quei giorni, e ripartì per il Reno. Nel 9 i romani si rilanciarono
all’offensiva. Penetrarono nel territorio di Catti, Quadi e Marcomanni. Dopo molte difficoltà, giunsero
all’Elba. Era quello il traguardo della domus Augusta. A Roma cominciarono i preparativi per i festeggiamenti,
ma la morte colse il giovane Druso.

Morte di un eroe

Druso cominciò il viaggio di ritorno, ma cadde col cavallo. La ferita si incancrenì. A Tiberio fu ordinato di
raggiungere il fratello. A pochi giorni dai 30 anni, Druso morì. La sua memoria fu onorata a lungo a Roma.
Druso era un guerriero coraggioso, e segretamente aspirava al ritorno alla repubblica. Tiberio forse sapeva e
condivideva questa visione, ma amava molto il fratello e mai rivelò i suoi pensieri al patrigno.

“Fin dove vuoi arrivare, insaziabile Druso?”

Druso aveva compiuto eroiche gesta, ed aveva ampliato grandemente i possedimenti romani. La sua morte
prematura fu un duro colpo. Per metabolizzare la perdita, a Roma si riconsiderarono gli auspici negativi dei
giorni precedenti la sua partenza, e vennero inventate leggende su come egli avesse ignorato, per sua giovanile
audacia, i segnali negativi delle divinità.

La pietà di un fratello

Tiberio raggiunse il fratello per l’ultimo saluto, poi ne accompagnò la salma in Italia. Il lutto ricordava quello
di Agrippa del 12 a.C. Tutti lo piansero. Druso ottenne l’onorifico di Germanico. Egli ebbe inoltre due figli:
Germanico e Claudio, destinato a divenire principe. La morte sinistra del condottiero, tuttavia, sembrava
addurre all’ostilità divina verso la conquista della Germania.

Tiberio in Germania

Tiberio concluse l’opera del fratello completando la conquista del territorio tra Reno ed Elba. A Tiberio era
toccata la conquista dell’Illirico dopo la morte di Agrippa. Tiberio si fece carico della guerra in Germania.
Dall’8 la campagna si rivelò dura, con grandi perdite anche per i romani. Ciò delinea l’asprezza del conflitto,
data la naturale prudenza di Tiberio. I trans renani combatterono ferocemente per conservare ciò che rimaneva
dei loro beni e della loro libertà. Vi fu spazio per le crudeltà, come quelle riservate ai Sugambri, responsabili
della Clades Lolliana. Tiberio concluse l’opera del fratello dopo che le trattative andarono tremendamente
male. Molti Sugambri furono massacrati, molti furono deportati. Il dominio tra Reno ed Elba era completo.

Il trionfo (1° gennaio 7 a.C.)

Le vittorie di Tiberio portarono ulteriore onore ad Augusto e a Tiberio stesso. La memoria di Druso era ora
legata a quella di Ercole, eroe che aveva sfidato i limiti umani.

L’inizio di una nuova era: Germania romana, 7 a.C.

Inizia così la storia della provincia di Germania Magna. Nel 7 però la via per la pacificazione era ancora lunga:
bisognava intraprendere un lungo percorso amministrativo, politico e culturale, con i mezzi della diplomazia
e della forza.
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Capitolo 2: Germania Magna: costruzione di una provincia tra 7 a.C. e 9 d.C.

Gli uomini al governo della nuova provincia

Augusto considerò sempre l’Elba come confine dell’impero, ma Cassio Dione ci dice che Roma controllava
solamente i territori conquistati: oltre il Weser, nelle terre di Cauci e Cherusci, fino all’Elba, non vi erano
presidi romani significativi. La stabilità era data dall’alleanza dei romani con le aristocrazie locali. Tra 7 a.C.
e 9 d.C. la Germania trans renana è una provincia in via di formazione. Il territorio era tanto vasto che
inizialmente si pensò di dividere il territorio in distretti. Il legato della provincia quindi, che risiedeva ad
Oppidum Ubiorum, era affiancato da altri legati che si occupassero delle questioni locali prima che si
ingigantissero. Per governare la Germania venivano scelti uomini di rango proconsolare che avessero già
governato almeno una provincia, perché il lavoro di organizzazione era difficile e pericoloso.

A difesa di Gallia e Germania

Dopo l’ultima campagna di conquista nell’8 a.C., Tiberio riportò le legioni al di qua del Reno, e distrusse le
fortificazioni e le altre strutture lasciate in territorio transrenano, affinchè non potessero essere usate dai
Germani. L’esercito fu quindi stanziato lungo il confine, in due fortificazioni: Castra Vetera a nord e
Mogontiacum a sud. Perché riportare le legioni al Reno? Tacito ci spiega che i legionari e gli ausiliari furono
spostati lì per meglio garantire la difesa da Germani e Galli. Sebbene Augusto avesse spostato all’Elba il
confine, era il corso del Reno la base per la difesa romana: dal Reno le unità potevano essere usate sia per la
difesa dalle popolazioni che attraversassero il fiume ed entrassero in Gallia, che contro le ribellioni nella Gallia
del nord. La Germania Magna ancora era considerata un’estensione della Gallia, quindi andava difesa insieme
ad essa. Sul Reno era stanziato un numero di uomini assai cospicuo.

La trasformazione del territorio

La Germania richiedeva un enorme lavoro per essere trasformata secondo le esigenze romane: mancavano
strade, città, infrastrutture adeguate. Soprattutto preoccupava la mancanza di strade per una viabilità sicura. I
germani avevano creato qualche pista, che i romani utilizzarono, ma furono i fiumi ad essere utilizzati come
vie di comunicazione per sostenere la costruzione della provincia. Sui fiumi viaggiarono rifornimenti,
mercanti, materiali da costruzione, vigilati dall’esercito. Verso l’impero venivano invece rimandati i tributi,
risorse naturali, schiavi.

Le città di Cassio Dione

I romani consideravano la città come fondamentale per il governo di un territorio, e ne fondarono molte in
Germania, ex novo. Le città sono luogo di incontro pacifico, di amministrazione, di giustizia. Sono un
fondamentale strumento di integrazione culturale. Questa integrazione andava favorita con moderazione, e
così i germani presto iniziarono a frequentare il foro, a intraprendere relazioni pacifiche e a commerciare.

Le forme dello sviluppo urbano: Haltern e Waldgirmes

In alcuni casi, le città nacquero da insediamenti militari. Gli scavi ad Haltern hanno fatto rinvenire i resti di un
campo romano destinato alla difesa del fiume Lippe. Si tratta di un insediamento ibrido militare-civile.
Riguarda questa parte sul libro, pagine 55-60.

Gli affari di Lucio Flavio Verucla

La presenza romana andava oltre gli insediamenti civili e militari. Le possibilità economiche di una regione
erano molto importanti e venivano ampiamente valutate prima di intraprendere una conquista. Lo sfruttamento
di un territorio andava di pari passo con la sua pacificazione. La Germania trans renana è un esempio della
rapida avidità romana: alla foce del Rodano sono state ritrovate diverse barre di piombo,
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prodotte da Flavio Verucla, che recano incisa la formula “Piombo Germanico oggetto di Cesare”. Questi
ritrovamenti sono stati fatti in diverse aree della Germania trans renana, e tutti rimandano a questo Flavio
Verucla. Insieme a queste barre, ne furono trovate diverse con altri nomi. Si tratta di persone associate in una
compagnia per lo sfruttamento del piombo. Le barre di Verucla portano il nome dell’imperatore: Verucla
probabilmente era un appaltatore, che ricevette dall’amministrazione imperiale la concessione di estrarre il
piombo e farne lingotti. Le miniere appartenevano al principe. Al principe gli appaltatori riservavano
solamente una parte delle estrazioni, e si arricchivano quindi enormemente con il loro sfruttamento.

La Germania e la res Caesaris

I ritrovamenti delle barre di Verucla la dice lunga sulla rapacità dell’impero: non appena un’area era stata
assicurata, subito si andava a caccia delle risorse più preziose. E dato che le campagne si svolgevano sotto
l’ordine e l’auspicio di Augusto, era solamente naturale che egli ottenesse un beneficio. I liberti della domus
Augusta andavano cercando le zone in cui si poteva estrarre, ed esse venivano confiscate per il principe, con
sommo disappunto dei legittimi proprietari. La zona veniva quindi collegata a strade per il trasporto dei beni,
e veniva appaltata. Anche lo sfruttamento economico era una questione di famiglia per la casata di Augusto.

Nuovo impulso all’economia

Che effetto ebbe l’arrivo dei romani sulle popolazioni germaniche? Il loro arrivo provocò un aumento della
domanda di beni, ed essi portarono nuove tecnologie, conoscenze e nuove forme di organizzazione del lavoro.
Inoltre, il loro arrivo favorì l’utilizzo in massa della moneta, che prima non era conosciuta ai germani. Essi
apprezzarono molto questa innovazione (comprese le monete bronzee) e Tacito ricorda che oltre un secolo
dopo la conquista, le popolazioni trans renane utilizzavano la moneta, mentre quella dell’interno erano tornate
al baratto.

Il peso dello sfruttamento

I romani sconvolsero le vite dei trans renani introducendo un duro sfruttamento. In primis si procedette alle
confische territoriali, di cui i romani erano maestri. I romani erano inoltre prepotenti verso i barbari, che
consideravano incivili. Inoltre i lavori più pesanti e pericolosi erano fatti dai germani, e tutti questi fattori
concorrevano a rendere pesante e inviso questo sfruttamento. La pace in questo periodo era assicurata dal
terrore dei soldati e delle repressioni in caso di ribellione.

Il tributo

I germani, come ogni popolazione sottomessa, era soggetta al tributo. Le quantità da dover offrire al
conquistatore erano accordate singolarmente da popolazione a popolazione. Chi non era amico di Roma
doveva pagare di più. Tuttavia l’amministrazione romana era aperta a pragmatismo e generosità. Già è stato
citato l’esempio dei Frisi. Con i Batavi i romani furono anche più generosi: i romani ne ammiravano la fierezza
in combattimento e la loro fedeltà nell’alleanza, e per questo erano esenti dal tributo, dovevano solo servire in
battaglia. Stesso destino toccò ai Mattiaci.

Mercanti di uomini

Oltre a mercanti, uomini d’affari e soldati, vennero in Germania anche mercanti di uomini. La schiavitù era
diffusa tra i germani, che schiavizzavano volentieri anche donne e bambini. Spesso i servi venivano perfino
uccisi per riti divinatori, come racconta Strabone. Alcuni avevano modo di riscattarsi, ma la vergogna
marchiava per sempre la sua esistenza. Le loro pratiche di scambio erano comunque primitive rispetto a quelle
romane, che con il loro arrivo ampliarono enormemente questo fenomeno. Molti mercanti vi si riversarono
dopo la conquista in cerca di merce di qualità a buon mercato. Le rive del Reno si riempirono
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presto di mercati di schiavi, utili al lavoro di costruzione della provincia romana. L’esplosione di questa pratica
sotto il dominio romano aumentò il risentimento delle popolazioni verso il nuovo dominatore.

Al centro del potere: Oppidum Ubiorum

I proventi degli sfruttamenti confluivano ad Oppidum Ubiorum, centro amministrativo della nuova
dominazione tra Reno ed Elba. L’insediamento possedeva inoltre un porto fluviale, ed era il principale scalo
fluviale, per il quale passavano tutte le merci, i beni, gli uomini destinati alla provincia.

Il culto di Roma e Augusto sulle rive del Reno

Oppidum Ubiorum non servì solo come centro amministrativo: tra i suoi scopi vi era anche quello di ospitare
gli Ubii che Agrippa aveva fatto deportare per integrarli con i romani. Vi venne eretta un’ara per il culto
imperiale. Si trattava di un culto federale e pan germanico, dedicato non solo agli Ubii, ma a tutti i germani,
per integrarli nel sistema imperiale romano. L’istituzione di un culto comunitario di Roma è prova del fatto
che i romani erano convinti della definitiva pacificazione della zona. Arminio li smentì dolorosamente.

Aristocrazie locali e strategie di integrazione

I romani sapevano bene come creare un dominio stabile: la sottomissione militare non bastava, ci voleva
alleanza con le aristocrazie locali. L’obiettivo era guadagnarne la fiducia ed integrarle nel sistema imperiale.
In cambio di amicizia e fedeltà, Roma garantiva il rispetto delle vigenti organizzazioni politiche e dell’ordine
sociale. Spesso gli unici cambiamenti apportati erano quale famiglia fosse al potere: i romani sceglievano
accuratamente gli aristocratici di cui fidarsi, e premiava i più fedeli con la cittadinanza romana.

Una società guerriera al servizio di Roma

Roma favorì l’arruolamento dei germani nell’esercito. In questo modo le forze dei vinti venivano convertite
in aiuto a Roma, e le reclute durante l’addestramento assorbivano la cultura romana. Tra queste reclute
autoctone vi fu anche il cherusco, divenuto cittadino e cavaliere, Gaio Giulio Arminio. E anche suo fratello,
Gaio Giulio Flavo.

La fides di Segeste, mediatore e amico dei romani

Arminio faceva parte del gruppo famigliare di Segeste, un capo Cherusco. Negli anni precedenti Teutoburgo
Segeste si impegno alla costruzione di uno spazio condiviso tra germani e romani. Tutta la famiglia di Segeste
si impegnò in questo, tanto che anche Arminio vi lavorò ed ottenne diverse cariche sotto Roma. Lo stesso
figlio di Segeste, Segimundo, diviene sacerdote del nuovo culto instaurato ad Oppidum Ubiorum, divenendo
vicino al governatore di provincia. La famiglia di Segeste era ora un punto di riferimento per tutti i germani. I
romani a loro volta erano avvantaggiati dal fatto che l’amicizia di Segeste rendeva loro amiche anche le altre
aristocrazie germaniche e soprattutto delle masse.

Oltre l’Elba: l’impresa di Lucio Domizio Enobarbo

Lucio Domizio Enobarbo era marito di Antonia, nipote di Augusto. Sebbene in passato la sua famiglia fosse
stata anticesariana, egli era rimasto promesso ad Antonia, ed entrò di fatto nella famiglia di Augusto. Quando
Tiberio andò in esilio volontario a Rodi per le incomprensioni con il padre, Lucio ne fece fortuna, e venne
inviato in Germania come legato nel 2 a.C., fino all’1 d.C. A distanza di un secolo e mezzo, Svetonio descrive
Enobarbo come malvagio, spendaccione, arrogante, incline alla crudeltà. Cassio Dione parla delle sue imprese:
egli partì dall’Illirico e passò il Danubio. Dopo aver sistemato gli Ermunduri nelle ex terre dei Marcomanni,
fuggiti per paura di Roma, proseguì verso l’Elba, e non incontrando resistenze, si spinse oltre il fiume. Le
tribù, spaventate, lo accolsero e gli promisero amicizia. Per questa impresa di consolidamento dei confini, gli
fu attribuita grande gloria. Augusto ricevette grazie a lui la quindicesima salutatio imperatoria.
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Enobarbo fece anche erigere i pontes longi, ossia una strada rialzata di legno tra Reno ed Ems per far passare
truppe e rifornimenti oltre gli acquitrini di quell’area.

L’immane guerra: Marco Vinicio e Tiberio contro i Germani ribelli (2-5)

Patercolo ci informa che tra 1 e 3 vi fu una pericolosa rivolta germanica, che degenerò in una immensum
bellum. Il governatore di quel tempo era Marco Vinicio. Questa insurrezione fu forse causata dai fallimentari
tentativi diplomatici di Enobarbo (pag. 81). Pare che dopo tre anni fu necessario sostituire Vinicio a causa
della strenua resistenza dei ribelli. Fu inviato Tiberio, con lo scopo di terrorizzare i germani e rinvigorire i
soldati. Doveva sottomettere nuovamente queste popolazioni ed assicurare lo spazio oltre il Reno.

Tiberio ritorna sull’Elba

Tiberio tornò in Germania dotato di imperium proconsolare, con Saturnino, legato di Germania. Passò il fiume
da Castra Vetera e si gettò su Canninefatti, Chattuari e Bructeri. Poi sottomise i Cherusci. La marcia si arrestò
in dicembre alle sorgenti del fiume Lippe. Al che Tiberio tornò a Roma, per poi tornare in primavera. Tiberio
sottomise quindi i Cauci. Si ipotizza che proprio Cherusci e Cauci fossero stati il centro della rivolta che causò
l’immensum bellum. Tiberio si spinse quindi ai confini della provincia, dove sottomise anche i Longobardi,
gente più selvaggia dei Germani. Giunto sull’Elba, terminò la sua marcia. La fama delle sue imprese si sparse
tra i Germani, che lo reputavano invincibile. Tiberio tornò a Roma per l’inverno. È Velleio a raccontarci delle
sue gesta.

‘Germania pacata’?

Nonostante gli sforzi di Tiberio, la provincia ancora non era sotto uno stretto controllo. Tra Weser ed Elba, il
dominio romano era una fantasia, e le popolazioni di Cauci e Cherusci provavano forte desiderio di vendetta
per le sconfitte subite. Tiberio stesso era consapevole di questo, ma a Roma tutto era percepito diversamente,
ci si illudeva di poter controllare un territorio tanto lontano. E questa illusione faceva parte del consenso al
regime di Augusto. Ed il principe era fermamente convinto che il confine fosse all’Elba.

In fuga da Roma: Maroboduo e l’esodo dei Marcomanni

I Marcomanni furono un caso singolare tra le popolazioni barbare: essi fuggirono dopo essere stati sconfitti da
Druso, e si rifugiarono verso l’interno della Germania, ad est, sotto la guida di Maroboduo. Egli era cresciuto
a Roma, in quanto vi era stato inviato da bambino. Qui aveva appreso la cultura romana ed ellenistica, e al suo
ritorno in Germania aveva preteso il titolo di rex dalla sua gente. I Marcomanni gli concessero il titolo, poiché
lo consideravano un mediatore con Roma. Per questo suo ruolo, appare dunque suggestiva la scelta di non
mediare, ma di andarsene via. Era convinto che i Marcomanni non avrebbero sopportato la dominazione
romana, che lui ben conosceva. Si rifugiarono quindi a sud-est, nella foresta Ercinia, in Boemia.

Aemulus imperii: un rivale da eliminare

Lontano dal pericolo, Maroboduo organizzò i Marcomanni secondo i rudimenti statali romani, appresi nella
sua infanzia. Ce ne parla Velleio. In poco tempo, questo popolo barbaro spaventato, divenne un’entità statale
agguerrita. Era anche piuttosto vasto come regno. Presto Roma si preoccupò della cosa. Maroboduo trattava
sia con i romani, che con i barbari, dei quali si faceva protettore qualora questi cercassero rifugio da Roma.
Augusto non poteva sopportare la presenza di questo rivale e simulacro di Roma. Era anche pericoloso: aveva
un grande esercito e il suo dominio era pericolosamente vicino alle Alpi. Il suo esercito era inoltre addestrato
secondo i dettami romani. A Tiberio fu ordinato di intervenire.

La fortuna di Maroboduo
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Tiberio, boss invincibile, aveva presto accerchiato Maroboduo, e l’aveva anche isolato politicamente.
Maroboduo però fu salvato dalla fortuna. I piani di Tiberio furono infatti stravolti dalla notizia di una grave
sommossa in Pannonia. Tiberio per la fretta fu costretto a trattare, e Maroboduo ottenne un foedus, un trattato
di reciproco riconoscimento. Fu riconosciuto amicus dei romani e gli fu garantita l’integrità del territorio.
Tiberio si concentrò in Pannonia, che si erano rivoltati proprio per l’aumento del tributum richiesto per la
preparazione della guerra a Maroboduo. Tiberio giunse con il meglio del meglio per sedare la rivolta, compresi
alcuni guerrieri germani trans renani.

Capitolo 3: In rivolta contro Roma: storia di Arminio il liberatore

L’ascesa del giovane Varo

Varo era di un’antica famiglia emigrata da Alba Longa a Roma. Erano ricchi e prestigiosi, ma non di
importanza politica. La famiglia diede comunque prova della sua fedeltà alla repubblica, in quanto il padre di
Varo si schierò con Pompeo contro Cesare in difesa del senato. Varo nacque tra 46 e 45 a.C., forse a Cremona.
La famiglia di Varo si riconciliò ad Ottaviano, che necessitava l’alleanza della nobiltà un tempo senatoria in
vista dello scontro con Antonio. Varo si avvicinò alla Domus Augusta tramite matrimonio, sebbene non si
sappia bene con chi. Egli fu console poi nel 13. Forse Varo si era guadagnato la fiducia di Augusto servendo
come ufficiale durante le guerre di Spagna. Era inoltre vicino a Tiberio, figliastro del principe.

Una brillante carriera al servizio del principe

Varo era in Germania durante la guerra Alpina del 15 a.C. Nel 14 fece ritorno a Roma, dove fu eletto console
nell’anno successivo, con Tiberio. Tra 12 e 7 ottenne il proconsolato d’Africa, un grande onore, in quanto una
delle provincie più ricche e pacifiche.

Ordine a Gerusalemme

Tra il 7 e il 4 Varo fu governatore imperiale in Siria, altro sito di prestigio, sebbene più pericoloso. Vi erano
stanziate quattro legioni e molti ausiliari, al fine di tenere il confine contro i Parti. Il governatore doveva anche
avere ottime abilità diplomatiche per gestire i rapporti con i principi clienti di Roma. Varo era inoltre in ottimi
rapporti con Erode, principe cliente di Roma in Giudea. Nel 5 Erode fu coinvolto in una lotta per il potere
contro i suoi figli, nella quale si immischiò anche Varo. Egli scoprì il tentativo di Antipatro (uno dei figli) di
uccidere il padre, e lo fece arrestare. Nel 4 poi Archelao, un altro figlio di Erode, ottenne il trono tramite la
volontà del padre. Mentre attendeva l’investitura ufficiale di Augusto, scoppiarono tumulti, che culminarono
in un massacro a Gerusalemme, nel giorno della Pasqua. Presto divenne un’insurrezione generale contro i
romani. Varo giunse quindi al comando di due legioni e riprese Gerusalemme, crocifiggendo 2000 prigionieri.

Germania, 6 d.C.

Nel 6 d.C. Varo fu inviato in Germania come governatore. Tiberio aveva appena sedato una rivolta, ma era
dovuto andare subito in Pannonia, con l’esercito. Varo fu qui assegnato perché considerato uomo di fiducia, al
fine di fargli ristabilire la tranquillità nelle zone tra Danubio e Reno.

Errori di percezione

Varo fu governatore tra 6 e 9, anno della sua morte. I romani pensavano che la zona tra Reno e Weser fosse
pacificata. Si trattava di una percezione sbagliata. Varo doveva organizzare il censimento della popolazione in
modo da poter riscuotere i tributi. I Germani erano molto lontani dalle abitudini romane, quindi la gradualità
era fondamentale. Varo però aveva fretta, secondo Dione, e costrinse i Germani a cambiamenti
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drastici. L’attività di Varo come giudice fu vista come una soffocante ingerenza dai Germani. A questo si
aggiungevano i tributi. Questo però veniva esatto da un funzionario che rispondeva direttamente ad Augusto.
Varo doveva solo accertarsi che l’esazione andasse liscia. Anche la costruzione delle città urtava i Germani, e
Varo le portò avanti senza cercare mediazioni. Il malcontento aumentava di continuo. La provincializzazione
dei Germani non andava accelerata, perché i tempi non erano maturi.

Varo e i provinciali

Varo considerava il consenso delle popolazioni locali una priorità. Per fare ciò, cercava consenso nei ceti
aristocratici, e dando ai vinti la cittadinanza romana. Si convinse così di essere circondato da amici di Roma.

Arminio, principe dei Cherusci e cavaliere romano

Arminio, principe dei Cherusci, era tra questi aristocratici sotto la benevolenza di Roma. I nobili Germani
erano sempre guerrieri, quindi l’esercito offriva possibilità di mostrare virtù. Sia lui che Flavo, suo fratello,
entrarono al servizio di Augusto. Il giovane probabilmente ottenne la cittadinanza entrando nell’esercito.
Arminio era anche cavaliere, come ricorda Patercolo, ma non sappiamo il perché di questa promozione. Al
comando di un gruppo di ausiliari Cherusci, fu mandato in Pannonia con Tiberio per domare la ribellione. Al
ritorno, per i suoi meriti, fu affiancato al governatore. A Varo Arminio pareva affidabile: aveva dimostrato in
battaglia la sua fedeltà. Il combattimento contro i ribelli aveva però cambiato Arminio, che aveva compreso la
brutalità del dominio romano: voleva ora usare la sua influenza per organizzare una rivolta.

Contro la famiglia: il rapimento di Tusnelda

La nuova mentalità di Arminio si palesò durante un contrasto che investì la sua famiglia. Il nobile Gaio Giulio
Segeste aveva una figlia, promessa in sposa, come da consuetudine. Arminio però ruppe il patto di parentela,
la rapì e la fece sua. Tacito è la fonte per questa vicenda. Sia Segeste che Arminio erano nella cerchia del
governatore, ma Varo sottovalutò la gravità di questo incidente. Con questo gesto Arminio rompeva l’armonia
tra sé e Roma, in quanto Segeste era un suo alleato. E non solo: Arminio intendeva anche andare contro la
vecchia aristocrazia che si era piegata al dominatore.

Il prezzo della libertà

Segeste intuì la pericolosità del gesto, e capì le vere intenzioni di Arminio. Presto costui raccolse a sé un gran
numero di complici. Egli voleva eliminare i romani nelle terre tra Reno e Weser, e poi eliminare anche i
personaggi come Segeste. Arminio odiava Segeste, suo suocero, il fratello Flavo era contrario alla rivolta. Il
giorno prima del fattaccio, Segeste avvertì Varo davanti ad Arminio e ai congiurati dell’imminente catastrofe,
ma Varo non ascoltò. Pensò che l’accusa fosse dovuta all’odio intrafamigliare, e non volle immischiarsi. E poi,
la marcia era pronta ed era in luoghi pacificati.

Le cause della rivolta

Tacito ci racconta di come Arminio combattesse senza ideali di indipendenza o di identità nazionale, ma con
il puro scopo di scardinare il regime degli oppressori. Arminio faceva leva sulla plebs, sulla quale pesava più
di tutti gli altri il dominio romano (confische, malversazioni, libertà negate, tasse). Arminio si rivolgeva però
anche gli aristocratici che erano stati scavalcati da coloro che avevano giurato fedeltà a Roma.

Tradimento
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Nell’estate del 9, Varo partì oltre il Reno per sedare una rivolta. Sulla via del ritorno attraversò i pontes longi di
Enobarbo, poi cambiò strada su consiglio di Arminio. Le truppe erano stanche, ma tranquille, in numero di
20000, più un numero imprecisato di donne, bambini e schiavi in coda alla lunga colonna di marcia. Arminio
era il legato di Varo, e lo convinse a passare in luoghi impervi e sconosciuti. Arminio convinse Varo dicendo
che vi era un’ultima rivolta da sedare, e affermando di andare a raccogliere gli alleati per questa battaglia, si
separò dalla colonna. Andò quindi a raccogliere i suoi uomini, preparandosi per lo sterminio dei romani.
Cherusci, Catti, Bructeri, Marsi e Amsivari erano raccolti nel gruppo del traditore. La colonna era frammentata
a causa dell’impervia del terreno, e Varo entrò nella trappola. A quel punto i Germani attaccarono ai fianchi la
colonna. Dapprima schermaglie, piccoli attacchi, poi gli attacchi si fecero più pesanti: era iniziata Teutoburgo.

In un mortale labirinto

Varo decise di avanzare nonostante gli attacchi. Trovarono riposo in una radura, per poi proseguire l’avanzata
in un’altra selva. Fu nel quarto giorno che l’annientamento ebbe luogo. I romani furono circondati e massacrati
senza pietà. La ricostruzione di Cassio Dione si interrompe qui.

Kalkriese

Tacito ci dice che il massacro si svolse nella foresta di Teutoburgo. Il luogo oggi collegato al massacro è
Kalkriese, grazie al ritrovamento di monete d’argento risalenti al 9 d.C. Oggi a Kalkriese sorgono un museo e
un parco archeologico. Ai tempi Kalkriese era un luogo adatto agli agguati, perché vi era una strettoia circondata
dai boschi.

I segni sul terreno

I Germani avevano approntato una trincea per difendersi dai dardi romani, come suggeriscono i ritrovamenti
archeologici. Questa fu inoltre occultata con rami e foglie per ingannare gli esploratori romani. Queste tecniche
di derivazione romana sono la riprova del fatto che molti soldati di Arminio avevano servito sotto Roma.

L’agguato

I camuffamenti sortirono gli effetti sperati. La sorpresa inibì la capacità di reazione romana. Il mal tempo
impediva inoltre la risposta con le armi da tiro, l’equipaggiamento pesante inchiodava i legionari nel fango.
Anche gli ufficiali erano morti. La disciplina fu sopraffatta dalla caoticità dell’attacco e del territorio. Pochi
furono catturati, ancora meno fuggirono con successo.

Il massacro

Alcuni romani riuscirono a contrattaccare, arrivando fino alla trincea dei Germani. Una parte del terrapieno
infatti cadde. Coloro che rimasero schiacciati non furono saccheggiati, e i loro averi e resti ci sono pervenuti
fino ad oggi.

La morte di Varo

Anche Varo e la sua guardia si resero conto che tutto era perduto. Decisero quindi di suicidarsi secondo il codice
d’onore romano piuttosto che perire sotto i colpi dei nemici. Vittoria o morte: non vi era altra possibile via per
un soldato romano. La servitù dopo la sconfitta era prevista nel diritto romano, ma era pericolosa per la famiglia
del catturato. Uccidendosi, Varo compiva il suo destino, simile a quello dei suoi padri. Qualcuno ebbe pietà per
le spoglie del legato, e fu accesa una pira funeraria. Con la sua morte venne meno la disciplina, e altri soldati
seguirono l’esempio del loro comandante.
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Sul campo, dopo la battaglia

L’offesa e l’onta all’orgoglio romano erano immense. Caddero gli ufficiali superiori in Germania nel massacro.
Tre legioni furono eliminate, circa 2000 uomini, con ausiliari, cavalieri e un numero indefinito di civili al
seguito. Nessuno diede sepoltura ai caduti. I catturati furono sacrificati agli dèi, alcuni invece furono fortunati
e vennero ridotti in schiavitù, pochi tornarono oltre il Reno, fuggendo.

L’ultimo oltraggio

I caduti furono saccheggiati. Molti Germani accorsero ad ingrossare le fila di Arminio con il solo scopo di
saccheggiare i corpi. I Germani presero inoltre le aquile della diciassettesima, diciottesima e diciannovesima
legione. Queste furono consacrate alle divinità. La testa di Varo, arsa per metà, fu spiccata e portata al cospetto
di Maroboduo. Voleva spingere il re ad unirsi alla sua ribellione. Voleva lanciare con il potenziale alleato
un’offensiva su due fronti, per attaccare il cuore stesso dell’impero: l’Italia. Maroboduo però rifiutò l’offerta,
conscio della vendetta che le azioni di Arminio avrebbero sicuramente scatenato. Maroboduo si mantenne
neutrale nello scontro che seguì, e la scontò. Tuttavia, fece recapitare la testa di Varo in segno di pietas per il
caduto.

Capitolo 4: Vendetta e castigo per il tradimento: l’impresa di Germanico tra Reno ed Elba

Fuga verso il Reno

I fuggiaschi portarono la notizia del massacro. L’annientamento dell’esercito del nord a Teutoburgo ebbe due
effetti: innanzitutto scomparve la percezione di una provincia pacificata, tanto che i romani abbandonarono i
territori oltre il Reno. Asprenate però, nipote di Varo, mantenne la calma ed aiutò i superstiti in arrivo dalla trans
renana e recuperò perfino un po’ dell’oro che le legioni distrutte trasportavano.

Il coraggio di Cecidio

Anche Lucio Cecidio, comandante del campo di Aliso, riuscì a mantenere la calma. Egli previde l’arrivo dei
Germani al suo campo dopo il massacro nella foresta e si preparò alla difesa. Circondati dai Germani, i romani
resistettero a lungo. Quando i viveri scarseggiarono, Cecidio decise di abbandonare il campo. Dopo una
difficoltosa fuga, raggiunse Castra Vetera e ricevette asilo da Asprenate stesso.

La rivolta dilaga

Presto l’intera regione trans renana fu in tumulto. Una crisi di fedeltà fu innescata dalle azioni di Arminio. Lo
stesso figlio di Segeste, Segimundo, si unì ai ribelli, passando il Reno. Non tutti però tradirono: Segeste e i suoi
rimasero fedeli a Roma e catturarono Arminio, finchè egli non riuscì a rovesciare la situazione e a catturare a
sua volta Segeste. Anche il fratello di Arminio, Flavo, rimase di parte romana. Non seguirono Arminio anche
Frisi, Cauci e gli Ermunduri.

“Quintilio Varo, rendimi le legioni!”

Augusto rimase profondamente turbato dalla notizia, tanto che si strappò la veste e fece mettere Roma in stato
di allerta. Temeva per la sicurezza dell’Italia e per il proprio consenso. Fece voti agli dèi affinché lo stato
rimanesse al sicuro, e si fece crescere barba e capelli in segno di lutto. Invano l’imperatore invocava Varo
affinché gli rendesse le legioni distrutte, che erano composte di uomini esperti e a lui fedeli, parte della potenza
del regime augusteo.

Fraudolenta clades: perfidia e tradimento dei Germani


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Augusto però, così come il resto del mondo romano, non giudicarono Varo responsabile del disastro, ma vittima
della crudeltà Germanica. Ovidio attribuisce la vittoria di Arminio alla fraus, l’inganno. Altrettanto fa Marco
Manilio. Arminio in quanto soldato romano aveva infranto la lex Iulia maiestatis populi romani, con alto
tradimento della repubblica ed altri reati maggiori. La morale romana esigeva vendetta, e la vendetta richiede
castigo.

Ultio/vendetta e metus/paura

Senza ultio, vendetta, non può esserci pace. Le guerre mosse dalla vendetta sono guerre giuste. L’ultio era un
tema ricorrente nella vita di Augusto, ed ora Arminio lo aveva tradito personalmente dopo aver infranto il suo
patto con il popolo romano, quindi con la domus Augusta. Augusto voleva superare rapidamente il disonore
della clades Variana, affinché si evitassero conseguenze funeste quali il risorgere del metus, la paura dei barbari,
nel popolo. Augusto voleva combattere questa paura, e considerò sempre la Germania come pacificata, e l’Elba
come ultimo confine del suo regno.

Tiberio sul Reno

Prima di andare a cercare vendetta però, occorreva consolidare nuovamente la frontiera del Reno. Tiberio fu
l’uomo scelto per il compito. Aveva cinquantadue anni, ma era il comandante migliore e il più esperto che
l’impero potesse offrire, ideale per ristabilire il coraggio negli uomini. C’era da riappacificare il Reno e
riconquistare la Germania fino all’Elba. Per questo compito gli furono affidate otto legioni. Tiberio agì con
prudenza, come suo solito: nel 10, primo anno della spedizione, si limitò a rafforzare le difese sul Reno. Nell’11
partì per una prima spedizione, colpendo le popolazioni vicine al fiume. Al seguito di Tiberio vi era anche
Germanico, comandante in seconda. Questa prima spedizione non ebbe battaglie importanti, ma fu una
dimostrazione di potenza di Roma, tornata a pretendere obbedienza dalle genti Germaniche. Nel 12 le truppe
passarono nuovamente il Reno, conseguendo alcuni successi preparatori alla spedizione punitiva. Il momento
di una vittoria che punisse i barbari era vicino.

Germanico e la preparazione della campagna

Nel 13 il comando passò a Germanico, figlio di Druso maggiore. Druso organizzò l’esercito e gli
approvvigionamenti per l’esercito con estrema cura. Il peso delle spese di mantenimento per l’esercito ricadeva
quasi completamente sulle città della Gallia.

Un esercito in rivolta

La spedizione era quasi pronta, quando una notizia terribile giunse: Augusto era morto (14). Il potere passò a
Tiberio. Alla notizia diversi soldati si ribellarono, accanendosi su centurioni e tribuni. Solo l’intervento diretto
di Germanico placò la rivolta, con fatica. È probabile che la rivolta sia stata causata dalle reclute raccolte
frettolosamente a Roma dopo la sconfitta di Varo. Essi erano indisciplinati e avevano trasmesso il malcontento
anche ai soldati più anziani. Molte delle leve erano state reclutate con la forza e non erano motivate. Germanico
calmò gli animi imponendo che i soldati più vecchi venissero congedati.

Prologo di sangue: la spedizione contro i Marsi (autunno 14 d.C.)

Dopo la ribellione, Germanico partì contro i Marsi, al di là del Reno. L’obiettivo era far sì che il loro massacro
rinsaldasse i legami tra truppe e comandante. Li colsero di sorpresa tramite strade segrete. Li sorpresero in una
giornata di festa e uccisero come animali vecchi, donne e bambini, senza pietà. Dissacrarono anche il tempio
della dea Tanfana, che festeggiavano in quel giorno. Oltraggiati, Bructeri, Tubanti, e Usipeti si radunarono per
attaccare i romani sulla via del ritorno. I Germani attaccarono la retroguardia, che venne salvata dal diretto
intervento di Germanico. I romani massacrarono quindi i Germani e tornarono sani e salvi oltre il Reno. La ultio
era iniziata.
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La punizione dei Catti (primavera 15 d.C.)

La spedizione punitiva vera e propria iniziò nel 15, contro i Catti. I romani si mossero rapidamente, privi di
bagagli, e attaccarono spietatamente i Catti prima che si accorgessero del pericolo. Di nuovo, l’ultio di
Germanico fu spietata. Vennero massacrati tutti indiscriminatamente. I Catti reagirono cercando di attaccare le
postazioni romane oltre il fiume Eder, ma vennero massacrati dal tiro, e i superstiti non poterono trattare. Alcuni
passarono da parte romana, altri si dispersero. Nessuno osò opporsi alla furia di Germanico, che devastò
insediamenti e campi dei Catti. I Marsi intanto si erano risollevati, ma vennero di nuovo sconfitti da Cecina,
legato di Germanico.

La cattura di Tusnelda e la clemenza di Germanico

La paura creata dalla violenza romana creò defezioni nella fazione di Arminio e nella sua stessa famiglia.
Abbiamo precedentemente parlato di Tusnelda. Costei era, all’epoca del suo rapimento, dalla parte di Arminio.
Dopo Teutoburgo, Segeste entrò in conflitto con Arminio, e si sfociò in guerra civile. Segeste fu messo in catene,
ma alla notizia del ritorno di Roma approfittò per vendicarsi, rapendo Tusnelda, gravida di Arminio. Egli mandò
poi un’ambasceria presso Germanico, rimettendosi al giudizio del generale ed arrendendosi. Portò inoltre come
pegno suo figlio Segimundo, che era passato dalla parte di Arminio ai tempi della rivolta. Segeste voleva
consegnare anche Tusnelda. Germanico capì la portata della situazione e sostenne le richieste di Segeste, ed
accolse senza ripercussioni Segimundo. Poi organizzò la spedizione per il recupero di Segeste, che era assediato
dai populares fedeli ad Arminio. Presto li sgominarono, e riportarono Segeste in territorio romano. Tra i
recuperati vi era anche Tusnelda. La ultio continuava tramite l’accorta clemenza di Germanico.

La grande spedizione dall’Oceano al Lippe (estate 15)

Partì quindi una nuova spedizione contro le popolazioni stanziate tra Oceano, Lippe ed Ems. Bisognava non
solo massacrarli, ma recuperare anche le aquile delle legioni distrutte. I Germani avevano cominciato intanto a
radunarsi, esortati da Arminio, che desiderava sconfiggerli di nuovo e riaffermare l’indipendenza Germanica.
Lucio Stertinio, un ufficiale di Germanico, sconfisse i Bructeri e recuperò l’aquila della diciannovesima legione.
L’intero territorio dei Bructeri fu devastato e saccheggiato.

Ultio e pietas: Germanico sul campo di Teutoburgo

Germanico giunse quindi sul luogo della disfatta di Varo. Era un passaggio necessario nel percorso di ultio. I
resti dei romani, racconta Tacito, erano ancora a terra. I romani scoprirono inoltre che i germani avevano
infierito su molti cadaveri, impalandone le teste e sacrificando gli ufficiali agli dèi. I romani onorarono i defunti
e li inumarono con cura. Anche la pietas, il rispetto dei morti, era uno dei compiti della ultio. Perfino Germanico
partecipò alla raccolta dei resti dei caduti, nonostante i divieti che la sua carica gli imponeva. Si rischiava l’ira
divina, ma egli agì comunque secondo il proprio cuore.

Sulle tracce d’Arminio

Germanico proseguì quindi verso il territorio dei Cherusci. Egli voleva, secondo Tacito, intercettare i ribelli e
Arminio. I reparti di cavalleria raggiunsero il campo dell’esercito ribelle, costringendoli alla fuga. Arminio
sorprese la cavalleria romana con un attacco a sorpresa dai boschi. Germanico inviò gli ausiliari in soccorso,
ma questi furono travolti dalla cavalleria in ritirata. Arminio ancora usava il territorio a suo favore, ma
Germanico preparò i legionari in ordine di battaglia, e alla loro vista i Germani fuggirono. Questa battaglia priva
di un vero vincitore portò altre defezioni presso Arminio: Segimero, fratello di Segeste, si arrese ai romani.
Insieme a lui si arrese anche il figlio, Sesitach, che si diceva avesse personalmente oltraggiato i resti di Varo. A
entrambi venne concessa la grazia, al momento, sebbene di Sesitach Germanico non si dimenticò. Con il finire
della bella stagione, Germanico si ritirò sull’Ems.
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Agguato ai Pontes longi

Durante la ritirata, a Cecina fu ordinato di ritirarsi oltre il Reno con la prima, quinta, ventesima e ventunesima
legione. Era un percorso difficile, che passava per la strettoia dei pontes longi. Cecina era appesantito dai bagagli
e dai civili che la colonna si portava appresso. Egli era conscio del pericolo. Germanico si era imbarcato e
solcava l’Oceano con la restante parte delle legioni. Arminio decise quindi di colpire. La marcia della colonna,
i boschi, la paura. Tutto rievocava Teutoburgo. La colonna dovette a un certo punto arrestarsi per riparare un
guasto dei pontes longi. Tacito racconta la vicenda e si sofferma sul carattere di Cecina. Era nell’esercito da
quarant’anni, seppe quindi reagire bene alla difficoltà. Egli fece costruire un campo, dove fece depositare i
bagagli e coloro che non potevano combattere, poi divise i legionari: un gruppo avrebbe riparato, l’altro avrebbe
difeso il campo e i compagni dai Germani. L’assalto cominciò all’alba. Nonostante le immani difficoltà date dal
terreno paludoso, i romani riuscirono a portare a termine le riparazioni. La notte passò insonne. Lo stesso
Cecina, veterano di mille battaglie, sognò il fantasma di Varo, coperto di ferite, che lo veniva a prendere per
trascinarlo nell’acqua palustre. Ma Cecina rifiutò la mano del fantasma. La ritirata ricominciò il giorno seguente,
ma vi furono problemi di organizzazione e la manovra cominciò molto confusa. I Germani assaltarono e
gettarono la colonna nel caos. Cecina cercò di mantenere la disciplina, ma fu disarcionato. I soldati della prima
legione si pararono dinnanzi a lui e lo difesero con coraggio. I Germani a questo punto, convinti di avere la
vittoria, si diedero al saccheggio dei bagagli e dei romani abbattuti. I romani erano finalmente in territorio piano
e asciutto, ma pur sempre in una situazione precaria. I bagagli erano stati saccheggiati, mancavano i rifornimenti
e il cibo. Un cavallo poi si imbizzarrì in mezzo al campo di fortuna che era stato allestito. Si pensò ad un attacco
a sorpresa, e una massa in preda al panico si gettò alle porte dell’accampamento. Tacito racconta quindi di un
grande gesto di coraggio di Cecina: egli si sdraiò davanti alla porta. Chi avesse voluto fuggire sarebbe dovuto
passare sul suo corpo. Ristabilita la calma, pensò ad un piano per il mattino seguente. Anche tra i Germani vi
era indecisione sul da farsi. Alla fine si optò per l’attacco al campo, pensando che i romani fossero ormai battuti,
nonostante Arminio volesse aspettare che essi si trovassero all’aperto. I Germani attaccarono di nuovo. Cecina
aveva però organizzato un attacco a sorpresa: i legionari più valorosi uscirono dalle porte dell’accampamento
cavalcando e colpendo alle spalle i Germani ammassati sulle palizzate, circondandoli e massacrandoli. La
mattanza continuò fino a sera, e Cecina tornò oltre il Reno con i superstiti, dopo aver ribaltato la situazione.
Aveva sconfitto il fato, e rifiutato l’invito del fantasma di Varo.

L’esempio del padre

Germanico aveva appreso molto dall’impresa di Cecina e dagli ultimi combattimenti. I boschi erano pericolosi,
e non poteva fare a meno l’esercito di viveri e materiali da costruzione. Le perdite di Germanico erano inoltre
state ingenti, e ancora una volta il costo per la reintegrazione dei ranghi sarebbe ricaduto sulla Gallia. La cosa
si stava facendo insostenibile. Per ovviare a questi problemi, Germanico seguì le orme del padre Druso, e decise
di praticare le vie fluviali per evitare le pericolose marce nei boschi. Nell’inverno venne costruita una flotta,
con tanto di artiglieria per tenere lontani i nemici. Le navi vennero quindi radunate alla foce del Reno e caricate.
Si era pronti alla spedizione punitiva.

La grande spedizione (estate 16)

Germanico partì, pregando il padre affinché gli fosse benevolo nell’impresa. Giunto alla foce dell’Ems, fece
sbarcare le legioni. Costruito un ponte, iniziò l’avanzata nel territorio dei Cherusci. Raggiunto il Weser, gli
esploratori informarono Germanico che Arminio era situato appena oltre il fiume. Era il momento della resa dei
conti.

Idistaviso
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Gli esploratori riferirono a Germanico che molte genti si erano radunate per dare man forte ad Arminio. Dopo
essersi stanziato oltre il Weser, Germanico stabilì un campo, e all’alba diede ordine di attaccare. Il campo di
battaglia era una piana tra il fiume e delle colline boscose. I Cherusci si gettarono all’attacco in campo aperto.
Questi furono presto accerchiati e sopraffatti. Arminio, ferito, provava a mantenere l’ordine tra i suoi, ma
inutilmente. Si coprì quindi il volto di sangue e fuggì non visto. I suoi guerrieri furono massacrati. Arminio era
certo di battere Germanico, tanto che si era portato appresso molte catene per i prigionieri che avrebbe fatto.
Tiberio fu acclamato imperator per l’ottava volta.

Il Vallo degli Angrivari

Nonostante la sconfitta, i Germani riuscirono a radunare di nuovo un ingente numero di guerrieri per combattere
ancora. I germani si schierarono poco lontano dalla piana di Idistaviso. Scelsero un luogo pianeggiante ed
angusto. Germanico ebbe notizia di ciò ed agì con prudenza. Egli fece uso di frombolieri con fionda, che
cominciarono a tempestare i nemici. Essi caddero in gran numero e vennero poi assaltati dalla fanteria. Essi
avevano paludi alle loro spalle, non potevano fuggire. Germanico inseguì i ribelli nei boschi con due coorti
pretoriane. Nella selva si consumò una mischia feroce. Germanico tolse l’elmo affinché tutti lo riconoscessero,
e guidava gli uomini in prima linea, abbattendo molti nemici. Fu eretto un nuovo trofeo per celebrare il trionfo.
L’ultio dedicata a Marte ultore era quasi compiuta.

Il disastro

Ad estate avanzata, le legioni furono divise in due: una parte sarebbe tornata al Reno a piedi, mentre lui e il
resto delle legioni si sarebbero imbarcati per l’Oceano. La flotta venne però colta da una tempesta e distrutta.
Molti morirono, e Germanico si salvò a stento nella terra dei Cauci. Molti furono i dispersi. Germanico tentò il
suicidio per il disonore, ma fu fermato dagli amici a stento. Sembrava che la furia divina avesse colpito
nuovamente la famiglia di Druso. Vi fu poi un’ultima spedizione contro i Marsi, che portò al recupero di un’altra
delle aquile perdute. L’ultio era quasi compiuta. Germanico avrebbe dovuto recuperare il dominio sulle terre
tra Reno ed Elba con un’ultima spedizione e tutto si sarebbe compiuto.

Capitolo 5: La rinuncia: Tiberio e la libertà dei Germani

La rinuncia di Tiberio

Conclusa la campagna del 16, Tiberio scrisse a Germanico di concludere lì la guerra. Secondo lui, l’ultio era
ormai compiuta. Preferiva non perdere altri uomini, e lasciare i Germani alle loro dispute. Secondo Tiberio
l’Elba era un confine indifendibile: meglio imitare Cesare e tenere il confine sul Reno. Tacito ci dice che il
principe ordinò a Germanico di tornare per gelosia e timore di essere oscurato dalla gloria del giovane. Più
probabilmente, fu in realtà una questione di stabilità politica. Ci mancava solo un’acclamazione per Germanico.
La scelta di Tiberio fu motivata anche da considerazioni di tipo militare: la percezione di vittoria totale sui
Germani era probabilmente fallace, come quella che aveva condotto alla disfatta di Varo. La guerra sarebbe stata
ancora molto lunga probabilmente. Vi erano anche motivazioni di tipo religioso, in quanto gli auspici nefasti
delle precedenti imprese non potevano essere ignorate dal principe, mediatore tra uomini e dèi. Germanico fu
ragionevole e capì le motivazioni del padre adottivo. Tornò a Roma.

Un amaro trionfo

Il trionfo fu grande e maestoso. Furono fatti sfilare nel corteo tutti i familiari catturati di Arminio, salvo Segeste,
che sedeva tra gli aristocratici romani, onorato e rispettato come amico di Roma. Dopo il suo trionfo, Germanico
fu inviato in oriente per dirimere alcune questioni nelle province. Morì ad Antiochia il 10 ottobre del 19. Il lutto
fu grande per tutti, nonostante malelingue insinuassero il contrario.

La visione di Tiberio: l’elogio di Germanico nella Tabula Siarensis


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Richiamando Germanico, il sogno di provincializzare la zona tra Reno ed Elba fu vanificata per sempre. Tiberio
era conscio della rottura con la politica augustea che la sua decisione comportava. L’influenza romana su quelle
terre durò ancora fino a fine primo secolo, ma di fatto il territorio era perduto, e Tiberio doveva trovare metodi
alternativi per rafforzare il proprio consenso, che si fondava sui successi militari. Ci è rinvenuta in frammenti
la Tabula Siarensis: una raccolta di provvedimenti presi dal senato per onorare la memoria di Germanico.
Sebbene Tacito parli male di Tiberio, accusandolo di aver tratto sollievo dalla dipartita del nipote, la tavola dice
tutt’altro: egli si impegnò molto affinché il figliastro ricevesse adeguati onori.

Una memoria dolorosa

Sul Reno, intanto, la memoria di Teutoburgo e il desiderio di vendetta erano rimasti ben vivi. Le truppe stanziate
di frontiera ritrovarono la terza aquila nel 41, quando il legato Publio Gabinio Secondo sconfisse i Cauci e la
riprese con la forza. Qualche anno dopo, nel 50, furono recuperati anche gli ultimi schiavi presi a Teutoburgo,
dopo 40 anni di prigionia. Erano nelle mani dei Catti.

Dopo Germanico: la gestione della nuova frontiera

Dopo la rinuncia, bisognava rafforzare la frontiera renana. Vennero creati due poli militari autonomi lungo il
corso del fiume. Vi era quindi un propretore di Germania Superior con sede a Mogontiacum, e un propretore
di Germania Inferior stanziato ad Oppidum Ubiorum. A difesa di questa frontiera furono stanziate otto legioni
ed un grande numero di ausiliari. Vennero anche costruite diverse fortificazioni stabili lungo la riva sinistra del
fiume, mentre la riva Germanica fu messa in sicurezza e utilizzata per il pascolo: ai Germani era proibito
transitarvi o stabilirvisi.

Arminio contro il re Maroboduo

Il ritiro delle truppe romane non favorì la pace tra i Germani, anzi: Arminio riuscì a recuperare il prestigio e
l’esercito persi a Idistaviso, e si lanciò contro Maroboduo, re dei Marcomanni. Era la contrapposizione tra
Arminio, difensore della libertà e nemico di Roma, e Maroboduo, re amico di Roma. Maroboduo aveva appreso
i modelli romani e li applicava nel governo della sua gente. Aveva anche un potente esercito, che ispirava timore.
Arminio combatteva ora per scardinare l’equilibrio sociale aristocratico tra i Germani, di cui il re dei
Marcomanni era emblema. Per questo motivo, molti aristocratici lo abbandonarono. Lo stesso zio, Inguiomero,
che gli era stato accanto durante le guerre con i romani, lo abbandonò e passò da Maroboduo. Viceversa, molte
genti di Maroboduo passarono dal principe cherusco, tra cui Svevi, Semnoni, Longobardi. La battaglia fu
cruenta, ma senza vincitore. Altre genti tuttavia passarono da Arminio, guerriero per la libertà. Maroboduo a
questo punto chiese aiuto a Roma, ma Tiberio fece pagare a Maroboduo la sua neutralità nella lotta contro
Arminio, e non intervenne.

La fine di Maroboduo

Tiberio sapeva che alimentando le lotte tra Germani i suoi confini sarebbero stati più tranquilli. Così inviò Druso
Minore, suo figlio, a fomentare le ostilità tra i due gruppi. Egli ebbe successo, e Maroboduo fu abbandonato da
parte dell’aristocrazia che lo sosteneva. Maroboduo fuggì quindi presso Roma. Tiberio lo accolse e lo spedì a
Ravenna, dove già erano tenuti diversi prigionieri Germani. Presentò quindi il re come un pericoloso nemico di
Roma al senato. Maroboduo era però ormai sconfitto e di fatto prigioniero a Roma. Tiberio ebbe così modo di
fregiarsi della sconfitta di un rivale di Roma. Maroboduo morì nell’oscurità diciotto anni dopo.

L’ultimo tradimento
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Nel 19 dunque, Arminio era all’apice del suo potere, dopo la sconfitta di Maroboduo. Tacito ci racconta però
che il principe aveva molti nemici. I Catti volevano assassinarlo con una congiura e del veleno. Chiesero aiuto
a Roma per questo, ma Tiberio rifiutò, affermando che la vendetta romana si compiva alla luce del sole e in
campo aperto. E poi, Arminio faceva comodo da vivo, ora che con il suo esercito di populares scorrazzava per
la Germania andando a creare conflitti interni. Tacito ci dice però che Arminio, giunto all’apice, cominciò a
bramare un regno egli stesso, provocando su di sé l’ira delle sue masse. Combattendo contro i suoi stessi uomini,
egli morì in battaglia, tradito dai suoi uomini più vicini. Tacito racconta che egli morì così per aver tradito sé
stesso e il proprio ideale. Non sappiamo veramente cosa portò alla morte di Arminio nel 21.

La memoria di Varo: da vittima a colpevole

Negli anni Venti, la considerazione che si era avuta fino a quel momento di Varo, mutò. Tiberio aveva bisogno
di motivare l’abbandono delle terre oltre il Reno, e il cambiamento di obiettivi rispetto a quanto lasciato scritto
da Augusto. Per fare ciò, decise di scaricare la colpa di Teutoburgo tanto sulla perfidia dei Germani, quanto
sull’incapacità di Varo come governatore e militare. È Velleio Patercolo a raccontare dell’inettitudine di Varo
nel comprendere le genti Germaniche, che di umano avevano solo le sembianze. La sua colpa fu negli anni
ribadita ed aggravata, ma la sua unica ingenuità fu probabilmente solo quella di fidarsi di Arminio.

Libertà in fuga

Con il passare degli anni, la percezione della vicenda di Varo cambia. Già sotto Nerone, Seneca contrappone la
rigidità, il coraggio e la nobiltà dei Germani con la decadenza dell’Impero Romano. I loro valori semplici e
genuini sono contrapposti alla dissolutezza dei contemporanei.

Quale libertà? Plinio il Vecchio, Druso e i Cauci

Leggi questa parte sul libro, è un po’ macchinosa.

I Cauci di Tacito e la Germania

Tacito cambia completamente la percezione di Arminio, da perfido traditore a campione della libertà. Tacito
scrive in epoca Traiana (98-117). La trasformazione di Arminio passa gradualmente da Seneca, a Lucano e
infine a Tacito. Questi tre intellettuali erano scontenti della trasformazione del principato, divenuto dispotico.
Tacito scrive per dimostrare l’infondatezza delle vittorie di Domiziano (dispotico e odiato, assassinato nel 96)
oltre il Reno. Parla di come le genti Germaniche siano stanziate in una terra oscura, ma anche di come esse
siano legate a valori più semplici e genuini. Tacito idealizza la rettitudine e purezza dei Germani, in particolare
dei Cauci, che considera i più nobili di tutti.

“Più forte del regno di Arsace è la libertà dei Germani”

Tacito riprende il tema di Lucano della Libertà fuggitiva da Roma, ma egli ritiene che lei non risieda fra i Parti,
nemici di Roma, ma tra i Germani. Secondo Tacito questi sono superiori ai Parti poiché essi non hanno un
regno, e possiedono quindi un maggiore grado di libertà. Tacito rivede nei Germani le antiche virtù romane,
ormai viziate dal benessere e dal potere. Egli condanna perfino l’ordine stabilito da Augusto, affermando che la
nascita del principato, con il suo ordine rigido composto di armi e leggi abbia ucciso la libertà dell’epoca
precedente, e si sia trasformato in una monarchia orientaleggiante.

Invenzione di un mito: Arminio il liberatore


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In un’altra sua opera, gli Annali, Tacito racconta delle gesta di Arminio, e di come sia riuscito a far rinunciare ai
romani la conquista delle sue terre con la sua lotta. Tacito inventa il personaggio di Arminio il liberatore,
mitizzandolo. La manipolazione della memoria è ora completa: l’Arminio di Tacito non è né perfido, né
traditore, tanto che egli afferma che il massacro di Teutoburgo è stato una vittoria in campo aperto.

Una memoria condivisa?

Non sappiamo dire se Arminio fosse un eroe solo per Tacito o se lo fosse anche per le popolazioni transrenane.
Sebbene i Germani non avessero un ideale unitario politicamente, secondo Tacito il mito di Arminio li unificò
per del tempo. Secondo lui il racconto del personaggio sarebbe stato motivo di unificazione, e ancora le
popolazioni Germaniche avrebbero cantato delle sue gesta nei primi anni del secondo secolo. Tacito individua
la leggenda di Arminio come causa di diverse rivolte successive alle sue imprese.

Diplomazia e guerra: Roma e la Germania da Tiberio a Domiziano

Nessuno dei successori di Tiberio pensò mai di recuperare le terre di Germania. A livello locale, tuttavia, le
autorità romane mantennero un certo grado di influenza sui territori al di là del Reno. Il confine era dunque
valicabile, come testimoniano diverse spedizioni effettuate dai romani contro svariate popolazioni Germaniche.
La dinastia Flavia prestò molta attenzione al rafforzamento della frontiera renana. Sotto Domiziano il confine
venne invece riorganizzato: vennero costruite nuove fortificazioni e rafforzate quelle antiche. Domiziano divise
inoltre il territorio in due province: Germania Inferior sul basso Reno e Superior sull’alto corso del fiume. La
lealtà dei governatori di queste zone era da accertarsi accuratamente, in quanto costoro avevano il controllo di
molti soldati. Anche per questa ragione, qualsiasi tentativo di conquista oltre il Reno fu fermato, per evitare il
gonfiarsi di prestigi personali di generali e governatori.

Il Reno, terra di frontiera

Nel secondo secolo, Traiano, Adriano e Antonino Pio ultimarono le fortificazioni lungo il limes. Queste
servivano, oltre alla difesa, a regolare il passaggio di merci e persone sul confine. I due mondi infatti non
rimasero impermeabili. La pace durò fino all’epoca di Marco Aurelio e Lucio Vero. I barbari premettero lungo
il limes, soprattutto sul Danubio, tanto da far saltare il sistema difensivo. I barbari giunsero addirittura in Grecia
e in Italia, ma Marco Aurelio riuscì infine a respingerli. Il costo fu elevatissimo, e lo stesso imperatore morì
nella campagna. Dal 213, sotto Caracalla, i barbari ripresero ad attaccare, ma questa volta i Germani erano
riuniti in federazioni. Nel terzo secolo Roma dovette fronteggiare attacchi su più fronti. Nel 235 l’imperatore
Severo Alessandro fu assassinato sul Reno, e toccò a Massimino il Trace, suo successore, sconfiggere
nuovamente i Germani trans renani. Egli si introdusse in profondità nel terreno Germanico, fino ad una grande
battaglia campale in una palude, dove si consumò un immane massacro di barbari (Erodiano). Tra 249 e 262
una nuova crisi investì l’impero. Dopo secoli di lotte, il confine del Reno cedette definitivamente solo durante
il quinto secolo, quando le popolazioni Germaniche, spinte dagli Unni, si mossero verso la Gallia.

La libertà degli antichi Germani

Poco dopo Tacito, la figura eroica di Arminio è presto sbiadita. Dal terzo secolo all’età rinascimentale, Arminio
scompare addirittura dalla memoria culturale. Non si perse tuttavia il ricordo dei Germani trans renani come
difensori della libertà. Tra terzo e quinto secolo la pressione dei Germani sul Danubio aumentò. Questo portò
ad un diffuso disprezzo per loro, ma anche ad una tendenza ad una loro idealizzazione. Molti subivano il fascino
della duplicità del loro essere: crudeltà e valori di libertà. Molti interpretarono il declino dell’impero come
dovuto alla corruzione morale degli uomini al potere. Presso le cerchie intellettuali, l’idealizzazione dei barbari
non era ammissione di inferiorità, ma un tentativo di scuotere le coscienze dei contemporanei. Pochi furono i
tentativi di integrazione di barbari entro i confini dell’impero. I barbari erano
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considerati un corpo estraneo, da tollerare al più. L’arrivo di queste popolazioni nelle province diede il via alla
creazione dei regni romano-barbarici.

Translatio imperii ad Francos: da Clodoveo a Ottone di Frisinga

I Franchi, discendenti dei Sugambri ed altre genti che si erano opposte ad Augusto e Tiberio, occuparono la
Gallia tra quarto e quinto secolo. Il loro re, Clodoveo, si era convertito al cristianesimo, ed era ben visto
dall’impero d’Oriente. Conservando le loro antiche virtù, i Franchi avevano tratto beneficio dal contatto con le
genti civilizzate della Gallia. La loro capacità di integrarsi con la civiltà sfociò poi nel destino di Carlo Magno,
il primo imperatore di stirpe Germanica, investito del suo ruolo nell’800. Il compito di egemonia sul mondo
sembrava così essere passato nelle mani di queste genti Germaniche romanizzate. Era nato un nuovo Sacro
Romano Impero.

Capitolo 6: Un mito di antica libertà: la Germania, l’Italia, l’Europa

Segue ora una riflessione sulle ripercussioni delle vicende dei Germani sulla cultura occidentale dal
Rinascimento all’età contemporanea.

Il filo della memoria tra Fulda e il Weser

Dopo i bui secoli di passaggio tra antichità e medioevo, la figura di Arminio e i Cherusci riaffiorano durante la
fase carolingia. È Rudolf di Fulda a recuperare Tacito e a citarlo in una delle sue opere. È probabile che egli
avesse conoscenza sia degli Annales, che della Germania di Tacito. Già in questa fase il passaggio di Tacito
sulla purezza etnica dei Germani suscita grande fascino. Rudolf interpreta questa purezza non come dovuta
all’isolamento geografico, ma ad una consapevole scelta di isolamento e preservazione. Egli esalta poi i Sassoni
come eredi dei Germani di Tacito (era egli stesso sassone). Già dalla metà del nono secolo la Germania di Tacito
evoca sentimenti di orgoglio “nazionale”. Dopo Rudolf si torna al silenzio sugli scritti di Tacito, fino
all’umanesimo.

Gli antichi Germani e la cultura italiana dal Medioevo all’Umanesimo

Fino al quindicesimo secolo, mancheranno le notizie di Velleio Patercolo, Cassio Dione, Tacito. Sono rimaste
solo le notizie che parlano della Germania di un luogo ostile e barbarico, e questa visione condiziona il pensiero
italiano verso i popoli Germanici anche in questa epoca. Viene condannato il furor Teutonicus, ossia la rapacità
e violenza tedesche, che si riflettono anche con le ingerenze dell’imperatore sull’Italia. La fine di Roma si faceva
coincidere con la fine della libertà in Italia, entrata in contatto con queste genti solo alla fine dell’Impero
Romano. Biondo Flavio riflette sulla fine dell’antichità tra 1438 e 1453, accusando il sacco di Roma del 410
come inizio della catastrofe della civiltà antica, l’inclinatio imperii. Biondo giudica tuttavia positivamente il
tentativo di integrazione degli Ostrogoti e Teoderico, lodando il re barbarico per il suo tentativo di emulazione
del regime romano. Resta invece critico sui violenti Longobardi; questa visione visse a lungo nella cultura e
storiografia italiane.

Ritorno all’oblio

Nel 1425 si sparse la voce che nell’abbazia di Hersfeld, in Assia, esisteva un codice contenente opere minori di
Tacito. Diversi studiosi si misero in moto per ottenerlo, e infine vi riuscì Enoch di Ascoli. La riscoperta della
Germania coincise con il fiorire dell’umanesimo. Gli intellettuali italiani facevano pesare la discendenza dai
popoli barbarici ai tedeschi, ma la scoperta della Germania stava per capovolgere questo equilibrio di rapporti
intellettuali.

Enea Silvio Piccolomini e le due Germanie


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Piccolomini si servì della Germania di Tacito per un confronto culturale tra Italia e Germania. Si tratta ancora
di un confronto in chiave di denigrazione dell’origine barbarica dei tedeschi: Piccolomini usa tale
argomentazione per giustificare le imposizioni fiscali della Chiesa di Roma. Solo grazie alla missione
evangelizzatrice della Chiesa i tedeschi si erano redenti dalla loro condizione barbarica inferiore. Si rivela così
un confronto tra le due Germanie, quella passata e quella moderna: la prima era inferiore alla seconda, poiché
essa ha ricevuto la grazia dell’azione della Chiesa.

Tacito, il secondo fondatore della Germania

La Germania di Tacito fu usata però anche per celebrare le virtù tedesche. Nel 1453 Costantinopoli venne presa
dai turchi. Venne chiesto dunque all’imperatore di prendere le armi contro l’invasore. Il legato pontificio
Giovanni Antonio Campano si rifece alla Germania di Tacito per esaltare le virtù guerriere tedesche e spronarli
alla guerra contro i turchi: il coraggio e la capacità militare erano dopotutto doti innate del popolo Germanico.
Era il momento di riprendere le armi per la libertà, ora come allora. L’opera di Tacito viene spesso usata a scopi
politici, ma egli non fa mai menzione di Arminio. Egli ricomparse quando nell’abbazia di Corvey sul Weser fu
riscoperta una editio princeps degli Annales, nel 1507. Qui egli compariva. Per la ricchezza di informazioni
sulla vicenda, Tacito viene identificato come secondo fondatore della Germania (Francesco Irenico, 1518)

Rinascita di un mito: la libertà degli antichi Germani

Le storie di Tacito sulla lotta per la libertà di Arminio fecero da modello culturale della Germania nel suo
rinascimento. Le due opere di tacito furono un pilastro nell’educazione patriottica della borghesia del
sedicesimo secolo. Questo sentimento patriottico si opponeva all’arroganza degli umanisti italiani che li
consideravano inferiori e barbarici. E questa rivalsa culturale era talmente desiderata che diversi autori diedero
vita a falsi racconti storici su fittizi regni Germanici indipendenti da Roma.

Conrad Celtis e la ricerca delle origini

Nel 1492 l’umanista tedesco Conrad Celtis utilizzò la Germania di Tacito per esortare i compatrioti a sostenere
l’imperatore nella sua lotta contro il papa. Celtis afferma una continuità di valori tra la Germania passata e
quella odierna: capacità guerriera, purezza, onestà, fedeltà, amore per la patria, e così via. Oltre al confronto
culturale con l’Italia, le riflessioni di questi anni vertono anche sulle dispute con la Francia per il confine del
Reno, che porteranno ad immani catastrofi per l’Europa.

Ulrich von Hutten cantore di Arminio, eroe antico

Von Hutten fu un umanista tedesco e cantore delle gesta di Arminio. Nel suo Arminius del 1519 egli narra in
poesia gli sforzi del personaggio storico, consacrandolo come eroe del popolo tedesco. Tra i suoi molti valori il
più esaltato è la libertà. L’Arminius ebbe diffusione ristretta ai circoli intellettuali, ma rimane un momento
cardine della ri-forgiatura di Arminio come personaggio eroico e fondante dell’identità tedesca.

Di nuovo contro Roma: Arminio e la Riforma

Nel periodo della riforma sembra risorgere l’epico conflitto tra Germania libera e corruzione dell’Italia. Il
confronto culturale era ormai ad armi pari: man mano che venivano portate alla luce opere di storici romani, la
posizione tedesca si rafforzava. Chi abbracciava il protestantesimo riconosceva in Arminio fascino ed attualità.

La svolta filo-germanica di Machiavelli


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Nella riflessione sui Germani, Piccolomini salva un solo valore: l’amore per la libertà. Machiavelli riprende
questa idea e rivaluta in positivo le antichità germaniche. Pur con forzature ed anacronismi, legge in chiave
positiva i tratti criticati da Piccolomini quali semplicità, rozzezza, isolamento. La celebrazione ha uno scopo
politico: Machiavelli critica la corruzione e la frammentarietà che affliggono l’Italia in quel tempo.
Dall’integrità morale tedesca scaturisce un’attitudine alla guerra che gli italiani non possono sperare di ottenere.

I Germani, la fine di Roma, l’Italia: Machiavelli su Goti e Longobardi

Machiavelli trovò che le genti Germaniche trassero beneficio al contatto con i romani, e infine prevalsero
militarmente. Ha anche una visione positiva dei Longobardi, che loda per il loro tentativo di costruzione di un
regno unitario in Italia, fermato dalla Chiesa.

Il mito della Scandinavia, fucina di genti e spazio di libertà fantastica

In questi tempi vi è anche una rivalutazione delle terre scandinave, non più considerate come buie, tetre ed
inospitali, ma terre ricche di persone Germaniche libere e coraggiose. Da Machiavelli, l’interesse per il nord
fantastico passa a Giambullari, che descrive una Scandinavia mitica, prodigiosa e misteriosa.

Un dramma collettivo: il sacco di Roma del 1527, i Lanzichenecchi

Il revisionismo machiavelliano non intacca tuttavia l’opposizione consolidata nei secoli tra popolazioni
Germaniche e civiltà latina. Il sacco di Roma del 1527 gettò sgomento e dolore in tutta Europa. Sebbene truppe
italiane, spagnole e tedesche concorsero nel sacco, la cultura italiana identificò l’evento come provocato dalla
furia dei lanzichenecchi. Le colpe pari o superiori dei soldati spagnoli e italiani vennero dimenticate. Dopo il
sacco, l’Italia perse il primato culturale in Europa. Ci si avviava al concilio di Trento, che avrebbe dato il via
alla controriforma.

“Angeli nocivi” e vendicatori

Nel clima controriformista la contrapposizione tra civiltà latina e Germani riacquistò vigore. I sacchi di Roma
e le disgrazie cadute sulla città vengono ora interpretate come eventi punitivi inviati da dio. Anche il mito
Germanico promosso da Machiavelli viene sottoposto ad aspra critica. Il protestantesimo è visto come una
moderna espressione dell’amore per la libertà che caratterizza i Germani.

MANCA IL RIASSUNTO DEI SUCCESSIVI CAPITOLETTI E DELL’EPILOGO!

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