Sei sulla pagina 1di 11

IL SACCO DI ALARICO DEL 410

Umberto Roberto, Roma capta, Laterza 2012

Il 24 agosto 410 Alarico e i suoi Goti entrarono a Roma da Porta Salaria. Trovarono la via
aperta e non ebbero bisogno di combattere. Si gettarono con furia sulle strade della città,
avidi di bottino e di facili prede. Chi aprì loro la porta? Chi li aiutò? Non lo sappiamo,
troppo esigue le nostre fonti. Sappiamo però che quei tre giorni furono l'esito di un
confronto tra impero e goti che durava da decenni: una delle numerose grandi migrazioni
di popoli dalle steppe asiatiche al cuore di un impero che appariva promettente; una lotta
disperata per la sopravvivenza o l'annientamento.
La storia inizia in Tracia, alla fine del 376, sulle rive del Danubio gonfio di pioggia.

La tragedia di un popolo in fuga -


Nell'autunno del 376 le guarnigioni romane stanziate sul Danubio tra Durostorum e
Noviodunum (Scizia) avvistavano al di là del fiume una immensa massa di Goti, uomini,
donne, vecchi, bambini che già dalla primavera cresceva ogni giorno e premeva per
attraversare il Danubio.
Gia da 100 anno Ostrogoti e Visigoti si erano stabiliti nella terra tra il Don, i Carpazi
e il Danubio. Si trattava di una confederazione 'polietnica' che controllava un territorio
aperto, dove convivevano culture e genti diverse che si mescolavano in un complesso
processo di etnogenesi, aperti anche, lungo la frontiera renano-danubiana, all'influenza
romana. Sul territorio dei goti viaggiavano ambasciatori imperiali, mercanti, missionari
cristiani; alcuni tra i loro giovani più robusti attraversavano il Danubio per arruolarsi
nell'esercito romano. I romani erano in grado di controllare la frontiera e garantire un
flusso ordinato di uomini e merci tra le due sponde.
Quando giunsero gli ambasciatori dei goti, gli ufficiali romani vennero a conoscenza di
una storia drammatica: non avevano intenzioni ostili, non era un tentativo di invasione,
era solo una fuga disperata dalle terribili incursioni dei cavalieri unni che, dalle più remote
steppe asiatiche si gettavano, con impressionante potenza d'urto, verso ovest. Già
l'avanzata degli Unni aveva annientato gli Alani e gli Ostrogoti (360-370). Aristocratici,
guerrieri e contadini goti fuggivano verso sud, terrorizzati dalle terribili incursioni unne:
chi non scappava veniva ucciso o, nel migliore dei casi, reso schiavo da una gente terribile,
descritta con sembianze bestiali e di inaudita ferocia (circolavano leggende che gli unni
fossero nati dall'unione di streghe raminghe nelle steppe desolate e gli impuri spiriti del
deserto).
Attraversare i Danubio ed entrare nell'impero romano era l'unica possibilità di salvezza
per i goti, fiduciosi di poter ricevere accoglienza e protezione dall'impero.

La difficile decisione di Valente -


Nonostante le pressanti richieste dei goti, le autorità romane sulle rive del Danubio non
presero decisioni: una massa tanto ingente di profughi non era certo affare locale e
bisognava interpellare l’imperatore, dopotutto gli Unni non erano ancora arrivati alla riva
danubiana. E la vera emergenza sembrava piuttosto approvvigionare tanti profughi.
Fu così che (estate 376) un’ambasceria di goti fu scortata attraverso il cuore dell’impero
1
d’Oriente, ad Antiochia a 1000 km, dove risiedeva Valente. I Goti supplicavano di essere
accolti nell’impero, chiedevano terra e viveri; offrivano sottomissione e aiuto militare in
caso di guerra. L’accoglienza dei Goti apparve vantaggiosa: dai tempi delle riforme di
Diocleziano e Costantino, i costi economici, sociali, umani per il mantenimento
dell’elefantiaco impero erano elevatissimi; per pagare stipendi e rifornire le truppe di
viveri si gravava sulle campagne, private di braccia e ora si presentava la possibilità di
contare su un numero ingente di giovani guerrieri da arruolare nell’esercito, lasciando
nelle campagne le braccia più adatte ai duri lavori agricoli. Inoltre i capi goti erano
cristiani ariani, come Valente e chiedevano protezione con umiltà, in nome della comune
fede. Valente decise di accogliere i Goti in territorio romano, stabilendo che adeguate
quantità di cibo venissero trasferite sulle rive del Danubio. L’esercito romano, efficiente e
disciplinato doveva assicurare ordine e assistenza ai capi goti e rimanevano responsabili
della sistemazione di tanta gente.

Disastro umanitario sulle rive del Danubio –


Al ritorno degli ambasciatori, in pieno autunno, l’esodo ebbe inizio. Le autorità militari
avevano istruzioni chiare: calcolare il numero di profughi, agevolare l’ordinata esecuzione
del traghettamento, requisire le armi. Lo sforzo logistico dei romani fu enorme: furono
utilizzate tutte le imbarcazioni disponibili, zattere, tronchi d’albero scavati; carri per
sgombrare la riva da quanti arrivavano. Ma il fiume era in piena, chi cadeva tra i flutti
impetuosi spariva per sempre. I romani trasportarono sulla loro riva un popolo intero,
uomini-donne-bambini-vecchi-animali- armi ben nascoste, non se ne conosce il numero;
Ammiano Marcellino (XXXI 4.6) cita Virgilio e li paragona ai granelli di sabbia che il vento
di primavera spinge sulle coste d’Africa.
Ammiano Marcellino, ex ufficiale della guardia imperiale, solitamente ostile ai barbari,
uomo ligio alla tradizione, convinto della superiorità della cultura romana rispetto
all’universo inquieto e brutale dei barbari, testimonia con sincerità il dramma dei Goti.
I Goti furono sistemati nei campi a ridosso della riva, ma in ripari di fortuna al freddo
pioggia fame; i viveri non furono mai distribuiti: i soldati romani cominciarono un turpe
commercio di beni di prima necessità: chiedevano oro, gioielli, animali, ogni bene di
valore e davano in cambio cibo avariato, carne di cane o di carogna. I capi goti insistevano
per ottenere quanto promesso ad Antiochia, ma invano. Furono venduti i propri figli come
schiavi pur di sopravvivere. Furono ignorati gli ordini imperiali. La responsabilità non
era di Valente né dei suoi alti funzionari: l’ordine era stato impartito, ma i viveri erano
stati nascosti o trafugati da uomini senza dignità (Ammiano fa i nomi di Lupicino e
Massimo). Fu l’avidità e la corruzione della società tardoromana che contribuirono al
collasso delle istituzioni imperiali. I soldati romani divennero il segno più odioso
dell’ingiustizia e della brutalità dei tempi: erano gli unici, in una società oppressa da
povertà e precarietà, a godere di un buono stipendio, eppure sempre alla ricerca di nuovi
guadagni.
Lupicino, ignorando gli ordini imperiali, ordinò di sgombrare i campi sul Danubio e di
trasferire verso l’interno della provincia i barbari. Fritigerno e gli altri capi obbedirono,
ancora sperando nella parola dell’imperatore e una lunga marcia sotto la scorta minacciosa

2
delle truppe romane, portò i Goti a Marcianopoli, dove furono fatti accampare, ma gli fu
impedito di acquistare cibo. Di nuovo i capi goti supplicarono dichiarandosi sottomessi e
in pace con l’impero, ma invano. Fu l’inizio degli scontri tra gli abitanti della città e i Goti.

Adrianopoli, l’ora della vendetta –agosto 378-


Per 2 anni la Tracia divenne un campo di battaglia: masse sempre più numerose di barbari
oltrepassavano il Danubio e con veloci bande a cavallo battevano la campagna
saccheggiando e massacrando. Valente inviò altre truppe, altri generali, ma la rivolta non
si placava. Allora si mise in marcia personalmente, con le migliori truppe dell’esercito
d’Oriente. I Goti di Fritigerno e i romani di Valente si incontrarono in una pianura presso
Adrianopoli. Da una parte il bagliore delle armi romane, delle corazze, il frastuono dei
preparativi, lo sfolgorio dei vessilli, l’organizzazione dei reparti, la disciplina, le tende
magnifiche dell’imperatore e dei suoi dignitari; dall’altra i Goti terrorizzati alla vista
dell’avversario, che alla vigilia della battaglia, si recano in ambasceria da Valente
chiedendo pace e ribadendo sottomissione a Roma, si rinnovavano solo le richieste fatte
ad Antiochia: terre e pace in cambio di sottomissione. Alle 2 pomeridiane del 9 agosto, nel
caldo torrido della pianura si accese la battaglia, proprio quando una nuova ambasceria di
Goti tornò ad implorare pace. Fu un massacro spaventoso: polvere, fumo, sangue, orribili
grida. In poche ore il fiore dell’esercito romano fu completamente sbaragliato: cadde e non
fu mai più ritrovato, l’imperatore Valente. Ricorda Ammiano che escludendo Canne, non
si ricorda un massacro pari a quello di Adrianopoli. Un’intera regione rimase in balia dei
barbari, inorgogliti da una vittoria schiacciante.
Adrianopoli è una grande battaglia della storia: cambiò gli equilibri tra romani e barbari. I
Goti presero consapevolezza della propria forza e della vulnerabilità dei romani e
declinava per sempre il vanto dell’aeternitas di Roma fondata sull’annientamento del
nemico.

Teodosio, amator pacis generisque Gothorum (Iordanes, Getica 146) – 379-395


Il nuovo Augusto d’Oriente Teodosio, aveva il pesantissimo onere di restituire ordine a
una regione, la Tracia, sconvolta dalla guerra, senza disporre di un esercito adeguato.
Doveva trovare una alternativa al conflitto, dunque cambiò politica.
Teodosio da soldato aveva combattuto insieme a loro nell’esercito imperiale fortemente
barbarizzato: li stimava e apprezzava (Caracalla aveva indossato le bracae dei germani, una sorta di
pantaloni).
Dunque si circondò di aristocratici barbari e assegnò loro importanti cariche militari.
ottobre 382 – i Goti accettano un foedus, un trattato di alleanza con Teodosio. I Goti
ottenevano terra sul confine danubiano: furono insediati nelle province di Dacia imperiale,
Mesia inferiore, Scizia minore, in regime di hospitalitas . Una parte delle terre dei
provinciali romani fu requisita a vantaggio dei barbari. In cambio i Goti garantivano di
difendere la frontiera dell’Impero e di fornire guerrieri all’esercito romano (foederati) anche
in caso di campagne lontano dal Danubio.
Ai foederati Teodosio garantì rispetto e protezione.
Le cose erano molto cambiate dalle livide giornate del 376 : i Goti si erano guadagnati il

3
rispetto di Roma, non erano più supplici o profughi, ma avevano una loro autonomia ed
erano comandati dai loro capi; le tesse loro assegnate erano prob esenti da tasse. I Goti
rappresentavano ora un’enclave politica e culturale all’interno dell’impero: era aperta la
strada verso i regni romano-barbarici.
settembre 394 – i Goti federati accompagnarono, secondo i patti, Teodosio in una
marcia verso il nord Italia contro l’usurpatore Eugenio, e ne costituirono l’avanguardia.
Teodosio trionfò, ma i Goti caddero in 10.000, dimostrando col sangue la loro fedeltà al
principe.
Anche nel privato Teodosio fu coerente con questa linea: fece sposare Serena, sua
figlia adottiva, ad un semibarbaro di stirpe vandalica: Stilicone, a cui offrì comandi e onori.
A lui, prima di morire nel 395, affidò per testamento la tutela dei due figli Arcadio e
Onorio. Arcadio sposò Eudossia, principessa franca, e Galla Placidia sposerà il goto Ataulfo.

Alarico e la rivolta dei federati (395) –


Tedosio, dopo la faticosa campagna d’Italia, morì nel palazzo imperiale di Milano. Celebrò
le esequie il vescovo Ambrogio. La successione si compì secondo la volontà imperiale:
Arcadio augusto in Oriente, il piccolo Onorio augusto in Occidente. Stilicone, come
previsto dal testamento, vigilò sulla successione.
Il magister Stilicone mantenne le unità migliori dell’esercito orientale in Italia presso di sé e
congedò i foederati goti ordinando loro di tornare sul Danubio. Furono mandati indietro
nel cuore dell’inverno, privi di viveri e assistenza; anche i generosi donativi che Teodosio
aveva garantito loro furono sospesi. La marcia attraverso l’Illirico fu segnata da fame e da
fatiche. Tornarono verso casa senza gloria, ma pieni di collera e rancore. Era tempo di
rivedere gli accordi con Roma, di rinegoziare il trattato col nuovo imperatore. Occorreva
trovare un capo che trattasse con Roma, senza temere gli imperatori: un capo che facesse
pagare il giusto prezzo per il sacrificio sopportato presso il Frigido.
Alarico, goto di Mesia della famiglia principesca dei Balta era l’uomo giusto per guidare la
ribellione dei Goti. Ai tempi del passaggio sul Danubio e di Adrianopoli era ancora un
bambino. Era cresciuto nell’impero e apparteneva all’aristocrazia che aveva condiviso il
favore di Teodosio. Aveva guidato i superstiti del contingente gotico attraverso l’Illirico.
Nell’inverno del 394-395 il Danubio gelò. Dalla riva barbarica, bande ferocissime di Unni
passarono sul ghiaccio seminando morte e disperazione tra i villaggi dei contadini goti.
Non c’erano guerrieri per difenderli, né truppe imperiali. Fu un inverno durissimo. I Goti,
sotto la guida di un capo risoluto come Alarico, si misero in marcia alla ricerca di sicurezza
e pace, in terre lontane dall’incubo degli Unni.

Dal Danubio all’Epiro (397) –


Abbandonato il Danubio, Alarico e la sua gente puntarono su Costantinopoli, dove
ottennero che i Goti si ritirassero dalla Tracia e muovessero verso Macedonia e Grecia,
allora sotto il controllo dell’impero d’Occidente. Alarico procedette non senza atti di forza,
arginato da gruppi di autodifesa di locali. Accerchiati da Silicone che giungeva con un
esercito da Occidente. Poi inaspettatamente arrivò l’ordine di Arcadio che ingiunse di
lasciar liberi i Goti. Alarico allora invase la Grecia: caddero il Pireo, Atene (che evitò il

4
saccheggio pagando un ingente riscatto e dovette ospitare i goti per qualche tempo),
Corinto, Argo, Sparta. Poi i barbari sembrarono intenzionati a stabilirsi nel Peloponneso,
area protetta da montagne e vicino al mare. Nel 397 Stilicone sbarcò nel Peloponneso e di
nuovo accerchiò i Goti, ma di nuovo trovò un accordo con Alarico: per la terza volta
Silicone ebbe in pugno il destino di Alarico e della sua gente, e per la terza volta rinunciò
all’annientamento e li lasciò liberi.
I Goti allora si diressero in Epiro e lo misero a ferro e fuoco: Arcadio inviò
ambasciatori per trattare la pace. Così, nel 397 i Goti ottennero un nuovo foedus : fu
concesso loro di stabilirsi in Macedonia e Alarico divenne dux per Illyricum , dunque
ufficiale superiore dell’esercito imperiale, con autorità sui foederati stanziati nella regione.
Alarico consolidava la su posizione di rex dei Goti e il suo ruolo di mediatore tra le
esigenze della stirpe gotica e gli interessi dell’impero di Roma.

Alarico in Italia (401-402)-


Quando il governo d’Oriente assunse una drastica condotta antibarbarica, Alarico
comprese che era tempo di lasciare l’Oriente e muovere verso occidente, dove Stilicone
governava in nome di Onorio. Alarico sapeva che Stilicone aveva sguarnito l’Italia
conducendo una parte importante dell’esercito sul Reno dove incombevano altre genti
barbariche, dunque ne approfittò e raggiunse l’Italia nel novembre 401. Senza trovare
resistenza i goti procedettero ad Aquileia, Veneto, Milano residenza imperiale.
Il panico sconvolse la popolazione e la corte e la capitale fu spostata da Milano a Ravenna
. Stanziati a Pollenzo, furono vittime di un attacco proditorio di Alani, con a capo Saul. Di
nuovo Stilicone preferì gli accordi diplomatici all’annientamento: abbandonassero l’Italia,
verso la Dalmazia.

Alla ricerca di un intesa (402-408)-


Privi di terre da coltivare e di viveri , ben presto i Goti iniziarono a saccheggiare le regioni
dell’Illirico. Nel 407 la frontiera della Germania venne spazzata via dall’invasione di Alani,
Vandali, Suevi: Stilicone dovette inviare truppe a nord. Alarico, approfittando del
momento propizio, inviò a Ravenna emissari goti e chiese 4000 libbre d’oro: minacciava di
invadere l’Italia, qualora non fossero state accolte le sue richieste. La sua richiesta non era
mossa da sete d’oro: Alarico non era l’avido capo di una banda di predoni: era
responsabile di una massa enorme di persone, di un popolo in marcia, profugo e senza
prospettive, ma come ai tempi di Adrianopoli, in possesso delle proprie armi e pronto a
usarle per disperazione. L’oro dei Romani sarebbe servito a comprare viveri e a nutrire
almeno 100.000 uomini, donne e bambini per un anno, nell’attesa di un insediamento
stabile: Alarico era un mediatore, riconosciuto dalla sua gente e anche dai Romani.
Nelle sue mani era la salvezza del popolo gotico e la pace con l’Impero. Stilicone partì
per Roma dove il senato, ancorchè in declino, era costituito dai più ricchi aristocratici
d’Occidente. Qui presentò le proposte di Alarico: la pace in Italia andava pagata con l’oro,
i foederati andavano sostenuti. Più delle ragionevoli argomentazioni, potè la minaccia di
aggressione. I senatori accettarono di pagare.

5
La svolta: l’assassinio di Stilicone (22 agosto 408)-
Nei piani di Stilicone, Alarico avrebbe ricevuto l’oro; in cambio si sarebbe allontanato dai
confini Italiani. Ma non ci fu tempo per questi propositi: scoppiò a Ticinum (Pavia) una
sommossa guidata da Olimpio contro Stilicone: le truppe romane trucidarono tutti i
dignitari amici di Stilicone al seguito dell’imperatore Onorio. Fu l’esplosione improvvisa
di un odio che aveva radici lontane: il bersaglio non era solo l’immenso potere di Stilicone,
ma il risentimento verso i barbari che occupavano posti di rilievo nella gerarchia militare.
Tutta la società era percorsa da un sentimento antibarbarico e si ribellava alla politica di
apertura verso i barbari.
Stilicone allora, rifiutò di marciare contro i rivoltosi e, preoccupato per Onorio, si recò a
Ravenna, da solo accompagnato da pochi seguaci per incontrare il principe e convincerlo a
destituire il partito di Olimpio, prima di procedere alla repressione della rivolta: era
l’unico modo per evitare altri massacri.
La sua decisione di non muovere truppe barbariche contro quelle romane fu un
segno di grande coerenza politica e di nobiltà d’animo. Una guerra tra romani e barbari
avrebbe tradito l’eredità del suo benefattore Teodosio e avrebbe vanificato anni di
governo rivolti all’unità dell’impero e alla pacificazione tra le genti.
Così Stilicone giunse di notte a Ravenna e venne a sapere l’ordine imperiale del suo
arresto. Si ritirò allora all’interno di una chiesa, mentre i suoi seguaci assistevano attoniti
agli eventi. Quando era ormai giorno, un drappello di soldati fece irruzione nella chiesa.
Al cospetto del vescovo i soldati convinsero Stilicone a uscire che avevano un ordine di
custodia del prigioniero. Appena uscita fu estratta una lettera che proclamava Stilicone
condannato a morte per crimini contro lo stato. Con grande dignità offrì il collo al
carnefice, pur di evitare un sanguinoso scontro tra barbari e Romani.
Fu decapitato il 22 agosto 408. Finiva nel sangue il sogno di Teodosio di pacifica
convivenza tra romani e barbari.

Un inutile massacro –
Pagarono anche i familiari e gli amici di Stilicone: suo figlio Eucherio fu condannato a
morte, sua figli Termantia imperatrice fu ripudiata da Onorio; illustri e potenti dignitari,
legati a Stilicone, subirono processi sommari e atroci torture prima di essere giustiziati.
In viaggio verso Ravenna, Stilicone aveva ordinato alle guarnigioni delle città di prendere
in custodia le famiglie dei soldati barbari. Questo aveva indotto i foederati alla
moderazione e alla calma. Alla notizia della morte del magister, le guarnigioni romane
massacrarono le mogli e i bambini dei soldati barbari che erano stati loro affidati e si
impossessarono di tutti i loro beni. Così tutte le milizie barbariche al servizio di Onori
disertarono e passarono dalla parte di Alarico.
Dopo la morte del magister si consumò in Italia una lacerazione profonda,
un’epurazione violenta dei barbari al servizio dell’impero. Alarico emerse come guida
carismatica e rifugio di tutti i barbari e i perseguitati del regime di Onorio. La lotta dei Goti
per l’integrazione nell’impero assunse un significato politico e culturale più grande, nella
drammatica contrapposizione tra romani e barbari.

6
La difficile mediazione di Alarico –
Stilicone aveva sempre risparmiato i goti e la sua morte creava un vuoto pericoloso:
veniva a mancare il mediatore sul versante romano, tanto più che al potere era adesso il
partito antibarbarico che Onorio appoggiava. Alarico non possiamo immaginarcelo come
un barbaro sfrenato e sanguinario: si trovava ora a gestire oltre che le vitali esigenze del
suo popolo, anche i barbari che erano stati al servizio dell’impero e che, dopo il massacro
delle loro famiglie, confluivano pieni di odio e assetati di vendetta agli accampamenti dei
goti. Alarico continuava ad avere i suoi obbiettivi: terra, riconoscimento imperiale, pace e
riformulò al nuovo governo le sue richieste, propose uno scambio di ostaggi, si mostrò
disponibile a insediarsi in Pannonia. Ma Onorio e il suo ministro Olimpio rifiutarono
sprezzanti. Allora Alarico, abbandonando la diplomazia, decise di marciare contro Roma.

L’assedio di Roma (autunno 408) –


Valicate le Alpi a Tarvisio, dilagarono nella pianura friulana senza fermarsi ad assediare le
prospere città della regione. Lungo la via Postumia, poi attraverso il Po. Attirava i Goti
l’enorme ricchezza di una capitale millenaria: lo splendore degli edifici, il lusso dei
palazzi, l’opulenza dei senatori. Sognavano un bottino immenso. Lungo la Salaria
cominciò la devastazione di città e villaggi sul loro cammino. Nel novembre 408 i barbari
erano davanti a Roma, bloccarono la città e la posero sotto assedio.
Per i barbari le mura erano un ostacolo difficilmente valicabile: l’armamento barbarico
nell’epoca delle invasioni era rudimentale rispetto alla complessa organizzazione
dell’esercito romano. I germani combattevano per lo più a piedi, pochi a cavallo,
indossavano calzoni di pelle e un mantello, mentre i legionari romani erano coperti di
ferro e perfettamente equipaggiati. Per questo preferivano le azioni a sorpresa e le
imboscate con piccoli drappelli di guerrieri. E non ci dobbiamo stupire che, non potendo
tentare un assalto generale, scelsero la lunga fatica dell’assedio, gettando gli abitanti
nell’angoscia, nella fame e nelle epidemie. La città si riempì di cadaveri e da Ravenna non
giunse nessun aiuto. La vedova di Stilicone fu condannata con un processo sommario per
tradimento e collusione con Alarico e fu strangolata. L’evento portò all’esasperazione le
profonde differenze tra i diversi gruppi sociali e si cominciò a temere atti di cannibalismo.
Certificatisi sull’identità di Alarico alle porte di Roma, si sentì l’esigenza di un aiuto divino
e papa Innocenzo, anteponendo alla propria fede la salvezza della città acconsentì persino
a cerimonie pagane, ma tuttavia non ebbe mai luogo alcuna processione pagana
(interessante per la storia delle mentalità).
Come ai tempi di Brenno, i Romani comprarono la libertà a gran prezzo: 5000
libbre d’oro, 30.000 d’argento, 4000 vesti in seta, 3000 pelli scarlatte, 3000 libbre di pepe. I
ricchi senatori sborsarono gran parte del riscatto; il resto venne raccolto saccheggiando i
templi delle divinità pagane: vennero fusi idoli in oro e argento per ricavare metallo
prezioso da consegnare ai Goti.
Ma gli obbiettivi di Alarico rimanevano immutati, al di là della funzione
contingente della ricchezza incassata: un foedus , terra e viveri per la sua gente, il rango di
magister nell’impero per consolidare la sua posizione di potere tra goti e romani. In cambio

7
si impegnavano a fornire foederati per le guerre dell’imperatore contro i suoi avversari.
Onorio sembrò dare il suo assenso e Alarico tolse il blocco. Le porte della città si aprirono
e fu concesso di acquistare viveri e beni di prima necessità in un mercato che durò 3
giorni. I goti si diressero verso l’Etruria, insieme a 40.000 schiavi che abbandonarono i loro
padroni e recuperarono la libertà unendosi ai Goti, nella speranza che Alarico preludesse
al sovvertimento di un ordine sociale.

Ancora trattative con Onorio (gen-apr 409) –


Nel marzo 409 Onorio affidò il potere a Giovio, prefetto del pretorio e aprì nuove trattative
con i Goti. Giovio e Alarico si conoscevano: erano stati entrambi al servizio dell’impero
nell’Illirico.
A Rimini Alarico tornò a chiedere un sussidio, viveri e terra su cui insediarsi: propose la
regione tra le Venezie, il Norico e la Dalmazia e un comando superiore nell’esercito
romano. Giovio accolse queste richieste e raccomandò l’approvazione imperiale, ma
Onorio rifiutò.
Alarico abbandonò Rimini e ordinò di nuovo una marcia alla volta di Roma.
Intanto a Ravenna Giovio e gli altri ministri giurarono al cospetto di Onorio e sulla sua
testa che mai avrebbero raggiunto un accordo con Alarico.
Narra Olimpiodoro che sulla strada per Roma Alarico ebbe un ripensamento: affidò ai
vescovi della città che attraversava nella marcia un estremo invito alla pace; chiese
all’imperatore di evitare la distruzione di una città che per più di 1000 anni aveva
dominato gran parte della terra, chiese di risparmiare alla maestà di Roma, alla bellezza
dei suoi edifici, allo splendore dei suoi tesori, il saccheggio, l’incendio, la devastazione.
Propose condizione ridimensionate: rifiutava cariche militari nell’impero, suggeriva
l’insediamento nel Norico, regione di confine; chiedeva all’imperatore di stabilire un
sussidio annuale in viveri per la sopravvivenza della sua gente. In cambio ribadiva
amicizia e alleanza. I Goti sarebbero intervenuti come foederati contro i nemici
dell’impero. Di nuovo Alarico mostrava sincera ammirazione per la grandezza di Roma e
moderazione. Ma Giovio e i suoi ministri non potevano trasgredire al loro giuramento.
Qui la storiografia tra IV e V secolo testimonia una situazione paradossale, un vero
e proprio rovesciamento di valori: barbari moderati e romani privi di ragionevolezza.
 Alarico non appare mai un barbaro sfrenato e sanguinario, ma un abile politico che
cerca di mediare. Alarico, come gran parte dell’aristocrazia gotica che lo appoggiava,
non voleva la guerra contro i romani, non voleva distruggere il cuore di una civiltà che,
anche nelle lontane regioni del Danubio, suscitava ammirazione e rispetto
 La classe dirigente romana, imperatori e ministri, appare invece inetta, incapace di
gestire una situazione di emergenza con sufficiente duttilità e apertura: governanti
incapaci e inadeguati che hanno in pugno la sopravvivenza dell’impero. Il precipitare
degli eventi, fino al sacco del 410 appare una responsabilità di Roma.

Estate 409 -
Onorio e i suoi ministri rifiutarono le pur moderate offerte di Alarico e gettarono su Roma
il fardello dell’ira gotica. Nella tarda estate del 409 Alarico era di nuovo davanti alle mura

8
di Roma. Di nuovo Alarico, prima di passare alle armi, proseguì la sua pressione
politica e diplomatica. Durante le trattative l’accampamento di Alarico fu
inaspettatamente attaccato da 300 guerrieri al comando del goto Saro che stava regolando i
conti con Ataulfo. Alarico pensò che fosse un attacco proditorio e aprì la strada della
vendetta e del castigo di Onorio e dei Romani.

Il sacco di Roma (24-27 agosto 410) –


Roma soffriva ancora per il blocco di Eracliano quando, in modo del tutto inatteso,
entrarono da Porta Salaria che fu loro spalancata. Come fu possibile? Qualcuno aveva
aperto proditoriamente le porte della città? Cominciarono a circolare accuse di tradimento.
Procopio di Cesarea, che scrisse a 150 anni dai fatti, ci fornisce due versioni:
1- Alarico adottò un perfido stratagemma: selezionò 300 giovani guerrieri e finse di
consegnarli come schiavi in dono a importanti senatori e il 24 agosto avrebbero
approfittato della calura dopo il pasto per radunarsi presso Porta Salaria, uccidere le
guardie e aprire le porte
2- Collusione tra Goti e la potente famiglia degli Anicii che, per risparmiare miserie al
popolo romano, avrebbe ordinato ai servi di spalancare Porta Salaria ai Goti. E’ una
pesantissima accusa agli Anicci, confortata dal fatto che scavi archeologici non hanno
significativi segni di devastazione, come invece nel vicino complesso imperiale degli
Horti Sallustiani. Che sia vero o no, la versione ci mostra che Roma soffriva di
profonde lacerazioni interne tra casate aristocratiche.

I goti si abbatterono sulla città come una tempesta, tutti corsero a nascondersi e si chiusero
nei grandi palazzi nobiliari, nelle insulae, nelle chiese. Fu una razzia indiscriminata,
condotta senza regole e con scarsa possibilità di controllo da parte di Alarico e dei suoi
comandanti subalterni: terrore e caos, questo raccontano tutte le fonti. La furia dei barbari
si abbattè sugli edifici pubblici, sui monumenti più splendidi della città, nei palazzi delle
grandi famiglie, dove i barbari pretendevano oro e argento, pena morte e incendi. Fu
investito il Templum Pacis, dove furono portati via i preziosi cimeli del trionfo sugli Ebrei a
Gerusalemme: il candelabro a 7 bracci, il tesoro di re Salomone. Ancora un secolo dopo
questo immenso bottino faceva parte del tesoro regio del regno visigoto.
Pur nel caos, i beni più preziosi o simbolicamente più prestigiosi erano destinati ad
Alarico: nell’ottica della traslatio imperii, per un capo che aspirava a fondare un suo regno
riconosciuto dall’impero romano, il possesso del tesoro dell’ultimo re di Israele rivestiva
un grande valore simbolico.
Poi toccò alle due grandi basiliche del Foro, la Aemilia e la Iulia che ospitavano gli scambi
finanziari e le attività bancarie della città. Qui prob le tavole dei banchieri erano piene di
monete, a giudicare dal pavimento dove si fusero con l’incendio. Danni anche all’aria
adiacente alla Curia (Alarico voleva colpire il Senato); poi il Campo Marzio, l’Anfiteatro
Flavio, la via Caelimontana, piena ville e residenze dell’aristocrazia senatoria. E prob che i
saccheggiatori siano stati guidati dai molti schiavi che nel 408 avevano lasciato i loro
padroni per unirsi all’esercito di Alarico. Fu inoltre asportato il prezioso fastigio di statue

9
d’argento che Costantino aveva donato alla basilica di S.Giovanni Laterano alla sua
fondazione, per un totale di 662 kg di argento.
I Goti uscirono dalla città con un immenso bottino: oro, metalli preziosi, tesori inestimabili
trafugati da palazzi, templi, chiese e ostaggi di altissimo rango, come la principessa
imperiale Galla Placidia, sorella di Onorio, e Attalo, l’ex usurpatore e cittadini privati
portati via come schiavi e che furono liberati dopo molti anni.
Dopo 3 giorni i Goti abbandonarono Roma da Porta Aurelia e ripiegarono verso sud,
lungo l’Appia che portava a Capua.

Il rispetto dei luoghi sacri durante il Sacco –


Le fonti (Orosio, S.Agostino, Sozomeno, Isidoro di Siviglia) concordano sulla presunta
humanitas di Alarico, in contrapposizione all’immagine del barbaro perfido e sanguinario.
Innanzitutto ordinò di aver rispetto dei luoghi sacri e di rispettare quanti in essi si
fossero rifugiati. In particolare dovevano essere escluse da ogni violenza le basiliche di
S.Pietro e S.Paolo. Secondo il più tardo Isidoro, Alarico ordinò persino di risparmiare tutti
coloro che avessero invocato il nome di Cristo o dei Santi. Perché?
Forse Alarico, prima del saccheggio, aveva raggiunto un accordo con le autorità
ecclesiastiche a Roma: si impegnò a rispettare i luoghi santi che, durante i 3 giorni del
Sacco, garantirono asilo e immunità a gran parte della popolazione. La Basiliche di Pietro e
Paolo, col circostante territorio delle tombe dei martiri, divennero luogo di protezione e
assistenza per la popolazione che vi riparava. E il tesoro dell’apostolo Pietro, in una
Domus ecclesiastica, fu restituito.
Ma probabilmente il controllo di Alarico fu limitato ai gruppi a lui più fedeli. Gli altri, in
bande o isolati, agirono senza freni e senza pietà.
E’ possibile ipotizzare che Alarico diede ordine di creare degli spazi destinati alla raccolta
della popolazione, dislocando truppe che controllavano il perimetro dei luoghi santi
prescelti. Evidentemente anche le autorità ecclesiastiche collaborarono coi goti per
assistere profughi e quanti venivano portati al sicuro nei portici e nei recinti delle chiese.
Ma non l’humanitas, o non solo l’humanitas condusse Alarico a questa operazione, ma
ragioni di pragmatismo: lo sgombero degli abitanti dalle case e dalle strade prescelti per la
razzia, assicurava il buon andamento delle operazioni militari: solo così i saccheggiatori
avrebbero potuto procedere senza intralci, reazioni esasperate, spargimenti di sangue.
D’altra parte quell’area intorno a alla tomba dell’apostolo Pietro, è indicata dalle fonti
come quella in cui già dal IV sec viveva una gran massa di mendicanti e poveri assistiti dal
vescovo di Roma.
Dunque i segni del saccheggio nella basilica del Laterano sono da attribuirsi a barbari
noncuranti degli ordini di Alarico.
L’evento del sacco assunse un grande significato nel conflitto che esisteva tra
paganesimo e cristianesimo. Esso avvenne quando il processo di cristianizzazione
dell’impero, iniziato con Costantino e accelerato da Teodosio, appariva sul punto di
compiersi. Il sacco di Alarico andò a colpire uno dei luoghi dove ancora sopravviveva un
potente gruppo di pagani, dove l’aristocrazia senatoria era ancora devota all’antica
religione. In quella terribile emergenza, la Basilica dio Pietro si connotava come ultimo

10
baluardo per la salvezza dei romani: non era stato Giove Ottimo Massimo a vegliare sulla
difesa della città, ma Pietro e Paolo. Sotto gli occhi di tutti, anche dei pagani che pur di
sfuggire alla morte si erano rifugiati nei luoghi sacri, la Roma cristiana prevaleva sulla
Roma pagana.
Era la fine di un mondo, del mito che stava al centro di quel mondo, la grandezza e
la potenza di Roma che dopo 800 anni di ascesa inarrestabile, trovava il suo tramonto:
tramontava la Roma pagana dei cesari e delle antiche divinità che per secoli avevano
protetto la città e la sua ascesa a impero mondiale. La maestà di questa Roma, le sue
antiche certezze di sicurezza, eternità, vittoria furono spazzate via dal sacco e non
tornarono più.

La chiesa romana restaura Roma –


Ancora alla fine del IV sec, gli edifici monumentali della Roma cristiana, la cattedrale del
Slavatore in Laterano e la basilica dell’apostolo Pietro, sono ai margini della Roma dei
Cesari. Nel 440, dopo il sacco, esistono 14 basiliche cristiane, punto di riferimento per la
popolazione convertita. I luoghi santi erano stati risparmiati, quelli pagani danneggiati o
distrutti. Dopo il sacco, la chiesa romana investì le proprie ricchezze in nuovi edifici che
rinnovassero lo splendore di Roma, ma di una Roma cristiana. Per tutto il V secolo
l’edilizia cristiana (chiese e basiliche) si andò sostituendo a domus nobiliari di età
imperiale abbandonati o distrutti.

I Goti dopo il sacco: l’Aquitania e la fine di un’odissea (410-418) –


Torniamo alla lunga peregrinazione di un popolo in cerca di terra e di pace. Dopo il
trionfo e l’ebrezza per un bottino immenso, occorreva nuovamente concentrarsi sulla
soluzione politica del problema gotico.
All’inizio si diressero a sud, dove saccheggiarono anche Capua e Nola, col sogno di andare
in Africa dove c’erano campagne fertilissime e splendide città. Ma la traversata verso
Messina si risolse in un disastro. Si decise di tornare in dietro: i goti svernarono nella
fertile campagna campana, dove Alarico morì. Successe Ataulfo, senza difficoltà che
condusse i Goti in Gallia, ma morì nel 415 (dopo aver sposato Galla Placidia ostaggio dei
goti dai giorni del sacco e aver generato il piccolo Teodosio, che, portando il nome del
nonno, avrebbe dovuto essere l’erede del regno gotico e dell’impero romano se non fosse
morto ante diem). Ottennero l’agognata pace in Aquitania, Tolosa capitale, fino all’arrivo
dei franchi nel 507.

11

Potrebbero piacerti anche