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Settore Istruzione

Tecnica

MANUALE PER IL CORSO


ISTRUTTORE DI TRIATHLON

2021
Modulo 1 – Metodologia
Basi della prestazione e progettazione dell’allenamento sportivo

Fattori della prestazione sportiva

La prestazione sportiva è il frutto di un processo di adattamento psico-fisico causato dalla


somministrazione organizzata di stimoli indirizzati al miglioramento delle qualità fisiologiche,
energetiche e mentali dell’atleta. Il modo in cui tali stimoli sono proposti determina la qualità
dell’allenamento e di conseguenza della prestazione. Occorre definire cosa s’intende per allenamento
sportivo e le parole di Carlo Vittori, storico allenatore di Pietro Mennea, chiariscono la complessità
del processo educativo che si sviluppa attraverso il rapporto allenatore ed atleta:

“l’allenamento sportivo è un processo pedagogico-educativo complesso che si concretizza


nell’organizzazione dell’esercizio fisico ripetuto in quantità e con intensità tali da produrre carichi
progressivamente crescenti, che stimolino processi fisiologici di supercompensazione dell’organismo
e favoriscano l’aumento delle capacità fisiche, psichiche, tecniche, tattiche dell’atleta, al fine di
esaltarne e consolidarne il rendimento di gara”

Leggendo la definizione di Vittori emerge come l’allenatore sia, in prima istanza, un educatore che
utilizza degli “strumenti” didattici particolari, chiamati allenamenti, per provocare degli adattamenti
nell’atleta. Qualsiasi cosa noi facciamo modifica, in meglio o in peggio, il nostro organismo ed il
nostro modo di pensare, per questo motivo l’allenamento deve essere sempre affrontato in
quest’ottica. Non esiste una distinzione tra mente e corpo, quando facciamo attività motoria siamo
un’unità. Attraverso l’esercizio fisico miglioriamo noi stessi, ritroviamo la nostra essenza e ci
educhiamo alla vita. Non si deve commettere l’errore di credere che il miglioramento sportivo
avvenga esclusivamente sul piano fisiologico. La predisposizione mentale ad affrontare gli
allenamenti ad impegnarsi a sopportare la fatica e a superare situazioni di disagio e difficoltà sono
“skill” mentali che vengono trasmesse ed alimentate dall’allenatore. Sintetizzando la definizione di
allenamento sportivo possiamo affermare che esso è costituito dalla “la somministrazione organizzata
e continuativa di stimoli biologici, atta al miglioramento della prestazione sportiva”. La definizione,
volutamente generica, comprende tutto quanto è possibile fare, lecitamente, per incrementare le
potenzialità dell’atleta. Lo stimolo biologico è un carico psico-fisiologico in grado di alterare la
condizione di equilibrio (omeostasi) dell’organismo. Attraverso la razionale alternanza di stimoli
biologici è possibile migliorare le capacità fisiologiche, energetiche e cognitive alla base della
prestazione. Le capacità necessarie allo sviluppo della “performance” sportiva possono essere
raggruppate in tre macrocategorie:

• coordinative o tecniche;
• condizionali o fisiche;
• mentali o cognitive.

Questi tre aspetti della preparazione si condizionano vicendevolmente e la debolezza di uno


compromette la possibilità̀ di ottenere la massima espressione degli altri, come rappresentato nella
figura sottostante.
Figura 1 – Relazione tra le componenti alla base del miglioramento della prestazione

La questione che sorge spontanea e che guida il processo di allenamento è in che modo avviene il
miglioramento della prestazione. Come tutti i sistemi biologici il corpo umano si è evoluto per
adattarsi all’ambiente e cercherà in ogni modo di mantenere l’equilibrio interno a fronte delle
perturbazioni a cui è sottoposto. Facciamo un esempio concreto per capire in che modo questo
avviene e le fasi attraverso cui il nostro organismo dovrà affrontare. Pensiamo a cosa succede quando
da un ambiente a temperatura ideale, diciamo 15-20 gradi centigradi, passiamo ad un contesto in cui
la temperatura supera abbondantemente i 25 gradi centigradi con un tasso di umidità elevato. La
prima reazione del nostro organismo è di aumentare la sudorazione e la frequenza cardiaca per cercare
di dissipare il calore in eccesso. È un fenomeno immediato e transitorio che si chiama aggiustamento.
La caratteristica dell’aggiustamento è che non è stabile, una volta che ho terminato l’allenamento
ritorno alle condizioni iniziali e se non sosterrò altri allenamenti nel breve periodo rimarrà un
fenomeno isolato. Quando però c’è una continuità degli allenamenti in ambiente caldo umido gli
aggiustamenti iniziano a sommarsi provocando delle modifiche fisiologiche, energetiche e mentali
nell’organismo. Aumenterà il volume plasmatico e diminuirà la frequenza cardiaca e la tolleranza al
calore a livello mentale migliorerà. Queste condizioni tendono a stabilizzarsi fino a quando mi
allenerò in un simile contesto. La stabilità di una modifica viene chiamata adattamento. La
differenza tra aggiustamento e adattamento, come possiamo rilevare, è relativa alla transitorietà del
primo rispetto al secondo. L’adattamento, inoltre, sarà molto più efficiente poiché è frutto di una
modifica stabile (ma non permanente) del nostro organismo. Il nostro organismo si adatta,
tecnicamente cerca di mantenere l’omeostasi. Cosa significa? Omeostasi deriva dal greco omeo e
stasi. “Omeo” è sinonimo di simile o uguale, mentre “stasi” sta per rallentamento o mantenimento,
in biologia rappresenta semplicemente il mantenimento dell’equilibrio. Il nostro organismo, per
funzionare correttamente, ha bisogno di mantenere una situazione di equilibrio interno. Quando
sentiamo parlare di tendenza all’omeostasi sappiamo che è un modo per dire che il nostro organismo
cerca sempre di mantenere un equilibrio interno. La regolazione di tutte le funzioni organiche è
strettamente controllata da un sistema a feedback che rileva l’entità del cambiamento occorso e cerca
sempre di ripristinare lo statu quo. Ogni volta che sosteniamo un allenamento alteriamo l’equilibrio
omeostatico con la speranza che questo porti ad un miglioramento della nostra prestazione attraverso
un adattamento stabile. Il punto cruciale risiede nello strutturare correttamente gli stimoli
(allenamenti) per indurre l’adattamento desiderato. Nel tempo si sono sviluppate due principali teorie
che hanno provato a spiegare in che modo il nostro organismo produce adattamenti stabili:

1. la teoria a fattore unico o della supercompensazione


2. la teoria a due fattori o della fitness/fatigue. Vediamo brevemente di cosa si tratta.

La teoria della supercompensazione

Nella teoria della supercompensazione, si pensa che l’effetto allenante immediato di un allenamento
sia il temporaneo stress esercitato sull’omeostasi dell’organismo. In buona sostanza allenandosi si
“affatica” l’organismo che per ritornare allo stato iniziale ha bisogno di un certo lasso di tempo. Lo
possiamo sperimentare abbastanza facilmente al termine di un allenamento particolarmente intenso
quando nelle ore successive (alle volte si tratta di giorni) non riusciamo a ripetere la medesima
prestazione. In base all’allenamento svolto avremo determinato la deplezione di una determinata
sostanza, come la fosfocreatina o il glicogeno muscolare, oppure il danneggiamento delle fibre
muscolari o il deterioramento del segnale neuromuscolare o ancora l’affaticamento mentale. Qualsiasi
cosa abbia indotto la fatica, quello che accade è una temporanea incapacità di ripetere un allenamento
alla medesima intensità. La teoria della supercompensazione è fatta risalire al medico canadese di
origine austro-ungherese Hans Selye, il quale era interessato alle conseguenze fisiologiche dello
stress sull’omeostasi. Svolse una serie di ricerche che lo portarono a definire la General Adaptation
Syndrome Theory (GAS) secondo la quale l’organismo reagisce allo stress con un adattamento
generale a cui ne segue uno più specifico caratteristico per lo stimolo che lo ha provocato. Nella
terminologia utilizzata nella GAS gli stimoli in grado di alterare l’omeostasi sono chiamati “stressor”
e l’effetto sull’organismo è detto “stress”. Lo stress in questa teoria non ha un’accezione negativa,
quale siamo abituati ad attribuirgli, fino a quando non supera la capacità di adattamento, nel qual caso
diviene “distress”. Adattando questa teoria all’attività sportiva abbiamo che lo stressor è costituito
dall’allenamento, mentre lo stress è l’effetto che esso provoca sull’organismo, cioè la perturbazione
dell’omeostasi. Facciamo una breve sintesi. Gli allenamenti sono degli stressor che alterano
l’omeostasi provocando uno stress. Detta in altro modo, ogni volta che ci alleniamo lo scopo è
“stressare” il nostro organismo, per provocare un aggiustamento che ne permetta il miglioramento,
ovvero un adattamento. Perché mai dovremmo farlo? Come abbiamo detto il nostro scopo è sfruttare
la naturale tendenza a ripristinare l’omeostasi, ovvero di ritornare all’equilibrio. Se però tutto si
limitasse a ritornare allo stato di partenza non si spiegherebbe il miglioramento nella prestazione. In
effetti succede molto di più, ed è questa la meraviglia del corpo umano, l’adattabilità. La genialità
di Selye è stata quella di capire che l’organismo, per evitare di trovarsi nuovamente disadattato a
fronte del medesimo stressor, accumula un “eccesso” di risorse che gli permetteranno di non stressarsi
troppo nell’immediato futuro. Il processo fisiologico che garantisce questo surplus d’energia è
chiamato supercompensazione. Un esempio di supercompensazione è quello che osserviamo
riguardo il glicogeno muscolare conseguente ad un allenamento ad esaurimento quando sono assunti
adeguati carboidrati (Burke et. al 2017). Quando gli allenamenti sono equilibrati e ben dosati e la
nutrizione adeguata, si osserva progressivo miglioramento della prestazione provocato dalla somma
di tante piccole supercompensazioni.
Figura 2 – Supercompensazione e miglioramento della prestazione (Rowbottom 2000)

La figura sottostante mostra nel dettaglio cosa avviene per ogni fase dell’allenamento.

Figura 3 – Fasi della supercompensazione (Zatsiorsky & Kraemer 2006)

Notiamo che l’effetto immediato dell’allenamento è quello di provocare un abbassamento del livello
di preparazione (preparedness), cioè della capacità di performance, segue poi un periodo di recupero
che porta ad un miglioramento rispetto allo stato pre-allenamento. I tempi e l’entità della
supercompensazione dipendono dal tipo di allenamento eseguito, dalla qualità del recupero e
dall’atleta. È importante comprendere che l’allenamento è solo lo stimolo “biomotorio” necessario
a provocare il miglioramento, se tuttavia non c’è un recupero adeguato, la qualità dell’adattamento
sarà pregiudicata e l’allenamento non sarà servito a molto. Il problema sorge quando non rispettiamo
i corretti tempi di recupero e non ci alimentiamo adeguatamente. L’effetto è un progressivo
peggioramento della capacità di adattamento che sfocia, nei casi più gravi, nella sindrome da
overtraining, una grave forma di stress psicofisico caratterizzata da peggioramento della prestazione,
alterazioni immunitarie, ormonali ed emotive (Meeusen et al. 2013). Nel gergo della GAS siamo
vittime di distress.
La teoria della fitness/fatica

La teoria dei due fattori o della Fitness/Fatigue è più complessa rispetto a quella della
supercompensazione. Si basa sull’effetto congiunto della condizione fisica o fitness e della fatica o
fatigue. Lo scopo di tale approccio è rendere dinamico l’andamento della prestazione in base allo
stato di affaticamento. Il concetto alla base vuole che la fatica accumulata durante gli allenamenti
“mascheri” la reale condizione fisica a causa dell’accumulo di fatica. Mentre la fatica è generalmente
transitoria, la fitness ha un andamento più stabile nel tempo. Quando riusciamo a diminuire la fatica,
come avviene durante il tapering (la fase che precede la gara), emerge la performance. È un
fenomeno che possiamo rilevare empiricamente riposando qualche giorno dopo una serie di
allenamenti molto intensi. È possibile osservare dalla figura sottostante che gli allenamenti
determinano un miglioramento della prestazione (Fitness) ed un aumento della fatica (Fatigue), questi
parametri interagiscono determinando il grado di performance che si può esprimere. La Fitness
aumenta il livello di performance, mentre la Fatigue lo riduce, la loro combinazione determina in
ogni momento quanto siamo in grado di essere prestativi.

Figura 4 – Fitness/Fatigue model (Banister et al. 1975)

Le due teorie che abbiamo esaminato non sono in conflitto, affermano sostanzialmente la stessa cosa,
ovvero che l’allenamento è uno stimolo biomotorio che altera l’omeostasi dell’organismo. La qualità
dei processi di recupero determinerà il grado di performance raggiungibile. Tutto quello che faremo,
tra un allenamento e il successivo, dal punto di vista nutrizionale e di tecniche di recupero,
determinerà la qualità della prestazione a lungo termine. La ricerca nel campo della metodologia
dell’allenamento ci fornisce una bussola per orientarci lungo il cammino della preparazione atletica
e sancisce un principio che dovrebbe essere stampato a fuoco nella nostra mente: il recupero è la fase
in cui avvengono tutti i processi biochimici e fisiologici che permettono di migliorare la prestazione.
Gli allenamenti, detti in gergo mezzi allenanti, sono gli ingredienti a disposizione di tutti quanti si
occupano di allenamento: il modo in cui sono dosati e inseriti nel corso della stagione agonistica,
determina la bravura di un preparatore e la riuscita di una pianificazione atletica. La corretta
combinazione di stimoli afferenti alle tre categorie che abbiamo evidenziato all’inizio: capacità
coordinative, capacità condizionali e capacità mentali permette di sviluppare la prestazione sportiva
come evidenziato dalla figura seguente.

Figura 5 – Fattori determinanti la prestazione (Bertucelli et al. 2014)


Basi anatomiche e fisiologiche del movimento

Gli allenamenti che proporremo agli atleti prevedono, nella maggior parte dei casi, l’esecuzione di
attività rivolte al sistema muscolo scheletrico. Gli allenamenti, di fatto, sono costituiti da una serie di
movimenti, più o meno codificati, che permettono di ottenere aggiustamenti e cumulativamente
adattamenti stabili. È necessario quindi conoscere come è fatto il nostro corpo e come reagisce agli
allenamenti.

Anatomia

L’anatomia è la scienza che studia tessuti, organi e appartati dell’organismo. Al fine di descrivere la
i rapporti delle strutture anatomiche si utilizza una terminologia standard, che descrive l’orientamento
spaziale della parte in esame e, nel caso di formazioni mobili, ne indica gli spostamenti assoluti o
relativi. L'anatomia dell'apparato locomotore utilizza un linguaggio specifico che è necessario
apprendere per capire e descrivere il movimento nel dettaglio. Il corpo umano in stazione eretta, con
gli arti superiori ai lati del tronco, le palme delle mani rivolte in avanti, è immaginato compreso in un
parallelepipedo definito da sei pareti o piani, a due a due paralleli e fra loro perpendicolari, come in
una vetrina: piani laterali, piani frontali, piani orizzontali. Per comodità̀ , si usano più̀ frequentemente
tre piani, equidistanti da ciascuna coppia di piani paralleli. I movimenti si svolgono su uno o più̀ dei
tre piani anatomici di riferimento e intorno ad uno o più̀ assi.

Figura 6 – Piani anatomici (Tu et al. 2013)


Termini di movimento

La direzione dei movimenti è indicata dall’asse intorno al quale essi hanno luogo. L’origine degli assi
di movimento è posta all’intersezione dei tre piani precedentemente considerati:

• asse trasversale: giace sul piano orizzontale, con origine all’intersezione di questo con il piano
frontale mediano. I movimenti che si svolgono intorno all’asse trasversale sono detti di flessione e di
estensione. La flessione implica l’avvicinamento verso il piano frontale mentre l’estensione implica
l’allontanamento. Possiamo avere ad esempio la flessione dell’avambraccio sul braccio, l’estensione
della gamba sulla coscia e via dicendo.

• asse anteroposteriore: giace sul piano sagittale, con origine all’intersezione di questo con il piano
orizzontale. I movimenti che hanno luogo intorno all’asse sagittale sono detti di inclinazione laterale
quando sono riferiti a movimenti della testa e del tronco, di abduzione e di adduzione nel caso degli
arti. Parliamo di adduzione (avvicinamento) e abduzione (allontanamento) quando gli arti si
allontanano dal piano sagitale.

• asse verticale: giace sul piano frontale, con origine all’intersezione di questo con il piano sagittale
mediano. I movimenti sull’asse verticale vengono denominati di torsione in riferimento alla testa ed
al tronco, di rotazione quando sono gli arti a muoversi. Il movimento di rotazione dell’avambraccio
e della mano presi nel loro insieme prende il nome di prono-supinazione.

I movimenti possono essere semplici se si svolgono su un piano intorno ad un asse, mentre sono
complessi quando l’evoluzione del movimento avviene su più piani ed assi. Abbiamo circonduzione
quando il movimento avviene sui diversi piani e assi, dato che è una combinazione fra i movimenti
di adduzione, abduzione, flessione ed estensione. La bracciata nel nuoto, ad esempio, è un movimento
di circonduzione

Per definire la posizione di un segmento corporeo si usano convenzionalmente i seguenti termini:

• Prossimale. Si dice di quella parte o elemento costitutivo di un organo o segmento corporeo


situato più vicino a un determinato punto di origine, che per gli arti è la loro radice. Il braccio è
la parte più prossimale della porzione libera dell’arto superiore. La mano costituisce la parte
distale dell’arto superiore.

• Mediale. Si dice di un segmento corporeo più vicino al piano sagittale mediano. Le costole
sono mediali quando siamo in posizione anatomica sono mediali rispetto alle braccia.

• Laterale. Si dice di un segmento corporeo più lontano al piano sagitale mediano.

• Superiore o Craniale. Si dice di un segmento corporeo più̀ vicino alla testa. La spalla è
craniale rispetto allo sterno.

• Inferiore o Caudale. Si dice di un segmento corporeo più̀ vicino ai piedi. In posizione


anatomica il perone è caudale rispetto al femore

• Superficiale e profondo. Sono utilizzati in riferimento ad una sezione anatomica più vicina
o lontana dalla superficie del corpo.
• Origine. L’origine di un muscolo è il punto di attacco del tendine che risulta prossimale o
craniale rispetto sul segmento osseo. Il capo lungo del bicipite femorale origina dalla
tuberosità ischiatica.

• Inserzione. L’inserzione di un muscolo è il punto di attacco distale o caudale sul segmento


osseo. Il capo lungo del bicipite femorale si inserisce sul condilo laterale della tibia e della
testa del perone.

L’apparato locomotore è costituito dall’insieme degli apparati scheletrico, articolare e muscolare.


La sua principale funzione è quella di permettere attività̀ di movimento, sostegno e protezione
attraverso muscoli, tendini e articolazioni e ossa.

Apparato scheletrico

L’apparato scheletrico è costituito dalle ossa che sono connesse attraverso le articolazioni a formare
lo scheletro, sul quale per mezzo dei tendini si inseriscono muscoli striati volontari, formando
l’apparato locomotore. Ossa e articolazioni sono gli elementi i passivi del movimento. Lo scheletro
di un uomo adulto è formato da circa 206 ossa. Si riconoscono generalmente due segmenti scheletrici:

• scheletro assile che comprende la testa, la colonna vertebrale, la gabbia toracica.


• scheletro appendicolare che comprende gli arti superiori, gli arti inferiori e le cinture.

Le connessioni tra scheletro assile e appendicolare prendono il nome di cinture:

• cintura scapolare: formata da clavicola e scapola.


• cintura pelvica: formata dall’osso dell’anca e dall’osso sacro.

Le ossa sono classificate come:

- Ossa lunghe: che si sviluppano in lunghezza come radio, ulna, omero, tibia e perone;
- Ossa piatte: con lunghezza e larghezza superiori allo spessore, come scapole, sterno e le ossa
de, cranio;
- Ossa brevi: che si sviluppano con lunghezza, larghezza e spessore simili, come tarso e carpo
- Ossa irregolari: che non hanno elementi morfologici dominanti, come le vertebre.
Articolazioni

Le articolazioni costituiscono il collegamento tra due o più segmenti ossei, abbiamo:

• Le sinartrosi che sono costituite da uno o più segmenti scheletrici, tenuti insieme dalla
interposizione di un tessuto connettivale diverso da quello osseo.
• Le diartrosi che sono costituite da uno o più segmenti scheletrici, fra i quali esiste contiguità
attraverso una cavità articolare. La continuità è assicurata dalla capsula articolare che delimita
la cavità. Una diartrosi dal punto di vista morfologico è costituita dai capi ossei articolari,
dalle cartilagini articolari, dalla capsula articolare, dai legamenti articolari, dalla cavità
articolare e da eventuali dispositivi quali i labbri glenoidali, i dischi ed i menischi.

Figura 7 – Articolazione del ginocchio (Olinski, Michał et al. 2016)

Articolazioni come sistemi di leve

Abbiamo considerato che i muscoli, attraverso i tendini, esercitano delle trazioni sulle ossa e questo
determina un movimento dei segmenti corporei. Si viene a determinare quindi un sistema di leve che
è importante considerare per lo studio del movimento. In un sistema di leve avremo una potenza che
si situa nel punto di inserzione del tendine sull’osso, una resistenza rappresentata dalla forza da
vincere ed un fulcro costituito dall’articolazione. Definiamo braccio della potenza, la distanza che
separa il fulcro dal vettore che rappresenta la potenza, braccio della resistenza, la distanza tra il fulcro
e il vettore che rappresenta la resistenza. Le leve possono essere di tre tipi:

• Leva di I genere. Il fulcro si trova tra la potenza e la resistenza. Il classico esempio è la


flessione estensione del capo.
• Leva di II genere. La resistenza si trova tra fulcro e potenza. Un esempio è costituito dal
sollevamento sull’avampiede.
• Leva di III genere. La potenza si trova tra fulcro e resistenza. Un esempio è la flessione
dell’avambraccio sul braccio.
Figura 8 – Leve anatomiche (Olinski, Michał et al. 2016)

Apparato muscolare

Il muscolo è uno dei quattro tipi di tessuto che compongono il corpo umano. La caratteristica
principale delle proteine che compongono il tessuto muscolare è la capacità di generare tensione
attraverso la contrazione. È possibile identificare tre tipi di tessuto muscolare in base alla struttura,
alle proprietà̀ contrattili ed ai meccanismi di controllo: muscolo striato scheletrico (volontario),
muscolo striato cardiaco (involontario), muscolo liscio (involontario). I muscoli scheletrici possono
contrarsi in modo consapevole attraverso impulsi nervosi generati dal Sistema Nervoso Centrale
(SNC), per questo motivo, il muscolo scheletrico è anche detto volontario. Il muscolo accorciandosi
genera una forza che trasmessa al segmento scheletrico tramite la giunzione muscolo-tendinea e il
tendine, permette il suo movimento. Nel caso non ci sia un movimento del segmento scheletrico si
parla di contrazione isometrica. Sulle articolazioni agisce almeno una coppia di muscoli di cui, quello
che determina ricercato è detto muscolo agonista, e quello che, se simultaneamente attivato si
opporrebbe al movimento voluto, è detto antagonista. L’antagonista agisce spesso come
stabilizzatore dell’articolazione per permette la corretta azione del muscolo agonista. Nel corpo
umano sono presenti circa 700 muscoli con varie funzioni. I muscoli si inseriscono, attraverso i
tendini, sulle ossa e si possono avere più̀ origini (ad esempio bicipite, tricipite, quadricipite) o più̀
inserzioni (muscoli bicaudati, tricaudati). Un muscolo può̀ agire intorno ad una sola articolazione, nel
qual caso è detto muscolo monoarticolare, oppure su due articolazioni ed è noto come biarticolare.
È importante conoscere l’anatomia per capire come intervenire correttamente sulla correzione di un
movimento e potenziare in modo coerente la muscolatura che agisce su una articolazione.
Nell’economia di un corso introduttivo non è possibile trattare in modo estensivo l’anatomia si invita
ad un approfondimento della materia su testi specifici. Il muscolo scheletrico è formato da una serie
di cellule allungate, chiamate miofibrille, che scorrono parallelamente le une alle altre determinando
l’accorciamento delle loro unità funzionali: i sarcomeri.
Figura 9 – Sezione di una fibra muscolare (Wilmore et al. 2008)

Possiamo pensare ai sarcomeri come una serie di cilindri saldati insieme in senso longitudinale che
si accorciano e si allungano come delle piccole fisarmoniche, l’accorciamento simultaneo di migliaia
di questi elementi è visibile, a livello macroscopico, come accorciamento del muscolo. Le cellule
muscolari sono delimitate da una membrana chiamata sarcolemma. Al di sotto del sarcolemma e tra
le miofibrille si trovano i mitocondri che sono delle vere e proprie centrali energetiche. Le miofibrille
sono composte da miofilamenti formati da due molecole: actina e miosina. In seguito al segnale
elettrico che giunge sulla superficie del sarcolemma (giunzione o placca neuromuscolare), le
molecole di actina e miosina all’interno del sarcomero si legano e scorrono l’una sull’altra. L’azione
contemporanea di accorciamento di svariati sarcomeri determina la contrazione muscolare.
Tipi di fibre muscolari

Le fibre muscolari si classificano in base alla velocità di contrazione e al substrato energetico usato
per la produzione di Adenosin-Tri-Fosfato (ATP, la molecola energetica usata per la contrazione
muscolare). Riconosciamo due macro categorie:

• Fibre di tipo I o ossidative


• Fibre di tipo II o glicolitiche

Le caratteristiche e la differenziazione delle fibre muscolari determinano la loro velocità di


contrazione e, conseguentemente, il consumo di ATP. La differenziazione tra le fibre è determinata
da una delle sub unità̀ componenti la miosina nota come catena pesante della miosina (MHC:
miosyn heavy chain). Nel muscolo scheletrico umano sono presenti tre tipi diversi di catene pesanti:
MHC I, MHC IIA, MHC IIX (in alcuni animali esiste anche la catena MHC IIB). Sulla base della
percentuale delle catene pesanti di miosina presenti, le fibre muscolari sono state classificate come:
fibre lente o ST o tipo I (contenenti principalmente miosina MHC I), fibre veloci aerobiche o FTA
o glicolitiche o tipo II (contenenti principalmente miosina MHC IIA) e fibre veloci glicolitiche o
FTX (contenenti principalmente miosina MHC IIX). È da notare che in molti testi datati di fisiologia
dell’esercizio è possibile incontrare la definizione delle fibre veloci come FTB, la quale è errata
essendo queste fibre presenti solo in alcuni animali, ma giustificabile poiché́ la scoperta delle FTX è
abbastanza recente.

Apparato cardio circolatorio

Il sistema circolatorio (o sistema cardiovascolare), comprende una “pompa “, il cuore, una serie
di “tubi” interconnessi, chiamati i vasi sanguigni (o sistema vascolare), e un tessuto connettivo
fluido contenente acqua, soluti e cellule, che riempie detti tubi, chiamato sangue.

Il sangue

Il sangue è costituito da elementi corpuscolati (ovvero cellule e frammenti di cellule) sospesi in un


fluido detto plasma. Nel plasma si trovano proteine, nutrienti, prodotti metabolici di scarto ed altre
molecole (soluti inorganici) che sono trasportate tra i vari organi e sistemi. Il sangue è a tutti gli effetti
un sistema di trasporto per le molecole all’interno del nostro organismo. I principali elementi
corpuscolati sono gli eritrociti (globuli rossi) e i leucociti (globuli bianchi). Più̀ del 99% delle cellule
ematiche sono eritrociti, che hanno il compito di trasportare ossigeno ai tessuti e anidride carbonica
dai tessuti. Si definisce ematocrito la percentuale di volume di sangue composto da eritrociti ed è,
mediamente, 45% nell’uomo e 42% nella donna. Negli atleti di endurance è un valore molto
importante poiché determina la quantità di ossigeno che può essere trasportata verso gli organi e
apparati.

Il cuore

Il cuore è una vera e propria pompa che permette la circolazione del sangue nell’organismo. Il sangue
che si allontana dal cuore è detto arterioso, quello che ritorna al cuore dalla periferia è detto venoso,
indipendentemente dal contenuto di ossigeno (come molti invece erroneamente pensano).
Coerentemente, i vasi che contengono sangue che si allontana dal cuore sono detti arterie, mentre
quelli nei quali il sangue si muove verso il cuore sono detti vene. Il cuore si contrae autonomamente
e ritmicamente. Dal cuore generano due circuiti:
• la piccola circolazione o circolazione polmonare, che nasce dalla parte destra, direziona il
sangue verso i polmoni per ossigenarsi per ritornare poi tornare alla parte sinistra;
• la grande circolazione o circolazione sistemica che nasce dalla parte sinistra e spinge il
sangue verso i tessuti periferici, ai quali cederà̀ ossigeno e dai quali preleverà̀ anidride
carbonica, per tornare al cuore destro tramite il circolo venoso sistemico e ricominciare il suo
giro.

Apparato respiratorio

L’apparato respiratorio è strettamente associato a quello cardiocircolatorio, infatti generalmente si


parla di apparato cardio respiratorio. Il sistema respiratorio è composto da tre parti:

1. le vie aeree;
2. i polmoni;
3. i muscoli respiratori.

La respirazione polmonare è un complesso di funzioni che coinvolge diversi organi e apparati, e


che porta allo scambio di gas per diffusione alle cellule. Le cellule umane hanno bisogno di ossigeno
per il normale svolgimento delle reazioni chimiche e devono essere in grado di eliminare anidride
carbonica prodotta dal metabolismo aerobico.

I sistemi energetici

Capire il funzionamento dei sistemi energetici è fondamentale per poter intervenire efficacemente
sugli adattamenti che vogliamo indurre attraverso gli allenamenti. Come è possibile allenare e
sviluppare bene una determinata qualità se non si ha un minimo di conoscenza su cosa ne determina
il funzionamento? La contrazione muscolare necessità di energia, questa energia è fornita da una
molecola chiamata adenosin-tri-fosfato o ATP. La caratteristica di questa molecola è che quando
viene sintetizzata accumula energia in forma di legame chimico, significa che per tenere insieme tutti
gli atomi che la compongono deve impiegare dell’energia che resta “imprigionata” fino a quando
mantiene quella conformazione. Quando al nostro muscolo serve energia per la contrazione, l’ATP
perde un componente, cambia composizione e rilascia l’energia che teneva imprigionata nel legame,
questa energia si chiama energia libera, a significare che può essere utilizzata da un altro processo.
Nel caso specifico della contrazione muscolare, l’energia libera serve per permettere lo scorrimento
dell’actina e miosina. L’ ATP è un accumulatore di energia che, all’occorrenza, la rilascia per
generare il movimento dei miofilamenti che costituiscono le fibre muscolari. Il problema è che l’ATP
nel nostro organismo non è disponibile in grandi quantità, e per muovere il nostro corpo ne serve una
quantità consistente. È stato stimato che durante una maratona si consumano circa 60 kg di ATP!
(Buono & Kolkhorst 2001). Poiché non potremmo in alcun modo portare il peso di tutto l’ATP
necessario per svolgere l’attività sportiva, la natura ci ha fornito dei sistemi, chiamati sistemi
energetici che ne permettono una continua produzione. Esistono tre principali sistemi energetici:

• Sistema del fosfagene;


• Glicolisi;
• Sistema aerobico.

Perché mai servono ben tre sistemi energetici per alimentare i nostri muscoli? Nell’economia
cellulare avere tre diversi processi che producono energia permette di gestire al meglio il livello di
intensità richiesto fornendo una diversa potenza in base alla necessità. La risposta è quindi che ogni
sistema energetico ha una potenza caratteristica che è espressa come la velocità che impiega a
sintetizzare l’ATP. Se devo fare uno scatto repentino avrò bisogno di un’alta quantità di ATP, ma per
brevissimo tempo, al contrario quando partecipo ad un triathlon avrò bisogno di una bassa quantità
di ATP al secondo, ma per un tempo molto lungo. Analizziamo questo importante fattore poiché ci
sarà utile per comprendere la struttura e l’utilizzo degli allenamenti. Ricordiamo sempre che un
allenamento è uno stimolo che stiamo fornendo al nostro organismo per indurre un adattamento a
livello fisiologico e biochimico. Gli allenamenti ci permettono di andare a “premere” degli
"interruttori” che causano delle modificazioni. Molti di questi interruttori hanno a che fare con i
sistemi energetici. Vogliamo, infatti, rendere il sistema energetico che ci interessa più efficiente
possibile, anche se questo comporta ridurre l’efficienza degli altri due. È esperienza comune che non
si può essere contemporaneamente un velocista ed un atleta di endurance, al netto delle caratteristiche
genetiche, il motivo sta soprattutto nella specializzazione che provochiamo attraverso gli allenamenti.
Ognuno dei sistemi energetici elencati è caratterizzato da due parametri: potenza e capacità. La
potenza è la quantità di ATP che si può produrre nell’unità di tempo, mentre la capacità è la quantità
totale di ATP che è possibile produrre con quel sistema energetico. Facciamo un paragone motoristico
per capire meglio questo concetto importantissimo. Se sono così fortunato da potermi permettere una
Ferrari, avrò un’auto con un motore estremamente potente. Impiegherò pochissimi secondi per
passare da 0 a 100 km/h. In atletica una Ferrari corrisponde ad un velocista impegnato sui 100m piani.
Un’accelerazione spaventosa, una velocità di punta incredibile, ma un’autonomia molto scarsa. Il
sistema energetico è molto potente, ma con capacità, limitata, infatti il consumo di ATP è altissimo.
La maggior parte di noi non possiede una Ferrari probabilmente disporrà di un’utilitaria alimentata a
gasolio. In questo caso l’accelerazione sarà molto contenuta, però consumerà pochissimo e avrà
un’autonomia molto alta.

Sistema del fosfagene

Il sistema energetico del fosfagene, quello più potente di cui disponiamo è spesso chiamato sistema
energetico anaerobico alattacido poiché́ non utilizza come substrato l’ossigeno e non produce
lattato (alattacido significa senza produzione di lattato). La produzione di ATP avviene grazie ad una
molecola chiamata fosfocreatina o PCr. Circa il 92-96% di tutto il fosfagene disponibile si trova nel
muscolo scheletrico ed è situato quasi esclusivamente nelle fibre di tipo IIx. L’energia fornita da
questo sistema dura per pochi secondi.

Sistema energetico glicolitico

Il sistema energetico glicolitico o semplicemente glicolisi anaerobica ha una potenza molto


inferiore rispetto al sistema precedente, ma un’autonomia più ampia, misurata in minuti. Dopo 5
secondi dall’inizio dell’attività̀ il glicogeno muscolare diviene la principale fonte di energia per la ri-
sintesi dell’ATP. La glicolisi anaerobica ha una potenza di ri-sintesi dell’ATP pari a circa la metà di
quella del sistema del fosfagene (Hultman e Sjoholm 1986), capiamo quindi come si verifichi un
netto calo della prestazione nel momento in cui è necessario basarsi solo su quest’ultima fonte
energetica. La caratteristica della glicolisi (deriva da glico e lisi, letteralmente lisi del glucosio) è di
utilizzare esclusivamente il glucosio, come molecola energetica di partenza. Quando la potenza che
serve per la contrazione muscolare è molto alta ma non massimale la glicolisi è la principale fonte di
energia. Le nostre cellule possono utilizzare i carboidrati solo nella forma più semplice, il glucosio.
Il glucosio è uno zucchero semplice (si dice monoidrato) ed è il costituente del glicogeno, la forma
in cui lo conserviamo nel nostro corpo. Il glicogeno è un modo ingegnoso di condensare moltissime
molecole di glucosio in poco spazio, così da garantire una discreta riserva per la contrazione
muscolare. È immagazzinato direttamente nel muscolo e nel fegato. La glicolisi è costituita da una
serie di reazioni chimiche che producono due molecole: ATP e piruvato. La glicolisi è anaerobica
quando produce una quantità troppo elevata di piruvato ed esso si converte (in termini tecnici si dice
che si riduce) in lattato. Ciò accade perché il piruvato prodotto non può essere utilizzato
completamente dal ciclo di Krebs (un componente del sistema energetico successivo).
Sistema aerobico

Il sistema aerobico è il meno potente, ma con un’autonomia enorme, soprattutto quando si utilizzano
come substrato i lipidi (grassi). È costituito da una complessa serie di reazioni biochimiche riassunte
in due grandi “cicli”:

• ciclo dell’acido citrico o ciclo di Krebs (o ciclo dei tricarbossilici);


• catena di trasporto degli elettroni.

È strettamente collegato alla glicolisi, infatti utilizza come molecola di partenza il piruvato. Per
capire l’interconnessione tra sistemi energetici notiamo che la glicolisi usa una molecola di glucosio
che, dopo una serie di trasformazioni, diventa piruvato. Il piruvato entra nel ciclo di Krebs che
permette di produrre altro ATP e quindi altra energia. La caratteristica del ciclo di Krebs è di produrre
una serie di molecole, ma soprattutto di mandare molti elettroni verso una serie di trasportatori che
se li scambiano fino a cederli all’ossigeno. Il viaggio è molto complesso da trattare, a noi interessa
solo sapere che produce tantissimo ATP. La caratteristica di quest’ultima fase è di utilizzare
ampiamente l’ossigeno, per questo motivo si chiama sistema aerobico. Tutto questo vespaio si attua
all’interno di una struttura all’interno della cellula muscolare chiamata mitocondrio.
Classificazione delle attività motorie

In letteratura esistono molte classificazioni delle attività motorie e sportive. Le principali sono:

• In base ai parametri fisiologici specifici dello sforzo tipico della disciplina sportiva;
• In base al costo energetico;
• In base alle caratteristiche biomeccaniche della tecnica specifica della disciplina sportiva;
• In base alle caratteristiche motorie della disciplina considerata

Una classificazione molto utilizzata è quella che distingue attività sportive:

• Di resistenza (endurance per gli anglosassoni) come mezzo fondo, fondo nell’atletica,
triathlon, pattinaggio a rotelle o di velocità, ciclismo, canottaggio, canoa, sci di fondo…
• Di potenza con componenti di destrezza come gli sprint nell’atletica e nel nuoto, il
ciclismo su pista, la pesistica ed i lanci…
• Di opposizione individuale e giochi individuali come schema, karate, judo, lotta, squash,
tennis...
• Di squadra come basket, calcio, football americano, baseball, hockey…
• Tecnico combinatori come pattinaggio artistico, ginnastica artistica e ritmica, tuffi…
• Di precisione tiro al volo, tiro con l’arco, tiro a segno
Carico interno e carico esterno

Abbiamo considerato precedentemente che l’allenamento è uno stimolo che somministriamo al nostro
organismo per indurre un adattamento. Capiamo come sia necessario quantificare l’entità dello
stimolo e parimenti l’entità della risposta organica. È un tema molto complesso che rende ogni atleta
diverso da un altro ed il motivo per cui gli allenamenti devono essere personalizzati. In modo molto
sommario si parla di carico esterno quando ci si riferisce all’entità dello stimolo oggettivamente
misurabile. È costituito dall’insieme delle esercitazioni (stimoli) da svolgere, dai contenuti
dell’allenamento. È rappresentato da tutto ciò̀ che si può̀ misurare (velocità, potenza, kg sollevati,
metri o km percorsi, tempo trascorso, numero di azioni tecniche). Gli aspetti più̀ caratteristici del
carico esterno sono i parametri di volume, intensità, frequenza e densità. La sua grandezza è
facilmente misurabile sia quantitativamente (ore d’allenamento, chilometri percorsi, numero di
esercizi svolti, ecc.) che qualitativamente (intensità̀ del lavoro proposto). Rappresenta un dato
assolutamente oggettivo. Quando propongo un allenamento costituito da 10 volte i 400m in pista ho
definito un carico esterno misurabile in modo oggettivo. L’effetto che ha sull’organismo dell’atleta
determina il carico interno. È rappresentato dalle risposte fisiologiche individuali, ovvero
dall’effetto del carico esterno sull’organismo. È legato allo stimolo (stress) fisiologico che il mezzo
d’allenamento induce sulle proprietà̀ strutturali e funzionali delle cellule, degli organi e degli apparati
e si manifesta con mutamenti fisiologico-biochimici e morfologici e sollecitazioni psichiche e
intellettive. La misurazione della grandezza del carico interno è molto più̀ complessa (difficilmente
misurabile) rispetto a quella del carico esterno, perché́ le risposte sono individuali e, spesso, molto
differenti da individuo a individuo. Proseguendo con l’esempio se chiedo a due atleti di correre 10
volte i 400m in un determinato tempo con un certo recupero, ma essi hanno una velocità di base molto
differente, otterrò due carichi interni completamente diversi. Capiamo come carico esterno ed interno
sono correlati e permettono di personalizzare gli allenamenti.

La misurazione del carico interno avviene attraverso:

- l’osservazione e l’esperienza dell’allenatore, grazie alla sua capacità di leggere e interpretare


i sintomi indicanti il livello di fatica dell’atleta;
- l’utilizzo di scale di percezione soggettiva dell’affaticamento;
- la misurazione di parametri biologici individuali (frequenze cardiache, livello di lattato
ematico, potenze espresse) grazie a specifiche strumentazioni.

Capacità di carico

Il primo parametro da considerare è la capacità di carico, cioè l’entità del carico esterno che è
adeguata al miglioramento dell’atleta per la caratteristica che si vuole sviluppare. Facciamo un
esempio. Consideriamo due atleti che hanno una soglia del lattato nella corsa (il valore oltre il quale
si inizia ad accumulare lattato) rispettivamente a 4 minuti al chilometro e a 4 minuti e 30 secondi al
chilometro. Si decide di fare un allenamento per sviluppare la soglia del lattato utilizzando delle serie
da 2000m. Imposto il carico esterno chiedendo di correrle attorno ai 4 minuti al chilometro ad
entrambi. Il risultato sarà che il primo atleta avrà svolto un allenamento ottimale, mentre il secondo
(se riuscirà a sostenerle) non avrà allenato la soglia del lattato poiché l’intensità è troppo elevata per
allenare tale caratteristica energetica. La capacità di carico può essere analizzata come:

• Capacità di carico dei sistemi biologici e fisiologici (apparato cardio respiratorio,


metabolismi energetici);
• Capacità di carico meccanico (sistema muscolo tendineo, sistema osteo articolare);
• Capacità di carico mentale (tolleranza alla fatica, motivazione, resilienza)
• Capacità di recupero (sistema immunitario, sistema endocrino, sistema nervoso)

Caratteristiche del carico

In base alla capacità di carico è possibile definire caratteristiche che dovrebbe possedere il carico
esterno:

• Carattere (specifico o aspecifico)


• Finalità (forza, coordinativa, aerobica, anaerobica, mista, tecnica)
• Difficoltà (elevata, media, scarsa)
• Entità (elevata, media, bassa, scarsa)

I principi dell’allenamento sportivo

La metodologia dell’allenamento ha cercato di dare un assetto sistematico al processo di allenamento


elaborando una serie di linee guida, note come principi dell’allenamento, che hanno lo scopo di
indirizzare l’allenatore quando imposta una preparazione. La ricerca scientifica non ha ancora
pienamente confermato l’applicabilità̀ di tutti questi assunti e diversi autori propongono una diversa
articolazione, tuttavia costituiscono una base concreta da cui sviluppare un corretto piano di
allenamento. I principi dell’allenamento si dividono in:

• generali, che riguardano la maggioranza degli sport e coprono i vari settori dell’allenamento
e delle fasi di costruzione della prestazione sul lungo periodo;
• specifici, che si applicano a singoli aspetti dell’allenamento e sono spesso peculiari di un
determinato sport.

Seguendo l’articolazione proposta da Weineck (Weineck, 2007) l’insieme dei principi può essere
raggruppato in quattro categorie:

1. principi del carico;


2. principi della ciclicità̀ ;
3. principi della specializzazione;
4. principi della proporzionalità̀ .

Principi del carico

Sotto questa categoria troviamo i principi che disciplinano la corretta somministrazione dello
stimolo biologico o stimolo allenante, che si concretizza nella seduta di allenamento. Abbiamo:

1. principio dello stimolo allenante;


2. principio del carico individualizzato;
3. principio del carico crescente;
4. principio della corretta successione del carico;
5. principio del carico variabile;
6. principio dell’alternanza del carico;
7. principio della relazione ottimale tra carico e recupero.
Analizziamo brevemente il significato di ciascuno.

Il principio dello stimolo allenante afferma che l’incremento della prestazione si verifica solo se lo
stimolo biologico (allenamento) ha un’intensità̀ minima tale da “stressare” l’organismo. Un’intensità̀
sotto una determinata soglia, non indurrà̀ adattamenti. Pensiamo allo sviluppo della potenza lipidica,
è noto che in attività̀ molto blande il substrato energetico dell’organismo è principalmente fornito
dalle riserve lipidiche. Tuttavia, se si vuole fare in modo che aumenti la percentuale di grassi utilizzati,
ad esempio per una maratona, non sarà̀ sufficiente fare lunghe camminate, ma è necessario correre a
intensità̀ che riescano a porre in crisi il sistema metabolico dei lipidi. Lo stimolo allenante è
determinato dalle caratteristiche fisiologiche e dalla condizione atletica dell’atleta. Un allenamento a
una determinata intensità, svolto a inizio preparazione, sarà troppo blando in una fase avanzata, per
questo motivo dovrà̀ essere incrementato al crescere della condizione atletica. Il principio del carico
individualizzato specifica che ogni stimolo biologico deve essere parametrizzato sulle caratteristiche
del singolo atleta. Lo stesso stimolo può rivelarsi adeguato a un atleta ma troppo intenso o troppo
leggero per un altro. Nella scelta dei corretti stimoli entrano in gioco anche considerazioni sulle
caratteristiche genetiche degli atleti quali la ripartizione percentuale delle diverse tipologie di fibre
motorie, il VO2max e via discorrendo. Il principio del carico crescente è una conseguenza della
teoria di Selye secondo cui uno stimolo biologico correttamente dosato e adeguatamente recuperato,
potenzia la capacità di risposta dell’organismo per cui per porlo nuovamente in uno stato di squilibrio
si dovrà̀ aumentare l’entità del carico. Allenarsi sempre alla stessa intensità̀ non produce incremento
della prestazione, ma al contrario porta a uno stato di “plateau” in cui si ha una stagnazione. Per il
principio della corretta successione del carico è importante studiare l’articolazione e la successione
dei mezzi allenanti nell’ambito dell’allenamento. Gli esercizi tecnici, ad esempio, andrebbero sempre
inseriti dopo un adeguato riscaldamento e prima del contenuto condizionale dell’allenamento poiché́
richiedono un giusto grado di attivazione neuromuscolare e subiscono l’influenza negativa dello stato
di affaticamento. Secondo i principi del carico variabile e dell’alternanza del carico la
somministrazione dello stimolo biologico deve essere variata e rispettare la rigenerazione
(supercompensazione) del sistema sollecitato. Pensiamo a quanto accade per la deplezione del
glicogeno provocata da un allenamento intensivo volto allo sviluppo della potenza aerobica. Le scorte
di glicogeno sono severamente ridotte e necessitano di 24-48 ore di tempo per rigenerarsi. Il principio
della relazione ottimale tra carico e recupero è forse il più importante e disatteso tra quelli descritti
fino a ora. Ogni stimolo biologico ha un’azione (carico) che perturba la funzionalità di qualche
sistema fisiologico con il risultato di un decadimento della prestazione (fatica) nel periodo
immediatamente successivo. Il recupero è la fase in cui l’organismo ristabilisce, super compensando,
l’equilibrio perduto. Nella maggior parte dei casi il recupero avviene con un incremento della sintesi
proteica conseguente a un aumento dell’espressione genica, una ricostituzione delle scorte di
glicogeno e un riequilibrio ormonale. Quando il recupero è insufficiente non si verificano gli
adattamenti ricercati con l’allenamento. La pratica sportiva dimostra che spesso gli allenamenti sono
troppo intensi e con volume troppo alto rispetto alle possibilità dell’atleta (Olbrecht 2000),
disattendendo il principio della relazione ottimale tra carico e recupero.
I principi della ciclicità

Il processo di allenamento segue dei cicli che sono dettati dalla variabilità dell’ambiente biologico
dell’organismo. Ogni cosa è regolata da eventi ciclici e l’uomo non fa eccezione, anzi rappresenta
una complessa sintesi di diversi cicli, basti pensare al ciclo circadiano, il ciclo mestruale, il ciclo del
turnover proteico, il ciclo digestivo, il ciclo respiratorio e l’elenco potrebbe protrarsi molto a lungo.
Anche lo sviluppo della prestazione sportiva segue i suoi cicli, codificati in:

1. principio del carico continuo;


2. principio del carico periodizzato;
3. principio del recupero periodizzato.

Il principio del carico continuo afferma che per ottenere un incremento della prestazione ci deve
essere una continuità negli allenamenti, non è possibile ottenere buoni risultati con allenamenti
sporadici e non pianificati. Il criterio della continuità, ovviamente, deve rispettare le dinamiche di
supercompensazione del sistema coinvolto. Secondo il principio del carico periodizzato ogni ciclo
deve ritornare al punto di partenza e quindi, quando un programma di allenamento ha portato l’atleta
al “picco di massima forma”, è inevitabile che segua un decadimento (solitamente nell’arco di 4-6
settimane). È questo il motivo per cui nella periodizzazione è previsto un periodo di transizione tra
una stagione agonistica e la successiva. Il principio del recupero periodizzato si applica solitamente
ad atleti di vertice per cui la finestra di miglioramento si restringe sempre più fino a stabilizzarsi a un
“plateau” per cui il solo mantenimento della condizione costa enormi sacrifici in termini di
allenamenti. Olbrecht parla di “declining return of training investment” (dROTI), cioè del declino
della risposta dell’organismo, in termini di prestazione, rispetto alla quantità e qualità degli
allenamenti effettuati.

I principi della specializzazione

La specializzazione è intesa sia in senso verticale, ovvero nella pianificazione a lungo termine della
carriera agonistica a partire dalla fanciullezza, sia in senso orizzontale come specificità dello stimolo
diretto a modificare un particolare sistema. Si riconoscono:

1. principio dell’adeguatezza rispetto all’età;


2. principio del carico finalizzato.

Riguardo il principio dell’adeguatezza rispetto all’età si può affermare che lo stimolo deve essere
adeguato all’età biologica dell’atleta e non a quella cronologica e che le fasi sensibili per alcune
capacità risultano determinanti per la completa espressione del potenziale genetico di un atleta. Dal
punto di vista biologico è possibile rilevare una variabilità nella maturità anche di cinque anni nella
fanciullezza, mentre per quanto concerne le fasi sensibili occorre ricordare che sono più evidenti nel
settore delle capacità coordinative, in cui in alcuni sport l’eccellenza è raggiungibile solo se la pratica
è iniziata in età giovanile, si pensi alla ginnastica artistica, al nuoto e al pattinaggio artistico solo per
citarne alcuni. Il principio del carico finalizzato ricorda che uno stimolo biologico sarà efficace
nella misura in cui allena capacità necessarie al modello di prestazione dello sport praticato. Seguendo
questo principio sappiamo che se vogliamo preparare un atleta a correre la maratona sarà poco
produttivo fargli praticare lunghe sedute di allenamento a nuoto. Occorre in ogni caso precisare che
la specificità è fortemente condizionata dal periodo della preparazione in cui si trova l’atleta, per cui
se un mezzo allenante come il nuoto può essere indicato nella preparazione di un maratoneta nel
periodo di transizione o generale, sicuramente non sarà determinante nel periodo specifico.
I principi della proporzionalità

La proporzionalità è intesa come equilibrio tra lo sviluppo delle capacità di base o generali comuni a
tutti gli sport o tipologie di sport e quelle specifiche che costituiscono uno specifico sport. Oltre a
questa accezione il riferimento è anche alla percentuale di allenamenti dedicata allo sviluppo delle
componenti della prestazione nello sport di attinenza. Avremo:

1. il principio del rapporto ottimale tra formazione generale e specifica;

2. il principio della relazione ottimale delle componenti della prestazione.

Secondo il principio del rapporto ottimale la proporzione tra contenuti generali e specifici
dell’allenamento segue l’evoluzione dell’atleta. È chiaro che un atleta di vertice utilizzerà in modo
più̀ consistente esercitazione e mezzi allenanti specifici rispetto a un adolescente per cui la base delle
capacità deve essere ancora sviluppata. Secondo il principio della relazione ottimale delle
componenti della prestazione è necessario che tutte le caratteristiche che concorrono alla
prestazione siano adeguatamente allenanti. Questo sia a livello condizionale che coordinativo e
psicologico, non dimenticando che prestazioni di alto livello si ottengono solo quando le doti
condizionali sostengono una tecnica elegante e una consolidata padronanza di sé.
Modulo 2 – Metodologia
Sviluppo motorio e capacità coordinative

Sviluppo motorio

Lo sviluppo psicomotorio è un processo maturativo che nei primi anni di vita consente al bambino di
acquisire competenze e abilità posturali, motorie, cognitive, relazionali. Dipende dalla maturazione
del Sistema Nervoso Centrale (SNC) e varia, con tempi e modalità̀ caratteristici per ogni bambino. È
tuttavia possibile fissare delle “tappe” che, seppur con tempistiche diverse, sono raggiunte seguendo
una sequenza analoga. La maturazione strutturale del SNC pur avendo uno sviluppo geneticamente
predefinito è influenzata e plasmata dall’ambiente e dagli stimoli che esso produce. Negli ultimi anni
la letteratura scientifica, attraverso gli studi di “neuroimaging” permesso di mostrare come i processi
di sinaptogenesi (formazione delle sinapsi tra neuroni), nei primi mesi di vita siano
significativamente modulati dagli stimoli esterni. Il bambino alla nascita possiede abilità
geneticamente predeterminate, che gli consentono di interagire attivamente con l’ambiente e che
rispondono alla necessità di entrare in un interscambio comunicativo con gli altri. Le principali tappe
posturali che il bambino raggiunge sono;

• controllo antigravitario del capo a 3 mesi;


• controllo della stazione seduta autonoma a 8 mesi;
• mantenimento della stazione eretta a 10 mesi;
• deambulazione quadrupedica (“gattonamento”), generalmente dai 10 mesi;
• intorno al primo anno di vita il bambino è in grado di fare i primi passi senza sostegno
• Nel corso del secondo anno di vita si assiste ad un progressivo affinamento delle abilità
motorie;
• verso i tre anni comincia a comparire la preferenza di lato;
• Trai i sei ed i sette anni diviene definitiva la dominanza laterale insieme con la completa
maturazione della capacità di mantenere l’equilibrio.

Sviluppo cognitivo

Lo sviluppo cognitivo e del linguaggio si realizzano attraverso varie fasi progressive. Gli studi più̀
organici sullo sviluppo dell’intelligenza rimangono ancora oggi quelli condotti da Jean Piaget (1896-
1980) che definì̀ l’intelligenza come una forma di adattamento dell’organismo all’ambiente.
Secondo Piaget l’adattamento si raggiunge tramite due fenomeni che si equilibrano tra loro:
l’assimilazione in cui schemi mentali preesistenti ereditari o già acquisiti sono integrati con i dati
provenienti dall’ambiente (interno ed esterno) senza che si verifichi una variazione visibile di tali
schemi. L’ accomodamento comporta la modifica degli schemi già̀ posseduti attraverso i dati
precedentemente acquisiti con l’adattamento. Secondo Piaget il bambino passa attraverso diversi stadi
caratterizzati da un ordine di successione ben definito. Ogni stadio s’integra con il successivo.
Praticamente gli schemi formatesi ad una certa età̀ diventano parte integrante delle strutture di età̀
successive.
Gli stadi di Piaget sono raggruppati in 4 grandi periodi:

1) Periodo dell’intelligenza senso-motoria (0-24 m);


2) Periodo pre-operatorio (2-6 anni);
3) Periodo delle operazioni concrete (7-12 anni);
4) Periodo delle operazioni formali (dopo 12 anni).

Il primo periodo è caratterizzato dalla prevalenza degli input sensoriali e della motricità, il bambino
(all’età di circa tre mesi) passa da uno stadio di “Reazioni circolari primarie” centrate sul proprio
corpo durante il quale le reazioni “assimilano” nuovi stimoli (inseguimento visivo, handplay...) ad
uno stadio (a circa 8 mesi) durante il quale comincia a differenziare i mezzi dai fini usando “azioni”
già̀ conosciute per raggiungere i suoi scopi (trova un giocattolo nascosto) in cui l’oggetto acquista
una esistenza propria (“permanenza” dell’oggetto) e, successivamente (intorno all’anno), raggiunge
lo stadio delle “Reazioni circolari terziarie”, cioè̀ , diviene in grado di svolgere attività
“sperimentali” che portano alla costituzione di nuovi schemi percettivo-motori. A questo stadio il
bambino è già capace di costruire rappresentazioni simboliche ed utilizza le prime parole con
significato.

Il secondo periodo è caratterizzato da schemi mentali con cui rappresentare mentalmente


oggetti/eventi, formati dall’interiorizzazione delle azioni. Compare linguaggio, gioco di finzione,
disegno, pensiero limitato da egocentrismo intellettuale.

Il terzo periodo vede la coordinazione schemi mentali in strutture d’insieme. La cooperazione nel
gioco strutturato con regole, superamento dell’egocentrismo intellettuale. Compare il ragionamento
logico in problemi concreti (oggetti visibili e manipolabili) ma non in quelli presentati in forma
verbale.

Il quarto periodo è la tappa più avanzata dello sviluppo dell’intelligenza. Compare la capacità di
risoluzione problemi presentati in forma verbale e quelli formulati in modo astratto (es. algebrici)

Solo nel periodo puberale diverrà̀ in grado di ragionare in modo scientifico, formando ipotesi e
provandole mentalmente o empiricamente. È in questo periodo che l’adolescente riesce ad
immaginare ciò che è teoricamente possibile, è capace di pensare a livello teoretico e le sue deduzioni
seguono regole logiche. Gli studi di neuroimaging funzionale confermano l’intuizione di Piaget con
la dimostrazione che in tale periodo si va completando la mielinizzazione delle aree frontali,
maturano le connessioni a lunga distanza tra lobi frontali e le altre regioni encefaliche.

Occorre ricordare che seppur in linea di massima la sequenza di sviluppo cognitivo di Piaget rimane
valida, la ricerca recente ha mostrato come alcune capacità sono innate o vengono acquisite più
precocemente rispetto a quanto teorizzato. Le tecniche di neuroimaging hanno mostrato che la
capacità di imitare è innata e neonati di poche ore sono in grado si imitare espressioni facciali. Si
ritiene che questo sia dovuto alla presenza di neuroni specchio che si attivano automaticamente
osservando delle azioni.
Età cronologia ed età biologica

Il termine età cronologica indica la quantità di anni di vita di una persona, è semplicemente una
misura temporale che parte dal giorno della nascita. L’età biologica quella che invece si riferisce
invece allo stadio di sviluppo e di invecchiamento organico. Le due età possono essere molto diverse
e rappresentare due individui che all’anagrafe hanno la stessa età ma sono sostanzialmente diversi a
livello di maturazione cognitiva e fisica. Nei bambini si osservano spesso grandi differenze nello
sviluppo sia fisico che mentale a parità di età cronologica. È un fattore molto importante da
considerare quando si svolge il compito di educatore sportivo poiché può portare a richiede
l’esecuzione di esercitazioni troppo difficili per alcuni o troppo semplici per altri. Nella persona
adulta l’età biologica è determinata da due i fattori che hanno un ruolo fondamentale: i telomeri e la
metilazione del DNA. I telomeri sono fondamentali nel processo di invecchiamento (e quindi di
morte) delle cellule. La scienza ha dimostrato che più alta è l’età biologica di un individuo, più corti
sono i telomeri. Gli scienziati hanno scoperto che coloro che hanno dei telomeri più brevi hanno più
possibilità di sviluppare malattie degenerative e di morire in età precoce. Rimanendo al tema dello
sviluppo del bambino avremo quelli precoci o in ritardo nella crescita, due caratteristiche che se
non affrontate nel mondo giusto, possono causare problemi di tipo emotivo nella vita di un bambino.
L’educatore sportivo deve fare molta attenzione alla gestione delle attività giovanili per evitare
frustrazioni ed abbandoni precoci. La letteratura ha dimostrato che la precocità o il ritardo della
crescita di un bambino influenza il nostro modo di rapportarci a loro e di conseguenza il loro
approccio alla vita. Un bambino precoce ha caratteristiche da leader ed è molto propenso ad ottenere
grandissimi risultati sportivi, soprattutto in età adolescenziale, al contrario di un bambino in ritardo
di crescita che molto spesso vede nell’attività esclusivamente un momento giocoso. Le abilità motorie
sono spesso sotto le attese. Molto spesso capita che l’educatore sportivo dedichi più attenzioni verso
il bambino precoce considerandolo più talentuoso, aumentandone molto l’autostima ed al contrario
tenga in ombra il bambino che ha delle tappe di sviluppo psicomotorio più lente. Il rischio concreto
è di sopravvalutare eccessivamente alcuni bambini indicendo aspettative che mai si concretizzeranno
e sottovalutare il possibile talento di un bambino che semplicemente non ha avuto modo di mostrarlo.
Capacità e abilità motorie

Le capacità motorie costituiscono il complesso di funzioni che permette all’uomo di interagire


efficacemente nell’ambiente. Nel caso specifico dell’attività sportiva comprende l’insieme delle
abilità che permettono di eseguire una tecnica motoria codificata nel miglior modo possibile
coerentemente con i regolamenti dello sport in oggetto. Nella nostra quotidianità il corpo gioca un
ruolo molto importante e diviene uno aspetto determinante e raffinato che concorre a caratterizzare
l’essenza della personalità di ciascuno di noi. Lo sport non è quindi, soprattutto in età evolutiva,
semplicemente una forma di competizione che premia i migliori, ma assume valore formativo nella
costituzione dei tratti della personalità. Ogni persona si esprime anche con la corporeità e attraverso
il movimento. L’attività motoria diviene un linguaggio che permette di relazionarsi e di interagire
con gli altri e di presentare il proprio sé. Il movimento è inoltre il mezzo attraverso il quale garantiamo
lo sviluppo equilibrato ed il massimo potenziamento psicofisico. Il processo di industrializzazione ha
nel tempo eroso tempo e spazio che un tempo erano dedicati al gioco libero in cui il bambino
apprendeva un ampio ventaglio di schemi motori in modo naturale e casuale. Corre, arrampicarsi,
strisciare, calciare, saltare, pedalare erano attività quotidiane, mentre ora sono residuali. Lo sport in
questo contesto assume quindi un importante ruolo sociale e formativo nello sviluppo equilibrato del
bambino. Affinché ciò sia possibile però deve essere educativo e finalizzato, cioè deve far parte di un
processo di educazione motoria e/o educazione sportiva. Il compito dell’istruttore e dell’allenatore
non è quello di sostituirsi all’allievo, per rendere più veloci e immediati gli apprendimenti, ma
piuttosto di fornire strumenti adeguati con i quali l’allievo possa crescere nel tempo, con piena
consapevolezza della sua evoluzione.

L’educazione motoria prevede di:

Impostare un’attività sistematica e intenzionale che non sia improvvisata ma studiata in


modo da permettere l’evoluzione ottimale dell’allievo;
Programmare nei tempi e nei modi le tappe d’intervento seguendo i tempi d’apprendimento
propri degli allievi.
Predisporre un metodo valutativo non invasivo che consenta di capire il raggiungimento
degli obiettivi motori programmati.

La motricità si sviluppa secondo tempistiche diverse da soggetto a soggetto, per questo motivo le
proposte devono essere sempre adeguate ai singoli soggetti e non generalizzate. La motricità è legata
alla corporeità di ogni persona e quindi l’intervento su essa richiede una grande attenzione verso
l’individuo.

Si riconoscono generalmente tre categorie di motricità:

Motricità spontanea: è caratterizzata dall’apprendimento senza bisogno di insegnamenti nei primi


anni della sua vita e riguarda soprattutto gli schemi motori innati;

Motricità di relazione: sono i movimenti acquisiti che permettono di entrare in relazione con le altre
persone, risente notevolmente dell’influenza sociale e culturale della società di appartenenza;

Motricità finalizzata: è caratterizzata dall’acquisizione di schemi motori specifici come appunto nel
mondo dello sport. Lo studio della biomeccanica guida la didattica dell’insegnamento di gesti
economicamente ed energeticamente ottimali.
Il movimento è garantito da:

1. Sistema nervoso centrale (SNC) che ha funzione di pianificazione e programmazione


del movimento;
2. Apparato locomotore che è l’effettore dei programmi motori elaborati dal SNC.

Come possiamo osservare il movimento è il frutto della interrelazione tra Sistema Nervoso e Apparato
Locomotore. Quando l’attenzione è posta prevalentemente sullo sviluppo della componente nervosa
si parla di capacità coordinative, mentre quando lo scopo è prioritariamente volto verso aspetti
metabolico energetici si parla di capacità condizionali. Si nota come le due componendi non sono
mai indipendenti, ma al contrario lo sviluppo dell’una è condizione per la crescita dell’altra.

Schemi motori e posturali di base

Gli schemi motori e posturali di base sono le unità di base movimento volontario finalizzato. Il loro
nome deriva dal fatto che appaiono spontaneamente nello sviluppo dell’individuo.

Gli schemi motori di base sono:

• Correre;
• Saltare;
• Lanciare;
• Strisciare;
• Rotolare;
• Strisciare
• Afferrare;
• Arrampicare;
• Camminare
• Calciare.

Gli schemi posturali di base sono:

• Flettere;
• Piegare;
• Addurre;
• Abdurre;
• Ruotare;
• Slanciare;
• Elevare;
• Circondurre;
• Torcere.

Gli schemi motori rappresentano programmi di movimento semplici che impegnano il bambino nella
fascia d’età 6 – 12 anni.
Figura 10 – Schemi motori di base

Tali schemi costituiscono le lettere dell’alfabeto motorio che servirà a costruire il linguaggio motorio
dell’atleta. Devono essere sviluppati secondo il criterio della polivalenza e della multilateralità,
quindi evitando ogni forma di specializzazione precoce. Ricordiamo che i gesti motori costituiscono
la base di una piramide la cui altezza del vertice dipende dalla sua ampiezza. Più ricco sarà il bagaglio
motorio e più alto il livello raggiunto quando l’atleta è maturo. L’allenatore che opera nel contesto
giovanile ha una responsabilità enorme e deve preoccuparsi di realizzare le migliori condizioni per
ampliare il più possibile il repertorio degli schemi motori. Ricordiamo sempre che lo sviluppo degli
schemi motori non è un processo scollegato dagli altri ambiti della personalità e può avvenire in modo
ottimale solo se anche nelle altre aree della personalità si realizzano adeguati e complementari
sviluppi. Lo sviluppo motorio ottimale è permesso da un altrettanto ottimale sviluppo nelle seguenti
aree:

• Area intellettiva: gli allenamenti dovrebbero essere sempre atti a stimolante gli aspetti
intellettivi.

• Area affettiva: l’ambiente di allenamento deve essere tale per cui gli allievi si sentano bene
e desiderino partecipare agli allenamenti. I ragazzi hanno bisogno di essere affettivamente
considerati e rispettati e nella fase adolescenziale, nel limite delle regole, lasciati liberi di
manifestare le proprie opinioni. L’istruttore deve essere giusto con tutti ciò che si insegna
con la coercizione creerà solo astio verso l’apprendimento e la figura dell’istruttore.

• Area sociale: i ragazzi hanno bisogno del gruppo di pari e di sentirsi accettati. L’istruttore
ha il compito di trasmettere, oltre alle basi sportive, dei valori sociali sani come la
cooperazione, l’inclusione, l’accettazione dei propri limiti e della sconfitta come stimolo per
migliorare e non come etichetta negativa.
Capacità coordinative

Sono permesse dall’azione del sistema nervoso, ma vincolate da aspetti fisiologici e psicologiche.
Consentono di apprendere, organizzare, controllare e adattare il movimento. Si sviluppano in modo
particolare tra i 6 – 12 anni.

Le capacità coordinative costituiscono la base su cui avverrà l’acquisizione delle abilità motorie,
come le tecniche sportive. Le capacità coordinative sono permesse, come già detto, dal sistema
nervoso. Riveste notevole importanza in questo frangente il sistema senso motorio il quale è deputato
alla ricezione dei segnali esterni ed interni al proprio corpo e successiva reazione. Il sistema senso
motorio utilizza le informazioni rilevate dagli analizzatori sensoriali che sono:

• sistema visivo;
• sistema uditivo;
• sistema tattile;
• sistema olfattivo;
• sistema gustativo;
• sistema propriocettivo o cinestesico (informazioni interne al corpo)

È molto importante nell’acquisizione dei movimenti il sistema cinestesico che attraverso recettori
(fusi neuromuscolari e organi tendinei del Golgi) permette di rilevare le variazioni delle tensioni,
muscolari durante i movimenti. È molto importante capire che gli analizzatori agiscono sempre in
sinergia, se pensiamo ad esempio ad un’azione di evitamento di un ostacolo nel ciclismo è il sistema
visivo che allerta il sistema nervoso, il quale analizza lo stato dei recettori cinestesici per capire la
posizione del corpo ed elaborare l’azione volta a sterzare in modo opportuno. Il sistema senso motorio
è basato sul feedback, che permette di confrontare la realizzazione del gesto con le aspettative iniziali
e può consentire correzioni durante l’esecuzione o correzioni nella ripetizione successiva del gesto.

Le capacità coordinative si dividono in:

• Capacità coordinative generali


• Capacità coordinative speciali

Capacità coordinative generali

Le capacità coordinative generali sono alla base dell’acquisizione del movimento e sono:

• Capacità di apprendimento dei movimenti. Consiste nell’acquisizione di movimenti, o


parte di essi non posseduti precedentemente. Le fasi dell’apprendimento sono:

o Coordinazione grezza (il movimento appare poco fluido e preciso)


o Coordinazione fine (il movimento è preciso ma poco stabile, è facile sbagliare il gesto)
o Disponibilità variabile (è la fase in cui si ha completo controllo del movimento in ogni
situazione)

• Capacità di controllo motorio. È la capacità di finalizzare e controllare il movimento


secondo lo scopo previsto
• Capacità di adattamento dei movimenti. È la capacità di adattare o cambiare i movimenti
in base alla variazione delle condizioni esterne.

Capacità coordinative speciali

Le capacità coordinative speciali caratterizzano il movimento e sono:

• Capacità di equilibrio. È la capacità di reagire in modo adeguato alla sollecitazione


proveniente dall’ambiente senza alterare l’esecuzione del movimento (può essere statico o
dinamico). Ad esempio, la capacità di guidare la bicicletta in vari contesti come buche,
ostacoli, salita, discesa o di correre su terreno sconnesso.

• Capacità di combinazione motoria. Consiste nella capacità di legare movimenti, o parti di


movimento, in modo coerente ed efficace. Ad esempio, le fasi della bracciata nel nuoto, la
sequenza dei movimenti per salire sulla bicicletta in zona cambio.

• Capacità di orientamento. È la Capacità di muoversi nello spazio. Ad esempio, la fase


dell’uscita dall’acqua per arrivare alla zona cambio.

• Capacità di differenziazione spazio-temporale. È la capacità di adattare il movimento nello


spazio e nell’articolazione temporale in base alle richieste ambientali. Ad esempio,
l’adattamento della bracciata nel nuoto in base alla presenza di altri atleti che nuotano vicino.

• Capacità di differenziazione dinamica. È la capacità di modulare l’intensità della forza in


base alle sensazioni percettive. Ad esempio, la corsa su un terreno con presenza di sassi di
varia dimensione impone un controllo dell’appoggio a terra del piede, così come la corsa a
piedi scalzi dal nuoto alla zona cambio o in arrivo dal ciclismo alla zona cambio.

• Capacità di anticipazione motoria. È la capacità di prevedere l’effetto di un movimento.

• Capacità di reazione. È la capacità di reagire, con un movimento efficace ad uno stimolo.


Può essere semplice, come la partenza dai blocchi al segnale dello starter, oppure complessa
quando si deve reagire ad una situazione motoria improvvisa e non prevista, come quando un
ciclista frena o sterza improvvisamente davanti a noi.
• Capacità di ritmo. Ad esempio, per un ostacolista o un saltatore è molto importante avere
l’idea del ritmo di corsa.

Metodi per allenare le capacità coordinative

In ottica di un allenamento giovanile occorre sempre ricordare che l’educazione motoria ha come fine
quello di sviluppare al meglio tutte le capacità coordinative evitando una specializzazione precoce.
In questa fase, infatti, non sono ancora sviluppate le inclinazioni e predisposizioni personali del
bambino, è possibile che non continui a cimentarsi nel triathlon e vada a giocare a basket o fare
canottaggio, è quindi indispensabile prevedere esercitazioni incentrate alla polivalenza che
introducano elementi generali comuni a tutti gli sport. È sempre possibile utilizzare giochi di squadra
che prevedano l’inserimento di elementi tecnici propri del triathlon. I parametri a cui dovrebbe
ispirarsi l’allenamento delle capacità coordinative, sia in fase di sviluppo che in età adulta sono i
seguenti:
• Variazione dei parametri esecuti del movimento del movimento. Ad esempio, nuotata con
la testa fuori dall’acqua, nuotata aumentando o diminuendo la frequenza di bracciata, con le
palette, accorciando l’ampiezza ecc.…

• Multilateralità e polivalenza. Ad esempio, predisponendo a bordo vasca un circuito con


passaggi a zig-zag, rotolamenti, canestri da affrontare previo palleggio, lancio di palline su
bersaglio…

• Variazione delle condizioni esterne. Ad, esempio prevedendo la corsa su sabbia, erba,
ghiaino…

• Combinazione di abilità. Ad esempio, corsa tra i birilli palleggiando o passando la palla ad


un compagno

• Esercitazioni basate sui giochi. Sempre nell’ottica di multilateralità e polivalenza, la partita


a basket o calcio permette di allenare sprint e cambi di direzione in contesto giocoso.

• Esercitazioni dove sia necessario adattarsi alla situazione. Ad esempio, facendo ordinare
il materiale in zona cambio e poi disordinandolo di nascosto prima di chiedere la transizione
più veloce possibile;

Questi sono solo alcuni spunti su cui impostare l’attività motoria. La cosa importante è sempre da un
obiettivo ben definito che guida la costruzione dell’allenamento.
Capacità condizionali

Le capacità condizionali determinano la condizione fisica di un soggetto e sono riferite alla capacità
fisiologica ed energetica di compiere il movimento, sono:

• Forza: capacità di un soggetto di superare una resistenza esterna, oppure di opporsi ad essa
sulla base di processi metabolici e di attivazione nervosa. I muscoli sono la componente attiva
del processo e sviluppano tensioni sulla base di impulsi nervosi inviati dai motoneuroni.
Esempi di utilizzo della forza sono getto del peso (forza esplosiva), tenuta alle parallele (forza
isometrica), sollevamento pesi (forza massimale).

• Rapidità: capacità di un soggetto di eseguire azioni motorie con la massima intensità in un


periodo di tempo minimo rispetto alle condizioni date. Stacco del salto in alto, pugno, calcio
o schivata nel karate.

• Resistenza: capacità del soggetto di opporsi alla fatica nei carichi di tipo sportivo. Si
riconosce una resistenza di breve, media e lunga durata sulla base dell’intensità e del tempo
relativo per cui può essere mantenuta. Corsa sui 400m piani, 1500m piani, maratona.

• Mobilità articolare: capacità di utilizzare al massimo grado e nel modo migliore le possibilità
di movimento delle articolazioni. Calci al volto nel karate, spaccata frontale e sagitale nella
ginnastica ritmica ed artistica. Dipende dalla forma delle articolazioni, dalla lunghezza ed
elasticità dei legamenti articolari, della resistenza dei muscoli contro i quali si lavora.

Sviluppo delle Capacità condizionali nel bambino

Nello sviluppo delle capacità condizionali in linea generale valgono le seguenti considerazioni:

• Lo sviluppo della forza rapida e della rapidità trovano una fase sensibile (momento ottimale
di sviluppo) tra gli 8 – 12 anni. In questa età si nota un buon tasso di forza negli arti inferiori
mentre restano deboli quelli superiori. Occorre fare molta attenzione nel prevedere sempre
una sollecitazione di tale qualità poiché l’adattamento morfologico è sempre nel verso che va
dalle fibre veloci a quelle lente, quindi non sfruttare lo sviluppo della rapidità in questa età
può precludere l’ottenimento dei massimi risultati per quanto attiene tale capacità;

• Nella fase che va sempre dagli 8 ai 12 anni è bene sollecitare prevalentemente i muscoli delle
gambe, perché la loro forza è maggiore di quella del tronco, della cintura scapolare, soprattutto
delle braccia. Questo, tuttavia, non deve mai portare a limitare le esercitazioni a carico della
parte superiore del corpo. Fortunatamente il triathlon per natura stessa coinvolge tutti i distretti
corporei dando modo di equilibrare lo stimolo in maniera omogenea;

• A 11 anni le femmine tendono ad essere più forti dei ragazzi perché raggiungono il massimo
incremento di forza, mentre i maschi lo raggiungono intorno ai 13 anni.

• La resistenza aerobica nelle fasi giovanili può essere allenata con giochi di squadra,
esercitazioni tecniche e allenamenti continuati. Generalmente il bambino non tollera a livello
psicologico l’attività di endurance mentre è ben predisposto ad attività intermittenti tipiche
dei giochi di squadra o degli allenamenti a circuito. Impostare allenamenti basati su tali attività
(ad esempio palla nuoto), circuiti o piccole prove in cui prevedono varie zone cambio in cui
è richiesto di eseguire delle attività coordinative da raggiungere di corsa permette di allenare
in modo completo la resistenza aerobica;
• Per la capacità anaerobica bisogna lavorare a livelli alattacida, cioè con ripetizioni veloci e
di breve durata con ampie pause di recupero.

Sviluppo delle Capacità condizionali nell’adulto

Nell’atleta maturo la specializzazione diviene prevalente rispetto a quanto fatto bambino,


l’allenamento assume una strutturazione volta alla massima prestazione cercando di adattare al
meglio le capacità condizionali rispetto a quello che è il modello di gara previsto. Il triathlon è uno
sport di endurance che presuppone l’allenamento preponderante della componente aerobica. Questo,
tuttavia, non deve far pensare che altri tipi di esercitazione, come ad esempio l’allenamento della
forza o degli aspetti tecnici possa essere abbandonato. In una periodizzazione e programmazione
corretta dell’allenamento, in base alla fase della preparazione in cui ci si trova tutte le capacità
condizionali devono essere allenate. L’allenamento della forza, ad esempio, si è mostrato
propedeutico al miglioramento della prestazione aerobica e al mantenimento dell’integrità fisica,
evitando molti infortuni. Nel modulo sulla programmazione dell’allenamento descritto come
strutturare l’allenamento sia nel giovane che nell’adulto.

Abilità motorie e tecnica sportiva

Le abilità motorie e le tecniche sportive derivano dalla combinazione di schemi motori e di capacità
motorie. Se si vuole tracciare una differenza tra abilità motoria e tecnica sportiva, possiamo affermare
che la seconda è un sottoinsieme specifico che racchiude i gesti codificati di una disciplina sportiva.
Sostanzialmente, mentre un’abilità motoria è generale e può ad esempio riferirsi a tutti i contesti del
movimento la tecnica motoria deve essere costruita secondo le regole dello sport praticato. Pensiamo
ad esempio alle tecniche di gamba permesse nel Taekwondo rispetto al karate o alle arti marziali
miste. Si può asserire che quanto maggiore e più ricco è il repertorio di condotte o schemi naturali,
tanto più differenziate sono le abilità che si possono sviluppare in seguito correttamente.
L’apprendimento delle abilità motorie richiede l’esercitazione costante del gesto motorio. Le abilità
devono essere apprese in modo consapevole, come se fossero elementi di un linguaggio, quello
motorio, da poter combinare insieme per creare risposte e gesti nuovi rielaborando ciò che si è appreso
in precedenza. Diversi autori hanno trattato il tema delle abilità motorie. Meinel e Schnabel
definiscono le abilità motorie come azioni stabili e consolidate in seguito alla ripetizione fino a
divenire automatiche, ovvero eseguite senza distrarre risorse attentive. Blume ritiene che un’abilità
motoria è tale quando la coordinazione e l’esecuzione sono perfezionate al punto da mostrare un
movimento fluido e naturale. Guthrie pone l’accento sul fine dell’abilità motoria definendola come
la capacità di ottenere un risultato finale con la massima accuratezza ed il minimo dispendio di
energia. Per cui l’abilità e l’essere abili è indiscutibilmente legato al raggiungimento di un obiettivo,
qualunque esso sia. Alla base dell’apprendimento delle abilità motori, come è facile capire, c’è la
ripetizione continua del gesto da interiorizzare.
Le abilità motorie in un sistema unidimensionale sono classificate in base all’organizzazione del
compito:

- Aperte (open skill): ad alta incertezza (es. sport di situazione: calcio, basket...)
- Chiuse (closed skill): a bassa incertezza (es. ginnastica artistica)
- Discrete: l’azione ha un inizio e una fine ben distinte
- Continue: l’azione non ha inizio né fine (es. corsa, nuoto...)
- Abilità prevalentemente motorie
- Abilità prevalentemente cognitive (es. scacchi)

Le abilità motorie possono essere classificate anche in base alle richieste dell’ambiente:

- Nessuna variabilità della regolazione nei movimenti e nessuna variabilità del contesto (ad
esempio nella sospensione alla sbarra)
- Solo variabilità del contesto (tiri a bersagli diversi posti a distanze diverse)
- Solo variabilità della regolazione nei movimenti (attrezzistica)
- Sia variabilità del contesto che variabilità della regolazione nei movimenti (i giochi
sportivi in generale)

Le abilità motorie possono essere classificate in base alla relazione tra componenti motorie e
cognitive

- Sono prettamente motorie quelle in cui la qualità stessa del movimento determina
maggiormente l’esito del risultato. È fondamentale dunque eseguire in modo corretto.
- Sono prettamente cognitive quelle in cui l’attenzione ed i processi decisionali e strategici
determinano maggiormente il raggiungimento del risultato. È fondamentale sapere come
e quando fare un’azione, ad esempio, un goal di petto nel gioco del calcio.

Fasi sensibili

Il concetto di fasi sensibili fu proposto dallo studioso tedesco Martin nel 1982. Egli stabilì identifico
delle fasi cronologiche nello sviluppo del bambino in cui le capacità Coordinative condizionali
fossero più “allenabili”. C’è da dire che alcuni ritengono che le fasi non debbano essere interpretate
come compartimenti stagni ma che possono anticipate per consentire un migliore sviluppo. Inoltre,
la diversa velocità di sviluppo di ogni bambino può anticipare o ritardare queste fasi. Detto questo,
secondo il Modello proposto da Martin, le fasi sensibili sono rappresentate dal seguente schema:
Figura 11 – Fasi sensibili (Martin 1982)

Come è possibile apprezzare avremo delle età anagrafiche in cui mediamente il bambino è più
predisposto allo sviluppo di una capacità coordinativa o condizionale. La conoscenza di questi periodi
consente all’istruttore di intervenire più efficacemente proponendo attività adeguate al grado di
sviluppo cognitivo e fisico.
Modulo 3
Competenze pedagogiche del tecnico

Competenze pedagogiche, didattiche e obiettivi dell’insegnamento del tecnico


sportivo

Il tecnico sportivo, soprattutto in abito giovanile, è prima di tutto un educatore un pedagogo che ha a
cuore lo sviluppo della persona in primo luogo. L’attività sportiva deve essere un arricchimento per
uno sviluppo più ricco che permetta un rapporto positivo con la società. Ricordiamo sempre che non
tutti i bambini che iniziano una determinata attività sportiva proseguiranno o otterranno risultati di
grande rilievo, ma l’esperienza sportiva che faranno nell’ambito delle associazioni sportive deve
essere un momento di arricchimento e di benessere in cui si apprendono regole e impegno, ma sempre
in un contesto sano ed educativo. Quindi l’istruttore non è semplicemente un tecnico in grado di
trasmettere competenze motorie, ma un leader che, attraverso il movimento, accompagna i ragazzi
verso le competenze che la vita richiede. Lo strumento attraverso cui tutti i cuccioli di animale,
compresi i bambini, imparano le competenze motorie e sociali è il gioco. Il bambino non gioca, è il
gioco. Tutti i bambini vogliono giocare in un contesto in cui provano soddisfazione e divertimento
misurandosi con altri bambini. L’istruttore è uno dei modelli di riferimento, insieme ai genitori e agli
educatori scolastici, in cui cercano una guida. Durante l’adolescenza i modelli di riferimento saranno
il gruppo dei pari o i personaggi pubblici nel mondo della musica, della società e anche dello sport.
Aver maturato esperienze positive durante la fanciullezza assicura la ricerca di modelli positivi anche
durante l’adolescenza. Una delle qualità̀ migliori che deve possedere l’istruttore, consiste nell’abilità
di saper ridurre le distanze fra il proprio pensiero, le proprie convinzioni e ambizioni e le reali
aspettative degli atleti, fra le loro effettive esigenze e quegli pseudo o falsi bisogni che nascono solo
dalle ambizioni degli adulti. L’istruttore è la persona deve essere in grado di costruire un ambiente
confortevole e dare un’impronta sempre positiva e costruttiva in ogni situazione. Nella
preadolescenza l’istruttore è a tutti gli effetti il leader a del gruppo con il compito di sviluppare le
attitudini dei bambini. L’obiettivo in questa fase è sviluppare un’etica dell’allenamento in cui non si
premia il risultato ad ogni costo, ma si apprezzano e si valorizzano l’impegno ed i miglioramenti
conseguiti nel rispetto dello sviluppo del singolo. Non solo la vittoria ma anche la sconfitta deve
essere valorizzata come misura oggettiva del percorso ancora da percorrere per migliorare. Non vanno
mai trascurati gli aspetti etici, affettivi, relazionali. Un buon istruttore se desidera attorno a sé bambini
uniti fra loro e sereni che si sforzino di coltivare il concetto della vera amicizia, non può̀ assolutamente
esaurire il suo compito nell’ambito fisico e tecnico, ma deve allargare le proprie conoscenze in
contesti che spaziano dagli aspetti auxologici, psicologici, didattici, metodologici, relazionali,
affettivi. L’istruttore deve essere una calamita per i piccoli allievi e per esserlo deve subito dimostrarsi
“interessante” ai loro occhi, trasmettendo sicurezza ed entusiasmo e questo può avvenire solo se egli
è veramente felice di stare con loro. I bambini non hanno filtri o pregiudizi e valutano l’istruttore
prima come persona e poi come tecnico. L’istruttore nella descrizione degli esercizi deve essere
essenziale per evitare di risultare noioso ed inascoltato. Essere istruttore con i bambini significa
pensare come i bambini. Un istruttore deve: sapere, saper fare, saper far fare ma anche saper essere.
Vediamo le competenze di base di un istruttore a tutti i livelli:

- SAPERE: deve conoscere molto bene tutto quanto costituisce il baglio culturale ed
esperienziale di base dell’attività motoria generale e specifico della disciplina che insegna;

- SAPER FARE: deve conoscere come fare le cose ma possedere anche competenze
didattiche adatte per realizzare gli interventi tecnico-educativi;
- SAPER FAR FARE: deve essere in grado di trasmettere le proprie conoscenze e
competenze didattiche in modo coinvolgente. L’istruttore di successo è quello che fa
appassionare alla disciplina insegnata;

- SAPER ESSERE: saper essere significa essere consapevoli della responsabilità del ruolo
sociale rivestito. In ambito giovanile l’istruttore è una sorta di missione. Si trasmette uno
stile di vita solo quando si segue quello stile di vita, quando si ama ciò che si sta
insegnando;

Nel mondo dello sport c’è bisogno tramandare una cultura sportiva fatta di rispetto per l’essere
umano, di impegno verso la vita e le scelte che ci chiede di fare e di valori veri, come l’amicizia,
l’amore, l’onestà e la lealtà̀ . Pur abbracciando diversi contesti (sociali, affettivi, tecnici,
organizzativi…) l’obiettivo primario del tecnico è l’insegnamento delle tecniche sportive cercando
di creare le migliori condizioni possibili per farlo. Non può sostituirsi ad altre figure ed istituzioni
educative, ma non deve operare sempre considerando che l’atleta ne è condizionato. Il tecnico opera
in un contesto complesso in cui famiglia, scuola o lavoro, amici plasmano il comportamento
dell’atleta. Generalmente il tecnico opera in piccoli contesti, quali le associazioni sportive, ma non
per questo deve venire meno la sua professionalità ed impegno. Ovunque si operi e nonostante i mezzi
disponibili non deve dimenticare che l’elemento centrale rimane la persona e l’atleta. Le attività
dovranno sempre essere adeguate alle caratteristiche dell’atleta. Oltre alla tecnica sportiva il tecnico
deve essere in grado di alimentare la motivazione dell’atleta. Dalla letteratura sappiamo che la
motivazione può essere intrinseca o estrinseca. La prima è la vera forza motrice che sostiene il
soggetto nel proseguire nell’attività e nell’impegnarsi per migliorare, poiché è frutto del piacere nel
praticare uno sport e nell’apprendere. La seconda è molto più instabile e guidata da fattori esterni
come la moda o gli amici o la ricerca di apprezzamento sociale. È importante capire che facendo leva
sulla motivazione estrinseca è possibile, attraverso l’esempio, accendere il fuoco della passione e
gradualmente spostarla verso una motivazione intrinseca. Il tecnico è responsabile della salute fisica
degli atleti gestendo in modo corretto il carico di allenamento, educando alla salute e allertando sui
rischi e pericoli di “scorciatoie” per raggiungere i risultati. Un carico di allenamento non adeguato
alla capacità di un atleta può portarlo all’infortunio, all’overtraining e all’abbandono dell’attività
sportiva. Secondo Beccarini e Mantovani (2010) le competenze generali di un tecnico si possono
raggruppare in quattro categorie:

• Competenze tecniche;
• Competenze didattiche specifiche;
• Competenze psicologiche generali;
• Competenze gestionali e organizzative.

Le competenze tecniche sono specifiche della disciplina, ma in un contesto di multilateralità e


polivalenza non possono esaurirsi, almeno negli elementi di base, ad essa. Non perché faccio triathlon
devo solo nuotare, pedalare e correre. Molte altre attività e abilità tipiche di altri sport possono essere
propedeutiche o completare l’allenamento. Un esempio di attualità è la capacità di utilizzare
correttamente i bilancieri ed i sovraccarichi anche in età giovanile per i risvolti positivi che si hanno
in tutti gli sport. I giochi di squadra e di destrezza, come ad esempio il basket, possono aiutare a
prendere decisioni ed elaborare schemi motori molto rapidamente, abilità che può essere utile nel
ciclismo quando si presenta una situazione inattesa (frenata, buca, caduta dell’atleta che precede…).
Indipendentemente dai mezzi di allenamento utilizzati le competenze tecniche richiedono la
padronanza degli aspetti biomeccanici, anatomici, fisiologici e bioenergetici dell’allenamento. Avere
competenze tecniche significa anche saper progettare un allenamento valutando le capacità e abilità
possedute dagli atleti, definendo degli obiettivi e valutando il risultato. “Un tecnico sportivo viene
riconosciuto tale, non per le proprie conoscenze ed abilità, ma per la capacità di trasmettere queste ai
propri allievi” (Beccarini & Mantovani 2010). Dal punto di vistata didattico il tecnico deve possedere:

• Capacità di motivare;
• Capacità di comunicare;
• Capacità di osservare;
• Capacità di valutare;
• Capacità di programmare.

Principi generali sulla metodologia dell’insegnamento

La scienza della formazione ha attraversato diversi momenti storici che ne hanno caratterizzato la
metodologia di insegnamento, ovvero la didattica. L’educazione negli anni ‘70 aveva una base
fondamentalmente intellettuale erano gli anni della teoria del condizionamento riflesso di Pavlov e
con il condizionamento operante di Skinner. Il processo educativo era interpretato come una
trasmissione di informazioni dall’istruttore all’atleta, si proponeva un’educazione collettiva
caratterizzata da una serie abilità stabilito a priori senza tenere in considerazione il livello di sviluppo
e di partenza di ogni atleta. La metodologia didattica utilizzata era costituita da una suddivisione di
un problema complesso in parti che costituivano gli obiettivi parziali da raggiungere. Secondo questo
modo di operare era sufficiente poi mettere insieme le singole parti per ottenere una prestazione
competente. Negli anni ’80 le teorie di Piaget e Bruner introducono il concetto di maturazione, stadi
di sviluppo cognitivo e partecipazione attiva dell’atleta nel processo di apprendimento. Si inizia a
gerarchizzare gli obiettivi mostrando come in determinate fasi evolutive non si può richiedere
l’esecuzione competente del gesto motorio e si puntualizza come obiettivi generali di “coordinazione
grezza” e acquisizione di schemi motori generali devono avere la precedenza sulla perfezione
tecnica. Semplicemente in fasce di età in cui non c’è un completo sviluppo delle capacità coordinative
e condizionali non è possibile richiedere la migliore espressione del gesto motorio. È solo negli anni
’90 che si riconosce l’atleta in funzione di una serie di potenzialità e attitudini individuali che sono
peculiari per ognuno e devono essere stimolate e trasformate in abilità motorie e sportive. Sempre in
questi anni si riconosce il valore sociale della pratica sportiva come strumento educativo del cittadino
oltre che dell’atleta. David Ausbel introduce il concetto di apprendimento significativo, inteso come
stimolante e portatore di significato per chi apprende, Lev Vygotskij teorizza la “zona di sviluppo
prossimo” caratteristica per ognuno che permette di rendere flessibili le fasi di maturazione introdotte
da Piaget. Secondo Vygotskij, infatti, è possibile anticipare le fasi di sviluppo psico-fisico con
opportune esercitazioni che agiscano da “ponte”. Con Howard Gardner e le sue “intelligenze
multiple” si riconosce il ruolo insostituibile del movimento nello sviluppo equilibrato della persona.
Nell’ambito dell’attività motoria Mosston e Ashworth hanno avuto un forte impatto nella
metodologia dell’insegnamento configurando una seri di stili di insegnamento. Gli autori hanno
individuato dieci stili di insegnamento raggruppati in due grandi categorie: riproduzione e
produzione.
STILI D’INSEGNAMENTO
Stile a comando Tutte le decisioni controllate
dall’istruttore
Stile della pratica L’atleta esegue
autonomamente un compito
assegnato
Reciprocità Coppie di atleti si aiutano nella
Stili di Riproduzione risoluzione di un compito
assegnato
Self Check L’atleta opera
un’autovalutazione secondo
criteri stabiliti
Individualizzazione obiettivi Sono stabiliti diversi livelli di
difficoltà
Scoperta Guidata L’istruttore guida l’atleta alla
soluzione del compito motorio
Problem Solving L’atleta trova autonomamente
la soluzione al compito
motorio
Programma individuale Stabilita un contenuto
dell’allenamento è l’atleta che
decide come affrontarlo
Autonomia supervisionata L’atleta decide come allenarsi
consultando l’allenatore
Completa autonomia L’atleta è totalmente
responsabile dell’allenamento

Si comprende come un modello così articolato possa creare più confusione che supporto al tecnico
che opera in un contesto sportivo. Altri autori hanno piuttosto stabilito un continuum che passa da
una metodologia prevalentemente direttiva, in cui il tecnico propone allenamenti con limitato
margine di autonomia, ad una non direttiva, in cui, posto l’obiettivo dell’allenamento l’atleta ha la
capacità di gestire le variabili che lo costituiscono in modo autonomo. L’applicazione di un metodo
piuttosto che l’altro è fatta in base all’età, alle conoscenze in possesso dell’atleta e alla maturità
mostrata. Un atleta molto giovane non avrà la maturità per essere responsabile del proprio
allenamento e nemmeno le conoscenze per trovare i mezzi allenanti adeguati a svolgerlo. In questo
caso l’intero processo ricade sul tecnico che ha un totale controllo delle variabili che costituiscono
l’allenamento. Diverso sarà il caso di una atleta professionista che nel tempo avrà sviluppato
conoscenze adeguate e soprattutto è pienamente responsabile del proprio allenamento essendo la sua
professione. Il ruolo del tecnico è di fornire attraverso il ciclo di vita dell’atleta le competenze, sia
teoriche che motivazionali per giungere all’autonomia. Qualunque sia il contesto in cui opera
l’istruttore de ve essere consapevole che non è sufficiente sapere cosa insegnare ma bisogna essere
in possesso della capacità di insegnare, conoscere cioè come insegnare queste conoscenze. Troppo
spesso nel mondo dello sport c’è un “gap” tra ricerca scientifica, conoscenze e applicabilità pratica.
Una conoscenza che non può essere trasmessa nella pratica è sterile ed inutile. Indipendentemente
dallo stile didattico seguito secondo Rink l’istruttore dovrebbe sempre valutare tre caratteristiche
dell’atleta prima di proporre un compito motorio:
• Prerequisiti
o Capacità fisiche possedute;
o Capacità motorie e sensopercettive possedute;
o Possibilità di sviluppo
o Adeguatezza del compito all’allievo

• Comprensione del compito motorio da eseguire

• Motivazione ad apprendere verso le abilità motorie da eseguire.

Seguendo questi semplici passi è possibile personalizzare l’apprendimento motorio in modo


adeguato.

Didattica per l’apprendimento motorio

L’apprendimento delle abilità motorie e quindi della tecnica sportiva costituisce la base per poter
ambire a prestazioni di alto livello. L’economia e la corretta biomeccanica del gesto motorio, infatti,
permettono di sviluppare volumi di allenamento maggiori senza incorrere in infortuni e di migliorare
la prestazione. Ma come avviene l’apprendimento motorio? Quali sono le regole didattiche per
insegnare e correggere la tecnica sportiva?

Apprendimento motorio

L’apprendimento motorio è definito da Schmidt come un processo interno che riflette il livello di
capacità individuale di prestazione motoria e potrebbe essere valutato in base alla relativa stabilità
delle esecuzioni di un compito motorio (Schmidt e Wrisberg 2000). Secondo Magill (2001)
l’apprendimento motorio è definito come un insieme di processi associati con l’esercizio o
l’esperienza che determina un cambiamento relativamente permanente nella prestazione o nelle
potenzialità di comportamento. Una definizione più̀ attinente con le effettive componenti interessate
nel processo di apprendimento è quella secondo la quale l’apprendimento motorio può̀ essere
concepito come l’acquisizione di un modello interno che rappresenta l’esatta relazione tra la
trasformazione percettiva delle sensazioni e l’informazione motoria (Wolpert et al. 1995).
L’apprendimento motorio è quindi:

• Un cambiamento relativamente permanente nella prestazione o nelle potenzialità di


comportamento conseguibile attraverso l’esperienza diretta o l’osservazione di altri.
• Acquisizione, perfezionamento, stabilizzazione e utilizzazione di capacità motorie
• Si realizza assieme all’acquisizione di conoscenze e allo sviluppo delle capacità condizionali
e coordinative.

Le fasi dell’apprendimento motorio sono:

• Movimento grezzo (situazioni favorevoli, errori frequenti, scarsa economia del movimento,
sensazioni motorie confuse, prevalenza informazioni ottiche, comprensione a grandi linee,
programmazione, anticipazione e rappresentazione poco precise, tensione dei muscoli
antagonisti e blocco dei gradi di libertà)
• Coordinazione fine (compito svolto facilmente in condizioni favorevoli, esecuzione
corrispondente al modello, sensazioni precise e dettagliate, rilevanza delle informazioni
cinestetiche, elaborazione verbale dettagliata, programmazione, anticipazione e
rappresentazione precise, tensione muscoli antagonisti e riduzione dei gradi di libertà solo in
condizioni difficili).

• Consolidamento coordinazione fine e disponibilità variabile (compito svolto con sicurezza


in condizioni difficili e variate, esecuzione perfettamente coordinata in condizioni difficili,
sensazioni motorie molto precise, forti legami tra sensazioni e linguaggio, liberazione gradi
di libertà in condizioni difficili, attenzione può essere distolta dal movimento, stabilizzazione
movimento e possibilità di variare il compito).

I presupposti cognitivi dell’apprendimento sono:

• identificazione degli stimoli;


• selezione della risposta;
• programmazione della risposta;
• esecuzione della risposta
• analisi della risposta.

Il sistema nervoso attraverso gli analizzatori sensoriali (visivo, acustico, tattile, cinestesico,
vestibolare) identifica uno stimolo, successivamente selezione e programma una risposta poi esegue
il movimento ed infine ne analizza il risultato per valutare se è conforme alle attese oppure valutare
l’errore. La selezione e la programmazione della risposta sono basate sulla memoria che è definita
come un insieme di processi dinamici che comprendono la registrazione, l’immagazzinamento ed il
recupero delle informazioni.

Gli stadi dell’apprendimento sono:

1. Stadio Verbale- Cognitivo (sviluppo della coordinazione grezza):

Comprensione del compito e sviluppo della coordinazione grezza

- compito svolto in condizioni molto favorevoli


- errori frequenti e scarsa economia del movimento
- sensazioni motorie confuse
- prevalenza dell’informazione ottica
- comprensione del compito a grandi linee
- programmazione, anticipazione e rappresentazione del movimento poco preciso
- tensione dei muscoli antagonisti e bloccaggio dei gradi di libertà
2. Stadio Motorio:

Sviluppo della coordinazione fine

- compito svolto facilmente in condizioni favorevoli


- esecuzione corrispondente al modello tecnico (sempre in condizioni favorevoli)
- sensazioni motorie più precise
- importanza della componente cinestetica
- elaborazione verbale dettagliata
- programmazione, anticipazione, rappresentazione del movimento più precisa
- tensione dei muscoli antagonisti e bloccaggio dei gradi di libertà solo in condizioni
difficili

3. Stadio Autonomo:

Consolidamento della coordinazione fine e sviluppo della disponibilità variabile

- compito svolto con sicurezza anche in condizioni difficili


- esecuzione perfettamente coordinata anche in condizioni difficili
- sensazioni motorie molto precise
- informazione cinestetica molto elevata
- forti legami tra sensazioni motorie e linguaggio
- programmazione, anticipazione e rappresentazione dettagliate
- liberazione di tutti i gradi di libertà anche in condizioni difficili e impreviste
- l’attenzione può essere distolta dall’esecuzione
- stabilizzazione del movimento e allargamento delle possibilità di variazione

La prima fase dell’apprendimento è caratterizzata da movimenti imperfetti, da un’alta dipendenza dal


feedback esterno (cioè̀ dal risultato finale dell’azione) e da un grosso carico cognitivo e attentivo
(Atkeson, 1989). L’evoluzione e stabilizzazione dei movimenti appresi si riflette parallelamente, a
livello neuroanatomico, su un cambiamento delle zone cerebrali reclutate e sui circuiti neuronali
attivati (Halsband, 2006). Le definizioni precedenti non fanno che confermare quella che è
l’esperienza comune. Quando dobbiamo apprendere un nuovo movimento siamo inizialmente
“goffi”, imprecisi e dobbiamo concentrare tutta l’attenzione sul compito trascurando tutto quello che
avviene attorno a noi. Successivamente siamo in gradi di svolgere la tecnica in modo molto più fluido
e possiamo porre il focus dell’attenzione su altri aspetti. Inizialmente l’apprendimento è caratterizzato
dal tentativo di farsi un’idea globale del movimento e di comprenderne la struttura cinematica. Il
nostro cervello cerca di fare una bozza dell’esecuzione. Una prima regola didattica
nell’impostazione della progressione didattica è quella di mostrare il movimento globalmente in
modo che sia compreso nella sua essenza lo schema motorio, la scomposizione del movimento nei
suoi componenti andrebbe proposta esclusivamente in una fase in cui il gesto globale è stato
interiorizzato, seppur goffamente, nella sua globalità. Vedremo poi che il nostro cervello è dotato di
un sistema di neuroni detti neuroni specchio, che si attivano quando osserviamo un movimento
eseguito da qualcun altro. Tali neuroni sono stati individuati nella zona della corteccia premotoria e
motoria e la loro attivazione contribuisce a costruire lo schema motorio. Siamo fatti per imitare! Dopo
una prima fase, in cui il movimento appare scoordinato, segue un periodo in cui si ha un’idea
abbastanza buona delle coordinate spazio-temporali e della struttura del gesto motorio. Solo in questo
stadio può̀ iniziare il processo di rifinitura e perfezionamento volto a eliminare l’intervento dei
muscoli non necessari all’esecuzione. Ricerche elettromiografiche (Moore e Marteniuk, 1986) hanno
mostrato che nella prima fase dell’apprendimento i soggetti presentano un’attivazione simultanea dei
muscoli agonisti e antagonisti, conosciuta come co-contrazione. La ripetizione dell’esercizio, con le
opportune correzioni, modifica il programma motorio sincronizzando la contrazione/decontrazione
dei muscoli agonisti e antagonisti nel rispetto del corretto sviluppo cinematico dell’azione. Quello
che presumibilmente accade a livello neuronale è uno “sfoltimento” (pruning) sul reclutamento delle
unità motorie che determinano la contrazione delle fibre muscolari, facendo in modo che solo i
motoneuroni interessati al movimento siano attivi al momento opportuno. In generale si riconoscono
due forme di apprendimento motorio chiamate rispettivamente, apprendimento esplicito, in cui è
necessario impiegare molte risorse cognitive, e apprendimento implicito, al termine del quale si è
“fissato” un automatismo che si aziona senza necessità di controllo cognitivo. Inizialmente il
controllo è quasi esclusivamente esplicito, ma con il progredire delle esercitazioni diviene
automatico. Secondo Halsband (2006) si possono riconoscere tre distinte fasi nel processo di
apprendimento motorio:

1. stadio iniziale, la performance è generalmente molto lenta e sotto stretto controllo della guida
sensoriale (soprattutto visiva), i movimenti sono abbastanza imperfetti e la sequenza (timing)
esecutiva approssimativa;
2. stadio intermedio, si può̀ notare un’esecuzione più accurata e un incremento nella velocità,
dovuti presumibilmente a una graduale interiorizzazione di una mappa sensoriale;
3. stadio avanzato, i movimenti risultano sicuri e precisi ed eseguiti automaticamente senza la
necessità di controllo cognitivo.

Durante la prima fase, in cui la progressione si basa su prove ed errori, la criticità̀ maggiore è quella
di stabilire un collegamento tra gli input senso percettivi e i relativi comandi motori. È in questo
stadio che è richiesta la massima attenzione agli input sensoriali che caratterizzano l’esecuzione del
movimento. Essendo l’associazione tra sensazioni e comandi motori arbitraria, il ruolo dei processi
attentivi diviene predominante in questa prima fase (Petersen et al., 1994). Quando l’esecuzione,
seppur approssimativa, è abbozzata, la mappa delle associazioni sensori-motorie inizia a rafforzarsi
(Halsband, 2006). In queste prime esperienze motorie gli stimoli sensoriali passano dalla memoria
sensoriale alla memoria di lavoro per essere correlati agli output motori richiesti (Deiber et al,
1997). La continua ripetizione del movimento corretto permette di rafforzare la mappa sensori-
motoria e di archiviarla nella memoria a lungo termine. La seconda regola didattica è che il
modello proposto deve essere il più preciso possibile. Molto spesso si vedono tecnici che non sanno
eseguire in modo corretto delle tecniche sportive mostrarle agli atleti. Se non si è in grado di svolgere
in modo corretto un gesto motorio è bene avvalersi della collaborazione di un atleta del gruppo che
sia già in grado di svolgere correttamente il gesto. La presentazione visiva di un’azione motoria è il
principale, e più̀ potente, strumento didattico a disposizione dell’allenatore poiché́ in grado di attivare
il sistema dei neuroni specchio (mirror neuron system - MNS). Nel cervello costruiamo dei
“template” detti schemi motori che arricchiamo e modifichiamo in continuazione. Lo schema motorio
è una sorta di mappa mentale della nostra rappresentazione nello spazio costruito e integrato nel
corso della vita in base agli input sensoriali che riceviamo. È interessante notare che l’elaborazione
cognitiva permette il collegamento dell’azione motoria a processi semantici di rappresentazione della
stessa, come l’etichettatura linguistica. La teoria è conosciuta come “semantica incorporata”
(embodied semantics) ed è parte di una più̀ ampia visione della cognizione umana nota come
“cognizione incorporata” (embodied cognition). Alla base di quest’approccio alla cognizione c’è
l’ipotesi che i processi mentali siano modellati dal vissuto corporeo e dal tipo di esperienze motorie
e percettive prodotte dai suoi movimenti nell’ambiente. Nel caso specifico dell’apprendimento
motorio e della didattica è importante sapere che, una volta appressi i movimenti possono essere
etichettati con delle parole che quando udite pre attiveranno i neuroni motori adibiti all’esecuzione
del movimento. In uno studio molto interessante (Buccino et al. 2005), si voleva dimostrare che
l’ascolto di frasi che descrivono azioni motorie avrebbe determinato un’attivazione del sistema dei
neuroni specchio, il cui effetto influenzerebbe l’eccitabilità̀ della corteccia motoria primaria e quindi
l’esecuzione dei movimenti da essa controllati, come sostenuto dall’ipotesi della semantica
incorporata. Nei due esperimenti condotti gli autori hanno dimostrato che l’ascolto di verbi a
contenuto motorio (calciare, afferrare, spingere...), che descrivevano azioni motorie attivavano in
modo specifico diverse regioni della corteccia motoria, le quali controllavano, somatopicamente,
le azioni evocate da tali verbi. La terza regola didattica che segue da queste straordinarie scoperte
è che nelle prime fasi di insegnamento di un movimento dare istruzioni verbali non è molto efficace,
mentre farlo quando il movimento è ben appresso ed a cui è associato un termine univoco ha un
effetto maggiore. L’abbattimento dei costi dei dispositivi tecnici utilizzati per le riprese e l’editing
video, hanno reso possibile la diffusione di metodologie didattiche innovative nel campo
dell’apprendimento motorio. Oggi, con una spesa contenuta, è possibile acquistare una videocamera
digitale e un computer dotato di software di editing video con i quali impostare delle lezioni tecniche
molto produttive. Alcuni studiosi hanno indagato l’utilizzo del video come strumento per favorire
l’apprendimento motorio evidenziando risultati molto incoraggianti. Nella tecnica che utilizzo
personalmente ho definito un protocollo che cerca di recepire gli accorgimenti di cui abbiamo
discusso nel precedente paragrafo. In particolare, ritengo molto importante che la visione dei filmati
debba essere proposta durante la seduta di allenamento per sfruttare al meglio l’apporto del MNS e
della memoria a breve termine. Nello specifico solitamente faccio osservare dei brevi spezzoni che
ritraggono il particolare motorio da apprendere correttamente eseguito. Immediatamente dopo
riprendo l’atleta mentre lo esegue. Successivamente faccio osservare l’esecuzione dell’atleta
comparandola al modello corretto contenuto nello spezzone fornendo i necessari feedback correttivi.
I risultati sono incoraggianti e soprattutto creano un “ambiente” didattico molto motivante. Secondo
la teoria dello schema di Schmidt le azioni motorie sono memorizzate come uno schema
generalizzato che viene adattato alle situazioni contingenti. Un concetto molto importante
nell’apprendimento della tecnica sportiva è quello di feedback. Possiamo definirlo come
un’informazione che riceviamo durante o al termine di un’azione motoria. Si riconoscono due
tipologie di feedback

Feedback intrinseco: informazione sensoriale/sensitiva che si ottiene dall’esecuzione dei movimenti


proviene da fonti esterne al corpo (esterocezione) o dall’interno del corpo (esterocezione).

Feedback estrinseco o aggiuntivo: informazione sensoriale proveniente da una fonte esterna, in


aggiunta a quella che normalmente si ottiene dall’esecuzione dei movimenti (cioè dal feedback
intrinseco).

Entrambi danno informazioni sull’esecuzione del movimento e pertanto hanno molta importanza nel
determinare la qualità dell’azione. Sono utilizzati per favorire l’apprendimento motorio. Permettono
di rilevare eventuali errori che possono essere comparati con lo stato desiderato dal comparatore per
apportare le dovute correzioni. Il feedback intrinseco è relativo alle informazioni conseguenti al
proprio movimento che il soggetto è in grado di ricevere ed elaborare autonomamente grazie ai propri
analizzatori: visivo, cinestetico tattile, acustico e vestibolare. È il soggetto stesso che opera
un’autovalutazione, per questo motivo nei principianti fornisce delle informazioni che il soggetto
fatica a leggere correttamente. Il feedback estrinseco è invece relativo alle informazioni provenienti
da fonti esterne, per esempio l’allenatore o la visione di un filmato, il giudizio di un giudice, un
cronometro. Il feedback estrinseco è caratterizzato da: conoscenza del risultato e conoscenza della
prestazione. Il feedback estrinseco ha bisogno di essere in qualche modo “tradotto” in un linguaggio
motorio, cioè le informazioni visive ed acustiche debbono integrarsi con quelle vestibolari e
propriocettive del feedback intrinseco. In alcuni casi il feedback estrinseco può sovrapporsi al
feedback intrinseco come, ad esempio, quando si esegue un tiro al bersaglio e il giudice dice quanti
punti si sono realizzati. La differenza principale tra feedback intrinseco ed estrinseco è che il primo
fornisce un’esperienza diretta, cinestesica, visiva, propriocettiva del movimento, mentre il secondo è
un giudizio fornito da una fonte esterna che deve essere elaborato cognitivamente e paragonato con
la propria percezione. L’istruttore molto spesso fornisce feedback aggiuntivo ed è necessario sapere
quando e come comunicarlo all’atleta.

Gli effetti del feedback aggiuntivo:

a) Motivanti: la motivazione è strettamente legata al raggiungimento degli obiettivi


prefissati. Una importante funzione del feedback aggiuntivo è quella di fornire
informazioni riguardo ai progressi fatti nel perseguimento di un obiettivo. Ad esempio,
incoraggiare un atleta dicendogli: “bravo, hai fatto degli ottimi miglioramenti” gli
permette di perseverare con rinnovato impegno e continuità.
b) rinforzo (legge dell’effetto): è un evento che segue la risposta di un individuo e che
aumenta la probabilità che tale comportamento venga ripetuto in circostanze simili.
Esistono due tipologie di rinforzo: positivo e negativo. Il rinforzo positivo è un evento
che segue la risposta di un individuo e che, per via della sua natura piacevole, aumenta la
probabilità che la persona in futuro ripeta tale comportamento in circostanze simili. Il
rinforzo negativo è un evento che segue la risposta di un individuo e che consiste nella
rimozione di uno stimolo spiacevole, incrementando la probabilità che la persona ripeta
la risposta corretta in circostanze simili. Ad esempio, se un atleta ha ricevuto una critica
ripetuta durante l’esecuzione di un gesto tecnico e poi la esegue correttamente, non fornire
alcun feedback è un rinforzo negativo. La critica è un evento che segue la risposta per cui
l’individuo diminuisce la probabilità che il comportamento si verifichi in circostanze
simili.
c) Informativi: forniscono informazioni per correggere gli errori possono essere descrittivo
(descrizione dell’errore), prescrittivo (trovare strategie di correzione dell’errore)
d) Dipendenza: un utilizzo troppo intensivo del feedback può creare dipendenza in quanto
è utilizzato dal soggetto come riferimento abbandonando la possibilità di affidarsi al
feedback intrinseco indispensabile nelle fasi avanzate dell’apprendimento (da evitare in
quanto l’atleta deve essere autonomo)

Il feedback aggiuntivo potrebbe essere:

a) Non necessario ma facilitante se agisce sulla rapidità e il livello d’apprendimento, un


esempio di feedback facilitante è quando si fornisce un incoraggiamento agendo sulla
motivazione dell’atleta. L’atleta ha tutte le informazioni utili all’apprendimento o
perfezionamento della tecnica ma con un rinforzo positivo, per la legge del rinforzo di
Thorndike, aumenta la probabilità di ripetere il comportamento.

b) Dannoso se è in concorrenza con il feedback intrinseco, se viene fornito dopo ogni


singola azione e nel caso in cui è erroneo. È da notare che per il funzionamento del
sistema dei neuroni mirror può verificarsi una concorrenza tra due feedback aggiuntivi,
di cui uno, in realtà diviene intrinseco. È dimostrato, infatti, che osservare un gesto
eseguito da un’altra persona attiva, in modo automatico le stesse aree motorie deputate
al movimento relativo nell’osservatore. Questo produce una forma di feedback
intrinseco dalle caratteristiche inconsce e automatiche. Se l’osservatore
contemporaneamente riceve una feedback verbale incoerente si trova in una situazione
di conflitto che comunque è risolta a favore di ciò che si è visualizzato. Ricordiamo
sempre che prevale ciò che si mostra e non ciò che si dice se descrivo correttamente una
tecnica sportiva ma la mostro in modo scorretto sarà appresa in modo scorretto.
Principi della programmazione didattica

Abbiamo considerato che il tecnico sportivo non deve essere semplicemente un esperto di tecnica e
di allenamento, ma deve possedere la capacità di trasmettere queste conoscenze. La didattica si
occupa di organizzare le modalità di trasmissione delle conoscenze. Secondo Laura Bortoli possiamo
rilevare alcuni principi didattici che sono:

• Presentazione del compito


• Quantità di pratica
• Variabilità della pratica
• Organizzazione della variabilità
• Pratica globale o per parti
• Correzione dell’errore

La presentazione del compito è la fase in cui si spiegano e si danno istruzioni per comunicare gli
obiettivi, le difficoltà e gli aspetti su cui prestare attenzione. La presentazione può essere verbale e
quindi valgono le considerazioni fatte precedentemente sulla possibile ambiguità e comprensione per
chi non conosce molto bene il movimento, poiché l’etichetta verbale non è ancora associata ad uno
schema motorio bene definito. Un altro problema può essere il tempo eccessivo della spiegazione che
può generare un sovraccarico dell’attenzione e demotivazione. La presentazione visiva è
sicuramente più coinvolgente a patto che presenti un modello corretto. La dimostrazione di un atleta
abile o di un video sicuramente aiuta molto e può essere accompagnata da indicazioni verbali volte
ad indirizzare il focus dell’attenzione sugli elementi importanti del movimento cui prestare
attenzione. La quantità di pratica permette di affinare e consolidare lo schema motorio a patto che
sia ragionata e non fatta in modo automatico. Un gesto scorretto ripetuto migliaia di volte si consolida
al pari di uno corretto, quindi la pratica deve essere fatta sempre controllando e correggendo eventuali
errori tecnici. La variabilità della pratica consiste nel variare le condizioni di esecuzione del gesto
motorio e permette di affinare lo schema motorio e arricchirlo. L’organizzazione della variabilità
riguarda la proposta di schemi diversi durante l’allenamento. La ricerca ha mostrato che mentre la
pratica ripetuta di un solo gesto tecnico ha un miglioramento nell’immediato, alternare diverse azioni
motorie durante lo stesso allenamento consente un apprendimento migliore sul lungo periodo. La
pratica globale o per parti è un tema molto delicato che spesso i tecnici disattendono. La pratica
globale consiste nell’eseguire tutto il movimento o sequenza dello stesso, mentre la pratica per parti
è la scomposizione degli elementi che costituiscono un movimento negli elementi costitutivi. Nel
processo di apprendimento il cervello cerca di economizzare le risorse cognitive creando degli
schemi del movimento. Uno schema è un’unità semantica per il nostro cervello come può essere una
parola. L’utilizzo di una pratica rispetto all’altra dipende da molti fattori, tra cui il movimento da
apprendere e il livello di apprendimento raggiunto. Inizialmente quando non conosciamo un
movimento è sicuramente meglio la pratica globale, scomponendolo negli elementi costitutivi una
volta che saremo in grado di reintegrarli nello schema completo. I movimenti ciclici sicuramente
vanno prima appresi globalmente e poi scomposti. Un approccio misto è quello definito per parti
progressivo in cui nel movimento globale si chiede di portare il focus dell’attenzione su una fase
specifica del movimento. La correzione dell’errore è il momento in cui si applica il feedback di cui
abbiamo parlato. L’errore può essere inteso come la differenza tra il movimento atteso e quello
realmente eseguito.
Secondo Bortoli le indicazioni per la correzione degli errori sono:

• Fornire feedback frequenti nelle prime fasi dell’apprendimento di un movimento;


• Correggere un errore alla volta, evitando di sovraccaricare d’informazioni l’atleta;
• Fornire informazioni in positivo su cosa fare per correggere e non su cosa non fare;
• Utilizzare incoraggiamenti per migliorare la motivazione;
• Usare frasi brevi;
• Coinvolgere l’allievo.

Indicazioni pratiche per la didattica

La teoria dell’apprendimento motorio è una disciplina molto affascinante e complessa che è molto
difficile sintetizzare in poche righe, cerchiamo tuttavia di trarre alcune indicazioni pratiche da
utilizzare per perfezionare la tecnica:

• la tecnica deve essere sempre appresa, nelle fasi iniziali, nella sua globalità e solo quando lo
schema motorio è formato è possibile inserire degli esercizi che perfezionano alcune parti del
gesto motorio. È un errore abbastanza frequente quello di insegnare, ad esempio, la tecnica
nel nuoto “a pezzi” magari facendo eseguire una parte della bracciata o solo la gambata.
Questo modo di agire ritarda notevolmente l’apprendimento;
• è sconsigliato utilizzare strumenti quali, tavolette, pinne, palette in fase di apprendimento del
movimento. Poiché essi possono divenire parte dello schema motorio interferendo con
l’apprendimento della tecnica. Questi strumenti sono stati pensati per perfezionare o
potenziare alcuni aspetti tecnici di atleti con uno schema motorio già̀ consolidato;
• il modello visivo proposto deve essere il più̀ corretto possibile. Restando nell’ambito del nuoto
mostrare la bracciata a stile libero in modo scorretto, o le andature della corsa in modo
scoordinato, anche se accompagnate da una descrizione verbale corretta fa apprendere il gesto
osservato in modo scorretto, vince sempre il canale visivo;
• immaginare sé stessi mentre si esegue il movimento si è dimostrata una tecnica molto efficace
per costruire lo schema motorio della tecnica da apprendere, è sempre bene educare gli atleti
ad usare la visualizzazione delle azioni motorie;
• utilizzare i video per apprendere la tecnica è un espediente molto valido per apprenderla
correttamente. Il consiglio è quello di portare con sé un notebook con la serie di video tecnici
e visionarli ripetutamente immediatamente prima di eseguirli;
• l’utilizzo delle parole per descrivere la tecnica si è dimostrato molto efficace quando
accoppiato alla corretta esposizione visiva della stessa. Anche il ripetere mentalmente cosa si
sta facendo (tecnica nota come “self talk”) si è mostrato molto efficace nel facilitare
l’apprendimento.
• L’utilizzo del feedback aggiuntivo è un mezzo molto potente che va utilizzato tuttavia nei
tempi e modi corretti come descritto in precedenza.
Osservazione e valutazione nell’insegnamento

Nell’allenamento, soprattutto quando si vuole insegnare la tecnica sportiva, è molto importante


l’osservazione e la valutazione. Occorre sapere cosa guardare e come valutare per poter correggere
e sostenere il miglioramento degli atleti. Osservare significa estrarre delle informazioni utili da quello
che si sta guardando. Essere un esperto di una determinata disciplina sportiva permette di porre
l’attenzione sui particolari tecnici importanti per valutare l’esecuzione. Non conoscere la tecnica del
Crawl nel nuoto, ad esempio, non permette di valutare quali componenti della bracciata sono carenti
e necessitano di correzione. L’osservazione può avvenire per capire il livello di partenza di un’abilità
motoria, stabilendo gli obiettivi dell’allenamento e permettendo di scegliere le esercitazioni più
efficaci. Può avvenire anche durante l’esecuzione del gesto motorio per fornire feedback corretti al
momento opportuno. Molto spesso il tecnico non ha una metodologia di osservazione ben definita e
manca di sistematicità. Se non si dispone di un metodo di registrazione delle osservazioni eseguite,
come check list, griglie e schede, si perde l’occasioni di confrontare l’evoluzione dell’apprendimento
e di valutare gli aspetti essenziali cui porre attenzione. Il tecnico deve continuamente porsi domande
e l’osservazione è la fonte principale da cui scaturiscono. Avere un sistema codificato di raccolta
delle osservazioni permette di renderle più oggettive e controllabili nel tempo. La valutazione è la
formalizzazione dell’osservazione. Valutare significa proporre delle prove standardizzate, chiamate
test, dall’esecuzione dei quali si possono osservare e ricavare informazioni utili a capire lo stato di
raggiungimento di un obiettivo. A differenza dell’osservazione ecologica (quella svolta durante la
pratica normale), l’esecuzione di test permette una valutazione secondo parametri validati, ovvero
che sono frutto di un processo scientifico che certifica l’effettiva misurazione del parametro
considerato. La valutazione deve avere determinate caratteristiche che ne assicurano l’attendibilità in
particolare deve essere:

• Valida
• Ripetibile
• Riproducibile
• Obiettiva

Una valutazione si dice valida se misura quello che sostiene di misurare, se ad esempio il mio scopo
è valutare la rapidità di un atleta e faccio eseguire una prova di corsa sui 10000 metri, il test non sarà
valido poiché non misura il parametro indicato. Una valutazione è ripetibile quando lo stesso
operatore, con lo stesso soggetto, e nelle stesse condizioni, ripetendo il test ottiene il medesimo
risultato. È riproducibile quando operatori diversi, nelle stesse condizioni, ripetendo la valutazione
sullo stesso soggetto, ottengono tutti gli stessi risultati. La valutazione è obiettiva quando non
dipende dal giudizio dell’operatore, ma è frutto di una misurazione indipendente da chi la esegue.

La Comunicazione

La comunicazione può essere definita come un processo costituito dall’inviare e ricevere delle
informazioni. Le informazioni costituiscono dei messaggi che devono essere correttamente
interpretati per dare luogo ad una comunicazione efficace. Uno degli assiomi della comunicazione è
che non possiamo evitare di comunicare, poiché il fatto di non volere comunicare è già un messaggio.
Si riconoscono generalmente due tipologie di comunicazione in base al tipo di interazione. Quando
coinvolge due o più persone di chiama comunicazione interpersonale, quando è rivolta a noi stessi
si chiama comunicazione intrapersonale ed è costituita dal continuo dialogo che abbiamo con noi
stessi durante il giorno. Nella teoria della comunicazione si distingue tra contenuto del messaggio e
come viene espresso. Il contenuto verbale molto spesso non coincide con il reale messaggio che
stiamo trasmettendo come quando si dice che va tutto bene con tono secco ed espressione corrucciata.
L’incoerenza tra messaggio verbale e messaggio non verbale mina profondamente la credibilità. È
sempre l’interpretazione del messaggio non verbale ad avere la meglio. Conoscere le regole della
comunicazione e sapere comunicare è fondamentale per il tecnico sportivo, ma alla base rimane
sempre l’integrità etica e morale della persona che con il suo modo di essere e vivere lo sport non
avrà difficoltà a gestirla in modo ottimale. Ognuno di noi ha una storia culturale e di vita personale
che contribuiscono a creare uno stile di comunicazione unico. Una persona nel momento in cui decide
di condividere un messaggio con un’altra persona dovrebbe seguire i seguenti passaggi:

• decisione del comunicare un messaggio;


• individuazione del soggetto ricevente (lingua, livello culturale, conoscenze della materia,
disponibilità alla comunicazione…);
• scelta del canale di trasmissione del messaggio (verbale, scritto, visivo…);
• codifica del messaggio e verifica che lo stesso sia adeguato e comprensibile per il
ricevente (distanza, rumori);
• trasmissione del messaggio;
• decodifica del messaggio da parte del ricevente;
• risposta interna e reazione al messaggio da parte del ricevente;
• retroazione o feedback.

La caratteristica principale di un buon comunicatore è sapere ascoltare. Permettere agli altri di


esprimere il loro punto di vista anche se già si è capito il contenuto del messaggio o lo si ritiene poco
interessante è alla base di una interazione proficua. Ascoltare è dare un messaggio molto chiaro
all’interlocutore: ho a cuore il tuo pensiero e lo considero importante come lo consideri tu stesso.
Secondo Alberto Cei gli allenatori che comunicano efficacemente:

• Si servono delle parole degli interlocutori per fare comprendere che lo hanno ascoltati;
• Utilizzano espressioni del tipo: “Se ho ben capito, mi stai dicendo che…”;
• Il messaggio espresso con il linguaggio verbale è coerente con quello non verbale;
• Empatizzano con gli stati d’animo dell’interlocutore;
• Accolgono ed evidenziano le opinioni altrui.

La comunicazione verbale

Sempre Alberto Cei identifica delle linee guida che caratterizzano la comunicazione verbale efficace:

• Essere diretti, esprimendo il contenuto con frasi brevi al presente;


• Essere completi e specifici, fornendo osservazioni puntuali sul movimento che si vuole
correggere;
• Esprimersi in maniera personale, adattando il linguaggio alla capacità di comprensione
dell’interlocutore;
• Essere chiari e coerenti;
• Esprimere fatti e non opinioni;
• Essere focalizzati, trasmettendo poche informazioni precise;
• Essere immediati nelle risposte, fornendo il feedback tempestivamente;
• Non dare messaggi con significati nascosti;
• Essere incoraggianti;
• Essere coerenti nel messaggio verbale e non verbale;
• Essere ridondanti;
• Verificare che il messaggio sia correttamente compreso.

La comunicazione non verbale

La comunicazione non verbale è costituita dal para linguaggio, ovvero le componenti vocali. Le
componenti del para linguaggio sono:

• Volume. Normalmente un volume alto (non gridare) trasmette sicurezza, mentre un volume
basso insicurezza;
• Tempo. La velocità di emissione delle parole che quando troppo veloce con le parole
“mangiate” rende difficoltosa la comprensione;
• Ritmo. Parlare in modo cadenzato, rispettando le pause trasmette sicurezza;
• Risonanza. Una voce piena trasmette sicurezza, mentre una voce flebile insicurezza.
• Articolazione. Scandire bene le parole infonde sicurezza.
• Timbro. Un timbro basso e grave tende ad essere calmante, mentre un timbro squillante
tramette entusiasmo, gioia o rabbia.

Il linguaggio e le relazioni spaziali

La modalità̀ di comunicazione non verbale o attraverso il linguaggio del corpo è uno dei modi, spesso
non consapevoli, di comunicare. Il nostro aspetto fisico, il nostro abbigliamento, i nostri gesti, le
nostre espressioni, il tono muscolare, gli occhi ed i nostri atteggiamenti sono una presentazione che
esibiamo verso gli altri. La mimica del volto ed il suo controllo sono molto importanti al fine di una
corretta ed efficace comunicazione, dal volto possono facilmente trasparire stati d’animo come
felicità, sorpresa, collera, paura, tristezza, disgusto, disprezzo, interesse, attenzione e quando questi
sono incoerenti con il messaggio verbale perdiamo di credibilità. Per quanto riguarda la postura si
può̀ evidenziare che una posizione asimmetrica delle braccia o delle gambe esprime benessere e
rilassamento, a contrario una posizione simmetrica e rigida di braccia e/o di gambe esprime tensione
e disagio, l’ansia per esempio può̀ essere comunicata da mani contratte che si aggrappano ai braccioli
di una poltroncina. I gesti come i movimenti delle braccia delle mani e del capo illustrano e
sottolineano stati d’animo ed intenzioni difficilmente illustrabili attraverso la verbalizzazione, si
tende a gesticolare di più̀ quando si è euforici ed appassionati. La posizione nello spazio è un modo
di comunicare, la distanza tra noi e gli altri tende impostare la relazione e a comunicare all’altro lo
stato d’animo nei suoi confronti, più lo manteniamo a distanza e meno si vuole farlo entrare nella
nostra sfera personale.
Modulo 4
Programmazione dell’allenamento

Il modello prestativo nelle varie distanze del triathlon

La fisiologia dello sport e la biochimica dell’esercizio, grazie alle ricerche condotte, hanno chiarito
molti aspetti legati alla prestazione umana, in particolare sono riuscite a proporre dei modelli
prestazionali validi per tutte le attività̀ sportive. In questo modo è possibile individuare quali stimoli
biologici e quali allenamenti sono più idonei per ottenere la miglior prestazione in uno specifico sport.
Il modello della prestazione chiarisce quali caratteristiche tra gli aspetti fisiologici, biochimici,
motori e psicologici è importante sviluppare per eccellere in una certa disciplina sportiva. Le
caratteristiche richieste per primeggiare nel salto in alto saranno sostanzialmente diverse da quelle
auspicabili per primeggiare nell’ironman di Kona. La disponibilità di un modello della prestazione
costituisce metà dell’opera che trova il suo completamento nel modello dell’atleta. Quest’ultimo è
un inventario del patrimonio genetico, motorio e condizionale dell’atleta. Semplificando avremo, da
una parte il modello della prestazione che elenca le caratteristiche necessarie per eccellere nello
specifico sport, e dall’altra il modello dell’atleta che sintetizza le caratteristiche in possesso dell’atleta
in un dato momento. Lo scopo dell’allenamento è sviluppare nell’atleta nel miglior modo possibile
le caratteristiche richieste dal modello della prestazione. Quanto più il modello dell’atleta si
sovrappone a quello della prestazione tanto più è ipotizzabile una prestazione di alto livello. La
differenza tra i due modelli rappresenta la zona di sviluppo, ovvero il gap che deve essere colmato,
attraverso l’allenamento, da un atleta per ottenere una buona prestazione nello sport scelto. Il modello
della prestazione è abbastanza statico, ma può comunque variare in base ai percorsi ed ai regolamenti
di gara. Per fare un esempio concreto, il regolamento del triathlon olimpico ha subito una sostanziale
modifica nel passaggio da “no-draft” (senza scia) a draft-legal (con scia consentita) per quel che
riguarda la frazione ciclistica. Allo stesso modo un triathlon su circuito cittadino multilap con molte
curve e percorso di corsa collinare è diverso da un tracciato lineare in piano su giro unico. Il modello
dell’atleta ha invece un’ampia variabilità sostanzialmente influenzata dal processo di allenamento,
anzi, è proprio quest’ultimo che aumenta le aree di sovrapposizione tra i due modelli. Sappiamo dalla
fisiologia che molte delle caratteristiche fisiologiche di un atleta sono geneticamente ereditate. La
percentuale di fibre di tipo I rispetto a quella delle fibre di tipo II, il VO2max, la struttura morfologica,
per citarne alcune, sono pesantemente condizionate dal patrimonio genetico. Già in partenza, quindi,
un determinato “tipo” di atleta (o modello d’atleta) sarà più portato a primeggiare in alcuni sport
rispetto ad altri. Quanto è possibile fare attraverso l’allenamento è sviluppare le potenzialità che la
natura ha dato in dono ad un atleta. È chiaro che, a parità di potenzialità, avrà la prestazione migliore
l’atleta che, attraverso gli allenamenti, sarà riuscito a sviluppare in maniera ottimale le proprie
caratteristiche genetiche. È possibile a questo punto definire formalmente i due modelli. Chiameremo
modello della prestazione, l’insieme delle caratteristiche fisiologiche, biochimiche,
antropometriche, tecniche e psicologiche necessarie ad un atleta per esprimersi in un determinato
sport. Per modello dell’atleta s’intende l’insieme delle caratteristiche genetiche, fisiologiche,
biochimiche, antropometriche e psicologiche di una determinata persona in un determinato momento.
Il fine dell’allenamento è di sviluppare il modello dell’atleta affinché approssimi il più possibile il
modello della prestazione. Definire correttamente il modello della prestazione ed analizzare il
modello dell’atleta permette di determinare cosa è necessario sviluppare attraverso l’allenamento. Il
triathlon è uno sport complesso in cui molte componenti coordinative devono essere sviluppate
insieme a fattori condizionali. Le abilità motorie richieste per il nuoto, il ciclismo e la corsa e le
transizioni sono la base su cui si sviluppano successivamente le capacità condizionali. Capiamo bene
come la fase di sviluppo delle capacità coordinative in età giovanile sia un presupposto fondamentale
per aspirare all’alto livello. Molto spesso si hanno fortissimi triatleti nel ciclismo e nella corsa,
destinati alle posizioni di rincalzo a causa di un nuoto non al livello degli atleti migliori. Nel triathlon
moderno, dopo l’introduzione della scia libera perdere il gruppo di testa già all’uscita dall’acqua
significa spesso pregiudicare la gara. Per questo motivo l’allenamento delle categorie giovanili deve
essere principalmente rivolto allo sviluppo delle abilità motorie delle singole discipline per garantire
una base tecnica sufficiente ad ottenere prestazioni di alto livello. La base tecnica nel modello
prestativo del triatleta è enorme e questo differenzia nella proporzione della tipologia di allenamento
il giovane dall’atleta evoluto. Se volgiamo l’attenzione agli aspetti fisiologici ed energetici della
prestazione. Nel triathlon abbiamo diverse distanze di gara e con l’introduzione della prova a squadre
diverse articolazioni di gara che generano modelli della prestazione con caratteristiche diverse, che
danno luogo a modelli prestativi differenti. Nell’ambito della Fitri ad oggi abbiamo le seguenti
tipologie di gare multiple:
È facile rendersi conto della complessità e specificità di ogni disciplina e di ogni distanza, è possibile
tuttavia ricavare alcune linee guida che le accomunano. Il modello della prestazione per il triathlon
sprint e olimpico è sostanzialmente sovrapponibile seppur nella distanza sprint maggiore attenzione
è posta sull’allenamento delle componenti anaerobiche (alattacide e lattacide). Salvo rari casi,
durante la frazione di ciclismo, è consentito collaborare con altri concorrenti, la frazione è definita
“draft legal”, ovvero con scia consentita. Diversamente dal passato le gare di triathlon moderne su
distanza corta (sprint e olimpico) ma anche sulle lunghe distanze vede gli atleti fronteggiarsi in un
continuo testa a testa che spesso si risolve con uno sprint sul rettilineo d’arrivo. Il modello della
prestazione, dettando i parametri che devono essere allenati implica una particolare attenzione ai
sistemi energetici da sviluppare. Estrapolando dai dati della letteratura scientifica attualmente il
modello che rappresenta al meglio la prestazione nel triathlon vede un grande contributo del sistema
aerobico con un diverso intervento del sistema anaerobico in base alla distanza di gara. La grande
differenza è tra gare che si disputano sulla distanza corta, ovvero triathlon sprint/olimpico e gare sulla
lunga distanza, mezzo ironman/ironman. Per quanto riguarda il primo gruppo pur essendo il sistema
aerobico quello principalmente incaricato della sintesi di ATP, le situazioni di gara richiedono un
ottimo sviluppo delle componenti anaerobiche, sia lattacide che alattacide. Molte fasi di gara, infatti,
richiedono un’elevata intensità: la partenza nel nuoto, il sorpasso degli avversari, il giro di boa, le
transizioni, l’uscita dalle transizioni, i rilanci nel ciclismo, gli scatti e la gestione della corsa, sono
tutte situazioni in cui l’intensità supera la capacità del sistema aerobico di fornire energia. Molto
spesso si tende a trascurare l’allenamento del sistema alattacido basato sulla fosfocreatina non
considerando che ogni violento cambio d’intensità è sempre permesso da questa fonte energetica.
Allo stesso modo l’allenamento della capacità di gestire il lattato prodotto è fondamentale per
garantire una prestazione consistente. Nelle distanze lunghe queste componenti sono ridotte ma non
annullate per cui il tempo ed il volume di allenamento a loro rivolto è sicuramente inferiore mentre
l’attenzione va spostata sul metabolismo aerobico, in particolare adattandolo all’utilizzo degli acidi
grassi quale substrato per la produzione di ATP. Vediamo ora alcuni caratteri distintivi delle diverse
distanze e tipologie di gare di triathlon dal punto di vista del modello prestativo sotto l’aspetto
energetico.

Mixed Relay

L’analisi delle gare Mixed Relay mostra come i primi due frazionisti beneficiano maggiormente del
draft rispetto agli ultimi due frazionisti, motivo per cui è necessario che in questi ultimi sia allenata
maggiormente la capacità di performance in solitaria. Mediamente le frazioni di nuoto sono percorse
a velocità superiori rispetto alla distanza sprint. L’intensità pari al 98% circa della massima velocità
aerobica (VAM o MAV). Ricordiamo che la VAM è la minima velocità in grado di raggiungere il
VO2max (González-Haro et al. 2005). Altra caratteristica della frazione di nuoto è che la strategia
adottata prevede l’adozione del “positive split”, ovvero con la prima parte più veloce della seconda
parte. Anche in questo caso allenamenti specifici devono essere previsti per migliorare la tolleranza
al lattato. Le statistiche mostrano che i primi atleti ad uscire dalla frazione di nuoto e a percorrere
velocemente i primi 200m sono quelli che avranno la migliore prestazione totale al termine della gara
(Ofoghi et al. 2016). La frazione di ciclismo ha una grossa influenza nella prestazione complessiva
nella Mixed Relay ed i frazionisti in seconda e quarta frazione mostrano generalmente le medie più
elevate (Poller 2015). Il contributo del sistema anaerobico è notevole, secondo dati rilevati in gara è
emerso che circa tra il 48 ed il 62 % della frazione è percorsa ad un’intensità sopra l’85% della
massima potenza mantenuta su una prova di 4 minuti (Avish & Périard 2019). La prestazione della
corsa evidenzia una partenza veloce una fase di stabilizzazione che spesso termina con uno sprint
sulla finish line. L’intensità durante la partenza dello split di corsa è circa il 96% VO2max
(Hausswirth et al. 2010)

Triathlon Sprint e Olimpico

La frazione di nuoto nella distanza sprint ricalca nel profilo energetico di gara quello considerato per
la Mixed Relay, con una partenza molto veloce, una fase di “crociera” con dei picchi fuori soglia in
occasione di sorpassi e virate e un’ultima parte prima dell’uscita veloce. Quello che cambia sono le
percentuali d’intensità relativa che decrescono al crescere della distanza di gara con un passo
mediamente più veloce nello sprint rispetto all’olimpico. I dati relativi alla frazione di ciclismo nel
triathlon olimpico draft mostrano che circa il 51% della gara è percorso sotto la prima soglia
ventilatoria, il 17% tra la prima e la seconda soglia ventilatoria, il 15% tra le seconda soglia
ventilatoria e la VAM e il 17% sopra o pari alla VAM. Capiamo quanto anche in queste distanze
l’allenamento delle componenti anaerobiche sia molto importante. La corsa mostra un profilo la
partenza è molto veloce con una fase di stabilizzazione più lenta.
Mezzo Ironman e Ironman

Le distanze lunghe sono caratterizzate da un contributo quasi esclusivo del sistema aerobico, anche
se molte situazioni di gara, come salite, rotonde, curve richiedono il contributo del sistema
anaerobico. Nel nuoto l’intensità è mantenuta generalmente pari o sotto la prima soglia ventilatoria.
Il modello prestativo prevede la maggior parte del volume di allenamento diretto allo sviluppo del
sistema aerobico non dimenticando tuttavia di allenare anche le capacità anaerobiche. Nello specifico
il sistema aerobico deve essere sviluppato nel verso di un maggior utilizzo dei lipidi. L’intensità
media della frazione di ciclismo è percorsa negli atleti di alto livello ad un’intensità para al 55% della
massima potenza equivalente circa l’80-83% della massima frequenza cardiaca (Abbiss et al. 2006;
Laursen et al. 2005). La corsa è sempre percorsa attorno alla prima soglia ventilatoria.
Concetti base sulla periodizzazione, pianificazione e programmazione dell’allenamento

La periodizzazione è un concetto generale che incorpora quello di pianificazione e


programmazione. La pianificazione è l’organizzazione dell’intera stagione agonistica, è una
struttura che determina la suddivisione e la sequenza delle diverse fasi della preparazione atletica,
mentre la programmazione è la fase successiva che consiste nello stabilire quali allenamenti sono
necessari in ogni fase e come devono essere distribuiti (Bompa & Buzzichelli, 2017). La
periodizzazione è un modo per ridurre la complessità della preparazione atletica ed organizzare, con
cognizione di causa, gli allenamenti. Nella terminologia della metodologia dell’allenamento le
macro-fasi della periodizzazione sono divise in periodi. Generalmente si riconoscono quattro
periodi:

• Periodo generale
• Periodo specifico
• Periodo agonistico (pre-competitivo, competitivo)
• Periodo di transizione

La successione dei periodi segue lo sviluppo della capacità competitiva dell’atleta e alcune fasi
possono essere ripetute nel corso dell’anno quando è necessario avere più picchi di forma. Il picco
di forma coincide con le gare più importanti della stagione agonistica. Un livello di dettaglio maggiore
si raggiunge andando a suddividere i quattro periodi in: fasi, sub fasi, macrocicli e microcicli. Le
fasi individuano tre macro aree del piano annuale che sono composte da sub fasi. Avremo la fase
preparatoria, costituita dalle sub fasi periodo generale e specifico, la fase competitiva con la sub
fase periodo agonistico ed infine la fase transitoria con la sub fase periodo transitorio. Ogni sub
fase è composta da macrocicli che, a loro volta sono composti da mesocicli e microcicli. Macrocicli,
mesocicli e microcicli sono periodi di tempo in cui ci si pone di raggiungere un determinato obiettivo
condizionale, tecnico, psicologico o strategico. Generalmente un microciclo coincide con una
settimana, anche se in linea teorica potrebbe essere costituito da 3-10 giorni. I microcicli contengono
per ogni giorno uno o più allenamenti, ed un allenamento può essere costituito da più mezzi allenanti.
Stabiliti i periodi si definisce come sviluppare le caratteristiche psico-fisiche in ognuno di essi, per
fare questo si strutturano i macrocicli i quali avranno un preciso obiettivo, che deve essere
misurabile, ovvero deve essere valutata la condizione di partenza e la condizione finale rispetto alle
caratteristiche che ci si era proposti di migliorare. Il microciclo è un periodo di tempo più limitato
rispetto al macrociclo e al mesociclo (che spesso coincide con un mese di allenamento) che
generalmente costituisce la distribuzione settimanale degli allenamenti. Il susseguirsi dei quattro
periodi segue una logica che passa dal generale allo specifico con il periodo agonistico in cui è
richiesta la massima prestazione. Nella figura sotto è possibile osservare la differenza nella
distribuzione tra volume ed intensità, ovvero quantità e qualità dell’allenamento nelle distanze brevi
e lunghe del triathlon.
Figura 12 – Differenza tra Volume e Intensità di allenamento nelle distanze brevi (figura sopra) e lunghe (figura sotto)
del triathlon

L’ultimo livello della programmazione è costituito dall’allenamento, la cosa meno astratta di cui
abbiamo conoscenza. Un allenamento è costituito da mezzi allenanti che sono gli “strumenti”
attraverso cui stimolo l’organismo. Un allenamento, ad esempio, può essere composto dai seguenti
mezzi allenanti:

• riscaldamento
• esercitazioni tecniche;
• intervalli;
• defaticamento.
Costruzione dell’allenamento

L’allenamento è la fase “operativa”, quella in cui diamo uno stimolo biomotorio all’organismo. La
prima considerazione, affatto banale, è che un allenamento deve essere eseguito nella miglior
condizione psico-fisica. È un elemento molto importante, infatti la maggior parte degli infortuni
avvengono perché non si era nelle condizioni ottimali per sostenere un certo tipo di allenamento. La
seduta di allenamento inizia qualche ora prima dell’esecuzione vera e propria. L’alimentazione e
l’idratazione sono molto importanti nell’agevolare i processi biochimici che saranno sollecitati
durante l’attività̀ . La giusta idratazione garantisce all’organismo la capacità di trasportare
efficientemente ossigeno e glucosio alle cellule e di controllare la temperatura corporea.
L’articolazione della seduta di allenamento prevede:

• una fase di riscaldamento;


• una fase specifica di stimolazione;
• una fase di defaticamento.

Il riscaldamento ha lo scopo di portare l’organismo al giusto livello di attivazione neuromuscolare


per poter eseguire, nelle migliori condizioni, la parte principale dell’allenamento. Molto spesso,
specie a livello amatoriale, il riscaldamento non viene eseguito in modo non corretto. Le ricerche
(Houston 2008) mostrano come l’allenamento possa influire in modo determinante sul risultato
desiderato. Gli adattamenti indotti da ogni allenamento dipendono dalla stimolazione biochimica e
fisiologica che si fornisce all’organismo. In biochimica esistono delle proteine chiamate enzimi il cui
ruolo è quello di determinare la velocità con cui una certa reazione chimica può svilupparsi nel nostro
organismo. Uno degli effetti dell’allenamento è aumentare la quantità di questi enzimi in modo da
migliorare la velocità della reazione in cui sono impiegati. Questo è l’effetto a lungo termine
dell’allenamento, ma mentre lo sto svolgendo è importante che gli enzimi presenti possano lavorare
al meglio. La qualità dell’intervento degli enzimi nelle reazioni biochimiche è fortemente
condizionata dalla temperatura. Il riscaldamento contribuisce ad elevare la temperatura corporea al
livello ottimale di azione enzimatica e prepara le diverse componenti fisiologiche all’attività. Quindi
non eseguire il riscaldamento al meglio impedisce di sfruttare nel migliore dei modi l’allenamento. Il
riscaldamento oltre a portare l’organismo a un’adeguata temperatura, ha lo scopo di attivare il sistema
neuromuscolare al fine di garantire il coordinato reclutamento delle unità motorie. I nostri movimenti
sono provocati da un reclutamento volontario della muscolatura. I nostri muscoli sono sensibili ad un
segnale elettrico che, partendo dalla corteccia prefrontale, attraverso i passaggi sulla corteccia motoria
ed il midollo spinale, arriva alla placca neuro-muscolare in cui il potenziale d’azione permette la
contrazione delle fibre muscolari. La coordinazione motoria dipende dalla “qualità” di questo segnale
elettrico, più sarà efficace e senza interferenze e migliore sarà il gesto motorio espresso. Attivare nel
modo corretto, durante il riscaldamento, lo schema motorio del gesto che sarà utilizzato in
allenamento ottimizza il risultato e diminuisce la probabilità di infortunio. Durante il riscaldamento
dovrebbero sempre essere inseriti elementi tecnici prima di eseguire la parte centrale dell’allenamento
che “riscaldino” il sistema neuro-motorio. La fase specifica contiene gli elementi tecnici e
condizionali che si intende stimolare durante la seduta. Il defaticamento, come il riscaldamento, è
spesso trascurato. Ha lo scopo di agevolare il recupero. La perfusione muscolare provocata da una
blanda attività̀ permette di rimuovere più̀ velocemente i metaboliti. In questa fase trova l’ideale
collocazione lo stretching. È importante comprendere che le tre fasi dell’allenamento sono integrate
tra loro e solo quando eseguite correttamente conducono ai migliori risultati. Riscaldamento e
defaticamento sono componenti della seduta di allenamento e non elementi che possono essere evitati.
Software per la costruzione degli allenamenti

L’utilizzo di dispositivi in grado di registrare diversi parametri del carico interno ed esterno durante
gli allenamenti ha permesso di sviluppare delle piattaforme software che supportano il lavoro del
tecnico. Si tratta di software web che possono essere fruiti in qualsiasi luogo attraverso una
connessione internet. I software più avanzati consento di inviare a dispositivi portatili, come smart
watch gli allenamenti. Le principali funzionalità dei software di gestione degli allenamenti sono:

• Gestione della periodizzazione della preparazione;


• Gestione di numero un numero variabile di atleti;
• Definizione delle zone di allenamento specifiche per ogni atleta;
• Costruzione di schemi di allenamento;
• Assegnazione degli allenamenti sul diario di allenamento
• Analisi dell’allenamento singolo;
• Linee di tendenza della preparazione atletica in base all’obiettivo.

Di seguito analizziamo come avviene la costruzione di uno schema di allenamento con i due principali
software dedicati al triathlon: CoachPeaking e TrainingPeaks. Il primo sviluppato in Italia da un
team di triatleti ed interamente in italiano, il secondo sviluppato dall’omonima azienda americana e
disponibile al momento solo in lingua inglese. Al momento della stesura del manuale, CoachPeaking
è utilizzabile gratuitamente da parte degli allenatori mentre TrainingPeaks prevede un periodo di
prova scaduto il quale è necessario acquistare una licenza annuale.

L’interfaccia di accesso alla sezione allenamenti su CoachPeaking (CP) è la seguente:


Su TrainingPeaks (TP) l’interfaccia di accesso è la seguente:

Nel caso di CP per creare un nuovo modello di allenamento è sufficiente cliccare su “crea nuovo
allenamento”, mentre su TP sulla scritta “New”. Quello che appare successivamente è visibile nelle
due figure:
Da CP si accede direttamente alla scelta della tipologia di allenamento (o nota) che si vuole costruire,
mentre TP consente la possibilità di creare un allenamento (Workout, una nota, o una cartella che
conterrà gli allenamenti).

Ipotizziamo di voler costruire un allenamento per la corsa. Su CP cliccheremo sull’icona rossa con
l’omino che corre ed accederemo alla seguente finestra:

In cui è possibile inserire:

• Titolo dell’allenamento
• Tag per categorizzazione e ricerca veloce
• Rating (ovvero livello di difficoltà assegnato dall’allenatore)
• Categoria che costituisce la cartella in cui verrà memorizzato l’allenamento per un
successivo utilizzo
• Corpo dell’allenamento con Riscaldamento, Corpo centrale, Defaticamento

Su TP sono necessari più passaggi per arrivare alla pagina di scrittura dell’allenamento, vediamoli.

Assegnazione del nome e della cartella di destinazione


Scelta del tipo di allenamento

Scelta dei parametri dell’allenamento che avviene con sistema “Drag & Drop” potendo scegliere da
8 configurazioni predefinite.
Una volta costruito l’allenamento su entrambi i software è possibile assegnarlo sul diario di
allenamento dell’atleta con un semplice “Drag & Drop” come mostrato in figura.

In entrambi i software è possibile costruire un allenamento ex novo direttamente dal diario dell’atleta
semplicemente cliccando sul giorno in cui si vuole proporlo. L’allenamento una volta assegnato in
calendario può essere trasferito ai device per registrare gli allenamenti (funzionalità solo di Garmin)
e una volta eseguito viene automaticamente caricato nel software per permettere un’analisi
dettagliata. L’analisi dell’allenamento è una fase molto importante che permette di valutare la corretta
esecuzione, il raggiungimento degli obbiettivi stabiliti e capire come meglio adattare la preparazione.
I due software permettono diversi livelli di analisi.
Nell’economia di un corso per Istruttore era importante mostrare come a oggi la tecnologia si è molto
evoluta e permette una precisione nell’assegnazione e successiva valutazione degli allenamenti
impensabile solo pochi anni addietro. Entrambi i software hanno svariate funzioni da analizzare ma
è bene ricordare che l’esperienza e la capacità del tecnico di percepire la condizione degli atleti rimane
insostituibile. L’apporto dei software permette di ricavare informazioni oggettive molto importanti
per prendere decisioni che non sarebbe possibile analizzare manualmente.
Eterocronismi

Il concetto di eterocronismo è strettamente legato a quello di supercompensazione. Sappiamo che la


supercompensazione è il fenomeno attraverso cui abbiamo un miglioramento nella prestazione,
poiché rappresenta un surplus funzionale causato dallo stimolo allenante. Quello che è importante
sapere, affinché il processo avvenga nel migliore dei modi è il tempo necessario perché questo
miglioramento possa avvenire. L’eterocronismo è la stima del tempo necessario alle varie componenti
organiche per rigenerarsi. Analizzando il grafico della supercompensazione vediamo che da un livello
iniziale di capacità prestativa (indicata con Initial level of preparedness), facendo un allenamento
(workout) diminuiamo la nostra capacità di essere performanti. Questo poiché, in base alla tipologia
di allenamento, si vanno a destabilizzare diverse strutture organiche che devono essere ripristinate.
Tutta la parte sotto la linea orizzontale indica il tempo necessario a ristabilire e migliorare la
condizione iniziale. L’etercronismo stima quanto tempo deve passare tra i diversi allenamenti perché
si abbia l’adattamento. Seppure sia possibile delineare delle indicazioni queste sono molto soggettive
e sono condizionate dal potenziale genetico di un atleta e dallo stato di allenamento. Alcuni atleti
avranno bisogno di tempi maggiori di recupero rispetto ad altri per recuperare da un certo tipo di
allenamento.

Figura 13 – Fasi della supercompensazione (Zatsiorsky & Kraemer 2006)


Le due figure seguenti mostrano i tempi di recupero di alcune strutture organiche e le curve di
supercompensazione di diversi tipo di allenamento:

Figura 14 – Tempi di rigenerazione delle principali funzionalità fisiologiche inerenti all’allenamento (Weineck 2007)

Figura 15 – Tempi di supercompensazione dei diversi allenamenti (Olbrecht 2000)

La conoscenza degli eterocronismi è molto importante perché permette di distribuire correttamente


gli allenamenti nel microciclo settimanale. Vediamo ad esempio che se consideriamo un allenamento
che stimola il sistema anaerobico in modo importante i tempi di recupero possono arrivare anche a
72 ore, questo significa che in quel lasso di tempo teoricamente non si dovrebbero proporre
allenamenti dello stesso tipo a carico della medesima struttura. Come detto però i tempi di recupero
sono molto variabili tra gli atleti sia in base alle loro caratteristiche che al grado di allenamento.

Recupero

Un altro concetto legato a supercompensazione ed eterocronismi è quello di recupero. Il termine


recupero, quando applicato alla scienza dello sport, racchiude tutti processi che il nostro organismo
mette in atto per ripristinare l’energia spesa durante l’azione e ristabilire l’equilibrio funzionale. È
tutto quello che accade nella parte sotto la linea orizzontale rappresentata nella figura della
supercompensazione (fig. 11). È una definizione molto generica che comprende l’energia chimica,
sotto forma di macronutrienti, ma anche l’energia meno materiale come quella mentale. L’equilibrio
funzionale è inteso come la riparazione dei tessuti danneggiati dall’attività fisica ed i nutrienti. Il
nostro corpo ha due meccanismi innati per recuperare: il sonno e l’alimentazione. Sono due
condizioni che devono essere curate con molta attenzione. Gli studiosi si sono chiesti se esistessero
delle procedure da utilizzare per permettere all’organismo di migliorare ulteriormente il naturale
processo di recupero. Va detto che tutte le tecniche sono un “aiuto” una volta che siano stati gestiti
nel migliore dei modi il sonno e l’alimentazione. Dell’alimentazione abbiamo già parlato in modo
esteso per cui non sarà trattata in questo contesto. Iniziamo il nostro viaggio in quella “zona d’ombra”
che praticamente ogni atleta ignora e che molti preparatori atletici trascurano concentrandosi
esclusivamente sugli allenamenti (Shell et al. 2020; Vitale et al. 2019). Alla luce di quanto appreso
sugli eterocronismi e la supercompensazione dovremmo sempre avere chiaro che un allenamento non
recuperato è un allenamento inutile, quando non dannoso!

Il sonno

In uno degli studi classici sugli effetti della deprivazione del sonno sulla performance sono stati
sottoposti 16 adulti in buona salute ad una restrizione del sonno pari al 33% rispetto alla durata
abituale (Dinges et al. 1997). Mediamente dormivano 5 ore a notte per 7 notti consecutive. Ogni
giorno erano testati per valutare la loro performance cognitiva e livello dell’umore attraverso il
POMS, uno dei test psicologici utilizzati anche per la valutazione dello stato di affaticamento anche
nello sport. Le conseguenze sono state un peggioramento in tutti i test di performance che si protraeva
anche al termine dell’esperimento ed è stato recuperato solo dopo due notti consecutive di riposo.
Diversi studi riportano un aumento dei disturbi del sonno in concomitanza con l’aumento del carico
di allenamento. Nel nuoto gli atleti dediti alle lunghe distanze soffrono con più frequenza di disturbi
del sonno (Stavrou et al. 2019). Un sintomo ricorrente negli atleti che sono in stato di overreaching o
overtraining è il peggioramento della qualità del sonno. Si innesca di conseguenza un circolo vizioso
in cui la bassa qualità del sonno peggiora il recupero e impedisce di dormire bene. È stato anche
ipotizzato che l’analisi dei disturbi del sonno possa essere utilizzato come predittore di uno stato
latente di overreaching non funzionale, cioè quella condizione di affaticamento cronico che
determina un peggioramento della prestazione e dello stato di salute (Lastella et al. 2018). È stato
anche ipotizzato che il debito di sonno possa predisporre ad una aumentata probabilità di incorrere in
un infortunio muscolare. Sembra che l’aumento delle citochine pro-infiammatorie e del cortisolo
siano le responsabili a causa della loro azione di interferenza verso la sintesi proteica (De Sousa
Nogueira Freitas et al. 2020). Gli atleti, rispetto alla popolazione normale necessitano di più ore di
sonno. Secondo Bird e collaboratori (2013) un atleta che segue un regime di allenamento quotidiano
dovrebbe dormire circa 9-10 ore al giorno per compensare e recuperare il training load. Le norme di
“igiene” del sonno raccomandano di preparare l’ambiente in cui si dorme in modo che sia
confortevole, buio e fresco, evitando di utilizzare dispositivi elettronici, come smartphone, tablet e
computer che emettono luce blu la quale altera i normali ritmi circadiani agendo sul sistema endocrino
(Touitou & Point 2020). Il consiglio è di smettere di utilizzare device elettronici almeno un’ora prima
di coricarsi. Per chi ha difficoltà ad addormentarsi si sconsiglia di consumare alimenti eccitanti come
cioccolato fondente, caffè e tè. Mentre sono consigliati alimenti contenenti triptofano o che
stimolano la produzione di serotonina come tacchino, Kiwi e carboidrati. La serotonina è un
neurotrasmettitore che induce calma e rilassamento e predispone al sonno. Oltre a queste norme
generali, è buona norma utilizzare tecniche di rilassamento. Le tecniche di rilassamento hanno lo
scopo di attivare la componente parasimpatica del sistema nervoso autonomo che comprende tutti i
processi legati al recupero psico-fisico.

L’alimentazione

Quando pratichiamo attività fisica consumiamo energia che il nostro corpo conserva nel tessuto
adiposo e carboidrati che sono immagazzinati nel fegato e nel muscolo sotto forma di glicogeno.
Oltre a consumare energia aumenta la richiesta di aminoacidi che utilizziamo per la sintesi di tutte
le proteine del nostro corpo. Ricordiamo sempre che quando parliamo di proteine ci riferiamo anche
agli enzimi che servono per la sintesi dell’energia, agli anticorpi, agli ormoni, al collagene,
all’emoglobina e molte altre. Quindi non è solo un’esigenza muscolare quella di introdurre
aminoacidi, questo è molto importante tenerlo sempre a mente. Da dove ricaviamo gli aminoacidi?
Dalle proteine che introduciamo con il cibo che sono, appunto, costituite da aminoacidi. Oltre ad
energia (lipidi e carboidrati) e materiale plastico (proteine) abbiamo bisogno di vitamine e sali
minerali (micronutrienti) che intervengono nelle reazioni biochimiche all’interno del nostro
organismo. L’alimentazione corretta e bilanciata è assolutamente essenziale per lo sportivo per
recuperare correttamente gli allenamenti e mantenere lo stato di salute.
Modulo 5
Tecnica, didattica e allenamento nel triathlon: Nuoto

Caratteristiche della frazione di nuoto nel triathlon

Prima di affrontare il tema di come si allena un triatleta dobbiamo fare alcune considerazioni su quali
sono i presupposti per poter avere un atleta capace di affrontare la frazione natatoria al meglio e poter
eccellere nell’intera gara. Il triathlon non è solo la frazione natatoria, ma è quella da cui partiamo per
iniziare la gara. Ogni frazione del triathlon è importante per il risultato finale. I numeri e le tabelle
proposte di seguito servono solo per comprendere quali sono le prestazioni delle gare olimpiche
svoltesi tra il 2000 e il 2021. Normalmente i numeri delle gare olimpiche sono leggermente falsati
avendo un evento ogni 4 anni e, paradossalmente, c’è un livello prestativo generale più basso. Una
considerazione sui tempi deve essere necessariamente eseguita su ogni gara di qualifica olimpica per
avere dei dati approfonditi. L’intento di questa analisi è quello di fornire una visione generale di cosa
ci si può aspettare da una gara olimpica. L’intento della pratica del triathlon (e di qualsiasi altro sport)
nell’attività giovanile ha un duplice compito: creare una persona attiva per tutta la vita; preparare
l’atleta all’attività di alto livello (vedi il modello LTAD). Per la creazione di una persona
sportivamente attiva non ci sono aspettative prestazionali, viceversa se l’atleta diventerà un atleta di
alto livello con l’intento di partecipare/vincere le olimpiadi si dovranno creare dei presupposti
prestativi affinché si possa espletare la prestazione al meglio. Nella tabella 5.1 sono stati presi i tempi
della frazione natatoria delle gare olimpiche considerando i primi 10 atleti (uomini e donne) arrivati.
Senza troppa statistica è stato calcolato il passo medio sui 100 metri per avere un parametro più
apprezzabile. Osservando la deviazione standard del passo medio possiamo apprezzare come non ci
siano molte differenze tra i vari atleti e le varie gare. Volendo semplificare l’interpretazione dei
numeri senza pretese di precisione assoluta possiamo affermare: i primi 10 uomini nuotato
mediamente a 1’12” al 100, mentre le donne a 1’17”. Da questi dati non è possibile determinare se
nel corso degli anni la tendenza sia verso una diminuzione dei tempi o ad una stabilizzazione. Si
dovrebbero analizzare tutte le gare presenti dal 1998 ad oggi. Questi numeri servono solo per
comprendere quali sono le velocità di crociera medie per poter ambire ad una top 10 in una gara
olimpica. Vedremo più avanti come utilizzare questi dati.

UOMINI SYDNEY ATHENS BEIJING LONDON RIO DE JANEIRO TOKYO


MEDIA 0:17:49 0:18:15 0:18:13 0:17:14 0:17:36 0:18:10
DEV ST 0:00:14 0:00:06 0:00:09 0:00:11 0:00:19 0:00:16

MEDIA PASSO 0:01:11 0:01:13 0:01:13 0:01:09 0:01:10 0:01:13


DEV ST PASSO 0:00:01 0:00:00 0:00:01 0:00:01 0:00:01 0:00:01
DONNE SYDNEY ATHENS BEIJING LONDON RIO DE JANEIRO TOKYO
MEDIA 0:19:12 0:19:45 0:19:55 0:19:19 0:19:09 0:18:55
DEV ST 0:00:13 0:00:50 0:00:08 0:00:15 0:00:03 0:00:26

MEDIA PASSO 0:01:17 0:01:19 0:01:20 0:01:17 0:01:17 0:01:16


DEV ST PASSO 0:00:01 0:00:03 0:00:01 0:00:01 0:00:00 0:00:02
Tab 5.1 Tempo medio e passo medio della frazione natatoria delle gare olimpiche dei primi 10 atleti della classifica
In forma grafica possiamo apprezzare meglio questi numeri, nella figura 14 posiamo osservare il
tempo totale e il paso medio/100 dei primi 10 classificati.

MEDIA TEMPI NUOTO UOMINI MEDIA TEMPI NUOTO DONNE


PRIMI 10 PRIME 10
0:18:43 0:20:53
0:18:00 0:20:10
TEMPO

TEMPO
0:19:26
0:17:17
0:17:490:18:150:18:13 0:18:10 0:18:43 0:19:450:19:550:19:19
0:16:34 0:17:140:17:36 0:18:00 0:19:12 0:19:090:18:55
0:15:50 0:17:17

MEDIA PASSO 100 UOMINI MEDIA PASSO DONNE PRIME


PRIMI 10 3
0:01:14 0:01:25
0:01:13 0:01:23
0:01:21
0:01:11 0:01:19
TEMPO

TEMPO

0:01:09 0:01:18
0:01:130:01:13 0:01:13 0:01:16
0:01:07 0:01:11 0:01:10 0:01:14 0:01:190:01:200:01:17
0:01:06
0:01:09 0:01:13 0:01:17 0:01:170:01:16
0:01:11
0:01:04 0:01:09

Figura 15 – tempo medio e passo medio/100 dei primi 10 classificati nelle gare olimpiche

I tempi appena riportati però sono leggermente falsati, non sempre i primi 10 classificati hanno
nuotato nelle prime 10 posizioni. Nella tabella 5.2 possiamo notare come la posizione di uscita del
nuoto (swim pos) è a volte differente dalla posizione finale (position). Non sempre chi esce prima
dall’acqua ottiene un risultato finale comparabile. Iniziano ad aprirsi domande importanti tra cui: è
necessario essere un forte nuotatore per poter eccellere nel triathlon a livello olimpico? Una domanda
aperta e va affrontata con delicatezza, sicuramente ci sono delle prestazioni da dover soddisfare, e la
gara dopo il nuoto è ancora aperta (così come dimostrano i numeri). Questi numeri prendono in
considerazione l’intera frazione, mentre se andassimo a controllare la prima parte della gara (tra 222
e 496 metri) noteremmo come i nuotatori abbiano una velocità maggiore rispetto agli altri (Vleck et
al 2006). Avere questa informazione è estremamente utile perché possiamo impostare una tattica di
gara (preventivamente provata in allenamento) in cui si cerca di mantenere la massima velocità nella
parte inziale della gara. La distanza identificata in cui mantenere la massima velocità è rappresentata
dalla posizione della prima boa. Arrivare alla prima boa davanti agli altri permette di superarla senza
trovare “traffico” e quindi ridurre i tempi di superamento guadagnando tempo e metri preziosi. Nella
parte successiva si può sfruttare la scia per mantenere una velocità elevata e ridurre il costo energetico
preparandosi mentalmente ad affrontare la transizione e la frazione ciclistica. Normalmente dopo la
prima boa le posizioni degli atleti variano di poco.
UOMINI SWIM POS POSITION DONNE SWIM POS POSITION
28 1 7 1
33 2 18 2
14 3 5 3
17 4 8 4
18 5 4 5
Sydney Sydney
26 6 1 6
24 7 15 7
27 8 12 8
2 9 2 9
8 10 6 10
SWIM POS POSITION SWIM POS POSITION
28 1 44 1
17 2 1 2
23 3 9 3
29 4 22 4
7 5 39 5
Athens Athens
12 6 42 6
30 7 40 7
24 8 11 8
15 9 3 9
31 10 26 10
SWIM POS POSITION SWIM POS POSITION
15 1 5 1
21 2 9 2
30 3 12 3
8 4 1 4
27 5 2 5
Beijin Beijin
36 6 35 6
4 7 13 7
22 8 10 8
2 9 14 9
3 10 17 10
SWIM POS POSITION SWIM POS POSITION
6 1 18 1
2 2 8 2
4 3 19 3
16 4 11 4
25 5 10 5
London London
9 6 25 6
11 7 14 7
12 8 20 8
13 9 7 9
3 10 32 10
SWIM POS POSITION SWIM POS POSITION
4 1 23 1
5 2 24 2
7 3 13 3
47 4 14 4
Rio de 32 5 25 5
Rio de Janeiro
Janeiro 11 6 9 6
8 7 3 7
26 8 11 8
9 9 6 9
17 10 15 10
SWIM POS POSITION SWIM POS POSITION
26 1 6 1
32 2 5 2
37 3 3 3
5 4 16 4
8 5 12 5
Tokyo Tokyo
47 6 20 6
15 7 13 7
43 8 7 8
45 9 1 9
39 10 17 10
Tab 5.2 confronto tra la posizione di uscita del nuoto (swim pos) e la classifica finale

Prendiamo in considerazione invece i migliori 10 nuotatori. Possiamo osservare nella tabella 5.3
come i tempi siano leggermente più bassi rispetto alla tabella 5.1. Abbiamo una media dei tempi di
1’11” per gli uomini e 1’16” per le donne.

UOMINI SYDNEY ATHENS BEIJING LONDON RIO DE JANEIRO TOKYO


MEDIA 0:17:29 0:18:01 0:18:04 0:17:08 0:17:23 0:17:45
DEV ST 0:00:08 0:00:05 0:00:03 0:00:09 0:00:03 0:00:04

MEDIA PASSO 0:01:10 0:01:12 0:01:12 0:01:09 0:01:10 0:01:11


DEV ST PASSO 0:00:01 0:00:00 0:00:00 0:00:01 0:00:00 0:00:00
DONNE SYDNEY ATHENS BEIJING LONDON RIO DE JANEIRO TOKYO
MEDIA 0:19:10 0:18:48 0:19:50 0:18:43 0:19:05 0:18:41
DEV ST 0:00:12 0:00:11 0:00:02 0:00:25 0:00:02 0:00:19

MEDIA PASSO 0:01:17 0:01:15 0:01:19 0:01:15 0:01:16 0:01:15


DEV ST PASSO 0:00:01 0:00:01 0:00:00 0:00:02 0:00:00 0:00:01
Tab 5.3 Tempo medio e passo medio della frazione natatoria delle gare olimpiche dei primi 10 atleti usciti dall’acqua
La differenza tra i tempi è quasi impercettibile, mediamente abbiamo una differenza di 1 secondo per
entrambi.

Si potrebbero considerare questi dati fallaci, ogni gara ha caratteristiche differenti per numerosi
fattori. Un confronto più specifico e con ridotta influenza rispetto alle condizioni ambientali è
utilizzare la percentuale del tempo della frazione natatoria rispetto al totale.
Nella tabella 5.4 possiamo apprezzare queste differenze. Mediamente gli uomini utilizzano il 16,5%
del tempo per la frazione natatoria, mentre le donne il 16,1%. Questi dati hanno una piccola variazione
nelle varie edizioni. Nella figura 5.2 si può osservare l’andamento nel tempo, si può osservare come
negli uomini vi è la tendenza ad aumentare la percentuale del nuoto (la differenza tra il valore più
basso e quello più alto è dell’1,1%) mentre nelle donne è abbastanza costante soprattutto nelle ultime
tre edizioni. La linea di tendenza è orientata ad un incremento, si può fare un’ipotesi: nell’edizione
olimpica di Parigi nel 2024 o a Los Angeles nel 2028 la percentuale del tempo possa aumentare
leggermente rispetto al tempo totale. Ovviamente queste sono solo considerazioni puramente
speculative, ma possono in qualche modo portare a delle riflessioni. Nel corso degli anni il tempo
generale dell’intera gara tende a diminuire, questo è dovuto principalmente alla prestazione podistica.

UOMINI SYDNEY ATHENS BEIJING LONDON RIO DE JANEIRO TOKYO


% SU TOTAL 16,3 16,3 16,6 16,1 16,6 17,2
DEV.ST 0,25 0,14 0,18 0,15 0,32 0,25
DONNE SYDNEY ATHENS BEIJING LONDON RIO DE JANEIRO TOKYO
% SU TOTAL 15,7 15,7 16,6 16,0 16,3 16,1
DEV.ST 0,25 0,67 0,13 0,24 0,15 0,33
Tab 5.4 percentuale rispetto al tempo totale della frazione natatoria nelle varie edizioni olimpiche
% SU TOTAL UOMINI PRIMI 10
18.0
y = 0,133x + 16,049
17.5

17.0
TEMPO

16.5

16.0 17.2
16.6 16.6
16.3 16.3
15.5 16.1

15.0
SYDNEY ATHENS BEIJING LONDON RIO DE JANEIRO TOKYO

% SU TOTAL DONNE PRIME 10


17.0
y = 0,0809x + 15,776
16.5

16.0
TEMPO

15.5
16.6
16.3
15.0 16.0 16.1
15.7 15.7
14.5

14.0
SYDNEY ATHENS BEIJING LONDON RIO DE JANEIRO TOKYO

Figura 16 – Percentuale rispetto al tempo totale della frazione natatoria nelle varie edizioni olimpiche

Iniziamo a fare una serie di considerazioni riguardo alla frazione natatoria del triathlon:
• I migliori nuotatori non sempre rientrano nella top 10 della classifica finale e viceversa nella
top 10 finale non ci sono i migliori nuotatori.
• Per poter essere nella top 10 della classifica finale è necessario avere un passo medio sul 100
di almeno 1’12” per gli uomini e 1’17” per le donne (in acque libere)
• Nel corso delle edizioni delle olimpiadi le differenze di percorrenza della frazione natatoria
sono del 16% circa con variazioni minime nel corso del tempo
• Nel futuro è prevedibile un aumento del tempo del nuoto rispetto al tempo totale
• La gara non finisce con il nuoto, mancano ancora due frazioni

Queste brevi considerazioni devono essere contestualizzate all’interno di un progetto a lungo termine
e portare il tecnico e l’atleta ad una consapevolezza importante: l’atleta deve essere costruito con
lungimiranza e con una progettualità a lungo termine dove il lungo termine potrebbe durare una
decina di anni.
Quest’ultima affermazione deve essere sempre contestualizzata all’atleta. Sempre più frequentemente
i giovani si avviano al triathlon fin dall’età di 6-7 anni quindi questo tempo potrebbe essere più lungo
addirittura di 15 o 20 anni prima di poter varcare la porta delle olimpiadi.

Il Long Term Athelete Development è un programma di sviluppo strutturato a tappe per lo sviluppo
dell’atleta dall’età dell’infanzia fino al professionismo o all’attività motoria per il
piacere/benessere/competizioni amatoriali. Non importa la distanza di gara (Kids o IronMan), le
modalità esecutive della frazione natatoria saranno simili. Cambiano i tempi e le intensità, ma in linea
generale le fasi seguono questa sequenza:

• Partenza
• Fase centrale
• Virata alla boa
• Fase finale con uscita dall’acqua
• Oppure multilap con uscita dall’acqua

La frazione natatoria nel triathlon riveste importanza notevole nelle gare “Draft legal” poiché è
fondamentale poter uscire dalla zona cambio (T1) con il gruppo dei più forti e nelle posizioni
avanzate. Se si perde qualche secondo all’uscita del nuoto si può recuperare nella T1, ma se si perde
qualche decina di secondi, recuperare nel ciclismo può impegnare molte risorse sia energetiche, sia
mentali. Il nuoto nel triathlon ha delle peculiarità intrinseche limitatamente comparabili a gare open
water del nuoto. Nel triathlon al termine della frazione natatoria parte la seconda parte della gara, nel
nuoto ci si ferma.

Tokyo olympic game 2020 total course (fonte official briefing)

Figura 17 – Visione generale del campo gara della gara olimpica di Tokyo 2020
La partenza di una gara di triathlon è ad intensità massimali e sub massimali fino alla prima boa, con
una distanza variabile in base alla categoria e distanza di gara. Si può variare da circa 100 metri per
una gara di mixed relay ad oltre 800 metri in una gara di IronMan. Indipendentemente dalla distanza
una buona partenza è fondamentale per riuscire a conquistare le prime posizioni e non restare nella
“pancia” del gruppo dove l’affollamento impedisce di nuotare impostando il proprio passo. A
proposito del passo gara, in manifestazioni in cui si ricerca il risultato spesso questo passo gara non
viene rispettato. Se l’atleta più forte è in testa, imposterà il proprio passo gara, normalmente più alto
rispetto agli altri atleti. Potrà decidere se prendersi un vantaggio oppure risparmiare le energie auto
limitando la propria velocità. Tutti gli altri atleti dovranno adattarsi a quel passo gara se non vogliono
rimanere indietro e perdere posizioni. Viceversa, se la gara è contro sé stessi, il passo gara dovrà
essere preparato in allenamento con metodo e precisioni per uscire dall’acqua con il giusto livello di
stanchezza e con le energie giuste per poter intraprendere il resto della gara.

Indipendentemente dalla gara le modalità di partenza possono avvenire in diverse modalità:

• Dal pontone con tuffo (normalmente per le gare internazionali)


• Dalla spiaggia con corsa iniziale e prima parte in acqua bassa (normalmente per le gare
nazionali, saltuariamente internazionali)
• Direttamente dall’acqua (normalmente per le giovanili e gare age group)

Ognuna delle partenze indicate richiede diverse abilità motorie. Nel caso del pontone è indispensabile
avere acquisito la corretta tecnica di tuffo per iniziare a nuotare subito velocemente come avviene nel
nuoto in piscina. La partenza dalla spiaggia implica la capacità correre in acqua bassa e raggiungere
l’acqua profonda il più velocemente possibile, molto spesso effettuando una serie coordinata di tuffi.
La partenza dall’acqua è generalmente quella meno problematica ed è spesso adottata in piscina con
gli Age Group. Il nuoto fino alla prima boa è percorso ad intensità molto superiore al passo gara con
le prime bracciate alla massima velocità per riuscire a portarsi nelle prime posizioni [(C3) i codici di
allenamento verranno trattati successivamente]. È una fase in cui il meccanismo energetico glicolitico
è sollecitato pesantemente con grande produzione di lattato. Dal punto di vista dell’allenamento è
quindi indispensabile allenare la capacità di tollerare (C2) e smaltire il lattato prodotto, anche con
simulazioni di gara in piscina. Nella fase centrale è indispensabile riuscire a mantenere un’alta
velocità pur recuperando il lattato prodotto nei primi metri di gara (B1 e B2). Nella fase centrale
molto spesso si innestano dei fuori soglia dovuti alle virate alla boa, in particolare alla prima boa, si
crea un imbuto in cui i triatleti vogliono passare per primi. Le fasi di sorpasso o di affollamento
costituiscono dei momenti in cui l’intensità può aumentare notevolmente ed in questo caso è
essenziale sviluppare la capacità di smaltire il lattato prodotto. L’uscita dall’acqua è un ulteriore
momento di alta intensità in cui i migliori nuotatori forzano il ritmo per avvantaggiarsi in zona cambio
costringendo gli inseguitori meno dotati a uno sforzo aggiuntivo implicando il cambio veloce in T1
e a causa del debito di ossigeno da recuperare spesso in condizioni di poca lucidità. In molte gare si
introduce il multilap in cui i triatleti devono uscire dall’acqua percorrere un brevissimo tratto di corsa
per poi tuffarsi nuovamente in acqua. Tale passaggio, dal punto di vista fisiologico, è molto
impegnativo costringendo il sistema cardiocircolatorio ad un notevole impegno dovendo redistribuire
l’afflusso sanguigno dalla parte alta del corpo agli arti inferiori. Solo allenamenti specifici possono
instaurare gli adattamenti necessari a fronteggiare queste fasi con l’adeguato livello di performance.
Questi elementi devono essere inseriti in allenamento.
Tokyo olympic game 2020 swim course (fonte official briefing) 2 lap

Edmonton 2021 swim course (fonte official briefing) 2 lap


Yokohama 2019 swim course (fonte official briefing) 1 lap

IronMan Cervia 2021(fonte Ironman website) 1 lap

Figura 18 – Diversi percorsi della frazione natatoria in varie gare ITU World Triathlon e IronMan

Spesso i triatleti e gli allenatori condividono gli spazi acqua con le squadre di nuoto. Condividere
informazioni ed esperienze è una pratica quotidiana. Per poter parlare un linguaggio comune con i
colleghi di altre federazioni verrà utilizzato il medesimo linguaggio a codici per identificare le zone
di allenamento. I codici utilizzati sono quelli utilizzati dalla Federazione Italiana Nuoto. In seguito,
affronteremo nei dettagli questi codici di allenamento. È possibile notare come l’intensità di gara è
sempre molto elevata, da massimale a sub massimale prevalentemente in soglia. Queste osservazioni
permettono di comprendere dove porre attenzione negli allenamenti. L’obiettivo principale deve
essere lo sviluppo dei sistemi energetici. Il modello del nuoto nel triathlon, inoltre, deve sviluppare
delle capacità motorie diverse dal nuoto in piscina, queste dovranno essere allenate fin dalla giovane
età se si vogliono acquisire e sfruttare alla perfezione:

• Nuoto in gruppo, utilizzata praticamente in ogni momento della frazione natatoria


• Nuoto in scia, a meno di non essere davanti a condurre la gara, il nuoto in scia permette di
ridurre il costo energetico
• Nuoto con la testa fuori dall’acqua e con respirazione frontale, importante capacità per potersi
orientare correttamente in acque libere, controllare la posizione della boa e degli avversari
• Variabilità della densità dell’acqua e delle increspature (onde), riuscire a comprendere la
differenza tra il nuoto in piscina e quello in acque libere permette di adattarsi velocemente
all’ambiente e poter esprimere al meglio la prestazione
• Utilizzo della muta, a volte la temperatura rende facoltativa o addirittura obbligatorio l’uso
della muta, saper trovare la muta giusta ed essere abituati al suo utilizzo permette di sfruttare
al massimo i vantaggi dati
• Orientamento, capacità importante per non “andare alla deriva” durante la gara e perdere
posizioni importanti o fare più strada del dovuto

La letteratura scientifica ha indagato alcuni di questi fattori. Alcuni studi hanno indagato quanto sia
importante impostare il giusto passo nella frazione natatoria e saper sfruttare la scia per riuscire ad
esprimersi al meglio nella seguente frazione ciclistica (Delextrat et al. 2005; Peeling et al. 2005;
Delextrat et al. 2005b). Come detto precedentemente si riesce a stabilire il proprio passo gara solo se
si è in prima posizione, mentre quando si è dietro ci si deve necessariamente adattare all’andatura
degli avversari. L’effetto è molto più marcato nelle gare brevi, all’aumentare della distanza l’effetto
tenda a svanire (Laursen et al. 2000). I risultati sono abbastanza chiari e concordi: avere un basso
costo energetico e nuotare in scia permette di affrontare le frazioni di ciclismo e corsa in maniera più
performante. Questo è uno dei motivi per cui è utile avere alte velocità di soglia. Una tattica è quella
di adattarsi alla velocità degli avversari riducendo la propria velocità, di conseguenza si avrà una
riduzione del costo energetico. Ipotizziamo di avere una velocità di soglia di 1’05” per un atleta uomo,
se il passo gara impostato dagli avversari sarà di 1’10”, il nostro atleta (rimanendo nel gruppo)
manterrà una velocità più bassa rispetto alla soglia con una riduzione del costo energetico e rimanendo
nel gruppo di testa. Se a questo aggiungiamo l’utilizzo della muta, il risparmio energetico è
decisamente rilevante. Il miglioramento, in termini di prestazione utilizzando la muta, si aggira
intorno al 5% (Chatard et al. 1995; Chatard e Millet, 1996). In base alla posizione del nuotatore si
possono avere effetti positivi e negativi della scia. Nella figura 18 si possono apprezzare (in base alla
distanza dal nuotatore leader) quale siano le turbolenze (@) e le onde in aiuto alla scia (^) (Chatard
& Wilson 2003).

Figura 19 – tipo di onde create da due nuotatori in scia lateralmente. In A e B la prima onda creata dal leader arriva
dietro la testa dell’atleta in scia. In D ed E l’onda arriva alla testa. Con il simbolo @ si notano le turbolenze con il
simbolo ^ le onde (Chatard & Wilson 2003)
Vi è una distanza ottimale utile allo sfruttamento della scia. Questa distanza è identificata da 50 a 100
cm dietro il nuotatore e lateralmente di 50 cm (cerchi rossi) (Chatard & Wilson 2003).

Figura 20 – Distanza ottimale per lo sfruttamento della scia (Chatard & Wilson 2003). La posizione ottimale per ridurre
il drag è posizionandosi dietro almeno due nuotatori; infatti, si ha una riduzione del 20% rispetto del drag e dal 25% al
30% del consumo di ossigeno. La distanza ottimale è 50 cm. Si riscontra solo il 9% di riduzione del drag rimanendo dietro
al nuotatore leader. Stando al lato del nuotatore leader si ha una diminuzione del 9% del drag e dell’11% del consumo di
ossigeno (Janssen et al 2009).
Figura 21 – riduzione del drag dietro e al lato di almeno due nuotatori (P) e del leader (A).
A. dietro il nuotatore leader a 0 metri, da 0 a 40 cm alla sinistra di 40 cm della linea centrale del nuotatore leader
B. dietro la linea centrale del nuotatore leader, da 0 a 50 cm dietro alle dita dei piedi
C. al lato del nuotatore leader, la testa al livello delle anche tra 35 cm e 1,15 metri
D. al lato del nuotatore leader dalle anche al ginocchio
Le % si riferiscono alla riduzione del drag in base alla posizione (Janssen et al 2009)

Negli studi precedenti sono stati utilizzati solo due nuotatori nelle immagini. In figura 18 si possono
apprezzare diverse modalità di nuoto in scia. In base alla posizione si avranno i benefici della scia
come esposti in precedenza. Normalmente nella fase iniziale della gara ci si trova ognuno a lato, poi
si formano dei piccoli gruppi fino ad avere una disposizione variabile in base alla tattica di gara e al
numero degli atleti. Come per il ciclismo, per il nuoto la capacità di “prendere” la scia va allenata,
pertanto nelle sessioni di nuoto è opportuno prevedere degli allenamenti strutturati per questo scopo.
Figura 22 – Esempi di disposizioni dei nuotatori durante la parte centrale della frazione natatoria
(https://voloshin.md/en/gibraltar/)

Il centro di massa, quando l’atleta è in posizione orizzontale, è spostato più verso le gambe. Di
conseguenza le gambe tendono ad affondare facilmente. Nel nuoto ridurre la superficie corporea in
avanzamento è molto importante per ridurre il drag, mantenere una posizione orizzontale, piatta,
senza molte oscillazioni è fondamentale per essere idrodinamici. Secondo Yanai (2001) il corretto
utilizzo delle gambe ha lo scopo di equilibrare il centro di galleggiamento in continuo movimento in
base alla fase della bracciata e aiutano a mantenere l’assetto orizzontale più appropriato. Anche la
muta permette di avere un vantaggio idrodinamico. Questo sarebbe da attribuire all’aumentato
galleggiamento e ad un assetto con gli arti inferiori più alti (Hue et al. 2003; Cordain & Kopriva
1991). Tra le altre cose, beneficerà molto di più dall’utilizzo della muta un nuotatore mediocre rispetto
a un bravo nuotatore (Chatard & Millet 1996). Recenti studi hanno misurato l’effetto del nuoto sulla
prestazione ciclistica. Seppur indirizzati ad indagare nello specifico il triathlon su brevi distanze,
emerge come la prestazione ciclistica abbia un calo quando eseguita dopo il nuoto rispetto al ciclismo
isolato (Rothschild et al. 2019). Il dato interessante riguarda l’intensità della frazione natatoria. La
misurazione del lattato ematico al termine della prova di nuoto è risultata essere attorno alle 4 mmol/l,
un valore identificato come la soglia e influisce sulla successiva frazione ciclistica. I triatleti hanno
generalmente una bracciata più corta rispetto ai nuotatori puri. Questo è dovuto alla diversa
morfologia e ad una efficienza propulsiva inferiore (Millet et al. 2002) oltre al dover nuotare in mezzo
ad altri triatleti. La lunghezza della bracciata è influenzata molto dalla frequenza, una bassa frequenza
porta ad una bracciata più lunga, viceversa una frequenza più alta porta ad una bracciata più corta.
Durante la frazione natatoria si presentano entrambe le casistiche. Subito dopo la partenza si ha una
frequenza alta, appena si trova la velocità di crociera si riduce la frequenza sfruttando maggiormente
l’ampiezza. Il nuoto a testa alta modifica la frequenza di bracciata. Sollevare la testa frontalmente,
anziché ruotarla lateralmente, tende ad accorciare la bracciata e aumentare (anche se solo per un paio
di bracciate) la frequenza. Il nuoto a testa alta non serve solo per l’orientamento verso le boe, ma per
controllare la posizione degli avversari. Arrivare al campo gara avendo acquisito la capacità di
modificare la frequenza, l’ampiezza di bracciata e la modalità di respirazione è uno dei presupposti
importanti al fine di una prestazione ottimale. Queste capacità non si acquisiscono durante le gare,
ma durante gli allenamenti, in piscina si devono prevedere dei momenti in cui allenare queste
capacità. Vari esercizi della pallanuoto possono essere utili per il triathlon. Un parametro utilizzato
dai ricercatori per studiare l’efficienza nel nuoto è l’indice di coordinazione (Index of Coordination
o IdC). Questo parametro misura l’intervallo tra l’inizio della fase di propulsione di un braccio ed il
termine della propulsione del braccio controlaterale (Chollet et al. 2000). L’IdC è minore di zero
quando c’è un intervallo di tempo tra la propulsione delle due braccia (catch-up), uguale a zero ovvero
quando un braccio inizia la propulsione appena l’altro l’ha terminata (in opposition) ed infine le fasi
propulsive possono essere sovrapposte (superposition). Si è osservato come all’aumentare della
velocità e del livello tecnico dell’atleta c’è un aumento dell’IdC (Chollet et al. 2000). Sostanzialmente
i bravi nuotatori sono più propulsivi rispetto ai nuotatori mediocri, anziché mantenere la velocità
costante hanno una decelerazione e accelerazione ad ogni ciclo di bracciata, aumentando il costo
energetico della nuotata.

Opposition: un braccio inizia la fase di appogio/presa mentre l’altro termina la fase di spinta

Catch up: il tempo di ritardo è posizionato in mezzo alla fase propulsiva delle due braccia

Superposition: sovrapposizione situata durante la fase propulsiva

A. fase non propulsiva subacquea (entry e catch)


B. fase propulsiva subacquea (pull)
C. fase propulsiva subacquea (push)
D. fase aerea non propulsiva (recovery)

Figura 23 – rappresentazione dei tre modelli di coordinazione della bracciata (Chollet et al. 2000)
Un fattore importante nel nuoto è la respirazione. È il momento più critico per il nuotatore poco
esperto, spesso perde completamente l’assetto in acqua dando l’impressione di “cadere” verso il
fondo. Si è notato come i nuotatori più esperti abbiamo un ciclo di respirazione differente rispetto ai
meno esperti. In particolare, chi è in possesso di una buona tecnica tende ad aumentare la fase di
apnea durante il recupero del braccio dal lato della respirazione ed inspirare più rapidamente (Lerda
& Cardelli 2003). Il triatleta deve imparare a nuotare in acque libere con una tecnica modificata, in
continuazione è necessario alzare la testa frontalmente per mantenere la direzione. Nuotare in specchi
d’acqua come laghi o mare permette di capire come gestire al meglio le increspature, le correnti e le
onde, allenando la capacità di orientarsi. Ad esempio, abituandosi a prendere dei riferimenti a terra
per seguire la direzione migliore, sfruttare le boe per impostare la direzione. L’utilizzo della muta
altera leggermente il gesto motorio sia perché sposta il baricentro aumentando il galleggiamento delle
gambe. Anche in questo caso è una abilità motoria da allenare opportunamente prevedendo degli
allenamenti specifici sia in piscina sia in acque libere. La densità dell’acqua della piscina rispetto a
quella del mare modifica la galleggiabilità con e senza muta.

Stili natatori con particolare riferimento al crawl

In questa sezione del manuale si vuole dare una visione generale della tecnica del nuoto, sia per la
parte di insegnamento degli stili sia per il perfezionamento. Se non si hanno conoscenze
nell’insegnamento del nuoto è utile affiancarsi ad un tecnico con le conoscenze e competenze
specifiche. In particolar modo con i giovanissimi senza le sufficienti informazioni per poter insegnare
correttamente le basi del nuoto si potrebbe ridurre la velocità di apprendimento dell’atleta o
addirittura scoraggiarlo per i mancati progressi. Per quanto riguarda i giovani, magari reduci da
un’esperienza di nuoto agonistico, si dovranno insegnare modi diversi di nuotare normalmente mai
affrontati prima. Solitamente l’intelligenza motoria di un nuotatore agonista facilita l’apprendimento
di nuovi stili. Se il giovane proviene dal nuoto, le difficoltà si riscontrano nel ciclismo e ancora più
marcatamente nella corsa. Nell’atleta Age Group, spesso ci si trova un atleta con qualche corso di
nuoto nella gioventù, ma senza raggiungere livelli di tecnica natatoria elevati, la correzione della
tecnica dovrebbe iniziare dai grandi errori e consolidare una corretta tecnica di nuoto in funzione
delle esperienze motorie individuali. Per il triatleta proveniente dalla corsa o dal ciclismo senza
dimestichezza con l’ambiente acquatico, l’insegnamento di una buona tecnica natatoria è prerogativa.
Questa permette di potersi allenare sufficientemente, finire la gara senza eccessiva stanchezza e in
particolare riuscire ad affrontare l’ambiente acquatico in condizioni border line (meteo o altri atleti).
L’atleta élite dovrebbe avere già acquisito una eccellente tecnica natatoria, le esercitazioni
dovrebbero essere orientate verso il consolidamento della tecnica e la capacità di modificarla
rapidamente in funzione della gara. Se per l’atleta giovanissimo, giovane e Age Group lo sport non è
orientato alla prestazione, nell’attività under 23 ed élite è orientata alla prestazione. Ogni allenamento
deve tenere conto di questi macro-obiettivi per orientare le esercitazioni e gli allenamenti.

Nel nuoto agonistico sono codificati dalla FINA 4 stili:

• Freestyle (stile libero o Crawl)


• Backstroke (dorso)
• Breaststroke (rana)
• Butterfly (farfalla)

Nel triathlon si adotta lo stile libero, esso rappresenta il miglior compromesso tra velocità e spesa
metabolica. È importante, tuttavia, specialmente nell’età di avviamento sportivo al triathlon insegnare
tutti gli stili natatori sia per ampliare il bagaglio di abilità motorie sia per riuscire successivamente a
fornire stimoli allenanti diversificati. L’uso della farfalla per allenamenti ad alta intensità. Osservando
le dinamiche della frazione natatoria è utile introdurre le tecniche di nuotata della pallanuoto e del
salvamento come il trudgen (bracciata crawl o a dorso e gambe con una battuta a sforbiciata/rana con
la testa alta).

Crawl (Stile libero)

L’apprendimento della tecnica di nuoto è reso molto difficoltoso per diversi motivi. Il neofita deve
apprendere la capacità di galleggiare e gestire il proprio corpo in un ambiente non naturale. In acqua
vengono a mancare due riferimenti molto importanti per il movimento: la forza di gravità e la
posizione verticale. La spinta di Archimede e l’effetto della pressione dell’acqua su tutto il corpo
pongono una sfida al nostro sistema nervoso, deve trovare dei nuovi riferimenti per capire come è
orientato il corpo. Durante lo sviluppo adattiamo il sistema nervoso a rispondere alla forza di gravità
ed esso diventa molto efficiente ad interpretare i segnali ambientali per orientarsi nello spazio.
Nell’acqua questi riferimenti vengono a mancare e i gesti coordinativi più semplici appaiono
complicati. Iniziare a nuotare precocemente permette un adattamento del sistema nervoso al nuovo
mezzo ed è il motivo per cui difficilmente un adulto potrà raggiungere un livello di consapevolezza
e fluidità del movimento pari a quello di chi ha iniziato da bambino. Il secondo ostacolo è
rappresentato dalla posizione orizzontale del corpo, siamo abituati ad avere dei riferimenti spaziali
dalla posizione verticale (cioè quando siamo in piedi), per questo motivo non viene naturale capire la
posizione degli arti e del corpo quando posto in orizzontale. Queste difficoltà implicano come sia
molto difficile correggere gli errori tecnici in autonomia rendendo la guida di un istruttore a bordo
vasca insostituibile.

Assetto del corpo in acqua

Così come si deve conoscere la terminologia comune tra allenatori di triathlon e nuoto, non solo per
quanto riguarda i codici di allenamenti, è utile utilizzare una terminologia comune per le varie fasi
della nuotata. Ci focalizzeremo sul crawl lasciando all’approfondimento individuale la terminologia
specifica degli altri stili (tra l’altro molto simili). Essendo l’acqua un mezzo molto denso la resistenza
provocata dall’acqua all’avanzamento ha un andamento esponenziale in relazione alla velocità. Il
fattore idrodinamico è fondamentale per ridurre la superficie frontale utile a penetrare l’acqua, per
questo motivo un assetto del corpo orizzontale garantisce uno scivolamento migliore. È
indispensabile quindi prima di introdurre la tecnica della nuotata a stile libero insegnare ed abituare
l’atleta novizio a percepire l’orizzontalità del corpo e lo “scivolamento” in acqua.

La posizione del corpo in


acqua è orizzontale,
spalle, bacino, ginocchia e
caviglie sono allineati
Durante la nuotata il corpo
ha un rollio i circa 45° per
lato e si muove ad ogni
bracciata, si accentua
durante la respirazione

Figura 24 – Posizionamento del corpo in acqua nella nuotata a crawl (fonte Newsome P, Young A)

Come mostrato nelle figure 23 e 24 il corpo deve essere:

• Allineato alla superficie dell’acqua


• Con la testa in linea con il corpo

Posizione del corpo durante lo scivolamento prono

Posizione del corpo durante lo scivolamento e la bracciata a crawl


Figura 25 – fonte www.swim-teach.com

In questa posizione la linea dell’acqua dovrebbe essere all’altezza dell’attaccature dei capelli con lo
sguardo rivolto in avanti verso il fondo. La testa non deve essere né troppo immersa, poiché farebbe
salire troppo le gambe né troppo alta perché le farebbe affondare aumentando il drag. Il movimento
degli arti inferiori, per mantenere tale assetto, deve originare a livello delle anche e non delle
ginocchia e le punta delle dita del piede distese con la caviglia rilassata, come fosse una pinna
Il primo dito del piede
e la caviglia devono
essere rilassati
La gambata verso il
basso fornisce la
propulsione
Il ginocchio è rilassato
e leggermente flesso
Ginocchia e caviglie
rilassate
La posizione del corpo
rimane parallela
all’acqua
La gambata inizia delle
anche

Figura 26 – Movimento degli arti inferiori nel crawl (fonte www.swim-teach.com)

Fasi della bracciata a stile libero

La braccia nello stile libero (a scopo didattico) è scomposta in due fasi principali, ognuna delle quali
è ulteriormente scomposta in successivi livelli di dettaglio:

• Fase subacquea
o Appoggio
Entry
Stretch
o Presa
Catch
Downsweep
o Spinta
Insweep
Upsweep
• Fase aerea
o Uscita (release)
o Recupero (recovery)

Analizzeremo solo le fasi principali (Appoggio, Presa, Spinta, Uscita e Recupero) riservando le
analisi avanzate ai livelli avanzati del percorso tecnico.

Appoggio

Per effettuare l’entrata corretta della mano è importante la coordinazione con il braccio opposto,
questo dovrebbe trovarsi già in fase di presa/spinta. La fase di appoggio, come dice la parola stesa, è
quando la mano si appoggia sulla superficie dell’acqua. Alcuni nuotatori tendono a ritardare la fase
di spinta, mentre altri vanno subito in fase propulsiva. Sono caratteristiche tecniche peculiari
sviluppate dai nuotatori in base alle loro caratteristiche. Nuotatori come Sun Yang hanno una nuotata
del primo tipo (quasi scivolata), al contrario Gregorio Paltrinieri appartiene alla seconda categoria
(nuotata di forza). Quando la mano è entrata in acqua vi è un allungamento in avanti sulla linea
dell’acqua. Il corpo è ruotato di circa 45°dalla parte del braccio in appoggio e la distensione deve
essere effettuata velocemente.
La fase di appoggio è divisa in due parti:
• la fase di ingresso della mano in acqua viene chiamata entry, la mano è rilassata e le dita
normalmente aperte. La prima parte dell’arto superiore ad entrare in acqua è la mano,
successivamente l’avambraccio, il gomito e il braccio. Come errore spesso si vede l’ingresso
del gomito e poi della mano. Questo errore è da correggere assolutamente perché, in prima
istanza, fa partire la bracciata nel modo errato e modificare la traiettoria nelle fasi successive
è complesso; secondariamente si crea una tensione all’articolazione della spalla e alla lunga
potrebbe creare infiammazioni articolari e/o muscolo-tendinee
• dopo l’ingresso in acqua dell’intero arto superiore (in base al tipo di coordinazione) vi è una
fase di allungamento denominata stretch. In questa fase la mano e l’intero arto superiore
servono da appoggio per la respirazione o attendere la fine della spinta dell’arto superiore
controlaterale

Fase di entry in un nuotatore in vasca

Fase di stretch in un nuotatore in vasca


Ingresso della mano in acqua, da notare la mano, è la prima parte ad entrare, poi il resto dell’arto
superiore

Durante la fase di stretch vie è l’inizio della bracciata in funzione del tipo di coordinazione

Figura 27 – Fase iniziale della bracciata (fonte video 2012 Olympic Game e Newsome P, Young A)

Presa

Il gomito inizia a flettersi fino ad arrivare a circa 90°, si muove solo la mano, mentre il gomito rimane
quasi fermo. Normalmente si parla di gomito alto. In base ai riferimenti spaziali del corpo umano per
“alto” si intende in direzione della testa (craniale), il gomito alto in questo caso è riferito al gomito
rispetto alla mano. Il gomito rimane più craniale rispetto alla mano durante la fase di downsweep.
Successivamente vi è il movimento dell’arto superiore dalla spalla. La fase di presa si divide in due
parti:
• la presa vera e propria (catch in inglese) è la prima fase propulsiva della bracciata. In questa
fase la mano inizia a “prendere acqua”. Una leggera flessione palmare del polso permette di
anticipare la presa dell’acqua e sfruttare qualche grado in più di movimento ai fini propulsivi
• il movimento continua con una flessione del gomito, la mano si sposta verso il basso-dietro,
la terminologia inglese identifica questo abbassamento della mano come downsweep. Si nota
come in questa fase il gomito appare “bloccato” rispetto alla spalla e funge da perno per il
movimento dell’avambraccio. L’arto superiore controlaterale inizia la fase di appoggio o è
nella fase finale del recupero.
Fase di catch in un nuotatore in vasca

Nella fase di catch il polso si muove in funzione della posizione dell’avambraccio

Si noti la leggera flessione palmare della mano per anticipare la fare di presa dell’acqua
Fase di downsweep in un nuotatore in vasca, si noti la flessione del gomito con il braccio fermo

Figura 28 – Fase iniziale della bracciata (fonte video 2012 Olympic Game e Newsome P, Young A)

Spinta

Per applicare una maggiore forza propulsiva si usano i grandi muscoli della schiena (gran dorsale)
Il gomito si estende fino al termine del movimento all’altezza della coscia. Il corpo inizia la contro-
rotazione del rollio. In questa fase il braccio opposto è già entrato in acqua e si estende. Anche questa
parte della bracciata è divisa in due parti:
• Insweep è quando la mano percorre la traiettoria con la massima spinta, tendenzialmente va
dall’altezza della spalla fino al bacino. Durante la fase in insweep il gomito rimane sempre
alto per garantire la massima efficienza del muscolo gran dorsale.
• Upsweep, dal bacino in poi la mano compie una traiettoria verso l’alto (up) con l’ultima fase
della spinta in cui viene coinvolto il muscolo tricipite brachiale. Nella terminologia inglese
per “up” si intende “verso l’alto”, non si riferisce all’alto anatomico, ma all’alto spaziale,
ovvero verso il soffitto. Vi è una differenza di riferimenti tra “gomito alto” e mano “verso
l’alto” da imputarsi alle differenze di nome delle varie fasi date dai tecnici italiani a quelli
anglosassoni.

Fase in insweep
durante la fase di insweep il gomito rimane sempre alto

Fase di upsweep

Fase finale dell’upsweep

Figura 29 - La parte della spinta con le due fasi della bracciata (fonte video 2012 Olympic Game e Newsome P, Young
A)
Uscita e recupero

L’arto superiore ha completato la fase di spinta ed è completamente disteso. Inizia la fase recupero
composta anch’essa da due fasi:
• uscita dell’arto superiore dall’acqua detta release, la prima parte ad uscire dall’acqua è il
gomito, come a “sfilare” la mano dall’acqua. Il termine inglese release, indica il rilascio della
fase subacquea.
• Successivamente l’arto superiore esegue una extra-rotazione dell’omero per ritornare nella
posizione di entry, è importante mantenere rilassato il più possibile l’arto superiore. Il corpo
ha un rollio di circa 45°. Questa fase è il recupero vero e proprio e la terminologia
anglosassone la indentifica come recovery.

Figura 30 - Fase di uscita e recupero dell’arto superiore (fonte video 2012 Olympic game)

Rollio del corpo

Durante la rotazione degli arti superiori il corpo ha una rotazione denominata rollio (body rotation o
body roll in inglese). Questo rollio è indispensabile per favorire una bracciata fluida ed efficace,
inoltre, garantisce una minima rotazione del collo durante la fase di respirazione. Normalmente i
problemi nascono da un rollio eccessivo (oltre i 50° di rotazione). Le principali cause sono un limitata
mobilità articolare dell’arto superiore, una limitazione nella rotazione del capo e, a volte capita, un
problema nella corretta sincronizzazione della espirazione con l’inspirazione. Quest’ultimo problema
è stato riscontrato anche in atleti élite, sistemato un problema semplice, ma macroscopico, i problemi
di eccessivo rollio sono stati risolti. Esagerare con il rollio, porta ad una bracciata con la mano esterna
alla linea ideale per appoggiarsi sull’acqua. Gli arti inferiori si aprono lateralmente come a
“sforbiciare” e quindi rendere poco idrodinamica la nuotata.
Riferimento delle spalle per il rollio dle corpo

Linee di azione della mano durante la bracciata con il rollio

Rollio visto anteriormente


Rollio visto posteriormente

Figura 31 - Rollio del corpo durante la nuotata (fonte Newsome P, Young A)

Azione degli arti inferiori

Arti inferiori e arti superiori si muovono in maniera coordinata. A volte la terminologia della gambata
è ambigua. Spesso si sente parlare di un colpo di gambe ad ogni bracciata o a volte 6 gambate ad ogni
bracciata. Si definisce la bracciata: una rotazione di 360° di un arto superiore. Una gambata:
un’azione discendente e ascendente di un piede.
Normalmente nel nuoto di fondo in acque libere e nel triathlon si preferisce usare una gambata per
ogni bracciata (ad ogni ciclo di bracciata corrisponde una discesa e una risalita del piede) con un
utilizzo prettamente stabilizzante. Spesso si vede nel triathlon un’azione degli arti inferiori diversa
con due o tre gambate ad ogni ciclo di bracciata. La coordinazione tra gli arti superiori e inferiori
necessita di una grande attenzione da parte dell’atleta. Spesso si preferisce lasciare all’atleta la libertà
di usare la coordinazione più facile da gestire. In termini di costo energetico, usare un ciclo di gambata
per ogni bracciata permette di risparmiare energia durante la fase natatoria. Se l’atleta dispone di una
buona efficienza di gambata, questo gli permetterà di essere più performante per la successiva
prestazione. Come detto ci sono tre tipo di coordinazione tra arti superiori e inferiori:
• 1:3 ad ogni cambio di direzione (ad ogni sweep) della mano corrisponde una battuta di gambe.
Coordinazione ideale per i nuotatori di velocità o per una gara mixed relay
• 1:2 un colpo di gambe durante la fase di appoggio presa e uno durante la fase di spinta.
Coordinazione ideale per i nuotatori trai 400 e gli 800 metri o per una gara sprint
• 1:1 il colpo di gambe inizia durante la fase di appoggio-presa dell’arto superiore
controlaterale. La coordinazione controlaterale tra arti superiori e inferiori permette di
stabilizzare il rollio. La coordinazione omolaterale pone una premessa fondamentale: l’atleta
è un buon nuotatore.
Figura 32 - Vari tipi di coordinazione tra arti superiori e inferiori (fonte Maglischo E W)

Insegnamento della tecnica di nuoto

In base all’articolo 4.1 del regolamento tecnico FITri 2021 l’attività non agonistica per i giovanissimi
può iniziare all’età di 6 anni. A questa età, se i bambini hanno già frequentato un corso di nuoto, sono
in grado di nuotare a crawl e dorso in maniera rudimentale. Se il bambino ancora non ha imparato a
nuotare, nell’arco di 6 mesi/un anno può imparare entrambi gli stili in modalità rudimentale. Si vuole
sottolineare: il presente corso e manuale non sostituiscono un percorso formativo completo
all’insegnamento del nuoto. Il giovanissimo triathleta non fa gare fino all’età di 8 anni (capitolo 2 del
Programma dell’Attività Giovanile) tra i 6 e gli 8 anni è l’età in cui insegnare bene i rudimenti del
nuoto aiuta a farlo cresce del punto di vista motorio. Due lezioni da un’ora a settimana (senza
considerare le altre attività) possono fornire una buona base su cui iniziare a costruire l’atleta. È utile
rammentare: prima di diventare un atleta élite (se inizia a fare triathlon all’età di 6 anni) passano 17
anni (termine della categoria Under 23). Il percorso è molto lungo e non tutti arrivano ad essere atleti
élite. Il triathleta moderno non deve essere solo un buon nuotatore, ma un buon ciclista e un ottimo
podista. A questo vanno sommate le transizioni. I 17 anni ipotizzati per diventare un triathleta élite
sono, a volte, a malapena sufficienti per sviluppare competenze motorie eccellenti. Inoltre, fino alla
fine della pubertà le modificazioni somatiche mettono in difficoltà l’apprendimento motorio. I primi
12 anni di attività servono per costruire le attività motorie, il restante tempo a consolidarle e
svilupparle.
L’apprendimento della tecnica di nuoto è processo complesso per le difficoltà esposte in apertura:
l’ambiente acquatico non è quello in cui siamo abituati a muoverci per questo motivo i riferimenti
spaziali, coordinativi sono poco sviluppati. È importante introdurre il nuoto il prima possibile in modo
da sviluppare la sensibilità al movimento in un fluido. Data per scontata la capacità di galleggiare e
muoversi in sicurezza in acqua e sotto la superficie, le tappe per l’insegnamento dello stile libero sono
le seguenti:

• Acquisizione della corretta posizione del corpo in acqua


• Schema grezzo della nuotata senza respirazione
• Respirazione
• Affinamento della tecnica

Acquisizione della corretta posizione del corpo in acqua

L’acquisizione della posizione idrodinamica è il primo passaggio per apprendere correttamente


qualsiasi tecnica di nuoto. Inizialmente si insegna a bilanciare correttamente il galleggiamento in
posizione statica con la posizione supina e prona facendo muovere il capo per valutare come questo
agisca sul galleggiamento delle gambe. Il movimento degli arti superiori influisce sulla posizione del
galleggiamento. Inoltre, il movimento a livello del bacino influenza il corretto galleggiamento. Si
fanno provare le posizioni statiche fino a quando non si è in grado di avere una buona padronanza
alternando la posizione di galleggiamento verticale a quella orizzontale. La posizione orizzontale ha
il vantaggio di iniziare a far capire come il movimento delle mani e dei piedi permette il
galleggiamento. Una volta acquisita la posizione fondamentale di galleggiamento si può iniziare a far
battere i piedi al giovane per far comprendere la propulsione, inizialmente si utilizza la posizione
supina per una respirazione più agevole. L’uso delle mani è di ausilio al galleggiamento e alla
propulsione. Importante fin da subito (dovrebbe essere già appreso nella parte di ambientamento) è
la respirazione. In posizione prona, con le mani appoggiate al bordo, insegnare la coordinazione della
respirazione: inspirare con la testa fuori dall’acqua ed espirare tutta l’aria sott’acqua. A volte questa
coordinazione non viene tenuta in considerazione a sufficienza con conseguenze spesso difficili da
recuperare. Alcuni bambini non espirano quando hanno la testa sott’acqua ma rimangono in apnea,
espirando un attimo prima di uscire con la testa dall’acqua. Questo errore si somma nella respirazione
abbinata alla bracciata aumentando il tempo di inspirazione, aumentando il rollio e riducendo la
capacità inspiratoria durante il tempo la fase di respirazione della bracciata.
Figura 33 - Esercizi per il galleggiamento orizzontale

Successivamente di insegna il galleggiamento dinamico, spingendosi da bordo vasca e lasciandosi


scivolare in acqua senza muoversi. L’esercizio va fatto ripetere con diverse posizioni della testa
(piegata verso il basso, in linea con il corpo, sollevata) e delle braccia (avanzate, lungo i fianchi,
aperte, chiuse alla Superman). Successivamente si aggiunge la gambata chiedendo di restare rilassati
e di immaginare di avere delle pinne. Inizialmente in posizione supina e poi prona ripetendo
l’esercizio di respirazione. Capita di avere la tentazione di utilizzare gli ausili didattici (tavoletta,
tondoludo o pull buoy) quando si esegue lo scivolamento in posizione prona per favorire la
respirazione. Non sempre questa soluzione è quella più veloce per acquisire lo schema motorio.
Infatti, l’ausilio didattico semplifica il movimento, ma non permette al bambino di imparare a
utilizzare le mani per sollevare la testa “appoggiandosi all’acqua”. Gli ausili didattici vanno usati, ma
devono essere proposti solo quando il bambino ha le giuste capacità acquatiche per non considerarlo
un supporto necessario alla nuotata.
Figura 34 - vari tipo di scivolamento

Schema grezzo della nuotata

Abbiamo visto come l’apprendimento motorio segua delle tappe predefinite passando dal movimento
grezzo a quello fluido e coordinato. In questa fase di apprendimento si sceglie un movimento globale,
successivamente si potrà lavorare sui dettagli. È pratica comune insegnare la tecnica di nuoto in modo
frazionato credendo sia poi sufficiente legare i pezzi di movimento per avere la nuotata globale. In
realtà è vero esattamente il contrario e questo modo di agire rallenta il processo di apprendimento
motorio. Il cervello ha necessità di rappresentare i movimenti in unità semantiche, successivamente
possono essere arricchite e migliorate lavorando sui dettagli. Seguendo lo schema di progressione
didattica esposto ci troveremo in una fase in cui l’allievo sarà in grado di spingersi dal bordo con le
mani protese in avanti in posizione prona utilizzando le gambe a scopo propulsivo. Avremo insegnato
ad espirare l’aria quando il viso è immerso in acqua. A questo punto si chiede di usare le braccia
come la pagaia di un kayak cercando di cercare l’opposizione. In questa fase (movimento grezzo)
non siamo interessati alla perfetta coordinazione. Chiederemo all’allievo di spingersi dal bordo,
battere le gambe e soffiando l’aria sott’acqua fare alcune bracciate fino a quando ha soffiato fuori
tutta l’aria. Inizialmente è possibile far eseguire questo esercizio lungo il bordo della vasca. Anche
se non viene specificato nella spiegazione dell’esercizio, il bambino si appoggerà al bordo per
respirare. Normalmente non è solo un respiro, ma sono vari respiri, poi riparte. Nelle fasi successive
chiedere di respirare senza appoggiarsi al muro in qualsiasi modo e poi senza fermare l’azione degli
arti superiori. Il movimento così appreso andrà successivamente affinato.

Insegnamento della respirazione

L’introduzione della respirazione è un elemento altamente destabilizzante per la nuotata poiché


cambia l’assetto del corpo. In acqua, ad ogni movimento della testa, l’assetto del corpo è
compromesso e deve essere mantenuto o ristabilito. Il ritmo di respirazione, inoltre, si deve
sincronizzare con l’entrata (espirazione) uscita (inspirazione) del viso sotto la superficie dell’acqua.
Gli esercizi per apprendere la corretta respirazione dovrebbero prevedere già in fase iniziale il
movimento del corpo in acqua. Un esercizio utile è aggiungere alla spinta del bordo con la battuta di
gambe un ciclo di bracciata con espirazione completa, una volta acquisito si passa a 2 cicli di bracciata
in modo da comprendere le seguenti fasi: spinta dal bordo con bracciata ed espirazione, inspirazione,
e successivo ciclo di bracciata. Questo e l’esercizio precedente possono essere alternati.
Spesso ci si chiede quale sia il numero di bracciate in funzione della respirazione: 1 respirazione ad
ogni ciclo di bracciata (detta respirazione ogni due bracciate), una respirazione ogni ciclo e mezzo
(detta respirazione ogni tre bracciate). In realtà non importa quale sia la migliore, l’importante è la
multilateralità: il giovane deve essere in grado di variare la respirazione a suo piacimento. Durante
una gara si deve respirare sia a destra sia a sinistra, frontalmente e a volte non si può respirare a causa
delle onde o degli altri atleti. Ad ogni alterazione delle condizioni ideali di nuotata viene superata
dalla capacità di adattamento dell’atleta. Insegnare molti modi di respirare permetterà all’atleta di
scegliere (inconsciamente) quale utilizzare in funzione delle difficoltà incontrate. Compito
dell’allenatore è riuscire a creare le condizioni estreme per far trovare o spiegare i vari modi di agire.

Affinamento della tecnica

Quanto l’allievo è in grado di avere una buona sicurezza su tutte le precedenti fasi è possibile agire
sull’affinamento della tecnica inserendo esercizi di correzione delle fasi della bracciata, gambata e
respirazione. L’atleta è in fase di sviluppo (somatico e cognitivo), in questa età si cureranno i grandi
errori della nuotata. Verso la categoria Youth potranno essere affinati i dettagli.
Sono stati sviluppati tantissimi esercizi per il perfezionamento della tecnica. Sono esercizi da proporre
quando le fasi “grezze” del movimento sono state acquisite. Molto spesso alcuni istruttori li utilizzano
come mezzi didattici per l’apprendimento della tecnica, ma questo può comportare l’instaurarsi di
vizi tecnici difficili poi da correggere e rallentare il processo di apprendimento. Questa fase di
affinamento dura praticamente per tutta la carriera del triathleta. Nell’adolescenza, quando i
cambiamenti somatici si fanno importanti, si dovrò ricominciare da capo per affinare la tecnica
natatoria. Alcuni degli esercizi principali di perfezionamento tecnico sono riportati qui sotto. In
bibliografia si possono trovare dei riferimenti per approfondire.

• Nuotata sul fianco senza e con respirazione, in cui un braccio è in fase di entrata-distensione
e l’altro sul fianco. Da questa posizione si avanza utilizzando la gambata ed eseguendo la
respirazione. Può essere fatto con il cambio lato dopo un certo numero di bracciate.

Figura 35 - Nuotata sul fianco


• Sculling, si può fare con la battuta di gambe o senza, le mani si muovono sotto acqua appena
avanti la linea delle spalle con lo scopo di mantenere il corpo a galla e in avanzamento. Lo
scopo è migliorare la sensibilità alla “presa dell’acqua”. Il nuoto sincronizzato è una grande
fonte di esercizi di sculling.

Figura 36 - Esercizio di sculling

• Si nuota con i pugni chiusi e lo scopo è migliorare la bracciata utilizzando l’avambraccio


come superfice di spinta dell’acqua. Non solo è utile avere i pugni chiusi, a volte tenere un
dito esteso aiuta. Inoltre, è possibile tenere la mano come per fare il simbolo dell’OK o toccare
il pollice con il medio, l’anulare e il mignolo.

Figura 37 - Nuoto a pugni chiusi


• Trascinamento delle dita nel recupero, durante la fase di recupero si tengono le dita in acqua
accentuando il movimento di recupero del braccio con il gomito flesso. La punta delle dita
può toccare leggermente l’acqua o sfiorare il tronco fino all’ascella mantenendo sempre il
gomito alto.

Figura 38 - Nuoto con il gomito alto

Le opinioni riguardo alla tecnica di nuoto sono numerose. Le controversie nascono per la specificità
del triathlon e delle caratteristiche intrinseche. Le due opinioni normalmente dibattute sono:
• Allenare la tecnica specifica della notata in acque libere. Durante gli allenamenti in piscina
utilizzare una tecnica vicina alla nuotata in acque libere per stimolare in maniera specifica la
muscolatura, le articolazioni i sistemi neuronali e ormonali. In questo modo in gara si sarà
abituati a questo tipo di stimolazione.
• Allenare la miglior tecnica natatoria possibile. Durante gli allenamenti in piscina utilizzare la
migliore tecnica natatoria possibile in modo da essere efficaci ed efficienti con uno stimolo
metabolico più importante. Una buona tecnica di nuoto distribuisce lo sforzo per aumentare
la velocità e non per vincere le resistenze dovute ad una tecnica scadente. Nei periodi
agonistici si introducono le esercitazioni specifiche della nuotata in acque libere.

Non è questo l’ambito per aprire una discussione sulle numerose varianti di queste opinioni, sarà
compito del tecnico doversi fare un’idea di quale direzione seguire. Osservando le gare di alto livello
si può notare come gli atleti nelle posizioni di testa abbiano una eccellente tecnica di nuotata anche
in acque libere. Correttamente si può obiettare: gli atleti nelle prime posizioni hanno spazio libero per
poter avere una buona tecnica di nuotata, mentre all’interno di un gruppo tale cosa non è possibile.
Questo è il motivo per cui si devono allenare differenti tecniche di nuotata per insegnare all’atleta
quale utilizzare in qualsiasi momento di gara.
Classificazione delle andature nell’allenamento di nuoto FIN

Nei moduli precedenti sono stati descritti i sistemi energetici ed il loro funzionamento. Ogni
disciplina sportiva ha provveduto a adottare una propria nomenclatura attribuendo dei codici sintetici
alle andature di allenamento rappresentante il sistema energetico prioritariamente sollecitato da esso.
La Federazione Italiana Nuoto adotta un sistema di codici utilizzando le prime lettere dell’alfabeto
seguito da un numero: A1, A2, B1, B2, C1, C2, C3, D. Di seguito la descrizione dei singoli codici.
Nel nuoto, l’utilizzo di strumenti per il monitoraggio della frequenza cardiaca stanno entrando sempre
più nella quotidianità. I riferimenti indicati successivamente sono solo a titolo di esempio. Non è
possibile utilizzare i parametri usati nella corsa o nel ciclismo. Quando il corpo è immerso in acqua
ha una riduzione naturale della frequenza cardiaca chiamato riflesso di immersione (diving reflex),
inoltre per l’assetto orizzontale e l’aiuto dell’acqua si ha una diminuzione di circa 13 battiti al minuto
sia in principianti sia in atleti allenati (McArdle et al pag 417). Stessa indicazione è valida per la scala
di Borg o RPE (Rate of Perceived Exertion). In ogni allenamento in qualsiasi disciplina sportiva vi
sono dei parametri di riferimento per determinare l’allenamento. Nel nuoto si usano i metri o le
vasche, nel ciclismo i chilometri così come nella corsa. Se anziché ragionare in termini di vasche o
chilometri ragionassimo in termini di tempo, la somministrazione degli allenamenti risulta più
comprensibile. Ogni sistema energetico ha un tempo oramai standardizzato per la sua stimolazione
nell’allenamento. Per semplificare la comprensione utilizzeremo il tempo come parametro di
riferimento. Al termine vi saranno degli esempi su come si può trasportare questo tempo in vasche
e/o metri.
Per quanto riguarda la frequenza respiratoria, il parametro si basa durante le fasi statiche, non durante
la nuotata. Durante la nuotata la frequenza respiratoria è vincolata dalla frequenza di bracciata.
Durante il recupero tra una ripetizione e l’altra si può apprezzare l’alterazione della frequenza
ventilatoria.

A1

RESISTENZA AEROBICA (a bassa intensità) questa velocità consente al nuotatore di mantenere,


per il maggior tempo possibile, una determinata velocità nel campo aerobico senza diminuzione del
rendimento meccanico. Generalmente utilizzata nelle fasi di riscaldamento, defaticamento, recupero.
Dovrebbe essere l’intensità in cui si eseguono gli esercizi di tecnica, spesso però si sfocia nell’A2
non solo per la velocità di nuotata, ma per la difficoltà di esecuzione degli esercizi.

Frequenza cardiaca: < 130 b/min


Lattacidemia: < 2 mmol/l e costante nel tempo (nei nuotatori di fondo ci possono essere minime
variazione di lattato a queste intensità rimanendo intorno al basale)
Ventilazione: modesta alterazione della frequenza
Livello di stanchezza: < al 3 nella scala di Borg
Carburante utilizzato: miscele di glucidi e lipidi

La fase di riscaldamento e di defaticamento è variabile in base al tipo di lavoro principale.


Normalmente un buon riscaldamento nel nuoto si ottiene dopo 20- 30 minuti circa. Non vuol dire
nuotare per 20 minuti continuativamente. All’interno del riscaldamento ci saranno gli esercizi di
tecnica, la nuotata lunga e continuativa e l’attivazione specifica in funzione dell’obiettivo della
sessione di allenamento.
A2

RESISTENZA AEROBICA. Orientata specificamente allo sviluppo della resistenza aerobica. È il


classico allenamento di fondo. La durata in questa zona di allenamento può essere protratta per tutta
la sessione di allenamento. Per i giovani è la zona di allenamento principale. Dalla categoria Youth
in poi è una delle sessioni di allenamento all’interno della programmazione settimanale/annuale.

Frequenza cardiaca: < 150 b/min


Lattacidemia: ≤ 2 mmol/l e costante nel tempo
Ventilazione: modesta alterazione della frequenza
Livello di stanchezza: ≥ al 3 nella scala di Borg
Carburante utilizzato: miscele di glucidi e lipidi

I tempi di nuotata devono superare i 5 minuti per permettere al sistema aerobico di adattarsi. Le pause
possono essere di pochi secondi (5”). Diversamente dal ciclismo e dalla corsa, un allenamento di
nuoto orientato alla costruzione della base aerobica non è il nuoto continuato (50 minuti), le distanze
da percorrere saranno più lunghe e i tempi di recupero più brevi.

B1
POTENZA SOGLIA equivale alla massima potenza aerobica ottenibile senza sfociare in un
prevalente uso del sistema anaerobico lattacido. È il classico allenamento per migliorare la soglia del
lattato. Questa zona di allenamento viene utilizzata in prevalenza durante la gara. In una gara su
distanza olimpica circa 1.000 metri sono passati in questa zona metabolica. Nei giovanissimi questa
zona metabolica spesso viene intrapresa senza consapevolezza. I giovanissimi conoscono
prevalentemente due tipi di velocità (forte e piano). Le osservazioni dei giovani atleti permettono di
osservare come inizino a percorrere una parte della distanza ad alta velocità e poi rallentino per il
sopraggiungimento della stanchezza. L’allenatore può cercare di far capire all’allievo la differenza di
velocità, ma a volte è più utile far percepire la differenza tra forte e piano per prendere consapevolezza
delle sensazioni. Per il giovane (da Youth A in poi) è una zona metabolica allenata sistematicamente.
Normalmente di esegue una volta a settimana. Eseguirla più volte potrebbe affaticare l’atleta e
soprattutto vanificare i tempi di recupero degli altri allenamenti.

Frequenza Cardiaca: di norma > 150


Lattacidemia: valori compresi tra le 3 e le 4 mmol/l La lattacidemia rimane sostanzialmente costante
nello sviluppo del lavoro a velocità costante.
Livello di stanchezza da 4 a 6 nella scala di Borg
Ventilazione: incremento non sostanziale della frequenza
Carburante Utilizzato: glucidi

Normalmente il tempo di una ripetizione è di circa 4 minuti. Per atleti più evoluti questo tempo può
essere protratto tenendo sempre presente la tecnica di nuoto e la rispettiva velocità. Il tempo di
recupero può essere relativamente lungo (anche 20 secondi). Normalmente si parte con un tempo
totale di 20 minuti fino ad arrivare a 40 minuti di allenamento in soglia (somma del tempo di nuotata
e recupero).
B2
ALLENAMENTO VO2Max, rappresenta la massima quantità di ossigeno utilizzata nell’unità di tempo
e viene raggiunto solo attraverso il contributo dei meccanismi anaerobici. Questa zona metabolica
viene utilizzata in gara dopo la partenza, dopo il giro di boa o dopo il tuffo nel secondo giro in un
percorso multilap. Nel giovanissimo si possono far fare tratti di pochi metri a questa intensità, ma i
sistemi metabolici ancora acerbi non permetteranno di mantenere questa velocità per molto tempo.
Nella categoria ragazzi si iniziano a dare stimoli in questa zona metabolica, dove per stimolo si
intende un allenamento ogni 10 giorni. Da Youth A in poi si possono inserire allenamenti sistematici,
normalmente uno a settimana, per incrementare la prestazione dell’atleta.

Frequenza Cardiaca: di norma > 160


Lattacidemia: valori compresi tra le 5 e le 8 mmol/l (normalmente più bassi per i fondisti). La
lattacidemia cresce progressivamente nello sviluppo del lavoro a velocità costante.
Livello di stanchezza da 6 a 7 nella scala di Borg
Ventilazione: incremento apprezzabile della frequenza
Carburante Utilizzato: glucidi

La durata della ripetuta varia da 2 a 4 minuti con recuperi con tempi fino al minuto. Essendo l’intensità
molto elevata per la categoria ragazzi un totale di 10-15 minuti è sufficiente per dare degli stimoli.
Da Youth A si può arrivare fino a 25-20 minuti. In atleti evoluti si può arrivare fino a 40 minuti su
un allenamento di 1 ore e mezza.

C1
ALLENAMENTO ANAEROBICO, tolleranza al lattato questa zona metabolica consente al
nuotatore di mantenere, per il maggior tempo possibile, una determinata velocità in condizioni di
acidosi muscolare senza riduzione di rendimento meccanico. Questa andatura è utilizzata nella parte
iniziale della frazione natatoria, riuscire a mantenere una velocità alta in questa zona metabolica
all’inizio della gara può far guadagnare qualche metro (prezioso). Per l’atleta giovanissimo questa
zona metabolica non viene allenata, innanzitutto perché i sistemi metabolici non sono ancora maturi
per produrre e tollerare alte concentrazioni di lattato ematico. Nei giovani da Youth A è solitamente
utilizzato una volta a settimana in combinazione con il C2.

Frequenza Cardiaca: tendente a valori massimali


Lattacidemia: tendente a valori elevati
Livello di stanchezza: oltre 7 - 8 nella scala di Borg
Ventilazione: tendente a valori massimali
Carburante Utilizzato: glucidi

La durata delle ripetute può essere intorno al minuto, si deve nuotare ad una intensità elevata per
produrre tanto lattato. I tempi di recupero dovrebbero essere lunghi (anche 3 minuti) per permettere
al lattato prodotto di diffondersi nel torrente ematico e garantire un riposo sufficiente per ripartire ad
intensità massimali. Spesso si cerca di ridurre questo tempo di recupero per evitare il raffreddamento
dell’atleta. La durata totale arriva a 10 minuti. Può essere utilizzato come allenamento specifico per
la gara, pre-affaticamento per un lavoro di B1 o negli allenamenti combinati.
C2
ALLENAMENTO ANAEROBICO, picco di lattato è la capacità di produrre e accumulare lattato in
quantità massimali. Avere un sistema anaerobico lattacido efficace permette di poter aumentare il
numero di enzimi cellulari adibii alla produzione e allo smaltimento del lattato prodotto. È il secondo
passo per l’incremento della prestazione. Questa zona metabolica la si utilizza per poco tempo nelle
primissime fasi della frazione natatoria. Durante gli allenamenti è combinato con il C1. Nei
giovanissimi si forniscono solo degli stimoli (dai 10-12 anni in poi) una volta ogni 10 giorni circa.
Nei giovani da Youh A può essere utilizzata come riscaldamento specifico per il B1 o B2.

Frequenza Cardiaca: tendente a valori massimali


Lattacidemia: valori massimali
Livello di stanchezza: 6 - 7 nella scala di Borg
Ventilazione: tendente a valori massimali (tachipnea)
Carburante Utilizzato: glucidi

La ripetuta ha una durata variabile da 30 a 40 secondi con recuperi lunghi fino a due minuti.
Solitamente l’allenamento in C1 viene eseguito in combinazione con altre intensità metaboliche.
Questa parte in totale può durare 7-10 minuti. Spesso è utilizzato in combinazione con il B2 o il B1
come riscaldamento specifico, oppure prima di un C1 per innalzare i livelli di lattato e poi tollerarlo.

C3
ALLENAMENTO ANAEROBICO (alattacido), esercizi di velocità è la ricerca e lo sviluppo della
massima velocità di spostamento in acqua attraverso il miglioramento del rendimento meccanico e
della potenza muscolare. Questa zona metabolica viene utilizzata nei primi metri dopo il tuffo di
partenza. Normalmente la si utilizza per circa 20-30 metri. I valori di lattato ematico dovrebbero
essere bassi, ma dopo qualche ripetizione il lattato ematico sale. Questa zona di allenamento dovrebbe
utilizzare il sistema anaerobico alattacido (senza produzione di lattato), il lattato si produce al termine
della ripetuta. Per ricostruire velocemente l’ATP utilizzata sfrutta il sistema del CPK la glicogenolisi
producendo ATP, come “scarto” il lattato ematico. Il sistema aerobico non è sufficiente da solo a
ripristinare l’ATP necessario alla successiva ripetuta. Teoricamente non si dovrebbe produrre lattato,
in pratica se ne produce molto, al termine dell’esercizio si trova una concentrazione di lattato vicino
alle 4 mmol/l. Nel giovanissimo è una parte da introdurre quotidianamente nelle esercitazioni, in
particolare nella fase di riscaldamento specifico sotto forma di gioco. Nel giovane (da Youth A) viene
inserita nel riscaldamento specifico quando si vogliono eseguire allenamenti ad alta intensità, quindi
2 o 3 volte a settimana.

Frequenza Cardiaca: tendente a valori massimali


Lattacidemia: tendente a valori elevati (?)
Livello di stanchezza: oltre 6 - 7 nella scala di Borg
Ventilazione: tendente a valori massimali
Carburante Utilizzato: glucidi

La durata della ripetuta varia da 5 a 10 secondi con un recupero di circa 30 secondi anche attivo. In
totale la durata è variabile tra 5 e 7 minuti.
D
RITMI GARA, andature ai ritmi di gara con particolare attenzione alla frequenza e all’ampiezza della
bracciata. Come detto precedentemente il ritmo gara, in manifestazioni fino a distanza olimpica, non
è utile allenarlo perché è utilizzato solo dall’atleta in testa. Tutti gli altri si devono adattare al ritmo
impostato per non perdere posizioni. Viceversa, nelle gare di lunga distanza, viene allenato.
Teoricamente è la velocità per garantire la massima prestazione in funzione di tutto l’evento. Per gli
Age Group è utile utilizzare i ritmi gara in allenamento così avranno un consolidamento delle
sensazioni durante la frazione e poter nuotare al meglio senza consumare energia eccessiva ed
affrontare le altre discipline come programmato. Negli atleti giovanissimi, giovani e spesso élite è
utilizzato raramente.

Frequenza Cardiaca: tendente a valori raggiunti in gara


Lattacidemia: tendente a valori raggiunti in gara (normalmente sotto le 4 mmol/l)
Livello di stanchezza: oltre 5 -7 nella scala di Borg
Ventilazione: tendente a valori sub massimali
Carburante Utilizzato: glucidi o lipidi in base alla distanza e velocità

La durata delle ripetute varia in base al tipo di gara da affrontare, normalmente frazionando la distanza
di gara in blocchi di 7-10 minuti circa (riferito a gare di lunga distanza per la categoria age group). Il
recupero è breve, massimo 10 secondi.

Codici di allenamento e curva del lattato

Nella descrizione dei codici di allenamento sono stati forniti i dati relativi al lattato ematico. Viene
considerata la soglia aerobica a 2 mmol/l di lattato (linea verde) e la soglia anaerobica a 4 mmol/l di
lattato (linea rossa). Al termine di un test a velocità incrementale in cui è stato prelevato il lattato al
termine di ogni ripetizione, è stata costruita la curva tipica (linea blu). Su questa curva sono stati posti
i codici in funzione della concentrazione di lattato (figura 5.25).

Figura 39 - Disposizione delle intensità metaboliche con i suoi codici su una curva del lattato
Scala di Borg RC10 e RPE

Per quanto riguarda la scala di Borg RPE (Rate of Perceived Exertion) è stata creata questa tabella
attraverso lo studio di nuotatori di fondo (Ieno et al 2020). In questo caso è utilizzata quella di 0 a 10.
Nella prima colonna (LT = Lactate Threshold) si identificano la prima e la seconda soglia del lattato.
RPE da 0 a 10. Lactate, le concentrazioni di lattato trovate nei nuotatori dello studio. Metabolic Zone:
la zona 1 (detta zona aerobica in verde) è quella zona con partenza dalla concentrazione basale di
lattato alle 2 mmol/l, è totalmente a carico del sistema aerobico; la zona 2 (detta mixed zone in ocra)
parte dalle 2 mmol/l e arriva alle 4 è chiamata mixed zone perché vi è una prevalenza aerobica con
l’inizio della produzione di lattato da parte del sistema anaerobico lattacido; la zona 3 (detta zona
anaerobica in rosso) è identificata quando si superano le 4 mmol/l, è prevalentemente a carico del
sistema anaerobico lattacido con percentuale variabili aerobiche.

Lactate Threshold RPE Lactate Metabolic Zone


0 – rest
1 – very easy 1.3
Z1
2 – easy 1.2
3 – easy 1.3
LT 1
4 – somewhat hard 1.7
5 – hard 2.2 Z2
6 3.0
LT 2
7 – very hard 4.0
8 – very, very hard 5.2
Z3
9 – nearly maximal 6.8
10 – maximal effort 8.6
Tab 5.4 Session RPE in nuotatori di fondo (fonte Ieno et al 2020)

Eterocronismi

Gli eterocronismi (etero = diverso, cronismo = tempo) sono i tempi di recupero tra un allenamento di
un certo tipo al successivo. Ogni sistema ha tempi diversi per tornare all’omeostasi. Ad esempio,
dopo un allenamento intenso le scorte di glicogeno diminuiscono e sono necessarie da 36 a 48 ore
per il totale ripristino (in base alla dieta). Dopo un allenamento pesante ci sarà parallelamente una
“distruzione” cellulare (muscoli, tendini o altro), per la ricostruzione ci vogliono fino a 6-10 giorni
(Weineck J 2001). I DOMS (Delayed Onset Muscle Soreness) sono un esempio di questa
“distruzione” cellulare. Nel nuoto, prendendo come riferimento tutti i sistemi, sono stati trovati dei
tempi standard da intervallare tra un allenamento e l’altro. In parte possono essere utilizzati anche per
le altre discipline, ma in questo caso è necessario modificare la programmazione.

A1 A2 B1 B2 C1 C2
A1 1 1 1 1 1 1
A2 1 6-8 6-8 6 1 1
B1 1 6-8 24 36 12 36
B2 1 6 36 72 24 36
C1 1 1 12 24 48 12
C2 1 1 36 36 12 48
Tab 5.5 Eterocronismi in base all’allenamento effettuato
Nell’A1 il tempo di un’ora è puramente aleatorio perché normalmente passano pochi minuti tra la sua
esecuzione e le altre andature. L’intensità metabolica è talmente bassa da essere introdotta in qualsiasi
allenamento. Spesso alcuni allenamenti sono eseguiti simultaneamente (C2 => C1 => B1), in questo
caso gli eterocronismi devono necessariamente cambiare. Questi eterocronismi devono essere presi
in considerazione, ma ogni atleta avrà dei tempi di recupero differenti, in particolare se nel ciclismo
e nella corsa si fanno allenamenti ad alta intensità.

Calcolo delle andature

Nelle piscine di tutto il mondo gli allenatori “urlano” numeri ai propri atleti. Questi numeri sono il
tempo impiegato dall’atleta per compiere la distanza prescritta. L’allenatore conosce esattamente il
significano questi numeri, ma è utile spiegare all’atleta il motivo per cui gli vengono riferiti i tempi.
Quando l’atleta conosce l’obiettivo dell’esercizio, il tempo di percorrenza e la distanza, sarà in grado
di gestire il suo allenamento. L’atleta raggiungerà l’obiettivo e l’allenatore dovrà solo monitorare la
corretta esecuzione. Spesso gli atleti conoscono il tempo, ma non sanno quale sia il motivo.
L’allenatore deve dare dei feedback al proprio atleta. A volte non deve andare più forte, ma a volte
deve andare più lento altrimenti non si trova nelle zone di allenamento indicate dalla sessione di
allenamento. Se si è 4 secondi più veloci in una sessione aerobica, si farà un allenamento di soglia,
quindi non conforme alle direttive e soprattutto non si riescono a monitorare gli allenamenti e l’atleta
potrebbe ritrovarsi in uno stato di affaticamento precoce. Per i giovanissimi non è necessario fare dei
test per calcolare le andature (spesso non si usa neanche il cronometro durante gli allenamenti), nei
giovani invece è utile iniziare a fare qualche test per capire le capacità prestative e monitorare nel
tempo le prestazioni. Per calcolare le andature utilizzeremo tre metodi: differenziale, continuato e
swolf.

Differenziale

Il differenziale, come dice la parola stessa, calcola le differenze tra due tempi nel nuoto. Si utilizza la
differenza tra il 200 e il 100 oppure tra il 400 e il 200. Teoricamente si dovrebbero utilizzare i tempi
delle gare della stagione precedente, ma nel triathleta questa cosa non è sempre possibile quindi si
eseguirà una sessione di allenamento con l’esecuzione delle distanze desiderate. Per la categoria
Youth A e B è utile utilizzare il differenziale tra 200 e 100. Per la categoria Juniores il differenziale
tra 400 e 200.
Prendiamo ad esempio (utilizzando numeri semplici) il differenziale tra il 200 e il 100. Il tempo di
percorrenza del 200 è di 2’00” e il tempo per il 100 e 1’00”. Se non si ha dimestichezza con il sistema
di conteggio sessagesimale è utile trasformare tutto in secondi e fare i conti.
Nel nostro esempio avremo:

• 2’00” = 120” e 1’00” = 60” trasformazione in secondi del tempo delle due distanze
• 120” - 60” = 60” sottrazione tra il tempo del 200 e del 100

60 secondi è il tempo differenziale sulla distanza di 100 metri (200-100) ed è ipoteticamente la


velocità del B2. Mettendo su una tabella con le varie andature questo numero otterremo una tabella
simile alla 5.6

A2 B1 B2
50
100 60”
200
400
Tab 5.6 posizionamento del differenziale tra 100 e 200
Se dobbiamo calcolare il tempo di percorrenza del 100 metri all’intensità di B1 dobbiamo andare
necessariamente più lenti. Per trovare questa intensità aggiungeremo il 5% al tempo del B2:

60” + 5% = 63” e lo posizioneremo nella casella del B1 sulla distanza del 100 metri. Per ottenere
l’andatura del A2 eseguiremo la medesima operazione con il tempo del B1
63” + 5% = 66” e lo posizioneremo nella casella dell’A2 sulla distanza del 100 metri.

A2 B1 B2
50
100 66” 63” 60”
200
400
Tab 5.7 posizionamento dei tempi di B1 e A2 nel 100 metri

+ 5% -

Per calcolare distanze più lunghe o più corte il procedimento è simile. La velocità per percorrere 100
metri sarà più lenta rispetto ad un 50 e più forte rispetto al 200. Se vogliamo trovare la velocità del
B2 sul 50 metri dovremo inizialmente dividere per 2 il tempo e poi sottrarre il 2% dal tempo trovato:
60” / 2 = 30”
30” - 2% = 29,4”
Questo sarà il tempo di percorrenza del 50 metri all’andatura di B2. Per calcolare l’andatura del 200
allora moltiplicheremo il tempo per 2 e poi aggiungeremo il 2%:
60” * 2 = 120”
120” + 2% = 122,4”

Per quanto riguarda il 400 moltiplicheremo il tempo del 200 per 2 e poi aggiungeremo il 2%
122,4 * 2 = 244,8”
244,8” + 2% = 249,8
A2 B1 B2
50 29,4” -
100 60”
200 122,4” 2%
400 249,8
Tab 5.8 posizionamento dei tempi del B2 nelle varie distanze +

+ 5% -

A questo punto possiamo calcolare tutte le altre andature aggiungendo il 5% ai numeri trovati nel B2.

A2 B1 B2
50 32,4” 30,8” 29,4” -
100 66” 63” 60”
200 134,9” 128,5” 122,4” 2%
400 274,5” 262” 249,8
Tab 5.9 posizionamento di tutti i tempi +

+ 5% -
I tempi in secondi hanno il decimale, difficile ottenere questi decimali precisi durante la nuotata.
Compito dell’allenatore è fornire dei tempi interi agli atleti per far capire loro quale sia l’andatura
ottimale da tenere durante gli allenamenti. Monitorare questi tempi permette di comprendere se
l’allenamento è alle giuste intensità. Eseguire sistematicamente i test per aggiornare i tempi e
prevedere la crescita continua dell’atleta. Lo stesso sistema è utilizzabile con il differenziale tra il 400
e il 200.Spesso capita di sentire sul piano vasca alcuni allenatori proporre il B0 o l’A3. Se dovessimo
trovare delle vie di mezzo tra l’A2 e il B1 ci sarebbero questi elementi. Leggermente più forte
dell’aerobico, ma più lento della soglia. Per sofismi poco realizzabili, l’A3 è un passo poco più veloce
dell’A2, mentre il B0 e leggermente più lento del B1. Questo tipo di andature può essere proposto
con una premessa: l’atleta deve essere capace di stare nel tempo prescritto. In particolare, con le
distanze corte la differenza tra A2 e B1 è di pochi secondi. Prendiamo ad esempio la tabella 5.9, nel
100 metri tra L’A2 e il B1 ci sono 3 secondi. Il nostro atleta dovrà percorrere 100 metri in A3/B0 con
il tempo di 1’04”5 (1,5 secondi più forte dell’A2 e 1,5 secondi più lento del B1). A volte gli atleti
non sono in grado di essere così precisi. Inoltre, la precisione dell’allenatore nel cronometrare i tempi
potrebbe falsare questa richiesta. Far partire il cronometro mezzo secondo prima o dopo e fermarlo
mezzo secondo prima o dopo e il secondo di aumento della velocità è cronometrato erratamente. Per
quanto riguarda le distanze più lunghe invece si può optare per questa soluzione. Ad esempio, tra
l’A2 del 400 e il B1 ci sono 12 secondi. Prendendo in considerazione il tempo totale e non il passo
medio, percorre la distanza 6 secondi più veloce è più gestibile. Stesso discorso per un’andatura
intermedia tra B1 e B2… potremmo chiamarla B1½.

Continuato
Il metodo della determinazione delle andature attraverso il nuoto continuato prevede di percorrere
una distanza normalmente lunga (fino a 2.000 metri) e prendere il tempo totale. La distanza deve
essere nuotata al massimo delle capacità prestative mantenendo un’andatura costante. Se si vuole
capire come il tempo è stato ottenuto si può monitorare il tempo ogni 100 metri. Una volta eseguita
la distanza senza interruzioni si prende il tempo totale e lo si divide per individuare il tempo medio
sui 100 metri. Nella tabella 5.10 alcuni esempi.Normalmente questo tipo di test lo si utilizza per gli
Age Group per le lunghe distanze il cui passo medio è più costante rispetto alle distanze corte. Per i
giovani questo test è raramente utilizzato.

Distanza in metri Tempo totale (sec) Tempo per 100 metri


800 9’56”3 (596”) 1’14”5 (74,5”)
1.500 15’24”7 (924”) 1’55”5 (115,5”)
2.000 25’38”2 (1538”) 3’12” (192,25”)
Tab 5.10 Distanza, tempo totale e tempo medio per 100 metri

Percorrere una distanza lunga coinvolge un sistema energetico prevalentemente aerobico,


ipoteticamente troveremo l’andatura del B1 (soglia). Avendo il tempo di percorrenza medio sui 100
metri posizioneremo il tempo nella casella del B1 sulla distanza del 100 metri. Da questo punto
procederemo come per il test differenziale per il calcolo delle andature sulle diverse distanze e
velocità. Prendendo l’esempio precedente dei tempi di percorrenza utilizziamo quello sul 1.500,
otterremo le seguenti andature.

A2 B1 B2
50 59,3” 56,5 53,6 -
100 121,2” (2’01”) 115,5” (1’55”) 109,7” (1’49”)
200 247,4 (4’07”) 235,6” (3’55”) 223,5 (1’43”) 2%
400 504,6” (8’24”) 480,6” (8’00”) 456,5” (7’36”)
Tab 5.11 calcolo delle andature con il tempo del 1.500 continuato +

+ 5% -
Swolf
Swolf è una parola formata da due parole SWimming e gOLF. Prendendo spunto dal sistema di
punteggio del golf è stato individuato un modo per determinare la prestazione non solo per il tempo
di percorrenza, ma anche per il numero di bracciate eseguite. Su una distanza di 50 metri con un
tempo di 40” e 20 bracciate eseguite il totale sarà di 60 (40” + 20 bracciate). Si comprende come a
parità di tempo un minore numero di bracciate, oltre ad un punteggio più basso, mostra una maggiore
efficacia della bracciata. Viceversa, a parità di tempo, un numero maggiore di bracciate implica
un’efficacia minore. Per bracciata si intende un ciclo completo (ad esempio, quante volte entra in
acqua la mano destra).
L’obiettivo di questo parametro è quello di percorrere una distanza specifica nel minore tempo
possibile e con il minor numero di bracciate. Parallelamente si può costruire una sorta di schema
basato sul punteggio per monitorare l’andatura durante gli allenamenti in acque libere. Normalmente
per aumentare la velocità un atleta aumenta il numero delle bracciate. Conoscendo questo parametro,
durante gli allenamenti in acque libere, verrà più facile monitorare l’andatura da parte dell’atleta in
acqua oppure da parte del coach sulla barca o da terra. Non è un parametro affidabile al 100%, ma
almeno si ha la capacità di poter monitorare l’allenamento senza riferimenti fissi come muri o boe
posizionate a distanza nota.

Andatura Tempo sui 50 mt Bracciate Swolf


A2 32,4” 20 52
B1 30,8” 24 56
B2 29,4” 28 57
Tab 5.12 Swolf a varie andature

Con questi dati possiamo determinare la lunghezza della bracciata (stroke legth) e la frequenza della
bracciata (stroke legth). Questi parametri sono utili per fare statistica e capire l’efficacia e l’efficienza
della bracciata. Un parametro per monitorare l’andamento della gara e trarne dei feedback.
Per determinare lunghezza della bracciata è sufficiente dividere il numero dei metri per il numero
delle bracciate:

metri Bracciate Lunghezza della bracciata in metri


50 20 50/20 = 2,5 metri
50 24 50/24 = 2,08 metri
50 28 50/28 = 1,78 metri
Tab 5.13 Determinazione della lunghezza della bracciata

Per determinare la frequenza della bracciata semplicemente dividendo il tempo per il numero delle
bracciate in questo modo troviamo il tempo impiegato per compiere un ciclo di bracciata. Se vogliamo
sapere la frequenza delle bracciate per ogni minuto divideremo 60 per il numero precedente:

Metri Bracciate Frequenza della bracciata al minuto


32,4” 20 1,62” * bracciata = 60” / 1,62” = 37 Br /min
30,8” 24 1,28” * bracciata = 60” / 1,28” = 46,8 Br /min
29,4” 28 1,05” * bracciata = 60” / 1,05” = 57,1 Br /min
Tab 5.13 Determinazione della frequenza di bracciata

Con i cronometri più evoluti è possibile determinare questo dato automaticamente.


Allenamento del nuoto nel triathlon

L’allenamento della frazione di nuoto nel triathlon, come abbiamo considerato, ha le sue peculiarità.
Sicuramente molti degli allenamenti proposti dalla FIN sono mutuabili ed adattabili alle esigenze dei
triatleti, ma molti altri devono essere pensati ad hoc per far fronte alle varie variabili della gara.
Iniziamo a considerare gli allenamenti “classici” utilizzati per sviluppare i metabolismi energetici
secondo i codici descritti precedentemente. Ricordiamo sempre: il nuoto è uno sport con delle pretese,
richiede una tecnica corretta e deve sempre essere curata. In ogni allenamento deve trovare il suo
spazio. I vizi coordinativi e tecnici sono ostacoli e impediscono il raggiungimento del massimo
potenziale in atleti dotati di ottima capacità organiche.

Struttura di una seduta di allenamento nel nuoto

Come descritto nel modulo sulla metodologia dell’allenamento, una seduta di allenamento ha una
struttura ben definita, questa permette di ottimizzare gli stimoli allenanti.

• Preriscaldamento a secco
• Riscaldamento generale
• Attivazione (riscaldamento specifico)
• Lavoro centrale
• Defaticamento

Il preriscaldamento a secco è buona norma eseguirlo prima di entrare in acqua, questi esercizi
dovrebbero coinvolgere: il rinforzo della muscolatura extrarotatoria ed intrarotoria dell’omero con
elastici; mobilità articolare generale anche per gli arti inferiori; esercizi coordinativi vari; e se si
percepisce affaticamento muscolare utilizzare il foam roll. Per i giovanissimi gli esercizi devono
essere introdotti con semplicità e senza il rigore della loro esecuzione. Nel giovane devono essere più
strutturati in funzione delle caratteristiche fisiche dell’atleta, delle sue “debolezze” muscolari o
posturali. Da Junior in poi dovrebbero essere esercizi eseguiti sistematicamente, personalizzati e della
durata di circa 15 minuti.

Il riscaldamento generale ha lo scopo di preparare l’organismo ad affrontare l’allenamento, sia dal


punto di vista condizionale sia coordinativo. Gli obiettivi di un buon riscaldamento in acqua sono i
seguenti:

• Aumento della temperatura corporea fino a 38-39° C


• Aumento della frequenza cardiaca
• Aumento del flusso sanguigno ai muscoli
• Attivazione dei sistemi sensoriali cutanei, muscolari e tendinei
• Aumento della tixotropia (la capacità del muscolo di scivolare all’interno della fascia)
• Produzione di liquido sinoviale nelle articolazioni
• Incremento degli ormoni circolanti come adrenalina e noradrenalina
• Preparazione mentale al lavoro centrale

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