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Università degli Studi eCampus

Tesi di Laurea in
Analisi e confronto tra i paradigmi di
pensiero dell'antichità con quelli dei
tempi moderni

Relatore: Candidato:

Ch.ma Prof.ssa Lorenza Lei Vitali Stepaniuc


Matricola n° 004254669

Anno Accademico 2021/2022


1

INDICE
 Introduzione
 Cap. 1 – RAPPORTI INTERPERSONALI
1.1. I rapporti e l’amicizia
1.2. Il benessere
1.3. La libertà
1.4. Discriminazioni
 Cap. 2 – L’ADOLESCENZA
2.1 Adolescenza in società arcaiche
2.2 Genere e sessualità
2.3 La sessualità oggi
 Capitolo 3 – I RITI DI PASSAGGIO
3.1 Definizioni
3.2 Gli antichi riti di passaggio
3.3 I riti di passaggio oggi
 Capitolo 4 – IL DONO
4.1 Il dono nelle società arcaiche
4.2 Il dono oggi
4.3 La tradizione antica dei pastori sardi
 Capitolo 5 – LA MORTE
5.1 La morte per gli antichi
5.2 La morte oggi
5.3 Avventura e morte
5.4 Conclusioni
 Capitolo 6 - RAPPORTO TRA NATURA, FILOSOFIA, SCIENZA,
RELIGIONI.

6.1 Una visione razionale del mondo e le sue implicazioni – Il rapporto con la
natura.
6.2 Dalla ricerca della globalità, alla categorizzazione.

 Conclusioni

 Bibliografia
2

INTRODUZIONE

Il funzionamento della nostra mente è strettamente connessa con le azioni che


compiamo ogni giorno, i movimenti, i comportamenti, il linguaggio del corpo, le
abitudini quotidiane.
In poche parole, è vero che le nostre azioni sono guidate ed influenzate dal nostro
pensiero; ma è anche vero il contrario. Ovvero che il tipo di azione compiuta, la
modalità in cui organizziamo la nostra giornata con le sue mansioni e abitudini e così
via, influenzano a loro volta il nostro pensiero, la nostra sfera cognitiva, emotiva,
comportamentale e così via.
Trasformando la nostra vita, e persino il nostro corpo.

Detto questo proviamo ad immaginare anche solo per un secondo, quanto fosse diversa
la giornata di un individuo nell’antichità, e quindi, quanto fosse potenzialmente diversa
la concezione della vita, della quotidianità, e appunto quanto questo influenzi i vari
aspetti della vita e della psiche.
Che sia l’antica Grecia, o l’antica Roma; dai persiani ai grandi imperi dell’800.

Non ci sono obiezioni al fatto che la differenza sostanziale tra questi due fronti consiste
nello sviluppo della tecnologia; un “Boom” così intenso come quello industriale e
tecnologico degli ultimi 2 o 3 secoli è talmente rapido, radicale, concreto, e anche
influente nei confronti delle nostre vite, che non può non rappresentare un enorme
“Anno Zero”.
Questa Rivoluzione di fatto ha creato come una grossa parete che divide i due fronti
principali, i quali si potrebbero chiamare per semplicità “Antichità e Modernità”.
La definiamo “parete” perché la differenza degli stili di vita “Prima e Dopo” tale
rivoluzione, è abissale.

Una grande varietà di autori e studiosi, ha tentato di definire quali sono le differenze
individuabili tra questi due grandi fronti.
Il fatto di definirli fronti, può sembrare un azzardo, in quanto si potrebbe asserire che in
fondo le differenze tra i paradigmi di pensiero umano sostanzialmente non sono
3

definibili nel tempo; difatti non è stato semplice trovare punti distintivi concreti e così
netti da poter fare distinzioni definite e radicali.
Ma se è vero che ogni cultura nel tempo è considerabile a sé stante, e che ha avuto i suoi
paradigmi e le sue tipicità di pensiero, ciò non rende impossibile trovare una linea
comune tra le varie culture antiche e confrontarla con la modernità, che possiede queste
nuove e particolari caratteristiche. Linea comune che infatti è piuttosto sottile da
individuare, ma come molti autori hanno evidenziato, questa esiste, e seppur sottile
rimane comunque un aspetto rilevante e significativo, e se si pone la dovuta attenzione
il suo impatto è sicuramente percepibile; persino osservabile.
4

Capitolo 1 - I RAPPORTI INTERPERSONALI

1.1 - I rapporti e l’amicizia


Alcuni autori avrebbero identificato alcune differenze nella considerazione dei valori
affettivi dell’amicizia e dei rapporti interpersonali più intimi. Ad esempio il professor
Paolo Nepi dell’università di studi di Roma fa notare un aspetto interessante; l’elemento
dell’amicizia oggi pare essere rilegato a considerazioni puramente emotive personali ed
intime, individuali. Viene mostrata nella cultura generale odierna come spazio
personale, affettivo e sentimentale, con una funzione per lo più consolatoria e di
compagnia.
Mentre ponendo a confronto ad esempio il valore dell’amicizia esposto in alcune opere
antiche, come le opere di Omero, vediamo rapporti amicali esemplari, che
rappresentano sì una relazione affettiva intima, ma che sono anche punto focale di
imprese straordinarie e battaglie, che uniscono tematiche individuali a quelle sociali e
politiche del periodo storico in questione. Vengono mostrati legami molto forti, votati al
sacrificio e grandi virtù, in vista di obbiettivi e traguardi comuni, dal forte valore
politico. Un celebre esempio è quello dell’amicizia tra Achille e Patroclo, paradigma di
eterna amicizia e complicità che finisce per consumarsi nella morte, in battaglia.1
Ad oggi un altro grande sconvolgimento dei rapporti di amicizia nasce ad opera dei
social network; come vedremo in questo paragrafo, vi sono certamente benefici e disagi
legati ad essi, ma osserviamo ora i grandi contrasti nei modi di relazionarsi, rispetto al
passato, che queste piattaforme tecnologiche hanno generato. Alcune note ricerche di
Cristopher Lasch e di Sherry Turkle in ambito delle scienze sociali, ha mostrato che
oggi l’intimità nei rapporti amicali è decisamente cambiata. L’intimità, come aspetto
fondamentale della nascita di una relazione, è quella condivisione di parti di sé che
porta a svelarsi anche negli aspetti più segreti e mostrare la propria vera personalità,
superando maschere e convenzioni sociali.
Tornando ai risultati delle ricerche oggi le interfacce web sembrano aver creato una
modalità di self-disclosure (apertura del sé) caratterizzata da un atteggiamento
narcisista. Per dare un esempio, il social per eccellenza, Facebook, ha un assortimento
1
Adkins A.W., Virtue and Goodness in ancient Greece; Friendship and self-sufficiency in Homer and
Aristotle, in classical quarterly, 13, 1963, pp. 30-45.
5

di strumenti di condivisione e valutazione che possono facilmente indurre gli utenti a


cercare di evidenziare e pubblicizzare la propria personalità, strumentalizzando gli altri
presenti, interagendo con essi al solo scopo di riaffermare la propria presenza e stile
sulla bacheca del network. Questo che è appunto un atteggiamento tipico del
narcisismo.2
Anche l’apertura nei confronti dell’altro, è diventata non più tanto una rivelazione
segreta e con il principio e lo scopo di formare un legame, ma piuttosto di mettersi in
vetrina, o sfogarsi. E la sfera privata diventa quasi merce di scambio per ottenere forme
varie di consolazione, come tentativi di autocommiserazione oppure per ricerca di
attenzioni tipica del divismo. In queste modalità, di conseguenza si rende difficile anche
la distinzione tra ciò che è pubblico e ciò che è privato.3
Vi sono autori che parlano addirittura di “incontinenza emotiva”, un termine che
esprime alla perfezione questa sorta di inflazione che riguarda i contenuti della sfera
privata delle persone, sdoganata per scelta, con gli obbiettivi più disparati, tutti
accomunati però dal quel desiderio di successo e affiliazione, e di guadagnare una fetta
di fama in questo enorme palcoscenico virtuale delle public relations.4
Alcuni antropologi hanno studiato le interazioni amicali odierne, cercando di definire le
modalità e motivazioni che guidano allo sviluppo dei legami d’amicizia.
Si citano studi che mostrano come oggi le relazioni siano spesso prestabilite, in molti
contesti, sono quasi dettate da regole e convenzioni sociali implicite, marcate da aspetti
economici, culturali, relativi la moda, lo stile le abitudini e la personalità. Si aggiunge
inoltre che anche nei casi in cui l’amicizia nasce da libera scelta, e non da prestabilite
norme sociali, rimangono costrizioni sociali sulla possibilità che tali rapporti possano
cessare. 5
Tornando ai social network, questi sono sicuramente un elemento inedito rispetto al
passato, anche più recente. Ad oggi sono state portate avanti centinaia di ricerche per
comprendere se le piattaforme social siano benevole o meno per la salute mentale,
specialmente dei giovani. I pareri sono contrastanti, tra gli studi che mostrano i risultati
positivi e altri che mostrano un aumento di alcuni disagi psichici correlati; ma rimane

2
Lasch C., The culture of narcissism, Bompiani, Milano 1981.
3
Tisseron S., “L’intimitè surexsposèe”, Edizione Ramsay, Parigi, 2001.
4
Farci M., Rossi L., Pubbliche intimità. L’affettivo quotidiano nei siti di Social network, 2014.
5
Carrier J., People who can be friends: selves and social relationships. The anthropology of friendship,
1999.
6

una linea di accordo comune secondo la quale non è il social network di per sé ad essere
dannoso, quanto il suo utilizzo smodato. Difatti proprio un importante studio di Oxford,
dichiara come non sia la tecnologia in sé il problema, quanto la sua incorporazione nei
legami sociali che vengono a formarsi; inoltre questo come molti altri studi dimostra
come la forza dei legami che si possono formare sul web, potenzialmente non hanno
nulla da invidiare a quelli che nascono in incontri vis-a-vis. 6
Va sottolineato dunque che il social network non è altro che uno strumento, e quindi va
usato con discrezione, esattamente come tanti altri strumenti utilizzati in altri aspetti
della vita, con l’unica differenza che questo riguarda un lato molto intimo della nostra
umanità, ovvero la relazione con il prossimo.
Detto questo però, torniamo al tema principale di questa ricerca, cercando quali
implicazioni porti con sé l’ascesa dei social network di oggi, in confronto con l’assenza
di questi strumenti nel passato anche più recente.
Prendendo come riferimento l’Inghilterra come esempio di cultura social moderna, la
Royal Society for Public Health mostra dei dati preoccupanti riguardo all’impatto sui
giovani (16-24 anni): il 91% di questi usa internet specialmente per i social; tra questi i
sintomi di ansia e depressione correlati sono aumentati del 70% negli ultimi 25 anni.
Nella raccolta di dati sul campo con interviste e questionari, gli stessi giovani
ammettono che i social gli causano un peggioramento dei sintomi ansiosi.
Si rivela come gran parte dei sentimenti di disagio deriva da un sentimento di
inadeguatezza generato dai contenuti presenti nei social stessi; in cui c’è una vera e
propria corsa all’ostentazione di felicità, ricchezza e standard di bellezza fisica.
Nasce anche il termine FoMO, ovvero il “Fear of Missing Out” con cui il ragazzo
sperimenta la sensazione di non godersi al meglio gli stimoli offerti dalla vita, proprio
perché i contenuti dei social, colmi di dimostrazioni di successi altrui, portano a credere
di dover mostrarsi a propria volta realizzati, e cercare di raggiungerli. Questo comporta
una dispersione di vari aspetti della propria identità, come l’insoddisfazione riguardo al
proprio aspetto fisico, al proprio impiego lavorativo, agli hobby ed alle abitudini tipici
della propria quotidianità e quindi personalità.
Un esempio citato spesso anche da altre fonti è Instagram, il quale sembra creare la
maggior quantità di danni relativi la valutazione il proprio aspetto fisico. La categoria
6
International Journal of Internet Science IJIS, “Online friendship formation, communication channels,
and social closeness”, 2006, 1 (1), 29-44.
7

maggiormente colpita è quella delle teenager, il 90% di queste utenti dichiara di avere
alcuni problemi di insoddisfazione nei confronti del proprio corpo.7

1.2 - Il benessere
Molti autori concordano sul fatto che i nostri tempi moderni sono caratterizzati dalla
presenza di due grandi protagonisti simbolici: ansia e stress.
Una serie ragguardevole articoli ci descrivono come i problemi legati all’ansia e allo
stress siano fenomeni puramente tipici della società moderna, non che prima non
esistessero, ma di certo ne siamo i maggiori produttori.
La sfera occidentale con le sue grandi metropoli è famosa per essere frenetica, molto
incentrata sull’arte dell’apparenza, ad un altissimo livello di competitività, relativi a vari
standard di vita che vengono quasi “imposti” da norme sociali tanto sottili quanto
inflessibili. 8
Di certo anche le culture arcaiche avevano ciascuna una caratteristica componente che
causava stress o pressioni agli individui che vi hanno vissuto, ma aldilà di quello che
molti potrebbero ipotizzare, come vedremo di seguito, molte di queste antiche civiltà
avevano condizioni ideali per lo sviluppo e l’espressione del sé, in maniera fluida e
armonica.
A tal proposito è importante citare uno dei grandi punti di contrasto tra noi e queste
civiltà antiche, ed è l’accelerazione, intensità e quantità delle attività quotidiane
Difatti un nuovo protagonista dei nostri tempi è sicuramente il “Multitasking skill”.
Oggi come mai nella storia l’uomo comune è chiamato a svolgere una varietà enorme di
attività diverse, spesso persino in contrasto, tra loro.
Si chiama multitasking, ovvero la capacità di porsi una moltitudine di mansioni o
obbiettivi, e spesso addirittura svolgerli e portarli a termine contemporaneamente
nell’arco della giornata. Ad un occhio inesperto potrebbe apparire come una capacità
eccezionale e che determina una serie di vantaggi ragguardevoli, come la possibilità di
guadagnare tempo e quindi anche denaro.

7
Royal society for public health; social media and young people’s mental health, report, 2017.
8
B.F. Piko, Administration and Policy in Mental Health, Socio-cultural stress in modern societies and the
myth of anxiety in eastern Europe, Vol 29, No. 3. January 2002.
8

Al contrario vi sono conseguenze negative su vari fronti: prima di tutto uno spiccato
aumento della secrezione di cortisolo, l’ormone dello stress; poi vi è maggior
probabilità di incorrere in patologie come depressione e ansia correlate.
Una nota ricerca ha addirittura potuto correlare una mutazione della struttura cerebrale
ad una prolungata esposizione ad attività multitasking. Difatti nello studio sono state
coinvolte persone che usavano contemporaneamente diversi tipi di media (oggi questo è
possibile grazie alle varie applicazioni dei cellulari, computer, interfacce di cui siamo
circondati). I soggetti effettivamente hanno mostrato una minor densità di materia grigia
nell’area della corteccia cingolata anteriore (ACC) che ricordiamo ha un ruolo
importante nella regolazione delle emozioni e nell’elaborare i pensieri.
Questi aspetti aggiunti allo stress e all’eventuale aumento dell’ansia, portano più
facilmente a compromettere le capacità memoniche e quindi di apprendimento e
dell’attenzione, spesso anche in modo serio.
Soprattutto l’attenzione selettiva sembra essere quella più danneggiata; le ricerche
mostrano come i soggetti più abituati ad abusare di metodi multitasking, durante i test
non riescono a mantenere la concentrazione sulle attività senza subire leggere
distrazioni da varie fonti esterne anche irrilevanti. Questa difficoltà a discriminare gli
stimoli non rilevanti rispetto al compito in esecuzione è comprensibile dal fatto che il
soggetto che pratica multitasking è abituato a lasciare e riprendere il compito tante volte
in poche frazioni di secondo; dato che il nostro cervello non svolge mai per davvero due
compiti nello stesso tempo, anche quando può sembrare il contrario, invece passa da un
focus all’altro con estrema velocità.
E’ proprio questa velocità elaborativa che causa sovra affaticamento delle strutture
cerebrali durante il multitasking, ovvero il cosiddetto “overload”.9
E’ comprensibile quale sia il motivo per cui proprio la nostra epoca presenti queste
nuove forme di abitudini dannose, la frenesia e l’ansia da prestazione che caratterizza la
nostra cultura moderna occidentale e già stata abbondantemente citata e riconfermata.

9
D.J. Levitin, The organized mind: thinking straight in the age of information overload. Edizione
Penguin; 4 giugno 2015.
9

1.3 - La libertà
Con molta probabilità la nostra epoca ha molti punti a favore per quanto riguarda le
libertà dell’individuo.
La libertà per gli antichi riguardava per lo più l’aspetto delle decisioni in materia
politica, ovvero la possibilità di partecipare alla definizione delle varie decisioni
pubbliche; pertanto era di fatto un concetto quasi esclusivamente politico, per non
parlare del concetto di schiavo, che dopo approfondiremo.10
Oggi invece si parla di auto-determinazione, self-regulation, felicità e realizzazione
personale; in tal senso fu pioniera la costituzione Americana con la sua dichiarazione di
indipendenza, che addirittura vuole sottolineare come ogni cittadino ha diritto ad essere
libero di poter realizzare la propria felicità, purché ciò non determini danno agli altri ed
i loro diritti.
Quindi si parla di una libertà a 360 gradi, che osserva l’uomo sia come individuo che
come cittadino.11
Tornando sul tema della libertà degli antichi, proviamo a immaginare la vita di uno
schiavo. Già la sola esistenza della categoria “schiavo” è in netta contrapposizione con i
valori di libertà e diritti umani che troviamo nel mondo di oggi (con poche eccezioni per
alcuni stati). Ma ai tempi dell’antica Grecia, o di Roma, così come per il resto dei
popoli, era del tutto normale. Ad Atene come a Roma lo schiavo non aveva diritti, era
uno strumento “animato” (per come li definiva Aristotele), senza alcuna potestà ed il
padrone aveva potere totale su di esso, per essere precisi sul suo corpo e sulle mansioni
che questi doveva svolgere.12
Detto questo lo schiavo non poteva avere famiglia, se non per concessione del padrone e
c’era la possibilità addirittura che i suoi figli venissero venduti.
Unica limitazione su di essi era il divieto di omicidio, ma tale divieto se non rispettato,
prevedeva una semplice multa come punizione.13
Per concludere la tematica, è senz’altro utile citare l’opinione di Rosseau, il quale critica
aspramente la giustificazione antica della schiavitù. Questa è una manifestazione che si
avvicina fin troppo pericolosamente alla pura e semplice affermazione del diritto del più
forte; la cosiddetta legge della jungla.
10
B.Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni. Einaudi, Torino 2005.
11
USA Constitution: “The declaration of indipendence”, Article 1.
12
M.I. Finley, Ancient Slavery and Modern Ideology – Edizione Penguin, 26 maggio 1983: pp. 91-97.
13
Aristotele, Politica I. libro 4, sezione 1253b, 32.
10

Il “diritto” del più forte deve essere denunciato, perché “esso si riduce alla sola
dimostrazione di forza, e dunque non ha alcun significato sul piano della giustificazione
del potere”.14

1.4 - Discriminazioni
Una grossa differenza coi tempi antichi, è rappresentata oggi dalle discriminazioni.
Riprendendo il significato del termine, ovvero differenziare il valore di alcune categorie
di individuo, svantaggiandole o viceversa dandovi delle agevolazioni.
Il tema principale è quello della svalutazione delle donne; ricordiamo che ai tempi
dell’antica Grecia non era nemmeno messo in discussione che la donna dovesse aver un
ruolo marginale ed essere considerata inferiore; per citare un esempio, Aristotele
dichiarava con naturalezza che: “Il maschio è per natura migliore, la femmina peggiore,
l’uno è atto al comando, l’altra all’obbedienza”; di fatto poi questa teoria è
accompagnata dalla credenza che l’anima razionale dell’uomo fosse nata per governare
su quella irrazionale della donna, governata da forze instabili, a cui dare un ordine e
autorità; e quindi la necessita.
Addirittura le si attribuisce un ruolo passivo nella riproduzione, perché si pensava che
non producesse seme, e che perciò non concorresse alla generazione della vita, ma ne
offrisse “solo” il luogo di compimento.15
Forse soltanto Platone azzardò il tentativo rivoluzionario di concepire la donna con dei
ruoli più elevati, anche in posizioni di rilievo politico. Cercando di specificare che se
queste fossero “adeguatamente educate” potrebbero essere in grado di ricoprire ruoli
politici contribuendo alla guida del paese.16
In ogni caso era difficile trasmettere tali messaggi, siccome questa considerazione della
donna come inferiore non era soltanto una decisione opinionistica, ma riguardava aspetti
convenzionali delle società dei tempi; era un paradigma che aveva una natura fondata e
radicata in maniera funzionale per i bisogni sociali di quei tempi, il paese era

14
J.J. Rosseau – Il contratto sociale; Einaudi, Torino 1994.
15
Aristotele, Politica - I, 5, 1254b, p. 13-14.
16
Platone, a cura di M. Vegetti, La Repubblica. Edizione Laterza, Bari 2007.
11

organizzato secondo strutture sociali, specialmente quelle del lavoro, che necessitavano
di una donna rilegata e contenuta nella sfera familiare e dei lavori più umili.17
Per concludere l’argomento della discriminazione di genere, vedremo anche
successivamente che non tutte le culture arcaiche prevedevano tali distinzioni sociali, e
in ogni caso spesso tali distinzioni erano ben accettate dalle varie categorie, perché ne
comprendevano lo scopo e l’utilità sociale.
Per citare altre categorie riprendiamo le considerazioni di Aristotele sulla cittadinanza.
Si descrive la scomposizione della polis nei suoi vari elementi: si tratta del ruolo della
famiglia composto da marito-moglie come nucleo di base; poi il ruolo della coppia
padrone e schiavo; padre e figlio e così via. Si sottolinea che i cosiddetti “Meteci”,
coloro che vengono “da fuori”; non facevano parte di nessuna di queste categorie.
Difatti questi erano esclusi dalla cittadinanza, che si reputava essere una qualità che non
riguardava il solo “abitare” in quel dato paese, neppure se si aveva accesso ad alcune
istituzioni e servizi; ma sono altre le virtù per cui si poteva essere considerati cittadini,
tra cui anche valori legati ad alcuni diritti di proprietà, ma anche al puro senso di
appartenenza sociale, relativo ad usi e costumi, tradizioni e così via.
I meteci ad esempio non potevano avere una proprietà terriera, ma soltanto lavorarci, in
una sorta di usufrutto da lavoratore dipendente oppure come affittuari. Lavoravano
comunque fianco a fianco con i cittadini, sia nell’artigianato che nel commercio. Inoltre
anche solo l’attributo di “meteco” era possibile solo se vi era un cittadino che ne facesse
da garante. Questi erano esclusi dalla vita politica, dalle assemblee e dalle cariche
pubbliche, anche se va notata una cosa importante, anche Aristotele era un meteco
presso Atene, ma ciò non ha compromesso la sua scalata verso la fama.18
La definizione di “meteci” può sicuramente ricordare la condizione degli stranieri
odierni, e le pratiche amministrative pubbliche riguardanti l’attribuzione della residenza
e della successiva cittadinanza.
Anche se persistono oggi alcune discriminazioni di fatto; vari pregiudizi non ci sono più
e nessuno osa riprendere le tesi antiche sull’inferiorità di certe categorie sociali.
Oggi vige quasi dappertutto il principio delle democrazie ed il riconoscimento della
libertà a tutti gli esseri umani con l’attribuzione dei diritti politici a tutti i cittadini,

17
S. Campese e S. Gastaldi, La donna e i filosofi, archeologia di un immagine culturale, edizione
Zanichelli, Bologna 1977, pp. 41-43.
18
Aristotele, Politica. III, 1, 1275a, 7-14.
12

«senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di


condizioni personali e sociali». Questi principi sono sanciti in tutte le costituzioni
democratiche dal Novecento. Però come possiamo notare, come unica eccezione
residua, permane la tendenza a escludere per lungo tempo gli stranieri dalla
cittadinanza, e dai diritti ad essa collegati.19
I merito all’integrazione dei stranieri però spicca tra i vari popoli un esempio che si
comportava in maniera opposta, l’antica Roma.
Fin dall’inizio ci fu un processo di aggregazione tra diversi gruppi attorno il territorio di
origine di Roma. Tale processo fu lungo, causato anche da vari incontri bellici, ma
legittimato soprattutto dalla costante necessità di scambiare beni, che creo una fitta rete
di interazione e quindi un mercato comune a diverse realtà.
L’incontro fu facilitato dal fatto che i gruppi etnici erano tutto sommato simili, e che
questi condividevano la stessa radice linguistica del Latino, ma anche di vari culti e riti
collettivi in comune; ad esempio gli archeologi hanno registrato dettagliatamente la
lenta fusione dei vari Sabini, Albani e altri popoli latini, che lentamente finirono per
formare la prima Roma.
Proseguendo nel tempo Roma mantenne una certa flessibilità nell’integrazione
dell’individuo straniero; il cittadino “civis” non era solo colui che era vincolato dal
sangue romano, ma anche lo straniero poteva diventarlo ed essere integrato nella
comunità, aldilà della distinzione tra migrante, alleato o vinto.
Per quasi tutto il periodo Romano, permane lo spirito di assorbimento e integrazione,
spesso con una buona riorganizzazione delle etnie sul territorio, basti pensare alla
romanizzazione della Dacia, che tutt’ora ne custodisce gelosamente la cultura latina.
Non ci fu mai un’ostinata difesa della stirpe consanguinea Romana, ma rimase un
constante spirito di “accoglienza” e coinvolgimento di altri gruppi, con una cittadinanza
fluida, dinamica e più aperta. Si può dire che questa apertura fosse prima di tutto
conveniente per certi versi, e inoltre aveva connotati “moderni”, simili alle politiche
odierne.
Non sarebbe azzardato ipotizzare che proprio grazie a questo aspetto Roma riuscì a
compiere la sua incredibile espansione, ed a mantenerla tale per così tanti secoli.20

19
Bobbio N., L’età dei diritti, edizione Einaudi, Torino, 2014.
20
A. Calore, Cittadinanza tra storia e comparazione. Diritto: storia e comparazione, nuovi propositi per un
binomio antico, Max Planck Institute 2018.
13

In generale non è facile trovar una distinzione netta tra il passato ed il presente riguardo
alle discriminazioni, però senza dubbio la nostra società moderna è molto evoluta sotto
questo punto di vista, oggi la libertà di espressione e l’uguaglianza di genere e razza
sono tematiche portate in primo piano e riconosciute da quasi tutte le nazioni più
progredite. Ma come vedremo anche nei prossimi paragrafi, su questo tema rimangono
molti miti da sfatare riguardo alle varie società arcaiche.

Capitolo 2 - L’ADOLESCENZA

2.1 - Adolescenza: tra società arcaiche e quelle odierne.


L’obbiettivo di questa sezione è ricordare che da tempo molte ricerche hanno
contraddetto le tesi secondo cui giovani nelle società tribali fossero maltrattati e
vivessero in condizioni di stress quasi impossibili da sopportare.
Riguardo all’adolescenza e a tutti gli aspetti correlati il suo sviluppi ed il suo ruolo nel
tessuto sociale, non si può non citare Margaret Mead e le sue ricerche etnografiche.
La Mead ha studiato sul campo diverse culture indigene, individuando punti salienti
della loro organizzazione sociale e specialmente del ruolo degli adolescenti in queste
comunità arcaiche.
Le sue più famose ricerche riguardano le popolazioni Samoane del Pacifico, ma anche
tre società della Nuova Guinea.
Autori come la Mead hanno dimostrato che i ragazzi di varie società primitive
affrontino in maniera più fluida lo stress, dando un taglio netto alle considerazioni
tipiche nei riguardi di questo tema. 21
In certe culture arcaiche processi come il coping e lo sviluppo dell’autodeterminazione,
sono favoriti dalle condizioni che il contesto sociale impone a questi ragazzi.
Più precisamente dai documenti si può dedurre come il coping incentrato sulla propria
interiorità, ed il controllo diretto delle proprie emozioni, venga enfatizzato in questi
ambiti; proviamo difatti ad immaginare a che tipologia di condizioni di stress sono
sottoposti gli adolescenti di questi villaggi primitivi, ma anche di società antiche più

21
Margaret Mead, sesso e temperamento in tre società primitive, edizione il saggiatore, Milano 2009.
14

progredite; essi si trovano ad affrontare ambienti selvaggi e spesso spietati, e devono


risolvere problemi di importanza cruciale per il villaggio e la propria famiglia. Tali
ambienti non sono “malleabili”, la dura legge della natura richiede sforzi importanti e le
sue condizioni spesso non sono modificabili per renderle più agevoli, e spesso non si
può sfuggire ed allontanarsi dal problema semplicemente voltandogli le spalle; questo
impone all’individuo di sviluppare un coping mirato sul controllo delle proprie
emozioni, autoregolazione, e sviluppo di una considerevole capacità di problem solving.
Lo sviluppo sessuale inoltre, come sottolinea la Mead, è accompagnato dal modello
educativo di queste culture. Nel suo saggio la ricercatrice ha descritto al meglio gli stili
di vita di queste culture, specialmente i vari rituali come ad esempio quello di
preparazione alla fase di pubertà, o di svezzamento, mostrando come questi seguano lo
sviluppo in maniera armonica con i vari passaggi fisiologici che presuppone, in tal
modo lo sviluppo globale è vissuto in maniera serena in tutti i suoi vari passaggi.
Va notato il loro metodo di affidamento del bambino appena svezzato; questo difatti
viene affidato parzialmente ad una altra bambina di circa 7 anni, la quale se ne prenderà
cura riguardo i compiti meno gravosi per almeno 9 anni, al compimento del 16esimo
anno di età. Una volta compiuti i 16 anni il compito verrà delegato ad un’altra bambina
di 7 anni. Questo metodo posto come esempio, secondo la Mead era un ottimo modo di
accompagnare le fasi di sviluppo, la bambina che accudiva poteva comprendere le
responsabilità connesse alla maternità, ed viveva un’età più “vicina” a quella
dell’accudito, potendone comprendere al meglio le esigenze. 22
Allo scopo di tale paragrafo è certamente utile ricordare che oggi, nei paesi
“occidentalizzati” i disturbi giovanili legati allo stress ed all’ansia sono aumentati, e
rappresentano una delle più grandi minacce per lo sviluppo di queste generazioni.
Oltre agli esempi ed i vari studi già citati in precedenza, vi sono altre ricerche che
evidenziano questa scomoda realtà.
La società italiana di Neuropsico-Farmacologia ha di recente pubblicato alcuni dati
tanto interessanti quanto eloquenti su questo argomento: pare infatti che 1 giovane su 5
(ovvero il 20%), soffra di disturbi legati all’ansia, e si sottolinea che tale picco si è
raggiuto anche a causa delle recenti disposizioni di quarantena dovute alla pandemia.23

22
Margaret Mead, adolescenza in Samoa, edizione Giunti. 23 maggio 2017.
23
N. Racine, B.A. McArthur, J. E Cooke, R. Eirich. J. Zhu, S. Madigan, “Global prevelance o depressive
and anxiety symptoms in children and adolescent during Covid19: a meta analysis”, Jama Pediatrics2021.
15

Ma in linea generale come riporta anche un rapporto presentato dall’UNICEF; oltre un


adolescente su sette, in una fascia di età che va dai 10 ai 19 anni, soffre di un disturbo
mentale ufficialmente diagnosticato; tra questi disagi quasi il 50% è rappresentato da
problemi legati ad ansia o depressione. 24
Procedendo su questo tema è necessario citare il moderno caso degli individui definiti
”Hikikomori”, i quali rappresentano la fase estrema della volontaria esclusione dalla
vita sociale. Gli “Hikikomori” rimangono confinati nelle lori abitazioni, evitando
qualsiasi forma di interazione sociale con la società esterna, e talvolta nei casi peggior
anche con i propri familiari. Il ritiro può durare anche anni ed è tipico degli adolescenti
tra i 14 ed i 30 anni (intorno all’80% dei casi). 25
Non è necessario svolgere un attenta ricerca bibliografica, per asserire che questo
disagio mentale è frutto di una società moderna, avanzata tecnologicamente. Difatti è
difficile immaginarsi un adolescente, di una cultura arcaica, rinchiudersi nel proprio
rifugio, senza partecipare a tutte quelle attività quotidiane che sono spesso legate alla
diretta sussistenza del villaggio e quindi anche a quella personale.
E’ certamente vero che non è la tecnologia ad essere la causa principale di questi
comportamenti, infatti come dimostrano gli studi spesso il problema nasce da conflitti
intra-familiari, disagi adattativi e problemi di ansia sociale, motivati anche dai sistemi
sociali moderni, altamente competitivi e votati alla prestazione.
Si conferma però che le interfacce virtuali tecnologiche rappresentano un rifugio
costante per categorie come quelle degli hikikomori, anche se la dipendenza dai media
virtuali nasce come conseguenza ai disagi legati all’ansia, queste sono piattaforme che
potrebbero rappresentare un fattore di rinforzo a questa condizione di auto-reclusione.26

Queste definizioni sono utili per introdurre quello che purtroppo è un grande
protagonista dei tempi moderni, specialmente tra i giovani, il suicidio.

E’ noto che anche nell’antichità il suicidio fosse presente, e questo è dimostrabile dalle
numerose opere classiche che ne danno varie opinioni ed interpretazioni; partendo da
24
UNICEF – “La condizione dell’infanzia nel mondo” rapporto del 05/10/2021.
25
Associazione Hikikomori Italia; chi sono gli hikikomori.
26
Wong et al. The prevalence and correlates of severe social withdrawal (hikikomori) in Hong Kong. A
cross-sectional telephone–based survey study. Int. J Soc Psichiatry 2014.
16

Socrate, che criticava questa scelta con disappunto, a Platone anch’esso molto contrario
a riguardo, citandolo persino come un “crimine”, se non in alcune circostanze
particolari. Considerazioni come quella di Platone non appartengono solo al mondo
antico, basti pensare che soltanto nel 1961, nel Regno Unito, si decise di abrogare la
legge che considerava criminale l’atto del suicidio e quindi anche il tentativo di esso.27
Non è possibile trarre una ricerca bibliografica riguardo le differenze in termini statistici
della quantità di suicidi nell’antichità, rispetto ai giorni nostri. Ma è possibile
individuare alcuni aspetti distintivi sul modo di concepire questo atto estremo, per cui
proprio la nostra realtà più recente sembra aver cambiato direzione.
Nell’antichità, ma anche fino agli ultimi anni del ventesimo secolo, molte culture
portavano diverse tipologie di considerazioni nei confronti del suicidio; questo poteva
avere connotati di tipo virtuoso, legato al sacrificio, all’onore, alla redenzione o alla
dimostrazione di coraggio e altruismo, quello che il celebre sociologo Emile Durkheim
definirebbe “suicidio altruistico”. 28
Basti osservare i famosi esempi dei personaggi mitici della tragedia greca e romana.
Dalla storia di Epicasta, moglie e allo stesso tempo madre di Edipo, la quale una volta
aver scoperto di avere dunque una relazione incestuosa, non riesce a sopportare il peso
del disonore, e finisce con l’uccidersi. Proseguendo con la storia di Marco Porcio
Catone, sostenitore della guerra civile di Pompeo contro Cesare, che una volta sconfitto,
non potendo tollerare la vergogna ed il disonore subito, decise di togliersi la vita
colpendosi con una spada nel ventre. Catone in seguito venne anche soccorso, ma
mentre riceveva le cure, in un momento di solitudine, imperturbabile riuscì a riaprirsi le
ferite, e porre fine alla sua vita.29
Riguardo alla vergogna troviamo un altro celebre esempio nell’episodio mitologico di
Aiace. Questo fallì nel tentativo di aggiudicarsi il titolo di miglior guerriero dell’esercito
greco, e per questo non gli furono consegnate le armi del celebre Achille. La sconfitta
gli fu tanto intollerabile da renderlo furioso, portandolo a massacrare un intero gregge di
pecore nella convinzione che questo fosse composto dai giudici e comandanti che lo
avevano valutato inferiore. Dopo questo l’umiliazione divenne dunque ancor più severa,
e il suicidio è per lui l’unico modo per evitare il dolore insopportabile del disonore.
27
Suicidal Act 1961, Legislation.gov.uk
28
Durkheim Emile, Il suicidio. Studio di sociologia. edizioni BUR, Milano 2010.
29
Rober Garland, il suicidio nel mondo antico. Lettera internazionale 92, La violenza e la morte, 92, 2,
2007.
17

Per quanto riguarda il sacrificio virtuoso si può citare anche lo stesso Socrate, che in
nome dei propri principi e della dignità di portare avanti la propria verità, accettò la
condanna ad eretico e la punizione estrema.
Facendo un enorme salto nel tempo, la considerazione virtuosa dell’atto suicidario si
nota fortemente nelle culture orientali; i due più celebri esempi li troviamo in Giappone,
e sono la pratica del Seppuku, dell’Harakiri, e del Kamikaze.
Il Seppuku e l’Harakiri sono forme di suicidio rituale che hanno resistito per centinaia di
anni, come unico diritto e privilegio della categoria dei Samurai (casta militare), ma non
solo dato che è stata praticata in forma simbolica anche fino alla seconda guerra
mondiale.
Si tratta di un taglio praticato sull’addome, con una procedura ben definita, che doveva
essere profonda e mortale; l’addome era considerato sede dell’anima che veniva così
liberata pura e finalmente priva delle colpe e responsabilità terrene.
Difatti il rituale si praticava per espiarsi da un fallimento grave in battaglia, come la
morte del proprio signore (nel caso dei samurai); ma anche per purificarsi da una colpa,
evitando la vergogna della pena capitale, ed infine si usava anche come segno di
protesta, e accusa verso un’ingiustizia inaccettabile ed estremamente disonorevole.30
Il kamikaze è uno dei più recenti esempi di sacrificio virtuoso in onore della patria.
Il soldato praticava un attacco mortale, aggredendo l’avversario interamente con il
proprio mezzo di trasporto, pur sapendo che questo atto gli avrebbe procurato morte
certa; proprio nella seconda guerra mondiale i soldati nipponici usavano scontrarsi
proprio in questo modo con i loro mezzi bellici contro quelli nemici, praticando così il
kamikaze sia in ambito aereo che in quello navale. Oggi abbiamo ancora soltanto alcuni
residui di queste pratiche belliche portate avanti dalle fazioni estremiste islamiche.
Ma tornando all’obbiettivo principale di questa sezione; cosa distingue la concezione di
suicidio odierna da quella del passato anche più recente?
Alcuni autori ritengono che oggi non si tratti più soltanto di una scelta che deriva da
valori socio-politici o socio-economici, oltre che etici e morali.
Nel passato, come abbiamo visto, si narra di personaggi che scelgono la morte come
soluzione in seguito a grandi fallimenti, sconfitte, perdite personali o per difendere virtù
considerate più grandi e importanti della loro stessa vita.

30
Harakiri e Seppuku in: Treccani.it, Enciclopedia online.
18

Eppure in questi testi e narrazioni, non compare mai lo spettro della depressione, o
almeno non nella maniera in cui la intendiamo oggi, ovvero come quel malessere
generalizzato, senza una causa manifesta e osservabile in maniera netta, come invece lo
sono i grandi lutti, le tragedie o eventi catastrofici che evocano una reazione fatalista;
ma si esprime oggi come un sentimento di malessere molto più sottile.
La depressione è difatti una della maggiori cause di suicidio dei nostri tempi.

2.2 - Genere e sessualità


Sempre Margaret Mead ha individuato aspetti interessanti riguardo all’approccio di
varie culture primitive nei confronti delle differenze di genere e della sessualità.
In particolare la sua ricerca effettuata su tre tipi di società della Nuova Guinea dimostra
come l’idea delle differenze tra sessi, sotto il punto di vista gerarchico, non è altro che
una costruzione sociale.31
Questi studi tengono conto di certi postulati culturali secondo cui vari atteggiamenti
siano rispettivamente congeniti del mondo femminile oppure maschile, e si cerca
rilevare quali forme di comportamento assumano i due sessi in base a questo,
specialmente dal punto di vista del temperamento.
La Mead mostra come due delle tribù osservate non abbiano alcuna discriminazione nei
riguardi del temperamento maschile rispetto al femminile; aspetti come l’aggressività, il
coraggio, il bisogno di potere, non sono considerati diversamente tra i due sessi, dunque
non lo contrappongono su base di attributi temperamentali considerati innati, ma
semplicemente questi hanno funzioni sociali e capacità diverse tra loro; com’è
puramente logico considerare.
Andando più nel dettaglio, la ricerca registra la vita degli Arapesh del villaggio di
Alitoa. Questi vivono in una zona montuosa, coltivando la terra e allevando maiali ed
altri animali; le difficoltà della morfologia del territorio ed il suo clima non mina il loro
rapporto con l’ambiente e anche le relazioni interpersonali sono armonizzate,
collaborative e solidali. Da notare è la parità dei compiti attribuiti tra i sessi; difatti
agricoltura e allevamento sono mansioni date in egual misura sia a uomini che donne.
Sebbene in alcune occasioni le donne siano marginalizzate, non subiscono alcun
maltrattamento, e i rapporti si man-tengono comunque sul piano della solidarietà.

31
Margaret Mead, sesso e temperamento in tre società primitive, edizione il saggiatore, Milano 2009.
19

Nell’analizzare la crescita e l’iniziazione di un ragazzo Arapesh (a partire dai sette- otto


anni di età), Mead individua nell’atteggiamento tanto dei ragazzi quanto delle ragazze il
carattere cooperativo e sereno proprio del popolo in esame, individuando però un’unica
differenza tra i due sessi: “il lavoro collettivo delle ragazze e le maggiori possibilità
concesse ai ragazzini di esprimere la propria collera”. Anche se questa differenza non è
sempre netta, ci sono eccezioni legate ad altri aspetti culturali.
La comparsa dei primi segni della pubertà comporta un’ulteriore distinzione tra i due
sessi, poiché da questo momento vengono tenute distinte “la funzione riproduttiva delle
donne e la funzione alimentare dell’uomo. La rappresentazione più energica di questa
separazione è il culto del “Tamberan”. Un rito in onore del patrono soprannaturale degli
uomini adulti della tribù, che non deve essere mai visto né dalle donne né dai bambini
non iniziati, sebbene tutti possano udirne la presenza attraverso strumenti musicali,
come flati, gong, e così via; addirittura all’annuncio del Tamberan donne e bambini, si
devono precipitare fuori dal villaggio. Ad un certo punto della cerimonia, il suono del
gong annuncia che il Tamberan è rientrato nella sua casa; pertanto gli uomini
richiamano al villaggio bambini e donne.
Una cosa importante da ribadire è che le donne non ritengono in alcun modo di essere
state escluse dall’assistere alla scena né si considerano ritenute inferiori agli uomini;
sanno che “la cosa riguarda la crescita la forza dei ragazzi e degli uomini, che per le
donne e i bambini sarebbe stato pericoloso assistervi e che i loro uomini sono stati
attenti e le hanno protette con ogni cura”. Questa reazione positiva è data anche dal fatto
che anche alle donne sono riservati altri riti, quali quelli legati al parto ed alla pubertà.32
Molti autori ci hanno dimostrato che le discriminazioni di genere nell’attribuzione di
mansioni quotidiane e nell’accesso a certi riti, fossero normali nelle società arcaiche,
venivano considerate in maniera razionale e accettate automaticamente, perché utili alla
sussistenza ed al mantenimento di una certa armonia nel movimento degli ingranaggi
sociali, rivolti e in equilibrio al rapporto con l’ambiente circostante, inteso sia come
ambiente naturale che quello sociale dato dalla presenza degli altri villaggi sparsi sul
territorio. E come si dimostrò, molti ragazzi anche nelle società più primitive godono di
uno sviluppo armonico nei suoi vari passaggi, fluido e senza “ostacoli” legati a stress e
ansie difficili da sostenere. 33
32
Margaret Mead, sesso e temperamento in tre società primitive, edizione il saggiatore, Milano 2009.
33
Margaret Mead, adolescenza in Samoa, edizione Giunti. 23 maggio 2017.
20

2.3 - La sessualità di oggi


Per quanto riguarda il tema della sessualità, e del modernissimo termine “sesso”, è
importante citare un osservazione fatta da uno studioso di psicologia, filologo e
scrittore: Igor Sibaldi.
Questi, ispirato anche dagli scritti del filosofo Marcuse, ha sottolineato una caratteristica
interessante dei nostri tempi, ovvero la presenza di una nuova parola, con una
definizione molto eclettica e che riassume un’esagerata quantità di valori e significati,
ovvero la parola “sesso”. 34
Questa parola secondo questi autori, nasce soltanto da circa due secoli, e non compare
nelle precedenti culture, o almeno non con il significato condiviso da noi oggi
nell’epoca moderna. Si può considerare come un caso di linguistica molto particolare,
perché seppur molto diffusa oggi, tale parola non possiede la concretezza del definire
con precisione una sensazione o un significato particolare, ma racchiude in sé una
quantità esagerata di sentimenti e sensazioni, non rilegabili in un unico significato
unipolare.
Sibaldi fa notare come per gli antichi l’etimologia corrispondente alla parola “sesso”
fosse rilegata al puro e semplice apparato riproduttore, mentre vi erano altri aspetti
dell’intimità, che venivano chiamati in maniera differente, preservandone significato e
valore distinto a sé stante, primo tra tutti “l’Eros”. Che attenzione, non corrisponde al
nostro odierno significato di eros, “erotico”. Ma aveva un significato ben più dettagliato
e specifico, ovvero quello di un momento di ricerca passionale, affiancabile non solo
all’attrazione sessuale e l’emotività piacevole che genera; ma anche ad un significato
filosofico, visto come quella forza che muove il pensare umano e lo porta ad un
dimensione che va oltre i sensi, verso l’estasi; ed era questo un concetto che si sposava
bene con il significato di piacere e di “piacere erotico” che aveva a sua volta maggior
espressione linguistica.35
Esistevano inoltre altri termini per esprimere il mero e semplice piacere sensoriale
scaturito dal contatto con l’amante, oppure all’estremo opposto esisteva il termine
“Agàpe”, che oggi si potrebbe affiancare all’amore incondizionato, e più precisamente
riguardava l’amore fraterno di stampo cristiano, un amore disinteressato, senza confini,
34
Marcuse H., Eros e civiltà, edizione Einaudi 2003.
35
Igor Sibaldi, Eros, Edizione Sperling & Kupfer 2014.
21

dall’alto potere emotivo e che permetteva di accedere ad una delle più alte forme di
benessere “erotico”, nel vero senso del termine.
Quindi gli antichi distinguevano il mero atto sessuale, da tutte le altre forme di
contemplazione della bellezza, del suo piacere, delle emozioni che porta con sé e le
varie sfaccettature dello spirito erotico; spirito erotico che quindi nel suo significato
originale poteva riguardare vari campi, non solo quello sessuale, ma la contemplazione
della bellezza di varie cose, tra cui la natura, la scoperta di grandi valori e verità, la
scoperta della propria interiorità, ma anche piaceri terreni concepiti con trascendenza.36
Sibaldi e Focault sottolineano che oggi anche molti altri termini e valori intimi sono
racchiusi nella sola parola “sesso” oppure “sessualità”, e cercano di condannare questa
pratica linguistica, accusandone l’eccessiva generalizzazione di molte espressioni
affettive ed emotive intime, molto importanti, il cui significato vivido ed esemplare
viene così minacciato e confuso.

Capitolo 3 - I RITI DI PASSAGGIO

3.1 - Definizioni
Il rito di passaggio, in antropologia, è definito come un’usanza tipica di una cultura, che
consiste in una procedura compiuta secondo un ordine prestabilito ed una certa
modalità.

36
Igor Sibaldi, a cura di R.Geminiani, Eros e Agape, , Editore Arte di Essere 2013.
22

Secondo le definizioni del celebre Arnold Van Gennep questi riti accompagnano i
cambiamenti di statuto; di età, di occupazione, di luogo e segnano anche le stagioni o le
tappe del ciclo di vita delle persone.
Le fasi di vita principali si racchiudono in 4 eventi: nascita, pubertà, matrimonio e
morte.
Va distinto dalle semplici abitudini culturali di un determinato contesto sociale; come ad
esempio gesti quotidiani dell’uso e consumo di determinate bevande tipiche o pietanze
tradizionali; inoltre non va confuso con certi gesti e atteggiamenti rappresentativi di un
ambito culturale.
Si tratta di una pratica rappresentativa del cambiamento di ruolo sociale dell’individuo
che viene sottoposto al rituale e, se vogliamo, anche della sua condizione psicologica
riguardo a tale ruolo.37

3.2 - Gli antichi riti di passaggio

Difatti i riti più importanti di molte culture arcaiche sono quelli che determinano il
passaggio dalla gioventù alla condizione di adulto; un nuovo ruolo per l’individuo nel
suo tessuto sociale, e questo sarà anche la tipologia di rito che sarà più osservato in
questo testo.
Spesso il rito di accesso all’età adulta è accompagnato da una prova di coraggio e di
capacità acquisite; oppure anche prove legate alla capacità di sopportare il dolore.
Per citare queste ultime, gli antropologi hanno individuato anche vari esempi di culture
che praticano riti di passaggio dolorosi o addirittura violenti; alcune popolazioni
amazzoniche, africane o della Nuova Guinea sottopongono i giovani iniziati a prove in
cui vengono frustati, bastonati, o messi a contatto con insetti che causano punture
estremamente dolorosi (formiche di fuoco). L’esperienza del giovane, diventato poi
adulto, così rimane impressa con il vissuto emotivamente e fisicamente di impatto; con
segni e cicatrici che permangono nel tempo, sia sul corpo che nella mente; segnando un
nuovo inizio, una nuova condizione, quella di un adulto valoroso e resistente.38

37
A. Van Gennep, “I Riti di passaggio”, Bollari Boringhieri, Torino 2012.
38
Hans Bosse 1990: Violence and Care: the appropriation of sons by their fathers’ in Papua New Guinea,
SAGE Journals, Vol. 23 pp. 5-16, 1990.
23

Ma come è ovvio pensare, la maggior parte dei riti di passaggio non presuppone la
violenza o il dolore.
Per rendere al meglio il concetto di rituale di passaggio all’età adulta, è utile proporre il
metodo dei villaggi Ambonwari della Papua Nuova Guinea, il loro è un esempio
lampante di quanto fosse importante e netta la conversione all’età adulta. Dalla ricerca
sul campo risulta un rituale scandito da locuzioni verbali che descrivono le varie tappe e
procedimenti, dai preliminari, al limen fino al completamento del passaggio. Loro
consideravano il maschio iniziato come un “non-essere”, ovvero un’esistenza legata in
maniera dipendente da un'altra, che erano i genitori; il termine più corretto per
descrivere la loro condizione è quello di “estensioni dei genitori”. Appunto nominati
“non-esseri” all’inizio del rituale proseguono la procedura di “negazione” ovvero in cui
si sottolinea l’iniziale incapacità dell’adolescente di avere consapevolezza, ed un
interiorità matura a tal punto da sapersi rappresentare il mondo esterno, capirne
profondamente tutte le ragioni, e quindi formare e creare a sua volta i suoi modelli
personali di realtà quotidiana e abitudine; questa definizione è a parer mio molto
chiarificatrice della conoscenza psico-sociale dei villaggi arcaici come questo, e del
profondo rispetto che avevano verso questa conoscenza. La fase liminale consiste in un
autentico distacco, in maniera figurativa l’iniziato è lanciato fuori dalla famiglia, verso
una nuova dimensione di coscienza; il distacco è netto e fragoroso, il giovane viene
catapultato in un processo che rappresenta la nuova possibilità del “divenire”. Il rituale
si compie quando il ragazzo diventa adulto e viene definitivamente considerato
“Essere”, condizione che denota la consapevolezza, coscienza, interiorità personale e
autonomia decisionale su vari fronti.
Per questa cultura l’iniziato non subisce una trasformazione rappresentata da “morte”
per una successiva “resurrezione” sotto nuova forma; ma si tratta per lo più di un vero e
proprio passaggio dal non esistere fino all’esistere come essere; ma è anche un incontro
con la morte, l’adulto ora e cosciente anche di quest’ultima, e del suo significato. A
questo punto del rituale il soggetto è pronto a morire come un essere Ambonwari,
incontrare l’eternità attraverso il ricordo e l’incarnazione nel nome dei suoi figli, col
passare delle generazioni.
Curioso è l’incontro con la morte per questo rito, perché da un lato muore il ragazzo
“non essere” per dar vita all’adulto “essere”; ma sempre quest’ultimo è detto pronto ad
24

affrontare la morte stessa, stavolta nel suo vero significato attribuito, ed il suo vero
valore. I saggi del villaggio insegnavano e ritualizzavano tali concetti.39

3.3 - Il rito di passaggio oggi.


Secondo vari studiosi, nelle società del nuovo millennio è tutto molto diverso; si parla
spesso di società “senza riti di passaggio”. Se proviamo a cercare corrispondenze nei
rituali descritti prima, ovvero quelli più “importanti” che segnano la transazione alla
fase adulta, vediamo che oggi nei nostri tempi non ci sono più pratiche come la leva
obbligatoria, anche il matrimonio tradizionale che poteva segnare un importante
passaggio psico-sociale, non è considerato nella stessa maniera, e persino l’ingresso nel
mondo del lavoro non è più delimitato da confini netti, ma vi sono sempre più rapporti
professionali occasionali, di breve durata o frequenza, o con ridotte responsabilità da
ambo le parti.40
Il significato che si vuole porre a questa situazione odierna, è la mancanza di un punto
di riferimento temporale, in cui un gesto, una celebrazione, ovvero un rito di passaggio,
possa segnare l’avvicendarsi di una nuova condizione sociale e un nuovo stile di vita. Il
riferimento temporale; ovvero il giorno in cui si può dire “il giovane è diventato adulto”
è esattamente il fulcro centrale della pratica rituale. Questo concetto si può chiarire con
una serie di esempi dell’epoca moderna: i giovani sono sempre più portati a scegliere di
rimanere in casa con i genitori, in quanto una situazione economico-lavorativa troppo
fluida e incerta preclude la certezza di potersi trasferire in abitazione indipendente, nella
quale poi costruire una propria famiglia. Ma anche se si ottiene la conquista
dell’indipendenza fisica, ovvero quando si trova casa, spesso non si ottiene quella
economica, e permane l’aiuto da parte dei famigliari; dando un senso di autonomia solo
parziale.
La leva militare invece è un esempio che riguarda per lo più lo sviluppo di altre
capacità; oltre al sapersi svincolare dai genitori, con essa si mostrava l’attitudine ad
affrontare attività fisiche e di confronto sociale sotto pressione e con poche comodità,
eseguire ordini di superiori che non si conoscono e rispettare gli spazi in un ambiente

39
Borut Telban: “Being and Non-Being in Ambonwari, Papua New Guinea Rituals, University of Sidney,
Oceania Publications, Sidney 1997. JSTOR
40
Aime M., Charmet P., La fatica di diventare grandi. La scomparsa dei riti di passaggio, Einaudi, Torino
2014.
25

non familiare; cosa che sicuramente dava un buon punto di partenza per sapersi
confrontare al meglio sui luoghi di lavoro nella vita.
Ciò che si prova a sottolineare con queste affermazioni è che nella società odierna
sembra mancare un momento di netta rottura che distingua il giovane dall’adulto, un
gesto collettivo, dettato da tempi e modalità precise, che sia ricordo e riferimento per
l’individuo che vive il passaggio.41
Oggi si indica come unico rito “sopravvissuto”, quello dell’esame di Stato, detto
appunto “esame di maturità”. Si può certamente affermare che questo processo sia ben
scandito sia nei tempi che nelle modalità, ma che riguardi in maniera specifica l’aspetto
didattico, e solo in secondo luogo quello della maturazione psico-sociale. E inoltre non
è scorretto asserire che dopo l’esame di maturità gran parte dei giovani non entri in una
condizione sociale in cui si possa già considerare adulto e indipendente sotto tutti i punti
di vista.

IL DONO

Il concetto di dono è certamente parte integrante di ogni società, che si tratti di una
convenzione sociale, abitudine culturale o vero e proprio gesto rituale, esso è presente
fin dai tempi più remoti dell’esistenza umana. Può sembrare improbabile individuare
differenze tra il concetto di dono nelle società moderne da quella più antiche, ma come
vedremo ci sono alcuni aspetti che si sono inevitabilmente modificati, magari senza
41
Aime M., Charmet P., La fatica di diventare grandi. La scomparsa dei riti di passaggio, Einaudi, Torino
2014.
26

snaturare il principio per cui si attua il gesto del dono, ma comunque alterandone in una
certa misura il grado di valorizzazione e di ritualizzazione.
Autori come Adorno ci ricordano che la vera felicità del dono sta tutta nell’immaginare
la felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri
binari, pensare l’altro come un soggetto esterno a noi.42

4.1 - Il dono nelle società arcaiche

L’antropologo celebre Marcel Mauss sottolinea come donare in fin dei conti significhi
creare o mantenere una relazione con l’altro. Inoltre citando il suo saggio, il dono ha
sempre avuto un valore ad ampio spettro, che comprende sia aspetti sociali e di
condivisione, sia aspetti socio-politici ed economici, importanti per il mantenimento dei
rapporti nelle varie società arcaiche descritte.
Il dono in questione è per intendersi quello libero e non vincolato, non caratterizzato da
costrizione, ma se vogliamo, soltanto da un’implicita e tradizionale convenzione utile
alla sana sopravvivenza dei rapporti sociali.43
Un’altra caratteristica insita nel dono e individuata dagli studi sul campo di Mauss, è il
significato arcaico del “mana”.
Con il termine “mana” si sostiene che il dono è dotato di un forte potere magico nello
stabilire la relazione con l’altro o gli altri. Il termine mana è di origine melanesiana ed è
tradotto come “forza sovrannaturale”, “potere spirituale”, e può significare anche “forza
vitale”. Nelle hawaii il termine mana assume il significato di “forza che viene da
dentro”. Si è scelto questo esempio per descrivere il dono delle culture arcaiche, perché
queste lo facevano spesso corrispondere ad una “Forza”.
Detto questo, anche i doni che ci scambiamo oggi nei nostri tempi, sono per lo più
simbolici rivolti al mantenimento di un sano tessuto sociale votato alla cordialità, ma
non è errato asserire che il dono non è più visto con una tale enfasi, e che non e di certo
in vigore l’idea di dono come forza soprannaturale, oppure di “sacrificio”, e così via.
Il concetto del mana è ripreso dagli studi storici di Mircea Eliade. Nel suo trattato ci
riporta come per le culture arcaiche, il mana è un potere intrinseco dell’oggetto. Sia che

42
Adorno T., Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994.
43
Mauss M., Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, piccola biblioteca
Einaudi, Torino 2002.
27

si tratti di un oggetto animato o inanimato, il suo potenziale inteso come forza vitale è
sempre presente; da queste definizioni già possiamo percepire il valore assoluto che
l’uomo arcaico attribuiva anche ad ogni oggetto materiale. Da ciò ne deriva anche il
valore attribuito al gesto del dono; che difatti era considerato come proprio di una forza
vitale magica, che avrebbe il potere di stabilire i legami con il prossimo, e dunque tale
gesto doveva avere persino caratteristiche soprannaturali.44
Proseguendo con alcuni esempi, Franz Boas, così come Mauss studiò un’ampia varietà
di società primitive del pacifico nord-occidentale, tra USA e Canada. La loro ricerca più
famosa riguarda un rito che accomunava queste civiltà, chiamato Potlach.
L’unicità del rituale potlach consiste nel fatto che invece di ostentare il possesso di
alcuni beni, o il loro scambio, per affermare il proprio rango, si praticava la distruzione
di questi.
Durante il potlach si era soliti mangiare carne di foca o di salmone, e venivano man
mano distrutti i beni che si potevano considerare effimeri, mostrando così il livello
della propria potenza economica alle tribù ospitate che, a loro volta, erano costrette a
eseguire lo stesso comportamento nel momento in cui procedevano con il loro potlach.
Durante il cerimoniale avvenivano anche vari scambi di doni, seppur la maggior parte di
questi venivano anch’essi distrutti subito dopo.
Il potlach non serviva solo come dimostrazione di potere tra varie tribù, ma aveva anche
valore intra-sociale, ovvero le varie dimostrazioni di potenza servivano anche a
consolidare le varie posizioni gerarchiche interne alla tribù.45

Come già sottolineato in precedenza, è importante far notare che la caratteristica


principale del potlach è la distruzione dei beni, è maggiore era il valore del bene che si
sacrificava, maggiore era la dimostrazione di potere economico. Ovvero si dava prova
che si poteva fare a meno di un determinato bene, avendo dunque un capitale ancor più
grande alle spalle. Questo atto, simbolicamente si contrappone molto alle nostre
moderne società capitaliste, nelle quali il punto chiave consiste nell’accumulare e
mostrare maggior quantità e valore dei propri beni e possedimenti.

44
Eliade M., Trattato di Storia delle Religioni, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
45
F. Boas, Kwakiutl etnography, University of Chicago Press, Chicago 1975.
28

Anche il noto antropologo Malinowsky, ha studiato e descritto a pieno un’importante


rito dedicato allo scambio di doni. Si tratta del rito del Kula, con cui gli abitanti delle
isole Trobriand del pacifico si impegnavano a scambiarsi doni dal valore fortemente
simbolico.
In questo cerimoniale i villaggi delle varie isole si impegnavano ad incontrarsi,
percorrendo anche centinaia di chilometri in canoa, per scambiare una serie di
braccialetti di conchiglie bianche con delle collane composte a loro volta da conchiglie
rosse. Lo scambio avveniva rispettivamente da Nord a Sud e doveva essere mantenuto
continuamente in circolazione, e dunque gli oggetti rimanevano in possesso dei soggetti
solo per un tempo limitato; dando così un valore enorme al solo e puro concetto di
scambio e di dono. In parallelo allo scambio di collane e bracciali vi era anche un
commercio di baratto meno simbolico, che riguardava per lo più oggetti di uso comune.
Quindi il rituale aveva dei connotati puramente simbolici, connessi però ad uno scambio
concreto e commerciale, quasi a voler fare in modo che il primo scambio gratuito e
simbolico, renda sacro il secondo, che aveva una natura più commerciale legata al
baratto. L’importanza del rito era dunque rivolta al costruirsi di una solida fiducia
reciproca tra gli abitanti, grazie al significato del dono, il quale, doveva impregnare
anche l’atmosfera degli scambi puramente commerciali, con il suo valore magico.46
Tutti gli studi qui citati, hanno come scopo la ricerca dei principi su cui si fondano le
società individuati nella pratica del dono, il quale è in grado di realizzare una relazione
sia libera che obbligatoria nello stesso tempo.
Per concludere, Mauss sostiene che il dono contenga tre caratteristiche fondamentali:
“dare, ricevere, ricambiare”; e mostra i significati dei questi tre fondamenti del dono. Si
deve “dare” per mostrare la propria potenza, la propria ricchezza; si è nell’obbligo di
“ricevere”, cioè non si può rifiutare il dono, pena la scomunica della comunità e il
disonore; si deve “ricambiare”, cioè restituire alla pari o accrescendo ciò che si è
ricevuto: restituire meno di ciò che si è ricevuto, è un’offesa al donatore.47

4.2 - Il dono oggi

46
Malinowski B., Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva,
Bollati Boringhieri , Torino 2011.
47
De Donatis S., Antropologia filosofica del dono: uno scambio «simbolico», (from:
https://mondodomani.org/dialegesthai/sdd01.htm)
29

Ciò che si intende evidenziare in questi paragrafi sul dono, è la trasformazioni di questi
valori antichi e profondi del dono, nelle azioni leggermente più effimere tipiche dei
nostri tempi moderni.
Il valore simbolico è certamente mantenuto, ed anche quello dello scambio e delle
relazioni sociali, oltre che dell’affermazione del rango; ma si può affermare che il gesto
in sé non è più valorizzato da cerimoniali e rituali specifici e non rappresenta più uno
scambio di beni di grande importanza per la sussistenza, ma è rilegato a festività e
giorni, in momenti specifici dell’anno. Questo sicuramente perché viviamo in un epoca
di relativo benessere e sviluppo tecnologico, ma anche perché i modelli di mercato
odierni sono enormi esemplari di individualità e di sviluppo del proprio patrimonio
personale, attraverso le proprie capacità di auto-determinazione, in cui il dono diventa
un “mezzo” o strumento per ottenere fiducia e quindi anche compenso, che a sua volta
diventa strumento per continuare a sviluppare la propria ricchezza e attività, e forse di
fronte a questo viene a mancare lo spirito solidale, di condivisione o anche solo il puro
spirito di squadra rivolto al mantenimento di una sana struttura economico-sociale.48

4.3 - La tradizione antica dei pastori sardi


A tal proposito, portare ad esempio una pratica tipica delle comunità della Sardegna
chiamata “Parradura” che è una modalità solidale antica, tutt’ora praticata, con cui i
pastori facevano fronte a situazioni di emergenza.
Nei periodi di maggior carestia, i pastori maggiormente colpiti dalla fame venivano
assistiti, grazie a donazioni volontarie da parte degli altri comunitari. Si scambiavano
beni di prima sussistenza ma soprattutto bestiame, difatti il dono simbolo di questa
pratica era proprio la pecora, di cui si regalavano alcuni capi al pastore sfortunato.
Da sempre nel momento in cui un gregge era colpito da un’epidemia o qualsiasi altro
evento distruttivo non dipendente dalla volontà del proprietario, tutti gli altri pastori
donavano, allo sfortunato pastore, una pecora giovane in modo che si potesse
48
E. Molinari, P. A. Cavalieri, Le implicazioni psicologiche del dono. La donazione in Italia, edizione
Springer, Berlino 2011
30

ricostituire il gregge. A tal proposito anche di recente questa comunità si è mostrata


solidali nei confronti delle regioni italiane colpite dai terremoti, donando centinaia di
pecore e altri beni di sussistenza alle persone colpite.
Il gesto è simbolicamente molto simile a quello del dono degli Indiani d’America,
ovvero questo è rivolto all’idea che il malcapitato, avendo ricevuto un dono importante
nel momento del bisogno, possa cogliere l’importanza ed il senso della solidarietà, così
da comportarsi allo stesso modo in futuro, con un’altra persona qualora si trovasse nella
stessa situazione.49
Anche in questo caso il dono non è soltanto un atto solidale, ma anche di valore
economico e sociale. Con le donazioni si evitava che i pastori in crisi finissero col
derubare il prossimo, dandogli il minimo necessario alla sua sussistenza, e della sua
famiglia. Il simbolo è fondato sui legami e sulla reciproca fiducia, con esso si include
anche la speranza che questa pratica sia tramandata e soprattutto riproposta ogni volta
che il prossimo abbia bisogno di essere assistito. Ovvero l’intento è anche quello di
“educare” la comunità ad aiutarsi a vicenda, ogni volta che le circostanze lo impongono,
con il dono e l’altruismo, sacrificando una piccola parte dei propri averi.50

LA MORTE

Molti storici, studiosi e letterari riportano come il concetto di “morte” sia cambiato
dall’antichità sino ai tempi moderni; di certo non è possibile individuare un’evoluzione
graduale di tale concezione, dato che ogni cultura forma paradigmi di pensiero a sè
stanti, in base al proprio periodo storico e alle vicissitudini del tempo; possiamo però
analizzare una sottile distinzione tra l’approccio alla morte dei tempi moderni,
specialmente occidentali, rispetto all’antichità.

5.1 - La morte per gli antichi

49
Carboni P., “Il tema del dono nella letteratura di viaggio e nella demologia sulla Sardegna tra Ottocento
e Novecento”
50
Cigoli V., Il viaggio iniziatico, Franco Angeli, Milano 2012.
31

Ricordiamo intanto come già anche solo nella tradizione filosofica sia cambiata nel
tempo la considerazione della morte; rimanendo solo nell’ambito dell’antica Grecia,
Platone che la descrisse come il momento della liberazione dell’anima dalla pesante
carne corporea, e dai suoi limiti; mentre Epicuro, viceversa, l’ha descritta puramente
come la dissoluzione di ogni cosa, disgregazione della materia ma anche dell’anima. 51
Qui possiamo già notare un dualismo tra due concezioni opposte, una che crede nella
vita dell’anima oltre la morte e l’altra che crede nella fine inesorabile e nella totale
negazione dell’esistenza di vita dopo la morte.
Si può procedere osservando anche altre culture antiche, cercando di trovare una linea
comune e di trarre alla fine alcune conclusioni grazie al confronto di queste con quella
moderna occidentale.
Nell’antica Mesopotamia il defunto doveva assolutamente essere sepolto nel sottosuolo,
e va notato il fatto che i defunti venivano sepolti all’interno dell’area urbana.
Il sottosuolo rappresentava “l’oltretomba”, ed era importante nei riguardi del defunto,
affinché gli fosse garantito un accesso al regno degli inferi. Se ciò non dovesse accadere
lo spirito rischiava di rimanere intrappolato nel mondo dei vivi e si pensava potesse
turbare la vita degli esseri viventi. La sepoltura era negata solo in casi eccezionali e solo
a causa di grave condotta. 52
Si trattava soprattutto di un rito rivolto a rassicurare il defunto che il suo ricordo sarebbe
rimasto e che poteva lasciarsi andare con serenità alla vita ultraterrena.
Proseguendo, gli egizi sono ben conosciuti per la complessità dei loro riti funebri; senza
citare le loro procedure e modalità nel dettaglio, possiamo soffermarci sul significato
rituale; la vita nell’aldilà era per loro garantita dalla conservazione del corpo defunto.
A tal proposito nasce la celebre pratica della mummificazione, tanto unica e
affascinante quanto elaborata, che rese possibile il ritrovamento di reperti integri persino
fino ad oggi ai nostri tempi, dopo millenni. L’importanza data al passaggio dalla vita
all’aldilà è incredibile, il corpo riceve questo lungo processo di imbalsamazione perché
si riteneva che l’anima lo abitasse ancora, seppur la vita continuasse nell’aldilà.53
Anche gli antichi etruschi davano enorme importanza al passaggio dalla vita alla morte;
la continuità della vita nell’aldilà era anche qui un aspetto fondamentale, basti pensare
51
Epicuro, Opere, Einaudi, Torino 1970, pp. 62-63.
52
Ambos C., Zisa G., Miti, culti, saperi, per un’antropologia religiosa della Mesopotamia antica, editori
Museo Pasqualino 2021.
53
Ikram Salima, Morte e sepoltura nell’antico egitto, Kemet editori, Torino 2016.
32

che le loro tombe erano riproduzioni simili alle abitazioni che ciascun defunto
possedeva in vita, e tali tombe-case erano persino munite di vari accessori e vi si
portavano alimenti e altri oggetti che si pensavano essere utili alla parallela vita
ultraterrena.54
Nella Roma antica vediamo nascere le prime imprese funebri, con i relativi impiegati al
servizio, i cosiddetti “libitinarii”, e così c’è un primo esempio di delega ad
un’istituzione degli impegni legati al cerimoniale funebre; ma ne usufruivano solo i
ricchi.
Riguardo al rito si sa con certezza che i corpi venivano cremati su delle superfici di
legno oppure inumati; la cremazione era la pratica maggiormente usata, così le ceneri
venivano conservate con cura in apposite urne funerarie, e poi venivano locate in
“tombe collettive” dette “columbarium”.
Inoltre le loro esequie duravano svariati giorni, e veniva organizzato un evento
celebrativo con messe in scena attraverso l’ausilio di attori, mimi, musici e danzatori.
Si organizzava un’ulteriore festa nove giorni dopo la sepoltura, chiamata “coena
novendialis” famosa per il gesto tipico del versare il vino sulle ceneri o sulla tomba. 55
Per concludere erano sette le festività romane che commemoravano i defunti, tra cui la
più conosciuta Parentalia dal 13 al 21 febbraio, e la Lemuria, che si teneva il 9, l'11 e il
13 maggio.
Non si possono non citare anche le cerimonie e monumenti funebri asiatici, come
descritto per gli altri popoli anch’essi si adoperavano per dare il massimo risalto al
saluto finale per il defunto, specialmente se questi era un personaggio imponente. Senza
dilungare nella descrizione delle varie culture che si sono succedute, si può trarre come
sommo esempio il monumento all’imperatore Ying Zheng o Qin Shi Huang (250 a.C.)
la sua tomba è circondata da un esercito di 6000 soldati costruiti in terracotta, disposti
quasi a proteggerlo ancora, nell’aldilà. Appare quasi lampante l’intenzione profonda di
questi riti, ovvero difendere la memoria, proteggendo così anche il valore simbolico che
quel dato individuo rappresenta per la comunità, o anche solo per la sua famiglia; e
quindi ci si adopera a rendere il monumento, o rituale, il più grandioso e valoroso

54
Della Fina M. Giuseppe, il mondo dell’archeologia, L’archeologia delle pratiche funearie. Il mondo
etrusco-italico. Treccani, 2002.
55
Agnoli N., L’archeologia delle pratiche funerarie. Mondo romano. Enciclopedia Treccani 2002.
33

possibile, esorcizzando l’eventualità che le forze negative del lutto, ne macchino in


maniera dolorosa il ricordo.
Per questa tematica però possiamo anche avvicinarci negli anni, guardando anche alla
letteratura medioevale. Si cita spesso nel periodo del 1300 a.C. il culto delle tombe ed il
“trionfo della morte”; la pestilenza, le guerre e le carestie hanno forgiato un idea
pessimistico e malinconico della morte. Ma nonostante ciò possiamo notare che nelle
opere letterarie del periodo il tema non era visto come un tabù.56
Petrarca nel suo “I trionfi” mostra l’apparizione della morte, ed il suo trionfo, ma solo in
maniera lirica, narrativa e malinconica.57
Dante a sua volta, come anche Leopardi e Foscolo hanno sottolineato la caducità della
vita ed il malinconico ruolo della morte; ma va sottolineato che essa non viene mai
interpretata con approcci apocalittici, di terrore o di sconfitta.

5.2 - La morte oggi

Valutando l’aspetto del valore e rapporto con la morte, secondo gli studi di vari autori
come il filosofo Edgar Morin e Louis Vincent Thomas, per l’uomo antico essa
costituiva spesso persino un momento di “elevazione”, ovvero una prova con cui
l’uomo poteva mostrare eroismo e coraggio; invece per l’epoca moderna la morte è
rilegata a semplice parte “residuale” della vita, esclusa come un tabù, e ricordata solo
nel momento in cui incombe, e ci si trova costretti ad affrontarne il lutto. Morin
addirittura definisce la nostra società, dai tempi dell’illuminismo fino ad oggi, come

56
Aries P., Storia della Morte in Occidente, BUR, Milano 1988.
57
Petrarca, Trionfi, Rizzoli, 1984.
34

“amortale” ovvero nella quale la morte rappresenta un tabù, di cui parlare poco, da
temere e scordare.58
E’ sicuramente interessante la visione dello storico Philippe Aries, che ci ricorda come
sino a circa metà del Medioevo, la morte era considerata senza timore e l’approccio nei
suoi confronti era già in principio basato sulla rassegnazione e sull’accettazione.
Inoltre il cerimoniale funebre era una pratica rituale attivata in maniera automatica,
senza connotati di tipo drammatico, e veniva portata avanti con un semplice omaggio
alla vita ed una preghiera conclusiva; inoltre fino al XVII quasi tutti i cimiteri erano
ubicati accanto alla chiesa, cosa che simbolicamente si può dire non “separava il
concetto di morte da quello di vita”.59
Sempre Aries ci fa notare come il 1700 porti altri cambiamenti su questa tematica;
l’autore riporta come ad esempio i testamenti, prima dedicati alla chiesa, passarono alle
famiglie; le tombe divennero anche più singole ed esclusive, e si cominciò a usare
epitaffi e targhe commemorative, con luoghi precisi in cui andare a ritrovare il defunto e
tentando così di renderlo “immortale” nella nostra esistenza. E’ interessante anche la
parziale sostituzione del prete con il medico nell’affiancare il defunto durante il
percorso del cerimoniale funebre, quasi a sottolineare uno spostamento dell’attenzione
dalla cura dell’anima e della mente, a favore di quella del corpo e della
razionalizzazione della morte, come sola cessazione del funzionamento organico.60
Possiamo ritrovare questo andamento anche nell’ottocento: all’epoca la morte è già un
concetto che genera timore nell’immaginario collettivo, il romanticismo ne enfatizza gli
aspetti tenebrosi e ne fa un tema quasi centrale.
Oggi è un tema sfuggente carico di evitamento, proprio come un tabù, oppure
all’estremo opposto viene deriso, dissacrato.61
L’approccio degli antichi riguardo al cerimoniale funebre era molto più scrupoloso, e
molto probabilmente, il motivo è puramente psicologico e cognitivo. Porre una grande
attenzione nei confronti di uno stravolgimento importante dalla vita quotidiana, proprio
come la morte di un caro, può innescare una migliore rielaborazione dell’evento; la
mente ha bisogno di dare un senso all’accaduto, e per farlo serve tempo, e anche un
diretto approccio con il luogo e l’oggetto di attenzione. In questo modo, si pone uno
58
Morin E., L’uomo e la morte, Edizioni Erickson, Trento 9 ottobre 2014.
59
Aries P., Storia della Morte in Occidente, BUR, Milano 1988. pp.18
60
Aries P., Storia della Morte in Occidente, BUR, Milano 1988. pp. 60
61
Pieretti A., La morte e il senso della vita nella cultura contemporanea. (http://www.collevalenza.it)
35

sforzo cognitivo ed emotivo, nel ripetere di continuo i vari riti, portando l’elaborazione
del lutto ad una fase di saturazione, di fatto ricucendo la squarcio provocato dall’evento
estremo della morte. Così si tenta a tutti gli effetti di esorcizzare direttamente sul posto,
qualsiasi possibilità che nella mente rimanga un dubbio residuo, un incertezza, uno
sconforto irrisolto o un rimpianto non accettato.
Tornando all’aspetto della dissacrazione moderna dei valori della morte, si deve porre la
giusta attenzione anche sui moderni aspetti tecnologici dell’approccio al lutto.
Esistono oggi una serie di interfacce web in cui vengono “gestite” le varie onoranze,
cerimonie e convenzioni funebri. Per citarne alcuni abbiamo grandi portali web di
riunione digitale, rivolti alla commemorazioni dei defunti, definiti “lapidi digitali”;
inoltre vi sono un gruppo di studiosi istituzionali definiti come facenti parte della
“digital death” (http://digitaldeath.eu), che ambiscono alla creazione di grandi siti web
dove permettere alle persone di andare a trovare il defunto in rete, piuttosto che al
cimitero. Andando avanti, lo stesso Facebook propone contratti per la gestione dei
profili social del defunto, oppure persino alla creazione di questi, affinché gli utenti
interessati possano “recarsi” digitalmente al “luogo di eterno riposo” del defunto. Inoltre
il profilo commemorativo può essere tenuto attivo e gestito su richiesta dai vari
familiari.
Naturale conseguenza di questo accanimento digitale sono i relativi servizi funebri del
web; si può richiedere infatti che vi sia una distruzione dei dati del defunto dai vari siti e
social internet, gli addetti che si occupano di tale compito sono chiamati “Death
Manager”. 62
Sono tante le opinioni contrarie e avvilite nei confronti di questi atteggiamenti, e
sottolineano l’importanza etica e morale nei confronti di un rito che dovrebbe mantenere
una determinata sacralità.

5.3 - Avventura e Morte

Anche il concetto di avventura e del relativo rischio, nell’educazione degli adolescenti,


oggi sembra essere inibito. Come riportano vari studi, il concetto di rischio e avventura,
62
Ziccardi G., Il libro digitale dei morti. Memoria, lutto, eternità e oblio nell’era dei social network.
UTET, Milano 2017.
36

è essenziale nell’educazione per apprendere il concetto di limite; e quindi grazie ad esso


in seguito, la capacità di comportarsi con prudenza a preservare la salute, e dunque la
vita. “Qualsiasi atto che tiene a distanza la morte, ostacola la vita” disse James Hillman,
in una delle sue interviste poco prima di morire.63
Ed è sicuramente un affermazione che punta il dito ai tempi moderni, tempi che
allontanano sempre più i giovani dalle esperienze avventurose e pseudo “rischiose”,
creando ambienti sempre più asettici e controllati, standardizzati e prevedibili.
Lasciando fuori l’idea propria del rischio, la sua scoperta, e quindi l’idea della morte, di
cui diviene difficile osservare il valore e provare e dimostrarsi nelle varie esperienze che
la vita potenzialmente ci offre.64

5.4 - Conclusioni
Si può asserire in tutto ciò, che l’idea della morte da sempre genera sconforto e
sicuramente l’essere umano ha cercato in ogni modo di “conservare la vita” anche dopo
la morte. Come descritto con i vari esempi in precedenza, ogni cultura ha trovato una
sua maniera di mantenere vivo il ricordo dei defunti, e di rispettare con sacralità il
defunto ed il concetto stesso di morte.
Ma dai dati raccolti si può ritrovare una certa discontinuità tra i nostri tempi moderni e
l’antichità.
Come descritto da Aries il nostro mondo occidentale moderno; ha accentuato la sua
paura nei confronti dell’eterno addio, e la reazione a tale paura consiste nell’evitamento
o viceversa nell’attenzione esasperata verso dettagli che ne enfatizzano la drammaticità.
L’antico sottolineava la morte, ma sotto un punto di vista cerimoniale e
commemorativo, quasi ad omaggiarlo per scongiurare la possibilità che la memoria del
63
Hillman J. Il suicidio e l’anima, Adelphi, Milano 2010.
64
Massa R., Linee di fuga. L’avventura nella formazione umana, editore La nuova Italia, Firenze 1989.
37

defunto divenisse negativa e ‘tossica’, esorcizzando l’eventualità che non vi fosse una
rottura col mondo dei vivi, e che il cosiddetto “cordone ombelicale” non fosse tagliato a
dovere, con conseguente persecuzione da parte dello spirito del defunto nei confronti
dei vivi. E vero sì, che anche gli antichi cercano in contatto costante con i defunti, nelle
varie festività commemorative; quasi a non volersene separare del tutto, ma l’intenzione
sembra essere più che altro quella di esaltare la continuità del buon vivere, piuttosto che
evidenziare il timore e la drammaticità della morte stessa. Addirittura si può considerare
che oggi il mancato “rispetto” nei confronti del valore “vitale” della morte, sia
rappresentato appunto da questa moderna modalità sconnessa e disarticolata di
riproporla, e ricordarla. Una modalità che si potrebbe definire anche dispersiva, basti
osservare come non ci sia più solo un sacro rituale da rispettare simbolico e imponente,
ma una serie di pratiche poco definite e molto soggettive, senza un appartenenza
culturale e spesso anche senza una procedura precisa; infatti come abbiamo visto si
usano persino portali digitali, riti modificati di altre culture, social, marketing e
pubblicazioni costanti con interessi discordanti.

Capitolo 6 - RAPPORTO TRA FILOSOFIA, SCIENZA, RELIGIONI.

E importante ricordare che nell’antichità la conoscenza era organizzata in maniera


totalmente diversa; quasi per tutte le culture la filosofia e la scienza andavano a pari
passo, le teorie filosofiche, le sue osservazioni erano considerate scientifiche, e gli stessi
filosofi si occupavano assiduamente di pratiche di ricerca sul campo naturale,
laboratorio, calcolo numerico e geometria, astronomia e via dicendo. Dunque traevano
le loro conclusioni sul significato della vita in base alla conoscenza tratta del
funzionamento della natura circostante, la sua ecologia e le leggi della fisica.
Ed è altrettanto importante notare, che la filosofia come la scienza, erano parte
preponderante della religione di tale cultura; spesso addirittura finivano per
corrispondervi.
38

Oggi notiamo sicuramente una scissione tra queste discipline, tanto che ad oggi sono
nate materie e percorsi di studio paralleli tra di esse, indipendenti e senza fattori in
comune.
Come spiegare un cambiamento così netto? E cosa significa dal punto di vista
dell’evoluzione culturale.

6.1 - Una visione razionale del mondo; e le sue implicazioni – Il rapporto con la
natura.
E’ necessario ricordare una differenza notevole tra l’attitudine dell’uomo nei confronti
della natura nel passato, rispetto a quella di oggi. Seppur negli ultimi anni si possa
osservare un tentativo di ritorno “alle radici”, è doveroso comprendere quale sia stato
sin ora l’approccio moderno al mondo naturale, quali siano state le sue implicazioni e
quali sono le differenze con il passato.
Innanzitutto già nell’antichità si parlava di inquinamento dell’aria, eccessivo
disboscamento, alto sfruttamento delle risorse idriche e materiali. Ad esempio
l’enciclopedia “Naturalis historia” di Plinio scritta intorno al 50 d.C, parla di
inquinamento atmosferico causato dal piombo usato per produrre le monete, ma anche
di distruzioni ecologiche e disboscamento.65

Tuttavia l’ideale incarnato dall'uomo antico, si può notare anche nella sua scienza,
filosofia e politica, che spesso dialoga con la natura e trova in essa l'orientamento per
costruire la sua vita e il suo mondo umano; rispetto all’uomo moderno, per il quale
invece il mondo naturale è quasi irrilevante rispetto al valore che ha la politica e la
ragion di stato. Col tempo, diciamo nell'arco degli ultimi cento anni in modo
determinante, questa irrilevanza si trasforma in asservimento: l'uomo con la sua capacità
razionale e tecnica diventa un dominatore e uno sfruttatore del mondo naturale. La
natura così non ha più un valore in sé, ma solo per l'uso che l'uomo riesce a farne.

Si può assumere che le motivazioni che hanno portato l’uomo ad allontanarsi da un


rapporto più armonica con la natura, e la comprensione del suo ruolo fondamentale per

65
Plinio, Storia naturale, editore Einaudi, Torino 1997.
39

la nostra esistenza, siano legate al progressivo e rapido aumento delle scoperte


scientifiche e quindi di una maggior diffusione di comodità tecnologiche e distacco
lavorativo dagli ambienti naturali. Ma si può anche ipotizzare che questo distacco sia
dovuto anche ad una “razionalizzazione” della nostra idea di realtà; come descritto
prima oggi molte materie che tempo fa erano unite in armonia tra loro, sono scisse;
organizzate e divise secondo schemi razionali in base ad attributi piuttosto superficiali.
Ad esempio la filosofia che ricerca il senso dell’esistenza e dei suoi aspetti potrebbe
collaborare in maniera più profonda con la teologia, e l’esistenza di quest’ultima è già
una riprova della scissione tra la religione e le materie filosofiche. Tornando al primo
aspetto è con molta probabilità anche il progressivo allontanamento fisico dagli
ambienti selvatici ed incontaminati ad aver inibito la percezione del funzionamento
degli ecosistemi e la consapevolezza di come la vita in natura scorra, si trasformi e si
comporti con noi e in funzione di noi. Le leggi degli ambienti naturali sono sicuramente
fonte di conoscenza, una conoscenza che le nostre radici richiedono con fervore.
Per esempio agli occhi di un ragazzo non saranno di certo indifferenti la fugacità della
vita degli ambienti selvatici, la dura legge del più forte e l’incessante lotta per le risorse
vitali. Anche solo vedere con i propri occhi da dove proviene il cibo presente sulla
tavola, e come viene trattato prima di essere edibile (specialmente gli alimenti di origine
animale) creerebbe sicuramente una concezione inedita riguardo i valori della terra. La
presenza fisica, costante nei contesti naturali agevola sicuramente la capacità di
comprendere aspetti come la vita, la morte, la famiglia e la forza del gruppo,
accompagnando la formazione della cosiddetta “educazione ambientale”.
Non serve alcuna ricerca bibliografica per dichiarare che nell’antichità il contatto con
questi aspetti della natura e delle nostre radici fossero automatiche e presenti ogni
giorno per tutta la vita degli individui. E che oggi la nostra modernità ci allontani
sempre di più dal contatto con la natura, e questa distanza sicuramente non è solo di
natura fisica, non può esserlo, perché come abbiamo già riflettuto all’introduzione di
questo testo, l’uomo è profondamente influenzato dalle sue attività e dal contesto in cui
vive, e sua volta la sua quotidianità ne plasma il pensiero, le emozioni, e persino
l’evoluzione. Di queste considerazioni sicuramente sarebbero d’accordo i grandi
esponenti del costruttivismo, sono proprio le loro teorie ad essere un argomento che si
incastra bene con tali concetti; perché sicuramente è vero che l’uomo ha un aspetto
40

cognitivo potenzialmente indipendente dall’ambiente circostante, proprio del calcolo,


della memoria e della misura, campo ampiamente dimostrato dal cognitivismo. Ma è di
certo anche creatura legata profondamente alla terra dalla quale trae nutrimento ogni
giorno, dall’alba dei tempi.

6.2 Dalla ricerca della globalità, alla categorizzazione.


Certamente vi è un altro aspetto interessante da valutare, e questi è osservabile anche in
maniera alquanto netta.
Gli studiosi antichi ricercavano assiduamente le leggi universali sottostanti, ossia valori
filosofico-esistenziali che passano dall’osservazione di concetti particolari più
superficiali, fino alla loro inclusione in leggi globali e molto più ampie.
Oggi la nostra attenzione nei riguardi dell’esistenza e della verità in tutti i suoi aspetti, è
condensata tutta nel paradigma della ricerca scientifica e delle sue regole.
Si potrebbe dire che viviamo un epoca di stampo per lo più empirista o razionalista.
Seppur gli empiristi risalgano all’universale passando dal particolare, usano il metodo
induttivo, tipico del mondo scientifico, per cui una teoria è probabilmente valida finchè
altre prove oggettive non la smentiscano, e per cui tutto può essere confermato infine
dalla sola esperienza pratica.66
L’esperienza è ciò che l’empirismo impone alla conoscenza, mentre la sola oggettività è
il fattore chiave anche del Razionalismo, che dal suo metodo deduttivo, dichiara che
ogni conoscenza deve la sua affermazione al solo uso della ragione e quindi della
confutazione razionale. Quindi è deduttivo tutto ciò che è frutto di considerazioni
fondamentali certe, spesso inattaccabili di tipo matematico, come ad esempio le leggi
della geometria e della meccanica.67
La presenza di questa tendenza rivolta alla pura scientificità sperimentale dei nostri
tempi, è stata notata e descritta da vari autori, tra cui Sibaldi Igor che l’ha mostrata in
maniera lucida e chiarificatrice nel suo libro “Aldilà del deserto”, dove cerca di
sottolineare quella che era l’idea originaria della parola “Metafisica”, ovvero intesa
come lo studio di tutto ciò che non è dimostrabile direttamente dal solo percetto
66
Rovighi Vanni S., filosofia della conoscenza, editori ESD, Milano 2007. cap. 5, pp. 136.
67
Mondin B., Storia della metafisica, ESD editori, Milano 1998.
41

sensoriale e dalla sola esperienza oggettiva. Di sicuro il metodo scientifico – empirico


usa ottimi indicatori sperimentali e ottimi metodi dimostrativi, ma probabilmente questi
non sono le uniche vie esistenti della conoscenza.68
Con tale punto di vista si inizia dunque a far notare che nell’antichità si parlava molto di
più di verità trascendentali, per molti tali verità erano persino assolute ed inarrivabili,
basti pensare a Sant’Agostino, che credeva che persino il ruolo dell’educatore fosse
secondario, e che la conoscenza provenisse da incontri intimi di illuminazione con
Dio.69
Poi ricordiamo in tal senso anche Platone, con la sua idea della reminescenza, che
descrive un’anima immortale e trascendentale, raggiungibile addirittura solo con la
liberazione dalle leggi fisiche e dalle pulsioni corporali della vita mortale.70
Pensiero che ritroviamo in parte con Seneca, il quale ancor più radicale vede nella morte
virtuosa una vera e propria liberazione dell’anima dalla lotta quotidiana contro le
pulsioni istintive terrene. Questo esponente dello stoicismo vedeva l’anima come un
entità a cui avvicinarsi il più possibile, abbandonando il mondo delle debolezze terrene,
quali la paura, il dolore, le passioni effimere, così raggiungendo la corrispettiva felicità.
Da queste visioni trascendentali estreme, possiamo agganciarci a Tommaso d’Aquino,
ma anche ad Aristotele. S. Tommaso fu un grande pioniere nel tentare di trovare un
equilibrio tra la fede nelle “cose” puramente trascendentali e la ragione con i suoi aspetti
più razionali e terreni, corporali. Difatti riuscì per primo in tanti secoli ad imporre alla
fede cieca e disinteressata, una guida razionale, supponendo addirittura che senza
ragione anche la fede ha motivo di vacillare.71
Aristotele come lui era meno estremo nella visione dell’importanza dell’anima rispetto
al corpo ed alla ragione, e anch’esso nel “De Anima” la descrive come l’atto primo,
ovvero il principio, di ogni attività dell’organismo vivente. Si nota subito come l’anima
qui fa parte dell’essere vivente, in equilibrio con il suo agire terreno e le sua funzionalità
razionale, e non è più un’entità astrale separata a cui aspirare.72
Nel passato si annoveravano questi personaggi che si occupavano di un’ampia gamma
di discipline, chiaramente ciascuna disciplina non aveva raggiunto una conoscenza

68
Sibaldi I., Aldilà del deserto, Salani editore, Firenze 2017.
69
Sciacca M.F., a cura di Pier Paolo Ottonello, Sant’Agostino, editori Ares, Milano 2021.
70
Platone, Menone, edizione Bur Rizzoli, Milano 2016.
71
Porro P., Tommaso d’Aquino. Un profilo storico-filosofico. Carocci editore, Roma 2019.
72
Aristotele, De anima, editori Carabba 2011.
42

tecnicamente approfondita come oggi, ma l’ecletticità del sapere era fondamentale a


quei tempi; oggi giorno invece vediamo illustri studiosi ciascuno che opera nel proprio
campo, che pubblica e fa ricerca nella sua specialità. Tale specializzazione impone che il
medico si occupi di ricerca medica, che l’astronomo di astronomia e che il biologo
ricerchi soluzioni ecologiche, in maniera categorizzata.
Certo non è immaginabile che la scienza possa oggi permettersi di formare figure dotate
di onniscienza, non è umanamente concepibile; ma come direbbe Beatson, è importante
che si instauri una nuova modalità di ricerca più globale, che prenda in considerazione i
componenti di un sistema, conoscendo tutti gli altri componenti con cui essi
interagiscono; ovvero la sua totalità. Gregory Beatson la chiamava “ecologia della
mente”, e difatti la definiva come una scienza che ancora non esiste, ma che è essenziale
per comprendere il funzionamento che sta alla base dei sistemi, sia fisici che psichici, e
per comprenderli davvero è necessario innanzitutto accorgersi definitivamente che un
qualsiasi oggetto di studio, preso singolarmente, non ha lo stesso significato che avrebbe
preso nella spontaneità del suo contesto naturale originario; inoltre è necessario
osservare e conoscere anche gli altri contesti che si contrappongono ad esso, con le
varie analogie che si possono ritrovare.73
CONCLUSIONI

I contrasti rilevati tra il nostro mondo ed il mondo antico tendono sia a favore di
quest’ultimo per certi aspetti, ma anche a suo sfavore per altri.
Come si può leggere in questo testo, ma anche notare nella vita di tutti i giorni, ci
troviamo in un periodo storico caratterizzato da una velocità e frenesia mai vista prima.
Tale velocità spesso ci distoglie dal porre le adeguate attenzioni ad importanti passaggi
delle varie fasi delle nostre vite, che vengono trascurati dando sempre più importanza
agli impegni ed obblighi sociali, sempre più scanditi da orari, date, tempi di prestazione,
quantità di informazione quasi illimitate e attività sovrapposte e spesso anche in
conflitto tra loro.
Non c’è più tempo per il rituale che ci permette di cambiare e di esorcizzare, e non c’è
più tempo per la cerimonia che ci permette di ricordare i valori indissolubili della nostra
esistenza.

73
Beatson G., Verso un ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000.
43

Ci contraddistingue dal passato soprattutto la nostra povertà di significato. L’uomo


arcaico era attento, a moltissimi aspetti della sua interiorità; era costretto ad esserlo, per
affrontare la dura vita quotidiana, e per dare un ordine ed un senso ai cambiamenti
importanti della vita, scoprirne il valore ed i significati, per non rimanerne sopraffatto e
per riuscire a controllarne le conseguenze e le utilità, dando un senso di coerenza alla
sua esistenza.
Oggi ci troviamo in una divisione che colpisce la nostra interiorità, e quindi di
conseguenza anche tutta la nostra concezione della realtà che ci circonda.
E’ curioso pensare che un altro aspetto che distingue la nostra epoca dalle altre, è anche
la nascita di una nuova disciplina scientifica, che prima non è mai stata citata,
nonostante rivesta un ruolo fondamentale nelle nostre vite: ed è proprio la Psicologia.
Difatti la nascita della psicologia viene fatta risalire al 1879, a Lipsia, da un gruppo di
studiosi, di cui fu esponente il noto fisiologo Wundt.
Però prima di questa data, di certo l’uomo non ha mai smesso di interrogarsi sulla
propria interiorità, e sui meccanismi che governano il proprio essere; la novità consiste
nel fatto che l’uomo ha iniziato a valutarla come scienza sperimentale, e non più come
uno studio implicito, fuso ad altre discipline come la filosofia, la teologia, le scienze
della natura e così via.
Non sorprende il fatto che proprio Wundt e la sua corrente di pensiero dello
“strutturalismo” finì per muovere critiche per il metodo utilizzato, considerato non
sufficientemente sperimentale.
Vennero successivamente le altre correnti di pensiero che tentarono di dare una svolta,
proponendo un metodo più scientifico e quindi empirico, e si iniziarono ad osservare gli
esperimenti del comportamentismo e dello strutturalismo, oltre che quelli del
cognitivismo e della Gestalt. Ma questi si limitarono a studiare gli aspetti “controllabili”
della nostra mente: tra tutti ricordiamo il condizionamento, il rinforzo, la percezione
sensoriale ed i suoi meccanismi innati, e gli stadi di sviluppo Piagetiani. Tutte teorie
utili ma che osservano solo quel lato della nostra esistenza che può essere prevedibile e
rilegabile ad un laboratorio sperimentale. Non a caso, subito dopo venne l’ascesa della
psicoanalisi, e fu accolta come un moto rivoluzionario, che introdusse una serie di
significati inediti e molto più profondi.
44

Detto ciò, il fatto che la nascita della psicologia sia attribuita a Wundt il quale era un
fisiologo, ci pone di fronte ad un’interpretazione interessante, e ad un interrogativo.
Può la psicologia essere osservata e studiata anche solo come scienza a sé stante?
Oppure dovrebbe essere sempre presente come branca disciplinare di moltissimi altri
campi di studio. Dalla Fisiologia appunto, e quindi ovviamente alla Medicina; oppure
anche dall’ecologia fino alle discipline sociologiche, filosofiche e umanistiche;
includendo anche l’ambito del diritto, dell’economia e quindi giurisprudenza.
Perché la psiche arriva ovunque, in ogni attività propria dell’uomo ci sarà sempre un
aspetto psicologico da valutare, che influisce su quell’attività. Proprio perché l’agire
umano in tutte le sue forme, non è altro che un estendersi della sua coscienza verso i
vari oggetti di interesse presenti nella sua vita.
Molto probabilmente Gregory Beatson sarebbe d’accordo con questo approccio, difatti
queste conclusioni citano quello che lui definì “ecologia della mente”. Lui stesso
d’altronde disse che solo con un’ecologia della mente si possono capire le relazioni che
sussistono tra aspetti apparentemente sconnessi, come “la simmetria bilaterale di un
animale, la disposizione strutturata delle foglie in una pianta, la grammatica di una
frase, le pratiche di corteggiamento come la natura del gioco, il mistero dell’evoluzione,
e la crisi odierna tra uomo e ambiente”.74
Per concludere, si può definire quella di oggi come la cultura dei “riassunti
categorizzati”, e quindi una visione più divisa e superficiale della vita, delle sue
vicissitudini, dei suoi valori, e persino della sua fine.
Per epoca dei riassunti si intende proprio questa attitudine moderna, a tralasciare i
dettagli più profondi delle nostre azioni e sensazioni, quelle quotidiane, ma soprattutto
anche quelle più rare; ovvero quelle scaturite da eventi che non capitano spesso, ma che
caratterizzano ed influenzano l’intero percorso della nostra vita.
Si tratta dei lutti, della maturità, del dono, della natura e di ciò che ci porta a tavola, del
benessere, delle emozioni, dell’avventura e della socialità.
Tutte queste cose le facciamo ancora, questo è vero.
Ma forse il gesto non è più accompagnato dalla piena consapevolezza del valore.

74
Beatson G., Verso un ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000.
45

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