Tesi di Laurea in
Analisi e confronto tra i paradigmi di
pensiero dell'antichità con quelli dei
tempi moderni
Relatore: Candidato:
INDICE
Introduzione
Cap. 1 – RAPPORTI INTERPERSONALI
1.1. I rapporti e l’amicizia
1.2. Il benessere
1.3. La libertà
1.4. Discriminazioni
Cap. 2 – L’ADOLESCENZA
2.1 Adolescenza in società arcaiche
2.2 Genere e sessualità
2.3 La sessualità oggi
Capitolo 3 – I RITI DI PASSAGGIO
3.1 Definizioni
3.2 Gli antichi riti di passaggio
3.3 I riti di passaggio oggi
Capitolo 4 – IL DONO
4.1 Il dono nelle società arcaiche
4.2 Il dono oggi
4.3 La tradizione antica dei pastori sardi
Capitolo 5 – LA MORTE
5.1 La morte per gli antichi
5.2 La morte oggi
5.3 Avventura e morte
5.4 Conclusioni
Capitolo 6 - RAPPORTO TRA NATURA, FILOSOFIA, SCIENZA,
RELIGIONI.
6.1 Una visione razionale del mondo e le sue implicazioni – Il rapporto con la
natura.
6.2 Dalla ricerca della globalità, alla categorizzazione.
Conclusioni
Bibliografia
2
INTRODUZIONE
Detto questo proviamo ad immaginare anche solo per un secondo, quanto fosse diversa
la giornata di un individuo nell’antichità, e quindi, quanto fosse potenzialmente diversa
la concezione della vita, della quotidianità, e appunto quanto questo influenzi i vari
aspetti della vita e della psiche.
Che sia l’antica Grecia, o l’antica Roma; dai persiani ai grandi imperi dell’800.
Non ci sono obiezioni al fatto che la differenza sostanziale tra questi due fronti consiste
nello sviluppo della tecnologia; un “Boom” così intenso come quello industriale e
tecnologico degli ultimi 2 o 3 secoli è talmente rapido, radicale, concreto, e anche
influente nei confronti delle nostre vite, che non può non rappresentare un enorme
“Anno Zero”.
Questa Rivoluzione di fatto ha creato come una grossa parete che divide i due fronti
principali, i quali si potrebbero chiamare per semplicità “Antichità e Modernità”.
La definiamo “parete” perché la differenza degli stili di vita “Prima e Dopo” tale
rivoluzione, è abissale.
Una grande varietà di autori e studiosi, ha tentato di definire quali sono le differenze
individuabili tra questi due grandi fronti.
Il fatto di definirli fronti, può sembrare un azzardo, in quanto si potrebbe asserire che in
fondo le differenze tra i paradigmi di pensiero umano sostanzialmente non sono
3
definibili nel tempo; difatti non è stato semplice trovare punti distintivi concreti e così
netti da poter fare distinzioni definite e radicali.
Ma se è vero che ogni cultura nel tempo è considerabile a sé stante, e che ha avuto i suoi
paradigmi e le sue tipicità di pensiero, ciò non rende impossibile trovare una linea
comune tra le varie culture antiche e confrontarla con la modernità, che possiede queste
nuove e particolari caratteristiche. Linea comune che infatti è piuttosto sottile da
individuare, ma come molti autori hanno evidenziato, questa esiste, e seppur sottile
rimane comunque un aspetto rilevante e significativo, e se si pone la dovuta attenzione
il suo impatto è sicuramente percepibile; persino osservabile.
4
2
Lasch C., The culture of narcissism, Bompiani, Milano 1981.
3
Tisseron S., “L’intimitè surexsposèe”, Edizione Ramsay, Parigi, 2001.
4
Farci M., Rossi L., Pubbliche intimità. L’affettivo quotidiano nei siti di Social network, 2014.
5
Carrier J., People who can be friends: selves and social relationships. The anthropology of friendship,
1999.
6
una linea di accordo comune secondo la quale non è il social network di per sé ad essere
dannoso, quanto il suo utilizzo smodato. Difatti proprio un importante studio di Oxford,
dichiara come non sia la tecnologia in sé il problema, quanto la sua incorporazione nei
legami sociali che vengono a formarsi; inoltre questo come molti altri studi dimostra
come la forza dei legami che si possono formare sul web, potenzialmente non hanno
nulla da invidiare a quelli che nascono in incontri vis-a-vis. 6
Va sottolineato dunque che il social network non è altro che uno strumento, e quindi va
usato con discrezione, esattamente come tanti altri strumenti utilizzati in altri aspetti
della vita, con l’unica differenza che questo riguarda un lato molto intimo della nostra
umanità, ovvero la relazione con il prossimo.
Detto questo però, torniamo al tema principale di questa ricerca, cercando quali
implicazioni porti con sé l’ascesa dei social network di oggi, in confronto con l’assenza
di questi strumenti nel passato anche più recente.
Prendendo come riferimento l’Inghilterra come esempio di cultura social moderna, la
Royal Society for Public Health mostra dei dati preoccupanti riguardo all’impatto sui
giovani (16-24 anni): il 91% di questi usa internet specialmente per i social; tra questi i
sintomi di ansia e depressione correlati sono aumentati del 70% negli ultimi 25 anni.
Nella raccolta di dati sul campo con interviste e questionari, gli stessi giovani
ammettono che i social gli causano un peggioramento dei sintomi ansiosi.
Si rivela come gran parte dei sentimenti di disagio deriva da un sentimento di
inadeguatezza generato dai contenuti presenti nei social stessi; in cui c’è una vera e
propria corsa all’ostentazione di felicità, ricchezza e standard di bellezza fisica.
Nasce anche il termine FoMO, ovvero il “Fear of Missing Out” con cui il ragazzo
sperimenta la sensazione di non godersi al meglio gli stimoli offerti dalla vita, proprio
perché i contenuti dei social, colmi di dimostrazioni di successi altrui, portano a credere
di dover mostrarsi a propria volta realizzati, e cercare di raggiungerli. Questo comporta
una dispersione di vari aspetti della propria identità, come l’insoddisfazione riguardo al
proprio aspetto fisico, al proprio impiego lavorativo, agli hobby ed alle abitudini tipici
della propria quotidianità e quindi personalità.
Un esempio citato spesso anche da altre fonti è Instagram, il quale sembra creare la
maggior quantità di danni relativi la valutazione il proprio aspetto fisico. La categoria
6
International Journal of Internet Science IJIS, “Online friendship formation, communication channels,
and social closeness”, 2006, 1 (1), 29-44.
7
maggiormente colpita è quella delle teenager, il 90% di queste utenti dichiara di avere
alcuni problemi di insoddisfazione nei confronti del proprio corpo.7
1.2 - Il benessere
Molti autori concordano sul fatto che i nostri tempi moderni sono caratterizzati dalla
presenza di due grandi protagonisti simbolici: ansia e stress.
Una serie ragguardevole articoli ci descrivono come i problemi legati all’ansia e allo
stress siano fenomeni puramente tipici della società moderna, non che prima non
esistessero, ma di certo ne siamo i maggiori produttori.
La sfera occidentale con le sue grandi metropoli è famosa per essere frenetica, molto
incentrata sull’arte dell’apparenza, ad un altissimo livello di competitività, relativi a vari
standard di vita che vengono quasi “imposti” da norme sociali tanto sottili quanto
inflessibili. 8
Di certo anche le culture arcaiche avevano ciascuna una caratteristica componente che
causava stress o pressioni agli individui che vi hanno vissuto, ma aldilà di quello che
molti potrebbero ipotizzare, come vedremo di seguito, molte di queste antiche civiltà
avevano condizioni ideali per lo sviluppo e l’espressione del sé, in maniera fluida e
armonica.
A tal proposito è importante citare uno dei grandi punti di contrasto tra noi e queste
civiltà antiche, ed è l’accelerazione, intensità e quantità delle attività quotidiane
Difatti un nuovo protagonista dei nostri tempi è sicuramente il “Multitasking skill”.
Oggi come mai nella storia l’uomo comune è chiamato a svolgere una varietà enorme di
attività diverse, spesso persino in contrasto, tra loro.
Si chiama multitasking, ovvero la capacità di porsi una moltitudine di mansioni o
obbiettivi, e spesso addirittura svolgerli e portarli a termine contemporaneamente
nell’arco della giornata. Ad un occhio inesperto potrebbe apparire come una capacità
eccezionale e che determina una serie di vantaggi ragguardevoli, come la possibilità di
guadagnare tempo e quindi anche denaro.
7
Royal society for public health; social media and young people’s mental health, report, 2017.
8
B.F. Piko, Administration and Policy in Mental Health, Socio-cultural stress in modern societies and the
myth of anxiety in eastern Europe, Vol 29, No. 3. January 2002.
8
Al contrario vi sono conseguenze negative su vari fronti: prima di tutto uno spiccato
aumento della secrezione di cortisolo, l’ormone dello stress; poi vi è maggior
probabilità di incorrere in patologie come depressione e ansia correlate.
Una nota ricerca ha addirittura potuto correlare una mutazione della struttura cerebrale
ad una prolungata esposizione ad attività multitasking. Difatti nello studio sono state
coinvolte persone che usavano contemporaneamente diversi tipi di media (oggi questo è
possibile grazie alle varie applicazioni dei cellulari, computer, interfacce di cui siamo
circondati). I soggetti effettivamente hanno mostrato una minor densità di materia grigia
nell’area della corteccia cingolata anteriore (ACC) che ricordiamo ha un ruolo
importante nella regolazione delle emozioni e nell’elaborare i pensieri.
Questi aspetti aggiunti allo stress e all’eventuale aumento dell’ansia, portano più
facilmente a compromettere le capacità memoniche e quindi di apprendimento e
dell’attenzione, spesso anche in modo serio.
Soprattutto l’attenzione selettiva sembra essere quella più danneggiata; le ricerche
mostrano come i soggetti più abituati ad abusare di metodi multitasking, durante i test
non riescono a mantenere la concentrazione sulle attività senza subire leggere
distrazioni da varie fonti esterne anche irrilevanti. Questa difficoltà a discriminare gli
stimoli non rilevanti rispetto al compito in esecuzione è comprensibile dal fatto che il
soggetto che pratica multitasking è abituato a lasciare e riprendere il compito tante volte
in poche frazioni di secondo; dato che il nostro cervello non svolge mai per davvero due
compiti nello stesso tempo, anche quando può sembrare il contrario, invece passa da un
focus all’altro con estrema velocità.
E’ proprio questa velocità elaborativa che causa sovra affaticamento delle strutture
cerebrali durante il multitasking, ovvero il cosiddetto “overload”.9
E’ comprensibile quale sia il motivo per cui proprio la nostra epoca presenti queste
nuove forme di abitudini dannose, la frenesia e l’ansia da prestazione che caratterizza la
nostra cultura moderna occidentale e già stata abbondantemente citata e riconfermata.
9
D.J. Levitin, The organized mind: thinking straight in the age of information overload. Edizione
Penguin; 4 giugno 2015.
9
1.3 - La libertà
Con molta probabilità la nostra epoca ha molti punti a favore per quanto riguarda le
libertà dell’individuo.
La libertà per gli antichi riguardava per lo più l’aspetto delle decisioni in materia
politica, ovvero la possibilità di partecipare alla definizione delle varie decisioni
pubbliche; pertanto era di fatto un concetto quasi esclusivamente politico, per non
parlare del concetto di schiavo, che dopo approfondiremo.10
Oggi invece si parla di auto-determinazione, self-regulation, felicità e realizzazione
personale; in tal senso fu pioniera la costituzione Americana con la sua dichiarazione di
indipendenza, che addirittura vuole sottolineare come ogni cittadino ha diritto ad essere
libero di poter realizzare la propria felicità, purché ciò non determini danno agli altri ed
i loro diritti.
Quindi si parla di una libertà a 360 gradi, che osserva l’uomo sia come individuo che
come cittadino.11
Tornando sul tema della libertà degli antichi, proviamo a immaginare la vita di uno
schiavo. Già la sola esistenza della categoria “schiavo” è in netta contrapposizione con i
valori di libertà e diritti umani che troviamo nel mondo di oggi (con poche eccezioni per
alcuni stati). Ma ai tempi dell’antica Grecia, o di Roma, così come per il resto dei
popoli, era del tutto normale. Ad Atene come a Roma lo schiavo non aveva diritti, era
uno strumento “animato” (per come li definiva Aristotele), senza alcuna potestà ed il
padrone aveva potere totale su di esso, per essere precisi sul suo corpo e sulle mansioni
che questi doveva svolgere.12
Detto questo lo schiavo non poteva avere famiglia, se non per concessione del padrone e
c’era la possibilità addirittura che i suoi figli venissero venduti.
Unica limitazione su di essi era il divieto di omicidio, ma tale divieto se non rispettato,
prevedeva una semplice multa come punizione.13
Per concludere la tematica, è senz’altro utile citare l’opinione di Rosseau, il quale critica
aspramente la giustificazione antica della schiavitù. Questa è una manifestazione che si
avvicina fin troppo pericolosamente alla pura e semplice affermazione del diritto del più
forte; la cosiddetta legge della jungla.
10
B.Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni. Einaudi, Torino 2005.
11
USA Constitution: “The declaration of indipendence”, Article 1.
12
M.I. Finley, Ancient Slavery and Modern Ideology – Edizione Penguin, 26 maggio 1983: pp. 91-97.
13
Aristotele, Politica I. libro 4, sezione 1253b, 32.
10
Il “diritto” del più forte deve essere denunciato, perché “esso si riduce alla sola
dimostrazione di forza, e dunque non ha alcun significato sul piano della giustificazione
del potere”.14
1.4 - Discriminazioni
Una grossa differenza coi tempi antichi, è rappresentata oggi dalle discriminazioni.
Riprendendo il significato del termine, ovvero differenziare il valore di alcune categorie
di individuo, svantaggiandole o viceversa dandovi delle agevolazioni.
Il tema principale è quello della svalutazione delle donne; ricordiamo che ai tempi
dell’antica Grecia non era nemmeno messo in discussione che la donna dovesse aver un
ruolo marginale ed essere considerata inferiore; per citare un esempio, Aristotele
dichiarava con naturalezza che: “Il maschio è per natura migliore, la femmina peggiore,
l’uno è atto al comando, l’altra all’obbedienza”; di fatto poi questa teoria è
accompagnata dalla credenza che l’anima razionale dell’uomo fosse nata per governare
su quella irrazionale della donna, governata da forze instabili, a cui dare un ordine e
autorità; e quindi la necessita.
Addirittura le si attribuisce un ruolo passivo nella riproduzione, perché si pensava che
non producesse seme, e che perciò non concorresse alla generazione della vita, ma ne
offrisse “solo” il luogo di compimento.15
Forse soltanto Platone azzardò il tentativo rivoluzionario di concepire la donna con dei
ruoli più elevati, anche in posizioni di rilievo politico. Cercando di specificare che se
queste fossero “adeguatamente educate” potrebbero essere in grado di ricoprire ruoli
politici contribuendo alla guida del paese.16
In ogni caso era difficile trasmettere tali messaggi, siccome questa considerazione della
donna come inferiore non era soltanto una decisione opinionistica, ma riguardava aspetti
convenzionali delle società dei tempi; era un paradigma che aveva una natura fondata e
radicata in maniera funzionale per i bisogni sociali di quei tempi, il paese era
14
J.J. Rosseau – Il contratto sociale; Einaudi, Torino 1994.
15
Aristotele, Politica - I, 5, 1254b, p. 13-14.
16
Platone, a cura di M. Vegetti, La Repubblica. Edizione Laterza, Bari 2007.
11
organizzato secondo strutture sociali, specialmente quelle del lavoro, che necessitavano
di una donna rilegata e contenuta nella sfera familiare e dei lavori più umili.17
Per concludere l’argomento della discriminazione di genere, vedremo anche
successivamente che non tutte le culture arcaiche prevedevano tali distinzioni sociali, e
in ogni caso spesso tali distinzioni erano ben accettate dalle varie categorie, perché ne
comprendevano lo scopo e l’utilità sociale.
Per citare altre categorie riprendiamo le considerazioni di Aristotele sulla cittadinanza.
Si descrive la scomposizione della polis nei suoi vari elementi: si tratta del ruolo della
famiglia composto da marito-moglie come nucleo di base; poi il ruolo della coppia
padrone e schiavo; padre e figlio e così via. Si sottolinea che i cosiddetti “Meteci”,
coloro che vengono “da fuori”; non facevano parte di nessuna di queste categorie.
Difatti questi erano esclusi dalla cittadinanza, che si reputava essere una qualità che non
riguardava il solo “abitare” in quel dato paese, neppure se si aveva accesso ad alcune
istituzioni e servizi; ma sono altre le virtù per cui si poteva essere considerati cittadini,
tra cui anche valori legati ad alcuni diritti di proprietà, ma anche al puro senso di
appartenenza sociale, relativo ad usi e costumi, tradizioni e così via.
I meteci ad esempio non potevano avere una proprietà terriera, ma soltanto lavorarci, in
una sorta di usufrutto da lavoratore dipendente oppure come affittuari. Lavoravano
comunque fianco a fianco con i cittadini, sia nell’artigianato che nel commercio. Inoltre
anche solo l’attributo di “meteco” era possibile solo se vi era un cittadino che ne facesse
da garante. Questi erano esclusi dalla vita politica, dalle assemblee e dalle cariche
pubbliche, anche se va notata una cosa importante, anche Aristotele era un meteco
presso Atene, ma ciò non ha compromesso la sua scalata verso la fama.18
La definizione di “meteci” può sicuramente ricordare la condizione degli stranieri
odierni, e le pratiche amministrative pubbliche riguardanti l’attribuzione della residenza
e della successiva cittadinanza.
Anche se persistono oggi alcune discriminazioni di fatto; vari pregiudizi non ci sono più
e nessuno osa riprendere le tesi antiche sull’inferiorità di certe categorie sociali.
Oggi vige quasi dappertutto il principio delle democrazie ed il riconoscimento della
libertà a tutti gli esseri umani con l’attribuzione dei diritti politici a tutti i cittadini,
17
S. Campese e S. Gastaldi, La donna e i filosofi, archeologia di un immagine culturale, edizione
Zanichelli, Bologna 1977, pp. 41-43.
18
Aristotele, Politica. III, 1, 1275a, 7-14.
12
19
Bobbio N., L’età dei diritti, edizione Einaudi, Torino, 2014.
20
A. Calore, Cittadinanza tra storia e comparazione. Diritto: storia e comparazione, nuovi propositi per un
binomio antico, Max Planck Institute 2018.
13
In generale non è facile trovar una distinzione netta tra il passato ed il presente riguardo
alle discriminazioni, però senza dubbio la nostra società moderna è molto evoluta sotto
questo punto di vista, oggi la libertà di espressione e l’uguaglianza di genere e razza
sono tematiche portate in primo piano e riconosciute da quasi tutte le nazioni più
progredite. Ma come vedremo anche nei prossimi paragrafi, su questo tema rimangono
molti miti da sfatare riguardo alle varie società arcaiche.
Capitolo 2 - L’ADOLESCENZA
21
Margaret Mead, sesso e temperamento in tre società primitive, edizione il saggiatore, Milano 2009.
14
22
Margaret Mead, adolescenza in Samoa, edizione Giunti. 23 maggio 2017.
23
N. Racine, B.A. McArthur, J. E Cooke, R. Eirich. J. Zhu, S. Madigan, “Global prevelance o depressive
and anxiety symptoms in children and adolescent during Covid19: a meta analysis”, Jama Pediatrics2021.
15
Queste definizioni sono utili per introdurre quello che purtroppo è un grande
protagonista dei tempi moderni, specialmente tra i giovani, il suicidio.
E’ noto che anche nell’antichità il suicidio fosse presente, e questo è dimostrabile dalle
numerose opere classiche che ne danno varie opinioni ed interpretazioni; partendo da
24
UNICEF – “La condizione dell’infanzia nel mondo” rapporto del 05/10/2021.
25
Associazione Hikikomori Italia; chi sono gli hikikomori.
26
Wong et al. The prevalence and correlates of severe social withdrawal (hikikomori) in Hong Kong. A
cross-sectional telephone–based survey study. Int. J Soc Psichiatry 2014.
16
Socrate, che criticava questa scelta con disappunto, a Platone anch’esso molto contrario
a riguardo, citandolo persino come un “crimine”, se non in alcune circostanze
particolari. Considerazioni come quella di Platone non appartengono solo al mondo
antico, basti pensare che soltanto nel 1961, nel Regno Unito, si decise di abrogare la
legge che considerava criminale l’atto del suicidio e quindi anche il tentativo di esso.27
Non è possibile trarre una ricerca bibliografica riguardo le differenze in termini statistici
della quantità di suicidi nell’antichità, rispetto ai giorni nostri. Ma è possibile
individuare alcuni aspetti distintivi sul modo di concepire questo atto estremo, per cui
proprio la nostra realtà più recente sembra aver cambiato direzione.
Nell’antichità, ma anche fino agli ultimi anni del ventesimo secolo, molte culture
portavano diverse tipologie di considerazioni nei confronti del suicidio; questo poteva
avere connotati di tipo virtuoso, legato al sacrificio, all’onore, alla redenzione o alla
dimostrazione di coraggio e altruismo, quello che il celebre sociologo Emile Durkheim
definirebbe “suicidio altruistico”. 28
Basti osservare i famosi esempi dei personaggi mitici della tragedia greca e romana.
Dalla storia di Epicasta, moglie e allo stesso tempo madre di Edipo, la quale una volta
aver scoperto di avere dunque una relazione incestuosa, non riesce a sopportare il peso
del disonore, e finisce con l’uccidersi. Proseguendo con la storia di Marco Porcio
Catone, sostenitore della guerra civile di Pompeo contro Cesare, che una volta sconfitto,
non potendo tollerare la vergogna ed il disonore subito, decise di togliersi la vita
colpendosi con una spada nel ventre. Catone in seguito venne anche soccorso, ma
mentre riceveva le cure, in un momento di solitudine, imperturbabile riuscì a riaprirsi le
ferite, e porre fine alla sua vita.29
Riguardo alla vergogna troviamo un altro celebre esempio nell’episodio mitologico di
Aiace. Questo fallì nel tentativo di aggiudicarsi il titolo di miglior guerriero dell’esercito
greco, e per questo non gli furono consegnate le armi del celebre Achille. La sconfitta
gli fu tanto intollerabile da renderlo furioso, portandolo a massacrare un intero gregge di
pecore nella convinzione che questo fosse composto dai giudici e comandanti che lo
avevano valutato inferiore. Dopo questo l’umiliazione divenne dunque ancor più severa,
e il suicidio è per lui l’unico modo per evitare il dolore insopportabile del disonore.
27
Suicidal Act 1961, Legislation.gov.uk
28
Durkheim Emile, Il suicidio. Studio di sociologia. edizioni BUR, Milano 2010.
29
Rober Garland, il suicidio nel mondo antico. Lettera internazionale 92, La violenza e la morte, 92, 2,
2007.
17
Per quanto riguarda il sacrificio virtuoso si può citare anche lo stesso Socrate, che in
nome dei propri principi e della dignità di portare avanti la propria verità, accettò la
condanna ad eretico e la punizione estrema.
Facendo un enorme salto nel tempo, la considerazione virtuosa dell’atto suicidario si
nota fortemente nelle culture orientali; i due più celebri esempi li troviamo in Giappone,
e sono la pratica del Seppuku, dell’Harakiri, e del Kamikaze.
Il Seppuku e l’Harakiri sono forme di suicidio rituale che hanno resistito per centinaia di
anni, come unico diritto e privilegio della categoria dei Samurai (casta militare), ma non
solo dato che è stata praticata in forma simbolica anche fino alla seconda guerra
mondiale.
Si tratta di un taglio praticato sull’addome, con una procedura ben definita, che doveva
essere profonda e mortale; l’addome era considerato sede dell’anima che veniva così
liberata pura e finalmente priva delle colpe e responsabilità terrene.
Difatti il rituale si praticava per espiarsi da un fallimento grave in battaglia, come la
morte del proprio signore (nel caso dei samurai); ma anche per purificarsi da una colpa,
evitando la vergogna della pena capitale, ed infine si usava anche come segno di
protesta, e accusa verso un’ingiustizia inaccettabile ed estremamente disonorevole.30
Il kamikaze è uno dei più recenti esempi di sacrificio virtuoso in onore della patria.
Il soldato praticava un attacco mortale, aggredendo l’avversario interamente con il
proprio mezzo di trasporto, pur sapendo che questo atto gli avrebbe procurato morte
certa; proprio nella seconda guerra mondiale i soldati nipponici usavano scontrarsi
proprio in questo modo con i loro mezzi bellici contro quelli nemici, praticando così il
kamikaze sia in ambito aereo che in quello navale. Oggi abbiamo ancora soltanto alcuni
residui di queste pratiche belliche portate avanti dalle fazioni estremiste islamiche.
Ma tornando all’obbiettivo principale di questa sezione; cosa distingue la concezione di
suicidio odierna da quella del passato anche più recente?
Alcuni autori ritengono che oggi non si tratti più soltanto di una scelta che deriva da
valori socio-politici o socio-economici, oltre che etici e morali.
Nel passato, come abbiamo visto, si narra di personaggi che scelgono la morte come
soluzione in seguito a grandi fallimenti, sconfitte, perdite personali o per difendere virtù
considerate più grandi e importanti della loro stessa vita.
30
Harakiri e Seppuku in: Treccani.it, Enciclopedia online.
18
Eppure in questi testi e narrazioni, non compare mai lo spettro della depressione, o
almeno non nella maniera in cui la intendiamo oggi, ovvero come quel malessere
generalizzato, senza una causa manifesta e osservabile in maniera netta, come invece lo
sono i grandi lutti, le tragedie o eventi catastrofici che evocano una reazione fatalista;
ma si esprime oggi come un sentimento di malessere molto più sottile.
La depressione è difatti una della maggiori cause di suicidio dei nostri tempi.
31
Margaret Mead, sesso e temperamento in tre società primitive, edizione il saggiatore, Milano 2009.
19
dall’alto potere emotivo e che permetteva di accedere ad una delle più alte forme di
benessere “erotico”, nel vero senso del termine.
Quindi gli antichi distinguevano il mero atto sessuale, da tutte le altre forme di
contemplazione della bellezza, del suo piacere, delle emozioni che porta con sé e le
varie sfaccettature dello spirito erotico; spirito erotico che quindi nel suo significato
originale poteva riguardare vari campi, non solo quello sessuale, ma la contemplazione
della bellezza di varie cose, tra cui la natura, la scoperta di grandi valori e verità, la
scoperta della propria interiorità, ma anche piaceri terreni concepiti con trascendenza.36
Sibaldi e Focault sottolineano che oggi anche molti altri termini e valori intimi sono
racchiusi nella sola parola “sesso” oppure “sessualità”, e cercano di condannare questa
pratica linguistica, accusandone l’eccessiva generalizzazione di molte espressioni
affettive ed emotive intime, molto importanti, il cui significato vivido ed esemplare
viene così minacciato e confuso.
3.1 - Definizioni
Il rito di passaggio, in antropologia, è definito come un’usanza tipica di una cultura, che
consiste in una procedura compiuta secondo un ordine prestabilito ed una certa
modalità.
36
Igor Sibaldi, a cura di R.Geminiani, Eros e Agape, , Editore Arte di Essere 2013.
22
Secondo le definizioni del celebre Arnold Van Gennep questi riti accompagnano i
cambiamenti di statuto; di età, di occupazione, di luogo e segnano anche le stagioni o le
tappe del ciclo di vita delle persone.
Le fasi di vita principali si racchiudono in 4 eventi: nascita, pubertà, matrimonio e
morte.
Va distinto dalle semplici abitudini culturali di un determinato contesto sociale; come ad
esempio gesti quotidiani dell’uso e consumo di determinate bevande tipiche o pietanze
tradizionali; inoltre non va confuso con certi gesti e atteggiamenti rappresentativi di un
ambito culturale.
Si tratta di una pratica rappresentativa del cambiamento di ruolo sociale dell’individuo
che viene sottoposto al rituale e, se vogliamo, anche della sua condizione psicologica
riguardo a tale ruolo.37
Difatti i riti più importanti di molte culture arcaiche sono quelli che determinano il
passaggio dalla gioventù alla condizione di adulto; un nuovo ruolo per l’individuo nel
suo tessuto sociale, e questo sarà anche la tipologia di rito che sarà più osservato in
questo testo.
Spesso il rito di accesso all’età adulta è accompagnato da una prova di coraggio e di
capacità acquisite; oppure anche prove legate alla capacità di sopportare il dolore.
Per citare queste ultime, gli antropologi hanno individuato anche vari esempi di culture
che praticano riti di passaggio dolorosi o addirittura violenti; alcune popolazioni
amazzoniche, africane o della Nuova Guinea sottopongono i giovani iniziati a prove in
cui vengono frustati, bastonati, o messi a contatto con insetti che causano punture
estremamente dolorosi (formiche di fuoco). L’esperienza del giovane, diventato poi
adulto, così rimane impressa con il vissuto emotivamente e fisicamente di impatto; con
segni e cicatrici che permangono nel tempo, sia sul corpo che nella mente; segnando un
nuovo inizio, una nuova condizione, quella di un adulto valoroso e resistente.38
37
A. Van Gennep, “I Riti di passaggio”, Bollari Boringhieri, Torino 2012.
38
Hans Bosse 1990: Violence and Care: the appropriation of sons by their fathers’ in Papua New Guinea,
SAGE Journals, Vol. 23 pp. 5-16, 1990.
23
Ma come è ovvio pensare, la maggior parte dei riti di passaggio non presuppone la
violenza o il dolore.
Per rendere al meglio il concetto di rituale di passaggio all’età adulta, è utile proporre il
metodo dei villaggi Ambonwari della Papua Nuova Guinea, il loro è un esempio
lampante di quanto fosse importante e netta la conversione all’età adulta. Dalla ricerca
sul campo risulta un rituale scandito da locuzioni verbali che descrivono le varie tappe e
procedimenti, dai preliminari, al limen fino al completamento del passaggio. Loro
consideravano il maschio iniziato come un “non-essere”, ovvero un’esistenza legata in
maniera dipendente da un'altra, che erano i genitori; il termine più corretto per
descrivere la loro condizione è quello di “estensioni dei genitori”. Appunto nominati
“non-esseri” all’inizio del rituale proseguono la procedura di “negazione” ovvero in cui
si sottolinea l’iniziale incapacità dell’adolescente di avere consapevolezza, ed un
interiorità matura a tal punto da sapersi rappresentare il mondo esterno, capirne
profondamente tutte le ragioni, e quindi formare e creare a sua volta i suoi modelli
personali di realtà quotidiana e abitudine; questa definizione è a parer mio molto
chiarificatrice della conoscenza psico-sociale dei villaggi arcaici come questo, e del
profondo rispetto che avevano verso questa conoscenza. La fase liminale consiste in un
autentico distacco, in maniera figurativa l’iniziato è lanciato fuori dalla famiglia, verso
una nuova dimensione di coscienza; il distacco è netto e fragoroso, il giovane viene
catapultato in un processo che rappresenta la nuova possibilità del “divenire”. Il rituale
si compie quando il ragazzo diventa adulto e viene definitivamente considerato
“Essere”, condizione che denota la consapevolezza, coscienza, interiorità personale e
autonomia decisionale su vari fronti.
Per questa cultura l’iniziato non subisce una trasformazione rappresentata da “morte”
per una successiva “resurrezione” sotto nuova forma; ma si tratta per lo più di un vero e
proprio passaggio dal non esistere fino all’esistere come essere; ma è anche un incontro
con la morte, l’adulto ora e cosciente anche di quest’ultima, e del suo significato. A
questo punto del rituale il soggetto è pronto a morire come un essere Ambonwari,
incontrare l’eternità attraverso il ricordo e l’incarnazione nel nome dei suoi figli, col
passare delle generazioni.
Curioso è l’incontro con la morte per questo rito, perché da un lato muore il ragazzo
“non essere” per dar vita all’adulto “essere”; ma sempre quest’ultimo è detto pronto ad
24
affrontare la morte stessa, stavolta nel suo vero significato attribuito, ed il suo vero
valore. I saggi del villaggio insegnavano e ritualizzavano tali concetti.39
39
Borut Telban: “Being and Non-Being in Ambonwari, Papua New Guinea Rituals, University of Sidney,
Oceania Publications, Sidney 1997. JSTOR
40
Aime M., Charmet P., La fatica di diventare grandi. La scomparsa dei riti di passaggio, Einaudi, Torino
2014.
25
non familiare; cosa che sicuramente dava un buon punto di partenza per sapersi
confrontare al meglio sui luoghi di lavoro nella vita.
Ciò che si prova a sottolineare con queste affermazioni è che nella società odierna
sembra mancare un momento di netta rottura che distingua il giovane dall’adulto, un
gesto collettivo, dettato da tempi e modalità precise, che sia ricordo e riferimento per
l’individuo che vive il passaggio.41
Oggi si indica come unico rito “sopravvissuto”, quello dell’esame di Stato, detto
appunto “esame di maturità”. Si può certamente affermare che questo processo sia ben
scandito sia nei tempi che nelle modalità, ma che riguardi in maniera specifica l’aspetto
didattico, e solo in secondo luogo quello della maturazione psico-sociale. E inoltre non
è scorretto asserire che dopo l’esame di maturità gran parte dei giovani non entri in una
condizione sociale in cui si possa già considerare adulto e indipendente sotto tutti i punti
di vista.
IL DONO
Il concetto di dono è certamente parte integrante di ogni società, che si tratti di una
convenzione sociale, abitudine culturale o vero e proprio gesto rituale, esso è presente
fin dai tempi più remoti dell’esistenza umana. Può sembrare improbabile individuare
differenze tra il concetto di dono nelle società moderne da quella più antiche, ma come
vedremo ci sono alcuni aspetti che si sono inevitabilmente modificati, magari senza
41
Aime M., Charmet P., La fatica di diventare grandi. La scomparsa dei riti di passaggio, Einaudi, Torino
2014.
26
snaturare il principio per cui si attua il gesto del dono, ma comunque alterandone in una
certa misura il grado di valorizzazione e di ritualizzazione.
Autori come Adorno ci ricordano che la vera felicità del dono sta tutta nell’immaginare
la felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri
binari, pensare l’altro come un soggetto esterno a noi.42
L’antropologo celebre Marcel Mauss sottolinea come donare in fin dei conti significhi
creare o mantenere una relazione con l’altro. Inoltre citando il suo saggio, il dono ha
sempre avuto un valore ad ampio spettro, che comprende sia aspetti sociali e di
condivisione, sia aspetti socio-politici ed economici, importanti per il mantenimento dei
rapporti nelle varie società arcaiche descritte.
Il dono in questione è per intendersi quello libero e non vincolato, non caratterizzato da
costrizione, ma se vogliamo, soltanto da un’implicita e tradizionale convenzione utile
alla sana sopravvivenza dei rapporti sociali.43
Un’altra caratteristica insita nel dono e individuata dagli studi sul campo di Mauss, è il
significato arcaico del “mana”.
Con il termine “mana” si sostiene che il dono è dotato di un forte potere magico nello
stabilire la relazione con l’altro o gli altri. Il termine mana è di origine melanesiana ed è
tradotto come “forza sovrannaturale”, “potere spirituale”, e può significare anche “forza
vitale”. Nelle hawaii il termine mana assume il significato di “forza che viene da
dentro”. Si è scelto questo esempio per descrivere il dono delle culture arcaiche, perché
queste lo facevano spesso corrispondere ad una “Forza”.
Detto questo, anche i doni che ci scambiamo oggi nei nostri tempi, sono per lo più
simbolici rivolti al mantenimento di un sano tessuto sociale votato alla cordialità, ma
non è errato asserire che il dono non è più visto con una tale enfasi, e che non e di certo
in vigore l’idea di dono come forza soprannaturale, oppure di “sacrificio”, e così via.
Il concetto del mana è ripreso dagli studi storici di Mircea Eliade. Nel suo trattato ci
riporta come per le culture arcaiche, il mana è un potere intrinseco dell’oggetto. Sia che
42
Adorno T., Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994.
43
Mauss M., Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, piccola biblioteca
Einaudi, Torino 2002.
27
si tratti di un oggetto animato o inanimato, il suo potenziale inteso come forza vitale è
sempre presente; da queste definizioni già possiamo percepire il valore assoluto che
l’uomo arcaico attribuiva anche ad ogni oggetto materiale. Da ciò ne deriva anche il
valore attribuito al gesto del dono; che difatti era considerato come proprio di una forza
vitale magica, che avrebbe il potere di stabilire i legami con il prossimo, e dunque tale
gesto doveva avere persino caratteristiche soprannaturali.44
Proseguendo con alcuni esempi, Franz Boas, così come Mauss studiò un’ampia varietà
di società primitive del pacifico nord-occidentale, tra USA e Canada. La loro ricerca più
famosa riguarda un rito che accomunava queste civiltà, chiamato Potlach.
L’unicità del rituale potlach consiste nel fatto che invece di ostentare il possesso di
alcuni beni, o il loro scambio, per affermare il proprio rango, si praticava la distruzione
di questi.
Durante il potlach si era soliti mangiare carne di foca o di salmone, e venivano man
mano distrutti i beni che si potevano considerare effimeri, mostrando così il livello
della propria potenza economica alle tribù ospitate che, a loro volta, erano costrette a
eseguire lo stesso comportamento nel momento in cui procedevano con il loro potlach.
Durante il cerimoniale avvenivano anche vari scambi di doni, seppur la maggior parte di
questi venivano anch’essi distrutti subito dopo.
Il potlach non serviva solo come dimostrazione di potere tra varie tribù, ma aveva anche
valore intra-sociale, ovvero le varie dimostrazioni di potenza servivano anche a
consolidare le varie posizioni gerarchiche interne alla tribù.45
44
Eliade M., Trattato di Storia delle Religioni, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
45
F. Boas, Kwakiutl etnography, University of Chicago Press, Chicago 1975.
28
46
Malinowski B., Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva,
Bollati Boringhieri , Torino 2011.
47
De Donatis S., Antropologia filosofica del dono: uno scambio «simbolico», (from:
https://mondodomani.org/dialegesthai/sdd01.htm)
29
Ciò che si intende evidenziare in questi paragrafi sul dono, è la trasformazioni di questi
valori antichi e profondi del dono, nelle azioni leggermente più effimere tipiche dei
nostri tempi moderni.
Il valore simbolico è certamente mantenuto, ed anche quello dello scambio e delle
relazioni sociali, oltre che dell’affermazione del rango; ma si può affermare che il gesto
in sé non è più valorizzato da cerimoniali e rituali specifici e non rappresenta più uno
scambio di beni di grande importanza per la sussistenza, ma è rilegato a festività e
giorni, in momenti specifici dell’anno. Questo sicuramente perché viviamo in un epoca
di relativo benessere e sviluppo tecnologico, ma anche perché i modelli di mercato
odierni sono enormi esemplari di individualità e di sviluppo del proprio patrimonio
personale, attraverso le proprie capacità di auto-determinazione, in cui il dono diventa
un “mezzo” o strumento per ottenere fiducia e quindi anche compenso, che a sua volta
diventa strumento per continuare a sviluppare la propria ricchezza e attività, e forse di
fronte a questo viene a mancare lo spirito solidale, di condivisione o anche solo il puro
spirito di squadra rivolto al mantenimento di una sana struttura economico-sociale.48
LA MORTE
Molti storici, studiosi e letterari riportano come il concetto di “morte” sia cambiato
dall’antichità sino ai tempi moderni; di certo non è possibile individuare un’evoluzione
graduale di tale concezione, dato che ogni cultura forma paradigmi di pensiero a sè
stanti, in base al proprio periodo storico e alle vicissitudini del tempo; possiamo però
analizzare una sottile distinzione tra l’approccio alla morte dei tempi moderni,
specialmente occidentali, rispetto all’antichità.
49
Carboni P., “Il tema del dono nella letteratura di viaggio e nella demologia sulla Sardegna tra Ottocento
e Novecento”
50
Cigoli V., Il viaggio iniziatico, Franco Angeli, Milano 2012.
31
Ricordiamo intanto come già anche solo nella tradizione filosofica sia cambiata nel
tempo la considerazione della morte; rimanendo solo nell’ambito dell’antica Grecia,
Platone che la descrisse come il momento della liberazione dell’anima dalla pesante
carne corporea, e dai suoi limiti; mentre Epicuro, viceversa, l’ha descritta puramente
come la dissoluzione di ogni cosa, disgregazione della materia ma anche dell’anima. 51
Qui possiamo già notare un dualismo tra due concezioni opposte, una che crede nella
vita dell’anima oltre la morte e l’altra che crede nella fine inesorabile e nella totale
negazione dell’esistenza di vita dopo la morte.
Si può procedere osservando anche altre culture antiche, cercando di trovare una linea
comune e di trarre alla fine alcune conclusioni grazie al confronto di queste con quella
moderna occidentale.
Nell’antica Mesopotamia il defunto doveva assolutamente essere sepolto nel sottosuolo,
e va notato il fatto che i defunti venivano sepolti all’interno dell’area urbana.
Il sottosuolo rappresentava “l’oltretomba”, ed era importante nei riguardi del defunto,
affinché gli fosse garantito un accesso al regno degli inferi. Se ciò non dovesse accadere
lo spirito rischiava di rimanere intrappolato nel mondo dei vivi e si pensava potesse
turbare la vita degli esseri viventi. La sepoltura era negata solo in casi eccezionali e solo
a causa di grave condotta. 52
Si trattava soprattutto di un rito rivolto a rassicurare il defunto che il suo ricordo sarebbe
rimasto e che poteva lasciarsi andare con serenità alla vita ultraterrena.
Proseguendo, gli egizi sono ben conosciuti per la complessità dei loro riti funebri; senza
citare le loro procedure e modalità nel dettaglio, possiamo soffermarci sul significato
rituale; la vita nell’aldilà era per loro garantita dalla conservazione del corpo defunto.
A tal proposito nasce la celebre pratica della mummificazione, tanto unica e
affascinante quanto elaborata, che rese possibile il ritrovamento di reperti integri persino
fino ad oggi ai nostri tempi, dopo millenni. L’importanza data al passaggio dalla vita
all’aldilà è incredibile, il corpo riceve questo lungo processo di imbalsamazione perché
si riteneva che l’anima lo abitasse ancora, seppur la vita continuasse nell’aldilà.53
Anche gli antichi etruschi davano enorme importanza al passaggio dalla vita alla morte;
la continuità della vita nell’aldilà era anche qui un aspetto fondamentale, basti pensare
51
Epicuro, Opere, Einaudi, Torino 1970, pp. 62-63.
52
Ambos C., Zisa G., Miti, culti, saperi, per un’antropologia religiosa della Mesopotamia antica, editori
Museo Pasqualino 2021.
53
Ikram Salima, Morte e sepoltura nell’antico egitto, Kemet editori, Torino 2016.
32
che le loro tombe erano riproduzioni simili alle abitazioni che ciascun defunto
possedeva in vita, e tali tombe-case erano persino munite di vari accessori e vi si
portavano alimenti e altri oggetti che si pensavano essere utili alla parallela vita
ultraterrena.54
Nella Roma antica vediamo nascere le prime imprese funebri, con i relativi impiegati al
servizio, i cosiddetti “libitinarii”, e così c’è un primo esempio di delega ad
un’istituzione degli impegni legati al cerimoniale funebre; ma ne usufruivano solo i
ricchi.
Riguardo al rito si sa con certezza che i corpi venivano cremati su delle superfici di
legno oppure inumati; la cremazione era la pratica maggiormente usata, così le ceneri
venivano conservate con cura in apposite urne funerarie, e poi venivano locate in
“tombe collettive” dette “columbarium”.
Inoltre le loro esequie duravano svariati giorni, e veniva organizzato un evento
celebrativo con messe in scena attraverso l’ausilio di attori, mimi, musici e danzatori.
Si organizzava un’ulteriore festa nove giorni dopo la sepoltura, chiamata “coena
novendialis” famosa per il gesto tipico del versare il vino sulle ceneri o sulla tomba. 55
Per concludere erano sette le festività romane che commemoravano i defunti, tra cui la
più conosciuta Parentalia dal 13 al 21 febbraio, e la Lemuria, che si teneva il 9, l'11 e il
13 maggio.
Non si possono non citare anche le cerimonie e monumenti funebri asiatici, come
descritto per gli altri popoli anch’essi si adoperavano per dare il massimo risalto al
saluto finale per il defunto, specialmente se questi era un personaggio imponente. Senza
dilungare nella descrizione delle varie culture che si sono succedute, si può trarre come
sommo esempio il monumento all’imperatore Ying Zheng o Qin Shi Huang (250 a.C.)
la sua tomba è circondata da un esercito di 6000 soldati costruiti in terracotta, disposti
quasi a proteggerlo ancora, nell’aldilà. Appare quasi lampante l’intenzione profonda di
questi riti, ovvero difendere la memoria, proteggendo così anche il valore simbolico che
quel dato individuo rappresenta per la comunità, o anche solo per la sua famiglia; e
quindi ci si adopera a rendere il monumento, o rituale, il più grandioso e valoroso
54
Della Fina M. Giuseppe, il mondo dell’archeologia, L’archeologia delle pratiche funearie. Il mondo
etrusco-italico. Treccani, 2002.
55
Agnoli N., L’archeologia delle pratiche funerarie. Mondo romano. Enciclopedia Treccani 2002.
33
Valutando l’aspetto del valore e rapporto con la morte, secondo gli studi di vari autori
come il filosofo Edgar Morin e Louis Vincent Thomas, per l’uomo antico essa
costituiva spesso persino un momento di “elevazione”, ovvero una prova con cui
l’uomo poteva mostrare eroismo e coraggio; invece per l’epoca moderna la morte è
rilegata a semplice parte “residuale” della vita, esclusa come un tabù, e ricordata solo
nel momento in cui incombe, e ci si trova costretti ad affrontarne il lutto. Morin
addirittura definisce la nostra società, dai tempi dell’illuminismo fino ad oggi, come
56
Aries P., Storia della Morte in Occidente, BUR, Milano 1988.
57
Petrarca, Trionfi, Rizzoli, 1984.
34
“amortale” ovvero nella quale la morte rappresenta un tabù, di cui parlare poco, da
temere e scordare.58
E’ sicuramente interessante la visione dello storico Philippe Aries, che ci ricorda come
sino a circa metà del Medioevo, la morte era considerata senza timore e l’approccio nei
suoi confronti era già in principio basato sulla rassegnazione e sull’accettazione.
Inoltre il cerimoniale funebre era una pratica rituale attivata in maniera automatica,
senza connotati di tipo drammatico, e veniva portata avanti con un semplice omaggio
alla vita ed una preghiera conclusiva; inoltre fino al XVII quasi tutti i cimiteri erano
ubicati accanto alla chiesa, cosa che simbolicamente si può dire non “separava il
concetto di morte da quello di vita”.59
Sempre Aries ci fa notare come il 1700 porti altri cambiamenti su questa tematica;
l’autore riporta come ad esempio i testamenti, prima dedicati alla chiesa, passarono alle
famiglie; le tombe divennero anche più singole ed esclusive, e si cominciò a usare
epitaffi e targhe commemorative, con luoghi precisi in cui andare a ritrovare il defunto e
tentando così di renderlo “immortale” nella nostra esistenza. E’ interessante anche la
parziale sostituzione del prete con il medico nell’affiancare il defunto durante il
percorso del cerimoniale funebre, quasi a sottolineare uno spostamento dell’attenzione
dalla cura dell’anima e della mente, a favore di quella del corpo e della
razionalizzazione della morte, come sola cessazione del funzionamento organico.60
Possiamo ritrovare questo andamento anche nell’ottocento: all’epoca la morte è già un
concetto che genera timore nell’immaginario collettivo, il romanticismo ne enfatizza gli
aspetti tenebrosi e ne fa un tema quasi centrale.
Oggi è un tema sfuggente carico di evitamento, proprio come un tabù, oppure
all’estremo opposto viene deriso, dissacrato.61
L’approccio degli antichi riguardo al cerimoniale funebre era molto più scrupoloso, e
molto probabilmente, il motivo è puramente psicologico e cognitivo. Porre una grande
attenzione nei confronti di uno stravolgimento importante dalla vita quotidiana, proprio
come la morte di un caro, può innescare una migliore rielaborazione dell’evento; la
mente ha bisogno di dare un senso all’accaduto, e per farlo serve tempo, e anche un
diretto approccio con il luogo e l’oggetto di attenzione. In questo modo, si pone uno
58
Morin E., L’uomo e la morte, Edizioni Erickson, Trento 9 ottobre 2014.
59
Aries P., Storia della Morte in Occidente, BUR, Milano 1988. pp.18
60
Aries P., Storia della Morte in Occidente, BUR, Milano 1988. pp. 60
61
Pieretti A., La morte e il senso della vita nella cultura contemporanea. (http://www.collevalenza.it)
35
sforzo cognitivo ed emotivo, nel ripetere di continuo i vari riti, portando l’elaborazione
del lutto ad una fase di saturazione, di fatto ricucendo la squarcio provocato dall’evento
estremo della morte. Così si tenta a tutti gli effetti di esorcizzare direttamente sul posto,
qualsiasi possibilità che nella mente rimanga un dubbio residuo, un incertezza, uno
sconforto irrisolto o un rimpianto non accettato.
Tornando all’aspetto della dissacrazione moderna dei valori della morte, si deve porre la
giusta attenzione anche sui moderni aspetti tecnologici dell’approccio al lutto.
Esistono oggi una serie di interfacce web in cui vengono “gestite” le varie onoranze,
cerimonie e convenzioni funebri. Per citarne alcuni abbiamo grandi portali web di
riunione digitale, rivolti alla commemorazioni dei defunti, definiti “lapidi digitali”;
inoltre vi sono un gruppo di studiosi istituzionali definiti come facenti parte della
“digital death” (http://digitaldeath.eu), che ambiscono alla creazione di grandi siti web
dove permettere alle persone di andare a trovare il defunto in rete, piuttosto che al
cimitero. Andando avanti, lo stesso Facebook propone contratti per la gestione dei
profili social del defunto, oppure persino alla creazione di questi, affinché gli utenti
interessati possano “recarsi” digitalmente al “luogo di eterno riposo” del defunto. Inoltre
il profilo commemorativo può essere tenuto attivo e gestito su richiesta dai vari
familiari.
Naturale conseguenza di questo accanimento digitale sono i relativi servizi funebri del
web; si può richiedere infatti che vi sia una distruzione dei dati del defunto dai vari siti e
social internet, gli addetti che si occupano di tale compito sono chiamati “Death
Manager”. 62
Sono tante le opinioni contrarie e avvilite nei confronti di questi atteggiamenti, e
sottolineano l’importanza etica e morale nei confronti di un rito che dovrebbe mantenere
una determinata sacralità.
5.4 - Conclusioni
Si può asserire in tutto ciò, che l’idea della morte da sempre genera sconforto e
sicuramente l’essere umano ha cercato in ogni modo di “conservare la vita” anche dopo
la morte. Come descritto con i vari esempi in precedenza, ogni cultura ha trovato una
sua maniera di mantenere vivo il ricordo dei defunti, e di rispettare con sacralità il
defunto ed il concetto stesso di morte.
Ma dai dati raccolti si può ritrovare una certa discontinuità tra i nostri tempi moderni e
l’antichità.
Come descritto da Aries il nostro mondo occidentale moderno; ha accentuato la sua
paura nei confronti dell’eterno addio, e la reazione a tale paura consiste nell’evitamento
o viceversa nell’attenzione esasperata verso dettagli che ne enfatizzano la drammaticità.
L’antico sottolineava la morte, ma sotto un punto di vista cerimoniale e
commemorativo, quasi ad omaggiarlo per scongiurare la possibilità che la memoria del
63
Hillman J. Il suicidio e l’anima, Adelphi, Milano 2010.
64
Massa R., Linee di fuga. L’avventura nella formazione umana, editore La nuova Italia, Firenze 1989.
37
defunto divenisse negativa e ‘tossica’, esorcizzando l’eventualità che non vi fosse una
rottura col mondo dei vivi, e che il cosiddetto “cordone ombelicale” non fosse tagliato a
dovere, con conseguente persecuzione da parte dello spirito del defunto nei confronti
dei vivi. E vero sì, che anche gli antichi cercano in contatto costante con i defunti, nelle
varie festività commemorative; quasi a non volersene separare del tutto, ma l’intenzione
sembra essere più che altro quella di esaltare la continuità del buon vivere, piuttosto che
evidenziare il timore e la drammaticità della morte stessa. Addirittura si può considerare
che oggi il mancato “rispetto” nei confronti del valore “vitale” della morte, sia
rappresentato appunto da questa moderna modalità sconnessa e disarticolata di
riproporla, e ricordarla. Una modalità che si potrebbe definire anche dispersiva, basti
osservare come non ci sia più solo un sacro rituale da rispettare simbolico e imponente,
ma una serie di pratiche poco definite e molto soggettive, senza un appartenenza
culturale e spesso anche senza una procedura precisa; infatti come abbiamo visto si
usano persino portali digitali, riti modificati di altre culture, social, marketing e
pubblicazioni costanti con interessi discordanti.
Oggi notiamo sicuramente una scissione tra queste discipline, tanto che ad oggi sono
nate materie e percorsi di studio paralleli tra di esse, indipendenti e senza fattori in
comune.
Come spiegare un cambiamento così netto? E cosa significa dal punto di vista
dell’evoluzione culturale.
6.1 - Una visione razionale del mondo; e le sue implicazioni – Il rapporto con la
natura.
E’ necessario ricordare una differenza notevole tra l’attitudine dell’uomo nei confronti
della natura nel passato, rispetto a quella di oggi. Seppur negli ultimi anni si possa
osservare un tentativo di ritorno “alle radici”, è doveroso comprendere quale sia stato
sin ora l’approccio moderno al mondo naturale, quali siano state le sue implicazioni e
quali sono le differenze con il passato.
Innanzitutto già nell’antichità si parlava di inquinamento dell’aria, eccessivo
disboscamento, alto sfruttamento delle risorse idriche e materiali. Ad esempio
l’enciclopedia “Naturalis historia” di Plinio scritta intorno al 50 d.C, parla di
inquinamento atmosferico causato dal piombo usato per produrre le monete, ma anche
di distruzioni ecologiche e disboscamento.65
Tuttavia l’ideale incarnato dall'uomo antico, si può notare anche nella sua scienza,
filosofia e politica, che spesso dialoga con la natura e trova in essa l'orientamento per
costruire la sua vita e il suo mondo umano; rispetto all’uomo moderno, per il quale
invece il mondo naturale è quasi irrilevante rispetto al valore che ha la politica e la
ragion di stato. Col tempo, diciamo nell'arco degli ultimi cento anni in modo
determinante, questa irrilevanza si trasforma in asservimento: l'uomo con la sua capacità
razionale e tecnica diventa un dominatore e uno sfruttatore del mondo naturale. La
natura così non ha più un valore in sé, ma solo per l'uso che l'uomo riesce a farne.
65
Plinio, Storia naturale, editore Einaudi, Torino 1997.
39
68
Sibaldi I., Aldilà del deserto, Salani editore, Firenze 2017.
69
Sciacca M.F., a cura di Pier Paolo Ottonello, Sant’Agostino, editori Ares, Milano 2021.
70
Platone, Menone, edizione Bur Rizzoli, Milano 2016.
71
Porro P., Tommaso d’Aquino. Un profilo storico-filosofico. Carocci editore, Roma 2019.
72
Aristotele, De anima, editori Carabba 2011.
42
I contrasti rilevati tra il nostro mondo ed il mondo antico tendono sia a favore di
quest’ultimo per certi aspetti, ma anche a suo sfavore per altri.
Come si può leggere in questo testo, ma anche notare nella vita di tutti i giorni, ci
troviamo in un periodo storico caratterizzato da una velocità e frenesia mai vista prima.
Tale velocità spesso ci distoglie dal porre le adeguate attenzioni ad importanti passaggi
delle varie fasi delle nostre vite, che vengono trascurati dando sempre più importanza
agli impegni ed obblighi sociali, sempre più scanditi da orari, date, tempi di prestazione,
quantità di informazione quasi illimitate e attività sovrapposte e spesso anche in
conflitto tra loro.
Non c’è più tempo per il rituale che ci permette di cambiare e di esorcizzare, e non c’è
più tempo per la cerimonia che ci permette di ricordare i valori indissolubili della nostra
esistenza.
73
Beatson G., Verso un ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000.
43
Detto ciò, il fatto che la nascita della psicologia sia attribuita a Wundt il quale era un
fisiologo, ci pone di fronte ad un’interpretazione interessante, e ad un interrogativo.
Può la psicologia essere osservata e studiata anche solo come scienza a sé stante?
Oppure dovrebbe essere sempre presente come branca disciplinare di moltissimi altri
campi di studio. Dalla Fisiologia appunto, e quindi ovviamente alla Medicina; oppure
anche dall’ecologia fino alle discipline sociologiche, filosofiche e umanistiche;
includendo anche l’ambito del diritto, dell’economia e quindi giurisprudenza.
Perché la psiche arriva ovunque, in ogni attività propria dell’uomo ci sarà sempre un
aspetto psicologico da valutare, che influisce su quell’attività. Proprio perché l’agire
umano in tutte le sue forme, non è altro che un estendersi della sua coscienza verso i
vari oggetti di interesse presenti nella sua vita.
Molto probabilmente Gregory Beatson sarebbe d’accordo con questo approccio, difatti
queste conclusioni citano quello che lui definì “ecologia della mente”. Lui stesso
d’altronde disse che solo con un’ecologia della mente si possono capire le relazioni che
sussistono tra aspetti apparentemente sconnessi, come “la simmetria bilaterale di un
animale, la disposizione strutturata delle foglie in una pianta, la grammatica di una
frase, le pratiche di corteggiamento come la natura del gioco, il mistero dell’evoluzione,
e la crisi odierna tra uomo e ambiente”.74
Per concludere, si può definire quella di oggi come la cultura dei “riassunti
categorizzati”, e quindi una visione più divisa e superficiale della vita, delle sue
vicissitudini, dei suoi valori, e persino della sua fine.
Per epoca dei riassunti si intende proprio questa attitudine moderna, a tralasciare i
dettagli più profondi delle nostre azioni e sensazioni, quelle quotidiane, ma soprattutto
anche quelle più rare; ovvero quelle scaturite da eventi che non capitano spesso, ma che
caratterizzano ed influenzano l’intero percorso della nostra vita.
Si tratta dei lutti, della maturità, del dono, della natura e di ciò che ci porta a tavola, del
benessere, delle emozioni, dell’avventura e della socialità.
Tutte queste cose le facciamo ancora, questo è vero.
Ma forse il gesto non è più accompagnato dalla piena consapevolezza del valore.
74
Beatson G., Verso un ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000.
45
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