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Indice

1. La teoria delle rappresentazioni sociali


2. Metodologia
3. Introduzione: la dipendenza dei giovani dai social network e Internet
4. Nascondere i difetti: l’utilizzo dei “filtri” su Instagram
5. Effetto della bellezza nei social network sulla mente e sulle relazioni
6. Apparenza ed esteriorità
7. L'influenza dei media sui canoni di bellezza: focus sul mondo dello sport
8. Il calcio: concetto di apparire e di imitazione in riferimento agli idoli
9. Sponsorizzazioni delle influencer
10. Risultati ottenuti da Excel e WordArt
11. Bibliografia e sitografia

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1. La teoria delle rappresentazioni sociali
La 'Teoria delle rappresentazioni sociali' dello scienziato sociale Moscovici si sviluppa in Francia nel 1961, era
la sua tesi di dottorato, ma poi rivisitata nel 1976 e recentemente edita nella prima edizione italiana 2011.
Questa teoria si è diffusa attraverso diverse generazioni di ricercatori e poi in tutto il mondo nei diversi contesti
culturali poiché vengono organizzate delle conferenze internazionali con varie location nei 5 continenti e perciò
questa teoria è permeata in tutto il mondo. Tale teoria si avvale di opportune tecniche e strategie di raccolta e
analisi dei dati: la tecnica di raccolta di dati si chiama 'trama associativa', ovvero questionari, interviste e
disegni.
Possiamo definire le rappresentazioni sociali come ‘una serie di concetti, asserti e spiegazioni che nascono
nella vita di tutti i giorni, nel corso delle comunicazioni interpersonali. Esse sono, nella nostra società,
l'equivalente dei miti e delle credenze nelle società tradizionali e possono essere considerate addirittura la
versione contemporanea del senso comune’.
Alla base dell'impianto teorico troviamo il triangolo semiotico Sé-altro-oggetto, che per Moscovici deve essere
posto al centro della psicologia sociale. L'oggetto di studio della psicologia sociale non è più il rapporto tra
stimolo e risposta come nel comportamentismo, ma è lo spazio intermedio, l'intersezione tra individuo e
società, un'area in cui il rapporto tra gli oggetti reali è mediato dalla presenza e dall'interazione con l'altro da
sé. La prima caratteristica delle rappresentazioni sociali è di emergere nel rapporto sé-Altro. L'accesso
all'oggetto nasce dalla negoziazione del significato all'interazione di un rapporto dialogico con l'altro da sé.
La funzione principale delle rappresentazioni sociali è quella di trasformare ciò che è estraneo in qualcosa di
noto e familiare (symbolic coping), aiutando a gestirlo inserendolo nell’insieme di conoscenze pregresse.
La genesi delle rappresentazioni sociali segue due processi tra loro interconnessi: ancoraggio e
oggettivazione. L'ancoraggio comprende una serie di momenti volti a collegare contenuti alle immagini e alle
categorie del quotidiano, a connettere il nuovo con il conosciuto. L'ancoraggio a sua volta si sviluppa secondo
alcuni passaggi esemplari. In un primo momento ancorare vuol dire categorizzare: il primo passaggio è cioè
inserire una novità all'interno di una categoria già definita, già presente nel nostro linguaggio, mentre il secondo
aspetto dell'ancoraggio è la denominazione ovvero assegnare un nome. L'oggettivazione è il secondo
processo che consiste nel fatto che ciò che è astratto diventa concreto, quasi avesse una forma fisica,
modificabile: un oggetto di realtà. L'oggettivazione a sua volta si declina in un primo momento in cui si fonda
ogni nucleo figurativo, cioè un'icona che riproduce una struttura concettuale e, una volta che si è stabilito un
nucleo stabile, l'oggettivazione procede nella naturalizzazione dove la rappresentazione prende il posto del
rappresentato, divenendo essa stessa referente del concetto.
Nel processo di oggettivazione, assumono un ruolo fondamentale le metafore che mettono in relazione
contesti tra loro distinti attraverso l'uso di rappresentazioni visive e oggettivanti. Le metafore sono diffuse
ovunque nel linguaggio quotidiano ma anche nel pensiero e nell'azione: il nostro comune sistema concettuale,
in base al quale pensiamo e agiamo, è essenzialmente di natura metaforica (es. lo studente che voleva copiare
all'esame potrà sentirsi in trappola o furbo come una volpe, coniugando in modo differente l'idea stessa del
copiare). Queste metafore sono state usate sia da papa Francesco con la metafora del ponte: afferma che
non dobbiamo costruire muri ma ponti, quelli che costruiscono muri non sono cristiani, e Donald Trump con la
metafora del muro, nella quale riecheggia il concetto di proteggersi, dei confini e dell’idea dell’America per
prima.

Bibliografia
1 Moscovici 1977, Le rappresentazioni sociali in V. Ugazio
2 Bauer, Gaskell 1999, Towards a Paradigm for Research on Social Representations
3 G. Leone, B. Mazzara, M. Sarrica, La psicologia sociale: processi mentali, comunicazione e cultura
4 Lakoff, Johnson 1980, Metaphors We Live By

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2. Metodologia
Durante le lezioni svolte nel corso di Psicologia sociale della comunicazione ci siamo divisi in gruppi per
eseguire un progetto relativo alla raccolta dati nei social networks.
Il nostro gruppo è formato da sette persone: Elisa Massarelli (2025703), Elisa Severini (2024750), Silvia
Sinicropi (2029876), Tatiana Isabel Tavares Garcia (2026545), Federico Ragone (1907043), Francesco Tucci
(1969922) e Leonardo Valente (1995771). Il lavoro è così intitolato: ‘Viviamo di app, di apparenza e di app
per apparire’ e, in particolare, l'influenza che ha internet sulle menti dei giovani e sul loro stile di vita.

Per svolgere il lavoro abbiamo deciso di suddividerci in base a vari argomenti, seguendo l’ordine che
maggiormente ci avrebbe permesso di “incastrarci” l’un l’altro.
Ciascuno ha infatti trattato un determinato argomento legato alla macro-area:
insieme abbiamo delineato la ‘Teoria delle rappresentazioni sociali’ con le informazioni apprese a lezione
e prendendo spunto dal libro ‘La psicologia sociale’ di Leone, Mazzara, Sarrica; in seguito, ognuno ha trattato
il proprio argomento, riportando le relative bibliografia e sitografia.

In un secondo momento ci siamo soffermati sulle keywords che siamo andati a cercare nei vari social networks
- quali Instagram, Facebook, Twitter, TikTok, Youtube e Pinterest - inerenti ai nostri argomenti.
Tra i vari hashtag abbiamo deciso di selezionarne alcuni, ovvero:

1. Elisa Severini → #dipendenzasocial #socialdown


2. Elisa Massarelli → #filtrimania #filtriinstagram #bastafiltri #seibellissima
3. Federico Ragone → #dismorfia #dismorfofobia #ansiasociale #fobiasociale #immaginecorporea
4. Silvia Sinicropi → #apparire #esteriorità #stereotipi #autostima
5. Leonardo Valente → #palestra #bodybuildingitalia #cambiamentofisico #motivazione
6. Francesco Tucci → #idolo
7. Tatiana Isabel Tavares Garcia → #truffa #truffatori #truffatorionline #fake #influencer #sponsor

Successivamente ciascuno di noi ha riportato nel documento Excel, all'interno di una griglia, tutti i post in
lingua italiana inerenti agli hashtag scelti. Tramite Excel abbiamo creato delle tabelle chiamate “variabili” per
raccogliere tutti i dati relativi ai post come: il social network di provenienza, data e anno di pubblicazione,
tipologia del post, didascalia del post, numero di like e commenti e numero di follower della pagina che ha
postato il relativo post e, infine, la sentiment analysis.
Una volta che ogni componente ha completato questa parte, abbiamo creato tre ulteriori tabelle, sotto a like,
follower e commenti, per visualizzare la media di queste tre funzioni.

Completato questo passaggio ci siamo spostati sul sito chiamato WordArt, per creare varie nuvole di parole-
chiave ricavate dalle tabelle di Excel relative a: Hashtag, Tipo di documento, Canale e Sentiment.
Questo passaggio ci ha aiuto a visualizzare i termini che ricorrono più frequentemente attribuendogli un font
di dimensioni maggiori, rispetto ai termini utilizzati di meno, che appariranno con un font più piccolo.
Le immagini inerenti a quest’ultimo passaggio sono state inserite alla fine di questo documento.

Infine, ritornando nel documento Word, per arricchire la nostra ricerca abbiamo inserito anche delle nostre
personali considerazioni riguardo il tema di cui abbiamo trattato.

A seguire cercheremo di analizzare nel dettaglio le varie tematiche… buona lettura!

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3. Introduzione: la dipendenza dei giovani dai social network e Internet
L’utilizzo dei social sta crescendo in tutte le fasce d’età a un punto tale da far pensare a un abuso, o peggio,
ad una dipendenza.
Basta poco, infatti, per rendesi conto dello stato di preoccupante dipendenza da Internet e dai social che la
società attuale offre continuamente e costantemente come riflesso. È esperienza comune usufruire dei mezzi
pubblici per notare come la buona, cara e soprattutto sana, comunicazione verbale, contraddistinta da mille
gesti, espressioni e da mille imbarazzi provati, sia letteralmente scomparsa, lasciando il posto a un’asettica
comunicazione virtuale fatta di post, hashtag e immagini prive di emozioni reali ma, nella migliore delle ipotesi,
registrate al momento dello scatto. E di conseguenza, sono aumentati i casi di giovani e adulti che, totalmente
assorbiti dal loro mondo social, trascurano le azioni più semplici e fondamentali come mangiare, dormire e
rilassarsi, perdendo il necessario interesse alla vita circostante.
Prima di passare all’ardua descrizione dei sintomi che potrebbero
dimostrare una dipendenza, occorre precisare che alla base di
simili patologie vi è una sottostante struttura di personalità fragile
e con svariate problematiche legate alla fiducia e stima in sé
(autostima), alla sfera relazionale (incapacità di trovare
soddisfazione e piacere nell’intrattenere relazioni reali e vivere
con gli altri), nonché alla sfera cognitiva (intromissioni di pensieri
costanti e ripetitivi: ossessioni). Non per caso, infatti, tutte le
dipendenze sono associate ai cosiddetti “disturbi di personalità”,
tra i quali spicca proprio il disturbo dipendente di personalità che
si manifesta proprio nel cercare qualcosa (droga, alcool, social network) o qualcuno (familiari, partner) a cui
aggrapparsi costantemente.

Naturalmente le persone ritenute più a rischio sono proprio i giovani seguendo le parole del
Professor Francesco Tonioni, docente dell’Università Cattolica di Roma e responsabile del primo ambulatorio
che si occupa di dipendenza da internet e social network al policlinico Gemelli: “la dipendenza è impotenza in
tutti i ragazzi. Nei giovani e negli adolescenti l’uso disfunzionale di internet si configura come un nuovo modo
di pensare e comunicare”.
Come si riconosce una dipendenza da social? La risposta, sebbene ardua, è piuttosto ampia e variegata,
infatti si spazia da selfie e foto, a un vero e proprio linguaggio social. Secondo l’ansa, i 5 sintomi per
riconoscere una dipendenza sarebbero i seguenti:
• essere costantemente e continuamente attaccato allo smartphone da avere 2 cellulari al posto delle
mani;
• essere continuamente alle prese con foto, fotine e selfie scattati in tutti i modi, in tutti luoghi.
• comunicare parlando per #hashtag, e cosa peggiore, stupirsi che gli altri non comprendono quello che
si dice e vuol dire;
• vantarsi di avere milioni di amici sui social e di aggiungerne sempre di nuovi, ma in realtà non
conoscerne nemmeno la metà;
• l’ossessione di svegliarsi la mattina con l’unico scopo di controllare le notifiche e novità dei social.

Tutti segnali di un assoluto ed eccessivo aumento dell’interesse provato e ricercato nelle effimere gratificazioni
dei social a discapito di un reale, concreto e “salubre” interesse verso il contesto circostante.
In questa breve rassegna saranno in molti a riconoscersi, perché come detto all’inizio la dipendenza colpisce
tutti, ma non bisogna allarmarsi perché in fondo si è tutti sulla stessa barca, ma soprattutto perché guarire da
questa dipendenza (come dalle altre) è possibile e può e deve divenire motivo di vanto.
Basta innanzitutto, cominciare a rendersi conto del problema per poi poter correre ai ripari cominciando a
sacrificare le ore dedicate a internet e ai social per cercare un confronto reale e costruttivo con gli altri e,
ovviamente, nei casi più gravi, consultare esperti che sapranno aiutare a uscire dal circolo vizioso
dell’ossessione e dall’assuefazione dalla dipendenza.

Per riuscire a comprendere ancora di più questo fenomeno si può far riferimento al più grande social down
della storia, avvenuto il 4 ottobre 2021. Facebook, Instagram e WhatsApp hanno smesso di funzionare per sei
lunghissime ore.
Le prime reazioni? Controlli se la connessione internet funziona, spegni e riaccendi il telefono, apri gli altri
social e ti rendi conto che il problema non è solo il tuo. I tre principali social network non ripartono: è il “lunedì
nero”. Escluso un attacco informatico esterno, pare che il motivo del down generale, che ha coinvolto
le maggiori piattaforme social, sia collegato ad un problema tecnico molto complesso.

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Mentre esperti ipotizzano varie cause, nel suo blog interno Facebook ha spiegato in maniera semplice cosa è
accaduto:
«Il nostro team di ingegneri ha scoperto che dei cambi di configurazione nei router principali che coordinano il
traffico tra i nostri data center hanno provocato problemi che hanno interrotto queste comunicazioni. Questa
interruzione al traffico di rete ha avuto un effetto domino sul
modo in cui i data center comunicano, e ha portato
all’interruzione del servizio».

Ma la causa non è certamente un aspetto rilevante in questo


caso. Solo una cosa è certa: l’assenza dei social network più
utilizzato ha creato panico tra gli utenti, ma anche tra coloro che
li utilizzano per lavoro. Facebook e Instagram, infatti,
sono grandi risorse di business, su cui le aziende investono per
veicolare pubblicità e darsi visibilità.
L’Osservatorio scientifico “Social Warning – Movimento Etico Digitale”, associazione no profit che lavora per
diffondere la cultura digitale tra i ragazzi e promuovere un utilizzo intelligente del web, ha pubblicato
un report del 2020/2021 in cui si evince che l’80 % dei ragazzi tra gli 11 e i 18 anni trascorre sui social più di
4 ore al giorno, praticamente due mesi interi della loro vita. Il 7% dei ragazzi controlla lo smartphone fino a 110
volte al giorno, il 51% dei giovani tra 15 e 20 anni lo fa mediamente 75 volte al giorno.
I dati di questa ricerca sono abbastanza allarmanti e possiamo facilmente comprendere come il panico,
causato dal grande down, sia reale. Improvvisamente ci siamo sentiti spaesati, senza la possibilità di
contattare i nostri amici con i soliti strumenti, intrattenerci con video su Instagram. E chi lavora con i social
network è stato costretto a riprogrammare le attività, in attesa che tutto tornasse alla normalità.
In quelle sei ore abbiamo recuperato vecchi metodi: squilli al telefono, una chiamata, i classici SMS, uscire di
casa e suonare al campanello del nostro amico per avvisarlo che siamo pronti per uscire. Un ritorno al
passato accettato da alcuni come salvifico, perché ha dato la possibilità di “disintossicarsi” da quella tecnologia
che ogni giorno ci assilla, da altri come una maledizione.
Ogni reazione ci insegna che la tecnologia fa parte della nostra vita in un mondo iperconnesso, al punto tale
che la sua assenza genera disagi importanti e intacca l’economia stessa del paese. L’esperienza che abbiamo
vissuto è un’occasione per riflettere sulla necessità di implementare sempre nuovi strumenti alternativi,
indispensabili per coloro che lavorano sul web e, allo stesso tempo, investire sulla progettazione di percorsi
formativi che aiutino i più giovani ad un uso consapevole dei social network.
La dipendenza dai social sta prendendo sempre più piede, diventando sempre più divampante, ma uscirne si
può e si deve. L’auspicio è naturalmente quello di ritornare a un uso sano, lucido e proficuo dei social. Basta
quantomeno volerlo, perché volere è potere.

Considerazioni…Per concludere vorrei soffermarmi sul termine “pericolosità” che la maggior parte delle
persone associa alla parola “social network” e sui loro aspetti positivi di cui si parla raramente. Ecco, a mio
parere non sono i social ad essere pericolosi, ma l’uso, anzi l’abuso che le persone ne fanno. I social hanno,
come sappiamo tutti, ma a volte - forse soprattutto le persone più grandi - fanno finta di non sapere, degli
aspetti assolutamente positivi.
È normale, come penso in tutte le cose, che esistano anche degli aspetti negativi, ma sta a noi non farli
prevalere.
Se presi nel modo giusto, i social offrono moltissime opportunità, di cui non si parla frequentemente, ma che
secondo me sono molto importanti ed è fondamentale perlomeno citarne alcune: ci mettono in comunicazione
con il mondo, permettono di entrare in contatto con persone diverse e di conseguenza anche di conoscere
culture diverse dalla nostra, consentono inoltre di imparare cose nuove, favoriscono l’apprendimento,
stimolano la creatività, e così via.
Insomma, usati nel modo corretto, possono essere un grande aiuto per tutti. Ma attenzione… l’esistenza dei
lati positivi non giustifica ovviamente la ormai certa dipendenza che esiste, con la quale molte persone
convivono e di cui abbiamo parlato esaustivamente in precedenza.

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4. Nascondere i difetti: l’utilizzo dei “filtri” su Instagram
Nel 1969 Coco Chanel aveva violentemente stigmatizzato, provocando quello che all'epoca venne definito
uno scandalo, l'impudicizia, l'assenza di morale rappresentata dall'esibizione di quella "brutta articolazione"
che è il ginocchio, messo in mostra dalla minigonna. Non osiamo immaginare quale sarebbe stata la sua
reazione di fronte all'imperterrita esibizione di sé, al narcisismo elevato a valore, ai corpi gonfiati di silicone e
all'autocompiacimento del selfie che caratterizza la nostra epoca. Niente di più lontano dal suo concetto di
stile, da lei considerato un valore immutabile, universale ed
eterno.

Internet ha indubbiamente cambiato la nostra idea di bellezza.


Un’evoluzione complicata e spesso contraddittoria: da un lato,
ci sono stati grandi balzi in avanti nell’accettare i corpi e i look
più disparati e nella possibilità per tutti noi di presentarci come
vogliamo essere visti. C’è anche spazio per scherzare con le
convenzioni e la possibilità di confondere realtà e finzione.
I social media però possono essere dei focolai di body negativity
poiché la società odierna conferisce un’importanza eccessiva
all’aspetto fisico e i social network presentano modelli di
bellezza irreali e irraggiungibili. La situazione è preoccupante
soprattutto per noi giovani che siamo portati a basare la nostra
autostima solo sul nostro peso e sulla forma del nostro corpo,
trascurando le nostre qualità intellettive e personali.

Una funzione di Instagram molto importante è svolta dai filtri: delle “maschere” sviluppate in realtà aumentata
che gli utenti possono applicare sul volto o su quello dei soggetti presenti nella foto o nel video. Essi soddisfano
due esigenze prioritarie degli Instagram users: apparire belli e divertirsi. Per questo motivo sono così popolari
e vengono utilizzati così tanto.
Recentemente però, sui social, si è assistito ad una rivolta delle beauty influencer contro i filtri su Instagram.
L'obiettivo della polemica è il falso ideale di bellezza che i filtri veicolerebbero, intaccando sensibilmente
l’autostima delle persone.
Labbra carnose e gonfie, naso fine, occhi brillanti, sopracciglia ad ali di gabbiano perfettamente delineate,
incarnato splendente e pelle liscia e compatta senza pori, sono questi gli standard di bellezza diffusi sul social
che fanno sì che su Instagram tutte le donne siano uguali.
Ti fanno sentire migliore, perfetto, quando in fondo la perfezione non esiste.

Nel mondo dei social l'immagine è tutto e pur di adeguarsi e omologarsi agli standard di perfezione si è pronti
a stravolgere anche i propri lineamenti. A volte si ricorre al trucco, altre alla chirurgia, altre all'abuso di ritocchini
e filtri, capaci di dare a un volto un aspetto completamente diverso da quello originale. Ma i visi naturali non
sono spariti del tutto, anzi. Ultimamente sono proprio le influencer e le celebrities del web a insorgere contro
questo stravolgimento.
In Italia ne ha parlato ClioMakeUp, definendo «realtà distorte» quelle che si vengono a creare. È una
contraddizione che sponsor di prodotti per la cura del viso e del corpo adottino questi filtri nelle loro pubblicità,
sui social e televisione. Quello che si pubblicizza è in fondo un ideale di bellezza di massa irraggiungibile. “La
leggerezza con la quale si usano i filtri per migliorarsi il viso e anche, in generale, la vita mi fa paura”, afferma
la beauty guru ClioMakeUp in un post su Instagram.

La popolare conduttrice tv, Caterina Balivo, invece ha provato sul suo viso un filtro Instagram molto gettonato,
che ingrandisce gli zigomi e le labbra, rendendo la pelle del viso perfettamente omogenea. Il risultato l'ha resa
del tutto irriconoscibile e lei stessa ha avuto difficoltà a guardarsi, definendosi un mostro. Ha detto: "Volevo
ringraziare chi ha pensato a questo filtro, perché io mi vedo mostruosa". La 41enne ha sempre detto di non
aver fatto ricorso alla chirurgia e di essere completamente naturale. Per questo non ha mancato di tirare una
frecciatina a chi invece ha fatto scelte diverse: "A volte quando vedo alcune donne rifatte dico: ma non si
vedono che sono dei mostri? No. Oppure forse sì e non sanno come tornare indietro". Dal canto suo, Caterina
Balivo è perfettamente a proprio agio con sé stessa, il proprio corpo e la propria età, ma anche coi suoi difetti
e imperfezioni. "Vabbè comunque mi tengo le mie labbra sottili e pure un po' storte" ha concluso nelle sue
Instagram Stories. Proprio la sua semplicità è sempre stata la sua carta vincente, quella che l'ha resa uno dei
volti più amati della tv italiana.

Sembra un gioco ed è quello che dovrebbe essere: modificare i propri connotati per puro divertimento, quando
invece non si riflette a sufficienza sugli effetti che questa visione estetica diffonde. Insicurezza, ansia,

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depressione, dovuti al voler apparire perfetti in ogni occasione. Queste sono solo alcune delle conseguenze
che potrebbero intaccare l’autostima di tutti, specie quella degli adolescenti, visto che si viene a creare l’idea
di uno standard di bellezza che non esiste.
Questo meccanismo mediante il quale numerosi utenti smussano peculiarità naturali del corpo e in particolare
della pelle, ha innescato polemiche e reazioni da parte della community del noto social network, che hanno
portato la make-up artist inglese Sasha Louise Pallari a lanciare durante l’estate del 2020 la campagna online
“#Filterdrop” per incoraggiare i brand e gli influencer ad abbandonare i filtri, soprattutto quando promuovono
prodotti di bellezza.
Lo scopo principale della campagna era infatti quello di sensibilizzare gli utenti di Instagram e l’opinione
pubblica sull’effetto della realtà distorta provocata dai filtri fotografici.
Nell’ambito della propria campagna, la make-up artist inglese ha posto all’attenzione dell’Advertising Standard
Authority (ASA), l’autorità di autodisciplina pubblicitaria del Regno Unito, il comportamento scorretto di due
noti brand cosmetici, responsabili di aver ingaggiato influencer che avevano utilizzato il filtro Instagram “Perfect
tan” (trad. it. “abbronzatura perfetta”) per pubblicizzare un autoabbronzante su Instagram e accentuarne
l’efficacia.
Da qui le due decisioni dell’ASA che, nel febbraio 2021, ha dichiarato che l’uso dei filtri nella comunicazione
commerciale inerente a determinati prodotti potrebbe aumentare l’effetto del prodotto cosmetico risultando
così fuorviante per i consumatori, configurandosi una condotta di pubblicità ingannevole. L’ASA ha ritenuto
che, poiché i filtri utilizzati dagli influencer erano direttamente pertinenti alle prestazioni dei prodotti
pubblicizzati, amplificando l’efficacia degli stessi avrebbero indotto i consumatori ad acquistarli sulla base di
aspettative di efficacia non veritiere.
Essa ha stabilito dunque che gli influencer e gli advertiser che
promuovono prodotti di bellezza debbano evitare di applicare
filtri a foto o video che sono pertinenti al prodotto pubblicizzato
e che possono esagerare l’effetto che il prodotto è in grado di
ottenere. Secondo l’ASA, quindi, non basta informare i
consumatori circa il nome del filtro utilizzato, ma è necessario
proprio evitare di inserirlo nei contenuti che pubblicizzano
prodotti cosmetici. In ultima analisi, ha chiarito che la
responsabilità per le condotte di pubblicità ingannevole ricade
sull’advertiser del prodotto la cui promozione tramite un filtro
rischia di indurre in errore i consumatori sull’efficacia del
prodotto pubblicizzato.
In Italia, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), ovvero
l’autorità autodisciplinare che fissa le regole per una pubblicità
corretta a tutela dei consumatori e della leale concorrenza tra le
imprese, non si è ancora espressa con riferimento ai filtri e/o agli effetti utilizzati sui social network nella
promozione di prodotti in relazione ad eventuali profili di ingannevolezza delle comunicazioni commerciali.

La Generazione Z e i Millennials si sentono spinti a emulare l’estetica delle ‘facce da Instagram’ resa popolare
da celebrità come Kim Kardashian e Kylie Jenner. Mentre la piattaforma vieta i filtri effetto chirurgia plastica
perché danneggino il benessere degli utenti. Interpellato per un commento, un portavoce di Facebook ha detto
a Vogue: “Vogliamo che i filtri siano un’esperienza positiva per gli utenti. Di conseguenza, quello che faremo
sarà rimuovere dalla Galleria Effetti di Instagram tutti gli effetti associati alla chirurgia plastica, impediremo che
nuovi effetti simili siano approvati e rimuoveremo gli effetti attualmente in uso che ci vengono denunciati.”
Mary McGill, ricercatrice all’Università Nazionale d’Irlanda a Galway che si occupa di selfie e di cultura digitale
post-femminista, commenta così la notizia: “Il problema va di gran lunga oltre qualche filtro e riguarda una
serie di pratiche e norme che social come Instagram hanno introdotto nella nostra vita: mi riferisco al fatto di
usare il corpo e il volto femminile come oggetti da osservare e valutare. Tutte le app di bellezza partono dal
presupposto che il nostro corpo debba essere perfezionato; ergo, sono sbagliate.”
La possibilità di modificare caratteristiche del volto va oltre il semplice giocare con la propria immagine poiché
si creano di fatto degli avatar digitali di sé stessi leggermente modificati. Un’immagine a cui, lontano dall’occhio
dello smartphone, alcuni sentono di non poter corrispondere. La conseguenza è un numero crescente di
giovani donne e uomini che si presentano dal chirurgo estetico con la foto modificata del proprio viso chiedendo
di avere lo stesso aspetto nella vita reale.
A tal proposito, un ragazzo di 24 anni, Levi Jed Murphy di Manchester, si è appassionato parecchio a questa
funzione, tanto da arrivare a spendere 30 mila sterline in chirurgia estetica per essere tale e quale al filtro.
Questo giovane ragazzo si è fatto riempire le labbra, le guance, il mento, la mascella e la parte inferiore degli
occhi, diventati simili a quelli di un gatto. In più è intervenuto sul naso e si è sottoposto ad un lifting alle labbra,
alle tempie e agli occhi, e infine, si è fatto raddrizzare i denti.

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Tutto questo perché? “Non perché fossi insicuro o odiassi il mio aspetto, ma perché mi annoio facilmente del
mio viso e mi piace cambiare il mio look. È come cambiare il guardaroba, ma un po’ più estremo e doloroso.
E ovviamente amo attirare l’attenzione della gente”.
E trasmettere la sua guarigione sui social media gli ha dato sicuramente una notevole rilevanza.

Il rischio però è sempre dietro l’angolo quando per somigliare ai filtri bellezza e chirurgia estetica di Instagram
si precipita nella selfie dismorfia e presto nella dismorfofobia. Tessa Gelisio, conduttrice televisiva e scrittrice,
afferma che "la dismorfofobia è una patologia dilagante da molto tempo. Soprattutto adesso, con i selfie, è
una problematica estesa a tutti. Specialmente ai più giovani che sono molto vulnerabili a questo genere di
cose poiché non hanno ancora una percezione e una sicurezza di sé ben affermata". Piccolissimi inestetismi
sono vissuti come giganteschi difetti.
Infine, dichiara che “bisogna imparare a vivere i filtri come un gioco. Cambiare virtualmente senza far diventare
il fenomeno negativo. L’utilizzo di questi effetti non deve mai portare ad una frustrazione perché non ci si piace.
O perché si vorrebbe essere uguali alla propria immagine vista nel cellulare. Questo comporta non solo una
depressione ma anche, in casi estremi, l’utilizzo della chirurgia estetica in maniera massiccia e incontrollata
ed è il caso della selfie dismorfia".

Considerazioni…Questo è uno degli argomenti che mi sta più a cuore, l'importanza di essere sempre sé
stessi e piacersi senza avere il bisogno costante di paragonarsi agli altri. Spesso ciò che vediamo sui social è
falso e modificato e purtroppo molte persone si ispirano a questi canoni di bellezza andando a nuocere alla
propria salute nel momento in cui guardandosi allo specchio non vedono un fisico simile a quello delle/dei
modelle/i di Instagram.
Non si riflette abbastanza sugli effetti rovinosi dell’utilizzo di questi filtri sulla psiche di un adolescente, in
continuo divenire e affermarsi con difficoltà.
Questo desiderio di omologazione e di raggiungimento di ideali di bellezza imposti, genera un sentimento di
inadeguatezza, un circolo vizioso di confronti e paragoni. Ma la realtà e la vita vera sono cose diverse, rispetto
alla virtualità e alla finzione del mondo social. Il punto è che perdere il contatto con questa distinzione sta
diventando sempre più frequente, proprio perché realtà e finzione si stanno sovrapponendo.

La perfezione non esiste e il bello è proprio lì, nella diversità e nelle imperfezioni, in quello che alcuni
potrebbero considerare brutto e che altri vorrebbero modificare.
È quello il nocciolo della bellezza ed è lì che dobbiamo davvero distinguerci.
Siamo diversi e siamo tutti bellissimi.

5. Effetto della bellezza nei social network sulla mente e sulle relazioni
Ansia sociale, dismorfia, dismorfismo. Sono parole, anzi temi, difficili persino da leggere, figuriamoci da
spiegare. Sembrano astratti, lontani da noi, ma non riusciamo neanche ad immaginare quanto in realtà siano
vicini e quanto permeano la nostra quotidianità e riguardino tanti, davvero tanti, forse troppi giovani in un
mondo, come quello di oggi, in cui i social non gli fanno più da contorno, ma lo governano ormai quasi
completamente.

Impossibile non iniziare con le parole di un professore della


caratura di Marcos Sforza, che ha coniato, insieme ad un team
di chirurghi plastici inglesi, l’espressione "Snapchat
Dysmorphia", concetto e termine che presuppone una sua
forma di dismorfia, che nasce però dai social media. Queste le
parole dello specialista:” Quando i filtri diventano il modo in cui
il paziente è abituato a vedere sé stesso, o il modo in cui vuole
vedersi, questo diventa preoccupante”.

L’aspetto su cui maggiormente soffermarsi è che il professor


Sforza parli di pazienti; ed è perfettamente così, poiché
purtroppo la BDD (Body Dysmorphic Disorder, cioè disturbo da dimorfismo corporeo) è una malattia che
colpisce sempre più persone negli ultimi anni: in Italia siamo arrivati al 2% secondo i dati diffusi dall’Istituto di
Terapia Cognitiva e Comportamentale. “Il rischio è quello di perdere contatto con la realtà, e di interiorizzare
l’idea che dobbiamo sempre apparire nella versione perfetta ed editata di se stessi” dice il professore. Sulla
base dei dati della Mental Health Foundation il 22% degli adulti e il 40% dei giovani, ha dichiarato che le
immagini sui social condizionano il modo in cui percepiscono il loro aspetto.

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Ma esattamente, cos'è la dismorfia? È un disturbo sempre più diffuso caratterizzato da una elevata
preoccupazione per uno o più difetti percepiti dal soggetto riguardanti il proprio aspetto fisico che non sono
evidenti o per altre persone sembrano assolutamente lievi ed insignificanti. Tale disturbo compromette l’attività
sociale, lavorativa, scolastica dei soggetti che ne soffrono, andando quindi a limitarne, sotto tutti i punti di vista,
la libertà.

Durante il decorso di tale disturbo, i pazienti si ritrovano ad eseguire in modo eccessivo e ripetitivo alcuni
comportamenti in risposta all’ansia e alla preoccupazione per il loro aspetto: confrontarsi con altre persone
cercando di non essere scoperti, osservarsi allo specchio quasi verificandosi, ma mettendosi costantemente
in discussione poiché non giusti e non belli da vedere.

Spesso il disturbo è incentrato sul volto o più in generale sulla parte alta del proprio corpo, ma può riguardare
ogni punto del proprio fisico ed anche cambiare da una zona all’altra col passare del tempo.

Ci sono dei pazienti che potrebbero manifestare preoccupazioni per la perdita dei capelli, l’acne, le cicatrici,
l’eccessiva peluria di viso e corpo; alcuni potrebbero concentrarsi invece sulla forma e le dimensioni del proprio
naso, bocca, seno, glutei, gambe ecc. Gli uomini spesso soffrono di un disturbo chiamato “dismorfismo
muscolare” che è caratterizzato dalla preoccupazione che il proprio corpo non sia sufficientemente muscoloso
e prestante come i tanti fisici scultorei e scolpiti che ormai oggigiorno permeano le piattaforme dei social
network, Instagram in particolare.

Questi sintomi si possono sviluppare in maniera graduale, oppure in modo acuto ed improvviso, ed i pazienti
potrebbero descrivere le proprie parti del corpo che a loro non piacciono come brutte o poco attraenti, fino ad
arrivare a considerarle deformi, orrende o mostruose.

In tutto ciò i social giocano un ruolo determinante e decisivo, chiaramente in negativo, nella costruzione
dell’immagine corporea, in quanto contribuiscono a diffondere gli standard di riferimento imposti dalla società.

Tornando al termine coniato dal professor Sforza, a seguito di uno studio condotto da diversi chirurghi plastici
inglesi su numerosi pazienti, è emerso che il 65/70% delle persone decidono di sottoporsi ad interventi di
chirurgia estetica, ma non si ispirano più a personaggi dello spettacolo o della moda, bensì alla “versione
migliorata di sé”, ovvero quella versione risultante dall’applicazione di uno dei filtri presenti sui social network
come Instagram o Snapchat.

È difficile rendersi conto del fatto che quello che vediamo sui social non è sempre dono della natura; mentre
“scrolliamo il nostro feed”, linguaggio più normale “scorriamo la nostra bacheca”, non volendo e spesso senza
rendercene conto facciamo dei paragoni del tutto inconsapevoli, talvolta anche assurdi. Basti pensare che il
filtro e l’hashtag “plastica”, il cui nome è tutto dire, è stato utilizzato dagli utenti più di 200 milioni di volte,
200.000.000 !

Fa parte della natura umana il desiderio e la voglia di presentarsi meglio; i social network purtroppo però
stanno promuovendo delle aspettative e delle ambizioni utopiche e non realistiche.

È fondamentale di qui in avanti la sensibilizzazione su movimenti quali il body-positivismo, l’inclusione e il NO-


SHAMING. “Vanity Fair”, periodico italiano di costume, cultura, moda e politica, ha riportato in un articolo del
2017, la storia di un ragazzo, Omari Eccleston Brown, che per anni è stato convinto che i suoi occhi avessero
un aspetto terribile. Le conseguenze di questa sua convinzione lo portarono
ad indossare costantemente gli occhiali, ad evitare gli specchi e ad isolarsi
dagli altri. Ci sono voluti anni prima che il ragazzo scoprisse di soffrire di
disturbi di dimorfismo corporeo. Al quotidiano “The Independent” ha
raccontato la sua travagliata esperienza che lo ha portato all’accettazione
di sé.

Quando aveva 16 anni partecipò ad un servizio fotografico; era però già


tormentato dai suoi occhi, tanto da usare il make-up della mamma per
cercare di perfezionare l’aspetto. La prima cosa che fece quando visionò gli
scatti del fotografo fu quella di andare a modificare e ritoccare proprio gli
occhi. Quando poi iniziò a studiare all’Università di Oxford i sintomi del
disturbo tornarono prepotentemente a farsi sentire: nella sua facoltà
studiavano principalmente ragazze, e Omari iniziò a sentire la necessità di

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dover piacere a tutti. “ Volevo diventare il ragazzo che tutti avrebbero voluto avere come amico e con cui tutte
ragazze avrebbero voluto stare”.

L’ossessione era diventata tale da nascondere i suoi occhi perennemente con un paio di occhiali. Qui un punto
focale che chiarisce bene quanto la difficoltà di mostrarsi, la malattia con i suoi sintomi, e l’ansia sociale
raggiunsero apici assurdi: il commento di una ragazza che gli piaceva gli è rimasto impresso nella memoria.
”Mi piaci con gli occhiali” gli disse la ragazza. Quello che però Omari ha sentito è stato: "Grazie a Dio ti sei
messo gli occhiali” , e l’ha interpretato come se gli avesse detto “Eri orribile prima”. Una caratteristica del
problema del BDD, spiega il giovane, è avere l’impressione di essere un peso per le persone a causa del
proprio aspetto; ciò lo ha portato ad indossare gli occhiali sempre come segno di salvaguardia di sé stesso e
successivamente ad isolarsi completamente, vivendo una vita solitaria. Sprofondò in una depressione molto
profonda, fin quando scoprì di soffrire di questa malattia; aveva 21 anni e da allora ha iniziato una terapia
intensiva che gli ha insegnato a superare i pensieri angosciosi e difficili che da solo non era in grado di
sconfiggere, e ad affrontare i “comportamenti di salvaguardia” e le compulsioni. La terapia è stata molto utile,
Omari ha iniziato a fare danza, ha scritto un libro, e ora dice di stare bene e di aver riportato la sua vita in pista.
Ciò che molto altruisticamente adesso desidera fare è aiutare gli altri ragazzi che soffrono, a superare i disturbi
della dismorfia, l’ansia e i problemi sociali ad essa connessi.

Oltre a tali disturbi legati alla modificazione immaginaria del proprio aspetto esteriore, i social spesso portano
i giovani ad una estraneazione dalla vita esteriore, che potrebbe sfociare in altri tipi di disturbi connessi alle
relazioni umane e alla loro vita sociale.

I social, ed in generale l’internet, ha cambiato il nostro panorama sociale, e soprattutto il modo in cui noi
comunichiamo. Spesso piuttosto che chiamare una persona, incontrarla personalmente, preferiamo scriverle
un messaggio. Amiamo mettere like, twittare, postare ed anche quando si è in compagnia di altre persone, il
90% dei ragazzi, forse anche il 95%, ha le teste chine sugli schermi di un telefono o di un tablet. “Collo da
tablet”, “generazione a testa bassa”, sono alcune delle definizioni attribuite ai giovani del nuovo millennio.

Questo sviluppo tecnologico e questa vita social, al di là degli


enormi vantaggi, porta però anche delle conseguenze che
talvolta possono essere spiacevoli in relazione a quella che è la
vita sociale dei giovani. Tra queste una delle principali è
indubbiamente il disturbo d’ansia sociale, che si definisce come
una paura o ansia persistenti relative ad una o più situazioni
sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile giudizio degli
altri, come essere osservati o eseguire prestazioni di fronte ad
altri. Questo tipo di ansia è tra i più comuni ed è inscindibilmente
legato al mondo dei social. A tal proposito, Stefan G. Hofmann,
direttore del Laboratorio di Ricerca sulla Psicoterapia e
l’emozione presso il Centro di disturbi d’ansia dell’Università di
Boston, afferma che nella normale crescita dei bambini si attraversano delle fasi che includono ansia da
separazione o la paura dell’estraneo, che sono tutte forme di ansia sociale. C’è tuttavia un limite oltre il quale
l’ansia sociale supera la sua funzione evolutiva ed adattiva e diventa disfunzionale; lo stesso vale per l’uso
che i ragazzi fanno dei social media. Ognuno di noi avverte la necessità di connettersi con gli altri e di
“appartenere”.

Indubbiamente i social network favoriscono tale connessione agevolando la soddisfazione dei propri bisogni
sociali ma, come spiega Hofmann, il problema nasce nel momento in cui “le persone non vivono la loro vita
reale perché passano così tanto tempo sui social media”. Alcuni di essi potrebbero quindi soffrire di ansia
sociale.

L’interazione interpersonale potrebbe quindi diventare per questi soggetti così minacciosa da condurli ad una
comunicazione online, percepita da loro come meno pericolosa; arrivano di conseguenza a trascorrere tanto
tempo sui social media poiché poco abili a stare nella vita reale (che ogni individuo è chiamato ad affrontare
e nella quale è chiamato a vivere quotidianamente). La comunicazione mediata dal computer offre alcune
caratteristiche chiave che possono attrarre gli individui socialmente ansiosi, come ad esempio la
comunicazione con audio e testo limitati, la garanzia di anonimato e soprattutto l’asincronicità, ovvero la non
necessità di rispondere subito, che non esisterebbe in una interazione interpersonale dal vivo.

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Questa preferenza per la comunicazione online porta ad una conclusione abbastanza bilanciata tra aspetti
positivi ed aspetti più negativi e a lungo andare penalizzanti e complessi da affrontare.

I neuroscienziati sono categorici: fra gli 11 e i 25 anni si svolge


una delicatissima fase di crescita del sistema nervoso centrale. Le
nostre sinapsi presentano connessioni nuove, quelle vecchie si
rafforzano, altre ancora spariscono, secondo il fenomeno noto
come potatura sinaptica. L’evoluzione dipende dagli allenamenti
a cui il soggetto si sottopone. Questo lungo ciclo vitale,
l’adolescenza, può generare un genio, un campione, un talento
artistico o un surrogato di sé stessi. Non dipende dal carattere o
dalla dotazione genetica, ma dal regime di esercizi.

Oggi il principale trainer dei giovani è lo smartphone e i social


network sono i centri di addestramento delle sinapsi. Dopo oltre
un decennio di esperienze, siamo in grado di cominciare a
comprendere i loro effetti. E, diciamolo chiaramente, sono devastanti.

I social network allenano l’opposto di quello che proclamano. Promettono connessioni, ma causano
isolamento. Il prezzo dell’essere connessi è la perdita delle relazioni umane vive, concrete, reali. Dopo lo
scandalo Facebook e Cambridge Analytica, abbiamo la conferma che i Social Network analizzino i profili degli
utenti per manipolarli, secondo obiettivi dettati dai centri di potere politico o economico e realizzati da tecnici
che non conosceremo mai. Ma i Social Media ingannano il cervello in ben altro modo, certamente più dannoso
di quello che fanno per vendere o spostare voti. Gli studi della Twenge (Iperconnessi, 2018) riportano i dati
dalle comparazioni fra generazioni di adolescenti prima e dopo la nascita dei nuovi media e dimostrano che si
stanno creando colossali cambiamenti che riguardano la vita di milioni di giovani. Internet plasma le sinapsi
con effetti deleteri. Le facoltà si impoveriscono. Cala l’attenzione, si smorza l’immaginazione, l’intelligenza e
la ragione vanno alla deriva, la memoria non è mai esercitata, e la coscienza di sé sorge nella piattaforma
scenica dei like piuttosto che con i dialoghi dal vivo. Abbiamo generazioni fragilissime sul piano psicologico,
perché più isolate, meno preparate alla vita reale, meno indipendenti, più bisognose di rassicurazioni, meno
avvezze alle sfide.

Esiste una correlazione causale fra la frequentazione dei social network e la diminuzione delle interazioni
sociali con conseguenti disturbi psicologici, maggiore possibilità di depressione e certamente aumento
dell’infelicità. “I Social media e l'uso degli strumenti elettronici sono collegati a tassi più alti di solitudine,
infelicità, depressione, sia nei dati correlazionali che in quelli sperimentali”. Un tema di ricerca è quello di
comprendere la correlazione fra i Neet (i ragazzi che non studiano né lavorano, che in Italia sono i più numerosi
di Europa) e lo sviluppo di internet. Se navigare rende più depressi, le energie per studiare o trovare un lavoro
svaniscono. Si rimane in casa, ma sempre connessi (è il fenomeno dell’Hikikomori). Uno strumento che
deforma le relazioni umane creando più isolamento e infelicità, permette ai messaggi disumanizzanti la più
alta resa.

Considerazioni…Estinguere completamente il proprio sé virtuale è forse sbagliato per la fioritura piena del
proprio sé reale con tutte le sue straordinarie potenzialità.

Magari sarebbe cosa buona però evitare il cellulare quando si parla con i propri figli o si è in famiglia. Fuori dai
social, c’è la vita, lo sport, l’arte, il sole, i libri, il cinema e gli amici. Gli adolescenti che passano più tempo con
i coetanei in carne e ossa sono meno soli, meno depressi e più felici.

È chiaro che ci sia una correlazione tra ansia sociale e uso patologico di internet. Gli individui socialmente
ansiosi, sentendosi a proprio agio nel mondo dell’online, potrebbero iniziare a fare affidamento sulla
comunicazione mediata dal computer evitando quindi le interazioni vis a vis, che sono però inevitabilmente la
base della vita sociale, soprattutto per giovani ragazzi che devono ancora costruirsi una loro identità ed una
loro personalità forte e stabile.

È ovvio ed evidente che la tecnologia digitale offra delle vie anche terapeutiche, tanto che alcuni ricercatori
sono stati in grado di sviluppare delle attività mediante l’uso del computer che potrebbero aiutare i pazienti
affetti da patologie legate al mondo social ad una esposizione graduale che parta dalla realtà virtuale, fino ad
arrivare alle esposizioni in pubblico e finalmente alle interazioni interpersonali vis a vis. Divertendomi a
incrociare i dati dell’Istat in Italia, ho visto che nel 2005, l’anno prima della nascita di Facebook, i ragazzi

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collegati a Internet erano il 12,4% e quelli che frequentavano i propri amici tutti i giorni erano il 72,2%; nel 2016
la percentuale di chi frequenta internet quotidianamente è dell’82%, quella di chi frequenta gli amici tutti i giorni
è calata al 51,6% con un crollo del 30%. Si esce di meno, si va a meno feste, si frequentano meno amici, ma
il cellulare non scompare mai dalla vista. Si dorme e ci si sveglia col cellulare.

Alla luce di questa analisi, la frase conclusiva più adatta a mio avviso, sarebbe quindi:

#siallaconnessionemasenzaossessione . Viviamo Internet, viviamo i social, ma non abusiamone: impediamo


al mondo virtuale di modificare la realtà e di sostituirsi al mondo reale.

6. Apparenza ed esteriorità
Il termine ‘apparenza’ deriva dal latino apparentia e significa “ciò che appare, che si mostra alla vista”.
Generalmente un individuo si compone di due parti: anima e corpo. Quando si pensa a scomporre un qualsiasi
elemento in due parti, il nostro cervello pensa automaticamente a dividerlo in due parti perfette, 50 e 50. In
realtà, in questo caso, la divisione è molto soggettiva. Per alcuni l’esteriorità conta tanto quanto l’interiorità,
per altri vale molto meno, e per altri ancora invece è tutto. Ma ciò che appare, l’aspetto delle cose e delle
persone, non rispecchia necessariamente il vero.

Fin dall’antichità si era soliti rappresentare i corpi in maniera idealizzata anche se non corrispondevano alla
realtà: addominali scolpiti, braccia e gambe possenti e visi con linee perfette. Ma non c’è bisogno di andare
così lontano coi tempi: basti pensare che, con la nascita della televisione, tutte le cantanti si presentavano con
corpi allungati, vita stretta, gambe lunghe, capelli in ordine, viso curato e truccato. La persone, soprattutto le
donne, si è sempre lasciata influenzare da tutti quei modelli che sfilavano per le case di moda più famose, che
comparivano in tv o nei film. Oggi, con l’avvento della tecnologia, la situazione sembra essere sempre la
stessa, il “vero” appare essere offuscato da veli di bellezza
apparente ma, stavolta, in una piattaforma del tutto nuova.

Il mondo social è il regno dei giovani: offre tanto e allo stesso


tempo sottrae molto. I social aprono la mente, rapportano ad altre
realtà, permettono di cogliere nuove opportunità e fare nuove
conoscenze, ma incoscientemente mettono in testa così tanti
prototipi e stereotipi che non possiamo fare a meno di voler
essere diversi. Quante volte è capitato di pensare che il nostro
corpo fosse sbagliato per colpa dei social? E quante volte ancora
è successo di sentirci sbagliati, anche solo caratterialmente,
perché i nostri pensieri non erano conformi ai commenti sotto a
dei post? Ma l’aspetto peggiore è che questo nuovo mondo sia
affidato proprio ai più giovani che, con le loro teste fragili e
modellabili, non riescono a capire fin dove credere e dove invece bisogna fermarsi. Sono proprio i più giovani
che seguono tutti gli influencer, ne osservano lo stile, il comportamento, e cercano di essere come loro. Ma gli
influencer, come i giovani stessi, non rappresentano sempre il “vero”. Molti vivono una vita idealizzata, una
vita che non esiste o, meglio, che esiste solo sulle piattaforme digitali. Una vita apparente. Ciò è dimostrato
dal fatto che, agli albori dell’era social, le persone popolari erano solite mostrare solo la parte positiva della
loro vita, quella felice, dove ogni cosa sembrava andare bene. Ma in realtà, una volta tolto il “velo social”, la
loro vita era del tutto diversa dalla realtà. Un esempio è riportato nel film uscito su Netflix il 27 agosto 2021
chiamato He’s All That (un remake di She’s All That del 1999) nel quale si vede l’influencer protagonista
Padgette (interpretata da Addison Rae, influencer nella vita reale) che, pur di non sfigurare agli occhi dei suoi
ricchi amici e dei suoi follower, finge di vivere una vita da ricca in un appartamento di lusso.

Perché le persone decidono di cambiare e omologarsi alla massa? La risposta è piuttosto semplice: alcune di
esse, soprattutto la gioventù, vuole piacere e vogliono sentirsi apprezzate. Capita spesso di non riuscire a
trovarsi bene all’interno delle varie istituzioni (es. scuola, gruppo dei pari o quello sportivo), di sentirsi soli,
spaesati e non compresi. C’è chi reagisce uscendone più forte e indipendente, c’è invece chi ha un animo più
fragile con un’autostima bassa. Proprio in quest’ultimo caso, si comincia a postare foto, pensieri e video
seguendo i canoni più ricercati e, vedendo che acquistano popolarità, si continua sempre di più andando a
creare l’immagine di una persona desiderata e adulata, ma che non è più la stessa di prima. La popolarità e i
social possono dare una felicità passeggera, ma non ci si può affidare ad essi per sempre: la loro caratteristica
è quella di essere molto soggettivi, legati al tempo e anche alla fortuna. Per spiegarmi meglio, riporto l’esempio
di Tik Tok, una piattaforma cinese dove le persone si dilettano a creare video di breve durata di tutti i generi
(divertenti, canto, ballo, seri, spot pubblicitari, spezzoni di film e serie tv), dove è possibile che una persona

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abbia un profilo con pochi follower, pochi like e poche visualizzazioni, ma improvvisamente l’ultimo video
caricato spopola nei Per Te (la pagina iniziale dove capitano video affini ai nostri interessi) e riesce ad acquisire
milioni di interazioni. Tuttavia, non è detto che i futuri video
subiscono la stessa sorte, anzi nella maggior parte dei casi non
accade mai. Si tratterebbe di affidarsi alla matematica, ossia il
famoso algoritmo dettato dai dati raccolti dall’app, e sperare di
capitare nei Per Te diventando famosi. Da un po’ di tempo a
questa parte, la gente riesce a guadagnare con quest’app,
pertanto i Tiktoker (o Creators, così vengono chiamati i famosi
autori dei video) monitorano costantemente i loro insights (i dati
statistici raccolti sulla base delle interazioni dei video) e
applicano strategie di marketing per mantenere il loro successo.
Basti pensare all’americana Charli D’Amelio, probabilmente la
Tiktoker più famosa del mondo, che è diventata famosa a soli 16
anni e tuttora continua a mantenere e, anzi, ad accrescere il suo
pubblico, che è riuscita a raggiungere anche altre piattaforme e
il mondo della TV. Stesso destino è stato riservato alla collega Addison Rae che, come già detto, è riuscita a
interpretare il ruolo di protagonista in un film che ha avuto un grande successo tra i giovani.

Anche se non ce ne rendiamo conto, la pubblicità, i modelli,


cantanti, influencer e altre figure popolari sui social ci
influenzano a livello psicologico. L’immagine, l’esteriorità di una
persona o di un oggetto influisce sul nostro pensiero
inconsciamente. Nel 1920, lo psicologo americano Edward
Thorndike condusse uno studio (il cosiddetto "Effetto Alone") sui
soldati dell’esercito americano, chiedendo agli ufficiali di
classificare i subordinati in base ai tratti caratteriali, pur non
conoscendoli. Dai risultati è stato riscontrato un’alta correlatività
tra l’opinione e gli aspetti fisici: gli ufficiali si aspettavano che i
subordinati più belli fisicamente fossero più intelligenti.
Automaticamente quindi, quando vediamo una persona bella, ci ispira fiducia e pensiamo positivamente di
quella persona, pur non conoscendola caratterialmente. Al contrario succede quando, ad esempio, una sera
al supermercato incontriamo una persona vestita con abiti
comodi e capelli arruffati e, automaticamente, il nostro cervello
pensa a una persona pigra, mal curata, svogliata, quando
invece è in queste condizioni perché è stata tutta la giornata a
lavorare e a darsi da fare. È bene infatti, non soffermarsi
sull’esteriorità, e non giudicare mai sulla base delle apparenze,
come ci hanno da sempre suggerito due proverbi: 'L’abito non
fa il monaco' e 'Mai giudicare un libro dalla copertina'.

Affrontando l’argomento, non posso non citare un autore che ha


accompagnato molti studenti durante il periodo scolastico:
Pirandello. Le sue famose maschere fanno riferimento al fatto
che l’uomo, per non sentirsi emarginato, ha bisogno di credere
e far parte di qualcosa, dunque indossa queste maschere in base al ruolo che sta interpretando. Questa
situazione portava l’individuo ad essere perennemente tra il limbo dell’essere e l’apparire. Anche lo psichiatra
Carl Gustav Jung afferma che ogni individuo indossa una maschera in determinate circostanze per rispondere
alle richieste del mondo esterno, ma il suo uso eccessivo può sfociare nella smarrimento e nella scomparsa
dell’identità. Quindi, infine, è meglio essere o apparire? La risposta a questa domanda risiede alla fine del
bivio, uno dei molteplici bivi della vita. Da una parte c’è l’essere, con un sentiero impervio, difficile e scomodo,
ma che porta alla felicità duratura; dall’altra c’è l’apparire, con un sentiero comodo, semplice, con brevi attimi
di felicità ma, una volta raggiunta la meta, i problemi sussistono. La scelta spetta solo a noi.

Considerazioni…Riprendendo il concetto della bassa autostima, è normale che un individuo abbia bisogno
di approvazione, ma questa deve prima partire da noi: dobbiamo essere per primi noi ad amarci, i primi a
spingerci a migliorare, ma esclusivamente per noi stessi. È sbagliato il concetto di “cambiare per piacere agli
altri”, perché così facendo annulliamo la nostra identità e la nostra personalità che ci contraddistingue dagli
altri. Prima di star bene con gli altri -che si parli di conoscenti, amici, partner-, bisogna stare bene con sé stessi.
Non dico che sia facile poiché è un percorso personale che richiede tanto impegno. Gli adolescenti rimangono
spesso bloccati sentendosi spaesati e pretendono di risolvere la situazione immediatamente, disperandosi e

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ricercando la futilità (come la popolarità e l’approvazione sui social) per colmare questo vuoto e incertezze che
hanno dentro. Ma tolti i social, tolti tutti questi filtri sociali, cosa resta? Resta una realtà in cui non sappiamo
più vivere, piena di insicurezze, dove il problema sussiste. Pertanto, è bene focalizzarsi sulla vita vera e non
sull’apparenza, perché la nostra felicità dipende solo e soltanto da noi e non da qualche like o commento
positivo. Arriva un momento in cui è necessario capire che questi tipi di percorsi personali richiedono tempo
nel quale si deve cercare di capire cosa vogliamo dalla vita e chi vogliamo essere, agendo di conseguenza.
Concludo con una citazione dello scrittore Mark Twain, che reputo veritiera e totalmente affine all’argomento:
“la peggiore solitudine è non sentirsi a proprio agio con sé stessi”.

7. L'influenza dei media sui canoni di bellezza: focus sul mondo dello sport
Nel 1924 Bela Balazs, teorico del cinema, scrisse “…e ci si è dati allo sport con sacro furore”. Questa
espressione ci è utile per comprendere il legame indissolubile tra il cinema e lo sport. Balazs era convinto che
il cinema fosse nato in un periodo in cui lo sport aveva iniziato a prendere già piede, iniziando quindi ad
annullare il disinteresse per il mondo fisico, in favore delle dimensioni astratte del sapere. Perché però questi
due mondi che sembrano così distanti, sono legati? Lo sport è
capace di rendere il corpo sano e bello, ma solo il cinema è in
grado di mostrare appieno tale bellezza. Per poter comprendere
però le conseguenze che lo sviluppo dei media ha avuto
nell’influenzare le menti dei ragazzi è necessario compiere prima
una piccola dissertazione sul rapporto stesso tra cinema e sport,
un’introduzione che attualmente non può essere ricostruita
attraverso l’esamina dei post trovati nel corso della ricerca ma
attraverso delle ricerche. I post ci permettono al contrario di
mostrare le conseguenze tangibili dell’influenza dei media.
Il cinema e lo sport nacquero in periodi molto vicini, parliamo
infatti della società industriale di fine Ottocento. L’avvento delle
macchine causa il lento declino del mondo contadino
provocando una modifica nel rapporto tra le masse ed il
cosiddetto ‘tempo libero’, che inizia a svilupparsi in questo
periodo. L’impiego del proprio tempo libero diviene quindi
qualcosa di fondamentale per gli individui che iniziano ad
interessarsi ad istituzioni come il fumetto, lo sport, il cinema e la
radio. Non è un caso se la massa inizia ad interessarsi allo sport,
seguendo in particolar modo le Olimpiadi del 1896, nel periodo
iniziale di diffusione del cinematografo. Già in questo primo
periodo possiamo quindi notare l’importanza del cinema nel dare
popolarità ai soggetti che vengono trattati e come esso riesce ad
elevare le varie discipline sportive.

Il primo vero e proprio incontro tra cinema e sport si ebbe sul


finire dell’Ottocento quando Latham, un ex combattente della guerra di Secessione americana, ebbe l’idea di
registrare il match fra due pugili dell’epoca, creando una vera e propria messinscena. A poco a poco inizia a
crearsi la figura dell’attore-atleta, iniziando a gettare le basi per la nascita dello sportivo-divo, - divenuto poi
divo-sportivo - giungendo poi al fenomeno del divismo. Il divismo è un fenomeno culturale che consiste nel
processo di “divinizzazione” di un individuo, la cui immagine diventa un’icona simbolica e onnipresente nella
vita della gente comune. Il grande merito dell’industria hollywoodiana è stato proprio quello di essere riuscita
a creare vere e proprie icone mondiali.

Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger sono due dei personaggi fondamentali nella creazione del climax
cinema-sport, che hanno posto in primo piano la loro fisicità, rispetto alle doti attoriali, pur sempre presenti.
L’ostentazione della prestanza fisica diviene uno degli attributi più importanti dell’immagine, la cui rinata
importanza suggella il successo di una produzione ancor prima che si inizi a girare, rafforzando il valore del
progetto e del divo, divenuto ormai un brand. Notiamo ad esempio l’intenzione di Hollywood di puntare
sull’aspetto esteriore, attraverso un cinema muscolare. Nel corso degli anni l’industria cinematografica ha
creato una serie di canoni estetici a cui anche gli attori hanno dovuto adeguarsi, coinvolgendo e influenzando
il pubblico. Gli attori sono divenuti piano piano dei sex symbol ma il livello di bellezza da essi raggiunto è
qualcosa di ormai slegato dalla bellezza “al naturale”, tale bellezza è ottenuta tramite sedute di allenamento
estenuanti, sedute di make-up, perciò non alla portata di tutti. Si tratta di un’idea di perfezione quasi
irraggiungibile, divenuta però inconscia a causa dei media, il nostro metro di giudizio. Ormai, anche a causa

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del web, non si fa altro che alimentare il culto dell’immagine e della perfezione, arrivando ad avvicinarsi a dei
pacchetti di bellezza omologata, da raggiungere non tanto per sé stessi quanto per gli altri: per sentirci membri
di un gruppo bisogna condividere e raggiungere questi standard.

Tornando ad un discorso più legato alla diffusione dello sport fra le masse possiamo notare come figure quali
Stallone o Schwarzenegger abbiano ampiamente aiutato la creazione di un desiderio di migliorare se stessi
grazie all’attività fisica. Body-building e palestre conobbero, grazie ai due, una grande esplosione consumistica
in tutti i paesi occidentali che raggiunse il picco nei primi anni Ottanta: molte persone avevano un modello
sociale ed estetico di riferimento da seguire, potevano impegnare il tempo libero in attività “utili”.

Le loro opere cinematografiche, in particolar modo in quelle di Stallone, raccontano la classica storia di riscatto
nelle quali il protagonista con la forza della propria volontà riesce a vincere sull'altro - inteso sia come
l’avversario sia come la parte più debole di sé stesso - e , allo stesso tempo, migliorando se stesso dal punto
di vista morale e fisico. Non è un caso che, grazie a tali figure, lo sport in generale e, nel loro caso, il culturismo
abbiano subito un processo di massificazione. Gli spettatori di tali opere rimangono infatti affascinati dalla loro
prestanza e, in una società in cui è il cinema a dettare i canoni di bellezza, essi vengono spinti a cercare di
emularli, perseguendo percorsi sportivi molto lunghi. Inoltre, l’individuo si identifica nello sconfitto e una volta
terminata la visione della pellicola si convince di poter seguire le orme del protagonista.

Una volta compiuto questo studio sul fenomeno del cinema possiamo comprendere alla luce dei post la
funzione che lo sport ha assunto per milioni di persone. Nel corso della ricerca uno degli hashtag presenti in
maggior quantità nella mia ricerca era quello legato al tema della “motivazione”, numerosi post legati a tale
termine sono caratterizzati dall’uso di frasi provenienti dal mondo del cinema. Tali frasi sono scelte ed utilizzate
appositamente dai “content creator” in base alla loro forza espressiva. Il fattore motivazionale non è scatenato
solo dall’uso di frasi celebri ma anche dall’uso di foto provenienti da tali film o serie di animazione caratterizzate
da personaggi dai fisici statuari, modelli a cui aspirare. Ciò che si è potuto notare nel corso della ricerca è il
fatto che la palestra e lo sport in generale rappresenta qualcosa di diverso per ciascuno. Il tema più ricorrente
è quello della palestra come modo per sopravvivere, per incanalare le proprie sconfitte verso un miglioramento
di sé. Lo sport assume allora le sembianze di una valvola di sfogo, un modo per superare rotture amorose o
ottenere il rispetto degli altri, numerosi sono infatti i post in cui gli autori dichiarano proprio di aver iniziato dei
percorsi sportivi a seguito di una rottura, in modo da non pensare più al dolore ma focalizzarsi su qualcosa,
su degli obiettivi. Particolarmente importante è a mio avviso il video del profilo “lorenzoliguori_sw”
(https://vm.tiktok.com/ZM8nsxEWr/), video nel quale ci viene mostrato come grazie allo sport e alla dedizione,
sia possibile superare ogni difficoltà ed anche la malattia, nel suo caso l’anoressia. Ponendosi degli obiettivi
l’uomo supera ogni avversità.

Nel corso degli anni si è creata quindi una vera e propria “community” intorno alle diverse pratiche sportive,
non è difficile infatti trovare pagine Instagram inerenti al calcio, alla boxe o alla palestra, ciò è dimostrato dai
migliaia di post che utilizzano hashtag legati allo sport o al mondo della palestra. Tali comunità, grazie alla
nascita dei social media, hanno raggiunto dimensioni mondiali, divenendo veri e propri fenomeni di massa.
Queste pagine sono moltissime e si sviluppano in diversi ambiti: dalla motivazione fino alla più banale
ostentazione di sé. Legati a Instagram e TikTok Italia, sono degli esempi perfetti i canali “darius.fit” e
“oliver.montana”, profili nei quali vengono presentati consigli, inerenti al modo ideale in cui eseguire determinati
esercizi, e appunto video motivazionali. I membri di questa comunità sono fortemente orgogliosi di farne parte
e, a poco a poco, si sviluppa tra essi anche un certo rifiuto nei confronti di coloro che non ne fanno parte o di
derisione nei loro confronti, tramite la creazione di post che presentano delle battute sugli individui che non
sono esperti di attività o pratiche sportive. Possiamo dire come in un certo senso anche tali comunità vadano
ad escludere il “diverso”, ed è questo però forse il lato più negativo dell’intero movimento. Per quanto riguarda
invece questi profili legati principalmente alla creazione di “meme” possiamo citare il profilo
“lightweight_baby_”. Esistono inoltre altri tipi di post legati in questo caso alla corretta dieta da seguire, si tratta
di post in cui vengono elencate le differenze in termini di valori nutrizionali tra diversi tipi di cibo.

Considerazioni…A mio avviso il cinema possiede una duplice natura nei confronti della creazione di questi
canoni di bellezza: una sicuramente positiva ed una negativa. Da un lato il cinema ha aiutato lo sviluppo di
determinati sport, esortando le persone a prendere in mano la propria vita e aiutandole a creare una versione
migliore di sé stessi qualora essi non si sentissero a proprio agio con il loro corpo. Allo stesso tempo però la
creazione di questi canoni di bellezza ha influito negativamente sulle persone, le quali ormai sono convinte
che gli unici standard di bellezza accettabili sono quelli creati dal mondo cinematografico stesso. Ciò ha
condotto le persone a sentimenti ambivalenti poiché hanno iniziato a considerarsi non più alla stregua degli
altri, cercando di perseguire quella bellezza perfetta che viene fatta passare come qualcosa di facilmente
raggiungibile. L’importanza che ha dato allo sport non va però dimenticata, è grazie a questi media che migliaia

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di persone ogni giorno iniziano o continuano percorsi che li porteranno ad essere più sicuri di sé, cambiando
loro stessi sia dal punto di vista esteriore che interiore.

8. Il calcio: concetto di apparire e di imitazione in riferimento agli idoli

“Non ho idoli. Sono io il mio giocatore preferito”

Questa è una frase di Cristiano Ronaldo, calciatore portoghese del Manchester United, che risulta la persona
più seguita sui social media, solo su Instagram ha raggiunto i 370 milioni di followers e per questo rappresenta
un modello di riferimento a livello sportivo ma non solo.

Ronaldo, ancora oggi a 36 anni, è considerato uno dei migliori calciatori del mondo ed è il più pagato, ma non
appare come un predestinato: non è nato ricco e privilegiato e i genitori non erano famosi. Il suo successo è
frutto di un’abnegazione totale grazie al lavoro individuale e quotidiano, un’alimentazione ferrea e regolare, la
voglia di non arrendersi mai e diventare il migliore di sempre che lo ha dall’inizio caratterizzato e distinto dagli
altri calciatori ‘normali’. Ronaldo rappresenta quindi ogni giorno, attraverso le sue attività social o professionali,
un esempio per tutti soprattutto per i suoi fan. Quando il successo è frutto di volontà e sacrificio ci risulta più
facile identificarci perché siamo portati a pensare che tutto dipende da noi e non da un destino più o meno
benevolo.

“Gli idoli sono come la stella polare: è irraggiungibile ma indica la retta via”.

Ma perché sentiamo il bisogno di avere degli idoli?


Perché ci capita di sentirci insoddisfatti di noi, di quello
che facciamo, dei risultati che otteniamo. Abbiamo
l'impressione di non essere all'altezza delle
aspettative che gli altri, ma anche noi stessi, nutrono
di noi. Ci sentiamo inadeguati alle richieste che ci
arrivano dal mondo che ci circonda. È la società,
infatti, a dettare i requisiti e i modelli di comportamento
che vengono considerati "vincenti" e che vengono
ricompensati con l'approvazione sociale. Possedere
questi requisiti ci fa sentire migliori e suscita, in chi non
li possiede, ammirazione mista ad invidia.
Come vengono scelti gli idoli? Ognuno crea il suo
modello sulla base di quelle che sono le sue necessità e gli obiettivi che si è posto. Esistono delle condizioni
nella relazione che costruiamo con il nostro idolo, che deve basarsi sul rapporto di vicinanza e lontananza.

La vicinanza serve a farci sentire che abbiamo una base comune, i nostri valori, idee e aspettative devono
essere in linea con quelle che percepiamo essere le sue. Solo in questo caso ci possiamo sentire autorizzati
a credere che un giorno si possa arrivare ad essere come lui. Per contro, la lontananza serve a motivare
l'impegno che ci viene richiesto nel tentativo di diventare come lui. Pensare "posso riuscirci" ci dà la spinta
emotiva necessaria a metterci in gioco, ma la considerazione che "non ci sono ancora riuscito" ci spinge a
moltiplicare gli sforzi per raggiungere l'obiettivo che ci
siamo imposti.

Non dobbiamo pensare che un idolo ci attiri solo per valori


più o meno effimeri come fama, successo o soldi. Molto
spesso in lui vediamo il paladino di ideali ben più nobili
che sentiamo di condividere: amicizia, uguaglianza,
impegno sociale. Magari semplicemente perché l’abbiamo
visto ospite a qualche evento benefico, per le frasi di
qualche sua canzone, o per una scritta su una maglietta
che ha indossato.

Riprendendo l’esempio di Ronaldo, Cristiano è un


campione anche fuori dal campo: sono molti i casi che lo
hanno visto protagonista per il suo impegno ad aiutare chi ne aveva bisogno. Il numero 7 del Manchester

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United è ambasciatore di tre importanti associazioni di beneficenza: Save the Children, Unicef e World Vision
e, inoltre, è privo di tatuaggi perché dona regolarmente il sangue. Nell’ultimo periodo di emergenze, la cantante
e attrice statunitense Pink ha chiesto aiuto a Ronaldo per fare un regalo a due bambini malati che per Natale
desideravano due magliette autografate dal loro idolo, il quale si è subito mosso per fare avverare i loro desideri
ed esclamando di essere "felice di poter essere d'aiuto". Oltre a regalare le due magliette ai bambini in
difficoltà, ha messo anche in vendita all’asta le magliette da lui indossate per poi devolvere il ricavato in
beneficenza ai veterani di guerra. Un altro gesto molto significativo risale al 2020 quando, nel pieno della
pandemia, ha aiutato il suo paese d’origine, Lisbona, realizzando nuovi posti di terapia intensiva.

Considerazioni…Nei giorni nostri tendiamo ad attribuire alla figura dell’idolo una valenza sempre positiva
poiché la sua presenza è in grado di stimolare e incoraggiare la nostra voglia di migliorarci e credere in noi
stessi. Però è bene riconoscere l’esistenza di due diversi tipi: idoli buoni, che sono di sostegno alla nostra
crescita personale, e idoli cattivi che, al contrario, ci alienano dalla realtà. Se con i primi stabiliamo una forma
di imitazione positiva, il discorso cambia con i secondi quando si mette in atto una forma di identificazione che
rischia di diventare pericolosa.

Si parla di imitazione quando il modello viene scelto consapevolmente e, in generale, presenta caratteristiche
apprezzate dalla società. È una scelta che presuppone consapevolezza di quello che vogliamo ottenere e
disponibilità ad impegnarci per raggiungere quel risultato. C’è una certa autonomia e fiducia in sé stessi. Al
contrario, nell’identificazione si affrontano i conflitti emozionali attribuendo ad altri i propri pensieri, sentimenti
o impulsi che spesso ci risultano inaccettabili. L’identificazione porta a fare dell’idolo il nostro unico interesse
e la nostra unica fonte di gioia, trascurando tutto il resto e immedesimandoci a tal punto da inorgoglirci per i
suoi successi e soffrire per i suoi insuccessi come se fossero i nostri. È un rapporto sbagliato, vissuto come
una forma di disimpegno che indica insicurezza e sfiducia in sé da parte di chi lo manifesta.

Qualunque sia il rapporto che abbiamo costruito con il nostro idolo, questo è nato per rispondere ad una nostra
esigenza. Con il passare del tempo le esigenze cambiano, cambiano i nostri interessi e i nostri obiettivi, così
anche il nostro idolo ad un certo punto risulterà inevitabilmente superato. La sua funzione si esaurirà e il suo
ruolo verrà meno. Tutti gli idoli sono destinati a morire, prima o poi, e quando cadono riusciamo generalmente
a vederli per quello che realmente sono.

9. Sponsorizzazioni delle influencer


La sponsorizzazione all'interno dei social networks, soprattutto nell'ultimo periodo, è la forma di pubblicità più
usata. Uno sponsor, patrocinante o patrocinatore è un ente o una persona che promuove un'attività, un evento
o un'organizzazione attraverso un sostegno finanziario oppure con la fornitura di prodotti o servizi.

La sponsorizzazione, o patrocinio, può pertanto consistere in un accordo che preveda pubblicità in cambio
dell'impegno a finanziare un evento di massa, o un'organizzazione. Per esempio, un'azienda può fornire divise
e accessori ad un atleta o ad una squadra sportiva in cambio dell'esposizione del proprio marchio sugli abiti.
In tal modo lo sponsor ne guadagna in popolarità e la squadra risparmia sull'acquisto delle divise. Questo tipo
di sponsorizzazione è comune nei settori dello sport, dell'arte, dei mezzi di comunicazione e delle attività di
beneficenza. Spesso una manifestazione si appoggia su più sponsor, di cui il principale è detto in lingua inglese
main sponsor. Esistono diversi tipi di sponsorizzazione: dalla finanziaria con donazioni, sovvenzioni o di
erogazioni in denaro, quella tecnologica, dove lo sponsor mette a disposizione la sua competenza tecnologica,
fino a quelle in natura, ossia lo sponsor mette a disposizione dei beni o dei servizi, dei mezzi materiali, umani
o tecnici - in questo caso lo sponsor prende il nome di “sponsor tecnico”.

Il mondo del web ormai è pieno zeppo di sponsorizzazioni: tutti pubblicizzano tutto pur di avere visibilità e
guadagnare. Sono davvero poche le persone che, invece, selezionano ed offrono prodotti di qualità. Scorrendo
Instagram ad esempio si vedono sempre più spesso moltissimi individui, con un certo seguito, che
sponsorizzano bevande dimagranti senza informare i loro followers di tutte le proprietà che hanno queste
bevande, ma invitano all’acquisto esclamando: "Puoi mangiare tutto quello che vuoi, perchè questo tea fa
dimagrire”. Un’informazione più errata di questa non ci potrebbe essere.

Così come coloro che si auto-nominano nutrizioniste e forniscono, senza conoscere chi c’è dall’altra parte,
una dieta combinata (da loro) con i famosi 'pasti sostitutivi': la logica consiste nel bere una bustina e
magicamente dimagrisci.

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Il fatto è che quest’ultime vengono seguite da una fascia di persone con età inferiori ai 17 anni e, a questa età,
è molto facile essere manipolati da pubblicità ingannevoli soprattutto se a consigliartelo è una persona che
ammiri e rispetti.

Un’altra truffa che in questi giorni è venuta fuori è che molti youtuber/influencer più o meno noti abbiano
sponsorizzato un sito che vendeva degli EarPods falsi per 29,99€ con un codice sconto annesso di addirittura
l’80%. Dov’è il problema? Il problema non risiede nelle cuffie non originali, perchè Internet ne è già pieno, ma
è nel sito che le vendeva. Dopo 24 ore dalla
sponsorizzazione fornita da tutti gli influencer,
dove i followers hanno speso i propri soldi per
comprare delle cuffie ad un prezzo imbattibile, il
sito è sparito e nessuno rispondeva più alle
e-mail. Di conseguenza le cuffie non sono mai
state spedite.

Come esistono tanti tipi di truffe tramite le varie


piattaforme social, come la sponsorizzazione di
prodotti contraffatti spacciandoli invece per
originali o persone che promuovono prodotti
prima ancora di testarli su loro stessi- mentendo
perciò sulla loro efficacia o qualità -, allo stesso
però ci sono anche influencer che truffano i
brand che li contattano. Questo fatto è più
comune per i brand piccoli che cercano
visibilità, i quali contattano alcuni influencer per
inviare loro dei prodotti e avere una recensione
nei loro profili. È proprio questo il brutto: invece
di aiutare e dare il loro appoggio ad un brand
che ha scelto una determinata persona per
essere rappresentato, alcuni influencer non
sono onesti ma si fanno inviare i prodotti senza
poi fornire una recensione, non rispondendo più ai messaggi del brand o addirittura negando il fatto che gli
siano arrivati i prodotti.

Considerazioni… Secondo la mia opinione è normale che le persone pur di vendere un prodotto usino tutti i
mezzi che hanno a disposizione e sospendo che siamo fortunati perché, in un momento come questo, è facile
condividere contenuti che poi giungono a moltissime persone, anche se non si è molto conosciuti.

Fino qui non c'è alcun problema: esso sussiste nel momento in cui le persone vengono ingannate non solo
perché spendono soldi per un prodotto che non funziona o non è autentico ma si può arrivare a parlare anche
di prodotti che vanno a nuocere la salute dell'individuo. Tutto ciò avviene soprattutto quando le persone
iniziano ad arrivare ad avere un elevato numero di follower e di visibilità, diventano così un punto di riferimento
per molti. In questo momento la maggior parte degli influencer è di giovane età, perciò chi li segue tende a
rispecchiarsi di più in loro.

Essendo così giovani, questi influencer si fanno ingannare dal mondo delle sponsorizzazioni e ne traggono un
discreto o, in certi casi, elevato guadagno siccome il lavoro di influencer è retribuito. Più crescono di numero
e più la retribuzione sarà alta: ciò li spinge a dedicare la maggior parte del loro tempo sui social al fine di
cercare e creare nuovi contenuti da condividere.

La cosa che personalmente mi dispiace è che, per avere più tempo da dedicare ai social, abbandonano la
scuola senza pensare al loro futuro e che il mondo dei social è in continua evoluzione. Per loro la cosa che
conta di più è il guadagno e ottenere prodotti gratis. Alla nostra età invece si dovrebbero gettare le fondamenta
del nostro futuro che ci permettano di vivere la vita nel migliore dei modi possibili e avere un'istruzione è uno
dei tasselli più importanti… anzi il più importante.

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10. Risultati ottenuti da Excel e WordArt
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Bibliografia e sitografia

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corporeo-omari-eccleston-brown
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