Sei sulla pagina 1di 65

Capitolo 5

Segui il coniglio bianco.


Strategie identitarie e costruzione della soggettività nelle interazioni mediate

Carlo Galimberti •

“Follow the white rabbit”

Matrix

“Molte persone cominciano recitando un ruolo


totalmente differente dal Sé reale, ma è inevitabile che
ognuno finisca per portare qualche aspetto della
propria personalità nel suo personaggio”

Testimonianza di un attore della piéce


online Vampire: The Masquerade,
riportata da Patricia Wallace

“E’ da un po’ che sto cercando di sviluppare uno stile


di vita che non richieda la mia presenza”

Pierre Elliott Trudeau, ex primo ministro


canadese

5.1. Sé, identità e soggetti nelle interazioni mediate: problemi aperti e questioni
emergenti

«Ormai circondati da Information technologies (Rapaport, 1991)1, collaudiamo sempre nuovi


“artefatti tecnologici” (Mantovani, 1995), oggetti computazionali della Terza Ondata (Toffler,
+1984), interfacce dove incontriamo tutto ciò che fluisce fino a noi partendo da un terminale
remoto (Card, Moran, Newell, 1983). Ci trasformiamo, più o meno consapevolmente, in
elementi di una più vasta intelligenza “collettiva” (Lévy, 1994), in netizen, cittadini di un
mondo “connettivo” (De Kerckhove, 1997), mentre il nostro computer, potente e
maneggevole estensione di ogni tipo di memorie, magico portale attraversato da ondate di bit,


Carlo Galimberti insegna Psicologia sociale e Psicologia sociale della comunicazione presso l’Università
Cattolica di Milano, ove dirige il Centro Studi e Ricerche di Psicologia della Comunicazione.
1
I testi che compaiono all’interno delle citazioni riportate in questo lavoro non sono stati inseriti in bibliografia,
tranne ovviamente quelli che ricorrono anche in altri passaggi. Per i riferimenti completi si rimanda ai lavori da
cui sono tratte le citazioni.
entra in rete con milioni di altre unità. Il metafisico diaframma del suo schermo separa (e al
contempo fa incontrare) due strati del reale, l’ambiente offline, il nostro intorno ecologico
(J.J.Gibson, 1986) e il ciberspazio, lo spazio dentro, lo spazio oltre, “un’allucinazione vissuta
consensualmente da miliardi di operatori […] linee di luce allineate nel non-spazio della
mente, ammassi e costellazioni di dati” (W.Gibson, 1984)».
Questa citazione da un lavoro di Maurizio Cardaci (2001, p.9) dà conto con precisione di
quale possa essere lo sguardo della psicologia sul cyberspazio. Pur concedendo qualcosa a
una sorta di documentata e lucida visionarietà, le parole di Cardaci mettono a fuoco le
maggiori linee di interesse che gli psicologi coltivano rispetto allo studio dell’esperienza di
vita nel cyberspazio. Una lettura attenta del brano citato permette infatti di individuare tre aree
importanti attorno a cui tali linee di interesse si coagulano:

- i comportamenti dei netizen, ‘cittadini di un mondo connettivo’, parte


di una ‘più vasta intellligenza connettiva’;

- le modalità di strutturazione delle interfacce che caratterizzano gli


artefatti tecnologici, i quali si stanno caratterizzando sempre più come
‘oggetti computazionali della Terza Ondata’;

- l’incontro tra i diversi ‘strati del reale’, tra ‘il nostro intorno ecologico,
l’ambiente offline’ e il cyberspazio, ovvero lo ‘spazio dentro, lo spazio
oltre’.

Per usare il linguaggio che ho avuto modo di introdurre altrove (Riva, Galimberti, 1997;
Galimberti, Riva, 2001), si tratta di aree al cui interno possiamo riconoscere con facilità la
presenza rispettivamente dei soggetti che abitano il cyberspazio, degli oggetti che permettono
loro di muoversi al suo interno e dei processi attraverso cui hanno luogo le interazioni tra di
essi. Si tratta degli elementi costitutivi del contesto minimale di ogni discorso che intenda
considerare in prospettiva psicosociale l’esperienza d’uso delle nuove tecnologie, quindi
anche – come nel caso di questo lavoro – dei processi di costruzione della soggettività nel
cyberspazio.
In questo lavoro vorrei occuparmi di un aspetto particolare di questi processi, puntando a
chiarire come le caratteristiche degli artefatti attraverso cui avvengono le interazioni mediate
– ossia le specificità dei mezzi grazie ai quali noi interagiamo e comunichiamo nel
cyberspazio – condizionino la formazione, la rappresentazione e la negoziazione delle identità
dei soggetti nel corso di tali interazioni. A chiarimento della terminologia adottata, aggiungo

2
che ho deciso di limitare l’utilizzo dell’espressione ‘interazione online’ preferendole
‘interazione mediata’, termine che ritengo più ampio e comprensivo, oltre che più adeguato a
descrivere ciò che accade in rete in rapporto ai processi di costruzione della soggettività.
Aderendo all’uso corrente ho invece conservato l’uso di altre espressioni quali ‘identità
online’, ‘Sé online’ e ‘soggettività online’.
Come è ormai noto al lettore di questo volume, i contributi che lo costituiscono trattano il
proprio tema specifico cercando di gettare luce su di esso in riferimento agli intrecci esistenti
tra identità adulta e relazione con l’altro, colti in riferimento a tre coordinate specifiche:
- modalità di cura praticate nella relazione
- generatività
- responsabilità

La fenomenologia di tale intreccio è indubbiamente fondamentale anche rispetto al tema


discusso in questo capitolo. In particolare, analizzando i processi di costruzione della
soggettività nelle interazioni mediate, si porrà attenzione a questioni che hanno a che fare con
la responsabilità, tralasciando le altre due coordinate sopra indicate.
Per capire quali siano le matrici storico-teoriche del dibattito attuale in rapporto al quale verrà
messo in atto questo programma di lavoro, procederò innanzitutto a passare in rassegna le
principali teorie sulla comunicazione mediata dal computer (CMC) succedutesi a partire dagli
anni ’70. L’excursus sarà necessariamente sintetico e limitato alla presentazione degli
elementi di ogni teoria che hanno a che fare con il tema centrale di questo lavoro. Per una
ricostruzione più dettagliata di tali teorie rimando a un lavoro di Tosoni (2004) che, pur
privilegiando un punto di vista sociologico, costituisce una lettura stimolante anche per chi si
pone di fronte al problema in una prospettiva psicosociale.
Si darà poi spazio alla presentazione di una teoria dell’interazione mediata che permetta di
chiarire i processi di negoziazione delle identità tra i soggetti che frequentano il cyberspazio.
A tale scopo prenderò come punto di partenza la prospettiva che in altre occasioni ho definito
come psicosociologia del cyberspazio (Galimberti, Riva, 2001; Galimberti, 2002), prospettiva
che nel tempo è andata assumendo le forme di una vera e propria teoria dell’interazione
situata (Riva, 2008) e che oggi preferiamo chiamare, per i motivi che illustreremo tra breve,
psicologia sociale dei cyberplaces (Brivio, Cilento Ibarra, Galimberti, 2010). Infine, mi

3
occuperò di cinque concetti – Sé2, identità, soggetto, soggettività e intersoggettività –
considerandoli elementi utili a rispondere alla domanda da cui questo lavoro prende le mosse,
ossia la comprensione dei processi di costruzione della soggettività nelle interazioni mediate.
I riferimenti più o meno diretti a questi cespiti teorici ci serviranno per proporre una risposta a
tre interrogativi in cui ho voluto articolare tale domanda iniziale.

Il primo interrogativo esprime il problema ricorrendo a un linguaggio consueto per la


psicologia sociale:

- come si definiscono i rapporti tra Sé e identità personale nelle


interazioni mediate?

Il secondo – di fatto una ‘famiglia’ di interrogativi – pone invece la questione entrando nei
dettagli in riferimento alle caratteristiche specifiche dell’interazione mediata:

- quali sono le modalità attraverso le quali si costruisce la soggettività


in rete? Con questa espressione intendo riferirmi sia a quanto il
soggetto trae dalla modulazione di elementi riferibili ai propri Sé e
identità, sia a tutto ciò che egli ‘immette nella rete’ nel corso
dell’interazione con gli altri attori sociali (interventi verbali più o
meno organizzati in conversazioni, discorsi in genere, testi) e con gli
artefatti che incontra (percorsi di navigazione, preferenze per
determinati apparati di cui sono dotati gli artefatti, ecc.) materiale che
inevitabilmente documenta aspetti fondamentali della sua identità
personale (sui piani cognitivo, emotivo, di comunicazione).
Detto in altri termini: come gli attori sociali definiscono attraverso le
modalità enunciative, in concorso con i loro Sé e identità, le
soggettività proprie e altrui nel corso delle interazioni mediate?

Il terzo ci riporta alla prospettiva generale dell’intero volume:

- le risposte ai due quesiti precedenti permetteranno di impostare anche


a proposito delle interazioni mediate un’analisi adeguata degli intrecci
esistenti tra identità adulta e relazione con l’altro? Se sì, quali
potranno essere le conseguenze di ciò sulla questione della
responsabilità nella gestione della propria soggettività nelle relazioni
mediate?

2
L’iniziale maiuscola è stata riservata al solo termine ‘Sé’ in tutte le sue occorrenze; per gli altri – cyberspace,
cyberplace, identità, soggetto, soggettività enunciativa – si è optato sempre per l’iniziale minuscola, tranne i casi
previsti dalle regole della lingua Italiana o, se compaiono in citazioni, per rispettare le scelte degli autori citati.

4
Per rispondere ai tre quesiti ritengo importante definire innanzitutto il campo concettuale in
cui un’indagine sulle dinamiche dell’interazione mediata necessariamente viene ad essere
collocata. Due i passaggi utili a soddisfare questo obiettivo:
a) descrivere le caratteristiche dell’esperienza d’uso che i soggetti fanno degli
artefatti digitali, tenendo conto che tale esperienza ha luogo in un contesto
particolare articolato nelle due dimensioni denominabili come cyberspace e
cyberplace (par. 5.2).
b) Passare in rassegna le descrizioni delle dinamiche dell’identità online fornite in
modo espicito o implicito dalle principali teorie sulla CMC elaborate a partire
dagli anni Settanta (par. 5.3.1-5.3.2)
In seconda battuta, attraverso l’analisi dei lavori di Hermans e Ligorio (par. 5.3.3) e Talamo e
Roma (par. 5.3.4), verranno messi in evidenza i contributi che, rispettivamente attraverso i
concetti di ‘Sé dialogico’ e di ‘identità plurali e fluide’, essi possono fornire a un’indagine sul
processo di costruzione della soggettività nelle interazioni mediate (par. 5.3.5).
Nei paragrafi successivi verrà affrontata la questione centrale di questo lavoro ponendo in
discussione la possibilità di elaborare un approccio organico allo studio delle interazioni
mediate in prospettiva psicosociale costruito attorno ai concetti di Sé e identità (par. 5.4.1),
soggetto e soggettività (par. 5.4.2), intersoggettività enunciativa (par. 5.5). Obiettivo generale
di questa parte sarà la formulazione di una proposta di lettura degli intrecci tra dinamiche
identitarie e processi di costruzione della soggettività nelle interazioni mediate. Preferisco per
ora parlare di ‘proposta di lettura’ ritenendo prematuro utilizzare il termine ‘modello’. In
attesa di ulteriori verifiche sul piano empirico e di un più articolato confronto con i modelli
correnti, mi sembra comunque non azzardato considerare l’ipotesi di lettura del processo di
costruzione dell’intersoggettività enunciativa oggetto di questo lavoro come una sorta di
‘topica provvisoria’.
A conclusione dell’intero percorso tornerò sulle tre domande iniziali, ipotizzando per esse una
risposta unica, elaborata nella consapevolezza che anche nel cyberspazio per il soggetto è
impossibile sottrarsi al confronto con i propri interlocutori.

5
5.2. Cyberspace e cyberplace: soggetti e artefatti digitali tra esperienza d’uso e contesti
di interazione
Definire cosa sia un oggetto presente nel cyberspazio secondo una prospettiva psicologica non
è compito facile. La molteplicità degli artefatti e delle forme che assume il loro uso
rappresentano i motivi principali di tale difficoltà. Possiamo infatti considerare il cyberspazio,
un universo costituito da oggetti che possono essere ‘visti’ e ‘sentiti’, ma che di fatto non
sono né oggetti fisici, né necessariamente loro rappresentazioni. Si tratta di realtà solo
parzialmente costituite da informazione proveniente da operazioni condotte su oggetti di
natura fisica, realtà che derivano in gran parte dall’accumulo e dallo scambio di conoscenze
maturate in seguito ad attività condotte nei campi della cultura, della tecnica, del commercio,
della scienza, dell’arte, oppure generate interattivamente nelle pratiche quotidiane
(Tagliagambe, 1997, 2008). In questo senso, nello scenario che vede la psicologia tesa a
sviluppare conoscenze circa le modalità attraverso le quali le persone cercano di migliorare i
rapporti tra il cyberspazio e il resto della loro vita (Turkle, 1997), ci si trova a riflettere e
teorizzare su come i soggetti vivono e si muovono all’interno del cyberspazio e sulla modalità
attraverso le quali essi riescono a padroneggiare questo tipo di realtà di così difficile
definizione sotto le cui forme si manifestano contenuti e servizi presenti in rete.
Per questi motivi è importante provare a capire in che senso il cyberspazio sia diventato a tutti
gli effetti non solo un oggetto di studio della psicologia, ma addirittura un ambito specifico di
ricerca con una propria autonomia. Come è noto, uno dei segnali della maturazione di un
ambito disciplinare è dato dalla comparsa di manuali che ne certificano la raggiunta
autonomia dal punto di vista epistemologico oltre che teorico, sul piano dei metodi e su quello
della ricerca empirica. Il 2008 ha registrato appunto la pubblicazione a cura di Azy Barak, di
quello che può essere considerato il primo vero e proprio manuale di Psicologia del
cyberspazio. Questo lavoro presenta molti caratteri propri della manualistica scientifica: in
particolare il capitolo di apertura firmato dallo stesso Barak con Suler – senza dubbio due tra i
ricercatori più autorevoli in questo ambito – evidenzia l’incontestabilità dell’esistenza di un
settore autonomo della ricerca in campo psicologico, un settore ormai maturo e definibile
appunto come Psychology of Cyberspace o Cyberpsychology. Si tratta, come chiariscono i
due autori, di una psicologia applicata al campo delle nuove tecnologie (Barak, Suler, 2008,
p.2), i cui obiettivi sono essenzialmente spiegazione e comprensione delle azioni umane nel
cyberspazio e messa a punto di versioni ‘avanzate’ (enhanced) delle applicazioni psicologiche

6
in questo nuovo ambiente. Per Barak e Suler il cyberspazio è a tutti gli effetti uno spazio
psicologico essendo una sorta di ‘spazio transizionale’, un’estensione del mondo intrapsichico
individuale, una sorta di zona intermedia tra il Sé e ciò che è in parte Sé e in parte altro dal Sé
(“A «transitional space» – Suler, 1999; Turkle, 1995 –, that is, an extension of the
individual’s intrapsychic world. It may be experienced as an intermediate zone between self
and other that is part self and part other” (Barak, Suler, 2008, p.3). Sulla base di questa
opzione, Barak e Suler definiscono il cyberspazio come

“a psychological realm, … quite different from face-to-face environments.


Geographical boundaries are transcended. Almost everything is
recordable. (In it) The boundaries of ‘privacy’ are more complex. Social
interactions can be synchronous, asynchronous, or something in between.
Under partial or near complete anonymity, people might become more
disinhibited than usual, or they might experiment with different identities.
Sensory experience might be reduced to text-only communication or
expanded to multimedia experiences, with the sights and sounds of highly
creative fantasy.” (ivi, p.4)

Si tratta di una definizione assai articolata, centrata sul rapporto tra soggetto e oggetto, tesa a
mettere in evidenza come il soggetto risulti ‘potenziato’ dalla sua presenza nel cyberspazio
attraverso la mediazione degli artefatti che incontra in esso e che può utilizzare. La
prospettiva da cui si considera tutto ciò, in linea con gli interessi manifestati da Barak e Suler
e coerentemente al punto di vista da essi adottato, è quella di una ‘psicologia generale’ tesa a
scoprire cosa accade al soggetto quando utilizza artefatti digitali in uno spazio ‘altro’ da
quello normalmente esperito: una Psychology of Cyberspace, appunto o, meglio ancora , una
Cyberpsychology.
Per dare concretezza a questo discorso, bisogna avere presenti le caratteristiche del
cyberspazio inteso come ambito dell’esperienza d’uso degli artefatti presenti in rete da parte
dei soggetti. Il primo aspetto da chiarire al proposito è quali siano le modalità secondo le quali
tali artefatti vengono effettivamente usati. Sulla base di questo criterio – la modalità d’uso –
Wallace (1999) ha identificato sei differenti tipologie di ambienti Internet generati dalle
modalità di fruizione degli artefatti presenti in rete:

• World Wide Web (pagine web; siti web; portali generalisti; ‘vortali’ o
portali verticali; hubs)
• posta elettronica (e-mail)

7
• forum di discussione asincroni (news-groups)
• chat sincrone (IRC, ossia Internet Relay Chat)
• ambienti virtuali a base testuale: multi-user dungeons (MUD),
metamondi (3D MUDs); ambienti virtuali in 3D
• video e voce interattivi (Web cam, videoconferenze)

A distanza di dieci anni questo elenco risulta incompleto. Ad esso vanno aggiunti infatti
almeno due nuove tipologie di ‘ambienti’, i blog ed i social network services. Di per sé i blog
non meriterebbero una menzione a parte, essendo fondamentalmente delle ‘hyper-pagine web
multimediali’. Ciò che ci spinge a includerli in una categoria a parte è però l’uso che di essi
viene fatto, uso che esalta in massimo grado le potenzialità di costruzione del soggetto
attraverso modalità di presentazione di sé assai flessibili dal punto di vista enunciativo. I
social network service (si pensi ad esempio a My Space, Facebook e Bebo) sono invece veri e
propri ambienti di incontro per persone che condividono interessi e attività e che attraverso di
essi puntano a creare o alimentare legami sociali in prima battuta orientati a sostenere ciò che
li accomuna senza tuttavia escludere la possibilità di incontri offline. Essi infatti forniscono a
chi li frequenta una serie di servizi web-based che, essendo finalizzati allo scambio di
informazioni e alla comunicazione, utilizzano chat tradizionali e video-chat, sistemi di
messaging, email, file sharing ecc., di modo che risultano ‘intrecciati’ con gli ambienti
elencati dalla Wallace, ‘cucinandoli’, per così dire, secondo una nuova ricetta, proprio come
avviene per i blog.
Ciò che rende questi otto ‘ambienti’ interessanti per i ricercatori psicosociali è il fatto di
essere contesti di interazione…

• …generati da artefatti che vanno considerati oggetti culturali


complessi (Norman, 1992),

• …utilizzati da attori consapevoli per i loro scopi (Mantovani, 1995,


1996a, 1996b)

• …che si collocano all’interno di contesti in parte pre-costituiti, in parte


risultato dell’interazione locale che si realizza al momento del loro uso
(Riva, 2008)

• … che, in termini comunicativi, possiedono una propria identità


specifica (Riva, Galimberti, 1997, 2001) e appaiono caratterizzati da
meccanismi enunciativi modellati attivamente dai loro utenti
(Galimberti, 1992; Ghiglione, Trognon, 1993; Trognon, 1992).

8
Sempre più spesso tali contesti di interazione assumono le sembianze di veri e propri ambienti
virtuali collaborativi (Collaborative Virtual Environments – CVES; si veda Talamo,
Zucchermaglio, Ligorio, 2001), orientati a sostenere la comunicazione e l’interazione tra gli
attori sociali che li utilizzano, consentendo loro di “costruire le loro identità in vari modi: a)
scegliendo nickname che possono essere anche molto diversi dai nomi reali; b) incarnando le
identità, per esempio, in oggetti o figure bi o tridimensionali; c) discutendo e negoziando le
varie identità” (Hermans, Ligorio, 2005, p.30).
Rimandando per ora la semantizzazione del concetto di identità, ci sembra opportuno
sottolineare come essa indichi con chiarezza che l’interesse dei ricercatori per questi processi
si stia sviluppando essenzialmente lungo tre direttrici:

• studio delle modalità di influsso dell’uso della rete sulla strutturazione


della personalità in termini sia diacronici (ed è questo lo spazio della
psicologia dello sviluppo), sia sincronici ponendo attenzione, ad
esempio, alle conseguenze sulla formazione dell’identità professionale,
materia questa per chi si occupa degli effetti su soggetti adulti
dell’adozione delle nuove tecnologie di comunicazione negli ambienti
di lavoro a livello individuale e di gruppo (Zucchermaglio, Alby,
2005);

• inventario e catalogazione delle patologie connesse all’uso degli


artefatti presenti in rete, con particolare attenzione ai fenomeni di
dipendenza, quali Internet-addiction o Pathological Internet Use
(Young, 1994, 1996; Cantelmi, D’Andrea, Del Miglio, Talli, 2000)

• messa a fuoco delle modalità attraverso le quali si stabilisce circolarità


tra la tecnologia e la componente umana del sistema complessivo nel
quadro del passaggio dall’idea di un utente passivo della tecnologia a
quella di un attore parte di un sistema che influenza la definizione che
egli dà di se stesso (Nardi, 1996; Raskin, 2003; Fogg, 2005).

Si tratta, come è facile capire, di tre linee di ricerca che eccedono il concetto di cyberspazio e
di Psychology of cyberspace nell’accezione di Barak e Suler. La definizione di programmi
aderenti a tali linee di ricerca richiederebbe infatti la messa a fuoco accanto all’universo degli
oggetti virtuali, all’interazione che con essi ha il soggetto e ai significati connessi
all’esperienza d’uso che egli ne fa – le tre grandi aree tematiche di cui si nutre appunto

9
l’interesse per il cyberspazio – anche la presa in considerazione delle interazioni che
attraverso di essi egli intrattiene con gli altri soggetti e con i contesti in cui tali interazioni
avvengono. Ma ciò può avvenire solo a patto di assumere uno sguardo diverso da quello
adottato da Barak e Suler, uno sguardo genuinamente psicosociale. L’oggetto cyberspace, ma
soprattutto la prospettiva (Psychology of cyberspace) attorno alla quale esso si costituisce
come tale, ha quindi bisogno di un allargamento, di un’integrazione in senso psicosociale.
Cilento Ibarra ben evidenzia le radici di questa necessità: “lo stesso termine ‘Cyberspace’ è
talvolta ingannatore; la tendenza è quella di sovrastimare l’importanza di ciò che è ‘cyber’,
cioè tutta la componente tecnologica, dimenticandosi così che si tratta anche di uno ‘space’ e
nello specifico di uno spazio sociale” (2008, p.55). Una buona soluzione al problema –
continua Cilento Ibarra – sta nell’adottare il termine Cyberplace, inteso come “una realtà
costruita e supportata dalle nuove tecnologie, ma che è costituita da significati socialmente
costruiti” (ivi).
Il concetto di cyberplace, preso secondo l’accezione di Waskul (2003), costituisce a mio
parere una risposta adeguata a questa esigenza. L’accostamento sinergico tra i due concetti
produce infatti un arricchimento e ci avvicina alla definizione di un approccio adeguato per
affrontare le questioni relative ai processi di costruzione della soggettività nelle interazioni
mediate, un approccio che, come ho avuto modo di argomentare altrove, può essere definito
Social Psychology of Cyberplaces (Brivio, Cilento Ibarra, Galimberti, 2010, p.811). Per
potere cogliere appieno il senso della sinergia che deriva dalla loro messa in parallelo, è
opportuno dare spazio a qualche considerazione che chiarisca le specificità del concetto di
cyberplaces e la sua (parziale) complementarietà a quello di cyberspace.
L’allargamento di prospettiva dovuto al passaggio da Cyberpsychology a Social Psychology
of Cyberplaces costituisce la risposta ad un bisogno di natura sia epistemologica, sia pratica.
Per dirla con le parole di Evandro Agazzi (1976), gli oggetti di ricerca sono il risultato
dell’applicazione di una particolare prospettiva alle ‘cose’ presenti nella vita di tutti i giorni:
gli artefatti che costituiscono l’universo di oggetti di ricerca propri di chi si occupa di
cyberplaces derivano dalla sintesi tra le ‘cose’ di cui i soggetti fanno quotidianamente
esperienza nella loro ‘cybervita’ (chat, blog, social network, ecc.) e un ‘punto di vista’,
quello psicosociale, che pone particolare attenzione ad azioni, interazioni e relazioni tra i
soggetti attivi in rete. In questo senso, pur occupandosi delle stesse ‘cose’, attraverso questa
operazione si otterrà una ‘famiglia di oggetti’ non del tutto sovrapponibili a quelli ipotizzati

10
da Barak e Suler (2008) come pertinenti alla Psychology of Cyberspace a motivo proprio della
differenza tra i ‘punti di vista’ da cui vengono traguardati.
L’utilizzo di ‘lenti psicosociali’ porterà in luce profili differenti dell’esperienza d’uso degli
artefatti digitali esperita dai soggetti: il focus sarà sulle interazioni mediate invece che sul
mezzo stesso. Adottando questa prospettiva, ci si interessa degli spazi occupati da chi si
muove online considerandoli veri e propri luoghi comunitari, in cui vengono poste in essere
dinamiche psico-sociali in risposta a bisogni psico-sociali. A tale proposito, va detto che è
intenzionale l’uso dell’espressione ‘psico-sociali’ col ‘trattino’ per sottolineare il carattere dei
cyberplaces come luoghi-limite, spazi liminali – che saranno descritti meglio nel paragrafo
5.4.2 – in cui viene di continuo rinnovato il sottile gioco tra ciò che è ‘dentro’ e ciò che è
‘fuori’ dal soggetto, ciò che riguarda il luogo in cui il soggetto incontra l’altro da sé e lavora
per costruire la propria soggettività.
Questa posizione va ribadita, poichè se è vero che oggi ben pochi si pongono di fronte ai
‘mondi virtuali’ come a realtà unicamente di natura tecnologica, si è comunque esposti al
rischio di considerarli come luoghi in cui i soggetti possono moversi a proprio piacimento
quasi fossero sottratti ai vincoli dell’interazione. Poichè, come ricorda Patricia Wallace
citando la testimonianza di un attore impegnato in una piéce online dal titolo Vampire: The
Masquerade che abbiamo utilizzato come exerga, “Molte persone cominciano recitando un
ruolo totalmente differente dal Sé reale, ma è inevitabile che ognuno finisca per portare
qualche aspetto della propria personalità nel suo personaggio”, lasciando così una traccia di sé
e dei propri progetti di soggettività. Lasciando ai paragrafi successivi il compito di tornare su
questi aspetti, vorrei ora concentrare l’attenzione sui guadagni che comporta ragionare in
termini di cyberplaces oltre che/invece di cyberspaces.
Studiare le interazioni mediate e la vita in rete significa mettere a fuoco esperienze ormai
comuni a molti. L’uso delle nuove tecnologie per eseguire in modo originale e creativo vecchi
compiti ha dato luogo a nuovi modi di essere e di interagire (Waskul, 2003). Tali
comportamenti sono culturalmente determinati e, allo stesso tempo, concorrono a creare
nuove culture dell’interazione proprie dei mondi digitali (Fornäs, 1998). Queste
trasformazioni sollecitano i ricercatori a porre l’accento non tanto sulle tecnologie, quanto
sulle persone che le utilizzano. Come ha rilevato Waskul, il cyberspazio è stato a lungo
considerato proprio in relazione alle sue caratteristiche tecnologiche, mentre ora parlare di
cyberplaces significa mettere al centro della ricerca e della riflessione le dinamiche sociali.

11
Grazie al click di un mouse, le persone possono interagire entrando in contatto con una
molteplicità di luoghi prodotti socialmente, veri e propri contesti al’interno dei quali dare
corso a esperienze condotte magari in condizione di anonimato, ma piene di riferimenti a
elementi identitari (come ricordato dalla citazione da Wallace relativa alla testimonianza
dell’attore della piéce online Vampire: The Masquerade citata in ex-ergo) contesti al cui
interno è possibile scegliere con facilità cosa e quanto di sé mettere in gioco (Waskul, 2003).
A proposito di questo passaggio di Waskul, Cilento Ibarra ha affermato che in esso “sono
condensati due aspetti di fondamentale importanza” che evidenziano in che senso il concetto
di Cyberplace riesca a cogliere la dimensione sociale della cyberlife: “Il primo aspetto è che
tutto ciò che troviamo nel Cyberplace, dai saluti, agli emoticon, ai rituali, ecc. sono tutti
significati costruiti tra gli utenti, (…) patrimonio culturale di tutti. In secondo luogo,
conoscere e utilizzare questi artefatti permette di identificare e definire anche i membri di
singoli gruppi” (Cilento Ibarra, 2008, p.55)
Così inteso, il concetto di cyberplace esplicita il riferimento alla dimensione simbolica delle
esperienze che vengono fatte all’interno del cyberspace. Tra i due concetti viene quindi a
stabilirsi un rapporto simile a quello che esiste rispettivamente tra significato e significante:
l’uno non si dà senza l’altro ed entrambi possono essere indagati scientificamente. In questo
caso il nostro interesse va al significato, al cyberplace, ossia a tutto ciò che lega il soggetto
alla sua esperienza d’uso della rete e agli incontri con gli altri soggetti che avvengono nel
corso di tali esperienze.
Due buoni esempi di cosa si possa intendere per cyberplace li possiamo trarre da William
Gibson, voce autorevole, dal momento che proprio a questo autore si deve l’introduzione del
termine cyberspace in Neuromante, romanzo del 1984 ritenuto l’opera base della letteratura
cyberpunk. In questo caso i due brani sono presi rispettivamente da L’accademia dei sogni e
Guerreros, pubblicati in Italia rispettivamente nel 2004 e 2008:
“Oggi i musicisti, se sono furbi, mettono in rete le loro nuove composizioni, come fossero
crostate lasciate a raffreddare sul davanzale di una finestra, e aspettano che altre persone le
rielaborino anonimamente. Le prime dieci saranno un completo fallimento, ma l’undicesima
potrebbe essere geniale. E gratis. È come se il processo creativo non fosse più contenuto
nella mente dell’individuo, anzi, è come se non lo fosse mai stato. In un certo senso oggi tutto
è il riflesso di qualcos’altro” (Gibson, 2004, pp.75-76)3

3
Come mi ha fatto notare Eleonora Brivio, il procedimento descritto da Gibson ricorda in modo impressionante
la pratica della fan fiction: “Le storie dei fan non sono semplici «estensioni» o «continuazioni» dell’originale.
Sono argomentazioni costruite attraverso nuove storie piuttosto che con saggi critici. Mentre un saggio letterario

12
“La popstar, così come la conosciamo” e a questo punto s’inchinò leggermente in direzione
di Hollis, “era in realtà un artificio dei media preubiquitari”
“Di che…?”
“Di uno stato in cui i ‘mass’ media esistevano, se preferisci all’interno del mondo.”
“Invece che…?”
“Inglobarlo”
(Gibson, 2008, pp. 114-115)

“Oggi tutto è il riflesso di qualcos’altro” e i “media ubiquitari” “inglobano” il mondo invece


di limitarsi a rappresentarlo: ecco due asserzioni attraverso le quali Gibson prendendo il
lettore per mano lo aiuta a fare il passaggio – non solo sul piano semantico – dal concetto di
cyberspace a quello di cyberplace.
L’esigenza di assumere un punto di vista psicosociale sulle interazioni mediate e sui fenomeni
comunicativi che le accompagnano esce rafforzata dall’ascolto di Gibson: le due citazioni
segnalano la tendenza anche da parte di chi cerca di ‘interpretare narrativamente’ le nuove
caratteristiche della rete a parlare più di cyberplaces che di cyberspace, intendendoli come
luoghi comunitari costruiti grazie alle nuove tecnologie digitali, luoghi ‘fatti’ di significati
sociali co-prodotti e, possibilmente, condivisi. Ciò ovviamente senza abbandonare il concetto
di cyberspace, bensì sottolineando da un lato la sua pertinenza a una visione diversa, più
sintonica rispetto al punto di vista dell’individuo, quindi alla psicologia generale, dall’altro la
‘naturale’ collocazione del concetto di cyberplace nel campo psicosociale, legittimando in
questo modo l’esigenza di quella che abbiamo definito come Psicologia sociale dei
cyberplaces.4
E questo sarà appunto il campo al cui interno intendo collocare l’analisi dei rapporti tra
strategie identitarie e modalità di costruzione della soggettività nelle interazioni mediate.

5.3. La mappa concettuale


Passiamo ora, invece, a considerare come le teorie elaborate a proposito della CMC hanno
cercato di descrivere l’intreccio tra soggetti e oggetti, tra gli artefatti presenti in rete descritti

usa un testo per rispondere a un altro testo, la fan fiction usa la fiction per rispondre alla fiction” Jenkins, 2008
cit. in Wu Ming 2, 2009, p.168.

13
in questo paragrafo e i loro utilizzatori, puntando ad evidenziare i contributi che tale intreccio
dà al modo in cui i soggetti costruiscono la loro ‘presenza sociale’ nelle interazioni mediate.

5.3.1. L’ ‘identità online’ secondo le principali teorie sulla Comunicazione Mediata dal
Computer
La valutazione della Comunicazione Mediata dal Computer (CMC) come ambiente
comunicativo ricco ed affidabile, è assai mutata nel corso degli anni. Il primo approccio a
strumenti e/o ambienti che offrissero possibilità diverse da quelle abituali della vita reale
(d’ora in poi Real Life = RL), ha portato ad evidenziarne i limiti rispetto agli usuali incontri
faccia a faccia (d’ora in poi Face To Face = FTF). Mano a mano che la confidenza con il PC
è aumentata, sia tra i ricercatori, sia tra gli utenti, sono emerse nuove forme di adattamento al
medium e possibilità comunicative inedite nella RL. La CMC è andata trasformandosi nel
tempo da barriera che impedisce al Sé di esprimersi a laboratorio dell’identità che ci
consente di esplorare e proporre in modo consapevole aspetti di noi normalmente esclusi dalle
situazioni di interazione FTF.

Reduced Social Cues Model (RSC)


I primi tentativi di valutazione della CMC da un punto di vista psicosociale – anche se forse
sarebbe più adeguato dire ‘socio-psicologico’ – dovuti principalmente a Sproull e Kiesler,
risalgono all’inizio degli anni ’80, a seguito dell’introduzione delle nuove tecnologie per la
comunicazione in ambito lavorativo. Sproull e Kiesler (1991) elaborarono il RSC model
utilizzando come cardine della loro analisi il concetto di social presence elaborato dieci anni
prima da Short, Williams e Christie nel 1976. Con presenza sociale possiamo intendere in
prima battuta “il senso di essere in un ambiente”; si tratta di una sensazione che può essere
convogliata anche attraverso un medium caratterizzato da un’intensità variabile, tale da
modularne le caratteristiche. In particolare, secondo questa prospettiva, quanto più il mezzo
dispone di un buon livello di ricchezza informativa, intesa come quantità di informazioni
trasmesse nel tempo, tanto più gli utenti sperimenteranno un alto livello di presenza sociale.
Kiesler, Spiegel e McGuire, in una ricerca del 1984, misero in luce le caratteristiche della

4
Alcune delle caratteristiche ora riconosciute ai cyberplaces sono state in passato attribuite al cyberspace; penso
in particolare al lavoro di Lévy (1996) teso a mettere in luce in prospettiva antropologica i legami tra il

14
CMC, sottolineandone soprattutto le carenze rispetto alle interazioni FTF. Secondo questi
autori, i nuovi media a differenza della comunicazione FTF:

1. esigono risposte veloci

2. indeboliscono l’influenza sociale

3. non rispettano le gerarchie verticali

4. spingono gli utenti ad essere più disinibiti

5. sono privi dei tradizionali elementi di feed-back non-verbali (sorrisi,


contatto visivo, tono della voce).

Un tale insieme di fattori creerebbe quindi un ambiente comunicativo povero, caratterizzato


da una bassa presenza sociale e in cui i soggetti si troverebbero a sperimentare una totale
assenza di regole e la conseguente possibilità di agire in modo libero. A partire da queste
premesse, Sproull e Kiesler conclusero che la CMC ha luogo in un contesto privo di segnali
sociali cui ancorare il nostro comportamento, un contesto all’interno del quale l’identità dei
soggetti tende a sfumare fino a scomparire (Riva, Galimberti, 1997). Da questa condizione
derivano due conseguenze particolarmente rilevanti per il tema dell’identità online:

1. Liberi da ogni costrizione e dal biasimo degli interlocutori, i soggetti


esprimono più facilmente i propri pensieri: se non entro in gioco sul
piano personale, posso permettermi di violare anche le norme sociali
più elementari. In questo senso, il comportamento che meglio
rappresenta l’essenza della CMC è il flame, una discussione accesa in
cui i partecipanti arrivano ad insultarsi pesantemente sul piano
personale, così definita essendo caratterizzata dall’esplosione
improvvisa di un conflitto che avviene appunto secondo il modello
della ‘fiammata’.

2. L’assenza degli indizi sociali permette, inoltre, di non rispettare le


gerarchie, generando così un effetto di status equalization. In
un’azienda, ad esempio, tutti hanno la stessa probabilità di prendere la
parola in una riunione online, a prescindere dalla posizione occupata.

Se il congegno comunicativo non permette di mettere in scena segnali in grado di rendere


palese la soggettività di chi intergisce, allora l’attenzione dedicata alla costruzione e alla

cyberspazio e i soggetti che lo utilizzano.

15
presentazione della propria identità personale passa in secondo piano, lasciando spazio a
mosse di natura pre-sociale o comunque che non tengono in alcun conto le norme di cortesia
che regolano le interazioni FTF.

Social Identity De-Individuation Model (SIDE)


Le tesi di Sproull e Kiesler sono state presto criticate attraverso un’analisi serrata dei risultati
di ricerca su cui si fondavano. Ricerche sperimentali successive hanno messo in dubbio sia
l’effetto di status equalization, sia l’impossibilità di dare corpo a una vera e propria identità e
a delle relazioni interpersonali online.
Una prima risposta al modello RSC fu elaborata da Lea e Spears agli inizi degli anni ’90 (Lea,
1992). Oggetto di critica – sul duplice piano del merito, ma anche dei metodi utilizzati per
produrre e analizzare i dati di base del modello stesso – è stato innanzitutto il presunto
predominio del flaming nella CMC, fenomeno ben presto individuato come assai raro, o
comunque contenuto, al di fuori dei laboratori di ricerca. Ancor più interessanti sono però le
osservazioni sulla povertà informativa del medium e sul vuoto sociale che si suppone essa crei
attorno all’individuo. Punto fondamentale della posizione di Lea e Spears è infatti la
convinzione che la capacità di un mezzo comunicativo di trasmettere informazioni sociali non
sia legata alla sua larghezza di banda. Anche in assenza dei codici non-verbali cui siamo
abituati, gli utenti possono attingere ulteriori conoscenze sull’interlocutore da:
a. le informazioni che fanno da cornice al messaggio (quali quelle fornite
dalla firma digitale o dall’intestazione),

b. quanto emerso in precedenti interazioni,

c. il tipo di situazioni in cui si sta interagendo (si pensi, ad esempio, al


tema specifico del forum al cui interrno i soggetti si scambiano
messaggi; Riva, 2008).

Non solo la CMC non è povera di indicatori di soggettività, ma secondo Lea e Spears non è
neanche circondata dal vuoto sociale. Questa errata convinzione nasce da un’altra confusione,
quella tra l’identità personale e le identità sociali di cui i soggetti sono portatori. Gli utenti di
Internet, infatti, proprio come avviene negli altri ambienti, possono categorizzare se stessi a
diversi livelli di astrazione, da individuo a membro di un gruppo di varie dimensioni. Se il
contesto di una interazione mediata li coinvolge come singoli prevarrà allora l’identità

16
personale come fonte di riferimento per la costruzione della soggettività in interazione. Se le
sollecitazioni del contesto si orientano verso l’attivazione dell’identità sociale dei partecipanti
all’interazione, allora costoro tenderanno a conformarsi alle norme del proprio gruppo di
riferimento, esibendo online dei comportamenti facilmente categorizzabili e riconducibili ad
esso: saranno allora componenti dell’identità sociale a contribuire alla costruzione della
soggettività nell’interazione. Affinché si inneschi questo processo, dunque, non è necessaria
la presenza fisica di altre persone; le norme sono una parte della nostra identità: per adeguarci
ad esse, è sufficiente il proposito di esplicitare la nostra appartenenza al gruppo che ad esse si
ispira. In un ambiente ‘afisico’, come quello della CMC, è addirittura possibile assistere a
comportamenti ipersocializzati, poiché in assenza di altre sollecitazioni, si tende
inevitabilmente a mobilitare gli stereotipi associati al nostro gruppo di riferimento. A
conferma di ciò in alcuni esperimenti successivi, Lea e Spears, verificarono la presenza di
comportamenti opposti in relazione all’adeguamento alle norme sociali (il riferimento è alla
contrapposizione tra bassa e alta osservanza di tali norme), a seconda del tipo di identità
sollecitata dalla situazione in corso.

Social Information Processing Theory (SIP)


La SIP costituisce la seconda alternativa alle ipotesi del modello RSC. Essa, in particolare,
muove dal proposito di spiegare l’evidente discordanza tra i risultati dalle ricerche in
laboratorio all’interno del paradigma sperimentale della RSC e quelli degli studi successivi
condotti sul campo. Consideriamo l’argomentazione di Palmer (1997), uno degli esponenti
principali della SIP. Come è noto, sostiene Palmer, il comportamento umano è sempre volto a
comunicare ed è dotato di grande flessibilità, caratteristica che gli consente di modificarsi per
aggirare ogni forma di impedimento all’interazione. Perché questo avvenga sono necessari la
capacità di costruirsi immagini e di trasmettere informazioni, il tempo sufficiente per
manifestare pensieri ed emozioni e un elemento di natura motivazionale. In laboratorio, a
differenza dei contesti naturali, si osservano forti limitazioni temporali alla CMC e, inoltre,
l’interazione manca totalmente di prospettive future. Tutto ciò impedisce ai soggetti di
impegnarsi nella ricerca di un modo efficace di comunicare; lo stesso flaming potrebbe essere
causato dalla necessità di rispettare i tempi prefissati dallo sperimentatore che impediscono,
però, di pensare e generano frustrazione. Secondo Palmer, l'assenza della pressione temporale

17
in condizioni normali, consente ai soggetti di supplire, poco a poco, agli svantaggi della
CMC. L’assenza di motivazione è altrettanto importante: se la conversazione è fine a se stessa
non ci sono le condizioni per la costruzione di un contesto cooperativo che permetta di
realizzare l’intercomprensione, ed è probabile che l’artificiosità della situazione generi
conflittualità. La CMC necessita solo di più tempo e quindi non dovrebbe essere considerata
meno efficace della comunicazione FTF, ma semplicemente meno efficiente.

Hyperpersonal Model
Gettando uno sguado retrospettivo alle ricerche sulla CMC, tenuto conto delle posizioni sin
qui presentate, Walther (1996) sostiene che dalla loro analisi è possibile individuare due filoni
principali. Come abbiamo già rilevato, il primo, sostanzialmente coincidente con il modello
RSC ed etichettabile come impersonale, considera gli artefatti derivati dall’applicazione
dell’informatica alle tecnologie della comunicazione come causa di impoverimento sociale e
di crescita del tasso di anonimato nelle interazioni. La seconda fase – e qui il riferimento va ai
modelli SIDE e SIP e alla prospettiva interpersonale che con essi si afferma – pur sostenendo
la possibilità che la CMC dia origine a comunicazioni efficaci non riesce ad uscire dal
pregiudizio che essa sia caratterizzata nei termini di una maggiore lentezza, che sia per così
dire a ‘sviluppo ritardato’. Nessuna di queste due prospettive, quindi, sembra avere colto le
vere potenzialità della CMC, in alcuni casi addirittura superiore alla comunicazione FTF.
Questo è appunto l’aspetto qualificante della prospettiva di Walther (1996), punto di partenza
di gran parte delle ricerche di questi ultimi anni: la convinzione che la CMC vada considerata
come una modalità di comunicazione iperpersonale, addirittura socialmente più ricca e
desiderabile di quella FTF. Ricchezza e desiderabilità che si fondano su quattro elementi
specifici della CMC:

• Ricevente: poiché chi riceve il messaggio tende naturalmente a


categorizzare l’interlocutore per definirne l’identità, quando si hanno a
disposizione poche informazioni, ci si trova a fare ricorso a stereotipi; in
tale operazione qualsiasi elemento viene caricato di un valore predittivo
senza che la sua reale efficacia sia sottoposta a verifica. Se l’interazione
coinvolge un gruppo, allora gli elementi di categorizzazione sociale
diventano più salienti di quelli personali, mentre la loro influenza si attenua
al crescere della vicinanza tra gli utenti.

18
• Emittente: scopo dell’emittente è la costruzione presso l’interlocutore di
un’immagine favorevole di sé. La CMC facilita il controllo degli indizi da
inviare e permette, quella che Walther definisce, una “presentazione
selettiva del Sé”. Ciò è reso possibile dalla maggiore controllabilità del
linguaggio che lascia il tempo per pianificare e censurare quanto si intende
dire; questi ‘sforzi’ di tipo riflessivo costringono le persone a ‘pensare’ per
stabilire cosa rivelare, attività che conduce ad esibire una coscienza di sé
più profonda di quanto non accada normalmente nell’interazione FTF.

• Caratteristiche del canale di comunicazione: l’assenza delle informazioni


non verbali, facilita la selezione; ad esempio, i segnali comunicativi
automatici (come l’arrossire) non possono trapelare a meno che non lo
desideri l’emittente. Inoltre, è possibile scegliere anche il momento più
opportuno per lanciare determinati messaggi.

• Elementi di feedback: l’importanza degli elementi di conferma,


fondamentali nella comunicazioni FTF, è ingigantita in un contesto
d’interazione con pochi indizi quale è appunto la CMC. Ogni forma di
feedback viene usata in questo caso per ricalibrare l’immagine dell’altro che
ci siamo costruiti; un tale ‘ciclo di conferma’ può essere una delle cause
dell’idealizzazione dell’altro che spesso viene raggiunta con gli scambi in
CMC.

La CMC può quindi essere considerata una modalità di comunicazione iperpersonale poiché
permette agli interlocutori di esercitare maggiore padronanza sul processo di modulazione dei
contenuti che essi intendono comunicare, così come sulla propria autopresentazione. E ciò
anche se, a motivo del funzionamento dei quattro elementi cardine della CMC sopra indicati,
secondo questa prospettiva le relazioni nella CMC risentono in modo rilevante dei processi di
stereotipizzazione sociale.

Teoria dell’Azione Situata (TAS)


La TAS si inserisce nel filone socio-cognitivo – altrimenti definito della cognition in practice
– che fa della ‘situatività’ il cardine della propria prospettiva in termini sia teorici, sia di
ricerca (Suchman, 1997, 2007). Questa teoria propone un ribaltamento radicale di prospettiva:
ogni tipo di azione non viene più considerata la messa in atto di un piano precostituito, ma
nasce dall’incontro e dall’adattamento tra un soggetto con determinati scopi e un ambiente
che offre opportunità e vincoli. L’azione nel suo svolgersi deriva sempre dallo ‘sfruttamento
intelligente delle circostanze’, anche se in un secondo tempo può essere giustificata da una
supposta antecedente pianificazione. Questa dinamica flessibile tra soggetti e contesto, vale

19
ovviamente per ogni tipo di ambiente, quindi anche per la CMC. In questo caso specifico, la
relazione si caratterizza in termini di sensibilità al contesto e di circolarità, piuttosto che di
univocità e unidirezionalità come per Sproull e Kiesler. A loro volta, i soggetti dell’azione
non sono solo utilizzatori di tecniche, ma veri e propri attori sociali autonomi mossi dal
desiderio di comunicare se stessi agli altri oltre che di condividere con loro determinati
contenuti. In linea con questa prospettiva di ricerca, Mantovani (1996a, b) propone di
abbandonare una prospettiva che miri ad identificare gli effetti intrinseci della CMC, per
concentrarsi sia sul contesto all’interno del quale essa ha luogo, sia sui possibili influssi che
tale contesto ha sul modo in cui i soggetti si rappresentano nell’interazione ed interpretano le
proprie azioni. L’invito di Mantovani, con il quale concordo, si fonda sull’idea che la natura
del contesto non sia solo fisica, ma soprattutto concettuale: esso è da considerarsi come un
vero e proprio sistema simbolico continuamente oggetto di rielaborazione da parte dei
soggetti. Per analizzarlo occorre considerare i tre livelli in cui esso si articola:

(1) Il livello della situazione, in cui viene ricompreso il contesto sociale generale;

(2) Il livello delle norme sociali, cui viene demandata la regolazione delle situazioni
di vita quotidiana;

(3) Il livello degli artefatti, importante poiché è attraverso di essi che avviene
localmente l’interazione con l’ambente.

Con la TAS viene quindi a maturazione il processo – iniziato con il SIDE – di messa a fuoco
del ruolo giocato dal contesto comunicativo nella costruzione delle identità online. Tale
processo, come osserva Tosoni, ha generato un cambiamento radicale nel modo di concepire
il cyberspazio. Laddove prima si vedeva un canale comunicativo in grado di generare effetti,
si è passati a percepire un vero e proprio spazio sociale, connotato da una cultura che funge da
contesto attivo al processo di costruzione delle identità online.
Ciò che però ancora manca a questi modelli e di conseguenza ne limita l’efficacia, è la
capacità di spiegare come tutto ciò avvenga. Una delle ragioni di tale carenza è la relativa
disattenzione verso la dimensione conversazionale delle interazioni mediate. Anche se non è
possibile sciogliere in puri e semplici giochi linguistici i processi di costruzione delle identità
online, infatti, la dimensione discorsiva riveste in essi un ruolo determinante, e la sua
considerazione è fondamentale per capire come i soggetti che si muovono, si incontrano e

20
interagiscono in quello spazio sociale costituito dalla rete, diano forma alla propria identità
online.

5.3.2. Contributi ‘alternativi’ alle teorie classiche tra etnografia della rete e
postmodernismo
Tra i contributi che potremmo definire ‘alternativi’5 rispetto alle prospettive sulla costruzione
dell’identità online considerate ormai classiche come quelle precedentemente illustrate,
particolare riconoscimento va agli studi che appartengono a una linea di studio delle
interazioni mediate fortemente ispirata alla ricerca etnografica, la cui fortuna risale all’inizio
degli anni Novanta. Attraverso la partecipazione diretta a Mud, Moo e IRC o comunque
lavorando su corpus di dati prodotti direttamente ‘sul campo’ e non in laboratorio, ricercatori
come Elizabeth Reid, Amy Bruckman e Sherry Turkle hanno cercato di ‘leggere’ le
interazioni in rete tenendo conto della natura di ambiente sociale caratterizzato da regole,
norme e cultura propria del contesto in cui avvengono, cercando di capire come la
frequentazione della rete possa generare nuove culture e identità d’uso degli ambienti presenti
in rete.
Reid (1991, 1994) e Bruckman (1992), in particolare, hanno voluto mostrare come gli
ambienti che si incontrano in rete – in particolare i Mud e l’IRC – costituiscano dei veri e
propri contesti sociali in grado di generare pratiche e sistemi simbolici certamente diversi da
quelli corrispondenti in RL, ma egualmente rilevanti rispetto al contributo che possono offrire
alla formazione dell’identità dei soggetti che li frequentano. Considerandoli essenzialmente
come ‘ambienti narrativi’ i cui elementi essenziali sono sentimenti, amore, sesso e pericolo,
Reid e Bruckman descrivono gli ambienti di interazione ‘a distanza’ formulando ipotesi sugli
effetti della cancellazione degli indizi legati alla corporeità, ma soprattutto interrogandosi sui
livelli e le modalità di manifestazione dei ‘contenuti socioemotivi’ che i soggetti introducono
in essi. Con Electropolis: Communication and Community on Internet Relay Chat (1991) e

5
In proposito Tosoni parla di ‘orientalismo digitale’ per esprimere l’atteggiamento poco strutturato e
sostanzialmente documentaristico che caratterizza le ricerche condotte da questi autori che si avvicinano alle
interazioni in rete come viaggiatori in cerca di un oriente misterioso e affascinante (Tosoni, 2004, p.57). Per la
stesura di questo paragrafo mi è stato di particolare utilità il capitolo 1 del lavoro di Tosoni, contributo
interessante ed originale allo studio dei processi di costruzione dell’identità personale nella CMC in prospettiva
sociologica.

21
Cultural Formation in Text-Based Virtual Realities (1994), Elizabeth Reid ha dato corpo a
questa linea di ricerca utilizzando una rete concettuale profondamente radicata nel pensiero
postmoderno: le forme di socialità online individuate sono state infatti descritte come
caratterizzate da pratiche basate sulla decostruzione dei confini sociali e delle convenzioni che
vincolano l’identità nella quotidianità della RL. I contesti ‘virtuali’ in cui avviene
l’interazione mediata sono stati visti come identity playground, luoghi deputati a vere e
proprie pratiche di sovrascrittura, tali da rendere irrilevanti le culture d’origine dei soggetti e i
tratti caratterizzanti la loro identità offline. Gli ambienti virtuali vengono così visti come
luogo in cui è possibile sfuggire ai linguaggi tradizionali della cultura e della corporeità per
riarticolare gli stereotipi sociali che vincolano nella RL i processi di costruzione dell’identità,
riscrivendo appunto le norme sociali e interazionali ad essi associate.
Amy Bruckman – come risulta dai due testi Identity Workshops: Emergent Social and
Psychological Phenomena in Text-Based Virtual Reality (1992) e Gender Swapping on the
Internet (1993) – ripropone questa stessa prospettiva lavorando su Mud e Moo.
Approfondendo la ricerca sulle interazioni sociali e sul cambiamento di genere all’interno
degli ambienti virtuali, Bruckman considera gli spazi online come identity workshop, ossia
laboratori d’identità. Mostrandosi ancora più ottimista della Reid, arriva a riconoscere
all’interazione in rete una ‘potenzialità di supporto’ per soggetti che la praticano in vista del
miglioramento della loro comprensione dei fenomeni che caratterizzano la RL. E ciò
comunque pur riconoscendo che in alcuni casi la virtualità dell’interazione mediata arriva a
sostituire la RL stessa, dando corpo alla ormai ben nota e descritta ‘sindrome da dipendenza
dalla rete’ di cui più che gli psicologi si occupano ormai gli psichiatri.
Rispetto alle precedenti, la descrizione dei processi che portano alla costruzione delle identità
online che deriva da questi lavori si caratterizza per una maggiore aderenza alla reale
fenomenologia delle interazioni in rete. In quanto lettura teorica di tali processi, però, essa
porta su di sé tutti i segni caratteristici del Postmodernismo radicale, assumendone in pieno i
limiti che ne hanno decretato la crisi e il superamento. In particolare, la teoria dell’identità
online attribuibile a Reid e Bruckman comporta una serie di conseguenze che vale la pena di
considerare criticamente. In dettaglio, questa prospettiva sostiene che:

- offline e online sono due mondi separati la cui fenomenologia si determina in


riferimento alla presenza/assenza della corporeità;

22
- questa separazione rende le identità online dei puri simulacri autoreferenziali;

- tali simulacri rinviano unicamente alle regole sociali che hanno presieduto alla
loro costruzione, regole intese come possibilità di costruzione di ulteriori relazioni
online personali o comunitarie, ma anche come loro unica garanzia e fondamento;

- le regole di costruzione di tali simulacri vengono ad evidenza solo quando si


oltrepassano i confini sociali validi nella RL, come ad esempio nel caso di
feedback inediti (si pensi all’assunzione di un gender diverso dal proprio):

- tutto ciò renderebbe la costruzione dell’identità (online ma anche offline)


un’attività assolutamente riflessiva, offrendo così al soggetto che costruisce la
propria identità online la possibilità di liberarsi dal peso dei condizionamenti
sociali.

Pur condividendo le linee generali di questa impostazione, Sherry Turkle si pone in una
prospettiva caratterizzata da una maggiore attenzione nei confronti delle reali pratiche
quotidiane d’uso della rete, del mondo dell’esperienza quindi, al cui interno si continua a
coltivare l’‘illusione della coerenza e dell’unitarietà dell’io’. A parere di Tosoni la Turkle, pur
mantenendosi in una posizione di sostanziale continuità di prospettiva, di fatto è all’origine
del superamento delle posizioni del postmodernismo: “il fattore disinibente legato
all’anonimato rende i Mud degli spazi di moratoria psicosociale dove il soggetto può tornare a
sperimentare – come durante l’adolescenza – con gli aspetti repressi della propria identità.
L’assenza di corpo radicalizza tali forme di sperimentazione, in quanto il soggetto può
dislocare in personae multiple i vari aspetti del Sé, può renderli fluidi e può anche accedere a
aspetti del Sé preclusi dalle regole sociali che si esercitano in real life, prima tra tutte quella
che assegna una, e una sola, identità a ciascun singolo corpo. Tali pratiche non permettono
solo al soggetto di reincludere nel proprio processo di autocostruzione ‘aspetti’ del sé
altrimenti bloccati, ma anche di acquisire sapere riflessivo sulla modularità e molteplicità
della propria identità, sperimentando così, nella propria vita quotidiana, le astratte e liberatorie
teorie della postmodernità” (Tosoni, 2004, pp.91-92). A parere di Tosoni gli elementi di
orginalità introdotti dalla Turkle tendono a risolvere le contraddizioni di fondo del modello
postmodernista; ciò che mi preme sottolineare è lo slittamento di prospettiva rispetto alla
questione più immediatamente riferibile al processo di costruzione dell’identità online, ossia
quella che riguarda “la difficile conciliabilità tra iperfluidificazione dell’identità da una parte
e la costruzione di reti relazionali stabili dall’altra” (p.92). Ma come avviene questo

23
slittamento? Come detto, la Turkle pone alla base delle proprie riflessioni una costante
attenzione alla pratica: il ricorso alla metafora dei sistemi operativi multitasking a finestre per
descrivere i processi di costruzione dell’identità online in modo innovativo rispetto alla
prospettiva postmoderna va esattamente in tale direzione. Consideriamo in dettaglio il senso
dell’analogia su cui si regge. Come è noto, tali sistemi operativi offrono all’utente la
possibilità di operare contemporaneamente in più ambienti: allo stesso tempo io posso
scrivere un documento utilizzando un word processor, essere attivo in una chat, leggere email,
scrivere risposte ai messaggi ricevuti, ecc. Ciò mi permette di sperimentare una sorta di
‘ubiquità digitale’, sentendomi connesso a una pluralità di contesti sociali distinti tra loro sui
piani spaziale e temporale ed in riferimento ai quali possono venire attivate – e per la Turkle
lo sono effettivamente – le differenti personae, ossia le differenti maschere sociali, le
“sembianze pubbliche dell’identità, distinte da una o più essenze profonde” (Turkle, 1997,
p.270). Si tratta di una posizione che, come ha rilevato Tosoni presenta più di un punto in
comune con il concetto di “saturazione del Sé” con cui Gergen (1991) indica la modalità di
reazione di un soggetto all’esposizione ad un ambiente ipermediatizzato (Tosoni, 2004, p.93),
rappresentando quindi un ulteriore rimando alla psicologia sociale.
L’analogia tra processi di costruzione dell’identità nelle interazioni online e il funzionamento
dei sistemi operativi multitasking, però, non riveste un valore puramente illustrativo, ma dà
corpo al passaggio originale dello sviluppo del pensiero della Turkle: la pluralità delle finestre
aperte sulla scrivania del nostro computer non va infatti considerata semplicemente come una
suggestiva evocazione delle molteplici componenti dell’identità o addirittura delle identità in
gioco nelle interazioni mediate, ma ne rappresenta la modalità di produzione. Le finestre
costituiscono quindi l’oggetto su cui il soggetto esercita la propria azione concreta e
attraverso cui giunge a dare visibilità alla struttura molteplice del proprio Sé. Si recupera così
il riferimento alla dimensione interattiva del lavoro di costruzione della soggettività online:
non più quindi il risultato della riflessività del soggetto su se stesso, di una volubile regia
autoriferita attraverso la quale il soggetto crea se stesso attraverso le proprie maschere, quanto
piuttosto il riconoscimento dell’imprescindibilità del riferimento al mondo delle cose e degli
altri soggetti come via alla costruzione di sé. Di fatto però la Turkle rinchiude questo tipo di
attività nella molteplicità delle finestre, sostenendo che è un Sé decentrato a praticare la “vita
delle finestre”, un Sé che esiste in molti mondi e, contemporaneamente, impersona ruoli
diversi. Come osserva Tosoni “è proprio attraverso questa specifica enfasi sull’esistenza di

24
nuclei relazionali multipli, ciascuno sigillato nel suo ambiente di comunicazione online, che la
Turkle tenta di disinnescare la tensione – ereditata dal modello postmodernista radicale – tra
l’ancoraggio dell’identità imposta dallo strutturarsi di relazioni telematiche, e la spinta alla
dislocazione, moltiplicazione e fluidità connesse alla seduzione postmodernista del mezzo
tecnico e delle culture telematiche che ospita” (2004, p.96). Un’impresa che riesce a metà,
poiché non supera il confinamento dei vari nuclei relazionali cui il soggetto appartiene in
spazi impermeabili l’uno all’altro. Se per un verso, infatti, possiamo riconoscere il recupero
delle interazione e della relazione all’altro nella costruzione dei vari aspetti del Sé online,
contemporaneamente si deve rilevare che tale recupero non apre la strada al riconoscimento di
un principio di unitarietà del soggetto, che continua invece ad essere considerato impegnato in
tanti ‘cantieri’ di costruzione dell’identità online separati l’uno dall’altro, non riuscendo così
del tutto a superare l’émpasse del postmodernismo.
Un’ultima osservazione critica nei confronti del lavoro della Turkle riguarda poi un aspetto
metodologico non certo di secondaria importanza. Il pensiero della Turkle si basa, come per
gli altri autori citati in questo paragrafo, su resoconti di natura etnografica. Nel caso specifico
dei lavori dedicati all’identità, la Turkle si è avvalsa poi di uno strumento da lei denominato
‘intervista clinica’, di cui l’autrice ha parlato con estrema parsimonia. Ciò che appare chiaro è
che almeno in questo caso il pregio maggiore della ricerca etnografica, vale a dire la
possibilità di lavorare su materiali prodotti ‘in presa diretta’, quindi caratterizzati da un
elevato grado di ‘ecologicità’, è andato perso: le analisi sono state infatti condotte sui racconti
– oggi diremmo le narrazioni – prodotti dai soggetti intervistati, analizzando quindi i resoconti
da essi forniti della propria esperienza di frequentazione della rete e non su protocolli in grado
di rivelare tale esperienza in modo diretto, non ‘riflesso’. Più che con l’interazione in rete, la
Turkle si è quindi misurata con le ‘strategie retoriche’ messe in atto dai soggetti da lei
intervistati per razionalizzare la propria esperienza in forma di account compatibili con il
contesto di ricerca oltre che con la percezione che i soggetti hanno di se stessi. Anche sul
piano metodologico, quindi, ritroviamo uno dei principali nodi problematici ereditati
dall’utilizzo del frame concettuale postmoderno da cui la Turkle non è riuscita a liberare la
riflessione sulle dinamiche identitarie online: il rischio di trovare sempre e solo il soggetto,
narcisisticamente perso nella contemplazione di se stesso o addirittura delle immagini di sé
che costruisce per rendersi comprensibile al ricercatore.

25
Diventa quindi necessario seguire altri percorsi, alternativi al postmodernismo per trovare un
reale inizio di superamento delle posizioni sin qui presentate.

Oltre il postmoderno: sociolinguistica, approccio strategico e biopolitica degli ambienti


virtuali
L’opposizione al postmodernismo non è stata generata però solo al suo interno. Nel corso
degli anni Novanta molti studi e ricerche gli si sono apertamente contrapposti. Come rileva
Tosoni, si tratta di una galassia ancora in corso di classificazione, costituita da contributi
spesso resi pubblici attraverso canali di non facile accesso o addirittura reperibili unicamente
in rete. Pur non presentando un nucleo teorico omogeneo e coerente, questi lavori sono
accomunati dall’opposizione al paradigma dominante, criticato soprattutto nelle sue pretese di
spiegare la costruzione delle identità online in termini di autonomia e di auto-riflessività e
dalla tendenza ad occuparsi di questioni troppo specifiche, evitando i discorsi generali. Per
superare l’émpasse generata da questa difficoltà di classificazione, è utile il suggerimento di
Tosoni (2004, pp.105-133) – cui rimandiamo per i riferimenti bibliografici relativi agli autori
citati in questo paragrafo – che identifica in sociolinguistica, approccio strategico e
biopolitica degli ambienti virtuali tre nuclei di riferimento utili a comprendere senso e
modalità dei ‘primi passi’ oltre il postmodernismo.
Caratteristica principale dell’approccio sociolinguistico è l’affermazione della ‘persistenza’
delle identità ‘reali’ anche all’interno dei giochi di reinvenzione online: le identità sociali dei
soggetti sopravvivono via il linguaggio anche nella comunicazione online, lasciando tracce
che parlano delle strutture ideologiche che in esse si replicano, dell’opposizione fondamentale
tra maschile e femminile rivelata online dalla connotazione di genere o del codice sociale di
riferimento che, in modo più o meno inconscio, ‘continua’ ad agire al di là del salto
comunicativo imposto dalla discontinuità offline/online. La negazione della tesi
decostruzionista è quindi radicale.
L’approccio strategico propone una lettura negoziale del processo di costruzione dell’identità
online: Donath e Burkhalter evidenziano infatti l’importanza dell’altro (e della ‘resistenza’
che egli oppone) nel processo di costruzione del Sé. Per la Donath (1999) i ‘generatori di
differenza’ messi in evidenza dall’approccio sociolinguistico (strutture ideologiche, differenza
di genere, estensione del codice sociale anche all’online) divengono elementi attivi di una
interazione strategica attraverso la quale il soggetto punta ad attribuirsi con successo

26
un’identità e a giudicare la veridicità delle autorivelazioni altrui. Ancora una volta, quindi,
emerge la centralità dei processi sociali nella costruzione dell’identità, centralità rimarcata
dall’importanza delle negoziazioni nel corso delle quali ciascuno è chiamato a fornire prove
che possono essere accettate o rifiutate: simulazione, inganno e persuasione divengono allora
mosse fondamentali del processo di costruzione dell’identità online. Burkhalter (1999), per
parte sua, si pone in una prospettiva ancor più marcatamente costruttivista, sottolineando
l’importanza delle dinamiche effettive dei processi di negoziazione dell’identità online, con
particolare attenzione al ruolo che in essi assumono le differenze di tipo etnico.
Le caratteristiche di fondo del ‘terzo passo’, quello sinteticamente definito come biopolitica
degli ambienti virtuali, sono ben sintetizzate da Tosoni secondo il quale tale modello,
proposto dall’antropologo Alan Aycock (1995), fondato liberamente “sul concetto focaultiano
della «cura di sé», indica all’attenzione del ricercatore quattro principali aree di analisi,
relative al modo in cui gli assetti sociosimbolici della comunità virtuale costruiscono la
«sostanza interiore» (inner substance») dei soggetti (…), definiscono il «livello e tipo di
coinvolgimento» («degree and kind of commitment») loro prescritto (…), strutturano le
routine e le discipline «adottate dai soggetti per ridare forma alla propria identità» (…), e
infine determinano l’obiettivo di tale trasformazione” (Tosoni, 2004, p.129). Vantaggi e limiti
di un tale approccio sono evidenti: da un lato esso permette di comprendere il peso degli
‘assetti sociosimbolici’ propri della comunità di appartenenza sui processi di costruzione
dell’identità online, evidenziando l’esistenza di una sostanziale ‘continuità’ tra online e
offline; d’altro canto, però, il ricorso ai concetti foucaultiani appesantisce l’approccio di
Aycock e gli impedisce di cogliere il ruolo che i singoli e le loro azioni hanno su tale
processo, ‘sciogliendo’, per così dire, il soggetto nella dimensione socio-comunitaria.

I due paragrafi che seguono costituiscono un ponte tra la parte storica e quella, per così dire,
‘progettuale’ di questo contributo. La teoria del posizionamento e l’approccio proposto da
Talamo e Roma rappresentano, infatti, un completamento adeguato della mappa concettuale,
ma anche un primo contributo attraverso i concetti di ‘Sé dialogico’ e di ‘identità plurali e
fluide’, alla messa a punto di nuovi criteri di indagine del processo di costruzione della
soggettività nelle interazioni mediate.

27
5.3.3. Tra dialogo e posizionamento
Consideriamo ora la Teoria del Posizionamento, un contributo allo studio delle interazioni
mediate dalle nuove tecnologie che si colloca all’interno del paradigma socio-costruttivista
(Hermans, 2002; Varisco, 2002), definendosi quindi come un approccio di chiara matrice
psicosociale. Considereremo tale teoria nella modalità proposta da Hermans e Ligorio (2005)
che ne esaltano i legami con il Dialogismo di Bachtin tanto da far pensare ad una vera e
propria ‘versione dialogica della teoria del Posizionamento’. In coerenza con il paradigma
socio-costruttivista, essa ha come pilastri di base due principi già discussi in altri contributi
presenti in questo volume:
- la realtà, mai data in sé oggettivamente, è costruita attraverso le attività mentali, di
significazione delle esperienze, degli oggetti e degli individui colti sullo sfondo
dell’interazione;
- “il lavoro di interpretazione e negoziazione svolto costantemente dalle persone
riguarda anche l’identità, intesa quindi non più come un nucleo di tratti o aspetti
relativamente stabili o definiti in modo più o meno innato, quanto piuttosto (come)
un costrutto complesso e sfaccettato, anch’esso soggetto ad una continua
costruzione e ricostruzione” (Hermans, Ligorio, 2005, p.37)

Contributi specifici della teoria sono invece i concetti di posizione, ossia il “luogo occupato
nello spazio del sistema identitario” e di posizionamento da intendersi come “il processo
dinamico attraverso cui ci si muove da una posizione all’altra o si creano nuove posizioni,
utilizzato per rimpiazzare la nozione metaforica di ‘ruolo’, che solitamente si riferisce a una
tipizzazione sociale, a cui sono connesse relazioni interpersonali biunivoche e ricorrenti”
(ibidem). In particolare, nei contesti interattivi in cui è dato scegliere tra le possibili identità
da assumere, si attiva un processo di Posizionamento tra i diversi ruoli guidato da finalità di
natura eminentemente strategica. Tale processo è fluido e non appare finalizzato alla
preservazione della coerenza dell’identità; esso è inoltre codeterminato dal contesto, inteso
come spazio interlocutorio all’interno del quale i soggetti in interazione possono negoziare
significati comuni (Harrè e Van Langenhove, 1991). Alla luce di tutto ciò va comunque
riconosciuto che la direzione del posizionamento resta una decisione esclusiva del singolo
individuo.

28
Di particolare interesse per il nostro tema è l’articolazione di questi concetti con il dialogismo
di Bachtin operata da Hermans (1996) secondo il quale ogni ‘posizione’ ha una propria ‘voce’
attraverso la quale si esprime; condizione per cui il Sé possa evolversi è appunto che le
diverse posizioni siano in grado di esprimersi e di ascoltarsi. Ovviamente, nel dialogo entrano
anche ‘voci’ esterne al soggetto: in questo senso Hermans arriva ad affermare che le identità
dipendono pesantemente dal contesto sociale e culturale così come dagli artefatti attraverso
cui esse si esprimono. In particolare, i vari ambienti di comunicazione mediata di cui oggi è
possibile fare esperienza offrono agli utenti la possibilità di sperimentare nuove posizioni, di
potenziarle, così come di modificare se non addirittura distruggere vecchie posizioni: “Dato
che il Sé dialogico funziona proprio in corrispondenza del punto di connessione tra dialoghi
interiori e dialoghi rivolti all’esterno, le tecnologie finiscono per mediare anche i dialoghi
privati, trasformandone gli scopi e i contenuti” (Hevern, 2000, cit. in Hermans, Ligorio, 2005,
p.25).
Ma come funziona il Sé dialogico? Secondo Ligorio e Hermans
- l’Io è in grado di considerare contemporaneamente le varie posizioni,
relativamente autonome, che vengono assunte durante le interazioni e che entrano
in dialogo tra loro;
- il Sé dialogico si costruisce quindi portando ordine nella molteplicità di queste
voci;
- ciò che viene mostrato dall’utente è l’identità selezionata che verrà testata durante
l’interazione in modo da verificarne la solidità (Ligorio e Hermans, 2005).

Con il Posizionamento si supera quindi la questione della stabilità della natura


dell’identità, attribuendo all’Io il compito della presentazione efficace di sé, in linea con le
esigenze delle altre ‘posizioni’ e con le caratteristiche contestuali che non dipendono
dall’individuo. Tale strategia resta però un compito prettamente individuale in cui l’altro
viene preso in considerazione, senza comunque assegnargli un ruolo attivo.
Un elemento interessante per la nostra indagine è, infine, la distinzione che Hermans e
Ligorio hanno mutuato da Smith (1988, p.32) tra persona in quanto ‘agente individualizzato’
e il soggetto: “con quest’ultimo termine (Smith) intende un insieme di posizionamenti
temporanei e non necessariamente coerenti entro cui una persona è chiamata a muoversi
momentaneamente, a seguito del discorso in atto e delle circostanze. Questa definizione lascia

29
chiaramente intendere che è possibile coprire diverse posizioni contemporaneamente ed è il
loro insieme temporaneo che produce storie coerenti, che possono essere narrate con diversi
tipi di discorsi” (2005, p.39). Una distinzione interessante in base alla quale il ‘soggetto’
viene ad essere ‘posizionato’, per così dire, sul ‘fronte dell’interazione’ (le “circostanze”),
sottolineando il fatto che la comunicazione, ed in particolare l’attività di parola attraverso cui
essa si esprime (“a seguito del discorso in atto”) ne è una componente costitutiva. Il soggetto
viene così ad essere descritto come un’istanza ‘a geometria variabile’ (“un insieme di
posizionamenti temporanei e non necessariamente coerenti entro cui una persona è chiamata a
muoversi momentaneamente”), dando corpo ad un concetto adatto ad essere utilizzato per
capire cosa accade nel corso delle interazioni che ‘strategicamente’ presiedono alla
costruzione del Chi – leggasi il soggetto - si muove nel cyberspazio. Un concetto che, come
vedremo in seguito, si rivelerà estremamente utile per rispondere alle domande da cui ha
preso l’avvio questo lavoro.

5.3.4. Il Sé come ‘stabilizzatore-a-monte’ dell’identità tra mutare e permanere


Di recente, all’interno di un testo dedicato alle dinamiche dei processi identitari nelle
interazioni della vita quotidiana, Talamo e Roma hanno cercato di metterne a fuoco gli aspetti
principali colti tra “mutare e permanere”, prestando particolare attenzione alle conseguenze
che essi hanno sulle interazioni tra soggetti e tra utenti e artefatti, offline ed online (Talamo e
Roma, 2007).
La posizione di Talamo e Roma si caratterizza immediatamente per una chiara presa di
distanza sia dagli approcci all’identità qualificabili come “essenzialisti” e “reificanti”, sia da
quelli che, collocandosi in una prospettiva post-moderna, si ispirano al costruttivismo e al
costruzionismo. Ai primi, assumendo l’impianto critico di Berger e Luckmann (1967),
rimproverano l’idea che l’identità sia una ‘cosa’ che è tale per natura, a prescindere dall’agire
umano, consegnata per sempre alla stabilità, de-contestualizzata e de-storicizzata. Ai secondi
– pur riconoscendo loro i meriti indiscutibili di cui abbiamo parlato alla fine del paragrafo 3.1
e nel corso del paragrafo 3.2 – attribuiscono invece la caduta in una posizione che Brubaker e
Cooper (2000) hanno definito “un ossimoro”: parlando di “un’identità multipla, fluida, in
continuo cambiamento” attribuiscono la molteplicità all’uno e la mutevolezza a ciò che si
ritiene stabile, ignorando “aspetti di permanenza e di traiettorie di sviluppo che invece sono
parti costituenti del nostro percepire noi stessi nel mondo” (Talamo e Roma, 2007, pp. 12-13).

30
Smarcandosi da queste due prospettive colte nella inconciliabile opposizione, Talamo e Roma
si dichiarano convinti che “l’identità sia sempre un percorso di significato mai unico e mai
definitivo: il frutto della relazione tra soggetti diversi (persone, organizzazioni, artefatti,
linguaggi) lungo assi di auto ed etero-riconoscimenti e attraverso varie dimesioni ontologiche
(individuale, professionale, etnica, nazionale, organizzativa…)” (ivi, p.13). L’originalità della
loro posizione – rispetto al superamento dell’opposizione tra ‘essenzialisti’ e ‘costruttivisti’ –
emerge però dal riconoscimento del “permanere, al di là del mutamento, di un nucleo: il Sé, o,
quanto meno, la percezione di una propria soggettività costante e che procede lungo linee di
sviluppo che contribuiscono a un processo sostanzialmente unificante” (ivi, p.13). L’aporia
espressa attraverso le coppie concettuali unità-pluralità e fissità-fluidità della/delle identità
può essere superata secondo questi autori ponendo il Sé come ‘stabilizzatore’, per così dire,
del processo di costruzione e di gestione dell’identità nelle interazioni mediate (e non solo).
Uno stabilizzatore che viene fatto intervenire ‘a monte’ del processo e che nelle intenzioni
degli autori è destinato a dare stabilità al “riconoscimento della pluralità identitaria”
fondandolo su di “un fulcro di convergenza in cui la persona riconosce caratteri stabili e
mutevoli dell’essere se stesso” (ivi, pp. 14-15): il Sé, appunto. Per sostenere questo passaggio
e dare un’idea di quale sia l’accezione secondo la quale essi prendono il concetto di Sé,
Talamo e Roma citano Jervis che, commentando Locke, ha affermato che la persona “coglie
se stessa come self: come Sé. (…) Il Sé è dunque l’aspetto unitario soggettivo della persona: o
meglio è la persona tutta intera con tutte le sue caratteristiche, così come è colta
nell’autocoscienza” (ivi, p.13).
Detto in altri termini, Talamo e Roma propongono di uscire dall’émpasse rilevata in
precedenza in forma di aporia, ‘stabilizzando’ l’identità di per sé mutevole e continuamente
rigiocata nell’interazione attraverso un esplicito radicamento nel Sé. Una proposta
interessante, che condivido appieno considerandola un buon punto di partenza per superare
definitivamente tale aporia, come mostrerò nel prosieguo di questo lavoro. Per fare ciò, però,
ritengo si debba guardare non solo ‘alle spalle’ dell’identità, ma anche ‘oltre’ il suo orizzonte.
Talamo e Roma avvertono questa necessità o, meglio, avvertono che una corretta
impostazione del rapporto tra “identità e Sé, tra mutare e permanere… implica la
considerazione dell’identità come un concetto ponte tra l’individuale e il sociale. Per dirla con
Wenger «costruire un’identità consiste nel negoziare i significati della nostra esperienza di
appartenenza all’interno di comunità sociali »”(ivi, p. 15). Affermando che “l’identità diviene

31
allora il punto di incontro tra traiettorie individuali e contingenze sociali e culturali” (ibidem),
i due autori mettono a fuoco l’importanza dell’interazione come luogo in cui si gioca in
termini negoziali la gestione dell’identità. Intesa come ‘punto di incontro’ tra ciò che è
individuale e quanto è sociale, l’identità si presenta quindi come luogo di confronto pure su
questo fronte. Anche qui servirà quindi, per proseguire con la metafora spaziale utilizzata in
precedenza, un ‘blocco’, una ‘stabilizzazione’ alle turbolenze cui l’identità è sottoposta in
occasione del confronto con la dimensione sociale, rappresentata dall’alter, ossia dagli altri
soggetti, così come dagli artefatti che mediano le interazioni con tali soggetti. Si crea quindi
lo spazio per un’interfaccia che stia ‘di fronte’ e non unicamente ‘alle spalle’ dell’identità
ossia, per uscire dalla metafora, per un’istanza che regoli il rapporto delle componenti
identitarie non solo verso la dimensione più (intra)personale, ma anche in riferimento
all’apertura all’inter-personale, alla realtà psico-sociale.
Il merito principale della lettura che Talamo e Roma propongono del tema dell’identità sta
quindi nell’aver individuato nel riferimento al Sé la chiave per superare l’émpasse
determinatasi con la contrapposizione tra modelli che sottolineano la monoliticità e la stabilità
dell’identità e modelli che ne esaltano la molteplicità e la fluidità: accanto ad un Sé che si
presenta come un nucleo che permane identico a se stesso, essi collocano un’identità costruita
interattivamente, intesa come un insieme di “percorsi di significato mai unici e mai definitivi”
(ivi, p.2), derivati dall’incontro tra soggetti diversi in continuo divenire.

5.3.5. Considerazioni critiche sui modelli in vista dell’apertura di una nuova prospettiva
A conclusione di questa rassegna finalizzata alla costruzione di una ‘mappa concettuale’ dei
contributi alla comprensione delle dinamiche identitarie caratteristiche delle interazioni
mediate, vorrei fare il punto attraverso alcune considerazioni critiche.
Due sono i rischi principali che a mio parere caratterizzano questa mappa: la tentazione di
cadere in un duplice riduzionismo e la possibilità di praticare un uso equivoco dei termini
principali nel trattamento della questione, con particolare riferimento a identità, Sé, soggetto e
soggettività.
Il primo rischio si concretizza in una duplice tendenza. Da un lato troviamo la possibilità di
scivolare in un riduzionismo verso il basso: rappresentato dagli approcci classici – dalla SRC
al SIDE, dalla SIP al Modello Iperpersonale – orientati a ‘ridurre’ appunto la scena alla

32
dimensione interattiva, induce a concentrare l’attenzione sul qui e ora, ossia su di un intorno
spazio-temporale talmente limitato da impedire la visione e la comprensione dei processi
identitari nelle interazioni mediate. Esiste poi un secondo tipo di riduzionismo, caratteristico
sia degli approcci catalogati tra etnografia della rete e postmodernismo, sia di quelli definiti
come post-moderni (sociolinguistica, approccio strategico e biopolitica degli ambienti
virtuali). In questo caso si tratta di un riduzionismo verso l’alto, un atteggiamento teorico-
metodologico che sia quando considera l’individuo come ‘sciolto’ dai legami comunitari, sia
quando al contrario lo ‘scioglie’ in tali legami, finisce per impedire la comprensione delle
dinamiche identitarie che caratterizzano l’interazione. L’elevazione di alcune componenti
parziali del sociale – si pensi, ad esempio, alla differenza di genere – ad orizzonte unico e
totalizzante del processo di definizione dell’identità online, così come il lavoro di
decostruzione del soggetto e la sua riduzione a un fascio di ‘riflessi’ (sui piani cognitivo, del
desiderio, della comunicazione) indipendenti da un progetto unificante impediscono di fatto la
comprensione dei processi di costruzione identitaria di cui ci stiamo occupando.
Come appare evidente da questo duplice rischio si salva unicamente la Teoria dell’Azione
Situata, primo tentativo di impostazione di un discorso equilibrato, attento ai ruoli che
individui, cultura e contesto hanno nel co-determinare la costruzione della soggettività online,
in grado di attribuire il giusto peso ai fattori personali e a quelli culturali, agli aspetti cognitivi
e a quelli emotivo-affettivi, ai processi di simbolizzazione e alla considerazione delle
componenti empiriche dell’esperienza online. Seguendo le indicazioni implicitamente
contenute in questo modello ritengo sia possibile uscire dall’émpasse del duplice
riduzionismo, puntando ad una ridefinizione dei rapporti tra gli aspetti che riguardano
l’interazione e quelli relazionali.
La considerazione della versione dialogica della Teoria del Posizionamento e del modello
proposto da Talamo e Roma permette invece di trattare il secondo rischio. Il riferimento è alla
possibilità di un uso equivoco dei termini in gioco nella questione: identità, Sé, soggetto e
soggettività vengono precisati all’interno di questi due approcci in modo tale da evidenziare
quanto equivocamente siano stati usati all’interno dei modelli precedentementi. Si tratta di
una equivocità che agisce sia sul piano semantico, sia su quello pragmatico, dal momento che
impedisce di comprendere cosa sia realmente in gioco nelle interazioni mediate rispetto al
processo di costruzione dell’identità dei soggetti. Queste considerazioni rendono evidente la
necessità di precisare i valori semantici di termini quali Sé, identità (al singolare ed al

33
plurale), soggetto e soggettività in riferimento alla triangolazione tra Soggetti(ossia attori)-
Oggetti(ossia artefatti)-Processi(ossia inter-azioni). Grazie alla Teoria del Posizionamento ed
al modello proposto da Talamo e Roma abbiamo avuto modo di chiarire come vadano intesi i
concetti di Sé e identità – proponendo delle semantizzazioni adeguate – e di considerare delle
ipotesi di funzionamento dei rapporti tra tali istanze.

5.4. Tra identità e soggettività: primi passi verso una psicosociologia delle interazioni
mediate
Obiettivo dei prossimi due paragrafi sarà lo sviluppo, sulla base di quanto messo a fuoco sino
ad ora, di una possibile nuova prospettiva che, integrando le suggestioni fornite dalla Teoria
dell’Azione Situata, dalla Teoria del Posizionamento e dal modello di Talamo e Roma le
combini in modo originale. A tale scopo, il primo dei due paragrafi che seguono sarà dedicato
a precisare ulteriormente il senso in cui ritengo vadano presi i concetti di identità, soggetto e
soggettività, in modo da poter disporre degli elementi di base per proporre, nel secondo, una
lettura dei rapporti tra tali concetti utile a rispondere in modo originale ai primi due
interrogativi formulati all’inizio di questo lavoro.

5.4.1. Strutture identitarie emergenti e presentazione di sé


Come ho avuto modo di affermare nel corso della definizione della mappa concettuale,
innumerevoli sono gli studi tesi alla comprensione di cosa sia l’identità. Ciò che accomuna
quasi tutti gli autori presi in considerazione è la tendenza a trattare l’identità come il nucleo
dell’individuo, frutto della storia personale, dei condizionamenti esercitati dalla società e dai
vari gruppi cui appartiene un individuo. Una consapevolezza volta a volta declinata in base a
sensibilità teoriche diverse, accentuando ora il carattere multi-processuale del sistema
identitario, ora la sua natura di prodotto (più o meno) stabile derivato appunto da tali processi.
Preso atto di questo dato di fondo è poi da rilevare che gli studi sul concetto di identità
possono essere distinti in due gruppi, da un lato quelli che lo intendono come ‘prodotto’,
dall’altro quelli che lo considerano come il risultato di una serie di ‘processi’ di varia natura.
Tale distinzione, spesso utilizzata dagli psicologi sociali, sollecita riflessioni che permettono
di articolare adeguatamente le due ‘facce’ dell’identità. Per quanto riguarda l’aspetto

34
processuale, come ha evidenziato Mancini, accanto alla consapevolezza che l’identità sia un
prodotto dei contesti relazionali, sociali, culturali e storici in cui le persone vivono, si è fatta
strada l’idea che essa sia “anche creatività, innovazione, tensione aperta verso il futuro e non
soltanto perché, come molti tendono a sottolineare, di fronte alla molteplicità delle alternative
in gioco… gli individui possono sempre scegliere quali identità acquisire o costruire, ma
anche perché le influenze esterne acquisiscono significato e diventano parti dell’identità solo
passando attraverso processi psicologici di tipo ricostruttivo” (2001, pp.263-264) e,
aggiungerei, interattivo. Memoria, narrazione, interazione conversazionale: è quindi il dialogo
– del soggetto con se stesso (la memoria) e con gli altri (narrazione e conversazione) – la
modalità privilegiata del ‘doppio scambio’ tra identità e ambiente, vero e proprio motore del
processo di costruzione e continua ri-articolazione dell’identità stessa.
In modo un po’ inatteso, è però dagli sviluppi della riflessione sulla natura di
‘prodotto’ dell’identità che sembra derivare il contributo più interessante alla comprensione
degli intrecci tra soggettività, identità e cyberspazio. Se continuiamo a seguire la sintesi che
Mancini ha fatto di un gran numero di studi in questo settore, ci accorgiamo che, in quanto
‘prodotto’, l’identità è il risultato di processi di vario livello – intrapersonale, interpersonale e
intergruppi – ma anche delle forze che caratterizzano lo spazio di vita del soggetto. Tali forze
e processi lavorano ovviamente in riferimento alla dimensione temporale: “all’interno della
nozione di identità in quanto ‘prodotto’, occorrerebbe quindi distinguere la struttura
identitaria relativamente stabile nel tempo e nelle modalità di espressione, dalle strutture
emergenti in momenti o situazioni diverse… prodotto dell’interazione dinamica della persona
con il suo ambiente psicologico in un dato momento e situazione (Lewin, 1951), le identità in
quanto strutture emergenti sono quei sotto-sistemi identitari che le persone di situazione in
situazione utilizzano per capire, conoscere o descrivere se stessi (van der Werff, 1990) e/o per
interpretare o dirigere le proprie azioni (Markus, Wurf, 1987)” (ivi, pp.265-266). Le
componenti dell’identità che vengono messe in gioco nelle interazioni all’interno del
cyberspazio non sono certamente riferibili a quella “struttura identitaria relativamente stabile
nel tempo e nelle modalità di espressione”. A mio parere, sono invece le “strutture
emergenti”, i “sotto-sistemi identitari” di cui si è detto ad essere sensibili alle interazioni
all’interno del cyberspazio. E tra di esse, occorre dirlo, neppure tutte. Se, seguendo Mancini,
consideriamo che attualmente le ricerche sull’identità sembrano concentrarsi su quelli che lei
chiama i tre i livelli di conoscenza – identità soggettiva, identità plurali, presentazione di sé –

35
possiamo ipotizzare che solo le strutture identitarie emergenti relative al terzo livello – la
presentazione di sé appunto – vengano messe in gioco nelle interazioni mediate. Poichè il
terzo livello di conoscenza dell’identità “riguarda ciò che le persone esprimono di se stesse
attraverso resoconti linguistici, verbali, grafici e/o attraverso i propri comportamenti”, è
legittimo ritenere che “le presentazioni di sé possono essere considerate come identità
emergenti in particolari contesti ed in particolari situazioni. Le persone possono infatti
presentarsi agli altri nel modo che ritengono più adeguato rispetto alle richieste della
situazione in cui si trovano. Esse possono falsificare la propria identità al fine di creare negli
altri l’impressione che desiderano” (Ivi, p.267 – corsivo mio). E ciò è proprio quanto interessa
la nostra indagine: infatti, per chi studia l’intreccio tra processi identitari e costruzione della
soggettività online il problema centrale – rispetto al côte identitario – è costituito dalla
“congruenza tra ciò che le persone sono (identità o autoespressione) e come esse si presentano
o si descrivono agli altri (autopresentazione)” (ibidem). Detta così, sembrerebbe una
questione riducibile all’individuazione e alla prevenzione delle simulazioni. Di fatto, invece,
lo sbilanciamento tra l’identità reale delle persone e ciò che esse dicono di sé quando si
presentano nelle interazioni mediate può diventare oggetto di indagine proprio come lo è in
riferimento alle interazioni faccia a faccia. Mancini ricorda in proposito gli studi che hanno
permesso di individuare l’intervento attivo di alcune caratteristiche di personalità – per
Snyder la capacità di automonitoraggio (1974), per Fenigstein, Scheier e Buss
l’autoconsapevolezza pubblica o privata (1975) – nell’accrescimento o nella riduzione di tale
sbilanciamento. Riportando l’attenzione alle interazioni mediate, potrebbe essere di estremo
interesse sia andare a verificare il peso di tali caratteristiche di personalità nelle vicende
relative alle identità emergenti, sia individuare la fenomenologia che tali vicende assumono in
termini interattivi. In sintesi, al termine di questo excursus, mi sembra sia possibile affermare
che:
- la ricerca psicosociale considera l’identità – intesa come oggetto delle proprie
analisi – in termini di processo e di prodotto;
- in quanto processo essa è sia determinata dal contesto, sia determinante della realtà
sociale, riconoscendone quindi il carattere di fattore attivo nei confronti
dell’ambiente di vita del soggetto cui appartiene;
- come prodotto essa deriva dall’interazione dinamica della persona (processi
intrapersonali) con il suo ambiente psicologico, interazione che si dispiega nel

36
tempo e che permette il profilarsi di ‘strutture emergenti’, veri e propri ‘sotto-
sistemi identitari’;
- identità e strutture identitarie emergenti costituiscono oggetto delle descrizioni
verbali che le persone fanno di se stesse e dei loro comportamenti a livelli diversi:
identità soggettiva, identità plurali, presentazione di sé;
- nel cyberspazio, il livello a cui è più probabile che tali ‘pezzi di identità’ – in cui la
struttura identitaria più stabile compare come una sorta di ‘parte per il tutto’ – si
manifestino è quello della presentazione di sé;
- quando parliamo di identità in riferimento ai processi interattivi nel cyberspazio è
buona cosa tenere presente che è alla presentazione di sé che ci si deve riferire,
pena un indebito allargamento del discorso da cui possono derivare gli equivoci sui
piani sia teorico, sia pragmatico spesso rilevabili quando si tratta la questione;
- per quanto riguarda gli aspetti pragmatici, esempi estremi di tali equivoci possono
essere considerate le due asserzioni “in Internet nessuno è quello che dice di
essere” e “chi sta troppo in rete finisce per crearsi una falsa identità”, asserzioni
che testimoniano rispettivamente l’idea che la falsificazione delle identità sia un
atteggiamento generale in un ambiente del tutto anomico e la convinzione che il
cyberspazio agisca del tutto negativamente sui processi identitari, soprattutto su
quelli di cui sono protagonisti soggetti ‘deboli’ da questo punto di vista (bambini,
adolescenti, ecc.).

Date per acquisite queste considerazioni, vorrei ora spostare l’accento dalle dinamiche
identitarie ai processi di costruzione della soggettività nelle interazioni mediate, processi in
cui certamente tali dinamiche entrano, ma che non si appiattiscono su di esse. È tempo quindi
di dirigere lo sguardo verso i modi attraverso i quali i soggetti si muovono in rete,
manifestando se stessi nell’incontro sia con artefatti, sia, ovviamente, con altri soggetti.

5.4.2. Identità e soggetto nelle interazioni mediate: verso la costruzione di una


soggettività enunciativa
Gli elementi riportati a conclusione del paragrafo precedente sostengono l’idea che si possa
pensare all’identità come a un’istanza in grado di preservare il senso di unità e di coerenza

37
dell’individuo, così da permettere a quest’ultimo, grazie al riferimento alla dimensione
relazionale, di sentirsi unico e indivisibile nonostante le innumerevoli attività e i tanti ruoli
rivestiti. Secondo Vincent de Gaulejac, il concetto di identità richiama un senso di
similitudine, unità, permanenza e individuazione: “l’identità si trova nel punto di intersezione
fra due irriducibili: l’irriducibile psichico, che si fonda sul desiderio di essere, e l’irriducibile
sociale, che fonda l’esistenza individuale a partire dalla sua posizione nella linea genealogica
(nella diacronia) e dalla sua posizione nella società (nella sincronia)” (de Gaulejac, 2005,
p.168). L’identità, quindi, garantisce la nostra unità e la nostra coerenza, basandosi sul
riferimento alla posizione che occupiamo in una genealogia e in una società, in senso quindi
non assoluto, ma relativo rispetto al mondo delle relazioni in cui siamo immersi. Come è
evidente, si tratta di un nucleo che non può essere ridefinito in occasione di ogni interazione,
non solo perchè un’operazione del genere richiederebbe un investimento energetico eccessivo
per chiunque, ma anche perché sarebbe rischioso ogni volta mettere in questione ciò che sta a
fondamento dell’unità della persona. Il concetto di posizione introdotto da Hermans e Ligorio
è d’aiuto per comprendere il modo in cui possiamo far emergere e convivere aspetti diversi di
noi stessi in relazione al contesto senza rischi di frammentazione dell’identità. Alla luce di
queste considerazioni è possibile quindi affermare che, pur apparendo come “la permanenza
del soggetto”, l’identità va intesa come la “costruzione incessante e fragile di una
rappresentazione di sé che tende a una unità singolare, continuativa e riconosciuta, e che via
via può essere o non essere confermata da ciò che offre il contesto” (Ardoino, Barus-Michel,
2005, p.275). L’identità si nutre delle alterazioni indotte dai movimenti e dalle azioni che il
soggetto compie nel corso delle interazioni con l’altro. Ecco perché ritengo si possa
concordare con Talamo e Roma nel riconoscere all’identità gli attributi di ‘pluralità’ e
‘fluidità’. A differenza di alcuni degli autori che essi citano, tuttavia, ci sembra importante
notare come questa ‘doppia molteplicità’ – ‘doppia’ perchè giocata sul piano sincronico
(pluralità’) e su quello diacronico (fluidità) – non possa essere considerata in termini assoluti.
Essa va relativizzata ricorrendo ad una ‘doppia stabilizzazione’ dei movimenti dell’identità,
realizzata ‘a monte’ dall’aggancio al Sé e ‘a valle’ dal riferimento al soggetto. Il radicamento
al Sé opera una sorta di contenimento ‘archeologico’ della natura fluida dell’identità,
rimettendola di continuo di fronte alla memoria di ciò che essa è stata ed è, un patrimonio
costituito dall’accumulo e dalla stratificazione delle (ri)narrazioni relative alla propria
esperienza, dando così luogo ad una ‘stabilizzazione come senso’. Il confronto ‘a valle’ con il

38
soggetto le attribuisce invece una stabilizzazione complementare, di natura ‘teleologica’,
derivata dal confronto con la progettualità che caratterizza ogni scelta, ogni mossa del
soggetto nel gioco dell’interazione; in questo caso possiamo di conseguenza parlare di
‘stabilizzazione come progetto’.
Consideriamo ora più da vicino il soggetto. Cominciamo col dire che a mio parere esso non
coincide con l’individuo, la persona, l’attore o l’agente, per elencare alcuni dei termini che più
correntemente vengono evocati quando si parla di soggetto. Non coincide neppure con l’Io
che ne è comunque l’espressione più compiuta. Con il termine soggetto intendo riferirmi a ciò
che in termini funzionali ‘sta sotto’ al Sé e all’identità, a ciò che essendo sub-iectum
‘sostiene’ quest’ultima conferendole stabilità in termini progettuali. Tale funzione viene
svolta ovviamente in rapporto al gioco interattivo. Il soggetto – vera e propria ‘istanza
fenomenica’, volto che appare all’altro nell’interazione – è, infatti, colui che con
consapevolezza e sapienza strategica effettivamente gestisce l’interazione ad esempio, per
quanto riguarda la dimensione comunicativa, attraverso la produzione degli atti linguistici.
Il soggetto non va comunque inteso come il ‘dominus’ della scena. Come ricordano Ardoino e
Barus-Michel, il senso dell’essere ‘sub-iectum’ radicato nell’etimo del termine si è
storicamente manifestato nell’essere inteso anche come “ciò che è sottomesso, l’oggetto che
viene trattato, che si cerca di controllare fino ad appropriarsene… (colui che è) soggetto al re,
assoggettato, cosificato”. Nella nostra ipotesi ciò si traduce in una ‘doppia limitazione’,
dovuta al riferimento sia all’identità in cui è radicato, sia all’altro che il soggetto incontra
nell’interazione.
La dipendenza del soggetto dall’altro è confermata dal fatto che esso mette a fuoco la propria
immagine grazie ai feedback che riceve nel corso dell’interazione: come affermano Ardoino e
Barus-Michel il soggetto “si costituisce nella relazione con l’altro. Diventa realtà attraverso
ciò che gli rimanda l’altro, il suo sguardo, la sua parola: la sua realtà gli è garantita dall’altro”
(p.276). Il soggetto ‘indossa’ un ruolo e lo concretizza assorbendo i rimandi che gli
provengono dall’esterno, divenendo così reale attraverso le conferme dell’interlocutore. In
questo senso possiamo definire il soggetto come un “insieme di posizionamenti temporanei e
non necessariamente coerenti entro cui una persona è chiamata a muoversi
momentaneamente, a seguito del discorso in atto e delle circostanze” (Smith, 1988, p.32) o
anche come un “essere umano… che aspira a realizzarsi e a mantenersi in un’unità coesa e in

39
una continuità coerente, (che) rivendica riconoscimento e condivisione” (Ardoino e Barus-
Michel, 2005, p.273).
Il rapporto tra soggetto e identità necessita di ulteriori articolazioni: con Talamo e Roma si
può dire che nell’interazione il soggetto gestisce la/le identità in termini negoziali, decidendo
di volta in volta “quali sono le identità rilevanti in quel contesto” pesandone “la rilevanza
relativa in casi in cui un determinato contesto le renda incompatibili o confliggenti” (Talamo,
Roma, 2007, p.17). Ciò significa affermare che il soggetto agisce nell’interazione in
riferimento a una “progettualità” che rimanda a strategie precise dando corso a un processo
che “non è (…) unicamente individuale né unicamente socializzato” (Talamo, Roma, 2007,
p.18).
È evidente quindi che i limiti del soggetto – principalmente espressi dalla ‘temporaneità dei
posizionamenti’ e dalla sovraindividualità del processo attraverso cui esso stabilizza le
oscillazioni dell’identità – impongono di andare oltre per capire meglio il suo ruolo
nell’interazione, a distanza o in presenza. E questo movimento ci spinge a prendere in
considerazione il concetto di soggettività, vero cuore a mio parere del gioco interattivo. La
soggettività, attributo naturale del soggetto in cui convergono componenti di natura
identitaria, cognitiva, affettiva e motivazionale, va considerata come il farsi dell’identità
attraverso i movimenti del soggetto sul filo degli eventi. In altre parole, essa è un’emergenza
dinamica che il soggetto costruisce nell’interazione attraverso l’incontro con l’altro.
La soggettività è apertura all’altro e luogo dei possibili cambiamenti del soggetto che con
l’altro si costruisce congiuntamente in modo negoziale, facendo esperienza sia della
collaborazione, sia del conflitto. In questo senso la soggettività diventa la concretizzazione
delle componenti identitarie messe in gioco durante l’interazione.
Come tale la soggettività è alla base:
- dell’espressione dell’identità;
- della modificazione dell’identità;
- della genesi di significati condivisi di un gruppo che permetteranno una migliore
presentazione di Sé in un interazione successiva.
In quanto processo, a mio parere la soggettività può essere articolata su tre piani:
a) è processo/progetto sociale perché in esso sono coinvolti a vario titolo il soggetto, il
soggetto sociale (l’alter), gli artefatti utilizzati dai soggetti per entrare in comunicazione, il

40
contesto inteso in tutte le sue dimensioni: relazionale, fisico-materiale, organizzativa,
istituzionale, culturale, semiotica, comunicativa;
b) è processo strategico di natura dialogico-relazionale-interazionale;
c) è processo enunciativo di natura dialogica e polilogica, in quanto si costituisce attraverso
l’attività enunciativa compiuta dal soggetto nel corso dell’incontro con l’altro in situazioni di
coppia (dialogo) e di gruppo (polilògo), sempre ovviamente in riferimento ai contesti in cui ha
luogo.

Una volta definiti sul piano semantico i termini della questione, è possibile considerare in
dettaglio le possibili articolazioni tra le nozioni di Sé, identità, soggetto e soggettività.
Partiamo dalla proposta di James, ripresa da Mead e approfondita da McAdams. Seguendo
questi autori, consideriamo il Sé come una realtà costituita da Io e Me. L’Io è l’aspetto
impulsivo e immediato che prende forma durante la condotta, è il soggetto consapevole
dell’ambiente e degli oggetti cui deve prestare attenzione. Quando la consapevolezza viene
spostata dal soggetto su se stesso, avviene il passaggio al Me, oggetto verso il quale si agisce
e si pensa non solo in quanto realtà corporea, ma anche come insieme di caratteristiche non
tangibili. Secondo Mead tale passaggio è fondamentale: a suo parere il soggetto può esercitare
un controllo adeguato sulle proprie azioni unicamente se è cosciente di quelle che ha
compiuto in passato, delle presenti, ma anche delle proprie volontà circa il futuro. McAdams
ha definito l’Io un processo narrativo che crea il nuovo Sé (attraverso il Selfing), mentre il Me
non è altro che il prodotto creato (McAdams, 1996). L’Io è una sorta di verbo che crea e lega
il Me, i cui cambiamenti riflettono i cambiamenti nel processo di Selfing. Quindi, se l’Io
rappresenta la parte in movimento del Sé, la soggettività è l’incarnazione contestualizzata
dell’identità che si evolve e si realizza grazie all’apporto dell’interlocutore e del contesto,
senza mai prescindere da essi. La natura della soggettività è al tempo stesso dialogica, poiché
si incarna durante lo scambio, e connettiva. La connettività (De Kerckhove, 1997, 2002) si
costituisce in riferimento alle strategie di comunicazione della soggettività che all’interno di
uno specifico gruppo sono risultate efficaci. La soggettività è connettiva in quanto è il
risultato cui gli interlocutori sono giunti ‘qui e ora’ e che può costituire una base di accordo
per gli incontri successivi tra l’Io e l’Altro. In questo senso la soggettività del singolo è il
punto di partenza per un cambiamento che può coinvolgere anche il gruppo che ha stipulato
nuovi significati condivisi.

41
La soggettività nasce quindi dall’identità, come sua realizzazione limitata all’interno di uno
specifico contesto, ma al contempo è la base per una sua evoluzione. Il fatto che l’identità
risenta dei condizionamenti di un determinato gruppo sociale, ovviamente influisce su cosa si
sceglierà di presentare di sè all’altro e su come farlo. Le norme sociali e la cultura incidono
sulla soggettività anzitutto attraverso quanto è già parte dell’identità; va comunque
riconosciuto che, precisandosi, la soggettività porta con sé spunti di cambiamento che alla
lunga possono agire anche nei confronti dell’identità, provocando in essa dei cambiamenti.
Ovviamente, mutamento non significa sempre modificazione sostanziale dell’identità. Ciò che
cambia è generalmente una parte del patrimonio identitario che può subire sia una modifica,
sia un arricchimento. Con buona frequenza e maggiore facilità, sono le modalità di
comunicazione di ciò che di noi stessi riteniamo opportuno far conoscere agli altri a subire
delle modificazioni in base ai feedback che derivano al soggetto dall’interazione.
Ogni soggettività negoziata diventa quindi il presupposto condiviso dai cui partire per
ulteriori negoziazioni di significati che andranno ad alimentare gli scambi successivi. Con il
tempo questi prodotti co-costruiti possono entrare in modo più stabile nel patrimonio comune
(non solo dei singoli, ma anche dei gruppi cui appartengono) e diventare le basi su cui fondare
‘pezzi’ della propria identità, acquistando maggiore ‘certezza’ anche a scapito della loro
dinamicità.
Questo tipo di costruzione della soggettività non riguarda unicamente le interazioni all’interno
della CMC, ma, come più volte indicato, a mio parere va considerata pertinente ad ogni tipo
di scambio, sia esso sottoposto o meno alla mediazione di artefatti tecnologici6. Nel caso di
Internet, ovviamente, la sottrazione della fisicità mina nel profondo il dato materiale – ossia il
corpo – su cui si fonda l’idea di soggetto. La rete assume di conseguenza le caratteristiche di
un luogo in cui la fenomenologia dell’identità, costretta a cercare strade diverse, si trova a
sperimentare nuove modalità. Un luogo che possiede sia la caratteristica di “transitional
space” – se la concepiamo con Suler e Barak in termini di cyberspace – sia quella di una
realtà intessuta di significati sociali co-prodotti e condivisi e quindi rilevante per i soggetti che
la abitano, come ci si presenta appunto se la concepiamo come insieme di cyberplaces. Le
definizioni dei concetti di identità, Sé, soggetto e soggettività messe a fuoco in queste pagine

6
Per una convincente dimostrazione della sostanziale similarità di struttura tra interazione faccia a faccia e
interazione mediata da artefatti tecnologici – almeno per quanto riguarda le questioni relative al tema che stiamo
discutendo e con buona pace dei primi modelli di studio della CMC – si vedano i contributi di Garau, Slater,

42
orientano a pensare la ‘presenza in rete’ come l’esperienza di uno spazio che si caratterizza
contemporaneamente nei termini di cyberspace e di cyberplace. Volendo ricorrere a delle
metafore spaziali, è possibile parlare di uno ‘spazio tra’ il ‘dentro’ (identità e Sé), il ‘fuori
individuale’ (soggetto) e il ‘fuori sociale’ (soggettività) dell’individuo. Un ambito in cui il Sé
– inteso come luogo della ‘stabilità’ della persona – si manifesta nel gioco sottile di due
‘emergenze’, la soggettività e l’identità appunto, accomunate dal fatto di essere istanze non
monolitiche, né immutabili, ma diverse tra loro per le modalità di articolazione – più
complessa nel caso dell’identità, più ‘compatta’ in quello della soggettività – e per grado di
mutabilità – rispettivamente meno e più accentuato.

Lo schema riportato in fig. 1 rappresenta i rapporti tra le varie componenti introdotte nel corso
di questo lavoro – identità, Sé, soggetto, soggettività enunciativa, cyberspace (contesto
materiale e contesto digitale), cyberplace (contesto relazionale e contesto semiotico),
relazione e interazione – e mostra come esse concorrano a definire il funzionamento del
processo di costruzione della soggettività enunciativa. La figura illustra la versione
‘monologica’ del processo: essa viene presentata secondo questa modalità per permettere una
più agevole illustrazione del processo; pertanto deve essere intesa come
esemplificazione/semplificazione astratta del processo reale che è oviamente di natura
dialogica (situazione di coppia) o polilogica (situazione di piccolo o grande gruppo),
rappresentato invece in fig. 2 nella versione dialogica, integrato nello schema relativo alla
costruzione dell’intersoggettività enunciativa.

Pertaub, Razzaque (2005); Reeves, Nass, (1996); Schilbach, Wohlschlaeger, Kraemer, Newen, Shah, Fink,
Vogeley (2006); Slater, Antley, Davison, Swapp, Guger, Barker, Pistrang, Sanchez-Vives (2006).

43
Fig. 1 – Il processo di costruzione della soggettività enunciativa: versione monologica

Ricordiamo in breve il significato attribuito ai concetti principali presenti nello schema in


modo da evidenziarne il ruolo:

• Sé: composto da Io e Me, il Sé è costituito da un insieme di voci o posizioni, ognuna


delle quali rappresenta un aspetto della vita del soggetto (professionista, amico,
genitore, figlio, ecc…). Come sostenuto dalla teoria del Dialogical Self, in esso è in
atto un continuo dialogo tra queste posizioni che negoziano i significati da attribuire
alle azioni dell’individuo. Il Sé è la radice dell’identità e ne stabilizza pluralità e
fluidità offrendo al soggetto le carte da giocare nell’interazione (stabilità come
‘radicamento nel senso’ in riferimento ai valori, alla storia, alle relazioni
dell’individuo). Detto in altri termini, il Sé si costituisce come processo il cui obiettivo
è la regolazione del dialogo tra le voci e le posizioni che lo costituiscono per fornire
all’identità i materiali che essa poi organizza in modo da permettere al soggetto di
agire in modo adeguato. In sintesi, in questo schema il Sé viene considerato come la
radice della coerenza della persona, “un fulcro di convergenza in cui la persona
riconosce caratteri stabili e mutevoli dell’essere se stesso” (Talamo, Roma, 2007).

44
• Identità: è caratterizzata da pluralità e fluidità; stabilizzata ‘a monte’ dal Sé e ‘a valle’
dal soggetto consente all’individuo di sperimentare senso di unità e di coerenza,
permettendogli, in riferimento alla dimensione relazionale (valori, senso, narrazioni
relative a ‘pezzi’ del patrimonio identitario), di sentirsi unico e indivisibile nonostante
le innumerevoli attività e le tante posizioni assunte. L’identità “selezionata” o
predominante all’interno di una specifica situazione costituisce la base delle nostre
azioni e delle nostre intenzioni comunicative, organizzate di volta in volta in
riferimento a un ‘cluster’ identitario (valori, effetti di senso e narrazioni) selezionato
in riferimento al contesto e al progetto di azione

• Soggetto: va distinto da individuo, persona, autore, agente e attore, concetti cui si


sovrappone parzialmente; non coincide neppure con l’io, che ne è comunque
l’espressione compiuta. Il soggetto va inteso come un “insieme di posizionamenti
temporanei e non necessariamente coerenti entro cui una persona è chiamata a
muoversi momentaneamente, a seguito del discorso in atto e delle circostanze”
(Smith, 1988, p.32), un “essere umano… che aspira a realizzarsi e a mantenersi in
un’unità coesa e in una continuità coerente, (che) rivendica riconoscimento e
condivisione” (Ardoino e Barus-Michel, 2005, p.273); il soggetto in questo schema è
inteso come ciò che, in termini funzionali ‘sta sotto’ al Sé e all’identità, la ‘sostiene’ e
le conferisce stabilità in termini progettuali soprattutto in rapporto al gioco interattivo;
gestisce l’interazione, in particolare quella comunicativa con consapevolezza e
strategia; è l’istanza fenomenica, ossia ciò che appare all’altro nell’interazione.

• Soggettività: è il farsi dell’identità nell’interazione attraverso le azioni del soggetto;


può essere considerata un’emergenza dinamica che si costruisce attraverso l’incontro
con l’altro. È un processo/progetto sociale perché ad esso partecipano il soggetto, il
soggetto sociale (l’alter), gli artefatti, il contesto inteso in tutte le sue accezioni:
relazionale, fisico-materiale, organizzativa, istituzionale, culturale, semiotica,
comunicativa. È un processo enunciativo di natura dia-polilogica e connettiva che
porta in sé le tracce dei soggetti che interagiscono e delle loro relazioni.

• Cyberspace: “è una visualizzazione spazializzata delle informazioni disponibili in


sistemi globali di elaborazione di esse, lungo percorsi forniti da reti di comunicazioni,
che permette la compresenza e interazione tra più utenti, e rende possibile la ricezione
e la trasmissione di informazioni attraverso l’insieme dei sensi umani, la simulazione
di realtà reali e virtuali, la raccolta e il controllo di dati lontani attraverso la
telepresenza e l’integrazione e intercomunicazione con prodotti e ambienti intelligenti
nello spazio reale” (Tagliagambe, 1997, p. 39-40). La definizione di Tagliagambe, pur
risalendo a una dozzina di anni fa, conserva per intero completezza ed efficacia e aiuta
a comprendere le specificità del cyberspace oggi ancor più evidenti a seguito
dell’ingresso nel dibattito del concetto complementare di cyberplace. Per cyberspace,
infatti, nello schema si deve intendere una realtà caratterizzata dalla compresenza di
un duplice contesto: il contesto materiale, ossia la rete fisica, l’insieme degli artefatti
materiali che la fanno funzionare e il contesto digitale, vale a dire l’insieme degli
artefatti digitali che esistono in rete, cui vanno aggiunti gli effetti derivati dalla loro
interazione. In questo senso il cyberspazio può essere considerato a tutti gli effetti un

45
insieme di tool, uno strumento a forma di rete che, potenziando lo spazio psicologico
individuale, si costituisce, per dirla con Barak e Suler, come ‘spazio transizionale’,
estensione del mondo intrapsichico, zona intermedia tra il Sé e ciò che è in parte Sé e
in parte altro dal Sé.

• Cyberplace: luoghi comunitari costruiti grazie alle nuove tecnologie digitali, ‘fatti’ di
significati sociali co-prodotti e, possibilmente, condivisi (Cilento Ibarra, 2008) e dalla
dimensione simbolica delle esperienze vissute dai soggetti all’interno del cyberspace.
Detto in altro modo, i cyberplaces sono luoghi (immateriali) del cyberspazio in cui le
persone possono interagire facendo esperienza di contesti all’interno dei quali dare
corso a interazioni e relazioni piene di riferimenti a elementi identitari, contesti al cui
interno – per dirla con Waskul – è possibile scegliere con facilità cosa e quanto di sé
mettere in gioco. Alla dimensione dei cyberplaces possono essere riferiti elementi
propri a due tipi di contesto: il contesto relazionale (il soggetto, l’altro sociale inteso
come singolo, come gruppo, come organizzazione, come comunità); il contesto
semiotico (le comunicazioni in forma di narrazioni e conversazioni; materiali di varia
natura dal punto di vista semiotico: parole, immagini, ambienti). In sintesi, il concetto
di cyberplace non si pone in alternativa a quello di cyberspace, ma lo affianca come
espressione dell’esigenza di rafforzare il punto di vista psicosociale nello studio delle
interazioni mediate.

5.5. Perché anche nel cyberspazio non è possibile sottrarsi all’altro

Il processo di costruzione della soggettività, così come lo ho inteso sin qui, avviene sempre in
presenza di una pluralità di soggetti. Nel corso di ogni interazione i movimenti descritti nel
paragrafo precedente si attivano nei due o più interlocutori e, intrecciandosi, danno corso a un
processo i cui elementi vengono presentati in fig. 2.
Il modello può quindi considerarsi una descrizione adeguata del processo di costruzione della
soggettività nel corso delle interazioni mediate solo se tale processo viene ricompreso in un
movimento di ordine logico superiore: l’attualizzazione della propria soggettività da parte dei
due o più interlocutori impegnati nell’interazione avviene infatti in relazione all’altro/agli altri
e conduce alla definizione di uno spazio intersoggettivo.

46
Fig. 2 – Il processo di costruzione della soggettività/intersoggettività enunciativa: versione
dialogica

Alla luce del tipo di ‘lavoro’ che presiede alla costruzione di tale ‘spazio’, appare adeguato
parlare di intersoggettività enunciativa, dal momento che, proprio come avviene nelle
conversazioni – che si tratti di dialoghi o di situazioni polilogiche le cose non cambiano – ciò
che risulta dall’intreccio delle voci degli interlocutori porta il segno della loro soggettività e
assume una determinata forma sul piano sia della costruzione dei contenuti, sia della gestione
dell’interazione proprio in conseguenza della messa in gioco di tale soggettività.

• Intersoggettività enunciativa: all’interno del modello con questo termine si intende il


processo che presiede alla creazione di un mondo (in gran parte) condiviso in cui i
soggetti possano interagire raggiungendo un livello adeguato di intercomprensione.
Tale mondo si caratterizza per quattro peculiarità che sono sia modalità di azione
(processo), sia risultato (prodotto) delle azioni degli interlocutori: 1) costruzione delle
soggettività degli interlocutori e loro reciproco riconoscimento; 2) definizione
congiunta delle regole di gestione dell’interazione in corso e, per quanto di pertinenza
della situazione, delle relazioni tra i soggetti; 3) definizione degli oggetti di cui ci si
occupa nel corso dell’interazione; 4) definizione delle regole (discorsive e
conversazionali) in base alle quali si parla degli oggetti definiti.
L’intrecciarsi di queste quattro attività documenta che – per usare le parole di Jacques,
il filosofo del linguaggio che per primo ha esplorato la questione del dialogo
referenziale – la co-referenza al mondo è solidale alla retro-referenza ai soggetti

47
(Jacques, 1979, pp. 254-258), formula incisiva pur se un po’ criptica che equivale a
dire che quando gli interlocutori parlano delle ‘cose’ del mondo oggetto dei propri
discorsi, danno sempre anche informazioni su di sé, lasciando la propria firma, il
sigillo della soggettività che vanno elaborando nel corso dell’interazione (Brivio,
Cilento Ibarra, Galimberti, 2010; Cantamesse, 2008; Galimberti, Cilento Ibarra, 2009).

In questo modello, soggettività e intersoggettività non possono quindi essere considerate


dimensioni dell’esperienza interattiva dei soggetti ‘separate’ l’una dall’altra. La loro
distinzione risponde alla necessità – più pratica che teorica – di osservare l’interazione da una
prospettiva ora monologica (soggettività) ora dia-polilogica (intersoggettività). Non si dà,
infatti, soggettività senza interlocutore/i e contesto/i, anche solo immaginati, dal momento che
è con essi che il soggetto, interagendo sul piano enunciativo, costruisce congiuntamente la
situazione di intersoggettività. Soggettività ed intersoggettività vanno quindi considerate
come prodotti del lavoro di condivisione dei significati che impegna gli interlocutori nel corso
di ogni interazione comunicativa. Per dirla in termini di estrema sintesi, l’intersoggettività va
intesa come una sorta di ‘modulazione dia-polilogica’ della soggettività.
Corollario di questo discorso è il fatto che la soggettività costruita nel corso di una
determinata interazione avrà senso soprattutto in rapporto a tale interazione e
all’interlocutore/agli interlocutori con cui l’interazione è stata condotta; a discrezione del
soggetto farla diventare parte del proprio patrimonio identitario attraverso il processo
descritto nel paragrafo precedente. Soggettività e intersoggettività possono quindi essere
considerate come l’accesso principale per materiali – percezioni, rappresentazioni, significati,
atteggiamenti, ecc. – in grado di influire sui processi di posizionamento all’interno del
patrimonio identitario, caratterizzato, come si è detto in precedenza, da molteplicità e fluidità.
Come è ovvio, quando intervengono dei mutamenti a livello identitario, in genere non si tratta
del risultato di singole interazioni, bensì dell’accumulo di una molteplicità di esperienze di
soggettività/intersoggettività costruite nel corso di interazioni ripetute che possono avviare dei
processi di ridefinizione interna attraverso il dialogo tra posizioni descritto nel paragrafo
dedicato appunto alla teoria del Posizionamento. Ritengo quindi che si possa dire che le
esperienze interattive sollecitano il soggetto ad impegnarsi in un lavoro di autoriflessione
all’interno del quale l’altro è comunque costantemente presente, lavoro che gli permette di
costrire un ‘doppio ponte’: tra identità e soggettività/intersoggettività da un lato e tra
interazione e relazione dall’altro.

48
Questa particolare posizione del soggetto suggerisce l’approfondimento del rapporto tra
queste due coppie concettuali, ipotizzando tra di esse un curioso parallelismo.
Come ho dimostrato altrove, interazione e relazione possono essere distinte in base alla loro
diversa estensione in termini spazio-temporali: nel caso dell'interazione l’intorno spazio-
temporale è assai limitato e deve essere necessariamente percepito da almeno due soggetti,
mentre nella relazione la sua estensione non è limitabile a priori ed è attraverso la
rimemorazione che i soggetti coinvolti possono appropriarsene (Galimberti, 1992, pp.44-46).
Tra queste due modalità di strutturazione dell’esperienza non appare di alcuna utilità stabilire
un rapporto di subordinazione, qualunque ne sia il verso: a mio parere vanno evitate sia la
posizione di chi sostiene che l'interazione ha senso unicamente se riferita ad una relazione, sia
quella di coloro che subordinano la conoscenza delle relazioni allo studio dell'interazione. Più
utile è invece ipotizzare l’esistenza di un rapporto di circolarità: l'interazione, infatti, prende
senso se viene collocata sull'orizzonte della relazione in cui trova la propria origine. La
relazione costituisce infatti, per così dire, il destino dell’interazione dal momento che ciò che
viene prodotto nel qui e ora – si tratti di contenuti o di fattori riferibili alla definizione delle
forme di rapporto tra gli interlocutori – ricade poi sulla relazione, con la possibilità per il
soggetto di integrarlo o di escluderlo dal proprio patrimonio identitario. In questo modo si
viene a chiudere il cerchio che definisce l'articolazione e l'influenzamento reciproco tra queste
due dimensioni dell'esperienza umana.
Veniamo ora all’altra coppia di concetti. Come sappiamo. la soggettività/intersoggettività
rappresenta la concretizzazione di uno o più aspetti dell’identità di una persona messi in gioco
nel corso dell’interazione, facendosi così espressione dell’identità stessa, ma anche occasione
per essa di ‘rifornimento’ sul piano esperienziale e di arricchimento del mondo delle relazioni
proprio della persona in termini sia di contenuti, sia di modalità di gestione dei rapporti.
L’identità, a sua volta, collocata tra ciò che de Gaulejac chiama l’irriducibile psichico e
l’irriducibile sociale (2005, p.168), garantisce una certa stabilità e coerenza alla persona
agganciandone le dinamiche all’orizzonte storico e valoriale costituito dall’insieme delle
relazioni in cui essa è immersa, presentandosi quindi come il destino della soggettività: in
questo sta l’aspetto principale dell’analogia con la coppia interazione-relazione e,
contemporaneamente, un esempio dell’intreccio profondo che lega le due coppie concettuali.
Il soggetto, dunque, prende forma solo nell’incontro con l’altro e a seguito del reciproco
riconoscimento sancito dalla costruzione della soggettività/intersoggettività; ecco perché,

49
come afferma il titolo di questo paragrafo, anche nel cyberspazio è impossibile sottrarsi
all’altro.

Verso la conclusione, ovvero una risposta per tre quesiti

Ora possiamo avviarci alla conclusione provando a rispondere, sulla base dell’analisi
compiuta, ai tre interrogativi formulati aprendo questo lavoro.
Ricordiamo il primo quesito:

- come si definiscono i rapporti tra Sé e identità personale nelle


interazioni mediate?

Un’osservazione preliminare: tenendo conto di quanto si è detto a proposito del concetto di


identità, il quesito andrebbe modificato considerando il termine in senso plurale e così farò
nel corso della risposta. Come si è cercato di dimostrare, il Sé costituisce l’istanza in cui le
componenti identitarie del soggetto affondano le proprie radici. Ciò sia perché da esso
derivano i materiali di cui si alimentano, sia perché dal Sé ricevono la stabilità utile a
bilanciare i movimenti determinati dalle pluralità e fluidità delle istanze in cui si articolano. Si
tratta quindi di un rapporto decisivo per gli equilibri della persona: dando corpo a
un’integrazione tra la posizione di Talamo e Roma e la teoria del Dialogical Self -
integrazione di cui mi assumo totalmente la responsabilità – direi che il Sé, inteso come
“fulcro di convergenza in cui la persona riconosce caratteri stabili e mutevoli dell’essere se
stesso”, lavora affinché alla dimensione identitaria non manchino i materiali da fornire al
soggetto per alimentarne i comportamenti nelle interazioni in cui il soggetto è
quotidianamente impegnato. Detto in altri termini, il Sé si costituisce attorno al compito di
regolazione del dialogo tra le voci e le posizioni che lo costituiscono per fornire alle identità i
materiali che vengono poi organizzati in modo da permettere al soggetto di agire con
coerenza, volta a volta in riferimento a un ‘cluster’ identitario (valori, effetti di senso e
narrazioni) selezionato in rapporto ai contesti e al progetto di azione. Non si può quindi
rispondere adeguatamente al primo quesito senza riformularlo includendo in esso anche il
ruolo del soggetto: come ho cercato di rappresentare graficamente in fig. 1, il soggetto è

50
infatti il terminale naturale della prima parte, costituita appunto dalla triade Sé-identità-
soggetto, della filiera che dal Sé arriva all’intersoggettività enunciativa.
L’inclusione del soggetto permette di sciogliere alcuni equivoci che stanno dietro al primo
interrogativo così come risulta nella sua originaria formulazione. Prescindendo dalle
situazioni di dipendenza patologica dalla rete di cui come detto sin dall’inizio non mi sono
voluto occupare in questo lavoro, possiamo innanzitutto chiederci se abbiano ancora senso
paure del tipo “attento perché in Internet nessuno è quello che dice di essere” o “chi sta troppo
in rete finisce per crearsi una falsa identità”, figlie dirette del timore che la frequentazione del
cyberspazio influisca negativamente sui processi identitari, soprattutto quando in gioco ci
sono soggetti ‘deboli’, come i bambini e gli adolescenti. La mia risposta è negativa: paure
così formulate non tengono conto del ruolo attivo del soggetto, né del fatto che nelle
interazioni mediate non vengono meno le difese che il soggetto pone tra i propri Sé e identità
e il mondo esterno. Ciò non significa, evidentemente, che la frequentazione del cyberspazio
non comporti rischi, in particolare per i soggetti ‘deboli’; significa invece che tale
frequentazione non è ‘rischiosa-di-per-sé’, né che ‘di-per-sé’ necessariamente finisca per
modellare le identità dei soggetti o minare il loro Sé esautorandolo dal ruolo di governo che
esercità ‘da monte’ sulle dinamiche identitarie.
Il confronto tra posizioni così radicalmente opposte sollecita a mio parere l’assunzione di una
posizione equilibrata. Tra dire che “dietro ad ogni albero del bosco si nasconde un lupo” e
affermare che “nel bosco… sì qualche volta si è visto un lupo, ma comunque adesso non c’è
più da preoccuparsi” si apre la possibilità di raccontare a Cappuccetto Rosso come è fatto il
bosco, quale ne sia la mappa, che aspetto abbiano i lupi o altri animali incontrabili nel bosco
che potrebbero rivelarsi pericolosi, ma soprattutto anticipare alla piccola alcuni possibili finali
della fiaba in modo che si renda conto di cosa possa succede a chi il lupo lo incontra per
davvero, dandole pure qualche indicazione su come ‘modulare’ il proprio aspetto al momento
in cui incontra l’altro – non necessariamente il lupo – nel bosco-rete in base sia alla
percezione che ha di lui, sia al progetto d’azione da cui è guidata.
Se il nostro riferimento sono soggetti ‘sufficientemente attrezzati’ all’utilizzo delle nuove
tecnologie e soprattutto della rete, per evitare loro di incorrere nei rischi da molti ancora
paventati potrebbe essere sufficiente sostenerli nello sviluppo di una cultura d’uso delle
tecnologie che tenga assieme il potenziamento delle capacità di operare con gli artefatti
disponibili con lo sviluppo della consapevolezza di cosa in quanto soggetti essi mettono in

51
gioco quando incontrano l’altro nel cyberspazio. È quasi inutile ricordare il ruolo che possono
e debbono avere nello sviluppo di programmi di questo genere le agenzie formative che il
cittadino-utente della rete incontra fin dai primi anni della propria vita. Ciò che deve tenere
presente chiunque si accolli questo compito è la necessità di lavorare su di un doppio binario
sostenendo da un lato i singoli attraverso adeguati programmi di ‘empowerment della
soggettività online’ e rendendo possibile dall’altro un accesso sempre più diffuso a servizi
online che facciano della partecipazione l’aspetto qualificante della loro proposta.
Vorrei concludere la risposta al primo quesito ricorrendo alla seconda citazione usata come
ex-erga, quella ripresa da Wallace che riporta la dichiarazione di un attore della piéce online
Vampire: The Masquerade: “Molte persone cominciano recitando un ruolo totalmente
differente dal Sé reale, ma è inevitabile che ognuno finisca per portare qualche aspetto della
propria personalità nel suo personaggio”. Come a dire che il soggetto può anche costruire la
propria ‘identità online’ – per citare la Wallace, anche se a questo punto in coerenza con la
‘topica’ proposta dovremmo parlare di ‘soggettività’ – cercando di allontanarsi da se stesso,
simulando appunto di essere chi non è. Sarà comunque difficile – a mio parere impossibile –
evitare che metta in atto questo ‘lavoro’ di mascheramento senza rivelare la propria mano
ossia, fuori di metafora, senza lasciare tracce della propria identità o, meglio, di quella parte di
identità (quella che l’attore chiama “personalità”) che consapevolmente o meno ha deciso di
mettere in gioco. Detto in altri termini, il soggetto può costruire la propria ‘identità online’
allontanandosi da sé, magari ‘vampireggiando’ coloro che incontra nel cyberspazio, tuttavia
questo lavoro di mascheramento parlerà di lui, risultandone inevitabilmente segnato.

La discussione del secondo quesito offre la possibilità di toccare il centro della questione.
- quali sono – mi chiedevo – le modalità attraverso le quali si costruisce la
soggettività in rete? Con questa espressione intendo riferirmi sia a quanto il
soggetto trae dalla modulazione di elementi riferibili ai propri Sé e identità, sia a
tutto ciò che egli ‘immette nella rete’ nel corso dell’interazione con gli altri attori
sociali (interventi verbali più o meno organizzati in conversazioni, discorsi in
genere, testi) e con gli artefatti che incontra (percorsi di navigazione, preferenze
per determinati apparati di cui sono dotati gli artefatti, ecc.) materiale che
inevitabilmente documenta aspetti fondamentali della sua identità personale (sui
piani cognitivo, emotivo, di comunicazione).
Detto in altri termini: come gli attori sociali definiscono attraverso le modalità
enunciative, in concorso con i loro Sé e identità, le soggettività proprie e altrui nel
corso delle interazioni mediate?

52
Questa volta partiamo da una citazione: “Segui il coniglio bianco”7. Si tratta del
consiglio/ordine che appare sullo schermo del computer di Thomas Anderson-Neo all’inizio
del primo film della saga di Matrix; scegliendo di seguire questa indicazione egli inizia il
percorso che lo porterà progressivamente a scoprire la propria identità e, alla fine di una storia
di non sempre facile comprensione, quella del mondo reale/virtuale in cui si trova ad essere
gettato. Il modo in cui Neo risponde al consiglio/ordine è la conseguenza di una sua decisione
che sta all’origine del processo di scoperta-costruzione della propria identità. Neo ‘decide’ di
mettersi in gioco: accoglie il suggerimento che gli proviene dal computer, apre la porta a un
gruppo di giovani, tra di essi individua una ragazza con un coniglio bianco tatuato sulla
spalla, capisce che questa apparizione ha a che fare con il consiglio/ordine ricevuto dal
computer, quindi accetta di seguire il gruppo in un locale per partecipare a una festa; lì
incontra Trinity che lo mette in contatto con un gruppo di resistenti in lotta contro Matrix e
dall’incontro con loro maturerà la presa di coscienza sulla propria identità, le proprie origini,
il proprio destino. Da questa sintesi dell’avvio del ciclo di Matrix appare evidente come la
storia di Neo costituisca un esempio paradigmatico dell’impossibilità di essere se stessi a
prescindere dall’incontro con l’altro, qualunque sia il contesto – online, offline o uno spazio
‘realtuale’ di difficile connotazione come è appunto quello di Matrix – che fa da sfondo ai
processi di formazione, rappresentazione e negoziazione delle soggettività degli attori.
Costruendo la sua soggettività, Neo produrrà materiali utili a ‘riempire’ anche i propri vuoti
identitari, dando corpo a un fenomeno che, come mostrato nei paragrafi precedenti, compare
spesso anche nella realtà.
Lasciamo ora l’esempio tratto da Matrix per segnalare due aspetti importanti del processo di
costruzione della soggettività, utili a proseguire nella risposta al secondo interrogativo. Il
lavoro in cui i soggetti si impegnano per definire la propria soggettività si svolge
essenzialmente in termini comunicativi. È attraverso la parola scambiata che il soggetto si
rivela a se stesso e agli altri, attingendo alle ‘riserve identitarie’ sotto la regia del proprio Sé8.

7
Per la sequenza in questione si veda http://www.youtube.com/watch?v=Smwrw4sNCxE
8
Non sempre, ovviamente, il processo approda a un risultato positivo. Tensioni, incomprensioni, simulazioni,
inganni, manipolazioni e conflitti veri e propri sono sempre in agguato. E ciò perché non è mai garantito a priori
che l’interazione si risolva nell’intercomprensione. Una risposta completa al secondo interrogativo richiederebbe
la discussione del ruolo del conflitto nel processo che impegna i soggetti alla costruzione della propria
soggettività e alla definizione di uno spazio intersoggettivo. Si tratta di un aspetto che in queste pagine non è
stato tematizzato in modo esplicito poiché il lavoro empirico sin qui condotto dal nostro gruppo di ricerca si è
concentrato soprattutto sull’analisi di processi caratterizzati dal successo nella costruzione di situazioni
intersoggettive (Cantamesse, 2007; Brivio, Cilento Ibarra, & Galimberti, 2010). Altri progetti, ovviamente,

53
Per questo possiamo dire che la soggettività-intersoggettività è il risultato di un processo
enunciativo di natura dia-polilogica e connettiva che rivela agli osservatori e ad altri possibili
partecipanti all’interazione le tracce dei soggetti in azione. La seconda osservazione riguarda
il ruolo dei contesti che i soggetti attivano volta a volta per privilegiare aspetti specifici del
lavoro di costruzione della soggettività-intersoggettività. Come abbiamo visto cyberspace e
cyberplaces costituiscono il/i contesto/i riunendo gli aspetti di pertinenza degli oggetti (il
cyberspace articolato in contesto materiale e contesto digitale) e dei soggetti (i cyberplaces in
cui ritroviamo contesto relazionale e contesto semiotico).
La prima di queste due notazioni spinge a riconoscere che per fornire una risposta
soddisfacente all’interrogativo di partenza, anche in questo secondo caso è opportuno forzarne
la formulazione iniziale. Per comprendere come si perviene“a definire nel corso delle
interazioni mediate le soggettività percepite e partecipate dagli attori sociali” bisogna
ragionare in termini relazionali, andando oltre la soggettività per articolarla, come mostrato in
precedenza, con l’intersoggettività enunciativa. Se torniamo alla fig. 2, è possibile notare
come l’intersoggettività enunciativa costituisca l’area in cui si incontrano, incorniciate dal
sistema dei contesti costituito da cyberspazio e cyberplaces, le filiere Sé-identità-soggetto-
soggettività relative a ciascuno degli interlocutori che partecipano alla situazione interattiva,
filiere che, messe in gioco in situazioni interattive, vanno a risolversi relazionalmente appunto
nell’intersoggettività. La metafora grafica dell’area rende con buona approssimazione l’idea
dell’intersogggettività come un processo orientato alla definizione di un mondo in gran parte
condiviso in cui i soggetti possono interagire raggiungendo un livello adeguato di
intercomprensione. Per tornare al nostro esempio, seguendo il coniglio bianco Neo non solo si
reinventa come soggetto, arricchendo la propria identità di nuovi aspetti (valori: la lotta per
non soccombere a Matrix; effetti di senso: la progressiva comprensione della natura di Matrix;
narrazioni: i racconti di Morpheus e dell’Oracolo che gli svelano la sua identità e ciò a cui è
destinato), ma interagendo con gli altri personaggi dentro e fuori dalla matrice, costruisce il
contesto all’interno del quale prende senso l’intera vicenda, vero e proprio mondo possibile9
in grado di ospitare la narrazione.

sviluperanno in futuro anche questo aspetto di evidente e fondamentale importanza per comprendere il processo
di costruzione della soggettività nelle interazioni mediate.
9
Utilizzo questo concetto nell’accezione proposta da Umberto Eco per il quale un ‘mondo possibile’ “consiste di
un insieme di individui forniti di proprietà. Siccome alcune di queste proprietà o predicati sono azioni, un
mondo possibile può essere visto anche come un corso di eventi. Siccome questo corso di eventi non è attuale,
ma appunto possibile, esso deve dipendere dagli atteggiamenti proposizionali di qualcuno, che lo afferma, lo

54
Questi, in estrema sintesi, i fattori in gioco e le modalità in cui essi si combinano non solo per
definire nel corso delle interazioni mediate le soggettività proprie e altrui da parte degli attori
sociali, ma soprattutto per costruire lo scenario all’interno del quale tali soggettività agiscono.

Il terzo quesito ci riporta alla prospettiva generale di questo volume:

- le risposte ai due quesiti precedenti permetteranno di impostare anche


a proposito delle interazioni mediate un’analisi adeguata degli intrecci
esistenti tra identità adulta e relazione con l’altro? Se sì, quali
potranno essere le conseguenze di ciò sulla questione della
responsabilità nella gestione della propria soggettività nelle relazioni
online?

In base a quanto detto sin qui, appare evidente che la risposta al primo interrogativo non può
che essere positiva. Rimane da discutere quanto tematizzato dalla seconda parte del quesito.
Ovviamente non è possibile affrontare in dettaglio in questo lavoro i problemi che tale
questione trascina con sé: parlare di responsabilità potrebbe portarci lontano, costringendoci a
fare riferimento alla libertà di scelta, alla dimensione etica dei comporamenti, ai rapporti tra
pubblico e privato e tra individuale e comunitario, per non parlare della possibile ‘punibilità’
di comportamenti irresponsabili nelle interazioni mediate. Ma ciò ridarebbe fiato a un
discorso che invece vuole avviarsi alla conclusione. Per questo proverò ad affrontare il tema
mantendomi ai suoi aspetti essenziali.
La questione di per sé potrebbe anche essere liquidata in poche battute, affermando che la
responsabilità è una dimensione fondante la soggettività e che senza responsabilità non ci può

crede, lo sogna, lo desidera, lo prevede, eccetera.” (Eco, 1979, p.128). Un esempio interessante di costruzione di
un ‘mondo possibile’ che si allarga dalla dimensione della fiction a quella della comunità di interesse è offerto
dall’invito che gli autori che si riconoscono sotto il nome collettivo Wu Ming hanno rivolto ai lettori di
Manituana, loro lavoro pubblicato nel 2007. Riportiamo questo invito riprendendolo dal sito dedicato a
Manituana. Il corsivo ovviamente è mio e segnala il passaggio in cui prende corpo il riferimento a un ‘mondo
possibile’ costruito congiuntamente: “Durante la stesura di Manituana abbiamo scritto e messo on line alcuni
"racconti di avvicinamento", o "prolegomeni". Non si trattava di semplici "anticipazioni", ma di racconti
"laterali", germogliati sul legno del tavolo durante le riunioni. Incompiuti e inconclusivi, erano capitoli ribelli,
riottosi, ammutinati. Non faranno parte del libro, e non dicono alcunché sugli stili in cui è scritto. Materia
narrativa sfuggita dalle mani. Condividono con l'opera principale intersezioni di immaginario. Altri micro-
racconti li abbiamo scritti ad hoc per questo sito. Il lavoro iniziato con Manituana prosegue, per altri due
romanzi ci spingeremo lungo le piste del Settecento e solcheremo l'Atlantico, diretti ora a levante, ora a ponente.
Continueremo a produrre racconti, micro-novelle, frammenti, antefatti, epiloghi alternativi. Nei mesi e anni a
venire accoglieremo con gioia, selezioneremo e pubblicheremo i racconti e frammenti che vi salterà il ghiribizzo

55
quindi essere intersoggettività. Il ragionamento appare coerente con la proposta contenuta in
questo lavoro. Ne è però evidente la fragilità se pensiamo che la tendenza a ‘scaricare’ il peso
della responsabilità può presentarsi sin dall’inizio del processo di costruzione della
soggettività. D’altra parte, anche la terza citazione posta in apertura di questo lavoro, “È da
un po’ che sto cercando di sviluppare uno stile di vita che non richieda la mia presenza”,
attribuita a Pierre Trudeau – più volte primo ministro del Canada nel periodo tra il 1969 e il
1984, noto per la sua originalità e per l’anticonformismo delle dichiarazioni oltre che
dell’azione in politica – ribadisce che persino all’origine della decisione di ‘non esserci’ o,
come nel caso delle interazioni mediate, di ‘esserci-senza-presenza-fisica’, troviamo la
volontà del soggetto, un suo progetto. La frase di Trudeau potrebbe far pensare ad un soggetto
in fuga dalle seccature della vita quotidiana, un soggetto (auto-)illuso dal fatto che basti ‘non-
esserci’ per potersi sottrarre alle responsabilità che accompagnano tali seccature. Ancora più
grave sarebbe però il caso in cui ci trovassimo di fronte ad una versa e propria fuga dalla
soggettività, ossia al rifiuto ad impegnarsi nella costruzione della propria soggettività
attraverso il processo precedentemente illustrato. Sarebbe questo un caso ben più grave
costituito dal tentativo di costruire la propria soggettività senza mettersi in gioco, evitando il
confronto con l’altro e con il contesto o, peggio, scegliendo la strada della simulazione e della
manipolazione. E ciò fermerebbe sul nascere il processo di assunzione delle responsabilità
connesse alla definizione della propria soggettività, ossia di quanto si vuole che l’altro veda e
sappia di me. Quali potrebbero essere le conseguenze?
Il soggetto verrebbe meno alle responsabilità che ha nei confronti sia di se stesso e della
propria identità, sia dell’altro che gli sta di fronte nell’interazione:
1. Mancanza di responsabilità nei confronti di se stesso e della propria identità. Ciò
che viene presentato all’interlocutore, infatti, è una parte dell’identità che
incarnandosi nella soggettività diviene un ‘oggetto condiviso’ continuamente in
movimento ed eventualmente riportato all’identità attraverso il selfing. La strategia
comunicativa che è alla base delle scelte del singolo (ad esempio “essere sincero”
o “ingannare”) è conseguenza di un’intenzione e non dipende dalle caratteristiche
del mezzo. Il soggetto che non è consapevole di questa scelta rende difficile il
percorso di ricollocazione della propria esperienza nella sfera dell’identità,
mostrandosi così irresponsabile verso se stesso, perdendo occasioni per accrescere
competenze, abilità, autostima ed evitare la crescita del senso di disgregazione che
accompagna il moltiplicarsi di esperienze ‘anonime’ in contesti ‘anomici’.

di inviarci, a condizione che vivano e respirino nel mondo che insieme andiamo costruendo”
(http://www.manituana.com/section/76).

56
2. Mancanza di responsabilità nei confronti dell’altro. Come ho cercato di
dimostrare in precedenza, la soggettività va intesa come il farsi dell’identità
nell’interazione attraverso le azioni del soggetto. Essa è il prodotto di un
processo/progetto sociale cui partecipano il soggetto, il soggetto sociale, gli
artefatti e il contesto inteso in tutte le sue accezioni. Obiettivo di tale processo è la
condivisione con il proprio interlocutore della presentazione di Sè. La natura
sociale della soggettività è ribadita delle azioni comunicative attraverso cui il
soggetto le dà corpo, azioni che vanno ritenute riuscite solo in presenza di una
risposta da parte dell’interlocutore che ne diventa co-responsabile.

Da queste considerazioni emerge una doppia connotazione di responsabilità: essa va intesa sia
come la capacità – non necessariamente praticata – di ‘fornire risposte’ circa le proprie azioni
all’interno della relazione con il proprio interlocutore; sia come la tendenza a progettare tali
azioni tenendo conto del fatto che esse vanno a toccare l’altro, implicandolo anche
indipendentemente dai (se non addirittura contro i) suoi progetti d’azione. È evidente quindi
che si può parlare di responsabilità unicamente all’interno di un orizzonte relazionale.

L’intreccio tra responsabilità e dimensione sociale nella costruzione della soggettività è


confermato da quanto Tagliagambe ha recentemente scritto a proposito della natura sociale
della rete: “La ricchezza della rete, di cui parla Benkler, sta oggi anche nel fatto che essa è
diventata, ed è sempre più, lo «spazio infra», di cui parla la Arendt, (…) dove la voce del
singolo viene non soltanto diffusa e amplificata, ma tradotta, trasposta in una nuova
dimensione, dove da fatto privato diventa evento pubblico” (Tagliagambe, 2008, p.208).
Come esempio paradigmatico di ‘spazio infra’ Tagliagambe cita quello occupato dal coro nel
teatro greco, uno spazio di mediazione tra ciò che si svolge in scena e gli spettatori: “uno
spazio alternativo (…) dove aveva luogo la catarsi, una purificazione che permetteva a
ciascun cittadino di scoprire un senso di finalità comune o di appartenenza (…) che faceva di
ogni spettatore la parte consapevole di «un tutto», aveva luogo (…) attraverso la mediazione
del coro, che danzava nella piattaforma dell’orchestra, uno spazio «soglia» (…) La
piattaforma dell’orchestra non era pertanto lo spazio dello spettatore, né dell’attore; era il
centro dell’attenzione di tutti, uno spazio tipicamente di convergenza, e quindi intermedio”
(Tagliagambe, 2008, pp. 199-200). Uno spazio che sembra possedere le caratteristiche di
quello generato dall’incontro delle soggettività, ossia lo spazio dell’intersoggettività
enunciativa, origine della comunicazione, della creatività, luogo al cui interno è possibile fare

57
esperienza di ‘presenza sociale’, contesto adatto a valutare il grado di responsabilità degli
interlocutori e quindi la moralità dei loro comportamenti in rete. Se volessimo portare alle
estreme conseguenze questo ragionamento, potremmo concludere ancora con Tagliagambe
che “considerato presupposto indispensabile e precondizione della libertà (…) l’infra è uno
spazio che tiene in relazione gli individui” (2008, p.207).

Fatto il punto con le risposte ai tre quesiti, vorrei concludere indicando alcune possibili linee
di sviluppo delle riflessioni raccolte in queste pagine.
Prmo obiettivo dovrà essere il completamento dell’operazionalizzazione dei concetti utilizzati
per descrivere il processo di costruzione dell’intersoggettività enunciativa. Per fare ciò sarà
utile lavorare in due direzioni: da un lato completare l’articolazione sul piano teorico dei
singoli costrutti (e ciò vale in particolare per i concetti di soggetto e soggettività), dall’altro
mettere a fuoco le loro differenze rispetto a come vengono semantizzati da teorie e modelli
che li utilizzano all’interno di prospettive disciplinari diverse da quella psicosociale (e in
questo caso penso in particolare all’intersoggettività). Un tale passo andrà compiuto per
permettere la continuazione nelle migliori condizioni possibili del lavoro di validazione
dell’intera filiera Sè-identità-soggetto-soggettività enunciativa-intersoggettività enunciativa.
Sul piano della ricerca empirica, come ho già detto, sarà utile procedere all’esplorazione del
processo sia in condizioni di ‘normalità critica’ prendendo in considerazione, ad esempio,
interazioni di tipo conflittuale, sia in situazioni caratterizzate da un uso ‘distorto’ o patologico
degli artefatti tecnologici, integrando in questo secondo caso la prospettiva psicosociale con
altre competenze specifiche opportunamente scelte di volta in volta.
Sul piano metodologico ci sarà da lavorare per mettere a punto strumenti utili alla produzione
e all’analisi di dati di livello sovraindividuale in grado di descrivere il processo di costruzione
dell’intersoggettività enunciativa in prospettiva dialogica e polilogica, ampliando il parco sia
degli strumenti quantitativi, sia di quelli qualitativi i cui punti di forza rimangono per ora
rispettivamente la network analysis e l’analisi delle conversazioni.
Una prospettiva, quindi, non facile, ma di indubbio interesse, da percorrere tenendo ben a
mente che il coniglio bianco, fino ad ora, l’abbiamo solo intravisto10.

10
Questo lavoro – sintesi di una riflessione che da qualche tempo occupa abbastanza stabilmente i miei pensieri
– non sarebbe stato possibile senza le mille conversazioni con Eleonora Brivio, Matteo Cantamesse e Francesca

58
Cilento che con me lavorano alle idee cui ho cercato di dare forma attraverso di esso. Un ringraziamento
particolare va inoltre a Loredana Gatta e Claudia Ceriani per il prezioso aiuto nel lavoro di preparazione dei
materiali e ad Antonio Bova per la rilettura critica del testo.

59
Bibliografia
Agazzi, E. (1976). Criteri epistemologici fondamentali delle discipline psicologiche. In G.Siri
(Ed.), Problemi epistemologici della psicologia. Milano: Vita e Pensiero, (1976), pp.3-35.

Ardoino, J., Barus-Michel, J. (2005). Soggetto. In J. Barus-Michel, & E. Enriquez (Eds.),


Dizionario di psicosociologia. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Aycock, A. (1995). Technologies of the Self: Foucault and Internet Discourse, in Journal of
Computer Mediated Communication, 1, (2). http://jcmc.indiana.edu/vol1/issue2/aycock.html

Barak, A. (2008). Psychological aspects of cyberspace: Theory, research, applications,


Cambridge, UK: Cambridge University Press.

Barak, A., & Suler, J. (2008). Reflections on the psychology and social science of cyberspace,
in A. Barak (Ed.), Psychological aspects of cyberspace: Theory, research, applications (pp.
1-12). Cambridge, UK: Cambridge University Press.

Barus-Michel, J., & Enriquez, E. (2005). Dizionario di psicosociologia. Milano: Raffaello


Cortina Editore.

Berger, P.L., & Luckmann Th. (1997), The Social Construction of Reality. New York:
Doubleday-Anchor Books; trad. it. Berger P., Luckmann T. La realtà come costruzione
sociale. Bologna: Il Mulino, 1969.

Brivio, E., Cilento Ibarra, F & Galimberti, C. (2010). An Integrated Approach to Interactions
in Cyberplaces: The Presentation of Self in Blogs. In R. Taiwo, Handbook of Research on
Discourse Behavior and Digital Communication: Language Structures and Social Interaction.
Hershey, PA: IGI Global, pp. 810-829.

Brubaker, R., & Cooper, F. (2000). Beyond “identity”. Theory and Society, 29, 1-47.

Bruckman, A. (1992). Identity workshop: emergent social and psychological phenomena in


text based virtual reality. Boston: Mit Media laboratory. Disponibile come documento
elettronico all’indirizzo <ftp://ftp.cc.gatech.edu/pub/people/asb/papers/identity-workshop.rtf>.

Bruckman, A. (1993). Gender Swapping on the Internet. Proceedings of INET '93. Reston,
VA: The Internet Society.

Burkhalter, B. (1999). Reading race online. Discovering racial identity inUsenet discussion, in
Smith, Kollock (eds.), Communities in Cyberspace, London New York: Routledge.

Cantelmi, T., D’Andrea, A., & Del Miglio, C., & Talli, M. (2000). La mente in Internet.
Psicopatologia delle condotte online. Padova: Piccina.

60
Cantamesse, M. (2008). Reciprocal presence: A qualitative analysis of psycho-social
interaction in Virtual Reality, Doctoral Thesis, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

Cardaci, B. (2001). Il Self virtuale: l’identità intercambiabile. In M. Cardaci (Ed.), Ciber-


psicologia: Esplorazioni cognitive di Internet. Roma: Carocci.

Cilento Ibarra, F. (2008). Prendere forma nella rete: dall’identità all’intersoggettività nelle
interazioni online. Tesi di Dottorato di ricerca in Psicologia, Ciclo XXI.
Clay, R.A. (2000). Lynking up online. Monitor on Psychology, 31, 20-23.

de Gaulejac, V. (2005). Identità. In J. Barus-Michel, & E. Enriquez (Eds.), Dizionario di


Psicosociologia. Milano: Raffaello Cortina Editore.

De Kerckhove, D. (1997). Connected Intelligence. Toronto: Somerville House Publishing.

De Kerckhove, D. (2002). Towards "connected intelligence". Comunicazioni Sociali, 24(1),


130-131.

Doise, W. (1986). Levels of Explanation in Social Psychology. Cambridge: Cambridge


University Press.

Donath, J. (1999). Identity and deception in the virtual community” in Smith, Kollock (eds.),
Communities in Cyberspace, London New York: Routledge.

Eco, U. (1979). Lector in fabula. Milano: Bompiani.

Fenigstein, A., Scheir, M.F., Buss, A.H. (1975). Public and private self-consciousness:
Assessment and theory, in Journal of Consulting and Clinical Psychology, 43, 522-527.

Fogg, B.J. (2005). Tecnologia della persuasione. Milano: Apogeo.

Fornäs, J. (1998). Digital borderlands: Identity and interactivity in culture, media and
communication. Nordicom Review, 98(1).

Galimberti, C. (1992). Analisi delle conversazioni e studio dell'interazione psicosociale. In C.


Galimberti (Ed.), La conversazione. Milano: Guerini & Associati.

Galimberti, C. (1994). Dalla comunicazione alla conversazione: Percorsi di studio


dell'interazione comunicativa. Ricerche di Psicologia, 1, 113-152.

Galimberti, C. (2002). Aspetti psicosociali della comunicazione online. Verso una


psicosociologia del cyberspazio. Comunicazioni sociali, 1, XXIV, 20-29

Galimberti, C., & Cilento Ibarra, F. (2007). Tra produzione dell’identità e negoziazione della
soggettività in Rete. In A. Talamo, & F. Roma (Eds.), La pluralità inevitabile: Identità in
gioco nella vita quotidiana. Milano: Apogeo.

61
Galimberti, C., & Cilento Ibarra, F. (2009). 'I' and 'Other' in Online Interactions:
Intersubjectivity as a Social Bridge, co-autore Cilento Ibarra F., in Annual Review of
Cybertherapy and Telemedicine 7, IOS Press, Amsterdam, pp. 13-15.

Galimberti, C. & Riva, G. (1997). La comunicazione virtuale. Milano: Guerini e Associati.

Galimberti, C. & Riva, G. (2001). Actors, Artifacts and Inter-Actions. Outline for a Social
Psychology of Cyberspace. In G. Riva, & C. Galimberti (Eds.), Cyberpsychology: Mind,
cognition and society in the Internet age. Amsterdam: IOS Press.

Garau, M., Slater, M.M., Pertaub, D.P., & Razzaque, S. (2005). The responses of people to
virtual humans in an immersive virtual environment. Presence: Teleoperators and virtual
environments, 14(1), 104-116.

Gergen, K. J. (1991). The saturated self: Dilemmas of identity in contemporary life, New
York: Basic Books.

Ghiglione, R., & Trognon, A. (1993). Où va la pragmatique. Grenoble: PUG.

Gibson, W. (1986). Neuromante. Milano: Editrice Nord (ed. or. 1984).

Gibson, W. (2004). L’accademia dei sogni. Milano: Mondadori.

Gibson, W. (2008). Guerreros. Milano: Mondadori.

Harrè, R. & Van Lagenhove, L. (1991). Varieties of positioning. Journal for the Theory of
Social Behaviour, 21, 393-408.

Hermans, H. (1996). Voicing the self: From information processing to dialogical interchange.
Psychological Bullettin, 119.

Hermans, H. (2002). The dialogical self as a society of mind: Introduction. Theory &
Psychology, 12, 147–160.

Hermans, H., & Ligorio, M.B. (2005). Dialogo e tecnologia come laboratori dell’identità. In
M.B. Ligorio, & H. Hermans (Eds.), Identità dialogiche nell’era digitale. Trento: Edizioni
Erickson.

Jenkins, H. (2008). How fan fiction can teach usa a new way to read «Moby Dick», in
http://henryjenkins.org/2008/08/how_fan_fiction_can_teach_us_a.html. In Wu Ming 2 (2009).
Una termodinamica della fantasia. In Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo
obliquo, ritorno al futuro. Milano: Einaudi.

62
Kiesler, S., Siegel, J., & McGuire, T.W. (1984). Social psychological aspects of computer-
mediated communication. American Psychologist, 39(10), 1123-1134.

Lea, M. (1992). Context of Computer-Mediated Communication, Herfordshire, UK: Harvester


Wheatsheaf.

Lévy, P. (1996). L’intelligenza collettiva: Per un’antropologia del ciberspazio. Milano:


Feltrinelli (ed. or. 1994).

Mancini, T. (2001). Sé e identità. Modelli, metodi e problemi in psicologia sociale. Roma:


Carocci Editore.

Mantovani, G. (1995). Comunicazione e identità: Dalle situazioni quotidiane agli ambienti


virtuali. Bologna: Il Mulino.

Mantovani, G. (1996a). New communication environments: From everyday to virtual.


London: Taylor & Francis.

Mantovani, G. (1996b). Social context in HCI: A new framework for mental models,
cooperation and communication, Cognitive Science, 20, 237-296.

McAdams, D. (1996). Personality, modernity, and the storied self: a contemporary framework
for studying persons. Psychological Inquiry, 7(4), 295-321.

Nardi, B. (1996). Context and consciousness: Activity theory and Human-Computer


Interaction. Cambridge, MA: MIT Press.

Norman, D.A. (1992). Turn signal are the facial expression of automobiles. Reading, MA:
Addison-Wesley.

Palmer, M.T. (1997). La comunicazione interpersonale e la realtà virtuale: la frontiera delle


relazioni interpersonali. In Galimberti, C. & Riva, G. (1997). La comunicazione virtuale.
Milano: Guerini e Associati.

Raskin, J. (2003). Interfacce a misura d’uomo. Milano: Apogeo.

Reeves, B., & Nass, C., (1996). The media equation: How people treat computers, television,
and new media like real people and places. Cambridge, MA: Cambridge University Press.

Reid, E. (1991). Electropolis: communication and community on Internet Relay Chat.


Università di Melbourne. Disponibile come documento elettronico all’indirizzo
http://www.eserver.org/reid.txt

63
Reid, E. (1994). Cultural Formation in text based virtual realities, Master thesis, Department
of english, Università di Melbourne, Disponibile come documento elettronico all’indirizzo
<http://www.aluluei.com>.

Riva, G. (2000). Design of clinically oriented virtual environments: A communicative


approach. CyberPsychology & Behavior, 3, 351-358.

Riva, G. (2008). Psicologia dei nuovi media. Bologna: Il Mulino.

Riva, G., & Galimberti, C. (2001). Towards CyberPsychology. Mind, Cognition and Society in
the Internet Age. Amsterdam: IOS Press.

Rollman, J., Krug, K., & Parente, F. (2000). The Chat Room Phenomenon: Reciprocal
Communication in Cyberspace. Cyberpsychology and Behaviour, 3(2).

Schilbach, L., Wohlschlaeger, A.M., Kraemer, N.C. Newen, A., Shah, N.J., Fink, G.R., &
Vogeley K. (2006). Being with virtual others: Neural correlates of social interaction.
Neuropsychologia, 44(5), 718-730.

Short, J.A., Williams, E., & Christie, B. (1976). The social psychology of telecommunications.
New York: John Wiley & Sons.

Slater, M., Antley, M., Davison, A., Swapp, D., Guger, C., Barker, C., Pistrang, N., &
Sanchez-Vives, M.V. (2006). A Virtual Reprise of the Stanley Milgram Obedience
Experiments. PLOS ONE, 1(1). Retrieved March 13, 2008, from
http://www.pubmedcentral.nih.gov/picrender.fcgi?artid=17 62398&blobtype=pdf.

Smith, P. (1988). Discerning the subject. Minneapolis: University of Minnesota Press.

Snyder, M. (1974). Self-monitoring of expressive behavior, in Journal of Personality and


Social Psychology, 30, 526-537.

Sproull, L., & Kiesler, S. (1991). Connections: New Ways of Working in the Networked
Organization. Cambridge, MA: MIT Press.

Suchman, L. (1987). Plans and Situated Actions: the problem of human-machine


communication. New York: Cambridge University Press.

Suchman, L. (2007). Human -machine Reconfigurations. Plans and Situated Actions


2nd Edition. New York and Cambridge, UK: Cambridge University Press.

Tagliagambe, S. (1997). Epistemologia del Cyberspazio. Cagliari: Demos.

Tagliagambe, S. (2008). Lo spazio intermedio. Milano: Università Bocconi Editore.

Talamo, A., Zucchermaglio, C., & Ligorio, M. B. (2001). Communities’ Development in


CVEs and Sustaining Functions of Online Tutorship. In G. Riva, & C. Galimberti (Eds.),

64
Towards CyberPsychology. Mind, Cognition and Society in the Internet Age. Amsterdam: IOS
Press.

Talamo, A., & Roma, F. (2007). La pluralità inevitabile. Milano: Apogeo.

Tosoni, S. (2004). Identità virtuali: Comunicazione mediata da computer e processi di


costruzione dell’identità personale. Milano: F. Angeli.

Trognon, A. (1992). Psicologia cognitiva e analisi delle conversazioni. In C. Galimberti (Ed.),


La conversazione. Milano: Guerini & Associati.

Turkle, S. (1997). Constructions and reconstructions of self in virtual reality: Playing in the
MUDs. In K. Sara (Ed.), Culture of the Internet. Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates,
Inc.

Varisco, B. (2002). Costruttivismo socio-culturale. Roma: Carocci.

Wallace, P. (1999). The psychology of the Internet. New York: Cambridge University Press.

Walther, J. B. (1996). Computer-Mediated Communication: Impersonal, Inter-personal and


Hyperpersonal Interaction. Human Communication Research, 23 (1), 3-43.

Waskul, D. (2003). Self-Games and Body-Play: Personhood in Online Chat and Cybersex.
New York: Peter Lang.

Wu Ming (2007). Manituana. Milano: Einaudi.

Wu Ming 2 (2009). La salvezza di Euridice. In Wu Ming (2009). New Italian Epic. Milano:
Einaudi.

Young, K. (1994). Internet Addiction: The Emergence of a New Clinical Disorder.


Cyberpsychology and Behavior, 1(3), 237-44.

Young, K. (1996). Psychology of Computer Use: XL. Addictive Use of the Internet: A case
that Breaks the Stereotype. Psychological Reports, 79, 899-902.

Zucchermaglio, C., & Alby, F. (2005). Gruppi e tecnologie al lavoro. Bari: Laterza.

65

Potrebbero piacerti anche