Tesi di Laurea in
Analisi e confronto tra i paradigmi di
pensiero dell'antichità con quelli dei
tempi moderni
INDICE
● Introduzione
● Cap. 1 – RAPPORTI INTERPERSONALI
1.1. I rapporti e l’amicizia
1.2. Il benessere
1.3. La libertà
1.4. Discriminazioni
● Cap. 2 – L’ADOLESCENZA
2.1 Adolescenza in società arcaiche
2.2 Genere e sessualità
2.3 La sessualità oggi
● Capitolo 3 – I RITI DI PASSAGGIO
3.1 Definizioni
3.2 Gli antichi riti di passaggio
3.3 I riti di passaggio oggi
● Capitolo 4 – IL DONO
4.1 Il dono nelle società arcaiche
4.2 Il dono oggi
4.3 La tradizione antica dei pastori sardi
● Capitolo 5 – LA MORTE
5.1 La morte per gli antichi
5.2 La morte oggi
5.3 Avventura e morte
5.4 Conclusioni
● Capitolo 6 - RAPPORTO TRA NATURA, FILOSOFIA, SCIENZA,
RELIGIONI.
6.1 Una visione razionale del mondo e le sue implicazioni – Il rapporto con la
natura.
6.2 Dalla ricerca della globalità, alla categorizzazione.
● Conclusioni
● Bibliografia
2
INTRODUZIONE
Detto questo proviamo ad immaginare anche solo per un secondo, quanto fosse diversa
la giornata di un individuo nell’antichità, e quindi, quanto fosse potenzialmente diversa
la concezione della vita, della quotidianità, e appunto quanto questo influenzi i vari
aspetti della vita e della psiche.
Che sia l’antica Grecia, o l’antica Roma; dai persiani ai grandi imperi dell’800.
Non ci sono obiezioni al fatto che la differenza sostanziale tra questi due fronti consiste
nello sviluppo della tecnologia; un “Boom” così intenso come quello industriale e
tecnologico degli ultimi 2 o 3 secoli è talmente rapido, radicale, concreto, e anche
influente nei confronti delle nostre vite, che non può non rappresentare un enorme
“Anno Zero”.
Questa Rivoluzione di fatto ha creato come una grossa parete che divide i due fronti
principali, i quali si potrebbero chiamare per semplicità “Antichità e Modernità”.
La definiamo “parete” perché la differenza degli stili di vita “Prima e Dopo” tale
rivoluzione è abissale.
Una grande varietà di autori e studiosi, ha tentato di definire quali sono le differenze
individuabili tra questi due grandi fronti.
Il fatto di definirli fronti, può sembrare un azzardo, in quanto si potrebbe asserire che in
fondo le differenze tra i paradigmi di pensiero umano sostanzialmente non sono
3
definibili nel tempo; difatti non è stato semplice trovare punti distintivi concreti e così
netti da poter fare distinzioni definite e radicali.
Ma se è vero che ogni cultura nel tempo è considerabile a sé stante, e che ha avuto i suoi
paradigmi e le sue tipicità di pensiero, ciò non rende impossibile trovare una linea
comune tra le varie culture antiche e confrontarla con la modernità, che possiede queste
nuove e particolari caratteristiche. Linea comune che infatti è piuttosto sottile da
individuare, ma come molti autori hanno evidenziato, questa esiste, e seppur sottile
rimane comunque un aspetto rilevante e significativo, e se si pone la dovuta attenzione
il suo impatto è sicuramente percepibile; persino osservabile.
4
2
Lasch C., The culture of narcissism, Bompiani, Milano 1981.
3
Tisseron S., “L’intimitè surexsposèe”, Edizione Ramsay, Parigi, 2001.
4
Farci M., Rossi L., Pubbliche intimità. L’affettivo quotidiano nei siti di Social network, 2014.
5
Carrier J., People who can be friends: selves and social relationships. The anthropology of friendship,
1999.
6
una linea di accordo comune secondo la quale non è il social network di per sé ad essere
dannoso, quanto il suo utilizzo smodato. Difatti proprio un importante studio di Oxford,
dichiara come non sia la tecnologia in sé il problema, quanto la sua incorporazione nei
legami sociali che vengono a formarsi; inoltre questo come molti altri studi dimostra
come la forza dei legami che si possono formare sul web, potenzialmente non hanno
nulla da invidiare a quelli che nascono in incontri vis-a-vis. 6
Va sottolineato dunque che il social network non è altro che uno strumento, e quindi va
usato con discrezione, esattamente come tanti altri strumenti utilizzati in altri aspetti
della vita, con l’unica differenza che questo riguarda un lato molto intimo della nostra
umanità, ovvero la relazione con il prossimo.
Detto questo però, torniamo al tema principale di questa ricerca, cercando quali
implicazioni porti con sé l’ascesa dei social network di oggi, in confronto con l’assenza
di questi strumenti nel passato anche più recente.
Prendendo come riferimento l’Inghilterra come esempio di cultura social moderna, la
Royal Society for Public Health mostra dei dati preoccupanti riguardo all’impatto sui
giovani (16-24 anni): il 91% di questi usa internet specialmente per i social; tra questi i
sintomi di ansia e depressione correlati sono aumentati del 70% negli ultimi 25 anni.
Nella raccolta di dati sul campo con interviste e questionari, gli stessi giovani
ammettono che i social gli causano un peggioramento dei sintomi ansiosi.
Si rivela come gran parte dei sentimenti di disagio deriva da un sentimento di
inadeguatezza generato dai contenuti presenti nei social stessi; in cui c’è una vera e
propria corsa all’ostentazione di felicità, ricchezza e standard di bellezza fisica.
Nasce anche il termine FoMO, ovvero il “Fear of Missing Out” con cui il ragazzo
sperimenta la sensazione di non godersi al meglio gli stimoli offerti dalla vita, proprio
perché i contenuti dei social, colmi di dimostrazioni di successi altrui, portano a credere
di dover mostrarsi a propria volta realizzati, e cercare di raggiungerli. Questo comporta
una dispersione di vari aspetti della propria identità, come l’insoddisfazione riguardo al
proprio aspetto fisico, al proprio impiego lavorativo, agli hobby ed alle abitudini tipici
della propria quotidianità e quindi personalità.
Un esempio citato spesso anche da altre fonti è Instagram, il quale sembra creare la
maggior quantità di danni relativi la valutazione il proprio aspetto fisico. La categoria
6
International Journal of Internet Science IJIS, “Online friendship formation, communication channels,
and social closeness”, 2006, 1 (1), 29-44.
7
maggiormente colpita è quella delle teenager, il 90% di queste utenti dichiara di avere
alcuni problemi di insoddisfazione nei confronti del proprio corpo.7
1.2 - Il benessere
Molti autori concordano sul fatto che i nostri tempi moderni sono caratterizzati dalla
presenza di due grandi protagonisti simbolici: ansia e stress.
Una serie ragguardevole articoli ci descrivono come i problemi legati all’ansia e allo
stress siano fenomeni puramente tipici della società moderna, non che prima non
esistessero, ma di certo ne siamo i maggiori produttori.
La sfera occidentale con le sue grandi metropoli è famosa per essere frenetica, molto
incentrata sull’arte dell’apparenza, ad un altissimo livello di competitività, relativi a vari
standard di vita che vengono quasi “imposti” da norme sociali tanto sottili quanto
inflessibili. 8
Di certo anche le culture arcaiche avevano ciascuna una caratteristica componente che
causava stress o pressioni agli individui che vi hanno vissuto, ma aldilà di quello che
molti potrebbero ipotizzare, come vedremo di seguito, molte di queste antiche civiltà
avevano condizioni ideali per lo sviluppo e l’espressione del sé, in maniera fluida e
armonica.
A tal proposito è importante citare uno dei grandi punti di contrasto tra noi e queste
civiltà antiche, ed è l’accelerazione, intensità e quantità delle attività quotidiane
Difatti un nuovo protagonista dei nostri tempi è sicuramente il “Multitasking skill”.
Oggi come mai nella storia l’uomo comune è chiamato a svolgere una varietà enorme di
attività diverse, spesso persino in contrasto tra loro.
Si chiama multitasking, ovvero la capacità di porsi una moltitudine di mansioni o
obbiettivi, e spesso addirittura svolgerli e portarli a termine contemporaneamente
nell’arco della giornata. Ad un occhio inesperto potrebbe apparire come una capacità
eccezionale e che determina una serie di vantaggi ragguardevoli, come la possibilità di
guadagnare tempo e quindi anche denaro.
7
Royal society for public health; social media and young people’s mental health, report, 2017.
8
B.F. Piko, Administration and Policy in Mental Health, Socio-cultural stress in modern societies and the
myth of anxiety in eastern Europe, Vol 29, No. 3. January 2002.
8
Al contrario vi sono conseguenze negative su vari fronti: prima di tutto uno spiccato
aumento della secrezione di cortisolo, l’ormone dello stress; poi vi è maggior
probabilità di incorrere in patologie come depressione e disturbi correlati all’ansia.
Una nota ricerca ha addirittura potuto correlare una mutazione della struttura cerebrale
ad una prolungata esposizione ad attività multitasking. Difatti nello studio sono state
coinvolte persone che usavano contemporaneamente diversi tipi di media (oggi questo è
possibile grazie alle varie applicazioni dei cellulari, computer, interfacce di cui siamo
circondati). I soggetti effettivamente hanno mostrato una minor densità di materia grigia
nell’area della corteccia cingolata anteriore (ACC) che ricordiamo ha un ruolo
importante nella regolazione delle emozioni e nell’elaborare i pensieri.
Questi aspetti, aggiunti allo stress e all’eventuale aumento dell’ansia, portano più
facilmente a compromettere le capacità mnemoniche e quindi di apprendimento e
dell’attenzione, spesso anche in modo serio.
Soprattutto l’attenzione selettiva sembra essere quella più danneggiata; le ricerche
mostrano come i soggetti più abituati ad abusare di metodi multitasking, durante i test
non riescono a mantenere la concentrazione sulle attività senza subire leggere
distrazioni da varie fonti esterne anche irrilevanti. Questa difficoltà a discriminare gli
stimoli non rilevanti rispetto al compito in esecuzione è comprensibile dal fatto che il
soggetto che pratica multitasking è abituato a lasciare e riprendere il compito tante volte
in poche frazioni di secondo; dato che il nostro cervello non svolge mai per davvero due
compiti nello stesso tempo, anche quando può sembrare il contrario, invece passa da un
focus all’altro con estrema velocità.
E’ proprio questa velocità elaborativa che causa sovrafficamento delle strutture cerebrali
durante il multitasking, ovvero il cosiddetto “overload”.9
E’ comprensibile quale sia il motivo per cui proprio la nostra epoca presenti queste
nuove forme di abitudini dannose, la frenesia e l’ansia da prestazione che caratterizza la
nostra cultura moderna occidentale e già stata abbondantemente citata e riconfermata.
9
D.J. Levitin, The organized mind: thinking straight in the age of information overload. Edizione
Penguin; 4 giugno 2015.
9
1.3 - La libertà
Con molta probabilità la nostra epoca ha molti punti a favore per quanto riguarda le
libertà dell’individuo.
La libertà per gli antichi riguardava per lo più l’aspetto delle decisioni in materia
politica, ovvero la possibilità di partecipare alla definizione delle varie decisioni
pubbliche; pertanto era di fatto un concetto quasi esclusivamente politico, per non
parlare del concetto di schiavo, che dopo approfondiremo.10
Oggi invece si parla di auto-determinazione, self-regulation, felicità e realizzazione
personale; in tal senso fu pioniera la costituzione Americana con la sua dichiarazione di
indipendenza, che addirittura vuole sottolineare come ogni cittadino ha diritto ad essere
libero di poter realizzare la propria felicità, purché ciò non determini danno agli altri ed
i loro diritti.
Quindi si parla di una libertà a 360 gradi, che osserva l’uomo sia come individuo che
come cittadino.11
Tornando sul tema della libertà degli antichi, proviamo a immaginare la vita di uno
schiavo. Già la sola esistenza della categoria “schiavo” è in netta contrapposizione con i
valori di libertà e diritti umani che troviamo nel mondo di oggi (con poche eccezioni per
alcuni stati). Ma ai tempi dell’antica Grecia, o di Roma, così come per il resto dei
popoli, era del tutto normale. Ad Atene come a Roma lo schiavo non aveva diritti, era
uno strumento “animato” (per come li definiva Aristotele), senza alcuna potestà ed il
padrone aveva potere totale su di esso, per essere precisi sul suo corpo e sulle mansioni
che questi doveva svolgere.12
Detto questo lo schiavo non poteva avere famiglia, se non per concessione del padrone e
c’era la possibilità addirittura che i suoi figli venissero venduti.
Unica limitazione su di essi era il divieto di omicidio, ma tale divieto se non rispettato,
prevedeva una semplice multa come punizione.13
Per concludere la tematica, è senz’altro utile citare l’opinione di Rosseau, il quale critica
aspramente la giustificazione antica della schiavitù. Questa è una manifestazione che si
avvicina fin troppo pericolosamente alla pura e semplice affermazione del diritto del più
forte; la cosiddetta legge della jungla.
10
B.Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni. Einaudi, Torino 2005.
11
USA Constitution: “The declaration of indipendence”, Article 1.
12
M.I. Finley, Ancient Slavery and Modern Ideology – Edizione Penguin, 26 maggio 1983: pp. 91-97.
13
Aristotele, Politica I. libro 4, sezione 1253b, 32.
10
Il “diritto” del più forte deve essere denunciato, perché “esso si riduce alla sola
dimostrazione di forza, e dunque non ha alcun significato sul piano della giustificazione
del potere”.14
1.4 - Discriminazioni
Una grossa differenza coi tempi antichi, è rappresentata oggi dalle discriminazioni.
Riprendendo il significato del termine, ovvero differenziare il valore di alcune categorie
di individuo, svantaggiandole o viceversa dando delle agevolazioni.
Il tema principale è quello della svalutazione delle donne; ricordiamo che ai tempi
dell’antica Grecia non era nemmeno messo in discussione che la donna dovesse aver un
ruolo marginale ed essere considerata inferiore; per citare un esempio, Aristotele
dichiarava con naturalezza che: “Il maschio è per natura migliore, la femmina peggiore,
l’uno è atto al comando, l’altra all’obbedienza”; di fatto poi questa teoria è
accompagnata dalla credenza che l’anima razionale dell’uomo fosse nata per governare
su quella irrazionale della donna, governata da forze instabili, a cui dare un ordine e
autorità.
Addirittura alla categoria femminile si attribuisce un ruolo passivo nella riproduzione,
perché si pensava che non producesse seme, e che perciò non concorresse alla
generazione della vita, ma ne offrisse “solo” il luogo di compimento.15
Forse soltanto Platone azzardò il tentativo rivoluzionario di concepire la donna con dei
ruoli più elevati, anche in posizioni di rilievo politico. Cercando di specificare che se
queste fossero “adeguatamente educate” potrebbero essere in grado di ricoprire ruoli
politici contribuendo alla guida del paese.16
In ogni caso era difficile trasmettere tali messaggi, siccome questa considerazione della
donna come inferiore non era soltanto una decisione opinionistica, ma riguardava
aspetti convenzionali delle società dei tempi; era un paradigma che aveva una natura
fondata e radicata in maniera funzionale per i bisogni sociali di quei tempi, il paese era
14
J.J. Rosseau – Il contratto sociale; Einaudi, Torino 1994.
15
Aristotele, Politica - I, 5, 1254b, p. 13-14.
16
Platone, a cura di M. Vegetti, La Repubblica. Edizione Laterza, Bari 2007.
11
organizzato secondo strutture sociali, specialmente quelle del lavoro, che necessitavano
di una donna rilegata e contenuta nella sfera familiare e dei lavori più umili.17
Per concludere l’argomento della discriminazione di genere, vedremo anche
successivamente che non tutte le culture arcaiche prevedevano tali distinzioni sociali, e
in ogni caso spesso tali distinzioni erano ben accettate dalle varie categorie, perché ne
comprendevano lo scopo e l’utilità sociale.
Per citare altre categorie riprendiamo le considerazioni di Aristotele sulla cittadinanza.
Si descrive la scomposizione della polis nei suoi vari elementi: si tratta del ruolo della
famiglia composto da marito-moglie come nucleo di base; poi il ruolo della coppia
padrone e schiavo; padre e figlio e così via. Si sottolinea che i cosiddetti “Meteci”,
coloro che vengono “da fuori”; non facevano parte di nessuna di queste categorie.
Difatti questi erano esclusi dalla cittadinanza, che si reputava essere una qualità che non
riguardava il solo “abitare” in quel dato paese, neppure se si aveva accesso ad alcune
istituzioni e servizi; ma sono altre le virtù per cui si poteva essere considerati cittadini,
tra cui anche valori legati ad alcuni diritti di proprietà, ma anche al puro senso di
appartenenza sociale, relativo ad usi e costumi, tradizioni e così via.
I meteci ad esempio non potevano avere una proprietà terriera, ma soltanto lavorarci, in
una sorta di usufrutto da lavoratore dipendente oppure come affittuari. Lavoravano
comunque fianco a fianco con i cittadini, sia nell’artigianato che nel commercio. Inoltre
anche solo l’attributo di “meteco” era possibile solo se vi era un cittadino che ne facesse
da garante. Questi erano esclusi dalla vita politica, dalle assemblee e dalle cariche
pubbliche, anche se va notata una cosa importante, anche Aristotele era un meteco
presso Atene, ma ciò non ha compromesso la sua scalata verso la fama. 18
La definizione di “meteci” può sicuramente ricordare la condizione degli stranieri
odierni, e le pratiche amministrative pubbliche riguardanti l’attribuzione della residenza
e della successiva cittadinanza.
Anche se persistono oggi alcune discriminazioni di fatto; vari pregiudizi non ci sono più
e nessuno osa riprendere le tesi antiche sull’inferiorità di certe categorie sociali.
Oggi vige quasi dappertutto il principio delle democrazie ed il riconoscimento della
libertà a tutti gli esseri umani con l’attribuzione dei diritti politici a tutti i cittadini,
17
S. Campese e S. Gastaldi, La donna e i filosofi, archeologia di un immagine culturale, edizione
Zanichelli, Bologna 1977, pp. 41-43.
18
Aristotele, Politica. III, 1, 1275a, 7-14.
12
19
Bobbio N., L’età dei diritti, edizione Einaudi, Torino, 2014.
20
A. Calore, Cittadinanza tra storia e comparazione. Diritto: storia e comparazione, nuovi propositi per un
binomio antico, Max Planck Institute 2018.
13
In generale non è facile trovar una distinzione netta tra il passato ed il presente riguardo
alle discriminazioni, però senza dubbio la nostra società moderna è molto evoluta sotto
questo punto di vista, oggi la libertà di espressione e l’uguaglianza di genere e razza
sono tematiche portate in primo piano e riconosciute da quasi tutte le nazioni più
progredite. Ma come vedremo anche nei prossimi paragrafi, su questo tema rimangono
molti miti da sfatare riguardo alle varie società arcaiche.
Capitolo 2 - L’ADOLESCENZA
21
Margaret Mead, sesso e temperamento in tre società primitive, edizione il saggiatore, Milano 2009.
14
22
Margaret Mead, adolescenza in Samoa, edizione Giunti. 23 maggio 2017.
23
N. Racine, B.A. McArthur, J. E Cooke, R. Eirich. J. Zhu, S. Madigan, “Global prevelance o depressive
and anxiety symptoms in children and adolescent during Covid19: a meta analysis”, Jama Pediatrics2021.
15
Queste definizioni sono utili per introdurre quello che purtroppo è un grande
protagonista dei tempi moderni, specialmente tra i giovani, il suicidio.
E’ noto che anche nell’antichità il suicidio fosse presente, e questo è dimostrabile dalle
numerose opere classiche che ne danno varie opinioni ed interpretazioni; partendo da
24
UNICEF – “La condizione dell’infanzia nel mondo” rapporto del 05/10/2021.
25
Associazione Hikikomori Italia; chi sono gli hikikomori.
26
Wong et al. The prevalence and correlates of severe social withdrawal (hikikomori) in Hong Kong. A
cross-sectional telephone–based survey study. Int. J Soc Psichiatry 2014.
16
Socrate, che criticava questa scelta con disappunto, a Platone anch’esso molto contrario
a riguardo, citandolo persino come un “crimine”, se non in alcune circostanze
particolari. Considerazioni come quella di Platone non appartengono solo al mondo
antico, basti pensare che soltanto nel 1961, nel Regno Unito, si decise di abrogare la
legge che considerava criminale l’atto del suicidio e quindi anche il tentativo di esso.27
Non è possibile trarre una ricerca bibliografica riguardo le differenze in termini statistici
della quantità di suicidi nell’antichità, rispetto ai giorni nostri. Ma è possibile
individuare alcuni aspetti distintivi sul modo di concepire questo atto estremo, per cui
proprio la nostra realtà più recente sembra aver cambiato direzione.
Nell’antichità, ma anche fino agli ultimi anni del ventesimo secolo, molte culture
portavano diverse tipologie di considerazioni nei confronti del suicidio; questo poteva
avere connotati di tipo virtuoso, legato al sacrificio, all’onore, alla redenzione o alla
dimostrazione di coraggio e altruismo, quello che il celebre sociologo Emile Durkheim
definirebbe “suicidio altruistico”. 28
Basti osservare i famosi esempi dei personaggi mitici della tragedia greca e romana.
Dalla storia di Epicasta, moglie e allo stesso tempo madre di Edipo, la quale una volta
aver scoperto di avere dunque una relazione incestuosa, non riesce a sopportare il peso
del disonore, e finisce con l’uccidersi. Proseguendo con la storia di Marco Porcio
Catone, sostenitore della guerra civile di Pompeo contro Cesare, che una volta sconfitto,
non potendo tollerare la vergogna ed il disonore subito, decise di togliersi la vita
colpendosi con una spada nel ventre. Catone in seguito venne anche soccorso, ma
mentre riceveva le cure, in un momento di solitudine, imperturbabile riuscì a riaprirsi le
ferite, e porre fine alla sua vita.29
Riguardo alla vergogna troviamo un altro celebre esempio nell’episodio mitologico di
Aiace. Questo fallì nel tentativo di aggiudicarsi il titolo di miglior guerriero dell’esercito
greco, e per questo non gli furono consegnate le armi del celebre Achille. La sconfitta
gli fu tanto intollerabile da renderlo furioso, portandolo a massacrare un intero gregge di
pecore nella convinzione che questo fosse composto dai giudici e comandanti che lo
27
Suicidal Act 1961, Legislation.gov.uk
28
Durkheim Emile, Il suicidio. Studio di sociologia. edizioni BUR, Milano 2010.
29
Rober Garland, il suicidio nel mondo antico. Lettera internazionale 92, La violenza e la morte, 92, 2,
2007.
17
avevano valutato inferiore. Dopo questo l’umiliazione divenne dunque ancor più severa,
e il suicidio è per lui l’unico modo per evitare il dolore insopportabile del disonore.
Per quanto riguarda il sacrificio virtuoso si può citare anche lo stesso Socrate, che in
nome dei propri principi e della dignità di portare avanti la propria verità, accettò la
condanna ad eretico e la punizione estrema.
Facendo un enorme salto nel tempo, la considerazione virtuosa dell’atto suicidario si
nota fortemente nelle culture orientali; i due più celebri esempi li troviamo in Giappone,
e sono la pratica del Seppuku, dell’Harakiri, e del Kamikaze.
Il Seppuku e l’Harakiri sono forme di suicidio rituale che hanno resistito per centinaia
di anni, come unico diritto e privilegio della categoria dei Samurai (casta militare), ma
non solo dato che è stata praticata in forma simbolica anche fino alla seconda guerra
mondiale.
Si tratta di un taglio praticato sull’addome, con una procedura ben definita, che doveva
essere profonda e mortale; l’addome era considerato sede dell’anima che veniva così
liberata pura e finalmente priva delle colpe e responsabilità terrene.
Difatti il rituale si praticava per espiarsi da un fallimento grave in battaglia, come la
morte del proprio signore (nel caso dei samurai); ma anche per purificarsi da una colpa,
evitando la vergogna della pena capitale, ed infine si usava anche come segno di
protesta, e accusa verso un’ingiustizia inaccettabile ed estremamente disonorevole.30
Il kamikaze è uno dei più recenti esempi di sacrificio virtuoso in onore della patria.
Il soldato praticava un attacco mortale, aggredendo l’avversario interamente con il
proprio mezzo di trasporto, pur sapendo che questo atto gli avrebbe procurato morte
certa; proprio nella seconda guerra mondiale i soldati nipponici usavano scontrarsi
proprio in questo modo con i loro mezzi bellici contro quelli nemici, praticando così il
kamikaze sia in ambito aereo che in quello navale. Oggi abbiamo ancora soltanto alcuni
residui di queste pratiche belliche portate avanti dalle fazioni estremiste islamiche.
Ma tornando all’obbiettivo principale di questa sezione; cosa distingue la concezione di
suicidio odierna da quella del passato anche più recente?
Alcuni autori ritengono che oggi non si tratti più soltanto di una scelta che deriva da
valori socio-politici o socio-economici, oltre che etici e morali.
30
Harakiri e Seppuku in: Treccani.it, Enciclopedia online.
18
Nel passato, come abbiamo visto, si narra di personaggi che scelgono la morte come
soluzione in seguito a grandi fallimenti, sconfitte, perdite personali o per difendere virtù
considerate più grandi e importanti della loro stessa vita.
Eppure in questi testi e narrazioni, non compare mai lo spettro della depressione, o
almeno non nella maniera in cui la intendiamo oggi, ovvero come quel malessere
generalizzato, senza una causa manifesta e osservabile in maniera netta, come invece lo
sono i grandi lutti, le tragedie o eventi catastrofici che evocano una reazione fatalista;
ma si esprime oggi come un sentimento di malessere molto più sottile.
La depressione è difatti una della maggiori cause di suicidio dei nostri tempi.
31
Margaret Mead, sesso e temperamento in tre società primitive, edizione il saggiatore, Milano 2009.
19
collaborative e solidali. Da notare è la parità dei compiti attribuiti tra i sessi; infatti
agricoltura e allevamento sono mansioni date in egual misura sia a uomini che donne.
Sebbene in alcune occasioni le donne siano marginalizzate, non subiscono alcun
maltrattamento, e i rapporti si mantengono comunque sul piano della solidarietà.
Nell’analizzare la crescita e l’iniziazione di un ragazzo Arapesh (a partire dai sette- otto
anni di età), Mead individua nell’atteggiamento tanto dei ragazzi quanto delle ragazze il
carattere cooperativo e sereno proprio del popolo in esame, individuando però un’unica
differenza tra i due sessi: “il lavoro collettivo delle ragazze e le maggiori possibilità
concesse ai ragazzi di esprimere la propria collera”. Anche se questa differenza non è
sempre netta, ci sono eccezioni legate ad altri aspetti culturali.
La comparsa dei primi segni della pubertà comporta un’ulteriore distinzione tra i due
sessi, poiché da questo momento vengono tenute distinte “la funzione riproduttiva delle
donne e la funzione alimentare dell’uomo. La rappresentazione più energica di questa
separazione è il culto del “Tamberan”. Un rito in onore del patrono soprannaturale degli
uomini adulti della tribù, che non deve essere mai visto né dalle donne né dai bambini
non iniziati, sebbene tutti possano udirne la presenza attraverso strumenti musicali,
come flati, gong, e così via; addirittura all’annuncio del Tamberan donne e bambini, si
devono precipitare fuori dal villaggio. Ad un certo punto della cerimonia, il suono del
gong annuncia che il Tamberan è rientrato nella sua casa; pertanto gli uomini
richiamano al villaggio bambini e donne.
Una cosa importante da ribadire è che le donne non ritengono in alcun modo di essere
state escluse dall’assistere alla scena né si considerano ritenute inferiori agli uomini;
sanno che “la cosa riguarda la crescita la forza dei ragazzi e degli uomini, che per le
donne e i bambini sarebbe stato pericoloso assistervi e che i loro uomini sono stati
attenti e le hanno protette con ogni cura”. Questa reazione positiva è data anche dal fatto
che anche alle donne sono riservati altri riti, quali quelli legati al parto ed alla pubertà.32
Molti autori ci hanno dimostrato che le discriminazioni di genere nell’attribuzione di
mansioni quotidiane e nell’accesso a certi riti, fossero normali nelle società arcaiche,
venivano considerate in maniera razionale e accettate automaticamente, perché utili alla
sussistenza ed al mantenimento di una certa armonia nel movimento degli ingranaggi
sociali, rivolti e in equilibrio al rapporto con l’ambiente circostante, inteso sia come
32
Margaret Mead, sesso e temperamento in tre società primitive, edizione il saggiatore, Milano 2009.
20
ambiente naturale che quello sociale dato dalla presenza degli altri villaggi sparsi sul
territorio. E come si dimostrò, molti ragazzi anche nelle società più primitive godono di
uno sviluppo armonico nei suoi vari passaggi, fluido e senza “ostacoli” legati a stress e
ansie difficili da sostenere. 33
33
Margaret Mead, adolescenza in Samoa, edizione Giunti. 23 maggio 2017.
34
Marcuse H., Eros e civiltà, edizione Einaudi 2003.
21
bene con il significato di piacere e di “piacere erotico” che aveva a sua volta maggior
espressione linguistica.35
Esistevano inoltre altri termini per esprimere il mero e semplice piacere sensoriale
scaturito dal contatto con l’amante, oppure all’estremo opposto esisteva il termine
“Agàpe”, che oggi si potrebbe affiancare all’amore incondizionato, e più precisamente
riguardava l’amore fraterno di stampo cristiano, un amore disinteressato, senza confini,
dall’alto potere emotivo e che permetteva di accedere ad una delle più alte forme di
benessere “erotico”, nel vero senso del termine.
Quindi gli antichi distinguevano il mero atto sessuale, da tutte le altre forme di
contemplazione della bellezza, del suo piacere, delle emozioni che porta con sé e le
varie sfaccettature dello spirito erotico; spirito erotico che quindi nel suo significato
originale poteva riguardare vari campi, non solo quello sessuale, ma la contemplazione
della bellezza di varie cose, tra cui la natura, la scoperta di grandi valori e verità, la
scoperta della propria interiorità, ma anche piaceri terreni concepiti con trascendenza.36
Sibaldi e Focault sottolineano che oggi anche molti altri termini e valori intimi sono
racchiusi nella sola parola “sesso” oppure “sessualità”, e cercano di condannare questa
pratica linguistica, accusandone l’eccessiva generalizzazione di molte espressioni
affettive ed emotive intime, molto importanti, il cui significato vivido ed esemplare
viene così minacciato e confuso.
35
Igor Sibaldi, Eros, Edizione Sperling & Kupfer 2014.
36
Igor Sibaldi, a cura di R.Geminiani, Eros e Agape, , Editore Arte di Essere 2013.
22
3.1 - Definizioni
Il rito di passaggio, in antropologia, è definito come un’usanza tipica di una cultura, che
consiste in una procedura compiuta secondo un ordine prestabilito ed una certa
modalità.
Secondo le definizioni del celebre Arnold Van Gennep questi riti accompagnano i
cambiamenti di statuto; di età, di occupazione, di luogo e segnano anche le stagioni o le
tappe del ciclo di vita delle persone.
Le fasi di vita principali si racchiudono in 4 eventi: nascita, pubertà, matrimonio e
morte.
Va distinto dalle semplici abitudini culturali di un determinato contesto sociale; come ad
esempio gesti quotidiani dell’uso e consumo di determinate bevande tipiche o pietanze
tradizionali; inoltre non va confuso con certi gesti e atteggiamenti rappresentativi di un
ambito culturale.
Si tratta di una pratica rappresentativa del cambiamento di ruolo sociale dell’individuo
che viene sottoposto al rituale e, se vogliamo, anche della sua condizione psicologica
riguardo a tale ruolo.37
Difatti i riti più importanti di molte culture arcaiche sono quelli che determinano il
passaggio dalla gioventù alla condizione di adulto; un nuovo ruolo per l’individuo nel
suo tessuto sociale, e questa sarà anche la tipologia di rito che sarà più osservato in
questo testo.
Spesso il rito di accesso all’età adulta è accompagnato da una prova di coraggio e di
capacità acquisite; oppure anche prove legate alla capacità di sopportare il dolore.
Per citare queste ultime, gli antropologi hanno individuato anche vari esempi di culture
che praticano riti di passaggio dolorosi o addirittura violenti; alcune popolazioni
amazzoniche, africane o della Nuova Guinea sottopongono i giovani iniziati a prove in
cui vengono frustati, bastonati, o messi a contatto con insetti che causano punture
37
A. Van Gennep, “I Riti di passaggio”, Bollari Boringhieri, Torino 2012.
23
questo punto del rituale il soggetto è pronto a morire come un essere Ambonwari,
incontrare l’eternità attraverso il ricordo e l’incarnazione nel nome dei suoi figli, col
passare delle generazioni.
Curioso è l’incontro con la morte per questo rito, perché da un lato muore il ragazzo
“non essere” per dar vita all’adulto “essere”; ma sempre quest’ultimo è detto pronto ad
affrontare la morte stessa, stavolta nel suo vero significato attribuito, ed il suo vero
valore. I saggi del villaggio insegnavano e ritualizzavano tali concetti.39
La leva militare invece è un esempio che riguarda per lo più lo sviluppo di altre
capacità; oltre al sapersi svincolare dai genitori, con essa si mostrava l’attitudine ad
affrontare attività fisiche e di confronto sociale sotto pressione e con poche comodità,
eseguire ordini di superiori che non si conoscono e rispettare gli spazi in un ambiente
non familiare; cosa che sicuramente dava un buon punto di partenza per sapersi
confrontare al meglio sui luoghi di lavoro nella vita.
Ciò che si prova a sottolineare con queste affermazioni è che nella società odierna
sembra mancare un momento di netta rottura che distingua il giovane dall’adulto, un
gesto collettivo, dettato da tempi e modalità precise, che sia ricordo e riferimento per
l’individuo che vive il passaggio.41
Oggi si indica come unico rito “sopravvissuto”, quello dell’esame di Stato, detto
appunto “esame di maturità”. Si può certamente affermare che questo processo sia ben
scandito sia nei tempi che nelle modalità, ma che riguardi in maniera specifica l’aspetto
didattico, e solo in secondo luogo quello della maturazione psico-sociale. E inoltre non
è scorretto asserire che dopo l’esame di maturità gran parte dei giovani non entri in una
condizione sociale in cui si possa già considerare adulto e indipendente sotto tutti i punti
di vista.
41
Aime M., Charmet P., La fatica di diventare grandi. La scomparsa dei riti di passaggio, Einaudi, Torino
2014.
26
IL DONO
Il concetto di dono è certamente parte integrante di ogni società, che si tratti di una
convenzione sociale, abitudine culturale o vero e proprio gesto rituale, esso è presente
fin dai tempi più remoti dell’esistenza umana. Può sembrare improbabile individuare
differenze tra il concetto di dono nelle società moderne da quella più antiche, ma come
vedremo ci sono alcuni aspetti che si sono inevitabilmente modificati, magari senza
snaturare il principio per cui si attua il gesto del dono, ma comunque alterandone in una
certa misura il grado di valorizzazione e di ritualizzazione.
Autori come Adorno ci ricordano che la vera felicità del dono sta tutta nell’immaginare
la felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri
binari, pensare l’altro come un soggetto esterno a noi.42
L’antropologo celebre Marcel Mauss sottolinea come donare in fin dei conti significhi
creare o mantenere una relazione con l’altro. Inoltre citando il suo saggio, il dono ha
sempre avuto un valore ad ampio spettro, che comprende sia aspetti sociali e di
condivisione, sia aspetti socio-politici ed economici, importanti per il mantenimento dei
rapporti nelle varie società arcaiche descritte.
Il dono in questione è per intendersi quello libero e non vincolato, non caratterizzato da
costrizione, ma se vogliamo, soltanto da un’implicita e tradizionale convenzione utile
alla sana sopravvivenza dei rapporti sociali.43
Un’altra caratteristica insita nel dono e individuata dagli studi sul campo di Mauss, è il
significato arcaico del “mana”.
Con il termine “mana” si sostiene che il dono è dotato di un forte potere magico nello
stabilire la relazione con l’altro o gli altri. Il termine mana è di origine melanesiana ed è
tradotto come “forza soprannaturale", “potere spirituale”, e può significare anche “forza
vitale”. Nelle hawaii il termine mana assume il significato di “forza che viene da
42
Adorno T., Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994.
43
Mauss M., Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, piccola biblioteca
Einaudi, Torino 2002.
27
dentro”. Si è scelto questo esempio per descrivere il dono delle culture arcaiche, perché
queste lo facevano spesso corrispondere ad una “Forza”.
Detto questo, anche i doni che ci scambiamo oggi nei nostri tempi, sono per lo più
simbolici rivolti al mantenimento di un sano tessuto sociale votato alla cordialità, ma
non è errato asserire che il dono non è più visto con una tale enfasi, e che non è di certo
in vigore l’idea di dono come forza soprannaturale, oppure di “sacrificio”, e così via.
Il concetto del mana è ripreso dagli studi storici di Mircea Eliade. Nel suo trattato ci
riporta come per le culture arcaiche, il mana è un potere intrinseco dell’oggetto. Sia che
si tratti di un oggetto animato o inanimato, il suo potenziale inteso come forza vitale è
sempre presente; da queste definizioni già possiamo percepire il valore assoluto che
l’uomo arcaico attribuiva anche ad ogni oggetto materiale. Da ciò ne deriva anche il
valore attribuito al gesto del dono; che difatti era considerato come proprio di una forza
vitale magica, che avrebbe il potere di stabilire i legami con il prossimo, e dunque tale
gesto doveva avere persino caratteristiche soprannaturali.44
Proseguendo con alcuni esempi, Franz Boas, così come Mauss studiò un’ampia varietà
di società primitive del pacifico nord-occidentale, tra USA e Canada. La loro ricerca più
famosa riguarda un rito che accomuna queste civiltà, chiamato Potlach.
L’unicità del rituale potlach consiste nel fatto che invece di ostentare il possesso di
alcuni beni, o il loro scambio, per affermare il proprio rango, si praticava la distruzione
di questi.
Durante il potlach si era soliti mangiare carne di foca o di salmone, e venivano man
mano distrutti i beni che si potevano considerare effimeri, mostrando così il livello
della propria potenza economica alle tribù ospitate che, a loro volta, erano costrette a
eseguire lo stesso comportamento nel momento in cui procedevano con il loro potlach.
Durante il cerimoniale avvenivano anche vari scambi di doni, seppur la maggior parte di
questi venivano anch’essi distrutti subito dopo.
Il potlach non serviva solo come dimostrazione di potere tra varie tribù, ma aveva anche
valore intra-sociale, ovvero le varie dimostrazioni di potenza servivano anche a
consolidare le varie posizioni gerarchiche interne alla tribù.45
44
Eliade M., Trattato di Storia delle Religioni, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
45
F. Boas, Kwakiutl etnography, University of Chicago Press, Chicago 1975.
28
Ciò che si intende evidenziare in questi paragrafi sul dono, è la trasformazioni di questi
valori antichi e profondi del dono, nelle azioni leggermente più effimere tipiche dei
nostri tempi moderni.
Il valore simbolico è certamente mantenuto, ed anche quello dello scambio e delle
relazioni sociali, oltre che dell’affermazione del rango; ma si può affermare che il gesto
in sé non è più valorizzato da cerimoniali e rituali specifici e non rappresenta più uno
scambio di beni di grande importanza per la sussistenza, ma è rilegato a festività e
giorni, in momenti specifici dell’anno. Questo sicuramente perché viviamo in un epoca
di relativo benessere e sviluppo tecnologico, ma anche perché i modelli di mercato
odierni sono enormi esemplari di individualità e di sviluppo del proprio patrimonio
personale, attraverso le proprie capacità di autodeterminazione, in cui il dono diventa un
“mezzo” o strumento per ottenere fiducia e quindi anche compenso, che a sua volta
diventa strumento per continuare a sviluppare la propria ricchezza e attività, e forse di
fronte a questo viene a mancare lo spirito solidale, di condivisione o anche solo il puro
spirito di squadra rivolto al mantenimento di una sana struttura economico-sociale.48
47
De Donatis S., Antropologia filosofica del dono: uno scambio «simbolico», (from:
https://mondodomani.org/dialegesthai/sdd01.htm)
48
E. Molinari, P. A. Cavalieri, Le implicazioni psicologiche del dono. La donazione in Italia, edizione
Springer, Berlino 2011
30
49
Carboni P., “Il tema del dono nella letteratura di viaggio e nella demologia sulla Sardegna tra Ottocento
e Novecento”
50
Cigoli V., Il viaggio iniziatico, Franco Angeli, Milano 2012.
31
LA MORTE
Molti storici, studiosi e letterari riportano come il concetto di “morte” sia cambiato
dall’antichità sino ai tempi moderni; di certo non è possibile individuare un’evoluzione
graduale di tale concezione, dato che ogni cultura forma paradigmi di pensiero a sè
stanti, in base al proprio periodo storico e alle vicissitudini del tempo; possiamo però
analizzare una sottile distinzione tra l’approccio alla morte dei tempi moderni,
specialmente occidentali, rispetto all’antichità.
51
Epicuro, Opere, Einaudi, Torino 1970, pp. 62-63.
52
Ambos C., Zisa G., Miti, culti, saperi, per un’antropologia religiosa della Mesopotamia antica, editori
Museo Pasqualino 2021.
32
Proseguendo, gli egizi sono ben conosciuti per la complessità dei loro riti funebri; senza
citare le loro procedure e modalità nel dettaglio, possiamo soffermarci sul significato
rituale; la vita nell’aldilà era per loro garantita dalla conservazione del corpo defunto.
A tal proposito nasce la celebre pratica della mummificazione, tanto unica e
affascinante quanto elaborata, che rese possibile il ritrovamento di reperti integri persino
fino ad oggi ai nostri tempi, dopo millenni. L’importanza data al passaggio dalla vita
all’aldilà è incredibile, il corpo riceve questo lungo processo di imbalsamazione perché
si riteneva che l’anima lo abitasse ancora, seppur la vita continuasse nell’aldilà.53
Anche gli antichi etruschi davano enorme importanza al passaggio dalla vita alla morte;
la continuità della vita nell’aldilà era anche qui un aspetto fondamentale, basti pensare
che le loro tombe erano riproduzioni simili alle abitazioni che ciascun defunto
possedeva in vita, e tali tombe-case erano persino munite di vari accessori e vi si
portavano alimenti e altri oggetti che si pensavano essere utili alla parallela vita
ultraterrena.54
Nella Roma antica vediamo nascere le prime imprese funebri, con i relativi impiegati al
servizio, i cosiddetti “libitinarii”, e così c’è un primo esempio di delega ad
un’istituzione degli impegni legati al cerimoniale funebre; ma ne usufruivano solo i
ricchi.
Riguardo al rito si sa con certezza che i corpi venivano cremati su delle superfici di
legno oppure inumati; la cremazione era la pratica maggiormente usata, così le ceneri
venivano conservate con cura in apposite urne funerarie, e poi venivano locate in
“tombe collettive” dette “columbarium”.
Inoltre le loro esequie duravano svariati giorni, e veniva organizzato un evento
celebrativo con messe in scena attraverso l’ausilio di attori, mimi, musici e danzatori.
Si organizzava un’ulteriore festa nove giorni dopo la sepoltura, chiamata “coena
novendialis” famosa per il gesto tipico del versare il vino sulle ceneri o sulla tomba. 55
Per concludere erano sette le festività romane che commemoravano i defunti, tra cui la
più conosciuta Parentalia dal 13 al 21 febbraio, e la Lemuria, che si teneva il 9, l'11 e il
13 maggio.
53
Ikram Salima, Morte e sepoltura nell’antico egitto, Kemet editori, Torino 2016.
54
Della Fina M. Giuseppe, il mondo dell’archeologia, L’archeologia delle pratiche funearie. Il mondo
etrusco-italico. Treccani, 2002.
55
Agnoli N., L’archeologia delle pratiche funerarie. Mondo romano. Enciclopedia Treccani 2002.
33
Non si possono non citare anche le cerimonie e monumenti funebri asiatici, come
descritto per gli altri popoli anch’essi si adoperavano per dare il massimo risalto al
saluto finale per il defunto, specialmente se questi era un personaggio imponente. Senza
dilungarsi nella descrizione delle varie culture che si sono succedute, si può trarre come
sommo esempio il monumento all’imperatore Ying Zheng o Qin Shi Huang (250 a.C.)
la sua tomba è circondata da un esercito di 6000 soldati costruiti in terracotta, disposti
quasi a proteggerlo ancora, nell’aldilà. Appare quasi lampante l’intenzione profonda di
questi riti, ovvero difendere la memoria, proteggendo così anche il valore simbolico che
quel dato individuo rappresenta per la comunità, o anche solo per la sua famiglia; e
quindi ci si adopera a rendere il monumento, o rituale, il più grandioso e valoroso
possibile, esorcizzando l’eventualità che le forze negative del lutto, ne macchino in
maniera dolorosa il ricordo.
Per questa tematica però possiamo anche avvicinarci negli anni, guardando anche alla
letteratura medievale. Si cita spesso nel periodo del 1300 a.C. il culto delle tombe ed il
“trionfo della morte”; la pestilenza, le guerre e le carestie hanno forgiato un'idea
pessimistica e malinconica della morte. Ma nonostante ciò possiamo notare che nelle
opere letterarie del periodo il tema non era visto come un tabù.56
Petrarca nel suo “I trionfi” mostra l’apparizione della morte, ed il suo trionfo, ma solo in
maniera lirica, narrativa e malinconica.57
Dante a sua volta, come anche Leopardi e Foscolo hanno sottolineato la caducità della
vita ed il malinconico ruolo della morte; ma va sottolineato che essa non viene mai
interpretata con approcci apocalittici, di terrore o di sconfitta.
56
Aries P., Storia della Morte in Occidente, BUR, Milano 1988.
57
Petrarca, Trionfi, Rizzoli, 1984.
34
Valutando l’aspetto del valore e rapporto con la morte, secondo gli studi di vari autori
come il filosofo Edgar Morin e Louis Vincent Thomas, per l’uomo antico essa
costituiva spesso persino un momento di “elevazione”, ovvero una prova con cui
l’uomo poteva mostrare eroismo e coraggio; invece per l’epoca moderna la morte è
relegata a semplice parte “residuale” della vita, esclusa come un tabù, e ricordata solo
nel momento in cui incombe, e ci si trova costretti ad affrontarne il lutto. Morin
addirittura definisce la nostra società, dai tempi dell’illuminismo fino ad oggi, come
“amortale” ovvero nella quale la morte rappresenta un tabù, di cui parlare poco, da
temere e scordare.58
E’ sicuramente interessante la visione dello storico Philippe Aries, che ci ricorda come
fino a circa metà del Medioevo, la morte era considerata senza timore e l’approccio nei
suoi confronti era già in principio basato sulla rassegnazione e sull’accettazione.
Inoltre il cerimoniale funebre era una pratica rituale attivata in maniera automatica,
senza connotati di tipo drammatico, e veniva portata avanti con un semplice omaggio
alla vita ed una preghiera conclusiva; inoltre fino al XVII quasi tutti i cimiteri erano
ubicati accanto alla chiesa, cosa che simbolicamente si può dire non “separava il
concetto di morte da quello di vita”.59
Sempre Aries ci fa notare come il 1700 porti altri cambiamenti su questa tematica;
l’autore riporta come ad esempio i testamenti, prima dedicati alla chiesa, passarono alle
famiglie; le tombe divennero anche più singole ed esclusive, e si cominciò a usare
epitaffi e targhe commemorative, con luoghi precisi in cui andare a ritrovare il defunto e
tentando così di renderlo “immortale” nella nostra esistenza. E’ interessante anche la
parziale sostituzione del prete con il medico nell’affiancare il defunto durante il
percorso del cerimoniale funebre, quasi a sottolineare uno spostamento dell’attenzione
dalla cura dell’anima e della mente, a favore di quella del corpo e della
razionalizzazione della morte, come sola cessazione del funzionamento organico.60
58
Morin E., L’uomo e la morte, Edizioni Erickson, Trento 9 ottobre 2014.
59
Aries P., Storia della Morte in Occidente, BUR, Milano 1988. pp.18
60
Aries P., Storia della Morte in Occidente, BUR, Milano 1988. pp. 60
35
61
Pieretti A., La morte e il senso della vita nella cultura contemporanea. (http://www.collevalenza.it)
36
social internet, gli addetti che si occupano di tale compito sono chiamati “Death
Manager”. 62
Sono tante le opinioni contrarie e avvilite nei confronti di questi atteggiamenti, e
sottolineano l’importanza etica e morale nei confronti di un rito che dovrebbe mantenere
una determinata sacralità.
62
Ziccardi G., Il libro digitale dei morti. Memoria, lutto, eternità e oblio nell’era dei social network.
UTET, Milano 2017.
63
Hillman J. Il suicidio e l’anima, Adelphi, Milano 2010.
64
Massa R., Linee di fuga. L’avventura nella formazione umana, editore La nuova Italia, Firenze 1989.
37
5.4 - Conclusioni
Si può asserire in tutto ciò, che l’idea della morte da sempre genera sconforto e
sicuramente l’essere umano ha cercato in ogni modo di “conservare la vita” anche dopo
la morte. Come descritto con i vari esempi in precedenza, ogni cultura ha trovato una
sua maniera di mantenere vivo il ricordo dei defunti, e di rispettare con sacralità il
defunto ed il concetto stesso di morte.
Ma dai dati raccolti si può ritrovare una certa discontinuità tra i nostri tempi moderni e
l’antichità.
Come descritto da Aries il nostro mondo occidentale moderno ha accentuato la sua
paura nei confronti dell’eterno addio, e la reazione a tale paura consiste nell’evitamento
o viceversa nell’attenzione esasperata verso dettagli che ne enfatizzano la drammaticità.
L’uomo antico sottolineava la morte, ma sotto un punto di vista cerimoniale e
commemorativo, quasi ad omaggiarla per scongiurare la possibilità che la memoria del
defunto divenisse negativa e ‘tossica’, esorcizzando l’eventualità che non vi fosse una
rottura col mondo dei vivi, e che il cosiddetto “cordone ombelicale” non fosse tagliato a
dovere, con conseguente persecuzione da parte dello spirito del defunto nei confronti
dei vivi. E vero sì, che anche gli antichi cercano in contatto costante con i defunti, nelle
varie festività commemorative; quasi a non volersene separare del tutto, ma l’intenzione
sembra essere più che altro quella di esaltare la continuità del buon vivere, piuttosto che
evidenziare il timore e la drammaticità della morte stessa. Addirittura si può considerare
che oggi il mancato “rispetto” nei confronti del valore “vitale” della morte, sia
rappresentato appunto da questa moderna modalità sconnessa e disarticolata di
riproporla, e ricordarla. Una modalità che si potrebbe definire anche dispersiva, basti
osservare come non ci sia più solo un sacro rituale da rispettare simbolico e imponente,
ma una serie di pratiche poco definite e molto soggettive, senza un'appartenenza
culturale e spesso anche senza una procedura precisa; infatti come abbiamo visto si
usano persino portali digitali, riti modificati di altre culture, social, marketing e
pubblicazioni costanti con interessi discordanti.
38
6.1 - Una visione razionale del mondo; e le sue implicazioni – Il rapporto con la
natura.
E’ necessario ricordare una differenza notevole tra l’attitudine dell’uomo nei confronti
della natura nel passato, rispetto a quella di oggi. Seppur negli ultimi anni si possa
osservare un tentativo di ritorno “alle radici”, è doveroso comprendere quale sia stato
finora l’approccio moderno al mondo naturale, quali siano state le sue implicazioni e
quali siano le differenze con il passato.
Innanzitutto già nell’antichità si parlava di inquinamento dell’aria, eccessivo
disboscamento, alto sfruttamento delle risorse idriche e materiali. Ad esempio
l’enciclopedia “Naturalis historia” di Plinio scritta intorno al 50 d.C, parla di
inquinamento atmosferico causato dal piombo usato per produrre le monete, ma anche
di distruzioni ecologiche e disboscamento.65
65
Plinio, Storia naturale, editore Einaudi, Torino 1997.
39
Tuttavia l’ideale incarnato dall'uomo antico, si può notare anche nella sua scienza,
filosofia e politica, che spesso dialoga con la natura e trova in essa l'orientamento per
costruire la sua vita e il suo mondo umano; rispetto all’uomo moderno, per il quale
invece il mondo naturale è quasi irrilevante rispetto al valore che ha la politica e la
ragion di stato. Col tempo, diciamo nell'arco degli ultimi cento anni in modo
determinante, questa irrilevanza si trasforma in asservimento: l'uomo con la sua capacità
razionale e tecnica diventa un dominatore e uno sfruttatore del mondo naturale. La
natura così non ha più un valore in sé, ma solo per l'uso che l'uomo riesce a farne.
valida finchè altre prove oggettive non la smentiscano, e per cui tutto può essere
confermato infine dalla sola esperienza pratica.66
L’esperienza è ciò che l’empirismo impone alla conoscenza, mentre la sola oggettività è
il fattore chiave anche del Razionalismo, che dal suo metodo deduttivo, dichiara che
ogni conoscenza deve la sua affermazione al solo uso della ragione e quindi della
confutazione razionale. Quindi è deduttivo tutto ciò che è frutto di considerazioni
fondamentali certe, spesso inattaccabili di tipo matematico, come ad esempio le leggi
della geometria e della meccanica.67
La presenza di questa tendenza rivolta alla pura scientificità sperimentale dei nostri
tempi, è stata notata e descritta da vari autori, tra cui Sibaldi Igor che l’ha mostrata in
maniera lucida e chiarificatrice nel suo libro “Aldilà del deserto”, dove cerca di
sottolineare quella che era l’idea originaria della parola “Metafisica”, ovvero intesa
come lo studio di tutto ciò che non è dimostrabile direttamente dal solo percetto
sensoriale e dalla sola esperienza oggettiva. Di sicuro il metodo scientifico - empirico
usa ottimi indicatori sperimentali e ottimi metodi dimostrativi, ma probabilmente queste
non sono le uniche vie esistenti della conoscenza.68
Con tale punto di vista si inizia dunque a far notare che nell’antichità si parlava molto di
più di verità trascendentali, per molti tali verità erano persino assolute ed inarrivabili,
basti pensare a Sant’Agostino, che credeva che persino il ruolo dell’educatore fosse
secondario, e che la conoscenza provenisse da incontri intimi di illuminazione con
Dio.69
Poi ricordiamo in tal senso anche Platone, con la sua idea della reminiscenza, che
descrive un’anima immortale e trascendentale, raggiungibile addirittura solo con la
liberazione dalle leggi fisiche e dalle pulsioni corporali della vita mortale.70
Pensiero che ritroviamo in parte con Seneca, il quale ancor più radicale vede nella morte
virtuosa una vera e propria liberazione dell’anima dalla lotta quotidiana contro le
pulsioni istintive terrene. Questo esponente dello stoicismo vedeva l’anima come
un'entità a cui avvicinarsi il più possibile, abbandonando il mondo delle debolezze
66
Rovighi Vanni S., filosofia della conoscenza, editori ESD, Milano 2007. cap. 5, pp. 136.
67
Mondin B., Storia della metafisica, ESD editori, Milano 1998.
68
Sibaldi I., Aldilà del deserto, Salani editore, Firenze 2017.
69
Sciacca M.F., a cura di Pier Paolo Ottonello, Sant’Agostino, editori Ares, Milano 2021.
70
Platone, Menone, edizione Bur Rizzoli, Milano 2016.
42
71
Porro P., Tommaso d’Aquino. Un profilo storico-filosofico. Carocci editore, Roma 2019.
72
Aristotele, De anima, editori Carabba 2011.
43
osservare e conoscere anche gli altri contesti che si contrappongono ad esso, con le
varie analogie che si possono ritrovare.73
CONCLUSIONI
I contrasti rilevati tra il nostro mondo ed il mondo antico tendono sia a favore di
quest’ultimo per certi aspetti, ma anche a suo sfavore per altri.
Come si può leggere in questo testo, ma anche notare nella vita di tutti i giorni, ci
troviamo in un periodo storico caratterizzato da una velocità e frenesia mai vista prima.
Tale velocità spesso ci distoglie dal porre le adeguate attenzioni ad importanti passaggi
delle varie fasi delle nostre vite, che vengono trascurati dando sempre più importanza
agli impegni ed obblighi sociali, sempre più scanditi da orari, date, tempi di prestazione,
quantità di informazione quasi illimitate e attività sovrapposte e spesso anche in
conflitto tra loro.
Non c’è più tempo per il rituale che ci permette di cambiare e di esorcizzare, e non c’è
più tempo per la cerimonia che ci permette di ricordare i valori indissolubili della nostra
esistenza.
Ci contraddistingue dal passato soprattutto la nostra povertà di significato. L’uomo
arcaico era attento, a moltissimi aspetti della sua interiorità; era costretto ad esserlo, per
affrontare la dura vita quotidiana, e per dare un ordine ed un senso ai cambiamenti
importanti della vita, scoprirne il valore ed i significati, per non rimanerne sopraffatto e
per riuscire a controllarne le conseguenze e le utilità, dando un senso di coerenza alla
sua esistenza.
Oggi ci troviamo in una divisione che colpisce la nostra interiorità, e quindi di
conseguenza anche tutta la nostra concezione della realtà che ci circonda.
E’ curioso pensare che un altro aspetto che distingue la nostra epoca dalle altre, è anche
la nascita di una nuova disciplina scientifica, che prima non è mai stata citata,
nonostante rivesta un ruolo fondamentale nelle nostre vite: ed è proprio la Psicologia.
Difatti la nascita della psicologia viene fatta risalire al 1879, a Lipsia, da un gruppo di
studiosi, di cui fu esponente il noto fisiologo Wundt.
73
Beatson G., Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000.
44
Però prima di questa data, di certo l’uomo non ha mai smesso di interrogarsi sulla
propria interiorità, e sui meccanismi che governano il proprio essere; la novità consiste
nel fatto che l’uomo ha iniziato a valutarla come scienza sperimentale, e non più come
uno studio implicito, fuso ad altre discipline come la filosofia, la teologia, le scienze
della natura e così via.
Non sorprende il fatto che proprio Wundt e la sua corrente di pensiero dello
“strutturalismo” finì per muovere critiche per il metodo utilizzato, considerato non
sufficientemente sperimentale.
Vennero successivamente le altre correnti di pensiero che tentarono di dare una svolta,
proponendo un metodo più scientifico e quindi empirico, e si iniziarono ad osservare gli
esperimenti del comportamentismo e dello strutturalismo, oltre che quelli del
cognitivismo e della Gestalt. Ma questi si limitarono a studiare gli aspetti “controllabili”
della nostra mente: tra tutti ricordiamo il condizionamento, il rinforzo, la percezione
sensoriale ed i suoi meccanismi innati, e gli stadi di sviluppo Piagetiani. Tutte teorie
utili ma che osservano solo quel lato della nostra esistenza che può essere prevedibile e
rilegabile ad un laboratorio sperimentale. Non a caso, subito dopo venne l’ascesa della
psicoanalisi, e fu accolta come un moto rivoluzionario, che introdusse una serie di
significati inediti e molto più profondi.
Detto ciò, il fatto che la nascita della psicologia sia attribuita a Wundt il quale era un
fisiologo, ci pone di fronte ad un’interpretazione interessante, e ad un interrogativo.
Può la psicologia essere osservata e studiata anche solo come scienza a sé stante?
Oppure dovrebbe essere sempre presente come branca disciplinare di moltissimi altri
campi di studio. Dalla Fisiologia appunto, e quindi ovviamente alla Medicina; oppure
anche dall’ecologia fino alle discipline sociologiche, filosofiche e umanistiche;
includendo anche l’ambito del diritto, dell’economia e quindi giurisprudenza.
Perché la psiche arriva ovunque, in ogni attività propria dell’uomo ci sarà sempre un
aspetto psicologico da valutare, che influisce su quell’attività. Proprio perché l’agire
umano in tutte le sue forme, non è altro che un estendersi della sua coscienza verso i
vari oggetti di interesse presenti nella sua vita.
Molto probabilmente Gregory Beatson sarebbe d’accordo con questo approccio, difatti
queste conclusioni citano quello che lui definì “ecologia della mente”. Lui stesso
d’altronde disse che solo con un’ecologia della mente si possono capire le relazioni che
45
74
Beatson G., Verso un ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000.
46
BIBLIOGRAFIA