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Corrado Pensa

LA

TRANQUILLA
PASSIONE
Saggi sulla meditazione buddhista
di consapevolezza

Ubaldini Editore - Roma


Prefazione

Questo volume è composto di articoli pubblicati negli ultimi quattor­


dici anni, con l'eccezione del capitolo finale, La consapevolezza: strumen­
to, meta e mistero, scritto invece per questa occasione.
La forma originaria di gran parte degli articoli che ora riveduti, sfron­
dati e disposti secondo un filo conduttore rappresentano i capitoli del li­
bro, era quella di 'discorsi di Dharma' tenuti nel corso di ritiri di medita­
zione. Perciò si tratta, per la maggioranza, di testi di un praticante che si
rivolge ad altri praticanti o, comunque, a persone interessate al lavoro in­
teriore. Di qui l'insistenza su alcuni temi di immediata rilevanza per chi
coltiva il lavoro interiore o per chi ne avverte comunque il richiamo e di
qui, anche, certe ripetizioni che si è ritenuto opportuno non eliminare, a
differenza di altre. E ciò sia per l'importanza degli argomenti, sia per la­
sciare a ciascun capitolo una qualche completezza e autonomia rispetto
agli altri capitoli.
Allo scopo di facilitare la lettura, gli scritti sono stati raggruppati sotto
alcune grandi categorie; consapevolezza in generale e pratica meditativa;
consapevolezza e fiducia; consapevolezza e accettazione; consapevolezza e
comprensione; pratica interiore buddhista e pratica interiore cristiana;
psicologia e religione. Tuttavia, trattandosi di una suddivisione in argo­
menti avvenuta in un tempo successivo alla stesura dei vari capitoli, essa
è, in parte, inevitabilmente artificiale, sicché i terni propri di una catego­
ria si ritrovano facilmente anche in scritti raggruppati sono un'altra.
Mi è particolarmente gradito ringraziare anzitutto la rivista Paramita e
il suo direttore, l'amico Vincenzo Piga, dato che, salvo il capitolo finale e
quattro articoli (v. sotto), tutti gli altri scritti che costituiscono il libro so­
no stati pubblicati da questa rivista.
Un gruppo di sei articoli, tutti già comparsi su Paramita, è stato inclu­
so nel volume a cura di A. Bonecchi, Psicoterapia e meditazione, pubbli­
cato nel 1991 dalla Mondadori che qui ringrazio, insieme con la Cittadel-
la di Assisi, che ha ospitato nel volume Sofferenza e guarigtone, a cura di
L. Boggio Gilot, 1993, il contributo "Concezione della sofferenza e prassi
liberatoria nella consapevolezza contemplativa", e insieme alla rivista Ci­
viltà delle macchine, che ha pubblicato "Psicologia e religione nell'odier­
na ricerca neocontemplativa" (1979, n. 4-6, pp. 1 15-122). "Il Dharma e la
fiducia", suddiviso in due articoli, è apparso nella rivista Sati, organo
dell'Associazione per la Meditazione di Consapevolezza (A.ME.CO.) di Ro­
ma, presso la quale insegno meditazione; un grazie agli amici della reda­
zione: Rachele Marcello, Gioia Lussana, Mauro Bergonzi, Carlo Di Falca,
Roberto Mander. Ringrazio infine in modo speciale l'amico Francesco
Sferra per essersi accollato le fatiche non lievi della riduzione e della risi­
stemazione delle note, della bibliografia, dell'indice analitico e per aver
collaborato alla revisione del testo e delle bozze.
Prima Parte

La consapevolezza in generale
e la pratica meditativa

� �
" a pra que de le méditation est une histoire
d amour .
lAMA DENIS 1993, p. 7 1
l

n lavoro interiore
come tranquilla passione

l. Sul finire di una malattia viene un momento in cui avvertiamo con


chiarezza che ci stiamo di nuovo svegliando alla vita. Finora eravamo co­
me spenti e passivi, senza energia. Adesso invece, finalmente, qualcosa ri­
vive in noi: siamo contenti e prendiamo ad assaporare di nuovo semplici
cose, come mangiare, camminare, fare qualche progetto interessante per
il futuro. In sostanza, ci sta ritornando il gusto di vivere, la passione per
la vita. E ci accorgiamo che è un sentimento forte e preciso, che salutia­
mo con sollievo quando ricompare all'orizzonte e che ci causa invece ap­
prensione se tarda a raggiungerei.

2. Allo stesso modo il lavoro interiore dovrà suscitare in noi, prima o


poi, una risposta simile, tra meraviglia, attenzione e sollecitudine. Per
lavoro interiore intendiamo qui soprattutto una pratica giornaliera di rac­
coglimento, con un accento speciale sulla meditazione di presenza men­
tale, associata con la coltivazione dell'attenzione cosciente nella vita quo­
tidiana.' Giacché è proprio la risposta appassionata che è capace di ren­
dere il nostro lavoro interiore più 'lavoro' e più 'interiore'. Ora, all'ini­
zio, è facile che questo lavoro sia soltanto una fascinazione. È uno stadio
che va naturalmente superato, non al fine di sfociare in un'abitudine
ma, piuttosto, acciocché il lavoro interiore possa maturare in qualcosa di

1 Parlando di meditazione di presenza mentale ci riferiamo in particolare alla


vipassana buddhista. Tuttavia lavori come, per esempio, l'eccellente libretto A Li­
stening Heart, del benedettino D. Steindl-Rasr, mostrano come la mind/ulness
(presenza mentale) bene intesa sia il fattore chiave anche in prassi contemplative
non buddhiste. Essa è inoltre rilevante nella psicoterapia, anche se con finalità
più delimitate e specifiche, ed è il motivo conduttore di approcci contemporanei
di religiosità 'laica' come quelli di Krishnamurti, Vimala Thakar e altri, che prefe­
riscono il termine awarenen, consapevolezza, in quanto più ampio.
più vitale, che potremmo chiamare, appunto, una tranquilla passione:
cioè una ricerca e un desiderio via via più forti di verità e di bene. Si
tratta di una passione tranquilla perché, paradossalmente, è una passione
che accresce il non attaccamento. E più non attaccamento significa più
spazio interiore.

3. Se voglio diventare un buon artigiano dovrò sviluppare il gusto, la


passione di lavorare con le mani. E se desidero apprendere in modo non
superficiale, ho necessità di una passione per lo studio e l'investigazione.
Parimenti, se intendo crescere e cambiare, ho bisogno di una passione
per il lavoro interiore. E dunque la passione di cui ci occupiamo qui ap­
pare molto simile ad altre passioni costruttive. Tuttavia. se è vero, come
si diceva, che la passione interiore alimenta il non attaccamento mentre le
altre passioni accendono l'attaccamento, allora sembra esserci una
profonda differenza tra la passione per il lavoro interiore da una parte e
altre passioni dall'altra. Watti è molto facile, a meno che io non abbia
una notevole marurità interiore (la quale implica in qualche modo una
passione per l'interiorità), che perfino una 'buona' passione, come ad
esempio una forte passione per la musica, susciti dualità e separazione,
che è !'efferto generato da qualsiasi preferenza.
In altre parole, io tenderò, magari inconsciamente, a dividere il mondo
in due metà, la metà buona della musica e la metà cattiva della non musi­
ca e a contrapporre l'una all'altra. La mia passione per la musica sarà per
me fonte di grande godimento e, al tempo stesso, motivo di frustrazione
tutte le volte che non avrò abbastanza musica o che mi imbatterò in catti­
va musica. Naturalmente, non si intende dire che ciò sia sempre necessa­
riamente così: perché se la mia passione per la musica non è solo una
consolazione e un riparo dalla vita e dalle sue minacce, ma, piuttosto,
un'espressione della mia passione per la vita, allora essa non causerà se­
parazione.

4. Contrariamente alle altre passioni, la passione per il lavoro inte­


riore ha un potere unificante invece che separante. La ragione è semplice:
l'oggetto del lavoro interiore non è questo o quello. È bensì tutto ciò che
sorge nella nostra coscienza un momento dopo l'altro. Più specifi­
camente, il lavoro interiore di base è il seguente: a) esser consapevoli il
più possibile di qualunque cosa accade nella nostra mente; b) esser
consapevoli della nostra enorme resistenza a questo genere di attenzione;
c) lasciare che i frutti di tale lavoro si manifestino nella nostra vita. Per
frutti intendiamo soprattutto distacco affettuoso, fede, umiltà e discerni·
mento, includendo quest'ultimo una più precisa sensibilità per la soffe­
renza nostra e altrui.
Cosicché la passione per l'opera della consapevolezza è paragonabile,
una volta pienamente fiorita, a un gran fuoco nel quale si mette ogni cosa
e nel quale ogni cosa, nella misura in cui riusciamo a esserne consapevoli,
contribuisce alla sua fiamma. E ciò è molto diverso da quanto accade in
un'esistenza non ravvivata dalla passione per il lavoro interiore, dove
qualsiasi pensiero, intenzione, sensazione, sentimento o emozione può di­
ventare una forza indipendente che ci controlla o uno scopo continua­
mente cangiante che ci assorbe. Al contrario, in una vita orientata secon�
do la consapevolezza, lo scopo primario di ogni cosa che nasce nella no­
stra mente è sempre il medesimo, e cioè diventare oggetto di attenzione,
diventare combustibile per il grande fuoco. E perciò in questo senso ogni
cosa ci aiuta, tutto è grazia.
Per esempio, se io sono un 'lavoratore interiore' e decido di fare una
passeggiata, il mio primo fine sarà di essere consapevole della mia passeg­
giata, dall'intenzione di farla al godimento nel compierla, mentre lo scopo
di fare movimento fisico verrà solo al secondo posto.

5. Tuttavia, se da una parte è vero che ogni movimento mentale deve


essere l'oggetto del nostro lavoro interiore, dall'altra è anche vero che, so­
prattutto agli inizi, bisogna stabilire una priorità. E priorità non può che
esser data agli stati mentali negativi. Se non ce ne occupiamo subito e con
la massima cura è assai probabile che le nostre speranze di sviluppare la
consapevolezza e di raccoglieme i frutti saranno frustrate. Un esempio
può giovare. Immaginiamo che stiamo per andare a cena fuori con amici.
Poiché siamo interessati allo sviluppo della consapevolezza, decidiamo di
essere il più attenti possibile durante le prossime ore. Poi, più tardi, tor­
nando a casa, ci può capitare di renderei conto che, nelle ultime ore, non
siamo mai stati attenti.
Riflettendo, ci rendiamo conto che, al di là delle intenzioni consce, noi
desideravamo divertirci e basta; e che l'idea di praticare la consapevolez­
za ci pesava come un compito di scuola. Eppure, come sa bene chiunque
pratica da molto tempo, la presenza della consapevolezza porta spesso
con sé una calda sensazione unitiva, talora non priva di serenità gioiosa.
Che è parecchio diverso dalla reazione generata in noi da un compito in·
desiderato.
Dunque? La risposta è che se noi siamo troppo oberati dai macigni
della nostra depressione, rabbia e ansia, non ci rimane molta energia per
osservare. Di conseguenza, non possiamo essere attratti a fare qualcosa
per la quale non abbiamo energia disponibile. In realtà noi vogliamo solo
e comunque sollievo da quei pesi. E non ci interessa osservare le nostre
reazioni; ci piacerebbe, semmai, che altri ci osservasse e ci mostrasse con­
siderazione.
Ora, se ci troviamo in questa situazione, la cosa migliore sarà quella di
risolverei ad affrontare i nostri nodi invece di ignorarli. Se lo facciamo,
gradualmente più energia sarà disponibile per osservare. Infatti, quanto
più ci liberiamo da quei macigni, tanto più la coltivazione della consape�
volezza diventerà per noi interessante; in particolare, allorché d rendere­
mo conto che la consapevolezza, a sua volta, ci porta più libertà.

6. Ciò che vogliamo sottolineare è l'assoluta importanza di lavorare ac­


curatamente sulla propria 'ombra' per coloro che si sentono attratti dalla
pratica della meditazione e della consapevolezza. Di fatto, si nota non di
rado una certa disinvoltura in proposito, e si vedono, per esempio, medi­
tanti che, inavvertitamente, sopravvalutano certi aspetti della via a tutto
scapito di un lavoro serio e continuo sulle proprie difficoltà. Ad esempio,
trascorrere periodi di tempo con qualche famoso maestro spirituale o
adoperarsi per rafforzare la propria concentrazione sono momenti indub­
biamente importanti del lavoro interiore, ma possono venire usati in mo�
do assai poco proficuo. Cioè io posso usare queste cose allo scopo di di­
menticare i miei problemi, invece di frequentarli pazientemente e com­
prenderli più a fondo.2
In proposito, può essere opportuno, sempre al fine di pome in risalto
l'importanza, soffermarci un attimo sul retto atteggiamento davanti alle
difficoltà interiori. Un ingrediente essenziale di tutti gli stati mentali nega­
tivi o difficili sembra essere la paura, cioè la paura di soffrire. Paura di im­
battersi nello spiacevole, paura di perdere il piacevole. Spesso noi assomi­
gliamo a una persona che si è barricata in casa e che impiega tutta la pro­
pria energia a cercare di impedire che un gruppo di suoi prigionieri (cose
piacevoli) possa fuggire e, contemporaneamente, a tentare di impedire
l'entrata in casa a visitatori ostili (cose spiacevoli). E malgrado il fatto che
i prigionieri continuano a evadere e che i visitatori continuano a fare irru­
zione, noi non rinunciamo al nostro vano tentativo e non ci rendiamo
conto che, in realtà, c'è un solo vero prigioniero e siamo noi.
Non comprendiamo, cioè, che la nostra paura di soffrire è una fonte
primaria di sofferenza, poiché essa o crea sofferenza là dove non c'è ra·
gione di sofferenza, oppure intensifica notevolmente la sofferenza obietti­
va. Ora, aprirsi gradualmente allo spiacevole in noi e fuori di noi, e, più
sottile e più importante ancora, aprirsi alla vasta, potente e paralizzante
paura che intride letteralmente ogni minuto di così tante vite, sembra es-

2 Cfr. Wdwood 1984, soprattutto là dove egli felicemente conia il termine 'by­

pass spirituale': "Chiamo bypassing spirituale questa tendenza a cercare (attraver­


so la pratica spirituale) di evitare o di trascendere prematuramente bisogni umani
di base, sentimenti e compiti evolutivi (p. 64).
"
sere nna caratteristica cruciale del corretto lavoro interiore. Al riguardo,
non si insisterà mai abbastanza sulla preziosità dei ritiri di meditazione.
Infatti, ciò che soprattutto accade in un ritiro è questo, che il nostro at­
taccamento al piacevole e la nostra avversione per lo spiacevole hanno la
possibilità di affiorare in superficie e offrirsi alla nostra consapevolezza.
La chiave perché ciò possa accadere è la combinazione di due cose: da
una parte lunghi giorni di incessante confronto con la propria mente,
dall'altra il sostegno rappresentato dalla disciplina, dal gruppo e dagli in­
segnanti. Sostegno che ci fornisce la fiducia e la rassicurazione necessarie
per aprirci, appunto, alla onnipervadente paura di soffrire.
E aprirsi significa, a lungo andare, comprensione e accettazione. A lo­
ro volta, comprensione e accettazione hanno un effetto trasformante, che
è il fine del lavoro interiore. Il miracolo della trasformazione, infme, ali­
menta la nostra passione per il lavoro interiore. Contemporaneamente la
qualità della nostra sofferenza, ora che in qualche misura è alleggerita
dalla paura, cambia sensibilmente.

7. Abbiamo appena nominato le parole comprensione e accettazione:


si tratta dei due principali strumenti della pratica della consapevolezza
che, allo stesso tempo, attraverso un processo di raffinamento e ap­
profondimento, diventano i due risultati maggiori della medesima pratica.
Altri nomi per comprensione sono: discernimento, intelligenza, sapienza.
Per accettazione: calore, compassione, amore, distacco affettuoso. Que­
st'ultimo termine sembra una definizione accurata di accettazione, poiché
un'accettazione senza distacco sarebbe inevitabilmente sdettiva (accetto
solo quello che mi piace) e perciò sarebbe non già accettazione incondi­
zionata e liberante, bensì soltanto un altro nome per attaccamento.
Inoltre occorre tener presente che una misura magari minima di reale
accettazione è destinata a influenzare il nostro atteggiamento anche nei ri­
guardi di ciò che piace, nel senso che saremo meno aggrappati alle cose
che ci piacciono e avremo meno paura di perderle. Un punto importante
da ricordare è poi questo, che comprensione e accettazione sono due fat­
tori strettamente interconnessi e cooperanti. Infatti, se io accetto qualcosa
senza attaccamento, in modo equanime, ciò mi metterà in grado di vede­
re e comprendere quella cosa in maniera assai più chiara che se fossi
chiuso nei suoi confronti, il che certamente distorcerebbe la mia perce­
zione. D'altra parte, tutti sappiamo che una buona comprensione di qual­
cosa o qualcuno ci rende più liberi, cioè più distaccati e accettanti verso
quella cosa o quella persona. Sicché intelligenza e calore lavorano insieme
e, lavorando insieme, si approfondiscono a vicenda. Il lavoro interiore
progredisce attraverso l'uso di queste due ali e ogni secondo di vera con­
sapevolezza è seme di entrambe le dimensioni.
8. Tuttavia, può darsi che noi ci troviamo a essere così congelati e
confusi dentro da aver bisogno di ricevere calore e intelligenza da altri,
prima di essere noi stessi in grado di 'produrre' calore e intelligenza attra­
verso la pratica spirituale. In altre parole, se noi ci troviamo in una situa­
zione psicologica molto negativa, la meditazione, come pure l'esercizio
informale dell'attenzione, può essere facilmente controproducente e può
persino far peggiorare i nostri sintomi. Ciò accade perché noi abbiamo
bisogno di una minima quantità di comprensione-accettazione per poter
avviare l'opera della consapevolezza. Come dire che, se vogliamo svilup­
pare la comprensione-accettazione, ci occorre un poco di comprensione­
accettazione. Ma se invece siamo privi anche di questo minimo e siamo
pieni solo di odio per noi stessi e di confusione, allora i nostri tentativi di
prestare attenzione facilmente falliranno, oppure accresceranno l'odio di
sé e la confusione.J
Tutto ciò indica chiaramente che, allorché si versa in difficili condizio­
ni interiori la pratica spirituale deve necessariamente includere qualche
forma di lavoro psicologico, come terapia individuale, terapia di gruppo,
comunità terapeutica, eccetera. E questo, vorremmo aggiungere, è sem­
pre raccomandabile a tutti coloro che sentono il richiamo del lavoro inte­
riore. Infatti, lungo il canunino spirituale il rischio di autoinganno è mol­
to elevato e perciò giova non poco riuscire a sviluppare una percezione
critica sia dei nostri modi di sottovalutarci o di sopravvalutarci nella no­
stra pratica meditativa, sia dei nostri modi di essere in relazione. Una
buona psicoterapia può rendere la pratica della consapevolezza più fon­
data, viva e perspicace. La meditazione, a sua volta, può approfondire e
accelerare notevolmente il processo psicoterapeutico.4

9. Di solito, se dedichiamo tempo, magari qualche anno, a lavorare se­


riamente sulla nostra 'ombra', possibilmente con qualche aiuto esterno,
proveniente dalla psicoterapia o da capaci amici spirituali, accade questo,
che ci ritroveremo a disposizione molta più energia e interesse per l'opera
della consapevolezza. Cosicché, per esempio, una nostra intenzione di es­
sere mentalmente presenti e vigili durante una cena in compagnia non
avrà l'esito scoraggiante che abbiamo visto prima. Fondamentalmente,
succede che noi siamo ora meno centrati su noi stessi e che meno energia
va a trasformarsi in ansia. E allorché il livello di ansia si abbassa, ciò non

3 Circa l'attrazione eserci[a[a dal buddhismo presso individui affetti da talune


psicopawlogie, è fondamentale Engler 1984. Sulla necessità di un io ben struttu·
rato per affrontare la meditazione cfr. Wilber 1984.
4 Tra i contributi recenti suU'argornento sono importanti Wdwood 1979b,

1983 e Katz 1983.


è mai senza conseguenze sull'orientamento esistenziale. Nel nostro caso,
il lavoratore interiore avvertirà una motivazione più forte a essere testi­
mone piuttosto che vittima dei propri stati mentali, il che gioverà a inter­
rompere il circolo vizioso di una nuova frustrazione (incapacità a pratica­
re la consapevolezza) causata da vecchie frustrazioni con il loro effetto
paralizzante.
Tuttavia questo processo di crescita interiore implica che almeno un
seme di motivazione autentica o fede abiti nel lavoratore interiore sin
dall'inizio. La diminuzione dell'ansia rende solo più facile al seme di ger­
mogliare. In altre parole, la riduzione dell'ansia non basta, da sola, a di­
schiudere orizzonti spirituali: infatti, non è raro il caso di persone che,
una volta raggiunto il conforto di un primo superamenro dell'ansia, per­
dono poi ogni interesse per il lavoro spirituale. Laddove altri, nel mo­
mento in cui la tensione ansiosa si attenua, cominciano a sentire un'attra­
zione più forte di prima verso il lavoro interiore."i
In realtà la crescita della fede, che è sovente una fede nuda e senza no­
me tra chi pratica la consapevolezza, è un'altra ragione importante per
capire come mai il lavoro interiore gradualmente diventi una passione.
Giacché la fede è una dimensione così misteriosa e nutriente che, una
volta gustata, certamente non si dimentica: "Gli aspiranti sul sentiero spi­
rituale non sono mai soli. La vita, loro grande amica, è sempre pronta a
tendere una mano e a condurli. La vita non può resistere al desiderio di
aiutare coloro che vogliono vivere. È sempre in attesa e ansiosa di metter­
si al passo con coloro che camminano per la via dell'amore e della ve­
rità... E se inciampano essa li aiuterà... La vita aspetta sempre. La vita è
sempre in attesa di aiutare. Coloro che cercano illuminazione e risveglio
non saranno mai soli" (Vimala 1977, p. 1221.
Dunque, per chi è motivato, l'alleggerimento dell'ansia renderà molto
più possibile la pratica della presenza mentale nella vita quotidiana. Na­
turalmente anche la pratica formale della meditazione se ne avvantaggerà,
divenendo più facile e più stabile. E ciò, oltre a renderei la pratica e la vi­
ta più scorrevoli, ci metterà in grado di compiere un'ulteriore immersione
nelle nostre difficoltà e conflittualità interne.

10. Questa immersione rappresenta un momento più avanzato del la­


voro interiore. Anzitutto questo stadio è caratterizzato da molta più tran­
quillità interna rispetto a quando ci affacciammo per la prima volta sulla
nostra 'ombra'. La seconda differenza è che ora è presente in noi la per­
cezione sempre più diretta e liberante che comprendere, accettare - e

5 Non a caso W. James ( 1 97 1 , p. 217) sottolineava la relazione tra conversione

religiosa e "l'esaurimento dell'emozione ansiosa".


dunque, in qualche misura, trasformare le nostre negatività - ci conduce
automaticamente a comprendere e accettare negatività e difficoltà altrui. E
ciò, naturalmente, modifica la nostra relazione con gli altri.
Detto altrimenti, dal momento in cui cominciamo a sentire di non es­
sere più una minaccia nei confronti di noi stessi, anche il nostro prossimo
ci sembra meno minaccioso. Il che contribuisce notevolmente all'aumen­
to della pace interna: infatti, essere meno assillati dal conflitto alimenta
una ricorrente sensazione di pace e di unità, ora ritirata sullo sfondo, ora
ben evidente in primo piano. In terzo luogo, infine, accade che, giunti a
questo stadio, l'affrontare stati negativi o difficili è divenuto senza scelta.
Ossia noi non crediamo più che convenga ignorarli o tentar di schivarli
con espedienti vari. Cosicché, sempre di più, uno stato mentale negativo
o una situazione difficile viene vissuta come una sfida fruttuosa, come un
invito a lavorare proficuamente, piuttosto che come un disturbo di cui
sbarazzarci comunque o una sventura da sopportare amaramente. Questi
segni che abbiamo passato in rassegna sembrano indicare che il nostro la­
voro interiore ha raggiunto un fondamento più solido e, probabilmente,
che ha imboccato una direzione irreversibile. Inoltre, a questo punto, il
nostro interesse per il lavoro interiore è diventato forte e stabile: una
tranquilla passione.
2

Concezione della sofferenza e prassi liberatoria


nella consapevolezza contemplativa

l. Un brano magistrale di Charlotte Joko Beck, che insegna meditazio­


ne Zen, illustra con chiarezza il tema centrale della meditazione buddhi­
sta di consapevolezza: "per impegnarci in una pratica seria, dobbiamo
muovere da un certo grado di relativa felicità e stabilità. A questo punto
si apre il passo successivo: filtrare e rifiltrare in modo continuo e intelli­
gente le espressioni della mente e del corpo sedendo in zazen. Iniziamo a
vedere i nostri schemi; a prendere consapevolezza dei nostri desideri, bi­
sogni e impulsi; a capire che schemi, desideri e dipendenze sono ciò che
definiamo il sé. Approfondendo la pratica, e iniziando a comprendere la
vacuità e l'impermanenza di questi schemi, scopriamo la possibilità di ab­
bandonarli. Non occorre che ci sforziamo per !asciarli: avvizziscono lenta­
mente da soli. La luce della consapevolezza, illuminando le cose, attenua
le falsità ed evidenzia le verità, e nulla la rende più intensa di uno zazen
intelligente, sia la seduta quotidiana che le sesshin" (Beck 1989, p. 43).
L'autrice osserva poi che a questo processo di discernimento e di ab­
bandono corrisponde un progressivo accrescersi di pace e di gioia. Rica­
pitolando i punti salienti del discorso della Beck: l) ci rendiamo conto,
praticando, che l'io (ovviamente usando il termine 'io' secondo un'acce­
zione diversa dall'accezione psicologica) è costituito da un intreccio can­
giante e spesso problematico di desideri e compulsioni varie, che la medi­
tazione ci ha messo in grado di contemplare, un mese dopo l'altro, un an­
no dopo l'altro. La meditazione di consapevolezza è prima di tutto un ad­
destramento alla contemplazione del condizionato. Contemplazione non
facile, ma straordinariamente benefica e soddisfacente quando comincia a
prendere piede; 2) nel discorso della Beck la realizzazione dell'imperma­
nenza e della non solidità dei fenomeni condizionati è subordinata al no­
stro continuare la pratica. Possiamo anche aggiungere: se la continuiamo
nel modo giusto. La stessa autrice è lapidaria a questo proposito e dice:
"L'impegno a praticare nasce dalla certezza che non c'è altro da fare, una
convinzione che può richiedere un quarto di secolo" <Beck 1989, pp. 79-
80). Stiamo parlando dell'elemento motivazzone: quando la motivazione è
così radicale come la descrive la Beck (ossia dare tutta la vita alla pratica),
allora è motivazione spirituale autentica. Una meditazione di consapevo­
lezza che non sia animata dalla motivazione radicale è, per dir così, in fa­
se sperimentale: come via spirituale le manca ancora la struttura portante.
Se, dunque, ben motivati, continueremo la pratica, allora comincerà il
graduale instaurarsi di una percezione diversa del nostro universo mentale.
Cambia infatti il grado di realtà e di valore che noi impartiamo alle no­
stre preoccupazioni, reazioni, compulsioni, desideri. E di conseguenza
comincia a cambiare tutto il nostro modo di rapportarci, anche quando
non ci sono in ballo preoccupazioni o reazioni particolari. Cambia tutto il
nostro modo di rapportarci a noi stessi, agli altri, alle circostanze, alle si­
tuazioni. Questo è ciò che la Beck, con la classica terminologia buddhi­
sta, chiama l'insight, la visione profonda della vacuità e dell'impermanen­
za dei nostri attaccamenti e delle nostre avversioni; 3 ) ma se i nostri attac­
camenti cominciano ad apparirci come fluidi e trasparenti e non più co­
me macigni solidi, allora sarà facile abbandonarli. Anzi, sottolinea la
Beck, saranno gli attaccamenti stessi che, disseccandosi, abbandoneranno
noi. E tutto ciò è opera della consapevolezza, così come la pace e la gioia
conseguenti.

2. La pratica della consapevolezza contemplativa porta a vedere molto


più chiaramente l'estensione e la profondità della sofferenza dentro se
stessi e, per deduzione, fuori di se stessi, negli altri. Ricordandoci che an­
che la potenzialità di sofferenza è sofferenza; sapere che uno stato di be­
nessere può finire in qualsiasi momento è sofferenza. La pratica, inoltre,
porta a capire che causa centrale di sofferenza è il continuo zdenti/icarsi
con gli stati della mente e del corpo, identificazione che genera il senso
dell'io/mio, la contrazione dell'autori/erimento. Quando si crede a tutto
quello che dice la propria paura o il proprio risentimento o il proprio de­
siderio si è, appunto, identificati, si è nella morsa dell'autoriferimento.
Infine, proprio in virtù di una contemplazione del/'io!mto sempre più
sostenuta, comincia a sopravvenire un allentamento della contrazione
egoica e dd dolore da essa generato. Allentamento che porta più pace e
più gioia. Detto ciò, osserviamo che, all'inizio del cammino, la consape­
volezza (sali) si forma e prende corpo imparando a contemplare il mo­
mento presente; in particolare imparando a contemplare il continuo zdenti­
/icarci con i contenuti mentali e l'incessante disagio che questo crea. Al­
lorché sali, la consapevolezza contemplativa, diventa più formata e più
tangibile (il che richiede tempo) già a questo punto emerge quella che
potremmo chiamare la gioia dell'artigiano: la gioia, cioè, di aver sviluppa-
to un piccolo talento e di imparare ad applicarlo fruttuosamente. La
gioia, inoltre, di essere entrati finalmente nel laboratorio interiore, magari
dopo una lunga anticamera di confusione, cerebralismi, retorica e pseu·
do-fede.
Ora, nel percorso interiore, dire sali, dire consapevolezza sempre più
equivale a dire un'intera costellazione di fattori positivi, quella che po­
tremmo chiamare la costellazione gioiosa, in contrasto con la costellazio­
ne triste dell'attaccamento e dell'identificazione. Ricordiamo, infatti, che,
classicamente, sali non viene mai presentata da sola. Sati è uno dei sette
/atton· dell'illuminazione (insieme a concentrazione, energia, calma, inve�
stigazione, gioia ed equanimità); è uno dei ànque poteri spirituali, insieme
con fede, saggezza, calma concentrata, energia; ed è uno degli otto /attori
dell'ottuplice sentiero, insieme con retta comprensione, retta intenzione,
retta azione, retta parola, retto modo di vivere, retto sforzo e retta con­
centrazione. l La ricorrente analogia classica che equipara sati al primo
ministro indica il ruolo di preminenza che la consapevolezza ricopre nella
costellazione positiva.
Dunque: sati, la consapevolezza, maturando, promuove e alimenta
questi altri fattori. Essi, a loro volta, sorreggono e nutrono sati. Nessnno
di essi, se inteso correttamente, è quello che è senza la compresenza si­
nergica degli altri.
Quindi la consapevolezza non può crescere a meno che non concresca
con gli altri fattori, e perciò la vera pratica di consapevolezza è pratica del
Dharma, ovvero la pratica dell'intera costellazione positiva.
A questo proposito appare chiara la funzione di quella che abbiamo
chiamato la gioia dell'artigiano. Infatti la soddisfazione di possedere uno
strumento e di apprendere a usarlo sempre meglio va a nutrire alcuni fat­
tori chiave della costellazione positiva: la fiducia, la calma rilassata, l'ener­
gia, il che si traduce in un interesse più acuto e più invadente per il lavo­
ro interiore. E, grazie a ciò, la contemplazione della mente comincia a
scalzare la sofferenza interiore creata dall'ipnosi egoica. Per capire meglio
questo processo, ossia il processo di guan"gione contemplativa, è utile pen­
sarlo come qualcosa che avviene su due fronti paralleli, che sono come
due facce della stessa medaglia. C'è il fronte che possiamo chiamare il
fronte della verità, ossia il toccare con mano quanto ci si invischia nel­
l'identificazione con i propri stati d'animo, con le proprie opinioni, ecce­
tera. E quanto più si tocca con mano il fuoco che brucia, tanto più lo si
può lasciare andare, cioè lasciare andare l'identificazione, la trappola del­
l'autoriferimento compulsivo. Quanto più appare netta la verità della sof-

1 Per questi ragg ruppamenti fondamentali si possono vedere Goldstein - Kom­


fidd 1987 e Bodhi Bhikku 1984.
ferenza generata dall'io/mio, tanto più matura l'energia salutare di ribel­
larsi e andare oltre, l'energia di conversione, l'urgenza di praticare.

3. Accanto poi al fronte della verità o, meglio, intessuto dentro di esso,


c'è un altro fronte di guarigione, il fronte, come già vedevamo, della gioia
del lavoro interiore. Potremmo chiamarla, questa gioia, lo stupore dell'ar­
te. Uno stupore lento, graduale; uno stupore defilato, quieto, modesto.
Niente a che fare con lo stupore che può suscitare, per esempio, uno sta­
to meditativo speciale. Quest'ultimo stupore è come una fiammata, un
guizzo che si dissolve presto. Lo stupore discreto, invece, nasce man ma­
no che l'artigiano interiore si rende conto di una cosa grande, la cui enor­
mità, tuttavia, non è immediatamente evidente. Si rende conto, cioè, che
esiste un'altra possibilità, una possibilità in più: ossia non esiste soltanto il
flusso di esperienze, piacevoli o spiacevoli, dalle quali si è in continuazio­
ne dominati, sedotti, depressi, eccitati. Esiste anche un'altra possibilità,
ovvero la coscienza viva o consapevolezza contemplativa di tutte le espe­
rienze. Lo stupore comincia a nascere constatando che, a differenza di
tutte le varie esperienze e di tutti i vari contenuti mentali, la coscienza, la
consapevolezza, è potenzialmente costante. Il Buddha come archetipo
dell'individuo alla ricerca della massima possibile evoluzione è descritto
come sempre consapevole, sada salo. E l'archetipo del Buddha serve an­
che a farci intuire che è possibile avere una coscienza viva o consapevo­
lezza costante del momento presente.

4. Ma, oltre a questa prima caratteristica non comune, ossia la poten­


ziale costanza, l'artigiano interiore, nella sua paziente applicazione della
consapevolezza, nota un'altra caratteristica non meno singolare e cioè
che, a differenza di tutto il resto, la consapevolezza, quando c'è, è sempre
la stessa, è sempre uguale. Invece sempre cambiano, e talora molto in fret­
ta e drammaticamente, le esperienze, le reazioni, le emozioni, le percezio­
ni, i pensieri. Ma la consapevolezza del presente, quando c'è, è uguale.
L'artigiano addestrato la riconosce. Anche se si è consapevoli di una cosa
sgradevole, la presenza della consapevolezza si manifesta come presenza
silenziosa, accogliente, spaziosa, accanto al nostro turbamento. La medesi­
ma presenza che poc'anzi stava accanto alla nostra gioia.
Infine, a chi ha acquistato familiarità con la consapevolezza, riesce dif­
ficile concepire sati come mia, sua, tua. Di un qualcosa che è potenzial­
mente costante e sempre uguale quali potrebbero essere, infatti, le carat­
teristiche personali, le differenze? Dunque, la 'consapevolezza', se non è
né mia né tua è vasta e aperta. Lo stupore si accende allora davanti a
quello che è un vero e proprio mistero di pace: nello stress della disconti­
nuità incessante delle proprie esperienze, che cominciano e finiscono in
un avvicendamento spesso vorticoso, nella diiparità, anch'essa stressante,
della qualità e dd tono (piacevole/spiacevole) delle varie esperienze, nel­
la convulsione di reclamare o di subire come propria qualsiasi impressio­
ne, sensazione, emozione, ossia in mezzo all'ordinaria sofferenza esisten­
ziale, c'è un'altra possibilità, la consapevolezza del presente, la coscienza
viva. Un mistero di costanza, di uguaglianza, di vastità. Un mistero, ap­
punto, di pace.
E più si è colti da stupore per questo mistero di pace, più aumenta la
forza nel lavoro artigianale della disidemificazione. Anzi, c'è da chiedersi
quanto a fondo potrebbe andare il lavoro sul fronte della verità, della
contemplazione dell'io/mio, se non fosse sorretto da questa ala di stupo­
re. E così, lavorando nel proprio laboratorio interiore, tra alterne vicen­
de, sullo sfondo di stupore e di verità, si può sentire che sempre più si
sgretola e cade una riserva, una pregiudizio/e. La riserva che dice: "Va be­
ne, vivo, mi do alla vita, mi impegno a vivere a patto che i contenuti della
mia vita, quello che mi succede dentro e fuori, sia questo e quello e non
quest'altro e quell'altro". Ci si rende conto, ogni anno un poco di più,
che quell'a patto che, quella riserva, pur umanissima, comprensibilissima
e tenerissima è, in realtà, la /onte e l'anima della sofferenza.
Quella riserva, che è solo un altro nome dell'io/mio, significa non affi­
darsi a ciò che è sempre a disposizione, potenzialmente costante, uguale e
vasto, la coscienza viva. Non affidarsi significa, inevitabilmente, attacca­
mento e paura. Nulla può davvero aiutarci a trascendere la costellazione
triste di attaccamento-paura-avversione se non si ha un /attore intrinseca­
mente rassicurante: ossia la percezione della costanza e della vastità (o non
separatezza) della coscienza viva; e la percezione, insieme, della sua inec­
cepibile affidabilità, sia che la vita vada bene, sia che la vita vada male.
Se manca questo non so che di affidabile dentro, è molto probabile
che si voglia altro in aggiunta a quello che c'è, e facilmente si odierà se
stesso per quello che non si ha abbastanza o non ancora o non più. Sarà
inevitabile, allora, la ricerca compulsiva della rassicurazione: affettiva,
ideologica, di potere, di status sociale, intellettuale. &assicurazioni, però,
che non rassicurano fino in fondo o che non rassicurano affatto, riattivan­
do in tal modo l'insoddisfazione_
Al contrario, una consapevolezza divenuta affidabile comincia a sanare
la grande spaccatura interna tra quello che si è e quello che si dovrebbe o
vorrebbe essere, tra quello che si ha e quello che si dovrebbe o vorrebbe
avere; tra il passato e il presente, tra dentro e fuori, tra me e l'altro. E si
affaccia in primo piano il vivere come valore in sé contrapposto al vivere
'a patto che'. Si affaccia, ancora, un modo di soffrire meno amaro, perché
meno inquinato dall'io/mio e più permeato, invece, dall'affidabilità e dal­
la gioia della consapevolezza.
Ed è curioso, curioso solo per l'io/mio, che imparando a vedere il do­
lore e l'insoddisfazione come proceno impersonale, ossia come un feno­
meno condizionato tra tanti, aumenti la sollecitudine per se stessi e per gli
altri. Ossia, aumenta quell'altra forma di pace che è la compassione. Le dif­
ficoltà proprie e altrui tendono a suscitare meno ansia e più compassione.
E così diventano meno lontane e inconcepibili le massime espressioni
dell'umana compassione. Come, ad esempio, queste parole di una mona­
ca benedettina del XVII secolo, Suor Caterina Mechtilde de Bar: "Dio mi
ha dato una tenerezza e un non so che per le anime sofferenti e afflitte: io
le ho sempre presenti in spirito e non posso abbandonarne il pensiero
finché dura la loro pena" (De Bar 1979, pp. 71-72).
3

Lo sforzo saggio

l. U Pandita Sayadaw, noto maestro di meditazione birmano, scrive:


"'La meditazione di vipassana può esser vista come il processo di sviluppo
di alcuni fattori mentali positivi fino a che essi diventano sufficientemente
potenti da dominare lo stato della mente con una cena continuità. Questi
fattori sono cinque: la fede, lo sforzo o energia, la consapevolezza, la cal­
ma concentrata e la saggezza" (U Pandita 1992, p. 29). Questo mi sembra
un modo molto concreto di parlare di felicità, giacché, quando c'è il pre­
dominio degli stati mentali positivi, c'è felicità. Prima di esaminare più da
vicino il fattore dello sforzo saggio, senza il quale non saremmo in grado
di sviluppare questo processo abbastanza straordinario di cui parla U
Pandita Sayadaw, processo in virtù del quale noi diventiamo capaci di
rendere dominanti nella nostra mente i fattori positivi al posto dei vari
stati mentali negativi, vorrei fare un'osservazione di carattere generale. A
me sembra che oggi in Occidente la meditazione (e in particolare la me­
ditazione buddhista) venga intesa in modo più serio di quanto non sia av­
venuto in passato. Rispetto agli anni sessanta e settanta allorché, più che
immergersi nella tradizione, si preferiva spesso prenderne solo gli aspetti
che parevano combinarsi meglio con le nostre preferenze e inclinazioni,
oggi sembra esserci un interesse più attivo verso l'intera tradizione medi­
tativa buddhista, cosicché tutte le sue parti costituenti, quali il retto sfor­
zo e gli altri fattori fondamentali, sono guardate con interesse. Si direbbe
perciò che in Occidente, nei confronti del Dharma e della pratica, si è
passati da una fase iniziale all'insegna di un vago sperimentalismo, carat­
terizzata talora da illusioni, esotismi e unilateralità, a una fase di maggiore
maturità.

2. Ora, se consideriamo ciò che insegna la tradizione, vediamo che il


fattore dell'energia o dello sforzo saggio è posto molto in tilievo negli in­
segnamenti del Buddha. Esso è presente in tutte le principali liste dei fat-
tori di liberazione (l'ottuplice sentiero, i sette fattori dell'illuminazione, le
cinque facoltà spirituali, eccetera), anche di più della stessa consapeYolez­
za. Tra i molti motivi per cui si insiste tanto sullo sforzo saggio, vorrei
esaminarne brevemente tre che mi sembrano importanti. n primo risiede
nel fatto che noi abbiamo bisogno di sforzo saggio per imparare la prati­
ca del Dharma, allo stesso modo in cui abbiamo bisogno di retto sforzo
ed energia per imparare qualsiasi altra cosa: una lingua, una scienza, uno
sport, un'arte e così via. Ciò può sembrare owio, ma talora accade che
noi si abbia un concetto vago e semplicistico del training spirituale e lo si
intenda come qualcosa di occulto e di misticheggiante, così che ogni idea
di sforzo, di energia e di un percorso sistematico può apparirci non
conforme alla nostra visione romantica della spiritualità. La pratica della
meditazione è, in un certo senso, simile alla pratica Ji ogni altra cosa: ri­
chiede un esercizio costante. In un altro senso però essa si differenzia da
altre occupazioni, da altri impegni più semplici e, di fatto, richiede una
dose maggiore di energia e di sforzo, specialmente durante gli anni inizia­
li. Ciò non vuoi dire che a partire da un ceno momento non si abbia più
bisogno di sforzo saggio. n fatto è che, man mano che passano gli anni, il
Dharma acquista in noi sempre più importanza e diventa il principale in­
teresse della nostra vita. Così anche lo sforzo saggio, passando gli anni,
diventa per noi più naturale, perché siamo meno interessati ad altre cose,
ad altri scopi e siamo meno sedotti da altri progetti. Il nostro progetto di
vita è totalmente incentrato nel Dharma: continuiamo sempre ad aver bi­
sogno di sforzo e di energia, ma adesso queste cose sono diventate più
accessibili e naturali.

3 . li secondo motivo per cui nell'insegnamento del Dharma si sottoli­


nea tanto l'importanza dello sforzo, è legato alla specificità stessa del
cammino spirituale. Se noi studiamo, ad esempio, una lingua straniera, il
progresso che stiamo facendo nell'apprendimento è molto visibile e, in
qualche modo, misurabile. È sufficiente, infatti, aprire un libro scritto
nella lingua che stiamo studiando o conversare con una persona che co­
nosce bene quella lingua, per renderei conto immediatamente di quanto
abbiamo imparato. Queste verifiche sono molto importanti per incremen­
tare la nostra motivazione, la nostra energia e il nostro impegno a prose­
guire nell'apprendimento. La pratica del Dharma, dal canto suo, non è
un'entità così tangibile, così facilmente misurabile. Dunque, specialmente
nella lunga fase iniziale del cammino interiore, noi spesso brancoliamo
nel buio e c'è bisogno di parecchio sforzo per non desistere; abbiamo bi­
sogno di molta energia e anche di molta fede, un altro dei fattori menzio­
nati da U Pandita Sayadaw. La fede intesa, naturalmente, non come cre­
denza, ma come fiducia, come slancio verso ciò che è buono, slancio che
ci sostiene quando ci troviamo nel buio e nella nebbia dell'incertezza, dei
dubbi, dei nostri stati mentali negativi e che nutre la nostra energia e il
nostro sforzo. Così, grazie a un po' di fede, ovvero grazie a un po' di que­
sto elemento misterioso che ci sostiene e grazie all'energia e allo sforzo,
noi abbiamo la capacità di restare nel cammino interiore e di percorrerlo
durante le sue fasi iniziali. Quando poi la motivazione e la comprensione
diventano più forti, allora anche lo sforzo sarà più facile.

4. Un altro motivo per cui viene dato grande spicco al fattore energia
nel cammino interiore mi sembra che abbia a che fare con la grandezza
stessa dell'impresa spirituale, con la grandezza di ciò che essa propone e
promette. Può sembrare una cosa ovvia, ma spesso sono proprio le cose
owie a essere le più elusive e le più difficili da vedere. Lo scopo della
pratica del Dharma è la liberazione, ossia la vera pace, la vera saggezza e
la vera compassione. Per ottenere queste cose occorre molto sforzo, per­
ché ci sono forti energie ostruttive, quali l'attaccamento, l'avversione e
l'ignoranza, che ci portano via dalla condizione di libertà, saggezza e
compassione. Per entrare in contatto con la pace, la libertà, la compassio­
ne e la saggezza, noi abbiamo bisogno di una contro-energia più potente
di queste energie ostruttive. È sufficiente aver praticato un poco per sape­
re quanto siano potenti queste forze e quanto sia potente la loro dittatu­
ra. Non possiamo illuderci di poterei sbarazzare di attaccamento, avver­
sione e illusione senza sviluppare questa contro-energia positiva.

5. Se consideriamo il nobile ottuplice sentiero, vediamo che esso non


comincia con lo sforzo, bensì con la retta comprensione (sammaditthi) e
con la retta intenzione (sammasankappa), seguite dall'etica (retta azione).
Solo dopo verrà menzionato il retto o saggio sforzo. Ciò significa che noi
abbiamo bisogno di un fondamento di saggezza e di sensibilità morale
per intraprendere il cammino spirituale. Soltanto se c'è questo minimo di
comprensione noi possiamo esercitare il nostro sforzo in modo giusto e
non a caso. Non abbiamo bisogno di uno sforzo cieco, fine a se stesso,
confuso, ma di uno sforzo illuminato dalla saggezza (panna). E dunque
occorrerà una certa comprensione per essere capaci di applicare e usare
lo sforzo e l'energia in modo corretto o saggio. Per capire di che tipo di
comprensione si tratta è utile ricordare la famosa dichiarazione del
Buddha: "Io insegno una cosa sola: la sofferenza e la fine della sofferen­
za". La comprensione fondamentale e necessaria è quindi la compren­
sione della sofferenza. Sviluppare questo tipo di comprensione non è fa­
cile. Charlorte Joko Beck dice: "Dai miei colloqui con un gran numero di
persone mi accorgo che nessuno capisce la sofferenza" (Beck 1989,
p. 86). Infatti, nella tradizione spirituale, comprendere la sofferenza signi-
fica vedere oltre ciò che noi intendiamo solitamente per sofferenza.
Quando noi parliamo di sofferenza pensiamo in genere a un dolore fisico
o psicologico causato da una perdita o da una separazione, ma dukkha, la
sofferenza in senso dharmico, è più ampia e profonda di queste forme di
sofferenza. Una comprensione profonda della sofferenza e delle sue cause
significa che noi cominciamo a vedere che l'attaccamento è sofferenza,
che l'avversione è sofferenza, che l a confusione o inconsapevolezza o
ignoranza è sofferenza. Questo è il fulcro della saggezza. Nella misura in
cui comprendiamo il modo in cui creiamo la sofferenza nella nostra vita
attraverso l'attaccamento, l'avversione e l'ignoranza, in questa misura noi
cominceremo ad applicare e a usare lo sforzo nel modo corretto. Ciò che
impedisce di vedere che l'attaccamento e l'avversione sono sofferenza è la
cecità o ignoranza (avzjja) che ci accompagna assiduamente e che è la
causa fondamentale della sofferenza ed è la sofferenza fondamentale.
Ogni volta che noi dimentichiamo la consapevolezza, ciò significa che la
nostra vecchia amica ignoranza è all'opera. Se, al contrario, noi siamo in
stato di consapevolezza, l'ignoranza ne risulterà fortemente minata, per­
ché la consapevolezza è l'opposto dell'ignoranza e della mancanza di pre­
senza nel presente. Ma vediamo ora più da presso cosa sono l'attacca­
mento e l'avversione, perché solo se - come abbiamo detto - riusciamo
a cogliere in profondità cosa essi siano, potremo applicare lo sforzo in
modo corretto.

6. L'attaccamento, così come viene inteso nelle tradizioni spirituali,


non ha niente a che fare con il gioire di ciò che è piacevole. Esso è invece
l'essere risucchiati e ipnotizzati da ciò che è piacevole o che noi riteniamo
essere tale, come ci può capitare, ad esempio, quando restiamo invischia­
ti nella nostra rabbia, perché in quel momento essa ci appare come qual­
cosa di importante, eccitante, soddisfacente, anche se in realtà non lo è.
L'attaccamento, dunque, si manifesta in noi quando restiamo ipnotizzati
da qualcosa che percepiamo come piacevole. In quei momenti noi attri­
buiamo una particolare solidità a ciò cui siamo attaccati. Può darsi poi
che, qualche tempo dopo essere stati catturati dall'attaccamento verso
qualcosa, ci rendiamo conto di quanto quella cosa sia in realtà irrilevante
e possiamo anche stupirei per avere in precedenza proiettato su di essa
così tanta importanza e solidità. Lo stesso accade per l'avversione. Ora
noi non possiamo applicare correttamente il nostro sforzo di consapevo�
lezza equanime se non abbiamo toccato con mano come lavorano l' attac­
camento, l'avversione e l'ignoranza. La comprensione liberante è questo
toccare con mano, questo capire sempre più accuratamente come noi
creiamo sofferenza attraverso l'illusione ottica dell'ignoranza che sta alla
base dell'attaccamento e dell'avversione. Quanto più sviluppiamo la retta
comprensione, tanto meglio possiamo utilizzare rettamente e saggiamente
lo sforzo, l'energia. Se c'è questa comprensione di base possiamo applica­
re il retto sforzo ai nostri sentimenti ed emozioni, ai nostri pensieri e alle
nostre conclusioni, nel senso di investigar/i e vedere quanta sofferenza ge­
neriamo dal nulla. Questa è la direzione dello sforzo saggio. Di questo ar­
gomento tratta un brano molto bello di Pema Chodron, monaca buddhi­
sta occidentale di tradizione tibetana: "L'errore innocente che ci tiene
catturati nel nostro particolare stile di ignoranza, mancanza di gentilezza
e chiusura è che noi non siamo mai incoraggiati a vedere chiaramente le
cose così come sono con gentilezza" (Chodron 1991, p. 14). La frase:
"vedere chiaramente le cose così come sono con gentilezza " sintetizza
molto bene la spina dorsale della pratica. "La meditazione - continua
Pema Chodron - è vedere chiaramente il corpo che noi abbiamo, la
mente che noi abbiamo, la situazione familiare che abbiamo, il lavoro che
abbiamo, le persone che sono presenti nella nostra vita. È vedere come
noi reagiamo a tutte queste cose; vedere le nostre emozioni e i nostri pen­
sieri così come essi sono adesso, proprio in questo momento, proprio in
questa stanza, proprio su questa sedia. Non è cercare di mandarli via, ma
vederli chiaramente con precisione e gentilezza. Durante questo mese di
pratica meditativa, noi impareremo a coltivare la gentilezza, la precisione
e l'abilità a lasciare andare la nostra ristrettezza mentale, ad aprirci ai no­
stri pensieri e alle nostre emozioni, impareremo ad aprirci a tutte le per­
sone che noi incontriamo nel mondo e impareremo ad aprire le nostre
menti e i nostri cuori" (ivi).

7. Più vediamo chiaramente, più il nostro sforzo diventa saggio ed ef­


ficace. Ad esempio, noi possiamo avere, non senza sorpresa, I'insight che,
di fatto, siamo molto attaccati alla nostra rabbia. Tramite la consapevo­
lezza e l'investigazione noi constatiamo di avere attaccamento alla nostra
rabbia e che, in realtà, è proprio l'attaccamento che nutre e sostiene la
rabbia. A questo punto siamo in grado di orientare il nostro sforzo in
modo più preciso, ovvero possiamo condurre, con lo sforzo necessario, la
consapevolezza a un livello più fondamentale e sottile, cioè al livello del
nostro attaccamento alla sofferenza (dato che la rabbia è sofferenza). Sic­
ché, grazie alla cooperazione tra retta compreAsione e retto sforzo, noi
riusciamo a fare un lavoro utile, perché, finché vecliamo solo la rabbia,
ma non vediamo la 'colla' che la tiene legata a noi, non possiamo risolve­
re la nostra sofferenza. Facciamo un altro esempio: l'invidia. Come lavo­
rarci? La prima cosa sarà, in virtù della retta comprensione, quella di ri­
conoscere l'invidia e di percepime il carattere tossico. Quindi, compiuto
questo riconoscimento, si tratterà - è questo il secondo passo - di im­
parare a stare con l'invidia finché essa dura: e qui entra in ballo lo sforzo
saggio. In altre parole, in una prima fase noi vediamo con attenzione il
momento in cui l'invidia sorge e si manifesta, mentre in una seconda fase,
grazie all'energia ben indirizzata (o sforzo saggio), noi impariamo non so­
lo a riconoscerla, ma gradualmente a stare con essa, a penetrarla, a inva­
derla con la consapevolezza.
Più noi, mercé lo sforzo saggio, contempliamo l'invidia e più constatia­
mo che essa si depotenzia. Il vederla sempre più attentamente, accurata­
mente, gentilmente, ha un effetto salutare e curativo su di essa. È soprat­
tutto allo sforzo saggio che noi dobbiamo questo effetto salutare, perché
senza di esso non saremmo stati in grado di tenere a lungo sotto osserva­
zione questa cosa scottante che è l'invidia. Stare nell'invidia con consape­
volezza ci consente poi di aprirci a una fase ulteriore e Cioè quella della
gioia simpatetica (mudita). Può darsi, per esempio, che davanti a noi ci
sia una persona che ha avuto un successo e ne è felice (e ciò è esattamen­
te quello che ci sollecita l'avversione nella forma di invidia). Ora, se noi,
invece di chiuderci alla gioia dell'altra persona, la penetriamo, ovvero
portiamo la consapevolezza sulla gioia dell'altra persona, questa opera­
zione finirà con l'avere un effetto benefico. n training è quello di coltiva­
re gradualmente una prontezza a 'saltare' nella felicità dell'altra persona
prima che arrivi la nuvola dell'invidia a separarci da lei. Naturalmente,
senza il retto sforzo e la retta comprensione che, cooperando, sono ciò
che ci consente di vedere chiaramente e con gentilezza le nostre resisten­
ze a congioire con gli altri, la dimensione della mudita è destinata a re­
stare un fatto occasionale. La pratica della meditazione, invece, come
ricordavamo all'inizio, ha per scopo proprio quello di rendere presenti
più continuamente nella nostra mente queste qualità centrali dd cam­
mino interiore.

8. Voglio aggiungere solo poche osservazioni. Anzitutto è bene com­


prendere che 'sforzo saggio' è un altro nome per la pratica o, se vogliamo,
è simile a un compagno di tutta una vita di pratica e quindi, come si fa con
un organismo vivente, è necessario nutrirlo e farlo crescere. Non si tratta
dunque di uno strumento provvisorio, bensì di una dimensione profonda
che si evolve col passare degli anni. n retto sforzo col tempo diventa più
soddisfacente, più liberante; più lo coltiviamo e più comprendiamo cosa è
lo sforzo non retto. Naturalmente, quando cominciamo a praticare, lo
sforzo non retto è inevitabile. Se non cadessimo mai nello sforzo non sag­
gio, saremmo già molto saggil Ogni volta che ci sono ambizione, atteggia­
mento giudicante, confronto, e noi non siamo consapevoli di tutto ciò, ine­
vitabilmente il nostro sforzo non sarà quello giusto. La stessa cosa avviene
quando non c'è continuità nella nostra pratica, quando lo sforzo procede
per esplosioni seguite poi da lunghi periodi di latenza.
Inoltre lo sforzo saggio non è dualistico. Il dualismo c'è tutte le volte
che noi ci rivolgiamo alla nostra avversione, paura, attaccamento eccetera,
in maniera aspra e giudicante. Quando invece c'è lo sforzo saggio noi lot­
tiamo senza lottare. Non è un gioco di parole: noi intendiamo sincera­
mente e decisamente apparci a questi stati negativi per andare oltre, ma
nello stesso tempo li accettiamo profondamente e li perdoniamo. Durante
la meditazione formale noi pratichiamo lo sforzo saggio nel tornare al re­
spiro, allo scopo, tra l'altro, di imparare a tornare al momento presente
nella vita di tutti i giorni. Questa è una parte molto importante dell'eser­
cizio spirituale e io sono sicuro che molti di noi sanno come lo sforzo di
tornare al respiro si trasforma nella gioia di tornare al momento presente
e di lasciar cadere le fantasie che catturano abitualmente la mente.
All'inizio questo ritorno al presente può essere vissuto come innatura­
le, ma procedendo nel cammino, non solo diventa più naturale, ma di­
venta anche qualcosa di saldamente rasserenante. Un'altra osservazione:
se noi abbracciamo con la consapevolezza il nostro sforzo mentre lo com­
piamo, esso diviene più leggero; se abitiamo consciamente lo sforzo, esso
cambia, diviene meno solido, meno compatto, più spazioso, più liberante,
più vicino alla pura energia: in ultima analisi più saggio.
Se pensiamo al modo in cui il Buddha ha parlato dèllo sforzo saggio,
noi ci troviamo davanti a un completo programma di saggezza. Il Buddha
ha detto che lo sforzo giusto è prevenire il sorgere di stati non salutari
della mente; abbandonare gli stati non salutari della mente una volta che
essi siano sorti; promuovere il sorgere di stati salutari della mente; mante­
nere gli stati salutari della mente una volta che essi siano sorti (cfr. per
esempio Bhikkhu Bodhi 1984, pp. 65-73). Ogni cosa sembra essere presa
in considerazione: prevenire e abbandonare ciò che è negativo e attivare e
mantenere ciò che è positivo. Questo è lo sforzo saggio, giusto, retto,
questa è la saggezza, questa è la possibilità di una vita più felice per noi
stessi e per le persone che ci sono vicino.
4

Un piccolo salto evolutivo

l . Nel Dharma buddhista il cammino interiore è basato su tre pilastri:


l'etica (sila), la meditazione (samadht) e la saggezza o discernimento (pan­
na). Ciascuno di essi opera in connessione con gli altri due e ciascuno dei
tre è un modo di cercare il bene: sia il bene che conosciamo, il bene noto e
mentalmente concepibile, sia il bene incondizionato e non concepibile dal­
la mente. Data questa interconnessione, all'aumento della pace interiore
dovrà corrispondere un'accresciuta sensibilità morale da una parte e, dal­
l'altra, un discernimento più approfondito circa la natura dell'esistenza.
Ma ci conviene anzitutto guardare più da presso alla meditazione per
vedere meglio qual è il primo frutto-seme della ricerca del bene svolta se­
condo i tre pilastri di sila, samadhi e panna. A me sembra che tale fonda­
mento primo sia quella inclinazione, quella preferenza - che la mente
progressivamente sviluppa - a ritornare al centro, ossia all'oggetto della
meditazione di consapevolezza, che sia esso il respiro o ciò che predomi­
na nel momento presente o altro ancora. Tale inclinazione o preferenza
in genere non può esserci all'inizio, quando dobbiamo far ricorso, invece,
a uno sforzo particolare per ricondurre l'attenzione al centro. Ma col
tempo accade una svolta importante, che è appunto questa: la mente, di­
versamente da prima, tende ora a tornare volentien· al campo di attenzio­
ne prescelto.
Non stiamo parlando di cambiamenti spettacolari quali l'accesso a sta­
ti di profondo assorbimento mentale o una pratica senza sforzo. Parlia­
mo, piuttosto, di una pratica nella quale continuano a esserci distrazioni e
difficoltà varie, ma nella quale, tuttavia, si è creata questa nuova tenden­
za: allorché ci ricordiamo dell'oggetto dell'attenzione - e d'ora in avanti
useremo come esempio il respiro - accade che siamo contenti di pren­
dervi rifugio di nuovo. Cioè ci accorgiamo di preferire questo movimento
si1enzioso alle proposte della mente di pensare a questo e a quello. n po­
tere di seduzione della mente è ancora forte e operante, altrimenti non ci
perderemmo in fantasie e simili. Però è nettamente diminuito, come di­
mostra il fatto che, quando ci risvegliamo all'attenzione, lasciamo andare
di buon grado l'attaccamento ai pensieri e alle immagini e con un interesse
nuovo sostiamo il più a lungo possibile nel respiro.
A una mentalità lontana dal lavoro interiore ciò appare sconcertante:
come è possibile preferire il respiro e la sua banalità alla dovizia di parole
e di immagini che la mente è capace di profondere? Evidentemente è
possibile solo quando cominciamo a percepire che, misteriosamente, c'è
qualcosa di solido e di promettente in questo continuo rifluire al centro,
in questo frequentare la primordialità del respiro, vuota di immagini e di
discorso. Avvertiamo il sentore di una pace più forte delle nostre immagi­
nazioni circa la pace.
Detto altrimenti, è lo spuntare di una pace che diventa gradualmente
più consapevole del proprio valore. Di conseguenza, sempre meno siamo
noi a rincorrere la pace e sempre più è la pace a chiamare noi, che volen­
tieri accettiamo il suo invito. Ora, nella storia di un cercatore spirituale,
questo primo affacciarsi alla pace rappresenta qualcosa di simile a un pic­
colo salto evolutivo. Intendo dire questo: quando l'adolescente si rende
conto, crescendo, del valore, per esempio, della parola data, ciò sarà un
salto evolutivo rispetto allo stadio infantile precedente, nel quale tutto era
più fluido e incerto a questo proposito. E da questo momento l'individuo
annetterà importanza alla lealtà e procurerà di proteggerla e coltivarla.
Nello stesso modo, allorché, percorrendo il cammino interiore, ci ren­
diamo conto del valore della pace mentale, questa presa di coscienza rap­
presenterà un salto evolutivo rispetto al nostro stadio precedente, nel qua­
le tutto era piuttosto confuso e irreale in questo campo. Ma adesso che in­
vece cominciamo a distinguere chiaramente una concreta e preziosa possi­
bilità di pace, diventiamo solleciti, protettivi e seri nei suoi confronti, per­
ché avvertiamo di trovarci davanti a qualcosa di importante e che ci inte­
ressa in modo particolare. E il motivo di ciò è tanto semplice quanto gran­
de: sentiamo, infatti, che ci stiamo occupando del nostro desiderio più
profondo. Nelle belle parole di Shunryu Suzuki Roshi: "Se il nostro più
profondo desiderio è sbarazzarci delle idee egocentriche, dobbiamo farlo.
Se facciamo questo sforzo, il nostro desiderio più profondo viene appaga­
to, e c'è il Nirvana. Prima di decidervi a farlo, trovate difficoltà, ma una
volta che avete cominciato, tutto va liscio. li vostro sforzo appaga il vostro
desiderio più profondo. Non esiste altro modo per raggiungere la calma.
Calma mentale non significa che dovete bloccare la vostra attività. La vera
calma va scoperta nell'attività stessa" (Shunryu Suzuki 1970, p. 40).

2. Per ciò che riguarda la relazione tra questa vitale tendenza alla pace
e gli altri fattori del cammino interiore, la prima cosa da osservare mi pa-
re la seguente: senza la coltivazione di questo rilassamento integrale, cioè
di questo paziente e minuto lasciar andare che è il continuo tornare al re­
spiro, noi facilmente ci troveremo impigliati e identificati nell'avvicendarsi
incessante delle preoccupazioni.
E quando il volume delle preoccupazioni supera una certa soglia, allo­
ra la possibilità di presenza nel presente (satil, di consapevolezza, è mini­
ma. Perché, semplicemente, non c'è spazio per essa: lo spazio è tutto inva­
so dalle preoccupazioni e, ancora di più, dalla nostra identificazione-at­
taccamento nei loro confronti. La consapevolezza, al più, farà capolino
fugacemente, in qualche attimo di buon equilibrio psico-fisico. Ma poi
sarà travolta subito, a causa della mancanza di pace e di rilassamento. Va­
le a dire, a causa dell'intatto potere di seduzione e di ipnosi da parte del­
le preoccupazioni. Eppure, si potrebbe obiettare, non è fondamentale in­
vestire di consapevolezza le preoccupazioni di tutti i generi? Certamente.
Tuttavia, senza un primo fondamento di pace, cioè di forza, la consapevo­
lezza ancora tenera soccomberà sotto il peso della mente preoccupata di
questo e di quello. Ma, al contrario, se c'è una base di pace e Ji interesse
a custodire la pace, allora la consapevolezza potrà cominciare a penetrare
nella radice del dolore ossia nella nostra vischiosa identificazione con le
preoccupaztom.
Dunque un inizio di pace autentica ha, tra le sue virtù, la virtù di nu­
trire la retta consapevolezza (sammasati), la presenza vigile e ricettiva nel
momento presente. E sati è il presupposto di fondo del discernimento, sia
in campo etico, sia in qualsiasi altro campo. Il discernimento, a sua volta,
man mano che è attivato, si infonde nella pratica e rende la pace più sicu­
ra di sé e del proprio valore. Infatti, grazie al discernimento, io vedo
quanto sia futile rincorrere pensieri e stati d'animo e come sia invece fe­
condo di pace l'ancorarsi all'energia silenziosa del respiro; e vedo, d'altra
parte, come io, per paura di fronteggiare stati d'animo negativi, possa
fuggire in una concentrazione forzata, che è un uso erroneo della pratica,
produttivo di non pace. Abbiamo, cosicché, una felice concatenazione
circolare, che possiamo raffigurare in questo modo: pace- consapevolez­
za- discernimento - lasciar andare -+ più pace- più consapevolezza----. più
discernimento -più lasciar andare.
In termini di ricerca del bene questa concatenazione, che poi non è al­
tro se non la retta pratica, implica un mutamento di rotta di grande con­
seguenza. Infatti significa che l'individuo non equipara più, immatura­
mente, il bene a cercare il piacevole e a evitare lo spiacevole. In effetto,
grazie alla retta pratica, questa equazione viene sempre più messa in di­
scussione. Col risultato che il nostro modo di rapportarci al piacevole e
allo spiacevole prende a modificarsi, diventando meno compulsivo. n no­
stro perseguire il piacevole si fa meno compulsivo e così pure il nostro
sfuggire lo spiacevole. E minore compulsione significa meno sofferenza e
più equanimità. Ora equanimità non è soltanto uno specifico atteggia­
mento interiore, è invero molto di più, poiché è la porta d'accesso a un
modo saggio, ossia non dualistico di vedere e di vivere. Osserva Toni
Packer: ''Nel momento in cui la dualità cessa, l'energia che era stata trat­
tenuta nel conflitto e nella divisione prenderà a funzionare compiutamen­
te, intelligentemente e sollecitamente. Allorché, invece, è l'esser fissati in
se stessi (self-centeredness) che predomina nella mente, l'energia viene
bloccata e si convoglia nel temere e nel desiderare; diventiamo isolati nei
nostri piaceri, dolori e sofferenze. Ma allorché questo processo viene
completamente rivelato alla luce della consapevolezza imparziale, l'ener­
gia si unifica e scorre libera, indivisa e capace di abbracciare tutto"
(Packer 1990, p. 1 12).
L'equanimità saggia, ovvero la capacità di lasciar andare il conflitto e
la divisione generati dall'io che si identifica con ciò che desidera, teme o
avversa, ha come suo primo seme, dicevamo, quella inclinazione alla pace
e al silenzio che nasce nel laboratorio della pratica. Inclinazione che rap­
presenta un piccolo salto evolutivo poiché, in virtù di essa, ci ritroviamo
ad apprezzare sempre più i valori del cammino interiore, fino a metterli
al primo posto nella nostra vita. E questo è uno spostamento d'asse fon­
damentale: da una ricerca sbagliata della felicità e del bene a una ricerca
più giusta. Di conseguenza, una vita imperniata sulla ricerca del bene do­
vrà essere una vita abitata da molta più gioia rispetto a una vita orientata
altrimenti. il Buddha direbbe che solo "appoggiandosi su questo", ovvero
sulla gioia e sull'equanimità apportate dalla retta ricerca, possiamo "tra­
scendere questo", cioè, in sostanza, la sofferenza e le sue cause . 1

1 Salayatanavibhangasutta nel MN, p . 215 sg.


5

La meditazione di consapevolezza:
realtà e illusioni

l. Nella tradizione buddhista la parola che designa l'idea di medita­


zione è molto pregnante. Sia in pali, sia in sanscrito meditazione si dice
infatti bhavana. Questo termine viene dal causativo della radice bhu, che
vuoi dire essere. Bhavana quindi è ciò che fa essere. Una mente bhavita,
che in genere si traduce 'allenata', 'addestrata', 'coltivata', in realtà, lette­
ralmente, è una mente /atta essere, svegliata dal sonno delle continue sof­
ferenze autoinflitte. La dichiarazione che la mente può essere bhavita, va­
le a dire che può essere profondamente coltivata, è un'affermazione dalla
portata notevole.
Generalmente, quando noi diciamo che la mente è coltivabile intendia­
mo dire che può essere arricchita di conoscenze, di talenti. Questo è vero
e importante, ma qui si intende una cosa profondamente diversa, perché
ci si riferisce alla possibilità di purificare radicalmente la mente da attac­
camento, avversione e confusione, che sono le cause della sofferenza.
Questo processo di risveglio, di familiarizzazione della mente con se stes­
sa è in genere lento e richiede molta gentilezza e cura. A questo proposi­
to, in Occidente il mondo alchimistico ci offre l'immagine del vaso erme­
tico, del vaso chiuso nel quale si mettono i metalli vili che, attraverso il
processo di cottura, si trasformano lentamente in oro. Nel buddhismo
questa immagine corrisponde alla cottura di tutte le nostre impurità rea­
lizzata grazie al fuoco della consapevolezza e di tutti i fattori di liberazio­
ne che, operando in modo continuo, trasformano questi metalli nell'oro
della coscienza purificata.
Ora nel mondo la nozione di purificazione mentale non è molto diffu .
sa. Tante persone non sanno che esiste la possibilità di purificare la men­
te, oppure lo sanno in maniera talmente astratta che giustamente non ci
credono. Questo è un motivo importante perché le persone che si adope­
rano per la purificazione mentale si aiutino tra loro. La comunità dei pra­
ticanti, il sangha, è qualche cosa di prezioso. Infatti, senza l'aiuto di que-
sta comunità, diventa molto difficile sia aiutare se steSsi, sia aiutare gli al­
tri, dato che la nostra cultura e la nostra società non offrono molto soste­
gno in questo senso. Riguardo a ciò, l'illusione più frequente è quella del
privatismo, vale a dire il ritenere che si possa procedere in cose come la
meditazione standosene più o meno isolati. Che questa sia un 'illusione è
difficile comprenderlo all'inizio di un cammino spirituale, perché in que·
sta fase riteniamo facilmente di aver capito tuno e di poter fare a meno
degli altri. Il sangha è l'insieme delle persone che cercano di praticare la
purificazione mentale per essere più utili a se stesse e alla società. L'aiuto
reciproco, che è alla base del sangha, rende possibile questo scopo così
raro e fondamentale. E questo aiuto è realizzabile indipendentemente
dalle affinità personali, che possono esserci o non esserci.

2. Come un albero più è cresciuto, meno rischia di morire, così, allor­


ché la nostra pratica è cresciuta, rischia meno di isterilirsi e noi, malgrado
le difficoltà, tendiamo a ricadere dentro di essa. All'inizio, invece, tendia­
mo a cadere fuori della pratica, cioè a non credere più alla meditazione, a
non prendere più rifugio nella meditazione, ma a prendere invece rifugio
nei nostri stati d'animo, ovvero eleggiamo a unica cosa reale la nostra di­
sperazione, la nostra tristezza o, al contrario, le nostre grandi aspettative
circa le cose che faremo nella vita, nel lavoro, nella carriera, cose forse
importanti ma che tuttavia non hanno quel valore assoluto che noi diamo
loro. Di regola cerchiamo rifugio in cose eccitanti o in cose deprimenti
che sono dentro di noi, oppure nelle idee, nelle ideologie. E quest'ultimo
'rifugio' è un'altra illusione particolare che conviene prendere in esame.
La pratica è la purificazione in atto, non sono le idee e i concetti circa
la purificazione, non è il difendere dogmaticamente il retroterra dottrina­
rio della pratica, in questo caso il buddhismo. Aggrapparsi a una serie di
concetti è distrarsi dalla pratica. Awinghiandoci a concetti come il
buddhismo, il cristianesimo e via dicendo, è come se ci mettessimo al ripa­
ro di un grande ego contrapposto agli altri, come se non ci bastasse più il
nostro piccolo ego per sentirei sicuri. Tuno ciò aumenta la sofferenza,
rende più solida la separazione dagli altri, da approcci religiosi diversi dal
nostro e soprattutto dalla pratica, perché aggiunge al nostro narcisismo
un super-narcisismo di chiesa. Una pratica più discernente, invece, con­
duce all'unità. Man mano che ci pacifichiamo e comprendiamo ci sentia­
mo meno separati. Aldous Huxley, nella conclusione di un suo famoso li­
bro, scrisse: "Nella pace c'è unità" (Huxley 1936, p. 422). È vero! La pa­
ce unifica, la non-pace separa e fa soffrire. La pace è un balsamo per la
sofferenza, aiuta a trascendere la sofferenza.
Nel ventiduesimo discorso del Ma;jhlma Nzkaya (AS), il Buddha, par­
lando di alcuni monaci, dice: "Essi studiano l'insegnamento soltanto per
criticare o per refutare altri nella discussione. Questi monaci non sento­
no, non vedono il vero proposito della pratica, non vedono il vero fine
della pratica. Per essi, allora, questi insegnamenti presi nella maniera sba­
gliata porteranno sofferenza, perché essi stanno usando gli insegnamenti
non per il fine proprio degli insegnamenti [ ] . Se noi, infatti, costruiamo
...

una zattera, essa ha per fine quello di portarci dall'altra parte, non quello
di suscitare attaccamento nei confronti di essa zattera". Io penso che non
possiamo non avere un profondo rispetto e una profonda devozione per
quella tradizione spirituale che sembra averci dato di più per attraversare
la sofferenza nella vita di tutti i giorni e per la quale sentiamo più affinità.
Tutto ciò è molto naturale e non ha niente a che vedere con il dogmati­
smo e con l'ideologismo. Mentre invece trasformare la pratica in una
nuova ideologia con la quale puntellare il proprio ego è un completo tra­
visamento.

3. Una volta il Buddha disse che il Dharma è come un serpente che,


se viene preso nel modo sbagliato, morde (cfr. MN, AS). Con questo non
voleva certo dire che è il Dharma, l'insegnamento in sé, che è causa di av­
velenamento, bensì il nostro modo di recepirlo. Ora tutti i modi unilate­
rali di concepire la meditazione sono, in ultima analisi, più o meno tossi­
ci. E circa i pericoli dell'unilateralità mi sembra opportuno osservare que­
sto: la meditazione formale è una struttura portante del lavoro interiore,
ma non è l'unica. Cì si può ragionevolmente aspettare che essa funzioni,
cioè che contribuisca allo sviluppo di quegli effetti trasformativi che ven­
gono presentati come peculiari del cammino interiore, solo se associata
ad altre cose, ossia alla pratica delle virtù, allo studio, al confronto di co­
munità, insomma a tutti quei vari elementi che costituiscono la vita spiri­
tuale. A questo proposito è bene indicare un'illusione, forse più frequen­
te oggi di ieri in Occidente, che possiamo chiamare l'illusione del tecnici­
smo, vale a dire: aspettarsi che una pratica meditativa, ridotta al suo
aspetto tecnico, avulsa da tutta una vita spirituale, da tutta una semplifi­
cazione di vita, da tutto uno studio delle dottrine sapienziali, possa in
qualche modo giovarci. Ciò non è realistico. La pratica formale fa parte
di un insieme e tutto questo insieme va coltivato.
Ora io credo che questa illusione dipenda principalmente da due moti­
vi, uno di tipo psicologico, ]'altro di tipo culturale. n primo è dovuto alle
nostre resistenze interne, per cui, pur avendo un'idea circa l'importanza
dell'impegno nel lavoro interiore, possiamo poi avere resistenze, che ci
portano ad applicare anche nei confronti della pratica il normale atteggia­
mento selettivo della mente: "Questa parte mi piace e la voglio, questa
parte non mi piace e non la voglio" . ll secondo motivo, di cui già si è ac­
cennato, è dovuto alla mancanza di informazione o all'informazione di-
storta che circola nella nostra cultura a proposito di queste cose. Sicché
noi arriviamo a concepire in perfetta buona fede una meditazione come
fatto tecnico isolato, ritagliata da tutto il contesto sapienziale che la nutre,
perché così ci viene presentata.
La meditazione di consapevolezza, vista come è realmente, si basa su
tre dimensioni: la prima è quella della pacificazione mentale. Lo scopo è
quello di portare la nostra mente, che solitamente naviga in stati di non­
pace e di agitazione, a un livello di maggior pace. La seconda è quella
della saggezza, della comprensione, del discernimento !panna). La mente
pacificata è in grado di comprendere meglio quello che crea sofferenza in
noi e negli altri. Infine c'è la dimensione della compassione, che in questa
tradizione è presentata in maniera molto forte, perché è presentata sem­
pre come sostenuta e alimentata dalla pace e dalla saggezza e mai come
fattore a sé stante.
In altri termini, la dimensione compassionevole, l'amore religioso, spi­
rituale, ha un piede nella pace e un piede nel discernimento, consegue al­
la pace e al discernimento. E questi due fattori ricevono un'attenzione
speciale anche in quanto presupposti imprescindibili della compassione:
se essi sono presenti, allora può esserci la dimensione della compassione,
altrimenti no.
Tutto quello che va sotto il nome di pacificazione o pace, tecnicamen­
te cade sotto il nome di samadhi o samatha. Qui l'illusione può essere
quella di una meditazione esclusivamente concentrativa, esclusivamente
diretta alla pacificazione che si ottiene con mezzi di concentrazione men­
tale, senza che venga poi curata la coltivazione della saggezza. Mentre in
realtà la pacificazione della mente non è mai fine a se stessa, ma deve,
piuttosto, preparare la mente a comprendere meglio dove è la sofferenza.
Una visione unilateralmente concentrativa della meditazione è pericolosa.
Dalla concentrazione meditativa, infatti, scaturisce un potere mentale.
Ora questo potere che nasce dalla pratica seduta, un anno dopo l'altro, se
non è investito nella comprensione, diventa fine a se stesso e, se non ci
siamo sufficientemente depurati, va a potenziare l'egoità. Senza la com­
prensione è naturale che i precetti morali di base non diventino parte in·
tegrante della persona che pratica. Solo se c'è discernimento io mi rendo
conto del valore dell'innocenza, ossia del non nuocere, e quindi mi diven­
ta impossibile promuovere azioni che contraddicano la moralità (sila).
La pace nutre la saggezza e, viceversa, la saggezza nutre la pace. Tale
inquadramento molto chiaro e preciso di queste due polarità e della com­
passione che ne consegue è una delle espressioni più specifiche e più ge­
niali della spiritualità buddhista. Quando arriviamo a una certa pacifica�
zione mentale, siamo in grado di vedere meglio le cause della non-pace
mentale e cioè tutte quelle contaminazioni della mente, a partire dall'at-
taccamento alle nostre abitudini, opinioni e via dicendo, che tecnicamen�
te vanno sotto il nome di kilesa. Occorre un po' di pace per vedere quan­
to è potente la non-pace dentro di noi. Quindi, pacificando la mente con
la meditazione, e vedendo meglio le cause intrinseche della sofferenza,
cominciamo a capire qualcosa di fondamentale. Può darsi che, prima di
intraprendere la pratica o anche all'inizio della pratica noi ritenessimo di
avere una buona comprensione della sofferenza, ma ci rendiamo poi con­
to che non era così.
Una riduzione delle cause di sofferenza individuale ci porta ad avere
una migliore comprensione delle caratteristiche dell'esistenza, vale a dire
di quello che è fondamentale e comune nell'esistenza e che non è invece
proiettato sull'esistenza dal nostro attaccamento, dalla nostra avversione.
Se, ad esempio, io sono molto prevenuto nei confronti di una persona, io
sarò il meno indicato a capirla. Allo stesso modo, se siamo molto preve­
nuti nei confronti della vita, di noi stessi, degli altri, allora non saremo
molto qualificati per capire, perché non saremo ceno in una situazione di
imparzialità. Ma quando la saggezza nella forma di equanimità diventa
più presente, allora la capacità di capire e quindi di essere compassione­
voli aumenta.
Nel buddhismo si dice che la mente è pura e luminosa ma è oscurata
dalle afflizioni, dalle impurità. Le impurità della mente sono molto foni,
ma non sono la natura ultima e intrinseca della mente. Il cambiamento
fondamentale, che, come tutte le cose di questo genere non avviene una
volta per tutte, si chiama ribellione a vivere in un mondo di infelicità
creata dalla nostra avversione e dal nostro attaccamento. Praticando, ve­
dendo meglio queste impurità e la sofferenza che da esse proviene, noi
concepiamo una ribellione, un rifiuto a continuare a vivere in questo mo­
do o, detto al positivo, è come se ci venisse in mente sempre di più il
pensiero che ci deve essere un altro modo di vivere.

4. Possiamo pensare a qualcosa che, attraverso la meditazione intesa


nel suo senso più ampio, più integrale, cresce nella persona che pratica,
un anno dopo l'altro. Questo qualcosa da una pane è definibile, dall'altra
è misterioso. È definibile come un crescente interesse per tutto quello che
è pace, saggezza, compassione e che tende a diventare progressivamente
prioritario rispetto ad altri interessi nella nostra vita. C'è poi una parte
che sfugge a ogni definizione e che possiamo chiamare mistero, un miste­
ro diverso rispetto al mistero del male e della sofferenza che ci circonda.
Nella tradizione cristiana c'è un'espressione molto pregnante, miste­
rium iniquitatis, il mistero del male. Siamo circondati da questa dimensio­
ne, in noi e fuori di noi, che è misteriosa. Sennonché, a mano a mano che
pratichiamo, si manifestano effetti ugualmente misteriosi, ma di segno op-
posto, come, per esempio, una fiducia nel bene apparentemente immoti­
vata. Questi effetti gradualmente si stabilizzano, coabitando con la soffe­
renza e con la conflittualità. È una crescita lenta che ricorda in qualche
modo quella della quercia o del pino. Questi alberi, che necessitano di
molti fattori per svilupparsi (acqua, sole, luce, eccetera), crescono molto
lentamente, ma poi, una volta cresciuti, sono molto robusti.
Anche la spiritualità, quando è vera, è qualcosa di robusto e anch'essa
richiede tempo e varie condizioni. Vorrei evidenziarne due: la continuità
e la dedizione generosa. Quando questi due fattori sono compresenti e
operano assieme, allora abbiamo le condizioni basilari perché la pratica
non si isterilisca e perché quella presenza buona, di cui parlavamo, metta
radici in noi. Nell'alchimia si parla dell'importanza del regime costante del
fuoco. Nel buddhismo la continuità è sottolineata con l'immagine della
gallina che cova le uova e che, per assicurare loro il calore, non le abban­
dona mai. È importante notare che sia la continuità, sia la dedizione ge­
nerosa, appassionata alla pratica, sono due cose che si imparano e che ri­
chiedono tempo. In genere occorrono molte rinnovate partenze per arri­
vare a una certa continuità, vale a dire una certa regolarità di pratica for­
male e una certa presenza di consapevolezza nella vita di tutti i giorni.
A questo proposito ci sono due illusioni in cui si può cadere molto fa­
cilmente: rillusione dello spontaneismo e quella dello sforzo egocentrico.
Nel primo caso possiamo pensare che quello che dobbiamo fare non è
molto, perché poi le cose vengono quasi da sole. A facilitare lo spontanei­
smo che non recepisce l'importanza dell'energia, dello sforzo, può avere
un certo ruolo un intendimento non corretto della spiritualità cristiana.
Qualcuno, rifacendosi a questo intendimento, potrebbe pensare che se il
ruolo della grazia divina è fondamentale, allora molto poco potrà lo sfor­
zo umano, così tanto sottolineato, invece, dal buddhismo. Tutto questo
però è molto discutibile.
Infatti, una conoscenza meno superficiale della spiritualità cristiana ci
mostra che, oltre alla grazia, in questa stessa tradizione è assai importante
quella che viene chiamata la 'cooperazione con la grazia'. Se vogliamo
usare questo schema di riferimento e se guardiamo alla disciplina di ordi­
ni contemplativi cristiani, ci accorgeremo che questa 'cooperazione' è co·
sa tutt'altro che trascurabile e occasionale. In realtà, quelle dei contem­
plativi cristiani sono vite dedicate a una disciplina assidua e instancabile,
che diventa seconda natura. D'altra parte si può cadere anche nell'illusio­
ne opposta. Nella lista più completa dei fattori di illuminazione nel
buddhismo, lista che ne enumera trentasette, il retto sforzo o energia ( vi­
riya) è il fattore più nominato, comparendo nove volte all'appello e supe­
rando di una volta sali, l'attenzione consapevole o presenza mentale. L'il­
lusione è quella di non intendere vir(ya nel modo corretto. La maniera
giusta non è quella di un arido sforzo egocentrico o ambizioso, ma è
quella di una dedizione, di un impegno sempre crescente, consequenziale
al fatto che percepiamo di fare qualcosa che va a beneficio nostro e altrui.
A questo punto la pratica perde quelle caratteristiche egocentriche che
all'inizio, in una certa misura, sono inevitabili. Dedizione generosa alla
pratica e continuità nella pratica sono cose che vengono piano piano ma
che portano con sé un gusto, il gusto della continuità della pratica che di­
venta più intenso. Recentemente in un gruppo ho chiesto qualche defini­
zione della pratica. Una persona ha detto: "La pratica è una gran fatica " .
Ciò può essere vero all'inizio, ma poi non può continuare a essere così.
Dov'è altrimenti l'accesso a una dimensione più leggera, più libera, più
amante, più saggia? La fatica c'è, ci deve essere, sarebbe strano se non ci
fosse. La fatica però deve stingere in una dimensione molto più soddisfa­
cente. La coscienza sempre più acuta della bellezza del compito spirituale
fa parte di questa crescita lenta di cui si sta parlando ed è un grande sollie­
vo dalla fatica della vita, dalle sofferenze cui inevitabilmente andiamo in­
contro. Praticando, man mano che gli anni passano, questa coscienza della
bellezza della pratica è un fattore in crescita. Al contrario, i nostri sensi
con gli anni decrescono in efficienza, la loro capacità si attenua; lo stesso
vale per la mente: la memoria, per esempio, si indebolisce. Ma se prati­
chiamo, se sono nati in noi la dedizione e il gusto per la continuità, c'è
un'altra cosa che cresce invece di decrescere. In questa generale decrescita
c'è qualcosa che cresce. Qualcosa che non è una cosa e non è niente.
Anche se siamo solo all'inizio di un processo di nuova spiritualità in
Occidente, pure, allorché ci capita di trovarci davanti a espressioni tangi­
bili di questa dedizione generosa alla purificazione mentale, restiamo col­
piti. Vedere, per esempio, all'alba, una sala da pranzo dove oltre cento
meditanti, durante un ritiro di varie settimane, fanno colazione, non solo
in perfetto silenzio, ma chiaramente in un raccoglimento di pratica, ci
può toccare. Penso che una comprensione di questi pochi principi sui
quali ci siamo soffermati può aiutare, nei riguardi di queste cose, a supe­
rare una certa timidezza che esita a farci afferrare la fune che ci viene te­
sa. A volte c'è qualcosa che ci fertna, che arresta questo slancio a prende­
re la fune. Vorremmo che tutto fosse perfetto, che ci convincesse tutto
quello che vediamo, che leggiamo e che ci sentissimo esattamente al pun­
to giusto. Ma il coraggio è quello di procedere e di prendere la fune no­
nostante la nostra paura.
6

La via della consapevolezza

l . In un primo momento avevo pensato di intitolare questo scritto


"Consapevolezza e contemplazione". Ho preferito poi il titolo attuale per
evitare il più possibile di suggerire, anche indirettamente, la contrapposi­
zione fra contemplazione e azione. Contrapposizione che attraversa, con
effetto lacerante, la spiritualità occidentale fin dall'antichità e che, in for­
me e modalità differenti, è tutt'altro che estranea alla spiritualità asiatica:
si pensi soltanto alla Bhagavadgita, che nasce proprio per sanare questo
contrasto con una sua indimenticabile proposta di azione contemplativa o
contemplazione agente. E sembra che ai nostri giorni la spiritualità più
sveglia sia molto più interessata a questo messaggio di unità tra azione e
contemplazione, piuttosto che a contrapporre le due cose, secondo una
secolare abitudine.
Quando Madre Teresa di Calcutta rammenta alle sue suore che la ca­
pacità reale di raccoglimento interiore è la condizione prima per una rea­
le capacità di aiuto (''Quanto più riceviamo nella preghiera silenziosa,
tanto più possiamo dare nella nostra vita attiva", Teresa di Calcutta 1985,
p. 38) o quando il maestro di Zen rifiuta credito ai discepoli che circo­
scrivono alla meditazione seduta la loro pratica spirituale, 1 ci troviamo,
appunto, di fronte a una spiritualità felicemente avversa alla scissione tra
contemplazione e azione. ll che parrebbe un buon segno, Perché la que­
stione di fondo non è certo se la scelta ideale della modalità esterna di vi­
ta debba essere contemplativa o attiva, scelta che dovrà corrispondere

1 Preziose, a questo proposito, le recenti osservazioni di un maestro di Zen:


"Mi ricordo che quando andai la prima volta in Giappone a praticare lo ZtlZen, il
mio vecchio amico R H. Blyth mi disse: 'Tua moglie e tuo figlio rappresentano il
tuo primo dovere'. E questo mi fu difficile da inghiottire perché ritenevo che il
mio primo dovere fosse la pratica. Ora vedo chiaramente che stavo facendo una
distinzione tra pratica e vita" (Aitken 1985, p. 218).
semplicemente a due diverse tipologie psicologiche, a due diverse chia­
mate di pari dignità e non già a una preconcetta gerarchia di valori, di­
scutibile in ogni caso.
La questione di base, piuttosto, sembra riguardare l'intensità e l'am­
piezza de1la ricerca spirituale dell'individuo e cioè: l) quanto è vissuta e
quanto è compresa dall'individuo la propria ricerca dell'intelligenza di­
staccata e amorosa e 2) quanto tale ricerca è globale, ossia quanto è anni­
pervadente nella vita quotidiana. Da ricordare, in proposito, le parole di
un grande maestro da poco scomparso, il Lama Thubten Yesce: "Le reli­
gioni degenerano e scompaiono perché non vengono applicate ai proble­
mi della vira quotidiana" (Thubren Yesce 1978, p. 55). Diciamo dunque
che se la ricerca interiore è molto sentita, capita e globale, essa garantisce
dell'autenticità religiosa sia dell'azione, sia della contemplazione, renden­
do la distinzione tra le due di rilevanza molto limitata. Mentre, al contra­
rio, se la ricerca interiore è poco sentita, mal capita e settoriale, allora
tanto la contemplazione quanto l'azione impegnata rischieranno di essere
soltanto maschere spiritualistiche.

2 . Ora uno dei benefici del termine 'consapevolezza' è quello di essere


meno carico di incrostazioni ideologico-religiose e di non evocare, perciò,
né quell'immagine di un raccoglimento troppo statico e inerte che in alcu­
ni suscita la parola contemplazione o meditazione, né l'immagine di vetta
splendida ma irrirnediabilmente separata dal quotidiano, che la stessa pa­
rola evoca in altri. Consapevolezza, invece, è un vocabolo con poca storia
religiosa alle spalle e indica lo stare attenti, l'essere desti, che è l'essenza
sia, in senso esplicito e specifico, di una prassi meditativa buddhista, sia, in
senso più lato, di molte pratiche spirituali. Questo essere attenti si esplica
durante tempi speciali secondo cene forme (meditazione, seduta, preghie­
ra liturgica, eccetera) e, nel resto del tempo, secondo altre forme, quali
preghiere invocative brevi, attenzione diffusa, mantra, eccetera. Ma oltre a
ciò consapevolezza è anche un termine perfettamente laico e pertanto mol­
to indicato, mi pare, per facilitare quell'avanzata della spiritualità nel quo­
tidiano che è il .segno, appunto, della vera spiritualità, la quale getta ponti
tra cielo e terra, alla ricerca di unione e non di divisione.
Dunque consapevolezza sembra parola specialmente carica di poten­
zialità unitive: unità interreligiosa, dato che designa il fondamento della
pratica interiore di molte tradizioni sapienziali; unità tra la pratica interio­
re e la vita di tutti i giorni, che viene così a essere la materia prima e non
l'ostacolo prinàpale della pratica; unità tra mondo religioso e cultura mo­
derna areligiosa, dato che, anche a voler rifiutare qualsiasi discorso spiri­
tuale, sarebbe però arduo contestare il beneficio dell'essere il più consa­
pevoli possibile.
3 . Come è noto, il Buddha teneva in particolare considerazione la pra­
tica della consapevolezza o attenzione o presenza mentale (sali, smrti).2 In­
fatti, pur essendo la sati soltanto uno dei sette fattori dell'illuminazione e
solo una delle otto virtù che costituiscono il sentiero che porta all'estinzio­
ne del dolore, essa, almeno nel canone pali, appare con ogni evidenza pri­
vilegiata sopra tutti gli altri mezzi ed è ritenuta fondamento e stimolo di
tutto ciò che è salutare e salvifico. Basti pensare che il celebre discorso del
Buddha sulla consapevolezza, il Mahasatipatthana-sutta,' in paesi di cultu­
ra Theravada è anche testo di lettura per accompagnare chi è in punto di
morte: come dire che la consapevolezza è la prima e l'ultima cosa, necessa­
ria per vivere bene e per morire bene. E per ultima cosa la raccomanda an­
cora il Buddha morente ai discepoli, quando li esorta a lottare per la libe­
razione 'con serietà', dove serietà traduce il termine appamada, non-negli­
genza, non-oblìo, frequente sinonimo di sati, consapevolezza.
L'equivalenza tra consapevolezza e serietà ardente va richiamata in
continuazione, giacché accanto ai numerosi vantaggi del termine consape­
volezza, esistono anche alcuni svantaggi: primo fra tutti il fatto che il ter­
mine, nella sua ampiezza, può prestarsi ad avallare una sorta di genericità
neoquietistica. Ossia si può credere di vivere secondo consapevolezza
quando, in realtà, si indugia in un vivere a caso, ravvivato da qualche sus­
sulto di attenzione, che magari è solo narcisistica contemplazione di sé
(per di più connotata da piena inconsapevolezza di questi suoi limiti).
La pratica della consapevolezza, sostenuta e nutrita, naturalmente, dal­
lo studio, dalla coltivazione della sensibilità morale, dal contatto con la
comunità spirituale, ha come scopo la comprensione-visione della natura
ultima delle cose, visione dotata di un effetto trasformante e liberante. La
descrizione di tale meta finale varia a seconda delle tradizioni spirituali. E
su ciò avremo modo di ritornare brevemente.

4. Ora conviene accostarci di più alla pratica della consapevolezza e


vedere anzitutto quali ne siano i presupposti. A me sembra, cercando di
riassumere il pensiero del buddhismo e di altre tradizioni sull'argomento,
e tenendo presenti osservazioni provenienti dal 'lavoro sul campo', che la
condizione prima perché l'individuo intraprenda la via della consapevo­
lezza sia una sorta di fiduciosa insoddisfazione. Vaie a dire un senso di
incompiutezza, di disagio esistenziale da una parte, accompagnato da uno
slancio costruttivo dall'altra. Dunque una motivazione complessa, bilan-

2 Per un'informazione generale si veda Nyanaponika Thera 1962; Goldstein

1976; Dhiravamsa 1975.


J La versione più lunga è il discorso XXII dei Discorsi Lunghi, cfr. Frola 1967,
pp. 559-583.
ciata su due polarità, su un no e su un sì. Diversa Ja un generico ottimi­
smo e da un generico pessimismo, entrambi d'accordo nel non voler cam­
biare, il primo perché pensa che non ci sia bisogno, il secondo perché
non crede che ciò sia possibile. La motivazione alla sapienza, invece, è
costituita dal binomio di insoddisfazione per il male da un lato e di un
preciso impulso al bene dall'altro; e questo impulso, essendo frequente
portatore di speranza, accende gioia nell'insoddisfazione. L'insoddisfazio­
ne esistenziale poi, se da una parte è lenita dalla fiduciosa sete di bene,
dall 'altra è anche causata da questa aspirazione: infatti, poiché questa
aspirazione tende a qualcosa di definitivamente e totalmente soddisfacen­
te e poiché le cose e le esperienze che incontriamo mancano di questo ca­
rattere assoluto, è inevitabile che nasca l'insoddisfazione.
Al tempo stesso però - e questo è un grande paradosso - siàffio oscu­
ramente felici, perché quella fiduciosa aspirazione al bene è in se stessa un
nutrimento, una soddisfazione e per giunta assai superiore, benché più
sotterranea, rispetto alla soddisfazione per questo o per quello. O possia­
mo dire anche così: la fede (da non confondere con credenza) da una par­
te calma e sorregge potentemente l'individuo, in quanto preconoscenza
del fine ultimo; dall'altra, appunto perché intuizione del senza misura, illu­
mina irrimediabilmente l'inadeguatezza e il carattere limitato e insoddisfa­
cente dei nostri modi di sentire e di pensare, anche dei più elevati.
L'insoddisfazione, poi, per essere ben motivante interiormente, deve
diventare insoddisfazione più matura. Intendo dire questo: l'insoddisfa­
zione ordinaria, che tutti conosciamo, significa ansia, risentimento, ambi­
zione, senso di colpa, frustrazione, eccetera. È l'insoddisfazione perché
mi è stato detto questo o perché non mi è stato detto qualcosa o perché
non possiedo questo o perché voglio quello o perché non voglio quello e
via dicendo; e questo tipo di insoddisfazione è sempre agganciato a un
oggetto specifico (persona, cosa, fatto, situazione, noi stessi come ogget­
to), che talora può essere velocemente cangiante, come avviene per esem­
pio nel caso dell'ansia, che rinnova in continuazione gli oggetti dd suo
investimento.
Possiamo perciò, per brevità, chiamare insoddisfazione oggettuale que­
sto tipo di insoddisfazione, per distinguerlo da un altro tipo, più maturo,
di insoddisfazione. Questo tipo di insoddisfazione soprawiene se e quan­
do cominciamo a essere colpiti da questa osservazione: se oggi siamo
molto sereni, può darsi che le stesse cose che ieri ci sembravano 'obietti­
vamente' insoddisfacenti ci appaiano invece sotto una luce solo positiva.
Dunque l'elemento insoddisfacente non starà né in questa né in quella
cosa esterna a noi e neppure in qualche nostro specifico difetto ma, piut­
tosto, in un modo di percepire il mondo che è estremamente diffuso tra i
nostri simili; e che, d'altra parte, sembra pressoché assente nelle descri-
zioni dell'illuminazione o della santità. L'insoddisfazione così Sl sposta
dal mondo degli oggetti l inclusivo dell'immagine che abbiamo di noi stes�
si) a una zona più interna, ossia al comune modo di percepire.
Per brevità potremmo forse parlare di insoddisfazione percettiva a pat­
to che, nel contrapporla all'insoddisfazione oggettuale, si tenga presente
che l 'insoddisfazione percettiva è più matura perché meno egoistica e più
rivolta, invece, alla generale condizione umana. In sostanza, rinsoddisfa­
zione matura è l'insoddisfazione di vivere nella separazione, di vivere se­
condo una visione separativa e non unitiva; una visione che interpone tra
noi e gli altri il sospetto, la possessività, il rancore, la paura, la competiti·
vità e che ci divide da noi stessi mercé questi stessi sentimenti. La visione
separativa ottunde e distorce: in un attimo di chiarezza unitiva, tutti ci
siamo accorti dell'enorme distorsione ottica che governa le nostre vite.
Ed è ragionevole supporre che, come la distorsione ci divide dagli altri
e da noi - cosa di cui episodicamente ci accorgiamo - allo stesso modo
ci possa dividere da modalità di essere che non sappiamo ancora, che non
vediamo affatto, a causa appunto di tutto questo ottundimento. Dunque
insoddisfazione per la vita divisa, cioè per la percezione che allontana e che
distorce e, al tempo stesso, desiderio fiducioso di una percezione che uni·
sca e che chiart/ichi: così possiamo riformulare ancora la motivazione di
base nella forma matura. Ricordando che questo desiderio fiducioso, o
fede, o tensione crescente verso un orizzonte più grande, ha per effetto
naturale quello di rimpiccolire, di relativizzare i nostri motivi cosiddetti
'oggettivi' di insoddisfazione, favorendo così la diminuzione dell'insoddi�
sfazione oggettuale. Come dire che più aumenta la fede, meno ce la pren�
diamo con questo o con quello e più desideriamo, invece, l'unica cosa
che ci sembra veramente necessaria, ossia la dilatazione del cuore, con
tutta la rivoluzione percettiva che ciò comporta.
Un'ultima osservazione sulla motivazione di fondo: non è infrequente
che la maturazione dell'insoddisfazione di cui si è parlato si collochi non
già all'inizio del nostro percorso interiore, ma più tardi, quasi che, pre­
sente al principio in forma troppo embrionale, avesse poi avuto bisogno
di una lunga incubazione. Che se poi questa maturazione tardasse trop·
po, la via interiore finisce in genere per essere abbandonata, come sem·
pre succede nelle cose se la motivazione è troppo debole.

5 . Passando ora a considerare il dispiegarsi della pratica della consa�


pevolezza ci conviene partire da un'osservazione di carattere comparati·
vo: alcuni studiosi di vaglia, come per esempio Hammalawa Saddhatissa
ISaddhatissa 197 1 , p. 54) o Marco Pallis (Pallis 1968, p. 246), non esitano
a paragonare la pratica buddhista della consapevolezza alla pratica cristia�
na della memoria Dei, ossia la pratica del rendere il più continuo possibi·
le il ricordo di Dio, pratica che è presente anche in altre religioni teiste e
talora con un posto assolutamente centrale. Ascoltiamo, a questo proposi­
to, tra tanti, il poeta mistico Namdev, vissuto in India nel XIII secolo:
"Penetrato dal nome di Ram, a esso pongo mente, come l'orafo
all'opera sua. l La ragazza porta la brocca piena d'acqua lungo la strada;
parla, ride e sta allegra, ma pone sempre mente alla brocca. l La mucca
vien lasciata libera di pascolare al di fuori della grande fattoria che ha
dieci porte; essa pascola cinque kos lontano, ma la. sua mente è sempre
fissa al suo vitello. l Dice Namdev: Ascolta, o Trilocan ! Anche se il bim­
bo è nella sua culla, la madre, occupata dentro e fuori casa nel suo lavo­
ro, non fa che pensare al suo bambino" (cit. in Piano 1985, p. 2491.
Questa descrizione, nella sua lirica precisione religiosa, sembra bene
applicabile alla pratica della consapevolezza. E aiuta anzi a stornare certi
pericoli nei quali può facilmente cadere il principiante e non soltanto il
principiante. Soprattutto i pericoli di guardare alla consapevolezza come
a una specie di passatempo psicologistico, utile a perlustrare occasionai­
mente difetti e virtù� di usare la consapevolezza come condimento, per
esempio per gustare di più un paesaggio naturale; di mettere la consape­
volezza al servizio della paura, per esempio per non sbagliare un compito
o per rimanere in guardia davanti a una persona. Sono tutti esempi, e se
ne potrebbero fare altri, nei quali la consapevolezza è !ungi dall'essere al
centro, ma è, piuttosto, subordinata al nostro condizionamento, al nostro
io. In parole povere, gli esempi dati indicano situazioni in cui le cose im­
portanti e interessanti sono altre, non sono la consapevolezza.
Invece i versi di Namdev indicano efficacemente che la pratica del
ricordo di Dio deve assumere su tutto il resto quella ovvia priorità che il
bambino piccolo riveste per la madre: e così è per la consapevolezza,
che, anch'essa, deve diventare un continuo richiamarsi al centro, un con­
tinuo ritorno al cuore. E ciò in completa gratuità, non perché debba ser­
vire a difenderci o a divertirci. A ben pensare, sia la memoria Dei, sia la
consapevolezza possono definirsi come un ricordarsi il più possibile di
qualcosa che non si sa bene cosa è, dunque, appunto, un addestramento
alla gratuità.
Non soltanto, ma succede anche che, col procedere dalla pratica, lo
sappiamo sempre di meno. ll richiamo al centro aumenta di frequenza,
facendosi meno meccanico e più profondo e noi sappiamo sempre meno
quello che sapevamo. Pensavamo di sapere cosa era Dio per noi o pensa­
vamo di sapere che cosa, nella sua ovvietà, è la consapevolezza e che cosa
è il mondo fisico e psichico sul quale la dirigiamo, e ora ci rendiamo con­
to che l'esercizio del ricordo senza oggetto, un anno dopo l'altro, sta sfa­
sciando, in genere dolcemente, i nostri concetti di questo e di quello, le
nostre opinioni, i nostri giudizi senza appello, le nostre definizioni, che
diamo per scontati (magari con l'appoggio della società che ci circonda) e
ai quali impartiamo costantemente valore e realtà.
Ma, praticando, ci nasce sempre più il sospetto che la consapevolezza
non sia il nostro concetto di consapevolezza, che Dio non sia il nostro
concetto di Dio (anche se ce lo siamo fabbricato con materiali di prima
qualità), che il mondo non sia il nostro concetto del mondo, che noi non
siamo il nostro concetto di noi stessi. E se è così vuoi dire che la nostra
intera esistenza è fondata su un equivoco. Perciò questo non sapere pro­
gressivamente spalancato dalla prassi interiore, se a volte può disorientar­
ci, più spesso ci attrae, ci chiama. Ci attrae perché sentiamo, talora non
senza emozione, che questo non sapere che comincia a trapelare è un ini­
zio di umiltà.
In termini buddhisti, ci diventa meno oscuro lo stato chiamato di nip­
papanca o nisprapanca, traducibile come "non-proliferazione concettuale
legata all'attaccamento e al senso dell'io",4 e che, al positivo, è espresso in
modo lapidario nei celebri versi dell'Udana: "Fai in modo che in ciò che
vedi ci sia soltanto ciò che vedi, in ciò che odi solo ciò che odi, in ciò che
percepisci (con gli altri sensi) solo ciò che percepisci, in ciò che conosci
solo ciò che conosci" ( Udana l, IO; dr. Filippani�Ronconi 1968, pp. 159�
160). Probabilmente, è proprio l'avere avuto un presentimento della pos�
sibilità di questa straordinaria chiarezza che ci attrae verso quel non sape­
re. Sicché sappiamo di meno, in certo senso siamo più incerti e più vul­
nerabili di prima e, al tempo stesso, siamo molto più decisi. Decisi a che?
Decisi ad approfondire e a capire meglio il processo messo in moto dalla
pratica interiore; anche perché a volte ci sembra che la pratica in qualche
modo sia più grande di noi: e ciò accresce la nostra decisione.

6. Ma continuiamo a riflettere sul cammino della consapevolezza,


cammino che, così come è presentato in questo scritto, è di ispirazione
buddhista, piuttosto che strettamente buddhista, per cui ad esempio non
ci sarà menzione dei vari stadi di penetrazione intuitiva così come appaio­
no classicamente elencati nel Visuddhimagga. La ragione principale è que­
sta, che se è vero, e a me così sembra, che la contemplazione va portata
nelle strade, per usare l'espressione di Maritain, allora mi pare ovvio che
essa vada semplificata. Semplificata non vuol dire resa facile. per la sem­
plice ragione che una contemplazione facile, in discesa, è una impossibi­
lità. La contemplazione o consapevolezza è sempre difficile. Tuttavia io
credo che possa e debba venire presentata in un linguaggio attuale; credo
che il discorso sulla contemplazione non debba presupporre solo un am-

4 Un buon saggio su questo argomento è Concept and Reality in Ear�-.· Buddhist


Thought, di Bhikkhu Nanananda ( 1 97 1 1.
bito monastico; penso, infine, che tale discorso debba andare all'essenzia­
le: essenziale lucidamente espresso dal Buddha quando ci invita a ritenere
salutare ciò che riduce in noi awersione, attaccamento e confusione e
non salutare ciò che non ha tale effetto (cfr. per esempio il Kalama Sutta,
nella raccolta dell'AN, n. 65). E questo della salurarità o meno mi pare il
criterio-chiave col quale guardare alla consapevolezza e al suo progresso.
Ora, come sa il praticante assiduo, l'esercizio della consapevolezza ci
porta, inevitabilmente, non soltanto a incontrare una quiete nuova, dovu­
ta all'effetto pacificante dell'attenzione gratuita, ma anche a un'immersio­
ne nella nostra fragilità, termine nel quale includiamo anche la nostra vio­
lenza nelle sue varie forme (invidia, ambizione, eccetera). Infatti il legame
tra fragilità da una pane e distruttività e autodistruttività dall'altra è mol­
to stretto, come la psicologia dinamica ha messo in luce, fornendo così
un notevole contributo alla sapienza.
Questo viaggio, a volte penoso, nel grande paese della nostra fragilità,
qualora si fondi sulla giusta motivazione di cui si è parlato sopra e qualora
il viaggiatore non sia troppo fragile (nel qual caso è consigliabile rafforzar­
si prima con metodi extrameditativi), invece di scoraggiare e sopraffare,
sortisce, nel lungo termine, l'effetto contrario e ci fa ritrovare con più spa­
zio, più calore, più chiarezza. Viaggiando attraverso la nostra debolezza ci
siamo rinforzati. Come mai? Certamente, una visione più obiettiva e reali­
stica della nostra miseria, come si direbbe in linguaggio veterocristiano, ha
giovato. Ma l'effetto beneficamente dilatatore non è tanto dovuto a questa
maggiore obiettività quanto, piuttosto, al dimtnuire della paura davanti alla
nostra fragilità, cioè all'allentarsi della contrazione di fondo.
Questa decontrazione, anche se è di modeste proporzioni, ha conse­
guenze importanti. Per esempio la nostra aggressività, che fa soffrire noi
per primi, che ci allontana dall'altro, che aggrava ulteriormente la distor­
sione percettiva che l'ha scatenata, la nostra aggressività, dico, essendo fi­
glia di quella paura, diminuisce, soddisfacendo così quello che abbiamo
definito il criterio chiave per guardare il progresso della consapevolezza.
Tenendo inoltre presente un messaggio fondamentale del cammino inte­
riore, sempre relativo alla distorsione percettiva, e cioè che fino a quando
in noi sorge aggressività per Tizio, per Caio e per noi stessi, ciò influenza
in lungo e in largo tutta la nostra capacità di capire e di conoscere. E
possiamo facilmente supporre che il mondo visto attraverso la nostra rab­
bia-desiderio-paura sia profondamente diverso dal mondo visto in Dio,
secondo il linguaggio cristiano, o visto nel vuoto, secondo il linguaggio
buddhista.
Riepilogando: col tempo la pratica della consapevolezza indebolisce in
noi la paura della nostra debolezza. E se siamo meno preoccupati dalla
nostra vulnerabilità, saremo anche meno preoccupati che gli altri possano
ferirci. Ossia dall'attenuarsi della paura deriva più accettazione per noi
stessi e più accettazione degli altri. L'importanza di questo passaggio è
cruciale, dato che la possibilità di capire è direttamente proporzionale al­
la capacità di accettare. Possiamo anzi tranquillamente suggerire questo:
che fino a quando non ci accettiamo noi non sappiamo veramente chi sia­
mo. Lo stesso vale per gli altri: fmo a che non li accettiamo, non li capia­
mo, non sappiamo chi sono, non li vediamo. Vediamo solo le maschere
della nostra paura e del nostro desiderio.

7 . A questo punto occorre fare una breve digressione per domandarci


se non sia eccessiva l'insistenza che finora abbiamo posto sulla relazione
(con se stessi, con gli altri). lo penserei di no, per le seguenti ragioni: a)
anzitutto questa sottolineatura si rende necessaria per riequilibrare la bi­
lancia che, nel discorso sapienziale, sembra pendere troppo, in genere,
dalla parte della meditazione solitaria e troppo poco su ciò che possiamo
chiamare la consapevolezza in relazione; col risultato, noto a chi abbia fa­
miliarità con ambiti spirituali, che per esempio Tizio, che è capace di un
forte samadhi, Caio, che ha risolto tanti koan e Sempronio cbe ba avuto
una forte esperienza durante la meditazione, sono poi in alto mare per
ciò che riguarda la consapevolezza in relazione e mostrano i segni di una
notevole avversione per se stessi e il loro rapporto con gli altri è molto
difficile o superficiale.
La mia impressione è che Tizio, Caio e Sempronio siano solo in parte
responsabili della stortura. L'altra parte di responsabilità va all'insegna­
mento spirituale che, così come è impartito, sia in Occidente, sia in
Oriente, non sempre, a me pare, batte a sufficienza sull'argomento; b) se
la via interiore, la consapevolezza, non deve essere solo per chi vive la vi­
ta difficile ma ordinata del monastero, allora, si sa, la relazione con gli al­
tri e la continua sfida che ciò comporta per la nostra identità e dunque
per la relazione con noi stessi si fa molto più presente e pressante, e la
frontiera del lavoro interiore non potrà che passare per il rapporto; c) la
consapevolezza in relazione è in sé una via alla trascendenza, a patto che
non venga lasciata a un livello embrionale. Alcune tradizioni come il
buddhismo Mabayana e il cristianesimo hanno portato un contributo par­
ticolare al tema della liberazione attraverso, per e con l'altro, alla libera­
zione che non è tale se non è insieme, in relazione. Oggi c'è molta spinta,
e non di rado appassionata, verso questo ideale di completezza. E se è ve­
ro che tutto è stato già detto sull'amore saggio e sulla saggezza amorosa, è
anche vero che tutto è ancora da dire e da fare.

8. Dopo questa breve digressione, torniamo, per concludere, allo svi­


luppo della consapevolezza. Abbiamo considerato il tragitto dalla diminu-
zione della paura a maggior accettazione e quindi a maggior comprensio­
ne. A questo punto la consapevolezza comincia a essere più penneata di
abbandono, diventa più spaziosa: da un essere attenti in maniera diligente,
quasi preoccupati, a un essere attenti in modo più equanime, talvolta
compassionevole. Dunque, un'attenzione più libera nei confronti di ciò
cui si rivolge. In altri termini, ora sempre più consapevolezza di questo o
di quello viene a significare non trattenere quella cosa, non stringere il
pugno attorno a essa: che sia un ricordo, una gioia, un risentimento. La­
sciare liberi di andarsene i ricordi, le gioie, i risentimenti. E se la gioia in­
siste, goderla senza paura di perderla; e se il risentimento insiste, ospitar­
lo senza cooperare con esso e senza impazienza.
Tutto questo è diventato possibile perché c'è stata, come si è visto, una
decontrazione della paura della nostra vulnerabilità. Ciò ha reso la consa­
pevolezza più densa, diciamo. Sicché, mentre prima erano gli stati d'ani­
mo, i sentimenti, i pensieri a essere più densi e a imporsi sulla consapevo­
lezza, ora può accadere, al contrario, che sia la consapevolezza a imporsi.
E, in tal caso, che cosa si impone? Si impone una dose di silenzio, com­
postezza, intelligenza non giudicante che, a volte, può vibrare pressoché
indisturbata. Altre volte, invece, convive - e allora c'è meno silenzio -
con la proliferazione concettuale ed emotiva, gradualmente diradandola e
pacificandola.
Ma se l'effetto di pacificazione è importante, ancora più importante è
l'effetto di unificazione. Infatti se io non trattengo più questo o quello
nella mia mente, io lascio andare, dono, offro e dunque cammino verso
l'unità, oltre il dualismo dell'io separativo. Se io non impiego la mia ener­
gia a nutrire e trattenere eccitazioni e depressioni, allora la mia consape­
volezza diventa un'offerta continua, un'apertura assidua. E non è un caso
che ci possa ora accadere di sentire la consapevolezza come una vera e
propria benedizione. Ci sembra allora di capire meglio Hui Hai quando
dice che tutte le virtù, comprese la meditazione (dhyana) e la saggezza
(pra;na), debbono rifluire nella virtù del dono, nella donaparamita (Blo­
feld 1962, pp. 28, 42).
Se torniamo ora alla relazione, non possiamo che trovarla modificata
da questa estrema semplificazione che sta avvenendo. n cambiamento
principale è questo, che mentre si<Uno meno presi, in senso negativo o
positivo, dalle caratteristiche o dai comportamenti individuali, nostri e al­
trui, siamo, d'altra parte, più svegli e sensibili al fondo comune, cioè
all'essere vivi di tutti noi. Questo fondo prima era scontato. Ora non è
più scontato; è anzi in primo piano e, nella sua misteriosità, ci interpella.
Ma questo scolorirsi dell'io non è forse il presupposto dell'esperienza
dell'anatta, non-io, e del vuoto nel buddhismo e non è, insieme, il pre­
supposto dell'esperienza di Dio in tradizioni teistiche? E se le religioni
avessero solo interpretato e formulato diversamente l'una dall'altra le me­
desime esperienze fondamentali? E se quindi, guardando alla relazione,
non ci fosse una differenza sostanziale tra il cristiano vedere tutti gli esse­
ri in Dio e il buddhistico vederli vuoti di una natura separata nella luce
dello spazio infinito? Sono domande che, io credo, è importante conti­
nuare a fare, che è importante tenere vive, con il loro effetto unificante
tra culture religiose che, oggigiorno, possono anche coabitare nella stessa
persona e dunque con un effetto unificante non solo tra gli individui ma
anche nel singolo individuo. Una cosa comunque appare certa tornando
all'ultima questione posta, e cioè che la visione degli esseri in Dio e la vi­
sione degli esseri nel vuoto hanno lo stesso risultato in termini di relazione
interpersonale. Infatti se in ambito buddhista il bodhisattva è colui o colei
che si accende di gioia davanti a qualsiasi essere vivente, in ambito cri­
stiano sant'lsacco definisce puro di cuore chi vede tutti come buoni e
nessuno gli appare cattivo ed è dunque capace, come san Serafino di Sa­
rov, di dire 'mia gioia' a ogni persona che incontra.5

5 Cit. in A. Gentili e A. Schnoeller, "Meditazione, li triplice sentiero spiritua­

le", quad. 7/8, p. 30 del mensile Meuaggero.


7

Riflessioni sui ritiri di vipassana

l. Un ritiro di vipassana è un periodo di tempo (variabile da pochi


giorni a parecchie settimane) durante il quale si è invitati a praticare in
modo intensivo, ossia meditando quotidianamente dal mattino presto fino
all'ora di coricarsi, secondo la massima continuità possibile. Vige la rego­
la del silenzio, con l'unica eccezione di brevi colloqui con gli insegnanti e
dell'ascolto di un discorso serale; il meditante è inoltre incoraggiato a
esercitare la consapevolezza sul corpo e sulla mente anche al di fuori dei
periodi di pratica formale, per esempio alle ore dei pasti. La pratica for­
male, infine, occupa gran parte della giornata e si svolge secondo una ser­
rata successione di meditazioni sedute e meditazioni camminate. l
Queste riflessioni si propongono di mettere in rilievo alcuni scopi im­
portanti di questo tipo di ritiri e di indicame, inoltre, alcuni possibili ef­
fetti, tenendo presente che il 'vissuto', ossia il modo di percepire e speri­
mentare un ritiro, è soggetto, naturalmente, a numerosissime variazioni
individuali.
Anzitutto accenniamo subito, un po' impressionisticamente, a un effet­
to di rilievo, non infrequente (ma tutt'altro che scontato!), che potremmo
chiamare 'piccolo risveglio'. In sostanza, può accadere che il meditante, so­
prattutto se è già in possesso di un solido retroterra di pratica, venga in
contatto, grazie al ritiro, con l'esperienza di un diverso modo di essere; os­
sia con la possibilità di rapportarsi alla propria vita in modo diverso: l'indi­
viduo torna dopo il ritiro alla sua vita consueta e avverte per un certo tem­
po come una freschezza insolita, come una pienezza non frammentata. Più
in particolare, ci si può trovare di fronte a una minore insoddisfazione di
sé e della propria vita. E già questo significa un grosso peso in meno. Inol-

l Sulla meditazione buddhista Theravada si veda Solè-Leris, 1986. Particolar­

mente importante per il tipo di vipassana di cui si parla in questo capitolo il volu­
me di J. Goldstein e J. Kornfield 1 987.
tre ci si può imbattere in una maggiore prontezza e facilità a tener fede ai
nostri impegni e, nel campo delle relazioni interpersonali, può darsi che ci
si imbatta poi in un gioiello prezioso, e cioè in una netta diminuzione della
paura di essere giudicati male e di essere rifiutati dagli altri.
L'importanza di gustare questa nuova ricchezza, anche se in dosi mini­
me e per un breve periodo di tempo, è abbastanza evidente: infatti, avendo
toccato o anche solo sfiorato questo effetto di 'piccolo risveglio', il perché
fare ritiri diventerà più chiaro e la nostra motivazione non potrà che
rafforzarsi. Ci accorgiamo, tra l'altro, che tutta la pratica dell'ottuplice sen­
tiero si è fatta più concreta e accessibile. Infatti nella seconda parte del ri­
tiro e nel periodo immediatamente successivo a esso è facile che vi sia un
aumento dei tre fattori più specificamente meditativi e cioè retto sforzo,
retta concentrazione e retta consapevolezza.
Possiamo poi aver notato una maggior propensione per una vita più
giusta e meno distruttiva (innocente) e dunque più interesse per i tre fat­
tori morali (retta azione, retta parola, retti mezzi di sussistenza ) . E, infine,
possiamo aver sentito una piccola impennata in termini di retta compren­
sione e di retta intenzione: nel senso che avvertiamo adesso una più chia­
ra volontà di cercare il bene da un lato, mentre dall'altro sentiamo di ave­
re intuito meglio in che modo il bene vada cercato. Qui può stare, a vol­
te, il punto più forte del piccolo risveglio: avere un barlume di intuizione
che esiste una possibilità di ricerca immensamente più promettente di
quella ricerca compulsiva di immediata autogratificazione che colora gran
parte delle nostre vite. E avere, insieme con l'intuizione, uno slancio rea­
lizzativo nuovo e forte.

2. Naturalmente, questo effetto di purificazione e di risveglio varia


molto per ognuno a seconda di parecchi elementi. Ma su ciò non pos­
siamo diffonderci in questa sede. Una cosa, tuttavia, per amore di prati­
cità, vogliamo sottolineare: se accade che il ritiro non soltanto non pro­
duce alcun risveglio ma, al contrario, ci fa ritrovare, anche a distanza di
giorni dalla sua fine, mentalmente ed emotivamente più disorganizzati e
disorientati di prima e più incapaci di funzionare nella vita, questo è un
segno chiaro che la pratica intensiva è controindicata per noi, almeno per
il momento.
Questi esiti spiacevoli e pericolosi potrebbero in gran parte essere pre­
venuti se si tenesse a mente che i ritiri sono da evitare (a) allorché si è in
una situazione di forte angoscia; (b) allorché l'individuo ha una storia di
sindromi depressive gravi o di sindromi schizofreniche anche episodiche
e brevi. Conviene inoltre tenere a mente che (c) i ritiri superiori ai 2-3
giorni richiedono la presenza di una certa familiarità con la meditazione,
familiarità stabilitasi grazie a una regolare pratica quotidiana e a un lavo-
ro in gruppi o comunità di meditazione. Infine, i pericoli si riducono se si
ricorda (J) la necessità di comunicare subito agli insegnanti qualsiasi no­
stro sospetto di essere nelle situazioni Ji controindicazione. La questione
circa indicazioni e controindicazioni della pratica intensiva è molto più
vasta e complessa, anche perché, qualora il ritiro superi la soglia dei l O·
15 giorni, l'intensità aumenta e così i rischi (importanti osservazioni su
ciò in Wilber, Engler, Brown 1986). Ci basti per ora aver fornito alcune
segnalazioni essenziali per ritiri al di sotto di questa soglia, che sono poi i
ritiri più frequenti.
Aggiungendo ancora una volta che una seria psicoterapia è un soste­
gno utilissimo per chi intende affrontare ritiri; e diventa, se stiamo male,
particolarmente auspicabile, assai più dei ritiri, i quali, anzi, come si è
detto, in tale situazione hanno alte probabilità di farci peggiorare. Un'ul­
tima osservazione. Si può disporre di tutta questa informazione e tuttavia
incappare ugualmente in qualche esito spiacevole. Le ragioni mi sembra­
no soprattutto due. La prima è che il meditante può essere sinceramente
all'oscuro di un suo squilibrio psichico che viene fatto 'precipitare' da un
ritiro. La seconda ragione, più frequente, è che, malgrado tutte le avver­
tenze, l'attaccamento a un concetto, a una idealizzazione del buon medi­
tante che fa sempre e comunque ritiri, può essere più forte del discerni­
mento e finisce così col metterei ancora una volta nei pasticci, secondo la
natura costitutiva dell'attaccamento.

3 . Abbiamo parlato di un possibile effetto di risveglio prodotto dai riti­


ri di meditazione di consapevolezza e abbiamo fatto cenno a rischi e con­
tromisure. Torniamo ora a esaminare il medesimo effetto da un'angolazio·
ne diversa che potremmo chiamare, in certo senso, l'angolazione del mi­
stero. n grosso di un ritiro è 5ilenzio e immobilztà, includendo in que­
st'ultima anche la lenta mobilità della meditazione camminata. I colloqui e
i discorsi sono importanti, sì, ma soprattutto in quanto si rivolgono a que­
sta immobilità silente e attenta: essi avrebbero poco senso ed efficacia se
non avessero come controparte questo predominante silenzio immobile.
Ciò significa che, in virtù appunto di questa predominanza, un ritiro si
potrà defmire anche così: noi stessi a contatto con noi stessi, in continua­
zione, tra alti e bassi. E da questa frequentazione della nostra mente non
di rado difficile, scoraggiante, noiosa, si può emergere, come vedevamo,
con uno slancio di forza e di fiducia e con una vista più chiara e benevo­
lente: ora, questo fatto, per l'ottica dd nostro io è un mistero. Infatti, sia­
mo entrati in contatto con una sorgente di forza tutta interna, tutta quan­
ta dentro di noi, indipendente da stimoli o agganci esterni: non abbiamo
fatto alcunché, non abbiamo compiuto alcuna impresa che gratificasse i sen­
si e/o il pensiero. Al contrario, i sensi e il pensiero sono stati messi a di-
giuno, con tutta la ricorrente frustrazione che ciò ha provocato. Non ab­
biamo fatto incontri interessanti, non abbiamo acquisito nuovi oggetti.
È vero che possiamo aver fatto piacevoli esperienze di calma mentale e
avere avuto utili intuizioni. Ma è anche vero che, invece, possiamo avere
avuto solo non-calma e nessuna intuizione e ritrovarci egualmente con
l'effetto risveglio. Dunque è lecito concludere che lo sforzo prolungato di
stare con noi stessi così come siamo senza aggiungere o modificare alcun­
ché, nel silenzio e nell'immobilità, è uno sforzo capace di una misteriosa
fecondità. Ricapitolando, non è per aver aggiunto qualcosa a me stesso
che io ho potuto avere accesso a questo nuovo livello di fiducia, energia e
comprensione. Ma è, piuttosto, da me stesso così come sono che tutto que­
sto è provenuto.
Ora è evidente come ciò rappresenti un potente /attore guaritivo della
pratica intensiva. Infatti poche esperienze potrebbero invitarci all'accetta­
tione di noi stessi con un 'coefficiente di convinzione' altrettanto elevato;
e poche esperienze potrebbero essere antidoto altrettanto eccellente per
quei sensi di indegnità e di inadeguatezza che non di rado accompagnano
dolorosamente i nostri giorni. Ma la scoperta di questa sorgente benefica
all'interno di noi stessi così come siamo è fattore guaritivo per una secon­
da ragione, ancora più importante, per certi versi, della prima. E cioè per
la fede nel Dharma che ci nasce dal verificame in prima persona la verità
e l'efficacia. È come se dal travaglio e dalle angustie che, intrecciate con
una quiete nuova, sono tipiche di un ritiro, potesse derivare una doppia
dilatazione e cioè maggiore fiducia in noi stessi da un lato e fiducia in
una legge più grande di noi dall'altro.
Naturalmente, come più di un meditante sa, questa speciale forza ri­
svegliante dei ritiri può essere usata in modi sbagliati. n più tipico è que­
sto, che si può cadere in una sopravvalutazione dei ritiri a tutto scapito
della pratica quotidiana, la quale finisce, al contrario, per essere sottova�
lutata. Mentre l'esito auspicabile, che è anche uno scopo maggiore dei ri­
tiri, è proprio quello di accrescere la motivazione per la pratica quotidia­
na, ossia di rendere più fervido e preciso il nostro interesse per essa. A
questo modo il ritiro esplica la sua funzione ottimale, che è quella di esse­
re un 'tempo forte' in una vita dedicata alla crescita interiore. n tempo
forte serve ad approfondire e rinsaldare quello che già c'è, ossia la nostra
quotidiana pratica, formale e informale, di consapevolezza: così inteso, il
ritiro si dispone in una prospettiva evolutiva.
Altrimenti, è facile scivolare in una sorta di meccanismo di sopravvi­
venza (e non di sviluppo): facciamo un ritiro e ne godiamo i frutti. Dopo
di che, dato che meditiamo in modo occasionale e che, anzi, tendiamo a
vivere a caso, secondo principi del tutto opposti a quelli che coltiviamo in
ritiro, entriamo prima o poi in gravi difficoltà. A questo punto, per ritor-
nare a galla, facciamo un altro ritiro. Dopo un po' ricominciamo ad af­
fondare, fino al prossimo ritiro, e così via.
Ma è ovvio che, sino a quando siamo impantanati in questo meccani­
smo, noi in effetto siamo in balla di un'illusione fondamentale, di quello
che classicamente si chiamerebbe un abile trucco di Mara: l'illusione,
cioè, che la pratica possa funzionare anche se è solo un fatto episodico e
l'illusione, inoltre, che essa possa conformarsi alla nostra organizzazione
(o disorganizzazione) di vita, piuttosto che formare e informare una nuo­
va organizzazione di vita. E sicché cerchiamo interstizi nei quali stipare la
nostra meditazione, vediamo di scoprire qualche spazio tra due impegni
nd quale alloggiare un poco di attenzione gratuita.
E questo, appunto, è illusorio; la pratica, trattata così, muore presto e
noi magari a questo punto corriamo in ritiro per resuscitarla e rischiamo
di rimanere intrappolati indefinitamente in questa situazione se non com­
prendiamo che è la nostra vita che deve riorganizzarsi attorno alla pratica e
non il contranO. È soltanto allora che i ritiri possono fruttare nella manie­
ra più completa: nel momento, cioè, in cui divengono fmalmente e vera­
mente /asz; tempi della pratica e non già una sorta di estremo rimedio alla
nostra non pratica.

4. Ma vediamo ora di considerare più da vicino quel processo dì purì/ì­


cazione che ha luogo nella meditazione in generale e più in particolare in
un ritiro. Esso si manifesta tipicamente con fasi più o meno lunghe di cal­
ma inquieta. Questa espressione, nella sua paradossalità, è abbastanza
precisa. Infatti è caratteristica della meditazione, soprattutto intensiva, la
coincidenza tra un aumentato livello di calma e l'emersione di contenuti
psichici latenti non di rado carichi di ansia. Ossia è proprio l'accresciuta
quiete mentale che propizia l'affiorare di materiali inquietanti. Quindi
siamo, insieme, più calmi e meno calmi al tempo stesso. Un praticante di
Zen che è anche psicologo (Dubs 1987, pp. 19-86, in particolare pp. 42
sg.) ha definito questa fase come 'derimozione' (de-repression ) seguita da
'immersione'. Immersione, appunto, nei contenuti che si sono liberati per
il venir meno dei rigidi confini difensivi repressivi. Questa immersione è
accompagnata dalla caratteristica essenziale dd nostro tipo di meditazio­
ne e cioè da una crescente intensità di consapevole121J. E questo vitale 'ac­
compagnamento' mette in grado, col tempo, di raggiungere i frutti più
maturi della purificazione, ossia non attaccamento e saggezza. Da notare
che questo autore ha confrontato l'informazione tradizionale con nume­
rose interviste a praticanti odierni.
A proposito del processo di purificazione, un esempio interessante ci
viene dal resoconto di un reduce della guerra in Vietnam (Burton 1 988,
p. 19), il quale, ritornato ormai da vari anni dall'Asia e giunto sulla trenti-
na, si imbatte nel suo primo ritiro di vipassana. Fino a quel momento, le
notti di questo meditante erano spesso turbate da incubi angosciosi pro­
venienti dalla sua esperienza di assistente sanitario in Vietnam. Durante il
ritiro gli incubi cessano, ma tutta la giornata è riempita e invasa da ricor­
di per la prima volta nitidi (oltre che sconvolgenti) relativi a quegli anni.
Il meditante, dopo il disorientamento del primo impatto, si rende conto,
con l'aiuto degli insegnanti, che sta sviluppandosi un processo catartico,
stimolato dalla calma meditativa e dall'ambito protetto e rassicurante di
un ritiro. Sicché quelle emozioni e quelle immagini che egli non era stato
in grado di tollerare nei suoi vent'anni e che pertanto aveva represso, po­
tevano ora dolorosamente affiorare. E soltanto dopo un lungo processo
di de-rimozione, immersione e consapevolezza, che durò a lungo e lungo
l'arco di molti ritiri, gli fu possibile arrivare a toccare tutta la compassione
che era l'altra faccia, nascosta, di quelle emozioni penose. E la compassio­
ne è parente molto stretta del non attaccamento e della saggezza.
Dunque, per puntualizzare ancora una volta, il ritiro può mostrare in
maniera più immediatamente visibile e tangibile la duplice azione della
meditazione. La quale promuove da un lato una presa di contatto in
profondità con la nostra mente, mentre dall'altro, simultaneamente, pro­
muove uno specifico tirocinio interiore che ci insegna a stare con la nostra
mente secondo consapevolezza e secondo equanimità. TI ricordo di speci­
fici fatti traumatizzanti, come nell'esempio che abbiamo visto, può essere
parte rilevante del processo, ma non necessariamente.
L'importante è lasciare emergere la varia emotività e conflittualità che
comunque ci abita e quindi trascenderla secondo la specifica modalità me­
ditativa, che è diversa da altre modalità, per esempio quella psicoterapeu­
tica. Da notare che se l'emersione di contenuti psichici in ritiro è partico­
larmente drammatica, starà al discernimento del meditante e degli inse­
gnanti vedere se il meditante stesso è in grado di tollerare un'immersione
in aree emotivamente molto cariche, o se invece non sia più opportuno
evitare per il momento tutto questo, interrompendo il ritiro oppure arroc­
candosi su una pratica esclusivamente volta a sviluppare calma mentale e
benevolenza, senza alcun tentativo di visitare deliberatamente il dolore.
Volendo usare concetti e terminologia più vicini alla formulazione
buddhista classica, possiamo dire che un ritiro è un espediente unico in
ordine alla finalità di vedere e quindi di attenuare l'influenza delle tre tos­
sine o 'radici dell'insanità' (attaccamento, avversione e confusione) sulle
nostre vite. È un espediente unico perché ci mette a marinare con le no­
stre tossine, per dir così, il che è un modo particolarmente efficace per
rendersi conto di quanta sofferenza esse provocano. Questa presa di co­
scienza è di fondamentale importanza, perché senza di essa non potremo
essere mai veramente convinti che alimentare le tossine è l'errore più
grande che possiamo fare. E dunque non potremo esser mai convinti sul
serio che il lento, faticoso e gioioso disassuefarsi dalle tossine è la cosa
più giusta, saggia e promettente che possiamo fare.
Insomma, qualora, come abbiamo visto, ci siano certi presupposti, un
ritiro di vipassana è in grado di farci awicinare all'essenza del Dharma,
quanto a dire: al /atto che così tanta sofferenza/insoddisfazione ci abita;
al /atto che generiamo in continuazione tale sofferenza col lasciar prospe­
rare l'anaccamento, l'avversione e la confusione; al /atto che è possibile
intervenire in modo irreversibile su questo errore fondamentale; al /atto,
infine, che esistono i mezzi pratici, tra cui i ritiri, per operare questa in­
versione di tendenza. Naturalmente, i frutti del lavoro interiore non sono
né automatici né distintamente prevedibili. Ma senza lavoro interiore,
d'altra parte, non ci si muove. Come dice un grande contemplativo sufi,
Bayazid al-Bistami: "La conoscenza di Dio non si può ottenere cercando­
la; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano" kit. in Smith 1976,
p. 1 14). O come dice l'Anguttara Nikaya: "TI contadino deve arare, semi­
nare, innaffiare il suo campo, ma non può dire 'voglio che la messe matu­
ri oggi o domani'. Però verrà il giorno in cui la messe sarà matura".
8

Sulla pace interiore

l . La pace interiore, senza dubbio uno dei tratti più specifici del cam­
mino spirituale, è un' esperienw precisa che, da un lato, tende a costituirsi
gradualmente come sfondo stabile e costante nell'individuo, dall'altro ad
aumentare di intensità in momenti particolari. In quanto tale, essa ha un
significato parecchio diverso da quel significato di momentanea assenza
di disturbo che talora si attribuisce all'espressione 'pace interiore'. E per­
ciò, per comprendere meglio che cosa, in ultima analisi, vogliano dire
queste due parole, conviene anzitutto riflettere circa i nostri modi abitua­
li di intendere la tranquillità interna.
A me sembra che, facilmente e non sempre consciamente, pace interna
venga equiparata a evitamento o a successo. Incliniamo cioè a presumere
che, se riusciamo a schivare quella responsabilità o quel compito o quella
persona, avremo più pace. Oppure presumiamo, invece, che se saremo in
grado di procurarci quella cosa o di affermarci in quell'altra, conquistere­
mo più pace. Si potrebbe parlare di strategia del meno nel primo caso e
di strategia del più nel secondo. Ossia: o crediamo che perverremo alla
pace solo sottraendo alla nostra vita e dunque svicolando, defilandoci,
nascondendoci o crediamo, diversamente, che godremo di pace solo ag­
giungendo e dunque prendendo, possedendo, vincendo. Ora le grandi
tradizioni spirituali, concordemente, ritengono che la pace risultante da
queste strategie sia una pace fragile e, in fin dei conti, falsa.
Potremmo dire che queste tradizioni nascono anche come risposta al
fallimento delle strategie del più e del meno. Le vie spirituali si occupano
della vera pace e insegnano che, per approdarvi, l'ostacolo principale sta
proprio in quella compulsione a evitare e ad appropriarsi di cui parliamo.
"Ci sono ceni giorni in cui soffro di più per la fame. Fame di tutto: delle
cose, del prossimo ... Allora mi trascino nella mia giornata, tendo la mano
e afferro avidamente tutto ciò che mi riesce di prendere lungo il mio pas­
saggio. Alla sera, sono sempre deluso. Non mi resta niente della mia messe
rinsecchita, perché io sono fatto per dare, sono fatto per ricevere quel che
gli altri mi danno, ma non sono /atto per 'prendere"' (Quoist 1982, p. 92).
È inutile dire che l'evitamento e l'appropriazione, qualora non siano
accompagnati da indebite aspettative di pace duratura, come spesso è il
caso, sono funzioni ovviamente indispensabili: si pensi solo alla necessità
di evitare ciò che è distruttivo, nelle sue mille varietà o, di contro, alla ne­
cessità di adoperarsi con diligenza per il soddisfacimento di quelli che A.
Maslow chiama i bisogni di base (sicurezza, stima, affetto) (Maslow 1962,
1970). Anzi, a questo proposito, non si sottolinea mai abbastanza il fatto
che la negligenza o l'ignoranza circa i propri bisogni di base, tipica di
non pochi aspiranti spirituali, è solo una forma di evitamento distruttivo
mascherato da distacco. Del resto non c'è bisogno del microscopio per
vedere tendenze coatte all'evitamento e all'acquisizione operanti in ambiti
spirituali: se per esempio io mi accorgo di essere incapace di vivere fuori
dal centro di Dharma o dal monastero, vuol dire che sto trasformando
uno strumento di crescita in uno strumento di difesa, di evitamento. Op­
pure, se concepisco la religiosità come un accumtÙo di interventi assisten­
ziali o di esperienze meditative e sento che più ne faccio più ho valore (o
che, d'altra parte, meno ne faccio, meno valgo), allora sono evidentemen­
te preda della mentalità acquisitiva.
Riguardo alla pace, la caratteristica comune di queste due strategie ap­
parentemente opposte è questa, che la pace raggiunta grazie a esse dura
poco. In proposito, è come se le tradizioni spirituali ci interpellassero:
può definirsi pace qualcosa che è talmente breve e precario? Che pace
può dare una pace cosl effunera? Avere evitato lo sgradevole ci regala un
attimo o un giorno di decontrazione, di respiro più pieno, ma presto sa­
remo già tesi di nuovo, in guardia per schivare altre cose spiacevoli. Sic­
ché questa pace è solo un armistizio tra due tensioni. Lo stesso se è in
ballo l'avidità: il successo, la presa ci dà un lampo di pace; dopodiché, ti·
picamente, il successo vuole altro successo e si affretta a scacciare la pace.
Dunque, sia che noi evitiamo, sia che noi afferriamo, in entrambi i casi la
pace è come un'onda che si espande e quindi, velocemente, rifluisce.
Ma noi fino a che punto sappiamo che questa pace non regge' Quanta
coscienza, viva e presente, abbiamo di ciò? A me sembra che la prima le­
va del lavoro interiore sta proprio in questa coscienza. Perché solo nel
momento in cui ci accorgiamo della fondamentale inadeguatezza delle
nostre strategie di evitamento/acquisizione, solo allora cominciamo a per­
dere fruttuosamente la fede nel loro presunto potere risolutivo e pacifi­
cante: cioè non crediamo più che una vita passata a scansare e ad afferra­
re possa offrirei pace. E simultaneamente all'emergere di questa illumina­
ta sfiducia, spunta nel cercatore l'intuizione che avere un po' di pace ve­
ra, oltre a essere un valore in sé, è anche l'unico modo per capire che co-
Ja dobbiamo lasciare e che cosa dobbiamo prendere. E solo allora, evi­
dentemente, il lasciare e il prendere, cessando di essere manovre compul­
sive, possono gradualmente diventare espressioni di intelligenza affettuo­
sa: prendere ciò che guarisce, lasciare ciò che nuoce.
Da un regime, dunque, nel quale la pace non c'è né prima dell'azione
né, sostanzialmente, dopo l'azione, a un regime in cui, invece, la pace
precede e segue l'azione. È questa la possibilità che balena nel momento
in cui il cammino interiore viene davvero intrapreso. La possibilità di una
pace che rassomiglia molto poco a quella pace evanescente, marginale e
interstiziale con la quale abbiamo familiarità. Capiamo che il regime inte­
riore a noi più noto è, in realtà, un regime di guerra punteggiato da tre­
gue e che queste tregue sono la sola forma di pace che noi conosciamo.
Ma se invece - è come se insinuassero le spiritualità d'Oriente e quelle
d'Occidente - fosse accessibile un'esperienza di pace solida, ora imme­
diatamente viva, ora sullo sfondo, ma mai disperatamente assente? (E
non è detto che questa caratteristica, presente in chi vive una vita spiri­
tualmente matura, sia visibile a tutti e subito. Magari rimaniamo più col­
piti a prima vista da certe vite intellettualmente ricche, senza vedere però
la grande sofferenza alimentata in esse dalla mancanza di pace).

2. Accennate così alcune differenze tra falsa e vera pace, è opportuno


chiedersi quali potrebbero essere i presupposti di base per una giusta
ricerca della pace. A me sembra che siano importanti soprattutto due
domande. La prima è questa: fino a che punto sappiamo che deside­
riamo e cerchiamo la pace? Cioè fino a che punto sappiamo che dietro i
nostri desideri, le nostre paure e le nostre avversioni c'è, in definitiva, il
desiderio della pace? Può darsi che non lo sospettiamo nemmeno e cre­
diamo che davvero il nostro scopo sia l'evitare una persona ostile o
l'acquisto di una migliore competenza. Una volta compreso che, invece,
lo scopo ultimo e spesso inconsapevole è la pace, allora sarà inevitabile
la seconda domanda, vale a dire: è giusto il modo in cui io abitualmente
cerco la pace, ossia attaccandomi al piacevole e temendo-odiando lo
spiacevole? Ma abbiamo già visto che la pace derivante da questo atteg­
giamento è, in effetto, pace illusoria, basata come è su una totale identifi­
cazione con le nostre pulsioni e su un'insufficiente discriminazione di ciò
che è buono.'
La ragione del fallimento di questa pace e della sofferenza che esso
provoca sta inoltre in un tacito pregiudizio, di incalcolabili conseguenze,

1 Buddhadasa ( 1 967) ricorda come la motivazione che spinse il Buddha a in­


trapren dere il suo cammino fu il desiderio di rispondere alla domanda: "Che cosa
è il buono-giusto-utile (kusala)" ?
e cioè nel pregiudizio che il momento presente non abbia valore. Secondo
tale pregiudizio, che soltanto una grande innocenza può dissolvere radi­
calmente, l'unico valore del presente sarebbe nel connetterci col passato e
con il futuro, che, per la mente condizionata, sono dimensioni che conta­
no infinitamente di più del presente. Di fatto, per la grande maggioranza
di noi, il passato e il futuro hanno una realtà e un valore soverchiante,
mentre, al contrario, il presente (che, pure, è l'unica realtà che ci sia) è
come inesistente.
Per esempio, se io ho paura di incontrare Tizio, che è invadente e anti­
patico, io provo un sentimento certo comprensibile. Tuttavia esso sareb­
be di certo meno acuto se io vivessi di più nel presente. Infatti, se io sono
dominato dalla paura di questo incontro, è segno che io valuto molto il
passato, impartendo grande realtà ai ricordi, e valuto altrettanto il futuro,
infondendo vitalità a varie aspettative, mentre svaluto ovviamente il pre­
sente, il quale, è il caso di dire, passa inosservato. Se invece io valutassi e
rispettassi il presente, allora accosterei Tizio con mente nuova, fresca, un
istante dopo l'altro, sveglio e attento a ciò che accade ora. (E ricordando­
ci che cercare di accostare Tizio nel presente è la sola, lunga via per giun­
gere a conoscere chi realmente Tizio sia). Si potrebbe protestare che Ti­
zio è obiettivamente sgradevole.
Eppure a ognuno di noi è dato di osservare questo: tutte le volte che ci
rendiamo presenti nel presente, quale che sia la difficoltà della situazione,
la pace aumenta. Come è stato detto: "Di minuto in minuto si può soppor­
tare molto . Se pensiamo al passato e all'avvenire perdiamo il coraggio e
..

ci disperiamo" !Teresa di Lisieux, Gli scritti, p. 325 e p. 362). Ma poiché,


come si vedeva, i nostri modi abituali di cercare la pace (attaccamento e
avversione) sono fondati su una messa tra parentesi del presente, ossia
della maggiore fonte di pace, essi non potranno avere successo. Infatti,
cerchiamo quello che ricordiamo, cerchiamo quello che speriamo: come
dire che, dominati dal passato e dal futuro, lasciamo morire il presente.
Mentre è proprio l'ingresso nel presente, nella sua pace e nel suo mistero la
base di tutte le forme del raccoglimento contemplativo.
Radicandosi nel presente - il che per lo più non si ottiene senza una
lunga, rigorosa e generosa pratica spirituale - è come se attorno al pia­
cevole e allo spiacevole nascesse una certa spaziosità. ossia una riduzione
dell'attaccamento al primo c dell'avversione per il secondo: infatti il con­
solidarsi del nuovo baricentro (il presente) ci lascia meno alla mercé del
passato e del futuro e ciò ha un 'immediata influenza sul nostro modo di
percepire e di sentire il piacevole e lo spiacevole. Potremmo dire che il
piacevole acquista un diverso modo di essere piacevole e che altrettanto
succede per lo spiacevole. Allora l'interesse, l'orientamento esistenziale
dell'individuo prende a spostarsi, naturalmente e organicamente, verso
quella spaziosità o non attaccamento generato dall'abitare nel presente,
perché egli sente che la spaziosità lo sorregge, impedendogli di essere so­
praffatto dall'alternanza di attaccamento al piacevole e di avversione per
lo spiacevole. E il diminuito potere dell'attaccamento e dell'avversione si
traduce in un aumento della pace: "Una persona che è andata in giro sot­
to il sole sente frescura quando raggiunge un riparo. Qualcuno che si
mette ad andare dall'ombra al sole, e quindi nuovamente all'ombra, è un
folle. Un uomo saggio rimane pennanentemente all'ombra" (Ramana
Maharshi 1955, p. 134).
Dunque, la capacità di fruire di pace interiore sembra direttamente
proporzionale alla capacità di essere presenti nel presente. E questa capa­
cità, a sua volta, è quasi sempre determinata dalla quantità e dalla qualità
della pratica spirituale del cercatore interiore. Solo in virtù di un certo la­
voro interiore è possibile cominciare a cogliere il /atto (non l'idea) che il
presente è l'unica realtà e che, come tale, è immensamente e ovviamente
più importante di ciò che è stato, che potrebbe essere e che sarà.2
Infatti il passato e il futuro sono solo nella nostra mente. n presente,
invece, è. Il presente è, sempre. Perché è sempre adesso, è sempre ora.
Non è mai ieri, non è mai domani. Il presente non finisce mai, non smette.
n passato, ammesso che esista, va da adesso all'indietro, il futuro, ammes­
so che esista, va da adesso in avanti, dunque sono limitati. n presente, in­
vece, è sempre. Infatti l'eternità, !ungi dal significare un tempo molto
lungo, secondo il comune fraintendimento del termine, designa, piutto­
sto, un eterno presente. E dunque, in qualche modo, l'eternità è ora, qui.
A meno che non si voglia pensare che questo sia un presente di seconda
classe e che da qualche altra parte, in un altro universo, ci sia il presente
di prima classe, quello duraturo. n presente è il presente. n presente è
ora. Ed è sempre ora. Perciò non è l'attimo che è 'fuggevole'. Siamo in
realtà noi che siamo fuggevoli, siamo noi a essere solo fugacemente pre­
senti. Siamo noi che fuggiamo in continuazione da questa roccia, da que­
sto canto fermo che è il presente. Non a caso in più di una tradizione spi­
rituale si parla della sacralità del presente.

3 . Ma conviene adesso cercare di vedere meglio la relazione tra pace­


presenzialità e pratica spirituale, in particolare la pratica buddhista della
consapevolezza mcditativa. Infatti, come già si è osservato, è soltanto in
virtù di un cammino interiore che il presente può cominciare a manife­
starsi nella sua profondità e pace, al di là della sua presunta 'fugacità' o
addirittura della sua non meno presunta 'ordinarietà', 'banalità', 'anima­
lità'. Ed è solo grazie a una maturazione interiore che dogi della vita nel

2 Pagine esemplari su questo argomento in Wilber 1984, cap. 5.


presente come, ad esempio, i passi evangelici sui gigli dei campi e gli uc­
celli del cielo che non si curano del domani possono venir colti in tutto il
loro splendore (Luca XII, 22-3 1 ; Mattco VI, 25-341.
Guardando, dunque, alla pratica meditativa in rapporto all'ingresso
nel presente-pace, possiamo forse distinguere un primo livello iniziale e
un secondo livello successivo. Per livello iniziale intendiamo un primo
stadio di pratica che sia però già oltre quello che potremmo chiamare lo
stato crudo, nel quale l'individuo è soprattutto governato dalle proprie
reazioni. Questo primo livello si potrebbe definire il livello del reme della
presenzialità e dunque delia pace. Facciamo un esempio. In una conver­
sazione viene detto qualcosa che suona lievemente minaccioso per il no­
stro futuro. In genere, se la nostra pratica di consapevolezza è ben avvia­
ta (livello, appunto, iniziale), noi saremo in grado di mantenere una certa
presenza mentale durante la conversazione e di avere consapevolezza del­
la nostra reazione d'allarme nel momento stesso in cui essa emerge. Tutto
ciò rappresenta già un salto netto rispetto allo stato crudo. Rispetto a sta­
di di sviluppo successivi c'è da notare che, in questo livello iniziale, il po­
tere del futuro, diciamo, rimane forte, sicché dopo la conversazione ci ri­
troveremo molto preoccupati. Anche qui, naturalmente, c'è una rilevante
differenza se confrontiamo il modo di essere turbato del praticante, per
quanto iniziale, con un preoccuparsi 'crudo'.
Infatti, se pratichiamo, avremo la capacità di accompagnare la preoccu­
pazione con la consapevolezza (molto diverso dal semplice 'sapere' che
siamo preoccupati), ossia la capacità di non lasciare noi stessi alla mercé
dell'ansia, bensì di affiancare il turbamento con la presenza silenziosa e
materna della consapevolezza. Tuttavia, si diceva, il potere del futuro, os­
sia il potere dell'immaginazione, è ancora molto pronunciato, altrimenti
non saremmo tanto turbati per poco. Da notare che potere del futuro si­
gnifica, a egual titolo, potere del passato: infatti siamo preoccupati in for­
za di immagini, ricordi, convinzioni, concetti provenienti dal passato; e
da notare, altresì, che 'depotenziamento' del futuro e 'depotenziamento'
del passato vanno di conserva, giacché un distacco dal passato produce
subito maggior libertà per il futuro.
Dunque, in questo primo livello di pratica, la mia capacità di stare nel
presente (cui è collegata la mia capacità di pace) consiste, stando
all'esempio menzionato, nella capacità di avvolgere la preoccupazione
emergente qui e ora in noi: soffrendola, ma senza permetterle di inghiot­
tirei. Però, allo stesso tempo, occorre comprendere che la preoccupazio­
ne, in sé, è una forza, un 'energia che ci distanzia e ci separa dal presente.
Infatti, ad esempio, ora per essere disponibili nei confronti di un'altra
persona dobbiamo fare uno sforzo, e anche sforzandoci diligentemente
non potremo darle il cento per cento dell'attenzione, a causa di quel
cruccio che, malgrado le nostre migliori intenzioni, permane come un cu­
neo tra noi e la persona. Perciò nel primo livello, da un lato noi siamo nel
presente, giacché siamo in contatto con quella preoccupazione che è l'ele­
mento predominante del nostro orizzonte presente. Tale contatto è il
massimo di incisività della pratica che a questo stadio ci è possibile; e
avremo la responsabilità di vigilare per non essere al di sotto di quanto ci
è possibile e la responsabilità, anche, di non cadere nella superbia di giu­
dicarci male per essere impauriti e in apprensione.
Ma d'altro lato dobbiamo anche capire che, a questo livello, noi siamo
solo parzzalmente nel presente, dato che la preoccupazione, per definizio­
ne, restringe la nostra percezione del presente; per cui, come si osservava,
siamo meno disponibili e ricettivi a ciò che, qui e ora, ci circonda. Siamo,
semplicemente, più distratti, non vediamo questo e quello, ci sfugge il ta­
le suono, il tale odore, eccetera. Per riassumere quindi questo primo livel­
lo: la nostra attenzione investe la nostra preoccupazione presente, la qua­
le tuttavia limita molto il campo del presente possibile: è come se fossimo
legati a un palo e ci potessimo muovere poco. È stato però gettato un se­
me che, prima o poi, consentirà un nuovo sviluppo, quello che abbiamo
chiamato il secondo livello di pratica.
In questo livello, semplicemente, a causa di una generale maturazione
interiore favorita dalla pratica, ci sarà meno preoccupazione (rimanendo
nell'esempio di prima). li turbamento è ora meno vischioso, meno vinco­
lante e c'è assai più facilità a ricadere nel presente. Se qualcosa o qualcuno
richiede la nostra attenzione, gliela possiamo dare intera, senza le riserve
di prima, ed è possibile far come riposare la nostra presenza nella presen­
za dell'altro. Poi, a intervalli, la preoccupazione ci riprende, ma è più de­
bole di come sarebbe stata un tempo. Inoltre - e questo è di tangibile
importanza - ora avvolgere e accompagnare la preoccupazione con la
consapevolezza ha un effetto decisamente più alleviante di quanto succe­
deva nel primo livello. Prima le preoccupazioni erano dense e spesso con
un sapore amaro, mentre la consapevolezza, anche se accurata, era come
evanescente e insipida. Adesso invece, in qualche misura, si comincia ad
attuare un lento capovolgimento: le preoccupazioni tendono a indebolirsi
e a divenire più insipide, laddove la consapevolezza si ispessisce e diventa
più saporita, anche se è difficile dire alcunché di questo sapore, salvo che
è buono e pact/icante.

4. Vediamo ora di riassumere la questione trattata fin qui e di rifletter­


vi ancora sopra. Dunque: la via verso la pace interiore consiste anzitutto
nell'addestrarsi, mercé la pratica, ad abitare di più nel presente, ossia a
cedere meno al passato e al futuro, cioè all'immaginazione: più specifica­
mente, a stare meno nella condizione che la psicologia buddhista denomi-
na papanca o prapanca, traducibile con 'stato di proliferazione emotiva e
concettuale'. 3
Questo stato, che è trasceso da coloro che si sono realizzati, è il con­
trario della visione delle cose così come sono, è la distorsione percettiva
continua. Infatti, secondo la visione buddhista, le emozioni negative di
base, donde si ramificano tutte le altre, sono tre: l'avidità, l'avversione e
la confusione. Ora queste emozioni producono conclusioni , opinioni,
pensieri, i quali, a loro volta, accendono ulteriori emozioni negative, le
quali non resteranno senza echi concettuali e via di seguito, secondo un
effetto 'palla di neve'.
Per fare un paio di esempi tratti dalla sfera interpersonale (e ricordan­
do che il papanca investe tutta la percezione, non soltanto il campo delle
relazioni): il sorriso di Tizio, che ho incontrato solo per un attimo, mi
piace, è il sorriso giusto. Questa subitanea infatuazione partorisce, senza
che io nemmeno me ne accorga, una serie di opinioni e di aspettative.
Concludiamo che Tizio, diversamente da noi, deve avere un modo molto
gentile di trattare con le persone. Questo pensiero per un verso genera
ulteriore attrazione per Tizio, per l'altro ci fa sentire inferiori e ciò contie­
ne un germe di risentimento. Dal risentimento inconscio, può venire sfi­
ducia. La sfiducia, tipicamente, genera razionalizzazioni a propria confer­
ma. Queste razionalizzazioni vengono a scontrarsi con il nostro entusiasti­
co apprezzamento iniziale e da ciò, facilmente, può svilupparsi un senso
di colpa; e via proliferando. Oppure: Caio ha un tono di voce che non mi
piace e mi suscita antipatia. L'antipatia emette sentenze inappellabili e
gratuite su Caio, per esempio, che egli è insensibile alla sofferenza altrui.
Questi giudizi attizzano un senso di paura, legato a tutto il potere negati­
vo di cui stiamo caricando Caio, e via di seguito.
Ma come sarebbe una percezione più affondata nel presente e nella
pace e dunque meno proliferante e proiettante? Ecco: se noi, esercitando
la consapevolezza, abbiamo imparato a stare più nel presente, la nostra
percezione è come se fosse salutarmente rallentata. Per cui i due momen­
ti, ascolto della voce di Caio e mia reazione di antipatia sono ora, per
l'appunto, due momenti distinti. Mentre prima erano una cosa sola, cui
imputavamo automaticamente carattere di oggettività.
Ora invece vediamo sempre più distintamente che da una parte c'è
Caio (chi è?) e dall'altra la mia reazione a Caio, reazione che presume in­
vece di sapere tutto su Caio; così come ci accorgiamo più distintamente

3 Cfr. in questo sresso volume, il capitolo "La via della consapevolezza"; più in

particolare Nanananda Bhikkhu 1971, anche per i riferimenti ai testi buddhisti.


La 'facilità' degli esempi addotti non deve sviare dalla profondità del papanca, il
quale cessa solo quando si realizza il m·rvana.
che da una parte ci sono io (chi sono?) e dall'altra il mio concetto di me
stesso. E una vita più in presa col presente�pace sembra essere una vita
più felicemente 'ignorante', più in armonia con il mistero di quegli inter�
rogativi e meno gravata, invece, dal peso di tante conclusioni�opinioni.
Una presenza più viva nel presente rende più difficile alla proliferazione
mentale di scatenarsi. Anzi, più aumenta il contatto e la penetrazione del�
la realtà presente, più si infiacchisce la proliferazione.
E dunque nel rapporto interpersonale lasceremo più liberi gli altri di es­
sere come sono, sciogliendo simultaneamente noi stessi dal ruolo di censori
(di tutti, noi compresi), ruolo che non si presta a propiziare la realizzazione
spirituale. E se poi ci è dato di toccare qualche momento profondo, può
darsi che non solo lasceremo Tizio e Caio più liberi di essere come sono, ma
può darsi che, addirittura, essi ci andranno assolutamente a genio così come
sono. Anche se più tardi, ridivenuti superficiali e proliferanti, li vorremo di
nuovo diversi da come sono e conformi, invece, alle nostre preferenze.

5. Riepilogando: (a) consciamente o no, cerchiamo in continuazione la


pace, ma spesso nei modi sbagliati; (b) la pratica spirituale (e qui si tiene
presente soprattutto la meditazione di consapevolezza o vipassana) serve
a capire che i modi consueti, aggrapparsi e respingere, in sé non portano
alla pace; e serve a comprendere (c) che, invece, la sorgente della pace è
nello sviluppo di un'intimità col momento presente, che ci metta in grado
di coglierne il carattere sacrale e pacificante.
Se ci domandiamo ora quali altre caratteristiche importanti ineriscano
alla pace interiore, potremmo ricordare alcuni famosi esperimenti nel
campo della meditazione orientale,' che hanno messo in rilievo, nel caso
di meditanti avanzati, la compresenza di un forte rilassamento - non
dissimile da quello proprio a stati di sonno - e di una particolare luci­
dità mentale o ipervigilanza. Si direbbe dunque che la pace interiore cal­
ma, e insieme, sveglia, placa e accende. Per molti questa modalità di rilas­
samento vigile è del tutto insolita e paradossale, donde il tipico alternarsi
di effetto soporifero e di effetto iperstirnolante all'inizio della pratica me­
ditativa: l'organismo è infatti abituato ad associare rilassamento con son­
no e vigilanza con eccitazione. Ma la portata del binomio sveglia-calma
quale tratto saliente della pace interiore è molto più vasta e pervadente di
questo immediato effetto fisiologico.
Ad esempio, c'è un momento nel cammino spirituale in cui da una
parte si calmano, appunto, l'impazienza e la tensione circa il progresso

4 Cfr. il famoso articolo di A. Kasamatsu e T. Hirai, "An Electroencephalo­


graphic Study of the Zen Meditation (Zazen)", ora ripubblicato in Shapiro ·

Walsh 1984.
che desideriamo compiere e dall'altra, simultaneamente, sorge in noi non
già un'inerte rassegnazione, bensì una determinazione più forre di prima.
E perciò da una parte non ci chiediamo più, né ci interessa più sapere fi­
no a che punto arriveremo, quanto tempo impiegheremo, eccetera,
dall'altra vediamo, come prima non vedevamo, che la pratica e lo svilup­
po spirituali sono necessari come l'aria e come il cibo. Più in generale, il
binomio sveglia-calma è evidente nello sviluppo del fattore comprensio­
ne. Ossia, la pace interiore autentica deve propiziare una crescente capa­
cità di capire, di conoscere più rettamente; e d'altro canto questa com­
prensione più chiara, fondata nella pace è, a sua volta, veicolo di pace.
L'approfondirsi della pace-comprensione è uno dei segni maggiori
dell'autenticità di un percorso spirituale; non così, evidentemente, l ' ap­
profondirsi di una calma puramente legata a tecniche concentrative, sen­
za alcuna nuova apertura conoscitiva.' Ma che cosa dobbiamo capire? A
questa domanda potremmo cercare di dare una risposta in classici termi­
ni di buddhismo Theravada o Mahayana o nei termini di altre grandi tra­
dizioni spirituali. Ma mi domando se rispondere così sarebbe di giova­
mento per tutti i cercatori interiori oggi. E mi chiedo se non sia invece
importante per tutti insistere in primo luogo su questo, che dobbiamo ca­
pire l'importanza della pace per capire la vita e dobbiamo capire l'ànportan­
za della chiara comprensione per entrare sempre più nella pace. Dunque,
una pace che faccia capire e un capire che pacifichi.
E se questa comprensione-pace in una prima fase del cammino inve­
stirà di più i nostri problemi psicologici, da un certo punto in poi tenderà
a dilatarsi, cosicché il cercatore comincia a sentire in generale diversa­
mente dal passato. È come se l'intelligenza-sensibilità, calmandosi, comin­
ciasse a percepire in modo meno doloroso e più soddisfacente. Inoltre
questo fondamentale processo di pace-comprensione ha molto a che fare
con la crescita della fiducia: infatti, senza una certa dose di pace-com­
prensione, non possiamo avere davvero fiducia nella vita, è facile che i
suoi aspetti negativi ci appaiano soverchianti. Possiamo avere preferenze­
predilezioni-buone opinioni per questo e per quello, possiamo credere in
questo e in quello, mettendolo contro quest'altro e quell'altro. Ma è fidu­
cia questa? O non è, piuttosto, aggrapparsi, identificarsi, aggredire, difen­
dersi? Forse, finché non c'è vera pace in noi, noi non siamo in grado di
credere profondamente in nulla, anche se siamo pieni di opinioni e di
predilezioni. Perché credere vuoi dire 'dare il cuore' (dr. Cantwell Smith
1979, pp. 6 1 -63) e il cuore, in ultima analisi, secondo le tradizioni sapien­
ziali, vuole tutto, non vuole questo contro quello e vuole, anche, essere
dato a tutto, alla totalità della vita.

' Belle pagine su ciò in Achaan Chah, 1980, pp. 1 1 1-123.


6. Nella nostra vita quotidiana, l'ingresso del1a pace-comprensione-fi­
ducia porta cambiamenti benefici. Un cambiamento di rilievo è questo,
che ora accettiamo più tranquillamente i nostri limiti. E dunque lasciamo
perdere quello che non sappiamo fare o quello che non ce la facciamo a
fare e stabiliamo, d'altra parte, una relazione più viva con ciò che rimane:
più unificati e semplificati, sviluppiamo un contatto più pieno con le no­
stre occupazioni. Perché infatti, a mano a mano che cadono via da noi il­
lusioni varie, ci ritroviamo più disponibili: le illusioni concernenti le no­
stre presunte capacità e le illusioni circa le nostre presunte incapacità. È
buono essere più liberi da entrambi questi tipi di illusioni, perché se sia­
mo di più nella verità circa noi stessi, siamo più ricettivi ad altra verità.
Ma le illusioni che la pace può aiutarci salutarmente a trascendere so­
no tante e tanto più vaste di quelle nominate. Senza un poco di pace ve­
ra, infatti, noi viviamo nell'illusione che ciò che è piacevole sia fatto per­
ché noi ci si aggrappi e che ciò che è spiacevole sia fatto per essere odia­
to; e non capiamo - la proliferazione mentale ce lo impedisce - che il
piacevole è solo piacevole e lo spiacevole è solo spiacevole. Senza la pace
noi nutriamo l'illusione che sia necessario essere speciali: essere molto
bravi, avere molte credenziali, possedere molte cose. Pensiamo che il no­
stro valore ci venga dal numero di bagagli che portiamo, se è sterminato
tanto meglio. E non capiamo che senza pace perfino l'allegria è triste,
mentre se c'è pace anche la tristezza si riposa.
Con un po' di pace autentica ci identifichiamo di meno con le nostre
parole, i nostri pensieri, sentimenti e azioni e da ciò proviene un maggior
senso di libertà. Invece, se non c'è in noi pace, viviamo nell'illusione che
l'unica cosa che veramente esiste sono io. Cosicché le nostre relazioni so­
no quelle che sono. Ma quando soprawiene un po' di pace, allora voglia·
mo che le nostre relazioni, quale che sia il loro grado di intimità, servano
solo alla pace, siano opera di pace, servano a darci riposo gli uni agli altri
per poter camminare insieme nella sacralità del presente. Allora può dar­
si che dalla mentalità che considera le attenzioni come dovute e le man­
canze di attenzione come insulti, si passi alla mentalità della gratitudine
per qualsivoglia anenzione ci venga mostrata: e la gratitudine è un poten·
te veicolo di pace e di comprensione. Se le nostre relazioni ne producono
anche solo un poco, questo è molto. È un beneficio per noi, per l'altro,
per gli altri vicini e - se è vero che la separatezza individuale è fonda·
mentalmente illusoria - anche per altri lontani. L'effetto 'palla di neve'
non vale solo per la proliferazione mentale: fortunatamente anche la pace
ha la facoltà di moltiplicarsi. E se aumenta la pace-comprensione, aumen­
ta un grande potere guaritivo. A chi lo ha capito va la responsabilità -
che sarà accolta lietamente - di farlo capire.
9

L'impegno del Dharma

l. È stato detto dal Buddha: "così come ogni goccia del grande mare ha
il gusto del sale, allo stesso modo ogni goccia del Dharma ha il sapore della
liberazione" ( Udana 5 , 6). L'impegno del Dharma, l'impegno nel Dharma,
l'impegno per il Dharma significa anzitutto, io credo, gustare e far gustare
il Dharma; quel Dharma che fu definito come triplice: insegnamento
(pariyattzl, pratica (patipatti) e pativedha, la comprensione che libera.
L'impegno di cui parliamo significa facilitare in noi e fuori di noi quella
trasformazione sofferta e travagliata per un verso, dolce e pacificante per
un altro, che ci dispone a gustare, appunto, l'agio profondo della pace, no­
stra vera casa - come avrebbe detto Achaan Chah - e che dunque mette
in grado di abitare la terra in modo nuovo. L'impegno del Dharma è per­
ciò impegno radicalmente contemplativo, giacché come affermano concor­
di, oltre al buddhismo, tutte le grandi tradizioni spirituali, il lavoro che,
solo, può intaccare la sofferenza alle radici è il lavoro contemplativo.
n fondamento di tale lavoro è la capacità di contemplare le cause della
sofferenza, ossia la capacità di contemplazione abituale e sistematica del
nostro attaccamento. Senza acquisire questa consapevolezza, forte e soste­
nuta, della sofferenza e delle sue cause, il Dharma come comprensione
che libera (patzvedhal non può nascere nel cuore. Inutile dire che il
buddhismo socialmente attivo, comunemente noto come buddhismo im­
pegnato - preziosa novità del nostro tempo - non potrà non ripropor·
si, quale fine ultimo, questa medesima contemplazione radicale. In virtù
della quale la saggezza e la compassione possono mettere vitali radici in
noi, al posto di altre radici, quelle della sofferenza.
11 Dharma è imparare e insegnare la contemplazione radicale, la con·
templazione liberante. Esemplarmente, Siddhartha Gautama, nel corso
del suo apprendistato nella foresta, rifiutò contemplazioni che non fosse·
ro radicali, che non andassero alla radice del dolore: e questo episodio mi
sembra appartenere a quel piccolo numero di eventi epocali nella storia
religiosa dell'umanità. Dunque: esistono esperienze interiori che affasci­
nano o che riposano, ma che, tuttavia, non recidono i nodi del cuore, ed
esiste quella contemplazione che è capace di sciogliere i nodi del cuore.
L'impegno del Dhanna si rivolge a questo scioglimento definitivo. Cusio·
dire il Dharma è far sì che questo messaggio essenziale non sia avvolto
dalle nuvole dell'ideologismo, del dogmatismo, del settarismo; non sia of­
fuscato dal moralismo e dal proselitismo o, semplicemente, dalla negli­
genza e dallo scoraggiamento.

2. Un centro eli Dharma dove prevale l'orcline, vige il rispetto e la sol­


lecitudine tra i suoi membri interni e verso chi si avvicina dall'esterno, un
centro del genere ispira fiducia e dà pace fin dal primo contatto. Perciò mi
pare evidente che, per tutti coloro cui sta a cuore l'organizzazione del
Dharma in Italia, il compito sia chiaro, benché non facile: contribuire,
ciascuno a proprio modo, ad alimentare fiducia e pace nei centri ai quali
facciamo capo. E questo, va da sé, ha molto a che vedere con la qWIIità
della nostra pratica. Infatti le intenzioni (le cosiddette buone intenzioni)
sono importanti, ma l'o//zàna della pratica contemplativa per depurare le
intenzioni e convertire la loro energia in azione significativa è ancora più
importante. Sicché, se la fondazione eli un vero centro di Dhanna è radi­
cata nella contemplazione, la crescita poi del centro sarà a sua volta pro­
porzionale alla contemplazione che il centro diffonde e insegna.
Dunque, nell'ambito dell'impegno per il Dhanna, avrà speciale rilievo
la formazione dei pratù:anti' Oaici e monaci) da parte dei centri. Dato che
questo della formazione è un capitolo relativamente nuovo per l'Italia,
può non essere superfluo sottolineare un punto, e cioè la necessità che
nei centri di Dharma vengano dedicate energia e attenzione non soltanto
ai nuovi studenti ma anche, nella stessa misura, a coloro che praticano il
Dhanna da tempo.
li senso, ad esempio, di corsi di meditazione o di ritiri riservati a prati­
canti non principianti è proprio questo: rendere oggetto di attenzione
particolare chi non è agli inizi, invece di dare per scontato che l' attenzio­
ne debba essere rivolta soprattutto a chi comincia. Questo atteggiamento
era forse giustificato un tempo, allorché, in Occidente, la novità dei per­
corsi sapienziali asiatici sembrava suscitare un interesse tanto forte quan­
to effimero. Ma oggi che, invece, accanto alla categoria di chi comincia, si
profila, via via più numerosa, la categoria di chi continua, persistere nel­
l'atteggiamento suddetto significherebbe scoraggiare e non sostenere gli
' . .,
anz1an1 .

1 Su quesw argomento si veda anche il capitolo intitolato "'Spiritualità buddhi­

sta laica in Occidente" .


3 . Tornando ora a riflettere sul significato più generale dell'impegno
per il Dharma, possiamo ricordare, rifacendoci a un memorabile discorso
del Buddha,2 che il Dharma è paragonabile a una zattera, la cui funzione
è quella di essere mezzo di altraversamento e non oggetto di attaccamento.
Il Buddha osserva che coloro che si limitano a studiare il Dharma al fine
di criticare e confutare altri, senza in alcun modo accedere al Dharma co­
me esperienza liberante, si fanno soltanto male, come chi afferra un ser­
pente per la coda invece che per la testa. Dunque l'impegno del Dharma
e per il Dharma sarà imparare e insegnare a fondo questo punto cruciale:
la zattera è un mezzo (upaya) che, come tutti i mezzi, aspetta soltanto di
essere usato. Ma, impiegare tempo ed energia a discutere circa la superio­
rità di questa o quella scuola di buddhismo è vano ideologismo e signifi­
ca, semplicemente, non usare la zattera o, quanto meno, rinviarne incom­
prensibilmente l'uso.
A me pare che uno dei vantaggi, in mezzo a infiniti svantaggi, dei tem­
pi difficili che il pianeta sta vivendo, sia proprio quello di indicarci che
una spiritualità vera non è più rinviabile. La contemplazione radicale, il
Dharma autentico non è più rinviabile. Di fatto non lo è mai stato. Sen­
nonché oggi è in questione la sopravvivenza planetaria. Oggi infatti con­
statiamo con ogni evidenza che attaccamento, avversione e ignoranza,
raggiunta una massa critica, possono innescare un processo distruttivo
non solo vasto, ma anche irreversibile. Come non essere - dunque -
ancora più interessati che in passato alla purificazione mentale? Oggi è
diventato più difficile nascondersi la verità della sofferenza e nascondersi
la verità dell'ignoranza e dell'attaccamento che causano la sofferenza. Og­
gi è diventato più difficile illudersi.
D'altra parte, anche per ciò che concerne i mezzi per superare la soffe­
renza, mi pare che dobbiamo prendere atto di un 'utile novità, pur fra
tante nuove difficoltà. Infatti, tra i numerosi travagli, perdite e asperità
derivanti dal trasloco di così tanto buddhismo dall'Asia in Occidente (e
la psicologia ci dice che il trasloco è tra le principali cause di stress ' ) ,
emerge, appunto, un vantaggio nuovo, che è la grande occasione inter­
buddhista e interreligiosa offerta dall'Occidente, sottolineando in primo
luogo, come specifica dell'Occidente, la notevole possibilità di incontro
interbuddhista, dato che il dialogo imerreligioso è già particolarmente vi­
vo e fecondo in Asia.
Dunque utilità pratica, cioè spirituale, liberatoria dell'incontro inter­
buddhista, in virtù del quale è più facile che il discorso della zattera torni
a essere in primo piano. Personalmente, io sono molto contento di fare

2 MN 22, AS. Su tutto ciò può vedersi anche il capitolo imitolato "La medita­
zione di consapevolezza: realtà e illusioni".
parte di un'ampia comunità di vipassana, che comprende il Dhamma
Gruppe svizzero, l'A.ME.CO. di Roma, la Gaia House in Gran Bretagna e
l'Insight Meditation Society negli Stati Uniti; comunità laica che è inoltre
molto vicina alla tradizione monastica tailandese della foresta, che fa capo
in Occidente ad Achaan Sumedho e ai monasteri da lui fondati: tra que­
sti, il monastero italiano di Santacittarama retto dal nostro Achaan Tha­
navaro. Uno dei motivi della mia contentezza è la reale non dommaticità
e non settarismo di questa comunità internazionale laica di vipassana. Va­
ri suoi membri sono stati o sono ancora in stretto contatto con questo o
quel lignaggio di Zen, altri hanno uno spiccato interesse per lo Dzog­
chen, altri ancora fanno esperienze di Vedanta in India, mentre per altri,
infine, è fondamentale la spiritualità cristiana. Molti di loro, inoltre, han­
no qualche grado di dimestichezza con la psicoterapia.
Certamente una simile apertura può rischiare di cadere nell'ecletti­
smo. Però, rettamente intesa e usata, questa apertura vuol dire non già
scavare qua e là senza mai andare in fondo e raggiungere l'acqua, ma,
piuttosto, usare diversi strumenti per scavare nello stesso punto. Io trovo
che, disponendo di un alveo preciso nd quale fare scorrere la vita spiri­
tuale (e per me questo alveo è la vtpassana), l'accogliere in esso altri
flussi convergenti può riuscire di arricchimento e, talora, può essere ad­
dirittura determinante.

4. Ora, questo spirito interbuddhista oltre che interreligioso e attento


alla psicologia, sembra essere, appunto, specifico del Dharma in Occiden­
te. E io penso che tale spazio di libertà vada custodito accuratamente e
credo che tale compito faccia parte dell'impegno per il Dharma in Occi­
dente. Sarebbe infatti disastroso, oltre che sorprendentemente irragione­
vole, importare dall'Asia, insieme col buddhismo, anche i suoi secolari
conflitti interni.
Ricordo come fui colpito allorché Achaan Sumedho, abate occidentale
e maestro di grande levatura, a una domanda di confronto tra Mahayana
e Theravada, rispose: " E chi sono io per decidere una questione del gene­
re? So soltanto che sto a mio agio nella tradizione che ho scelto". Mi do­
mando quanti maestri buddhisti si sarebbero sentiti liberi di rispondere a
questo modo. Ora se dogmatismo, settarismo e ideologismo sono di per
sé, in generale, grandi problemi, essi diventano, in particolare, un'eccezio­
nale contraddizione in casa buddhista. Infatti essi rappresentano l'esatto
contrario di ciò che il Buddha raccomanda e corrispondono in pieno,
d'altra parte, a ciò che il Buddha designa come la presa errata del serpen­
te o come la zattera trasformata in oggetto di attaccamento invece che es·
sere usata come mezzo di attraversamento. Dobbiamo ammettere tran­
quillamente - mi pare - che questo messaggio chiarissimo del Buddha
è stato nei secoli variamente disatteso dalle diverse scuole buddhiste, con
conseguenze non lievi.
Forse oggi in Occidente - dove oltre a mancare, purtroppo, una solida
tradizione buddhista, manca altresì, per fortuna, il lato negativo della tradi­
zione e cioè l'irrigidimento e il peso soffocante - diventa finalmente possi­
bile prendere più sul serio la questione, e cioè la questione del non settari­
smo e della priorità della pratica, cercando così di por fine alla contraddi­
zione di cui si è detto. Infatti, insegnare il carattere negativo dell'attacca­
mento alle ditthi, ossia ai punti di vista e alle opinioni, per poi, disinvolta­
mente, manifestare il massimo attaccamento ai punti di vista della propria
scuola, è un messaggio parecchio confusivo per lo studente di Dhanna. E,
certamente, siffatta contraddittorietà non semina fiducia e pace; al contra­
rio, semina dubbio, sfiducia e conflitto: come è inevitabile che accada allor­
ché un insegnamento che, in modi splendidi e insigni, invita a svuotarsi per
vivere totalmente finisce poi, in diversi casi, con il fare rientrare dalla fine­
stra l'io/mio sotto le spoglie del de/ensor/idei, con tutto l'effetto separativo
che ciò comporta. Questo, appunto, è concepire attaccamento per la zatte­
ra invece che metterla in acqua per farle compiere la sua funzione.
A me sembra che il Dharma in Occidente si trova davanti un'occasione
unica per mettere in pratica generosamente il messaggio della zattera: ossia
priorità assoluta alla pratica del Dhanna e superamento di ideologismo e
settarismo, nella coltivazione del rispetto come valore fondamentale.

5. Dunque, l'impegno del Dhanna è impegno a praticare la contem­


plazione radicale, ossia la contemplazione che libera, e a rendere accessi­
bile tale contemplazione a coloro che la vogliono. Predicarla a chi non la
vuole perché preferisce indirizzi spirituali diversi o, semplicemente, per­
ché non è interessato, sarebbe proselitismo o moralismo, non sarebbe
Dharma. lo penso che molti oggi in Occidente aspirano, più o meno co­
scientemente, alla contemplazione radicale. A questo riguardo, l'impegno
del Dharma sarà quello di assumersi una tranquilla responsabilità in pro­
posito. Ciò, tradotto in pratica, significherà: centri di Dharma ordinati e
funzionanti, retti da insegnanti qualificati; centri di Dhanna capaci di
infondere, come si diceva, pace e ftducia. E dunque centri nei quali, su
questa base solida, sia possibile procedere all'insegnamento del cammino
radicale. Ricordandosi della zattera. n buddhismo stesso, in ultima anali­
si, è un upaya, un mezzo di liberazione da usare abilmente. Lo scopo del
buddhismo non è il buddhismo. Lo scopo del buddhismo è il Dhanna. E
il Dharma è in tutti e per tutti, altrimenti non è il Dharma.

6. L'insegnamento del Dharma ha la sua massima bellezza e dzl/ù:oltà


in questo, che esso, in ultima analisi, non può che essere insegnamento
dell'amore per la pratica. Giacché il Dharma che si prende cura di noi Oa
zattera), il Dharma che sboccia nel cuore, non può nascere senza amore
per la pratica. Certamente, è auspicabile che sorgano istituzioni nelle qua­
li si approfondisca il buddhismo, sia nella sua dottrina, sia a confronto
con l'Occidente religioso e scientifico: senza questo impegno di pensiero
e di studio è impensabile una fioritura spirituale nuova. Tuttavia mi piace
ripeterlo: se, come credo, i centri di Dharma debbono essere anzitutto
centri di formazione per praticanti, allora il loro compito, bellissimo e
difficile, non potrà che essere insegnare l'amore per la pratica. Perché -
è owio e non è tanto ovvio! - senza amore per la pratica non c'è pratica
e senza pratica non c'è la zattera, ossia il Dharma vero.
Infine vorrei concludere ricordando questo. Non di rado si pensa
all'impegno interiore o in termini di servizio altruistico o in termini di as­
sorbimento intimistico e, in ultima analisi, individualistico. In realtà que­
sto dualismo deriva da un vasto fraintendimento delle tradizioni spiritua­
li. Nella tradizione buddhista mi sembra che il carattere unitario e unifi­
cante, tutt'altro che dualistico, del lavoro interiore venga illustrato con
chiarezza: il cammino è fatto di tre dimensioni organicamente intrecciate:
saggezza, contemplazione ed etica (panna, samadhi, sila). Attenzione: nes­
suna delle tre può essere veramente quella che è senza le altre due. Ora,
le conseguenze di tale visione sono di grande rilevanza. Significa che l'eti­
ca è /ondata nella contemplazione, significa che la sensibilità morale, ossia
quel balsamo che tutti chiediamo a tutti, è radicata nella pratica.
Dunque: senza un'immersione graduale e crescente di consapevolezza
silenziosa nelle nostre vite e senza quella semplificazione drastica e, insie­
me, tonificante che essa comporta, è più difficile la percezione della soffe­
renza e dei bisogni in noi e negli altri, la percezione del giusto e dell'in­
giusto, l'intuizione dell'azione appropriata, ossia le basi dell'etica. Perciò,
dire che l'impegno del Dharma è impegno primariamente contemplativo
significa dire, allo stesso tempo, che l'impegno del Dharma è impegno
primariamente etico. Contemplazione ed etica sono una cosa sola e dun­
que, in questa ottica, cade quella divaricazione dualistica tra altruismo e
intimismo.
Oggi si sente spesso parlare delle sfide del terzo millennio. Personal­
mente, non riesco a vederne una più cruciale di questa: far capire che la
contemplazione non è un lusso, ma una necessità naturale.
Seconda Parte

Consapevolezza
e fiducia
IO

Religiosità della consapevolezza

l . Ayya Khema descrive così, in modo efficace e nitido, la prima verità


del Buddha. la verità del dukkha (sofferenza, insoddisfazione): "Un cuore
compassionevole prova costantemente compassione e ciò per il fatto che
la sofferenza tocca a tutti. È il messaggio della prima nobile verità dell'in­
segnamento del Buddha. Non c'è nessuno che sia senza sofferenza perché
la vita, l'esistenza è sofferenza. n che non significa che la vita sia tragedia.
Significa che tutto ciò che accade contiene frizione, irritazione e un co­
stante desiderio o di averne di più oppure un desiderio che le cose ri­
mangano così o che esse cambino" (Ayya Khema 1987, p. 48).
E Dainin Katagiri, da parte sua, riesce con poche parole precise a in­
trodurre la quarta verità (il cammino, la pratica per andare oltre la soffe­
renza), ad alludere alla seconda (la causa dì dukkha, cioè l'ignoranza) e a
evocare un sostanzioso avvio verso la terza (fine di dukkha o liberazione):
"Più ci mettiamo seduti con questo spirito e più ci accorgiamo della forza
dell'ignoranza umana. Non c'è motivo di creare questa situazione terribi­
le, eppure lo facciamo, continuamente. Nell'assumerci un impegno spiri­
tuale nei confronti della pace autentica giorno per giorno, dobbiamo an­
dare al dì là del fatto che la gente l'accetti oppure no. Non si tratta di po­
litica. È un impegno spirituale nei confronti della pace. Dobbiamo assa­
porarlo e digerirlo, costantemente. Poi dobbiamo viverlo. f. piuttorlo dif
/icile, perché più assaporiamo e mastichiamo la pace autentica, più ci accor­
giamo dell'ignoranza umana. Ma più ci accorgiamo dell'ignoranza umana,
più non possiamo smettere di insegnare la pace autentica, di vivere la pa­
ce autentica" (Dainin Katagiri 1988, p. 24, corsivo nostro).
Dunque il lavoro interiore, cioè la quarta verità, può definirsi anzitutto
una crescente familiarità, una sempre maggiore dimestichezza con la causa
di dukkha, vale a dire con l'ignoranza (causa primaria) e con l'attaccamen­
to e l'avversione che sono le cause prossime; e può defmirsi, al tempo stes­
so, una crescente familiarità con la pace. Il che mostra come le quattro ve-
rità possono essere comprese (nel senso di realizzate) solo tutte e quattro
insieme: infatti comprendendo la pratica (quarta) comprendo le cause di
dukkha (seconda), il che soltanto può portarmi veramente in contatto con
la reale profondità ed estensione di dukkha (prima) e, anche, con la pace
che è la porta d'ingresso alla liberazione (terza). Ciò vuoi dire che io sarò
in errore se penso, come può accadere facilmente, che mentre la realtà del­
la sofferenza è per me di immediata evidenza, non altrettanto evidenti mi
sono le altre verità. In effetti, se io non ho qualche realizzazione delle altre
tre verità, la mia comprensione della sofferenza sarà non solo superficiale
ma anche distorta. Invece, quanto più si capisce che i tre kilesa o tossine
(attaccamento, avversione e ignoranza) producono sofferenza, tanto più
cresce e si rafforza un rifiuto, naturale e organico, ad alimentarle, tanto
più aumenta un disinteresse genuino nei confronti di ciò che è nocivo: è il
primo manifestarsi del non attaccamento e della saggezza.

2. Il non vedere la relazione tra le tossine e la sofferenza è l'effetto


maggiore della tossina più grande, l'ignoranza (avijja). L'avijja è ciò che
induce a ritenere 'normali' le molteplici forme e aspetti dell'attaccamento
e dell'avversione (ignoranza passiva); ed è anche ciò che induce a giustifi­
care e alimentare l'indulgere e il prendere dimora nell'avversione e
nell'attaccamento (ignoranza attiva). L'ignoranza è non sapere altro che
avversione e attaccamento, è conoscere e frequentare solo quello spazio
angusto, senza sapere alcunché di spazi più chiari, più ampi, più caldi.
Avijja è perciò un non sapere tutt'altro che innocente e ricettivo. Al con­
trario, significa avere convinzioni e abitudini mentali ben radicate e, in­
sieme, non sapere quanto profondamente nocive esse siano. Il vivere di­
stratto, a caso, senza alcuna consapevolezza e presenza mentale, al seguito
della mente che va alla deriva, è l'aspetto più visibile deU'avtjja ed è an­
che ciò che permette all'ignoranza di fondo (o ignoranza dell'inquina­
mento interiore) di continuare a prosperare, indisturbata e disturbante.
Vivendo senza alcuna direttiva sapienziale, noi, di fatto, viviamo coltivan­
do l'ignoranza e i suoi frutti.
Ma nel momento in cui prendiamo sul serio la quarta verità (la pratica
interiore), noi disporremo di un osservatorio sempre più preciso per ac­
corgerci di quanto le nostre giornate si consumino nel fuoco e nel fumo
delle tossine mentali, a cominciare da quell'aspetto dell'ignoranza che
vuole farci credere che tutto ciò sia 'normale'. Ora la coltivazione della
saggezza e della consapevolezza significa in primo luogo essere mossi a
porre in discussione questa presunta normalità. In pratica, vuoi dire co­
minciare a vedere che, nella misura in cui sono compulsivamente attacca­
to a questo e quello o compulsivamente respinto da questo e da quello, io
non avrò molta scelta. Quanto a dire che non avrò molta libertà; c dun-
que nemmeno pace e nemmeno possibilità di conoscere, esplorare, com­
prendere e tanto meno di poter volere veramente bene. Per intendere
meglio l'intreccio dei tre kilesa o tossine e dei loro effetti consideriamo,
per esempio, come vanno le cose se nutriamo un forte attaccamento a
una nostra opinione e ci troviamo di fronte a un interlocutore.
Anzitutto ci sentiremo in pericolo e il nostro interlocutore sarà per noi
una minaccia. Ascolteremo poco o nulla quello che dice, dato che non
vediamo l'ora che finisca di parlare per poter esprimere a nostra volta
quella opinione cui teniamo così tanto. È da rilevare che finora siamo sta­
ti in una condizione di sofferenza (paura, tensione, chiusura all'altro) ge­
nerata dall'attaccamento. La sofferenza si accrescerà allorché, sempre a
causa dell'attaccamento, percepiremo come frustrante un dissenso, anche
parziale, da parte dell'altro nei confronti della nostra opinione. Ci sentire·
mo feriti e nascerà allora l'avversione per l'altro, e, facilmente, anche per
noi stessi, perché ci parrà di essere stati incapaci di esprimerci adeguata­
mente: nuova sofferenza.
L'ignoranza è quella 'cosa' che ci fa reputare normale tutto ciò, na­
scondendoci sia l'estensione capillare della nostra sofferenza, sia il fatto
che si tratta di una sofferenza completamente gratuita e non necessaria.
Molto diversamente andranno le cose se io non sono attaccato alla mia
opinione. Infatti non sarò impaziente perché l'altro finisca, ascolterò e co­
noscerò meglio l'altro e avrò buone probabilità di incentrarlo invece che
perderlo, come succede se sono imprigionato nell'attaccamento; esporrò
con calma e libertà la mia opinione, dato che non la debbo imporre a tut·
ti i costi. I commenti critici dell'altro facilmente mi interesseranno e potrà
nascere anche solidarietà e gratitudine per questa esplorazione comune.
Perciò nell'un caso (attaccamento) vediamo in azione paura, irrigidimen·
to, tensione, ignoranza, isolamento, non esplorazione, freddo e meccani­
cità; nell'altro caso (non attaccamento) vediamo invece incontro, calore,
distensione, comprensione, unione. Siamo, in effetto, davanti a due menti
diverse, la mente di infelicità e la mente di felicità: la mente dura, cioè
fragile, chiusa, giudicante, reattiva, sospettosa, ostile, isolata, saccente
(che sempre 'già sa'), in contrasto con la mente dunile, flessibile, lavorata
e lavorabile (kammaniya) (dr. AN t, 3, 2 e Woodward 1979', p. 4 e nota
l) dalla pratica, la mente aperta, accettante, la mente che nutre profondo
interesse a essere amica, equanime, tenera; la mente sempre più desidero­
sa di capire e sempre meno desiderosa di giudicare; la mente amorosa­
mente investigante e interrogante, che dunque tende sempre meno a dare
per scontato alcunché.

3 . La pratica della consapevolezza, owero della quarta verità del


Dharma, è la pratica per transitare dalla prima mente alla seconda
mente, dalla chiusura all'apenura, dalla mente che è impregnata dagli
inquinamenti (i kilesa), alla mente che lavora attivamente e con gusto per
liberarsene. E questo lavoro è un lavoro anzitutto di generosità. La gene­
rosità di praticare la via spirituale senza riserve e senza avarizia, di non
esitare a spendere tempo ed energia per la meditazione e per la coltiva­
zione delle qualità spirituali. Contemporaneamente, perché il lavoro inte­
riore possa in tal modo essere generoso, occorre che ci sia un saldo inte­
resse a vedere e capire che cosa può bloccare o comunque impacciare e
ridurre la generosità in noi. In certo senso abbiamo qui due forme di
generosità: la generosità di darsi alla pratica della consapevolezza e la
generosità di voler capire perché non ci diamo. Se è coltivata secondo que­
sta doppia generosità, la pratica prima o poi ci riempirà il cuore, comin­
ciando così a raggiungere il suo scopo, che è specificamente religioso, nd
senso di unificante e trasformativo.
Naturalmente è fondamentale che si sviluppi l'interesse a veder bene
cosa ci distoglie e ci svia dall'impegno generoso. E quando ci si sveglia a
questo interesse, allora anche una pratica cronicamente dubbiosa e avara
può subire una svolta: o ci accorgiamo di non volerla e onestamente la la­
sciamo perdere oppure, al contrario, questo interesse ci giova a superare
gli ostacoli che si frappongono a un praticare più generoso. Ma cerchia­
mo ora di vedere più da vicino l'aspetto religioso - cioè generosamente
unificante - della pratica. Una delle scopene fondamentali che prima o
poi il praticante serio è destinato a fare è la scoperta dell'enorme autorità
delle nostre abitudini mentali, con le loro spesse incrostazioni di attacca­
mento, avversione e ignoranza. Ossia la scoperta di quanto i kilesa siano,
in effetto, i nostri potenti maestri, che ci istruiscono momento per mo­
mento e ci dicono quello che dobbiamo fare, dire, sentire, pensare, vole­
re, rifiutare. È una scoperta che può non essere piacevole ma che ha il
pregio di tirarci fuori dalla super/ù:talità, perché ci mette di fronte a un
massiccio potenziale di sofferenza dentro di noi. Spesso questo è di fatto
il primo incontro autentico con dukkha e con le sue cause, e non può
non turbare e scuotere.
È un momento che nella tradizione della vipassana va sotto il nome di
samvega ed è considerato di grande importanza. Samvega, l difficile da tra­
durre, significa un insieme complesso di sentimenti: disincanto, disillusio­
ne e stanchezza del nostro modo di essere da un lato e dall'altro lato per­
cezione, accompagnata talora da compassione, della follia della nostra e
dell'altrui mente. È un sentimento più grande e qualitativamente diverso
dalla semplice frustrazione, dato che sempre porta con sé una rinnovata

1 Per una presentazione e discussione del samvega nell'esperienza di un mae­


stro rinomato, cfr. Achaan Maha Boowa 1982, p. 25 sg. e nota 12.
motivazione e apertura verso la saggezza. Potremmo definire il samvega
uno sconforto particolare, che invece di oscurarci ci illumina, o un'ama­
rezza che invece di toglierei fiducia ce ne dà ancora di più, anche se l'ef­
fetto luce-fiducia può non essere avvertito sul momento.
Ma perché le esperienze di samvega� più drammatiche per alcuni, più
discrete per altri, rappresentano fasi cruciali del cammino? Perché, in
sostanza, esse segnalano un fondamentale fatto evolutivo: cominciamo a
essere insofferenti dei nostri maestri interiori (attaccamento, avversione e
ignoranza) e sentiamo distintamente il bisogno di altro; cominciamo ad
aspirare a un'autorità interna che non sia quella dispotica delle nostre
abitudini mentali, che non sia l'autorità dell'io e del mio, sempre intenta
a separare e dividere e che sia invece un'autorità fatta di saggezza, di
compassione e di innocenza. TI samvega ci fa toccare con mano quanto
intimamente siamo invasi e intossicati dai kilesa� ci mostra con evidenza
conturbante fino a che punto noi siamo letteralmente stretti nelle loro
mani. Ci accorgiamo che nelle nostre vite se da una parte ci sono state
maturazioni benefiche, d'altra parte c'è stato un progressivo induri·
mento, un graduale formarsi della mente reattiva, giudicante, chiusa, la
mente di infelicità, la mente che ci comanda, che ci ha invaso e cat­
turato.
Tuttavia, al tempo stesso, il samvega ci fa oscuramente comprendere
quella che potremmo chiamare la legge del mezzo proporzionato: e che
cioè anzitutto è possibile essere afferrati e catturati dalla pratica del
Dharma nello stesso modo in cui ci siamo ritrovati afferrati e guidati dai
kilesa e che� inoltre, solo se siamo afferrati in questo modo potremo
imbarcarci verso la mente di felicità. Qualsiasi mezzo diverso da questo
essere a/!e"ati dalla pratica non sarà infatti un mezzo proporzionato alla
grandezza del compito. Piano piano la dedizione spirituale deve pren­
dere il soprawento dentro di noi, rimpiazzando il potere dei kilesa. E
questo progressivo abbandonarsi a ciò che giova, a ciò che è utile, buono,
vero (kusa!a), è religiosità autentica e deve diventare la caratteristica
saliente di una pratica di consapevolezza matura. Il lavoro interiore
diventa religioso nel momento in cui comincia ad afferrarci radicalmente
e irreversibilmente, così come la mente di sofferenza ci aveva stretto
radicalmente per anni.

4. Riepilogando: dopo un'introduzione sulle quanro nobili verirà e stÙ


contrasto tra mente chiusa e mente aperta, abbiamo sottolineato un pri­
mo elemento di religiosità della pratica e cioè la generosità come capacità
di darsi (e dunque di darsi ancora, di darsi di più) alla pratica e a tutto
ciò che essa comporta e la generosità come interesse a vedere ciò che
ostacola il darsi. n secondo elemento di religiosità indicato subito dopo è
stato il samvega o turbamento costruttivo, reale presupposto di conversio­
ne interiore. Infine, si è detto del terzo elemento di religiosità, allorché la
pratica diventa dominante e avvolgente fino a costituirsi guida costante e
chiara della nostra vita. A questo punto il circolo comincia a chiudersi
fruttuosamente, dato che, una volta afferrati dalla pratica, la generosità in
quei due sensi che abbiamo detto diventa molto più accessibile.
Tuttavia c'è uno scoglio che affiora non appena il samvega ci fa intuire
che la pratica deve diventare onnipervadente, ed è lo scoglio della paura.
Naturalmente è una paura che si stempera man mano che la pratica avan­
za, altrimenti, se rimanesse forte, la pratica, va da sé, non ci potrebbe af­
ferrare. In sostanza, allorché prevediamo oscuramente o addirittura in­
consciamente un cambiamento di così vasta portata può darsi che, sulle
prime, sarà soltanto la paura ad afferrarci e sicché ci troveremo a mettere
inavvertitamente una 'distanza di sicurezza' tra noi e il lavoro interiore, e
ciò con varie razionalizzazioni e scusanti.
Per esempio potremo dirci che noi, spiriti laici, non vogliamo certo
comprometterci con la religione, che siano religioni esotiche o che siano
quelle nostrane. Sennonché il lavoro spirituale autentico è un'opera di ve­
rifica capillare della dottrina nella nostra propria esperienza viva, e quindi
non ha molto a che vedere con quella forma di ideologismo acritico che
va spesso sotto il nome di religione. In realtà la cosa con la quale non ci
vogliamo compromettere è proprio la pratica, perché, appunto, minaccia
di invaderei, di volere molto da noi. Abbiamo intuito che la pratica ci
rende più senszbili e questo può farci paura. Forse non capiamo ancora
che, senza un aumento di sensibilità è impossibile cogliere la cruciale con­
nessione tra l'inquinamento psichico (kzlesa) e la sofferenza, è impossibile
sentire-capire la nostra attivissim a ignoranza che produce sofferenza e
che, parimenti, se non diventiamo più sensibili, anche il diventare più
compassionevoli rimarrà totalmente fuori della nostra portata. È vero che
la pratica, oltre a un'accresciuta sensibilità, ci dona anche più forza, ma
negli stadi iniziali questo apparente paradosso è poco chiaro e la paura ha
perciò buon gioco.
Inoltre c'è un'altra intuizione che può farci indietreggiare in preda a
timore: se la pratica diventa troppo importante essa vorrà da noi nuovi
impegni e, facilmente, nella sua invadenza, ci farà perdere un certo
numero di interessi e di abitudini e questa prospettiva appare minacciosa
per la nostra identità attuale. Infine, persino l'iniziale percezione di stati
mentali nuovi, di ordine positivo (espansività, chiarezza, rilassamento),
può suscitare disagio e qualche timore: non sappiamo bene di cosa si
tratta, non sappiamo come 'collocare' tutto questo, ci preoccupa 'l'appli­
cazione' e 'l'impiego' owero il controllo di questo. Ancora, abbiamo qui
una compulsione ansiosa a prendere le distanze, la quale, a ben vedere,
crea solo dukkha, ancora una volta. E naturalmente è solo quando ab­
biamo colto e visto fino in fondo questa sofferenza, la sofferenza gene­
rata dalla paura della pratica e dei suoi effetti, è solo allora che la pratica
potrà cominciare ad afferrarci, rivelandoci la sua religiosità, rivelandoci
la nostra religiosità, e rivelandoci, infine, la religiosità di tutto, senza
esclu sione. E questo, anche se realizzato in modo intermittente e non
senza ricadute varie nella confusione e nella paura, ci porta molta grati­
tudine per il Dharma.
11

Spiritualità buddhista laica


in Occidente

l. Tra il 1970 e il 1971 ebbi modo di studiare e praticare il Dharma


sotto la guida di Shunryu Suzuki Roshi a San Francisco. Egli, rifacendosi
alla differenza tradizionale che c'è nelle civiltà buddhiste asiatiche tra il
laico e il monaco, ci diceva: "Voi non siete monaci, ma non siete nemme­
no laici; voi, che dimostrate un interesse per il lavoro interiore, per la me­
ditazione, il che è inconsueto nel concetto tradizionale buddhista di laico,
rappresentate un nuovo tipo di persona che pratica il buddhismo". Nei
paesi del sud-est asiatico il laico, spesso, anche se non sempre, si presenta
come una figura di sostegno, laterale, che pratica sila, la virtù, dana, la ge­
nerosità, ma non pratica samadhi, la meditazione, o lo fa solo in modo
occasionale, per esempio nei giorni delle osservanze e lascia il grosso del
lavoro spirituale al monaco. Quindi, la possibilità di impegnarsi da laici
in un cammino interiore meditativo si può definire un fatto nuovo che sta
emergendo col fiorire del buddhismo in Occidente.
Le mie considerazioni riguardano quello che ho visto come laico occi­
dentale, soprattutto nello scenario della meditazione buddhista Therava­
da del satipatthana o vipassana, così come è stata impostata in Occidente
in quella che può chiamarsi una sorta di 'casa madre', l'lnsight Medita­
tion Society di Barre in Massachusetts, dove l'insegnamento è impartito
ispirandosi a due tradizioni: quella birmana di Mahasi Sayadaw e quella
tailandese del 'Dhamma della Foresta', facente capo all'insegnamento di
Achaan Chah. Gli insegnanti di questo centro internazionale sono pre­
senti anche in centri europei quali Gaia House in Inghilterra, il Dhamma
Groppe in Svizzera e l'A.ME.CO. (Associazione per la Meditazione di
Consapevolezza) a Roma. Tenendo presente questo scenario, desidero fa­
re alcune considerazioni sulla figura del laico praticante.

2. È difficile, in Occidente, che uno sia buddhista per abitudine o per


nascita. Di frequente, avviene che si provenga da un cristianesimo vissuto
m maniera convenzionale, superficiale, e, aderendo al Dharma, non si

vuole ripetere quell'atteggiamento. Pur sapendo, magari, che tale atteg­


giamento non è intrinseco al cristianesimo, bensì a certi modi di viverlo e
di assorbirlo. Di conseguenza, rivolgendosi a questo messaggio nuovo, le
persone vi si dedicano facilmente con un maggiore slancio, con una moti­
vazione maggiore e sincera, la quale, per una serie di ragioni, non viene
influenzata dalla mentalità, che si può trovare in Asia, dell'accumulare
merito { " io sostengo un monaco e ciò mi darà il merito sufficiente per
una buona rinascita" ) , la yuale mentalità attiva facilmente, nell'occidenta­
le, ricordi di 'indulgenze plenarie' e simili.
Oltre alla motivazione in generale, si nota poi, in questo nuovo scena­
rio, una certa apertura generosa nei confronti della meditazione intensiva,
ossia della pratica di ritiri brevi e lunghi. Si vedono diversi laici che nella
loro vita, a poco a poco, fanno spazio a queste esperienze, il che implica
un importante elemento religioso: la rinunàa. Per fare spazio alla pratica
meditativa intensiva, infatti, bisogna rinunciare a parecchio tempo libero,
a molti giorni di ferie, a lavori troppo impegnativi, a successi professionali
che richiederebbero un grosso investimento di tempo e d i energia. Da os­
servare un elemento specifico della rinuncia laica, che è quello 'strappo',
piccolo o grande, che il laico sente ogni volta che deve lasciare la famiglia
e andare in ritiro. Il monaco che vive e fa ritiri nel medesimo monastero
non conosce questa 'sindrome dello strappo'. Qualcuno una volta mi disse
che, se la situazione familiare è disastrosa, può essere un vero sollievo par­
tire per un ritiro; ma se questo è vero per quanto riguarda il partire, dopo,
durante il ritiro, la situazione difficile emergerà drammaticamente.
Un'ulteriore caratteristica che possiamo sottolineare è quella della mo­
bilità di apprendimento. Anche questa caratteristica differenzia il nuovo
tipo di laico praticante dal laico tradizionale asiatico, per lo più facente
capo, per l'apprendimento, a un unico monastero. È facile, invece, nel
nuovo contesto spirituale odierno, che il laico occidentale si sposti per ri­
cevere insegnamenti, per fare ritiri e corsi, da una città a un'altra, da una
nazione a un'altra, da un continente a un altro: dall'Asia all'America,
dall'Oceania all'Europa. Questa mobilità può comportare il pericolo di
eclettismo, ma offre anche possibilità reali di arricchimento nell'appren­
dimento del Dharma. Motivazione, pratica intensiva e rinunàa, mobilità di
apprendimento, sono dunque le caratteristiche che si possono osservare in
questa nuova figura di laico, un laico che prende molto sul serio le quat­
tra nobili verità.

3 . Possiamo concepire un salto ulteriore, uno sviluppo di questo mo­


dello di laico spirituale? Sì, io penso che esso si possa sviluppare ulterior­
mente in direzione di qualcosa che possiamo chiamare essere monaci nel
mondo. Questa espressione non significa prendere voti monastici - an­
che se privatamente la persona può farlo -, ma indica la possibilità per il
laico, un anno dopo l'altro, di diventare una testimonianw vivente delia
possibilità che il Dharma sia la prima e auoluta priorità nella propria vita.
Questo chiamerei un monaco, una monaca nel mondo, vale a dire un
esempio convincente del Dharma divenuto priorità reale. La parola 'mona­
co' etimologicamente viene da monos, cioè uno, nel senso di unificato
dentro, di raccolto interiormente il più possibile e da monos nel significa­
to di solo, ossia separato il più possibile dalle tendenze negative, da quel­
le afflizioni mentali, i kilesa, che rendono la vita sofferente; ma non nd
senso di isolato. Di recente Thich Nhat Hanh ha splendidamente tradot­
to e commentato due Sutta cruciali del Buddha, il Bhaddekarattasutta e il
Theranamosutta, che spiegano cosa si debba intendere veramente per 'so­
litudine del monaco' (Thich Nhat Hanh 1990a). Essa è soprattutto una
capacità interna, un 'inclinazione a essere il più unificati possibile, il più
separati possibile da quello che è contaminazione mentale, e di conse­
guenza l'essere capaci di vivere nel presente e nell'intensità del presente.
Questo ideale monastico non è esclusivamente legato al monastero, è an­
che una possibilità per il laico motivato e rinunciante.

4. Che cosa possiamo fare per aiutare ulteriormente questo processo


di spiritualizzazione del laicato buddhista? Direi tre cose: la prima è l'in­
cremento qualitativo e quantitativo della cultura dharmica, della cultura
spirituale. Un aumento di qualificazione e di quantità di centri di Dhar­
ma urbani e residenziali, di qualità e quantità dei monasteri e dei centri
di ritiro, di quantità di pubblicazioni e traduzioni sempre più 'qualificate
spiritualmente', che è diverso da 'qualificate accademicamente'.
Penso che debba essere sempre più incrementata una cultura laica spi­
rituale che possa servire a chi pratica, agli addetti ai lavori, mentre la cui­
tura ufficiale talvolta può non essere interessata. Possiamo ricordare san
Paolo là dove egli scrive che la sapienza di Dio può suonare come follia
presso la sapienza degli uomini (Prima lettera ai Corùni, ll, 14). Quindi
non è tanto facile il matrimonio tra cultura dharmica e cultura accademi­
ca, la cultura ufficiale. Quel che è possibile fare è bene farlo; per il resto,
è opportuno fondare una cultura spirituale dharmica che si tenga in piedi
da sola e che susciti il rispetto e Ia considerazione soprattutto di chi se ne
avvantaggia per la pratica. ll secondo punto è rappresentato dallo scam­
bio tra laici praticanti e monaci praticanti. Questo è un altro dei vantaggi
portati dalla trasmissione del Dharma in Occidente. TI monaco in quanto
monaco non suscita un particolare interesse. Al contrario, suscita giusta­
mente un particolare interesse il monaco seriamente praticante, perché
fonte di ispirazione e istruzione. La vicinanza di praticanti laici e monaci
rapp resenta un importante aiuto per la crescita Jel laico; e non è detto
che questo scambio sia in una sola direzione, cioè dai monaci ai laici.
Talora poi lo scambio può andare dai laici ai monaci. Faccio un esem­
pio: ogni anno l'Insight Meditation Society organizza un ritiro di tre mesi
condotto da insegnanti laici. Da qualche anno a questa parte c'è nella sa­
la da pranzo di questo istituto un lungo tavolo riservato ai monaci. Lo
scorso autunno a quel tavolo si vedevano mdnaci Theravada, monaci Zen
e monaci cistercensi: un inno all'interreligiosità vissuta nella pratica e
un'interessante apertura ai laici, dato che questi monaci praticavano sotto
la guida di insegnanti (uomini e donne) laici. Per quanto riguarda il The­
ravada, abbiamo la fortuna di avere in Europa, sempre più fiorente, il
'Sangha della Foresta' secondo il lignaggio di Achaan Chah, diretto da
Achaan Sumedho nel mondo occidentale e in Italia da Achaan Thanava­
ro. ll 'Sangha della Foresta' è un'espressione entusiasmante di un
buddhismo monastico che riesce a essere estremamente rigoroso nell'ade­
sione ai principi del Dharma e, al tempo stesso, estremamente aperto ad
altre scuole di buddhismo, ad altre religioni, ai laici.
Un'area importante della pratica - il terzo punto che volevo menzio­
nare - è quella che comincia dal momento in cui uno si alza dal cuscino
di meditazione. Siamo tutti d'accordo che la pratica deve essere onniper­
vadente, che non ci deve essere un compartimento stagno tra la pratica e
la vita; però, in qualità di insegnante, ho constatato lungo gli anni che, in
parte, la pratica in azione, la pratica informale, va un pochino inventata,
verificata e seguita in 'laboratori meditativi'. Occorre cioè concepire e svi­
luppare modalità di applicazione nella vita quotidiana della consapevolez­
za, dell'equanimità, dell'investigazione e poi verificarle insieme. Posso di­
re tranquillamente che una delle cose che mi colpisce di più come inse­
gnante-guida dell'A.ME.CO. è aver visto e continuare a vedere, un anno
dopo l'altro, come maturino i resoconti di pratica informale da parte dei
meditanti. A volte succede che una riunione di sangha è tale che ognuno
ha qualcosa da insegnare agli altri, e questa mi sembra una cosa buona e
promettente. Vedere piccole verifiche della frase del Buddha: "Vi parlo
di qualcosa che è possibile, o bhzkkhu, perché se non fosse possibile non
ve lo direi" (AN 2, 19), è incoraggiante e non poco.
Normalmente si parla della formazione dei monaci, ma io penso che
occorra porre la questione della formazione dei laici. Qual è, per esempio,
il noviziato dei /aia? Nella 'tradizione della foresta' il noviziato dei mona­
ci prevede che i primi cinque anni si passino con il monaco che è indica­
to come maestro. Questa è la regola per i monaci, ma nel caso dei laici
che si fa? Le soluzioni spesso sono vaghe: alcuni fanno ritiri e leggono li­
bri; tutto ciò è ottimo, ma non è ancora una formazione, bensì, è quella
che in inglese si chiamerebbe snifling phase, fase di annusamento. Essa
non può durare decenni; a un certo punto, dopo aver annusato, bisogna
'mangiare', in altri termini cominciare una formazione. Questo è un pro­
blema da porsi e intorno al quale scambiarsi idee e informazioni. Molta
della pratica che ci è tramandata è nata nei monasteri e in contesci di riti­
ro. Se noi desideriamo una pratica veramente radicata nella vita quotidia­
na dell'odierna civiltà occidentale, dobbiamo pensare cose nuove pur re­
stando nell'alveo del Dharma. In certi paesi (Stati Uniti, Inghilterra) si
comincia a porre il problema della selezione, della formazione degli inse­
gnanti di meditazione. Ora non dico che questo non sia un problema rea­
le, ma a me sembra un problema di secondo piano: infatti il problema
primario è quello, appunto, della formazione dei meditanti. Insegnanti di
vt'passana potranno emergere solo da una base numerosa di laici ben for­
mati, come succede in altri campi. Ad esempio, se noi cercassimo un
buon docente in campo scientifico, ci rifaremmo a quelle università e isti­
tuti che formano gli studenti meglio preparati. Non si capisce perché do­
vrebbe essere differente in campo spirituale.

5 . C'è qualche altra cosa che dobbiamo tener presente per favorire
questo modello di laico spirituale? La psicoterapia, se ben usata e ben
fatta, è un mezzo molto utile, che aiuta il processo di crescita spirituale.
Se è fatta male e se è intesa male succede il contrario: genera psicologi­
smo, porta la persona a psicologizzare la pratica e questo non aiuta, di­
venta anzi un ostacolo. Le persone, invece di perdere la fascinazione per
l'io, per l'autoriferimento, finiscono con l'essere ancora più inchiodate
all'autoriferimento, a essere affascinate dai contenuti mentali e non dal
contenente, cioè dalla consapevolezza, che è quella che va sviluppata.
Talvolta il meditante che va in terapia finisce col lasciare la meditazione,
perché si accorge che essa non è ciò di cui aveva bisogno in quel momen­
to della sua vita. Altre volte - succede in molti casi - una buona psico­
terapia aiuta lo sviluppo della meditazione, e, a sua volta, la meditazione
favorisce l'approfondimento della psicoterapia_
n 'buddhismo impegnato' è anch'esso un'arma a doppio taglio; se è
soltanto un altro nome per definire l'attivismo sociale, senza alcun reale
interesse per la pratica buddhista, allora non lo stiamo usando corretta­
mente. Se invece è un modo di rendere più viva e autentica la nostra
compassione abbracciando tutto il pianeta, allora ben venga ed è un altro
aiuto. Anche l'interreugiosità - in Italia, in particolare, il dialogo tra
buddhismo e cristianesimo - è un'arma a doppio taglio, perché è possi­
bile, nel suo nome, affogare in un eclettismo paralizzante; d'altra parte, se
ben intesa, essa può essere un appoggio alla pratica, un vantaggio. Nel
corso di un ritiro di pratica buddhista può capitare che una persona rien­
tri fruttuosamente in contatto con un'educazione cristiana che sembrava
passata e lontana. Le persone che dopo anni di pratica meditativa sento­
no di nuovo il desiderio di pregare, possono rendersi conto che lo stanno
facendo per la prima volta con gioia. Il buddhismo è la religione della
'abilità nei mezzi salvifici' ed esso stesso, in ultima analisi, è un upaya, un
mezzo, paragonato dal Buddha a una zattera per attraversare il fiume. La
zattera ci deve servire per attraversare il fiume della sofferenza, non ci è
data per dipingerla, contemplarla e continuare a starcene fermi sulla riva.
In questo senso tutto ciò che aiuta a passare il fiume è upaya, è buono.
Naturalmente nell'interrehgiosità è fondamentale avere una lingua
principale. Bisogna parlare bene una lingua, ma averne una seconda a
portata di mano può essere molto utile per approfondire quella spiritua­
lità laica di cui stiamo parlando. A volte si trovano persone che, anche se
praticano da tempo. pronunciando il rifugio nel Buddha. nel Dharma. nel
Sangha, non sentono un coinvolgimento totale, mentre se dicono: "Pren­
do rifugio nel cercare solo Dio " , sentono che la loro motivazione si ci­
compatta subito. Questa a me sembra un'ottima cosa.

6. Riepilogando e concludendo: c" è un laicato nell'ambito del buddhi·


smo Theravada che emerge e che sembra particolarmente motivato e in­
teressato alla pratica intensiva (quindi con elementi di rinuncia religiosa),
che è connotato da mobilità di apprendimento, che può approfondire
tutto questo attraverso lo scambio con monaci praticanti, un rafforzamen­
to della cultura meditativa, un approfondimento della pratica in azione, e
che si può giovare di psicologia, buddhismo impegnato e interreligiosità.
Quale può essere un criterio fondamentale che ci aiuti a decidere se tutto
questo insieme possibile di mezzi è produttivo per il nostro cammino in­
teriore? lo credo che sia questo: noi dobbiamo constatare che questi stru­
menti accendono sempre più distintamente in noi quello che, con uno
splendido e sintetico termine del buddhismo Mahayana, si chiama il
bodhicitta, 'la mente del risveglio', l'aspirazione compassionevole alla libe·
razione. Mentre i modi errati di praticare e di studiare riducono o spen­
gono il bodhzàtta o il sammasankappa, l'aspirazione giusta, l'intenzione
giusta. Un ideologismo argomentativo, un tecnicismo meditativo, uno psi­
cologismo, un eclettismo religioso, rischiano di spegnere o di ridurre
quella che è la dimensione spirituale specifica, che è il bodhicitta, la colti·
vazione e l'accensione costante dell'aspirazione alla liberazione per noi e
per gli altri. Questo deve essere secondo me il criterio per giudicare se
stiamo approfondendo questa nostra spiritualità laica oppure no. Il
bodhiafta è così definito, nella sua preziosità, da un testo Mahayana, la
Ratnolkadharani (cit. in Bendali 1 97 1 , p. 3 ) : "Questa aspirazione, se non
si spegne, terrà sensi e mente acuti e chiari e sarà nostra guida, sarà no­
stra protezione e accrescerà tutte le virtù" .
12

Fede e consapevolezza

l . La parola fede è qui intesa nel suo significato forte e cioè 'slancio
verso l'indicibile' come la definisce il Dhammapada,t o 'passione per l'in­
fruito', secondo la definizione che, in campo cristiano, ne dà Pau! Tillich
(Tillich 1957, p. 2 1 ) . Evidentemente questa accezione del termine fede ha
molto poco a che fare col significato debole della parola, che è quello di
credenza, o attaccamento a un insieme di opinioni. Tillich fa notare che è
difficile trovare nel linguaggio religioso una parola soggetta a più frain­
tendimenti e distorsioni della parola fede. Questa parola, aggiunge Tillich,
appartiene a quei termini "che harmo bisogno di essere sanati prima di
poter essere usati per sanare gli uomini. Oggi il termine 'fede' produce
più male che salute. Confonde, fuorvia. crea scetticismo o fanatismo, resi­
stenza intellettuale o abbandono sentimentale, rifiuto della religione vera
e propria o asservimento ai suoi surrogati" (ivi, p. 1 3 ) . A tal punto -
conclude Tillich - che si sarebbe tentati, se fosse possibile, di buttare a
mare il termine.
Ora a me sembra impanante tentare di contribuire alla guarigione del
termine fede, ossia tentare di comprenderlo meglio alla luce della pratica
meditativa e in virtù della riflessione religiosa. Infarti la parola fede, al di
là di tutta la sua carica di ambivalenza, una volta restituita alla sua sacra­
lirà, cioè una volta guarita, è parola potente, Ed è anche uno di quei ter­
mini che più e meglio di altri designano il fondamento specificamente
spirituale della pratica, aiutando così a non cadere in quella tendenza al
riduzionismo psicologico che non è infrequente in ambiti meditativi.
E allorché si recupera il termine fede nel suo valore profondo, non so­
lo non è più fuorviante, ma, al contrario, io credo che esso giovi a capire
meglio il cammino e la meta. Naturalmente fede in questo senso forre di
fede primaria, assoluta, non sarà fede in questo e in quello, in questa dot-

1 DP, 2 1 8 chandajato anakkhate.


trina, in quel concetto, in una certa opinione, in quel tale individuo. È,
piuttosto, fede radicale, senza oggetto e senza nome. È una conoscenza in­
tuitiva che il male è forte ma non è il più forte; che la sofferenza è uni­
versale ma non è l'ultimo orizzonte. Questa comprensione intuitiva è fe­
de, è fiducia: una fiducia ampia che fa da sfondo a quell'alternarsi di pic­
cole fiducie e piccole sfiducie che scandisce le nostre giornate; una fidu­
cia che è fonte della forza più grande che ci è dato di immaginare: la for­
za di saper vivere e la forza di saper morire. Perciò il contrario di fede
non è miscredenza. Miscredenza, infatti, è soltanto un insieme di opinioni
di segno contrario a quelle che costituiscono una credenza. li contrario di
fede è invece paura: paura di vivere e paura di morire, mancanza di fidu­
cia nella vita e mancanza di fiducia nella morte. E ancora: il contrario di
fede sarà sfiducia in noi stessi e sfiducia negli altri.
Naturalmente non si vuole qui negare la validità della credenza in una
dottrina religiosa, che sia la buddhista, la cristiana e via dicendo. Diciamo
soltanto che tale credenza, per avere una qualità veramente religiosa, de­
ve essere appoggiata sulla grande fede di cui abbiamo parlato. In tal caso,
come è stato detto dal benedettino Steindl-Rast, "terremo la nostra cre­
denza fermamente ma con mano leggera" ,2 senza attaccamento, senza
dogmatismo o arroganza.
Ma se, come non di rado è il caso, la credenza non è circondata e sor­
retta dalla fede viva, allora facilmente essa diventa appiglio per la nostra
paura, sarà tenuta con mano avida e, in definitiva, sarà solo un'altra
espressione dell'egoismo e del desiderio di aver ragione, un'altra e più in­
sidiosa manifestazione dell'attaccamento: cioè esattamente di quel veleno
nei confronti del quale la religiosità dovrebbe essere l'antidoto per eccel­
lenza! Perciò la credenza da sola, senza fede, separa. Mentre la fede, con
o senza credenza, unisce comunque; e non è certo un caso che persone di
fede con credenze molto diverse si sentano profondamente unite.

2. Adesso conviene domandarci quale relazione esiste tra la pratica di


consapevolezza meditativa (vipassana) e questo tipo radicale di fede, tra
la pratica dell'attenzione-consapevolezza e questa sollecitudine fonda­
mentale. La relazione tra le due cose c'è ed è molto importante: infatti la
pratica (meditazione formale, ritiri, consapevolezza nella quotidianità) de­
ve generare fede. Ossia deve generare una forza intima di base che ci aiuti
a capire meglio, ad agire meglio, a soffrire meglio, a prenderei cura me-

2 Steindl-Rast 1984b, p. 198. Inoltre, sulla fede così intesa si possono vedere,
in questo stesso volume, i seguenti capitoli: "Desiderio e sofferenza: riflessioni
psicologiche e interreligiose", "Equanimità e retta intenzione", "Il lavoro interiore
costante: una prospettiva intcrrcligiosa" .
glio. Ma - si potrebbe domandare - la pratica della vipas.sana o consa­
pevolezza non mette forse più l'accento sui valori della presenza mentale,
del non attaccamento e del discernimento? Io direi che questi sono certa­
mente i valori più sottolineati e palesi, mentre la fede (Jaddha), pur aven­
do un riconoscimento esplicito in quanto uno dei cinque poteri spiritua­
li,> rimane in generale un valore più implicito e meno di spicco.
Tuttavia, per rendersi conto di quanto esso, d'altra parte, sia fattore
importante e costantemente necessario, anche se nascosto e sotterraneo,
basta chiedersi questo: se non c'è almeno un germoglio di fede, come
posso prendere sul serio la proposta del non attaccamento? Come potrei
lavorare seriamente a lasciare andare l'attaccamento alle mie abitudini
mentali, alle mie reazioni, se in qualche modo non mi sentini oscuramen­
te sorretto, se non percepissi oscuramente che ne vale la pena? Se non ca­
pissi oscuramente che il superamento dell'io è più utile dell'io? Possiamo
forse dire di più: se non c'è questa intuizione oscura della fede io non so­
lo non riuscirò a distaccarmi, ma non comprenderò nemmeno di cosa si sta
parlando, e il non attaccamento mi apparirà come un'astrazione o una
presunzione o una sciocchezza o una cosa che comunque non mi riguar­
da e non mi interessa.
Insomma, per avviarsi verso il trascendimento dell'io o non attacca­
mento occorre una qualità - la fede come 'slancio verso l'indicibile' -
che esuli dagli abituali valori egoici. Giacché l'io comunemente inteso
non può, per costituzione, capire il non attaccamento. Verrebbe da dire
che l'io tutto può capire fuorché la necessità di togliersi dai piedi. E se
non si rischiasse di confondere le idee si potrebbe anche dire che l'altra
faccia della fede radicale è, con apparente paradosso, il sospetto fonda­
mentale. Sospetto circa i valori dell'io: i quali, infatti, vengono progressi­
vamente messi in crisi dall'avanzamento nel cammino interiore.
I valori dell'io ci convincono sempre meno, e ci convince sempre più
'qualcosa' che la fede radicale non ha curiosità di chiamare in questo o in
quel modo, secondo questo o quel concetto. I concetti sono guide impor­
tanti e indispensabili, ma possono trasformarsi in seduzioni e pietre di in­
ciampo. È bello, in proposito, ricordarsi di Ulisse e dei suoi compagni
che fanno in modo di tirare dritto davanti alla seduzione delle sirene,
consapevoli e fiduciosi che l'importante è continuare il viaggio, la ricerca:
una buona metafora per la fede e per la pratica.
Evidentemente una fede così intesa è molto diversa da una credenza
che uno si tiene in serbo e accarezza di tanto in tanto come se fosse un
portafortuna. E io penso che l'identificazione tra credenza e fede sia re-

.l Cfr. per esempio Nyanatiloka 1972, pp. 30, 67. Su saddha dr. anche Carter
1978, pp. 99 sgg.
sponsabile di quella contrapposizione tra ragione e fede che ancora pesa
sulla nostra cultura: da una parte la ragione lucida e chiara, dall'altra la
fede balbettante e lacrimosa. E se invece la fede vera non avesse molto a
che vedere né con la capacità di pensare bene né con la capacità di com­
muoversi? E se fosse, invece, un impulso al vero e al buono infinitamente
più spoglio di immagini, sentimenti e concetti? E se avessimo, infine, bi­
sogno di una pratica che, facendo disseccare la nostra incessante fermen­
tazione mentale, creasse in noi lo spazio interno, la capienza, per fare
emergere e accogliere questa spinta trainante e orientante della fede-com­
prensione?

3. Certo, noi potremmo applicarci con grande fervore alla pratica e


poi scoprire che quello che ci muove è solo ambizione spirituale. A oc­
chio nudo il fervore di ambizione e il fervore di fede possono apparire si­
mili. A ben guardare, invece, le due cose vanno in direzioni opposte, per­
ché la pratica ambiziosa rafforza l' egoità, e dunque ci rende più ansiosi e
più confusi, mentre praticare secondo fede è camminare verso uno spazio
meno angusto. Di qui l'accento sulla fede anche in ambiti dove la fede
non ha, apparentemente, un posto centrale. Pensiamo per esempio al
grande Dogen quando definisce la pratica fedele e impeccabile dello Zen
come "l'illuminazione prima dell'illuminazione" ,-1 dando così una lapida­
ria spiegazione della fede.
ll cercare secondo fede è un cercare gratuito, che tende a perdere pro­
gressivamente idee, immagini e aspettative su ciò che si deve trovare. In­
fatti, se abbiamo idee precise e definite su ciò cui la nostra ricerca deve
approdare, allora è segno che non siamo ancora sospinti da fede vera e da
vera consapevolezza. Se sono mosso da fede matura, praticare è un fatto
organico, è come mangiare o respirare: pratico per praticare, pratico per
vivere, per cercare la vita. Mi è stato riferito che in un intensivo di medi­
tazione Zen per cristiani il maestro giapponese, rivolgendosi a un monaco
cristiano durante un dialogo, gli abbia chiesto: "Fratello, dicci Dio, che
cos'è Dio?". E il religioso, rispondendo in stile Zen e dando una lucida
definizione di fede: "E qualcosa che non si riesce a prendere e che non si
riesce a lasciare".
Dunque la pratica giusta è imparare a stare fermi, come si può stare
solo se abbiamo imparato ad attendere - e le parole attendere e atten­
zione sono collegate - senza aspettare niente. Attendere attentamente,
senza aspettare niente: ecco l'illuminazione prima dell'illuminazione, la
fede. E, a ben pensarci, qualsiasi altro modo di praticare ci porta via dal

4 Cfr. per esempio Cook 1978, pp. 16 sgg. Tanahashi ha curato una bellissima
antologia dd non facile Dogen ( 1 985).
momento presente. Ma la vita che cerchiamo è qui ora, la vira avviene so­
lo nel presente: anche se io ricordo il passato o se spero il futuro, è ora
che scocca il ricordo, è adesso che spunta la speranza. E non è puJJtbile
abitare nel presente se non c'è fede."� Perché se non c'è fede c'è paura e se
c'è paura non possiamo stare nel presente, scappiamo continuamente nel
passato o nel futuro. La fede è fiducia nel momento presente, fiducia che
quanto più stiamo nel presente, tanto più andiamo in profondità. La fede
matura è tranquilla dimestichezza col presente. La pratica meditativa de­
ve nascere da fede e deve generare fede, fede nella possibilità di andare
oltre l'attaccamento. L'attaccamento è il passato e il futuro, è l'ego, la fe­
de è oltre, cioè è qui e ora.
E la pratica non potrà che essere allenamento progressivo a stare dove
siamo: se siamo contenti vedremo di stare nella contentezza il più sempli­
cemente possibile, se siamo nella difficoltà vedremo di non chiuderci, di
non irrigidirei. Insomma: la fede è attivamente accettare, momento per mo­
mento, ed è sapere OJcuramente che questo serve, è buono, è utile. Perché
se noi non abbiamo questa conoscenza intuitiva che accettare giova
profondamente, la nostra non sarà accettazione reale, ma solo sofferenza
rassegnata sotto un altro nome. La fede è intuire che questo paziente cor­
teggiamento del presente, che è così vicino e così lontano, è la via per es­
sere liberi.

4. Se guardiamo alla definizione appena data di fede come accettazione


attenta ci rendiamo conto che potrebbe essere anche una definizione di
consapevolezza. Ma è giusto usare i due termini di fede e consapevolezza
come se fossero quasi intercambiabili? Certamente e assolutamente no
qualora avessimo in mente il significato più corrente della parola fede. Se
invece si tratta, come sempre in questo scritto, di fede 'forte', allora l'affi­
nità tra fede e consapevolezza mi pare evidente, a patto che ci si riferisca a
una pratica meditativa di una cena maturità. In questo caso, infatti, fede e
consapevolezza si richiamano a vicenda e operano in congiunzione.
Possiamo inoltre aggiungere che l'uso dei due termini nella forma 'fe­
de-consapevolezza' aiuta a concepire la fede in chiave di risveglio guariti­
ve, evitando così gli innumerevoli e grandi equivoci che circondano la pa­
rola e giova, insieme, ad afferrare la profondità del termine consapevolez­
za, che, altrimenti, rimane sempre esposto al rischio di essere inteso come
generica capacità di stare attenti; mentre tale capacità, col tempo, deve
maturarsi in una forza orientata al bene, forza che in qualche modo è fe·
de. Non è un caso che, nel campo della pratica, talora succeda questo,

5 Sull'irnponanza del momento presente si può vedere il lucido capitolo 5 di

Wilber 1981.
che persone di vera fede e di credenze lontane dal buddhismo, intrapren­
dano la meditazione di consapevolezza e in breve tempo facciano molto
progresso. Come pure non sembra casuale che, all'inverso, praticanti con
un retroterra completamente laico una volta giunti a una certa profondità
di pratica, sentano una forte devozione-fede generalizzata. E se l"oggetto'
di questa fede è il Dharma, esso è ora, nella sua vastità interiore, abba­
stanza irriconoscibile rispetto a quel Dharma cui essi inizialmente dettero
qualche fiducia 'operativa'.

5. Accostiamoci ora di nuovo alla pratica dal punto di vista tecnico.


Sappiamo che la base è l'attenzione al respiro, che ha il vantaggio di esse­
re un sostegno semplice e costante. ll livello base di questa tecnica è
quello di essere concentrati, il più continuativamente possibile, sulle re­
spirazioni che si avvicendano. Oltre a questa modalità di fondo ce ne so­
no altre. Una particolarmente sottile e formativa è l'occasionale esercizio
della consapevolezza sulla motivazione, che ci riconduce al respiro tutte
le volte che lo perdiamo.
Se noi ritorniamo al respiro perché abbiamo paura di sentirei frustrati
alla fine della seduta o perché, siccome abbiamo avuto successo in tutto
nella vita, dobbiamo avere successo anche in questa pratica oppure per­
ché, non avendo avuto successo in nulla, dobbiamo almeno avere succes­
so in questa cosa, tutte queste sono motivazioni anguste, che possono fa­
cilmente affacciarsi in una fase iniziale della pratica. Però se permangono
e sono le uniche, ciò indica che la dimensione della consapevolezza-fede
non è ancora emersa; e quindi sarà ancora assente la spaziosità equanime
che favorisce la capacità di comprendere. Ora noi possiamo diventare dei
virtuosi dell'attenzione al respiro, ma se non tocchiamo questa spaziosità
abbiamo mancato il midollo della pratica. Ci sono persone che hanno in
dote una forte capacità naturale di concentrazione e che in non molto
tempo riescono a stare col respiro senza troppa difficoltà.
Ma non è affatto detto che a questo rapido sviluppo della tecnica di
concentrazione corrisponda un'altrettanto rapida crescita interiore. Al
contrario, ci sono praticanti che hanno una capacità modesta di concen­
trazione e perfino dopo diversi anni di pratica diligente hanno difficoltà e
che, tuttavia, nd frattempo, si ritrovano ad aver sviluppato virtù fonda­
mentali dell' ottuplice sentiero. Dunque, la concentrazione è uno strumen­
to il cui uso e i cui effetti dobbiamo pazientemente imparare a capire, al
di là di indebite generalizzazioni. Tecnicamente, non c'è dubbio che il
passaggio fondamentale è il passaggio dall'aderire al respiro al guardare il
respiro. Ossia passare dall'esercizio di mantenere la coscienza dell'avvi­
cendarsi dei respiri, alla capacità di guardare le varie qualità del respiro e
le varie sensazioni a esso collegate (Nanamoli Thera 1973; Buddbadasa
1976). Questa capacità presuppone il raggiungimento, appunto, di una
certa spaziosità. Tale spaziosità rende capaci di guardare ed è fondamen­
tale, giacché, quando ho imparato l'arte di guardare il respiro, non sarà
troppo arduo allargare progressivamente la sfera dell'attenzione meditati­
va fino a includervi tutto ciò che attimo per attimo si affaccia alla co­
scienza, cioè le varie sensazioni fisiche e i vari contenuti mentali. Anche
qui è evidente la funzione di una raggiunta spazìosità e dunque ricettività:
se non l'abbiamo e cerchiamo di praticare questo tipo globale di attenzio­
ne, la cosa durerà poco, perché sarà come uno stancante correre di qua e
di là a caccia dei vari oggetti che emergono dentro di noi.
Ulteriori passaggi richiedono grande motivazione e la possibilità di es­
sere ben guidati. Ci riferiamo sopranuno a due approfondimenti: (a) il
primo è la fioritura della consapevolezza nella vita quotidiana e (b) il se­
condo è la percezione che l'attaccamento e l'avversione governanti le no­
stre vite ci radicano in un disagio continuo e che, a causa della nostra
confusione-ignoranza, noi non sappiamo nemmeno che l'attaccamento­
avversione è la fonte della sofferenza o lo sappiamo in un modo troppo
superficiale.
Né vediamo, a causa dell'ignoranza, che ci fabbrichiamo un io illuso­
riamente solido e separato, cui corrisponde un mondo altrettanto illuso­
riamente solido e separato. Tale percezione del disagio universale e della
sua fonte, della generale impermanenza e della insostanzialità del nostro
io è di importanza risolutiva, dato che più si acuisce, più scalza le radici di
attaccamento, avversione e ignoranza; ed è direttamente proporzionale, tra
le altre cose, al grado di onnipetvadenza che la consapevolezza ha toccato
nella vita di un individuo. Come dire che quanto più continuo e prolun­
gato si fa il guardare, tanto più probabile diventa il vedere 6 Ora, accioc­
ché questa percezione (cosa assai diversa da nozione) possa nascere e svi­
lupparsi, è essenziale che la pratica sia il più possibile bene impostata. E
qui ritorniamo al nostro discorso sulla fede-consapevolezza, il cui compi­
to e la cui capacità, al fine di ben fondare la pratica, è quello di coltivare
l'arte dell'unione, o arte della non divisione.

6. Che cosa intendiamo con questa espressione? Se volessimo andare


per le spicce diremmo che l'arte dell'unione è una profonda comprensio­
ne del fano che, per la pratica, tutto fa brodo. Ma cerchiamo di vedere
meglio e prendiamo ad esempio un ritiro di meditazione vipassana. In un

6 Comparativamente, è interessante quanto leggiamo nei Racconti di un pelle­

grino russo: "il frequente esercizio ci insegnerà l'attenzione, la quantità condurrà


sicuramente alla qualità. Per arare a far bene una cosa occorre farla il più

n ·\\-. -
·

spesso possibile"' p. 234.


l ,-�
ritiro, così come, in generale, nella pratica, tutti gli stati possibili del no­
stro corpo-mente, salvo malessere mentale grave, sono situazioni necessa­
rie e ottimali per addestrarci. La pratica, e dunque la fede-consapevolez­
za, cresce quanto più impariamo a navigare con tutti i tempi e per impa­
rare a navigare sono necessari tutti i tempi, anche se è naturale preferire il
tempo bello. E certamente in un ritiro ci troviamo davanti a una grande
varietà di stati fisici e mentali.
Ora, nella nostra vita, solitamente se siamo stanchi o in qualche modo
doloranti consideriamo, e giustamente, una situazione del genere non
buona, perché non è favorevole né al lavoro, né allo studio, né al rappor­
to interpersonale, né al divertimento. Mentre invece salutiamo con com­
prensibile favore la sensazione di essere in piena forma. Insomma la gior­
nata buona e la giornata cattiva: questa grande divisione percorre tutta la
nostra esistenza e, inevitabilmente, noi la riportiamo nella pratica e nei ri­
tiri. E qui sta il problema, perché la pratica non deve servire a ripetere e
a rafforzare questa continua spaccatura ma, al contrario, deve servire len­
tamente a sanarla e a superarla. E ciò non nel senso improbabile di far
sparire le giornate cattive, ma, piuttosto, nel senso di aiutarci a cambiare
la nostra reazione davanti al brutto e al bello nelle nostre vite. È ovvio e
inevitabile che noi trasferiamo dalla vita nella pratica una quantità di at­
teggiamenti divisivi che, anche se non lo sappiamo, creano soltanto soffe­
renza. Sennonché la pratica e i ritiri servono in primo luogo proprio a
farci vedere e toccare con mano questa incessante tendenza a dividere e
debbono quindi insegnarci a superarla.
Cosicché, se sulle prime il meditante si ritrova a trasferire dalla vita nel­
la pratica gli abituali e dolorosi atteggiamenti divisivi, col tempo il proces­
so si deve invertire e il meditante dovrà ritrovarsi a infondere nella vita
l'atteggiamento unitivo o arte dell'unione appresa nella pratica. Torniamo
all'esempio del ritiro. In un ritiro, eccetto brevi periodi di lavoro manuale,
non c'è niente da fare se non praticare la consapevolezza da seduti o cam­
minando. È predisposto così appositamente. Dunque non c'è alcuna ragio­
ne per dover essere in forma, per dover essere in un certo modo piuttosto
che in un altro. È assolutamente perfetto, invece, tutto quanto: essere avvi­
liti, avere il mal di stomaco, essere furiosi di rabbia, essere estatici. Perché
un ritiro serve a imparare a lavorare con tutto e serve ad addestrare la
mente a lavorare con tutto. Certo l'avvilimento pesa e l'estasi rallegra.
Questo lo sapevamo già. Quello che in genere non sappiamo è la possibi­
lità di una dimensione nuova, che è il lavoro interiore, ovvero l'esercizio
della fede-consapevolezza: il quale non solo non è impedito o disturbato
dai nostri alti e bassi, come lo sarebbero invece altri tipi di lavoro, ma, al
contrario, usa gli alti e bassi come indispensabile materia prima. Per il la­
voro interiore serve tutto, giacché il suo scopo ultimo è né più né meno
che comprendere la realtà. E il lavoro interiore è l'arte dell'unione, perché
non dividere e non contrapporre è la guarigione, è quel risanamento della
mente che, solo, le può permettere di vedere: "contrapporre ciò che piace
a ciò che non piace è la malattia della mente,. J
A un certo punto, poi, l'esercizio della fede-consapevolezza, una volta
che abbiamo gustato in prima persona la sua facoltà unitiva, penetrativa e
pacificante, tende a oltrepassare beneficamente i confini della pratica for­
male e a investire, come è necessario, tutta la nostra vita. E quando, infine,
il lavoro interiore giunge ad acquistare la priorità assoluta su tutto il resto,
allora possiamo dire che la fede-consapevolezza ha messo radici in noi.

7 Cfr. la sezione su Seng-ts'an in Conze 1959, pp. 151 sg.


13

Il Dharma e la fiducia (I)

L Una certa mentalità moderna, affascinata dalla scienza e dallo scien­


tismo, e in forte polemica anticristiana, vede nel messaggio del Buddha
un sistema razionale e scientifico, che prescinde completamente dalla reli­
gione - concepita come fatto regressivo - e nel quale il ruolo della fede
è assai modesto. Che non si possa presentare il buddhismo in questo mo­
do, razionalistico e senza spazio per la fede, lo vediamo anzitutto se guar­
diamo alla dottrina fondamentale che insegnò il Buddha, la dottrina delle
quattro nobili verità.
È noto che le quattro nobili verità vengono presentate seguendo il mo­
dello medico. Esiste una verità della sofferenza, dell'universale disagio e
insoddisfazione (dukkha) , e questa è la malattia, la prima nobile verità;
esiste una causa della malattia, la seconda nobile verità: in prima istanza
l'attaccamento e l'avversione, in ultima istanza l'ignoranza; si può guarire
dalla malattia, porre fine al dukkha, la terza nobile verità, il nirvana; e c'è
una cura per arrivare al nirvana, il nobile ottuplice sentiero, la quatta no­
bile verità. Secondo la versione razionalista, queste quattro verità sareb­
bero assolutamente autoevidenti e convincenti.
Ma se così fosse dovrebbe bastare il convincersi della loro giustezza per
prendervi rifugio e salpare sulla via della pratica, mentre se noi presentia­
mo le quattro nobili verità a persone di cultura laica ma prive di apettura
religiosa, vediamo che delle riserve potrebbero emergere fin dalle prime
due ed è comunque certo che molte obiezioni verrebbero mosse alla quar­
ta, il cammino interiore, e, ancora di più, alla terza, il nirvana. Quello che
viene definito " ciò che non nasce e che non muore", ossia, l'Assoluto, se si
è completamente sul versante razionalista, può apparire come una fumiste­
ria religiosa, esattamente come può apparire tale il traguardo delle spiri­
tualità teistiche, chiamato "unione trasformante con Dio".
Le quattro nobili verità, quindi, non sono comprovabili obiettivamen­
te. La verità della liberazione, come tutte le verità religiose, è soprattutto
soggettiva. Nell'insegnamento buddhista svolge un ruolo molto preciso la
fede-fiducia, saddha in pali, sraddha in sanscrito, che viene definita come
un' affmità misteriosa, una nostalgia. La presenza di Jaddha fa sì che nel
sentire un discorso sul nirvana, può vibrare in noi un'aspirazione, una mi­
steriosa affinità che ce lo rende significativo, interessante, attraente. Ma
se saddha non c'è, se manca questo interesse fiducioso, il nirvana ci può
facilmente apparire solo come un concetto molto astratto. Un famoso te­
sto Mahayana (Hakeda 1967), parla della fede come di una profumazio­
ne, o penneazione, da parte dell'Assoluto che è in noi. Comunque lo
chiamiamo, Mente Originaria, Buddhità, Natura del Buddha, questo As­
soluto emana un suo profumo in noi - Jraddha, la fede -, attraverso il
quale cominciamo a nutrire da un lato un sereno disincanto nei confronti
del mondo condizionato e, dall'altro, un'aspirazione per il nirvana, l'in­
condizionato.
Questa profumazione rappresenta, dunque, il ponte tra il nostro essere
nel condizionato e il nostro andare verso l'incondizionato. Se c'è questo
profumo dell'Assoluto, la fede, non siamo confinati nel mondo condizio­
nato, ma sentiamo la spinta ad avviarci su un cammino spirituale. Per
questo il Dhammapada, uno dei più antichi testi buddhisti, definisce la fe­
de come 'slancio verso l'indicibile'. Questo slancio inizialmente è indefi­
nito, oscuro, ma poi va approfondito e perfezionato attraverso la pratica,
ed è dunque tutt'altro che statico. Da notare che la probabile etimologia
di sraddha, 'porre il cuore', è molto affine a quella di credere, che viene
da 'dare il cuore' . Col tempo, poi, 'dare il cuore' è divenuto, in Occiden­
te, dare la mente o, addirittura, soltanto la parola. Si è passati così da fe­
de nel senso forte - e nel cristianesimo si parla spesso di una fede come
forza, slancio vivo - a una credenza intellettualistica. Questa è una gran­
de differenza per quanto riguarda la definizione di fede in ambito
buddhista: sraddha, infatti, non esprime una credenza cognitiva (cfr. Er­
gardt 1977), ossia credenza in una nozione, non significa adesione a un
insieme di dottrine e di dichiarazioni.
Leggiamo la forte definizione di fede che dà un maestro Zen, Dainin
Katagiri: "Non dobbiamo fare altro che sederci, tornare al mondo silen­
zioso e alla vastità dd!'esistenza. Questo è sedersi e basta. Anche se non
capite, questo è lo zazen. Poi, quando ritornate, c'è una fiducia totale, fi­
ducia totale perché siete silenziosi. Questa è la retta fede. Fede non signi­
fica credenza. Non potete credere a niente. Retta fede significa che dove·
te semplicemente essere là, immersi nel silenzio e nella vastità dell'esisten­
za. Questa fede è chiamata fiducia" (Katagiri 1988, p. 491.
Nel buddhismo la parola 'fede' indica, quindi, non la credenza in un
contenuto, bensì una facoltà psicologica o spirituale, una virtù vuota di
contenuti specifici, così come la consapevolezza o l'equanimità. La fede è
una capacità, un talento da sviluppare, non un'opinione cui aderire o no; è
porre il cuore, è slancio crescente per il Dharma, slancio che, ovviamente,
conoscerà i suoi alti e bassi. Naturalmente ciò non significa che nel
buddhismo non vi siano credenze, ma quando si parla di saddha, o
sraddha, non si indicano le credenze ma, piuttosto, questo modo di con­
cepire la fede.

2. Un altro aspetto fondamentale della concezione buddhista della fe·


de è che è sempre associata alla saggezza o comprensione. Fede e saggez­
za formano una coppia che si deve bilanciare costantemente, poiché, co­
me dice un testo, "la fede senza saggezza porta all'ignoranza e la saggezza
senza fede diventa opinione distorta". È anche detto che "la saggezza sen­
za la fede degenera nell'intellettualismo, nel pensiero discorsivo senza più
anima" l La fede, quindi, è appoggiata alla saggezza e la saggezza alla fe·
de, anche nd senso che la fede deve poi trovare una verifica nella com­
prensione. Si può, per esempio, avere uno slancio verso l'equanimità, ma
poi occorre anche suscitare la comprensione e la realizzazione dell'equa­
nimità; lo slancio iniziale, prodotto dalla fede, è stato però fondamentale.
La fede perciò è qualcosa di necessario, ma non sufficiente, perché ha bi­
sogno della saggezza, così come la saggezza ha bisogno della fede.
La formtÙazione classica dei Nikaya del buddhismo originario presenta
la fede insieme a quattro compagne, con le quali forma il gruppo dei cin­
que poteri o facoltà spirituali. Questi poteri vengono tradizionalmente ac­
coppiati in modo significativo. La prima coppia è fede e saggezza, la se·
conda calma concentrata ed energia, mentre la quinta virtù, che viaggia da
sola, è l'immancabile consapevolezza. I testi dicono che sati, la consapevo­
lezza, è come il primo ministro che sorveglia tutto quanto accade, o come
il sale, che dà sapore a tutti i cibi. In questo caso garantisce che le altre
due coppie operino e crescano in modo equilibrato. È interessante che
questo quintetto di virtù sia ritenuto in qualche modo una unità compiu­
ta, una specie di task force spirituale completa. Un buon funzionamento
di fede e saggezza, di calma concentrata ed energia e un'onnipresenza di
consapevolezza sembra quindi configurare un completo strumento di
avanzamento interiore.

3. Analizzando ora più da vicino il funzionamento della fede nell'im·


mediatezza della pratica, va notato che sraddha può essere presente anche
quando non è espressamente nominata. Abbiamo già visto il legame che
intercorre tra fede e saggezza, per cui quando si parla di saggezza, anche

1 Così si esprime il famoso maestro coreano Chinul (XII sec.), cit. in Park
1983, p . 17.
se la fede non è menzionata è chiaro che è sottintesa. dato che una cono­
scenza che non la incorpori rischia di essere solo cerebralismo. La fede,
poi, è implicita nella consapevolezza, nella compassione, nel retto sforzo.
Infatti, come è possibile cominciare a coltivare queste virtù se non abbia­
mo una spinta, un'aspirazione iniziale, una nostalgia per qualcosa di di­
verso dalla nostra vita, infelice e frammentata?
Per esercitare la consapevolezza su una frustrazione, ad esempio, noi
avremo bisogno di una qualche fiducia iniziale circa la possibilità e la
fruttuosità di questo lavoro, altrimenti non ci verrebbe certo in mente di
praticare. E, d'altra parte, la fiducia stessa si rafforza in virtù di questo
esercizio di consapevolezza perché la fiducia iniziale, come già accennava­
mo, va poi annaffiata e accudita. È molto importante sottolineare questo
aspetto, perché potremmo supporre che la fede sia una dote riservata so­
lo ad alcune persone, mentre invece, così come la consapevolezza. lo sfor­
zo e la calma concentrata e tutti i fattori del cammino, è qualcosa che si
può coltivare e far crescere. Se vediamo che il prenderei cura del nostro
mondo interiore con il calore accettante e non giudicante della consape­
volezza produce frutto, allora la fiducia cresce. E quando accade che, pur
praticando da qualche tempo e pur non vedendo risultati, tuttavia non ci
dimettiamo e continuiamo a praticare malgrado tutto, allora la fiducia
che sorge in questi casi sarà particolarmente forte. Questo è un nodo fon­
damentale della pratica: è molto importante che nelle fasi di eclissi, in cui
la fiducia che abbiamo riposto nella pratica ci sembra ingiustificata, noi
riusciamo a dare, per così dire, fiducia alla fiducia.

4. Nella pratica noi vediamo come la consapevolezza, ben nutrita e


addestrata con l'aiuto fondamentale della calma concentrata, facilita l'ac·
cettazione e accettazione è un po' come dire equanimità o, quanto meno,
introduzione all'equanimità. Il buddhismo sottolinea, con una chiarezza
esemplare, che l'equanimità è la base sia della saggezza sia della compas­
sione. Senza il nucleo fondante dell'equanimità, infatti, noi non possiamo
avere né reale comprensione né reale compassione.
L'accettazione, poi, genera anche molta fiducia. Questo è un punto
molto importante da sottolineare, perché si potrebbe credere che la fidu­
cia nasca soprattutto dalla gratificazione. In effetti la gratificazione gioca
un ruolo fondamentale. Ad esempio, un bambino che cresca con poche
gratificazioni affettive, tenderà ad avere poca fiducia. Anche in un ritiro
di meditazione è noto quanto sia importante la gratificazione di avere una
bella aula di meditazione, un bell'ambiente naturale intorno, compagni
che aiutano il silenzio, una buona alimentazione. La gratificazione è dun­
que fondamentale al fine di ispirare e nutrire la fiducia.
Ma c'è anche una fiducia che nasce dall'accettazione della mancanza di
gratificazione, ossia dall'accettazione della frustrazione. Si tratta, eviden­
temente, di una fiducia più difficile, però anche più incrollabile. L'arte
del praticare sta proprio nel tenere presente la necessità di una certa con­
tentezza di base, di una fiducia che provenga dalla gratificazione, allo
scopo di poter fronteggiare la frustrazione, sostenere l'accettazione della
frustrazione e aprirsi alla fiducia che viene dall'accettazione della frustra·
zione. Ma se ci aspettiamo di essere capaci di accettare la frustrazione
senza la base di una fiducia derivante da gratificazioni, non siamo molto
realistici; occorre prima che ci sia una sorta di rafforzamento, un rassoda­
mento alimentato da sostegno, da compagni che ci stimano, da una dot­
trina che ci soddisfa.
Mi pare che siamo di fronte a un vero e proprio circuito: sforzo-fru­
strazione-accettazione-fiducia-sforzo. Nelle nostre sedute di meditazione
possiamo scoprire tanti micro-esempi di questo circuito. Facciamo lo
sforzo di stare col respiro ma falliamo: frustrazione. A questo punto
abbiamo la possibilità di accettare la frustrazione oppure di spazientirei e
giudicarci. Se riusciamo ad avere una vera accettazione, un briciolo di
equanimità, questo ci donerà spazio e fiducia e quindi faremo volentieri
lo sforzo di tornare al respiro. Ma se davanti alla frustrazione ci spez­
ziamo, ci giudichiamo male, allora lo sforzo successivo al fallimento sarà
più difficile, perché mancherà nel mezzo l'anello della fiducia. Quando il
circuito è unito dall'accettazione c'è maggiore amicizia per noi stessi e
quindi ci sarà più fluidità e spaziosità. Se, invece, dovremo contrastare
l'amarezza del giudicarci male, allora ci sarà più attrito e meno spazio e
lo sforzo diverrà più duro. È per amore e non per forza che lo sforzo
diventa saggio.

5. Penso che si possano identificare tre ragioni per cui l'accettazione


nutre la fiducia. La prima è che l'accettazione ci fa sentire più capienti,
meno angusti. Quello che ci sembrava inaccettabile, intollerabile, l'abbia­
mo invece potuto abbracciare, diventandone amici. Questo sentirei più
aperti, più forti, più sereni, che viene dall'accettazione, non può che dar·
ci fiducia.
La seconda ragione, meno immediata, è che l'accettazione, l'equanimità
promuove la comprensione. Davanti a una frustrazione cominciamo, per
barlumi, a vedere che le cose non stanno come le abbiamo sempre viste e
concepite. Abitualmente noi vediamo la frustrazione come una cosa dura e
solida, fabbricata apposta per colpire noi che ci concepiamo come entità
solide, separate, indipendenti dall'altro che ha inferto la frustrazione e che
percepiamo, allo stesso modo, solido, separato, indipendente. Quanta sof­
ferenza porta con sé questa maniera abituale di vedere la realtà!
Praticando, invece, possiamo cominciare ad avere lampi di compren·
sione che le cose non stanno così, che la frustrazione, in realtà, è un feno­
meno condizionato, fluido, che sorge e svanisce come ogni fenomeno na­
turale, e che noi stessi e l'altra persona coinvolta nel gioco non siamo che
flussi di condizionamenti interdipendenti. È come se, per un attimo, si
dissolvesse questa visione rigida, corposa, separativa, che vede entità fer­
me, sempre uguali, che si colpiscono. Abbiamo dato per certa questa soli­
dità che però, praticando, in certi momenti viene meno e questo non ci
dispiace affatto, anzi, ha un effetto liberatorio. Cominciamo a intuire che
quando il buddhismo parla di vuoto non allude a qualcosa di freddo e
non preferibile al nostro modo abituale, concreto e variopinto, di vedere
le cose ma, al contrario, allude a un modo di vedere più reale, più pro­
fondo, più soddisfacente. Ora, cogliere un correlarsi eh forze al posto del
solito, meccanico schema rappresentato dalla successione di frustrazio­
ne-sentirsi colpito-risentimento, ha un effetto liberarorio e, perciò, non
può che generare fiducia, come tutto ciò che libera.
La terza ragione per cui l'accettazione alimenta in noi la fiducia è che
l'accettazione è anche il cuore della compassione. Così, nel caso della fru­
strazione, accade che, invece di una reazione ansiosa e di chiusura, se c'è
in noi, pur mescolata al disagio, un po' di accettazione, avremo invece
una sollecitudine compassionevole nei confronti della nostra ferita e, se
l'io-mio è per un momento in sospensione, saremo anche in grado di ac­
corgerci della sofferenza che sta dietro il maltrattamento, vero o presun­
to, venutoci dall'altra persona. E questo simonizzarci con la sofferenza
porta con sé un elemento di compassione, anche se intrecciata con il disa­
gio, che, però, è un disagio molto diverso da quello in cui la compassione
è assente. La compassione è una fortissima intimazione di unità e questo
genera moltissima fiducia. La compassione è il contrario di sentirsi mi­
nacciati, il contrario di sentirsi soli. È difficile immaginare qualcosa che
dia più fiducia della compassione.

6. Quindi, da un lato, la fiducia è una condizione a monte delle qua­


lità che abbiamo nominato, ossia accettazione, equanimità, calma concen­
trata, comprensione, compassione, e queste qualità, d'altro canto, diven­
tano condizioni per l'incremento della fiducia. Abbiamo quindi una co­
spirazione benefica che magari, all'inizio della pratica, ci può anche sfug­
gire. La legge dell'interdipendenza, così tanto sottolineata dal buddhi­
smo, esiste a tutti i livelli. C'è una condizionalità all'origine della progres­
siva infelicità e c'è un'interdipendenza, una condizionalità che va nella di­
rezione opposta. Da una parte ci sono i condizionamenti dell'io-mio, og­
getto del lavoro interiore in quanto ragione prima dell'infelicità. Dall'altra
abbiamo la pratica, una pratica che significa cooperazione benefica di di­
versi fattori. a cominciare dalla consapevolezza e dalla comprensione.
Ma senza una dedizione a lungo termine alla pratica del Dharma è im­
possibile addivenire a quella scoperta progressiva, clamorosa e liberatoria,
che attaccamento e avversione, frutti dell'io-mio, sono solo veicoli di sof­
ferenza. L'orizzonte dell'io-mio, che è quello di ritenere ovvio e inelimi­
nabile questo o quell'attaccamento, questa o quell'avversione, non è
!'orizzonte del Dharma. Nel buddhismo ci viene proposto che la fonte
della sofferenza non è questo o quell'attaccamento, questa o quell'avver­
sione, ma l'attaccamento-avversione, due facce della stessa medaglia. Po­
tremmo dire, quindi, che da una parte c'è la fede nell'io-mio, nel mondo
dell'attaccamento e dell'awersione, dall'altra, invece, la fede nella pratica,
nella via spirituale, nella liberazione.
La calma concentrata e la consapevolezza, insieme con gli altri fattori
con i quali cooperano, servono a cominciare a vedere, pian piano, la vera
natura dell'attaccamento-avversione o io-mio. Nella maggiore calma men­
tale che si realizza attraverso la pratica diventa visibile l'alone di sofferen­
za sempre accompagnato all'attaccamento e all'avversione, mentre prima,
senza calma, c'era troppa foschia e il bagliore della sofferenza non era vi­
sibile. La pratica porta a vedere più in profondità. 1bich Nhat Hanh è
solito usare le espressioni looklng deeply, seelng deep/y, guardare profon­
damente, vedere profondamente, che possono suonare altisonanti, ma
che, in realtà, sono molto semplici e fattuali. Bisogna arrivare a vedere in
un modo diverso da quello abituale, che è appesantito dalle incrostazioni
delle nostre abitudini mentali e dei nostri preconcetti. E per vedere que­
ste abitudini e questi preconcetti lo strumento di elezione è la pratica,
perché non è possibile coglierli semplicemente riflettendo e ragionando.
Questa percezione che le cose stanno diversamente da come siamo so­
liti pensare porta al non attaccamento. Nel caso di una gratificazione, per
esempio, la nostra tendenza è quella di identificare il nostro attaccamento
alla gratificazione con la gratificazione pura e semplice, li vediamo come
una cosa sola, come la gratificazione. Ma col microscopio del Buddha,
con una pratica irrobustita da un certo allenamento riusciamo a vedere
l'attaccamento distinto dalla gratificazione. E la tossicità non sta nella
gratificazione in sé, ma nell'identificazione vischiosa che genera la dipen­
denza compulsiva dalla gratificazione. n problema, viene detto ripetuta­
mente nei Nikaya, non sono né i sensi, né la mente, né gli oggetti dei sen­
si, né gli oggetti della mente, ma è l'attaccamento e l'avversione, è la no·
stra relazione con gli oggetti dei sensi e della mente.
Quando identifichiamo gratificazione e attaccamento alla gratificazio­
ne, è in azione la confusione o ignoranza, e anche questo è qualcosa che
la pratica ci aiuta a vedere: contemplando i nostri processi mentali, infat·
ti, riusciamo a dividere la sensazione sgradevole dalla reazione di irrita­
zione alla sensazione sgradevole, e riusciamo a dividere la gratificazione
dal nostro conseguente compiacimento, e dunque ci accorgiamo che non
sono la stessa cosa. La nostra esperienza, così, cambia, la gratificazione o
il disagio non vengono annullati, ma si ridimensionano, si relativizzano.
Questa visione. che viene da una pratica alquanto maturata, non è per
niente deludente, anzi, è rallegrante, rasserenante, è il piacere buono di
pervenire alla sanità, alla sobrietà, alla chiarezza. In questa visione, la
gratificazione, pur essendo sempre gradevole, cambia e così cambiata ci
dà un 'impressione di maggiore sanità, di maggiore realtà e concretezza:
ci accorgiamo, ora, che prima le proiettavamo sopra un extra, una realtà
illusoria.

7. Naturalmente questo cammino verso una visione diversa, meno illu­


soria, ha bisogno di sostegno, anzi, come dicevamo, di un 'interdipenden­
za di sostegni, e certamente saddha. la fede, è uno dei più importanti.
Tanto è vero che il Buddha mette saddha a cardine di un processo di
condizionamento ascendente evolutivo chiamato lokuttara paticcasamup­
pada. Mentre la genesi condizionata classica Uokiya paticcasamuppada) è il
processo di condizionamento che, partendo dall'ignoranza, porta all'infe­
licità, a dukkha, nel caso dell' originazione illpendente trascendente si
prosegue oltre dukkha, e qui al primo anello troviamo la fede.
Nella dottrina della genesi condizionata evolutiva, quindi, si parte dal­
l'infelicità, si suppone poi l'incontro col Dharma o comunque con un mes­
saggio sapienziale, e da questo incontro può emergere la fede, la fiducia.
In questo quadro è molto interessante vedere che gli dementi immediata­
mente successivi alla fede hanno rispettivamente i nomi di gioia, entusia­
smo, rilassamento e contentezza. Quindi la fede, intesa quale slancio, affi­
nità, nostalgia, è vista come veicolo di qualità positive e rasserenanti, le
quali, a loro volta, sono condizioni di una mente più raccolta, più duttile,
flessibile, che si apre alla capacità di vedere secondo verità e non secondo
illusione. Questo è il presupposto del non attaccamento, della realizzazio­
ne della grande equanimità, della pace profonda, base per la liberazione,
che, in questa particolare esposizione, culmina con la conoscenza incon­
trovertibile che tutte 1e ostruzioni mentali sono state distrutte e superate.
Questo schema è molto utile per comprendere meglio la funzione del­
la fede. Essa porta a forti e grandi sentimenti positivi e rasserenanti, per
cui può diminuire la compulsione all'attaccamento di qualsiasi tipo, per­
ché cominciamo a stare bene dentro di noi, a casa nostra, non più frastor­
nati dall'ansia di sicurezza, dalla sete di lodi, di considerazioni, di status,
di acquisizioni; perché ora c'è una forma, misteriosa ma forte, di sicurez­
za interna, di calore interno. Nella tradizione occidentale si diceva habtla­
re secum, abitare dentro se stessi, senza più bisogno di proiettarci fuori.
Ma questo poter abitare dentro, questo senso di misteriosa sicurezza, ci
dà. finalmente, la libertà di poterei occupare di quello che conta, che ser­
ve, che è utile, saggio, compassionevole, non più sopraffatti dal desiderio
di avere tutto quello che, nelle nostre aspettative, placa l'insicurezza. E,
quindi, una base fondamentale di agio, di fiducia.
Nella tradizione Mahayana la grande compassione viene talora parago­
nata al coccodrillo che, una volta presa, non molla la preda. Anche la fe­
de. arrivata a un certo grado di maturità, porrebbe richiamare questa im­
magine del coccodrillo: non molla mai la preda. t stato detto che la per­
sona di vera fede, anche se è scoraggiata non è scoraggiata; gli altri lo per­
cepiscono e ne risentono beneficamente.
Ricordiamo, infine, quello che disse il Buddha sui quattro diversi tipi
di pratica: veloce e indolore, lenta c indolore, veloce e dolorosa e, infine,
lenta e dolorosa. È straordinario perché noi potremmo avere il preconcet­
to che, perché una cosa funzioni, ci dovrebbe essere perlomcno un agget­
tivo positivo, com'è nei primi tre tipi di pratica. Ma nel quarto non è così:
è lenta, è dolorosa, ma arriva comunque allo scopo. E quando saremo arri­
vati, anche considerando il tipo di traguardo, pensiamo che ci importerà
davvero molto come ci siamo arrivati e quanto tempo ci abbiamo messo?
14

Il Dh arma e la fiducia ( II)

l . "Se, quando sediamo, ripudiamo determinate sensazioni, determinati


pensieri, determinate emozioni, determinate idee e ci attacchiamo a ciò che
riteniamo bello e creativo, riporteremo nella vita esattamente lo stesso at­
teggiamento. Ameremo determinate persone a cui ci attaccheremo, di­
sprezzando e rifiutando le altre. Se invece diventiamo come l'ampio spazio,
non c'è più scelta e preferenza. Tutti sono uguali, tutti sono il riflesso di noi
stessi. E questo ci consente di incominciare ad apprezzare le diverse qualità
di ciascuno, la bellezza che è in tutti . . . Il dono più grande che possiamo ri­
cevere è la libertà dalla paura. Pratichiamo per questo: per lasciare andare
ogni paura grazie alla chiarezza che chiamiamo prajna, per guardare in
profondità nella vita e nella morte. Lasciate andare la paura di morire, la
paura di vivere, la paura di fare, la paura di non fare... Accettando realmen­
te gli altri per quello che sono, nascono una fede e una fiducia ùnmense.
Scoprire nell'altro questa fiducia in noi ci fa credere in noi stessi, ci fa ac­
cettare a livello profondo che siamo OK" (Merzel 1 99 1 , pp. 36, 62, 63-4).
La pratica della meditazione ci apre all'intuizione di questa possibilità,
di questa buona novella, diametralmente opposta ai dubbi, alle paure e a
tutta la sofferenza generata dalla nostra mente. La pratica infatti è un
processo di apertura, è l'arte di imparare a lasciare andare, ad arrendersi
a ogni momento. Non importa come chiamiamo l'Assoluto, se Dio, Dbar­
ma, natura del Buddha o nostra vera natura, perché questi sono solo con­
cetti, mentre importante è l'atto di lasciare andare.
Per arrendersi occorre fede, fiducia, non nel senso di credenza, che si­
gnificherebbe solo un'opinione o un insieme di opinioni spesso accompa­
gnate da attaccamento, ma fede come quella facoltà spirituale (saddha in
pali, sraddha in sanscrito) che designa un'apertura intrinseca, uno slancio
fiducioso e indiscriminato, che può essere coltivato e sviluppato.1 E men-

1 Cfr. in questo stesso volume il capitolo "TI Dharma e la fiducia ( 1 ) " .


tre le credenze sono spesso usate per scavare separazione e divisione, la
fede pura e nuda è una forza unitiva.
Non è facile coltivare la fede nel Dharma, nella pratica, nella liberazio­
ne, perché ciò presuppone in noi un genuino interesse non solo verso
queste cose, ma anche nel fatto stesso di avere fede. Così la domanda che
dovremmo porci non è: "Abbiamo fede?", ma: "Vogliamo davvero avere
fede? Abbiamo dentro di noi spazio per la fede? " .
Forse vorremmo avere fede ma sentiamo d i averne poca, forse il Dhar­
ma ci appare una dottrina astratta o pensiamo che la pratica funzioni per
gli altri ma non per noi. Quando ci troviamo in questa situazione, nella
quale da un lato vorremmo avere fede e dall'altro troviamo in noi solo
mancanza di fede, se riflettiamo e investighiamo a fondo potremmo arri­
vare a scoprire che in realtà noi abbiamo sì, un potenziale di fiducia, ma
lo riponiamo tutto nella nostra mente giudicante. In altre parole, è la
mente giudicante il vero oggetto della nostra devozione: noi giuriamo let­
teralmente sui nostri giudizi e sulle nostre conclusioni e possiamo finire
con l'investire gran parte della nostra energia in una visione negativa del
mondo e di noi stessi. Non confidiamo nel Dharma, ossia nella nostra ca­
pacità interiore di bontà e verità, ma crediamo assolutamente alla nostra
avversione, al nostro attaccamento e alla nostra confusione.
Ma se pratichiamo, possiamo anche scoprire che questa 'fede negativa'
che ci sembra così ovvia, in realtà è del tutto irrazionalei che tutti i nostri
giuc.lizi, le nostre preziose conclusioni, sulle quali facciamo così tanto affi­
damento, sono solo abitudini e dipendenze mentali. La dipendenza è il
contrario della fede, perché è piena di paura mentre la fede è un'apertura
gratuita. Così, finché pesa su di noi ogni sorta di abitudini e dipendenze
mentali, la nostra mente è troppo compulsiva e sofferente e non c'è in essa
abbastanza spazio per la fede. Forse abbiamo praticato per anni, ma la no­
stra fede non ha ancora forti ali, perché siamo carichi delle nostre amate
conclusioni su ogni cosa e della nostra identificazione narcisistica con esse.

2. Se però sviluppiamo una certa comprensione di questo grosso


nodo di opinioni ed emozioni, allora possiamo cominciare a !asciarlo
andare. Vedendo poi che questo lasciare andare non produce effetti
disintegranti su di noi - perché è questa la nostra paura di fondo -
allora diventa possibile fare l'esperienza di un po' di fede, e più fede
significa più possibilità di lasciare andare, in una spirale positiva. A que­
sto punto diviene anche accessibile più semplicità, che comincia a pren­
dere il posto della nostra aspra abitudine giudicante che creava a noi, e
non solo a noi, tanta sofferenza.
Genpo Merzel lo dice splendidamente: "Prendete dimora nel non
sapere, dimorate in quello spazio aperto! Quando non sapete niente,
sapete tutto. Vi preoccupa come ve la caverete, che cosa farete domani?
Non sappiatelo ! U domani si prenderà cura di se stesso. Siate comple­
tamente presenti e attenti qui, adesso, senza sapere. Così potrete ri.
spandere correttamente a qualunque situazione si presenti" (Merzel
1 99 1 , p. 49).
Vediamo allora che la comprensione, la fede, il lasciar andare e la ca­
pacità di stare nel momento presente sono tutte dimensioni correlate fra
loro. È importante afferrare questa intima interconnessione. Potremmo
dire che la fede matura in qualche modo comprende, porta con sé, una
conoscenza intuitiva. Per esempio, se guardiamo alla nostra pratica, ci
potrà capitare di vedere che la fede talora ci fa capire la necessità di man­
tenere viva la consapevolezza anche quando le cose ci paiono molto diffi­
cili e non sentiamo né motivazione né comprensione per la pratica. Dun.
que, malgrado tutto sembri insoddisfacente e frustrante, tuttavia conti­
nuiamo a praticare. Un giorno, guardando indietro, vedremo che a qud
punto abbiamo avuto la retta intuizione: la nostra fede sapeva che quella
era la cosa giusta da fare.
Verrebbe da dire che la fede possiede un'inte!l(gen:za più grande
dell'intelligenza del nostro io che, colorata dalla paura, genera senza fine
irrequietezza, preoccupazioni e sofferenze. Probabilmente è per questo
motivo che in cene tradizioni buddbiste la fede è defmita "l'illuminazio­
ne prima dell'illuminazione".

3. A ben pensarci, nella stessa carriera interiore del Buddba fede e la­
sciar andare sono potentemente presenti fin dalla conversione del princi­
pe Siddbanha. Conversione nella quale vediamo lo slancio, l'aspirazione,
la fiducia e, al tempo stesso, la determinazione e l'impegno a cercare la ri­
sposta a quella interpellazione profonda che gli era venuta dall'incontro
col dolore. Dopo aver avuto i suoi famosi incontri con un malato, un vec­
chio, un morto e un monaco, il principe Siddbanha, colpito profonda­
mente, decide di andare via, fa sellare il suo cavallo e si dirige verso le fo­
reste, che all'epoca erano molto abitate da asceti. Qui giunto rinuncia al
suo cavallo, al suo vestito, ai suoi capelli e diventa egli stesso un asceta.
Tutto questo implica ceno un grande travaglio, il travaglio di lasciare
il mondo noto. Gautama lascia famiglia, clan, tutto un modo di essere, di
vivere, pensare, parlare, per andare verso il non conosciuto. Evidente­
mente era mosso da un grandissimo samvega, termine che designa l'ur­
genza di praticare, urgenza fatta, insieme, di rifiuto e di fiducia: rifiuto di
questo mondo, il mondo della reggia, il mondo imperniato intorno all'io­
mio, quello che Stephen Batchelor definisce il mondo dell'avere, sentito
ora come assolutamente insufficiente e inadeguato; e fiducia verso il mon­
do dell'essere.
Abbiamo, quindi, due polarità: quella positiva, che è slancio, fiducia e
determinazione, e quella negativa, ossia il lasciar andare il vecchio modo
di essere. Polarità che sono, in fondo, la stessa cosa, dato che il lasciar an­
dare ha come oggetto tutto ciò che ostacola la fioritura della fede. Natu­
ralmente possiamo pensare a tanti itinerari spirituali dove non compare
una ricerca così radicale, cioè un lasciar andare di tipo ascetico. Tuttavia,
la rinuncia a una mentalità e a una scala di valori orientate secondo l'io­
mio è parte fondante di qualsiasi cammino interiore, anche se avviene
gradualmente e si manifesta in modi e tempi diversi per ciascuno. Ci si ri­
trova così a lasciar andare, per esempio, attività, occupazioni, rapporti,
che non riempiono o non interessano più come prima, non perché negati­
vi o cattivi, ma perché legati a un modo di pensare e di essere condizio­
nato che non va nella direzione di una crescita interna. E se noi prose·
guiamo su questa via, prima o poi albeggia un lasciar andare più interio­
re, che comincia a erodere qualche attaccamento, qualche abitudine men­
tale, e comincia anche a illuminare meglio quello che si può chiamare il
Narciso in noi, ovvero l'autoriferimento costante e compulsivo.
In altri termini, più lasciamo andare l'attaccamento, meglio lo vediamo
e lo comprendiamo. Comprendiamo per esempio la tensione e la soffe­
renza implicita nella continua richiesta di approvazione che rivolgiamo
agli altri. In proposito ci può venire in mente il Vangelo di Giovanni, là
dove è detto: "Come è possibile che crediate, voi che andate mendicando
gloria gli uni dagli altri e non cercate quella gloria che da Dio solo proce­
de?" (Giovanni v, 44). Questo è un linguaggio che può suonare severo,
ma mette il dito su una questione importante e cioè quanto la ricerca nar­
cisistica porti via dalla ricerca di ciò che conta. Più vediamo questa con­
nessione, questo ammanco energetico che ci viene dall'essere completa­
mente concentrati sull'io-mio, e più è possibile che accadano momenti di
genuino lasciar andare.
Certo la ricerca della gratificazione serve alla crescita, così come serve
l'evitamento della frustrazione. Non a caso in psicologia si parla di narci­
sismo di crescita, utile per costruire la nostra personalità. Ma, da un certo
punto in poi , se c'è una fede spirituale che ci spinge, allora non possiamo
non sentire il carattere ostruttivo della ricerca narcisistica.
Ritorniamo alla vita del principe Siddhattha. Dopo aver lasciato la casa
paterna egli incontra nella foresta due maestri induisti e ne diventa disce­
polo. Apprende rapidamente e i maestri, riconoscendo il valore della sua
realizzazione, gli offrono la guida delle loro comunità spirituali. Ma Gau­
tama non è soddisfatto, non ha trovato quello che cercava, la liberazione,
e quindi ringrazia, se ne va e si ritrova un'altra volta solo, alla ricerca. Ciò
che abbandona questa volta non è una reggia mondana, ma un ruolo emi­
nente in una comunità spirituale, nella quale avrebbe trovato la massima
comprensione. Ma la sua fede non era appagata e quindi lascia e rischia
di nuovo. Fede e coraggio sono parenti stretti. Infatti, se saddha significa
'porre il cuore', coraggio è 'avere cuore'. Se ne va e intraprende un'ascesi
basata su una forte automortificazione, che, all'epoca, veniva molto prati­
cata e apprezzata. La coltiva a lungo, fino a quando, ci tramandano le
storie, non diviene diafano a causa de1 digiuno.
A questo punto Siddhartha compie un altro atto di coraggio per nulla
inferiore a quelli precedenti: riconosce che ha sbagliato, smette le mortifi­
cazioni e accetta cibo solido, gettando nella costernazione e nell'indigna­
zione quei cinque discepoli che nel frattempo, ammirati dalla sua impresa
spettacolare, si erano riuniti intorno a lui. Prima aveva rifiutato una posi­
zione di maestro, ora perde i discepoli e anche la sua fama di asceta, per­
ché questa svolta, nel clima dell'epoca, viene intesa come un segnale di
debolezza. Questa è la terza rinuncia, il terzo lasciar andare di Gautama
che si ritrova così di nuovo alla ricerca. Ci saranno ancora due momenti
difficili nel suo itinerario. Uno è la famosa tentazione da parte di Mara,
divinità che rappresenta l'elemento distruttivo; poi, dopo l'illuminazione,
il dubbio se insegnare o no quello che egli aveva appreso nell'illuminazio­
ne, dubbio che viene superato in senso affermativo. È così che il Buddha,
dopo questi successivi momenti di lasciare andare, o vittorie, come ven­
gono tradizionalmente chiamati, pieno adesso di una nuova fede, la fede
nell'insegnamento, intraprende la sua quarantennale carriera di maestro
(cfr. su tutto ciò Sangharakshita 1991).

4. Vediamo, quindi, come il lasciar andare permei e accompagni ogni


passo e ogni dimensione della pratica. Questo è vero a partire sin dal­
l'esercizio di base nella meditazione di consapevolezza, ossia l'attenzione
al respiro. Infatti, se non lasciamo andare l'attaccamento ai pensieri e alle
emozioni non possiamo tornare al respiro. Dobbiamo sempre lasciar an­
dare qualche cosa per poter tornare al presente - che è la cosa capitale
- e praticare la consapevolezza.
Non meno importante è il rendersi conto che se non lasciamo andare i
concetti che ci portiamo dietro, non possiamo accedere alla comprensione.
Coloro che - come Stephen Levine, per esempio - istruiscono persone
affette da dolori cronici o da gravi malattie nell'uso della consapevolezza,
hanno ripetutamente osservato che gran parte del dolore, anche fisico, è
più legato ai concetti che ne abbiamo e alle nostre reazioni a quei concetti,
piuttosto che a un nostro nudo contatto con la realtà stessa del dolore. La
mente, nel ricoprire il dolore con concetti, è come se lo solidificasse.
Lasciati andare i concetti, le immagini, le reazioni meccaniche e pren­
dendo contatto con esso così com'è realmente, il dolore ci si rivela come
un flusso, un processo cangiante, molto più tollerabile di tutti i pensieri,
previsioni, considerazioni che la mente ci propone incessantemente. Si
può quindi dire che fede, lasciar andare e comprensione sono tutte di­
mensioni interconnesse tra loro come facce dello stesso gioiello. Ora la
fede è una forza interiore che ha un generale effetto addolcente e unifi­
cante. La sua forza unitiva ha la virtù di renderei più liberi dalla contra­
zione divisiva della paura, suscitando in noi un senso di sollievo e di
gioia, per cui ci diviene più facile offrire fiducia a noi stessi e agli altri. Se
la domanda che ci detta la paura è: "Ma perché mai dovrei avere fidu­
cia ? " , con la pratica la questione si tramuta nel suo contrario: "Perché
dovrei non avere fiducia ? " .
Anche quando troviamo in noi qualità negative, perché non dovremmo
concederci ugualmente fiducia, così come siamo, con tutti quei difetti?
Noi diamo per scontato di sapere quali sono le nostre possibilità, aderia­
mo alle nostre conclusioni su noi stessi con una forte credenza cieca che
non abbiamo mai seriamente messo in discussione e così, per abitudine,
ci neghiamo fiducia e nutrimento. Lo stesso vale per ciò che riguarda la
fiducia nei confronti degli altri. Ma, in realtà, noi non sappiamo veramen­
te né chi siamo noi né chi sono gli altri, siamo solo pieni di certezze su
quali siano le buone e le cattive qualità. L'ignoranza non è solo un vuoto,
un'assenza di saggezza, essa è bensì una forza viva, con un grande potere
di convincimento. Non è qualcosa di esoterico, bensì una dimensione
molto reale che agisce dentro le nostre vite producendo sofferenza e spin­
gendoci a fare cose che si ritorcono contro di noi.
Nel dare fiducia temiamo di perdere qualcosa, mentre in realtà l'unica
cosa che accade è che ci guadagniamo. e molto. Grazie alla pratica, ci
possiamo accorgere che quando ci viene data fiducia, riceviamo un dono
prezioso, e che allorché a nostra volta diamo fiducia, noi facciamo nn
grande regalo sia alla persona che riceve, sia a noi stessi. Perché nell'offri­
re fiducia a noi stessi e agli altri, riconoscendo implicitamente che non
sappiamo veramente chi siamo, cominciamo a prendere le distanze dai
nostri concetti e proiezioni che ci impediscono di aprirci al nuovo. Que­
sto è un passo importante, è un inizio di innocenza.

5. Aprirsi alla fiducia non significa certo giustificare azioni o parole


sbagliate, significa piuttosto che, grazie alla pratica, vediamo di più la sof­
ferenza e la confusione che le motivano, e così sviluppiamo più rispetto
per ognuno e per ogni cosa. Il n'spetto vero e autentico è una manz/estazio­
ne di fiducia e quando cominciamo a provarlo per noi e per gli altri, vuol
dire che stiamo diventando più sensibili e scorgiamo finalmente la soffe­
renza che sta dietro l'azione o la parola sbagliata o aggressiva che per noi
prima era la sola cosa esistente. Prima, cioè, pur avendo noi idee e con­
cetti riguardo alla sofferenza implicita nell'aggressività, nel subire poi
un'azione negativa vedevamo solo questa e non avevamo la percezione si­
multanea dell'aggressione e della sofferenza dell'aggressore. E quanto più
siamo sensibili alla sofferenza, tanto più, inevitabilmente, ci saranno in
primo piano rispetto e fiducia.
Ciò indica che stiamo cominciando a capire realmente la prima e la se·
conda Nobile Verità, la verità della sofferenza (dukkha) e dell'origine del­
la sofferenza. E più diveniamo sensibili alla sofferenza più, insieme alla
sofferenza, ci accorgiamo anche di qualcos'altro presente in ognuno: una
tenerezza, una bontà di fondo, qualcosa di fondamentalmente buono che
suscita fiducia e rispetto, al di là dei conflitti e di ciò che di negativo
emerge in primo piano. Cominciamo ad avere l'oscura intuizione che
quello che chiamiamo l'Assoluto, l'Incondizionato è in ognuno, che nel
profondo di ognuno è nascosta una bontà fondamentale. Non è una que·
stione irrilevante.
Lo sviluppo della fede e del rispetto è molto intimamente connesso col
comprendere le verità basilari della sofferenza e di ciò che è oltre la soffe­
renza. Probabilmente questo sorprendente rispetto generalizzato, questa
fiducia incondizionata, sono la nostra risposta naturale, quasi fisica, alla
verità della sofferenza e di ciò che sta oltre la sofferenza. È come se noi
potessimo conoscere in profondità solo attraverso il rispetto e la fiducia e
non attraverso il pensiero discorsivo. Per mezzo della pratica, quindi, co·
minciamo ad avere barlumi, momenti di fiducia e di rispetto indiscrimi­
nati, brevi ma felici manifestazioni della nostra intuizione oscura sia n··
guardo alla sofferenza universale, sia riguardo alla bontà e felicità possibili
al di là del condizionamento. È un po' come se, scavando una buca nella
sabbia di una spiaggia, cioè approfondendo la nostra pratica, sentissimo
piano piano sgorgare l'acqua del rispetto.
La vera devozione, non idolatrica, è un n·spetto crescente per tutto, l'in­
tuizione di una dimensione sacrale della vita. La pratica è la via per l'at­
tuazione di questo seme di rispetto indiscriminato, rispetto per la buona
e per la cattiva giornata, rispetto per quello che sentiamo noi e per quello
che sentono gli altri, per le nostre e le altrui difficoltà, rispetto per la sof­
ferenza che sta dietro l'odio, la violenza, la rabbia. Il rispetto per alcune
cose e la mancanza di rispetto per altre è ancora la modalità dell'io·mio.
La via del rispetto è la via del superamento dell'io-mio. Il rispetto - e
non è un gioco di parole - è il contrario del dispetto. n dispetto è angu­
sto, è la contrazione di fondo dell'io-mio. Qualcuno ha parlato di "questo
nostro piccolo io convulso"; il rispetto è andare oltre questa convulsione
che segna i nostri giorni, e la via regia per aprirsi è la contemplazione,
sempre più sostenuta, della contrazione, del dukkha.
A volte siamo feriti e la nostra mente è piena di avversione, ma avere il
Dhanna a pottata di mano significa avere la possibilità immediata del la-
varo interiore invece di gettare altro olio sul fuoco, seminando altro di­
spetto e aumentando così il dolore. Prenderei cura del nostro cuore ferito
è un varco attraverso il quale può penetrare la virtù guaritiva del rispetto,
mentre la tendenza a giudicare e a giudicarci non fa che intossicarci ulte­
riormente. La pratica è un progressivo superamento del disappunto, del
disagio, del dukkha, a favore del rispetto. Più precisamente, è il passaggio
graduale dal dispetto che le cose non sono come vorremmo al rispetto
per le cose così come sono. Questa è la devozione fondamentale.
Quando cominciamo a diventare devoti in questo modo, allora la ri­
cerca interiore. la ricerca del Dharma è veramente cominciata.
L'attaccamento e l'avversione sono un modo infantile per rapportarsi
alla realtà, un modo che causa sofferenza. Proprio per questo, però, così
come nei confronti dei bambini la cosa più importante è avere rispetto
per loro, ugualmente dobbiamo imparare a nutrire rispetto e delicatezza
verso il bambino che è in noi, attaccato, pieno di avversione, rintanato
nella paura. Se lo giudichiamo amaramente, non lo curiamo ma gli faccia­
mo altro male. Se invece lo accudiamo rispettosamente, allora il nostro
modo di rapportarci con noi stessi, le cose, gli altri, prende a cambiare.
Sorge il rispetto per tutti e tutto, rispetto per il piacevole e rispetto per lo
spiacevole. Anche le cose piacevoli noi iniziamo veramente ad apprezzar­
le e a goderle solo quando abbiamo rispetto per esse, piccole o grandi
che siano. Finché ci attacchiamo al piacevole noi lo sgualciamo, lo sfigu­
riamo, lo distruggiamo; col rispetto invece lo contempliamo e lo sfioria­
mo delicatamente e così può darci rutto quello che ha. E se c'è rispetto
per le nostre difficoltà, per il disappunto, per il malumore, è come se li
collocassimo sul velluto: si ammorbidiscono. Col rispetto la paura si riti­
ra, evapora; mentre se le manchiamo di rispetto si accresce.

6. Rispetto per noi e rispetto per gli altri si alimentano a vicenda. Nel
cristianesimo Meister Eckhart osserva che "l'uomo nobile prova sempre
gioia davanti all'altro"; nel buddhismo si dice che il bodhisattva si rallegra
alla sola presenza di un essere vivente. Sono traguardi splendidi che la pra­
tica del rispetto rende possibili. Se invece d ascoltiamo con l'orecchio della
pratica quando nella vita quotidiana diciamo di rispettare qualcuno, ci ac­
corgiamo che il nostro modo di concepire il rispetto è carico di forza divisi­
va, perché è evidente che in realtà non rispettiamo molte persone. Possia­
mo rispettare e avere fiducia in tutti? Possiamo imparare a rispettare, per
esempio, un politico disonesto? Certo non voteremo per lui, ma possiamo
rispettare l'essere umano che soffre? È questa una domanda importante,
che mette in luce il nostro reale grado di comprensione.
Al livello che possiamo definire operativo è bene che noi prendiamo le
nostre decisioni e cerchiamo di scegliere, per rimanere nell'esempio, poli-
tici onesti e preparati. Ma c'è anche il livello del Dharma, in cui dobbia­
mo sviluppare un diverso atteggiamento: siamo capaci di vedere, in quel.
la persona, la sofferenza, le illusioni, la ricerca della felicità, sia pure per­
seguita con metodi sbagliati e nocivi? È anche probabile che, una volta
che abbiamo coltivato un certo rispetto, potremo ritrovarci con una mag­
giore chiarezza anche sul piano operativo. Sarà più facile, per esempio,
dire di no, per il semplice fatto che avremo meno paura. Infatti, nel per­
cepire la loro sofferenza e, insieme, la loro bontà di base, ci sentiremo più
interconnessi con gli altri.
Difendendoci meno, poi, saremo meno condizionati dall'ego e quindi
anche noi potremo divenire più degni di fiducia, per noi stessi e per gli
altri. Ci può aiutare il ricordarci regolarmente di questa possibilità, anche
quando ci troviamo in una situazione che di solito ci stimola molta reatti­
vità. Quando, per esempio, siamo paralizzati nel traffico, possiamo senti­
re che ne siamo tutti vittime, invece di reagire mossi dalla rabbia? Se riu·
sciamo a sentire il terreno comune, la sofferenza che tutti ci accomuna, la
nostra reattività si abbasserà enormemente. Imparare a lavorare col ri­
spetto significa che tutta la vita quottdiana ci Ji apre come un immenso e
fecondo te"eno di pratica.
Come possono il rispetto e la fede generare la pace? Se riflettiamo stÙ­
la nostra pratica della meditazione cl possiamo rendere sempre più conto
di quanto grande è il potere della consapevolezza, della presenza mentale.
D'altra parte, più ci rendiamo conto del potere e del mistero della consa­
pevolezza c più la nostra fede e la nostra pace crescono. E vediamo me­
glio che la consapevolezza è sempre qui, con noi; siamo noi, invece, che
ce ne andiamo via in continuazione. Però, quando decidiamo di tornare
indietro, lei è sempre li, silenziosa, pronta, curativa. Fra i sette fattori di
illuminazione, della consapevolezza si dice che è sempre e comunque ku­
sala, benefica, salutare. In virtù della pratica è come se la consapevolezza
diventasse sempre più reale, mentre il resto diviene più irreale. Più prati­
chiamo e più scopriamo che, nel bel mezzo di questa nostra vita conti­
nuamente cangiante, nel bel mezzo di tutte le nostre identificazioni con­
vulse, vi è sempre un'altra possibilità: la consapevolezza ùi tutto ciò. Sem­
pre a disposizione, stabile, affidabile. Come potremmo non sviluppare fe­
de quando ci rendiamo conto che la cosa che più ci aiuta è sempre dispo­
nibile accanto a noi?
15

Insegnare meditazione

l . Per insegnare in modo adeguato e qualificato una materia nella


scuola, all'Università o in altri istituti di istruzione, occorre avere un ad­
destramento o formazione di molti anni alle spalle; formazione che sarà
specifica da un lato e generale dall'altro. Ad esempio, per insegnare latino
o greco mi sarà richiesta una competenza specifica circa quella lingua e ,
in più, una formazione generale nel campo classico umanistico. E tutto
ciò, come sappiamo, esige parecchi anni di lavoro e di applicazione. Que­
sto esempio risulterà chiaro e scontato per tutti. Però se la materia presa
in oggetto non è vicina e familiare e non fa parte del paesaggio della no­
stra cultura, le cose non saranno così nette e semplici: è il caso dell'inse­
gnamento rdativo ai diversi cammini di liberazione di origine asiatica che
da tempo si vengono affacciando in Occidente.
Finora parrebbe che a tali cammini tocchi in sorte, qualora non siano
totalmente ignorati (destino frequente), o di venire avvolti in un'iride·
scente nuvola esoterica e occultistica o, invece, di essere minimizzati e
banalizzati. Se guardo secondo rottica misticheggiante ed esotica riterrò
di poter apprendere questa o quella via meditativa soltanto per il tramite
di qualche raro e conclamato maestro asiatico, già eremita himalayano
(con il possibile corollario che, in mancanza di costui, sarà meglio lascia­
re perdere).
Mentre invece, se inclino a una visione riduttiva, minimalistica e ultra­
domestica della sapienza, non troverò affatto strano che Tizio, dopo qual­
che anno di frequentazione di un certo approccio meditativo e dopo aver
fatto qualche ritiro, decida di mettersi a fare l'insegnante di meditazione.
Magari argomentando che, essendo egli già insegnante di yoga o essendo
già psicoterapeuta o essendo già fisioterapista ed erborista, la sua qualifi­
cazione a insegnare meditazione salta agli occhi. Tuttavia, se il medesimo
Tizio pretendesse di aprire un corso di pittura o di scultura dopo aver
studiato l'una o l'altra per qualche anno al ritmo di circa mezz'ora al
giorno con l'aggiunta, durante tutto questo periodo, di due o tre settima­
ne intensive, non mancherei di stupirmi e di nutrire profonde perplessità
sull'iniziativa. Che dire di tutto ciò?

2. A me paiono possibili alcune riflessioni che possono forse giovare


se si vuole contribuire a instaurare in Occidente e in Italia una seria spiri­
tualità di origine asiatica e in particolare buddhista. Ricordando che una
'spiritualità' non seria, cioè ignorante, confusa e vanesia è una non picco­
la tragedia, dato che essa, invece di offrire rifugio e nutrimento all'indivi­
duo che faticosamente vi è approdato, non farà che renderlo, prima o
poi, frustrato, sfiduciato e amaro. Tornando ora ai tre casi menzionati so­
pra, ossia ignoranza della sapienza asiatica oppure iper-idealizzazione ro­
manticheggiante della medesima o, infine, sua banalizzazione, non c'è
dubbio che il destino migliore sia il primo.
Infatti nel secondo e nel terzo caso ci troviamo davanti a qualcosa di
peggio dell'ignoranza pura giacché abbiamo, in sostanza, un non prende­
re sul serio, un non rispettare derivante da una mancanza di contatto vero
con le tradizioni sapienziali in oggetto. Prendiamo la tradizione del sati­
patthana (o vipassana) buddhista: se io ho praticato con diligenza la medi­
tazione per qualche tempo e ho assimilato gli insegnamenti fondamentali
con l'aiuto degli insegnanti disponibili, avrò toccato con mano che posso
fare molto, anche se non ho la fortuna di poter praticare sotto la guida di
uno dei massimi maestri della disciplina. E penserò con gratitudine al
Buddha là dove dice: " ... O monaci, se non fosse possibile io non vi chie­
derei di abbandonare ciò che non è salutare .. E, se non fosse possibile,
.

io non vi chiederei di coltivare ciò che è salutare" (AN, 2, 19).


Dunque, in virtù di questo contatto reale con la pratica e la dottrina
soggiacente, io acquisterò fiducia nelle mie possibilità di base e, con essa,
una visione più realistica e possibilista e meno vaga, romantica e passiva
della pratica. Al tempo stesso, tuttavia, proprio grazie a questo contatto
reale, vedrò anche quanto lungo, difficile e travagliato è il cammino e
pertanto nutrirò una naturale diffidenza in chi, avendone percorso un
tratto minimo, presume di farsi guida ad altri. E vedrò chiaramente come
questa trovata sia carica di conseguenze negative, dato che essa rappre­
senta una svendita della meditazione, ossia una grossolana svalutazione di
una cosa molto preziosa.
Infatti l'insegnante improwisato tratta la meditazione, ricordando gli
esempi fatti, in maniera completamente diversa dalla pittura, dalla scultu­
ra, da una lingua classica, dimostrando così di ritenere che la meditazione
sia cosa meno complessa e impegnativa di un'arte o di una lingua. Ovvia­
mente il messaggio che in tal modo viene trasmesso allo studente di me­
ditazione è questo: la meditazione richiede assai meno addestramento,
preparazione, studio e applicazione di tante altre cose. Perciò � questa
l'inevitabile conclusione conscia o inconscia dello studente - non potrà
essere cosa di gran valore e dunque non sarà degna di esser presa vera­
mente sul serio. Quale 'buona notizia' ciò possa essere e quale contributo
a trasformare la vita del cercatore interiore è facile immaginare.
C'è poi un'ulteriore possibilità. Il neo-insegnante improvvisato può
trasudare un messaggio del genere: "la meditazione è, sì, cosa ardua ma
in me, essere particolare, essa fiorisce naturalmente". Ora, anche ammes­
so che ciò non sia un'altra perniciosa illusione (come sembra suggerito
dalla scarsa umiltà) e che sia invece un raro fenomeno di carisma sponta­
neo, è interessante ricordare il caso del maestro contemplativo cristiano
ortodosso Paissy Velichovsky. Richiesto di insegnare l'orazione contem­
plativa ai monaci novizi, egli si rifiutò, proprio per la ragione di averla
sviluppata con grande agio e rapidità e aggiunse che, invece, l'orazione
doveva essere insegnata da chi aveva lungamente faticato e combattuto
per ascendeme gradualmente i vari stadi (Simonod 1976, p. 49).
Infatti un tale insegnante potrà istruire nell'orazione con particolare
precisione e, anche, con speciale partecipazione alle difficoltà degli stu­
denti, avendole egli stesso sperimentate più o meno tutte. Tuttavia pos­
siamo anche pensare al maestro o alla maestra di grande e 'facile' realiz­
zazione che, proprio in virtù della raggiunta profondità, è in grado di ve­
dere acutamente nelle difficoltà altrui, anche se non sono state le proprie.
Inutile dire però che, in un caso del genere, è del tutto impensabile un
messaggio di superbia spirituale. Ma se invece tale messaggio in qualche
modo dovesse aleggiare nell'insegnamento, come si vedeva sopra, esso
avrà sullo studente prevedibili conseguenze soffocanti in prima istanza; e,
in ultima analisi, di profonda demotivazione nei confronti di siffatta 'spi­
ritualità'.

3 . Queste brevi osservazioni bastano a suggerire quanto complessa e


delicata sia la questione dell'insegnamento della meditazione. A questo
proposito può essere utile prendere in considerazione i criteri che sono
seguiti in questo campo presso una istituzione pilota in Occidente, l'lnsi·
ght Meditation Society (I.M.S.) di Barre in Massachusetts, USA, ove, a co­
minciare dalla metà degli anni settanta, sono stati impartiti ogni anno e
per tutto l'anno corsi di meditazione vipassana, e ricordando che la mag­
gior parte degli insegnanti di meditazione dell'Associazione per la Medi­
tazione di Consapevolezza (A.ME.co.) di Roma (C. Feldman, C. Titmuss,
C. Pensa) sono insegnanti anche all'I.M.S.
Anzitutto, seguendo un criterio tradizionale, il futuro insegnante
dell'LM.s. si affaccia all'insegnamento in virtù di un invito da parte di in­
segnanti dell'istituzione e non già 'inoltrando domanda' per diventare in-
segnante. Non che una eventualità del genere sia esclusa per principio,
ma certamente non è incoraggiata dato che, adottando il criterio dell'invi­
to, si intende privilegiare una conoscenza prolungata e diretta da parte
degli insegnanti nei riguardi di colui o colei che viene invitato e nei ri­
guardi della qualità della sua pratica e della sua maturità psicologica; e si
intende inoltre scoraggiare il più possibile l'ambizione, il carrierismo, la
ricerca di potere. n fatto che il potere non è anche potere economico, co­
me accade in altre carriere, nulla toglie alla carica inquinante di tale moti­
vazione. Motivazione totalmente contraddittoria con il lavoro di inse­
gnante di meditazione, cioè di una persona chiamata a illustrare e dimo­
strare continuamente, pazientemente ed efficacemente che l'io-mio è la
sorgente di tutti i nostri problemi.
Ora, affinché un praticante sia invitato a insegnare presso l'LM.S. {e
ciò avverrà per un lungo periodo iniziale solo in compagnia di insegnanti
più anziani ed esperti) , il primo requisito è che egli o da monaco {nel caso
che sia stato bhzkkhu per qualche tempo) o da laico abbia fatto moltznì­
ma pratica intensiva. Questa è la base per prendere in considerazione la
candidatura a insegnante. Accertato questo requisito, occorrerà poi vede­
re - e a questo scopo è indispensabile il tirocinio sotto la guida di altri
insegnanti - le capacità specifiche per l'insegnamento e cioè: (al grado
di conoscenza e di comprensione del Dharma; ibl facoltà di esprimere e
comunicare in maniera chiara e calda tale comprensione; (c) capacità di
guidare la pratica altrui mercé colloqui individuali, i quali, pur presuppo­
nendo un buon intuito psicologico nell'insegnante, non sono colloqui psi­
cologici, bensì di investigazione della pratica, del suo uso e dei suoi ristÙ­
tati. Su tali capacità saranno poi chiamati a pronunciarsi i vari insegnanti
che hanno avuto modo di conoscere bene il candidato e di lavorare con
lui o con lei.

4. Ma torniamo al primo requisito, ossia quello di aver fatto una gran


quantità di pratica intensiva. Ciò vuoi dire che per molti anni il pratican­
te ha affiancato la sua pratica quotidiana con frequenti ritiri di varia dura­
ta (da pochi giorni a tre mesi), guidati sia da insegnanti asiatici, sia da in­
segnanti occidentali. Perché tale abbondanza di retroterra intensivo è
considerata così cruciale? Si potrebbe obiettare che, allo scopo di tenere
un corso iniziale di meditazione, tanto training parrebbe superfluo.
Risponderemo più avanti a questa obiezione. Intanto diciamo che le
ragioni che inducono a ritenere così centrale la pratica intensiva ai fini
dell'insegnamento sono più d'una. La più evidente è questa, che, in virtù
della sfida della meditazione intensiva prolungata, la pratica dell'indivi­
duo ha più probabilità di approfondirsi e maturarsi; maturazione che è
fondamentale se l'individuo deve porsi quale punto di riferimento e di
guida per gli altri. Infatti soltanto in virtù di una esposizione non episodi­
ca e occasionale all'esperienza, ai travagli e alle soddisfazioni della pratica
può nascere una conoscenza affidabile della medesima.
Similmente, in un tirocinio psicoterapeurico si chiederà al candidato di
aver compiuto egli stesso un approfondito tragitto psicoterapeutico. Ma,
a differenza della psicoterapia, nella meditazione ci si aspetta che il candi­
dato, anche quando è divenuto insegnante, continui a coltivare la pratica
intensiva. E ciò sia per i motivi che la rendevano necessaria prima, sia per
una ragione nuova, che è la necessità adesso, di nutrire e sostenere il pro­
prio insegnamento. Il quale, altrimenti. diventerà fiacco e ripetitivo, op­
pure intellettualmente brillante ma nel fondo superficiale. Soltanto l'inse­
gnante dotato di una forte quanto rara realizzazione spirituale potrà forse
permettersi di tralasciare la sua pratica intensiva. Inoltre, dal punto di vi­
sta pratico è utile ricordare questo, che qualunque insegnante spirituale,
appartenente a qualsiasi tradizione, difficilmente non concorderà su un
punto, e cioè che condurre un ritiro dopo essere usciti da un ritiro perso­
nale avrà efficacia particolare.
Riassumendo: la prima ragione che addita nella pratica intensiva un
requisito primario per l'insegnamento è quella esperienza-conoscenza
della mente che la meditazione intensiva, appunto, è in grado di propi­
ziare in modo unico. In particolare possiamo dire che, qualora la per­
sona abbia una motivazione matura per la pratica intensiva. quest'ultima
diventa uno strumento impareggiabile per la penetrazione delle quattro
nobili verità. Ossia la comprensione reale che le tossine mentali (attacca­
mento, avversione, confusione) generano in noi soltanto sofferenza. Pro­
porzionalmente all'instaurarsi di questa penetrazione sorgerà il cruciale
impulso a lasciare andare le tossine. E ciò metterà in grado di cominciare
ad assaporare il calore dell'equanimità, chiave di volta del processo di
liberazione.
Accanto poi a questa ragione fondamentale, ne possiamo annoverare
altre due strettamente correlate: la fede e la rinuncia. Per fede non inten­
diamo credenza o convinzione ideologica, bensì fiducia primaria e radica­
le in una legge di bene, che può anche accompagnarsi a una credenza ma
che non è in alcun modo da identificare con essa. Ora una regolare prati­
ca intensiva, un anno dopo l'altro, non fa che alimentare e approfondire
la fede iniziale. Per la semplice ragione che, aumentando i risultati della
pratica, e crescendo la comprensione della soggiacente legge di causa ed
effetto, aumenterà anche la fiducia, che all'inizio poteva darsi soltanto
'sulla parola'. E questa forte fede-fiducia comunicata dall'insegnante è as­
solutamente fondamentale per l'insegnamento della meditazione. Perché
la pietra angolare dell'insegnamento spirituale è anzitutto la trasmissione
della fede o fiducia primaria.
Infatti, se io insegno la meditazione di consapevolezza, la quale, bene
intesa, è la dottrina del Dharma, io insegno, in effetto, niente di meno
che un'integrale conversione di vita. Ma un'impresa del genere è certo vo­
tata al fallimento se l'insegnamento non sarà pervaso, costitutivamente e
organicamente, di fede nel Dharma, ossia di /tducÙJ radicale che dalla con­
tinua puri/icazione della cosàenza o mente-cuore derivano benefici illimita­
ti. Un insegnamento di Dharma che non ha questa fede tangibile e anni­
presente non è insegnamento di Dharma, non è insegnamento spirituale.
E questa fede, per essere tale, deve essere provata e stagionata e dunque
deve essere diversa dall'entusiasmo-eccitazione degli inizi, con tutta la sua
precarietà.
Quanto alla rinuncia, essa è la semplificazione di vifiJ che è necessaria
per dedicare molto tempo alla pratica, quotidiana e intensiva. Un laico
che intende dedicarsi alla meditazione in forme intensive non potrà farlo
se non rinunciando a varie cose a cominciare da gran parte del suo tempo
libero e rinunciando, in generale, a tutte quelle attività che non siano es­
senziali per sé e per la sua famiglia. Nel caso di un meditante che sia an­
che insegnante di meditazione è evidente quale spù:cato segnale di valore
tutto ciò venga a rappresentare per lo studente: la meditazione, l a vita
spirituale è qualcosa di tale valore che per essa si può fare a meno volen­
tieri di tante cose piacevoli e utili. E dunque la rinuncia matura (ben di­
versa da una rinuncia legata all'ambizione spirituale o a confusione ne­
vrotica) è un'importante garanzia di fede e di intuizione. Infatti non rinun­
ceremmo a certi valori se non ne intravedessimo altri superiori. Vale a di­
re si rinuncia a certe 'ricchezze' allorché si sente che è possibile una ric­
chezza migliore e maggiore, il Dharma, il lavoro della consapevolezza e
del discernimento.

5 . Questo discorso sul carattere costitutivo della fede (e della connessa


rinuncia) nell'insegnamento della meditazione spiega, io credo, perché un
denso retroterra di pratica intensiva è fondamentale anche se si tratta di
tenere un corso iniziale di meditazione. Infatti la fede di cui si parla è le­
gata a un lungo tirocinio intensivo e tale fede, come dicevamo, è parte in­
tegrante di ogni vero insegnamento spirituale. Oggi sembra che questo
fatto debba essere spiegato di nuovo per due ragioni.
La prima ragione è la predominanza del modello psù:ologico nell'ambito
delle vie interiori asiatiche e la seconda ragione, sulla quale non ci soffer­
meremo, è quell'infelice malinteso che equipara fede spirituale a credenza
ottusa. La predominanza del modello psicologico non di rado ha
quest'effetto, che si guarda alla meditazione come a una sorta di 'terapia
fai-da-te'. Sennonché da tale concetto idei tutto erroneo) esula l'idea di
un accendersi progressivo, nel praticante, della presa di rifugio o fede in
qualcosa che non è l'io-mio. E quindi non si comprenderà che la fede vi­
va, in realtà, è parte naturale e integrante di qualsiasi autentico insegna­
mento spirituale e, come tale, essa è dovuta allo studente fin dal suo pri­
mo incontro con la pratica. E in questo non c'è nulla di strano. Infatti se
io voglio andare a una scuola di pittura vedrò di sceglierne una con inse­
gnanti competenti e, cosa non meno importante, dotati di gusto ed entu­
siasmo: quel gusto e quell'entusiasmo che sono frutti solidi di anni e anni
di lavoro. Esattamente come la fede nel Dharma è, anch'essa, un gusto e
un entusiasmo che ha dietro di sé tanti anni di 'cottura'.
A tutto quello che si è detto fin qui si potrebbe però opporre questa
considerazione: va bene, è giusto; però la richiesta di meditazione cresce
continuamente e, per andarle incontro, l'unica è autorizzare a insegnare
secondo criteri più larghi. Ora, a parte il fatto che i criteri esposti sono
già larghi se confrontati con i criteri vigenti nell'ambito originario della
meditazione, che è quello monastico, a parte questo, bisogna dire che,
anche se fosse vero che esiste una richiesta crescente di meditazione,
l'ultima cosa da fare sarebbe quella di abbassare i requisiti per l'insegna­
mento, cioè di abbassarne la qualità. Ciò significherebbe infatti tradire
�'anima di quella richiesta, che è soprattutto richiesta di cura e non di
m cuna.

Ma è poi vero che c'è una domanda crescente di vera spiritualità? Non
c'è dubbio che si nota oggi un desiderio di informazione maggiore che in
passato e si può ragionevolmente prevedere che ciò aiuterà la pratica di
alcuni. Tuttavia giurare su un aumento consistente del numero di persone
seriamente motivate a praticare mi sembra azzardato. Limitandoci al cam­
po della vzpassana in Italia negli ultimi anni, 1 credo che sia lecito parlare
solo di un piccolo aumento. Mi vengono in mente, per esempio, ritiri
condotti da insegnanti famosi e con traduzione italiana simultanea, dove
la metà dei posti è rimasta scoperta; oppure ritiri cancellati per mancanza
del numero minimo di iscrizioni. O posso pensare a corsi intensivi urbani
con un numero piuttosto modesto di adesioni. Sono esempi che fanno
pensare a una richiesta, di fatto, contenuta. Naturalmente ciò non toglie
in alcun modo la speranza, secondo me fondata, di un piccolo aumento
costante: che è, anzi, una prospettiva realistica, concreta ed entusiasmante
per tutti gli addetti ai lavori.
Che dire infine di quei gruppi di meditazione che, lontani da centri di
insegnamento qualificati, sono organizzati e coordinati da qualche stu­
dente di Dharma? Personalmente ritengo che questa sia una cosa buona e
da incoraggiare. A patto, naturalmente, che siano messi onestamente in

1 Non sappiamo se queste considerazioni possono valere anche per la vt'passa­


na nella tradizione di U Ba Khin, circa la quale non abbiamo dati sottomano.
chiaro i limiti dell'impresa e che circoli un incoraggiamento a frequentare
corsi o ritiri condotti da insegnanti esperti tutte le volte che ciò sia possi­
bile. E purché, infine, ci sia una buona maturità psicologica in chi coordi­
na il gruppo, maturità che sarà in grado di impedire scivolamenti nel ruo­
lo di insegnante senza che ci sia stata quella previa lunga 'cottur<�' intensi­
va e senza che ci sia stato quell'accordo tra insegnanti esperti circa le rea­
li capacità di insegnare della persona: criteri, questi, non certo infallibili
ma indubbiamente sensati e prudenti.
16

Equanimità e retta intenzione

l. C'è un momento nell'itinerario spirituale - e qui ci riferiremo so­


prattutto, ma non soltanto, a un tragitto imperniato sulla meditazione di
consapevolezza o vipassana -in cui l'individuo comincia ad aspirare al
bene in maniera più decisa, più cosciente, più continua. Si accorge che,
intessuto nei vari moti della sua mente, piacevoli e spiacevoli, c'è qualco­
sa che si potrebbe chiamare un nudo impulso al bene. È nudo, cioè vuoto
di progetti e contenuti specifici. Non è l'intento a compiere un'azione
buona e non è neppure una folata di pensieri e di sentimenti generosi. Si
tratta, invece, di un anelito più primordiale e inarticolato, non solidificato
in questa o in quella rappresentazione mentale.
In termini buddhisti sembrerebbe di trovarci davanti alla radice di
quel fattore dell'ottuplice sentiero che va sotto il nome di samma-sankap­
pa, variamente tradotto con retta intenzione (motivazione, aspirazione) o
retto pensiero o retto sentimento.1 Traduzioni tutte legittime a patto che
nell'usame una, siano tenute presenti anche le altre. Infatti a me pare che
il senso del termine non può che essere questo: alla motivazione-aspira­
zione e al suo consolidarsi nell'individuo viene attribuita una precisa
virtù, quella di trasmutare la qualità dei pensieri e dei sentimenti, indi­
nandoli al raccoglimento e alla compassione. Dunque: la coltivazione del­
la via interiore presuppone e favorisce una conversione della volontà e
questa conversione o raddrizzamento della volontà (retta intenzione) in­
fluisce sulla qualità dei pensieri e dei sentimenti. Dal punto di vista inter­
religioso si possono ricordare, nel cristianesimo, le espressioni evangeli­
che "beati coloro che hanno fame e sete di giustizia", e anche "cercate
prima il Regno e la sua giustizia" (Matteo v, 6; VI, 33), dove con la parola

1 Sull'ottuplice sentiero si può vedere in italiano Nyanaponika Thera 1962, pp.


124-127 e Rahula 1974, pp. 71-78 e Bodhi Bhikkhu 1984.
giustizia si indica il bene assoluto.2 Perciò la volontà di giustizia così inte­
sa non sembrerebbe molto lontana dal primordiale impulso al bene di cui
stiamo trattando. E non sembra casuale il richiamo alla fame e alla sete,
con tutta la loro primordialità.

2. Ora scopo importante della meditazione è quello di predisporre


uno spazio, per dir così, dove questo moto inarticolato e silenzioso sem­
pre più possa affiorare ed essere riconosciuto. Meditare significa allevare
delicatamente questa spinta, secondo quella abilità nei mezzi (upaya-kau­
sa!ya) che viene raccomandata dalla tradizione contemplativa buddhista.
E significa non solo riconoscere l'impulso fondamentale ma, anche,
imparare a rispettarlo, rinunciando per esempio a programm are i suoi
possibili investimenti, senza preoccuparsi, cioè, di 'cosa ci faremo' con
questa spinta, nel timore che altrimenti essa rimanga inutilizzata. Queste
sollecitudini, in realtà, come accade quando i genitori riempiono la testa
ai bambini di idee su ciò che dovranno essere da grandi, non solo non
aiutano la crescita, ma, al contrario, la ostacolano. Scrive A. Bloom:
"Ricordo quanto mi disse un vecchio monaco: 'Lo Spirito Santo è come
un grande uccello diffidente che si è posato a una certa distanza.
Quando lo vedi avvicinarsi non muoverti, non spaventarlo, lascia che si
awicini'" (Bloom 1972, pp. 32-33).
Non sappiamo se la dimensione di cui parla questo autore sia la stessa
che stiamo cercando di descrivere. Notiamo comunque che anche in que·
sto passo è invocata la necessità di grande rispetto e delicatezza nel rap­
portarsi a quella che porremmo chiamare l'intimità spirituale, che facil�
mente sfugge o non si riconosce. E il riconoscimento è reso difficile dalla
costante equiparazione del bene con le cose buone che ci è dato di osser­
vare in noi come individui e come cultura: il bene, comunemente, è inte­
so significare azioni di giustizia, intuizioni penetranti, sentimenti compas­
sionevoli, eccetera. Sennonché tutte queste cose rappresentano la manife­
stazione tangibile del bene, sono, cioè, una coagulazione di questa forza
che è l'aspirazione al bene. Ora anche questa aspirazione /a parte del be­
ne; e non solo non è una modesta sala d'attesa del bene, ma, anzi, ne è la
parte sommersa e fondante. Questo è il primo messaggio delle tradizioni
spirituali a questo proposito; e non a caso il tirocinio contemplativo rivol­
ge la massima attenzione a questo impulso.
In Occidente possiamo ricordare che un grande classico della spiritua­
lità cristiana, The Cloud o/ Unknowing, è tutto dedicato alla spinta fon-

2 Cfr. per esempio il commento di P. Rossano (1984, p. 67). dove l'espressione

evangelica è intesa come fame e sete di perfezione.


damentale, naturalmente secondo un linguaggio teistico. 3 Il secondo mes­
saggio, poi, delle vie contemplative su questo punto è che l'estrinseca­
zione del bene sarà tanto più autentica, benefica e discernente quanto
più profondo e assiduo è quell'anelito inarticolato che ne costituisce la
base. La ragione sembrerebbe questa, che l'impulso in questione è più
vasto dell'autopreoccupazionc che abitualmente dirige le nostre vite,
quasi che, così spoglio come è, fosse anche spoglio di egoità e fosse
comunque più primordiale dell'ego. E perciò, quanto più esso prende il
sopravvento, tanto più è improbabile che il bene espresso c manifestato
sia colorato dall'io e sia quindi un bene interessato, non autentico e non
liberante.
Quando lo slancio di fondo è ben percepito nell'individuo, esso ha un
effetto ranicurante, effetto non facile da spiegare, dato che esso non ha a
che fare con la sicurezza materiale e affettiva che tanto ci preoccupa. Al­
lorché invece il giusto anelito non vibra, è facile che predomini la distra­
zione e l'incuria interiore. Giacché l'impulso di fondo costituzionalmente
accende l'attenzione e ci rende più presenti, pronti e vivi, mostrandoci co­
me i fattori dell'ottuplice sentiero siano tutti connessi tra loro. Infatti ve­
diamo che la retta intenzione sveglia anzitutto la retta consapevolezza
(samma-sati), quindi gli altri fattori e anche, come vedremo, l'equanimità,
che è un importante frutto del sentiero. "Perché questa fame è pienezza e
questa sete è sorgente. Chi ne è abitato diviene nutrimento e bevanda:
comunica, dona, sveglia" IBellet 1982, p. 24 ) .
Infine, se è vero che - e useremo l a moderna formulazione 'laica' di
Krishnamurti - l'energia umana qualora non cerchi la verità diventa di­
struttiva (Krishnamurti 1964, p. 225), allora sembrerebbe che fare di tut­
to per alimentare il giusto impulso sia una necessità vitale: " Non so se
avete mai affrontato seriamente il problema del perché il vostro cuore sia
vuoto. Quale sarebbe la vostra risposta... ? La vostra risposta sarebbe in
accordo con l'intensità della vostra domanda e con la sua insistenza. Ma
voi non siete mai intensi né insistenti e questo è perché non avete ener­
gia, quella energia che è passione � e non potete trovare alcuna verità
senza passione - una passione che ha alle spalle una furia, una passione
in cui non sta nascosto alcun desiderio" (Krishnamurti 1969, p. 93).

3. Le osservazioni fin qui fatte circa il primordiale slancio al bene (os­


sia circa le radici della retta intenzione) sono la necessaria introduzione
per riflettere sull'equanimità, virtù chiave di qualsiasi cammino interiore e
specialmente approfondita dal buddhismo. Infatti mi sembra importante

1 Trad. ital. con importante studio introduttivo di A. Gentili e G. Brivio


U98!).
sottolineare che, senza il sostegno dell'impulso sopramenzionato, l'equa­
nimità semplicemente non può reggersi. Quanto a dire che senza una for·
te spinta a uscire dall'io, senza lo slancio verso un centro più grande
dell'io, la non-equanimità è inevitabile: l'alternanza fitta di frustrazione e
gratificazione è inevitabile e così pure le incessanti conclusioni-opinioni
che sono nutrite da quella alternanza di sentimenti e che, a loro volta, la
alimentano, foggiando il nostro modo di vedere il mondo: proliferazione
emotiva (tanhapapanca) e proliferazione concettuale (ditthipapanca), se·
condo la chiara analisi buddhista.
n beneficio della spinta al bene è questo, che pur potendo essere più o
meno presente, o più o meno intensa, tuttavia, per altro verso, essa è
straordinariamente stabile: giacché il suo 'contenuto', nella sua insupera·
bile essenzialità, non cambia. E ciò rappresenta una baJe ferma nel conti­
nuo svariare dei nostri contenuti mentali, base sulla quale può appoggiar·
si e crescere l'equanimità. Detto altrimenti: siamo stupiti che l'anelito al
bene perJZSta malgrado tutto e ci stupisce altrettanto un secondo mistero,
cioè che aspiriamo a qualcosa che non sappiamo in ultima analisi cosa sia
(e, anzi, più aumenta l'aspirazione, più ci saltano via immagini e concetti
relativi al bene assoluto).
Dunque, se da un lato continuiamo a vagare nell'oscurità circa le que­
stioni ultime, dall'altro questa spinta misteriosa ci dà conforto e fiducia e
anche quando siamo inclini a considerarci in un universo insensato essa
ci inocula per lo meno il dubbio (e la fede, se non è solo credenza,
genera molto e salutare sospetto sulle molteplici fedi e certezze alimen­
tate dalla proliferazione concertuale-emotiva del nostro io). Ora appare
ovvio che senza questa fiducia di base noi potremmo avere soltanto
forme superficiali di equanimità, perché se non c'è la fiducia di base, ci
sarà l'ansia di base (non necessariamente conscia). Non che la spinta al
bene sradichi l ' ansia: ma l'ansia sarà meno proliferante se invece di
essere padrona del campo è affiancata dallo slancio fiducioso. È interes·
sante osservare, a proposito della stretta connessione tra desiderio di
bene ed equanimità, che secondo la dottrina di Gurdjieff, così come è
espressa da Benne!!, nella gerarchia dei vari sé il sé che desidera il bene
(chiamato sé diviso) è posto tra il sé reattivo, o sé non equanime, e il
vero sé che è posto all'apice della scala: "la vera caratteristica del sé
diviso è quella di essere attratto a vivere in due mondi diversi. Da una
parte siamo attratti nel mondo e questo anelito è la base di ciò che
comunemente chiamiamo 'desiderio'. Dall'altra, siamo attratti entro di
noi, verso la nostra natura superiore invisibile e questo ... possiamo chia­
marlo non-desiderio" lBennett 1978, p. 105). Questa terminologia può
giovare a capire perché mai l'impulso al bene sia il fondamento indispen·
sabile dell'equanimità: perché, appunto, esso a tal segno è in grado di
contrastare il desiderio comunemente inteso (avidità, avversione, ansia
eccetera) da essere chiamato non desiderio.4

4. Conviene a questo punto esplorare meglio lo sviluppo dell'equani­


mità, soprattutto nelle sue forme iniziali, tralasciandone le forme più ele­
vate, allorché questa virtù, raggiunto il suo massimo splendore, viene nel
buddhismo equiparata alla sapienza non discriminante (v. sotto). È op­
portuno comunque ricordarsi che l'equanimità, anche ai gradi minimi, ha
un profondo valore cognitivo, essendo il presupposto di qualsiasi cono­
scenza oggettiva. Dunque, se la pratica della consapevolezza è imperniata
sul giusto impulso al bene (che, dando impulso agli altri fattori del sentie­
ro, promuoverà prima o poi anche la retta discriminazione circa gli even­
tuali aspetti falsi dell'impulso al bene), succederà, secondo tempi molto
variabili a seconda degli individui, che l'attenzione-consapevolezza, da
mero sforzo di registrazione, cominci a colorarsi di equanimità e di spon­
taneità. Se invece la motivazione alla pratica non è quella giusta e prevale
un egocentrismo più o meno nascosto o semplicemente predomina la
confusione, allora l'equanimità, per impossibilità logica, non potrà sorge­
re: un'equanimità egoista o confusa è una contraddizione in termini.
Naturalmente una motivazione scorretta non impedisce necessariamen­
te di raggiungere stati di intensa concentrazione che il praticante mal gui­
dato potrà erroneamente giudicare segno di equanimità. Invece quegli
stati sono soltanto segno di concentrazione, la quale, se non lavora siner­
gicarnente con gli altri fattori dell' ottuplice sentiero, va benissimo d' ac­
cordo con l'egoismo. Non così l'attenzione equanime che, per definizio­
ne, non può convivere più di tanto con l' autopreoccupazione.
Tra i vari sinonimi di equanimità (per esempio accettazione, non attac­
camento, abbandono) quello di disidentificazione sembra forse il più uti­
le a comprendere questa dimensione. Infatti dire che ciò che imprigiona è
identificarsi con le nostre sensazioni, emozioni, sentimenti, opinioni è più
accurato che parlare, genericamente, del desiderio come del fattore
ostruttivo per eccellenza, il che può essere fuorviante. Infatti del deside­
rio grande, non egocentrato, abbiamo vitale bisogno. Per esempio, se io
sono identificato col desiderio di sciare soffrirò se la mia gita sulla neve
viene disdetta, mentre se non lo sono, sarò contento di usare il tempo
della gita per fare altre cose. Inoltre se non sono identificato gusterò di
più lo sci e forse scierò anche meglio. Perciò disidentificazione significa
più libertà, più capacità di godere il rapporto con le cose e con gli altri.

4 Cfr. la tradizione devozionale dell'India meridionale: "Desidera il desiderio


per Colui che è senza desiderio; per oltrepassare il desiderio desidera questo desi­
derio" (Tiruvalluvar, Tirukkural, 35).
L'equivoco, invece, che facilmente nasce dall'usare in modo negativo
la parola desiderio è dovuto alla meccanica equivalenza che, per una serie
di condizionamenti, ciò può suscitare, per cui si immagina che desiderio,
amore, piacere siano la stessa cosa. E questo è erroneo, poiché - e tutte
le tradizioni spirituali sono concordi - al puro di cuore il mondo piace
molto più che agli altri. Così per quanto riguarda la capacità di amare di­
sinteressatamente: ne ha di più chi è più equanime. TI compito dunque
non è l'annullamento del desiderio, bensì la purificazione del desiderio,
perché si possa attuare "la più alta, la più desiderabile condizione della
nostra anima: amore senza desiderio" (Hesse 1970, p. 30).

5. Ora la pratica interiore può essere definita come pratica di progres­


siva disidentificazione o equanimità e dunque della graduale relativizza­
zione dei due movimenti di frustrazione e di gratificazione. Supponiamo
che nell'in9ividuo ci sia già un buon grado di consapevolezza accogliente.
Allorché sorge il desiderio di andare a sciare, accanto al desiderio ci sarà
quest'altra 'cosa', la consapevolezza; e poiché questa non potrebbe sussi­
stere se non avessimo interesse per essa, possiamo dire che il nostro inte­
resse per lo sci sarà affiancato nello stesso momento da un altro interesse
più ampio. Ciò impedirà o ridurrà l'identificazione con il desiderio di
sciare. Allo stesso modo, quando scatta la frustrazione all'apprendere che
la gita è annullata, anche la frustrazione galleggerà letteralmente sulla
consapevolezza accettante, il che renderà quanto meno più labile l'identi­
ficazione. E lo stesso accadrà in caso contrario, qualora lo sciatore faccia
con buon esito la sua gita. L'eccitazione della gratificazione, 'galleggian­
do', acquisterà una qualità più riposata e spaziosa. E se la base di consa­
pevolezza è forte, anche frustrazioni più gravi di quella, minima, del no­
stro esempio potranno essere assorbite e alleggerite, anche se, all'inizio,
parrà di sentire solo la morsa della frustrazione.
Tuttavia, acciocché questo dinamismo possa prendere piede, è impor­
tante capire che la clisciplina della consapevolezza accogliente deve essere
operante fin dal movimento iniziale, awolgendo il desiderio. Cioè non si
può pretendere che la consapevolezza porti grandi frutti se ci ricordiamo
di accenderla solo quando ci punge la frustrazione. Ciò è sempre una ma­
novra necessaria e vitale per il praticante. Ma un salto di qualità nella via
interiore si comincia a sperimentare quando più o meno tutto il percorso,
dal primo spuntare del desiderio fìno alla conclusione, frustrante o grati­
ficante, è il più possibile nel solco della consapevolezza accogliente. È so­
lo allora, infatti, che la nostra reattività comincia a essere intaccata.
Ma l'alleggerimento della catena desiderio--+ frustrazione o gratificazio­
ne è soltanto il primo di quelli che sembrano i tre effetti base di un'ini­
ziale disidentificazione-equanimità. Il secondo è rappresentato dalla gra-
duale eclissi di un ceno numero di attaccamenti, paure e avversioni, eclis­
si che può avvenire secondo un processo così naturale da passare quasi
inosservata agli occhi dell'individuo. Che si ritroverà comunque una vita
più semplificata con tutti i benefici che ciò comporta in termini di calma,
chiarezza e disponibilità. In apparente contrasto con tale semplificazione
è il terzo effetto di una prima fioritura dell'equanimità, quanto a dire il
sorgere di nuovi desideri, paure e avversioni. Per esempio, il desiderio di
praticare la meditazione o di fare un ritiro o di studiare insegnamenti nu­
trienti; la paura o l'avversione per certe situazioni che, ora lo vediamo, sa­
rebbero nocive per il nostro cammino interiore, soprattutto fino a che
siamo così fragili. Tutto questo però, come è agevole capire, non solo non
si oppone alla semplificazione in atto, ma anzi vi contribuisce.
Infatti questi nuovi sentimenti hanno la particolarità di non essere cie­
chi e spesso distruttivi. come quelli che abbiamo fortunatamente per­
duto, ma di essere invece accompagnati da discernimento. Per cui sem­
pre più desideriamo quello che ci è utile per crescere, mentre temiamo­
awersiamo ciò che non appare utile in tal senso. Nei termini dell'ottu­
plice sentiero buddhista: la retta intenzione combinata con altri fattori,
in special modo con la retta consapevolezza, attiva il retto discernimento
circa ciò che è da desiderare; questo, a sua volta, alimenta ulteriormente
il fuoco della retta intenzione, che induce a desiderare ciò che abbiamo
capito essere salutare per noi e per gli altri. Dunque, poiché questi nuovi
desideri-paure-avversioni non sono alimentati da un'ansia cieca ma sono
bensì gli operai, per dir così, al servizio di una nuova capacità di vedere,
essi avranno un carattere molto meno compulsivo: in certo senso si
potrebbe parlare paradossalmente di desideri equanimi, paure equanimi,
eccetera.
Riassumendo: dopo esserci soffermati sull'impulso nudo al bene (radi­
ce della retta intenzione) quale presupposto principale dell'equanimità,
siamo passati a guardare più da vicino il carattere di questa virtù, assai
strettamente collegata alla disciplina della consapevolezza; e abbiamo tro­
vato il concetto di disidentificazione specialmente idoneo per definirla e
per capirla, Si sono quindi esaminati gli effetti che sembrerebbero tipici
di un primo grado di equanimità.

6. Volgiamoci ora a studiare l'equanimità nel rapporto interpersonale,


perché se lo slancio primordiale al bene è il presupposto dell'equanimità
e se la meditazione-consapevolezza solitaria è un laboratorio dell'equani­
mità, l'altro laboratorio è il rapporto con gli altri. In che modo agisce la
disidentificazione-equanimità, anche se embrionale, nelle relazioni? Con
ogni evidenza essa appare agire sul piano cognitivo e su quello affettivo,
al pari di tutti i processi Ji crescita, dai primi sviluppi del bambino fino
alla grande liberazione che, anche essa, è raffigurata, per es. nel Mahaya.
na, con un'ala cognitiva (sapienza, prajna) e un'ala affettiva (compassione,
karuna). Infatti più equanimità significa percepire l'altro meno in funzio.
ne del nostro desiderio-avversione-paura-confusione e dunque significa
capirlo di più e accettarlo di più.
Questa schiarita affettivo-cognitiva è ricca di conseguenze, le più rile­
vanti delle quali sembrerebbero queste: diventiamo più sensibili ai lati
positivi degli altri, muta la percezione dei difetti altrui ( a cominciare dalla
percezione dell'ostilità nei nostri confronti), cambia la nostra percezione
della sofferenza. Circa la prima delle tre conseguenze elencate: in prece­
denza gli aspetti positivi degli altri potevano più facilmente sfuggirei o
potevano essere distorti in senso negativo, secondo quella prontezza
all'antipatia che è il portato naturale della non-equanimità. Ora invece il
lato positivo delle cose ci colpùce di più. Cominciamo a vedere che il con­
trario di attaccamento è apprev.amento, è capacità più ampia di gratitudi­
ne, è prontezza alla simpatia.
Quanto poi alla percezione dell'ostilità di altri nei nostri confronti, la
novità è che, mescolato alla sensazione inevitabilmente spiacevole che es­
sa ci provoca, si fa sentire anche qui se non proprio un apprezzamento,
per lo meno una sorta di riconoscimento positivo. TI riconoscimento,
sempre meno esitante, che l'ostilità altrui per chi lavora interiormente è
portatn"ce di verità. Infatti essa, suscitando la nostra paura o il nostro ri­
sentimento, ci mette di fronte alla verità, pur spiacevole, dei veleni che ci
abitano. Una volta posto a faccia a faccia con i propri veleni, il praticante
sa (retto discernimento) che gli viene offerta una possibilità concreta di
lavorare sui propri veleni e intuisce che questo lavoro è l'unico modo per
avvicinarsi a una verità più grande: anche in questo senso l'ostilità altrui è
portatrice di verità. Dunque è anche grazie all'ostilità altrui che i nostri
nodi possono essere fatti affiorare e pazientemente sciolti. Senza questo
stimolo sgradevole i nostri 'nodi del cuore' rimarrebbero nascosti, forse a
lungo, con la loro carica tossica.
Parrebbe dunque che, una volta seriamente incamminati sulla via, gli
altrz; qualunque cosa ci /acetano, ptacevole o sptacevole, ci aiutano comun­
que. L'altro mi sfida sempre; mi sfida quando è buono, mi sfida quando è
cattivo. Mi sfida ad aprirmi e ad allargarmi in entrambi i casi. Riesce dif­
ficile immaginare come si possa andare alla liberazione senza questa du­
plice provocazione, nel bene e nel male, da parte degli altri, o meglio sen­
za un nostro discepolato di equanimità sotto il magistero degli altri. Per­
ciò, se per la crescita di base abbiamo bisogno soprattutto dell'amore al­
trui, una crescita ulteriore non può avere luogo se non utilizziamo accu­
ratamente anche l'odio e l'indifferenza altrui.
Quanto, infme, a quel mutamento di atteggiamento nei confronti della
sofferenza che l'equanimità promuove, anzitutto vale lo stesso discorso
fatto sull'ostilità: la sofferenza, per esempio una malattia nostra o altrui,
immersa nella consapevolezza equanime, diventa invito pressante ad
aprirsi e a dilatarsi e si fa portatrice di verità, poiché mette a nudo la ve­
rità della nostra vulnerabilità e perché ci fa capire che, accettando la no­
stra vulnerabilità, noi in qualche modo diventiamo ancora più capaci di
verità. Più in particolare, se un minimo di equanimità-disidentificazione è
cresciuto in noi, quello che tende a succedere sempre più è il passaggio
da una reazione allarmata a una risposta compassionevole, da una preoc­
cupazione ansiosa a una preoccupazione attenta e sollecita. In altri ter­
mini, scopriamo che la debolezza può essere /onte di calore, invece che
fonte di paura.

7 . Infine, per concludere, osserviamo che una prima comprensione dei


presupposti e dei correlati dell'equanimità favorisce un migliore intendi­
mento della letteratura spirituale: la quale, se è meglio capita, diventa più
efficace e utile per il nostro lavoro interiore. Anzitutto capiamo meglio
l'enorme importanza che tutta la tradizione buddhista dà al non attacca­
mento in generale ( " Non è facile percepire la verità. Ma chi ha totalmen­
te superato l'attaccamento e non ha alcunché cui attaccarsi, costui soltan­
to è in grado di vedere", Udana 8, 2-3 ) e sulla virtù dell'equanimità
(upekrha, upekkha, btan snoms) in particolare presentando quest'ultima o
come uno stadio del cammino," o, talora identificandola senz'altro con la
sapienza non discriminante (Nagao 1980, p. 257). Memorabile poi l'im­
magine di Tsong Khapa, che paragona l'equanimità al terreno che, debi­
tamente innaffiato, produrrà il frutto della buddhità (cit. in Kelsang
Gyatso 1984, p. 69).
In ambito induista, ci colpirà come particolarmente precisa l'afferma­
zione della Bhagavadgita, "Lo yoga è equanimità" (samatvam) (Bhagavadgi­
ta 2, 48); mentre, guardando alla tradizione cristiana, tutt'altro che astruso
ci suonerà Evagrio Pontico, secondo il quale l'impassibilità (apatheia) ge­
nera l'amore (agape) (Logos Prakt1kos, 8 1 , pp. 670- 1 ) . (E se l'equanimità è
la matrice sia della sapienza buddhista, sia dell'amore cristiano, ci si può
chiedere se la meta buddhista e quella cristiana non siano due facce della
stessa medaglia).
Infine, per tornare al tema dell'impulso al bene quale sostegno del­
l'equanimità, ci paiono illuminanti le considerazioni che sono state fatte
sul non attaccamento in Eckhart: "La fede che vuole l'assoluto, vuole la
verità ed è perciò distacco, distruzione delle rappresentazioni, fine del
condizionamento; ma questa volontà di verità è volontà di bene, di giusti-

' Settimo fauorc di illuminazione; quarto brahmavihara; ottava bhumi, eccetera.


zia: perciò è distacco, ovvero fine dell'io psicologico, dell'interesse perso­
nale" .6 D'altra parte questa equivalenza tra non attaccamento e fede, di
incalcolabile importanza per comprendere e praticare sia l'equanimità sia
la fede, comincia a essere fruttuosamente presente nella riflessione inter­
religiosa,i con vantaggio e beneficio di tutti.

h Vannini 1983, p. 42; dr. anche l'introduzione (p. 8_3 ) del me-desimo autore

alle Opere Tedesche di Eckhart ( 1982).


7 Cfr. per esempio Cobb 1982, p. 104: " Fede perfcrra è perfetto lasciar andare

ilettìng go)".
Terza Parte

Consapevolezza e accettazione
17

Purificazione della mente,


amicizia per la mente

l. L'essenza più concentrata dell'insegnamento buddhista è illustrata


nei famosi versi del Dhammapada: " Mai fare il male, coltivare il bene
(kusa/a), purificare la mente (citta) " (DP 186). Ed è sufficiente una mini­
ma familiarità con la dottrina dell'Illuminato per sapere che la chiave del
discorso sta nella purificazione: soltanto, infatti, purificando il citta o
mente-cuore diventa possibile questa conversione di vita, così stupefacen­
te, grazie alla quale non si fa più il male e si è interessati solo a far cresce­
re quanto è kusala, ossia ciò che è buono, salutare, vero, giusto, utile.
Questa purificazione liberatrice, presente secondo varie forme in tutte le
grandi tradizioni spirituali, è stata formulata dal Buddha in maniera parti­
colarmente attenta e profonda.
Vale perciò la pena fare qualche riflessione circa l'itinerario interiore
dello stesso Siddharta Gautama, ricordando come lo stesso Buddha riten­
ne non già di avere inventato qualcosa di nuovo, bensì, piuttosto, di ave­
re riscoperto il 'sentiero antico' (puranam anjasam). Questa sua dichiara­
zione aiuta a guardare al suo itinerario come a un percorso archetipico,
cioè esemplare di chi, purificando la mente, impara a fare solo il bene. Se
la nostra motivazione è corretta, ogni volta che meditiamo, ogni volta che
facciamo un ritiro, noi in qualche modo replichiamo su piccola scala quel­
l'itinerario di purificazione liberante.
Credo che sia importante tenere a mente questo. Altrimenti si rischia
di immaginare il cammino come un'eterna preparazione in vista di un e­
vento irraggiungibile, la liberazione, e questa immaginazione, questo con­
cetto non può che condizionare pesantemente la nostra pratica spirituale.
Vedere, invece, che ogni meditazione, ogni ritiro, ogni attimo di consape­
volezza bene intesa e bene applicata è una piccola liberazione, è vedere
che, in realtà, il cammino è un continuo succedersi di tante piccole libera­
zioni: allora ogni momento del cammino diventa valore in sé, e non una
premessa, un prima in attesa di un poi. Dogen (cfr. per esempio Tanaha-
shi 1985, p. 12 e pamm; Cook 1 978, p. 4 3 1 dice che praticare con tutto il
cuore è l'illuminazione prima dell'illuminazione, ossia è già essere nella li­
berazione. E a chiunque sia accaduto Ji essere intimamente attento, pre­
sente e consapevole per la gran parte di una giornata. la tesi di Dogen
non suonerà troppo astrusa. Una similitudine utile può essere quella
dell'ologramma o fotografia ottenuta grazie a un raggio laser: in ogni par­
te o frammento della lastra è possibile scorgere l'intera fotografia. Così,
appunto, ogni passo nel cammino di liberazione è una liberazione, è
un 'infinitesima replica (sempre nuova) di quel percorso memorabile e ar­
chetipico che il Buddha ha indicato.

2. Conviene adesso soffermarci brevemente sul cammino di Gautama,


soprattutto per vedere in che modo ciò possa aiutarci a comprendere me­
glio la purificazione mentale: a) anzitutto il principe Siddhartha - il mo­
mento in cui decide di visitare il mondo fuori dai palazzi paterni - si ac­
corge di non !iapere: meglio, percepisce improvvisamente che gli manca
una conoscenza, una comprensione fondamentale. La conoscenza circa la
sofferenza, che gli si è manifestata nei famosi incontri con il vecchio, il
malato, il morto, il monaco. Si accorge di non sapere qual è l'origine del­
la sofferenza e di non conoscere ciò che è ku.rala, ossia di non conoscere
il bene o forza intelligente che sola può condurre al di là della sofferenza.
Dunque in questa fase ci troviamo di fronte a una prima virtù, l'umiltà.
L'umiltà del riconoscimento di essere privi della conoscenza che più con­
ta: b) questa umiltà è accompagnata da una decisione, la decisione di vo­
lere Japere, di volere comprendere e conoscere il bene, kusala, ciò che
serve incondizionatamente.
L'intuizione di non avere alcuna comprensione su ciò che veramente
conta e l'assoluta decisione di voler sapere sono i due pilastri fondamentali
della purificazione. Naturalmente tutto ciò implica uno sfondo di fede,
cioè un'intuizione di fondo che è possibile sapere, è possibile liberarsi. Fe­
de-intuizione senza la quale la condizione di non sapere apparirebbe nor­
male, o comunque inevitabile, e nessun desiderio di sapere potrebbe na­
scere; c) a questo punto Gautama intraprende, irrevocabilmente, l'azzone
per giungere all'intendimento del bene: abbandona tutto il suo mondo no­
to e consueto e va in un mondo diverso (la foresta e l'ascesi), in cui c'è sol­
tanto apprendimento (i suoi maestri, l'ultimo dei quali sarà egli stesso) e
solitudine, la quale, in effetto, fa parte dell'apprendimento. Perciò questa
azione, nella quale consiste la parte attiva della purificazione mentale, è
volta a promuovere la conoscenza della natura della mente in virtù di nuo­
ve condizioni di vita: la solitudine, i maestri, le tecniche di meditazione.
Da notare che se questa fase, cioè l'azione volta a sapere il bene, è pu­
rificazione attiva, le due precedenti, ossia il riconoscimento del non sape-
re e la volontà di sapere, fanno aneh' esse parte della purificazionc; d) do�
po vari anni Gautama, fattosi nel periodo finale dell'apprendimento mae­
stro a se stesso, e divenuto ormai puro, 1 acquista il sapere trasformante
nella sua forma più completa (illuminazione�liberazione); e) quindi si ren­
de conto che è nella natura del bene di essere partecipato agli altri c dcci­
dc perciò di insegnar/o, il che farà per il resto della sua vita.
Alla decisione primitiva di cercare il bene fa seguito adesso, una volta
trovatolo, la decisione di darlo. Sulla base del proprio percorso il Buddha
elabora un insegnamento sistematico della purificazione mentale, nel qua­
le spicca in particolare la dottrina dell'ottuplice sentiero per raggiungere
la fine della sofferenza: retta comprensione, retta intenzione, retta parola,
retti mezzi di sussistenza, retta azione, retto sforzo, retta consapevolezza,
retta concentrazione.2 L'arte della purificazione in questo contesto sem­
bra essere l'ane di sviluppare queste otto dimensioni nel modo più giusto
( corretto, armonioso, bilanciato): per esempio rendere la parola giusta si­
gnifica renderla veritiera, amabile, pacificante, utile.
Ora, in generale, non è difficile vedere come un ritiro, ad esempio, po­
sto che sia alimentato da una retta intenzione, possa essere una ripetizio­
ne su piccola scala di queste varie tappe: dalla percezione che manchi
nella nostra vita una intelligenza fondamentale, al desiderio di accedere a
questa comprensione più profonda, all'abbandono del mondo conosciuto
per entrare nell'ambito ascetico del ritiro, fatto di apprendimento e soli­
tudine, a quel tanto di chiarezza interna che è frutto del ritiro, al deside­
rio di partecipare in qualche modo agli altri questa chiarezza che si è toc·
cata. Più in particolare, tuttavia, vorremmo soffermarci su quel cambia­
mento di rapporto con la propna mente che è a fondamento della purifica­
zione mentale e che è rappresentato dalla qualificazione samma (retto,
giusto), che viene premessa a ciascun fattore dell'ottuplice sentiero. Più si
depura la mente, più samma diventano gli otto fattori del cammino; e più
giusti sono i fattori, più pura è la mente.
Questa giustizia o rettitudine crescente che è causa ed effetto di purifi­
cazione ha molto a che fare con la dimensione dell'equanimità o accetta­
zione attiva,' che nel buddhismo riceve un'attenzione speciale e costante
in tutte le scuole. Infatti una concentrazione più equanime, per esempio,
non può che essere più giusta, ossia meno colorata dall'egoismo; così uno
sforzo più equanime sarà uno sforzo più giusto perché meno sbilanciato e

1 Cfr. la traduzione tibetana, sans rgyas, del nome Buddha, ove sans è il verbo

che design a purificazione .


2 Tra le trattazioni recenti, molto buona quella di Bhikkhu Bodhi (1984).

3 Si può vedere in questo stesso volume il capitolo "Equanimità e retta in­

tenzione".
connotato da tensione. In concreto possiamo domandarci: qual è la radi­
ce dell'equanimità e della sua virtù purificatrice? La sua radice sembre­
rebbe stare, appunto, in un mutamento di rapporto con la mente, più
precisamente nello sviluppo graduale di un atteggiamento amichevole nei
confronti della propria mente, capace di rimpiazzare gradualmente le varie
forme di inimicizia che abitualmente prevalgono: da gradi drammatici di
odio di sé, a sfumature senza numero di sfiducia in sé e di sordità o indif­
ferenza (cioè ostilità).

3. Infatti, come potrò mai essere equanime davanti a qualcosa che mi


turba se non sono in buoni rapporti con la mente turbata che, in questi
casi, soffre e giudica; se, cioè non sono in grado di avvolgere di amicizia
sollecita la mente turbata? In realtà la pratica della meditazione di consa­
pevolezza significa, se correttamente intesa, stabilire un rapporto sempre
più amichevole con la propria mente. Non è un caso che si insista tanto
sulla necessità che la consapevolezza meditativa abbia un carattere non
giudicante e accettante.
E quanto meno giudichiamo, tanto più diventiamo amici. Tanto più la
consapevolezza da semplice capacità di registrare diviene consapevolezza
partecipe, ossia capacità di familiarità, di intimità, di sollecitudine nei con­
fronti della mente. Capacità di non lasciare sola la mente, ma di accompa­
gnarla, invece, in silenzio amichevole. Capacità ùi essere vicini alla mente,
qualunque sia il suo stato. Col tempo, insomma, l'attenzione meditativa de­
ve farsi più calda. E la possibilità di vedere di più (donde il nome vipassana)
è molto legata a questa imparzialità affettuosa. Mentre fin quando siamo
nella morsa della reanività e del giudizio compulsivo non c'è energia dispo­
nibile per vedere più a fondo la natura fluida e impersonale delle cose. Ri­
cordando che non è la reattività o attaccamento che vincola, bensì, come
sottolinea efficacemente Buddhadasa tra gli altri, il problema è " l'attacca­
mento non accompagnato da consapevolezza" (Buddhadasa 1969, p . 12).
Infatti, siamo nella stretta della reattività solo se siamo identificati con
essa; ma se investiamo di consapevolezza, minuto per minuto, la reatti­
vità, non ne siamo più prigionieri e siamo invece più liberi di vedere e di
capire le cose così come sono. Come sa chiunque pratica, giudicarci male
perché siamo reattivi è soltanto un'altra forma di identificazione e di non
libertà. Perciò la vera consapevolezza, quella liberante, non può che esse­
re amichevole. Un'amicizia indiscriminata per tutto l'incessante flusso del­
la mente. Il che, naturalmente, non significa che noi siamo pronti a fare
tutte le cose che la mente suggerisce, allo stesso modo che non prende­
remmo per oro colato tutto quello che dice un nostro amico sofferente
che stiamo assistendo affettuosamente. E più tardi l'amico ci sarà grato
per non averlo preso alla lettera.
Dunque: è possibile coltivare un'attenzione partecipe e sollecita quali
che siano i contenuti della nostra mente al momento: leggeri o pesanti,
gradevoli o sgradevoli, importanti o non importanti? È possibile cioè sta­
re vicino alla mente, abbracciarla, sostener/a qualunque cosa accada? Que­
sto è certo un punto fondante del lavoro interiore, forse il più fondamen­
tale. Significa aver capito che la mente è la cosa più preziosa che abbiamo,
che tutto dipende dalla nostra mente; significa aver capito che la nostra
vita è la nostra mente e che non ci cureremo mai sul serio della nostra vi­
ta fin quando non avremo cura della nostra mente. Accudire la mente,
vegliare la mente, riscaldare la mente. Così come faremmo con un bambi­
no. A chi si avvicina affettuosamente il bambino sorride, come se sentisse
più vita. Al contrario, l'infante lasciato solo facilmente piange.
La mente immatura ha un comportamento analogo: se è avvolta da at­
tenzione sente accrescere la vita, se è lasciata sola entra nel disordine e
nell'ansia. La capacità di stare vicino alla mente secondo amicizia richiede
un lungo tirocinio, il tirocinio, appunto, della pratica meditativa. Se non
abbiamo questo tirocinio e, per esempio, siamo in preda a un malessere,
ci diremo magari 'coraggio' ma non succederà molto, perché non abbia­
mo sviluppato la capacità di adesione, di stare con la mente. Quell'inco­
raggiamento è un attimo di vicinanza, poi ci allontaniamo di nuovo. Ma
se noi assistiamo un amico malato non ce ne anJiamo: rimaniamo seduti
accanto al letto e forse avviciniamo ancora di più la sedia vedendo la sua
sofferenza.
Siamo tutti stati in questa circostanza e sappiamo la gioia, nella soffe­
renza, dell'arrivo della persona cara e di quella vicinanza. La mente è co­
me noi: se è accudita e accompagnata ha più forza e più vita. Se è sola, se
non è assistita dalla consapevolezza, uno scoraggiamento diventa pesante
e duro come un macigno. Se invece siamo in grado di accogliere lo sco­
raggiamento con attenzione assidua, silenziosa e partecipe, è come se lo
scoraggiamento diventasse meno meccanico, meno cieco, meno nemico:
infatti, grazie all'attenzione sollecita, abbiamo stabilito una relazione con
lo scoraggiamento. E relazione significa meno dualismo, meno separazio­
ne, più unità.
È stato detto in proposito: " Non bisogna mai scappare via dal diavolo
o cercare di butt:.trlo fuori; e tanto più forte è il diavolo, tanto più abbon­

dante il bene che ne può emergere. Perché il diavolo sono io. La sua for­
za è un buon indice del mio potere di bene. lo lo guardo, ma solo guar­
do, senza desiderio, odio o paura... Questo guardare sia costante e minu­
to .. Ma il mio guardare non deve tenere l'oggetto a distanza. Lo sguardo
.

freddo non guarisce, anzr� sparge sale nella ferita ... Ciò significa che accan­
to alla percezione analitica ci deve essere un abbraccio caldo e intimo di
questo diavolo-io. Rimanendo vulnerabile, senza offrire resistenza, lascio
che la mia psiche lo assorba pienamente mentre esso entra nel mio essere
Altrimenti rimango spaccato, diviso ... con un osservatore separato che
guarda il diavolo" (Mehta 1976, p. 299).
E ancora il medesimo autore: "La mia prima reazione davanti a uno
stato spiacevole o negativo è quella di sbarazzarmene. Posso tentare di di­
menticare o di ignorare, di sopprimerlo o di fuggirlo; per disperazione
posso anche tentare di distruggerne la causa. Tutto ciò è futile, perché la
violenza e l'odio non possono mai essere curati dalla violenza e dall'odio.
Invece, debbo essere pienamente osservante e spassionato e assorbirlo con
delicatezza nella mia psiche così da consentire che il mio male si trasformi
in compassione e in comprensione. Ciò che è doloroso e ciò che è brutto
è !'occasione mandata dal cielo per esercitare la consapevolezza e sviluppare
il suo potere terapeutico al massimo grado possibile. Perciò io non debbo
essere preoccupato anzitutto di sbarazzarmi dello stato spiacevole o negati­
vo. Ma debbo essere il più possibile attento a esso e imparare tutto ciò
che può insegnarmi: questo è il discepolato" (ivi, p. 303).

4. Questi passi molto lucidi sull'amicizia per la mente ci consentono


alcune ulteriori precisazioni. La prima si può formulare così: se non si è
ben guidati, la consapevolezza può essere usata per aumentare lo stato di
separazione e di paura invece che per alimentare un atteggiamento caldo
e unitivo. Infatti se noi stiamo attenti allo scopo di controllare, per tenere
tutto sotto controllo, noi abbiamo semplicemente messo l'attenzione al
servizio della paura. Tutto questo va in direzione esattamente opposta ri­
spetto alla qualità guaritiva della meditazione e fa pensare a quella cele­
bre metafora classica secondo la quale il Dharma è come un serpente: se
non lo sappiamo prendere nel modo giusto ci morde.
Per questo motivo mi sembra di importanza vitale insistere sull'amici�
zia, sullo spirito di sollecitudine affettuosa come tratti fondamentali della
consapevolezza meditativa. Fondamentali, perché senza questa amichevo­
lezza interna nessuna reale purificazione può avere luogo. Purificazione
piccola o grande, iniziale o avanzata, dai veleni dell'attaccamento, avver­
sione e confusione. Quando noi cominciamo a capire la necessità vitale di
esercitare la consapevolezza per accrescere la vita, è segno che siamo un
poco più liberi dal veleno della confusione. Grazie a ciò e grazie dunque
alla consapevolezza, ci è dato di prender contatto con gli altri due veleni,
l'attaccamento e l'avversione, e percepiamo una cosa che prima percepi­
vamo poco o nulla, ossia quanta sofferenza è generata da attaccamento,
avversione e confusione.
Questa comprensione, questo insight è la condizione primaria perché
l'opera di purificazione si sviluppi in profondità: infatti ora che sapptamo
che viviamo procurandoci abitualmente sofferenza, lo sguardo della con-
sapevolezza sulla nostra mente non può non tingersi di sollecitudine, di
amicizia, di desiderio di stare vicini, di sorreggere e di accudire. Ed è qui,
da questa specifica qualità di amichevolezza non giudicante - lo sottoli­
neiamo ancora una volta - che risiede il fattore depurante per eccellen­
za. Per la semplice ragione che qualsùiSi altro atteggiamento diverso da
questo non potrebbe che rinforzare l'attaccamento-avversione. Non sarebbe
cioè che una nuova versione, più insidiosa, proprio di ciò di cui vogliamo
liberarci. Così, per esempio, se pratico con il desiderio di tenere tutto sot­
to controllo non farò che alimentare la paura dell'ignoto e, insieme, l'at­
taccamento a una certa immagine di me. Oppure se pratico con l 'aspira­
zione (inconfessata e sicché ancora più potente) a diventare pressoché in­
vulnerabile, immaginando che ciò voglia dire equanimità, io, in effetto,
sono terrorizzato dalla sofferenza e aumento la sofferenza.
In realtà l'equanimità che abbiamo menzionato prima come effetto e
causa di purificazione è intrinsecamente fondata sull'amicizia per la men­
te. Perché, appunto, equanimità non significa né infrangibilità, né insensi­
bilità bensi capacz'tà, spaziosità interna. Una capienza interna, dove la con­
tinua consapevolezza amichevole riduce proe:ressivamente i veleni che
causano sofferenza, rendendoli più innocui. E importante capire che al
cuore dell'equanimità c'è calore, c'è lo sguardo benevolente e amico. E se
non c'è questa amicizia, questa non-violenza, non c'è vera equanimità, non
c'è possibilità di non accumulare più attaccamento avversione confusione.
Un'altra precisazione riguarda il rapporto con gli altri. Abbiamo parla­
to di amicizia per la propria mente: ma gli altri che fine fanno? La rispo­
sta è semplice, dato che gli altri arrivano a noi attraverso la nostra mente.
Perciò il rapporto con gli altri sarà esattamente conforme al nostro rap­
porto con la nostra mente: se c'è amichevolezza interna ci sarà amichevo­
lezza esterna. Ma se non c'è amicizia per la nostra mente, amicizia che è
la radice della purificazione e dell'equanimità, non potrà esserci una ca­
pacità amichevole nell'interpersonalità. E anzi il rapporto con gli altri
sarà fonte di continua sofferenza: se non accogliamo, infatti, con paziente
e vigile cordialità tutte le incessanti ondate emotive di gratificazione e di
frustrazione che nascono dal contano con gli altri, noi saremo soffocati
dalle nostre reazioni, cercheremo vari modi di difesa e di sopravvivenza e,
in ultima analisi, non entreremo veramente in relazione con gli altri.
Sicché lo scotto per il fatto di non essere in relazione con la propria
mente è enorme, è perdere gli altri. Ma se c'è invece amicizia per la nostra
mente, che è fittamente popolata dagli altri, ci sarà, finalmente, l'incontro
reale con gli altri. Inoltre, se noi ci volessimo curare del mondo e degli al­
tri trascurando la coltivazione della nostra mente, ossia trascurando pro­
p rio ciò attraverso cui li vediamo, li sentiamo, li giudichiamo, noi in
realtà non ci cureremmo degli altri. E senza pensare che se non ho inti-
mità con la mia mente non potrò capire la mente degli altri che voglio
aiutare. Schumacher, filosofo ed economista, dice: "È un grave errore ac­
cusare la persona che persegue la conoscenza di sé di voltare le spalle alla
società. Sembrerebbe essere più vero l'opposto, e cioè che colui che non
si adopera per conseguire r autoconoscenza è e rimane un pericolo per la
società perché egli tenderà a fraintendere tutto quello che gli altri fanno e
dicono e inoltre a rimanere beatamente inconsapevole del significato di
molte cose che fa" (Schumacher 1977, p. 27). E se Schumacher ha parla­
to ai giorni nostri, il Buddha, parlando della pratica della consapevolezza
meditativa, ha detto: "Io proteggerò me stesso. Così dovrebbero essere
praticati i fondamenti della consapevolezza. Io proteggerò gli altri. Così
dovrebbero essere praticati i fondamenti della consapevolezza. Proteg­
gendo se stessi si proteggono gli altri, proteggendo gli altri si protegge se
stessi" !SN 47, 19).

5. Dunque purificazione significa soprattutto amicizia interna, poiché


solo una virtù positiva così forte sembra in grado di disinnescare la vio­
lenza e la stupidità che ci abitano; solo la coltivazione di questa virtù
sembra capace di portarci a un benefico svuotamento da ciò che ci oppri­
me e causa sofferenza. Di modo che, tolta la violenza dell'attaccamento e
dell'avversione e tolta la stupidità o confusione, possano affiorare la soli­
darietà e la saggezza. Ma questo processo non sempre è chiaro, sia per
una certa predilezione per la terminologia negativa da parte del buddhi­
smo classico, sia a causa di una tendenza contemporanea a vedere il pro­
gresso interiore esclusivamente in modi psicologici.
Può essere perciò utile concludere queste note con un confronto fra
spiritualità buddhista e spiritualità cristiana; confronto che sembra addi­
tare con chiarezza la dimensione transpersonale verso cui è volta l'opera
di purificazione. Ricordiamo quel discorso del Buddha, certo fondamen­
tale, dove si afferma che così come la mente è 'la base' (o luogo, o rifu­
gio) dei sensi, così la consapevolezza è la base della mente e così la libera­
zione è la base della consapevolezza (SN 48, 5 , 2). Perciò, allorché ci dia­
mo da fare per coltivare questa 'cosa' tanto owia e tanto misteriosa che è
la consapevolezza, ossia la capacità di guardare la mente amichevolmente
(perché se non c'è amichevolezza non sveleniamo la mente), noi ci stiamo
occupando di qualcosa di più grande di ciò che appare a prima vista.
Perché, da quello che dice il Buddha, appare che la sali o consapevolezza
abbia la facoltà di maturare all'infinito.
Ora se guardiamo alla tradizione contemplativa cristiana troviamo, se­
condo una terminologia variabile, la triparrizione tra corpo, anima (psi­
che) e spirito, quest'ultimo identificato ora nel centro dell'anima secondo
alcuni mistici, ora nella punta dell'anima secondo altri, ora infine nel fon-
do dell'anima secondo altri ancora. L'incontro con Dio si reputa aver
luogo nel centro o punta o fondo dell'anima ossia, per usare il termine
comune, nello spirito o parte divina dell'anima.' L'analogia col buddhi·
smo, al di là di una terminologia e di uno sfondo dottrinario diversi, sem­
bra evidente. Così come l'anima o mente-cuore è la base dello spirito, co­
sì lo spirito è il luogo di Dio, la scintilla divina, l'intersezione tra finito e
inftnito; allo stesso modo nel buddhismo la sali o consapevolezza che è
basata sulla mente è, a sua volta, base per la liberazione-nirvana.

4 Cfr. Dictionnaire de Spiritualité, s.v. Jme, vol. I, d. 433 sg; anche cfr. riferi­

mento ad 'anima' in AA.VV. Un itineran·o di contemplazione, 1986, pp. 454-55; per


considerazioni attuali, utile Raguin 1985, pp. 10 e 59.
18

Sull'accettazione

l . A mano a mano che il lavoro interiore di una persona si consolida e


che la meditazione di consapevolezza si approfondisce, la dimensione
dell'accettazione prende a emergere in evidenza più spiccata. Tanto che
una consapevolezza matura, fondata su anni di pratica meditativa, po­
trebbe a buon titolo chiamarsi consapevolezza accettante o equanime. È
molto facile, tuttavia, cadere in grossolani fraintendimenti circa l'accetta­
zione, soprattutto se non abbiamo alle spalle un lungo percorso interiore.
Se, per esempio, noi veniamo aggrediti verbalmente da qualcuno, l'accet­
tazione non significherà inghiottire. Inghiottire è, ovviamente, solo segno
di paura. L'accettazione, invece, è anzitutto accettare il disagio che quella
aggressione produce dentro di noi; è non resistenza nel senso di non con­
trazione davanti alla sensazione spiacevole che improvvisamente comincia
a pulsare in noi. Questo mantenersi apetti e morbidi invece di indurirsi ci
mette in grado di rispondere adeguatamente alla situazione invece di rea­
gire meccanicamente. E dunque non solo non inghiottiremo, ma diremo
probabilmente ciò che è appropriato e giusto dire in questa circostanza.
In tal modo non cadremo nella passività impaurita e non cadremo neppu­
re nella reattività cieca che, anch'essa, ha molto a che fare con la paura_
Ora questa manovra di apenura interiore, che è relativamente facile da
descrivere, richiede poi, per essere realizzata, un tirocinio di consapevo·
lezza il più continuo possibile durante la giornata. Tirocinio che metterà
radici salde allorché cominciamo a percepire tutta la sofferenza che si ac­
compagna alla non accettazione, ossia al chiudersi e all'irrigidirsi nell'av­
versione e nella paura. Infatti, chiudersi significa separarsi, dividersi, por­
si contro ciò che sta accadendo. E dunque avremo da una parte la sensa­
zione spiacevole (turbamento, rabbia) e la nostra avversione-paura per es­
sa (non accettazione) dall'altra. Noi siamo abituati a credere - e profon­
de abitudini generano profonde credenze - che il problema stia nella
sensazione spiacevole. Sennonché questa credenza è effetto di ignoranza
(avJjfa). n problema sta invece nell'avversione-paura poiché l'avversione è
il fattore specifico di alienazione, come sa bene chiunque abbia esperien­
za di consapevolezza meditativa. Si può anzi dire con tranquillità che
gran parte del disagio e della sofferenza, piccola o grande, che sentiamo
nel corso di una giornata è generata dalla nostra relazione sbagliata (o non
accettante) con ciò che accade dentro di noi. La pratica della consapevo­
lezza accettante significa cominciare a modificare questa relazione con ciò
che succede, rendendola più unitiva e meno separativa. La difficoltà prin­
cipale sta nel fatto che accettare silenziosamente il disagio e il turbamento
è l'ultima cosa che vogliamo fare. Però, se si tocca con mano che, in ef­
fetto, l'accettazione rende più liberi, allora crescerà l'interesse nei suoi
confronti. Nell'esempio fatto sopra è evidente che, grazie alla consapevo­
lezza accettante del nostro turbamento per essere stati aggrediti, noi avre­
mo più facoltà di scelta, riguardo a ciò che diremo e faremo in quella cir­
costanza difficile. Avere possibilità di scelta significa anche - non meno
cruciale - lo sviluppo di un senso di responsabilità circa le nostre azioni,
parole e, in certa misura, pensieri. E avere più scelta e più responsabilità
significa, appunto, essere più liberi e più creativi.

2. Che cosa succederebbe se la nostra pratica di consapevolezza fosse


disgiunta dallo sviluppo dell'accettazione? Semplicemente, sarebbe una
vera e propria non pratica poiché essa avrebbe un effetto divisivo. Invece
di accogliere e penetrare ciò che, mediante la consapevolezza, veniamo
osservando, noi, al contrario, frapporremmo distanza e freddezza tra l'os­
servatore e l'osservato, rafforzando in tal modo lo stato di separazione e
accrescendo in ultima analisi la sofferenza. Useremmo infatti l'attenzione
e la consapevolezza per controllare e non per comprendere, per evitare di
sentire invece che per sentire più a fondo.
Charlotte Joko Beck definisce la consapevolezza accettante del disagio
come il filo del rasoio: "Se mi sento offesa, voglio aderire ai pensieri che
alimento sull'offesa; voglio aumentare la mia separazione; mi compiaccio
di cuocermi in focose idee di lesa maestà. Ma le idee, i pensieri sono una
barriera che erigo per non sentire il dolore. Più la mia pratica si affina e
più rapidamente mi rendo conto del trucco, ritornando alla nuda espe­
rienza del dolore, il filo del rasoio. Dove, un tempo, sarei rimasta amareg­
giata per due anni, ora la ferita mi brucia per due mesi, due settimane, due
minuti... Ripeto ancora: bisogna partire dal riconoscimento che non abbia­
mo nessuna intenzione di salire sul filo del rasoio, che preferiamo conti­
nuare a stare separati. Vogliamo avvoltolarci nella sterile soddisfazione che
dice: 'lo ho ragione'. È una misera soddisfazione, eppure preferiamo una
vita incompleta a un'esperienza diretta della vita, quando ci sembra dolo­
rosa e sgradevole" IBeck 1 989, p. 1 1 9 sg.). Dunque, riassumendo, l'accet-
razione deve diventare col tempo un fondamento della pratica. L'accetta­
zione può essere anche chiamata 'intento di equanimità' o 'equanimità', a
seconda del suo grado di sviluppo. Grazie a essa la consapevolezza, che è
lo strumento di base, si arricchisce di una qualità indispensabile per la cre­
scita di panna - ossia per l'intendimento delle cose così come sono e la
saggezza che ne consegue. Proprio per sottolineare vigorosamente la cen­
tralità dell'accettazione. Achan Sumedho definisce la via della consapevo­
lezza "la via che non ha preferenze" IAchan Sumedho 1990, p. 251.
L'accettazione poi, oltre a essere essenziale per lo sviluppo della sag­
gezza, è altrettanto cruciale per nutrire la capacità di benevolenza e di
compassione. lo credo che, per ciò che riguarda lo sviluppo di un atteg­
giamento compassionevole, l'esercizio costante dell'accettazione sia anco­
ra più fondamentale delle meditazioni specifiche sulla benevolenza (met­
ta) e sulla compassione (karuna). Infatti, addestrarsi pazientemente nella
consapevolezza accettante di qualunque cosa incontriamo è, di fatto, il la­
boratorio di base per cominciare ad aprirci a una compassione vera.
L'orizzonte della compassione sembra cosa troppo vasta per essere con­
quistato in virtù di un lavoro che sia meno che continuo. Infatti solo la
continuità può sciogliere gradualmente ciò che è separazione e resistenza,
a cominciare dalle innumerevoli vischiosità quotidiane, alla base delle
quali c'è un frequente desiderio che noi si sia diversi da come siamo, che
gli altri siano diversi da come sono e che le circostanze, infine, siano di­
verse da quelle che sono. Un autore cristiano contemporaneo, Maurice
Bellet, parlando della 'divina dolcezza', usa espressioni che nel buddhi­
smo sono impiegate a proposito della consapevolezza e dell'equanimità:
"La dolcezza divina è pace, pace profonda è una mano dolce e mater-
___

na ... che rimette al posto giusto... è un orecchio attento e discreto che


non giudica ... è ferma come la buona terra su cui tutto riposa. Ci si può
appoggiare ... senza tema. È abbastanza solida per sopportare l'infelicità,
l'angoscia, l'aggressione" (Bellet 1988, p. 13).

3 . Phra Debvedi mette in guardia circa un grave fraintendimento sulla


pratica di sati o consapevolezza: "Alcuni dirigono sati sul senso dell 'io e
quindi praticano la consapevolezza di se stessi come agenti delle varie
azioni ('io sto facendo questo', 'io sto facendo quello'), sicché la loro pra­
tica diviene una creazione o un rafforzamento del concetto del sé ... [Sen­
nonché] il punto non è ceno quello di concentrarsi su di sé, pensando 'io
sto facendo questo', 'io sto facendo quello'- Si tratta, piuttosto, di porre
la mente sull'attività alla quale stiamo attendendo e non su colui o colei
che sta svolgendo l'attività. Sali, in effetto, deve portare l'attenzione
sull'azione che viene compiuta o sullo stato mentale predominante, cosic­
ché non ci sia spazio per pensare a se stessi, cioè a chi compie l'azione"
iDebvedi 1 988, p. 301. Di nuovo, l'accettazione, che questo autore non
menziona, sembra il fattore determinante per approdare alla retta pratica,
che deve essere impersonale, come chiaramente mette in rilievo il brano
citato. Infatti, in mancanza di uno sfondo di accettazione, sarà più facile
cadere in un atteggiamento personalistico autocentrato e, in ultima anali­
si, divisivo l "'lo sto attento a me che faccio questo" , "Io guardo questo
mio stato d'animo" ) . Ora l'individuo che alimenta questo atteggiamento
dualistico - atteggiamento che è comprensibile all'inizio della pratica ma
che è da superare col tempo - non fa altro che so!td:/icare dolorosamen­
te l'egoità e l'attaccamento, mettendo il sigillo dell'io-mio sia sulla mente
(nama-khandd), sia sul corpo e sull'azione (rupa-khandd).
Buddhadasa incisivamente annota: "Brevemente, potremmo dire che
l'attaccamento è il considerare qualcosa come 'io' o 'mio"' (Buddhadasa
1989, p. 69). Sati, la pura attenzione, per essere tale, non dovrà operare at­
traverso concetti, a cominciare dal concetto di io. Dunque praticare corret­
tamente vuoi dire attivare la coscienza momento per momento di processi
psichici e fisici nel modo più impersonale. Impersonale significa: non
identificato, non ipnotizzato, non giudicante, spazioso e imparziale. Inve­
ce di "Io so che sto avendo paura, punroppo" o anche di "Io che con­
templo la mia paura", semplicemente (molto più semplicemente ! ) "Pau­
ra'', il processo della paura, che sorge, dura e svanisce e quindi sorge, du­
ra e svanisce ancora, come tutto ciò che cade nel raggio dei sensi e della
mente, come tutto quanto è condizionato.
Ora è evidente, ancora una volta, come soltanto uno sfondo chiaro e
costante di accettazione può rendere possibile questa retta consapevolez­
za. Senza accettazione la contrazione egoica è inevitabile e quindi pure
inevitabile la spaccatura tra osservatore e osservato, con la relativa solidi­
ficazione dd me che osserva e di ciò che è osservato. Invece, mercé l' ac­
cettazione, è possibile transitare da questa situazione a una situazione in
cui l'accento non è più sull'osservatore o sull'osservato bensì soltanto
sull'osservare, ossia una situazione impersonale e spaziosa. Questo com­
porta la dissoluzione di quella continua imputazione di solidità e di sepa­
ratezza che è la fonte primaria di sofferenza. Per esempio, quando io sof­
fro a causa del traffico, buona parte della sofferenza è dovuta al fatto che
io imputo un 'sé', una realtà solida e separata al traffico, ossia al fatto che
io costruisco, fabbrico la realtà 'traffico' nella mia mente. E questa realtà
solida la percepisco in urto contro un'altra realtà solida, 'io'. Tuttavia se
noi, stando nel traffico, invece di agglomerare pensieri e reazioni attorno
all'idea-parola 'traffico', invece, cioè, di animare corposamente il pensiero
'traffico', ci mettiamo a praticare con diligenza la consapevolezza accer­
tante momento per momento, succederà che ci troveremo_ immersi in uno
scorrere di sensazioni e impressioni, alcune (forse la maggioranza) spiace-
voli, altre piacevoli o neutre. A questo punto il 'traffico' come preswua
realtà sarà dissolto e rimarrà solo come utile convenzione linguistica.
Però, non appena mi distolgo dalla consapevolezza attenta, la realtà 'traf­
fico' si ricomporrà di nuovo saldamente nella mia mente e la sofferenza
riprenderà a farsi sentire. Al contrario, se torno a una presenza puntuale
nel presente, la sofferenza comincerà di nuovo a diminuire.
La consapevolezza accettante radicata nel momento presente fa sì che
la 'fabbricazione', l'imputazione di realtà, non prenda corpo perché ogni
reazione o pensiero viene lasciata venire, lasciata stare e lasciata andare.
In questo modo possiamo dire che aumenta la semplicità e l'innocenza,
che è un altro modo di parlare di impersonalità: ossia smettere di solidifi­
care tutto e di riferire tutto a me. Ad esempio, immaginiamo che, nel
traffico lento, ci colga il desiderio di essere ormai a casa. È un desiderio
naturale, ma se io invece di !asciarlo libero di andare e venire - il che ri­
chiede un buon livello di pratica - lo uso come base per costruirci sopra
recriminazioni, previsioni e giudizi, allora cadrò in una familiare dimen­
sione di dolore e di ignoranza. Dunque una buona pratica non deve ne­
cessariamente significare un grado eccelso e raro di equanimità ma signi­
fica anzitutto sviluppare la capacità di non fabbricare, di non edificare
sulle nostre reazioni. O anche, per dirla diversamente, vuoi dire lasciare a
terra, senza carburante, le nostre varie reazioni.
In conclusione, la consapevolezza accettante è indispensabile per una vi­
ta più semplice e più profonda. L'accettazione, infatti. è il fondamento della
non paura. Per questo motivo, allorché si è raggiunto un buon grado di ac­
cettazione, diventa possibile che la consapevolezza sì accenda in noi simul­
taneamente con gli stati di avversione e di attaccamento. La simultaneità è
dovuta, oltre che all'addestramento, al fatto che abbiamo ora meno timore
di quegli stati e siamo perciò più accettanti nei loro riguardi. Inoltre, senza
accettazione, il fattore investigazione-saggezza (panna) non può dare i suoi
fiori e i suoi frutti: se non ho accettazione o almeno un forte interesse per es­
sa, non avrò la capacità di abbracciare imparzialmente quello che la consa­
pevolezza illumina. E solo dall'abbraccio imparziale può nascere la saggez·
za e la comprensione, a cominciare dalla comprensione del dolore generato
dal continuo autoriferimento e dall'incessante processo di fabbricazione e
conglomerazione mentale cui si accennava. Come dire che, nell'ambito del­
la pratica, un primo dono che ci viene dall'accettazione è la facilitazione
della simultaneità di consapevolezza e stati mentali; e un secondo dono è
quello di facilitare la successiva fase di coabitazione-comprensione-lasciare
andare rispetto agli stati mentali di sofferenza: due Joni notevoli.
19

Essere d'accordo
con quello che succede

l. "Essere d'accordo con quello che succede" è un modo molto preciso


- mi sembra - di descrivere l'accettazione, ed è il modo usato da Ar­
naud Desjardins, che è un maestro di Vedanta non privo di dimestichezza
col buddhismo. Sempre a proposito dell'accettazione, così egli annota: "Il
cammino della coscienza è l'adesione; e, con l'esercizio, l'adesione diventa
totale. Bisogna essere completamente d'accordo con tutto .. Bisogna arriva­
.

re all'adesione reale, che è un'adesione completa, senza mezzi termini. Di­


co si al campanello del telefono a metà pranzo e faccio cadere il piatto pie­
no alzandomi, e dico ancora sì. Ma quando mia moglie aggiunge: 'Ti pre­
go, non stare troppo all'apparecchio', allora, ecco, non ce la faccio più a
dire sì. Non è sopportabile e scoppio: 'Ma insomma ! ' ... Ma così non c è
più adesione. Bisogna che l'adesione sia totale, assoluta, senza riserve, a
tutto. Assolutamente tutto. E tutto insieme. Dite sì. Nel momento stesso.
All'inizio, è vero, ciò richiederà uno sforzo, enorme talvolta. Vi citerò una
frase di Anandamayi Ma: 'Lo sforzo sostenuto sfocia nello stato senza sfor­
zo' ... Questa spontaneità non significa dare un pugno a chi mi ha urtato
inavvertitamente; ciò non è spontaneità, ma trasporto d'ira. La vera spon­
taneità è il fatto che la risposta giusta venga facilmente e immediatamente,
come nelle arti marziali" (Desjardins 1977, p. 136).

2. A proposito di tutto ciò, a me pare utile anzitutto riflettere sul fatto


- fatto che un ritiro è in grado di farci vedere molto bene - che noi
spesso e volentieri non siamo d'accordo quasi con nulla di ciò che ci ca­
pita, ossia di ciò che entra in noi per le porte dei sensi e della mente: non
siamo d'accordo col cielo che è ancora coperto, non siamo d'accordo col
taglio dei capelli della persona che sta passando, non siamo d'accordo
con la qualità dei mobili della sala d'artesa dove siamo entrati, non siamo
d'accordo con la faccia così seria del medico, non siamo d'accordo che ci
vengano in mente pensieri sciocchi, non siamo d'accordo che non ci ven-
ga in mente niente, eccetera. Come direbbe Desjardins, noi non aderiamo
alla realtà che incontriamo; al contrario, 'ci sganciamo' di continuo. E co­
sicché, egli osserva, siamo come un'automobile che slitta e sbanda perché
non aderisce con le ruote alla strada.
Naturalmente potremmo dire che, d'altra pane, un certo numero di
cose ci va bene, addirittura molto bene e le accettiamo completamente, a
braccia aperte e con la più grande adesione. Sennonché sta proprio qui
l'attrito che consuma, la spaccatura dolorosa, sta in questo incessante
rimbalzare tra ciò che accettiamo e ciò che non accettiamo, in questa fati­
cosa alternanza di accettazione e di non accettazione, di caldo e freddo,
fuoco e acqua: ma questa altalena continua tra gli opposti è dukkha, è
stress, è sofferenza che crea sofferenza. E non saremo in grado di uscirne
fmo a quando non cominciamo a lavorare per andare al di là dei contrari.
Accettare questo e non accettare quello è dibattersi penosamente nella
sfera degli opposti, come tutti sappiamo. Invece, incamminarsi verso l'ac­
cettazione indiscriminata o equanimità significa avviarsi verso il supera­
mento degli opposti, signiftca una prospettiva di pace profonda.
Su questo argomento ascoltiamo Mahaghosananda: "Equanimità signi­
fica l'assenza di lotta (struggle). Una volta un elefante grande e grosso si
buttò in una pozzanghera per rinfrescarsi. Naturalmente rimase impanta­
nato e quanto più si divincolava, tanto più affondava. Divincolarsi è inuti­
le, peggiora soltanto le cose... La pace può venire soltanto quando noi
smettiamo di lottare con gli opposti. La via di mezzo non ha inizio e non
ha fine, cosicché non c'è bisogno di andare lontano lungo questa via per
trovare la pace. La via di mezzo non è soltanto la via alla pace, essa è an·
che la via della pace" (Mahaghosananda 1 992, p. 37).

3 . Si potrebbe a questo punto domandare se questa assenza di lotta e


di resistenza non vada poi a parare nell'accettazione dell'ingiustizia. Di·
ciamo questo: di solito davanti all'ingiustizia o ci si indigna o ci si ribella
e si agisce in qualche modo, oppure si subisce passivamente senza fare
nulla e si chiama quest'ultima cosa accettazione, erroneamente. In realtà
se riflettiamo in base alla nostra esperienza, ci rendiamo conto che solo
quando siamo capaci di accettare, almeno in qualche misura, un'ingiusti­
zia nei nostri confronti, soltanto allora, in effetto, possiamo arrivare alla
risposta giusta, all'azione giusta. E ciò è diverso sia dal subire passiva­
mente, sia dalla reazione cieca; è bensì una terza via, la via aurenticamen·
te non violenta.
Ossia io in qualche modo sono d'accordo che mi stia toccando un'in­
giustizia; il che non significa che io mi rallegro. Al contrario, io soffro ma,
in virtù della pratica, riesco a toccare un po' di pace nella sofferenza e
dunque a non fare di me il solito caso speciale: così come tocca gli altri,
l'ingiustizia tocca anche me. E poiché la pratica, oltre ad alimentare più
pace, genera anche più sensibilità, succederà che, oltre a soffrire per l'in­
giustizia capitata a me, comincio a soffrire di più per le ingiustizie di cui
sono vittime gli altri. Allora: l'azione giusta per rispondere all'ingiustizia
presuppone l'accettazione che possa esistere l'ingiustizia. Per esempio, un
amico mi aggredisce dicendomi cose non vere. Se riesco a non reagire au­
tomaticamente, aggiungendo la mia violenza alla sua, sarà più facile che,
in un secondo momento, io riesca a fargli vedere la sua ingiustizia. E
dunque, per combattere efficacemente l'ingiustizia bisogna anzitutto ac­
cettare l'ingiustizia, ben sapendo che accettare non significa condonare,
né subire, né chiudere un occhio.

4. Per sviluppare l'accettazione o arte di essere d'accordo con quello


che ci capita, occorre un lungo viaggio nella nostra non accettazione, nella
nostra non adesione alla vita e nel conseguente disagio che questo ci pro­
voca, disagio che la pratica ci aiuta a vedere meglio .t. un viaggio lungo e
.

in salita perché il nostro resistere all'accettazione, il nostro 'sganciarci'


dall'adesione è frequentissimo e capillare, a cominciare dalla compulsione
al giudizio mentale negativo su tutto e su tutti, che è una delle forme più
sorde e potenti di non accettazione. Come procedere? li primo passo,
che rappresenta nulla di meno che le fondamenta del lavoro interiore è,
grazie alla consapevolezza, quello di acquistare una grande familiarità e
dimesticheu.a con la non accettazione in noi. In pratica: avere la costanza,
la forza e la perseveranza di sostenere lo sguardo sul nostro chiuderci.
Guardare e riguardare, vedere e rivedere il nostro no. Semplice e difficile;
ma anche, piano piano, di crescente interesse e coinvolgimento.
Infatti, cosa succede se continuiamo a contemplare il frequente divam­
pare della non accettazione in noi? Succede che da un prevalere iniziale
di sorpresa-disappunto si passa a un sentimento diverso. Nel quale il di­
sappunto appare mescolato con una specie di soddisfazione-fiducia. La
fiducia che proprio questo semplice e difficile lavoro di farsi specchio
sempre più /ermo e terso ha una virtù curativa e guaritiva. Cominciamo a
comprendere che se è vero che non possiamo piegare a martellate la non
accettazione è tuttavia anche vero, per fortuna, che il puntuale e solleàto
contemplare la non accettazione è il segreto per arrivare spontaneamente
ali' accettazione.
A questo proposito è importante sottolineare un punto di pratica: il ret­
to sforzo da compiere non può essere sforzo di accettare, a meno che non
si tratti di piccole cose. Lo sforzo da fare, piuttosto, sarà quello di osserva­
re la non accettazione: prontamente, tranquillamente e, ove possibile, per
tutto il tempo che essa dura. È dallo sforzo di guardare in questo modo la
non accettazione che può sgorgare spontaneamente l'accettazione. lo so-
spetto che tanti disincanti e abbandoni sul cammino spirituale abbiano a
che fare con la mancata comprensione o la mancata spiegazione di questo
punto così cruciale: il dettato fondamentale non è "Sforzati di accettare" ,
bensì " Sforzati di guardare meglio che puoi la non accettazione".

5. Per approfondire le implicazioni di tutto questo, leggiamo questo


passo di un maestro tibetano vivente, il xn Tai Situpa: "C'è una dottrina
importante del buddhismo che può risultare terapeutica per coloro che
hanno difficoltà ad accettare se stessi così come sono. Le persone di soli­
to si irritano con se stesse perché non riescono a essere all'altezza della
loro idea di ciò che vogliono essere. Vedono le proprie debolezze e pro­
blemi e di ciò si deprimono. Di fatto, vedere i nostri difetti è utile; è me­
glio che non vederli. Tuttavia, se tu guardi alle tue limitazioni, problemi e
debolezze come se fossero l'aspetto definitivo e assoluto (ultimate aspect)
di te stesso, allora puoi diventare estremamente negativo circa te stesso e
tutto ciò che ti sta intorno. Ma nell'insegnamento del Buddha non c'è al­
cuna negatività presentata come assoluta e definitiva, nessuna debolezza
vista in questo modo. Qualsiasi negatività, difetto e problema è conside­
rato relativo e temporaneo. In ultima analisi (ultimately), tutto è perfetto.
Non c'è imperfezione dal punto di vista ultimo. Sapere e capire ciò può
aiutare le persone a smettere di dire che odiano se stesse. Non impatta
quanti errori possano aver fatto, la natura ultima di ogni essere umano è
perfetta e positiva. Ed è al di là del corpo, della personalità e delle circo­
stanze mutevoli proprie a ogni vita particolare" (Tai Situpa 1992, p. 43).
Indubbiamente questo brano è molto incoraggiante e rincuorante. Ri­
schierebbe però di restare solo un bel pensiero se non ci fosse la pratica.
Ora cosa ci dimostra la pratica in relazione al passo citato (e pensiamo a
una pratica seria ma assolutamente accessibile)? Ci dimostra, mi pare, va­
rie cose. Anzitutto ci fa vedere che l'odio per noi stessi, la disistima di sé,
la sfiducia in se stessi è anche risultante dali' accumulo amaro di tanta non
accettazione. Un circolo vizioso: noi di fatto non accettiamo quasi nulla
(persone, situazioni, cose) e perciò non accettiamo nemmeno noi stessi
che generiamo tutta questa sofferenza della non accettazione; ma non ac­
cettando noi stessi possiamo ancor meno accettare il resto e così via, in
questa spirale perversa.
In secondo luogo, poi, la pratica ci mostra quello che si diceva prima,
ossia la virtù curativa della consapevolezza della non accettazione: la con­
sapevolezza della non accettazione è 'incinta' di accettazione, porta in
grembo l'accettazione. Dunque, come dicono tante sapienze, non è neces­
sario andare a cercare lontano. li tesoro, ossia il bene della consapevolez­
za, è a portata di mano, è dentro casa sotto la stufa o in giardino sotto
l'albero. Infine, la pratica ci porta alla cruciale domanda: se è vero che la
natura ultima in ciascuno di noi è perfetta e positiva, non sarà che essa
comincia a manifestarsi proprio attraverso la consapevolezza? Non sarà
forse la consapevolezza - ossia questa qualità silente e luminosa che, in
virtù della pratica, incontriamo sempre più - un raggio di quella luce
prim ordiale? Un raggio di quella mente originaria intrinsecamente lumi­
nosa lpabhasrara cztta) IAN, l. 8-10), un raggio che buca le nuvole della
non accettazione? In ambito cristiano, così si esprime Jean Vanier: "Ab­
biamo enormi difficoltà ad accettarci così come siamo, con questo straor­
dinario miscuglio di debolezza e di forza, d'ignoranza e di conoscenza, di
luce e di tenebre, di amore e di odio. E, di fatto, fuggiamo qualcosa che è
la nostra vulnerabilità, la nostra immensa fragilità" (Vanier 1981, p. 4). È
per questo, continua ]. Vanier, che abbiamo bisogno di amore. Ma l'amo­
re in questione, aggiunge, non è semplice sentimento, è qualcosa di molto
più forte: in ebraico la parola equivalente è hézèd, che significa tenerezza
e fedeltà. Io credo che riuscire a sostenere delicatamente la pratica della
consapevolezza della non accettazione sia una prima forma di tenerezza e
fedeltà. La quale è poi capace di farci il dono della tenerezza e della fe­
deltà che sono caratteristiche di una accettazione divenuta matura.
20

Lo svuotamento interiore come pienezza

l . Una pagina magistrale di Martin Buber ci permette di entrare im­


mediatamente nel nostro tema: "L'ingranaggio della nostra umana esi­
stenza, che ingloba ogni cosa, tutta la luce e tutta la musica, tutte le stra­
vaganze del pensiero e le varianti del dolore, la piena dei ricordi e quella
delle attese, è refrattario a una cosa soltanto: all'unità. In ogni sguardo
lampeggiano segretamente mille sguardi che non vogliono apparentarglisi;
ogni stupore, per bello e puro che sia, è turbato da mille ricordi, e persi­
no nel dolore più silenzioso si avverte il sussurro di mille quesiti. L'ingra­
naggio, nella sua estrema sovrabbondanza ma anche povertà, accatasta il
superfluo... crea un vortice di oggetti e un vortice di sentimenti, vortici
che si fronteggiano, si scontrano e si travolgono facendoci percorrere,
senza unità, il nostro cammino" (Buber 1 909, p. 23 ).
A me sembra che il pregio maggiore di questo brano stia nella capacità
di descrivere lo stato di ingorgo cronico, ossia di non semplicità e di non
pace della nostra mente. Ora, se noi interpelliamo al riguardo i cammini
contemplativi, in particolare quello buddhista, riceviamo questa risposta,
variamente espressa, e cioè che la via a quell'unità interiore di cui Buber
lamenta l a difficoltà e la rarità, e dunque la via alla felicità, non può esse­
re altro che la via del vuoto, la via dello svuotamento dall'egoità. Svuota­
mento da questo incessante accumularsi e incrostarsi, da questa prolife­
rante 'sovrabbondanza povera', che ostacola la percezione dell'unità ov­
vero l'esperienza spi :ituale fondamentale: dunque svuotamento salutare,
svuotamento come p1enezza.
Ci sembra che, data la complessità e, insieme, la centralità del tema del­
lo svuotamento, convenga vedere se è possibile anicolare il discorso in
modo più preciso, soprattutto dal punto di vista pratico. A questo propo­
sito, mi pare che si possano enunciare quattro tesi spirituali fondamentali,
ricordando che una 'tesi spirituale' può essere dimostrata solo attraverso la
sua realizzazione esistenziale da parte dell'individuo che è interessato a ve-
rifìcarla. Prima tesi: la prassi interiore continua (meditazione, preghiera) è
una forma di svuotamento, ossia di graduale abbandono di tutto quanto in
noi fa da schermo all'esperienza dell'unità. Seconda tesi: a condizione che
la pratica interiore di svuotamento metodico abbia raggiunto una certa
maturità, tutti gli svuotamenti spiacevoli o dolorosi cui la vita continua­
mente ci sottopone diventano momenti di crescita, occasioni di apprendi­
mento e dunque di pienezza. E perciò tutto quello che è frustrazione, di­
sappunto, stato negativo; tutto ciò che è separazione, perdita, umiliazione,
di vario grado e intensità, qualora venga accolto puntualmente da una pra­
tica solerte e stagionata di svuotamento interiore, pur rimanendo spiacevo­
le o doloroso, cessa tuttavia di essere disgrazia e si converte in lievito di
trasformazione, come vedremo più sotto. Terza tesi: la pratica dello svuo­
tamento favorisce una modificazione della percezione, ossia influenza in
profondità il nostro modo di percepire le cose. Infatti lo svuotamento del­
la percezione dalle concrezioni egoiche porta a una percezione più unita­
ria, meno frammentata e quindi più piena e soddisfacente. Infine, la quar­
ta e ultima tesi è che dove c'è svuotamento profondo, e soltanto in questo
caso, può darsi reale compassione. In altri termini la compassione non può
nascere se non c'è stato un radicale svuotamento dall'egoità.

2. Vediamo adesso di considerare più da presso ciascuna delle tesi enun­


ciate. Guardando alla prima, possiamo distinguere due livelli. TI primo livel­
lo, il più grezzo e immediato, è questo: la prassi interiore di meditazione o di
preghiera è, soprattutto agli inizi, un'attività mentale che, per operare,
prenderà il posto di altre. Ossia occorrerà che la mente, per far posto a que­
sta nuova attività, si svuoti da altre attività. E dunque se io pratico il ricordo
del nome di Dio o l'attenzione gratuita o altra pratica continua, io intro­
durrò una nuova 'cosa' nel mio universo mentale, che, inevitabilmente, sco­
sterà altri contenuti più o meno utili che abitano la mia mente. E questo è il
livello più immediato, che verrebbe da definire idraulico, di svuotamento.
Il secondo livello, più sottile e complesso, presuppone una pratica che
non sia più iniziale. In questo caso, in luogo di un'attività spirituale con­
notata dallo sforzo assiduo di andare controcorrente rispetto a nostre abi­
tudini mentali, come avviene agli inizi, abbiamo, piuttosto, una specie di
sfondo sul quale si tende a ricadere spontaneamente. Nella pratica
buddhista della consapevolezza questo significa un moltiplicarsi dei 'ri·
torni' spontanei e non deliberati della consapevolezza.1 Similmente, in al-

1 Ci riferiamo qui a uno stato di frequente consapevolezza, non già allo stato
raro ed elevato della 'grande consapevolezza' (mahasatt) , allorché essa è continua,
spontanea e acuta. Per una bella descrizione dr. Achaan Maha Boowa 1982, pp.
1 1 1 sg. e, in questo volume, il capitolo conclusivo.
tri tipi di pratica continua, lo sfondo sarà rappresentato da un permanere
in secondo piano della pratica anche quando sono in corso attività fisiche
o intellettuali molto assorbenti.
Prendiamo due esempi. rispettivamente da una tradizione teistica in­
diana e da quella cristiana. Namdev (cit. in Piano 1985, p. 249), poeta
mistico, osserva che la madre del bambino piccolo, pur andando qua e là
per la casa facendo questo e quello non dimentica mai il figlio, e dunque,
anche quando non lo accudisce direttamente, è sempre con lui: allo stesso
modo nel praticante convinto il ricordo di Dio è sempre presente, esplici­
tamente o implicitamente, in primo piano o in secondo piano. Nella tra­
dizione cristiana i famosi Racconti di un pellegrino russo si soffermano su
questo punto: è possibile svolgere un lavoro intellettuale che, altrimenti
da molti lavori fisici, vuole tutta l'attenzione e continuare in qualche mo­
do la preghiera del cuore, per la quale si raccomanda appunto le neces­
sità che divenga incessante? La risposta è questa: immagina che a qualcu­
no venga chiesto di leggere e scrivere alla presenza dell'imperatore; suc­
cederà che questa persona svolgerà il proprio compito intellettuale ricor­
dandosi contemporaneamente e continuamente della presenza dell'impe­
ratore. Allo stesso modo, se la preghiera del cuore ha messo radici, essa
non scomparirà dall'orizzonte interno nemmeno durante il dispiegarsi di
attività mentali apparentemente inconciliabili con essa (cfr. Racconti di un
pellegrino russo, pp. 224 sg.).
Per riassumere: una volta raggiunta una certa maturità, la pratica della
consapevolezza, al pari di pratiche di preghiera continua, diventa comun­
que presente sullo sfondo, anche se l'attività in corso non è quella specifi­
camente meditativa. Ora il fattore di svuotamento sta proprio in questo
sfondo chiaro, giacché la sua presenza costante o frequente ha l'effetto di
relativizzare i vari contenuti mentali che via via si avvicendano dentro di
noi. Di contro a quello sfondo chiaro, essi è come se perdessero densità,
spessore, importanza. Infatti lo stabilizzarsi dello sfondo di presenza non
avrebbe potuto aver luogo se noi non avessimo capito la sua importanza
prioritaria: e quando c'è una 'cosa' costantemente importante, le altre co­
se tenderanno a perdere importanza oppure ad armonizzarsi e allinearsi
con la pratica interiore.
Si verifica perciò un alleggerimento e un diradarsi di quell'incessante
accumulo di cui parla Buber, simultaneamente a un senso di unità-pie­
nezza alimentato dalla semplicità�costanza del 'ritorno al centro' che co­
stituisce la pratica. Rimanendo ancora nella tradizione cristiana, ascoltia·
mo Tauler: "Voglio cantare un canto nuovo sulla nudità, / la vera purità
è priva di pensieri, in essa non possono esserci pensieri. l Ho perduto ciò
che è mio, io sono annientato, l chi ha raggiunto la nudità dello spirito
non può più preoccuparsi" (Tauler 1910, p. 85 1 ) . Evidentemente siamo
davanti a un'espressione della forma più alta dello svuotamento interiore.
In particolare, osserviamo la frase "non può più preoccuparsi", che è for·
se la pennellata più efficace per raffigurare praticamente il grado di svuo­
tamento raggiunto e, contemporaneamente, l'intensità di presenza piena
nel presente.
Da un punto di vista più specificamente buddhista è cruciale il ruolo
che in questo processo di alleggerimento spetta alla comprensione e al di­
scernimento. Nel buddhismo, infatti, l'individuo è invitato a comprende­
re in maniera definitiva la generazione della sofferenza, del disagio,
dell'insoddisfazione; in particolare, siamo sollecitati a cogliere il nesso tra
attaccamento-avversione-ignoranza da una parte e sofferenza dall'altra.
Nella misura in cui io tocco con mano che attaccamento e avversione pro­
ducono sofferenza, io comincio a essere meno ignorante, avendo compre­
so la radice della sofferenza: inevitabilmente, allora, l' attaccamento-avver­
sione prende ad assottigliarsi e, riducendosi l'attaccamento, si riduce an­
che il corteggio di pensieri, fantasie, preoccupazioni e quindi nel nostro
universo interno ha luogo uno svuotamento salutare.
Quanto alla pienezza, ossia all'altra faccia dello svuotamento, gli esem­
pi poetici ricordati sopra possono darcene una idea più accessibile e do­
mestica di quanto non sia la realizzazione elevatissima di cui canta Tau·
ler. Nelle immagini di Namdev e dell'autore dei Racconti di un pe/legrùzo
ruSJo osserviamo infatti sentimenti molto positivi, quali la gioia materna
di accudire il piccolo figlio e la gratitudine rispettosa per essere ammessi
alla presenza dell'imperatore: ed è a questi sentimenti che viene parago·
nato il calore unificante prodotto dalla pratica interiore, calore entro il
quale si compie la varia attività quotidiana, attività che sarà perciò
anch'essa più calda e più unita.

3. Serbando per ultima la seconda tesi, guardiamo adesso brevemente


alla terza tesi, relativa al cambiamento della nostra percezione del mondo
a mano a mano che lo svuotamento interiore progredisce. Abbiamo già
avuto modo di intravedere uno dei fatti più salienti del percorso spiritua­
le, vale a dire il modificarsi della scala di valori e di priorità nell'individuo
coinvolto: infatti, col passare del tempo, ciò che assume priorità su tutto
il resto è la pratica interiore e i valori e le virtù a essa collegati. Ora, co­
me ci insegna la psicologia (cfr. per esempio Ornstein 1972, tutto il capi­
tolo 2), la nostra scala di valori influenza in maniera marcata la percezio­
ne: se per esempio siamo molto assetati e la nostra maggiore priorità è
dissetarci, la sensibilità e la percezione saranno in qualche modo orienta­
te da questa priorità, con varie conseguenze, a cominciare da una grande
selettività in ciò che è percepito.
Più in generale e in modi più complessi, la nostra scala di valori esi-
stenziali, che può essere inconscia, influenza tutta la nostra percezione
delle cose, variamente colorandola, anche se a noi pare assai oggettiva.
Tornando alla pratica interiore come svuotamento dall'egoità: in tennini
di percezione questo significherà una percezione meno soggettivamente
distorta e più capace, invece, di oggettività, ossia di verità e di giustizia e
dunque più profondamente soddisfacente. Nel buddhismo e, in genere,
nelle scuole spirituali, si dice che noi cerchiamo, sì, l'oggettività e la ve­
rità, ma compiendo un drammatico errore, che è quello di prescindere
dalla pulitura del filtro, cioè dalla purificazione della mente-cuore. Il mo­
mento però che questa purificazione o svuotamento si mette in moto, la
nostra pretesa all'oggettività comincia a farsi più fondata e la frustrazione
(dukkha) di mancare in continuazione l'oggettività cesserà di essere un
destino obbligato. Un altro modo di formulare la modificazione percetti­
va è questo: tanta energia precedentemente spesa nell'assiduo preoccu­
parsi viene ora recuperata e, non più risucchiata dalla proliferazione men­
tale egoica o papanca, si rende disponibile per una percezione meno ava­
ra, distratta e prevenuta. E una percezione più rilassata e meno preoccu­
pata è una percezione finalmente ancorata al momento presente, cioè alla
realtà; di qui maggiori possibilità di veder meglio e veder giusto.
La quarta tesi è relativa all'interdipendenza di svuotamento e compas­
sione: lo svuotamento interiore, infatti, si rivela autentico allorché prende
ad accompagnarsi alla capacità compassionevole. Anche qui possiamo di­
stinguere due livelli. Il primo livello, più iniziale, lo potremmo chiamare il
livello degli altri come sfida utile e necessaria per favorire la compassione e
lo svuotamento; il secondo, raro e profondo, è invece il livello degli altri
come oggetto stabile di compassione. Il primo livello significa che il prati­
cante motivato tende sempre più ad apprezzare le difficoltà e i travagli in­
terpersonali in quanto potenziali stimoli insostituibili per il lavoro interio­
re, in quanto inviti sempre più evidenti a liberarsi dalle proprie chiusure e
angustie; mentre il secondo livello presuppone un ampio svuotamento già
avvenuto: l'altro 'entra' con naturalezza, bene accolto sempre e così come
è. L'altro sono io e io sono l'altro, in uno svuotamento compassionevole
ormai irreversibile, come è stupendamente descritto da Thich Nhat Hanb:
"Non dire che domani scomparirò, perché io arrivo sempre. l Guarda
in profondità: io arrivo ogni secondo, per essere un germoglio sul ramo a
primavera; l per essere un minuscolo uccellino con le ali ancora fragili che
impara a cantare nel suo nido; l per essere un bruco nel cuore di un fiore;
per essere un gioiello che si nasconde in una pietra. l Io arrivo sempre, per
ridere e per piangere, per temere e per sperare. l Il ritmo del mio cuore è
la nascita e la morte di tutto ciò che è vivo. l Io sono un insetto che muta
la sua forma sulla superficie di un fiume. l E io sono l'uccello che, a pri­
mavera, arriva a mangiare l'insetto. l Io sono una rana che nuota felice
nell'acqua chiara di uno stagno. l E io sono il serpente che, avvicinandosi
in silenzio, divora la rana. l Sono un bambino in Uganda, tutto pelle e os­
sa, le mie gambe esili come canna di bambù, l e io sono il mercante di ar­
mi che vende armi mottali all'Uganda. l Io sono la bambina dodicenne
profuga su una barca, l che si getta in mare dopo essere stata violentata da
un pirata. l E io sono il pirata, il mio cuore ancora incapace di vedere e di
amare. l Io sono un membro del Politburo, con tanto potere a disposizio­
ne. l E io sono l'uomo che deve pagare il 'debito di sangue' alla mia gente,
l morendo lentamente in un campo di lavori forzati. l La mia gioia è come
la primavera, così splendente che fa sbocciare i fiori l su tutti i sentieri del­
la vita. l n mio dolore è come un fiume di lacrime, così gonfio che riempie
tutti i quattro continenti. l Per favore, chiamatemi con i miei veri nomi,
cosicché io possa udire tutti i miei pianti e tutte le mie risa insieme, l co­
sicché io possa vedere che la mia gioia e il mio dolore sono una cosa sola. l
Per favore, chiamatemi con i miei veri nomi, cosicché io mi possa svegliare
l e cosicché la porta del mio cuore sia lasciata aperta, la porta della com­
passione" (Thich Nhat Hanh 1987, pp. 63-64).

4. Ma torniamo adesso al primo livello, il livello degli altri come mae­


stri di svuotamento e di compassione. La tradizione buddhista Mahayana
ha sviluppato in modo speciale questo tema. Ricordiamo, ad esempio,
l'Addestramento mentale in otto punti di Langri Tanpa, alla strofe quarta:
"Quando incontro qualcuno in preda alla malvagità che, privo di control­
lo, causa danno e dolore, avrò sempre cura di un essere così raro, come
se fosse un tesoro difficile a trovarsi" (Tanpa, s. d., p. 1 1 ). Un commenta­
tore moderno, Gonsar Rinpoce, annota in proposito: " ...i bodhisattva
considerano queste situazioni estremamente preziose, una occasione raris­
sima di pratica, che permette di sviluppare qualità come la pazienza, la
compassione eccetera, in modo molto più potente che in altre condizioni
normali" (ivi).
E ancora, alla strofe sesta: "Ogni qualvolta coloro cui ho fatto del bene e
in cui ho riposto fiducia e grandi speranze mi offendono o mi fanno del ma­
le, io li vedrò come il mio supremo maestro" (ivi, p. 13). Infatti, annota an­
cora Gonsar, "questo essere è un Maestro supremo, poiché ci mette alla
prova per vedere fino a che punto siamo arrivati e se dobbiamo sforzarci an­
cora. Qualche volta possiamo pensare di essere persone molto compassio­
nevoli... però se incontriamo delle persone che abbiamo aiutato e che ci
hanno danneggiato, perdiamo tutta la nostra compassione... Questo mostra
che ci eravamo sbagliati credendo di possedere una forte compassione e che
abbiamo bisogno di impegnarci ancora di più. E questo ci viene mostrato
solamente da quelle persone che ci danneggiano, non certo dagli amici o da
nessun altro maestro, e perciò tali esseri sono maestri supremi" (ivi).
Ma per comprendere meglio questa particolare funzione magistrale de­
gli altri, è necessario considerare la seconda tesi sopramenzionata, secon­
do la quale gli svuotamenti spiacevoli cui la vita ci sottopone di continuo
diventano lievito di crescita qualora ci sia una pratica metodica di svuota­
mento. In generale, parlare di svuotamento, ossia del fatto che la vita ci
toglie in continuazione quello che ci dà, è un altro modo di parlare delle
tre caratteristiche dell'esistenza (impermanenza, insoddisfazione, imper­
sonalità), caratteristiche costanti anche dove a prima vista non sembra.
Per esempio immaginiamo di aver trascorso un anno straordinario,
pieno di buone cose e di successi vari. Sennonché, appunto, l'anno è fini­
to, è passato, è tolto e non possiamo certamente giurare sul prossimo.
Dunque se da una parte la vita è acquisire e compiere, dall'altra è perdita
e sottrazione continua e inevitabile. E tutti gli stati mentali negativi hanno
in qualche modo a che fare con la perdita o con la paura della perdita
della pace, di cose, stima, affetto, salute, persone. Ora, che cosa ci offre la
pratica interiore o di svuotamenro davanti all'assedio della perdita?
In uno dei suoi lavori sullo Zen, H. Benoit fa osservazioni molto pun­
tuali in proposito (Benoit 195 1 , pp. 238-24 1 ) . La principale e più impor­
tante mi sembra questa: qualsiasi dispiacere, piccolo o grande, fisico o
mentale, qualsiasi negatività, qualsiasi sottrazione è una umiliazione, an­
che se può piacerei chiamarla diversamente. Ora, per conquistare l'umiltà
(o coronamento dello svuotamento positivo, potremmo dire noi) occorre,
dice Benoit, 'usare' l'umiliazione (o svuotamento negativo). In che modo?
Restando immobili nell'umiliazione, ossia praticando la consapevolezza
non giudicante.
Perciò restare immobili equivale a dire mente vigile e osservante: e
questo è il contrario di mente reattiva, mente che si identifica con pensie­
ri-fantasie di depressione, di risentimento, di confusione, oppure mente
che fugge nel pensare ad altro o nel negare l'umiliazione. "Ogni sofferen­
za umiliandoci ci modifica - scrive Benoit - ma questa modifica può
essere di due tipi che sono radicalmente in contrasto. Se io lotto contro
l'umiliazione essa mi distrugge e accresce la mia disarmonia interna, men­
tre se io la lascio stare senza oppormi, essa costruisce l a mia armonia in­
terna... Dal momento in cui riesco a restare immobile nel mio stato umi­
liato io scopro con sorpresa di aver trovato 'l'asilo di pace', il porto unico
di sicurezza, l'unico luogo al mondo nel quale posso trovare perfetta sicu­
rezza" (ivi, pp. 240-4 1 ) .
Dunque la pratica meditativa, cioè il restare immobili mentalmente in­
vece che reattivi, ci permette di svuotarci progressivamente dall'angoscia
della perdita. Se non fosse un gioco di parole ingegnoso potremmo parla­
re di svuotamento dallo svuotamento. Il permanere attenti e immobili ci
permette di lasciare affiorare l'egoità, cioè l'attaccamento, l'avversione e
la confusione suscitati dall'umiliazione; ci permette di vedere e capire co­
me, in realtà, l'umiliazione o sofferenza sia causata, retta e costituita
dall' egoità e ci consente, infine, avendo compreso questo, di cominciare a
deporre l'egoità, transitando in tal modo dal disagio dell'umiliazione alla
solida libertà dell'umiltà.'
Allora il frequente monito buddhista che la vita ci è stata data per libe­
rarci dai ki/esa o impurità (per esempio Kor Khao Suan Luang 1985, p. 8
e passim) prende a colorarsi di riflessi entusiasmanti e così pure la tradi­
zione del bodhisattva, in tal modo formulata dal maestro Ghesce Rabten:
"Di fronte a una situazione molto difficile il bodhisattva e gli aspiranti
all'illuminazione invece di deprimersi provano una grande gioia perché si
rallegrano dell'occasione di praticare il Dharma; è come qualcuno che
cerca lavoro e trovandolo è felice, ha trovato lavoro" (Rabten, s.d., p. 18).
In altre parole, davanti a una situazione difficile la nostra tendenza è la
risposta ansiosa, la paura di perdere, la paura dell'umiliazione, del vuoto
freddo, laddove la risposta coltivata dalla pratica è una risposta di interes­
se c di attenzione, potenzialmente o attualmente compassionevole, dun­
que una risposta orientata all'umiltà. Se praticando impariamo a stare fer­
mi (e dunque senza riempire la nostra mente di reazioni), ci accorgiamo
che quello che pesa sul cuore non è la quantità di contenuti mentali, ben­
sì è una qualità e cioè 1'egoità o attaccamento-avversione. È questa qualità
che impedisce l'unità di cui parla Buber, è questa la qualità separativa per
eccellenza, di cui occorre svuotarsi. La caratteristica ostruttiva di questa
'qualità' è posta efficacemente in luce dal Buddha allorché egli osserva
(MN 43, Mahavedallasuttal che l'attaccamento e l'avversione sono kimca­
na, ossia, letteralmente, 'un qualcosa'. E questo qualcosa ha la caratteri­
stica di delimitare, restringere, misurare (pamana-karotz); mentre lo stato
liberato è akincana, 'non-cosa',3 spazio senza delimitazioni, senza 'cose':
la pienezza, appunto, dello spazio vuoto.

2 Tra i moltissimi possibili echi in campo cristiano scegliamo questo passo dal

famoso Breve compendio di perfezione cristiana del Gagliardi (xvu sec.): ... La
'"'

sottrattione che ci dà Dio di simili cose, della vita, quando ci Jà la morte, della
sanità, quando ci dà l'infermità. dei commodi, quando ci manda i travagli e delle
altre mutationi delle cose humane, che quasi ogn'hora proviamo per mezo della
divina previdenza. Talché non passa mai giorno nel quale il Signore non ci levi,
per varii mezi della sua previdenza, molti oggetti e comodità circa quelli. E chi
veramente è spogliato d'ogni affetto di simili cose, ammette con somma allegrezza
ogni sottratione di quelle" (Gagliardi 1952. p. 58).
' Su akimcana si veda il bel saggio di A. Coomaraswamy ( 1977, pp. 88-106).
Dal punto Ji vista interreligioso, sono interessanti le pagine recenti del trappista
S. Caufield su Dio come 'non-cosa' (no-thing-ness) (1980, pp. 9 sg).
Quarta Parte

Consapevolezza e comprensione
21

L a congiunzione degli opposti


nella pratica meditativa

l. In genere ci si rivolge all'esercizio della meditazione perché sospin­


ti, consciamente o inconsciamente, da un senso di incompiutezza e di di­
sagio. Quasi che dicessimo: non può essere che le cose stiano così, ci de­
ve essere un altro modo, una maniera diversa di sperimentare la vita. Ci
deve essere la possibilità di avere una relazione più giusta con la vita, ossia
una possibilità diversa dal sentirsi sempre inadempienti nei confronti del­
la vita e dal vedere la vita stessa come una costante minaccia. Ci deve es­
sere la possibilità di dissipare la confusione e il freddo che ci abitano.
Perciò intraprendiamo la pratica perché in qualche modo siamo a disagio
e perché vogliamo superare il disagio.
Ora la pratica meditativa se, a lungo andare, è in grado di alleviare ra­
dicalmente il disagio, all'inizio ha anzitutto un ufficio diverso, che è quel­
lo di rive/arei meglio il disagio, ossia di portarci in contatto diretto e pre­
ciso con le varie espressioni del nostro disagio. Ciò è reso possibile dal
fatto che la pratica, tipicamente, insieme con la visione del disagio, pro­
cura una forza crescente per tollerarlo e comprenderlo. Cosa vuol dire
che la meditazione ci mostra meglio il nostro disagio? In sostanza e in
classici termini buddhisti vuoi dire che, una volta che si prende a medita·
re, una porzione non piccola del tempo della meditazione trascorre a
confronto con i cinque cosiddetti impedimenti o turbamenti o ostacoli: at·
taccamento, irrequietezza, indolenza, avversione, dubbio.
Non è raro, soprattutto agli inizi della pratica, che una seduta di medi­
tazione sia tutto un alternarsi dei cinque impedimenti, a ondate successi�
ve. È bene aprire subito una parentesi in proposito: tra un'ondata e l'altra
c'è una pausa, breve o meno breve. E la corretta pratica di attenzio­
ne/consapevolezza meditativa è farsi progressivamente più svegli sia ri­
guardo alle ondate dei turbamenti, sia riguardo agli interstizi di pace tra i
turbamenti. Infatti, se mettiamo l'accento solo sui turbamenti o solo sulla
pace, cadiamo in una prospettiva distona e squilibrante, mentre è neces�
sario accorgersi fin dall'inizio della pratica che, nella nostra mente, turba­
mento e pace sono come intessuti l'uno nell'altra. Oltre tutto, saper vede­
re la compresenza della pace e del suo contrario attenua la paura del tur­
bamento e dunque, in ultima analisi, attenua il turbamento. Perciò, co­
gliere gli intervalli di pace, anche minuscoli. Evitando le due opposte ten­
tazioni di aggrapparsi a essi oppure, al contrario, di ignorarli, nella nasco­
sta presunzione, istillata anche dalla nostra cultura, che ciò che conta di
più sia la tensione, l'eccitazione, il drammatico.
Giacché infatti, a meno che non abbiamo lungamente lavorato su noi
stessi o a meno di non essere favoriti da un'indole specialmente spiritua­
le, è facile essere presi da un richiamo costante e indiscriminato verso
l'eccitazione. Basta osservare il compiacimento che tante volte accompa­
gna la frase "Sono occupatissimo" e l'invidia che essa può suscitare. Pri­
vilegiamo la tensione, come individui e come società. Quasi che la giorna­
ta e la mente gremite ci potessero impedire di essere "uomini vuoti . . che
.

appoggiano l'un l'altro l la testa piena di paglia. Ahimè! l le nostre voci


secche, quando noi l insieme mormoriamo l sono quiete e senza senso l
come vento nell'erba rinsecchita l o come zampe di topo sopra vetri in­
franti l nella nostra arida cantina". 1
Mentre è vero il contrario, e cioè che siamo alienati a causa della ten­
sione acquisitiva, la quale è molto alimentata dal fatto che nella nostra so­
cietà la pace interiore non è un valore. Valori molto più dominanti, invece,
sono l'acquisire e il competere. E ciò sia nel campo materiale, sia in qud­
lo intellettuale, sia, non di rado, in quello religioso-spirituale.' Una volta
poi che ci ritroviamo bruciati e svuotati dalla tensione, può darsi che ri­
corriamo a qualche tecnica di rilassamento, immaginando di stare cercan­
do la pace. Sennonché la ricerca della pace può essere fruttuosa solo se
per noi la pace è un valore in sé. Se invece i valori sono altri e il rilassa­
mento è a essi subordinato - cioè se uno è mosso dal desiderio di ritem­
prarsi per tornare a competere e acquisire meglio - allora il rilassamento
servirà solo a rendere più arida la nostra cantina. "L'uomo che corre co­
stantemente verso la pace è un uomo celeste" dice Eckhart (Opere tede­
sche, Sermone 7, p. 169), indicando efficacemente il primato assoluto del­
la pace. Ed è inutile dire che per cercare la pace è necessario abbandona­
re innanzitutto l'idea di 'starsene in pace'. n che ci riporta al tema dei
cinque turbamenti.

2. Infatti, l'accoglienza attenta degli spazi di pace in meditazione è so­


lo una faccia della medaglia. Conviene adesso chiedersi quale sia l'atteg-

' T. S. Elior, The Hollow Men, 1 : trad Sanesi, p. 249.


.

2 Magistrale su questo punto l'analisi buddhista di Trungpa 1973.


giamento giusto nei confronti dell'altra faccia, ossia delle varie forme di
turbamento. Perché, nella prassi meditativa, se un occhio dovrà essere
per la pace, per apprendere a incentrarla, a rispettarla, a viverla, senza
sgualcirla con l'attaccamento, l'altro occhio dovrà puntarsi sulla non pa­
ce, così come si esprime nei cinque impedimenti. Ora, come ben sa
chiunque abbia una lunga pratica di raccoglimento alle spalle, l'atteggia­
mento più fruttuoso, oltreché più difficile, di fronte ai turbamenti è quel­
lo proprio di una madre responsabile verso il suo piccolo figlio natural­
mente irresponsabile, vale a dire un atteggiamento fatto di accettazione,
fermezza e intelligenza insieme. Questa immagine, che è opportuno ram­
mentarsi migliaia di volte nella pratica, ha il vantaggio di presentare gli
impedimenti come figli di cui prendersi cura, invece che come nemici da
sconfiggere, secondo la tradizionale metafora guerresca del 'combatti­
mento spirituale'. Ossia ha il vantaggio di configurare un'immagine di
unità affettuosa invece di un 'immagine eroica che può essere, sì, suggesti­
va, ma che è certo pericolosamente dualistica e dualizzante. Senza pensa­
re, inoltre, che se faccio il viso dell'arme agli impedimenti, posso cadere
dritto in bocca all'impedimento dell'awersione (e dunque impazienza,
paura, volontà di potenza).
Ora, dire atteggiamento materno-responsabile significa dire attenzione
sollecita e non giudicante: che è, appunto, l'atteggiamento da coltivare e
sviluppare nei confronti degli impedimenti. Inutile dire che la coazione a
giudicare e a giudicarsi non si attenua nello spazio di un mese o di un an­
no. Eppure, già riuscire a porre nel fuoco dell'attenzione proprio questa
spinta incoercibile alla sentenza, questo sordo rumore di fondo, è un
buon passo verso l'instaurazione della consapevolezza. L'esercizio dell'at­
tenzione non giudicante - che dapprima sarà, appunto, attenzione al
continuo giudicare - produce col tempo un risultato, tra gli altri, della
massima importanza, che è lo sviluppo di un graduale interesse nei con­
fronti dei turbamenti che si avvicendano in noi; interesse che si estenderà
poi, in qualche misura, ai turbamenti degli altri.
Per cui, ad esempio, un nostro moto di irrequietezza, una volta colto,
sarà non soltanto doloroso ma anche, stranamente, interessante. Ovvia­
mente, ci troviamo qui a una svolta, perché prima di questo momento era
impossibile stare davvero con i nostri stati negativi. Adesso invece succe­
de questo, che non abbiamo più l'ossessione di sbarazzarcene e che, anzi,
cominciamo ad avere l'wniltà di saperci convivere insieme, il che non si­
gnifica, naturalmente, che ci piaccia averli. E un aumento di umiltà signi­
fica un aumento di ricettività e di disponibilità e dunque di interesse ge­
neralizzato per la vita, che include i nostri stati negativi. I quali, dal mo­
mento che cominciano a essere avvolti da interesse, prendono a indebo­
lirsi. Infatti, un'irrequietezza che ci interessa guardare è un'irrequietezza
minata: perché è come se le avessimo messo dentro un germe di calore
che piano piano ne provocherà lo scioglimento. È forse opportuno preci.
sare che questo interesse liberante non ha nulla a che vedere con una nar.
cisistica fascinazione per i propri problemi.'
La differenza è che mentre il primo si estende naturalmente ai proble­
mi degli altri, la fascinazione narcisistìca, tutto al contrario, si accompa­
gna a noia e fastidio per le difficoltà altrui. Ma, come appunto si diceva,
per arrivare a questo interesse occorrono tempo e disciplina: sarebbe
strano, infatti, pensare che una madre responsabile possa rimanere atten­
ta e accettante davanti a tutta la dipendenza, l'aggressività e l'impotenza
del bambino senza avere disciplina. Allo stesso modo, il meditante ha bi­
sogno di disciplina per fronteggiare il dispiegarsi degli impedimenti. La
disciplina, come si diceva, di guardare senza giudicare tutto ciò che acca­
de nella sua mente ogni momento. E poiché questo è difficile, a chi vuole
coltivare la meditazione di consapevolezza viene proposto di aiutarsi
mercé un 'oggetto primario' o privilegiato di attenzione e cioè il respiro.
In sostanza, la consegna è quella di studiarsi di aderire al respiro e, in·
sieme, di 'prender nota' di quei pensieri, emozioni, sentimenti, sensazioni
fisiche che via via emergono accanto al respiro.4
Dunque, in pratica, nella modalità di meditazione di consapevolezza
che qui consideriamo si richiede che l'attenzione sia rivolta alla respira­
zione e che, insieme, quanto più possibile, 'fotografi' pensieri, emozioni
eccetera, che affiorano per ritornare quindi subito al respiro. La differen­
za tra 'fotografare' un pensiero e indugiare in un pensiero è la stessa che
corre tra il guardare un'auto che ci passa davanti mentre noi rimaniamo
fermi e il salire a bordo di quell'auto. Una volta che questa pratica di 'at­
tenzione ancorata' (al respiro) non presenta più troppe difficoltà, si potrà
passare, almeno per brevi periodi, alla pratica dell'attenzione totale, nella
quale si invita la mente a prescindere anche dal supporto del respiro e a
essere consapevole il più possibile di tutti i suoi movimenti. Inutile dire
che la pratica della consapevolezza aperta o attenzione totale presuppone
che l'individuo abbia già raggiunto un ottimo livello di stabilità e di cal­
ma interiori abituali.

3 . Inoltre, una crescente capacità di attenzione globale nella pratica


meditativa implica anche un aumento di quella capacità di interesse di

} Sui pericoli dell'introspezìone e della consapevolezza malintese e il conse·

guente narcisismo si può vedere Schur 1976, del quale però spiace l'insensibilità
agli autentici valori religiosi.
4 Particolarmente chiara su questo punto la scuola birmana di vipassana che fa

capo a Mahasi Sayadaw, alle cui opere rimandiamo: dr. per esempio 197 1 .
cui si diceva prima. E capacità di interesse non selettivo per ciò che acca­
de è un altro modo di parlare di attenzione spontanea. In proposito, si
capisce facilmente che, affinché la consapevolezza iniziale maturi in intel­
ligenza affettuosa, lo stato di interesse non selettivo o di attenzione spon­
tanea deve diventare abbastanza frequente. Altrimenti, se siamo dotati
soltanto di interesse selettivo, la nostra facoltà di capire e di amare sarà
piuttosto ristretta. È interessante notare che lo sviluppo di un'attenzione
gratuita, quanto a dire di un interesse disinteressato, può generare in noi
una nuova forma di disappunto, almeno nei primi tempi: il disappunto,
dianzi sconosciuto, di avere vissuto questa o quella situazione di una no­
stra giornata senza il lume dell'attenzione. Il disappunto nasce perché or­
mai ben sappiamo che, se fossimo stati svegli e consapevoli, quella situa­
zione, quale che sia, sarebbe stata comunque interessante. E sappiamo
che quando un qualcosa coinvolge il nostro interesse, scatta in noi un rap­
porto con quella cosa e dunque una possibilità di calore e di unità.
Ritorniamo ora alle cinque manifestazioni del disagio e al modo mi­
gliore di occuparcene: sia in meditazione sia nella vita di tutti i giorni.
Tra i vari espedienti che vengono suggeriti, in particolare da alcune scuo­
le, per esempio nella tradizione Zen (dr. per esempio Seung Sabn 1976,
pp. 16-19), uno dei più efficaci e profondi, anche se non il più facile, a
me sembra quello dell'interrogazione intensa o investigazione, che è anche
affine a un modo privilegiato di lavoro interiore proprio dell'Advaita Ve­
danta. L'idea è (per esempio davanti a un sentùnento di rabbia) quella di
chiedersi il più intensamente possibile e con la frequenza che ci pare più
opportuna: "Chi è arrabbiato"', oppure: "'Che cosa è questo"'. Ciò non
tanto prefiggendosi di ricevere una risposta - anche se la domanda può
essere seme di future intuizioni inaspettate - quanto, piuttosto, allo sco­
po di accendere e rendere acuta l'attenzione, favorendo così la disidentifi­
cazione nei riguardi dell'ira. L'interrogazione - che può essere usata in­
dipendentemente dalla presenza o meno di un ùnpedimento mentale -
ha il potere di svegliarci e dunque può donarci uno sguardo più innocen­
te e nuovo sulle cose, inducendoci a non darle per scontate e dunque a
reagire meno automaticamente.
Siamo talmente abituati alla nostra aggressività, al nostro attaccamento,
alla nostra noia, che non vediamo nemmeno per un attimo la loro fonda­
mentale misteriosità. Ma se, grazie alla consapevolezza e all'interrogazio­
ne, provvediamo a disabituarci, allora questo può succedere; allora, ina­
spettatamente, potrà prendere a modificarsi la relazione che abbiamo con
il nostro attaccamento, con la nostra aggressività e con gli altri impedi­
menti. E la gradualità con la quale questa modificazione avviene non
sembra togliere alcunché alla reazione di sorpresa grata e quasi incredula
che il processo suscita in noi, che adesso ci ritroviamo a colloquio con la
nostra aggressività invece che esserne accecati o comunque sopraffatti. È
segno che l'asse sta spostandosi dall'identificazione con la rabbia alla con­
sapevolezza della rabbia, ossia che l'energia sta muovendosi dalla perife­
ria al centro e dunque, sempre più, dal divampare della rabbia al brillare
dell'attenzione.

4. Naturalmente, un risultato importante di questo spostamento di as­


se che, abbiamo visto, mi pone in una nuova relazione con i miei stati
d'animo, sarà quello di farmi capire meglio la mia e l'altrui rabbia. Cosic­
ché comincio a comprendere più in profondità il Buddha quando afferma
che adirarsi con qualcuno è come scagliare carboni ardenti o escrementi
contro quella persona: brucio l'altro e brucio anche me, sporco l'altro e
sporco anche me.
Per riepilogare e chiarire meglio il lavoro di base, cioè l'esercizio della
consapevolezza, eventualmente accompagnato dalla tecnica dell'interro­
gazione intensa, può giovare un esempio. Se io vado al cinema posso
guardare lo spettacolo secondo tre modi diversi; (a) penso ad altro, sono
distratto, la storia sullo schermo è solo un sottofondo a certe mie preoc­
cupazioni dominanti; ( b ) sono attento e totalmente identificato con la sto­
ria del film e con i sentimenti che mi suscita; (c) sono sempre molto at­
tento al film, lo gusto, vi partecipo. Ma la mia attenzione ha confini più
ampi del film, è diversa dall'ipnosi tipica dell'identificazione. Né, d'altra
parte, questa maggiore ampiezza significa che io faccio qualcosa per
prendere le distanze dal film, per esempio recensendone mentalmente
ogni sequenza allo scopo di difendermi dall'emozione che il film mi pro­
voca. Questo sarebbe un chiudermi al film, sarebbe mettere un cuneo tra
me e il film . Mentre invece nella modalità (c), dell'attenzione globale, vi­
ge un'attenzione che è diversa non solo dall'attenzione-identificazione
ipnotica, ma anche da forme di attenzione che se da un lato sono abili e
attive, cioè non ipnotiche, dall'altro però sono troppo fasciate da volute
di incoercibile pensiero discorsivo, che spegne la virtù specifica dell'at­
tenzione.
In pratica, attenzione all'oggetto collocandolo in uno spazio più ampio
dell'oggetto stesso, significa una fruizione-percezione più indipendente
dall'oggetto. Mentre se guardiamo l'oggetto secondo la modalità angusta
e senza spazio dell'ipnosi identificatoria avremo dipendenza nei suoi con�
fronti. Ndl'esempio del film, attenzione spaziosa significherà anzitutto es­
sere consapevoli anche delle nostre reazzoni durante la proiezione del film
e, inoltre, dell'ambiente nel quale il film è proiettato. Ma soprattutto si­
gnificherà, qualora la pratica della consapevolezza non sia troppo giova­
ne, una paradossale combinazione di senszbilità ed equanimità. Nel senso
che le bellezze o le brutture del film ci colpiranno di più di quanto succe-
deva in stagioni spiritualmente più incolte della nostra vita. Al tempo
stesso, però, se per un verso la reazione a questa o quella scena potrà es­
sere più acuta di un tempo, dall'altro sarà anche meno vischiosa e meno
durevole. Quanto a dire che si è accresciuta la nostra capacità di stare nel
momento. E questo si accompagna sempre a una maggiore capacità di
comprensione.
Facilmente, qui però può sorgere il timore che la consapevolezza 'non
convenga', dato che parrebbe ridurre la risonanza non solo delle reazioni
negative, ma anche quella delle positive. Che dire in proposito? Questo:
ciò che va comunemente sotto il nome di stato d'animo 'positivo' può
ben essere soltanto un'eccitazione superficiale e vuota che distoglie dal
contatto nutriente col centro di noi stessi non meno di uno stato d'animo
conflittuale. In tal caso la perdita di un simile stato d'animo ci si rivelerà
ben presto come un ottimo acquisto. Se poi invece lo stato d'animo ali­
mentato dal film fosse autenticamente positivo, se cioè esso è connotato
sostanzialmente da pace, allora la consapevolezza avrà solo l'effetto di
consolidarlo. Per la semplice ragione che la pace è anche la natura /onda­
mentale della consapevolezza. Non a caso in uno stato di pace profonda
(che non sia cioè finta pace) l'attenzione brilla forte.

5 . Questa attenzione spaziosa e accettante che si è cercato di descrive­


re con l'esempio del cinema è frutto e, insieme, strumento del lavoro sui
cinque impedimenti. È frutto allorché comincia a imporsi nelle nostre esi­
stenze quale realtà spontanea e specifica, tutt'altro che vaga ma, anzi, più
solida ed evidente di altro. È strumento, invece, quando è volontà di at­
tenzione, intento di accettazione, desiderio di spazio, ossia quando è retta
disciplina continuamente rinnovata. A questo punto conviene chiedersi in
quale senso gli impedimenti siano impedenti.
Certo, l'agitazione, il torpore ecc. ostacolano l'accesso immediato alla
tranquillità e alla perspicacia e in tal senso essi sono impedimenti. Però
abbiamo anche visto che grazie al lavoro su di essi si genera uno sposta­
mento di asse, dal regime della distrazione al regime della consapevolezza
che è anzitutto pace. E in questo senso essi sono, nel lungo termine, non
ostacoli bensì veicoli di pace. Poiché infatti essi ci sfidano, costringendoci
sempre di più (man mano che prendiamo coscienza della posta in gioco)
ad accendere una consapevolezza capace di abbracciarli. Viene in mente
una celebre immagine di autori spirituali cristiani (cfr. per esempio san
Bernardino da Siena, I tre Jlati del dtvino amore, p. 146) che paragona
l'animo grande a un fuoco robusto che il vento delle avversità non solo
non spegne ma che rende anzi ancora più gagliardo e sfavillante. E dun­
que, fino a che punto le avversità sono cattive, fino a che punto gli impe­
dimenti sono impedimenti?
Cerchiamo di osservare più da presso tale questione, che è, per l'ap­
punto, la questione specifica dell'unione degli opposti in meditazione, ri�
cardando l'immagine alchemica del vaso ermetico nel quale i metalli vili
sono cotti e trasformati in oro, che possiamo tentare di leggere così: nel
vaso alchemico che è la disciplina meditativa, la fiamma dell'attenzione, il
cui combustibile sono i metalli vili, ossia gli impedimenti, genera l'oro
dell'intelligenza affettuosa. Infatti nella meditazione abbiamo da una par­
te l'esercizio della consapevolezza, dall'altra le ondate dei turbamenti:
l'esercizio della consapevolezza continuamente ed energicamente solleci­
tato dalle onde dei turbamenti, i turbamenti incessantemente abbracciati
e accolti dalla consapevolezza, che li guarda senza condannarli e senza
nutrirli.
I turbamenti servono la consapevolezza, la consapevolezza serve i tur­
bamenti. Dunque nulla è inutile, tutto serve, tutto è grazia. Siamo distrat­
ti in meditazione? Accogliamo la distrazione. Siamo impazienti perché
siamo distratti? Accogliamo l'impazienza. Ci compiacciamo per la nostra
concentrazione? Accogliamo la vanità. Ci accorgiamo di essere vanitosi e
ci disprezziamo per questo? Accogliamo la nostra superbia. Un'assidua
collaborazione tra i turbamenti e la consapevolezza non giudicante, un ti­
rocinio parallelo vicendevole. I turbamenti insegnano alla consapevolezza
a essere sempre più accogliente e spaziosa, a essere sempre più madre re­
sponsabile, e la consapevolezza insegna ai turbamenti a placarsi: dunque,
un reciproco insegnamento di pace.

6. Allorché si comincia a intravedere questo miracolo, anche se solo


per fugaci barlumi, allora il calore della consapevolezza diviene anche ca­
lore di fede e la vita prende a riorientarsi secondo una nuova bussola che
piano piano rimpiazza la bussola dell'egoismo (già, perché se questo mi­
racolo di luce e di oscurità che si fecondano a vicenda è possibile, allora,
anche se i turbamenti ci pungeranno ancora e drammaticamente, abbia­
mo capito che nella vita c'è una qualità, un senso infinitamente più vasto,
maestoso e incoraggiante di quanto avvertissimo prima, allorché ci senti­
vamo minacciati dalla vita e dai turbamenti e vivevamo in quella che ci
appariva come una insormontabile spaccatura e conflittualità. Lo abbia­
mo capito e non ce lo dimentichiamo. Questa è la fede: che perciò è, in­
sieme, presentimento di unità e aspirazione all'unità. Quella unità che,
appunto, ci si è sorprendentemente annunciata nella fusione feconda de­
gli impedimenti e della consapevolezza, in questa imprevedibile congiun­
zione di opposti nella quale ci siamo imbattuti, a faccia a faccia, nel no­
stro itinerario contemplativo.
Arrivati qui, è opportuno domandarsi se non ci sia nel cammino inte·
riore qualche tratto saliente da lumeggiare per renderei meglio ragione di
tutto ciò che ha potuto favorire questa conversione all'unità. Torniamo
alla dinamica dei turbamenti, al loro intrecciarsi intorno a noi e all'intrec­
ciarsi della consapevolezza intorno a essi: accade, nel lavoro interiore, che
sempre più noi non sfuggiamo ai turbamenti e i turbamenti non sfuggono
a noi. Come dire che poiché sempre meno storniamo l'attenzione da essi,
sempre meglio li conosciamo: i turbamenti entrano nella consapevolezza,
la consapevolezza entra nei turbamenti.
E qualche volta ci può capitare di spaventarci del potere dei turba­
menti: è un potere che prima, quando li conoscevamo solo superficial­
mente, non sospettavamo. Poi ci accorgiamo che anche lo spavento per i
turbamenti è un turbamento non diverso dagli altri e che anch'esso è pa­
cificabile dalla consapevolezza. E c'è un momento, come si diceva sopra,
in cui comincia a balenare la sorpresa dell'unione tra impedimenti e con­
sapevolezza, cioè la sorpresa di un momento di accettazione profonda:
come se sentissimo, finalmente, il velluto tra i sassi. E questo ci apre gli
occhi. Perché, avendo gustato un po' di questa dimensione, ci avvediamo
solo ora davvero, per contrasto, del deserto che ci portiamo dentro: il de­
serto di amore attivo, l'incapacità fondamentale.
Non è un pensiero, è una realizzazione: ora, cioè, il deserto, che è una
manifestazione degli impedimenti, è entrato nella nostra consapevolezza e
la consapevolezza è entrata nel deserto. L'effetto di questo connubio è
che questa carenza fondamentale ci comincia a bruciare. !. un dispiacere,
benché sia un dispiacere diverso dal dispiacere dell'io ferito. Potremmo
dire che è un dispiacere intriso di consapevolezza, consapevolezza
dell'unica cosa che conta e dispiacere di non sentirla in noi. Ma oltre e
più che dispiacere, è aspirazione crescente e gradualmente dominante. E
sempre più ci viene fatto di guardare cose, avvenimenti, persone, pensieri
in controluce con questa aspirazione fondamentale. Ora il mondo visto
controluce, ossia guardato dentro lo spazio più grande dell'aspirazione
all'unico necessario, è un mondo che è lo stesso e non è più lo stesso di
prima. Perché la consapevolezza è entrata nel mondo e il mondo è entra­
to nella consapevolezza. Ancora, le nozze misteriose. E quanto più guar­
diamo il mondo controluce, tanto più questa operazione diviene un biso�
gno, un nuovo e forte bisogno che vuole essere esaudito.

7 . Ricordo che una volta un meditante mi raccontò di avere ricevuto


inaspettatamente una buona notizia, molto importante per lui, durante un
ritiro di meditazione. La cosa ebbe l'effetto di trasformare la sua ottica di
quei giorni: da preoccupazione e fastidio per questo e per quello a gene­
rosità, tranquillità, realismo e soprattutto amicizia sia per i propri stati
mentali (positivi o negativi), sia per le altre persone (simpatiche o antipa­
tiche) del ritiro.
A me sembra proprio che allorché rispondiamo al bisogno di guardare
il mondo controluce, cioè sullo sfondo dell'aspirazione a ciò che è senza
misura, allora è come ricevere una buona notizia nel corso di un ritiro
difficile. È un bisogno profondo che si è fatto vivo (o forse soltanto più
vivo) da quando la consapevolezza ha fecondamente incontrato i nostri
turbamenti e i turbamenti hanno preso dimora nella consapevolezza. C'è
perciò buon motivo per essere grati sia ai turbamenti che forniscono il
combustibile, sia alla consapevolezza che li cuoce a fuoco dolce, sia, infi.
ne, alla meditazione che è il vaso alchemico che contiene entrambi.
22

Note sulla retta pratica

l . C'è un fenomeno che capita talora di osservare nel panorama della


spiritualità odierna e che, a causa delle sue implicazioni, vale la pena di
commentare. Mi riferisco all'atteggiamento di chi, nell'ambito di un cam­
mino spirituale, sceglie una pratica interiore ridotta al minimo indispen­
sabile, la colloca nel proprio universo mentale, in eclettica compagnia di
questo e quell'altro spunto spirituale e, per indolenza o per sospettosità,
non si cura in alcun modo di prendere in considerazione lo specifico re­
trote"a dottrinario di quella pratica. Non si parla qui di uno spirito di
apertura e di ricettività interreligiosa nei confronti di vie spirituali diverse
da quella che un ricercatore ha prescelto. lnterreligiosità che, secondo
me, può essere un lievito eccellente per il progresso spirituale, dato che
facilmente accresce la motivazione al lavoro interiore, favorisce una salu­
tare disidentificazione dalla ideologia religiosa e aiuta a spostare il fulcro
dell'interesse dall'ortodossia all'ortoprassi e dunque dal travaglio circa la
credenza giusta al travaglio circa la pratica giusta.1
Qui parliamo, piuttosto, di chi, per fare un esempio, prende da un
contesto vedantico la pratica dd "chi sono io" e la trasporta nel suo mon­
do mentale, che non si preoccupa però minimamente di nutrire col Ve­
danta. Oppure: pensiamo a colui che cerca di praticare una tecnica di at­
tenzione ricavata dal buddhismo, ma che sul buddhismo non si è infor­
mato, né conta di farlo. E così un altro ancora potrà essere interessato al­
la preghiera del cuore cristiana ritenendo sufficiente all'impresa il suo
sparuto corredo di ricordi sul cristianesimo. Niente di male, naturalmen­
te, e, anzi, discrete possibilità di bene.
Sennonché - ed è questo soprattutto che si intende sottolineare qui
- a me sembra che questo atteggiamento parsimonioso rischia di porre

1 Si può vedere, in questo stesso volume, il capitolo Il dialogo interreligioso Cff

me guida spirituale.
precisi limiti al nostro lavoro interiore. Mi pare cioè che se non ci tuffia­
mo generosamente nella tradizione d'origine della pratica scelta noi, in ef­
fetto, ci priviamo di uno strumento fondamentale. Si badi bene: non stia­
mo pensando alla necessità di una professione di fede in questa o quella
religione. Pensiamo invece all'uso competente, generoso, sperimentale e
non dogmatico del sistema dottrinario nel cui alveo una data pratica spi­
rituale è nata e cresciuta. Generoso significa senza riserve preconcette, in
particolare senza riserve concepite prima di una certa maturazione della
pratica nella vita di un individuo; competente significa fondato su uno
studio della tradizione che privilegiamo; sperimentale e non dogmatico
vogliono dire secondo un atteggiamento di verifica delle dottrine alla luce
della propria pratica.
Infatti, solo quando abbiamo verificato in questo modo la validità di
dottrine che tradizionalmente circondano e sorreggono la pratica, potrà
succedere che queste dottrine diventino nostre (e non formulate necessa­
riamente con le parole della tradizione). Ma se questo tipo di verifica non
accade, allora le dottrine non verificate, non 'toccate' con la pratica, ine­
vitabilmente non potranno entrare a far parte in maniera vitale degli at­
trezzi per il nostro lavoro interiore. n che, d'altronde, non comporterà al­
cuna invalidazione di quelle dottrine, ma vorrà dire soltanto che noi fino­
ra non ne abbiamo trovato conferma.

2 . Prendiamo ad esempio due dottrine buddhiste, quella della produ­


zione condizionata (paticca-samuppada) e quella dell'impersonalità (anatta).
Quanto alla prima, pensiamo soprartutto alla parte centrale della serie con­
dizionata: dai sensi e dalla mente che incontrano i loro rispettivi oggetti
viene il contatto; dal contatto la sensazione, dalla sensazione, a seconda che
sia piacevole o spiacevole, l'attaccamento o l'avversione2 che si possono
raggruppare sotto il termine cumulativo di reazione3 o identificazione.
Mentre il contatto e la sensazione (vedana) sono risposte naturali e inevita­
bili del sistema nervoso a meno che non ci si trovi in stati speciali di so­
spensione mentale (nirodha),' la reazione (tanha, sete), che è responsabile

2 Come vedrà chi conosce il buddhismo, questa esposizione è deliberatamente

semplificata: infatti non ci soffermiamo sull'eventualità che la sensazione sia neu·


tra e non menzioniamo, accanto ad attaccamento e avversione, la terza impurità,
ossia la confusione/ignoranza, che è sia causa di attaccamento e di avversione, sia
un loro effetto.
3 Nel volume di Hart ( 1 987) il termine 'reazione' è usato in modo molto utile.

Cfr. pp. 47 sg., 97, 4 1 . In particolare p. 48: "'L'attaccamento è solo una forma più
sviluppata della reazione fuggevole" .
4 Per una discussione recente e dettagliata di questi stati, cfr. Griffiths 1986.
del dukkha o umana infelicità, è qualcosa che, in virtù del cammino spiri­
tuale, può essere ridotta o del tutto trascesa, dando luogo in quest'ultimo
caso alla liberazione.
La dottrina, dunque, contiene due asserti, e cioè che l' attaccamen·
to/avversione è comunque sofferenza e che, in secondo luogo, esso può
essere trasceso. Ora è evidente che questa dottrina se non è appoggiata
alla pratica meditativa sarà in qualche modo manchevole, sia perché sen­
za pratica lunga e assidua non saremo mai convinti davvero dd carattere
sempre insoddisfacente dell'attaccamento/avversione, sia perché è la pra­
tica a indicarci come andare oltre il movimento della reazione.
Quello che è forse meno ovvio e che ci preme qui ricordare è che, se è
vero che la dottrina ha bisogno della pratica, è anche vero che la pratica,
a sua volta, ha necessità, per approfondirsi, di riandare in continuazione
alla dottrina. La dottrina in questione, infatti, studiata e rammentata pe­
riodicamente, induce la pratica di consapevolezza a essere più mirata e
precisa e a focalizzarsi sempre più, a preferenza di altro, sul movimento di
identificazione, sul continuo rinascere di attaccamento/avversione, sulla
continua rinascita dell'Io, come direbbe Buddhadasa 5 E dunque se l'e­
sercizio della consapevolezza su questo o quel fenomeno naturale (per
esempio il respiro) è tirocinio fondamentale, tuttavia l'area privilegiata, di
prùna linea, per la consapevolezza non potrà che essere quella della rea­
zione. E mi sembra ùnprobabile che senza una qualche assùnilazione del­
la dottrina dell'origine condizionata della reazione o sofferenza, l'atten­
zione genericamente esercitata possa condurci alla medesima frontiera.

3. Vediamo ora il secondo esempio, la dottrina dell'ùnpersonalità


(anatta) . Secondo questa dottrina: (a) nulla ci appartiene veramente né
sul piano materiale e fisico, né sul piano mentale e (b) questa è una buo­
na cosa, fondamentale da cogliere per superare la sofferenza.6 Eventi,
pensieri, cose, emozioni sono ampiamente fuori dal nostro controllo: van­
no e vengono, sorgono e scompaiono indipendentemente, in ultima anali.
si, da ciò che noi vogliamo o non vogliamo. Perciò le mie cose, emozioni,
pensieri sono 'miei' solo in un senso convenzionale e superficiale. Ma io,
a meno che non sviluppi una vista nuova, credo altrimenti, in virtù della
cieca identificazione, appunto, con cose, emozioni eccetera. Anche qui, è
chiaro come questa dottrina debba organicamente associarsi con la prati­
ca: non perché ne sia difficile un primo intendimento o perché la dottrina

5 Cfr. soprattutto Buddhadasa 1969, interamente dedicato a questo tema.


6 Dalle trattazioni stÙ buddhismo non sempre ristÙta con chiarezza il caranere
liberante dell'anatta. Utile in proposito il lucido articolo "The four Truths and
the three Marks" di Garrett Jones (1976).
sia particolarmente obiettabile. Ma perché senza pratica è molto verosi­
mile che ci sfugga il carattere buono e liberatorio dell'anatta, per non
parlare della possibilità che essa ci susciti disagio e paura.
Paura che può manifestarsi anche nel corso della pratica: ricerche psi­
cologiche su meditanti avanzati hanno indicato che la meditazione
buddhista tende a generare una fase temporanea di estrema ansietà allor­
ché il modo abituale di percezione comincia a venire meno (cfr. Comp­
ton - Becker !983; Brown - Engler 19801. Ed è inutile dire quale sostegno
possa fornire una buona comprensione del Dharma in questi casi.
Ma torniamo a quanto si stava dicendo. Dunque la dottrina buddhista
ha un imprescindibile bisogno della pratica. Ma in che senso - possiamo
come prima domandarci - la pratica ha bisogno della dottrina dell'im­
personalità? lo direi che ne ha bisogno allo scopo di capire meglio quello
che stiamo facendo e quello che sta succedendo nella pratica (come nel
caso sopramenzionato della paura) e per promuovere, di conseguenza,
una maggiore fiducia nella pratica e una maggiore penetrazione della pra­
tica. In particolare lo studio del Dharma fa capire al praticante che even­
tuali intuizioni circa l'impersonalità non nascono casualmente o in virtù
di un'attenzione generica, bensì nascono proprio da quella contemplazio­
ne-comprensione dell'attaccamento/avversione di cui si diceva sopra. Os­
sia quanto più io alleggerisco la presa dell'attaccamento/avversione sulle
cose, tanto più si assottiglia il mio senso di proprietà personale sulle cose
e tanto più le cose sono libere da me e io sono libero dalle cose: le cose
(e dunque eventi, stati d'animo, persone eccetera) diventano meno mie, e
io sono meno identificato nelle cose; dunque l'impersonalità o anatta è il
logico portato della comprensione che nasce dal non attaccamento.
Per afferrare questo fatto centrale la pratica è certamente il mezzo
d'elezione. Ma a me sembra che, a sua volta, l'assimilazione dottrinaria
sia per i più un supporto indispensabile. Ascoltiamo, in proposito, Kalu
Rinpoche: "Forse capire tutti questi concetti... non è strettamente neces­
sario; se siamo diligenti nella pratica del Dharma e meditiamo finiremo
con lo sperimentarli comunque. Non è che [i vari stati e qualità spiritua­
li] non appariranno solo perché noi non sappiamo, come chiamarli o che,
invece, compariranno per forza solo perché noi sappiamo come chiamar­
li. D'altra parte sembra che ci sia qualcosa di molto importante nel forni­
re orientamenti che aiutino le persone a capire di più gli elementi della
pratica del Dharma e quello stato dell'illuminazione per raggiungere il
quale esse lavorano" (Kalu Rinpoce 1 986, p. 39).

4. Certo, i concetti e le dottrine sono pericolosi perché, invece di esse­


re un aiuto prezioso, possono trasformarsi in una gabbia e un impaccio.
E sarebbe inoltre da ingenui ritenere che una pratica accurata e fedele ci
garantisca da questo pericolo. Né è un caso che nella spiritualità orientale
così come in quella occidentale sorgano periodicamente maestri o intere
scuole che mettono in guardia contro questo rischio, talora imperniando
gran parte dell'insegnamento sull'anti-dottrinarismo e sull'anti-concettua­
lismo. Eppure i pericoli di incapsulamento restano, a cominciare da quel­
lo di diventare antidottrinaristi dogmatici e intolleranti.
In più, a me sembra che non avere supporti dottrinali e dunque non
sviluppare il gusto del progressivo approfondimento e verifica dei grandi
insegnamenti tradizionali rappresenti, almeno per molti cercatori, un con­
creto rischio di disorientamento e infiacchimento. Per non parlare dei pe­
ricoli di inflazione egoica che sorgono una volta che, senza appartenere
alla non numerosa categoria dei 'realizzati naturali', si decida di prescin­
dere dal magistero di una tradizione e di ignorare il lavoro di tante gene­
razioni che ci hanno preceduto sul medesimo sentiero.
23

Il gusto del Dharma

l. "Il gusto del Dharma supera tutti i gusti" (DP, 354). Perché? Per­
ché «così come ogni goccia del mare ha il sapore del sale, allo stesso mo­
do ogni goccia del Dharma ha il sapore della liberazione" ! Udana, 5, 6).
Il Dharma è la dottrina, la pratica e la realizzazione delle quattro nobili
verità circa la sofferenza, la sua causa, la sua estinzione e la via per estin­
guerla. 11 Dharma è perciò ogni passo, grande o minimo, orientato verso
la retta comprensione e il reale superamento della sofferenza che inflig­
giamo a noi stessi e agli altri mediante l'attaccamento, l'awersione e
l'ignoranza. E il gusto del Dharma è il gusto di imparare a camminare
verso la libertà interiore e di imparare a farlo in maniera via via meno esi­
tante e più spedita. A sviluppare questo gusto nuovo e prezioso - e in­
tendiamo gusto sia come sapore, sia come capacità di gustare � concorre
tutto l'ottuplice sentiero, ossia l'esercizio paziente e rasserenante della ve­
rità secondo la quale esiste una via per trascendere la sofferenza.
In queste note ci occuperemo di alcuni aspetti salienti del detto sentie­
ro, quali, soprattutto, la pratica meditativa formale, la pratica della consa­
pevolezza in azione (o pratica informale) e lo sviluppo dell'equanimità
come fattore chiave per il progresso del praticante. Questi aspetti del
cammino di liberazione danno origine, prima o poi, a gusti nuovi, ad
esempio il sapore della pace mentale. Tuttavia l'umco gusto profondo che
può chiamarsi legittimamente il gusto del Dharma è il gusto di libertà
dall'io-mio e dunque anche il gusto di lasciar perdere i gusti spirituali, nel
senso di non attaccarsi a essi, come è comprensibile che accada all'inizio.
Inutile dire, a questo proposito, che l'idea di evitare di sviluppare la pace
mentale per paura di attaccarcisi è una trappola nevrotica, molto simile
all'idea di evitare i rapporti con esseri umani per paura di rimanere in­
vischiati nell'attaccamento e nella dipendenza: l'unico risultato certo sarà
un aumento del potere della paura, ossia, in ultima analisi, dell' attac­
camento.
2. Riguardo alla pratica formale, mi torna in mente una similitudine,
non ricordo se attribuita a Shunryu Suzuki Roshi o a un suo allievo, che
paragona la meditazione seduta a una minestra: la minestra è sempre la
stessa, però, col passare del tempo, diventa sempre più saporita. E non po­
trebbe essere altrimenti dato che, se pratichiamo in modo corretto, au­
menta l'agio fisico e mentale, si approfondisce il livello di pace interna, si
affina la capacità di essere svegli in maniera continuativa, si rafforza in mo­
di impensati l'abilità di rimanere al timone con qualsiasi tempo: tanto che
a un certo punto l'epoca della minestra insipida, ossia l'epoca iniziale della
pratica, piena soprattutto di difficoltà e di scoraggiamento, ci sembrerà
lontana in molti sensi. Ci apparirà tuttavia chiaro che proprio l'aver noi
fronteggiato pazientemente le difficoltà di vario tipo e grado è stato deter­
minante perché la minestra acquistasse un gusto buono e convincente. Il
che in pratica significa non già la scomparsa delle difficoltà, bensì una cer­
ta facilità, un certo agio fiducioso nel mettersi in rapporto con esse.
Questa facilità, questa dimestichezza né indulgente né punitiva con le
nostre zone difficili, accompagnata da forte determinazione a praticare e
da fiducia nella pratica, significa un gusto specifico, che un tempo non
era presente in noi, un gusto di putifìcazione e di liberazione, il gusto,
appunto, del Dharma. È un gusto che sta, sempre più corposo e anni­
comprensivo, sullo sfondo. Più ampio e maturo di particolari gusti legati
alla tecnica meditativa. E che però da questi gusti è stato aiutato a cresce­
re. Per esempio la capacità di concentrare, ossia di unificare la mente, ri­
petuta e ribadita per lungo tempo, è purificante perché riduce il potere
delle tossine mentali o kilesa (attaccamento, avversione e confusione), le
quali infatti non possono prosperare durante i periodi di unificazione
mentale. Che cosa comporta questo fatto? Comporta questo, che, allor­
ché noi, al di fuori della pratica di concentrazione, ci troviamo a confron­
tare i kilesa, ci troviamo di fronte qualcosa che è stato già indebolito -

quasi a nostra insaputa, verrebbe da dire - dalla pratica di concentrazio­


ne e che quindi si presta ora con maggior facilità a essere lavorato.
Sicché applicare consapevolezza, accettazione e investigazione sui kile­
sa senza una previa 'lavorazione di ammorbidimento' effettuata su di essi
attraverso la calma concentrata sarebbe difficile e, in parte, impossibile:
'loro' sarebbero troppo forti, 'noi' saremmo troppo deboli. Saremmo so­
praffatti e, in tal modo, non potremmo certo avere la visione calma e pre­
cisa circa la natura fondamentalmente dolorosa, cangiante e impersonale
dei kilesa. Al contrario: da una parte ci sfuggirebbe tutta l'entità della
sofferenza a essi associata, dall'altra, invece, rischiamo di vedere solo im­
mutabile sofferenza continuamente personalizzata, cioè riferita sempre a
me e al mio. Tutt'altra cosa, invece, se siamo rafforzati e rasserenati dalla
pratica della calma concentrata, un po' come succede nella nostra vita
quando siamo ben riposati, contenti e in salute: allora riusciamo a guar­
dare alle difficoltà con uno sguardo più equilibrato e meno ansioso.
L'importanza vitale della calma concentrata o samadhi è posta in evi­
denza con chiarezza dal maestro tailandese contemporaneo Achaan Thate:
"La concentrazione (concentration) è una forza molto importante. Se non
hai concentrazione, da dove prenderà forza il tuo discernimento? Il discerni­
mento proprio della meditazione di insight non è una cosa che uno può
confezionare e mettere insieme. Piuttosto, il discernimento sorge dalla
concentrazione allorché essa, una volta ben padroneggiata, si è fatta buona
e solida" (Achaan Thate Desaransi 1988, p. 231. Perciò il gusto della prati­
ca formale è soprattutto il gusto di rafforzarsi e di rinsavire; ed è anche,
sempre più, il gusto che tipicamente si prova allorché facciamo qualcosa di
utile. Più di preciso, il gusto di avere fmalmente scoperto l'impareggiabile
utilità di qualcosa che, per lungo tempo forse, ci era parso interessante, sì,
ma non particolarmente utile; e il gusto di scoprirlo meglio e di più. La se­
duta di meditazione, invece di essere un qualcosa di evanescente e sfug­
gente, una trovata curiosa che non sembra lasciare segni, una parentesi
forzata nella nostra giornata (a volte così forzata da restare completamente
sommersa da pensieri relativi al prima e al dopo), comincia - ecco il gu­
sto - a diventare come una presenza palpabile, densa, viva, nella quale
spesso si avverte un riposo del cuore, 1 un ritemprarsi benefico, che ci pre­
dispone con speciale fiducia all'opera di liberazione.

3 . Tuttavia il gusto del lavoro interiore non potrà essere circoscritto


alla pratica formale. E se per caso lo fosse, evidentemente non saremmo
tanto di fronte al gusto del Dharma quanto, piuttosto, davanti semplice­
mente al piacere generato dalla pratica seduta. Poiché, come già si diceva,
il gusto del Dharma è cosa assai più vasta e complessa, che da un lato in­
clude la gioia della pace interiore, dall'altro però la trascende. In quanto
tale, il vero gusto del Dharma oltrepasserà naturalmente i confini della
pratica formale e dovrà attraversare il quotidiano, imprimendovi sempre
più nettamente il suo segno.
In sostanza, questo vuoi dire che tutta la pratica informale ne deve es­
sere prima o poi permeata. Ossia tutti i vari modi che noi usiamo per col­
tivare la sapienza (panna) e la benevolenza (metta) durante la giornata do­
vranno gradualmente assumere quella densità e corposità, quella caratte­
ristica di presenza soda e viva tutt'altro che vaga e indistinta, di cui si
parlava a proposito della pratica formale: e dunque i nostri modi di vol­
gere l'attenzione cosciente ai moti della paura, dell'avversione e dell'attac-

l L'espressione rert/ulness o/ the heort è spesso usata nell'opera di un altro

maestro tailandese contemporaneo, Achaan Maha Boowa 1988, possim.


camento nelle nostre menti; le nostre tecniche per investire di consapevo­
lezza di momento in momento le attività manuali o le parole che diciamo
o l'ascolto delle parole altrui; e infine le nostre modalità di praticare la
benevolenza compassionevole. In proposito mi pare importante osservare
questo: se nella pratica informale, il passaggio da una fase 'debole', speri­
mentale, intermittente, incerta a una fase 'forte', cioè più chiara, decisa e
gustosa, tarda ad accadere, la ragione più verosimile di ciò sarà che il det­
to passaggio non è ancora avvenuto nella pratica formale, che evidente­
mente sarà ancora lontana dali' essersi bene impiantata. Ma quando ciò
avviene, allora esisteranno la base e il presupposto per la graduale fioritu­
ra di una salda pratica informale.
La similitudine più appropriata per tale stadio nti sembra quella del
gusto di lavorare a un lavoro, intellettuale o manuale, che noi abbiamo
scelto perché ci pare rispondere ai nostri talenti, lavoro a volte facile, a
volte difficile. Nel corso di questa attività noi sperimenteremo un gusto
specifico, che è diverso dal sapore di un'attività sgradita e non scelta da
noi, diverso dal sapore di un ozio infelice e diverso, infine, dal sapore di
un ozio piacevole. È il gusto legato a una conoscenza-comprensione via
via più approfondita e dettagliata; in particolare il gusto del discernimen­
to circa ciò che è giusto o opportuno fare e circa il come, il quando e il
quanto farlo e, infine, il gusto della fiducia che nasce dal constatare i ri­
stÙtati. Nel caso della pratica i ristÙtati che alimentano il gusto del Dhar­
ma saranno sempre risultati di liberazione dall'ignoranza-attaccamento e
dalla sofferenza che ne deriva; mentre le cause avranno a che fare con
virtù e generosità (sila e dana), con la meditazione (bhavana) e con la sag­
gezza (panna).

4. Conviene adesso considerare un esempio di una comune situazione


di vita al fine di illustrare alcune modalità fondamentali del lavoro interio­
re, ossia di quel lavoro che, stÙ fondamento di una pratica formale ben ra­
dicata e gustosa, si volge il più possibile a lavorare con tutto e con tutti.
Immaginiamo di trovarci in un felice stato di pace interiore, magari subito
dopo una seduta ricca di concentrazione e di rilassamento e immaginiamo
che le condizioni naturali siano anche propizie: un luminoso pomeriggio
autunnale, tiepido, con l'aria immobile e le foglie dorate sugli alberi ag­
giunge incanto alla nostra calma. Dopo poco tempo, però, sopravviene
una telefonata nel corso della quale veniamo trattati scortesemente.
Tutti conosciamo la reazione infastidita nella quale è così facile cadere,
contrassegnata da vischiosità e resistenza a voltare pagina, cioè a saltare
completamente nella nuova situazione, lasciando andare altrettanto com­
pletamente quella precedente. La nostra tendenza è invece quella di vol­
tarci indietro, a guardare il prima con rimpianto, forse con autocompati-
mento e con risentimento: ci troviamo di fronte a quella che il Buddha
avrebbe definito la seconda freccia -' La prima freccia è il disagio causato
dalla scortesia nei nostri confronti; la seconda freccia l'aggiungiamo noi,
indugiando nell'amarezza e in altri sentimenti negativi, invece di prendere
atto del cambiamento intervenuto e trasferirei senza resistenza nella nuo­
va situazione di disagio, completamente e generosamente. La sindrome
della 'seconda freccia' è un segno del potere che ha su di noi la mente in­
quinata dalle tre tossine. Ossia la mente reattiva, chiusa e rigida ha il po­
tere di sedurci nella recriminazione, presentandocela come normale (ecco
l'avzjj'a , l'ignoranza), mentre è soltanto sale sulla ferita.
Come potrebbe essere, invece, una reazione che nasce in una mente­
cuore resa più fertile e duttile dalla pratica? Sarebbe una reazione basata
sulla non-resistenza, ossia sul principio opposto a quello che abbiamo vi­
sto prevalere nella reazione più frequente. Infatti possiamo dire che lo
sviluppo dell'equanimità significa, in pratica, una crescente prontezza a
saltare nella situazione successiva. La vita è, appunto, un succedersi conti­
nuo di situazioni (anicca), e l'equanimità è una non resistenza a darsi a ciò
che via via ci viene incontro.
Da notare e da sottolineare quanto sia essenziale in questo 'saltare
dentro' il fattore generosità, nel senso di darsi coraggiosamente e comple­
tamente alla situazione successiva. La resistenza al 'salto', invece, è nel se­
gno dell'avarizia, è il rimanere avvinghiati al ricordo della situazione pre­
cedente, è il non volere !asciarlo andare, il non volere che il ricordo sia
solo quello che è, cioè un ricordo. È fondamentale, mi sembra, cogliere
questo moto di generosità-coraggio che sta alla base dello sviluppo del­
l 'equanimità o non attaccamento, che è poi il cuore della vita spirituale e,
in particolare, dell'ottuplice sentiero.
Ma se inoltre abbiamo solo una comprensione superficiale di tutto ciò,
ci sfuggirà questo dinamismo intensamente attivo che sta dietro l' equani­
mità, che viene intesa talora erroneamente come dimensione statica e pas­
siva per eccellenza. Mentre in realtà l'elemento più specificamente spiri­
tuale sta proprio in questo fervido regime energetico, in questa qualità
molto attiva a sviluppare la quale dobbiamo pazientemente addestrarci.
Infatti anche il comune buon senso capisce, tornando all'esempio, che la
recriminazione è cosa inutile e dannosa e ci suggerisce di astenercene. Ma
l'approccio spirituale, secondo il Oh arma e il suo gusto, è molto di più
del buon senso e significa entrare senza indugio e senza riserve nella si­
tuazione di disagio che è insorta dopo la telefonata: con l'ovvio dispiacere
per ciò che è accaduto da una parte e una gran voglia di lavorare su que-

2 Cfr. il Vedana-samyutta, tradotto e commentato da Nyanaponika Thera 1983,


in particolare p. 15.
sto dispiacere dall'altra. Questo empito, se bene allenato, finirà col farci
stare in qualche modo a nostro agio nel disagio. E perciò, invece di con­
trarci e di chiuderci, sperando inverosimilmente di eludere la situazione
spiacevole, diventeremo più capaci di aprirci e di abitare nella nuova si­
tuazione, prendendo dimestichezza con essa.
Nella tradizione della vipassana ciò significa, in pratica, o lavorare se­
condo concentrazione pacificante o secondo consapevolezza investigante,
oppure secondo una combinazione di queste due modalità. Nel primo ca­
so ci richiameremo al respiro oppure cercheremo di unificare la mente in­
tomo alla ripetizione di una formula di benevolenza (metta) o intorno al­
la parola buddha, nel secondo caso terremo l'attenzione più mobile e pro­
cederemo nel modo di investigazione che più ci sembra adatto, per esem­
pio scrutando la differenza tra la pura sensazione dolorosa (inerente al di­
sagio di essere stati trattati male), i pensieri che generiamo nel disagio e la
consapevolezza di tutto questo. Il vedere ripetutamente e abilmente questa
differenza, il separare questi processi l'uno dall'altro, tende a infrangere
l 'incantesimo egoico, ossia la nostra identificazione cieca con la situazio­
ne. In questo scritto non ci vogliamo soffermare sulle disparità tra queste
due forme di lavoro. Piuttosto, ci preme di sottolineare l'enorme disparità
che corre tra il non lavorare affatto (mente alla deriva) e il lavorare attiva­
mente in qualche modo (mente sollecita, mente generosa); senza questo
slancio generoso, permeato di discernimento e di fiducia, non sembra
possibile che l'equanimità dispieghi le sue grandi ali; senza una puntiglio­
sa perseveranza a lavorare in tutte le circostanze, il conforto e il calore
del non attaccamento non possono venire.
Ma quando il lavoro (e il suo tipico gusto) prende un certo abbrivo,
l'intento all'equanimità dovrà far capolino sin dall'inizio delle nostre
'convivenze' con gli stati negativi, come ferma determinazione a lasciare
che lo stato duri il tempo che vuol durare, il tempo che gli è naturale, co­
sì come un livido o un raffreddore hanno il loro tempo. Questa determi­
nazione ci toglie utilmente sia dall'angustia dell'aspettativa ansiosa che il
disagio se ne possa andare via subito, sia dall'angustia della mente giudi­
cante, la quale sentenzia che noi non dovremmo avere questa reazione
negativa. Tutte forme di 'seconda freccia', ossia di paura e avversione nei
confronti della paura e dell'avversione: laddove essere meno spaventati
dallo spiacevole, oltre a essere un valore in sé, è anche essenziale per non
aggrapparsi disperatamente al piacevole, vero o presunto.

5. n lavoro interiore, fattosi via via più strenuo e gustoso, finisce con
l'aprire il cuore e la mente. Nel linguaggio della spiritualità cristiana si di­
ce: "Il nostro cuore è a tal punto fatto per Dio che, quando lo si gusta
una volta, tutto il resto sembra insipido: quest'impronta del gusto di Dio
in un cuore è un fascino segreto che lo fa incessantemente volgere dalla
parte di Dio, quasi come un ago calamitato" ide Caussade 1 984, pp. 94-
99). E alla domanda circa il mezzo per sviluppare questo gusto il medesi·
ma autore risponde: "il mezzo per gustare Dio consiste nel cercarlo conti­
nuamente in tutti gli esercizi di pietà" (ivi, p. 28).
La continuità, dunque, come seconda chiave importante insieme alla
generosità. Infatti è soltanto la continuità che - facendoci sentire in
qualche modo sorretti e sostenuti, come non può avvenire se il lavoro è
intermittente - ci rende possibile di tenere con mano lieve anche le cose
spiacevoli, segno che la percezione dell'impermanenza (anicca) è divenuta
meno superficiale. Nell'esempio dato possiamo vedere chiaramente come
la non resistenza a rapportarci con le cose spiacevoli sia direttamente pro­
porzionale alla leggerezza della nostra stretta sulle cose piacevoli: infatti,
se siamo molto attaccati al momento di pace squisita che precede la te­
lefonata, sarà più arduo fare il 'salto' nella nuova situazione di disagio
precipitata dalla telefonata. Non così, invece, se noi, in luogo di guardare
a quella pace come a un nostro possesso, a un nostro diritto da tenerci
stretto, la consideriamo, con sguardo più profondo, per quello che è, un
dono, una piccola grazia della vita, tanto più preziosa in quanto imper­
manente.
Se abbiamo questo atteggiamento, l a brusca interruzione ci dispiacerà
ma non ci sorprenderà e potremo così accogliere il sorgere del successivo
stato negativo con maggiore tranquillità. Sappiamo, grazie all'intelligenza
dell'equanimità che comincia ad accendersi, che anche il nuovo stato è
precario, come il precedente e come tutto ciò che è condizionato. Intanto
gioiamo nel vedere che, con la pratica, si intensificano quei fattori, come
la consapevolezza e l'equanimità, che sono reputati capaci di schiuderei
l'incondizionato, ossia ciò che soltanto, nelle parole del Buddha, è vera­
mente in grado di allietarci.' In particolare ci colpisce e ci rallegra il fatto
che più passa il tempo e più nuova e fresca diventa la nostra consapevo­
lezza. Più la esercitiamo e più nuova essa diventa: ogni volta è sempre più
come se fosse la prima volta. E pensiamo al Dharma, "che è bello all'ini­
zio, nel mezzo e alla fine", al Dharma " che è come la vetta di un monte",
al Dharma "che è come un lago tranquillo " 4

3 "Ciò che non è e[emo non può allietare, non vale la pena Ji onorario, non
ha alcun valore ambirlo", MN 1 1 , 263.
4 Cfr. Carter 1978 per le citazioni delle scritture relative al Dharma.
24

Alchimia spirituale

1. Nella spiritualità occidentale c'è una famosa immagine, quella del


vaso alchemico o vaso ermetico, dentro il quale sono contenuti i metalli
vili la cui sapiente cottura è in grado di produrre l'oro. Questa metafora,
letta alla luce del cammino interiore, significa che i nostri impedimenti, i
nostri veleni, le nostre afflizioni (attaccamento, avversione, ignoranza e
tutta la loro numerosa prole), una volta cotti nel fuoco e nello spazio par�
ticolare della pratica, generano l'oro della saggezza e della compassione.
Si tratta quindi di un'immagine molto precisa oltre che suggestiva.
Scrive Thich Nhat Hanh: "Sappiamo che non possiamo mangiare le
patate senza prima cuocerle. Riempiamo una pentola, mettiamo" il coper­
chio e accendiamo il fuoco. Il coperchio, che serve a mantenere il calore
all'interno della pentola, è il potere della concentrazione: non parlare,
non ascoltare, non fare nulla, solo concentrarsi totalmente sul respiro.
Messa la pentola sul fuoco, l'acqua incomincia a scaldarsi. Praticando la
respirazione cosciente la rabbia, sebbene ci sia ancora, è accompagnata
dalla consapevolezza: il fuoco sotto le patate. La rabbia - le patate - ha
incominciato a trasformarsi. Mezz'ora più tardi le patate sono cotte: la
nostra rabbia si è trasformata. Ora possiamo sorridere perché compren­
diamo le sue radici, e riusciamo anche ad affrontare la persona che l'ave­
va suscitata in noi" IThich Nhat Hanh 1990b, p. 70).
Thich Nhat Hanh usa quindi un'altra immagine per dire la stessa cosa:
non dobbiamo amputare alcunché da noi e nemmeno aggiungere, ma
semplicemente trasformare quello che già c'è. La paura, l'attaccamento,
la rabbia, sono forme di energia incapsulata in maniera distruttiva, che
può invece essere liberata positivamente. Possiamo pensare ad altre
espressioni, sempre sulla stessa linea; ad esempio, Chogyam Trungpa,
scomparso da qualche anno, diceva che l'avversione e l 'attaccamento non
sono altro che il concime per la liberazione. Le implicazioni unitarie di
questo discorso sono molto importanti: ci aiutano ad andare al di là di
una visione spaccata, dualistica. Queste cose che ci portiamo dentro sono
molto dolorose e sono causa di sofferenza; al tempo stesso, però, sono la
materia prima del nostro lavoro, del lavoro di liberazione. In alcuni testi
taoisti si dice che dall'impurità viene la purezza allo stesso modo che dal­
le tenebre viene la luce, da piante che marciscono la fecondità del terre­
no, dal bruco la farfalla e così via !Daoren 1990, pp. 6-71. Nell'ambito del
buddhismo possiamo ricordare la tradizione Vajrayana, dove si parla del­
la trasformazione dei veleni in virtù e si dice che quanto più forti sono i
veleni, tanto più forte è il potenziale per la liberazione, se sono debita­
mente trasformati.

2. Una pagina di Lama Zopa ci consente di vedere più da vicino alcu­


ne implicazioni di questo discorso. Egli scrive: "Dovete smettere di gene­
rare avversione per la sofferenza e imparare invece ad apprezzare i pro­
blemi. Quando ne sperimentate qualcuno dovete generare il pensiero del­
la felicità. Non importa quanti problemi abbiamo, non ha senso lasciarsi
irritare da essi. Non c'è beneficio in tutto questo. Quando incontrate si­
tuazioni indesiderabili, pensate ripetutamente ai grandi svantaggi del con­
siderarle indesiderabili; pensate ripetutamente al risultato di questa abitu­
dine errata. Pensate ai vostri problemi, poi generate una determinazione
molto intensa: 'Da ora in poi, per quanti problemi possa avere, non mi ir­
riterò, non li considererò una sfortuna'. Con tale motivazione cercate di
allenare la mente finché non diventate un cavaliere ben addestrato che,
quando il cavallo corre, anche se la sua mente è distratta, è naturalmente
capace di cavalcare senza cadere, senza mettere in pericolo la sua vita.
"Così, ogniqualvolta vi scontrate con degli ostacoli, immediatamente e
senza sforzo, naturalmente, sorgerà il pensiero: 'Questo va bene'. Come
l'apprezzamento per il gelato o il piacere della musica. Quando una per­
sona ama molto la musica, nel momento in cui la sta ascoltando, non ha
alcun bisogno di pensare alle ragioni, per esempio che la musica è dolce.
Allo stesso modo, ogniqualvolta incontrate situazioni spiacevoli, indeside­
rabili, dovrebbe sorgere naturalmente il pensiero 'va bene' e quindi la fe­
licità. Quanti più benefici vedete tanto più felici sarete di incontrare osta­
coli e difficoltà nella vostra vita" (Lama Zopa 1989, p. 1 3 ) . Evidentemen­
te questo è alto Dharma, però è fondamentale parlarne, perché chi per­
corre la via del Dharma aspira a ciò che è molto alto: la liberazione.
A ben pensarci, il cavaliere che è qui descritto è una persona che sem­
bra avere completamente assimilato la capacità di accettare i problemi e
di lavorare su di essi; questa capacità gli è come entrata sotto la pelle, sic­
ché come risposta alle difficoltà gli viene da dire: 'va bene'. Questo cava­
liere è dotato di quella che potremmo chiamare, paradossalmente, una
fierezza umile: ossia non quell'atteggiamento arrogante, divisivo ed ego-
centrico che spesso la parola fierezza denota, bensì qualcosa di ampio, ac­
cettante, dolce e, al tempo stesso, dotato di una sua forza e di una sua
impuntatura. Qualcosa felicemente privo di quella debolezza che deriva
dalla nostra paura per le situazioni difficili, dal nostro annegare nell' av­
versione per tali situazioni.
Bisogna riflettere sulla parola felicità così come viene usata da Lama
Zopa. Se pensiamo a ostacoli grandi e dolorosi, dobbiamo capire di che
felicità si tratta. Pensiamo ad esempio a una grave malattia che coglie una
persona che ci è cara. In che senso possiamo avere una reazione felice?
Penso che in questo caso felicità significhi risposta positiva. Mi pare diffi·
cile pensare in altro modo. Quando l'ostacolo è di tale portata, una rea­
zione 'felice' la vedrei così. La risposta positiva agisce in due direzioni:
verso la persona che è stata colta da questa malattia e verso noi stessi. Nel
primo caso risposta positiva significherà la sostituzione dell'apprensione e
dell'angoscia - che non giovano né a noi né alla persona malata - con
una sollecitudine compassionevole verso quella persona e un'attenzione a
fare e a dire tutto ciò che è appropriato in una situazione del genere.
Nel secondo caso, che riguarda noi in prima persona, si tratterà di la­
vorare attivamente alla disidentificazione da questa pena. Potremmo pen­
sare che sia necessario lavorare alla disidentificazione solo nel caso di un
odio o di un'antipatia o di un attaccamento; ma la disidentificazione o
immissione di più spazio e libertà, riguarda anche le sofferenze più legit·
time. Lavorando alla disidentificazione, in questi casi approderemo a un
dolore molto diverso da quello sovraccarico di egoità, un dolore più puli·
to, più sorridente, meno paralizzato, meno incardinato in pensieri negati­
vi e una capacità, durante il dolore, di stare di più nel momento presente.
Questo paradosso della felicità o quanto meno della possibilità di una ri·
sposta positiva in mezzo alle difficoltà e agli ostacoli ricorda l'espressione
usata dai contemplativi cristiani, quando dicono che le avversità sono vi­
site del Signore.
Ma per capire espressioni come questa invece di giudicarle esempi
scandalosi di masochismo religioso abbiamo bisogno di essere bene ad·
dentro al lavoro interiore. Le avversità sono 'visite del Signore' nella mi·
sura in cui, come spiega bene Lama Zopa, sono occasioni per aprirci e
quindi occasioni di beneficio e positività. Questa che ci è stata descritta è
una motivazione specifica a lavorare per trasformare puntualmente e con
precisione le energie negative in energie positive. Continuando poi a ri­
flettere su questo tema, direi che non possiamo realisticamente lavorare
subito in questo modo. Questa motivazione specifica mi sembra richiede­
re che, attraverso la pratica, si sia già impiantata e consolidata la motiva­
zione generale al lavoro interiore, cioè l'aspirazione alla liberazione, quella
che nel buddhismo Mahayana si chiama bodhicitta, la mente del risveglio,
l'aspirazione a contribuire il più possibile alla liberazione nostra e altrui.
La pratica. il cammino nel Dharma, deve aver conquistato la priorità as­
soluta nella nostra vita. È questo il sostegno, la forza di cui abbiamo biso­
gno per compiere il lavoro interiore, che non è uno scherzo. Quando
l'aspirazione alla liberazione si è impiantata ed è diventata una priorità,
dobbiamo pensare che, talora, il solo ricordarla porta pace, è un sostegno
rasserenante.

3. L'aspirazione alla liberazione non può prendere piede se non c'è


stato un certo sviluppo del lavoro di semplrficazione. Questo lavoro e
l'aspirazione interiore sono dimensioni intrecciate. Quanto più ci sempli­
fichiamo, tanto più facciamo spazio per quella aspirazione ed essa prende
a radicarsi dentro di noi. E quanto più si rafforza l'aspirazione, tanto più
ci viene da semplificarci. E dunque tenderanno a cader via e ad attenuar­
si sul nostro orizzonte quelle varie cose, attività e occupazioni che non so­
no in linea con il cammino interiore, che sono distruttive, inutili o confu­
se. Queste attività tendono a diventare come rami secchi che è meglio ri­
muovere; si crea così un tÙteriore spazio per l'aspirazione: la nostra men­
te è meno ingombra di cose, la nostra energia è meno attratta di qua e di
là e l'aspirazione al risveglio può mettere radici più in profondità. La
semplificazione a volte si chiama classicamente con il nome di rinuncia.
Ma, così chiamata, può diventare uno spauracchio.
Sennonché, quando si capisce meglio la rinuncia, la paura svanisce,
perché vediamo come la semplificazione porti, di fatto, soddisfazione e
pace. Naturalmente il semplificarsi, il 'lasciare andare', richiede la com·
prensione. Dobbiamo comprendere, per esempio, che una certa nostra
abitudine mentale, cui siamo attaccati, genera sofferenza. Man mano che
capiamo il legame tra questa abitudine mentale e la sofferenza, l'impulso
a !asciarla andare si accresce naturalmente in noi. Quindi, per lasciare an­
dare, per semplificarci, la comprensione è cruciale. Al tempo stesso, però,
dobbiamo appoggiarci (e facilitiamo ulteriormente il lasciar andare e il
semplificarci, se ci appoggiamo) a questa spinta oscura e buona che è
l'aspirazione alla liberazione. Se abbiamo questo appoggio dolce, il lasciar
andare può avvenire più organicamente. Non è un caso che nell'ottuplice
sentiero, retta comprensione (sammadittht) e retta intenzione (samma­
sankappa) siano sempre abbinate: occorrono entrambe. Quando abbiamo
questi due pilastri a cui appoggiarci, il 'lasciare andare' o semplifìcarsi co­
mincia a essere un fatto organico. Allorché in noi l'aspirazione e la com­
prensione si consolidano, allora ci sarà minore infelicità nella nostra vita;
ed è questo, io credo, il punto critico, il punto di svolta in cui si inserisce
il discorso di Lama Zopa, il quale propone una sfida troppo radicale per
potersi collocare all'inizio del cammino.
4. Oltre a queste cose che abbiamo detto i l'aspirazione o bodhicttta,
una certa misura di comprensione e una buona dose di semplificazione),
penso che per imboccare questa strada direttissima dell'alchimia spiritua­
le, della trasformazione degli ostacoli in benefici, dobbiamo avere /zducia
e interesse per questa proposta di lavoro interiore. Ricordo che le prime

volte che mi capitava di imbattermi in frasi di questo genere: "come sia


possibile trasformare le energie negative in energie positive" , avevo una
reazione entusiastica, ma era un entusiasmo cerebrale, molto astratto,
perché dopo due minuti passavo ad altro. A ripensarci adesso mi viene
da ridere: uno si trova sotto gli occhi una proposta enorme e subito dopo
passa a qualcos'altro, di sicuro infinitamente meno importante di una
proposta di questo genere.
Dunque, rosolandosi via via nella pratica, bisogna arrivare a un certo
interesse e a una certa fiducia circa le possibilità di un lavoro dd genere.
Questo interesse e questa fiducia stanno alla base della capacità di pren­
dere e riprendere la determinazione (adhitthana) di lavorare in questo
modo tutte le volte che ci capita, tutte le volte che siamo 'sotto tiro'. Nel
lavorare sempre più in questo modo, a prescindere dai risultati, è come se
si generasse lo 'slancio' del cavaliere, il 'gusto' di lavorare nella difficoltà,
nella sofferenza: arriva l'onda nera e noi formuliamo I'adhitthana, che è il
prendere la risoluzione e anche la risolutezza; in altre parole è la determi­
nazione a lavorare sull'ostacolo, piccolo o grande, che ci sta arrivando; è
il prendere la risoluzione, il riprenderla ancora, invece di darci in pasto
all'onda nera che arriva.
Penso che ogni momento di adhitthana sia un piccolo risveglio che
può portare, col tempo, un vero e proprio abbrivo positivo. È questo il
senso della pratica della determinazione, della risolutezza. Dal punto di
vista pratico, quando ci troviamo in uno stato negativo, ci si presentano
varie possibilità: ad esempio possiamo applicare una consapevolezza inve­
stigante oppure una consapevolezza molto legata al respiro; possiamo ap­
plicare una pratica di benevolenza (metta) oppure possiamo accompagna­
re queste pratiche con riflessioni sulle quattro nobili verità, sull'equani­
mità o su altri aspetti del cammino interiore.
Bisogna capire bene il risultato del lavoro, della pratica sugli stati ne­
gativi. Da una parte esso consiste nel sentire meglio la sofferenza, od­
l'unirsi alla sofferenza che è legata agli ostacoli, dall'altra consiste nella
disidemificazione dalla sofferenza. Più ci uniamo e più ci disidentifichia·
mo; sembra un paradosso, ma non lo è, perché l'identificazione è l'attac­
camento a quella situazione in cui siamo in difficoltà, è l'attaccamento al­
la preoccupazione. In pratica, se ci mettiamo completamente di fronte
all'ostacolo sentendo al vivo la sofferenza che questo ostacolo ci porta,
questa manovra di contatto diretto semplifica le cose e aiuta a disidentifi-
carci e a guarire. La disidentificazione non viene dali' aggiungere pensieri,
ma dal confrontarci direttamente con quello che c'è nel momento presen­
te. L'identificazione significa non avere alcuna consapevolezza, significa
credere ciecamente, al cento per cento, a tutto quello che ci racconta la
mente. Se noi siamo in contatto con la sofferenza che c'è in quel momen­
to e guardiamo i pensieri che passano senza aggiungerne di nuovi, allora
facciamo un'operazione completamente diversa, che è da un lato di unifi­
cazione con la realtà della sofferenza, dall'altro di non-identificazione:
smettiamo cioè di costruirci sopra. Quindi da un lato maggior contatto,
dall'altro disidentificazione e inizio di guarigione.
In genere non facciamo mai questo contatto: invece pensiamo ali' osta­
colo, sfuggiamo l'ostacolo, reprimiamo l'ostacolo, cerchiamo di esorciz­
zarlo, non lo �uardiamo in faccia e quindi non possiamo mai disidentifi­
carci da esso. E quando cominciamo a guardarlo in faccia che può comin­
ciare la disidentificazione. In quel momento cominciamo a renderei conto
della fluidità dell'ostacolo come di tutto, ma dobbiamo lasciar cadere le
costruzioni mentali che ci impediscono questo lavoro. Naturalmente c'è
bisogno di una certa tenuta della consapevolezza.
Nei Vangeli si dice di pregare sempre, senza stancarsi; 1 non viene det­
to: "Pregate quando siete di buon umore'', oppure: "Pregate solo quando
ve la vedete brutta"; si parla, invece, di un atteggiamento costante. La
raccomandazione a pregare sempre è compresa molto meglio da chi pra­
tica da tempo e con una certa continuità. Se noi pratichiamo, ci rendiamo
conto che la pratica formale è un tempo forte, ma poi la consapevolezza e
l'accettazione durante la giornata debbono diventare sempre più frequen­
ti. Per usare un'immagine tradizionale buddhista dobbiamo anzitutto af­
ferrare il vaso d'ottone rappresentato dall'ostacolo e quindi, avendolo be­
ne afferrato, possiamo cominciare a lucidarlo, possiamo cioè tenerci so­
pra la consapevolezza (con il sostegno del respiro o di metta o senza so­
stegno alcuno), possiamo far coesistere la consapevolezza e l'accettazione
con questa energia negativa. È quindi molto importante aver sviluppato
una certa tenuta della consapevolezza.
Un problema che può sorgere facilmente, anche se p ratichi amo da
tempo, nei confronti della tenuta della consapevolezza è rappresentato
dall'attaccamento che noi possiamo avere per la nostra sofferenza. Infatti,
noi possiamo essere molto attaccati al preoccuparci; possiamo avere un
vero e proprio attaccamento alle preoccupazioni e magari lo razionalizzia-

I Luca XVIII, l. Cfr le lucide parole del Cardinal Martini (1992, p. 72): "È la
.

preghiera continua che ci permette di superare gli scoraggiamenti, i lamenti, le


inutili autocolpevolizzazioni o le colpevolizzazioni, le deprecazioni, riportando
tutto alla vera sorgente".
mo variamente: "Preoccuparsi è da persone responsabili" , "In realtà sto
cercando una soluzione intelligente '' e altri pensieri del genere, in modo
da impedire l'accesso della consapevolezza e del lavoro interiore, che, ov­
viamente, inciderebbero sulla preoccupazione e potrebbero diradarla.
Non sappiamo come fare senza questa abitudine compulsiva alla preoc­
cupazione e quindi troviamo buone ragioni per tenercela.
Oppure possiamo essere letteralmente dipendenti, così come si è dipen­
denti dall'alcol. da quella fiamm ata Ji energia che sì accompagna alla rab­
bia e che magari abbiamo ribattezzato col nome più rispettabile di 'indi­
gnazione'. Rinunciare a quella fiammata che si accompagna all'irritazione,
alla rabbia, ci fa sentire vuoti. "Cosa sono senza questa cosa qui? Divento
qualcosa di molliccio, che non si preoccupa, che non si arrabbia ... non so­
no più niente . E quindi tranquillamente rischiamo di sabotare il lavoro
..

interiore così come un alcolista può sabotare a un certo punto il program­


ma di riabilitazione di Alcolisti Anonimi, ovvero percorre per un tratto i
dodici passi e poi lascia perdere. Allo stesso modo si può sabotare il tiroci­
nio interiore per dipendenza, non dall'alcol, ma da equivalenti psichici.
Quindi, tenuta della consapevolezza non significa semplicemente ricor­
darsi di essere consapevoli; questo è solo il primo movimento: si affaccia
l'onda nera e si affaccia contemporaneamente la consapevolezza. Questo
però, ricordiamo, equivale a prendere il vaso in mano; dopo c'è la secon­
da fase: lucidare il vaso. Su questa seconda fase. cioè sulla tenuta della
consapevolezza, l'attaccamento ai nostri stati negativi può influire molto,
fino a bloccarla.

5 . Penso che ci convenga aggiungere qualche altra riflessione sul tema


della semplificazione. Se noi abbiamo l'energia investita in mille cose, op­
pure in poche cose che però hanno la priorità sulla pratica, allora non c'è
la semplificazione necessaria a intraprendere questo lavoro di trasforma­
zione delle energie negative. Questo lavoro non è organicamente possibi­
le. Per intraprendere questa svolta così ben descritta da Lama Zopa, dob­
biamo essere un po' più contenti, un po' più sgombri_ Immaginiamo di
essere all'inizio di un cammino e di soffrire di continui sbalzi d'umore.
Saremo troppo presi da questa altalena per avere l'energia necessaria per
fronteggiare spiritualmente un ostacolo imprevisto che ci si presenta da­
Vanti. E un po' come essere colti da un ascesso a un dente mentre siamo
a letto per l'influenza: ci scoraggiamo, è troppo.
Immaginiamo di avere un'attività lavorativa molto impegnativa, qual�
cosa in cui siamo molto identificati e che nella nostra vita ha la priorità.
Pratichiamo il Dharma, ci piace praticare, ma la priorità nella nostra vita
non va al Dharma, bensì a quel commercio, a quel lavoro professionale, o
ad altro. Se la priorità noi la diamo al lavoro, succede che da una parte
c'è il lavoro c dall'altra il non-lavoro, cioè quello che impedisce il lavoro.
Se il lavoro fila liscio, bene; ma se c'è un impedimento al lavoro e noi sia­
mo identificati con il lavoro, alloia saremo in gravi difficoltà, saremo pro­
strati. L'unica priorità che non è divisiva, ma unitiva, è quella spirituale,
perché include tutto. Non ci dice: "Sii consapevole di alcune cose e non
di altre", ma ci dice: "Sii consapevole di tutto"; non ci viene detto: "'Ac­
cetta alcune cose e non altre" , ma: "Accetta tutto''. Non è facile, ma è un
fatto unitivo,
Nell'ambito della stessa pratica, se diamo la priorità alla concentrazio­
ne, allora ci può succedere di pensare: "Ah, la mia concentrazione! ... non
valgo niente"; in questo caso stiamo identificando la pratica, il Dharma,
con uno dei suoi tanti fattori, la concentrazione, che, oltre tutto, non è
nemmeno quello più importante. Se noi teniamo invece presenti le di­
mensioni cardinali, ovvero la consapevolezza, l'equanimità, allora in esse
tutto quanto è incluso. Sono soddisfatto? Va bene, rivolgo la consapevo­
lezza alla mia soddisfazione. Sono insoddisfatto? Lo stesso, rivolgo la
consapevolezza alla mia insoddisfazione. Se la priorità, invece, è tutta fo­
calizzata su questo o quello, il nostro grado di semplicità avrà dei limiti
molto precisi e non ci ritroveremo quella base di contentezza, che equiva­
le a dire di semplificazione, perché avere una contentezza di base signifi­
ca che basta poco a farci contenti.
Ma se noi navighiamo in una scontentezza generale o in una grande fa­
cilità. alla scontentezza, allora non possiamo avere l'energia del cavaliere
di cui parla Lama Zopa. Vcrsando in una condizione di grandissima faci­
lità alla scontentezza, dobbiamo chiedere alla pratica, innanzitutto, una
base di minor scontentezza e dunque non dobbiamo pretendere cose che
ci farebbero cadere soltanto nello scoraggiamento: "Da domani supererò
uno a uno tutti gli ostacoli, tutte le avversità, le malattie . . . ,., . Ma domani
succederà che forse non ce ne ricorderemo nemmeno o che, pur ricor­
dandoci del proposito fatto, non riusciremo ad applicarlo, ci scoraggere­
mo, magari finendo col non praticare più.
Invece, realisticamente, prendiamo coscienza di uno stato di grande
scontentezza, se ce lo ritroviamo, e cominciamo con la concentrazione,
con la calma, con la metta, con lo studio, con i ritiri, a sviluppare un primo
stato di minor scontentezza, cioè di forza, di energia. Dopodiché è come
se, con lo sviluppo della risoluzione, della determinazione al lavoro inte­
riore e del gusto a prendere e riprendere la risoluzione, questi ostacoli da
trasfonnare li avvistassimo più facilmente, in modo tale che l'energia della
paura, della rabbia, dell'attaccamento, piano piano si disincapsula dalla
negatività, dalla distruttività, e comincia a rifluire in positivo, rafforzando
un tranquillo spazio interno, dove le cose continuano a succedere ma sen­
za esigere da noi quell'identificazione soffocante che esigevano un tempo.
25

Narciso e la meditazione

l . Immaginiamo di essere in viaggio e di fermarci per una sosta di ri·


poso in una bella località. Poco dopo, essendoci accorti di quanto sia gra­
devole il posto, cominciamo a essere invasi da tanti pensieri su quanto ci
piacerebbe trascorrere qui una settimana di vacanza. E per tutto il tempo
della sosta la nostra mente fervidamente fantastica e si esalta da un lato e
dall'altro si rammarica perché dobbiamo ripartire. Arrivato il momento
del congedo, se riflettiamo bene, possiamo affermare tranquillamente che
noi non abbiamo incontrato quella valle d'incanto. E ciò perché siamo
stati, in realtà, ipnotizzati e affascinati dal nostro desiderio, dagli arabe­
schi e dalle volute che esso ha disegnato in continuazione nella nostra
mente. Se, invece, fossimo stati capaci di qualche silenzio interno, senza
tanto vociare mentale, saremmo felicemente entrati in contatto con la bel­
lezza del luogo e saremmo ripartiti piunosto appagati che frustrati. Que­
sto è un esempio, tra gli infiniti possibili, di come sia forte e, insieme, in­
gannevole il potere del desiderio in noi. Perché, appunto, ci può invi­
schiare a tal segno da impedirci, paradossalmente, il contatto proprio con
la cosa che desideriamo.
Nel nostro esempio, noi siamo risucchiati dal desiderio e dalla prolife­
razione di pensieri e di immagini che a esso si accompagna. E tale 'risuc­
chio' ci dwide, ci tiene a distanza dall'oggetto che desideriamo. Torna al­
la memoria una lucida pagina di Hermann Hesse: "Solo quando è assente
il desiderio, solo quando il nostro guardare diviene osservazione pura, si
schiude l'anima della realtà .. Nel momento in cui il desiderio si placa e
.

subentra l'osservazione, il puro vedere, il puro abbandono, tutto cam­


bia". E mercé l'osservazione pura - poco dopo Hesse annota - diviene
possibile "la più alta e la più desiderabile condizione della nostra anima:
amore senza desiderio" (Hesse 1970, p. 30, corsivo nostro). La contempla­
zione disinteressata di una cosa ci permette di entrare in contatto con es­
sa, il che non può darsi se è presente l'attaccamento, che sposta l'accento
sull'io. Infatti dire attaccamento equivale a designare l'io, l'egoità; ossia
calcolo, confronto, aspettativa. E l'invischiarsi nella mente di desiderio
possiamo chiamarlo la fascinazione del!'autort/erimento, l'incantesimo del­
la preoccupazione di sé. In termini buddhisti, è l'attaccamento-ignoranza:
siamo attaccati a quella forma di energia mentale che il desiderio mette in
moto e siamo, contemporaneamente, incapaci di vedere il fatto che
quell'onda di aspettativa e di calcolo ci toglie il contatto con la realtà.
Questa incapacità fondamentale è l'ignoranza, che dà sostentamento alla
fascinazione egoica. Più precisamente, l'incapacità a veder giusto è
l'aspetto passivo dell'ignoranza. Mentre
. l'aspetto attivo è una credenza
che oscuramente anima l'attaccamento al desiderio e cioè il credere che
in qualche modo desiderare ci farà bene, che ce ne verrà qualcosa. E non
è un caso che, crescendo un poco il discernimento, che è il contrario
dell'ignoranza, la passione dell'autoriferimento tenda ad affievolirsi. Qua­
si che l'individuo cominciasse a credere di meno all'ideologia della mente
di desiderio e alle sue conclusioni.

2. Ma noi non siamo affascinati soltanto dalla mente di desiderio. Infat­


ti, anche se possiamo non saperlo, siamo altrettanto affascinati dalla mente
di avversione, e la pratica meditativa prima o poi ce lo rivela con estrema
chiarezza, provocando talora non poco disagio nel meditante. E dunque io
posso scoprire che sono attaccato alla mia rabbia e che non solo non vo­
glio sbarazzarmene ma che, al contrario, la voglio mantenere viva. Nel­
l'esempio fatto all'inizio di questo scritto, il problema non era il naturale
'mi piace' nei riguardi del bel posto. Allo stesso modo, se facciamo ora
l'esempio di una persona che ci ha detto una cosa sgradevole, suscitando
in noi una lunga reazione di avversione, il problema non sarà nel 'non mi
piace', bensì nella fermentazione mentale che a esso è seguita: pensieri sva­
lutativi dell'altro e di me stesso, progetti di dire e di fare, eccetera.
Questa proliferazione mentale ci affascina e ci ipnotizza e fa sì che noi
non entriamo in vero contatto con la ferita ricevuta, allontanandone in tal
modo la guarigione. Parleremo ancora di questo argomento più sotto. Per
ora osserviamo che, al pari della fermentazione mentale di desiderio, an­
che la fermentazione di avversione ha un effetto divisivo, il quale agisce
sia a livello esterno (divisione dall'altro che mi insulta), sia a livello inter­
no (divisione dalla mia ferita)_ Questa divisione interna ci impedisce l'ac­
cesso a una sofferenza pulita, senza sovraccarico egoico, che è un traguar­
do della massima importanza nd cammino interiore.
Dunque, riepilogando, apprezzare il piacevole e rifiutare lo spiacevole
è naturale e non è certo un problema. Non è qui che sta la prigionia
mentale, l'insoddisfazione creata dalla mente. Il problema grande e
profondo, invece, è l'invischiamento nel desiderio e nell'avversione, cioè
l'identificazione-attaccamento con questi due moti che si avvicendano di
continuo nella nostra mente. Si tratta, appunto, dell'attaccamento radica­
le. che è così forte perché non sa di essere ostruzione alla vita migliore e
più grande. In fondo l'ignoranza (avzjja) è essenzialmente ignoranza del­
l'attaccamento. Abbiamo chiamato fascinazione dell'autoriferimento que­
sto essere irretiti nel desiderare e nell'avversare, questo essere indottrinati
e persuasi dai ragionamenti del desiderio-paura-avversione. Solo la fine
della fascinazione può portare a un desiderio e a nn' avversione depurati,
il che significa volere ciò che è buono e non volere ciò che non è buono.
Cominciare a cogliere in maniera non fugace la fascinazione egoica è una
svolta notevole in un tragitto meditativo e indica la nascita di una nuova e
importante sensibilità.

3 . Possiamo dire che, prima di questa fase, predomina in noi Narciso,


ovvero l'insensibilità e la sordità tipiche della fascinazione dell'autoriferi­
mento. Nel mito classico Narciso vive totalmente insensibile alla vita che
lo circonda (donne e ninfe si innamorano di lui. che però non corrispon­
de) finché un giorno egli rimane a tal punto ipnotizzato dalla propria im­
magine riflessa in uno specchio d'acqua che vi cade dentro e affoga, mo­
rendo così a nna vita disabitata da relazione e da calore. Spiritualmente la
morale della favola potrebbe essere questa, che la fascinazione per l'auto­
riferimento ci impedisce di entrare in relazione (che è comprensione) con
la realtà, con la vita presente momento per momento e, in ultima analisi,
ci spegne. Perennemente distratti dall' autoriferimento, non capiamo e
non amiamo. Come dice il Dhammapada "Coloro che coltivano l' attenzio­
ne sollecita (appamada) non muoiono, coloro che non la coltivano sono
come morti" (DP 2 1 1 . Dunque il Dharma proclama la possibilità di supe­
rare il Narciso in noi, ossia l'ostacolo principale alla saggezza e alla com­
passione. Deliberatamente non usiamo qui il termine narcisismo, dato che
esso è impiegato per indicare una specifica sindrome psicopatologica o,
più in generale, un atteggiamento esibizionistico. Mentre la fascinazione
dell'autoriferimento è, in misura più o meno grande. fatto comune e co­
munemente reputato 'normale'.
In questa impresa di superamento, la meditazione di consapevolezza è
in grado di darci, col tempo, un aiuto fondamentale, che è quello di mo­
strarci il modo di operare del Narciso, le strategie abituali dell'attacca­
mento all'io-mio. Tra queste spicca per importanza il compulsivo pensare
e immaginare che si accompagna all'identificazione o attaccamento. È ve­
ro che una certa quota di attaccamento può essere inconscia e perciò ap­
parentemente muta di parole e di immagini. Ma non appena, in virtù di
un approfondimento della pratica, quell'attaccamento diviene conscio, al­
lora cominciano ad affiorare pensieri/immagini anche in quell'area.
Ora questo flusso di pensieri e di immagini autocemrate sembra avere
una funzione cruciale per il mantenimento dell'attaccamento radicale o
Narciso. Certamente, desideri. avversioni e paure non sono semplici pen­
sieri, sono bensì emozioni e sentimenti. Tuttavia nell'ambito di un senti­
mento, per esempio una frustrazione, i pensieri e le immagini che a essa
si associano sono tutt'altro che fatti marginali. Al contrario, essi sono in­
tessuti nella frustrazione, ne sono parte integrante, l'alimentano e la per­
petuano. Sembra dunque che siano un canale primario attraverso cui av­
viene l'identificazione o attaccamento o egoità, perché è attraverso i pen­
sieri che io, definendomi e ridefinendomi in continuazione, fisso e conso­
lido la frustrazione come mia e come me e dunque conferisco vitalità al
Narciso.

4. Ma cerchiamo di vedere meglio questo punto, giovandoci del con­


tributo di alcuni autori. Achaan Sumedho, dopo aver descritto una situa­
zione di difficoltà nella sua pratica, annota: "Nella mente sorgono l'avver­
sione, un'incredibile rabbia e la frustrazione. Cosa si può fare? L'unica
cosa, che vale la pena di fare è andare all'avversione, alla sensazione e in­
vestigare. È così che cominciai a resistere a ciò che sembrava intollerabile.
E ho scoperto che questo tipo di pratica è molto utile, allora non mi pia­
ceva, ma si rivelò molto benefica" (Achaan Sumedho 1990, pp. 89-90). In
questo brano l'autore ha sottolineato vigorosamente la necessità del con­
tatto diretto con l'emozione. Nel brano che stiamo per citare egli illu­
strerà quali sono le conseguenze della " investigazione della propria espe­
rienza di sofferenza", investigazione nel senso di 'essere aperti' silenziosa­
mente a questa esperienza: "Ebbene, in virtù di questa apertura, che cosa
troviamo? Allorché io mi sono aperto alla sofferenza quello che ho trova­
to è che la sofferenza cessa. La sofferenza non dura se voi lasciate andare
le vostre illusioni, i vostri punti di vista, le vostre opinioni, il vostro orgo­
glio, la vostra presunzione" . l
Similmente Kittisaro: "Ci volgiamo al dolore e lo guardiamo dritto in
faccia, lo sentiamo e lo investighiamo: 'Che cosa è?'. Osservate come i
penrien dicono: Q uesto è dolore, è orribile, non lo sopporto più'. Co­
'

minciamo a osservare la natura di queste idee che noi appiccichiamo sul


dolore, in tal modo rendendo il mio dolore insopportabile. Misteriosamen­
te, una volta che noi cominciamo a guardare il dolore, il dolore cambia,
perché esso non è qualcosa di solido ... Guardando la sofferenza noi, in
effetto, diventiamo parte della sua trasformazione. Comprendendola e

1 Da un discorso di Achaan Sumedho intitolato "Is Buddhism a Religion?" in­


cluso in una raccolta in via di pubblicazione presso Wisdom, London e Boston;
corsivo nostro.
sopportandola, noi ci liberiamo da /afie nozionz circa il dolore e il piace�
re" (in AA.VV. 1989, p. 158, corsivo nostro).
Sempre nella stessa vena, ascoltiamo Charlotte Joko Beck: "Appena
qualcosa ci turba, ci agita o ci mette in ansia, incominciamo a pensare. Ci
preoccupiamo, andiamo a pescare montagne di cose e pensiamo, pensia­
mo, pensiamo. Crediamo di risolvere in questo modo i problemi. La solu­
zione del problema sta invece nella diretta esperienza della difficoltà in­
contrata, e nell'agire su questa base. Se mia figlia si arrabbia con me e mi
urla che sono una madre impossibile, cosa faccio? Potrei esporre le mie
ragioni e spiegarle che quello che faccio è per il suo bene, ma cosa allevia
davvero la situazione? Sperimentare semplicemente il dolore dell'accadu­
to, notando i pensieri che elaboro. Se ho sincerità e pazienza, incomincio
a vedere mia figlia in modo diverso, e questo mi consente di vedere cosa
fare. L'azione sgorga dali' esperienza. Di solito non facciamo così" (Beck
1989, p. 125, corsivi nostri).
Tutti questi autori sottolineano inoltre che questo modo di lavorare ri­
chiede tirocinio lungo, regolare e costante. E un'autrice cristiana, Agnese
Baggio, soffermandosi sulla capacità di stare attentamente col dolore, fa
un'osservazione importante: " Non si tratta di essere 'bravi', ma semplice­
mente 'solidali con la propria realtà', qualunque essa sia, affinché nulla
possa smorzare il nostro slancio di vita" (Baggio 1984, p. 1 1 ), indicando
in poche parole sia la motivazione giusta, sia un risultato saliente del la­
voro interiore.

5. Nelle varie citazioni appena riportate abbiamo evidenziato in corsi­


vo parole come 'pensare', 'nozioni', 'idee', 'opinioni', 'punti di vista', dato
che i tre autori- ai quali altri potrebbero essere aggiunti, antichi e con­
temporanei - concordemente indicano nel pensare compulsivo e nelle
idee fatte un nodo fondamentale. Per l'esattezza, come prima si diceva,
sembra esserci qui un basilare terreno di coltura del Narciso. Infatti è in
gran parte pensando-immaginando che noi costruiamo un ego separato e
alimentiamo l'identificazione-attaccamento. n problema non è tanto il de­
siderio, la paura, l' awersione; il problema è ciò che fabbrichzamo sul desi­
derio, sulla paura, sull'awersione_ E fabbrichiamo servendoci in buona
misura, appunto, di pensieri-immagini, che hanno l'effetto di /issare, soli­
dzficare e indurire sentimenti ed emozioni. Ora, cosa accade nel processo
meditativo? Accade anzitutto che la nostra abituale infelicità, fatta di
identificazione col quotidiano avvicendarsi di desiderio-paura-avversione,
è eletta a materia prima del lavoro interiore. E già questo primo passo ri­
chiede maturità di pratica: "Le emozioni sono dannose, nel loro creare
disarmonia, solo se ci dominano, cioè se ci siamo attaccati. La prima cosa
da vedere nella pratica è il fano che siamo attaccati. Continuando lo za-
zen con coerenza e pazienza, scopriamo a poco a poco che non siamo al­
tro che attaccamenti. Seno gli attaccamenti ad avere in mano la nostra vi­
ta" !Beck 1989, p. 188, corsivo nostro). Dunque, se noi siamo impregnati
di attaccamento, la materia prima del lavoro su se stessi non potrà che es­
sere l 'attaccamento. Nel linguaggio alchemico la materia prima deve esse­
re 'cotta' nel vaso ermetico, per ottenere in tal modo l'oro della saggezza.
Questa 'cottura' rappresenta il secondo livello del processo meditativo.
Cioè, una volta riconosciuta in noi la fascinazione dell'autoriferimento,
ossia l'identificarsi incessante e il suo corteo di pensieri e immagini, oc­
correrà farne esperienza sempre più diretta, occorrerà entrarvi in contatto
vivo. E ciò, come vedevamo, significa sentire-percepire le emozioni il più
nudamente possibile. Senza accodarsi ai pensieri, senza cadere nell'ipnosi
egoica, senza cioè apporre il sigillo dell'io-mio su tutto quello che via via
emerge dentro di noi: e cominciando, in tal modo, a sottrarsi al regime
del Narciso.
E allorché riusciamo a cogliere, in nudità c silenzio, la pura vibrazione
energetica di una frustrazione, saremo sorpresi e placati allo stesso tempo:
infatti percepiremo, pur nella sofferenza, un'ampiezza che, fino a quando
imperversavano i pensieri di autoriferimemo, non potevamo arrivare a
toccare. Al contrario, eravamo preda dell'angustia che quei pensieri crea­
vano. E quanto più entriamo in contatto non discorsivo con le varie emo­
zioni (a cominciare da quelle minime), tanto più la 'cottura' procede.
Ci diviene allora più chiaro che l'energia di tante emozioni è resa dolo­
rosa dal fatto di essere come recinta e costretta dalla proliferazionc dci
pensieri di autoriferimento. Ma una volta che questi pensieri diminuisco­
no di potere (e anche di quantità) in virtù della consapevolezza che li ve­
de, quella energia diventa più impersonale e meno separata. Aumenterà
perciò la capacità di relazione e di unione, quella capacità che fa difetto
al Narciso. Se la frustrazione che patisco non è più sorretta da frequenti
pensieri di autoriferimento, allora comincio a disporre di uno spazio nel
quale farò diretta esperienza non solo della frustrazione ma, allo stesso ti­
rolo, di quanto altro via via emerge. Compresa la gioia. Infatti, finché sia­
mo soggetti all'incantesimo dell'autoriferimento, anche la gioia sarà una
gioia separata e separante, essendo assediata e chiusa da pensieri-immagini
di io-mio. Laddovc una gioia debitamente 'cotta', ossia incontrata ed
esperita nella consapevolezza silenziosa, avrà un carattere più unitivo. Sic­
ché, con l'avanzare della pratica e coll'affievolirsi del Narciso, si può ve­
nire a scoprire che sia ciò che noi consideriamo sofferenza, sia ciò che noi
consideriamo gioia possono entrambe portarci non già a separazione e
frammentazione, bensì a maggiore unificazione e pace.
Quinta Parte

Pratica interiore buddhista


e pratica interiore cristiana
26

Il dialogo interreligioso
come guida spirituale

l . Se oggi da un lato si nota un affievolirsi della religiosità convenzio­


nale o minima tanto in Occidente quanto in Oriente, dali'altro assistiamo
invece a una sensibile crescita dell'interesse per la religiosità contempla­
tiva. Tale crescita si manifesta sia all'interno delle religioni, che mostrano
una rinnovata attenzione alle proprie tradizioni contemplative, sia, più in
generale, in un'aspirazione verso uno spirito contemplativo non confes­
sionale: pronto cioè a ispirarsi a una tradizione contemplativa (o anche a
più di una), ma restìo, invece, a identificarsi ideologicamente con la reli­
gione cui quella tradizione fa capo. Ora a me sembra che una funzione
importante, anche se certo non l'unica, del dialogo interreligioso, do­
vrebbe essere quella di mstenere, nutrire e orientare questo risveglio con­
templatz.vo, sia nella sua forma confessionale, sia nella sua forma non
confessionale.
In queste brevi note vorrei tentare di chiarire in quale modo e in quale
senso al dialogo possa inerire questa funzione di guida. Se è vero, infatti,
che "abbiamo bisogno di un dialogo fano di reciproco dare e ricevere,
nel quale devono venire messe a frutto le intenzioni più pro/onde delle re­
lzgioni", 1 allora, appunto, mi pare inevitabile che il dialogo possa e debba
'mettere a frutto' quella 'intenzione' particolarmente profonda delle reli­
gioni che è la contemplazione, illustrandola, approfondendola e guidan­
dola. Nel cercare di riflettere su questo tema, faremo riferimento ad alcu­
ne pubblicazioni recenti: in esse a volte la connessione tra dialogo e spiri­
tualità è posta in evidenza con grande rilievo {si veda per esempio l'entu­
siasmo forte c contagioso del Kadowakil (Kadowaki 1980); altre volte, in­
vece, ci troviamo di fronte a una posizione più complessa e non priva di
contraddittorietà c di sordità, come avviene nel caso del Kiing. E data la

1 KU.ng - van Ess - von Stictencom - Bechert 1984, p. 9. corsivo nostro. Qui te­

niamo presente soprattutto la sezione Jcl libro relativa al buddhismo.


risonanza di quest'ultimo autore ci dedicheremo anzitutto ad analizzare la
sua posizione, per poi entrare nel vivo del tema che ci siamo proposti.

2. In breve, la mia impressione è che l'apporto di Kiing se per un ver­


so rappresenta un passo avanti di tutto rispetto nella riflessione interreli­
giosa, per altro verso configura ancora un cristianesimo non diciamo im­
periale ma certamente in posizione di implicita supremazia rispetto alle
altre religioni; e in che modo ciò si possa accordare con una concezione
matura del dialogo. così come è ottimamente espressa dal medesimo au­
tore (Kiing 1984, pp. 8, IO, 521 l, riesce difficile capire. Ma vediamo me­
glio. Anzitutto mi sembrano interessanti e degni di rilievo alcuni spunti di
critica costruttiva nei riguardi del buddhismo. Per esempio a proposito
del 'vuoto'. Qui Ki.ing, con molto equilibrio, da un lato auspica un'acco­
glienza e un'assimilazione, da parte cristiana, della sfida del 'vuoto', a tut­
to vantaggio dell'approfondimento della dottrina dell'ineffabilità divina e
della teologia negativa (pp. 466-67 ), dall'altro lato "nell'interesse di un
dialogo autentico" si chiede: " perché designare l'affermazione assoluta
esclusivamente come 'nulla' se non si pensa al niente? Non sarebbe meno
equivoco designare l'assoluto per lo meno anche come l 'Essere assoluto o
l'essere stesso: la 'vuotezza' anche come 'pienezza', la sunyata anche come
pleroma? " (p. 458).
È una obiezione naturale e ragionevole che gli stessi buddhisti si sono
posti e cui hanno ovviato in varie scuole, affiancando la designazione
dell'assoluto in chiave di vuoto con definizioni meno 'vuote', secondo
l'auspicio di Kiing. Eppure, se solo pensiamo a quanta eccessiva insisten­
za sul vuoto contraddistingua certa letteratura buddhista, per esempio i
celebri saggi sul buddhismo Zen di D.T. Suzuki, con il relativo pericolo
di sviare dalla realizzazione di quella pienezza di intento, di quella pre­
senzialità totale di mente e corpo che è il gioiello dello Zen, ci rendiamo
conto che la domanda di Kiing è tutt'altro che futile.
Un altro spunto critico interessante concerne l'enfasi troppo esclusiva
sul monachesimo che ha storicamente caratterizzato il buddhismo, con
effetti squilibranti: "il monachesimo è la base per il buddhismo, non per
il cristianesimo. Se venisse distrutto il monachesimo (come avvenne in In­
dia a opera dell'Islam) il buddhismo verrebbe di fatto colpito al cuore"
(p. 409). È un problema reale. Però, dobbiamo aggiungere, altrettanto
reale è la crescente consapevolezza che di questo problema si viene mani­
festando nell'ambito dello stesso buddhismo. Infatti oggi i centri di Dhar­
ma, quale che sia la scuola buddhista cui si richiamano, sempre di più
propongono, accanto all'esito monastico, non di rado minoritario, una so­
luzione di seria spiritualità laica, che è diversa sia dal monachesimo, sia da
quel buddhismo laico passivo, parecchio contraddittorio rispetto all'atti-
vissirno messaggio di Sakyamuni, così come è in contrasto col dettato dei
Vangeli tanto cristianesimo convenzionale. E può ben darsi che sia il
buddhismo sia il cristianesimo entreranno in una crisi più profonda
dell'attuale se non sviluppano entrambi una seria spiritualità laica. Perciò
il rilievo circa il 'supermonachesirno' del buddhismo è giusto; tuttavia se
si ignorano questi sviluppi recenti, che a me sembrano importantissimi, si
reca un evidente torto alla vitalità e alla creatività della tradizione
buddhista, la quale, come è facile constatare, sta dando un contributo
non indifferente all'attuale risveglio spirituale.

3 . Allo stesso modo, quanto il Kiing osserva circa la dottrina del non
io nel buddhismo sembra giusto ma parziale e quindi, in ultima analisi,
fuorviante. La negazione dell'io, egli dice in sostanza, facilmente può an­
dare in direzione contraria a quella dignità dell'uomo per la quale il
Buddha aveva così tanta considerazione: "nel nostro secolo non è diven­
tato manifesto con quanta facilità un sistema totalitario ... possa sostituire
con la propria potenza l'io ignorato, negato, rimosso, con quanta facilità
l'identità e la dignità dell'uomo possono venire sacrificate agli interessi di
una politica assolutistica di potenza ... e come anche nei sistemi democra­
tici l'indebolimento dell'io, anzi la sua negazione, abbia come conseguen­
za l'assimilazione acritica alle tendenze dominanti?" (p. 452).
A me pare che, in proposito, si possa dire questo: la dottrina del non io
che, rettamente colta e realizzata interiormente, è una via diretta per la li­
berazione, cioè per la massima dignità possibile, è una dottrina realizzativa
molto difficile e profonda, come lo stesso Buddha avvertiva; e per rivelarsi
concretamente liberante ha bisogno di un grande impegno contemplativo.
A causa della rarità di tale impegno, essa viene frequentemente malintesa,
col risultato che, invece di usare la dottrina del non io e la relativa ingiun­
zione al distacco per crescere, l'individuo, non comprendendola, può ri·
trovarsi invece a usarla come una specie di autorevole sanzione della pro­
pria impotenza a reclamare una precisa identità psicologica e sociale e
dunque come una sorta di razionalizzazione della sua paura di esigere i
propri diritti. In questo senso è difficile non consentire con Kiing.
Mentre è davvero arduo essere d'accordo sul suo presentare il cristia­
nesimo, a questo proposito, in una luce tutta positiva, come quello che
"può sviluppare più facilmente, a partire dalla sua propria tradizione, cri­
teri di una immagine qualitativamente diversa dell'uomo" (p. 452) e che
può fare avvertire all'uomo "il proprio io in una dignità quale in Oriente
non si è mai vista" (p. 469). A me sembra, invece, che il cristianesimo si
dibatta esattamente nella stessa difficoltà del buddhiSmo. Infatti la fonda­
mentale ingiunzione cristiana all'abbandono in Dio sempre e comunque,
pur essendo espressione di una dottrina diversa, è però abbastanza equi-
valente, come importanza generale e come difficoltà a essere colta e rea­
lizzata, alla dottrina buddhistica del non io. E, al pari di quest'ultima, vie­
ne facilmente malintesa e finisce così per favorire atteggiamenti regressivi
e, anche essa, in luogo di far crescere, può servire invece a far razionaliz­
zare le proprie confusioni, remissività e paure. Anche qui, soltanto un ge­
neroso impegno interiore può svelare la profondità liberatrice di questa
dottrina. Acciocché poi tale impegno possa sbocciare con più sicurezza è
necessario appellarsi non solo al dialogo interreligioso ma anche al contri­
buto delle scienze umane. Occorre cioè che le religioni tengano nel conto
dovuto, cioè in gran conto, i risultati della psicologia, dell'antropologia,
della sociologia. Senza di che c'è il rischio, molto alto, che manchi il pon­
te, manchi la base per comprendere il difficile e profondo messaggio del­
le religioni. Che, in tal modo, non portano liberazione, bensì penosa za­
vorra. Pretendere di occuparsi dei metabisogni, come direbbe A. Maslow,
senza essersi prima ben curati dei bisogni di base (cibo, sicurezza, affetto,
stima) è pretendere troppo. Ed è singolare quanto variabile sia la consa­
pevolezza di ciò nel buddhismo e nel cristianesimo contemporanei: ora
chiara e acuta, ora abbastanza vaga. t: una disparità che andrebbe supera­
ta, a tutto beneficio del dialogo interreligioso che, su questo solido fonda­
mento, potrebbe articolarsi meglio.

4. Per concludere questa disamina delle tesi di Kiing, vorrei infine


soffermarmi su due punti che, per dirla in soldoni, mi sembrano due
siluri, uno per il buddhismo, l'altro per il cristianesimo. E il dialogo non
può che fame le spese. Ecco il primo punto·. nel confrontare Buddha e
Gesù, del primo si dice che "egli richiede /'eliminazrone della volontà di
vivere", mentre il secondo "invece di predicare l'eliminazione della vo­
lontà, si appella proprio alla volontà dell'uomo, che intende indirizzare
secondo la volontà di Dio" lp. 383); " Gesù, inoltre, non richiede sol­
tanto l'imperturbabilità incapace di odio e il sentimento sereno di una
concordia cordiale, ma anche e soprattutto la donazione amante e la par­
tecipazione attiva" (p. 382).
È sorprendente che Kiing, dopo avere bene illustrato i guasti dell'inter­
pretazione schopenhaueriana (p. 365 ) , presenti poi, a sua volta, un'inter­
pretazione del Buddha non meno discutibile, a dir poco, con quali effetti
sul lenore privo di buone conoscenze sul buddhismo è facile immaginare.
Infatti l'attaccamento di cui il Buddha richiede l'estinzione non ha nulla a
che vedere con la volontà profonda di vita, di più vita, volontà che altro
non è se non la retta intenzione e il reno sforzo, di cui il Buddha predica
incessantemente l'accensione e non l'annullamento. Mi sembra insosteni­
bile l'idea di equiparare l'attaccamento (e dunque cecità, avversione, di�
pendenza, eccetera) a un termine così nobile come volontà di vivere. Seri-
ve in proposito il maestro Zen Kosho Uchiyama: "Se un filo d'erba è
schiacciato da una pietra, esso la raggira e continua a crescere. Tale forza
di guarigione e tale capacità di superare gli ostacoli non si possono chia­
mare desiderio. Si tratta semplicemente della forza vitale. Ora lo zazen
(meditazione seduta) scaturisce dalla stessa fonte" (Uchiyama 1973, p. 78).
Con l'immagine del Buddha 'solo imperturbabile' contrapposta al Cristo
amante, Kiing cade proprio in quella apologetica che si era riproposto di
evitare. Ferme restando le differenze tra il messaggio del Buddha e quello
di Gesù, potrebbe essere proficuo per il dialogo sottolineare che le grandi
spiritualità convengono sul fatto che non attaccamento e amore sono due
facce della stessa medaglia (e se ciò si dicesse più spesso e a chiare note
non si risparmierebbero tante illusioni?). Si comprenderebbe inoltre, in
ambito interreligioso, che vedere il Cristo può aiutare a vedere il Buddha e
che vedere il Buddha può aiutare a vedere il Cristo, come è esperienza non
infrequente di chi ha cercato di coniugare le due spiritualità.
Ma può darsi che l'interesse di Kiing per la spiritualità non sia altret·
tanto vivo che il suo ovvio e magistrale interesse per la teologia. Ciò spie­
gherebbe, oltre al fraintendimento appena esposto, anche quella che mi
sembra una singolare sordità per la spiritualità cristiana. A p. 501, infatti,
leggiamo: "Pur con tutta l'ammirazione, quindi, per la grande Teresa
d'Avila... : Nell'Antico come nel Nuovo Testamento non esiste l'ideale di
una preghiera interiore o di una preghiera del cuore... Per la maggior
parte degli uomini sarebbe di maggiore aiuto la raccomandazione di una
breve sosta orante e ringraziante prima dei pasti e dd sonno nello spirito
di Gesù " .
Ossia d a un lato avremmo l a preghiera mistica, vista come un lusso o
giù di lì, dall'altro la preghiera che conta, la preghiera biblica, di cui si
suggerisce, peraltro, un uso parsimonioso. Rimane però da spiegare cosa
intenda san Paolo col suo "pregate senza interruzione" (Prima lettera ai
Tessalonicesi, v, 17) o il Cristo stesso, là dove raccomanda di "pregare
sempre senza stancarsi" (Luca, XVlii, 1), e c'è da chiedersi se sia legittimo
svalutare così vistosamente la tradizione contemplativa cristiana, che da
secoli insegna la preghiera continua. A me sembra che, così come nella
tradizione Theravada gli stadi di assorbimento mistico (jhana) sono im­
portanti ma non necessari per la trasformazione dell'individuo, mentre è
indispensabile la coltivazione della presenza mentale continua, allo stesso
modo nel cristianesimo non è necessario il conseguimento delle varie
'mansioni' dell'anima, ma è certamente indispensabile, se si intende se­
guire il Vangelo, avvicinarsi a uno stato di preghiera sempre più continua
e sempre più profonda, la quale, per essere 'senza interruzione' sarà ov­
viamente interiore oltre che esteriore. Tutto ciò è spiegato molto bene in
tanti eccellenti trattati di spiritualità cristiana antichi e moderni, che a me
paiono più convincenti di Ki.ing e molto utili al dialogo, capaci come so�
no di unire la spiritualità cristiana, senza negarne la specificità, ad altre
spiritualità, invece di dividerla.

5 . Conclusa questa digressione su Ki.ing, ritorniamo adesso al tema


scelto. Come si diceva, il dialogo può essere in grado di aiutare chi con.
tempia, ossia coloro ai quali sembra evidente che, per vivere significativa­
mente, sia necessaria una prassi interiore di raccoglimento e di presenza;
e ai quali pare anche evidente che, col tempo, tale prassi debba acquisire
i caratteri di continuità, onnipervadenza e spontaneità. Continuità attraver­
so le varie attività quotidiane, onnipervadenza nei confronti delle medesi­
me e infme, a un livello molto elevato,- spontaneità del raccoglimento­
presenza nell'inattività e spontaneità dell'azione calda e chiara. Ora in
che modo l'aspirante alla contemplazione può giovarsi del dialogo per
progredire? I seguenti mi paiono alcuni modi imponanri:
(a) accresàmento della motivazione a praticare il raccoglimento-presen­
za. Infatti, constatare che tradizioni spirituali diverse sono accomunate da
importanti somiglianze ( " Le somiglianze sono però più importanti delle
divergenze", Kadowaki, cit., p. 42), cioè vedere che persone appartenenti
a culture profondamente differenti e, per di più, in momenti storici di­
stanti, si sono espresse in maniere simili circa le strutture portanti dell'iti­
nerario interiore, può sortire un effetto incoraggiante che il cercatore mo­
derno, prevalentemente circondato da irreligiosità, si guarderà dal sotto­
valutare. Insomma, eccettuato il laico antireligioso, per il quale la spiri­
tualità di ogni tipo suscita solo repulsione o noia ed eccettuato }"osser­
vante' religioso che ignora o preferisce ignorare la vita spirituale, tutti gli
altri, dal semplice curioso, al cercatore esitante, al cercatore ardente, non
possono che ricavare conferma e spinta da quella concordia transcultura­
le che esiste nelle descrizioni di presupposti, sviluppi e finalità della vita
spirituale. Può darsi che in altri tempi non sia stato così e che, anzi, l'ap­
partenenza a quella che era sentita come l'unica religione vera, generasse
speciale fervore e motivazione a cercare la sapienza. Ma oggi, dopo la
moderna rivoluzione antropologica e scientifica - che, nella misura in
cui ha portato verità non potrà non considerarsi religiosa - la tendenza è
di segno opposto: quanto più una religiosità trova riscontri in altre reli­
giosità e non si isola né presume di sé, tanto più è probabile che essa su­
sciti rispetto e accenda la motivazione.
(b) In secondo luogo, il dialogo correttamente e attivamente inteso ap­
pare un mezzo privilegiato per promuovere il non attaccamento all'ideolo­
gia religiosa, compresa quella soggiacente alla 'fede laica': "un dialogo esi­
ge rinuncia agli abituali punti di vista" (Massa - Johnston 1982, p. 22). E
ciò è cù evidente imponanza. dato il legame organico esistente tra non at-
taccamento o equanimità e fede viva.2 Infatti, l'attaccamento a una reli­
gione, comunque intesa, non cessa di essere attaccamento per il fatto che
ba la religione come oggetto. E l'attaccamento o desiderio che le cose sia­
no in un certo modo e restino così è indicato da tutte le spiritualità come
la pietra di intralcio per eccellenza.
Dunque il confronto onesto con religiosità diverse può liberarmi da
una forma di attaccamento, a tutto profitto del mio cammino interiore e
perciò della mia potenzialità contemplativa. Può darsi che io 'perda la fe­
de' come, con espressione impropria, si designa l'eclissi di un'opinione o
credenza cui ci eravamo appoggiati e che, a un dato momento, ci lascia, a
tutto vantaggio della possibilità di una fede più degna di questo nome.
Oppure può darsi che io stabilisca un rapporto più adulto con la mia re­
ligione, ossia un rapporto che, in pratica, me la fa vedere, apprezzare e
fruire per la prima volta: la credenza in questo caso permane, ma avvolta
da una fede più vasta.
In altri termini: qualora il non attaccamento generato dal confronto in­
terreligioso sia capace di andare in profondità, allora, da una credenza
basata sull'abitudine o sulla paura, si può sfociare in una fede ampia e vi­
va, con o senza credenze particolari, fede che è il contrario di paura e di
abitudine. "La fede è fiducia. Il contrario di fede non è miscredenza, ma
sfiducia, paura. La paura ci fa attaccare a qualsiasi cosa a portata di ma­
no. La paura si attacca perfino alle credenze. Szcché le credenze possono an­
che ostacolare la fede. Nella fede genuina la presa con cui teniamo le no­
stre credenze è ferma e, insieme, lieve ... Per questa ragione le persone di
fede profonda sono fondamentalmente unite, anche se le loro credenze
possono differire parecchio" (Steindl Rast 1984b, p. 198). La credenza
senza fede divide; la fede, con o senza credenza, unisce. Perciò la prima
non avrà alcun interesse per il dialogo e potrà anzi temerlo, mentre la se­
conda è quella che sospinge in direzione del dialogo e che dal dialogo, a
sua volta, viene alimentata e arricchita.
Per riassumere: poiché il dialogo interreligioso è in grado di promuo­
vere il non-attaccamento/fede, esso appare capace, perciò, non solo (pun­
to a) di incoraggiare alla prassi interiore in virtù della molteplicità di te­
stimonianze a favore della contemplazione provenienti dall'insieme delle
grandi religioni, ma anche (punto b), una volta imbarcati nella prassi in­
teriore, il dialogo, in quanto confronto critico sui temi fondamentali, gio­
va a relativizzare fruttuosamente le proprie identificazioni ideologiche ed
emotive, rendendo così il pellegrino dell'assoluto più sgombro di opinio­
ni e concetti e, insieme, più fiducioso; ossia più cosciente che "nessuno di

2 Il capitolo "Equanimità e retta intenzione"' (in questo volume, pp. 129-138)


tenta alcune considerazioni su questo legame.
noi possiede la verità 'piena', ma tutti siamo in cammino verso la verità
'sempre più grande"' (Kung, p. 9). E la combinazione di penetrante
umiltà e slancio vitale è da sempre il fondamento della contemplazione.
(c) In terzo luogo, il dialogo tende costituzionalmente a spostare l'ac­
cento dall'ortodossia all'ortopra.rsi. Infatti per definizione, l'ortodossia o
'opinione giusta' tende a dividere, soprattutto se viene intesa come una
sorta di rigida normativa giuridica, mentre la 'retta pratica' ha grandi po­
tenzialità unitive. " [Coloro che misconoscono] il carattere dinamico di
ogni religione - scrive R. Panikkar - vale a dire il suo carattere di orto­
prassi, la riducono a semplice ortodossia. Nesslllla religione, invece, si ac­
contenta di essere una mera dottrina. La religione ha il compito di con­
durre l'uomo al proprio fine e richiede all'uomo l'azione sacra che lo sal­
verà, anche se il fine viene poi definito nei modi più diversi e l'azione sa­
cra considerata nelle forme più varie o perfino come mera apertura o pas­
sività" iPanikkar 1970, p. 47).
Ma se il primato si sposta dali' ortodossia ali'ortoprassi, le conseguenze
sono di grande momento. Come afferma coraggiosamente il teologo cri­
stiano Pau1 Knitter: "La preoccupazione primaria di una teologia delle re­
ligioni non dovrebbe essere la 'credenza giusta' sull'unicità del Cristo, ma
la 'pratica giusta' con altre religioni, della promozione dd regno e della
sua soteria" .3 Infine, per citare ancora un contributo recente sull'argo­
mento, ascoltiamo W. Massa: "Il dialogo deve essere condotto sulla base
di un'esperienza radicalmente umana. Non si chiede più per prima cosa:
questo è vero e quello è falso? Dio è personale o impersonale? Il che do­
po tutto significa già un'interpretazione e riflessione di esperienza. Oggi
ci si deve chiedere: come si può spiegare la mia esperienza essenziale di
ciò che mi riguarda in modo assoluto e come posso scambiare l' esperien­
za che faccio come persona dell'OcciJente con una dell'Oriente? A que­
sta domanda si collega quella della prassi: come ti prepari? Con quali
premesse fai queste esperienze?" (Massa - Johnston 1 982, p. 18).
È evidente che il punto (c), con il cruciale spostamento d'asse che
comporta, presuppone già un certo livello di maturità interiore; più preci­
samente, si fonda su un ceno grado di attuazione dei punti precedenti.
Infatti il punto (c), ossia lo spostamento di accento dall'ortodossia all'or­
toprassi, oltre a basarsi su una non preoccupazione circa la 'credenza giu­
sta' (o perché è acquisita 'con mano ferma ma lieve' o perché è molto po­
co specifica), presuppone inoltre la spinta a praticare il raccoglimento
(punto a), e una cena equanùnità-fede (punto b ) .

-1 Knitter 1986, p . 142. Il fascicolo della rivista Cona/rum ! L 1 986) in cui è sta­

to pubblicato l'articolo di Knitter è intitolato Il cristianesimo e le religioni mondia­


li ed è tutto importante.
In altre parole: se il travaglio è ora la retta pratica, vale a dire se ades­
so il travaglio è come essere fedeli al bene, ciò implica sia la spinta
all'esercizio della calma lucida che permette di cogliere e assimilare il be­
ne, sia un'intuizione o fede circa il bene. Il lavoro sull'ortoprassi, favorito
dall'interreligiosità, è parte essenziale del cammino contemplativo: in ter­
mini buddhistici è il lavoro che porta a maturazione l'ottuplice sentiero,
soprattutto nei suoi fattori pratici (retto sforzo, retta consapevolezza, ret­
ta concentrazione) . Quale è la prassi giusta, quanto è giusta la mia prassi,
quanta giustizia nasce dalla mia prassi: sono questi interrogativi, espliciti
o impliciti, che guidano il cercatore interiore già ben incamminato. E so­
no interrogati\'i che sollecitano il discernimento circa la prassi, che chie­
dono alla prassi un migliore intendimento di se stessa.

6. Tipica e importante, nella riflessione e nella sperimentazione sulla


giusta prassi, la questione del discernimento tra dispersione spirituale e
creatività spirituale. Come dire: saper vedere la differenza tra un atteg­
giamento che equivale a scavare di qua e di là senza mai arrivare
all'acqua, per usare un'immagine cara a Ramakrishna, e un atteggia­
mento che equivale a usare più di uno strumento per scavare in profon­
dità nello stesso punto. Si possono cioè alternare in maniera giusta (crea­
tiva) o in maniera errata (dispersiva) metodi di meditazione/preghiera
appartenenti a un'unica tradizione, oppure a tradizioni diverse. In parti­
colare nel secondo caso ci troviamo davanti a una nuova interessante
frontiera. D volume Dio nel silenzio di A. Gentili e A. Schnoeller ( 1986),
ci offre stimolanti contributi in proposito, mostrandoci per esempio la
possibilità di combinare fertilmente la pratica della preghiera e la prati­
ca della consapevolezza (pp. 6 1 - 164). Il che è molto diverso dal con­
cepire le due cose come separate e indipendenti a causa della loro di­
versa ongme.
In proposito, basta una minima familiarità con ambienti spirituali
odierni per sapere che non sono rare le vittime di equivalenze anguste e
sostanzialmente gratuite. Come, ad esempio, l'idea che la sola 'vera' prati­
ca cristiana sia la preghiera e in particolare la preghiera liturgica. Per cui,
se sono cristiano schiverò con sospetto qualsiasi altra forma di raccogli­
mento e comunque sarò incline a considerarla un di più. Oppure può
darsi che si ragioni così: poiché nel buddhismo antico come è conservato
nel Theravada la via della consapevolezza è una via autonoma, che pre­
scinde dalla preghiera, tale deve restare. Ma a parte che così non è più
stato in forme successive di buddhismo, il libro in questione è come se
dicesse: e perché mai? Perché non tentare una combinazione? Certo, il
pericolo è la dispersione eclettica. Ma il rischio opposto, forse più gran­
de, è la rinuncia alla creatività spirituale, in obbedienza alla presunzione>
Jel tutto gratuita, che la spiritualità sia stata definita e conclusa una volta
per tutte nel passato e che la creatività al suo riguardo sia da bandire.
Ancora: scorrendo le pagine dedicate alla consapevolezza, si vede chia­
ramente come un concetto cruciale in spiritualità diverse da quella cristia­
na, quale, appunto, il concetto di consapevolezza, possa, una volta usato
in un contesto interreligioso (invece che restare confinato in ambito
esclusivamente buddhistico), rivelarsi assai consonante con quella che è la
dimensione centrale nel cristianesimo e cioè l'amore. E nel momento in
cui si percepisce che l'amore implica e sollecita la consapevolezza e vice­
versa, allora il beneficio sarà questo, che sul versante cristiano si ridurrà il
rischio di confondere amore con attaccamento, confusione impedita dalla
consapevolezza; mentre sul versante del buddhismo diminuirà il rischio
di intendere la consapevolezza come una tecnica di osservazione fredda e
alienante.
Ricapitolando: il lavoro di confronto e di sperimentazione interreligio­
sa può giovare in modo particolare a far discernere meglio ciò che è ne­
cessario alla pratica spirituale e quali innovazioni siano feconde. Ricor­
dando ancora che, per il cercatore interiore, l'interreligiosità è sollecita­
zione alla prassi, oltre che ausilio efficace all'instaurarsi del processo di
distacco-fede, non sembra dunque eccessivo riconoscere al dialogo una
possibile funzione di guida spirituale per l 'apprendista contemplativo.
27

n lavoro interiore costante:


una prospettiva interreligiosa

l . Consapevolezza o presenza mentale continua, preghiera continua,


mantra continuo: queste alcune discipline pratiche che sono alla base del
lavoro interiore costante. Ma il lavoro interiore è dimensione più vasta
della tecnica sulla quale esso si appoggia. Infatti il lavoro interiore, come
vedremo, è continuo trascendimento, e se non riesce a trascendere la tec�
nica, pur restandole fedele, esso non potrà acquistare quella costanza pa­
cata e rassicurante che, essa sì, è connotazione specificamente spirituale.
Dunque il lavoro interiore o spirituale nasce veramente allorché gli arride
questo tipo di costanza: una costanza in cui la sollecita fedeltà alla tecnica
convive con un riposato trascendirnento della medesima, poiché la tecni­
ca ora non è più vissuta come attività separata, come un impegno diverso
dall'impegno di vivere.
Altrimenti detto, acciocché il lavoro interiore metta radici salde nell'in·
dividuo, occorre passare dalla volenterosa coltivazione di una disciplina
interiore al gustare i primi frutti della disciplina stessa, a cominciare da
una certa spontaneità di presenza nel presente, che è ora essa a sorreggere
la disciplina, la pratica, invece di esserne sorretta. Sorreggere significa
forza e senza questa forza nuova quella costanza più ampia e più sicura
non può stabilirsi. Né può quindi stabilirsi quella dinamica di trascendi·
mento continuo che sembra il cuore del lavoro interiore. A me pare, infat­
ti, che un lavoro interiore divenuto costante è la vita di tutti i giorni, vis­
suta giorno per giorno e trascesa giorno per giorno, e che più è trascesa,
più è vissuta. E se è vero che la dinamica spirituale per eccellenza è que­
sto continuo disidentificarsi, questo continuo lasciare andare per ricevere
di più, questo continuo oltrepassare per entrare di più, allora ci conviene
adesso guardarla più da vicino.

2. La primissima cosa da capire mi sembra questa, che il trascendere,


l'oltrepassare di cui parliamo non significa ignorare, negare, sopprimere.
Al contrario, possiamo dire che ignorare e nascondersi le cose è un modo
certo per impedirsi la trascendenza. Per esempio se io minimizzo o copro
a me stesso l'effetto di un insulto che ho ricevuto, mi sarà poi impossibile
andare oltre l'insulto. Per il semplice fatto che l'operazione di usare
l'insulto come leva per la trascendenza richiede un'apertura massima di
consapevolezza e di vigilanza. E ciò è agli antipodi di quella riduzione
della consapevolezza su cui si fonda il meccanismo di negazione-mini­
mizzazione.
Dunque anzitutto io debbo essere capace di sentire, di percepire la fe­
rita in tutta la sua portata, fino in fondo, vale a dire con piena sensibilità
e consapevolezza. Solo a questa condizione, cioè senza ovattare e amputa­
re la mia sensibilità (e tale amputazione può essere inconscia), posso pro­
cedere a quella che è l'operazione spirituale primaria, cioè andare oltre
l'insulto passando dentro (e non sopra) l'insulto; e ciò usando il mio mo­
do preferito, che sia l'attenzione non giudicante a quello che mi succede
o qualche forma di pratica del ricordo di Dio, per menzionare solo due
pratiche importanti, la prima in particolare nel buddhismo, ma anche nel­
lo Yoga e nel Vedanta, la seconda nelle religioni teistiche. In sostanza, se
io lavoro interiormente debbo arrivare come ad aprirmi intorno all'insul­
to, ad allargarmi intorno aUa ferita. Ossia la ferita chiama e richiama la
mia attenzione e in ciò mi aiuta; io, per parte mia, le manderò, sì, atten­
zione, ma gliela manderò 'pulita', cioè il più possibile scremata da giudizi
e sentimenti di avversione e in ciò io aiuto la ferita. La quale adesso inve­
ce di essere investita da un'attenzione vociante, imprecante e condannan­
te, che ha il solo risultato di infettarla, viene piuttosto avvolta da un'at­
tenzione silenziosa e sollecita che, alla lunga, è guaritiva.
Dunque, mi ritrovo ad avere trasceso la ferita in virtù, anche, della fe­
rita stessa. La ferita mi è servita per trascendere la ferita. La ferita mi ha
chiamato, ha mobilitato la mia energia; la sapienza, da parte sua, mi inse­
gna pazientemente a rispondere alla ferita nel modo giusto, non infettivo.
Mi insegna a non ignorare, bensì a cogliere la sollecitazione energetica
che mi viene dalla ferita, sollecitazione utile, e mi insegna a emettere, in
risposta, una qualità diversa di attenzzone; un'attenzione non reattiva, libe­
ra, non invischiata e invischiante, e dunque un'attenzione che porta oltre,
che promuove trascendimento. Un trascendimento che mi butta, final­
mente, nel qui e ora; ossia oltre, molto oltre il mondo mentale complicato
e doloroso nel quale vivo.
Lo stesso vale per un moto di soddisfazione, di gioia. Anch'esso è, nel­
la prospettiva spirituale, un possibile fermento di trascendenza, un seme
di liberazione. Perché anch'esso è visto come una sollecitazione, come
una proposta cui inviare in risposta l'attenzione 'pulita', l'attenzione di
trascendenza. E sempre più, nel cammino interiore, una gioia che non
c::vochi, gioiosamente, il moto di trascendenza, appare cosa incompiuta,
come una metà in attesa dell'altra metà, un canto a due voci in cui non è
ancora risuonata la seconda voce.
Possiamo chiederci: è un varco più facile alla trascendenza, la gioia?
Sembrerebbe più facile e più difficile. t certo un varco facile quando la
gioia è poco o nulla colorata dalla paura di finire (o attaccamento) e al­
lorché essa stessa, dunque, per affinità intrinseca, accende attenzione 'pu­
lita' e il ricordo dell'immenso. Mentre la gioia può rappresentare un var­
co meno facile se è gravata da molto attaccamento. Perché è l'attacca­
mento, non la gioia o il piacere, che è vischioso. L'attaccamento vuole
certe esperienze piacevoli, vuole la loro durata, vuole la loro ripetizione.
E quanto meno conosce altre possibilità, tanto più compulsivamente vuo­
le le esperienze solite.
Sennonché quando uno incontra a faccia a faccia il piacere profondo
del lavoro interiore - piacere che tanto più cresce quanto più uno è di­
staccato - allora le forme consuete di attaccamento cominciano a essere
messe in crisi, poiché gli abituali oggetti piacevoli di attaccamento non
torreggiano più come unici e speciali e diventa perciò più difficile idola­
trarli ciecamente. E da questo momento, poiché siamo meno ciechi, di­
venta più possibile far corrispondere anche al moto di attaccamento l'at­
tenzione spaziosa, l'intento Ji trascendenza. Chi pratica sa, per esempio,
che piccoli attaccamenti, una volta immersi nel piacere della consapevo­
lezza gratuita, si liquefanno, come appagati; quasi che la luce della co­
scienza fosse la cosa in ultima analisi desiderata.

3. Insomma il lavoro interiore costante è farsi sospingere Ja tutto, sen­


za eccezione. Tutto è grazia. Tutto quanto ci accade è combustibile per il
fuoco della consapevolezza gratuita o per l'abbandono in Dio (ricordia­
mo la prospettiva interreligiosa). Il che cosa Io faccia ardere. se una gioia
o un dolore, tende a diventare, col tempo, meno rilevante. Mentre pro­
gressivamente più rilevante diventa il fuoco stesso. Anche perché, oltre a
riscaldarci e a unificarcì, esso illumina meglio proprio le cose che via via
veniamo trascendendo. Infatti trascenderle significa non prenderle al loro
valore facciale, non darle per scontate, non subirle nella loro valenza abi­
tuale, bensì delicatamente e rispettosamente. sollevarle controluce: yuesta
la dinamica del trascendimento, quale che sia il cammino interiore da noi
privilegiato. Perciò solo adesso che le trascendiamo cominciamo a com­
prendere le cose. Fino a quando eravamo stretti a esse in un legame di di·
pendenza e di identificazione non lo potevamo capire: eravamo troppo
vicini al quadro per poterlo vedere, valutare, conoscere. In ciò è dunque
già contenuta la risposta all'obiezione che dice: ma se dobbiamo trascen­
dere tutto, allora nulla ha valore in sé?
Le dottrine sapienziali, concordemente, ci rispondono che è vero il con­
trario e che cioè solo quando io ho trasceso una cosa, solo quando non so­
no più aggrappato a essa, solo allora posso comprenderla e solo allora può
emergere, per la prima volta, il valore autentico, in sé e per sé, di quella
cosa e non quel valore che il mio attaccamento o la mia avversione o la mia
paura o la mia indifferenza le proiettavano sopra. Dire trascendimento
equivale a dire rispetto totale: ecco perché il trascendimento propizia una
capacità nuova di discernimento e di comprensione. Dunque è solo an­
dando oltre la cosa che io comincio a entrare nella cosa; ovvero è solo ol­
trepassando la mia identificazione con la cosa, è solo trascendendo le mie
reazioni alla cosa che io posso cominciare a incontrare la cosa.
In certo senso il tirocinio interiore è un apprendistato a credere di me­
no alla mia mente, una lenta e rigorosa disciplina svuotante. L'identifica­
zione, l'attaccamento è, invece, credere ciecamente alle conclusioni della
nostra mente. L'attaccamento, ossia il peso e l'ingombro principale se­
condo il buddhismo, non è certo la nostra capacità di sentire - la quale,
anzi, quanto più è sveglia tanto meglio - bensì proprio il credere, il dare
il cuore alle conclusioni della nostra mente. La disidentificazione o tra·
scendimento è sospendere questa fede cieca e abitudinaria, è interrompe­
re la concatenazione fissa, secondo la quale "se mi viene in mente questo
debbo sentire o pensare questo, se mi viene in mente quest'altro debbo
sentire o pensare quest'altro n .
E come l a interrompo? Lo abbiamo visto: interponendo uno strato di
attenzione 'pulita', cioè uno strato di silenzio, nella concatenazione. Per
esempio mi affiora un senso di inadeguatezza e di incapacità relativo alla
mia persona. Ora io, cercatore interiore, circonderò questo piccolo moto
doloroso con un'attenzione sollecita e non giudicante, addestrandomi co­
sì a quel tipo di risposta non infettiva che dicevamo. Cosa succede, inve­
ce, se non fascio di attenzione silenziosa la ferita? Succede, come al soli­
to, una secrezione di opinioni e, insieme, di fede tossica in queste opinio­
ni, del tipo "non combinerò mai nulla": perché quando sono sfiduciato io
credo, in realtà, e fortemente, in qualche assunto negativo. C'è molta fede
nella sfiducia. Ma non può darsi crescita interna se c'è questa fede auto­
matica nei nostri modi di vedere.
In proposito, è particolarmente importante capire che la mente non si
supera con la mente, i pensieri non si superano con i pensieri, i ragiona­
menti con i controragionamenti. Ossia è molto difficile che io mi convin­
ca mercé discorsi mentali che le conclusioni della mia mente sono spesso
inaffidabili e arbitrarie. È probabile che la fede cieca in quelle conclusio·
ni permanga: infatti buone o cattive, edificanti o distruttive, quelle con­
clusioni abituali mi danno un senso di identità, di continuità e di familia­
rità e quindi non voglio sbarazzarmene. Ed è appunto perché la mente
non si supera con la mente che il lavoro interiore ricorre a una facoltà co­
me l'attenzione o consapevolezza gratuita, che non è né discorsiva né
emotiva: facoltà dunque, in questo senso, non strettamente mentale. Na­
turalmeme se intendiamo mente in un senso lato, anche l'attenzione sarà
da considerare un fattore mentale, però molto sui generis, dato che ha la
capacità di guardare la stessa mente o 'io' e dunque, in certo senso, di
uscire dalla mente.
A questo proposito il Buddha osserva che così come la mente è la base,
il luogo, il fondamento (letteralmente il rifugio, patisaranam) dei sensi, allo
stesso modo la consapevolezza è base, fondamento e rifugio della mente e
la liberazione è la base della consapevolezza (SN 48, 5 , 2). Il passo, di
un'importanza evidentemente cruciale, delinea, in sostanza, il programma
del lavoro interiore e ci mostra in che modo quella fede cieca nella mente
possa entrare salutarmente in crisi. Infatti se io scopro che i contenuti
mentali non sono l'ultimo orizzonte, ma che invece la mente è, a sua volta,
circondata e sostenuta da una dimensione più vasta Oa consapevolezza, la
quale sta alla mente come la mente sta ai sensi) allora sempre più conside­
rerò di 'prendere rifugio' non nella mente bensì nella consapevolezza, nel­
la sua vastità e nella sua promessa. E ciò, in termini di fede, non potrà non
tradursi in uno spostamento dalla fede in questo o in quel contenuto men­
tale a una fede più grande, stabile e risanatrice: la fede in ciò che mi per­
mette di andare oltre questo e quello, oltre la molteplicità, la diversità e
l'ambiguità della mente, ossia fede nella consapevolezza-liberazione. E
quel senso di identità, continuità e familiarità che in precedenza mi veniva
dall'invischiarmi nella mente egoica ora comincia a venirmi, invece, dalla
frequentazione della consapevolezza. Soprattutto dal momento in cui capi­
sco che il lavoro interiore non ha alternative. n che non solo non mi fa
sentire in trappola ma, al contrario, mi fa sentire a casa.

4. Ma vediamo di esaminare più a fondo il tema del lavoro interiore


costante alla luce di due testi, il primo buddhista, il secondo cristiano. Il
primo è un brano delle Domande di re Mi/inda nel quale si espone la dif­
ferenza tra quei due fattori di liberazione che sono attenzione e saggezza.
Dopo aver detto al re, il quale erroneamente equiparava attenzione e sag­
gezza, che le due cose sono in realtà diverse, tanto è vero che " pecore e
capre, vacche e bufali, cammelli e somari hanno l'attenzione, ma non
hanno la saggezza", Nagasena osserva che i mietitori d'orzo con la mano
sinistra afferrano un fascio d'orzo, mentre nella mano destra tengono una
falce e recidono l'orzo con quella falce. "Allo stesso modo", egli prose­
gue, "lo yogin afferra i suoi processi mentali con la sua attenzione e me­
diante la sua saggezza recide le impurità" (cit. in Conze 1959, p. 134).
ll testo cristiano appartiene ai detti dei padri del deserto. In esso un
monaco confida all'abate Sisoc che il ricordo di Dio non lo lascia mai. Al
che l'abate replica che questo non gli sembra gran cosa. La cosa grande
sarebbe, piuttosto, che il fratello acquistasse l'umiltà kit. in Campo -
Draghi 1975, p. 54).
Dunque l'esercizio dell'attenzione o l'esercizio del ricordo di Dio ser­
vono a raccogliersi, al raccoglimento. Ma questo raccoglimento deve ma­
turare poi in un elemento più decisivo, che nel testo buddhista è chiama­
to saggezza o pcnetrazione intuitiva della realtà, nel testo cristiano umiltà.
Perché è la saggezza discriminatrice che nel buddhismo conduce alla libe­
razione ed è l'umiltà che nel cristianesimo favorisce l'unione amorosa con
Dio. Ora dobbiamo anzitutto, a proposito dell'umiltà, osservare questo:
malgrado che in quell'elenco 'ufficiale' delle virtù cristiane che appare
nella Summa di san Tommaso l'umiltà figuri, molto umilmente appunto,
solo come un aspetto della temperanza (5umma Theologica, n-n, 143),
tuttavia chiunque può vedere che negli autori contemplativi cristiani, os­
sia in persone completamente dedite al lavoro interiore, l'wniltà è messa
in gran risalto, non di rado al primo posto e sempre, comunque, è addita­
ta come il fondamento delle altre virtù.
Possiamo ricordare san Giovanni Climaco che non esita a definire
l'umiltà come l'estinzione delle passioni,1 evento cui va il nome di libera­
zione in varie soteriologie asiatiche, o Meister Eckhart, quando parla
dell'unità di Dio e dell'uomo umile, "giacché la virtù che ha nome umiltà
è una radice nel fondo della Divinità in cui essa è piantata" ( Eckhart,
p. 222); o santa Teresa d'Avila, che sottolinea il primato delle due virtù
di umiltà e di amore, il loro essere reciprocamente intrecciate e l'essere
basate entrambe su un distacco profondo !Cammino di perfezione 16, 2 ,
i n Opere, 1969, p. 607); infine, tra i moderni è difficile dimenticare T . S.
Eliot e quel suo "l'umiltà è infinita" -'
Tornando al buddhismo, la penetrazione intuitiva o saggezza del no­
stro testo è, semplificando all'estremo, l'intuizione del carattere insosran­
ziale dell'io e delle cose: intuizione che può solo venire da una radicale
purificazione interiore dell'individuo e che significa, simultaneamente,
pienezza di luce e di liberazione. Ma, ci chiediamo, l'umile vero non ha,
per definizione, superato l'io? E allora - questo in sostanza l'argomento
buddhista - che grado di realtà ha questa cosa che si può superare? O
non è per caso, l'io, un'illusione, quella più profonda, condizionante e se­
parante e quella più gravida di conseguenze? E se cogliamo "con tutta la
mente e con tutto il corpo", per usare il linguaggio dello Zen, l'illusorietà

' Cfr. il 25"' capitolo della sua Scala Santa, per esempio nella hclla trad. france­
se a cura Jel padre P. Dcscille (1978), pp. 2 1 7 sg.
2 "'Humility is endlessH in T.S. EliOl, Four Quartets, East Cokcr, I I .
dell'io, cogliamo anche ciò che quella illusione celava, la luce risanatrice
della saggezza.
Ora, a proposito di tutto questo, viene da pensare che il buddhismo,
pur senza porre ] ' umiltà al centro del cammino interiore, come fa la spiri­
tualità cristiana, tuttavia vi alluda inequivocabilmente tutte le volte che
parla di superamento della credenza-attaccamento a un io. E chi infatti,
se non il vero umile, ha superato la credenza-attaccamento all'io, tornan­
do così con i piedi sulla terra, secondo l'etimologia della parola umile? A
me sembra, per quello che ho capito dell'umiltà e del buddhismo, che la
dottrina buddhista dell'insostanzialità è anche un contributo profondo e
originale su come vede le cose il vero umile, ossia l'unico a essere in grado
di vivere realmente nel presente.
Infatti, ormai libero dal fardello dell'io, cioè dall'illusione, gli rimane
solo quello che c'è, il presente. E anche volendo, non potrebbe vivere al­
trimenti; ma non può volerlo perché non c'è più chi vuole sempre vivere
altrimenti, l'io. Nella gioia costante e inevitabile della vita umile, egli si
accorgerà del carattere sempre cangiante delle cose; carattere che quando
la sua mente era ancora priva della chiarezza dell'umiltà, non poteva che
sfuggirgli. Così come gli sfuggiva il carattere necessariamente insoddisfa­
cente delle cose qualora a esse venga imputata, come accade, una natura
non cangiante e permanente. La nitida visione dell'umiltà è la visione di
chi, non incapsulando più se stesso nell'io e nel mio, non incapsula più
nemmeno gli altri e il mondo; la visione di chi, avendo lasciato libero se
stesso, lascia libero tutto il resto.
Questa digressione non vuole certo dire che il buddhismo e il cristia­
nesimo sono la stessa cosa. Piuttosto si è inteso richiamare l'attenzione su
due punti. Il primo è che, a livello di spiritualità, cioè di pratica contem­
plativa e, dunque, di una dimensione fortemente minoritaria all'interno di
entrambe le religioni, ciò che è considerato dal buddhismo frutto impor­
tante della pratica e cioè la saggezza, può essere vantaggiosamente acco­
stato all'umiltà, vista come importante risultato del cammino nel cristia­
nesimo. E l'accostamento è legittimato non di certo dalla dissomiglianza
dottrinaria tra le due religioni bensì, piuttosto, dalla somiglianza delle
due pratiche. Allora logica vuole che anche i risultati non possono essere
troppo diversi. E dunque il reciproco accostamento può giovare a capire
meglio, più completamente. In certo senso è come se ciascuna tradizione
fosse più specializzata in un aspetto. Ma la specializzazione, necessaria,
dovrà, altrettanto necessariamente, per definizione, lasciar fuori qualcosa.
E perciò al cristianesimo, specialista in umiltà, gioverà l'aiuto del buddhi­
smo, specialista in saggezza, per illuminare l'aspetto saggezza dell'umiltà;
e, viceversa, al buddhismo sarà utile il cristianesimo per porre in risalto
l'aspetto umiltà della saggezza.
Questo a me sembra un possibile modo di avvicinarsi all'intcrreligio­
sità e, anche, un aiuto per studiare l'ipotesi secondo la quale esperienze
trasformativc fondamentali, di fatto molto simili tra loro, siano state poi
interpretate da ciascuna tradizione religiosa secondo linguaggi e concetti
molto dissimili (cfr. Smart 1980). Ma anche lasciando da parte questa
ipotesi, rimane il semplice fatto dell'aiuto reciproco che è possibile tra iti­
nerari spirituali diversi. Infatti a mc pare che oggi il praticante occidenta­
le di Dharma non di rado mostri interesse per la tradizione contemplativa
prevalente in Occidente e se ne riprometta qualche conforto e qualche
aiuto, forse nemmeno Jel tutto consciamente. E così pure lo spirituale
cristiano che, con sensibilità moderna, non si sente più né autosufficiente
né al centro del mondo, non potrà che profittare dell'appoggio di altre
tradizioni. Senza pensare, infine, che la vita spirituale, se è continuo tra­
scendimento, a un certo punto, con molta gratitudine, può trascendere
anche buddhismo e cristianesimo.

5. Al lume di queste ultime annotazioni torniamo al discorso sul lavoro


interiore costante e osserviamo che non c'è da stupirsi se la virtù di umiltà
riceve un'attenzione speciale da parte di chi in tale lavoro è immerso, cioè
i contemplativi. Perché quell'incessante opera Ji trascendimcnto, che è la
spina dorsale del lavoro interiore, vuole umiltà e produce umiltà. Ha biso­
gno, per partire, di una netta aspirazione all'umiltà (che rappresenta, essa
stessa, il primo affiorare dell'umiltà) e genera poi ulteriore umiltà. Occorre
umiltà per volersi umili. D'altra parte, l'aspetto saggezza deve essere an­
ch'esso in risalto fin dall'inizio. E come? Come generosa disponibilità a os­
Jervare gratuitamente. Ma posso guardare gratuitamente senza almeno un
poco di umiltà? Non posso, né mi può interessare. Perché se non ho
umiltà sono dominato dall'io, che non è mai gratuito. D'altra parte, se ho
una scintilla di umiltà iniziale, la scintilla tende a diventare fiamma perché,
procedendo nel lavoro interiore, trova una conferma alla sua visione.
L'umiltà che scopre di aver ragione a esistere non può che aumentare e
quindi diventare ancora più umile. Infatti, inoltrandomi nel lavoro interio­
re, io tocco con mano che l'attenzione gratuita o umile o trascendente o
'pulita' (che va così poco a genio al nostro io) è in realtà migliore e più sa­
lutare del mio modo consueto di rapportanni al mondo.
Non soltanto, ma mi accorgo anche, ricordando quel discorso del
Buddha, che senza il sostegno e il rifugio della consapevolezza umile -
quale che sia il suo grado di sviluppo in noi - noi saremmo incompleti,
profondamente manchevoli. n che è qualcosa di più del constatare che la
dinamica del trascendimento ci conviene, ci fa bene. È constatare la
naturalità della risposta non egoica, è fare affiorare una parte nascosta
della nostra natura: affiora la consapevolezza umile, cioè il rifugio, finora
sommerso, dei sensi e della mente, la loro casa, che li ristora, li ritempra
e li orienta. Finora la mente e i sensi, non sorretti, non tenuti, non custo­
diti, che cosa potevano fare se non, sostanzialmente, stancarn? Invece, la
mente coltivata dal lavoro interiore, ci dicono i testi buddhisti, diventa
kammanzya, cioè duttile, flessibile (cfr. per esempio AN l , 4): e dunque,
in sostanza, umile, come è stato osservato IKhantipalo 1983, p. 261. E la
mente non coltivata, ci dicono quegli stessi testi, è non duttile, non fles­
�ibile, non umile. Cioè rigida, divisa, fragile e stanca, perciò non può
Imparare.
E il lavoro interiore, vedevamo, è apprendimento costante, altrimenti
non è autentico. Se è vero non attaccamento, vero trascendimento, mi de­
ve insegnare, mi deve far capire, non mi lascerà al buio e al freddo. La
mente duttile, la mente custodita e sorretta dalla consapevolezza umile,
impara e perciò cresce. Capisce meglio le scritture sapienziali, capisce
meglio in generale il rapporto con la vita. Anzi, comincia a comprendere
solo ora che cosa è la relazione.
Come, infatti, poteva esserci relazione, amicizia, senza l'opera di tra­
scendimento continuo, che è trascendimento dell'io, dell'egoità, dell'e­
goismo? Poteva darsi solo rapporto di appropriazione o di rifiuto o di
indifferenza. Ma questo non ha nulla a che fare con il piacere di corre­
larci, di unirei con le situazioni che via via incontriamo, di starei dentro
al cento per cento, di essere dentro le conversazioni che facciamo, i
saluti che scambiamo. E più ci uniamo, più ci fondiamo col presente, più
aspiriamo alla consapevolezza saggia e umile che ci ha donato salute in
più. La salute di essere più in relazione <..on noi stessi, più in relazione
con gli altri e la salute, più difficile da definire, di essere più in contatto
con quella forza che sta alla base stessa della relazione, cioè la gioia di
lasciare andare l'io.
Ancora, ci si potrebbe chiedere che cosa hanno a che vedere il trascen­
dimento e il non attaccamento con questa migliore capacità di relazione.
n legame è abbastanza logico. Infatti non ci viene detto che la consapevo­
lezza distrugge la mente e i sensi. Al contrario, ne è rifugio, li fa funzio­
nare in maniera salutare. Dunque operiamo il trascendimento quando of
/riamo gli oggetti alla consapevolezza invece di !asciarli in balla delle no­
stre reazioni. La luce della consapevolezza, in tal modo accesa a ogni ope­
razione di trascendimento, induce maturazione nel complesso mente-sen­
si, che sarà più sveglio e quindi più capace di relazione. E possiamo ben
immaginare come in alcuni, dotati di mente particolarmente kammaniya,
duttile e umile, la luce della consapevolezza possa divenire così naturale
che il bene viene compiuto "speditamente, prontamente e con gusto" (ex­
pedite, prompte et delectabiliter), secondo l'espressione cristiana (cfr.
Hausherr 1970, pp. 83 e 90).
6. Abbiamo accennato prima a quell'evento centrale nel lavoro inte­
riore che è lo spostamento della fede da fede in questo e in quello a una
fede in ciò che porta oltre questo e quello, una fede praticamente senza
oggetto, dato che è fede in una modalità indefinita e priva di contenuti
qual è la consapevolezza-liberazione. Ora, tenendo presente la prospetti­
va interreligiosa, mi sembra che vadano affrontate due questioni.
La prima è la questione relativa alla differenza tra fede e credenza. Mi
sembra che Jacob Neeclleman, tra gli altri, l'abbia descritta magistralmen�
te. Dopo avere osservato che in Occidente la religione, piuttosto che gui­
da pratica per sperimentare direttamente la verità dei suoi insegnamenti è
diventata soprattutto parole, esortazioni e filosofia, lasciando metodi,
esercizi e la possibilità d'esperienza a quella categoria molto sospetta che
sono i 'mistici', egli scrive: "A causa di questo fatto storico, la sacra rispo­
sta della fede, che emana da un livello più alto dell'io nell'uomo, si venne
a confondere con la ordinaria reazione della credenza, uno tra i tanti mec­
canismi egoistici all'interno della mente, che sembra fatto unicamente per
far sentire alla gente di essere dalla parte della ragione" (Needleman
1980, p, 35).
Chiarita la differenza tra fede e credenza, differenza profondissima se
la credenza è solo l'attaccamento a una opinione, rimane però una secon­
da questione, la questione della grande rilevanza della fede nella spiritua�
lità cristiana e della minore rilevanza della medesima in molta spiritualità
asiatica, compresa la maggior parte delle scuole buddhiste. Addentrarsi
con competenza in questo argomento è al di fuori della mia portata. V or�
rei tuttavia condividere alcune annotazioni in merito.
Anzitutto mi sembra che anche qui vale il discorso sulle 'specializza­
zioni'. Certamente il cristianesimo, diversamente dal buddhismo, è spe�
cialista in fede e fa ricorso frequente e vario a questa categoria che si tro­
va, così, a essere una categoria molto differenziata. Infatti abbiamo, ac�
canto a una fede comunemente intesa, una fede più elevata, la fede come
virtù teologale, la fede pura, la fede 'oscura' di Giovanni della Croce, det�
ta così perché sfugge alla mente e ai sensi, non essendo associata a conte­
nuti mentali descrivibili. Sennonché a me sembra legittimo domandarsi,
come si è fatto prima, se tra i risvolti della consapevolezza di cui il
buddhismo è 'specialista' non sia possibile trovare la modalità della fede
pura e se, d'altra parte, tra le pieghe della fede pura cristiana non ci sia
dato di incontrare la consapevolezza. E ciò tenendo presente una impor­
tante annotazione del Neeclleman, che dice: "La divisione reale, la reale
scdta non è tra 'ragione' e 'fede'. La distinzione importante è tra la co­
scienza dei propri stati e le reazioni inconsce sia al pensiero sia all'emo­
zione. Scegliere tra pensiero ed emozione, tra 'ragione' e 'fede' è mancare
il punto. n punto è l'attenzione a sé (sel/-attention) . È questa che porta sia
reale conoscenza, sia reale fede, che non sono in alcun modo contrapposte"
(Needleman 1980, p. 38).
Se guardiamo al lavoro interiore così come abbiamo tentato di descri­
verlo, vediamo che fede e consapevolezza sono intessute insieme, e, talo­
ra, è persino difficile scorgere la differenza dell'una dall'altra. Vediamo
che l'esercizio della consapevolezza, come fa notare Needleman, porta fe­
de in 'qualcosa' che non appartiene né al mondo delle idee, né delle emo­
zioni, né degli oggetti, né degli esseri viventi. Come dire che la consape­
volezza porta fede nella consapevolezza e oltre; così come la fede è fede
anzitutto in quella stessa attrazione che costituisce la fede, e oltre. La fe­
de viva, poi, come la consapevolezza, deve condurre a essere sempre più
svegli e sempre meno invischiati negli oggetti e negli stati d'animo.
Queste corrispondenze tra fede viva e consapevolezza matura - che si
potrebbero riassumere col notare quanto è improbabile immaginare una
fede vera senza assidua consapevolezza e, viceversa, una consapevolezza
vera senza una fede ardente - queste corrispondenze, dico, sono impor­
tanti soprattutto per una ragione: approfondire la conoscenza di quello
che potremmo chiamare lo stato intermedio. Ossia: il lavoro interiore è il
cammin o interiore, è la via, non è la realizzazione, il compimento (nirva­
na, liberazione, Dio), in questo senso è intermedio. Ed è a questo stato in­
termedio nel quale consapevolezza e fede pura sono fondamentali che va
l'interesse maggiore del risveglio spirituale in atto oggi, non tanto a nuove
dottrine o a vecchie dispute teologiche.
Perciò approfondirne la conoscenza diventa compito non soltanto in­
dividuale, ma culturale, nella coscienza che solo una grande trasformazio­
ne culturale potrà far prendere sul serio a molti le cose di cui qui si sta
parlando. E questa trasformazione non potrà che ruotare, io credo, attor­
no allo 'stato intermedio', e non già ad altri aspetti della religiosità. An­
che perché lo stato intermedio, diversamente dalle teologie, è un ponte
ottimo, se non il migliore, tra le religioni, giacché le maggiori tradizioni
spirituali sono in totale accordo sul fatto che il lavoro interiore debba es­
sere continuo e che debba consistere in una costante intimazione al tra­
scendimento. Ciò se teologicamente non dice molto, antropologicamente
ed esperienzialmente, invece, è della massima importanza perché è uno
straordinario lievito unitivo. Dunque l'esperienza sembra il campo di in­
contro più fruttuoso tra religioni, incontro senza il quale quella trasfor­
mazione culturale di cui si diceva sarà problematica.
Sesta Parte

Psicologia e religione
28

Desiderio e sofferenza:
riflessioni psicologiche e interreligiose

l. "L'amore comincia allorché la sofferenza finisce... Sennonché voi al­


la sofferenza non vi avvicinate neppure. E non vi avvicinate alla sofferenza
perché siete sempre intenti a evitarla e a fuggirla. Ora il modo in cui ci si
rivolge alla sofferenza è cosa di grande importanza ... Non riuscirete mai ad
accostarvi a essa se in voi c'è autocompatimento o se avete il desiderio di
trovame in qualche modo la causa, la spiegazione; questo è evitarla ... Ma
se invece, giunti vicini alla sofferenza, voi la tenete, la guardate, non fuggi­
te via, vedete quello che sta cercando di dirvi, vedete la sua profondità, la
sua bellezza, la sua immensità, se voi rimanete così con essa, completa­
mente, ... allora la sofferenza finisce" (Krishnamurti 1984, pp. 40-41).
Questo scritto nasce come tentativo di commentare questo passo di
Krishnamurti, che è bello e, al tempo stesso, molto denso. Tanto da do­
mandarsi se non valga appunto la pena, per tentare di apprezzarlo me­
glio, di scioglierlo un poco. A pensarci bene, oggi ci troviamo in una si­
tuazione curiosa e un po' paradossale. Infatti da un lato osserviamo un'at­
tenzione crescente per la psicologia dinamica, ossia per le scopene di
Freud e per le varie elaborazioni, applicazioni e derivazioni che di esse si
sono avute a tutt'oggi; dall'altro vediamo un risveglio di interesse per l'in­
teriorità, che spesso si traduce in interesse per le scuole contemplative
d'Oriente e d'Occidente. D'ora in avanti, per semplificare, potremo rife­
rirei a queste scuole col termine 'religione' e alla psicologia dinamica con
il termine 'psicologia'.
Ebbene il paradosso sta in questo, che la spiegazione del problema
della sofferenza offerta dalla psicologia appare per molti versi opposta e
contrastante rispetto alla spiegazione religiosa. Per sofferenza intendiamo
qui soprattutto sofferenza psicologica ed esistenziale, come quella che è
più primaria, dato che resta anche quando siano superate forme più og­
gettive di sofferenza, per esempio malattie, sventure, emarginazione socia­
le. Infatti, in due parole, la religione vede una causa importante della sof-
ferenza nel desiderio, mentre la psicologia, tutto al contrario, la ravvisa
nel blocco e nella paralisi del desiderio.
Ricorderemo, in proposito, le analisi magistrali del buddhismo circa la
relazione tra infelicità e desiderio e ricorderemo anche le analisi, non me­
no cogenti, della psicologia sul rapporto tra il desiderio avvilito e la vita
spenta. Sembrerebbe dunque che il desiderio faccia male sia da vivo che
da morto. E a suffragio di questa conclusione sorprendente abbiamo un
corpus dottrinario secolare sul versante religioso e un corpus scientifico
più giovane ma sempre più autorevole sul versante psicologico. Per cui
sarebbe per lo meno azzardato cercare di eliminare una delle due parti,
nel tentativo di giungere a una conclusione più lineare e meno paradossa­
le. Soprattutto oggi che si comincia a guardare con maggior rispetto e co­
noscenza agli itinerari contemplativi, invece di ignorarli o sfigurarli come
avveniva in epoche di furori positivisti. Anche se non possiamo, purtrop­
po, dedicare troppo spazio a questo punto che definire profondo è poco,
tuttavia è necessario considerare la questione più da presso e vedere in
che misura il contrasto tra psicologia e religione sia reale e in quale misu­
ra, invece, sia dovuto a ipersemplificazioni e a equivoci.

2. La psicologia, come è sempre meglio noto, ritiene che il desiderio


che non circola liberamente nell'individuo e che invece rimane occluso e
variamente impedito è causa di un crescente attrito con l' esistenza.1 Que­
sto attrito è penoso giacché produce difficoltà e incapacità a esprimere e
a realizzare se stessi, cioè a incarnare il più completamente possibile dò
che siamo. Da tale blocco proviene frustrazione, la quale è responsabile
di numerosi focolai dolorosi, quali l'ansia, l'aggressività, la depressione, la
colpa, il risentimento, eccetera, tutti reciprocamente intrecciati nelle loro
molteplici varietà. Ed è inutile dire quanto e quanto brutalmente tutto
ciò scacci gioia e piacere dalle nostre vite.
Nevrosi significa incapacità di godere; la maturità, invece, è segnata, tra
l'altro, dalla capacità di godimento e dunque da più gioia. Da notare che lo
schiacdamento del desiderio causa una cecità o confusione conoscitiva. In­
fatti, al di là del livello semplice di desiderio bloccato, che si ha allorché ci
sentiamo impotenti a fare e a dire ciò che desideriamo, esistono livelli più
complessi, profondi e dolenti di blocco e cioè il desiderare senza ben sape­
re che cosa desideriamo, o il riuscire a desiderare solo ciò che è distruttivo.
Dunque una circolazione strozzata del desiderio (come dire un deside­
rio impaurito e irritato) impedisce il piacere, ovviamente da non identifi­
care riduttivamente con questo o quel piacere particolare. È chiaro, infat-

1 A proposito del rapporto tra circolazione del desiderio e fiducia, Prigent 1978.

In generale si può vedere Dacquino 1980 e 1 984.


ti, che un'idea riduttiva del piacere non può che essere già essa segno di
un desiderio angusto e incapsulato. Ora, una vita senza piacere, gioia,
soddisfazione, sarà una vita sfiduciata. E una vita sfiduciata, costituzional­
mente, o non può dare alcunché a sé e agli altri oppure darà, sì, ma mai
gratuitamente: risultando in tal modo incapacitata in uno dei piaceri più
profondi. E questo, mi pare, è uno dei circoli viziosi che più conviene
sottolineare: la difficoltà di desiderare produce la mancanza di piacere,
questa produce la sfiducia, la sfiducia l'incapacità di dare, quest'ultima
rinforza la difficoltà di desiderare, e il circolo continua.
Ora la psicologia ritiene che una corretta educazione o, nel caso fre­
quente che essa sia mancata, una qualche forma di rieducazione successi­
va (ad esempio la psicoterapia) abbia il compito di instaurare o restaurare
la circolazione del desiderio nella sua pienezza e nella sua vitalità anima­
trice, con tutte le conseguenze costruttive che si possono immaginare,
dall'espressione dei propri talenti, alla capacità di godere e di gioire, alla
fiducia, a un dare e a un darsi più gratuito. Dunque l'educazione come
sapiente liberazione del desiderio, il quale, a un certo punto, desidererà
gli stessi principi etici che lo regolano e li vorrà con la stessa naturalezza
con la quale vuole il gioco; laddove se il desiderio non desidera organica­
mente quei principi, ossia se è incapace di desiderare il bene non imme­
diato, allora sarà ancora desiderio impastoiato e cieco.
Perciò, desiderio più libero significa, oltre a una maggiore capacità di
godimento, maggiore capacità di intelligenza, dato che il desiderio sepol­
to porta a distorcere la percezione; significa, infine, maggiore capacità di
solidarietà, giacché quando il desiderio si dilata comincerà a desiderare
anche per gli altri e non soltanto per sé. Per concludere: la psicologia ad­
dita nell'incomprensione delle potenzialità del desiderio una causa mag­
giore di sofferenza esistenziale non necessaria.

3 . Se ci volgiamo ora alla religione, ossia alla religiosità contemplativa,


ci troviamo davanti, per quanto riguarda la questione del desiderio, a un
quadro diverso, soprattutto se abbiamo a che fare con espressioni con­
templative tradizionali, non ancora influenzate dalla psicologia moderna.
In esse l'accento non cade in alcun modo sulla circolazione del desiderio
bensì cade, piuttosto, su quello che possiamo definire il desiderio mag­
giore, chiamato desiderio di illuminazione in alcune religioni, desiderio di
Dio in altre. ll desiderio maggiore è considerato il fattore trasformante
per eccellenza. Mentre l'insieme degli altri desideri, che si possono racco­
gliere sotto il nome di desiderio minore, sono visti come impedimenti al
desiderio maggiore. Oltre tutto la presenza di un serio desiderio verticale
o maggiore è l'unica garanzia convincente che un desiderio di autosacrifi­
cio a beneficio altrui non sia sottilmente egocentrico.
Dunque, se è vero, come vuole la psicologia, che il buon funziona­
mento del desiderio minore mi svincola da uno stato di frustrazione e di
infelicità, è anche vero, tuttavia, che la felicità che ciò può elargirmi è
molto inferiore alla misura di felicità che, secondo la religione, mi è
possibile in quanto essere umano. E, dicono le dottrine contemplati­
ve, per approdare a questa felicità più grande è assolutamente necessario
che il desiderio minore receda e che il desiderio maggiore prenda il
sopravvento.
Su questa illustrazione più che schematica possiamo fare alcune osser­
vazioni: (a) Anzitutto notiamo che, contrariamente a un certo intendi­
mento corrente della religione, anche in essa, come in tutte le imprese
umane, il desiderio occupa un posto cruciale. Senza desiderio non può
nascere alcunché e il nascere alla luce non fa eccezione. Infatti, chi ha fa­
miliarità con la letteratura contemplativa, sa che ciò su cui variamente si
insiste è la purifìcazione del desiderio (o purificazione del cuore), non già
l'amputazione del desiderio, la quale, posto che fosse possibile, ci preclu­
derebbe il desiderio maggiore e dunque sarebbe la fine del nostro cammi­
no interiore.
(b) Tale purificazione che è concordemente giudicata la via regia per
l'attraversamento della sofferenza, consiste nel graduale superamento del­
la dipendenza dal desiderio, ossia nella disidentificazione o spossessamen­
to dai desideri, visti sempre più come fenomeni transitori e sempre meno
come espressioni durature di noi stessi. Le dottrine spirituali sostengono
che nella misura in cui io sono meno ipnotizzato dai miei desideri, in tale
misura libererò energia che andrà a confluire nel fuoco del desiderio
maggiore.
(c) Pertanto la riflessione religiosa sul desiderio più che opposta alla
teoria psicologica si colloca, piuttosto, su un piano diverso: infatti c'è di­
versità di fini, il fine della psicologia essendo l' autorealizzazione, quello
della religione l' autotrascendimento. E dunque la psicologia parla del de­
siderio in funzione dell'autorealizzazione, mentre la religione ne tratta in
funzione dell'autotrascendimento: sono due piani diversi. Una volta com­
preso ciò, la soluzione del problema, per lo meno in via di principio, è
semplice: il livello psicologico e quello religioso non vanno contrapposti,
bensì vanno collocati in successione, cioè sono da disporsi consecutiva­
mente, essendo non opposti, bensì complementari.
Come dire che, poiché la psicologia si occupa soprattutto di ciò che
accade quando non si sa ancora desiderare, e poiché la contemplazione si
occupa di ciò che può accadere quando si sa già desiderare, allora il livel­
lo psicologico dell'autorealizzazione dovrà venire prima e rappresenterà il
fondamento; senza questo fondamento non potrà prender corpo il secon­
do livello, quello religioso dell'autotrascendimento. Naturalmente questo
inquadramento consecutivo non è rigido. Per cui una sincera ricerca di
autotrascendimento può benissimo fruttare anche sul piano dell'autorea­
lizzazione, quasi come effetto laterale. A patto però che ci sia stata una
certa autorealizzazione di base. A partire dalle intuizioni fondamentali di
C. G. Jung, A. Maslow, G. Allport, R. Assagioli' e, più di recente, in
virtù degli importanti studi di K. Wilber (cfr. in particolare Wilber
1980a, 1980b, 1984), questa visione complementare dei due livelli si è via
via affermata e approfondita.

4. Tuttavia, se tale visione si è consolidata nel campo degli studi, non


possiamo davvero dire che essa sia praticamente entrata in circolo e di­
ventata di comune dominio tra coloro che aspirano alla trasformazione
interiore. E ciò è molto rilevante in un discorso circa la sofferenza in rap­
porto a psicologia e religione oggi. Infatti molta sofferenza è stata ed è
generata dalla confusione dei due livelli. Allorché la religione demonizza,
come si dice, il desiderio, presentandomelo come il male, può succedere
che io, che ero preoccupato per il fatto di sentire poco desiderio nella vi­
ta e per avere anche paura di quel poco, adesso che sto per intraprendere
una via religiosa mi tranquillizzerò, giudicando addirittura di essere av­
vantaggiato e di avere già farro buona parte del lavoro. E non penso, per­
ché non sempre mi viene detto che, allo scopo di desiderare in grande, di
desiderare l'assoluto, i meccanismi del desiderio di base cioè del deside­
rio e del piacere quotidiani non debbono essere inceppati. Perché nel ca­
so che lo siano, l'unico vero cambiamento che avrà luogo nella mia vita
sarà un cambiamento di frustrazioni: dal mondo delle frustrazioni laiche
passerò al mondo delle frustrazioni religiose.
Ricordiamo gli studi recentissimi di ]. Engler (Engler 1984) sulla prati­
ca intensiva della meditazione buddhista intrapresa da individui privi di
un certo grado di integrazione e di organizzazione della personalità, e
cioè con un desiderio particolarmente frammentario e conflittuale: i risul­
tati della meditazione sono turt'altro che liberanti. Infatti la consegna a
distaccarsi, tipica della meditazione, qualora venga recepita da chi non ha
ancora sviluppato una solida capacità di attaccamento, non farà che rio­
erudire l'isolamento dell'individuo. Come dire che l'ingiunzione di ridiri­
gere il desiderio presuppone già un desiderio ben circolante, altrimenti
causerà soltanto un ulteriore e penoso blocco del desiderio.
Ricordiamo anche, in ambito cristiano, gli studi del Rulla (Rulla 1975,
1976; Rulla - !moda - Ridick 1977) circa il rilevante grado di inconsisten-

2 Tutta l'opera di questi quattro autori è percorsa dal tema che ci interessa, ma
talora l'autorealizzazione come base dell'autotrascendimento è messa a fuoco in
modo speciahnente chiaro e profondo. Si veda a questo proposito Jung 1975-6.
za psicologica nelle vocazioni religiose, ossia i voti di castità, povertà e
obbedienza usati inconsciamente come strategie difensive in tre aree par­
ticolarmente cruciali psicologicamente e cioè rapporti con gli altri, con il
lavoro, con l'autorità. Sul versante psicologico, d'altra parte, dovrebbe es­
sere evidente quanta sofferenza possa produrre in chi è dotato di un'aspi­
razione religiosa la brutale negazione della possibilità di autotrascendi­
mento, negazione tipica di psicologie riduzioniste. O, più sottilmente,
quanta frustrazione possa provenire da un riconoscimento solo teorico
del livello religioso. Infatti è difficile non essere toccati da certe belle de­
scrizioni della maturità interiore fatte da alcuni psicologi. Sennonché li­
velli così elevati di trasformazione, salvo eccezioni, richiedono in genere
nulla di meno che l'impegno e l'ascesi di una vita. Se questo non viene
c.letto, si finisce, anche se in massima buona fede, con il confondere le
persone, propiziando l'insorgere di sentimenti di disillusione e di cinismo
- e dunque spargendo sofferenza - riguardo alle possibilità effettive di
trasformazione interiore.
Perciò io credo che sia da salutare con speciale favore un atteggiamen­
to diverso che, benché ancora raro, si nota tuttavia oggi più di un tempo.
Ossia l'atteggiamento di chi, psicologo o comunque interessato alla psico­
logia, preso atto che certe forme di maturità interiore non possono che
essere lo sbocco di decenni di lavoro intenso, si mette umilmente alla
scuola delle grandi tradizioni contemplative. E l'umiltà, infallibilmente,
riduce la sofferenza.

5. Il discorso fatto fin qui si è riproposto una prima puntualizzazione


circa la questione della sofferenza in relazione al desidero. Si è visto che,
a un primo livello di sviluppo (che si può convenire di chiamare psicolo­
gico), la disfunzione del desiderio nell'esistenza causa sofferenza, mentre
la sua armoniosa attivazione e circolazione cura la sofferenza. E si è visto
che, a un secondo livello di sviluppo (che possiamo convenire di chiama­
re religioso), la circolazione del desiderio, pur essendo stata una conqui­
sta cruciale, si dimostra in parte insoddisfacente e non più appagante. A
questo livello la cura dell'insoddisfazione o sofferenza si trova nella disi­
dentificazione dal desiderio, ossia nel modificare gradualmente la nostra
relazione con il desiderio.
Questa operazione in progresso di tempo renderà più tangibile la pre­
senza sullo sfondo, diciamo, del desiderio maggiore, cioè del desiderio di
libertà-unità. Quest'ultimo, variamente chiamato nelle religioni (desiderio
di illuminazione, di Dio), è un fattore complesso: infatti da un lato era
oscurato dalla nostra identificazione con gli altri desideri, cioè dalla no­
stra dipendenza nei confronti della pluralità dei desideri; dall'altro lato
possiamo però dire che il desiderio maggiore già premeva nell'oscurità.
Altrimenti, senza la sua spinta, come avremmo potuto desiderare di disi­
dentificarci dal desiderio? Insomma se non intravediamo la possibilità di
un orizzonte più vasto, di una felicità più grande, da desiderare concreta­
mente, ci basterà l 'orizzonte che abbiamo e ci parrà insensato qualsiasi
discorso spirituale.
Compiute queste precisazioni, torniamo ora al brano di Krishnamurti
dal quale abbiamo preso le mosse. In esso l'autore ci fa osservare la
nostra inclinazione a schivare qualsiasi forma di confronto con la soffe­
renza. Si può notare, in proposito, che se siamo irrigiditi dalla soffe­
renza, magari inconsapevole, fatta di continua c forte tensione, non pos­
siamo aspettarci da noi stessi tale capacità di dialogo con la sofferenza.
Semplicemente, non possiamo farcela, ci manca la necessaria flessibilità
interiore. Mentre non c'è dubbio che se invece siamo dotati di un certo
rilassamento e di una certa fiducia, posseduti per via naturale o raggiunti
mercé un itinerario psicologico, disponiamo dei presupposti di fondo per
quell'incontro con la sofferenza auspicato da Krishnamurti. Infatti la pre­
senza di rilassamento e fiducia indica, si è visto, che il desiderio non è
ingorgato e che la capacità di godimento non è un evento episodico;
quanto a dire che rilassamento, desiderio circolante e piacere si impli­
cano vicendevolmente e poiché si tratta di qualità interiori, esse possono
essere presenti anche in vite non particolarmente visitate da eventi piace­
voli. E dal momento in cui dispongo di questa base, non prima, io posso
pensare seriamente a contemplare l'insoddisfazione e la sofferenza. Ma, a
meno che io non sia un individuo di tempra religiosa spiccatissima, avrò
bisogno di un'altra cosa ancora e cioè di una disciplina di raccoglimento
che mi aiuti a non sottrarmi al confronto con lo spiacevole. E certo la
prassi del raccoglimento (meditazione, orazione) favorisce grandemente
tale confronto. In che modo? Anzitutto rafforzando i presupposti di par­
tenza, cioè rilassamento e fiducia, rendendomi così più atto a capire.
Quindi conducendomi gradualmente a verificare di persona alcune
importanti dottrine spirituali.

6. La verità dell'onnipervadenza della sofferenza è una di queste veri­


fiche cui, prima o poi, la prassi del raccoglimento ci porta. È come se il
raccoglimento meditativo, col tempo, ci dotasse di una lente di ingrandi­
mento sempre più potente, capace di mostrarci il carattere in ultima ana­
lisi insoddisfacente e dunque doloroso non solo di pensieri e sentimenti
negativi ma anche di tanti moti mentali che eravamo abituati a considera­
re positivi, e, parimenti di vari movimenti psichici dei quali, prima di ave­
re la lente del mccoglimento, ignoravamo l'esistenza. n processo fin qui
non è stato dissimile da ciò che in psicoterapia va sotto il nome di sco­
perta dell'ombra.
Dove invece l'itinerario meditativo comincia a divenire più specifica­
mente religioso è nel momento in cui, in virtù di un netto approfondi­
mento, la percezione della dolorosità dei fenomeni mentali si modifica, a
causa di un nuovo fattore emergente, che è il non attaccamento. Ciò si­
gnifica che adesso se io per esempio ho un pensiero depressivo, questo
pensiero avrà una realtà e una densità minore di prima, allorché il fattore
non attaccamento non era ancora spuntato. In termini buddhisti, la svolta
cruciale di cui stiamo parlando e che segna l'inizio della contemplazione
vera e propria si può descrivere come la co-percezione di dolorosità, im­
permanenza e insostanzialità; ossia come la percezione simultanea e unita­
ria di questi tre aspetti. E su questo punto di primaria importanza si in­
gannano non soltanto quelle viete descrizioni del buddhismo in chiave di
pessimismo ma si ingannano anche quei meditanti che ritengono di aver
avuto un'esperienza di dukkha o sofferenza per il fatto di essere entrati in
contatto con le loro difficoltà interne. Taie contatto è certamente prezio­
so, ma quando nel buddhismo si parla di vera esperienza di dukkha uni­
versale si parla di un'esperienza che veda insieme, fittamente contessuti, i
tre aspetti di sofferenza, impermanenza e insostanzialità. Che è un modo
più analitico e completo di parlare di non attaccamento.
Ora se io adesso vedo la mia depressione non solo come dolorosa, ma
anche come irnpermanente e insostanziale è chiaro che, rispetto a prima,
la mia percezione della depressione è parecchio alterata e, in una parola,
io sono più libero dalla mia depressione. Se invece continuo a sentirla co­
me una realtà salda e schiacciante, io sono evidentemente ancora lontano
dalla percezione dell'impermanenza e dell'insostanzialità. Ed è la man­
canza di una dose, magari modesta, ma autentica di questa percezione
che lascia il praticante invischiato nelle proprie difficoltà psicologiche. La
vischiosità può diminuire e cedere il posto alla fluidità solo se l'intuizione
dell'impermanenza e dell'insostanzialità diventa fatto vissuto e non episo­
dica associazione di idee. E ciò, è bene ripeterlo, è liberante.
Perché la dottrina buddhista della sofferenza addita non soltanto la
grande ampiezza della sofferenza, ma anche, insieme, il carattere fonda­
mentalmente effimero e insostanziale della sofferenza così come, in gene­
re, di tutti i prodotti mentali. A me non sembra ozioso chiedersi come
mai questa comprensione avvenga per lo più dopo molta pratica medita­
tiva. E certamente mi pare che una ragione debba essere questa, che in
virtù appunto del lungo lavoro fatto, nasce nel praticante, in modi non
necessariamente consci ed espliciti, una specie di presentimento di qual­
cosa di più vero e soddisfacente del nostro film mentale, quasi uno sfon­
do chiaro per effetto del quale le cose prendono a sfumarci in mano, per
dir così, ossia si relativizzano inesorabilmente alla luce, appunto, di quel­
lo sfondo.
Insomma i nostri stati d'animo, sofferenti o non, visti controluce, si ri­
velano più trasparenti e inconsistenti di quanto invece eravamo abituati a
considerarli. In termini di dottrina del sattpatthana buddhista, questo
sfondo più solido nel mezzo dell'impermanenza e dell'insoddisfazione
può essere visto come l'irraggiamento, piccolo o grande, dei fattori dell'il­
luminazione ( concentrazione, consapevolezza, energia, gioia, investigazio­
ne, equanimità, calma): piccolo se si sono appena cominciati a formare,
grande se il loro respiro è già pieno e coordinato. Ripetendo ancora: gra­
zie al costituirsi di questo sfondo stabile ci diviene possibile, non essendo
più sopraffatti dalla sofferenza, di percepirla altrimenti dall'usato e di es­
seme più liberi.

7. Questo modo, sostanzialmente buddhista, di presentare la fase ini­


ziale del raccoglimento e del confronto con la sofferenza non è natural­
mente l'unico possibile. Un'altra maniera di concettualizzare tale proces­
so può essere la seguente: lo sfondo stabile che gradualmente si pone in
essere rappresenta il costituirsi della fede radicale o primaria, intesa come
forza di fiducia-aspirazione nei riguardi del bene; forza sempre più inde­
fettibile, sempre più viva, e sempre più aperta, ossia disidentificata da
qualsiasi contenuto dottrinario. Perché se fosse invece identificata con
questo o quello sarebbe solo credenza, non fede; e in quanto solo creden­
za, cioè opinione·sentimento-attaccamento, mancherebbe di quella forza
radicale viva e aperta che la costituisce, appunto, in sfondo stabile e sa­
rebbe invece un vettore egoico tra i tanti, precario, separativo e creatore
di sofferenza.
Inutile dire che qualora il modello buddhista sopra esposto ruotasse
intorno a un'idea bigotta ed esclusivistica del Dharma, come può succe·
dere, saremmo anche qui di fronte a sola credenza, con un preciso effetto
limitante e oscurante sui fattori di illuminazione. Personalmente i due
modelli - e nel secondo si può avvertire il sapore di un certo misticismo
radicale, sia cristiano, sia orientale - mi sembrano due diverse formula­
zioni o interpretazioni di fatti spirituali per lo meno molto simili. E non
solo non mi paiono contrastanti ma, al contrario, ritengo che il praticante
non possa che profittare dal tenerli entrambi presenti, a pano, s'intende,
che nel suo cammino interiore egli abbia ormai doppiato l'esitazione.
n primo modello, quello tendenzialmente buddhista, è più analitico ri­
guardo ai meccanismi della sofferenza e favorisce, in virtù della tecnica
della consapevolezza, cioè di un discernimento minuto e preciso, la pas­
sione per la conoscenza discriminativa. Il secondo modello, quello centra­
to sulla fede vuota e viva, è più sintetico riguardo all'ispezione del dolore
e, grazie all'insistenza sull'abbandono, sul soffrire con abbandono, favori­
sce la passione per l'accettazione. Ciò che si coglie nelle forme più avver-
tite della spiritualità dell'abbandono è l'invito ad abbandonarsi non già a
un Dio-concetto o a un Dio-immagine, ossia a un idolo, bensì proprio a
quel desiderio di assoluto di cui si è detto all'inizio di questo discorso,
che è solo un altro nome per la fede primaria o radicale. Infatti, come po­
trebbe darsi desiderio forte di assoluto se non fosse implicita in esso
un'oscura fiducia che l'assoluto è talmente reale Ja essere la cosa più de­
siderabile? E se non ci fosse anche il sospetto che il desiderio-fede riguar­
do all'assoluto, pur non essendo la realizzazione dell'assoluto, ne rappre­
senta tuttavia il primo rivoluzionario annuncio nella vita di un individuo?
Ci si può chiedere, a questo punto, quanto sia legittimo, nel confronto
con la nostra mente e con la sua sofferenza, non solo invocare il doppio
binario della psicologia e della religione ma anche, all'interno della con­
templazione, coniugare più modelli religiosi. Circa la necessità, più che
legittimità, della psicologia si è già detto e a me pare di evidenza imme­
diata. Quanto alla possibilità di non ancorarsi rigidamente a una sola tra­
dizione contemplativa, questo, pur non essendo necessario e fermi restan­
do indubbi rischi di eclettismo inconcludente, mi sembra tuttavia legitti­
mo e impanante.
In sostanza, è una forma di dialogo interreligioso applicato e incarna­
to, messo concretamente in atto e in pratica. E forse va anche oltre, per­
ché è un invito alle religioni a donarsi reciprocamente, invece che a difen­
dersi reciprocamente o invece che a compiacersi narcisisticamente ciascu­
na di se stessa o invece che ad ascoltarsi reciprocamente, che è molto, ma
non abbastanza. Nel fondato sospetto che nessuna delle religioni sia suffi­
ciente e adeguata espressione della "cosa che non nasce e che non muo­
re" ma che ciascuna, piuttosto, abbia un ovvio bisogno dell'apporto delle
altre. Inoltre non è solo questione dell'interscambio tra modelli contem­
plativi ma, per lo meno altrettanto importante, è in ballo la semplificazio­
ne e l'essenzializuzzione di tali modelli.
Un buddhismo troppo buddhista, un cristianesimo troppo attaccato al
cristianesimo non credo siano fecondi: nel senso che mostrano, così fa­
cendo, di preoccuparsi soprattutto della protezione dell'istituzione. Ma è
dubbio che questo giovi al messaggio originario e lo renda più capace di
penetrare nel mondo moderno. Da notare che un modello contemplativo
semplificato non sarebbe affatto un accomodamento al mondo moderno
allo scopo di rendersi più accettabile. Al contrario: poiché tale modello è
fondato su un impegno esistenziale e una dedizione interiore totali (altri­
menti non si può parlare di contemplazione), siamo lontani, a dir poco,
da accomodamenti di ogni sorta. E invece ci avviciniamo, probabilmente,
al "siate sempre consapevoli" del Buddha (v. il Sattpatthanasutta nel MN
e nel DN) e al " pregare sempre, senza stancarsi" del Cristo (Luca XVIII,
l ) . Ora a me sembra che un messaggio che sia estremamente semplificato
dottrinariamente e, insieme, piuttosto esigente dal punto di vista della
prassi interiore, non possa che raccogliere rispetto e attenzione da parte
del mondo contemporaneo.
Il perché è complesso; da una parte, infatti, c'è grande stanchezza
dell'ideologia, laica e religiosa, stanchezza non nata a caso, che rende guar­
dinghi verso le teologie; dall'altra c'è crescente sfiducia nei miti materiali­
stici, desiderio di trascendere l'angoscia montante e c'è la consapevolezza
più diffusa, dovuta anche agli studi della psicologia, che i sistemi contem­
plativi contengono un progetto di cura integrale, una ricerca di un livello
più profondo di sanità, che è poi un modo laico eli parlare eli religione.
Riepilogando, si è auspicato: (a) un interscambio generoso o donazione
reciproca tra religioni, cioè un'interreligiosità applicata; (b) un'insistenza
speciale sulla prassi contemplativa; (c) un'essenzializzazione delle dottrine
religiose. Quest'ultimo punto avrebbe il duplice effetto di facilitare l'inter­
scambio tra religioni e insieme di agevolare il contatto e l'impatto della di­
mensione religiosa con il mondo moderno, il quale se da un lato produce
molta sofferenza, dall'altro appare anche sempre più interessato alla cura.

8. Ma, avvicinandosi il momento di concludere, ci conviene volgerei di


nuovo al rapporto tra sofferenza e pratica del raccoglimento. Abbiamo vi­
sto che per un confronto fertile con la sofferenza è necessario che si strut­
turi in noi quello che si è convenuto eli chiamare lo sfondo stabile. Taie
sfondo è paradossale, costituito com'è di desiderio e di distacco al tempo
stesso. Ossia: desiderio-fede nei confronti di una dimensione liberata, di­
stacco nei riguardi di ciò che, invece, ostacola. La ragione per cui lo sfon­
do ci consente di rapportarci utilmente alla sofferenza è questa, che esso
ci dà la possibilità, appunto perché ancoraggio stabile, per un verso eli
penetrare e capire la sofferenza, per l'altro di addestrarci all'abbandono.
Passione di conoscenza e passione di accettazione, si è detto.
Dunque, grazie allo sfondo riusciamo a stare più fermi, nella nostra
meditazione, davanti allo svariare di piccole e grandi sofferenze. Ora
occorre tener presente che dire sofferenza significa dire sensibilità; ossia,
la capacità di soffrire è la misura della sensibilità umana. Questo è
importante, perché vuoi elire che il tentativo eli calarmi meelitativamente
nella mia sofferenza equivale a cercare di entrare nella mia sensibilità.
Non già eli subire passivamente gli effetti della mia sensibilità, bensì,
invece, di discendere attivamente nel centro di questa preziosa preroga­
tiva umana. Diciamo che scendere nella sofferenza è scendere nel cuore, è
imboccare una precisa via d'accesso al cuore. Accesso, come ognuno sa,
tutt'altro che facile. Forse quando Eckhart, insieme con tanti spiriti reli­
giosi, elice che "Dio è sempre con chi soffre" (cfr. sermone 104, Evans
1 956, p. 202), allude a questo.
Dunque scendere nelia sensibilità attraverso l'esperienza non elusa del­
la sofferenza grande o piccola: è la discesa nella nostra area più interna e
delicata. Il nucleo della nostra relazione con la vita sta qui, la qualità del­
la nostra vita è la qualità della nostra sensibilità. lo credo che quando co­
minciamo ad accorgerci che la sofferenza in noi e negli altri è la risposta
di questa enorme delicatezza, tenerezza e vulnerabilità che ci abita, allora
comincia anche a cambiare sia il nostro modo di soffrire, sia il nostro mo­
do di porci davanti alla sofferenza altrui. Allora, e allora soltanto, possia­
mo afferrare un poco cosa intende Krishnamuni quando parla di bellez­
za, profondità e immensità della sofferenza.
Osserviamo ancora questo. Nell'uso corrente le parole 'sensibile' e
'sensibilità' possono indicare due cose: la perspicacia e l'emotività. Dicen­
do che una persona è sensibile possiamo intendere o che è facilmente
preda della propria emotività, oppure che è una persona capace di capire
più e meglio degli altri. Ossia il medesimo vocabolo è stato scelto a desi­
gnare sia l'aspetto emotivo-affettivo sia quello conoscitivo. Ora la virtù di
quella che abbiamo chiamato la discesa nella sensibilità attraverso la sta­
gionatura meditativa sembra essere questa: che da un lato viene ap­
profondito e acuito 1' aspetto percettivo e conoscitivo della sensibilità,
dall'altro viene come alleggerito, diffuso e sparso all'esterno l'elemento
affettivo-emotivo, che sarà così schiodato dalla fascinazione egoica e reso
disponibile per gli altri. Questa fruttuosa volatilizzazione della sensibilità,
risultante nella miracolosa metamorfosi del cruccio confuso in sollecitudi­
ne illuminata avviene se, invece di lasciare disabitata e sola la nostra sen­
sibilità, impariamo a prendervi dimora fermamente, a occhi aperti e a ma­
ni vuote.
29

Pratica meditativa
e problemi psicologici

l. Il tema 'psicoterapia e meditazione' sembra ricevere oggi un'atten­


zione crescente, sia da parte di chi è spiritualmente impegnato, sia da
parte di psicologi e psicoterapeuti (Si vedano per esempio Bonecchi 1991
e Welwood 1979b). E a me pare che tale reciproco interesse, benché den­
so di problemi, sia tuttavia una cosa buona e promettente; oltre tutto,
considerata l'ampia area comune che è toccata da entrambe le discipline,
un loro vicendevole ignorarsi sarebbe parecchio innaturale. Se teniamo
presente la storia del buddhismo, poi, una riflessione che può facilmente
affacciarsi alla mente è questa: il buddhismo indiano originario, espan­
dendosi in altri paesi e ctÙture, si è arricchito, nel corso dei secoli, di una
grande varietà di tecniche e di dottrine. Basterà pensare, tra gli innumere­
voli esempi possibili, all'importanza dell'influsso taoista per la formazio­
ne, in Cina, del buddhismo Ch'an. Allora, similmente, è lecito domandar­
si se oggi il buddhismo - e soprattutto il buddhismo occidentale - pos­
sa prescindere da un dialogo non superficiale con le due grandi aree
dell'interiorità occidentale e cioè la tradizione giudaico-cristiana da un la­
to e la psicologia e la psicoterapia contemporanee dall'altro.
Tralasciando in questa occasione di toccare il dialogo del buddhismo
con il giudaismo e con il cristianesimo, osserviamo subito, per quanto
concerne l'incontro buddhismo psicologia/psicoterapia, che esso, di fatto,
-

sta già avvenendo, come dimostra, per esempio, il frequente ricorso a


concetti e termini psicologici da parte di insegnanti buddhisti; e come di­
mostra l'interesse per i cammini sapienziali da parte di un certo nwnero
di psicologi che si riconoscono sotto l'egida della psicologia transpersona­
le. Questo dialogo chiede naturalmente di essere approfondito. Dobbia­
mo tuttavia notare che un primo risultato esso già lo ha raggiunto: ci rife­
riamo a una certa sensibilità nuova che esso sta creando, una sensibilità
psicologico-sapienziale, appunto, che un tempo, quando psicoanalisi e re­
ligione erano considerate nemiche per eccellenza, non sarebbe stata pos-
sibile. Oggi invece tale sensibilità c'è e si diffonde e a me sembra qualco­
sa di promettente e che dà speranza, così come importante e ricco di pro­
messe appare il progetto della psicologia transpersonale.

2. Dunque: pratica meditativa e problemi psicologici. Di quale pratica


e, soprattutto, di quali problemi ci occuperemo? La pratica è quella del
satipatthana buddhista o vr'passana, ma credo che quello che si dirà può
valere oltre che per questa pratica buddhista anche, più in generale, per
altri approcci meditativi orientali e occidentali. Quanto ai problemi, po­
trebbe essere utile distinguerli in tre categorie: l) problemi psicologici che
rappresentano un ostacolo o addirittura una controindicazione all'intra­
prendere un cammino interiore, come ad esempio sindromi borderline,
depressioni gravi eccetera; 2) problemi psicologici portati in superficie
proprio dalla stessa pratica meditativa e in particolare dalla pratica inten­
siva (ritiri). Dopo averli portati in superficie, sarà poi sempre la pratica
meditativa che dovrà fronteggiare questi problemi.
Tuttavia occorre aggiungere che in questo momento un buon interven­
to psicoterapeutico può essere prezioso e, talora, è opportuno che la psi­
coterapia rimanga l'unica padrona del campo, con sospensione della me­
ditazione per un certo tempo, acciocché la persona possa venire meglio
aiutata. I problemi di queste due categorie, e cioè problemi alla medita­
zione e problemi provocati dalla meditazione, li toccheremo qua e là. Ma
l'oggetto più specifico di queste riflessioni vuole essere la categoria 3 ) ,
che potremmo chiamare la categoria dei 'grandi equivoci', ossia equivoci
fondamentali sul conto della meditazione e della spiritualità. Tali grandi
equivoci, non di rado presenti in modo più o meno conscio nei meditan­
ti, ne influenzano in profondità il rapporto con la pratica rendendolo
problematico, e ciò sia nel caso di meditanti principianti, sia nel caso di
meditanti non principianti. La causa di questi equivoci è spesso un modo
psicologistico ovvero pseudopsicologico, di presentare la spiritualità.
Dunque constatiamo che, con apparente paradosso, una presentazione
psicologistica della spiritualità produce problemi psicologici al praticante.
La prima osservazione da fare in proposito mi sembra questa: mentre è
utile e appropriato usare talora un linguaggio psicologico nel presentare
dottrine sapienziali e mentre è utile alimentare comunque il dialogo tra
psicologia e spiritualità, è invece del tutto fuorviante la psicologizzazione
dei cammini spirituali, ovvero una manovra riduzionistica, contro hr qua­
le, tra le altre ragioni, nasce la psicologia transpersonale. Nella mia espe­
rienza di praticante e di insegnante di meditazione ho constatato che gli
equivoci derivanti dalla psicologizzazione della pratica rappresentano una
trappola più insidiosa di quanto si possa pensare. Tali equivoci a me
paiono soprattutto tre: l'equivoco numero uno riguarda il tema impegno-
.1/on.o�asJiduùà; il secondo concerne la /ede; il terzo ha a che fare con l'at­
taccamento. In poche parole, in un intendimento psicologistico della spi­
ritualità - intendimento che abbiamo detto creare notevoli problemi psi­
cologici al praticante - la dimensione dell'impegno continuo e abile nel­
la pratica è considerata poco e con sospetto. Quanto alla fede, essa o è
ignorata o è fraintesa. n problema poi dell'attaccamento è considerato
non di rado in maniera spettacolarmente riduttiva: l'attaccamento, infatti,
tende a essere valutato non tanto in sé, quanto piuttosto a seconda degli
oggetti cui si rivolge.
Per riflettere adesso sul primo dei tre equivoci menzionati, ossia, sulla
sottovalutazione dell'impegno nell'itinerario spirituale, ci aiuteremo con
un brano di un autore non buddhista, ]. G. Bennctt, il quale così scrive:
"Per arrivare a vedere non è sufficiente cercare di diventare più consape­
voli; dobbiamo piuttosto lottare attivamente" - notiamo la densità di
queste due parole lottare attivamente - "contro le inclinazioni e le avver­
sioni che sono in noi. Fare ciò che non ci piace di fare, non fare ciò che
ci piace di fare, impegnarci a capire un punto di vista opposto a quello
che crediamo essere il nostro, essere attivi quando ci sentiamo inerti, e
inattivi quando ci sentiamo sprizzanti di energia. Frasi di questo tipo so­
no esposte al pericolo di essere enormemente fraintese: si può ritenere in­
fatti che siano una perorazione della vita masochista. Tuttavia il frutto di
queste pratiche è di rado la sofferenza; è invece un'accresciuta sensazione
di vita" (Bennett 1978, p. 103).
Poco oltre il medesimo autore sottolinea molto efficacemente che se
noi riusciamo a impiegare la forza delle nostre reazioni, della nostra reat­
tività (mi piace/ non mi piace) invece di esserne prigionieri, come accade
spesso e volentieri, allora potremo cominciare a penetrare in ciò che risie­
de dentro di noi: impiegare la forza delle nostre reazioni invece di essere
sopraffatti dalle nostre reazioni (ivi).

3. Queste riflessioni di Bennen a me sembra che abbiano, tra gli altri


pregi, quello di porre il giusto accento su quanto debba essere attivo e vi­
vace il lavoro interiore. Di quale 'ronzio continuo', verrebbe da dire, deb�
ba esserci nella nostra officina interiore. Bennett dice 'lottare attivamen­
te', quasi a indicare un lavoro che piano piano si deve fare abile, instan­
cabile e creativo. Un impegno e il gusto di un impegno destinati a diven­
tare sempre più prioritari.
Ora, diversamente dai passi di Bennctt, che potrebbero tranquillamen­
te essere fatti propri da tutte le grandi tradizioni contemplative, l'approc­
cio psicologistico alla meditazione tende a soffermarsi prevalentemente
sulla necessità di divenire più consapevoli in generale. E il sottolineare
questa necessità non può che suscitare grande accordo ed entusiasmo.
Manca, però, in un approccio psicologistico, il resto del discorso di Ben.
nett, discorso che è un richiamo all'energia di cui c'è bisogno per il non
facile compito di divenire più consapevoli. Parrebbe che, nell'approccio
psicologistico, le origini dioiche della moderna psicologia dinamica siano
ancora molto presenti. Infatti è evidente che il progetto di Bennett è iJn.
proponibile per chi soffre di seri problemi psicologici: servirebbe proba­
bilmente solo a peggiorare la situazione. Sennonché quello che sfugge a
un approccio psicologistico alla meditazione è che una meditazione con­
cepita senza riferimento a quel grande impegno di energia di cui parla
Bennen non serve. Non farà peggiorare i sintomi, ma non serve. E non
serve né a chi sta male, né a chi sta bene. Tutt'al più servirà a far svaluta­
re rapidamente la meditazione e a !asciarla perdere.
Certo, quello che abbiamo chiamato l'approccio psicologistico alla me­
ditazione teme non a torto i risvolti superegoici pericolosamente nascosti
in qualsiasi applicazione di disciplina, soprattutto se si tratta di discipline
interiori; dunque timore di sollecitare, attraverso il richiamo all'impegno,
un distruttivo potenziamento dell'autocensura, un amaro super-io. Tutta·
via in un corretto approccio meditativo gli attacchi del super-io, il nostro
giudicare noi stessi severamente e aspramente, saranno parte prelibata,
benché difficile, del nostro lavoro di consapevolezza. Ossia la contempla­
zione delle nostre reazioni e resistenze alla disciplina è parte integrante
della disciplina. Questo è ben diverso dal minimizzare la cfuciplina in no­
me di uno spontaneismo che non ci porterà né disciplina, né, tantomeno,
spontaneità. E · se riusciamo a sgombrare il campo dall'equivoco circa
l'impegno, allora mi sembra che i fattori chiave di un tragitto meditativo
verranno a profilarsi nella luce giusta. Ad esempio, ci apparirà evidente
che la pratica seduta quotidiana è una necessità di base, anche se possia­
mo impiegare un bel po' di tempo a renderla stabile.
Qualsiasi meditante regolare sa che bisognerà awiare il motore di nuo­
vo parecchie volte prima che la salutare abitudine di sedersi quotidiana­
mente in meditazione arrivi a stabilizzarsi. Come potremmo infatti aspet­
tarci di penetrare dentro le nostre inclinazioni mentali dispersive o di­
struttive se non cominciamo a generare energia attraverso la pratica sedu·
ta? Inoltre, dal passo di Bennett così come dalle innumerevoli espressioni
a esso equivalenti che potremmo reperire in tutte le tradizioni spirituali,
risulta evidente che il lavoro interiore deve diventare, prima o poi, un la·
voro a tempo pieno.
Tale dimensione dell'impegno potrà suonare come una notizia poco
buona se siamo agli inizi del cammino; ma suonerà invece come notizia
progressivamente sempre migliore se abbiamo toccato i primi frutti del
lavoro, fino poi a non 'fare' più notizia: infatti la necessità dell'onniperva·
denza della pratica diventa a un certo punto un fatto ovvio e naturale.
Ora la pratica in azione o pratica informale richiede, come e più di quel­
la formale, un robusto sostegno: dal contatto attivo con una comunità, al­
lo studio, a un insegnamento che proponga via via angolazioni diverse
per animare il lavoro interiore, addestrando così il meditante a stimolare
in se stesso il più possibile l'energia di consapevolezza, di comprensione e
di compassione. Infatti, poiché noi ci addormentiamo e ci riaddormentia­
mo in continuazione, l'arte del cammino interiore sta nel trovare i modi
per svegliarci e, possibilmente, ogni volta un poco di più.
L'equivoco circa l'importanza dell'impegno nella pratica informale è
ancora più diffuso dello stesso equivoco in rapporto alla meditazione for­
male. Ma quest'ultima, la pratica seduta quotidiana, se non è associata a
un lavoro di presenza interiore tessuto dentro la quotidianità rischia di
non avere lunga vita. Oppure, peggio ancora, rischia di fare aggravare
eventuali nevrosi invece di ridurle. Intendo dire questo: se io concepisco
la mia meditazione come fatto a parte, avulso da un impegno di lavoro in­
teriore a tutto campo, che sia capace di invadere beneficamente la giorna­
ta; e se inoltre la concepisco come cosa individuale e privatistica, e dun­
que non inserita in una pratica comunitaria e non appoggiata a un inse­
gnamento il più possibile costante, allora io non soltanto non allevierò la
mia nevrosi, ma, piuttosto, correrò il pericolo di aggravarla.
Infatti tenderò a trasferire nella meditazione il mio continuo fantasti­
care, il mio non essere in contatto con la realtà. E non sarà la medita­
zione a curarmi dal fantasticare compulsivo, sarà invece il fantasticare
che inghiottirà, di fatto, la meditazione. Ma io rischio di non accorger­
mene, perché, avendo magari raggiunto qualche regolarità nella seduta,
mi illuderò che ciò, di per sé, indichi una mia maggiore capacità di stare
nel presente. Senza vedere che, di fatto, avendo io lentamente e inavver­
titamente abbandonato qualsiasi intento di concentrazione, mi ritrovo
semplicemente a fare a gambe incrociate, schiena eretta e occhi chiusi,
quello che faccio la maggior parte del tempo (fantasticare). Dunque, illu­
dendomi di meditare, cioè di praticare l'arte di essere svegli, sto invece
intensificando i miei problemi. Inutile dire che se in tale situazione qual­
cuno mi consiglia una psicoterapia io dovrei essergli grato. E se qual­
cuno, oltre che consigliarmi una terapia, mi spiega che la meditazione
non è la tecnica di pseudorilassamento che io pratico, dovrei essergli
ancora più grato.

4. Conviene ora considerare l'equivoco circa la fede, ossia l'enorme


equivoco generato da approcci alla meditazione privi di un adeguato ac­
cento sulla fede. Fede nuda, non credenza. La credenza è spesso, anche
se non necessariamente, l'attaccamento a un'opinione o a una serie di
opinioni, con relativo dogmatismo. Dunque fede come slancio verso l'in-
dicibile, per dirla col Dhammapada buddhista IDP 2181, fede come pas­
sione per l'infinito, per dirla con Paul Tillich. 1 Fede come intuizione for­
te, frequente, anche se oscura, che il male è molto potente, ma non è la
cosa più potente; che la sofferenza è universale, ma non è l'ultimo oriz­
zonte; che la vita e la morte hanno una portata enormemente più vasta
del nostro io personale, di ciò che io penso e sento. Fede come fiducia
primaria impersonale che è possibile accedere a un bene illimitato. Fede
senza oggetto, quasi rovesciamento liberante di quella forza imprigionata
nella paura senza oggetto che accompagna amaramente tante vite. La me­
ditazione e il lavoro interiore debbono essere radicati in questo spazio sa­
cro che è la fede primaria e debbono dilatare e approfondire questo spa­
zio. È naturale che all'inizio questa fede possa essere solo embrionale o
inconscia o che possa venire identificata con la fiducia in una persona o
in una dottrina, come è anche naturale intraprendere talora un cammino
interiore, per curiosità o per motivazioni soltanto psicologiche. Tuttavia,
prima o poi, nel percorso interiore deve affacciarsi questa forza di attra­
zione per la verità. Forza oscura e nuda, in quanto non ha a che fare con
pensieri, convinzioni, emozioni, immagini. Forza, inoltre, capace di man­
tenere sensi e mente acuti e chiari, come dichiara un testo buddhista, il
medesimo che definisce la fede come guida protettrice e accrescitrice di
virtù: da notare la parola guida -'
Ora a me sembra che non di rado ci si trovi di fronte a presentazioni
della spiritualità orientale che, se da un lato sono ricche di utili ammoni­
menti contro le credenze cieche, non mostrano d'altro canto alcuna sensi­
bilità o attenzione verso questa fede fondamentale. L'ovvia conseguenza
di questo grande equivoco non è questo o quel problema psicologico.
Ben di più: è il rischio di rimanere continuamente impigliati in tutti i pro­
blemi psicologici che via via sopravvengono, senza nemmeno un poco di
quella forza - lo slancio al bene - capace di portarci fuori dalla 'mi­
schia senza fine' della nostra mente.

5. C'è poi un'ulteriore conseguenza negativa nel sottovalutare la fede,


nel non addestrarci a cogliere e rafforzare la relazione tra pratica e fede.
La conseguenza è che, in mancanza di un po' di fede viva, è molto impro­
babile vedere nella giusta luce la dimensione dell'attaccamento. E siamo
così al terzo grande equivoco, ossia la minimizzazione dell'attaccamento.
Infatti, come già si diceva, l'approccio psicologistico tende a ridurr� di

1 Tillich 1957, p. 2 1 . Si vedano anche i capitoli "Fede e consapevolezza" e "fl


Dharma e la fiducia", I e 11.
2 &tnolkadharani. citato nello Siksasamuccaya di Santidcva. trad. in Bendali
1971, p. 3.
molto, rispetto alle tradizioni spirituali, l'accento sull'attaccamento, che
pure da tanti maestri è stato posto alla radice della nostra sofferenza. In­
fatti la mente reattiva o attaccata, imprigionando le nostre energie, ostrui­
sce la nostra disponibilità a capire e ad amare, e dunque ci impedisce di
conoscere e sentire in profondità. Naturalmente non è solo questione di
porre l'accento sull'attaccamento. Ancor più importante è porre l'accento
giusto su di esso, ossia un accento che sia capace di indicare in modo co­
stante ed efficace l'aspetto distruttivo dell'attaccamento, dunque un ac­
cento saggio. Un accento privo di discernimento, invece, crea soltanto mo­
ralismo. L'approccio psicologistico alla meditazione, poiché non si cura di
mettere l'accento sull'attaccamento, evita di cadere in tale moralismo.
Tuttavia, a questo indubbio vantaggio, fa da contrappeso lo svantaggio
grande di stravolgere l'insegnamento di base circa l'attaccamento-igno­
ranza come causa della sofferenza umana. Tipicamente, in un approccio
psicologistico che attenua l 'accento sull'attaccamento, si constatano due
cose: la prima è una distinzione, spesso tacita, tra attaccamenti 'cattivi' e
attaccamenti 'buoni'; la seconda è la confusione tra attaccamento e piace­
re. Sennonché l'attaccamento è vincolo di dipendenza. a prescindere dal­
la qualità degli oggetti verso i quali è diretto; in quanto poi portatore di
tensione dolorosa, esso non può essere confuso col piacere. Tuttavia sen­
za pratica e senza fede sarà molto difficile penetrare nel carattere anni­
pervadente e tossico dell'attaccamento.
Di nuovo, è fondamentale sottolineare la rdazione tra fede e percezio­
ne adeguata dell'attaccamento. Infatti, se è vero che il trascendimento
dell'attaccamento è frutto della saggezza discriminante, è anche vero che
tale saggezza non sarà in grado di operare senza la spinta e il sostegno
della fede -' Non è un caso che, ad esempio, nel buddhismo Mahayana
l'aspirazione all'illuminazione o bodhicitta o fede viene detta contenere in
essenza la saggezza liberante che è basata sul non attaccamento. La fede
vera, insomma, come solido inizio del non attaccamento. Parallelamente,
nella spiritualità occidentale è stato osservato, a proposito per esempio di
Meister Eckhart, che la fede è non attaccamento, poiché una fede che

.l Ricordiamo che la fede (saddha) è una delle cinque facoltà spirituali nell'inse­

gnamento del Buddha insieme a energia, calma concentrata, consapevolezza c


saggezza. Tra le espressioni più decise circa l'importanza della fede nel buddhi­
smo più tardo scegliamo quella del maestro coreano Chinul del XII secolo, il qua.
le, citando Yung-ming [Yen-shou], afferma: ''La fede senza comprensione au­
menta l'ignoranza e la comprensione senza la fede aumenta la distorsione visiva.
Sappi perciò che soltanto quando fede e comprensione sono congiunte si può en·
trare nell'illuminazione". Cfr. Park 1983, p. 17. Si vedano anche. in questo volu­
me, i capitoli compresi nella seconda parte, "Consapevolezza e fiducia".
vuole l'assoluto e la verità non può non rappresentare la fine dell'interes­
se personale e dunque il completo non attaccamento (Vannini 1983,
p. 42; 1991, pp. 73 sg.l. E così ancora John Cobb, personalità eminente
nell'odierno dialogo buddhista-cristiano, osserva: "fede perfetta è perfet­
to lasciare andare", fede perfetta è perfetto non attaccamento (Cobb
1982, p. 104). In conclusione, un insegnamento della meditazione che,
pur facendo largo spazio alla riflessione psicologica, viene tuttavia corret­
tamente impartito secondo le specifiche modalità spirituali che gli sono
proprie (dedizione, fede, non attaccamento), non può che giovare ai pra­
ticanti. Qualora invece manchi tale chiarezza e si cada in un approccio
psicologistico alla meditazione, ciò risulterà, mi sembra, in un aumento di
problemi psicologici per i praticanti.
30

Psicologia e religione
nell'odierna ricerca neocontemplativa

l . Assistiamo oggi, anche in confronto a un passato vicino, a un note­


vole accrescersi e rinnovarsi dell'interesse per la contemplazione. Ci rife­
riamo sia all'esplosione 'orientalistica' (nella quale il termine usato è 'me­
ditazione', accolto anche qui secondo tale accezione, differente da quella
di riflessione discorsiva, tipicamente cristiana), sia alla maggiore attenzio­
ne di Chiese cristiane per forme di orazione non immaginativa e non di­
scorsiva, con conseguente apertura a quell'Oriente religioso che in tali
forme vanta un magistero antico e profondo, sia, infine, a quei moti di
genuino interesse per la dimensione contemplativa manifestati dalla psi­
cologia. Il caso più rilevante in quest'ultimo campo è quello della cosid·
detta 'psicologia transpersonale' 1 che, in anni recenti, è riuscita a smuo­
vere fecondamente le acque nel mondo della ricerca accademica e a porsi
in ciò come apprezzato punto di riferimento e di coordinamento.
Altri indirizzi psicologici (per esempio junghiani, esistenzialistici e
umanistici tra gli approcci psicodinamici oppure, in generale, indirizzi di
psicologia non riduttiva) hanno anche contribuito al fiorire dell'interesse
per la sfera contemplativa: ora in modi decisi ed efficaci, ora in maniera
indiretta, ora, infine, in modi non privi di ambivalenza. È quest'ultimo il
caso per esempio di C. G. Jung (v. sotto) con il suo entusiasmo, di incal­
colabile portata culturale, per l'Oriente religioso e, al tempo stesso, con le
sue drastiche riserve circa le tecniche yogico-meditative. Riguardo alla
psicologia sperimentale, a parte ciò che se ne dirà più sotto in senso criti­
co, anch'essa ha contribuito a sollecitare l'attenzione per gli 'stati diversi
di coscienza', a volte in modi molto precisi: basti ricordare celebri studi a
base elettroencefalografica sulla meditazione Zen l cfr. Hirai 1978).

l Dal 1969 viene pubblicato a Stanford, California, il Journal o/ Transpenunal


Prychology.
2. Impulsi di una certa portata per rendere ragione di questi nuovi svi­
luppi in campo psicologico e religioso si trovano all'interno stesso della
tradizione scientifica e delle più vive tra le tradizioni religiose. La prima,
essendo fondata sullo spirito investigativo, si sta accorgendo che se omet­
te di investigare aree finora escluse (contemplazione) nega se stessa e si
muta in ideologia, di cui è tipico il decidere a priori le domande che è
ammissibile fare. Le tradizioni religiose più vive, dal canto loro, mostrano
di non voler restare cieche davanti al proprio ristagnare: per cui ad esem­
pio l'Oriente religioso più sensibile si sta adoperando per ovviare a tale
ristagno mercé l'incontro con la cultura occidentale, !asciandosene per­
meare in modi avveduti e rispettosi della propria specifica sostanza cultu­
rale (mentre un Oriente meno maturo fa ciò in modi compromissori, al
fine palese di vendersi meglio e riuscendo così a essere solo un travesti­
mento esotico del peggiore Occidente). Così pure un certo cristianesimo,
deponendo secolari diffidenze, non schiva, a sua volta, l'ascolto attento
dell'Oriente religioso. E il risultato è interessante, poiché da tale incon­
tro, non più nel segno di passati imperialismi dogmatici, taluni ambiti cri­
stiani hanno tratto, in generale, un imptÙso spirituale più deciso e, in par­
ticolare, un incoraggiamento a coltivare forme non discorsive di orazione
mentale,2 forme ampiamente presenti nella tradizione cristiana, ma a lun­
go neglette o avversate, come si vedrà più avanti.
Riassumendo: nel primo esempio (Oriente che si apre a Occidente) la cul­
tura occidentale, specialmente la psicologia, aiuta l'Oriente religioso a sot­
tolineare le parti più vitali e fruttuose della propria tradizione di interiorità;
nel secondo esempio (Occidente cristiano che si apre a Oriente) sono gli ap­
procci sapienziali d'Oriente, e talora quelli che già si sono esposti, senza
sfigurarsi, alla cultura occidentale (per esempio lo Zen), che aiutano l'Oc­
cidente cristiano a prendere coscienza della propria vitalità contemplativa.

3 . Tuttavia, ferma restando l'indubbia rilevanza delle due ragioni sum­


menzionate (spinta intrinseca della scienza e spinta intrinseca di religioni)
per comprendere il fenomeno neocontemplativo odierno (del quale, si
badi, ci si propone qui di indicare solo qualche tratto saliente, non già di
offrire un resoconto completo) , non può tacersi un fatto più generale,
d'ordine non soltanto psicologico o religioso ma anche sociologico. Inten­
diamo quella diffusa crisi di valori intorno alla quale ormai si discute con
un'intensità senza precedenti.3 Non è questa la sede né noi abbi�o la

2 Particolarmente significativi a questo riguardo Pennington 1980 e de Mello

1978.
3 Cfr. Bergonzi 1980. Anche in relazione al nostro tema dal punto di vista so·

ciologico cfr. Acquaviva - Alberoni - Bellah e altri 1976.


competenza per analizzare criticamente il dibattito sociologico. Ci preme
però di toccare alcuni punti in connessione col nostro tema. La trasfor­
mazione radicale di assetto sociale, da agrario a industriale, e tutto ciò
che questo ha comportato (disintegrazione delle culture tradizionali, ur­
banesimo, eccetera) è evidentemente un fattore primario della crisi dei
valori e del conseguente diffondersi dell'ansia, che ora è solo distruttiva,
ora, invece, è pungolo a una rinnovata ricerca interiore. Tuttavia, e rien­
triamo nel nostro tema specifico, se gli avanzamenti tecnologici sono stati
determinanti per la suddetta crisi, non meno determinante è stata l' emer­
genza delle scienze umane e il ruolo centrale in esse tenuto dalle nuove
concezioni psicologiche espresse da Freud. Ed è stata anzitutto la religio­
sità a essere condannata dalla nascente psicologia moderna come fonda­
mentalmente repressiva.
Ma, parallelamente, la psicoanalisi ha promosso per eccellenza la ricer­
ca interiore, in ciò differenziandosi polarmente da quei movimenti di pen­
siero e d'azione che hanno formato la società contemporanea; i quali se da
un lato si allineavano con la psicoanalisi nella critica al religioso, dall'altro
se ne scostavano nella loro costituzionale chiusura a qualsiasi ricerca inte­
riore diversa da quella filosofica. Se questo è stato il punto di partenza per
ciò che riguarda i rapporti tra psicologia e religione, quello che è accaduto
dopo, nel volgere degli ultimi decenni, ci sembra molto interessante nella
sua paradossalità: infatti la psicologia, soprattutto quella dinamica, da av­
versaria dichiarata del religioso si è trasformata, per lo meno in certe sue
aree, in interlocutore particolarmente ricettivo del religioso.
Guardando questo processo più da vicino: le religioni (e ci riferiamo
qui principalmente al cristianesimo), anche e talora in primo luogo per i
colpi ricevuti da psicologia e scienze affini, sommati ai colpi del laicismo
filosofico e socio-politico e di quella religione della scienza che nutrì lo
stesso Freud, entrano in crisi, crisi più sentita e più fertile in certi ambiti,
meno O molto meno in altri. fl risultato più interessante della crisi, CO·
munque, è stato quello di rendere più spoglia e più cauta la religione,
meno ipnotizzata dai suoi asserti dogmatici e, in definitiva, più fruttuosa­
mente concentrata sull"unico necessario' o cambiamento interiore e sul­
l'inestimabile patrimonio sapienziale volto alla sua realizzazione: patrimo­
nio oltretutto essenziale e insostituibile per evitare scogli nuovi (psicologi­
smo) e antichi (teologismo).
A sua volta la psicologia dinamica è venuta via via accusando un trava­
glio antidogmatico al suo interno, dalle revisioni critiche della medesima
psicoanalisi postfreudiana, all'opera di Jung, degli esistenzialisti, di A.
Maslow eccetera. A tale travaglio possono inoltre aver contribuito anche
la cautela della psicologia generale nell'accettare integralmente il modello
freudiano e le critiche al dogmatismo psicoanalitico provenienti dal ver-
sante religioso. E a questo punto, avendo in tal modo entrambe (psicolo­
gia e religione) attenuato la propria assiomaticità ed essendo, d'altronde,
entrambe primariamente interessate alla trasformazione (con l'accento, in
campo psicologico, sulla psicoterapia), è stato inevitabile che si generasse
un ceno interesse reciproco, in contrasto col passato.
Naturalmente, data la novità del fenomeno, per ora abbiamo solo zone
circoscritte di incontro, non un incontro diffuso. Come si è già indicato,
l'incontro oggi sembra avvenire soprattutto tra certe psicologie e certe re­
ligioni: come si è visto, ci riferiamo a psicologie non riduttive, in partico­
lare alla cosiddetta psicologia transpersonale, da una parte, e a tradizioni
religiose orientali dall'altra; tradizioni note per una speciale accentuazio­
ne psicologica (e, si badi, non psicologistica), cosa che ha appunto facili­
tato l'incontro con l'Occidente moderno.
n cristianesimo mostra da questo punto di vista una situazione più
complessa. Esso è non di rado oggetto di indifferenza o intolleranza sia
da parte dello psicologo, sia, più spesso, da parte dell'occidentale interes­
sato all'Oriente religioso: per costoro sembra essere un ricordo non gra­
devole, colorato di moralismo e dogmatismo. È anche vero che talora en­
trano in ballo ambivalenze e conflitti più oscuri in tale rifiuto: è il caso
curioso di occidentali che rigettano il cristianesimo per poi abbracciare
proprio certi movimenti orientali meno tipicamente contemplativi e con­
notati invece da forte dogmatismo e moralismo. Quanto ai rapporti con
la psicologia, il cristianesimo manifesta per lo più interesse attivo per
questa scienza, mentre l'Oriente religioso tende a lasciarsi studiare dagli
psicologi, più che ad appropriarsi direttamente di concetti e categorie
psicologiche. Si nota però, a testimonianza di un interesse attivo benché
indiretto dell'Oriente per la psicologia, un influsso non trascurabile del
linguaggio psicologico in certa letteratura sapienziale dell'Oriente con­
temporaneo !dr. Pensa 1975).
Comunque il punto più importante in relazione al nostro tema, quanto
al discorso circa il triangolo cristianesimo, psicologia e religioni orientali,
a noi pare il seguente: la prassi contemplativa è meno al centro del cri­
stianesimo di quanto, invece, non lo sia in alcune celebri correnti orienta­
li che per questo motivo finiscono con l'interessare di più lo psicologo. È
sintomatico per esempio di una certa timidez.za e incertezza Jel cristiane­
simo il fatto che si sia talora invitata la psicologia a studiare la contempla­
zione cristiana solo dopo aver visto studi corrispondenti sulla meditazio­
ne orientale.4 A noi non sembra di esagerare se diciamo che, rispetto
all'Oriente religioso, manca ancora al cristianesimo un adeguato coraggio

4 Circa esperimenti elenroencefalografici con contemplativi benedettini cfr.,


per esempio, Johnston 1974, pp. 32-44.
della contemplazione. Eppure esiste una grande tradizione contemplativa
cristiana. Ma parrebbe che per spirito controriformistico c antimistico
prima e per un ossequio al mito attivistico occidentale dopo, non sia stato
dato per lungo tempo a quella tradizione il posto che le spetta.� Come si
diceva sopra, l'Oriente può aiutare il cristianesimo - e in parte lo sta fa­
cendo - a rimediare a tale parzialità di non poco conto e risonanza.

4. Riteniamo ora opportuno fare una breve digressione sulla posizione


di C. G. Jung circa gli argomenti in oggetto,6 riprendendo il cenno già
fatto a questo autore. La crucialità dell'opera di Jung sui temi psicologia­
religione e Oriente-Occidente è cosa troppo nota - benché non sempre
compresa - perché se ne parli qui. Noi vogliamo solo osservare questi
punti: l'atteggiamento di Jung verso le pratiche interiori orientali (yoga,
meditazione), anche se con oscillazioni, è per lo più critico e censorio, di­
versamente dal suo vivo interesse per il retroterra dottrinario di quelle
pratiche.
L'obiezione principale di Jung è che la concentrazione, ossia la base
della contemplazione orientale, avrebbe il difetto di reprimere l'inconscio
invece di !asciarlo emergere cosicché l'individuo possa comprenderlo e
integrarlo. Un'altra obiezione concerne il carattere di luce indifferenziata
che in genere è detto essere tipico di stati elevati della contemplazione
orientale: questo carattere indifferenziato fa sospettare a Jung che ci si
trovi, in effetto, davanti a una caduta nell'inconscio collettivo.
Inoltre Jung non vede né possibile né auspicabile per l'occidentale il
coltivare pratiche non appartenenti alla propria cultura. Piuttosto egli è
dell'awiso che lo yoga occidentale sia la psicoterapia e non di rado insiste
sulla tecnica detta dell'immaginazione attiva, reputandola una forma di
meditazione capace di evitare quello sbilanciamento in senso repressivo
che sarebbe peculiare, secondo Jung, di forme tradizionali di meditazio­
ne. In breve l'immaginazione attiva si può definire un dialogo tra l'incon­
scio e la nostra parte conscia: si lascia che il primo parli attraverso fanta­
sie e immagini, mentre il conscio si limita a interrogare e stimolare; in un
secondo momento si procede poi all'interpretazione analitica del materia­
le così raccolto.
Ora a noi pare che su tutto ciò debbano essere fatte alcune considera­
zioni: a) mentre troviamo fuor di dubbio che l'elaborazione da parte di
Jung della tecnica dell'immaginazione attiva rappresenti una conquista di
prima grandezza nel campo della psicoterapia, ci lasciano invece perplessi

� Sulla questione, anche per una bibliografia, cfr. Borst 197.3, pp. 44-46.

�> Per i riferimenti bibliografici a tutto il materiale di Jung rilevante al nostro


tema, anche per ciò che si dirà più sotto, cfr. Coward 1978 e Jones 1979.
le critiche di Jung alle tecniche orientali. Per spiegarci meglio può giovare
un confronto tra la prima c le seconde: l'immaginazione attiva opera sol­
lecitando l'interesse per i contenuti psichici, laddove la concentrazione­
contemplazione (o meditazione, secondo il linguaggio corrente) si prefig­
ge di non alimentare l'interesse per i contenuti e di accendere, invece,
l'interesse per la coscienza contenente, di cui si ipotizza appunto la possi­
bilità (da verificare attraverso la meditazione) che possa esistere indipen­
dentemente dai suoi contenuti, con i quali abitualmente la equipariamo
(v. sotto).
A questo scopo, l'addestramento fondamentale incoraggiato da dette
tecniche è nel senso di una progressiva riduzione del movimento mentale,
giacché si ritiene altrimenti impossibile comprendere in profondità la
mente. Si potrebbe obiettare che ci sono differenze all'interno delle stesse
tecniche orientali e che, per esempio, una cosa è la pratica tipicamente
buddhista che usa come oggetto di concentrazione l'avvicendarsi stesso
dei contenuti mentali, mentre altra cosa è una tecnica di concentrazione
più focalizzata (respiro, mantra, eccetera): la critica di Jung sembra rivol­
ta più a questo secondo tipo. Ma in realtà anche una pratica di genere
più marcatamente concentrativo stimola ripetutamente (cfr. per esempio
Brown 1977), in varie sue fasi e a vari livelli del suo sviluppo, l'emergere,
talora tumultuoso, dei contenuti mentali più vari, noti e ignoti al medi­
tante e che questi lo voglia o meno. L'interesse e l'importanza di tutto ciò
dal punto di vista specificamente psicodinamico ci sembra evidente e non
ci sentiamo pertanto di condividere l'atteggiamento di Jung in proposito.
b) Jung afferma, secondo noi giustamente, che per l'occidentale inte­
ressato al processo di individuazione è particolarmente importante il ri­
spetto per il proprio retaggio spirituale. Ciò implicherebbe, secondo
Jung, il rigetto di ascesi orientali, mentre i concetti di fondo della sapien­
za orientale varrebbero quale preziosa ispirazione a ritrovare la nostra
tradizione spirituale, nella quale Jung assegna una posizione di preminen­
za ali'alchimia.
A noi sembra, a proposito di tutto ciò, che sia possibile una prospetti­
va in parte diversa. Primo: l'Oriente religioso evoca quale corrispettivo
occidentale non solo l'alchimia e affini movimenti gnostici bensì anche la
tradizione contemplativa cristiana. Secondo: l'alchimia, nella sua teoria e,
ancor di più, nella sua pratica, rimane un fatto alquanto misterioso; in­
dubbio svantaggio che è invece assente dalla tradizione contemplativa.
Terzo punto, specialmente rilevante al nostro discorso: la contemplàzione
occidentale oggi non esita, per lo meno in alcune sue espressioni più ag­
giornate e mature, a rivolgersi all'Oriente.? E ciò, possiamo supporre, sia

7 Cfr. le opere di Le Saux, Merton e altri, citati sotto, nota 11.


per superare le incertezze accumulatesi a causa della negligenza che ha
lungamente colpito la contemplazione in Occidente, sia per attingere a
quella psicologia spirituale straordinariamente sviluppata tipica di sistemi
religiosi orientali.
In altre parole ci sembra che psicologia, Oriente religioso e cristianesi­
mo possano essere visti oggi secondo una prospettiva più unitaria e scam­
bievolmente cooperante di quanto pensasse Jung. E ciò sia per il dialogo
in atto, diretto e indiretto, che si nota tra loro, sia per le ulteriori poten­
zialità di incontro non ancora attuate ma comunque presenti. E ci si do­
manda, anzi, se quella integrazione organica che auspichiamo alla fine di
questo lavoro tra metodologie psicodinamiche e metodologie meditative
non implicherebbe pure, automaticamente, una notevole attenuazione
della dicotomia Oriente religioso-Occidente religioso. Non ci sembra che
si possa rispondere. Forse però - possiamo azzardare - il fatto stesso
che sempre più venga da porsi questo genere di domande è indicativo di
una potenzialità di convergenza meno remota che in passato.

5. Conclusa la digressione su Jung, torniamo adesso a esaminare ulte·


dormente il nostro tema nell'intento di vederne altri aspetti. E osservia­
mo, anzitutto, che il declino, sia in Oriente, sia in Occidente, dell'aspetto
dogmatico di alcune religioni tende a portare in maggiore evidenza l'a­
spetto antropologico delle religioni stesse, che era spesso copeno o messo
in ombra dall'aspetto dogmatico. Per esempio, in discorsi circa gli esiti
della contemplazione cristiana e buddhista (v. sorto) è facile che in passa­
to si sarebbe più insistito su Dio, visione trinitaria, nirvana, cessazione
delle rinascite e simili piuttosto che su trasformazione dell'individuo, sa­
nità, virtuosità, eccetera, come ci sembra che accada oggi. L'accento dun­
que pare spostato sull'empirico, sulla ricerca di ciò che è di giovamento
interiore in modo autentico e diretto; che sia, inoltre, condivisibile al di là
di esclusivistiche professioni di fede e che sia infine verificabile e control­
labile in qualche maniera dall'individuo stesso su se stesso.
Come si diceva, certa psicologia non resta indifferente a tale sposta­
mento di asse implicante una maggiore insistenza sul canunino di libera­
zione o di salvezza e dunque sui modi e sulle forme del 'raccoglimento
guaritivo' (meditazione, preghiera, eccetera) e questo interesse della psi­
cologia ha per effetto, a sua volta, di accrescere nelle religioni la consape­
volezza delle proprie tradizioni di prassi interiore, tradizioni non di rado
neglette in passato a favore del lato teologico-dogmatico.
Abbiamo notato che il rapporto tra psicologia e religioni orientali è
più visibile, mentre il contatto tra la psicologia attenta al 'transpersonale'
e il cristianesimo è spesso mediato dalle correnti contemplative orientali,
nd senso che a queste ultime si rivolgono simultaneamente sia quella psi-
cologia, sia il cristianesimo in certe sue fonne. Inoltre potrebbe non esse­
re estraneo a tale risveglio di interiorità il grande potenziale ecumenico di
una religiosità così imperniata sulla prassi interiore, col suo carattere em­
pirico e non teologicamente esclusivo, bensì condivisibile a livello sia in­
terreligioso sia extrareligioso.
Tuttavia, se è vero che alla psicologia va riconosciuto tale effetto sti­
molatore sulle religioni, è anche vero che la medesima psicologia, in par­
ticolare quella sperimentale, è responsabile di un certo riduzionismo nel
campo degli studi sulla meditazione. Ci riferiamo a una mentalità abba­
stanza diffusa presso un certo numero di psicologi sperimentali e, anche,
di meditanti. È la mentalità che inclina a identificare la meditazione con il
rilassamento e gli effetti della meditazione con quelle variazioni fisiologi­
che a essa collegate che sono misurabili in laboratorio (pressione sangui­
gna, consumo di ossigeno, onde cerebrali, eccetera).
Ora, ferme restando la grande utilità e importanza degli srudi recenti
sulla fisiologia della meditazione e fermo restando che il concetto di rilas­
samento è molto più ampio, complesso e misterioso di quanto comune­
mente si crede, rimane il fatto che le equivalenze 'meditazione = rilassa­
mento' ed 'effetti di meditazione = variazioni fisiologiche misurabili' sono
equivalenze molto parziali. Le quali, poi, nel momento in cui, esplicita­
mente o implicitamente, si proclamano come le uniche possibili, dichiara­
no il falso.
Infatti le vie meditativo-contemplative sono state e sono percorse per
scopi più grandi, la cui verifica sfugge agli strumenti di misura. E il fatto
che essi strumenti vengano eletti, in un certo modo di pensare, a suprema
autorità e garanzia malgrado la loro sostanziale irrilevanza quanto ai fini
maggiori della meditazione, ci mostra un atteggiamento schiettamente ri­
duzionistico nell'ambito di quella stessa psicologia interessata al religioso.
Atteggiamento certo diverso da quello attento e non riduttivo che abbia­
mo menzionato prima a proposito della medesima psicologia. Quest'ulti­
mo aiuta le religioni a prendere coscienza, tra l'altro, delle loro 'tecniche'
interiori; non così, invece, il riduzionismo sperimentalista che, pretenden­
do di srudiare la meditazione con speciale concretezza, non fa che estir­
pare gratuitamente le tecniche meditative dal tessuto concettuale ed etico
di cui sono parte organica; ed esaminandole così sradicate non può che
includerle, automaticamente, nel proprio universo concettuale e di valori,
dimostrando in tal modo di non prendere minimamente sul sen'o i sistemi
religiosi cui gli approcci meditativi appartengono. Quanto ciò sia grosso­
lano e, in sostanza, antiscientifico, con buona pace per le pretese di spe­
ciale scientificità accampate dal riduzionismo in oggetto, sembra abba­
stanza evidente.
6. Riassumendo: la psicologia oggi in parte favorisce - o attivamente
o comunque mercé un attento interesse - la comprensione e l'inter­
fecondazione con il religioso, specialmente nei suoi aspetti di ricerca
introspettiva e contemplativa; in parte invece non favorisce tale incon­
tro col religioso e ciò o nel senso della manipolazione riduzionistica op­
pure nel senso dell'indifferenza, tuttora ampiamente presente nella psi­
cologia. Ora dall'insoddisfazione per il riduzionismo e dall'interesse, in­
vece, per una psicologia allargata, che includa cioè lo studio della tra­
sformazione dell'individuo per opera di vie religiose, sta nascendo, ci
sembra, una nuova sensibilità che potremmo chiamare sensibilità psicolo­
gico-religiosa.
È nuova perché prende sul serio sia l'apporto moderno (psicologico)
all'interiorità, sia l'apporto antico (sapienziale). Sicché in essa il richiamo
religioso è come bilanciato da una cautela empirica (si è parlato giusta­
mente della necessità di un nuovo empiriSmo interiore) G. Welwood
1979a, p. 3 1), mentre, a sua volta, l'istanza psicologica più difficilmente
rischia di cadere nel sonno dogmatico del riduzionismo, essendo sottopo­
sta alla sfida religiosa, contemplante possibilità di trasformazione-libera­
zione più profonde di quelle tenute abitualmente presenti dai modelli di
sviluppo elaborati dalla psicologia.
Possiamo inoltre dire che tale nuova sensibilità psicologico-religiosa è
paradossalmente nutrita da una stanchezza per la psicologia e la religione
allorché esse siano a) superficiali e convenzionali e b ) ciascuna ignara
dell'altra. Infine I'individuazione di questa sensibilità ci mette in grado di
guardare in maniera più discriminante al panorama dei movimenti neo­
contemplativi odierni, che non sono necessariamente espressioni di tale
sensibilità. Infatti è chiaro che in certo diffuso neonarcisismo spiritualisti­
co (e non soltanto orientaleggiante) manca palesemente tanto la sensibi­
lità religiosa quanto quella psicologica, che avrebbero, entrambe, cose in­
teressanti da dire sul narcisismo e sulle motivazioni spurie.

7. Diventa allora importante chiedersi che rapporto ci sia tra questa


nuova sensibilità psicologico-religiosa e la ricerca contemplativa. Altri­
menti detto, c'è da domandarsi cosa spinge la persona dotata di tale sen­
sibilità verso una ricerca interiore più radicale. Crediamo di poter tentare
una risposta articolata su vari punti;
a) interesse per la tipica proposta sapienziale di sostituire il primato
del pensiero e del sentimento con il primato dell'attenzione-consape­
volezza, ovvero spostamento dell'energia psichica dai contenuti di co­
scienza alla coscienza in sé. Dell'illustrazione di questo punto ci occupe­
remo sotto;
h) aspirazione, più o meno conscia, a superare il dualismo tra lavoro
interiore e vita ordinaria, mercé un unpegno interiore che sia effettiva.
mente il più continuo possibile, tale cioè da non essere ristretto alle fasi
di pratica interiore formale (v. sotto);
c) la prospettiva, ancorché remota, del superamento di un'altra dico­
tomia, quella tra il mondo dei religiosi e il mondo dei laici (appartenenti
o no a una religione); e ciò attraverso quella 'secolarizzazione' delle vie
interiori che echeggia per esempio nel motto di Maritain ( ''portare la
contemplazione nelle strade") e che si nota in ceni trapianti seri
dell'Oriente religioso in Occidente. 'Secolarizzazione' che sarebbe di fat­
to una diffusa sacralizzazione; non però secondo una consunta chiave
confessionale, bensì secondo una gamma di modi la più ampia possibile:
dove, accanto al modello contemplativo tradizionale univoco (buddhista,
cristiano, induista, eccetera) troverebbero posto, a uguale titolo, modelli
contemplativi interreligiosi e modelli di contemplazione laica, priva di af­
filiazione religiosa formale;
d) l'interesse per un\ùteriore relativizzazione del concetto di 'io', ulte·
riore intendendosi nei confronti della psicoanalisi. L'uso psicologico del
termine 'io' è diverso dall'uso sapienziale, con speciale riguardo all'uso
che troviamo in dottrine quali il buddhismo e il Vedanta. In tale secondo
uso il termine 'io' ha un'estensione molto maggiore che nell'uso psicolo·
gico e designa un'attività, cioè l'incessante identificarsi della mente con i
propri contenuti: per l'analisi più classica di tale accezione rimandiamo in
particolare alla letteratura buddhista e a quella vedantica. Nell'uso psico­
logico, invece, per 'io' si intende una struttura che ci permette un effi­
ciente funzionamento nella vita.
Dunque (contrariamente a certo pregiudizio spiritualistico) avere ' un
buon io' in senso psicologico non solo non è cosa negativa ma è bensì un
requisito indispensabile per l'impresa interiore -' La quale poi consiste
principalmente nel tentativo di dissolvere l'io nella sua accezione di atti­
vità identificatoria, sintetizzabile nel termine 'attaccamento'. E perciò di­
ciamo che se già la psicoanalisi aveva relativizzato l'io con la scoperta
dell'inconscio, doppiamente relativizzato appare l'io nel quadro sapien­
ziale, dove l'io-struttura viene a occupate uno spazio minimo non solo nei
confronti della vastità dell'io-attaccamento, ma anche e soprattutto nei
confronti della dimensione liberata;
e) l'interesse, infine, per un concetto più radicale di salute mentale. E
sia nella spiritualità occidentale sia in quella orientale si reputa che stati
avanzati di contemplazione siano in grado di sradicare le 'radici dèll'insa­
nità' (ira, brama, confusione) per usare la tenninologia buddhista o, in

!l Buone raccolte di articoli sull'argomento: Walsh - Vaughan 1980 e Welwood


1979b.
linguaggio cristiano, le radici del peccato, e, insieme, di instaurare un gra­
do profondo di virtù e di sapienza.
Così, ad esempio, nel sistema contemplativo del buddhismo Theravada
abbiamo che la prassi religiosa intensiva fondata sulla sinergia di medita­
zione, rettitudine e discriminazione può condurre il praticante a quattro
successivi stadi di liberazione: al conseguimento di ciascuno stadio corri­
sponde la distruzione irreversibile di un certo numero di ostacoli alla li­
berazione, ostacoli rappresentati appunto da varie forme di avversione,
attaccamento e confusione.9
Una concezione simile troviamo in autori cristiani. tu Secondo Giovanni
della Croce, per esempio. certe imperfezioni possono essere sradicate sol­
tanto allorché, lungo il cammino di perfezione, sopraggiungano quegli
stadi contemplativi specifici che vanno sotto il nome di 'notti oscure',
cioè fasi di depurazione passiva. Così pure l'autore anonimo di The Cloud
o/ Unknowing dichiara che l'orazione contemplativa è capace di maggiori
profondità che non altri tipi di preghiera perché, altrimenti da questi, ha
il potere di estirpare non solo i difetti ma anche le radici dei difetti.
Nell'opera di Teresa d'Avila, infine, viene detto spesso che l'approfondir­
si delle virtù è il segno più autentico e r effetto più importante del pro­
gresso contemplativo. Questi rifetimenti, che potrebbero moltiplicarsi,
rendono possibile definire la contemplazione come progetto di cura radi­
cale, ovvero come progetto di accesso a un livello di sanità assai più
profondo del comune.

8. Abbiamo esposto quelli che ci sembrano alcuni motivi della spinta


odierna alla ricerca contemplativa, lasciando fuori il primo punto a),
riguardante il primato dell'attenzione-consapevolezza, allo scopo di ten­
tame adesso una trattazione più estesa, data la sua importanza. Cre­
diamo utile cominciare citando in proposito J. Needleman: "'Ma tutto
[l'equivoco] si basa sul non riuscire a distinguere il penstero dall'atten­
;.ione attiva. Ma la conoscenza di sé, nel senso comunicato da Socrate,
..

dai grandi cristiani contemplativi o dai mistici orientali, si interessa dello


sviluppo di una differente qualità di attenzione nell'uomo ... Non ci chie-
diamo mai: cos'è questa forza vztale chiamata attenzione? . Il nome dato
..

all'attenzione nei suoi numerosi aspetti varia notevolmente non solo da


tradizione a tradizione, ma anche all'interno degli scritti degli stessi mae·
stri (per esempio a volte è associata alle parole 'mente' o 'intelletto' o a
volte a 'luce' o anche 'spirito')" (Needleman 1975, pp. 145-47, corsivo
nostro).

9 Descrizione classica in Buddhaghosa 1976.


w Per i riferimenti che seguono cfr. Johnston 1970, pp. 101 sg.
Diversamente dall'attenzione attiva, di cui parla Needleman, l'attenzio­
ne comunemente intesa è passiva ossia si accende e si spegne in dipen­
denza dell'interesse verso gli oggetti-eventi che via via le sorgono dinanzi.
Mentre nella 'differente qualità di attenzione', cioè nell'attenzione attiva,
il perno è spostato dagli oggetti-eventi all'attenzione medesima. Ora, cioè,
il primato non è più nel 'fuori', bensì nel dentro: si è attenti all'essere at­
tenti. La meditazione e l'orazione si ripropongono, per lo meno nelle loro
espressioni maggiori, la coltivazione di questa attenzione o consapevolez­
za; quanto a dire che mirano al conseguimento di una coscienza non
identificata con i contenuti mentali e dunque profondamente diversa dal­
la coscienza ordinariamente intesa che consiste, invece, in tale identifica­
zione più o meno continua.
In genere anche la semplice ipotesi che tale coscienza Jisidentificata (o
libera) possa esistere è assente dalla mentalità corrente. E uno degli effet­
ti più cospicui di tale drammatica impreparazione a concepire la libertà è
l'antico equivoco del 'misticismo': si pensa che la libertà, la coscienza
nuova, consista nella capacità di andare in estasi, di fruire di 'esperienze
mistiche'. Vale a dire nella capacità di sostituire i contenuti o esperienze
abituali con contenuti o esperienze inusuali.
Il risultato di questo grossolano fraintendimento è che non di rado
l'opus interiore, in tal modo sfigurato, finisce con l'attrarre persone che in
realtà cercano altro e col respingere, invece, persone seriamente interessa­
te. Cioè attrae chi è alla ricerca di eccitazione mentre respinge invece chi
non è alla ricerca di nuove esperienze ma si domanda, piuttosto, se non
sia possibile pervenire a una maniera diversa Ji esperire, a una sensibilità
nuova la cui caratteristica principale sia quella di restare nuova. Che è co­
me dire attenzione-consapevolezza attiva divenuta spontanea e naturale.
Ma conviene adesso vedere più da presso il funzionamento e i conno­
tati di tale genere di attenzione, tenendo presenti nello sfondo soprattutto
le tradizioni contemplative orientali e occidentali. Soprattutto ma non
soltanto: infatti, per esempio, un esercizio 'laico' dell'attenzione nella vita
quotidiana non rientra, almeno formalmente, in quelle tradizioni. Ragioni
di spazio ci impediscono un vaglio comparativo dell'argomento dell'at­
tenzione liberatoria, dalle sue formulazioni esplicite (cfr_ la sali del
buddhismo o la prowché dei Padri cristiani) a quelle, numerosissime, im­
plicite (custodia del cuore, guardia dei sensi, pratica della presenza di
Dio, tecniche di concentrazione, eccetera); e ci impediscono altresì di di­
scutere partitamente certe importanti questioni, come ad esempio il rap­
porto tra attenzione focalizzata (concentrazione) e attenzione generalizza­
ta (presenza mentale, ricettività vigilante) e altre ancora.
Limitiamoci perciò a ricordare il fatto più essenziale in proposito:
qualsiasi forma di raccoglimento comporta attenzione-consapevolezza; in
grado piccolo o grande, di tipo forzato oppure spontaneo oppure misto.
Premesso ciò, ci sembra che una prima similitudine capace di illustrare il
dinamismo dell'attenzione liberante potrebbe essere questa: l'esercizio
dell'attenzione-consapevolezza attiva - nella quale l'individuo si oppone
all'essere continuamente scelto da ciò che gli arriva ai sensi e alla mente,
cioè si oppone all'attenzione passiva - è come se gradualmente creasse
uno sfondo nella vita interiore dell'individuo. Per sfondo, che conviene
immaginare senza colore o di colore uguale, intendiamo anzitutto un sen­
so di continuità, per l'esattezza continuità di presenza, in mezzo allo sva­
riare di eventi esterni c interni.
C'è dunque come la possibilità di un rlchù1mo fondamentale oltre o at�
traverso qualunque cosa sia percepita. pensata, patita o goduta. Per il
modo comune di sentire e di pensare questo richiamarsi è molto parados­
sale. Perché ci si richiama a 'qualcosa' - presenza, attenzione, consape­
volezza, coscienza, comunque la si voglia chiamare - che sfugge parec­
chio alle definizioni. Una caratteristica che si può affermare con chiarezza
è che tale 'qualcosa' è sempre uguale. Infatti la consapevolezza pura del
moto di sofferenza non è diversa da quella di un momento di gioia. Ciò
che varia sono le reazioni, non l'attenzione, come comprende più facil­
mente chi è esercitato nell'arte del raccoglimento.
Dunque le vie interiori ci suggeriscono di richiamarci sempre a qualco­
sa che è eccezionalmente costante ed eccezionalmente elusivo al tempo
stesso: ecco il paradosso. Altrimenti detto: ci viene chiesto di concedere
la massima fiducia a 'qualcosa' che è vuoto; a quel qualcosa che rimane,
infatti, anche quando siamo riusciti a bloccare per pochi istanti la produ­
zione di contenuti mentali e che dunque non è questo o quel contenuto.
Possiamo aggiungere che il 'qualcosa' di cui parliamo, lo sfondo incolore
di coscienza, oltre a essere costante e vuoto sembra avere anche le qualità
di innocenza, assenza di dubbio, assenza di giudiZio. Innocenza perché non
sembra possibile pentirsi per essere stati attenti; assenza di dubbio e di
giudizio perché il puro testimoniare non ha alcunché di cui dubitare e su
cui concludere. Senza dimenticare, tuttavia, la concordia delle tradizioni
contemplative su questo punto; una capacità sostenuta di testimonianza
pura, di presenza calma e chiara, è in grado di accrescere oltre misura il
discernimento e la comprensione.

9. A proposito di quanto si sta dicendo circa lo sfondo coscienziale


costante quale passo cruciale nel cammino trasformativo, ci pare che
spesso certe differenze di approccio pratico (tipo di meditazione o di ora­
zione eccetera) siano più apparenti che reali. Infatti la chiave di volta
sembra essere il grado e la qualità della motivazione (o, religiosamente, di
fede). Infatti se la motivazione-fede è sufficientemente intensa e se perciò
il lavoro interiore finisce con l'avere priorità assoluta sul resto, appare
inevitabile che in qualche modo si animi sempre più un ceno intento illu­
minativo: ed ecco lo sfondo.
In altre parole: insieme con le solite cose cresce 'un'altra cosa', c'è co­
me uno sdoppiamento. Sdoppiamento apparente, però, e profondamente
salutare, dato che 'l'altra cosa' in questo caso ha, per eccellenza, la pro­
prietà di unire e non di dividere. Oltre al grado intenso della motivazione
è parimenti essenziale, affinché si generi lo sfondo interiore, la qualità
della motivazione e cioè che l'accento della ricerca venga posto sulla sa­
pienza, ossia su quella eccezionale profondità di comprensione (nella
doppia accezione della parola) variamente celebrata nelle tradizioni con­
templative.
È una precisazione che sembra opportuna nel panorama delle correnti
neocontemplative odierne. Infatti ove la ricerca interiore si riproponga
quale fine ultimo esperienze estatiche oppure l'intensificazione della cal­
ma o dell'energia mentali, lo sfondo in questione, che è vuoto, non può
porsi in essere. Poiché è assente, in ricerche così atteggiate, l'aspirazione
al pilastro delle spiritualità mature, cioè il non attaccamento o accettazio­
ne equanime di tutto. Ed è appunto questo lo sfondo pienamente svilup­
pato. Se invece c'è un contenuto privilegiato (per esempio l'energia), un
fine speciale, tutto sarà rapportato a esso avidamente o pavidamente a se­
conda che giovi o nuoccia al fine voluto: il contrario, perciò, di quella
gratuità che sola può sostenere lo sfondo.
C'è da osservare che non tutti sono d'accordo nel parlare, come qui si
sta facendo, di grandi tradizioni contemplative in modo unitario, trascu­
rando le differenze, talora grandi, dell'impianto teologico-dogmatico.
Tutto ciò che possiamo dire riguardo alla tesi di profonde affinità a livel­
lo contemplativo, per lo meno quanto a cristianesimo, buddhismo e in­
duismo, è che essa ci sembra sostenuta in modo autorevole e convincen­
te, tra gli altri, da autori cattolici quili H. Enomiya Lassalle, T. Merton,
H. Le Saux, W. Johnston,ll tutti felicemente privi di sensi di superiorità
verso l 'Oriente: a essi rimandiamo per approfondimenti.
Un'ultima osservazione prima di riprendere il discorso sull'attenzione­
sfondo. Se è vero, come a noi pare, che ingredienti fondamentali per un
progetto di liberazione sono una motivazione forte e una ricerca di sa­
pienza (e non di eccitazione o di calma), appare anche ovvio quale rilievo
potrebbe avere la psicologia nell'investigare le molte possibilità di autoin­
ganno annidate in questo progetto. Sennonché una psicologia aperta solo
retoricamente al religioso serve poco. Occorre, invece, ci sembra, una psi-

1 1 Citiamo
qui solo una selezione significativa delle opere scritte dagli autori
citati: Lassalle 1973; Le Saux 1965; Johnston !970; Merton 1973.
cologia coinvolta in prima persona col religioso e che si conservi, al tem­
po stesso, non confessionale. Come è stato detto a questo proposito: "Se
la nostra scienza della salute mentale deve diventare più efficace, gh psi­
coterapeuti dovranno bilanciare la loro conoscenza di concetti e tecniche
psicologiche con una consapevolezza contemplativa" (Boss 1959, p. 191).
Ritornando ora alla metafora dello sfondo, notiamo ancora quanto se­
gue. Lo sfondo di attenzione-consapevolezza, anche se flebile e intennit­
tente (pensiamo a stadi iniziali e intermedi) è, come si diceva, fattore di
continuità e costanza. In pratica ciò si risolve in una sensazione simile a
quella di essere in compagnia, di avere un sostegno interno non mutevole
come sono invece gli eventi esterni e gli stati mentali. Dunque una specie
di compagnia calda, benché muta; non giudicante e dunque accettante. È
superfluo dilungarsi sul valore dell'autoaccettazione al fine di accettare gli
altri ed è superfluo sottolineare che il poter contare su detta continuità è
di per sé un solvente dell'ansia e dunque una fonte di fiducia.
Possiamo anche dire che, mercé l'irrobustirsi dello sfondo, è come se
l'individuo si trasferisse da un campo di energia infida a un campo di
energia più amica: infatti una pratica di raccoglimento genera tipicamen­
te, che se lo prefigga o no, un certo benefico ordine interno e l'ordine a
sua volta facilita raccoglimento e consapevolezza. Un altro modo di de­
scrivere il fenomeno potrebbe essere questo: la psiche, avvertendo questa
presenza d'attenzione costante o frequente (materna, verrebbe da dire), si
sente incoraggiata. E tale incoraggiamento non è diretto ad alcunché in
particolare, ma è, piuttosto, forte e vago, a somiglianza di un certo sentire
bambino. Con la differenza che mentre il bambino è facilmente sedotto
da una molteplicità di possibili investimenti per il suo slancio vitale, è ca­
ratteristico, invece, di una maturità di pratica interiore un certo sereno
disincanto; meglio, una crescente percezione del carattere illusorio di
aspettative e timori, attrazioni e repulsioni, compiacimenti e rammarichi.
Osserviamo come a questo punto il linguaggio e le metafore psicologi­
che si mostrino inadeguate e come invece si renda naturale il ricorso al
linguaggio religioso. In termini buddhisti qui si parlerebbe di realizzazio­
ne dell 'universale impermanenza, in tennini yoga-vedantici di arresto di
quella erronea imputazione di realtà su ciò che di realtà è privo. Oppure
possiamo parlare di progressivo estinguersi della fede piccola, in questo e
in quell'altro, a favore dell'accendersi graduale di una fede più vasta e più
oscura. Secondo la nostra immagine: decresce il coinvolgimento (positivo
o negativo) con gli specifici contenuti mentali, mentre aumenta l'interesse
per lo sfondo indistinto; il quale essendo, appunto, indistinto è sempre
meno vissuto come 'mio', la consapevolezza è sempre meno 'mia'.
E qui, curiosamente, può rientrare la psicologia: giacché - ecco un al­
tro paradosso delle vie sapienziali - questo sfumarsi dei confini dell'io e
del mio, invece di infiacchire la persona la rafforza, maturandola. E ci
sembra che squisitamente psicologico sia lo studio del paradosso in que­
stione, di come mai, cioè, dalla frequentazione del 'vuoto' impersonale
possa discendere maggiore maturità personale. Un'ultima annotazione
circa la similitudine dello sfondo coscienziale: poiché esso, proprio in
quanto sfondo, dispone i contenuti mentali in prospettiva, la risonanza di
questi ultimi cambia radicalmente: da valori assoluti a valori ampiamente
relativizzati dalla presenza dello sfondo. Sembra poi che in stadi avanzati
del processo liberatorio i contenuti si facciano così trasparenti da essere
molto meno distinti dallo sfondo, da essere in qualche modo lo sfondo o,
comunque, da includerlo sempre invece di occluder! o.
Ma tornando a esaminare il funzionamento del raccoglimento consape·
vole, crediamo che una seconda similitudine possa giovare a comprende­
re. Diversamente dalla vita vissuta sotto il regime dell'io - vita che scor­
re tipicamente secondo la perdita dato che, per quanto operosa e fortuna­
ta è sempre un'esistenza in cui gli scopi via via raggiunti bastano solo
temporaneamente a riempirla - diversamente da questo tipo di vita, la
vita posta sotto il primato dell'attenzione è paragonabile a un braciere
con il fuoco sempre acceso. Il fuoco, appunto, del raccoglimento e della
presenza. Al livello di massimo funzionamento della consapevolezza, qua­
lunque cosa accada finisce in quel fuoco anonimo e gratuito. Ora, in que­
sta ablazione continua e capillare, la parola 'perdita' non ha più senso.
Meglio, non ha più il senso di prima, il senso egoico: perché ora tutto è
usato e in questo senso nulla è perduto Ma al tempo stesso tutto è perdu­
to, dal momento che tutti i nostri molteplici scopi risultano come 'disin­
nescati', l'unica ovvia e generale finalità essendo quella di ardere. Per cui,
ad esempio, la cosa più importante non sarà tanto compiere la tale atti­
vità con buon esito ma sarà, piuttosto, il far sì che l'attività si illumini di
consapevolezza, quale che ne sia l'esito.

10. Sorge talora a questo punto l'obiezione di quietismo o, comunque,


di svalutazione delle opere, ipervalutazione dell'interiorità e possibile in­
differen tismo morale. L'obiezione è inaccettabile per le seguenti ragioni:
a) un orizzonte di vita acceso e vigile ha tra i suoi frutti la quiete, ma non
è ricerca compulsiva di quiete. Ciò sarebbe privilegiare uno specifico
contenuto mentale, il che, per definizione, è altra cosa dall'abbandono at·
tento e gratuito a ciò che accade; b) la pratica di una vigile stabilità inte­
riore conduce naturalmente a un maggior discernimento e dunque ad ar­
ricchire piuttosto che impoverire la sensibilità morale.
Riguardo alle opere, tutto ciò significa indubbia svalutazione delle
opere cieche (attivismo indiscriminato) a favore tuttavia di opere che sia­
no il più possibile la faccia attiva del discernimento. La metafora del bra-
ciere, poi, ci consente Ji mettere in luce due aspetti importanti del vivere
per la liberazione: a) la questione di sforzo e non sforzo e b) la questione
del trasferimento di energia. a) Fino a quando i contenuti mentali sono
posti nel braciere dell'attenzione invece Ji scivolarci da soli, abbiamo a
che fare con la pratica interiore connotata da sforzo. È una sorta di anti­
camera che è di varia durata a seconda degli individui. Diciamo che
l'egoità vi è ancora fiorente, ma, paradossalmente, l'ego è qui al servizio
della liberazione, cioè della propria fine.
Tuttavia una vita interiore più specificamente tale, ossia qualitativa­
mente diversa dalla vita precedente l'impegno al raccoglimento, ha inizio
soltanto quando allo sforzo cominciano ad alternarsi periodi o momenti
di non sforzo: a volte accendiamo il braciere, a volte è come se si accen­
desse da solo. Al di là di questa fase mista, della quale è facile immagina­
re l'infinita ricchezza di gradi e varianti, c'è il non sforzo, la presenza
spontanea come condizione permanente. Ma di tali altezze, di cui si è già
tentato un cenno sopra (fusione di sfondo e contenuti) , conviene lasciar
parlare i massimi classici della interiorità.
b) Abbiamo detto che i contenuti mentali sono il combustibile per il
braciere dell'attenzione. Vale a dire che il fuoco centrale non può ardere
se rimane sparso nei vari fuochi periferici. In pratica quello che avviene
prestando attenzione a un contenuto (per esempio un'emozione) è che la
sua energia, in qualche modo sembra fluire nell'attenzione stessa; un po'
come togliere la corrente da una parte e innestarla altrove. Questo feno­
meno di trasferimento di energia, che possiamo anche chiamare di 'disin­
nesco periferico e innesco centrale', è particolarmente importante dal
punto di vista psicodinamico.
Per illustrarlo ancora possiamo trarre un esempio dalla pratica intensi­
va della meditazione.I2 Ora, durante lunghi periodi di meditazione inten­
siva, un fenomeno frequente degno di nota è quello dell'affiorare e del
dissolversi di risentimenti. Ossia, grazie al costante regime di ipostimola­
zione sensoriale e intellettuale in cui è lasciata la mente, cui incombe in
tali periodi solo di meditare, accade che vengano alla superficie materiali
psichici rimossi (per esempio risentimenti, appunto), avendo la situazione
intensiva indebolito le difese che li trattenevano nell'oscurità. E sembra
esservi in ciò una sorta di sapienza autoregolatrice della mente, n che in­
fatti in parecchi casi tende a presentare strati successivi di risentimento,
cominciando dai più superficiali e vicini nel tempo e via via scendendo

12 Circa la pratica intensiva della meditazione di consapevolezza, con particola­


re riguardo al punto di vista psicologico, cfr. Walsh 1977, 1978 e Walsh, Gole­
man, Komfield, Pensa, Shapiro 1978.
B Considerazioni simili, anche se non uguali, in Goleman 1971.
verso quelli più primari. Il meditante spesso è sorpreso nel constatare le
dimensioni della propria violenza interna.
Dunque a questo stadio abbiamo nuovi contenuti mentali che si affac­
ciano alla coscienza. Mentre è lo stadio successivo quello che ha mag­
giormente rapporto con la nostra metafora. Infatti, secondo i principi
della meditazione vipassana, i nuovi contenuti ( risentimenti) sono guar­
dati semplicemente, senza reazione (per esempio giudizio autosvalutante)
cioè senza l'abituale rinforzo energetico. In altri termini i contenuti, una
volta avvistati, sono messi nel braciere dell'osservazione accettante,
invece di essere lasciati proliferare come fuochi autonomi. Perciò molte
volte il tale risentimento ricomparirà e altrettante volte sarà messo nel
braciere. Questo lavorio, per generale consenso delle scuole sapienziali,
indebolisce i risentimenti e rende più forte la fiamma del braciere. Inol­
tre è di classico interesse psicodinamico il fatto che al disseccamento di
un contenuto per ripetute 'bruciature' nell'attenzione possa far seguito
l'insorgere di un altro risentimento, più profondo, che era stato coperto
da quello ora bruciato
Comunque, può darsi il caso che dopo un lungo e strenuo travaglio a
confronto con la mente nemica-amica - nemica per i veleni che è capace
di secernere, amica per l'implacabile sollecitudine con cui, una volta sor­
presa, presenta tali veleni all'attenzione - può darsi, dicevamo, che ci si
ritrovi con le ferite di certi risentimenti ormai cicatrizzate. Ma talora non
è una cicatrizzazione neutrale; non restiamo cioè con una mera assenza di
risentimento bensì notiamo che lo spazio lasciato vuoto dal risentimento
è ora occupato da un senso di solidarietà. Rivediamo quella persona e sia­
mo colti da una doppia sorpresa: perché il veleno si è riassorbito e per­
ché, inoltre, abbiamo l'impressione che esso si sia mutato in qualcosa di
segno diverso. Ricorrendo ancora alla nostra metafora, vediamo che a
questo punto c'è stato un salto di qualità: il fuoco centrale non è più sol­
tanto fuoco di laboriosa attenzione (ovvero un tentativo di unità) ma è
anche fuoco di unione, e dunque i risentimenti, cioè le separazioni, ten­
dono a eclissarsi per essere sostituiti da sensi di solidarietà unitiva.

1 1 . Alcune precisazioni finali intorno al carattere globale delle metafo­


re usate (sfondo e braciere). Con ciò si è voluto indicare il carattere ne­
cessariamente globale che l'impresa liberatoria per essere tale deve posse­
dere e il fatto che perciò essa deve in qualche modo essere operante tutto
il tempo. Mentre, si potrebbe osservare, oggi è facile incontrare la medi­
tazione intesa solo come tecnica formale circoscritta a determinati periodi
di tempo. Notiamo che tale concezione, che chiameremo settoriale, della
meditazione è tipicamente moderna e occidentale. Mentre nei suoi conte­
sti di origine la meditazione è una 'occupazione a tempo pieno' non dissi-
mile dalla preghiera continua cristiana: dove fasi di orazione formale si
avvicendano con fasi di orazione intessura entro attività varie.
Allo stesso modo se consideriamo per esempio un buddhismo Zen non
annacquato: la fase rituale, connotata da immobilità corporea e via dicen­
do, è il 'tempo forte' della meditazione, tempo nel quale si celebra l'asso­
luta priorità dell'aspirazione liberatoria mercé la sospensione anche mate­
riale di tutto il resto. Ma ciò è anche e soprattutto un espediente facilitan­
te per educarsi a tenere acceso l'intento illuminativo in qualsiasi cosa si
faccia. Insomma, secondo una buona pratica interiore tutto è pratica inte­
riore, e questa è la negazione di atteggiamenti dualistici che distinguono
la pratica dalla non pratica. Sono invece inevitabili alcune gradazioni di
intensità: per esempio, la meditazione formale è spesso (non sempre) pra­
tica più intensiva della meditazione in azione, allo stesso modo che un ri­
tiro è pratica più intensiva della meditazione quotidiana.
Ma, al di là di queste variazioni quantitative, la qualità (onnipervaden­
te) deve rimanere la stessa. Se così non è e cioè se l'interesse si appunta
esclusivamente sull'esercizio formale, si tenderà a trascorrere il tempo
non meditativo in obbedienza supina a questo o qud dettato mentale,
senza consapevolezza o discernimento, oppure a spiare gli eventuali effet­
ti della pratica formale, cioè a curiosare. E questi sono modi evidenti di
spegnere il braciere o di obliterare lo sfondo. La motivazione, allora, in­
clina ad affievolirsi e ci si disperderà facilmente nei multa a discapito del
multum; oppure si finirà col mal sopportare tutto quello che non è prati­
ca formale, ricostituendo così ancora una volta proprio quella cadenza
imprigionante di piacere-noia, desiderio-awersione, che ci aveva spinto a
cercare altro.
Ci sembra, a questo proposito, che si possa parlare quasi di una legge
precisa, ossia: se la prassi interiore non è, per fermo principio, continua
(il che non significa che lo possa essere fin dall'inizio) ma è invece dichia­
ratamente ristretta a certi periodi, nella convinzione che il resto del tem­
po sarà beneficamente contagiato in modo automatico, ciò che spesso ac­
cade è questo: il tempo non dedicato alla pratica formale è, sì, influenza­
to da essa, ma in genere non al punto da far penetrare l'individuo inter­
rogativamente nel proprio orientamento esistenziale. Orientamento che è
di frequente del tutto opposto alle visioni del mondo che hanno espresso
le vie meditative. La conseguenza di ciò è inesorabile: i valori predomi­
nanti nel tempo della non pratica, magari ben celati allo stesso individuo,
prendono il soprawento subordinando la pratica ai propri scopi e spe­
gnendone così la specifica virtù emancipatrice. Allora si mediterà per
'rendere meglio sul lavoro' e 'avere successo', o per 'risolvere le proprie
difficoltà di rapporto', o semplicemente per far pane di 'quelli che medi­
tano' e potersi così compiacere della nuova identità, eccetera.
12. A questo proposito ci si offre il destro per toccare una questione
delicata. Infatti qualcuno potrebbe obiettare che tentare di risolvere le
proprie difficoltà affettive attraverso la meditazione è un interessante uso
nuovo della meditazione, un promettente innesto con la psicologia, e
non andrebbe perciò criticato. Cerchiamo di rispondere. Le difficoltà
interpersonali affondano le radici nelle massime profondità dell'indivi­
duo e di conseguenza, se non si usano rimedi il più possibile proporzio­
nati a tale profondità, le difficoltà in questione potranno, al massimo,
attenuarsi.
Ora non sembra che un poco di meditazione quotidiana disgiunta da
un'intimazione di assidua consapevolezza meditativa ( con i relativi soste­
gni per facilitarla, quale studio regolare di testi rilevanti, periodici ritiri
intensivi, collegamento non episodico con gruppi di lavoro interiore) pos­
sa riuscire più efficace, in profondità, delle varie psicoterapie brevi che
ammiccano ormai un po' dovunque. Tuttavia bisogna anche dire che se la
'meditazione settoriale' è praticata per anni essa produce un apprezzabile
stato ùi calma, fornendo così uno strumento di vita molto utile, a diffe­
renza di quelle terapie il cui effetto è per lo più superficiale. È owio che
ci riferiamo a livelli medi e non a esiti di eccezione, sempre possibili, sia
con poca meditazione, sia con poca psicoterapia. La questione più com­
plessa riguarda il valore di forme più classiche, intensive e a lungo termi­
ne, di trattamento psicologico.
Personalmente ci sembra che, qualora venga impartito da professioni­
sti qualificati, tale trattamento offra un'occasione di rara e vitale impor­
tanza a coloro che vi si accostano avendo la fortuna di essere motivati se­
riamente, di essere stati consigliati bene nella scelta dell'analista e di ave­
re la necessaria disponibilità economica. Gli scetticismi e le derisioni di
ambienti spiritualistici in proposito, al pari di scetticismi di psicologi cir­
ca approcci sapienziali, sembrano soltanto una testimonianza della vitalità
sempreverde del pregiudizio.
Rimane tuttavia il fatto che mentre un'analisi termina dopo un certo
numero di anni la meditazione - e ci riferiamo a quella globale, a tempo
pieno - dura una vita. Si può dire che il confronto è illegittimo, perché
le finalità di chi affronta l'analisi sono diverse, più 'laiche' e limitate degli
scopi di chi si avvia per un sentiero meditativo. Però è lecito chiedersi se
ciò vale per tutti coloro che si avvicinano alla psicoterapia o se per caso
oggi non cresca il numero di coloro che si presentano all'analisi con una
richiesta più globale, e che rimangono con tale richiesta anche dopo che
l'analisi si è conclusa con buon frutto. Per costoro la soluzione sapienzia­
le con un forte accento sulla prassi interiore parrebbe, a nostro avviso,
l'unica possibilità, con l'ottimo vantaggio di poter partire da una solida
base: infatti la familiarità con la propria 'ombra' e una certa integrazione
già av,... enuta della stessa fa sì che molta energia non vada a coagularsi in
difese ma sia bensì disponibile per il 'fuoco centrale',
Oltre a ciò, di grande aiuto è quell'addestramento al sospetto tipico di
chi ha un buon retroterra psicologico e che lo distingue dal meditante
che sia crudo dal punto di vista psicodinamico; il quale avrà più facilità a
cadere in certe razionalizzazioni ingenue (per esempio prendere la paura
di una relazione per una lodevole aspirazione al non attaccamento). Lo
svantaggio, invece. di cui può essere vittima il meditante psicologicamen­
te coltivato è la fascinazione per i propri problemi. Ciò può indurlo a fa­
re autoanalisi mentre medita, cioè, in sostanza, a non meditare.
Invece condizione essenziale per consentire una sinergia di psicologia e
meditazione è il rispetto delle differenti metodologie dell'una e dell'altra:
che significa usare analisi e meditazione secondo un criterio di contiguità
e non di sovrapposizionc. E dunque lasciare che il lavoro analitico già fat­
to ed entrato in circolazione operi naturalmente nella propria consapevo­
lezza meditativa, garantendole maggior discernimento e precisione. Sa­
rebbe infatti ben curioso che da un'assimilazione personale e sofferta del
notevole lavoro che l 'Occidente contemporaneo ha compiuto quanto ai
meccanismi complessi e intrecciati del desiderio e della paura non prove­
nisse una consapevolezza meditativa (o, comunque, religiosa) più depura­
ta e più lucida. Che dire, infine, della possibilità di passare dallo stadio
del rispetto delle differenti metodologie a un'unica metodologia psicolo­
gico-religiosa organicamente integrata? Ci sembra che oggi questo non
possa essere più che un progetto, con il pregio, però, di essere un proget­
to entusiasmante.
Conclusione

La consapevolezza: strumento, meta e mistero

l. Prima di esporre alcune riflessioni conclusive sul tema principale di


questo volume, mi piacerebbe porre a fondamento delle medesime alcune
citazioni sulla consapevolezza provenienti da testi buddhisti appartenenti
a scuole diverse e a epoche diverse. Cominciamo con un brano del
Buddha, rifacendoci alla recente traduzione di Thich Nhat Hanh: "Inol­
tre, quando va o torna, il praticante applica piena consapevolezza all'an­
dare e al tornare. Quando guarda davanti o dietro, quando si china o si
rialza, applica piena consapevolezza a ciò che sta facendo. Applica la pie­
na consapevolezza indossando la sanghati o portando la ciotola delle ele­
mosine. Quando mangia o beve, mastica o gusta il cibo, nell'eliminare gli
escrementi o urinando, applica a ogni azione corporea la piena consape­
volezza. Quando cammina, siede, dorme o si sveglia, parla o rimane in si­
lenzio, fa splendere su ogni attività la luce della consapevolezza" (Thich
Nhat Hanh 1990b, p. 42).
Passiamo ora a Charlotte Joko Beck: "Dobbiamo sviluppare la capa­
cità di osservare, senza assegnare speciale importanza a ciò che osservia­
mo. Non importa se siamo irritati; ciò che importa è la capacità di osser­
vare l'irritazione" (Beck 1989, p. 47).
E ascoltiamo infine un maestro vivente di Dzog-chen, Namkhai Norbu
Rinpoce: "Mentre siamo seduti in una stanza, ci viene in mente di andare
a prendere un oggetto che si trova in un'altra stanza. Appena sorge que­
sto pensiero lo riconosciamo, ne siamo consapevoli, ma non lo blocchia­
mo, né cerchiamo di farlo dissolvere. Senza distrarci, mantenendo inter­
namente una presenza rilassata, ci alziamo e andiamo nell'altra stanza,
cercando di essere presenti in tutto quello che compiamo. Questa è una
pratica importantissima" (Namkhai Norbu 1986, pp. 81-82).
Nei brani appena citati siamo di fronte alla consapevolezza come stru­
mento di risveglio, come cammino da percorrere. Ma, al tempo stesso, la
consapevolezza è risveglio, il cammino è anche meta. La consapevolezza,
cioè, non è mezzo utile per raggiungere un'altra cosa. La consapevolezza
serve per la consapevolezza; si parte dalla consapevolezza per arrivare alla
consapevolezza. A questo proposito ascoltiamo di nuovo la tradizione.
Achaan Maha Boowa, abate e maestro tailandese Theravada, così scrive a
proposito del suo maestro Achaan Mun, nella biografia di quest'ulrimo
(morto nel 1949): "Pervenuti a questo stadio del cammino, la mente svi­
luppa ciò che si può chiamare grande consapevolezza (mahasatzì e grande
saggezza (mahapanna), le quali ora non vengono mai meno alla loro fun­
zione e non c'è più bisogno di alcuno sforzo per controllarle. Sicché, di­
venute ormai spontanee e ininterrotte, la grande consapevolezza e la
grande saggezza operano immediatamente riguardo a circostanze interne
ed esterne: ogni cosa è contemplata secondo il non attaccamento, ogni
cosa è lasciata al suo posto. Ciò è marcatamente diverso da quello che ac­
cade negli stadi iniziali del cammino, allorché consapevolezza e saggezza
debbono essere coltivate deliberatamente" (Maha Boowa 1982, p. 1 1 1 ) .
Dunque, dalla consapevolezza faticosamente esercitata, per alterne vi­
cende, nell'ambito di una mente ancora dolorosa e impaurita, a quella
consapevolezza fluida, naturale e saggia che arride a una mente profonda­
mente pacificata. Se adesso torniamo allo Dzog-chen e leggiamo una de­
scrizione, tipica di questa scuola, dello stato trasformato, sentiamo accen­
ti non dissimili. Dice infatti Namkhai Norbu: "Quando siamo nello stato
della contemplazione, anche se sorgono mille pensieri non li seguiamo,
come se fossimo sentinelle che osservano tutto quello che accade: questo
si intende per 'presenza'. Trovarsi nello stato 'come è' vuoi dire mantene­
re una presenza continua" (Namkhai Norbu 1986, p. 8 1 ).
Questo stato, osserva l'autore, è diverso dalla pratica dell'attenzione,
ossia dalla consapevolezza come strumento, dato che, in quest'ultima,
"c'è sempre un'intenzione, una partecipazione attiva della mente, ma è
molto utile per sviluppare lo stato della presenza" (ivi).
Possiamo infine ricordare che, come si è già detto nel corso di questi
saggi, la tradizione buddhista considera segno cruciale dell'illwninazione
del Buddha il suo essere sada salo, sempre consapevole, sempre presente
nel presente: e dunque manifestante quella luminosità intrinseca della co­
scienza (pabhassara c:ita) che era oggetto del suo insegnamento.
Perciò la consapevolezza è la via e la via è anche la meta. Un mistero
grande. n mistero del tesoro nascosto nel giardino di casa, il mistero del­
la consapevolezza oscura che diviene consapevolezza chiara, il mistero -
e non è un gioco di parole - della consapevolezza inconsapevole che di­
viene consapevole.

2. Gli scritti che compongono questo libro, usciti in un arco di tempo


che va dal 1980 al 1993, cercano di lumeggiare varie caratteristiche partico-
lari della consapevolezza, al di là della definizione generale che ne abbiamo
proposto nel paragrafo precedente: dall'imprescindibile base di calma con­
centrata acciocché la consapevolezza possa fiorire, alla virtù di compren­
sione più profonda della realtà che l'esercizio abituale della consapevolezza
favorisce, allo slancio crescente di fede in una dimensione libera e incondi­
zionata, an eh'esso alimentato dalla coltivazione ardente della consapevo­
lezza, a quella pace interiore, infine, che sull'ala della consapevolezza può
nascere, pace così diversa e così più convincente di quei brevi intervalli di
quiete tra un'onda di eccitazione e nn'onda di depressione.
Vorrei adesso tentare sia di mettere a fuoco qualche aspetto della con­
sapevolezza meno toccato nelle pagine precedenti, sia di sottolinearne an­
cora alcune qualità fondamentali. E comincerei col dire che la consapevo­
lezza, ossia la capacità di farsi specchio fedele e non giudicante di quello
che c'è nel momento, sembra essere l'ingrediente centrale di tutte le virtù.
Prendiamone alcune particolarmente menzionate in ambiti buddhisti,
per esempio retto sforzo, pazienza, retta calma concentrata, equanimità,
compassione. Come potrebbero crescere e svilupparsi senza il fermento
della consapevolezza? Infatti: (a) è solo in virtù della consapevolezza che
io posso sapere se sono concentrato o no, se sono paziente o no, eccetera.
Inoltre, (b) è solo la consapevolezza che può farmi vedere il beneficio, in
me e intorno a me, di quelle virtù; e che (c) può mostrarmi, d'altra parte,
il disagio derivante dall'assenza delle medesime. E sarà infine sempre la
consapevolezza che (d) propizierà l'accendersi dell'interesse e della moti­
vazione nei confronti delle virtù, rivelandosi come il presupposto, a dir
poco, del discernimento e della saggezza, cioè di quella che nel buddhi­
smo è reputata la virtù liberante per eccellenza.
Dunque di nuovo, anche in relazione alle virtù, ci troviamo davanti al­
la consapevolezza come strumento di base e via maestra. E di nuovo la
consapevolezza ci appare quale frutto e meta della pratica delle virtù. In­
fatti, se pensiamo all'esercizio laborioso di una virtù, abbiamo appena vi­
sto come è centrale la funzione della consapevolezza. Ma se evochiamo
non più la coltivazione deliberata di una virtù, bensì la virtù come forza
naturale e felice e dunque se evochiamo una condizione di profonda
equanimità o di pazienza sempre nuova o di stabile prontezza alla com­
passione, ci renderemo conto che il cuore di tale condizione è, ancora
una volta, una consapevolezza che brilla di luce forte e spontanea.
Quindi si potrebbe dire: dall'esercizio o coltivazione della consapevo­
lezza al godimento della consapevolezza pienamente sbocciata, dalla ri­
cerca incerta della consapevolezza al felice ritrovamento della consapevo­
lezza o coscienza innata, vasta e senza confini. Ma che cosa è la consape­
volezza? Chi o cosa è consapevole in noi? E chi o cosa sembra essere in
un primo momento qualcosa d'altro da noi che, nella sua elusività, va fa-
ticosamente inseguito e poi, sempre più, si rivela invece 'qualcosa' di
straordinariamente intimo e vero, un 'intimità chiara e calda, un 'vuoto'
che conosce e comprende? li mistero della consapevolezza.
Dice splendidamente Michael Hookham: "Quando vi risvegliate allo
spazio e alla chiarezza naturale del vostro essere, allora acquistate fiducia
e riuscite a lasciar andare il vostro senso dell'io e la vostra idea di aver bi­
sogno di controllare tutto. Sentiamo quanto sia giusto questo rilasciamen­
to e la mente si riposa in esso. Impariamo a lasciare andare questa im­
pressione costante che 'c'è qualcosa che non va'. E anzi proviamo una
gioia nuova a essere una persona sulla via del risveglio. Non ci sono gran­
di problemi. Ma poiché abbiamo una tendenza così forte a pensare che il
solo fatto di vivere sia in qualche modo un problema, è bene protendersi
deliberatamente nella direzione opposta; e, allorché pratichiamo, colle­
garci intenzionalmente a un sentimento di gloria e di meraviglia per il fat­
to di essere vivi" (Hookham 1992, pp. 57-58)

3. Ora questa assoluta centralità della consapevolezza nel tragitto inte­


riore, questo suo essere fondamentale 'all'inizio, alla metà e alla fine' del
cammino, questa sua misteriosa proprietà di essere, insieme, strumento e
meta, ha indotto alcuni maestri spirituali 'laici' contemporanei - per
esempio Krishnamurti - a fame il termine chiave del loro discorso reli­
gioso, così come, in altri discorsi religiosi, il termine chiave può essere
'amore'. Tuttavia a me pare che ciò rischia di creare un problema, lo stes­
so problema che può nascere dall'uso della parola 'amore' e simili: sono
parole che se da un lato hanno una grande forza evocativa, dall'altro, co­
me sappiamo, non di rado, proprio per la frequenza dell'uso, possono lo­
gorarsi, perdere di espressività e finire per alimentare soprattutto la reto­
rica religiosa. E così anche il termine 'consapevolezza' può diventare su­
perficiale, retorico e alla moda: dunque non più denso di significato, né,
tanto meno, allusivo al mistero.
A questo proposito, io credo che la tradizione classica buddhista ci of­
fra un contesto particolarmente utile per evitare che la consapevolezza
perda il suo peso specifico. Mi riferisco soprattutto a quelli che potrem­
mo chiamare i tre grandi punti di appoggio della consapevolezza e cioè
(a) i precetti etici, (b) le tecniche meditative e (c) la comprensione e l'in­
vestigazione della stessa consapevolezza.
In relazione ai precetti, si dice che il grande maestro tailandese,
Achaan Chah, saputo che un altro rinomato maestro sosteneva che il
precetto unico, in fondo, è "Sii consapevole", osservasse: "È vero, ma
non è giusto". Watti, il precetto è un argine per contenere l'attacca­
mento-avversione, a protezione degli altri e di noi stessi. Naturalmente,
se avessimo una consapevolezza forte e matura non avremmo bisogno di
ricordarci specifiche ingiunzioni etiche. Ma nel caso però frequente che
noi, lungi dal fruire di una tale consapevolezza, la stiamo piuttosto eser­
citando per farla crescere, allora quegli argini (i precetti), proprio per­
ché, nella loro funzione contenitrice, mettono più in evidenza l'attacca­
mento-avversione, serviranno egregiamente a renderei più consapevoli
dell'attaccamento-avversione e a capire quale fonte di sofferenza esso
rappresenti. Insomma, dato che la consapevolezza, pur essendo sempre
disponibile, al tempo stesso non è di facile accesso, essa ha bisogno di
strumenti (i precetti e altri) per essere aiutata. D'altra parte, in tal modo
aiutata e rafforzata, la consapevolezza diventa essa stessa strumento per
far crescere l'etica.

4. Un altro aiuto per risvegliare, approfondire e stabilizzare la consa­


pevolezza è la meditazione formale, a cominciare dalle tecniche volte a
sviluppare la calma concentrata (samatha, samadhzl. A parte l'owia consi­
derazione che senza il 'monitoraggio' della consapevolezza non è possibi­
le sapere se siamo concentrati o no e dunque, a parte la funzione, tipica
della consapevolezza, di 'ricordare' (sali in pali e smrti in sanscrito, prima
che attenzione-consapevolezza, significa ricordare, memoria), l'osservazio­
ne da fare è anche qui la seguente: così come nei precetti si parte dalla
sensibilità morale di base e, in virtù della consapevolezza, la rendiamo
molto più fondata e vivente, qualcosa di simile avviene nel caso della cal­
ma concentrata. In essa infatti si parte da una capacità naturale e necessa­
ria, quella, appunto, di concentrarsi e si lavora a renderla più accessibile,
più profonda e soprattutto a renderla gratuita e rilassata, diversamente
dalla concentrazione comunemente intesa, che sorge in rdazione a un
compito, oppure al seguito di un'attrazione o di una repulsione e che, se
talora è rilassata, più spesso è tesa.
Cosa accade se, invece, ci addestriamo nell'esercizio classicamente chia­
mato della 'retta calma concentrata', usando come oggetto di attenzione il
respiro o altro? Succede, appunto, che la concentrazione sarà qualitativa­
mente diversa dalle forme più consuete di concentrazione, poiché è basata
sul tirocinio a rilassarsi setnpre meglio e sull'addestramento sia a lasciar
andare le varie attrazioni e repulsioni che si avvicendano nella mente e sia
a lasciar andare investimenti 'doveristici' o ambiziosi (calma concentrata
non retta) nell'impresa. Ancora una volta constatiamo l'onnipervadenza
della consapevolezza. Infatti la calma concentrata è consapevolezza foca­
lizzata. Inoltre, ciò che è in grado di rendere 'retta' la calma concentrata,
ossia ciò che la dota di discernimento, non è altro che la stessa consapevo­
lezza. La quale soltanto può farci prima vedere e poi intendere la fruttuo­
sità del lasciar andare attrazioni e repulsioni e il beneficio di superare 'do­
verismo' e ambizione.
L'effetto globale, poi, della retta calma concentrata è quello di mener­
ei a disposizione una consapevolezza via via più alleggerita dall'ipoteca
dell'io/mio, dal dualismo di attrazione-repulsione, via via meno asservita
alle 'afflizioni' mentali e dunque progressivamente più libera. È per que­
sto motivo che la retta calma concentrata è tradizionalmente considerata
un potente mezzo di purificazione mentale. Aggiungiamo, in margine a
tutto ciò, la seguente annotazione: il linguaggio appena usato è il linguag­
gio relativo, ossia il linguaggio del nostro vissuto, seguendo il quale noi
parliamo di una consapevolezza 'più libera' o 'meno libera'. In realtà, mi
sembra perfettamente ragionevole ritenere che la consapevolezza sia sem­
pre uguale e che siano invece le nostre impurità mentali che, in virtù del­
la pratica, diventano meno dense e pesanti.
Dunque anche qui potremmo osservare, sulla scia di Achaan Chah,
che se qualcuno dicesse: "Non c'è bisogno di tecniche concentrative; ba­
sta essere consapevoli", direbbe cosa "vera ma non giusta", ossia qualco­
sa che non funziona per i più. Di fano, per godere di maggiore accesso
alla vastità serena e intelligente della consapevolezza, occorre la fucina
della retta calma concentrata.

5. Il terzo 'punto di appoggio' per la coltivazione della consapevolez­


za, come dicevamo, è la comprensione e l'investigazione del suo funzio­
namento.
lo credo che possiamo dire subito che il vero 'miracolo operativo'
dell'applicazione sistematica della consapevolezza è la disidenti/icazione.
Per capire, torniamo all'esempio della concentrazione sul respiro. Più so­
pra facevamo presente che solo grazie alla consapevolezza posso sapere se
sono concentrato o no. Questo però è soltanto un primo livello di lavoro;
la possibilità di un secondo livello, più importante, viene subito dopo. In­
fatti, in virtù della consapevolezza, io posso accorgermi di essere identifi­
cato con la frustrazione di non essere concentrato o di essere identificato
con la soddisfazione di esserlo, ossia di essere ipnotizzato dall'una o
dall'altra. E identificazione o ipnosi significa attaccamento, visione angu­
sta, paralisi, non libertà.
Ora l'identificazione, se non è vista, prospera e si rafforza. Al contra­
rio, se è vista, si attenua e tende a scomparire. In termini classici: dove c'è
ignoranza (non vedere), l'attaccamento (o identificazione) cresce e vice­
versa dove c'è chiara visione l'attaccamento diminuisce. Dunque il gioiel­
lo della pratica della consapevolezza è quello, appunto, di abilitarci alla
distdentificazione: non attaccarsi alla frustrazione, non attaccarsi alla sod­
disfazione. L'incontro con il potere dell'identificazione e, insieme, con la
possibilità di disidentificazione grazie alla consapevolezza è dawero fon­
damentale nel tragitto interiore di un ricercatore spirituale: la pratica che
viene dopo i primi risultati in questo campo è abbastanza irriconoscibile
rispetto alla pratica precedente.

6. Anche perché è proprio la svolta della disidentificazione attuata e


compresa {terzo punto di appoggio della consapevolezza) che comincia a
permettere un contatto più vero e autentico con i cosiddetti 'tre segni'
dell'esistenza: disagio idukkha), impermanenza lanicca), non io o imper­
sonalità (anatta) . Prima di questa svolta noi potremmo dire di essere in
contatto con pseudo-dukkha , pseudo anicca e pseudo-anatta vale a dire
- ,

con una visione abbastanza limitata e distorta di questa verità. Infatti, co­
me abbiamo visto, la consapevolezza anzitutto mi mostra, mi fa toccare
con mano l'identificazione, per esempio l'identificazione con la frustra­
zione o l'identificazione con la gratificazione. E io comincio, proprio per­
ché, contemplandola, la capisco meglio, ad abbandonare l'identificazione,
l'assolutizzazione, la fede cieca. Ed è solo a questo punto che io posso
percepire il disagio, il dolore che è connaturale allo stato di identificazio­
ne o attaccamento. Non prima, allorché, essendo identificato, ero cieco.
L'identificazione (o, classicamente, attaccamento-ignoranza) è, in realtà,
la radice del dolore esistenziale o dukkha.
'Vedere in profondità' (vipassana) i 'segni caratteristici' dell'esistenza
(dukkha, anicca, anatta) avviene appunto così: è necessario comprendere
che, per vedere dukkha, io debbo cominciare a esserne fuori, cioè a esse­
re meno identificato con esso, altrimenti la visione non è possibile. Pari­
menti per ciò che riguarda l'impermanenza, l'incessante fluire e cambiare
di tutte le cose. Potrò certo riflettervi sopra, ma è organicamente impossi­
bile cogliere al vivo l'impermanenza se io sono immobilizzato dall'zdentt/i­
cazione. In certo senso l'identificazione è il contrario di fluidità, è la ten­
denza compulsiva a fissare e solidificare. U ricorrere, incessante e vario,
di tale tendenza si può chiamare 'io/mio'. E naturalmente, finché questa
tendenza è florida, voler intuire l'anatta o illusorietà dell'io è una totale
contraddizione.
Ma se, grazie alla consapevolezza, la disidemificazione si instaura feli­
cemente in un individuo, allora prenderà a indebolirsi l'illusione egoica,
ossia l'idea-emozione di un io come entità fissa e separata. Allora diverrà
possibile cogliere barlumi, almeno, di ciò che quella densa illusione na­
sconde: fluidità e interconnessione in luogo di fissità e separatezza e so­
prattutto barlumi di una vastità vuota e viva. La vastità del non-io, la va­
stità della coscienza finalmente vuota dall'attività solidificatrice e separan­
te promossa dall'attaccamento-ignoranza, vuota di io-mio. Ossia la consa­
pevolezza nella sua compiutezza, nel suo splendore e nel suo mistero.
A B B RE V I A Z I O N I *

A,\' Anguttara NikaJ'a


AS Ala?.addupamasutta
DN Digha Nikaya
DP Dhammapada
]TP Journal o/ Transpersonal Psychology
MN Ma;jhima Nikaya
S,"l Samyutta Ntkaya

* Per quanto riguarda il Canone Pali si fa riferimento ai testi e alle traduzioni


della Pali Text Society di Londra.
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Indice analitico

Accettazione, 15, 16, 17, 18, 5 1, 52, Anandamayi Ma, 155


7 1 , 98, 106, 107, 108, 133, 143, angoscia, 152, 195
150, 151, 152, 153, 154, 155, della perdita, 166
156, 158, 159, 173, 177, 179, 187 Anguttara Nikaya, 50, 60, 83, 91, 159,
autoaccettazione, 57, 158, 267 227
la capacità di capire è proporziona­ apprendimento, mobilità di {da parte
le a quella di, 15, 51 dei praticanti), 89, 93
non accettazione, 150, 155, 156, aspettativa, 37, 64 , 68, 191, 202, 267
157, 158, 159, 198, 266 Assagioli, R., 237
Achaan Chah, 70, 72, 88, 91, 277, 279 attaccamento (desiderio, avidità), 12,
Achaan Maha Boowa, 84, 161, 188, 277 15, 20, 2 1 , 23, 27, 28, 29, 3 1 , 33,
Achaan Mun, 275 34, 36, 38, 40, 49, 50, 51, 56, 59,
Achaan Sumedho, 75, 91, 152, 204 60, 64, 65, 68, 72, 74, 75, 81, 82,
Achaan Thanavaro, 75, 91 83, 84, 85, 95, 98, 100, 103 , 109,
Achaan Thate Desaransi, 188 1 10, 113, 1 15, 1 16, 1 19, 125,
Acquaviva, S., 254 133, 135, 136, 137, 144, 146,
afflizioni (impurità, kilesa) , 36, 40, 82, 147, 148, 153, 154, 163, 166,
83, 84, 85, 86, 90, 167, 187, 190, 167, 171, 173, 175, 182, 183,
193, 194, 223 184, 186, 187, 188-9, 189, 193,
aggressività, 50, 1 17, 174, 175, 176, 195, 197, 200, 201, 202, 203,
234 204, 205, 206, 212, 215, 218,
Aitken, R., 43 22 1 , 222, 241, 247, 250, 251,
Alagaddupamasutta, 74 262, 263, 277, 278, 279, 280
Alberoni, F., 254 all'io, 225
Allport, G., 237 a un'opinione (a concerti), 37, 40,
ambizione, 30, 46, 50, 124, 278 76, 83, 94, 228, 249
spirituale, 97, 126 alla sofferenza, 29, 198, 199
amore, 15, 17, 39, 5 1 , 107, 135, 136, confusione tra - e piacere, 251
137, 159, 179, 213, 224, 233, 277 non attaccamento, 12, 58, 59, 65,
e consapevolezza si implicano a vi­ 82, 83, %, 109, 110, 133, 137,
cenda, 218 138, 184, 190, 191, 213, 215,
senza desiderio, 201 227, 240, 251, 252, 266, 273, 275
attenzione (cosciente) (satt) , 1 1 , 13, 16, Bechen, H., 209
17, 20, 2 1 , 22, 33, 34, 44, 45, 50, Beck, C. ]., 19, 20, 27, 1 5 1 , 205, 206,
52, 66, 67, 82, 95, 96, 97, 105, 274
120, 1 3 1 , 133, 144, 145, 146, Becker, G., 184
148, 151, 152, 167, 1 7 1 , 174, Bellah, R., 254
175, 176, 177, 178, 179, 1 8 1 , Bellet, M., 1 3 1 , 152
184, 188, 191, 195, 2 1 9 , 220, Bendali, C., 250
221 , 222, 223, 224, 261 , 263, benevolenza (metta), 59, 152, 188, 189,
264, 265, 266, 267, 268, 269, 1 9 1 , 197, 198, 200
270, 275, 278 Bennett, J. G., 132, 247, 248
al respiro, 1 1 6 Benoit, H . , 166
continua, 213 Bergonzi, M., 254
globale, 100, 174, 176 Bernardino da Siena, 177
gratuita, 58, 161, 175, 226 Bhaddekarattasutta, 90
sollecita (appamada), 173, 203, 222 Bhagavadgita, 43, 137
l'- non opera attraverso concetti, Blofeld, J., 25
153 Bloom, A., 130
resistenza alla, 12 Blyth, R. H . , 43
retta consapevolezza (sammasatz) , Bodhi Bhikkhu, 2 1 , 3 1 , 129, 143
34, 55, 1 3 1 , 135, 143, 217 bodhù:itta, 93, 195, 1 96, 197, 251
autorealizzazione, 236, 237 bodb.Sattva, 53, 1 1 9, 165, 167
autoriferimento, 20, 2 1 , 1 15, 154 Bonecchi, A., 245
fascinazione dell', 92, 202, 203, 206 Borst, ]., 257
autotrascendimento, 236, 237 Boss, M., 267
avversione (rabbia, odio, disappunto, Brivio, G., 1 3 1
eccetera), 13, 1 5 , 16, 20, 23, 27, Brown, D., 56, 184, 258
28, 29, 30, 3 1 , 36, 40, 50, 5 1 , 59, Buber, M., 1 60, 162, 167
60, 63, 64, 65, 68, 74, 8 1 , 82, 83, Buddha, 22, 25, 27, 3 1 , 35, 37, 38, 45,
84, 85, 100, 103, 109, 1 1 3 , 1 18, 50, 63, 72, 74, 75, 81, 90, 9 1 , 93,
1 19, 120, 125, 133, 135, 136, 103, 109, 1 10, 1 1 1 , 1 14, 1 15,
137, 145, 146, 147, 148, 150, 1 16, 122, 141, 142, 143, 148,
151, 154, 155, 157, 159, 1 6 1 , 158, 167, 176, 190, 192, 2 1 1 ,
163, 166, 167, 1 7 1 , 1 7 5 , 176, 212, 213, 223, 226, 242, 251,
182, 183, 184, 186, 187' 188, 274, 275
1 9 1 , 193, 194, 195, 199, 200, natura del, 104, 1 12
202, 203, 204, 205, 212, 220, Buddhadasa, 63, 99, 144, 153, 183
222, 247, 262, 263 , 273 , 277, 278 Buddhaghosa, 263
avversità, 177, 195, 200 buddhismo impegnato, 92, 93
Ayya Khema, 81 buddhità, 104, 137
azione, unità tra - e contemplazione, Bunon, L., 58
43
retta, 2 1 , 27, 55, 143, 156, 157 Calma concentrata (samatha), 21, 25,
33, 57, 58, 59, 69, 70, 105, 106,
Baggio, A., 205 108, 109, 135, 174, 187, 188,
Batchelor, S., 1 14 189, 200, 217, 241, 25 1 , 266,
Bayazid al-Bistami, 60 272, 276, 278
retta, 55, 143, 217, 276, 279 della sofferenza, 1 18
51 veda anche concentrazione ed etica sono una cosa sola, 77
Campo, C, 224 unità tra azione e, 43
Cantwel! Smith, W., 70 continuità (costanza) (della pratica, di
Carter, ]. R., 96, 192 presenza), 25, 26, 30, 4 1 , 42,
Caufield, S. , 167 152, 157, 192, 214, 219, 229,
Caussade, ]. P. de, 192 247, 265, 267
Chinul, 105, 251 Conze, E., 102, 223
Chodron, P., 29 Cook, F. D., 97, 142
Cobb, ]., 138, 252 Coomaraswamy, A., 167
colpa, senso di, 46, 68, 234 coraggio, 42, 64, 1 16, 190
compassione (karuna), 15, 17, 18, 24, coscienza, 12, 22, 23, 36, 100, 126,
27, 39, 40, 59, 72, 8 1 , 84, 85, 92, 153, 155, 221, 253, 258, 261,
106, 108, I l i , 129, 136, 146, 152, 264, 265, 270, 280
161, 164, 165, 193, 203, 249,276 luminosità intrinseca della (prabhas­
interconnessione di - e svuota­ sara atta), !59, 275
mento interiore, 161, 164 Coward, H. G., 257
comprensione, 15, 16, 27, 39, 45, 52, credenza, 26, 46, 94, 95, 96, 99, 104,
57, 70, 7 1 , 72, 83, 97, 105, 106, 105, 1 12, 1 13 , 125, 126, 181,
107, 108, 1 1 3 , 114, 1 17, 1 19, 215, 228, 241 , 249, 250
143, 146, 154, 163, 177, 184, Cristo (Gesù), 212, 2 1 3 , 216, 242
189, 196, 197, 203, 222, 249,
251, 265, 266, 276, 279 Dacquino, G., 234
la - coopera con l'accettazione, 15 Dainin Katagiri, 81
retta (retto discernimento) (samma­ Daoren, H., 194
ditthzl, 21, 27, 29, 30, 55, 133, De Bar, C M., 24
135, 136, 143, 186, 196 dedizione, 4 1 , 42
si veda anche
discernimento derirnozione, 58, 59
Compton, W., 184 Deseille, P., 224
comunità (sangha), 36, 37, 45, 9 1 , 93, desiderio, 19, 20, 33, 63, 132, 1 3 3 , 134,
115, 249, 272 135, 136, 143, 145, 147, 152,
confronto di, 3 8 154, 201, 202, 203, 204, 205,
concentrazione (unificazione mentale), 213, 215, 234, 235, 238, 239,
14, 2 1 , 99, 133, 143, 178, 187, 243, 271, 273
188, 189, 191, 200, 241, 249, di bene e verità, 12
257, 258, 264, 278 maggiore, 235, 236, 238
forzata, 34 minore, 235, 236
i kilesa non possono prosperare du­ amore senza, 134
rante i periodi di, 187 purificazione del, 134, 236
tecniche di, 70, 264 Desjardins, A., 155, 156
si veda anche calma concentrata de[erminazione (risoluzione), 70, 1 14,
contatto (phassa), 182 1 15 , 187, 197, 200
contemplazione, 19, 43, 44, 49, 72, 73, devozione, 38, 99, 1 1 3 , 1 18, 1 1 9
74, 76, 77, 201, 209, 214, 215, Dhammapat/4, 94, 104, 1 4 1 , 186, 203,
216, 240, 242, 248, 253, 254, 250
256, 257, 258, 259, 262, 263, 275 Dharma, 2 1 , 25, 26, 27, 32, 38, 57, 60,
62, 72, 73, 74, 76, 77, 84. 85, 87, assenza di, 265
88, 89, 90, 9 1 , 92, 93, 99, 105, Dubs, G., 58
109, 110, 112, 1 13 , 1 18, 1 19,
120, 126, 127, 167, 184, 186, Eccitazione, 52, 69, 172, lì7, 264, 266,
190, 192, 194, 196, 199, 200, 276
203, 210, 241 eclettismo, 75, 89, 92, 93, 217, 242
comprensione del, 124 egoità, svuotamento dall', 160, 161,
gusto del, 72, 187, 188, 189 164
Dhiravamsa, 45 Eliot, T. S., 172, 224
difetti, 136. 158 emozione, 1 3 , 17, 22, 23, 29, 59, 68,
radici dei, 263 1 12 , 1 13 , 133, 174, 176, 183,
difficoltà, 14, 17, 18, 24, 3 3 , 98, 1 18, 204, 205, 206, 228, 229, 250, 269
1 19, 174, 187, 188, 194, 197, energia(e) (vrrya), I l , 13, 14, 16, 2 1 , 22.
205, 234, 240 25, 26, 27, 29, 30, 3 1 , 35, 4 1 , 57,
intcrpcrsonali, 164, 272 73, 74, 84, 105, 1 3 1 , 144, 164,
si veda anche ostacolo e problemi 176, 193, 195, 196, 198, 199, 200,
Drgha Nikaya, 242 202, 206, 220, 24 1 , 247, 248, 249,
Dio (Signore), 24, 48, 49, 50, 52, 53, 2 5 1 , 267, 266, 269, 273
60, 90, 93, 97, 103, 1 12, 149, trasformazione delle - negative in
167, 191, 192, 195, 2 1 1 , 212, - positive, 197
216, 221, 224, 229, 235, 238, Engler, J., 16, 56, 184, 237
242 , 243 , 259, 264 equanimità lupekkha), 2 1 , 35, 40, 59,
ricordo di (memon"a Dei) , 47, 48, 91, 104, 105, 106, 107, 108, 1 10,
1 6 1 , 162, 220, 224 125, 1 3 1 , 133, 134, 135, 136,
discernimento {discriminazione), 12, 137, 138, 143, 144, 147, 152,
15, 19, 32, 34, 39, 96, 127, 135, 154, 156, 186, 190, 191, 192,
163, 188, 189, 191, 202, 217, 197, 200, 215, 216, 241, 276
222, 241, 25 1 , 263, 265, 268, la - è congiWlta alla sensibilità,
273, 276, 278 176
Ji veda anche comprensione non equanimità, 132, 136
disidentificazione, 23, 133, 134, 135, Ergardt, J. T., 104
137, 175, 181, 195, 197, 198, Ess, J. van, 209
222, 236, 279, 280 estasi, 101
disistima di sé, 158 eternità, 63
distrazione, 131, 178 etica {Jila), si veda morale e retta azio·
Dogen, 97, 141, 142 ne
dogmatismo, 38, 73 , 75, 95, 249, 256 Evagrio Pontico, 137
Domande di re Milinda, 223 Evans, B., 243
doverismo, 27 8
Draghi, P., 224 Facoltà spirituali (i cinque poteri spiri­
dualismo (separazione, divisione), 12, tuali), 2 1 , 26, 96, 105, 251
3 1 , 35, 37, 47, 52, 71, 77, 101, fede (saddha), 12, 17, 21, 25, 26, 27,
1 13 , 145, 146, 151, 152, 161 , 46, 47, 94, 95, %, 97, 99, 101,
206, 280 102, 103, 104, 105, 106, 1 10,
di attrazione-repulsione, 279 1 1 1 , 1 12, 1 13 , 1 14, 1 1 5 , 1 16,
dubbio, 27, 76, 112, 1 16, 132, 171 1 17, 1 1 8, 120, 125, 126, 127,
132, 137, 138, 142, 178, 2 1 5 , simpatetica (mudita), 30
216, 21 7 , 218, 223, 241 , 242, Giovanni Climaco, 224
243, 247. 249, 250, 25 1 , 252, Giovanni della Croce, 228, 263
265, 267, 276 giudizio, 48, 1 1 3 , 144, 154, 157, 220
cieca, 222, 223 autosvalutame, 270
laica, 214 assenza di, 26'5
reale e conoscenza reale non sono giustizia, 129, 130
contrapposte, 229 Goldstein , J . , 21, 45, 54
senza oggetto, 228 Goleman, D., 269
in una pratica matura - e consapc· Gonsar Rinpocc, 165
volezza operano insieme, 98 gratificazione, 106, 107, 109, 1 10, 1 15,
l'insegnamento spirituale è anzitutto 132, 134, 147, 280
trasmissione della, 125 gratitudine, 48, 7 1 , 83, 136, 163, 226
si veda anche fiducia grazia, 1 3 , 178, 221
fedeltà, 159 cooperazione con la, 41
Feldman, C., 123 Griffiths, P. J., 182
felicità, 19, 25, 30, 35, 4 1 , 70, 85, 120, Gurdjieff. G. L, 132
160, 194, 195, 236, 239
fiducia, 15, 2 1 , 26, 56, 57, 7 1 . 73, 76, Hakeda, Y . S . , l 04
85, 95, 104, 106, 107, 108, 1 10, Hart, W., 182
1 1 1 , 1 12 , 1 14, J J'j , 1 17 , 1 18, Hausherr, L, 227
1 19, 120, 125, 126, 132, 157, Hesse, H., 134, 201
165, 188. 189, 191, 197, 215, Hirai, T., 69, 253
235, 239, 241, 242, 250 Hookham, M., 277
nella pratica, 184, 187 Hui Hai, _52
si veda anche fede Huxley, A., 37
fierezza umile, 194
Filippani-Ronconi, P., 49 Identificazione, 20, 21, 34, 63, 1 13 ,
Freud, S., 233, 255 1 3 4 , 144, 176, 182, 183 , 1 9 1 ,
Frola, E., 45 197, 198, 200, 203, 204, 205,
frustrazione, 12, 17, 46, 84, 107, 108, 221, 222, 264, 280
1 1 5 , 132, 134, 147, 1 61 , 164, ideologismo, 73, 74, 75, 76
204, 206, 234, 236, 237, 279, 280 ignoranza (confusione, illusione) (avii
;a), 27. 28, 29, 36, 50, 59, 60, 68,
Gagliardi, A., 167 74. 8 1 , 82, 83, 84. 85, 86, 100,
Garrett Jones, ] 183
.. 103, 105, 109, 1 10, 1 17, 122,
generosità (dana), 52, 84, 85, 86, 88, 125, 136, 1 46, 148, 150, 15 1,
179, !89, 190, 192 !54, 1 5 9 , !63, 167. 182, 1 86,
gentilezza, 29 187, 190, 193, 202, 203, 25 1 ,
Gentili, A., 53, 1 3 1 , 217 262, 263, 279. 280
gioia, 19, 20, 21, 22, 30, 3 1 , 35, 52, 53, illuminazione, 17, 47, 97, 1 14, 1 16,
93 , 1 10, 1 17, 1 19, 145. 163, 165, 142, 143, 167, 1 84
167, 206, 220, 22 1 , 225, 234, i fattori della, 2 1 , 26, 4 1 , 45, 120,
235, 241, 265, 277 235, 238, 241, 277
della consapevolezza, 23 immaginazione arriva, 257, 258
di lasciare andare l'io, 227 !moda, F., 23 7
impazienza, 17 3 Kalama Sutta, 50
impermanenza (anicca ) , 19, 20, 100, Kalu Rinpoce, 184
166, 190, 192. 240, 241, 267, 280 Kasamatsu, A., 69
impersonalità (insostanzialità) (anatta, Katagiri, D., 104
non-io!. 52, 100, 154, 166, 182, Katz, N., 16
183 ' 184, 225' 240, 280 Kelsang Gyatso, G., 137
inconscio, 257 Khantipalo, 227
collettivo, 257 kilt•sa, si veda afflizioni
indegnità, senso di, 57 Kittisaro, 204
indiffercntismo morale, 268 Knitter, P., 216
insegnamento, 37, 38, 5 1 , 72, 76, 89, Kor Khao Suan Luang, 167
1 16, 121, 123 , 125, 126, 127, Komfield, ]., 2 1 , 54, 269
135, 141, 249 Krishnamurti, }., 1 1 , 1 3 1 , 233, 239,
capacità specifiche per l', 124 244, 277
colloqui con chi è preposto all ' , 54, Kiing, H., 209, 210, 2 1 1 , 212, 2 1 3 ,
56, 124 214, 216
insoddisfazione, 23, 24, 46, 47, 54, 60,
8 1 , 103, 163, 166, 200, 202, 238, Laici, 88, 90, 91, 92, 124, 126, 214
239, 241 formazione dei (e dei monaci) prati­
fiduciosa, 45 canti, 73, 77, 91, 92
gioia nella, 46 scambi con monaci praticanti, 90,
intenzione, 1 3 , 73 91
retta (sammasankappa), 2 1 , 27, 55, Lama Zopa, 194, 195, 196, 199, 200
93, 129, 1 3 1 , 135, 143, 196, 212 Lassalle, H. E., 266
interdipendenza, 108, 1 10 Le Saux, H., 258, 266
interreligiosità, 74, 92, 93, 181, 212, Levine, 1 16
217, 226, 243 liberazione, 45, 5 1 , 72, 8 1 , 82, 93, 103,
investigazione, 12, 2 1 , 29, 91, 154, 175, 109, 1 10, 1 15 , 125, 136, 141,
187, 191, 241, 279 142, 143, 183, 1 86, 187, 188,
della consapevolezza, 277 193, 194, 196, 2 1 1 , 224, 228,
invidia, 29, 30, 50, 172 229, 266, 269
io (ego), l'uso psicologico del termine fattori di, 36
- è diverso dall'uso sapienziale, la - è la base della consapevolezza,
19, 262 148, 149, 223
irrequietezza, 1 14 , 1 7 1 , 173 ruolo del magistero degli altri (per
Isacco {santo), 53 la -), 136, 164, 166
si veda anche risveglio
James, W., 17
jhana (stati di assorbimento mistico), �ahaghosananda, 156
213 Mahasatipatthana-sutta, 45
Johnston, W. , 214, 216, 256, 263 , 266 �ahasi Sayadaw, 88, 174
Jones, R H. , 257 Mahaved4/lasutta, 167
Jung, C. G., 237, 253, 255, 257, 258, Majjhima Nzkaya , 3 7 , 74, 167, 192, 242
259 mantra, 44, 219, 258
�ara, 58
Kadowaki, ] . K., 209, 214 �aritain, }., 49, 262
Martini, C. M., 198 la - è la base dei sensi, 223
Maslow, A., 62, 212, 237, 255 la consapevolezza è la base della,
Massa, W., 214, 216 223
meditazione (pratica) (Iamadhr� bhava­ ostruzioni della, 1 10
na), purificazione della, 143, 164
camminata, 54. 56 salute della, 262
informale, 91, 93, 186,188, 189, stati salutari della, 25, 3 1
249, 271 Merton, T., 258, 266
intensiva (H. veda anche ritiro), 93, Merzel, G. D., 1 12, 1 13, 1 1 4
126, 237' 269 mezzi salvifici, 93
seduta, 17, 3 1 , 38, 4 1 , 43, 44, 54, abilità nei (upayakauJalya), 1 3 1
57, 95, 107, 171, 187, 188, 189, momento presente, 20, 22, 2 3 , 3 1 , 32,
198, 213, 248, 249, 262, 271, 278 34, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 7 1 , 90,
approccio psicologistico alla, 247, 98, 1 14, 154, 163, 164, 177, 195,
248, 250, 25 1 , 252 198, 225, 249
controindicazioni della - intensiva, monaco(i), 37, 38, 88, 89, 90, 97, 123,
5 5, 56 124, 130, 224
fattore guaritivo della - intensiva, nel mondo, 90
57 scambi tra laici praticanti e - prati-
fiducia nella, 184, 187 canti, 90, 9 1
psicologizzazione della, 246 morale (siw), 3 2 , 39, 7 7 , 88, 278
retta, 216, 217 morte, 45, 1 12, 167, 250
Mehta, P . D . , 146 motivazione, 17, 20, 26, 27, 47, 50, 55,
Meister Eckhart, 1 19, 137, 138, 172, 57, 63, 85, 89, 100, 1 14, 124,
224, 243 , 25 1 125, 129, 133, 141, 205, 214,
Mello, A. de, 254 250, 265 , 266
mente, 12, 13, 15, 19, 25, 29, 3 1 , 32, spuria, 261
34, 35, 36, 39, 40, 42, 52, 54, 56, consapevolezza sulla, 99
59, 64, 82, 83, 84, 85, 93, 101,
102, 104, 109, 1 16, 1 17 , 125, Nagao, ]. M., 137
126, 129, 141, 143, 144, 145, Nagasena, 223
147, 149, 153, 154, 155, 160, Namdev, 48, 162, 163
161, 166, 167, 172, 174, 179, Namkhaì Norbu, 274, 275
182, 189, 190, 191, 194, 201, N anamoli Thera, 99
202, 203, 204, 222, 223, 227, Nanananda Bhikkhu, 49, 68
228, 242, 250, 25 1, 258, 263, narcisismo, 37, 174, 203, 261
265, 269, 270, 275, 277, 278 Needleman, J., 228, 229, 263, 264
giudicante, 1 1 3 nirvana, 33, 68, 103, 104, 229, 259
lavorabile (kammaniya) , 83, 227 si veda anche liberazione
originaria, 159 noia, 175. 214, 271
afflizioni della, 279 Nyanaponika Thera, 45, 129, 190
amicizia per la nostra, 144, 146, 147 Nyanatiloka, 96
contaminazioni della, 39
contenuti della, 92, 100, 132, 145, Originazione dipendente (produzione
148, 162, 167, 223, 228, 258, condizionata) (paticcasamuppa-
265, 267, 268, 269, 270 da), 1 10, 182, 183
Ornstcin, R., 163 precetti etici, 39, 277, 278
ortodossia, 1 8 1 , 2 1 6 si t!eda anche morale
ortoprassi, 1 8 1 , 2 1 6 , 217 preghiera (orazione), 44, 123, 1 6 1 , 217,
ostacolo (impedimento), 44, 144, 1 7 1 , 219, 239, 253, 254, 259, 263,
1 7 3 , 177, 178, 197, 198, 200, 264, 265
2 1 3 , 246, 263 continua, 1 98, 271
sr �·eda anche difficoltà e problemi del cuore, 162. 1 8 1 , 2 1 3 , 263
ottuplice sentiero, 2 1 , 26, 27, 45, 55, silenziosa, 43
99, 103, 129, 1 3 1 , 133, 135, 143, preoccupazione, 20, 34, 66, 67, 1 1 4 ,
186, 1 90, 196, 2 1 7 137, 1 6 3 , 1 7 6 , 1 9 7 , 198, 199, 202
autopreoccupazione, U l
Pace, 1 8 , 1 9 , 20, 22, 2 3 , 24, 27, 3 2 , 3 3 , non preoccupazione, 2 1 6
34, 3 5 , 36, 3 9 , 40, 6 1 , 63, 64, 65, presenza mentale, si veda attenzione
66, 69, 70, 7 1 , 72, 73, 76, 8 1 , 82, Prigem, Y 234..

83, 1 1 0, 120, 156, 157, 166, 1 7 1 , Prima lettera ai Corinzi, 90


172, 173, 177, 178, 186, 187, Prima lettaa ai Tessalonicesi, 2 1 3
189, 192, 196, 206, 276 problemi, 14, 158, lì4, 194, 205, 249
aspettative di, 62 psicologici, 70, 248, 250, 252
gioia della - interiore, 188 fascinazione per i propri, 273
non, 160, 173 si veda anche difficoltà e ostacolo
Packer, T., 3 5 proliferazione concettuale ed emotiva
Paissy Velichovsky, 123 lpapam�). 52. 68, 69, 7 1 , 132,
Pallis, M., 47 164. 201 , 202, 206
Panikkar, R., 2 1 6 lo stato di non, 49
Paolo, san, 90, 2 1 3 psicologia,
Park, S . B., 105, 25 1 dinamica, 50, 233, 248, 255
parola, retta, 2 1 , 5 5 , 143 sperimentale, 260
paura, 1 4 , 1 5 , 20, 23, 3 1 , 42, 47, 48, transpersonalc, 245, 246, 253, 256,
50, 5 1 , 52, 63, 64, 68, 83, 86, 87, psicoterapia, 1 1 , 16, 56, 75, 92, 125,
95, 98, 1 12, 1 14 , 1 17 , 1 19, 120, 235, 239, 245, 246, 249, 256, 272
1 3 5 . 136, 1 3 7 , 145, 146, 147, purificazione, 36, 3 7 , 42, 74, 1 4 1 , 142,
150, 1 5 1 , 1 5 3 , 166, 167, 1 7 3 , 1 4 3 , 146, 147, 148, 187
1 8 4 , 186, 188, 1 9 1 , 193, 1 9 5 ,
196, 200, 203, 2 04 , 205, 2 1 2 , Quietismo, 268
2 1 5 , 2 2 1 , 222 , 250, 267 , 273 Quoist, M 62 ..

del giudizio altrui, 5 5


la - è il contrario della fede, 2 1 5 Rabten, G . , 167
non paura, 1 5 4 raccoglimento, 1 1 , 43, 44, 64, 12lJ,
pazienza, 165, 205, 206, 276 173, 2 14, 216, 2 1 7 , 224, 24 1 ,
Pcnnington, B., 254 243, 259, 264, 265 , 267, 268, 269
Pensa, C , 123, 256, 269 Rdcconti di un pellegrino russo, 100,
percezione, 1 5 , 22, 47, 67, 68, 100, 162, 163
145, 1 6 1 , 1 6 3 , 1 64 , 176, 235, 240 Raguin, Y 149
..

dell'unità, 160 Rahula, W., 129


Phra Debvedi, 152, !53 Ramakrishna, 2 1 7
Piano, S., 48, 162 Ramana Maharshi, 65
R.atnolkadharam, 93, 250 samvega, 22, 84, 85, 86, 1 14
reattività, 120, 134, 144. 150, 247 Samvutta Nikava, 148
reazione (tanha) , 13, 20, 22, 66,68, San�si, R., 17i
101, 137. 147. 153, 154, 167, Sangharakshita, 1 1 6
176, 177, 182, 183, 189, 190, Santideva, 250
191, 222, 227, 247, 248, 265, sapienza, 15, 50, 90, 121, 122, 133,
270 136, 137, 188, 214, 220, 263,
relazione (capacità di - con sé e con 266
gli altri ) , 5 1 , 52, 53, 55, 68, 7 1 motivazione alla, 46
101, 135, 147, 206, 227, 238 Satipatthanasutta, 242
paura di una, 273 Schnoeller, A., 53, 217
religione, 44, 52, 86,94, 103, 182, 209, Schumacher, E., 148
210, 212, 214, 2 1 5 , 216, 228, Schur, E., 174
229, 233, 242, 243, 245, 255, scoraggiamento, 73, 145, 187, 198, 200
256, 257, 259 semplicità, 1 13 , 154
repulsione, 267, 278 non, 160
responsabilità, 67, 76, ! 5 1 semplificazione, 38, 52, 77, 127, 135,
Ridick, ] . , 237 196, 197, 199, 200, 242
rilassamento, 34, 69, 86, ! IO, 172, 189, si veda anche rinuncia
239, 259 sensazione (vedana) , 13, 23, 99, 1 09,
rinuncia (lasciar andare), 2 1 , 34, 35, 100, 1 12, 133, 150, 153, 174,
89, 93, 96, 1 12 , 1 13 , 1 14, 1 1 5 , 182, 191 ' 204
1 16, 1 17, 125, 126, 138, 154, sensi , 56, 93, 109, 153, 182, 227, 228,
196, 2!4, 219, 252, 278 250, 264, 265
si ved4 anche semplificazione porte dei, 155
risentimento, 20, 46, 52, 68, 108, 136, sensibilità, 70, 86, 157, 163, 176, 203,
166, 196, 234, 269, 270 220, 243, 244, 245, 246, 250,
risveglio, piccolo, 54, 55, 197 261, 264
si veda anche illuminazione morale, 45, 268, 278
ritiro, 15, 54, 55, 56, 57, 58, 59,
60, 73, senso dell'io, 49, !52
89, 91, 93, 95, 100, 101, 106, sentimento, 13, 14, 29, 52, 7 1 , 97, 129,
121, 124, 125, 127, 128, 135, 130, 132, 133, 135, 174, 176,
141, 143, 157, 179, 180, 200, 204, 220, 239, 24 1, 261
246, 271 , 272 pensieri e immagini in relazione a
il - propizia la conoscenza della - ed emozioni, 205
mente, 125 Serafino di Sarov 5 3
si veda anche meditazione intensiva Seung Sahn. 175
Rossano, P., 130 sfiducia, 62, 68, 76. 215, 235
Rulla, L. M., 23 7 sforw, 27, 28, 32, 33, 57, 107, 247,
269
Saddhatissa, 47 egocentrico, 41, 42
saggezza, 2 1 , 25, 27, 28, 3 1 . 32, 39, 40, dettato fondamentale del retto sfor­
5 1 , 52, 58, 59, 72, 77, 82, 85, zo, 15R
105, 106, 112, 1 17 , 148, 152, retto (saggio) sforzo, 2 1 , 25, 26, 29,
154, 189, 193, 203, 223, 224, 30, 3 1 , 4 1 , 55, 66, 106, 107, 143,
225, 226, 25 1 , 275, 276 155, 157, 161 , 2 12, 2 17, 276
Shapiro, D. H., 69, 269 Stietencorn, H . von, 209
Siksasamuccaya, 250 studio, 12, 38, 45, 77, 101. 123, 135,
silenzio, 35, 42, 52, 54, 56, 57, 104, 182, 184, 200, 249, 272
106, 201 , 206, 222 , 274 super-io, 248
Simonod, E., 123 Suzuki, D. T, 210
Sisoe, 224 Suzuki, R S., 33, 88, 187
Sman, N., 226 svuotamento interiore, 160, 1 6 1 , 162,
Smith, H., 60 163, 165, 166
Socrate, 263 interdipendenza di - e compassio­
soddisfazione, 2 1 , 46, 1 5 1 , 157, 200, ne, 164
220, 279
sofferenza (dolore, disagio, stress, ecc) Tai Situpa, 158
(dukkha), 12, 14, 1 5 , 20, 2 1 , 22, Tanahashi, K., 97. 1 4 1 -2
23, 24, 27, 28, 29, 34, 35, 36, 37, Tanpa, 165
38, 39, 40, 4 1 , 42, 59, 60, 63, 72, Tauler, J., 162
74, 77, 81, 82, 83, 84, 86, 87, 93, tecnicismo, 93
95, 98, 100, 101, 103, 108, 109, illusione del, 38
1 1 0, 1 12 , 1 1 3 , 1 14 , 1 15 , 1 16, temperanza, 224
1 17, 1 1 8, 1 19, 120, 125, 136, tenerezza, 1 18, 159
137, 142, 143, 145, 146, 147, Teresa d'Avila, 2 1 3 , 224, 263
148, 150, 1 5 1 , 1 5 3 , 154, 156, Teresa di Calcutta, 43
158, 160, 163, 1 64 , 165, 166, Teresa di Lisieux, 64
167, 183, 186, 187, 189, 194, The Cloud o/ Unknowìng, 1 3 1 , 263
195, 1 96, 197, 198, 204, 205, Theranamosutta, 90
206, 221, 233, 235, 237, 238, T.hich Nhat Hanh, 90, 109, 1 64 , 165,
239, 240, 241, 242, 243, 244, 193, 274
247 , 250, 25 1 , 265 , 278, 280 Thubten Yesce, 44
pulita, 202 Tillich, P., 94, 250
attaccamento alla, 29 Tiruvalluvar, 1 3 3
comprensione profonda della, 28 Titmuss, C., 123
pace nella, 156 Tommaso d'Aquino, 224
Solé-Leris, A., 54 tristezza, 3 7 , 7 1
solidarietà, 83, 148, 235, 270 Trungpa, C . , 172, 193
sollecitudine, I l , 24, 7 3 , 95, 108, 130, Tsong Khapa, 137
144, 145, 147, 195, 244, 270 turbamento, 22, 171, 172, 173, 178,
Spirito, 130, 148, 149, 263 nudità del­ 179, 180
lo, 162 interesse nei confronti del, 173
spiritualità, 26, 4 1 , 74, 75, 103, 122,
123, 148, 1 8 1 . 185, 1 9 1 , 193, U Ba Khin, 127
210, 2 1 3 , 214, 215, 218, 225, U Pandita, S., 25, 26
228, 242, 246, 247, 250, 25 1 , Uchiyama, K., 213
262, 266 Ud.na, 49, 72, 137, 186
laica, 210 Ulisse, 97
connessione tra dialogo e, 209 umiliazione, 161, 166, 167
spontaneismo, 4 1 , 248 umiltà, 12, 49, 123, 142, 166, 167, 173,
Steindl-Rast, D., I l , 95, 2 1 5 216, 224, 225 , 226, 238
Vangelo di Gwvanni, 1 15 virtù,38, 45, 52. 93, 99, 106, 1 3 1 , 133,
Vangelo di Luca, 66, 198, 2 1 3 , 242 135, 142, 144, 148, 163, 189,
Vangelo di Matteo, 66, 129 194, 228, 250, 263, 276
Vanier, ]., 159 visione profonda (insightl, 20, 29
Vannini, M., 138, 252 Visuddhimagga, 49
Vaughan, F., 262 vulnerabilità (fragilità), 50, 52, 137,
Vedana-samyutta, 1 90 159, 244
verità Oe quattro nobili), 8 1 , 82, 83,
85, 89, 103, 125, 186, 197 Walsh, R N., 69, 262, 269
Vimala Thakar, I l , 17 Welwood, ]., 14, 16, 245, 261 , 262
vipassana, I l , 25, 54, 59, 60, 69, 75, Wilber, K., 16, 56, 65, 98, 237
84, 88, 92, 95, 96, 1 0 1 , 122, 123, Woodward, F. L., 83
127, 129, 144, 174, 1 9 1 , 246,
270, 280 Yung-ming, 251

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