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LA
TRANQUILLA
PASSIONE
Saggi sulla meditazione buddhista
di consapevolezza
La consapevolezza in generale
e la pratica meditativa
� �
" a pra que de le méditation est une histoire
d amour .
lAMA DENIS 1993, p. 7 1
l
n lavoro interiore
come tranquilla passione
2 Cfr. Wdwood 1984, soprattutto là dove egli felicemente conia il termine 'by
Lo sforzo saggio
4. Un altro motivo per cui viene dato grande spicco al fattore energia
nel cammino interiore mi sembra che abbia a che fare con la grandezza
stessa dell'impresa spirituale, con la grandezza di ciò che essa propone e
promette. Può sembrare una cosa ovvia, ma spesso sono proprio le cose
owie a essere le più elusive e le più difficili da vedere. Lo scopo della
pratica del Dharma è la liberazione, ossia la vera pace, la vera saggezza e
la vera compassione. Per ottenere queste cose occorre molto sforzo, per
ché ci sono forti energie ostruttive, quali l'attaccamento, l'avversione e
l'ignoranza, che ci portano via dalla condizione di libertà, saggezza e
compassione. Per entrare in contatto con la pace, la libertà, la compassio
ne e la saggezza, noi abbiamo bisogno di una contro-energia più potente
di queste energie ostruttive. È sufficiente aver praticato un poco per sape
re quanto siano potenti queste forze e quanto sia potente la loro dittatu
ra. Non possiamo illuderci di poterei sbarazzare di attaccamento, avver
sione e illusione senza sviluppare questa contro-energia positiva.
2. Per ciò che riguarda la relazione tra questa vitale tendenza alla pace
e gli altri fattori del cammino interiore, la prima cosa da osservare mi pa-
re la seguente: senza la coltivazione di questo rilassamento integrale, cioè
di questo paziente e minuto lasciar andare che è il continuo tornare al re
spiro, noi facilmente ci troveremo impigliati e identificati nell'avvicendarsi
incessante delle preoccupazioni.
E quando il volume delle preoccupazioni supera una certa soglia, allo
ra la possibilità di presenza nel presente (satil, di consapevolezza, è mini
ma. Perché, semplicemente, non c'è spazio per essa: lo spazio è tutto inva
so dalle preoccupazioni e, ancora di più, dalla nostra identificazione-at
taccamento nei loro confronti. La consapevolezza, al più, farà capolino
fugacemente, in qualche attimo di buon equilibrio psico-fisico. Ma poi
sarà travolta subito, a causa della mancanza di pace e di rilassamento. Va
le a dire, a causa dell'intatto potere di seduzione e di ipnosi da parte del
le preoccupazioni. Eppure, si potrebbe obiettare, non è fondamentale in
vestire di consapevolezza le preoccupazioni di tutti i generi? Certamente.
Tuttavia, senza un primo fondamento di pace, cioè di forza, la consapevo
lezza ancora tenera soccomberà sotto il peso della mente preoccupata di
questo e di quello. Ma, al contrario, se c'è una base di pace e Ji interesse
a custodire la pace, allora la consapevolezza potrà cominciare a penetrare
nella radice del dolore ossia nella nostra vischiosa identificazione con le
preoccupaztom.
Dunque un inizio di pace autentica ha, tra le sue virtù, la virtù di nu
trire la retta consapevolezza (sammasati), la presenza vigile e ricettiva nel
momento presente. E sati è il presupposto di fondo del discernimento, sia
in campo etico, sia in qualsiasi altro campo. Il discernimento, a sua volta,
man mano che è attivato, si infonde nella pratica e rende la pace più sicu
ra di sé e del proprio valore. Infatti, grazie al discernimento, io vedo
quanto sia futile rincorrere pensieri e stati d'animo e come sia invece fe
condo di pace l'ancorarsi all'energia silenziosa del respiro; e vedo, d'altra
parte, come io, per paura di fronteggiare stati d'animo negativi, possa
fuggire in una concentrazione forzata, che è un uso erroneo della pratica,
produttivo di non pace. Abbiamo, cosicché, una felice concatenazione
circolare, che possiamo raffigurare in questo modo: pace- consapevolez
za- discernimento - lasciar andare -+ più pace- più consapevolezza----. più
discernimento -più lasciar andare.
In termini di ricerca del bene questa concatenazione, che poi non è al
tro se non la retta pratica, implica un mutamento di rotta di grande con
seguenza. Infatti significa che l'individuo non equipara più, immatura
mente, il bene a cercare il piacevole e a evitare lo spiacevole. In effetto,
grazie alla retta pratica, questa equazione viene sempre più messa in di
scussione. Col risultato che il nostro modo di rapportarci al piacevole e
allo spiacevole prende a modificarsi, diventando meno compulsivo. n no
stro perseguire il piacevole si fa meno compulsivo e così pure il nostro
sfuggire lo spiacevole. E minore compulsione significa meno sofferenza e
più equanimità. Ora equanimità non è soltanto uno specifico atteggia
mento interiore, è invero molto di più, poiché è la porta d'accesso a un
modo saggio, ossia non dualistico di vedere e di vivere. Osserva Toni
Packer: ''Nel momento in cui la dualità cessa, l'energia che era stata trat
tenuta nel conflitto e nella divisione prenderà a funzionare compiutamen
te, intelligentemente e sollecitamente. Allorché, invece, è l'esser fissati in
se stessi (self-centeredness) che predomina nella mente, l'energia viene
bloccata e si convoglia nel temere e nel desiderare; diventiamo isolati nei
nostri piaceri, dolori e sofferenze. Ma allorché questo processo viene
completamente rivelato alla luce della consapevolezza imparziale, l'ener
gia si unifica e scorre libera, indivisa e capace di abbracciare tutto"
(Packer 1990, p. 1 12).
L'equanimità saggia, ovvero la capacità di lasciar andare il conflitto e
la divisione generati dall'io che si identifica con ciò che desidera, teme o
avversa, ha come suo primo seme, dicevamo, quella inclinazione alla pace
e al silenzio che nasce nel laboratorio della pratica. Inclinazione che rap
presenta un piccolo salto evolutivo poiché, in virtù di essa, ci ritroviamo
ad apprezzare sempre più i valori del cammino interiore, fino a metterli
al primo posto nella nostra vita. E questo è uno spostamento d'asse fon
damentale: da una ricerca sbagliata della felicità e del bene a una ricerca
più giusta. Di conseguenza, una vita imperniata sulla ricerca del bene do
vrà essere una vita abitata da molta più gioia rispetto a una vita orientata
altrimenti. il Buddha direbbe che solo "appoggiandosi su questo", ovvero
sulla gioia e sull'equanimità apportate dalla retta ricerca, possiamo "tra
scendere questo", cioè, in sostanza, la sofferenza e le sue cause . 1
La meditazione di consapevolezza:
realtà e illusioni
una zattera, essa ha per fine quello di portarci dall'altra parte, non quello
di suscitare attaccamento nei confronti di essa zattera". Io penso che non
possiamo non avere un profondo rispetto e una profonda devozione per
quella tradizione spirituale che sembra averci dato di più per attraversare
la sofferenza nella vita di tutti i giorni e per la quale sentiamo più affinità.
Tutto ciò è molto naturale e non ha niente a che vedere con il dogmati
smo e con l'ideologismo. Mentre invece trasformare la pratica in una
nuova ideologia con la quale puntellare il proprio ego è un completo tra
visamento.
mente importante per il tipo di vipassana di cui si parla in questo capitolo il volu
me di J. Goldstein e J. Kornfield 1 987.
tre ci si può imbattere in una maggiore prontezza e facilità a tener fede ai
nostri impegni e, nel campo delle relazioni interpersonali, può darsi che ci
si imbatta poi in un gioiello prezioso, e cioè in una netta diminuzione della
paura di essere giudicati male e di essere rifiutati dagli altri.
L'importanza di gustare questa nuova ricchezza, anche se in dosi mini
me e per un breve periodo di tempo, è abbastanza evidente: infatti, avendo
toccato o anche solo sfiorato questo effetto di 'piccolo risveglio', il perché
fare ritiri diventerà più chiaro e la nostra motivazione non potrà che
rafforzarsi. Ci accorgiamo, tra l'altro, che tutta la pratica dell'ottuplice sen
tiero si è fatta più concreta e accessibile. Infatti nella seconda parte del ri
tiro e nel periodo immediatamente successivo a esso è facile che vi sia un
aumento dei tre fattori più specificamente meditativi e cioè retto sforzo,
retta concentrazione e retta consapevolezza.
Possiamo poi aver notato una maggior propensione per una vita più
giusta e meno distruttiva (innocente) e dunque più interesse per i tre fat
tori morali (retta azione, retta parola, retti mezzi di sussistenza ) . E, infine,
possiamo aver sentito una piccola impennata in termini di retta compren
sione e di retta intenzione: nel senso che avvertiamo adesso una più chia
ra volontà di cercare il bene da un lato, mentre dall'altro sentiamo di ave
re intuito meglio in che modo il bene vada cercato. Qui può stare, a vol
te, il punto più forte del piccolo risveglio: avere un barlume di intuizione
che esiste una possibilità di ricerca immensamente più promettente di
quella ricerca compulsiva di immediata autogratificazione che colora gran
parte delle nostre vite. E avere, insieme con l'intuizione, uno slancio rea
lizzativo nuovo e forte.
l . La pace interiore, senza dubbio uno dei tratti più specifici del cam
mino spirituale, è un' esperienw precisa che, da un lato, tende a costituirsi
gradualmente come sfondo stabile e costante nell'individuo, dall'altro ad
aumentare di intensità in momenti particolari. In quanto tale, essa ha un
significato parecchio diverso da quel significato di momentanea assenza
di disturbo che talora si attribuisce all'espressione 'pace interiore'. E per
ciò, per comprendere meglio che cosa, in ultima analisi, vogliano dire
queste due parole, conviene anzitutto riflettere circa i nostri modi abitua
li di intendere la tranquillità interna.
A me sembra che, facilmente e non sempre consciamente, pace interna
venga equiparata a evitamento o a successo. Incliniamo cioè a presumere
che, se riusciamo a schivare quella responsabilità o quel compito o quella
persona, avremo più pace. Oppure presumiamo, invece, che se saremo in
grado di procurarci quella cosa o di affermarci in quell'altra, conquistere
mo più pace. Si potrebbe parlare di strategia del meno nel primo caso e
di strategia del più nel secondo. Ossia: o crediamo che perverremo alla
pace solo sottraendo alla nostra vita e dunque svicolando, defilandoci,
nascondendoci o crediamo, diversamente, che godremo di pace solo ag
giungendo e dunque prendendo, possedendo, vincendo. Ora le grandi
tradizioni spirituali, concordemente, ritengono che la pace risultante da
queste strategie sia una pace fragile e, in fin dei conti, falsa.
Potremmo dire che queste tradizioni nascono anche come risposta al
fallimento delle strategie del più e del meno. Le vie spirituali si occupano
della vera pace e insegnano che, per approdarvi, l'ostacolo principale sta
proprio in quella compulsione a evitare e ad appropriarsi di cui parliamo.
"Ci sono ceni giorni in cui soffro di più per la fame. Fame di tutto: delle
cose, del prossimo ... Allora mi trascino nella mia giornata, tendo la mano
e afferro avidamente tutto ciò che mi riesce di prendere lungo il mio pas
saggio. Alla sera, sono sempre deluso. Non mi resta niente della mia messe
rinsecchita, perché io sono fatto per dare, sono fatto per ricevere quel che
gli altri mi danno, ma non sono /atto per 'prendere"' (Quoist 1982, p. 92).
È inutile dire che l'evitamento e l'appropriazione, qualora non siano
accompagnati da indebite aspettative di pace duratura, come spesso è il
caso, sono funzioni ovviamente indispensabili: si pensi solo alla necessità
di evitare ciò che è distruttivo, nelle sue mille varietà o, di contro, alla ne
cessità di adoperarsi con diligenza per il soddisfacimento di quelli che A.
Maslow chiama i bisogni di base (sicurezza, stima, affetto) (Maslow 1962,
1970). Anzi, a questo proposito, non si sottolinea mai abbastanza il fatto
che la negligenza o l'ignoranza circa i propri bisogni di base, tipica di
non pochi aspiranti spirituali, è solo una forma di evitamento distruttivo
mascherato da distacco. Del resto non c'è bisogno del microscopio per
vedere tendenze coatte all'evitamento e all'acquisizione operanti in ambiti
spirituali: se per esempio io mi accorgo di essere incapace di vivere fuori
dal centro di Dharma o dal monastero, vuol dire che sto trasformando
uno strumento di crescita in uno strumento di difesa, di evitamento. Op
pure, se concepisco la religiosità come un accumtÙo di interventi assisten
ziali o di esperienze meditative e sento che più ne faccio più ho valore (o
che, d'altra parte, meno ne faccio, meno valgo), allora sono evidentemen
te preda della mentalità acquisitiva.
Riguardo alla pace, la caratteristica comune di queste due strategie ap
parentemente opposte è questa, che la pace raggiunta grazie a esse dura
poco. In proposito, è come se le tradizioni spirituali ci interpellassero:
può definirsi pace qualcosa che è talmente breve e precario? Che pace
può dare una pace cosl effunera? Avere evitato lo sgradevole ci regala un
attimo o un giorno di decontrazione, di respiro più pieno, ma presto sa
remo già tesi di nuovo, in guardia per schivare altre cose spiacevoli. Sic
ché questa pace è solo un armistizio tra due tensioni. Lo stesso se è in
ballo l'avidità: il successo, la presa ci dà un lampo di pace; dopodiché, ti·
picamente, il successo vuole altro successo e si affretta a scacciare la pace.
Dunque, sia che noi evitiamo, sia che noi afferriamo, in entrambi i casi la
pace è come un'onda che si espande e quindi, velocemente, rifluisce.
Ma noi fino a che punto sappiamo che questa pace non regge' Quanta
coscienza, viva e presente, abbiamo di ciò? A me sembra che la prima le
va del lavoro interiore sta proprio in questa coscienza. Perché solo nel
momento in cui ci accorgiamo della fondamentale inadeguatezza delle
nostre strategie di evitamento/acquisizione, solo allora cominciamo a per
dere fruttuosamente la fede nel loro presunto potere risolutivo e pacifi
cante: cioè non crediamo più che una vita passata a scansare e ad afferra
re possa offrirei pace. E simultaneamente all'emergere di questa illumina
ta sfiducia, spunta nel cercatore l'intuizione che avere un po' di pace ve
ra, oltre a essere un valore in sé, è anche l'unico modo per capire che co-
Ja dobbiamo lasciare e che cosa dobbiamo prendere. E solo allora, evi
dentemente, il lasciare e il prendere, cessando di essere manovre compul
sive, possono gradualmente diventare espressioni di intelligenza affettuo
sa: prendere ciò che guarisce, lasciare ciò che nuoce.
Da un regime, dunque, nel quale la pace non c'è né prima dell'azione
né, sostanzialmente, dopo l'azione, a un regime in cui, invece, la pace
precede e segue l'azione. È questa la possibilità che balena nel momento
in cui il cammino interiore viene davvero intrapreso. La possibilità di una
pace che rassomiglia molto poco a quella pace evanescente, marginale e
interstiziale con la quale abbiamo familiarità. Capiamo che il regime inte
riore a noi più noto è, in realtà, un regime di guerra punteggiato da tre
gue e che queste tregue sono la sola forma di pace che noi conosciamo.
Ma se invece - è come se insinuassero le spiritualità d'Oriente e quelle
d'Occidente - fosse accessibile un'esperienza di pace solida, ora imme
diatamente viva, ora sullo sfondo, ma mai disperatamente assente? (E
non è detto che questa caratteristica, presente in chi vive una vita spiri
tualmente matura, sia visibile a tutti e subito. Magari rimaniamo più col
piti a prima vista da certe vite intellettualmente ricche, senza vedere però
la grande sofferenza alimentata in esse dalla mancanza di pace).
3 Cfr. in questo sresso volume, il capitolo "La via della consapevolezza"; più in
Walsh 1984.
che desideriamo compiere e dall'altra, simultaneamente, sorge in noi non
già un'inerte rassegnazione, bensì una determinazione più forre di prima.
E perciò da una parte non ci chiediamo più, né ci interessa più sapere fi
no a che punto arriveremo, quanto tempo impiegheremo, eccetera,
dall'altra vediamo, come prima non vedevamo, che la pratica e lo svilup
po spirituali sono necessari come l'aria e come il cibo. Più in generale, il
binomio sveglia-calma è evidente nello sviluppo del fattore comprensio
ne. Ossia, la pace interiore autentica deve propiziare una crescente capa
cità di capire, di conoscere più rettamente; e d'altro canto questa com
prensione più chiara, fondata nella pace è, a sua volta, veicolo di pace.
L'approfondirsi della pace-comprensione è uno dei segni maggiori
dell'autenticità di un percorso spirituale; non così, evidentemente, l ' ap
profondirsi di una calma puramente legata a tecniche concentrative, sen
za alcuna nuova apertura conoscitiva.' Ma che cosa dobbiamo capire? A
questa domanda potremmo cercare di dare una risposta in classici termi
ni di buddhismo Theravada o Mahayana o nei termini di altre grandi tra
dizioni spirituali. Ma mi domando se rispondere così sarebbe di giova
mento per tutti i cercatori interiori oggi. E mi chiedo se non sia invece
importante per tutti insistere in primo luogo su questo, che dobbiamo ca
pire l'importanza della pace per capire la vita e dobbiamo capire l'ànportan
za della chiara comprensione per entrare sempre più nella pace. Dunque,
una pace che faccia capire e un capire che pacifichi.
E se questa comprensione-pace in una prima fase del cammino inve
stirà di più i nostri problemi psicologici, da un certo punto in poi tenderà
a dilatarsi, cosicché il cercatore comincia a sentire in generale diversa
mente dal passato. È come se l'intelligenza-sensibilità, calmandosi, comin
ciasse a percepire in modo meno doloroso e più soddisfacente. Inoltre
questo fondamentale processo di pace-comprensione ha molto a che fare
con la crescita della fiducia: infatti, senza una certa dose di pace-com
prensione, non possiamo avere davvero fiducia nella vita, è facile che i
suoi aspetti negativi ci appaiano soverchianti. Possiamo avere preferenze
predilezioni-buone opinioni per questo e per quello, possiamo credere in
questo e in quello, mettendolo contro quest'altro e quell'altro. Ma è fidu
cia questa? O non è, piuttosto, aggrapparsi, identificarsi, aggredire, difen
dersi? Forse, finché non c'è vera pace in noi, noi non siamo in grado di
credere profondamente in nulla, anche se siamo pieni di opinioni e di
predilezioni. Perché credere vuoi dire 'dare il cuore' (dr. Cantwell Smith
1979, pp. 6 1 -63) e il cuore, in ultima analisi, secondo le tradizioni sapien
ziali, vuole tutto, non vuole questo contro quello e vuole, anche, essere
dato a tutto, alla totalità della vita.
l. È stato detto dal Buddha: "così come ogni goccia del grande mare ha
il gusto del sale, allo stesso modo ogni goccia del Dharma ha il sapore della
liberazione" ( Udana 5 , 6). L'impegno del Dharma, l'impegno nel Dharma,
l'impegno per il Dharma significa anzitutto, io credo, gustare e far gustare
il Dharma; quel Dharma che fu definito come triplice: insegnamento
(pariyattzl, pratica (patipatti) e pativedha, la comprensione che libera.
L'impegno di cui parliamo significa facilitare in noi e fuori di noi quella
trasformazione sofferta e travagliata per un verso, dolce e pacificante per
un altro, che ci dispone a gustare, appunto, l'agio profondo della pace, no
stra vera casa - come avrebbe detto Achaan Chah - e che dunque mette
in grado di abitare la terra in modo nuovo. L'impegno del Dharma è per
ciò impegno radicalmente contemplativo, giacché come affermano concor
di, oltre al buddhismo, tutte le grandi tradizioni spirituali, il lavoro che,
solo, può intaccare la sofferenza alle radici è il lavoro contemplativo.
n fondamento di tale lavoro è la capacità di contemplare le cause della
sofferenza, ossia la capacità di contemplazione abituale e sistematica del
nostro attaccamento. Senza acquisire questa consapevolezza, forte e soste
nuta, della sofferenza e delle sue cause, il Dharma come comprensione
che libera (patzvedhal non può nascere nel cuore. Inutile dire che il
buddhismo socialmente attivo, comunemente noto come buddhismo im
pegnato - preziosa novità del nostro tempo - non potrà non ripropor·
si, quale fine ultimo, questa medesima contemplazione radicale. In virtù
della quale la saggezza e la compassione possono mettere vitali radici in
noi, al posto di altre radici, quelle della sofferenza.
11 Dharma è imparare e insegnare la contemplazione radicale, la con·
templazione liberante. Esemplarmente, Siddhartha Gautama, nel corso
del suo apprendistato nella foresta, rifiutò contemplazioni che non fosse·
ro radicali, che non andassero alla radice del dolore: e questo episodio mi
sembra appartenere a quel piccolo numero di eventi epocali nella storia
religiosa dell'umanità. Dunque: esistono esperienze interiori che affasci
nano o che riposano, ma che, tuttavia, non recidono i nodi del cuore, ed
esiste quella contemplazione che è capace di sciogliere i nodi del cuore.
L'impegno del Dhanna si rivolge a questo scioglimento definitivo. Cusio·
dire il Dharma è far sì che questo messaggio essenziale non sia avvolto
dalle nuvole dell'ideologismo, del dogmatismo, del settarismo; non sia of
fuscato dal moralismo e dal proselitismo o, semplicemente, dalla negli
genza e dallo scoraggiamento.
2 MN 22, AS. Su tutto ciò può vedersi anche il capitolo imitolato "La medita
zione di consapevolezza: realtà e illusioni".
parte di un'ampia comunità di vipassana, che comprende il Dhamma
Gruppe svizzero, l'A.ME.CO. di Roma, la Gaia House in Gran Bretagna e
l'Insight Meditation Society negli Stati Uniti; comunità laica che è inoltre
molto vicina alla tradizione monastica tailandese della foresta, che fa capo
in Occidente ad Achaan Sumedho e ai monasteri da lui fondati: tra que
sti, il monastero italiano di Santacittarama retto dal nostro Achaan Tha
navaro. Uno dei motivi della mia contentezza è la reale non dommaticità
e non settarismo di questa comunità internazionale laica di vipassana. Va
ri suoi membri sono stati o sono ancora in stretto contatto con questo o
quel lignaggio di Zen, altri hanno uno spiccato interesse per lo Dzog
chen, altri ancora fanno esperienze di Vedanta in India, mentre per altri,
infine, è fondamentale la spiritualità cristiana. Molti di loro, inoltre, han
no qualche grado di dimestichezza con la psicoterapia.
Certamente una simile apertura può rischiare di cadere nell'ecletti
smo. Però, rettamente intesa e usata, questa apertura vuol dire non già
scavare qua e là senza mai andare in fondo e raggiungere l'acqua, ma,
piuttosto, usare diversi strumenti per scavare nello stesso punto. Io trovo
che, disponendo di un alveo preciso nd quale fare scorrere la vita spiri
tuale (e per me questo alveo è la vtpassana), l'accogliere in esso altri
flussi convergenti può riuscire di arricchimento e, talora, può essere ad
dirittura determinante.
Consapevolezza
e fiducia
IO
5 . C'è qualche altra cosa che dobbiamo tener presente per favorire
questo modello di laico spirituale? La psicoterapia, se ben usata e ben
fatta, è un mezzo molto utile, che aiuta il processo di crescita spirituale.
Se è fatta male e se è intesa male succede il contrario: genera psicologi
smo, porta la persona a psicologizzare la pratica e questo non aiuta, di
venta anzi un ostacolo. Le persone, invece di perdere la fascinazione per
l'io, per l'autoriferimento, finiscono con l'essere ancora più inchiodate
all'autoriferimento, a essere affascinate dai contenuti mentali e non dal
contenente, cioè dalla consapevolezza, che è quella che va sviluppata.
Talvolta il meditante che va in terapia finisce col lasciare la meditazione,
perché si accorge che essa non è ciò di cui aveva bisogno in quel momen
to della sua vita. Altre volte - succede in molti casi - una buona psico
terapia aiuta lo sviluppo della meditazione, e, a sua volta, la meditazione
favorisce l'approfondimento della psicoterapia_
n 'buddhismo impegnato' è anch'esso un'arma a doppio taglio; se è
soltanto un altro nome per definire l'attivismo sociale, senza alcun reale
interesse per la pratica buddhista, allora non lo stiamo usando corretta
mente. Se invece è un modo di rendere più viva e autentica la nostra
compassione abbracciando tutto il pianeta, allora ben venga ed è un altro
aiuto. Anche l'interreugiosità - in Italia, in particolare, il dialogo tra
buddhismo e cristianesimo - è un'arma a doppio taglio, perché è possi
bile, nel suo nome, affogare in un eclettismo paralizzante; d'altra parte, se
ben intesa, essa può essere un appoggio alla pratica, un vantaggio. Nel
corso di un ritiro di pratica buddhista può capitare che una persona rien
tri fruttuosamente in contatto con un'educazione cristiana che sembrava
passata e lontana. Le persone che dopo anni di pratica meditativa sento
no di nuovo il desiderio di pregare, possono rendersi conto che lo stanno
facendo per la prima volta con gioia. Il buddhismo è la religione della
'abilità nei mezzi salvifici' ed esso stesso, in ultima analisi, è un upaya, un
mezzo, paragonato dal Buddha a una zattera per attraversare il fiume. La
zattera ci deve servire per attraversare il fiume della sofferenza, non ci è
data per dipingerla, contemplarla e continuare a starcene fermi sulla riva.
In questo senso tutto ciò che aiuta a passare il fiume è upaya, è buono.
Naturalmente nell'interrehgiosità è fondamentale avere una lingua
principale. Bisogna parlare bene una lingua, ma averne una seconda a
portata di mano può essere molto utile per approfondire quella spiritua
lità laica di cui stiamo parlando. A volte si trovano persone che, anche se
praticano da tempo. pronunciando il rifugio nel Buddha. nel Dharma. nel
Sangha, non sentono un coinvolgimento totale, mentre se dicono: "Pren
do rifugio nel cercare solo Dio " , sentono che la loro motivazione si ci
compatta subito. Questa a me sembra un'ottima cosa.
Fede e consapevolezza
l . La parola fede è qui intesa nel suo significato forte e cioè 'slancio
verso l'indicibile' come la definisce il Dhammapada,t o 'passione per l'in
fruito', secondo la definizione che, in campo cristiano, ne dà Pau! Tillich
(Tillich 1957, p. 2 1 ) . Evidentemente questa accezione del termine fede ha
molto poco a che fare col significato debole della parola, che è quello di
credenza, o attaccamento a un insieme di opinioni. Tillich fa notare che è
difficile trovare nel linguaggio religioso una parola soggetta a più frain
tendimenti e distorsioni della parola fede. Questa parola, aggiunge Tillich,
appartiene a quei termini "che harmo bisogno di essere sanati prima di
poter essere usati per sanare gli uomini. Oggi il termine 'fede' produce
più male che salute. Confonde, fuorvia. crea scetticismo o fanatismo, resi
stenza intellettuale o abbandono sentimentale, rifiuto della religione vera
e propria o asservimento ai suoi surrogati" (ivi, p. 1 3 ) . A tal punto -
conclude Tillich - che si sarebbe tentati, se fosse possibile, di buttare a
mare il termine.
Ora a me sembra impanante tentare di contribuire alla guarigione del
termine fede, ossia tentare di comprenderlo meglio alla luce della pratica
meditativa e in virtù della riflessione religiosa. Infarti la parola fede, al di
là di tutta la sua carica di ambivalenza, una volta restituita alla sua sacra
lirà, cioè una volta guarita, è parola potente, Ed è anche uno di quei ter
mini che più e meglio di altri designano il fondamento specificamente
spirituale della pratica, aiutando così a non cadere in quella tendenza al
riduzionismo psicologico che non è infrequente in ambiti meditativi.
E allorché si recupera il termine fede nel suo valore profondo, non so
lo non è più fuorviante, ma, al contrario, io credo che esso giovi a capire
meglio il cammino e la meta. Naturalmente fede in questo senso forre di
fede primaria, assoluta, non sarà fede in questo e in quello, in questa dot-
2 Steindl-Rast 1984b, p. 198. Inoltre, sulla fede così intesa si possono vedere,
in questo stesso volume, i seguenti capitoli: "Desiderio e sofferenza: riflessioni
psicologiche e interreligiose", "Equanimità e retta intenzione", "Il lavoro interiore
costante: una prospettiva intcrrcligiosa" .
glio. Ma - si potrebbe domandare - la pratica della vipas.sana o consa
pevolezza non mette forse più l'accento sui valori della presenza mentale,
del non attaccamento e del discernimento? Io direi che questi sono certa
mente i valori più sottolineati e palesi, mentre la fede (Jaddha), pur aven
do un riconoscimento esplicito in quanto uno dei cinque poteri spiritua
li,> rimane in generale un valore più implicito e meno di spicco.
Tuttavia, per rendersi conto di quanto esso, d'altra parte, sia fattore
importante e costantemente necessario, anche se nascosto e sotterraneo,
basta chiedersi questo: se non c'è almeno un germoglio di fede, come
posso prendere sul serio la proposta del non attaccamento? Come potrei
lavorare seriamente a lasciare andare l'attaccamento alle mie abitudini
mentali, alle mie reazioni, se in qualche modo non mi sentini oscuramen
te sorretto, se non percepissi oscuramente che ne vale la pena? Se non ca
pissi oscuramente che il superamento dell'io è più utile dell'io? Possiamo
forse dire di più: se non c'è questa intuizione oscura della fede io non so
lo non riuscirò a distaccarmi, ma non comprenderò nemmeno di cosa si sta
parlando, e il non attaccamento mi apparirà come un'astrazione o una
presunzione o una sciocchezza o una cosa che comunque non mi riguar
da e non mi interessa.
Insomma, per avviarsi verso il trascendimento dell'io o non attacca
mento occorre una qualità - la fede come 'slancio verso l'indicibile' -
che esuli dagli abituali valori egoici. Giacché l'io comunemente inteso
non può, per costituzione, capire il non attaccamento. Verrebbe da dire
che l'io tutto può capire fuorché la necessità di togliersi dai piedi. E se
non si rischiasse di confondere le idee si potrebbe anche dire che l'altra
faccia della fede radicale è, con apparente paradosso, il sospetto fonda
mentale. Sospetto circa i valori dell'io: i quali, infatti, vengono progressi
vamente messi in crisi dall'avanzamento nel cammino interiore.
I valori dell'io ci convincono sempre meno, e ci convince sempre più
'qualcosa' che la fede radicale non ha curiosità di chiamare in questo o in
quel modo, secondo questo o quel concetto. I concetti sono guide impor
tanti e indispensabili, ma possono trasformarsi in seduzioni e pietre di in
ciampo. È bello, in proposito, ricordarsi di Ulisse e dei suoi compagni
che fanno in modo di tirare dritto davanti alla seduzione delle sirene,
consapevoli e fiduciosi che l'importante è continuare il viaggio, la ricerca:
una buona metafora per la fede e per la pratica.
Evidentemente una fede così intesa è molto diversa da una credenza
che uno si tiene in serbo e accarezza di tanto in tanto come se fosse un
portafortuna. E io penso che l'identificazione tra credenza e fede sia re-
.l Cfr. per esempio Nyanatiloka 1972, pp. 30, 67. Su saddha dr. anche Carter
1978, pp. 99 sgg.
sponsabile di quella contrapposizione tra ragione e fede che ancora pesa
sulla nostra cultura: da una parte la ragione lucida e chiara, dall'altra la
fede balbettante e lacrimosa. E se invece la fede vera non avesse molto a
che vedere né con la capacità di pensare bene né con la capacità di com
muoversi? E se fosse, invece, un impulso al vero e al buono infinitamente
più spoglio di immagini, sentimenti e concetti? E se avessimo, infine, bi
sogno di una pratica che, facendo disseccare la nostra incessante fermen
tazione mentale, creasse in noi lo spazio interno, la capienza, per fare
emergere e accogliere questa spinta trainante e orientante della fede-com
prensione?
4 Cfr. per esempio Cook 1978, pp. 16 sgg. Tanahashi ha curato una bellissima
antologia dd non facile Dogen ( 1 985).
momento presente. Ma la vita che cerchiamo è qui ora, la vira avviene so
lo nel presente: anche se io ricordo il passato o se spero il futuro, è ora
che scocca il ricordo, è adesso che spunta la speranza. E non è puJJtbile
abitare nel presente se non c'è fede."� Perché se non c'è fede c'è paura e se
c'è paura non possiamo stare nel presente, scappiamo continuamente nel
passato o nel futuro. La fede è fiducia nel momento presente, fiducia che
quanto più stiamo nel presente, tanto più andiamo in profondità. La fede
matura è tranquilla dimestichezza col presente. La pratica meditativa de
ve nascere da fede e deve generare fede, fede nella possibilità di andare
oltre l'attaccamento. L'attaccamento è il passato e il futuro, è l'ego, la fe
de è oltre, cioè è qui e ora.
E la pratica non potrà che essere allenamento progressivo a stare dove
siamo: se siamo contenti vedremo di stare nella contentezza il più sempli
cemente possibile, se siamo nella difficoltà vedremo di non chiuderci, di
non irrigidirei. Insomma: la fede è attivamente accettare, momento per mo
mento, ed è sapere OJcuramente che questo serve, è buono, è utile. Perché
se noi non abbiamo questa conoscenza intuitiva che accettare giova
profondamente, la nostra non sarà accettazione reale, ma solo sofferenza
rassegnata sotto un altro nome. La fede è intuire che questo paziente cor
teggiamento del presente, che è così vicino e così lontano, è la via per es
sere liberi.
Wilber 1981.
che persone di vera fede e di credenze lontane dal buddhismo, intrapren
dano la meditazione di consapevolezza e in breve tempo facciano molto
progresso. Come pure non sembra casuale che, all'inverso, praticanti con
un retroterra completamente laico una volta giunti a una certa profondità
di pratica, sentano una forte devozione-fede generalizzata. E se l"oggetto'
di questa fede è il Dharma, esso è ora, nella sua vastità interiore, abba
stanza irriconoscibile rispetto a quel Dharma cui essi inizialmente dettero
qualche fiducia 'operativa'.
n ·\\-. -
·
1 Così si esprime il famoso maestro coreano Chinul (XII sec.), cit. in Park
1983, p . 17.
se la fede non è menzionata è chiaro che è sottintesa. dato che una cono
scenza che non la incorpori rischia di essere solo cerebralismo. La fede,
poi, è implicita nella consapevolezza, nella compassione, nel retto sforzo.
Infatti, come è possibile cominciare a coltivare queste virtù se non abbia
mo una spinta, un'aspirazione iniziale, una nostalgia per qualcosa di di
verso dalla nostra vita, infelice e frammentata?
Per esercitare la consapevolezza su una frustrazione, ad esempio, noi
avremo bisogno di una qualche fiducia iniziale circa la possibilità e la
fruttuosità di questo lavoro, altrimenti non ci verrebbe certo in mente di
praticare. E, d'altra parte, la fiducia stessa si rafforza in virtù di questo
esercizio di consapevolezza perché la fiducia iniziale, come già accennava
mo, va poi annaffiata e accudita. È molto importante sottolineare questo
aspetto, perché potremmo supporre che la fede sia una dote riservata so
lo ad alcune persone, mentre invece, così come la consapevolezza. lo sfor
zo e la calma concentrata e tutti i fattori del cammino, è qualcosa che si
può coltivare e far crescere. Se vediamo che il prenderei cura del nostro
mondo interiore con il calore accettante e non giudicante della consape
volezza produce frutto, allora la fiducia cresce. E quando accade che, pur
praticando da qualche tempo e pur non vedendo risultati, tuttavia non ci
dimettiamo e continuiamo a praticare malgrado tutto, allora la fiducia
che sorge in questi casi sarà particolarmente forte. Questo è un nodo fon
damentale della pratica: è molto importante che nelle fasi di eclissi, in cui
la fiducia che abbiamo riposto nella pratica ci sembra ingiustificata, noi
riusciamo a dare, per così dire, fiducia alla fiducia.
3. A ben pensarci, nella stessa carriera interiore del Buddba fede e la
sciar andare sono potentemente presenti fin dalla conversione del princi
pe Siddbanha. Conversione nella quale vediamo lo slancio, l'aspirazione,
la fiducia e, al tempo stesso, la determinazione e l'impegno a cercare la ri
sposta a quella interpellazione profonda che gli era venuta dall'incontro
col dolore. Dopo aver avuto i suoi famosi incontri con un malato, un vec
chio, un morto e un monaco, il principe Siddbanha, colpito profonda
mente, decide di andare via, fa sellare il suo cavallo e si dirige verso le fo
reste, che all'epoca erano molto abitate da asceti. Qui giunto rinuncia al
suo cavallo, al suo vestito, ai suoi capelli e diventa egli stesso un asceta.
Tutto questo implica ceno un grande travaglio, il travaglio di lasciare
il mondo noto. Gautama lascia famiglia, clan, tutto un modo di essere, di
vivere, pensare, parlare, per andare verso il non conosciuto. Evidente
mente era mosso da un grandissimo samvega, termine che designa l'ur
genza di praticare, urgenza fatta, insieme, di rifiuto e di fiducia: rifiuto di
questo mondo, il mondo della reggia, il mondo imperniato intorno all'io
mio, quello che Stephen Batchelor definisce il mondo dell'avere, sentito
ora come assolutamente insufficiente e inadeguato; e fiducia verso il mon
do dell'essere.
Abbiamo, quindi, due polarità: quella positiva, che è slancio, fiducia e
determinazione, e quella negativa, ossia il lasciar andare il vecchio modo
di essere. Polarità che sono, in fondo, la stessa cosa, dato che il lasciar an
dare ha come oggetto tutto ciò che ostacola la fioritura della fede. Natu
ralmente possiamo pensare a tanti itinerari spirituali dove non compare
una ricerca così radicale, cioè un lasciar andare di tipo ascetico. Tuttavia,
la rinuncia a una mentalità e a una scala di valori orientate secondo l'io
mio è parte fondante di qualsiasi cammino interiore, anche se avviene
gradualmente e si manifesta in modi e tempi diversi per ciascuno. Ci si ri
trova così a lasciar andare, per esempio, attività, occupazioni, rapporti,
che non riempiono o non interessano più come prima, non perché negati
vi o cattivi, ma perché legati a un modo di pensare e di essere condizio
nato che non va nella direzione di una crescita interna. E se noi prose·
guiamo su questa via, prima o poi albeggia un lasciar andare più interio
re, che comincia a erodere qualche attaccamento, qualche abitudine men
tale, e comincia anche a illuminare meglio quello che si può chiamare il
Narciso in noi, ovvero l'autoriferimento costante e compulsivo.
In altri termini, più lasciamo andare l'attaccamento, meglio lo vediamo
e lo comprendiamo. Comprendiamo per esempio la tensione e la soffe
renza implicita nella continua richiesta di approvazione che rivolgiamo
agli altri. In proposito ci può venire in mente il Vangelo di Giovanni, là
dove è detto: "Come è possibile che crediate, voi che andate mendicando
gloria gli uni dagli altri e non cercate quella gloria che da Dio solo proce
de?" (Giovanni v, 44). Questo è un linguaggio che può suonare severo,
ma mette il dito su una questione importante e cioè quanto la ricerca nar
cisistica porti via dalla ricerca di ciò che conta. Più vediamo questa con
nessione, questo ammanco energetico che ci viene dall'essere completa
mente concentrati sull'io-mio, e più è possibile che accadano momenti di
genuino lasciar andare.
Certo la ricerca della gratificazione serve alla crescita, così come serve
l'evitamento della frustrazione. Non a caso in psicologia si parla di narci
sismo di crescita, utile per costruire la nostra personalità. Ma, da un certo
punto in poi , se c'è una fede spirituale che ci spinge, allora non possiamo
non sentire il carattere ostruttivo della ricerca narcisistica.
Ritorniamo alla vita del principe Siddhattha. Dopo aver lasciato la casa
paterna egli incontra nella foresta due maestri induisti e ne diventa disce
polo. Apprende rapidamente e i maestri, riconoscendo il valore della sua
realizzazione, gli offrono la guida delle loro comunità spirituali. Ma Gau
tama non è soddisfatto, non ha trovato quello che cercava, la liberazione,
e quindi ringrazia, se ne va e si ritrova un'altra volta solo, alla ricerca. Ciò
che abbandona questa volta non è una reggia mondana, ma un ruolo emi
nente in una comunità spirituale, nella quale avrebbe trovato la massima
comprensione. Ma la sua fede non era appagata e quindi lascia e rischia
di nuovo. Fede e coraggio sono parenti stretti. Infatti, se saddha significa
'porre il cuore', coraggio è 'avere cuore'. Se ne va e intraprende un'ascesi
basata su una forte automortificazione, che, all'epoca, veniva molto prati
cata e apprezzata. La coltiva a lungo, fino a quando, ci tramandano le
storie, non diviene diafano a causa de1 digiuno.
A questo punto Siddhartha compie un altro atto di coraggio per nulla
inferiore a quelli precedenti: riconosce che ha sbagliato, smette le mortifi
cazioni e accetta cibo solido, gettando nella costernazione e nell'indigna
zione quei cinque discepoli che nel frattempo, ammirati dalla sua impresa
spettacolare, si erano riuniti intorno a lui. Prima aveva rifiutato una posi
zione di maestro, ora perde i discepoli e anche la sua fama di asceta, per
ché questa svolta, nel clima dell'epoca, viene intesa come un segnale di
debolezza. Questa è la terza rinuncia, il terzo lasciar andare di Gautama
che si ritrova così di nuovo alla ricerca. Ci saranno ancora due momenti
difficili nel suo itinerario. Uno è la famosa tentazione da parte di Mara,
divinità che rappresenta l'elemento distruttivo; poi, dopo l'illuminazione,
il dubbio se insegnare o no quello che egli aveva appreso nell'illuminazio
ne, dubbio che viene superato in senso affermativo. È così che il Buddha,
dopo questi successivi momenti di lasciare andare, o vittorie, come ven
gono tradizionalmente chiamati, pieno adesso di una nuova fede, la fede
nell'insegnamento, intraprende la sua quarantennale carriera di maestro
(cfr. su tutto ciò Sangharakshita 1991).
6. Rispetto per noi e rispetto per gli altri si alimentano a vicenda. Nel
cristianesimo Meister Eckhart osserva che "l'uomo nobile prova sempre
gioia davanti all'altro"; nel buddhismo si dice che il bodhisattva si rallegra
alla sola presenza di un essere vivente. Sono traguardi splendidi che la pra
tica del rispetto rende possibili. Se invece d ascoltiamo con l'orecchio della
pratica quando nella vita quotidiana diciamo di rispettare qualcuno, ci ac
corgiamo che il nostro modo di concepire il rispetto è carico di forza divisi
va, perché è evidente che in realtà non rispettiamo molte persone. Possia
mo rispettare e avere fiducia in tutti? Possiamo imparare a rispettare, per
esempio, un politico disonesto? Certo non voteremo per lui, ma possiamo
rispettare l'essere umano che soffre? È questa una domanda importante,
che mette in luce il nostro reale grado di comprensione.
Al livello che possiamo definire operativo è bene che noi prendiamo le
nostre decisioni e cerchiamo di scegliere, per rimanere nell'esempio, poli-
tici onesti e preparati. Ma c'è anche il livello del Dharma, in cui dobbia
mo sviluppare un diverso atteggiamento: siamo capaci di vedere, in quel.
la persona, la sofferenza, le illusioni, la ricerca della felicità, sia pure per
seguita con metodi sbagliati e nocivi? È anche probabile che, una volta
che abbiamo coltivato un certo rispetto, potremo ritrovarci con una mag
giore chiarezza anche sul piano operativo. Sarà più facile, per esempio,
dire di no, per il semplice fatto che avremo meno paura. Infatti, nel per
cepire la loro sofferenza e, insieme, la loro bontà di base, ci sentiremo più
interconnessi con gli altri.
Difendendoci meno, poi, saremo meno condizionati dall'ego e quindi
anche noi potremo divenire più degni di fiducia, per noi stessi e per gli
altri. Ci può aiutare il ricordarci regolarmente di questa possibilità, anche
quando ci troviamo in una situazione che di solito ci stimola molta reatti
vità. Quando, per esempio, siamo paralizzati nel traffico, possiamo senti
re che ne siamo tutti vittime, invece di reagire mossi dalla rabbia? Se riu·
sciamo a sentire il terreno comune, la sofferenza che tutti ci accomuna, la
nostra reattività si abbasserà enormemente. Imparare a lavorare col ri
spetto significa che tutta la vita quottdiana ci Ji apre come un immenso e
fecondo te"eno di pratica.
Come possono il rispetto e la fede generare la pace? Se riflettiamo stÙ
la nostra pratica della meditazione cl possiamo rendere sempre più conto
di quanto grande è il potere della consapevolezza, della presenza mentale.
D'altra parte, più ci rendiamo conto del potere e del mistero della consa
pevolezza c più la nostra fede e la nostra pace crescono. E vediamo me
glio che la consapevolezza è sempre qui, con noi; siamo noi, invece, che
ce ne andiamo via in continuazione. Però, quando decidiamo di tornare
indietro, lei è sempre li, silenziosa, pronta, curativa. Fra i sette fattori di
illuminazione, della consapevolezza si dice che è sempre e comunque ku
sala, benefica, salutare. In virtù della pratica è come se la consapevolezza
diventasse sempre più reale, mentre il resto diviene più irreale. Più prati
chiamo e più scopriamo che, nel bel mezzo di questa nostra vita conti
nuamente cangiante, nel bel mezzo di tutte le nostre identificazioni con
vulse, vi è sempre un'altra possibilità: la consapevolezza ùi tutto ciò. Sem
pre a disposizione, stabile, affidabile. Come potremmo non sviluppare fe
de quando ci rendiamo conto che la cosa che più ci aiuta è sempre dispo
nibile accanto a noi?
15
Insegnare meditazione
Ma è poi vero che c'è una domanda crescente di vera spiritualità? Non
c'è dubbio che si nota oggi un desiderio di informazione maggiore che in
passato e si può ragionevolmente prevedere che ciò aiuterà la pratica di
alcuni. Tuttavia giurare su un aumento consistente del numero di persone
seriamente motivate a praticare mi sembra azzardato. Limitandoci al cam
po della vzpassana in Italia negli ultimi anni, 1 credo che sia lecito parlare
solo di un piccolo aumento. Mi vengono in mente, per esempio, ritiri
condotti da insegnanti famosi e con traduzione italiana simultanea, dove
la metà dei posti è rimasta scoperta; oppure ritiri cancellati per mancanza
del numero minimo di iscrizioni. O posso pensare a corsi intensivi urbani
con un numero piuttosto modesto di adesioni. Sono esempi che fanno
pensare a una richiesta, di fatto, contenuta. Naturalmente ciò non toglie
in alcun modo la speranza, secondo me fondata, di un piccolo aumento
costante: che è, anzi, una prospettiva realistica, concreta ed entusiasmante
per tutti gli addetti ai lavori.
Che dire infine di quei gruppi di meditazione che, lontani da centri di
insegnamento qualificati, sono organizzati e coordinati da qualche stu
dente di Dharma? Personalmente ritengo che questa sia una cosa buona e
da incoraggiare. A patto, naturalmente, che siano messi onestamente in
h Vannini 1983, p. 42; dr. anche l'introduzione (p. 8_3 ) del me-desimo autore
ilettìng go)".
Terza Parte
Consapevolezza e accettazione
17
1 Cfr. la traduzione tibetana, sans rgyas, del nome Buddha, ove sans è il verbo
tenzione".
connotato da tensione. In concreto possiamo domandarci: qual è la radi
ce dell'equanimità e della sua virtù purificatrice? La sua radice sembre
rebbe stare, appunto, in un mutamento di rapporto con la mente, più
precisamente nello sviluppo graduale di un atteggiamento amichevole nei
confronti della propria mente, capace di rimpiazzare gradualmente le varie
forme di inimicizia che abitualmente prevalgono: da gradi drammatici di
odio di sé, a sfumature senza numero di sfiducia in sé e di sordità o indif
ferenza (cioè ostilità).
dante il bene che ne può emergere. Perché il diavolo sono io. La sua for
za è un buon indice del mio potere di bene. lo lo guardo, ma solo guar
do, senza desiderio, odio o paura... Questo guardare sia costante e minu
to .. Ma il mio guardare non deve tenere l'oggetto a distanza. Lo sguardo
.
freddo non guarisce, anzr� sparge sale nella ferita ... Ciò significa che accan
to alla percezione analitica ci deve essere un abbraccio caldo e intimo di
questo diavolo-io. Rimanendo vulnerabile, senza offrire resistenza, lascio
che la mia psiche lo assorba pienamente mentre esso entra nel mio essere
Altrimenti rimango spaccato, diviso ... con un osservatore separato che
guarda il diavolo" (Mehta 1976, p. 299).
E ancora il medesimo autore: "La mia prima reazione davanti a uno
stato spiacevole o negativo è quella di sbarazzarmene. Posso tentare di di
menticare o di ignorare, di sopprimerlo o di fuggirlo; per disperazione
posso anche tentare di distruggerne la causa. Tutto ciò è futile, perché la
violenza e l'odio non possono mai essere curati dalla violenza e dall'odio.
Invece, debbo essere pienamente osservante e spassionato e assorbirlo con
delicatezza nella mia psiche così da consentire che il mio male si trasformi
in compassione e in comprensione. Ciò che è doloroso e ciò che è brutto
è !'occasione mandata dal cielo per esercitare la consapevolezza e sviluppare
il suo potere terapeutico al massimo grado possibile. Perciò io non debbo
essere preoccupato anzitutto di sbarazzarmi dello stato spiacevole o negati
vo. Ma debbo essere il più possibile attento a esso e imparare tutto ciò
che può insegnarmi: questo è il discepolato" (ivi, p. 303).
4 Cfr. Dictionnaire de Spiritualité, s.v. Jme, vol. I, d. 433 sg; anche cfr. riferi
Sull'accettazione
Essere d'accordo
con quello che succede
1 Ci riferiamo qui a uno stato di frequente consapevolezza, non già allo stato
raro ed elevato della 'grande consapevolezza' (mahasatt) , allorché essa è continua,
spontanea e acuta. Per una bella descrizione dr. Achaan Maha Boowa 1982, pp.
1 1 1 sg. e, in questo volume, il capitolo conclusivo.
tri tipi di pratica continua, lo sfondo sarà rappresentato da un permanere
in secondo piano della pratica anche quando sono in corso attività fisiche
o intellettuali molto assorbenti.
Prendiamo due esempi. rispettivamente da una tradizione teistica in
diana e da quella cristiana. Namdev (cit. in Piano 1985, p. 249), poeta
mistico, osserva che la madre del bambino piccolo, pur andando qua e là
per la casa facendo questo e quello non dimentica mai il figlio, e dunque,
anche quando non lo accudisce direttamente, è sempre con lui: allo stesso
modo nel praticante convinto il ricordo di Dio è sempre presente, esplici
tamente o implicitamente, in primo piano o in secondo piano. Nella tra
dizione cristiana i famosi Racconti di un pellegrino russo si soffermano su
questo punto: è possibile svolgere un lavoro intellettuale che, altrimenti
da molti lavori fisici, vuole tutta l'attenzione e continuare in qualche mo
do la preghiera del cuore, per la quale si raccomanda appunto le neces
sità che divenga incessante? La risposta è questa: immagina che a qualcu
no venga chiesto di leggere e scrivere alla presenza dell'imperatore; suc
cederà che questa persona svolgerà il proprio compito intellettuale ricor
dandosi contemporaneamente e continuamente della presenza dell'impe
ratore. Allo stesso modo, se la preghiera del cuore ha messo radici, essa
non scomparirà dall'orizzonte interno nemmeno durante il dispiegarsi di
attività mentali apparentemente inconciliabili con essa (cfr. Racconti di un
pellegrino russo, pp. 224 sg.).
Per riassumere: una volta raggiunta una certa maturità, la pratica della
consapevolezza, al pari di pratiche di preghiera continua, diventa comun
que presente sullo sfondo, anche se l'attività in corso non è quella specifi
camente meditativa. Ora il fattore di svuotamento sta proprio in questo
sfondo chiaro, giacché la sua presenza costante o frequente ha l'effetto di
relativizzare i vari contenuti mentali che via via si avvicendano dentro di
noi. Di contro a quello sfondo chiaro, essi è come se perdessero densità,
spessore, importanza. Infatti lo stabilizzarsi dello sfondo di presenza non
avrebbe potuto aver luogo se noi non avessimo capito la sua importanza
prioritaria: e quando c'è una 'cosa' costantemente importante, le altre co
se tenderanno a perdere importanza oppure ad armonizzarsi e allinearsi
con la pratica interiore.
Si verifica perciò un alleggerimento e un diradarsi di quell'incessante
accumulo di cui parla Buber, simultaneamente a un senso di unità-pie
nezza alimentato dalla semplicità�costanza del 'ritorno al centro' che co
stituisce la pratica. Rimanendo ancora nella tradizione cristiana, ascoltia·
mo Tauler: "Voglio cantare un canto nuovo sulla nudità, / la vera purità
è priva di pensieri, in essa non possono esserci pensieri. l Ho perduto ciò
che è mio, io sono annientato, l chi ha raggiunto la nudità dello spirito
non può più preoccuparsi" (Tauler 1910, p. 85 1 ) . Evidentemente siamo
davanti a un'espressione della forma più alta dello svuotamento interiore.
In particolare, osserviamo la frase "non può più preoccuparsi", che è for·
se la pennellata più efficace per raffigurare praticamente il grado di svuo
tamento raggiunto e, contemporaneamente, l'intensità di presenza piena
nel presente.
Da un punto di vista più specificamente buddhista è cruciale il ruolo
che in questo processo di alleggerimento spetta alla comprensione e al di
scernimento. Nel buddhismo, infatti, l'individuo è invitato a comprende
re in maniera definitiva la generazione della sofferenza, del disagio,
dell'insoddisfazione; in particolare, siamo sollecitati a cogliere il nesso tra
attaccamento-avversione-ignoranza da una parte e sofferenza dall'altra.
Nella misura in cui io tocco con mano che attaccamento e avversione pro
ducono sofferenza, io comincio a essere meno ignorante, avendo compre
so la radice della sofferenza: inevitabilmente, allora, l' attaccamento-avver
sione prende ad assottigliarsi e, riducendosi l'attaccamento, si riduce an
che il corteggio di pensieri, fantasie, preoccupazioni e quindi nel nostro
universo interno ha luogo uno svuotamento salutare.
Quanto alla pienezza, ossia all'altra faccia dello svuotamento, gli esem
pi poetici ricordati sopra possono darcene una idea più accessibile e do
mestica di quanto non sia la realizzazione elevatissima di cui canta Tau·
ler. Nelle immagini di Namdev e dell'autore dei Racconti di un pe/legrùzo
ruSJo osserviamo infatti sentimenti molto positivi, quali la gioia materna
di accudire il piccolo figlio e la gratitudine rispettosa per essere ammessi
alla presenza dell'imperatore: ed è a questi sentimenti che viene parago·
nato il calore unificante prodotto dalla pratica interiore, calore entro il
quale si compie la varia attività quotidiana, attività che sarà perciò
anch'essa più calda e più unita.
2 Tra i moltissimi possibili echi in campo cristiano scegliamo questo passo dal
famoso Breve compendio di perfezione cristiana del Gagliardi (xvu sec.): ... La
'"'
sottrattione che ci dà Dio di simili cose, della vita, quando ci Jà la morte, della
sanità, quando ci dà l'infermità. dei commodi, quando ci manda i travagli e delle
altre mutationi delle cose humane, che quasi ogn'hora proviamo per mezo della
divina previdenza. Talché non passa mai giorno nel quale il Signore non ci levi,
per varii mezi della sua previdenza, molti oggetti e comodità circa quelli. E chi
veramente è spogliato d'ogni affetto di simili cose, ammette con somma allegrezza
ogni sottratione di quelle" (Gagliardi 1952. p. 58).
' Su akimcana si veda il bel saggio di A. Coomaraswamy ( 1977, pp. 88-106).
Dal punto Ji vista interreligioso, sono interessanti le pagine recenti del trappista
S. Caufield su Dio come 'non-cosa' (no-thing-ness) (1980, pp. 9 sg).
Quarta Parte
Consapevolezza e comprensione
21
guente narcisismo si può vedere Schur 1976, del quale però spiace l'insensibilità
agli autentici valori religiosi.
4 Particolarmente chiara su questo punto la scuola birmana di vipassana che fa
capo a Mahasi Sayadaw, alle cui opere rimandiamo: dr. per esempio 197 1 .
cui si diceva prima. E capacità di interesse non selettivo per ciò che acca
de è un altro modo di parlare di attenzione spontanea. In proposito, si
capisce facilmente che, affinché la consapevolezza iniziale maturi in intel
ligenza affettuosa, lo stato di interesse non selettivo o di attenzione spon
tanea deve diventare abbastanza frequente. Altrimenti, se siamo dotati
soltanto di interesse selettivo, la nostra facoltà di capire e di amare sarà
piuttosto ristretta. È interessante notare che lo sviluppo di un'attenzione
gratuita, quanto a dire di un interesse disinteressato, può generare in noi
una nuova forma di disappunto, almeno nei primi tempi: il disappunto,
dianzi sconosciuto, di avere vissuto questa o quella situazione di una no
stra giornata senza il lume dell'attenzione. Il disappunto nasce perché or
mai ben sappiamo che, se fossimo stati svegli e consapevoli, quella situa
zione, quale che sia, sarebbe stata comunque interessante. E sappiamo
che quando un qualcosa coinvolge il nostro interesse, scatta in noi un rap
porto con quella cosa e dunque una possibilità di calore e di unità.
Ritorniamo ora alle cinque manifestazioni del disagio e al modo mi
gliore di occuparcene: sia in meditazione sia nella vita di tutti i giorni.
Tra i vari espedienti che vengono suggeriti, in particolare da alcune scuo
le, per esempio nella tradizione Zen (dr. per esempio Seung Sabn 1976,
pp. 16-19), uno dei più efficaci e profondi, anche se non il più facile, a
me sembra quello dell'interrogazione intensa o investigazione, che è anche
affine a un modo privilegiato di lavoro interiore proprio dell'Advaita Ve
danta. L'idea è (per esempio davanti a un sentùnento di rabbia) quella di
chiedersi il più intensamente possibile e con la frequenza che ci pare più
opportuna: "Chi è arrabbiato"', oppure: "'Che cosa è questo"'. Ciò non
tanto prefiggendosi di ricevere una risposta - anche se la domanda può
essere seme di future intuizioni inaspettate - quanto, piuttosto, allo sco
po di accendere e rendere acuta l'attenzione, favorendo così la disidentifi
cazione nei riguardi dell'ira. L'interrogazione - che può essere usata in
dipendentemente dalla presenza o meno di un ùnpedimento mentale -
ha il potere di svegliarci e dunque può donarci uno sguardo più innocen
te e nuovo sulle cose, inducendoci a non darle per scontate e dunque a
reagire meno automaticamente.
Siamo talmente abituati alla nostra aggressività, al nostro attaccamento,
alla nostra noia, che non vediamo nemmeno per un attimo la loro fonda
mentale misteriosità. Ma se, grazie alla consapevolezza e all'interrogazio
ne, provvediamo a disabituarci, allora questo può succedere; allora, ina
spettatamente, potrà prendere a modificarsi la relazione che abbiamo con
il nostro attaccamento, con la nostra aggressività e con gli altri impedi
menti. E la gradualità con la quale questa modificazione avviene non
sembra togliere alcunché alla reazione di sorpresa grata e quasi incredula
che il processo suscita in noi, che adesso ci ritroviamo a colloquio con la
nostra aggressività invece che esserne accecati o comunque sopraffatti. È
segno che l'asse sta spostandosi dall'identificazione con la rabbia alla con
sapevolezza della rabbia, ossia che l'energia sta muovendosi dalla perife
ria al centro e dunque, sempre più, dal divampare della rabbia al brillare
dell'attenzione.
me guida spirituale.
precisi limiti al nostro lavoro interiore. Mi pare cioè che se non ci tuffia
mo generosamente nella tradizione d'origine della pratica scelta noi, in ef
fetto, ci priviamo di uno strumento fondamentale. Si badi bene: non stia
mo pensando alla necessità di una professione di fede in questa o quella
religione. Pensiamo invece all'uso competente, generoso, sperimentale e
non dogmatico del sistema dottrinario nel cui alveo una data pratica spi
rituale è nata e cresciuta. Generoso significa senza riserve preconcette, in
particolare senza riserve concepite prima di una certa maturazione della
pratica nella vita di un individuo; competente significa fondato su uno
studio della tradizione che privilegiamo; sperimentale e non dogmatico
vogliono dire secondo un atteggiamento di verifica delle dottrine alla luce
della propria pratica.
Infatti, solo quando abbiamo verificato in questo modo la validità di
dottrine che tradizionalmente circondano e sorreggono la pratica, potrà
succedere che queste dottrine diventino nostre (e non formulate necessa
riamente con le parole della tradizione). Ma se questo tipo di verifica non
accade, allora le dottrine non verificate, non 'toccate' con la pratica, ine
vitabilmente non potranno entrare a far parte in maniera vitale degli at
trezzi per il nostro lavoro interiore. n che, d'altronde, non comporterà al
cuna invalidazione di quelle dottrine, ma vorrà dire soltanto che noi fino
ra non ne abbiamo trovato conferma.
Cfr. pp. 47 sg., 97, 4 1 . In particolare p. 48: "'L'attaccamento è solo una forma più
sviluppata della reazione fuggevole" .
4 Per una discussione recente e dettagliata di questi stati, cfr. Griffiths 1986.
del dukkha o umana infelicità, è qualcosa che, in virtù del cammino spiri
tuale, può essere ridotta o del tutto trascesa, dando luogo in quest'ultimo
caso alla liberazione.
La dottrina, dunque, contiene due asserti, e cioè che l' attaccamen·
to/avversione è comunque sofferenza e che, in secondo luogo, esso può
essere trasceso. Ora è evidente che questa dottrina se non è appoggiata
alla pratica meditativa sarà in qualche modo manchevole, sia perché sen
za pratica lunga e assidua non saremo mai convinti davvero dd carattere
sempre insoddisfacente dell'attaccamento/avversione, sia perché è la pra
tica a indicarci come andare oltre il movimento della reazione.
Quello che è forse meno ovvio e che ci preme qui ricordare è che, se è
vero che la dottrina ha bisogno della pratica, è anche vero che la pratica,
a sua volta, ha necessità, per approfondirsi, di riandare in continuazione
alla dottrina. La dottrina in questione, infatti, studiata e rammentata pe
riodicamente, induce la pratica di consapevolezza a essere più mirata e
precisa e a focalizzarsi sempre più, a preferenza di altro, sul movimento di
identificazione, sul continuo rinascere di attaccamento/avversione, sulla
continua rinascita dell'Io, come direbbe Buddhadasa 5 E dunque se l'e
sercizio della consapevolezza su questo o quel fenomeno naturale (per
esempio il respiro) è tirocinio fondamentale, tuttavia l'area privilegiata, di
prùna linea, per la consapevolezza non potrà che essere quella della rea
zione. E mi sembra ùnprobabile che senza una qualche assùnilazione del
la dottrina dell'origine condizionata della reazione o sofferenza, l'atten
zione genericamente esercitata possa condurci alla medesima frontiera.
l. "Il gusto del Dharma supera tutti i gusti" (DP, 354). Perché? Per
ché «così come ogni goccia del mare ha il sapore del sale, allo stesso mo
do ogni goccia del Dharma ha il sapore della liberazione" ! Udana, 5, 6).
Il Dharma è la dottrina, la pratica e la realizzazione delle quattro nobili
verità circa la sofferenza, la sua causa, la sua estinzione e la via per estin
guerla. 11 Dharma è perciò ogni passo, grande o minimo, orientato verso
la retta comprensione e il reale superamento della sofferenza che inflig
giamo a noi stessi e agli altri mediante l'attaccamento, l'awersione e
l'ignoranza. E il gusto del Dharma è il gusto di imparare a camminare
verso la libertà interiore e di imparare a farlo in maniera via via meno esi
tante e più spedita. A sviluppare questo gusto nuovo e prezioso - e in
tendiamo gusto sia come sapore, sia come capacità di gustare � concorre
tutto l'ottuplice sentiero, ossia l'esercizio paziente e rasserenante della ve
rità secondo la quale esiste una via per trascendere la sofferenza.
In queste note ci occuperemo di alcuni aspetti salienti del detto sentie
ro, quali, soprattutto, la pratica meditativa formale, la pratica della consa
pevolezza in azione (o pratica informale) e lo sviluppo dell'equanimità
come fattore chiave per il progresso del praticante. Questi aspetti del
cammino di liberazione danno origine, prima o poi, a gusti nuovi, ad
esempio il sapore della pace mentale. Tuttavia l'umco gusto profondo che
può chiamarsi legittimamente il gusto del Dharma è il gusto di libertà
dall'io-mio e dunque anche il gusto di lasciar perdere i gusti spirituali, nel
senso di non attaccarsi a essi, come è comprensibile che accada all'inizio.
Inutile dire, a questo proposito, che l'idea di evitare di sviluppare la pace
mentale per paura di attaccarcisi è una trappola nevrotica, molto simile
all'idea di evitare i rapporti con esseri umani per paura di rimanere in
vischiati nell'attaccamento e nella dipendenza: l'unico risultato certo sarà
un aumento del potere della paura, ossia, in ultima analisi, dell' attac
camento.
2. Riguardo alla pratica formale, mi torna in mente una similitudine,
non ricordo se attribuita a Shunryu Suzuki Roshi o a un suo allievo, che
paragona la meditazione seduta a una minestra: la minestra è sempre la
stessa, però, col passare del tempo, diventa sempre più saporita. E non po
trebbe essere altrimenti dato che, se pratichiamo in modo corretto, au
menta l'agio fisico e mentale, si approfondisce il livello di pace interna, si
affina la capacità di essere svegli in maniera continuativa, si rafforza in mo
di impensati l'abilità di rimanere al timone con qualsiasi tempo: tanto che
a un certo punto l'epoca della minestra insipida, ossia l'epoca iniziale della
pratica, piena soprattutto di difficoltà e di scoraggiamento, ci sembrerà
lontana in molti sensi. Ci apparirà tuttavia chiaro che proprio l'aver noi
fronteggiato pazientemente le difficoltà di vario tipo e grado è stato deter
minante perché la minestra acquistasse un gusto buono e convincente. Il
che in pratica significa non già la scomparsa delle difficoltà, bensì una cer
ta facilità, un certo agio fiducioso nel mettersi in rapporto con esse.
Questa facilità, questa dimestichezza né indulgente né punitiva con le
nostre zone difficili, accompagnata da forte determinazione a praticare e
da fiducia nella pratica, significa un gusto specifico, che un tempo non
era presente in noi, un gusto di putifìcazione e di liberazione, il gusto,
appunto, del Dharma. È un gusto che sta, sempre più corposo e anni
comprensivo, sullo sfondo. Più ampio e maturo di particolari gusti legati
alla tecnica meditativa. E che però da questi gusti è stato aiutato a cresce
re. Per esempio la capacità di concentrare, ossia di unificare la mente, ri
petuta e ribadita per lungo tempo, è purificante perché riduce il potere
delle tossine mentali o kilesa (attaccamento, avversione e confusione), le
quali infatti non possono prosperare durante i periodi di unificazione
mentale. Che cosa comporta questo fatto? Comporta questo, che, allor
ché noi, al di fuori della pratica di concentrazione, ci troviamo a confron
tare i kilesa, ci troviamo di fronte qualcosa che è stato già indebolito -
5. n lavoro interiore, fattosi via via più strenuo e gustoso, finisce con
l'aprire il cuore e la mente. Nel linguaggio della spiritualità cristiana si di
ce: "Il nostro cuore è a tal punto fatto per Dio che, quando lo si gusta
una volta, tutto il resto sembra insipido: quest'impronta del gusto di Dio
in un cuore è un fascino segreto che lo fa incessantemente volgere dalla
parte di Dio, quasi come un ago calamitato" ide Caussade 1 984, pp. 94-
99). E alla domanda circa il mezzo per sviluppare questo gusto il medesi·
ma autore risponde: "il mezzo per gustare Dio consiste nel cercarlo conti
nuamente in tutti gli esercizi di pietà" (ivi, p. 28).
La continuità, dunque, come seconda chiave importante insieme alla
generosità. Infatti è soltanto la continuità che - facendoci sentire in
qualche modo sorretti e sostenuti, come non può avvenire se il lavoro è
intermittente - ci rende possibile di tenere con mano lieve anche le cose
spiacevoli, segno che la percezione dell'impermanenza (anicca) è divenuta
meno superficiale. Nell'esempio dato possiamo vedere chiaramente come
la non resistenza a rapportarci con le cose spiacevoli sia direttamente pro
porzionale alla leggerezza della nostra stretta sulle cose piacevoli: infatti,
se siamo molto attaccati al momento di pace squisita che precede la te
lefonata, sarà più arduo fare il 'salto' nella nuova situazione di disagio
precipitata dalla telefonata. Non così, invece, se noi, in luogo di guardare
a quella pace come a un nostro possesso, a un nostro diritto da tenerci
stretto, la consideriamo, con sguardo più profondo, per quello che è, un
dono, una piccola grazia della vita, tanto più preziosa in quanto imper
manente.
Se abbiamo questo atteggiamento, l a brusca interruzione ci dispiacerà
ma non ci sorprenderà e potremo così accogliere il sorgere del successivo
stato negativo con maggiore tranquillità. Sappiamo, grazie all'intelligenza
dell'equanimità che comincia ad accendersi, che anche il nuovo stato è
precario, come il precedente e come tutto ciò che è condizionato. Intanto
gioiamo nel vedere che, con la pratica, si intensificano quei fattori, come
la consapevolezza e l'equanimità, che sono reputati capaci di schiuderei
l'incondizionato, ossia ciò che soltanto, nelle parole del Buddha, è vera
mente in grado di allietarci.' In particolare ci colpisce e ci rallegra il fatto
che più passa il tempo e più nuova e fresca diventa la nostra consapevo
lezza. Più la esercitiamo e più nuova essa diventa: ogni volta è sempre più
come se fosse la prima volta. E pensiamo al Dharma, "che è bello all'ini
zio, nel mezzo e alla fine", al Dharma " che è come la vetta di un monte",
al Dharma "che è come un lago tranquillo " 4
3 "Ciò che non è e[emo non può allietare, non vale la pena Ji onorario, non
ha alcun valore ambirlo", MN 1 1 , 263.
4 Cfr. Carter 1978 per le citazioni delle scritture relative al Dharma.
24
Alchimia spirituale
I Luca XVIII, l. Cfr le lucide parole del Cardinal Martini (1992, p. 72): "È la
.
Narciso e la meditazione
Il dialogo interreligioso
come guida spirituale
1 KU.ng - van Ess - von Stictencom - Bechert 1984, p. 9. corsivo nostro. Qui te
3 . Allo stesso modo, quanto il Kiing osserva circa la dottrina del non
io nel buddhismo sembra giusto ma parziale e quindi, in ultima analisi,
fuorviante. La negazione dell'io, egli dice in sostanza, facilmente può an
dare in direzione contraria a quella dignità dell'uomo per la quale il
Buddha aveva così tanta considerazione: "nel nostro secolo non è diven
tato manifesto con quanta facilità un sistema totalitario ... possa sostituire
con la propria potenza l'io ignorato, negato, rimosso, con quanta facilità
l'identità e la dignità dell'uomo possono venire sacrificate agli interessi di
una politica assolutistica di potenza ... e come anche nei sistemi democra
tici l'indebolimento dell'io, anzi la sua negazione, abbia come conseguen
za l'assimilazione acritica alle tendenze dominanti?" (p. 452).
A me pare che, in proposito, si possa dire questo: la dottrina del non io
che, rettamente colta e realizzata interiormente, è una via diretta per la li
berazione, cioè per la massima dignità possibile, è una dottrina realizzativa
molto difficile e profonda, come lo stesso Buddha avvertiva; e per rivelarsi
concretamente liberante ha bisogno di un grande impegno contemplativo.
A causa della rarità di tale impegno, essa viene frequentemente malintesa,
col risultato che, invece di usare la dottrina del non io e la relativa ingiun
zione al distacco per crescere, l'individuo, non comprendendola, può ri·
trovarsi invece a usarla come una specie di autorevole sanzione della pro
pria impotenza a reclamare una precisa identità psicologica e sociale e
dunque come una sorta di razionalizzazione della sua paura di esigere i
propri diritti. In questo senso è difficile non consentire con Kiing.
Mentre è davvero arduo essere d'accordo sul suo presentare il cristia
nesimo, a questo proposito, in una luce tutta positiva, come quello che
"può sviluppare più facilmente, a partire dalla sua propria tradizione, cri
teri di una immagine qualitativamente diversa dell'uomo" (p. 452) e che
può fare avvertire all'uomo "il proprio io in una dignità quale in Oriente
non si è mai vista" (p. 469). A me sembra, invece, che il cristianesimo si
dibatta esattamente nella stessa difficoltà del buddhiSmo. Infatti la fonda
mentale ingiunzione cristiana all'abbandono in Dio sempre e comunque,
pur essendo espressione di una dottrina diversa, è però abbastanza equi-
valente, come importanza generale e come difficoltà a essere colta e rea
lizzata, alla dottrina buddhistica del non io. E, al pari di quest'ultima, vie
ne facilmente malintesa e finisce così per favorire atteggiamenti regressivi
e, anche essa, in luogo di far crescere, può servire invece a far razionaliz
zare le proprie confusioni, remissività e paure. Anche qui, soltanto un ge
neroso impegno interiore può svelare la profondità liberatrice di questa
dottrina. Acciocché poi tale impegno possa sbocciare con più sicurezza è
necessario appellarsi non solo al dialogo interreligioso ma anche al contri
buto delle scienze umane. Occorre cioè che le religioni tengano nel conto
dovuto, cioè in gran conto, i risultati della psicologia, dell'antropologia,
della sociologia. Senza di che c'è il rischio, molto alto, che manchi il pon
te, manchi la base per comprendere il difficile e profondo messaggio del
le religioni. Che, in tal modo, non portano liberazione, bensì penosa za
vorra. Pretendere di occuparsi dei metabisogni, come direbbe A. Maslow,
senza essersi prima ben curati dei bisogni di base (cibo, sicurezza, affetto,
stima) è pretendere troppo. Ed è singolare quanto variabile sia la consa
pevolezza di ciò nel buddhismo e nel cristianesimo contemporanei: ora
chiara e acuta, ora abbastanza vaga. t: una disparità che andrebbe supera
ta, a tutto beneficio del dialogo interreligioso che, su questo solido fonda
mento, potrebbe articolarsi meglio.
-1 Knitter 1986, p . 142. Il fascicolo della rivista Cona/rum ! L 1 986) in cui è sta
' Cfr. il 25"' capitolo della sua Scala Santa, per esempio nella hclla trad. france
se a cura Jel padre P. Dcscille (1978), pp. 2 1 7 sg.
2 "'Humility is endlessH in T.S. EliOl, Four Quartets, East Cokcr, I I .
dell'io, cogliamo anche ciò che quella illusione celava, la luce risanatrice
della saggezza.
Ora, a proposito di tutto questo, viene da pensare che il buddhismo,
pur senza porre ] ' umiltà al centro del cammino interiore, come fa la spiri
tualità cristiana, tuttavia vi alluda inequivocabilmente tutte le volte che
parla di superamento della credenza-attaccamento a un io. E chi infatti,
se non il vero umile, ha superato la credenza-attaccamento all'io, tornan
do così con i piedi sulla terra, secondo l'etimologia della parola umile? A
me sembra, per quello che ho capito dell'umiltà e del buddhismo, che la
dottrina buddhista dell'insostanzialità è anche un contributo profondo e
originale su come vede le cose il vero umile, ossia l'unico a essere in grado
di vivere realmente nel presente.
Infatti, ormai libero dal fardello dell'io, cioè dall'illusione, gli rimane
solo quello che c'è, il presente. E anche volendo, non potrebbe vivere al
trimenti; ma non può volerlo perché non c'è più chi vuole sempre vivere
altrimenti, l'io. Nella gioia costante e inevitabile della vita umile, egli si
accorgerà del carattere sempre cangiante delle cose; carattere che quando
la sua mente era ancora priva della chiarezza dell'umiltà, non poteva che
sfuggirgli. Così come gli sfuggiva il carattere necessariamente insoddisfa
cente delle cose qualora a esse venga imputata, come accade, una natura
non cangiante e permanente. La nitida visione dell'umiltà è la visione di
chi, non incapsulando più se stesso nell'io e nel mio, non incapsula più
nemmeno gli altri e il mondo; la visione di chi, avendo lasciato libero se
stesso, lascia libero tutto il resto.
Questa digressione non vuole certo dire che il buddhismo e il cristia
nesimo sono la stessa cosa. Piuttosto si è inteso richiamare l'attenzione su
due punti. Il primo è che, a livello di spiritualità, cioè di pratica contem
plativa e, dunque, di una dimensione fortemente minoritaria all'interno di
entrambe le religioni, ciò che è considerato dal buddhismo frutto impor
tante della pratica e cioè la saggezza, può essere vantaggiosamente acco
stato all'umiltà, vista come importante risultato del cammino nel cristia
nesimo. E l'accostamento è legittimato non di certo dalla dissomiglianza
dottrinaria tra le due religioni bensì, piuttosto, dalla somiglianza delle
due pratiche. Allora logica vuole che anche i risultati non possono essere
troppo diversi. E dunque il reciproco accostamento può giovare a capire
meglio, più completamente. In certo senso è come se ciascuna tradizione
fosse più specializzata in un aspetto. Ma la specializzazione, necessaria,
dovrà, altrettanto necessariamente, per definizione, lasciar fuori qualcosa.
E perciò al cristianesimo, specialista in umiltà, gioverà l'aiuto del buddhi
smo, specialista in saggezza, per illuminare l'aspetto saggezza dell'umiltà;
e, viceversa, al buddhismo sarà utile il cristianesimo per porre in risalto
l'aspetto umiltà della saggezza.
Questo a me sembra un possibile modo di avvicinarsi all'intcrreligio
sità e, anche, un aiuto per studiare l'ipotesi secondo la quale esperienze
trasformativc fondamentali, di fatto molto simili tra loro, siano state poi
interpretate da ciascuna tradizione religiosa secondo linguaggi e concetti
molto dissimili (cfr. Smart 1980). Ma anche lasciando da parte questa
ipotesi, rimane il semplice fatto dell'aiuto reciproco che è possibile tra iti
nerari spirituali diversi. Infatti a mc pare che oggi il praticante occidenta
le di Dharma non di rado mostri interesse per la tradizione contemplativa
prevalente in Occidente e se ne riprometta qualche conforto e qualche
aiuto, forse nemmeno Jel tutto consciamente. E così pure lo spirituale
cristiano che, con sensibilità moderna, non si sente più né autosufficiente
né al centro del mondo, non potrà che profittare dell'appoggio di altre
tradizioni. Senza pensare, infine, che la vita spirituale, se è continuo tra
scendimento, a un certo punto, con molta gratitudine, può trascendere
anche buddhismo e cristianesimo.
Psicologia e religione
28
Desiderio e sofferenza:
riflessioni psicologiche e interreligiose
1 A proposito del rapporto tra circolazione del desiderio e fiducia, Prigent 1978.
2 Tutta l'opera di questi quattro autori è percorsa dal tema che ci interessa, ma
talora l'autorealizzazione come base dell'autotrascendimento è messa a fuoco in
modo speciahnente chiaro e profondo. Si veda a questo proposito Jung 1975-6.
za psicologica nelle vocazioni religiose, ossia i voti di castità, povertà e
obbedienza usati inconsciamente come strategie difensive in tre aree par
ticolarmente cruciali psicologicamente e cioè rapporti con gli altri, con il
lavoro, con l'autorità. Sul versante psicologico, d'altra parte, dovrebbe es
sere evidente quanta sofferenza possa produrre in chi è dotato di un'aspi
razione religiosa la brutale negazione della possibilità di autotrascendi
mento, negazione tipica di psicologie riduzioniste. O, più sottilmente,
quanta frustrazione possa provenire da un riconoscimento solo teorico
del livello religioso. Infatti è difficile non essere toccati da certe belle de
scrizioni della maturità interiore fatte da alcuni psicologi. Sennonché li
velli così elevati di trasformazione, salvo eccezioni, richiedono in genere
nulla di meno che l'impegno e l'ascesi di una vita. Se questo non viene
c.letto, si finisce, anche se in massima buona fede, con il confondere le
persone, propiziando l'insorgere di sentimenti di disillusione e di cinismo
- e dunque spargendo sofferenza - riguardo alle possibilità effettive di
trasformazione interiore.
Perciò io credo che sia da salutare con speciale favore un atteggiamen
to diverso che, benché ancora raro, si nota tuttavia oggi più di un tempo.
Ossia l'atteggiamento di chi, psicologo o comunque interessato alla psico
logia, preso atto che certe forme di maturità interiore non possono che
essere lo sbocco di decenni di lavoro intenso, si mette umilmente alla
scuola delle grandi tradizioni contemplative. E l'umiltà, infallibilmente,
riduce la sofferenza.
Pratica meditativa
e problemi psicologici
.l Ricordiamo che la fede (saddha) è una delle cinque facoltà spirituali nell'inse
Psicologia e religione
nell'odierna ricerca neocontemplativa
1978.
3 Cfr. Bergonzi 1980. Anche in relazione al nostro tema dal punto di vista so·
� Sulla questione, anche per una bibliografia, cfr. Borst 197.3, pp. 44-46.
1 1 Citiamo
qui solo una selezione significativa delle opere scritte dagli autori
citati: Lassalle 1973; Le Saux 1965; Johnston !970; Merton 1973.
cologia coinvolta in prima persona col religioso e che si conservi, al tem
po stesso, non confessionale. Come è stato detto a questo proposito: "Se
la nostra scienza della salute mentale deve diventare più efficace, gh psi
coterapeuti dovranno bilanciare la loro conoscenza di concetti e tecniche
psicologiche con una consapevolezza contemplativa" (Boss 1959, p. 191).
Ritornando ora alla metafora dello sfondo, notiamo ancora quanto se
gue. Lo sfondo di attenzione-consapevolezza, anche se flebile e intennit
tente (pensiamo a stadi iniziali e intermedi) è, come si diceva, fattore di
continuità e costanza. In pratica ciò si risolve in una sensazione simile a
quella di essere in compagnia, di avere un sostegno interno non mutevole
come sono invece gli eventi esterni e gli stati mentali. Dunque una specie
di compagnia calda, benché muta; non giudicante e dunque accettante. È
superfluo dilungarsi sul valore dell'autoaccettazione al fine di accettare gli
altri ed è superfluo sottolineare che il poter contare su detta continuità è
di per sé un solvente dell'ansia e dunque una fonte di fiducia.
Possiamo anche dire che, mercé l'irrobustirsi dello sfondo, è come se
l'individuo si trasferisse da un campo di energia infida a un campo di
energia più amica: infatti una pratica di raccoglimento genera tipicamen
te, che se lo prefigga o no, un certo benefico ordine interno e l'ordine a
sua volta facilita raccoglimento e consapevolezza. Un altro modo di de
scrivere il fenomeno potrebbe essere questo: la psiche, avvertendo questa
presenza d'attenzione costante o frequente (materna, verrebbe da dire), si
sente incoraggiata. E tale incoraggiamento non è diretto ad alcunché in
particolare, ma è, piuttosto, forte e vago, a somiglianza di un certo sentire
bambino. Con la differenza che mentre il bambino è facilmente sedotto
da una molteplicità di possibili investimenti per il suo slancio vitale, è ca
ratteristico, invece, di una maturità di pratica interiore un certo sereno
disincanto; meglio, una crescente percezione del carattere illusorio di
aspettative e timori, attrazioni e repulsioni, compiacimenti e rammarichi.
Osserviamo come a questo punto il linguaggio e le metafore psicologi
che si mostrino inadeguate e come invece si renda naturale il ricorso al
linguaggio religioso. In termini buddhisti qui si parlerebbe di realizzazio
ne dell 'universale impermanenza, in tennini yoga-vedantici di arresto di
quella erronea imputazione di realtà su ciò che di realtà è privo. Oppure
possiamo parlare di progressivo estinguersi della fede piccola, in questo e
in quell'altro, a favore dell'accendersi graduale di una fede più vasta e più
oscura. Secondo la nostra immagine: decresce il coinvolgimento (positivo
o negativo) con gli specifici contenuti mentali, mentre aumenta l'interesse
per lo sfondo indistinto; il quale essendo, appunto, indistinto è sempre
meno vissuto come 'mio', la consapevolezza è sempre meno 'mia'.
E qui, curiosamente, può rientrare la psicologia: giacché - ecco un al
tro paradosso delle vie sapienziali - questo sfumarsi dei confini dell'io e
del mio, invece di infiacchire la persona la rafforza, maturandola. E ci
sembra che squisitamente psicologico sia lo studio del paradosso in que
stione, di come mai, cioè, dalla frequentazione del 'vuoto' impersonale
possa discendere maggiore maturità personale. Un'ultima annotazione
circa la similitudine dello sfondo coscienziale: poiché esso, proprio in
quanto sfondo, dispone i contenuti mentali in prospettiva, la risonanza di
questi ultimi cambia radicalmente: da valori assoluti a valori ampiamente
relativizzati dalla presenza dello sfondo. Sembra poi che in stadi avanzati
del processo liberatorio i contenuti si facciano così trasparenti da essere
molto meno distinti dallo sfondo, da essere in qualche modo lo sfondo o,
comunque, da includerlo sempre invece di occluder! o.
Ma tornando a esaminare il funzionamento del raccoglimento consape·
vole, crediamo che una seconda similitudine possa giovare a comprende
re. Diversamente dalla vita vissuta sotto il regime dell'io - vita che scor
re tipicamente secondo la perdita dato che, per quanto operosa e fortuna
ta è sempre un'esistenza in cui gli scopi via via raggiunti bastano solo
temporaneamente a riempirla - diversamente da questo tipo di vita, la
vita posta sotto il primato dell'attenzione è paragonabile a un braciere
con il fuoco sempre acceso. Il fuoco, appunto, del raccoglimento e della
presenza. Al livello di massimo funzionamento della consapevolezza, qua
lunque cosa accada finisce in quel fuoco anonimo e gratuito. Ora, in que
sta ablazione continua e capillare, la parola 'perdita' non ha più senso.
Meglio, non ha più il senso di prima, il senso egoico: perché ora tutto è
usato e in questo senso nulla è perduto Ma al tempo stesso tutto è perdu
to, dal momento che tutti i nostri molteplici scopi risultano come 'disin
nescati', l'unica ovvia e generale finalità essendo quella di ardere. Per cui,
ad esempio, la cosa più importante non sarà tanto compiere la tale atti
vità con buon esito ma sarà, piuttosto, il far sì che l'attività si illumini di
consapevolezza, quale che ne sia l'esito.
con una visione abbastanza limitata e distorta di questa verità. Infatti, co
me abbiamo visto, la consapevolezza anzitutto mi mostra, mi fa toccare
con mano l'identificazione, per esempio l'identificazione con la frustra
zione o l'identificazione con la gratificazione. E io comincio, proprio per
ché, contemplandola, la capisco meglio, ad abbandonare l'identificazione,
l'assolutizzazione, la fede cieca. Ed è solo a questo punto che io posso
percepire il disagio, il dolore che è connaturale allo stato di identificazio
ne o attaccamento. Non prima, allorché, essendo identificato, ero cieco.
L'identificazione (o, classicamente, attaccamento-ignoranza) è, in realtà,
la radice del dolore esistenziale o dukkha.
'Vedere in profondità' (vipassana) i 'segni caratteristici' dell'esistenza
(dukkha, anicca, anatta) avviene appunto così: è necessario comprendere
che, per vedere dukkha, io debbo cominciare a esserne fuori, cioè a esse
re meno identificato con esso, altrimenti la visione non è possibile. Pari
menti per ciò che riguarda l'impermanenza, l'incessante fluire e cambiare
di tutte le cose. Potrò certo riflettervi sopra, ma è organicamente impossi
bile cogliere al vivo l'impermanenza se io sono immobilizzato dall'zdentt/i
cazione. In certo senso l'identificazione è il contrario di fluidità, è la ten
denza compulsiva a fissare e solidificare. U ricorrere, incessante e vario,
di tale tendenza si può chiamare 'io/mio'. E naturalmente, finché questa
tendenza è florida, voler intuire l'anatta o illusorietà dell'io è una totale
contraddizione.
Ma se, grazie alla consapevolezza, la disidemificazione si instaura feli
cemente in un individuo, allora prenderà a indebolirsi l'illusione egoica,
ossia l'idea-emozione di un io come entità fissa e separata. Allora diverrà
possibile cogliere barlumi, almeno, di ciò che quella densa illusione na
sconde: fluidità e interconnessione in luogo di fissità e separatezza e so
prattutto barlumi di una vastità vuota e viva. La vastità del non-io, la va
stità della coscienza finalmente vuota dall'attività solidificatrice e separan
te promossa dall'attaccamento-ignoranza, vuota di io-mio. Ossia la consa
pevolezza nella sua compiutezza, nel suo splendore e nel suo mistero.
A B B RE V I A Z I O N I *