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Raccontare la giustizia

LUCIANO DE MAJO CRONISTA


IL TACCUINO E IL CUORE DENTRO LE AULE DI UN
TRIBUNALE

a cura di Mauro Zucchelli


PER LA GIUSTIZIA
COL TACCUINO DEL CRONISTA

Stavolta, in occasione dell’anniversario del giorno in cui a 40 anni


il nostro collega Luciano De Majo è andato al di là del fiume,
dedichiamo alla giustizia l’e-book che raccoglie una selezione
di articoli che Luciano ha scritto negli anni in cui è stato in servizio
alla cronaca di Livorno del Tirreno.
Li abbiamo presi e ripubblicati così com’erano: dunque,
teniamo ben presente, con la conseguenza che queste storie hanno
avuto un seguito: il giudizio, l’appello, nuove prove, la Cassazione
e quant’altro. Ripeto: teniamolo presente e non imbalsamiamo
le storie personali nel solo momento in cui queste persone
sono state incontrate da Luciano.
Se abbiamo scelto questo tema non è solo perché De Majo
si è occupato per anni di cronaca giudiziaria: più che una
raccolta di esercizi di stile, mi interessa mettere l’accento
sull’approccio che Luciano ha avuto nell’avvicinarsi a uomini e donne
che si sono visti colpire negli affetti o nei diritti, a uomini e donne
che si sono resi colpevoli di questi atti, a uomini e donne
che sono stati triturati dal meccanismo dell’apparato delle
aule di tribunale. L’ha fatto con umana empatia, l’ha fatto senza
rimpiattare niente, l’ha fatto perché era un uomo giusto che
si batteva contro l’ingiustizia.
Era così anche quando affrontava temi politici e perfino negli stadi
o nei palasport: ma a quello abbiamo dedicato altri e-book. Qui interessa
il cronista che sta dentro il “fuoco” della giustizia con l’animo di chi la
giustizia cerca e, al tempo stesso, sa che è così complicato trovarla
nelle vicende umane e nei tentativi di ricostruirle. Ma senza narrazione,
senza il taccuino di un cronista, c’è solo silenzio. E l’ingiustizia ù
non diminuisce, anzi aumenta.

Mauro Zucchelli
L'OMICIDA RACCONTA AL GIUDICE VENT'ANNI DI DOLORE E SOLITUDINE

E' rimasto più di un'ora davanti al giudice. E ha parlato, compiendo uno sforzo imponente nel rispondere
alle domande che gli sono state poste. Giovanni Scotti, l'uomo di 66 anni che tre giorni fa in casa, in via
Mondolfi, ha ucciso la moglie Licia Lambertini con un martello, rimane in carcere.

L'udienza di convalida si è conclusa con un esito forse scontato: tecnicamente, l'arresto non è stato
convalidato dal giudice per le indagini preliminari Gianmarco Marinai, il quale comunque ha disposto per
l'omicida la custodia cautelare in carcere.

Erano ancora incerti, ieri mattina, i legali di Scotti sulla posizione da tenere in udienza. L'avvocato Vinicio
Vannucci era andato a fargli visita in carcere prima che l'uomo fosse portato in tribunale. Una volta iniziata
l'udienza, poi, Scotti ha deciso di rispondere. E le cose che ha detto sono servite - questo è il fatto nuovo
rispetto a quanto accaduto nei giorni scorsi - a ricostruire il contesto nel quale è maturato il delitto, ancor
prima che a ribadirne la dinamica e le modalità con le quali si è svolto, che d'altra parte l'omicida aveva già
chiarito quando si è presentato ai carabinieri, subito dopo aver commesso il fatto.

Giovanni Scotti si è forse liberato di un fardello troppo pesante da tener dentro, parlando davanti al giudice
e ai due pubblici ministeri che hanno seguito il caso, Fiorenza Marrara e Massimo Mannucci. Ha ripercorso
gli ultimi vent'anni passati accanto alla compagna della sua vita che ha visto soffrire per tanto, troppo
tempo. Fino ad arrivare all'episodio di tre giorni fa, quando forse la disperazione dell'uomo ha toccato il
punto più alto.

È ancora presto, forse, per parlare di arresti domiciliari per Scotti, anche perché la sua casa, cioè la scena
del delitto, è stata messa sotto sequestro dagli inquirenti. È però opinione dei suoi difensori, gli avvocati
Aurora Matteucci e Vinicio Vannucci, che per una persona in queste condizioni l'ambiente del carcere non
sia l'ideale. Nelle prossime settimane, una volta valutata la situazione nel suo complesso, forse sul tavolo
del giudice arriverà anche l'istanza per la concessione dei domiciliari, che rappresenterebbero una misura
più attenuata rispetto alla detenzione carceraria e, al tempo stesso, un modo per garantire a Scotti
l'assistenza di cui ha bisogno.

Sempre ieri mattina, mentre l'omicida era impegnato nell'udienza di convalida dell'arresto, la Procura ha
rilasciato il nullaosta per i funerali di Licia Lambertini, la donna uccisa. La cerimonia funebre si svolgerà,
dunque, al cimitero dei Lupi questa mattina alle 11, con il rito religioso che sarà officiato nella chiesetta del
cimitero stesso. Nel procedimento che è stato aperto dagli inquirenti, le parti offese sono le due sorelle
della donna, il fratello e l'anziana madre.

Luciano De Majo

6 novembre 2010
QUATTRO BIMBI MORTI CARBONIZZATI NELLA BARACCA

I resti di quella baracca completamente distrutta dalle fiamme nascondevano una terribile verità: i corpi
carbonizzati di quattro bambini. E' questa la scena che si sono trovati di fronte i vigili del fuoco, intervenuti
poco dopo la mezzanotte in via Pian di Rota (fuori dall'abitato, all'estrema periferia nord della città) per
spengere quello che, in un primo momento, sembrava solo un incendio di sterpaglie. E invece il rogo aveva
anche stroncato quattro giovanissime vite.

I piccoli, sorpresi nel sonno dalle fiamme e soffocati dal fumo, non hanno avuto nemmeno il tempo di
tentare la fuga. I genitori, invece, potrebbero avercela fatta a mettersi in salvo. I primi soccorritori, infatti,
hanno raccontato di aver visto un uomo e una donna allontanarsi di corsa dalla baracca, per poi sparire nel
nulla. Può darsi che fossero il padre e la madre, fuggiti in preda al panico per quanto stava accadendo. A
meno che non si ipotizzi che quelle due persone stessero fuggendo dopo aver appiccato il fuoco.

Un'ipotesi, quest'ultima, poco accreditabile, anche perché non spiegherebbe che cosa ci facessero da soli
quei quattro bambini nella baracca fatta di legno e di materiale di resulta, che aveva una parete addossata
proprio al terrapieno in muratura del ponte di via Pian di Rota (che dall'ex mobilificio Pini porta fino al
Cisternino) che passa sopra la Variante Aurelia.

Di certo c'è che in quella baracca viveva una famiglia, probabilmente di nomadi. Basta guardarsi intorno per
rendersene conto: a poca distanza dal luogo dell'incendio, infatti, ci sono dei cespugli su cui erano stati stesi
ad asciugare magliette, mutande e altri indumenti di bambini, e un po' più spostata c'è una carrozzina.

A chiedere l'intervento dei vigili del fuoco, è stato probabilmente un'automobilista di passaggio in via Pian
di Rota, che ha visto le fiamme spuntare da sotto il ponte della Variante fino al livello della strada. Erano
esattamente le 23.57.

Tutto lasciava pensare ad un incendio di sterpaglie lungo la strada. Al loro arrivo, invece, i vigili del fuoco si
sono resi conto che le fiamme avevano avvolto anche una piccola struttura di legno. L'intervento di
spegnimento e la successiva bonifica dell'area hanno richiesto circa un'ora. Una volta che l'incendio era
stato domato - intorno alle 1 - i pompieri hanno ispezionato, com'è prassi in questi casi, la baracca
devastata dalle fiamme e hanno fatto la macabra scoperta: sotto le macerie ancora fumanti c'erano quattro
piccoli corpi carbonizzati, difficilmente riconoscibili. Sono state subito allertate la questura e la centrale
operativa del 118. Pochi minuti dopo sono arrivate sul posto le ambulanze della Svs Pubblica Assistenza e le
volanti della polizia. I primi atti dell'indagine sono stati coordinati dal dirigente della divisione anticrimine
della questura Paolo Rossi. Successivamente sono arrivati il sostituto procuratore Antonio Giaconi e il
questore Vincenzo Roca, oltre ai medici legali. Impossibile stabilire l'età delle vittime, e anche il sesso dei
bambini. Solo l'autopsia potrà farlo. Per ora c'è spazio solo per le ipotesi: uno dei bambini avrebbe avuto
10-12 anni, altri due erano di età compresa tra i 5 e i 7 anni, l'ultimo sarebbe stato ancora più piccolo.

L'incendio sarebbe scaturito all'interno della piccola struttura, questo è almeno ciò che è emerso dalle
prime verifiche compiute dai vigili del fuoco. Una circostanza, questa, che avvalora l'ipotesi della causa
accidentale dell'incendio, anche se per il momento non viene esclusa la possibilità che il rogo possa avere
origine dolosa.

Luciano De Majo e Alessandro Guarducci (ha collaborato Mauro Zucchelli)

11 agosto 2007
«NON LI HANNO PROTETTI, STIANO IN CARCERE»

«Se l'incendio ha avuto cause accidentali, i bambini sono morti perché i genitori non erano presenti. Se
invece è stato causato da un'aggressione, comunque i piccoli sono stati lasciati in stato di abbandono
addirittura davanti a un concreto e ben chiaro pericolo». Sta in questa sintesi la chiave dell'ordinanza del
giudice per le indagini preliminari del tribunale di Livorno Rinaldo Merani, che smentendo le previsioni della
vigilia ha disposto la custodia cautelare per i quattro rumeni fermati.

Non che il giudice abbia accolto interamente la tesi del pubblico ministero Antonio Giaconi. Era stato lo
stesso pm ad esprimersi in modo per lui piuttosto pessimista, la sera prima della lettura del dispositivo,
definendo «possibile se non probabile» la scarcerazione dei quattro fermati, cioè Menji Clopotar, 44 anni,
sua moglie Uca Caldarar, 38 anni, ed i coniugi Victor e Elena Lacatus, rispettivamente 30 e 29 anni.

Ciò che colpisce, e che in qualche modo sorprende anche, è che il giudice abbia deciso di convalidare i fermi
e di disporre la custodia cautelare in carcere pur senza escludere la tesi sostenuta dai fermati. Anzi,
secondo Merani, se fosse veritiera la versione dei rumeni, a maggior ragione questi si sarebbero dimostrati
negligenti, perché anziché provvedere alla tutela dei loro bambini in presenza di una condizione di sicuro
pericolo (il raid punitivo) si sarebbero allontanati con la probabile volontà di inseguire gli aggressori. Invece,
proprio perché c'era qualcuno animato da istinti bellicosi, avrebbero dovuto pensare prima di tutto a
proteggere i bambini, due dei quali sordomuti, quindi incapaci di provvedere a se stessi e anche di chiedere
aiuto.

Non cambia di molto il quadro della situazione se, invece, fosse da accreditare l'ipotesi dell'incidente.
Perché in questo caso, a parere del giudice Merani, sarebbe stata l'assenza dei genitori a determinare la
morte dei bambini lasciati «in evidente stato di abbandono». Insomma, sull'abbandono di minori seguito da
morte, il giudice e il pubblico ministero si trovano sulla stessa linea. Uguale visione si registra anche sul
pericolo di fuga: secondo il gip «il repentino allontanamento di tutti gli indagati dal luogo dell'incendio» è
«segno da interpretare come concreto tentativo di fuga e definitivo allontanamento dal luogo del disastro e
dalle possibili responsabilità ad esso connesse». Un approdo, questo, che si era delineato fin dalla giornata
di sabato, nella quale le indagini condotte dalla squadra mobile e dalla divisione anticrimine della questura
avevano preso questa direzione. Il giudice ritiene «sussistente anche il pericolo di reiterazione di un delitto
della stessa specie», perché le due coppie hanno altri figli minorenni.

Non c'è identità di vedute, invece, fra il pubblico ministero e il giudice riguardo alla prima delle ipotesi di
reato formulate nella richiesta di custodia cautelare: l'incendio colposo. Merani, infatti, nella sua ordinanza,
ritiene che la ricostruzione delle cause dell'incendio ancora non sia accertata: «Non sussistono né elementi
materiali ragionevolmente chiari e sufficientemente certi per affermare, come ha fatto il pubblico
ministero, che l'incendio si sia sviluppato a causa di una fonte viva di calore lasciata incustodita,
dimenticata o non bene spensa da parte di qualcuno dei presenti nel campo, né per smentire in maniera
soddisfacente e definitiva quanto riferito concordemente da tutti i rumeni che vi vivevano, secondo cui
l'incendio sarebbe stato causato dal lancio di un ordigno incendiario da parte di un gruppo di ignoti
aggressori». Il giudice sostiene insomma che «il dilemma» possa essere chiarito dalla conclusione «degli
accertamenti tecnici disposti, ma eventualmente anche di altri». Detto questo, i rumeni non avevano per il
gip alcun «obbligo giuridico di provvedere a un preventivo controllo antincendio sull'intera area del
campo». Quindi non ci sono indizi sufficienti per l'incendio colposo, ma solo per quello. Per il resto, la linea
del pm Merani l'ha condivisa. E i quattro indagati sono tuttora nel carcere delle Sughere.

Luciano De Majo

17 agosto 2007
IL GIUDICE CREDE ALLA VERSIONE DEI ROM

«La scarcerazione a questo punto è possibile, se non probabile». Il sostituto procuratore di Livorno Antonio
Giaconi, titolare dell'indagine sull'incendio nel quale sono morti i quattro bambini rumeni sotto un
cavalcavia alla periferia della città, chiude così un'altra giornata estenuante, quella degli interrogatori per la
convalida dei provvedimenti di fermo emessi a carico dei genitori delle piccole vittime. Secondo quanto
afferma il magistrato, il giudice per le indagini preliminari Rinaldo Merani «sembra dare credito alla linea
dei fermati». Ma fino a oggi la lettura ufficiale del dispositivo non ci sarà.
Aggressione? Non sono bastate dodici ore passate dentro il carcere delle Sughere per prendere la
decisione. Da una parte l'accusa rappresentata dal pm Giaconi, dall'altra la difesa: i quattro fermati difesi
dall'avvocato pisano Andrea Callaioli. In mezzo, anzi davanti al penitenziario, un folto gruppo di familiari e
amici dei quattro fermati che attendevano la conclusione degli interrogatori. Il giudice, che ha lasciato il
carcere senza rilasciare dichiarazioni, avrebbe mostrato di credere ai racconti dei quattro rumeni, che
hanno ribadito di essere stati oggetto di aggressione. «I quattro fermati - ha detto il loro legale - hanno
fornito ricostruzioni concordanti nonostante si trovino in isolamento, impossibilitati a parlare fra di loro».
«Non è che la Procura abbia escluso a priori l'ipotesi dell'aggressione - spiegava invece Giaconi - ma finora
non abbiamo trovato elementi che la accreditassero».
«Ai funerali». Callaioli, che è stato fornito come legale di fiducia ai quattro fermati dall'associazione pisana
«Africa insieme», è apparso ottimista al momento dell'uscita dal carcere. «In queste circostanze non si è
mai soddisfatti - ha detto - meno che mai quando si ricevono nomine per casi come questo. Però, qualsiasi
decisione prenderà il giudice, posso dire che sarà una decisione ponderata. Il dottor Merani si è comportato
nel pieno rispetto delle parti e senza alcun pregiudizio verso i miei assistiti. I quali hanno cominciato
l'interrogatorio esprimendo un desiderio: quello di essere presenti ai funerali dei loro bambini».
Genitori e no. Victor e Helena Lacatus, durante l'interrogatorio di ieri, hanno negato di essere i genitori di
Tutsa (il suo nome per esteso è Lenuca), quella che gli amici ricordano come la bellissima bambina dalla
folta chioma bionda. E hanno chiamato in causa Eva Calderar e Victor Carola: quella - hanno sostenuto i
Lacatus - era la loro figlia, non la nostra. Victor e Eva, a quel punto, sono stati portati in questura,
interrogati e sottoposti al prelievo per effettuare l'esame del dna, i cui esiti si conosceranno comunque non
prima di una ventina di giorni. Ma loro hanno rispedito al mittente ogni accusa, confermando invece che la
bambina morta nel rogo di Pian di Rota era figlia dei Lacatus.
Gli esami. Prosegue, intanto, il lavoro dei medici legali Alessandro Bassi Luciani e Luigi Papi sui corpi delle
piccole vittime. Le autopsie dovrebbero concludersi nella giornata di domani con gli ultimi accertamenti:
ieri sono stati effettuati quelli radiologici. Proprio domani i due consulenti medici dovrebbero inviare una
prima bozza contenente alcune valutazioni al pubblico ministero, prima del deposito della perizia, previsto
nei canonici due mesi di tempo.
Luciano De Majo
15 agosto 2007
FRATELLI COLTELLI ALL'OMBRA DELLE LOGGE

Non è stato un passaggio indolore quello fra Glut, la «Gran loggia unita tradizionale» fondata da Luigi Piazza
e Mauro Lazzeri nel 2004, e Gou, il «Grande Oriente universale», l'obbedienza massonica alla quale oggi
appartiene il solo Lazzeri e che ha sede in via Salvatore Orlando, dove qualche giorno fa sono arrivati gli
uomini della squadra mobile di Potenza mandati dal pubblico ministero Henry John Woodcock che ha
indagato 24 persone contestando loro il reato di costituzione di loggia segreta. All'ombra della riservatezza
tipica dell'ambiente massonico, le telefonate fra gli esponenti delle logge presenti nel decreto di
perquisizione del magistrato disvelano uno scontro ormai conclamato fra i due «fratelli» che poi hanno
scelto di separarsi.
Da una parte c'è Lazzeri, Gran maestro aggiunto della Glut, dall'altra Piazza, Gran maestro della stessa
obbedienza e personaggio di spicco della massoneria, «di primo piano a livello nazionale», scrive nel suo
decreto il pubblico ministero.
Accomunati da un'appartenenza massonica di vecchia data (i due hanno fatto parte del Grande Oriente
d'Italia per lunghi anni), poi insieme nella Gran loggia unita tradizionale, a un certo punto qualcosa si è
rotto. E le telefonate sono chiare: Lazzeri accusa Piazza di voler guidare una marcia di avvicinamento verso
l'obbedienza francese della Gran loggia dell'Opéra, della quale oggi lo stesso Piazza dice di fare parte e di
rivestire la carica di consigliere federale, e di essere disposto a sacrificare la stessa esistenza della famiglia
livornese. E' un'accusa neppure troppo velata di sete di potere da parte di Piazza. Tanto che in una
telefonata fra Lazzeri e Sergio Bartoli, che non figura nell'elenco degli indagati, l'esponente dell'Udc radiato
dal partito proprio due giorni fa per la sua appartenenza massonica dice, riferendosi a Piazza: «Se ti vuoi
occupare dell'Opéra, occupati dell'Opéra, mi va benissimo, ti si fa fare il capo assoluto...». Ma sempre a
condizione di non mettere a rischio l'esistenza dell'obbedienza livornese.
Altra telefonata nella quale Lazzeri critica il suo Gran maestro è quella con il versiliese Veio Torcigliani. «La
Glut deve andare avanti», dice Torcigliani. Che poi lancia pesanti accuse allo stesso Piazza: «E' un
arruffone».
Piazza, dal canto suo, critica aspramente Lazzeri muovendogli la stessa accusa: dare la scalata al mondo
massonico partendo da Livorno. Parlando di Lazzeri con un non meglio identificato Ezio, il 12 novembre
2006, a un certo punto esclama: «Mi ha rotto i c... più di quanto immagini! Perché io su Mauro ci contavo
che tu non hai idea, capito?». Piazza teme che Lazzeri, insieme a un gruppo di «fratelli» voglia togliergli la
Gran loggia unita tradizionale dalle mani: «Loro vorrebbero riprendersi in mano la stessa obbedienza mia,
che io con il c... che gliela dò!». «Loro vorrebbero la stessa obbedienza per prendersi il tempio - prosegue
Piazza - per prendersi tutte 'ste cose qua!». E continua ad accusare: «E' un pugno di pazzi scatenati». Uno
scontro verticale, dunque, che non si appianerà più: Piazza sceglierà la francese Opéra, Lazzeri fonderà il
«Gou» appena perquisito dalla polizia.
Luciano De Majo
8 giugno 2007
WOODCOCK A CACCIA DI LOGGE SEGRETE

Si sono presentati di buon mattino e hanno effettuato perquisizioni in buona parte della città. Hanno
cominciato con la sede cittadina dell'Udc, proseguendo con le abitazioni di alcuni livornesi. Fra loro, anche
personaggi politici di un certo peso. Gli uomini della squadra mobile di Potenza hanno risalito l'Italia per un
bel pezzo per arrivare in Toscana, ma anche in altre regioni settentrionali, fra cui sicuramente la Lombardia.
L'indagine della Procura del capoluogo lucano, coordinata dal pm Henry John Woodcock, riguarda la
presunta esistenza di logge coperte. In sostanza, agli indagati - che al momento sarebbero 24 - viene
contestato il reato di associazione a delinquere finalizzato alla violazione della legge Anselmi: in poche
parole, secondo la Procura gli indagati avrebbero costituito un'associazione segreta.
Livornesi, elbani, lucchesi e anche aretini. Sarebbero questi i toscani coinvolti nell'indagine. Molti di essi
fanno parte dell'area che gravita attorno all'Udc. Iscritto al registro degli indagati è, infatti, il segretario
provinciale del partito, Piero Di Francesco, 49 anni. E con lui anche Giampiero Del Gamba, 74 anni, legato a
Di Francesco da vincoli di parentela (è il suocero del segretario Udc) oltre che di appartenenza politica. Del
Gamba è stato a lungo tempo dirigente della Democrazia Cristiana livornese.
Nei ranghi della Dc ha militato, e ad alti livelli, anche Emo Danesi, classe 1935. Anche lui è indagato nel
fascicolo di Woodcock. Danesi è stato sottosegretario alla Marina Mercantile e con Del Gamba ha condiviso
anche l'appartenenza alla P2, di cui faceva parte anche Carlo Mori, originario di Arezzo, ufficiale dei
carabinieri, altro indagato. Fra i livornesi spicca anche il nome di Luigi Piazza, ingegnere, un tempo numero
due della massoneria toscana di Palazzo Giustiniani, poi espulso dal Grande Oriente d'Italia a seguito
dell'indagine che lo portò agli arresti insieme al giudice fallimentare Domenico Galdieri per un complesso
giro di aste truccate, e anche quello di Mauro Lazzeri, proprietario di un negozio di antiquariato che si trova
accanto alla sede dell'Udc e un tempo segretario del Partito liberale a Livorno.
Altri nomi eccellenti arrivano dall'isola d'Elba, dove sono invischiati nell'indagine della Procura di Potenza
due esponenti di Forza Italia: Andrea Sirabella, già assessore alla Comunità Montana e sotto processo a
Livorno con l'accusa di peculato, e Tiziana Giudicelli, che era stata consigliera comunale forzista a
Portoferraio. Ma anche Paolo Togni, già capo di gabinetto dell'ex ministro dell'ambiente Altero Matteoli, fa
parte del nutrito gruppo di indagati. Secondo il pubblico ministero, hanno infranto il divieto di costituire
una loggia segreta. E' ciò che Henry John Woodcock ha scritto nelle oltre 400 pagine del suo decreto di
perquisizione. Il magistrato che lavora nella Procura lucana, la cui indagine prende origine da un altro
fascicolo nel quale è coinvolto Massimo Pizza, un faccendiere appartenente ai servizi, aveva chiesto, nelle
settimane passate, gli elenchi dei massoni a tutte le 103 prefetture italiane. Ma alcuni esponenti della
massoneria avevano spiegato che le liste degli iscritti da tempo non devono essere più conservati nelle
prefetture.
Luciano De Majo
5 giugno 2007
«SUL MOBY PRINCE CI FU VITA PER ORE»

«C'è un punto su cui non possiamo concordare col lavoro fatto dalla Procura, ed è quello dei tempi di vita a
bordo del Moby». Loris Rispoli, presidente dell'Associazione Moby Prince 140, individua un limite nella
richiesta di archiviazione della magistratura livornese.

Lo fa scrivendo al procuratore della Repubblica Francesco De Leo e al suo vice Antonio Giaconi, che ha fatto
parte del pool di sostituti che ha lavorato direttamente a quest'indagine. «Avremmo gradito - dice Rispoli -
che come su tutti gli altri punti fossero stati chiamati tecnici del ramo tossicologico e medico. Forse è l'unica
carenza che abbiamo notato in un lavoro ineccepibile, alla luce dei 19 anni passati, della prescrizione dei
reati e dei tentativi mai cessati di impedire l'accertamento della verità». In sostanza, secondo Rispoli, la
Procura avrebbe accettato l'ipotesi contenuta nella prima consulenza, secondo la quale la vita sul traghetto
in fiamme sarebbe durata pochissimo. Ma altre consulenze tecniche, dice il rappresentante dei familiari
delle vittime, parlano apertamente di «percentuali elevate di carbossiemoglobina», che «sono segni di una
respirazione, e quindi di vita, che sono andate avanti nel tempo». «Del resto - dice ancora Rispoli - nessuno
può affermare che Esposito si sia gettato in mare e sia subito annegato e che Bertrand unico superstite sia
figlio del terzo segreto di Fatima».

Loris Rispoli si dice anche «convinto che ci siano paesi alleati in possesso di materiale utile all'accertamento
inoppugnabile della verità, ma vedo che ancora una volta la risposta che viene è una risposta negativa». Per
il resto, Rispoli elogia il lavoro svolto dai magistrati livornesi, quando afferma che hanno «lavorato a tutto
campo per sgombrare tutte le ipotesi anche di fantasia».

Se da un lato, dunque, l'attenzione di Rispoli si concentra sui tempi di vita a bordo delle vittime, l'avvocato
Carlo Palermo, che rappresenta un altro gruppo di familiari guidato dai figli del comandante del Moby,
Angelo e Luchino Chessa, ha chiesto alla Procura di poter acquisire alcuni atti dell'inchiesta bis aperta
proprio a seguito di una sua istanza. Prima di decidere se presentare opposizione o no al giudice per le
indagini preliminari alla richiesta di archiviazione, Palermo vuole vedere (o in certi casi rivedere) una parte
della documentazione messa agli atti dai magistrati, fra cui la parte nella quale si parla della presenza della
nebbia e la ricostruzione delle affermazioni rese dall'ufficiale della finanza Cesare Gentile, parte della cui
deposizione si trova peraltro nella stessa richiesta di archiviazione.

Luciano De Majo

15 maggio 2010
LA PROCURA METTE SOTTO INCHIESTA IL SUPERTESTIMONE

Nel novembre del 2007 si presentò in Procura dicendo di essere stato drogato e aggredito perché a
conoscenza di segreti scottanti sulla tragedia del Moby Prince. Oggi, a conclusione dell'inchiesta bis sulla
collisione, i magistrati di Livorno annunciano la loro intenzione di avviare indagini nei confronti di Fabio
Piselli. A quel punto, sostiene ancora la Procura, si potrà «procedere accertamenti sulla sua capacità di
intendere e di volere per i reati eventualmente configurabili con le sue dichiarazioni».

La richiesta di archiviazione della seconda indagine sulla tragedia del Moby Prince demolisce, fra le tante
ipotesi suggestive sorte all'indomani della riapertura del fascicolo, anche la vicenda del presunto
supertestimone. Il provvedimento firmato dai sostituti procuratori Carla Bianco, Antonio Giaconi e Massimo
Mannucci ricostruisce nei particolari tutte le dichiarazioni rese da Piselli ai magistrati che hanno indagato
sui fatti che l'hanno visto coinvolto.

La Procura di Pisa ha archiviato il procedimento che ereditò proprio da Livorno sulla questione
dell'aggressione che Piselli disse di aver subito a Bocca d'Arno, mentre stava aspettando una persona che gli
avrebbe dovuto fornire altre informazioni sul Moby. Piselli, ex militare e poi operatore sociale, riferì ai
magistrati di essere stato attaccato e drogato da quattro persone, che poi gli distrussero l'auto
incendiandola. Qualche giorno prima, aveva incontrato anche l'avvocato Carlo Palermo.

Piselli raccontò molte cose ai magistrati che lo hanno ascoltato a proposito del Moby Prince. Ma l'aspetto
che poteva sembrare più interessante era la descrizione di una vera e propria azione di guerriglia portata
avanti da un non meglio precisato commando israeliano, che si sarebbe impossessato del traghetto
prendendo in ostaggio il comandante e gli ufficiali con l'obiettivo di scatenare un incidente che facesse da
"diversivo" per distogliere l'attenzione da un'operazione di movimentazione di armamenti che invece
avrebbe coinvolto altre navi. Inutile aggiungere che, secondo lo stesso Piselli, la situazione sarebbe, in
qualche modo, sfuggita di mano e che le conseguenze dell'incidente sono state poi ben maggiori di quanto
non dovessero essere.

Gli inquirenti livornesi, però, hanno ritenuto totalmente inattendibili i racconti di Piselli, giunti quando
ormai l'indagine-bis sul Moby era già in fase avanzata, aspetto che, ricordano i magistrati nella loro richiesta
d'archiviazione, «ha consentito di escludere in modo categorico tale ricostruzione evitando di iscrivere
formalmente nuove ipotesi di reato nell'apposito registro». Duro il giudizio della Procura su Piselli: «Non
sembra tollerabile che una persona per motivi che solo ella conosce... possa impunemente sostenere
davanti al pubblico ministero una versione dei fatti che importa la commissione da parte di persone note e
ignote, anche appartenenti a istituzioni degli stati italiano e israeliano, di delitti gravissimi».

Luciano De Majo

9 maggio 2010
DEFINITIVA LA CONDANNA AL BIONDINO

Passerà alla storia della città come il delitto del biondino. Anche se lui, l'assassino che ha un volto ma un
nome vero ancora no, ormai ha i capelli ampiamente ingrigiti. E' definitiva la condanna a 27 anni nei
confronti di colui che si fa chiamare Andrei Orul.

La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha infatti rigettato il ricorso presentato dalla difesa del
"biondino", confermando la condanna a 27 anni comminata dalla Corte d'Assise d'Appello di Firenze, che a
sua volta aveva parzialmente riformato il verdetto della Corte d'Assise di Livorno, la cui condanna era stata
a trent'anni di reclusione. Il procuratore generale Antonello Mura ha chiesto che la condanna fosse
confermata, confermando così la bontà dell'impianto accusatorio sulla base del quale il giovane straniero
era stato condannato per due volte.

Gli avvocati Eraldo Stefani e Ferdinando Imposimato hanno provato a portare avanti le loro ragioni scritte
nelle quasi 60 pagine del ricorso in Cassazione, ma alla fine, quando la Suprema Corte ha emesso il suo
verdetto, hanno alzato bandiera bianca. «A questo punto - dice l'avvocato fiorentino Eraldo Stefani -
dobbiamo solo prendere atto di quello che hanno deciso i giudici, specialmente dopo che ci sono state
sentenze dal primo all'ultimo grado». Stefani aveva assunto la difesa di Orul insieme al professor
Ferdinando Imposimato a pochi mesi dal processo in Appello. E dopo il verdetto maturato a Firenze, per la
difesa negativo, aveva annunciato l'intenzione di voler andare fino in fondo, scomodando perfino le
istituzioni europee. Adesso, invece, quella volontà sembra sfumare. A meno di un ulteriore ripensamento e
di clamorose sorprese, insomma, non ci sarà il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo.

Andrei Orul continua comunque a costituire un enigma vivente. Sta scontando la sua pena nel carcere
fiorentino di Sollicciano. Che fosse in quella pineta di Chioma il giorno del delitto e che abbia sparato, lo
dice lui stesso. Ma su chi sia davvero, sulla sua provenienza, perfino su quale sia la sua identità reale, il
mistero è ancora fitto. Non ha mai raccontato niente di preciso sul suo passato. Sui documenti processuali
c'è scritto che è nato nel 1978 ad Angarchk (Russia), ma non si esclude neppure che possa essere nato in
Grecia nel 1976. E il fatto che quando la polizia tedesca comunicò che era suo il dna diffuso per la ricerca
del killer lui fosse in carcere in quella che una volta era la Germania Est, non è forse un fatto che alimenta
ulteriormente i dubbi sulla sua nazionalità? Il colpevole del delitto di Chioma, in ogni caso, adesso c'è ed è
stato condannato in via definitiva. Ma con ogni probabilità non sapremo mai il suo vero nome. Un killer
senza storia, in effetti, non si era mai visto.

Luciano De Majo

4 marzo 2010
IL BIONDINO, KILLER FREDDO E BUGIARDO

Quella di Andrei Orul è una «personalità algida, ambigua e impenetrabile». Un uomo abituato a mentire,
anche sul movente dell'omicidio nel quale ha ucciso la giovane Annalisa Vincentini, il 19 agosto del 2002.
Per i giudici del tribunale, che hanno condannato a trent'anni di carcere il «biondino» scovato nella ex
Germania Est grazie alla prova del Dna, il giovane ha ammazzato mentre stava cercando soldi. «Era
verosimile - hanno scritto i giudici nella sentenza - che vivesse di espedienti» e che «avesse necessità di
procurarsi denaro», pensando di riuscire in quest'intento con una rapina.

Poli credibile. E' stata depositata in questi giorni la sentenza emessa dalla Corte d'assise il 12 febbraio
scorso, a notte fonda. Nelle 79 pagine firmate dal presidente della Corte Vincenzo Martorano e dal giudice
estensore Beatrice Dani, in sostanza si avvalora l'ipotesi dell'accusa e si attribuisce credibilità a quanto
riferito dall'unico testimone oculare del delitto, Stefano Poli, l'amico della vittima, che a detta dei giudici è
da ritenersi attendibile perché non ha mai cambiato versione nel racconto dei fatti, reso più volte nel corso
degli anni.

«Inattaccabile». «Ci vorrà tempo per studiarsi la sentenza - dice l'avvocato Pietro Visalli, legale di parte
civile incaricato da Elisabetta Sartoni, la madre della vittima - però sembra di capire che l'impianto
accusatorio formulato dal pubblico ministero e condiviso dalle parti civili abbia retto. E' una sentenza che al
momento mi sembra inattaccabile». Nei prossimi giorni, forse, arriveranno altri commenti, fra i quali quello
dello stesso pubblico ministero Giuseppe Rizzo. Mentre l'avvocato Riccardo Melani, che ha curato la difesa
dell'imputato, ha annunciato che in ogni caso presenterà ricorso in appello.

Il confronto. Particolare attenzione è stata prestata dai giudici al confronto che andò in scena in aula fra i
due protagonisti del processo nell'udienza del 15 gennaio, a un mese dalla conclusione. Anche in quella
occasione, scrivono i giudici, «Poli ha ribadito la sua versione, circostanziandola e rispondendo con
coerenza e senza contraddizioni a tutte le domande». Mentre «Orul in sede di confronto si è limitato a dire
che Poli diceva menzogne, senza aggiungere particolari».

Di chi era l'arma? Alla fatidica domanda sul possesso della Makarov, la pistola di fabbricazione sovietica che
ha ucciso Annalisa, i giudici rispondono che era del «biondino». I soli testimoni che avevano espresso
qualche dubbio, su questo, erano Maruska Morelli, la barista di Antignano, e Vincenzo Verdicchio,
frequentatore dello stesso bar. In particolare la donna, amica della giovane vittima: Annalisa le avrebbe
confidato, tornando da una cena, che Poli aveva una pistola con la quale cacciava i cinghiali di frodo. Ma
questa testimonianza è stata ritenuta priva di attendibilità dalla Corte d'assise che ha emesso la sentenza.
Secondo i giudici, la descrizione di Maruska Morelli era «stata quantomeno influenzata e suggestionata
dalla stampa, sulla quale era già ampiamente apparsa la descrizione dell'arma», ma anche «dal clima che si
era creato attorno al delitto di Chioma soprattutto nell'ambiente del suo bar, ove i vari frequentatori e
clienti fin dall'inizio propendevano per la colpevolezza del Poli e non credevano all'ipotesi della rapina».

Un killer bugiardo. In uno dei passaggi più significativi della sentenza, i giudici parlano di Andrei Orul come
di una persona caratterizzato da una «naturale e quasi spontanea tendenza a mentire, confermata anche
dal fatto che neppure ha voluto fornire notizie circa la sua lingua d'origine e sul suo passato in genere».
Quest'immagine di ragazzo misterioso privo di storia e di ricordi, insomma, ha finito per ritorcersi contro
Orul. Sempre che di Andrei Orul si tratti, visto che nella stessa sentenza si fa riferimento a quando in
Germania si presentava come il greco Tarasadian Nalpantian. Più che un uomo senza memoria, hanno
concluso i giudici, questo «biondino» si è rivelato come persona assai abituata a non raccontare la verità. E i
riferimenti agli episodi prima accennati e a volte smentiti, riguardanti anche la sua infanzia, non mancano.
Così, secondo i giudici il «biondino» ha mentito anche quando diceva che nell'agosto del 2002, mentre si
trovava in Italia, non aveva problemi economici e passava la notte nella sua auto per scelta personale. In
realtà, sostengono i giudici nella sentenza, lui aveva bisogno di soldi e per questo decise di procurarseli
facendo una rapina. Una rapina andata a segno, visti i 150 euro che gli ha consegnato Poli, ma poi finita
male. Finita in tragedia.

Luciano De Majo

14 maggio 2008
TRENT'ANNI AL BIONDINO CHE UCCISE ANNALISA

Andrei Orul, il «biondino» dal passato sconosciuto, è stato condannato. Non all'ergastolo, come voleva
l'accusa, ma a trent'anni. E' lui, secondo i giudici livornesi, l'assassino di Annalisa Vincentini, la giovane
uccisa nella pineta di Chioma il 19 agosto del 2002. La Corte d'Assise presieduta da Vincenzo Martorano
(giudice a latere Beatrice Dani, poi sei giudici popolari fra cui nessuna donna) ha emesso la sua sentenza
mezz'ora dopo la mezzanotte, dopo cinque ore e mezza di camera di consiglio. Una sentenza che ha
sostanzialmente accolto la tesi del pubblico ministero, riconoscendo però all'imputato le attenuanti
generiche (equivalenti al fatto e non prevalenti, come aveva chiesto la difesa). Oltre ai trent'anni di carcere
(tre dei quali scompaiono per effetto dell'indulto, e altri due praticamente già scontati), Orul è stato
condannato a pagare 230mila euro di provvisionali a titolo di risarcimento: 100mila euro per Paolo
Vincentini, il padre di Annalisa, 100mila euro per Elisabetta Sartoni, la madre della ragazza, e 30mila euro
per Stefano Poli, il testimone del delitto. Al momento di ritirarsi, davanti alle richieste degli avvocati che
volevano conoscere, almeno indicativamente, l'ora della lettura della sentenza, il presidente della Corte si
era lasciato sfuggire una previsione ottimistica: «Non prima delle 21,30». In effetti, si è andati oltre le 21,30,
ma l'attesa è durata molto di più.

L'accusa. Il pubblico ministero Giuseppe Rizzo, al termine di una requisitoria durata un'ora e mezza, aveva
chiesto il massimo della pena, addebitando a Orul tutti i reati di cui era imputato: omicidio volontario della
ragazza, tentato omicidio del testimone Stefano Poli, rapina e detenzione abusiva di arma da fuoco. Nella
sua ricostruzione, Rizzo ha individuato qualche lacuna nelle dichiarazioni fornite da Poli, che però è stato
complessivamente definito «testimone attendibile». «Fin dalle ore che seguirono il fatto - ha detto il
magistrato - non ha mai cambiato versione, usando lo stesso linguaggio e perfino gli stessi gesti». Il
pubblico ministero, che ha sottolineato l'importanza assoluta della prova del dna che ha consentito a
questa indagine di approdare al processo con l'incriminazione del «biondino», ha anche aggiunto che Orul
potrebbe aver sparato a seguito di un gesto di reazione abbozzato dalla vittima, o forse dallo stesso Poli.
Ipotesi che, però, non ha trovato conferma nel corso del dibattimento. Quanto all'imputato, Rizzo ha
sottolineato quella che ha definito «la sua abitudine a mentire». Non solo nella sua versione dell'episodio al
centro del processo, ma anche su ciò che riguarda la sua vita, addirittura sulla sua identità, mai chiarita fino
in fondo. Lui, insomma, è stato processato come «sedicente» Orul.

La difesa. Dopo un processo trascorso interamente a tenere un profilo basso, l'avvocato Riccardo Melani
stavolta ha sfidato l'accusa a viso aperto, arrivando a chiedere l'assoluzione per il suo assistito o, in
subordine, la condanna al minimo della pena con la concessione delle attenuanti generiche prevalenti sul
fatto. Aveva ben poco da perdere: davanti alla richiesta di ergastolo del pubblico ministero, Il difensore ha
provato, in due ore di arringa, anche a mettere in evidenza qualche possibile contraddizione nelle
numerose testimonianze rese da Poli, sia in fase di indagine sia al momento del suo esame durante il
processo. Particolari probabilmente non fondamentali, ai fini della ricostruzione complessiva del fatto,
eppure di rilievo secondo Melani. E ha insistito, soprattutto, sul possesso della pistola. Secondo la difesa, la
Makarov con cui è stata uccisa Annalisa Vincentini ben difficilmente sarebbe stata nascosta da Orul, che
indossava maglietta e pantaloni corti. Poi c'è la questione della testimonianza di Marusca Morelli, la barista
di Antignano amica della vittima. «E' stata lei - ha affermato l'avvocato Melani - a dire che la stessa Annalisa
le confidò che Stefano aveva una pistola. Lo disse ai carabinieri ma è stata ritenuta scarsamente attendibile:
che interesse aveva a mentire?».

Le parti civili. «Dichiarazioni che erano cariche di pregiudizio, quelle della Morelli - ha invece detto
l'avvocato Enrico Pappalardo, legale di parte civile che rappresenta Stefano Poli - perché in quei giorni che
seguirono il delitto c'era un clima di ostilità verso Poli. C'era, fra i frequentatori del bar, chi pensava che
l'assassino potesse essere lui. E invece la Procura ha fatto le indagini come si deve, evitando di incappare
nella caccia all'untore». Pappalardo è stato molto duro con l'imputato. A un certo punto lo ha definito «un
bugiardello che potrebbe essere perfino simpatico se non avesse ucciso una ragazza di 24 anni». Ha chiesto,
il legale di Poli, una provvisionale di 50mila euro come risarcimento, associandosi alla richiesta di condanna
del pm, nell'attesa del ricorso in sede civile. Gli avvocati Pietro Visalli e Leandro Comaschi, rappresentanti
dei genitori della giovane vittima, avevano invece chiesto due provvisionali di 250mila euro ciascuna.

Luciano De Majo

13 febbraio 2008
«IL MIO NOME NON LO SO, CHIAMATEMI ORUL»

Oggi starà ad ascoltare. Se ne rimarrà in silenzio, a seguire quello che il pm, gli avvocati e i testimoni
diranno. Non è ancora arrivato il momento del «biondino».

Lui, il giovane imputato del processo che oggi entra nel vivo, accusato di avere ucciso Annalisa Vincentini in
un giorno d'estate di cinque anni fa, sarà sottoposto all'esame dell'aula soltanto nelle prossime udienze.
Perché oggi toccherà agli ufficiali di polizia giudiziaria, citati come testimoni dal pubblico ministero
Giuseppe Rizzo, che agirono sulla scena del delitto nell'immediatezza del fatto. Quelli che effettuarono i
primi rilievi e che parteciparono alle indagini nelle ore successive al delitto di Chioma.

Il personaggio. In ogni caso, anche se non sarà lui a parlare oggi, il «biondino», i cui capelli per la verità
sono piuttosto ingrigiti, rimane il personaggio chiave di tutta la vicenda. Non solo perché è l'imputato, ma
per il comportamento che ha tenuto in questi mesi di detenzione, nei quali è stato a disposizione della
magistratura livornese che ha portato avanti l'indagine, una volta individuato l'uomo in una prigione di
Goerlitz, città tedesca non lontana dal confine con la Polonia.

Sedicente. Andrei Orul è il nome che ha dato lui agli inquirenti, pur sapendo perfettamente che si tratta di
un nome falso (in Germania aveva fornito almeno tre identità differenti). A coloro che l'hanno interrogato
ha detto, più volte, di non ricordare come si chiama, forse di non saperlo neppure. Della sua vita,
soprattutto di quella passata, dice di non ricordare niente. Sa soltanto di essere nato ad Atene. Anche l'età
è quella che racconta lui: 31 anni, ha detto. Un enigma vivente, questo russo che però parla solo tedesco. In
prigione si è divorato libri su libri, non ha fatto lo sbruffone e si è mostrato sempre, nei colloqui che ha
avuto con gli inquirenti, persona educata. Sembra che abbia anche una fidanzata, forse nella Germania
sudorientale, non lontano da Dresda. Gli inquirenti l'hanno cercata a lungo, senza successo.

E la pistola? Alla fine, inchiodato dalla prova del dna, ha ammesso di essersi trovato sulla scena del delitto
nel momento del delitto e anche di avere sparato. Ma, ha detto in maniera altrettanto secca, non aveva la
pistola. Insomma, quella Makarov con matricola abrasa e munita di silenziatore, non sarebbe stata sua. Di
chi, allora, se non dell'unico testimone presente in quella radura di Chioma, il tipografo del Tirreno Stefano
Poli?

A confronto. E' chiaro, fin d'ora, che l'altro personaggio importante del processo sarà lui, l'amico della
giovane vittima. Il suo esame dovrebbe andare in scena nell'udienza del 30 ottobre, o forse in quella del 15
novembre, già fissate nel calendario processuale. Ma l'accusa non sembra intenzionata ad avvalorare
l'ipotesi secondo cui l'arma sarebbe stata di proprietà del Poli, che un regolare porto d'armi ce l'ha (una
licenza di porto di fucile, per la verità, come quella che hanno tutti i cacciatori): per quale motivo avrebbe
dovuto procurarsi un'arma sul mercato clandestino, quando avrebbe potuto acquistarla regolarmente,
estendendo la propria licenza? D'altra parte, la Makarov era la pistola in dotazione agli ufficiali dell'Armata
rossa e degli eserciti dei paesi satelliti dell'Unione Sovietica. E chissà quante di queste armi, dopo il crollo
dell'impero dell'est, hanno preso a circolare a buon mercato. Una tesi che la difesa di Orul, il cui legale è
l'avvocato Riccardo Melani, contesta alla radice. Va da sé che la proprietà della pistola che uccise Annalisa
sarà il punto del contendere sul quale le parti si divideranno in maniera più forte.

Luciano De Majo

25 settembre 2007
IL BIONDINO RIMANE UN ENIGMA

Legge libri a buon ritmo, non fa l'arrogante né lo sbruffone. Se ne sta in carcere, in una cella del
penitenziario pisano «Don Bosco», senza rinunciare a difendersi. Il «biondino», il presunto killer
protagonista del delitto di Chioma, continua a essere, in buona misura, un enigma per gli inquirenti, che
ancora sono alla ricerca di diversi particolari per ricostruire la dinamica di quel pomeriggio d'estate del
2002, quando fu uccisa la giovane Annalisa Vincentini.

Nell'interrogatorio sostenuto davanti al pm Giuseppe Rizzo, il giovane detenuto, inchiodato nei mesi scorsi
dalla prova del Dna, ha ammesso che era a Chioma quel giorno e che ha sparato. Due certezze importanti,
nell'economia complessiva dell'inchiesta. Ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire, a cominciare dalla
presenza della pistola munita di silenziatore e da chi ne era il proprietario. Lui, quello che è noto come
Andrei Orul, a quanto si è capito nega di averla avuta sempre, ma non c'è niente di certo su questo fronte.
A cominciare proprio dalla reale identità di questo giovanotto prelevato dalla ex Germania est e poi portato
in Italia.

I documenti di cui era in possesso fanno risalire all'identità di un greco dal nome e cognome
impronunciabili. Lui ha detto soltanto di chiamarsi Andrei Orul e chissà quante altre volte avrà dato
generalità diverse ai vari soggetti coi quali ha avuto a che fare. Spesso confessa di non ricordare granché di
quell'episodio, pur essendo pienamente consapevole che corre il serio rischio di una condanna per
omicidio. Ma su chi sia veramente, quale passato abbia e che cosa abbia combinato nella sua vita, non si sa
praticamente nulla. Anche per questo la Procura livornese, prima di inoltrare la richiesta di rinvio a giudizio,
vuole vederci più chiaro. Magari continuando a collaborare con la polizia tedesca, che qualcosa di più
potrebbe sapere proprio sul fronte dei tempi trascorsi. Il «biondino» che è in carcere, per ipotesi, potrebbe
anche avere qualche precedente nei paesi dell'est dei quali dice di essere originario. Oggi tutto ciò è
sconosciuto agli investigatori livornesi. Ma se col passare del tempo si scoprisse, ad esempio, una sua
attività criminale passata, ciò potrebbe rendere il quadro complessivo assai più semplice. C'è ancora da
scavare, insomma, e neppure così poco, nel passato di questo giovane descritto come persona dai modi
gentili e tutt'altro che arroganti.

Nel frattempo, sul tavolo del sostituto procuratore che dirige l'indagine, entro breve tempo dovrebbe
arrivare la consulenza affidata al professor Domenico Compagnini, che proprio in questi giorni sta
definendo la bozza del suo elaborato. A quel punto, il magistrato avrà davvero tutti gli elementi per
formulare la richiesta di rinvio a giudizio e far entrare il caso nella fase del dibattimento.

Luciano De Majo

10 gennaio 2007
MORTI DA AMIANTO, ARRIVANO 5 CAUSE

Il tempo di far passare i giorni tradizionalmente dedicati alle vacanze, poi i ricorsi saranno inoltrati
ufficialmente al giudice del lavoro. Saranno cinque. Cinque ricorsi fotocopia, nei quali i familiari di
altrettanti lavoratori del Cantiere Orlando chiederanno il risarcimento per l'esposizione all'amianto. Un
cammino che si annuncia lungo e faticoso, ma che potrebbe portare a un risultato storico, cioè l'apertura di
uno squarcio di luce - sia pure sul fronte della giustizia civile - sull'utilizzo dell'amianto in Cantiere e sulle
conseguenze che ha avuto sulla salute dei dipendenti.

A seguire queste cause sarà il giovane avvocato Giacomo Pasquinucci, che proprio in questi giorni ha
ricevuto la procura dalle famiglie di Gilberto Sargenti, di Nedo Lippi, di Ivano Pellegrini, di Carlo Tramonti e
di Franco Calò. Tutti morti per il mesotelioma pleurico, il pericolo numero uno per chi ha lavorato nel
vecchio Cantiere Orlando, dove l'amianto veniva utilizzato a piene mani.

Queste cinque cause rappresentano anche il risultato dell'impegno di molti ex lavoratori, che si sono stretti
attorno alle famiglie di alcuni compagni di lavoro che hanno visto morire e le hanno accompagnate fino alla
stesura dei ricorsi. Ci sono stati incontri nella sede del circolo ricreativo del Cantiere nei quali sono state
ripercorse le storie di ognuno. Operai scomparsi fra i 50 e i 55 anni, che hanno lasciato quelle mogli e quei
figli che oggi, vincendo anche tutte le resistenze che in questi casi sorgono spontanee quando si guarda
all'iter processuale sicuramente lungo, chiedono giustizia per loro, contando anche sulle testimonianze che
i colleghi di allora saranno pronti a portare, una volta convocati dal giudice. E anche la ricerca di questi
vecchi lavoratori è stata un impegno non irrilevante.

A essere chiamata in causa dalle famiglie dei "cantieristi" deceduti sarà la Fincantieri. In pratica, lo Stato.
Perché il Cantiere Orlando, prima della trasformazione in cooperativa a partire dal 1996, era stato uno
stabilimento nell'alveo delle partecipazioni statali. E in quegli anni, prima della legge che metteva al bando
l'amianto del 1992, la fibra killer è stata una costante nelle lavorazioni del Cantiere. Nell'ottobre di due anni
fa una sentenza del giudice del lavoro di Livorno ha riconosciuto un risarcimento di un milione e 200mila
euro alla famiglia di Alessio Ielencovich, impiegato dell'Officina navale, morto a 67 anni nel 2005. Nella
perizia ordinata dal giudice per quel procedimento, l'esperto scrisse che 37 dipendenti di quella fabbrica
avevano contratto il mesotelioma per aver respirato amianto. Una scia di tumori lunghissima, della quale
ancora non è possibile vedere la fine, considerata la lunghezza dei tempi di incubazione della malattia.

Luciano De Majo

20 agosto 2010
MORTO PER L'AMIANTO, MAXIRISARCIMENTO

I familiari di Bruno Iacoponi, operaio della vetreria Borma morto nel 2000 dopo un'esposizione all'amianto
quasi trentennale, hanno diritto a un risarcimento che sfiora il milione e 100mila euro. Lo ha stabilito il
giudice del lavoro Domenico Provenzano.

La cifra indicata dal giudice è comprensiva di rivalutazioni e interessi ed è così suddivisa: 250mila euro circa
per diritto di eredità e 835mila per danno biologico destinato agli eredi e suddivisi fra la vedova e i due figli
di Iacoponi. Il giudice ha suddiviso le responsabilità in questa misura: 70 per cento al gruppo Avir e 30 per
cento alla Saint Gobain, le due società che si sono avvicendate nella proprietà dello stabilimento di via delle
Cateratte, dove Bruno Iacoponi ha lavorato per quasi trent'anni, esposto all'amianto.

Logica la soddisfazione della vedova, la signora Graziella Fanfani, assistita dall'avvocato Federico Lucarelli di
Roma, rappresentato a Livorno dallo studio dell'avvocato Marco Talini. La signora, però, al di là dell'aspetto
puramente economico, naturalmente rilevante in questa vicenda, tiene a precisare che quest'azione non è
stata iniziata da lei o dai suoi figli. «Fu mio marito a denunciare la situazione - racconta - era ancora in vita
quando ebbe il 100 per cento di invalidità e gli fu consigliato di intraprendere l'azione legale. Poi lui morì e
noi non eravamo così disposti a proseguire, ma parlando con l'avvocato ci convincemmo a andare avanti.
Così avrebbe voluto Bruno».

Bruno Iacoponi era un operaio della Borma, fiero del suo lavoro. Tutti quegli anni passati in fabbrica, però,
gli lasciarono un'eredità pesantissima: l'esposizione all'amianto che lui stesso descriveva ai familiari come
«una bomba che non si sa quando scoppierà». E' morto l'ultimo dell'anno del 2000, a 56 anni appena, dopo
grandi sofferenze. «E gli ultimi tempi sono stati davvero terribili - ricorda Graziella Fanfani - nei quali mio
marito era davvero irriconoscibile. Fisicamente e non solo. Non era più in grado di coltivare le sue passioni,
lui che era cacciatore e pescatore. Né avevamo più le nostre occasioni di svago».

La causa è stata lunga, come accade di solito per procedimenti di questo tipo. Dal 2003 ci sono state tante
udienze, e poi perizie tecniche (il giudice ha scelto il professor Battista come consulente medico),
testimonianze, ricostruzioni della condizione lavorativa all'interno dello stabilimento di via delle Cateratte,
chiuso poi nel 1994. La conclusione di ieri lascia aperta, naturalmente, la porta al ricorso da parte del
gruppo Avir, che però prima di annunciarlo ufficialmente vorrà leggere le motivazioni della sentenza del
giudice del lavoro. Nel frattempo, il provvedimento emesso è provvisoriamente esecutivo, cosicché alla
famiglia di Iacoponi quei soldi dovranno arrivare davvero.

«Abbiamo vinto la causa e siamo contenti di questo - conclude la vedova dell'operaio della Borma - però
mio marito non me lo ridà più nessuno e solo io so quanto l'ho visto soffrire. Forse, meglio dei soldi,
sarebbe stato che qualcuno dei proprietari della fabbrica avesse pagato di persona in altro modo perché
non si va al lavoro per morire, ma per vivere e per far vivere le proprie famiglie. Ecco, questo mi sento di
dirlo. Però l'impressione è che quelli grossi davvero non paghino mai...».

Luciano De Majo

26 marzo 2010
BASKET, SI INDAGA SUI SOLDI PUBBLICI

La Procura della Repubblica continua a indagare sulla gestione della società di basket che ormai un anno fa
ha rinunciato alla Legadue facendo scomparire la città dai campionati professionistici.

L'attenzione degli inquirenti, coordinati dal sostituto procuratore Massimo Mannucci, sembra rivolgersi
soprattutto ai rapporti fra la Livorno basket e la Livorno sport, società di proprietà del Comune che è tuttora
socia al 5 per cento del sodalizio cestistico, sia pure in liquidazione. Al centro degli accertamenti, anche i
flussi di denaro che dalla società comunale sono partiti verso quella che ha portato avanti la gestione della
squadra di basket. Numeri che non sono certo misteriosi, visto che nel corso degli anni la Livorno sport è
stata socia a vario titolo: per una stagione è stata anche socia unica, facendo fronte all'intera gestione del
campionato di serie A.

Ieri in Procura è stato ascoltato, come persona informata sui fatti, Enrico Costagli, il ragioniere che per un
anno è stato presidente del collegio dei sindaci revisori della Livorno basket e che rassegnò le proprie
dimissioni alla fine del 2008, quando fu sostanzialmente messo in minoranza dagli altri due sindaci, che non
vollero votare la relazione al bilancio da lui predisposta. Al bilancio ne fu allegata poi un'altra versione,
approvata dagli altri revisori, che introducevano un passaggio non da poco, quando subordinavano il
giudizio sul bilancio al rispetto degli impegni presi da «autorevoli esponenti dell'amministrazione
comunale».

Costagli, che è rimasto due ore a rispondere alle domande degli inquirenti, invece nel testo da lui
predisposto invitava l'assemblea «a valutare attentamente il bilancio presentato e a deliberare senza
indugio gli opportuni provvedimenti per la copertura della perdita d'esercizio», chiamando i soci a sborsare
il denaro per ripianare il deficit maturato.

Luciano De Majo

7 agosto 2010
CERCA LE FIGLIE SPARITE IN TUNISIA

Saida ha compiuto cinque anni a luglio, Amira ne farà tre nel prossimo febbraio. Nate a Livorno, da madre
livornese e padre tunisino, adesso non si sa dove si trovino. E la famiglia della mamma rivolge un appello
alle istituzioni.

Elio Dini e Cinzia Cipolli, i nonni delle due piccole, non sanno che cosa fare perché le bambine tornino alla
madre, che ormai da un anno le sta cercando in Tunisia. Il padre di Amira e Saida si chiama Nabil Zakraoui.
Nel 2001 sposò Laura Dini. Poi, dopo la nascita delle figlie, il rapporto si logora e la donna chiede la
separazione. Malgrado questo, nel novembre del 2008 decide di seguire Nabil a Tunisi, per un breve
soggiorno, salvo poi scoprire, la notte prima della partenza, che lui e le bambine non sarebbero tornati in
Italia il giorno seguente.

«Nostra figlia - raccontano Elio e Cinzia - non sapeva cosa fare. Tornò in Italia, ma prima contattò la nostra
ambasciata a Tunisi. E una settimana dopo riprese l'aereo per andare nuovamente in Tunisia». E' in questo
momento che Laura Dini comincia la sua battaglia. Una battaglia difficile, che però dopo una lunga serie di
vicissitudini riesce a vincere: tanto la giustizia italiana quanto quella tunisina, nella quale non ha mai smesso
di avere fiducia, le affidano le bambine. Ma è tutto inutile, perché lei le figlie non le vede da otto mesi. L'8
aprile 2009 il padre preleva Saida e Amira dall'asilo dove vanno, a Rades, nella zona di Tunisi. Lo fa con le
maniere spicce, aggredendo le insegnanti e portandole via di forza. Da quel giorno, Laura non sa più dove
siano le sue figlie. Anche perché, nel frattempo, Nabil viene arrestato.

«Nessuno sa dove siano le nostre nipoti - dicono addolorati Elio Dini e Cinzia Cipolli - perché lui non parla,
dice soltanto che le bimbe stanno bene ma non vuol dire dove si trovino. Nostra figlia ha dovuto sopportare
di tutto: per alcuni giorni è stata perfino segregata in casa dal marito, i lucchetti alle finestre, e solo
l'intervento della polizia ha potuto farla uscire nuovamente».

Saida e Amira, finché hanno vissuto a Livorno, avevano amici e amiche. Erano felici con la madre, il padre, i
nonni che le coccolavano. Adesso la loro assenza ha lasciato un vuoto enorme nella famiglia della mamma,
che aspetta con ansia il momento di rivederle. Un'ansia che spesso lascia spazio all'angoscia: «Noi
chiediamo aiuto alle istituzioni, tutti coloro che possono fare giustizia ci diano una mano». Intanto del caso
si occupa il programma televisivo di Raitre "Chi l'ha visto?".

Laura Dini adesso abita a Sousse, a 150 chilometri da Tunisi, in un appartamento che ha preso in affitto. E
non sa ancora quale sarà il momento in cui potrà riabbracciare le figlie. Ha detto anche di essere disposta a
vivere in Tunisia, pur di stare con le bambine. Ma non sa dove sono. Non sa con chi vivono. Non sa,
soprattutto, come rendere concreta l'applicazione delle leggi che le hanno dato ragione, assegnandole in
via esclusiva l'affidamento delle piccole. Lo ha stabilito non solo il tribunale di Livorno, ma anche la giustizia
tunisina.

«Sono disperata e non so davvero a chi rivolgermi - dice Laura, raggiunta al telefono in Tunisia - per riuscire
a vedere le mie figlie. Io ne ho diritto, ma ciò non è sufficiente per risolvere la situazione».

Luciano De Majo

6 dicembre 2009
SAIDA E AMIRA SONO CON LA MAMMA

Questo sì che è un regalo di compleanno. Nel giorno in cui la piccola Saida ha compiuto sei anni, ha potuto
riabbracciare la madre insieme alla sorellina Amira, che di anni ne ha tre. E' successo al tribunale di Ben
Arous, alla periferia di Tunisi, dove ieri mattina Laura Dini, livornese di 36 anni, le ha strette a sé dopo quasi
un anno e mezzo di attesa, visto che il padre le aveva fatte sparire nell'aprile del 2009.

Fino a ieri non erano servite a niente sentenze italiane e tunisine che affidavano le bambine alla mamma,
rimaste pezzi di carta senza alcun effetto concreto. Nessuno sapeva dove fossero Saida e Amira. Solo lei,
Laura, madre coraggio livornese, non ha mai perso la speranza di poterle rivedere e per questo motivo
aveva deciso di trasferirsi in Tunisia, sicura che le figlie fossero ancora lì, in qualche villaggio nei pressi di
Tunisi, dove erano andate per la prima volta alla fine del 2008, in un viaggio che doveva essere di pochi
giorni ma che poi, per loro e per la madre, si era trasformato in un vero e proprio incubo. Da quel
momento, le piccole non hanno mai più fatto ritorno in Italia.

Secondo le prime ricostruzioni, avrebbero vissuto in diversi posti, andando da una casa a un'altra, sempre
controllate dal "clan" di Nabil Zakraoui, l'ex marito di Laura, che le aveva prelevate dall'asilo dove
andavano, nell'aprile del 2009, aggredendo le insegnanti. L'arresto ha fermato lui, ma non i suoi parenti,
che hanno continuato a tenere Saida e Amira ben distanti dalla madre, che nel frattempo si è rivolta
all'ambasciata italiana e alle istituzioni tunisine.

E' servito un vero e proprio blitz della polizia tunisina per restituire le bambine alla mamma. Un blitz
maturato nel pomeriggio di giovedì: nel quartiere di Tunisi dove è avvenuto, ci sono stati anche scontri,
perché chi custodiva le piccole non vedeva certo di buon occhio l'intervento degli agenti. E così, allo stesso
modo, ieri mattina l'incontro fra Laura, Saida e Amira è avvenuto in un contesto quasi blindato: la madre è
stata scortata da 25 poliziotti al tribunale di Ben Arous. «Sì, le bimbe sono qui con me - diceva ieri Laura
Dini, raggiunta per telefono a Tunisi - potete immaginare la mia gioia. Come le ho trovate? Un po'
frastornate, non è che ci siamo dette molto perché parlano solo arabo. Solo Saida, la più grande, capisce e
parla un po' in italiano. Mi ha chiesto dove ero stata in tutti questi mesi, perché non ero con loro. Ho
risposto che ero qui che le ho cercate tanto e in ogni quartiere di Tunisi e dei villaggi vicini».

Frastornate e anche un po' provate dai continui spostamenti escogitati da chi le custodiva per sfuggire alla
polizia che stava indagando. Saida ha raccontato alla mamma che spesso lei e la sorellina venivano portate
da un posto all'altro e quando uscivano le camuffavano con cappelli e sciarpe perche nessuno le
riconoscesse.

La battaglia di Laura Dini è andata avanti per mesi e mesi (un anno e tre mesi per l'esattezza) fra Tunisia e
Italia. In Tunisia, perché lei è rimasta nel paese africano per non perdere i contatti con l'ambasciata e coi
luoghi dove le piccole si trovavano. In Italia, perché sono state coltivate altre relazioni con esponenti delle
istituzioni locali e nazionali. Laura, insieme ai genitori Elio e Cinzia, è stata ricevuta dal sindaco Alessandro
Cosimi e dal senatore livornese Marco Filippi, che ha aperto altri canali di confronto col ministero degli
Esteri. Il caso ha trovato una dimensione anche politica dalla fine del 2009, quando un inviato del Tirreno
trascorse alcuni giorni a Tunisi, affiancando la madre nelle ricerche. Da lì, dalle pagine dei giornali e dalle
televisioni, l'approdo nelle aule parlamentari. Tanto che anche la vicepresidente del gruppo Pd alla Camera,
Rosa Villecco Calipari e la presidente della Commissione infanzia Alessandra Mussolini hanno presentato,
non più di quattro o cinque mesi fa, una interpellanza al ministro Frattini. Intanto, la donna livornese ha
potuto continuare a rimanere a Tunisi grazie ai sacrifici dei suoi genitori, che sono arrivati a mettere in
vendita la loro casa.
Se è stato difficile liberare le bambine e restituirle alla madre, non è stato facile neppure il primo incontro
fra Saida, Amira e Laura. La più grande, Saida, ha stentato a riconoscerla, mentre la più piccola si è sciolta
prima e ha finito con l'addormentarsi in braccio alla madre.

«Non mi sono mai rassegnata a vivere lontana da loro - ha detto ancora Laura Dini - ho fatto di tutto, ma
non sarei mai riuscita a rivedere le mie bambine senza l'aiuto di molti: il governo italiano, l'ambasciatore, gli
avvocati, i miei amici e mio padre Elio che ha lanciato numerosi appelli perché le sue nipotine fossero
ritrovate e restituite alla mamma».

L'ambasciata italiana ha anche fatto in modo di trovare a Laura Dini una casa e un lavoro, per consentirle di
mantenere se stessa e le bambine a Tunisi, dove per il momento deve rimanere, come afferma anche la
sentenza emessa dai giudici tunisini che assegna le bambine in affidamento alla madre a condizione che lei
si impegni a vivere in Tunisia. Del rientro in Italia, a Livorno, ancora, non è possibile parlare, ma intanto le
bambine sono con la madre. Laura sarà seguita ancora dalla polizia tunisina, ma lei spera davvero di aver
voltato pagina definitivamente. «Non ho più paura - ha concluso Laura - è tutto cambiato, anche il mio ex
marito e la sua famiglia hanno capito. Per comunicare non mi preoccupo, i gesti parlano più delle parole, le
bambine impareranno presto l'italiano».

Luciano De Majo

17 luglio 2010
FALSATI GLI ESAMI DEI TUMORI, INFERMIERA ARRESTATA

Fanno segnare una svolta clamorosa le indagini sullo scandalo delle risposte contraffatte agli esami del
Corat, il Centro di prevenzione oncologica dell'ospedale di Livorno. Susanna Fiorini, 49 anni, l'infermiera
professionale indagata da alcuni mesi perché sospettata di aver cambiato volontariamente l'esito di
centinaia di esami, è agli arresti domiciliari. Il giudice per le indagini preliminari del tribunale labronico,
Rinaldo Merani, ha accolto la richiesta avanzata dai sostituti procuratori Giuseppe Rizzo e Paola Rizzo. I due
magistrati non avevano chiesto al tribunale la custodia cautelare in carcere, ma proprio la detenzione
domiciliare.

Dopo diversi mesi di indagini che la Procura ha delegato alla polizia, dunque, il gip ha disposto gli arresti per
la donna che, secondo gli inquirenti, ha falsificato oltre 400 referti. L'infermiera deve rispondere delle
accuse di falsità materiale commessa da dipendente pubblico incaricato di pubblico servizio, lesioni
personali aggravate e abuso d'ufficio.

La richiesta di custodia cautelare era stata presentata prima di Natale, il giudice prima di emettere la sua
ordinanza ha riflettuto una ventina di giorni, tanto complessa e delicata è questa vicenda.

Dei referti taroccati, 358 riguardano gli esami per la ricerca del sangue occulto nelle feci, utilizzato per la
prevenzione del tumore al colon retto. Gli altri invece sono pap test. Secondo quanto accertato nel lavoro
d'indagine, l'infermiera avrebbe agito con la medesima tecnica, facendo cioè veri e propri fotomontaggi. I
referti che recavano una risposta positiva diventavano negativi: chi, insomma, doveva fare ulteriori
approfondimenti, credeva di essere al riparo da rischi di sorta. E così, si è arrivati a scoprire almeno 18 casi
di tumore al colon di persone curate in ritardo proprio per la falsificazione dei referti.

I primi documenti contraffatti sono del 2006, proprio quando l'infermiera ha iniziato a prendere servizio al
Corat. A carico di Susanna Fiorini gli indizi sono cresciuti man mano che procedevano le indagini: le verifiche
sulle apparecchiature informatiche dell'Asl hanno confermato che ben 260 referti falsificati erano stati
inseriti nel sistema con il codice numerico che corrispondeva a quello dell'infermiera indagata. In più, nei
suoi periodi di ferie, come per incanto non c'erano più inserimenti dei «falsi». Tutti elementi che hanno
indotto gli inquirenti a perquisire casa, auto e ufficio dell'infermiera. Nella vettura è stato trovato un
ricettario per la prescrizione di farmaci che apparteneva a un medico ospedaliero di un altro reparto
rispetto a quello nel quale lavorava Susanna Fiorini. E in un cassetto chiuso a chiave, che apparteneva
all'indagata, c'era un referto fotocopiato con la stessa tecnica del fotomontaggio. Altri passi avanti,
insomma, che hanno confortato gli inquirenti che nel frattempo stavano continuando ad ascoltare persone
negli uffici della questura.

Ad annunciare la svolta nelle indagini, ieri, il procuratore della Repubblica Francesco De Leo insieme ai
sostituti Giuseppe Rizzo e Paola Rizzo che hanno seguito l'inchiesta, e il capo della squadra mobile Marco
Staffa. «E' stata un'indagine delicata e difficile - ha detto Staffa - come si potrà immaginare: non è facile
parlare con persone convinte di avere un esito favorevole dell'esame al quale si sono sottoposte mentre la
situazione era opposta».

Ancora dubbi sulle motivazioni che hanno portato l'infermiera a falsificare i referti. Se da un lato si può
pensare alla volontà di scansare gli adempimenti da effettuare in caso di esito positivo degli esami -
adempimenti che non sono previsti quando la risposta è negativa - il provvedimento del giudice ipotizza
invece una volontà di ritorsione incrociata nei confronti di Asl e Corat.

Luciano De Majo

21 gennaio 2009
ESAMI ONCOLOGICI, CENTO RISPOSTE SBAGLIATE

Asl e Procura della Repubblica indagano su una serie di risposte sbagliate mandate a un centinaio di
pazienti che si erano sottoposti all'esame per la prevenzione del tumore del colon retto, al Corat, il Centro
oncologico che ha sede all'ospedale. Ad accorgersi dell'inghippo sarebbe stata proprio l'Azienda sanitaria
che, durante i normali controlli di qualità al proprio interno, ha visto che in diversi casi l'esito dell'esame
sulla presenza di sangue occulto nelle feci era opposto a quello scritto nella risposta.

Per prima cosa, sono stati informati i diretti interessati, che attraverso una lettera sono stati invitati a
presentarsi nuovamente per ripetere l'esame. Anche perché, a quanto è dato sapere pur nel muro di
silenzio che arriva dall'Azienda sanitaria, gli errori compiuti erano tutti dello stesso genere: casi di positività,
e quindi di presenza di sangue, che imponevano l'esecuzione di ulteriori accertamenti, sono stati
trasformati in casi negativi, dove non ci sarebbe stato niente su cui indagare ancora. Quindi, i pazienti che
credevano di potersene stare con il cuore in pace ad aspettare il controllo successivo, hanno dovuto
sottoporsi ad altri esami per capire a quali cause era dovuta la presenza di sangue.

Subito dopo, l'Asl ha aperto un'indagine interna e ha provveduto a sporgere denuncia alla Procura della
Repubblica sul caso. E la magistratura livornese ha cominciato i propri accertamenti su quelli che, al
momento, sembrano presentarsi come errori del sistema che gestisce gli esami e l'elaborazione delle
risposte ad essi relative. Le indagini, ovviamente, si dirigono verso l'attività del Centro di prevenzione
oncolopica e alla ricostruzione del percorso compiuto dai pazienti raggiunti dalla convocazione dell'Asl per
lo screening anti-tumori. E mirano ad accertare quello che è successo per quei cento casi in cui l'errore è
stato accertato. Un errore tutt'altro che irrilevante: fra il «negativo» e il «positivo» del responso di un
esame come quello a cui ogni anno migliaia di livornesi si sottopongono c'è una differenza netta, fatta di
apprensione e di angoscia. Senza vie di mezzo. E così è successo in questi casi, nei quali cento pazienti si
sono trovati nelle condizioni di dover rifare tutto da capo, sperando in una diagnosi definitiva confortante.

Luciano De Majo

27 agosto 2008
«SONO INNOCENTE, VIVO UN INCUBO»

Spigliata, brillante, pronta a rispondere sempre senza batter ciglio. Susanna Fiorini, l'infermiera accusata di
aver falsificato centinaia di referti del Corat, ha parlato per oltre tre ore.

Ed è stata, quella di ieri, solo la prima tranche del suo esame, che continuerà domani mattina. L'unico
cedimento - ma solo dal punto di vista emotivo - quando ha detto di essere capitata «in un incubo che sto
vivendo da un anno». «L'unica cosa che mi fa ancora andare avanti - ha proseguito fra le lacrime - è sapere
che non ho fatto niente».

L'infermiera, dunque, agli arresti domiciliari ormai da otto mesi, nega tutto. Con decisione, con piglio.
Motivando ogni sua risposta al pm e ai suoi legali, gli avvocati Alberto Uccelli e Lorenza Musetti, che domani
proseguiranno nel loro esame. Il pubblico ministero Giuseppe Rizzo l'ha interrogata con grande cura,
mettendo in fila tutti gli atti d'indagine compiuti dalla polizia e arrivando a porle la domanda chiave: se la
gran parte dei referti falsi risultano inseriti dal suo computer e con la sua password, come fa a dire di essere
estranea a tutto questo? «Io ne ho inseriti molti di referti, ma non sapevo davvero che fossero falsi. Non li
ho falsificati io», ha risposto l'imputata. Che poi ha ammesso di non essere arrivata a «farsi un'idea» su
come tutto questo possa essere accaduto.

Susanna Fiorini ha anche ricostruito ciò che è accaduto il 7 luglio dello scorso anno, quando alcune sue
colleghe trovarono un referto manomesso sulla fotocopiatrice. «La mia collega Benvenuti - ha detto
l'infermiera - mi venne incontro sventolando quel foglio che aveva trovato la collega Vanni e gridandomi di
smetterla di mettere le mani nel suo lavoro. E si chiuse nella stanza del responsabile del reparto, il dottor
Lopane. Io ero ignara di quanto stava succedendo, non capivo proprio». Si trattava di un referto per la
prevenzione del tumore al colon retto, settore di attività del Corat di cui si occupava l'infermiera Benvenuti,
e nel quale la Fiorini mise il naso durante le ferie della collega. «Fui trattata male una seconda volta dalla
Benvenuti la stessa mattina - ha proseguito l'imputata - quando le chiesi che cosa fosse successo. Feci
presente al responsabile del Corat, in modo del tutto ingenuo, che forse quel referto era stato lasciato lì
perché lo trovassimo, ma lui mi rispose che il diavolo sapeva fare le pentole e non i coperchi. Capii allora
che sospettava di qualcuna di noi infermiere: dopo poco, compresi che in realtà l'unica sospettata ero io. Ed
è così che per me è cominciato l'inferno».

Luciano De Majo

15 settembre 2009
«UNA PARTE DEL TESTAMENTO È FALSA»
IL CONSULENTE CONFERMA L'ACCUSA

«La prima pagina del testamento ritengo l'abbia scritta la signora Amelia, la seconda no: secondo me è
opera di qualcun altro che ha provato a imitarne la scrittura». Così Paolo Zanetti, consulente della Procura
della Repubblica, ha sintetizzato il lavoro svolto sul testamento di Amelia Ghelardini, la donna morta a 94
anni nel 2008, per la cui eredità è in corso un processo.

Gli imputati sono marito e moglie, Alessio Facchin e Catia Cioffi, entrambi poliziotti, accusati di falso per
l'ormai discussa "seconda pagina" del testamento nella quale la signora Ghelardini afferma di voler lasciare
ai coniugi la palazzina di via della Meloria, ad Antignano, dove lei viveva al primo piano e dove i due vivono
tuttora, al piano terra.

La difesa, rappresentata dagli avvocati Massimo Tuticci e Giulia Padovani, ha incalzato il consulente della
Procura, che però è rimasto fermo sulle posizioni della conclusione del suo elaborato, per il quale c'è una
netta differenza, riscontrata in mille particolari, fra le due pagine del testamento. L'esperto nominato dal
pubblico ministero Paola Rizzo ha effettuato anche un'opera di comparazione con altri testi scritti dalla
signora Ghelardini. Nella prossima udienza la difesa farà parlare il proprio consulente che è stato incaricato
di elaborare le controdeduzioni alla consulenza di Zanetti. Le parti civili (i nipoti di Amelia Ghelardini) sono
rimaste soddisfatte della deposizione di Zanetti, tanto da rinunciare all'ascolto del loro esperto grafologo.

Ieri, però, hanno deposto anche altri testi: la badante della donna, Grazia Spampinato, il vicino di casa
Mario Scarparo e la commerciante Vanna Vettori, che aveva un emporio a pochi passi dalla casa di Amelia
Ghelardini. E' stata proprio lei a dire che «una volta Amelia mi disse che voleva lasciare la casa ai ragazzi»,
intendendo con "ragazzi" evidentemente Facchin e Cioffi, ma senza aggiungere particolari se il riferimento
fosse all'intera palazzina o se soltanto al livello inferiore, dove la coppia aveva cominciato ad abitare
pagando l'affitto alla stessa Ghelardini. «Se c'è una cosa per la quale si lamentava - ha detto ancora Vanna
Vettori - era la solitudine. Non le piaceva star sola».

«Era una donna forte, con un carattere risoluto e un po' particolare, Amelia - ha invece detto Scarparo
durante il suo esame - di certo quando Alessio e Catia vennero ad abitare lì il suo umore migliorò molto». La
badante, Grazia Spampinato, ha ricordato che «Amelia usciva con me a fare quattro passi, ero io che ne
avevo la responsabilità» e ha anche detto che «i parenti si vedevano saltuariamente: ogni settimana
facevano con me i conti per la spesa, ma avevano deciso di chiudere il frigorifero con la catena e il lucchetto
perché la signora non mangiasse troppo».

Luciano De Majo

15 ottobre 2010
CHILOMETRI TAGLIATI, VENDITORE A PROCESSO

Comprò una Mercedes usata e gli dissero che aveva fatto 63mila chilometri, ma un anno dopo scoprì che la
vettura era stata "ringiovanita". E questo grazie a una sforbiciata di circa 90mila chilometri rispetto a quelli
percorsi davvero. È così che Fernando Solito ha denunciato il titolare della concessionaria Auto Italia e il
venditore con cui trattò l'acquisto dell'auto, finiti entrambi a giudizio per truffa.

Il primo dei due, Ezio Trassinelli, fra l'altro scomparso di recente, decise di patteggiare quattro mesi. Il
secondo sotto accusa, Luca D'Echabur, livornese di 34 anni, invece è tuttora sotto processo. E ieri, davanti al
giudice Sandra Lombardi, si è svolta un'altra udienza, che precede quella conclusiva, fissata per settembre.

Fernando Solito, oggi parte civile nel processo, difeso dall'avvocato Francesco Mori, ha ricapitolato quanto
è avvenuto. L'acquisto della sua Mercedes, una E 270 diesel, pagata 33mila euro, è datato marzo 2005. Poi,
terminato il periodo di garanzia (un anno) durante il quale comunque la vettura aveva avuto bisogno di
sostituire gli iniettori, succede il fattaccio: guai continui e il consiglio, da parte di un'autofficina, di sostituire
l'avantreno.

«A quel punto - ha detto ieri Solito deponendo in udienza - andai dalla concessionaria Mercedes di Pisa e
chiesi com'era possibile che la mia macchina, dopo appena 90mila chilometri, avesse necessità di un
intervento così rilevante.

E lì, da un controllo effettuato sul computer, mi fecero sapere che quell'auto in realtà di chilometri ne aveva
percorsi almeno altri 90mila». Circostanza, questa, confermata dalla testimonianza del maresciallo
Francesco Lopez, il carabiniere che diresse le indagini, visto che da quell'episodio scattò la protesta nei
confronti di Auto Italia e poi, dopo vani tentativi di conciliazione, la denuncia che ha dato origine al
processo. «Abbiamo acquisito fatture - ha detto Lopez - secondo le quali a fine 2004 quell'auto aveva già
percorso oltre 140mila chilometri».

L'imputato Luca D'Echabur, che ieri ha reso il proprio esame davanti al giudice, ha chiarito di aver trattato la
vendita dell'auto a Solito, ma di non essersi mai occupato della stessa vettura quando questa venne presa
in carico dalla concessionaria quando venne restituita da parte del vecchio proprietario, versione che
contrasta apertamente con quella riferita dalla parte civile.

Decisiva sarà, a questo punto, la testimonianza di Giancarlo Fruzzetti, vecchio proprietario di quell'auto
prima di Solito, che sarà chiamato a chiarire con chi trattò quando restituì la Mercedes della discordia alla
concessionaria Auto Italia.

Luciano De Majo

27 aprile 2010
RISULTAVA AL LAVORO, ERA IN PISCINA

Risultava al lavoro, ma era altrove. Era a nuotare, nella piscina comunale raggiunta con l'auto di proprietà
del Comune, mentre sarebbe dovuto essere nel suo ufficio... in Comune. Sembra una storia da ridere, ma è
la realtà ricostruita da un'indagine dei carabinieri.

Il protagonista di questa vicenda è un dipendente del Comune di Livorno di 52 anni. Non è il solo, visto che
gli indagati sono tre: lui e altre due impiegate, che non frequentavano la piscina in orario di lavoro ma,
sempre secondo la tesi degli inquirenti, avrebbero "coperto" il collega con le timbrature del cartellino.
Posizioni e responsabilità differenti sembrano emergere dal quadro attualmente a disposizione della
magistratura livornese: lui, l'uomo che potremmo definire l'indagato principale, è accusato di truffa e falso
per l'assenza dal lavoro nonostante risultasse presente, e di peculato visto che usava l'auto del Comune per
andare in piscina. Le altre due indagate, invece, devono rispondere di truffa e falso per aver "gestito" il
badge del collega facendo in modo che dai tabulati sembrasse regolarmente al lavoro, ma al momento non
si ha notizia che non svolgessero i loro compiti d'ufficio in maniera corretta, anche se su questo sono ancora
in corso accertamenti.

L'indagine, ormai giunta al termine, ha avuto inizio circa un anno fa, quando ai carabinieri della Compagnia
di Livorno è arrivata una segnalazione ricca di particolari, secondo la quale l'uomo al centro della vicenda a
giorni alterni si presentava alla piscina comunale di via dei Pensieri alla guida di un'auto che recava le
insegne del Comune. Troppo dettagliata quella segnalazione perché fosse priva di fondamento. Così, i
carabinieri si sono messi sulle tracce del dipendente comunale, l'hanno seguito, hanno verificato che in
effetti facesse quello che la "soffiata" diceva: parcheggiava l'auto nei pressi della piscina, entrava e usciva
un'oretta dopo, tornando a palazzo Comunale.

Peccato, però, che le "timbrature" di entrata e di uscita dell'uomo non avvenivano nella macchinetta più
vicina al suo attuale ufficio, ma in un'altra struttura del Comune, dove si trova il settore del quale aveva
fatto parte in passato. Accanto a questo primo elemento di sospetto, ecco spuntarne un altro: l'entrata al
lavoro, secondo i tabulati acquisiti dai carabinieri, avveniva sempre insieme a quella di un'altra collega, e in
certi casi insieme a quella di un'altra ancora. Orari incredibilmente identici: entrata, pausa, rientro, uscita.

A quel punto, gli investigatori hanno provato a chiedere spiegazioni alle due dipendenti ricevendo però
risposte non soddisfacenti. Le due donne, riferiscono i carabinieri, hanno detto addirittura di non conoscere
il collega se non di vista, ma altre indagini sembrerebbero aver portato a conclusioni radicalmente
differenti.

Da qui la decisione di indagare anche le due dipendenti. Tanto loro quanto il collega frequentatore della
piscina hanno ricevuto in questi giorni un avviso di garanzia, l'inchiesta sta volgendo alla conclusione.

Luciano De Majo

17 aprile 2010
USTIONI DA ACIDO, PROCESSO CHOC

E' un pasticciaccio brutto degno dei romanzi di Gadda quello che si staglia all'orizzonte del processo alla
ginecologa (oggi pensionata) Nunzia Mastrapasqua e all'ostetrica Silvia Del Re, accusate di lesioni colpose
per aver causato ustioni alla vagina di una giovane paziente, trattata con acido acetico allo stato puro
anziché in soluzione diluita. Il quadro pasticciato e davvero sconfortante riguarda solo in parte le due
imputate e si estende all'organizzazione di tutta l'Asl.

Ieri, infatti, nel processo che è stato aggiornato a maggio per una perizia medico-legale che valuterà se i
comportamenti delle due imputate nell'uso dell'acido rispondono a criteri di correttezza, è emersa una
serie di errori che sarebbero stati commessi nella gestione del flacone di acido uscito dalla farmacia
dell'ospedale e arrivato al distretto di via del Mare dove, nel novembre del 2006, avvenne il fatto
denunciato dalla giovane, oggi parte civile nel processo.

La deposizione della dottoressa Milli Caschili, responsabile dei consultori Asl, ha ammesso che la
commissione, alla quale lei stessa partecipò, che effettuò un'indagine dopo il fatto, riscontrò «alcuni errori
umani»: dalla richiesta generica indirizzata alla farmacia per la fornitura dell'acido alla catena che portò
l'acido alla ginecologa che poi lo utilizzò. Riscontro al quale, però, non seguirono sanzioni, come ha
evidenziato l'avvocato Angelo Mancusi, legale di parte civile.

Una delle due imputate, Silvia Del Re, ha espresso dubbi sul fatto che i flaconi di acido al centro della
vicenda recuperati dalla polizia nello scorso febbraio e portati ieri in aula fossero proprio quelli utilizzati nel
novembre del 2006. «Ormai è passato parecchio tempo - ha detto facendo una dichiarazione spontanea -
ma non mi sembra che il flacone dal quale io prelevai l'acido sia quello che vediamo oggi». Sono due i
flaconi arrivati in tribunale, rimasti chiusi in un armadio del distretto di via Ernesto Rossi per quasi quattro
anni. Uno più grande, dal quale manca una parte di liquido, e uno più piccolo, nel quale probabilmente
l'acido è stato travasato, senza che fosse mai chiarito che si trattava di acido allo stato puro e non in
soluzione. Una serie di mancanze una dietro l'altra, insomma, mai ricostruite prima d'ora, e culminate poi
con l'incidente del novembre 2006.

Luciano De Majo

13 aprile 2010
CARDOSI RIPARTE DAL TAR

La battaglia giudiziaria dell'ex vigile urbano Giampaolo Cardosi contro il Comune sta per ricominciare da
capo o quasi. La Corte di Cassazione, infatti, ha deciso sul caso del difetto di giurisdizione sollevato
dall'amministrazione comunale. E lo ha fatto accogliendo la tesi del Comune: i giudici competenti a
decidere sulla vicenda sono quelli amministrativi.

Sfuma, quindi, la sentenza del giudice del lavoro Jacqueline Monica Magi che aveva rimandato il momento
della decisione proprio in attesa del pronunciamento della Cassazione. La discussione del ricorso davanti
alla Suprema Corte aveva visto anche il procuratore generale propendere per la tesi dell'amministrazione
comunale, che aveva deciso di ricorrere contro la decisione del Tar di Firenze che metteva tutto nelle mani
del giudice del lavoro.

La vicenda è quella della richiesta dell'ex vigile urbano Giampaolo Cardosi, licenziato dal Comune dopo una
condanna per furto passata in giudicato. Lo stesso Cardosi è stato, però, scagionato e totalmente riabilitato
dalla Corte d'Appello di Bologna. A quel punto, ha provato ma senza successo a tornare nei ranghi dei vigili
urbani. Ha chiesto al Comune di essere nuovamente assunto, ma da palazzo Civico ha ricevuto sempre
risposte negative, anche perché nel frattempo era stato dichiarato inabile al lavoro.

Da una visita all'altra, da una commissione all'altra, Cardosi ha cercato di ribadire che tornare a vestire la
divisa di vigile urbano era un suo diritto. Ed è per questo che si è rivolto al giudice del lavoro, dopo la prima
sentenza del Tar che consegnava la vicenda proprio alla magistratura ordinaria e non amministrativa.
Davanti al giudice Magi ci sono state diverse udienze ed è stata effettuata anche una perizia sulle spettanze
dell'ex vigile, ma la sentenza non è mai arrivata proprio a causa del ricorso del Comune in Cassazione, del
quale il giudice del lavoro ha voluto attendere l'esito.

Nel frattempo, l'amministrazione ha fatto diverse offerte a Cardosi per chiudere la partita senza arrivare a
sentenza, giungendo anche a mettere sul piatto più di 300mila euro. L'ex vigile, però, ha deciso di farne
prima di tutto una questione di principio. E ha sempre respinto le ipotesi di chiusura della controversia
avanzate dal Comune.

Luciano De Majo

9 aprile 2010
IL GIUDICE CONFISCA I QUADRI DI LENZI

C'era di tutto nei quadri sequestrati a più riprese a Bruno Lenzi durante l'indagine sulla Porto di Livorno
2000. Opere d'arte firmate dai maggiori pittori contemporanei, una massa di dipinti non indifferente - in
tutto più di mille - che gli inquirenti avevano trovato in parte nella sede della società e in parte avevano
scovato in alcuni garage di persone fidate, alle quali questo materiale pregiato era stato consegnato
affinché trovasse un riparo adeguato e fosse custodito nel migliore dei modi.

Alla fine dell'udienza preliminare di ieri, il giudice Gianmarco Marinai ha disposto la confisca delle opere
ritenute corpo di reato. Quante e quali siano, con precisione, ancora non è chiaro e lo sarà soltanto con il
dettaglio dei quadri indicati dal giudice nel suo provvedimento. Certo è che questa decisione del gup, che
comunque ha accolto la proposta di patteggiamento per Lenzi e per tutti gli altri che l'avevano chiesto
ottenendo il consenso del pubblico ministero, mette a disposizione dello Stato una serie di opere d'arte
destinate, a questo punto, ad entrare nel circuito delle aste giudiziarie. Difficile anche stabilire il valore di
questi oggetti. Servirà una stima per capire quanti soldi possono valere. Si sa, però, che ci sono dipinti di
artisti contemporanei assai quotati, da Dorazio a Scanavino, da Mattioli a Schifano, che Lenzi, appassionato
di arte, nel corso degli anni aveva acquistato.

Per il resto, l'ultimo spezzone dell'udienza preliminare conclusosi ieri ha sancito i rinvii a giudizio di coloro
che non hanno scelto riti alternativi. Per loro, in tutto sono 26, il processo inizierà davanti al collegio
giudicante del tribunale il prossimo 5 maggio. Degli imputati ai quali veniva contestata l'associazione per
delinquere, l'unico che affronterà il dibattimento sarà Bruno Crocchi, insieme ai componenti il consiglio
d'amministrazione della società, fra cui il vicepresidente Giovanni Spadoni, e ai sindaci revisori della società.
A giudizio anche molti dei fornitori che devono rispondere di false fatturazioni, e alcuni di coloro che hanno
posizioni minori, ma comunque sempre legate a reati di carattere fiscale, che hanno preferito il processo
nella speranza di spiegare le proprie ragioni e ottenere l'assoluzione.

Ieri è stata definita anche la posizione di Michele Barzagli, che aveva scelto di essere giudicato con il rito
abbreviato. Barzagli è stato assolto dall'accusa principale, quella che lo vedeva inserito, a detta dell'accusa,
nell'associazione per delinquere ai fini del peculato. Il pubblico ministero Massimo Mannucci, d'altra parte,
aveva chiesto l'assoluzione per questo capo d'imputazione ai sensi del secondo comma dell'articolo 530 (la
vecchia insufficienza di prove), mentre il giudice ha assolto Barzagli con formula piena, perché il fatto non
sussiste. Lo stesso ex consulente della Porto 2000 è stato però condannato a otto mesi perché avrebbe
istigato un altro imputato (Andrea Ferretti, che ha patteggiato) ad emettere fatture false nei confronti della
Porto 2000. E anche in questo caso il giudice ha accolto la richiesta del pm.

Luciano De Majo

17 marzo 2010
PRENDEVA CASE CON SENTENZE FALSE

Quando gli hanno perquisito la casa i finanzieri sono rimasti sorpresi nel vedere la quantità di timbri tondi
che si era procurato. Alcuni, quelli dei tribunali di Cosenza e L'Aquila, li aveva già usati.

Donato Filippi, 52 anni, pisano di nascita ma livornese da sempre, è stato arrestato con una serie di accuse
che comprendono truffa, appropriazione indebita, false dichiarazioni dei redditi, frode allo Stato, falso in
scrittura privata. In sostanza, avrebbe fabbricato atti giudiziari falsi (sentenze e lodi arbitrali) per mettere le
mani su una serie di immobili vantando diritti poi trascritti negli uffici di pubblicità immobiliare (quelle che
una volta erano le Conservatorie). Da qui la presenza dei timbri nella sua base operativa, sequestrati
insieme a pc, pen drive e 12mila euro in contanti. Si era fatto fare, da un paio di tipografie, una di Pescara e
una di Pisa, due timbri del consolato onorario di Phuket e uno ciascuno del tribunali di Cosenza, Lodi,
Rovigo, Pavia, Verona, Padova, Cremona e Casale Monferrato. Tutti questi timbri, però, sono ancora
nuovissimi. Ciò non può essere detto per i timbri dei tribunali di Cosenza e L'Aquila, usati per realizzare
numerose sentenze false. Tre del tribunale calabrese e 16 di quello abruzzese, peraltro in date successive al
terremoto che ha sconvolto la città, con l'evidente intento di approfittare della situazione di disagio che si
era determinata in quegli uffici giudiziari. Discorso identico per un lodo arbitrale che reca il timbro del vice
consolato onorario di Port-au-Prince, Haiti, anche in questo caso dopo il terribile sisma.

Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti (l'indagine è coordinata dal sostituto procuratore Gianfranco
Petralia) grazie a questi atti giudiziari falsi, Filippi, attraverso persone fisiche o associazioni a lui
riconducibili, ha ottenuto diritti su beni immobili alcuni dei quali già venduti, a persone quasi sicuramente in
buona fede. Si tratta di pochissimi casi su cui la Procura sta lavorando per accertare se davvero l'acquirente
fosse ignaro della truffa che veniva messa in atto con questa compravendita.

Difficile smascherare questo giro. Difficile proprio perché i timbri apposti sulle sentenze erano uguali a
quelli autentici e perché la cura con cui venivano redatti gli atti giudiziari - alcuni dei quali con nomi di
giudici esistenti - era davvero notevole. Complessivamente, sono 61 gli immobili messi sotto sequestro (31
nella provincia di Livorno e 30 in quella di Pisa), nell'attesa degli sviluppi di un'indagine che non è ancora
stata chiusa e che vede, in tutto, 26 indagati.

La seconda compagnia della Guardia di Finanza ha lavorato a lungo insieme all'Agenzia delle entrate perché
fra le attività contestate a Filippi c'è anche una maxi-frode fiscale. Attraverso 57 associazioni regolarmente
dotate di partita Iva ma in realtà inesistenti, secondo gli inquirenti sarebbe riuscito a produrre
documentazione che attestava il diritto a rimborsi Iva e Irpef. Uno scherzetto da una ventina di milioni di
euro che col tempo - gli accertamenti sono iniziati nel 2006 - e la fatica di un lavoro minuzioso gli
investigatori sono riusciti a individuare e a sviscerare, facendo emergere l'altra faccia della medaglia delle
accuse contestate al colto uomo d'affari, dal patrimonio immobiliare assai considerevole.

Luciano De Majo

9 marzo 2010
MORIRONO SEI CLANDESTINI CONDANNATO A QUATTRO ANNI

Valentin, Iosif, Ion e Cristian furono trovati morti in un contenitore in Darsena Toscana, l'11 dicembre di sei
anni fa. Tutti e quattro rumeni, volevano raggiungere il Canada. Ma prima di partire trovarono la morte,
asfissiati dal bromuro di metile con cui erano stati trattati i pallet di legno sui quali poggiava il carico di
piastrelle. Gheorghe e Ramona, invece, furono trovati anch'essi privi di vita che erano già arrivati a
Montreal, appena due giorni dopo. Anche loro erano partiti da Livorno, dalla stazione del Calambrone, il 27
novembre sulla «Canmar Conquest», ma non ce l'avevano fatta ad arrivare a destinazione. La morte li aveva
colti durante il viaggio, anche in questo caso per asfissia.

Per la morte di queste sei persone, è stato condannato ieri a quattro anni il rumeno di 27 anni Marius Vasile
Gabureac. Il giudice monocratico del tribunale di Livorno Giovanni Zucconi lo ha riconosciuto colpevole di
omicidio colposo, infliggendogli una condanna di poco più leggera rispetto a quella chiesta dal pubblico
ministero Gianfranco Petralia, che avrebbe voluto una pena di sei anni. Gabureac, insieme a «Mitru» Bulzan
e a «Truta» Let Dumitru, anche loro rumeni, avrebbe infatti organizzato l'imbarco a questi clandestini
desiderosi di raggiungere il Canada, paese dalle condizioni particolarmente favorevoli per chi giunge da
fuori e cerca lavoro. Diverse le posizioni degli altri due imputati: uno ha patteggiato, per l'altro è ancora
pendente il ricorso in appello della Procura dopo l'assoluzione in primo grado.

Ieri, prima delle conclusioni, ha deposto davanti al giudice il fratello della ragazza che fu trovata morta a
Montreal. Fra un'incertezza e l'altra, ha comunque confermato che questi «viaggi della speranza» non
erano mai gratuiti. «Io stesso - ha detto il giovane, che adesso vive a Torino - per arrivare dalla Romania
all'Italia ho dovuto pagare 1500 euro». In particolare, secondo l'accusa i due giovani trovati morti in Canada
avrebbero pagato un milione di lire ciascuno agli organizzatori dell'operazione.

Il difensore dell'imputato, l'avvocato Massimo Batini, ha ribattuto alle richieste del pubblico ministero
chiedendo l'assoluzione per il suo assistito. Ha motivato la sua conclusione con il fatto che, in ogni caso, le
vittime accettavano di partire in quelle condizioni. «In qualche modo avevano sottoscritto - ha detto Batini -
quella sorta di contratto diabolico con chi aveva ideato il traffico: non si sa di preciso chi sia, perché a carico
Gabureac non si sono formate prove». «Sono convinto anch'io - ha concluso l'avvocato - che servano regole
più severe per tutto ciò che sta attorno all'immigrazione clandestina, ma in un processo si applicano le leggi.
E Gabureac non va condannato». Di diverso avviso il giudice, che ha ravvisato gli estremi per infliggere
all'imputato una pena di quattro anni.

Luciano De Majo

4 dicembre 2007
MORÌ CONTRO LA RINGHIERA, TECNICI ANAS A PROCESSO:
MANCAVA IL GUARD RAIL

Quando Erika Campeol morì doveva ancora compiere vent'anni. La sua vita finì contro la ringhiera del ponte
dell'Aurelia sullo Scolmatore. Un impatto violentissimo: lei correva per giungere a casa prima possibile.
Temeva che i ladri, che le avevano rubato la borsa e le chiavi spaccando il vetro di un finestrino, arrivassero
prima di lei e facessero man bassa in casa.

Così, nella notte fra sabato 10 e domenica 11 gennaio 2004, questo terribile incidente sconvolse la vita di
Stagno e della frazione di Biscottino, dove la giovane abitava con la famiglia, lungo l'Arnaccio.

Adesso sono sotto processo per la morte della ragazza due tecnici dell'Anas: Giorgio Bongiorno, 56 anni
abitante a Cascina, all'epoca dei fatti geometra capo nucleo e reparto area tecnica dell'Anas Toscana e
Salvatore Oliveri, 69 anni, ingegnere capo dell'area tecnica dell'Anas Toscana. Entrambi devono rispondere
di omicidio colposo e sono accusati di aver violato la normativa in materia di barriere stradali. Da quel
ponte mancava, infatti il guard rail. E a dire la verità manca ancora: come si può vedere dalla foto scattata
ieri che pubblichiamo proprio qui sopra.

Questione di soldi, dicono fonti vicine alla difesa (fra l'altro nel processo è presente anche l'Anas in qualità
di responsabile civile), nel senso che il budget assegnato dalla direzione nazionale al compartimento
toscano imponeva una selezione degli interventi da effettuare sulla base delle priorità.

Ieri davanti al giudice Beatrice Dani e al pubblico ministero Lorenzo Stefani hanno parlato al processo
diversi testimoni, appartenenti all'Anas (fra cui un ingegnere che era stato indagato e poi archiviato) ma
anche alle forze dell'ordine che sono intervenute nell'immediatezza del terribile incidente. Il fratello della
povera Erika, Mirko Campeol, si è costituito parte civile nel processo assistito dall'avvocato Antonio
Cariello, mentre altri familiari (segnatamente i genitori della ragazza) hanno già promosso una causa civile
che è attualmente pendente davanti al giudice Marina Cirese, e per la quale è stata già affidata una perizia a
un ingegnere.

Luciano De Majo

20 febbraio 2010
PIÙ DI MILLE LE AZIENDE SOTTO INCHIESTA

Sono più di mille le aziende della provincia di Livorno che non pagano i contributi previdenziali e che,
omettendo anche di versare la quota trattenuta dagli stipendi dei dipendenti, finiscono sotto inchiesta della
magistratura.

«Le aziende che incorrono in questo tipo di insolvenza - conferma Annamaria Gasparri, direttrice della sede
provinciale dell'Inps - sono poco più del 10 per cento del totale delle imprese con dipendenti attive nella
provincia, che sono 10.093».

«L'obiettivo della nostra sede Inps - prosegue la direttrice - è quello di stigmatizzare sul nascere questo tipo
di comportamento, che si configura come reato, fin dal primo insoluto totale della singola azienda».
L'insoluto totale è la denuncia contributiva mensile presentata dai datori di lavoro senza versamento di
alcun contributo: in sostanza, una condizione nella quale l'azienda riconosce il proprio debito previdenziale
ma non versa neppure quanto già trattenuto ai dipendenti. Davanti a questa situazione, l'Inps ha deciso di
procedere, «in modo da ridurre ulteriormente il fenomeno», precisa la direttrice, che comunque non
manca di ripetere che «la stragrande maggioranza delle aziende che intrattengono rapporti con la sede Inps
versano regolarmente i contributi, assistite da professionisti qualificati».

Che cos'è, allora, che spinge determinate imprese (non saranno moltissime, ma comunque mille in una
provincia come la nostra non sono neppure così poche) a non pagare neppure le trattenute? «Certamente
le difficoltà dell'attuale crisi - risponde Annamaria Gasparri - possono far sì che a talune aziende manchino,
in determinate circostanze, le risorse finanziarie occorrenti per adempiere all'obbligo contributivo. Ma in in
questi casi è tuttavia necessario versare le quote a carico dei lavoratori, così da non incorrere in profili di
reato, e, qualora le difficoltà comprovate dovessero protrarsi, ripianare comunque prima possibile il debito
contributivo residuo anche attraverso lo strumento della rateizzazione. L'esperienza dimostra che
trascurare troppo a lungo gli obblighi contributivi previdenziali può portare un'azienda a non risollevarsi
più, gravata da una mole di debiti in cui gli oneri aggiuntivi, sanzioni e interessi previsti dalla vigente
normativa, hanno un notevole peso».

Non solo: un'azienda che non è in regola coi contributi previdenziali incontra mille e una difficoltà nella sua
attività di tutti i giorni, visto che spesso è richiesta alle imprese (ad esempio quelle che concorrono per
avere commesse pubbliche) l'esibizione del Durc (Documento unico di regolarità contributiva. «Vorrei
anche far notare - conclude la direttrice della sede livornese dell'Inps - che il Presidente Inps Antonio
Mastrapasqua, durante il congresso dei consulenti del lavoro dello scorso novembre, ha annunciato che
l'Istituto, per venire in aiuto alle aziende in crisi di liquidità e in difficoltà nel pagare i contributi,
sperimenterà una piattaforma web attraverso cui i consulenti potranno inoltrare le domande di
rateizzazione dei debiti per i quali non sia ancora avviato il recupero con l'invio dell'avviso bonario. Questa
dilazione fino a sei mesi potrà essere chiesta solo dai consulenti del lavoro, al massimo una volta l'anno».

Luciano De Majo

11 febbraio 2010
IL PROCURATORE DE LEO: «SUL TERRITORIO
METTE RADICI LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA»

«Sono presenti sul territorio soggetti vicini alla criminalità campana, calabrese e siciliana, che si sono qui
radicati». E' con queste parole che il procuratore della Repubblica Francesco De Leo disegna la situazione
della presenza di infiltrazioni di criminalità organizzata nella provincia di Livorno, nella relazione per
l'inaugurazione dell'anno giudiziario, svoltasi ieri mattina nell'aula bunker di Firenze per quanto riguarda il
distretto della Toscana.

De Leo non si ferma qui. Indica i nomi di famiglie e di personaggi che, nel corso degli anni, costituiscono una
presenza consolidata, da Piombino all'isola d'Elba, dalla Val di Cecina alla città capoluogo. Il procuratore
afferma anche che «non esistono gruppi criminali organizzati autoctoni e stanziali». Quelli da cui guardarsi,
secondo la Procura, sono insomma provenienti da fuori e sono capaci di mettere radici nelle nostre aree.

Chi ferma i furti?La zona di competenza della Procura (tutta la provincia, più alcuni Comuni pisani della Val
di Cecina e della Val di Cornia) conosce nei furti in casa e nelle rapine i reati più diffusi contro il patrimonio.
De Leo definisce «molto impegnata» la Procura sul fronte dei reati contro la pubblica amministrazione e
«numerosi» i procedimenti in materia di rifiuti.

Inchieste in vetrina.Fra le indagini di maggior rilievo citate dal procuratore nel periodo che va dal luglio
2008 al giugno 2009 c'è quella sulle carte di credito clonate con «struttura verticistica a Livorno ma con
diramazioni in Gran Bretagna e Grecia», ma anche la maxi-inchiesta sulla Porto 2000 che ha rilevato «a
carico degli amministratori specifiche responsabilità penali connesse, fra l'altro, ad alterazioni di bilancio e
utilizzo di fatture per operazioni inesistenti». Sempre rimanendo in ambito portuale, De Leo ricorda «la
situazione della vasca di colmata» che è stata «oggetto di provvedimento di sequestro da parte dell'autorità
giudiziaria».

Indagini e misure.Le inchieste chiuse nel periodo preso in esame dalla relazione sono state 7035 senza
richiesta di proroga e 288 con proroga. Le misure cautelari richieste dalla Procura sono state 325. Di queste,
ne sono state accolte 209.

Omicidi in calo.Diminuisce il numero degli omicidi, legati ormai «a contesti familiari» secondo la Procura:
l'impennata che avevano fatto segnare nella prima parte del 2008 sembra finita. Fra i reati contro la
persona, rimane «imponente» il complesso delle lesioni e delle risse, ma anche dei maltrattamenti in
famiglia. Salgono invece i casi di reati sessuali. «Raramente sono violenze carnali in senso stretto - segnala
De Leo - mentre l'aumento riguarda gli atti di libidine o gli atti osceni».

Livornesi al volante...«Numerosissimi e in costante aumento i reati di guida in stato di ebbrezza o sotto


l'effetto di stupefacenti», aggiunge il procuratore, caratteristica che riguarda tanto gli italiani quanto gli
stranieri.

Pianeta immigrati.Un intero capitolo della relazione di De Leo riguarda i reati connessi alla presenza di
stranieri. Il dato che salta maggiormente agli occhi è che metà dei detenuti nei penitenziari della provincia
di Livorno è costituita da extracomunitari. Le stime della questura, riprese dal Procuratore, parlano della
presenza di circa 10mila regolari e di 2-3mila irregolari. Quanto alla distribuzione dei reati per luoghi di
provenienza, «gli albanesi, da tempo abbandonato lo sfruttamento della prostituzione, si sono
definitivamente dedicati al più redditizio spaccio di stupefacenti; i maghrebini sono dediti principalmente al
piccolo spaccio, forti di un bassissimo costo della manodopera».
Altri flash: i sudamericani sarebbero specializzati nel «taccheggio e nel borseggio; i senegalesi
nell'abusivismo commerciale; gli slavo-macedoni nei furti in appartamento». Non c'è da preoccuparsi,
almeno per ora, sulla presenza di organizzazioni provenienti dall'estremo oriente, terreno sul quale
«Livorno si attesta su valori abbastanza modesti, pur registrando un aumento delle attività commerciali»
gestite da cinesi. «Ancora meno consistente - precisa il procuratore della Repubblica - è la presenza di
soggetti provenienti dai paesi dell'ex Unione Sovietica».

Luciano De Majo

31 gennaio 2010
NOVE MESI IN CARCERE, ERA INNOCENTE
«E ORA HO PERSO IL LAVORO»

Hector Aguirre ha 33 anni. Del Perù, il paese dov'è nato e dove ha vissuto fino a sei anni fa, ricorda
praticamente tutto. Ma ormai la sua vita è qui, a Livorno. «Ci vivo dal 2003, quando raggiunsi mia moglie
che era già arrivata in Italia», racconta, pensando a quando lui rimase in Sudamerica col figlioletto. Quando
lui salì sull'aereo che lo portava in Italia il bambino aveva tre anni. Poi, finalmente, la famiglia ritrovò la sua
unità, quando Hector, fra mille sacrifici, tornò in Perù per prenderlo.

Meno di un anno fa a Hector è capitata una disavventura dolorosa: è stato arrestato all'aeroporto di
Fiumicino, con l'accusa di traffico internazionale di droga, perché in una valigia che viaggiava insieme alla
cognata che lui era andato a prendere, c'era un libro con le pagine imbevute di cocaina. Un bagaglio
destinato a un altro peruviano che viveva a Livorno e al quale Hector l'avrebbe portato. Hector Aguirre è
stato arrestato e portato al carcere delle Sughere, dove è rimasto per nove mesi, pur professandosi
totalmente innocente. «Io con la droga non ho mai avuto a che fare - assicura - sono un peruviano come
tutti gli altri. Magari mi piace bere un bicchere di birra, ma la cocaina proprio no». Al processo i giudici gli
hanno dato ragione, assolvendolo pienamente, mentre hanno condannato il connazionale al quale l'ormai
famigerato libro alla coca era diretto.

Oggi lui vuole ringraziare - anche se può sembrare paradossale - la giustizia italiana e tutti coloro che ha
incontrato in carcere. «Ho avuto a che fare con persone straordinarie - racconta - che mi hanno aiutato a
superare una situazione difficilissima: gli agenti e gli ispettori di polizia penitenziaria, gli psicologi, i volontari
delle associazioni che frequentano il carcere, il prete con il quale ho parlato diverse volte». La fede è stata
molto importante in tutta la vita di Hector («Se non avessi incontrato mia moglie, oggi forse sarei un
sacerdote»), che ancora oggi si commuove a pensare ai momenti più duri: «Ho pregato tanto, tantissimo».

Prima dell'arresto, Hector Aguirre lavorava come domestico (ma forse sarebbe più giusto dire come uomo
tuttofare) nell'abitazione di una famiglia livornese. «Gente che mi ha sempre stimato - dice Hector - e che
ha sempre creduto in me. Figuriamoci che quando partivano per le vacanze, mi davano le chiavi di casa e
volevano che io dormissi lì, per custodire l'appartamento. Solo che nove mesi sono stati troppi anche per
loro, hanno dovuto assumere un'altra persona che non possono certo licenziare. Quindi io mi trovo, adesso,
senza il mio lavoro. Mia moglie lavora, ma io no. Ed è difficile tirare avanti con un figlio di dieci anni». Chi
conosce Hector lo descrive come un lavoratore infaticabile, una persona dotata di capacità manuali non
comuni e della quale potersi fidare davvero.

«Io qui mi sono sempre trovato bene - dice lui - e ho sempre rispettato coloro che ho incontrato. Adesso
che ho superato questa fase terribile, nella quale ho avuto tanta paura, sono anche disposto ad aiutare chi
è in carcere. Credetemi, stare là dentro non è facile per nessuno: né per i detenuti, né per gli agenti di
polizia penitenziaria che ogni giorno ci vanno per lavoro. Ecco perché dico che è giusto dare una mano. Io,
se qualcuno mi vuole, sono pronto a fare il volontario per far vivere meglio i detenuti». La brutta avventura
dietro le sbarre fa già parte del passato. La prima battaglia da vincere è quella per ritrovare il lavoro,
sempre più difficile in tempi di crisi come questo.

Luciano De Majo

25 gennaio 2010
SCARICHI NEI FOSSI, INDAGA LA PROCURA

La Procura della Repubblica ha aperto un fascicolo d'indagine sugli scarichi abusivi nei fossi medicei. E la
Guardia di Finanza ormai da diverse settimane sta lavorando per cercare di comporre un quadro organico
della situazione.

Su delega della magistratura, i finanzieri hanno compiuto - e stanno ancora compiendo, secondo quanto sta
emergendo - un accurato giro dei fossi. Stanno passando al setaccio scalandroni e cantine. E hanno visitato
numerosi fondi, parlando con i proprietari e i gestori, chiedendo a loro informazioni su quali impianti e
attrezzature hanno messo in funzione per evitare che gli scarichi delle loro attività finiscano in acqua.

Sono tante le cantine che si affacciano sui fossi. Alcune hanno un livello di manutenzione e di decoro
apprezzabile, altre invece sono praticamente ruderi che avrebbero bisogno di lavori di ristrutturazione
radicali. Eppure i fondi vuoti e abbandonati a se stessi si contano sulle dita di una mano, perché anche i
bugigattoli più angusti vengono utilizzati come depositi di attrezzi per la pesca o utensili di vario tipo per
eseguire qualche lavoretto, magari sulle imbarcazioni che sono ormeggiate nelle acque dei canali.

Esistono, poi, altre situazioni, sicuramente migliori dal punto di vista esteriore. Cantine ben curate,
frequentate da molte persone, come quelle dei circoli della pesca che dai contributi dei loro soci traggono
le finanze per mantenere un aspetto gradevole.

Davanti a una situazione del genere, nella quale le responsabilità sono tutt'altro che chiare, la Procura vuol
vederci più chiaro sul fronte degli scarichi, delle quantità di materiale che ogni giorno finiscono nel circuito
dei fossi da molte parti e anche sulla potenziale pericolosità delle sostanze che vengono sversate nelle
acque dei nostri canali.

Se da un lato sono le cantine i locali dai quali possono provenire gli scarichi abusivi, dall'altro le maggiori
responsabilità sembrano provenire dai numerosi palazzi dei quartieri che si affacciano sui fossi. Soprattutto
quelli più vecchi presentano problemi alle condutture che danno origine a infiltrazioni destinate a finire
nelle acque dei canali. E le tracce di queste perdite, spesso, si osservano a occhio nudo lungo le mura dei
fossi e sugli scalandroni.

Una situazione estremamente complessa, che la Finanza sta cercando di ricostruire nei particolari per poi
consegnare al magistrato il materiale su cui completare l'indagine e accertare le responsabilità.

Luciano De Majo

20 dicembre 2009
MAXITRUFFA ALLE ASSICURAZIONI,
IN 46 RISCHIANO IL RINVIO A GIUDIZIO

Si avvicina, forse, un altro maxi processo per le truffe alle assicurazioni. Dopo quello già arrivato alla
sentenza di primo grado, in tribunale ieri ne è sbarcato un altro: davanti al giudice dell'udienza preliminare
gli indagati sono 46. Per tutti loro la Procura della Repubblica ha chiesto il rinvio a giudizio. Si tratta di
un'operazione a metà fra Lucca e Livorno, che nel settembre di un anno fa ha portato in carcere alcune
persone.

Furono arrestati, a quel momento, il livornese Andrea Calloni, 36 anni, titolare di una agenzia di
infortunistica stradale, e Barbara Berti, 43 anni, abitante a Cascina, ritenuta complice di Calloni
nell'organizzare i falsi incidenti attraverso i quali sarebbero state truffate le assicurazioni. Tanto a Calloni
quanto alla Berti i magistrati livornesi contestano l'associazione per delinquere ai fini di truffa e falso in
certificazione sanitaria. Oltre a loro due, dell'associazione farebbero parte, secondo la Procura, i due medici
Serenella Signorini, 48 anni, e Egidio Campana, 45 anni, che sarebbero stati disposti a rilasciare certificati
addomesticati in cambio di compensi che variavano fra i 10 e 75 euro. Un'organizzazione, quella ricostruita
dall'indagine coordinata dal sostituto procuratore Massimo Mannucci ed effettuata dalla polizia, che
avrebbe agito almeno fino al maggio 2006, spaziando un po' su tutta la costa toscana, simulando incidenti
mai avvenuti fra Viareggio e Piombino, servendosi di auto a noleggio per scampare alla trappola del bonus
malus delle assicurazioni.

Agli altri 42 indagati viene contestato il reato di falso e di truffa, per aver partecipato ai falsi incidenti. Ieri
l'udienza davanti al giudice Gianmarco Marinai (il pubblico ministero presente in aula era Gianfranco
Petralia) è iniziata ed è stata rinviata al prossimo febbraio, quando i vari difensori potranno scegliere
eventuali riti alternativi. Parti offese, che diventeranno parti civili, sono una decina di assicurazioni: Allianz,
Cattolica, Duomounione, Zurich, Unipol, Toro, Fondiaria Sai, Bpu.

Luciano De Majo

30 ottobre 2009
DELITTO INGHILLERI, COSÌ SCATTÒ LA FOLLIA

Ammazzò il fratello sparandogli due colpi di doppietta, ma per il giudice non ci fu premeditazione malgrado
i biglietti lasciati che annunciavano l'omicidio. Risale alla sera del 7 aprile 2008 l'omicidio di Vito Inghilleri,
notissimo imprenditore livornese, freddato con due fucilate dal fratello Salvatore davanti a casa, in via
dell'Uliveta.

L'assassino, dopo aver vagato per tutta la notte per i boschi di Salviano, si ripresentò a casa la mattina
successiva. Arrestato e processato, è stato condannato a dodici anni di carcere con il rito abbreviato, a
fronte di una richiesta di sedici anni avanzata dal pubblico ministero. Oggi la sentenza emessa dal giudice
Rinaldo Merani al termine dell'udienza del 4 marzo scorso, è divenuta definitiva: né la difesa di Salvatore
Inghilleri, curata dagli avvocati Marco Vitalizi e Fausto Montagnani, né le Procure (quella di Livorno o quella
generale) hanno presentato appello.

L'omicida, che era in cura da tempo presso i servizi di igiene mentale dell'Asl livornese, sta scontando la sua
pena al carcere Don Bosco di Pisa, dove peraltro c'è un centro medico di prim'ordine. Le motivazioni della
sentenza, che il giudice ha depositato un paio di settimane dopo la lettura del dispositivo in camera di
consiglio, spiegano dettagliatamente le ragioni che hanno portato il giudice a escludere l'aggravante della
premeditazione, malgrado il biglietto scritto dall'omicida dodici giorni prima del fatto (di cui parliamo in
questa stessa pagina) annunciasse in qualche modo la decisione di uccidere Vito.

Ma il giudice parte dalle dichiarazioni rese dall'omicida in sede di interrogatorio. «Il 7 aprile è stato un
giorno terribile... mi sentivo tanto confuso e anche dispiaciuto per quello che volevo fare... Intorno alle 6
del pomeriggio presi a caso uno dei miei fucili», riferì Salvatore Inghilleri. A detta del giudice, insomma, «la
decisione di imbracciare il fucile e di andare ad attendere il fratello dinanzi a casa fu in realtà presa poco
prima di compiere l'azione». «Del resto - è la considerazione del giudice - è facile osservare che laddove
veramente la decisione di uccidere fosse stata definitivamente presa il 26 marzo, non vi sarebbe stata
alcuna difficoltà a commetterlo subito o di lì a poco». Invece passarono dodici giorni.

Luciano De Majo

25 ottobre 2009
«SONO STATO INGANNATO DA MIO FRATELLO»

Salvatore Inghilleri resta in carcere. La giudice per le indagini preliminari Sandra Lombardi ha accolto la
richiesta di custodia cautelare avanzata dalla Procura, senza bisogno di dover convalidare un fermo scattato
per il pericolo di fuga, in quanto l'uomo si è consegnato. Stavolta, però, l'omicida non è rimasto in silenzio e
ha deciso di sottoporsi all'interrogatorio. «Se c'è qualcosa che ricorre nelle parole di Salvatore - dice Marco
Vitalizi, l'avvocato di Inghilleri - è che si è sentito ingannato dal fratello». E questo ha detto e ripetuto
davanti al giudice. Inghilleri è arrivato in tribunale di primo mattino, non sul furgone della Polizia
penitenziaria ma su un'auto. E a bordo della stessa auto se n'è andato, passando da un'uscita secondaria, il
volto coperto da un cappotto che qualcuno gli aveva dato.

Come previsto, la difesa non ha chiesto la concessione degli arresti domiciliari, accettando sostanzialmente
la prosecuzione della custodia in carcere, così come richiesto da Carmen Santoro, sostituto procuratore che
conduce l'indagine. «Non l'abbiamo fatto - precisa l'avvocato Vitalizi - essenzialmente per motivi di
incompatibilità ambientale. E' oggettivamente difficile pensare di chiedere una misura alternativa sapendo
che Inghilleri dovrebbe poi andare a vivere nella sua abitazione, dove è successo il fatto».

L'omicida ha ricostruito davanti al giudice i momenti del delitto. Di fatto, ha reso una confessione in
tribunale, confermando ciò che è stato detto e scritto in questi giorni: ha sparato due colpi, voleva farlo
perché il fratello si era approfittato di lui. Salvatore Inghilleri ha fatto riferimento al documento con cui i
genitori ancora in vita hanno ceduto un pezzo di terra a Vito. Ha raccontato che quel contratto gli era stato
sottratto con l'inganno dal fratello. Ed è questo che gli ha fatto covare il risentimento.

«Lo dico e lo ripeto: non è stato un problema puramente venale come potrebbe sembrare - precisa Vitalizi -
il mio assistito ha fatto di questa situazione una questione di principio. Siamo tutti quanti molto scossi
perché non ci rendiamo ancora conto di come questo fatto possa essere accaduto: l'accordo del 22 gennaio
sembrava aver messo la parola fine a ogni contenzioso. Invece...».

Resta anche un timore, assai forte, sulla tenuta psicologica dell'omicida. «Che abbia tentato il suicidio
anche recentemente è ormai cosa conosciuta - conclude il difensore di Salvatore Inghilleri - e d'altra parte
sta continuando a dire che voleva morire anche lui, subito dopo il fratello. E' un detenuto particolare,
sicuramente a rischio, per cui è bene che sia sorvegliato costantemente».

Luciano De Majo

12 aprile 2008
LA SPOSÒ DOPO LO STUPRO: CONDANNATO

È stato condannato alla pena di tre anni e due mesi un livornese di 54 anni, O. M., che il tribunale ha
ritenuto colpevole di violenza sessuale e lesioni nei confronti di una donna di 44 anni che, nel frattempo,
due anni dopo i fatti contestati, è diventata sua moglie. La sentenza di condanna è stata emessa ieri
pomeriggio, al termine di una camera di consiglio durata poco più di un'ora, dal collegio giudicante
presieduto da Sandra Lombardi (giudici a latere Beatrice Dani e Antonio Pirato). Ed è una sentenza che ha
accolto interamente le richieste del pubblico ministero Carla Bianco, tanto che il tribunale di Livorno ha
anche disposto la trasmissione alla Procura della Repubblica degli atti relativi alla deposizione della donna,
avvenuta ieri, poche ore prima della lettura del dispositivo.

«Con la sua testimonianza - ha detto il pm nella sua requisitoria conclusiva - ha cercato di sminuire quanto
avvenuto, nel tentativo di salvare il suo attuale marito». E per questo, ha proseguito il pm, può ravvisarsi il
reato di falsa testimonianza.

La donna, ieri mattina, ha sostanzialmente ritrattato quanto aveva affermato nella denuncia che fece alla
polizia nell'immediatezza del fatto, accaduto il 25 giugno del 2006. Lei arrivò a casa dopo una serata passata
in discoteca che erano le 5 del mattino. E qui trovò l'uomo, con il quale aveva avuto una relazione («Si
prendevano e si lasciavano, come succede a tanti», ha detto uno dei testimoni).

Alla polizia dell'ospedale, dove fu refertata (venti giorni di prognosi per lesioni varie, contusioni, ecchimosi
e una ferita sopra l'occhio) disse che l'uomo l'aveva picchiata e trascinata per i capelli, cercando di entrare
in casa sua per avere un rapporto con lei. Riferì anche che l'uomo le aveva strappato il vestito
violentandola. Però ieri, in tribunale, la donna ha ritrattato tutto. «Avevo detto delle cose non vere su mio
marito, gli ho chiesto scusa come lui ha fatto con me», ha detto in aula.

Ma i giudici non le hanno creduto, condannando il marito e consegnando alla Procura la possibilità di aprire
un fascicolo per falsa testimonianza contro la stessa donna. L'avvocato Franco Mazza, difensore, ha
annunciato che presenterà appello: «Non ci sono prove contro il mio assistito», ha dichiarato,
commentando la sentenza.

Luciano De Majo

1 ottobre 2009
«BACINO IN PREDA AL DEGRADO». IL TRIBUNALE: SÌ AL SEQUESTRO

E' stata accolta dal giudice la richiesta di sequestro preventivo del bacino grande di carenaggio, effettuato
in via d'urgenza nei giorni scorsi dalla Finanza e dall'Asl. Tutta l'area del bacino, dunque, comprese le due
gru di banchina, è stata bloccata dalla magistratura livornese, a seguito del sopralluogo effettuato ormai
una decina di giorni fa dalle Fiamme gialle e dal Dipartimento di prevenzione dell'Asl.

Ma c'è di più: spunta anche un indagato nel procedimento aperto dalla Procura della Repubblica a seguito
dell'esposto dei riparatori navali. Si tratta di Renato Mazza, 53 anni, ingegnere, fino a un paio di settimane
fa direttore del Cantiere Azimut Benetti, l'azienda che gestisce il bacino, in concessione dall'Autorità
portuale. Le contestazioni che vengono mosse all'ex manager di Azimut sarebbero alcune violazioni al
decreto applicativo del nuovo Testo unico sulla sicurezza sul lavoro.

Dalla decisione del giudice Elsa Iadaresta emerge un quadro inquietante delle condizioni del bacino di
carenaggio. Condizioni che non solo metterebbero a rischio la sicurezza di chi opera nel bacino, ma che
rappresenterebbero un elemento di grave pregiudizio della struttura. Il tribunale concentra la sua
attenzione sulla presenza di fanghi e sostanze oleose sulla platea del bacino, ovvero il fondo, anche a causa
dell'ostruzione delle vie di drenaggio, ma anche sul fatto che le scale di accesso sono invase da tavole di
legno e di plastica e da fango e con poca illuminazione.

E' un capitolo molto delicato, quello delle luci, che sarebbero carenti - e in certi casi addirittura inesistenti -
in tutti i passaggi che conducono dalle banchine del bacino alla platea. Mancanti anche le manichette
antincendio, essenziali per garantire la sicurezza.

Si tratta, sostanzialmente, dei rilievi effettuati durante il sopralluogo e trasmessi alla Procura - e da questa
mandati al tribunale per la richiesta di sequestro conservativo - che dipingono, come dicevamo una
situazione complessiva che non è azzardato definire disperata, per le condizioni del bacino. Ci sono richiami
alla tenuta della barcaporta (vale a dire la barriera che separa il bacino dal mare e che sopporta la pressione
dell'acqua), anch'essa fortemente a rischio, come pure alle infiltrazioni di acqua piovana nelle rampe di
scale che dalla banchina portano sul fondo del bacino, tali da interessare gli impianti elettrici e i quadri che
alimentano la zona dove viene attualmente costruito uno yacht.

L'impressione prevalente che i tecnici dell'Asl e gli uomini della Finanza hanno tratto dalla loro «missione»
in bacino è quella di un degrado diffuso. Degrado che riguarda la banchina ricca di avvallamenti e dossi, che
non risparmia le vie d'accesso alla platea che presentano problemi alle pareti, fra vetri e calcinacci dispersi
sul terreno, che si estende anche alle taccate, i sostegni sui quali poggiano le navi che entrano in bacino,
anch'esse preda della corrosione. Diventa perfino di secondaria importanza l'assenza totale di segnaletica di
sicurezza, in un contesto così descritto.

Il tribunale ha anche rilevato che la relazione degli investigatori faceva riferimento alla concessione di
impianti che non rispettavano la normativa sulla sicurezza sul lavoro alle imprese che stavano lavorando
alla riparazione del pontone «Italia» della ditta Neri.

E' tutto un «complesso di cose», avrebbe scritto Paolo Conte, che ha indotto il giudice a mettere uno stop a
questa gestione del bacino e ad accogliere la richiesta di sequestro preventivo.

Luciano De Majo

6 febbraio 2009
«ASSOLVETE LAMBERTI, PROCESSO SUL NULLA»

«Ho il raro privilegio di non dover difendere coloro in cui non credo, la mia non è una coscienza a noleggio:
è una coscienza gratuita. Per questo vi dico che il dottor Germano Lamberti va assolto: perché i fatti non
sussistono. Signori del tribunale, scrivetelo a lettere maiuscole». Alla fine di una difesa durata due ore,
l'avvocato Tullio Padovani ha chiesto senza mezzi termini ai giudici della prima sezione penale del tribunale
di Genova di mandare assolto l'ex capo dei gip del tribunale di Livorno dalle accuse che pendono su di lui
nel processo per Elbopoli. Due ore Padovani, un'ora l'altro difensore di Lamberti, l'avvocato Stefano Del
Corso: due interventi che hanno cercato di chiarire come le accuse rivolte dalla Procura genovese al
magistrato siano prive di fondamento.

«Processo piccolo piccolo»

«Questo è un processo piccolo piccolo - ha argomentato Padovani - fatto di niente, che sta sulla punta di
uno spillo. Non siamo davanti alla sezione disciplinare del Csm, ma in un tribunale ordinario. E qui non c'è la
prova di nessuno dei reati contestati a Lamberti, a meno che non si voglia processare la personalità di un
giudice caparbio e a volte anche testardo, ma sempre abituato a pensare con la propria testa, sicuramente
degno di stima». Lo stesso Lamberti, presente in aula insieme a un altro degli imputati, l'ex viceprefetto
Giuseppe Pesce, in apertura di udienza ha depositato una memoria difensiva di 35 pagine, che riassume e
concentra ciò che è stata la sua condotta processuale e, soprattutto, la sua posizione sui fatti oggetto del
procedimento che ormai volge al termine: in calendario ci sono altre due udienze per le difese, poi la
replica del pubblico ministero Paola Calleri e la camera di consiglio.

«Nessuna corruzione»

L'avvocato Del Corso ha concentrato il suo intervento sulla corruzione in atti giudiziari che era contestata al
giudice. Il legale si è basato prima di tutto sul fatto che il rigetto del sequestro preventivo del cantiere del
Centro servizi (altrimenti detto «ecomostro») di Procchio è stato un atto doveroso. «Non vi era
documentazione sufficiente per giustificare un sequestro - ha spiegato - perché se si legge attentamente il
fascicolo inoltrato al gip dal sostituto procuratore Antonio Giaconi, mancano proprio i presupposti per
accogliere la richiesta. Si potrà dire che Lamberti si è espresso in modo inopportuno e che avrebbe fatto
meglio ad astenersi, ma da quale documento avrebbe dovuto evincere che alla base delle autorizzazioni
rilasciate ai costruttori c'era un abuso d'ufficio?». Per niente tenero l'avvocato è stato nei confronti
dell'ispettore Giombini, l'uomo che per il Corpo forestale ha effettuato tutti gli accertamenti a Procchio: «Ci
ha dato molto da lavorare e quasi sempre i nostri clienti hanno avuto ragione. Sulle questioni edilizie ha
prodotto un mezzo farfugliamento». Sui rapporti fra il giudice e l'ingegnere progettista Uberto Coppetelli,
che secondo l'accusa proverebbero la contropartita della corruzione, Del Corso ha fatto notare che
nell'incontro che i due ebbero l'11 giugno 2003, nove giorni prima che il giudice depositasse il
provvedimento con il quale negava il sequestro del cantiere elbano, la preoccupazione maggiore di
Lamberti riguardava l'investimento che aveva fatto per l'acquisto di un appartamento a Cavo. Temeva, a
parere dell'avvocato, che gli stessi guai di Procchio potessero verificarsi anche per la ristrutturazione della
ex discoteca Costa dei barbari. «C'era la paura - ha concluso Del Corso - di essersi imbarcato in un gruppo di
cialtroni».

«E' un processo di mafia?»

L'avvocato Padovani invece è partito con una valutazione sull'accurato lavoro svolto dalla Procura sul
gruppo di imputati. «A leggere le carte per la prima volta - ha detto - sembrerebbe che questo fosse un
processo per associazione mafiosa e che a Lamberti venga contestato il concorso esterno. C'è una
rarefazione fattuale che trascende nella inconsistenza totale. Questo è un processo che ha raggiunto la
prova negativa della corruzione. Non è facile da raggiungere, ma è successo». Padovani ha analizzato le
conversazioni intercorse fra Lamberti e Coppetelli, con particolare riferimento a quella del 13 giugno 2003,
nella quale Coppetelli proporrebbe al giudice l'acquisto di un appartamento a condizioni più favorevoli alle
quali ha comprato quello di Cavo. «E' su questa telefonata che si regge l'accusa - ha aggiunto l'avvocato -
eppure qui c'è la prova dell'assenza di qualunque corruzione. Perché Coppetelli ipotizza condizioni
vantaggiose per Lamberti, ma solo se Lamberti riuscisse a vendere l'appartamento che ha opzionato a
prezzi favorevoli. Se ci fosse stata una condotta corruttiva, il progettista avrebbe garantito per lui. Invece
no: gli dice chiaramente che la plusvalenza della sua vendita serve per comprare l'altro appartamento,
quello di maggiore dimensione. E dov'è la corruzione?». Allo stesso modo Padovani valuta la telefonata fra
Lamberti e Gallitto, nella quale l'ex prefetto propone l'acquisto di un appartamento nel centro servizi di
Procchio, del quale ha già parlato coi costruttori pistoiesi Giusti e Filippi: «In questo caso Lamberti non sa
proprio niente del presunto accordo raggiunto da Gallitto coi costruttori, al punto da chiedere se
l'appartamento sia a Cavo...».

Il peculato

Padovani ha anche esaminato la questione del peculato. E ha concluso come per la corruzione: Lamberti,
insomma, non avrebbe commesso alcun reato accettando le offerte del prefetto. Nell'accompagnamento
del figlio Luca da Livorno a Piombino e poi da Portoferraio a Capoliveri, «fu Gallitto a offrire questo aiuto e
non certo Lamberti a chiederlo, come si capisce dalla telefonata fra i due». E quando fu lo stesso giudice a
salire sull'auto blu della prefettura per la cena di gruppo a Pistoia, anche in questo caso accettò il passaggio.

Insomma, è la tesi della difesa di Lamberti, se peculato ha da essere, potrebbe averlo commesso chi aveva
la disponibilità del bene. «Sarebbe sbagliato chiedere a una persona alla quale viene offerto un passaggio -
è la conclusione dell'avvocato Padovani - di consultare prima il Testo unico delle leggi sulla pubblica
amministrazione...».

dal nostro inviato a Genova Luciano De Majo

4 febbraio 2009
«PER I PREFETTI CASE A PREZZI DI SVENDITA»

C'erano tariffe differenziate per chi voleva acquistare un appartamento nel residence Le palme di Cavo, nel
territorio di Rio Marina. I proprietari della Filgiust, i costruttori pistoiesi Fiorello Filippi detto Fischio e
Franco Giusti, li vendevano a 5 milioni al metro quadrato in caso di cessione diretta e li davano alle agenzie
immobiliari al prezzo di 6 milioni. C'erano, però, per l'accusa, clienti speciali. Come Vincenzo Gallitto,
prefetto di Livorno, e Giuseppe Pesce, suo vice nonché commissario prefettizio a Rio Marina.

Loro l'appartamento nel residence progettato e mai nato lo avrebbero avuto a 4 milioni al metro quadrato.
Un affarone, che avrebbe fruttato a Pesce un abbassamento di prezzo di 100 milioni, vista la sua intenzione
annunciata di acquistare due appartamenti per 101 metri.

E' emerso nella terza udienza di requisitoria al processo per lo scandalo di Elbopoli, svoltasi ieri al tribunale
di Genova. Il pubblico ministero ha iniziato a trattare la vicenda di Cavo, ovvero la questione della ex
discoteca Costa dei barbari, destinata a diventare un residence, nei piani della Filgiust. E ha messo in luce
che gli indagati principali dell'epoca, nell'estate del 2003, ovvero i prefetti Gallitto e Pesce, il giudice
Lamberti e il progettista Uberto Coppetelli, una volta messi in guardia dal ministro Matteoli dell'esistenza di
un'indagine, per diverso tempo non riuscirono a capire su cosa fosse diretta l'attenzione della magistratura.
Pesce era convinto che riguardasse proprio Cavo. Tanto che, al termine della riunione svoltasi nella sede
elbana della prefettura, fu l'ex vice di Gallitto a partire per Pistoia, dove incontrò Franco Giusti, numero uno
del gruppo «Giusti per l'edilizia».

Pesce aveva un compito preciso: farsi restituire dall'imprenditore i preliminari d'acquisto degli
appartamenti di Cavo. Li avevano firmati lui, Gallitto, Lamberti e altri componenti di un gruppo di amici e
parenti. Ma Giusti non volle saperne di restituire i contratti. Tanto che l'indomani Pesce, al telefono con
Gallitto, tuonò: «Quello str... non capisce niente ed è pericolosissimo. Dice che le cose le tiene lui». Ormai
Gallitto e Pesce, ha sottolineato il pm, sapevano di essere intercettati, essendo stata svelata l'indagine. E'
per questo che diventarono prudenti e criptici quando parlavano al telefono.

Una prudenza che invece non usavano a sufficienza Giusti e Filippi. «Un po' maldestri», li ha definiti il
magistrato ripercorrendo alcune loro conversazioni poi risultate preziose per il lavoro degli investigatori.
Come quella in cui Giusti spiegava che i contratti li aveva lui in un posto sicuro, fuori di casa e dall'azienda,
in una stanza che nessuno avrebbe mai scovato: quando i finanzieri andarono a eseguire la perquisizione
del 27 agosto 2003, «effettuata in fretta e furia perché ormai era chiaro come fosse in atto un'attività di
inquinamento delle prove» ha puntualizzato il pm Calleri, dovettero impiegare parecchio tempo prima di
farsi rivelare dal costruttore il nascondiglio di questi documenti, che adesso sono agli atti del processo.

Lo stesso 27 agosto le Fiamme gialle si presentarono nello studio e nell'abitazione di Uberto Coppetelli,
ideatore di molti dei piani del gruppo Giusti per l'edilizia. Lui però era stato rapidissimo nell'eseguire
l'ordine arrivato nella riunione di Portoferraio: quattro dei cinque computer dello studio erano scomparsi,
uno fu trovato a casa di una sua collaboratrice che aveva già provveduto a formattarlo. Solo l'opera di un
esperto informatico ha consentito di recuperare numerosi files, fra cui alcuni progetti e la stesura dei
preliminari d'acquisto. Eppure non era Coppetelli, almeno ufficialmente, il progettista di Costa dei Barbari.
Non poteva esserlo, perché nel 2001 lui, l'ingegnere, era il mega-consulente per edilizia e urbanistica del
Comune di Rio Marina, nominato da Pesce nella sua veste di commissario. Che cosa successe, allora? Che
Coppetelli usò la firma di un altro professionista, il fiorentino Niccolò Carlo Piccinni, che come Coppetelli è
deceduto. Il grossetano era anche presidente della commissione edilizia del Comune di Rio Marina, che a
tempo di record esaminò e licenziò le due istanze di concessione presentate dalla Filgiust per il recupero e
la ristrutturazione della vecchia discoteca. Due edifici, uno più grande e l'altro di minori dimensioni, che
dovevano diventare 28 appartamenti. «Capito di cos'ha paura Pesce? Del fatto che lui era commissario e
Coppetelli era in Comune quando è passato Cavo», si dissero Giusti e Filippi al telefono.

Particolare curioso è che proprio in quelle settimane sui giornali uscì anche la notizia di un'altra inadgine su
Gallitto, quella relativa alla missione a Montecarlo a spese della Comunità montana dell'Elba guidata da
Mauro Febbo. Una notizia che suonò come una liberazione per i due costruttori, che erano assai
preoccupati dopo aver saputo che la magistratura si stava occupando dei prefetti. «Non è la nostra
vicenda», dissero parlando ancora al telefono e mostrandosi assai sollevati dall'aver appreso quella notizia.
Mai avrebbero immaginato che in quell'estate l'isola d'Elba era una pentola in continua ebollizione, pronta
a esplodere.

dal nostro inviato a Genova Luciano De Majo

19 dicembre 2008
«E MATTEOLI AVVERTÌ GLI INDAGATI»

Fu un'estate calda, caldissima, sconvolgente. Cinque anni fa: era l'estate del 2003, quando i palazzi del
potere distribuiti in tutta la provincia di Livorno tremarono a lungo davanti allo scandalo di Elbopoli, tornato
ieri a risuonare nell'aula del tribunale di Genova, dove davanti al collegio giudicante della prima sezione
penale (presidente Dagnino, giudici a latere Lepri e Panicucci) si celebra il processo a carico di nove
imputati, fra cui personaggi davvero eccellenti: un giudice, due prefetti, un sindaco, tecnici comunali,
professionisti e imprenditori edili.

Il pubblico ministero Paola Calleri ieri ha annunciato che non ce la farà a formulare le sue richieste di pena
per il 23 dicembre. Arriveranno, con ogni probabilità, il 13 gennaio, quando cioè il processo ricomincerà
dopo la pausa per le festività.

Quella riunione urgente

Il magistrato che, in tandem col procuratore aggiunto Mario Morisani, ha portato avanti l'indagine, ha
richiamato alcuni momenti essenziali di ciò che accadde fra luglio e agosto di cinque anni fa. In particolare,
la riunione che gli imputati del processo tennero nella sede elbana della prefettura. Era il 9 agosto del 2003
quando il prefetto Vincenzo Gallitto promosse un incontro al quale presero parte Giuseppe Pesce, che nel
frattempo non era più suo vice ma era stato nominato prefetto di Isernia, l'allora capo dei gip del tribunale
Germano Lamberti e l'ingegnere grossetano Uberrto Coppetelli, professionista di fiducia del gruppo Giusti,
che stava costruendo il Centro servizi di Procchio con la Edilmare e che avrebbe dovuto realizzare anche il
residence «Le palme» a Cavo, nel Comune di Rio Marina, attraverso la società Filgiust.

A dar conto di quella riunione («Non era un incontro casuale perché Coppetelli era stato convocato dal
giorno precedente e ne informò Giusti e Filippi», ha spiegato il pm) sono alcune «intercettazioni ambientali
improprie», ovvero spezzoni di conversazioni che sono finite nel fascicolo d'indagine quando Gallitto
attivava il suo telefono cellulare nel tentativo, peraltro vano, di contattare il suo autista.

«Li avvertì Matteoli»

E' da quegli scambi di parole, ha argomentato il magistrato inquirente, che si ricava che ormai il gruppo è a
conoscenza dell'indagine giudiziaria che li riguarda. «Saranno poi Giusti e Filippi - ha detto ancora il pm - in
una lunghissima conversazione notturna, a spiegare che la notizia dell'indagine era stata rivelata dal
ministro Pisanu, attraverso il ministro Matteoli». Quello stesso Matteoli, oggi superministro dei trasporti e
delle infrastrutture, mai privo di rilevanti incarichi di governo ogni volta che Berlusconi vince le elezioni, che
è imputato di favoreggiamento davanti al tribunale di Livorno, con processo sospeso per effetto di un
pronunciamento della Corte costituzionale nell'attesa di capire se davvero il lodo Consolo, mutuato
essenzialmente dal lodo Alfano, possa essere uno scudo di protezione non solo per le alte cariche dello
Stato, ma anche per i ministri che incappino in una disavventura giudiziaria.

Gallitto e Ronchieri

Comunque, che fra Gallitto e Matteoli vi sia stato un contatto telefonico l'8 agosto del 2003, lo prova una
telefonata che dalla prefettura raggiunse il ministero dell'ambiente. Gallitto parlò con Ezio Ronchieri,
plenipotenziario di An a Massa Carrara e uomo di punta della segreteria di Matteoli. In sostanza, da quella
telefonata si capisce che era stato Matteoli a farsi vivo con Gallitto chiedendo di incontrarlo. «Sono a
disposizione - diceva il prefetto al telefono con Ronchieri - ma il ministro ha detto che è meglio se ci
vediamo direttamente a casa sua». Matteoli però era a Roma e dal suo segretario partì il suggerimento,
rivolto a Gallitto, di ricontattare il ministro tramite la batteria, sistema in uso ai ministeri. «In quella
conversazione - ha detto il pubblico ministero - probabilmente Gallitto seppe dell'esistenza dell'indagine,
con tanto di presenza di intercettazioni telefoniche». E senza perder tempo mise la già citata riunione per
l'indomani.

«Si riunirono per depistare»

Lamberti, secondo quanto ripercorso dal pubblico ministero nel suo intervento di ieri, fece notare che chi
aveva informato il ministro dell'indagine aveva comunque violato un segreto d'ufficio e che, se davvero
qualcuno aveva messo sotto controllo i telefoni di due prefetti aveva avuto «del fegato». Sempre lo stesso
giudice rassicurò tutti sul fatto che nessun gip (in quel momento ce n'erano due in servizio, e uno era lui)
aveva firmato autorizzazioni a intercettare le persone che facevano parte del gruppo. «A confermare la
collusione fra Lamberti e gli altri - ha aggiunto il pubblico ministero - c'è il fatto che, pur in presenza di una
grave violazione del segreto, lui resta in quella riunione e, insieme agli altri, cerca di capire quale sia il modo
migliore per depistare le indagini», anche se nessuno sa con precisione se al centro della vicenda giudiziaria
ci sia il mancato sequestro dell'ecomostro di Procchio o il progetto di Cavo.

L'ordine di distruggere

Chiarissimi i suggerimenti che, secondo il pubblico ministero, da quella riunione partirono all'indirizzo di
Coppetelli: distruggere i preliminari d'acquisto degli appartamenti (che il giudice e i due prefetti avevano
firmato con la Filgiust di Giusti e Filippi) e far sparire dalla memoria dei computer determinati documenti.
Coppetelli, almeno per la seconda parte dell'accordo, non ebbe difficoltà a rispettarlo: ben cinque dei sei pc
del suo studio vennero sostituiti a tempo di record. Spariti nel nulla quelli vecchi. «Ne è stato trovato
soltanto uno, a casa di una persona», ha fatto notare il pubblico ministero, che ha ribadito come, a suo
avviso, la vicenda confermi che il comportamento di Lamberti sia non solo censurabile, ma configuri il reato
di corruzione in atti giudiziari. «Prima Coppetelli gli aveva promesso un appartamento a Cavo più grande di
quello che aveva opzionato con un'aggiunta di prezzo minima rispetto al valore dell'investimento - ha detto
il magistrato - poi, sfumata quest'opportunità, fu Gallitto a chiedere ai costruttori un appartamento a
Procchio da destinare al giudice, come dimostra una telefonata nella quale, concludendo, Lamberti
ringrazia il prefetto per la gentilezza e l'affetto mostrati».

dal nostro inviato a Genova Luciano De Majo

17 dicembre 2008
CONDANNATO A 30 ANNI L'OMICIDA DI DORIS

E' stato condannato a trent'anni Alessio Nigrì, l'operaio 24enne di Luciana (frazione di Fauglia) che la vigilia
di Pasqua ha ucciso a coltellate Doris Eunice Iuta, la prostituta nigeriana 28enne abitante a Pontedera
trovata morta in un boschetto fra Nugola e Castell'Anselmo, lungo la strada provinciale delle Sorgenti. Il
giovane doveva rispondere di omicidio volontario a scopo di rapina: il giudice gli ha inflitto l'aggravante del
cosiddetto «nesso teologico», cioè il fatto di aver commesso il reato - l'omicidio - per eseguirne un altro,
vale a dire la rapina nei confronti della giovane.

Il pm: vent'anni. La condanna decisa dal giudice Rinaldo Merani, nel processo che si è celebrato ieri con rito
abbreviato in un tribunale superblindato per tutelare la riservatezza dell'udienza, ha superato ampiamente
la richiesta del pubblico ministero Massimo Mannucci, che nelle sue conclusioni aveva ritenuto adeguata
una condanna a vent'anni. Mannucci, nel calcolo della pena, era dunque partito da trent'anni ai quali aveva
applicato la riduzione di un terzo dovuta alla scelta del rito abbreviato, effettuata alcuni mesi fa
dall'avvocato Mario Maggiolo, difensore del giovane. Il giudice, quindi, ha innalzato la pena di partenza
portandola al massimo: ergastolo con isolamento diurno. Da qui, applicata la riduzione per il rito con cui si è
celebrato il processo, si è arrivati a trent'anni. Una pena assai pesante, a detta della difesa, che non si
aspettava una mazzata del genere e che adesso sta valutando un ricorso in Appello che a questo punto è
assai difficile non presentare. «I killer di mafia vengono condannati a meno», è il commento che si è lasciato
sfuggire l'avvocato Maggiolo al momento di uscire dal tribunale, convinto probabilmente della necessità
che il tribunale sottoponesse il suo assistito a una perizia psichiatrica.

Reo confesso. Nigrì si presentava in aula da reo confesso. Nel pomeriggio di sabato 22 marzo 2008, la vigilia
di Pasqua, aveva massacrato la giovane prostituta a colpi di coltello. Aveva colpito con un'arma particolare,
un coltello a due lame di origine cinese, capace di fare due tagli per ogni colpo. E' stato arrestato a maggio,
un mese e mezzo dopo l'omicidio. L'ha inchiodato l'esame del coltello: le tracce di sangue trovate sull'arma
erano della ragazza trovata morta. Doris Eunice Iuta viveva a Pontedera: aveva scelto la zona di Nugola per
la sua attività. Da lì, era solita raggiungere la stazione a piedi, o magari facendo l'autostop, per poi tornare a
casa. Non lavorava fino a tarda sera, come accade per altre ragazze che fanno le prostitute: al calar del sole,
si rimetteva in cammino verso la stazione di Livorno e trascorreva la notte a Pontedera, dove divideva un
appartamento con un'amica. Quella sera non la videro tornare e si allarmarono subito: capirono che doveva
essere successo qualcosa di grave perché Doris non tornasse a casa. Il corpo è stato trovato nel piovoso
pomeriggio di Pasqua, nel boschetto dove si prostituiva: da lì la squadra mobile della questura di Livorno,
coordinata all'epoca da Angela Marvulli, ha fatto partire le indagini.

Le parti civili. In aula, ieri, oltre a Nigrì e al suo avvocato, c'era anche l'avvocato Tullio Contu, che
rappresentava le parti civili. La madre e quattro sorelle di Doris, attraverso una procura speciale inviata
dalla Nigeria, hanno deciso di partecipare al processo affidando l'incarico all'avvocato Contu. Il giudice ha
riconosciuto a ciascuna delle cinque parti civili un risarcimento di 10mila euro.

Luciano De Majo

22 gennaio 2009
«ANCHE NOI SIAMO MORTI CON CHICO»

«Da quel momento, da quando l'abbiamo visto morto, è finita la nostra vita», dice al giudice che la
interroga mamma Licia, mentre babbo Claudio, seduto in aula, continua a piangere, come ha fatto durante
la sua deposizione finita da pochi minuti. Licia e Claudio sono i genitori di «Chico» Biondi: quella di ieri, per
loro, è stata una giornata terribile, nella quale hanno dovuto ripercorrere, durante il processo, ciò che
successe l'8 agosto del 2005, quando il loro figlio morì a 23 anni.

Ricordi che tornano attuali, ferite che si riaprono, un dolore che è difficile da sopportare e ancor più da
raccontare: Chico morì all'ospedale dopo un incidente in moto. Aveva la milza rotta ma nessuno se ne
accorse. Anzi, nessuno ordinò neppure un'ecografia. Ieri gli imputati, davanti al giudice Antonio Pirato e al
pubblico ministero Antonella Tenerani, erano i medici Luigi Ciompi e Enrico Paganelli. Una terza imputata,
l'infermiera Veronica Panariello, sarà processata a partire dall'8 giugno, in un procedimento autonomo da
questo.

Claudio Biondi, il padre di Chico, ieri ha ricordato fra le lacrime di aver lasciato l'ospedale per tornare sul
posto dell'incidente quando ormai la situazione del ragazzo sembrava essersi stabilizzata. «Poi - ha riferito -
mi chiamò mia moglie e mi disse di correre da lei. Arrivato in ospedale, ci dissero che non c'era più nulla da
fare. Rividi mio figlio con una targhetta attaccata alla caviglia con scritto "A disposizione dell'autorità
giudiziaria". Neanche nella morte era più nostro».

Mentre l'infermiera Panariello, che ieri era stata citata come testimone, si è avvalsa della facoltà di non
rispondere così come la collega Elena Pezzatini (che era stata indagata ma poi archiviata), Licia Guidetti, la
madre di Federico, ha ricostruito gli istanti che hanno preceduto la sua morte. «Mentre aspettava di
entrare al pronto soccorso - ha detto - si lamentava sulla lettiga. Diceva a mio marito di tirarlo su perché
non ce la faceva a respirare. Allora chiamammo un'infermiera e chiedemmo di visitarlo al più presto,
perché questo ragazzo aveva un dolore forte. Ricordo di aver sentito un urlo, quando poi fu portato dentro
le medicherie: questa è l'ultima volta che ho sentito la sua voce». Poi la tragedia: «Un'infermiera mi disse di
chiamare mio marito, perché dovevano parlarci. A quel punto ci fecero entrare e ci dissero che era morto e
che non sapevano il perché. La nostra vita è finita lì».

Luciano De Majo

5 dicembre 2008
«E' SOLO UN POVERO RAGAZZO DA CURARE»

Non è un maniaco da film, tanto meno un mostro, è un giovane da assistere e da curare. E' un ragazzo che
deve compiere ancora 17 anni, con alle spalle un carico di disagio familiare, la cui situazione è stata
segnalata, naturalmente, alla Procura presso il tribunale dei minorenni di Firenze, ma anche ai servizi sociali
di Livorno, da parte dei carabinieri che l'hanno identificato e fermato. Pochi dubbi, ormai, sul fatto che sia
stato lui a molestare alcune donne. Anche perché ieri è arrivata un'altra conferma - la quinta - da parte di
una vittima delle molestie, che lo ha riconosciuto sfogliando la serie delle foto che le sono state mostrate.

Il passato. A guardarlo in faccia, spiegano gli stessi carabinieri, sembra che abbia qualche anno di più. In
passato aveva i capelli biondi, ossigenati. Ora se li è rasati. Ma ciò che pesa maggiormente, nel suo passato,
più che il modo di portare i capelli, sono i problemi di carattere psicologico che ha avuto. «Era stato
denunciato perché aveva sfasciato una cabina del telefono», ha riferito il comandante provinciale dei
carabinieri, il colonnello Pasquale Santoro. Ed era stato in cura da uno psicologo.

Le ammissioni. Sulle prime, appena fermato, il ragazzo è rimasto senza parlare, quasi a voler confermare il
suo essere tipo di poche parole. Poi, inchiodato dai riconoscimenti che - uno dietro l'altro - sono arrivati da
alcune delle vittime delle sue «imprese», ha cominciato ad ammettere. E ha detto che quando beve perde il
controllo, che non gli capita così di rado.

I riconoscimenti. Ieri c'è stato l'ultimo riconoscimento, il quinto della serie. E' stato quello di una testimone
della scena accaduta il 10 agosto, alle 9 della sera, sul viale Mameli. Non hanno avuto dubbi, invece, oltre
alla protagonista dell'ultimo episodio, che ha portato all'individuazione del giovane, la signora di 65 anni
che ha subito l'approccio alle 2 del mattino del 10 agosto in Borgo Cappuccini, la donna di 61 anni aggredita
a mezzogiorno del 12 agosto in via dei Pensieri e la donna di 37 anni che, sempre il 12 agosto ma alle 21, è
stata avvicinata dal giovane in via Maestri del lavoro, proprio a due passi dal comando dei carabinieri. Altre
conferme non ce ne sono. Neanche l'ucraina aggredita, con maggiore decisione e violenza, la mattina del 12
agosto, una ventina di minuti prima del fatto di via dei Pensieri, ha detto di essere sicura che l'autore delle
molestie sia lui.

Il reato. Il giovane è stato denunciato per atti osceni in luogo pubblico. Altri reati di cui potrebbe essersi
reso responsabile sono perseguibili su querela. Ma il segnale che i carabinieri mandano alla città, a
cominciare dalle strutture socio-sanitarie, è chiarissimo: il ragazzo andava fermato, perché questi episodi
finissero. Ma provare a recuperarlo è possibile. Ed è un dovere per tutte le istituzioni del territorio.

Luciano De Majo

3 settembre 2008
PORTA A MARE, L'ULTIMO SÌ LO DICE IL TAR

Inammissibile. Così il Tar della Toscana ha definito il ricorso contro il piano urbanistico della Porta a mare,
firmato dal capogruppo dei Verdi Gabriele Volpi e da altre 23 persone. Dopo cinque mesi d'attesa, la
sentenza è stata depositata ieri e fa tirare un sospiro di sollievo al gruppo Azimut-Benetti e al Comune. Al
punto che ieri il sindaco Alessandro Cosimi ha annunciato l'avvenuto pronunciamento del Tribunale
amministrativo davanti al consiglio comunale.

Le sei pagine e mezzo della sentenza non entrano assolutamente nel merito del piano particolareggiato
della Porta a mare, contestato da coloro che avevano avanzato il ricorso. Non lo fanno perché, secondo i
giudici, non ce n'è stato alcun bisogno. Il collegio giudicante della prima sezione del Tar, presieduto da
Saverio Romano e composto dal giudice relatore Francesco Bruno e da Eleonora Di Santo, ha infatti accolto
la seconda delle due eccezioni sollevate tanto dal Comune quanto dalla Stu Porta a mare, chiudendo così il
procedimento.

L'amministrazione sosteneva che il ricorso fosse inammissibile perché chi lo ha presentato era una serie di
«soggetti privi di legittimazione attiva». Nessuno di coloro che ha firmato il ricorso, insomma, «ha dato
dimostrazione del concreto pregiudizio subito per effetto delle opere programmate». Il Tar ha accolto
questa impostazione dichiarando inammissibile il ricorso.

Non solo: ha anche ricordato quello che nella sentenza definisce «granitico orientamento
giurisprudenziale» secondo cui la presenza di diversi consiglieri comunali, o di esponenti di associazioni
ambientaliste, fra i firmatari del ricorso non può farli diventare, automaticamente, soggetti legittimati a
presentarlo. I giudici ritengono, infatti, che eventualmente «dovrebbe essere l'associazione stessa (e non un
suo solo componente) ad opporsi in via giudiziaria alle scelte di pianificazione territoriale adottate dal
Comune». Insomma, se le firme sotto il ricorso fossero state, anziché dei singoli esponenti di partiti e
associazioni che intervenivano a titolo, delle organizzazioni di cui fanno parte (Verdi, Rifondazione
comunista e Città diversa, ad esempio, ma anche di altri soggetti associativi), forse il ricorso sarebbe stato
discusso nel merito. Accolto o respinto, ma con ogni probabilità chiarito in tutti i suoi aspetti. Cosa che
adesso i giudici amministrativi non hanno fatto, decidendo, nella sostanza, di chiudere la partita ancora
prima di aprirla.

Luciano De Majo

20 settembre 2007
DIECI ANNI PER AVER UCCISO LA MAMMA

Quando fu uccisa a coltellate, nel condominio di via Poerio a Shangai dove viveva, Gina Pagni aveva 64 anni.
Il suo assassino, il figlio Massimiliano Vincenzini, ne aveva 38. E già da tempo, da almeno sei-sette anni, era
conosciuto dai servizio socio-sanitari della città: nel 1998 gli era stata diagnosticata una «psicosi paranoidea
su base alcolica», e già in precedenza era stato un consumatore di eroina. Fece tutto da solo: uccise la
mamma, poi si dileguò prima di essere acciuffato a Pisa.

Vincenzini è stato riconosciuto infermo di mente. Ma anche socialmente pericoloso: è per questo che il
giudice Elsa Iadaresta ha disposto per lui la msiura di dieci anni di ospedale psichiatrico giudiziario. L'uomo,
dunque, rimarrà rinchiuso nella struttura di Montelupo Fiorentino, dove si trova già da due anni. Terminerà
la sua pena quando sarà arrivato al giro di boa dei cinquant'anni, nella speranza, forse vana, di ricominciare
una vita normale, meno squinternata di quanto non lo sia stata finora. Un auspicio che è possibile trarre,
riferisce la sua legale, l'avvocata Anna D'Angelo, anche dal fatto che le terapie alle quali viene sottoposto
sembrano dare risultati confortanti.

E' fuori dal processo (almeno dal processo penale), invece, l'Asl, che era rappresentata dall'avvocato Paolo
Bassano e che era stata chiamata in causa dai fratelli dell'omicida, tutelati dall'avvocato Alberto Carlesi,
secondo i quali l'Azienda sanitaria locale avrebbe dovuto esercitare una sorta di controllo preventivo nei
confronti dell'uomo, che era in cura presso i servizi di salute mentale. In realtà, quando la difesa di
Massimiliano Vincentini ha chiesto il giudizio abbreviato, sperando nell'applicazione delle attenuanti
generiche, la parte civile ha ritenuto di non aderire alla facoltà esercitata dalla difesa, riservandosi di agire
successivamente in sede civile. A quel punto, anche la responsabilità civile dell'Asl è decaduta,
determinandone l'uscita di scena dal procedimento.

Il delitto porta la data del 25 febbraio 2005. Un episodio terribile, che sconvolse la vita di Shangai. Gina
Pagni fu uccisa con un coltello da pane, dopo un litigio scoppiato perché il figlio non gradiva la cena. L'uomo
ebbe il tempo di uccidere la madre, di spogliarla, di lavarsi dal sangue del quale era piena la casa, prima di
allontanarsi.

Intorno al blocco di via Poerio tutti conoscevano la famiglia e anche i problemi che l'attraversavano, con lei,
la donna massacrata in quella sera d'inverno, ricordata come una persona mite, che aveva dedicato la sua
vita ad allevare i tre figli. E sapevano anche di Massimiliano, il più giovane di loro (gli altri sono Sirio e
Giancarlo), che non di rado aveva avuto problemi psichici e che era un paziente difficile da curare. Lo ha
ammesso lui stesso, nei numerosi colloqui avuti con la polizia e con gli inquirenti: «Le pillole che mi davano?
Le buttavo», ha raccontato spesso. E dire che mamma Gina era arrivata a contargli le compresse che
doveva prendere, per controllare che seguisse le terapie che i medici gli davano.

Luciano De Majo

19 settembre 2007
UNGHERETTI, GIALLO ANCHE SULLE DATE

Piero Ungheretti era vivo anche la mattina di giovedì 26 aprile. Con lui ha parlato, proprio quel giorno, un
suo caro amico, Lido Pacciardi, nipote di Anchise Picchi, notissimo pittore che vive a Collesalvetti. «Sì, ci
siamo sentiti come facevamo spesso - racconta Pacciardi - perché eravamo ottimi amici». E quella è stata,
con ogni probabilità, l'ultima telefonata che il restauratore livornese ha ricevuto dall'Italia. L'ultima volta
che ha sentito una voce amica. Si fa più ristretto, dunque, l'arco di tempo nel quale Ungheretti è stato
ucciso.

«Non so dire con precisione quando possa essere successo - prosegue Pacciardi - però sono sicuro che
giovedì ci siamo parlati. Di cosa? Del più e del meno. Mi diceva che là, a Biserta, il tempo era buono, che
stava passando una bella vacanza, leggendo i libri che si era portato: uno di questi glielo avevo regalato io.
Ma si sentiva che stava bene, che stava serenamente trascorrendo questo periodo di vacanza che si era
preso, in quella Tunisia che amava così tanto. Mi ha chiesto anche degli sviluppi della nostra situazione
politica, lui seguiva queste cose».

Il tentativo successivo di contattarlo, invece, è andato a vuoto. Ed è datato 30 aprile. Pacciardi, infatti,
riferisce che una galleria d'arte di Pietrasanta avrebbe voluto affidare a Ungheretti un lavoro importante.
«Hanno chiamato me per dirmelo - prosegue il racconto del nipote di Anchise Picchi - e io ho girato alla
galleria il numero di telefono cellulare di Ungheretti che era attivo anche in Tunisia. Ma né loro, né io,
purtroppo, siamo riusciti a metterci in contatto con Piero. Era già morto, anche se non abbiamo certezze
sulla data esatta della morte».

Queste cose Pacciardi le ha dette, naturalmente, anche ai carabinieri che stanno indagando per conto della
Procura della Repubblica di Livorno. E' stato lui, forse, l'amico livornese che l'ha sentito per ultimo. Così
come la foto, che pubblichiamo in questa stessa pagina, è l'ultima scattata a Ungheretti in Italia. Il
restauratore si trovava nel giardino di casa Pacciardi, a Collesalvetti, per festeggiare il 96enne Anchise
Picchi. Ungheretti, insieme ad altri personaggi del mondo della cultura e dell'arte, faceva parte del Comitato
promotore delle opere dell'anziano artista. «Era una persona buona e gentile - conclude Lido Pacciardi - ma
soprattutto un artista straordinario. In pochi, a Livorno, si rendono conto di ciò che la città ha perso
davvero, con la sua tragica morte».

Luciano De Majo

7 maggio 2007
LADRI IN COMUNE NELL'UFFICIO DEL SINDACO

Ad accorgersi del furto, il 16 febbraio scorso, è stata Daniela Filippi, segretaria del sindaco, che quando è
arrivata in ufficio, come ogni giorno, si è resa conto che sulla sua scrivania mancavano due oggetti: l'agenda
degli appuntamenti di Alessandro Cosimi e un blocco per appunti nel quale venivano segnate
quotidianamente tutte le telefonate e le richieste inoltrate all'ufficio, naturalmente rivolte in gran parte allo
stesso sindaco.

Ma il materiale scomparso non si ferma qui, perché una settimana prima di questo «colpo», un'altra
dipendente comunale che fa parte della segreteria del sindaco, Tiziana Chiaverini, aveva improvvisamente
perduto la sua rubrica telefonica, che contiene tutti i recapiti utili all'esecuzione del proprio lavoro. Nel
momento della scomparsa di questo oggetto, nessuno, dello staff del sindaco, aveva pensato a denunciare
il fatto, ritenendo che magari fosse andata perduta chissà come. Il fatto più recente, invece, ha
immediatamente fatto collegare i due episodi. E così, il capo di gabinetto del sindaco, Massimiliano Lami, si
è presentato in questura raccontando alla polizia l'accaduto.

Nel suo colloquio con l'ispettore che ha raccolto la sua denuncia, ha riferito tutti i particolari del caso, a
cominciare dal fatto che non ci sono segni di effrazione delle porte e che, a parte il materiale asportato, era
tutto regolarmente al proprio posto. Compreso il telecomando che apre la porta dell'anticamera del
sindaco, che si trovava nel luogo dove viene custodito solitamente. Un «colpo» mirato, insomma: questa la
convinzione che si è diffusa negli uffici comunali, una volta verificato che questi oggetti non erano stati presi
per sbaglio da nessuno. Chi ha rubato - agendo di notte - è andato a colpo sicuro, sapendo anche dove
poter trovare il telecomando. Le ipotesi sono due. Può essersi trattato di un dispetto - magari legato a
qualche disputa tutta interna al Comune - ma c'è anche un sospetto più inquietante: chi ha sottratto quel
materiale lo ha fatto per ricostruire i movimenti e i contatti del primo cittadino. A quale scopo è difficile
dirlo.

Luciano De Majo e Alessandro Guarducci

1 marzo 2007
VIA DEGLI ETRUSCHI, CANTIERE SEQUESTRATO

E' scattato il sequestro per il cantiere di costruzione del complesso «Gli Etruschi», a causa del grave
infortunio di cui due giorni fa è rimasto vittima un operaio polacco di sessant'anni, caduto da un'altezza di
oltre due metri. E' stata la Procura della Repubblica a decidere per il sequestro del cantiere. Entrambi gli
accessi alla zona di costruzione, adesso, sono chiusi con tanto di lucchetto: sui cancelli un cartello che
annuncia: «Cantiere sequestrato a disposizione dell'autorità giudiziaria».

Medici preoccupati. Le condizioni dello sfortunato operaio continuano a destare gravi preoccupazioni.
L'uomo, che lavora per una ditta appaltatrice sul cantiere di via degli Etruschi, è ricoverato nel reparto di
rianimazione del nostro ospedale. E' in stato di coma e i medici non si pronunciano neppure informalmente
sulle sue possibilità di salvarsi. Seguono la situazione ora dopo ora, minuto dopo minuto, senza potersi
ancora sbilanciare su una possibile prognosi.

L'indagine. La Procura ha aperto un fascicolo d'indagine, di cui è titolare il sostituto procuratore Gianfranco
Petralia, a seguito dei sopralluoghi svolti dalla polizia e dal servizio di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro
dell'Asl 6. A quanto si è appreso, dalle verifiche effettuate dai tecnici dell'Asl sarebbero state rilevate
numerose carenze in tema di presidi anti-infortunistici. Insomma, le leggi che tutelano la salute di chi lavora
non sarebbero rispettate granché, in quel cantiere. Da qui, la decisione di mettere l'intero cantiere sotto
sequestro. Altra deduzione logica, non confermata dalla Procura ma comunque scontata, è che il titolare
dell'impresa per la quale l'operaio polacco lavora (un suo parente stretto, suo genero) è indagato per
lesioni gravissime.

Rischio paralisi. Il complesso che sta sorgendo nell'area compresa fra Coteto e Colline, a ridosso della
ferrovia, in questi giorni non muove alcun passo avanti. I lavori sono completamente fermi, a causa del
sequestro. Considerando quanto è accaduto, il progetto, di cui sono titolari il consorzio Edilporto e la coope
Carducci, rischia di assistere a uno «stop» piuttosto lungo. Ma il presidente di Edilporto Roberto Tognotti si
è già attivato per far tornare al lavoro le imprese incaricate di terminare le abitazioni in costruzione.

«Tempi brevi». «Trattandosi di un sequestro probatorio e non conservativo - dice Tognotti - abbiamo
buone speranze che nel giro di non molto tempo le cose tornino alla normalità. Adesso è giusto che la
polizia faccia i controlli del caso, ma soprattutto tutti noi vorremmo che questo operaio guarisse al più
presto. Siamo anche in contatto con i medici per conoscere le evoluzioni delle sue condizioni». Edilporto ha
presentato istanza di dissequestro attraverso i suoi legali di fiducia. «In questi casi - spiega il presidente del
consorzio di cooperative che ha promosso questo progetto - è difficile individuare i tempi precisi nei quali
potremo riprendere le attività. Potrei azzardare due o tre settimane, ma non è così facile». Quanto ai livelli
di sicurezza e alle questioni di legalità, Tognotti tiene a sottolineare che «nei nostri cantieri facciamo molta
attenzione a questi temi».

«In particolare - spiega - in via degli Etruschi non può entrare nessuno che non abbia un cartellino di
riconoscimento e tutte le imprese che lavorano per noi sono assolutamente regolari, come questa per la
quale lavora l'operaio che si è infortunato. C'è un servizio svolto in modo molto puntuale da personale
incaricato da noi, che sorveglia i varchi d'entrata nella zona dei lavori. Siamo in una fase molto delicata per
questo cantiere: una parte di esso praticamente è alla conclusione, si stanno facendo le rifiniture. Ed è il
momento forse più pericoloso. Ma proprio per questo noi non vogliamo scherzi: abbiamo diversi cantieri
aperti e non siamo disposti ad accettare situazioni pericolose o poco trasparenti».

Luciano De Majo

24 febbraio 2007
LAMBERTI IN AULA: MAI RICEVUTO PRESSIONI

«Davide Cecio era il presidente del consiglio comunale e un giovane uomo politico in ascesa. Voleva
affermare un ruolo, ottenere maggiore visibilità politica per sé e per il suo partito. Guzzini invece era un mio
assessore, ed è sempre stato un collaboratore corretto e leale». Gianfranco Lamberti, sindaco di Livorno dal
1992 al 2004, è stato il protagonista assoluto dell'udienza di ieri del processo su Salviano 2, nel quale Cecio
e Guzzini sono imputati di corruzione. E' stato davanti ai giudici per due ore e mezza, rispondendo alle
domande del pm Rizzo, del collegio giudicante e dei legali della difesa, con qualche scintilla con Angelo
Mancusi, difensore dell'ex assessore Pasquale Guzzini.

L'operazione Salviano 2 è stata liquidata da Lamberti in non molte parole. «Ha consentito un guadagno
all'amministrazione - ha spiegato - perché il trasferimento degli indici in quell'area ha fruttato l'acquisizione
di aree per la trasformazione urbana del nuovo centro».

Gran parte della deposizione dell'ex sindaco, in realtà, ha ruotato attorno a un incontro che ebbe con gli
stessi Cecio e Guzzini giusto pochi giorni prima dell'esplodere dell'indagine, esattamente l'8 luglio 2003 (i
sequestri della Finanza in Comune sono dell'11 luglio). «Vennero da me - ha confermato Lamberti - e mi
sottoposero il caso di una cooperativa (la Promocasa presieduta da Baldanzi, altro imputato del processo,
ndr) che voleva la concessione di un'area Peep. Io trovai questo fatto del tutto inusuale e forse anche un po'
maldestro, tanto che chiesi agli ffici una relazione su quali aree erano state assegnate e a chi fino a quel
momento. Devo dire che sono stato un uomo fortunato: sono un meridionale, sarà stata la madonna di
Pompei a proteggermi...». Lamberti ha detto di non aver mai ricevuto pressioni vere e proprie. «Sì, è vero
che Cecio mi disse che comportandomi così non avevo a cuore la maggioranza - ha proseguito - ma era la
ricerca dell'affermazione di un ruolo politico, non altro. Non mi è stato chiesto di aiutare quella cooperativa
a danno di altre». Mancusi ha chiesto a Lamberti di chiarire la scansione temporale dello scambio di lettere
con l'architetto Pacciardi che poi scrisse la relazione richiesta dal sindaco: «Quel foglio con l'appunto che
chiede chiarimenti è datato 4 luglio, quattro giorni prima dell'incontro con Cecio e Guzzini». «No, è dell'8, il
4 è la data dell'archiviazione della lettera», è stata la replica. Mancusi ha anche ricordato che Guzzini ha
scritto a Lamberti una lettera nella quale si sollevavano dubbi sulla legittimità dell'operazione Porta a mare,
facendo capire che anche di quello di parlò nell'incontro. «A grandi linee, forse», ha detto Lamberti. Che ha
insistito sull'aspetto politico della storia: «La Margherita era un partito importante dell'alleanza che mi
sosteneva, da alcuni giorni aveva fatto un congresso nel quale Cecio aveva fatto una relazione competitiva
anche nei confronti di noi Ds. Me lo ricordo bene perché c'ero anch'io, affettuosamente seduto accanto a
Cosimi, all'epoca segretario del mio partito».

Luciano De Majo

16 febbraio 2007

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