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VII.

I POSTULATI ESTETICI DEL ROMANTICISMO

Nel passaggio tra Sette e Ottocento si evidenzia un netto dualismo stilistico: tra il mondo
tradizionale di intendere la musica tipico dell’opera italiana (rappresentato da Rossini) e un modo
totalmente divergente da esso, realizzatosi soprattutto nella produzione strumentale (avviato da
Beethoven e proseguito dai romantici). Ma non basta: vi è un rapporto controverso tra Classicismo
viennese e Romanticismo. Il musicologo Carl Dahlhaus delinea un processo nettamente spartito
nel mondo germanico tra due diverse aree geografico-religiose: il nord protestante e il sud
cattolico, su binari diversi e con diverse velocità e direzioni → nel nord (attorno a Berlino) il
settecentesco stile galante approda direttamente al Romanticismo; nel sud (attorno a Vienna) il
percorso è inframmezzato dal Classicismo viennese. Ecco allora spiegata anche la compresenza
di un pensiero romantico filosofico-letterario al nord e di una musica ancora legata all’illuminismo al
sud.
I primi letterati romantici inaugurano una nuova concezione della musica → ci si rese conto che
l’essenza del mondo continuava a rimanere profondamente oscura e per attingere ai suoi segreti
serve l’intuizione artistica → la musica, soprattutto quella puramente strumentale, è quella che
meglio si presta. Ecco allora la musica per la prima volta elevata ai massimi livelli dell’attività
umana e con la priorità alla musica strumentale che, nascendo dalle energie più profonde
dell’uomo, si slancia verso l’infinito e il divino. Vi è anche un mutamento dello status sociale del
musicista, che passa ad essere libero professionista. Per il musicista romantico la ricerca della
libertà professionale significò la possibilità di esprimere i propri sentimenti e le proprie sensazioni
senza dover obbedire alle rigide, aride regole formali che vigevano nel classicismo.
L’estetica legata all’illuminismo rimane comunque attiva; nell’area meridionale dell’Europa rimane
molto forte la tradizione classicista (Francia e Italia): qui il musicista diventa una persona che vive
della sua arte, che la promuove, e questo gli procura i mezzi per vivere. E’ un borghese, è attivo in
quello che produce. Spesso compositori di estrazione borghese; Schumann chiamerà i borghesi
“filistei”, gruppo sociale orientato al solo benessere materiale. I Romantici tedeschi, attirati e spinti
dalla Senshuct, sono di estrazione borghese ma non corrispondono al modello di compositore che
muta il suo status sociale. Ogni composizione doveva corrispondere a criteri di proporzionalità e
bilanciamento, che richiamavano l’idea di costruzione esatta, basata su un calco. Questa risultava
coerente e con una sua essenza di verità se corrispondeva ad un oggetto della natura, riprendeva
le misure delle cose esistenti in natura. Tutto è conforme all’idea che gli illuministi avevano della
natura. Anche in pittura: si ritraeva una porzione della natura - quadro come rappresentazione
della natura. La musica lo fa creando una forma esatta, recepita facilmente e con naturalezza, è
bella perché assomiglia alla natura → tutto ciò messo in dubbio dai romantici!! Non si deve più
corrispondere all’idea di natura, perché è “matrigna” (Leopardi), è mutevole, è illusoria. Ognuno
deve creare le proprie forme che proiettano il modo in cui una persona vede le cose; non si
rappresenta più una natura oggettiva ma personale.
Nell’epoca romantica la musica strumentale cede sempre più spesso al bisogno di stimoli
extramusicali, con titoli caratteristici, legami con le altre arti, “programmi” letterati, fino a Wagner
con il legame parola-azione.
Ogni composizione deve essere teoricamente concepita come una summa dell’esperienza
interiore del compositore, come messaggio per l’umanità; vi è dunque individualità formale e una
mescolanza di generi diversi. L’idea di contrasto era una caratteristica peculiare dell’ideologia
romantica: il dissidio interiore, la divergenza tra l’aspirazione all’infinito (sehnsucht) e l’amara
consapevolezza dell’impossibilità di realizzare questo desiderio.
Il musicista romantico è inoltre coinvolto in un attivismo culturale, che si estende anche al di fuori
del campo musicale.
Vi è la riscoperta delle radici storiche e di quelle etniche e nazionali → l’Ottocento fu il primo secolo
a volgersi all’indietro, verso la storia del passato, soprattutto al Medioevo → recupero delle
musiche di compositori del passato, il cui repertorio è inserito nei programmi del concerto pubblico
a pagamento che si diffonde. Anche la riflessione storiografica prende corpo con monumentali
biografie dei maggiori compositori.

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GIOACHINO ROSSINI (1792-1868)

Rossini è il massimo rappresentante della cultura musicale ottocentesca più tradizionale e diffusa,
che trovava il suo territorio naturale nell’ambito dell’opera italiana; questa si contrapponeva a
quella avviata invece da Beethoven nella musica strumentale, di difficile comprensione.
Quelli impersonati da Rossini e Beethoven erano dunque due modi di pensare la musica quasi
antitetici: o il centro focale della musica era fatto convergere sul concreto evento sonoro, oppure
veniva posto nell’astratto pensiero musicale del compositore.
Tanto il “terzo periodo” di Beethoven (1816-27) quanto la quasi totalità della produzione teatrale di
Rossini (1810-29) si collocano in un periodo storico particolare: la Restaurazione successiva alle
guerre napoleoniche, avviatasi con il Congresso di Vienna del 1815 → desiderio di pacificazione,
di disimpegno dalle grandi passioni politico-ideali e di ritorno alla mentalità borghese.
I due reagirono diversamente: Beethoven si chiuse in isolamento mentre Rossini produsse musica
apparentemente fin troppo immediata e fruibile con belle melodie, ritmi travolgenti, notevoli
crescendo, anche se con un messaggio ironico e amaro sullo sfondo.

Rossini nacque a Pesaro nel 1792 da una famiglia di musicisti; poté usufruire di una precoce
esperienza nella vita pratica musicale e di studi di composizione. Studiò compositori di area
germanica e venne soprannominato “tedeschino” per l’accuratezza nell’orchestrazione e
nell’armonia. Studia a Bologna contrappunto con Padre Mattei (formazione solida) → Bologna
importante perché ha un grande centro; c’è il liceo musicale: prima scuola moderna di musica. La
carriera artistica di Rossini si apre a Venezia; segue a Napoli e infine Parigi. Piazze importanti del
periodo erano Venezia, un po’ Milano, Napoli. Compose la sua prima opera attorno ai quindici anni
Demetrio e Polibio, che venne rappresentata però solo dopo il suo debutto del 1810 con la farsa
(=breve opera in un atto solo, rappresentata generalmente in teatri di secondaria importanza) La
cambiale di matrimonio. I primi sette anni della sua carriera operistica furono dedicati
prevalentemente al genere comico: ricordiamo L’italiana in Algeri (1813), Il turco in Italia (1814), Il
barbiere di Siviglia (1816), La Cenerentola (1817), l’opera semiseria La gazza ladra (1817).
La musicologia sottolinea che la grande carica della musica rossiniana risiede nel ritmo: sono le
parole stesse, travolte dal ritmo musicale, che si spezzano in modo innaturale adattandosi. Le voci
umane si strumentalizzano e gli strumenti si umanizzano: l’articolazione fraseologica delle melodie
orchestrali è decisamente vocale, “parlante”.Rossini sosteneva che la musica è l’atmosfera morale
che riempie il luogo in cui i personaggi del dramma rappresentano l’azione.
Parallelamente alla produzione buffa vi sono anche opere serie: Tancredi (1813), Elisabetta regina
d’Inghilterra (1815), Otello (1816). A partire dal 1817 si dedica quasi esclusivamente a tale
repertorio con Mosè in Egitto (1818), La donna del lago (1819), Maometto II (1820), Semiramide
(1823) e la sua ultima opera Guillaume Tell (1829).
Oggi Rossini è più conosciuto per le sue opere buffe perché dopo di lui non furono quasi più scritte
e risultano dunque modelli insuperati. Nelle sue opere serie però si notano le nuove convenzione
che vigeranno poi nell’opera italiana, con un aumento dei pezzi d’assieme e con la grande forma
del finale “interno”; ma numerosi furono le influenze della tragédie lyrique: maggiore presenza del
coro, ricca orchestrazione, graduale abbandono del recitativo secco, tendenza a saldare le singole
scene in blocchi unitari. Già prima di Rossini si stavano sperimentando queste novità, soprattuto
con Johann Simon Mayr (1763-1845), eccellente didatta e diffusore in Italia della musica dei tre
classici viennesi.
Le tendente codificate nella musica di Rossini sono dunque:
- impiego anche nell’opera seria di arie in più sezioni: scena, cantabile, sezioni intermedia,
cabaletta
- impiego anche nell’opera seria del finale concertato: allegro, largo di stupore, stretta
- incremento dei pezzi d’assieme
- tendenza a costruire grandi scene unitarie
- uso dell’armonia scisso da un significato espressivo
- assoluta importanza al ritmo
- progressiva abolizione del recitativo secco nell’opera seria
- scrittura per esteso delle fioriture vocali
- importanza del coro.
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Queste tendenza furono più accentuate nelle opere che Rossini scrisse per il pubblico parigino
dell’Opéra: Le Siège de Corinthe (1826), Moise et Pharaon (1827) e Guillaume Tell (rappresentato
nel 1829 → anno importante proprio perché rappresenta la fine della produzione significativa), con
il quale varca i confini del Romanticismo: soggetto storico-patriottico, utilizzazione di elementi
folklorici, totale prevalenza degli ensembles, importanza al coro, presenza della natura → esempio
del principale genere operistico romantico francese, il grand-opéra, caratterizzato da spettacolare
grandiosità, che si affida al potere comunicativo della pantomima e dei fastosi effetti scenografici.
Due principi fondamentali: il primo è l’arrestarsi dell’azione su grandi quadri corali (tableaux), il
secondo è la presenza di improvvisi colpi di scena (choc) che ribaltano lo stato d’animo. Parigi fu la
culla del grand-opéra, una sfarzosa miscela di spettacolo, azione, balletto e musica, i cui autori
furono inizialmente soprattutto compositori stranieri stabilitisi in Francia, tra cui lo stesso Rossini e
soprattutto Giacomo Meyerbeer (1791-1864). Sempre a Parigi si svilupparono i generi dell'opéra-
comique e più tardi - nel periodo tardoromantico - dell'opéra-lyrique.

A 37 anni, Rossini smise di scrivere per il teatro e produsse poca musica, sacra o cameristica. Lo
spirito dell’ultimo periodo si esprime nei Peccati della vecchiaia, brevi composizioni cameristiche.
I motivi del “silenzio rossiniano” vanno probabilmente ricercati nel fatto che Rossini non volle
accettare in toto l’estetica romantica; il suo pessimismo non nutriva fiducia nella forza trascinante
del sentimento, nel coinvolgimento diretto del compositore con la propria musica.
Rossini è fondamentalmente classicista: conserva l’idea di un’esposizione regolare e ordinata
come principio cardine. Idea di bello fondato sulla misura che corrisponde ad una naturale
recepibilità delle creazioni artistiche. Tratto dominante dello stile classico è la composizione per
raggruppamento: le frasi sono raggruppate in modo regolare; così Rossini (armonia semplice, tutto
chiaro, tutto consequenziale).
Il dualismo stilistico è all’interno dello stesso Rossini: il romanticismo penetra anche nei suoi
comportamenti musicali nonostante sia classicista. Ciò che è immediato è più vero - così i classici;
l’ordine è un’illusione e il mondo è in preda a forza occulte - così i romantici. Incapacità di
comprendere le cose ma anche di capire se stessi, di essere consapevoli della scelte e della
veridicità delle cose: incertezza, ansia di conoscenza che non trova appagamento. I compositori
sono dunque spinti ad una continua indagine per esplorare territori ignoti in cui trovare l’ordine del
mondo. Per gli intellettuali classici tutto ciò non serve perché è tutto chiaro, definito, c’è già ordine.
Nella musica dell’ultimo Beethoven si vede una forza, una pulsione che non si sa come è
generata; tende a rendere meno auto-evidente il principio di organizzazione e i principi formali,
evidenti invece in Rossini.
Rossini è deluso dal congresso di Vienna: disincanto e distacco dal mondo. Idea che le cose non
sono così chiare ed evidenti; il mondo non va necessariamente verso ciò che noi riteniamo essere
giusto. Disillusione che si trasforma in un distacco dal mondo. Si ritira in una sorta di torre d’avorio;
scrive per rappresentare ciò che immagina e sente ma capisce che non è la direzione che il mondo
sta prendendo. Soggetti che risentono del mondo romantico. Recupero di Shakespeare; le
caratteristiche di irregolarità, linguaggi diversi vanno incontro alle esigenze romantiche. Anche
Rossini musica opere di autori romantici ma le realizza in modo più legato ai principi classici.
Teatro comunque lontano dal Settecento.
Tutta la cultura italiana tendeva al classicismo; la penetrazione dei principi romantici è stata molto
lenta. Dibattito molto acceso, soprattuto a Milano con Madame de Steal, Andrea Maffei (uno dei
primi a tradurre il teatro francese e tedesco).
(Belcanto: stile distaccato dai personaggi, costruzione della bella melodia senza necessità di
esprimere una condizione psicologica).
Vi era comunque un sistema impresariale che spingeva i compositori a scrivere qualcosa che va
incontro al pubblico; i tedeschi pongono in primo piano se stessi, la loro soggettività. Principio del
caratteristico. Rifiuto dell’artista romantico di misurarsi con le aspettative del suo pubblico. Arte più
esoterica, esclusiva, più avventurosa, ma meno comprensibile e dunque fruibile: isolamento
sociale.

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LA PRIMA GENERAZIONE ROMANTICA:
1. CARL MARIA VON WEBER (1786-1826)

Compositori e intellettuali tedeschi alla ricerca di una vera musica nazionale e “romantica” si
rifacevano al teatro d’opera. L’opera che fu salutata come prima opera romantica tedesca fu Il
franco cacciatore di Carl Maria von Weber, rappresentato a Berlino nel 1821 e denominato “opera
romantica” fin dal frontespizio. La trama proveniva da una leggenda: il giovane cacciatore Max, per
ottenere il posto di guardiacaccia del principe e ottenere la mano della sua innamorata, deve
superare una prova di tiro al bersaglio. Si lascia convincere dal cacciatore Caspar ad usare
pallottole magiche. Nella gara, mentre Max spara, la sua innamorata grida e la pallottola va a
colpire Caspar stesso, che muore. Max allora confessa e grazie all’intervento di un santo eremita
viene perdonato dal principe. Formalmente si tratta di un Singspiel in tre atti: in lingua tedesca, è
costituito da dialoghi recitati inframmezzati da pezzi chiusi musicali. Attinge però soprattutto
dall’opéra-comique, ma anche dall’opera italiana. Usa motivi ricorrenti, lega sfumando una scena
all’altra, usa un disegno armonico ben pianificato con elementi anche simbolici. Se il peso conferito
ai piani armonici è di chiara derivazione dello stile classico → forma equilibrata, la forma
complessiva è però decisamente romantica → forma squilibrata. Le sue variopinte armonie e
orchestrazioni, l'uso di temi popolari tratti dalla tradizione musicale dell'Europa centrale, ed il
tenebroso libretto "gotico", che comprende anche l'apparizione notturna del demonio in una
foresta, hanno tutti contribuito alla sua grande popolarità e ne fanno un'opera "romantica" per
eccellenza. L’opera ebbe successo rapidissimo, al punto che Weber fu tentato di andare oltre
lanciandosi nello scrivere una “grande opera eroico-romantica”, l’Euryanthe, rappresentata a
Vienna nel 1823. Ma l’ambizioso progetto di allargare l’agile materiale del Singspiel e dell’opera
comique in “grande opera”, cioè sotto forma di opera interamente musicata senza dialoghi parlati e
con un argomento “eroico”, fallì per la pochezza e la frammentarietà del libretto. L’ultima opera di
Weber, Oberon (rappresentata a Londra nel 1826), seppure scritta in lingua inglese, ritornò alla
tipologia del Singspiel in tre atti con prologo e alla dicitura “opera romantica”.

Weber (nativo di Eutin → compositore del nord) può dunque essere considerato il primo dei grandi
musicisti romantici, dei quali riassume in sé i tratti principali: innanzitutto l’attivismo culturale → il
musicista romantico sentiva di dover essere attivo su molto fronti e dover agire sulla realtà; egli si
esprimeva componendo musica ma la eseguiva anche come strumentista virtuoso e come
direttore, sentendosi diffusore della nuova musica. L’attivismo si esplicava anche in qualità di
organizzatore: direttore artistico di teatri o istituzioni (Weber fu direttore dell’Opera di Parigi e di
Dresda), fondatore di una lega artistica (Weber fondò l’Harmonischer Verein). La frequentazione di
intellettuali e poeti dell’epoca ravvivò in Weber anche la componente letteraria: produsse saggi
come critico musicale e si cimentò come scrittore.

2. FRANZ SCHUBERT (1797-1828)

Schubert nacque nel 1797 a Vienna dove trascorse quasi interamente la sua breve vita →
compositore del sud. Vivere a Vienna nei primi anni dell’Ottocento voleva dire per un musicista
essere sovrastato dalla figura di Beethoven e sul versante teatrale era Rossini il dominatore
incontrastato. Schubert visse troppo poco per poter competere con loro: l’unico spazio che riuscì a
ritagliarsi fu quello di riunire per serate musicali una ristretta cerchia di amici e di essere ammesso
ad allietare con la sua musica alcuni salotti nobiliari, per i quali scrisse la quasi totalità dei suoi
circa 600 Lieder, scritti su testi dei più grandi poeti dell’epoca (Goethe, Schiller, Novalis).
Eppure ebbe una buona formazione in contrappunto, coro e organo, ma non bastò; le esecuzioni
pubbliche dei suoi lavori furono scarsissime. Le critiche che gli rivolgevano erano di scrivere in
modo troppo complicato, troppo difficile tecnicamente, di usare modulazioni troppo audaci e un
accompagnamento troppo pesante. Era accusato anche di scrivere per il teatro senza averne
sufficiente esperienza.
L’ascesa di Schubert iniziò nel 1825: alcune sue musiche vocali furono eseguite e gli editori
iniziarono a cercarlo; Schubert si stava accingendo ora a comporre i suoi massimi capolavori.
Vanno certamente segnalate le sinfonie: dopo le sei giovanili (1813-1818) vi è la Settima in mi

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maggiore e l’Ottava, nota come Incompiuta, in si min. (1822), in soli due movimenti. Dal 1825 al
1828 si dedicò alla stesura della sua ultima sinfonia, in do magg., detta La grande (la sesta
sinfonia viene invece definita La piccola poiché è nella medesima tonalità).

Nelle sue composizioni Schubert non rinnega il concetto fondamentale del Classicismo, ovvero il
progetto di costruire grandi forme basate sull’elaborazione motivico-tematica; tuttavia egli vi
inserisce alcuni tratti tipici della musica romantica:
1. tendenza verso un tono lirico-contemplativo, che privilegia la plasticità melodica dei temi
2. modulazioni libere a gradi diversi dal V → uso di cromatismi ed enarmonia
3. il compositore può scegliere il punto di climax, collocandolo spesso verso la fine e creando
dunque una forma sbilanciata
4. il ritmo si fa piuttosto uniforme, creando accumulo di tensione
5. netta polarizzazione tra melodia e accompagnamento con un tessuto liberamente
contrappuntistico
6. fraseologia sempre più regolare e simmetrica (“quadratura”).

TRE COMPOSITORI ROMANTICI:

Gli anni dal 1809 al 1813 videro la nascita di quasi tutti i più famosi musicisti romantici: nel 1809
Mendelssohn (musicista ancora fortemente legato alla tradizione classica), nel 1810 Schumann
(tipico musicista romantico) e Chopin (romantico sui generis), nel 1811 Liszt, nel 1813 Verdi e
Wagner.

1. FELIX MENDELSSOHN-BARTHOLDY (1809-1847)

Mendelsshon nacque ad Amburgo e trascorse la sua giovinezza a Berlino dove ricevette


l’educazione più elevata e completa possibile → studi umanistici, legati alle arti, musicali
(pianoforte, violino, composizione). Poté frequentare molti personaggi noti poiché la sua casa era
forse il salotto più importante di Berlino. La famiglia lo aiutò anche con numerosi viaggi cultuali,
che gli permisero di conoscere le diverse tradizioni musicali e le maggiori personalità artistiche
dell’epoca. Grazie a questi stimoli, la sua creatività sbocciò presto → fin dall’età di 11 anni si
dedicò a tutti i generi musicali. Scrisse le sue prime dodici sinfonie, che iniziarono ad essere
eseguite con regolarità solamente in tempi recenti, durante i primi anni di adolescenza (più
precisamente, dai dodici ai quattordici anni). A quindici anni scrisse la Prima Sinfonia per orchestra
completa (prima di cinque Sinfonie), op. 11 in Do minore (1824), e la Sonata per viola in do minore,
nel 1825 il celebre Ottetto per archi op.20, e a diciassette l'Ouverture per il Sogno di una notte di
mezza estate, dall'omonimo lavoro teatrale - Sogno di una notte di mezza estate - di William
Shakespeare, forse il suo primo grande successo. Oggi il brano più noto di tale composizione è la
"Marcia nuziale".
Si calò appieno nell’attivismo culturale tipico del romantici; era musicista virtuoso al piano e
all’organo; fu direttore d’orchestra. Si pose come diffusore della nuova musica e di quella antica →
nel 1829 presentò a Berlino la Passione secondo Matteo di Bach, in una versione “rimodernata”;
inoltre la sua riproposizione degli oratori handeliani lo stimolò a cimentarsi in tale repertorio. Fu
estremamente impegnato anche come direttore artistico (Dusseldorf, Lipsia). Nel 1841 fu chiamato
a Berlino dal nuovo re di Prussia per l’allestimento di tragedie greche e drammi shakesperiani con
musiche di scena scritte appositamente: Antigone, Edipo a Colono di Sofocle, Sogno di una notte
di mezza estate di Shakespeare (1842; riutilizzò l’ouverture scritta a 17 anni). Mendelssohn fu
anche fondatore e direttore del Conservatorio di Lipsia, inaugurato nel 1843. La sua unica
produzione letteraria è la traduzione dal latino dell’Andria di Terenzio.
Nonostante queste caratteristiche prettamente romantiche, il fatto che la sua formazione
compositiva si sia volta principalmente sulle opere di Bach, Handel, Mozart e Beethoven e si sia
coagulata in una scrittura “classicamente” limpida e netta, aliena dalle morbidezze armoniche ed
esistenziali romantiche, ha stimolato alcuni studiosi ad allontanarlo da questo movimento culturale,
definendolo quasi “neoclassico” o “romantico classicheggiante”. Per un filone della sua musica (es.

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Sogno di una notte di mezza estate) è stato coniato il termine Elfenmusik, “musica di elfi”, che ne
sottolinea il carattere fiabesco.
I problemi musicali da lui affrontati sono però vicini a quelli dei suoi contemporanei: innanzi tutto il
non agevole inserimento all’interno della forma di sinfonia classica di due tra le caratteristiche
musicali romantiche più importanti: la tendenza all’uniformità ritmica e la tendenza a servirsi di temi
lirici e poco suscettibili ad elaborazione; inoltre il rapporto tra musica e stimoli extramusicali →
buona parte della produzione di Mendelssohn è legata a suggestioni esterne.
Le più famose composizioni per piano solo sono le Romanze senza parole, “musica da salotto”.

2. ROBERT SCHUMANN (1810-1856)

Caratteristica di Schumann è la duplicità; egli sentiva di essere scisso in una “doppia natura” →
da una parte una “prosaica” mentalità borghese, desiderosa di affermazione economica e sociale;
dall’altra una “poetica” esigenza di dedicarsi all’arte anima e corpo. Probabilmente questo dissidio
nasce anche dalla condizione famigliare: la madre vuole avviarlo agli studi di giurisprudenza, il
padre alle attività artistiche. Ma all’interno della stessa sfera artistica Schumann si sente attratto da
due poli opposti: tanto dalla musica, quanto dalla letteratura. Schumann è infatti anche scrittore di
poesie, novelle, romanzi e drammi. Alla morte del padre si iscrisse all’Università di Lipsia, ma a 20
anni la grande decisione: le sue ambizioni musicali prevalsero su quelle letterarie e Schumann
abbandonò l’università e riprese gli studi di pianoforte con Wieck; si rese inoltre conto di voler fare
il compositore, ma il suo bisogno di esprimersi in musica cozzava con le insufficienti basi tecniche.
Negli anni 1832-35 iniziò il percorso di Schumann, segnato da attivismo culturale. Troncata una
promettente carriera di strumentista virtuoso per una paralisi, si dedicò solo alla composizione e si
prodigò come diffusore della nuova musicale soprattutto come critico musicale.
Intorno al ’33 fondò una lega artistica, Lega di David (Davidsbündler), l’insieme di alcuni curiosi
personaggi, dai caratteri completamente diversi tra loro, che riassumevano tutte le sfaccettature
dell’animo romantico di Schumann. L’unico denominatore comune era una lotta a spada tratta
contro il pensiero conservatore settecentesco dei “filistei” (così come venivano chiamati i borghesi
“parrucconi” e retrogradi dagli studenti dell’epoca, a cui Schumann contrapponeva la figura di
Davide, come nell’Antico Testamento). Nel 1834 riuscì a far uscire il primo numero di una rivista da
lui stesso fondata, la “Nuova rivista musicale”, con un triplice scopo: 1. ricordare l’epoca antica e le
sue opere; 2. lottare contro il più recente passato in quanto epoca antiartistica, filistea, atto solo ad
aumentare il virtuosismo esteriore; 3. preparare una nuova età poetica.
Schumann attribuì dei nomi ai frequentatori di casa Wieck; i principali erano tre: Florestano (attirato
da ciò che è nuovo e strano), Eusebio (sognatore, più lento a conquistare ma duraturo), Maestro
Raro (saggio, maturo) → Florestano ed Eusebio rappresentano la duplicità del lato “poetico” di
Schumann, Maestro Raro è il tentativo di mediare in un unico individuo le due energie opposte.
L'idea di scomporre la propria personalità in vari personaggi non rappresentava certo una novità
schumanniana, ma trovava radici nella letteratura del primo Ottocento e, in particolare, in Jean
Paul, autore molto caro al giovane Robert. Nei caratteri opposti di Eusebio e di Florestano - i due
principali personaggi della lega - erano scisse anche le due sfumature fondamentali del
romanticismo. Battagliera, ridondante ed eroica l’indole di Florestano; dolce, malinconica e fragile
quella del più timido Eusebio. Con questi due nomi Schumann, a seconda del suo stato d’animo,
usava firmare la sua musica e i suoi scritti sulla Neue Zeitschrift für Musik. Oltre che nelle
Davidsbündlertänze, dove i due sono gli indiscussi protagonisti, Florestano ed Eusebio appaiono
anche nel celebre Carnaval Op.9, la più importante e completa tra le opere giovanili di Schumann.
Questo meravigliosa raccolta di piccoli pezzi, oltre alle due sezioni dedicate ai personaggi in
questione, si conclude con una trionfale e sognatrice “Marcia dei fratelli di Davide contro i Filistei”
che vede i nostri eroi tesi verso il loro obiettivo comune: il superamento dei canoni formali
settecenteschi e la libertà dell’ispirazione pura nella musica e nell’arte. La difficoltà effettiva di
Schumann a rimanere entro i canoni formali di allora era infatti più che evidente ed era comune a
molti compositori romantici. Le sue opere più ispirate ed importanti, senza nulla togliere alle
sinfonie, alle sonate e ai concerti per solista e orchestra, sono per l’appunto le raccolte di piccoli
pezzi come quelle appena citate: dove l’immensa ispirazione dell’autore trova la sua più libera
espressione. Lo sdoppiamento della personalità di Schumann, purtroppo, superava di gran lunga i
limiti di una licenza artistica e preludeva, infatti, ad un’instabilità mentale che lo portò ad un
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tentativo di suicidio, al ricovero in manicomio e ad una triste morte, oltre che ad una vita non
propriamente felice. Ma il concetto di due anime che convivono in una stessa personalità artistica e
che, in modo diverso, perseguono lo stesso ideale rappresenta un concetto fondamentale del
romanticismo ottocentesco.
Negli stessi anni si innamorò della figlia del maestro, Clara Wieck, promettente pianista → si
fidanzarono segretamente per l’opposizione paterna e solo dopo si sposarono → Schumann era
un po’ geloso professionalmente di lei nonostante il forte coinvolgimento sentimentale (altra
duplicità). Sono però questi anche gli anni in cui venne alla luce la malattia psichica di Schumann;
nell’54 tentò infatti il suicidio gettandosi nel Reno ma venne salvato e chiuso in una clinica dove
morì due anni dopo.
Altra duplicità ancora è legata all’aspetto compositivo: dotato di un carattere incline al disordine,
Schumann impose a se stesso il massimo dell’ordine e della disciplina, esplorando un genera
musicale per volta → tra il 1829 e il ’39 compone quasi esclusivamente per pianoforte; nel 1840 i
Lieder per voce e pianoforte; nel 1841 le sinfonie; nel 1834 musica da camera; nel 1843 l’oratorio;
nel 1845 la fuga; nel 1848 la sua unica opera, Genoveva, e parallelamente altra musica tra cui una
serie di pezzettini per pianoforte destinati all’infanzia.
Anche il rapporto tra musica ed elementi extramusicali rispecchia una duplicità di Schumann. Si
rese infatti necessario fornire all’ascoltatore qualche suggerimento per comprendere la musica;
Schumann inserì nelle sue musiche riferimenti più o meno nascosti a realtà esterne alla
composizione stessa, ma anche maschere e personaggi dietro i quali celarsi.

3. FRYEDRYK CHOPIN (1810-1849)

Chopin nacque in Polonia ed ebbe una giovinezza piuttosto normale, studiando al liceo e
parallelamente musica e composizione. Studiò poi composizione al Conservatorio di Varsavia.
Come concertista, lasciò la Polonia per Vienna nel 1829 e successivamente nel 1830, ma in
questo secondo viaggio rimase deluso a causa delle scarse occasioni di esibirsi. Sulla strada per
Londra venne raggiunto dalla notizia che Varsavia era caduta nella mano dei russi e Parigi divenne
allora la sua seconda patria → importante dal punto di vista culturale → conosce musicisti come
Berlioz, Rossini, Liszt etc. Lì l’alta società parigina se lo contendeva per suonare nei propri salotti e
per insegnare pianoforte e venne ben retribuito; rari i concerti pubblici. La composizione dei suoi
piccoli pezzi per pianoforte si spiega proprio per la destinazione in questi salotti aristocratici. Dopo
un breve viaggio concertistico in Inghilterra e Scozia, tornò a Parigi, dove trascorse il suo ultimo
anno di vita in condizioni difficili.
Chopin veniva percepito come proveniente da un mondo profondamente estraneo alla civiltà
dell’antica Europa; tutta la sua formazione infatti scavalca a piè pari il Classicismo viennese,
riallacciandosi direttamente al mondo settecentesco. Non vi è in lui l’elemento di attivismo
culturale, se non nella frequentazione di ambienti letterari e artistici. Quella di Chopin è un’arte del
porgere, che fa dell’ornamento la sostanza espressiva della musica (richiama stile galante e
sensibile); un’arte che pone al centro dell’attenzione più la capacità espressiva dell’interprete che
l’astratto processo costruttivo del compositore.
Anche quando si dedicò alla forma-sonata, Chopin prese come modello la sonata haydniana, se
non addirittura quella preclassica.
Gran parte delle composizioni di Chopin vennero scritte per pianoforte solista e lo stesso
compositore veniva spesso definito “poeta del pianoforte”; le uniche significative eccezioni sono i
due concerti, quattro ulteriori composizioni per pianoforte e orchestra, e la Sonata op. 65 per
pianoforte e violoncello. Le sue opere sono spesso impegnative dal punto di vista tecnico, ma
mantengono sempre le giuste sfumature e una profondità espressiva.

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MUSICA ASSOLUTA?

Il Romanticismo francese si differenziò nettamente da quello tedesco: se quest’ultimo attribuiva il


primato estetico alla musica, soprattutto strumentale, per i compositori francesi la parola “musica”
rimaneva coniugata con la parola “teatro” e la musica operistica era considerata ancora superiore.

1. HECTOR BERLIOZ (1803-1869)

Berlioz, massimo compositore romantico francese, ebbe una formazione letteraria ma prese lezioni
private di composizione con Lesueur, il quale sosteneva l’idea di attribuire un determinato soggetto
alla musica, esplicitandolo attraverso la redazione di un programma.
Nel 1830 venne eseguita la Sinfonia Fantastica di Berlioz; si tratta di una sinfonia per orchestra il
cui ascolto va integrato dalla lettura di un programma scritto dallo stesso compositore (è detta
"fantastica", ossia "di fantasia", proprio in quanto la partitura è legata ad un programma scritto
dallo stesso autore), poiché i suoi cinque movimenti sono collegati da una specie di trama
narrativa: gli incubi di un uomo sotto l’effetto della droga → è tipicamente romantica la concezione
dello stato onirico, in cui affiora l’inconscio, come mezzo per raggiungere una conoscenza più
profonda di sé e della vita. Si evince quindi un desiderio di spinta della sinfonia verso il teatro, che
si spiega da una “teatralizzazione” di fondo dello stesso Berlioz: fin dall’infanzia era abituato a
percepire il mondo reale attraverso un filtro teatrale (nella sua autobiografia si nota uno
straordinario distacco, come se la vita fosse stata vissuta su un palcoscenico). Berlioz definisce
“idea fissa” il tema musica che ricorre in tutti i movimenti. Già nella lettera in cui comunicava di
aver scritto l'ultima nota, legando tale lavoro alla vicenda sentimentale con l'attrice Harriet
Smithson, Berlioz dimostrava di considerare fondamentali i riferimenti extramusicali. Nel 1832
scrive Il ritorno alla vita, melologo molto autobiografico che pone un lieto fine alla Sinfonia; nel
caso di esecuzione congiunta della Sinfonia e del melologo era necessario il programma. Il fatto di
essere una sinfonia a programma mostra la volontà di abolire la distinzione tra generi musicali e
tra le arti stesse. Le principali composizioni successive di Berlioz sono l’Araldo in Italia (1834,
sinfonia in quattro parti con viola principale - commissionata da Paganini che rimane però deluso),
Roméo et Juliette (1839, sinfonia drammatica per soli, coro e orchestra), La dannazione di Faust
(1846, leggenda drammatica), L’infanzia di Cristo (1854, trilogia sacra per soli coro e orchestra). In
un compositore in cui tutta la musica tende alla teatralità, sono a maggior ragione da ricordare le
opere liriche: Benvenuto Cellini (1836), Béatrice et Bénédict (1860, opéra-comique), Les Troyens
(1859/59, grand opéra).
Dopo un viaggio in Italia, Berlioz si divise tra Parigi e numerose tournées all’estero; nella sua patria
dovette lottare duramente contro l’indifferenza del suo pubblico e l’ostilità delle istituzioni, mentre
all’estero i successi erano più lusinghieri. La rarità delle esecuzioni delle sue musiche dipende
anche da alcuni atteggiamenti personali: l’esigenza di dirigere sempre di persona e la sua
concezione della musica quasi come evento rituale da realizzare con il coinvolgimento di grandi
masse corali e orchestrali (legata alla tradizione musicali francese, così come la collocazione
spaziale degli esecutori, la raffinata ricerca timbrica, la volontà pedagogica di fondo di educare
masse). Berlioz aveva molti nemici anche per la sua attività di critico musicale → animato da
attivismo culturale → fu direttore d’orchestra, diffusore della nuova musica e di quella antica
(soprattutto Gluck), direttore artistico, critico e scrittore. Gli mancò solo il virtuosismo strumentale e
la fondazione di una lega artistica (molto egocentrico, faticava a legare con gli altri).

2. FRANZ LISZT (1811-1887)

Liszt fu il primo ad accogliere il messaggio di Berlioz e a rilanciarlo. Benché nato in Ungheria,


lingua madre era il tedesco (madre austriaca e studi a Vienna); iniziò la carriera concertistica come
pianista a 11 anni. Città importante per la sua maturazione compositiva fu Parigi; scriveva pezzi di
bravura per il proprio strumento fino al 1830-31, quando assistette a due esperienze musicali
importanti: 1. nel 1830 l’ascolto della Fantastica di Berlioz → si rese conto dell’importanza di
inserire elementi extramusicali e della necessità di unificare i movimenti di una composizione
tramite un’idea fissa; 2. nel 1831 l’ascolto di Paganini a Parigi → Liszt sentiva l’esigenza di

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realizzare in musica una rivoluzione attraverso l’uso di materiale musicale totalmente nuovo,
sperimentale e il virtuosismo di Paganini gli offrì il modo di inserire queste forze tonalmente
disgregatrici all’interno di un discorso compiuto grazie alla tecnica della variazione virtuosistica.
Liszt riuscì dunque a superare la barriera del dualismo stilistico, traghettando lo stile dei virtuosi
verso la sua integrazione in una forma compiuta.
Liszt sosteneva la necessità di fondere l’ispirazione letteraria con la musica strumentale pura; lo
stesso compositore voleva trasmettere un messaggio poetico. Le composizioni lisztiane di quegli
anni riportano titoli chiaramente evocatori di echi letterario-pittorici, come ad esempio la Fantasia
quasi sonata Dopo una lettura di Dante (1836/49) dove troviamo l’ispirazione chiaramente
letteraria, l’uso di materiale musicale sperimentale inserito in un tessuto di netto virtuosismo,
l’unione tra la libertà della fantasia e il rigore costruttivo della sonata, forma ciclica data dalla
riproposizione variata di uno stesso tempo.
Fino al 1848 la vita di Liszt fu quella del più grande pianista del secolo; quando assunse il ruolo di
maestro di cappella a Weimar si dedicò alla composizione, avviando la stagione del poema
sinfonico → composizione sinfonica in un unico movimento, corredato di un programma scritto
che ne illustra il contenuto poetico. Primo esperimento in tal senso fu la Bergsymphonie (iniziata
nel 1847), ispirata ad un’ode di Hugo, a cui ne seguirono altri 12.
Nel 1852-53 Liszt si cimentò con una delle sue poche composizioni veramente “assolute”: la sua
unica Sonata in si min. per pianoforte → sonata ciclica: in un unico movimento sono compressi tutti
i movimenti di una sonata tradizionale e vi è la tecnica della trasformazione tematica.
Nel 1861 si trasferì a Roma, dove si accentuò l’interesse per la spiritualità religiosa → musica
sacra (oratori e messe) e prese gli ordini minori. La scrittura degli ultimi anni è più asciutta e
rigorosa, con luoghi armonici molto lontani (es. Bagatelle senza tonalità, 1885). Morì a Bayreuth,
dove si era recato per assistere al Parsifal e al Tristano e Isotta di Wagner.

L’OPERA ITALIANA DELL’OTTOCENTO

Nell’Italia ottocentesca ci si applicò quasi esclusivamente nel genere operistico. Il teatro


manteneva una funzione non dissimile da quella assunta nel Settecento, presentandosi come
luogo di ritrovo serale e veicolo di divulgazione culturale per un pubblico ancora nettamente
spartito in classi; la differenza di rango sociale era avvertibile in primo luogo nella diversa
collocazione del pubblico all’interno del teatro.
Lo spettatore ottocentesco non poneva in primo piano il godimento estetico ma la propria
partecipazione emozionale: si voleva identificare inconsciamente con i personaggi. Tale primato
del coinvolgimento emotivo presuppone una buona dose di verosimiglianza nella
rappresentazione: i timbri vocali si fanno più naturali; si cerca una certa elementarità nei caratteri
dei personaggi. Le trame si vanno standardizzando con un eroe molto innamorato, un tiranno
enormemente cattivo, una donna pura e tutti si fanno dominare più dal loro sentimento che dalla
ragione → l’intreccio più comune: amore della coppia principale avversato dalle insidie del tiranno;
spesso alla trama amoroso si aggiungeva una trama politica, perché la lotte dell’eroe poteva anche
essere indirizzata a difendere i propri diritti o del popolo. L’ambientazione è logicamente il fosco
medioevo, con i suoi castelli, i luoghi misteriosi e i cupi boschi; contrariamente all’opera romantica
tedesca, nell’opera italiana la natura ha un ruolo molto secondario, da semplice sfondo. Un altro
elemento pressoché assente è l’elemento soprannaturale.
Un’eccezione è la Norma di Bellini che, pur svolgendosi in epoca romana, è ambientata nel
misterioso mondo dei druidi gallici. La musica retrocedeva a mezzo per realizzare un dramma
coinvolgente, nell’ambito della fruizione emozionale dell’opera ottocentesca.
La progressiva scomparsa del settecentesco recitativo secco in favore di quello accompagnato -
che permise l’appianamento del divario tra aria e recitativo e lo scorrimento dell’azione lungo tutta
l’opera senza arresti di tempo eccessivi - ebbe varie conseguenze: 1. drastica riduzione del
numero di versi da cantare; 2. i versi misurati prevalsero sui versi sciolti; 3. il testo si adattò al fatto
di essere più cantato che recitato e si crea una sorta di lingua dei libretti.

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Questo si trova nella produzione operistica dei maestri italiani della prima metà dell’Ottocento:
Saverio Mercante (1795-1870), Giovanni Pacini (1796-1867), ma soprattutto GAETANO
DONIZETTI (1797-1848) e VINCENZO BELLINI (1801-1835).

Donizetti, attraverso il suo maestro Mayr, conosce approfonditamente non solo l’opera francese
ma anche e soprattuto la musica strumentale del Classicismo viennese → impara l’arte di trarre
tutte le conseguenze possibili da un materiale musicale di partenza piuttosto ristretto. Benché la
sua carriera di operista richiedesse frequentissimi soggiorni ovunque si rappresentassero le sue
opere, egli risiedette a Roma dal 1821 al 1828 e a Napoli dal 1828 al 1838. Raggiunta la notorietà
in tutta Italia, Donizetti produsse opere significative: opere serie Anna Bolena (1830), Torquato
Tasso (1833), Lucrezia Borgia (1833), Lucia di Lammermoor (1835) e l’opera comica L’elisir
d’amore (1832) etc.
Bellini nel frattempo aveva percorso un itinerario geografico opposto, risalendo la penisola; nato a
Catania → retroterra culturale era la ricca tradizione operistica della “scuola napoletana”. La sua
prima produzione teatrale fu l’opera semiseria Adelson e Salvini (1825), a cui seguirono opere
serie. Nel frattempo si spostò a Milano; opere come I Capuleti e i Montecchi (1830), La
sonnambula (1831), Norma (1831) etc. Il suo catalogo annovera solo dieci opere contro le
sessantaquattro di Donizetti. Dotato di una prodigiosa vena melodica, Bellini dedicò la sua breve
vita alla composizione. Il suo talento nel cesellare melodie della più limpida bellezza, conserva
ancora oggi un'aura di magia, mentre la sua personalità artistica si lascia difficilmente inquadrare
entro le categorie storiografiche. Legato ad una concezione musicale antica, basata sul primato del
canto, sia esso vocale o strumentale, il siciliano Bellini portò prima a Milano e poi a Parigi un'eco di
quella cultura mediterranea che l'Europa romantica aveva idealizzato nel mito della classicità. Il
giovane Wagner ne fu tanto abbagliato da ambientare proprio in Sicilia la sua seconda opera, Il
divieto d'amare, additando la chiarezza del canto belliniano a modello per gli operisti tedeschi e
tentando di seguirlo a sua volta.
Donizetti e Bellini lasciarono l’Italia per Parigi: il primo fu Bellini nel 1833 e gli venne
commissionata l’ultima opera I puritani (1835); Donizetti si recò nella capitale francese nel 1838 e
conquistò l’Opera, dove rappresentò I partiti e La favorita (1840); nello stesso anno espugnò anche
l’Opéra-Comique con La figlia del reggimento. La carriera teatrale di Donizetti si concluse nel 1843
con l’opera buffa Don Pasquale e il grand opéra Dom Sebastien.
Entrambi dovettero fare i conti con l’eredità rossiniana. Bellini cercò di crearsi una posizione
personale → grande differenza nella vocalità: abolisce le coloriture in favore di un melodizzare più
sillabico con una linea melodica libera e fluida; sfondo orchestrale quasi neutro, tappeto armonico.
Se Bellini incarnò in pieno l’ideale del musicista “italiano” per antonomasia, Donizetti si aprì ad una
dimensione più sfaccettata ed europea. Innanzitutto, egli non condivise la quasi assoluta dedizione
belliniana all’opera seria; Donizetti praticò tanto l’opera italiana quanto quella francese, anche
mescolandole.

Quando, nel 1843, la malattia impose a Donizetti di cessare la sua attività compositiva, i tempi
iniziavano ad essere maturi perché il melodramma italiano si avventurasse verso nuove direzioni;
già era attivo in quegli anni colui che avrebbe compiuto ciò che sarebbe stato poi acclamato come
il maggior operista italiano dell’ottocento: GIUSEPPE VERDI (1813-1901). Nato in provincia di
Parma, si trasferì a Busseto e ricevette una buona educazione musicale. L’avvio della sua carriera
professionale coincise però con anni per lui molto duri; malgrado il discreto successo raccolto alla
Scala dalla sua prima opera Oberto, conte di San Bonifacio (1839), la seguente opera buffa Un
giorno di regno (1840) cadde miseramente → Verdi stesso ricorda il 1840 come l’anno peggiore
della sua vita, in cui perse anche la moglie. Depresso, stava per abbandonare l’attività di
compositore, ma l’impresario della Scala Bartolomeo Merelli mantenne la fiducia in lui, insistendo
per fagli scrivere un’opera nuova; ecco allora il Nabucco, rappresentato nel 1842: fu un vero
trionfo. Oltre al suo valore artistico, l’opera veicolava un messaggio di ottimismo politico tale da
infiammare l’uditorio: i dolori sofferti da un popolo oppresso troveranno il loro riscatto nella libertà
che sta per giungere (il coro “Va’ pensiero” ad esempio incarna un profondo sentimento patriottico).
Si aprirono così quelli che in seguito egli definito “anni di galera”: anni in cui si dedicò anima e
corpo alla composizione: così tra 1839 e ’49 scrisse 14 opere, tra cui I lombardi della prima
crociata (1843), Ernani (1844), I due Foscari (1844), Macbeth (1847).
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Le opere che Verdi compose fino agli anni intorno al 1848 partecipano di una comune atmosfera di
fondo: innanzitutto per la scelta delle trame dei libretti, intrise di ottimismo → anche se il
protagonista può alla fine soccombere, egli rimane il trionfatore per la propria carica interiore;
l’eroe mostra di condividere i valori della società in cui vive. Tutto è nitido, senza troppo mistero:
personaggi e musica sono a tutto tondo, ben strutturati.
La musica del primo Verdi da’ l’impressione di grande slancio: l’arcata melodica parte spesso
estremamente vitale, sostenuta da un apparato armonico semplice; fraseologia quadrata e
regolare, ritmo impetuoso e preso frequentemente dal formulario tradizionale. Gli stili teatrali di cui
subisce l’influenza sono essenzialmente due (oltre ovviamente al melodramma italiano): il grand-
opéra (Rossini) e il teatro parlato francese contemporaneo (Victor Hugo). Le opere di Verdi
oscillano tra questi due poli: una concezione operistica a grandi blocchi contrapposti, monumentali
(grand-opéra - es. Nabucco) e, al contrario, una concezione del dramma come organismo
compatto, tutto teso verso la meta senza diversioni (teatro parlato - es. Rigoletto).
Nel 1847 inizia una relazione con il soprano Giuseppina Strepponi, che sposa molti anni dopo.
Il 1848, anno di crisi politico-sociale in tutta Europa, portò molti cambiamenti tanto nel mercato
operistico quanto nella vita e nella drammaturgia dello stesso Verdi → 1. si inasprirono gli
interventi della censura; 2. sorge la figura dell’editore, che commissiona ai compositori le opere,
noleggiandone poi le partiture ai teatri. Il ritmo produttivo di Verdi iniziò a rallentare, sia perché
ormai era conosciuto ed economicamente coperto, sia perché stava cambiando la sua concezione
drammaturgica, portandolo ad accentuare il lavorio necessario alla produzione di ciascuna opera.
Ecco allora i capolavori Rigoletto (1851), Il trovatore (1853) e La traviata (1853). Scrive un grand
opéra, I vespri siciliani (1855), a cui segue Simon Boccanegra (1857) e Un ballo in maschera
(1859). Dagli anni ’60 al 1887 ci sono solo tre opere: La forza del destino (1862), Don Carlos
(1867) e Aida (1871); parallelamente lavorò a rielaborare molte opere precedenti, presentandone
una nuova versione e, dopo la morte di Rossini nel 1868, cercò di organizzare una Messa da
Requiem in suo onore coinvolgendo altri compositori, senza successo. Intorno al Libera me scritto
per tale occasioni, Verdi completò una propria Messa da Requiem eseguita a Milano nel 1874, in
memoria di Alessandro Manzoni. Dal 1878 lavorò nove anni alla sua penultima opera, il dramma
lirico Otello e con lo stesso librettista, Boito, compose l’ultima opera, la commedia lirica Falstaff
(1893). Morì per un ictus nel gennaio 1901.
Negli anni ’50, Verdi aveva ammorbidito le ideologie risorgimentali e mazziniane assorbite in
precedenza dai salotti milanesi frequentati, per attestarsi su posizioni più moderata e consone al
nuovo status di proprietario terriero. Anche nelle opere cambia qualcosa: i suoi eroi si isolano e
celano annidato in se stessi il germe della sconfitta, mentre i tiranni sono tratteggiati con
precisione, svelando un animo amaro ma sensibilissimo; i cori rappresentano la folla amorfa e
spesso indifferente; l’eroina mostra invece un’evoluzione tutta in ascesa, con un animo sempre più
profondo di quello dell’eroe.
Verdi si considerava soprattutto uomo di teatro: l’importante era costruire un veri dramma che
coinvolgesse lo spettatore da inizio a fine.
Si andava accostando alle tendenze più moderne: orchestrazione sempre più raffinata, fraseologia
sciolta, armonia duttile. Ma egli non aveva affatto intenzione di abolire le forme chiuse, bensì di
servirsene con la più assoluta libertà. La sua intenzione era di introdurre movimento nelle forme,
evitandone l’applicazione meccanica, la struttura troppo statica e parallelamente di introdurre
forme nel movimento, impedendo alla musica di diluirsi in un recitativo continuo.
L’aria rinuncia alla meccanica alternanza di cantabile e cabaletta: tende invece a saldarsi alla
scena iniziale. Tutto doveva contribuire a realizzare l’unità totale dello spettacolo e tutto era
sorvegliato con accuratezza da Verdi in persona; Ricordi pubblicò a partire dal 1856 le cosiddette
“disposizioni sceniche” per le opere verdiane: una specie di istruzioni per la regia.
Con Otello e Falstaff Verdi raggiunge la vicinanza più prossima al dramma parlato; non sono aboliti
i confini tra parti dialogico-drammatiche e parti liriche, ma sono capovolti i rapporti: ora il dialogo è
proprio la parte più coinvolgente e le sezioni liriche sono una sorta di momento di respiro.

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RICHARD WAGNER (1813-1883) E IL DRAMMA MUSICALE

Liszt coagulò attorno a sé una specie di “partito progressista” musicale: i cosiddetti neotedeschi,
che propugnavano l’avvento di una stretta alleanza tra la musica e le arti. Parte significativa del
gruppo fu Richard Wagner, nativo di Lipsia. Come ogni buon musicista romantico, si appassionò
anche alla letteratura, cimentandosi nella scritta. Si accosta alla musica in modo intenso ma
soprattutto da autodidatta; lavora come maestro di coro e Kapellmeister in vari teatri. Portò a
compimento nel 1840 la sua prima opera importante, il Rienzi che, anche se in tedesco, può
essere assimilato ad un grand opéra di soggetto storico → viene nominato Kapellmeister a Dresda
e compone L’olandese volante (terminato nel 1841, rappresentato dal 1843) e Tannhauser (1845);
successivamente Lohengrin (terminato nel 1848, rappresentato nel 1850) → sono queste le tre
grandi opere romantiche di Wagner, che mostrano la direzione più “tedesca” presa dopo l’essersi
posto sulla scena con un grand opéra. Le opere presentano un carattere personale: Wagner scrive
da sé i testi; predilige argomenti tratti da antiche leggende; tratta temi universali → la concezione
sottesa ai soggetti è che l’amore spinto fino al sacrificio può redimere l’uomo dal male, identificato
con la vita stessa. I testi sono interamente musicati e la struttura generale è definita opera a scene:
l’unità minima fondamentale è la scena, intesa come un blocco temporalmente ampio e articolato
in pezzi non chiusi, ma strettamente collegati. Per agevolare la continuità musicale il compositore
fa uso del motivi di reminiscenza; inoltre Wagner punta a far aderire sempre più la musica alla
parola. Nel 1848 aveva iniziato ad abbozzare un poema che intendeva mettere in musica: La
morte di Sigfrido. Negli anni seguenti il progetto di allargò, producendo un “dramma quadripartito”:
L’anello del nibelungo, tetralogia scandita in una vigilia e tre giornate, intese dall’autore come il
dramma dell’inizio e della fine del mondo. I quattro testi L’oro del Reno, La walkiria, Sigfrido,
Crepuscolo degli déi, furono completati a Zurigo a fine 1852, e dall’anno seguente iniziò a metterli
in musica uno dopo l’altro. Si interruppe nel 1857, alla fine del secondo atto del Sigfrido, per
passare a comporre due dammi musicali indipendenti: il Tristano e Isotta (1857-59) e I maestri
cantori di Norimberga (1861-67). Nel 1854 la lettura di un saggio di Schopenhauer segnò una
significativa evoluzione del suo pensiero in senso pessimistico: la trama dell’Anello abbandonò
l’ottimismo rivoluzionario che la ispirava, piegando verso una conclusione più pessimistica. Dopo
Venezia, Parigi e la Russia ebbe gravi problemi economici, ma nel 1864 gli si prospettò un
inaspettato salvatore: il giovane re Ludwig II di Baviera che gli offrì ospitalità alla sua corte per
completare la tetralogia. Andò poi a convivere con Cosima Liszt, che lasciò per Wagner il marito
von Bulow. Fu ancora una generosa sovvenzione del re ad agevolare la realizzazione di quello che
era divenuto il sogni principale di Wagner: la costruzione di un teatro dedicato appositamente alla
musica. L’inizio nel 1872 venne celebrato co l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven e il
teatro venne inaugurato a Bayreuth nel 1876 con la rappresentazione integrale della tetralogia. La
sala non aveva i palchi all’italiana, m i posti erano disposti su una gradinata semicircolare;
l’orchestra doveva essere invisibile, collocata in una profonda buca tra palco e platea ma quasi
completamente ricoperta dal proscenio. Era importante osservare il silenzio e il completo buio in
sala. Dal 1877 al 1882 Wagner si dedicò alla composizione del Parsifal, il suo ultimo dramma
musicale.
Sono presenti in Wagner i tipici caratteri dell’attivismo culturale romantico: anche se non fu uno
strumentista virtuoso, fu direttore d’orchestra, diffusore della nuova musica, direttore artistico,
fondatore di un festival, critico musicale e poeta.
Wagner non voleva introdurre un nuovo genere a fianco di altri definendo la sua tetralogia come
“dramma musicale” ma aspirava a realizzare l’unica possibile “musica dell’avvenire”; partiva da
una premessa radicale: la musica ha bisogno di una “giustificazione” esterna di carattere poetico,
drammatico o coreografico, altrimenti rimane priva di senso.
Wagner riconosce a Beethoven di aver chiuso la stagione della musica strumentale pura con l’Ode
alla gioia della Nona sinfonia → si unisce con la parola. Proseguendo su questa strada, Wagner
giunge allora a formare quella che per lui deve essere l’”opera d’arte dell’avvenire”: il Wort-Ton-
Drama, cioè l’unione di parola-suono-azione in un’”opera d’arte totale”. Wagner ritiene che una
simile unità fosse lo stato dell’arte giunta alla sua perfetta compiutezza nella tragedia dell’antica
Grecia. Fra le tre costituenti dell’”opera d’arte totale” non si deve però instaurare una democratica
parità; il fine di tutto è il dramma, cioè l’azione scenica che concretamente si realizza sotto gli occhi
dello spettatore, mentre musica e parola non sono altro che i mezzi per realizzarlo. Wagner si
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spinge addirittura oltre, sottolineando il primato dell’interprete sul compositore perché “solo la
rappresentazione è potere, arte”. Ecco allora la tecnica del Leitmotiv, il motivo conduttore; la
prima comparsa è associata chiaramente con una situazione, un personaggio, un sentimento etc.
Man mano che l’azione si svolge, i motivi già uditi ritornano come ricordo o come presagio, ne
appaiono di nuovi, si adornano spesso gli uni negli altri, finché tutta la musica strumentale non è
più quasi altro che una fittissima rete di Leitmotive che costituiscono il “tessuto connettivo”
dell’intero dramma. Spesso l’orchestra raffigura l’inconscio dei personaggi proprio grazie all’uso di
questi motivi ricorrenti. Poiché ogni Leitmotiv viene impiegato numerose volte lungo tutta la
partitura, esso deve possedere una natura tale da potersi adattare a qualsiasi contesto armonico in
cui venga introdotto; è necessario quindi che esso non sia chiaramente collegato ad una sola
tonalità → ecco allora l’uso del cromatismo (massimo trionfo nel Tristano e Isotta). L’adattabilità dei
Leitmotive ai contesti rende quasi obbligatorio l’abbandono delle forme chiuse; così la forma
musicale è fata dalla stessa connessione dei motivi conduttori, che si incastrano tra loro senza far
ricordo ad alcuna formula di riempitivo cadenzale: una “melodia infinita”.
Essendo tutto al servizio del dramma, risulta importante far capire bene le parole → Wagner per
questo usa un declamato melodico molto simile ad un recitativo; ecco spiegata anche la quasi
totale assenza di pezzi d’assieme.
Vi sono però diverse contraddizioni nella drammaturgia di Wagner:
1. nella sua ricerca della “musica dell’avvenire”, Wagner retrocede verso i più antichi miti
germanici
2. il suo dramma “moderno” rinuncia a molte tra le conquiste operistiche recenti, tornando quasi
al settecentesco dramma di affetti contrapposti
3. i suoi slanci rivoluzionari convivevano con atteggiamenti nettamente reazionari
4. i drammi di Wagner sono ostici all’ascolto: la loro durata è notevolmente superiore alla media e
richiedono una notevole concentrazioni perché l’ascoltatore possa penetrare nell’intrico dei
Leitmotive orchestrali.

Nel 1888 il filosofo Nietzsche si scrollò di dosso l’ammirazione per Wagner contrapponendo alle
sue nordiche brume la nitidezza mediterranea, tagliente e crudele, che un giovane pianista
compositore francese, GEORGES BIZET (1838-1875), aveva distillato nella sua opera Carmen.
Rappresentata nel 1875 all’Opéra-Comique, Carmen porta sulla scena personaggi completamente
nuovi: Carmen è una zingara di cui si innamora un brigadiere, Don José → la prima esecuzione fu
un fiasco: un simile spettacolo indignava il pubblico borghese del teatro. Carmen scontentò tutti i
parigini: sia i “conservatori”, che rabbrividivano all’audacia della sua trama e non vi ritrovavano le
belle, semplici melodie a cui li aveva abituati gli operisti allora imperanti; sia i “progressisti”, votati
al culto wagneriano e insensibili a ciò che non fosse in linea con il maestro. Solo dal 1883 l’opera
si impose in un successo che non conobbe più tramonto. Scorrendo il catalogo dei lavori di Bizet –
diviso in opere teatrali, composizioni per orchestra, per pianoforte, da camera e vocali – si è colpiti
dal fatto che molti di essi sono rimasti allo stadio di progetto, e che parecchi di quelli finiti non sono
mai stati eseguiti o sono rimasti inediti. L'analisi musicologica è ancora lontana dal chiarire molti
dubbi e interrogativi sulle opere del musicista, sul suo singolare eclettismo e soprattutto sulla
discontinuità della sua evoluzione artistica. Per esorcizzare le sue paure, Bizet cercò spesso il
consenso e la simpatia del pubblico seguendo strade e modelli non congeniali alla sua natura (il
grand-opéra, le composizioni dai toni epici) o subì l'influenza di musicisti dalla personalità poco
spiccata o comunque lontana dalla sua, come nel caso di Gounod. Solo alla fine della sua breve
vita egli seppe trovare il suo autentico linguaggio in quelli che sono unanimemente giudicati i suoi
capolavori teatrali: L'Arlésienne e Carmen. In queste due partiture emergono le caratteristiche
salienti della sua arte: un'arte chiara, incisiva sia nella resa drammatica che nei valori prettamente
musicali. Sul piano prettamente musicale le opere di Bizet rivelano la presenza di una ricca,
spontanea vena melodica e un'assoluta padronanza della tavolozza orchestrale: i toni leggeri e
trasparenti dello strumentale, fondendosi con i ritmi sinuosi e le squisite armonie, evocano in modo
vivo e palpabile atmosfere esotiche e ambienti popolareschi, senza mai cadere nel descrittivismo e
nella maniera. Richard Strauss raccomandava ai suoi allievi: «Se volete imparare la
strumentazione non studiate le partiture di Wagner ma quella di Carmen. Che meravigliosa
economia, ogni nota e ogni pausa è al posto giusto.» Pur senza essere un rivoluzionario, Bizet fu a
suo modo un innovatore e contribuì in modo decisivo all'evoluzione del teatro d'opera europeo, di
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quello francese e italiano soprattutto. In particolar modo con Carmen, anche in virtù del soggetto
atto a stimolare quelle che furono sempre le sue emozioni più autentiche, la passione erotica e la
gelosia, egli seppe infondere in un genere languente come l'opéra-comique una vitalità nuova. E
che questo risultato sia stato raggiunto senza rinunciare a quel rigore stilistico, acquisito nei lunghi
anni di apprendistato giovanile, è un altro merito che va riconosciuto a questo musicista elegante e
geniale, capace di conquistare l’animo dell’ascoltatore più ingenuo e contemporaneamente di
incantare l’intellettuale e il musicista più raffinato.

IL SINFONISMO DEL SECONDO OTTOCENTO

Nel 1854 fu pubblicato a Lipsia un volumetto di estetica che sosteneva tesi completamente
opposte a quelle dei neotedeschi → è il saggio Del bello nella musica di Eduard Hanslick. La
posizione presa da costui, detta formalismo, sosteneva che la bellezza della musica non consiste
nel sentimento che essa eventualmente vorrebbe esprimere, ma è interna nella musica stessa →
la musica non ha altro contenuto che “i suoni e il loro artistico collegamento”, cioè “forme sonore in
movimento”; concetto di bellezza come “pura forma”.
Hanslick non fu l’unico ad andare controtendenza: nel 1860 un piccolo gruppo di musicisti decise
di firmare un manifesto per dichiarare pubblicamente la propria indipendenza dai neotedesci. Tra
questi anche il giovane Brahms.

1. JOHANNES BRAHMS (1833-1897) e gli altri “progressisti”

Nato ad Amburgo, lì studia composizione e contrappunto; a vent’anni intraprende una tournée


pianistica → durante la tappa a Dusseldorf, conosce i coniugi Schumann, incontro fondamentale
per la sua vita; infatti proprio grazie al famoso articolo schumanniano Vie nuove Brahms viene
consacrato come nuovo astro della musica tedesca. Brahms si rivolse all’indietro, studiando con
intensità proprio la musica del passato per estrarre da essa la linfa che gli era necessaria → ecco
da qui il suo stile personale e solidissimo. L’autore amburghese riuscì a coniugare l’insegnamento
di due tra i migliori maestri, Bach e Beethoven: nella sua musica infatti il contrappunto di stampo
baciano diventa un mezzo quasi onnipresente per realizzare il principio beethoveniano
dell’elaborazione motivico-tematica. Brahms parte da premesse totalmente differenti da quelle dei
neotedeschi: rifiuta qualunque stimolo extramusicale, non abbandona la struttura sinfonica in
quattro movimenti e non si dedica mai al teatro musicale. Tutta la sua epoca segue però un
processo che conduce da una “forma architettonica” ad una forma “logica”: in modo logico
vengono sviluppate le premesse di partenza, facendo scaturire una frase dall’altra in un flusso
ininterrotto e coerente.
Nel 1933, Schonberg definì l’amburghese Brahms il progressivo, ma nella sua epoca non venne
affatto percepito così. Il suo crescente prestigio lo fece individuare quale capofila dei
“conservatori”. Forse proprio per sottolineare il suo profondo legame con il Classicismo viennese,
dalla fine del 1862 egli andò a vivere proprio a Vienna, doveva in modo metodico riusciva ad
amministrare impegni e attività lavorative e ad accostarsi ai vari generi musicali. Le sue prime
esperienze compositive, dato che era un ottimo pianista, si riversarono sul pianoforte; passò poi
alla musica da camera, trascurata invece dai neotedeschi in quanto troppo connessa con la
tradizione che essi volevano superare. Altre varie composizioni sinfonico-corali arricchiscono la
sua produzione di quegli anni (prima metà anni ’60). Fu però la pubblicazione delle Danze
ungheresi nel 1869 per pianoforte a quattro mani, poi orchestrate, che allargò la platea degli
ammiratori di Brahms. Il definitivo suggello alla sua fama vinse con le Variazioni su un tema di
Haydn per orchestra (1873).
Era giunto il momento di approdare alla sinfonia: la sua Prima sinfonia in do minore vide la luce nel
1876; occorreva coraggio per presentare una composizione che si riallacciava in modo palese
all’eredità beethoveniana dato che il tema principale del finale è un chiaro eco dell’Ode alla gioia
della Nona di Beethoven. Così Brahms venne accurato di essere “accademico” e di scrivere
musica difficile, solo per intenditori. Proprio negli anni ’70-’80 tuttavia si assistette ad una seconda
fioritura della sinfonia: preceduto da Bruckner, Brahms fu seguito poi da autori come Dvorak,
Sibelius etc. Del 1877 è la Seconda sinfonia in re magg. e del ’78 il Concerto per violino e
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orchestra nella medesima tonalità. Nel 1880 scrisse due ouverture: quella Accademica e quella
Tragica. Ecco poi la Terza in fa magg. (1883) e la Quarta sinfonia in mi minore (1884/85).

Anche gli altri musicisti contemporanei di Brahms vennero coinvolti dall’atmosfera del tempo;
emblematico è il caso di Hans von Bulow, che avendo rotto i rapporti con Wagner per motivi
personali si lega a Brahms - e quindi allo schieramento opposto - e diffonde le sue musiche,
dirigendole assiduamente.

Per l’amicizia e l’ammirazione che nutriva nei confronti di Wagner, Anton Bruckner (1824-1896) fu
assimilato ai neotedeschi. Nato in Austria, studiò composizione e lavorò come organista, motivo
per cui era conosciuto. La sua fama di compositore si diffuse solo dagli anni ’80. Per un senso di
umiltà nei confronti di Beethoven, egli non volle numerare tutte le sue 11 sinfonie, eliminando le
prime due dal computo e l’ultima, dunque la Nona in re min, è incompiuta.
Molto poco in realtà lo legava ai neotedeschi: scrisse sinfonie in quattro movimenti e non poemi
sinfonici, non affrontò mai l’opera, non possedette affatto la vis polemica dei suoi “alleati”, non si
espresse mai con articoli o saggi e, eccetto la musica sacra, non scrisse altro che musica
strumentalmente pura. Il suo stile musicale segue una strada assolutamente personale: la
coerenza delle sue monumentali sinfonie è dettata da affinità di carattere ritmico. Bruckner attinge
inoltre dal primo movimento della Nona di Beethoven il procedimento di “creare” di volta in volta il
suono orchestrale delle sue sinfonie partendo da una situazione iniziale pressoché indistinta.

Anche un altro compositore austriaco, Hugo Wolf (1860-1903), si schierò dalla parte dei
“progressisti” nella sua qualità di critico musicale. Egli si dedicò prevalentemente al Lied; lo stile
vocale è un declamato rispettoso della pronuncia delle parole, mentre la parte del pianoforte
diviene densa tanto dal punto di vista dell’elaborazione motivica, quanto da quello della
sperimentazione armonica → molto “wagneriano” nel rapporto musica-testo.

2. GUSTAV MAHLER (1860-1911)

L’Ottocento stava ormai tramontando: dietro i bagliori della belle époque germinavano in modo
oscuro i fermenti di una crisi profonda, destinata a deflagrare in quel buio periodo che va dal 1914
al 1945. Queste crepe furono messe in evidenza nella musica dell’austriaco Gustav Mahler
(1860-1911). Conosciuto soprattuto al tempo come direttore, studiò a Vienna e fu nominato
direttore dei più importanti teatri europei. Le sue sinfonie sono percorse da frequenti squarci di
musica “bassa”: fanfare o marce militari, canti popolari, anche suoni di natura, uniti a motivi più
“nobili” → tutto un mondo che non avrebbe dovuto trovare posto nel genere “alto” per antonomasia
quale era ancora considerata la sinfonia: in Mahler l’arte, e quindi il “bello”, si appropriava anche
del “brutto” o del banale proprio per rendere in musica la totalità del mondo. Ma il pubblico
dell’epoca non era preparato ad accogliere un atteggiamento così nuovo e quasi provocatorio. Le
sue prime quattro sinfonie erano dotate di una specie di programma, ma l’autore in seguito lo
eliminò; secondo Mahler il programma esterno può fornire all’autore solo un impulso iniziale per
avviare una composizione; per il pubblico, può invece servire solo come “guida” provvisoria per
famigliarizzare con la nuova musica. La Prima sinfonia (1884-88) è per sola orchestra - dopo la
negativa reazione del pubblico alla prima nel 1889, Mahler venne convinto ad allegare un
programma e un titolo (Titan), che venne poi eliminato; la Seconda (1888-94, detta Resurrezione)
impiega anche due voci femminili e il coro; la Terza (1893-96) è per contralto, coro femminile e di
voci bianche e orchestra; la Quarta (1892-1900) prevede la presenza di un soprano; la Quinta
(1901-02), la Sesta (1903-04) e la Settima (1904-05) sono per sola orchestra; l’Ottava (1906, detta
Sinfonia dei mille) prevede orchestra, soli, due cori e voci bianche; la Nona (1908-09) per
orchestra sola. Del 1910 è l’Adagio di un’incompiuta Decima sinfonia.
Anche se alcuni tratti della sua produzione sono fortemente indebitati con l’atmosfera tardo-
semantica (grandi proporzioni di organico e di durata, volontà di estrinsecare un contenuto
interiore), per altri versi Mahler fu salutato da compositori del Novecento come loro maestro e
capofila → Mahler si serve di materiali precostruiti assemblandoli insieme, sovrapponendoli etc.
Mahler non rompe il linguaggio tonale, ma lo spinge fino ai limiti delle possibilità.

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3. RICHARD STRAUSS (1864-1949)

Se Mahler, più o meno consapevolmente, anticipa alcune tendenze della Nuova Musica
novecentesca, un altro compositore di quelli anni si ritrasse sgomento quando queste tendenze
cominciarono a germogliare: Richard Strauss (1864-1949). Egli si dedicò principalmente al
poema sinfonico, anche se respingeva la concezione di una musica costruita esclusivamente su
un programma, giacché sosteneva che la forma musicale deve avere fondamento in se stessa. Tra
i suoi più famosi poemi sinfonici ricordiamo Don Juan (1888-89), Also sprach Zarathustra
(1895-96), Don Quixote (1896-97). L’atmosfera espressiva di Strauss è fortemente diversa da
quella di Mahler: in Strauss domina un accesso e intenso vitalismo, il tutto temperato da una vena
di satira graffiante.
Nei confronti dell’opra Strauss si mostrò ancor più moderno. Le sue opere dei primi anni del
Novecento, Salome (1905) e Elektra (1909), si servono della tecnica dei Leitmotiv, ma creando con
essi una trama fittissima e inestricabile. La sua modernità si riflette anche nella scelta e nell’uso dei
testi, che sono lasciati drammi in prosa (opere definite Literaturoper). Per di più si tratta di drammi
dal contenuto estremamente scandaloso per la morale dell’epoca: entrambe le protagoniste sono
divorate da una brama sensuale insaziabile, che le spinge all’omicidio e alla quale infine
soccombono.
Ma quando, negli anni ’10 del nuovo secolo, la Musica Moderna andò imboccando le vie atonali
della Nuova Musica, Strauss non intraprese quella strada, ritirandosi in una scrittura di tipo sempre
più accademico e tradizionale. I suoi ultimi capolavori testimoniano la sua assoluta lontananza
dalle profonde rivoluzioni che avevano squassato il mondo musicale in quegli anni così terribili.

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