Sei sulla pagina 1di 111

APPUNTI DEL CORSO DI ANTROPOLOGIA STORICA

FORME STORICHE DELLA POVERTA’ E DELLA DISUGUAGLIANZA

Anno accademico 2021/22

Prof. Vittorio Rinaldi

IL CONCETTO DI POVERTA’

La povertà assoluta

La povertà relativa

L’impotenza sociale

La povertà soggettiva

Metodi di ricerca e approcci metodologici

LE ORIGINI DELLA DISUGUAGLIANZA

Le società egualitarie (cacciatori e raccoglitori)

La prima sedentarizzazione (pescatori e raccoglitori polivalenti)

La transizione neolitica (contadini e pastori)

La società di parentela (clan e lignaggi)

I domini politici

La formazione dello Stato

Reciprocità, redistribuzione, mercati

LE CARESTIE

I mercati coloniali (braccianti e minatori)

I fattori di crisi e insicurezza alimentare

Modelli di carestia

Le coping strategies

Le politiche annonarie

La società industriale (proletari, operai, disoccupati)

Le carità religiose (mendicanti e accattoni)


LA POVERTA’ ASSOLUTA

La lezione illustra il primo dei tre modi di definire il termine povertà attualmente in uso negli studi delle
scienze sociali contemporanee: povertà assoluta, povertà relativa e mancanza di scelta.

DOMANDE E DISTINZIONI PRELIMINARI

Tre domande di fondo dobbiamo porci prima di cominciare:

• che cos’è la povertà?

• chi descrive e rappresenta la povertà?

• come si descrive e si rappresenta la povertà?

Per rispondere alla prima delle tre domande dobbiamo tenere presente innanzitutto da alcune distinzioni
preliminari:

• Povertà subita (condizione tipica dei disoccupati o dei profughi) è cosa diversa da povertà
volontaria (condizione scelta dagli asceti o dai monaci)

• Povertà materiale (scarsità di beni) non è sinonimo di povertà spirituale (povertà dell’anima) e non
implica automaticamente povertà spirituale

• Povertà intesa come “mancanza del superfluo”, o frugalità, non è sinonimo di miseria intesa come
bisogno insoddisfatto o “mancanza del necessario”

In risposta alla prima domanda “che cos’è la povertà?” all’interno delle scienze sociali oggi noi ritroviamo
tre risposte che corrispondono a tre diverse declinazioni concettuali del termine.

La prima considera la povertà come un problema di mancanza del necessario, cioè come uno stato
d’insoddisfazione di alcuni bisogni vitali fondamentali (nutrirsi, vestirsi, proteggersi dalle intemperie, avere
rapporti sociali), bisogni misurabili in termini oggettivi, assoluti e comparabili tra diversi gruppi e diverse
società.

La seconda declinazione del termine considera invece la povertà essenzialmente come un rapporto sociale,
misura cioè il grado di insoddisfazione dei bisogni mettendo a confronto la condizione di chi ha di più e
quella di chi meno ha all’interno di un certo paese o di un certo gruppo sociale; si pone così l’accento sulla
relatività della povertà, la quale assume caratteristiche e connotazioni variabili in relazione ai diversi
contesti produttivi, sociali, culturali e storici in cui si produce.

La terza declinazione, infine, sottolinea la necessità di guardare non solo agli aspetti economici e materiali
della povertà, ma anche ai correlati in termini di impotenza sociale, mancata soddisfazione delle
aspirazioni personali e mancato godimento di diritti e opportunità di vita delle difficoltà economiche.
POVERTA’ ASSOLUTA

I primi studi sociologici sistematici sulla povertà condotti in Inghilterra e Francia nei quartieri popolari delle
grandi città a fine 800 identificarono la povertà come uno stato di patimento ed impellente necessità che si
manifestava allorquando un individuo, una famiglia o un gruppo erano al di sotto di un certa soglia di
soddisfazione dei loro fabbisogni primari: un “palese stato di necessità e bisogno” –come fu definito-
sopravveniente nel momento in cui non si riesce a soddisfare un livello minimo di consumi essenziali per la
sussistenza fisica. (Booth 1902, Londra)

Si tratta in questo caso di una «povertà primaria», determinata dal non poter raggiungere un ”minimo
vitale” al di sotto del quale l’essere umano perde efficienza fisica e vede messa a repentaglio la sua stessa
possibilità di sopravvivenza. (Rowntree 1901, York)

Per citare l’esempio usato a suo tempo da Rowntree, una famiglia in povertà assoluta “non può mai
spendere un penny per un biglietto ferroviario. I membri di tale famiglia non possono andare in campagna
se non a piedi. Non possono mai comprare un giornale da mezzo penny o spendere un penny per andare ad
assistere a un concerto popolare. Non possono scrivere una lettera ai figli che vivono altrove perché non
hanno i soldi per la spese postali. Non possono fare offerte per la chiesa o la cappella, o dare aiuto ai vicini
se ciò costa denaro. Non sono in grado di risparmiare o di pagare la quota di iscrizione richiesta da
un’associazione di mutuo soccorso o del sindacato. I bambini non hanno monetine per comprare bambole,
biglie o dolciumi. Il padre non può fumare tabacco o bere birra. La madre non può comprare vestiti graziosi
per lei o i figli” (Rowntree 1901)

Per quantificare la “povertà primaria” i primi sociologi si ritrovarono quindi a dover tracciare una “linea
della povertà”, onde poter distinguere i poveri dai non poveri e graduare tra loro i diversi livelli di indigenza.
Per far ciò presero in esame reddito e consumi di individui e famiglie, verificando la loro possibilità di
accedere a un paniere identificato come imprescindibile per la sopravvivenza (cibo, vestiario, abitazione) e
in tal modo il loro posizionamento al di sopra o al di sotto della soglia. Collegandosi a questa tradizione, il
concetto di povertà assoluta definisce ancor oggi lo stato di carenza di una persona o di un gruppo di
persone in relazione a dei bisogni personali ritenuti essenziali e inderogabili.

Si noti che il posizionamento della linea (cioè la definizione del paniere considerato indispensabile e del
budget necessari per ottenerlo) veniva fatto, e continua ad esser fatto, a cura di studiosi e funzionari di enti
nazionali e internazionali. Quindi a seconda dei parametri prescelti e dei beni considerati primari si poteva,
e si può ancor oggi, modificare l’ampiezza della popolazione ritenuta in povertà assoluta all’interno di
un’area o un paese (esempio: includere o meno nel paniere dei beni primari prodotti come birra, caffè, tè o
altri beni essenziali per i bisogni di socialità cambia i risultati di un’indagine). In questo senso possiamo già
osservare che la povertà è al contempo un’esperienza reale, oggettiva, duramente afflittiva per chi la
subisce, e al contempo una rappresentazione, una descrizione di un fenomeno che comporta una scelta
fatta da un osservatore, il quale può collocarsi in diverse posizioni sociali e adottare criteri diversi, ancorché
–come sottolinea Saraceno- non arbitrari.
Storicamente la povertà primaria ha coinciso per larga parte della storia umana col problema dell’insicurezza
alimentare, cioè con la difficoltà a reperire il cibo necessario per la sussistenza. In questi termini essa continua a
configurarsi nell’attualità per tutte le popolazioni in stato di urgente bisogno, in particolare per quelle classificate in
condizione di insicurezza alimentare acuta e fame cronica dalla FAO.

Secondo la FAO una condizione di insicurezza alimentare acuta si verifica quando l'impossibilità di consumare cibo a
sufficienza mette una persona e i suoi mezzi di sostentamento in immediato pericolo (stato di stress o di crisi).

Viceversa la fame cronica si produce quando una persona non è in grado di consumare cibo a sufficienza per
mantenere uno stile di vita normale e attivo per un periodo esteso di tempo.

Queste classificazioni si basano su una scala della fame internazionalmente accettata e denominata Integrated Food
Security Phase Classification (IPC) e Cadre Harmonisé. Il “Rapporto FAO sulla sicurezza alimentare e la nutrizione” del
settembre 2018 indicava 821 milioni di persone colpite complessivamente dalla fame nel mondo, a vari livelli e in varie
forme. Secondo il “Rapporto Globale sulle crisi alimentari” presentato dall'alleanza internazionale di agenzie ONU nel
2020, 135 milioni di persone in 55 paesi sono state esposte nel corso del 2019 a insicurezza alimentare acuta (fase
IPC/CH 3 o superiore), 75 milioni di bambini affetti da rachitismo e 17 milioni da deperimento. Oltre la metà dei 135
milioni di persone in insicurezza alimentare acuta (73 milioni) viveva in Africa; 43 milioni in Medio Oriente e Asia; 18,5
milioni in America Latina e nei Caraibi.
LA POVERTA’ RELATIVA

La lezione illustra il concetto di povertà relativa sintetizzando la necessità di contestualizzare la povertà alle
diverse realtà socio-culturali e alle diverse epoche in cui si produce e di interpretarla innanzitutto in termini
di rapporti sociali, cioè di possibilità di consumo diverse per diversi gruppi sociali appartenenti a un
medesimo stato; e quindi di relativizzare l’analisi a precisi tempi, luoghi e strutture sociali e statuali.

LA DOPPIA RELATIVITA’

I livelli di soddisfazione e i tipi di bisogni materiali ritenuti necessari per una vita dignitosa non sono in
realtà universali; variano, e non poco, da periodo a periodo, da cultura a cultura e da paese a paese; così
come diverse sono nei diversi luoghi e tempi le aspettative di consumo, le norme collettive riguardanti il
prestigio sociale, ciò che è considerato uno stato di benessere, le aspettative di nutrizione, di alloggio, di
riscaldamento, di trasporto, oltre che i costi della vita e i prezzi di beni e servizi. Gli standard e i parametri di
ciò che può essere considerato uno stato di penuria cambiano sensibilmente a seconda del contesto
culturale, nazionale e storico esaminato. Ciò che è giudicato dignitoso o accettabile in un posto e in un
tempo storico non lo è in un altro. Povertà può significare quindi cose assai diverse e vissuti diversi in luoghi
e momenti diversi. La povertà è dunque una condizione contestuale, e perciò deve essere contestualmente
definita, essendo per l’appunto contestuali e socialmente definiti i parametri, i valori e i costumi che
definiscono di volta in volta che cos’è uno stato di agiatezza e di miseria, chi è da considerarsi povero e
quali sono i livelli di consumo al di sotto dei quali si è ritenuti in stato di bisogno. Per citare una celebre
definizione di Townsed: “Individui, famiglie o gruppi della popolazione possono dirsi in povertà quando
risultano carenti delle risorse necessarie a garantire la dieta alimentare, lo standard di vita, le comodità e la
partecipazione alle attività sociali che si ritengono abituali, o almeno meritevoli di essere conseguiti nella
collettività a cui si appartiene” (Townsed 1979) Il punto chiave della definizione è nella collettività a cui si
appartiene. Ci porta infatti a comprendere che il termine povertà, oltre a definire la condizione di un
essere umano in relazione a dei parametri fisiologici di consumo, identifica anche il rapporto di quella
persona o di quella famiglia con le altre persone e le altre famiglie presenti nella comunità e nella società
circostante. Definisce quindi un rapporto sociale con gli altri, oltre che le possibilità di fruizione di una serie
di beni materiali, in termini di distanza economica fra componenti di un gruppo sociale.

La povertà è dunque relativa in due sensi: innanzitutto nel senso che sono mutevoli gli standard storico-
culturali di bisogno e consumo che portano a classificare una persona in stato di povertà o meno a seconda
della società considerata; ma è relativa anche nel senso che il grado di privazione è sempre commisurato
alle condizioni di vita degli altri membri del gruppo o della società a cui si appartiene. Si è ritenuti più o
meno poveri sempre in relazione a qualcun altro. Si è più o meno poveri sempre in relazione ai livelli di vita
di qualcun altro. La povertà relativa, in questa seconda accezione, identifica uno status sociale.

E’ in questa seconda accezione che il concetto di povertà relativa viene abitualmente usato nel linguaggio
corrente di sociologi e studiosi di scienze politiche e nelle statistiche ufficiali nei paesi occidentali. Ma la
dimensione relativa della povertà emerge anche quando si vedano anche altre espressioni frequenti nei
dibattiti sulla povertà, quali deprivazione, vulnerabilità, esclusione sociale e stigma.
DEPRIVAZIONE

• E’ la condizione in cui ci si trova quando a causa di bisogni insoddisfatti si subisce una situazione di
svantaggio (individuale, familiare o di gruppo) rispetto ad altri segmenti della società di
appartenenza.

• La deprivazione è sia effetto che causa della povertà. Le ristrettezze materiali determinano infatti
limiti di accesso a beni e servizi che comportano a loro volta deprivazioni su molteplici fronti
(salute, istruzione, formazione professionale, accesso al credito). D’altro canto le deprivazioni
subite in ambito sanitario, scolastico, formativo o creditizio costituiscono dei fattori che
impediscono di raggiungere migliori condizioni di benessere materiale.

• Eppure in senso stretto il concetto di deprivazione non implica automaticamente uno stato
d’indigenza. Lo stato di deprivazione è definito tale in relazione a degli standard di consumo, dei
valori e dei criteri di prestigio esistenti all’interno di una data società. Un soggetto o un gruppo
viene sempre considerato, e si sente soggettivamente, più o meno deprivato a seconda della realtà
specifica in cui vive e delle specifiche caratteristiche socio-culturali delle pratiche di consumo
vigenti localmente. «Bassi standard di vita» è quindi un’espressione generica che può significare
cose molto diverse in posti e momenti storici diversi. (ex: smartphone)

• In linea generale possiamo dire che più tipi di deprivazione si esperiscono e più frequentemente si
esperiscono e più probabilmente si precipita in una condizione di grave e cronica povertà che si
avvicina alla povertà assoluta. Una molteplicità di sventure sovrapposte, sedimentate e
ripetutamente intrecciate nel tempo le une sulle altre predispone il manifestarsi di una povertà
durevole e strutturale. Normalmente, quindi, la probabilità di cadere in una situazione di povertà di
questo tipo si verifica quindi quando per una persona:

• si sommano più tipi di disgrazie (identificabili ex ante nella Breadline Britain Survey,
continuamente mutevoli e imprevedibili secondo la Teoria della Web Deprivation)

• la situazione di penuria non è momentanea ma si ripete protraendosi negli anni

• la situazione riguarda non solo il singolo individuo ma tutta la sua famiglia

VULNERABILITA’

• Chi vive in ristrettezze materiali è in genere esposto a uno stato di vulnerabilità molto più
accentuato rispetto a chi non le patisce. Ma anche in questo caso vulnerabilità non è
necessariamente sinonimo di povertà. In senso letterale la nozione di vulnerabilità indica il rischio
di cadere in disgrazia e la continua lotta quotidiana per non precipitarvi. Il concetto presenta quindi
dei confini piuttosto sfumati e mutevoli a seconda della realtà sociale e dei soggetti considerati.

• In alcune situazioni si può inoltre essere poveri senza essere automaticamente più vulnerabili di
altri che possiedono maggiori risorse, e viceversa si può essere vulnerabili pur non essendo al
momento poveri. (ad esempio: il contadino autosufficiente che vive di produzioni alimentari
diversificate rispetto al contadino che vende cash crops, che dispone di maggiori entrate ma è
esposto all’oscillazione repentina dei prezzi internazionali delle commodities sul mercato globale). Si
possono dunque, almeno in taluni casi, avere standard di reddito relativamente più alti e
ciononostante essere più esposti al rischio di caduta.
ESCLUSIONE SOCIALE

• Esclusione sociale significa in senso lato mancanza di integrazione sociale, scarsa partecipazione
alla vita sociale e deficit di cittadinanza reale. Specialmente nella tradizione francese il termine
identifica coloro che vengono a trovarsi fuori dal sistema di protezione sociale, cioè fuori dalle reti
di solidarietà collettiva e dai doveri di responsabilità reciproci che legano gli uni e gli altri membri
della società. Il prototipo classico dell’escluso è il clochard, il barbone, l’homeless; ma vi sono
diversi gradi di esclusione attraverso cui un soggetto può transitare sentendosi soggettivamente
sempre meno parte di un sistema sociale di obbligazioni e doveri reciproci.

• Spesso l’esclusione sociale è l’esito di tragitti di impoverimento materiale, soprattutto se ripetuti,


prolungati ed estesi –come abbiamo detto- all’intero gruppo familiare.

• Ma anche qui il concetto non può essere assimilato tout court a quello di povertà. Si può essere
socialmente esclusi per ragioni diverse dalla povertà, per esempio in seguito alla propria
condotta morale o penale. Esclusione sociale significa quindi disadattamento, reiezione,
emarginazione, o perché il soggetto è stato lasciato fuori e ha subito suo malgrado l’esclusione,
oppure perché egli stesso si è tirato fuori agendo attivamente un processo che potremmo chiamare
di «sé-sclusione». Come si può intuire, esclusione e sé-sclusione sono processi strettamente
interrelati, mutuamente interagenti, si retro-alimentano a vicenda.

• Di nuovo le dinamiche che favoriscono il prodursi del processo di esclusione/sé-sclusione non sono
le stesse in tutte le epoche e in tutti gli spazi sociali; sono quindi inscindibili dalla specifica realtà
politica, sociale e culturale in cui insorgono. E dunque di nuovo rimandano a spiegazioni e
interpretazioni necessariamente contestuali.

STIGMA

Ci sono due approcci di fondo alla povertà: la povertà come colpa individuale (cioè come conseguenza di
pigrizia, indolenza, cattivi comportamenti, scelte sbagliate) e la povertà come torto (cioè come effetto di
uno stato di ingiustizia sociale che penalizza ingiustamente le persone). La povertà come colpa implica la
stigmatizzazione del povero.

• Intimamente connesso alle dinamiche di esclusione/sé-sclusione, e spesso associato al vissuto della


povertà nelle società industrializzate occidentali, è il vissuto dello stigma. Alle origini della società
industriale europea lo stigma fu usato deliberatamente come leva morale per dissuadere indigenti
e mendicanti dal sopravvivere ricorrendo all’elemosina e chiedendo assistenza pubblica.

• Nella misura in cui è entrata nel senso comune come sinonimo di condizione degradante, umiliante
e declassante, la povertà è diventata una condizione esistenziale di cui non si può certo andare
orgogliosi, proprio perché nella cultura industriale essa implica uno stigma sociale.

• Lo stigma interviene in due direzioni: come giudizio morale negativo espresso da coloro che non
sono poveri e considerano l’essere in povertà come sinonimo di immoralità, devianza, pericolo,
degenerazione, passività; e poi come sentimento di vergogna interiorizzato e intimamente provato
dalle persone biasimate per il loro stato di indigenza.

• Il danno alla psicologia personale avviene con questo secondo passaggio, cioè quando il giudizio
morale negativo viene introiettato e interiorizzato dal soggetto. In tal caso la percezione della
propria situazione d’indigenza mina la sua autostima personale e gli fa perdere fiducia in sé stesso
in presenza di un giudizio collettivo squalificante. Cosa che viceversa non avviene invece quando la
persona che vive in ristrettezze materiali non interiorizza un giudizio morale negativo facendo
riferimento a un altro registro di valori o condividendo la propria condizione con tutta la sua
comunità d’appartenenza.

• Una delle strategie di sopravvivenza identitaria che permette di non soccombere alla
stigmatizzazione sociale per le proprie condizioni di svantaggio economico e di salvaguardare la
fiducia nel proprio valore in condizioni di impoverimento consiste nel valorizzazione altri registri
identitari, diversi da quello economico-professionale. Per compensare lo svantaggio nel possesso di
risorse materiali, le persone precarie, disoccupate e indigenti possono utilizzare ed enfatizzare nella
propria autorappresentazione pubblica l’appartenenza ad altre categorie di riconoscimento: quali
l’appartenenza a comunità territoriali, chiese e comunità religiose, minoranze etniche o movimenti
politici.

• Anche in questo caso bisogna sottolineare che non in tutti i contesti storici e culturali la scarsità di
beni materiali è oggetto di stigma: nelle pratiche di diverse comunità, così come nelle confraternite
religiose animate da monaci cristiani, santoni indiani o sufi musulmani, la frugalità è anzi
considerata come un valore da perseguire e quindi come una condizione di vita esente da ogni tipo
di biasimo e censura, meritevole anzi di apprezzamento. C’è dunque una connotazione morale nel
giudizio sulla povertà che non è statica e universale bensì variabile e contestuale.

• Il giudizio morale, in un senso o nell’altro, è onnipresente in ogni lettura e interpretazione della


povertà: premesse di valore, riferimenti etici e visioni del mondo permeano tutte le spiegazioni, le
analisi e le proposte in tema di povertà. Nessuna esclusa. Non esiste una rappresentazione della
povertà asettica, esente da premesse di valore. La stessa ricerca sociale sul tema non ne è esente e
ogni presa di posizione è –consapevolmente o inconsapevolmente- intrisa di valori e riferimenti
morali che si riflettono anche nella scelta di concetti, metodi e statistiche nelle procedure di ricerca.
Per questo, ai fini di una discussione scientifica, le premesse di valore soggettive dello studioso
andrebbero rese il più possibile esplicite. (Myrdal)
L’IMPOTENZA SOCIALE

(LA MANCANZA DI SCELTA)


La lezione si sofferma sulla teoria più recente della povertà formulata dal premio Nobel per l’economia
Amartya Sen nel quadro della prospettiva dello Human Capabilities Approach

DIRITTI NEGATI

La povertà non è solo carenza di beni materiali. E’ anche impossibilità di fare scelte di vita e godere di
opportunità per realizzare le proprie aspirazioni e libertà personali. Povertà significa dunque anche una
condizione di costrizione che impedisce agli individui di partecipare pienamente alla vita sociale e politica,
frequentare il corso di studi desiderato, percorrere la carriera professionale voluta, accedere a servizi
richiesti, godere di facoltà di espressione, sicurezza personale, rispetto, autostima. Povertà è quindi anche
limitazione delle possibilità e delle opportunità di indirizzare le proprie esistenze, per effetto del sistema di
diritti sancito dall’assetto politico-istituzionale vigente che determina da un lato una mancanza di
“entitlement”, cioè di possibilità di accesso alle risorse disponibili, e dall’altro una mancanza di diritti in
termini di effettiva possibilità di decidere delle proprie sorti. Da questo punto di vista, il superamento della
povertà quindi non dipende solo dall’aumento del reddito, ma anche dall’“empowerment”, cioè
dall’acquisizione di diritti e capacità d’influenza politica, sia sul piano individuale che sul piano collettivo.
Nella prospettiva della mancanza di scelta avanzata da Amartya Sen, la povertà è sia relativa che assoluta:
relativa dal momento che il grado di scelta di cui dispone l’individuo è sempre legato agli standard ideali, ai
valori e ai criteri di prestigio vigenti nella sua società; assoluta perché la condizione di impedimento e
mancanza di scelta è un tratto universalmente presente nelle situazioni di povertà di tutte le società.

L’approccio della mancanza di scelta ci permette di passare da una visione ristretta e monodimensionale
della povertà a una visione allargata e multidimensionale.

VISIONE RISTRETTA MONODIMENSIONALE > povertà intesa essenzialmente come stato di bisogno
economico e materiale, ristrettezza di reddito e consumi, quantificabile e misurabile in maniera oggettiva
trasversalmente a diversi contesti, paesi e realtà sociali attraverso scale di equivalenza monetarie o
energetiche.

VISIONE ALLARGATA MULTIDIMENSIONALE > povertà irriducibile alla sola variabile delle risorse materiali; i
soli aspetti della ricchezza monetaria e dei consumi non dicono tutto sulla condizione di povertà nella sua
complessità, poiché si tratta di un’esperienza che implica più forme di disagio e più tipi di limitazioni tra
loro interrelate. Oltre alle variabili della scarsità di reddito e risorse, la visione allargata porta a considerare
anche difficoltà sociali, esclusioni istituzionali, emarginazione, isolamento, deficit di cittadinanza.
“Voices of the Poor” è un’indagine famosa e illuminante da questo punto di vista, essendo una ricerca di
riferimento a livello internazionale frutto di una rilevazione di grandi dimensioni condotta per più anni con
metodi partecipativi, che ha raccolto e comparato i vissuti e i punti di vista sulla povertà espressi da 60.000
diretti interessati in prima persona. Lo studio, condotto negli anni 90 in 60 paesi diversi, è rilevante per il
passaggio teorico da una visione ristretta e monodimensionale della povertà alla visione allargata e
multidimensionale in quanto mette in evidenza le seguenti esperienze caratterizzanti i vissuti dei poveri dal
loro punto di vista:

PRECARIETA’ DELL’ESISTENZA (risorse momentanee incerte e insufficienti, lotta continua per tenersi a galla,
senso di permanente incertezza, timore per il futuro, ansia da vulnerabilità per ogni possibile disgrazia)

DISAGIO ABITATIVO (residenze poste in luoghi geograficamente isolati e remoti, oppure in caseggiati
insalubri e carenti di forniture idriche, o ancora in aree esposte a catastrofi naturali, segregate e
socialmente stigmatizzate)

CARENZA DI CURE (esperienze ripetute di corpi malati, affamati, esausti, difficoltà di accesso a servizi
sanitari, farmacie, cure e terapie)

DISCRIMINAZIONE SOCIALE (senso di reiezione pubblica, umiliazione ed esclusione dalla vita istituzionale,
associativa, sindacale, politica, artistica)

DISPARITA’ DI GENERE (esperienze di disuguaglianza fra i sessi nelle chances di vita e nelle opportunità di
godere di diritti e benefici)

INSICUREZZA FISICA (esposizione continua ad aggressioni, furti, stupri, assalti da parte di delinquenti)

ESPOSIZIONE A SOPRUSI (vissuti di disprezzo, prevaricazioni, brutalità da parte delle autorità e delle forze
di polizia)

DISORGANIZZAZIONE COMUNITARIA (atomizzazione, frammentazione, disconnessione del tessuto sociale,


individualizzazione dei destini)

IMPEDIMENTO DELLE CAPACITA’ (impossibilità di mettere a frutto le proprie capacità per mancanza di
opportunità, informazioni, istruzioni, strumenti e fiducia nei propri mezzi)
LA POVERTA’ SOGGETTIVA

La lezione mette in evidenza la pluralità di prospettive possibili e il processo di costruzione sociale della
povertà che si delinea al crearsi di diverse rappresentazioni, per opera di studiosi e osservatori esterni, ma
anche per opera degli stessi soggetti direttamente interessati.

LA DIMENSIONE SOGGETTIVA

Oltre alle soglie di povertà calcolate attraverso l’analisi quantitativa dei dati di reddito, consumo, istruzione
e accesso ai servizi, (soglie oggettive), bisogna considerare che le povertà sono inevitabilmente materia di
percezione e valutazione soggettiva da parte dei diretti interessati (soglie soggettive). Rappresentazioni
oggettive e percezioni soggettive della povertà possono, a seconda dei casi, corrispondere o non
corrispondere. Si possono in teoria avere:

• individui e famiglie considerati dalle statistiche oggettivamente poveri, ma che non si considerano
soggettivamente dei poveri
• individui famiglie che si considerano soggettivamente poveri ma che non risultano oggettivamente
poveri secondo le statistiche
• individui e famiglie poveri sia oggettivamente che soggettivamente

Contestualmente alla rappresentazione della povertà elaborata attraverso le indagini degli osservatori
esterni (ricercatori, funzionari pubblici, giornalisti, operatori di organismi umanitari), v’è sempre un
autonomo processo di interpretazione e immaginazione sociale della povertà da parte dei soggetti
direttamente interessati. Anche in relazione alla povertà vi sono perciò molteplici letture e interpretazioni
che possono essere fornite da attori diversi collocati in posizioni diverse del sistema sociale.

La coesistenza di molteplici rappresentazioni possibili da parte di molteplici attori ci riporta alla terza
domanda da cui siamo partiti: chi rappresenta la povertà? pone cioè il problema dell’egemonia delle
rappresentazioni. Come si è chiesto Robert Chambers nel titolo di un suo noto lavoro: “Whose reality
counts?” Qual è il punto di vista che alla fine conta? Il punto di vista di chi dobbiamo tenere in prima
considerazione? Il punto di vista degli studiosi? Quello dei funzionari pubblici? Quello dei politici? Quello
dei volontari e degli operatori umanitari? Oppure quello dei diretti interessati, cioè dei poveri?

La rappresentazione con maggiore capacità esplicativa e valore scientifico emerge dalla comparazione e
dall’incrocio dei diversi angoli di osservazione e delle diverse prospettive interpretative espresse dai diversi
attori in gioco. Ma per far questo dobbiamo conoscere da vicino l’interpretazione del vissuto della povertà
che danno anche i diretti interessati. La conoscenza del loro punto di vista è necessaria non solo a fini di
studio e analisi scientifica, ma anche ai fini dell’elaborazione di proposte politico-economiche, programmi
sociali e misure di riduzione della povertà che siano effettivamente rispondenti alle esigenze dei beneficiari.
COME VALUTARE LA POVERTA’

Nella realizzazione di un’indagine di carattere valutativo, soprattutto se con finalità applicative, dobbiamo
valutare la povertà tenendo conto non solo della situazione del singolo individuo, ma delle caratteristiche e
delle dotazioni del suo intero gruppo familiare di appartenenza. La sua numerosità, la sua composizione, la
sua dotazione complessiva di risorse materiali e immateriali, il numero di percettori di reddito nel suo seno,
sono tutti elementi da tenere presente e calcolare, poiché definiscono il quadro entro cui assumono reale
significato e valore gli indicatori numerici relativi alla singola persona. In dettaglio le variabili da esaminare
sono:

 Le disponibilità economico-finanziarie

Sotto il profilo economico-finanziario la povertà si può misurare o in termini di consumi o di reddito e


budget familiare includendo nel concetto di budget familiare tutte le fonti di reddito siano essi redditi da
capitale (dividendi, cedole da investimenti, rendite) oppure redditi da lavoro (salari, remunerazioni,
pensioni, rimesse, redditi di cittadinanza, trasferimenti). In relazione al reddito da lavoro è importante
considerare l’entità delle retribuzioni al netto di prelievi fiscali e tributari e la garanzia di continuità nel
tempo del rapporto lavorativo da cui proviene il reddito, e quindi il tipo di attività professionale e di
contratto di lavoro a cui esso è associato. D’altro canto la misura dei consumi è una misura più diretta e
appropriata nel caso di economie informali, al nero o non monetarie. E’ più facilmente fruibile e pertinente,
quindi, nei contesti e nei paesi ove è difficile reperire documentazione che quantifichi gli introiti monetari
di persone e gruppi domestici. Nella valutazione delle disponibilità economico-finanziarie vanno in tuti i casi
considerati attentamente i patrimoni familiari (mobili e immobili, terreni, proprietà, edifici, autovetture),
sebbene non sempre una proprietà implichi il suo beneficio e quel che conta più della proprietà in sé è il
controllo effettivo su di essa e l’effettiva possibilità di sfruttarla. In ogni caso i patrimoni e le eredità sono
una dimensione fondamentale del grado di benessere, essendo indicativi dell’accumulazione familiare nel
tempo di ricchezza, che può generare rendite e affitti che vanno ovviamente contemplati nei calcoli. Essere
disoccupati con un patrimonio familiare alle spalle o essere disoccupati senza alcun patrimonio alle spalle
significa condurre esistenze completamente diverse.

 L’accesso a risorse naturali

Nel computo dei beni di cui dispone una famiglia non vanno incluse solo le disponibilità economico-
finanziarie, ma anche le possibilità di accedere direttamente a risorse naturali per l’autoconsumo; risorse
che fanno una notevole differenza nella qualità della vita quotidiana in tutte le realtà ma specialmente
nelle società rurali. Non solo la proprietà e il possesso, ma anche il diritto d’uso goduto su terreni, acque,
flora e fauna sono elementi di vitale importanza nelle economie rurali e quindi vanno rilevati soprattutto
quando si opera in realtà extraeuropee o comunque extraurbane. Viceversa l’accesso a forniture idriche a
domicilio e la disponibilità di sistemi fognari pubblici sono fattori differenziali che non possono non essere
monitorati nell’esame di famiglie residenti in habitat urbani, periurbani e industriali.

 Le condizioni di salute psico-fisica

Per valutare lo stato di povertà familiare dobbiamo sapere dello stato di salute delle persone in senso
integrale, cioè sia negli aspetti fisici sia negli aspetti psicologici, poiché da essi dipende la capacità di essere
attivi, lavorare e generare reddito dei membri di un gruppo domestico. Rientra quindi nell’analisi la verifica
della presenza di soggetti con eventuali malattie invalidanti o limitanti, handicap fisici, sensoriali o mentali,
e ovviamente di malattie infettive, contagiose ed epidemiche; è altresì utile la verifica di situazioni di
divorzio, separazione o rottura coniugale, che possono incidere in maniera sensibile sulle condizioni
residenziali e reddituali del marito, della moglie, dei figli o di altri eventuali conviventi.

 Il capitale sociale

Nell’analisi delle risorse a disposizione per affrontare situazioni di difficoltà bisogna poi contemplare il
«capitale sociale» di cui dispone la famiglia, vale a dire l’insieme di legami derivanti da rapporti di
parentela, rapporti amicali, conoscenze e appartenenze (a gruppi, associazioni, corporazioni professionali,
forze politiche o chiese religiose); tali legami possono aiutare a risolvere problemi di occupazione e ad
accedere a beni, servizi e risorse; tale insieme di relazioni –da considerare non solo a livello locale, ma
anche nelle sue estensioni a livello nazionale e internazionale- può entrare in gioco e consentire alle
persone di risolvere problemi altrimenti irrisolvibili. A parità di reddito e consumi, un maggior capitale
sociale può fare una sensibile differenza nella qualità di vita anche sul piano della soddisfazione dei bisogni
materiali. In virtù del proprio capitale sociale si possono avere redditi e consumi modesti e ciononostante
non precipitare in uno stato di bisogno impellente, non perdere i propri diritti di cittadinanza e non essere
socialmente esclusi. I soggetti e le famiglie in assoluto più vulnerabili sono quelli che oltre a contare con le
minori risorse economico-finanziarie dispongono anche di minore capitale sociale, in pratica sono le più
sole, le più isolate, le più sganciate dal tessuto sociale circostante, per ragioni le più svariate (rotture
generazionali e relazionali, differenze politico-ideologiche, conflittualità etniche, contrasti religiosi)

Visto dal punto di vista di una società nel suo insieme, il capitale sociale permette alla gente di condividere
rischi, costi e possibilità di accesso alle risorse nelle congiunture più difficili e quindi mitiga l’impatto degli
shock economici e naturali e facilita la ripresa dopo il loro passaggio; costituisce quindi un elemento
cruciale della capacità di resilienza di una comunità locale così come di una società nazionale.

 Il capitale cognitivo individuale

La nostra analisi deve tenere presente anche il corredo di istruzione, capacità professionali, competenze,
know how, abilità tecniche e potenzialità lavorative che ciascun individuo può sfruttare per guadagnarsi da
vivere all’interno del suo habitat ecologico, sociale e tecnologico, aspetti che riassumiamo nel concetto di
capitale cognitivo individuale, spesso legato al capitale cognitivo e/o alla ricchezza della famiglia di
provenienza. E’ importante sottolineare che stiamo parlando di capitale cognitivo contestuale, cioè non
fruibile e spendibile in astratto, ma effettivamente fruibile e spendibile in una precisa realtà, quella del
contesto spazio-temporale specifico in cui il soggetto si trova a vivere in un certo momento della sua
esistenza. Attenzione quindi: un capitale cognitivo utile e spendibile in un certo contesto può rivelarsi del
tutto inutile e non fruibile a fini di reddito in un altro contesto.

 Le politiche statali di redistribuzione e i servizi pubblici

L’analisi delle risorse disponibili non può mai tralasciare di considerare il ruolo e il valore dei servizi di cura,
protezione, assistenza, sostegno al reddito, istruzione e formazione che sono forniti dallo Stato. E’ lo Stato
infatti che regola politicamente l’insieme delle transazioni economiche e definisce la cornice istituzionale,
giuridica e normativa all’interno della quale scambi di mercato e transazioni for profit o non profit possono
prendere vita e svilupparsi in un certo modo piuttosto che nell’altro. E’ lo Stato, in particolare, che può
emanare normative volte alla protezione dalle categorie più svantaggiate e le misure di sostegno al reddito.
Non in tutti i paesi la legislazione nazionale protegge allo stesso modo le categorie più vulnerabili. Non in
tutti i paesi, i beni e i servizi sono acquisiti a pagamento sul mercato per quanto concerne istruzione,
trasporti, prestazioni sanitarie, medicine, assistenze domestiche. Sotto varie forme e con vari strumenti, in
alcuni casi essi sono messi a disposizione gratuitamente o a condizioni molto agevolate dall’Ente pubblico
(Stato, Regione, Provincia), mentre in altri non lo sono o lo sono in misura decisamente inferiore. Nei casi di
forte sostegno pubblico, l’intervento statale concorre in maniera decisiva a sostenere –direttamente o
indirettamente- i redditi dei budget familiari, assumendosi costi anche di notevole entità che dobbiamo
tenere in debito conto nel valutare i livelli di povertà e vulnerabilità delle persone. Due famiglie di pari
reddito modesto collocate l’una in un paese con sistema sanitario e istruzione gratuiti e l’altra con sistema
sanitario e scuola a pagamento non sono affatto ugualmente povere. Bisogna quindi avere cura di
attribuire il giusto peso al tipo, all’entità e alle condizioni dell’offerta pubblica nel campo dei servizi della
sanità, dell’istruzione e della formazione, oltre che dell’assistenza e della protezione sociale.

 L’opera di organizzazioni civico-caritatevoli

La nostra analisi, infine, deve accertare la possibilità che individui e famiglie in stato di bisogno possano
eventualmente attingere a donazioni e servizi di cura e protezione gratuiti erogati da organizzazioni senza
fini di lucro, siano esse locali, piuttosto che nazionali o internazionali. Nel novero delle organizzazioni civico-
caritatevoli possiamo includere tutte le Charities, la Istituzioni religiose, le Ong, le Organizzazioni
umanitarie, le Associazioni di promozione sociale, le Fondazioni e ogni altro organismo attivo senza finalità
di lucro che possa distribuire alimenti, denaro, beni primari e accoglienza residenziale in caso di bisogno. A
vario titolo e in varie modalità le erogazioni delle organizzazioni civico-caritatevoli possono contribuire in
maniera decisiva ad alleviare le difficoltà nei momenti più cruciali della famiglie in crisi. Anche in questo
caso bisogna perciò controllare tipo, entità e condizioni dell’offerta di servizi, così come la loro capillarità,
dislocazione, distanza territoriale, accessibilità. Ancora una volta due famiglie di pari reddito modesto
collocate l’una in una realtà territoriale con una rete capillare di servizi civico-caritatevoli e l’altra posta in
un territorio totalmente sprovvisto di essi vanno incontro a destini molto diversi in caso di totale perdita di
tutte le fonti di reddito.
METODI DI RICERCA E APPROCCI METODOLOGICI

La lezione riepiloga i differenti approcci metodologici utilizzati nelle ricerche sulla povertà richiamando la
differenza fra metodi d’indagine estensivi e metodi intensivi e tra ricerche sociologiche e ricerche
storiografiche. Presenta infine un riepilogo delle variabili fondamentali da tenere in considerazione al
momento di svolgere un’indagine sulla povertà a fini applicativi.

METODI ESTENSIVI E METODI INTENSIVI

La povertà intesa come dato duro, oggettivo, quantificabile, è al centro della procedure di ricerca che
adottano un approccio top-down e utilizzano tecniche di rilevazione prevalentemente sociologica,
economica e statistica, sia nelle analisi sulla povertà assoluta che quelle sulla povertà relativa. Metodo
d’indagine estensivo significa quindi analisi quantitativa, normativa, basata su standard di riferimento
numerici, parametri e «linee della povertà» definiti e tesi a fornire una fotografia sincronica precisa della
situazione di un gruppo umano in un certo periodo. Vantaggi: rappresentatività legata all’ampiezza
numerica del campione esaminato, comparabilità e verificabilità. Svantaggi: limitata profondità analitica
intrinseca e capacità esplicativa, mancanza del punto di vista dei diretti interessati.

La povertà soggettiva è invece al centro degli approcci bottom-up, che cercano di raccontare la povertà in
base ai resoconti, alle versioni e alle interpretazioni narrative che ne danno i diretti interessati, come
accade nel caso delle ricerche etnografiche, degli studi di psicologia sociale o di sociologia qualitativa.
Metodo d’indagine intensivo significa per l’appunto ricerca qualitativa, descrittiva, partecipativa, tesa a
favorire la rilevazione e l’analisi dei problemi e delle loro possibili soluzioni coi diretti protagonisti.
(INTERVISTE IN PROFONDITA’, FOCUS GROUP, RICERCHE AZIONI, RICERCHE PARTECIPATIVE) Vantaggi:
profondità analitica e capacità esplicativa. Svantaggi: scarsa rappresentatività e generalizzabilità delle
conclusioni per la ridotta ampiezza numerica dei casi studiati.

RICERCHE SOCIOLOGICHE

Usualmente la povertà viene studiata da sociologi, economisti e statistici a partire dalla distinzione
concettuale preliminare a cui abbiamo accennato fra povertà assoluta e povertà relativa. Essi calcolano i
tassi di povertà assoluta attingendo a fonti statistiche e ai risultati di questionari realizzati su vasta scala che
quantificano la capacità acquisitiva delle famiglie rispetto a un paniere minimo di beni primari ritenuto
indispensabile per la sussistenza del nucleo familiare considerando il numero dei suoi componenti e il luogo
di residenza. La soglia della povertà assoluta è data dal valore monetario del paniere di beni e servizi
ritenuti indispensabili. La famiglia è classificata in povertà assoluta se ha una spesa mensile pari o inferiore
a quel valore soglia. La povertà relativa viene invece calcolata -sempre partendo dall’analisi di fonti
statistiche e dai riscontri dei questionari-, esaminando il rapporto fra il reddito e i consumi della famiglia e
la media, o mediana, del reddito e dei consumi registrati a livello nazionale (< 50% o <60%). La definizione
della percentuale di reddito e consumi al di sotto della quale si è statisticamente inclusi tra coloro che sono
in stato di povertà relativa viene stabilita dalla comunità degli studiosi o dei funzionari e a seconda dei
parametri adottati per definire ciò che è considerato un tenore di vita decente può cambiare la
rappresentazione statistica della povertà presente in un’area geografica o in un intero paese.
Le statistiche sulla povertà assoluta e relativa e sulle privazioni specifiche sono elaborate da EUROSTAT a
livello europeo e da ISTAT a livello italiano. A livello internazionale organismi come la Banca Mondiale
stimano globalmente la povertà ricorrendo all’International Standard of Poverty Line (ISPL), che definisce
povera una famiglia di due componenti con una spesa uguale o minore alla spesa media per consumi pro-
capite. Per calcolare la linea a livello nazionale lo standard considera due indici: incidenza (rapporto tra
numero di individui in povertà e numero di residenti nel paese) e intensità (divario medio del grado di
privazione)

RICERCHE STORIOGRAFICHE

Gli storici hanno tradizionalmente soffermato la loro attenzione su quelli che possiamo considerare i casi
più eclatanti di povertà assoluta, vale a dire sulle carestie, studiate in diverse epoche e realtà locali e
nazionali. Le ricerche storiografiche sulle carestie si basano sui riscontri tratti principalmente dallo spoglio
di materiali d’archivio o da altre fonti documentali. Vanno alla ricerca di alcune variabili considerate
decisive per valutare la presenza di situazioni di carestia e per la spiegazione della loro origine. Tali variabili
sono: i tassi di crescita demografica e di mortalità presenti nella popolazione, ricostruiti mediante la
consultazione degli stati delle anime parrocchiali (battesimi, matrimoni e funerali), la lettura di cronache
dell’epoca, l’analisi dell’andamento dei prezzi dei beni di prima necessità (usato come indicatore delle
disponibilità alimentari e quindi di eventuali crisi di produzione agricola), i dati climatici reperibili su
pluviometria e temperature (utili per confermare la sussistenza di crisi delle produzioni agricole), la
presenza di guerre e rivolte popolari e lo stato dei traffici commerciali (per accertare la presenza e la
ricaduta sui sistemi di distribuzione del cibo).

L’APPROCCIO ANTROPOLOGICO

Gli antropologi osservano che una condizione di penuria materiale può essere più o meno importante per
l’immagine che le persone e le comunità hanno di sé stesse a seconda del significato che esse attribuiscono
al problema. Tale significato varia in base a vari fattori: alle convinzioni personali di ciascuno, ai sistemi di
valore ricevuti in ambito familiare, alle tradizioni delle comunità in cui si è immersi, al fatto che si tratti di
un’esperienza vissuta individualmente oppure collettivamente, che sia considerata come risultato di una
responsabilità propria oppure un’imposizione subita a causa delle condizioni sociali esterne e quindi per
responsabilità di altri, che sia concepita come una situazione transitoria e modificabile o come una
condizione permanente e immodificabile. Dagli antropologi la povertà viene perciò approcciata nelle
etnografie di campo -basate sul metodo dell’osservazione partecipante- prendendo in esame non solo la
distribuzione delle risorse, le condizioni di sussistenza materiale e i rapporti di potere vigenti, ma anche
considerando la correlazione fra le condizioni materiali di vita dei gruppi osservati e le loro identità
soggettive e culturali, cioè le dimensioni immateriali inerenti l’esistenza umana e gli aspetti della vita che
hanno a che vedere con l’attribuzione di senso all’esperienza soggettiva e che influiscono in maniera
decisiva sui comportamenti di tutte le persone, comprese quelle ritenute povere. (vita sociale = produzione
materiale + riproduzione biologica + significazione simbolica). Dal punto di vista antropologico
nell’accostarsi a un gruppo o a una comunità è perciò essenziale guardare alle condizioni materiali di vita
come a un lato della sua esperienza soggettiva, accanto al quale altri aspetti possono avere uguale o
persino maggiore importanze agli occhi degli attori e del loro modo di concepirsi e autorappresentarsi.
Nella costruzione dell’identità collettiva e individuale degli attori la condizione di penuria materiale può
essere ritenuta più o meno rilevante di altre variabili attorno a cui si possono modellare le proprie identità.
Dobbiamo essere consapevoli che lo sguardo del ricercatore e dell’osservatore esterno, nel momento
stesso in cui categorizza una famiglia o un gruppo sociale come povero, in quello stesso momento lo
“sostanzializza”, lo caratterizza cioè ipso facto come una serie di individui la cui situazione di difficoltà
materiale prevale e predomina su tutte le altre dimensioni della sua vita, le quali invece possono avere
grande importanza per i diretti interessati, così come accade per le categorie sociali più benestanti; coloro
che soffrono di difficoltà materiali possono vedere sé stessi in prima istanza non come dei poveri, ma come
appartenenti a un certo gruppo etnico, a un certo territorio, a una certa chiesa o movimento religioso o a
un certo movimento politico, e -tra le altre cose- avere anche problemi di ristrettezza materiale. (“no somos
pobres somos tepitanos”) E’ essenziale dunque dal punto di vista antropologico:

1) l’adozione di una prospettiva olistica che ricomprenda e confronti diverse prospettive di analisi,
nella consapevolezza che in tutti i casi si tratta di rappresentazioni socialmente costruite, mai
naturali

2) l’esplorazione del punto di vista dei diretti interessati intesi come attori dotati di proprie capacità di
elaborazione e analisi delle problematiche esperite e di una propria agency sociale

3) l’inclusione delle loro visioni culturali e dei loro sistemi di valore come aspetti decisivi tanto ai fini
della auto-rappresentazione identitaria come ai fini dei comportamenti economici e produttivi

4) la distinzione tra la condizione di scarsità materiale di gruppi che mantengono conoscenze, saperi,
abilità e memorie collettive (cioè che dispongono di un patrimonio culturale immateriale) e la
condizione di impoverimento non solo materiale di coloro che invece sono deprivati anche di
conoscenze, saperi, abilità e memorie culturali (cioè che vivono processi di deculturazione e
impoverimento anche sul piano immateriale).

POVERTA’/RICCHEZZA vs PENURIA/ABBONDANZA

Lo studio della disuguaglianza è decisivo per la comprensione della povertà così come essa si è
storicamente configurata nelle società complesse -antiche, moderne e contemporanee. Povertà è infatti un
concetto intrinsecamente dicotomico, poiché implica la coesistenza della ricchezza come antitesi
concettuale di riferimento. Concettualmente parlando, non può esservi povero se non v’è ricco. A
prescindere dal riferimento all’ineguaglianza diventa persino difficile immaginare la povertà. La povertà
implica, per sua stessa natura, «distanza economica in contesto» fra abbienti e non abbienti. Essendo
indissociabile dal suo opposto, la ricchezza appunto, la povertà implica quindi una qualche forma di
disparità nel sistema sociale. La storia della formazione della povertà è quindi la stessa storia della
formazione della disuguaglianza e della disparità sociale. E’ importante distinguere quindi in partenza la
coppia concettuale povertà/ricchezza dalla coppia concettuale penuria/abbondanza. La prima riflette ciò
che si produce per l’appunto nelle società stratificate complesse, laddove un ordinamento sociale
gerarchico, basato su classi, ceti o caste, colloca persone e famiglie in posizioni sociali differenti lungo uno
spettro che va dal più abbiente al meno abbiente o dal più nobile al meno nobile. La seconda è invece la
condizione tipica delle società egualitarie non suddivise in classi e ceti sociali. In tali società i membri
possono attraversare collettivamente dei momenti di maggiore o minore penuria e di maggiore o minore
abbondanza, senza che questo implichi il formarsi di disparità e gerarchie economiche all’interno del
gruppo. A partire dalla ricostruzione dei modi di vita dei cacciatori-raccoglitori, vedremo come si è prodotto
il passaggio evolutivo che nel corso della filogenesi umana ci ha portato dalla condizione di società
egualitarie che vivevano in contesti segnati dall’alternanza di penuria-abbondanza a società fondate sulla
polarità povertà-ricchezza.
LE SOCIETA’ EGUALITARIE

(i cacciatori raccoglitori)
LE ORIGINI DELL’UOMO

Nella comunità scientifica non v’è tutt’oggi un accordo definitivo circa la datazione della prima presenza
dell’homo sapiens sulla terra. Nessuno studioso, tuttavia, dubita oggi del fatto che almeno da 100.000/
70.000 anni a questa parte siano in circolazione sul pianeta terra degli esseri classificabili al di là di ogni
ragionevole dubbio come esseri umani; esseri, cioè, evolutivamente compiuti sul piano biologico, dotati di
un’anatomia fisica, di un cervello e di potenzialità cognitive analoghe alle nostre, e dunque capaci come noi
di astrazione, di pensiero simbolico, di linguaggio verbale, di cooperazione sociale; esseri, quindi, capaci
come noi di celebrare cerimonie funerarie, tumulare defunti, produrre arti figurative, opere artistiche,
manifestazioni rituali, e come noi in grado di fabbricare artefatti e utensili per mezzo di altri strumenti, cosa
che nessun altro primate è in grado di fare. A partire grosso modo da 100.000 anni fa, essi lasciarono la
regione del Corno d’Africa ove avevano avuto i natali, per dare inizio ad una diaspora che nel volger di
50.000 anni avrebbe condotto la nostra specie attraverso continue migrazioni a popolare l’intero pianeta,
incrociando lungo il suo cammino con altri tipi umani (in particolare Neanderthal e Denisova) che si erano
diffusi in precedenza in Eurasia a seguito di ondate migratorie anch’esse provenienti dall’Africa orientale
ma avvenute centinaia di migliaia di anni prima di quella degli homo sapiens. (vedi Pievani video)

CACCIA E RACCOLTA

Nel corso dei 50.000 anni in cui gli umani diedero vita al processo di colonizzazione del pianeta,
sopravvissero per la maggior parte del tempo essenzialmente cacciando animali, raccogliendo vegetali e
pescando nei corsi d’acqua. Le pratiche della caccia, della raccolta e della pesca, per quanto possano oggi
apparirci come modalità di sussistenza assai primitive e rudimentali, rappresentarono in realtà un salto
evolutivo enorme per il successo della nostra specie, dal momento che permisero ai nostri antenati di
sottrarsi dalla non invidiabile condizione di prede di animali feroci a quella decisamente meno precaria e
angosciante di predatori. Gli ominidi antecedenti ai sapiens erano infatti sopravvissuti in condizioni di
manifesta inferiorità rispetto ai grandi animali predatori delle savane africane, da cui non potevano far altro
che fuggire, nutrendosi degli avanzi delle carogne trovate sul terreno (scavenging) e raccattando ove
possibile bacche, tuberi e frutti. Grazie all’acquisizione della posizione eretta e del bi-pedismo, all’uso
oppositivo del pollice e all’espansione encefalica e quindi grazie all’acquisizione delle capacità di fabbricare
e utilizzare strumenti, di cooperare sistematicamente coi propri simili e di usare un’intelligenza simbolica
che permetteva di immaginare cognitivamente scenari e soluzioni non esistenti nella realtà (Harari), grazie
a tutto ciò i nostri antenati furono i primi mammiferi a sganciarsi della condizione di soggetti passivi della
natura, sostanzialmente succubi nella gara per la sopravvivenza, per trasformarsi in attori attivi,
protagonisti del rapporto col mondo animale e vegetale.

DISCIPLINE

Sappiamo di questo passaggio, e in generale dei modi di vita dei cacciatori-raccoglitori primitivi, grazie a
una mole di studi provenienti da una vasta gamma di discipline, che oggi comprende paleontologia, paleo-
antropologia, archeologia, paleo-genetica, paleo-botanica, demografia, scienze dell’evoluzione. Attraverso
l’analisi incrociata di reperti fossili, genomi umani e materiali biologici, queste discipline hanno apportato
negli ultimi decenni una grande quantità di nuove scoperte sui modi di vita, gli abiti e le tecniche di
sussistenza dei nostri primi antenati. La ricerca sulle prime popolazioni umane si è giovata in maniera altresì
decisiva dei risultati delle ricerche etnografiche realizzate a partire dalle fine dell’800 dagli antropologi sui
popoli cacciatori-raccoglitori moderni, che tra tutti i gruppi umani viventi sono quelli che presentano i
maggiori tratti di affinità coi modi di vita e le tecniche di sussistenza degli abitanti del paleolitico (Ellen
1994). I riscontri della ricerca etnografica sono stati e rimangono preziosi per la ricostruzione dei modi di
vita dei primitivi perché ci permettono di confrontare modelli teorici e simulazioni elaborati in laboratorio
tramite analisi di resti e reperti con realtà empiriche osservate in carne ed ossa.

In realtà un acceso dibattito tra antropologi e archeologi ha messo in discussione negli ultimi decenni la
possibilità di trasferire tout court sui cacciatori primitivi le conoscenze ricavate dai cacciatori
contemporanei, mettendo in luce quanto le condizioni di vita degli hunters odierni siano state influenzate
dal mondo moderno e dei processi di globalizzazione che li hanno coinvolti. Dobbiamo quindi fare
attenzione a non proiettare integralmente e meccanicamente sul passato l’immagine delle poche
minoranze di cacciatori rimasti in vita nella contemporaneità, poiché la condizione odierna dei gruppi dediti
alla caccia e alla raccolta è stata enormemente condizionata da processi storici intervenuti in epoche
recenti che li hanno costretti in condizioni di sottomissione politica, colonizzazione e incorporazione in stati
nazionali, facendoli oggetto di collassi demografici causati dal contatto con popoli stranieri, così come di
drastiche limitazioni degli spazi di movimento, di rapporti commerciali o di condizioni politico-istituzionali
del tutto diverse da quelle dei popoli primitivi, i quali non erano soggetti ad alcun controllo da parte di
poteri politici statali, erano del tutto estranei ad ogni forma di economia di mercato e non erano circondati
né da agricoltori, né da commercianti, né da turisti, come accade ai cacciatori-raccoglitori del giorno d’oggi.

PIANETA LIBERO

Dobbiamo prestare attenzione a non proiettare integralmente sul passato i vissuti dei gruppi di cacciatori
dei nostri giorni anche perché radicalmente diverso è il quadro ecologico e climatico dei cacciatori
contemporanei rispetto a quello in cui si muovevano i popoli del paleolitico. In epoca paleolitica i cacciatori-
raccoglitori popolavano un pianeta che non aveva subito precedenti processi di antropizzazione ed era
quindi del tutto privo di costruzioni, di strade, porti, vie di comunicazione, centri abitati, villaggi, mura,
edifici; e che dunque era in larghissima parte disabitato, aperto alla possibilità di spostarsi in ogni momento
verso nuovi lidi, non essendovi alcun tipo di governo, forza di polizia, frontiera o istituzione politica in grado
di frapporre limiti o proibizioni di sorta al transito delle persone da un luogo all’altro. A differenza di quelli
contemporanei, i cacciatori-raccoglitori del paleolitico godevano di una libertà di movimento spaziale
virtualmente senza limiti, che nessuna popolazione umana delle epoche successive avrebbe più conosciuto,
almeno negli stessi termini.

PERIODO GLACIALE

A distinguere i gruppi di cacciatori del passato da quelli del presente c’è poi il fatto che i primi ebbero la
ventura di abitare un periodo climatico completamente distinto dal nostro, dal momento che il pianeta era
allora immerso nell’ultima grande fase di glaciazione del globo. La cosiddetta glaciazione di Wurm copriva
di venti gelidi e freddi intensi larga parte dell’emisfero boreale, lasciando aride e secche intere regioni
anche nell’emisfero australe. La fascia più settentrionale dell’Europa, le isole britanniche, la Scandinavia, le
pianure russe, il plateau siberiano e il Canada erano ricoperte da calotte di ghiacci permanenti che
rendevano estremamente ostica la vita umana, mentre larga parte dei territori europei, asiatici e americani
posti a longitudini inferiori erano ricoperti da tundre, steppe e praterie che malgrado le rigide temperature
consentivano la vita animale e la crescita di qualche tipo di vegetazione. Altre regioni poste in prossimità
dell’Equatore non subivano invece gli stessi rigori ed erano dotate di maggiori risorse vegetali. Nel periodo
glaciale in cui vissero i primi popoli umani marcate differenze caratterizzavano quindi diverse aree della
superficie terrestre poste a differenti longitudini e latitudini, così come diverse nicchie ecologiche e diversi
ecosistemi all’interno dello stesso continente. L’Africa, per esempio, era vistosamente caratterizzata da
zone climatiche tra loro assai differenti. (Iliffe) Differenti geologie, differenti morfologie, differenti
altitudini, differenti disponibilità di risorse idriche, differenti microclimi locali e dotazioni di flora e fauna
rendevano diversamente abitabili spazi collocati persino dentro la stessa fascia climatica (storia del bosco).
A incrementare la variabilità delle risorse naturali disponibili c’era poi il fatto che il periodo glaciale non era
uniformemente caratterizzato dalle stesse temperature, vedendo ripetute oscillazioni alternarsi nel corso
del tempo che costringevano le popolazioni umane a periodici riadattamenti delle rispettive modalità di
sussistenza e dei propri stili di vita (video geopop) Nell’insieme il pianeta presentava però nel periodi Wurm
una caratteristica comune: era popolato da un’impressionante varietà di animali. Negli ambienti artici più
gelidi si trovavano renne, caribù, volpi artiche, foche, buoi muschiati; nelle aree meno gelide c’erano bisonti
e gli esemplari più famosi della mega-fauna preistorica che sarebbe poi scomparsa, come i mammut o i
rinoceronti lanosi, insieme a specie che invece ancor oggi incontriamo sulle Alpi, come i lupi, gli orsi, i
caprioli, gli stambecchi, i cervi, i camosci, i cavalli, gli asini selvatici; senza contare le specie che oggi abitano
i parchi africani e le regioni tropicali e subtropicali, come i leoni, i leopardi, le iene, gli elefanti, le gazzelle o
gli ippopotami. (Giusti)

VARIETA’ ADATTIVE DI CACCIA E RACCOLTA

Grazie alla disponibilità di immensi spazi disabitati e all’ampio ventaglio di specie animali presenti, i popoli
del paleolitico facevano della caccia e della raccolta i loro modi di sussistenza privilegiati e non praticavano
abitualmente forme stanziali di agricoltura, malgrado la raccolta quotidiana di vegetali che abitualmente
accompagnava le attività venatorie li portava a conoscere in dettaglio i cicli di maturazione dei vegetali e i
loro usi a fini alimentari e curativi, e quindi a possedere un bagaglio di conoscenze botaniche e
naturalistiche che molti antropologi ritengono più ampio e raffinato di quello dei popoli di agricoltori e
allevatori venuti dopo di loro. Tali conoscenze mettevano in condizioni i popoli cacciatori, molti millenni
prima dell’avvento dell’agricoltura sedentaria, di ricorrere a forme saltuarie ed embrionali di orticoltura
itinerante laddove gli habitat lo permettevano e lo rendevano conveniente. In realtà nelle fredde aree
centrali dell’Europa e dell’America settentrionale ciò non accadeva normalmente perché le rigide
temperature, l’esiguo manto vegetale di superficie e l’aridità dei suoli precludevano alla radice ogni
possibilità di coltivare con qualche successo; mentre nelle zone tropicali meridionali e nelle regioni a clima
più mite e a vegetazione più florida, non succedeva perché la ricca disponibilità di vegetali spontanei e la
moltitudine di animali facilmente accessibili era tale da non rendere conveniente in termini di investimento
energetico il faticoso lavoro della semina dei campi. Stante il rapporto estremamente vantaggioso fra il
ridottissimo numero di anime presenti e la vastità delle risorse naturali fruibili conveniva allora più cacciare
e raccogliere i frutti spontaneamente regalati da madre natura che ammazzarsi di fatica nei campi. La
popolazione umana circolante sul pianeta era infatti all’epoca davvero minuscola, se si considera che
quando il periodo paleolitico volse al termine, dopo almeno 60.000 anni di presenza dell’homo sapiens sulla
terra, la nostra specie era ancora composta da pochi milioni di persone, non superando secondo le stime
più prudenti i 2/3 milioni di abitanti (Scott) e secondo quelle più generose i 15 milioni di abitanti sull’intero
pianeta. (Cavalli Sforza you tube)

Nessuno può dire con esattezza come si organizzassero per procacciarsi da vivere i singoli gruppi umani che
si succedettero nell’epoca del paleolitico, ma in base alle conoscenze acquisite sappiamo con certezza che
molti di essi per cacciare e raccogliere si mantenevano periodicamente in movimento e ricorrevano a
strategie di adattamento estremamente flessibili e variabili a seconda dell’habitat ecologico frequentato e
del momenti climatico incontrato; cosa che non era difficile per la capacità tipicamente umana di adattarsi
biologicamente ai contesti ecologici più disparati in virtù della sua natura onnivora. Cosicché i gruppi situati
nelle zone tropicali e sub-tropicali, o comunque nelle nicchie ecologiche più ricche di florida vegetazione,
sfruttavano più la raccolta che la caccia ed erano perciò tendenzialmente più vegetariani sotto il profilo
nutrizionale; mentre al contrario i popoli dislocati nelle zone artiche, sub-artiche e in generale nelle regioni
a clima freddo, asciutte o avare di vegetazione, per la stessa ragione facevano affidamento soprattutto
sull’attività venatoria ed erano quindi necessariamente più carnivori. (Ellen 1994) Con effetti non
trascurabili sull’importanza simbolica e sul prestigio sociale attribuiti ai cacciatori assai più nel primo caso
che nel secondo. (Giusti) La caccia si rivolgeva principalmente agli animali di grossa taglia come i bisonti, le
renne, i cavalli o i cervi rossi, senza trascurare gli animali da pelliccia, come la volpe, da cui provenivano gli
indumenti che nelle regioni fredde garantivano protezione dai rigori del clima. Mediante sistemi di
predazione inventati a partire dallo specifico background di riferimenti culturali, oltre che dallo specifico
habitat e dalla specifica fauna a disposizione, i cacciatori arrivavano alla cattura dei grandi animali dopo
lunghi inseguimenti e coraggiose operazioni di assalto svolte lungo gli ampi corridoi in cui le mandrie
transitavano periodicamente, oppure era l’esito di ingegnosi artifici che costringevano in trappola gli
animali dopo averli attirati in luoghi idonei alla cattura o li facevano precipitare nei burroni vicini alle zone
di pascolo naturale. Ma l’attività venatoria non disdegnava nemmeno le specie animali più piccole dagli alti
ritmi riproduttivi, ancorché risultasse in questo caso più dispendiosa e meno vantaggiosa in termini di
rapporto fra tempo lavoro speso e apporto calorico/proteico ricavato per animale, dal momento che per
cacciare la piccola selvaggina bisognava impiegare strumenti come trappole, reti, gabbie e altri
marchingegni che dovevano essere appositamente preparati. In ogni caso ovunque possibile alla pratica
della caccia si affiancava regolarmente la raccolta quotidiana di vegetali -frutti, bacche, foglie, noci, semi,
bulbi, fagioli, tuberi, ignami-, talora in abbinamento con la spoliazione di carcasse dei mammut ed elefanti
incontrati congelati lungo il cammino. E in tutti i casi una divisione sessuale delle mansioni produttive
assegnava usualmente ai maschi i compiti di caccia grossa e costruzione artigianale degli strumenti e alle
donne la raccolta dei vegetali e la caccia di animali di piccola taglia in collaborazione coi figli in grado di
deambulare.

STORAGE

Per via delle esigenze di continua mobilità e per la difficoltà di conservazione dei cibi, i gruppi dislocati nelle
zone asciutte e aride, così come in quelle forestali, tendevano normalmente a consumare le preda cacciata
e i vegetali raccolti subito dopo esserseli procurati o a breve distanza di tempo; non avevano quindi
l’abitudine di stoccare alimenti, salvo rari casi limitati a situazioni di scarsità contingenti di breve periodo o
alla preparazione di eventi cerimoniali periodici. L’immagazzinamento di una certa quota di cibo -tramite
affumicatura, essiccazione o salagione- era invece indispensabile, ed era climaticamente possibile, tra i
popoli situati nelle regioni più fredde dell’emisfero boreale, che dovevano attrezzarsi adeguatamente per
affrontare i freddi e prolungati periodi di inattività invernale, come succedeva ai popoli dell’Europa
orientale. (Ellen 1994) Anche nel loro caso, tuttavia, il modo di sussistenza rimaneva tendenzialmente “anti-
eccedentario”, finalizzato cioè a garantire condizioni di auto-sussistenza e una produzione destinata all’uso
e al valore d’uso, non alla massimizzazione del valore di scambio. Nel quadro di modi di produzione
impostati in una logica anti-eccedentaria, si tendeva a sotto-utilizzare le risorse naturali a cui si aveva
accesso, abbandonando precocemente i territori sfruttati onde favorire la rigenerazione delle specie
animali e vegetali consumate. Per la stessa logica anche le pratiche di scambio tra i diversi gruppi miravano
a in primis a procurare il necessario per sopravvivere e non a massimizzare l’accumulazione di eccedenze o
di profitti. (Sahlins 1972) Analogamente guidata da una filosofia anti-eccedentaria era altresì l’attività
lavorativa in senso stretto.
LAVORO MINIMO

Dato il carattere mobile dell’attività venatoria e della raccolta, i cacciatori-raccoglitori erano abituati a
lunghe camminate –di decine di kilometri al giorno-, che si rendevano necessarie per inseguire prede ferite,
individuare branchi di passaggio o trovare boschi maturi. Ma nell’insieme essi dedicavano poco tempo pro-
capite quotidiano al lavoro produttivo strictu sensu, certamente molto meno di quello che gli avrebbero
dedicato in seguito braccianti agricoli, allevatori, artigiani o minatori. I cacciatori-raccoglitori sotto-
utilizzavano quindi costantemente anche la forza lavoro di cui disponevano, non cercavano di
massimizzarne l'utilità o l'efficienza e limitavano i propri sforzi alla produzione dello stretto necessario per il
sostentamento, evitando di sfruttare potenziali di crescita pure avrebbero potuto sfruttare spremendo le
proprie capacità individuali e massimizzando il tempo disponibile. (Sahlins 1972, Artemova). Una volta che i
bisogni immediati erano soddisfatti, ogni sforzo aggiuntivo per ottenere di più era percepito come
sostanzialmente inutile e il tempo rimanente veniva preferibilmente dedicato allo svago, alla convivialità,
alla diversione, con una particolare predilezione –se le etnografie del presente valgono anche per il
passato- per il gioco d’azzardo.

LEGGEREZZA DEMOGRAFICA

Lo stile di vita erratico dei popoli cacciatori presupponeva una condizione per così dire strutturale di fondo:
implicava quella che potremmo chiamare una condizione di leggerezza demografica. In assenza di ruote,
carri, mezzi di trasporto, animali addomesticati o veicoli meccanici, i trasferimenti di singoli e gruppi
dovevano avvenire per forza di cose a piedi, e soprattutto per le donne non era agevole trasportare a spalla
più un figlio alla volta, poiché ciò aveva evidentemente un costo energetico non indifferente. Cosicché le
famiglie del paleolitico, a differenza di quelle del mondo contadino, erano normalmente poco numerose,
con un tasso di natalità media stimato intorno ai 2 figli che era ottenuto distanziando le nascite di almeno 4
anni con l’allattamento prolungato al seno (l’amenorrea distanziava naturalmente le nascite inibendo
l’ovulazione), oppure rispettando tabù culturali di astinenza sessuale post-partum, o ancora praticando
l’aborto e l’infanticidio. femminile precoce mirato alla riduzione del potenziale di fecondità del gruppo.

La ridotta consistenza numerica delle popolazioni paleolitiche era favorita anche da una seconda
condizione strutturale, vale a dire dalla ridotta mortalità infantile. Rispetto ai tassi di mortalità registrati
nelle popolazioni agricole successive, infatti, fra i cacciatori-raccoglitori solo una modesta percentuale di
neonati e infanti periva nella prima fase evolutiva. Una contenuta natalità andava cioè a braccetto con una
bassa mortalità e ne costituiva il più evidente e immediato riflesso, secondo il principio caro ai demografi
secondo cui le nascite seguono le morti. (Solinas 1992)

EPIDEMIE E CARESTIE

Nonostante la speranza di vita fosse molto ridotta per i nostri standard, non oltrepassando i 40 anni, le
condizioni di salute erano mediamente più salubri di quelle che noi ci potremmo immaginare. (Cohen, Ellen
1994, Sahlins 1972) Contrariamente al luogo comune che li vorrebbe perennemente affamati e denutriti, i
cacciatori-raccoglitori godevano anzi di un buono stato di salute generale, grazie alla totale assenza di
malattie infettive (sorte solo in seguito col formarsi di aggregazioni umane stanziali), e grazie anche alle
diete variegate nella composizione e ricche di elementi nutrizionali ricavati da una straordinaria conoscenza
botanica, da cui proveniva allo stesso tempo la farmacopea a base vegetale utilizzata per la cura di malattie,
indisposizioni e ferite. Invano, dunque, cercheremo nel mondo primitivo dei casi di collassi demografici o di
crisi epidemiche di proporzioni analoghe a quelle che avrebbero invece ripetutamente martoriato i popoli
contadini e urbani dopo l’adozione sistematica dell’agricoltura, della vita sedentaria e la costituzione di
città ad alta concentrazione abitativa. E così pure invano cercheremo tra i cacciatori-raccoglitori casi di
carestie e collassi dei sistemi alimentari di proporzioni comparabili a quelle che avrebbero assillato il
mondo agricolo e urbano. Casi episodici di flessioni delle disponibilità alimentari con ogni probabilità si
verificarono soprattutto nelle fredde regioni artiche e sub-artiche, ma essi rimasero rari, se non pressoché
sconosciuti, nelle zone temperate e nelle regioni tropicali; e comunque non assunsero mai –per quanto ne
sappiamo- le dimensioni catastrofiche delle carestie osservate nelle civiltà successive.

STRUMENTI

Fondamentale per il benessere dei popoli cacciatori-raccoglitori era il fuoco, l’elemento più antico e
potente mai inventato dagli esseri umani per trasformare il mondo naturale e vera chiave di volta del loro
successo riproduttivo. Noto da 400.000 anni, e quindi da molto tempo prima della sua adozione tra i
sapiens, il fuoco era utilizzato dai nostri primi antenati per un’infinità di usi: per disboscare la vegetazione e
creare radure ove attrarre gli animali, per colonizzare nuovi habitat, per spingere le prede nei burroni o nei
pantani, per tenere lontano gli animali feroci nottetempo, per riscaldarsi, per fabbricare utensili, per
cucinare ottenendo migliore qualità, digeribilità ed efficienza nutrizionale, per cibarsi di un ventaglio di
vegetali, uccelli e roditori molto più ampio di quello altrimenti commestibili, e non ultimo per fissare
culturalmente quella spartizione cognitiva basilare che Levi Strauss avrebbe poi chiamato la distinzione
simbolica tra il crudo e il cotto. Ma fuoco a parte, la strumentazione tecnologica di cui i nostri antenati
disponevano era davvero basilare, componendosi di un esiguo arsenale di attrezzi fatto di lance, archi,
frecce, lame, arpioni, coltelli, clave, sonde, punte scheggiate, propulsori di lancio, ceste, faretre, ami e aghi
per cucire, mentre rudimentali capanne fabbricate con ossa animali, pellami, bastoni, giunchi, bambù o
rattan era quel che passava il convento per i ripari notturni. Gli artefatti e gli attrezzi erano ricavati per lo
più da cortecce, fogliame, liane, legnami, pietre, corna e ossa di animali La fabbricazione degli strumenti e
delle abitazioni non esigeva quindi in sé molto lavoro, né una catena di mansioni operative complesse;
ciascun adulto poteva fabbricarsi da sé i suoi attrezzi in vista del loro uso immediato e non si dava pensiero
di produrre strumenti complessi che avrebbero potuto avere un’utilità in un futuro lontano. I processi della
vita materiale erano principalmente incentrati sul presente e sulla soluzione di bisogni presenti; di riflesso
gli strumenti per la caccia e la raccolta dovevano quindi essere funzionali per dare risposte nel presente.
(Woodburn 1982) Più che negli strumenti in sé -come è stato osservato da numerosi etnografi- il segreto
della sopravvivenza stava nella grande perizia con cui venivano utilizzati, nel modo con cui i protagonisti
sapevano piegare strumenti semplici agli usi più ingegnosi in occasione delle battute di caccia contro
animali giganteschi e pericolosi. (Ellen 1994 in Kuper)

COSMOVISIONE

La cosmo-visione dei diversi gruppi era allora, non diversamente da oggi, incardinata in sistemi
interpretativi costruiti narrativamente in maniera peculiare a seconda della tradizione, dell’esperienza
ecologica e del linguaggio di ciascun gruppo. Malgrado le differenze, tuttavia, era comune tra i cacciatori-
raccoglitori itineranti pensarsi sul piano filosofico come esseri viventi esistenti in natura alla pari degli altri
esseri animali e vegetali; non dunque non come homo faber artefici dei destini del mondo e destinati per
vocazione intrinseca a dominare il mondo animale e vegetale, ma come viventi di uguale dignità degli altri
viventi. Dal fatto di considerare animali e piante come esseri dotati di personalità e dignità al pari di quella
umana, scaturivano tra le altre cose le pratiche di riconciliazione con la natura sotto forma di riti risarcitori
nei confronti delle foreste o del mondo animale che dovevano essere dispiegate in occasione delle battute
di caccia, allorquando i protagonisti si riconoscevano colpevoli del furto o della ferita inferti ad altri esseri
viventi con l’azione venatoria e cercavano di porvi rimedio simbolicamente con atti di risarcimento e
pacificazione rituale. Ma non erano solo gli esseri animali e il mondo vegetale ad essere considerati come
soggetti con proprie personalità; anche fenomeni metereologici come i venti, i tuoni, le piogge o le
tempeste, erano fenomeni interpretati e temuti come espressioni tangibili di esseri dotati di una propria
personalità, di un proprio spirito e di una volitività non troppo dissimile da quelli degli esseri umani, che in
tal modo si sentivano costantemente circondati da un universo magico popolato da spiriti pulsanti nelle
montagne, nei ruscelli, nelle foreste o nelle caverne.

BANDE ACEFALE

I processi di dispersione necessari ad un tipo di vita itinerante portavano i diversi gruppi a specializzarsi nel
tempo negli habitat via via incontrati e ad adattarsi alle sue proprietà fisiche e climatiche. Man mano si
distaccavano gli uni dagli altri, i diversi nuclei di cacciatori-raccoglitori assumevano quindi tratti peculiari e
differenziati non solo sul piano linguistico e culturale ma anche sul piano delle forme di mobilità, di
insediamento abitativo e di strutturazione della vita sociale interna. V’era però una modalità organizzativa
che meglio di altre si attagliava alle esigenze di costante movimentazione e dispersione territoriale e che
quindi possiamo considerare come la modalità di organizzazione sociale tipica delle popolazioni
paleolitiche. Era la banda cosiddetta “acefala”, ovverosia senza testa, priva di un capo in grado di esercitare
poteri di coercizione sugli altri membri del gruppo. La banda acefala non prevedeva la presenza di alcuna
autorità o istituzione preposta al comando, né ceti di rango superiore o altri apparati di dominio
centralizzato. Normalmente era un’aggregazione di minuscole dimensioni -qualche decina di unità- che
gestiva le relazioni interne e i comportamenti individuali attraverso sistemi di controllo reciproco
essenzialmente di tipo informale. Grazie alla minuscola dimensione del gruppo era infatti possibile per
ciascuno dei suoi componenti intrattenere rapporti faccia a faccia con tutti gli altri controllando di persona i
loro comportamenti. Ogni qual volta si rendeva necessario decidere in merito a faccende importanti per la
sussistenza collettiva, la presa di decisioni avveniva perciò in maniera collegiale, dopo lunghe discussioni
volte a trovare l’assenso di tutti i componenti. L’esercizio dell’autorità si riduceva quindi al prevalere
informale dell’opinione di qualcuno attorno alla quale si formava un convincimento collettivo (Fabietti
1992) Ma meccanismi quali la derisione, l’ironia o lo scherno facevano altresì parte della fisiologia del
controllo sociale informale ed erano continuamente utilizzati negli scambi personali al fine di allentare
frizioni, biasimare errori o condannare atteggiamenti potenzialmente pericolosi. Solo nei casi dei più gravi
delitti, il giudizio collettivo si risolveva in misure drastiche, arrivando a decretare l’allontanamento e
l’esclusione fisica dal gruppo, la sua “morte sociale”.

La banda non aveva quindi una precisa gerarchia sociale intestina e la sua vita ordinaria, tanto al proprio
interno come nei rapporti con le altre bande, si distingueva per un grado veramente minimo di
configurazione politica e soprattutto per un’estrema fluidità organizzativa, che lasciava aperta la possibilità
per individui e famiglie di passare da una banda all’altra. In assenza di poteri di coercizione vincolanti, nulla
e nessuno poteva infatti impedire che i singoli decidessero da un giorno all’altro di trasferirsi
nell’accampamento della banda vicina, per poi fare magari ritorno successivamente a quella originaria,
senza particolari complicazioni o intoppi di sorta. Col risultato che la composizione delle singole bande
mutava frequentemente, senza particolari ripercussioni e sconvolgimenti sugli equilibri interni. La fluidità
era, anzi, un meccanismo prezioso e intenzionalmente incentivato per tenere a freno i potenziali distruttivi
legati all’insorgere di dissapori e screzi personali; aiutava a preservare l’armonia, l’equilibrio e la coesione
del gruppo nei momenti di maggior tensione. Il poter passare con facilità da una banda all’altra permetteva
di far decantare situazioni di contrasto, sedare dispute e impedire l’esplodere di lotte fratricide; aiutava,
insomma, a preservare la tenuta del gruppo, fattore cruciale per la sua stessa possibilità di sopravvivenza.
La fluidità era motivata anche da un’altra ragione: i costumi di intercambio matrimoniale fra i gruppi
prevedevano che i giovani di ciascuna banda andassero a sposare membri di bande diverse dalla propria; al
momento del matrimonio, essi dovevano quindi lasciare la propria unità per andare a vivere con la banda
del coniuge, che solitamente era quella del marito. Visto nel suo complesso il mondo dei cacciatori-
raccoglitori non era quindi semplicemente costituito da una collezione di bande isolate, autonome e del
tutto autosufficienti, essendo bensì composto da nugoli di bande unite le une alle altre da fitti scambi
matrimoniali, condivisioni rituali e legami di parentela che favorivano la mutua frequentazione e la
possibilità di trasferimenti utili all’alleggerimento di qualsiasi tipo di pressione e difficoltà.

GUIDE

Nelle bande di cacciatori primitivi non v’erano dunque re, sovrani, governatori o feudatari di sorta in grado
di imporre la propria volontà; né v’erano forme di dominio strutturato di una banda su altre bande. Le
bande itineranti erano egualitarie nel senso più letterale del termine. Tutto il loro universo di codici di
comportamento, pratiche e relazioni, all’interno e all’esterno, era funzionale al mantenimento di un regime
di uguaglianza politica ed economica. Non si ritrovavano pertanto nelle bande né casi di disuguaglianza
economica, intesa come appropriazione e distribuzione strutturalmente diseguale delle risorse, né di
dominanza politica, intesa come la facoltà di comando esercitata con la forza per assoggettare gli altri alle
proprie volontà. Quel che poteva ritrovarsi nelle bande erano forme embrionali di distinzione sociale, che
rendevano alcuni soggetti più autorevoli di altri e degni di ascolto in virtù delle capacità e delle abilità
dimostrate nel corso della vita. Le figure ritenute degne di maggior ascolto potevano avere un’influenza
sulla banda in particolare in ordine a due sfere: la prima era quella della gestione dei processi di vita
materiale, e dunque relativamente alla presa di decisioni in merito a trasferimenti, battute di caccia, ricerca
di territori fertili, aggregazioni o separazioni con altri gruppi. In questo caso le figure più ascoltate erano
coloro che avevano saputo dimostrare maggior intraprendenza, lungimiranza e sagacia nella pratica della
caccia e della raccolta. Insieme a loro rivestivano un ruolo sociale rispettato le personalità che si
distinguevano invece per le loro capacità di dominare la sfera che potremmo chiamare spirituale, che
sapevano cioè interpretare, spiegare e predire le disavventure umane in virtù di conoscenze speciali e
saperi esoterici inaccessibili ai più. Tali conoscenze derivavano dalla speciale propensione ad avere sogni
notturni, visioni, apparizioni o stati di trance che partorivano immaginari e predizioni attraverso le quali si si
poteva dare risposta agli interrogativi sulle grandi questioni della vita: le ragioni della nascita, della morte,
della malattia, o delle situazioni di catastrofe individuale o collettiva imprevista; figure dunque che oggi noi
chiameremmo divinatori, oracoli, sciamani o druidi, soggetti in grado di intrattenere rapporti diretti con
spiriti e mondi inaccessibili ai profani, di comunicare coi defunti e di influenzare in tal modo i sistemi di
credenza, le paure, le speranze e le scelte delle comunità.

Eppure, sia la voce dei cacciatori più provetti sia quella dei divinatori erano degne di ascolto solo in alcuni
momenti della vita sociale e in funzione di precisi scopi, venendo meno non appena quei momenti erano
passati e quegli scopi raggiunti. Per il resto, cacciatori provetti e divinatori non si differenziavano da tutti gli
altri, né sul piano economico né sul piano politico; si procuravano da vivere come gli altri, partecipavano
alle battute di caccia come gli altri, dormivano nelle stesse abitazioni, mangiavano lo stesso cibo, e a parte
orpelli, collane e parafernalia indossati in occasioni rituali, vestivano nello stesso modo degli altri.
LA LOGICA DELLA RECIPROCITA’

Nel quadro dello stile di vita itinerante, la preservazione di rapporti di uguaglianza prevaleva, insomma, su
qualsiasi altro tipo di logica e in particolare sulla logica che noi oggi definiremmo economica, vale a dire
sulla ricerca del massimizzazione del profitto e del guadagno individuale. A ben guardare, anzi, tra i popoli
cacciatori-raccoglitori non esisteva nemmeno una sfera economica vera e propria, intesa come un ambito
d’azione separato e indipendente dal resto della vita sociale. L’azione economica era sempre subordinata
alle regole della buona condotta sociale, intrinsecamente incorporata (embedded) nel flusso della vita
sociale, assoggettata ad una trama di costumi tradizionali, vincoli e abitudini che prescrivevano di non
ambire a posizioni dominanti e non avere comportamenti egoistici improntati all’avidità individuale.
(Polany, Sahlins, Mauss) Le propensioni all’arricchimento personale erano perciò comunemente biasimate
e tenute sotto stretto controllo in quanto minacce potenziali. Accumulare beni ad esclusivo beneficio
individuale era considerato improprio e tutti gli attori erano chiamati a cooperare, condividendo il cibo
disponibile e rispettando un principio generale di reciprocità che prevedeva un dovere morale
consuetudinario di dare a colui che chiedeva di avere, ma anche quello di ricevere e poi di restituire. Il
triplice obbligo morale “dare-ricevere-restituire” induceva quindi gli attori a scambiarsi continuamente
oggetti pensati e descritti come doni e contro-doni, non come merci di scambio; creava quindi, dentro la
banda e nei rapporti fra bande, un via vai continuo di beni e manufatti di ogni tipo -frecce, piume,
conchiglie, accessori, bastoni, archi, pipe- che erano interpretati come doni reciproci in ossequio al costume
della reciprocità.

Secondo il celebre schema proposto da Sahlins, la regola della reciprocità non vigeva allo stesso modo per
tutti i tipi di rapporti sociali e calava d’intensità man mano aumentava la distanza parentale fra le persone.
Una reciprocità generalizzata contrassegnava perciò i rapporti tra i parenti stretti, traducendosi in atti di
donazione senza bisogno di contropartita immediata e senza calcolo del valore dei beni erogati, con un
atteggiamento di pooling totalmente aperto, per cui si dava ciò che si aveva e si restituiva quel che si
poteva quando si poteva. La reciprocità diventava reciprocità equilibrata nelle relazioni tra parenti e alleati
più lontani, esigendo una contropartita di valore equivalente rispetto a ciò che si era donato. E infine la si
tramutava in reciprocità negativa nel punto più esterno del sistema di relazioni, ovverosia nelle relazioni
con gli estranei, coi quali si poteva cercare di rosicchiare dallo scambio di doni più di quel che si offriva.

Il funzionamento del triplice obbligo di dare-avere- restituire creava nelle società primitive i presupposti
della vita sociale, forgiava rapporti di alleanza e cementava legami mutualistici tra le famiglie; generava, in
una parola, la società umana, era il primo, fondamentale atto istitutivo della convivenza umana. In questo
senso noi possiamo asserire che i sistemi sociali basati sulla condivisione e la reciprocità furono i primi, i più
antichi, i più basilari e i più longevi sistemi di solidarietà umana, dal momento che le logiche della
condivisione e della reciprocità sarebbero poi rimaste in vita, ancorché con diverse modalità e con
consistenti mutazioni, in tutte le società umane succedutesi da allora sino ai nostri giorni. Come nelle
società dei cacciatori primitivi, anche nelle formazioni sociali successive -agricole, pastorali, industriali e
post-industriali-, le pratiche sociali della condivisione e della reciprocità avrebbero continuato a costituire il
primo, più immediato e basilare dispositivo di cura reciproca delle persone e di prevenzione
dell’impoverimento, dell’insicurezza materiale e dell’isolamento degli individui e delle famiglie.
IL CONTROLLO DEL PREDOMINIO INDIVIDUALE

Il regime di uguaglianza delle società paleolitiche esigeva uno stretto controllo dei tentativi di predominio
politico individuale; il che non era difficile in presenza della possibilità concessa a tutti in egual misura di
accedere alle tecnologie in uso e alle risorse naturali disponibili. (Harris 1991) Tutti i maschi adulti potevano
fabbricarsi da soli gli strumenti che volevano e il possesso di armi potenzialmente letali disincentivava di
per sé eventuali tentativi individuali di imporsi sugli altri con atti di forza. Non essendo sottoposte al
controllo vincolante di chicchessia, le attività di caccia e raccolta potevano svolgersi a piacimento per
iniziativa individuale e spontanea di chiunque; qualsiasi individuo, da solo o in gruppo, poteva in qualsiasi
momento prendere e andare a cacciare e garantirsi in tal modo la sopravvivenza senza dover dipendere o
prendere ordini superiori da altri. (Woodburn 1982)

Il mantenimento di rapporti di uguaglianza e il rispetto dei costumi della condivisione e della reciprocità
non erano però dati invariabili, stabiliti per sempre e acquisiti da tutti una volta per tutte; come tutti i
vincoli morali e i codici di comportamento umani, non erano esenti da rischi di trasgressione, infrazione e
sotterfugio. Dovevano essere quindi continuamente ribaditi e riattualizzati attraverso meccanismi culturali
di contenimento degli egoismi individuali utili a prevenire il rischio che qualcuno prendesse il sopravvento
sul gruppo instaurando una gerarchia potenzialmente fonte di dissapori e seri conflitti.

INIBIZIONE DELLE PRETESE DEI CACCIATORI

Tra tutte, le figure che più pericolose per il mantenimento dell’uguaglianza erano quelle economicamente
più produttive, cioè i cacciatori esperti. Il rischio che un cacciatore esperto prendesse il sopravvento sugli
altri grazie alle sue abilità venatorie era neutralizzato col ricorso a diversi escamotages culturali congegnati
proprio allo scopo di livellare i rapporti tra le persone e ridurre al minimo le asimmetrie materiali fra di
esse. Un primo escamotage stava nell’uso popolare di deridere le espressioni di vanto e di presunzione
individuale che i cacciatori più esperti potevano esibire in occasione dei propri successi venatori.
(Woodburn 1980, 1982, 1998). Per impedire che si montassero la testa, gli altri membri del gruppo
evitavano intenzionalmente di dar loro troppa importanza quando si presentavano all’accampamento col
carico di prede in spalla, pur sapendo fin troppo bene quanto fosse di vitale importanza per la sussistenza di
tutti (Turnbull 1966, Woodburn 1982, 1998). Parte del bottino ottenuto con la caccia veniva consumato
abitualmente dai cacciatori subito dopo la cattura della preda, ma parte veniva riportata all’accampamento
della banda, ove veniva suddivisa fra i presenti secondo precise procedure rituali. (Woodburn 1968, Lee
1979) Allo scopo di evitare che il cacciatore si montasse la testa, si faceva in modo che la carne procurata
fosse simbolicamente separata da colui che l’aveva procacciata, impedendo all’autore dell’atto venatorio di
donarla direttamente agli altri membri della comunità. Chi portava a casa la preda non poteva cioè essere
la stessa persona che la macellava e la distribuiva, onde evitare appunto che potesse trarne motivi di
predominio. Spettava quindi ad altre figure -la moglie, i figli o più spesso colui che aveva fabbricato le
frecce che avevano colpito l’animale e che le aveva donate o date in prestito al cacciatore- provvedere alla
spartizione. (Bodenhorn 2000; Endicott 1988, Bird-David 2017).

In una soluzione simbolica ancor più radicale, le potenziali ambizioni del cacciatore erano neutralizzate alla
radice, considerando culturalmente la selvaggina come un dono che il gruppo aveva avuto direttamente
dalla natura, o come un atto di generosità di uno specifico essere spirituale o dello stesso animale ucciso,
che aveva scelto spontaneamente di immolarsi per venire incontro al bisogno dell’essere umano; con il che
si escludeva ex ante ogni possibilità di rivendicare qualsivoglia tipo di merito. (Bird-David 1990; Bodenhorn
2000b; Ingold 1996; Jackson 1995; Naveh 2007; Tanner 1979)
SENZO DI PROTEZIONE DALL’INSICUREZZA

Le procedure rituali di spartizione del cibo non implicavano in realtà una distribuzione esattamente
paritetica del cibo, ma la condivisione fra tutti coloro che avevano bisogno di cibo creava un potente
dispositivo di protezione della sicurezza alimentare per l’intero gruppo. Se infatti il pezzo più grande della
carne cruda giunta all’accampamento andava a colui che aveva ucciso l’animale, le parti restanti venivano
sempre distribuite agli altri membri della fortunata battuta, che a loro volta provvedevano a distribuirle ai
restanti componenti della banda. Dopodiché un’ulteriore spartizione avveniva anche dopo che la carne era
stata cotta. In tal modo anche coloro che quel giorno non avevano avuto successo nella ricerca di animali, o
che per altre ragioni non erano stati in grado di procacciarsi il cibo, avevano sempre assicurata la possibilità
di nutrirsi e da tale certezza derivava un clima di coesione e solidarietà che inibiva alla radice l’insorgere di
gravi tensioni e di conflitti insanabili.

SHARING

In situazioni in cui era complicato accantonare riserve alimentari e prevedere quali e quante risorse che si
sarebbero rese disponibili in futuro, la condivisione rappresentava dunque una strategia razionale di
gestione collettiva del rischio, dal momento che non solo favoriva l’unità del singolo gruppo e incentivava
gli scambi fra i suoi membri, ma favoriva anche l’intercambio di informazioni utili fra i diversi gruppi e
aumentava il loro grado di benessere nutrizionale complessivo. E continuava ad essere razionale anche
quando non si traduceva in una ripartizione paritetica degli alimenti (Kaplan & Hill 1985) o non implicava
all’atto pratico una restituzione equivalente da parte dei riceventi, dato che qualcuno poteva comunque
approfittarsi della generosità altrui senza ricambiarla compiutamente oppure trovarsi nell’oggettiva
impossibilità di farlo. (Bird-David 2005; Peterson 1993; Widlok 2004, 2013, 2017; Woodburn 1998). Nelle
situazioni d’incertezza in cui il cibo poteva scarseggiare in certi momenti e poi arrivare all’improvviso in
grandi quantità per essere suddiviso in piccole porzioni, era comunque preferibile mettere in conto che
qualcuno facesse lo scroccone piuttosto che mettere a repentaglio la coesione del gruppo escludendo il
singolo dal consumo collegiale. (Blurton Jones 1984,1987)

Nella cultura della banda primitiva condividere era perciò un dovere morale a prescindere,
indipendentemente dal fatto che altri lo praticassero con lo stesso zelo e che l’atto della condivisione fosse
poi effettivamente e pariteticamente ricambiato. Colui che aveva catturato una preda o raccolto un cesto di
frutti si sentiva in dovere di farne partecipi i presenti al momento della ripartizione, indipendentemente
dalla loro capacità o volontà di ricambiare in futuro. Era una questione di reputazione, un fatto di onore, un
tema di prestigio sociale, almeno tanto quanto l’abilità nel cacciare; al punto che apparire magnanimi,
prodighi e generosi nei confronti degli altri, oltre che periti cacciatori, diventava motivo di sfida e
competizione tra i soggetti più produttivi. (Hawkes 1991, 1993a; Hawkes & Bliege Bird 2002, Hawkes et al.
2014).

Anche se la condivisione non era l'unica modalità di trasferimento delle risorse, era quindi un modello di
condotta sociale onnipresente, essenziale al senso stesso di identità della persona e alla sua possibilità di
essere riconosciuto come realmente appartenente ad una rete di parenti. Bisognava condividere per poter
sostanziare i legami di parentela (Myers 1986, 104). Condividendo si dimostrava di essere veri parenti e si
alimentava la spirale di mutualità che manteneva vivi i legami. (Bird-David 1999, 73)
INTIMITA’

Il senso di protezione e sicurezza scaturiva non solo dalla condivisione rituale del cibo. Essa era al contempo
un portato della natura stessa della vita di banda, del fatto di coabitare costantemente gli uni a pochi metri
dagli altri e di prendersi cura abitualmente gli uni dei figli degli altri, coinvolgendo i ragazzi più grandi nella
cura dei bambini più piccoli. La condivisione era condivisione anche degli aspetti più immateriali della vita
quotidiana, quali le sedute sciamaniche, le recitazioni quotidiane di narrazioni mitiche, le rievocazioni e i
racconti alla fine di ogni giornata, le continue ilarità e gli scherzi volti a stemperare momenti di aggressività
e ricomporre litigi, e soprattutto i canti collettivi notturni, le danze rituali e le rappresentazioni rupestri che
di esse venivano fatte. Le danze collettive e le loro rappresentazioni -nelle caverne, sulla sabbia o sulle
pareti-, erano elementi essenziali per la formazione delle identità e delle memorie dei gruppi grazie alla
rappresentazione e condivisione visiva della propria immagine. L'identità e le memoria dei gruppi si
formavano infatti condividendo l'immagine del gruppo che eseguiva la danza non meno che condividendo
la danza stessa. L'arte rupestre era il mezzo che permetteva al gruppo di condividere una certa idea si sé
stesso non solo al proprio interno, ma in definitiva anche con qualsiasi spettatore. (Honoré in Noa Lavi &
David E. Friesem)

La condivisione in tal modo non solo univa le persone e formava relazioni, creava anche un'identità
condivisa del noi, una sorta di sé esteso, non rinchiuso in sé stesso e rigidamente blindato nei propri confini
parentali, potendo espandersi elasticamente nella misura in cui le pratiche di commensalità coinvolgevano
esterni che, per qualche ragione, venivano a ritrovarsi in presenza di una spartizione. L’universo delle
relazioni si costruiva a partire dalla discussione su che condivideva e chi non condivideva; la vita quotidiana
era un dibattito costante sul condividere e non condividere. Gli studi più recenti pubblicati sul tema hanno
sottolineato come la condivisione tra i popoli cacciatori-raccoglitori non riguardi unicamente la sfera del
cibo e debba essere vista in una prospettiva più ampia, considerando anche altri aspetti intangibili connessi
alla vita delle "società indigene di piccola scala", a cominciare dalla compartecipazione degli spazi abitativi,
dell’intimità, dei tempi di vita, della presa di decisioni, della percezione dell’ambiente. Estendendo il nostro
sguardo anche a questi aspetti, comprendiamo come la condivisione non fosse in prima battuta l’esito
dell’applicazione di una regola formalizzata o di una norma prescrittiva standardizzata, quanto piuttosto il
portato di uno specifico stile di vita, tipico del gruppo di piccola dimensione itinerante, del fatto di condurre
un’esistenza a stretto, costante contatto gli uni con gli altri nell’ambito della quale la sopravvivenza degli
uni dipendeva dalla sopravvivenza degli altri. In queste condizioni la pressione a condividere prima ancora
di un insegnamento esplicito, era “sentita” attraverso la compresenza, la co-residenza, la coabitazione
continua dei medesimi spazi, delle medesime risorse e la continua compartecipazione sensoriale alla vita
dell'altro. L’attitudine alla condivisione nasceva cioè in prima battuta dal fatto stesso di vivere insieme ogni
aspetto della vita nei medesimi insediamenti, dall’abitare nelle stesse case, dal dormire negli stessi letti,
dalle interazioni interpersonali continuative, dal contatto fisico, epidermico coi propri vicini. La condivisione
del medesimo spazio fisico -durante il giorno e durante la notte-, l'alta frequenza dei rapporti quotidiani,
ma anche la cura congiunta di malati e all’allevamento condiviso dei bambini creavano un ambiente “iper-
relazionale” intimo e omogeneo, in cui tutti erano interconnessi in modo unico e multiplo a tutti gli altri; un
ambiente allo stesso tempo biologico, psicologico e culturale, che per sua natura favoriva l’apprendimento
di comuni conoscenze e comuni modelli culturali e lo sviluppo di atteggiamenti di fiducia ed empatia che
rendevano possibile l’inclinazione a dare aiuto senza necessariamente ricevere un ritorno. L’iper-
relazionalità connessa alla compagnia quotidiana creava infatti continuamente opportunità di chiedere (agli
altri), di rispondere (agli altri) e di lasciar andare (per gli altri). La condivisione costante della compagnia
creava in tal modo uno speciale senso di connessione e di gioia del vivere per effetto delle esperienze
emotive positive reiterate.
LA PRIMA SEDENTARIZZAZIONE

(PESCATORI E RACCOGLITORI POLIVALENTI)

MOVIMENTI E MIGRAZIONI

Nel corso dei loro spostamenti periodici i gruppi di cacciatori non si muovevano come dei nomadi
nell’accezione più letterale del termine, in maniera cioè del tutto casuale, caotica e avventurosa; in genere
seguivano invece una logica di transumanza “peripatetica”, che prevedeva l’alternarsi di cicli di movimento
e dispersione territoriale, durante i quali ciascuna banda se ne andava per conto suo a svolgere
autonomamente attività di caccia e raccolta, seguiti da periodi di riaggregazione territoriale con le altre
bande in un’area di riferimento comune, ove insieme davano vita periodicamente a cerimonie, convivi,
eventi rituali e matrimoni, dal momento che le unioni matrimoniali –come abbiamo visto- dovevano
svolgersi tra membri di bande diverse. Tipicamente le fasi di dispersione e di riunione si succedevano in
corrispondenza delle stagioni di massima e minima disponibilità stagionale di risorse naturali. Specialmente
nelle zone fredde e nelle regioni artiche e subartiche, del resto, i gruppi non avevano molta scelta:
dovevano per forza lasciare l’accampamento all’arrivo delle stagioni calde per procurarsi da vivere nelle
zone ove avevano attrezzato bivacchi per l’avvistamento, la cattura e la macellazione degli animali, per poi
ritrovarsi nelle stagioni fredde al campo base in cui avevano ammassato sotto i ghiacci le riserve di carne
catturata. Come facevano i cacciatori di caribù Nunamiutl studiati da Binford (1978, 1983). L’esigenza di
inseguire ungulati in movimento, bisogno di trovare fonti d’acqua e l’esigenza di assecondare i cicli di
maturazione vegetale e soprattutto l’esigenza di trovare nuovi habitat quando quelli abituali cominciavano
a dar segni di depauperamento o diventavano inagibili per qualche fattore ambientale, spingeva spesso i
cacciatori ad andare oltre i circuiti usuali per esplorare nuovi lidi e terre ignote, dando vita così ad un
processo di progressivo allontanamento dal punto di partenza originario che poteva sfociare in un
definitivo reinsediamento in un nuovo territorio, man mano nuovi spazi ecologicamente e climaticamente
più vantaggiosi di quello di provenienza venivano scoperti. Sul lunghissimo periodo, vale a dire nel corso di
migliaia d’anni, tale processo di lenta deriva geografica portò a ripetute ramificazioni dei nuclei originari
con l’allontanamento per fissione dei gruppi gli uni dagli altri; determinò quindi un distanziamento sempre
più marcato fra i gruppi che allontanandosi geograficamente presero strade diverse sotto il profilo
linguistico, culturale e genetico, dando origine al proliferare delle migliaia di lingue, costumi e abiti culturali
che in misura non irrilevante ritroviamo ancor oggi sparpagliati sul pianeta.

PRIMA SEDENTARIETA’ (Testart 1982, 1988, Woodburn 1980, 1982)

Nel corso di questo processo di progressiva esplorazione di nuovi habitat i gruppi più fortunati si
imbattevano in nicchie ecologiche particolarmente generose, ove i frutti della flora e della fauna erano non
solo abbondanti, ma anche regolarmente presenti, facendo la loro comparsa puntualmente, stagione dopo
stagione, anno dopo anno. Ciò poteva succedere nei pressi di corridoi di passaggio di bisonti, renne o
caribù, che non mostravano segni di rapido esaurimento nel tempo rivelandosi una costante e prevedibile
fonte di approvvigionamento tutti gli anni; così come poteva succedere quando ci si ritrovava su pianure e
colline ricoperte da boschi particolarmente rigogliosi di ghiande, nocciole o palme da frutto, che potevano
esser sfruttate con profitto per larga parte dell’anno, come avrebbero fatto gli indiani della California, i
raccoglitori di palma di sago nel Sud est asiatico (Giusti, Ellen 1994) o i natufiani di Gerico, che nell’attuale
Giordania diedero vita a quello che fu con ogni probabilità il primo insediamento sedentario del Medio
Oriente, migliaia di anni prima che l’agricoltura stanziale avesse origine. Il fortunato incontro con risorse
abbondanti capitava però soprattutto ai gruppi che nel loro peregrinare si imbattevano in corsi d’acqua
dolce, laghi, territori paludosi e soprattutto litorali marittimi che oltre a rendere agevoli i trasporti,
offrivano grandi quantità di pesci, tartarughe, molluschi, uccelli o piccoli mammiferi la cui abbondanza
consentiva di fare a meno della caccia grossa. Soprattutto nel loro caso la presenza di risorse naturali
abbondanti, facilmente accantonabili e conservabili in cospicue quantità per far fronte a stagioni di
inattività, dava inizio ad un cambiamento rilevante nelle loro modalità abitative: pur continuando a vivere
essenzialmente come raccoglitori, e quindi senza diventare agricoltori, cominciavano a sedentarizzarsi. Tra
i contemporanei l’esempio etnografico più emblematico e più frequentemente menzionato per esemplificare
questa situazione è quello del popolo Kwakiutl, pescatori di salmoni della costa nordoccidentale del Nord
America divenuti famosi tra gli antropologi per i clamorosi banchetti ostentatori con cui periodicamente
dissipavano ogni ben di Dio posseduto, dilapidando coperte, canoe, tessuti e derrate alimentari al fine di
dimostrare il proprio grado di opulenza. Situazioni analoghe a quella degli indiani della costa nord ovest
della British Columbia, sono state ritrovate tra gli Aiunu del Giappone, in alcuni popoli della siberia
meridionale o delle coste dell’Egitto e dell’Eritrea affacciate sul Mar Rosso. Analogamente, i reperti
archeologici ritrovati nella regione cantabrica, a cavallo tra il sud della Francia e il settentrione della
Spagna, testimoniano l’esistenza di popolazioni di raccoglitori demograficamente consistenti e
tecnologicamente avanzate lungo le coste e i fiumi della regione che vivevano principalmente di pesca e
raccolta di mitili. Ma caratteristiche simili ebbero anche le società di pescatori marittimi come quelle
dell’Australia o delle Isole Andamane, che grazie all’accesso alla risorse marine potevano disporre di una
dieta ricca di pesci, molluschi e crostacei, al punto che Sauer teorizzò che proprio i pescatori furono i primi
popoli a sedentarizzarsi, avendo grandi e permanenti biomasse marine a disposizione che riducevano
l’impatto della stagionalità ed esoneravano dai vincoli demografici e tecnologici connessi alla vita
nomadica. (Sauer cit in Ellen 1994)

RESA DIFFERITA

Accanto al prototipo della banda mobile, leggera, cooperativa, orientata a una “resa immediata” delle
attività lavorative e al “consumo immediato” dei suoi frutti, videro così la luce già in epoca paleolitica
società che per comodità espositiva potremmo chiamare di “pescatori e raccoglitori polivalenti”. Pur
restando sostanzialmente pre-agricole, o non agricole, queste società mostravano nondimeno i segni di un
progressivo avvicinamento a modi di vita stanziale, dando origine a strutture sociali più complesse di quelle
delle bande, caratterizzate per la prima volta dalla comparsa forme incipienti di stratificazione sociale.
Potendo contare in maniera continuativa su risorse ittiche abbondanti, i pescatori e raccoglitori polivalenti
naturalmente non stravolgevano da un giorno all’altro lo schema della mobilità peripatetica originaria, ma
lo adattavano gradualmente ai nuovi habitat. Spesso, per esempio, fissavano un centro di residenza stabile
in prossimità della maggior fonte di risorse acquatiche e da lì poi partivano periodicamente per spedizioni
di caccia e raccolta in altre direzioni al fine di procacciarsi altri tipi di risorse vegetali o faunistiche che non
erano reperibili in loco, facendo però sempre ritorno al medesimo centro di partenza, ove il raccolto delle
spedizioni veniva stoccato in previsione della stagione meno favorevole. Essi sviluppavano in tal modo
sistemi produttivi che con Woodburn potremmo chiamare a “resa differita” alquanto diversa dai sistemi a
resa immediata delle bande mobili (Woodburn). Organizzando le proprie attività in funzione di raccolti
fruibili non nell’immediato ma a distanza di qualche tempo, infatti, trovavano ragionevole investire tempo
ed energie nella costruzione di utensili e strumenti che non erano d’immediata utilità, ma che risultavano
redditizi per l’estrazione, la custodia o la trasformazione dei cibi sul medio o lungo periodo. I pescatori e
raccoglitori polivalenti si dedicavano così a costruire barche, reti, trappole, nasse, gabbie o recinti, in
prospettiva di una resa che sarebbe venuta non subito ma al momento giusto. Attraverso strumenti di
pesca, caccia e raccolta più elaborati di quelli usualmente utilizzati dalle bande predisponevano quindi
sistemi produttivi più complessi che implicavano una programmazione basata su un’attenta osservazione
dei cicli naturali, una preparazione elaborata e collaborativa e congegnati per essere il più possibile durevoli
ed efficienti in funzione della cattura, della lavorazione, della macellazione e dell’immagazzinamento degli
alimenti. (Scott) Gli incentivi a una residenza permanente nel luogo prescelto aumentavano ulteriormente
quando lo sfruttamento del nuovo habitat richiedeva apparecchiature particolarmente elaborate e
dispostivi non facilmente smontabili e trasportabili da un posto all’altro, per via del loro volume, del loro
peso o delle loro caratteristiche edilizie, come nel caso di terrazzamenti, muri di contenimento, dighe,
palizzate o recinti. In queste condizioni lo stile di vita dei pescatori e raccoglitori polivalenti acquisiva
rapidamente i tratti di una sedentarietà sempre più spinta che non tardava a sfociare nella costruzione di
veri e propri villaggi, fatti non più di precarie capanne coperte di pelli e fogliame, ma di vere case, edifici e
monumenti fatti di pietra, architravi e mattoni di fango. Si formarono così gli insediamenti stanziali più
antichi che ci sono noti in luoghi come le pianure alluvionali comprese fra il Tigri e l’Eufrate in Mesopotamia,
lungo la costa orientale della Cina, sulle rive del fiume Indo, nell’area paludosa di Teotihuacan in Messico o
sul lago Titicaca in Perù. (Scott)

LA CRESCITA DEMOGRAFICA

La combinazione di abbondanza di risorse, possibilità di conservazione e residenza sedentaria, prima o poi


generava a sua volta un’altra conseguenza di non poco conto, poiché innescava una tendenza sino ad allora
sconosciuta per la specie umana ad accrescere i volumi demografici del gruppo. Per sua natura, infatti, la
vita sedentaria in condizioni di abbondanza alimentare induceva le famiglie ad essere più prolifiche rispetto
ai parametri consuetudinari delle bande itineranti. Accresciuti volumi demografici, a loro volta, andavano a
costituire un ulteriore fattore di stimolo all’intensificazione delle produzioni ittiche, venatorie o estrattive,
in risposta all’accresciuta domanda di bocche da sfamare; e obbligavano quindi gli attori ad una più attenta
pianificazione delle iniziative di procacciamento del cibo e alla continua ricerca di tecniche di estrazione
sempre più efficaci, specializzate e produttive; portavano, insomma, alla trasformazione di quelli che in
principio erano dei “sistemi di predazione” dell’ambiente in “sistemi di regolazione” dell’ambiente, o in
forma preventiva -cercando cioè di mantenere, concentrare o espandere le condizioni di crescita e
riproduzione di piante e animali-, o in forma retrospettiva cercando di preservare le risorse ottenute
mediante un immagazzinamento sistematico. (Ellen)

L’INTENSIFICAZIONE PRODUTTIVA

Spesso l’intensificazione delle produzioni comportava tra le altre cose lo sviluppo di schemi strutturati di
cooperazione tra i produttori e l’identificazione di figure deputate al coordinamento e alla direzione di
lavori di squadra, nonché la suddivisione di mansioni e ruoli produttivi più precisamente definiti rispetto a
quelli delle bande itineranti. Nella caccia alla balena, per esempio, la preparazione delle operazioni di
arpionaggio e l’azione delle squadre impegnate in alto mare, richiedevano necessariamente una figura
deputata a impartire gli ordini e sincronizzare il lavoro collettivo dei pescatori. Nelle società di pescatori e
raccoglitori polivalenti emergevano così dalle pratiche produttive figure leader a cui erano riconosciute
diritti di acquisizione e controllo delle risorse maggiori rispetto a quanto era concesso agli altri membri
delle comunità. Per far riferimento nuovamente all’esempio classico degli indiani della British Columbia, il
leader incaricato di presidiare l’organizzazione della attività di pesca aveva diritto ad un’abitazione più
grande rispetto a quelle degli altri ove si depositavano le attrezzature di lavoro e le riserve di beni raccolti
che formavano la dispensa collettiva a cui le famiglie potevano attingere in caso di crisi o carestia. Nella
casa del leader erano poi ospitati coloro che lavoravano oggetti e manufatti a cambio degli alimenti
accumulati analogamente a come si faceva con i giovani mobilitati a difesa del villaggio in occasione di
contenziosi con altri villaggi. (Giusti)
LA DIFFERENZIAZIONE SOCIALE

Facevano così la loro comparsa nelle società dei pescatori e raccoglitori polivalenti manifestazioni di
diseguaglianza economica e stratificazione sociale sconosciute nel mondo delle bande, che differenziavano
tra loro le famiglie in ragione del ruolo svolto nel sistema produttivo, della diversa entità delle risorse
naturali fruttate e del diverso successo ottenuto nel loro sfruttamento. Il formarsi di forme di
disuguaglianza economica non implicava necessariamente il costituirsi di sistemi di proprietà privata, non
almeno così come noi oggi la concepiamo, cioè come facoltà esclusiva di possesso e cessione di un bene
sancita da un corpus di diritti istituzionalizzati. Spesso prendevano piuttosto la forma di diritti d’accesso e
consumo privilegiato (proprietorship) su di aree produttive in cui una famiglia o un gruppo di parenti si
adoperava più di altri per la conservazione e la riproduzione, senza che ciò conferisse loro tuttavia un diritto
di utilizzo in esclusiva. L’area poteva rimanere aperta alla possibilità di sfruttamento di altri in seconda
battuta, ma in via prioritaria spettava alla famiglia che si era presa cura del luogo il diritto di attingere per
prima ai suoi frutti, giacché ne aveva curato la produzione in termini di custodia ecologica e di
organizzazione dei sistemi di estrazione delle risorse. Il sistema della proprietorship, come ha mostrato
Grier, era strettamente funzionale alla preservazione delle risorse ittiche, alla protezione della biodiversità
e alla manutenzione delle migliorie apportate al sistema produttivo mediante la presa in carico di uno
specifico spazio naturale da parte di uno specifico gruppo familiare che col suo lavoro evitava il suo
depauperamento potenzialmente derivante da uno sfruttamento indiscriminato. (Grier) La dinamica
produttiva che in tal modo veniva a crearsi generava evidentemente un maggior grado di complessità
sociale ed economica ed un accumulo inusuale di beni alimentari nelle mani di alcune famiglie, le quali
potevano scambiare le derrate accumulate in abbondanza con oggetti e manufatti che potevano essere
esibiti come simboli di status superiore: conchiglie, copricapi, pellicce, oggetti di ambra, manufatti d’avorio
o di ossa speciali di particolare valore estetico ed ornamentale. Attraverso l’esibizione pubblica di questi
simboli esteriori del prestigio, le differenze di rango sociale diventavano manifeste in vita e poi riaffermate
anche in caso di morte dei protagonisti, venendo tumulati insieme alla loro salma. Gli scambi fra alimenti e
manufatti artigianali elevati a simbolo di lusso e prestigio potevano svilupparsi all’interno dei villaggi ma poi
anche all’esterno di essi, aprendo la strada al formarsi di reti commerciali che travalicavano i confini del
singolo centro abitato e coinvolgevano più villaggi e gruppi locali.

ORACOLI E DIVINATORI

I processi di differenziazione sociale si accompagnavano al manifestarsi di credenze e sistemi di pensiero


collettivo che giustificavano la necessità di ranghi e status sociali distinti per il benessere del villaggio,
nonché il diritto delle figure maschili più abbienti ad avere matrimoni plurimi, in contrasto col costume
monogamico anteriore prevalente nelle bande mobili. Alla legittimazione delle posizioni di privilegio
acquisite da singole famiglie concorreva in maniera rilevante il ruolo che nei villaggi sedentari venivano
contestualmente ad assumere le figure degli oracoli e dei divinatori preposti alla celebrazione dei rituali e
delle cerimonie di culto. Tradizionalmente essi venivano consultati soprattutto nei momenti di crisi e di
turbolenza sociale, quando per qualche ragione venivano a crearsi motivi di tensione e ansia collettiva,
oppure quando le persone si ammalavano o cadevano preda di qualche disturbo psico-fisico. Attraverso
rituali attuati attraverso l’uso di sostanza psicotrope, essi entravano in stati di trance e avevano visioni ed
esperienze oniriche che permettevano di leggere il passato, comunicare con gli spiriti e interpretare le
origini delle sofferenze individuali e sociali prevedendone il futuro. In virtù della deferenza di cui in genere
godevano, gli sciamani giocavano un ruolo non meno importante anche quando si trattava di mediare
contese, risolvere i conflitti e cercare di mantenere la pace nel gruppo.
In società dotate di risorse abbondanti e continuative, i loro interventi in qualità di mediatori, di terapeuti e
indovini addetti alla celebrazioni rituali potevano ora proporsi con sempre più frequenza, con più
magnificenza e con un maggiore richiamo popolare, trasformandosi in culti comunitari che coinvolgevano
anche genti esterne alla comunità locale. Ciò permetteva loro di acquisire una visibilità e uno status più
elevati, più codificati, più pubblicamente riconosciuti, nonché simbolicamente esternati mediante
l’esibizione di appositi paramenti, ornamenti, monili o piumaggi speciali. Nelle società dei pescatori e
raccoglitori polivalenti veniva perciò ad accrescersi e a specializzarsi quel ruolo di interprete, divinatore,
celebrante di rituali e possessore di conoscenze cosmiche speciali, che già avevamo visto presente nella sua
forma embrionale nelle bande mobili. Sciamani, divinatori, oracoli e druidi acquisivano dunque nelle società
sedentarizzate uno status sociale codificato, distinto e superiore al resto della comunità anche perché la
coabitazione di popolazioni in centri abitati stanziali tendeva a generare di per sé più tensioni e conflitti, e
dunque richiedeva con più frequenza figure deputate alla mediazione riconosciute e rispettate.

LA RECIPROCITA’ VERTICALE

L’emergere di gerarchie sociali e differenziazioni nel controllo delle risorse aveva una ricaduta importante
anche in relazione alle pratiche tradizionali della condivisione e della reciprocità. In linea generale le prassi
della condivisione e del dono reciproco non cessavano di costituire le cornici morali di riferimento per i
comportamenti individuali e i rapporti sociali. Anche qui, come nelle bande itineranti, il prestigio e l’onore
nascevano dalla generosità personale e animavano scelte e condotte di attori mossi in prima istanza dalla
ricerca di approvazione sociale e prestigio pubblico. Ma, diversamente dalle società di banda, adesso la
disponibilità di cospicue risorse e la loro ripartizione diversificata tra le famiglie creava una variante inedita
rispetto alle pratiche di reciprocità in uso nei sistemi egualitari. Accanto al costume tradizionale della
condivisione e della reciprocità di tipo orizzontale, che legava tra loro famiglie, parenti e vicini in reti
simmetriche di mutuo sostegno, le società sedentarizzate davano vita a un’altra modalità di reciprocità che
per contrappeso potremmo chiamare reciprocità di tipo verticale. Dal momento che maggiori ricchezze
venivano a concentrarsi nelle mani di alcuni attori, il dovere morale della condivisione e del dono si
trasformava per loro in un dovere civico di elargizione periodica dei beni accumulati; i più abbienti erano
cioè chiamati dalla loro stessa posizione economica di vantaggio a dar prova di munificenza verso il resto
della comunità se volevano garantirsi il prestigio e l’apprezzamento pubblico a cui ambivano e che la gente
era disposta a riconoscere loro a patto che dimostrassero una generosità proporzionata ai loro averi.
Poiché la vita comunitaria ruotava attorno ai momenti di festa conviviale e alle occasioni di incontro e
intrattenimento rituale che accomunavano periodicamente membri dello stesso villaggio, ma anche di
villaggi diversi, attraverso lo scambio reciproco di doni, era in queste occasioni che i più facoltosi erano
chiamati a dar prova della loro prodigalità. In occasione dei banchetti collettivi organizzati in concomitanza
con feste rituali, cerimonie, funerali o di visite tra villaggi, le personalità più in vista dovevano quindi dar
prova di una generosità all’altezza delle loro ricchezze mettendo a disposizione un congruo volume di
libagioni. L’elargizione di vivande e derrate rappresentava perciò per loro il modo per dimostrare che essi
meritavano la posizione sociale di rango acquisita, ma era anche il modo con cui essi consolidavano la
dipendenza e la subalternità politica di coloro che beneficiano delle loro donazioni. Come nel popolare
detto eschimese per cui “i doni fanno gli amici ma fanno anche gli schiavi”, le elargizioni apportate durante
le feste avevano infatti come effetto collaterale non irrilevante il fatto che tutti coloro che ne beneficiavano
e non erano in grado di ricambiarli, restavano in debito verso i donanti; e diventando loro debitori prima o
poi ne diventavano in ultima istanza anche loro seguaci politici. (Polany) Ripetendosi ciclicamente, le feste
conviviali portavano quindi al nascere di fazioni di accoliti legati politicamente a grandi elargitori per effetto
del debito morale contratto nei loro confronti a seguito di tutto ciò che si era ricevuto e non si era potuto
ricambiare. Sotto le sembianze di grandi espressioni di solidarietà comunitaria, le grandi feste ponevano
così sotto traccia le basi del potere politico; nello stesso momento in cui si configuravano pubblicamente
come atti di ossequio ai principi consuetudinari, esse permettevano alle élites emergenti di costruire e
consolidare le loro posizioni di visibilità, popolarità e predominio politico sfruttando a proprio vantaggio il
codice popolare di reciprocità.

LE GARE DI OSTENTAZIONE

Ove più personalità o gruppi familiari disponevano di mezzi adeguati, il dovere civico della reciprocità
verticale scatenava una competizione per la conquista del maggior prestigio e dell’apprezzamento pubblico
che si traduceva in vere e proprie gare di munificenza. In occasione delle feste ciascun attore emergente
cercava di dimostrare la sua superiorità sociale sugli altri non solo agli occhi dell’immediato circondario ma
anche al di fuori di esso. Spinti dall’ambizione e dalla ricerca di legittimazione, i personaggi o le famiglie
prominenti allestivano quindi nei villaggi memorabili feste collettive in cui cercavano di impressionare i
partecipanti regalando pile di vivande, beni di consumo e articoli artigianali non solo ai membri della
propria comunità ma anche a quelli di villaggi esterni appositamente invitati a partecipare per assistere alle
dimostrazioni di magnificenza della famiglia locale promotrice del banchetto. A loro volta le famiglie
invitate cercavano poi di non essere da meno e di ostentare almeno altrettanta ricchezza organizzando
analoghe profusioni di regali in occasione della feste che facevano nei loro territori, in una spirale di
agguerrite esibizioni di ostentazioni tra famiglie e tra villaggi. Per una curiosa eterogenesi dei fini, il
principio della condivisione e della reciprocità finiva così per partorire una modalità di circolazione rituale
delle risorse imperniata non più sullo scambio paritetico e reciproco di doni fra soggetti economicamente
equivalenti, bensì sulla ripartizione di risorse da parte di attori benestanti che avevano incamerato beni in
misura superiore rispetto alla maggioranza dei loro vicini. Dalla verticalizzazione del principio della
reciprocità scaturiva quindi un modo di esternazione dello spirito di condivisione comunitaria di tipo
redistributivo che nelle società agricole sarebbe diventato un elemento distintivo dei sistemi politici
complessi basati sulla gerarchia sociale.

TRANSIZIONE

Nonostante tutte le manifestazioni di differenziazione e stratificazione sociale, infatti, le società di pescatori


e raccoglitori polivalenti, anche le più organizzate e complesse, rimasero pur sempre realtà socio-
economiche di piccola scala, popolate da modeste quantità di abitanti, limitate nelle loro estensioni
territoriali così come nelle possibilità di espansione politica delle famiglie emergenti. Non erano società
strutturate in regni, principati o monarchie, controllate da élites o istituzioni di governo in grado di
promuovere domini politici complessi di vasta portata territoriale. Restavano, alla fin fine, organizzazioni
politiche di livello comunitario, gelose delle proprie autonomia locali, renitenti ai tentativi di
centralizzazione politica e orientate all’autodifesa dei propri spazi territoriali, più che all’espansione o alla
conquista di nuove terre. (Grier in Finlayson-Warren 2017) Ma le cose sarebbero cambiate con l’avvento
dell’agricoltura.
LA TRANSIZIONE NEOLITICA

(CONTADINI E ALLEVATORI)
IMPATTO DELLA RIVOLUZIONE NEOLITICA

Dopo la scoperta del fuoco, l’avvento dell’agricoltura fu l’evento più decisivo nella storia della nostra
specie. L’introduzione della coltivazione su scala planetaria rivoluzionò infatti tutto il nostro modo di vivere,
a un punto tale che ancor oggi, malgrado le epocali trasformazioni portate dalla rivoluzione industriale e
dalla rivoluzione digitale, noi tutti continuiamo a procurarci da vivere grazie alla coltivazione dei campi e
all’allevamento di specie animali. L’addomesticazione sistematica di piante e animali costituì una svolta
decisiva perché mise per la prima volta a disposizione dell’uomo una serie di nuove e formidabili fonti di
energia e di mezzi di trasporto. Oltre a rendere possibili produzioni di alimenti in maggiore quantità, la
coltivazione spianò la strada a colture, come quelle del lino, della canapa o del cotone, che poterono essere
usate per produrre indumenti, abbigliamenti e manufatti, insieme al cuoio e alle pellicce animali. In tal
modo lo sviluppo dell’agricoltura dischiuse la strada allo sviluppo dell’artigianato, all’inventiva della fabrilità
manuale di alta qualità, alla produzione di tessuti, arredamenti, ceramiche e strumenti quali non si erano
mai visti prima. Mettendo a disposizione nuovi modi di reperire e utilizzare l’energia, l’agricoltura cambiò il
modo in cui le popolazioni umane interagivano con la terra, coi cieli e con gli elementi dell’ambiente
naturale, ma cambiò anche i loro sistemi di organizzazione sociale, le loro visioni del mondo, le loro
concezioni religiose e spirituali.

L’AGRICOLTURA PRIMA DELL’AGRICOLTURA

Come abbiamo visto in precedenza, la pratica della semina e della cura delle piante non era affatto ignota ai
popoli cacciatori-raccoglitori. Sappiamo infatti con certezza di diversi casi di regolazione della crescita delle
piante, replanting the heads of wild yams e protezione degli alberi da frutto realizzati da cacciatori-
raccoglitori, fra i quali erano ben noti gli effetti incrementali che il fuoco aveva sulla produttività dei suoli
quando applicato con la tecnica del “taglia e brucia” (slash and burn cultivation). Sappiamo anche che
molto prima della comparsa dell’agricoltura stanziale, i popoli raccoglitori possedevano strumenti necessari
per lavorare i prodotti eventualmente coltivati, quali falcetti, mole, mortai, pestelli. (Scott) E soprattutto
sappiamo che i cacciatori-raccoglitori modellavano attivamente il territorio, utilizzando gli incendi per
aprire radure in cui attirare la selvaggina, estirpando le erbacce dai suoli ove volevano estrarre tuberi e
cereali, favorendo la crescita di piante selvatiche utili per l’alimentazione, ma anche spuntando,
innaffiando, scortecciando, concimando, abbattendo gli animali in maniera selettiva, o correggendo il corso
di torrenti e pozze per favorire la deposizione delle uova die pesci. (Scott) Molti fondamentali prerequisiti
conoscitivi e tecnologici necessari per lo sviluppo dell’arte della coltivazione, insomma, erano dati molto
tempo prima che l’agricoltura si diffondesse come modo di sussistenza predominante. (Ellen 1994) In
particolare è risaputo che nell’area Mesoamerica alcune piante erano state addomesticate millenni prima
della formazione delle società agricole sedentarie. E così pure in Mesopotamia, la domesticazione
precedette di almeno 4.000 la comparsa dei primi villaggi agricoli sedentari. (Scott)

RISCALDAMENTO DEL PIANETA

Per comprendere perché ad un certo punto gli esseri umani cominciarono a coltivare e allevare animali in
maniera sempre più frequente, metodica e intensiva, noi dobbiamo rivolgere lo sguardo ancora una volta
allo scenario climatico e in particolar modo ai mutamenti climatici che occorsero sul pianeta a partire
all’incirca 18.000 anni fa. Grosso modo in quel periodo cominciò infatti a volgere al termine la glaciazione di
Wurm, con cui i popoli paleolitici avevano convissuto per decine di migliaia di anni. Congiuntamente con
una ricomposizione di gas atmosferici, una variazione dell’allineamento dell’asse terrestre (cioè della
tendenza della terra a oscillare mentre gira) e della traiettoria dell’orbita terrestre intorno al sole, alterò gli
equilibri climatici preesistenti, determinando una maggior esposizione complessiva del pianeta ai raggi
solari. Il maggior afflusso di raggi solari originò così il passaggio dall’era glaciale ad un’epoca di
riscaldamento climatico planetario, che aprì la strada ad una serie di radicali cambiamenti nell’ecologia dei
suoli e nelle modalità di organizzazione politica ed economica delle società umane. La maggior esposizione
ai raggi solari generò infatti un aumento generalizzato delle temperature, dei livelli di piovosità e
dell’umidità dei suoli su tutto il globo. L’aumento delle temperature, a sua volta, causò il disgelo delle
calotte glaciali che coprivano le fredde regioni settentrionali e col disgelo si alzarono i livelli dei mari e si
trasformarono in mari quelle che sino ad allora erano state enormi lande ghiacciate senza soluzione di
continuità, dal settentrione della Russia fino all’Islanda. Si formarono così il Mare del Nord e il Mar Baltico,
mentre le isole britanniche e la penisola scandinava si staccarono dal continente europeo a cui fino ad
allora erano state unite dalla distesa di ghiacci. Al riscaldarsi e all’umidificarsi dei suoli, le distese di tundre e
steppe che per millenni avevano ricoperto l’Europa centrale cominciarono a diradarsi arretrando verso
nord, via via sostituite da foreste di pini, betulle, querce e salici. Il riscaldamento determinò anche una più
marcata stagionalità dei cicli di maturazione dei vegetali e quindi una possibilità di raccolta del cibo più
discontinua nel corso dell’anno, fortemente condizionata dal succedersi di una stagione dopo l’altra, e ciò
creò situazioni inedite di incertezza e di rischio per le possibilità di nutrizione delle popolazioni umane.

BROAD SPECTRUM REVOLUTION

Il primo significativo effetto del riscaldamento globale sul modus vivendi umano fu quindi una prolungata
fase di adattamento, nota tra gli addetti ai lavori come “Broad Spectrum Revolution”. Durante la
transizione verso la strategia ad ampio spettro -all’incirca tra 15.000 e 13.000 anni fa-, le popolazioni
umane dovettero mettere un crescente impegno nelle attività di caccia e raccolta e profondere maggiori
investimenti lavorativi per far fronte ai cambiamenti climatici in atto. Per rispondere alle sfide poste dal
mutamento climatico, in particolare, dovettero ampliare lo spettro delle risorse estratte dalla terra,
estendendo l’attività di caccia ad ogni tipo di animale accessibile, compresi gli esemplari della selvaggina
minore, animali di piccola taglia, uccelli e specie acquatiche. Una delle prime conseguenze di questa ricerca
di cibo senza troppi scrupoli fu l’estinzione della mega fauna di cui a lungo si erano alimentati i cacciatori
del paleolitico. Sparirono così dalla scena terrestre specie come i mammut, i grandi uccelli senza ali, le tigri
dai denti a sciabola e gli orsi delle caverne. Secondo la celebre ricostruzione di Jared Diamond, proprio
l’attività venatoria indiscriminata condotta dagli umani in quella fase della loro evoluzione inflisse un colpo
letteralmente letale alla mega fauna preistorica. (vedi anche Cavalli Sforza) D’altro canto le trasformazioni
climatiche favorirono al contempo il diffondersi di specie animali di minor dimensione -caprioli, alci,
cinghiali, uri, castori, lepri, salmoni, uccelli aquatici e migratori; specie che si riproducevano rapidamente,
ma la cui cattura poteva avvenire solo in certe stagioni e dunque in maniera discontinua nel corso
dell’anno, esponendo i cacciatori a rischi di penuria alimentare durante i periodi di inattività. In alcuni casi
la disponibilità di alcune specie in grandi quantità, come ad esempio le foche della penisola scandinava o le
balene nell’Atlantico, offriva una via d’uscita, spingendo le popolazioni locali a specializzarsi nell’arte della
pesca e ad insediarsi nelle vicinanze dei litorali organizzandosi socialmente in funzione dell’estrazione ittica.
In altri casi l’esigenza di intensificazione delle produzioni stimolava a inventare nuovi tipi di attrezzature o a
fabbricarle con nuove tecniche artigianali, come quella dei microliti, più sofisticate e precise di quelle usate
anteriormente, sfruttando a fini tecnologici non solo rocce, ossa di animali, corna, tendini di animali o
legnami, ma anche ossidiana e cortecce d’alberi.
STRESS MODEL

In termini generali il passaggio ad una strategia ad ampio spettro fu quindi una risposta al tendenziale
peggioramento dello stato nutrizionale, attestato dalle stature mediamente più basse dei reperti umani del
periodo, che rivelano una condizione di deficit nutrizionale e un sempre più difficile bilanciamento
alimentare ottenuto mediante le attività di caccia e raccolta. E’ proprio nel quadro di queste difficoltà di
aggiustamento, di stress alimentare e di ricerca continua di nuovi bilanciamenti che bisogna collocare le
prime forme sistematiche di coltivazione dei vegetali e quindi la comparsa -fra i 12.000 e i 10.000 anni fa- di
quella che l’archeologo Gordon Childe chiamò con una fortunata espressione la “Rivoluzione neolitica”, la
transizione della specie umana all’agricoltura. A dispetto di quanto potrebbe far pensare la celebre
espressione di Childe, tuttavia, l’avvento dell’agricoltura non fu un salto tecnologico repentino, scaturito
improvvisamente dallo scatto di genio di qualche arguto Archimede. Fu piuttosto l’esito finale di un
processo adattivo sedimentatosi nel corso di millenni e giunto a maturazione sotto la spinta della necessità
collettiva di minimizzare i rischi d’insufficienza alimentare generati dalle nuove condizioni ambientali;
condizioni –ripeto- che ponevano nuovi vincoli alle possibilità di ricavare alimentazione, ma che offrivano al
medesimo tempo anche nuove opportunità. Se infatti il riscaldamento planetario rendeva sempre più
complicato soddisfare i fabbisogni alimentari con le tradizionali attività di caccia e raccolta itinerante,
d’altro lato dischiudeva nuove chance di sopravvivenza, poiché l’alta temperatura rendeva i terreni più
caldi, più fertili e più umidi, e così facendo creava condizioni naturali propizie per il proliferare di alcuni tipi
di vegetali particolarmente interessanti per l’alimentazione umana, in primis i cereali e i legumi. Nello
stesso momento in cui il riscaldamento globale e l’atmosfera arricchita di anidride carbonica facevano
scomparire specie vegetali d’antica data, venivano quindi in superficie nuove specie vegetali suscettibili di
addomesticazione, alcune delle quali particolarmente produttive. Cosicché non mancarono tra gli umani
coloro che scelsero di scommettere qualche fiche della loro lotteria per la sopravvivenza sulla
valorizzazione di un numero ristretto di piante particolarmente prolifiche e generose. Grazie al repertorio di
sistemi sperimentati con l’agricoltura itinerante (swidden cultivation) e all’osservazione di come i rifiuti
organici agevolavano la germinazione delle piante commestibili, l’agricoltura entrò nelle abitudini dei nostri
antenati inizialmente come una sistematizzazione e un’innovazione progressiva di precedenti capacità
adattive, non come un’invenzione ex novo.

A partire dalle conoscenze pregresse, i gruppi localizzati nelle aree geografiche più ricche d’acqua dolce e
dotate di pianure alluvionali e terre umide ricche di loss, cominciarono a sperimentare azioni metodiche di
selezione dei cultivar, miglioramento genetico e semina intenzionale di specie che venivano riconosciute
per la loro produttività, per il loro potere nutrizionale e per la loro possibilità di conservazione, primi fra
tutti i cereali. I cultivar erano selezionati in base alla dimensione dei frutti che generavano, alla loro
capacità di maturazione in tempi definiti e alla loro possibilità di essere trebbiati senza andare in frantumi,
mentre gli animali da allevare erano prescelti per la loro capacità di riprodursi, per la loro docilità e
naturalmente per la loro capacità di produrre latte, carne, pellame e lana. Grazie al lavoro sempre più
sistematico di pulizia delle erbacce infestanti, trapianto e semina, gli innovatori -chiamiamoli così-
scoprirono con piacevole sorpresa che con un ettaro coltivato era possibile nutrire un numero di anime
dalle 10 alle 100 volte superiore rispetto a quel che era possibile fare con le attività di caccia e raccolta. Da
lì la scelta di replicare gli esperimenti di addomesticazione delle piante selvatiche e l’attrattiva crescente del
nuovo modo di sussistenza.
ORIGINI GEOGRAFICHE

Il successo ottenuto dai gruppi localizzati nelle aree ecologiche più favorevoli per la pratica della
coltivazione, tuttavia, non determinò una svolta improvvisa, universale e dagli effetti irreversibili per la
popolazione umana intesa nel suo complesso. La cosiddetta rivoluzione neolitica, a ben guardare, tutto fu
tranne che una rivoluzione nel senso etimologico del termine. Se con la parola rivoluzione intendiamo
infatti un drastico mutamento dei modi di vita di una comunità umana che si consuma nell’arco di qualche
anno, di qualche decennio o di qualche secolo, la rivoluzione neolitica non fu neanche lontanamente
questo. Anzi, alla luce delle scoperte degli ultimi decenni, possiamo legittimamente mettere in dubbio che
la fortunata espressione di Gordon Childe rifletta adeguatamente ciò che effettivamente successe alla
nostra specie a partire dal 12.000 anni fa.

La diffusione dell’agricoltura nelle pratiche umane si diluì infatti in un periodo protrattosi per almeno 6.000
anni, facendo la sua comparsa separatamente in regioni del pianeta lontane le une dalle altre migliaia di
kilometri e prive di contatti e influenze reciproche. Gli itinerari che condussero allo sviluppo dell’agricoltura
furono quindi molteplici, indipendenti e separati gli uni dagli altri, non solo dal punto di vista spaziale ma
anche dal punto di vista cronologico. Tra 10.000 e 8.000 anni fa le più precoci forme di agricoltura
apparvero nella Mezzaluna fertile (in corrispondenza degli attuali paesi di Palestina, Libano, Siria, Turchia,
Iraq), in particolare nella valle dell’alto Eufrate, con le prime coltivazioni di grano selvatico, ceci, piselli,
lenticchie, piselli, lino, vecciola e orzo. Poi, millenni dopo, si affacciarono nelle pianure alluvionali del Fiume
Azzurro, del Fiume Giallo e dello Xiliao, nella Cina continentale, con la coltura del miglio a nord e poi del riso
a sud. Quindi, di nuovo a distanza di millenni, l’agricoltura prese piede nella Vale dell’Indo in India, e in
Mesoamerica, con le coltivazioni di mais teosinte, zucche e fagioli, e infine in Africa e Nuova Guinea con
orzo e miglio. Come è stato osservato da Testart, probabilmente al principio essa prese piede soprattutto
dove c’erano sistemi sociali già abituati a immagazzinare e a conservare i cibi e le popolazioni si erano
accresciute a seguito di precoci adozioni di stili di vita sedentari. (Testart 1982)

Ma mentre ciò accadeva in Mesopotamia, in India, in Cina o in Messico, la gran parte delle restanti
popolazioni sul pianeta continuavano a vivere di caccia, raccolta e pesca, oppure combinavano gli antichi
metodi di sussistenza estrattivi con sistemi primitivi di orticultura e pastorizia realizzati comunque in forma
itinerante, associando la pratica della semina e dell’allevamento alla mobilità e alla dispersione.
L’introduzione dell’agricoltura nei costumi produttivi umani non fu dunque né universale, né sincronica, né
definitiva; non fu un’onda avanzante in parallelo di tutti i popoli accomunati da un percorso collettivo
simultaneo di innovazione tecnologica senza ritorno, quale noi ci potremmo immaginare pensando all’idea
della rivoluzione agricola. Tutt’altro. La diffusione della domesticazione dei vegetali ebbe luogo con velocità
e intensità estremamente differenziate, tra l’altro, a seconda delle latitudini, delle caratteristiche fisiche dei
luoghi, del loro clima, della geologia, dell’orografia, del maggiore o minore isolamento dei gruppi umani,
dell’estensione dei terreni e della possibilità di accesso ai laghi, fiumi e mari, radicandosi nel complesso più
nelle regioni mediorientali, europee e asiatiche che in Africa e nelle Americhe. (Diamond)

RESISTENZE E RETROCESSI

Per migliaia d’anni la maggior parte dei popoli adottò la nuova arte del coltivare come un espediente
complementare alla caccia-raccolta, sfruttando orti seminati, alberi custoditi e bestie allevate
sostanzialmente come delle riserve d’emergenza a cui attingere nei periodi di magra dell’attività venatoria.
Per loro l’agricoltura rimase parte di una strategia di sussistenza polivalente, opportunista, che cercava di
attingere alla più vasta gamma di mezzi e risorse possibili, ricorrendo a svariate filiere alimentari. Nel
tentativo di evitare la specializzazione e di affidarsi a una sola tecnica di produzione alimentare e a una sola
nicchia ecologica, tenevano aperte le porte a più soluzioni. La coltivazione costituiva solo una delle frecce
nel loro arco. Nel mentre seminavano grani e allevavano pecore, continuavano a raccogliere tuberi, radici,
frutti, molluschi, a pescare pesci o anfibi, ripartendo diverse attività in spazi e tempi diversi dell’anno a
seconda delle convenienze. Di modo che, se per qualche ragione i raccolti andavano persi per il protrarsi di
un clima avverso, potevano puntare sulla pastorizia; e se viceversa erano le greggi ad andare perse,
potevano muovere alla ricerca di terre adatte da coltivare. A seconda delle situazioni ambientali, delle
necessità e delle opportunità, quindi, i gruppi potevano passare con scioltezza dall’uno all’altro modo di
sussistenza facendo ritorno, se era il caso, al modo di vita precedente. Oltre ai “raccoglitori primari” vi
furono perciò ripetuti casi di “raccoglitori secondari”, come gli antenati degli odierni Svedesi o i Cheyenne
delle grandi pianure americane, che dopo aver praticato l’agricoltura per qualche tempo si riconvertirono
alla raccolta itinerante di vegetali. Anche in questo caso, come in quello precedente e come in altri casi che
vedremo più avanti, la parola chiave della strategia di sussistenza era reversibilità, possibilità sempre aperta
di attingere a diverse fonti di sussistenza e di far ritorno a modelli adattivi utilizzati in precedenza quando
nuove contingenze e pressioni ambientali lo richiedevano. Nel corso del processo di transizione vi furono
anche popoli che rifiutarono tout court di far proprio il costume della coltivazione e rimasero
ostinatamente cacciatori, per convenienza energetica o per irriducibili preferenze culturali e motivi di
prestigio, mentre altri furono costretti ad adottare l’agricoltura in maniera coatta quasi diecimila anni dopo
la sua prima comparsa, per ingiunzione di invasori provenienti dall’esterno, come accadde nelle colonie
spagnole del primo 500 o ai nativi nordamericani ridotti nelle riserve nel secondo 800. Non è privo di
significato il fatto che prima di essere sedentarizzati a forza, popoli nativi americani come i Soux e i
Comanche sfruttassero i cavalli introdotti dagli europei per cacciare, muoversi, combattere e commerciare,
non per coltivare la terra. La cosiddetta rivoluzione neolitica, dunque, non fu affatto un big bang collettivo,
bensì un processo di lentissima, gradualissima, evoluzione dei comportamenti produttivi, che si realizzò
senza che tutti vi aderissero negli stessi tempi e allo stesso modo e senza che mancassero resistenze,
retromarce e soluzioni di compromesso. Per millenni in gran parte del pianeta si continuò di fatto a vivere
praticando un’orticultura di tipo itinerante, seguendo le stesse rotte e gli stessi tempi delle caccia e della
raccolta, oppure ci si mantenne in vita con combinazioni miste di caccia, raccolta, pastorizia e agricoltura,
prima che quest’ultima giungesse ad affermarsi come modo di sussistenza predominante. E per diversi
millenni, praticamente sino all’avvento dei primi stati, la sedentarietà non fu un assetto definitivo del
mondo agricolo; centinaia di villaggi venivano normalmente popolati, abitati e poi abbandonati grazie al
fatto che vi loro abitanti continuavano ad avere nuovi terreni disponibili per la messa a coltura e nuovi spazi
vergini da colonizzare. (Scott) Ancora al momento dello sbarco di Colombo, d’altronde, nel 1492, svariati
popoli nativi del continente americano vivevano alternando periodi di caccia e raccolta itinerante, attività
agricole e pesca in diverse finestre dell’anno. Secondo Scott, fino a 400 anni fa 1/3 della superficie
mondiale era ancora occupata da cacciatori-raccoglitori, orticultori itineranti, pastori transumanti o
pescatori mobili che non corrispondevano affatto al prototipo del contadino dedito all’agricoltura a tempo
pieno e sedentarizzato in un villaggio. (Scott) E ancor oggi, d’altronde, non è difficile incrociare in molte
realtà africane, asiatiche e latinoamericane abitanti di villaggi rurali che a seconda delle stagioni e delle
contingenze si dedicano ora alla caccia, ora alla coltivazione e ora alla raccolta.

RISCHI

La principale ragione per cui non pochi fra i nostri antenati esitarono a lungo prima di buttarsi a capofitto
nell’agricoltura full time era data tra le altre cose dal fatto che la via della vita agraria non era affatto esente
da rischi e controindicazioni. A dispetto dell’abbondanza di cibo che si poteva ricavare con la semina di
piante addomesticate, l’opzione della coltivazione non metteva al riparo dalla possibilità di penurie e
carenze alimentari. Affidare la propria sopravvivenza ad una circoscritta manciata di vegetali poteva infatti
costare caro se i raccolti venivano danneggiati o interamente distrutti dal prodursi di eventi naturali avversi.
Cosa che poteva capitare al prodursi di siccità, inondazioni, gelate, o in conseguenza dell’azione nociva di
uccelli, insetti, animali predatori, lumache, afidi che si aggiravano negli orti, o ancora delle malattie causate
da agenti patogeni come parassiti, funghi, erbe infestanti, muffe. Per far fronte a tali eventualità bisognava
cautelarsi e bisognava metterci parecchio lavoro aggiuntivo.

Inoltre, a differenza di coloro che si mantenevano aperti a strategie miste non rinunciando alla
diversificazione delle reti alimentari e alla mobilità territoriale, chi si consacrava in via esclusiva
all’agricoltura doveva per forza di cose risolvere anche un altro problema: doveva fare in modo di
accantonare tutti gli anni qualche riserva per poter sussistere tra un raccolto e quello successivo. Quando si
sceglieva di fare gli agricoltori a tempo pieno diventava essenziale mettere qualcosa da parte per le fasi
finali del ciclo produttivo annuale, cioè nei mesi precedenti la nuova semina, quando si era più lontani dalla
semina precedente ed i cereali o i legumi raccolti l’anno prima potevano esser già stati in larga parte
consumanti. Soprattutto nelle aree contraddistinte da marcate alternanze di stagioni secche e stagioni ad
alta piovosità, disporre di riserve di derrate era essenziale per far fronte ai periodi delle piogge. Ma più in
generale l’incidenza decisiva sulle attività agricole degli andamenti metereologici era un fattore che in sé
esponeva a rischi di carenze di alimenti nelle annate afflitte da inclemenze per eccessi di piogge e per una
loro distribuzione irregolare, o per la loro mancanza, per la siccità, così come per sbalzi di temperature,
gelate, o per il diffondersi di malattie delle piante. Anche in vista di tali eventualità, l’accantonamento di
eccedenze si rendeva indispensabile.

MAGGIOR LAVORO

Infine, rispetto ai modi di produzione precedenti, l’agricoltura comportava un impegno decisamente più
gravoso sotto il profilo energetico. A differenza della raccolta itinerante, coltivare i campi richiedeva molta
più fatica, maggior tempo quotidiano pro-capite e maggior investimento complessivo da parte dell’intero
gruppo domestico. Per coprire lo svolgimento in tempo utile di tutte le fasi del ciclo produttivo e soddisfare
tutti i fabbisogni, la famiglia contadina doveva mettere all’opera tutti i suoi membri, ragazzi e bambini
compresi. L’utilità dei ragazzi e bambini per il lavoro nei campi rendeva quindi conveniente avere una
famiglia con molti figli, che in vario modo potevano concorrere ai diversi compiti richiesti dal ciclo
produttivo e in prospettiva offrire anche una qualche garanzia di sostegno ai genitori quando essi fossero
giunti a tarda età.

CONTROMISURE E STRATEGIE PREVENTIVE

Per far fronte alle controindicazioni e ai rischi connessi alla pratica agricola i contadini appresero ben presto
a premunirsi, dotandosi di un articolato repertorio di misure preventive, a cominciare dalla creazione di
sistemi di stoccaggio e conservazione degli alimenti sotto forma di affumicamento, essiccazione,
congelamento o fermentazione dei prodotti, depositati in pozzi sotterranei, silos, cisterne, cantine, caverne
o incavi naturali della roccia. Ma la logica di prevenzione della penuria indusse anche accorgimenti tecnici
inerenti le stesse modalità di organizzazione delle produzioni agrarie. Il più basilare fra questi consisteva nel
mantenere ogni anno una gamma di semi diversificati e nell’avere l’accortezza di non scordare mai di
piantare quelli più resistenti alle avversità climatiche, che rendevano magari meno degli altri in termini
quantitativi, ma garantivano la sopravvivenza della pianta nelle contingenze climatiche più dure. L’arte
della sopravvivenza agraria aveva quindi tra i suoi capisaldi la diversificazione del tipo di colture seminate;
ma essa prevedeva anche lo sparpagliamento dei lotti coltivati su terreni diversi e staccati gli uni dagli altri,
così da evitare che eventuali infestazioni e malattie si propagassero per contiguità. A ciò si aggiungano la
pratica della rotazione periodica delle colture, spesso basata sull’alternanza di cereali e legumi, la messa a
riposo dei lotti sfruttati negli anni precedenti, il rinnovo periodico delle superfici sfruttate e, ove possibile,
la ricerca periodica di nuovi fazzoletti incolti da seminare in previsione dello scemare della resa di quelli in
uso. Sempre a patto che le condizioni geologiche e morfologiche del territorio lo permettessero, una delle
strategia più sofisticate e complesse praticate nelle zone di montagna era la zonizzazione verticale delle
produzioni, ovverosia l’utilizzo di diverse nicchie ecologiche poste in habitat con altitudini, metereologie,
disponibilità idriche e suoli diversi, ciascuna delle quali poteva fornire prodotti nei periodi dell’anno in cui le
altre ne erano prive.

LA PASTORIZIA

Nelle situazioni peggiori, cioè ecologicamente e climaticamente più complicate, la soluzione più radicale
veniva dall’investimento nella pastorizia. Non dobbiamo dimenticare infatti che rivoluzione neolitica non fu
solo l’addomesticazione delle piante, ma anche quella degli animali. L’allevamento era una pratica non
meno complessa della coltivazione; comportava infatti capacità di catturare gli animali, di tenerli chiusi nei
recinti, di difenderli dai predatori, nutrirli, accoppiarli adeguatamente. A parte il caso dei cani, i primi ad
essere addomesticati e ad accompagnare le peripezie dell’uomo sin da epoca paleolitica, per il resto la
domesticazione delle bestie si sviluppò di pari passo con quella delle piante a partire da 12.000 anni fa. Per
prime furono allevate pecore e capre (in Medio Oriente), poi i bovini, poi ancora i polli (in Cina), i tacchini
(in Centroamerica) e infine i lama (in Perù). Nelle società neolitiche non era quindi raro che una famiglia
contadina tenesse con sé un certo numero di animali domestici. Vi furono però gruppi di agricoltori che sin
dall’antichità si specializzarono nell’allevamento e che a buon diritto noi dovremmo quindi definire pastori
nell’accezione più integrale del termine. La specializzazione nella pastorizia era per l’appunto la soluzione di
ripiego che veniva adottata da coloro che per qualche ragione si ritrovano in zone non più atte ad essere
coltivate o difficilmente sfruttabili per attività di cacia e raccolta, essendo divenute particolarmente aride e
povere d’acqua oppure danneggiate dalla ripetuta esposizione a fattori di calamità climatica che rendevano
possibile sopravvivere solo allevando animali. Dal Marocco al Corno d’Africa, dalla penisola araba alla
Mongolia, dagli altopiani andini sino alla Terra del Fuoco, non era raro che stagioni siccitose, malattie delle
piante, cataclismi naturali o la geologie stessa dei suoli inducessero popoli dediti all’orticultura a dedicarsi
alla pastorizia nomade. Veniva a crearsi in questi casi una dipendenza particolarmente stretta tra gli uomini
e gli animali, che si traduceva in una mobilità congiunta alla costante ricerca di pascoli erbosi e fonti acqua
con cui nutrire e abbeverare greggi divenute le fonti di sostentamento vitali. Coloro che si dedicavano alla
pastorizia nomade erano probabilmente allora, non meno di oggi, tra le categorie umane più esposte a
rischi di insicurezza alimentare e per questo motivo il movimento e la delocalizzazione rappresentavano per
loro strategie obbligate per sopravvivere in situazioni climatiche aspre o in habitat caratterizzati dalla
cronica presenza di malattie veicolate da insetti nocivi. Avendo nel bestiame tutto ciò di cui disponevano, i
pastori nomadi preferivano di solito non dilapidarlo mangiandone la carne e cercavano piuttosto di
sfruttarlo come mezzo di scambio per ottenere altri beni primari, oppure per stringere alleanze e portare
doni cerimoniali in occasione di matrimoni a testimonianza del prestigio sociale del proprio gruppo. Per i
pastori il rischio di perdita delle mandrie costituiva comprensibilmente il maggiore fattore di
preoccupazione e onde prevenirne l’occorrenza ricorrevano ad una serie di strategie adattive destinate poi
a durare per lungo tempo nelle culture pastorali. Una modalità tipicamente adottata per evitare la perdita
delle greggi in caso di siccità o di malattia era l’accrescimento preventivo delle mandrie. In previsione della
diminuzione dei capi che sarebbe arrivata con le crisi climatiche, i pastori cercavano di fare in modo che il
volume delle mandrie si gonfiasse il più possibile nei periodi di bonanza, malgrado ciò potesse comportare
sul breve periodo problemi di overgrazing e impoverimento dei pascoli (Scoones). Un’altra strategia
abituale consisteva nel contenere l’espansione demografica del gruppo con misure come l’astinenza
sessuale, il ritardo dei matrimoni e la composizione dei gruppi a prevalenza maschile. Ma la strategia
probabilmente più decisiva per superare i momenti di crisi era lo “social storage”, vale a dire lo sviluppo del
maggior numero possibile di rapporti di conoscenza, amicizia, alleanza e intercambio con genti vicine e
lontane, attraverso la rispettiva compartecipazione a comunioni cerimoniali, incroci matrimoniali, rituali,
alleanze politiche; la disponibilità di un fitta rete di alleati, amici e compagni rituali tornava molto utile nei
momenti di crisi, poiché dava la possibilità di allocare i capi di bestiame nei territori degli alleati che
avevano migliori condizioni idriche, climatiche o sanitarie rispetto a quelle che si stavano affrontando nella
propria zona per effetto della siccità o delle malattie.

LA SEDENTARIETA’

Non diversamente dalla pastorizia nomade, anche la coltivazione stanziale era il risultato del venir meno
della possibilità di sfruttare altre reti alimentari, o del drastico calo della loro produttività. Anche in questo
caso l’agricoltura era una necessità, o per meglio dire l’ultima opportunità, l’estrema ratio per non rischiare
di fare una brutta fine, il modo di cavarsela a cui ci si doveva dedicare a tempo pieno, in maniera
continuativa ed intensiva, per evitare di soccombere alla fame (Boserup); e in tal modo diventava
l’epicentro della vita lavorativa, attorno alla quale modi, tempi e tecniche della vita sociale dovevano
modularsi e l’intero sistema delle abitudini lavorative, sociali, rituali e residenziali doveva riorientarsi.

Uno dei primi effetti della conversione ad un’agricoltura a tempo pieno era il passaggio ad uno stile di vita
sedentario e alla costituzione di villaggi permanenti. Nella misura in cui le pratiche itineranti di raccolta,
orticultura e pastorizia lasciavano il posto a un’agricoltura come fonte primaria di sussistenza, il ciclo della
produzione imponeva di convogliare alle campagne seminate una cura attenta e prolungata per larga parte
dell’annata. E quindi imponeva la necessità, o quantomeno l’opportunità, di una residenza continuativa
nelle vicinanze dei lotti seminati. La complessa sequenza di operazioni necessarie per avere dei raccolti -
pulizia, semina, diserbo, innaffiatura, mietitura, trebbiatura, spigolatura, separazione delle crusche,
setaccio-, e l’impegno notevole che tutto ciò comportava, costringeva almeno una parte del gruppo
domestico a vivere nelle vicinanze dei campi, anche per evitare che qualche cacciatore-raccoglitore che non
aveva ancora ben compreso lo spirito dei tempi moderni potesse approfittarsi del lavoro altrui
sottraendogli le pannocchie o le spighe lungamente curate nel momento in cui giungevano a maturazione.

PIU’ CIBO, MENO QUALITA’

La concentrazione dell’investimento lavorativo sulla coltivazione di una ristretta selezione di specie vegetali
in vista del loro utilizzo alimentare aveva anche altri effetti, il più lento e sfumato dei quali era
probabilmente il ridisegnarsi dei panorami rurali, che da “ecosistemi generalizzati” (popolati cioè da molte
specie vegetali presenti in ridotta quantità), si trasformavano gradualmente in “ecosistemi specializzati”
(caratterizzati da un minor numero di specie presenti in grandi quantità) (Creswell). La focalizzazione del
lavoro umano su poche piante e animali ad uso alimentare, inoltre, tendeva per sua natura ad assottigliare
il patrimonio delle conoscenze faunistiche ed erboristiche possedute dalle popolazioni agricole rispetto a
quelle possedute dai gruppi precedenti. I cacciatori-raccoglitori e i raccoglitori polivalenti –come abbiamo
visto- avevano un capitale di rara competenza in campo naturalistico, dimostrata da ritrovamenti
archeologici come quelli di Abu Hureyra, nella Siria settentrionale, ove delle 192 diverse specie di piante
rinvenute, solo 142 furono identificate e 118 certamente consumate dalle popolazioni pre-agricole. (Scott)

Ma il passaggio all’agricoltura sedentaria aveva anche un altro risvolto poco entusiasmante per i diretti
interessati, determinando una generale diminuzione del potere nutrizionale delle specie addomesticate
rispetto a quelle selvatiche abitualmente consumate dai raccoglitori. La perdita in qualità e varietà
nutrizionali dei cibi si traduceva in un decremento qualitativo complessivo della dieta contadina rispetto a
quella dei raccoglitori itineranti e in una condizione di malnutrizione diffusa, controbilanciata soltanto dalla
maggior quantità di calorie apportate dai cereali alla fine di ogni raccolto. Grazie alle maggiori disponibilità
caloriche l’agricoltura stanziale permetteva di nutrire molte più persone, ma solo con porzioni limitate di
cibo, uniformemente distribuite con “una rigorosa disciplina sociale dei consumi” (Solinas 1992) e con diete
contadine a base di cereali sovente caratterizzate da anemie per carenza di ferro, scarsità di acidi grassi,
insufficienti introiti di vitamine e proteine, causando di riflesso l’insorgere di malattie tipiche della
malnutrizione, come il beri-beri, la pellagra o il kwashiorkor. (Scott)

FIGLI E FERTILITA’

Il combinato disposto dei 3 fattori che abbiamo ricordato -vita sedentaria, aumento delle disponibilità
caloriche e utilità economica dei bambini- riportò alla ribalta il fenomeno che già avevamo visto comparire
nelle società dei pescatori -la tendenza a mettere al mondo più figli- ma questa volta con dimensioni e
conseguenze incalcolabilmente maggiori per la storia della specie. Una crescita della natalità media si
registrò infatti regolarmente al propagarsi dei villaggi contadini, accompagnata altrettanto regolarmente
dall’emergere sul piano simbolico di culti popolari e sistemi di credenza che esaltavano il valore della
fecondità in ogni sua espressione, che si trattasse di animali, terreni e vita naturale, oppure di esseri umani,
maschi o femmine indistintamente. La diffusione dei culti della fertilità divenne pressoché onnipresente
nelle società contadine e fu la dimostrazione più tangibile di quanto mettere al mondo un gran numero di
figli fosse diventato un valore culturale primario nelle società agrarie e quindi un motivo di vanto, prestigio
ed orgoglio per le persone che si dimostravano più prolifiche.

Le manifestazioni culturali di esaltazione della fertilità e la propensione ad un’elevata natalità erano


strettamente associate al problema dell’elevata mortalità infantile, che costituiva l’altro aspetto doloroso
delle vicissitudini delle famiglie contadine. Elevate percentuali di decessi nella prima infanzia erano la
norma nel quadro del peggioramento generale delle condizioni alimentari in cui erano allattati i neonati e
alimentati i bambini, nonché di condizioni epidemiologiche che vedevano per la prima volta la comparsa di
malattie infettive, sia croniche che acute. In maniera esattamente opposta a quanto succedeva fra i popoli
cacciatori e raccoglitori, nelle società contadine la ricerca della prolificità rispecchiava la frequenza con cui
neonati e bambini morivano a precoce età. Nella consapevolezza che alcuni dei neonati erano destinati a
non sopravvivere ai primi anni di vita, i genitori tendevano prudenzialmente a fare più figli di quelli che
sarebbero stati strettamente necessari, o strettamente desiderati, per non rischiare di restare senza prole.
Il meccanismo primordiale bassa mortalità/bassa natalità si era trasformato in un meccanismo bastato su
alta mortalità/alta natalità. Essere ricchi nelle società contadine sedentarie significava essere ricchi di
persone almeno tanto quanto esserlo di possedimenti fondiari.

LA CRESCITA DEMOGRAFICA

Il regime alimentare a base di cereali incideva direttamente sull’attività riproduttiva, favorendo


naturalmente l’aumento della fecondità grazie ad una più facile ovulazione della donna, all’allungamento
della sua vita riproduttiva e alla possibilità di disporre di cibo morbido che consentiva uno svezzamento
anticipato dei neonati. Così pure la vita sedentaria di per sé incrementava naturalmente la fertilità,
permettendo un anticipo del menarca e il venir meno dei vincoli che obbligavano le popolazioni nomadi a
distanziare le nascite e ad avere pochi figli per potersi muovere. (Solinas 1992) Tuttavia la crescita
demografica non era un esito automatico né meccanico del passaggio all’agricoltura, rispondendo ad una
dinamica più complessa. Di solito l’aumento della popolazione si verificava a seguito dell’intensificazione
delle produttività dei campi che si produceva quando una comunità veniva a trovarsi nell’impossibilità di
accedere a nuovi terreni incolti e di colonizzare nuovi territori per sopperire alla progressiva caduta dei
rendimenti di quelli in uso. Nell’impossibilità di accedere a nuovi terreni bisognava far fruttare di più quelli
di cui si disponeva e ciò voleva dire migliorare le varietà seminate, favorire le condizioni di maturazione
delle piante, ricorrere a concimazioni e rotazioni periodiche, adottare nuove attrezzature, ma soprattutto
voleva dire garantirsi approvvigionamenti idrici regolari mediante la costruzione di canali, rogge o dighe per
l’irrigazione che richiedevano lavori collettivi organizzati e sistemi sociali coordinati tra più famiglie,
soprattutto in Asia. L’intensificazione permetteva in una prima fase di ottenere maggiori rese e quindi
maggiori disponibilità di risorse alimentari, che per loro natura incentivavano l’aumento demografico. Col
succedersi delle generazioni gli accresciuti volumi demografici generavano però maggiore domanda di cibo,
che per essere soddisfatta finivano per esigere ulteriori opere d’intensificazione produttiva e innescare
ulteriori innovazioni tecniche che, in caso di successo, aprivano la strada a nuovi rialzi dei numeri delle
anime. La crescita demografica in tal modo fungeva sia da effetto che da una causa dello sviluppo agricolo.

DATI

Per effetto di questa spirale al rialzo i numeri della popolazione umana sul pianeta presero a salire,
lentamente e in maniera discontinua, ma inesorabilmente. Se per tutta la durata del paleolitico, cioè per la
gran parte della durata della nostra specie, i tassi di crescita demografica non si erano sostanzialmente
discostati dallo zero (pur non essendo esattamente uguale a zero) con l’avvento dell’agricoltura la curva
demografica cominciò a innalzarsi. Da una percentuale media di 0,1 persone per km2 del tardo paleolitico
si passò a 1 o 2 persone per km2 nelle prima fasi di pro-agricoltura asciutta per arrivare sino a 6 persone
per km2 con l’arrivo dell’agricoltura irrigua. In tal modo la popolazione umana aumentò di almeno 60 volte
nel corso di 6.000 anni dopo esser rimasta quasi immobile per 60.000 anni. (vedi Flannery in Solinas 1992) Il
cambiamento, ben visibile allo sguardo statistico dello studioso a distanza, fu in realtà impercettibile agli
occhi di coloro che lo realizzarono, diluendosi millimetricamente, generazione dopo generazione, in un
enorme arco di tempo. I protagonisti non si resero mai pienamente conto della proporzione dell’ “onda di
avanzamento” –per usare l’espressione di Ammerman e Cavalli Sforza- a cui stavano contribuendo.

IL CONTROLLO DEL TERRITORIO

La crescita demografica in situazioni di concentrazione delle attività produttive in spazi limitati e di difficile
mobilità territoriale, faceva emergere una diversa sensibilità rispetto al tema del possesso della terra, dal
momento che l’insediamento stanziale in siffatte condizioni implicava di per sé un notevole investimento su
suoli che dovevano essere quindi chiaramente circoscritti, rivendicati e custoditi. Dall’accurato controllo dei
terreni coltivati venivano infatti a dipendere le stesse possibilità di sopravvivenza dei contadini sedentari, a
differenza di quel che accadeva nelle situazioni di orticoltura itinerante che restavano aperte alla mobilità,
quando all’esaurimento o alla diminuita resa in una certa zona si poteva porre rimedio spostandosi da
un’altra parte per cercarne nuove fonti di approvvigionamento. Col passaggio ad un’agricoltura stanziale e
a popolazioni voluminose, la soluzione dello spostamento si faceva assai più problematica, se non del tutto
impraticabile, soprattutto se nel frattempo altri gruppi si erano andati radicando nei territori circostanti.
Con l’insediamento stanziale prendeva quindi corpo nella sensibilità individuale e nell’immaginario
collettivo un nuovo senso della territorialità, assai più forte, radicato e arroccato sulla difensiva del proprio
lembo di terra, anche sotto il profilo simbolico e affettivo. Sotto le abitazioni diventava costume seppellire i
morti di famiglia e la residenza in un preciso luogo diventava un potente fattore di identificazione e
appartenenza collettiva. Ne derivava una tendenza all’appropriazione del territorio più marcata e un
irrigidimento del rapporto con la terra in termini di controllo dell’ingresso di estranei, per la necessità di
proteggere i frutti del lavoro di un anno dalle possibili incursioni dei profittatori delle fatiche altrui, che
naturalmente non mancavano neanche allora. Anche da questo punto di vista, faceva gioco per le famiglie
contadine che funzionavano come unità integrate di produzione e consumo il poter contare su un gruppo
domestico numeroso, dal momento che il numero delle persone presenti in casa era in fin dei conti il
miglior deterrente contro le eventuali incursioni di estranei e la miglior arma di difesa in caso di discrepanze
con vicini. Elemento che a sua volta contribuiva in maniera non marginale a spingere al rialzo i numeri delle
famiglie. Come ha osservato Hayden, infatti, la tendenza alla crescita demografica non dipendeva solo dalla
maggiore o minore abbondanza di risorse e fonti di energia, ma anche dal fatto che nelle comunità locali
prevalessero logiche competitive piuttosto che logiche cooperative. Contrariamente alle bande, per loro
natura inclini alla condivisione e alla cooperazione, le aggregazioni contadine impossibilitate al movimento
maturavano un’intrinseca propensione all’autodifesa e alla protezione delle risorse, e quindi al
potenziamento demografico interno (sia nel tempo, incrementandosi generazione dopo generazione, sia
nello spazio, accrescendo l’imponenza del gruppo in un momento dato), proprio perché una prole
numerosa ed un folta schiera di consanguinei era il miglior antidoto contro la concorrenza e la predazione,
indipendentemente dal fatto che ci si trovasse in una congiuntura di abbondanza e di magazzini pieni
oppure di scarsità e magazzini vuoti. (Hayden in Solinas 1992)
LE SOCIETA’ DI PARENTELA

(CLAN E LIGNAGGI)

STRUTTURE PROPAGATIVE

Alla logica della competizione dobbiamo dunque guardare per comprendere come si organizzavano le
società contadine sedentarie. Se infatti i cacciatori e i raccoglitori nomadi avevano nella piccola banda il
loro microcosmo di riferimento tipico, col formarsi di villaggi contadini sedentari le unità politiche di
riferimento presero la forma di sistemi di parentela composti da gruppi di consanguinei che si
consideravano discendenti di un antenato comune. Nel lessico abituale dell’antropologia erano clan o
lignaggi (segmenti costitutivi di clan) normalmente composti da un numero di membri considerevolmente
più alto rispetto alle bande (centinaia di persone).

Attraverso l’appartenenza a clan e lignaggi differenti, le famiglie determinavano i propri diritti di accesso ai
pascoli, gestivano i conflitti reciproci, combinavano matrimoni, decidevano come riparare ai torti fatti o
subiti, stabilendo il cosiddetto prezzo del sangue. In linea generale clan e lignaggi nascevano dalle necessità
di cooperazione connesse alle attività di coltivazione e allevamento in forme complesse, ma anche
dall’esigenza di disporre di un principio fondante -qual appunto la discendenza- capace di dare identità e
senso di continuità al gruppo. (Kirkhoff in Fabietti 1997)

Clan e lignaggi non sorgevano però indistintamente in tutte le società contadine e pastorali. Tipicamente
facevano la loro comparsa in realtà rurali attraversate da situazioni di tensione, dissidi e motivi di ricorrente
frizione fra gruppi di agricoltori o allevatori contigui; sorgevano cioè ab origine come corpi di natura politica
funzionali alla competizione, nel quadro di rivalità e contese per l’accesso a risorse naturali. Appellandosi ai
diritti legati alla comune discendenza da un antenato fondatore comune, le persone e i gruppi domestici
gestivano le contese che via via insorgevano con altri gruppi per questioni di confine territoriale,
sconfinamenti del bestiame, diritti d’uso prioritario su boschi, pascoli, fonti d’acqua, oltre che per faide e liti
personali. (Kirkhoff in Fabietti)

E proprio perché nascevano per far fronte a continue situazioni di conflitto, clan e lignaggi si
caratterizzavano internamente come “strutture propagative”, come organizzazioni, cioè, per loro natura
votate alla crescita demografica. In funzione del potenziamento della propria dimensione demografica, clan
e lignaggi alimentavano narrazioni e mitologie che esaltavano il valore della comune discendenza
dall’antenato comune, ma soprattutto alimentavano modelli d’interazione e comportamenti sociali che
favorivano il moltiplicarsi dei numeri del gruppo, ad esempio assegnando al gruppo di parentela nel suo
insieme il controllo sulle scelte matrimoniali dei suoi singoli membri, attraverso un governo degli anziani
sulla circolazione delle donne, la combinazione di matrimoni e la formazione di nuovi nuclei familiari. In
funzione dell’espansione demografica andava anche il costume della poligamia maschile, che si diffondeva
soprattutto fra le figure meglio munite di terre e bestiame, che grazie alla maggior ricchezza produttiva
potevano permettersi di avere più mogli per sé e per i propri figli, mentre le famiglie con molte figlie da
dare in sposa possedevano la ricchezza riproduttiva, cioè il potenziale matrimoniale, necessario ai primi per
avere una prole numerosa. Cosicché i clan più muniti di terre e bestiame risultavano alla fine anche quelli
più voluminosi, mentre quelli meno dotati di possedimenti avevano di solito una discendenza più
contenuta. (Solinas 1992)
IL CULTO DEGLI ANTENATI

Insieme al territorio ed al villaggio di residenza, la parentela veniva quindi a costituire la principale matrice
dell’identità delle persone, nonché il principale sistema politico di riferimento. Ogni soggetto afferiva ad
una precisa rete di parenti che si ritenevano eredi di uno o più antenati comuni -che potevano essere di
carattere mitico e totemico, oppure realmente esistiti-, che a seconda dei casi, potevano concentrarsi in
uno specifico perimetro territoriale –una valle, un altipiano, una collina, lungo il corso di un fiume-, oppure
disperdersi in più villaggi, che venivano così a costituirsi con una pluralità di membri appartenenti a clan e
lignaggi diversi. In tutti i casi, essi fondavano comunque la propria immagine pubblica e il proprio diritto
collettivo alla continuità sul culto e la sacralizzazione dei parenti defunti, coloro che morendo erano
transitati nella sfera invisibile degli antenati ed erano fatti oggetto di devozione sistematica da parte di figli,
nipoti e pronipoti.

IL RUOLO DEGLI ANZIANI

Dal culto degli antenati e dalla logica della discendenza veniva l’importanza degli anziani, che per la loro
posizione generazionale erano i più vicini agli antenati e i più prossimi a diventare essi stessi degli antenati.
Specialmente nelle società africane, gli anziani erano fatti oggetto di speciale deferenza da parte di tutti i
membri della comunità e di fatto erano le figure a cui era riconosciuto per statuto generazionale il compito
di sovraintendere i destini politici della comunità e regolamentare le principali questioni della vita sociale.
Erano quindi coloro che avevano l’ultima parola quando si trattava di combinare matrimoni, assegnare
terreni a nuovi nuclei familiari, destinare capi di bestiame, decidere della gestione di conflitti con altri clan o
delle modalità di sanzione per delitti e offese ricevuti dalle persone. Insieme agli anziani rivestivano un
ruolo rilevante negli equilibri comunitari anche gli sciamani o comunque gli iniziati in possesso di speciali
saperi religiosi e magico-esoterici, che permettevano loro di decifrare gli spiriti cosmici ed entrare in
contatto con il mondo invisibile degli antenati. Anziani e iniziati erano chiamati periodicamente a svolgere
funzioni di celebranti, guide spirituali, terapeuti, mediatori, confessori, pacieri, e ciò conferiva loro grande
prestigio e rispetto, ma non dava loro alcuna facoltà di imporre con la forza il proprio volere, né all’interno
né tantomeno all’esterno del gruppo. Anche nei clan –come nelle bande- non esisteva un apparato
istituzionale o un’autorità politica in grado di far valere poteri di coercizione e pretendere obbedienza con
la forza. L’unico potere ammesso rimaneva il potere della persuasione e del convincimento esercitato con
l’abilità retorica nei rapporti personali piuttosto che nelle assemblee e nei consigli di villaggio. Almeno in
principio, quindi, clan e lignaggi non avevano un assetto gerarchico strictu sensu e nessuno, nel nome del
clan, poteva costringere con la forza le persone a fare qualcosa controvoglia, né privare le famiglie del
diritto consuetudinario di usufrutto dei fondi acquisito lavorando la terra o del diritto di sfruttare le risorse
naturali di proprietà comune, come ad esempio boschi, foreste, ruscelli. (Sahlins 1972) Ciascun clan era
inoltre politicamente indipendente dagli altri clan; possedeva una propria denominazione distintiva, godeva
di una propria sovranità politica e controllava un proprio territorio, definito e riconosciuto, su cui
rivendicava prerogative esclusive di uso e sfruttamento. Nessun clan poteva quindi dire all’altro cosa fare,
né imporgli alcuna ingerenza o vincolo di sorta. Anche in questo senso, la struttura dei rapporti politici
rimaneva perciò sostanzialmente paritaria e acefala, non soggetta a poteri sovraordinati da parte di élites
dominanti in grado di imporre il proprio dettato. I diversi clan coesistevano, interagivano, litigavano e si
conciliavano l’uno con l’altro in un rapporto di sostanziale equivalenza politica. Al verificarsi di litigi,
dispute, aggressioni, oppure di controversie collettive -fra clan opposti, o fra lignaggi dello stesso clan-,
spettava agli anziani in rappresentanza delle rispettive reti di parentela decidere collegialmente nei consigli
di villaggio se e come sanare i contrasti, quali compensazioni prevedere per i danni subiti, come risolvere
imprevisti, organizzare cerimonie collettive o scambiare matrimoni.
L’ESOGAMIA

Fintantoché coesistevano in un regime di parità giuridica, infatti, i clan condividevano in genere una prassi
matrimoniale “esogamica” che prescriveva di sposarsi al di fuori dal proprio gruppo di discendenza e
favoriva quindi l’intercambio continuo di mariti e mogli fra diversi clan; cosicché le tensioni politiche per il
controllo delle risorse naturali venivano a intrecciarsi e a temperarsi continuamente grazie ai legami
affettivi ed economici stabiliti fra persone appartenenti a reti di parentela diverse. (Fabietti)

LA RECIPROCITA’ PARENTALE

Dal clan o dal lignaggio, quindi, l’individuo traeva non solo il proprio codice di identità, ma anche la sua
fonte di sicurezza materiale e la sua possibilità di protezione fisica. Era pertanto ai consanguinei che egli
doveva in prima istanza il rispetto dei doveri tradizionali di condivisione, mutuo aiuto e sostegno in
situazioni di insicurezza e indigenza materiale, tanto più quanto più contrasti con altri gruppi potevano
mettere a repentaglio la sicurezza dell’intero gruppo e richiedevano pertanto la massima coesione dei suoi
componenti. Come per cacciatori e raccoglitori, infatti, anche per contadini e pastori la possibilità di
sopravvivenza individuale era indissociabile, dalle pratiche di condivisione, reciprocità e mutuo aiuto,
soprattutto nei frangenti più difficili; pratiche che si traducevano in costumi protrattisi nei millenni sino a
ritrovarsi ancor oggi largamente presenti in molte realtà contadine extraeuropee, soprattutto fra quelle
geograficamente più isolate e più slegate dai grandi circuiti commerciali nazionali e internazionali. Facevano
parte del bagaglio di pratiche mutualistiche sviluppate dalle prime comunità agricole sedentarie costumi
come quello del reciproco scambio tra unità domestiche di beni essenziali per l’attività agricola, quali semi,
concimi, capi di bestiame, attrezzi di lavoro, mezzi di trasporto, ma anche di mano d’opera necessaria per la
costruzione di piccole opere edilizie e soprattutto per lo svolgimento dei lavori di mietitura e degli altri
interventi nelle fasi del ciclo produttivo in cui si richiedevano braccia aggiuntive a quelle del nucleo
domestico. Parte essenziale dei sistemi di condivisione e reciprocità era costituita anche in questo caso
dagli scambi di informazioni, saperi e conoscenze, che risultavano vitali nei frangenti più critici di calamità
climatica per riuscire a cavarsela venendo a sapere dove e come reperire risorse, fonti di energia alternative
e occasioni di lavoro. Così pure rientrava nella logica della reciprocità contadina l’accoglienza domestica
spontanea di bambini di cui i genitori non riuscivano per qualche ragione a farsi carico, con una prassi di
“genitorialità condivisa” che poteva estendersi anche a parenti e vicini colpiti da qualche tipo di malattia,
infortunio, disabilità o stato di abbandono. In alcune tradizioni culturali, come ad esempio quelle andine, il
legame mutualistico tra parenti e vicini si estrinsecava anche nello svolgimento periodico di lavori
comunitari richiedenti l’apporto di tutti i membri adulti del villaggio, come la costruzione di opere idriche,
la manutenzione vie di comunicazione, la costruzione di monumenti rituali o la pulizia e la sistemazione di
edifici ad uso comune. In forma cooperativa avveniva ovviamente anche l’organizzazione periodica di
festività, rituali della fertilità e convivi cerimoniali in occasioni periodiche che erano pressoché onnipresenti
nelle società contadine delle più diverse tradizioni e geografie. Le pratiche di reciprocità domestica e la
circolazione di beni, persone e conoscenze erano d’importanza vitale specialmente nei frangenti di maggior
difficoltà nel reperimento dei beni primari, poiché letteralmente garantivano – e garantiscono ancor oggi-
alle persone più colpite dalle calamità la possibilità di trovare protezione e sopravvivere. La circolazione di
aiuti, prestazioni lavorative e accoglienze costituiva un elemento da cui la strategia comunitaria non poteva
fare letteralmente a meno per superare con successo le fasi di penuria e di crisi. Il sistema della reciprocità
comunitaria, allora come oggi, conteneva i rischi di impoverimento che viceversa aumentavano
esponenzialmente quando le famiglie venivano a trovarsi isolate, emarginate e per qualche ragione di
dissidio intestino escluse dai sistemi di reciprocità locali.
LA NASCITA DEI DOMINI POLITICI

Il modello di organizzazione politica tipicamente presentato dai manuali di antropologia dopo le bande e le
società di parentela è il “dominio”, termine che traduce in italiano il vocabolo inglese chiefdom spesso
usato anche nella letteratura antropologica italiana (chefferie in francese, cacicazgo in spagnolo). Il dominio
si distingue dalle società di parentela in quanto rappresenta una modalità di organizzazione politica che per
la prima volta vede emergere con chiarezza la figura di un’autorità in grado di impartire ordini e
condizionare la vita delle persone che lo circondano, non solo entro il ristretto gruppo della cerchia dei
parenti o degli abitanti del proprio villaggio ma anche nelle comunità circostanti. L’emergere di una
leadership dotata di queste caratteristiche si produsse nelle società agro-pastorali ove clan, lignaggi o
fazioni politiche locali riuscirono a prevalere assumendo un ruolo di predominanza politica ed economica,
resa visibile tra le altre cose anche dal fatto che i membri dell’élites si distaccavano anche sul piano
matrimoniale dal resto della popolazione, sposandosi solo al proprio interno e non più coi membri di altri
clan. (Kirkhoff) Un dominio si formava quindi laddove un clan, un lignaggio o una certa fazione politica
basata sulla co-residenzialità riusciva ad acquisire un ruolo di controllo territoriale che gli consentiva di
esercitare una costante influenza su più villaggi e gruppi di parentela, arrivando ad imporre il proprio
potere anche con azioni di coercizione fisica. Il risultato di questa dinamica fu la nascita di sistemi politici
gerarchici –detti appunto domini- che rispetto alle società di parentela erano politicamente più definiti,
formalizzati e istituzionalizzati, nonché dotati di livelli d’integrazione socio-culturale più complessi e
caratterizzati al proprio interno da disuguaglianze economiche e gerarchie di rango che dividevano non solo
gruppi di parentela diversi, ma anche fra segmenti diversi all’interno dello stesso gruppo. Ciò che però più
di ogni altra cosa contraddistingueva i domini rispetto ad altri tipi di società contadine era la possibilità
acquisita dalle famiglie emergenti di governare, almeno in parte, il governo delle risorse prodotte dagli
abitanti del territorio e di conservare il potere anche a prescindere dal loro consenso, cosa che prima
sarebbe stata impensabile. (Fabietti 1991)

INTEGRAZIONE SOCIO-ECONOMICA

Così come i gruppi di discendenza, anche i domini non apparvero indistintamente in tutte le società agro-
pastorali ma solo in società densamente popolate e dotate di consistenti surplus produttivi, per ottenere i
quali c’era bisogno di conservare e immagazzinare stagionalmente il cibo e soprattutto era necessario
realizzare interventi che richiedevano cospicui investimenti di lavoro, come ad esempio canali di irrigazione,
dighe, terrazzamenti o recinzioni. Erano inoltre zone ove gli abitanti dovevano tenere sotto stretta
sorveglianza alcune nicchie ecologiche particolarmente floride che rivestivano un’importanza vitale per la
loro sopravvivenza. Si trattava quindi di popolazioni che investivano molto sui territori abitati e che
avevano quindi sviluppato un certo grado di intensificazione agricola, specialmente ove esse erano più
esposte a fattori di rischio ambientale (Johnson-Earle 2000) Con queste caratteristiche centinaia di domini
apparvero, indipendentemente gli uni dagli altri negli angoli più disparati del pianeta: nelle isole della
Polinesia e della Melanesia, nel sud est asiatico, nella penisola arabica, nell’area indo-iranica, in
Scandinavia, nell’Africa sub-sahariana, in Medio Oriente, in Messico, nell’istmo centroamericano, lungo il
Rio delle Amazzoni, sulle cordigliere andine.
INTEGRAZIONE

Nel cercare di spiegare le ragioni del formarsi dei domini i primi studi di antropologia politica
sottolinearono come l’instaurarsi di un potere territoriale, oltre a comportare una direzione centralizzata
dei sistemi di produzione agricola, avrebbero avuto l’effetto non trascurabile di integrare in sistemi di
scambio unificati gruppi sociali posti in habitat ecologici con risorse diverse, i quali potevano avvantaggiarsi
economicamente dal processo di unificazione. Il costituirsi di un’autorità comune centrale avrebbe creato
infatti la possibilità di disciplinare le frizioni fra comunità locali e di compensare gli squilibri nelle rispettive
dotazioni di risorse, introducendo regole di interscambio che davano modo ai diversi villaggi di reperire ciò
che mancava loro con ciò che avevano gli altri al fine di completare la propria dieta e bilanciare le proprie
necessità. In un modo o nell’altro, il dominio avrebbe avuto insomma un effetto di integrazione e
regolazione di nicchie ecologiche e comunità umane diverse grazie appunto al formarsi di un sistema socio-
economico di circolazione più ampio e integrato reso possibile dal coordinamento dell’autorità centrale.
Service, in particolare, vedeva l’opera di centralizzazione e redistribuzione svolta dai capi come un
meccanismo che favoriva il trasferimento dei beni in funzione della capacità di produzione e dei bisogni di
ciascuno (Service 1971) In realtà, come mostrarono le ricerche di Sahlins in Polinesia, il grado di
integrazione dei domini anche all’interno di una stessa regione era altamente variabile a seconda della
specifica traiettoria storica, della dimensione e della produttività dei luoghi. (Sahlins cit. in Earle 2011)

LOTTE E CIRCOSCRIZIONE AMBIENTALE

Per comprendere come società contadine composte da clan e lignaggi originariamente renitenti ad ogni
prospettiva di subordinazione arrivassero a sottostare a sistemi politici a tutti gli effetti gerarchiche,
dobbiamo tenere conto ancora una volta degli effetti della crescita demografica generata dall’agricoltura.
Sotto la pressione della crescita demografica, come abbiamo osservato, i villaggi degli agricoltori tendevano
periodicamente a farsi più popolosi. Finché c’era terra arabile disponibile in abbondanza nei dintorni dei
villaggi non c’era problema per le nuove generazioni: le nuove famiglie potevano colonizzare qualche nuovo
appezzamento non ancora utilizzato, più o meno vicino dal nucleo originario, e farsi così la loro vita.
Quando però i dintorni del villaggio si trovavano in zone con elevate concentrazioni di risorse ma circondati
da fasce di territorio aride, poco produttive e difficili da mettere a frutto, oppure quando erano circondati
da altre popolazioni ostili che impedivano l’espansione verso nuovi territori, come accadeva per esempio
nelle valli costiere del Perù, allora la possibilità di colonizzare nuove terre veniva meno e l’unica alternativa
era cercare di valorizzare i territori già in uso, sfruttando anche le loro parti meno fertili e ricorrendo
massicciamente a irrigazioni, concimazioni e terrazzamenti. In questa situazione di compressione diventava
però facile entrare prima o poi in rotta di collisione con qualche clan vicino, per il controllo di un prato, lo
sfruttamento di un bosco, per diritti di pesca su un braccio di fiume, per le distruzioni dei coltivi da parte
degli animali altrui, per dispute su questioni di confine, oppure per questioni di eredità, per debiti insoluti,
relazioni illecite e infrazioni dei tabù culturali. (Carneiro 1997, Hayden) Se non si trovava il modo di mettersi
d’accordo mediante qualche meccanismo di scambio, suddivisione o cooperazione, allora lo scontro poteva
prendere una forma violenta e da lì in poi trasformarsi in una faida punteggiata da episodi anche mortiferi.
Trattandosi di una violenza legata ad esigenze di sussistenza, il prolungarsi dello stato di belligeranza
poteva evolvere in una guerra vera e propria, con risvolti che che mai si erano visti in precedenza, dal
momento che la contesa era finalizzata non solo a far prevalere il proprio onore e il proprio prestigio ma
anche a sottomettere l’avversario traendone un vantaggio economico.
Il problema era che nelle aree in cui la fuga era resa complicata dalla presenza di qualche fattore di
circoscrizione naturale – un mare, un deserto, una catena montuosa-, o umano -altre genti ostili-, coloro
che uscivano perdenti dallo scontro armato coi vicini non potevano più risolvere i loro problemi
andandosene a cercar miglior sorte altrove; dovevano rassegnarsi e assoggettarsi politicamente al clan
vincitore diventandone tributari; e per ottemperare al dovere di tributo dovevano o produrre più cibo di
quanto facevano prima, o in alternativa privarsi periodicamente di parte del proprio raccolto, vale a dire
impoverirsi. Il gruppo vincitore dalla contesa, per contro, grazie alla posizione conquistata poteva avviare
un processo di espansione territoriale man mano altri gruppi di discendenza o altri villaggi accettavano o
erano costretti ad accettare di sottomettersi alla sua potenza crescente demografica e militare. Ad un esito
analogo si poteva arrivare anche quando il conflitto tra gruppi antagonisti esplodeva in posti, -come ad
esempio le rive del Rio delle Amazzoni-, in cui le migliori risorse agricole e ittiche si concentravano in
ristrette fasce litorali lungo il fiume, ove col tempo varie comunità umane si erano affollate entrando in
lotta le une con le altre per preservare il proprio diritto di accesso preferenziale a una nicchia ecologica
particolarmente prolifica. Anche in questo caso, in assenza di qualche tipo di accordo, il contenzioso per le
risorse sfociava in uno stato di belligeranza cronica. E anche in questo caso, l’epilogo delle continue faide
era prima o poi la guerra che portava alla sottomissione di una delle parti e alla nascita di un dominio.
(Carneiro)

I BANCHETTI

La competizione tra clan e villaggi non si svolgeva però solo sul terreno della contesa per l’accaparramento
delle risorse materiali; nasceva anche dalla lotta per la conquista del prestigio, della fama e dell’influenza
politica diremmo oggi del proprio soft power, che nelle società agro-pastorali veniva tradizionalmente dalla
capacità di ostentare ricchezza mostrando al contempo generosità e volontà di redistribuzione secondo i
canoni di un comportamento culturale che -come abbiamo visto- aveva origini antiche. (Brumfield 1994)
Nella contesa per la fama e per il prestigio un ruolo chiave era giocato da alcuni personaggi che sono stati
denominati “big man” dagli antropologi (sia Sahlins che Harris), e “agrandizer” dagli archeologi (Hayden).
Big man e agrandizer giocavano un ruolo decisivo nell’innescare il processo che portava alla nascita della
figura del capo e nel favorire il processo la formazione del dominio, dal momento che si rendevano
protagonisti di azioni di mobilitazione collettiva che avevano luogo precisamente sul terreno
dell’ostentazione pubblica dell’abbondanza e della elargizione pubblica. Neanche le società più egualitarie
dei cacciatori erano state del tutto scevre da rischi di competizioni tra singoli individui, ma i tentativi di
protagonismo e di predominio dei singoli nelle bande mobili erano sempre stati prudentemente trattenuti
per salvaguardare l’equilibrio e la coesione indispensabili per la sopravvivenza dei gruppi in condizioni di
erraticità e perdurante incertezza. Una volta però sopraggiunte le condizioni di sedentarietà e di
abbondanza mediante l’agricoltura stanziale, le tendenze alla competizione individuali potevano erompere
e manifestarsi senza mettere necessariamente a repentaglio la sussistenza collettiva, almeno nelle realtà
non immediatamente minacciate da imminenti fattori di rischio ambientale. Ove la natura restituiva con
generosità i frutti del lavoro umano, colui che ne aveva voglia e l’ardire poteva senza impedimento dar
prova della sua abilità produttiva e della sua intraprendenza, accumulando, ostentando e redistribuendo
ricchezza, sempre che ciò non comportasse controindicazioni per il benessere collettivo del gruppo. Le
feste celebrate in occasione dei riti e delle attività di culto che periodicamente animavano la vita dei villaggi
contadini erano l’arena per eccellenza in cui le persone con ambizioni di prestigio potevano dar prova del
proprio valore, della propria operosità e della propria magnanimità. In tutto il mondo contadino, infatti, era
costume usuale in occasione delle feste rituali legate alle celebrazioni religiose allestire convivi comunitari
che si trasformavano in vere e proprie esibizioni di opulenza da parte di individui che facevano a gara per
dimostrare pubblicamente di essere più splendidi degli altri, con grande gioia e sollazzo -peraltro- di tutti gli
altri. In occasione delle feste rituali attorno a cui si costruiva l’identità comunitaria, quindi, chi si dimostrava
capace di dar vita al simposio più ricco di beni, vivande e libagioni riceveva il plauso di tutti gli altri e ne
guadagnava immediatamente in riconoscenza, visibilità e prestigio pubblico.

BIG MAN / LO SPLENDIDO

Il big man era esattamente quel tipo di personaggio che voleva far colpo sugli altri mettendosi in mostra a
tutti i costi e per far ciò si dava un gran daffare per brillare in occasione del banchetto, sfidando soggetti
ambiziosi come lui che volevano non meno di lui dimostrare di essere i più opulenti e magnanimi re-
distributori di vivande. Per potersi affermare come il più splendido di tutti, come l’uomo più generoso del
circondario, l’aspirante big man doveva quindi darsi parecchio da fare per accumulare quante più vivande
possibili; ma per poter accatastare tutti le leccornie necessarie per fare veramente un figurone aveva di
solito bisogno anche dell’aiuto di un circuito di parenti, amici e vicini disponibili a sostenerlo nelle
dimostrazioni di grandezza e quindi a lavorare per donargli periodicamente le noci di cocco, i grani, i maiali
o le capre necessari con cui fare bella figura al momento del grande convivio. Trovare alleati tra parenti e
vicini poteva non essere difficile fintantoché c’era copiosità di raccolti, poiché ciascuna famiglia poteva
permettersi di offrire una piccola frazione del proprio raccolto senza svenarsi o rischiare di patire rovinose
ricadute dei propri standard di consumo. La collaborazione, d’altronde, era in qualche modo anche dovuta
dalla comune appartenenza parentale o residenziale ed era fortemente incentivata dai rapporti di
competizione accesa che intercorrevano fra il proprio clan o il proprio villaggio e quelli concorrenti. Alla fin
fine portava poi anche un premio per i sostenitori, dal momento che il tutto si concludeva di solito con una
bisboccia di proporzioni pantagrueliche, corredata da danze, canti e sbronza generale, che non passava
inosservata agli occhi degli altri villaggi. La cooperazione di parenti e vicini agli sforzi del big man era
incentivata anche dalla sua capacità di sapersi muovere all’esterno della comunità per procurarsi
prelibatezze, beni esotici e materie prime non disponibili in loco, oltre che notizie e pettegolezzi su quel che
la concorrenza stava macchinando altrove. Tutti valori aggiunti che giovavano alla sua reputazione e alla
sua capacità di attrarre accoliti, che gli permettevano di mobilitare una propria rete di affiliati che si sentiva
in dovere di compartecipare, anche se al protrarsi della competizione, con feste sempre più frequenti,
copiose e traboccanti, il gioco poteva rivelarsi alla lunga piuttosto costoso, perché convivi sempre più
dispendiosi e fastosi implicavano un lavoro sempre più intenso per apportare derrate sempre più cospicue.

BIG MAN/ IL POVERO

In ogni caso se alla fine il personaggio riusciva -per così dire- a vincere la corsa del prestigio, facendosi la
nomea dell’uomo più prodigo del circondario, allora diventava l’uomo del momento, diventava colui a cui
più che ad altri andava il plauso, l’ossequio e la riconoscenza della collettività; e diventava quindi un punto
di riferimento della collettività, diventava la figura a cui si riconoscevano i numeri per fare il capo e guidare
il gruppo nelle sue querelles interne, nella gestione delle sue questioni economiche e nei conflitti coi clan
ed i villaggi avversari. Gli si riconosceva il ruolo di capo per l’abbondanza materiale che sapeva generare,
per la capacità organizzativa che sapeva dimostrare, ma anche per l’impegno e la fatica che sapeva
profondere personalmente in azioni considerate benefiche per la comunità. Nell’immaginario collettivo egli
era infatti un soggetto meritevole non solo perché “imprenditorialmente” capace ma anche perché
disinteressato, non motivato in prima istanza da una brama di arricchimento personale. Nell’ideal-tipo
popolare forgiato narrativamente delle culture tradizionali della condivisione e della reciprocità, i big man
non era un approfittatore, un egoista vanaglorioso o uno spendaccione; era in prima istanza uno che
lavorava duro per il godimento della comunità e in funzione di tale obiettivo era disposto anche a tirare la
cinghia personalmente, a risparmiare sui suoi stessi consumi avendone a cambio nient’altro che la pubblica
riconoscenza. E dal momento che la sua missione era redistribuire tutto ciò che riusciva a raccogliere,
quando alla fine riusciva nell’intento, egli non poteva ritrovarsi né più ricco né più potente di quanto era
prima. Anzi, poteva ritrovarsi persino più povero.

BIG MAN / L’APPROFITATORE

In principio il big man non era dunque necessariamente una persona mossa dal desiderio di arricchirsi;
spesso era in effetti economicamente disinteressato, mosso principalmente dal movente della ricerca del
prestigio attraverso pratiche di accumulazione e redistribuzione che non alteravano significativamente gli
equilibri economici del gruppo di appartenenza. Capitava però che a raggiungere i ruoli di leadership
fossero talvolta soggetti con personalità particolarmente ambiziose (da qui la parola agrandizer), le quali
non esitavano a far uso delle risorse accumulate tramite le feste a fini di utilità personale e di
ingrandimento del proprio ruolo politico. La posizione di centralità sociale acquisita grazie alla forte cerchia
di sostenitori e alleati esterni raccolti in funzione delle feste metteva infatti il big man in condizioni di poter
manipolare a proprio vantaggio la rete dei rapporti sociali sotto le apparenze rituali della reciprocità e della
redistribuzione. Una volta assurto al ruolo di capo, egli poteva gestire pro domo sua i beni comuni che la
collettività gli affidava in gestione sulla base di rapporti fiduciari, accaparrandosi le terre o le mandrie
migliori, organizzando gli scambi in modo tale da avere il monopolio sugli articoli più preziosi, o ancora
sposando più donne degli altri prescegliendole tra le famiglie più abbienti e facendo con esse più figli di
quanto normalmente facevano gli altri. (Hayden articolo) Non dobbiamo dimenticare, infatti, che in quelle
società la potenza riproduttiva ottenuta con un gran numero di eredi avuti da un gran numero di mogli
rappresentava un elemento centrale del prestigio e del successo politico personale. Grazie al gran numero
di mogli e di figli, il capo letteralmente popolava il territorio con la sua discendenza, fecondava il suo
popolo, lo procreava -simbolicamente e fisicamente-, creando un modello di riferimento per tutti gli altri.
(Solinas 1992)

BIG MAN / IL DOMINUS

In virtù della fama ottenuta come grande inseminatore, oltre che grande redistributore, il big man poteva
sfruttare l’eco delle sue prodezze anche al di fuori della sua ristretta cerchia territoriale, facendo sì che altre
comunità ne riconoscessero l’autorità morale e il valore e lo omaggiassero, materialmente e
simbolicamente. In occasione delle feste rituali che egli periodicamente organizzava, poteva così ricevere
doni e offerte da altri villaggi che di loro iniziativa decidevano di contribuire, ricevendone a cambio a titolo
di contro-doni l’invito al banchetto e il diritto di portarsi a casa parte delle giacenze accumulate a
conclusione dell’evento con le quali gli invitati potevano a loro volta fare opera di elargizione nelle proprie
comunità di provenienza. Il big man si proiettava così in una dimensione sovralocale alla stregua di grande
capo, la cui abilità nel generare e nell’elargire era giudicata utile alla soddisfazione di bisogni collettivi su
scala più ampia di quella limitata al suo solo villaggio mediante il sistema degli intercambi di doni; egli
interpretava una funzione collettiva sovra-locale. Grazie ai doni ricevuti dal circuito di sostenitori e degli
alleati di altre località, egli poteva così accatastare con una certa regolarità consistenti quantità di beni e
con essi costituire un granaio centralizzato di riserve, parte delle quali poteva riservare per eventuali
situazioni di crisi alimentare, parte per sostenere i giovani che dovevano essere mobilitati nei conflitti
contro i gruppi nemici, parte per remunerare gli artigiani a cui si incaricava la produzione degli orpelli e
degli oggetti simboli che amava esibire in pubblico come simboli distintivi della sua speciale posizione
sociale, e parte –naturalmente- per ulteriori feste cerimoniali che la gente si aspettava sempre più grandi e
sfarzose.
LA FORMAZIONE DELLA STRUTTURA POLITICA

Nella sua forma –diciamo così- originaria, il big man raggiungeva però il rango di capo riconosciuto senza
esercitare reali poteri di coercizione; fintantoché rimaneva un big man, non disponeva né di un apparato
punitivo, né della possibilità di avvalersi di altri espedienti per costringere i suoi ossequianti a fare qualcosa
contro la loro volontà; poteva chiedere e ottenere sostegno a vicini e lontani facendo ricorso
essenzialmente all’esempio, all’uso sapiente dei simboli, all’arte della persuasione e ad un consumato uso
della parola. (Levi Strauss, Clastres) Solamente in ragione di tali prerogative acquisiva lo speciale statuto
che gli consentiva di intervenire nelle faccende comunitarie per dirimere contese, amministrare risorse
collettive, coordinare opere idrauliche o favorire flussi di scambio fra diverse comunità.

Nel quadro dei conflitti e delle faide che endemicamente contrapponevano parentele e comunità locali,
tuttavia, il big man poteva usare il meccanismo delle feste ed il sostegno politico conquistato attorno alla
sua figura anche per dare una struttura politica all’insieme delle comunità locali che a lui facevano
riferimento; poteva cioè articolare entro un’architettura politica unitaria a lui subalterna tutta la rete di
capiclan, capi lignaggio, governatori di villaggi e addetti alle pratiche rituali che gli erano alleati,
riconoscendoli come leader dei rispettivi territori. E nel farlo poteva introdurre ad hoc tutta una serie di
tabù e norme sociali inventati e di costumi tradizionali manipolati in materie quali la trasmissione ereditaria
dei beni, le procedure di assegnazione delle doti e del prezzo della sposa, le sanzioni dovute in caso di
insolvenza debitoria. Inventando, correggendo o riadattando tabù culturali e regole sociali preesistenti, egli
poteva cioè imbastire una trama di credenze e normative il cui rispetto veniva posto alla base di un nuovo
sistema di potere territoriale organicamente strutturato e presentato come indispensabile per la
riproduzione della vita sociale e naturale delle comunità interessate, la cui violazione poteva essere foriera
di gravi conseguenze per la loro salute, per la loro armonia e per il loro benessere materiale; tabù e regole
sociali, quindi, la cui infrazione non era esattamente immune da rischi per coloro che avevano la ventura di
incapparvi. (Hayden)

La struttura politica veniva a conformarsi in prima battuta come una confederazione di comunità guidate da
capi villaggio alleati del capo centrale, ciascuna delle quali non rinunciava ai propri spazi di autonomia,
potendo cambiare alleanza a seconda della convenienza e dell’occorrenza politica (Earle 1997) Guardando
alla dimensione, alla ricchezza e allo stato di salute riproduttiva degli altri clan e degli altri villaggi in
occasione delle feste a cui si era invitati o di cui si era anfitrioni, ciascun gruppo faceva i suoi calcoli in
materia di alleanze, che potevano quindi mutare e invertirsi nel tempo, soprattutto quando aspettative
pregresse di restituzione e reciprocità andavano deluse e l’amicizia si trasformava in aperta ostilità e
rottura politica. Onde evitare tale eventualità, il capo centrale prodigava tutti gli sforzi possibili per tenere
insieme la coalizione, procurando che gli accordi di reciprocità e di mutua obbligazione stabiliti fra le parti
aderenti fossero regolarmente osservati, se necessario facendo anche ricorso alla forza quando qualcuno si
sottraeva al rispetto dei patti concordati mettendo a repentaglio l’integrità dell’alleanza.

IL CICLO DELLE FESTE

Dalla struttura politica sia i capi villaggio con spiccate vocazioni di agrandizer sia i relativi supporters
beneficiavano in varie forme, per esempio acquisendo l’importante ruolo di gestori dei sistemi di irrigazione
dei campi, che erano di vitale importanza per la produttività delle campagne, oppure acquisendo il diritto di
esigere dai contadini qualche corvee di lavoro al mese sui propri campi, o ancora diventando collettori delle
derrate necessarie per l’organizzazione delle feste che man mano il sistema montava man mano si facevano
sempre più numerose, sempre più opulente e sempre più impressionanti. Concatenando feste propiziatorie
delle piogge, feste di ringraziamento per i primi raccolti, feste “patronali” dei singoli villaggi, feste per
ricorrenze familiari, feste per riti di iniziazione, matrimoni, funerali, si veniva infatti a comporre un fitto
calendario annuale di appuntamenti che i capi villaggio concordavano con gli anziani dei vari clan e lignaggi
locali e ai quali erano invitati, oltre al capo del dominio, anche i capi degli altri villaggi alleati, che, una volta
conclusa la festa, si portavano a casa la loro quota di beni offerti dalla comunità locale per distribuirli ai
propri supporters. Il capo del dominio, naturalmente, ne riceveva in misura superiore a tutti, ma il
meccanismo era congegnato in modo da far sì che nessun capo alleato ne uscisse deluso. Girando nel
circuito di eventi festivi in programma nelle diverse località, tutti i capi leader dovevano incamerare a
sufficienza per avere di che ripartire con orgoglio al ritorno fra la propria cerchia di supporters.
Naturalmente, l’intero meccanismo funzionava nella misura in cui le attività agricole erano in grado di
produrre surplus sufficienti per la continua generazione delle eccedenze richieste dalle feste; ove per
qualche ragione il surplus agricolo veniva a mancare -per esempio al prodursi di cattivi raccolti per più
stagioni di seguito- inevitabilmente il sistema collassava sotto il proprio peso e il dominio si sbriciolava.

DA DONI A TRIBUTI

Pur mantenendo le sembianze di eventi redistributivi generosamente munifici per tutti, le feste
diventavano in tal modo meccanismi attraverso i quali si insinuavano manifestazioni tangibili di
disuguaglianza economica, dal momento ad ogni appuntamento festivo i capi redistribuivano solo una
parte delle grandi quantità di beni ricevute in dono, trattenendone una cospicua porzione per sé stessi, per
la propria cerchia di accoliti e per gli altri capi villaggio invitati alla cerimonia. Le famiglie contadine che
producevano i doni per i banchetti ricavavano sempre qualcosa dalle redistribuzioni rituali, ma assai meno
di quanto i capi riservavano a sé stessi e ai propri entourages. Per convincerle a ossequiare i beni nelle
considerevoli quantità richieste, i capi non mancavano di fare appello alla retorica della condivisione e della
reciprocità, e per avvalorare le proprie richieste sapevano anche simulare all’occorrenza atteggiamenti di
finta povertà, onde evitare possibili critiche dei propri paesani. Ma in realtà ad ogni festa si metteva in
moto un giro di doni e contro-doni reciproci da cui essi traevano benefici in misura evidentemente
superiore agli altri. E nella misura in cui essi riuscivano ad accreditare il meccanismo come indispensabile
per preservare la salute, l’armonia e il benessere materiale dell’intera comunità, potevano trasformare il
costume del conferimento di alimenti da parte dei produttori in un sorta di dovere morale imprescindibile,
in un atto dovuto a riprova dell’attaccamento alla comunità e della volontà di esserne attivi aderenti; un
atto quindi che andava onorato, volenti o nolenti, pena l’esclusione dalla comunità, l’emarginazione sociale
e produttiva o persino la riduzione in stato di servitù. Col consolidarsi dell’influenza politica e culturale dei
capi, gli apporti per le feste erano pertanto sempre meno dei doni liberamente e volontariamente
omaggiati dai contadini per tramutarsi sempre più in tributi obbligati, e attentamente monitorati, malgrado
la retorica ufficiale non cessasse di trattarli sul piano narrativo alla stregua di doni.

ALTRI CAPI: SACERDOTI E ANZIANI DEI CLAN

Se in contesti come quello melanesiano o polinesiano il dominio scaturiva dal trionfo politico del big man
che attraverso le feste via via estendeva la sua iniziativa politica e la sua rete di sostenitori, in altri contesti i
domini potevano nascere dall’azione di figure diverse, in particolare di figure spirituali e sacerdotali che a
partire da un culto popolare sviluppato attorno a un tempio, a un santuario, a un altare o a un luogo ad alto
valore simbolico, riuscivano a raccogliere sempre più fedeli delle campagne circostanti sino a conformare
una rete di comunità soggette alla propria influenza culturale, politica ed economica.

In altri casi il dominio poteva sorgere per iniziativa diretta di singoli capi clan o capi lignaggi rappresentanti
dei gruppi demograficamente più consistenti. Per statuto generazionale, come abbiamo visto, essi erano
figure rispettate, essendo genealogicamente le più prossime all’antenato fondatore. Si trattava infatti dei
maschi più anziani nella linea di discendenza diretta, quella più antica, e dunque degli individui che
maggiormente si trovavano in un rapporto di intimità con gli antenati e godevano della forza
soprannaturale vitale che essi si sprigionavano a favore di tutti i discendenti (quello che in Polinesia
chiamavano il “mana”). Per arrivare a ricoprire il ruolo di capo villaggio e a maggior ragione di capo
dominio, tuttavia, anche l’anziano capo clan doveva comunque risalire una lunga e impegnativa trafila
“elettiva”. Essendo ogni clan costituito internamente da vari sotto-clan e lignaggi, ciascuno con una propria
figura di riferimento, la lotta per assurgere alla leadership dell’intera rete di parenti doveva mettere in
conto ripetute disfide con svariati contendenti. Per riuscire nell’impresa di diventare capi riconosciuti,
inoltre, non bastava neanche conquistare l’egemonia nel perimetro ristretto dei propri parenti e l’amicizia
di un certo numero di alleati del villaggio; ci voleva anche una certa dose di attivismo e abilità diplomatica
nell’intessere relazioni di alleanza con altri clan esterni. (Giusti)

GUERRA

A prescindere da quale fosse la specifica figura trainante, in ogni caso lo stato di belligeranza fra villaggi e
parentele legati a diversi capi faceva sì che alla fine fosse la guerra a sancire il definitivo affermarsi di un
dominio definendone perimetro territoriale, configurazione economica e composizione interna. Gerarchie,
organigrammi, posizioni di governo -alla fine- erano sempre l’esito delle azioni di guerra e conquista
condotte contro fazioni avversarie. (Earle 1991, Carneiro 1981, Roscoe 2002) I guerrieri protagonisti delle
gesta più eroiche durante i combattimenti venivano premiati dai capi con la concessione di cibo, beni e
donne e conformavano l’apparato di governatori a cui spettava la sovraintendenza della macchina del
dominio man mano essa si andava espandendo. Il successo in guerra aveva effetti decisivi anche per il
funzionamento dei regimi di proprietà delle popolazioni coinvolte, poiché portava i guerrieri vincitori ad
appropriarsi delle terre conquistate e quindi a vantare diritti di proprietà fondiaria che riducevano le
popolazioni native alla condizione di genti tributarie, autorizzate a coltivare le loro terre solo in qualità di
mezzadri, affittuari o servi della gleba. La guerra aveva un ruolo decisivo anche perché la formazione di un
dominio non avveniva solitamente come un fenomeno isolato. Di solito si produceva in concomitanza col
sorgere di altri domini, nel quadro di rivalità e dispute che si facevano tanto più accese e violente quanto
più i contendenti risiedevano nelle immediate vicinanze e con la loro presenza limitavano le possibilità di
movimento e sfruttamento di risorse naturali vitali degli altri. Una conflittualità cronica fatta di raid, razzie
di bestiame, ratti di persone, risse, scontri dagli effetti mortali, veniva così a costituire un tratto ricorrente
dei rapporti fra diversi domini, di cui recano evidenti tracce le documentazioni disponibili per regioni come
l’America Centrale, l’arcipelago polinesiano o l’Africa XX.

DOMINI COMPLESSI

In ragione degli esiti dei conflitti , i domini potevano talora aver vita breve ed estinguersi rapidamente alla
scomparsa della figura del leader; potevano anche decadere nel momento in cui veniva meno il surplus
agricolo necessario alla loro riproduzione o quando le maggiori famiglie alleate decidevano che era meglio
passare armi e bagagli sotto il vessillo di un altro dominio e versare ad altri signori emergenti i propri
omaggi e i propri ossequi. Ma poteva anche succedere che un dominio riuscisse ad imporsi stabilmente su
altri domini consolidando la sua posizione egemonica, vincendo battaglie, espandendo l’area territoriale
d’influenza e incorporando via via nuove popolazioni tributarie che loro malgrado dovevano rassegnarsi al
suo prevalere. Crescendo in dimensioni e in popolazione, il dominio cresceva anche in complessità politica e
apparati di governo, trasformandosi dalla condizione di “dominio semplice”, strutturato secondo una
gerarchia duale basilare (capi/non capi), in cui la figura apicale stava nel ruolo in cui stava essenzialmente
per meriti personali, composto da un migliaio o al massimo da poche migliaia di individui, in un altro e più
complesso tipo di dominio, organizzato in maniera più istituzionale su scala regionale, popolato nell’ordine
delle decine di migliaia di individui e dotato di simbologie più sofisticate e di un preciso centro politico-
cerimoniale di comando, a cui afferivano gerarchie disposte su più livelli. La transizione dal dominio
semplice al dominio complesso si raggiungeva facendo valere con la guerra la legge del più forte, che poi
era la legge del più demograficamente voluminoso, ma anche dimostrando capacità di integrare,
pacificare, porre freno alle conflittualità endemiche, favorire gli scambi e creare condizioni di sicurezza e
organizzazione economica territoriale utili ad un proficuo svolgimento delle attività agricole e pastorali.
(Sahlins 1972)

LA TRASMISSIONE EREDITARIA

Il passaggio chiave per la transizione verso domini complessi si aveva quando la figura del capo diventava
ereditaria e l’esistenza dell’unità politica non veniva più a dipendere dal successo individuale di una singola
persona dotata di particolari qualità o carisma, bensì da un ordinamento istituzionale che prevedeva il
reiterarsi della carica pubblica generazione dopo generazione, secondo precise e ben codificate regole di
successione. Era allora, all’introdursi del regime di ereditarietà, che il capo poteva definitivamente e
ufficialmente avvantaggiarsi di diritti e prerogative speciali, che gli consentivano di godere di inusuali
privilegi materiali e di porsi al di sopra di chiunque altro, mediante procedure di investitura e regole
suntuarie che lo differenziavano in maniera inequivocabile da tutti gli altri nel modo di vestire, di adornarsi,
di tatuarsi, di risiedere e di cibarsi di alimenti speciali proibiti ai ceti inferiori (come nel caso del cacao in
America Centrale). In virtù del mandato istituzionale che lo poneva al vertice dell’unità politica a
prescindere da ogni considerazione di merito personale, il capo poteva a questo punto rimanere in carica
anche se nei fatti non redistribuiva i beni che accumulava, o ne redistribuiva solo in minima parte.
Ricevendo regolarmente una quota periodica di doni dai villaggi alleati o sottomessi, in teoria egli era
sempre tenuto dall’antico costume morale della redistribuzione a ripartirne una significativa porzione. Ma
nei fatti lo sviluppo della dinamica politica gli conferiva la concreta possibilità di approfittare largamente
della sua posizione e di trattenere per sé e per i propri consumi molto più grande di quella che
redistribuiva.La trasmissione per via ereditaria della leadership costituiva però un passaggio cruciale
soprattutto perché incardinava il fulcro del potere non nel singolo soggetto, ma nel suo clan, nel suo
lignaggio o nella sua fazione politica d’appartenenza. Con l’entrata in vigore di regole di successione
ereditaria, infatti, tutto il sistema di privilegi, distinzioni simboliche e prerogative materiali non riguardava
solamente la singola persona del capo, ma investiva il suo intero gruppo di appartenenza, che diveniva in
ultima istanza il vero depositario del potere e acquisiva di conseguenza il profilo di una nobiltà di sangue
sacra, intoccabile, elevata al di sopra dei destini dei comuni mortali da una volontà trascendente. Dalle fila
della dinastia dominante usciva allora non solo la figura del capo supremo, ma tutta la filiera di capi e sotto-
capi che andavano a rappresentare il dominio nelle varie località sotto suo controllo. Le linee di parentela e
le relazioni genealogiche che univano al capo e agli antenati fondatori diventavano, insieme alle politiche
matrimoniali, i criteri con cui si formava il corpo dirigente. Il fratello, il cugino, il figlio o il nipote del capo
erano quindi legittimati a diventare governatori plenipotenziari nelle diverse località loro affidate e in
quanto rappresentanti della casata regnante ad esigere il rispetto dell’ordine, a far costruire canali,
terrazze, cortili, stalle, attrezzature da lavoro, a riscuotere granaglie e bestiame, oppure a organizzare
scambi commerciali di derrate alimentari con oggetti rari e materie prime necessarie per fabbricare gli
articoli di lusso con cui i sovrani potevano ostentare la loro superiorità sul resto del mondo. In tal modo la
casata ereditaria dei signori veniva così a collocarsi visibilmente al di sopra delle altre famiglie,
differenziandosi dal resto del mondo per estetiche, comportamenti pubblici, consumi alimentari, pratiche
rituali, costumi matrimoniali endogamici.
ECONOMIA DEL DOMINIO

Grazie al potere di esazione esercitato dai membri della casata nobile, in ogni dominio si venivano ad
ammassare magazzini con ingenti quantità di derrate, oggetti di valore, attrezzi e manufatti. Il dominio
traeva la sua forza economica dalle risorse stoccate nei magazzini, ma in misura non inferiore anche dal
controllo diretto della famiglia regnante su parte delle terre governate, in genere quella più produttiva e
tecnificata, spesso ottenuta come bottino di guerra dai popoli sconfitti. A differenza di quanto accadeva
nelle società dei cacciatori e degli agricoltori itineranti, infatti, la guerra tra domini si svolgeva con modalità
decisamente feroci e con effetti dirompenti sulla vita dei nemici, sfociando non di rado in operazioni di vera
e propria conquista territoriale che costringevano gli sconfitti all’esodo o alla sottomissione in condizioni di
servitù. In questo secondo caso i perdenti rimanevano sulle terre natie ma perdendovi quel diritto
primordiale e consuetudinario di usufrutto vigente sino ad allora; il diritto a coltivare diventava una
generosa concessione ricevuta dalla dinastia vincente che diveniva proprietaria in esclusiva dei terreni,
delle mandrie di bestiame e dei sistemi di irrigazione conquistati, e li lasciava in gestione agli sconfitti solo
affinché li lavorassero e dessero loro manutenzione versando periodicamente tributi in beni e corvees in
giornate di lavoro dovuto, secondo una pratica diventata poi consueta nella storia ed esemplificata dai
molteplici esempi di feudalesimo in Europa occidentale e servitù della gleba in Europa orientale
successivamente alla disgregazione dell’impero romano. A fianco dell’esazione tributaria e del lavoro
servile sulle terre dei signori, in taluni casi l’economia del dominio si basava anche sul controllo della
manifattura e del commercio, svolto anche su lunghe distanze, di materie prime come l’ossidiana, di
metalli utili per fabbricare armi e degli oggetti preziosi a fini di status (ceramiche, piume d’uccello, pietre
rare, mantelli, copricapo, collane, gioielli, ornamenti di conchiglia, vesti raffinate) che facevano sembrare
coloro che li indossavano come esseri sovraumani simili a divinità, o dei mezzi di trasporto necessari per
procurarseli (come le barche e le canoe)

SACRALIZZAZIONE DI NOBILI E SACERDOTI

Le risorse controllate dalle élites, in un modo o nell’altro, andavano a sostenere le dispendiose esigenze
sontuarie della casata regnante, ma dovevano servire anche per foraggiare il mantenimento di guerrieri e
dei sacerdoti, e a sovvenzionare liturgie e monumenti sacri. Nel quadro di modi di produzione sempre più
chiaramente tributari, le risorse servivano altresì per pagare il lavoro degli artigiani incaricati di produrre gli
articoli di lusso usati come status symbol, nonché le prestazioni degli operai chiamati a costruire canali,
sistemi di drenaggio, stagni, opere di terrazzamento e altre migliorie necessarie per la buona resa dei
campi, oppure a edificare tombe, edifici monumentali, altari e santuari religiosi, d’importanza decisiva per
la legittimazione dell’élite e la riproduzione ideologica dell’intero sistema. Il diritto alla supremazia politica
e alla distinzione materiale e simbolica dell’élite si fondava infatti sull’idea secondo la quale essa era giunta
al potere perché era d’origine divina e perché la sua presenza rappresentava una condizione indispensabile
affinché l’ordine naturale delle cose potesse riprodursi regolarmente, e dunque perché le campagne
potessero prosperare, le piogge arrivare, le famiglie avere figli e la vita sociale seguire il suo abituale
decorso senza incappare in disastri. Le élites si presentavano quindi come dotate ab origine di una natura
sovraumana, che permetteva loro di essere direttamente in contatto con divinità e antenati. La loro natura
sovraumana veniva espressa pubblicamente in solenni celebrazioni rituali che dovevano avere un alto
impatto emotivo, arrivando a contemplare sacrifici umani di prigionieri catturati in battaglia al fine di
impetrare la benevolenza delle divinità. La natura quasi-divina o semi-divina delle dinastia regnante si
rendeva visibile altresì nei templi, nelle piramidi e negli altari che materializzavano agli occhi dei sudditi la
potenza sovrannaturale dei governanti e le loro straordinarie facoltà di regolamentazione e governo della
vita terrena, così come nel suo accesso riservato a luoghi sacri ritenuti inviolabili per i non adepti,
nell’emanazione di tabù di evitazione e nell’esibizione periodica di parafrenalia, piumaggi, tatuaggi o
addobbi esoterici ad uso esclusivo dei regnanti. (Giusti) Data l’importanza decisiva per il funzionamento del
sistema politico della credenza popolare nell’origine soprannaturale della casata regnante, non stupisce che
nel quadro di società chiaramente stratificate, suddivise in ceti sociali sovraordinati e pubblicamente
distinguibili, anche i sacerdoti si elevassero al rango di un ceto superiore, altrettanto esclusivo ed ereditario
di quello della famiglia regnante. Come il clan dominante, anche i sacerdoti preposti alla celebrazione dei
culti comunitari diventavano un corpo sociale superiore, sacro, inviolabile e del tutto separato da quello dei
profani. I processi di sacralizzazione del clan nobile da una parte e del clero religioso dall’altra non erano
solo coevi nel tempo, si richiedevano strutturalmente l’un l’altro, si sostenevano l’un l’altro e avanzavano
nel tempo indissolubilmente allacciati l’uno all’altro.

GUERRA

Insieme ai sacerdoti l’altra categoria sociale che acquisiva grande prestigio allo svilupparsi dei domini era
quella dei guerrieri. Per preservare la propria autonomia, per incrementare il proprio bacino territoriale o
semplicemente per frenare processi di disgregazione e tendenze centrifughe, i leader dei domini non
esitavano a far ricorso alla guerra, chiamando prontamente alle armi con solenni cerimoniali celebrati al
suon di tamburi, canti, danze, orazioni augurali e imposizioni di maschere propiziatorie. Non stupisce
quindi che nella gran parte dei casi storicamente conosciuti i domini vissero in una condizione di
belligeranza cronica con altri domini concorrenti senza che si arrivasse ad un vincitore definitivo. Al
concludersi dei ciclici periodi di guerra, in genere, i combattenti mobilitati se ne tornavano alle proprie
occupazioni quotidiane e non rimaneva traccia di un esercito permanente. Cionondimeno il frequente
ricorso alla guerra faceva sì che l’expertise nel combattimento militare e il coraggio bellico diventassero
qualità altamente apprezzate; e ciò favoriva il costituirsi dei capi guerrieri in circoli di potere autonomi che,
non diversamente dai sacerdoti, si affiancavano alla dinastia dominante nell’architettura del chiefdom con
una propria dotazione di potere autonomo. Ne conseguiva che in alcuni casi i domini diventavano di fatto
politicamente cogestiti dai clan nobili o coi religiosi o coi guerrieri oppure con entrambi. Ad esempio nelle
isole Tonga ad essere riconosciuta e ossequiata dalla popolazione era una diarchia composta da un leader
politico laico e da un’autorità religiosa. In altri casi ancora, come quello delle isole Marchesi, i sacerdoti
raggiungevano un ruolo rituale addirittura superiore a quello dei capi politici, e insieme ai guerrieri
conformavano una struttura del potere triadica. (Giusti primi stati).

RELAZIONI PERSONALI

Malgrado la vocazione alla guerra e all’espansione territoriale, tuttavia, nessun dominio riuscì mai a dotarsi
di un corpo burocratico-amministrativo o di una forza militare permanente in grado di imporre un governo
stabile, uniforme e duraturo, né a prescindere dalla necessità di negoziare accordi e patti con clan, lignaggi
e comunità locali sotto la propria sfera di controllo al fine di salvaguardare gli equilibri politici della
coalizione. Per quanto il dominio implicasse di per sé un esercizio del potere esplicitamente gerarchico da
parte di un soggetto che centralizzava e arrogava a sé la presa di decisioni, cionondimeno all’interno dei
villaggi i meccanismi rettori della vita sociale continuavano ad essere fortemente condizionati dai
tradizionali sistemi di parentela. Clan e lignaggi continuavano a gestire scambi matrimoniali, passaggi di
eredità, assegnazioni di terreni, uso dei beni comuni, processi di fissione o segmentazione interna, così
come le decisioni sui prezzi del sangue da versare per gravi danni subiti. Per quanto il capo del dominio
auspicasse regole e indicazioni omogeneamente vincolanti per tutti i sudditi, all’atto pratico le scelte
politiche dovevano sempre patteggiarsi con le comunità locali tenendo conto delle loro consuetudini, delle
loro priorità, dei loro valori culturali e dei loro sistemi di produzione agricola o pastorale. Per organizzare le
feste nei villaggi era sempre indispensabile avere il consenso e l’imprimatur degli anziani locali, i quali
avevano maggiore o minore peso politico in base all’importanza del loro clan, che dipendeva a sua volta
dalla sua dotazione agraria, dalla forza demografica e dal valore dimostrato in guerra. Nelle proprie
comunità gli anziani continuavano inoltre a detenere in molti casi il potere tradizionale di assegnazione
della terra alle nuove famiglie e di gestione degli scambi matrimoniali; e soprattutto continuavano ad avere
una parola decisiva quando bisognava stabilire con chi bisognava allearsi, chi doveva fare il capo villaggio,
chi doveva rappresentare il villaggio all’esterno, chi poteva godere di qualche vantaggio economico. Anche
nei domini più complessi e sviluppati, i rapporti fra governanti e governati rimanevano, insomma,
fondamentalmente di tipo personale, non mediati burocraticamente da norme e codici giuridici uniformi e
impersonali; rimanevano precariamente legati alla condivisione di credenze condivise, comuni interessi,
comuni convenienze, o inconvenienze, e impegni di reciproco sostegno. A differenza di quanto sarebbe
invece successo, con l’istaurarsi dello stato.
LA NASCITA DELLO STATO

I PRIMI STATI

Una logica analoga a quella che aveva condotto alla formazione dei domini complessi fu all’origine di quella
speciale forma di “super dominio” a cui oggi noi siamo soliti dare il nome di stato. (Fried 1967, 1978) Anche
lo stato apparve infatti per la prima volta nella storia umana come risultato dell’integrazione coatta di
popolazioni assoggettate da un gruppo che riuscì ad imporsi con la violenza. Come tutti gli altri domini,
anche i primi stati sorsero in contesti ambientali caratterizzati dalla concentrazione di risorse abbondanti in
alcune aree particolarmente fertili che spesso si trovavano circondate da zone aride, deserti, montagne,
mari, o da popoli nemici difficilmente penetrabili, che rendevano complicato ricorrere alla migrazione e alla
dispersione territoriale per sfuggire al dominio del gruppo emergente. (Carneiro 1970, 1978) La comparsa
degli stati, tuttavia, a differenza di quella dei domini, fu un evento del tutto eccezionale, e si verificò in una
manciata di luoghi posti a grandi distanze gli uni dagli altri e in tempi molto differenziati che avevano però
una caratteristica comune: avevano tutti la possibilità di produrre abbondanti raccolti di cereali, che per le
loro caratteristiche di facile regolazione e controllabilità, favorivano la possibilità di essere prelevati sotto
forma di tributi da parte del gruppo che riusciva ad affermarsi. (Scott) Il primo stato di cui abbiamo notizia,
la città-stato di Uruk in Mesopotamia, apparve tra il 4.000 e il 3.350 ac, mentre le prime dinastie di faraoni
si affermarono in Egitto tra il 3.500 ed il 3.200 ac; tempo dopo le prime civiltà statali indiane videro la luce
nella Valle dell’Indo nella seconda parte del IV millennio e nella prima parte del III e i primi regni cinesi
furono fondati fra il 2.000 e il 1.030 ac, mentre la civiltà statale di Monte Alban, nella Valle messicana di
Oaxaca sorse nel 500 ac e l’impero Inca all’inizio del primo millennio ac (Fried 1967, 1978) Solo più avanti, a
partire dal IX secolo dopo cristo, videro poi la luce le prime formazioni statali dell’Africa sub-sahariana,
come pure gli imperi nomadi di Gengis Khan nell’Asia centrale e settentrionale e gli stati sud-est asiatico,
che apparirono rispettivamente dal XIII al XVI secolo dc. (Claessen- Skalnik 1978) Più che per la loro
consistenza e la loro effettiva capacità di espansione territoriale i primi stati ebbero un’enorme influenza
storica poiché costituirono degli archetipi organizzativi che furono poi ripresi da altre società che ne
seguirono le tracce fondando ulteriori stati in epoche successive. Gli stati cosiddetti “primari”, sorti cioè
cronologicamente in maniera originale e del tutto indipendente, favorirono quindi l’emergere di “stati
secondari” anche in società che venivano a conoscenza e subivano l’influenza del loro modello politico o
che venivano incorporate per la prima volta in formazioni politiche in via di costituzione.

L’ESERCITO E LA BUROCRAZIA

In tutti i casi gli stati nacquero comunque da processi di conquista militare che costrinsero i domini perdenti
e le popolazioni sconfitte alla condizione di tributari. Ma rispetto ai domini, le unità politiche che
assumevano la forma di stati presentavano alcuni elementi aggiuntivi che ne segnavano un’importante
fattore di discontinuità. La nascita degli stati implicava infatti non solo il formale riconoscimento
dell’autorità politica vincente da parte di tutti i gruppi sottomessi, a prescindere dalle origini e dalle
posizioni sociali; implicava altresì l’acquisizione da parte dell’autorità centrale di una capacità effettiva di
mantenere l’ordine pubblico in maniera continuativa, monopolizzando l’esercizio della giustizia, del diritto
e della facoltà di sanzione dei delitti; e dunque esercitando il monopolio di quello che Max Weber avrebbe
chiamato l’uso legittimo della violenza. Ciò era possibile, di fatto, solo nel momento in cui si verificavano
due condizioni: la prima era la disponibilità di una forza militare organizzata e organicamente operativa, e
non attivata solamente in occasione di congiunture belliche (come avveniva nei domini), che si poteva
ottenere con un qualche tipo di professionalizzazione militare o di coscrizione obbligatoria; la seconda era il
funzionamento di un apparato amministrativo-burocratico stabilmente funzionante (quale non esisteva nei
domini). Per gestire infatti con continuità un sistema politico complesso, territorialmente esteso e
densamente popolato, non era possibile fare a meno di un sistema di controllo ramificato, basato sulla
delega dei poteri dell’autorità centrale ad autorità di livello regionale che a loro volta delegavano funzioni
di governo a livello locale a capi e leader di singoli territori e villaggi. Un siffatto sistema di deleghe
implicava quindi un apparato burocratico strutturato con figure poste su livelli gerarchici discendenti e un
certo numero di specialisti di settore e organismi di controllo. Conformando dei sottosistemi di comando
ordinati gerarchicamente, attraverso cui far entrare e uscire flussi materiali e informativi secondo precise
regole stabilite dal vertice, il potere centrale poteva regolare, captare e far circolare tutte le informazioni
necessarie per avere un sistema di governo unitario. (Flannery 1972, Wright 1978) Laddove un super-
dominio riusciva a dotarsi, oltre che di una forza militare organicamente operativa, anche di un apparato
burocratico amministrativo in grado di svolgere stabilmente funzioni di controllo sui flussi materiali e sulla
circolazione delle informazioni territoriali, assumeva la fisionomia di uno stato. In realtà, nella sua fase
generativa il sistema burocratico era difficilmente distinguibile da quello militare, essendo costituito di
fatto dalle figure dei guerrieri più fedeli, valorosi e rappresentativi dislocati nei diversi territori messi sotto
controllo dal super-dominio. Ma ben presto, ove il costante prelievo di tributi dai contadini rendeva
possibile la riproduzione dell’organizzazione burocratica, la dinamica si sviluppava seguendo nuovi percorsi,
con la cooptazione nel ruolo di funzionari statali di figure provenienti dalla principali élites locali, oppure
con l’adozione di meccanismi di selezione impersonali, ossia con procedure di reclutamento basate su
criteri di merito acquisiti e non su condizioni di nascita ascritte (prassi che non esistevano nei domini).

IL MODO DI PRODUZIONE TRIBUTARIO

La presenza di una burocrazia statale affiancata ad una forza militare permanente permetteva di fare
qualcosa che prima non era mai stato fatto: consentiva di sovrapporre un corpus di norme, regole e decreti
di portata universale ai diversi costumi vigenti nei villaggi e alle dinamiche di parentela e vicinato quali
principali meccanismi regolatori dei rapporti sociali; in tal modo permetteva di superare, almeno sul piano
della retorica ufficiale, la prassi della relazione personale tra dominante e dominato, subordinando ogni
costume locale e tradizione paesana al dettato irrefutabile di un’autorità politica superiore. Ma più di ogni
altra cosa, il combinato disposto di burocrazia pubblica e forza militare permetteva di applicare un sistema
fiscale capillare e di riscuotere con regolarità tributi sotto forma di sacchi di grano, cesti di banane, capretti
o giornate di lavoro, o passando a riscuotere direttamente dai produttori primari coi propri funzionari,
oppure affidando il compito esattoriale alle élites dei domini sottomessi, che a loro volta procedevano a
prelevarli dalle rispettive comunità di agricoltori. In entrambi i casi il meccanismo esattoriale determinava
una costante pressione sui produttori primari obbligati a fornire quote di surplus sufficienti per mantenere i
consumi delle élites e il funzionamento dell’apparato statale nel suo insieme; e quindi determinava una
costante sollecitazione all’aumento del lavoro e della produttività delle campagne a favore delle città, ove i
magazzini reali potevano raggiungere dimensioni memorabili grazie appunto agli ingenti tributi
metodicamente prelevati dalle comunità contadine, in particolar modo -come abbiamo detto- dei cereali
che stavano alla base dell’alimentazione locale: orzo in Mesopotamia, riso in Cina, mais in Centroamerica.
LA SCRITTURA

Dall’esigenza di conteggiare, controllare e amministrare i flussi di derrate in arrivo dalle campagne e la loro
circolazione nel sistema statale nacquero le prime forme di scrittura, che furono appositamente inventate
per tenere le registrazioni contabili dei prodotti ammassati nei magazzini. I sistemi di notazione scritta
costituirono quindi un dispositivo nato inizialmente per favorire il lavoro di burocrazie e sistemi legali
impegnati nel governo di ampie popolazioni, e solamente in seguito sfruttato come strumento per
eccellenza di scribi, sacerdoti e funzionari di corte per rappresentare le gesta eroiche, le epopee belliche e
le mitologie delle origini delle famiglie regnanti, su papiri, pergamene e affreschi murari. (Con l’eccezione
degli Inca, che non avevano sistemi di scrittura)

LA DIVISIONE SOCIALE DEL LAVORO: GLI ARTIGIANI

L’esistenza di una burocrazia pubblica unita ad una forza militare in grado di presiedere i processi di vita
quotidiana aveva anche un altro effetto: rendeva possibile livelli di specializzazione produttiva quali
raramente si erano visti in precedenza. Distribuendo con precisione ruoli, mansioni e compiti produttivi fra
diversi attori in ragione delle loro dimostrate abilità manuali, i funzionari statali strutturavano una
meticolosa divisione del lavoro favorendo il nascere di corpi di artigiani che quanto più si andavano
specializzando tanto più si sganciavano dalle incombenze della coltivazione dei campi e della pastorizia per
dedicarsi esclusivamente alle specifiche arti professionali in ambito urbano. Col formarsi dell’organizzazione
statale apparve quindi una divisione sociale del lavoro che predisponeva il costituirsi di corpi di manuali
qualificati al servizio dei templi o del palazzo reali. Con l’andar del tempo, questi artigiani si sarebbero
trasformati in diverse civiltà (Europa, Cina, India) in corporazioni artigianali dotate non solo di peculiari
specializzazioni produttive, ma anche di identità, ritualità, sistemi matrimoniali e interessi del tutto propri e
distinti da quelli delle comunità rurali, oltre che fisicamente posizionati in quartieri urbani distinti su base
professionale. Sarti, vasai, vetrai, ceramisti, fabbri, tessitori, orafi, muratori, maniscalchi, conciatori,
scarpellini, scultori, intagliatori, falegnami, ma anche artisti, teatranti, pittori, tatuatori, costruttori di canoe,
prostitute, panettieri, birrai, musicisti, erano tutte figure che venivano a popolare caleidoscopi di comunità
professionali incentivate dalle élites statali e strettamente funzionali alla riproduzione del potere statale,
essendo loro affidata la produzione degli oggetti simboli di status e dei servizi peculiari che servivano a
contraddistinguere in maniera inequivocabile lo stile di vita, l’estetica e la rappresentazione pubblica dei
regnanti e dei sacerdoti da quelli del resto della popolazione. Per la fabbricazione dell’oggettistica e delle
prestazioni richieste dalle élite, gli artigiani potevano venire impiegati alla stregua di quelli che oggi
chiameremmo dei lavoratori autonomi, mediante cioè contrattazioni ad hoc per la fornitura di singole
prestazioni, ma potevano altresì essere cooptati tout court in qualità di operai qualificati alle dirette
dipendenze dei laboratori annessi ai palazzi reali e ai templi.

PATRIMONI DELLE FAMIGLIE NOBILI

Nel nuovo scenario istituzionale statale diventava infatti usuale che a fianco delle terre e dei possedimenti
tradizionalmente controllati da clan, villaggi ed élite locali, le famiglie regnanti e il ceto sacerdotale
disponesse di aree produttive proprie esclusive che costituivano patrimoni della famiglia reale o dei
sacerdoti, la cui lavorazione era affidata o ad agricoltori e artigiani assoldati in pianta stabile, ad esclusivo
servizio del palazzo reale e del tempio, o in alternativa da contadini chiamati periodicamente a prestare le
proprie corvees lavorative sotto forma di giornate lavorative periodiche dovute. I patrimoni reali
costituivano un elemento chiave della struttura produttiva che sosteneva il potere statale sia quando erano
controllati in maniera centralizzata e governati direttamente dal sovrano o dai sacerdoti, sia quando
porzioni di essi venivano donate in premio a famiglie aristocratiche, nobiltà cadette, capi lignaggio o
personalità emergenti distintesi per servizi resi e meriti di guerra ed entrati così nelle grazie del sovrano.
Ciò che avrebbe in seguito differenziato tra gli loro i diversi stati furono le modalità e le proporzioni in cui la
struttura economica statale si suddivideva tra beni agrari posseduti per consuetudine da clan, villaggi ed
élite locali, patrimoni reali di proprietà della casata regnante, patrimoni del tempio posseduti dal clero e
possedimenti agrari assegnati dal re a famiglie di alto rango e a soggetti preferiti dal sovrano.

SCHIAVI E SERVI

Nel quadro dell’economia statale gli artigiani non erano l’unica categoria operante sotto diretto comando
dei funzionari statali o dei sacerdoti. In maniera coatta erano costretti al lavoro necessario per il
funzionamento della macchina statale anche altri attori della società statali, a cominciare dai prigionieri
catturati in battaglia e ridotti in schiavitù, o dai condannati per infrazioni della legge e in particolare per
evasione dei tributi al sovrano, che finivano ai lavori forzati in regime di servitù per punizione dei reati
commessi. Sugli schiavi e sui servi ricadevano -come si può immaginare- i lavori edili più estenuanti legati
alla costruzione di edifici monumentali, piramidi, templi, palazzi reali, fortilizi, come pure alle operazioni
necessarie per aprire strade, scavare miniere, perforare cave, abbattere foreste, dissodare paludi o
spingere le galere in mare. Nella misura in cui lo stato accresceva i suoi confini sottomettendo altri domini o
altri stati, infatti, i successi militari si concludevano regolarmente con la riduzione in schiavitù dei prigionieri
o delle popolazioni renitenti alla sottomissione. Le azioni di conquista condotte dagli stati avevano anzi
come obiettivo primario il reperimento di esseri umani da mettere al lavoro, spesso più che la conquista di
spazi territoriali, per la continua necessità di forza lavoro con cui alimentare il sistema produttivo del
palazzo e del tempio. Quanto più si estendeva geograficamente il potere statale sino ad assumere il profilo
di un potere imperiale, tanto più la figura sociale dello schiavo andava così ad affiancarsi in maniera
sistematica a quella del contadino tributario, dell’artigiano e del servo costretto ai lavori forzati nel palazzo
o nel tempio nell’intelaiatura dell’economia e intere economie imperiali potevano reggersi sul lavoro coatto
di migliaia di schiavi, come nel caso delle città stato greche o di Roma.

LE CLASSI SOCIALI

I tributi versati dalle comunità contadine uniti al lavoro di artigiani, schiavi, servi –nelle città, nelle
piantagioni e nelle miniere- creavano un surplus di alimentari, manufatti e beni suntuari che permettevano
alle élites di vivere al riparo da ogni incombenza di tipo materiale, liberi da ogni compito di produzione
diretta, dedicandosi unicamente alla gestione degli affari pubblici, alla lettura di testi sacri,
all’interpretazione del cosmo e alle celebrazioni rituali nei luoghi consacrati. Sistemi politici e apparati
istituzionali di gran lunga più complessi dei primi domini venivano pertanto ad essere governati da faraoni,
imperatori e grandi sacerdoti da cui dipendevano architetture del potere teocratico complesse, in cui
nobiltà di sangue, aristocrazie o patriziati di diversa provenienza geografica interagivano con scribi, capitani
d’arme, alti funzionari e magistrati d’alto rango. Alla nascita dello stato corrispondeva perciò una
polarizzazione senza precedenti nella distribuzione della ricchezza, e l’avvento di rigidi modelli di
stratificazione sociale, vale a dire la nascita di vere e proprie classi sociali che spesso, anche se non sempre,
erano vere e proprie caste endogame, a cui si apparteneva per nascita, distinguibili l’una dall’altra
economicamente, linguisticamente ed esteticamente; e di riflesso corrispondeva il formarsi di “culture alte”
incentrate sul consumo di estetiche, arti visive, musicali e cerimoniali di esclusiva pertinenza delle élites
nettamente differenziate sia dalle “culture contadine comunitarie” del mondo rurale sia dalle “culture
professionali” delle corporazioni artigiane. La complessità stessa della vita sociale ed economica nello stato,
tuttavia, favoriva un’inedita vitalità all’interno dei contesti urbani di corporazioni di arti e mestieri,
specializzazioni professionali e fornitori di servizi che non necessariamente si collocavano agli estremi della
piramide sociale, conformando per così dire dei ceti che per agi e condizioni materiali di vita noi oggi
potremmo identificare come dei ceti medi.

I METALLI

Con la notevole eccezione del continente americano, lo sviluppo degli stati trasse grande impulso dalle
conoscenze acquisite in campo mineralogico e dalla scoperta dei possibili usi funzionali e non solo
decorativi dei metalli. Alle antiche lavorazioni dell’oro, dell’argento e delle pietre preziose, si succedettero
in successione quella del rame, quella del bronzo e poi quella del ferro. La scoperta dei molteplici usi del
rame e del ferro, in particolare, diede grande impulso alle attività minerarie e alla ricerca di zone estrattive,
soprattutto dopo la scoperta di invenzioni tecniche di portata epocale quali furono la ruota, l’aratro e le
armi da combattimento metalliche. Abbinata agli animali da tiro, la ruota formava il carro da trasporto e col
carro da trasporto era possibile organizzare carovane commerciali presso lidi sempre più distanti al fine di
procacciare oggetti e materiali rari con cui produrre armi e manufatti di prestigio richiesti dal palazzo e dal
tempio. Inviando squadre di mercanti in luoghi remoti per acquisire beni irreperibili nel proprio territorio, la
macchina statale incentivava lo sviluppo di rotte commerciali e di mercati di scambio con società
culturalmente e linguisticamente anche molto lontane, dalle quali poteva venire a dipendere in maniera
talora decisiva la sussistenza dello stato, come avveniva per l’appunto nel caso dell’approvvigionamento dei
metalli con cui si fabbricavano le armi in uso. Proiettandosi su orizzonti geografici più ampi, gli stati
estendevano non solo le loro capacità di accedere a miniere e piantagioni di altre popolazioni, ma anche di
influenzarle culturalmente, economicamente e politicamente, dal momento che coi carri si potevano fare
spedizioni di lunga gittata che avevano allo stesso tempo un carattere commerciale e militare, rendendo
più facile l’occupazione di nuovi territori e la conquista degli schiavi necessari o persino indispensabili per il
sostentamento della base produttiva della machina dello stato.

LA MONETA E IL COMMERCIO

La scoperta e lo sfruttamento dei metalli furono importanti anche per un’altra fondamentale ragione:
resero possibile il conio e la circolazione di monete utilizzabili a fini commerciali. Le monete furono
escogitate inizialmente per dare la possibilità ai militi impegnati in missioni in luoghi remoti di procurarsi
beni di prima necessità in loco mediante un mezzo di scambio di valore universale, data l’enorme difficoltà
degli eserciti di allora a garantirsi logistiche e vettovagliamenti adeguati sulle lunghe distanze. (Graebner) In
questo modo la moneta entrò in uso come unità di misura e mezzo di scambio andando o ad affiancarsi o a
sostituire le sostanze naturali che sino ad allora erano state usate nelle diverse società nell’ambito di
diverse sfere di scambio (conchiglie, cacao, tabacco, spezie, olio) e facilitò di riflesso lo sviluppo di mercati a
livello trans-locale. Poté così emergere nel grembo dell’economia statale una specifica categoria di
mercanti che in principio erano funzionari che operavano per conto e sotto l’egida delle autorità statali, ma
che tramite il commercio praticato dentro e fuori le mura cittadine poteva ricavare occasioni di
arricchimento privato e accumulare ricchezze anche in misure ingenti pur rimanendo politicamente poco
influenti e sempre subalterni all’autorità suprema del palazzo e del tempio. Come nel caso
dell’approvvigionamento dei beni alimentari primari, così anche le reti commerciali sviluppate per il
reperimento di beni esotici, materiali rari o metalli strategici restavano soggette al diretto controllo dei
funzionari statali e solo su loro concessione i mercanti potevano operare, dentro e fuori i confini del regno.
La circolazione della moneta fu importante contestualmente anche perché inaugurò una nuova modalità di
prelievo dei tributi, che andò aggiungersi o a sostituire quelle tradizionali sotto forma di beni agricoli e
prestazioni di lavoro. Con la moneta divenne infatti possibile esigere il versamento dei tributi direttamente
in denaro invece che in specie. Con la circolazione del denaro, inoltre, anche il lavoro svolto da operai,
artigiani e braccianti dentro i cantieri, nelle botteghe e nelle piantagioni del palazzo e del tempio poteva
venire remunerato con moneta sonante invece che con pasti e specie alimentari com’era usuale,
assumendo in questo modo la fisionomia di un lavoro salariato in senso stretto. All’ombra di formazioni
statali imperniate su logiche di potere dinastiche e teocratiche, l’entrata in circolazione della moneta favorì
in maniera estremamente differenziata il fiorire economie mercantili la cui prosperità era direttamente
correlata alla misura in cui il potere statale concedeva ai mercanti maggiori o minori facoltà di movimento e
margini di libera azione, intra muros ed extra muros. Per lunghi periodi nello stato Inca, nell’antico Egitto o
nel celeste impero cinese tali spazi furono veramente esigui, ridotti al minimo, schiacciati da un controllo
pervasivo dei funzionari statali, mentre al contrario nelle città stato greche dell’Egeo o nell’impero romano
raggiunsero assai più ampie possibilità di espansione, con conseguenti più ampie possibilità di
arricchimento delle dei mercanti.

MULTI-ETNICITA’

Che si estrinsecasse per via militare oppure per via commerciale, la propensione all’espansione territoriale
degli stati tendeva in ogni caso a incentivare movimenti di persone, di merci, di conoscenze, di saperi, di
notizie, di flussi informativi, col risultato che sin dalle prime formazioni statali si ritrovavano spesso gruppi
umani con provenienze geografiche, culturali e linguistiche anche molto differenti. Diversamente dai
domini, gli stati avevano spesso un profilo multiculturale e multietnico, favoriti dalle importazioni di schiavi
e dai commerci dei mercanti ma anche dal fatto che gli imponenti edifici cerimoniali e le impressionanti
manifestazioni religiose e artistiche organizzati nella città dal palazzo reale e dal tempio fungevano da
attrattori culturali richiamando genti da territori diversi. Per gestire la varietà di genti e di culture che
veniva ad affluire nei suoi confini, lo stato doveva elaborare codici di appartenenza e linguaggi comuni a
tutti gli abitanti creando o adattando una simbologia in cui tutti i sudditi potessero riconoscersi, ma anche
dispositivi di uso quotidiano come un calendario comune, una lingua franca comune, un sistema di pesi e
misure comuni.

LA CITTA’

L’affermazione politica del super-dominio per sua natura portava al formarsi di un sistema gerarchico di
relazioni economiche, sociali e ideologiche e ad un’intelaiatura di rapporti di scambio -materiali e
immateriali- che aveva il suo fulcro in un centro abitato considerato sacro da tutti gli attori coinvolti e che
fungeva quindi da cardine logistico e polo di attrazione simbolica dell’intero sistema, oltre che da centro di
comando politico e amministrativo. In genere il centro veniva a situarsi in un’area dotata di massicce
capacità di produzione agricola, di sufficienti disponibilità idriche e talora anche di potenziali di scambio
commerciale. Almeno in alcuni casi, infatti, sorgeva in località attraversate da preesistenti reti di traffici.
(Sherrat 1995) Ma la sua localizzazione non poteva in ogni caso prescindere dalla presenza di luoghi di culto
ad alto valore simbolico che costituivano il cuore pulsante della cosmologia dei gruppi dominanti. Il centro
del super-dominio veniva perciò a edificarsi sempre intorno luoghi di culto che crescevano d’importanza
man mano cresceva la potenza politica del regno. L’innalzamento progressivo delle sue strutture fisiche, dei
palazzi, dei magazzini, dei templi, degli altari votivi e delle cerimonie rituali, esaltava l’importanza materiale
e simbolica del luogo, sia agli occhi dei dominanti che a quelli dei dominati, favorendo afflussi di
popolazione tramite pellegrinaggi, visite votive, insediamenti, intercambi economici, visite di genti di
diversa estrazione etnica e geografica, tutti elementi che nell’insieme finivano per determinarne una
vistosa espansione urbanistica e demografica dell’urbe. Si creava così un centro abitativo che per
dimensioni, importanza e concentrazione di potere sovrastava tutti gli altri centri abitati , e che tra le altre
cose era dotato di una capacità di accumulazione e redistribuzione alimentare superiore a quelle di
qualsiasi altro nucleo abitativo della zona. Si formava, in altre parole, la città capitale del regno, a
prescindere dalla quale non si può comprendere appieno il processo di formazione dello stato. Possiamo
anzi dire che la nascita dello stato non fu altra cosa, in principio, se non la nascita di una città eletta a sede
e simbolo del potere del super-dominio vincente. Popolata da migliaia, se non addirittura da decine di
migliaia di abitanti, circondata da mura di cinta e fortificazioni, resa agibile dallo scavo di pozzi, canali e
acquedotti, la città capitale concentrava in sé tutte le principali sedi di governo, i principali centri di
celebrazione religiosa, i principali magazzini e le principali occasioni di liturgia pubblica. Vi si riuniva quindi
un inedito concentrato di simboli sacri, monumenti ad alto contenuto simbolico e manifestazioni di culto
animate da un ceto religioso che veniva riconosciuto come indiscussa guida spirituale della società statle
determinandone la natura teocratica. La città capitale era però anche il posto dove si posizionavano
magazzini centralizzati di dimensioni molto maggiori rispetto a quelli che ciascun gruppo locale poteva
singolarmente allestire nel proprio villaggio, e che proprio in ragione delle loro dimensioni e del loro
controllo centralizzato potevano rappresentare nelle aspettative dei sudditi un potenziale strumento di
protezione in caso di fallimento dei raccolti o di impellente necessità causata da altre calamità naturali o
sociali. Per via della sua abbondanza, la città capitale poteva evocare un intrinseco senso di sicurezza
materiale e al contempo offrire garanzie di protezione dalla violenza e regolamentazione dei conflitti grazie
al potere indiscusso della corte reale. (Service 1967) La città capitale dava perciò sicurezza, e sotto il profilo
fisico e sotto il profilo simbolico, cosmologico e identitario, dal momento che ospitava i più importanti
templi, le più importanti icone sacre, le più fastose processioni religiose e i celebranti di maggior potere e
prestigio. Spesso le dimensioni materiali e immateriali della sua abbondanza venivano a sovrapporsi, come
succedeva quando i magazzini erano posti dentro i templi di culto, che in tal modo venivano ad assommare
in sé la doppia funzione di spazi di significazione e guida spirituale e spazi di previdenza e protezione
materiale.

EPIDEMIE

In presenza di elevate concentrazioni abitative, flussi commerciali e movimenti di popolazioni, la città


diventava rapidamente il luogo per eccellenza dell’affollamento, ma non solo dell’affollamento umano;
diventava anche lo spazio dell’affollamento di pecore, maiali, gatti, anatre, oche, polli, bovini, topi,
scarafaggi, che collezionavano tutti i batteri, i protozoi, i vermi, i virus e i parassiti che si potevano trovare in
circolazione in presenza di ammassi di scarti e di feci che attraevano ratti, pulci, pidocchi, passeri. (Scott)
Con l’aggregarsi di masse di persone a stretto contatto con bestiame, animali domestici, topi e scarafaggi, la
città divenne perciò anche il luogo di un’insalubrità e di un pericolo sanitario quale mai era stato
sperimentato dalla nostra specie. Diversamente dagli spazi rurali, la città permetteva infatti il proliferarne
di parassiti, patologie ed infezioni trasmessi agli uomini da ratti, pulci e bestie per effetto della promiscuità
e del continuo contatto quotidiano con feci, residui e deiezioni di ogni tipo. In particolare la convivenza con
animali addomesticati racchiusi in recinti domestici entro le mura urbane agevolava in maniera
spettacolare la diffusione di agenti patogeni virali, batterici e fungini; “una festa per i microbi”, come fu
definita, responsabile ciclicamente di massicce epidemie e del propagarsi di malattie infettive dagli impatti
catastrofici come quelle che funestarono ripetutamente i regni dei faraoni egiziani. L’urbanizzazione portò
quindi tubercolosi, tifo, peste bubbonica, vaiolo, colera, orecchioni, morbillo, influenza, varicella, malattie
che in seguito avrebbero avuto effetti catastrofici sugli indiani nativi delle Americhe o dell’Oceania privi di
difese immunitarie al momento del contatto con gli europei, ma che con ogni probabilità causarono già
millenni prima l’estinzione di interi popoli nomadi nel momento in cui entrarono in contatto con le
epidemie esplose nelle prime città. (Mc Neil in Scott) Grazie alla combinazione di malattie infettive e di
un’alimentazione povera e poco variata, l’urbanizzazione fu altresì all’origine di una mortalità infantile
elevata.
IDEOLOGIE DELLA DISUGUAGLIANZA

L’affermarsi di ordinamenti sociali sempre più complessi, stratificati e burocratizzati richiedeva ideologie e
sistemi di credenza collettiva che legittimassero il diritto di élites laiche e religiose di godere di speciali
condizioni di privilegio e predominio. La legittimazione ideologica costituiva infatti un prerequisito
indispensabile per la conservazione della struttura sociale e politica, essendo la percezione della legittimità
del sistema agli occhi degli attori un fattore decisivo della sua possibilità di riprodursi. La crescente
disuguaglianza politica ed economica connaturata alla formazione dello stato, per poter sussistere, non
poteva quindi fare a meno di un corpo di convinzioni, fedi e miti fondativi ampiamente condivisi e in grado
di fornire una giustificazione morale allo stato delle cose. Simmetricamente alla formazione dei primi stati
si svilupparono quindi sistemi di pensiero religioso e ideologie legittimanti che presentavano come
necessaria, utile e persino indispensabile la differenziazione sociale e la subalternità economica sia agli
occhi di coloro che ne traevano maggior beneficio sia di coloro che ne traevano maggior svantaggio. Col
passaggio dalle società di parentela ai domini e quindi agli stati crebbero perciò miti fondativi, narrazioni
popolari, cerimoniali pubblici e investiture di carattere religioso, che proclamavano in maniera sempre più
solenne la superiorità intrinseca delle élites e il loro diritto per natura a rivestire ruoli di supremazia. Tali
sistemi di credenza trasformavano quelle che erano convenzioni socialmente costruite e disuguaglianze
create dall’uomo in differenze naturali (naturalizzazione) introiettate nell’immaginario collettivo come esiti
inevitabili e immutabili di un ordine imperscrutabile d’origine divina (sacralizzazione). Con la nascita dei
primi stati ciò si tradusse in particolare nella diffusione di politeismi e antropomorfismi religiosi che davano
un volto umano alle divinità (umanizzazione del divino), oppure che trasformavano i sovrani in divinità, o
quasi-divinità, dotate di poteri soprannaturali speciali che li mettevano in grado di mediare i rapporti fra il
popolo umano e gli esseri trascendenti e gli spirti cosmici (divinizzazione dell’umano). E’ importante tenere
però presente che l’avvento degli antropomorfismi religiosi anche allorquando diffuso nella popolazione
suddita, non estingueva i sistemi di culto degli antenati o degli idola locali che singole le comunità
contadine o artigianali celebravano all’interno di villaggi rurali e quartieri urbani. Si sviluppavano così
dentro gli stati dei pantheon religiosi complessi, animati da molteplici divinità e da sistemi di fede
sovrapposti, intrecciati e disposti su più livelli.

In tal modo le ideologie della disuguaglianza naturalizzavano e insieme sacralizzavano gerarchie sociali
forgiate dagli uomini, sfruttando a proprio vantaggio tanto i bisogni di sicurezza e protezione materiale
come quelli di appartenenza, significazione e protezione simbolica. Gli apparati cerimoniali davano infatti ai
sudditi un senso di appartenenza e soddisfacevano il loro bisogno di sentirsi tutelati, davano un senso di
ordine alle cose, aiutavano a gestire cognitivamente le incertezze, a comprendere e razionalizzare i rischi
dell’esistenza collettiva, a prevenirne gli sviluppi; aiutavano le persone a sentire che vivevano in un mondo
sensato, dotato di una ragion d’essere, stabile, ordinato, in cui gli individui ricevevano in base a quanto
meritavano secondo quanto previsto da un ordinamento inconfutabile d’origine divina. La “credenza nel
mondo giusto” li aiutava a controllare la mutevolezza dell’esistenza, a dominare la paura e dare una
spiegazione alle avversità e alle vicende più imprevedibili. L’appartenenza a sistemi governati da dinastie
claniche e religiose che si presentavano come dirette emanazioni del divino fortificava il senso di
identificazione in un “noi” inserito in un ordine simbolico superiore, nello stesso momento in cui rendeva
accettabili e sopportabili le disparità sociali, i costi umani e i sacrifici enormi che comportavano. Le
celebrazioni festive erano particolarmente importanti in quelle società precisamente perché erano
l’espressione pubblica di questi sistemi di credenza e avevano quindi un carattere intrinsecamente
religioso, erano i momenti in cui si celebrava la santità dei sovrani e il loro rapporto intimo con le divinità,
concepite come condizioni sine qua non per avere sicurezza di adeguati raccolti, protezione dalle disgrazie
e sicurezza collettiva <il monopolio dell’immaginario>
Lo scambio fra stato e sudditi non era quindi equivalente in termini materiali. Ad un flusso regolare in
entrata di lavoro, beni e servizi corrispondevano in uscita restituzioni di carattere principalmente di natura
simbolico-culturale, sotto forma di benedizioni, processioni, azioni taumaturgiche, celebrazioni rituali
(della fertilità, della prosperità, della salute pubblica), che rassicuravano i sudditi nella persuasione
dell’esistenza di un ordine sociale e naturale in grado di riprodursi proprio grazie alla presenza e al
periodico intervento simbolico del sovrano e dei suoi sacerdoti, che con le loro cerimonie rendevano
possibile la perpetuazione dell’universo e rinascite periodiche della vita e erano quindi ritenuti individui
dotati poteri speciali di generazione della fertilità (delle donne, della terra, del bestiame) e considerati sacri
essendo direttamente in contatto con gli dei, gli antenati e l’universo delle realtà spirituali, e se non
addirittura essi stessi di diretta estrazione divina, espressioni viventi e agenti di un piano cosmico

REVERSIBILITA’

Il processo politico evolutivo che portava dal dominio semplice al dominio complesso, da quest’ultimo allo
stato e poi dallo stato all’impero era un processo sempre reversibile. Lo stato, soprattutto nella forma
gigante dello stato imperiale, poteva disgregarsi e venire smembrato al venir meno delle sua basi
produttive nel momento in cui il prolungarsi di avversità climatiche come siccità o alluvioni metteva a
repentaglio le forniture agricole su cui si reggeva il sistema statale, oppure al prodursi di tendenze
centrifughe di provincie, domini locali o élites religiose restie alla subordinazione al potere reale centrale. Il
successo della ribellione dei domini e delle élites ribelli portava al frantumarsi dell’impero in più stati o alla
disgregazione del sistema statale centralizzato in una serie di domini nuovamente autonomi e svincolati da
un controllo centrale (ex. caso del feudalesimo europeo)
FATTORI DI CRISI E INSICUREZZA ALIMENTARE

Per comprendere l’origine dei processi di impoverimento e crisi alimentare nelle società agro-pastorali
dobbiamo tenere presente innanzitutto il fatto che un sistema alimentare è una catena costituita da tre
anelli, o per meglio dire da tre passaggi successivi: produzione >distribuzione >consumo

I fattori che conducono a una caduta della sicurezza alimentare e dei livelli nutrizionali possono originarsi
sia in fase di produzione (ad esempio in caso di raccolti insufficienti), sia in fase di distribuzione (ad esempio
quando si verificano problemi di trasporto delle derrate) e sia in fase di consumo (ad esempio quando si ha
una ripartizione diseguale del cibo all’interno di un gruppo domestico). Dati i limiti delle tecnologie
disponibili nelle società non industriali, molti casi di sofferenza alimentare prima dell’industrializzazione
derivavano da difficoltà di conservazione, immagazzinamento e movimentazione dei beni, cioè da problemi
di distribuzione, oltre che da cadute dei livelli delle produzioni agricole.

FAD E FED

Per capire la natura dei processi che in una società pre-industriale portano a una diminuzione della
sicurezza alimentare dobbiamo poi aver chiara anche un’altra distinzione preliminare tra:

• food shortage o food availability decline (FAD) > carenza di disponibilità complessiva di alimenti in
un certo territorio

• food poverty o food entitlement decline (FED) > impossibilità per uno o più gruppi sociali di
acquisire gli alimenti disponibili su quel territorio

FATTORI CAUSALI

• Non una singola causa, bensì la sinergia causale fra un mix di diversi fattori è alla radice delle
situazioni di insicurezza alimentare. Nella sinergia causale si combinano sia fattori di natura
ambientale sia azioni, comportamenti e scelte politiche di origine prettamente umana.

• Nella sinergia causale interagiscono inoltre gli effetti di processi predisponenti di lungo termine
(stratificazioni sociali sedimentate nel tempo e condizioni perduranti di vulnerabilità collettiva, sia
di natura sociale che ecologica) ed eventi scatenanti di breve termine (siccità, guerre, assedi,
epidemie, crisi commerciali ecc). Le condizioni di impoverimento tendono infine a riprodursi e
cronicizzarsi allorquando ai fattori predisponenti e ai fattori scatenanti vengono ad aggiungersi,
durante e dopo le crisi, fattori strutturanti ovverosia scelte politico-economiche che rendono
permanenti le condizioni di difficoltà originatesi durante le congiunture avverse.

• Ogni crisi che porta al deterioramento della sicurezza alimentare è unica essendo il frutto di un
peculiare concatenamento causale legato alle vicende storiche ed ecologiche che hanno luogo in
uno specifico contesto locale e nazionale; per essere capita, analizzata e gestita al meglio, ogni crisi
va quindi studiata nella sua singolarità e compresa nella sua specifica sinergia causale e nel suo
specifico mix di problematiche, anche quando l’origine dei problemi proviene da fenomeni di
portata transnazionale che coinvolgono più paesi.
In generale i fattori causali sottesi ai processi di impoverimento e crisi alimentare nelle società non
industrializzate si possono suddividere in due grandi macro-categorie: fattori d’origine naturale e fattori
d’origine umana.

UNICITA’ DELLE CARESTIE

Ogni carestia è unica essendo il risultato di specifiche dinamiche legate allo specifico contesto e alla
specifica storia locale e nazionale. Elementi differenti giocano ruoli dominanti nei differenti episodi di
carestia. Nessuna carestia segue esattamente la falsariga di un’altra. Ciascuna si caratterizza e si differenzia
dalle altre per:

• Intensità (gravità delle privazioni raggiunte dalla popolazione interessata)

• Magnitudine (ampiezza della popolazione colpita)

• Composizione (tipologie professionali e mestieri coinvolti)

• Distribuzione (aree territoriali ed ecosistemi interessati)

• Durata (arco temporale di svolgimento)

• Ricorrenza (ripetizione dell’evento nel corso del tempo)

VARIABILITA’ DELLE CRISI

Le cause specifiche delle crisi alimentari storicamente conosciute sono molteplici, le condizioni del loro
prodursi varie, le conseguenze diverse.

• Le avversità climatiche e naturali prolungate hanno quasi sempre giocato un ruolo importante nella
creazione di situazioni critiche, ma non tutte le situazioni di calamità naturale si sono trasformate in
crisi di sussistenza e non tutte le crisi di sussistenza hanno poi dato luogo a carestie bibliche con
elevata mortalità.

• L’impatto delle crisi è stato, a seconda dei casi, estremamente differenziato. Si va da cali
momentanei delle disponibilità di alimenti, fisiologiche e abituali nel mondo contadino, a veri e
propri collassi dell’intero sistema produttivo e sociale, vale a dire carestie nella più drammatica
accezione del termine.

• I cali stagionali e le crisi transitorie nelle società non industriali erano molto più diffusi e frequenti
degli episodi di carestia catastrofica, essendo connessi a flessioni temporanee delle disponibilità di
alimenti legate al ciclo produttivo.

• Le penurie stagionali e transitorie potevano avere maggiore o minore intensità a seconda degli
andamenti metereologici e di altre variabili ambientali, quali la fascia climatica, l’umidità, la
temperatura, la pluviometria, la distribuzione areale delle piogge, ma anche a seconda del tipo di
specie vegetali coltivate o animali allevati, e delle specifiche tecniche locali di trattamento e
conservazione degli alimenti.
FATTORI NATURALI

Fattori climatici

• Siccità prolungate e surriscaldamenti anomali dei suoli

• Piovosità irregolare (piogge eccessive, piogge maldistribuite nel corso dell’anno, alluvioni e
inondazioni)

• Gelate, nevicate, grandinate, brinate (troppo precoci o troppo tardive)

• Uragani, cicloni, tempeste di sabbia

Fattori geologici

• Eruzioni vulcaniche, terremoti e tsunami

Fattori epidemici

• Malattie delle piante (causate da pesti, locuste, funghi, insetti, roditori, ruggine)

• Malattie del bestiame

• Epidemie tra gli esseri umani (peste, vaiolo, colera, tifo, tubercolosi)

FATTORI UMANI

Fattori tecnologici

• Connessioni deboli (difficoltà di movimentazione dei prodotti agricoli su lunga distanza per
carenze di reti viarie e mezzi di trasporto, con l’effetto di reti di scambio limitate, mercati
frammentati, difficile invio in tempi rapidi di aiuti e soccorsi nei casi di emergenza)

• Conservazioni brevi dei beni deperibili (per l’azione nociva di roditori, muffe, insetti, umidità ed
effetti di putrefazione e decomposizione delle scorte alimentari nei magazzini)

Fattori demografici

• Aumento costante della popolazione in regimi di tecnologia produttiva invariata, con effetto di
stress ecologico, sovraccarico della carrying capacity, declino della fertilità dei suoli e inasprimento
della competizione sociale per le risorse

Fattori politico-economici

• Esazioni insostenibili per i produttori (aumenti di tributi, tasse, canoni, affitti)

• Cooptazione coatta di forza lavoro che sottrae mano d’opera ai lavori nei campi (per destinarla
all’impiego in attività minerarie, coscrizioni militari, opere pubbliche o infrastrutture)

• Guerre, assedi, embarghi, predazioni (che implicano interruzione dei lavori agricoli, fuga dei
produttori dalle zone di conflitto, distruzione di orti, mandrie, piantagioni e macchinari, blocco
delle catene distributive, riduzione delle scorte e rarefazione dei mercati)
• Espropriazioni fondiarie, enclosures, confische e pignoramenti per debiti insoluti (che portano alla
perdita delle fonti primarie di sussistenza)

• Requisizione politica degli stock alimentari contadini disponibili e collettivizzazione forzata delle
terre

• Speculazioni di commercianti, latifondisti e usurai sui prezzi degli alimenti nei periodi di scarsità

• Disinteresse politico delle élites dominanti per la situazione dei produttori rurali e della loro
condizione di vita nelle campagne

• Politiche di sviluppo agricolo ed esportazione sfavorevoli ai produttori primari di alimenti di primo


consumo

• Bassi prezzi dei beni agricoli in relazione al valore dei prodotti manifatturieri, artigianali e industriali

• Compressione dei salari (perdita di potere d’acquisto)

• Non riconoscimento dell’imminente stato di carestia in un territorio

• Rifiuto di soccorso o ritardo nell’invio di aiuti alle vittime per scelta politica

EFFETTI DELLE CRISI

Dall’interazione sinergica tra i diversi fattori derivano:

• perdite dei raccolti per contadini

• perdita del bestiame per gli allevatori

• mancanza di mano d’opera nei campi

• interruzioni coatta dei lavori agricoli

• perdita delle fonti primarie di sussistenza per contadini e mezzadri

• blocco delle catene distributive

• estinzione delle scorte urbane e rarefazione dei mercati cittadini

• perdita di potere d’acquisto per operai, artigiani e impiegati urbani

• perdita di potere d’acquisto per braccianti e salariati rurali


MODELLI DI CARESTIA

TIPOLOGIE D’INSICUREZZA ALIMENTARE NEL MONDO RURALE

• Penuria stagionale (flessione del ciclo produttivo ricorrente annualmente tra una stagione della
raccolta e quella successiva; coinvolge i produttori agricoli diretti: contadini, mezzadri, orticultori)

• Crisi transitoria (sensibile riduzione dei consumi e dell’accesso al cibo di carattere temporaneo
dovuta all’irrompere di eventi avversi, quali periodi siccitosi, stagioni eccessivamente fredde o
piovose, locuste, conflitti bellici, epidemie, che non disarticolano però l’organizzazione sociale ed
economica; coinvolge produttori diretti, contadini, orticultori, pastori, ma anche mezzadri,
braccianti e salariati delle piantagioni)

• Povertà cronica (strutturale condizione di deficit nutrizionale dovuta a una permanente


insufficienza di mezzi di produzione agricola o di potere d’acquisto sul mercato a seguito di salari
insufficienti: coinvolge mezzadri, smallholders, semiproletari, braccianti, stagionali, contadini senza
terra, artigiani)

• Carestia (collasso completo produttivo, commerciale e sociale che destruttura l’organizzazione


sociale nel suo insieme: coinvolge tutti gli attori economici del territorio interessato)

LA POVERTA’ CRONICA

La povertà cronica si caratterizza per alcuni tratti che la rendono distinguibile dalle carestie:

• Presenza costante di condizioni di privazione delle famiglie, causa redditi insufficienti guadagnati
nelle piantagioni, nei laboratori o nelle fabbriche, terreni agricoli troppo piccoli per coprire il
fabbisogno nutrizionale e sanitario del nucleo familiare o regimi di mezzadria in mancanza di terre
proprie.

• Vita sociale, sistema economico e assetto istituzionale sono «regolarmente funzionanti»

• V’è una distribuzione differenziata del grado di sofferenza tra i diversi nuclei domestici

• Morbilità e mortalità sono prevalentemente infantili

• Il dramma sociale è invisibile all’occhio esterno, nascosto entro le mura domestiche

• Si ha un adattamento culturale ai fenomeni della precoce mortalità infantile e della privazione


continua

La povertà cronica si riflette sul profilo biologico e antropometrico delle persone. Indice per eccellenza ne è
la presenza delle malattie correlate ai deficit nutrizionali –le cosiddette malattie tipiche della fame –
conseguenti alla difficoltà di accedere ad una quantità di cibo sufficiente (denutrizione) e/o alla scarsa
qualità nutrizionale delle diete domestiche correnti (malnutrizione). La malnutrizione è spesso legata alla
carenza di proteine, vitamine e minerali nei cibi, soprattutto negli alimenti dati ai bambini dopo lo
svezzamento (a base prevalentemente di carboidrati), causa l’indisponibilità, l’accesso impedito o la
sottovalutazione culturale dell’importanza di proteine e vitamine per lo sviluppo in età evolutiva. Indicatori
di povertà cronica sono:

• elevati indici di morbilità di tipo gastrointestinale e respiratoria

• basso peso dei neonati alla nascita

• elevata mortalità fetale e infantile

• crescita corporea lenta e difficoltà di maturazione neurobiologica

• ridotta capacità cognitiva, ritmi di apprendimento rallentati

• disturbi emozionali

• bassa statura media

• ridotta capacità di erogazione energetica, diminuita resistenza alla fatica e al lavoro.

La povertà cronica è un fenomeno nel mondo contemporaneo molto più ricorrente della carestie e ha
maggiori effetti statistici; osservata nel medio e lungo periodo provoca infatti molte più perdite umane,
economiche e sociali. Essa è dunque un fenomeno più rilevante su scala globale ai giorni nostri.

LE CARESTIE

Sebbene la povertà cronica sia il problema di gran lunga più grave e diffuso nell’attualità, non si possono
dare per definitivamente tramontate le carestie, che sono sempre possibili. Negli ultimi decenni si sono
verificate quasi esclusivamente nel continente africano. Dopo il 2000 diverse gravi situazioni di crisi in
divenire sono state fermate e non si sono tradotte in carestie prevalentemente grazie all’intervento degli
aiuti internazionali. Rispetto alla povertà cronica, le carestie sono fenomeni più immediatamente visibili,
eclatanti e sconcertanti; nel breve periodo provocano più morti, più sconvolgimenti sociali, più
devastazioni, poiché hanno un impatto sociale totale a seguito della perdita per una popolazione o per una
fascia sociale di tutte le fonti di sussistenza, il che provoca una catastrofe contemporaneamente familiare e
collettiva. Con l’avvento della carestia la condizione di patimento dei nuclei famigliari si trasforma in crisi di
un intero corpo sociale. Una carestia si riconosce dunque per il fatto di essere un evento critico che ha un
impatto straordinario, non abituale; implica un aumento di mortalità anomalo in concomitanza con una
caduta dei tenori di vita domestici particolarmente accelerata e una manifestazione «esagerata» della
struttura quotidiana della vulnerabilità e dell’insicurezza alimentare.

In termini statistici la carestia si manifesta quindi per:

• Velocità inusuale delle tendenze degenerative (rapidi balzi verso l’alto degli indicatori
antropometrici di denutrizione e malnutrizione)

• Picchi abnormi di mortalità (rapido incremento dei tassi di decesso anche fra gli adulti )

• Simultaneità dei processi (disgregazione contemporanea di sistemi produttivi, regole di


comportamento, equilibri istituzionali, situazioni sanitarie ed epidemiologiche)

• Crisi totale della fabbrica sociale (caduta delle nascite, dei matrimoni, delle cerimonie pubbliche)
La carestia comporta il passaggio:

- da strategie di adattamento produttivo reversibili a strategie irreversibili (svendita dei beni vitali
delle famiglie colpite)

- da strategie di aggiustamento temporaneo a strategie di mera sopravvivenza (predazioni,


aggressioni, consumo di vegetali residuali, cannibalismo, dispersioni territoriali)

- da condizioni suscettibili di cambiamento con attivazione endogena a condizioni senza scampo,


irrimediabili, nei casi più estremi, in assenza di aiuto esterno.

INDICATORI DELLA COMPARSA DI UNO STATO DI CARESTIA

• Rarefazione dei beni di primo consumo sulle bancarelle di ambulanti e nei negozi

• Aumento anomali dei prezzi degli alimentari e speculazioni commerciali sui beni di prima necessità

• Aumento degli episodi di violenza e dei crimini contro le proprietà

• Proteste popolari e rivolte popolari per il pane

• Incremento delle malattie infettive

• Migrazioni di proporzioni anomale

LE TRE FASI EVOLUTIVE

Osservazioni contrastanti sono state fatte presso popolazioni affamate mostrando da una parte reazioni
collettive solidali tese al mutuo aiuto e dall’altro reazioni egoistiche di chiusura e ripiegamento. Varie
spiegazioni sono state date sino alla teorizzazione delle 3 fasi evolutive caratterizzate da comportamenti
collettivi diversi e persino opposti in termini di solidarietà al peggiorare della situazione. Dal massimo
mutuo aiuto collettivo della prima fase arrivando al disperato si salvi chi può individuale dell’ultima fase. Le
tre fasi esemplificate nello schema dei diversi studiosi:

• allarme, resistenza, esaurimento (Dirks)

• dearth, famishment, famine (Rangasami)

• livelihood protection, distress sales, distress migration (Corbett)

• near scarcity, scarcity, famine (Indian Codes)

• security, insecurity, crisis, famine, severe famine, extreme famine (Devereux)

FOOD MODEL e HEALTH MODEL

Dal paradigma della privazione nutrizionale assoluta (food crisis model) > mortalità da inedia provocata
dall’insoddisfazione del fabbisogno minimo necessario per il funzionamento del metabolismo basale

al paradigma della crisi epidemiologica (health crisis model) >mortalità soprattutto da infezioni acquisite in
alloggi e campi di accoglienza insalubri e sovraffollati raggiunti in condizioni di estremo indebolimento del
sistema immunitario.
PRINCIPALI PARADIGMI TEORICI

• Paradigma del granaio vuoto (food availability decline) Fattore chiave: esaurimento delle risorse
alimentari per effetto di sottoproduzioni agricole o fallimenti dei mercati

• Paradigma dell’accesso negato (food entitlement decline) Fattore chiave: impossibilità per una
parte della popolazione di ottenere il cibo circolante a causa della mancanza di potere acquisitivo,
in conseguenza dell’iniquità del sistema di diritti vigente, di politiche economiche nazionali e del
funzionamento complessivo dei mercati nazionali

• Paradigma dell’emergenza umanitaria (complex humanitarian emergencies) Fattore chiave: paralisi


dei sistemi di produzione e distribuzione del cibo per il sovrapporsi di guerre civili, avversità
climatiche prolungate, epidemie di massa, ingerenza di molteplici attori politici, ma soprattutto
risposte politiche fallimentari di governi nazionali e organismi internazionali alle crisi scoppiate

• Paradigma della carestia politica (famine crime) Fattore chiave: collasso dei sistemi produttivi e
commerciali provocato in maniera voluta e colpevole da attori politici nazionali e internazionali che
devono essere considerati moralmente responsabili e penalmente punibili per azioni, inazioni o
manipolazioni degli aiuti umanitari che hanno portato alla morte di massa delle popolazioni colpite

PREVENZIONE E MITIGAZIONE

«Non tutte le situazioni di scarsità portano alla fame, non tutte le situazioni di fame degenerano nell’inedia
e non tutte le situazioni di inedia causano la morte» (Milman e Kates) Le siccità e in generale le avversità
climatiche non provocano automaticamente l’insorgenza di stati di carestia, che esplodono invece come
conseguenza di politiche economiche e sociali adottate sia prima che dopo la comparsa delle avversità. Le
carestie sono rese evitabili da due ordini di intervento:

a) la prevenzione della vulnerabilità ex ante;


b) la reazione alle avversità ex post.

Nelle società moderne sia la prevenzione ex ante che la reazione ex post dipendono dall’azione combinata
di quattro attori chiave:

1) le comunità locali (per gli aiuti reciproci spontanei e informali tra famiglie e gruppi spontanei)

2) gli stati (per gli interventi di controllo delle speculazioni, regolazione dei prezzi, politiche di agevolazione
fiscale, investimenti in lavori pubblici, misure di incentivo alle produzioni e alle distribuzioni, manutenzione
dei sistemi di trasporto)

3) i mercati (per lo scambi di merci, capitali e servizi che realizzano)

4) le organizzazioni civico-caritatevoli locali, nazionali e internazionali (per la fornitura gratuita di beni,


servizi e personale di soccorso)
L’azione dei 4 attori può essere più o meno congiunta, complementare e coordinata e uno dei quattro
attori in genere esercita un ruolo prevalente sugli altri. In generale quanto più complementare e coordinata
è l’azione fra i diversi attori tanto maggiori sono le capacità di successo sia sul piano della prevenzione ex
ante (riduzione dei fattori di vulnerabilità) come della reazione ex post (mitigazione del danno).
L’allineamento fra gli attori aumenta considerevolmente le capacità di resilienza complessiva della
collettività intesa come capacità di assorbire, adattarsi e cambiare in risposta alla crisi emergente limitando
sofferenze umane e distruzioni materiali. Resilienza può infatti significare assorbimento dello shock e
ritorno alla condizione anteriore, ma può anche significare trasformazione dettata dalla necessità di
cambiamento originata dalla situazione di crisi. Comparazioni storico-antropologiche recenti a largo raggio
hanno messo chiaramente in evidenza come l’azione dello stato abbia normalmente compensato
l’incapacità dei mercati di dare soluzione alle maggiori carestie, dal momento che la logica dei mercati
porta tendenzialmente le merci laddove c’è più potere acquisitivo, cioè tra i benestanti, e non dove ce n’è
meno, cioè tra gli affamati. La riuscita dell’intervento statale in risposta alle crisi alimentari cambia però
sensibilmente a seconda della sua intensità, della sua modalità, della sua consistenza effettiva e del suo
effettivo potere d’azione sul piano economico, amministrativo e militare, estremamente variabile da caso a
caso. In genere gli stati e gli imperi del passato hanno sempre dato netta priorità agli interventi a favore
delle popolazioni dei centri urbani rispetto a quelli dei centri abitati periferici e soprattutto rispetto ai
contadi e alle popolazioni delle campagne. (Roma, Cina, Russia, Inca, Grecia, Ottomani, Maya) La
marginalità delle zone rurali periferiche rimane ancor oggi il principale problema per la prevenzione e la
mitigazione delle carestie. I processi di globalizzazione del sistema mondo contemporaneo, avendo reso il
pianeta fortemente interconnesso, hanno reso possibili aiuti internazionali su lunga distanza e quindi
evitabili le carestie a partire almeno dal secondo 900. Il ruolo delle politiche internazionali, dell’«azione
pubblica» e dei sistemi di protezione nella prevenzione e nel contenimento delle crisi è diventato quindi
decisivo. Oggi una carestia è un evento calamitoso che si produce nel quadro di un’elevata esposizione a
rischio non mitigato da azioni correttive, che però a differenza del passato sono più facilmente attuabili per
la presenza di reti logistiche globali e organizzazioni di aiuto internazionale. In una formula possiamo dire
che oggi:

carestia= vulnerabilità + shock + mancato soccorso


I fattori che entrano in gioco nel determinare le sorti di una carestia sono:

• Specifico assetto politico, istituzionale ed economico del paese coinvolto, con riferimento alla forza
e alla stabilità delle istituzioni pubbliche nazionali e locali e ai meccanismi di regolazione dei sistemi
di proprietà, produzione e scambio commerciale > determina il grado di vulnerabilità della
popolazione

• Struttura economica nazionale e regionale > determina la tipologia e vitalità del mercato
commerciale e finanziario

• Presenza di protocolli di prevenzione definiti ex ante (Indian Codes, Early Warning Systems) >
determina l’efficacia dell’organizzazione degli interventi pubblici al momento della catastrofe con
misure specifiche preordinate

• Politiche economiche adottate ex post > determina la qualità e tempestività dell’azione riparativa

• Disponibilità di aiuti esterni da parte di stati esteri e/o di organizzazioni internazionali >
determinano le risorse straordinarie a disposizione
EFFETTI MACRO DELLE CARESTIE

• Estremizzazione delle disuguaglianze sociali preesistenti

• Trasferimenti e reinsediamenti territoriali di interi nuclei di popolazione

• Cambiamenti di identità culturali, appartenenze sociali, ideologiche o religiose

• Adozione di nuove tecniche produttive, nuove colture agricole, nuovi sistemi di produzione e
pratiche di sussistenza

• Rivoluzioni politiche e sociali


LE COPING STRATEGIES

Di seguito un quadro delle strategie di prevenzione, adattamento e mitigazione dell’insicurezza alimentare


adottate autonomamente dalle comunità contadine e pastorali a partire dalle forme tradizionali di
reciprocità e mutualismo in uso.

MECCANISMI DI COPING

Le «coping strategies» sono le strategie con cui popolarmente si affrontano le situazioni di crisi alimentare
nel mondo agro-pastorale. Non si possono inquadrare in decaloghi di interventi fissi e programmati, poiché
sono insiemi di pratiche adattive estremamente variabili, dinamiche e contestuali, mutevoli al mutare delle
circostanze. Sono dispiegate per prove ed errori e quindi continuamente adattate, riviste e ricomposte in
funzione dei risultati via via ottenuti. Sono inoltre strategie composite, nel senso che integrano una
pluralità di azioni e di stratagemmi, adottati simultaneamente o in successione l’uno all’altro. Si possono
suddividere a grandi linee in due grandi categorie:

 strategie di prevenzione e anticipazione

 strategie di reazione e compensazione

STRATEGIE DI PREVENZIONE E ANTICIPAZIONE

• Combinazione di diverse fonti di sussistenza (ricorso simultaneo a agricoltura, pastorizia, caccia,


pesca, produzione di artigianato, lavoro salariato)

• Diversificazione delle piante coltivate e agro-forestry

• Zonizzazione delle coltivazioni (sfruttamento di nicchie ecologiche diverse, esposte a climi diversi,
con risorse idriche diverse e rischi ambientali diversi)

• Preferenza per sementi resistenti alle avversità climatiche, ancorché meno produttive di altre

• «Solidificazione» dei patrimoni e dei risparmi eventualmente disponibili (acquisito di bestiame,


terre, attrezzi, mezzi di trasporto da sfruttare in caso di carestia)

• Accrescimento delle mandrie di animali in vista della prevedibile perdita di capi nei periodi di siccità

• Investimento sociale mediante espansione dei rapporti e dei legami con gruppi, persone e
organizzazioni
STRATEGIE DI REAZIONE E COMPENSAZIONE

USO DELLE SCORTE

• Ricorso alle scorte alimentari accumulate in precedenza

• Monetarizzazione dei patrimoni illiquidi posseduti e vendita dei beni domestici non essenziali

• Ricorso ai terreni comuni per il reperimento di risorse primarie che forniscono in particolare a
coloro che hanno poca terra possibilità di reperire noci, ghiande, legname da combustibile,
concime, pascolo, materiali da costruzione.

DIVERSIFICAZIONI

• Ulteriore diversificazione delle colture e ricorso alla caccia e pesca ove possibile

• Espansione il più possibile della nicchia ecologica sfruttata

• Vendita di legname sulle strade

• Dispersione territoriale delle mandrie nelle zone con pascoli e acqua

• Offerta di servizi domestici a terzi sotto forma di lavoro salariato o lavoro servile

MIGRAZIONI

• Emigrazione dei membri della famiglia nei centri urbani

• Emigrazioni temporanea di interi nuclei familiari

CAMBIO DELLA DIETA

• Conservazione dei beni vitali a tutti i costi, anche a costo di optare per soffrire ristrettezze
alimentari («choosing to go hungry»)

• Riduzione quantitativa e razionamento progressivo della quantità dei consumi domestici

• Riduzione qualitativa della dieta (più carboidrati, meno proteine e vitamine) sino alla massima
semplificazione (monofagismo)

• Ricorso a cibi di seconda scelta: erbe, cortecce, piante, bacche di uso non abituale o considerati
sgradevoli (pani di carestia)

INNOVAZIONE

• Cambiamento tecnologico dei sistemi produttivi (apertura a sperimentazioni, innovazioni e


introduzioni di nuove tecniche)

• Cambiamento permanente delle attività economiche (dall’agricoltura autonoma al lavoro salariato


in piantagione e in fabbrica, oppure ai servizi domestici e al commercio informale)

• Accettazione di cereali di provenienza esterna (ex. mais e patata)

• Riscoperta di antiche colture native dimenticate e trascurate (ex. riso, grano saraceno)
RICHIESTA DI AIUTO

• Richieste di aiuto a parenti, amici e alleati

• Questua ed elemosina per strada o presso spazi religiosi

PRATICHE ILLEGALI

• Attività illegali (evasione fiscale, furto, rapina, prostituzione, truffa, contrabbando, spaccio di
sostanze illecite)

• Ribellioni, assalti ai forni, espropri, occupazioni terriere

• Organizzazione e resistenza politica violenta


LE POLITICHE ANNONARIE

ALLESTIMENTO DI GRANAI PER LE EMERGENZE

• Allestimento di sistemi di granai centralizzati (tutti i casi) capillarmente distribuiti e amministrati


con regole stringenti, procedure contabili precise, censimenti e inventari di entrate e uscite (Cina,
Inca).

• Attivazione di corpi di funzionari addetti all’ispezione periodica e alla gestione dei granai (tutti i
casi)

• Utilizzo di quote significative dei tributi raccolti dallo stato e della spesa governativa per
l’incremento delle riserve dei granai (Cina, Inca)

• In alcuni casi magazzini di precauzione (per la distribuzione diretta al popolo) in altri casi magazzini
di provvisione (per l’approvvigionamenti dei fornai)

• In alcuni casi magazzini privati, in altri casi magazzini pubblici

• In alcuni casi magazzini permanenti, in altri casi magazzini temporanei allestiti solo nei momenti
delle emergenze

• In alcuni casi magazzini creati mediante tassazioni statali o municipali delle maggiori proprietà, in
altri casi magazzini creati con donazioni private di facoltosi filantropi (Inghilterra, Paesi Bassi,
Francia)

• In alcuni casi uso di fondi municipali per l’acquisto delle derrate d’emergenza ottenuti mediante
prelievi fiscali, in altri casi ottenuti mediante donazioni e prestiti di benefattori privati benestanti
(Inghilterra, Francia, Olanda)

• Importazione continuativa di derrate dall’estero tramite reti di interscambio marittimo di lunga


distanza con l’Egitto e il nord Africa, grazie a capitani e armatori contrattati dallo stato per la
fornitura pluriennale di derrate agricole (Roma)

DISTRIBUZIONI GRATUITE DI ALIMENTI

• Distribuzione gratuita delle derrate stoccate nei magazzini centrali (tutti i casi) e
contemporaneamente vendita a prezzi correnti a coloro che potevano permetterselo (Roma, Cina)

• Allestimento di mense per i poveri (Inghilterra 500)

VENDITA DI ALIMENTI A PREZZI CALMIERATI

• Stoccaggio tramite acquisto di derrate a basso prezzo nei momenti favorevoli del ciclo agrario e
rivendita a condizione agevolata nei momenti di prezzi alti (Inghilterra)

• Costruzione di forni per la vendita di pane a prezzo sussidiato su iniziativa reale (Francia)

• Prestiti alle famiglie in difficoltà con prelievi dai magazzini pubblici da restituirsi (Inca)
• Gestione diretta di spacci pubblici da parte dei funzionari statali (Cina)

• Rigido controllo sulle attività dei commercianti privati (Cina)

• Facoltosi filantropi rivendevano i grani agli indigenti a prezzi calmierati coinvolgendo nel
meccanismo altri abbienti grazie alla loro influenza sociale (Europa)

• Sistemi di aiuto (outdoor relief) gestiti in alcuni casi da confraternite religiose (soprattutto sud
Europa cattolico), in altri casi da istituzioni comunali (soprattutto nord Europa protestante)

RIORGANIZZAZIONE DEI SISTEMI PRODUTTIVI AGRICOLI

• Attivazione di corpi di funzionari per la ri-organizzazione delle filiere produttive decretata dalle
autorità centrali (Cina, Inca) con obbligo di rapporto immediato riguardo alle zone colpite da
disastri, al tipo di disastro avvenuto e alla sua estensione territoriale (Cina)

• Regolamentazione dettagliata delle procedure di gestione delle attività agricole e dei sistemi di
irrigazione delle campagne (quantità e tipo di seminati per ettaro, meccanismi di irrigazione) (Cina)

• Realizzazione di progetti strategici di estensione e intensificazione delle produzioni agricole (Inca)

• Incentivi all’aumento delle produzioni locali (Cina)

SPOSTAMENTI DI POPOLAZIONI

• Reinsediamento delle vittime colpite da disastri su nuove terre meno stressate dalle avversità e più
fertili con garanzia di esenzione o riduzione tributaria (Cina, Ottomani)

• Piani regionali di migrazione (India britannica)

• Programmi strategici di popolamento (Inca)

• Distribuzione di nuove terre a piccoli produttori (Roma)

• Remissione di tributi e tasse a coloro che in tempo di carestia optavano per sviluppare attività
agricole su territori vergini disoccupati o abbandonati (Cina)

CONTROLLO DEI MERCATI

• Controllo dei prezzi degli alimenti di prima necessità e delle farine nei mercati cittadini (India
Moghul, Inghilterra 500)

• Ispezione dei magazzini dei negozi e dei grossisti

• Imposizione di quote di vendita obbligati

• Sanzioni alle pratiche commerciali speculative

• Requisizioni, confische e acquisti forzosi delle granaglie

• Divieto di esportazione all’estero e di circolazione extra-locale (India Moghul, Inghilterra 500)


ESENZIONI FISCALI ALLE VITTIME

• Sospensione o riduzione delle tasse per le popolazioni colpite (Roma, Babilonia, Cina)

• Condoni e cancellazione di debiti e ipoteche per le popolazioni colpite

INCENTIVAZIONE DELLE ELITES

• Autoriduzione “morale” delle spese di corte nei tempi di carestia (Cina)

• Assegnazione di privilegi, cariche istituzionali e titoli nobiliari ai proprietari terrieri che aiutavano ad
affrontare le crisi fornendo alle istituzioni pubbliche consistenti quantità di derrate (Cina, Maya)

• Premi materiali e immateriali ai commercianti che nelle crisi moderavano i profitti (Roma)

• Apertura da parte dello stato di crediti per i ricchi benefattori disponibili a intervenire a sostegno
delle vittime (Cina)

• Esenzione delle tasse per i ricchi benefattori che aiutavano lo stato nelle congiunture di crisi (Cina)

• Premi agli importatori privati che garantivano ai magazzini statali forniture pluriennali (Roma)

LAVORI PUBBLICI

• Impiego delle vittime di carestia in opere di bonifica e costruzione di opere di pubblica utilità,
strade, porti, forti, reti viarie, canali e fossati volti a facilitare la distribuzione delle derrate, la messa
a colture di nuovi terreni o la prevenzione di alluvioni (India, Cina, Inca)

• Food for work per la costruzione di opere pubbliche (Francia)

• Programmi di lavori pubblici tesi a mitigare gli effetti di siccità e alluvioni (Inca) mediante la
costruzione di sistemi di irrigazione e contenimento delle erosioni

MERCATI E CARESTIE

Laddove sono storicamente prevalsi regimi politico-culturali rigidamente incentrati sul principio della
redistribuzione e retti da un potere statale fortemente centralizzato, come in Cina o nello stato Inca, i
mercati hanno giocato un ruolo storicamente marginale nella prevenzione e nel contrasto dell’insicurezza
alimentare sino a poco tempo fa. Lì lo stato ha giocato storicamente il ruolo decisivo sia nella prevenzione
che nella mitigazione.

Laddove invece, come in Europa, la storia politica della formazione degli Stati ha portato allo sviluppo di
attività mercantili private e indipendenti, i mercati sono diventati un fattore di prevenzione delle carestie
nella misura in cui l’aumentare degli scambi e dei flussi commerciali ha permesso maggior circolazione delle
merci e quindi maggiori disponibilità di beni per il consumo.

In nessuna società, tuttavia, i mercati hanno costituito una valida risposta alle più gravi crisi alimentari una
volta che le carestie erano esplose, poiché le aree o le fasce sociali in stato di carestia erano per loro natura
quelle con meno capacità acquisitiva e quindi quelle meno appetibili per i commerci.

Complessivamente a partire soprattutto dal secolo scorso è cresciuto enormemente a livello globale il ruolo
svolto dai mercati nel determinare le sorti dell’insicurezza alimentare rispetto al ruolo svolto dai sistemi di
reciprocità comunitari, redistribuzione statale e beneficienza privata. Sia in positivo, aumentando i volumi
dei beni di primo consumo a disposizione per l’alimentazione su scala planetaria, sia in negativo,
determinando le condizioni di vulnerabilità cronica connesse alla povertà salariale e alla precarietà
occupazionale ma anche all’impatto ecologico insostenibile del modello di sviluppo.

La correlazione ipotizzata da Sen fra capacità di controllo delle carestie e regime democratico-parlamentare
non trova conferma nelle più recenti ricerche comparative. Ciò che fa la differenza nella capacità di
prevenire e mitigare la carestia non è la natura formale del sistema politico (democrazia o dittatura) bensì
la qualità effettiva e l’efficacia delle misure adottate dal governo, l’efficacia del suo apparato burocratico e
la moralità dei governanti: ciò che conta è la reale volontà e capacità di controllo della corruzione, di
circolazione delle informazioni, di adozione di misure efficaci e di efficienti provvedimenti tramite la
burocrazia pubblica.

FATTORI DI SUCCESSO NELLA PREVENZIONE E MITIGAZIONE DELLE CARESTIE

Cultura confuciana del governo (dovere morale dei regnanti di prendersi cura delle sorti dei sudditi, dovere
di rinuncia dei privilegi durante le crisi, dovere di dimissione in caso di fallimento nella gestione delle crisi)

Connettività mediterranea (interconnessione logistica e commerciale tra diverse aree ecologiche e


produttive posizionate in habitat diversi con diversi tipi di suolo, climi e produzioni)

Accumulazione previdenziale (mantenimento di disponibilità alimentari sufficienti tramite controllo


sistematico e rifornimento periodico degli stock)

Efficienza burocratica (gestione efficiente della macchina dello stato prima e durante l’attuazione dei
provvedimenti)

Legislazione protettiva inglese (normativa specifica volta alla tutela dei più indigenti)

Politiche di rinascimento contadino (programmi di sostegno allo sviluppo delle forze produttive contadine)

Disponibilità di risorse pubbliche adeguate (tassazione universale progressiva)

Integrazione politica regionale (composizione dei conflitti nazionali e regionali)

Vitalità delle organizzazioni civico-caritatevoli e di cittadinanza attiva (coordinamento dell’azione tra


stato, società civile e mercato; complementarietà tra istituzioni pubbliche e private)
I MERCATI COLONIALI

Alla vigilia dello sbarco di Colombo nelle Americhe il mondo extra-europeo era un variegato collage di
forme di organizzazione socio-politica che comprendeva simultaneamente bande di cacciatori-raccoglitori
mobili, villaggi di pescatori stanziali, gruppi di orticultori itineranti, clan di pastori, comunità contadine
sedentarie tributarie di domini semplici e complessi , città-stato, stati teocratici e pochi imperi territoriali
poderosi. I mezzi di sussistenza venivano da orticoltura, agricoltura irrigua, pastorizia, pesca fluviale e
marittima, caccia, raccolta, scambio commerciale; nei maggiori centri urbani venivano anche dal lavoro
indipendente di artigiani, dal lavoro salariato di operai, dal lavoro servile di mezzadri e fittavoli e dalle
prestazioni forzate di legioni di schiavi catturati in battaglia, sottomessi durante le carestie o assoggettati
per debiti insoluti e delitti commessi; fuori dalle città si sopravviveva anche con le attività illegali svolte da
ribelli, fuggiaschi, predoni e pirati.

I DIRITTI D’USO CONSUETUDINARI SULLA TERRA

Indipendentemente dalla tradizione culturale, dal tragitto specifico e dal grado di stratificazione e
complessità politica, le economie agrarie avevano però di solito come scopo primario la soddisfazione dei
fabbisogni alimentari. Anche laddove le comunità contadine erano assoggettate al servizio di domini e stati,
e quindi obbligate a doveri di tributo nei confronti di nobiltà, funzionari reali e sacerdoti, la soddisfazione
dei bisogni primari -degli stessi produttori e delle élites dominanti- costituiva comunque la ragion d’essere
prima e il movente di fondo delle attività economiche agro-silvo-pastorali. Da esse dipendeva il
funzionamento tanto dei sistemi di reciprocità comunitaria come dei modi di produzione tributari a favore
di domini territoriali e burocrazie statali. Anche i sistemi sociali più stratificati e strutturati in forma statuale
tendevano quindi a garantire diritti d’uso sulle terre e sui mezzi di produzione delle comunità di produttori
primari, spesso preservandone la trasmissione ereditaria consuetudinaria. Domini, stati e imperi
incorporavano le comunità contadine esigendo periodici versamenti di prodotti agricoli e mano d’opera, ma
-salvo caso di contrasti politici e ribellioni- evitavano solitamente di mettere a repentaglio il loro accesso a
fondi, pascoli e acque, lasciando che le pratiche di reciprocità tradizionali continuassero a regolamentare le
dinamiche all’interno delle reti comunitarie locali. Neanche le attività di compravendita dei commercianti
presso mercati vicini o lontani intaccavano di regola i diritti consuetudinari sulla terra ed i mezzi di
sussistenza di contadini e artigiani, limitandosi ad acquisire e rivendere i loro prodotti e articoli.

FOOD SHORTAGE E FOOD POVERTY

Le società extra-europee precoloniali non erano certo immuni da esperienze di crisi alimentare e di
impoverimento, così come non erano estranee a esperienze di conquista, assoggettamento forzato,
asservimento politico e riduzione in servitù o schiavitù. Ma l’avvento del colonialismo europeo introdusse
un nuovo e diverso tipo di impoverimento ed insicurezza alimentare; determinò infatti l’inizio di un
mutamento strutturale aggiungendo alle forme tradizionali dell’insicurezza alimentare, legate
prevalentemente a situazioni di food shortages (cioè a carenze di disponibilità alimentari causate da
avversità ambientali, pressioni tributarie e conflitti bellici limitati a singole località e singoli periodi, e quindi
limitati nel loro impatto, cioè nel numero di vittime e nella consistenza demografica coinvolta), un
problema crescente di food poverty (cioè una perdurante e strutturale difficoltà di acquisire i beni
disponibili sui mercati per tutti coloro che venivano a dipendere da un salario per la propria
sopravvivenza).
Col formarsi dei mercati coloniali cominciarono infatti a prendere forma nelle economie extraeuropee
enclaves produttive organizzate dai principi del mercato capitalista, che andarono prima ad affiancarsi, poi
ad articolarsi e alla lunga ad imporsi sui sistemi nativi di reciprocità e redistribuzione. In tal modo con lo
sviluppo dei mercati coloniali si innescarono processi disgregativi che sul lungo periodo finirono per mutare
in maniera profonda il diritto consuetudinario sulla terra, il funzionamento delle economie locali e i
caratteri della povertà e della sicurezza alimentare presso molte popolazioni native in Africa, America
Latina e Asia.

LO SCAMBIO COLOMBIANO

Tutto ebbe inizio dal cosiddetto «scambio colombiano», che dopo le scoperte di Colombo internazionalizzò
l’uso di cibi, spezie, bevande, specie e minerali in precedenza sconosciuti in Europa e in Asia; lo scambio
colombiano riconfigurò la dieta tanto in Europa come in Asia e nei territori d’oltremare (ex. mais,
pomodoro, cacao, tabacco, peperoncino e patata furono introdotti in Europa; bovini, ovini e grano furono
portati nelle Americhe; mais, patate dolci, banane e manioca furono diffusi dalle Americhe in Africa e in
Cina). Lo scambio colombiano fu il risultato del predominio sugli oceani delle potenze europee reso
possibile dalle innovazioni tecnologiche nelle arti della navigazione e delle armi da guerra che portò alla
diffusione su scala internazionale di sistemi di mercato che in Europa si erano sviluppati in particolar modo
grazie alla vitalità delle città italiane e fiamminghe e alle reti commerciali sviluppate nel Mediterraneo e nei
paesi nordici. Lo scambio colombiano avvenne sotto la triplice modalità di: 1) trasferimento intenzionale di
piante e animali europee nei contesti coloniali, insieme ad armi da fuoco, metalli e tecnologie meccaniche
2) sfruttamento a fini commerciali delle piante americane, asiatiche e africane che in precedenza erano
sconosciute o non sfruttate dagli europei 3) spostamento involontario e accidentale di semi da un angolo
all’altro del pianeta sulle navi. Lo scambio colombiano aprì così la porta a un’epoca inedita caratterizzata
da:

• la nascita di una ”economia-mondo”, cioè di un insieme di circuiti mercantili organicamente e


stabilmente interconnessi su scala mondiale per il commercio di alimenti, materie prime, schiavi,
minerali e artefatti d’origine remota (pellicce, ceramiche, oro, argento, diamanti, rame, stagno,
fosfati, pepe, chiodi di garofano, noce moscata, indaco, oppio, tè, cacao, caffè, tabacco, riso, patate
dolci, arachidi, seta, cotone, juta, gomma, sandalo, olio di palma)

• l’avvento di politiche di specializzazione produttiva regionale nelle diverse aree colonizzate in


funzione della fornitura di beni tropicali e minerali ai mercati esteri, in particolare asiatici ed
europei

• il controllo politico diretto e indiretto di governatori, viceré e rappresentanti delle Compagnie delle
Indie su terre, mezzi di produzione agraria e sottosuoli delle colonie occupate o controllate

Il processo di trasformazione delle economie colonizzate si produsse con velocità e modalità estremamente
diversi. I tempi e il grado di integrazione delle varie aree nell’economia-mondo furono assai variabili e non
poche zone e popolazioni rimasero per secoli pressoché estranee al dominio europeo o solo marginalmente
subordinate. Variabili furono anche le motivazioni dei protagonisti, a seconda dei periodi e dei protagonisti
più religiose, più commerciali o più ispirate a volontà di puro dominio politico, così come gli approcci
culturali, le strategie di dominio, le procedure istituzionali, i modelli imprenditoriali e le capacità di effettivo
controllo a distanza esercitate di volta in volta da iberici, lusitani, olandesi, inglesi e francesi. Ne derivò una
gran varietà di «situazioni coloniali» irriducibili a pochi e semplici modelli.
situazione coloniale=

tipo di società che invade + tipo di società invasa + interazioni specifiche che si occasionano
nell’incontro/scontro in loco tra le due

LA DESTRUTTURAZIONE

A dispetto delle molteplici differenze, i cambiamenti coloniali furono all’origine di sconvolgimenti nelle
società colonizzate in relazione al funzionamento dei sistemi di produzione e commercializzazione delle
materie prime, ma anche in relazione ai sistemi di produzione artigianale, alle capacità di creazione di
manufatti a valenza identitaria e più in generale agli assetti politico-organizzativi e ai sistemi simbolico-
culturali delle popolazioni locali. I fattori che maggiormente incisero nella destrutturazione dei sistemi
tradizionali di uso delle terre nativi e causarono maggiori trasformazioni nelle forme e nei livelli di
insicurezza alimentare tra i popoli colonizzati furono:

• La riorganizzazione degli assetti fondiari e minerari, mediante il riordino dei sistemi fiscali e degli
ordinamenti legali in funzione degli interessi coloniali

• La privatizzazione delle terre, con introduzione dei diritti di ipoteca e cessione che spesso andarono
a incrinare i preesistenti diritti d’uso consuetudinario e l’accesso delle popolazioni native ai terreni
comuni, di vitale importanza per la sopravvivenza in tempi di crisi

• La trasformazione di clan dominanti, élites native e funzionari statali locali, in oligarchie di


proprietari terrieri legittimati dalla colonia ad appropriarsi privatamente delle terre

• L’aumento consistente delle pressioni tributarie imposte a contadini e artigiani dei territori
colonizzati per il sostenimento dei costi delle burocrazie coloniali (raddoppio delle gerarchie)

• Lo sviluppo in forma imprenditoriale e su scala intercontinentale dello schiavismo come fonte


gratuita di mano d’opera coatta, sradicata a forza dalla terre native e tradotta nelle piantagioni e
miniere di altri continenti (6 milioni di schiavi esportati nelle Americhe solamente nel 700)

Ne conseguì:

• La diffusione delle pratiche di prestito, anticipo e usura da parte di commercianti, usurai e


latifondisti locali, con ulteriore aggravamento della situazione debitoria di contadini e artigiani

• L’indebitamento progressivo di contadini e artigiani per via dei tributi sempre più esosi e sempre
più spesso richiesti in denaro invece che in specie dalle autorità coloniali IMPORTANZA del DEBITO

• La perdita delle terre dovuta all’impossibilità dei contadini di sanare i debiti, alla corruzione delle
autorità native o all’autonoma scelta dei diretti interessati

• La formazione di classi di contadini “senza terra” costretti alla condizione di fittavoli, mezzadri o
braccianti agricoli, o disoccupati permanentemente in cerca di occupazione

• L’espansione delle colture da reddito per l’esportazione e dell’industria mineraria a discapito delle
colture da autoconsumo

• La formazione di un popolo di schiavi espiantati dalle terre native e costretti al lavoro coatto in
paesi lontani da quello originario
Le tassazioni onerose dei regimi coloniali ridussero spesso i consumi nelle disponibilità dei produttori
primari; ma furono soprattutto lo sviluppo dell’agro-business e dell’estrazione mineraria ad avere sul lungo
periodo l’impatto più decisivo sui sistemi autoctoni di prevenzione dell’insicurezza alimentare e
dall’impoverimento. Essi infatti determinarono:

• il predominio di un’agricoltura a «circuito lungo» su quella a «circuito corto», attraverso


investimenti prioritariamente rivolti ai prodotti destinati al mercato internazionale invece che
all’autosufficienza alimentare delle popolazioni locali

• la ricerca della massima produttività per ettaro e della specializzazione produttiva in funzione della
massima capacità di esportazione (piantagioni da monocultura di canna da zucchero, cotone, tè,
arachidi, indaco, ecc)

• la riconfigurazione di spazi e morfologie territoriali dei paesi colonizzati con l’insediamento o


l’ampliamento di reti viarie, la modernizzazione dei mezzi di trasporto e delle infrastrutture

EFFETTI DELLA DESTRUTTURAZIONE

Ne derivarono:

• lo sconvolgimento delle gerarchie sociali e dei sistemi socio-culturali di riferimento preesistenti

• la progressiva diffusione della logica mercantile del massimo profitto a discapito della logica della
sicurezza alimentare, dell’autoconsumo locale e della tutela della biodiversità

• la costrizione politica delle comunità contadine locali al ruolo di fornitrici a basso costo di alimenti
per mercati urbani e maestranze salariate impiegate nelle piantagioni

• il freno o la distruzione dei processi di sviluppo industriale endogeni avviati autonomamente (ex
India ed Egitto) e lo sgretolamento di tradizioni artigianali e manifatturiere native per effetto
dell’introduzione di macchine, attrezzi e strumenti meccanici europei

• lo sviluppo da un lato della proletarizzazione e del lavoro salariato in condizioni di iper-


sfruttamento, e dall’altro del lavoro schiavistico

Sulla crisi degli assetti sociali e dei sistemi culturali di riferimento si possono osservare somiglianze
significative fra le conseguenze sociali e culturali indotte dalla social disruption della rivoluzione industriale
inglese e quella prodottasi nelle società extraeuropee con l’instaurazione dei mercati coloniali e il loro
sviluppo dopo l’indipendenza.

Secondo Polany in entrambi i casi «La causa della degradazione non è lo sfruttamento economico ma la
disgregazione dell’ambiente culturale della vittima. Il processo economico può naturalmente rappresentare
il veicolo di questa distruzione e quasi sempre l’inferiorità economica porterà il più debole a cedere, ma la
causa immediata della sua distruzione non è per questo economica; essa si trova nella ferita mortale alle
istituzioni nelle quali la sua esistenza si è materializzata. Il risultato è la perdita del rispetto di sé e dei valori,
sia che l’unità sia un popolo o una classe sociale… La degradazione umana delle classi lavoratrici nel primo
capitalismo fu il risultato di una catastrofe sociale non misurabile in termini economici. I vizi sviluppati erano
gli stessi dei popoli colonizzati: dissipazione, prostituzione, delinquenza, mancanza di parsimonia e
previdenza, sporcizia, passività, mancanza di rispetto di sé e di fierezza.»
L’epoca coloniale lasciò in eredità al periodo post-coloniale:

• il posizionamento subalterno nell’economia mondo dei paesi colonizzati, produttori di materie


prime poco o nulla trasformate e fortemente condizionate alle oscillazioni dei prezzi delle borse
internazionali

• le divisioni delle popolazioni colonizzate in etnie, caste e ceti istituiti a fini di dominio coloniale,
soprattutto in Africa, e rimaste in reciproco antagonismo dopo l’indipendenza

• oligarchie creole insediate al potere via agro-business, forze armate, industria mineraria,
amministrazione pubblica, scolarizzazione missionaria, che mantennero o esasperarono le
disuguaglianze sociali e le divisioni etniche dopo l’indipendenza

• un flusso globale di sincretismi, ridefinizioni e ibridazioni dei costumi e dei sistemi simbolici a
seguito dell’importazione di modelli culturali, religiosi e politici occidentali, che creò ovunque
nuove identità, nuove forme di appartenenza, nuovi modelli politici e istituzionali

Dopo l’indipendenza proseguirono di riflesso:

• la diffusione della povertà salariale cronica specialmente tra braccianti agricoli e operai impiegati
nelle filiere dell’agro-business e nel comparto estrattivo

• il trend di decadenza delle economie rurali di autosussistenza, per le basse remunerazioni dei
prodotti agricoli di primo consumo e in generale per lo sfruttamento o l’abbandono permanente
delle campagne

• lo sfilacciamento delle organizzazioni comunitarie e dei sistemi tradizionali di mutuo aiuto, con
condizioni di diffusa vulnerabilità economica delle famiglie che andarono a sommarsi ai rischi di
natura ambientale preesistenti

• la crescita demografica conseguente all’accresciuta insicurezza economica in contesti


epidemiologici a elevata morbi-mortalità da malattie ed epidemie, che provocò ulteriori pressioni
sui suoli, instabilità, migrazioni interne e squilibri nelle economie rurali di autosussistenza

• l’insufficiente copertura dei fabbisogni alimentari nazionali e necessità di importazione di derrate


dall’estero anche in paesi essenzialmente agricoli

Al contempo il colonialismo lasciò altre eredità:

• reti ferroviarie e sistemi di trasporto stradale più estesi, funzionanti e organizzati nelle aree urbane
e nei cluster produttivi per l’export

• centri cittadini modernizzati in termini di urbanistica, architettura, infrastrutture, servizi

• nuove opportunità di istruzione e mobilità sociale per le nuove generazioni inurbate

• innovazioni tecnologiche nei sistemi produttivi per l’export

• nuovi confini nazionali e nuove capitali


La centralità della sfera urbana proseguita dopo la stagione coloniale accentuò il distanziamento, sia
simbolico che materiale, tra vita nelle città e vita nelle campagne. Dopo l’indipendenza si ebbe infatti:

• persistenza di politiche urbano-centriche, caratterizzate dal primato dei consumi urbani e


dall’ideologia del contadino come indio selvatico, bruto, mero fornitore di alimenti a basso prezzo

• emarginazione, scollegamento e assenza di servizi nelle zone rurali più marginali ed ecologicamente
difficili (assenza di sanità, istruzione, diversione, biblioteche, teatri, cinema)

• difficoltà di azione di protesta e rilevanza politica popolare nelle campagne al contrario di quanto
accadeva nelle città

Ne conseguì:

• un panorama rurale segnato dalla distanza, dalla carenza di trasporti e servizi e dalle pratiche di
approvvigionamento alimentare al minor costo per opera di intermediari commerciali, broker
aziendali e funzionari statali

• maggior attrattiva della vita urbana (su scala globale ancor oggi abbiamo 3 affamati in campagna
per 1 affamato in città)

• ricerca sempre più ricorrente di fonti di sussistenza alternative al di fuori delle zone rurali

• progressivo inurbamento delle nuove generazioni

• boom planetario di slums, barrios, favelas, shanty towns, ossia trasloco della miseria rurale nelle
periferie delle città

• boom delle economie informali


LA SOCIETA’ INDUSTRIALE

L’ECONOMIA MORALE CONTADINA

Sin dal medioevo la strategia più diffusa di protezione dall’impoverimento e dall’insicurezza alimentare nel
mondo contadino europeo era data da quella che è stata definita l’«economia morale» (Thompson), vale a
dire dall’esistenza di un costume culturale d’antica data che prevedeva regole di reciprocità comunitaria,
condanna degli atteggiamenti speculativi, reazione agli sfruttamenti eccessivi e contrattazione collettiva dei
prezzi dei beni di prima necessità. L’economia morale contadina portava a vivaci proteste, ribellioni e anche
rivolte dimostrative contro feudatari, vescovi e signori allorquando le sperequazioni e le speculazioni
commerciali diventavano esorbitanti o veniva meno la protezione di signori e abati in occasione di
cataclismi naturali e conflitti militari.

Nell’ambito dell’economia morale le famiglie contadine erano unità di produzione e consumo che tra loro
non era affatto separate e indipendenti, bensì legate in reti locali di reciprocità e in comunità di villaggio nel
seno delle quali la salvaguardia dalla miseria e dalla fame era garantita prima di ogni altra cosa dall’accesso
consuetudinario alle terre contemplato dall’organizzazione politica ecclesiastica, feudale e signorile.
All’interno di campagne che erano solitamente aperte, cioè non delimitate da recinzioni, una parte dei
possedimenti terrieri veniva periodicamente suddivisa tra le famiglie del contado in proporzione al loro
volume, mentre un’altra parte veniva lasciata a riserva forestale ad uso comune di tutti gli abitanti, per
svolgervi attività di pascolo, caccia della selvaggina, approvvigionamento idrico o raccolta di legname, erbe
medicinali, funghi, castagne, ecc. La parte dei terreni destinata ad uso comune era di vitale importanza per
la sussistenza delle famiglie contadine, soprattutto nei periodi di crisi causati dalle avversità climatiche.
Ovviamente il sistema feudale e signorile che rendeva possibile l’accesso consuetudinario alle terre aveva
come contropartita, come in ogni forma di dominio, la fedeltà politica dei sudditi e il loro dovere di
versamento periodico di tasse, diritti di signoria, tributi e prestazioni lavorative gratuite a favore dei
feudatari e dei signori così come il versamento di decime e oblazioni a favore di abati, monaci o vescovi.

LE CORPORAZIONI CITTADINE

Nelle città europee il principale strumento di protezione economica tra gli artigiani era invece costituito
tradizionalmente dalle gilde, cioè dalle corporazioni di arti e mestieri (che si ritrovavano peraltro anche in
Cina o in India). Le corporazioni erano organizzazioni che permettevano ai membri di commerciare in un
regime di sostanziale monopolio e di uguaglianza di condizioni tra gli associati. Per far ciò esse
restringevano il numero degli aderenti e limitavano la competizione reciproca, prescrivendo i prezzi al
consumo da applicarsi in maniera uniforme da parte di tutti gli aderenti e imponendo regole e standard sul
processo produttivo utilizzato (in relazione a qualità delle tecniche usate, materie prime, attrezzi) a tutela
della reputazione professionale della corporazione. A difesa dei propri monopoli commerciali, gli artigiani
associati in gilde si opponevano all’ingresso nei mercati cittadini di manufatti provenienti dall’esterno,
oppure esigevano l’applicazione di dazi consistenti. Con questo insieme di misure le gilde permettevano agli
associati di mantenere uno spazio di mercato sicuro e di godere di un tenore di vita giudicato decente. Le
corporazioni proteggevano inoltre gli associati nei momenti più difficili offrendo aiuti in caso di malattie,
disgrazie e lutti, coprendo i costi dei funerali. Erano forme di appartenenza sociale ufficiali, attraverso cui si
acquisiva un’identità professionale pubblica e un diritto di cittadinanza riconosciuto tra tutti coloro che nei
contesti urbani non appartenevano ai ceti superiori dell’aristocrazia e della nobiltà di sangue o del clero. Le
gilde erano governate da figure elette (gonfalonieri) e non di rado erano contraddistinte da una tendenza
all’endogamia professionale, prevedevano percorsi di ingresso regolamentato e nel quadro di società
profondamente religiose avevano un proprio profilo religioso, costituendo ciascuna una confraternita
cristiana devota a un certo santo patrono periodicamente celebrato.

LE PLEBI RUBANE

Larga parte della popolazione urbana medioevale non era però inclusa nel sistema delle gilde. Manovali,
servitori, avventizi, operai di laboratori, garzoni di botteghe, non godevano degli stessi benefici degli
artigiani associati nelle gilde, non disponendo delle stesse forme di rappresentanza collettiva e delle stesse
tutele (ex: rivolta dei ciompi).

Le figure maggiormente esposte a rischi d’insicurezza alimentare e cadute drastiche degli standard di vita
nei periodi di cattivo raccolto o di guerra endemica erano loro, le cosiddette plebi urbane. Al loro interno i
più esposti alla fame erano gli indigenti inabili al lavoro (bambini di strada, disabili, vecchi, malati, storpi) e
in genere i vagabondi e i migranti inurbati sprovvisti di una precisa occupazione e di una rete di protezione
sociale di tipo professionale o di tipo parentale e di vicinato.

Ove venivano a mancare le tradizionali pratiche di reciprocità comunitaria tipiche delle campagne o le
alleanze corporative delle associazioni urbane sorte su base professionale (come appunto nelle gilde), e
non si disponeva neanche di occasioni di lavoro salariato, erano l’accattonaggio per strada, l’elemosina
presso conventi e monasteri, insieme al furto e alla prostituzione, le più usuali alternative popolari per la
sopravvivenza.

I MERCANTI-IMPRENDITORI E LA CRISI DELLE CORPORAZIONI

I rapporti fra le diverse corporazioni di artigiani erano abitualmente percorsi da conflittualità reciproche e
continue lotte sulla competenza e i diritti rivendicati nei vari passaggi delle filiere produttive. Nel corso del
600 si andò però aggiungendo alle tensioni usuali un nuovo fattore di frattura connesso al progressivo
differenziarsi economico-sociale nelle fila delle gilde, che vedeva da un lato i maestri di bottega più
intraprendenti beneficiati dal successo commerciale e dall’altro una platea di garzoni e apprendisti sempre
più costretti al ruolo di meri lavoratori salariati, privi della prospettiva di una propria carriera professionale
e di una propria bottega autonoma. Soprattutto quando le gilde, come accadeva nel settore tessile,
finivano per organizzare e controllare tutte le fasi del processo produttivo entro un'unica filiera soggetta ad
un’unica conduzione, la polarizzazione trasformava di fatto le gilde in organizzazioni con un carattere
marcatamente mercantile, condotte da figure di ricchi artigiani dagli interessi commerciali contrapposti a
quelli della loro manovalanza salariata.

Nel corso del 600 si venne così gradualmente sedimentando una crisi storica all’interno del mondo delle
arti e delle corporazioni urbane che provocò di fatto una disarticolazione delle gilde originarie,
determinando da una parte lo spostamento degli strati più alti verso il mondo della borghesia urbana
nascente (composta da magistrati, medici, ricchi mercanti) e dall’altro lo spostamento verso il basso, cioè
verso la proletarizzazione e il declassamento politico, dei produttori artigianali ridotti al rango di operai
salariati. Con la crisi delle corporazioni, gli artigiani-operai si vennero a ritrovare sempre più spesso immersi
e confusi nella moltitudine delle plebi urbane, cioè delle figure sociali maggiormente vulnerabili, e come
loro esposti alla fame nei momenti di rialzo dei prezzi dei beni di prima necessità. Dalla crisi interna al
mondo artigiano scaturì dunque un prima, forte spinta verso il fenomeno del “pauperismo” che cominciò a
farsi onnipresente sia nelle città che nelle campagne, coinvolgendo tra 1/3 e ¼ della popolazione inglese e
francese nel 600.

L’ASCESA DEI MERCANTI

Per contro il segmento superiore dei ceti artigiani andò ad affiancarsi a quello dei mercanti-imprenditori
che sin dall’epoca medioevale venivano rifornendo di materie prime gli artigiani, soprattutto in settori
come quello della lana, le cui fonti di approvvigionamento erano poste in luoghi molto lontani dalle città. A
parte i casi di alcune città, e in particolare delle città a più spiccata vocazione marinara e commerciale,
come ad esempio Venezia, di solito le figure degli intermediari commerciali e dei mercanti-imprenditori
erano stati storicamente marginali all’interno dei domini e degli stati tributari guidati da nobiltà di sangue,
cleri religiosi e dinastie sovrane. Ma a partire dal 500, con la scoperta delle Americhe, l’esplorazione
marittima dei nuovi mondi atlantici e lo sviluppo di proficui scambi commerciali di lunga distanza, la
posizione economica e il ruolo sociale dei commercianti cominciarono a cambiare, soprattutto in Olanda e
in Inghilterra. Grazie allo sviluppo di rotte e traffici commerciali non più solo all’interno del Mediterraneo
(come era stato per i mercanti di Venezia), bensì negli oceani dell’Atlantico e del Pacifico, i mercanti
olandesi ed inglesi importatori di spezie, metalli preziosi e cibi rari avevano potuto aprire nuovi sbocchi
commerciali all’estero e accumulare ingenti risorse in patria, soprattutto dopo l’istituzione delle Compagnie
delle Indie, la proiezione militare sui mari di tutto il mondo delle flotte reali di Olanda e Inghilterra e lo
sviluppo delle attività di contrabbando e predazione da parte pirati e bucanieri operanti sotto protezione
reale.

Pur non godendo dello stesso prestigio derivante dal possesso di titoli nobiliari o cariche di corte, i
mercanti-imprenditori poterono quindi acquisire in Olanda e Inghilterra un’influenza economica e uno
spazio d’azione prima di allora sconosciuti, grazie alla capacità finanziaria di sopperire al continuo
fabbisogno di capitali delle principali monarchie assolute europee, impegnate nel corso del 500 in
estenuanti sequele di guerre di posizionamento religioso e di successione dinastica. Nel quadro di
economie statali sempre più monetarizzate e sempre più dedite al consumo di tessuti pregiati e prodotti di
lusso, il successo commerciale e le crescenti disponibilità finanziarie e materiali dei mercanti permisero loro
di mettersi in condizione di acquisire una nuova, saliente funzione politica nelle società dell’Europa
occidentale e quindi di ottenere un vantaggio contrattuale rispetto alle concorrenti gilde artigiane, con cui
erano tradizionalmente in competizione e da cui si distinguevano per l’intrinseca propensione a violare ogni
tipo di monopolio consuetudinario, scavalcando ogni forma di produzione tradizionale e scardinando usi e
costumi locali inveterati in funzione dell’obiettivo della conquista di spazi libero scambio e dei profitti.

LE ENCLUSURES

In Inghilterra uno dei meccanismi introdotti dai mercanti-imprenditori che maggiormente contribuì alla crisi
delle gilde urbane fu la delocalizzazione di parte delle produzioni artigianali nelle campagne, scelta da cui
scaturì il fenomeno cosiddetto della “proto-industrializzazione”. Lo spostamento nelle campagne delle
lavorazioni artigianali di minor qualità mise in concorrenza gli artigiani cittadini specializzati con contadini
che accettavano di lavorare a domicilio gli articoli commissionati dai mercanti per poter integrare le sempre
più misere risorse che nel frattempo provenivano dalla terra. Parallelamente alla crisi delle gilde urbane,
infatti, il dinamismo dei mercanti-imprenditori aveva cominciato a innescare un’altra profonda crisi anche
nelle zone rurali -ove viveva ancora oltre il 90% della popolazione nazionale inglese- allorché aveva
cominciato a sviluppare un nuovo tipo di agricoltura a vocazione squisitamente commerciale, ben diversa
dall’agricoltura di sussistenza tradizionalmente operata dalle comunità di villaggio. Grazie all’acquisizione
delle terre ecclesiastiche che Enrico VIII aveva espropriato alla Chiesa con la chiusura dei monasteri -nel
quadro dello scontro frontale col papato romano- e che aveva messo in vendita per raggranellare risorse
per la corona, i mercanti erano potuti penetrare nel settore rurale e compartecipare alla pratica della
suddivisione e recinzione dei terreni comuni e dei pascoli che i nobili stavano promuovendo a partire
dall’emanazione dell’Enclosure Act da parte della Camera dei lord. La progressiva diffusione del fenomeno
delle “eclosures”, dapprima in Inghilterra e poi –con tempi e modalità assai diverse- anche nel resto
d’Europa, determinò una vera e propria rivoluzione della struttura sociale e dei sistemi di protezione dalla
povertà e di sicurezza alimentare del mondo contadino.

Le divisioni e le recinzioni dei terreni, infatti, compromisero in maniera irreversibile il funzionamento e gli
equilibri dei sistemi di produzione tradizionali e delle economie morali, trasformando un gran numero di
coltivatori diretti in proletari senza terra privi di sufficienti fonti di sussistenza e quindi costretti a lavorare
come salariati agricoli sulle terre recintate oppure come artigiani a domicilio. Attratti dalla prospettiva di
ricavare sostanziosi profitti dallo sviluppo di un’agricoltura di tipo commerciale, mercanti-imprenditori e
nobili si appropriarono di estensioni via via più vaste delle terre comuni e dei pascoli tradizionalmente
sfruttati dai villaggi contadini, liquidando rapidamente i loro usi tradizionali; per sviluppare l’allevamento di
pecore produttrici della lana richiesta dai mercati urbani abolirono l’usuale costume del riposo periodico
dei suoli (maggese) e trasformarono i fondi comuni in tenute agrarie ove si seminavano a rotazione nuove
piante che aggiungendosi a quelle già in uso raddoppiavano complessivamente la produzione del podere. In
certa misura, i contadini rovinati dalle recinzioni si riciclavano come braccianti salariati oppure come
artigiani a domicilio; ma laddove non riuscivano più né a riconvertirsi come lavoratori salariati né a far
quadrare i bilanci con le prestazioni artigianali, dovevano lasciare i villaggi e andare a cercare miglior sorte
in altre zone rurali o nelle città ove fiorivano i commerci. Tra il 500 e il 700, il progressivo diffondersi del
fenomeno delle recinzioni delle terre comuni comportò quindi una drastico deterioramento delle economie
contadine scatenando un vero e proprio terremoto nella struttura sociale rurale, e di conseguenza una
poderosa spinta alla mobilità territoriale e all’inurbamento di masse di popolazione sradicate dalle
campagne. La sequenza dei passaggi si può così riassumere:

• abolizione dei diritti consuetudinari di pascolo, legnatico e spigolatura

• rottura degli equilibri produttivi interni alle comunità di villaggio e delle loro capacità di sussistenza

• impossibilità delle campagne di assorbire la sottoccupazione strutturale precedentemente


assorbita dalle comunità

• disgregazione traumatica dei tessuti sociali e delle usuali reti di reciprocità

• sequele di conflitti, rivolte ed espulsioni violente

• abbandoni crescenti dei villaggi e incremento del numero di sradicati e indigenti in circolazione

In conseguenza del fenomeno delle recinzioni si verificarono quindi:

• il definitivo tramonto delle comunità rurali tradizionali

• la diffusione dell’individualismo economico e la nascita di aziende produttive agricole a vocazione


commerciale, moderne e indipendenti le une dalle altre (di diverse dimensioni)

• la proletarizzazione diffusa del lavoro manuale, sia nelle città che nelle campagne
• l’aggravarsi della vulnerabilità dei lavoratori salariati in presenza di fluttuazioni di mercato e crisi
climatiche congiunturali

• una pauperizzazione crescente, con aumento del numero di persone incapaci di garantirsi un
sostegno, in particolar modo anziani e donne capofamiglia

• degrado e competizione sociale per la sopravvivenza al trasformarsi popolazioni di dignitosi


contadini in folle di medicanti, accattoni e briganti (picco a metà del 700)

La crisi del mondo contadino in Europa occidentale, oltre che dal progressivo allargamento dell’economia di
mercato nel mondo rurale, fu aggravata nel corso del 600 anche da altri due rilevanti fattori, che
concorsero a provocare nelle campagne una differenziazione sempre più netta tra piccole, medie e grandi
fattorie e una sempre più problematica lotta per sicurezza alimentare tra i settori sociali più poveri. I due in
giocò fattori furono:

 una consistente crescita demografica, da cui scaturì la frammentazione delle proprietà contadine
rimaste, col passare delle generazioni di dimensioni sempre più piccole e insufficienti per coprire il
fabbisogno familiare al moltiplicarsi del numero degli eredi

 l’ingente pressione tributaria da parte degli stati assoluti, impegnati in continue guerre di
rivendicazione dinastica e in conflitti a sfondo religioso tra protestanti, cattolici e calvinisti.

Le tre dinamiche prese nel loro insieme –espansione dell’economia commerciale -tanto nelle città come
nelle campagne- poderosa crescita demografica e schiacciante pressione fiscali degli stati assoluti-
costituirono lo sfondo del drammatico panorama sociale in cui maturò la rivoluzione industriale.

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Le nuove modalità produttive introdotte nelle campagne dai mercanti-imprenditori aumentarono


sensibilmente produttività e rendimenti dei suoli creando una pre-condizione essenziale (la cosiddetta
“rivoluzione agricola”) per il materializzarsi della rivoluzione industriale. I maggiori rendimenti dei campi
creati dalla rivoluzione agricola resero infatti possibile il nutrimento di un numero maggiore di lavoratori
operanti al di fuori del settore primario (operai, artigiani, addetti ai servizi, facchini, ecc). La rivoluzione
divenne però possibile, tra gli ultimi decenni del 700 e la metà dell’800, anche in virtù della compresenza di
un particolare concentrato di diverse condizioni concomitanti, ovverosia: 1) il ricorso massiccio per usi
energetici al carbone, presente in grandi quantità nel sottosuolo inglese, in sostituzione del legname
sempre più scarso; 2) la disponibilità di fonti di approvvigionamento di materie prime (in particolare del
cotone importato dall’India e dagli Stati Uniti) grazie alla florida rete di scambi internazionali creati
dall’espansionismo militare globale della Gran Bretagna 3) la possibilità di sfruttare ampiamente il ferro,
presente anch’esso in abbondanza e necessario per la costruzione di macchinari e attrezzature industriali 4)
il susseguirsi di scoperte individuali e perfezionamenti tecnici che portarono ad una serie inusuale di
innovazioni tecnologiche (invenzione della spoletta volante, del filatoio idraulico, del telaio meccanico e
della macchina a vapore da parte di Kay, Hargreaves, Arkwright, Cartwright, Watt) 5) possibilità di accesso a
sbocchi commerciale su scala internazionale per le merci prodotte industrialmente (sia attraverso
commerci legali sia attraverso le attività di contrabbando dei pirati, attivi specialmente nel continente
ibero-americano). La compresenza di nuove energie fossili, fonti di approvvigionamento, mercati legali e
illegali per la vendita dei prodotti finiti e invenzioni tecnologiche creò la sinergia causale che –combinandosi
con la proletarizzazione e il boom demografico connessi alla crisi delle campagne- rese possibile il successo
del processo di industrializzazione. Le macchine a vapore fabbricate grazie a questo inedito mix di fattori
diedero vita alle prime sperimentazioni di economia industriale venendo usate inizialmente per le attività
minerarie legate all’estrazione del carbone e in seguito per la produzione metallurgica e tessile,
rivoluzionata dalla comparsa del telaio meccanico.

Nelle grigie cittadine che andarono sorgendo intorno ai giacimenti di carbone e ferro si posizionarono le
fabbriche industriali e attorno alle fabbriche si accatastarono gli ex contadini sradicati dalle campagne e si
produsse sotto il profilo sociale e culturale “uno sconvolgimento di proporzioni straordinarie” (Polany),
caratterizzato da:

• Perdita definitiva del legame con l’ambiente sociale di provenienza

• Smarrimento di riferimenti culturali, conoscenze e capacità artigianali pregresse

• Assoggettamento a una condizione di sfruttamento brutale nelle fabbriche, donne e bambini


compresi

• Insicurezza generalizzata rispetto a condizioni di lavoro, garanzie salariali e contratti

• Guadagni miseri, insufficienti, irregolari

• Mancanza di ogni forma di protezione nei casi di invalidità, malattia e anzianità

• Sovrappopolazione, squallore, inquinamento e degrado dei quartieri operai

• Compressione dei consumi alimentari, sotto-nutrizione e malnutrizione

Divenendo una condizione sociale ricorrente in larghi strati della popolazione, la rivoluzione industriale
forgiò così nella sua prima fase la figura dell’operaio culturalmente sradicato, delocalizzato, iper-sfruttato e
abbruttito nelle fabbriche; la figura oggetto delle prime grandi ricerche sistematiche sulla condizione della
classe operaia condotte da Engles, Marx, Booth, Rowntree nel periodo storico che segnava
contestualmente il trionfo economico e politico della borghesia, una classe in realtà non omogenea e
composita al suo interno, essendo formata non solo da commercianti-imprenditori, ma anche da banchieri,
proprietari terrieri, professionisti, magistrati, alti funzionari pubblici, ai quali nel corso dell’800 si andarono
assimilando anche gli antichi ceti aristocratici e nobiliari sulla via del declino e della perdita degli antichi
primati di censo. In quella fase storica, caratterizzata contestualmente dal prepotente emergere in Europa
dell’ideologia socialista e comunista, gli operai diedero vita per la prima volta a sistematiche ondate di
mobilitazioni, organizzate per reclamare legislazioni del lavoro, tutele delle condizioni occupazionali nelle
fabbriche, riconoscimento legale dei sindacati e diritti di suffragio universale.

STRATEGIE DI PROTEZIONE DALL’INSICUREZZA ALIMENTARE DEGLI OPERAI

• Creazione di società di mutuo soccorso



• Organizzazione di sindacati operai e leghe agrarie

• Rivendicazioni salariali collettive nelle fabbriche e nelle aziende

• Costituzione di cooperative di consumo e produzione
L’IMPATTO EPOCALE DEL’INDUSTRIALIZZAZIONE

Con l’applicarsi del sistema di produzione industriale su scala crescente a livello nazionale, quelli che
all’inizio erano i laboratori sperimentali si trasformarono in grandi industrie che divennero un elemento
caratterizzante del paesaggio inglese ottocentesco. Nelle grandi fabbriche si realizzò per la prima volta una
produzione di massa di beni standardizzati presso opifici e impianti centralizzati alimentati da vapore e
ruote idrauliche, cioè da fonti di energia inanimata; insieme al comparto tessile, la siderurgia fu il settore
trainante nel corso dell’800, ma sullo scorcio del secolo l’industrializzazione si estese anche ad altri settori,
come la produzione di mobili, l’edilizia, l’abbigliamento e l’industria alimentare, irradiandosi su scala
europea dalla Gran Bretagna a Belgio, Germania, Svizzera, Francia e Stati Uniti. Per l’impatto
rivoluzionario causato sui modi di vita, lavoro e consumo di vasti settori della popolazione,
l’industrializzazione fu un processo evolutivo d’importanza paragonabile a quella della rivoluzione neolitica,
avvenuto però in tempi assai più compressi (secoli invece di millenni), con modalità assai più traumatiche e
con conseguenze ecologiche molto più intense e rapide.

In entrambi i casi i cambiamenti implicarono un salto di qualità nella capacità umana di sfruttamento delle
risorse naturali, nella quantità di beni e servizi resi disponibili, nella spinta all’urbanizzazione e all’aumento
demografico. Ma la rivoluzione industriale, a differenza della transizione neolitica, fu un vera rivoluzione.
Fino alla metà del 700 tutti i sistemi produttivi si erano fondati da millenni sul ricorso alla terra e sulle sue
risorse energetiche di superficie. Con l’industrializzazione divenne possibile per la prima volta attingere non
solo a materie prime di superficie e alle tradizionali fonti di energia d’origine umana, animale, acquatica o
atmosferica -come il vento-, ma anche all’energia nascosta minerale ricavata dalla escavazione e dalle
attività estrattive nei sottosuoli. Cambiando radicalmente la base energetica per la produzione della
ricchezza, a partire dalla metà dell’800 l’economia industriale mutò rapidamente le caratteristiche e i
destini della povertà prima in Europa e poi in aree sempre più vaste del pianeta, rendendole meno
unilateralmente condizionate dai destini delle produzioni agricole e dai vincoli posti alla crescita
demografica dalla produttività e dai rendimenti agricoli dei suoli.

Il passaggio a una “mineral based energy economy”, alimentata dal carbone e successivamente
dall’elettricità e dal petrolio e dal gas, condusse ad una produzione di massa di beni e manufatti di
proporzioni senza precedenti nella storia della specie umana. Tra la metà dell’800 e la prima guerra
mondiale, in particolare, l’introduzione del motore a scoppio e un’ulteriore ondata di invenzioni
tecnologiche aprirono le porte alla cosiddetta seconda rivoluzione industriale, caratterizzata dalla
produzione dell’acciaio, dalla chimica e dall’elettricità.

La lavorazione dell’acciaio ebbe ulteriori effetti rivoluzionari sulle condizioni di vita di interi popoli, perché
consentì la nascita e il rapido sviluppo dei sistemi di trasporto meccanizzato su rotaia. L’inaugurazione di
sistemi ferroviari ebbe a sua volta un grandissimo impatto sullo stato delle economie e dei rapporti politici
a livello planetario, favorendo in tutti i continenti processi di espansione e integrazione dei mercati.

La grande trasformazione indotta dalla industrializzazione fu di proporzioni epocali proprio perché non
incise solamente sulle tecnologie dei sistemi di produzione, ma anche sui sistemi di trasporto, dapprima
con l’applicazione della macchina a vapore ai vettori terrestri, marittimi e fluviali e poi con l’inaugurazione
dei sistemi ferroviari, in Europa, negli Usa e successivamente in molti paesi extraeuropei. Combinandosi
con l’invenzione e l’adozione generalizzata del telegrafo, i treni sulla terra ferma e i piroscafi a motore sui
mari accorciarono come mai era accaduto prima le distanze fra luoghi, unificando al loro interno le nazioni,
accelerando i commerci su lunga distanza, riducendo i tempi di percorrenza e facendo calare i costi di
acquisizione delle derrate agricole di produzione remota. Non solo: a cavallo tra 800 e 900 la lavorazione
dell’acciaio innalzò a livelli mai visti le produzioni destinate all’industria bellica e quindi la forza degli
apparati militar-industriali nazionali, alimentando la corsa agli armamenti tra le maggiori potenze europee
che sarebbero stati sfruttati nelle due guerre mondiali. La domanda di cannoni, fucili e munizioni da parte
delle monarchie europee di Inghilterra, Germania, Francia, Austria e Russia fu un incentivo alla guerra allo
stesso tempo in cui costituì il volano dello sviluppo delle loro economie nazionali.

L’AGRICOLTURA INDUSTRIALE E L’ALIMENTAZIONE A BUON MERCATO

Ma la novità di maggior impatto per il tenore di vita delle fasce più povere della popolazione europea fu la
nascita dell’industria alimentare a seguito della meccanizzazione, dello sviluppo delle tecnologie di
conservazione e dell’uso dei fertilizzanti chimici in agricoltura. L’introduzione di macchinari come trattori,
trebbiatrici o falciatrici e la diffusione delle tecnologie di conservazione, refrigerazione e inscatolamento dei
cibi dall’altra, resero infatti possibile spettacolari aumenti delle produzioni di derrate agricole, l’invio di
alimenti su lunghe distanze e il loro consumo posticipato nel tempo, scorporando quello che era stata da
sempre la condizione normale del consumo alimentare, vale a dire la vicinanza geografica del luogo di
consumo da quello della loro produzione. Nel quadro delle nuove opportunità di interconnessione logistica
internazionale create dalla seconda rivoluzione industriale, la meccanizzazione e l’utilizzo delle tecnologie
di conservazione, refrigerazione e inscatolamento determinarono in Europa e negli Usa un’espansione
enorme delle possibilità di consumo anche per le classi popolari; grazie ai nuovi sistemi di trasporto ingenti
quantità di grano poterono fluire nel vecchio continente dagli Usa e dalla Russia, mentre la carne arrivava
dall’Australia e dall’Argentina, collocandosi sui mercati a prezzi accessibili per le classi lavoratrici. Il risultato
fu perciò che anche l’alimentazione delle classi popolari dell’Europa occidentale migliorò in maniera
sensibile, sia quantitativamente che qualitativamente (“rivoluzione del pane bianco”). Va sottolineato che
l’afflusso massiccio di prodotti alimentari d’origine remota sulle sponde europee fu però possibile per il
contestuale sfruttamento dei territori colonizzati oltremare, ove le produzioni agricole locali furono ri-
organizzate in funzione dei consumi delle popolazioni urbane europee. L’industrializzazione fu un elemento
non secondario per il successo delle politiche imperialistiche ottocentesche, che con la spartizione del
mondo in colonie concordata a Berlino permise alle potenze occidentali di garantirsi materie prime a basso
costo e mercati di sbocco sempre aperti per i propri prodotti industriali. D’altro canto non meno rilevante
per i destini dell’alimentazione popolare in Europa fu l’introduzione in agricoltura sul finire dell’800 dei
fertilizzanti chimici e dei crittogamici, e poi nel primo 900 dei nitrati, scoperti e utilizzati inizialmente a fini
bellici durante la prima guerra mondiale e in seguito riciclati come fertilizzanti che avevano l’effetto di
generare incrementi straordinari nelle produzioni agricole, ancorché a prezzo di sfruttamenti altrettanto
straordinari e senza precedenti delle risorse naturali. L’insieme di trasformazioni seguite
all’industrializzazione portò dunque a:

-maggiori interconnessioni logistiche e interscambi di merci sempre più fitti, globali e sistemici, che
integrarono per la prima volta le diverse reti commerciali internazionali in una vera e propria
economia mondiale globalizzata, in particolare nell’ambito delle filiere agricole

-un’accumulazione globale di più stock alimentari, più beni, più ricchezze, più occasioni di consumo,
con prezzi dei beni alimentari nettamente più ridotti per i consumatori dei paesi occidentali

- il superamento dell’epoca secolare delle carestie in Europa;

-un boom demografico e livelli di pressione antropica sulle risorse naturali di proporzioni e velocità
mai viste
-la possibilità per gli stati nazionali europei di disporre di maggiori entrate fiscali, e quindi di dotarsi
di apparati burocratici pubblici più grandi, complessi e costosi attraverso i quali erogare ai propri
cittadini servizi previdenziali, assistenziali, sanitari ed educativi più sistematici, numerosi e capillari

-la nascita dei primi organismi internazionali preposti all’aiuto internazionale in caso di gravi crisi
alimentari, attivati per la prima volta durante la prima e la seconda guerra mondiale

-la trasformazione di ampi settori dell’agricoltura in agricoltura industriale.

L’agricoltore in epoca industriale si trasformò così sempre più nella figura dell’imprenditore agricolo che
produce generi alimentari per venderli sul mercato; le sue scelte si legano di conseguenza alle dinamiche
dei prezzi di mercato. I fattori di produzione (sementi, concimi, attrezzi, mezzi di trasporto) sono sempre
meno autoprodotti, gestiti e riparati in proprio, per essere invece acquisiti sul mercato, così come parte
della forza lavoro necessaria; richiedono quindi capitali che a loro volta richiedono di essere ripagati
esercitando attività commerciali. Di riflesso anche l’agricoltore si specializza, si meccanizza, si industrializza,
si commercializza, diventa parte integrante dell’economia industriale. Nei paesi europei e ancor prima negli
Stati Uniti, la tendenza alla meccanizzazione e all’uso di input industriali in agricoltura porta infine nella
seconda metà del 900 alla drastica diminuzione percentuale degli addetti al settore primario rispetto agli
altri settori.

LA SOCIETA’ SALARIALE

L’industrializzazione determinò via via una progressiva sostituzione delle forme di lavoro servile e
schiavistico con lavoro salariato anche in molti contesti extraeuropei, universalizzando la condizione di
vulnerabilità tipica della società industriale nelle forme della disoccupazione, della precarietà occupazionale
e dei salari insufficienti; fenomeni che si producono in concomitanza di politiche aziendali di
delocalizzazione, riduzione del personale e ristrutturazione interna durante le fasi di recessione (brevi) o di
depressione (lunghe), che dipendono dai cicli di contrazione/saturazione dei mercati, dai flussi dei capitali e
dalle innovazioni tecnologiche che progressivamente determinano l’obsolescenza di tecnologie, materie
prime, prodotti e filiere produttive. A differenza delle situazioni coloniali, tuttavia, a partire dalla fine
del’800 e soprattutto coi primi del 900, nei paesi europei più industrializzati si produsse lo sviluppo nel
mondo operaio di associazioni di mutuo soccorso e sindacati forti e le cui ripetute lotte nei luoghi di lavoro
si accompagnarono a una serie di processi di natura politico-culturale che finirono col migliorare
sensibilmente la condizione degli operai nelle fabbriche. Tra gli altri processi politico-culturali in gioco
bisogna almeno ricordare:

-la nascita di un’opinione pubblica che vedeva la povertà non più come frutto dell’imprevidenza, dell’ozio e
della svogliatezza personali (concezione tipica del “pauperismo” ottocentesco), bensì come conseguenza
diretta delle travolgenti trasformazioni avvenute a seguito dell’industrializzazione, cioè come “questione
sociale”

-il diffondersi dell’alfabetizzazione e dell’istruzione di massa

-il consolidamento amministrativo, logistico e identitario degli stati nazionali

-l’imposizione sistematica di prelievi fiscali consistenti ai ceti più abbienti

-trasferimenti sociali per le fasce meno abbienti sotto forma di servizi pubblici e sostegni al reddito
Tutto ciò portò all’istituzione e all’estensione in diversi paesi occidentali –con tempi e modi sempre molto
differenziati- di sistemi di welfare e legislazioni previdenziali che assicuravano stabilmente i lavoratori
contro i rischi dell’infortunio, della malattia, della vecchiaia e della disoccupazione. Ne scaturì, nel
complesso, un netto miglioramento delle condizioni di lavoro degli operai occidentali sotto forma di:

• normative nazionali organiche di regolazione pubblica del diritto del lavoro

• regolari contrattualizzazioni e stabilizzazioni dei rapporti di lavoro

• incremento tendenziale dei salari

• possibilità di sindacalizzazione collettive delle maestranze

• introduzione di misure di protezione sociale e assistenza sanitaria

• miglioramento delle condizioni abitative, dei servizi di trasporto pubblico e delle urbanistiche

• maturazione del senso di piena cittadinanza tra i lavoratori e in genere tra i settori disagiati

Dopo la prima guerra mondiale coloro che in Europa avevano un impiego nelle fabbriche erano quindi
soggetti tendenzialmente più sicuri e protetti rispetto ai loro predecessori e il povero non coincideva più col
contadino sradicato costretto a lavorare in fabbrica nelle condizioni miserevoli dell’800, bensì con la
persona che perdeva o che non trovava lavoro, ovverosia con il disoccupato o l’inoccupato. La drammatica
crisi del 29 scoppiata a seguito del crollo di Wall Street, fece in particolare esplodere su scala mondiale il
problema della disoccupazione industriale in ampie fasce di popolazione, provocando un catena di
fallimenti industriali e perdite di posti di lavoro. All’indomani della seconda guerra mondiale, la
disoccupazione di massa continuò a costituire il principale problema dei paesi occidentalizzati.

In un contesto post bellico segnato dalla distruzione generalizzata delle infrastrutture e degli edifici, da
livelli di indebitamento degli stati nazionali stratosferici, dalla paura del comunismo serpeggiante tra le
borghesie occidentali e dall’avvento del pensiero di Keynes, fu proprio la disoccupazione di massa e il
ricordo della tragica esperienza del 29 a indurre i maggiori paesi europei a dare priorità nella ricostruzione
post-bellica a politiche espansive di occupazione, tutela dei diritti e protezione sociale a favore dei
lavoratori, unitamente al controllo dei fattori di oscillazione monetaria e instabilità economica.
LE CARITA’ RELIGIOSE

RELIGIONI E COMPASSIONE

La gran parte delle religioni ha avuto storicamente a cuore la sorte dei più indigenti predicando la
compassione, la pietà, l’armonia sociale e il dovere di prendersi cura dei più deboli con pratiche di
elemosina ed elargizione gratuita. Sono rari i casi di religioni universalistiche che non abbiano in qualche
modo considerato la carità come una importante virtù da perseguire. Alcuni esempi:

• Indù: l’elemosina della tradizione ascetica che esalta la rinuncia materiale come via maestra per la
rinascita spirituale

• Islam: il precetto della tassa annuale per i poveri (zakat) e la donazione personale volontaria
(sadaqa). Secondo i Sufi la povertà è intrinsecamente sacra, tanto più se deliberatamente prescelta,
come testimonianza di rinuncia ai beni materiali per la completa dedizione a Dio

• Buddhismo: i monaci richiedenti elemosina e donanti elemosina, i monasteri come luogo di


assistenza dei poveri e di accoglienza di orfani

• Sikh: la dottrina morale del dovere di difendere e proteggere i più deboli e gli oppressi

• Ebraismo: la carità come redistribuzione sociale della ricchezza all’interno del proprio popolo

• Confucio: le dottrina della responsabilità morale del governante per il benessere dei suoi sudditi

Se la maggior parte delle religioni ha posto al centro della propria predicazione il dovere di carità umana in
senso lato, tuttavia Cristianesimo e Islam hanno riservato sin dalle origini un’attenzione speciale al dovere
di aiuto ai poveri.

CRISTIANESIMO E POVERTA’

Essendo la religione che ha segnato il corso della storia dell’Europa, ed essendo stata l’Europa decisiva nel
plasmare la storia del mondo moderno, il Cristianesimo ha esercitato un’enorme influenza sulla visione e
sulle pratiche politico-sociali concernenti la cura della povertà non solo nel vecchio continente.

Il Cristianesimo, a differenza del Giudaismo, sorge come religione a vocazione universale rivolta a tutti gli
uomini di buona volontà e non solo a un singolo popolo eletto. La fede nell’incarnazione di Dio nel Gesù
storico apre la strada della salvezza all’intera umanità, non a un singolo gruppo etnico. Ma soprattutto il
cristianesimo nasce come una religione clandestina con una dichiarata preferenza per i poveri: «E’ più facile
che un cammello passi nella cruna di un ago che un ricco nei regno dei cieli». I membri delle prime comunità
cristiane –in Egitto, in Siria, in Etiopia- mettevano in comune i propri beni praticando uno spirito di
intenzionale condivisione, semplicità, frugalità e fraternità cristiana.

I loro fondamenti teologici erano: Cristo era povero e amava i poveri; il dovere del credente di aiutare i
poveri era un messaggio centrale nella Bibbia. Essere cristiani implica quindi: a) la scelta di essere
personalmente poveri >elogio della povertà volontaria, della vita austera e della rinuncia ai beni materiali
come via per la virtù e la redenzione b) il dovere di aiutare economicamente i poveri con l’elemosina e la
carità c) l’impegno nella creazione e nel sostegno di apposite strutture di accoglienza rivolte a mendicanti
orfani, malati, indigenti, pellegrini (monasteri, conventi, ospizi, oratori, ospedali, xenodochia)

L’elemosina nella visione cristiana sin dalle origini era dunque considerata un’opera doppiamente buona in
quanto: 1) utile all’indigente per la sua sussistenza materiale 2) utile al donatore per ottenere la salvezza
spirituale, soprattutto se accompagnate dalle preghiere rivolte a suo favore dal beneficiario della carità.

LA CULTURA DELLA PIETA’

La società medioevale faceva discendere la condizione del mondo, e quindi anche quella dei poveri, da un
insondabile volere divino. Dato che erano il risultato di un imperscrutabile volere divino, i poveri non erano
perciò considerati soggettivamente responsabili della loro situazione d’indigenza. NON ELOGIO
AUTOMATICO DELLA POVERTA’. La società conviveva di conseguenza abitualmente con la presenza di
vagabondi e miserabili. La maggioranza dei questuanti erano bambini, storpi, malati, anziani, oppure
lavoratori, contadini e artigiani che facevano la carità nei momenti in cui non riuscivano a sbarcare il
lunario, rimanendo peraltro incorporati nelle rispettive comunità. Il problema degli approfittatori, cioè dei
mendicanti di professione e dei falsi poveri immeritevoli di aiuto, e della opportunità di fare l’elemosina era
noto e ampiamente dibattuto tra canonisti, predicatori e teologi, ma non era motivo di allarme sociale. Di
riflesso la mendicità nel Medio Evo era un fenomeno comunemente accettato; ai poveri e agli accattoni era
concessa libertà di movimento ed era buona norma per i ricchi fare la carità da buoni cristiani, con
donazioni anche di cospicue dimensioni in occasione degli anniversari dei defunti. Poiché nel corso del
Medio Evo le istituzioni pubbliche giocavano un ruolo del tutto marginale nell’assistenza ai poveri, erano
quindi le istituzioni religiose (confraternite, oratori, pie misericordie, monasteri, conventi) le principali
strutture attive nella mitigazione dell’indigenza, insieme alle forme tradizionali di reciprocità e di economia
morale comunitaria vigenti nei villaggi rurali e nelle gilde cittadine.

CRISI DELLE ECONOMIE CONTADINE E ACCATTONAGGIO DI MASSA

Como abbiamo visto nella lezione precedente scorsa, il progressivo diffondersi del fenomeno delle
“enclosures” nelle campagne, lo sviluppo dei mercati e la progressiva stratificazione sociale del mondo
artigiano nelle città, a cavallo tra il 500 e il 700, mandarono in crisi le economie morali e i sistemi di
sussistenza comunitaria tradizionali, creando un gran numero di ex contadini sradicati privi di fonti di
sussistenza e di artigiani poveri che per sopravvivere dovevano barcamenarsi in condizioni di assoluta
precarietà. L’abbandono dei villaggi rurali e il contestuale impoverimento degli artigiani di minor rango
nelle città confluirono nel creare un crescente fenomeno di accattonaggio di massa nei centri urbani, con
folle di vagabondi e mendicanti in condizioni di degrado e competizione per la sopravvivenza, che per
sopravvivere si dedicavano anche a pratiche di furto, prostituzione, truffa. L’aggregarsi nelle città di contadini
espulsi dalla campagne e artigiani proletarizzati aumentò la dimensione delle plebi urbane e rese esplosivo il problema
del “pauperismo” creando un diffuso allarme in diverse città europee per il timore del propagarsi di disordini,
delinquenza e ribellioni popolari fuori controllo. Cominciò così a formarsi tra gli abitanti delle città una
preoccupata percezione sociale del povero, adesso visto come portatore di disordine e pericolo sociale in
quanto potenzialmente

• truffatore, malfattore, imbroglione, ladro

• malato, untore, disseminatore di epidemie

• agitatore di sommosse collettive affiliato a pericolose eresie religiose nemiche (nel quadro delle
guerre di religione)
LA CULTURA DEL CASTIGO

Con l’accalcarsi di orde di questuanti e straccioni nelle vie cittadine e l’esasperarsi del problema del
pauperismo prese corpo la domanda nel mondo urbano di ristabilire l’ordine pubblico mediante interventi
di contenimento della mendicità e dell’accattonaggio. In varie città europee vennero pubblicati editti e
decreti tesi a prevenire potenziali scenari di rivolta dei mendicanti e a fermare la loro proliferazione
incontrollata.

I decreti ribadivano l’imperativo morale del dovere di aiuto ai bisognosi ma prescrivevano un’attuazione più
ordinata, disciplinata, governata con criteri razionali, a partire dalla distinzione necessaria fra poveri
meritevoli e poveri immeritevoli. In varie città europee cominciarono allora ad essere adottate politiche
urbane tese a:

• proibizione del vagabondaggio e repressione della mendicità ambulante

• identificazione e avviamento al lavoro coatto dei vagabondi «immeritevoli» di aiuto in quanto abili
al lavoro

• restrizione degli aiuti in denaro ai soli poveri «meritevoli», cioè agli impossibilitati a lavorare

• organizzazione di nuovi sistemi di assistenza pubblica sostenuti da stabili e costanti contributi


raccolti con la tassazione dei cittadini abbienti

• istituzione del principio della «less elegibility» secondo cui il tenore di vita del povero assistito non
doveva uguagliare quello del lavoratore a più basso reddito, onde non rendere appetibile il ricorso
all’assistenza pubblica

Da una parte continuò dunque ad essere ritenuto un dovere civico della collettività cristiana l’assistere i
poveri, ma solo se essi ricadevano nella categoria dei poveri meritevoli (malati, vedove, anziani, bambini,
disabili); d’altro canto si ritenne necessario procedere a un’opera di induzione forzata all’occupazione per
tutti coloro che potevano lavorare, cioè per i poveri immeritevoli (adulti di sana e robusta costituzione
idonei alla fatica). Entrò così nel dibattito europeo sull’assistenza sociale la distinzione cruciale, destinata a
perdurare sino ai nostri giorni, tra disoccupati per disgrazie e sfortuna e disoccupati per vizio, ozio e
malavoglia. Nell’ottica della responsabilizzazione dell’individuo per le sue sorti personali, i pigri
cominciarono ad essere visti come soggetti ridottisi in difficoltà per propria scelta, e quindi a essere
considerati come soggetti esecrabili, immorali, da correggere e punire, persone che oltre ad essere
controllate nei loro movimenti, andavano raddrizzate e castigate duramente sul piano educativo. Si venne
cioè affermando l’idea della povertà come colpa, come segno tangibile di una deprecabile inclinazione
all’immoralità del soggetto, nonché dell’utilità redentiva del lavoro per tutti gli svogliati. La nuova cultura
del castigo emerse sospinta dall’ideologia emergente del valore intrinsecamente etico dell’attività
lavorativa propugnato dalla Riforma protestante, che in generale stigmatizzava la carità indiscriminata.
Mettendo in primo piano il valore del lavoro e del successo economico, le nuove dottrine dei riformatori
protestanti, in particolar modo dei calvinisti, ruppero i ponti con l’antica tradizione europea della pietà
indistinta per i poveri e col valore spirituale della povertà d’origine medioevale.
LE WORKHOUSES

Nel quadro dell’emergente cultura del castigo videro la luce una varietà di istituzioni volte al controllo e al
disciplinamento sociale delle “classi pericolose”. Una delle strutture di controllo divenuta più celebre del
nuovo corso disciplinare fu quella dell’ospedale e dell’ospizio, sorti in diverse città della Francia, così come
quella dell’orfanatrofio, in cui si impartiva ai minori la disciplina lavorativa, l’igiene, la dottrina religiosa,
l’arte di scrivere e far di conto. Spesso le istituzioni di controllo e disciplina erano vere e proprie case-lavoro
e istituti di correzione, ove i mendicanti venivano rinchiusi e costretti a pagare con le proprio produzioni
artigianali il vitto e l’alloggio che ricevevano. La modalità più brutale di avviamento coatto al lavoro
sperimentata fu tuttavia quella delle workhouses inglesi, case di re-inserimento lavorativo obbligato e
rieducazione morale attuati in condizioni di istituzione totale, regime quasi-carcerario, crudele disciplina,
percosse in caso di improduttività, perdita di identità degli ospiti, pessima alimentazione e
sovraffollamento. (Oliver Twist) L’apertura delle workhouse provocò ondate di veementi reazioni, proteste
popolari, malcontenti, rivolte, persino focolai di guerra civile; e dovette quindi essere imposta
forzosamente. Le case-lavoro erano sovente collegate con manifatture tessili e non è fuori luogo affermare
che per diversi aspetti esse erano funzionali alle esigenze dell’incipiente economia capitalistica dal
momento che:

• formavano con le loro pratiche severe una forza lavoro addomesticata, docile e disciplinata;

• regolavano il flusso dell’offerta sul mercato del lavoro, assicurando che periodi di disoccupazione o
crisi congiunturali non si traducessero in fughe di massa che lasciavano sguarnite le strutture
produttive;

• fornivano prodotti agli impianti e alle manifatture tessili.

NUOVI SISTEMI DI AIUTO PUBBLICO

D’altro canto le nuove politiche di aiuto ai poveri istituite sotto l’influenza delle dottrine protestanti in
merito al valore rieducativo del lavoro portarono alla riorganizzazione dei sistemi di assistenza tradizionale
tramite 4 misure:

creazione di nuovi servizi di assistenza pubblici, gestiti da autorità municipali o da istituzioni monarchiche,
che andavano ad affiancarsi e talora a sostituire le istituzioni religiose preesistenti (secolarizzazione), al fine
di disincentivare le pratiche disordinate di carità individuale di stampo medioevale (razionalizzazione)

centralizzazione della raccolta dei fondi necessari per il funzionamento dei nuovi sistemi di assistenza
mediante l’istituzione di fiscalità periodiche per la popolazione abbiente

istituzione di meccanismi obbligatori di registrazione e controllo amministrativo poliziesco dei mendicanti al


fine di impedirne la mobilità territoriale

imposizione ai richiedenti assistenza del requisito di residenza nella municipalità come condizione sine qua
non per l’ottenimento dei sostegni pubblici
Esempi di enti assistenziali dell’epoca

Sportelli di carità (banchi alimentari), Laboratori di utilità sociale (per l’istruzione, la formazione
professionale e l’educazione morale), Ospedali e Ospizi (per l’accoglienza di orfani, ragazze madri,
prostitute, anziani), Banchi dei pegni e Monti di pietà (per il credito ai meno abbienti a interessi bassi o
nulli), Monti frumentari (per il prestito di semi e alimenti ai contadini)

LA RIFORMA PROTESTANTE

La Riforma protestante sorta dalla ribellione teologica di Lutero alla situazione di degenerazione e diffusa
corruzione del papato romano ebbe effetti rilevanti per il mutamento della concezione medioevale della
povertà e per l’introduzione dei nuovi sistemi di aiuto ai poveri, anche se da alcuni decenni è opinione
corrente fra molti storici che essa non fu in effetti così rivoluzionaria e specifica come si pensava
anteriormente. Dal 500, infatti, tanto i paesi cattolici come quelli protestanti dovettero affrontare
l’emergenza del proliferare di masse di sradicati nelle città e lo fecero in entrambi i casi adottando misure
di riorganizzazione dei sistemi pubblici di assistenza e cercando di mettere sotto controllo amministrativo e
impedire la mobilità dei mendicanti. Tuttavia la Riforma aprì la strada al formarsi di risposte politico-sociali
diversificate nei diversi paesi e territori a seconda del loro posizionamento religioso. Nelle città luterane gli
usuali editti di tipo «reattivo» all’emergenza furono trasformati in editti sempre più «attivi», che indicavano
cioè una precisa responsabilità delle autorità pubbliche nel campo della politica sociale obbligandola a farsi
carico delle sorti dei poveri. In aperta contrapposizione alla Chiesa di Roma, nei territori protestanti si
svilupparono quindi modelli di intervento laici diretti da governi municipali o centrali, mentre nei paesi
cattolici si ebbe per contro una tendenza al rafforzamento dei sistemi tradizionali di matrice religiosa e la
creazione di apposite istituzioni religiose dedicate o di ordini votati all’aiuto dei poveri. In particolare:

CATTOLICI (CHARITAS)

• Con la controriforma cattolica seguita al Concilio di Trento il principio della benevolenza


caritatevole fu riaffermato e furono respinte le politiche di repressione della mendicità, pur
riconoscendo la necessità di presidi pubblici e di gestioni meglio organizzate del fenomeno

• L’elemosina rimase un atto individuale ritenuto degno di esser mantenuto e ci si oppose alla
secolarizzazione degli aiuti di matrice protestante per timore che le donazioni perdessero di valore
ai fini della salvezza individuale nel momento in cui non erano più erogate di persona.

• Come nei territori protestanti anche in quelli cattolici le nuove legislazioni pubbliche prevedevano
l’obbligo del lavoro per i poveri abili e la deportazione dei vagabondi; ma mentre nei paesi
protestanti le autorità applicavano le nuove regole con fermezza, in quelli cattolici sovente non
v’era autorità che nei fatti si prendesse la briga di far effettivamente rispettare in maniera rigorosa
le normative.

• Inoltre nei paesi cattolici l’elemosina veniva proibita soltanto ai vagabondi esterni al municipio, non
a quelli residenti. Le regole del controllo non erano sistematicamente applicate se non quando i
numeri dei mendicanti esplodevano. C’era meno ossessione per il tema dell’obbligatorietà del
lavoro, pur essendo sentito il tema dell’educazione morale degli ospiti di ospedali e orfanatrofi.
L’elemosina rimaneva poi un dovere morale del ricco, non un diritto del povero, e le elargizioni
continuavano ad essere viste come mezzo di salvezza personale del donante.
• Nel mondo cattolico gli ospedali e le strutture d’accoglienza continuarono ad essere gestiti per lo
più da ordini monastici, opere pie, misericordie e confraternite. Con esse si poteva tenere sotto
controllo il fenomeno e attuare al contempo interventi di educazione religiosa e istruzione
moralizzante. Le tradizionali istituzioni di carità rimasero quindi per lo più immutate e si rafforzò
l’idea che l’aiuto ai poveri del cristiano dovesse venire dalla compassione personale e dal
sentimento individuale piuttosto che da un obbligo legale imposto dallo stato. Cosicché nei paesi
cattolici la Chiesa rimase nel complesso la maggior dispensatrice dei servizi di assistenza,

• la povertà restò poco stigmatizzata culturalmente e le pratiche di lavoro coatto evitate, aborrite o
rifiutate.

LUTERANI (SOLA FIDE)

• Secondo le celebri tesi di Lutero il lavoro è intrinsecamente positivo essendo voluto da Dio. Non
rappresenta quindi una condanna divina, bensì l’esatto contrario: rappresenta il modo per uscire
dalla povertà. Quindi la condizione di mendicità della persona sana e capace di attività è sinonimo
di pigrizia ed indolenza (così come peraltro l’arricchimento smodato del ricco è deprecabile). Si
interrompe il legame medioevale fra donante e questuante, dal momento che la verità è solo nelle
scritture e la salvezza viene dalla sola fede della persona, non dalle sue opere di carità. La carità
verso gli abili viene perciò apertamente biasimata dai riformatori luterani; fannulloni e poveri
immeritevoli non devono essere soccorsi e la Chiesa romana va criticata per le sue pratiche che
continuano a favorire la mendicità e l’opportunismo degli immeritevoli.

• Si disegna una nuova politica sociale: lo stato ha il compito istituzionale di proteggere le comunità
dall’invasione dei mendicanti pigri intervenendo solo a favore dei mendicanti veramente bisognosi.
La cura della povertà deve diventare responsabilità dell’intera società e dal costume dell’elemosina
individuale si deve passare all’assistenza pubblica laica, organizzata, centralizzata e controllata a
livello statale.

• Il ruolo degli ospedali e degli ospizi d’accoglienza deve essere di conseguenza circoscritto, l’aiuto ai
poveri deve essere prevalentemente attuato con misure di outdoor relief e il lavoro va reso
obbligatorio, onde disincentivare le abitudini all’elemosina dei recalcitranti e punire la loro
malavoglia.

• Lo stato deve divenire l’indiscusso erogatore ufficiale di servizi d’assistenza grazie a un sistema di
tassazione metodica, che può essere attivato a livello locale di concerto con le chiese.

• I paesi luterani dal 500 all’800 passano così da interventi pubblici adottati in principio a livello
municipale a programmi sempre più strutturati a livello statale diventando pionieri della
legislazione sul welfare state con l’introduzione nel XIX secolo della protezione sociale universale.

CALVINISTI (PREDESTINAZIONE ED ESPIAZIONE)

• Per i Calvinisti il lavoro è un dovere assoluto, un fine spirituale in sé voluto a Dio, da perseguire con
totale disciplina, abnegazione, autosacrificio e con un autocontrollo personale costante e metodico.

• La posizione sociale del questuante viene letteralmente ribaltata rispetto ai valori medioevali: il
medicante diventa la figura più lontana da Dio, mentre quella dell’instancabile lavoratore che
accresce il suo benessere e si arricchisce la più vicina. Il primo è condannato, il secondo è
benedetto.

• Secondo la tesi della predestinazione di Calvino, Dio decide della salvezza dell’individuo prima della
sua nascita e il successo professionale e l’accumulazione di ricchezza sono il segno visibile della
condizione di elezione divina di alcuni, mentre per contro la povertà è il segno della condanna
divina per coloro che non sono salvati. Lo stato d’indigenza è dunque indicativo di una punizione
ricevuta da Dio ex ante, della mancanza di grazia ricevuta.

• I poveri sono quindi ab origine peccatori, al contrario dei ricchi che con la loro opulenza dimostrano
di essere nelle grazie divine.

• Essendo i poveri indigenti per volere divino, ne consegue che la comunità non ha vere
responsabilità per il loro destino e per il miglioramento della loro condizione. I poveri privi della
grazia divina debbono solo essere puniti e corretti, non aiutati e sostenuti.

• Espressione per eccellenza dell’etica calvinista è la workhouse, che ridefinisce in senso punitivo gli
ospedali e ha maggior successo proprio nei territori a influenza calvinista. Se lo sforzo per indurre i
mendicanti a un impiego continuativo fu dispiegato da tutte le chiese, solo i calvinisti introdussero
le case di lavoro in maniera sistematica, programmatica e punitiva (200 case in Inghilterra nel 700)

• Nelle workhouses le condizioni di lavoro dovevano essere così dure e indesiderabili da rendere
qualsiasi altro tipo di impiego preferibile (less elegibility principle) e il povero doveva scegliere di
andarvi solo quando proprio non gli restava altra strada, dato che l’assistenza era nel frattempo
ridotta a livelli minimi per non far concorrenza ai salari.

• Come si può capire, le forme di outdoor relief non erano benviste nel mondo calvinista perché non
incentivavano l’abito del lavoro; erano perciò rigorosamente riservate solo a vecchi e malati.
Centrale era perciò lo sforzo di classificazione dei poveri in base alle loro effettive possibilità di
lavorare e alle loro attitudini morali.

• Il calvinismo teorizzò in tal modo la compresenza nel mondo di due categorie di lavoratori: i
lavoratori eletti destinati ad avere successo economico e i lavoratori condannati, al contrario di
Lutero che aveva proclamato che qualsiasi lavoro aveva lo stesso valore per il Creatore.

• A differenza dei luterani, i calvinisti rifiutarono infine il ruolo e l’attivo coinvolgimento dello stato.
Secondo Calvino l’aiuto ai poveri doveva ricadere nelle competenze dei ministri di culto e solo a
Chiese e organizzazioni caritatevoli doveva spettare la conduzione del sistema di aiuti.
L’opposizione all’intervento dello stato non fu perciò minore tra i Calvinisti che fra i Cattolici. La
legislazione pubblica secondo loro doveva lasciare che fossero le organizzazioni caritatevoli
d’ispirazione religiosa a occuparsi delle opere di assistenza.
EREDITA’ DELLA RIFORMA

La riforma determinò lo sviluppo di diversi indirizzi nelle dottrine sociali dell’aiuto ai poveri che
influenzarono i successivi approcci nazionali in tema di politiche di sostegno agli indigenti pur non essendo
gli unici fattori in gioco. Ciò si può appurare in particolare osservando il caso di alcuni paesi Cattolici (Italia,
Spagna), Luterani (Danimarca, Svezia) e Calvinisti (Inghilterra, Olanda, Stati Uniti).

CATTOLICI Nei paesi cattolici il riaffermato primato della Chiesa nei servizi di assistenza ritardò lo sviluppo
del welfare state, che nacque lasciando i bisogni dei più fragili prevalentemente affidati alle cure di istituti
caritatevoli e religiosi. Il welfare qui maturò più lentamente, per passi successivi, coprendo via via diverse
categorie, col risultato di una struttura di assistenza e protezione pubblica spezzettata per categorie
professionali e in più punti carente per le fasce più deboli. Rimase insomma in vita una cultura
assistenzialista fondata sul principio della sussidiarietà.

LUTERANI Nei paesi luterani l’affermazione del welfare pubblico non fu contrastata dalle Chiese; si
consolidò un sistema molto centralizzato, universalistico, unitario, generoso nelle erogazioni e
standardizzato a favore di tutti i bisognosi. Specificità tedesca fu la presenza di una consistente minoranza
cattolica nel paese che portò a mantenere comunque un ruolo significativo delle chiese nell’attuazione di
un welfare state esigente nei confronti degli assistiti, prevedendo stimoli vigorosi all’impiego per i
disoccupati e perdita dei sostegni al reddito per i renitenti alle offerte di lavoro.

CALVINISTI Dati il rifiuto all’ingerenza dello stato e la dottrina individualista del self help, nel mondo più
sensibilmente influenzato dal calvinismo il sistema di welfare si avviò più tardi e in maniera più
frammentaria. I paesi influenzati dal calvinismo non si dotarono di sistemi nazionali di copertura
assicurativa universalistici, delegando il più possibile l’assistenza alle charities. Il ricorso all’aiuto e
all’assistenza sociale dei bisognosi rimase culturalmente stigmatizzato e disincentivato, con una costante
enfasi ideologica sul pericolo della dipendenza del disoccupato dagli aiuti pubblici. Solo livelli minimi di
assistenza previsti furono garantiti per i casi più disperati. Assicurazioni sanitarie private e fondi pensione
privati divennero la regola. I poveri continuarono ad essere considerati autori delle proprie disgrazie e i
ricchi prova vivente con le loro ricchezze della grazia concessa da Dio.

Potrebbero piacerti anche