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Galileo Galilei venne sottoposto a due processi: nel primo, che si conclude nel 1616, è la teoria

eliocentrica ad essere condannata, mentre lo scienziato viene ammonito verbalmente; il secondo


processo inizia nel 1631, ma, nonostante Galileo venga convocato a Roma nel 1632, egli si
presenterà solo pochi mesi dopo a causa di problemi di salute. In questo processo, il Sant’Uffizio
tenta in tutti i modi di umiliarlo e condannarlo. Questo accanimento nei suoi confronti serve alla
Chiesa di Roma come atto simbolico per dimostrare di essere ancora capace di difendere
l’ortodossia della fede.

Lo scienziato scrive di proprio pugno la sua difesa, a differenza del testo dell’abiura,
consegnatogli dal Sant’Uffizio per farglielo leggere ad alta voce. Tuttavia, leggendolo, richiede
che vengano rimosse due clausole false: la prima affermava che egli aveva errato nel suo
comportamento di buon cattolico, e la seconda che aveva agito con l’inganno al fine di ottenere
l’imprimatur per il Dialogo.

Nell'autodifesa, Galileo sostiene di aver introdotto coscientemente nel suo libro degli errori solo
per vana ambizione e compiacimento di comparire arguto rispetto agli scrittori popolari  del
momento e si dichiara pronto a rimediare al suo sbaglio con ogni possibile mezzo.
Successivamente parla delle sue cattive condizioni di salute, sottolineando in particolare la sua
vecchiaia, giustificando così il ritardo nel presentarsi al processo. Un mezzo di cui usufruisce con
la speranza, vana, di poter evitare sia la condanna che la tortura.

Nel testo dell’abiura, viene dichiarata da Galileo la forte fede nei precetti della Chiesa, rifiutando
quindi le teorie eliocentriche. Promette poi di comportarsi correttamente e di collaborare con la
Chiesa denunciando ogni sospetto di eresia al Sant’Uffizio.
Infine, afferma di essere disposto ad accettare ogni punizione che gli verrà inflitta. Grazie al testo
dell’abiura, lo scienziato riesce a scampare la pena del rogo (allora sentenza abituale per i
condannati di eresia).

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