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ERETICI ED ERESIE MEDIEVALI

FLACIO ILLIRICO E CESARE BARONIO


Con il deflagrare della riforma protestante, intellettuali dello schieramento riformista vanno a cercare nel
passato conferme alla bontà delle proprie tesi richiamando quali testimoni della verità e martiri, uomini
perseguitati dalla Chiesa romana ed additati da questa come eretici. La stessa cosa viene fatta anche in senso
inverso andando a cercare esempi edificanti da presentare al mondo cattolico in contrapposizione a quelli
degli eretici per rimarcarne gli errori dottrinali.
Flacio Illirico e i centuriatori di Magdeburgo con la loro Ecclesiastica historia e il Cardinale Cesare Baronio con
gli Annales ecclesiastici ne sono chiari esempi.
La riscoperta del passato non è però ricerca della verità storica ma semplicemente strumento di polemico.
Vengono forzati legami fra mondi eretici differenti che non trovano giustificazione nella realtà dei fatti,
ignorata la peculiarità dei taluni predicatori e tralasciati tratti comuni fra diverse esperienze ereticali che
potrebbero lasciar intravedere un percorso che la fede e i fedeli stavano intraprendendo e rivelare
significative sensibilità dell’epoca in esame.
Al contempo si andavano affinando decisivi strumenti di studio storiografico come le nuove tecniche
filologiche, paleografiche e diplomatistiche necessarie per dare corpo, solidità ed autorevolezza al proprio
lavoro e veniva riscoperta e ‘salvata’ una notevole quantità di documentazione.
È il caso di catari e valdesi, dapprima accomunati e visti quali precursori della riforma e poi via via riscoperti
nelle loro peculiarità. Il trascorrere del tempo ha infatti permesso di staccarsi da concezioni e letture
aprioristiche del passato ed osservarle per quello che hanno realmente rappresentato.

LA CHIESA RIFORMATA CONTRO LE NUOVE ERESIE


La Chiesa riformata dopo l’XI secolo, che aveva sfruttato una forte spinta anche emotiva al rinnovamento,
scuotendo le coscienze, e non solo (si veda il movimento patarino), di sacerdoti, monaci e laici, ha alimentato
un meccanismo che non riesce più a trattenere e governare. Ha messo in moto i cervelli della cristianità o per
lo meno ne ha cavalcato le coscienze, e non sa più impedire alle persone di esercitarsi nella ricerca della
salvezza dell’anima a partire dalla rilettura e interpretazione del vangelo.
È un esercizio di razionalità sulla propria fede che vedrà sviluppi in due direzioni: una istituzionale che
cercherà risposte nel diritto canonico ed una religiosa che ricercherà le sue fondamenta nell’imitazione del
Cristo e degli apostoli e nella favoleggiata Chiesa delle origini.
I nuovi movimenti religiosi hanno questo tratto comune, sono guidati dalla ricerca della via per la salvezza,
non hanno intenti rivoluzionari né secondi fini opportunistici, sono genuinamente guidati da intenti
soteriologici. Non vogliono portare la Chiesa in una nuova direzione ma riportarla indietro, alle sue origini,
non definiscono eretici se stessi, ma cristiani.
La Chiesa dovrebbe dotarsi di strumenti capaci di individuare delle caratteristiche oggettive che stabiliscano
cosa sia eretico e cosa no, questo passaggio invece viene a mancare, gli eretici sono tali perché la Chiesa
cattolico-romana li definisce tali.
La appena conquistata ‘libertas ecclesia’ è uno strumento troppo prezioso nelle mani della gerarchia
ecclesiastica per metterne in dubbio la ancora fragile realizzazione. La chiesa è stata liberata non solo dal
potere imperiale ma da qualsiasi potere e si è fatta sovrana in ogni ambito la riguardi.
La Chiesa non può avere giudici al di sopra di sé, inoltre, entrando prepotentemente nella gestione secolare
del potere, trasforma la disubbidienza dottrinale in vero e proprio crimine pubblico. Viene bene ribadito nel
1199 da Innocenzo III con la decretale Vigentis in senium per la quale l’eresia è un crimine di lesa maestà,
meritando pertanto di essere perseguita con strumenti sorprendentemente violenti.
Si dovrà però anche mantenere una forma nell’agire contro l’eresia che sia cristiana, già nella riflessione di
Pietro il venerabile la Chiesa appare come convertitrice e non punitrice, il suo scopo non deve essere il
castigo, ma la salvezza dell’anima dell’eretico. Lo stesso abate di Cluny però riconosce come sia inevitabile,
in caso di recidività e caparbietà dell’eretico, intervenire con altri strumenti che non siano quelli della pietà.
Si ricorrerà così al braccio secolare del potere in una commistione di interessi che andranno a scambiarsi fra
Chiesa e potentes, gli uni abbracciati agli altri per sostenersi e spalleggiarsi ogni volta che se ne avrà la
necessità. Del resto anche l’eresia poteva arrivare ad interessare l’ambito politico in questioni come la
conservazione dell’ordine pubblico, e non solo quello della fede.

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PIETRO DI BRUIS
Di Pietro di Bruis conosciamo poco. Fu messo al rogo, ci viene detto, per lo ‘zelo dei fedeli’ (una folla inferocita
o la mano armata secolare guidata dal potere temporale) nel 1132 o 1133. Quel che sappiamo lo sappiamo
grazie ad un suo preoccupato avversario, l’abate di Cluny Pietro il venerabile ed al suo trattato ‘contra
Petrubrusianos hereticos’, compilato dopo la morte del predicatore, per combatterne le idee, nel meridione
francese.
In cosa consistano queste idee ci viene esposto in 5 punti:
- l’inanità del battesimo degli infanti, il battesimo è salvifico solo nel momento in cui è una scelta
personale e non di altri così come viene riportato in Marco 16, 16 ‘chi avrà creduto e sarà stato
battezzato sarà salvo’, è la fede personale che salva, non il rito.
- La critica al sacramento eucaristico. L’eucarestia è stata celebrata una volta e per sempre dal Cristo
e non può essere replicata dagli uomini
- Il disprezzo verso i luoghi sacri, ogni luogo è dimora del Signore
- Inutilità delle preghiere per i defunti. Ognuno ha stabilita la sua sorte di salvezza o dannazione una
volta e per sempre
- L’odio verso l’ostentazione della Croce, che è strumento di tortura, e non deve essere oggetto di
culto
Non sono di per loro idee irrazionali o distanti dagli insegnamenti evangelici ma comunque vengono
percepite come pericolose perché mettono in dubbio le sorgenti del potere temporale, ovvero i sacramenti,
ed i luoghi sacri, rendendo superflua la figura del sacerdote e con essa le gerarchie ecclesiastiche.
È difficile contrapporre alle dottrine petrobrusiane confutazioni che non si basino esse stesse su
interpretazioni dei medesimi versi del Vangelo citati da Pietro, pertanto lo stesso abate di Cluny ritiene di
accompagnare alle sue tesi il racconto delle pericolose conseguenze criminali che questa nuova eresia porta
con sé: violenza contro sacerdoti e monaci, spregio di tradizioni come il digiuno del venerdì santo, luoghi di
culto profanati e croci date alle fiamme.
Certo è che le idee Pietrobrusiane sono sufficientemente incisive da germogliare in contesti molto diversi fra
loro, dalle comunità montane, fino ai grossi centri mercantili del sud della Francia.
Rivelatrice del dibattito dell’epoca sul come affrontare queste eresie è anche la riflessione dell’abate di Cluny
sul ricorso alla violenza. Egli sa che cristianamente questo non può essere accettato; le armi della Chiesa
riguardano la pietà, la carità, il perdono persino. Lo scopo non è eliminare il peccatore ma convertirlo,
riportarlo in seno alla Chiesa, alla luce del Signore. Ma quello dell’eretico è un caso diverso da quello del
comune peccatore facile da guidare al pentimento. Questi nuovi eretici non conoscono la loro colpa e sono
invece convinti di muoversi, loro e non la Chiesa, nel percorso tracciato dal Cristo. Per quanto doloroso, la
Chiesa secondo Pietro il Venerabile dovrà ricorrere alla spada.

CLEMENTE ED EBERARDO DI BUCY


Come in altri casi anche in questo i due eretici ci vengono raccontati esclusivamente dalla prospettiva dei
loro avversari, nello specifico quella di Guiberto abate di Nogent-suos-Coucy.
Vengono descritti come ‘rustici’ pertanto ignoranti. La loro ignoranza sarà utile all’accusatore per
presentarceli come persone non in grado di leggere e comprendere il Vangelo quindi naturalmente portati
all’errore. In realtà è lo stesso abate a simulare l’ignoranza degli accusati che, contrariamente a quanto
riportato, sembra rispondano cristianamente all’interrogatorio, dimostrando non solo di comprendere
perfettamente la loro condizione di perseguitati per il nome di Gesù ma al contempo di essere capaci di citare
le scritture correttamente e nel contesto opportuno (‘Beati eritis’).
Clemente ed Eberardo sono accusati di rifiutare di riconoscere l’incarnazione divina, rifiutare il battesimo
degli infanti, la celebrazione eucaristica, il matrimonio, gli atti sessuali e la procreazione. Ancora una volta
l’accusatore ci mostrerà come queste idee si traducano nella realtà nelle peggiori nefandezze, l’accusa
dottrinale non ha di per sé la forza per portare ad una condanna. È avvertita nettamente la necessità di
demonizzare il proprio avversario, infamarlo; sono i preludi di quella trasformazione che porterà la Chiesa ad
identificare i propri nemici o quelli ritenuti tali, come streghe e stregoni.
I due pover’uomini sono accusati di aver formato delle ‘conventicole’ in cui predicano le loro dottrine. È da
notare che già solo questo è peccaminoso per l’ecclesiastico. Creare luoghi di culto, magari nascosti, finanche

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sotterranei (evidentemente non possono praticare i loro rituali alla luce del giorno perché certamente
vergognosi) è già di per sé indice di colpevolezza. È in fin dei conti questa la vera accusa, il sostituirsi alla
Chiesa è la colpa più pericolosa. Sarà la sola vera imputazione portata a loro carico in quanto per le altre:
praticare orge (in contraddizione con quanto ci viene detto del loro stile di vita che esecrava l’atto sessuale)
o bruciare vivi gli infanti che ne nascevano e mangiarli, gli accusatori non avevano trovato testimoni credibili
a carico.
Lo stesso Pietro racconta che sotto interrogatorio i due avevano cristianamente riposto, ma aggiunge che
questo non sarebbe stato sufficiente a scagionarli. Infatti era quello che bisognava aspettarsi da un eretico
cui era ordinato ‘giura, spergiura, non tradire il segreto!’. L’esito del processo era già stabilito, si ricorse
persino all’ordalia dell’acqua benedetta alla quale i due sopravvissero testimoniando la loro colpevolezza.
Eberardo confessò ma senza pentirsi. Furono entrambi imprigionati.
Il vescovo si assentò dalla diocesi per occuparsi di altri uffici e questo diede l’occasione al popolo di prelevare
i due accusati dalla prigione e bruciarli vivi sul rogo.
Ancora una volta i laici vengono usati o si sentono in diritto di dirimere questioni propriamente teologiche,
la Chiesa in un certo qual modo coltiva la sua serpe in seno dandole libero sfogo a seconda dell’utilità del
momento. Questa volta perseguitando dei cristiani che vivevano in comunità e castità ispirandosi ai modelli
di cui leggevano negli Atti degli Apostoli ma senza essere monaci e monache ed i due uomini che a quelli
predicavano senza essere sacerdoti.

IL MONACO ENRICO
Enrico abbandona l’abito monastico per farsi povero sull’esempio di Gesù e dedicarsi alla predicazione del
vangelo.
La sua predicazione inizia nel 1116 a Le Mans città in cui si trova invischiato in un episodio di tipo patarinico;
la popolazione della città infatti si rivolta violentemente contro il clero e la colpa della sommossa è attribuita
agli insegnamenti del monaco.
Le sua predicazione riguarda la sobrietà dei costumi e la povertà del clero ma è anche fortemente indirizzata
al perdono (‘ama il prossimo tuo come te stesso’), alle possibilità di redenzione dal peccato nonché alla libera
scelta di fede: libera da costrizioni e libera da intermediari quali il clero (‘è necessario obbedire più a Dio che
agli uomini’). Si fa portatore di idee dirompenti come il perdono delle prostitute e la libera scelta dei
contraenti il matrimonio affrancata da costrizioni e interessi economici. Aspetti primari delle teorie enriciane
sono inoltre la necessità della purezza del sacerdote (raggiunta solo con la povertà) affinché i sacramenti da
lui amministrati abbiano valore ed il dovere del buon cristiano di evangelizzare il popolo (“andate e insegnate
a tutte le genti”).
C’è dunque una forte commistione fra due mondi che la riforma del secolo precedente si era sforzata di
tenere lontani: quello clericale e quello laico. Con Enrico il laico è protagonista della fede non solo per quel
che riguarda se stesso e la sua salvezza, ma anche come sprone alla Chiesa affinchè si faccia povera e cammini
sulla via tracciata dal Cristo. Non solo, il laico può anche farsi sacerdote mettendosi esso stesso nel solco della
povertà tracciato da Gesù e farsi evangelizzatore ed apostolo. Queste idee probabilmente condurranno agli
sfoghi patarinici nella storia del monaco.
Difronte ad un sinodo in Pisa nel 1134 ritratta e promette di farsi monaco e ritirarsi a Clairvaux.
Lo si ritrova ancora una volta catturato nel 1145 a Tolosa dove Bernardo di Chiaravalle in cooperazione con
il cardinale Alberico è costretto ad intervenire per ristabilire il culto in una diocesi in cui i fedeli stavano
abbandonando la Chiesa ed il clero si ritrovava isolato.
Come per altri eretici anche lui viene accusato da Bernardo di Chiaravalle di doppiezza e di praticare atti
vergognosi, quali l’accoppiamento con meretrici e donne sposate, la notte dopo aver ben predicato il giorno.
Ancora una volta le armi della chiesa si trovano spuntate di fronte agli insegnamenti e all’esempio dell’eretico
e bisogna mostrarne l’infamia sotto l’aspetto pubblico.

ARNALDO DA BRESCIA
La predicazione di Arnaldo parte da Brescia nel 1120 circa. Qui sembra sia stato protagonista delle lotte per
impedire al vescovo Manfredo di insediarsi in città. Prosegue in Francia dove con ogni probabilità incontra il
famoso studioso Pietro Abelardo da cui forse trae gli insegnamenti necessari a dare solide basi alle sue idee.
Con l’uomo di cultura prende parte al sinodo di Sens nel 1140 in cui le tesi di Abelardo vengono condannate

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per opera di Bernardo di Chiaravalle. Successivamente si mantenne come predicatore ed insegnante di poveri
studenti che lo pagavano e si sostenevano grazie all’elemosina.
Nel 1145 Arnaldo è a Roma con la benevolenza dell’allora Papa Eugenio III (educato dai cistercensi e allievo
di Bernardo di Chiaravalle) dove continua la sua predicazione trovando nel tessuto cittadino e soprattutto, in
un primo momento, nell’aristocrazia in rivolta contro Eugenio III un forte appoggio.
Si consuma quello che è un tentativo di istituire un comune in Roma, tentativo che naufragherà quando nel
1155 il pontefice Adriano IV minaccerà di gettare l’interdetto sulla città, facendo così recedere dalle loro
posizioni oltranziste quelle famiglie che dal venturo giubileo avrebbero guadagnato molto e che avrebbero
pertanto avuto molto da perdere dalla proibizione ai fedeli di compiere il loro pellegrinaggio nella città.
Arnaldo viene sostenuto dal piccolo popolo ancora per un po’ e poi costretto a fuggire. Sarà catturato e
consegnato all’Imperatore Federico Barbarossa che a sua volta, volendo migliorare i propri rapporti col
pontefice, lo consegna alla curia.
Arnaldo viene impiccato e poi bruciato e le sue ceneri saranno disperse nel Tevere per impedire che i suoi
resti potessero diventare reliquie per un nuovo culto.
Questo dimostra come la vita di Arnaldo fosse considerabile una vita Santa e che le vere ragioni della sua
persecuzione fossero di natura politica.
Arnaldo predicava per la povertà della Chiesa, criticando ferocemente la gerarchia ecclesiastica che da lui era
presentata come una spelonca di ladri a cui nulla importava della fede ma che era dedita alla sola ricerca di
ricchezze. L’esempio di vita di Arnaldo era inattaccabile come il suo stile di vita, per questo in un primo
momento era così piaciuto e tollerato da tutti; aveva infatti sposato gli ideali predicati sia dal clero
riformatore che dal quel popolo che aveva conosciuto l’esempio dei patari. Le sue prediche arriveranno a
rivolgersi persino contro il Papa, accusato di ricorrere ad incendi e omicidi per i suoi fini e di vessare il popolo;
sarà questo il passo falso nel quale Arnaldo incapperà, non sarebbe riuscito infatti a valutare correttamente
la capacità di penetrazione che ancora aveva la parola del pontefice sul popolo romano.

I CATARI
Nel 1145 circa Evervino di Steinfeld scrive una missiva dai toni preoccupanti a Bernardo di Chiaravalle per
informarlo della scoperta di una larga presenza di gruppi eterodossi nelle terre di Colonia.
Questi gruppi è possibile separarli in due fazioni una moderata ed una radicale. I primi si rifacevano alle
posizioni riformatrici contro un clero secolarizzato e con critiche che arrivavano ad accostarsi a quelle dei due
eretici Pietro di Bruis ed il monaco Enrico sui temi del battesimo degli infanti e delle opere per i defunti.
Questi gruppi videro fra le loro fila anche sacerdoti e monaci riformatori ed in qualche caso poterono essere
ricondotti in seno alla Chiesa.
Il gruppo più radicale invece fu del tutto incompatibile con la Chiesa. Chierici e persino monaci non erano che
persone corrotte, la Chiesa era fonte di impurezza, impegnata solo nell’accumulazione di ricchezze che sono
cose di questo mondo, mentre questi fedeli non si percepivano appartenenti a questo mondo, ma
imprigionati in esso. Si riconoscevano quali martiri, testimoni col loro esempio della via tracciata dal Cristo,
rifuggivano da ogni bene materiale, vivevano l’ascesi ed il distacco dalla società dedicandosi solo alla
preghiera ed al lavoro.
Parlavano di se stessi come di ‘agnelli in mezzo ai lupi’, asserivano di non far parte del mondo ma che questa
vita non fosse che una cattività da cui liberarsi seguendo l’esempio e gli insegnamenti del Cristo. Vivevano la
propria vita come missione apostolica e le vessazioni nei loro confronti come la conferma che il loro percorso
fosse quello autenticamente cristiano perché tale era stato anche il destino di martiri ed apostoli condannati
alla persecuzione da una società empia, fermamente credenti nell’insegnamento: ‘dai loro frutti li
riconoscerete’.
Negli anni ’40 dell’XII sec furono diverse le comunità di questo tipo che sorsero nella Francia meridionale e
Italia settentrionale, senza un apparente o testimoniata ascendenza comune, senza che ne conosciamo un
comune magister o predicatore. L’ipotesi più accreditata è che siano il frutto di esiliati bogomili bizantini,
espulsi nel 1143 da Costantinopoli per decisione dell’Imperatore Manuele Comneno.
Questi portarono in Europa le teorie dualistiche diffuse in Oriente che separavano la realtà in materiale,
frutto di Satana, e spirituale, frutto dell’opera di Dio. Anche in questo caso possiamo suddividere questi
insegnamenti in due categorie, uno più moderato ed uno più radicale.

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Per i primi, che prendevano le mosse dalla Chiesa Bulgara, gli uomini erano il risultato maldestro del lavoro
di un angelo decaduto, Satana. Questi fantocci, inanimati, in quanto il loro creatore non seppe dargli vita,
furono, per misericordia divina, insufflati con gli spiriti degli angeli decaduti e presero vita. Naturalmente la
loro aspirazione è quella di tornare al Padre e fu un altro angelo, il Cristo, ad insegnare loro la via per liberarsi
della materialità e tornare ad essere graditi al loro Creatore.
Diversamente gli appartenenti al secondo gruppo, quello più massimalista, derivante le proprie credenze
dalla Chiesa di Dragovitza, reputavano l’intera materialità frutto di satana, ma non opera incompleta di un
dio minore, Satana, piuttosto come una vera e propria trappola dell’angelo decaduto, ideata per corrompere
le anime, in una prospettiva di lotta con le forze del Signore. La realtà è corruttrice, tutti i piaceri che da essa
vengono sono da rifuggire, persino le donne con le tentazioni che portano con sé.
Lo scarto fra queste due posizioni fa la differenza fra possibilità di aprire un discorso conciliante con la Chiesa
cattolico romana ed il non farlo; per i radicali nulla di questo mondo è salvabile, ogni cosa materiale è
corrotta, la chiesa ed i suoi possessi non scampano a questa sorte.
Se si vuole tentare di dare un nome a chi portò questi insegnamenti, quello più probabile è Nicheta, vescovo
dualista di Bisanzio già conosciuto presso i catari di Lombardia, che trainò dalle posizioni moderate a quelle
più radicali della Chiesa Dragovitza. Il bogomila presiede il concilio formativo della chiesa catara come altra
chiesa rispetto quella cattolica. Siamo nel 1167 a Saint Felix de Caraman, vicino Tolosa. Qui si incontrano
delegazioni del nord e del meridione francese e delegazioni del nord Italia. Vengono stabilite quattro diocesi
in Francia (tra cui quelle di Tolosa e Albi) e tre in Italia. Al contempo saranno battezzati con rito cataro, il
consolamentum, e consacrati sette vescovi. La nuova Chiesa avrebbe avuto un nuovo sistema di ordini
auditores, credentes ed electi e di sacramenti. In Francia prevarrà la componente radicale del dualismo e le
comunità resteranno compatte fra di loro mentre in Italia prevarrà quella moderata ma ogni diocesi andrà
per suo conto fra contrasti che ne produrranno la dispersione e la divisione.
Fra loro i Catari si chiamavano i ‘buoni cristiani’ ed il termine catari deriva dal greco cataros e cioè ‘i puri’.
Presto, per le loro posizioni anticlericali si trovarono costretti a difendersi e la loro Chiesa non ebbe il tempo
di strutturarsi e affrontare una fase di riflessioni teologiche. Non pare però che il dualismo fosse la scintilla
ad infiammare le coscienze del popolo, fu piuttosto uno strumento adatto a ‘giustificare’ un sentimento di
rinascita religiosa basata su uno stile di vita che già fece da sfondo alla riforma ecclesiastica, alla diffusione di
nuovi ordini monastici ed al fenomeno della pataria.
Fu inoltre un fenomeno che interessò alcune fra le regioni più vitali e moderne dell’epoca: Meridione e
Settentrione francese, Italia Lombarda, Fiandre, Renania, regioni di intensi traffici commerciali da cui sempre
derivano scambi di idee, luoghi in cui nuove forze sociali cercavano la ribalta.
La Chiesa catara demolendo le vecchie istituzioni offriva spazi di discussione inconsueti, abbatteva ostacoli
sociali quali ad esempio la relegazione delle donne e permetteva anche a figure di umili origini come Marco
di Lombardia di divenire vescovo.
La chiesa dualista si venne per così dire a trovare nel momento giusto, nel posto giusto.

DOMENICO DI CALERUEGA E RISPOSTA DELLA CHIESA


La risposta della Chiesa cattolica si dimostrò del tutto insufficiente a fronteggiare la diffusione delle nuove
idee, le forze in movimento furono troppo vitali per essere fermate dalla predicazione di qualche cistercense,
da dibattiti pubblici o dalla sostituzione di qualche prelato con uomini più digeribili a chi promuoveva una
chiesa di puri o con uomini più battaglieri.
C’è da credere che l’esasperazione di un papa come Innocenzo III che in altre occasioni si dimostrò
fortemente propenso alla conciliazione, fosse considerevole. Esortato dai cistercensi che avevano
collezionato solo fallimenti nella loro opera di conversione dei catari, ricorse alla sola arma rimasta, la ferocia.
Fu l'uccisione del cistercense Pietro di Castelnau, fervente nemico dei catari, commessa il 5 gennaio 1208 sul
Rodano, dopo un tempestoso abboccamento con Raimondo VI conte di Tolosa a dare la scusa per un
intervento in armi. Questo principe s'era mostrato sempre favorevole agli eretici e poiché l'assassino era
stato un suo vassallo, fu accusato il conte stesso come complice. Venne scomunicato e obbligato a fare
pubblica penitenza, finché alla fine il 18 giugno 1209 venne assolto. Frattanto Innocenzo III nel marzo 1208
fece predicare la crociata contro gli eretici in tutta la Francia da Arnaldo di Cîteaux e da altri prelati; il re
Filippo Augusto non intervenne nella disputa permettendo ai crociati di muoversi liberamente, ed Arnaldo

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riuscì a radunare nel giugno 1209 a Lione un forte esercito di cavalieri e di gente raccogliticcia, dai quali fu
proclamato capo.
Nella città di Beziérs fu compiuto uno spaventoso macello. Gli stessi inviati papali parlano soddisfatti di 20000
morti fra la popolazione, senza che venisse fatta distinzione fra uomini, donne e bambini. Nel giro di poco
caddero o si arresero anche le altre città, ma la crociata, che a questo punto non aveva più ragion d’essere,
si trasformò in altro. La guida passò a Simone di Montfort e la crociata divenne una guerra di conquista dei
domini di Riamondo di Tolosa. La questione si risolse definitivamente con l’intervento di Filippo Augusto che
colse l’occasione favorevole e risolse la disputa annettendo alla corona francese tutti i territori in questione.
La Chiesa, ora poteva muoversi in terreni più familiari, quelli in cui aveva le spalle protette dal potere secolare
ed iniziò la sua attività di repressione.
L’opera di sradicamento dell’eresia fu guidata da Domenico da Caleruega e dal suo gruppo che presto ottenne
il rango di ordine religioso mendicante: ‘i domenicani’ dedito all’estirpazione dell’eresia. Domenico intuì che
avrebbe dovuto combattere l’eresia usando le stesse armi di convincimento che da questa erano utilizzate,
una vita in povertà e castità.
Si creò anche l’istituzione dell’Inquisizione dei frati Predicatori per il mantenimento dell’ortodossia. A questa
venne poi prestata anche l’opera dei frati Minori, perfetti per introdursi presso il popolo e conquistarne il
consenso per così dire ‘dal basso’. Il risultato è che ancora nel 1244, a venti anni dalla guerra, centinaia di
roghi venivano accesi a Montségur per bruciare quelli che ancora rifiutavano di convertirsi.
Con la crociata e la guerra, fu spazzata via l’intera cultura occitana che non ebbe più modo di ricompattarsi.
Un fiorente stato che stava nascendo, non esistette più.

VALDO DI LIONE
Siamo negli anni ’70 del XII secolo quando un ricco mercante di Lione, può darsi anche usuraio, ha una
conversione interiore che lo porta ad accostarsi alla fede in Gesù Cristo. Forse la causa scatenante fu una
visione delle pene infernali, sta di fatto che Valdo usa parte dei suoi beni per farsi tradurre i vangeli e alcuni
brani della patristica e si dedica al loro studio. Da questo studio, ulteriormente ispirato magari dalla vicenda
di Sant’Alessio, ne deriva la sua scelta di farsi apostolo del Cristo e seguirne gli insegnamenti. Si libera allora
dei suoi beni e inizia a vivere in povertà, predicando con la testimonianza e la parola di Gesù.
Valdo ha questa intuizione: la Chiesa è oramai una istituzione afona, ha perso la capacità di parlare alla gente,
bisogna abbracciare con forza la via tracciata da Gesù per farsi predicatori credibili del Suo messaggio.
Nel giro di qualche anno, accompagnato da un gruppo di seguaci, lo troviamo a Roma ansioso di ricevere
l’approvazione papale a quella che ritiene una missione a cui è stato vocato.
Si troverà costretto in un groviglio inestricabile per cui la Chiesa, che pure accoglie con favore la sua scelta di
vita povera, non potrà concedergli anche di esser libero di predicare. Bene riassume le preoccupazioni della
Chiesa il canonico Walter Map “Costoro […] Iniziano ora in modo umilissimo, perché stentano a muovere il
piede; ma qualora li ammettessimo, ne saremmo cacciati”.
La missione predicatrice di Valdo è duplice e riguarda sia lo stile di vita che chiede di adeguare a quello del
Cristo povero, sia la lotta a favore dell’ortodossia e contro il dualismo, in particolare cataro.
I seguaci di Valdo sono infatti del tutto ortodossi e mai metteranno in dubbio le gerarchie ecclesiastiche.
Il permesso di farsi predicatori non arriverà mai, anzi Lucio III con la decretale Ad abolendam scomunicherà
‘coloro che avranno la presunzione di predicare sia in pubblico che in privato, pur avendone avuto la
proibizione, oppure non essendone stati invitati’.
La strada per un’integrazione nella Chiesa si è chiusa; si aprirà uno spiraglio solo 25 anni dopo, quando oramai
Valdo sarà deceduto.
I seguaci del lionese non saranno però per questo scoraggiati, continueranno a predicare il Vangelo come
scritto in Marco ‘predicate l’evangelo a ogni creatura’ e come scritto negli Atti degli Apostoli ‘è necessario
obbedire più a Dio che all’uomo’. Il movimento andrà anzi diffondendosi rapidamente sia nel sud francese sia
nell’Italia settentrionale. Spesso saranno ben accolti dalle realtà locali; è il caso ad esempio del gruppo
chiamato illi de prato che appunto nel 1196 ottiene dagli amministratori cittadini di Milano un terreno su cui
costruire la propria sede.
Si apre però anche una spaccatura fra valdesi di ispirazione ortodossa, fedeli agli insegnamenti del fondatore
che mai aveva pensato al distacco dalla Chiesa romana e che in Francia proseguirono la loro polemica

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antidualista e anticatara e quelli che in Italia invece furono spesso mischiati con i gruppi più estremisti e
catari.
Nel 1205 si consuma uno scisma che vede separarsi i valdesi in un gruppo francese ed uno italiano che
prenderà il nome di pauperes lombardi sotto la guida di Giovanni Ronco. Fra questi alcuni rifiutarono le
gerarchie ecclesiastiche sostituendosi a sacerdoti considerati indegni nella somministrazione dei sacramenti.
Questo atteggiamento fu la causa di una nuova scissione, quella del gruppo degli illi de prato più moderato e
che pur spingendo il clero, in pieno spirito valdese, ad una maggiore decenza dei costumi di vita, era
indisposto a sostituirsi alle gerarchie riconosciute dalla Chiesa romana.
Nel 1208 Innocenzo III anche per opera di Durando d’Osma, seguace di Valdo della prima ora, sperando nella
forza di un gesto pacificatorio, accoglierà i valdesi lombardi che daranno vita a due ordini religiosi di pauperes
i reconciliati e i catholici. Alcuni avranno anche il via libera alla predicazione, ma entrambi i movimenti
perderanno forza fino alla loro naturale e lenta dissoluzione.
Nel 1218 le restanti parti delle societas Valdesiana: i fratrum Ultramontanum e i fratrum Ytalicos quelli che
forse si potrebbe identificare come i pauperes lombardi o forse con un gruppo di moderati fra questi,
tenteranno un raccordo che però naufragherà sull’interpretazione della figura di Valdo. Nel caso dei primi la
missione di Valdo è stata provvidenziale, Valdo è un novello apostolo, scelto dal Signore e ora riposa in
Paradiso. Nel secondo caso Vlado certamente sarà in Paradiso se avrà reso conto dei suoi peccati al Padre
Eterno; il che sta a significare che Valdo è solo un uomo tra gli uomini e che come ogni uomo, sarà salvato
solo se redento dai suoi peccati. Viene insomma riconosciuta l’importanza dell’intuizione di Valdo ma non la
“provvidenzialità” della sua figura.
La missione di Valdo darà luogo a diverse letture e sarà diversamente rivisitata a seconda dei contesti in cui
sarà esaminata: un precursore per i protestanti di una chiesa sottoposta solo a dio e non all’uomo, ed un
disobbediente per i cattolici.

GLI UMILIATI
‘Vi furono nelle città di Lombardia alcuni cittadini che, rimanendo nelle loro case con le loro famiglie,
sceglievano un modo di vivere religiosamente, si astenevano da menzogne, giuramenti e liti, contenti di una
veste semplice, difendendo la fede cattolica. Il Papa concesse loro di fare ogni cosa in umiltà e onestà, ma
interdisse in modo particolare di tenere riunioni e proibì rigorosamente di osare di predicare in pubblico ’
La vicenda degli umiliati trovò enorme diffusione in Lombardia e non solo. Seppure simile a quella valdese e
con questa avesse condiviso la scomunica derivante dalla decretale Ad Abolendam di Lucio III, l’esperienza
degli umiliati, fu presto ricondotta nell’alveo della Chiesa romana. Fu soprattutto merito di Urbano III ed
Innocenzo III. Quest’ultimo li legò alle istituzioni religiose prescrivendo loro di riunirsi settimanalmente in
luogo adatto per ascoltare la parola di predicatori di comprovata fede e imponendo di non affrontare nelle
loro prediche né discussioni sugli articoli della fede, né sui sacramenti della Chiesa, ma dando libertà di
diffondere il loro annuncio di carattere etico religioso. Al contempo i due papi assicurarono agli umiliati la
loro protezione da cattolici troppo zelanti, non furono rare infatti, nei loro confronti, le accuse di essere
patarini (ossia eretici) e le conseguenti resistenze di vescovi e chiese locali alla loro predicazione.

UGO SPERONI
Attorno al 1170 un membro dell’aristocrazia comunale di Piacenza, dotato di una importante cultura giuridica
ed a lungo console, Ugo Speroni, scrive ad un suo amico e compagno di studi di nome Vacario, giuriesperito
a quel tempo stabilitosi in Inghilterra, presentandogli le sue riflessioni sugli scritti paolini. Sarà dalla
confutazione di Vacario che potremo conoscere l’opera di Speroni.
Egli in particolare si dedicò alle conseguenze della frase presente nella lettera ai Galati di Paolo nella quale
l’apostolo afferma “il giusto vivrà in virtù della sua fede”. Da questa affermazione Speroni fa discendere una
teoria gravida di conseguenze. Essendo infatti la fede incontestabilmente un dono del Signore, se la salvezza
di un uomo dipende da questa, non è nelle sue mani, ma in quelle di Dio; non solo, è già stabilita e a nulla
possono concorrere opere ascetiche, buone azioni e riti, solo la volontà divina. La Chiesa, le sue istituzioni, i
sacramenti, non sono che costrutti umani: “chi ci insegnò a costruire campanili, a suonare campane, a
dipingere immagini, a innalzare croci?”.
Gli speronisti non adotteranno nessuno stile di vita riconoscibile, non si riuniranno in comunità, non vivranno
in povertà o cercando di seguire una favoleggiata chiesa delle origini. La loro è per così dire una eresia di

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pensiero ed anche il fondatore, sempre che di fondatore si possa parlare, non sembra voler davvero cambiare
la Chiesa o rivoluzionarla, quanto piuttosto applicare strumenti come sapere e intelligenza alla fede, il suo, ci
riferisce Vacario, è un filosofeggiare, un gioco intellettuale. Ma il metodo è similare a quello della scolastica
che nello stesso periodo stava prendendo forma.
È importante notare che fu un laico a giungere a queste conclusioni e non un ecclesiastico, è il segno della
tendenza di una società, come quella comunale del settentrione italiano, che non voleva lasciare uno spazio
importante della propria vita, quello religioso, alla responsabilità clericale; anzi proprio la clericalizzazione
della società era divenuta, per mera volontà di dominio, la più grande causa di corruzione della fede.
Cinquanta anni dopo, quando anche i seguaci di Speroni dovevano essersi con ogni probabilità estinti o quasi,
Salvo Burci nel suo Liber supra stellas accomuna l’eresia speronista a quella catara, dei poveri di Lione o dei
poveri lombardi, indice che il cambiamento simboleggiato da Speroni non era stato compreso.

AMALRICIANI E BEGHINE
Nel 1210 subiscono un duro processo canonico i seguaci di un certo Amalrico Bène, processo che terminerà
con la condanna al rogo di dieci di loro ed il carcere a vita per gli altri; solo uno accetterà l’abiura.
Nell’occasione vengono anche riesumate le ossa del maestro a testimonianza della durezza del processo e di
quanto pericolose fossero considerate queste dottrine.
Lo stesso Amalrico filosofo e teologo dell’Università di Parigi fu in vita accusato di eterodossia dai suoi colleghi
e dopo essersi inutilmente appellato al pontefice fu costretto ad arrendersi ed a ritrattare.
Gli amalriciani erano convinti di vivere nella terza ed ultima era della creazione; dopo quella del padre e del
figlio era arrivata l’età dello Spirito Santo in cui gli uomini si sarebbero resi conto della presenza di Dio in loro
e sarebbero stati liberati, tramite questa consapevolezza dalla paura del peccato. Dio opera tutto nell’uomo
pertanto l’uomo non può peccare. Conseguenza è il superamento della necessità dei sacramenti e
dell’intervento sacerdotale nella via per la salvezza. “Un uomo cosciente della presenza di Dio in lui, non può
conoscere afflizione, ma soltanto letizia”. Inoltre la terza sarebbe stata l’ultima era del mondo e la fine dei
tempi era vicina.
Quello amalriciano fu un movimento che mosse da ambienti ad elevata cultura per giungere ad ambienti più
popolari, questo fu spesso riconosciuto anche dagli accusatori che facilmente perdonarono i popolani ingenui
che si fossero lasciati affascinare.
Particolarmente significativa fu la presenza femminile in questo tipo di confraternite, forse anche favorita
dalla contemporanea partecipazione alle crociate degli uomini abili. Beghine e beghinaggi si diffusero in tutta
Europa a partire dalle Fiandre suscitando prima sospetto poi riprovazione ed infine vere e proprie accuse di
eresia.
Spesso per ricevere protezione si accostarono alle realtà dei frati minori e predicatori sul territorio, ma furono
gruppi anche facilmente permeabili alle idee amalriciane “l’anima non ha cura d’alcuna cosa; non ha onore,
non ha vergogna, non ha allegrezza, non ha povertà, non ha ricchezza, non ha allegrezza, non ha tristizia, non
ha amore, non ha odio, non ha inferno, non ha paradiso” scriveva nel 1310 Margherita Porete una beghina
di Parigi.

GIOACHIMITI
Stesse speranze escatologiche ed attese dell’arrivo della terza età si ritrovano nelle visioni dei Gioacchino da
Fiore. L’umanità era alle soglie del tempo dei viri spirituales della perfetta carità e del trionfo del modello
monastico. I Gioachimiti avrebbero cercato di continuo i segni dell’arrivo dell’anticristo fra i sovrani della
terra e del suo nemico, dando anche fondamento a molte battaglie politiche; sconfitto l’Anticristo alla fine la
Chiesa avrebbe trionfato facendo sorgere l’età dello Spirito.
Fra gli ordini dei Predicatori e dei Minori le visioni di Gioacchino trovarono terreno fertile fino ad arrivare allo
scontro con i mastri secolari dell’Università di Parigi e la condanna di molti aspetti del gioachimismo.

LA LOMBARDIA DEL XIII SECOLO VALDESI


La Lombardia degli inizi del XIII secolo è una terra sicura per tutte le esperienze di confine fra eterodossia ed
ortodossia. Vi si possono trovare dai dualisti radicali e moderati ai poveri di Lione ai pauperes lombardi ai illi
de prato che diverranno i pauperes riconciliati, ai tortolani, ai communicati.

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L’aria cambia con l’avvicinarsi degli anni ’30, fra il ’29 ed il ‘35. La crociata contro gli albigesi e la conseguente
predicazione dei domenicani e degli ordini minori ed il lavoro dell’inquisizione hanno tracciato una nuova
strada per la Chiesa, fatta di appoggio del braccio secolare e di predicazione dei frati minori.
Vengono accesi roghi, tormentati quelli che non sarebbero tornati in seno alla Chiesa romana. Persino un
difensore dell’ortodossia Salvo Burci, che abbiamo visto impegnato nella lotta elle eresie come quella
speronista, nel suo Liber supra Stellas scrive: “I prelati di questa Chiesa si danno da fare in ogni modo perché
negli statuti cittadini si stabilisca che con svariati tormenti siano colpiti coloro che essi chiamano eretici […] O
popoli, vedete come li fanno uccidere quelli che non vogliono giurare, né peccare di adulterio, né mangiar
carne, eccetera. Ma a quelli che hanno la spada al fianco e commettono omicidi e adulteri, non la fanno
deporre. O Chiesa romana, hai le mani tutte piene del sangue dei martiri”.
Alla luce di questa violenta persecuzione non stupirebbe se la critica al potere ed ai poteri non fosse che una
reazione di autodifesa più che un progetto praticabile e perseguito.
La pianura Padana perdette il suo ruolo di luogo di incontro, i movimenti valdesi o dei sandaliati continuarono
a riunirsi annualmente ma via via perdendo le loro frange più estreme. Dovettero anche ridurre e nascondere
le loro attività missionarie e pastorali e restarono a testimoniare il solo messaggio etico-religioso, rimanendo
saldi nella missione apostolica tracciata dal fondatore, sulla negazione del valore delle preghiere, delle opere
per i defunti, del culto di immagini e santi e del purgatorio. Restava forte l’idea di vivere razionalmente il
vangelo ovvero con coerenza di cui presupposto era il suo studio: “Tutti, uomini e donne, piccoli e grandi, di
notte e di giorno non cessano di imparare e di insegnare” ma anche “Vidi e udii un rustico illetterato recitare
parola per parola il libro di Giobbe e molti altri che conoscevano perfettamente tutto il nuovo testamento”
I Valdesi più di tutti testimoniano il risveglio delle coscienze, guidato dalla lettura delle scritture, che è proprio
di questi secoli.
I pauperes Christi si adattano ai tempi senza rinunciare alla loro missione divulgativa, pur mantenendo la
propria sottomissione alle gerarchie ecclesiastiche romane si costruiscono un sistema formativo
istituzionalizzato e dei gradi di ordinazione: diaconale, presbiteriali, episcopale che però non andranno a
sostituirsi al sacerdozio cattolico-romano. Riusciranno camminando su questo filo sospeso fra ortodossia ed
eresia a perdurare, seppure in piccoli gruppi, fino all’incontro con la Riforma.

GLI ULTIMI PASSI DEI CATARI E LA REAZIONE CATTOLICO-ROMANA


Col finire della crociata di Albi ed il concludersi della guerra un testimone del tempo, Raniero Sacconi, ex
cataro divenuto frate predicatore ed a sua volta persecutore di catari, ci fa sapere con una certa soddisfazione
che i perfetti in tutto il mondo non arrivano a contarsi nel numero di 4000. Considerando la cifra anche solo
puramente indicativa si può dire che il fenomeno fosse stato ben contenuto dalla Chiesa cattolica e dal suo
braccio armato. Di questi più della metà si trovavano nel nord Italia fra le chiese di Concorezzo, Desenzano,
Mantova, Vicenza e Verona dove trovarono rifugio gli esuli francesi.
Perché l’Italia fu in quegli anni l’unico o quasi luogo in cui poter vivere liberamente la propria fede? Non fu
per una qualche vicinanza fra ghibellismo e catarismo o per simpatie eterodosse dei comuni che fornirono
protezione; piuttosto fu il desiderio di salvaguardare la propria indipendenza da poteri esterni.
L’efficacia della decretale Ad abolendam del 1184 impiegò del tempo a manifestarsi e fu accompagnata da
successivi inasprimenti che resero la posizione delle realtà locali sempre più difficile aumentando su di esse
la pressione. Non furono solo giurisdizionali gli strumenti adottati dalla Chiesa, alle armi del diritto canonico
si accompagnò la testimonianza dei nuovi ordini dei Minori e dei Predicatori trovando massima espressione
nel moto dell’Alleluia. Questi furono il grimaldello per ritornare a parlare alle coscienze popolari, furono la
faccia presentabile della Chiesa romana. Al contempo fu affinato un altro terribile strumento, quello
dell’Inquisizione già sperimentato contro gli Albigesi. Nessuno di questi tre espedienti però sarebbe bastato
da solo, fu l’insieme dei tre a rendere la sopravvivenza impossibile alla chiesa catara.
Predicatori e minori erosero dalle fondamenta le basi di quella che era stata la principale porta d’accesso
delle dottrine eterodosse, la povertà dei costumi della Chiesa. L’Inquisizione fornì dei tribunali istituzionali
ed un metodo nuovo di lotta che superava la questione delle dispute teologiche. Chiudeva anche le porte alla
discussione, così come aveva fatto Innocenzo III con la decretale Vergentis in senium che qualifica l’eresia
come crimine di lesa maestà tenendo sempre presente il Dictatus papae di Gregorio VII “non sia da ritenersi
cattolico chi non è in comunione con la chiesa di Roma”. Il dubbio non era più di sapere cosa fosse o non fosse
eretico, la discussione riguardava solo l’ubbidienza alla Chiesa romana e l’abiura. Gli inquisitori non

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pretendono la conversione dell’accusato, sanno bene che non possono entrare nell’animo umano per
giudicarlo, quello che pretendono è l’abiura che è una conversione a parole; questa però non ha valore se
non è seguita dalla sottomissione nei fatti, primo fra tutti la denuncia dei propri compagni. Non è un caso
che interrogatori e processi si svolgano a porte chiuse, mentre sentenze ed esecuzioni siano pubbliche,
perché l’importante è mostrare il risultato, la facciata, non il contenuto. L’Inquisizione chiede all’imputato di
esserne abbracciata chiede ai giudicati una ‘prova d’amore’ verso i propri persecutori, chiede di farsi
strumento nelle mani dei predicatori. Abbiamo anche esempi di sincere conversioni di catari che si fanno
persecutori dei propri compagni come Renato Sacconi ed il primo martire inquisitore San Pietro martire,
ucciso da eretici ribelli nell’esercizio delle sue funzioni. La ferocia non è però per la Chiesa solo uno strumento
di punizione, i roghi e le torture furono senz’altro un espediente efficace per terrorizzare la popolazione e
convertire gli indecisi. Lo testimonia bene un Predicatore, Stefano di Spagna che così descrisse la situazione
in Lombardia nel 1233 “Nelle città della Lombardia una grandissima moltitudine di eretici fu bruciata, e più
di centomila uomini, che non sapevano se aderire alla Chiesa di Roma o agli eretici, si sono sinceramente
convertiti, grazie alla predicazione dei frati Predicatori, alla fede cattolica della Chiesa romana. E ciò appare
dal fatto che ora esecrano e perseguitano gli eretici che prima difendevano”. Siamo nel momento di massimo
scontro fra l’Imperatore Federico II ed i comuni e forse questi dovettero cedere qualcosa della loro
indipendenza dalla Chiesa romana per ottenere la protezione papale. Tutto questo infatti non sarebbe stato
possibile se alla fine non avessero fatto breccia nelle istituzioni comunali le pressioni romane che sotto
minaccia di scomunica e interdetto cedettero e fornirono il braccio armato ad una persecuzione che
altrimenti si sarebbe fermata alle sole parole. Abbiamo testimonianza di questo in un’epigrafe sotto il
monumento equestre a Oldrado di Tresseno che recita “Catharos, ut debuit, uxit”.
Innocenzo III fu senza dubbio il protagonista di questa fase, intuì di dover riportare in seno alla Chiesa tutte
le frange più moderate dell’eresia. Molti fra i valdesi furono accolti in seno all’ortodossia e così anche gli
umiliati. Al contempo cambiò il linguaggio delle orazioni che si fece più semplice introducendo degli exempla
per meglio spiegarsi e rendere più immediato l’insegnamento impartito. Felice si rivelerà anche la
santificazione dei nuovi poveri Francesco d’Assisi, Antonio da Padova e Domenico da Caleruega, canonizzati
sotto Gregorio IX, che con il loro esempio ed il culto che ne deriverà faranno breccia nei cuori del popolo
producendo nuovi proseliti.
Contemporaneamente rese ancor più feroce la lotta contro chi non accettava l’obbedienza, fu lui a indire la
crociata contro i catari nel 1209, mentre ancora una volta fu Gregorio IX a stabilire l’Inquisizione mettendola
in mano ai Predicatori e poi ai Minori i quali non erano attaccabili dal punto di vista dei costumi, divenendo
in tal modo giudici più autorevoli.
Il nemico, i catari però avevano messo in conto la persecuzione e perfino il martirio, come segno
inequivocabile di successo nel proprio cammino di liberazione dal corpo e dalla materialità, non fu questo il
colpo di grazia che la Chiesa riuscì ad infliggere, il vero colpo fu l’erosione della loro base di consenso tramite
Predicatori e Minori che contrariamente ai dualisti, vivevano la loro missione verso il mondo e non per
allontanarsi da esso, quasi in una versione gnostica della fede.
Non solo, i catari non riuscirono a costituirsi come movimento unico e coerente finirono per separarsi in
diverse Chiese fra cui le già citate Concorezzo, Desenzano, Mantova, Verona. Il dualismo con il suo portato di
ricchezza immaginifica era facilmente esposto all’introduzione di nuove interpretazioni e rivelazioni, ne è
esempio quella dell’Interrogatio Johannis. Con il XIV secolo infine il catarismo si trovò a fare i conti con un
mondo che si stava muovendo in direzione contraria e cioè verso una riscoperta dell’uomo e delle sue opere.
I catari si trovarono tagliati fuori da un’epoca che li aveva superati.

GHERARDO SEGARELLI
Sulle medesime premesse dell’esperienza di Valdo si muove quella di Gherardo Segarelli.
Nato nella prima metà del XIII secolo presumibilmente di modesta famiglia, un suo detrattore, Salimbene de
Adam, frate minore, ci racconta come attorno al 1260 sia stato rifiutato dai francescani ai quali aveva chiesto
di unirsi, probabilmente a causa della sua umile origine.
Questo episodio ci chiarisce due cose, la prima è che Segarelli non pensa la sua chiamata al di fuori della
Chiesa e la seconda è che nei frati Minori non erano bene accetti uomini di misera nascita.
Segarelli ed i suoi seguaci ci vengono presentati come falsi apostoli, il che ci rivela quale fosse il loro intento
e la loro aspirazione, farsi apostoli; ci vengono descritti come porcari, custodi di cavalli, zappatori, ignoranti,

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sottintendendo che per tali ragioni fossero completamente inadatti alla vita religiosa. Capiamo anche quale
fosse la composizione dell’ordine francescano in quei tempi e come questo trovasse un raccordo molto
significativo con le classi dominanti da cui i suoi membri originavano. Ci viene chiaramente raccontato come
anche se Segarelli fosse stato accettato nell’ordine, dai frati, a causa della sua ignoranza e rusticità, gli
sarebbe stato concesso a stento di servire a tavola. Così la pensa un frate vissuto ai tempi della reggenza di
Bonaventura da Bagnoregio: “Dio in questo secolo preferì i ricchi e i potenti ai poveri […] onorando i potenti
concordiamo con l’ordine da Lui stabilito”. Il disgusto provato per la povera gente era stato trasferito dall’
inclinazione dei frati alla volontà di Dio.
Segarelli che Salimbene ci descrive come un giullare sciocco e insensato e i suoi seguaci, che si facevano
chiamare ‘apostoli’, nonostante le critiche piovute loro addosso dal mondo dei minori, conobbero importanti
successi e riconoscimenti a Parma dove i cittadini li beneficiarono più che gli ordini di Predicatori e Minori, e
anche dal vescovo Obizzo Sanvitale che fu amico di Gherardo Segarelli di cui evidentemente apprezzava
parole ed opere. Anche a Bologna il comune concede in un primo momento contributi agli apostoli, persino
uno dei sette notai della curia romana, Alberto da Parma, si premura di consigliarli affidandoli alle cure di un
cistercense, abate di Fontevivo, il quale anziché scoraggiarli li esorta a proseguire nel loro ministero di
evangelizzazione.
Il destino di Segarelli e dei suoi seguaci si consuma in una lotta di rivalità con i nuovi ordini ecclesiastici di
Minori e Predicatori che riusciranno ad isolarli e perseguitarli. Non ci troviamo in un’ottica di eresia o di rivolta
contro le gerarchie ecclesiastiche, semplicemente agli apostoli fu ordinato di sciogliersi e loro disobbedirono.
A Lione nel 1215 veniva proibita la formazione di ordini nati dopo quella data e imposto che gli esistenti
fermassero il loro sviluppo e la fondazione di nuove sedi; veniva altresì loro chiesto di trasferirsi negli ordini
giù esistenti; probabilmente predicatori e francescani erano già divenuti troppo importanti e di provata
fedeltà per rinunciarvi o annacquarli con ordini religiosi simili ma di maggiore indipendenza di pensiero.
Il secondo concilio di Lione e la decretale Olim felicis recordationis di Onorio IV impongono alle autorità
ecclesiastiche di agire affinché gli apostoli abbandonassero il loro abito ed entrassero negli altri ordini.
Quattro anni dopo Niccolò IV, ex frate minore, ribadisce le stesse disposizioni così come Bonifaio VIII nel
1296.
Il gruppo di seguaci di Segarelli in Parma fu perseguitato e messo al rogo nel 1294. Il fondatore, Gherardo,
anche se mai capo dell’ordine venne imprigionato ed in carcere protetto da una peggiore condanna dal suo
amico vescovo Obizzo Sanvitali fino al trasferimento di questi a Ravenna. Il nuovo vescovo insediatosi a Parma
lo condannò invece al rogo nel luglio del 1300.

ARMANNO PUNGILUPO
Quanto la lotta all’eresia fosse anche una lotta di potere è ben testimoniato dalla vicenda di Armanno
Pungilupo o meglio dalle circostanze della sua santificazione e del successivo processo inquisitoriale.
Armanno Pungilupo non è un eretico, non divulga interpretazioni eterodosse delle scritture, non mette in
discussione le gerarchie ecclesiastiche in quanto tali. Armanno è quello che potremmo definire un ‘uomo
buono’ ancor prima che un ‘buon cristiano’.
La sua vita è dedicata al compimento di opere caritatevoli e non alla predicazione. La reazione popolare alla
sua morte nel 1276 fa bene intendere quanto questo fosse vero e quanto fosse apprezzato dai suoi
concittadini che accorrono alla cattedrale e ne fanno subito un Santo.
Il suo culto fiorisce immediatamente, alimentato, come sempre accade, dalla testimonianza di miracoli
avvenuti sulla sua tomba. Ne abbiamo ulteriore conferma nelle cronache di Salimbene da Parma che
racconta, con fini denigratori, come molti denari venissero raccolti grazie allo ‘sfruttamento’ del suo nome
‘da parte dei vescovi e dei canonici di Ferrara che ebbero molto lucro a motivo di Armanno Punzilovo’.
Armanno è però un Santo laico, un cittadino, la sua esperienza coincide con quell’esercizio sempre più diffuso
dei laici di entrare da protagonisti nelle vicende religiose anziché farsene spettatori e auditori.
Questo risultò inaccettabile più per la Chiesa emergente dei nuovi ‘ordini poveri’ che per quella storica.
Furono infatti l’Inquisizione ed un francescano a impugnare il caso di Armanno Pungilupo già un anno dopo
il suo decesso e lo fecero scagliandosi addirittura contro le istituzioni religiose cittadine che lo difesero. Il
processo andò avanti fino alla condanna di Armanno decretata nel 1301 dopo un procedimento lungo 40
anni. Ne fu riesumato il cadavere ed una volta arso, le ceneri furono disperse; l’arca e l’altare a lui dedicati
distrutti le sue immagini e gli ex voto, ogni riferimento alla sua persona condannato alla damnatio memoriae.

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La vicenda di Armanno bene illustra quanto il nuovo modello di religiosità avesse preso il sopravvento. La
Chiesa, o meglio, i nuovi ordini Mendicanti, avevano accettato di scambiare la loro ricchezza personale (non
quella dei due ordini che restarono ricchissimi) con il potere, e grazie all’appoggio del papato costruirono
attorno a loro una Chiesa fatta di pietismo e terrore.
Vale la pena ricordare quali furono le accuse mosse ad Armanno: si incontrava con i “buoni uomini” dualisti
ovvero catari, visitava gli infermi ed i carcerati, aveva anche accompagnato al rogo un eretico e fu
probabilmente in quell’occasione che disse: “Vedete quali opere sono queste! Bruciare questo vecchio uomo
buono! La terra non dovrebbe reggere coloro che fanno tali opere”. Questo lo portò a scontrarsi con
l’Inquisitore Aldobrandino che lo sottopose a tortura costringendolo all’abiura nel 1254 e del quale Armanno
disse ‘ecce demone, ecce lupis rapacis’.
Abbiamo un uomo che fu considerato eretico, accostato a valdesi e catari e fu santo al contempo per
quaranta anni, condannato e riabilitato a seconda delle amicizie e delle opportunità. La lotta di potere non
era solo fra laici ed ecclesiastici ma anche all’interno della chiesa per il predominio.

GUGLIELMA DI MILANO
Mentre all’inizio della loro esperienza alcuni gruppi di fedeli, poi condannati come eretici, si aprono al mondo
femminile lasciando alle donne importanti libertà di azione ed un ruolo consistente nelle comunità, ne sono
un esempio le comunità valdesi, nel giro di un secolo la dimensione della possibilità di santificazione della
propria vita da parte delle donne si chiudono alla società e si restringono alla sola dimensione domestica e
quindi interiore. Questo avviene nel mondo cattolico, come per le seguaci di San Francesco e Chiara che
vengono convinte a seguire l’esempio del santo ma dalla clausura di San Damiano, ma anche nelle chiese
dualiste fra le cui gerarchie non si riconosce nessun nome di donna.
Guglielma la Boema e la sua storia ricalcano sia la vicenda di Armanno Pungilupo, sia le nuove condizioni di
santità cui aveva accesso il mondo femminile. Guglielma era di famiglia altolocata e si trasferì a Milano dove
risiedette come oblata presso l’abbazia cistercense di Chiaravalle. Condusse una vita che fu dai
contemporanei accostata alla santità. Poco conosciamo dei suoi insegnamenti ma sappiamo che la sua fama
di santità le attirò diversi seguaci. Dal processo inquisitoriale a due di questi si può intuire come fossero un
gruppo millenarista, in attesa della venuta dello Spirito e di una nuova Chiesa di cui Guglielma sarebbe stata
la prima Santa. Alla morte della donna, presso la stessa importante abbazia in cui visse, si sviluppo
spontaneamente un culto di devoti.
L’Inquisizione nel 1300, anno del giubileo, forse per ragioni contingenti e dimostrative, forse per colpire i
cistercensi, forse davvero preoccupata della diffusione spontanea di un culto di una Santa che tale fu per il
popolo ma non giuridicamente riconosciuta dalla Chiesa, fece riesumarne i resti mortali, li processò, li
condannò e li mise al rogo, disperdendone in tal modo la memoria.
L’eresia di Guglielma fu indicata come fenomeno femminista, ma non pare che fosse la stessa Guglielma a
presentarsi in questo modo. Fu piuttosto una sua devota Maifreda da Pirovano, un umiliata, che processata
dall’Inquisizione ci racconta come secondo lei Guglielma fosse l’incarnazione dello Spirito Santo che sarebbe
tornato con l’avvento della nuova Chiesa femminile di cui lei sarebbe stata il primo papa donna.
Col tempo si accosta alla figura di Guglielma la pravità tipica degli eretici che si sarebbero abbandonati, in
luoghi sotterranei, a riti orgiastici e che poi sarà elemento imprescindibile dei processi alle streghe.

DOLCINO
Anche fra Dolcino rientra nel novero di quei predicatori, ispirati dagli scritti di Gioacchino da Fiore, che
profetizzavano l’arrivo dell’ultima era del mondo. Sulla scia dell’insegnamento di Segarelli Dolcino invita alla
conversione (penitenziagite) prima del sopraggiungere della chiesa dello Spirito. Per chi non si redime è
arrivato il tempo della punizione e dello sterminio.
La predicazione dolciniana è ricca dell’individuazione di segni che presagiscono l’arrivo dei tempi nuovi e di
figure destinate a compierli. Così è per Federico III d’Aragona che avrebbe distrutto Bonifacio VIII, i suoi
cardinali e i chierici regolari e secolari non convertiti e sarebbe giunto un Papa Santo per guidare gli apostoli
nell’epoca di pace che sarebbe durata fino alla fine dei tempi.
L’esperienza dei dolciniani si trasformerà da predicazione ed attesa ad intervento armato anche per ragioni
di difesa contro la reazione della Chiesa. Dolcino porterà gli apostoli a rifugiarsi fra le valli della Val Sesia.
Costretti fra quei monti, che nella loro idea furono l’immagine del Monte di Sion, ultima difesa dei giusti

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prima della loro liberazione per opera del nuovo Cristo, non si sarebbero più accontentati delle promesse di
rinnovamento spirituale, ma si fecero essi stessi attori e promotori dei rivolgimenti necessari.
L’impugnare le armi da parte di Dolcino e dei dolciniani presuppone tre possibili ragioni, la sola necessità
dell’autodifesa, il perseguimento di intenti chiliastici e la politicizzazione del movimento verso la difesa degli
interessi contadini.
In soccorso di Dolcino accorrono nelle valli alpine uomini e mezzi da tutta Italia e non si tratta principalmente
di gente appartenente agli strati sociali più bassi, al contrario, sono persone spesso istruite che di difendere
gli interessi dei contadini novaresi non avevano alcuna ragione. Al contempo il movimento non avrebbe
potuto resistere per due anni senza l’appoggio dei contadini locali. Sono però anche frequenti le
testimonianze delle reazioni alle scorribande dei dolciniani che costretti per motivi di sopravvivenza
andavano a depredare quanto necessario dalle popolazioni locali. Inoltre non vi è traccia di rivendicazioni di
classe nella lotta dolciniana, si parla solo di nemici della giusta fede. Questo non vuol dire che il movimento
dolciniano non abbia potuto intercettare tali rivendicazioni per motivi contingenti.

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