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Capitolo II
Ordinamento giuridico e amministrazione: la disciplina costituzionale
Il principio di legalità.
Il principio di legalità esprime l’esigenza che l’amministrazione sia assoggettata alla legge,
anche se esso è applicabile non soltanto alla amministrazione bensì a qualsivoglia potere
pubblico.
Nel nostro ordinamento giuridico convivono più concezioni del principio di legalità.
a) esso è considerato nei termini di non contraddittorietà dell’atto amministrativo rispetto
alla legge (preferenze della legge). L’art.4 delle disposizioni preliminari al Codice
Civile stabilisce che i regolamenti amministrativi “non possono contenere norme
contrarie alle disposizioni di legge” e l’art. 5 Legge 2248/1865 all.E, da cui discende
l’obbligo per il giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi e i regolamenti
non “conformi” alle leggi. Tale accezione, che corrisponde all’idea di
un’amministrazione che può fare ciò che vuole purché non sia impedito dalla legge, è
stata successivamente superata dalle tesi della legalità formale e della legalità
sostanziale.
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b) Il principio di legalità è inteso anche nella sua accezione di conformità formale, nel
senso che il rapporto tra legge e amministrazione è impostato non solo sul divieto di
quest’ultima di contraddire la legge, ma anche sul dovere della stessa di agire nelle
ipotesi ed entro i limiti fissati dalla legge che attribuisce il relativo potere. Tale principio
si applica ad alcuni atti amministrativi normativi, quali i regolamenti ministeriali.
c) Il principio della legalità inteso come conformità sostanziale intende fare riferimento
alla necessità che l’amministrazione agisca non solo entro i limiti di legge, ma in
conformità della disciplina sostanziale posta dalla legge stessa, la quale incide anche
sulle modalità di esercizio dell’azione e, dunque, penetra all’interno dell’esercizio del
potere. Questa concezione si ricava dalle ipotesi in cui la Costituzione prevede una
riserva di legge.
Vi sono tuttavia alcune differenze tra il principio di legalità e riserva di legge, quest’ultima
riguarda il rapporto tra Costituzione, legge ed amministrazione e, imponendo la disciplina
legislativa di una data materia, ne limita l’esercizio del potere normativo spettante
all’esecutivo (la sua violazione comporta l’illegittimità costituzionale della legge stessa).
Le differenze si sostanziano nel fatto che il principio di legalità attiene al rapporto tra legge ed
attività complessiva della pubblica amministrazione, quindi anche quella non normativa, ed il
mancato rispetto di tale principio determina l’illegittimità dell’azione amministrativa.
I parametri ai quali l’attività amministrativa deve fare riferimento sono non solo di legalità,
ma anche di legittimità, la quale consiste nella conformità del provvedimento e dell’azione
amministrativa a parametri anche diversi dalla legge, ancorché alla stessa pur sempre collegati
(norme regolamentari, statutarie e così via). Tra questi parametri sono da annoverare anche
“regole non scritte”.
Il principio di legalità si risolve in quello di tipicità dei provvedimenti amministrativi: se
l’amministrazione può esercitare i soli poteri autoritativi attribuiti dalla legge, essa può
emanare soltanto i provvedimenti stabiliti in modo tassativo dalla legge stessa.
Occorre infine richiamare il principio del giusto procedimento elaborato dalla Corte
costituzionale ed avente la dignità di principio generale dell’ordinamento: in particolare esso
esprime l’esigenza che vi sia una distinzione tra il disporre in astratto con legge e il
provvedere in concreto con atto alla stregua della disciplina astratta.
Il principio di imparzialità.
L’art.97 Cost. pone due principi relativi all’amministrazione: il principio di buon andamento
dell’amministrazione e del principio di imparzialità.
La dottrina e la giurisprudenza hanno affermato la natura precettiva e non programmatica
della norma costituzionale, la quale pone una riserva di legge, inoltre è stata affermata
l’applicabilità diretta dei due principi sia all’organizzazione che all’attività amministrativa.
Il concetto di imparzialità esprime il dovere dell’amministrazione di non discriminare la
posizione dei soggetti coinvolti.
L’imparzialità impone che l’amministrazione sia strutturata in modo da assicurare una
condizione di oggettiva aparzialità, ed in tal senso, la norma costituzionale conterrebbe una
riserva di organizzazione in capo all’esecutivo.
Esempi di applicazione del principio si trovano nell’art.98 Cost. il quale sancisce che i pubblici
impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione e quindi non di interessi partigiani;
l’obbligo di astensione sussistente in capo ai titolari di pubblici uffici allorché debbano
decidere questioni alle quali essi siano interessati.
Il principio di imparzialità impone il criterio del pubblico concorso per l’accesso ai pubblici
uffici, inteso ad evitare la formazione di una burocrazia politicizzata e richiede che la
commissione giudicatrice sia formata prevalentemente da tecnici.
Strettamente connesso all’imparzialità è il principio della predeterminazione dei criteri e delle
modalità cui le amministrazioni si debbono attenere nelle scelte successive, il quale consente
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di verificare la rispondenza delle scelte concrete ai criteri che l’amministrazione ha prefissato
(c.d. autolimite).
La parzialità ricorre quando sussiste un ingiustificato pregiudizio o una indebita interferenza
di alcuni di tali interessi, mentre l’imparzialità riferita all’attività di scelta concreta, si
identifica nella congruità delle valutazioni finali e delle modalità di azione prescelte. Tale
congruità deve essere definita tenendo conto degli interessi implicati, di quelli tutelati dalla
legge e degli altri elementi che possono condizionare l’azione amministrativa.
I principi di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti della
pubblica amministrazione e di sindacabilità degli atti amministrativi. Il problema
della riserva di amministrazione.
L’art.24 comma 1 Cost. Stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri
interessi legittimi”. L’art. 113 Cost. dispone che “contro gli atti della pubblica amministrazione è
sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di
giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari
mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di
giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti
dalla legge stessa”.
Questa disciplina esprime l’esigenza che ogni atto della pubblica amministrazione possa
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essere sindacato da parte di un giudice e che tale sindacato attenga a qualsiasi tipo di vizio di
legittimità: si tratta del principio di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei
confronti dell’amministrazione e del principio di sindacabilità degli atti amministrativi.
Secondo la Corte costituzionale, la norma in esame non impedisce l’emanazione delle c.d.
leggi provvedimento (si tratta di leggi che hanno contenuto puntuale e concreto alla stessa
stregua dei provvedimenti amministrativi), purché sia rispettato il canone di ragionevolezza.
La legge provvedimento può essere però sindacata soltanto dalla Corte costituzionale, alla
quale tuttavia non è possibile proporre direttamente ricorso da parte dei soggetti privati lesi.
Emerge il problema della riserva di amministrazione, cioè ci si deve chiedere se esista un
ambito di attività ristretto riservato alla pubblica amministrazione.
Spesso il giudice amministrativo ha giurisdizione di merito, che gli consente di sindacare
l’opportunità delle scelte amministrative.
L’idea della riserva di amministrazione sembra poi confliggere con altri principi, quali il
principio della preferenza della legge, inoltre, una legge che non disponesse in via puntuale e
concreta – sostituendosi all’amministrazione e nell’esercizio di un potere – in una situazione
caratterizzata dalla presenza di più interessi di cui occorre effettuare una valutazione e una
ponderazione, violerebbe il principio di imparzialità cui il legislatore è vincolato in tema di
attività amministrativa.
Un caso diverso di riserva a favore dell’amministrazione, relativo però all’esercizio della
funzione regolamentare, pare emergere dall’art. 117 comma 6 Cost. che riconosce la potestà
regolamentare regionale in ogni materia diversa da quelle di competenza statale e la potestà
regolamentare dei comuni, province e città metropolitane “in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.
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Capitolo III
L’organizzazione amministrativa: profili generali
Introduzione.
Ciascun ordinamento oltre a riconoscere la soggettività e la capacità giuridica a tutte le
persone fisiche, istituisce altri soggetti-persone giuridiche e questo vale anche per le persone
giuridiche pubbliche.
La dottrina e la giurisprudenza riconoscono come soggetti di diritto – e dunque come centri di
imputazione di situazioni giuridiche soggettive - anche organizzazioni che non hanno la
personalità giuridica quali le associazioni non riconosciute (dette “figure soggettive”), le
associazioni sindacali, i ministeri, le amministrazioni autonome e le autorità indipendenti non
aventi personalità giuridica.
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La definizione di ente pubblico e le conseguenze della pubblicità.
L’elemento essenziale della pubblicità di una persona giuridica va ricercato considerando la
particolare rilevanza pubblicistica dell’interesse perseguito dall’ente.
L’interesse è pubblico quando la legge l’abbia imputato ad una persona giuridica, tenuta
giuridicamente a perseguirlo: di qui il riconoscimento della “pubblicità” di quella persona
giuridica.
L’ente pubblico è istituito con una specifica “vocazione” allo svolgimento di una peculiare
attività di rilevanza collettiva.
L’ente pubblico non può disporre della propria esistenza, a differenza dei soggetti privati, che
possono decidere di ritirarsi e cioè di smettere l’attività, oppure modificare l’oggetto della
stessa.
Non è sempre facile individuare l’imputazione legislativa dell’ente, ma si ritiene che possano
esserci alcuni elementi rivelatori, quali il finanziamento pubblico e l’utilizzo di denaro
pubblico da parte dell’ente.
Tale criterio trova conferma negli artt. 11 e 14 della Legge 59/1997 i quali prevedono la
trasformazione in associazioni o in persone giuridiche di diritto privato degli enti nazionali
che “non svolgono funzioni o servizi di rilevante interesse pubblico”.
Agli enti pubblici economici non vengono riconosciuti poteri autoritativi.
La qualificazione di un ente pubblico è importante perché comporta conseguenze giuridiche
di rilievo.
a) Soltanto gli enti pubblici possono emanare provvedimenti che hanno efficacia sul piano
dell’ordinamento generale alla stessa stregua dei provvedimenti dello Stato, impugnabili
davanti al giudice amministrativo. L’autonomia è intesa come possibilità di effettuare da
sé le proprie scelte ed è altresì riferita alla possibilità di porre in essere norme generali ed
astratte che abbiano efficacia sul piano dell’ordinamento generale (c.d. autonomia
normativa), si pensi agli enti territoriali, i quali possono emanare statuti e regolamenti e
prefissarsi anche obbiettivi e scopi diversi da quelli statali (c.d. autonomia di indirizzo).
In particolare dispone di autonomia di indirizzo la regione, in virtù della posizione di
autonomia ad essa costituzionalmente riconosciuta.
La legge può poi attribuire agli enti l’autonomia finanziaria, cioè la possibilità di decidere
in ordine alle spese e di disporre di entrate autonome, l’autonomia organizzativa che
consiste nella possibilità di darsi un assetto organizzativo proprio anche diverso da
modelli generali, l’autonomia tributaria che consiste nella possibilità di disporre di propri
tributi, e l’autonomia contabile, cioè la potestà di derogare al normale procedimento
previsto per l’erogazione di spese e l’introito di entrate ed in particolare la sussistenza di
un bilancio distinto da quello degli altri enti.
La possibilità di agire per il conseguimento dei propri fini mediante l’esercizio di attività
amministrativa che ha la natura e gli effetti di quella della pubblica amministrazione viene
comunemente ricondotta alla nozione di autarchia.
b) Soltanto agli enti pubblici è riconosciuta la potestà di autotutela; l’ordinamento attribuisce
cioè a tali enti la possibilità di risolvere un conflitto attuale o potenziale di interessi e, in
particolare, di sindacare la validità dei propri atti producendo effetti incidenti su di essi.
L’autotutela costituisce di norma esercizio di funzione amministrativa attiva, e
manifestazione di autotutela è pure le decisioni su ricorso amministrativo.
c) Le persone fisiche legate da un rapporto di servizio agli enti pubblici sono assoggettate ad
un particolare regime di responsabilità penale, civile e amministrativa.
d) Gli enti pubblici sono tenuti al rispetto dei principi applicabili alla pubblica
amministrazione; alcuni loro beni sono assoggettati ad un regime speciale.
e) L’attività che costituisce esercizio dei poteri amministrativi è di regola retta da norme
peculiari, quali quelle contenute nella L.241/1990 relativa ai procedimenti amministrativi.
f) Gli enti pubblici possono utilizzare procedure privilegiate per la riscossione delle entrate
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patrimoniali dello Stato.
g) Nell’ipotesi in cui abbiano partecipazioni in una società per azioni, l’atto costitutivo può
conferire agli enti pubblici la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci
(art.2458 c.c.); la legge può attribuire allo Stato o ad altri enti pubblici tale possibilità anche
in mancanza di partecipazione azionaria (art. 2459 c.c.).
h) Gli enti pubblici sono soggetti a particolari rapporti o relazioni (con lo Stato, la regione, il
comune, a seconda dei casi), la cui intensità (strumentalità, dipendenza, ecc…) varia in
ragione dell’autonomia dell’ente.
Dai concetti di autotutela, autarchia e autonomia devono essere distinte le nozioni di
autodichia e di autogoverno.
L’autodichia consiste nella possibilità, spettante ad alcuni organi costituzionali in ragione
della loro peculiare indipendenza, di sottrarsi alla giurisdizione degli organi giurisdizionali
comuni, esercitando la funzione giustiziale relativamente alle controversie con i propri
dipendenti.
L’autodichia è riconosciuta alla Camera, al Senato e alla Corte costituzionale.
Il termine autogoverno indica la situazione che ricorre nell’ipotesi in cui gli organi dello Stato
siano designati dalla collettività di riferimento, anziché essere nominati o cooptati da parte di
autorità centrali.
L’organo.
La personalità giuridica delle organizzazioni è riferita alle situazioni giuridiche e ai rapporti
giuridici. Per poter agire le organizzazioni potevano ricorrere a due istituti:
a) la rappresentanza, alla stessa stregua di quella necessaria disposta per le persone
fisiche incapaci di agire;
b) utilizzare la figura dell’organo;
Attraverso l’organo la persona giuridica agisce e l’azione svolta dall’organo si considera posta
in essere dall’ente. L’organo non è separato dall’ente, quindi, a differenza di quanto accade
nella rappresentanza, la sua azione non è svolta in nome e per conto di altri, e corrisponde
all’attività propria dell’ente.
La capacità giuridica spetta comunque all’ente, che è centro di imputazioni di effetti e
fattispecie.
L’organo è dunque uno strumento di imputazione e, cioè, l’elemento dell’ente che consente di
riferire all’ente stesso atti e attività; spesso l’organo permette all’ente di rapportarsi con altri
soggetti giuridici o comunque di produrre effetti giuridici.
Più in particolare l’organo va identificato nella persona fisica o nel collegio in quanto investito
della competenza attribuita dall’ordinamento (ad esempio, il contratto stipulato dal dirigente
comunale si considera concluso dal Comune).
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In assenza del titolare, l’ordinamento indica colui che è chiamato a svolgere le relative
funzioni. Tra persona fisica preposta all’organo e ente pubblico corre un rapporto giuridico,
definito “rapporto di servizio”.
I poteri vengono attribuiti soltanto all’ente avente la soggettività giuridica, ed esso si avvale di
più organi, ognuno di essi, pur senza esserne titolare, esercita una quota di quei poteri, detta
competenza.
La competenza è ripartita secondo svariati criteri: per materia, per valore, per grado o per
territorio.
La competenza va tenuta distinta dall’attribuzione, che indica la sfera di poteri che
l’ordinamento generale conferisce ad ogni ente pubblico.
L’imputazione di fattispecie in capo agli enti da parte di soggetti estranei alla loro
organizzazione.
Tra le attività pubbliche che vengono esercitate da soggetti privati si pensi alle funzioni
certificative spettanti al notaio, alle possibilità che concessionari emanino atti amministrativi
o eroghino servizi pubblici, alla potestà spettante ai cittadini di procedere all’arresto in
flagranza di reato, al potere degli interessati di produrre dichiarazioni sostitutive di
certificazioni, alla possibilità di affidare ai terzi la riscossione dei tributi.
Il privato può agire direttamente in base alla legge, o in forza di un atto della pubblica
amministrazione. Egli riceve spesso un compenso da parte dell’ente pubblico oppure da utenti
che fruiscono della sua attività. L’attività si configura nei confronti dei terzi come
pubblicistica, alla stessa stregua di quella che avrebbe posto in essere l’ente pubblico
sostituito.
Il controllo.
Il controllo è una importante relazione interorganica, che consiste nell’attività di verifica,
esame e revisione dell’operato altrui. Nel diritto amministrativo il controllo costituisce
un’autonoma funzione svolta da organi peculiari.
Il controllo consiste in un esame, da parte di un apposito organo, di atti e attività imputabili
ad un altro organo controllato. Il controllo è svolto in ogni caso nell’ambito delle relazioni
gerarchiche dove l’organo gerarchicamente superiore controlla l’attività dell’organo
subordinato.
Il controllo, che è sempre doveroso, deve essere svolto nelle forme previste dalla legge, e si
conclude con la formulazione di un giudizio, positivo o negativo, sulla base del quale viene
adottata una misura.
Il controllo si divide in interno ed esterno a seconda che esso sia esercitato da organi dell’ente
o da organi di enti diversi, un esempio di controllo interno è costituito dal controllo ispettivo.
Il controllo sugli organi degli enti territoriali è previsto, per quanto riguarda le regioni,
dall’art.126 Cost. e dagli artt.141 e segg. T.U. sugli enti locali in ordine agli enti territoriali
diversi dalla regione.
Il controllo può essere condotto alla luce di criteri di volta in volta differenti - conformità alle
norme (controllo di legittimità, denominato vigilanza), opportunità (denominato tutela),
efficienza, efficacia, ecc… - ed avere oggetti diversi tra loro: organi, atti normativi, atti
amministrativi di organi individuali e collegiali, contratti di diritto privato, attività.
Le misure che possono essere adottate a seguito del giudizio sono di vario tipo: repressive
(annullamento dell’atto), impeditive (le quali non eliminano l’atto ma ostano a che l’atto
produca efficacia, come rifiuto di approvazione o visti), sostitutive (controllo sostitutivo).
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1) Nel controllo sugli organi la misura è la sostituzione all’organo ordinario nel
compimento di alcuni atti, in altri casi la misura è lo scioglimento dell’organo. Ancora
diversa è la misura che consiste nell’applicazione di sanzioni ai componenti l’organo.
2) Nell’ambito dei controlli sugli atti si distingue tra controlli preventivi (rispetto alla
produzione degli effetti degli atti) e successivi (i quali si svolgono quando l’atto ha già
prodotto i suoi effetti).
In una via di mezzo tra controlli successivi e preventivi si collocano i controlli mediante
riesame i quali procrastinano l’efficacia dell’atto all’esito di una nuova deliberazione
dell’autorità decidente.
I rapporti tra gli organi e l’utilizzo, da parte di un ente, degli organi di un altro ente.
I rapporti tra organi diversi possono comportare una modificazione dell’ordine delle
competenze. Analoga modificazione può essere determinata dalla conferenza di servizi.
Debbono essere ricordati l’avocazione, la sostituzione e la delegazione.
Nell’avocazione un organo esercita i compiti, spettanti ad un altro organo in ordine a singoli
affari, per motivi di interesse pubblico e indipendentemente dall’adempimento dell’organo
istituzionalmente competente.
La sostituzione ha invece come presupposto l’inerzia dell’organo sostituito nell’emanazione
di un atto cui è tenuto per legge e consiste nell’adozione, previa diffida, da parte di un organo
sostituto degli atti di competenza di un altro organo. L’organo sostituto è di norma un
commissario.
La sostituzione attiene all’attività di controllo sugli atti e non sugli organi i quali continuano
nella loro attività tranne per quella relativa all’adozione dell’atto che essi avevano l’obbligo di
emanare.
La gestione sostitutiva coattiva è la sostituzione di organi dell’ente, caratterizzata dallo
scioglimento dell’organo o degli organi dell’ente e dalla nomina di altri soggetti quali organi
straordinari che gestiscano l’ente per un periodo di tempo limitato.
In taluni casi la sostituzione è legata al controllo, ed in tali casi si parla di controllo sostitutivo.
La delegazione è la figura in forza alla quale un organo investito in via primaria della
competenza di una data materia consente unilateralmente mediante atto formale, ad un altro
organo di esercitare la stessa competenza . La delegazione richiede una espressa previsione
legislativa, essa infatti altera l’ordine legale delle competenze.
La delegazione fa sorgere un rapporto nell’ambito del quale il delegante mantiene poteri di
direttiva, di vigilanza, di revisione e di avocazione.
L’organo delegatario è investito del potere di agire in nome proprio, anche se per conto e
nell’interesse del delegante, sicché la responsabilità per gli illeciti eventualmente commessi
rimane in capo al delegatario stesso.
La delega di firma consiste nella possibilità per un delegato di sottoscrivere un atto, la cui
competenza resta al delegante e sarà dunque a lui imputato.
L’organo di una persona giuridica può anche essere organo di altra persona giuridica: ad
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esempio il sindaco è contestualmente organo del comune ed organo dello Stato perché riveste
la qualità di ufficiale di governo, e dunque, realizza una vicenda di imputazione in capo allo
Stato dell’attività da esso posta in essere.
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Capitolo IV
L’organizzazione degli enti pubblici
Le aziende autonome.
Le aziende autonome (o amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo) sono
amministrazioni caratterizzate dal fatto di essere incardinate presso un ministero e di avere
una propria organizzazione, separata da quella ministeriale.
Le amministrazioni autonome svolgono attività prevalentemente tecnica, amministrano in
modo autonomo le relative entrate, dispongono di capacità contrattuale e sono titolari di
rapporti giuridici, pur non avendo un proprio patrimonio (il patrimonio è infatti dello Stato).
La loro attività consiste spesso nella produzione di beni o di prestazione di servizi, e molte di
esse sono state trasformate in enti pubblici economici o società per azioni.
Prive di norma di personalità giuridica, esse sono di solito rette dal ministro che ne ha altresì
la rappresentanza; il ministro dirige ed è affiancato dal consiglio di amministrazione (che ha
compiti consultivi e talora deliberativi) e dal direttore (organo esecutivo). Il bilancio e il
rendiconto dell’azienda sono legati allegati al bilancio dello Stato.
Molte aziende autonome sono state soppresse, mentre altre aziende sono state trasformate:
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l’amministrazione autonoma delle Poste e telecomunicazioni è stata trasformata in ente
pubblico economico ed è divenuta s.p.a.; l’azienda autonoma delle ferrovie dello stato è stata
trasformata in società per azioni, ecc…
La Cassa depositi e prestiti è stata trasformata in Cassa depositi e prestiti società per azioni e
tale soggetto finanzia lo Stato ed enti pubblici e “le opere, gli impianti, le reti e le dotazioni
destinati alla fornitura di servizi pubblici ed alle bonifiche”.
Le amministrazioni indipendenti.
Le amministrazioni indipendenti sono sorte per ovviare all’incapacità dell’organizzazione
amministrativa tradizionale di provvedere ai compiti ad essa attribuiti, incapacità in via di
massima imputata all’indebito condizionamento politico ed alle carenze tecniche degli organi
amministrativi.
Le autorità indipendenti prevedono l’attribuzione di compiti rilevanti a soggetti dotati di
notevole indipendenza rispetto al governo ed agli organi politici.
Come autorità indipendenti vengono generalmente ricordati: la Banca d’Italia; la Consob (che
si occupa del mercato dei prodotti finanziari, assicurando la trasparenza e garantendo la
completezza delle informazioni, a tutela del risparmio); l’Isvap (Istituto per la vigilanza sulle
assicurazioni private, che si occupa del settore delle assicurazioni; l’Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni (essa subentra nei procedimenti amministrativi e giurisdizionali e nella
titolarità dei rapporti attivi e passivi facenti capo al Garante per l’editoria; tra i compiti di tale
autorità vi è quello di verificare che, nel sistema integrato delle comunicazioni e nei mercati
che lo compongono, non si costituiscano posizioni dominanti e che siano rispettati i limiti di
legge); l’Autorità garante della concorrenza e del mercato; l’Autorità per la vigilanza sui
lavori pubblici; l’Autorità per l’energia elettrica e il gas.
Dotati di compiti di garanzia, piuttosto che di amministrazione attiva, sono il Garante per la
privacy, e la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sul diritto di sciopero nei
servizi pubblici essenziali; e l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione.
La Banca d’Italia è qualificabile come ente pubblico a struttura associativa, è istituto di
emissione e svolge le funzioni di vigilanza sulle aziende di credito e di governo del settore
valutario e monetario. Il suo organo di vertice è costituito dal Governatore.
Alcune di tali autorità non hanno neppure personalità giuridica.
Esse dispongono per lo più di autonomia organizzativa e funzionale, e sono titolari di poteri
provvedimentali talvolta sanzionatori e sono soggette al controllo della Corte dei conti.
I vertici delle diverse autorità delle telecomunicazioni, dell’elettricità e del gas sono nominati
dal Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei ministri su proposta
del ministro competente e parere favorevole delle commissioni parlamentari.
I vertici delle altre autorità sono generalmente nominati o designati dai presidenti delle
camere, oppure, come per il Garante per la Privacy, eletti per metà dalla camera e metà dal
senato.
L’elemento caratterizzante delle autorità consiste nel fatto che esse sono indipendenti dal
potere politico del governo pur dovendo trasmettere relazioni al governo e al parlamento in
ordine all’attività svolta.
Le autorità non sono tenute ad adeguarsi all’indirizzo politico espresso dalla maggioranza, e
per tal motivo sono definite neutrali (a differenza delle tradizionali amministrazioni che
devono essere “imparziali”).
Numerose tra le autorità indipendenti sono chiamate a verificare, anche esercitando poteri
giustiziali, la compatibilità del comportamento degli operatori economici, pubblici o privati,
con le regole della concorrenza. Difatti, una “liberalizzazione” pura e semplice di particolari
mercati lascerebbe irrisolto il problema di salvaguardare esigenze collettive e rischierebbe di
non impedire il consolidarsi di nuove forme di monopolio privato anziché pubblico.
Le autorità sono preposte a vigilare alcuni settori sensibili del mercato.
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Il difensore civico non rientra nella categoria delle autorità indipendenti e non è
istituito a livello di organizzazione statale, ma è una figura che presenta alcuni profili di
analogia con esse.
Esso è nato come soggetto chiamato ad atteggiarsi a snodo flessibile informale di collegamento
tra cittadini e poteri pubblici, in grado di assicurare una maggiore trasparenza
dell’organizzazione amministrativa. Tale soggetto funge da ausilio per l’amministrazione
attiva e può favorire una miglior scelta finale in vista dell’interesse pubblico.
L’art. 11 del T.U. sugli enti locali definisce il difensore civico comunale e provinciale come
garante “dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione”, mentre
l’art. 127 ha previsto che i difensori civici delle regioni e delle province autonome esercitino,
sino all’istituzione del difensore civico nazionale, le proprie funzioni di richiesta, di proposta,
di sollecitazione e di intimazione anche nei confronti delle amministrazioni periferiche dello
Stato.
Al difensore civico spetta poi il compito di riesaminare, su istanza dell’interessato, le richieste
di accesso in caso di rifiuto o di differimento.
La legge attribuisce al difensore civico una pluralità di funzioni che costituisce forse il limite
stesso dell’istituto, difatti è difficile pensare che un medesimo soggetto sia in grado di attuare
e gestire le tantissime funzioni attribuite: poteri che vanno dalla tutela dei cittadini al controllo
all’attività amministrativa, dalla difesa della legalità alla ricerca della trasparenza, dall’azione
finalizzata al miglioramento del rapporto cittadini-amministrazione alla responsabilizzazione
dei soggetti pubblici.
Il difensore civico dispone di poteri non incisivi, difatti non può annullare o riformare atti,
imporre misure sanzionatorie o emanare provvedimenti decisori.
Affinché possa svolgere le sue funzioni, il difensore deve comunque disporre di poteri
caratterizzati da un notevole tasso di informalità e fruire di canali per così dire di
informazione e di conoscenza in relazione all’attività degli organi di amministrazione attiva,
pur nel rispetto di una netta alterità di ruoli.
La marcata indipendenza e la riduzione del condizionamento politico costituiscono gli
ulteriori tratti essenziali del modello di difensore civico.
Il difensore civico riveste una posizione peculiare, nella quale l’autorevolezza del titolare
dell’ufficio si coniuga con una indipendenza notevole nei confronti dell’amministrazione
interessata. Il modello è dunque quello di un organo soggetto esclusivamente alla legge
piuttosto che quello di un organo esso stesso direttamente responsabile o sottoposto
all’attività di indirizzo di un soggetto politicamente responsabile.
Il difensore civico, alla stessa stregua delle autorità indipendenti, trova dunque il proprio
riferimento costituzionale nell’art.97 Cost. ma esso non dispone di poteri decisori.
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Fino alla data di entrata in vigore di tali provvedimenti, le funzioni amministrative
continuano ad essere esercitate secondo le attribuzioni stabilite dalle disposizioni vigenti, fatti
salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale.
Le regioni dispongono di potestà legislative e amministrative.
L’art.117 Cost. prevede la potestà legislativa regionale c.d. concorrente relativamente ad
alcune materie e stabilisce che alle regioni “spetta” la “potestà legislativa in riferimento ad
ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.
Le regioni, ai sensi dell’art. 118 Cost., esercitano altresì funzioni amministrative conferite ad
esse “per esercitarne l’esercizio unitario” “sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza”: si tratterà presumibilmente delle funzioni di indirizzo, di
programmazione e di controllo. Esse dovranno comunque essere individuate dalle leggi statali
e regionali.
L’art. 121 Cost. prevede che il presidente della Giunta regionale “dirige le funzioni
amministrative delegate dallo Stato alla regione, conformandosi alle istruzioni del governo
della Repubblica”.
In ordine alle modalità di svolgimento delle funzioni, la Costituzione prevede pure “intese
con altre regioni” per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di
organi comuni (art. 117, c.9).
Nelle materie di sua competenza, la regione può inoltre concludere accordi con Stati e intese
con enti territoriali interni ad altro Stato, “nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello
Stato”.
Quanto ai limiti che le regioni incontrano nell’esercizio delle funzioni amministrative, è stato
configurato un potere governativo di indirizzo e coordinamento “attinente ad esigenze di
carattere unitario” (art.3 c.1 Legge 382/1975).
L’art.118, c.3 Cost. prevede oggi che la legge statale disciplini “forme di coordinamento tra
Stato e regioni” nelle materie dell’immigrazione e dell’ “ordine pubblico e sicurezza, ad
esclusione della polizia amministrativa locale”, nonché “forme di intesa e coordinamento”
nella materia dei beni culturali.
L’art. 2 T.U. enti locali precisa che, ai fini del T.U. medesimo, “si intendono per enti locali i
comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane e le
unioni di comuni”. A tal riguardo, il T.U. enti locali estende la propria disciplina ai consorzi
cui partecipano enti locali (con esclusione di quelli che gestiscono attività aventi rilevanza
economica e imprenditoriale e, ove previsto dallo statuto, dei consorzi per la gestione dei
servizi sociali; per essi infatti è prevista l’applicazione delle norme sulle aziende speciali
all’art.31 ultimo comma).
La disciplina del T.U. enti locali comprende, ai sensi dell’art.93, quella della responsabilità
patrimoniale dei dipendenti.
L’organizzazione regionale.
Il consiglio regionale esercita le potestà legislative e le altre funzioni ad esso conferite dalla
Costituzione e dalle leggi.
La giunta regionale è l’organo esecutivo, esercita potestà regolamentare e dispone anche di
poteri di impulso e di iniziativa legislativa.
Il presidente della giunta regionale rappresenta la regione; dirige la politica della giunta e ne
è responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni
amministrative delegate ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative
delegate dallo Stato alla regione, conformandosi alle istruzioni del governo della Repubblica
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(art.121 Cost.).
Ai sensi dell’art.123 Cost. la forma di governo di ciascuna regione è determinata dallo statuto.
Il presidente della giunta regionale è eletto a suffragio universale e diretto (salvo che lo statuto
disponga diversamente); il presidente nomina e revoca i componenti della giunta.
Sul piano della legislazione ordinaria, l’art.4 del T.U. enti locali, consente alla regione di
organizzare l’esercizio delle funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le
province.
Atteso che la regione dispone pure di funzioni amministrative, esiste anche un apparato
amministrativo regionale, che si distingue in centrale e periferico.
La regione può avvalersi anche di enti dipendenti, che si caratterizzano anche e soprattutto
sotto il profilo squisitamente strutturale come uffici regionali entificati, ai quali residua in
linea di massima una ridotta autonomia (un esempio è costituito dai consorzi di bonifica).
Tra i soggetti di diritto pubblico operanti nell’ambito dell’organizzazione regionale,
particolarmente importanti sono le aziende sanitarie locali, aventi il compito di assicurare
livelli di assistenza sanitaria uniforme nel proprio ambito territoriale, qualificate come aziende
dotate di personalità giuridica pubblica e di autonomia organizzativa, amministrativa,
patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.
Le regioni possono assumere partecipazioni in società finanziarie regionali il cui oggetto
rientri nelle materie regionali. In particolare, le società finanziarie regionali sono state create
con lo scopo di porre a disposizione degli imprenditori operanti nell’ambito delle regioni aiuti
finanziari, nonché servizi, assistenza, consulenza e sostegno.
L’art. 16 della Legge 127/1997 prevede la presenza di difensori civici regionali.
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Capitolo V
Situazioni giuridiche soggettive e loro vicende
L’interesse legittimo.
L’ordinamento generale riconosce prevalenza agli interessi che possono entrare in conflitto tra
di loro attribuendo di volta in volta diritti (se prevale l’interesse del soggetto privato), ovvero
poteri amministrativi (quando prevalga l’interesse pubblico), i quali ultimi consentono di
produrre vicende giuridiche in ordine a situazioni dei terzi.
Nei confronti dell’esercizio del potere, il privato si trova in uno stato di soggezione.
Accanto alla disciplina che attribuisce il potere, vi è quella che regolamenta l’esercizio in
concreto dello stesso (norme di azione). Il momento dell’esercizio non è infatti lasciato
all’arbitrio dell’amministrazione, ma è retto da una serie di disposizioni spesso molto
puntuali.
Il potere deve essere esercitato in vista dell’interesse pubblico coerentemente al principio di
funzionalizzazione che informa tutta l’attività amministrativa.
La pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa è l’interesse legittimo.
L’interesse legittimo può essere definito come la situazione soggettiva di vantaggio costituita
dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente ed autonomamente,
ma attraverso la protezione indissolubile ed immediata di un altro interesse del soggetto,
meramente strumentale, alla legittimità dell’atto amministrativo e soltanto nei limiti della
realizzazione di tale interesse strumentale.
L’interesse legittimo è menzionato dalla Costituzione in 3 norme: l’art. 24, ove è accostato al
diritto soggettivo, garantendone la tutela giurisdizionale; l’art. 103, nell’ambito del quale è
contemplato come oggetto principale dalla giurisdizione amministrativa; l’art. 113 Cost., ove
si precisa che la sua tutela è sempre ammessa contro gli atti della pubblica amministrazione.
Tra i poteri riconosciuti al titolare dell’interesse legittimo si possono ricordare, in primo luogo,
i tradizionali poteri di reazione: il loro esercizio si concretizza nei ricorsi amministrativi e nei
ricorsi giurisdizionali, volti ad ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo.
Accanto a quelli ora descritti possiamo poi aggiungere i poteri di partecipare al procedimento
amministrativo: i documenti e le osservazioni che rappresentano il punto di vista del cittadino
devono essere presi in considerazione dall’amministrazione procedente. Il titolare può così
stimolare l’azione amministrativa, instaurando un dialogo che si conclude con l’emanazione
del provvedimento.
Tra i poteri che sono collegati alla titolarità di un interesse legittimo vi è infine quello di
accedere ai documenti della pubblica amministrazione: l’art. 22 L.241/90 ammette, infatti,
siffatta possibilità per i portatori di interessi giuridicamente rilevanti, nozione questa che
ricomprende sicuramente l’interesse legittimo.
Peculiare categoria è quella degli interessi procedimentali, che avrebbero la caratteristica di
attenere a “fatti procedimentali”. Questi hanno un campo d’azione assai più ampio di quello
dell’interesse legittimo. L’interesse legittimo, in ogni caso, sorge quando la soddisfazione del
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suo interesse dipende dall’esercizio di un potere (e non quando un soggetto venga in qualche
modo implicato dall’esercizio di un potere).
L’interesse procedimentale risulta spesso sfornito di tutela effettiva, non potendosi ricorrere
al giudice per la sua violazione, a differenza di quanto invece accade nell’ipotesi di titolarità di
interesse legittimo.
I poteri concessori.
L’esercizio dei poteri concessori, a fronte dei quali il destinatario si presenta come titolare di
interessi legittimi pretesivi, produce l’effetto di attribuire al destinatario medesimo status e
situazioni giuridiche (diritti) che esulavano dalla sua sfera giuridica in quanto
precedentemente egli non ne era titolare.
Esistono molteplici esempi di concessioni: la concessione di uso di beni, la concessione di
esercizio di servizi pubblici, la concessione della cittadinanza, la concessione del sistema di
riscossione, la concessione di costruzione e gestione di opere pubbliche.
In ordine alle concessioni di beni e di servizi pubblici, accanto al provvedimento con il quale si
esercita il potere concessorio amministrativo, si può individuare una convezione bilaterale di
diritto privato (detta concessione-contratto) finalizzata a dar assetto ai rapporti patrimoniali
tra concessionario e concedente. I due atti sono strettamente legati, nel senso che
l’annullamento della concessione travolge il contratto, e quindi la permanenza del rapporto
contrattuale è condizionata dalla vigenza del provvedimento concessorio.
La concessione è detta traslativa quando il diritto preesiste in capo all’amministrazione (si
pensi alla concessione di servizi pubblici) sicché esso è “trasmesso” al privato, mentre è
costitutiva nei casi in cui il diritto attribuito è totalmente nuovo, nel senso che
l’amministrazione non poteva averne la titolarità (sarebbe tale la concessione di cittadinanza o
di onorificenze).
Non è trasmissibile (o suscettibile di essere costituito mediante atto) il potere, quindi non è
corretto affermare che l’amministrazione trasferisce un potere al privato: il soggetto pubblico
può soltanto consentirne l’esercizio al concessionario.
Per quanto riguarda la concessione di opere pubbliche la legislazione, sulla scorta
dell’influenza comunitaria, mira ad equipararle all’appalto, o almeno a limitare la
discrezionalità di cui gode l’amministrazione chiamata a rilasciarle, al fine di evitare che
l’amministrazione possa svincolarsi dalle regole poste a tutela della concorrenza. Non a caso
la legislazione definisce tali concessioni come “contratti”.
In passato era prevista la concessione di servizi pubblici che ricorreva quando l’ordinamento
intendeva garantire alla collettività alcune prestazioni ed attività e consentiva
67
all’amministrazione di affidarne lo svolgimento a soggetti privati mediante un provvedimento
concessorio. Attualmente questo tipo di concessione è stato eliminato in relazione ai servizi
pubblici locali a carattere industriale.
Nei provvedimenti concessori rientrano le sovvenzioni, che attribuiscono al destinatario
vantaggi economici. La categoria è disciplinata dall’art.12 della legge 241/90, che si riferisce a
“sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari”, nonché, appunto, all’attribuzione di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati.
In generale, le sovvenzioni riguardano lo svolgimento di attività imprenditoriali, i contributi
attengono ad attività colturali o sportive, mentre i sussidi sono attribuzioni rientranti nella
beneficenza generale. Il vantaggio può essere diretto (erogazione di somme) o indiretto (sgravi
da alcuni oneri) e non sussiste l’obbligo in capo al beneficiario di pagare alcun corrispettivo.
L’art.12 L.241/90 prevede che, nelle forme prescritte dai rispettivi ordinamenti, vengano
predeterminati e pubblicati “criteri e modalità cui le amministrazioni devono attenersi” il cui
rispetto dovrà emergere dalla motivazione del provvedimento.
I poteri ablatori.
I poteri ablatori incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario. Essi hanno
segno opposto rispetto a quelli concessori, nel senso che impongono obblighi, ovvero
sottraggono situazioni favorevoli in precedenza pertinenti al privato, attribuendole di norma,
ma non necessariamente, all’amministrazione (ablatori reali).
Il destinatario si presenta come titolare di interessi legittimi oppositivi.
L’effetto ablatorio può incidere su diritti reali, diritti personali o su obblighi a rilevanza
patrimoniale.
Tra i provvedimenti ablatori reali vengono in evidenza le espropriazioni, le occupazioni, le
requisizioni, le confische e i sequestri.
L’espropriazione è il provvedimento che ha l’effetto di costituire un diritto di proprietà o altro
diritto reale in capo ad un soggetto (detto espropriante: non necessariamente si tratta
dell’amministrazione che emana il provvedimento), previa estinzione del diritto in capo ad
altro soggetto (espropriato) al fine di consentire la realizzazione di un’opera pubblica o per
altri motivi di pubblico interesse e dietro versamento di indennizzo ai sensi dell’art. 42 comma
3 Cost. La disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità è contenuta nel testo unico di cui
al d.P.R. 327/2001 e succ. mod.
Secondo la Corte Costituzionale l’indennizzo non deve necessariamente corrispondere al
valore di mercato del bene, ma deve costituire un “serio ristoro”.
La legge prevede anche la possibilità di procedere all’occupazione temporanea di alcuni beni.
In passato l’ipotesi più rilevante era costituita dall’occupazione d’urgenza e riguardava il
possesso delle cose destinate all’espropriazione, purché fosse pagato un indennizzo e l’opera
da realizzare a seguito dell’espropriazione fosse dichiarata indifferibile e urgente. Nel caso in
cui l’immobile venisse irreversibilmente trasformato, anche se l’amministrazione non riusciva
a concludere nei termini il procedimento espropriativi si produceva comunque l’acquisto della
proprietà di esso a favore dell’amministrazione, che però era tenuta a risarcire il danno, ed al
privato era preclusa la possibilità di ottenere la restituzione del bene.
Attualmente il T.U. citato disciplina l’istituto dell’ “occupazione anticipata” che conferma tale
indirizzo.
Può inoltre verificarsi l’ipotesi di occupazione usurpativa, caratterizzata dalla realizzazione
dell’opera in mancanza di dichiarazione di pubblica utilità (l’art.43 T.U. sulle espropriazioni
per pubblica utilità prevede che l’autorità che utilizza senza titolo un bene per scopi di
interesse pubblico “modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni”).
L’art. 49 T.U. disciplina poi l’occupazione temporanea, che può essere disposta quando ciò sia
68
“necessario per la corretta esecuzione dei lavori”, prevedendo la relativa indennità.
Le requisizioni sono provvedimenti mediante i quali l’amministrazione dispone della
proprietà o, comunque, utilizza un bene di un privato per soddisfare un interesse pubblico.
L’ordinamento conosce alcuni esempi di requisizioni in proprietà che riguardano soltanto le
cose mobili e possono essere disposte, generalmente per esigenze militari, dietro la
corresponsione di un’indennità. La requisizione in proprietà ha effetti irreversibili.
La requisizione in uso è un provvedimento che ha come presupposto l’urgente necessità: essa
riguarda sia mobili sia immobili e comporta la possibilità di poter utilizzare il bene (che
rimane in proprietà del titolare) per il tempo necessario e pagando un’indennità.
I caratteri dell’urgenza, della temporaneità e dell’indennità valgono a differenziare la
requisizione in uso sia dall’espropriazione sia dalle ordinanze di necessità e urgenza, che non
aprono la via all’indennizzo.
Ai sensi dell’art.7 della Legge 2248/1865, “allorché per grave necessità pubblica l’autorità
amministrativa debba senza indugio disporre della proprietà privata…, essa procederà con
decreto motivato, senza però pregiudizio di diritti delle parti”: tale norma è in generale
ritenuta come disposizione applicabile ogni qualvolta altra prescrizione conferisca
all’amministrazione il potere di disporre della proprietà del privato, imponendo di agire
appunto mediante decreto motivato.
La confisca è un provvedimento ablatorio a carattere non già espropriativi, bensì
sanzionatorio ed è la misura conseguente alla commissione di un illecito amministrativo: si
pensi alla confisca di un immobile realizzato abusivamente.
Il sequestro è il provvedimento ablatorio di natura cautelare: esso mira in genere a
salvaguardare la collettività dai rischi derivanti dalla pericolosità del bene.
Alcuni provvedimenti ablatori incidono non solo sui diritti reali, ma sulla complessa sfera
giuridica del privato, privandolo di un diritto o di una facoltà.
Gli ordini hanno in particolare l’effetto di imporre un comportamento al destinatario. Essi si
distinguono in comandi (ordini di fare: ad esempio l’ordine di demolire il manufatto abusivo)
e divieti (ordini di non fare: ad esempio il divieto di circolazione stradale), nonché in generali
e particolari (se rivolti a tutti o a persone in particolare).
Alcuni ordini si inseriscono in una relazione interorganica, dunque sono rivolti ai dipendenti,
non ai privati.
Dagli ordini si distinguono le direttive, che rispetto agli ordini presentano una minore
vincolatività.
La diffida consiste nel formale avvertimento ad osservare un obbligo che trova il proprio
fondamento in altro provvedimento o nella legge.
Esistono poi poteri ablatori caratterizzati dal fatto che impongono obblighi a rilevanza
patrimoniale che hanno come effetto la costituzione autoritativa di rapporti obbligatori: si
pensi ai provvedimenti sui prezzi e a tutti i casi di prestazioni imposte.
I poteri sanzionatori.
Per sanzione si intende la conseguenza sfavorevole di un illecito applicata coattivamente dallo
Stato o da altro ente pubblico, cioè la misura retributiva (inflazione di un male ritenuto
maggiore rispetto al beneficio che dalla violazione possa derivare) nei confronti del
trasgressore.
Per illecito si intende la violazione di un precetto compiuta da un soggetto.
La sanzione ha carattere eminentemente afflittivo ed è la conseguenza di un comportamento
antigiuridico di un soggetto, di cui è diretta e immediata conseguenza.
Non è sanzione la misura, di carattere preventivo e cautelare, che non presuppone
l’accertamento della violazione della legge, a meno che non sia fondata sull’accertato pericolo
della violazione stessa da parte del soggetto. Non è sanzione la dichiarazione di nullità o la
rimozione dell’atto invalido, perché la reazione dell’ordinamento opera qui soltanto nei
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confronti dell’atto, mentre il soggetto rimane estraneo alla diretta considerazione normativa.
Non è sanzione la reintegrazione, in qualsiasi forma, dello stato di cose antecedente alla
trasgressione, da cui esula qualsiasi finalità afflittiva.
Nella vigente legislazione non è definito il concetto di sanzione amministrativa.
Le sanzioni amministrative non hanno un contenuto loro peculiare, ma si possono individuare
soltanto in modo residuale, quali misure afflittive non consistenti in sanzioni penali o in
sanzioni civili.
La sanzione amministrativa può definirsi come la misura afflittiva non consistente in una pena
criminale o in una sanzione civile, irrogata nell’esercizio di potestà amministrative come
conseguenza di un comportamento assunto da un soggetto in violazione di una norma o di un
provvedimento amministrativo.
I principi generali della sanzione amministrativa vanno ricercati nella legislazione ordinaria,
costituita dalla Legge 689/1981, nella quale sono contenuti principi di tipo garantistico
modellati su quelli penalistici.
Essi operano sul piano delle fonti (principio di legalità), sul piano della successione delle leggi
nel tempo (principio di irretroattività), sul piano della interpretazione (principio del divieto di
analogia).
La sanzione amministrativa è il risultato dell’esercizio di un potere amministrativo.
La tassatività delle sanzioni è espressamente affermata dall’art.1 della Legge 689/1981. La
recente Legge Cost.3/2001 di riforma del titolo V della parte II della Costituzione non elenca
le sanzioni tra le materie riservate allo Stato o alla potestà legislativa concorrente.
La cosiddette sanzioni ripristinatorie colpiscono la res e mirano a reintegrare l’interesse
pubblico leso, mentre le sanzioni afflittive – le sole sanzioni in senso proprio – si rivolgono
direttamente all’autore dell’illecito.
Queste ultime si distinguono ulteriormente in sanzioni pecuniarie e sanzioni interdittive
(che incidono sull’attività del soggetto colpito).
Posizione a parte occupano le sanzioni disciplinari che si riferiscono ai soggetti che si trovano
in un peculiare rapporto con l’amministrazione.
Con riferimento alle sanzioni disciplinari cui sono assoggettabili i dipendenti delle pubbliche
amministrazioni, va ricordato che il D.Lgs 165/2001 prevede una regolamentazione specifica
in tema di responsabilità disciplinare, stabilendo che ai dipendenti presso le pubbliche
amministrazioni si applicano l’art. 2106 c.c. e l’art.7 commi 1,5 e 8 della Legge 300/70 e
devolvendo al giudice ordinario tutte le controversie attinenti il rapporto di lavoro, comprese
quelle in materia di sanzioni disciplinari. L’art. 55 D.Lgs 165/2001 prevede che le tipologie
delle infrazioni e delle relative sanzioni siano definite dai contratti collettivi.
La legge contempla anche un gruppo di sanzioni amministrativa: le sanzioni accessorie: come
l’art. 20 L.689/81 che prevede alcune misure interdittive consistenti nella privazione o nella
sospensione di facoltà o diritti derivanti da provvedimenti della pubblica amministrazione.
La violazione del precetto dà luogo all’illecito amministrativo, per il quale la legge n.689/81
prevede una riserva di legge.
Per quanto attiene l’elemento psicologico, ai fini della sussistenza dell’illecito di richiede il
dolo o la colpa (la giurisprudenza, introducendo una sorta di inversione dell’onere della
prova, afferma che spetta al trasgressore la dimostrazione dell’assenza della colpa).
Infine, l’ordinamento ha previsto alcune ipotesi di sanzioni pecuniarie inflitte a persone
giuridiche, riconosciute quindi direttamente responsabili.
Cenni ad alcune tra le più rilevanti vicende giuridiche il cui studio interessa il
diritto amministrativo: il decorso del tempo e la rinuncia.
Il decorso del tempo produce la nascita o la modificazione di una serie di diritti ed è alla base
degli istituti della prescrizione e della decadenza.
Il potere, in quanto attributo della soggettività non è trasmissibile, e non è neppure
prescrittibile a seguito del decorso del tempo.
Il diritto soggettivo è invece soggetto a prescrizione, ove non esercitato per un certo periodo di
tempo. Si pensi al diritto di percepire lo stipendio, che si prescrive in cinque anni.
Il tempo, unitamente all’esercizio di un diritto, è alla base dell’istituto dell’usucapione dei
diritti reali, ma per quanto attiene il diritto amministrativo occorre ricordare che non è
ammesso l’acquisto per usucapione di diritti su beni demaniali.
Tra gli atti che producono vicende estintive di diritti si annovera la rinuncia, negozio avente
effetto abdicativi cui può seguire un effetto traslativo (accrescimento della sfera altrui) o
estintivo.
Il potere, intrasmissibile e imprescrittibile, non può essere oggetto di un atto di rinunzia.
Sono invece normalmente rinunciabili i diritti soggettivi (come il diritto all’indennizzo in caso
di espropriazione); e non sono rinunziabili le situazioni che ineriscono a interessi diversi da
quelli del loro titolare(ad esempio è irrinunciabile l’ufficio di tutore) ed i diritti di libertà.
In tema di crediti dei dipendenti aventi causa nel rapporto di lavoro, si ricordi che
l’amministrazione non può rinunciare alla prescrizione ed alla relativa eccezione.
Non è possibile rinunciare nemmeno agli interessi legittimi perché seguono il potere e il suo
esercizio.
Le fonti del diritto (in particolare quelle legislative) attinenti alle situazioni
giuridiche.
Le fonti giuridiche sono i fatti e gli atti produttivi di norme giuridiche. La materia costituisce
oggetto del diritto costituzionale.
Molte fonti pongono norme di diritto amministrativo o sono atti soggettivamente
amministrativi, nel senso che sono posti in essere da autorità amministrative.
Cenni ad alcuni riflessi della distinzione tra norme di relazione e norme di azione
sui problemi della difformità dell’atto dal paradigma normativo e del riparto di
giurisdizione.
L’atto amministrativo emanato in assenza di potere è nullo ed è sindacabile dal giudice
ordinario (ad esempio un provvedimento di esproprio emanato da un’amministrazione non
competente).
Il giudice ordinario ha giurisdizione nei casi in cui l’amministrazione abbia agito in carenza di
potere ponendo in essere un atto nullo, cioè non produttivo di effetti.
L’interesse legittimo è anche la pretesa all’osservanza delle norme di azione.
Sotto il profilo processuale la tutela dell’interesse legittimo è affidata al giudice
amministrativo.
L’azione amministrativa che non rispetti le norme di azione è sicuramente illegittima: tuttavia,
ove siano rispettate le norme di relazione che attribuiscono il potere, l’atto finale non è nullo.
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Gli effetti così prodotti sono tuttavia precari.
L’atto è cioè emanato in una situazione in cui il potere sussiste, ma è stato esercitato in modo
non corretto, pertanto la giurisdizione del giudice amministrativo si individua in base al
canone del cattivo esercizio del potere amministrativo. Il giudice che accerti la violazione di
norme di azione dovrà eliminare sia l’atto, sia i suoi effetti, emanando una decisione di
annullamento. Il regime dell’atto posto in essere in violazione di norme di azione è dunque
l’annullabilità.
L’atto può essere annullato anche in via di autotutela dalla stessa amministrazione che ha
emanato l’atto.
L’atto illegittimo può essere disapplicato dal giudice ordinario, annullato
dall’amministrazione in sede di decisione di ricorso amministrativo, ovvero in sede di
controllo.
I regolamenti amministrativi.
I regolamenti si distinguono in regolamenti governativi, ministeriali e degli enti pubblici, in
base al soggetto e all’organo da cui provengono.
La disciplina dei regolamenti governativi è fissata dalla legge 400/1988.
Per la loro emanazione la legge richiede la deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il
parere del Consiglio di Stato, Emanati con decreto del Presidente della Repubblica e sottoposti
al visto e alla registrazione della Corte dei conti, essi sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale e
debbono essere espressamente denominati “regolamenti”.
L’art. 17 della Legge 400/1988 prevede diversi tipi di regolamenti governativi.
I regolamenti esecutivi rappresentano le fonti governative mediante le quali sono poste
norme di dettaglio rispetto alla legge o al decreto legislativo da eseguire.
I regolamenti attuativi e integrativi rispetto alle leggi che pongono norme di principio,
possono essere adottati al di fuori delle materie riservate alla competenza regionale.
I regolamenti indipendenti sono emanati per disciplinare le materie in cui ancora manchi la
disciplina da parte di leggi o atti aventi forza di legge.
Vi sono poi i regolamenti che disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento delle
amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge.
L’art. 17 comma 2 Legge 400/1988 disciplina i regolamenti di delegificazione (con il termine
delegificazione si intende l’attribuzione al potere regolamentare del compito di disciplinare
materie anche in deroga alla disciplina posta dalla legge) o “autorizzati”, i quali possono
essere adottati solo a seguito di una specifica previsione di legge. La norma dispone che “con
decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri,
sentito il Consiglio di Stato, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non
coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della
Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del governo, determinano le
norme generali regolativi della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti. Con
effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari”.
Un massiccio impiego dei regolamenti di delegificazione è previsto per l’attuazione di
direttive comunitarie ed ai fini di semplificazione dei procedimenti amministrativi.
I regolamenti di delegificazione e quelli di organizzazione rappresentano oggi atti di
importanza essenziale nel quadro delle fonti.
La legge contempla poi i regolamenti ministeriali, nonché regolamenti interministeriali,
adottati con decreti interministeriali in quanto attinenti a materie di competenza di più
ministri.
I regolamenti ministeriali debbono autoqualificarsi come tali e non possono dettare norme
contrarie ai regolamenti governativi. Essi debbono trovare il fondamento in una legge che
espressamente conferisca il relativo potere al ministro ed essere attinenti alle “materie di
competenza del ministro”. Essi vanno comunicati al Presidente del Consiglio dei Ministri
prima della loro emanazione, sono sottoposti al parere obbligatorio del Consiglio di Stato, al
visto della Corte dei conti e alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Le altre fonti secondarie; in particolare: statuti e regolamenti degli enti locali. I testi
unici e le funzioni normative delle autorità indipendenti.
L’autonomia normativa è riconosciuta non solo a Stato e a regioni, ma anche ad altri enti
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pubblici. Essa di estrinseca mediante l’emanazione di statuti e regolamenti.
L’autonomia statutaria e regolamentare degli enti locali è stata espressamente riconosciuta
dalla legge 142/90 e succ.mod. (ora t.u. enti locali) secondo un modello nel quale alla legge
spetta dettare le linee fondamentali dell’organizzazione dell’ente.
La Costituzione riconosce una riserva di normazione sancendo che comuni, province e città
metropolitane sono enti autonomi con propri statuti.
Il potere normativo, consistente nella potestà statutaria e in quella regolamentare, è esercitato
anche dalle unioni di comuni e dalle comunità montane e isolane.
Ai sensi dell’art. 4 della legge 131/2003, lo statuto stabilisce i principi di organizzazione e
funzionamento dell’ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle
minoranze e le forme di partecipazione popolare.
Secondo quanto dispone attualmente il T.U. enti locali, lo statuto è deliberato dal consiglio con
il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati. Qualora la maggioranza non venga
raggiunta, “la votazione è ripetuta in successive sedute da tenersi entro 30 giorni e lo statuto è
approvato se ottiene per due volte il voto favorevole della maggioranza assoluta dei
consiglieri assegnati”.
Secondo l’art. 117 Cost, comuni, province e città metropolitane hanno “potestà regolamentare
in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro
attribuite”.
La legge 131/2003 ribadisce poi che l’organizzazione degli enti locali è disciplinata dei
regolamenti nel rispetto delle norme statutarie.
Il t.u. enti locali attualmente in vigore prevede svariate materie che debbono essere
disciplinate con regolamento: ricordiamo ad esempio l’accesso ai documenti, l’individuazione
dei responsabili del procedimento, l’organizzazione delle circoscrizioni, i poteri,
l’organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori delle commissioni costituite in seno al
consiglio.
Gli artt. 89 e 48 comma 3 T.U. enti locali, hanno disciplinato una rilevante ipotesi di
regolamenti, emanati non dal consiglio ma dalla giunta, relativi all’ordinamento degli uffici e
dei servizi.
Tali regolamenti debbono rispettare non solo la legge e lo statuto, ma anche i “criteri generali
stabiliti dal consiglio”.
Non sono invece fonti del diritto le circolari, gli atti che pongono le c.d. norme interne e la
prassi.
Un cenno meritano poi i testi unici, i quali raccolgono in un unico corpo le norme che
disciplinano una certa materia. Il loro fine è quello di raccogliere in un testo ufficiale le
disposizioni vigenti. Questi testi unici “compilatori” (o “spontanei”) sono da inquadrare tra le
mere fonti di cognizione che non modificano le fonti raccolte.
Hanno invece forza novativa i testi unici emanati da soggetti dotati di competenza normativa.
L’art. 20 legge 59/1997 e succ.mod. prevede, per finalità di semplificazione, l’emanazione ogni
anno di una legge per la semplificazione e il ricorso a decreti legislativi e a regolamenti
governativi di delegificazione per il riassetto normativo e la codificazione.
La legge riconosce potestà normativa ad alcune autorità indipendenti (come l’autorità garante
per le comunicazioni, la Consob, la Banca d’Italia ecc…); la possibilità che le autorità
indipendenti emanino atti normativi, ad esclusione dei regolamenti delegati, è stata ammessa
dal Consiglio di Stato.
L’art. 13 Legge 249/1997 prevede che l’autorità garante per le comunicazioni, agendo d’intesa
con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e Bolzano, adotti un regolamento per definire le materie di sua competenza che
possono essere delegate ai comitati regionali per le comunicazioni.
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Capitolo VI
Il procedimento amministrativo
Introduzione
Il provvedimento è l’atto normativo che produce vicende giuridiche in ordine alle situazioni
giuridiche di soggetti terzi.
L’emanazione del provvedimento finale è di norma preceduta da un insieme di atti, fatti ed
attività, tutti tra di loro connessi poiché concorrono all’emanazione del provvedimento stesso.
Tali atti, fatti e attività sono caratterizzati dallo scopo comune ed unitario e confluiscono nel
procedimento amministrativo.
Il procedimento amministrativo è stato definito come “forma della funzione”, e la funzione è
una serie coordinata di attività e di atti endoprocedimentali.
Il procedimento è caratterizzato da peculiarità del diritto pubblico tra le quali:
a) la necessità di dare evidenza alle modalità di scelta effettuate dall’amministrazione in
vista dell’interesse pubblico.
b) L’importanza di enucleare i vari passaggi che conducono alla determinazione
conclusiva ai fini del sindacato operato dal giudice amministrativo.
c) L’esistenza di norme giuridiche (norme di azione) alle quali è soggetta
l’amministrazione nel corso della sua attività.
d) Il procedimento deve essere strutturato in modo da consentire che la scelta
discrezionale possa proficuamente avvenire.
La recente normativa configura il procedimento come un modulo nel cui interno far confluire
l’esercizio di più poteri provvedimentali, in particolare autorizzativi e concessori, tra di loro
connessi.
E’ da segnalare la disciplina relativa allo sportello unico delle attività produttive. Gli artt. 23
e segg. Del D.lgs 112/98 prevedono che i comuni si dotino di una struttura unica responsabile
dei procedimenti attinenti alle attività produttive (concernenti la realizzazione, l’ampliamento,
la cessazione, la riattivazione, la localizzazione, la rilocalizzazione di impianti produttivi,
nonché il rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie), la quale deve dar vita ad uno
sportello unico “al fine di consentire a tutti gli interessati l’accesso, anche in via telematica, al
proprio archivio informatico contenente le domande di autorizzazione e il relativo iter
procedurale, gli adempimenti necessari per le procedure autorizzatorie, nonché tutte le
informazioni disponibili a livelli regionale, comprese quelle concernenti le attività
promozionali, che dovranno essere fornite in modo coordinato”.
Ai sensi dell’art. 39 Legge 241/90, è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di richiedere
l’autenticazione della sottoscrizione delle domande di partecipazione a selezioni per
l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni, nonché ad esami per il conseguimento di
abilitazioni, diplomi o titoli culturali.
Secondo l’art. 38 Legge 241/90, la sottoscrizione di istanza da produrre agli organi della
amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi può essere apposta in
presenza del dipendente e, comunque, non è soggetta ad autenticazione ove l’istanza sia
presentata unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del
sottoscrittore.
Di frequente le istanze hanno anche un contenuto rappresentativo di interessi, e talora la legge
prevede l’onere in capo al richiedente di allegare atti o documenti volti ad attestare il ricorrere
di determinati requisiti, consentendo così di agevolare l’accertamento di fatti e la verifica dei
requisiti.
A fronte dell’istanza, l’amministrazione deve dar corso al procedimento, ma può anche
rilevarne l’erroneità o la incompletezza; in tale ipotesi, prima di rigettare l’istanza, essa deve
procedere alla richiesta della rettifica (art. 6 c.1 lett.b Legge 241/90, che introduce il principio
della sanabilità delle istanze dei privati).
Il dovere di procedere per l’amministrazione sorge soltanto quando l’ordinamento riconosca
la sussistenza di una posizione qualificata in capo al privato.
In caso contrario, l’atto del privato non si configura come istanza in senso proprio, ma come
denuncia mediante la quale si rappresenta una data situazione di fatto all’amministrazione,
chiedendo l’adozione di provvedimenti e/o di misure generiche senza che l’ordinamento
riconosca in capo al privato un interesse protetto (ad esempio l’atto in cui si sollecita
l’adozione un atto di autotutela, la cui decisione è rimessa alla discrezionalità della p.a.).
L’iniziativa d’ufficio è prevista dall’ordinamento nelle ipotesi in cui il tipo di interessi
pubblici affidati alla cura dell’amministrazione, o il continuo e corretto esercizio del potere-
dovere attribuito al soggetto pubblico, esiga che questi si attivi automaticamente al ricorrere di
alcuni presupposti indipendentemente dalla sollecitazione esterna.
L’istruttoria procedimentale.
L’istruttoria è la fase del procedimento volta all’accertamento dei fatti e dei presupposti del
provvedimento ed alla acquisizione e valutazione degli interessi implicati dall’esercizio del
potere.
L’istruttoria è condotta dal responsabile del procedimento come disposto dall’art.6 della legge
241/90 (tra gli obblighi del responsabile figura quello di curare “l’adeguato e sollecito
svolgimento dell’istruttoria”).
La decisione amministrativa finale deve essere preceduta da adeguata conoscenza della realtà
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esterna, la quale avviene appunto attraverso l’istruttoria.
L’istruttoria del procedimento amministrativo serve per acquisire interessi e verificare fatti.
I fatti sono eventi, o situazioni, gli interessi sono aspirazioni a beni della vita.
L’attività conoscitiva, volta ad acquisire la conoscenza della realtà di fatto, si svolge mediante
una serie di operazioni i cui risultati vengono attestati da dichiarazioni di scienza, acquisite al
procedimento. I dati di fatto rilevanti possono essere individuati dall’amministrazione oppure
rappresentati dai terzi attraverso lo strumento della partecipazione. Essi sono spesso attestati
da documenti, certificazioni o dichiarazioni presentati o esibiti all’amministrazione o da
questa direttamente formati.
Gli interessi vengono introdotti nel procedimento attraverso l’iniziativa dell’amministrazione
procedente, l’acquisizione delle determinazioni di altri soggetti pubblici, la indizione della
conferenza di servizi e la partecipazione procedimentale.
La partecipazione procedimentale.
Uno degli strumenti più importanti per introdurre interessi pubblici e privati nel
procedimento è costituito dalla partecipazione.
Ai sensi degli artt. 7 e 9 legge 241/90, sono legittimati all’intervento nel procedimento:
1) i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre i suoi
effetti diretti;
2) i soggetti che per legge debbono intervenire nel procedimento;
3) i soggetti che possono subire un pregiudizio dal provvedimento, purché individuati o
facilmente individuabili;
4) i portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti
in associazioni o comitati cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento.
Gli statuti degli enti locali possono ampliare la cerchia dei soggetti titolari del potere di
partecipazione poiché l’art. 8 del testo unico enti locali stabilisce che devono essere previste
nello statuto forme di partecipazione degli interessati nel procedimento relativo all’adozione
di atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive.
La disciplina degli enti locali prevede numerosi strumenti ed istituti di partecipazioni quali la
consultazione, le istanze, le petizioni, le proposte, i referendum, le azioni popolari, il diritto
di accesso e di informazione dei cittadini.
La dottrina ha spesso utilizzato la nozione di parti del procedimento individuando così le
parti necessarie (quelle contemplate dall’art.7) e parti eventuali (contemplate dall’art. 9).
L’unica parte necessaria è l’amministrazione procedente, poiché la legge prevede strumenti
per superare l’inerzia degli eventuali altri soggetti pubblici.
La fase consultiva.
Una volta acquisiti tutti gli interessi coinvolti nella scelta finale e verificati i fatti rilevanti,
l’amministrazione deve procedere ad una valutazione di siffatto materiale istruttorio.
In alcune ipotesi questa valutazione viene effettuata mediante atti emanati da appositi uffici o
organi che confluiscono in un ulteriore momento della fase istruttoria, costituita dal
subprocedimento consultivo. Si tratta di uffici ed organi, di norma collegiali, distinti rispetto a
quelli che svolgono attività di amministrazione attiva e dotati di particolare preparazione e
competenza tecnica.
Gli atti mediante i quali viene esercitata questa forma di attività, detta appunto consultiva, ed
aventi un contenuto di giudizio, sono i pareri.
I pareri in senso stretto devono essere nettamente distinti da altri atti, denominati nella prassi
“pareri–note”, che hanno la funzione di rappresentare il punto di vista o gli interessi
dell’amministrazione che li emana.
Non devono nemmeno essere confusi i pareri con gli atti resi da consulenti o esperti privati, i
quali non svolgono funzioni di amministrazione consultiva.
Un particolare tipo di parere è poi quello previsto, per comuni e province, dall’art. 49 T.U. enti
locali: “su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta ed al consiglio che non sia
mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla sola regolarità tecnica del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di
entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile”.
I pareri si distinguono in:
- pareri obbligatori, se la loro acquisizione è prescritta dalla legge;
- pareri facoltativi, essi non sono previsti dalla legge, l’amministrazione può di propria
iniziativa richiederli, purché ciò non comporti un ingiustificato aggravamento del
procedimento;
- pareri conformi, si tratta di pareri che lasciano all’amministrazione attiva la possibilità di
decidere se provvedere o meno; se essa provvede, non può però disattenderli;
- pareri semivincolanti, tali pareri possono essere disattesi soltanto mediante l’adozione
del provvedimento da parte di un organo diverso da quello che di norma dovrebbe
emanarlo, impegnandone la responsabilità amministrativa e politica;
- pareri vincolanti, si tratta di pareri obbligatori che non possono essere disattesi
dall’amministrazione, salvo che essa non li ritenga illegittimi.
Il subprocedimento consultivo inizia con la richiesta di parere, la quale consiste nella
formulazione di un quesito, prosegue con lo studio del problema, con la discussione, con la
determinazione, con la redazione e si conclude con la comunicazione all’autorità richiedente.
Ai sensi dell’art. 3 legge 241/90 qualora l’amministrazione procedente intenda disattendere il
parere deve adeguatamente motivare il provvedimento, perché l’atto deve essere motivato “in
94
relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
Il procedimento consultivo è disciplinato dall’art. 16 legge 241/90 e succ. mod.
Il parere obbligatorio deve essere reso entro 45 giorni. Per quanto riguarda i pareri facoltativi,
gli organi sono tenuti a dare immediata comunicazione alle amministrazioni richiedenti del
termine entro il quale il parere sarà reso. Trascorso tale termine senza che sia stato comunicato
il parere è facoltà dell’amministrazione richiedente di procedere indipendentemente
dall’acquisizione del parere.
La circostanza che la legge parli di “facoltà” di procedere pare implicare la possibilità per
l’organo di amministrazione attiva di attendere il parere anche se tardivo.
Questa disciplina non si applica nei casi in cui il parere debba essere reso da amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini, per
evitare che l’amministrazione procedente resti “bloccata” in attesa di un parere.
Le richieste di pareri resi dal Consiglio di Stato, che è “organo di consulenza giuridico-
amministrativa” del governo e di altre amministrazioni, sono effettuate dagli “organi di
governo che esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo”.
L’art. 17 Legge 127/1997 individua i casi in cui essi sono richiesti in via obbligatoria
(emanazione di atti normativi del governo, emanazione di testi unici, decisioni dei ricorsi
straordinari al Presidente della Repubblica, schemi generali di contratti tipo, accordi e
convenzioni predisposti da uno o più ministri), e abroga “ogni diversa disposizione di legge
che preveda il parere del Consiglio di Stato in via obbligatoria”. L’abrogazione non concerne
le norme legislative che dispongono pareri vincolanti, e stabilisce che gli stessi debbano essere
resi entro 45 giorni dal ricevimento della richiesta salvo che la legge non preveda termini più
brevi, termine decorso il quale l’amministrazione attiva può procedere indipendentemente
dall’acquisizione del parere.
I pareri del Consiglio di Stato sono pubblici e recano l’indicazione del Presidente del collegio e
dell’estensore.
Sempre l’art.17 legge 127/1997 istituisce una sezione consultiva del Consiglio di Stato per
l’esame degli schemi di atti normativi per i quali il parere è prescritto per legge o è comunque
richiesto dall’amministrazione, nonché per gli schemi di atti normativi comunitari, se richiesto
dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Il parere è reso in adunanza generale per “gli
schemi di atti legislativi o regolamentari devoluti dalla sezione o dal presidente del Consiglio
di Stato a causa della loro particolare importanza”.
Il parere è espressione della funzione consultiva e comporta un consiglio in ordine agli
interessi che l’amministrazione procedente deve tutelare, tenuto conto della situazione di fatto
così come accertata nell’istruttoria.
Le valutazioni tecniche attengono invece ad uno o più presupposti dell’agire che debbono
essere appunto valutati nel corso dell’istruttoria.
Il nullaosta è un atto di amministrazione attiva che viene emanato in vista di un interesse
differente da quello curato dall’amministrazione procedente.
La semplificazione procedimentale.
La legge 127/1997 reca misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei
procedimenti di decisione e di controllo (modificata poi dalla legge 191/1998), mentre la legge
59/1997 contiene la delega al governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed
agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione
amministrativa.
L’esigenza di semplificare è particolarmente sentita anche in materia procedimentale.
L’art. 11 legge 137/2002 ha previsto che presso il Dipartimento della funzione pubblica sia
istituito, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, un ufficio dirigenziale di livello
generale con il compito di coadiuvare il ministro nell’attività normativa ed amministrativa di
semplificazione delle norme e delle procedure. Presso la presidenza del Consiglio dei Ministri
sono pure istituiti non più di due servizi con il compito di provvedere all’applicazione
dell’analisi dell’impatto della regolamentazione.
Il compito di attuare il disegno di semplificazione procedimentale è affidato a decreti
legislativi e alle fonti regolamentari di delegificazione.
L’art.20 legge 59/1997 consente di affermare che la semplificazione comporta la riduzione
delle fasi procedimentali, l’adeguamento alle nuove tecnologie informatiche, la riduzione dei
97
termini nonché l’accorpamento e la regolamentazione uniforme dei procedimenti che
attengono alla stessa attività. La legge 127/1997 si occupa anche di altri aspetti, quali la
conferenza di servizi, la disciplina dei pareri e la documentazione amministrativa.
La legge 241/90 definisce come istituti di semplificazione la conferenza di servizi, gli accordi
tra amministrazioni , la prefissione di termini e di meccanismi procedurali per consentire di
ottenere in termini certi pareri o valutazioni tecniche, l’autocertificazione, la liberalizzazione
di attività private ed il silenzio assenso.
98
Capitolo VII
La conclusione del procedimento amministrativo: il provvedimento e gli accordi
amministrativi.
Gli atti determinati dal contenuto del provvedimento, l’atto complesso il concerto e
l’intesa.
L’amministrazione conclude il procedimento emanando una decisione.
La fase decisoria può essere costituita da una serie di atti, da un atto proveniente da un unico
organo, da un fatto, oppure da un accordo.
Quando la fase decisoria consiste nell’emanazione di atti o deliberazioni preliminari
determinativi del contenuto del provvedimento finale, si assiste all’adozione da parte di un
organo di un atto che, per produrre effetti, deve essere esternato ad opera di un altro organo.
L’atto del primo organo è quindi determinativo del contenuto del provvedimento finale, ma
non è costitutivo degli effetti.
La decisione su proposta è un atto di impulso procedimentale necessario perché il
provvedimento finale possa essere emanato, e indicativo del contenuto dello stesso. L’organo
al quale la proposta è rivolta ha sempre il potere di rifiutare l’adozione dell’atto finale, ma non
può modificare il contenuto della proposta.
La determinazione preliminare e l’atto finale rimangono separati, ma quando le due situazioni
si fondono danno luogo all’atto complesso.
Il concerto è un istituto che si riscontra nelle relazioni tra organi dello stesso ente: l’autorità
concertante elabora uno schema di provvedimento e lo trasmette all’autorità concertata. Il
consenso dell’autorità concertante condizione l’emanazione del provvedimento: tale consenso
è espresso con atto che non si fonde con quello dell’amministrazione procedente, che è l’unica
ad adottare l’atto finale.
L’intesa viene di norma raggiunta tra enti differenti ai quali tutti si imputa l’effetto.
99
comunque assunta dall’amministrazione procedente “sulla base della maggioranza delle
posizioni espresse in sede di conferenza di servizi”.
Alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza decisoria, si conforma il
provvedimento finale, il quale sostituisce autorizzazioni, concessioni, nulla osta e atti di
assenso.
La conferenza decisoria come descritta può essere definita interna.
La legge 241/90 disciplina anche un modello di conferenza di servizi decisoria esterna la
quale, anche su richiesta dell’interessato, può essere convocata dall’amministrazione
competente per l’adozione del provvedimento finale “quando l’attività del privato sia
subordinata ad atti di consenso, comunque denominati, di competenza di più amministrazioni
pubbliche”.
La possibilità dunque per il privato di richiedere l’indizione della conferenza gli consente di
assumere una importante iniziativa per “indurre” le amministrazioni ad esercitare in una
unica soluzione i differenti poteri permissivi.
La conferenza può poi essere convocata per l’esame contestuale di interessi coinvolti in più
procedimenti connessi, riguardanti medesimi attività o risultati; in tal caso, su richiesta di una
qualsiasi delle amministrazioni coinvolte, essa è indetta “dall’amministrazione o, previa intesa
formale, da una delle amministrazioni che curano l’interesse pubblico prevalente”.
La legge prevede ulteriori ipotesi di conferenza: quella che può essere convocata dal
concedente in caso di affidamento di concessione di lavori pubblici; quella che il ministro dei
trasporti può indire per l’approvazione di progetti di opere concernenti reti ferroviarie e
quella, infine, relative a istanze o progetti preliminari, la quale può essere convocata “per
progetti di particolare complessità, su motivata e documentata richiesta dell’interessato, prima
della presentazione di una istanza o di un progetto definitivi, al fine di verificare quali siano le
condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari atti di consenso”. La conferenza si
esprime entro trenta giorni dalla data della richiesta allo stato degli atti a sua disposizione e le
indicazioni fornite possono essere modificate o intergrate “solo in presenza di significativi
elementi emersi nelle fasi successive del procedimento”. I costi sono a carico del richiedente.
L’art. 14 ter disciplina il procedimento della conferenza di servizi prevedendo regole che
mirano a garantire la celere e positiva conclusione del subprocedimento, caratterizzato anche
dalla presenza di una vera e propria fase istruttoria. In particolare, esso stabilisce che:
- la conferenza assume le determinazioni relative all’organizzazione dei propri lavori a
maggioranza dei presenti;
- la convocazione alla prima riunione deve pervenire, anche per via telematica o
informatica, almeno dieci giorni prima della relativa data;
- le amministrazioni stabiliscono il termine per l’adozione della decisione conclusiva,
rispettando la regola secondo cui i lavori non possono superare i 90 giorni;
- ogni amministrazione partecipa ad essa con un “unico rappresentante, legittimato
dall’organo competente ad esprimere in modo vincolante la volontà su tutte le decisioni
di competenza della stessa” ;
- in sede di conferenza possono essere richiesti, per una sola volta, ai proponenti
dell’istanza o ai progettisti chiarimenti o ulteriore documentazione, che debbono essere
forniti entro trenta giorni (in caso contrario “si procede all’esame del provvedimento”).
Nel caso di mancato rispetto del termine stabilito per la conclusione dei lavori, l’art.14 ter
prevede che l’amministrazione procede ai sensi di quanto disposto in ordine al dissenso, e,
dunque, può assumere la determinazione di conclusione del procedimento.
L’art. 14 quater stabilisce, nel caso di dissenso espresso nella conferenza, che
l’amministrazione procedente assume comunque la determinazione conclusiva “sulla base
della maggioranza delle posizioni espresse in sede di conferenza di servizi”. La
determinazione è immediatamente esecutiva.
Si considera poi acquisito l’assenso dell’amministrazione il cui rappresentante non abbia
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“espresso definitivamente la volontà dell’amministrazione rappresentata e non abbia
notificato all’amministrazione procedente, entro trenta giorni dalla data di ricezione della
determinazione di conclusione del procedimento, il proprio motivato dissenso, ovvero nello
stesso termine non abbia impugnato la determinazione medesima”.
Il provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza
“sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso
comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque
invitate a partecipare, alla predetta conferenza”.
Il comma 3 dell’art.14 quater introduce poi una disciplina derogatoria occupandosi dei casi di
dissenso manifestato da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-
territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute. In tal caso la decisione è
rimessa al Consiglio dei Ministri ove l’amministrazione dissenziente o quella procedente sia
un’amministrazione statale, ovvero ai componenti organi collegiali esecutivi degli enti
territoriali, nelle altre ipotesi. Gli organi in oggetto deliberano entro trenta giorni.
Una disciplina peculiare è infine dettata con riferimento al caso in cui sia prevista la
valutazione di impatto ambientale (v.i.a.), procedura volta a verificare via preventiva la
compatibilità ambientale di alcune opere e di alcuni progetti. La v.i.a. deve essere acquisita
dalla conferenza di servizi, la quale deve attendere l’adozione del provvedimento di v.i.a..
Ove la valutazione di impatto ambientale non intervenga nel termine fissato per l’adozione
del relativo provvedimento, l’amministrazione competente si esprime in sede di conferenza.
Il provvedimento finale concernente opere sottoposte a v.i.a. deve essere pubblicato, a cura del
proponente, nella Gazzetta Ufficiale o nel bollettino ufficiale regionale e in un quotidiano a
diffusione nazionale. Dalla data della pubblicazione nella G.U. decorrono i termini per
eventuali impugnazioni in sede giurisdizionale.
Gli accordi tra amministrazione e privati ex art.11 Legge 7 agosto 1990 nr.241.
Le tipologie i accordi tra amministrazione e privati sono gli accordi sostitutivi di
111
provvedimento e gli accordi integrativi del provvedimento (determinativi del contenuto
discrezionale del provvedimento stesso).
L’accordo sostitutivo tiene luogo del provvedimento, l’accordo determinativo del contenuto
non elimina la necessità del provvedimento nel quale confluisce, sicché il procedimento si
conclude pur sempre con un classico provvedimento unilaterale produttivo di effetti.
L’accordo sostitutivo è ammesso nei soli casi previsti dalla legge, mentre l’accordo integrativo
può sempre essere concluso.
L’accordo pubblico deve essere stipulato “in ogni caso nel perseguimento dell’interesse
pubblico” e “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede
unilateralmente dall’accordo”.
Gli accordi devono essere stipulati per iscritto a pena di nullità, salvo che la legge disponga
diversamente. L’amministrazione può recedere unilateralmente dall’accordo per sopravvenuti
motivi di pubblico interesse “salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo
in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato”. Le controversie in
materia di formazione, conclusione ed esecuzione sono riservate alla giurisdizione esclusiva.
Agli accordi si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in
quanto compatibili.
L’accordo è strettamente legato al tema della partecipazione: esso può essere concluso “in
accoglimento di osservazioni e proposte”.
L’accordo integrativo è un accordo endoprocedimentale destinato a riversarsi nel
provvedimento finale. Esso, ammissibile soltanto nell’ipotesi in cui il provvedimento sia
discrezionale, fa sorgere un vincolo tra le parti: in particolare l’amministrazione è tenuta ad
emanare un provvedimento corrispondente al tenore dell’accordo. Il provvedimento non è
revocabile, almeno per quella parte che corrisponde all’accordo, in ordine alla quale si può
esercitare il potere di recesso.
L’accordo sostitutivo elimina la necessità di emanare un provvedimento ed è soggetto ai
medesimi controlli previsti per il provvedimento sostituito.
Nel nostro ordinamento sono previsti pochi casi di accordo sostitutivo tra i quali si ricorda
l’accordo di cessione che produce effetti del decreto di esproprio.
113
Capitolo VIII
Obbligazioni della pubblica amministrazione e diritto comune
Cenni gli appalti di forniture, agli appalti di servizi e agli appalti nei c.d. settori
esclusi.
La direttiva comunitaria 2004/18/CE riguarda il coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavoro, di forniture e di servizi. Essa unifica la
disciplina degli appalti nei vari settori, e introduce procedure e istituti innovativi come
l’accordo quadro, il c.d. dialogo competitivo, i sistemi dinamici di acquisizione e le aste
elettroniche. La direttiva dovrà essere recepita entro il 31 gennaio 2006.
L’appalto di forniture è disciplinato dalla direttiva Cee 93/36, dal D.Lgs 358/1992, come
modificato dal D.Lgs 402/1998. Le pubbliche forniture sono “contratti a titolo oneroso aventi
per oggetto l’acquisto, la locazione finanziaria, la locazione, l’acquisto a riscatto con o senza
opzioni per l’acquisto, conclusi per iscritto tra un fornitore e una delle amministrazioni o enti
aggiudicatori”. (art. 2 D.Lgs 358/1992).
Gli appalti di servizi sono i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra un prestatore
di servizi ed un’amministrazione aggiudicatrice, aventi ad oggetto la prestazione di servizi
indicati in due appositi allegati. L’ambito di applicazione del decreto è limitato agli appalti il
cui valore stimato sia uguale o superiore al controvalore in euro di 200.000 diritti speciali di
prelievo.
Con il D.Lgs 158/1996 l’Italia ha recepito la disciplina comunitaria sugli appalti nei settori
esclusi (acqua, energia, trasporti e telecomunicazioni).
La disciplina posta dal legislatore ordinario: il t.u. degli impiegati civili dello Stato
(d.P.R. 3/1957).
Il legislatore si è occupato della responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici nel
testo unico dello statuto degli impiegati civili dello Stato (d.p.r. 3/1957).
Sotto la rubrica “responsabilità verso i terzi”, l’art.22 del citato decreto, sancisce la personale
responsabilità dell’impiegato “che cagioni ad altri un danno ingiusto”, definendo ingiusto il
danno “derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi commessa con dolo o colpa grave”.
Tale disciplina sostituisce il classico requisito della colpa previsto dall’art. 2043 c.c. con quello
della colpa grave che secondo la giurisprudenza, consiste in una “sprezzante trascuratezza dei
doveri d’ufficio”.
119
I riflessi di tale disciplina su dottrina e giurisprudenza: la responsabilità diretta
della pubblica amministrazione e la responsabilità dei suoi funzionari e dipendenti.
Con l’importante sentenza-pilota n. 500/1999 delle sezioni riunite della Corte di cassazione è
stato chiaramente affermato che il giudice dovrà effettuare una indagine estesa alla
valutazione della colpa, non del funzionario agente, (da riferire ai parametri della negligenza
o imperizia), ma della pubblica amministrazione intesa come apparato, che sarà configurabile
“nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del
danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona
amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il
giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”.
120
amministrativa nei confronti dell’ente per le conseguenze pecuniarie dell’inadempimento e
comunque non potrà mai costituire causa non imputabile all’ente pubblico della impossibilità
e del ritardo della prestazione ai fini dell’esclusione della responsabilità di esso.
La sentenza 500/1999 della Cassazione è quella di ritenere la responsabilità
dell’amministrazione per l’emanazione (o mancata emanazione) di un provvedimento
amministrativo di natura extracontrattuale: la responsabilità extracontrattuale, in genere, si
riferisce alle situazioni in cui non preesiste un rapporto particolare tra danneggiato e
danneggiante, con tutte le conseguenze che derivano dall’applicazione dell’art. 2043 c.c.,
anche in ordine all’elemento psicologico della fattispecie (occorre dolo o colpa
dell’amministrazione).
La responsabilità c.d. “da contratto amministrativo qualificato” è collegato alla violazione di
obblighi c.d. di protezione esistenti in capo all’amministrazione. La sussistenza di un contatto
tra amministrazione e privato comporta il sorgere di alcuni obblighi “senza prestazione” in
capo all’amministrazione, la cui violazione determina una responsabilità per alcuni versi
assoggettata al regime di cui all’art. 1218 c.c. quanto al riparto dell’onere della prova relativo
all’elemento psicologico (il danneggiato non deve provare la colpa del danneggiante; spetterà
all’amministrazione provare che l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile).
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