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SCRITTO NEL 1977. Un tempo l’università era di élite. Le lezioni erano prestigiose conferenze. Ancora oggi in molte università americane, un corso non supera mai i dieci o venti
studenti. Il tutor segue uno o due studenti l’anno nella tesi di ricerca. In Italia ciò non accade. L’università italiana è principalmente di massa. Certi corsi hanno migliaia di iscritti. Il
professore ne conosce bene o male una trentina che seguono con maggiore frequenza. Il libro vuole suggerire almeno due cose: Si può fare una tesi dignitosa malgrado ci si trovi in
una difficile situazione, che risente di discriminazioni remote o recenti; Si può usare l’occasione della tesi per ricuperare il senso positivo e progressivo dello studio, non inteso come
raccolta di nozioni ma come elaborazione critica di una esperienza, come acquisizione di una capacità ad individuare i problemi, ad affrontarli con metodo, ad esporli secondo certe
tecniche di comunicazione.
II.4. QUANTO TEMPO CI VUOLE PER FARE UNA TESI? Le tempistiche per la conclusione dell’elaborato di tesi, sono non più di tre anni e non
meno di sei mesi. Una tesi serve anzitutto per imparare a coordinare le idee, indipendentemente dal suo argomento. Una buona tesi deve essere discussa passo
per passo col relatore, nei limiti del possibile; scrivere una tesi è come scrivere un libro, è un esercizio di comunicazione che presume l’esistenza di un pubblico: il
relatore è l’unico campione di pubblico competente di cui dispone lo studente durante il corso del proprio lavoro. I requisiti per una buona ma breve tesi di laurea
sono: l’argomento deve essere circoscritto: l’argomento deve essere possibilmente contemporaneo.
II.5. È NECESSARIO CONOSCERE LE LINGUE STRANIERE? È auspicabile conoscere la lingua su cui si dà la tesi. Sarebbe anzi auspicabile che, se si dà
una tesi su un autore francese, la stessa tesi fosse scritta in francese. In molte università straniere si fa così. Molte volte una lingua la si impara iniziando a leggere
un libro, di cui la lingua a noi è sconosciuta ma per la nostra tesi è fondamentale leggerlo.
1) Non si può fare una tesi su un autore straniero se questo autore non viene letto in originale. Questo perché non sempre le opere di un autore vengono tradotte e talora
anche l’ignoranza di uno scritto minore può compromettere la comprensione del suo pensiero o della sua formazione intellettuale; le traduzioni non sempre rendono
giustizia al pensiero dell’autore, mentre fare una tesi significa riscoprire proprio il suo pensiero originale; fare una tesi vuol dire andare al di là delle formule diffuse dai
manualetti scolastici;
2) Non si può fare una tesi su un argomento se le opere più importanti di esso sono scritte in una lingua a noi sconosciuta;
3) Non si può fare una tesi su un autore o su un argomento leggendo solo le opere scritte nelle lingue che
conosciamo. Chi ci dice che l’opera decisiva non sia scritta nell’unica lingua che conosciamo?
Prima di stabilire l’argomento di una tesi bisogna avere l’accortezza di dare una prima occhiata alla bibliografia esistente per sincerarsi che non ci siano notevoli difficoltà linguistiche.
la soluzione più ragionevole è la tesi su un argomento specificamente italiano in cui rimandi a letteratura straniera siano eliminabili o risolvibili ricorrendo a pochi testi già stati
tradotti.
1) La ricerca verte su di un oggetto riconoscibile e definito in modo tale che sia riconoscibile anche dagli altri, il termine oggetto non ha necessariamente un significato fisico;
2) La ricerca deve dire su questo oggetto cose che non sono già state dette, oppure rivedere con un’ottica diversa
le cose che sono già state dette;
3) La ricerca deve essere utile agli altri. Un lavoro è scientifico se aggiunge qualcosa a quello che la comunità sapeva già e se tutti i lavori futuri sullo stesso argomento
dovranno, almeno in teoria, tenerne conto. Naturalmente l’importanza scientifica è commisurata al grado di indispensabilità che il contributo esibisce;
4) La ricerca deve fornire gli elementi per la verifica e per la falsifica delle ipotesi che presenta, e pertanto deve fornire gli elementi per una sua continuazione pubblica. Questo
è un requisito fondamentale.
II.6.2. ARGOMENTI STORICO-TEORICI O ESPERIENZE “CALDE”? È più utile fare una tesi di erudizione (argomenti storico-teorici) o una tesi legata a
esperienze pratiche, scelta è dettata dall’esperienza dello studente. l’esperienza di ricerca imposta da una tesi serve sempre per la nostra via futura e non tanto per il tema che si
sceglierà quanto per l’addestramento che esso impone, per la scuola di rigore, per la capacità di organizzazione del materiale che esso richiede.
Una tesi politica priva di requisiti scientifici è una “cattiva tesi”. Si potrebbe dire che è un autoinganno per lo studente, che crede di avere acquisito dei dati oggettivi mentre ha solo
confrontato in modo approssimativo le proprie opinioni. Perché in una tesi storica esistono dei metodi tradizionali di indagine a cui il ricercatore non si può sottrarre; perché molta
metodologia della ricerca sociale all’americana ha feticizzato i metodi statistico quantitativi, producendo enormi ricerche che non servono alla comprensione dei fenomeni reali e di
conseguenza molti giovani politicizzati professano un atteggiamento di diffidenza. Bisognerà rendere pubblicamente riconoscibile l’oggetto della ricerca. mettere in chiaro i criteri e
spiegare perché escludono certi fenomeni dal campo di indagine.
LIBRI
*1. Cognome e nome dell’autore (o degli autori, o curatore, con eventuali indicazioni su pseudonimi o false attribuzioni);
3. (“Collana”);
4. Numero dell’edizione (se ve ne sono molte);
*5. Luogo di edizione: se nel libro non c’è scrivere: s.l. (senza luogo);
*7. Data di edizione: se nel libro non c’è scrivere: s.d. (senza data);
ARTICOLI DI RIVISTE
*1. Cognome e nome dell’autore;
5. Mese e anno;
*3. “In”;
*7. Eventuale numero del volume dell’opera in cui si trova il saggio citato;
*8. Luogo, Editore, data, numero pagine come nel caso di libri di un solo autore.
I. IL PIANO DI LAVORO E LA SCHEDATURA
IV.1. L’INDICE COME IPOTESI DI LAVORO
Una delle prime cose da fare per cominciare a lavorare su una tesi di laurea è scrivere il titolo, l’introduzione e l’indice finale. In certi libri l’indice si trova all’inizio in
modo che il lettore possa farsi un’idea di quel che troverà scritto. piano di lavoro assumerà la forma di un indice provvisorio. Meglio se questo indice sarà un sommario,
dove per ogni capitolo tentare un breve riassunto. In secondo luogo, potrete proporre un progetto comprensibile al relatore. In terzo luogo, vi accorgerete se avete già
le idee chiare. Il piano di lavoro comprende il titolo, l’indice e l’introduzione. Un buon titolo è già un progetto. Si parli del titolo “segreto”, Dopo aver focalizzato l’area
tematica decidete di trattarne solo un punto specifico. La funzione di una introduzione fittizia, perché la rifarete molte volte prima di avere finito la tesi) è che essa vi
consente di fissare le vostre idee lungo una linea direttrice che non sarà cambiata se non a prezzo di una ristrutturazione cosciente dell’indice. si potranno controllare le
deviazioni e gli impulsi. Questa introduzione serve anche al vostro relatore per raccontare cosa vogliamo fare. Se non ce la fate a scrivere la prefazione, significa che non
avete ancora idee chiare su come partire. Se avete un’idea su come partire allora è perché sospettate dove arrivare. È sulla base di ciò, che bisogna scrivere l’introduzione.
È chiaro che introduzione e indice, saranno riscritti di continuo man mano che il lavoro procede. Indice e introduzione finale (quelli che appariranno sul dattiloscritto)
saranno diversi da quelli iniziali. E Se non fosse così, significherebbe che tutta la ricerca non ci ha dato nessuna idea nuova. Il fine dell’introduzione definitiva sarà aiutare
il lettore a penetrare nella tesi. Il fine di una buona introduzione definitiva è che il lettore si accontenti di questa, capisca tutto e non legga più il resto. L’introduzione
serve a definire anche quale sarà il centro e la periferia della tesi. Prima viene l’ispezione bibliografica, poi la costruzione dell’indice ipotesi. La scelta dipende dal tipo di
tesi. In una tesi storica potreste avere un piano cronologico. Ci può essere un piano spaziale oppure comparativo-contrastivo. In una tesi di carattere sperimentale avrete
un piano induttivo, in una tesi di carattere logico- matematico un piano di tipo deduttivo, prima la proposta della teoria, poi le sue possibili applicazioni a esempi concreti…
L’indice stabilisce già quale sarà la suddivisione logica della tesi in capitoli paragrafi e sottoparagrafi. Anche qui una buona suddivisione a disgiunzione binaria vi consente
di fare aggiunte senza alterare troppo l’ordine iniziale. Questa struttura può essere rappresentata da un diagramma ad albero. Una volta disposto l’indice come ipotesi
di lavoro dovrete procedere correlando sempre ai vari punti dell’indice le schede e gli altri tipi di documentazione. Queste correlazioni devono essere chiare sin dall’inizio
e bene esposte. Infatti, vi dovranno servire per organizzare i riferimenti interni. I riferimenti interni servono a non ripetere troppe volte le stesse cose ma servono anche
a mostrare la coesione dell’intera tesi. Una tesi ben organizzata dovrebbe abbondare di riferimenti interni. Un indice ipotesi ben costruito è la maglia numerata che vi
consente di operare i riferimenti interni senza andare ogni volta a controllare tra fogli e foglietti. Per rispecchiare la struttura logica della tesi, l’indice deve essere
articolato in capitoli, paragrafi e sottoparagrafi. Una suddivisione molto analitica serve alla comprensione logica del discorso. L’organizzazione logica deve essere
rispecchiata dall’indice. Ogni capitolo ha la sua suddivisione. Può anche essere che una suddivisione troppo minuta spezzi il filo del discorso. Ma bisogna tenere a mente,
che una suddivisione minuta aiuta a controllare la materia e a seguire il discorso. Un’ultima avvertenza: quando avete un “indice di ferro” allora potete permettervi di non
cominciare dall’inizio. Anzi di solito si comincia a stendere la parte su cui ci si sente più documentati e sicuri.
LA SOTTOLINEATURA PERSONALIZZA IL LIBRO: Segna le tracce del vostro interesse. Vi permette di ritornare a quel libro anche dopo molto tempo ritrovando a colpo
d’occhio quello che vi aveva interessato. Bisogna differenziare le sottolineature in alcuni casi. Assegnate a vari colori un argomento: gli stessi anche per il piano di lavoro
e per le schede. Associate ai colori una sigla. IMP vi dirà che si tratta di un brano molto importante. CIT potrà significare che è un brano da citare per intero. Siglate i
punti su cui tornare. Se il libro è vostro e non ha valore di antiquariato non esitate ad annotarlo. Non credete a coloro che dicono che i libri vanno rispettati. Tra tutti i
tipi di schede le più consuete, sono le schede di lettura: vale a dire le schede in cui annotate con precisione tutti i riferimenti bibliografici concernenti un libro o un
articolo. Potrete usare dei formati standard, ma in genere dovrebbe avere l’ampiezza di un foglio di quaderno in orizzontale o di mezzo foglio di carta da macchina. Le
schede di lettura, servono per la letteratura critica. Il metodo standard è il seguente:
a) Indicazioni bibliografiche precise, possibilmente più complete che quelle della schedina bibliografica; quella vi servirà per cercare il libro, la scheda di lettura vi
servirà per parlarne e per citarlo come si deve nella bibliografia finale;
b) Notizie sull’autore, quando non è autorità notissima;
c) Breve (o lungo) riassunto del libro o dell’articolo;
d) Ampie citazioni, tra virgolette, dei brani che presumete di dover citare, con indicazione precisa delle pagine;
e) Vostri commenti personali, alla fine, all’inizio, a metà del riassunto; per non rischiare poi di ritenerli opera
dell’autore, metterli tra parentesi quadre a colori;
f) Apponete in alto sulla scheda una sigla o un colore che la riferisca alla parte del piano di lavoro giusta; se si riferisce a più parti mettete molte sigle.
Umiltà scientifica: chiunque può insegnarci qualcosa, magari siamo noi che siamo così bravi che riusciamo a farci insegnare qualcosa da chi era meno bravo di noi. Le
ragioni sono tante. Il fatto è che bisogna ascoltare con rispetto chiunque.
I. LA STESURA
V.1. A CHI SI PARLA
A chi si parla scrivendo una tesi? Al relatore? A tutti gli studenti o studiosi che avranno occasione di consultarla in seguito? Al vostro pubblico dei non specializzati? La si
deve pensare come un libro, che andrà nelle mani di migliaia di persone, o come una comunicazione dotta a una accademia scientifica? Sono problemi importanti perché
riguardano la forma espositiva che darete al vostro lavoro ma riguardano anche il livello di chiarezza interna che volete raggiungere. Una tesi è un lavoro che per ragioni
occasionali è diretto solo al relatore o al correlatore, ma che di fatto presume di essere letto e consultato da molti altri, anche da studiosi non direttamente interessati a
quella disciplina.
V.3. LE CITAZIONI
V.3.1. QUANDO E COME SI CITA: DIECI REGOLE : Di solito in una tesi si citano molti testi altrui: il testo oggetto del vostro lavoro, ovvero la
fonte primaria. le citazioni sono di due tipi: (a) si cita un testo su cui poi ci si intrattiene interpretativamente e (b) si cita un testo a sostegno della propria
interpretazione. Diamo dieci regole per la citazione:
Regola 1 – I brani oggetto di analisi interpretativa vanno citati con ragionevole ampiezza;
Regola 2 – I testi della letteratura critica vanno citati solo quando con la loro autorità fortificano una nostra affermazione.
Queste due regole implicano alcuni ovvii corollari. Se il testo è importante ma troppo lungo meglio riportarlo per esteso in appendice e citare nel corso dei vostri
capitoli solo brevi periodi.
Regola 4 – Di ogni citazione devono essere chiaramente riconoscibili l’autore e la fonte stampa o manoscritta. Questo riconoscimento può avvenire in vari modi: Con
esponente e rinvio in nota; con nome dell’autore e data di pubblicazione dell’opera, tra parentesi dopo la citazione; con semplice parentesi che riporta il numero della
pagina quanto tutto il capitolo o tutta la tesi vertono sulla stessa opera dello stesso autore.
Regola 5 – Le citazioni di fonti primarie vanno fatte possibilmente riferendosi all’edizione critica o all’edizione più accreditata. Per autori contemporanei citare se vi
sono più edizioni, o dalla prima o dall’ultima riveduta e corretta, secondo i casi;
Regola 6 – Quando si studia un autore straniero le citazioni devono essere nella lingua originale. Questa regola è tassativa se si tratta di opere letterarie. In tali casi può
essere più o meno utile fare seguire tra parentesi o in nota la traduzione. Attenetevi per questo alle indicazioni del relatore;
Regola 8 – Quando una citazione non supera le due o tre righe si può inserire nel corpo del capoverso tra virgolette doppie, come faccio ora citando da Campbell e
Ballou i quali dicono che “le citazioni dirette che non superano le tre righe dattiloscritte vanno racchiuse tra le doppie virgolette e appaiono nel testo”. Quando la
citazione è più lunga occorre metterla a spazio semplice rientrato. In questo caso non sono necessarie le virgolette perché deve essere chiaro che tutti i brani rientrati a
spazio semplice sono citazioni. Questo metodo è molto comodo perché mette immediatamente sotto gli occhi i testi citati, consente di saltarli se la lettura è trasversale;
Regola 9 – Le citazioni devono essere fedeli. Primo, si deve trascrivere le parole così come sono. Secondo non si devono eliminare parti del testo senza segnarlo: tale
segnalazione di ellissi viene attuata mediante l’inserzione di tre puntini di sospensione in corrispondenza della parte tralasciata. Terzo, non si devono fare interpolazioni
e ogni nostro commento, chiarimento, specificazione, deve apparire in parentesi quadre o ad angolo. Anche le sottolineature che non sono dell’autore non devono
essere segnalate. Se l’autore che citate, incorre in un errore palese, di stile o di informazione, voi dovete rispettare il suo errore ma segnalarlo al lettore almeno tra
parentesi quadra di questo tipo: [sic];
Regola 10 – Citare è come portare testimonianze a un processo. Dovete essere sempre in grado di reperire i testimoni e di dimostrare che sono attendibili. Per questo il
riferimento deve essere esatto e puntuale e deve poter essere controllabile da tutti. E come si farà se un’informazione o un giudizio importanti ci vengono da una
comunicazione personale, da una lettera, da un manoscritto? Si può benissimo citare una frase mettendo in nota una di queste espressioni: Comunicazione personale
dell’autore (data); lettera personale dell’autore (data), ecc.
CONCLUSIONI
Fare una tesi significa divertirsi e la tesi è come il maiale, non se ne butta via niente. L’importante è fare la tesi con gusto. E se avrete scelto un argomento che vi interessa,
vi accorgerete allora che la tesi può essere vista come un gioco, come una scommessa, come una caccia al testo, anche breve periodo.
I. Due nozioni differenti di “civiltà”. Nel primo caso, civiltà significa l’insieme delle caratteristiche che la vita collettiva di un gruppo umano presenta agli sguardi di un
osservatore, sia sotto l’aspetto materiale sia sotto quello intellettuale. È stato proposto di chiamare “etnografica” questa concezione della civiltà. Nel secondo
caso, quando parliamo dei progressi e delle lacune, abbiamo in mente un giudizio di valore. Pensiamo che la civiltà sia qualcosa di grande e di bello in sé. Il
termine “civilisation” è recente. Andrea Luigi Mazzini, nella rima pagina del suo libro De l’Italie dans ses rapports avec la liberté et la civilisation moderne,
pubblicato nel 1847, scrive: “Questa parola fu creata in Francia, dallo spirito francese dell’ultimo secolo”. L’opera di Gohin menziona, alla parola civilisation, una
data di nascita: verso il 1752, e d’una citazione: Turgot, II, 674. si tratta dell’edizione Schelle, di Daire e Dussard, i cui due volumi, pubblicati in base all’edizione di
Dupont de Nemours, uscirono nel 1844 nella Collection des principaux économistes. la parola non è di Turgot, ma di Dupont de Nemours. Solo nel 1766 abbiamo
trovato stampato il termine che ci interessa. Appare in due formati, L’Antiquité dévoilée par ses usages del defunto Boulanger. L’Antiquité dévoilée è un’opera
postuma: era morto nel 1759. La parola risalirebbe a quella data. Il termine non rimase ignorato e fra il 1765 e il ’75 conquistò il suo diritto di cittadinanza. Nel 1798,
forza le porte del Dictionnaire dell’Académie Francaise che aveva ignorato. fra il 1765 e il 1798 è nato, si è sviluppato, si è imposto in Francia. Boswell racconta
che il 23 marzo del 1772 era andato a trovare il vecchio Johnson, che stava lavorando alla quarta edizione del suo dizionario: “Johnson non vuole ammettervi
civilization, ma soltanto civility”. Nel 1771 usciva ad Amsterdam la traduzione francese della Histroy of Reign of the Empor Charles V di Robertson.
II. tanto l’uso inglese quanto quello francese pongono un nuovo problema. il verbo “civiliser” (“to civilize”) ed il participio “civilisé” (“civilized”) appaiono, molto
prima del sostantivo corrispondente. “Civilité” era una parola molto vecchia: compare in Godefroy, con “civil” e “civilien”, sotto un testo di Nicolas Oresme che
riunisce insieme “police”, “civilité” e “communité”. Mentre, “civil” conserva un significato politico e giuridico accanto a quello umano, “civilité” evoca soltanto
idee di cortesia. La “politesse” aggiunge alla civiltà quello che la devozione aggiunge all’esercizio del pubblico culto. “Police”: la parola introduceva nella sfera del
diritto, dell’amministrazione del governo. Delamare, insisteva sul significato della parola. scrive “Ordinariamente e in senso più limitato, police è preso per
l’ordine pubblico di ogni città è inteso solo in quest’ultimo senso”. “police”, si vedeva attribuire un significato sempre più ristretto e pedestre. Per vincere la
resistenza, per esprimere il concetto nuovo che da quel momento si forma negli spiriti, per dare “civilisé” una forza ed un’ampiezza nuove, per farne qualcosa di
diverso da un surrogato di “civil”, di “poli” e in parte perfino di “policé”, sarà necessaria una parola nuova.
III. “Civilisation” nasce nel momento in cui si compie lo sforzo dell’Encyclopédie cominciato nel 1751. nasce quando comincia a sprigionarsi dall’insieme
dell’Encyclopédie la grande idea della scienza razionale e sperimentale, sia ch’essa conquisti la natura, sia che riduca in categorie le società umane e la loro infinita
varietà, sulle orme di Montesquieu.
IV. Nel 1819 a Lione esce un libro: Le Vieillard et le Jeune Homme, un libro di Ballanche, pieno di cose e di idee. scrive: “La schiavitù più non esiste fuorché nei residui
delle antiche civiltà (civilisations)”. mostra come nel Medioevo le religioni abbiano raccolto “l’eredità di tutte le civiltà precedenti”. si trova all’inizio del tomo V
degli Elémens d’historie naturelle et de chimie, Fourcroy parla delle classificazioni fondate per comodità sulle differenze di forma che presentano fra loro gli
animali, e osserva che questi tipi di classificazioni non esistono in natura. Nell’anno XII (1804) scrive l’introduzione al Dictionaire des scienzes naturelles di
Levrault. dieci anni dopo, scrive: “Celebri naturalisti negano la possibilità di formare questa catena e sostengono che non esiste una serie di questo tipo in natura,
che essa ha creato soltanto gruppi separati gli uni dagli altri. È l’inizio delle scienze naturali, di quel lungo processo di specializzazione, di quella grande messa a
punto relativistica delle idee universali del corso del XVIII secolo che sta avvenendo nel campo della storia, dell’etnografia e della linguistica. Uno storico non può
trascurare di dire quanto gli avvenimenti politici e la Rivoluzione abbiano aiutato quest’evoluzione. il termine “civilisation” trionfò e conquisto il suo posto negli
anni di tormenta e di speranze vissuti dalla Francia, e insieme alla Francia dall’Europa, dal 1789 in poi. Gli uomini che vissero la Rivoluzione e l’Impero impararono
che una civiltà poteva morire.
V. In un’età di costruzione e di ricostituzione, quale fu la Restaurazione, si videro sbocciare teorie sulla civiltà. Nel 1827 escono tradotte e precedute da
un’introduzione di Edgar Quinet le già vecchie Idee sulla filosofia della storia dell’Umanità di Herder. si stampano a Parigi i Principes de la philosophie de
l’histoire, tradotti dalla Scienza Nuova di Giambattista Vico. Nel 1833 Jouffroy riunisce nei suoi Mélanges philosophiques numerosi articoli del 1826 e del ’27, che
trattano della civiltà. Guizot scriveva: “la storia dell’uomo dev’essere considerata soltanto come una collezione di materiali ammassati per la grande storia della
civiltà del genere umano”. nel 1828 riprende possesso della sua Cattedra alla Sorbona, è noto quale fu l’argomento dei suoi corsi: nel ’28 De la civilisation en
Europe e nel ’29 De la civilisation en France. stabiliva che la civiltà è un fatto, “un fatto come un altro”. sceglie come campo delle sue indagini la nazione o il
popolo. parla di civiltà europea. accoglie il punto di vista di Jouffroy: a ogni popolo la sua civiltà. aggiungerà “L’idea di progresso di sviluppo mi pare l’idea
fondamentale contenuta dal termine civilisation”. Esistono più civiltà bisogna studiarle, analizzarle, selezionarle. Guizot asseriva che la civiltà risulta da due
elementi: da un certo sviluppo dello stato sociale e da un certo sviluppo dello stato intellettuale. Da una parte, c’è lo sviluppo delle condizioni esterne e generali;
dall’altra, lo sviluppo della natura interiore e personale dell’uomo. C’era solo un paese la Francia, dove l’uomo non aveva mai mancato di grandezza individuale,
né la sua grandezza intellettuale era rimasta priva di conseguenze e di utilità pubbliche.
VI. Guizot provava inquietudine: nota che in altri tempi, “nelle scienze che si occupano del mondo materiale”, i fatti erano studiati male e poco rispettati; “ci si
abbandonava al fervore delle ipotesi, ci si arricchiva senz’altra guida fuor che il filo delle deduzioni”. Da un secolo è avvenuto un capovolgimento: da una parte, i
fatti non tennero mai tanto posto nella scienza; dall’altra, mai le idee non tennero nella storia un così grande posto. quando scopre le leggi generali che
presiedono allo sviluppo e alla vita del mondo, queste leggi non sono se non fatti che lui constata. Tale è la missione dell’uomo: come spettatore è soggetto ai fatti,
come attore resta padrone di imprimere loro una forma più regolare e più pura.
Dal 1892 al 1933: esame di coscienza di una storia e di uno storico (pag. 69-83)
1892: alla morte di Alfred Maury, il Collège de France sopprime, la cattedra di storia generale e di metodo storico applicato.
1933, quarant’anni dopo: il Collège de France ottiene l’istituzione di una cattedra di storia generale e di metodo storico applicato ai tempi moderni. 1892,
1933, due date, un problema.
I.
Nel 1892, la storia, aveva giocato e vinto la sua partita. Era presente nei licei, popolati di laureati in storia, nelle università, fornite di cattedre di
storia. Fiera e potente si mostrava sicura. gli storici fanno di solito la storia senza meditare sui limiti e sulle condizioni della storia. la storia era
la storia…E se ci si dava la briga di definirla, lo si faceva, molto stranamente, per mezzo del suo materiale, non del suo oggetto. Nasceva una
geografia umana, che attirava l’attenzione de giovani, presto conquistati da studi reali e concreti: “La storia si fa con i testi”. La storia sta nello
stabilire i fatti, e poi metterli in opera. Ed era vero, ma solo all’ingrosso, e soprattutto se la storia era intessuta, unicamente o quasi, di
avvenimenti. quando i documenti abbondano, l’uomo abbrevia, semplifica, mette l’accento su questo, passa la spugna su quello. Soprattutto
per il fatto che lo storico crea i suoi materiali, o, se si vuole, li ricrea: lo storico non si muove vagando a caso attraverso il passato, ma parte con
un disegno preciso in testa, con un problema da risolvere, un’ipotesi di lavoro da verificare. L’essenziale del suo lavoro consiste nel creare, per
così dire, i soggetti della sua osservazione, con l’aiuto di tecniche spesso assai complicate. Elaborare un fatto significa costruirlo. La storia, È un
“metodo”: un metodo che sta per diventare, nel campo delle scienze umane, il metodo quasi universale.
II.
Storia, scienza dell’uomo, scienza del passato umano; e non scienza delle cose o dei concetti. Non esiste storia se non dell’uomo, e storia nel senso più lato. Storia,
scienza dell’uomo; e in tal caso, i fatti, sì, ma fatti umani. Compito dello storico: ritrovare gli uomini che li vissero, e coloro che più tardi, in ognuno di loro, si sono installati,
con tutte le loro idee, per interpretarli. I testi, sì: ma si tratta di testi umani. E tutte hanno la loro storia, suonano differenti secondo le diverse età, e, pur quando
designano oggetti materiali, raramente significano realtà identiche, qualità eguali o equivalenti. Anche i documenti, qualunque sia la loro natura; quelli che vengono
utilizzati da lungo tempo; quelli, soprattutto, che sono procuratori dallo sforzo fortunato di nuove discipline: la statistica, la demografia, la linguistica, la psicologia, ecc.
Stringere nuovi legami fra discipline prossime o lontane; concentrare sullo stesso tema il fascio di luce di scienze eterogenee: ecco il compito primo e fondamentale, il
più urgente, senza dubbio, è il più fecondo di tutti quelli che si impongono a una storia insofferente di frontiere e ripartizioni. Da una sezione filologica, la filologia
comparata, si è venuta formando una nuova scienza: la linguistica. si dedicò quasi soltanto a questa. Un’evoluzione che indubbiamente rappresenta l’anticipazione
approssimata e lontana di quella che compirà un giorno la storia. L’uomo non si ricorda del passato, lo ricostruisce sempre. Muove dal presente; e solo attraverso il
presente, sempre, conosce, interpreta il passato. Nel libro che il Collège de France ha pubblicato per il proprio giubileo, in occasione del suo quarto centenario, troviamo
riprodotto a cura di Paul Hazard un documento commovente. Si tratta di una pagina di appunti autografi di Michelet, appunti stesi con la sua fine scrittura sulla carta,
prima di una delle sue ultime lezioni in questa sede. Ecco quel che si legge: “Non appartengo a nessun partito…Perché? Perché nella storia ho visto solo la storia: nulla
più…”; “Non appartengo a nessuna scuola…Perché? Perché non ho esagerato l’importanza delle formule, perché non ho voluto asservire alcuno spirito: al contrario,
liberarli, dar loro la forza viva che permette di giudicare e trovare”.
I.
Qual è l’oggetto dello studio di uno storico? L’opinione comune risponde: da una parte, i movimenti confusi di masse umane analoghe, destinate in qualche modo ai
grossi lavori della storia; dall’altra emerge su questo grigiore l’azione dirigente di un certo numero di individui qualificati “personaggi storici”. Epoche intere non ci hanno
lasciato di loro alcuna testimonianza diretta e particolareggiata. i rapporti fra psicologia e storia si stabiliscono, agli occhi dell’opinione comune. Gli individui distinti, i
personaggi storici, essi apparterranno naturalmente alla psicologia individuale. Le conclusioni che gli psicologi possono trarre dallo studio dei casi umani che hanno
sotto i loro occhi, permetteranno agli storici d’interpretare meglio, di meglio comprendere la condotta e l’azione dei “dirigenti” della società passate, degli autentici della
storia umana. Che cos’è una grande opera storica? Un insieme di fatti raccolti, raggruppati, organizzati dagli storici, in modo tale da costituire un anello di quelle grandi
catene di fatti omogenei e distinti di cui gettiamo la rete, più o meno fitta, sul passato storico dell’umanità. Il linguaggio: il mezzo d’azione più potente una tecnica
lentamente elaborata dall’umanità. L’individuo non è mai altro che quello che la sua epoca ed il suo ambiente sociale gli consentono di essere. La società per l’uomo è
una necessità, una realtà organica. Per riprendere l’espressione del dottor Henri Wallon, il solo “Linguaggio implica la società, come i polmoni di una specie area
implicano l’esistenza dell’atmosfera”.
II.
lo psicologo dovrà dedicarsi alla ricerca di quello che l’uomo deve al suo ambiente sociale: psicologia collettiva. Poi, domandarsi che cosa l’uomo debba al suo organismo
specifico: psicologia specifica o psico-fisiologica. Infine studiare quello che quest’essere umano deve alle particolarità individuali della sua fisiologia, agli accidenti della
sua vita sociale: psicologia differenziale. né la psicologia dei nostri psicologi contemporanei può aver corso nel passato, né la psicologia dei nostri progenitori può avere
un’applicazione globale per gli uomini d’oggi: sia che si tratti degli eroi della storia, dei personaggi storici, sia che si tratti delle masse anonime di cui non ci si è quasi
curati di analizzare psicologicamente gli elementi, né di caratterizzarne globalmente le reazioni. È impossibile studiare la vita, i costumi, i modi di essere e d’agire degli
uomini del Medioevo, è impossibile leggere nei testi autentici, racconti sui principi, relazioni di feste, di processioni, di esecuzioni giudiziarie, sermoni popolari, ecc.,
senz’essere colpiti dalla singolare mobilità d’umore. Vi è un netto contrasto, delle condizioni di vita, tra oggi e il Medioevo o Cinquecento. Un tempo vivevano una vita
scandita, ritmata quotidianamente dalla successione delle tenebre e della luce; una vita divisa in due parti nette: il giorno e la notte; il bianco e il nero; il silenzio assoluto
e il lavoro rumoroso. È possibile credere che tutto ciò ha potuto suscitare negli uomini abitudini mentali diverse rispetto ad oggi. Non meno evidente è il fatto che una
vera psicologia storica non sarà resa impossibile che dall’accordo, stretto chiaramente, tra lo psicologo e lo storico. Lavoro collettivo per parlare chiaro. Immenso è il
lavoro per gli storici, se essi intendono procurare agli psicologi i materiali di cui questi hanno bisogno per elaborare una valida psicologia storica. Tecniche? È necessario
l’aiuto di un’archeologia che estenda il proprio dominio su età molto più vicine a noi. È necessario, l’aiuto efficace di un’etnologia che non limiti ai soli primitivi i suoi
sforzi d’inventari, ma tratti popolazioni a noi più vicine e assai più ricche di risorse civili. Occorre anche la collaborazione dei filologi, capaci di formare quegl’inventari di
linguaggi che non sono fatti per gli storici. E occorre anche la collaborazione di quei “semantologi” che, restituendoci la storia di parole particolarmente gravide di
significato, scrivono contemporaneamente capitoli esatti di storia delle idee.
II.
Michelet, nella sua lezione del 1834, diceva ai suoi allievi: “Nella storia le cose vanno come nel romanzo di Sterne: quel che si faceva nel salotto si faceva
anche nella cucina. Proprio come due orologi simpatetici, l’uno dei quali, a duecento leghe, segni l’ora, mentre l’altro suona”. In quel tempo vivevano, senza
paura e senza grandi sforzi, su nozioni elaborate lentamente e progressivamente nel corso del tempo, si era costituito col nome di “fisica” un blocco di
conoscenze frammentarie, considerate originariamente autonome e distinte. La meccanica era più complessa, in quanto scienza del movimento del corpo
percepito dalla vista e dal senso muscolare, che combinava dati sensori di diversa origine. nel campo della vita si effettuava un’analoga rivoluzione, una
rivoluzione provocata dalla microbiologia: la nozione di organismi composti da un numero immenso di cellule dell’ordine di grandezza di un millimetro
scaturiva a poco a poco dall’osservazione. Quello che accadeva a livello cellulare smentiva continuamente quel che accadeva al livello delle nostre percezioni
sensorie. Occorreva sostituire alle vecchie teorie, teorie nuove. Storia, scienza dell’uomo: non dimentichiamolo mai. Scienza del perpetuo cambiamento
delle società umane, del loro perpetuo e necessario adeguarsi a nuove condizioni d’esistenza materiale, politica, morale, religiosa, intellettuale. In tal modo la
storia ritrova la vita. In tal modo cessa di essere una signora di schiavitù, di perseguire quel sogno mortale, di imporre ai vivi la legge che si pretende sia stata
dettata dai morti di ieri. Agli storici manca il pensiero, La storia è uguale a ogni altra disciplina. Ha bisogno di buoni operai e di buoni capomastri, Ha bisogno
anche di alcuni buoni ingegneri.
La Historie diplomatique de l’Europe (1871-1914), di Henri Hauser non cade direttamente sotto la giurisdizione di una rivista come la nostra. Henri Hauser si è
personalmente guardato dal dimenticare che una nuova diplomazia sostituisce progressivamente “la politica delle Corti e dei gabinetti”, e che essa è spinta
ad accordare un posto sempre maggiore ai movimenti di opinione pubblica come agli interessi dei gruppi. Sulla copertina dei due volumi di storia
diplomatica, si legge questa formula: “manuale di politica europea”. Essa rivela immediatamente un certo orientamento, manifesta una certa concezione,
legittima, se si vuole, ma un po' speciale. Quella stessa che è stata rappresentata in Francia da certi libri ben noti, pubblicati sotto la rubrica “Manuali storici
di politica straniera”, Più ci si addentra nel passato, dei moderni Stati europei, più lo storico si trova spinto ad attribuire importanza ai fattori personali delle
diverse politiche, presentate sempre dai testi come dirette da sovrani più o meno assoluti, o da ministri più assoluti ancora dei loro padroni.
II.
Quindici anni dopo. Nella piccola collezione di Armand Colin esce un libro. La paix armée (1871-1914). si pone agli antipodi di quello che, costituisce un buon
libro di storia contemporanea. La diplomazia non è il soggetto. E i diplomatici non sono gli epiteti del soggetto. Il soggetto è il mondo dal 1871 al 1914. Il
mondo, con le sue scoperte, i suoi successi, le sue passioni. La diplomazia, è soltanto uno dei mezzi, fra tanti altri, adoperati da questo mondo selvaggio,
sgretolato, veemente, appassionato.
2. Man and Nature - “La lezione dei paesaggi antichi” (pag. 29-60)
il principio della tutela dei paesaggi e del patrimonio storico, artistico e culturale si è venuto insediando in un numero crescente di Costituzioni. è forte in alcuni Paesi,
come gli Stati Uniti d’America, in cui l’occupazione intensiva del territorio, è un fatto recente. il paesaggio assunse il ruolo di elemento identitario della nazione
americana. In Italia, il paesaggio, plasmato dall’uomo nei secoli, è un paesaggio storicizzato, in piena continuità con quello dei quadri e affreschi, e con quello descritto
ed evocato da pittori e poeti non solo italiani, e perciò esso stesso pittorico. Lo stesso accade in tutta Europa, dove i paesaggi naturali (per esempio le Alpi) possono
assumere un ruolo identitario, che tuttavia appare quasi sempre meno insistito di quello dei monumenti storici. Tra l’opposizione natura e cultura, il primo ci appare
comunque dominante, anche nei paesaggi più fortemente forgiati dalla millenaria presenza umana; mentre le architetture emergono come innesti culturali in un
contesto naturale. Le architetture e le città sono la tana dell’animale Homo sapiens, e sono esse stesse un dato di natura prima che di cultura. Incidono sul paesaggio e
sull’ambiente. La riflessione sul rapporto fra l’uomo e la natura è alla base del discorso ecologico, ma anche del conservationism americano. la figura di George Perkins
Marsh, Man and Nature (1864), fa da ponte fra America ed Europa. Scrisse il suo libro in Italia e lo volle tradotto in italiano (L’uomo e la natura, 1870). descrive gli
enormi danni provocati dall’uomo alla natura: la desertificazione prodotta dalle deforestazioni, e indica il paesaggio mediterraneo all’epoca dell’Impero romano come
lo scenario da cui ricavare una lezione per il presente. Al gigantesco movimento di occupazione delle terre in America corrisponde, in Europa, la crescente
industrializzazione, nel Regno Unito e in Germania. In Inghilterra reagì un precoce movimento protezionistico, da cui sorsero nella seconda metà dell’Ottocento una
ventina di associazioni impegnate nella difesa della natura, fino al National Trust fondato nel 1895. John Ruskin elaborò la sua concezione del paesaggio come fonte di
una forte lezione morale per il singolo e la collettività dei cittadini, anzi come luogo-chiave della responsabilità sociale. Secondo Marsh: “La terra è stata data all’uomo in
semplice usufrutto, non per essere consumata, ancor meno per essere devastata; la conservazione è un dovere che dobbiamo a coloro che verranno dopo di noi”. Famosa
conferenza dello storico Lynn White jr, tenuta a Washington nel dicembre 1966. Secondo White, la crisi ecologica risale alle nostre convinzioni sulla natura e sul nostro
destino, cioè dipende dalla religione. Per lui, la concezione europea del rapporto fra uomo e natura fu determinata dalla convergenza di due visioni del mondo: la
concezione antropocentrica del cristianesimo occidentale e la fede baconiana che la conoscenza scientifica significa dominio tecnologico della natura. opposizione
natura/cultura, che condanna ogni intervento umano, è troppo semplicistica per essere presa sul serio, colloca l’uomo al di fuori della natura e non al suo interno. un
forte senso del paesaggio. L’autore è Platone, in un dialogo famoso (il Fedro), il protagonista è Socrate, che si reca sulla riva dell’Ilisso, un fiume vicino ad Atene. Lo spazio
naturale è anche uno spazio sacro, e anche per questo fonte di ispirazione per il filosofo. Socrate dice [230d]: “A me, che amo imparare, la campagna e gli alberi non
vogliono insegnare nulla; è quel che vogliono, invece, gli uomini della città”. Nelle Leggi (III, 677° sgg.), mentre un Ateniese dialoga con il Cretese Clinia sulle forme di
governo, si aggiunge che il mondo degli uomini è stato travolto più volte da numerosi cataclismi, pestilenze e altro ancora, in modo che ogni volta solo pochi fossero i
sopravvissuti, e per giunta inesperti di ogni arte. Il timore di una catastrofe naturale sempre possibile e l’ansia di perdere il proprio patrimonio culturale, dovendolo poi
recuperare con immensa fatica, sono dunque una cosa sola. Se volessimo tentare, seguendo Man and Nature, un breve assaggio nell’età romana, vedremmo che lo
scenario si fa più vasto e più complesso. Conosciamo qualche esempio di pittura di paesaggio, che risale ad una tradizione greco-ellenistica. Come risulta da un passo di
Vitruvio (De architectura, VII, v, 2), i viaggi di Ulisse costituivano un vero e proprio genere, Ulixi errationes per topia: una serie di affreschi con questo tema emerse a
Roma, sull’Esquilino, nel 1848 ed è ora ai Musei Vaticani. coprivano le pareti delle case, portavano la lontana campagna nel cuore della città, riconducendo le due
principali dimensioni del vivere. La tipologia del paesaggio “idillico-sacrale” è diffusissima nella decorazione a fresco delle case romane. L’Architettura è protagonista
della pittura romana di paesaggio. La polarità architetture/paesaggio è una costante della decorazione pittorica delle case romane. La letteratura latina conserva
numerosissime testimonianze della forte opposizione fra il paesaggio incolto (saltus) e il campo coltivato (ager), e la trasformazione in suoli agricoli fu vista come
civilizzatrice, per esempio nel grandioso poema di Lucrezio Sulla natura. Due aspetti della civiltà romana, infine, meritano di essere ricordati. Il primo è il gigante sforzo di
controllo del territorio, anche mediante la creazione di catasti e di piante dettagliate, fra le quali emerge l’enorme e accurata Forma Urbis Romae, realizzata fra il 203 e
il 211 d.C. Si componeva di 150 lastre rettangolari di marmo. Il secondo aspetto della civiltà romana che va qui richiamato è la centralità del diritto nell’organizzazione
della società e nella fissazione di norme di convivenza. Durante l’impero di Adriano (117-138 d.C.), nella parte settentrionale del monte Libano, che apparteneva alla
provincia romana di Siria, l’amministrazione imperiale volle normare l’uso delle foreste, spietatamente sfruttate per il legname da costruzione, e provvide a una definito
silvarum (perimetrazione dei boschi). Queste iscrizioni forestali, che arrivano fino ad un’altitudine di 2000 m, sono un caso finora unico.