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Ancor prima della nascita di Jeff Buckley, il padre Tim abbandonò la moglie
per trasferirsi a New York in cerca di fortuna. Eppure, sebbene Jeff non
passerà che alcuni brevissimi momenti con il padre Tim, la presenza-assenza
del padre segnerà costantemente la vita di Jeff nel bene e nel male.
Tim Buckley, infatti, è considerato da buona parte della critica uno dei
cantautori più geniali e innovativi dell'intera storia del folk-rock, nonché una
delle voci più struggenti della sua epoca.
https://www.youtube.com/watch?v=E0ASus_goAM
MORNING GLORY
https://www.youtube.com/watch?v=vMTEtDBHGY4
A due anni Jeff inizia a frequentare la scuola Montessori di Anaheim, cosa
che non fece che incoraggiare la sua già precoce ricettività. Nelle scuola
Montessori si adotta un metodo di insegnamento che mette in secondo piano
strumenti tradizionali come prove, compiti e voti. Il metodo Montessori
incoraggia l’indipendenza e la libertà di pensiero e d’espressione.
L’esperienza alla Montessori incoraggiò lo sviluppo del piccolo in un modo
del tutto inaspettato: segnò la nascita di Jeff l’imitatore (o jukebox umano
come lui stesso si definiva). Jeff inizia a imitare tutto e tutti: la sua
insegnante dello Sri Lanka con accento molto marcato, impara tutte le
canzoni che ascolta in tv o alla radio in qualsiasi lingua e piano piano si
incammina anche verso la musica e nel frattempo la vita familiare dei
Buckley inizia a trovare una sua stabilità.
Mary infatti conosce Ron Moorhead, l’uomo che Jeff Buckley definirà per
tutta la sua vita il suo vero padre. Ron era un semplice meccanico ma era
ossessionato dalla musica, era un manico dei dischi, con un amore sviscerato
per i Led Zeppelin. Nel 1969 Ron e Mary si sposano e inizia per Tim un
periodo piuttosto sereno.
Mentre il padre biologico Tim Buckley era nel bel mezzo della sua evoluzione
creativa e personale (nel 1970 aveva inciso ben 3 dischi e sposato Judy
Sutcliffe, già madre di un figlio di 7 anni), Jeff, che in realtà in casa tutti
chiamavano Scotty, stava scoprendo il proprio estro musicale. Ron aveva
fatto conoscere al figlio adottivo Crosby, Stills & Nash, Cat Stevens ma sopra
ogni cosa lo aveva iniziato alla venerazione dei Led Zeppelin e del loro rock
blues. I led Zeppelin furono una grande influenza per l’attitudine musicale di
Jeff: le esplosioni sono re di molti momenti dell’album Grace sono un vero e
proprio tributo al gruppo inglese. Jeff parlava dei componenti dei Led
Zeppelin con un fervore quasi religioso: in particolare modo di Jimmy Page e
John Bonham. Jeff racconta in un’intervista che il primo disco che avesse mai
posseduto era un vinile di PHYSICAL GRAFFITI, la pietra miliare del gruppo
uscita nel 1975 e che gli era stato regalato da Ron. Ma il patrigno di Jeff
contribuì a far virare il figlio anche verso una direzione più pop. Jeff a soli 10
anni aveva imparato a memoria quasi tutte le canzoni di Elton John, ma
anche le ore trascorse nel sedile posteriore della macchina di famiglia quando
guidava la madre furono fondamentali per il bambino. Jeff e Mary cantavano
tutte le hit radiofoniche del momento, Joni Mitchell, Stevie Wonder, e Jeff
riusciva a memorizzarle dopo il primo ascolto.
ONCE I WAS
https://www.youtube.com/watch?v=vMTEtDBHGY4
La svolta nella vita musicale di Jeff arriva a sei anni, quando prende in mano
per la prima volta la chitarra della nonna, comprata probabilmente nella
speranza che qualcuno dei suoi figli imparasse a suonarla e arrivata per caso
nelle mani del nipotino. Jeff si sente subito a suo agio tentando di seguire le
canzoni alla radio. Ha trovato il suo strumento.
La via di fuga che gli offriva la musica si rivelò fondamentale soprattutto nel
1973, quando la madre di Jeff e il suo patrigno decisero di separarsi.
Ron, l’uomo che Jeff riteneva il suo vero padre, era ora fuori dalla sua vita.
Ma contemporaneamente il primo marito di Mary, o al meno la sua musica,
non era mai troppo lontana. Poiché il manager di Tim Buckley era sempre
regolarmente in contatto con Mary e le spediva regolarmente i dischi di Tim
informandosi spesso sulle inclinazioni artistiche del giovane Jeff. Finché nel
1975 non molto tempo dopo l’uscita dell’album LOOK AT THE FOOL, Mary
telefonò speranzosa a Tim chiedendogli se potesse portare il figlio al concerto
al Golden Bear. È possibile che Mary stesse accarezzando l’idea di un
riconciliazione con Tim, ma le cose andarono diversamente.
La riconciliazione avvenne ma solo tra Jeff e Tim. Mary, infatti, portò Jeff
ad una delle date del tour del padre a Huntington Beach in California e il
bambino rimase folgorato dalla performance del padre. Subito dopo il
concerto fu invitato a unirsi al padre nel backstage e con innocente
entusiasmo lo riempie di domande e gli racconta tutto di lui. Tim è
commosso e si rende conto di voler recuperare il tempo perduto con il figlio.
Lui e sua moglie Judy chiedono a Mary il permesso di tenere Jeff con loro per
una settimana a Santa Monica. Jeff in realtà passerà poco tempo con il padre
in quei 6 giorni, impegnato in quel periodo a fronteggiare le pressioni
dell’etichetta discografica, ma legherò molto con Judy e con suo figlio. Dopo
soli 3 mesi, il 29 giugno, il giorno dopo un concerto a Dallas, Tim sniffò una
dose eccessiva di eroina con un amico, tornò a casa e morì di overdose nel
sonno, a 28 anni. Quando Mary dà la notizia al piccolo Jeff lui risponderà
“beh, credo che ora tornerà tutto come prima”.
In realtà Jeff era tormentato dalla morte del padre e ne rimase ovviamente
segnato per il resto della vita e di certo non aiuto il fatto che lui e Mary non
fossero menzionati nell’annuncio mortuario e che non fossero stati invitati al
funerale. Sicuramente non seguire le orme di suo padre avrebbe potuto
costituire una possibile soluzione del dilemma interiore di Jeff, ma il bisogno
di esprimersi attraverso la musica era marchiato nel suo DNA e decise così di
portare avanti la sua educazione musicale. Il primo passo della sua catarsi
musicale fu quello di innamorarsi dell’arena rock e di certo non avrebbe
potuto scegliere genere più lontano dal crossover intellettuale e
filosoficamente sperimentale che era la musica di Tim: quindi non solo Who
e Led Zeppelin, ma anche gli Yes e i Queen.
Anche i gruppi prog-rock avevano un forte appeal sul giovane Buckley. Jeff
era un grande fan dei Genesis di Peter Gabriel e dei King Crimson. Di fatto
sia il prode che l’arena sono una facile scappatoia dalla gioventù Disneyland-
nazi di Anaheim, che getta nella disperazione totale l’adolescente Jeff.
D’altra parte l’unica cosa che desiderava Jeff era imparare quando più
possibile musicalmente parlando e fu così che nel 1984 grazie ai soldi che
Mary riuscì a scucire da un fondo a nome di Tim, Buckley si iscrisse al
Musician’s Institute di Los Angeles, originariamente conosciuto come il
Guitar Insitute, un vero e proprio paradiso per aspiranti chitarristi,
soprattutto jazz, che avevano modo di studiare e improvvisare con veri
mostri sacri come Scott Henderson. Jeff per la prima volta non si sente un
pesce fuor d’acqua, e questo migliora anche la sua socialità: passa la maggior
parte dei tempo con un gruppo molto ristretto di amici, che comprendeva
Tom Chang, Randall Stoll e il bassista Tony Maya, tutti canadesi. Jeff viveva
letteralmente nelle aule dell’Istituto e seguiva quante più lezioni poteva, ma
erano i laboratori live uno dei punti di forza della scuola. Il jazz e la fusion
erano all’epoca le ossessioni di Jeff. Tuttavia in questo periodo Buckley è
ancora molto timido sopratutto quando si trattava di esibirsi sui palchi di
prova della scuola che davano la possibilità di simulare ciò che accadeva
durante le performance vere e proprie. Per vincere la sua timidezza Jeff
sfrutta le sue abilità di comico e imitatore, alternando così momenti di
isolamento estremo, chino su una trascrizione di un assolo difficilissimo a
veri e propri show comici improvvisati. Un altro aspetto contraddittorio di
Jeff studente era che mentre non aveva nessuna esitazione a riprodurre con la
voce la sezione ritmica di una canzone - perfettamente intonata - non cantava
mai. Quando diventò la voce forse più bella della generazione alt-rock, i suoi
compagni di studi stentarono a credere che si trattasse della stessa persona.
Nel 1985 dopo aver studiato qualsiasi stile e trascritto parti per qualsiasi
strumento, Jeff si esibisce nel suo saggio finale di diploma eseguendo un
brano complicatissimo dei Weather Report, D Flat Waltz lasciando il
pubblico e gli insegnanti a bocca aperta. Joe Pass rimase talmente
meravigliato che dopo l’esibizione cercò Jeff e gli strinse la mano.
Dopo aver vissuto all’Istituto per più di un anno come in una bolla protetta,
ora però Jeff doveva trovare la sua strada. Di giorno Jeff si scontrava con la
dura realtà della vita di musicista, lavorando come aiuto elettricista proprio
nel palazzo del Musician’s Institute, mentre nelle ore libere si esercitava alla
chitarra con la dedizione di un monaco. Inoltre, in questo periodo Jeff decide
di accumulare quante più esperienze live possibili per sviluppare una vasta
gamma di capacità musicali ma anche per acquistare fiducia in se stesso.
Scopre il famoso cantante pakistano Nusrat Fateh Ali Khan, che avrebbe
chiamato per tutta la vita “il Mio Elvis” e inizia a suonare in gruppi di tutti i
tipi: funk, ska, rock, hair Metal, jazz, reggae. In questo periodo Jeff fa due
incontri fondamentali per la sua futura carriera, Michael Clouse, proprietario
di uno studio vicino Hollywood dove registrava demo per giovani emergenti.
Jeff, polistrumentista e con orecchio e gusto pazzeschi, diventa il perfetto
socio di Clouse: studiava gli arrangiamenti e suonava diversi strumenti
mentre Michael registrava e missiva il prodotti finito per le varie aspiranti
star. In pratica erano produttori di dischi a noleggio e lavoravano per
chiunque fosse in grado di pagare. Secondo incontro fondamentale per Jeff fu
quello con Kathryn Grimm, cantante rock che aveva studiato come Buckley al
MI e leader del gruppo metal GROUP THERAPY, che in realtà non era
esattamente un gruppo hard rock, ma rock con inflessioni blues e R&B.
Dopo la parentesi jazz e fusion al MI, l’esperienza in questa formazione aiuta
Jeff a riscoprire la sua passione per il rock e per i Led Zeppelin e ad
alimentare un’altra fissa che rimarrà con lui per tutta la vita, quella per i
Cure e gli Smiths, in particolare per le tirate liricamente tragiche e per la
voce di Morrissey.
Frutto di questa fase è la demo di brani inediti che Jeff registra con Michael
Clouse e che aveva chiamato THE BABYLON DUNGEON SESSIONS, in
cui troviamo la prima versione di LAST GOODBYE, che qui si chiama ancora
UNFORGIVEN e già fa presagire le atmosfere e l’immenso talento
cantautoriale di GRACE. In questo brano si avverte in pieno l’ossessione di
Jeff per il brit pop. Fortuna volle che il manager di suo padre, Herb Cohen
vide Jeff sul palco in una delle sue date con i GROUP THERAPY e dopo aver
saputo che anche Buckley Jr stava scrivendo roba inedita si offrì di finanziare
il progetto e gli chiese di mettersi a lavoro seriamente sulla demo BABYLON
DUNGEON SESSIONS.
Un’altra fortunata circostanza si verifica per Jeff nel 1991. Janine Nichols, la
direttrice del programma della chiesa di St. Ann a Brooklyn, infatti, sta va
organizzando un tributo per celebrare la musica di Tim Buckley nel 12 anno
dalla sua scomparsa, GREETINGS FROM TIM BUCKLEY. Quando scopre
che Tim non solo ha un figlio che gli somiglia tremendamente ma anche che
canta e suona la chitarra, riesce a rintracciare Jeff e lo invita a esibirsi alla
serata. In realtà Janine è terrorizzata perché non sa nulla di quel ragazzo
nemmeno se sia in grado o meno di suonare. Jeff, in tutta risposta, si
presenta in anticipo di un giorno per fare delle prove e scegliere i brani e
tutti rimangono sconvolti e non solo dalla impressionante somiglianza con il
padre. Jeff, quasi come se volesse chiudere un cerchio nella sua relazione con
il padre, chiede di eseguire I NEVER ASKED A MOUNTAIN, la canzone che
Tim aveva scritto per lui e sua madre dopo averli abbandonati e ONCE I
WAS, la prima canzone con cui aveva scoperto la musica del padre. Gli viene
affiancato per l’occasione JERRY LUCAS, il miglior chitarrista della scena
newyorkese con cui si instaura subito un feeling incredibile. La serata
sancisce la nascita della stella di Jeff Buckley. Il pubblico rimane a bocca
aperta ed è chiaro a tutti che il giovane non ha nulla da temere dal confronto
con il padre. È non è solo il debutto newyorkese di Jeff, ma per uno strano
scherzo del destino quasi tutti i personaggi più importanti della vita di
Buckley da questo momento in poi sono presenti tutti alla serata, tra cui
anche Rebecca Moore, la sua prima vera storia d’amore. È così che Janine
propone a Jeff di rimanere ancora una settima a New York a sue spese. Jeff
accetta e tra i due nasce una sincera amicizia. Lui fa la baby sitter al figlio di
Janine e lei in cambio gli presterà la sua chitarra Fender Telecaster bianca che
Jeff terrà con sé per morissimi anni. Jeff ha finalmente trovato in NY una
città in cui si sente a casa.
Anzi la sua vera casa diventa in questo periodo il piccolo locale SIN-è gestito
da una leggenda della NY dei primi anni ’90, SHANE DOYLE e in cui si
esibivano tutti i più grandi artisti del momento, Sinead o’ Connor, gli U2. Jeff
ci lavora la mattina come barista e lavapiatti e la sera partecipa alle serate di
open mic da solo con la sua voce a la sua chitarra. La voce inizia a spargersi,
Jeff è bravo e anche molto bello (le serate in cui suonava Jeff si distinguevano
dalle lunghe file di ragazze all’esterno) e attira l’attenzione di STEVE
BERKOWITZ, allora manager della Sony/Columbia e habitué del locale che
dopo una lunga trattativa durata un’intera estate riesce a far firmare a Jeff il
suo primo contratto con le seguenti condizioni: totale controllo artistico,
garanzia di produrgli almeno 3 album, centomila dollari di anticipo e la
promessa che questo non avesse nulla a che fare con il padre. Per farlo a
sentire a suo agio i dirigenti della Sony decidono che il primo album sarebbe
stato un EP LIVE registrato propio allo SINE-è. È il 19 luglio del 1993 e i set
da registrare sono due: uno al mattino e l’altro il pomeriggio. Il primo set va
malissimo, Jeff è fuori forma, timido, emozionato, il secondo un pò meglio
ma per rendergli giustizia Berkowitz gli fa ottenere un terzo set qualche
giorno dopo che lascia tutti senza fiato. La sua versione di HALLELUJAH di
Cohen mette k.o l’intero pubblico.
1. MOJO PIN
Il brano d'apertura, "Mojo Pin”, fu registrata in una sola prova dopo circa tre
settimane dall’inizio delle sessioni e fu il vero punto di svolta per la band:
tutti e tre capirono che da quel brano in poi era stata ingranata la marcia che
li avrebbe portati verso la realizzazione di un grande disco. Il brano si
divincola tra gli arpeggi celestiali di Gary Lucas e i sussurri angelici di Jeff
che crescono progressivamente fino a straripare come un fiume in piena. Ma
ciò che mette i brividi è l’estensione vocale di Jeff e la sua capacità di entrare
nella traccia, modulando la sua voce a seconda del variare di questa. MP è,
come tutte le canzoni di Jeff, un equilibrio instabile di emozioni, che vanno
dalla preghiera dei salmi alla rabbia grunge. Jeff incredibilmente, pur
prendendo le distanze da tutta la musica anni ’90, la riassume, ne fa una
specie di sunto e lo fa in un album di 10 tracce. Oltre a questo MP è pervasa
da un senso mistico notevole, come se iniziasse una liturgia. Come già detto
sono questi i due estremi di Jeff Buckley: la religione (intesa come libertà
spirituale) e il mondo (amore e rabbia), il paradiso e la terra. Mojo Pin è un
gospel solitario, il lamento per la perdita della propria "black beauty" che si
trasforma in una distorta lotta con i propri demoni.
2. GRACE Poi la title track, dove la voce di Buckley arriva in territori che il
rock aveva solo intravisto. "La grazia? È quella cosa che ti trattiene dal
raggiungere una pistola troppo in fretta, ti trattiene dal distruggere le cose
troppo in fretta", commenterà il cantante. E la chiave del disco è tutta qui. La
musica come scommessa: ritenerla possibile di redimere - o quanto meno di
curare - l'assenza di senso dell'esistenza. La title track è una cavalcata
agrodolce tra cielo e inferno, dominata dalle immani progressioni vocali di
Buckley. Grace, è apparso poi negli anni successivi al pubblico come una
sorta di premonizione. “La luna mi chiede di restare ma il mio momento sta
arrivando, beviamo ancora un po’ di vino amore mio, potremmo andarcene
entrambi domani”. Ancora un semplice arpeggio e ancora la voce di Jeff che
fa venir voglia di piangere. In realtà la canzone ha uno stile vagamente pop,
ma le variazioni al suo interno sono infinite e Jeff comanda queste variazioni
con la sola forza della sua voce. E’ una opera di una drammaticità che ha
pochi pari nel mondo musicale. E c’è ancora quella attesa, funerea,
angosciosa di una morte che incombe, che è dietro le spalle (i’m not afraid/
afraid to die) nel cantato ora flebile, ora potentissimo, ora violento e
aggressivo di Jeff.
3. LAST GOODBYE “Last Goodbye” è una canzone forse banale, con la sua
ritmica semplice da canzonetta radiofonica. Ma poi c’è l’interpretazione di
Jeff, magica, imponente, assolutamente inconfondibile e una canzoncina si
trasforma in un gioiello. D’altra parte abbiamo già chiarito la formazione del
tutto onnivora di Jeff che apprezza e cresce sia con il rock più duro che con il
pop più orecchiabile. Come al solito la differenza la fa una vocalità fuori dal
comune e un’interpretazione sempre convincente.
4. LILAC WINE è la prima cover del disco. “Lilac Wine” è un pezzo un
jazzato anni’ 50, la cui più famosa interpretazione è quella offerta da Nina
Simone. Jeff non cambia molto l’arrangiamento e la struttura (molto simili
all’originale). Ciò che cambia è la voce. La voce di Nina Simone è staccata,
più fredda forse, meno modulata, tecnicamente perfetta. La voce di Jeff è
soffice, commovente, caldissima, più teatrale, più alla ricerca del sentimento
puro. Jeff Buckley sembra in preghiera mentre Nina Simone è su un
palcoscenico, splendida diva. E’ la differenza forse che passa tra tre decenni.