Settore Tecnico
del
Anno 2020, n° 5
DOVE
SONO FINITO?
IL CALCIO ITALIANO,
I SUOI COSTUMI
E LE SUE PRESSIONI:
LE DIFFICOLTÀ DI INTEGRAZIONE
DEI CALCIATORI STRANIERI
CON UN DIFFERENTE
BACKGROUND CULTURALE
NOTIZIARIO del SETTORE TECNICO
Anno 2020, n°5
Testata giornalistica.
Registrazione del Tribunale di Firenze
del 20 marzo 1968, n°1911
DIRETTORE RESPONSABILE
Paolo Corbi
COORDINAMENTO REDAZIONALE
Paolo Serena
FOTOGRAFIE
2020 Black Spark Film AB, Art of Panic,
Getty Images, Pixabay e SF Studios Denmark
PROGETTO GRAFICO
Paolo Serena
@FIGC
@FIGC
6
Cultural intelligence
DISORIENTATI
LE DIFFICOLTÀ DI INTEGRAZIONE NEL CALCIO ITALIANO
di Guglielmo De Feis
16
Estratto della tesi al Master UEFA Pro
PENSIERO ASIMMETRICO
ANALISI DEL RAPPORTO TRA TECNICO E GIOCATORI
di Nazzarena Grilli
36
Intervista esclusiva
A TU PER TU CON GIANPIERO PIOVANI
L’ALLENATORE DEL SASSUOLO FEMMINILE SI RACCONTA
42
Sport e letteratura
LA FELICITÀ È NEL TRAGITTO
RECENSIONE DEL LIBRO ‘PER VINCERE CI VUOLE TESTA’
di Massimo Cervelli
Il calcio italiano, le sue pressioni
e l’estrema difficoltà nell’adattarsi
di un giocatore con altre origini culturali.
@Gugliemo De Feis
@ghigo22
I
l calcio esiste da circa un secolo e mezzo.
Nato come uno sport collettivo in cui gli appartenenti di un’unica squadra con-
dividevano tra loro l’appartenenza territoriale, la lingua, le norme e addirittura
la stessa classe sociale, oggi dopo centocinquanta anni il codice culturale dello
spogliatoio deve essere completamente riscritto.
Non esiste un’identità culturale precostituita, non si parla più una sola lingua e le
norme sociali di una società sportiva sono spesso addirittura conflittuali con quelle
dei singoli appartenenti ad essa.
Aver creduto che un unico regolamento interno - stabilito e condiviso in maniera
democratica e liberamente sottoscritto da tutti - potesse surrogare alla mancanza
di valori culturali condivisi, è stata un’illusione sulla quale per troppo tempo si è
fatto affidamento.
Gli interventi dei regolamenti Fifa degli ultimi venti anni non hanno fatto altro che
rincorrere - senza peraltro mai raggiungere - una realtà che si stava trasformando
troppo velocemente e in maniera non prevista (ma nemmeno prevedibile) da chi
aveva pensato all’organizzazione di tornei, sia per club che per nazionali, basandola
esclusivamente su criteri di geopolitica internazionale.
La convinzione - ben radicata nel mondo del calcio - che siano naturali e non cul-
turali i fattori di aggregazione dello spogliatoio, determina una sorta di ‘nativismo’
calcistico: ovvero credere che esista un carattere nativo o innato di idee, attitudini,
facoltà e qualità specifiche per giocare a calcio.
È talmente forte questa convinzione al punto che il tradizionalista mondo del cal-
cio sembra disposto ad accettare le nuove linee del progresso solo in altre deter-
minate e ben circoscritte sfere del sapere, ma assolutamente non nella gestione
sociale dello spogliatoio.
Mentre sono fermamente convinti dell’utilità del preparatore atletico nel loro staff,
per il lavoro sul campo, rifiuterebbero, altrettanto fermamente, l’affiancamento di
uno psicologo o di un sociologo nella loro attività di gestione dello spogliatoio.
In definitiva: per gli allenatori il progresso scientifico-tecnologico funziona ed è
utile in determinati settori del sapere calcistico mentre è inutile, se non proprio
deleterio, in altri.
Si tratta, senza dubbio, di una generalizzazione e di una semplificazione eccessi-
ve, dovute a una mia personale conoscenza dell’ambiente calcistico. È doveroso
rimarcare, in ogni caso, che proprio perché basata su dati personali il giudizio non
riguarda l’intera categoria degli allenatori, ma solo il loro stereotipo culturale.
Tigers del regista svedese Ronnie Sandahl racconta la storia del giovane calciatore
(e connazionale del regista) Martin Bengtsson, ‘acquistato’ giovanissimo (mino-
renne) dall’Inter e ritiratosi alle soglie del calcio professionistico di altissimo livello
dopo la drammatica vicenda di un tentativo di suicidio.
Credere che esista un solo modo naturale di comportarsi nel calcio, porta i dirigenti
italiani a comunicare al giovane calciatore svedese tutte le questioni importanti in
maniera indiretta e sottintesa (come da sempre si fa nel calcio italiano), facendo ri-
corso al paternalismo latino (protezione in cambio di fiducia e obbedienza) e sotto-
valutando le conseguenze su un ragazzo che non conosce né l’una (comunicazione
diretta delle culture nordiche) né l’altro (bassa distanza dal potere).
Nella cultura scandinava nessuna identità può essere definita dal proprio lavoro
(il fare) ma solo dal proprio modo di essere. È proprio la ragazza svedese a fargli
notare la stranezza di questa sua risposta, come se, ormai e inconsciamente, Mar-
tin stesse ridefinendo la propria identità sui modelli imposti coattivamente dalla
nuova cultura: quella calcistica italiana.
A quel punto, tutto quello che stava passivamente accettando pur di arrivare al co-
ronamento del suo sogno da bambino (quello di diventare un campione) diventa
assolutamente intollerabile e le differenze culturali imposte si trasformano nell’e-
quivalente di gabbie per splendide tigri da esposizione (le Tigers del titolo del film).
Nella cultura calcistica italiana, non c’è mai stato posto per film impegnati sul cal-
cio.
La maniera drammaticamente seria nella quale questo sport è vissuto in Italia toglie
spazio e margine a qualsiasi tentativo di mitizzazione cinematografica di un’impre-
sa calcistica.
Proprio per contrasto, forse, è stato riempito lo spazio opposto della commedia,
nella quale trasferire - se possibile ridendoci sopra - tutti i vizi italici relativi al cal-
cio.
Ecco quindi che il film di culto per antonomasia è L’allenatore nel pallone uscito nel
1984 ed ancora oggi programmato immancabilmente dalle televisioni durante il
periodo dei ritiri estivi delle squadre.
Questa parodia del mondo del calcio italiano, basata su tutti i più classici stereotipi
- il campione straniero prima incompreso e poi decisivo, le partite truccate, il cal-
ciomercato, la scaramanzia - ha colpito l’immaginario di generazioni di calciatori
italiani, che lo rivedono ogni anno tutti insieme citandone a memoria le battute
più famose.
L’allenatore nel pallone è un film italiano e scritto da insiders della nostra cultura,
ma da outsiders della cultura calcistica.
Il regista, gli sceneggiatori e gli attori, infatti, non fanno parte del calcio e allenatori
e calciatori che appaiono nel film, lo fanno solo per brevi cameo.
Questa doppia posizione di vantaggio del film italiano - di esperti di vizi italiani ma
di neofiti di conoscenze calcistiche - non è quella di cui potrà godere Tigers.
Tigers è tecnicamente un biopic: un film biografico. Eppure per essere meglio com-
1 Ronnie Sandahl ha lavorato in una trilogia di film su sport e psicologia: oltre alla
regia di Tigers ha anche scritto la sceneggiatura per il film Borg vs McEnroe (2017) e per il
film Perfect (in uscita prossimamente) sul mondo della ginnastica.
Le due ore del film sarebbero in questo modo un insegnamento pratico, diretto e
didascalico per tutti quelli che vivono o gestiscono quel complesso gruppo cultura-
le rappresentato dallo spogliatoio di una squadra sportiva.
Nel calcio italiano sono pochi i casi drammatici come quello di Martin Bengts-
son, ma sono tantissimi quelli di ragazzi - o anche di campioni affermati - liquidati
come semplicemente inadatti a sopravvivere nel difficile e selettivo mondo del pro-
fessionismo sportivo.
Il consumismo calcistico imposto dalle leggi di mercato, che vedono una domanda
di contratti professionistici enormemente inferiore all’offerta, non ha mai richiesto
di trovare spiegazioni o di porre rimedio a questa dispersione di talento dovuta a
mancate inclusioni culturali dei calciatori acquistati da una società.
Ecco allora che alla fine del film possiamo vedere rappresentata la maniera pseudo-
scientifica di chiudere in modo oggettivo la vicenda: una possibile certificazione di
Non si riesce, davvero e con tutta la buona volontà possibile, a comprendere per
quale motivo questo empirismo anacronistico debba riguardare esclusivamente i
rapporti personali e sociali all’interno della squadra, soprattutto in considerazione
dei terribili danni sulla vita dei più sensibili tra i ragazzi e i campioni.
L’allenatore nel pallone ha fatto ridere, dei propri difetti, il mondo del calcio per
quasi quarant’anni.
Tigers potrebbe aiutarlo a correggerli per evitare enormi danni nei prossimi qua-
ranta.
Martin
Bengtsson
MMETRICO
Notiziario del Settore Tecnico 17
di NAZZARENA GRILLI
L
ungo il corso di tutta la sua storia, l’umanità ha attribuito giudizi di valo-
re alle differenze biologiche, culturali e di opinione, creando in tal modo
asimmetrie che hanno attribuito a individui, categorie e gruppi posizioni
egemoni o subalterne, rafforzando la consuetudine a una modalità di pen-
siero che considera la diversità non come possibile risorsa generativa, bensì come
ragione che giustifica pregiudizi e discriminazioni, anche violenti e distruttivi.
Ognuno di noi se si pone in quest’ottica costruisce o avalla forme di relazione ne-
gative: le parole, i volumi e i toni, il non ascolto, la postura che assumiamo, i gesti
e soprattutto i nostri silenzi determinano - spesso inconsapevolmente - la nostra
posizione dentro la relazione, incidendo molto di più di quanto siamo disposti ad
ammettere. Poiché la relazione è tema e strumento cruciale del mio lavoro di al-
lenatrice, che mi porta ad incontrare giocatrici, collaboratori del mio staff e tanti
altri colleghi delle varie nazionali e squadre di club, ho sempre sentito l’esigenza di
formarmi, approfondire e riflettere su questo tema per acquisire sensibilità, stru-
menti e competenze di miglioramento personale.
La complessità che vivo nel mio lavoro mi ha portato spesso a riflettere sulle asim-
metrie nelle relazioni professionali e nelle relazioni in generale.
Nello specifico in questa tesi intendo sviluppare le relazioni tra allenatrice e gio-
catrici, le relazioni all’interno della squadra e le relazioni che prendono forma in
campo durante le partite, al fine di poter promuovere, pur in certe inevitabili asim-
metrie, un buono stato di benessere individuale e collettivo, che ritengo fondamen-
tale per creare un clima fertile di riconoscimento e apprendimento reciproco.
Tutto il mio vissuto mi richiama alla necessità di non essere conformi, di avere uno
spazio libero interno, di allenarlo e coltivarlo in modo costruttivo e generativo, per
sviluppare un certo grado di autonomia e consapevolezza nella crescita personale,
poiché è quello che permette di mantenere un legame con la parte più autentica e
passionale, che si trasforma in spinta energetica sempre tesa al miglioramento di
sé. Una libertà e un’autonomia che accompagnano il senso di responsabilità che
questa comporta.
Per questo motivo le differenze devono essere viste come aventi uguale valore, pre-
servandole e non eliminandole, ma valorizzandone la ricchezza e la potenzialità.
Ognuno di noi è differente, ma ha indiscutibilmente lo stesso valore di persona: per
quello che è, nelle differenze biologiche; per quello che esprime, fa e pensa, nelle
opinioni e nelle scelte. La mia esperienza di vita sportiva, e non solo, si è caratteriz-
zata, si è nutrita e si nutre ancora di quella spinta vitale e propulsiva della passione
e dell’entusiasmo, di quella spontanea energia vitale, decisiva nel garantire a me
stessa quello spazio di libertà e autonomia, in un cambiamento dinamico, in un co-
stante e possibilmente consapevole divenire. Credo sia fondamentale preservare e
curare costantemente la parte più spontanea e autentica che appartiene ad ognuno
di noi.
Credo sia fondamentale integrare virtù e conoscenza e credo fortemente che sia
possibile intraprendere questa strada virtuosa, in modo da utilizzare la conoscenza
verso fini che possono promuovere benessere in sé stessi e di conseguenza negli
altri: “la virtù senza conoscenza è zoppa, ma la conoscenza senza virtù è cieca”. Le
asimmetrie sono invece collegate a relazioni di potere, inteso con quella conno-
tazione negativa che spesso lo contraddistingue, in un sistema che tende ad una
divisione gerarchicamente ordinata, che prevede un sopra e un sotto, un’autorità e
qualcuno che è subordinato ad essa.
L’allenatrice (o l’allenatore, a seconda del genere) ha un ruolo di potere che può
utilizzare in modo positivo e costruttivo oppure in modo negativo e distruttivo. Può
incidere e guidare il potere nella direzione della possibilità attraverso il dialogo,
l’ascolto e la reciprocità, con uno stile autorevole e non autoritario, verso forme di
comunicazione che superano le asimmetrie, esaltano le differenze e si accordano in
un collettivo armonico di individui liberi e responsabili.
Un’orchestra, in cui ognuno suona il proprio strumento in sintonia con gli altri,
producendo una melodia unica, all’interno della quale si armonizza il suono del
singolo.
Il calcio è anche musica... in tempi e spazi di espressione.
Oggi si assiste alla confusione e frammentazione dei valori, ma anche ad una va-
rietà indeterminata di questi ultimi. In un mondo globalizzato non ci sono valori
universali, quasi divini e trascendenti come avveniva in passato.
L’allenatrice non può avere un approccio superficiale rispetto alle relazioni, lascian-
do che il caso le governi e sperando nella buona sorte, ma deve necessariamente
avere un approccio scientifico, inteso nell’efficacia della procedura che utilizza.
L’allenatrice ha una grande responsabilità rispetto alla gestione del gruppo; deve
avere strumenti e competenze per poter governare i fenomeni, lasciando aperte le
occasioni dello stare insieme e gli spazi di comunicazione, deve saper accogliere
le differenze senza giudicare e fare attenzione ai significati diversi attribuiti alle
parole.
Come ci comportiamo ad esempio quando dobbiamo dare delle regole?
Le regole per essere osservate e rispettate non possono calare dall’alto, non possono
Come procedere allora rispetto alle regole comuni, necessarie e indispensabili a chi
vive lo stesso contesto? Le regole oggi devono poter scaturire dall’esperienza diret-
ta, non possono essere date aprioristicamente, devono ‘concrescere’ - nel senso di
crescere insieme - con l’esperienza condivisa, per essere naturalmente e autono-
mamente condivise. Per questo vanno viste e analizzate insieme nella complessità
delle situazioni che si verificano dentro l’esperienza, al fine da poterne valutare,
con la partecipazione attiva delle giocatrici, la loro utilità ed efficacia per il benes-
sere comune.
Pertanto l’allenatore può operare per via epidemica, cioè inoltrando i valori come
quei virus che si trasmettono per modalità diffusiva- e di cui, purtroppo, oggi tanto
si parla… - oppure per via della conquista del diritto, cioè ponendo rapporti positivi
ad un certo valore, facendo leva sulla condivisione e di conseguenza sull’interioriz-
zazione delle regole. Significa quindi porre in essere rapporti per diventare consa-
pevoli in relazione, per stimolare alla responsabilità, all’autonomia e al senso della
regola. Poiché, quando si conduce un gruppo di persone, si diventa veicolo di valori
e occorrono strumenti personali e collettivi per intraprendere una strada faticosa,
ma necessaria.
E ritorniamo alla forte responsabilità del ruolo che abbiamo scelto di assumere e
da cui non possiamo esimerci, prendendo scorciatoie, pensando che tutto sia sem-
plice e applicabile in modo assoluto: un compito arduo per l’allenatrice che si ca-
ratterizza per la qualità dei legami con le sue giocatrici e con il suo staff. L’asimme-
tria in questo senso può essere vista come una forma di potere, un potere che chi
conduce ha e che non può negare, ma di cui deve essere consapevole e cosciente di
Da un punto di vista asimmetrico questo tipo di relazione può anche essere vista
nell’ottica in cui “una parte trasmette qualcosa ad un’altra che ne difetta” il che
può rimandare ad una lettura in termini di superiorità e inferiorità. L’allenatrice
svolge pertanto un ruolo cruciale e delicato, che può promuovere apprendimento
e crescita personale, ma che può anche, nel caso la sua professione sia interpretata
in modo autoritario, limitare la motivazione e le possibilità di espressione delle
giocatrici, relegandole in posizione minore. Si tratta di uno stile di insegnamen-
to incentrato solo sulla trasmissione di conoscenze calcistiche e sulla valutazione
della performance in partita, che non prende in considerazione i processi alla base
di ogni acquisizione e competenza: il dialogo, l’ascolto e la comunicazione, intesa
come capacità di mettere in comune. Tutto ciò può rappresentare un forte limite
non solo per l’apprendimento, ma soprattutto perché rappresenta un assetto rela-
zionale fortemente sbilanciato.
L’allenatore non può essere conforme allo status quo, ma deve coltivare curiosità
nel porsi costantemente delle domande, deve dimostrare apertura nel senso di pos-
sibilità al cambiamento e deve ampliare la sua visione in una progettualità futura;
deve essere aperto alle differenze come opportunità e deve mantenere l’autenticità
come aspetto da preservare nelle relazioni. Deve soprattutto avere coraggio, inteso
come azione del cuore, per sfidare e cambiare ciò che gli viene facile e comodo, per
uscire dalla zona comfort e battere nuove strade.
Non si può infine trascurare la dimensione affettiva, che permea tutto il rapporto
tra chi insegna e chi apprende, e che è centrale e trasversale a tutto il percorso.
Chi di noi ricorda gli insegnanti avuti in passato non può negare che quelli più
significativi sono stati senza dubbio coloro con i quali si è instaurato un legame
affettivo, oltre che di stima e rispetto reciproco. Questa è la dimensione più impor-
tante e decisiva dell’apprendimento, poiché ci appassioniamo e amiamo ciò che ci
viene insegnato se amiamo colui o colei che insegna. L’insegnamento è passione e
amore per la propria professione, e questo non si trova scritto su nessun libro come
ricettario da apprendere e mettere in atto, ma dentro se stessi, nella congruenza
appunto tra ciò che si è, si fa e desidera fare, lungo un viaggio di consapevolezza
personale tra autenticità, libertà e senso di responsabilità.
Comunicare
Gli allenatori, per il compito che svolgono, devono essere all’altezza rispetto ai co-
dici comunicativi, poiché vivono in un contesto denso di relazioni esterne ed inter-
ne, che non possono lasciare fluire casualmente, bensì devono averne il controllo
grazie a conoscenze e strategie, per incidere in modo intenzionale nella costru-
zione di un buon clima comunicativo, partecipativo e cooperativo. Alla base di un
Per fare in modo che ci sia dialogo è importante sapere che ci sono diverse sequen-
ze di comunicazioni (catene) in una direzione e nell’altra in modo alternato, cioè
una sequenza in una direzione e una reazione nella direzione opposta. Un dialogo
non è dunque un ammasso di sequenze nelle due direzioni: è necessario ascoltare
il messaggio prima di parlare e osservare le diverse forme di comunicazione che
l’altro esprime.
Ascoltare nel senso di dare spazio all’altro, senza interrompere e non reagendo im-
mediatamente, ma lasciando anche i momenti di silenzio.
Ci sono evidenti differenze quando un allenatore parla alla squadra in toto o al sin-
golo giocatore. Nella comunicazione a due, faccia a faccia, si è in grado di leggere i
segnali dell’altro (sguardo, postura, silenzi di insofferenza o meno...): una sorta di
riscontro silenzioso, ma visibile. Mentre, quando si parla alla squadra in generale
e non si ha un solo interlocutore, è molto più difficile cogliere questi segnali non
verbali.
Deve porsi costantemente delle domande sul loro benessere: stanno bene tra di
loro? Collaborano? C’è partecipazione? Ognuno si sente riconosciuto nelle diffe-
renze individuali? C’è qualcuno che rimane isolato? C’è un leader? Chi sono i gre-
gari? Chi è l’elemento più carismatico?
Deve osservare le interazioni, il modo in cui interagiscono i differenti membri della
squadra, quali posizioni assumono, lo spazio dei singoli in relazione ai contesti e
agli altri, tenendo in considerazione il numero, che nella gestione ha un ruolo de-
cisivo.
Se un reparto è slegato, se tra i reparti non c’è la giusta distanza, se una squadra di-
fende con il baricentro basso, se un passaggio non trova tempo e spazio di ricezione
adeguati, se un attaccante rimane lungo senza accorciare in aiuto della squadra nel-
la fase di non possesso, se un’azione di pressione individuale non viene seguita da
un’azione di pressing collettiva dagli altri membri della squadra, se in campo non
c’è una lingua univoca tra tutte le giocatrici, chiediamoci se tutto questo dipende
solo da questioni tecniche, tattiche o fisiche.
Pensiamo per un attimo a quando tutti noi, pur possedendo una qualche cono-
scenza e riconoscendone la sua validità, non la mettiamo in atto e quindi non la
traduciamo in azione. A volte la volontà ci aiuta, mentre altre volte non è sufficien-
te, poiché non sentiamo quella disponibilità interna e quella spinta ad agire nella
direzione comune.
Se non ci sentiamo bene in una determinata situazione difficilmente daremo il me-
glio di noi stessi in funzione di un collettivo più ampio. Se invece ciascun singolo
si sente riconosciuto e valorizzato per quello che è e che fa, la sua disponibilità a
favore degli altri aumenta grandemente.
Il benessere individuale favorisce il benessere collettivo e viceversa, poiché se ne
comprende il senso in reciprocità, innestando così un circolo virtuoso.
In partita una giocatrice riesce a fare una diagonale difensiva di chiusura, un rad-
doppio di marcatura, uno smarcamento per ricevere non solo perché si è allenata
e quindi ha conoscenze tecnico-tattiche e un’ottima preparazione fisica, ma anche
perché è disponibile verso la squadra con entusiasmo, energia e desiderio e ciò ac-
cade soprattutto se sta bene, se sente la fiducia e il riconoscimento del suo lavoro
con - e per - la squadra. Se un allenatore ritiene essenziali questi aspetti per vincere
le partite, non può non considerarli e non lavorarci sia fuori che dentro al campo,
poiché vanno visti, analizzati, ‘allenati’ anche attraverso delle esercitazioni che pre-
vedano e mettano in risalto che fare insieme è meglio che fare da soli, evidenziando
e riprendendo, anche con riflessioni successive, l’importanza, il senso e i perché
della collaborazione reciproca.
In sintesi è fondamentale investire e spendere il tempo non solo per affinare la co-
noscenza, ma anche le virtù personali, necessarie affinché il fare insieme non sia
considerato solo un obbligo o un dovere da svolgere, ma soprattutto un modo di
essere in campo e nella vita.
Il gioco
Il calcio è uno sport che nel tempo si è dato regole e organizzazione per autodisci-
plinarsi, assumendo, soprattutto per quanto riguarda il calcio professionistico ma-
schile, le caratteristiche di un’industria a tutti gli effetti, per l’impatto economico,
lavorativo e produttivo.
Senza fare degli inutili e improduttivi moralismi, ritengo necessario sottolineare
quanto sia fondamentale non perdere l’essenza ludica e lo spirito profondo del gio-
co nel calcio, per la gratuità - in quanto non valutato per quello che produce - e quel
senso di espressione e di libertà.
Perché il gioco è così importante? E perché può essere visto come un mezzo essen-
ziale di benessere individuale e collettivo? Il gioco, a differenza del lavoro, non ti fa
sentire la fatica, ma ne cambia la percezione facendoti sentire meno lo stress. Un
ambiente giocoso crea e favorisce un maggiore sviluppo creativo, più innovazioni,
più benessere, più motivazione al raggiungimento di un obiettivo e più cooperazio-
ne ai fini del risultato finale.
Nel gioco ci si esprime con più leggerezza (da non confondere con la superficiali-
tà); si è più sciolti e naturali, così nelle forme di espressione individuali come nella
solidarietà collettiva. Nel gioco si attiva l’emisfero destro del nostro cervello, quello
più creativo che lavora per analogia, rispetto a quello sinistro che lavora in modo
unilaterale.
Per quale motivo non dovremmo preservare tutti questi aspetti che sono fortemen-
te positivi al raggiungimento di un risultato?
Tutte le forme di competizione che si allontanano dal gioco operano in maniera op-
posta, poiché orientate ad una produzione di qualcosa di materiale e utile, e quindi
perdono quella loro gratuità essenziale. E quindi una sconfitta diventa un dramma,
un errore una mortificazione personale, una competizione una guerra contro un
nemico da battere con qualsiasi mezzo, con astuzia, con mezzi leciti e poco leciti.
Anche lo sport diventa, come in una logica di mercato, un valore solo se produci e
se vinci, e i nostri giocatori sono solo strumenti da utilizzare, così come noi allena-
tori e allenatrici diventiamo carnefici e vittime di questo sistema di produzione e
veniamo esonerati se non otteniamo i risultati.
Il metodo, il percorso, i processi sfuggono ai più - o meglio non interessano - e
tantomeno importano le virtù e l’etica di certi valori che lo sport dovrebbe promuo-
vere.
Quando guardiamo in tv una squadra che gioca davvero, perché fa sport giocando,
perché semplicemente e naturalmente si diverte mentre gioca, si nota, si osserva e
si sente tutta la sua bellezza e tutta la sua interezza.
C’è bisogno di un ritorno alla bellezza: il calcio, per le sue caratteristiche innate, ne
ha tutte le potenzialità.
È evidente che uno degli obiettivi di noi allenatrici e allenatori è che la nostra squa-
dra abbia una razionale occupazione degli spazi in campo, in funzione del pallone
e della distanza da esso, della compagna più vicina, degli avversari e della porta.
Un’occupazione dinamica, che cambia forme e sviluppi di gioco in base alle dif-
ferenti situazioni che si verificano nella partita, nelle due fasi di possesso e non
possesso.
Il sistema di gioco prescelto dall’allenatore, che tende a quest’ordine in campo,
si contrappone ad un altro sistema di gioco avversario, che può essere lo stesso e
quindi sovrapponibile nell’occupazione dello spazio o diverso nella forma, lascian-
do zone di campo con più o meno densità di giocatrici.
Nella dinamica della partita il presunto ordine prescritto, tranne che al fischio d’i-
nizio, diventa dinamico e cambia forme e contenuti di continuo nell’interpreta-
zione singola e collettiva delle giocatrici della nostra e della squadra avversaria in
relazione reciproca.
Inoltre il fattore imprevedibile richiede anche una competenza creativa nel tentare
di superare di volta in volta gli ostacoli e le interferenze che l’avversario ci pone.
Come è possibile allenare tutto questo con una leadership autoritaria dell’allenato-
re che non considera la giocatrice come un soggetto attivo e propositivo in grado di
sapere fare delle scelte autonome e sempre diverse nelle interazioni che si verifica-
no in partita?
Un insegnamento che non tenga conto di questo aspetto fondante della partita, a
mio parere, è destinato al fallimento, poiché non include la possibilità di interagire
con un buon grado di autonomia, libertà e responsabilità dentro il contesto partita.
Il pensiero complesso va dunque allenato sia attraverso esercitazioni di gioco aper-
te e con più obiettivi senza prevedere risposte codificate, in modo da fare esperien-
za di scelta differenti ed efficaci alle diverse situazioni, sia nello stile relazionale che
l’allenatrice pone in essere con la squadra. I due aspetti vanno presi insieme: non è
possibile considerare i giocatori dei soldatini, ordinati in un sistema chiuso di rela-
zioni e allo stesso tempo aspettarsi che siano camaleontici e in grado di saper sce-
Spesso le buone intenzioni non sono garanzia sufficiente di buone azioni; anzi,
spesso è proprio con le migliori intenzioni che mettiamo in atto pessime azioni.
Se ho uno stile direttivo e prescrittivo dovrei allenare per schemi, mentre se ho
uno stile autorevole dovrei farlo per principi di gioco, in quanto nel primo caso è
l’allenatore che pensa, mentre nel secondo caso sono i giocatori che pensano. Ma
spesso si verifica che ad uno stile autoritario, che pretende di pensare per gli altri,
corrisponda un modo di allenare che si definisce per principi di gioco. Quello che
accade è che mentre alleno utilizzando esercitazioni aperte ed esplorative, impon-
go di fatto la mia autorità chiudendo ogni forma di espressione individuale.
Quello che emerge è dunque una comunicazione ambigua che disorienta poiché
non tende ad un unico linguaggio in grado di stare nella complessità in modo au-
tonomo e responsabile.
I sistemi di gioco, oggi definiti ‘asimmetrici’, che prevedono uno spazio non occu-
pato intenzionalmente a priori, ma che di volta in volta si aprono ad inserimenti
differenti e prevalenti delle giocatrici che lo vanno ad occupare, ci aprono a questa
prospettiva di integrazione complessa e di difficile gestione. Una prospettiva che
chiama in causa e mette al centro in modo ancor più forte la possibilità di una
giocatrice e di un collettivo pensante in grado di saper leggere nella complessità le
diverse situazioni.
Questo richiede in primis un’apertura dell’allenatore all’accoglienza di questa com-
plessità, senza ridurla ad una mera contrapposizione di numeri, di sistemi di gioco
e di schemi che rischiano di essere, se rimangono esclusivamente tali, solo una elu-
cubrazione mentale fine a se stessa o funzionale meramente al suo ego personale.
Le analisi delle nostre partite pertanto si devono aprire alla complessità e dunque
questo vale in ogni forma di relazione in campo e fuori dal campo.
Ruoli e funzioni
In passato ogni ruolo era piuttosto chiuso a certi specifici compiti che venivano ri-
chiesti. Ad esempio, le richieste al portiere erano quelle di usare le mani per parare
a difesa della porta e i piedi per effettuare al massimo una rimessa dal fondo o un
rinvio.
Una sorta di specializzazione di ruolo e funzioni, che delineavano caratteristiche
fisse sia negli aspetti tecnico-tattici che in quelli psicologici. Nel tempo l’evolu-
zione del calcio è stata anche un’evoluzione di funzioni sempre più aperte e meno
specialistiche.
Inoltre la difesa a zona rispetto alla marcatura a ‘uomo’ ha cambiato e di molto l’ap-
proccio, l’investimento e il coinvolgimento intellettivo di ogni singolo giocatore. La
rivoluzione che porta la giocatrice a relazionarsi in base alla palla e sempre meno
in relazione all’avversario ha determinato un cambio di prospettiva nella capacità
di lettura e di scelta, nella difesa dello spazio dietro, avanti e laterale, che la pone
al centro come attiva protagonista del gioco e sempre meno dipendente e vincolata
dall’avversario e da un’azione passiva.
L’evoluzione che è avvenuta e che sta avvenendo ci riporta ancora alla necessaria
lettura degli spazi che si aprono e si chiudono con funzioni più aperte, più comple-
te e meno specialistiche. Il ruolo che si ha in campo deve mettere in azione diverse
competenze funzionali alle risposte di momenti sempre diversi.
Allenare le relazioni
Come è stato ben evidenziato in quell’incontro, questi aspetti possono essere aperti
ed esplorati dentro le relazioni in un senso più ampio. La relazione ha bisogno di
tempi e spazi comuni, di apertura verso gli altri, di conoscenza reciproca, di incon-
tro comune, di dialogo e comprensione, di stare insieme nelle differenze, di dispo-
nibilità, di solidarietà, di cooperazione e di tanto altro.
Come possono questi aspetti non essere considerati? La tecnica e la competenza
tattica vanno sicuramente allenate e affinate costantemente, ma sono mezzi per
raggiungere una finalità comune, che nel calcio è vincere le partite e giocare bene.
Ma la via per raggiungere questa finalità non può prescindere dalla relazione tra le
persone umane, nel mettere in comune le differenze e le possibilità nell’accoglien-
za e nel dialogo, nella coesione e nell’aiuto reciproco: il senso di essere un ‘noi’ nella
relazione.
Nonostante i problemi legati agli infortuni, più o meno gravi, le ragazze hanno avu-
to una crescita costante grazie al lavoro svolto in allenamento. Non mi aspettavo
certo questa partenza, ma le mie calciatrici sono state brave: le cosiddette ‘seconde
linee’ sono diventate titolari e si sono fatte trovare pronte. La cosa che mi rende più
orgoglioso è il fatto che si sia creata una bella alchimia tra tutti coloro che fanno
parte della squadra, intesa nel suo senso più allargato, dai fisioterapisti ai prepara-
tori atletici.
Viviamo alla giornata. Siamo una squadra molto giovane e dobbiamo continuare
nel nostro percorso di crescita, giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamen-
to. Il nostro obiettivo rimane la salvezza: una volta che l’avremo raggiunta, potremo
anche guardare oltre e – perché no – toglierci anche delle soddisfazioni. Davanti
a noi ci sono squadre più attrezzate, ma noi dobbiamo continuare sulla strada di
questo percorso che abbiamo intrapreso.
Facciamo un passo indietro, a quando nel 2017 è salito sulla panchina del
Brescia: da cosa è nata questa scelta di lasciare il calcio maschile e di appro-
dare a quello femminile?
Fui convinto dal presidente, Beppe Cesari, e dal Ds del Brescia femminile. Avevano
grande entusiasmo e mi sono lasciato coinvolgere e trascinare dalle persone com-
petenti che poi ho trovato in questa mia nuova avventura. Un’avventura da cui io
non vorrei più uscire…
Sinceramente adesso sto molto bene con le calciatrici. Sto vivendo questa crescita,
anche mia personale e non solo del movimento, grazie all’impegno delle mie ragaz-
ze che ogni volta che scendono in campo danno sempre il 200 per cento per cercare
di migliorarsi. In questi quattro anni che sono dentro il movimento, c’è un aspetto
fondamentale che ho notato del calcio femminile: la cura dei particolari. E il livello
si sta alzando anche per questo motivo.
È stato un campionato completamente nuovo, perché ero appena sbarcato nel cal-
cio femminile, ed è stata una stagione comunque esaltante: abbiamo azlato la Su-
percoppa, siamo arrivati in finale di Coppa Italia ed il campionato l’abbiamo vinto
al pari della Juventus, con cui abbiamo però poi perso lo scudetto soltanto nello
spareggio, ai calci di rigore.
Sono felice di aver vissuto quella stagione, che personalmente mi ha aiutato a cre-
scere anche per merito delle ragazze che ho avuto la fortuna di allenare. Al di là di
quel triste epilogo, è stata un’annata fantastica. E grazie a quell’esperienza oggi ho
la fortuna di essere qui, al Sassuolo, in una società che crede molto nel calcio fem-
minile; la fiducia che il club neroverde sta dimostrando verso il movimento è un
aspetto fondamentale per portare avanti il mio lavoro.
La qualità si è alzata notevolmente nel calcio femminile italiano. Si può vedere sia
a livello di Nazionale che di Champions League, dove il divario con le concorrenti
europee si sta assottigliando.
Ad un mio collega consiglierei di entrare a far parte di questo mondo perché qui
si respira ancora quello che viene definito ‘un calcio vero’: c’è grande umiltà nelle
ragazze e c’è voglia di crescita. Chi allena in questo settore si può togliere davvero
delle grandi soddisfazioni.
Oggi cosa serve al calcio femminile italiano per compiere un ulteriore step
nel suo progresso?
Continuare in questo percorso tutti insieme, uniti nella voglia di migliorarsi, dalla
Federazione fino alle singole società. Dobbiamo continuare a lavorare per crescere,
consapevoli che far parte di questo mondo – ripeto – è davvero bello.
Difficile fare nomi, ma può dirci un suo collega o a una sua collega allenatri-
ce di questa Serie A TIMVISION che stima particolarmente e che magari ha
votato all’ultima Panchina d’oro?
Sono orgoglioso di dirlo: Betty Bavagnoli della Roma è davvero brava, aiutata per
di più da uno staff molto competente. Ed è oltretutto una persona di grande umil-
tà. Lei è piacentina e io ho giocato per undici anni nel Piacenza: forse è per questo
motivo, fatto sta che tra di noi c’è un grande affiatamento e sono davvero felice che
abbia vinto l’ultima edizione della Panchina d’oro.
Poi ho un buonissimo rapporto con tutti gli altri colleghi, anche se può capitare di
arrabbiarmi in panchina… (ride, ndr)
Lei si è abilitato come allenatore UEFA Pro nella stagione 2011/2012: che
ricordi ha di quell’anno e delle lezioni a Coverciano?
Ho un bellissimo ricordo, anche perché ho avuto a che fare con dei colleghi che oggi
allenano ai massimi livelli in Italia, da Vincenzo Montella ad Eugenio Corini. Da
loro ho imparato molto: cerco sempre di immagazzinare le cose positive che sento,
portandomele dentro per crescere a livello personale.
Bene o male ci sentiamo un po’ con tutti. Essendo entrato nel mondo femmini-
le, magari mi chiedono incuriositi com’è lavorare in questo settore ed io rispondo
sempre con toni positivi, anche perché è la pura verità.
Fa sempre piacere scambiarsi opinioni, a prescindere che si lavori nel calcio ma-
schile o in quello femminile, e abbiamo la fortuna di farlo, sentendoci ancora: non
si finisce mai di imparare e il confronto aiuta a crescere.
C’è un allenatore a cui si ispira, magari anche per motivi non prettamente
tattici?
Cos’è che non può proprio mancare nella sua squadra e nel suo spogliatoio?
L’umiltà. Una qualità che nel femminile è molto presente e che sto ritrovando in
particolare nella mia squadra quest’anno, riflettendo quello che è l’operato della
società. Il club è umile, è cresciuto nel tempo e noi dobbiamo essere la copia ideale
di chi ci aiuta a crescere giorno dopo giorno.
Ma anche il sorriso e la musica non devono mai mancare…
massim.cervelli@gmail.com
N
ell’ultimo decennio, come era successo precedentemente nel campo
dell’organizzazione del lavoro, abbiamo visto molti libri dedicati al mi-
glioramento della performance sportiva.
Si tratta, solitamente, di testi che illustrano un metodo particolare che,
più o meno miracolosamente, ha la capacità di aumentare le prestazioni del singo-
lo (o del team) a cui veniva applicato.
‘Per vincere ci vuole testa’, di Fabio Tumazzo, ha come sottotitolo, appunto, ‘stra-
tegie per migliorare la performance’, ma è profondamente diverso da tutto quello
che siamo abituati a leggere. Il testo è, prima che un contributo all’attività agoni-
stica, un’educazione consapevole alla vita: l’essere umano ha la possibilità di dare
il meglio di se stesso per sentirsi effettivamente vivo, lottando per quelli che sono i
propri obiettivi.
Gli umani sono delle macchine fatte per lottare: per soddisfare un bisogno, per rea-
lizzare un desiderio, per risolvere i problemi che, quotidianamente, caratterizzano
l’attività sportiva, ma anche la stessa vita. E la felicità la si ottiene più nella lotta (il
cammino) che nella soddisfazione del desiderio (la meta). La lotta è sia il mezzo
che la fine.
Ce la possiamo fare assumendo un atteggiamento agonistico, conquistando la con-
sapevolezza che siamo macchine costruite per la lotta.
L’altra condizione necessaria è darsi obiettivi che ci permettano di vivere alla nostra
massima espressione (di rendimento, di realizzazione), non fermando il presente,
ma essendo sempre orientati al futuro, per una costante crescita personale, neces-
saria in ogni fase dello sport (e della vita!). La ‘vittoria’, che non è necessariamente
salire sul podio, è conseguenza del benessere derivante dal mettersi in gioco. Il
nostro avversario diventa il miglior allenatore, perché il vero obiettivo è vincere
contro se stessi.