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NOTIZIARIO

Settore Tecnico
del

Anno 2020, n° 5

DOVE
SONO FINITO?

IL CALCIO ITALIANO,
I SUOI COSTUMI
E LE SUE PRESSIONI:
LE DIFFICOLTÀ DI INTEGRAZIONE
DEI CALCIATORI STRANIERI
CON UN DIFFERENTE
BACKGROUND CULTURALE
NOTIZIARIO del SETTORE TECNICO
Anno 2020, n°5

Testata giornalistica.
Registrazione del Tribunale di Firenze
del 20 marzo 1968, n°1911

Consultabile esclusivamente in versione digitale

DIRETTORE RESPONSABILE
Paolo Corbi

COORDINAMENTO REDAZIONALE
Paolo Serena

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO


Felice Accame, Massimo Cervelli,
Guglielmo De Feis, Lucia Nicolai, Marcello Paolillo,
Gianpiero Piovani, Greta Spagnulo e Renzo Ulivieri

FOTOGRAFIE
2020 Black Spark Film AB, Art of Panic,
Getty Images, Pixabay e SF Studios Denmark

PROGETTO GRAFICO
Paolo Serena

TUTTO IL MATERIALE INVIATO


NON VERRÀ RESTITUITO.
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È AUTORIZZATA
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SOMMARIO

6
Cultural intelligence
DISORIENTATI
LE DIFFICOLTÀ DI INTEGRAZIONE NEL CALCIO ITALIANO
di Guglielmo De Feis

16
Estratto della tesi al Master UEFA Pro
PENSIERO ASIMMETRICO
ANALISI DEL RAPPORTO TRA TECNICO E GIOCATORI
di Nazzarena Grilli

36
Intervista esclusiva
A TU PER TU CON GIANPIERO PIOVANI
L’ALLENATORE DEL SASSUOLO FEMMINILE SI RACCONTA

42
Sport e letteratura
LA FELICITÀ È NEL TRAGITTO
RECENSIONE DEL LIBRO ‘PER VINCERE CI VUOLE TESTA’
di Massimo Cervelli
Il calcio italiano, le sue pressioni
e l’estrema difficoltà nell’adattarsi
di un giocatore con altre origini culturali.

Il ‘caso’ della promessa Martin Bengtsson


- talento svedese
che non è riuscito ad integrarsi nel nostro Paese -
invita a riflettere su come certe dinamiche sociali
necessitino di uno studio approfondito,
proprio come avviene in altri ambiti calcistici

6 Notiziario del Settore Tecnico


DISORIENTATI

Notiziario del Settore Tecnico 7


di GUGLIELMO DE FEIS

@Gugliemo De Feis

@ghigo22

I
l calcio esiste da circa un secolo e mezzo.
Nato come uno sport collettivo in cui gli appartenenti di un’unica squadra con-
dividevano tra loro l’appartenenza territoriale, la lingua, le norme e addirittura
la stessa classe sociale, oggi dopo centocinquanta anni il codice culturale dello
spogliatoio deve essere completamente riscritto.

Non esiste un’identità culturale precostituita, non si parla più una sola lingua e le
norme sociali di una società sportiva sono spesso addirittura conflittuali con quelle
dei singoli appartenenti ad essa.
Aver creduto che un unico regolamento interno - stabilito e condiviso in maniera
democratica e liberamente sottoscritto da tutti - potesse surrogare alla mancanza
di valori culturali condivisi, è stata un’illusione sulla quale per troppo tempo si è
fatto affidamento.

Gli interventi dei regolamenti Fifa degli ultimi venti anni non hanno fatto altro che
rincorrere - senza peraltro mai raggiungere - una realtà che si stava trasformando
troppo velocemente e in maniera non prevista (ma nemmeno prevedibile) da chi
aveva pensato all’organizzazione di tornei, sia per club che per nazionali, basandola
esclusivamente su criteri di geopolitica internazionale.

Oggi l’aspetto del multiculturalismo - presente addirittura nelle squadre naziona-


li - richiede una più moderna e sofisticata maniera di gestire i rapporti dell’intera
comunità calcistica.
Questo vale certamente a livello di norme sociali interne del singolo spogliatoio di
una squadra ma, forse, anche a livello di organizzazione strutturale dei tornei.

La convinzione - ben radicata nel mondo del calcio - che siano naturali e non cul-
turali i fattori di aggregazione dello spogliatoio, determina una sorta di ‘nativismo’
calcistico: ovvero credere che esista un carattere nativo o innato di idee, attitudini,
facoltà e qualità specifiche per giocare a calcio.

8 Notiziario del Settore Tecnico


In buona sostanza: chi è adatto a vivere nello spogliatoio - ovunque esso si trovi e
in qualunque modo sia composto - sopravvive nell’ambiente calcistico, altrimenti
viene eliminato, in una sorta di darwinismo sociale.

È talmente forte questa convinzione al punto che il tradizionalista mondo del cal-
cio sembra disposto ad accettare le nuove linee del progresso solo in altre deter-
minate e ben circoscritte sfere del sapere, ma assolutamente non nella gestione
sociale dello spogliatoio.

Se infatti la metodologia nella preparazione atletica, la ricerca sul mercato calci-


stico e l’innovazione tattica possono essere ‘contaminate’ dal progresso - con data
science, data analytics e machine learning - nel campo relativo alla gestione dello
spogliatoio ci si deve unicamente basare su esperienza personale e sensazioni uma-
ne.
Nessun allenatore sarebbe disposto a studiare principi di etologia, sociologia, psi-
cologia o cultural intelligence che lo aiutino a leggere i comportamenti - individua-
li o di gruppo - dei suoi calciatori.
Invece, sono culturalmente abituati a studiare la metodologia di allenamento atle-
tico, a conoscere i dati statistici dei potenziali nuovi acquisti e ad imparare le varia-
zioni tattiche dei loro colleghi, intendendo tutte queste attività conoscitive come
una moderna forma di aggiornamento professionale.

Mentre sono fermamente convinti dell’utilità del preparatore atletico nel loro staff,
per il lavoro sul campo, rifiuterebbero, altrettanto fermamente, l’affiancamento di
uno psicologo o di un sociologo nella loro attività di gestione dello spogliatoio.
In definitiva: per gli allenatori il progresso scientifico-tecnologico funziona ed è
utile in determinati settori del sapere calcistico mentre è inutile, se non proprio
deleterio, in altri.
Si tratta, senza dubbio, di una generalizzazione e di una semplificazione eccessi-
ve, dovute a una mia personale conoscenza dell’ambiente calcistico. È doveroso
rimarcare, in ogni caso, che proprio perché basata su dati personali il giudizio non
riguarda l’intera categoria degli allenatori, ma solo il loro stereotipo culturale.

La squadra multiculturale del giorno d’oggi, a causa di questa sua composizione


non omogenea, rischia di essere poco solida e coesa, oppure di riuscire ad esserlo
ma solo per eventualità casuali e poco durature.
A livello individuale, la forza atletica, tecnica e mentale di alcuni giocatori dello
spogliatoio o l’abilità strategica e carismatica di un allenatore possono sopperire
per qualche tempo alla mancanza di identità culturale del gruppo a livello collet-
tivo, ma dopo un periodo, più o meno lungo, di vittorie in battaglia (le partite) la
coesione sociale rischia di affievolirsi.
Le squadre vincenti, ma non coese per la mancanza di valori culturali condivisi,

Notiziario del Settore Tecnico 9


rischiano di fare la fine dei Vichinghi (imbattibili e inarrestabili ma per un breve
periodo storico) o degli Unni (disgregatisi dopo la morte del loro carismatico con-
dottiero Attila).

Senza la capacità di creare l’etnogenesi - ovvero il processo di auto-identificazione


degli appartenenti - la squadra di calcio non è altro che un gruppo di guerrieri che
condividono obiettivi di breve termine.
Finita la forza propulsiva dei soggetti che la compongono, accompagnata dall’en-
tusiasmo iniziale dell’impresa collettiva, manca poi la capacità di riconoscersi in
un’identità culturale che continui a motivare il sacrificio individuale.

Eppure, non ci sarebbe allenatore al mondo disposto a rinunciare ad uno spoglia-


toio che abbia identità culturale, armonia sociale e formidabili obiettivi condivisi.
Non riterrebbe, altresì, conveniente scambiarlo con un modulo tattico sofisticato o
con una preparazione atletica avveniristica.
Per qualunque allenatore, convinto delle proprie capacità professionali, la pietra
angolare su cui costruire la propria stagione calcistica non può essere altro che la
forza di uno spogliatoio compatto.

La difficoltà di persuasione nei confronti di un ambiente così pervicacemente con-


vinto che la legge che ordina lo spogliatoio sia naturale e non culturale potrebbe
essere vinta solo dalla forza dirompente delle immagini di uno splendido film pre-
sentato il mese scorso al Festival del Cinema di Roma.

Tigers del regista svedese Ronnie Sandahl racconta la storia del giovane calciatore
(e connazionale del regista) Martin Bengtsson, ‘acquistato’ giovanissimo (mino-
renne) dall’Inter e ritiratosi alle soglie del calcio professionistico di altissimo livello
dopo la drammatica vicenda di un tentativo di suicidio.

Tigers: una scena del film

10 Notiziario del Settore Tecnico


Nel film non hanno importanza - e meno ancora ne hanno in questa sede - i nomi
della squadra e del ragazzo coinvolti.
Ne hanno, invece - e molta - le differenze culturali tra Scandinavi e Latino-Europei,
tra mondo del calcio e vita fuori di esso.
Protagonista del film è l’alienazione sotto due forme diverse, ma temibili allo stesso
modo.
Il giovane calciatore svedese è escluso dalla comunità di quelli che vivono una vita
diversa dalla sua, perché non giocano a calcio e quindi non possono capire la scala
dei valori e le esigenze di chi invece ci gioca.
Al tempo stesso però è escluso anche dalla comunità dello spogliatoio della propria
squadra, perché svedese e di conseguenza non abituato alla cultura italiana.

Il film è un’autentica enciclopedia dello scontro culturale tra il calciatore ‘diverso’


e l’ambiente che avrebbe tutto l’interesse ad accoglierlo nel migliore dei modi, ma
non riesce nemmeno a comprenderne le difficoltà più elementari.

Credere che esista un solo modo naturale di comportarsi nel calcio, porta i dirigenti
italiani a comunicare al giovane calciatore svedese tutte le questioni importanti in
maniera indiretta e sottintesa (come da sempre si fa nel calcio italiano), facendo ri-
corso al paternalismo latino (protezione in cambio di fiducia e obbedienza) e sotto-
valutando le conseguenze su un ragazzo che non conosce né l’una (comunicazione
diretta delle culture nordiche) né l’altro (bassa distanza dal potere).

L’individualismo nordico (affrontare per conto proprio le vicende essenziali del-


la vita) si scontra col collettivismo latino della quotidianità collegiale di tutta la
squadra, in nome del quale si sacrifica, come se fosse uno sciocco capriccio adole-
scenziale, la libertà di una camera singola che è invece imprescindibile (oltre che
contrattualmente stabilita) per il giovane svedese.

Il basso profilo e l’informalità svedesi si infrangono a ripetizione contro gli scogli


degli alti standard formali richiesti dal professionismo calcistico italiano, nel quale
scarpe, borse, vestiti e auto sono uno status symbol essenziale per chi voglia farne
parte.

Le botte in allenamento e i mancati passaggi ai compagni in partita sono il segno


della spietata competitività calcistica italiana per il posto in squadra, sconcertanti
per chi fin da bambino è stato educato alla collaborazione con lavori di gruppo, a
scuola, in luogo dei compiti in classe con voti individuali.

Il particolarismo italiano, dove la fiducia e la fedeltà per l’amicizia contano più


della legge e dell’autorità, esclude completamente la possibilità di inclusione per lo
svedese, abituato, al contrario, a rispondere ai concetti universali di legge e autorità

Notiziario del Settore Tecnico 11


anche a costo di sacrificare il compagno di squadra.

Quando il protagonista percepisce di aver capito ed accettato le regole del gioco


per poter arrivare all’inclusione nel suo gruppo avviene l’evento che fa precipitare
le cose.
La risposta “Sono un calciatore” alla semplice domanda di una sua connazionale
“Tu chi sei?” dimostra la crisi di identità di Martin.

Nella cultura scandinava nessuna identità può essere definita dal proprio lavoro
(il fare) ma solo dal proprio modo di essere. È proprio la ragazza svedese a fargli
notare la stranezza di questa sua risposta, come se, ormai e inconsciamente, Mar-
tin stesse ridefinendo la propria identità sui modelli imposti coattivamente dalla
nuova cultura: quella calcistica italiana.

A quel punto, tutto quello che stava passivamente accettando pur di arrivare al co-
ronamento del suo sogno da bambino (quello di diventare un campione) diventa
assolutamente intollerabile e le differenze culturali imposte si trasformano nell’e-
quivalente di gabbie per splendide tigri da esposizione (le Tigers del titolo del film).

Nella cultura calcistica italiana, non c’è mai stato posto per film impegnati sul cal-
cio.
La maniera drammaticamente seria nella quale questo sport è vissuto in Italia toglie
spazio e margine a qualsiasi tentativo di mitizzazione cinematografica di un’impre-
sa calcistica.
Proprio per contrasto, forse, è stato riempito lo spazio opposto della commedia,
nella quale trasferire - se possibile ridendoci sopra - tutti i vizi italici relativi al cal-
cio.
Ecco quindi che il film di culto per antonomasia è L’allenatore nel pallone uscito nel
1984 ed ancora oggi programmato immancabilmente dalle televisioni durante il
periodo dei ritiri estivi delle squadre.

Questa parodia del mondo del calcio italiano, basata su tutti i più classici stereotipi
- il campione straniero prima incompreso e poi decisivo, le partite truccate, il cal-
ciomercato, la scaramanzia - ha colpito l’immaginario di generazioni di calciatori
italiani, che lo rivedono ogni anno tutti insieme citandone a memoria le battute
più famose.

I difetti, le manie, le stranezze, le debolezze e perfino le colpe gravi del calcio -


come l’illecito sportivo del presidente della squadra - essendo rappresentati con
l’esagerazione caricaturale della comicità, non solo non hanno mai offeso il suscet-
tibile mondo del calcio ma, al contrario, lo divertono da quasi quarant’anni.

12 Notiziario del Settore Tecnico


Si sono accettati come fossero parte integrante della cultura calcistica italiana an-
che quegli aspetti che se affrontati con il piglio dell’inchiesta giornalistica sarebbe-
ro stati certamente considerati non veritieri e offensivi.

L’allenatore nel pallone è un film italiano e scritto da insiders della nostra cultura,
ma da outsiders della cultura calcistica.
Il regista, gli sceneggiatori e gli attori, infatti, non fanno parte del calcio e allenatori
e calciatori che appaiono nel film, lo fanno solo per brevi cameo.
Questa doppia posizione di vantaggio del film italiano - di esperti di vizi italiani ma
di neofiti di conoscenze calcistiche - non è quella di cui potrà godere Tigers.

Il film di Ronnie Sandahl si


presenta come un’opera di insi-
ders esperti di psicologia sporti-
va (il regista)1 e di calcio vissuto
(il protagonista della vicenda,
Martin Bengtsson) ma anche
di outsiders che vedono, dalla
loro prospettiva di stranieri, la
Ronnie cultura e i difetti italiani.
Sandahl
Nella cultural intelligence è fon-
damentale cogliere l’aspetto del-
la diversa prospettiva tra chi sta
all’interno di un gruppo e di chi,
invece, ne è al di fuori.
L’etnogenesi, ovvero, come det-
to in precedenza, il processo di
auto identificazione in un grup-
po, ha un suo aspetto comple-
mentare nella percezione esterna dei valori identificativi di quello stesso gruppo.
Se, quindi, il film italiano L’allenatore nel pallone può contribuire alla prima parte
di questo processo (quella di auto identificazione dei calciatori e allenatori italiani)
il film scandinavo Tigers fornisce un prezioso contributo per quel che concerne la
percezione esterna del gruppo stesso.
Sono gli Scandinavi del film, cioè, a dirci cosa noi Italiani facciamo di ‘strano’ all’in-
terno del nostro mondo calcistico, senza nemmeno accorgercene.

Tigers è tecnicamente un biopic: un film biografico. Eppure per essere meglio com-
1 Ronnie Sandahl ha lavorato in una trilogia di film su sport e psicologia: oltre alla
regia di Tigers ha anche scritto la sceneggiatura per il film Borg vs McEnroe (2017) e per il
film Perfect (in uscita prossimamente) sul mondo della ginnastica.

Notiziario del Settore Tecnico 13


preso nel mondo del calcio italiano, andrebbe visto come se fosse un documentario
didattico.
Solo in questo modo, un pubblico come quello italiano abituato a vedere film sullo
sport fortemente orientati alla parodia (le commedie italiane) o alla mitologia mo-
derna (cinema americano per i giovani), potrebbe comprendere appieno i formida-
bili significati culturali di Tigers.

Le due ore del film sarebbero in questo modo un insegnamento pratico, diretto e
didascalico per tutti quelli che vivono o gestiscono quel complesso gruppo cultura-
le rappresentato dallo spogliatoio di una squadra sportiva.

Atleti di tutti gli sport di squadra, allenatori e dirigenti (professionisti, dilettanti o


di settori giovanili) ‘studierebbero’ la cultural intelligence in via induttiva.
Tutti comprenderebbero - perché drammaticamente rappresentata nel film - la tre-
menda forza negativa dell’esclusione, preconcetta ed ingiusta, nei confronti di un
individuo da parte del ‘suo’ gruppo, per l’unica ‘colpa’ della propria diversità cultu-
rale.

Nel calcio italiano sono pochi i casi drammatici come quello di Martin Bengts-
son, ma sono tantissimi quelli di ragazzi - o anche di campioni affermati - liquidati
come semplicemente inadatti a sopravvivere nel difficile e selettivo mondo del pro-
fessionismo sportivo.

Incompatibilità, depressione, bullismo, disorientamento, mancato ambientamen-


to, sconcerto, immaturità sono alcune delle forme con le quali si manifesta, o viene
motivata a posteriori, l’esclusione di un calciatore dal gruppo-squadra.

Il consumismo calcistico imposto dalle leggi di mercato, che vedono una domanda
di contratti professionistici enormemente inferiore all’offerta, non ha mai richiesto
di trovare spiegazioni o di porre rimedio a questa dispersione di talento dovuta a
mancate inclusioni culturali dei calciatori acquistati da una società.

Oggi nessun allenatore o dirigente sportivo accetterebbe di valutare un atleta come


non idoneo all’attività agonistica solo sulla base delle impressioni a ‘occhio nudo’
(anche se clinico).
Le valutazioni - soprattutto se implicanti un giudizio definitivo - vengono effettua-
te con la maggior accuratezza scientifica possibile. Nessuna società escluderebbe
un suo atleta solo perché ritenuto inadatto sulla base delle sensazioni: nel moderno
calcio professionistico non c’è spazio per la cosiddetta ‘verità percepita’.

Ecco allora che alla fine del film possiamo vedere rappresentata la maniera pseudo-
scientifica di chiudere in modo oggettivo la vicenda: una possibile certificazione di

14 Notiziario del Settore Tecnico


epilessia del giovane calciatore.
La conoscenza, non usata per includere l’estraneo svedese nel proprio gruppo, vie-
ne utilizzata per poterlo escludere senza dover fare i conti con i propri errori e do-
ver, a quel punto, prevedere una correzione di un sistema non funzionante.

Non si riesce, davvero e con tutta la buona volontà possibile, a comprendere per
quale motivo questo empirismo anacronistico debba riguardare esclusivamente i
rapporti personali e sociali all’interno della squadra, soprattutto in considerazione
dei terribili danni sulla vita dei più sensibili tra i ragazzi e i campioni.

L’allenatore nel pallone ha fatto ridere, dei propri difetti, il mondo del calcio per
quasi quarant’anni.
Tigers potrebbe aiutarlo a correggerli per evitare enormi danni nei prossimi qua-
ranta.

Martin
Bengtsson

Notiziario del Settore Tecnico 15


PENSIERO ASIM
IL RAPPORTO TRA TECNICO E GIOCATORI:
ANALISI DI UNA RELAZIONE COMPLESSA
CHE NON PUÒ AVVENIRE SULLO STESSO PIANO
TRA LE DUE CONTROPARTI

16 Notiziario del Settore Tecnico


Estratto della tesi finale al Master UEFA Pro
dal titolo: ‘Ribelle al predeterminato’

MMETRICO
Notiziario del Settore Tecnico 17
di NAZZARENA GRILLI

Tecnico della Nazionale femminile Under 17

L
ungo il corso di tutta la sua storia, l’umanità ha attribuito giudizi di valo-
re alle differenze biologiche, culturali e di opinione, creando in tal modo
asimmetrie che hanno attribuito a individui, categorie e gruppi posizioni
egemoni o subalterne, rafforzando la consuetudine a una modalità di pen-
siero che considera la diversità non come possibile risorsa generativa, bensì come
ragione che giustifica pregiudizi e discriminazioni, anche violenti e distruttivi.

Ognuno di noi se si pone in quest’ottica costruisce o avalla forme di relazione ne-
gative: le parole, i volumi e i toni, il non ascolto, la postura che assumiamo, i gesti
e soprattutto i nostri silenzi determinano - spesso inconsapevolmente - la nostra
posizione dentro la relazione, incidendo molto di più di quanto siamo disposti ad
ammettere. Poiché la relazione è tema e strumento cruciale del mio lavoro di al-
lenatrice, che mi porta ad incontrare giocatrici, collaboratori del mio staff e tanti
altri colleghi delle varie nazionali e squadre di club, ho sempre sentito l’esigenza di
formarmi, approfondire e riflettere su questo tema per acquisire sensibilità, stru-
menti e competenze di miglioramento personale.

La complessità che vivo nel mio lavoro mi ha portato spesso a riflettere sulle asim-
metrie nelle relazioni professionali e nelle relazioni in generale.
Nello specifico in questa tesi intendo sviluppare le relazioni tra allenatrice e gio-
catrici, le relazioni all’interno della squadra e le relazioni che prendono forma in
campo durante le partite, al fine di poter promuovere, pur in certe inevitabili asim-
metrie, un buono stato di benessere individuale e collettivo, che ritengo fondamen-
tale per creare un clima fertile di riconoscimento e apprendimento reciproco.

Il presupposto di partenza è smettere di attribuire giudizi di valore alle differenze,


poiché esse esistono e non vanno negate, ma devono essere considerate come un
valore imprescindibile in ogni forma di relazione, per le opportunità di espressione
individuale che potenzialmente possono esprimere.
Si deve valorizzare la diversità senza reprimere l’individualità e senza produrre
conformità all’interno dei gruppi, in quanto, se pensiamo alle continue spinte all’o-
mologazione a cui tutti siamo sottoposti, questa ci impone standard di comporta-
menti ritenuti ‘normali’ dalla nostra società e cultura di appartenenza, limitando

18 Notiziario del Settore Tecnico


di fatto la nostra possibilità di espressione e generando sofferenza. Una confor-
mità così pericolosa anche per l’allenatrice stessa, in quanto ne limita apertura e
innovazione verso un orizzonte più ampio di conoscenze. L’allenatrice ha un ruolo
di grande responsabilità e deve saper governare il gruppo-squadra e lo staff su un
piano relazionale, al fine di evitare che le persone possano vivere in un ambiente
stressante, nel quale si sentano in difficoltà perché non riconosciute, non stimate
e senza possibilità di espressione, impossibilitate pertanto a dare il meglio di sé.
Inoltre, se la conformità produce un apparente ordine, non determina mai assun-
zione di responsabilità, bensì incapacità nel fare scelte autonome e responsabili,
e inadeguatezza nella valutazione degli errori, che non hanno una connotazione
negativa, bensì sono un’occasione di crescita individuale e relazionale.

Tutto il mio vissuto mi richiama alla necessità di non essere conformi, di avere uno
spazio libero interno, di allenarlo e coltivarlo in modo costruttivo e generativo, per
sviluppare un certo grado di autonomia e consapevolezza nella crescita personale,
poiché è quello che permette di mantenere un legame con la parte più autentica e
passionale, che si trasforma in spinta energetica sempre tesa al miglioramento di
sé. Una libertà e un’autonomia che accompagnano il senso di responsabilità che
questa comporta.

Come può un’allenatrice o un allenatore, se ritiene che il suo destino e i risultati di


squadra dipendano dal buon livello di collaborazione, cooperazione e solidarietà
interna, non considerare questi aspetti alla base delle sue idee tecnico-tattiche?
Le asimmetrie hanno un peso forte all’interno dei contesti relazionali ed è impor-
tante che l’allenatore sia consapevole della loro esistenza, che le osservi e le tenga
costantemente monitorate, allo scopo di evitare che qualche asimmetria possa pe-
sare negativamente all’interno del gruppo. Come si può non considerare che queste
incidano fortemente nella filosofia di gioco, nei sistemi di gioco, nelle espressioni
tecniche e tattiche individuali e collettive?

DALLE RELAZIONI ASIMMETRICHE


VERSO UNA PROSPETTIVA ARMONICA

L’asimmetria viene definita come mancanza di corrispondenza o di proporzione fra


due o più parti di una stessa configurazione o distribuzione. Pertanto parliamo di
una qualche espressione di disequilibrio, sproporzione e disarmonia. È abbastan-
za semplice intuire come le relazioni umane siano caratterizzate da un’imperfetta
simmetria. Le asimmetrie possono essere di genere, biologiche e culturali. Non vi
è dubbio sul fatto che quelle culturali sono quelle che pesano di più e che gli esseri
umani hanno inventato tante forme di discriminazione sin dalle loro origini.

Notiziario del Settore Tecnico 19


Io stessa, come emerge dalla mia storia sportiva, sono stata vittima di innumerevoli
forme di pregiudizi e discriminazioni, che hanno impedito a me, così come a tante
mie colleghe di quel periodo, riconoscimenti e pari opportunità. Le donne in gene-
rale hanno subito e subiscono ancora oggi impedimenti e ostacoli in diversi settori
sociali e professionali.
Questo avviene nello sport femminile in generale, ma in particolare nel calcio, da
sempre considerato un ‘campo’ di dominio esclusivamente maschile. Siamo state
viste e collocate, non solo come un’evidente minoranza in termini numerici, ma in
posizione socialmente minore, senza garanzie di dignità e diritti. È evidente come
tutto questo abbia impedito il pieno sviluppo del calcio femminile, rallentandone
sin dall’inizio crescita ed espansione.
Oggi finalmente si assiste ad un cambio culturale in questo senso, si vede un po’
di luce e una strada futura, che rischiara il buio degli anni passati. Tanto si sta fa-
cendo, ma ancora tanto c’è da fare, basti pensare al mancato riconoscimento del
professionismo alle giocatrici della massima serie.

Ma quando e come nascono le discriminazioni? Si potrebbe dire, senza voler ba-


nalizzare, quando una persona si trova in posizione minore nel contesto in cui si
esprime, e cioè quando “ciò che è, fa e desidera non è compatibile con quelle che
sono le norme sociali, della società e della cultura nella quale vive”.
Le caratteristiche che comportano una più o meno forte disapprovazione sociale
cambiano in base ai luoghi, al periodo e alla cultura di appartenenza. Inutile forse
dire quanto io abbia, forse inevitabilmente, sviluppato una particolare sensibilità
rispetto alla necessità, come bisogno e desiderio ineludibili, che una individualità
sviluppi pienamente il suo potenziale interno, al fine di raggiungere un certo grado
di equilibrio rispetto alla congruenza tra ciò che è, fa e desidera Poiché ritengo que-
sto fondamentale per il benessere di ognuno di noi, credo che ogni essere umano
debba orientarsi, non solo in quella direzione, ma per quanto possibile favorire,
stimolare e promuovere, nelle relazioni che vive, questa possibilità, in un’ottica di
reciprocità sia per il benessere individuale che collettivo.

Per questo motivo le differenze devono essere viste come aventi uguale valore, pre-
servandole e non eliminandole, ma valorizzandone la ricchezza e la potenzialità.
Ognuno di noi è differente, ma ha indiscutibilmente lo stesso valore di persona: per
quello che è, nelle differenze biologiche; per quello che esprime, fa e pensa, nelle
opinioni e nelle scelte. La mia esperienza di vita sportiva, e non solo, si è caratteriz-
zata, si è nutrita e si nutre ancora di quella spinta vitale e propulsiva della passione
e dell’entusiasmo, di quella spontanea energia vitale, decisiva nel garantire a me
stessa quello spazio di libertà e autonomia, in un cambiamento dinamico, in un co-
stante e possibilmente consapevole divenire. Credo sia fondamentale preservare e
curare costantemente la parte più spontanea e autentica che appartiene ad ognuno
di noi.

20 Notiziario del Settore Tecnico


La discriminazione ha attraversato tutta la mia storia e ha forgiato il mio caratte-
re verso il raggiungimento dei miei sogni, rendendoli visibili e concreti. Pertanto
oggi, alla luce di una maggiore consapevolezza, rivedo tutto il mio percorso che
accompagno e arricchisco con nuove esperienze, come una luce che orienta il mio
lavoro e la mia vita. Una sorta di bussola che tiene viva la memoria, mettendo sem-
pre al centro la persona umana nella sua interezza. La spia della passione deve
essere sempre alimentata per non spegnersi, per fare luce nei meandri più intricati
e complessi, mantenendo fede a quei valori di riferimento etici, come fondanti e
prioritari alla stessa conoscenza, seppur molto importante.

Credo sia fondamentale integrare virtù e conoscenza e credo fortemente che sia
possibile intraprendere questa strada virtuosa, in modo da utilizzare la conoscenza
verso fini che possono promuovere benessere in sé stessi e di conseguenza negli
altri: “la virtù senza conoscenza è zoppa, ma la conoscenza senza virtù è cieca”. Le
asimmetrie sono invece collegate a relazioni di potere, inteso con quella conno-
tazione negativa che spesso lo contraddistingue, in un sistema che tende ad una
divisione gerarchicamente ordinata, che prevede un sopra e un sotto, un’autorità e
qualcuno che è subordinato ad essa.
L’allenatrice (o l’allenatore, a seconda del genere) ha un ruolo di potere che può
utilizzare in modo positivo e costruttivo oppure in modo negativo e distruttivo. Può
incidere e guidare il potere nella direzione della possibilità attraverso il dialogo,
l’ascolto e la reciprocità, con uno stile autorevole e non autoritario, verso forme di
comunicazione che superano le asimmetrie, esaltano le differenze e si accordano in
un collettivo armonico di individui liberi e responsabili.
Un’orchestra, in cui ognuno suona il proprio strumento in sintonia con gli altri,
producendo una melodia unica, all’interno della quale si armonizza il suono del
singolo.
Il calcio è anche musica... in tempi e spazi di espressione.

Notiziario del Settore Tecnico 21


LE RELAZIONI ASIMMETRICHE
TRA ALLENATRICE E GIOCATRICI

Nasciamo e veniamo educati sin da piccoli a certi valori, in un contesto sociale e


culturale già determinato. In passato però, a differenza di oggi, c’era un quadro di
riferimento di valori a cui aderire fisso e chiaro, anche se piuttosto chiuso. Valori
che venivano accettati e accolti in quanto tali, e che raramente venivano messi in
discussione.

Oggi si assiste alla confusione e frammentazione dei valori, ma anche ad una va-
rietà indeterminata di questi ultimi. In un mondo globalizzato non ci sono valori
universali, quasi divini e trascendenti come avveniva in passato.

In una squadra quindi ci troviamo di fronte a tanti differenti valori di riferimento.


Inoltre dobbiamo considerare che ogni tipo di valore nasce dal porre in rapporto
almeno due elementi; ad esempio il valore dell’acqua è dato dalla sete e di conse-
guenza, se non ho sete, non ne colgo il valore.
Spesso questo tipo di rapporto viene posto in modo inconsapevole. Riflettiamo sul
fatto che ogni comunicazione umana è veicolo di valori, ed il valore suggerisce un
qualche comportamento. Quando l’allenatrice chiede al gruppo di uniformarsi a
certi valori, non fa altro che imporre alcuni comportamenti. Non sta forse quindi
limitando la libertà altrui?

Come affrontare allora questa complessa e spinosa questione? Consideriamo inol-


tre che in una squadra c’è una grande varietà di atteggiamenti e se non ci si accorda
sugli atteggiamenti da tenere si generano conflitti manifesti difficili da gestire o
ancora peggio conflitti latenti, che covano sotto senza possibilità di intervento.
Non è possibile utilizzare atteggiamenti diversi nello stesso contesto senza che non
vi sia un qualche conflitto, spesso dagli esiti negativi e distruttivi, con malumori,
tensioni e disgregazioni interne, a volte silenti e meno visibili, ma che creano di-
sarmonie.

L’allenatrice non può avere un approccio superficiale rispetto alle relazioni, lascian-
do che il caso le governi e sperando nella buona sorte, ma deve necessariamente
avere un approccio scientifico, inteso nell’efficacia della procedura che utilizza.
L’allenatrice ha una grande responsabilità rispetto alla gestione del gruppo; deve
avere strumenti e competenze per poter governare i fenomeni, lasciando aperte le
occasioni dello stare insieme e gli spazi di comunicazione, deve saper accogliere
le differenze senza giudicare e fare attenzione ai significati diversi attribuiti alle
parole.
Come ci comportiamo ad esempio quando dobbiamo dare delle regole?
Le regole per essere osservate e rispettate non possono calare dall’alto, non possono

22 Notiziario del Settore Tecnico


essere imposte, ma devono essere condivise, altrimenti verranno sempre trasgredi-
te, che ci piaccia o no, che ne siamo consapevoli o meno.
I comandamenti della tavola di Mosè oggi non funzionano, nessuno o quasi ade-
risce più ad un sistema di regole prestabilito, che fa riferimento ad un sistema di
valori fisso e immutabile. Pertanto gli allenatori rischiano di andare incontro a fru-
strazioni continue rispetto a regole che fanno riferimento solo ai suoi valori e che
non valgono per tutti.

Come procedere allora rispetto alle regole comuni, necessarie e indispensabili a chi
vive lo stesso contesto? Le regole oggi devono poter scaturire dall’esperienza diret-
ta, non possono essere date aprioristicamente, devono ‘concrescere’ - nel senso di
crescere insieme - con l’esperienza condivisa, per essere naturalmente e autono-
mamente condivise. Per questo vanno viste e analizzate insieme nella complessità
delle situazioni che si verificano dentro l’esperienza, al fine da poterne valutare,
con la partecipazione attiva delle giocatrici, la loro utilità ed efficacia per il benes-
sere comune.

Comprendere dunque attraverso l’esperienza diretta quanto le regole non tolgono,


bensì tutelano la nostra libertà. Se le attaccassimo allo spogliatoio proponendo il
‘Metodo Mosè’ non funzionerebbero, o meglio potrebbero apparire formalmente
funzionanti, in modo opportunistico, per rimanere attaccati al contesto, ma alla
prima occasione di difficoltà salterebbero in aria completamente. È evidente che
questo significhi intraprendere un percorso che metta in atto processi dinamici da
comprendere e gestire, ma credo sia impossibile allenare senza affrontare la fatica e
l’impegno che questo comporta. Ritengo che ridurre la complessità delle relazioni
affidandosi al caso sia rischioso e quanto mai inefficace.

Pertanto l’allenatore può operare per via epidemica, cioè inoltrando i valori come
quei virus che si trasmettono per modalità diffusiva- e di cui, purtroppo, oggi tanto
si parla… - oppure per via della conquista del diritto, cioè ponendo rapporti positivi
ad un certo valore, facendo leva sulla condivisione e di conseguenza sull’interioriz-
zazione delle regole. Significa quindi porre in essere rapporti per diventare consa-
pevoli in relazione, per stimolare alla responsabilità, all’autonomia e al senso della
regola. Poiché, quando si conduce un gruppo di persone, si diventa veicolo di valori
e occorrono strumenti personali e collettivi per intraprendere una strada faticosa,
ma necessaria.
E ritorniamo alla forte responsabilità del ruolo che abbiamo scelto di assumere e
da cui non possiamo esimerci, prendendo scorciatoie, pensando che tutto sia sem-
plice e applicabile in modo assoluto: un compito arduo per l’allenatrice che si ca-
ratterizza per la qualità dei legami con le sue giocatrici e con il suo staff. L’asimme-
tria in questo senso può essere vista come una forma di potere, un potere che chi
conduce ha e che non può negare, ma di cui deve essere consapevole e cosciente di

Notiziario del Settore Tecnico 23


esercitare non come manifesta superiorità dell’ego personale, bensì come atto di
umiltà, nell’essere a disposizione dell’altro e non di servirsi degli altri. Un potere
come possibilità e non abuso di potere o prevaricazione. Il potere come accompa-
gnamento alla conoscenza, nel rispetto dei tempi di ognuno. Il potere nel sapere
aspettare, che implica pazienza e lungimiranza, perché “l’insegnante deve esserci
quando l’allievo è pronto...”.

Il potere non è dunque negativo in sé, ma è come lo si usa che fa la differenza. Lo si


può esercitare grazie alle conoscenze e competenze necessarie e fondamentali, per
quello che diciamo e che facciamo, ma soprattutto attraverso quello che siamo. Al
sapere, al saper fare e al saper far fare è fondamentale aggiungere il saper essere. Per
questo la crescita e la consapevolezza personale devono essere al centro di chi vuole
insegnare, poiché per allenare bisogna allenarsi alla conoscenza di sé e degli altri,
con la capacità di entrare in empatia, con il coinvolgimento e il distanziamento
necessario. Nel rapporto allenatrice-calciatrice si giocano potenzialmente diverse
forme di asimmetrie, che collocano l’allenatrice in posizione maggiore per età, per
conoscenze e per potere decisionale e spesso, seppur inconsapevolmente, le gioca-
trici vengono relegate in una posizione minore.
Queste asimmetrie, se non vengono considerate le relazioni in reciprocità, possono
degenerare in forme di autoritarismo, eccesso di direttività o disconoscimento.

Da un punto di vista asimmetrico questo tipo di relazione può anche essere vista
nell’ottica in cui “una parte trasmette qualcosa ad un’altra che ne difetta” il che
può rimandare ad una lettura in termini di superiorità e inferiorità. L’allenatrice
svolge pertanto un ruolo cruciale e delicato, che può promuovere apprendimento
e crescita personale, ma che può anche, nel caso la sua professione sia interpretata
in modo autoritario, limitare la motivazione e le possibilità di espressione delle
giocatrici, relegandole in posizione minore. Si tratta di uno stile di insegnamen-
to incentrato solo sulla trasmissione di conoscenze calcistiche e sulla valutazione
della performance in partita, che non prende in considerazione i processi alla base
di ogni acquisizione e competenza: il dialogo, l’ascolto e la comunicazione, intesa
come capacità di mettere in comune. Tutto ciò può rappresentare un forte limite
non solo per l’apprendimento, ma soprattutto perché rappresenta un assetto rela-
zionale fortemente sbilanciato.

Altro elemento da tenere in considerazione è il ruolo del pregiudizio, che spesso


si muove inconsciamente e in modo subdolo in ogni forma di relazione, condi-
zionando ogni forma di apprendimento. I pregiudizi si consolidano e diventano
opinioni definitive che non cambiano più e una delle conseguenze più gravi è che
queste dinamiche pregiudiziali possono portare - secondo quella che viene definita
“la profezia che si auto-avvera” - a far sì che la giocatrice perda la motivazione, la
fiducia nelle proprie possibilità e sia portata a confermare l’immagine dell’etichetta

24 Notiziario del Settore Tecnico


che le è stata attribuita.
Solo sguardi nuovi vedono e osservano aspetti nuovi. Noi siamo anche come guar-
diamo e quello che guardiamo, così come gli altri sono quello che vediamo e osser-
viamo. È pertanto fondamentale cambiare il modo in cui guardiamo noi stessi e gli
altri se vogliamo attivare cambiamenti.

L’allenatore non può essere conforme allo status quo, ma deve coltivare curiosità
nel porsi costantemente delle domande, deve dimostrare apertura nel senso di pos-
sibilità al cambiamento e deve ampliare la sua visione in una progettualità futura;
deve essere aperto alle differenze come opportunità e deve mantenere l’autenticità
come aspetto da preservare nelle relazioni. Deve soprattutto avere coraggio, inteso
come azione del cuore, per sfidare e cambiare ciò che gli viene facile e comodo, per
uscire dalla zona comfort e battere nuove strade.

Non si può infine trascurare la dimensione affettiva, che permea tutto il rapporto
tra chi insegna e chi apprende, e che è centrale e trasversale a tutto il percorso.
Chi di noi ricorda gli insegnanti avuti in passato non può negare che quelli più
significativi sono stati senza dubbio coloro con i quali si è instaurato un legame
affettivo, oltre che di stima e rispetto reciproco. Questa è la dimensione più impor-
tante e decisiva dell’apprendimento, poiché ci appassioniamo e amiamo ciò che ci
viene insegnato se amiamo colui o colei che insegna. L’insegnamento è passione e
amore per la propria professione, e questo non si trova scritto su nessun libro come
ricettario da apprendere e mettere in atto, ma dentro se stessi, nella congruenza
appunto tra ciò che si è, si fa e desidera fare, lungo un viaggio di consapevolezza
personale tra autenticità, libertà e senso di responsabilità.

Comunicare

C’è poca consapevolezza sul nostro modo di comunicare e ce ne interessiamo solo


quando nasce un problema. Se ci accorgiamo che qualcosa nella comunicazione
non ha funzionato ci poniamo qualche domanda, ma spesso tendiamo a risolvere
il problema affermando che l’altro non ha capito ciò che intendevamo comunicare.
Particolare però non degno di poca attenzione è che invece comunicare significa
mettere in comune qualcosa e la consapevolezza di questo dovrebbe alzare di molto
l’asticella della nostra attenzione.

Gli allenatori, per il compito che svolgono, devono essere all’altezza rispetto ai co-
dici comunicativi, poiché vivono in un contesto denso di relazioni esterne ed inter-
ne, che non possono lasciare fluire casualmente, bensì devono averne il controllo
grazie a conoscenze e strategie, per incidere in modo intenzionale nella costru-
zione di un buon clima comunicativo, partecipativo e cooperativo. Alla base di un

Notiziario del Settore Tecnico 25


messaggio c’è un’idea o un sentimento, che nasce nella testa e nella pancia di chi lo
emette, pertanto affinché arrivi a destinazione occorre che passi nella testa e nella
pancia di chi lo riceve. La comunicazione avviene quando il ricevente comprende il
significato dell’idea o sente l’emozione di chi invia il messaggio.
La comunicazione non consiste nella sola azione del parlare, poiché ci sono diversi
tipi di comunicazione: il linguaggio dei gesti, del corpo, il contatto, le carezze, la
scrittura, il linguaggio degli occhi, la mimica, il sorriso, il disegno, la scrittura, la
musica, il canto, il teatro, la comunicazione telefonica e mediale.

Per fare in modo che ci sia dialogo è importante sapere che ci sono diverse sequen-
ze di comunicazioni (catene) in una direzione e nell’altra in modo alternato, cioè
una sequenza in una direzione e una reazione nella direzione opposta. Un dialogo
non è dunque un ammasso di sequenze nelle due direzioni: è necessario ascoltare
il messaggio prima di parlare e osservare le diverse forme di comunicazione che
l’altro esprime.
Ascoltare nel senso di dare spazio all’altro, senza interrompere e non reagendo im-
mediatamente, ma lasciando anche i momenti di silenzio.

Noi comunichiamo continuamente, anche quando non parliamo. Che lo si voglia o


no, che se ne sia consapevoli o no, noi comunichiamo anche e soprattutto stando in
silenzio. Comunichiamo pensieri ed emozioni attraverso il linguaggio non verbale,
ancor prima che arrivi la parola.
La coerenza tra la parola e tutti gli altri elementi dell’imballaggio (sguardo, mimica,
gesti...) crea chiarezza tra il nostro interno, il nostro stato emotivo e quello che di-
ciamo. Spesso, inconsapevolmente, si dice una cosa, ma internamente ne sentiamo
e pensiamo un’altra, e questo viene riconosciuto dall’esterno, poiché il messaggio e
soprattutto chi lo emette perde di credibilità. Una buona comunicazione dipende
da entrambi gli interlocutori, mentre quando c’è un problema di comunicazione si
tende a dare la responsabilità all’altro.
Le parole, soprattutto nella nostra cultura occidentale, assumono una grande im-
portanza nel messaggio, nell’essere considerate il nucleo della comunicazione. Ma
l’imballaggio, cioè tutto quello che riguarda il non verbale e para verbale, ha deci-
samente più peso, poiché svela le parti più autentiche di noi, quelle meno filtrate e
controllate.

Ci sono evidenti differenze quando un allenatore parla alla squadra in toto o al sin-
golo giocatore. Nella comunicazione a due, faccia a faccia, si è in grado di leggere i
segnali dell’altro (sguardo, postura, silenzi di insofferenza o meno...): una sorta di
riscontro silenzioso, ma visibile. Mentre, quando si parla alla squadra in generale
e non si ha un solo interlocutore, è molto più difficile cogliere questi segnali non
verbali.

26 Notiziario del Settore Tecnico


Per questo motivo viviamo una sorta di handicap comunicativo che dobbiamo te-
nere presente e attuare delle strategie che ci permettano di sanare in parte queste
difficoltà.
È dunque importante fare attenzione ad essere l’unica fonte di informazione, ga-
rantire a tutti gli interlocutori il rapporto visivo e distribuire attenzione senza sa-
crificare nessuno; bisogna costituire differenze nella modulazione della voce, del
tono e del ritmo, del registro lessicale, delle pause e dei silenzi. La comunicazione
ha un aspetto ambiguo, perché il messaggio non arriva quasi mai al destinatario
così come è stato emesso dall’emittente. Il problema colossale degli esseri umani è
completare le vecchie parole con le nuove: è riequilibrare.
In una squadra di calcio si mettono in comune delle cose (patrimonio di condivi-
sione), ma i contesti sono dinamici, cambiano, poiché le relazioni variano costan-
temente.
Se si riprende un discorso occorre riassumere le fasi precedenti, in modo sintetico e
chiaro, senza prolungarsi per non annoiare, ma facendo attenzione a non alludere
perché l’allusione potrebbe risultare esclusiva nei confronti di qualcuno.
Se entrano nuovi giocatori in squadra è importante condividere quel patrimonio
di aspetti messi in comune sino a quel momento, anche attraverso dialoghi indivi-
duali. È importante non dare come implicita la non conoscenza di chi arriva e non
conosce i codici comuni del gruppo. Da tenere presente inoltre anche che i codici
comunicativi cambiano velocemente, poiché sorgono continuamente codici nuovi
che possono ampliare il distacco generazionale e codici differenti per cultura ed
educazione ricevuta. L’allenatrice deve sincronizzare i codici per poter mettere in
comune contenuti e significati.

Notiziario del Settore Tecnico 27


LE ASIMMETRIE ALL’INTERNO DEL GRUPPO

L’allenatrice è una guida, che conduce e accompagna, è moderatore e mediatore,


punto di riferimento imprescindibile del gruppo. Pertanto deve dotarsi di strumen-
ti per capire e comprendere sia il singolo che il gruppo. Deve ‘educarsi a vedere’ per
osservare i segnali che arrivano, al fine di comprendere lo stato di salute del gruppo
nel suo complesso, in quanto obiettivo prioritario da tenere sempre presente e co-
stantemente monitorato.

Deve porsi costantemente delle domande sul loro benessere: stanno bene tra di
loro? Collaborano? C’è partecipazione? Ognuno si sente riconosciuto nelle diffe-
renze individuali? C’è qualcuno che rimane isolato? C’è un leader? Chi sono i gre-
gari? Chi è l’elemento più carismatico?
Deve osservare le interazioni, il modo in cui interagiscono i differenti membri della
squadra, quali posizioni assumono, lo spazio dei singoli in relazione ai contesti e
agli altri, tenendo in considerazione il numero, che nella gestione ha un ruolo de-
cisivo.

Deve osservare le interazioni per saper cogliere anche le caratteristiche individuali


che emergono. Lo spazio occupato per esempio all’interno dello spogliatoio può
determinare una posizione di dominio, o i posti occupati in pullman, così come i
posti a tavola, e tanto altro... È importante osservare e cogliere con occhio attento e
un po’ distanziato le diverse forme di relazione fuori dal campo, per poterle vedere
con focus specifici di osservazione.

Deve osservare le forme di relazione che si sviluppano in campo, in tempi e spazi


di gioco, che dicono tanto sui legami tra i membri di una squadra, così come le di-
stanze tra reparti e della squadra tutta, che ne determinano la compattezza. Deve
saper osservare come i singoli e la squadra intera reagiscono alle difficoltà, in rife-
rimento alla capacità di soffrire insieme, come vanno al raddoppio della marcatura
sulla giocatrice avversaria più forte e come stringono lo spazio collettivamente, in
solidarietà e cooperazione reciproca.
Questi e tanti altri aspetti ci danno delle informazioni molto importanti, per coglie-
re eventuali isolamenti singoli, gruppetti di potere che si vengono a creare, forme di
gerarchie interne e possibili prevaricazioni, che mettono in minoranza relegando
ai margini le opportunità di espressione individuale. Ci dicono molto sul come un
gruppo sta diventando squadra, nel sostegno e mutuo aiuto reciproco.

Oggi le partite vengono analizzate quasi esclusivamente in termini numerici, nei


passaggi efficaci e nei passaggi chiave tesi al superamento di una o più linee degli
avversari, nei metri percorsi e a quale intensità, nelle accelerazioni e nelle zone pre-
valentemente occupate; ma poco, ancora troppo poco, viene evidenziato in analisi

28 Notiziario del Settore Tecnico


che mirano ad osservare la qualità del benessere dei membri, i loro legami interni,
le forme cooperative in tempi e spazi collettivi. Aspetti che sono alla base di quanto
si esprime in campo in ogni sviluppo di gioco individuale e collettivo.

Generalmente si è tutti d’accordo nel sostenere che il benessere individuale e del


gruppo siano importanti, ma di fatto non ci sono ancora attenzione, conoscenze e
procedure adeguate per lavorare in questa direzione. Non c’è, a mio parere, la con-
sapevolezza di quanto questi aspetti possano incidere e di quanti significati di non
compattezza e cooperazione emergano dall’osservazione di certe partite, che vanno
oltre le conoscenze tecniche e tattiche dei giocatori.

Se un reparto è slegato, se tra i reparti non c’è la giusta distanza, se una squadra di-
fende con il baricentro basso, se un passaggio non trova tempo e spazio di ricezione
adeguati, se un attaccante rimane lungo senza accorciare in aiuto della squadra nel-
la fase di non possesso, se un’azione di pressione individuale non viene seguita da
un’azione di pressing collettiva dagli altri membri della squadra, se in campo non
c’è una lingua univoca tra tutte le giocatrici, chiediamoci se tutto questo dipende
solo da questioni tecniche, tattiche o fisiche.

Pensiamo per un attimo a quando tutti noi, pur possedendo una qualche cono-
scenza e riconoscendone la sua validità, non la mettiamo in atto e quindi non la
traduciamo in azione. A volte la volontà ci aiuta, mentre altre volte non è sufficien-
te, poiché non sentiamo quella disponibilità interna e quella spinta ad agire nella
direzione comune.
Se non ci sentiamo bene in una determinata situazione difficilmente daremo il me-
glio di noi stessi in funzione di un collettivo più ampio. Se invece ciascun singolo
si sente riconosciuto e valorizzato per quello che è e che fa, la sua disponibilità a
favore degli altri aumenta grandemente.
Il benessere individuale favorisce il benessere collettivo e viceversa, poiché se ne
comprende il senso in reciprocità, innestando così un circolo virtuoso.

In partita una giocatrice riesce a fare una diagonale difensiva di chiusura, un rad-
doppio di marcatura, uno smarcamento per ricevere non solo perché si è allenata
e quindi ha conoscenze tecnico-tattiche e un’ottima preparazione fisica, ma anche
perché è disponibile verso la squadra con entusiasmo, energia e desiderio e ciò ac-
cade soprattutto se sta bene, se sente la fiducia e il riconoscimento del suo lavoro
con - e per - la squadra. Se un allenatore ritiene essenziali questi aspetti per vincere
le partite, non può non considerarli e non lavorarci sia fuori che dentro al campo,
poiché vanno visti, analizzati, ‘allenati’ anche attraverso delle esercitazioni che pre-
vedano e mettano in risalto che fare insieme è meglio che fare da soli, evidenziando
e riprendendo, anche con riflessioni successive, l’importanza, il senso e i perché
della collaborazione reciproca.

Notiziario del Settore Tecnico 29


Tutto questo, tenendo sempre presente il riconoscimento individuale dentro il la-
voro collettivo, senza il quale quest’ultimo cala di motivazione. La giusta tensione
tra individualità (altra cosa rispetto all’individualismo) e socialità, riconoscimento
del singolo e del collettivo, è sempre precaria e dinamica: per questo richiede un
costante lavoro di consapevolezza interna ed esterna.

L’allenatore/allenatrice deve creare momenti di incontro con e tra le giocatrici, di


conoscenza, di scambio, di partecipazione fuori dal campo e deve evitare l’isola-
mento e il distanziamento individuale, che crea chiusura e pochi momenti di so-
cializzazione.

In sintesi è fondamentale investire e spendere il tempo non solo per affinare la co-
noscenza, ma anche le virtù personali, necessarie affinché il fare insieme non sia
considerato solo un obbligo o un dovere da svolgere, ma soprattutto un modo di
essere in campo e nella vita.

Il gioco

Il calcio è uno sport che nel tempo si è dato regole e organizzazione per autodisci-
plinarsi, assumendo, soprattutto per quanto riguarda il calcio professionistico ma-
schile, le caratteristiche di un’industria a tutti gli effetti, per l’impatto economico,
lavorativo e produttivo.
Senza fare degli inutili e improduttivi moralismi, ritengo necessario sottolineare
quanto sia fondamentale non perdere l’essenza ludica e lo spirito profondo del gio-
co nel calcio, per la gratuità - in quanto non valutato per quello che produce - e quel
senso di espressione e di libertà.

Perché il gioco è così importante? E perché può essere visto come un mezzo essen-
ziale di benessere individuale e collettivo? Il gioco, a differenza del lavoro, non ti fa
sentire la fatica, ma ne cambia la percezione facendoti sentire meno lo stress. Un
ambiente giocoso crea e favorisce un maggiore sviluppo creativo, più innovazioni,
più benessere, più motivazione al raggiungimento di un obiettivo e più cooperazio-
ne ai fini del risultato finale.
Nel gioco ci si esprime con più leggerezza (da non confondere con la superficiali-
tà); si è più sciolti e naturali, così nelle forme di espressione individuali come nella
solidarietà collettiva. Nel gioco si attiva l’emisfero destro del nostro cervello, quello
più creativo che lavora per analogia, rispetto a quello sinistro che lavora in modo
unilaterale.
Per quale motivo non dovremmo preservare tutti questi aspetti che sono fortemen-
te positivi al raggiungimento di un risultato?

30 Notiziario del Settore Tecnico


Lo sport - e in particolare il calcio - ha assunto un tono serioso, spesso a causa di
esasperazioni e inutili tensioni che trovano sfogo in tante partite ad alto livello,
sconfinando in forme degenerative di violenza verbale e fisica.
Se riteniamo che il calcio debba rimanere un gioco è importante come allenato-
ri fare la nostra parte e prenderci la responsabilità che il nostro ruolo comporta.
Come?
A mio parere gli allenamenti devono necessariamente mantenere quel buon clima
emotivo favorevole al gioco, che non significa, come da più parti si teme con un cer-
to pregiudizio, di non fare le cose seriamente. Ma poi cosa si intende per fare le cose
seriamente? Se significa esasperare e creare tensioni eccessive non sono d’accordo.
Il mantenere un clima gioioso non significa non mettere impegno e attenzione in
quello che si fa; anzi, quando si gioca, lo si fa davvero e completamente, poiché si è
immersi nel qui e ora, come in una sospensione di tempo e spazio. Non ci si stanca
mai e si esprimono energie che non pensavamo neanche di avere.

Quando si sta pienamente nel gioco, si è liberi e responsabili, si è creativi e raziona-


li, in una giusta tensione anche del corpo, che diventa più sciolto e libero, disinvolto
e competente.
Nel gioco si integrano gli opposti presenti dentro di noi, producendo benessere
gratuitamente a noi stessi e agli altri, in modo spontaneo, naturale e armonico. Nel
gioco si compete con e non contro qualcuno, si interiorizzano le regole senza che
queste vengano imposte, si collabora e coopera spontaneamente al fine del rag-
giungimento di un obiettivo.

Tutte le forme di competizione che si allontanano dal gioco operano in maniera op-
posta, poiché orientate ad una produzione di qualcosa di materiale e utile, e quindi
perdono quella loro gratuità essenziale. E quindi una sconfitta diventa un dramma,
un errore una mortificazione personale, una competizione una guerra contro un
nemico da battere con qualsiasi mezzo, con astuzia, con mezzi leciti e poco leciti.
Anche lo sport diventa, come in una logica di mercato, un valore solo se produci e
se vinci, e i nostri giocatori sono solo strumenti da utilizzare, così come noi allena-
tori e allenatrici diventiamo carnefici e vittime di questo sistema di produzione e
veniamo esonerati se non otteniamo i risultati.
Il metodo, il percorso, i processi sfuggono ai più - o meglio non interessano - e
tantomeno importano le virtù e l’etica di certi valori che lo sport dovrebbe promuo-
vere.

Quando guardiamo in tv una squadra che gioca davvero, perché fa sport giocando,
perché semplicemente e naturalmente si diverte mentre gioca, si nota, si osserva e
si sente tutta la sua bellezza e tutta la sua interezza.
C’è bisogno di un ritorno alla bellezza: il calcio, per le sue caratteristiche innate, ne
ha tutte le potenzialità.

Notiziario del Settore Tecnico 31


ASIMMETRIE DI SPAZIO NEI SISTEMI DI GIOCO

È evidente che uno degli obiettivi di noi allenatrici e allenatori è che la nostra squa-
dra abbia una razionale occupazione degli spazi in campo, in funzione del pallone
e della distanza da esso, della compagna più vicina, degli avversari e della porta.
Un’occupazione dinamica, che cambia forme e sviluppi di gioco in base alle dif-
ferenti situazioni che si verificano nella partita, nelle due fasi di possesso e non
possesso.
Il sistema di gioco prescelto dall’allenatore, che tende a quest’ordine in campo,
si contrappone ad un altro sistema di gioco avversario, che può essere lo stesso e
quindi sovrapponibile nell’occupazione dello spazio o diverso nella forma, lascian-
do zone di campo con più o meno densità di giocatrici.
Nella dinamica della partita il presunto ordine prescritto, tranne che al fischio d’i-
nizio, diventa dinamico e cambia forme e contenuti di continuo nell’interpreta-
zione singola e collettiva delle giocatrici della nostra e della squadra avversaria in
relazione reciproca.

La mutevolezza, la dinamicità e l’imprevedibilità della partita richiedono una let-


tura e una scelta efficace a situazioni sempre diverse e una scelta sempre più veloce,
poiché i tempi e gli spazi di giocata sono sempre più ristretti, diminuendo note-
volmente il tempo del pensiero. Questo dovrebbe cambiare la percezione sia della
giocatrice ma anche dell’allenatore, con elastica flessibilità e apertura a situazioni
che si presentano sempre differenti.
Se le caratteristiche della partita richiedono queste competenze è evidente che
dobbiamo allenare le nostre giocatrici alla complessità di pensiero e a letture sem-
pre diverse.

Inoltre il fattore imprevedibile richiede anche una competenza creativa nel tentare
di superare di volta in volta gli ostacoli e le interferenze che l’avversario ci pone.
Come è possibile allenare tutto questo con una leadership autoritaria dell’allenato-
re che non considera la giocatrice come un soggetto attivo e propositivo in grado di
sapere fare delle scelte autonome e sempre diverse nelle interazioni che si verifica-
no in partita?
Un insegnamento che non tenga conto di questo aspetto fondante della partita, a
mio parere, è destinato al fallimento, poiché non include la possibilità di interagire
con un buon grado di autonomia, libertà e responsabilità dentro il contesto partita.
Il pensiero complesso va dunque allenato sia attraverso esercitazioni di gioco aper-
te e con più obiettivi senza prevedere risposte codificate, in modo da fare esperien-
za di scelta differenti ed efficaci alle diverse situazioni, sia nello stile relazionale che
l’allenatrice pone in essere con la squadra. I due aspetti vanno presi insieme: non è
possibile considerare i giocatori dei soldatini, ordinati in un sistema chiuso di rela-
zioni e allo stesso tempo aspettarsi che siano camaleontici e in grado di saper sce-

32 Notiziario del Settore Tecnico


gliere in autonomia nelle esercitazioni in allenamento e nelle situazioni in partita.

Spesso le buone intenzioni non sono garanzia sufficiente di buone azioni; anzi,
spesso è proprio con le migliori intenzioni che mettiamo in atto pessime azioni.
Se ho uno stile direttivo e prescrittivo dovrei allenare per schemi, mentre se ho
uno stile autorevole dovrei farlo per principi di gioco, in quanto nel primo caso è
l’allenatore che pensa, mentre nel secondo caso sono i giocatori che pensano. Ma
spesso si verifica che ad uno stile autoritario, che pretende di pensare per gli altri,
corrisponda un modo di allenare che si definisce per principi di gioco. Quello che
accade è che mentre alleno utilizzando esercitazioni aperte ed esplorative, impon-
go di fatto la mia autorità chiudendo ogni forma di espressione individuale.
Quello che emerge è dunque una comunicazione ambigua che disorienta poiché
non tende ad un unico linguaggio in grado di stare nella complessità in modo au-
tonomo e responsabile.

I sistemi di gioco, oggi definiti ‘asimmetrici’, che prevedono uno spazio non occu-
pato intenzionalmente a priori, ma che di volta in volta si aprono ad inserimenti
differenti e prevalenti delle giocatrici che lo vanno ad occupare, ci aprono a questa
prospettiva di integrazione complessa e di difficile gestione. Una prospettiva che
chiama in causa e mette al centro in modo ancor più forte la possibilità di una
giocatrice e di un collettivo pensante in grado di saper leggere nella complessità le
diverse situazioni.
Questo richiede in primis un’apertura dell’allenatore all’accoglienza di questa com-
plessità, senza ridurla ad una mera contrapposizione di numeri, di sistemi di gioco
e di schemi che rischiano di essere, se rimangono esclusivamente tali, solo una elu-
cubrazione mentale fine a se stessa o funzionale meramente al suo ego personale.
Le analisi delle nostre partite pertanto si devono aprire alla complessità e dunque
questo vale in ogni forma di relazione in campo e fuori dal campo.

Quello che di fatto accade in partita dovrebbe ricollocare al centro le giocatrici e la


loro interpretazione, la loro capacità autonoma e creativa di effettuare delle scelte.
Non si dovrebbe porre troppa enfasi ai sistemi di gioco in senso statico, ma piutto-
sto ai diversi sviluppi che essi fanno emergere, in relazione al contesto di cui fanno
parte, in un insieme di elementi in connessione reciproca. L’allenatrice dovrebbe
fare un passo indietro, ritrarsi da una trasmissione autoritaria di schemi e porre
una maggiore attenzione alla relazione, allo sviluppo delle potenzialità personali di
lettura e di scelte necessarie durante la gara. Questo non svilisce il ruolo dell’allena-
tore, ma lo colloca nella complessità della relazione, come un ponte che favorisce e
stimola competenze sempre diverse.
Tutto questo non vuole certo trascurare l’importanza di un’organizzazione colletti-
va, né tantomeno prevedere delle ipotesi di partenza, ma vuole mettere in evidenza
la consapevolezza e il senso di quello che si fa in modo dinamico, poiché in campo

Notiziario del Settore Tecnico 33


le giocatrici non possono dare risposte uguali a situazioni differenti.

Le simmetrie in campo e l’armonica distribuzione degli spazi richiede la capacità di


essere completamente nelle situazioni che si vivono, di accoglierle nella loro com-
plessità, nell’ordine e nel disordine, nelle ipotesi previste e in quelle non previste,
nel ruolo attivo e propositivo e nella capacità di tenuta e resilienza nei momenti in
cui questo non è possibile.
Accettare l’imprevisto e reggere il vento sfavorevole fa parte della complessità della
partita senza avere l’assurda convinzione di poter controllare tutto. Comprendere
ed essere dentro la complessità, sospendere giudizi assoluti e unilaterali, certamen-
te non ci esime dal compito di avere un’organizzazione di squadra e di procedere
verso conoscenze note, anzi, ma ci deve far cogliere e classificare gli aspetti diffe-
renti che via via emergono, analizzandoli nella loro reciproca interconnessione e in
dinamico cambiamento.

Ruoli e funzioni

In passato ogni ruolo era piuttosto chiuso a certi specifici compiti che venivano ri-
chiesti. Ad esempio, le richieste al portiere erano quelle di usare le mani per parare
a difesa della porta e i piedi per effettuare al massimo una rimessa dal fondo o un
rinvio.
Una sorta di specializzazione di ruolo e funzioni, che delineavano caratteristiche
fisse sia negli aspetti tecnico-tattici che in quelli psicologici. Nel tempo l’evolu-
zione del calcio è stata anche un’evoluzione di funzioni sempre più aperte e meno
specialistiche.
Inoltre la difesa a zona rispetto alla marcatura a ‘uomo’ ha cambiato e di molto l’ap-
proccio, l’investimento e il coinvolgimento intellettivo di ogni singolo giocatore. La
rivoluzione che porta la giocatrice a relazionarsi in base alla palla e sempre meno
in relazione all’avversario ha determinato un cambio di prospettiva nella capacità
di lettura e di scelta, nella difesa dello spazio dietro, avanti e laterale, che la pone
al centro come attiva protagonista del gioco e sempre meno dipendente e vincolata
dall’avversario e da un’azione passiva.

L’evoluzione che è avvenuta e che sta avvenendo ci riporta ancora alla necessaria
lettura degli spazi che si aprono e si chiudono con funzioni più aperte, più comple-
te e meno specialistiche. Il ruolo che si ha in campo deve mettere in azione diverse
competenze funzionali alle risposte di momenti sempre diversi.

Ci troviamo di fronte a personalità che si evolvono, che integrano differenti aspetti


e caratteristiche che non possono essere considerati solo da un punto di vista tec-
nico-tattico, in quanto ampliano la propria conoscenza personale e del contesto

34 Notiziario del Settore Tecnico


partita.
Allenare è diventato dunque molto più complesso rispetto al passato, poiché così
come si richiede ad ogni singolo giocatore una competenza più ampia e interattiva
con il contesto partita, allo stesso modo chi conduce è chiamato ad allargare la pro-
pria visione e prospettiva di conoscenze dentro una complessità sempre crescente.
Per questo è fondamentale adeguare al proprio ruolo una leadership relazionale e
autorevole in grado di saper interagire con il contesto e con tutti i membri che ne
fanno parte.

Allenare le relazioni

In un recente corso di formazione che si è svolto a Coverciano, Paola Regnani e Fe-


derica D’Astolfo hanno definito il passaggio come un “gesto tecnico di relazione”,
ponendo al centro la dimensione umana e ricollocando la tecnica come un mezzo
e non un fine della relazione stessa.
Il passaggio, inteso come gesto tecnico, è quel fondamentale che ti permette di
mettere in comunicazione il singolo alla squadra. In questo senso crea sviluppi del
gioco in tempi e spazi comuni che ricercano un avvicinamento verso la porta, in
profondità, in appoggio, in aggiramento, alla ricerca di linee di passaggio libere,
cercando di eludere le interferenze degli avversari che si muovono invece per chiu-
derle.
Da un punto di vista tecnico e tattico ogni allenatore o allenatrice lavora in alle-
namento per migliorare la precisione, l’intensità (palla forte), lo stop orientato, la
postura aperta prima di ricevere per avere più connessioni possibili, la scelta e il
tempo spazio comune tra chi calcia e chi riceve.

Come è stato ben evidenziato in quell’incontro, questi aspetti possono essere aperti
ed esplorati dentro le relazioni in un senso più ampio. La relazione ha bisogno di
tempi e spazi comuni, di apertura verso gli altri, di conoscenza reciproca, di incon-
tro comune, di dialogo e comprensione, di stare insieme nelle differenze, di dispo-
nibilità, di solidarietà, di cooperazione e di tanto altro.
Come possono questi aspetti non essere considerati? La tecnica e la competenza
tattica vanno sicuramente allenate e affinate costantemente, ma sono mezzi per
raggiungere una finalità comune, che nel calcio è vincere le partite e giocare bene.
Ma la via per raggiungere questa finalità non può prescindere dalla relazione tra le
persone umane, nel mettere in comune le differenze e le possibilità nell’accoglien-
za e nel dialogo, nella coesione e nell’aiuto reciproco: il senso di essere un ‘noi’ nella
relazione.

Notiziario del Settore Tecnico 35


GIANPIERO
PIOVANI
Il suo Sassuolo è al momento la rivelazione della Serie A TIMVISION:
intervista al tecnico che ha abbracciato il calcio femminile,
“per un’avventura da cui non vorrebbe più uscire”

36 Notiziario del Settore Tecnico


Notiziario del Settore Tecnico 37
C
ominciamo dall’attualità: il Sassuolo al momento è la rivelazione
della Serie A TIMVISION. Si aspettava un inizio di campionato su
questi ottimi livelli?

Nonostante i problemi legati agli infortuni, più o meno gravi, le ragazze hanno avu-
to una crescita costante grazie al lavoro svolto in allenamento. Non mi aspettavo
certo questa partenza, ma le mie calciatrici sono state brave: le cosiddette ‘seconde
linee’ sono diventate titolari e si sono fatte trovare pronte. La cosa che mi rende più
orgoglioso è il fatto che si sia creata una bella alchimia tra tutti coloro che fanno
parte della squadra, intesa nel suo senso più allargato, dai fisioterapisti ai prepara-
tori atletici.

Qual è l’obiettivo stagionale per le sue Neroverdi? La qualificazione alla


prossima Champions League è un traguardo tangibile?

Viviamo alla giornata. Siamo una squadra molto giovane e dobbiamo continuare
nel nostro percorso di crescita, giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamen-
to. Il nostro obiettivo rimane la salvezza: una volta che l’avremo raggiunta, potremo
anche guardare oltre e – perché no – toglierci anche delle soddisfazioni. Davanti
a noi ci sono squadre più attrezzate, ma noi dobbiamo continuare sulla strada di
questo percorso che abbiamo intrapreso.

Facciamo un passo indietro, a quando nel 2017 è salito sulla panchina del
Brescia: da cosa è nata questa scelta di lasciare il calcio maschile e di appro-
dare a quello femminile?

Fui convinto dal presidente, Beppe Cesari, e dal Ds del Brescia femminile. Avevano
grande entusiasmo e mi sono lasciato coinvolgere e trascinare dalle persone com-
petenti che poi ho trovato in questa mia nuova avventura. Un’avventura da cui io
non vorrei più uscire…

Oggi tornerebbe su una panchina di calcio maschile?

Sinceramente adesso sto molto bene con le calciatrici. Sto vivendo questa crescita,
anche mia personale e non solo del movimento, grazie all’impegno delle mie ragaz-
ze che ogni volta che scendono in campo danno sempre il 200 per cento per cercare
di migliorarsi. In questi quattro anni che sono dentro il movimento, c’è un aspetto
fondamentale che ho notato del calcio femminile: la cura dei particolari. E il livello
si sta alzando anche per questo motivo.

38 Notiziario del Settore Tecnico


Stagione 2017/2018, il suo Brescia ha mancato il titolo soltanto ai calci di ri-
gore dello spareggio scudetto contro la Juventus. Una stagione che definire
‘particolare’ è fin troppo riduttivo, con la mancata iscrizione della società
lombarda alla successiva Serie A. Come descriverebbe quel campionato e
con quali sentimenti l’ha vissuto?

È stato un campionato completamente nuovo, perché ero appena sbarcato nel cal-
cio femminile, ed è stata una stagione comunque esaltante: abbiamo azlato la Su-
percoppa, siamo arrivati in finale di Coppa Italia ed il campionato l’abbiamo vinto
al pari della Juventus, con cui abbiamo però poi perso lo scudetto soltanto nello
spareggio, ai calci di rigore.
Sono felice di aver vissuto quella stagione, che personalmente mi ha aiutato a cre-
scere anche per merito delle ragazze che ho avuto la fortuna di allenare. Al di là di
quel triste epilogo, è stata un’annata fantastica. E grazie a quell’esperienza oggi ho
la fortuna di essere qui, al Sassuolo, in una società che crede molto nel calcio fem-
minile; la fiducia che il club neroverde sta dimostrando verso il movimento è un
aspetto fondamentale per portare avanti il mio lavoro.

E dopo quel campionato è stato votato dai


suoi colleghi quale miglior allenatore del
campionato di Serie A femminile: cosa ha
significato per lei vincere la Panchina d’o-
ro? È stata una sorta di ‘rivincita’ per lo
spareggio scudetto?

Aver debuttato nel calcio femminile e aver vin-


to subito la ‘Panchina d’oro’ quale migliore al-
lenatore della Serie A femminile significa aver
fatto un percorso di grande qualità. È stata una
sensazione bellissima, un motivo di grande
soddisfazione; quando ritirai il premio ricordo
che dissi che lo volevo idealmente condividere
con tutti i miei colleghi tecnici di quel campio-
nato.
La Panchina d’oro rappresenta una gioia per-
sonale più che di gruppo, a differenza di quello
che vivemmo in quello spareggio, in cui inve-
ce la delusione fu condivisa con la società e le
ragazze. I sentimenti sono stati ‘densi’ in en-
trambi i casi, ma vengono fuori appunto da si-
tuazioni non proprio assimilabili.

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In cosa il calcio femminile è migliore di quello maschile? Si sentirebbe di
consigliare una carriera nel calcio in rosa ad un suo collega?

La qualità si è alzata notevolmente nel calcio femminile italiano. Si può vedere sia
a livello di Nazionale che di Champions League, dove il divario con le concorrenti
europee si sta assottigliando.
Ad un mio collega consiglierei di entrare a far parte di questo mondo perché qui
si respira ancora quello che viene definito ‘un calcio vero’: c’è grande umiltà nelle
ragazze e c’è voglia di crescita. Chi allena in questo settore si può togliere davvero
delle grandi soddisfazioni.

Oggi cosa serve al calcio femminile italiano per compiere un ulteriore step
nel suo progresso?

Continuare in questo percorso tutti insieme, uniti nella voglia di migliorarsi, dalla
Federazione fino alle singole società. Dobbiamo continuare a lavorare per crescere,
consapevoli che far parte di questo mondo – ripeto – è davvero bello.

Difficile fare nomi, ma può dirci un suo collega o a una sua collega allenatri-
ce di questa Serie A TIMVISION che stima particolarmente e che magari ha
votato all’ultima Panchina d’oro?

Sono orgoglioso di dirlo: Betty Bavagnoli della Roma è davvero brava, aiutata per
di più da uno staff molto competente. Ed è oltretutto una persona di grande umil-
tà. Lei è piacentina e io ho giocato per undici anni nel Piacenza: forse è per questo
motivo, fatto sta che tra di noi c’è un grande affiatamento e sono davvero felice che
abbia vinto l’ultima edizione della Panchina d’oro.
Poi ho un buonissimo rapporto con tutti gli altri colleghi, anche se può capitare di
arrabbiarmi in panchina… (ride, ndr)

Lei si è abilitato come allenatore UEFA Pro nella stagione 2011/2012: che
ricordi ha di quell’anno e delle lezioni a Coverciano?

Ho un bellissimo ricordo, anche perché ho avuto a che fare con dei colleghi che oggi
allenano ai massimi livelli in Italia, da Vincenzo Montella ad Eugenio Corini. Da
loro ho imparato molto: cerco sempre di immagazzinare le cose positive che sento,
portandomele dentro per crescere a livello personale.

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C’è un Mister del suo corso UEFA Pro con cui è rimasto in contatto e con cui
magari continua a scambiarsi idee opinioni di campo?

Bene o male ci sentiamo un po’ con tutti. Essendo entrato nel mondo femmini-
le, magari mi chiedono incuriositi com’è lavorare in questo settore ed io rispondo
sempre con toni positivi, anche perché è la pura verità.
Fa sempre piacere scambiarsi opinioni, a prescindere che si lavori nel calcio ma-
schile o in quello femminile, e abbiamo la fortuna di farlo, sentendoci ancora: non
si finisce mai di imparare e il confronto aiuta a crescere.

C’è un allenatore a cui si ispira, magari anche per motivi non prettamente
tattici?

Non perché lavoro al Sassuolo, ma mi piace molto De Zerbi; cerchiamo di riportare


nella nostra squadra femminile alcune idee di gioco che lui propone con la squadra
maschile neroverde.
Come giocatore ho avuto allenatori di grande spessore come Arrigo Sacchi, Ranieri
e Gigi Cagni, solo per fare qualche nome. Da tutti loro ho preso qualcosa che mi
hanno insegnato, anche se cerco sempre di essere me stesso, Gianpiero Piovani.

Cos’è che non può proprio mancare nella sua squadra e nel suo spogliatoio?

L’umiltà. Una qualità che nel femminile è molto presente e che sto ritrovando in
particolare nella mia squadra quest’anno, riflettendo quello che è l’operato della
società. Il club è umile, è cresciuto nel tempo e noi dobbiamo essere la copia ideale
di chi ci aiuta a crescere giorno dopo giorno.
Ma anche il sorriso e la musica non devono mai mancare…

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LA FELICITÀ È NEL TR

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RAGITTO

Recensione del libro di Fabio Tumazzo


‘Per vincere ci vuole testa’
Notiziario del Settore Tecnico 43
di MASSIMO CERVELLI

massim.cervelli@gmail.com

N
ell’ultimo decennio, come era successo precedentemente nel campo
dell’organizzazione del lavoro, abbiamo visto molti libri dedicati al mi-
glioramento della performance sportiva.
Si tratta, solitamente, di testi che illustrano un metodo particolare che,
più o meno miracolosamente, ha la capacità di aumentare le prestazioni del singo-
lo (o del team) a cui veniva applicato.
‘Per vincere ci vuole testa’, di Fabio Tumazzo, ha come sottotitolo, appunto, ‘stra-
tegie per migliorare la performance’, ma è profondamente diverso da tutto quello
che siamo abituati a leggere. Il testo è, prima che un contributo all’attività agoni-
stica, un’educazione consapevole alla vita: l’essere umano ha la possibilità di dare
il meglio di se stesso per sentirsi effettivamente vivo, lottando per quelli che sono i
propri obiettivi.
Gli umani sono delle macchine fatte per lottare: per soddisfare un bisogno, per rea-
lizzare un desiderio, per risolvere i problemi che, quotidianamente, caratterizzano
l’attività sportiva, ma anche la stessa vita. E la felicità la si ottiene più nella lotta (il
cammino) che nella soddisfazione del desiderio (la meta). La lotta è sia il mezzo
che la fine.
Ce la possiamo fare assumendo un atteggiamento agonistico, conquistando la con-
sapevolezza che siamo macchine costruite per la lotta.
L’altra condizione necessaria è darsi obiettivi che ci permettano di vivere alla nostra
massima espressione (di rendimento, di realizzazione), non fermando il presente,
ma essendo sempre orientati al futuro, per una costante crescita personale, neces-
saria in ogni fase dello sport (e della vita!). La ‘vittoria’, che non è necessariamente
salire sul podio, è conseguenza del benessere derivante dal mettersi in gioco. Il
nostro avversario diventa il miglior allenatore, perché il vero obiettivo è vincere
contro se stessi.

Fabio è un allenatore tradizionale con la passione per la cibernetica della mente


(con il richiamo all’importante elaborazione di Silvio Ceccato, uno dei fondatori,
negli anni Cinquanta, della Scuola Operativa Italiana). Essendo la cibernetica una
scienza applicata che mira a riprodurre le operazioni del cervello umano in mac-
chine ed elaboratori, per cibernetica della mente s’intende l’analisi delle operazioni
mentali (ed anche i progetti di automazione del linguaggio).

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Il terreno di applicazione, per Tumazzo, è quello dell’allenatore. Oggi il coaching
è un complesso composto di diverse figure professionali: insegnante tecnico/tatti-
co; allenatore delle qualità fisiche, allenatore delle qualità psicologiche (cognitive,
emotive, relazionali).
Nessuna forma di preparazione sportiva può prescindere dagli aspetti fisici e tec-
nici, ma l’elemento determinante è intervenire nella sfera mentale. Il mental coach
deve stare un passo indietro, essere il meno invadente possibile e sviluppare il suo
ruolo di mentore (di volta in volta guida, sostegno, indicazione di modello, sugge-
ritore di cambiamenti con particolare attenzione all’uso del linguaggio).
La crescita si ottiene con l’assunzione di responsabilità. Solo le azioni consapevoli
sono sotto il nostro controllo perché frutto di una decisione presa. L’atleta respon-
sabile deve valutare ogni azione, senza trascurare nessuna opzione, sapendo che
non esistono scelte giuste o sbagliate, ma soltanto scelte appropriate. Ed il ruolo del
coach non è quello di trascinatore, ma di ‘spingitore’.
Il libro di Tumazzo, ex atleta ed oggi allenatore di sport di combattimento, conse-
gna queste leve
(saper essere, saper fare, saper pensare) per migliorare gli atleti e se stessi, in un
libro che offre un vasto repertorio di metodi ed esercizi. Schemi e diagrammi da
studiare con attenzione, ma tenendo fermo il timone sulle coordinate che indicano
la via del miglioramento: quel che conta è iniziare a lottare, lo scopo deve essere
entusiasmante, ma anche il programma per realizzarlo, altrimenti l’obiettivo da
raggiungere resterà una chimera.

Per vincere ci vuole testa

Autore: Fabio Tumazzo


Editoriale Sport Italia Milano
Recco, marzo 2020

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