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SALATIN (Francesca), « Volte, "cieli" e caementa..

La Basilica di Massenzio
come fonte per gli architetti », Ædificare, n° 1, 2017-1, Revue internationale
d’histoire de la construction, p. 93-116

DOI : 10.15122/isbn.978-2-406-07092-4.p.0093

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R ÉSUMÉ – La contribution porte sur le succès de la Basilique de Maxence en tant que


modèle porteur d’une hérédité formelle et technique pour l ’architecture des XVe et XVIe
siècles. La basilique a inspiré divers édifices et projets suffisamment significatifs pour
être, à leur tour, pris comme modèles. Cet article envisage, en outre, la basilique comme
exemple de référence en termes de choix constructifs, pour comprendre les emprunts et
les divergences entre l ’original antique et sa reprise.

MOTS-CLÉS – Basilique de Maxence, Renaissance, structures voûtées, opus caementicium,


voûte di getto
VOLTE, “CIELI” E CAEMENTA
La Basilica di Massenzio ­
come fonte per gli architetti1

INTRODUZIONE

Nella ­controfacciata della Basilica superiore di Assisi si trova una


delle prime scene affrescate della Storie di San Francesco: la Pentecoste2
(Fig. 1). ­L’episodio ha per sfondo una c­ omplessa architettura nella quale,
malgrado i numerosi elementi d­ ’arbitrio, da tempo si riconosce un c­ hiaro
riferimento alla visione degli ambienti laterali della basilica di Massenzio
(Fig. 2), nonché ­un’attestazione precoce della sua grande fortuna.
­L’edificio rappresenta uno snodo nella storia ­dell’architettura, costi-
tuendo un traguardo per la costruzione romana e uno dei punti di riferi-
mento per quella successiva. Tra Quattro e Cinquecento, il monumento è
assunto tra i riferimenti progettuali di alcuni degli episodi architettonici,
in maggioranza ecclesiastici, più cruciali nel panorama architettonico,
­come, ad esempio, ­Sant’Andrea a Mantova, i progetti per San Pietro,
San Nicolò di Carpi, o le ­chiese palladiane3. Si tratta di architetture
1 Questo lavoro approfondisce questioni affrontate nel corso della mia tesi di Dottorato
“La basilica di Massenzio. Storia, significati, trasformazioni urbane tra tardo-medioevo
ed età moderna” sotto la guida di Pierre Gros e Vitale Zanchettin. Per aver discusso c­ on
me numerose questioni sono grata a Mario Piana.
2 Cfr. Arnaldo Bruschi, ­L’antico, la tradizione, il moderno da Arnolfo a Peruzzi. Saggi
­sull’architettura del Rinascimento, Milano, Electa, 2004, p. 62-63; Francesco Benelli, The
architecture in G
­ iotto’s painting, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2012, p. 14-18.
3 In generale si veda Udo Kultermann, Die Maxentius-Basilika: Ein Schlüsselwerk spätantiker
Architektur, Weimar, VDG, 1996; ­con esempi anche recenti. Per ­Sant’Andrea fondamentali:
Richard Krautheimer, Studies in early Christian, Medieval, and Renaissance art, Londra, London
University of London Press, 1969; Joseph Rykwert, Anne Engel (a cura di), Leon Battista
Alberti, Milano, Electa, 1994, p. 216-223, p. 106-133, p. 162-177; Massimo Bulgarelli,
« Architettura, retorica e storia. Alberti e il tempio Etrusco », in Leon Battista Alberti, 2 vol.,
Firenze, Olshki, 2009, II, p. 663-684. Su San Pietro: Arnaldo Bruschi, Bramante architetto,

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a loro volta polo di significativa ­considerazione per c­ ontesti edificatorii


diversi, tanto che risulta sfumato il c­ onfine tra ripresa diretta del modello
antico e la sua assimilazione attraverso la mediazione di questi esempi.
Ragioni diverse orientano l­ ’attenzione verso la basilica massenziana.
In particolare si tratta di problematiche progettuali legate ai limiti della
grande scala4 – rispetto alle quali gli strumenti espressivi fino ad allora
validi risultavano inadeguati. A tal proposito, eloquente si dimostra il
paragone instaurato nei primi anni ’30 del ‘500, in un foglio ­dell’album
di Marten van Heemskerck, tra il nicchione del cortile intermedio
del Belvedere5 e una porzione della basilica massenziana (Fig. 3): se la
riflessione sembra orientata al problema d ­ ell’articolazione muraria in
nicchie e absidi, più in generale la ragione ­dell’accostamento sembra
risiedere proprio ­nell’imponenza inconsueta dei due esempi. Inoltre
questioni legate ai sistemi di copertura voltati e alle tecniche costruttive
tipicamente romane, c­ ome ­l’opus caementicium, fanno della basilica un
terreno d­ ’indagine privilegiato, benché non esclusivo.
Bari, Laterza 1969, p. 556; Ian Campbell, « The new St. P ­ eter’s: basilica or temple? », The
Oxford art journal. 1981, 4, p. 3-8; Christof Thoenes, Die Frühen St. Peter Entwürfe, 1504-14,
Tübingen, Wasmuth 1987, p. 188-193; Cristiano Tessari, San Pietro che non c­ ’è. Da Bramante
a Sangallo il Giovane, Milano, Electa, 1996; Robert Stalla, « La navata di S. Pietro sotto Paolo
V. La tradizione della forma architettonica », in Gianfranco Spagnesi (a cura di), ­L’architettura
della basilica di San Pietro. Storia e Costruzione, Roma, Bonsignori, 1997, p. 269-273; Christoph
Luitpold Frommel (a cura di), Baldassarre Peruzzi, 1481-153, Venezia, Marsilio 2005, p. 69,
p. 353-369. In merito a San Nicolò di Carpi cfr. Sandro Benedetti, « La sperimentazione
di Baldassarre Peruzzi: il Duomo di Carpi », in Marcello Fagiol, Maria Luisa Madonna
(a cura di), Baldassarre Peruzzi, pittura, scena e architettura nel Cinquecento, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana 1987, p. 65-77; Cristiano Tessari, Baldassarre Peruzzi: il progetto
­dell’antico, Milano, Electa, 1995, p. 41-43; Elena Svalduz, Da castello a “città”. Carpi e Alberto
Pio, 1472-1530, Roma, Roma Officina Ed., 2001, p. 191-215, Peter W. Parsons, « Between
typology and geometry: designs by Baldassarre Peruzzi for Carpi cathedral », Römisches
Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana, 2003/04, 35, p. 287-326. Per il ruolo di mediazione
svolto dalla lettura palladiana cfr. John Summerson, « Palladio e gli inglesi », Bollettino
del Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio, 1973, 15; p. 9-25; Arnaldo
Bruschi, « Bramante, Raffaello e Palladio », Bollettino del Centro internazionale di studi di
architettura Andrea Palladio, 1973, 15, p. 74; Guido Beltramini, Palladio nel Nord Europa.
libri, viaggiatori, architetti, Milano, Skira, 1999, p. 25; Malvina Borgherini, Andrea Guerra,
Paola Modesti, Architettura delle facciate: le ­chiese di Palladio a Venezia. Nuovi rilievi, storia,
materiali, Venezia, Marsilio, 2010, p. 84-87.
4 Su queste questioni cfr. Arnaldo Bruschi, Bramante architetto…, op. cit., p. 538-539. Il San
Pietro Bramantesco rappresenta ­l’esempio più eloquente in questa direzione.
5 Berlino, Kupferstichkabinett, Skizzenbuch, II, fo 6vo. Cfr. Christian Hülsen, Hermann
Egger (a cura di). Die römischen Skizzen bücher von Marten van Heemskerck im Königlichen
Kupferstichkabinett zu Berlin, Soest-Holland, Davaco, 1975, II, tav.8. Ripr. facs. dell‘ed.,
Berlino, 1913-1916.

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Fig. 1 – Giotto, Pentecoste, Fig. 3 – Marten van Heemskerk,


Basilica superiore di Assisi. Belvedere Vaticano e basilica di
Massenzio. Berlino, Kupferstichkabinett,
Skizzenbuch, II, fo 6vo.

Fig. 2 – Basilica di Massenzio (foto autore).

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LA BASILICA, LE TERME E ­L’ETRUSCUM SACRUM

Nel panorama d­ ell’architettura monumentale di Roma tardoantica


il breve impero di Massenzio costituisce ­l’ultima prova di iniziative
edilizie c­ ontrassegnate da nuove sperimentazioni e cariche di possibili
sviluppi, di cui la basilica rappresenta u­ n’efficace testimonianza.

Fig. 4 – Terme di Diocleziano, Cod. Mellon, fo 51vo.

La Basilica, infatti, non solo supera quanto a dimensione ogni prece-


dente formale, ma c­ on la sua pianta e le sue volte in c­ onglomerato segna
il punto di rottura nella definizione architettonica del tipo basilicale,
­come emerge dal ­confronto ­con la ­contemporanea basilica costantiniana
di Treviri6. Nella fabbrica massenziana ad essere assunti sono gli spunti
planimetrici e costruttivi caratteristici delle grandi aule termali7: il fri-
gidarium delle sale termali viene estrapolato e fatto diventare organismo
autonomo (Fig. 4). Dedotta dalle terme è soprattutto la ­configurazione
6 Cfr. Nicola Borger-Keweloh, Die Liebfrauenkirche in Trier. Studien zur Baugeschichte, Trier,
Selbstverl. d. Rhein. Landesmuseums, 1986. Il progetto costantiniano, pur rappresen-
tando il più grande spazio coperto fuori d­ all’Italia, si pone c­ ome un terreno già battuto,
aderendo a una esperienza strutturale c­ onsolidata e poi mutuata nelle basiliche cristiane.
7 Sulle terme cfr. Inge Nielsen, Thermae et balnea. The architecture and c­ultural history of
Roman public bath, Aarhus, Aarhus University Press, 1990, p. 193-212.

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strutturale, caratterizzata da tre volte a crociera affiancate da ambienti


­con coperture impostate ad altezza inferiore e coperti a botte, funzionali
­all’irrigidimento d­ ell’edificio e al c­ ontrasto delle spinte8. Nella basilica
massenziana gli elementi portanti fondamentali sono i piedritti, veri e
propri setti murari trasversali, prolungati oltre ­l’estradosso delle botti,
che assorbono la ­componente orizzontale di spinta prodotta dalla crociere.
Alle volte a botte è affidato il c­ ompito di c­ ontribuire significativamente
ad aumentare la resistenza per forma delle ali laterali9.

Fig. 5 – Auguste Choisy, sistema Fig. 6 – Baldassarre Peruzzi, Firenze,


costruttivo della Basilica Gabinetto disegni e stampe Uffizi
di Massenzio. (GDSU), fo 156ro, 161ro, 529ro
(montaggio a cura di Peter W. Parsons,
2003-2004).

8 Rabun Taylor, Roman builders: a study in architectural process, Cambridge, Cambridge


University Press, 2003, p. 174-211.
9 Una situazione di carico meno favorevole si riscontra invece nei quattro appoggi esterni
del perimetro, dove la direzione obliqua assunta dalla spinta viene c­ ontrastata dai due
speroni a sud e dal portico settentrionale.

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­ n’illustrazione d­ ell’articolazione dei sistemi costruttivi della basilica è


U
data ­con precisione nelle tavole de ­l’Art de batir chez les Romains di Auguste
Choisy10 (Fig. 5). Le volte appaiono risolte attraverso una serie di costole
laterizie disposte nello spazio di risulta tra gli ottagoni, che vanno a sosti-
tuirsi alle centine lignee solo nella fase di cementazione. In altre parole,
le nervature – impostate su centina lignea e formate d­ all’accostamento di
quattro arcate laterizie sulla testata della volta, e da due lungo l­ ’imbotte,
collegate da ricorsi di bipedali – fungono da ­compartimentazione durante
la stratificazione cementizia disposta a piani orizzontali: ogni singola strati-
ficazione scarica, così, lateralmente s­ ull’archeggiatura c­ on c­ omportamento
a piattabanda. Di c­ onseguenza la centina lignea viene parzialmente
sgravata, evitando le c­ onsiderevoli deformazioni alla quale sarebbe stata
verosimilmente sottoposta in fase di carico11.
A fronte di lievi differenze la tangenza tra ­l’impianto massenziano e
quelli termali è eloquente, tanto da costituirsi terreno d­ ’indagine anche
tra xv e xvi secolo, quando lascia traccia nella produzione grafica e
architettonica di diversi autori, attraverso rappresentazioni ‘­­contaminate’
da colonnati di diaframma desunti dalle terme, c­ ome appare in alcuni
fogli Uffizi assegnati a Baldassarre Peruzzi12 (Fig. 6).
Inoltre, è oramai ­un’acquisizione della storiografia che la Basilica
di Massenzio, proprio in virtù d­ ell’analogia c­ on l­ ’architettura termale,
giochi un ruolo principe nella definizione del tempio etrusco offerta
nel De re aedificatoria di Leon Battista Alberti (L.VII, c.4; L.VIII, c.10)
e c­ onseguentemente nella progettazione della c­ hiesa S­ ant’Andrea a
Mantova13. ­L’allusione ­all’etruscum sacrum è il nodo centrale delle argo-
10 Auguste Choisy, Art de batir chez les romains, Parigi, Librairie générale de l­ ’architecture et
des travaux publics Ducher et Cie, 1873, p. 54-59, fig. 24-25-26, tav. III. Le osservazioni
di Choisy trovano riscontro nella documentazione fotografica precedente al cantiere di
restauro del 1938, pubblicata in Carlo Giavarini (a cura di), La basilica di Massenzio. Il
monumento, i materiali, le strutture, la stabilità, Roma 2005, p. 135, fig. 5.16.
11 Cfr. Carlo Giavarini, La basilica di Massenzio…, op. cit., p. 55.
12 Si vedano a tal proposito il foglio UA 4128r e i disegni UA 156r e UA 529r, recentemente
ritenuti tagliati da un medesimo foglio, al quale apparteneva in origine anche U 161r:
Peter W. Parsons, op. cit.
13 Va sottolineato che si tratta di ­un’analogia basata sulle forme e non regolata ­dall’identità
di dimensioni: la Basilica di Massenzio rappresenta quindi uno degli esemplari – il più
fortunato – di una possibile serie di edifici ascrivibili alla categoria del tempio etrusco.
I diversi riferimenti che articolano il richiamo di ­Sant’Andrea al tempio etrusco sono
stati spesso erroneamente oggetto di tentativi di lettura orientati dalla ­convinzione di
un interesse per la riproposizione puntuale del modello.

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mentazioni esposte da Alberti a Ludovico Gonzaga nella lettera ­con la


quale ­chiedeva di farsi affidare il progetto di ­Sant’Andrea: un accenno
persuasivo, poiché capace di molteplici suggestioni14.
Per l­ ’impianto a navata unica voltata c­ on cappelle, il cantiere alber-
tiano si pone ­come momento illuminante sia per il recupero di una
tipologia planimetrica che, non secondariamente, per ­l’impulso alla
sua diffusione15. Pur nella c­ onvinzione che non sia mai un modello
unico a determinare le scelte progettuali di un architetto, la basilica
costituisce il più generale esempio strutturale di ­Sant’Andrea e la
ragione del suo accostamento al tempio Etrusco: una vicinanza che si
riscontra ­nell’articolazione delle masse murarie, nella strutturazione
della navata tramite le cappelle laterali e, c­ ome nelle grandi aule termali
antiche, nella gerarchia delle volte. È indubbio che davanti al problema
di realizzare la botte di ­Sant’Andrea, che ­con i suoi quasi 19 metri
di larghezza rappresenta lo “spatio” voltato più grande mai costruito
nel Quattrocento, si guardi agli ambienti laterali della basilica, ampi
circa 24 metri. Non mancano però le differenze. A Mantova si assiste
alla trasformazione delle colonne e dei tronchi di trabeazione che arti-
colano la navata della basilica in paraste c­ on trabeazione, quasi che il
modello antico fosse qui ripreso attraverso il filtro della sua evocazione
­nell’architettura del Miracolo della Mula del Santo di Padova. Ad
accentuare la distanza tra le due fabbriche c­ oncorrono poi le soluzioni
e le tecniche costruttive. S­ ant’Andrea è interamente in mattoni, scelta
che va ricondotta ­con ogni probabilità a ragioni territoriali e a una
secolare prassi edificatoria; inoltre l­ ’adozione di questa seconda tecnica
svincolava dai lunghi tempi di indurimento e dai c­ onsistenti spessori
della volta in c­ onglomerato.
14 Come ha sottolineato Massimo Bulgarelli, op. cit., p. 671-679, Alberti fa strategicamente
leva sulle origini etrusche della città, celebrate negli stessi anni da Bartolomeo Platina
­nell’Historia urbis Mantuae Gonzagaeque familiae. La ­configurazione ­dell’aedes tuscanico
more descritta da Vitruvio genererà una certa fascinazione per la sua proiezione locale: ad
essere rivendicato, insieme ­all’antichità – segnatamente pre-romana – è anche ­l’apporto
originale di questo popolo, presentato nella veste di fondatore e ispiratore di nuove
forme costruite. Cfr. Giovanni Cipriani, Il mito etrusco nel rinascimento fiorentino, Firenze
1980; James S. Ackerman, « The Belvedere as Classical Villa », Journal of the Warburg
and Courtauld Institutes, 1951, p. 78-89. Manfredo Tafuri, Ricerca del Rinascimento, Torino,
Einaudi, 1992, p. 159-189.
15 Su questo argomento, c­ on specifica attenzione a­ ll’area lombarda: Jessica Gritti, Echi
albertiani: ­chiese a navata unica nella ­cultura architettonica della Lombardia sforzesca, Padova,
Il Poligrafo, 2014.

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Nella ­chiesa mantovana la deroga più ­consistente al modello tardoan-


tico è rappresentata dalla sostituzione della serie di crociere ­con la volta a
botte; in altre parole da un sistema puntiforme di trasmissione dei carichi
a uno che esercita una spinta diffusa, che però ha il pregio di non gravare
agli estremi16. È osservando il fianco esterno della c­ hiesa mantovana che
si percepisce la significativa distanza che si instaura tra il sistema antico
e quello albertiano. Gli speroni massenziani – una doppia lama muraria
nella quale sono alloggiate le scale, prosecuzione dei setti trasversali – sono
sostituiti a ­Sant’Andrea da un sistema solo ­all’apparenza analogo: la botte
viene infatti c­ ontraffortata dal prolungamento in altezza dei piloni cavi,
mentre in corrispondenza delle grandi arcate interne, si rimedia poggiando
un setto di ­contrafforte in falso ­sull’arcone. Il gioco strutturale c­ omplessivo
di ­Sant’Andrea si fonda quindi su una soluzione ibrida, nata dalla necessità
di ­contrastare la c­ omponente di spinta orizzontale prodotta dal tratto di
volta, altrimenti eccessivamente esteso, interposto tra le due coppie di
­contrafforti corrispondenti ai massicci piloni della navata17 (Fig. 7).

Fig. 7 – Mantova, esterno della chiesa di S. Andrea, particolare


dei contrafforti (foto autore).
16 Mi limito a segnalare il ­contributo di Volpi Ghirardini in Joseph Rykwert, Anne
Engel, Leon Battista Alberti…, op. cit., p. 224-241; Roberto Gargiani, Principi e costruzione
­nell’architettura italiana del Quattrocento, Bari, Laterza, 2003, p. 371-372.
17 Le volte laterali di ­Sant’Andrea, a differenza delle omologhe tardoantiche, ­compartecipano
in modo sostanziale a­ ll’equilibrio statico della fabbrica, trasferendo la c­ omponente
orizzontale della botte ai piloni d­ ’imposta. A risentirne è il sistema di illuminazione
della navata dove la luce diretta penetra principalmente dai grandi rosoni.

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VOLTE, “CIELI” E CAEMENTA 101

Quella messa in campo a Mantova costituisce la risposta a un problema


sollevato in fabbriche diverse a partire dalla metà del Quattrocento,
quando la volta, tra le cifre caratterizzanti il costruire ‘­all’­antica’, viene
indagata sia sotto il profilo formale che tecnico–costruttivo, rivelando
in alcuni esiti ­l’audacia e ­l’ambizione di un programma spesso supe-
riore alle possibilità tecnologiche disponibili. Va sottolineato che seb-
bene ­l’immaginario umanistico riconosca nella volta a botte ­l’essenza
­dell’architettura antica, la realtà archeologica è caratterizzata da esempi
di modeste dimensioni o che risolvono il problema delle spinte sulla linea
­d’imposta ­con soluzioni ipogee: è questo il caso del ninfeo di Formia o
della cosiddetta basilica Neopitagorica di Porta Maggiore. In un certo
senso, la volta isolata del Tempio di Venere e Roma – significativamente
massenziana – rappresenta una rarità nel ­contesto costruttivo romano
occidentale.

VOLTE DI NAVATA

È stato variamente sottolineato c­ ome il cantiere albertiano raccolga gli


stimoli delle sperimentazioni portate avanti in area fiorentina c­ on la Badia
di Fiesole (anni ’60 del ‘400), ­concordemente ritenuta una dei capisaldi
­dell’evoluzione della volta di navata in età moderna, segnando l­’avvio
di una ricerca tecnica punteggiata anche da fallimenti18. La Badia rivela
una tangenza così eloquente c­ on la c­ hiesa mantovana da aver alimentato,
tra le tante, ipotesi di attribuzione albertiane. Come in ­Sant’Andrea a
venir adottato è un impianto planimetrico a navata unica voltata a botte,
sulla quale si aprono le arcate di quattro cappelle laterali, ma in questo
caso i bracci del transetto non eccedono la profondità delle cappelle.
Accantonando i dibattiti attributivi rispetto alla paternità del progetto,
elemento ­d’impatto agli occhi dei ­contemporanei doveva essere senza
18 Cfr. Ludwig H. Heydenreich, « Die Cappella Rucellai und die Badia Fiesolana –
Untersuchung über architektonische Stilformen Albertis », Kunstchronik. 1960, 13,
p. 352-354; Christoph Luitpold Frommel, « S. Andrea a Mantova: storia, ricostruzione,
interpretazione », in Massimo Bulgarelli (a cura di), Leon Battista Alberti e l­ ’architettura.
Catalogo della mostra. Mantova settembre 2006-gennaio 2007. Cinisello Balsamo, Silvana,
2006, p. 148-168.

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102 FRANCESCA SALATIN

dubbio la grande botte che copre la navata, primo esempio in Toscana e


probabilmente uno dei primi casi in assoluto nel Quattrocento italiano
per ­l’impiego di tale copertura nel corpo longitudinale di un edificio
ecclesiastico, ­concretamente realizzato entro il 1464.
Al fine di c­ ontraffortare la volta a botte di navata vengono pro-
lungate in altezza le lame murarie delle cappelle laterali, rese solidali
dalle volte a vela che coprono i singoli ambienti. Problemi si registrano
invece in corrispondenza del transetto e del coro, dove l­ ’opzione di non
ricorrere a catene ha obbligato a una “variante che sopraggiunse dopo
la costruzione della volta e prima del disarmo ­completo delle centine”,
­come ha dimostrato Gastone Petrini, modificando il volume esterno
­con addizioni laterali nella zona absidale: u ­ n’opzione evidentemente
preferibile a quella di incatenare la volta . Si tratta di una questione
19

aperta e indagata nella pressoché coeva cappella Rucellai a San Pancrazio,


dove la volta a botte20 è ­compartita in tre settori evidenziati da costo-
loni, ai quali è affidato il c­ ompito di irrigidire il sistema (Fig. 8). Il
mancato ricorso alle catene che si rileva nella cappella Rucellai è stato
interpretato ­come cifra ­connotante la prassi costruttiva albertiana:
una ­conferma materiale ­dell’assunto teorico espresso in più occasioni
nel De re aedificatoria (L.I, 12; L III 13), secondo il quale ­l’arco a tutto
sesto non necessita di catena, che viene avvertita c­ ome soluzione di
­compromesso ed elemento rivelatore di una ­contraddizione strutturale.
Scrive infatti Alberti, rivendicando la superiorità del profilo a tutto
sesto: “gli archi interi non abbisognano di corde, poiché essi sono in
grado di mantenersi da sé. Invece quelli ribassati vanno rinforzati c­ on
una catena di ferro o q­ ualcos’altro”21.
Alla questione della volta di navata si stava cercando di dar risposta
per strade diverse, ­come dimostrano le soluzioni adottate, per esempio,
a San Bernardino ­dell’Osservanza22 nel senese, nel Duomo di Faenza
19 Gastone Petrini, La cappella del S. Sepolcro. Catalogo della mostra sul restauro, Firenze,
Salimbeni, 1981, p. 19-21.
20 Gastone Petrini, La cappella del S. Sepolcro…, op. cit., p. 19. La volta è realizzata ­con mattoni
apparecchiati di taglio. Vasari nella vita di Alberti la definisce “cosa difficile ma sicura”.
Cfr. Giorgio Vasari, Le vite ­de’ piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, Firenze, Giunti,
1568, p. 368.
21 Giovanni Orlandi, Paolo Portoghesi (a cura di), Leon Battista Alberti, ­L’architettura, Milano,
Il Polifilo, 1989, p. 236.
22 Nella ­chiesa del ­convento di San Bernardino d ­ ell’Osservanza, pur recependo stimoli
provenienti dalla Badia fiesolana e dal S­ ant’Andrea mantovano, evidenziati dalla logica

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VOLTE, “CIELI” E CAEMENTA 103

sotto Giuliano da Maiano23, ­come nel Duomo di Urbino24 o a Santa


Maria delle Grazie al Calcinaio25.

Fig. 8 – Vista estradossale della Cappella Rucellai prima del restauro


(da Gastone Petrini, La cappella del S. Sepolcro, 1981).

della c­ ontinuità muraria, si assiste a una reinterpretazione – quasi un capovolgimento


– del modello: dopo il 1485 si realizzano una serie di volte a botte a copertura delle
cappelle laterali, che fungono da ­contrafforte per le cupole ribassate su pennacchi sferici
che coprono gli spazi centrali. Cfr. Roberto Gargiani, Principi e costruzione…, op. cit.,
p. 371-372, 380.
23 Anche in questo caso ­l’assenza di ­contrafforti, alla quale si cerca di sopperire c­ on catene,
negli anni si rivela un espediente ancora una volta infruttuoso, obbligando a importanti
opere di c­ onsolidamento. Cfr. Francesco Quinterio, Giuliano da Maiano “grandissimo
domestico”, Roma, Officina ed., 1996, p. 259-272; Cfr. Roberto Gargiani, Principi e cos-
truzione…, op. cit., p. 380.
24 Giuseppe Valadier incaricato del rifacimento della copertura dopo il crollo di volta e cupola
nel 1789 individuerà il “cedimento della volta principale caggionato dalla mancanza de
rinfianchi nei lati” Cfr. Francesco Paolo Fiore, Manfredo Tafuri (a cura di), Francesco di
Giorgio architetto, Milano, Electa, 1993, p. 196.
25 Francesco di Giorgio, seguito nei lavori ­dall’architetto fiorentino Pietro Norbo, rinuncia
a speroni e catene, scelta che obbliga l­’architetto a realizzare spessori di 2,30 metri per
i muri. L­ ’orditura del tetto viene retta da una struttura diversa, costituita da una serie
di archi-timpano. Cfr. Francesco Paolo Fiore, Manfredo Tafuri, Francesco di Giorgio…,
op. cit., p. 252-253.

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104 FRANCESCA SALATIN

Diversa la situazione a Roma, tra gli anni settanta e ottanta del


Quattrocento, dove, sebbene la ricerca formale e tecnologica viva una fase
di stagnazione, durante il pontificato sistino (1471– 1484) si c­ ondensano
alcuni tra gli episodi più importanti per l­’architettura romana del xv
secolo, in particolare per le costruzioni e ricostruzioni ecclesiastiche26. In
una sintesi tra recupero d­ ell’antico e tradizione romanica, già sperimentata
da Bernardo Rossellino nel transetto di San Pietro, a Roma si opta per le
volte a crociera dei frigidaria e della Basilica di Massenzio, applicandole alla
navata centrale di Santa Maria del Popolo e replicandole nel giro di pochi
anni a ­Sant’Agostino, Santa Maria della Pace27 e San Pietro in Montorio28.
In S­ ant’Agostino, a causa del c­ ondizionamento delle preesistenze, il
ricorso alla crociera e ­l’adozione ­dell’ordine si ­confrontano ­con soluzioni
di ­compromesso, c­ ome l­ ’introduzione di un ritmo alternato di sostegni
al fine di ottenere tre grandi campate pressoché quadrate sulle quali
impostare la copertura29. Elementi di dettaglio articolano il riferimento
­all’architettura della basilica massenziana in S­ ant’Agostino: le volte
a crociera del corpo longitudinale, ­concluse nel 1481 da Sebastiano
Fiorentino, sono impostante su quel residuo di trabeazione inteso a
sostenere – solo da un punto di vista visivo – l­’imposta delle volta30.

26 Cfr. Fabio Benzi, Sisto IV Renovator Urbis. Architettura a Roma 1471-1484, Roma, Officina
ed., 1990.
27 La Basilica di Massenzio entra in gioco per Santa Maria della Pace, anche su orizzonti
diversi: c­ onsiderata la propensione simbolica dimostrata da Sisto IV nella definizione
capillare dei temi iconografici della cappella Sistina, ma anche nella costruzione stessa
­dall’edificio, risulta non priva di curiosità la denominazione alternativa di Templum Pacis
per la c­ hiesa romana. La dedicazione trova la sua ragion ­d’essere, c­ ome ricorda lo stesso
Pontefice nella bolla del 17 ottobre 1483, ­nell’auspicio di Pace richiesto dalla situazione
di tensione tra i vari Stati italiani, ma ­l’evocazione del monumento antico doveva essere
evidente agli occhi dei ­contemporanei e trovare legittimazione nella ­connessione vete-
rotestamentaria che il Templum Pacis garantiva.
28 Christoph Luitpold Frommel, Baldassarre Peruzzi…, op. cit.
29 Problema ­con il quale si c­ onfronteranno le proposte di ‘­correzione’ ­dell’alzato avanzate
da Borromini e Vanvitelli Cfr. Renata Samperi, « La ­chiesa di S. Agostino a Roma: la
sintesi quattrocentesca, i progetti di Borromini e Vanvitelli e il rinnovamento ottocen-
tesco », Quaderni ­dell’Istituto di Storia ­dell’Architettura. 1999-2002, 34/39, p. 385-392. Il
­condizionamento della preesistenza, inoltre, potrebbe rendere ragione della differenza
di quota ­nell’imposta degli archi che ritmano la navata centrale e quella delle coperture
a crociera degli ambienti laterali.
30 Più vicini ­all’esempio del ­Sant’Andrea mantovano che a quello tardoantico sono gli
spessi c­ ontrafforti, riflessi in facciata c­ on due enormi volute, più tarde: si tratta di una
soluzione obbligata d­ all’altezza elevata d­ ell’imposta delle volte e che non sarà ripercorsa
nelle successive c­ hiese romane quattrocentesche.

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VOLTE, “CIELI” E CAEMENTA 105

Come nella basilica massenziana e nelle sale termali, arco e ordine


architettonico sono associati in maniera paratattica, poiché la posizione
della trabeazione non è legata – se idealmente prolungata – ­all’altezza
­dell’arco. Una cifra così peculiare da sembrare spia di ­un’osservazione
puntuale del modello antico.
Il duplice binario su cui ­s’imposta la ricerca sulle volte che coprono
la navata alla fine del Quattrocento pare trovare un definitivo punto di
­convergenza nella seconda metà del Cinquecento, ­con le soluzioni adottate
quasi ­contemporaneamente a Roma nella ­chiesa del Gesù e a Venezia
nel Redentore palladiano. La tangenza planimetrica tra i due organismi
architettonici è stata oggetto di numerose sottolineature e ricondotta alle
ricerche sulla ­chiesa ­congregazionale a pianta longitudinale stimolate
dai dettami post–­conciliari in materia di architettura, trovando punto
di ­culminazione in San Fedele a Milano e nel Ss. Salvatore di Bologna:
si tratta di esempi dove le cifre caratterizzanti gli impianti termali e la
Basilica di Massenzio appaiono c­ ome ­comun denominatore31.
La parentela tra il Redentore e il Gesù investe anche le coperture,
sebbene sussistano delle differenze32: in termini generali, tratto c­ omune
è il tentativo di c­ onciliare la copertura a botte a c­ on la possibilità di
illuminare lo spazio ­con ampie aperture. Va sottolineato che tra gli
aurorali esempi di rievocazione dei sistemi voltati antichi e le soluzioni
messe in campo nella seconda metà del Cinquecento si pone il cantiere
di San Pietro, luogo dove si saggiano modi costruttivi inediti, a cui
obbliga la mole senza precedenti della fabbrica: la soluzione ­con finestre
aperte alla base della volta a botte adottata da Palladio e Della Porta ha
un precedente, proprio, nelle due finestre aperte nella volta ­dell’abside
bramantesca di San Pietro.
Nel Gesù la navata è coperta da una volta a botte, la cui curvatura si
sviluppa qualche metro al di sopra della trabeazione, lasciando lo spazio
per finestre aperte entro le lunette, raccordate alla volta da unghie a
profilo curvilineo. A c­ ontroventare la spinta della botte, sul fianco esterno
vengono innalzati dei possenti ­contrafforti, prosecuzione dei muri che
delimitano le cappelle laterali, estesi fino a raggiungere ­l’altezza delle
reni. Diversa le scelta messa in campo nel Redentore. Palladio adotta
31 Cfr. in generale: Cfr. Giuseppe Rocchi Coopmans de Yoldi, Architetture della Compagnia
Ignaziana nei centri antichi italiani, Firenze, Alinea, 1999.
32 Cfr. Giuseppe Rocchi Coopmans de Yoldi, Architetture della Compagnia…, op. cit., p. 64-65.

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106 FRANCESCA SALATIN

qui una volta a padiglione, a profilo ribassato, semi–elissoidale33: la


rinuncia a un profilo semicircolare per la grande volta ­dell’aula permette
di ovviare al problema dello spazio muto che si verrebbe a creare tra
­l’estradosso ­dell’arco trionfale e il profilo della volta stessa. Si tratta di
un primo punto di distanza d­ all’esempio romano, poiché la soluzione
veneziana produce, a parità di ampiezza, una ­componente di spinta
orizzontale maggiore. Per illuminare la volta vengono aperte finestre
termali, dominate da unghie anche queste a profilo non cuspidato34. Se
la citazione degli ambienti termali è variamente profusa nella c­ hiesa
veneziana, a rivelare il debito diretto nei c­ onfronti del modello mas-
senziano sono i ­contrafforti esterni, risolti ­come nel modello antico:
lame murarie binate poste in corrispondenza dei muri delle cappelle,
che coincidono nella loro ampiezza ­complessiva ­con i tratti di volta
­compresi tra una e ­l’altra unghia. Palladio potrebbe aver ­coniugato
­l’osservazione delle antiche rovine c­ on spunti provenienti dal progetto
per San Pietro mostrato nel codice Mellon (Fig. 9), dove vengono
adottati speroni puntualmente dedotti da quelli massenziani35. Nel
caso del Redentore, e in misura minore nel Gesù, la spinta ottenuta
non è uniformemente distribuita sulle linee murarie di appoggio, ma
­convogliata sui ­contrafforti. In sintesi la soluzione del sistema voltato
è approssimabile a quello di una navata coperta a crociera, ­come quelle
adottate nelle terme antiche e nella basilica, dove alle grandi unghie
è affidato il ­compito di raccogliere e ­convogliare diagonalmente gran
parte delle spinte.
La basilica si offre inoltre, insieme ad altri edifici, in primis il Pantheon,
­come modello a cui attingere per la riscoperta delle possibilità costruttive
­dell’opus caementicium.

33 Nei primissimi anni ‘60 si era c­ onfrontato ­con la soluzione a botte per grandi luci nel
cenacolo di San Giorgio, in un c­ ontesto edilizio ancora segnato dal fallimento sansoviniano
di piazza San Marco del 1545.
34 La porzione che ­connette la volta alla ­controfacciate e ­all’imbocco ­dell’area presbiteriale
viene risolta ­con due vele, ­­com’è prassi nelle soluzioni a padiglione.  La vela di ­chiusura in
corrispondenza ­dell’arcone trionfale che media tra navata e area presbiteriale è articolata
­con ­un’unghia a profilo cuspidato di dimensioni maggiori rispetto a quelle laterali.
35 Vitale Zanchettin, « scheda di catalogo n. 4.25 », in Guido Beltramini, Davide Gasparotto,
Aldolfo Tura (a cura di), Pietro Bembo e ­l’invenzione del Rinascimento. Venezia, Marisilio,
2013, p. 269-270.

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VOLTE, “CIELI” E CAEMENTA 107

Fig. 9 – Sezione di San Pietro, cod. Mellon, fo 72vo.

“CIELI” E CAEMENTA

Se i cassettoni esagoni ed ottagoni, espedienti per alleggerire il getto,


sono tra i motivi peculiari della basilica ad avere più precoce fortuna,
la ripresa del ‘­getto’, il procedimento costruttivo che favoriva il ricorso
ai lacunari quali elementi di alleggerimento, stando alle fonti è oggetto
di ricerche parallele nella metà del Quattrocento.
La riapparizione del motivo romano36, lodato da Alberti (L.VII, c. III),
­come disegno indipendente da tecniche e materiali, sembra prendere
36 Hetty E. Joyce, « Studies in the Renaissance Reception of Ancient Vault Decoration ».
Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 2004, 67, p. 193-232.

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108 FRANCESCA SALATIN

avvio in ambito fiorentino c­ on il tabernacolo del Crocifisso di San Miniato


al Monte e trovare affermazione nei cosiddetti “cieli”, locuzione ­con la
quale vengono definite le coperture delle sale realizzate in carpenteria di
legno intagliata ­con gli ornamenti ‘­all’­antica’, che ­compaiono a Firenze
nelle Sale delle Udienze e dei Gigli nel Palazzo della Signoria37, e da
qui esportato negli studioli dei palazzi ducali di Urbino e Gubbio38.
Secondo Vasari, che ha reso celebre il termine, il getto rientra tra le
tecniche della costruzione fiorentina di volte ornate: nelle Vite si legge
delle sperimentazioni di Giuliano da Sangallo nella propria abitazione
e a Poggio a Caiano39. Echi della tecnica muraria romana, in realtà,
sono attestati anche prima delle esperienze costruttive sangallesche:
Brunelleschi, ad esempio, ricorre ragionevolmente a casseforme per rea-
lizzare le murature circolari delle cappelle ­dell’oratorio di Santa Maria
degli Angeli40, eseguite ­con pietrame sbrecciato annegato nella malta.
Nella testimonianza vasariana però la locuzione ‘­getto’ definisce
una tecnica ben diversa sia dalla prassi antica che dalle declinazioni
di ambito romano, obbligando a distinguere tra la costruzione della
struttura e l­’esecuzione della superficie intradossale, poiché non tutte
le volte di ‘­getto’ possiedono un corpo in calcestruzzo.
A tal proposito è significativo che le superfici curve dei bracci porticati
del palazzo di Bartolomeo Scala41, tra le prime volte a botte fiorentine
di Giuliano, non siano realizzate in cassaforma, ma a terra, una ad una,
­con stucco a stampo singolo e poi montate42. Secondo Piero Sanpaolesi,
37 Cfr, Francesco Quinterio, Dizionario Biografico degli Italiani (DBI), v. 49, 1997 e v. 56, 2001.
38 Cfr. Roberto Gargiani, Principi e costruzione…, op. cit., p. 345-347.
39 “Portò Giuliano da Roma il gettare le volte di materie che venissero intagliate; c­ ome
in casa sua ne fa fede una camera et al Poggio a Caiano nella sala grande la volta che vi
si vede ora” Giorgio Vasari, Le vite d­ e’ piu eccellenti pittori, scultori, et architettori. Firenze,
Giunti, 1568, p. 63.
40 Cfr. Roberto Gargiani, Principi e costruzione…, op. cit., p. 44, fig. 109.
41 Incerta è l­ ’attribuzione degli stucchi c­ ome ­dell’intero palazzo, assegnato dalla tradizione
storiografica su base stilistica a Giuliano da Sangallo. Cfr. Piero Sanpaolesi, « La casa
fiorentina di Bartolommeo Scala », in Wolfgang Lotz, Lise Lotte Moller (a cura di),
Studien zur toskanischen Kunst. Festschrift für Ludwig Heinrich Heydenreich. Munchen, Prestel,
1964, p. 275-288; Linda Pecchia, « The ­patron’s role in the production of architecture:
Bartolomeo Scala and the Scala Palace », Renaissance Quarterly. 1989, 42, p. 258-291; Anna
Bellinazzi (a cura di), La casa del cancelliere: documenti e studi sul palazzo di Bartolomeo Scala
a Firenze, Firenze 1998; Francesca Bordoni, « La dimora di Bartolomeo Scala nel palazzo
della Gherardesca a Firenze: progetti e realizzazioni dal Quattrocento ad oggi », Annali
di Architettura, 2011, 23, p. 9-36.
42 Cfr. Piero Sanpaolesi, op. cit., p. 283.

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VOLTE, “CIELI” E CAEMENTA 109

partecipe ai restauri, nella volta di palazzo Scala il getto è il mezzo


per modellare ‘­all’­antica’ l­’intradosso, ­concordemente ­con il dettato
vasariano, e non per formare ­l’intera struttura monolitica della volta,
perché sopra il getto di calce e pozzolana si costruiva ­con mattoni la
parte portante della struttura.
Vasari ricorda ­come aurorale esempio della messa in opera di questa
tecnica, in ­contesto fiorentino, la casa di Giuliano da Sangallo: nella volta
a botte dello studiolo del proprio palazzo in borgo Pinti 68, l­ ’architetto
adotta c­ on ogni probabilità un getto di calce e ghiaia, ornando ­l’intradosso
­con decorazioni poco rilevate a cerchi – quasi un marchio di fabbrica delle
volte di Giuliano – ottenuti sempre a stampo43. Dal racconto delle Vite
il buon esito avrebbe dovuto dar garanzia a Lorenzo il Magnifico della
fattibilità tecnica della volta del salone centrale della villa di Poggio a
Caiano, progetto intrapreso dallo stesso Giuliano verso il 1485, sebbene
secondo ­l’interpretazione di Foster44 le volte del salone sono state murate
solo a partire dal 1513, dopo un periodo di stasi.
Le ricerche sulle possibilità offerte dal costruire in getto procedono
in c­ ontesti diversi, sebbene nel territorio italiano affiorino c­ on modalità
diverse elementi della tradizione costruttiva romana, rendendo difficile
distinguere tra c­ ontinuità e recupero. A Mantova alla fine degli anni ‘70
Luca Fancelli avanza la proposta di demolire una porzione danneggiata
della volta del San Sebastiano e suggerisce c­ ome fosse “meglio fare di
zeso e calcistruzo”, inoltre nel 1479 è inviato da Federico Gonzaga a
“vedere un modo de far le volte de giarra et de calcina et de far mattoni
pur de giarra et de calzina che adesso se usa a Fiorenza, et è una bella
cosa, ­n’è gran spesa”45. Sono gli anni del palazzo di Bartolomeo della
Scala, ma anche della cupola semisferica a calotta unica della Santissima
Annunziata, c­ on diametro di ventitré metri e mezzo, realizzata ­con un
“getto” di pietrame, laterizio e malta, probabilmente disposto sopra uno
strato di mattoni sistemato su centina46.
43 Cfr. Roberto Gargiani, Principi e costruzione…, op. cit., p. 462.
44 Philip Ellis Foster, A study of Lorenzo ­de’ M
­ edici’s Villa at Poggio a Caiano, New York,
Garland, 2 vol., 1978, I, p. 116-117.
45 Cfr. Arturo Calzona, Livio Volpi Ghirardini, Il San Sebastiano di Leon Battista Alberti.
Firenze, Olschki 1994, p. 195.
46 Roberto Gargiani, Principi e costruzione…, op. cit., p. 374. Sperimentazioni analoghe si
registrano anche nel c­ ontesto urbinate, dove, prestando fede alla testimonianza del De
Verborum Vitruvianorum significatione di Bernardino Baldi, è Luciano Laurana ad introdurre

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110 FRANCESCA SALATIN

In ambito romano, tra gli episodi costruttivi che determinano


una vera e propria ripresa delle valenze d­ ell’opus caementicum, il più
cospicuo, insieme alle volte rosselliniane di San Pietro dei primi anni
Cinquanta, è rappresentato dal vestibolo orientale di Palazzo Venezia, la
cui costruzione si colloca attorno al 146647. Nella volta ­con cassettoni
quadrati memori ­dell’esempio del Pantheon si realizza pienamente la
riproposizione del costruire more romano, evocato da dettagli diversi:
la volta, sulla quale sono ancora visibili i tratti della centina, presenta
costole relativamente strette tra un cassettone e ­l’altro, che rivelano il
ricorso a caementa di dimensioni ridotte, secondo una tecnica a cui si
era ricorso nei decenni precedenti per la volta lunettata del vestibolo
di Santo Stefano Rotondo48 e le crociere della navata centrale di Santa
Maria sopra Minerva49. Il carattere sperimentale della volta di Palazzo
Venezia è dichiarato da alcune imprecisioni costruttive: i cassettoni,
probabilmente perché realizzati c­ on tumuli di terra c­ ome farebbe
pensare l­’assenza di c­ ommettiture, mostrano uno slittamento verso
le reni, provocando spessori e inclinazioni diverse nelle nervature
longitudinali50. L­ ’esperienza di Palazzo Venezia, pur non risultando
nel tempo la linea dominante51, darà avvio a una serie di realizza-
zioni dove il rapporto ­con ­l’antico coinvolge anche la costruzione,
nella quale rientrano la volta della Cappella Sistina, la Loggia di
Psiche alla Farnesina, la cupola di ­Sant’ Eligio degli Orefici, la volta
sferica della Cappella Sforza52, solo per citarne alcune. Di fatto ci si
la tecnica: i muri del salone del trono del Palazzo di Federico da Montefeltro, dovendo
­contenere la spinta ­dell’ampia volta lunettata che li sormonta, sono realizzati ­con spessori
­consistenti proprio ­con la tecnica del getto.
47 Complessa la questione attributiva, che mette a ­confronto paternità albertiana da un lato
e assegnazione a Francesco del Borgo d­ all’altro. Christoph Luitpold Frommel, « Francesco
del Borgo. Architekt ­Pius’ II und Pauls II; Palazzo Venezia, Palazzetto Venezia und San
Marco », Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte. 1984, 21, p. 71-164.
48 Pier Nicola Pagliara, « Antico e Medioevo in alcune tecniche costruttive del xv e del xvi
secolo, in particolare a Roma », Annali di architettura. 1998-1999, n. 10-11, p. 233-260.
49 Pier Nicola Pagliara, « Eredità medievali in pratiche costruttive e ­concezioni strutturali
del Rinascimento », in Giorgio Simoncini (a cura di), Presenze medievali ­nell’architettura
di età moderna e c­ontemporanea. Milano, Guerini, 1997, p. 32-48.
50 Cfr. Roberto Gargiani, Principi e costruzione…, op. cit., p. 221.
51 Pier Nicola Pagliara, « Eredità medievali… », op. cit.
52 Cfr. Hermann Schlimme, Formensprache und Bauausführung in Italien im 15.-16. Jahrhundert
am Beispiel der Cappella Sforza von Michelangelo und dem Bau kassettierter Wölbungen, in
Bericht über die 45. Tagung für Ausgrabungswissenschaft und Bauforschung. Dresda, Thelem,
p. 51-67.

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VOLTE, “CIELI” E CAEMENTA 111

stava misurando c­ on un tema costruttivo sedimentato nel la c­ ultura


costruttiva laziale. Rispetto ad altri c­ ontesti italiani, infatti, diversa è
la situazione a Roma, dove il realizzare volte e muri di c­ onglomerato
rappresenta una prassi costruttiva che permane, trasmessa da una
generazione ­all’altra, priva di volontà di recupero d­ ell’antico poiché
favorita dalla disponibilità delle malte pozzolaniche e dei cementa53. È
però un fenomeno di cui è difficile, a causa della discontinuità e della
rarità delle testimonianze, stabilire la portata e ­l’ambito di diffusione:
­come ha dimostrato Pier Nicola Pagliara54, offrendo alcuni esempi
di tali sopravvivenze, si tratta di una situazione ricca di sfumature e
differenziazioni nei modi costruttivi, c­ on eco nelle riprese quattro–cin-
quecentesche, che spesso non è c­ onfinabile nei limiti della definizione
­dell’emplecton vitruviano (Vitr., II, 8). Esistono, infatti, notevoli dif-
ferenze tra ­l’esempio romano e quelli che vengono spesso ­considerati
gli eredi moderni d­ ell’opus caementicium, cioè quelle murature definite
‘a ­sacco’. La tecnica medievale, sia per quanto riguarda i muri che
per le volte, spesso differisce da quella romana per la dimensione dei
cementa: che negli esempi medievali assumono dimensioni maggiori e
per il mancato ricorso a casseforme, ­con la ­conseguenza che ai blocchi
di paramento viene data funzione strutturale. Inoltre, nelle murature
a sacco, la murazione viene effettuata a mano, senza la prolungata
battitura che caratterizza gli esempi antichi e in assenza di filari inter-
medi atti a creare c­ ompartimentazioni55, sebbene anche n­ ell’antichità
non manchino esempi, sia di muri che di volte, ­con caementa radiali
di grosse dimensioni.
La volta antica, ­con la sua stratificazione per bancate, ­concettualmente
(e c­ on le dovute differenze) si avvicina agli pseudoarchi, alle pseudovolte
o alle pseudocupole, basati – in via ­d’approssimazione – sul principio
elementare della mensola (Fig. 10): il modesto aggetto, ­l’uno ­sull’altro,
dei singoli filari dei ­conci (nel nostro caso degli strati di caementa via via

53 Pier Nicola Pagliara, « Eredità medievali… », op. cit., p. 32-48; Pier Nicola Pagliara,
« Antico e Medioevo… », op. cit., p. 233-260; Donatella Fiorani, Tecniche costruttive murarie
medievali: il Lazio meridionale, Milano, Guerini, 1996, p. 181-185.
54 Pier Nicola Pagliara, « Antico e Medioevo… », op. cit., p. 259, nota 190.
55 Su questo argomento: Francesco Doglioni, Roberto Parenti, « Murature a sacco o murature
a nucleo in calcestruzzo? Precisazioni preliminari desunte ­dall’osservazione di sezioni
murarie », in Guido Biscontin, Daniela Maietto (a cura di), Calcestruzzi antichi e moderni.
Padova, Libreria Progetto, 1993.

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112 FRANCESCA SALATIN

sovrapposti) viene bilanciato dal peso del tratto retrostante, ovviamente


dopo che ­con la presa dei leganti diviene assimilabile a un monolite,
­consentendo di sgravare parzialmente la centina dal carico progressiva-
mente crescente. Esempi di ­conglomerato grossolano ­convivono accanto
a soluzioni ­con caementa orizzontali in area laziale, per tutto il medioevo,
sia nei muri che nelle volte, e trasmettendosi agli artefici del xv e xvi
secolo, c­ ondizionando alcuni degli esempi più eclatanti della ripresa di
questa tecnica: è questo il caso del San Pietro di Bramante56.

Fig. 10 – Micene, Tesoro di Atreo (foto autore).

Come noto la tecnica del getto era stata introdotta nel cantiere di
San Pietro già da Rossellino, forse c­ on un c­ ontributo albertiano57, per
il capocroce: un organismo caratterizzato da poderose volte spingenti e

56 Cfr. Christoph Luitpold Frommel, « Il cantiere di San Pietro prima di Michelangelo », in
Jean Guillaume (a cura di), Les chantiers de la Renaissance, Parigi, Picard, 1991, p. 175-190.
57 Il ruolo di Alberti è c­ ontestato da Manfredo Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, op. cit., p. 62-67,
riproposto da Christoph Luitpold Frommel, « Il San Pietro di Niccolò V », in Francesco Paolo
Fiore, Arnold Nesselrath (a cura di), La Roma di Leon Battista Alberti. Umanisti, architetti e
artisti alla scoperta d­ ell’antico nella città del Quattrocento, Milano, Skira, 2005, p. 104-105 e
nuovamente escluso da Christof Thoenes, Renaissance St. ­Peter’s, in William Tronzo (a cura
di), St. P
­ eter’s in the Vatican, Cambridge, Cambridge University press, 2005, p. 70-71.

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VOLTE, “CIELI” E CAEMENTA 113

cupola, in netto ­contrasto c­ on il tipo basilicale paleocristiano. Sui bracci


del transetto nicolino, che raggiungono ­l’inedito spessore di sei metri
tanto da aver fatto ipotizzare la funzione difensiva, gravano voltoni di
40 braccia (23,36m)58. Questi, esemplati sulle aule dei frigidaria e della
basilica massenziana (che vengono quasi eguagliate in dimensione), sono
realizzati in calcestruzzo, in linea ­con una ricerca avviata in precedenza
in Santa Maria sopra Minerva59. Nella biografia di Niccolo` V ­contenuta
nel Liber pontificalis, Poggio Bracciolini rende esplicito il modello antico:
“Basilicam insuper ipsam testudine in formam thermarum Diocletianarum
reducere, destructa priori structura, destinarat animo”60. Che la basilica
massenziana, anche per il suo portato ideologico – c­ ome ha indicato Ian
Campbell61 – abbia offerto a più riprese spunti per la progettazione di
San Pietro è dato sostanzialmente acquisito e reso eloquente dal ricorso
alla cassettonatura massenziana. Il famoso detto “porre il Pantheon sopra
la volta del tempio della Pace”, che trae origine probabilmente da quanto
lascia scritto Sigismondo Conti nelle Storie dei suoi tempi62, è stato spesso
assunto (talora impropriamente) a sintesi delle intenzioni bramantesche
per il nuovo San Pietro. Tra gli elementi principali che ­connettono le volte
bramantesche a quelle massenziane un posto di ­prim’ordine, accanto alla
dimensione, è occupato dalla tecnica costruttiva. Prestando fede – pur nei
limiti di una rappresentazione ­compendiaria – alle vedute di Marten van
Heemskerk63 (Fig. 11), di Giorgio Vasari nel palazzo della Cancelleria o
al noto disegno Ashby degli anni venti64, che mostrano gli arconi in fase
di c­ ompletamento, Bramante ricorre a spessori c­ onsiderevoli e adotta un
58 Cfr. Federico Bellini, La Basilica di San Pietro: da Michelangelo a Della Porta, Roma, Argos,
2011, 2 vol., I, p. 252.
59 Dove si innalzano muri a sacco ­con paramenti paralleli di mattoni, anche di spolio, e
tufelli, che fanno corpo c­ on un getto di malta pozzolana e spezzoni laterizi. Cfr. Giancarlo
Palmiero e Gabriella Villetti. Storia edilizia di S. Maria sopra Minerva in Roma 1275-1870.
Roma, Viella, 1994, p. 63-64.
60 Liber Pontificalis, texte, introduction et c­ommentaire par ­l’abbé L. Duchesne, Parigi, Boccard,
1955, II, p. 558.
61 Ian Campbell, « The new St. P ­ eter’s: basilica or temple? », The Oxford Art Journal. 1981,
4, p. 3-8.
62 Ludovico Antonio Muratori (a cura di), Rerum Italicarum Scriptores, Nuova ed. riveduta,
ampliata e corretta ­con la direzione di Giosuè Carducci, Vittorio Fiorini, Pietro Fedele, Sala
Bolognese, Forni, 1900-1964, XXXII, parte prima, p. 509: “in capite enim basilicae
testudo futura latior et altior templo Pantheon”.
63 Berlino, Kupferstichkabinett, Skizzenbuch, II, fo 52ro. Cfr. Christian Hülsen, Hermann
Egger, op. cit., II, tav. 69.
64 Biblioteca Apostolica Vaticana, coll. Ashby 329.

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114 FRANCESCA SALATIN

c­ onglomerato caratterizzato dal ricorso a caementa di grandi dimensioni


disposti radialmente: si tratterebbe in sostanza di una soluzione inter-
media tra una volta in ­conglomerato di tipo romano e una più ­consueta
struttura a “cunei lapidei”. Bramante estende a una volta di grandi
dimensioni una soluzione facilmente osservabile in antico, di cui, ad
esempio, abbondano le strutture di Villa Adriana (Fig. 12), dove si trova
applicata in arcate di buone dimensioni o in piattabande65. Il pregio di
questo modo di edificare è certamente quello di ridurre, e di c­ onseguenza
­controllare, i ritiri della fase di presa, ma il sistema risulta sfavorevole
sotto altri punti di vista. A differenza delle stratificazioni di calcestruzzo,
questo metodo obbliga la centina a sostenere il peso della volta fino alla
­chiusura in ­chiave: proprio ­nell’adozione di questa soluzione potrebbe
risiedere la ragion ­d’essere di un organismo iperstrutturato e ­complesso
­come la centina di San Pietro (Fig. 13), resa celebre da diversi disegni e
­dall’incisione di Jacob Bos, che ­nell’iscrizione ne attribuisce l­ ’invenzione
ad Antonio da Sangallo, dal quale l­ ’avrebbe poi ripresa Michelangelo66.
­All’esempio antico si tornerà a guardare sempre a San Pietro durante
il pontificato di Paolo V: Carlo Maderno ricorrerà alla tecnica del getto
per ­completare la grande botte della navata centrale67, che rispetto agli
esiti bramanteschi presenta uno spessore inferiore, tanto da aver indotto
Christof Thoenes68 a ipotizzare fosse realizzata in mattoni. Robert
Stalla69 ha individuato un debito specifico della navata progettata da
Maderno, implicato anche nel trasferimento della colonna della Pace, nei
­confronti della basilica massenziana, trovando in questa realizzazione
la ­concretizzazione piena del motto assegnato a Bramante.

65 La tradizione costruttiva che approda a San Pietro aveva in precedenza caratterizzato


probabilmente anche il ponte Sisto, realizzato c­ on una fodera di mattoni predisposta su
centine di legno, sulla quale viene fatto un getto di pietrame e mattoni Cfr. Roberto
Gargiani, Principi e costruzione…, op. cit., p. 375.
66 Relativamente alla centina si segnalano i seguenti disegni: Uffizi 226A; Padova, Bibl.
Universitaria, ms. 764; New York, Metropolitan Museum, cod. Scholz 49.92.16; Museo
Nazionale di Stoccolma, cod. Cronstedt 2254; Berlino, Kunstbibliothek, Hdz 4151
fo 112ro; New York, Pierpont Morgan Library cod. Mellon fo 7vo;Biblioteca Apostolica
Vaticana, Ashby n.329; Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 2733, fo 482vo-483ro;
Madrid, Real Biblioteca, Grab. 23 VIII-II 398, fo 68.
67 Cfr. Pier Nicola Pagliara, « Antico e Medioevo… », op. cit., p. 260, nota 204.
68 Christof Thoenes, Die Frühen St. Peter Entwürfe…, op. cit., p. 188-193.
69 Robert Stalla, « La navata di S. Pietro sotto Paolo V. La tradizione della forma architet-
tonica », in Gianfranco Spagnesi (a cura di). ­L’architettura della basilica di san Pietro. Storia
e Costruzione. Roma, Bonsignori, 1997, p. 269-273.

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VOLTE, “CIELI” E CAEMENTA 115

Fig. 11 – Marten van Heemskerk, Fig. 12 – Strutture di Villa Adriana


San Pietro in Costruzione, Berlino, (foto autore).
Kupferstichkabinett, Skizzenbuch,
II, fo. 52ro.

Fig. 13 – Centina di San Pietro, New York, Cod. Scholz, fo. 49.92.16.

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ATTUALITÀ DEL MODELLO

Gli esempi sin qui citati c­ ontribuiscono a dar ragione del successo
del monumento in ambito architettonico quale modello portatore di
­un’eredità formale e tecnica: nei secoli successivi nella serie rientreranno
di diritto molti altri esempi più vicini a noi. Se ­l’eco della basilica è
dichiarato nel St. Paul di Wren c­ ome nella Union Station di Washington
D.C, dove si sente anche quello per le terme di Diocleziano, c­ on toni
diversi si può rintracciare nelle architetture a noi più vicine: è stato
più volte discusso c­ ome il lungo soggiorno di Louis Kahn nel 1950
a Roma, presso ­l’American Academy, coincida c­ on la svolta nella sua
produzione: dal c­ ontatto diretto c­ on i monumenti, i loro volumi, e le
ombre profonde, Kahn – facendo suo ­l’insegnamento di Paul Philippe
Cret – scopre il senso progettuale delle potenti masse murarie di alcuni
monumenti antichi, ­come il Pantheon, le Terme di Caracalla e la basi-
lica di Massenzio, e ancora la basilica torna alla mente nelle arcate dei
Museo ­d’arte romana di Merida di Rafael Moneo. Qui la basilica non
emerge ­come citazione diretta, ma – per c­ hiamare in causa la definizioni
di “classico” di Italo Calvino – “persiste c­ ome rumore di fondo anche là
dove ­l’attualità più incompatibile la fa da padrona”.

Francesca Salatin
Università Iuav di Venezia

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