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Qyodlibet

Giorgio Agamben
Che cos'è la filosofia?
Alla domanda «che cos'è la filosofia» - una questione che si pone
tardi e di cui si può parlare solo fra amici - Agamben, in questo libro
che è in qualche modo una summa del suo pensiero, non risponde
direttamente, ma attraverso cinque saggi, ciascuno dei quali presenta
una sorta di emblema: la Voce, il Dicibile, l'Esigenza, il Proemio, la
Musa. In ognuno dei testi, secondo un gesto che definisce il metodo di
Agamben, l'indagine archeologica e quella teorica si intrecciano stret­
tamente: alla paziente ricostruzione del modo in cui è stato inventato
il concetto di lingua, fa riscontro il tentativo di restituire il pensiero
al suo luogo nella voce; a una inedita interpretazione dell'idea pla­
tonica, corrisponde una lucida situazione del rapporto fra filosofia
e scienza e della crisi decisiva che entrambe stanno attraversando nel
nostro tempo. E, alla fine, la scrittura filosofica - un problema sul
quale Agamben non ha mai cessato di riflettere - assume la forma di
un proemio a un'opera che deve restare non scritta.

ISBN 978-88-7462-791-2

16,oo euro
Il Ili Il l Il l
9 788874 627912
Giorgio Agamben

Che cos'è la filosofia?

Q!odlibet
Indice

p. 7 Avvertenza

Che cos'è la filosofia?

II Experimentum vocis

47 Sul concetto di esigenza

57 Sul dicibile e l'idea

I23 Sullo scrivere proemi

I33 Appendice
La musica suprema. Musica e politica

I 47 Riferimenti bibliografici
I 53 Indice dei nomi

© 2016 Quodlibet srl


Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 2 3
www.quodlibet.it
Avvertenza

In che senso i cinque testi qui raccolti contengano un'idea


della filosofia, che risponde in qualche modo alla domanda
del titolo del libro, risulterà evidente - se lo risulterà - solo a
chi ne avrà fatto in spirito di amicizia la lettura. Com'è stato
detto, chi si trova a scrivere in un'epoca che, a torto o a.ra­
gione, gli appare barbara, deve sapere che le sue forze e la sua
capacità di espressione non sono per questo accresciute, ma,
semmai, diminuite e logorate. Poiché tuttavia, non può fare
diversamente e il pessimismo gli è per natura estraneo - né,
d'altra parte, gli pare di poter ricordare con certezza un tem­
po migliore - l'autore può soltanto affidarsi a chi avrà pro­
vato le sue stesse difficoltà - in questo senso, a degli amici.

A differenza degli altri quattro testi, che sono stati scritti


nel corso degli ultimi due anni, Experimentum vocis ripren­
de e svolge in una nuova direzione appunti della seconda metà
degli anni Ottanta del XX secolo, che appartengono pertanto
allo stesso contesto in cui sono nati La cosa stessa, Tradizione
dell'immemorabile e ':·se. L'assoluto e l'Ereignis (poi raccolti
in La potenza del pensiero, Vicenza 2005 ) e Experimentum
linguae, ripubblicato come prefazione alla nuova edizione di
Infanzia e storia (Torino 2001).
Che cos'è la filosofia?
Experimentum vocis
I.

È un fatto su cui non ci si dovrebbe stancare di riflettere


che - benché vi siano state e vi siano in ogni tempo e luogo
società i cui costumi ci paiono barbari o comunque inac­
cettabili e gruppi, più o meno numerosi, di uomini dispo­
sti a mettere in questione ogni regola, ogni cultura e ogni
tradizione; benché, inoltre, siano esistite ed esistano società
integralmente criminali e non vi sia, del resto, alcuna norma
e alcun valore sulla cui vigenza tutti gli uomini riuscireb­
bero a trovarsi unanimemente d'accordo - tuttavia non vi
è né vi è mai stata alcuna comunità o società o gruppo che
abbia deciso di rinunciare puramente e semplicemente al
linguaggio. Non che i rischi e i danni impliciti nell'uso del
linguaggio non siano stati avvertiti più volte nel corso della
storia: comunità religiose e filosofiche, a Occidente come a
Oriente, hanno praticato il silenzio - o, come dicevano gli
scettici, l' «afasia» - ma silenzio e afasia non erano che una
prova verso un miglior uso del linguaggio e della ragione e
non un'incondizionata dimissione di quella facoltà di parla­
re che, in ogni tradizione, sembra inseparabile dall'umano.
Così ci si è spesso interrogati su come gli uomini ab­
biano incominciato a parlare, proponendo sull'origine del
I4 CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS

linguaggio ipotesi manifestamente incontrollabili e prive di 2.


ogni rigore; ma non ci si è mai chiesti perché essi continuino
a farlo. Eppure l'esperienza è semplice: è noto che se il bam­ Partiamo dall'idea dell'incomprensibile, di un essere in­
bino non è esposto in qualche modo al linguaggio entro gli teramente senza rapporto col linguaggio e con la ragione,
undici anni di età, egli perde irreversibilmente la capacità assolutamente indiscernibile e irrelato. Come è potuta na­
di acquisirlo. Fonti medievali ci informano che un esperi­ scere una simile idea ? In che modo possiamo pensarla ? Un
mento del genere sarebbe stato tentato da Federico Il, ma lupo, un istrice, un grillo avrebbero forse potuto concepir­
lo scopo era tutt'altro: non già la rinuncia alla trasmissione la ? Diremmo noi che l'animale si muove in un mondo che
del linguaggio, bensì, al contrario, proprio il desiderio di è per lui incomprensibile ? Come non riflette sull'indicibile,
conoscere quale fosse la lingua naturale dell'umanità. Il ri­ così nemmeno il suo ambiente può apparirgli tale: tutto in
sultato dell'esperimento basta da solo a destituire di ogni esso gli fa segno e gli parla, tutto si lascia selezionare e inte­
attendibilità le fonti in questione: i bambini, accuratamente grare e ciò che non lo riguarda in alcun modo è per lui sem­
privati di ogni contatto col linguaggio, avrebbero sponta­ plicemente inesistente. D'altra parte, la mente divina per
neamente parlato l'ebraico (o, secondo altre fonti, l'arabo). definizione non conosce l'impenetrabile, la sua conoscenza
Che questo esperimento non sia mai stato tentato, non non incontra limiti, tutto - anche l'umano, anche la materia
solo nei lager nazisti, ma nemmeno nelle comunità utopiche inerte - è per essa intellegibile e trasparente.
più radicali e innovatrici, che nessuno - nemmeno fra coloro Dobbiamo dunque guardare all'incomprensibile come
che non avrebbero esitato un istante a togliergli la vita - ab­ a un'acquisizione esclusiva dell 'homo sapiens, all'indicibile
bia mai osato assumersi la responsabilità di togliere all'uomo come a una categoria che appartiene unicamente al linguag­
il linguaggio, ciò sembra provare oltre ogni dupbio il legame gio umano. Il carattere proprio di questo linguaggio è che
inscindibile che sembra vincolare l'umanità alla parola. N ella esso stabilisce una particolare relazione con l'essere di cui
definizione che vuole che l'uomo sia il vivente che ha il lin­ parla, comunque lo abbia nominato e qualificato. Qualsiasi
guaggio, l'elemento decisivo non è, secondo ogni evidenza, cosa nominiamo e concepiamo, per il solo fatto di essere
la vita, ma la lingua. stata nominata è già in qualche modo pre-supposta al lin­
Eppure gli uomini non saprebbero dire che cosa sia per guaggio e alla conoscenza. È questa l'intenzionalità fonda­
essi in questione nel linguaggio come tale, nel puro fatto mentale della parola umana, che è già sempre in relazione
che essi parlino. Benché avvertano più o meno oscuramen­ con qualcosa che presuppone come irrelato.
te quanto sia inutile usare la parola nel modo in cui per lo Ogni posizione di un principio assoluto o di un al di là del
più fanno, spesso a vanvera e senza avere nulla da dirsi o pensiero e del linguaggio deve fare i conti con questo caratte­
per farsi del male, ostinatamente continuano a parlare e a re presupponente del linguaggio: essendo sempre relazione,
trasmettere ai propri figli il linguaggio, senza sapere se ciò esso rimanda a un principio irrelato che è esso stesso a presup­
sia il bene più alto o la peggiore delle sventure. porre come tale (ovvero, nelle parole di Mallarmé: «il Verbo
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è un principio che si sviluppa attraverso la negazione di ogni sup-posto, giace a fondamento di una predicazione». In
principio» - cioè, attraverso la trasformazione del principio in questo senso, Platone, interrogandosi sulla significazione
presupposto, dell'àpx{J in ipotesi). E questo è il mitologema linguistica, poteva scrivere: «A ciascuno di questi nomi è
originario e, insieme, l'aporia cui si urta il soggetto parlante: il presupposta (\ntoKEt'tat) una propria sostanza (oOOia)»
linguaggio presuppone un non linguistico, e questo irrelato è (Protag. 349 b) e «i nomi primi, ai quali in alcun modo altri
presupposto dandogli, però, un nome. L'albero presupposto nomi sono presupposti (oiç ofutro E'tEpa \ntoKEt'tat), in che
al nome «albero» non può essere espresso nel linguaggio, si modo ci manifesteranno gli enti ?» (Crat. 422 d). L'essere è
può solo parlare di esso a partire dal suo aver nome. ciò che è presupposto al linguaggio (al nome che lo manife­
Ma allora che cosa pensiamo quando pensiamo un essere sta), ciò sulla cui presupposizione si dice ciò che si dice.
interamente senza rapporto col linguaggio ? Quando il pen­ La presupposizione esprime dunque la relazione ori­
siero cerca di afferrare l'incomprensibile e l'indicibile, esso ginaria fra linguaggio ed essere, fra i nomi e le cose e la
cerca in verità di afferrare precisamente la struttura presup­ presupposizione prima è che vi sia una tale relazione. La
ponente del linguaggio, la sua intenzionalità, il suo essere posizione di un rapporto fra il linguaggio e mondo - la po­
in relazione a qualcosa, che si suppone esistente fuori dalla sizione della pre-supposizione - è la prestazione costitutiva
relazione. E un essere interamente senza rapporto col lin­ del linguaggio umano così come la filosofia occidentale lo
guaggio possiamo pensarlo solo attraverso un linguaggio ha concepito: l'onto-logia, il fatto che l'essere si dica e che
senza alcun rapporto con l'essere. il dire si riferisca all'essere. Solo su questa presupposizione
sono possibili la predicazione e il discorso: essa è il «su­
cui» della predicazione intesa come ÀÉyEtv n Ka'ta nvoç,
3· dire qualcosa su qualcosa. Il «su qualcosa» (Ka'ta nvoç) non
è omogeneo al «dire qualcosa», ma esprime e, insieme, na­
È nella struttura della presupposizione che si articola l'in­ sconde il fatto che, in esso, è stato già sempre presupposto
treccio di essere e linguaggio, mondo e parola, ontologia e il nesso onta-logico di linguaggio e essere - che, cioè, il
logica che costituisce la metafisica occidentale. Col termine linguaggio porti sempre su qualcosa e non parli a vuoto.
«presupposto» designiamo qui il «soggetto» nel suo signifi­
cato originale: il sub-iectum, l'essere che, giacendo prima e al
fondo, costituisce ciò su cui - sulla cui pre-sup-posizione - si 4·
parla e si dice e che non può, a sua volta, essere detto su
nulla (la 1tp <Ò'tll oùcria o 1'\ntoKEi�Evov di Aristotele) . Il ter­ L'intreccio di essere e linguaggio assume la forma costi­
mine «presupposto» è pertinente: U1tOKcicr8at vale infatti tutiva della presupposizione nelle Categorie di Aristotele.
come perfetto passivo di U1ton8Évat, lett. «porre sotto», Come i commentatori antichi avevano perfettamente com­
e U1tOKEi�Evov significa pertanto «ciò che, essendo stato preso al momento di definire l'oggetto del libro (se esso
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS

concerna, cioè, le parole, gli enti o i concetti), Aristotele è il linguaggio che è articolato - cioè scisso - in modo tale
nelle Categorie non tratta né semplicemente delle parole, da aver sempre già incontrato e presupposto nel nome l'es­
né soltanto degli enti, né solo dei concetti, ma «dei termini sere che gli è dato. Il prae- e il sub- appartengono cioè alla
in quanto significano gli enti attraverso i concetti» . Nelle forma stessa dell'intenzionalità, della relazione fra essere e
parole di un commentatore arabo: «L'investigazione logi­ linguaggi o.
ca concerne gli oggetti in quanto sono designati attraver­
so i termini [ . . . ] il logico non si occupa della sostanza o
del corpo, in quanto è separato dalla materia o in quanto è 5·
in movimento o possiede una grandezza e una dimensio­
ne, ma piuttosto in quanto è designato da un termine, per Nel doppio statuto dell'oùcria 1tp<Ù'tr\ come esistenza sin­
esempio "sostanza" » . Che cosa sia in questione in questo golare e come sostanza si riflette la duplice articolazione
«in quanto», che cosa avvenga all'ente per il fatto di essere del linguaggio, che è sempre già scisso in nome e discorso,
designato da un nome - questo è - o dovrebbe essere - il langue e parole, semiotico e semantico, senso e denotazio­
tema della logica. Ma ciò significa che il luogo proprio delle ne. L'identificazione di queste differenze non è una scoper­
Categorie e di ogni logica è l'implicazione di linguaggio e ta della linguistica moderna, ma è l'esperienza costitutiva
essere - l'onta-logica - e che non è possibile separare logica della riflessione greca sull'essere. Se già Platone oppone
e antologia. L'ente in quanto ente (ov u ov) e l'ente in quan­ con chiarezza il piano del nome (ovof.ta) e quello del di­
to è detto ente sono inseparabili. scorso (ì..oyoç), il fondamento su cui riposa l'elencazione
Solo questa implicazione permette di comprendere l'am­ aristotelica delle categorie è la distinzione dei ÀEYOflEVa èi­
biguità dell'oùcria 1tp<Ù'tr\, della sostanza prima nella Metafi­ veu crUfl1tÀ.OKftç, di ciò che si dice senza una connessione
sica aristotelica, ambiguità che la traduzione latina di oùcria («uomo», «bue», «corre», «vince))) e i ÀEYOflEVa Katà cr'Ufl-
con substantia hà fissato e trasmesso in eredità alla filosofia 1tÀ.oKflv, il discorso come connessione di termini («l'uomo
occidentale e di cui questa non è riuscita a venire a capo. cammina))' «l'uomo vince))' Cat. I a 16- 1 9). Il primo piano
Solo perché in essa è in questione la struttura antologica corrisponde alla lingua (la langue di Saussure, il semiotico
della presupposizione, l'oùcria 1tp<Ù'tr\, che si riferisce inizial­ di Benveniste) in quanto distinta dal discorso in atto (la pa­
mente a una singolarità, può diventare la substantia, ciò che role di Saussure, il semantico di Benveniste).
«sta sotto» alle predicazioni, al «dire qualcosa su qualcosa» . Noi siamo così abituati all'esistenza di un ente chiamato
Ma qual è la struttura di questa implicazione ? Com'è pos­ «lingua))' l'isolamento di un piano della significazione di­
sibile che un'esistenza singolare diventi il sostrato sul cui stinto dal discorso in atto ci è ormai così familiare, che non
presupposto si dice ciò che si dice ? ci rendiamo conto che in questa distinzione viene alla luce
L'essere non è presupposto perché esso è sempre già dato per la prima volta una struttura fondamentale del linguag­
all'uomo in una sorta di intuizione prelinguistica; piuttosto gio umano che lo distingue da ogni altro linguaggio e a par-
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tire dalla quale soltanto qualcosa come una scienza e una lisi, interpretazione e costruzione d i ciò che è i n questione in
filosofia diventano possibili. Se Platone e Aristotele sono quell'evento. È stato necessario, cioè, perché qualcosa come
stati considerati i fondatori della grammatica, ciò è perché la civiltà occidentale potesse nascere, prima comprendere - o
la loro riflessione sul linguaggio ha posto le basi sulle quali decidere di comprendere - che ciò che parliamo, che ciò che
i grammatici hanno potuto più tardi costruire, attraverso facciamo parlando sia una lingua e che questa lingua sia for­
un'analisi del discorso, ciò che chiamiamo lingua e inter­ mata di vocaboli che - per una virtù che non si può spiegare
pretare l'atto di parola, che è la sola esperienza reale, come se non attraverso ipotesi del tutto inverosimili - si riferisco­
la messa in opera di un ente di ragione chiamato lingua (la no al mondo e alle cose. Ciò implica che, nel flusso inin­
lingua greca, la lingua italiana ecc.). terrotto di suoni prodotti usando organi presi per lo più in
Solo perché riposa su questa scissione fondamentale del prestito da altri sistemi funzionali (legati in maggioranza
linguaggio, l'essere è sempre già diviso in essenza e esisten­ all'alimentazione) vengano riconosciuti prima delle parti
za, quid est e quod est, potenza e atto: la differenza antolo­ dotate di una significazione autonoma (J..LÉPTJ 't'iìc; J.il;eroç,
gica si fonda innanzitutto sulla possibilità di distinguere un i vocaboli) e, in queste, degli elementi ( a'totxcia, le lettere)
piano della lingua e dei nomi, che non si dice in un discorso indivisibili dalle cui combinazioni si formano quelle par­
e un piano del discorso, che si dice sulla presupposizione ti. La civiltà che noi conosciamo si fonda innanzitutto su
di quello. E il problema ultimo con cui deve misurarsi ogni una «interpretazione» (ÉpJ..LTJ VEia) dell'atto di parola, sul­
riflessione metafisica è quello stesso che costituisce lo sco­ lo «sviluppo» di possibilità conoscitive che si considerano
glio su cui rischia di naufragare ogni teoria del linguaggio: contenute e «implicate» nella lingua. Per questo il trattato
se l'essere che si dice è sempre già scisso in essenza e esi­ aristotelico Sull'interpretazione (llepì ÉpJ..LTJ VEiaç), che ini­
stenza, potenza e atto e il linguaggio che lo dice è sempre zia appunto con la tesi che ciò che facciamo parlando è una
già diviso in lingua e discorso, senso e denotazione, com'è connessione significante di parole, lettere, concetti e cose,
possibile il passaggio da un piano all'altro ? E perché l'esse­ ha avuto una funzione decisiva nella storia del pensiero oc­
re e il linguaggio sono così costituiti, da comportare origi­ cidentale; per questo la grammatica, che viene ora insegnata
nariamente questo iato ? nelle scuole primarie, è stata e, in una certa misura, è ancora
la disciplina fondativa del sapere e della conoscenza. (È su­
perfluo ricordare, accanto a quello epistemico-conoscitivo,
6. anche il significato politico della riflessione grammaticale:
se ciò che gli uomini parlano è una lingua e se non vi è una
L'antropogenesi non si è compiuta una volta per tutte sola lingua, ma molte, allora alla pluralità delle lingue cor­
istantaneamente con l'evento di linguaggio, col diventar risponderà una pluralità di popoli e di comunità politiche).
parlante del primate del genere homo. È stato necessario,
piuttosto, un paziente, secolare e ostinato processo di ana-
22 CHE cos'È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS 23

7· la potenza una presupposizione dell'atto. Ma proprio qui


tutto si complica. Senso e denotazione, lingua e discorso
Si rifletta sulla natura paradossale dell'ente di ragione giacciono, infatti, in due piani diversi e nessun passaggio
chiamato lingua (diciamo «ente di ragione», perché non è sembra condurre dall'uno all'altro. Parlare si può solo sulla
chiaro se esso esista nella mente, nei discorsi in atto o solo presupposizione di una lingua, ma dire in un discorso ciò
nei libri di grammatica e nei dizionari). Esso è stato co­ che nella lingua è stato «chiamato» e nominato, questo è
struito attraverso una paziente, minuziosa analisi dell'atto propriamente impossibile. È l'opposizione insuperabile fra
di parola, supponendo che parlare si possa solo sulla pre­ semiotico e semantico su cui è naufragato il pensiero estre­
supposizione di una lingua e che le cose siano sempre già mo di Benveniste («Il mondo del segno è chiuso. Dal segno
nominate (anche se è impossibile spiegare - se non in modo alla frase non c'è transizione [ . . . ] uno iato li separa») o, in
mitologico - come e da chi) in un sistema di segni che si ri­ Wittgenstein, l'opposizione di nomi e proposizione (« Gli
ferisce potenzialmente e non solo attualmente alle cose. La oggetti li posso solo nominare. I segni li rappresentano. Io
parola «albero» può denotare l'albero in un atto discorsivo, posso solo parlare di essi, ma non posso esprimerli»). Tutto
in quanto si presuppone che il vocabolo «albero», preso in ciò che conosciamo della lingua, lo abbiamo appreso a par­
sé prima e al di là di ogni denotazione attuale, significhi «al­ tire dalla parola e tutto ciò che comprendiamo della parola,
bero » . Il linguaggio avrebbe, cioè, la capacità di sospendere lo intendiamo a partire dalla lingua; e, tuttavia, l'interpreta­
il proprio potere denotativo nel discorso, per significare le zione (la Ép)..LTJ VEia) dell'atto di parola attraverso la lingua,
cose in modo puramente virtuale nella forma di un lessi­ che rende possibile il sapere e la conoscenza, conduce in
co. È questa la differenza fra langue e parole, semiotico e ultima istanza a una impossibilità di parlare.
semantico, senso e denotazione che abbiamo già evocato e
che scinde irrevocabilmente il linguaggio in due piani di­
stinti e, tuttavia, misteriosamente comunicanti. 8.
Il nesso di questa scissione linguistica con la cesura an­
tologica «potenza/atto», OUVa)..ltç/ÉvÉpyEta attraverso cui A questa struttura presupponente del linguaggio corri­
Aristotele divide e articola il piano dell'essere è tanto più sponde la particolarità del suo modo di essere, che consi­
evidente se si ricorda che, già in Platone, uno dei significati ste nel fatto che esso deve togliersi per far essere la, cosa
fondamentali del termine ouva)..lt ç è «valore semantico di nominata. È questa natura del linguaggio che ha in mente
una parola» . All'articolazione della significazione linguisti­ Scoto quando definisce la relazione come ens debilissimum
ca in due piani distinti corrisponde il movimento antologico e aggiunge che per questo essa è così difficile da conosce­
della presupposizione: il senso è una presupposizione della re. Il linguaggio è antologicamente debolissimo, nel senso
denotazione e la langue una presupposizione della parole, che non può che sparire nella cosa che nomina, altrimen­
così come l'essenza è una presupposizione dell'esistenza e ti, invece di designarla e svelarla, farebbe ostacolo alla sua
24 CHE C O S ' È LA FILOSOFIA? EXPERIMENTUM VO CIS

comprensione. E, tuttavia, proprio in questo risiede la sua potere storicizzante e cronogenetico del Àoyoç è funzione
potenza specifica - nel suo rimanere impercepito e non det­ della sua struttura presupponente e della sua antologica de­
to in ciò che nomina e dice. Poiché, come scrive Meister bolezza. In quanto rimane nascosto in ciò che rivela, il rive­
Eckhart, se la forma attraverso cui conosciamo una cosa lante costituisce l'essere come ciò che si svela storicamente
fosse essa stessa qualcosa, ci condurrebbe alla conoscen­ restando inattingibile e indelibato in ognuno dei suoi sve­
za di sé e ci distoglierebbe dalla conoscenza della cosa. lamenti epocali. E in quanto la lingua è, in questo senso, un
Il rischio di essere percepito esso stesso come una cosa e essere storico, la ÈPf.lllVEia che domina da due millenni la
di separarci da ciò che dovrebbe rivelarci, resta però fino filosofia occidentale è una interpretazione del linguaggio
all'ultimo consustanziale al linguaggio. Il non poter dire che, avendolo scisso in langue e parole, sincronia e diacro­
sé mentre dice altro, il suo essere sempre estaticamente in nia, non può mai venirne a capo una volta per tutte. E come
luogo dell'altro è la segna tura inconfondibile e, insieme, la l'essere e la lingua restano presupposti al loro svolgimento
macchia originale del linguaggio umano. storico, così la presupposizione determina anche il modo
E un essere debolissimo è non soltanto il linguaggio, ma in cui l'Occidente ha pensato la politica. La comunità che è
anche il soggetto che in esso si produce e di esso deve in in questione nel linguaggio viene infatti presupposta nella
qualche modo venire a capo. Una soggettività nasce, infatti, forma di un apriori storico o di un fondamento: che si tratti
ogni volta che il vivente incontra il linguaggio, ogni volta in di una sostanza etnica, di una lingua o di un contratto, in
cui dice «io». Ma proprio perché si è generato in esso e attra­ ogni caso il comune assume la figura di un passato inattin­
verso di esso, è così arduo per il soggetto afferrare il proprio gibile, che definisce il politico come uno «stato».
aver luogo. D'altra parte il linguaggio - la lingua - non vive Molti segni lasciano pensare che questa struttura fonda­
e si anima che se un locutore lo assume in un atto di parola. mentale dell'antologia e della politica dell'Occidente ab­
La filosofia occidentale nasce dal corpo a corpo di questi bia esaurito la sua forza vitale. Formulando tematicamente
due esseri debolissimi che consistono e hanno luogo l'uno l'ovvietà secondo cui «l'essere che può essere compreso è
nell'altro e l'uno nell'altro fanno incessantemente naufra­ '
linguaggio» il pensiero del 900 non ha fatto che rivendicare
gio - e, per questo, cercano ostinatamente di afferrarsi e quell'inerenza del linguaggio «a ogni rapporto o attività na­
comprendersi. turale dell'uomo, al suo sentire, intuire, desiderare e a ogni
suo bisogno e a ogni suo istinto» che l'idealismo tedesco
aveva già affermato e portato alla coscienza senza riserve.
9· In questa prospettiva, il fatto che la nascita della gramma­
tica comparata e l'ipotesi dell'indoeuropeo siano contem­
Proprio perché l'essere si dà nel linguaggio, ma il lin­ poranee della filosofia di Hegel, che; anzi, l'ultimo volume
guaggio resta non detto in ciò che dice e manifesta, l'essere della Scienza della logica sia stato pubblicato lo stesso anno
si destina e si svela per i parlanti in una storia epocale. Il ( r 8 r 6) del Konjugationssystem di Franz Bopp non è certo
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS

una mera coincidenza. L'indoeuropeo - che i linguisti hanno principi). Il primate, che sarebbe diventato homo sapiens,
ricostruito (o, piuttosto, prodotto) attraverso una paziente era già sempre dotato - come tutti gli animali - di un lin­
analisi morfologica e fonologica delle lingue storiche - non guaggio, certamente diverso, ma forse non troppo dissimi­
è una lingua omogenea alle altre, ma soltanto più antica: essa le da quello che conosciamo. Ciò che è avvenuto è che il
è qualcosa come una langue assoluta, che nessuno ha mai primate del genere homo a un certo punto - che coincide
parlato né mai potrà parlare, ma costituisce, come tale, l'a ­ con l'antropogenesi - è diventato consapevole di avere una
priori storico e politico dell'Occidente, che garantisce l'uni­ lingua, l'ha, cioè, separata da sé e esteriorizzata fuori di sé
tà e la reciproca intellegibi1ltà delle sue molteplici lingue e come un oggetto, per poi cominciare a considerarla, ana­
dei suoi molteplici popoli. Come Hegel aveva affermato che lizzarla ed elaborarla in un processo incessante - in cui si
il destino storico dell'umanità era giunto al suo compimen­ sono succedute con alterne vicende la filosofia, la gramma­
to e che le potenze storiche della religione, dell'arte e della tica, la logica, la psicologia, l'informatica - e che forse non è
filosofia si erano dissolte e realizzate nell'assoluto, così nella ancora compiuto. E poiché aveva espulso il suo linguaggio
costruzione dell'indoeuropeo culminava il processo che ha fuori di sé, l'uomo dovette imparare a trasmetterselo - a
portato l'Occidente alla piena consapevolezza delle potenze differenza degli altri animali - esosomaticamente, di ma­
conoscitive contenute nella sua lingua. dre in figlio in modo che nel trascorrere delle generazioni
Per questo la linguistica diventa tra l'Ottocento e il No­ la lingua si divise babelicamente e andò progressivamente
vecento la disciplina pilota delle scienze umane e per que­ mutando secondo i luoghi e i tempi. E, avendo egli separato
sto il suo improvviso esaurirsi e naufragare nell'opera di da sé la sua lingua per affidarla a una tradizione storica, per
Benveniste corrisponde a una mutazione epocale nel desti­ l'uomo parlante vita e linguaggio, natura e storia si divisero
no storico dell'Occidente. L'Occidente, che ha realizzato e, insieme, si articolarono l'una con l'altra. La lingua, che
e portato a compimento la potenza che aveva iscritto nella era stata espulsa all'esterno, fu reinscritta nella voce attra­
sua lingua, deve ora aprirsi a una globalizzazione che segna, verso i fonemi, le lettere e le sillabe e l'analisi della lingua
insieme, il suo trionfo e la sua fine. coincise con l'articolazione della voce (la <j>rov'JÌ evap8poç,
la voce articolata dell'uomo opposta alla voce inarticolata
dell'animale).
IO. Ciò significa che il linguaggio non è né un'invenzione
umana, né un dono divino, ma un medio fra questi, che si
Possiamo proporre a questo punto sull'origine del lin­ situa in una zona di indifferenza fra natura e cultura, endo­
guaggio un'ipotesi non più mitologica di altre (le ipotesi in somatico e esosomatico (a questa dipolarità corrisponde la
filosofia hanno necessariamente un carattere mitico, sono, scissione del linguaggio umano in lingua e parola, semioti­
cioè, sempre «narrazioni» e il rigore del pensiero consiste co e semantico, sincronia e diacronia). Ciò significa, anche,
appunto nel riconoscerle come tali, nel non scambiarle per che l'uomo non è semplicemente homo sapiens, ma innan-
CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VOCIS

zitutto homo sapiens loquendi, il vivente che non sempli­ non inventa i nomi né questi scaturiscono da lui come una
cemente parla, ma sa parlare, nel senso che il sapere della voce animale: egli può solo riceverli attraverso un traman­
lingua - anche nella sua forma più elementare - deve neces­ damento esosomatico e un insegnamento; nel discorso, in­
sariamente precedere ogni altro sapere. vece, gli uomini si intendono senza bisogno di spiegazio­
Ciò che ora sta avvenendo sotto i nostri occhi è che il ni. Questa scissione di due piani del linguaggio ha come
linguaggio, che era stato esteriorizzato come la cosa - cioè, conseguenza una serie di aporie: da una parte, il linguaggio
secondo l'etimologia, la «causa» - per eccellenza dell'uma­ non può venire a capo del suo rapporto col mondo, che
nità, sembra aver compiuto il suo percorso antropogeneti­ è condizionato dai nomi (e il significato dei nomi, scrive
co e voler tornare alla natura da cui proviene. All'esaurirsi Wittgenstein, I 92 I , 4.026, deve esserci spiegato perché noi
del progetto della grammatica comparata - cioè del sapere possiamo comprenderli), dall'altra, nelle parole di Benve­
che doveva garantire l'intelligenza della lingua - ha fatto niste, dal piano semiotico dei nomi a quello semantico delle
seguito, infatti, l'affermarsi della grammatica generativa, proposizioni non vi è passaggio, così che l'atto di parola
cioè di una concezione della lingua il cui orizzonte non è risulta impossibile.
più storico e esosomatico, ma, in ultima analisi, biologico e Si rifletta sul carattere particolare dell'evento antropo ge­
innatistico. E alla valorizzazione della potenza storica della netico di cui queste fratture sono la conseguenza: l'uomo
lingua sembra sostituirsi il progetto di una informatizza­ accede alla sua natura propria - al linguaggio, che lo defi­
zione del linguaggio umano che lo fissa in un codice comu­ nisce come çcpov M>yov exov e anima! rationale solo sto­
-

nicativo che ricorda piuttosto quello dei linguaggi animali. ricamente, cioè attraverso un tramandamento esosomatico.
Se, infatti, questo accesso gli è precluso, egli perde la facol­
tà di apprendere il linguaggio e si presenta come un essere
I I. non propriamente o non ancora umano (si pensi agli enfants
sauvages e ai bambini-lupo che hanno tanto inquietato l'età
Si comprende, allora, perché il linguaggio umano sia tra­ dei lumi). Ciò significa che nell'uomo - cioè nel vivente che
versato fin dall'origine da una serie di scissioni, che non accede alla sua natura solo attraverso la storia - umano e
hanno riscontro in alcun linguaggio animale. Intendiamo inumano si stanno di fronte senza alcuna articolazione natu­
riferirei alla frattura nomi/ discorso, già chiara per i Greci rale e che qualcosa come una civiltà può nascere solo a par­
( ovoJ.la/ì... oyoç in Platone, À.e"fOJ.lEVa avEu <J'UJ.l7tÀoKfìç/M:­ tire dall'invenzione e dalla costruzione di una articolazione
'YOJ.lEVa Ka'tà (J'UJ.l1tÀOKi)v in Aristotele, Ca t., I a I 6- I 8 ) e storica fra di essi. La prestazione specifica della filosofia e
per i Romani (nominum impositio/declinatio in Varrone, della riflessione grammaticale sarà quella di individuare e di
De ling. lat., VIII, 5 -6) fino a quelle, che ad essa in qual­ costruire nella voce il luogo di questa articolazione.
che modo corrispondono, fra langue e parole in Saussure e Non è un caso se la raccolta degli scritti logici di Ari­
fra semiotico e semantico in Benveniste. L'uomo parlante stotele, cioè della prima e più ampia interpretazione della
30 CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS 31

lingua come «Strumento» di conoscenza abbia ricevuto il ancora - situando il linguaggio nella voce - quello di assi­
titolo di "Opyavov, che significa tanto uno strumento tec­ curare il nesso fra il vivente e la sua lingua. L'analisi della
nico che una parte del corpo. Aristotele, all'inizio del Tiepì lingua presuppone un'analisi della voce.
ÈPJ.LllVEiaç (De int. I 6 a 3 sg.) riferendosi al linguaggio si Già gli antichi commentatori si erano interrogati sul sen­
serve, infatti, dell'espressione 'tà Èv 't'fl <j>rovij, «ciò che è nel­ so dell'espressione 'tà Èv 't'fl <j>rovij. Ammonio, chiedendosi
la voce» e non semplicemente, come ci si sarebbe potuto perché Aristotele avesse scritto «ciò che è nella voce è sim­
aspettare e come scriverà subito dopo, <j>rovai, i vocaboli bolo delle affezioni nell'anima», rispondeva che il filosofo
(«ciò che è nella voce», egli scrive, è simbolo delle impres­ ha detto «ciò che è nella voce» e non «le voci» ( <j>rovai) «per
sioni dell'anima - na811 J.La'ta Èv 't'fl <j>rovij - e le lettere scrit­ mostrare che altro è dire voce e altro dire nome e verbo e
te sono simboli di «ciò che è nella voce»). Il linguaggio è che l'essere simbolo per convenzione non spetta alla nuda
nella voce, ma non è la voce: è nel luogo e in luogo di essa. voce ( 't'fl <j>rovij ànJ.OOç), ma al nome e al verbo; per natura
Per questo Aristotele, nella Politica ( 12 5 3 a I o - I 8), oppo­ (<j>ucrEt) ci è dato emettere voci (<j>roveìv), come anche vedere
ne esplicitamente la <j>rovi) animale, che è immediatamente e udire, ma i nomi e i verbi sono invece prodotti dalle no­
segno del piacere e del dolore, al J.6yoç umano, che può stre intelligenze, usando come materia la voce (UÀlJ KEXPll­
manifestare il giusto e l'ingiusto, il bene e il male e sta a J.LÉVa 't'fl <j>rovij)» (Ammonio I 897, p. 22). Non alla voce ani­
fondamento della comunità politica. L'antropogenesi ha male (alla «nuda voce») - suggerisce Ammonio, che sembra
coinciso con una scissione della voce animale e col situarsi qui seguire fedelmente l'intenzione di Aristotele - ma al
del J.6yoç nel luogo stesso della <j>rovi). Il linguaggio ha luogo linguaggio che è formato di nomi e di verbi compete la ca­
nel non-luogo della voce e questa situazione aporetica è ciò pacità di significare (per convenzione e non per natura) le
che lo rende vicinissimo al vivente e, insieme, separato da cose; e, tuttavia, il linguaggio ha luogo nella voce, ciò che è
questo da una incolmabile distanza. per convenzione dimora in ciò che è per natura.
Nel De interpretatione, dopo aver descritto il plesso se­
mantico fra il linguaggio, le affezioni nell'anima, le lettere
I2. e le cose, Aristotele interrompe bruscamente la trattazione
rimandando al suo libro Sull'anima («di questo si è parlato
Un'analisi della particolare situazione del J.6yoç nella nel libro Sull'anima, poiché si tratta di un'altra questione
<j>rovi) - e, quindi, del rapporto tra la voce e il linguaggio - - aÀÀllç yàp npayJ.La'tEtaç», De int. I 6 a 9). Qui egli aveva
è condizione preliminare per comprendere il modo in cui definito la voce come «suono emesso da un essere animato
l'Occidente ha pensato il linguaggio, l'essere parlante del ('1'6<J>oç ÈJ.L'IfUXOU)», precisando che «nessun essere inanima­
vivente uomo. Ciò significa che lo scopo del trattato ari­ to emette una voce, ed è solo per similitudine che si dicono
stotelico Sull'interpretazione non era soltanto quello di as­ emettere voce, come il flauto e la lira» (De an. 420 b 5). Poche
sicurare il nesso fra le parole, i concetti e le cose, ma, prima righe dopo, la definizione è ripetuta e circostanziata: «La
CHE C O S'È LA FILOSOFIA? EXPERIMENTUM VO CIS 33

voce è dunque suono emesso dal vivente (çq)ou 'lfO(j>oç), ma della voce sono ciò di cui è composta (m)yKEt'tat) la voce e
non con qualsiasi parte. Poiché ogni suono è prodotto dal le ultime parti in cui essa è divisibile» (ivi, 1 0 1 4 a 26) e nei
battito di qualcosa su qualcosa o in qualcosa, e cioè sull'a­ Problemi: «gli uomini producono molte lettere (ypa��a'ta),
ria, ne consegue che solo emettano voce quei viventi che gli altri viventi nessuna o, al massimo, due o tre consonanti.
ricevono in sé l'aria» (ivi, 1 4- 1 6). Questa definizione do­ Le consonanti combinate con le vocali formano il discorso.
veva risultargli insoddisfacente, perché a questo punto egli Il linguaggio (J.6yoç) non è un significare con la voce, ma
ne enuncia una nuova, che doveva esercitare un'influenza con certe affezioni (1ta8Eatv) di essa. Le lettere sono affe­
determinante nella storia della riflessione sul linguaggio: zioni della voce» (Probl. X, 39, 8 9 5 a 7 sgg.). Gli scritti sugli
«Non ogni suono del vivente è voce, come abbiamo det­ animali sottolineano la funzione della lingua e delle labbra
to (infatti si può emettere un suono con la lingua o anche nella produzione delle lettere: «Il linguaggio attraverso la
tossendo), ma occorre che colui che batte sia animato e ac­ voce è composto di lettere (ÈK 't<ÒV ypa��a'trov <:rUyKEt'tat) e
compagnato da qualche immaginazione (�E'tà (j>avtacriaç se la lingua non fosse fatta com'è e se le labbra non fossero
nv6ç). La voce è infatti un suono significante (OTJ�avttKÒç umide, non si potrebbe proferire la maggior parte delle let­
'lfO(j>oç) ...» (ivi, 29- 3 2) . tere, poiché alcune di queste risultano dai colpi della lingua
S e ciò che distingue i l linguaggio dalla voce è i l suo ca­ e dalla congiunzione delle labbra» (De part. anim. 6 5 9 b 3 0
rattere semantico (cioè il suo essere associato a delle affe­ sgg.). Con una parola che i grammatici dovevano costitui­
zioni nell'anima, qui chiamate immaginazioni), Aristotele re in un vero e proprio termine tecnico della loro scienza,
non precisa che cosa costituisca la voce animale in linguag­ questa iscrizione costitutiva delle lettere nella voce è de­
gio significante. Ed è qui che intervengono in funzione de­ finita «articolazione» (òtap8promç): «Voce ( (j>rovi]) e suono
terminante le lettere (ypa��a'ta), che il De interpretatione ('lf6(j>oç) sono diversi e terzo, oltre ad essi, è il linguaggio
elencava infatti nel plesso semantico solo come segni di ciò (J.6yoç)... Il linguaggio è l'articolazione della voce con la
che è nella voce. Le lettere non sono semplicemente segni, lingua (yÀm'tlJ). La voce e la faringe emettono le vocali, la
ma elementi (cr'tOtXEta, l'altro termine greco per designa­ lingua e le labbra le consonanti. E da esse si produce il lin­
re le lettere) della voce, che la rendono significante e com­ guaggio» (Hist. anim. 5 3 5 a sgg.).
prensibile. «La lettera (cr'tOtXEt ov)» afferma con chiarezza la Se torniamo ora all'enunciato che apre il De interpretatio­
Poetica «è una voce indivisibile, ma non una voce qualsiasi, ne, possiamo dire che Aristotele vi definisce una ÈP�llvda,
bensì quella per cui una voce diventa intellegibile ( auv8ETI, un processo di interpretazione che si svolge fra ciò che è nel­
yiyvEcr8at q>rovf!). Anche degli animali vi sono voci indivisi­ la voce, le lettere, le affezioni dell'anima e le cose: ma la fun­
bili, ma nessuna di queste le definisco lettere. Le parti del­ zione decisiva - quella che rende significante la voce - spetta
la voce intellegibile sono la vocale (q>rovftEv), la semisonante proprio alle lettere, l'ermeneuta ultimo e primo è il ypa��a.
('IÌ�t(j>rovov) e la muta (èiq>rovov)...» (Poet. 1 4 5 6 b 22-2 5). La
definizione è ribadita nella Metafisica: «Elementi (cr'tOtXEta)
34 CHE C O S'È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS 35

IJ. ta - attraverso le lettere. Il linguaggio umano si costituisce,


cioè, attraverso un'operazione sulla voce animale, che iscrive
Si rifletta all'operazione decisiva per la storia della cultu­ in essa come elementi (cnotXEìa) le lettere (yp<if.lf.la'ta). Ritro­
ra occidentale che, sotto l'apparenza di una descrizione che viamo qui la struttura dell' exceptio - dell'esclusione inclusiva
il tempo ha reso ovvia, si compie in questi scritti. <I>roviJ e - che rende possibile la cattura della vita nella politica. Come
wyoç, voce animale e linguaggio umano sono distinti, ma la vita naturale dell'uomo viene inclusa nella politica attraver­
coincidono localmente nell'uomo, nel senso che il linguag­ so la sua stessa esclusione nella forma della nuda vita, così il
gio si produce attraverso una «articolazione» della voce, che linguaggio umano (che fonda, del resto, secondo Aristotele,
non è altro che l'iscrizione in essa delle lettere (yp<if.lf.la'ta), Pol. 1 2 5 3 a 1 8, la comunità politica) ha luogo attraverso una
cui compete lo statuto privilegiato di essere, insieme, segni esclusione-inclusione della «nuda voce» (<l>rovil a1tA.O);, nelle
e elementi (cnotXEta) della voce (in questo senso, la lettera parole di Ammonio) nel M)yoç. In questo modo, la storia si
è indice di se stessa, index sui). La definizione aristotelica radica nella natura, la tradizione esosomatica in quella endo­
venne raccolta dai grammatici antichi, che, fra il primo e il somatica, la comunità politica in quella naturale.
secondo secolo della nostra era, diedero carattere di scienza
sistematica alle osservazioni dei filosofi. Anche i grammatici
cominciano la loro trattazione dalla definizione della voce, N All'inizio della Grammatologia, Jacques Derrida, subito dopo
distinguendo la «voce confusa» ( <1>rovil croyKEXUf.lÉVll) degli aver enunciato il programma di una rivendicazione della scrittura con­
animali, dalla «voce articolata» ( <1>rovil Evap8poç, vox articu­ tro il privilegio della voce, cita il passo del De interpretatione, in cui
Aristotele afferma «il legame originale>> e la «prossimità essenziale» fra
lata) dell'uomo. Ma se si chiede, a questo punto, in che cosa
la voce e il M>yoç, che definiscono la metafisica occidentale: «Se, per
consista il carattere articolato della voce umana, i gramma­
Aristotele, "i suoni emessi dalla voce" (ta Èv 'tij <jlroviì) sono i simboli
tici rispondono che <1>rovil Evap8poç significa semplicemente degli stati dell'anima (1taei]f.1ata Èv 'tij <j>roviJ) e le parole scritte i simboli
<1>rovil ÈyypOf.lf.la'toç, cioè, nella traduzione latina, vox quae delle parole emesse dalla voce, ciò è perché la voce, produttrice dei
scribi potest o quae litteris comprehendi potest, voce scrivi­ simboli primi, ha un rapporto di prossimità essenziale e immediata con
bile, «grammatizzata», che si può comprendere attraverso le l'anima>> (Derrida 1967, pp. 22-2 3 ). Se la nostra analisi della situazione
lettere. La voce confusa è quella, inscrivibile, degli animali delle lettere nella voce è corretta, ciò significa che la metafisica occi­
dentale pone nel suo luogo originale il ypOflfla e non la voce. La critica
(«il nitrito dei cavalli, la rabbia dei cani, il ruggito delle fie­
derridiana della metafisica si fonda quindi su una lettura insufficiente
re») o anche quella parte della voce umana che non si può di Aristotele, che omette di interrogare proprio lo statuto originale del
scrivere, «come il riso, il fischio o il singhiozzo» (a cui si po­ ypOflfla nel De interpretatione. La metafisica è sempre già grammato­
trebbe aggiungere l'aspetto timbri co della voce, che l' orec­ logia e questa è fondamentologia, nel senso che, dal momento che il
chio percepisce, ma non può formalizzare in una scrittura). M>yoç ha luogo nel non luogo della <j>rovi], alla lettera e non alla voce
La voce articolata non è, dunque, altro che <1>rovil Èyypaf.l­ compete la funzione di fondamento ontologico negativo.
f.la'toç, voce che è stata trascritta e com-presa - cioè cattura-
CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS 37

l a loro consistenza strettamente acustica, riuscendo così a


scomporre e analizzare il tessuto sonoro del linguaggio in
Possiamo qui cogliere l'incidenza fondamentale della scrit­ una molteplicità di dati scientificamente controllabili. Ma
tura alfabetica nella nostra cultura e sul modo in cui essa ha quanto più l'analisi dell'onda sonora prodotta dalla voce
concepito il linguaggio. Solo la scrittura alfabetica - la cui in­ si affinava, tanto più diventava impossibile separare chia­
venzione i greci attibuivano ai due eroi civilizzatori Cadmo ramente l'uno dall'altro gli elementi (i ypaJ.!Jla'ta-O''tOtXEÌa)
e Palamede - può, infatti, generare l'illusione di aver cattu­ che la tradizione grammaticale aveva identificato. Già Saus­
rato la voce, di averla com-presa e trascritta: nei ypaJ.!J.ta­.
sure nel I 9 I 6 aveva osservato che se si potessero riprodurre
'ta. Per rendersi pienamente conto dell'importanza in ogni attraverso un film i movimenti della bocca, della lingua, e
senso fondatrice della cattura della lingua che è stata resa delle corde vocali di un locutore che produce quella che ci
possibile dalla scrittura alfabetica e dalla sua ÉPJlllVEia da appare come la serie di suoni F-A-L, sarebbe impossibile
parte dei filosofi e, poi, dei grammatici, occorre liberarsi dividere i tre elementi che la compongono, che si presen­
della rappresentazione ingenua - frutto di due millenni di tano in realtà così indissolubilmente intrecciati che non è
educazione grammaticale - secondo cui le lettere sarebbero dato isolare un punto in cui F finisce e A comincia. Un film
perfettamente riconoscibili nella voce come suoi elementi. realizzato nel I 9 3 3 dal fonetista tedesco Paul Menzerath
Niente è più istruttivo, in questa prospettiva, della storia ha confermato anche dal punto di vista acustico l'osserva­
di quella parte della grammatica - la fonetica - che si occu­ zione di Saussure. Nell'atto di parola, i suoni non si succe­
pa dell'analisi dei suoni del linguaggio (in quanto, appunto, dono, ma si intricano e si legano così intimamente, che le
«voce articolata»). La fonetica moderna si è concentrata, unità che noi crediamo di poter distinguere . tanto al livello
in un primo momento, sull'analisi dei ypUJ.!Jla'ta secondo morfologico che a quello fonetico costituiscono in realtà
la loro modalità di articolazione, distinguendoli in labiali, un flusso perfettamente continuo.
dentali, palatali, velari, labiovelari, laringali ecc., con una La consapevolezza dell'impossibilità di distinguere i
tale acribia descrittiva, che un fonetista, che era anche un suoni del linguaggio sia dal punto di vista articolatorio che
medico, ha potuto scrivere che se veramente il soggetto da ql,lello acustico ha reso necessaria la nascita della fono­
parlante articolasse un certo suono laringale nel modo de­ logia, che separa nettamente i suoni della parola (di cui si
scritto nei trattati di fonetica, ciò avrebbe per conseguen­ occupava la fonetica) dai suoni della lingua (i fonemi, pure
za la sua morte per soffocamento. La fonetica articolato­ opposizioni immateriali, che sono l'oggetto della fonolo­
ria entrò in crisi quando ci si accorse che, in presenza di gia). Con la rottura del vincolo fra lingua e voce, che era
una lesione dell'organo di articolazione, il parlante riusciva rimasto fuori questione dal pensiero antico fino alla fone­
ugualmente a articolare il suono secondo altre modalità. tica dei neogrammatici, l'autonomia della lingua rispetto
Abbandonando le analisi dei suoni secondo il loro all'atto di parola diventa evidente. E, tuttavia, se, da una
punto di articolazione, la fonetica si concentrò allora sul- parte, la fonologia prende atto del fatto che i ypaJ.!Jla'ta non
CHE cos'È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS 39

sono traccia e scrittura della voce, essa mantiene dall'altra,


attraverso il fonema, una sorta di arcigramma, puramente
negativo e differenziale. Con ciò, la difficoltà nata dalla si­ Se l'antropogenesi - e la filosofia che la rammemora, cu­
tuazione aporetica del Àoyoç nella <j>rovil non è sciolta, ma stodisce e incessantemente riattualizza - coincidono con
solo riproposta sul piano dell'impossibile articolazione fra un experimentum linguae che situa aporeticamente il ÀO­
langue e parole o fra semiotico e semantico. yoç nella voce e se la ÉpJlTJVEia, l'interpretazione di questa
esperienza che ha dominato la storia dell'Occidente sem­
bra aver raggiunto il suo limite, allora ciò che non può non
N I l carattere inafferrabile della voce umana e l a vanità del tentativo di essere oggi in questione nel pensiero è un experimentum
renderla in qualche modo comprensibile attraverso le lettere erano stati già vocis, nel quale l'uomo revochi radicalmente in questione
osservati da Platone, dal quale dipende, anche in questo caso, la ÉpJ.lTJVeta
la situazione del linguaggio nella voce e provi a assumere da
aristotelica del linguaggio e la situazione del ').Jyyo ç nei yp<lJ.tJla-ta. «Quan­
do un dio o un uomo divino (in Egitto vi è un racconto che narra che
capo il suo essere parlante. Ciò che è giunto a compimen­
questi era Theuth)>> dice Socrate nel Filebo «si rese conto che la voce è to non è, infatti, la storia naturale dell'umanità, ma quella
infinita (cprovijv 01t€tpov - annpov vale letteralmente "inesperibile, im­ specialissima storia epocale in cui la ÉpJlTJVEia della parola
praticabile, senza via d'uscita") e per primo comprese che in questo come una lingua - cioè come un intreccio consapevole di
inesperibile (Èv t<!> àndpq>) le vocali non sono una, ma molte e che ivi vocaboli, concetti, cose e lettere, che, attraverso i ypaJlJla­
sono anche altre cose che non appartengono propriamente alla voce, ta, ha luogo nella voce - aveva destinato l'Occidente. Oc­
ma hanno pure parte a un certo suono e che vi è un numero determi­
corre, pertanto, interrogare sempre di nuovo la possibilità
nato anche di queste, dopo essersi reso conto di ciò, separò un terzo
genere di lèttere (ypaJ.1J.10trov), quelle che noi diciamo ora mute (acprova). e il senso dell'experimentum, indagarne il luogo e la genea­
Distinse poi fra di loro, fino a ciascuna unità, queste lettere mute e logia per indagare se non vi sia, rispetto ai ypaJlJlata e al sa­
senza suono, e così le vocali e le intermedie fra le vocali e le mute fino pere che su di essi si fonda, un altro modo di venire a capo
a che, una volta conosciuto il loro numero, attribuì a ciascuna il nome dell'inesperibilità della voce. Esso non è, nella nostra cul­
CHOtXEtov. Vedendo poi che nessuno potrebbe impararne una sola per tura, un fenomeno eccentrico o marginale, che, cercando di
se stessa senza le altre tutte ed avendo argomentato da ciò che esiste un
dire quel che non si può dire, si avvolge necessariamente in
legame (8EO'J.10V) unitario che in qualche modo le unifica tutte, ad esse
applicò una tecnica che chiamò grammatica>> (Phil. r 8 b 5 -d 2 ) .
contraddizioni; esso è, piuttosto, la cosa stessa del pensiero,
Mentre da questa inesperibilità della voce Platone non dedusse la il fatto costitutivo di ciò che chiamiamo filosofia.
necessità dei ypOJ.1J.1Uta (nel Fedro egli critica anzi decisamente l'inven­ Negli stessi anni in cui formulava la frattura invalicabi­
zione di Theuth, accusata di far perdere agli uomini la memoria), ma le fra il semiotico e il semantico, Benveniste scriveva quel
quella di una teoria delle idee, Aristotele seguì invece senza riserve il saggio sull'Apparato formale dell'enunciazione, nel quale
paradigma egizio di Theuth, espungendo conseguentemente come ri­ veniva indagata la capacità del linguaggio di riferirsi, at­
dondanti dal plesso semantico le idee.
traverso gli shifters «io», «tu» «qui», «ora», «questo» ecc.
non a una realtà lessicale, ma al proprio puro aver luogo.
CHE C O S ' È LA FILOS OFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS

«lo» non indica una sostanza, ma la persona che pronun­ sapere occidentale riposa in ultima istanza su una voce tol­
cia l'istanza di discorso contenente «io», così come «que­ ta, sullo scriversi di una voce. Questo è il suo fragile, ma
sto» può essere solo l'oggetto di «un'estensione simultanea tenace mito fondativo.
all'istanza presente di discorso» e «qui» e «ora» «delimita­
no l'istanza spaziale e temporale contemporanea all'istan­
za di discorso che contiene il pronome "io "». Non è qui ! 6.
il luogo di ripercorrere queste analisi giustamente celebri,
che hanno trasformato la teoria tradizionale dei pronomi e È possibile pensare la relazione tra la voce e il linguaggio
definito in modo nuovo il problema filosofico del soggetto. altrimenti che attraverso le lettere ? Un'ipotesi possibile è
Interessa qui chiedere piuttosto in che modo si possa inten­ suggerita da Ammonio quando, nel suo commento, accen­
dere la «contemporaneità» e la «simultaneità» fra lo shifter na corsivamente alla voce come materia (UÀll) della lingua.
e l'istanza di discorso Qakobson parla anche, a questo pro­ Prima di provare a seguire questa ipotesi, occorrerà, però,
posito, di una «relazione esistenziale» fra il pronome «io» e confrontarsi con la tesi, enunciata da J.-C. Milner, secon­
«l'enunciazione») senza far ricorso a una voce. L'enuncia­ do cui lettera e materia sono sinonimi, poiché la materia
zione e l'istanza di discorso non sono identificabili come - intesa nel senso della scienza moderna - è eminentemente
tali che attraverso la voce che le proferisce. Ma, in quanto translittérable, trascrivibile in lettere (Milner I 98 5 , p. 8). A
si riferisce all'aver luogo del discorso, la voce che è qui in questa tesi, Milner aggiunge il corollario secondo cui let­
questione non può essere la voce animale, ma, ancora una tera e significante sono diversi ed è proprio la loro inde­
volta, la voce in quanto ciò che deve necessariamente esser bita confusione che ha indotto Saussure a attribuire, negli
tolto perché, nel suo non luogo, i ypaJ..LJ..La'ta e, con essi, il di­ Anagrammi, alla lettera le proprietà del significante e, nel
scorso abbiano luogo. L'enunciazione situa, cioè, il sogget­ Corso, al significante i caratteri della lettera.
to, colui che dice «io», «qui», «ora» nell'articolazione fra la Possiamo allora dire, nei termini di Milner, che l'opera­
voce e il linguaggio, fra il «non più» della <)>rovi] animale e il zione di Aristotele consiste appunto nell'identificare la let­
«non ancora» del J..6 yoç. È in questa articolazione negativa tera - il ypaJ..LJ..La - col significante, col divenir semantica della
che si situano le lettere. La voce si scrive, diventa ÈyypaJ..LJ..La­ <)>rovi]. A condizione di aggiungere, contro la tesi di Milner,
'toç, nel punto in cui il soggetto, colui che dice «io» si rende che la materia - almeno se la si restituisce al paradigma pla­
conto di essere in luogo della voce. Per questo, come Hegel tonico di una xcòpa, di un puro aver-luogo - non è invece mai
ha mostrato nella Fenomenologia dello spirito, è sufficiente traslitterabile, non può mai essere lettera e scrittura.
trascrivere la certezza sensibile che si afferma nel pronome Sia, nel Timeo, la definizione del terzo genere dell'esse­
«questo», e negli avverbi «qui» e «ora» per vederla svanire re, accanto al sensibile e all'intellegibile, che Platone chiama
(«qui» non è più qui, «ora» non è più ora), perché la voce xropa. Essa è il ricettacolo (\moòoxiJ) o un porta-impronte
su cui essa si fondava dilegui definitivamente. L'edificio del (ÈKJ..Laye'iov) che offre un luogo a tutte le forme sensibili,
CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS 43

senza, però, mai confondersi con queste. Essa non è né pro­ sero insufficienti. N o n si tratta, in realtà, né di due opzioni
priamente sensibile, né propriamente intellegibile, ma viene rivali né di due possibilità alternative e senza rapporto fra
percepita come in sogno «con un ragionamento bastardo, di loro, quasi che il parlante potesse scegliere l'una o l'altra
accompagnato da assenza di sensazione». Se, proseguendo arbitrariamente: poesia e filosofia rappresentano piuttosto
l'analogia suggerita da Ammonio, consideriamo la voce due tensioni inseparabili e irriducibili all'interno dell'unico
come xropa della lingua, essa non sarà pertanto legata gram­ campo del linguaggio umano e, in questo senso, finché ci
maticalmente a questa in un rapporto di segno né di ele­ sarà linguaggio, ci saranno poesia e pensiero. La loro dua­
mento: essa è, piuttosto, ciò che, nell'aver-luogo del ì..oyoç, lità testimonia, infatti, ancora una volta della scissione che,
percepiamo come irriducibile ad esso, come l'inesperibile secondo la nostra ipotesi, si è prodotta nella voce, al mo­
(èbtEtpov) che incessantemente l'accompagna e che, né puro mento dell'antropogenesi, tra ciò che restava del linguaggio
suono né discorso significante, percepiamo all'incrocio fra animale e la lingua che si andava costruendo in suo luogo
questi con una assenza di sensazione e con un ragionamen­ come organo del sapere e della conoscenza.
to senza significato. Abbandonando ogni mitologia fonda­ La situazione della lingua nel luogo della voce è causa,
tiva, possiamo allora dire che, in quanto xropa e materia, infatti, di un'altra irriducibile scissione che traversa il lin­
essa è una voce che non è mai stata scritta nel linguaggio, guaggio umano, quella fra suono e senso, fra serie fonica e
un in-scrivibile che, nell'incessante tramandamento storico musicale e serie semantica. Queste due serie, che coincide­
della scrittura grammaticale, resta ostinatamente tale. Tra il vano nella voce animale, si separano ogni volta e si oppon­
vivente e il parlante non vi è alcuna articolazione. La lettera gono nel discorso secondo una duplice, inversa tensione, in
- il ypaJ.tJ.la, che pretende di porsi come l'esser-stata, come modo che la loro coincidenza è impossibile e, insieme, irri­
la traccia della voce - non è nella voce né in luogo di questa. nunciabile. Ciò che chiamiamo poesia e ciò che chiamiamo
filosofia nominano le due polarità di questa opposizione nel
linguaggio. La poesia ha così potuto essere definita come il
tentativo di tendere al massimo in direzione di un puro suo­
no, attraverso la rima e l' enjambement, le differenze fra se­
L' «antico dissidio» (naì..a tà ota<j>opa, Resp. 6o7 b) fra rie semiotica e serie semantica, suono e senso, <j>rovf) e ì..oyoç;
poesia e filosofia deve allora essere pensato da capo in que­ la prosa filosofica potrà allora apparire, per converso, come
sta prospettiva. Nel pensiero del '9oo, la separazione fra tesa verso il loro appagamento in un puro senso.
questi due discorsi - e, insieme, il tentativo di riunirli - ha Contro questa lectio facilior del loro rapporto, occorre
raggiunto la sua tensione massima: se, da una parte, la lo­ piuttosto ricordare che decisivo è, per entrambe, il momento
gica ha cercato di purificare la lingua da ogni ridondanza in cui <j>rovfJ e ì..oyoç, suono e senso sono a contatto - inten­
poetica, non sono mancati, dall'altra, filosofi che hanno dendo, con Giorgio Colli, il contatto non come un punto di
invocato la poesia là dove sembrava che i concetti risultas- tangenza,, ma come il momento in cui due enti sono uniti (o,
44 CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? EXPERIMENTUM VO CIS 45

piuttosto, separati) solo da un'assenza di rappresentazione. è questa o quella lingua, ha questa o quella « grammatica»,
Se chiamiamo pensiero questo momento di contatto, possia­ comunica questo o quel contenuto semantico. Noi parlia­
mo allora dire che poesia e filosofia sono in realtà interne mo sempre all'interno del linguaggio e attraverso il linguag­
l'una all'altra, nel senso che l'esperienza propriamente poeti­ gio e parlando di questo o di quell'argomento, predicando
ca della parola si compie nel pensiero e l'esperienza propria­ qualcosa di qualcosa, dimentichiamo ogni volta il semplice
mente pensante della lingua ha luogo nella poesia. La filoso­ fatto che ne stiamo parlando. Nell'istante dell'enunciazio­
fia è, cioè, ricerca e commemorazione della voce, così come ne, tuttavia, il linguaggio non si riferisce a nessuna realtà
la poesia, secondo quanto i poeti non cessano di ricordarci, è lessicale né al testo dell'enunciato, ma unicamente al pro­
amore e ricerca della lingua. La prosa filosofica, in cui suono prio aver luogo. Esso fa riferimento soltanto al suo aver
e senso sembrano coincidere nel discorso, rischia pertanto luogo nel togliersi della voce, si tiene in relazione negativa
di mancare di pensiero, cosi come la poesia, che non cessa di con la voce che, secondo il mito, sparendo, gli dà luogo.
opporre suono e senso, rischia di mancare di voce. Per que­ Se questo è vero, allora possiamo definire il compito del­
sto, come ha scritto Wittgenstein, «la filosofia la si dovrebbe la filosofia come il tentativo di esporre e di fare esperienza
propriamente soltanto poetare» ( «Philosophie diirfte man di quel factum che la metafisica e la scienza del linguaggio
eigentlich nur dichten», Wittgenstein 1 977, p. 5 8), a condi­ devono limitarsi a presupporre, di prendere, cioè, coscienza
zione di aggiungere che la poesia la si dovrebbe propriamen­ del puro fatto che si parli e che l'evento di parola accade al
te soltanto filosofare. La filosofia è sempre e costitutivamen­ vivente nel luogo della voce, ma senza che nulla lo articoli a
te filosofia della - genitivo soggettivo - poesia e la poesia è questa. Dove voce e linguaggio sono a contatto senza alcuna
sempre e originariamente poesia della filosofia. articolazione, là avviene un soggetto, che testimonia di que­
sto contatto. Il pensiero che voglia rischiarsi in questa espe­
rienza deve situarsi risolutamente non solo nello iato - nel
1 8. contatto - fra lingua e parola, semiotico e semantico, ma
anche in quello fra la cj>roviJ e il Àoyoç. Il pensiero, che - fra
Se chiamiamo factum loquendi il fatto della pura e sem­ la parola e la lingua, l'esistenza e l'essenza, la potenza e l'at­
plice esistenza del linguaggio, indipendentemente dal suo at­ to - si rischia in questa esperienza deve accettare di trovarsi .
testarsi in questa o quella lingua, in questa o quella gramma­ ogni volta senza lingua di fronte alla voce e senza voce di
tica, in questa o quella proposizione significante, possiamo fronte alla lingua.
allora dire che la linguistica e la logica moderne hanno potu­
to costituirsi come scienze solo lasciando da parte come un
presupposto impensato il factum loquendi, il puro fatto che
si parli, per occuparsi unicamente del linguaggio in quanto
è descrivibile in termini di proprietà reali - in quanto, cioè,
Sul concetto di esigenza
Sempre di nuovo la filosofia si trova davanti al compito
di una definizione rigorosa del concetto di esigenza. Que­
sta definizione è tanto più urgente, in quanto si può dire,
senz'alcun gioco di parole, che la filosofia esige questa de­
finizione e che la sua possibilità coincide integralmente con
questa esigenza.
Se non vi fosse esigenza, ma solo necessità, non potreb­
be esservi filosofia. Non ciò che ci obbliga, ma ciò che ci
esige; non il dover-essere né la semplice realtà fattuale, ben­
sì l'esigenza: questo è l'elemento della filosofia. Ma anche
la possibilità e la contingenza, per effetto dell'esigenza, si
trasformano e modificano. Una definizione dell'esigenza
implica, cioè, come compito preliminare una ridefinizione
delle categorie della modalità.

Leibniz ha pensato l'esigenza come un attributo della


possibilità: omne possibile exigit existiturire, «ogni possibi­
le esige di esistere». Ciò che il possibile esige è di diventare
reale, la potenza - o essenza - esige l'esistenza. Per questo
Leibniz definisce l'esistenza come un'esigenza dell'essenza:
«Si existentia esset aliud quiddam quam essentiae exigentia,
sequeretur ipsam habere quandam e � sentiam, seu aliquid
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? SUL CONCETTO DI ESIGENZA

novum superadditum rebus, de quo rursus quaeri potest, diventa di colpo incompiuto. Anche la memoria, in quanto
an haec essentia existat, et cur ista potius quam alia». («Se restituisce incompiutezza al passato e lo rende così in qual­
l'esistenza fosse qualcos' altro che un'esigenza dell'essenza, che modo per noi ancora possibile, è qualcosa come un'esi­
ne seguirebbe che anch'essa avrebbe una qualche essenza, genza. La posizione leibniziana del problema dell'esigenza
cioè qualcosa che si aggiungerebbe alle cose; e allora si po­ è qui rovesciata: non è il possibile a esigere di esistere, ma il
trebbe nuovamente chiedere se questa essenza a sua volta reale, il già stato a esigere la propria possibilità. E che cos'è il
esista, e perché questa piuttosto che un'altra»). Nello stes­ pensiero se non la capacità di restituire possibilità alla realtà,
so senso, Tommaso scriveva ironicamente che «come non di smentire la falsa pretesa dell'opinione a fondarsi soltanto
possiamo dire che la corsa corre, così non possiamo nem­ sui fatti ? Pensare significa innanzitutto percepire l'esigenza
meno dire che l'esistenza esista». di ciò che è reale di ridiventare possibile, rendere giustizia
L'esistenza non è un quid, un qualcosa di altro rispetto non soltanto alle cose, ma anche alle loro lacrime.
all'essenza o alla possibilità, è solo una esigenza contenuta Nello stesso senso Benjamin ha scritto che la vita del prin­
nell'essenza. Ma come comprendere questa esigenza ? In cipe Myskin esige di restare indimenticabile. Questo non
un frammento del r 689, Leibniz chiama questa esigenza significa che qualcosa che è stato dimenticato, esiga ora di
existiturientia (termine formato sull'infinito futuro di exi­ tornare alla memoria: l'esigenza concerne l'indimenticabile
stere) ed è attraverso di essa che egli cerca di rendere com­ come tale, quand'anche tutti lo avessero per sempre dimen­
prensibile il principio di ragione. La ragione per cui qualco­ ticato. L'indimenticabile è, in questo senso, la forma stessa
sa esiste piuttosto che nulla «consiste nella prevalenza delle dell'esigenza. E questa non è la pretesa di un soggetto, è uno
ragioni di esistere (ad existendum) su quelle di non esistere, stato del mondo, un attributo della sostanza - cioè, nelle pa­
cioè, se è lecito dirlo con una parola, nella esigenza di esistere role di Spinoza, qualcosa che la mente concepisce di essa
dell'essenza (in existiturientia essentiae )». La radice ultima di come costituente la sua essenza.
questa esigenza è Dio («dell'esigenza di esistere delle essenze
- existituritionis essentiarum - bisogna che vi sia una radice a
parte rei e questa radice non può essere che l'ente necessario, L'esigenza è dunque, come la giustlzta, una categoria
fondo - fundus - delle essenze e fonte - fons - delle esisten­ dell'antologia e non della morale. Non è nemmeno una ca­
ze, cioè Dio . . . Mai, se non in Dio e attraverso Dio, le essenze tegoria logica, in quanto essa non implica il suo oggetto,
potrebbero trovare una via per l'esistenza - ad existendum» ). come la natura del triangolo implica che la somma dei suoi
angoli sia uguale a due angoli retti. Si dirà, cioè, che una
cosa ne esige un'altra, quando, se la prima è, anche l'altra
Un paradigma dell'esigenza è la memoria. Benjamin ha sarà, senza, però, che la prima la implichi logicamente o
scritto una volta che, nel ricordo, noi facciamo l'esperienza la contenga nel proprio concetto e senza che obblighi per
che ciò che sembra assolutamente compiuto - il passato - ri- questo l'altra ad esistere sul piano dei fatti.
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? SUL CONCETTO D I ESIGENZA 53

A questa definizione dovrebbe seguire una revisio­ te politico): la cosa sperata è già compiutamente presente
ne delle categorie antologiche che i filosofi si astengono in quanto esigenza. Per questo la fede non può essere una
dall'intraprendere. Leibniz attribuisce l'esigenza all'essen­ proprietà del credente, ma un'esigenza che non gli appar­
za (o possibilità) e fa dell'esistenza l'oggetto dell'esigenza. tiene e lo raggiunge dall'esterno, dalle cose sperate.
Il suo pensiero resta, cioè, ancora tributario del dispositivo
antologico, che divide nell'essere essenza e esistenza, po­
tenza e atto e vede in Dio il loro punto di indifferenza, il Quando Spinoza definisce l'essenza come conatus, egli
principio «esistentificante» ( existentificans ), in cui l'essenza pensa qualcosa come un'esigenza. Per questo nella proposi­
si fa esistente. Ma che cos'è una possibilità che contiene una zione 7 della III parte dell'Etica: «Conatus, quo unaquaeque
esigenza ? E come pensare l'esistenza, se essa non è altro res in suo esse perseverare conatur, nihil est praeter ipsius
che un'esigenza? E se l'esigenza fosse più originale della rei actualis essentia», il termine conatus non dev'essere tra­
stessa distinzione fra essenza e esistenza, possibile e reale ? dotto, come avviene di solito, con «sforzo», ma con «esi­
Se l'essere stesso fosse da pensare come un'esigenza, di cui genza»: «L'esigenza, attraverso la quale ciascuna cosa esige
le categorie della modalità (possibilità, contingenza, neces­ di perseverare nel suo essere, non è nient'altro che la sua
sità) non sono che le inadeguate specificazioni, che occorre essenza attuale». Che l'essere esiga (o desideri: lo scoli o
revocare decisamente in questione ? precisa che il desiderio cupiditas è uno dei nomi del co­
- -

natus), significa che esso non si esaurisce nella realtà fattua­


le, ma contiene un'esigenza che va al di là di questa. L'essere
Dal fatto che l'esigenza non sia una categoria morale, non è semplicemente, ma esige di essere. Il che significa, an­
consegue che da essa non può provenire nessun imperativo, cora una volta, che il desiderio non appartiene al soggetto,
che essa non ha cioè nulla a che fare con un dover-essere. ma all'essere. Come chi ha sognato una cosa, in realtà l'ha
Ma, con ciò, la morale moderna, che si dichiara estranea alla già avuta, così il desiderio porta con sé la sua soddisfazione.
felicità e ama presentarsi nella forma categorica di un'in­
giunzione, è condannata senza riserve.
L'esigenza non coincide né con la sfera dei fatti né con
quella degli ideali: essa è, piuttosto, materia, nel senso in cui
Paolo definisce la fede (m<rnç) come l'esistenza (im6<Ytamç) Platone la definisce nel Timeo come un terzo genere dell'es­
delle cose sperate. La fede fornisce, cioè, una realtà e una sere fra l'idea e il sensibile, «che offre un luogo (xo)pa) e una
sostanza a ciò che non esiste. In questo senso, la fede è si­ sede alle cose che vengono in essere». Per questo, come della
mile a un'esigenza, a condizione, però, di precisare che non xo)pa, anche dell'esigenza si può dire che la percepiamo «con
si tratta dell'anticipazione di una cosa a venire (come per il una assenza di sensazione» (J.tE't' àvmcrGT]criaç non «senza
-

devoto) o che deve essere realizzata (come per il militan- sensazione», ma «con una anestesia») e con un «discorso ba-
54 CHE C O S'È LA FILOSOFIA ? SUL CONCETTO DI ESI GENZA 55

stardo e appena credibile»: cioè, che essa ha l'evidenza della ogni possibile realizzazione, ma semplicemente perché essa
sensazione senza la sensazione (come - dice Platone - avvie­ non può mai essere posta sul piano di una realizzazione.
ne nei sogni) e l'intellegibilità del pensiero, ma senza alcuna Nella mente di Dio - cioè nello stato della mente che cor­
possibile definizione. La materia è, in questo senso, l'esigen­ risponde all'esigenza come stato dell'essere - le esigenze
za che spezza la falsa alternativa fra il sensibile e l'intellegi­ sono già appagate da tutta l'eternità. In quanto viene pro­
bile, il linguistico e il non linguistico: vi è una materialità del iettato nel tempo, il messianico si presenta come un altro
pensiero e della lingua, così come vi è un'intellegibilità nella mondo che esige di esistere in questo mondo, ma non può
sensazione. Ed è questo terzo indeterminato che Aristotele farlo che in modo parodico o approssimativo, come una di­
chiama UÀll e i medievali silva, «volto incolore della sostan­ storsione, non sempre edificante, del mondo. La parodia è,
za» e «grembo infaticabile della generazione», e di cui Ploti­ in questo senso, la sola espressione possibile dell'esigenza.
no dice che è come «un'impronta del senza forma».
Occorre pensare la materia non come un sostrato, ma
come un'esigenza dei corpi: essa è ciò che un corpo esige e Per questo, l'esigenza ha trovato un'espressione sublime
che noi percepiamo come la sua più intima potenza. Si com­ nelle beatitudini evangeliche, nella tensione estrema che se­
prende così meglio il nesso che lega da sempre la materia alla para il Regno dal mondo. «Beati i poveri nello spirito, per­
possibilità (i platonici di Chartres definivano per questo la ché di essi è il regno dei cieli. Beati i miti, perché possede­
UÀll come la «possibilità assoluta, che tiene tutte le cose im­ ranno la terra. Beati coloro che piangono, perché saranno
plicate in se stessa»): ciò che il possibile esige non è di passare consolati . . . Beati i perseguitati, perché di essi è il regno dei
all'atto, ma di materiarsi, di farsi materia. È in questo senso cieli. Beati sarete quando vi malediranno e perseguiteran­
che si devono intendere le tesi scandalose di quei materialisti no . . . ». È significativo che, nel caso privilegiato dei poveri
medievali come Amalrico di Bène e Davide di Dinant che e dei perseguitati - cioè nelle due condizioni agli occhi del
identificavano Dio e la materia (yle mundi est ipse deus) : Dio mondo più infami - il verbo sia al presente: il regno dei
è l'aver luogo dei corpi, l'esigenza che li segna e materia. cieli è qui e ora di coloro che si trovano nella situazione
più lontana da esso. L'estraneità dell'esigenza a ogni rea­
lizzazione fattuale nel futuro è qui affermata nel modo più
Come, secondo un teorema benjaminiano, il Regno puro: · e, tuttavia, proprio per questo, essa trova ora il suo
messianico non può essere presente nella storia che in for­ vero nome. Essa è - nella sua essenza - beatitudine.
me ridicole e infami, così, sul piano dei fatti, l'esigenza si
manifesta nei luoghi più insignificanti e secondo modalità
che, nelle circostanze presenti, possono apparire spregevoli L'esigenza è lo stato di complicazione estrema di un es­
e incongrue. Rispetto all'esigenza, ogni fatto è inadeguato, sere, che implica in sé tutte le sue possibilità. Ciò significa
ogni appagamento insufficiente. E non perché essa ecceda che essa si tiene in una relazione privilegiata con l'idea, che,
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ?

nell'esigenza, le cose sono contemplate sub quadam aeter­


nitatis specie. Come quando contempliamo l'amata mentre
dorme. Essa è là - ma come sospesa da tutti i suoi atti, invo­
luta e raccolta in se stessa. Come l'idea, c'è e, insieme, non
c'è. Sta davanti al nostro sguardo, ma perché ci fosse vera­
mente occorrerebbe destarla e, così facendo, la perderem­
mo. L'idea - l'esigenza - è il sonno dell'atto, la dormizione
della vita. Tutte le possibilità sono ora raccolte in un'unica
complicazione, che la vita andrà poi man mano spiegando -
Sul dicibile e l'idea
ha già, in parte, spiegato. Ma, di pari passo al procedere delle
spiegazioni, sempre più s'addentra e complica in sé inespli­
cabile l'idea. Essa è l'esigenza che resta indelibata in tutte le
sue realizzazioni, il sonno che non conosce risveglio.
I.

, Non l'indicibile, ma il dicibile costituisce il problema con


cui la filosofia deve ogni volta tornare a misurarsi. L'indicibi­
le non è infatti che una presupposizione del linguaggio. Non
appena vi è linguaggio, la cosa nominata viene presuppo­
sta come il non-linguistico o l'irrelato con cui il linguaggio
ha stabilito la sua relazione. Questo potere presupponente
è così forte, che noi immaginiamo il non-linguistico come
qualcosa di indicibile e di irrelato che cerchiamo in qualche
modo di afferrare come tale, senza accorgerci che in questo
modo non facciamo altro che tentare di afferrare l'ombra del
linguaggio. L'indicibile è, in questo senso, una categoria ge­
nuinamente linguistica, che solo un essere parlante può con­
cepire. Per questo Benjamin, nella lettera a Buber del luglio
1 9 1 6, poteva parlare di una «cristallina eliminazione dell'in­
dicibile nel linguaggio»: l'indicibile non ha luogo fuori dal
linguaggio come un oscuro presupposto, ma, in quanto tale,
può essere eliminato soltanto nel linguaggio.
Cercheremo di mostrare che, al contrario, il dicibile è
una categoria non linguistica, ma genuinamente ontologi­
ca. L'eliminazione dell'indicibile nel linguaggio coincide
con l'esposizione del dicibile come compito filosofico. Per
6o CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA 61

questo il dicibile non può mai darsi, come l'indicibile, pri­ solo i concetti. Più corretta è , secondo Filopono, l a tesi di
ma o dopo il linguaggio: scaturisce insieme ad esso e resta, Giamblico (che egli accetta con qualche precisazione) se­
tuttavia, irriducibile ad esso. condo cui crKo7toç del trattato sono le parole in quanto si­
gnificano le cose attraverso i concetti ( <j)rovrov <J'Ilflatvoucrrov
7tpayJla'ta Otà Jlécrov VOTJflcX'trov, Filopono 1 89 8, pp. 8 -9). Di
2. qui l'impossibilità di distinguere, nelle Categorie, logica
e antologia. Aristotele tratta qui delle cose, degli enti, in
Con questo termine - dicibile, ÀEK'tOV - gli stoici desi­ quanto sono significati dal linguaggio, e del linguaggio in
gnavano un elemento essenziale della loro dottrina degli quanto si riferisce alle cose. La sua antologia presuppone il
incorporei, sulla cui definizione gli storici della filosofia fatto che, come egli non si stanca di ripetere, l'essere si dice
non hanno però raggiunto un accordo. Prima di iniziare ( 'tÒ ov ÀÉyE'tat. . . ), è già sempre nel linguaggio. L'ambiguità
un'indagine su questo concetto, converrà, pertanto, situar­ fra logico e antologico è così consustanziale al trattato che,
lo innanzitutto nel contesto filosofico che gli compete. Gli nella storia della filosofia occidentale, le categorie si pre­
studiosi moderni, che tendono a proiettare anacronistica­ senteranno tanto come generi della predicazione che come
mente categorie e classificazioni moderne su quelle antiche, generi dell'essere.
iscrivono di solito questo concetto nell'ambito della logica.
E tuttavia questi stessi studiosi sanno perfettamente che la
divisione della filosofia in logica, antologia, fisica, metafisi­ M Le nostre classificazioni delle opere di Aristotele derivano dall'e­
dizione che ne diede Andronico di Rodi fra il 40 e il 20 a.C. È a lui che
ca ecc. è opera dei grammatici e degli scoliasti tardo-antichi
si deve tanto la raccolta dei cosiddetti scritti logici di Aristotele in un
e si presta a equivoci e fraintendimenti di ogni genere.
Organon quanto la famigerata collocazione J.!E-tà tà cj>umKa delle lezioni
Sia il trattato aristotelico sulle Categorie o predicazioni e degli appunti che oggi chiamiamo Metafisica. Mentre Andronico era
(ma il termine greco Ka'tT)yopiat significa nel linguaggio giu­ convinto che Aristotele fosse un pensatore consapevolmente sistema­
ridico «imputazioni, accuse»), classificato tradizionalmente tico e che la sua edizione riflettesse pertanto fedelmente l'intenzione
tra le opere logiche di Aristotele. Esso contiene tuttavia tesi dell'autore, noi sappiamo che egli proiettava su di lui idee ellenistiche
di indubbio carattere antologico. I commentatori antichi di­ del tutto estranee a una mente classica. Le edizioni moderne di Aristo­
tele, per quanto filologicamente aggiornate, rispecchiano purtroppo an­
scutevano pertanto su quale fosse l'oggetto (crKo1toç, il fine)
cora l'erronea concezione di Andronico. No i continuiamo così a leggere
del trattato: le parole (<Provai), le cose (1tpayJla'ta) o i concetti Aristotele come se egli avesse veramente composto sistematicamente un
(v011 Jla'ta). Nel prologo al suo commento, Filopono, ripe­ opyavov logico, dei trattati sulla fisica, sulla politica e sull'etica e, infine,
tendo argomenti del suo maestro Ammonio, scrive che se­ la Metafisica. Una lettura di Aristotele diventa possibile solo a partire
condo alcuni (fra cui Alessandro di Afrodisia) oggetto del dalla distruzione di questa articolazione canonica del suo pensiero.
trattato sono soltanto le parole, secondo altri (come Eusta­
zio) soltanto le cose e secondo altri, infine (come Porfirio ),
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA

3· cose sia propriamente lo spazio dell'essere, che il dicibile


coincida, cioè, con l'antologico.
Considerazioni analoghe valgono per il dicibile degli
stoici. Negli studi moderni, l'appartenenza del ÀEK'tOV alla
sfera della logica sembra scontata, ma essa riposa su as­ 4·
sunzioni (come l'identità fra crT))latVO)lEVOV e ÀEK'tOV, si­
gnificato e dicibile) che sono tutt'altro che sicure. Sia la La fonte più ampia e, insieme, più problematica, da cui
testimonanza di Ammonio, che definisce criticamente il deve partire ogni interpretazione della dottrina del dicibile
ÀEK'tOV da un punto di vista aristotelico: «Aristotele inse­ è un passo dell'Adversus mathematicos di Sesto Empirico
gna che cosa siano le cose innanzitutto e immediatamente ( I 842, VIII, 1 1 sg, p. 29 I ): «Alcuni ponevano il vero e il
significate (crTJ)latVO)lEVa, sci!. dai nomi e dai verbi) e i con­ falso nella cosa significata (1tEpÌ 'tep crT))latVO)lÉVql), altri nella
cetti (voi))la'ta) e, attraverso questi, le cose (7tpay)la'ta) e af­ parola (1tEpÌ 'ti] <j>rovij) e altri ancora nel movimento del pen­
ferma che non si deve pensare oltre a questi (cioè il VOll)la e siero (1tEpÌ 'ti] Ktvi)on 'tftç òtavoiaç). Nella prima opinione
il 7tpay)la) un altro medio, come quello che gli stoici sup­ primeggiano gli stoici, che dicevano che tre si congiungono
pongono col nome di dicibile (ÀEK'tov) » (Ammonio I 897, fra loro, il significato ( crT))latVO)lEvov), il significante ( crTJ­
p. 5 ). Ammonio ci informa, cioè, che gli stoici inserivano, )latvov) e l'oggetto ('tuyxavov, " ciò che capita essere", la
secondo lui inutilmente, fra il concetto e la cosa un terzo, cosa esistente che è ogni volta in questione). Il significante
che chiamavano dicibile. è la parola (<)>rovi)) - ad esempio, " Dione"; il significato è la
Il passo in questione proviene dal commento di Am­ cosa stessa in quanto è manifestata da essa (aÙ'tÒ 'tÒ 7tpay)la
monio al IlEpÌ ÉP)lllVEiaç. Qui Aristotele definiva il pro­ 'tÒ ù1t' aù'tftç ÒTJÀOU)lEvov), che noi afferriamo come ciò che
cesso dell' «interpretazione» attraverso tre elementi: le sussiste accanto (1tapu<j>ta'ta)lÉvou) al nostro pensiero e che
parole ( 'tà È v 'ti] <j>rovij), i concetti (più precisamente le af­ i barbari non comprendono anche se odono la parola; l' og­
fezioni nell'anima, 'tà 7ta8i))la'ta Èv 'ti] 'JIUXiJ), di cui le p a­ getto è la sostanza che esiste al di fuori ('tÒ ÉK'tÒç Ù1tOKEi­
role sono segni, e le cose ( 'tà 1tpay)la'ta ), di cui i concetti )lEvov) (ad esempio Dione stesso). Di questi, due sono cor­
sono le similitudini. Il dicibile stoico, suggerisce Ammo­ pi, e cioè la parola e l'oggetto, uno invece incorporeo, cioè
nio, non soltanto non è qualcosa di linguistico, ma non la cosa significata e dicibile ('tÒ crT))latVO)lEVov 1tpay)la KaÌ
è nemmeno un concetto e neppure una cosa. Esso non ÀEK'tov), che diventa vera o falsa».
ha luogo nella mente né semplicemente nella realtà, non Il significante (la parola significante) e l'oggetto (la cosa
appartiene né alla logica né alla fisica, ma sta in qualche che vi corrisponde nella realtà, nei termini moderni il de­
modo fra di essi. È di questa situazione particolare fra la notato) sono evidenti. Più problematico è lo statuto del
mente e le cose che si tratterà di tracciare una cartografia. crT))latVO)lEvov incorporeo, che gli studiosi moderni hanno
È possibile, infatti, che questa sitùazione fra la mente e le identificato col concetto presente nella mente di un sogget-
CHE C O S'È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA

to (simile al voru.ta aristotelico secondo Ammonio) o col parola. La cosa stessa, a'Ù'tÒ 'tÒ 1tpay1.1a, indica ciò che è in
contenuto oggettivo di un pensiero, che esiste indipenden­ questione nella parola e nel pensiero, la res che, attraverso
temente dall'attività mentale di un soggetto (come il «pen­ la parola e il pensiero, ma senza coincidere con essi, è in
siero» - Gedanke - in Frege) (Schubert I 994, pp. I 5 - I 6). causa fra l'uomo e il mondo.
Entrambe le interpretazioni proiettano sulla Stoa la teo­ Come É mile Bréhier ha osservato, la precisazione «la cosa
ria moderna della significazione e, in questo modo, omet­ significata e dicibile» non implica che <J111..LatVOf.lCVOV e À.EK'tov
tono di misurarsi con una lettura filologicamente corretta siano la stessa cosa, che il fatto di essere dicibile sia identico al
del testo. Il fatto che i barbari non comprendano il <J11 1..Latv6- fatto di essere significato. Nella sua edizione del frammento,
f.LCVOV quando odono la parola può indurre a assimilarlo al Arnim ha inserito una virgola tra 'tÒ <J111..LatVof.!Cvov 1tpay1.1a e
senso o all'immagine mentale (nel senso di Frege); ma Sesto, Kat À.EK'tov, il che permette di affermare tanto l'identità che
contrapponendo gli stoici a coloro che pongono il vero e il la differenza fra i due termini. «In generale» conclude infat­
falso «nel movimento del pensiero», esclude implicitamente ti Bréhier «se il significato è un esprimibile (così egli tradu­
che il <J111..LatV01..LEVOV possa identificarsi col pensiero di un ce À.EK'tov), non risulta in alcun modo che ogni esprimibile
soggetto. Il testo dice del resto chiaramente che il <J11 1..La tv6- sia un significato» (Bréhier I 997, p. I 5 ) . Tanto più decisiva
1..LEVOV non è identico al pensiero, ma «sussiste accanto» ad diventa qui l'interpretazione del sintagma «la cosa stessa»
esso. Anche il passo successivo, che sembra evocare qualco­ ( a'Ù'tÒ 'tÒ 1tpay1.1a): in questione è la cosa stessa nel suo essere
sa di simile a ciò che i moderni chiamano significato (alme­ manifesta e dicibile: ma come intendere e dove situare una
no nel senso di Bedeutung o denotazione), esige un'inter­ tale «cosa stessa» ?
pretazione più attenta. Il <J11 1..LatVOI..LEVOV è qui definito come
«la cosa stessa» (atYtÒ 'tÒ 1tpay1.1a) in quanto è manifestata
N La Dialettica di Agostino ci ha conservato un'analisi della signi­
dalla parola ( 'tÒ Urè aù'tftç OEÀ.O'Ùf.LCVOV - notare la ripetizione
ficazione linguistica in cui l'influsso di Varrone e della Stoa è evidente.
dell'articolo 'tO, che abbiamo reso con «in quanto»).
Agostino (De dia/. 5 ) distingue nella parola (verbum) - la quale, «pur
ilpay1.1a, come il latino res, significa innanzitutto «ciò essendo un segno, non cessa di essere una cosa>> - quattro possibili
che è in questione, ciò di cui ne va in un processo o in una elementi. Il primo si ha quando la parola è pronunziata in riferimento
discussione» (di qui la traduzione con «cosa», che deriva a se stessa, come in un discorso grammaticale (in questo caso verbum
dal latino causa) e poi anche «cosa» o «stato di fatto»; ma e res coincidono); nel secondo - che Agostino chiama dictio - la parola
che non si tratti qui di una cosa in questo secondo senso è è pronunziata per significare non sé, ma qualcosa di altro (non propter
se, sed propter aliquid significandum); il terzo è la res, cioè l'oggetto
chiaro per la sua distinzione dal 'tvyxavov, ciò che di volta
esterno, «che non è parola né il concetto della parola nella mente (verbi
in volta capita essere (a 'tuyxavEt ov'ta), l'evento o l' ogget­ in mente conceptio ) ••; il quarto, che Agostino, traducendo letteralmente
to reale. Questo non significa, però, che la «cosa stessa» il termine stoico, chiama dicibile, è «ciò che che dalla parola si percepi­
sia semplicemente il significato in senso moderno, il con­ sce non con le orecchie, ma con l'animo (quicquid autem ex verbo non
tenuto concettuale o l'oggetto intenzionale indicato dalla auris, sed animo sentit et ipso animo continetur inclusum)>>.
66 CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA

La distinzione fra la dictio (la parola nel suo aspetto semantico) e il che ora ho detto, prendi un esempio e pensa così intorno a ogni cosa. Vi
dicibile doveva riuscirgli impervia, perché egli cerca di chiarirla subito è un che detto cerchio (Kudoç Ècrti tt ÀtyO!ffiv ov), il cui nome è quello
dopo senza completamente riuscirei: «Ciò che ho chiamato dicibile è stesso che abbiamo appena proferito; secondo è il suo A.Oyoç, composto
parola e tuttavia non parola, ma ciò che nella parola si intende ed è di nomi e di verbi: « ciò che in ogni punto dista ugualmente dagli estre­
contenuto nell'animo (verbum est nec tamen verbum, sed quod in ver­ mi al centro>> : ecco il A.Oyoç di ciò che ha nome «tondo», «circonferen­
bo intelligitur et animo continetur). Ciò che ho chiamato dictio è una za>> o «cerchio>> . Terzo è ciò che si disegna e si cancella e si forma col
parola, che significa, però, nello stesso tempo due, cioè tanto la parola tornio e si distrugge, ma di tutto questo nulla patisce il cerchio stesso
stessa che ciò che si produce nell'animo attraverso la parola (verbum (aùtòç ò KUKÀoç), intorno al quale sono tutte queste cose, perché è altro
est, sed quod iam illa duo simul, id est et ipsum verb11m et quod fit in da esse. Quarta è la scienza e l'intelletto e l'opinione vera intorno a
animo per verbum significat)» (ibid. ). queste cose; e tutto ciò si deve pensare come una unica cosa, che non ha
Occorre non lasciarsi sfuggire le sfumature attraverso cui Agostino sede nelle parole (ÈY cj>mvaìç) né nelle figure corporee, ma nelle anime
- ricorrendo, ad esempio, a preposizioni diverse - cerca di definire la (Èv 'JIUXaìç), per cui è chiaro che è altro dalla natura del cerchio stesso e
differenza. Nella dictio, è in questione qualcosa (il significato) che resta dai tre di cui si è parlato ( 3 42 a 8 - d r ) .
indissolubilmente legato alla parola significante (è una parola - verbum
est - e, insieme, ciò che si produce nell 'animo - in animo - attraverso la
parola - per verbum ) ; il dicibile, invece, non è propriamente una parola
Non solo alle parole che aprono la digressione: «Per cia­
(verbum est nec tamen verbum), ma è ciò che dalla parola (ex verbo) si scuno degli enti vi sono tre, attraverso i quali è necessario
percepisce con l'animo. La situazione aporetica del dicibile fra il signi­ che si generi la scienza» corrisponde puntualmente il «tre si
ficato e la cosa è qui evidente. congiungono fra loro» da cui esordisce la citazione stoica
di Sesto, ma i «tre» qui menzionati (il <J11 J.tatvov o la parola
significante, ad esempio «Dione>>, l'oggetto reale, 'tuyxavov
5· e il <J11 J.tatVOJ.tEVOV) corrispondono ad altrettanti elementi
presenti nell'elenco platonico. Il primo, la parola signifi­
L'espressione «la cosa stessa» appare in un passo decisivo cante ( <j>wvi)), corrisponde esattamente a ciò che Platone
della Settima lettera di Platone, un testo della cui influenza nella chiama nome ( ovoJ.ta, ad esempio «cerchio>>, che egli situa
storia della filosofia siamo ancora lontani dal prendere coscien­ appunto Èv <j>wva'ìç); il secondo, il 'tuyxavov, corrisponde al
za. Una comparazione della fonte stoica citata da Sesto con la cerchio «che si disegna e si cancella e si forma col tornio e
digressione filosofica della lettera mostra, infatti, delle singolari si distrugge>>, ciò che di volta in volta si presenta e accade.
affinità. Diamo qui per comodità il testo della digressione: Più problematica è l'identificazione di che cosa nell'elen­
co platonico corrisponda al <J11J.tatVOJ.tEVOV e al dicibile. Se lo
Per ciascuno degli enti vi sono tre, attraverso i quali è necessario si identifica col quarto, che «non ha sede né nelle parole né
che si generi la scienza, quarta è la scienza stessa, quinto si deve porre
nelle figure corporee, ma nelle anime>>, ciò si accorda con lo
quello stesso attraverso cui (ciascun ente) è conoscibile (yv(I)O"tov) ed è
veramente. Il primo è il nome, secondo il discorso definitorio (A.Oyoç),
statuto incorporeo della «cosa significata>>, ma implica che
terza è l'immagine (dòmì..o v), quarta è la scienza. Se vuoi intendere quel esso sia da identificare col pensiero o con la mente di un
soggetto, mentre la fonte stoica escludeva ogni coincidenza
68 C H E C O S ' È L A FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA

con un «movimento del pensiero». Resta il quinto - l'idea fraintesa invenzione platonica: l'idea). Come l'idea, il dicibile
- alla cui denominazione tecnica (il cerchio stesso, a\Ytòç non è né nella mente né nelle cose sensibili, né nel pensiero
ò KUKÀ.oç) la fonte stoica, scrivendo «la cosa stessa» ( aùtò né nell'oggetto, ma fra di essi. Illuminante è, in questo sen­
'tÒ 1tpayf..l a ), sembra richiamarsi esplicitamente. Se è vero che so, l'uso negli stoici del verbo 1tapU<�>imacr&n in riferimento
la storia della filosofia postplatonica è, già a partire da Ari­ ai dicibili: essi non esistono", ma «sussistono accanto» (questo
stotele, la storia dei diversi tentativi di eliminare o di pensare è il significato letterale del verbo) al pensiero o alla rappresen­
altrimenti l'idea, l'ipotesi che intendiamo qui suggerire è che tazione logica, così come l'idea è paradigma, ciò che si mostra
gli stoici sostituiscono il dicibile all'idea, o - quanto meno ­ accanto (7tapa-ùetyf..la) alle cose. Gli stoici accolgono, cioè, da
situano il dicibile nel luogo dell'idea. Platone il modo speciale di esistenza dell'idea e modellano su
di esso quello del À.EK'tÒv; lo mantengono però in così stretta
relazione al pensiero e al linguaggio, che esso ha potuto spesso
N Ho mostrato altrove (Agamben 200 5 , pp. q - r 6) l'opportunità di essere confuso con l'uno o con l'altro. Essi cercano, cioè, di
reintegrare il testo dei manoscritti: «quinto è necessario porre quello pensare insieme (senza però confonderli, se l'osservazione di
stesso attraverso cui (Bi o) è conoscibile>> contro il <<si deve porre quello
Bréhier sulla non coincidenza di <Jllf..latVOf..lEVOV e ÀEK'tOV è cor­
stesso che è conoscibile>> della maggioranza delle edizioni moderne.
retta) il quarto e il quinto elemento della digressione platoni­
N Che la fonte stoica citata da Sesto si articoli in relazione diretta ca. Di qui, l'affermazione, ripetuta più volte nelle fonti, che gli
con la digressione della Settima lettera, è suggerito discretamente dal stoici avrebbero identificato le idee con i concetti (Èwoilf..lma
fatto che essa sostituisce al nome del personaggio esemplificativo, che 'tàç iMaç E(j)acrav, Arnim I 903, Il, 3 6o; cfr. ivi, I, 6 5 ).
in Aristotele è di solito Corisco o Callia, quello di Dione, cioè proprio Il dicibile conserva però sempre uno statuto non sempli­
il nome dell'amico che Platone evoca continuamente nella lettera.
cemente linguistico e fortemente oggettivo. È importante
leggere insieme in questa prospettiva i due passi che sembra­
no confondere la sfera del dicibile con quella del linguaggio,
6. ma che le mantengono, in realtà, chiaramente distinte. «Ogni
dicibile (A.EK'tov) deve essere detto (À.ÉyecrSat ùeì), e da que­
Che il dicibile possa avere a che fare con l'idea platonica sto ha tratto il suo nome» (Sesto Empirico I 842, VIII, 8o, p.
è un'ipotesi che gli studiosi moderni evocano solo negativa­ 304 = Arnim I 903, Il, I67) e «dire (À.Éynv) e proferire (7tpo­
mente, scrivendo, ad esempio, che i ÀEK't0, «pur non essendo <j>Épecr8at) sono diversi: si proferiscono le parole (<j>rovai), si
entità platoniche, tuttavia possono valere come contenuti og­ dicono le cose (À.ÉyE'tat 'tà 7tpayf..la'ta), le quali si dà il caso che
gettivi del pensiero e del linguaggio» (Schubert I 994, p. I 5 ). siano dicibili (ÀEK'tà 't'\JYXOVEt)» (Diog. Laert. VII, 5 6 = Ar­
La denegazione è, come sempre, significativa, perché proprio nim I 903, III, 20). Non solo ciò che è da dire non coincide,
una lettura della dottrina del dicibile in puntuale relazione cri­ ovviamente, col detto, ma proferire e dire, <J>rovt1 e 1tpayf.!a,
tica alla teoria delle idee permette di chiarirne lo statuto (e, nel l'atto di parola e ciò che in esso è in questione sono diversi.
contempo, getta anche una nuova luce su questa così spesso
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA

Il À.EK'tOV non è né la cosa né la parola: è la cosa nella sua di­ nima, questi sono gli stessi per tutti; e anche le cose (1tpOyf.10'tO), di cui
cibilità, nel suo essere in causa nella parola, così come, nella queste sono le sirnilitudini, sono per tutti le stesse» (De int. 1 6 a 3 -7).
Settima lettera, l'idea non è semplicemente la cosa, ma è la
«cosa stessa» nella sua conoscibilità (yvoxn6v, conoscibile, La tripartizione in cui Aristotele articola la comprensione
corrisponde qui puntualmente a À.EK'tOV, dicibile). (nella parola, nell'anima, nelle cose) ricalca infatti puntual­
mente la distinzione platonica fra ciò che è Èv cj>rova'iç, nelle
parole (il nome e il discorso definitorio), ciò che è Èv ,,,.uxa'iç,
l't Heidegger sottolinea più volte a ragione che M:ynv non equiva­ nelle anime (conoscenza, intelletto e opinione) e ciò che è Èv
le semplicemente a <<dire», ma significa etimologicamente <<raccogliere <JO)l<l'trov crxry.wmv (gli oggetti sensibili). Coerentemente alla
insieme nella presenza» (Heidegger 1 98 7, pp. 266-269: «Ver-sammlung tenace critica aristotelica della teoria delle idee, la cosa stessa è,
ist das urspriingliche Einbehalten in einer Gesammelheit» ). AÉyE'tat 'tà
invece, sparita. La ripresa dell'elenco platonico è, in realtà, una
7tPO'Yf.10'ta non significa: <<Le cose vengono espresse in parole da parte di
confutazione del pensiero del suo maestro, che espunge l'idea
un soggetto parlante>>, ma <<si manifestano e si raccolgono nella presen­
za>>. Si tratta, cioè, di una tesi antologica e non meramente logica. Allo dal processo della ÉP)lllVEia, dell'interpretazione del mondo
stesso modo, quando Aristotele scrive che 'tÒ ov Ài:yE'tat 1tOÀÀaxO)ç, oc­ attraverso le parole e i concetti. La comparsa, altrimenti in­
corre tradurre non semplicemente, come si fa di solito: <<il termine es­ spiegabile, di un quarto elemento, la lettera, accanto alle pa­
sere si dice in molti sensi, ha molti significati>>, ma <<l'essere si raccoglie role, ai concetti e alle cose, è un'allusione polemica - discre­
(si " legge") nella presenza in molti modi>> . ta, ma, per il lettore accorto, evidente - al testo del maestro.
Mentre la digressione della Settima lettera era infatti diretta
proprio a mostrare l'insufficienza della scrittura rispetto alla
7· cosa stessa, la lett�ra, in quanto segno e insieme elemento della
parola, è qui la prima garanzia dell'intellegibilità del ').jyyoç.
Prima degli stoici, già Aristotele si era misurato con la
teoria della conoscenza contenuta nella Settima lettera.
Nel IlEpÌ ÉP)lllVEiaç, un'opera che ha influenzato per secoli l'tElenchiamo gli uni accanto agli altri gli elementi della conoscenza
ogni riflessione sul linguaggio in Occidente, egli definisce in Platone, in Aristotele e negli stoici:
il processo della significazione linguistica in un modo che,
benché sembri senza rapporto con esso, va letto in puntua­ PLATONE ARISTOTELE STO ICI

le contrappunto al testo della digressione. nome parole significante


discorso definitorio impressione nell'anima significato
Ciò che è nella parola ('tà èv 'tfl qxovfl) è segno delle impressioni nell'a­ corpi e figure cose oggetto ('t'U)'XOVOV)
nima (èv 'tfl 'JIUXW e ciò che è scritto è segno di ciò che è nella parola. E scienza, concetto lettere
come le lettere non sono le stesse per tutti gli uomini, così neppure le
cosa stessa (idea) dicibile (cosa stessa)
parole; ciò di cui esse sono innanzitutto segni, cioè le impressioni nell'a-
CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA 73

Mentre in Aristotele l'idea è semplicemente espunta, gli stoici sosti­ secondo cui le idee sono ciò che «massimamente si può pren­
tuiscono ad essa il dicibile. dere col ')..iyyo ç (EKEtVa O J.LciÀ.tcrta nç W ')..iyyqJ Àfij3ot)» .
È importante osservare che l'elenco platonico, in quanto include La comprensione della digressione implica quindi una
la scienza fra i suoi elementi, non si esaurisce in una teoria della cono­
neutralizzazione dell'opposizione fra il dicibile e l'indici­
scenza e mira a qualcosa - l'idea - che non appartiene alla conoscenza,
ma la rende possibile. bile e, insieme, un ripensamento della relazione fra l'idea e
il linguaggio.

8.

Abbiamo cercato finora, per chiarire il concetto stoico
di ÀEK'tov, di mostrarne le analogie e le possibili relazioni Un'esposizione del rapporto fra idea e linguaggio deve
con l'idea platonica. Ma, se la nostra ipotesi è corretta, dob­ esordire dalla costatazione, apparentemente ovvia, che l'i­
biamo chiederci perché gli stoici hanno deciso di chiamare dea e i sensibili sono omonimi, cioè che, pur essendo diver­
«dicibile» qualcosa che intendevano collocare in luogo - o, si, essi hanno lo stesso nome. È proprio su questa singolare
quanto meno, nel luogo - dell'idea. Non contraddice que­ omonimia che Aristotele incentra il suo compendio della
sta denominazione il testo della digressione, dove, affer­ filosofia platonica in Metaph. 9 8 7 b: «Egli (Platone) chiamò
mando che ciò di cui egli si occupa seriamente «non è in allora questi enti idee e (affermò) che tutte le cose sensibili
alcun modo dicibile (PTt'tOV) come le altre nozioni (�.ta- sono dette accanto ad esse e secondo esse ( 'tà o' aicr8Tt'tà
8iU.ta'ta) » , Platone sembra conferire alla cosa stessa uno 1tapà 'tat>'ta Ka'tà 'ta'Ù'ta Aiyecr8at 1tav'ta); infatti secondo
statuto di indicibilità ? la partecipazione la molteplicità dei sinonimi è omonima
È sufficiente situare l'affermazione nel suo contesto nella alle idee ( Ka'tà J.LÉ8eçtv yàp dvat 'tà 1toì..ì..à ÒJ.LCÒVUJ.La 'totç
digressione per comprendere che in questione non è qui tanto EtÙEcrtv)» (ivi, 8 - I o). (Sinonimi sono, secondo Aristotele,
una assoluta indicibilità, quanto uno speciale statuto di dicibi­ Cat. I a I - I I , gli enti che hanno lo stesso nome e la stessa
lità, diverso da quello che compete agli «altri J.La�a'ta». Poco definizione, omonimi gli enti che hanno lo stesso nome, ma
dopo Platone afferma, infatti, che «se non si sono colti i primi diversa definizione).
quattro» (fra i quali figurano il nome e il ')..iyyoç), non si po­ Che le cose sensibili e l'idea siano omonime, che le cose
trà nemmeno conoscere compiutamente il quinto; e, aggiun­ ricevano anzi i loro nomi dalla partecipazione alle idee
ge successivamente, la conoscenza della cosa stessa avviene è ribadito più volte da Platone, Phaed. 7 8 e: «Che dire­
«sfregando gli uni sugli altri nomi, ')..iyyot, visioni e sensazioni mo delle molteplici cose, come uomini, cavalli, vesti [ . . . ]
e mettendoli alla prova in confutazioni benevole e in discus­ e di tutte quelle omonime alle idee»; Phaed. 1 02 b I : «Le
sioni condotte senza invidia» (344 b 4-7). Ciò concorda, del altre cose, partecipando alle idee, ne ricevono le denomi­
resto, con l'inequivoca affermazione del Parmenide ( I 3 5 e 3 ), nazioni (É1troVUJ.Liav, nome tratto da qualcos'altro; quasi
74 CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? S U L DICIBILE E L' IDEA 75

le stesse parole in Parm. I 3 0 e: «vi sono tali idee, parte­ I O.


cipando alle quali ne ricevono le denominazioni»; Resp.
5 9 6 a: «siamo soliti ammettere una certa idea unica per L'idea è, dunque, il principio unitario da cui le cose sen­
ciascuna molteplicità a cui diamo lo stesso nome». Ed è sibili traggono il loro nome o, più precisamente, ciò che fa
proprio questa omonimia che Aristotele rimprovererà al sì che una molteplicità di sensibili costituisca un insieme e
suo maestro, scrivendo che «se la forma delle idee e quella abbia lo stesso nome. La prima conseguenza che le cose rice­
delle cose non è la stessa, allora saranno omonime, come vono dalla partecipazione all'idea è la denominazione. Se vi
se si chiamasse Callia tanto l'uomo in carne e ossa che un è, in questo senso, un rapporto essenziale fra il nome e l'idea,
pezzo di legno, senza vedervi nulla di comune (�TJÒE�iav questa non s'identifica però col nome, ma sembra essere,
Kotvroviav) » (Metaph. 99 I a, 5 - 8) . piuttosto, il principio della nominabilità, ciò partecipando
al quale, le cose sensibili trovano la loro denominazione. Ma
come concepire un tale principio ? Ed è possibile pensare la
N L a comprensione del passo citato d i Aristotele (Metaph. 9 8 7 b sua consistenza, indipendentemente dalla relazione ai sensi­
8 - r o) è stata in parte falsata da una correzione dell'edizione Bekker bili che traggono da esso la loro omonimia ?
che ha soppresso ÒJlC.ÒVUJ.W, malgrado il termine figurasse nel codice più
Poiché proprio su questo punto vertono le critiche di
autorevole (il Parisinus r 8 5 3 ) e in tutti gli altri (con due sole eccezioni,
il Laurentianus 8 7. 1 2 e il Parisinus r 8 7 6). Trendelenburg ha fatto op­
Aristotele alla teoria delle idee, sarà opportuno esaminare in­
portunamente notare che, come abbiamo visto, Platone parla di omo­ nanzitutto tali critiche. Aristotele interpreta la relazione fra
nimia e mai di sinonimia. L' edizione Jaeger ( r 9 5 7) ha così reintrodotto l'idea e i sensibili a partire dalla relazione fra «ciò che si dice
ÒJlC.ÒVUJla, mettendo però fra parentesi tmv O"UvroviJlrov. Il testo dei ma­ secondo il tutto» ('tà Ka86Àou = -rà Ka9' oÀou ÀEyo�va; Ari­
noscritti è perfettamente chiaro e non necessita di alcun emendamento: stotele si serve anche dell'espressione -rò EV È1tÌ 1toM&v, l'uno
Aristotele, in questo fedele a Platone, vuoi dire che la molteplicità delle sui molti) e ciò che si dice secondo i singoli (Ka8' EKacr-ra). Ci
cose sensibili che portano lo stesso nome (e sono pertanto sinonimi: ad
siamo astenuti dal tradurre Ka86Àou come «l'universale»,
esempio, i cavalli in carne e ossa) diventa omonima rispetto alle idee
(i cavalli hanno in comune con l'idea il nome, ma non la definizione). perché proprio questa identificazione del problema delle
Quanto alla frase tà ù aio9Tttà 1tapà tauta Katà tauta ì..iyeo9m idee con la quaestio de universalibus ha segnato la storia
mivta, Cherniss e Ross hanno giustamente osservato che la traduzione della ricezione della teoria delle idee e il suo fraintendimen­
usuale «le cose sensibili esistono separate da esse e sono tutte nominate to a partire da Aristotele fino ai commentatori tardo-anti­
secondo esse» è inesatta e suppone l'inserzione di un EÌvat che manca chi e, poi, alla Scolastica.
nei manoscritti (Cherniss 1 944, p. 1 78).
Socrate, scrive infatti Aristotele (Metaph. I 078 b I 8 sgg.),
cercò per primo di trovare definizioni secondo il tutto, «ma
mentre egli non pose ciò che si dice secondo il tutto ( -rà
Ka86Àou) come separato (xroptcr-ra), i platonici lo hanno se­
parato e chiamarono siffatti enti idee; da questo trassero la
CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA 77

conseguenza che vi sono idee di tutte le cose che si dicono che per essi sono sostanze; ma in verità a torto, perché chia­
secondo il tutto ('trov Ka9oì-ou À.Eyo�vrov) [ . . . ]». Nella bre­ mano idea (éìooç) l'uno sui molti (tò EV ènì noM&v). La causa
ve storia delle dottrine filosofiche che occupa il libro primo è che essi non riescono a dar ragione di che cosa siano siffatte
della Metafisica, Aristotele riassume così la teoria platonica sostanze indistruttibili accanto a quelle singole sensibili (napà
delle idee: «Coloro che posero le idee all'inizio, cercando tà Ka9' EKa<na Kaì aiffitrttàç). Essi pongono queste (le idee)
di cogliere le cause degli enti sensibili, introdussero altri uguali per Elùoç alle cose peribili (queste noi le conosciamo), e
enti uguali a questi per numero, come se uno volendo con­ (dicono) stessouomo ( amoàv9pron:ov) e stessocavallo ( amoin­
tare delle cose poco numerose, ritenesse di non poterlo fare nov), premettendo al nome dei sensibili la parola amo, stesso»
senza accrescere il loro numero. Le idee, infatti, sono di ( 1 040 b 2 1 - 1 04 1 a 5).
numero pressoché uguale e comunque non minore rispetto Aristotele rimprovera cioè ai platonici di aver voluto dare
a quegli enti da cui sono partiti per indagarne la cause. Per sostanza ed esistenza separata a ciò che si predica secondo il
ogni singolo ente di cui vi è una unità sui molteplici (ev ènì tutto, mentre è per lui evidente che l'universale - così i lati­
noÀÀrov) esiste un omonimo oltre alle sostanze, tanto per le ni tradurranno tò Ka9oì-ou - non può essere mai sostanza,
cose di qui che per quelle eterne» (Metaph. 990 a 3 4 - b 8). ma esiste soltanto nelle singole cose sensibili. Platone avreb­
Proprio in questa separazione del Ka96ÀOu consiste per be cioè sostanzializzato il significato del termine generale
Aristotele l'errore dei platonici: «Poiché l'uno si dice nello «l'uomo» - o «il cavallo» - e lo avrebbe separato dai singo­
SteSSO modo dell'essere (tÒ Ev À.Éyc'tat cilcmEp Kat 'tÒ ov) e la li uomini e dai singoli cavalli e per riferirsi a esso nella sua
sostanza (oùcria) dell'uno è una e poiché le cose di cui la so­ omonimia rispetto ai sensibili, avrebbe premesso al nome
stanza è una per numero sono esse stesse une per numero, è comune il pronome amo: a'Ù'toav9pron:oç, amo"innoç.
evidente che né l'uno né l'essere possono essere sostanza delle
cose, come non possono esserlo l'essenza dell'elemento o del
principio (to crtOtXcicp dvm ìì àpxw [ . . . ]. L'essere e l'uno do­ I I.
vrebbero essere maggiormente sostanza del principio (àpxf]),
dell'elemento e della causa; ma essi non lo sono, dal momento È proprio a partire da un'analisi dell'espressione lin­
che nulla di comune ( KOtvov) è sostanza. La sostanza non si guistica dell'idea che è possibile mostrare l'inadeguatezza
predica infatti di altro che di se stessa e di ciò che la possiede e dell'interpretazione aristotelica e, insieme, accedere a una
di cui è sostanza. L'uno non può essere nello stesso tempo in più corretta comprensione della teoria platonica.
più modi (1tOMaXW, mentre il comune si predica nello stesso L'espressione linguistica dell'idea mediante il pronome ana­
tempo in più modi. È dunque evidente che nulla di ciò che si forico amo doveva risultare problematica per Aristotele, dal
predica secondo il tutto esiste accanto e separatamente dalle momento che, nell'Etica Nicomachea, egli afferma che «ca­
singole cose (napà tà Ka9 EKacrta xropiç). Coloro che afferma­ drebbe in imbarazzo (ànopf]<retE) chi chiedesse che cosa (i pla­
no le idee (tà iiù11) a ragione le dicono separate, dal momento tonici) intendano dire con l'espressione amoÉlmcrtov, poiché
CHE C O S'È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L'IDEA 79

tanto per l'uomo stesso (aù'toav8pCOOt o ç) che per l'uomo Rileggiamo ora il passo della digressione:
( av8pCOOtoç) vi è un solo e stesso discorso definitorio (')jyyoç),
Vi è un che detto cerchio (JCudoç Èo'tt 'tt AtYOflEVov), il cui
quello di uomo» (Eth. Nic. r o96 a 34 - b r). E, in Metaph. 103 5
nome è quello stesso che abbiamo appena proferito; secondo è il
b r 3, con evidente allusione al cerchio della digressione pla­
-

suo Myoç, composto di nomi e di verbi: «ciò che in ogni punto


tonica, egli scrive nello stesso senso che «tanto il cerchio detto dista ugualmente dagli estremi al centro» : ecco il Myoç di ciò che
in assoluto (èmMò; ÀEYOf..lE.VOç) che il singolo cerchio si dicono ha nome «tondo>>, «circonferenza>> o «cerchio>> . Terzo è ciò che si
omonimamente, dal momento che non vi è un nome proprio disegna e si cancella e si forma col tornio e si distrugge, ma di tutto
(iòtov ovo11a) per ciascuno di essi». Proprio l'uso del pronome questo nulla patisce il cerchio stesso (amòç ò lC'\JJCÀoç), intorno al
aùt6, che per Aristotele risultava aporetico, permette invece quale sono tutte queste cose, perché è altro da esse.

tanto di temperare l' omonimia fra l'idea e i sensibili che di com­


prendere che cosa fosse in questione, per Platone, nell'idea. A che cosa si riferisce l'aù't6ç, che cosa è in esso «ripreso»
Torniamo all'espressione che nella Settima lettera esempli­ e in che modo ? Innanzitutto in questione non è qui sempli­
fica l'idea: aùtòç ò KUKÀDç, il cerchio stesso (e non a'ÙtÒKUKÀDç, cemente una relazione di identità. Ciò è escluso, oltre che
come suggerisce Aristotele). L'idea non ha un nome proprio, dall'esplicita affermazione di Platone, anche dalla struttura
ma nemmeno coincide semplicemente col nome. Essa viene grammaticale del sintagma. Il pronome aÙ'toç (accostato a
designata piuttosto attraverso l'aggettivazione del pronome un nome nel senso di «stesso») si costruisce in greco in due
anaforico aùt6ç, stesso. modi, secondo che esprima l'identità (lat. idem) o l'ipseità
I pronomi non hanno, a differenza dei nomi, un signifi­ (lat. ipse): ò aÙ'tÒç KUKÀoç significa «lo stesso cerchio» (nel
cato lessicale (un senso - Sinn, nei termini di Frege, o una senso dell'identità), au'tòç ò KUKÀoç significa invece «il cer­
referenza virtuale, secondo Milner). Ciò che definisce un chio stesso», nello speciale significato che cercheremo ora
pronome anaforico (come am6ç) è che esso può designare di chiarire e che è quello di cui Platone si serve per l'idea.
un segmento di realtà solo in quanto questo è già stato si­ Mentre in ò aù'tòç KUKÀoç, il pronome è inserito, infatti,
gnificato attraverso un altro termine dotato di senso. Esso fra l'articolo e il nome e si riferisce dunque direttamente
implica, cioè, una relazione di coreferenza e una di ripresa al nome, in amòç ò KUKÀoç esso si riferisce a un sintagma
fra un termine mancante di referenza virtuale - il pronome formato dall'articolo e dal nome. L'articolo greco «Ò» ha
anaforizzante - e un termine dotato di referenza virtuale - il in origine il valore di un pronome anaforico e significa la
nome anaforizzato (Milner 1 9 8 2, p. 1 9). Secondo uno dei si­ cosa in quanto è stata detta e nominata. Solo in un secondo
gnificati del verbo àva<j>Épro, esso «riprende» la cosa nel suo tempo esso può, per questo, acquistare il valore di quella
essere stata designata da un nome antecedente. Sia l'esempio: designazione che Aristotele chiama Kae' oÀou: «il cerchio»
«vedo un cerchio. Lo vedi anche tu ?». Il pronome anaforico in generale, l'universale, opposto al singolo cerchio. (I la­
«lo», in sé privo di una referenza virtuale, la acquista attra­ tini, la cui lingua manca dell'articolo, avevano per questo
verso la relazione col termine «cerchio» che lo precede. difficoltà a precisare l'espressione dei termini generali).
So C H E C O S ' È L A FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA 81

È inoltre evidente, che il quinto, il cerchio stesso ( mnòç non soltanto il lat. ipsissimus significa in Plauto «il padrone», ma anche
in greco, nella comunità pitagorica, a\n:òç €q,a «lui stesso l'ha detto» de­
ò KtHcì..o ç) non può riferirsi, come Platone non si stanca di
signava Pitagora, il maestro per eccellenza (ibid. ).
sottolineare, a nessuno dei tre elencati nella digressione:
Si può integrare la definizione di Benveniste, precisando che potis
né al nome «cerchio» né alla sua referenza virtuale (iden­ significa «qualcosa o qualcuno in quanto assume il nome con cui è no­
tica alla definizione, che corrisponde al termine universale minato o il predicato che gli viene riferito» . L'uso platonico dell'a\n:6ç
«il cerchio») né al singolo cerchio sensibile (la referenza si chiarisce così ulteriormente: l'identità che è qui in questione non è
attuale) . Nemmeno può riferirsi - Platone ha cura di pre­ l'identità numerica o sostanziale, ma l'identità (o, piuttosto, l'ipseità) in
cisarlo subito dopo (Epist. VII, 3 4 2 c 8) - alla conoscenza quanto definita dall'avere un certo nome, dall'essere stata detta nel lin­
guaggio in, un certo modo.
o al concetto che ce ne formiamo nella mente.
Ciò che il sintagma riprende non può allora che esse­
re contenuto nell'espressione che apre l'elenco e, insieme,
I 2.
resta fuori da esso: KUKÀoç Ècr'ti n M:yoJ..LE vov ( «vi è qual­
cosa detto cerchio», lett. «cerchio è qualcosa detto»). Che
L'identificazione del termine anaforizzato è, però, tutt'al­
essa sia fuori dall'elenco, che sia, per così dire, prima del
tro che semplice. Se lo si individua nel termine KUKÀoç, vi è
primo, è provato senz'ombra di dubbio dal fatto che il
conf1.,1sione fra il cerchio e il nome «cerchio» e la frase che
nome, cui compete il primo rango, deve riferirsi ad essa
segue («il cui nome è quello stesso che abbiamo proferito»)
attraverso dei pronomi anaforici q) 'to1h' mhò Ècrnv OVOJ..La
risulta superflua. Resta il pronome indefinito n, di cui gli
o vùv È<j>8ÉyJ..LE 8a, lett.: «a cui è nome quello stesso che ab­
stoici faranno la loro categoria antologica fondamentale: ma,
biamo appena proferito».
in quanto pronome privo di referenza virtuale, per poter es­
sere ripreso anaforicamente esso non può essere isolato dai
Benveniste ha mostrato che il significato originale del latino potis
l't
termini che lo precedono e lo seguono. È verisimilmente per
(e dell'i.e. pot, da cui esso deriva), che vuoi dire «padrone», si riferi­ sottolineare questa inseparabilità che Platone, invece dell' ov­
sce in realtà all'identità personale, espressa da una particella (spesso via formulazione: Ècrn n KUKÌ..O ç M:yoJ..LEvov, scrive: KuKì..o ç
un aggettivo o un pronome, come nel lat. ipse) che significa «precisa­ Ècrnv n M:yoJ..LEvov (Epist. VII, 342 b), «cerchio è qualcosa
mente quello, lui stesso» (come nell'ittita pet, particella enclitica «che detto». Un'analisi attenta mostra che la frase forma un tut­
rinvia all'oggetto che era in questione nel discorso>> o nel lat. utpote,
to indivisibile, in cui in questione non sono né il cerchio né
«in quanto precisamente», che designa qualcuno in quanto è designato
da un certo predicato: B enveniste 1 969, l, p. 89). «Mentre è difficile
il qualcosa né il detto, ma «l'essere-il cerchio-detto». Plato­
immaginare come una parola che designa "il padrone" abbia potuto ne non muove, cioè, da un immediato, ma da un essere che
indebolirsi fino a significare " lui stesso", si comprende agevolmente è già nel linguaggio, per risalire poi dialetticamente, attra­
come un aggettivo che significava l'identità personale e il " lui-stesso", verso il linguaggio, verso la cosa stessa. Secondo la celebre
abbia potuto assumere il senso di "padrone" >> (ivi, p. 90). Benveniste mo­ definizione del metodo dialettico in Resp. 5 I I b 3 - c 2, il
stra così che lo stesso spostamento semantico si ritrova in molte lingue:
CHE Cos ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA

principio non-presupposto (àpxlÌ àvu7t69Etoç) si raggiunge parliamo, il bello, il buono e ogni essenza di questa specie e se riportia­
soltanto attraverso la paziente eliminazione dialettica dei mo indietro (ava<j>Épo�J.Ev) verso di esse le cose sensibili . . . >> .
L'irriducibilità ontologica dell'anafora am6ç, che viene così posta
presupposti («prendendo le ipotesi non come principi-àpxai
paradossalmente prima della sostanza, è affermata da Plotino con par­
- ma come ipotesi»). Il cerchio stesso - che Platone chiama ticolare chiarezza: <<Il conoscere>> egli scrive <<è qualcosa di uno (€v n ) ,
anche lj>futç, «nascimento» del cerchio (tou KUKÀO'U 't1lç lj>Um::roç, ma l'uno è senza il qualcosa (av�::u tou n €v). Se fosse un qualcosa, non
Epist. VII, 3 4 2 c 8 ) - non è né un indicibile né qualcosa di sarebbe l'uno stesso (amoÉv), poiché lo "stesso" (amo) è prima del qual­
meramente linguistico: è il cerchio ripreso nel e dal suo cosa (1tpò tou n)>> (Ennead. 5, 3, 1 2).
essere-detto-cerchio.
Nel sintagma con cui Platone designa l'idea - aùtòç N Frege, che afferma che ogni segno ha un senso (Sinn) e un significato
(Bedeutung), osserva che certe volte noi usiamo un termine intendendo
ò KUKÀ.oç, il cerchio stesso - in questione non è pertanto,
parlare non del suo significato, ma della realtà materiale del termine stesso
come credeva Aristotele, semplicemente un universale ( ò (come quando diciamo «la parola "rosa" ha quattro lettere>>) o del suo sen­
KUKÀ.oç, il cerchio): l' aùtoç, in quanto si riferisce a un ter­ so, indipendentemente dal suo riferirsi in atto a un significato reale. È per
mine già anaforizzato dall'articolo, riprende il cerchio nel indicare questo uso speciale della parola che ci serviamo delle virgolette.
e dal suo esser-detto, nel e dal suo essere nel linguaggio e Che cosa avviene, però, se si cerca di designare il termine non nella
il termine cerchio nel e dal suo designare il cerchio. Per sua materialità o nel suo senso, ma nel suo significare qualcosa, cioè il
nome rosa in quanto significa una rosa? Qui il linguaggio si urta a un
questo, il «cerchio» stesso, l'idea o il nascimento del cer­
limite, che nessun uso delle virgolette può pretendere di aggirare: si può
chio non è né può essere nessuno dei quattro. Non è, tutta­ nominare il nome <<rosa>> come un oggetto (nomen nominatum), ma non
via, nemmeno semplicemente altro da essi. È ciò che è ogni il nome stesso nel suo designare in atto una rosa (nomen nominans). È
volta in questione in ciascuno dei quattro e resta, insieme, questo il senso del paradosso che Frege ha espresso nella formula: <<il
.
irriducibile ad essi: ciò attraverso cui il cerchio è dicibile e concetto " cavallo " non è un concetto>> e Milner nell'assioma: <<Il termi­
conoscibile. Se è vero, come diceva Aristotele, che l'idea non ne linguistico non ha nome proprio>>. Wittgenstein, nel Tractatus, ha in
ha un nome proprio, essa, grazie all'a&oç, non è, però, nem­ mente qualcosa di simile, quando scrive che «il nome mostra di designare
un oggetto>>, ma non può dire il fatto che lo sta designando (4. 1 26).
meno perfettamente omonima alla cosa: come «cosa stessa»,
È questa anonimia del nome rosa che è in questione nell'idea della
essa significa la cosa nella sua pura dicibilità e il nome nel suo rosa, nella rosa stessa (che è, per questo, omonima alla rosa). In quanto
puro nominare la cosa. Come tale, in quanto cioè in essa la esprime l'impossibilità di nominare il nome rosa se non riprendendolo
cosa e il nome stanno insieme inseparabilmente al di qua o al nella forma del pronome anaforico aùt6ç, l'idea segna il punto in cui il
di là di ogni significare, l'idea non è né universale né partico­ potere nominante del linguaggio deve arrestarsi e l'impossibilità per il
lare, ma, come terzo, neutralizza questa opposizione. nome di nominare se stesso in quanto nominante lascia apparire la rosa
stessa, la rosa puramente dicibile.

N Nel Fedone (76 e), Platone menziona esplicitamente il movimento


anaforico che definisce l'idea: <<Se esistono quelle cose di cui sempre
CHE cos'È LA FILOSOFIA ? SUL DI CIBILE E L' IDEA

I3·
essere Àoyoç, discorso, ma solo nome. Nel Teeteto, Socrate si
riferisce esplicitamente a questa tesi, affermando che, degli
Si comprende meglio, in questa prospettiva, la lettura elementi primi, «ciascuno in se stesso e per se stesso (amò
benjaminiana dell'idea come nome. Secondo Benjamin le Ka8' amo) si puÒ solo nominare, e non è possibile aggiun­
idee, che sono sottratte alla sfera dei fenomeni, si danno sol­ gere altro, né che è né che non è. . . né stesso ('tò amo), né
tanto in quella del loro nome (o del loro aver nome). «La quello (ÈKEtvo), né ciascuno (EKacrtov), né solo (J.tovov) né
struttura della verità esige un essere che, per la sua assenza di questo ('tomo) . . . È impossibile dire in un discorso uno degli
intenzione, somigli a quello delle semplici cose,ma a questo, elementi primi, poiché ha soltanto il nome ( OVOJ.ta yàp JlOVOV
superiore, per consistenza . . . , L'essere sottratto a ogni feno­ EXEtv)» (Theaet. 20 1 e sgg.). (La prop. 3 .22 1 del Tractatus si
menicità, l'unico essere a cui spetti questo potere, è quello esprimerà negli stessi termini: «Gli oggetti li posso solo no­
del nome. Esso determina il darsi delle idee. Date esse sono minare . . . Posso solo dirne, non dirli»).
non tanto in linguaggio originario ( Ursprache ), quanto in È con questa dissimmetria che Platone intende misu­
una apprensione originaria ( Urvernehmen), in cui le parole rarsi. Situandosi su quel piano della lingua in cui vi sono
conservano la loro nobiltà nominante non ancora perduta soltanto nomi, l'idea cerca di pensare che cosa avviene alle
nel significato conoscitivo . . . L'idea è un che di linguistico, singole cose per il fatto di essere nominate, di diventare
più precisamente, nell'essenza della parola, ogni volta quel omonime. Le idee sono cioè il contrario di una generali­
momento in cui essa è simbolo» (Benjamin 1 963, pp. 1 7- 1 8). tà e, tuttavia, si comprende nello stesso tempo perché esse
Non si tratta semplicemente, come suggerisce la citazione abbiano potuto essere fraintese in questo senso come uni­
da Hermann Giintert che segue immediatamente, di una «di­ versali. Nominando una singolarità, la parola la costituisce
vinizzazione della parola», ma dell'isolamento, nel linguag­ come omonima, come definita, prima di ogni altro caratte­
gio, di una sfera estranea alla significazione e irriducibile re o qualità, unicamente dal fatto di portare lo stesso nome.
ad essa: quella del nome - o, piuttosto, della nominazione, Non la partecipazione a dei tratti comuni, ma l'omonimia,
che Benjamin esemplifica attraverso il rimando ad Adamo: il puro aver nome, definisce il rapporto fra i fenomeni e
«Questo gesto non è solo quello di Platone, ma, in ultima l'idea. Ed è questa stazione della cosa accanto a se stessa
analisi, quello di Adamo, padre dell'uomo in quanto pa­ in un puro aver nome che Platone cerca di designare, con­
dre della filosofia. Il denominare adamitico è così lontano tro Antistene, attraverso l'anafora a'Ù'to: a'Ù'tÒç ò KUKÀoç, il
dall'essere un gioco o un arbitrio, che piuttosto in esso si «cerchio stesso» coglie il cerchio non al livello della signifi­
afferma lo stato paradisiaco come tale, che non doveva an­ cazione, ma nel suo puro aver nome, in quella pura dicibi­
cora lottare col significato comunicativo» (ivi, p. 1 9). lità che soltanto rende possibile il discorso e la conoscenza.
Il primo a insistere sulla radicale dissimmetria fra due pia­
ni del linguaggio - il nome e il discorso - era stato Antistene,
affermando che delle sostanze semplici e prime non vi può
86 CHE cos'È L A FILOSOFIA ? SUL DI CIBILE E L' IDEA

1 4· tavia, che, con la cristallizzazione in un nome proprio, il dio


particolare si espande liberamente secondo una sua propria
Nel suo libro su I nomi divini, Usener ha mostrato la legge, che porta alla formazione di sempre nuove denomi­
stretta implicazione fra la formazione dei concetti religiosi nazioni. Nell'indagine di Usener, il nome divino diventa
e quella dei nomi degli dèi. Il nome non è, per Usener, «un così qualcosa come la cifra o la legge interna del nascere e
segno convenzionale di un concetto (voJlc.p) né una deno­ del divenire storico delle figure divine. Svolgendo l'ipotesi
minazione che coglie la cosa in sé e la sua essenza (qruaEt)»: di Usener forse al di là delle sue intenzioni, si potrebbe dire
esso è il precipitato di un'impressione di fronte all'urto im­ che l'evento del nome e l'evento del dio coincidono. Il dio
provviso «con qualcosa che non è l'io» (U sener 1 896, p. 46). è la cosa o l'azione nell'istante del suo apparire nel nome.
La formazione del nome degli dèi riflette la formazione di Esso, nella forma di un nomen agentis, è, in questo senso,
questi concetti linguistici, che procede dall'assoluta singo­ omonimo alla singola azione: Occator, all'atto di lavorare la
larità fino al particolare e alla sua fissazione in un concetto terra con l'erpice, Insitor, all'atto del seminare, Sterculinus,
di genere. L'evento del nome - il «conio» delle parole, se­ alla concimazione della terra con lo sterco, e così via; come
condo l'immagine che Usener preferisce usare - è pertanto, mostra la loro evoluzione in una figura autonoma, essi non
soprattutto per le epoche più lontane, lo strumento essen­ coincidono, tuttavia, semplicemente con il singolo atto, ma
ziale per indagare la formazione dei concetti e delle rappre­ piuttosto col suo essere nominato.
sentazioni religiose di un popolo. Egli mostra così come Appare qui con chiarezza l'analogia fra la dottrina di Use­
per ogni cosa e per ogni azione importante venga creato ner e la teoria platonica delle idee: come, in origine, il nome
nel linguaggio un «dio momentaneo» (Augenblicksgott), non nomina la cosa tramite un concetto, ma un dio, allo stes­
il cui nome coincide con quello dell'atto e che, attraverso so modo, in Platone, il nome non nomina soltanto la cosa
la ripetizione regolare, si trasforma in un «dio particolare» sensibile (o un concetto), ma, innanzitutto, la sua dicibilità:
(Sondergott) e più tardi in un dio personale. Gli indigita­ l'idea. Il dio momentaneo, come l'idea, è una pura dicibilità.
menta romani ci hanno conservato i nomi di divinità che
corrispondono a singoli atti o momenti dell'agricoltura -

Vervactor, che nomina la prima aratura del maggese (ver­


vactum), Insitor, che nomina l'atto della semina, Occator,
che corrisponde alla lavorazione del campo con l'erpice, È tutta la teoria moderna della significazione che è qui
Sterculinus, che si riferisce alla concimazione della terra . . . revocata in questione. Essa si fonda sull'articolazione di
Usener era influenzato dalle teorie psicologiche del suo tre elementi: il significante, il senso (Sinn) e il significato o
tempo, che concepivano la conoscenza come un processo la denotazione (Bedeutung), che presuppone a sua volta il
che, attraverso la ripetizione e l'astrazione, conduce dal plesso linguistico-semantico del De interpretatione aristo­
particolare al concetto generale. Egli ricorda più volte, tut- telico: parole/concetti/cose (nei termini dei commentatori
88 CHE cos'È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA

tardo-antichi: «le parole in quanto significano le cose at­ già obliterato. L'antologia, secondo un processo che ha du­
traverso i concetti»). I linguisti preferiscono oggi chiamare revolmente segnato la storia della filosofia occidentale, è
il senso «referenza virtuale» e la denotazione «referenza sempre già declinata in una gnoseologia.
attuale» e ammettono che mentre la definizione della pri­ Il modello platonico, invece, che non si esaurisce nel
ma non sembra implicare difficoltà, spiegare in che modo nesso parola-concetto-cosa, implica un elemento - l'idea ­
un termine si riferisca in atto a un oggetto concreto è pra­ che esprime il puro fatto che l'essere si dica. La conoscenza
ticamente impossibile. Acquista qui tutto il suo senso il non ha qui bisogno di essere spiegata attraverso un proces­
fatto che l'ultima ricerca di Benveniste si sia conclusa con so psicologico - che è in realtà una mitologia - che dal par­
la diagnosi - che rappresenta in qualche modo per la scien­ ticolare, attraverso la ripetizione di una stessa sensazione e
za del linguaggio un naufragio - secondo cui la lingua è l'astrazione in un concetto, conduce al generale: particolare
divisa in due piani separati e incomunicanti, il semiotico e e universale, sensibile e intellegibile sono uniti immediata­
il semantico, fra i quali non vi è passaggio: «Il mondo del mente nel nome attraverso l'idea. L'antologia non coincide
segno» egli scrive «è chiuso. Dal segno alla frase non c'è con la teoria della conoscenza, ma la precede e condiziona
transizione, né per sintagmazione né in altro modo. Uno (per questo Platone può scrivere nella Settima lettera che
iato li separa» (B enveniste I 97 4, Il, p. 6 5 ). Dato il segno l'idea è «ciò attraverso cui ciascun ente è conoscibile e vero»
con la sua referenza virtuale, in che modo questa, attua­ e precisare che «la conoscenza è qualcosa di diverso dalla
lizzandosi, si riferisce a un oggetto singolare ? (Già Kant, natura del cerchio stesso», 342 a). In questo modo, secondo
nella lettera a Marcus Herz del 2 1 febbraio 1 972, si chiede­ la profonda caratterizzazione benjaminiana dell'intenzio­
va: «come fanno le nostre rappresentazioni a riferirsi agli ne platonica, l'idea garantisce ogni volta che l'oggetto della
oggetti ?»). conoscenza non possa coincidere con la verità.
La domanda che occorre chiedere a questo punto è, piut­ Per questo gli stoici, riprendendo il gesto di Platone, han­
tosto: come è possibile che la logica e la psicologia moderna no inserito il «dicibile» nella loro teoria della significazione.
abbiano accettato senza riserve un dispositivo affatto arbi­ Perché il termine «rosa» e il concetto «la rosa» possano rife­
trario, qual è quello aristotelico, che consiste nell'introdur­ rirsi alla singola rosa esistente, occorre supporre l'idea della
re nella mente come concetto un carattere che appartiene in rosa, la rosa nella sua pura dicibilità e nel suo «nascimen­
realtà al nome ? Il momento inaugurale della nominazione to» . Secondo la giusta intuizione poetica del più platonico
- che è all'origine del concetto e, come tale, nel p lesso del dei poeti moderni, «]e dis: une fleur! et hors de l'oubli où ma
De interpretatione, è menzionato per primo - viene, con vo ix relègue aucun contour, en tant que quelque chose d' autre
una singolare ÈnoxiJ, messo da parte come un mero segno. que les calices sus, musicalement se lève, idée meme et suave,
In questo modo il nesso antologico essere-linguaggio - il l'absente de tous bouquets» (Mallarmé 194 5 , p. 3 68).
fatto che l'essere si dica nei nomi - viene trasposto in una
psicologia e in una semantica e, in questo modo, sempre
CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA

N Occorre sempre di nuovo riflettere sulla scissione del piano della Se l'interpretazione di E. Hoffmann del fr. r di Eraclito è, come ritenia­
lingua in semiotico e semantico, la cui rilevanza filosofica non può essere mo con Melandri (2004, pp. r 62- r 64), corretta, essa si trova espressa con
sopravvalutata. Benveniste, che riprende e sviluppa l'opposizione saus­ chiarezza proprio all'inizio della cruyypa<!>'fl eraclitea nell'opposizione fra
suriana fra langue e parole, la caratterizza in questo modo: «Il semiotico À.Òyoç (discorso) e €1tta (vocaboli, parole). Gli uomini - qui si legge - non
designa il modo di significazione che è proprio del segno linguistico e intendono il À.Òyoç né prima né dopo di averlo ascoltato, perché si fermano
che lo costituisce come unità. Si può, per i bisogni dell'analisi, conside­ al piano serniotico delle parole (€1t€a) e non fanno esperienza di ciò che è
rare separatamente le due facce del segno, ma sotto l'aspetto della signi­ in questione nel fatto di parlare, nel linguaggio come tale.
ficazione esso è unità e resta unità. La sola domanda che il segno suscita
è quella della sua esistenza, e questa si decide con un sì o con un no:
albero-canzone-lavare-nervo-giallo-su e non: ':· olbero- ':·vanzone-':·lasa­
1 6.
re-':· dervo-':· nu. Preso in se stesso, il segno è pura identità con se stesso e
pura alterità rispetto a ogni altro segno . . . Col semantico, entriamo nel
modo specifico di significazione generato dal discorso. I problemi che La strategia di Platone diventa a questo punto più com­
qui si pongono sono funzioni della lingua in quanto produttrice di mes­ prensibile. Egli non ha sostanzializzato e separato, come
saggi. Il messaggio non si riduce a una successione di unità da identificare riteneva Aristotele, una generalità, ma ha cercato di pen­
separatamente: non è un'addizione di segni che produce il senso, ma è, al sare una pura dicibilità, senza alcuna determinazione con­
contrario, il senso globalmente concepito, che si realizza e divide in segni cettuale. Il passo successivo della digressione lo precisa con
particolari, che sono le parole . . . Che si tratti due ordini distinti di no­
chiarezza: «l primi quattro manifestano non meno la qua­
zioni e di due universi concettuali, lo si può mostrare ancora attraverso
la differenza del criterio di validità che è richiesto per l'uno e per l'altro.
lità ('tò 7tot6v n ) che l'essere (tò ov) di ciascuna cosa, per
Il semiotico (il segno) deve essere riconosciuto; il semantico (il discorso) via della debolezza del linguaggio . . . delle due cose, l'essere
deve essere compreso. La differenza fra riconoscere e comprendere rinvia e la qualità, non la qualità ('tò 7tOt6v n), ma il che ('tò òè
a due distinte facoltà dello spirito . . . >> (Benveniste 1 974, II, p. 22 5 ). 'tt) l'anima vuole conoscere, mentre ciascuno dei quattro
Ogni tentativo di comprendere la significazione linguistica - e tale è le mette davanti ciò che essa non cerca» (Epist. VII, 3 4 2
quello corrente della semiologia e della logica, che si fondano in ultima e - 3 4 3 a; 3 4 3 b-e). Per questo Platone, cercàndo di espri­
analisi sul paradigma aristotelico - senza tener conto di questa scissione
mere il puro essere, il «nascimento» di qualcosa, ha dovuto
che divide il linguaggio è condannata a girare a vuoto. È , infatti, del tutto
illegittimo trasferire il significato, che è una proprietà del segno, nella ricorrere a un pronome; il pronome infatti, è definito già
mente o nell'anima né si vede come sia possibile articolare, come fa Ari­ dei grammatici antichi come quella parte del discorso che
stotele nel De interpretatione, una teoria della proposizione - cioè del se­ esprime la sostanza senza la qualità (Prisciano: il pronome
mantico - a partire da una definizione puramente semiotica della lingua. substantiam significat sin e aliqua certa qualitate ). Ma egli, a
L'idea in Platone ha a che fare con questa scissione, di cui egli era, a suo differenza di Aristotele, non ha scelto un pronome deittico
modo, consapevole e che esprime, fra l'altro, nell'opposizione fra nome
(«ogni sostanza significa un questo», 7t<1aa ouaia òoKci 'tO­
(ovoJ.La) e discorso (À.Òyoç). Nell'idea, omonima ai sensibili e principio della
loro norninazione, il segno raggiunge una soglia, in cui esso trapassa nel se­
ÒE n OTll.taivEtv, Cat. 3 b 1 0), ma l'anaforico a'Ù'toç.
mantico. La percezione della frattura del piano del linguaggio in serniotico Nel passo citato delle Categorie, Aristotele distingue la
e semantico coincide, in questo senso, con l'origine della filosofia greca. sostanza prima, che significa un «questo», perché manifesta
CHE C O S'È LA FILOSOFIA ?
SUL DICIBILE E L'IDEA 93

un che di indivisi bile e uno (questo certo uomo, questo certo tonica riferita da Simplicio - «non sono in nessun luogo»,
cavallo), dalle sostanze seconde (l'uomo, il cavallo), che non Simplicio 1 8 8 2, p. 4 5 3). Ciò che è in questione in una pura
implicano una deissi, ma significano piuttosto una qualità dicibilità, ciò che si dischiude solo attraverso il lento, pa­
(7tot6v n OTJJ.laivn) (ivi, 1 2- 1 6). Resta in ogni caso che, per ziente lavoro anaforico che «sfrega gli uni sugli altri nomi,
Aristotele, vi è un punto in cui il linguaggio significa uno (ev discorsi, visioni e sensazioni» (Plat. Epist. VII, 3 44 b 4) non
OTJJ.laivn), tocca inequivocabilmente il suo referente. è che l'evento di un'apertura nell'anima, che la digressione
Per Platone, invece, per via della «debolezza del linguag­ paragona efficacemente a una luce schizzata da una fiam­
gio» (-rrov Àoyrov àaOEvÉç, Epist. VII, 34 3 a I ), il solo modo ma: «dopo molto stare insieme e convivere intorno alla
- anche se insufficiente - di manifestare un puro esistente cosa stessa, improvvisamente, come una luce schizzata da
nel suo nascimento non è di indicarlo, ma di riprenderlo una fiamma, si genera nell'anima e subito nutre se stessa»
nel e dal linguaggio attraverso l'anafora a1n6ç. Nel Timeo (ivi, 3 4 1 c 6 - d 2).
(49 d 4-6), l'impossibilità di designare gli enti sensibili at­
traverso un deittico e la necessità di servirsi, per la loro de­
� Perché la « cosa stessa>> importa a Platone, p erché essa è «ciò di
signazione, di un'anafora sono affermate senza riserve: «Il
cui egli si occupa seriamente>> ? Se nell'essere è in questione l'articola­
sensibile che noi vediamo sempre in atto di divenire inces­ zione originaria fra linguaggio e mondo - il fatto che «l'essere si dice>>
santemente altro, come il fuoco o l'acqua, non dobbiamo ('tò òv ÀÉyE'tat) - si dirà allora che, mentre per Aristotele l'articolazio­
mai chiamarlo " questo " (-roiho), ma sempre ogni volta " di ne ha luogo fra parole, cose e concetti, Platone, introducendo oltre a
tal sorta" (-rowihov) » . L'antologia aristotelica riposa in questi l'idea, cerca di problematizzare il fatto stesso che la cosa sia detta
ultima analisi su una deissi, quella platonica su un' anafo­ e nominata. Se il pensiero si muove già sempre in un mondo nominato,
esso può, tuttavia, attraverso il gesto anaforico dell'idea, risalire alla cosa
ra. Ma proprio questo permette a Platone di chiamare in
stessa nel suo puro essere detta, nella sua dicibilità. Egli problematiz­
causa, attraverso l'idea, una àpx'JÌ àvu7t60E-roç, un princi­ za, in questo modo, il puro e irriducibile darsi del linguaggio. In questo
pio non presupposto e al di là dell'essere. punto - in cui il nome è ripreso dal e nel suo nominare la cosa e la cosa è
Se il nome «cerchio» dice tanto l'essere che le qualità del ripresa dal e nel suo essere nominata dal nome - il mondo e il linguaggio
cerchio, nell'idea (nel «cerchio stesso») il nome è ripreso sono a contatto, cioè uniti solo da un'assenza di rappresentazione.
dal suo significare verso la manifestazione del puro esse­
re-detto-cerchio, cioè verso la sua dicibilità. Ciò significa
che non soltanto vale anche per l'idea di Platone la tesi kan­ 1 7.
tiana secondo cui l'essere non è un predicato reale (cioè «il
concetto di un qualcosa che si aggiunge al concetto di una La trasposizione - che si compie nel pensiero tardo-an­
cosa»), ma che nemmeno egli ha mai sostanzializzato l'idea tico, da Porfirio a Boezio, e poi nei logici medievali - della
come un universale - che si possa situare da qualche parte, dottrina delle idee nella quaestio de universalibus, è, in que­
in cielo o nella mente (le idee - secondo una dottrina pla- sto senso, il peggior fraintendimento dell'intenzione pla-
94 CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA 95

tonica, proprio perché, mentre sembra affermare la natura atto e univocamente come u n puro segno a una res extra ani­
«logica» dell'idea, essa spezza in realtà il particolare nesso mam, da tutti quei casi in cui la parola si riferisce in qualche
con l'elemento linguistico che era ancora evidente nel ter­ modo a se stessa (suppositio materialis).
mine «dicibile». Nel commento di Boezio al De interpre­ Il mondo antico non poteva né voleva aver accesso alla
tatione, questa separazione è ormai compiuta. I naSru.ww scienza moderna, perché, malgrado lo sviluppo della mate­
Tiìç vuxfìç aristotelici, che egli rende significativamente in matica (significativamente non in forma algebrica), la sua
latino con intellectus, diventano l'oggetto primario della vis esperienza del linguaggio - la sua antologia - non permet­
significativa del linguaggio, mentre la relazione· alle cose di­ teva di riferirsi al mondo in un modo che si pretendesse in­
venta secondaria o derivata: «Infatti mentre le cose che sono dipendente da come esso si rivelava nella lingua. Per questo
nella voce significano le cose e i concetti (res intellectusque Platone, nell'excursus della Settima lettera, non privilegia
significent) , i concetti sono però significati in modo princi­ in alcun modo il concetto, che, come il nome, è mutevo­
pale, mentre le cose, che la stessa intelligenza comprende, le e instabile e, nel Cratilo, preferisce lasciare irrisolta la
. . . .
questiOne se 1 nom1 stano per natura o per convenziOne.
.

in modo secondario attraverso la mediazione dei concetti


(per intellectuum medietatem)» (In Periherm. II, 3 3 , 27). Solo la riduzione della lingua a strumento significante neu­
D'altra parte, svolgendo l'affermazione aristotelica secon­ tro, che si compie con Ockham e il tardo nominalismo, ha
do cui i naeru.ww e le cose sono uguali per tutti, mentre le permesso di espungere dalla significazione linguistica tutti
parole e le lettere diverse, Boezio precisa che dei quattro ele­ quegli aspetti - a cominciare dall'autoreferenza - che erano
menti che formano il plesso linguistico-semantico, due (res sempre stati considerati come consustanziali ad essa e che
e intellectus) sono per natura (naturaliter) e due (nomina e saranno più tardi relegati nella retorica e nella poesia.
litterae) sono per convenzione (positione ) . Comincia così il Ciò non significa in alcun modo che Platone intendesse
processo che porterà al primato del concetto e alla trasfor­ semplicemente attenersi alla realtà così come essa era rivelata
mazione del dicibile in una realtà mentale la cui identità è attaverso la lingua (nel suo caso, il greco). Qui l' omonimia
affatto indipendente dalla parola nella sua materialità sono­ tra l'idea e i sensibili mostra tutta la sua pregn:anza. L'idea è
ra. Solo se il significato concettuale della parola è, in questo distinta dai sensibili, ma condivide con essi il nome. L'idea,
modo, reso autonomo dal suo mutevole significante è possi­ in sé invisibile e impercepibile, si mantiene tuttavia irriduci­
bile quel processo di delinguisticizzazione della conoscenza bilmente in relazione con un elemento linguistico sensibile
che condurrà alla scienza moderna. Poiché questa, come ha - il nome - e, attraverso di esso, con i singoli enti sensibili.
mostrato Ruprecht Paqué ( 197o, passim), non è nata soltanto Per questo, nell'esposizione aporetica della teoria delle idee
con l'osservazione della natura, ma è stata resa innanzi tutto nel Parmenide, che revoca in questione tutte le possibili re­
possibile dalle ricerche di Ockham e dei logici medievali che lazioni fra l'idea e i sensibili - la separazione, la partecipa­
hanno portato a isolare e privilegiare, nell'esperienza del lin­ zione e la somiglianza - l' omonimia è la sola a non essere
guaggio, la suppositio personalis, in cui la parola si riferisce in mai smentita. Tra le conseguenze assurde che risulterebbero
CHE C O S'È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L'IDEA 97

dall'affermazione di un'assoluta separazione fra le idee e i perché implicava che l'affermazione «Cristo essere nato>> (Christum esse
sensibili, Parmenide menziona infatti esplicitamente quella natum) è vera in ogni tempo, sia prima che dopo la sua nascita. Nelle
secondo cui «le cose, che per noi sono omonime delle idee, parole di Bonaventura, che così riassume le tesi nominaliste: «Altri so­
stennero che l'enunciabile (enuntiabile) che è vero una volta, è sempre
sono in relazione con se stesse ma non con le idee e traggono
vero e sempre si conosce nello stesso modo [ . . . ] così alcuni affermano
il nome da se stesse e non da quelle» (Parm. I 3 3 d).
che a/bus, alba e album, che sono tre vocaboli diversi e hanno tre modi
Solo attraverso la sua relazione di omonimia con le cose diversi di significare (modi significandi), tuttavia implicano uno stesso
l'idea può legittimamente pretendere di porre fine alla significato (unam significationem important), sono un solo nome. So­
«guerra civile che i nomi combattono fra loro�> ( ÒVOJ..Ul'tCOV stengono, cioè, che l'unità dell'enunciabile deve essere intesa non dalla
oùv crtacnamivtcov, Crat. 43 8 d), non attraverso la generalità parte del vocabolo o del modo di significare, ma dalla parte della cosa si­
del concetto né cercando «altri nomi, differenti da questi», gnificata. Una sola cosa è prima futura, poi presente e poi ancora passata;
pertanto enunciare che questa certa cosa prima è futura, poi presente e
ma mostrando, attraverso il nome stesso, «quale sia la verità
poi ancora passata non implica alcuna diversità degli enunciabili, ma solo
degli enti» (ibid. ). Il quinto elemento del p lesso antologico, dei vocaboli (non facit diversitatem enuntiabilium, sed vocum)>>.
che Platone chiama col sintagma anaforicò la «cosa stessa», In questo senso la dottrina nominalista di Abelardo ha, com'è stato
non è nominabile con un altro nome nella lingua (io non osservato (Courtenay 1 99 1 , pp. r r -48), un'evidente ascendenza plato­
posso chiamare «kuboa» l'idea del cerchio, posso solo dirla nica e un'altrettanto evidente connessione (anche terminologica) con
«il cerchio stesso»). Ciò che non può avere un nome pro­ la dottrina del dicibile, che egli chiama «enunciabile>> . L'oggetto della
prio è la dicibilità che si esprime nel nome. In quanto pura­ conoscenza non è, per Abelardo, né la parola, né il concetto né sempli­
cemente la cosa, ma la cosa in quanto è significata dal nome: «Certa­
mente e innominabilme nte dicibile, la cosa stessa è «al di là
mente quando sosteniamo che esse (le forme comuni delle cose) sono
dei nomi (nì-ilv ÒVOJHitcov, lett. «eccettuato in tutti i nomi» diverse dai concetti (ab intellectibus), in questo modo introduciamo
- nÀi]v significa etimologicamen te �'vicino")» (ibid.). come terzo fra la cosa e il concetto il significato dei nomi (praeter rem
et intellectum tertia exiit nominum significatio)>> (Abelardo 1 9 1 9, p.
1 8). In questo senso egli può scrivere che la logica «tratta delle cose non
� Il problema del rapporto fra l a dottrina degli universali e i l nomina­ considerate in sé, ma in quanto hanno nome (non propter se, sed propter
lismo è complesso e non è possibile, come a volte è avvenuto nella storia­ nomina)» (De Rijk 1 9 5 6, p. 99) e che, tuttavia, logica e fisica sono inse­
grafia filosofica, ridurre il nominalismo - almeno prima di Ockham - a parabili, perché è necessario indagare se «la natura della cosa consenta
una determinata concezione degli universali in mente. Particolarmente con l'enunciato (rei natura consentiat enuntiationi)>> (ivi, p. 2 8 6).
significativa è la posizione del princeps Nominalium del sec. XII, Pietro
Abelardo. La teoria di Abelardo non è una teoria dell'universale, ma del � L'idea porta il dicibile verso la massima astrazione possibile ri­

nome, distinto tanto dalla cosa (res) che dal vocabolo (vox) e dal concetto spetto alla lingua, ma questa astrazione non è quella del concetto, bensì
(intellectus). Come altri logici a lui contemporanei, egli afferma, infatti, quella che mantiene il dicibile ancora in relazione non con i nomi di
l'unità del nome (unitas nominis) rispetto alla varietà dei vocaboli paro­ una lingua, ma con quella verità dell'ente verso cui tendono, senza mai
nimi (aggettivi, verbi ecc.). Mentre i termini e i verbi variano secondo i raggiungerla, tutti i nomi e tutte le lingue. L'idea è il puramente dicibile
tempi e le modalità, ciò che è significato nel nome è uno e immutabile nel che è l'inteso di tutti i nomi e che, tuttavia, nessun nome né alcun con­
tempo. Questa tesi logica aveva conseguenze anche in ambito teologico, cetto di una lingua possono da soli raggiungere. Momigliano ha soste-
CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA 99

nuto che il limite dei Greci era che essi non conoscevano le lingue stra­
servano - che esse «non sono in un luogo (oùK Èv 't01tql, Phys.
niere - il che, almeno fino a un certo momento, è vero; Platone e Ari­
stotele sapevano, tuttavia, perfettamente che una stessa cosa è nominata
209 b 34; J.LTIÒÈ oMoç Èv t61tq>, Simplicio 1 8 8 2 p. 4 5 3). E, tut­
in modo diverso secondo le varie lingue (questo è implicito nel passo tavia, esse, che non hanno luogo e, per questo, rischiano di
della Settima lettera in cui si dice che i nomi non hanno alcuna stabilità non essere («ciò che non è né in cielo né in terra non è nulla»,
e nella tesi del De interpretatione secondo cui le parole non sono le Tim. 52 b), sono essenzialmente connesse, anche se «in modo
stesse per tutti gli uomini). Il nome KtncM>ç nomina la stessa cosa che è assai aporetico ( a1topc.Otata, lett. «del tutto impraticabile») e
intesa dal latino circulus e dall'italiano «cerchio»: ma il cerchio stesso
difficilissimo da afferrare (òucraÀIDtotatov, Tim. 5 I b)», con
resta in ciascuna lingua soltanto omonimamente nominato. Potremmo
l'aver luogo degli enti sensibili, che ne ricevono l'impronta
allora dire che, in ultima istanza, l'elemento linguistico proprio dell'i­
dea - il dicibile - non è semplicemente il nome, ma la traduzione, o ('t'U1tro8Évta à1t' améòv, Tim. 5 0 c) in modo «difficile da dire e
ciò che è traducibile in esso. B enveniste ha visto nella traduzione il meraviglioso (òoo<!>pacrtov Kat eauJ.Lacrt6v, ib id )». E poiché
.

punto in cui si tocca la differenza fra il semiotico e il semantico. Si la dottrina del luogo (xcòpa) svolta nel Timeo è stata letta nel­
può trasporre, infatti, il semantismo di una lingua in quello di un'altra la storia della filosofia, almeno a partire da Aristotele, come
(è la possibilità della traduzione), ma non il semiotismo di una lingua una dottrina della materia, in questione è qui, allo stesso ti­
in quello di un'altra (è l'impossibilità della traduzione). All'incrocio
tolo, la relazione fra le idee e la materia.
di una possibilità e di una impossibilità, la traducibilità si situa, cioè,
sulla soglia che unisce e divide i due piani del linguaggio. Di qui la sua
Riassumiamo per sommi capi l'esposizione del Timeo.
rilevanza filosofica, che Benj amin ha messo in luce. L'arduo passaggio Questa ha inizio con la costatazione dell'insufficienza della
dal semiotico al semantico è qui cercato non all'interno di una lingua, posizione di due specie di esseri, il paradigma intellegibile ed
ma, attraverso la pluralità delle lingue, nella totalità compiuta delle loro eterno (l'idea) e la sua imitazione, il sensibile. Il «terzo e di­
intenzioni. Per questo, come aveva intuito Mallarmé, rispetto all'idea verso genere» (tpitov {i)..;M)v yÉvoç) viene pertanto introdotto
la lingua perfetta non può che mancare (/es langues imparfaites en cela come un'esigenza o un postulato irrinunciabile (il ').jyyoç «co­
que plusieures, manque la supreme). In suo luogo sta, secondo Plato­
stringe» - eicravayKaçetv - a «farlo apparire» - ÈJ.L<I>avicrm, 49
ne, il logos della filosofia, che riporta ogni lingua verso il suo principio
nel Musaico (la filosofia è, per questo, «la musica suprema>>: Q>tM>croQ>iaç a). La sua natura, «difficile e oscura», viene non propriamen­
[ . . . ] o'ÌXnlç J.JEyicr'tT]ç !J.OumJciìç, Phaed. 6r a; ancora più esplicitamente in te definita, ma descritta attraverso una serie di qualificazioni
Resp. 499 d: la filosofia è «la musa stessa>>, aùnì 1Ì Moucra). successive. Innanzi tutto esso è il «ricettacolo» (futo<>oxl)) di
ogni generazione. Tutte le cose sensibili, che incessantemen­
te si generano e si distruggono, hanno bisogno di qualcosa
! 8. «in cui» (Èv q}) apparire, come le figure che un artefice pla­
sma nell'oro hanno bisogno del metallo per prendere for­
Il problema dell'idea non è separabile dal problema del ma (da questa immagine, Aristotele può aver dedotto che in
suo luogo. Che le idee abbiano luogo (EXEt tòv t61tov) «al di questione sia qui la materia dei corpi).
là del cielo» (\mepoupavwv t61tov, Phaedr. 247 c) può solo Questa «natura che riceve tutti i corpi» è sempre la stes­
significare - come Aristotele e Simplicio puntualmente os- sa e deve essere in sé priva di forma, come è amorfo un
IOO CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA IO I

«materiale da conio» (ÈKflaye"iov, 5 0 c, il termine contiene vòecp), appena credibile. Guardando ad esso come in un sogno,
l'idea di un «impasto», cfr. flcXO"crro, flclK'tpa) che può assu­ noi diciamo che è necessario che tutto ciò che è sia in un certo
mere le impronte di tutte le forme che riceve. Questo por­ luogo e occupi uno spazio (€.v nvt 'tMQ> Kat Ka'tÉXOV x�av) e
ta-impronte viene così paragonato a una «madre», ciò da che ciò che non è né in cielo né in terra non è nulla)) ( 5 2 b).
cui riceve l'impronta al «padre» e la natura intermedia fra
di essi a un «figlio» . Se la madre non fosse priva di una for­
ma propria, l'impronta (ÈK't'U1tOOfla) che riceve non sarebbe
visibile, perché la sua propria forma «si mostrerebbe ac­
canto» (1tapEfl<j>atvOflEVOV - Aristotele userà nel De anima, È stato Diano il primo a notare che il modo in cui Plato­
429 a 20, lo stesso verbo per precisare che se l'intelletto ne designa la conoscibilità della x�a è affatto singolare. Non
materiale mostrasse una sua propria forma accanto a quel­ solo perché «tangibile)) (un aggettivo che egli usa altrove esclu­
la dell'intellegibile, farebbe ostacolo alla comprensione). Il sivamente per i corpi sensibili) contrasta fortemente con «ane­
terzo genere, madre, ricettacolo e porta-impronte, è, dun­ stesia))' assenza di sensazione, ma anche e innanzitutto per­
que, una «specie invisibile» ( avopa-rov elòoç, l'espressione ché invece di servirsi della formula normale «Xropiç)) o «avEu
è, in greco, in qualche modo contraddittoria) e «per natura aicr91locroç))' senza sensazione, egli preferisce l'espressione
al di fuori delle forme o idee (ÈK'tÒç eiòrov, 5 I a)»; e, tutta­ paradossale «con anestesia, accompagnato da un'assenza di
via, «partecipa in modo assai aporetico e difficilissimo da sensazione))' Diano I 973, passim). Che cosa si percepisce
afferrare)) dell'intellegibile. quando si percepisce una «assenza di sensazione)) ? Che
A questo punto, in una sorta di vertiginoso riepilogo, Pla­ cosa intende Platone, scrivendo che percepire l'aver luogo
tone conclude che occorre dunque ammettere ( ÒflOÀA>YTl'tÉov di qualcosa non significa semplicemente non percepire, ma
- il verbo ÒflOÀoye"iv, confessare, designa una verità che non percepire un'assenza di percezione, sentire un'anestesia ?
si può non riconoscere) tre generi di essere: I ) uno ingene­ Mentre l'idea è semplicemente non sensibile ( avaicrOr]'tov),
rato, e incorruttibile, che non riceve in sé nulla né va mai in qui l'anestesia diventa tangibile, è percepita come tale. Il ca­
altro, invisibile e non sensibile (avai0"9rl'tov), che si contem­ rattere «bastardo)) del ragionamento che percepisce, come
pla con l'intelligenza; 2) un secondo, omonimo e somiglian­ in sogno, la xropa deriva dal fatto che esso sembra mescolare
te al primo, che si genera e si distrugge incessantemente in insieme le due prime forme di conoscibilità, l'intellegibile e
qualche luogo (€.v nvt 't01tf-!)) e che si afferra con l'opinione il sensibile. Se Platone può scrivere che la xropa partecipa,
accompagnata da sensazione (flE't' aicr91lcreroç); 3) un terzo, anche se in modo difficile da afferrare, dell'intellegibile, ciò
lo spazio (xo)pa), anch'esso eterno e non soggetto a distru­ è perché idea e spazio comunicano attraverso l'assenza di
zione, che fornisce una sede (E.òpa) alle cose generate. Esso è sensazione, come se l'anestesia che definisce negativamente
«tangibile con un ragionamento bastardo accompagnato da l'idea acquisisse qui un carattere positivo, diventasse una
assenza di sensazione (flE't' avm0"9rlcriaç a1t'tÒv ì.oytcrflcp nvt forma specialissima di percezione.
I 02 CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA IOJ

Platino, commentando il passo del Timeo, precisa che separate una cosa e l'altra (cioè l'idea e il sensibile), nessuna
quando l'anima, con un ragionamento bastardo, percepisce delle due può allora entrare nell'altra per diventare una sola
la materia, essa non pensa tuttavia nulla, ma riceve e pa­ cosa e, insieme, due (Ev OJ..la -ramòv 1mì òoo yt::vflcrt::creov)»
tisce qualcosa: « Questo 1ta8oç, questa passione dell'anima ( 5 2 c-d).
sarà come quando essa non pensa nulla ? No, poiché quan­
do non pensa nulla, non dice, anzi nemmeno patisce nulla.
Quando invece pensa la materia, allora patisce un'affezione � I l termine xffipa significa il luogo, lo spazio inoccupato che un cor­

che è come l'impronta del senza forma (nmov -rov ÒJ..lopq>ou)» po può occupare. Esso è etimogicamente connesso con vocaboli che si­
gnificano una privazione, ciò che resta quando si toglie qualcosa: xiJpa,
(Ennead. Il, 4, I o). Se Platone si era servito della metafora
vedova, e xiìpoç, vuoto. Il verbo XffiPÉOl significa <<far posto, dare spazio» .
dell'impronta, scrivendo che la x�a, in modo difficile da dire Il senso d i <<separare» i n xropiç, XffiPtOJloç, xropiçnv s i spiega senza diffi­
e meraviglioso, «riceve un'impronta» (ro1to8Év-ra, Tim. 5 0 c) coltà: far posto, dare uno spazio a qualcosa, significa separarlo.
delle idee, qui la relazione s'inverte: sono le idee che rice­
vono un'impronta dell'amorfo. � Platino ha dedicato alla teoria platonica dello spazio un intero trat­
Al di là della colorazione mistica che Platino sembra tato, che già le edizioni antiche rubricavano come Sulla materia o Sulle
conferirle, decisivo è qui che la xffipa revochi in questione due materie (Ennead. II, 4). Egli accetta, infatti, la tesi aristotelica secon­
do cui Platone avrebbe identificato lo spazio e la materia («Platone dice
e neutralizzi l'opposizione semplice fra intellegibile e sen­
nel Timeo che la materia UATI e la xffipa sono la stessa cosa>>, Phys.
- -

sibile, che si rivela inadeguata. Nell'esposizione aporetica 209 b, I 3); ma, in quanto si rende conto che la xffipa revoca in questione
della teoria delle idee nel Parmenide, Platone aveva mostrato l'opposizione fra il sensibile e l'intellegibile, deve ammettere l'esistenza
come l'assoluta separazione tra idee e sensibili (il pensarle di due materie, una intellegibile, che riguarda le idee, e una terrena, che
xropiç, separatamente; Aristotele, riprendendo l'argomento riguarda i sensibili. Nel «ragionamento bastardo» del Timeo, egli vede
per la sua critica, parlerà di un XffiP tcrJ.t6ç, di una separazione) un tentativo di pensare l'assenza di forma della xffipa attraverso l'idea di
indefinito (àoptcr'tia). I l ragionamento che ne risulta è <<bastardo>> pe�ché
conduca a conseguenze assurde. Alle aporie del xropiç e del
esso è, nella stessa misura, un' inconoscenza (&vota) e un'afasia (àcpacria);
XffiPHJJ..loç, Platone, forse rispondendo a critiche che già cir­ e, tuttavia, esso contiene ancora qualcosa di positivo: «Che cos'è questa
colavano nell'Accademia, dà, con un felice gioco di parole, indeterminatezza dell'anima ? Forse una inconoscenza e un'afasia ? Op­
la risposta geniale della xffipa. N el punto in cui riusciamo pure l'indeterminatezza consiste in un certo discorso positivo (Èv l<:a­
anesteticamente e impuramente a percepire non soltanto il 'ta<jlam::t nvi) e, come per l'occhio l'oscurità è la materia di ogni colore
sensibile, ma il suo aver luogo, allora l'intellegibile e il sensi­ visibile, così l'anima, togliendo dalle cose sensibili per così dire ogni luce,
bile comunicano. L'idea, che non ha luogo né in cielo né in e non riuscendo più a definire ciò che resta, div\'!nta simile alla visione che
si ha nell'oscurità e s'identifica a quell'oscurità di cui ha come una visio­
terra, ha luogo nell'aver luogo dei corpi, coincide con esso.
ne>> (Ennead. Il, 4, I o). Poche pagine prima, egli sottolinea il carattere
È quanto Platone dice con inconsueta decisione poche ri­
impervio del pensiero della materia come un procedere fino all'abisso di
ghe dopo: «A ciò che è veramente, viene in aiuto un discorso ogni essere. Se ogni essere è composto di materia e forma, il pensiero che
vero per la sua precisione, mostrando che, finché si tengono cerca di pensare la materia «divide questa dualità fino a raggiungere un
I04 CHE cos'È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L ' IDEA I05

semplice che non può più dividere e, nella misura del possibile, lo separa, le affezioni di una sfera, non resta altro che la materia. Per
gli dà spazio fino all'abisso (xwpci EÌç tò 13<i8oç). L'abisso di ogni cosa è questo Platone dice nel Timeo che la materia e la xropa sono
la materia. Per questo ogni materia è oscura, poiché il linguaggio è luce e
la stessa cosa» (Phys. 209 b 6- 1 1 ) . Che da parte di Aristote­
il pensiero è linguaggio. E poiché vede il linguaggio su ogni cosa, giudica
che ciò che sta sotto di esso è tenebra, come l'occhio, che ha la forma
le si tratti di un fraintendimento non sembra dubbio: non
della luce, guardando la luce e i colori, ritiene oscuro e materiale ciò che soltanto Platone non si serve per la definizione della xropa
è nascosto dai colorÌ>> (ivi, II, 4, 5 ). di un procedimento astrattivo, ma Aristotele stesso sa per­
In quella che sembra la descrizione accurata di un'esperienza misti­ fettamente che, come scrive subito dopo, a differenza della
ca, Plotino coglie in realtà il fatto inconfutabile che il ÀoytcrJ16ç bastar­ materia, il luogo può essere separato dalla cosa («la forma
do che permette l'accesso alla xo)pa è ancora un'esperienza della lingua
e la materia non si separano - où xropisEtat - dalla cosa, il
(Kata<jlamç è il termine logico per l'affermazione, per il dire qualcosa
luogo sÌ», ivi, 209 b 22-23), mentre Platone ha cura di di­
di qualcosa). Il pensiero, attraversando il linguaggio significante fino al
suo limite - l'abisso - tocca la xropa, cioè il puro aver luogo (nei termi­ stinguere ogni volta il terzo genere dal secondo, lo spazio
ni di Plotino, la materia) di ogni ente. Alla pura stazione della lingua dai corpi sensibili che in esso si generano.
nel limite della significazione, al nudo darsi della lingua, corrisponde il È vero, tuttavia, che la concezione aristotelica della ma­
puro aver luogo delle cose. teria è stata così influenzata dalla dottrina platonica della
xropa, che essa tende per molti aspetti a sovrapporsi a que­
sta; ma, anche se si volesse incautamente accettare, come ha
20. fatto la tradizione successiva, dai neoplatonici fino a Car­
tesio, la tesi della loro identificazione, si dovrebbe tuttavia
Come il fraintendimento dell'idea come un «universa­ precisare che Platone pensa la materia non come res exten­
le» ha compromesso la possibilità di una sua corretta inter­ sa, ma come l'aver luogo di ciascun corpo. L'aver luogo di
pretazione, cosi l'identificazione aristotelica e neoplatoni­ un corpo è ciò che, diverso dal corpo, lo mette in qual­
ca della xropa con la materia ha durevolmente influenzato che modo in rapporto con l'intellegibile: per questo l'idea
la storia della sua ricezione. Ed è significativo che come il - l'intellegibilità o la dicibilità di ciascun ente - ha luogo
fraintendimento dell'idea coincide con la sua confusione nell'aver luogo del sensibile.
con l'astrazione (à<j>aipccrtç), allo stesso modo la xropa vie­
ne intesa come ciò che resta di un corpo se si fa astrazio­
ne delle sue affezioni. «In quanto il luogo sembra essere N Subito dopo il passo citato, Aristotele aggiunge che «ciò che è capa­

l'estensione (òt<lO'tll�a) della grandezza» scrive Aristotele ce di partecipare (tò �LEtaÀT)1tttK6v) e la xo)pa sono la stessa cosa. Benché
nella Fisica «esso è materia ( UÀTJ), che è altro dalla grandez­ (Platone) chiami ciò che è capace di partecipare in modi diversi nel Timeo
e nei cosiddetti insegnamenti non scritti (€v to'iç ÀEYOJlÉVotç àypa<jlotç
za. È ciò che è avvolto e definito dalla forma, come da un
My11acrtv), nondimeno egli ha affermato che il luogo e la xo)pa sono la
piano o da un limite. E questa è appunto la materia e l'in­ stessa cosa. Tutti dicono che il luogo sia qualcosa, ma egli è il solo che
,
definito ('tò à6ptcrtov). Se togli infatti ( à<j>atpTJ9'fl) il limite e ha cercato di dire che cosa>> (Phys. 209 b I o - I 6).
1 06 CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA

Anche se il termine J.1E'tUA111t'tt K OV non compare nel Timeo (Pla­ la costruzione della geometria, la cui conoscenza egli po­
tone usa però, come abbiamo visto, per la partecipazione della xropa neva fra le condizioni necessarie per l'ingresso nell'Acca­
all'intellegibile, un termine vicino: j.LE'tUAaj.L�avov), Aristotele sembra demia. Per questo, subito dopo aver definito la xo)pa, egli
qui far riferimento a una terminologia corrente nell'Accademia per
mostra come il demiurgo vi produca gli elementi attraverso
designare la xropa come ciò che permette la partecipazione del sensi­
bile all'intellegibile. Poche righe dopo, egli usa nuovamente il termi­
triangoli isosceli e scaleni e secondo precisi rapporti nume­
ne, questa volta per formulare un'obiezione: «A Platone si deve chie­ rici (Tim. 5 3 a - 5 5 c).
dere, se è lecita una digressione, perché le idee e i numeri non sono Tocchiamo qui le nozioni che stanno al fondamento del­
in un luogo, se il luogo è ciò che è capace di partecipar.e, che questo la concezione platonica della scienza. Il «ragionamento>>
sia il grande e il piccolo oppure la materia, come è scritto nel Timeo» del geometra (J.oytcr116ç - secondo il significato prevalente
(Phys. 209 b 3 3 - 2 1 0 a 1 ).
del termine tanto in greco che nell'uso platonico - dovreb­
Se Platone, pur affermando che la xropa permette una partecipazio­
be tradursi più esattamente con «calcolo») è bastardo - cioè
ne « assai aporetica» del sensibile all'intellegibile, non smentisce la tesi
secondo cui l'idea non ha luogo, ciò è perché, se l'idea avesse luogo nel­ pertinente insieme all'intellegibile e al sensibile - perché
la xropa, essa sarebbe allora - come ritiene Aristotele, che vede infatti non si riferisce immediatamente a dei corpi sensibili, ma al
nelle idee un inutile duplicato dei sensibili - un altro sensibile accanto loro puro aver luogo nello spazio. A differenza del Àoyoç
ai corpi generati. Se si dice, invece, che l'idea non ha un luogo proprio, delle lingue naturali - e tuttavia contiguamente ad esso - il
ma ha luogo nell'aver luogo dei sensibili, l'idea e il sensibile saranno, Àoytcrll6<; della matematica permette di superare la «debo­
insieme, due e uno (aJ.1a m1nòv Kaì ouo). L'idea non è né la cosa né
lezza» dei nomi - che ci danno sempre insieme l'essere e la
un'altra cosa: è la cosa stessa.
qualità di una cosa - grazie a un puro quanto di significa­
zione, che significa, però, non una cosa o un concetto, ma
solo il darsi, il puro «aver luogo» di qualcosa.
2!.
La connessione essenziale fra la xropa e la lingua si mo­
stra qui con chiarezza: la xropa - lo spazio e l'aver luogo di .
Pierre Duhem, nella sezione del suo Système du monde
ciascuna cosa - è ciò che appare quando si tolgono l'uno
dedicata alla teoria platonica dello spazio, suggerisce che il
dopo l'altro gli elementi semantici del discorso verso una
«ragionamento bastardo» di cui è questione nel Timeo non
dimensione puramente semiotica della lingua, non, però, in
sia altro che «il ragionamento geometrico, che si fonda tanto
direzione di una scrittura, bensì di una voce. La xropa è,
sulla VOT\crtç che, attraverso l'immaginazione che lo accom­
cioè, la soglia in cui semiotico e semantico, sensibile e intel­
pagna, sull' a'icr9rtcrtç» (Duhem I 9 I 3, p. 3 7 ). La straordinaria
legibile, numeri e idee sembrano, per un istante, coincidere.
conoscenza delle teorie scientifiche di Duhem ha qui colto,
Se l'idea coglie, nel nome, il limite del semantico, il lla9ftlla
contro l'interpretazione misticheggiante dei neoplatonici,
tocca, nella xropa, il limite del semiotico.
un punto essenziale della teoria della xc.òpa. Va da sé, infatti,
che Platone sapeva perfettamente, come Archita e i geometri
suoi contemporanei, che lo spazio è ciò che rende possibile
I 08 CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA I 09

22.
� Un esame della definizione della monade nel libro VII (Def. I )

Un'analisi della terminologia della geometria greca for­ degli Elementi euclidei - f.J.Ovaç Ècrttv, Ka8' fìv EKacrtov t<Ì>v ovtrov €v
Àiyetat - conduce a analoghi risultati. Si rifletta alla singolare tauto­
nisce dei riscontri illuminanti. Sia la definizione che apre
logia contenuta nella traduzione corrente: «unità è ciò attraverso cui
gli Elementi di Euclide: <JT)J!Etov Ècrnv, où J.tÉpoç o'ÙOÉv.
ciascuno degli enti è detto uno>> . Solo se si comprende che decisivo è
La traduzione corrente «punto è ciò di cui non vi è parte» qui «l'esser detto>>, la definizione cessa di essere tautologica: la monade
non permette di cogliere il fatto in ogni senso decisivo che non è un ente reale, ma è ciò che risulta dalla pura relazione signifi­
«punto» si dice in greco «segno» ( <Jll J.tEtov) . La traduzio­
. cante fra la parola e la cosa. «Uno» è ciò che è detto, se si considera in
ne esatta sarebbe pertanto: «vi è un segno, di cui non vi è se stessa la pura relazione fra il linguaggio e il suo relato. Per questo
parte» . La nozione che fonda la geometria è, cioè, quella di Aristotele poteva scrivere che il matematico <<contempla gli attributi,
ma non in quanto si riferiscono a una sostanza: cioè li separa (xropisEt).
«quanto di significazione» (Riemann dirà con la consue­
Attraverso il pensiero essi sono separabili dal movimento>> e aggiun­
ta chiarezza: «le parti determinate di un insieme, distinte geva che i sostenitori delle idee fanno la stessa cosa senza accorgerse­
da una nota o da una demarcazione, si chiamano quanta»). ne: <<Essi separano le cose naturali, che sono meno separabili di quelle
Ciò è tanto più rilevante, in quanto sappiamo che sono stati matematiche» (Phys. I 9 3 b 3 2 - 1 94 a I ). Separare gli attributi dal loro
proprio Platone e la sua scuola a affermare la necessità di riferimento a una sostanza significa disporre di un linguaggio - quello
sostituire il termine più antico per «punto», CJ'ttYJ.tll (la trac­ matematico, appunto - in grado di sospendere la sua denotazione, cioè
il suo riferirsi a un determinato oggetto reale, tenendo però ferma la
cia lasciata da un oggetto con l'atto di CJ'ttsEtv, «pungere»)
nuda forma della relazione.
con <JT)J!Etov, per sottolinearne la connessione con la signi­
ficazione linguistica: il punto non è un ente materiale, ma
un quanto di significazione (cfr. Mugler 1 9 5 9).
23.
Ciò implica, nell'intenzione platonica, che mentre la fi­
losofia può raggiungere l'idea - omonima ai sensibili - solo
Diventa comprensibile, in questa prospettiva, perché
attraverso il paziente attraversamento (la Settima lettera
l'ideale della scienza platonica abbia potuto essere espres­
dice «sfregando insieme») dei nomi, delle proposizioni e
so, nella testimonianza di Simplicio, attraverso il sintag­
dei concetti, la matematica si muove invece su un piano
ma «salvare le apparenze» (1à <l>atVOJ.tEva crc{>sEtv). Nel suo
«bastardo», in cui dei quanti di significazione - non delle
commento al De coelo di Aristotele, egli descrive in questi
parole, ma dei numeri - permettono di tenere aporetica­
termini il problema che Platone assegnava alla scienza (in
� ente insieme gli intellegibili e i sensibili. In questione per questo caso, all'astronomia): «Platone, avendo ammesso
tl geometra non è il corpo sensibile nel suo nome e nelle sue
in principio che i corpi celesti si muovono con un mo­
qualità, ma il suo puro aver luogo indicato attraverso il dar­
vimento circolare, uniforme e constantemente regolare,
si di un puro significante (un «segno di cui non vi è parte»).
pose ai matematici questo problema: " Quali sono i mo­
vimenti circolari, uniformi e perfettamente regolari che
I IO CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA I I I

occorre prendere per ipotesi affinché si possano salvare pre nella stessa direzione, salvare le apparenze degli astri
le apparenze dei pianeti erranti (ùtaaq>Sfìvat 'tà 7tEpÌ 'toùç erranti)) (ivi, pp. 2 5 -27).
1tÀaVOJ..LÉ VOUç <)>atVOJ..lE Va) ? " )) (Duhem 1 908, p. 3 ) . Se, nella prospettiva della scienza platonica, le ipotesi ma­
Se i l compito del matematico s i esaurisce con l a salva­ tematiche devono contentarsi di salvare le apparenze e non
zione delle apparenze, ciò significa che, una volta raggiunto pretendere di identificarsi con la realtà, ciò è perché la mate­
lo scopo, egli deve guardarsi dall'identificare i movimenti matica si riferisce, in ultima analisi, a dei quanti di significa­
supposti con quelli reali degli astri. Come scrive Duhem, zione e non a degli enti reali. Essa si situa sul limite semiotico
«l'astronomia non coglie l'essenza delle cose celesti, ne for­ della lingua, ma non può pretendere di scavalcarlo.
nisce soltanto un'immagine. E questa immagine non è esat­
ta, ma solo approssimativa . . . Gli artifici geometrici che ci
servono da ipotesi per salvare i movimenti apparenti degli
astri non sono né veri né verosimili. Sono dei puri concetti
che non possono essere trasformati in realtà senza formu­ Solo questa situazione dei numeri e delle idee rispetto
lare delle assurdità)) (ivi, p. 23). al linguaggio permette di far ordine nel controverso pro­
Per questo Simplicio può affermare che il fatto che astro­ blema di come Platone abbia inteso il rapporto fra le idee
nomi propongano ipotesi diverse per spiegare uno stesso e i numeri. Come ogni volta che in questione sono i co­
fenomeno non costituisce un problema: « È evidente che il siddetti insegnamenti non scritti, le testimonianze antiche
fatto che le opinioni divergano quanto alle ipotesi non è sono non meno contrastanti delle opinioni degli studiosi
un'obiezione. Lo scopo che ci si propone è di sapere quali moderni. Lo stesso Aristotele, che pure ci informa che Pla­
ipotesi riescano a salvare le apparenze. Non bisogna stupir­ tone distingueva «accanto agli oggetti sensibili e alle idee,
si se altri astronomi abbiano cercato di salvare i fenomeni come medio (J..LE'tal;u) fra di essi, gli elementi matematici
a partire da ipotesi diverse . . . Per salvare le irregolarità, gli delle cose ('tà J..La9ftJ..LanKà 'trov 7tpayJ,uhrov), i quali differiscono
astronomi immaginano che ogni astro si muova con più dai sensibili perché immobili ed eterni e dalle idee perché ve ne
movimenti; gli uni ipotizzano movimenti secondo eccen­ sono molti simili, mentre ciascuna idea è in sé una e singolare))
trici ed epicicli, altri invocano le sfere omocentriche . . . Ma sembra avvicinare i numeri e le idee fin quasi a confonderli,
come non si considerano reali le stazioni e i movimenti re­ quando afferma che «come i Pitagorici, Platone diceva che i
trogradi dei pianéti né le addizioni e sottrazioni di numeri numeri sono causa della oùaia delle altre cose)) (Metaph. 98 7
che si riscontrano nello studio dei movimenti, anche se gli b 1 4-2 5 ). Alessandro di Afrodisia, nel Commento alla Me­
astri sembrano muoversi in quel modo, così una esposizio­ tafisica di Aristotele, identifica decisamente idee e numeri:
ne conforme alla verità non considera le sue ipotesi come se «l numeri sono i primi fra gli enti. E poiché le forme sono
fossero reali . . . gli astronomi si contentano di giudicare che prime e le idee sono prime rispetto alle cose che esistono in
è possibile, attraverso movimenti circolari, uniformi e sem- relazione ad esse e da esse hanno l'essere [ . . . ] (Platone) disse
1 12 CHE COS ' È LA FILOS OFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA IIJ

che le idee sono numeri ( 'tà E'i<i11 àpt8f.to'Ùç EÀEyEv) [ . . . ] . Inol­ semantico a u n determinato oggetto reale - l a matematica
tre le idee sono principi delle altre cose, mentre principi delle può apparire come la forma più pura dell'antologia. Di qui
idee, che sono numeri, sono i principi dei numeri e principi i ricorrenti tentativi di identificare antologia e matematica,
dei numeri diceva essere l'unità e la dualità» (Alessandro di di cui un esempio recente è la tesi di Alain Badiou secondo
Afrodisia 1 89 1 , p. 5 6). Contro di lui Simplicio obietta, però, cui, poiché «le matematiche sono l'antologia» ( 1 9 8 8 , p. 1 0), è
non senza ragione, che «mentre è del tutto verosimile che possibile riscrivere la filosofia prima nei termini della teoria
Platone dicesse che principi di tutte le cose sono l'uno e la degli insiemi. Contro questa confusione di due piani pros­
dualità indeterminata [ . . . ] da ciò non può conseguire che egli simi, ma distinti, occorre ricordare che l'antologia - am­
dicesse che la dualità indeterminata, che chiamava grande e messo che abbia senso definire nel suo pensiero qualcosa
piccolo intendendo con questo la materia, sia principio an­ come un'antologia - comincia propriamente per Platone
che delle idee, dal momento che egli limitava la materia al solo soltanto col piano dei nomi. La sua filosofia, almeno per
mondo sensibile [ . . . ] e aveva del resto anche detto che le idee quanto ci è dato sapere, si situa decisamente sul piano della
sono conoscibili col pensiero e la materia invece "credibile lingua naturale e cerca di orientarsi in esso, senza mai ab­
con un ragionamento bastardo"» (Simplicio 1 8 82, p. 1 5 1 ). La bandonarlo, attraverso un paziente e prolungato esercizio
neutralizzazione della dicotomia fra idee e sensibili resa pos­ dialettico per risalire in ultimo alle idee, che sono e restano
sibile dalla xo)pa - la quale è anche condizione di possibilità omonime ai sensibili. Naturalmente anche la matematica
della geometria e della matematica - conduce in Alessandro presuppone il linguaggio (della matematica di un mondo
a un appiattimento dei numeri sulle idee, contro il quale rea­ senza linguaggio noi non sappiamo strettamente nulla):
gisce fermamente Simplicio. essa non si situa però semplicemente, come la dialettica,
Le contraddizioni si risolvono se si osserva che idee e nu­ all'interno del linguaggio, ma si tiene nella pura relazione
meri - antologicamente vicini - sono tuttavia chiaramente fra linguaggio e mondo, nella nuda significazione senza si­
distinti in quanto si situano rispetto al linguaggio in due di­ gnificato. Al darsi dei corpi sensibili nel nome, corrispon­
verse regioni. Mentre le idee non possono staccarsi del tutto de la loro pura posizione (8Écru;), il loro aver luogo nella
dai nomi, i simboli matematici sono ciò che risulta dal puro xropa. In quanto guardano entrambi alla conoscibilità del
darsi del linguaggio, essi sono, cioè, dei quanti di significa­ mondo, il matematico e il filosofo dimorano vicinissimi:
zione che esprimono il darsi della relazione significante tra diverse e difficilmente comunicanti sono, però, come per
linguaggio e mondo, senza alcuna denotazione concreta. il p o eta e il filosofo, le esperienze del linguaggio in cui essi
Idea e numero, filosofia e matematica si situano, cioè, in due SI muovono.

diverse esperienze dei limiti del linguaggio: l'idea è il limite


del semantico, mentre il numero è il limite del semiotico.
In questo senso - in quanto esprime la nuda relazione se­
miotica fra linguaggio e mondo al di qua di ogni riferimento
1 14 CHE C O S'È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L'IDEA 115

costo la lingua naturale, escludendo da essa come «poetico��


ciò che pure le appartiene costitutivamente; dall'altra - di­
Se scienza e filosofia smarriscono la coscienza della loro menticando che la filosofia, pur dimorando nella lingua, in
prossimità e della loro differenza, esse perdono nella stes­ quanto risale in essa fino al suo principio musaico (è, anzi,
sa misura ogni consapevolezza dei propri compiti rispettivi. essa stessa Musa: a'Ù't'Ìl il Mouaa) deve metterne incessante­
Poiché, se la definizione platonica della loro aporetica re­ mente in questione i limiti - si finisce con l'invocare, in un
lazione è vera, esse possono perseguire il loro fine soltanto gesto simmetricamente opposto, il deus ex machina della
mantenendosi in una reciproca tensione. La filosofia, come poesia come se fosse un principio esterno.
contemplazione delle idee nei nomi, deve costantemente E solo a partire da questa aporia, cioè dalla perdita del
spingersi al di là di questi verso i limiti del linguaggio, che, passaggio (nopoç) e dell'esperienza (nEìpa) che potrebbero
tuttavia, non può superare con la propria terminologia, così ricongiungere filosofia e scienza, si può spiegare il dominio,
come la scienza, che cerca di salvare i fenomeni che la «causa in apparenza illimitato, di una tecnica che tanto i filosofi
errante» (nJ..avo�VTJ ai-ria, Plat. Tim. 48 a) continuamente che gli scienziati sembrano osservare sbigottiti. La tecnica
mescola e confonde, non può che tendere - senza mai com­ non è una «applicazione» della scienza: essa è il prodotto
pletamente riuscirvi - a tradurre il suo discorso in quello del­ conseguente di una scienza che non può né vuole più salvare
le lingue naturali (l'esperimento è il luogo in cui si compie le apparenze, ma tende ostinatamente a sostituire le sue ipo­
questa traduzione). tesi alla realtà, a «realizzarle» . La trasformazione dell' espe­
Il paradigma della scienza platonica, che non è mai del rimento, che ha ora luogo attraverso macchinari così com­
tutto scomparso dalla scienza occidentale, attraversa oggi plessi, che non hanno più nulla a che fare con le condizioni
una crisi di cui non sembra possibile venire a capo. La ri­ reali, ma si propongono di forzarle, mostra eloquentemente
nuncia della scienza all'esposizione linguistica - divenuta che la traduzione tra i linguaggi non è più in questione. Una
evidente con la fisica postquantica - va di pari passo all'in­ scienza, che rinuncia a salvare le apparenze, non può che
capacità della filosofia di misurarsi con i limiti del linguag­ mirare alla loro distruzione; una filosofia, che non si mette
gio. A una filosofia senza più idee, cioè puramente concet­ più in gioco, attraverso le idee, nella lingua, smarrisce la sua
tuale, che diventa per questo una sempre più inutile ancilla necessaria connessione col mondo sensibile.
scientiae, corrisponde una scienza che non riesce a pensare
il suo rapporto con la verità che dimora nelle lingue na­
turali. La divisione della filosofia in due campi - perfino 26.
istituzionalmente e geograficamente incomunicanti - che
si accetta come scontata, rispecchia la perdita dell'elemento La teoria della xcòpa riappare nel XVII secolo in un singo­
- la xropa della lingua - in cui esse avrebbero potuto comu­ lare incrocio di teologia e scienza nei platonici di Cambridge.
nicare. Da una parte si cerca così di formalizzare ad ogni Nel carteggio fra il più visionario di essi, Henry More, e
I I6 CHE C O S ' È LA FILOSOFIA? SUL DICIBILE E L' IDEA I 17

Cartesio, il termine xo)pa non è mai pronunciato e, tuttavia, e teologia a questo punto coincidono e More può elencare
si tratta appunto per More di rivendicare contro Cartesio una serie di «nomi)) o «titoli)) divini che convengono perfet­
l'irriducibilità dello spazio alla materia. Se si identificano, tamente allo spazio divinizzato: Uno, Semplice, Immobile,
come fa Cartesio, estensione e materia, non vi è più posto Eterno, Perfetto, Indipendente, Esistente in sé, Sussisten­
per Dio nel mondo. Esiste, invece, un'estensione non ma­ te di per sé, Incorruttibile, Necessario, Immenso, lncreato,
teriale che è un attributo dell'essere come tale. «La ragione Onnipresente, Incorporeo, Permeante e Abbracciante ogni
che mi fa credere» egli scrive a Cartesio appropriandosi, per cosa. «E ometto)) egli aggiunge «che i cabalisti chiamano
rovesciarla, della sua definizione della materia «che Dio sia, Dio Makom, cioè il luogo)) (ivi, p. 7 1 ).
a suo modo, esteso, è che egli è dovunque presente e riempie È lecito scorgere nella definizione di questo spazio di­
intimamente tutta la macchina del mondo e ciascuna delle vinizzato qualcosa di più che un'eco delle parole che con­
sue parti. Come potrebbe, infatti, comunicare il movimento cludono il Timeo, dove la xropa, «che ha ricevuto in sé tut­
alla materia [ . . . ] se non la toccasse per così dire precisamen­ ti i viventi mortali e immortali))' è descritta come «un dio
te o non l'avesse una volta toccata ? [ . . . ] Dio è dunque esteso sensibile (8Eòç aicr8rrtoç) immagine dell'intellegibile))' che
e a suo modo espanso: Dio è, per conseguenza, una cosa «abbraccia tutte le cose visibili)) ed è «immenso e suprema­
estesa (Deus igitur suo modo extenditur atque expanditur; mente buono, bellissimo e perfettissimo)) (92 c). È questo
ac proinde est res extensa)» (Descartes 1 9 5 3 , pp. 96-98). Vi luogo divino di tutti gli esseri, questo spazio assoluto che
è, cioè, per More, una «estensione divina (divina extensio )», N ewton qualche anno dopo definirà nella sua Ottica con
per caratterizzare la quale egli invoca, «insieme ai platonici un'immagine ardita come il sensorium di Dio: «Vi è un es­
(cum platonicis suis)», i versi di Virgilio che diventeranno sere incorporeo, vivo, intelligente e onnipresente che, nello
più tardi l'insegna del panteismo: «totamque infusa per ar­ spazio infinito come se fosse nel suo sensorium, vede inti­
tus l mens agitat molem et magno se corpore miscet» (ivi, p. mamente le cose stesse, le percepisce e comprende perfetta­
r eo) . Questo spazio assoluto, infinito ed immobile, in cui, mente nella loro presenza immediata a se stesso)) (N ewton
come nella xo)pa platonica, si producono tutti i movimenti r 706, p. 3 r 2; cfr. Koyré r 962, p. 20 r ) .
e tutti i fenomeni, è qualcosa che noi non possiamo immagi­
nare che non sia (disimagine, «disimmaginare», More 1 6 5 h
p. 3 3 5 ) e, nel pensiero di More, esso tende a identificarsi
progressivamente con Dio: «Questa Estensione infinita e
immobile è qualcosa non soltanto reale, ma anche divino Già quattro secoli prima, due menti eccezionali, di cui
(Divinum quiddam)». In questo modo, egli osserva non conosciamo poco più che il nome, avevano identificato
senza ironia, egli «fa rientrare Dio nel mondo attraverso la senza riserve Dio e la xropa. Di Amalrico di Bène non ci
stessa porta, da cui la filosofia cartesiana aveva pensato di è stato conservato alcuno scritto; sappiamo però da fonti
cacciarlo))' cioè la res extensa (More r 67 r , p. 69). Metafisica e citazioni indirette, che egli interpretava l'affermazione
II8 CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA I 19

paolina secondo cui «Dio è tutto in tutte le cose» in senso è Dio stesso accessibile ai sensi al di l à di s e stesso, come
radicalmente panteista e, insieme, come uno svolgimento hanno detto Platone, Zenone, Socrate e molti altri, allora la
teologico della dottrina platonica della xropa. La fonte che materia del mondo è Dio stesso, e la forma che avviene alla
gli attribuisce la tesi panteista, ne irride le conseguenze: se materia non è altro che Dio che fa se stesso sensibile» .
Dio è tutto in tutte le cose, allora Dio è pietra nella pietra, Attraverso l a materia - xropa -, Dio e l a mente s i iden­
talpa nella talpa e pipistrello nel pipistrello e dovremmo, tificano. Solo nella prospettiva panteista del venir meno
allora, adorare la talpa e il pipistrello. L'anonimo polemi­ dell'opposizione fra Dio e il mondo, la teoria della xropa
sta cita, però, poco dopo le tesi di Amalrico che ci per­ trova la sua verità ultima; e, per converso, solo se lo si fon­
mettono di interpretare correttamente la sua intuizione e da in una teoria della xropa, il panteismo acquista il suo au­
di riportarle alla loro fonte platonica: «Tutto ciò che è in tentico, impareggiabile senso.
Dio, è Dio; ma tutte le cose sono in Dio . . . dunque Dio è
tutte le cose». Dio è tutte le cose, perché, come la xropa,
è il luogo di tutte le cose. Dio è in ciascuna cosa come il
luogo in cui ciascuna cosa è: egli è l'aver-luogo di ogni
ente e, per questo e soltanto per questo, si identifica con Il dicibile conosce una non precaria resurrezione nel XIV
esso. Divine non sono la talpa o la pietra: divino è l'es­ secolo con Gregorio da Rimini. I filosofi e i teologi discute­
ser talpa della talpa, l'esser pietra della pietra, il loro puro vano se l'oggetto della conoscenza fosse la proposizione (il
aver luogo in Dio. plesso linguistico-mentale in cui essa si esprime) o una realtà
Di Davide di Dinant, la lettura delle cui opere viene pro­ extra animam. Tra i due termini di questa falsa alternativa il
bita nel I 2 I 5 dagli statuti dell'università di Parigi insieme a genio di Gregorio inserisce un tertium: il vero oggetto della
quelle degli Amalriciani, ci è stato conservato, tra i fogli dei conoscenza - e, di conseguenza, la verità di cui ne va nel lin­
suoi Quaternuli che riguardano soprattutto questioni di fi­ guaggio - non è la proposizione (l'enuntiatum) né un ogget­
sica e di medicina, lo straordinario frammento che gli edito­ to esistente fuori della mente, ma l' enuntiabile o il complexe
ri hanno intitolato Hyle mens deus, «Materia, mente, dio». significabile o il significato della proposizione, il cui partico­
Qui, con un colpo di genio che Tommaso definisce «follia», lare modo di essere egli si sforza di definire al di là dell'essere
egli afferma, allegando l'autorità del passo sopracitato del e del non essere, della mente e della realtà extramentale. In un
Timeo, 1' assoluta identità di Dio, mente e materia (UÀTl, se­ passo delle Categorie ( I 2 b 5 - I 6), Aristotele aveva scritto che
condo la tradizione post-aristotelica, nomina qui la xffipa): mentre l'affermazione e la negazione (ad esempio: «siede» o
«Da ciò si deduce che la mente e la materia sono la stessa «non siede») sono dei discorsi (A.Oyot), la cosa (npayf.!a) che
cosa. Con ciò concorda Platone, dove dice che il mondo è è in questione in esse (che Aristotele esprime con l'infinito:
un dio sensibile. La mente, di cui parlo e che affermo essere «l'esser seduto» o il «non essere seduto») non è un discorso.
una e impassibile, non è altro che Dio. Se dunque il mondo Commentando questo passo, Gregorio ne deduce che vere o
1 20 CHE C O S ' È LA FILOSOFIA ? SUL DICIBILE E L' IDEA 121

false non sono le proposizioni e nemmeno le cose reali, ma altro modo di esprimerla, la verità di cui ne va per noi uomini
l'enunciabile o il significabile che, sull'esempio di Aristotele, parlanti - non è né un fatto reale né un ente soltanto mentale,
egli esprime con una proposizione infinitiva «l'esser uomo e neppure «un mondo dei significati»: è, piuttosto, un'idea, un
asino» o «il non essere l'uomo asino». puramente dicibile, che neutralizza radicalmente le sterili op­
Decisivo è qui il modo in cui Gregorio concepisce l'es­ posizioni mentale/reale, esistente/non esistente, significante/
sere di questo tertium, che, in quanto non coincide né con significato. E questo - e non altro - è l'oggetto della filosofia
la proposizione né con l'oggetto esterno, rischia di apparire e del pensiero.
come un nulla. La «cosa» che è in questione nella proposizio­
ne vera «l'uomo è bianco» non è - suggerisce Gregorio - né la
cosa «uomo» né la cosa «bianco», né la loro congiunzione � Molti secoli dopo, il complexe significabile di Gregorio da Rimini

logica attraverso la copula, bensì una res sui generis - «l'es­ riappare - nella sua formulazione forse terminologicamente più inven­
tiva - in Alexius Meinong. Questo allievo di Brentano, che scelse lo
sere uomo bianco», che non sta né nella mente né nella re­
pseudonimo Meinong per nascondere la sua appartenenza alla nobiltà,
altà, ma è in qualche modo al di là dell'esistenza e della non si propone di definire una disciplina «che fin allora non era mai stata
esistenza. Così, anche nel caso della tesi metafisica: «Dio concepita>>, cioè una scienza «che elabora i suoi oggetti senza limitar­
è (Deus est)», l'enunciabile (o complexe significabile) che si al caso particolare della loro esistenza>> (Meinong 1 92 1 , p. 8 2). Egli
le corrisponde - «Dio essere» (Deum esse) - «non è altro, chiama «oggettivi>> (Objektive) questi oggetti puri della conoscenza,
cioè un'altra entità rispetto a Dio (alia entitas quam Deus) che delimitano una regione della realtà indifferente al problema dell'e­
e, tuttavia, non è Dio, né, in generale, alcuna entità» (Sent., sistenza (daseinsfrei) e per i quali vale pertanto l'assioma: <<si danno
oggetti, per i quali è vero che oggetti del genere non si danno>> . Anche
I, dist. I, quaest. r , art. r; cfr. Dal Pra 1 9 74, p. 1 46).
se Meinong sceglie a volte i suoi esempi fra i concetti impossibili come
È curioso che gli storici della filosofia, che si sono occupa­
la «montagna d'oro», il <<cerchio quadratO>> o la chimera, egli chiama
ti del problema, non abbiano rilevato l'evidente connessione per eccellenza «obiettivi>> quei contenuti delle proposizioni (<<la neve
terminologica col AEK'tÒV e col dicibile della tradizione stoica è bianca>> o <<il blu non esiste>>), la cui consistenza egli, come i suoi
(che, tramite la Dialectica di Agostino, non erano ignoti al Me­ predecessori medievali, non situa né in re né nella mente, ma in una no
dioevo). Essi affermano che il significabile di Gregorio implica man 's land, che egli chiama <<quasiessere (Quasisein)» o «fuoriessere>>
(Aussersein). Ciò di cui ne va nel linguaggio è una cosa «senza patria>>
un'esistenza del tutto particolare, che «non coincide né con
(heimatlos), che non appartiene né all'essere né al non-essere.
le entità del mondo esterno né con le semplici entità mentali La scienza dell'oggetto, che, in quanto scienza generale del non-reale,
costituite dai termini o dalle proposizioni, ma dà luogo a un si potrebbe supporre complementare, come suggerisce il suo inventore,
mondo dei significati» (Dal Pra 1 974, p. 14 5 ) ; ma non si accor­ alla metafisica come scienza generale del reale, assomiglia certamente
gono che ciò che qui riaffiora alla consapevolezza filosofica è alla patafisica che, esattamente negli stessi anni, Jarry definiva come
lo stesso problema con cui Platone si era misurato attraverso <<scienza di ciò che si aggiunge alla metafisica>> . In ogni caso è significa­
le idee e che gli stoici avevano ripreso col loro dicibile. La ve­ tivo che, alla fine della storia della filosofia occidentale, la sopravviven­
za di ciò che, nel suo momento iniziale, definiva l'oggetto per eccellen­
rità che si esprime nel linguaggio - e, poiché noi non abbiamo
za del pensiero debba essere cercata in concezioni che la storiografia
1 22 CHE C O S ' È LA FILOSOFIA?

filosofica rubrica in una posizione quanto meno marginale. Eppure nel


<<fuoriessere» di Meinong vibra certamente un'eco - labile, sommessa e
probabilmente inconsapevole - dell'intenzione che Platone aveva affi­
dato al suo È7tÉKnva 't'iìç oùaiaç.

Sullo scrivere proemi


Nella Terza lettera (3 1 6 a), Platone dichiara di «essersi oc­
cupato abbastanza seriamente dei proemi delle leggi (nepì
trov v6J.u:ov npooiJ..tt a crnouùacravta J.l.E tpi roç) » . Che si trat­
tasse di una vera e propria attività di scrittura, risulta da
quanto egli aggiunge poco dopo: «Ho sentito dire che in
seguito alcuni di voi hanno rielaborato questi proemi, ma
la diversità fra le due parti [scii. quella scritta da me e quella
rielaborata da altri] apparirà chiara a chi sa riconoscere il
mio carattere (tò ÈJ.LÒV �Ooç)» . Se si considera che, nella Set­
tima lettera, Platone sembra gettare un sospetto di scarsa
serietà su ogni tentativo di mettere per iscritto argomenti
filosofici (il sospetto potrebbe riguardare anche i suoi dia­
loghi), è possibile che egli fosse convinto che la redazione
di quei proemi (che gli apparteneva, come suggerisce, in
modo inconfondibile) fosse tra le poche scritture serie che
egli aveva prodotto nella sua lunga vita. Queste scritture
sono, purtroppo, perdute.

Nelle Leggi, una delle sue opere più tarde, Platone, gio­
cando sul doppio significato di VOJ.Loç («composizione musi­
cale cantata in onore di un dio» e «legge»), torna al problema
dei proemi delle leggi (e questo fa pensare che la lettera sia
I 26 CHE COS ' È LA FILOSOFIA ? SULLO SCRIVERE P ROEMI 1 27

autentica). «In tutti i discorsi e in tutto ciò cui partecipa la speciale che Platone assegna qui al proemio vada al di là
voce» dice l'interlocutore del dialogo designato come «l'A­ dell'ambito della legislazione in senso stretto. È quanto l'A­
teniese» «vi sono proemi (7tpooiJHa) e, per così dire, degli teniese sembra almeno suggerire subito dopo, presentando
esercizi preparatori ( àvaKtvflcrEtç), che contengono un cer­ tutto il dialogo che seguirà come un preludio: «Non stiamo
to tentativo d'inizio conforme all'arte (evtEXVov), utile per a indugiare ma, tornando sull'argomento, cominciamo, se vi
ciò che seguirà dopo. Anche nei cosiddetti vo�ot citaredici piace, da quello che dianzi ho detto senza alcuna intenzione
e in ogni specie di musica precedono preludi mirabilmente di fare proemi. Riprendiamo dunque da capo - come dicono
elaborati. Ai vo�ot veri e propri [cioè le leggi], invece, che i giocatori, la seconda prova è meglio della prima - per fare
diciamo essere quelli politici, nessuno ha premesso alcun un proemio e non un discorso (Àoyoç) a caso. Rimanga così
proemio né, avendolo composto, l'ha poi portato alla luce, convenuto che cominciamo con un proemio [ . . . ]» (723 d-e).
come se questo non fosse conforme a natura. La conversa­ Se già la conversazione che si era svolta fin allora era in verità
zione che abbiamo avuto significa invece, a me pare, che lo soltanto un proemio, ora lo scopo è fare consapevolmente
è e che le leggi di cui abbiamo parlato [quelle fatte per gli un proemio e non un discorso.
uomini liberi], che a me parvero dianzi doppie, non sono Come, in una buona legge, si devono distinguere, secondo
semplicemente tali, ma sono due cose: leggi e proemi di Platone, un proemio e un Àoyoç in senso stretto (il co�ando ),
leggi. Il comando (E7ti·tay�a) tirannico, che abbiamo pa­ così anche in ogni discorso umano è possibile distinguere un
ragonato alle prescrizioni di quei medici che chiamavamo elemento proemiale da un elemento propriamente discorsivo
non liberi, è appunto la legge pura (aKpa'toç, non mescola­ o prescrittivo. Ogni parola umana è proemio (1tpooi�wv) o di­
ta); ciò che viene prima, che abbiamo chiamato l'elemento scorso (ìJryoç), persuasione o comando, e può essere oppor­
persuasivo (1tEtcrnK6v), in quanto serve a persuadere, ha la tuno, parlando, mescolare i due elementi o tenerli distinti.
stessa funzione dei proemi che si fanno nei discorsi. Poiché
tutto questo discorso che il legislatore fa cercando di per­
suadere, mi pare che sia fatto allo scopo di disporre colui al Se il linguaggio umano consta di due elementi diversi,
quale egli indirizza la legge ad accogliere benevolmente il a quale di essi apparterrà il discorso filosofico ? Le parole
suo comando, cioè la legge. Perciò questo può dirsi a ragio­ dell'Ateniese («fare un proemio e non un discorso») sem­
ne costituire il proemio (1tpooi�wv), non il discorso (Àoyoç) brano suggerire senza riserve che il dialogo Leggi - e, quindi,
della legge [ . . . ] . Il legislatore deve aver cura prima di tutte forse, ciascuno dei dialoghi che Platone ci ha lasciato - sia da
le leggi e per ciascuna di esse, di fare un proemio, in modo considerare semplicemente come un proemio.
che esse differiscano tra di loro come le due leggi di cui Come una legge pura (aKpa'toç, non mescolata), cioè sen­
parlavamo prima» (722 d - 723 b). za proemio, è tirannica, tirannico è anche un discorso privo
L'accenno ai discorsi in generale («tutto ciò cui partecipa di proemi, che si limiti a formulare teorie, per quanto cor­
la voce») e ai vo�ot musicali lascia inferire che lo statuto rette esse possano essere. Questo spiegherebbe l'ostilità di
!28 CHE COS ' È LA FILOSO FIA ? SULLO SCRIVERE PROEMI 129

Platone verso l'enunciazione di teorie e di opinioni vere e essa è stata sempre considerata - a torto o a ragione - come
il suo ricorrere di preferenza al mito piuttosto che all'ar­ un testo mistico particolarmente oscuro.
gomentazione logica. La parola filosofica è essenzialmente
e costitutivamente proemiale. Essa è l'elemento proemiale
che deve essere presente in ogni discorso umano. Ma se il Il carattere proemiale della parola filosofica non signi­
proemio della legge precede e introduce la parte normativa fica, pertanto, che esso rimandi a un discorso filosofico
della legge - le prescrizioni e i divieti - di che cosa la parola post-proemiale, ma si riferisce alla natura stessa del linguag­
filosofica costituisce il proemio ? gio, alla sua «debolezza» (otà tò tffiv Àoyrov àcr8c.véç, Plat. -
Epist. VII, 3 4 3 a 1 ) ogni volta che esso sia chiamato a con­
frontarsi con i problemi più seri. La filosofia è, cioè, proe­
Secondo una tradizione che studiosi moderni hanno ri­ mio, non a un altro discorso più filosofico, ma, per così dire,
preso, accanto agli scritti essoterici di Platone - i dialoghi - al linguaggio stesso e alla sua inadeguatezza. Ma, proprio
circolavano nell'Accademia delle dottrine esoteriche, che per questo - in quanto, cioè, esso dispone di una consistenza
il filosofo avrebbe formulato in forma assertiva. In questa linguistica propria, che è quella proemiale - il discorso filo­
prospettiva, i dialoghi che conosciamo potrebbero essere sofico non è un discorso mistico, che, contro il linguaggio,
considerati come proemi e introduzioni alle dottrine esote­ prenda partito per l'ineffabile. La filosofia è, cioè, quel di­
riche che gli studiosi cercano di ricostruire in forma neces­ scorso che si limita a far da proemio al discorso non filosofi­
sariamente discorsiva. Se, tuttavia, quanto Platone dice co, mostrandone l'insufficienza.
nelle Leggi deve essere preso sul serio, se il carattere di
proemialità è consustanziale alla filosofia, allora è impro­
babile che egli abbia potuto formulare in forma assertoria Cerchiamo di svolgere al di là del contesto platonico la
le dottrine che gli stavano più a cuore. Anche le dottri­ tesi della natura proemiale del discorso filosofico. La filo­
ne esoteriche - ammesso che esse esistessero - dovevano sofia è quel discorso che riporta ogni discorso al proemio.
avere una forma proemiale. N el solo testo conservato in Generalizzando, si potrebbe dire che la filosofia si identi­
cui si rivolge a degli intimi per esporre il suo pensie­ fica con l'elemento proemiale del linguaggio e si attiene ri­
ro - la Settima lettera - Platone non soltanto esclude di gorosamente ad esso. Evita, cioè, di trapassare in discorso o
poter mettere per scritto o anche solo comunicare in forma in comando, di enunciare sèriamente tesi o proibizioni. (La
di scienza ciò che gli sta veramente a cuore, ma la celebre critica paolina del «comando» - ÉvtoÀfl - della legge nella
digressione filosofica (che egli chiama «discorso vero», ma Lettera ai Romani può essere vista come un tentativo di
anche «mito e divagazione - j.tu8oç Kaì nÀavoç») che egli purificare la legge dal comando per riportarla alla sua natu­
introduce a questo punto per spiegare perché ciò sia impos­ ra proemiale, cioè persuasiva). L'uso del mito e dell'ironia
sibile, è formulata in termini così poco argomentativi che in Platone va visto in questa prospettiva: esso ricorda a chi
130 CHE cos'È LA FILOSOFIA ? SULLO SCRIVERE PROEMI 131

parla e a chi ascolta il carattere necessariamente proemiale tutivamente proemio e, tuttavia, l'affare della filosofia non
di ogni discorso umano che abbia a cuore la verità. L' ele­ è l'indicibile, ma l'im-predicibile, ciò che non può essere
mento filosofico in un discorso è quello che testimonia di detto in un proemio; adeguato allo scopo, cioè veramen­
questa consapevolezza, non nel senso dello scetticismo, che te filosofico, sarebbe soltanto un epilogo. Il proemio deve
mette in questione la stessa verità, ma in quello della ferma trasformarsi in epilogo, il preludio in postludio: in ogni
intenzione di attenersi al carattere necessariamente proe­ caso, però, il À.oyoç è assente, il ludus non può che mancare.
miale e preparatorio di ciò che si va dicendo.
Anche il proemio, tuttavia, per quanto cerchi scrupolosa­
mente di mantenersi nei propri limiti, non può, alla fine, che Tutto quello che il filosofo scrive - tutto quello che ho
mostrare la sua insufficienza, che coincide, del resto, con la scritto - non è che un proemio a un'opera non scritta o - che
sua natura preliminare e, quindi, per forza di cose inconclu­ è, in fondo, lo stesso - un postludio il cui ludus è assente.
dente. Ciò appare con chiarezza proprio alla fine delle Leggi, La scrittura filosofica non può che avere natura proemiale
quando, dopo aver trattato apparentemente ogni dettaglio o epilogale. Ciò significa, forse, che essa non ha a che fare
della costituzione della città e della vita dei cittadini, il dia­ con ciò che si può dire attraverso il linguaggio, ma col À.oyoç
logo si conclude nella consapevolezza che il più importante stesso, col puro darsi del linguaggio come tale. L'evento, che
resta ancora da fare. Secondo un gesto caratteristico del tar­ è in questione nel linguaggio, può essere solo annunciato o
do Platone, questa tesi viene formulata nella forma ironica congedato, mai detto (non che esso sia indicibile - indicibi­
di uno scherzo e di un gioco di parole: «N o n è possibile» le significa solo im-predicibile; esso coincide, piuttosto, col
spiega l'Ateniese «legiferare su queste cose, se prima non si è darsi dei discorsi, col fatto che gli uomini non cessano di par­
fatto ordine; solo allora si potrà legiferare su chi deve avere larsi l'un l'altro). Ciò che del linguaggio si riesce a dire è solo
l'autorità suprema. La dottrina sulla preparazione di queste prefazione o postilla e i filosofi si distinguono secondo che
cose può infatti riuscir bene, solo dopo un lungo stare in­ preferiscano la prima o la seconda, si attengano al momento
sieme (1toÀ.À.lÌV cruvoucriav, le stesse parole in cui la Settima poetico del pensiero (la poesia è sempre annuncio) o al gesto
lettera compendia la condizione del raggiungimento della di chi, in ultimo, depone la lira e contempla. In ogni caso,
verità), [ . . . ] non sarebbe giusto, però, dire che le cose che ri­ ciò che si contempla è il non-detto, il congedo dalla parola
guardano questo argomento siano indicibili (à1topprrra ): esse coincide con il suo annuncio.
sono piuttosto im-pre-dicibili (à7tpoppTJta, che non si posso­
no dire prima), in quanto, pre-dicendole, (7tpoppTJ9Évta) non
si mette nulla in chiaro» (968 e).
La natura proemiale del dialogo viene così ribadita, ma,
insieme, si afferma che solo un discorso che venga dopo
- cioè un epilogo - è quello decisivo. La filosofia è costi-
Appendice
La musica suprema. Musica e politica
I.

La filosofia può darsi oggi solo come riforma della mu­


sica. Se chiamiamo musica l'esperienza della Musa, cioè
dell'origine e dell'aver luogo della parola, allora in una certa
società e in un certo tempo la musica esprime e governa la
relazione che gli uomini hanno con l'evento di parola. Que­
sto evento, infatti - cioè l' arcievento che costituisce l'uomo
come essere parlante - non può essere detto all'interno del
linguaggio: può soltanto essere evocato e rammemorato mu­
saicamente o musicalmente. Le muse esprimevano in Grecia
questa articolazione originaria dell'evento di parola, che, av­
venendo, si destina e compartisce in nove forme o modalità,
senza che sia possibile per il parlante risalire al di là di esse.
Questa impossibilità di accedere al luogo originario della pa­
rola è la musica. In essa viene all'espressione qualcosa che
nel linguaggio non può essere detto. Com'è immediatamen­
te evidente quando si fa o si ascolta musica, il canto celebra
o lamenta innanzitutto una impossibilità di dire, l'impossi­
bilità - dolorosa o gioiosa, innica o elegiaca - di accedere
all'evento di parola che costituisce gli uomini come umani.
APPENDICE LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E POLITICA 137

N L'inno alle Muse, che fa da proemio alla Teogonia di Esiodo, mo­ tutte>>) - e descrive i l loro rapporto con gli aedi (vv. 94-97: <<Dalle Muse
stra che i poeti sono per tempo consapevoli del problema che pone l'i­ infatti e da Apollo lungisaettante l sono gli aedi e i citaristi . . . l beato
nizio del canto in un contesto musaico. La doppia struttura del proemio, colui che le Muse amano l dolce dalla sua bocca scorre il canto>> .
che ripete due volte l'esordio (v. 1 : «Dalle Muse eliconie cominciamo>>; L'origine della parola è musaicamente - cioè musicalmente - de­
v. 36: <<Dalle Muse cominciamo>>) non è dovuta soltanto, come ha acu­ terminata e il soggetto parlante - il poeta - deve ogni volta fare i conti
tamente suggerito Pau! Friedlander ( 1 9 1 4, pp. 1 4- 1 6), alla necessità di con la problematicità del proprio inizio. Anche se la Musa ha perduto
introdurre l'inedito episodio dell'incontro del poeta con le Muse in una il significato cultuale che aveva nel mondo antico, il rango della poesia
struttura innica tradizionale in cui esso non era assolutamente previsto. dipende ancora oggi dal modo in cui il poeta riesce a dare forma mu­
Vi è, per questa inaspettata ripetizione, un'altra e più signific;ativa ragio­ sicale alla difficoltà della sua presa di parola - da come, cioè, perviene
ne, che concerne la stessa presa di parola da parte del poeta, o, più preci­ a far propria una parola che non gli appartiene e alla quale si limita a
samente, la posizione dell'istanza enunciativa in un ambito in cui non è prestare la voce.
chiaro se essa spetti al poeta o alle Muse. Decisivi sono i vv. 2 2 - 2 5 , in cui,
come non hanno mancato di notare gli studiosi, il discorso trapassa bru­
scamente da una narrazione alla terza persona in un'istanza enunciativa
2.
contenente lo shifter <<io>> (una prima volta all'accusativo - f..1E - e poi, nei
versi successivi, al dativo - JlOt):
La Musa canta, dà all'uomo il canto perché essa simboleg­
Esse (le Muse) una volta (no-n:) insegnarono a Esiodo un bel canto gia l'impossibilità per l'essere parlante di appropriarsi inte­
mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicona: gralmente del linguaggio di cui ha fatto la sua dimora vitale.
questo discorso innanzitutto (7tpcimcrta) a me (f..IE) rivolsero le dee [ . . . ] Questa estraneità marca la distanza che separa il canto uma­
no da quello degli altri esseri viventi. Vi è musica, l'uomo
Si tratta, secondo ogni evidenza, di inserire l'io del poeta come sog­
non si limita a parlare e sente, invece, il bisogno di cantare
getto dell'enunciazione in un contesto in cui l'inizio del canto appar­
tiene incontestabilmente alle Muse ed è, tuttavia, proferito dal poeta: perché il linguaggio non è la sua voce, perché egli dimora nel
Mouoarov apxffiJ.u:ea, <<Cominciamo dalle Muse>> - o, meglio, se si tiene linguaggio senza poterne fare la sua voce. Cantando, l'uomo
conto della forma media e non attiva del verbo: «Dalle Muse è l'inizio, celebra e commemora la voce che non ha più e che, come in­
dalle Muse iniziamo e siamo iniziati>>; le Muse, infatti, dicono con voce segna il mito delle cicale nel Fedro, potrebbe ritrovare solo a
concorde <<ciò che è stato, ciò che sarà e ciò che fu>> e il canto <<scorre patto di cessare di essere uomo e diventare animale ( «Quan­
soave e instancabile dalle loro bocche>> (vv. 3 8 -40).
do nacquero le Muse e apparve il canto, alcuni degli uomi­
Il contrasto fra l'origine musaica della parola e l'istanza soggettiva
dell'enunciazione è tanto più forte, in quanto tutto il resto dell'inno (e
ni di allora furono presi da un tale piacere, che, cantando,
dell'intero poema, salvo la ripresa enunciativa da parte del poeta nei non si curavano più di mangiare e di bere e morivano senza
vv. 963-96 5 : <<A voi ora salve . . . >>) riferisce in forma narrativa la nascita accorgersene. Da quegli uomini ebbe origine la stirpe delle
delle Muse da Mnemosine, che si unisce per nove notti a Zeus, elenca cicale [ . . . ]», 2 5 9 b-e).
i loro nomi - che, a questo stadio, non corrispondevano ancora a un Per questo alla musica corrispondono necessariamente
genere letterario determinato (<< Clio e Euterpe e Talia e Melpomene
prima ancora che delle parole, delle tonalità emotive: equi-
l Tersicore e Erato e Polimnia e Urania l e Calliope, la più illustre di
APPENDICE LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E POLITICA 1 39

librate, coraggiose e ferme nel modo dorico, lamentose e Rane la parodia, che il rapporto di subordinazione della melodia al suo
languide nello ionio e nel lido (Resp. 3 9 8 e 3 99 a). Ed è
-
supporto metrico nel verso era ormai sovvertito. Nella parodia aristo­
fanesca, la moltiplicazione delle note rispetto alle sillabe è icasticamen­
singolare che ancora nel capolavoro della filosofia del '900,
te espressa attraverso la trasformazione del verbo dì.iooro (girare) in
Essere e tempo, l'apertura originaria dell'uomo al mondo EÌ.EtEt€tÀiooro. In ogni caso, malgrado la tenace resistenza dei filosofi,
non avvenga attraverso la conoscenza razionale e il lin­ nelle sue opere sulla musica Aristosseno, che pure era uno scolaro di
guaggio, ma innanzitutto in una Stimmung, in una tonali­ Aristotele e criticava i cambiamenti introdotti dalla nuova musica, non
tà emotiva che il termine stesso rimanda alla sfera acustica pone più a fondamento del canto l'unità fonematica del piede metrico,
(Stimme è la voce). La Musa - la musica - segna la scissione ma una unità puramente musicale, che chiama «tempo primo» (tp6voç
7tpcihoç) ed è indipendente dalla sillaba.
fra l'uomo e il suo linguaggio, fra la voce e il logos. L'aper­
Se, sul piano della storia della musica, le critiche dei filosofi (che
tura primaria al mondo non è logica, è musicale. pure dovevano ripetersi molti secoli dopo nella riscoperta della mono­
dia classica da parte della Camerata fiorentina e di Vincenzo Galilei e
nella perentoria prescrizione di Carlo Borromeo: «cantum ita tempera­
l't Di qui l'ostinazione con cui Platone e Aristotele, ma anche teorici ri, ut v erba intelligerentur>>) non potevano che apparire eccessivamente
della musica come Damone e gli stessi legislatori affermano la necessità conservatrici, c'interessano qui piuttosto le ragioni profonde della loro
di non separare musica e parola. <<Quanto nel canto è linguaggio>> argo­ opposizione, di cui essi stessi non erano sempre consapevoli. Se la mu­
menta Socrate nella Repubblica (398 d) «non differisce in nulla dal lin­ sica, come oggi sembra avvenire, rompe la sua necessaria relazione con
guaggio non cantato (!l'Ìl �oo!livou wyou) e deve conformarsi agli stessi la parola, ciò significa, da una parte, che essa smarrisce la coscienza
modelli>> e enuncia subito dopo con fermezza il teorema secondo cui della sua natura musaica (cioè del suo situarsi nel luogo originario della
«l'armonia e il ritmo devono seguire il discorso (àKOÀOU9€tV tep ÀOyq>)>> parola) e, dall'altra, che l'uomo parlante dimentica che il suo essere
(ibid. ). La stessa formulazione, «quanto nel canto è linguaggio>>, impli­ già sempre musicalmente disposto ha costitutivamente a che fare con
ca, tuttavia, che vi sia in esso qualcosa di irriducibile alla parola, così l'impossibilità di accedere al luogo musaico della parola. Homo canens
come l'insistenza nel sancirne l'inseparabilità tradisce la consapevolez­ e homo loquens dividono le loro vie e perdono la memoria della rela­
za che la musica è eminentemente separabile. Proprio perché la musi­ zione che li vincolava alla M usa.
ca segna l'estraneità del luogo originario della parola, è perfettamente
comprensibile che essa possa tendere a esasperare la propria autonomia
rispetto al linguaggio; e tuttavia, per le stesse ragioni, altrettanto com­
prensibile è la preoccupazione che non si spezzi del tutto il nesso che

li teneva insieme.
Tra la fine del V secolo e i primi decenni del IV si assiste infatti Se l'accesso alla parola è, in questo senso, musaicamente
in Grecia a una vera e propria rivoluzione degli stili musicali, legata determinato, si comprende che per i Greci il nesso fra musica
ai nomi di Melanippide, Cinesia, Frinide e, soprattutto, Timoteo di e politica fosse così evidente che Platone e Aristotele trattano
Mileto. La frattura fra sistema linguistico e sistema musicale diventa delle questioni musicali solo nelle opere che consacrano alla
progressivamente insanabile, finché nel III secolo la musica finisce col
politica. La relazione di quella che essi chiamavano JlO'UcrtKT)
predominare decisamente sulla parola. Ma già nei drammi euripidei un
osservatore attento come Aristofane poteva accorgersi, facendone nelle (che comprendeva la poesia, la musica in senso proprio e la
APPENDICE LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E POLITICA

danza) con la politica era così stretta che, nella Repubblica, N È significativo che la Politica di Aristotele si concluda con un
Platone può sottoscrivere l'aforisma di Damone secondo cui vero e proprio trattato sulla musica - o, piuttosto, sull'importanza
«non si possono cambiare i modi musicali senza cambiare le della musica per l'educazione politica dei cittadini. Aristotele comin­
cia infatti col dichiarare che si occuperà della musica non come di­
leggi fondamentali della città» (424 c). Gli uomini si unisco­
vertimento (7tatÒta), ma come parte essenziale dell'educazione (7tat-
no e organizzano le costituzioni delle loro città attraverso il 8da), in quanto, cioè, essa ha per fine la virtù: «come la ginnastica
linguaggio, ma l'esperienza del linguaggio - in quanto non è produce una certa qualità del corpo, così la musica produce un certo
possibile afferrarne e padroneggiarne l'origine - è a sua volta ethos>> ( 1 3 3 9 a, 24). Il motivo centrale della concezione aristotelica
già sempre musicalmente condizionata. L'infondatezza del della musica è l'influenza che essa esercita sull'anima: << È evidente
/...6-y o ç fonda il primato della musica e fa sì che ogni discorso che noi siamo affetti e trasformati in un certo modo da diversi generi
di musica, come, in particolare, dalle melodie di Olimpo. È opinio­
sia già sempre musaicamente accordato. Per questo, ancor
ne comune che queste rendano l'anima entusiasta (1tou::'i tàç \Jf'UXÒç
prima che attraverso tradizioni e precetti che si trasmettono
év9ou<nacrttKaç) e l'entusiasmo è una passione (1ta8oç) dell'ethos
nel medio della lingua, gli uomini in ogni tempo vengono rispetto all'anima. Tutti, ascoltando le imitazioni (musicali), grazie
più o meno consapevolmente educati e disposti politica­ ai ritmi e alle melodia entrano in uno stato d'animo empatico (yi­
mente attraverso la musica. I Greci sapevano perfettamente yvovtat cru,.ma9e'iç), anche in mancanza delle parole>> ( 1 3 40 a, 5 - 1 r ) .
ciò che noi fingiamo di ignorare, e, cioè, che è possibile ma­ Ciò avviene, spiega Aristotele, perché i ritmi e le melodie contengono
nipolare e controllare una società non soltanto attraverso delle immagini (6Jlotroj.Lata) e delle imitazioni (Jlq.duwta) dell'ira e
della mitezza, del coraggio, della prudenza e delle altre qualità etiche.
il linguaggio, ma innanzitutto attraverso la musica. Come
Per questo, quando li ascoltiamo l'anima è affetta in forme diverse
altrettanto e più efficace del comando dell'ufficiale è, per il in corrispondenza di ciascun modo musicale: in modo <<lamentoso e
soldato, lo squillo della tromba o il rullo del tamburo, così costretto>> nel misolidio, in uno stato d'animo <<equilibrato (Jlécrroç)
in ogni ambito e prima di ogni discorso, i sentimenti e gli e più fermo>> nel dorico, << entusiastico>> nel frigio ( 1 3 40 b r - 5 ). Egli
stati d'animo che precedono l'azione e il pensiero sono de­ accetta così la classificazione delle melodie in etiche, pratiche e entu­
terminati e orientati musicalmente. In questo senso, lo stato siastiche e raccomanda per l'educazione dei giovani il modo dorico,
in quanto <<più fermo>> (crta<njlrott:: p ov) e di carattere virile (àvopdov,
della musica (includendo in questo termine tutta la sfera che
1 3 4 2 b 1 4). Come aveva già fatto Platone, Aristotele si riferisce qui a
imprecisamente definiamo col termine «arte») definisce la
un'antica tradizione, che identificava il significato politico della mu­
condizione politica di una determinata società meglio e pri­ sica nella sua capacità di mettere ordine nell'anima (o, al contrario, di
ma di qualsiasi altro indice e, se si vuole mutare veramente eccitare in essa confusione). Le fonti ci informano che nel VII secolo
l'ordinamento di una città, è innanzi tutto necessario rifor­ a.C., quando Sparta si trovava in una situazione di discordia civile,
marne la musica. La cattiva musica che invade oggi in ogni l'oracolo suggerì di chiamare il <<cantore di Lesbo>> Terpandro, che,
istante e in ogni luogo le nostre città è inseparabile dalla cat­ col suo canto, restituì ordine alla città. Lo stesso si diceva di Stesicoro
rispetto alle lotte intestine nella città di Locri.
tiva politica che le governa.
APPENDICE LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E PO LITICA 1 43

4· Musa - amoç; seguito dall'articolo è il termine tecnico per


esprimere l'idea). In questione è qui il luogo proprio della
Con Platone, la filosofia si afferma come critica e supera­ filosofia: esso coincide con quello della Musa, cioè con l'ori­
mento dell'ordinamento musicale della polis ateniese. Que­ gine della parola - è, in questo senso, necessariamente proe­
sto, impersonato dal rapsodo Jone, che pende invasato dalla miale. Situandosi in questo modo nell'evento originario del
Musa come un anello di metallo da una calamita, implica linguaggio, il filosofo riconduce l'uomo nel luogo del suo di­
l'impossibilità di dar ragione dei propri saperi e delle proprie venire umano, a partire dal quale soltanto egli può ricordarsi
azioni, di «pensarli». «Questa pietra (la calamita) · non solo del tempo in cui non era ancora uomo (Men. 86 a: ò xpovoç;
attrae gli anelli di ferro, ma infonde loro anche la capacità di ()-r' o'ÙK �v &.vSp(t)1toç;). La filosofia scavalca il principio musai­
fare quello che fa la pietra, cioè attrarre altri anelli, in modo co in direzione della memoria, di Mnemosine come madre
che si produrrà una grande catena di anelli appesi l'uno delle Muse e in questo modo libera l'uomo dalla Seta J.l.Otpa
all'altro, per ciascuno dei quali questa capacità dipende dalla e rende possibile il pensiero. Il pensiero è, infatti, la dimen­
pietra. Nel medesimo modo anche la Musa riempie alcuni sione che si apre quando, risalendo al di là dell'ispirazione
uomini di ispirazione divina e attraverso questi si salda una musaica che non gli permette di conoscere ciò che dice, l'uo­
catena di altri uomini parimenti entusiasti [ . . . ] lo spettatore mo diventa in qualche modo auctor, cioè garante e testimone
non è che l'ultimo degli anelli [ . . . ] l'anello di mezzo sei tu, delle proprie parole e delle proprie azioni.
il rapsodo, mentre il primo è il poeta stesso [ . . . ] e un poeta
si aggancia a una certa M usa, un altro a un'altra e in tal caso
diciamo che è posseduto [ . . . ] infatti tu non dici ciò che dici N Decisivo è, però, che, nel Fedro, il compito filosofico non sia affi­
di Omero per arte e scienza, ma per una sorte divina (Sdçt dato semplicemente a un sapere, ma a una forma speciale di mania, affine
e insieme diversa dalle altre. Questa quarta specie di mania, infatti - la
f.!Otpçt) [ . . . ]» (Plat. fon. 5 3 3 d - 5 34 c).
mania erotica - non è omogenea alle altre tre (la profetica, la telestica e la
Di contro alla natùeia musaica, la rivendicazione della poetica), ma se ne distingue essenzialmente per due caratteri. Essa è, in­
filosofia come «la vera Musa» (Resp. 5 48 b 8) e «la musica nanzitutto, congiunta all'automovimento dell'anima (amoKtVT]tov, 24 5
suprema» (Phaid. 61 a) significa il tentativo di risalire al di c), al suo non essere mossa da altro e al suo essere, per questo, immorta­
là dell'ispirazione verso quell'evento di parola, la cui soglia le; è, inoltre, un'operazione della memoria, che ricorda ciò che l'anima
è custodita e sbarrata dalla Musa. Mentre i poeti, i rapsodi ha visto nel suo volo divino («questa è una reminiscenza (àvaJlVT]mç) di
quanto la nostra anima ha visto una volta . » , 249 c) ed è questa anam­
e, più in generale, ogni uomo virtuoso agisce per una Seta . .

nesi che ne definisce la natura («questo è il punto di arrivo di tutto


J.l.Otpa, un destino divino di cui non è in grado di dar conto,
il discorso sulla quarta mania, quando qualcuno vedendo qualcosa di
si tratta di fondare i discorsi e le azioni in un luogo più ori­ bello e ricordandosi del bello vero [ . . ] ••, 249 d). Questi due caratteri
.

ginario dell'ispirazione musaica e della sua 11avia. la oppongono puntualmente alle altre forme di mania, in cui il princi­
Per questo, nella Repubblica (499 d), Platone può definire pio del movimento è esteriore (nel caso della follia poetica, la Musa) e
la filosofia come a'Ù'tÌl i] Moucra, la Musa stessa (o l'idea della l'ispirazione non è in grado di risalire con la memoria verso ciò che la
1 44 APPENDICE LA MUSICA SUPREMA. MUSICA E PO LITICA 145

determina e fa parlare. A ispirare, qui, non sono più le Muse, ma la loro ca nel nostro tempo deve esordire dalla costatazione che è
madre, Mnemosine. Platone inverte, cioè, l'ispirazione in memoria, e proprio questa esperienza dei limiti musaici che in essa è
questa inversione della Scia !lOÌpa - del destino - in memoria definisce
venuta a mancare. Il linguaggio si dà oggi come chiacchiera
il suo gesto filosofico.
che non urta mai il proprio limite e sembra aver smarri­
In quanto mania che muove e ispira se stessa, la mania filosofica
(perché di questo si tratta: «Solo la mente del filosofo mette le ali», 249 to ogni consapevolezza del suo intimo nesso con ciò che
c) è, per così dire, una mania della mania, una mania che ha per ogget­ non si può dire, cioè col tempo in cui l'uomo non era an­
to la stessa mania o ispirazione e attinge, pertanto, il luogo stesso del cora parlante. A un linguaggio senza margini né frontiere
principio musaico. Quando, alla fine del Menone (99 e - 1 00 b), Socrate corrisponde una musica non più musaicamente accordata
afferma che la virtù politica non è né per natura (<j>ucrn) né trasmissibile e a una musica che ha voltato le spalle alla propria origine
per insegnamento (8t8aK't6v), ma si produce per una 8Eta !lOtpa senza
una politica senza consistenza né luogo. Dove tutto sembra
consapevolezza e che per questo i politici non sono in grado di comu­
nicarla agli altri cittadini, egli presenta implicitamente la filosofia come
indifferentemente potersi dire, il canto viene meno e, con
qualcosa che, senza essere né per sorte divina né per scienza, è in grado questo, le tonalità emotive che musaicamente lo articolano.
di produrre negli animi la virtù politica. Ma ciò può solo significare che La nostra società - dove la musica sembra penetrare fre­
essa si situa nel luogo della Musa e si sostituisce ad essa. neticamente in ogni luogo - è, in realtà, la prima comunità
Walter Otto ha, d'altra parte, giustamente osservato che «la voce umana non musaicamente (o amusaicamente) accordata.
che precede la parola umana appartiene all'essere stesso delle cose,
La sensazione di generale depressione e apatia non fa che
come una rivelazione divina che lo lascia venire alla luce nella sua es­
registrare la perdita del nesso musaico con il linguaggio,
senza e nella sua gloria>> (Otto 1 9 5 4, p. 7 1 ) . La parola che la Musa dona
al poeta proviene dalle cose stesse e la Musa non è, in questo senso, travestendo come una sindrome medica l'eclisse della poli­
che il dischiudersi e il comunicarsi dell'essere. Per questo le raffigura­ tica che ne è il risultato. Ciò significa che il nesso musaico,
zioni più antiche della Musa, come la stupenda Melpomene al Museo che ha smarrito la sua relazione con i limiti del linguaggio,
nazionale di palazzo Massimo a Roma, la presentano semplicemente produce non più una Se'la �òtpa, ma una sorta di missio­
come una ragazza nella sua pienezza ninfale. Risalendo fino al princi­ ne o ispirazione bianca, che non si articola più secondo la
pio musaico della parola, il filosofo deve, cioè, misurarsi non soltanto
pluralità dei contenuti musaici, ma gira per così dire a vuo­
con qualcosa di linguistico, ma anche e innanzi tutto con l'essere stesso
che la parola rivela.
to. Immemori della loro originaria solidarietà, linguaggio
e musica dividono i loro destini e restano tuttavia uniti in
una medesima vacuità.

N È in questo senso che la filosofia può darsi oggi soltanto come
Se la musica è costitutivamente legata all'esperienza dei
riforma della musica. Poiché l'eclisse della politica fa tutt'uno con la
limiti del linguaggio e se, viceversa, l'esperienza dei limiti perdita dell'esperienza del musaico, il compito politico è oggi costitu­
del linguaggio - e, con questa, la politica - è musicalmente tivamente un compito poetico, rispetto al quale è necessario che artisti
condizionata, allora un'analisi della situazione della musi- e filosofi uniscano le loro forze. Gli uomini politici attuali non sono
APPENDICE

in grado di pensare perché tanto il loro linguaggio che la loro musica


girano amusaicamente a vuoto. Se chiamiamo pensiero lo spazio che
si apre ogni volta che accediamo all'esperienza del principio musaico
della parola, allora è con l'incapacità di pensare del nostro tempo che
dobbiamo misurarci. E se, secondo il suggerimento di Hannah Arendt,
il pensiero coincide con la capacità di interrompere il flusso insensato
delle frasi e dei suoni, arrestare questo flusso per restituirlo al suo luo­
go musaico è oggi per eccellenza il compito filosofico.

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Ammonio di Ermia, 3 I , 3 5 , 4 I -42, 6o, Courtenay, William ]., 97
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Arendt, Hannah, I 46 Davide di Dinant, 5 4, I I 8
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Aristotele, I 6- I 8, 20, 2 2 , 28-3 3 , 3 5 . 3 8, Descartes, René, v. Cartesio
5 I , 5 4 , 6o-62, 6 8 , 70 - 79, 8 2 , 90-9 3 , Diano, Carlo, I O I
9 8 - 1 00, I 02, I 04- I 06, I 09 , I I 9- I 20, Diogene Laerzio (Diogenes Laertius), 69
I 3 6, I 3 9 , I 4 I Duhem, Pierre Maurice Marie, I o6, I I O
Arnim, Hans von, 6 5 , 69, 8 9 Duns Scoto, 2 3

Badiou, Alain, I I 3 Eckhart von Hochheim (Meister Eckhart),


Bekker, August Immanuel, 74 24
Benjamin, Walter, 5 0- p , 5 9, 84, 98 Eraclito, 9 I
Benveniste, Émile, I 9, 2 3 , 26, 2 8 - 29, Esiodo, I 3 6
3 9 , 8 o- 8 I , 8 8 , 90, 9 8 Euclide, I o 8 - I 09
Boezio, Anicio Manlio Severino, 9 3 -94 Eustazio, 6o
Bonaventura da Bagnoregio, 97
Bopp, Franz, 2 5 Federico II, I 4
Borromeo, Carlo, I 3 9 Filopono, Giovanni, 6o-6 I
Bréhier, Émile, 6 5 , 69 Frege, Gottlob, 64, 7 8 , 8 3
Brentano, Franz, I 2 I Friedtinder, Pau!, I 3 6
Buber, Martin, 5 9 Frinide, I 3 8
q6 I N D I C E DEI N O M I

Galilei, Vincenzo, I 3 9 Paolo di Tarso, 5 2


Giamblico, 6 I Paqué, Ruprecht, 94
Gregorio da Rimini, I I 9- I 2 I Pitagora, 8 I
Gi.intert, Hermann, 8 4 Platone, I 7, I 9 -2o, 2 2 , 28, 38, 4 I , 5 3 -
5 4, 66-69, 7 I - 74, 77- 8 2 , 8 4- 8 5 , 8 �
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 25- 8 9 - 9 3 , 9 5 , 96, 9 8 , I OO- I 0 3 , I 0 5 -
26, 40 I 06, 1 0 8 - I o9, I I I - I I 4, I I 8 - I 20,
Heidegger, Martin, 70 I 2 2 , I 2 5 , I 2 7- I 3 0, I 3 8 - I 42, I 44
Herz, Marcus, 8 8 Plauto, 8 I
Hoffmann, Ernst, 9 I Plotino, 5 4, 8 3 , I 02 - I 04 ·

Porfirio, 6o, 9 3
Jaeger, Werner Wilhelm, 74 Prisciano, 9 I
Jakobson, Roman, 40
Jarry, Alfred, I 2 I Riemann, Georg Friedrich Bernhard,
108
Kant, lmmanuel, 8 8 Rij k, Lambertus Marie de, 97
Koyré, Alexandre, I I 7 Ross, William David, 74

Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 49- Saussure, Ferdinand de, I 9, 2 8 , 3 7, 4I


5 0, 5 2 Schubert, Andreas, 64, 6 8
Sesto Empirico, 6 3 -64, 66-69
Mallarmé, Stéphane, I 5 , 89, 9 8 Simplicio, 93, 9 8 -99, I 09- I 1 0, I I 2
Meinong, Alexius, I 2 I - I 2 2 Socrate, 3 8 , 7 5 , 8 5 , I I 9, I 3 8 , I 44
Meister Eckhart, v. Eckhart von Spinoza, Baruch, 5 I , 5 3
Hochheim Stesicoro, 1 4 I
Melandri, Enzo, 9 I
Melanippide, I 3 8 Terpandro, I 4 I
Menzerath, Pau!, 3 7 Timoteo d i Mileto, I 3 8
Milner, Jean-Claude, 4 I , 7 8 , 8 3 Tommaso d'Aquino, 5 0, 1 1 8
Momigliano, Arnaldo, 9 7 Trendelenburg, Friedrich Adolf, 74
More, Henry, I I 5 - I I 7
Mugler, Charles, I o 8 Usener, Hermann, 86-87
Myskin, Lev Nikolaevic, principe, 5 I
Varrone, Marco Terenzio, 2 8 , 65
Newton, lsaac, I I7 Virgilio Marone, Publio, I I 6

Ockham, Guglielmo di, 94-96 Wittgenstein, Ludwig, 2 3 , 29, 44, 8 3


Olimpo, I 4 I
Omero, I 42 Zenone d i Cizio, II
Finito di stampare nel febbraio 2o i 6
presso Industria Grafica Bieffe, Recanati (Mc)
Otto, Walter, I 44
per conto delle edizioni Quodlibet

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