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Il cinema dello sguardo

Dai Lumière a Matrix


a cura di Federico Pierotti e Federico Vitella

Marsilio
Indice

Il testo di Leonardo Quaresima rielabora quanto pubblicato in Walter 11 Introduzione


Ruttmann. Cinema, pittura, ars acustica, Rovereto 1994. di Federico Pierotti e Federico Vitella
Il testo di Noa Steimatsky rielabora parte del volume The Face on Film,
Oxford 2017. 15 Analyser, dit-il
di Sandro Bernardi
I testi di Jacqueline Reich e Noa Steimatsky sono stati tradotti dall’inglese
da Federico Vitella.
il cinema dello sguardo. dai lumière a matrix
I testi di Suzanne Liandrat-Guigues, Jean Mottet, José Moure, Philippe Ragel
e Thierry Roche sono stati tradotti dal francese da Federico Pierotti.
25 Le vedute del Cinematografo Lumière
di Pierre Sorlin

30 Grandma’s Reading Glass (1900)


di Elena Dagrada

35 Cabiria. Visione storica del III secolo a.C. (1914)


di Luca Mazzei

40 Cœur fidèle (1923)


di Chiara Tognolotti
© 2019 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione: 2019 45 La corazzata Potëmkin (1925)
ISBN 978-88-297-0307-4 di Alessia Cervini
www.marsilioeditori.it
49 Aurora (1927)
Realizzazione editoriale: Elisabetta Righes di Elena Mosconi

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54 Berlino. Sinfonia di una grande città (1927) 118 Il posto delle fragole (1957)
di Leonardo Quaresima di Lucilla Albano

59 La passione di Giovanna d’Arco (1928) 123 Hiroshima mon amour (1959)


di Noa Steimatsky di Suzanne Liandrat-Guigues

64 L’uomo con la macchina da presa (1929) 127 I quattrocento colpi (1959)


di Sandra Lischi di Giorgio Tinazzi

69 Luci della città (1931) 131 L’avventura (1960)


di Luigi Nepi di Federico Vitella

73 Accadde una notte (1934) 135 La maschera del demonio (1960)


di Vito Zagarrio di Francesco Di Chiara

78 L’Atalante (1934) 140 Cleo dalle 5 alle 7 (1962)


di Fabio Andreazza di Lucia Cardone

83 Quarto potere (1941) 145 Mamma Roma (1962)


di Giulia Carluccio di Stefania Parigi

88 Ossessione (1943) 150 8½ (1963)


di Francesco Pitassio di Jacqueline Reich

93 La fuga (1947) 154 Il disprezzo (1963)


di Michele Guerra di Luca Venzi

98 Germania anno zero (1948) 158 Il deserto rosso (1964)


di David Bruni di Federico Pierotti

103 Stromboli (Terra di Dio) (1950) 162 Andrej Rublëv (1966)


di Tomaso Subini di Simonetta Salvestroni

108 Viaggio a Tokyo (1953) 166 Blow-Up (1966)


di José Moure di Thierry Roche

113 La finestra sul cortile (1954) 171 Playtime. Tempo di divertimento (1967)
di Giacomo Manzoli di Augusto Sainati

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176 2001: Odissea nello spazio (1968)
di Ruggero Eugeni

181 C’era una volta il West (1968)


di Paolo Noto

186 Aguirre, furore di Dio (1972)


di Carmelo Marabello

190 Chinatown (1974)


di Silvio Alovisio
A Sandro Bernardi
195 La conversazione (1974)
di Paola Valentini

200 Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975)


di Veronica Pravadelli

205 Lo squalo (1975)


di Adriano D’Aloia

210 Ran (1985)


di Peppino Ortoleva

215 Velluto blu (1986)


di Cristina Jandelli

220 La sottile linea rossa (1998)


di Jean Mottet

225 Eyes Wide Shut (1999)


di Roberto De Gaetano

230 Il vento ci porterà via (1999)


di Philippe Ragel

235 Matrix (1999)


di Guglielmo Pescatore

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Il cinema dello sguardo

Torniamo adesso alla prima immagine, quella del ragazzo con fo- L’avventura
glio e penna. Si tratta di un cenno a un tema essenziale del cinema (Michelangelo Antonioni, 1960)
truffautiano, la scrittura, che si chiarirà essere strumento di identi-
tà, impronta personale, rottura di un interdetto, estrinsecazione o di Federico Vitella
sostituzione del desiderio. Ma sono anche i mezzi, i luoghi, i modi
della scrittura a interessare il regista. In I quattrocento colpi, An-
toine si rifugia in una stamperia, poi ruba una macchina da scrive-
re. E in seguito non c’è film di Truffaut in cui non si vedano per-
sonaggi leggere o scrivere, o in cui non compaiano librerie, tipogra-
fie, rivendite. La scrittura è traccia, rimane: tentativo di vincere la
deperibilità del tempo; di dar peso anche allo sguardo; di fissarlo,
come fa la fotografia. Quante foto in questo cinema! Ogni volta Nella celebre intervista Paradossi sugli attori (ora in Fare un film è
con funzioni diverse. Un primo suggerimento viene proprio da I per me vivere. Scritti sul cinema, a cura di Carlo di Carlo e Giorgio
quattrocento colpi: lo scambio della pin-up nella seconda inquadra- Tinazzi, Venezia 2009, pp. 17-18), Michelangelo Antonioni rilasciò
tura, e poi la foto segnaletica del protagonista prima della reclusio- alcune dichiarazioni programmatiche in vista della distribuzione
ne nel collegio correzionale. del suo film L’avventura, che alla fine del 1959 si trovava in uno
Lo sguardo, in quest’ultimo caso mediato, torna a qualificarsi come stadio assai avanzato di lavorazione. Stimolato da una domanda
elemento portante delle opere di Truffaut. E ci si accorge che può diretta, il regista espresse senza mezzi termini la necessità storica di
essere anche modalità di costruzione del film. Prendiamo la breve rinnovare le forme della rappresentazione cinematografica, a fronte
scena in cui i genitori di Antoine vanno a trovarlo a scuola dopo della «stanchezza delle tecniche e dei modi correnti»: «È abbastan-
che hanno scoperto la sua bugia. Il regista non se la sarebbe cavata za esatto che io sia alla ricerca di uno stile. Sono dell’opinione che
– dice – se non avesse pensato all’amato Hitchcock; era difficilissi- occorra sempre trovare, per ogni film, un linguaggio che abbia una
ma da realizzare, questa scena, perché non sapeva se avesse dovuto sua originalità. E questo non riguarda soltanto il modo di inqua-
far vedere prima la madre, la finestra, il direttore o il bambino. drare o di costruire le sequenze, ma un po’ tutto il materiale di cui
Come egli stesso ci ricorda: «Tutta la sequenza dei piani è fatta di ci si serve».
sguardi. C’è l’insegnante che nota qualcosa dietro la porta a vetri, In effetti, lo stile di L’avventura è un eclatante esempio di decostru-
poi di nuovo l’insegnante che va a raggiungere il direttore. A quel zione dei principi e dei codici del linguaggio hollywoodiano, non-
punto c’è un piano medio di Jean-Pierre Léaud che è un po’ in- ché, più generalmente, di quel modo di rappresentazione classico
quieto e pensa che stiano parlando di lui; poi la tresca silenziosa tra che, alla luce della forza commerciale del film americano, era parso
il direttore e l’insegnante; un piano ravvicinato di Jean-Pierre e dei adatto a qualsiasi contesto ed esigenza. Più precisamente, le parole
suoi amici che cominciano a sospettare quando lo vedono impalli- di Antonioni ci fanno capire come egli abbia cercato di sostenere
dire» (ivi, p. 64). sul piano formale una straordinaria invenzione di ordine narrativo:
Il cinema insomma – per parafrasare una nota affermazione – non l’annacquamento di un tradizionale plot giallo con elementi impro-
è forse lo sguardo al lavoro? pri, differentemente funzionali alla trattazione di alcuni temi por-
tanti della sua poetica. Ci ricordiamo tutti come le ricerche della
protagonista Anna (Lea Massari), scomparsa misteriosamente nel
corso di una gita di piacere nell’arcipelago eoliano, lascino presto
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Il cinema dello sguardo L’avventura

il posto nel film all’esplorazione della relazione “sbagliata” tra San- casi, il personaggio perde la sua funzione di baricentro figurativo
dro (Gabriele Ferzetti) e Claudia (Monica Vitti), fidanzato e mi- dell’immagine.
gliore amica di Anna. Ebbene, è proprio questa “esplorazione” a Passiamo al montaggio. Il complesso di convenzioni che disciplina
essere utilizzata dal regista per veicolare indirettamente almeno tre il cambio di inquadratura si allenta a favore di una sintassi più li-
motivi: la “differenza” femminile, ovvero la maggiore capacità del- bera e irregolare, mai dimentica del funzionamento del continuity
la donna rispetto all’uomo di comprendere se stessa e il mondo, system, ma fortemente sgrammaticata se paragonata al modello. I
nonché di agire rettamente; la “malattia” dei sentimenti, ovvero raccordi del montaggio “invisibile” vengono sabotati dal regista
l’erotismo quale sintomo di disagio esistenziale della società occi- attraverso un ventaglio di infrazioni riconducibile a tre aspetti. Il
dentale avviata verso il superamento del tabù dell’osceno; la critica primo, che attenta all’orientamento spaziale, deriva dal superamen-
del “boom” edilizio, ovvero la stigmatizzazione di quell’attività di to delle regole di posizionamento dei personaggi: i raccordi spazia-
fabbricazione intensiva e sregolata che, nel breve periodo, contro li tendono a non curarsi né della loro posizione di partenza, né
ogni ragionevole ipotesi di assetto, avrebbe drasticamente sfregiato della direzione degli spostamenti (esemplari le sequenze girate a
il volto del Paese. Lisca Bianca). Il secondo, che attenta all’orientamento cronologico,
L’estetica modernista, beninteso, non è di per sé una novità nella deriva dalla soppressione di alcuni marcatori temporali, come le
filmografia antonioniana. Quella sorta di negazione assoluta del dissolvenze incrociate o le doppie dissolvenze: a livello intrase-
modello hollywoodiano che, fin dal suo primo lungometraggio, quenziale, si supplisce all’interpunzione ottica con semplici stacchi
Cronaca di un amore (1950), era stata perpetrata attraverso l’uso netti (si pensi alle quattro inquadrature che descrivono la notte
estensivo del piano sequenza, lascia però ora il posto a una critica insonne di Claudia nel prefinale); a livello intersequenziale, data la
della forma classica, meno radicale, eppure più complessa, nella maggiore rilevanza dell’ellissi, con forme di montaggio contrastivo.
sua problematizzazione delle scelte tradizionali di messa in scena, Il terzo aspetto, che attenta ai processi di identificazione, deriva dal
montaggio e impiego del sonoro. ripensamento della soggettiva: a differenza dei registi hollywoodia-
Cominciamo dalla composizione dell’inquadratura. Il bilancia- ni, Antonioni fa convergere assai raramente lo sguardo di macchina
mento “aureo” tra figura e sfondo si incrina a vantaggio del conte- da presa, personaggio e spettatore, ricorrendo piuttosto alla semi-
sto spaziale in cui sono collocati i personaggi. Si tratta del risultato soggettiva e alla falsa soggettiva. E forse non è un caso che associ
di una combinazione di molteplici opzioni, di tipo fotografico e di spesso queste incerte forme di sguardo a Sandro e ad Anna, e che
messa in scena, tra cui spicca l’impiego di un formato di ripresa vi ricorra più raramente per il personaggio di Claudia. L’eroina,
panoramico (un mascherino di proporzioni 1,85:1). Laddove il ci- infatti, porta uno sguardo più classico degli altri, adatto a solleci-
nema americano vede nel widescreen un ritrovato spettacolare con tare proiezione.
cui aggiornare la confezione del prodotto medio, Antonioni vi Finiamo con il suono. La stringente combinazione hollywoodiana
scorge uno strumento potenzialmente destabilizzante, adatto a ser- di tonante commento musicale e primato della parola si allenta a
vire il cinema d’autore. In particolare, lo sfruttamento dello spazio favore dei rumori d’ambiente. Da un lato, gli interventi del jazz
panoramico va in due direzioni: da un lato è funzionale alla valo- minimalista di Giovanni Fusco sono fortemente ridotti sia nel nu-
rizzazione del paesaggio, sia esso naturale (le marine siciliane) o mero che nella durata rispetto alle partiture classiche. Dall’altro, la
urbano (la monumentale Isola Tiberina, lo sfavillante Barocco di declamazione delle battute degli attori è ben lungi dall’esaurire la
Noto); dall’altro, alla messa in campo di molteplici fulcri narrativi, loro recitazione, che si affranca spesso dalla conversazione a van-
più o meno slegati, come il fraticello, il contadino e il bracciante taggio di osservazione e deambulazione solitaria. Ne deriva una
che “punteggiano” la sequenza bucolica di Troina. In entrambi i straordinaria mescolanza di “sonorità di riempimento” e di “sono-
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Il cinema dello sguardo

rità di racconto”: le prime sono funzionali a bilanciare la disconti- La maschera del demonio
nuità sintattica del montaggio (come l’amalgama di vento e onde (Mario Bava, 1960)
nel blocco eoliano); le seconde tendono invece a segnalare eventi
significativi per il dipanarsi dell’intreccio (come il rumore delle di Francesco Di Chiara
auto da cui Claudia teme possa comparire Anna, dai Montaldo, a
Palermo).
Dalla messa in questione dello stile classico – rottura dell’equili-
brio tra figura e paesaggio, rottura dell’equilibrio tra parola e ru-
more, rottura della continuità di spazio, tempo e azione – emerge
prepotentemente la mediazione discorsiva dell’istanza narrante che
il cinema hollywoodiano tendeva a cancellare. Le note anticlassi-
che della regia antonioniana sembrano “coagulare” con particolare In una radura, su ordine di un gruppo di figure incappucciate, tre
forza in alcune inquadrature di grande suggestione, emblematiche boia marchiano a fuoco una donna legata a un palo. La giovane, di
nella loro presa di distanza dai personaggi e dalle loro vicende: nome Asa (Barbara Steele), è stata condannata a morte per strego-
sono i tratti di quel cinema dello sguardo che, già emerso in parti- neria e verrà sottoposta al supplizio della maschera del demonio
colari momenti della storia del cinema, avrebbe trovato proprio (una versione per solo volto della vergine di Norimberga) e al rogo.
nella modernità la sua più palese manifestazione. Penso, per esem- Prima dell’esecuzione, tuttavia, ha il tempo di lanciare una maledi-
pio, nella terza sequenza, al mezzo campo lungo, fortemente ango- zione contro il fratello (Ivo Garrani), l’inquisitore che ha pronun-
lato dall’alto, che riprende la macchina di Anna entrare nello slargo ciato la condanna, e la sua stirpe: sarà attraverso i di lui discenden-
su cui si affaccia l’appartamento di Sandro. Oppure, ancora, al ti che la strega avrà modo di reincarnarsi e di vivere la sua vita
mezzo campo lungo, leggermente angolato dall’alto, che riprende immortale. È quanto effettivamente avverrà nel resto del film,
lo yacht dei gitanti avvicinarsi a Lisca Bianca, nella quinta sequen- ambientato circa due secoli dopo il prologo, e appunto incentrato
za. O al mezzo campo lungo in movimento della sequenza “del sui tentativi di Asa e del suo servo vampiresco Javutich (Arturo
villaggio abbandonato” (Borgo Schisina), che riprende la macchina Dominici) di impadronirsi del corpo di Katia (Barbara Steele), lon-
di Sandro allontanarsi dalla piazza, per poi disinteressarsene, a tana parente della strega e a lei identica nel fisico.
favore dell’inquietante chiesetta. Ma non c’è esempio migliore del- Fin dall’incipit, La maschera del demonio si pone a un crocevia del-
la studiatissima ultima inquadratura del film: un campo medio che lo sviluppo del cinema di genere in Italia, tra l’aggiornamento di
riprende a distanza, di spalle, Sandro e Claudia, sulla terrazza del modelli già timidamente sperimentati e la volontà di elaborarne di
San Domenico Palace di Taormina, nel momento del loro riavvici- nuovi, allo scopo di meglio collocarsi su di uno scenario transna-
namento. De-drammatizzazione (censura delle emozioni), forma- zionale. In primo luogo, il film riprende il tentativo del precedente
lizzazione (composizione geometrica) e collocazione liminale (fina- I vampiri (1957, iniziato da Riccardo Freda ma completato da Ma-
le) concorrono allo scoperto valore metacinematografico dell’in- rio Bava, non accreditato) di impiantare nel nostro Paese un genere
quadratura, capace allo stesso tempo di interrogare la diegesi, di a lungo considerato estraneo alla cultura italiana come quello orro-
commentare la narrazione e di alludere perfino al personaggio rifico. Con I vampiri, infatti, per la prima volta, un prodotto italia-
scomparso: Anna. Che sia lei la proprietaria di questo sguardo in no si presentava esplicitamente come horror, anche se, come ha
cerca d’autore? evidenziato Simone Venturini (Horror italiano, Roma 2014), tracce
di una sensibilità vicina a questo genere risultavano già rinvenibili,
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