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Marco Pagani

Il concerto
perduto

Foto: Mathew Bajoras CC BY-SA 2.0


Il concerto perduto
Pioveva.
Pioveva da settimane. Quando tornai a casa ero congelato e intirizzito e
mi ci volle una bella permanenza sotto la doccia calda per ritrovare le energie;
quando collegai il telefono alla rete per ricaricarlo scoprii che avevo ricevuto
ben sette messaggi in segreteria, cosa insolita, visto che di solito nessuno la
adopera più, ma usa WhatsApp o la posta elettronica.
Erano tutti di Theo che non sentivo almeno da sei mesi: dicevano tutti
vieni subito da me, ho da raccontarti una scoperta incredibile. Ero appena
arrivato al quarto messaggio, quando arrivò la chiamata da Theo; indugiai un
attimo e poi risposi. La voce era concitata:
«Phil! Finalmente!! Ti prego vieni qui! Non posso aspettare ancora! Te lo
devo dire!»
«Dire cosa?» Guardai il vetro su cui scorrevano grosse gocce di pioggia;
uscire quella sera era decisamente l’ultimo dei miei pensieri.
«Non ne posso parlare certo qui al telefono», la sua voce si abbassò
almeno di una quinta, prendendo un tono vagamente cospiratorio. «Devi
vederlo con i tuoi occhi, altrimenti non ci crederesti».
«Sì, ma proprio stasera? C’è un tempo da lupi e sono appena arrivato…»
«Ti prego, in nome della nostra antica amicizia, fai uno sforzo: sono
appena arrivato anch’io e questo non può aspettare! Vieni!» Ora era salito di
un’ottava, quasi in falsetto, teso come un accordo di settima.
Guardai ancora fuori dalla finestra, guardai il frigorifero, dove mi
aspettava la cena.
Sembrava che mi avesse letto nel pensiero: «Ho qui degli ottimi
leberknödel con crauti presi sulla strada del ritorno e ho da poco aperto una
bottiglia di eccellente Marzemino per farla respirare: ora che sarai qui sarà
pronto per il calice!»; me lo immaginavo mentre sogghignava sapendo come
prendermi per la gola.
Leberknödel invece dei surgelati? Marzemino al posto di una birra da
quattro soldi? Il pensiero era davvero venale, ma bastevole per prendere una
decisione.
«Va bene, verrò, ma solo per il vino».
Rise. Aveva capito lo scherzo. «Ti aspetto, grazie!» la sua voce era passata
in tonalità maggiore.
Chiusi la chiamata e mi preparai per uscire senza troppo pensare alla
strada da fare.

Dopo una mezz’ora di curve in collina arrivai finalmente al paese. Non


si vedeva quasi nulla. Pochi lampioni spandevano una luce fioca, quasi
assorbita dall’enorme massa d’acqua che veniva giù dal cielo con insistenza.
Trovai finalmente la strada acciottolata che portava al suo casale. Anche qui
nessuna luce. Parcheggiai a memoria e mi precipitai verso la soglia che veniva
aperta in quel momento da Theo, ancora vestito di tutto punto, come se
fosse arrivato a casa in quel momento:
Spalancò le braccia: «Finalmente! Vieni dentro!».
Mi portò nel soggiorno rustico rischiarato solo da una abat-jour e dal
fuoco del camino. Il caldo era piacevole.
Le fiamme si riflettevano rossigne sulle sue cornee e sul caldo legno del
violoncello, appoggiato sul puntale e pronto per essere suonato.
«Sono l’uomo più felice del mondo!» disse mentre toglieva vecchi giornali
da una poltroncina. «Ecco qui, siediti».
«Ma cosa è successo, di grazia?», guardavo qui e là nella stanza, per
cercare di capire il motivo di tanta euforia.
«Il mondo non sarà più lo stesso dopo questa scoperta… ma lascia che
ti spieghi tutto bene con ordine. E prima, brindiamo e beviamo un po’ di
Marzemino!».
Canticchiando fin ch’han dal vino calda la testa versò il corposo liquido in
due calici e me ne porse uno: «Prosit gloriae mundi!». I suoi brindisi erano
sempre decisamente originali.
«Prosit!» Il Marzemino era davvero stupendo e mi riscaldò subito.
Dopo aver bevuto un sorso, si mise comodo sulla poltrona, unendo le
punte delle dita. «Sai che sono sempre andato in cerca della musica
perduta…» quella era sempre stata una delle sue fisse, una vera e propria
ossessione, fin dai tempi del conservatorio. «Sai bene quanto ho sempre
sofferto al pensiero che capolavori dell’umanità fossero semplicemente,»
soffiò «evaporati e nessuno ne potesse gioire».
Sospirai. «So bene quante volte mi hai fatto fare l’una a parlare della
versione non corretta della Passio di Scarlatti o della presunta quinta sonata
di Guerrieri…»; feci un modesto sorriso.
«Non presunta!» scattò lui. «Come sai, ho prove inoppugnabili che la
partitura è proprio di Agostino Guerrieri… ma lasciamo perdere. Questa è
una scoperta infinitamente più grande!»
Lo guardai, rimanendo in attesa.
«Sto parlando di un concerto perduto di Mozart, Wolfgang Amadeus
Mozart!»
La mia bocca si spalancò forse per un paio di secondi, nella cosiddetta
sospensione di incredulità, prima di poter reagire «Una partitura inedita? E
nessuno l’ha mai trovata dopo due secoli e mezzo?»
«Perché non sapevano cosa cercare! Io invece mi sono fatto guidare
dall’istinto e l’ho trovato!»
«E sarebbe un concerto per…?»
«Per violoncello, naturalmente!»
«Ma sei sicuro? Come è possibile che per duecento e passa anni
nessuno…»
Mise le mani avanti: «Aspetta. Seguimi e poi mi farai le domande».
Annuii. «Sai bene quanto Mozart adorasse tutti i timbri dell’orchestra; il suo
genio gli ha permesso in qualche modo di catturare l’anima di ogni
strumento e di farne uscire le melodie più straordinarie e appropriate».
Annuii di nuovo, non aveva alcun bisogno di convincermi.
Cominciò a contare sulle dita: «Il giocoso concerto per flauto e arpa,
l’amoroso concerto per flauto, il primaverile concerto per oboe, lo splendido
plenilunio del concerto per clarinetto».
«I deliziosi concerti per corno…», gli feci eco.
«…e infine il fiabesco concerto per fagotto, tanto per terminare con gli
strumenti a fiato… che c’è?», mi guardò perplesso.
Sogghignai. «Dimentichi il corno da postiglione della Serenata numero
nove…».
Trasalì. «Urca, è vero, c’è persino quello. Comunque, lasciami andare
avanti» Riprese a contare. «Abbiamo ventisette concerti per pianoforte,
cinque per violino, il concertone per due violini e la straordinaria sinfonia
concertante per violino e viola», si protese in avanti di scatto e mi prese per
le mani: «A proposito, ti ho mai detto che secondo me questa sinfonia è
come una vera storia d’amore?».
«Non, non credo; ma in che senso?»
Chiuse un attimo gli occhi come assorto: «Dunque. Allegro: nella
congerie di tempi difficili due anime si incontrano e si riconoscono come
gemelle, con il tema cantato dal violino e ripreso dalla viola e viceversa.
Andante: dal comune ricordo delle sofferenze e delle angherie patite, il tema
parte in minore, sgorga l’innamoramento, l’unità dei cuori la promessa per il
futuro, che trascolora in maggiore». Si fermò pensoso.
«E il terzo movimento?», lo incalzai.
Riaprì gli occhi: «Ma è ovvio! È la danza nuziale!»
«Resti un inguaribile romanticone!»
Si rabbuiò un attimo. «Forse. Ma torniamo a noi. In buona sostanza
Amadeus ha dedicato pagine e pagine di musica a tutti gli strumenti, persino
all’umile fagotto, ma sembra non avere mai scritto nulla per uno strumento
ben più importante.»
«Il violoncello?»
«Il violoncello, appunto. Ti sembra possibile che Mozart possa avere
ignorato uno strumento con una sonorità così ricca? Per questo io sapevo
esattamente che cosa cercare, non ti pare?».
«Uhm, questo mi sembra un po’ come l’argomento ontologico. È
inattaccabile, ma non può provare nulla…»; mi grattai la barba colto da un
pensiero improvviso: «però, aspetta: esiste un frammento di concerto per
violoncello, o mi sbaglio?».
Sogghignò. «Non ti sbagli, è il K206, ma parlare di frammento è una
parola grossa, visto che fino ad ora ne erano rimaste solo sei battute.»
Sogghignò di nuovo. «Comunque, vedi che la mia non era una supposizione
teologica, perché sapevo esattamente anche da dove partire, cioè da Parigi.»
«Parigi? Proprio nella città che meno lo ha amato?»
«Proprio così, è una specie di contrappasso. Nel 1912 un certo Ernst
Lewicki sostenne di aver trovato uno spartito autografo di Mozart datato
1775 alla Bibliothèque du Conservatoire, ma di questo autografo non ne è rimasta
traccia e sono rimaste solo le famigerate sei battute che Lewicki si degnò di
riportare nel suo resoconto sui Mitteilungen für die Mozart-Gemeinde. Ho
verificato personalmente e a Parigi non è rimasto davvero più nulla». Si
rabbuiò in volto. «Come dicevi tu, Parigi non ha mai amato il grandissimo
genio, forse perché ne era invidiosa, e non è stata nemmeno capace di
conservare un manoscritto!» Fece una smorfia di soddisfazione. «Ma avevo
comunque un indizio: se il concerto era del 1775, non poteva essere stato
composto a Parigi, dove Mozart vi giunse solo per la sua triste permanenza
del 1778. Quindi doveva essere stato scritto altrove.»
«E dove?»
«Una cosa alla volta» si divertiva a tenermi sulle spine. «Qual è il primo
concerto che scrisse per archi?», mi guardò con aria inquisitoria.
«Uhm… mi sembra il primo concerto per violino, nel ’73 e poi il
concertone l’anno seguente»
«Esatto!» mostrava tutta la soddisfazione del prof per un allievo brillante,
«ed entrambi furono composti a Salisburgo, quindi ci sono andato, come sai
ogni scusa è buona per tornare in quella città incantata». E come dargli torto?
«OK, ma non sarai stato certo il primo a scartabellare nel Mozarteum o in
altri archivi storici», bevvi un sorso e senza pensarci mi pulii la bocca con il
dorso della mano.
Fece una smorfia di soddisfazione, «certo che no, ma io potevo giocare
la carta delle mie amicizie ecclesiastiche, il che, unito alla mia non
disprezzabile conoscenza del tedesco e del latino, mi ha aperto le porte degli
archivi riservati del castello di Hellbrunn, la dimora del principe-
arcivescovo.» La smorfia divenne una vera risata quando vide il mio
sbalordimento.
«E lì hai trovato…»
«No di certo, non è stato così semplice; non ho trovato nessuna traccia
di musica, ma una lettera alla sorella Nannerl dell’aprile del ’75 dove le
confida di avere ultimato un concerto per violoncello, da cui però aveva
dovuto subito separarsi, con la stessa amarezza di un vitello che viene
allontanato dalla madre appena dopo il parto. Ma questi erano gli accordi
che aveva sottoscritto con Jan Tomašek, per cui non serviva ora mordersi le
dita.»
«Wow! Una lettera autentica e manoscritta! Quindi tutt’ora inedita!». Mi
si erano rizzati tutti i peli del corpo.
Agitò le dita davanti alla faccia, in segno di imbarazzo; «no, purtroppo
non era un manoscritto originale, ma solo una vecchia fotocopia,
probabilmente risalente addirittura agli anni ’70: ti ricordi quegli orribili fogli
ricoperti di una patina azzurrina e sgradevole al tatto?» Annuii. Per un attimo
ebbi un flashback dei lontani anni del liceo e di quelle pagine così fastidiose
da sfogliare.
«Qualcuno era arrivato prima di te, quindi.»
«Purtroppo, sì;» sbuffò. «ma evidentemente chi si portò via l’originale,
che ora è chissà dove, non seppe utilizzarlo come ho fatto io usando solo
una fotocopia».
«Ma si tratta comunque di una copia… e non puoi nemmeno avere la
certezza che sia autentica…»
«Non la certezza assoluta, ma lo stile è il suo, la calligrafia è la sua, i
riferimenti cronologici tornano tutti e soprattutto la lettera conteneva
finalmente una pista: il nome di Tomašek, il committente del concerto.
Mozart, spesso a corto di contanti doveva essersi accordato per vendergli il
concerto, compresa la sua paternità, ecco perché finora non era stato mai
trovato!»
«E chi sarebbe questo Tomašek?»
«Non è stato facile trovarlo, ma alla fine ce l’ho fatta», i suoi occhi
tornarono a sprizzare gioia. Essendo un cognome boemo sono tornato a
Praga; come puoi ben immaginare, ogni scusa è buona per tornare in quella
città magica.» Ancora, come dargli torto? «Sono stato alla Bertramka, ai
tempi la villa di František Dušek che ospitò Mozart durante i suoi soggiorni
praghesi.» Si interruppe un attimo e si voltò a guardare il fuoco nel camino.
«Sai, a volte penso che se avessi una macchina del tempo vorrei tornare a
Praga proprio il 19 gennaio del 1787, quando Mozart vi diresse la sua 504.
Alla fine, improvvisò al piano per una buona mezz’ora, facendo anche
variazioni sull’aria Non più andrai… ti immagini poter vedere il genio all’opera
dal vivo?» Scosse la testa, facendo ondeggiare i lunghi capelli. «Anche lì la
mia conoscenza di un monsignore, unita a qualche buona mancia, mi aprì
archivi riservati, dove trovai riferimenti a Tomašek, un piccolo nobile
amante della musica che per lunghi anni, nei suoi soggiorni in Boemia
frequentò la casa di Dušek come sodale e amico.»
«Perché? Da dove veniva?»
«Era originario di Prešov, ora in Slovacchia. Ci andai subito, ma lì le
tracce si insabbiavano. Ti risparmio i dettagli, ma dopo peregrinazioni che
mi hanno portato all’Università Jagellonica a Cracovia e poi agli archivi
dell’Oblast di Lviv ho finalmente capito dove si potevano trovare le carte di
Tomašek: erano nella biblioteca di un monastero nei pressi di Olomouc,
poco fuori dell'abitato di Malbork»
«Quindi sei tornato nella Repubblica Ceca. Lo hai trovato lì?»
«Sì. L’archivio Tomašek era praticamente intonso; i monaci lo avevano
nascosto negli scantinati insieme con tutti gli altri libri e codici per
risparmiarlo dalle furie napoleoniche; il monastero è solo a una cinquantina
di chilometri da Austerlitz. Le carte del musicofilo non vennero più
recuperate e sono rimaste sottoterra fino all’altro ieri, quando finalmente ci
ho messo sopra le mani».
Si alzò, fece il giro del tavolo e tornò con una pila di fogli. «Questo è il
manoscritto della partitura». Me lo porse. «E’ in si bemolle maggiore. Porta
rispetto, è stato tra le mani di Mozart!».
La carta era spessa e ruvida. C’era l’autografo, c’era la data, la partitura
comprendeva violini, viole, contrabbassi, due oboi e due corni, oltre
naturalmente al violoncello. Le note erano manoscritte, piccole, sparse come
semi nei solchi, con un tratto che appariva piuttosto nervoso. Mi tremavano
leggermente le mani, visto che ero la seconda persona sul pianeta a toccare
un’opera scomparsa da duecentocinquant’ anni!
Chiusi un attimo gli occhi e rabbrividii. Ora, mediata da quei fogli antichi,
una lunga linea di universo sottile ed obliqua stava connettendo attraverso il
tempo le mie mani comuni con le mani del più grande uomo che fosse mai
vissuto su questa terra.
«E Theo, l’hai già…», avevo riaperto gli occhi, mi ero proteso verso di
lui e poi mi ero interrotto, esitando quasi a completare la frase.
«… suonato? Sì, ho provato qualche pezzo, non potevo resistere», mi
guardò scurendo un po’ il volto «mentre aspettavo che tu mi rispondessi. È
stato esaltante, e forse anche un po’ imbarazzante, una sorta di jus primae
noctis, dove ho assaporato qualcosa che Rostropovich, Maisky e Yo-Yo-Ma
non si sarebbero nemmeno lontanamente immaginato. Vieni, ti faccio
sentire!».
Mi prese delicatamente di mano lo spartito e andò decisamente verso il
suo violoncello. Dopo ore di lavoro, freddo e digiuno la mia fame era alle
stelle, ma mai lo avrei interrotto: era come aprire la tomba di Tutankhamun,
arrivare al polo Sud e dimostrare l’ultimo di Teorema di Fermat nello stesso
tempo. Lo stomaco poteva aspettare.
«Senti questa introduzione orchestrale dell’Allegro, affidata agli archi»,
aprì lo spartito e iniziò un tema deciso, scandito, assertivo, un po’ come
l’attacco della Jupiter, ma con un nervosismo che ricordava il K 466; «senti
che energia, anche solo accennata da un solo strumento, pensa all’intera
orchestra!»
Si interruppe e sfogliò la partitura. «Qui è dove entra il violoncello. Senti
che contrasto: dolce, calmo, un po’ esitante, sembra voler cercare di calmare
un’amante furiosa che chiede spiegazioni di cose non dette». Come era vero;
l’orchestra era incalzante, esigente, punteggiata da qualche passaggio acuto
degli oboi e gonfiata dalla sonorità lontana dai corni; il violoncello era calmo,
disteso, razionale e ingenuo allo stesso tempo. Non gli si poteva che credere,
anche se fosse stato un bugiardo.
Theo continuava a suonare indicando con brevi cenni della testa quali
parti fossero del solista e quali dell’orchestra. Si fermò, battendo
delicatamente un dito sullo spartito: «Qui c’è un segno che indica che forse
era prevista una cadenza, ma purtroppo non ce n’è traccia; forse Tomašek
aveva fretta di esibirsi con il “suo“ concerto per impressionare la buona
società e avrebbe recuperato la cadenza più avanti, magari da qualche
occasionale compositore.»
«Sono curioso di sentire come risolve il conflitto tra particolare e
universale di questi due temi così diversi».
«Lo scopriremo Phil, è la seconda volta che sfoglio queste pagine!» Gli
occhi gli corsero avanti sulla partitura; «ma qui c’è forse un indizio, senti»,
improvvisamente si dipanò il terzo tema che mi lasciò stupefatto: i due temi
precedenti erano come avvolti tra di loro per generare un’apertura melodica
che spalancava i cieli con una tesi-antitesi-sintesi che avrebbe commosso il
vecchio Hegel. La cassa armonica riluceva sempre di più al fuoco del camino.
«Pensa a quando lo potremo suonare con l’orchestra, io solista, tu primo
violino!»
«Dici che si può fare?» mi vedevo davanti complicazioni infinite di ruoli
e burocrazie.
Agitò la mano: «Sì, sì, troveremo un modo. Ora ascolta un pezzo
dell’Andante. Questo è da brividi».
Il fraseggio era lento per essere un Andante e si snodava partendo da toni
bassi che facevano vibrare tutta la stanza per acquistare via via una cantabilità
più elevata con ampio uso del vibrato. Come descriverlo? Razionale
Dolcezza? Amorosa Logica? Universale Accoglienza del Kairos? Era
esagerato dire che tutti gli abeti del mondo avrebbero trovato la loro ragion
d’essere a diventare casse armoniche per suonare quelle battute? Forse sì,
forse no.
Theo mi toccò il braccio. Non mi ero nemmeno accorto che avesse
smesso di suonare. Il fuoco scoppiettava. «Phil, torna sulla terra! Il resto
dopo.» Aprii gli occhi. Il rosso vivace del fuoco incorniciava il crine dei suoi
capelli ricci creando un’aura intensa. «Ora ci attendono i leberknödel. Muoio
di fame».
Lo spettro della luce virò dal rossastro al giallo vivo quando passammo
nella sua ampia cucina, dove un’enorme stufa di ghisa restaurata e portata
agli antichi splendori era già pronta per l’uso.
«Ci vorrà un attimo. Naturalmente niente brodo per i leberknödel, ma
una bella frittura in burro fuso secondo i comandamenti mozartiani. E
sauerkraut dal mercato di Klagenfurt».
Gli knödel sfrigolarono un po’ in un tegame e poi vennero serviti in dosi
imperiali con dorato burro fuso e una vera foresta di crauti. Ci avventammo
sul cibo che entrambi non vedevamo da troppe ore.
«Ho cercato di fare del mio meglio per catturare il vero aroma
salisburghese», farfugliò Theo con la bocca ancora un po’ piena.
«E direi che ci sei riuscito, per quanto mi ricordo delle mangiate sulla
Brodgasse» borbottai anch’io con la bocca mezza piena. Finii di masticare
per poter parlare meglio. «Con il dovuto rispetto per Mozart e Salzsburg, i
leberknödel che ricordo di più sono però quelli che ho gustato sulla cima
della Marmolada, molti, forse troppi, anni fa».
«Marmolada?» Theo spalancò gli occhi. «Non sapevo che arrampicassi».
«Non è così difficile e poi l’ho fatta con la guida. Una vera giornata
perfetta sul tetto delle Dolomiti. Lì ti senti in cima al mondo. Chissà cosa
avrebbe scritto Wolfgang se avesse potuto salirci».
«Davvero… Phil non senti niente di strano? Odore di fumo?»
Poco abituato alla combustione della legna, non ci avevo fatto caso, ma
l’odore di bruciato era inconfondibile.
«Il camino! Lo spartito!» Theo si era già lanciato attraverso la stanza, oltre
il corridoio ed aveva aperto la porta del salotto.
Il fumo ci avvolse. La stanza era in fiamme. Lapilli di un fuoco troppo
ardente avevano forse raggiunto le tende o qualche tappeto e si erano
voracemente nutrite di vecchi tessuti fin troppo combustibili.
«Lo spartito!» Theo si era lanciato verso il fumo e le fiamme che
irraggiavano un calore spaventoso.
«Fermati! Non puoi! Il fuoco è troppo forte!» Non vedevo più nulla, il
fumo mi aveva accecato e aggredito naso e gola. Mi buttai a terra sperando
di vedere qualcosa di più e di essergli di aiuto.
«Ci sono quasi!» poi più nulla.
«Theo, dove sei, dobbiamo uscire prima di restare in trappola!» Cercai
qui e là alla cieca, poi il calore radiante, le particelle di fumo e brandelli di
legno in caduta libera ebbero la meglio su di me. Blackout.

Dolore. Dolore e bruciore dappertutto. Aprii con fatica uno spiraglio di


occhio e la luce mi ferì.
«Si sta svegliando!» Sentii altre voci e rumori intorno a me. Incombenti
dall’alto, ai miei occhi doloranti apparvero alcuni volti confusi.
«Attenzione, si muova piano! Ci sono ustioni ovunque.»
Ignorai il consiglio e provai ad alzarmi, gemendo di sofferenza. «Theo!
Lo spartito! Dove sono? Si sono salvati?»
«Di cosa sta parlando? In casa sua era solo e non abbiamo trovato
nessuno spartito».
«No! È terribile! È una catastrofe per l’umanità! Non è possibile!»
«Si calmi!», Senti armeggiare intorno a me e poi un’ondata di torpore mi
avvolse. Blackout.

Ancora dolore e bruciore. I miei sensi arsi avvertirono il tocco di una


mano nella mia destra. Aprii con fatica gli occhi. Cecilia mi stava guardando
con un misto di rabbia e sollievo.
«Grazie al cielo sei vivo! Quante volte ti ho detto di cambiare quella
vecchia stufa elettrica! Si è incendiata mentre tu ti eri assopito sul divano e
c’è mancato poco per una prematura cremazione».
«Ma Theo? Lo spartito di Mozart? Cosa è successo?»
«Cosa c’entra Theo? È in vacanza in Austria o Slovacchia o simili»
«Come fai a saperlo?» le labbra erano un vulcano di dolore se le muovevo
troppo.
«Ha lasciato un messaggio sulla mia segreteria telefonica. Solo lui
continua ad essere così vintage. Dice che non rispondevi ai suoi messaggi. E
ci credo, visto che il tuo telefono si è completamente distrutto e anche i tuoi
timpani per poco non facevano la stessa fine. Comunque, era tutto agitato e
ha detto che ha per te delle notizie straordinarie».
Le labbra erano una trincea di sofferenza, ma mi concessi un debole
sorriso.

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